Le Lettere dell'Innocenza

di Milly_Sunshine
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Goldtown e i suoi abitanti ***
Capitolo 2: *** Requiem - 31.10.2002 ***
Capitolo 3: *** Requiem - 01.11.2002 ***
Capitolo 4: *** Requiem - 02.11.2002 ***
Capitolo 5: *** Le Lettere di Mabel - 28 Ottobre ***
Capitolo 6: *** Le Lettere di Mabel - 29 Ottobre ***
Capitolo 7: *** Le Lettere di Mabel - 30 Ottobre ***
Capitolo 8: *** Le Lettere di Mabel - 31 Ottobre (giorno) ***
Capitolo 9: *** Le Lettere di Mabel - 31 Ottobre (sera) ***
Capitolo 10: *** Le Lettere di Mabel - 1 Novembre ***
Capitolo 11: *** Lacrime macchiate di sangue - 8 Novembre ***
Capitolo 12: *** Lacrime macchiate di sangue - 9 Novembre ***
Capitolo 13: *** Lacrime macchiate di sangue - 10 Novembre ***
Capitolo 14: *** Lacrime macchiate di sangue - 11 Novembre ***
Capitolo 15: *** Lacrime macchiate di sangue - 12 Novembre ***
Capitolo 16: *** Lacrime macchiate di sangue - 13 Novembre ***
Capitolo 17: *** Ellen non deve morire - 21 Novembre ***
Capitolo 18: *** Ellen non deve morire - 22 Novembre ***
Capitolo 19: *** Ellen non deve morire - 23 Novembre ***
Capitolo 20: *** Ellen non deve morire - 24 Novembre (1/3) ***
Capitolo 21: *** Ellen non deve morire - 24 Novembre (2/3) ***
Capitolo 22: *** Ellen non deve morire - 24 Novembre (3/3) ***
Capitolo 23: *** Anche gli assassini sono vittime - 29 Novembre ***
Capitolo 24: *** Anche gli assassini sono vittime - 30 Novembre ***
Capitolo 25: *** Anche gli assassini sono vittime - 1 Dicembre ***
Capitolo 26: *** Anche gli assassini sono vittime - 2/ 3/ 4 Dicembre ***
Capitolo 27: *** Anche gli assassini sono vittime - 5 Dicembre ***
Capitolo 28: *** Anche gli assassini sono vittime - 6 Dicembre ***
Capitolo 29: *** La vendetta di Mabel - 27 Dicembre ***
Capitolo 30: *** La vendetta di Mabel - 28 Dicembre ***
Capitolo 31: *** La vendetta di Mabel - 29/ 30 Dicembre ***
Capitolo 32: *** La vendetta di Mabel - 31 Dicembre (1/3) ***
Capitolo 33: *** La vendetta di Mabel - 31 Dicembre (2/3) ***
Capitolo 34: *** La vendetta di Mabel - 31 Dicembre (3/3) ***
Capitolo 35: *** Post mortem - 8 Gennaio ***
Capitolo 36: *** Post mortem - 9 Gennaio ***
Capitolo 37: *** Post mortem - 10 Gennaio ***



Capitolo 1
*** Goldtown e i suoi abitanti ***


L'Autrice(C) si trovava in una situazione difficile: il regolamento di EFP specificava che i capitoli dovevano essere solo effettivi capitoli e che era altresì vietato iniziare con una presentazione, quindi anche dei personaggi. La sua esperienza in termini di romanzi polizieschi, le suggeriva tuttavia che spesso essi iniziavano:
1) con una piantina del luogo del delitto, che comunque non intendeva mettersi a disegnare;
2) con una lista dei personaggi, atta a far sì che i lettori non si perdessero nei meandri del Goldtown-verso chiedendosi chi fosse chi.
Decise quindi che la sua unica possibilità era diventare lei stessa personaggio e presentare i personaggi della propria storia.

All'inizio venne MARK FORRESTER. Era un ragazzo di vent'anni (2002) che aveva lasciato la cittadina di Goldtown, al probabile scopo di allontanarsi dalla famiglia o per motivi di lavoro. La sua professione era destinata a non essere mai menzionata, anche perché, essendo destinato a una rapida soppressione, non aveva davanti a sé alcun futuro, figurarsi un futuro professionale.

L'Autrice(C) gli appioppò quattro amici tutti diciottenni, destinati a diventare colonna portante della storyline e, diversamente da Mark, a sopravvivere fino al 2022, dove come facilmente prevedibile apparivano come trentottenni.

Uno di essi era STEVE BLACKSTONE, divenuto fotografo e titolare di uno studio fotografico, celibe, uscito da una lunga relazione con tale Phyllis, destinata ad apparire soltanto nelle fasi conclusive della trama.

Un altro era KEVIN MORGAN, che dopo avere lasciato Goldtown ed essersi sposato, era tornato in paese a seguito della separazione. Assunto nel negozio di Steve, gli avrebbe fatto da segretario, contabile, assistente e addetto alle commissioni più disparate.

Un altro era DANNY SILVER, cassiere in un supermercato, divorziato, con una figlia adolescente e un passato piuttosto infelice durante la sua adolescenza, dopo l'uccisione della sua prima fidanzata Linda. Dopo di Linda, venne Cindy, una crush destinata a terminare male a sua volta. La sua ex moglie non era destinata a comparire nelle vicende, ma Danny veniva occasionalmente denigrato e insultato da una delle amiche di lei, tale Maryanne.

Infine vi era JACK MITCHELL, cugino di secondo grado di Mark, che lavorava come meccanico. Si era sposato con tale Elizabeth, con la quale aveva avuto due figli, prima che la moglie lo lasciasse per mettersi con un altro uomo.

Al quartetto si aggiunse poi JENNIFER ROBINSON, sedicenne nel 2002 e trentaseienne nel 2022, destinata a prendere le redini del negozio di famiglia insieme alla zia Sophie, con la quale era cresciuta a casa della nonna. I suoi genitori Margaret e John erano entrambi viventi, così come una sorella di nome ROBERTA, ma la sua situazione familiare era piuttosto contorta.

Venne inoltre ELLEN JEFFERSON, fidanzata di Mark al momento della sua morte e a seguire di Steve. Lasciata Goltdown a poco più di vent'anni, sarebbe tornata all'età di trentanove, dopo un matrimonio fallito e una figlia ormai adolescente. Giornalista, sarebbe divenuta la coinquilina della collega Janice, in un appartamento di proprietà del signor Callahan.

Janice era stata in passato fidanzata con un collega poi divenuto marito di LYDIA BLACKSTONE, cugina di Steve e deceduto in un incidente stradale. Rimasta vedova con una figlia, Lydia era tornata a vivere insieme ai propri genitori.

La sua migliore amica JANET BIRTHY, frattanto, dopo una convivenza lontana da Goldtown, rientrava in paese dopo essersi separata dal compagno. In passato Janet aveva avuto una relazione con Kevin. Janet e Lydia, inoltre, erano le amiche di Cindy e Meredith, decedute in circostanze molto diverse. Anche il fidanzato di Meredith, Will, era stato già da tempo soppresso.

A Goldtown non vi erano particolari attrazioni e spesso l'Autrice(C) decideva che alcuni suoi personaggi dovessero recarsi presso il bar del posto, gestito da PATRICIA LYNCH, una quarantenne (nel 2022) che era passata al comando dell'attività di famiglia.
Insieme a lei, lavorava Ray Moore, nuovo compagno di Elizabeth, l'ex moglie di Jack. Patricia era fidanzata con Roberta, la sorella di Jennifer, e in passato aveva avuto una relazione con Kimberly, che si era da molti anni trasferita fuori da Goldtown.

A quel punto l'Autrice(C) pensò: "Ora i miei lettori forse avranno le idee un po' più chiare, o almeno consulteranno questa lista, qualora continuino a non orientarsi visti i millemila personaggi". Poi ringraziò Vallentyne, che le aveva indirettamente dato l'idea.

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Capitolo 2
*** Requiem - 31.10.2002 ***


Quando avevo quattordici anni, mi inventai dei personaggi che mi inseguono da tanto tempo, o forse sono io a inseguire loro. Avevo appena iniziato la prima superiore e mi capitava di parlare con la mia compagna di banco che avevo conosciuto da poco dei racconti che scrivevo, ai tempi su dei semplici quaderni. Gliene avevo fatti anche leggere alcuni e per qualche motivo venne fuori l'idea di scrivere un "racconto di Halloween".
Poi si persero un sacco di cose, nel corso degli anni. Non fu un breve racconto di Halloween. Fu un lungo racconto, divenuto una serie, che per puro caso iniziava a fine ottobre. La versione che intendo proporvi ha ben poco a che vedere con Halloween e anche poco a che vedere con la trama che avevo in mente ai tempi. Dopotutto era il 2002, adesso sono passati vent'anni.
I personaggi (introdotti nel "capitolo" precedente, avendolo aggiunto in seguito e spostato, è probabile che entrando veniate rimandati a questo e vi tocchi di cambiare il capitolo manualmente), però, sono ancora vividi nella mia mente, quindi ho deciso che voglio scrivere un racconto che sia degno della loro personalità. L'ambientazione - in cui si alternano due piani temporali - è una location immaginaria. Ai tempi mi piacevano i nomi inglesi, quindi ho deciso di lasciarli inalterati. Se pensate a Gran Bretagna, Commonwealth o Stati Uniti siete fuori strada. Goldtown non è un luogo realmente esistente, ma potrebbe esistere ovunque.





REQUIEM

[31.10.2002]
La partita era finita da poco più di cinque minuti, ma chi fosse entrato nel bar in quel momento avrebbe potuto tranquillamente pensare che nessuno l'avesse guardata. C'era un gruppetto di persone radunate intorno al televisore, in prevalenza uomini di mezza età oppure anziani, ma l'argomento di conversazione ormai non riguardava più né il calcio né tantomeno lo sport in generale. Quando i discorsi sulle tasse e sulla politica iniziarono a diventare dilaganti, Kevin comprese che era giunto il momento di andarsene.
«Andiamo a salutare Patricia?» propose a Danny.
Il suo amico parve non sentirlo. Stava leggendo qualcosa sul cellulare.
«Ehi, Danny» insisté Kevin. «Andiamo?»
L'altro alzò gli occhi.
«Sì, scusa, non ti stavo ascoltando.»
«Me n'ero accorto.»
Danny accennò un mezzo sorriso e, come a giustificarsi, gli confidò: «Sto aspettando un messaggio da una persona, però non mi risponde.»
«Forse ha finito il credito» azzardò Kevin, «O, se le hai scritto, non ha visto il tuo messaggio.»
«Lo spero, ma non sono sicuro che sia così. Probabilmente non le interessa rispondermi.»
«Prova a fare una telefonata.»
«No, non è il caso.»
Kevin iniziava ad avere dei sospetti sull'identità della persona dalla quale Danny sperava di essere contattato.
«Fammi indovinare, è molto carina, ha i capelli biondi e pratica pattinaggio artistico?»
Danny avvampò.
«Sì, è lei.»
«Mi fa piacere che tu abbia finalmente ricominciato a interessarti alle ragazze, ma non sono sicuro che tu possa concludere molto.»
«Lo so, dovrei puntare più in basso.»
«Se adesso ti piacciono le bionde, ne ho in mente una con cui potresti avere delle speranze.»
Danny rise.
«Dai, non scherzare, Jennifer è come una sorella per me. E poi non mi piacciono le bionde in generale. Cindy mi piacerebbe di qualunque colore avesse i capelli. Comunque avevi ragione tu, è meglio andare, si sta facendo tardi.»
«Andiamo a salutare Patricia, prima» disse Kevin, facendo per avvicinarsi al bancone del bar.
In quel momento il cellulare di Danny squillò.
«Mi ha scritto!»
Kevin si girò a guardare l'amico. Aveva un sorriso radioso, che tuttavia svanì in pochi istanti.
«Qualcosa non va?»
«Tutto a posto» lo rassicurò Danny. «Non è Cindy, è Jack. Mi chiede se non mi hai detto nulla, perché Steve ci sta aspettando a casa sua da oltre un'ora.»
«Steve ci sta aspettando? Per cosa? E perché avrei dovuto dirti qualcosa io?»
«Non saprei. Magari ti ha contattato?»
Kevin prese fuori il cellulare dalla tasca del giubbotto. Effettivamente si era dimenticato di avere tolto la suoneria e c'erano diversi SMS in entrata.
Il primo era da parte di Steve, che lo invitava a presentarsi sotto casa sua e lo pregava di estendere l'invito anche a Danny. I messaggi seguenti gli chiedevano dove fosse.
"Arriviamo subito" scrisse a Steve.
Aveva già inviato il messaggio quando si accorse di non avere domandato a Danny cosa ne pensasse.
«Ho detto a Steve che andiamo da lui, non è un problema, vero?»
«No, anche se non mi spiego cosa voglia. Cosa ci fa Jack da lui?»
«Non lo so nemmeno io, ma non ci vorrà molto per scoprirlo.»
«Potevano venire anche loro al bar a guardare la partita» azzardò Danny. «Va bene, a Steve non piace il calcio, gli interessano cose più da intellettuale, ma...»
Fu interrotto dalla voce di Patricia che, passando accanto a loro con un vassoio in mano, li salutò.
Kevin e Danny ricambiarono il saluto, prima di andarsene.
Abitavano entrambi in pieno centro e si erano entrambi recati a piedi al bar, ma Steve non viveva molto lontano. In meno di dieci minuti sarebbero riusciti a raggiungerlo.
Erano appena usciti dal bar, quando Kevin fu raggiunto da un nuovo messaggio.
«Dice di sbrigarci» riferì a Danny, «Perché ha una sorpresa per noi.»
«Per fortuna Steve ha gusti da intellettuale» ribatté Danny, «Altrimenti mi verrebbe da pensare che ha organizzato qualcosa di ridicolo per Halloween e vuole condividerlo con noi.»
«Figurati, Steve non saprà nemmeno quando viene Halloween.»
«Speriamo. Non voglio passare una serata in stile horror di bassa qualità. Cosa ci troverà poi la gente di interessante nel rappresentare e glorificare la morte? Quelli che si divertono a truccarsi con tanto di sangue finto, come reagirebbero se si trovassero di fronte a del vero sangue nella realtà?»
Kevin fu scosso da un brivido. Sapeva bene a cosa si stesse riferendo Danny. Non parlava mai apertamente di cosa fosse successo a Linda Miller qualche mese prima, ma era chiaro che fosse un chiodo fisso per lui.
Cercò di sviare il discorso: «Non preoccuparti, Steve avrà sicuramente in mente qualcosa di più interessante. Chissà, magari ha ricevuto un'offerta di lavoro interessante, oppure si è trovato una fidanzata e vuole comunicarci la notizia in anteprima.»
«Se anche Steve dovesse trovarsi una fidanzata, inizierei a pensare di avere sbagliato molte cose» replicò Danny. «Che cosa può raccontare di interessante a una ragazza per convincerla a uscire con lui?»
«Guarda che Steve ha sempre avuto successo con le ragazze» puntualizzò Kevin. «Ti dirò, non mi stupisce nemmeno.»
«Io non l'ho mai visto con una ragazza.»
«Evidentemente frequenta ragazze che non sono interessate a trascorrere le serate insieme ai suoi amici.»
«Essenzialmente mi stai dicendo che Steve fa molto più sesso di noi.»
«Sto dicendo che, solo perché Steve non ci racconta delle sue avventure, non significa che non ne abbia. D'altronde quello che riguarda la sfera privata è meglio che rimanga privato, a volte.»
«Per caso se la fa con qualcuna delle amiche di Lydia? Forse Meredith, oppure Janet?»
Kevin notò che non aveva citato Cindy, ma non glielo fece notare. D'altronde Steve non stava con nessuna di loro e, anzi, gli aveva parlato di una ragazza che gli piaceva, che abitava a Goldtown da poche settimane, e che sperava di riuscire a conoscere con una scusa.
«Dai, andiamo, invece di pensare a chi si porta a letto Steve.»
«Se sai qualcosa, dimmelo.»
«Non so nulla e, anche se lo sapessi, sarebbero comunque fatti suoi.»
Danny non insisté, evitando altre domande. Continuarono a camminare verso l'elegante abitazione nella quale Steve risiedeva insieme ai familiari. Era una porzione di una villetta, con ingresso indipendente e giardino. Proprio nel giardino, Steve era seduto insieme ad altre due persone: Jack e un altro ragazzo.
Il cancello era accostato. Kevin lo aprì ed entrò, seguito da Danny. Solo allora prestò attenzione all'identità di colui che non aveva ancora identificato.
«Mark?!» esclamò.
Ci aveva visto giusto, nonostante il loro comune amico fosse in penombra.
«Finalmente siete arrivati» esclamò Mark. «Ci avevo perso le speranze.»
«Ehi, Mark» lo salutò Danny, «Cosa ci fai qui a Goldtown?»
«Sedetevi» li invitò Steve.
«Mark è tornato in paese da poco e mi ha chiesto se potevamo incontrarci» li informò Jack. «Peccato che non siate arrivati prima.»
«Avreste potuto invitare anche Jennifer» osservò Danny. «Come mai non l'avete chiamata?»
«Jennifer ha solo sedici anni e viene da una famiglia strana» gli ricordò Jack. «Mark non era sicuro che sua nonna e sua zia le avrebbero permesso di uscire con noi la sera, specie se fosse stato Mark a farle una simile proposta.»
Doveva essere una scusa. Occasionalmente Jennifer usciva con loro e Kevin era certo che, se Danny si fosse offerto di accompagnarla a casa, le Robinson non avrebbero avuto niente da ridire. Era molto probabile che gli altri non fossero felici di averla intorno. Per quanto ne sapeva Kevin, né Mark né Steve provavano molta simpatia per quella ragazza, mentre non era ben chiaro che tipo di legame ci fosse tra lei e Jack.
Si sedette, subito imitato da Danny, che riferì: «Siamo arrivati solo adesso perché Kevin non aveva visto i messaggi. Stavamo seguendo la partita al bar.»
Nessuno parve particolarmente interessato. Né Steve, né Mark né tantomeno Jack diedero il minimo segno di essere curiosi del risultato. Forse non sapevano nemmeno quali fossero i club scesi in campo.
«Non ci hai ancora spiegato» osservò Kevin, rivolgendosi a Mark, «Che cosa ci fai qui a Goldtown.» Guardò Steve e Jack, cercando delucidazioni da loro. «Allora, cosa vi ha raccontato di interessante?»
«Niente di che, in realtà» ammise Jack. «Più che altro ci ha fatto domande su di noi, sul corso che frequenta Steve, sul mio lavoro.» Rise. «Mi ha chiesto come funzionano le cose in officina da mio padre, come se fosse un argomento interessante.»
Mark obiettò: «Ti ho chiesto del tuo lavoro. Non ci vedo niente di strano. Hai sempre detto che non vedevi l'ora di finire la scuola perché la tua strada erano le auto e adesso che lavori con tuo padre pensavo ti interessasse raccontarci qualcosa.»
«Non c'è niente da raccontare, lavoro come meccanico e mi piace» mise in chiaro Jack. «Non ho niente di particolare da riferire. Non compaiono dal nulla donne bellissime, in officina, né qualsiasi altra cosa tu abbia in mente. Non...»
Si interruppe. Guardava un punto indistinto oltre il cancello. Kevin si girò in quella direzione. In lontananza, non troppo distante da un lampione, si stagliava una figura quasi spettrale. Una donna molto magra, fasciata in un abito bianco, si stava girando dalla parte opposta, pronta ad allontanarsi. I capelli chiarissimi, forse raccolti in una lunga treccia, ondeggiarono.
Anche Mark, realizzò Kevin, guardava in quella direzione. C'erano buone probabilità che anche Steve avesse visto quella persona, mentre Danny non si era mosso di un centimetro.
«A proposito di donne bellissime» riprese Mark, «Se mi fermerò qui a Goldtown è anche a causa di una ragazza. Non è del posto, ma è venuta a stare qui di recente. Ci siamo conosciuti un paio di mesi fa. Purtroppo mi sono dovuto sistemare in casa con i miei genitori, mentre lei sta da sua zia, che è abbastanza stretta di vedute e la controlla parecchio nonostante sia già maggiorenne da un pezzo. Ci è difficile incontrarci. O per meglio dire, ci è facilissimo incontrarci, ma solo in casa e mai da soli. Per fortuna è riuscita a inventarsi con la zia che stasera doveva partecipare a una festa di Halloween, quindi riusciremo a vederci più tardi, quando non ci sarà più nessuno in giro.»
«Una ragazza interessante che vive con la zia, che non le permette di rimanere da sola con il suo amato?» osservò Danny. «Sembra la trama di uno di quegli harmony che piacciono a mia sorella. Sei fortunato: negli harmony prima o poi i protagonisti finiscono a letto insieme.»
«Nel nostro caso è già accaduto, più di una volta. Prima che venisse a Goldtown, ci era molto più semplice incontrarci.»
«Allora, se non sono indiscreto, perché è venuta qui da sua zia?»
«Ellen è la nipote di Georgia Freeman, quella che presentava i servizi per il telegiornale locale. Anche lei sta studiando per diventare giornalista. È venuta a stare dalla Freeman perché pensa che potrebbe esserle utile per lo studio e, chissà, magari per un futuro lavoro.»
Kevin spostò lo sguardo su Steve, che non dava segno di alcun turbamento. Eppure, Kevin ne era certo, la ragazza di cui stava parlando Mark era proprio la tizia di cui Steve gli aveva parlato. Il mondo era davvero molto piccolo, se la nipote di Georgia Freeman era la fidanzata di Mark.
Mark guardò l'orologio: «A proposito, è meglio che vada. Ellen ha detto a sua zia che la festa sarà a mezzanotte. Dobbiamo incontrarci all'una.»
«E te ne vai già?» obiettò Kevin. «Sono appena le undici e un quarto.»
Mark fu piuttosto vago: «Prima ho un'altra cosa da fare.»
«Prima devi vederti con un'altra?» gli chiese Steve, a bruciapelo.
Mark spalancò gli occhi.
«Come dici?»
«Lo sappiamo tutti che salti da una ragazza all'altra, da sempre» puntualizzò Steve, con freddezza. «Adesso ci parli di questa Ellen, ma quanto durerà? Poco come tutte le altre, posso immaginare.»
Mark si alzò in piedi.
«Sinceramente non penso che questi siano affari tuoi. Comunque no, Ellen mi piace davvero, non frequento altre donne a sua insaputa.»
Steve non parve molto convinto, ma non disse più nulla. Mark salutò tutti e se ne andò. Fu l'ultima volta in cui lo videro.
 

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Capitolo 3
*** Requiem - 01.11.2002 ***


[01.11.2002]
Steve rientrò in casa verso le quattro e mezza del pomeriggio. Attraversò il breve ingresso, poi posò la macchina fotografica, all'interno della relativa custodia, sul tavolo. Iniziò a sbottonarsi la giacca, quando sentì suonare il campanello. Era solo in casa e non aspettava nessuno. Doveva essere qualcuno dei suoi amici, anche se di solito lo avvertivano con un messaggio sul cellulare, oppure facendogli un semplice squillo se stavano per finire il credito. O quantomeno, così facevano Jack, Danny e Kevin. Quando si trattava di Mark, le cose funzionavano diversamente. Fino a poco tempo prima, era stato l'unico quasi-coetaneo che Steve conoscesse a non possedere un telefono cellulare. Ne aveva comprato uno da poco, aveva riferito la sera precedente, dal momento che nell'appartamento in cui si era trasferito di recente non c'era una linea telefonica fissa. L'aveva comprato, ma non l'aveva portato con sé, né aveva dato il proprio numero a qualcuno di loro, dal momento che non lo ricordava a memoria.
Doveva essere lui, realizzò Steve, dirigendosi verso la porta. Aveva chiuso il cancello, quindi la persona che aveva suonato il campanello doveva attenderlo fuori, sulla strada. Aprì e guardò oltre. Non era Mark, era una ragazza con lunghi capelli castani con la quale Steve non aveva mai parlato.
Sapeva chi fosse, lo sapeva perfettamente, anche se non aveva idea del perché si fosse presentata a casa sua. Richiuse la porta, attraversò i pochi metri di giardino che lo separavano e, senza aprire il cancello, domandò alla nuova arrivata: «Stai cercando me?»
La ragazza annuì.
«Sì, o almeno credo.»
Steve aprì il cancello, ma invece di farla entrare uscì a propria volta, lasciandolo accostato.
«Mi chiamo Steven Blackstone» la informò. «Non so se sono la persona che stai cercando.»
«Ellen Jefferson» si presentò la ragazza, tendendogli la mano.
Steve gliela strinse.
«Piacere di conoscerti.»
«Piacere mio» borbottò Ellen, senza troppa convinzione. «Certo, avrei preferito altre circostanze.»
«Altre circostanze?» ripeté Steve. «Cos'è successo?»
«Non lo so, Steven, forse puoi dirmelo tu.»
«Puoi chiamarmi Steve, e comunque non ho idea di cosa dovrei dirti.»
«Sono la fidanzata di Mark Forrester» gli spiegò Ellen. «Lo conosci?»
«Decisamente sì.»
«Ed è stato a casa tua, ieri sera?»
«Sì, è stato qui. O meglio, è stato nel mio giardino, insieme a dei nostri amici. Non è entrato in casa.»
«Fino a che ora è rimasto?»
Steve fissò Ellen per qualche istante, valutando se risponderle. Poi, invece di farlo, le domandò: «Perché me lo chiedi?»
«Io e Mark dovevamo incontrarci ieri sera, o per meglio dire, stanotte. Non si è presentato all'appuntamento.»
«Sì, ci ha detto che doveva vedere la sua ragazza» confermò Steve. «Immagino stesse parlando di te.»
Ellen accennò un sorriso.
«Per caso Mark ha altre ragazze, oltre a me?»
«Non che io sappia» ammise Steve, «Ma non è mai stato molto portato per le relazioni durature.»
«Stiamo insieme da appena tre mesi» puntualizzò Ellen. «Non si è ancora stancato di me.»
«Non volevo insinuare nulla di tutto ciò.»
«Però ci hai tenuto a riferirmi il dettaglio che le storie fisse non fanno per lui.»
Steve avvampò.
«Lascia perdere, avrei dovuto risparmiarmi certi commenti.»
«Non fa niente. Quindi Mark ha detto che doveva vedersi con me.»
«Ha detto che doveva incontrare una certa Ellen, che vive da poco a Goldtown, ospite a casa di una giornalista della TV. Penso si riferisse a te.»
«Zia Georgia non lavora più per la TV, però sì, penso di essere la stessa Ellen di cui ti ha parlato lui. Adesso posso chiederti fino a che ora è rimasto?»
Steve rifletté.
«Dunque, prima c'eravamo solo io, Jack e Mark. Poi sono arrivati Danny e Kevin, che erano stati al bar a guardare una partita alla televisione. Penso siano arrivati qui alle undici passate. Non ti saprei dire con esattezza a che ora sia andato via Mark, ma direi intorno alle undici e un quarto, undici e venti.» Un ricordo piuttosto vago gli attraversò la mente. «Mi pare che qualcuno si sia stupito e abbia detto esplicitamente che erano solo le undici e un quarto. Deve essere andato via più o meno a quell'ora.»
«Oh.»
«La cosa ti stupisce?»
«Un po' sì. Sapevo che doveva vedere degli amici, prima di incontrare me, ma non pensavo fosse andato via così presto.»
«Se non sbaglio, ha detto che, prima di incontrarti, aveva qualcosa da fare.»
«Qualcosa da fare, eh? Qualcosa di che tipo?»
Steve alzò gli occhi al cielo.
«Davvero, non lo so, non so come aiutarti.»
«Posso chiederti in che rapporti sei con Mark?»
«Ci frequentiamo da diversi anni. O per meglio dire, ci frequentavamo parecchio quando abitava ancora a Goldtown.»
«Ti parlava della sua vita privata?»
«Non tanto. Era difficile che ci vedessimo da soli io e lui.»
«Eppure, una volta tornato in paese, è venuto subito a cercare te.»
Steve precisò: «Capita abbastanza spesso che io e il mio gruppo di amici ci incontriamo da me, ma più che altro perché possiamo venire in giardino e stare per i fatti nostri.»
Ellen volle sapere: «Tra quelli che c'erano ieri sera, chi è che è in maggiore confidenza con Mark?»
«Sicuramente Jack.»
«Potrebbe sapere cosa doveva fare Mark ieri sera?»
«Ne dubito. Quando Mark ci ha detto che doveva andare via, è stata una sorpresa un po' per tutti.» Steve non ne era del tutto sicuro, perché era ancora stupito dallo scoprire che la bella sconosciuta dalla quale era attratto era verosimilmente la fidanzata di Mark, ma quella versione gli sembrava abbastanza in linea con la realtà. «Anzi, ti dirò, ho avuto l'impressione che quella di andarsene fosse stata una decisione d'impulso.»
«Che per qualche motivo avesse scelto di andare via con una scusa?»
«Non proprio. Vedi, a un certo punto ho notato una persona, in fondo alla strada, che sembrava guardare verso di noi, prima di voltarsi e andarsene. Anche Mark si è girato da quella parte. Ha fatto finta di niente, ma poco dopo ha detto di avere da fare ed è andato via.»
«Sapresti descrivere quella persona?»
«Era lontana ed era sera, però sono sicuro che fosse una donna. Era vestita di bianco, portava un abito lungo.»
«Quindi, se ho ben capito, tu, Mark e Jack vi siete trovati nel tuo giardino ieri sera» ricapitolò Ellen. «Più tardi vi hanno raggiunto altri due vostri amici che prima erano al bar a guardare una partita. Poco dopo, in fondo alla strada è comparsa all'improvviso una donna vestita di bianco. A quel punto Mark, che già vi aveva informati di dovere incontrarmi, se n'è andato sostenendo di avere qualcosa da fare. È andata così?»
«Per quanto non possa dirti per certo che Mark sia andato via per via della presenza della donna vestita di bianco, oserei dire che la tua ricostruzione è corretta» confermò Steve. «Adesso posso chiederti perché mi stai facendo tutte queste domande? Cos'è successo tra te e Mark?»
Finalmente Ellen gli raccontò l'altra parte della storia.
«Io e Mark ci eravamo visti di sfuggita ieri pomeriggio e ci eravamo dati appuntamento per quella sera. Volevamo vederci quando non c'era più nessuno in giro. Allora, per miei motivi personali, mi sono inventata una scusa con mia zia e sono uscita di casa a sera inoltrata. Io e Mark ci eravamo dati appuntamento all'una di notte. Dovevo aspettarlo al bar e lui doveva venire a prendermi. Solo, sono dovuta uscire di casa prima delle undici per via della scusa che avevo rifilato a zia Georgia. Non sapevo come passarmi il tempo nel frattempo, quindi sono andata al bar. C'erano degli anziani radunati intorno al televisore. C'era un programma che parlava di calcio - forse i commenti dopo la partita - ma c'era gente che discuteva di politica. C'erano anche due ragazzi sui diciotto anni, che però se ne sono andati quasi subito. Uno aveva i capelli biondi tirati su con il gel, l'altro era un tipo più basso con un taglio a caschetto. Forse sono i tuoi amici.»
«Sì, dovevano essere Kevin e Danny.»
«A quel punto mi sono seduta a un tavolo, ho ordinato dell'acqua gassata, mi sono procurata un giornale e ho iniziato a sfogliarlo. Fino più o meno a mezzanotte ho letto il giornale, poi, quando la gente ha iniziato ad andarsene quasi tutta, mi sono messa a chiacchierare con la cameriera, Patricia, la figlia del titolare. Le ho chiesto fino a che ora tenesse aperto, perché il mio ragazzo mi aveva dato appuntamento lì per un'ora più tardi e temevo che mi mandasse via prima, ma mi ha rassicurata. Mi ha detto che il bar chiudeva proprio all'una e che potevo rimanere ad aspettare Mark.»
«E poi?»
«E poi sono rimasta là, ad aspettare. Mark non è arrivato. Ho provato a telefonargli, ma non rispondeva al cellulare. Come al solito doveva essere uscito senza. Patricia mi ha detto che potevo rimanere dentro. In segno di ringraziamento, l'ho aiutata a pulire i tavoli. Ho continuato ad aspettare Mark anche mentre Patricia lavava il pavimento, poi mi sono rassegnata. Abbiamo scambiato ancora qualche parola e, alle due meno un quarto, ce ne siamo andate. Patricia mi ha accompagnata a casa in macchina. Le dispiaceva che Mark mi avesse dato buca e mi ha detto che, in un altro momento, se avessi voluto si sarebbe fermata a parlare con me più a lungo, ma che una persona che non vedeva da un po' di tempo la stava aspettando a casa sua. Mi sono un po' stupita, dato che ci conoscevamo appena. L'ho ringraziata e sono salita in casa. Mentre entravo, ho visto che Patricia era ancora seduta in macchina, con il cellulare in mano. Prima di entrare le ho fatto un cenno di saluto e ha ricambiato. Quando sono arrivata su, mia zia era ancora alzata e stava bevendo una camomilla in cucina. Mi ha fatto qualche domanda su come fosse andata la serata. Le avevo raccontato che dovevo andare a una festa. Le ho detto che non mi ero divertita molto e che ero stanca. Poi mi sono preparata per andare a letto. Mi sono detta: "domani Mark mi chiamerà per spiegarmi perché non è venuto". E invece niente. Ho provato a cercarlo io, facendogli varie chiamate, finché un paio d'ore fa non mi ha risposto una donna. Era sua madre. Le ho chiesto dove fosse Mark e mi ha detto che non lo vedeva da ieri sera a cena. Non era molto preoccupata. Secondo lei, Mark è tornato a casa sua senza dire niente a nessuno, forse per qualche impegno di lavoro. Le ho chiesto allora come mai avesse lasciato lì il cellulare e mi ha risposto che a Mark i cellulari non piacciono e si comporta spesso come se non ne avesse uno.»
«Questo, in effetti, è vero» confermò Steve.
Ellen obiettò: «Sì, ma rimane il fatto che Mark dovesse venire all'appuntamento e non sia venuto e che dovesse rimanere a casa dai suoi genitori per un po', ma non sia rimasto. Tutto senza dire niente a nessuno. Cosa ne è stato di lui? Mi sembra sia giunto il momento di iniziare a chiederselo.»
«Vedrai, presto si farà vivo» cercò di rassicurarla Steve, «E spiegherà cos'abbia fatto in tutto questo tempo. O almeno ci proverà.»
Ellen sbuffò.
«Sì, è molto facile credere che sia in compagnia di quella famosa donna vestita di bianco, che magari adesso al posto dell'abito bianco non porta nulla. Però sono sicura che non sia così.»
Aveva ragione. Prima che scendesse la sera, il cadavere di Mark Forrester sarebbe stato trovato nella pineta di Goldtown, freddato da una coltellata al cuore.

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Capitolo 4
*** Requiem - 02.11.2002 ***


[02.11.2002]
Ellen si allacciò la giacca e fece per avviarsi verso la porta. Steve la stava aspettando sotto casa, l'aveva visto dalla finestra.
Una voce, alle sue spalle, all'improvviso la fece sussultare.
«Sei sicura che sia una buona idea?»
Ellen si voltò lentamente.
«Non ti avevo sentita, mi hai spaventata.»
«Appunto» rispose sua zia. «Non mi sembra che tu sia nello stato d'animo migliore per...»
Ellen la interruppe: «Devo andare. Ho bisogno di conoscerli, ho bisogno di sapere chi frequentasse Mark quando abitava ancora a Goldtown.»
Zia Georgia le suggerì: «Se fossi al posto tuo, cercherei un approccio il più distaccato possibile. Tu non c'entri niente con quello che gli è successo, nemmeno l'hai incontrato, l'altra sera.»
«Però dovevo vederlo» replicò Ellen, «E, se ci fossimo incontrati, forse le cose sarebbero andate diversamente. Ho bisogno di scoprire la verità, prima che ne venga data una narrativa distorta.»
«Ammiro la tua volontà di fare emergere la verità, ma non c'è modo in cui tu possa riuscirci. In fondo, l'hai conosciuto solo negli ultimi mesi. Chi era prima? Hai detto che hai scoperto che uno dei suoi amici frequentava la povera Linda...»
«Appunto» confermò Ellen. «Si chiama Daniel Silver. Sarà presente stasera.»
«Dunque, se ho ben capito, intendi partecipare a una commemorazione per il tuo fidanzato ucciso organizzata a casa di una svitata, in compagnia dell'ex ragazzo di quella sedicenne che fu assassinata qualche mese fa?»
«Perché, hai qualche pregiudizio contro i partner di persone uccise?» ribatté Ellen. «Ti ricordo che sono una di loro, adesso.»
Sua zia non replicò, quindi Ellen ne approfittò per uscire di casa. Richiuse la porta alle proprie spalle, poi scese le scale in gran fretta.
Quando uscì, Steve la stava aspettando davanti al portone.
«Eccoti, finalmente» la accolse.
«Scusa il ritardo» si giustificò Ellen. «Purtroppo mia zia si è messa in mezzo, voleva sapere a tutti i costi dove stessi andando.»
«E tu cosa le hai detto?»
«La verità.»
«Come l'ha presa?»
«In nessun modo, la vita è mia.»
Salirono sulla macchina di Steve. Allacciandosi la cintura di sicurezza, Ellen lo pregò: «Mi spiegheresti bene con chi dobbiamo vederci?»
Gliene aveva già parlato quella mattina, quando le aveva telefonato - Ellen gli aveva lasciato il proprio numero il pomeriggio precedente, quando ancora non potevano immaginare la realtà, chiedendogli di mettersi in contatto con lei qualora avesse visto o sentito Mark - per parlarle dell'iniziativa di Jennifer, ma si era trattato di un elenco di perfetti sconosciuti, quindi fare un ripasso in attesa dell'incontro non era male.
Steve la accontentò.
«La ragazza che ci ha invitati si chiama Jennifer Robinson. A me non va molto a genio, ma la frequento ogni tanto perché è una carissima amica di Danny. Abitano piuttosto vicini. È più giovane di noi, ha sedici anni e frequenta ancora la scuola superiore. Vive con sua nonna, una tizia strana sulla sessantina, e una zia che avrà intorno ai venticinque anni. La nonna e la zia hanno un negozio. Sono tutte un po' strane, in quella famiglia.»
«Jennifer vive con la nonna e la zia» ripeté Ellen. «I genitori che fine hanno fatto?»
«Per quanto ne so, il padre non c'è mai stato. O almeno, Margaret Robinson non si è mai sposata, né Jennifer ha mai parlato di suo padre. Per quanto ne so, Margaret ha lasciato Goldtown una ventina d'anni fa e in seguito ha messo al mondo Jennifer che, quando aveva dodici anni, è venuta qui ad abitare insieme alla nonna e alla zia. Non saprei dirti cosa sia successo di preciso a Margaret, ma so che è ancora viva. Forse è malata, ricoverata da qualche parte... comunque da qualche parte c'è ancora.»
«Danny, invece?»
«Danny Silver, diciotto anni appena compiuti, da quando si è diplomato lavora nel magazzino del supermercato di Goldtown. Ha una sorella che ha l'età di Jennifer. Quando venne a stare qui, sua nonna e sua zia cercarono di spingerla a fare amicizia con Christine Silver, che abitava vicino a lei, ma le due non legarono molto. In compenso, da allora, Jennifer è diventata una grande amica di Danny.»
«Danny deve essere uno dei due ragazzi che ho incrociato al bar.»
«Esattamente.»
«E stava insieme a Linda Miller.»
Steve parve spiazzato. Non disse una parola e, ancora fermo in macchina, continuò a non accennare minimamente a partire.
Ellen pensò fosse giunto il momento di esortarlo ad allontanarsi.
«Andiamo?»
Steve avviò il motore.
«È stata una storia da ragazzini, si sono frequentati per qualche settimana, non c'è stato niente di serio tra di loro.»
«Conoscevi Linda?»
«Di vista.» Steve si mise in strada e, in apparenza desideroso di passare oltre, passò a parlare di un altro degli amici di Mark. «Jack Mitchell compirà diciannove anni tra qualche mese e lavora come meccanico insieme a suo padre. Credo fosse un parente di Mark alla lontana, cugino di secondo o terzo grado. Più che altro era lui che frequentava Mark. Ogni tanto esce con Danny e Jennifer, ma non ho mai capito fino in fondo se Jennifer gli piaccia o no. Sai, è una ragazza abbastanza particolare e non c'è da sorprendersi se qualcuno cerca di evitarla.»
«Poi, se ricordo bene, dovrebbe esserci l'altro ragazzo del bar.»
«Kevin Morgan.»
«Cosa mi dici di lui?»
Steve mise la freccia e accostò.
«Non ti dico niente, perché siamo già arrivati.»
«Non sapevo che Jennifer abitasse così vicina a me.»
«Sono tante le cose che non sai, ma le scoprirai, se rimarrai a Goldtown.»
«Potevo venire da sola» azzardò Ellen. «Voglio dire, non c'era bisogno che tu mi accompagnassi.»
«Mi faceva piacere accompagnarti» chiarì Steve, mentre scendevano. «E poi è meglio che Jennifer ti veda arrivare insieme a me.»
«Perché?»
«Te l'ho detto, io e Jennifer non siamo molto amici. Non vorrei che si prendesse certe libertà con te. Se mettiamo in chiaro fin da subito che io e te ci conosciamo, magari ti lascia in pace.»
Ellen azzardò: «Da come ne parli, questa Jennifer sembra una persona terribile.»
Steve replicò: «Non era questa l'impressione che volevo dare. Comunque è meglio se andiamo, Ci stanno aspettando.»
Si diressero verso l'ingresso di una palazzina e Steve suonò un campanello. Pochi istanti dopo si aprì il portone ed Ellen seguì Steve all'interno dello stabile.
La famiglia Robinson abitava al secondo piano e al momento non erano in casa né la nonna né la zia di Jennifer - se Ellen non aveva capito male, sarebbero rientrate intorno alle undici della sera, quindi di lì a due ore.
Sulla porta le attendeva uno dei due ragazzi del bar, che Ellen riconobbe come Danny Silver. Non sembrava vi fosse alcuna vera e propria luce accesa, all'interno dell'appartamento, realizzò Ellen, mentre insieme a Steve seguiva l'amico di Jennifer fino a entrare in un salone.
L'ambiente era illuminato da una schiera di candele allineate su un grosso candelabro. Jennifer era seduta al tavolo insieme all'altro ragazzo del bar e a un perfetto sconosciuto che doveva essere Jack. Indossava un abito bianco - colore che richiamò in Ellen pensieri che avrebbe preferito evitare - e aveva i capelli biondi raccolti in uno chignon.
Alzò gli occhi verso di lei e le chiese: «Tu sei Helen, vero?»
«Ellen.»
«Scusa, non ricordavo il tuo nome.»
Ellen accennò a un lieve sorriso, come a rassicurarla.
Il ragazzo che aveva aperto la porta - Danny - si sedette accanto a quello che Ellen non aveva mai visto prima - Jack - così a lei non restò altro che andare a piazzarsi dall'altro lato del tavolo. Si sistemò accanto a Kevin, mentre Steve si sedette a capotavola, di fronte a Jennifer, tra la stessa Ellen e Danny, chiedendo alla Robinson: «Perché siamo qui?»
«Lo sai perché siamo qui» rispose Jennifer, con freddezza.
«Chiedevo perché siamo qui esattamente» puntualizzò Steve. «Penso che sappiamo tutti di che cosa sia accaduto a Mark.»
«Povero Mark, non meritava una fine simile» sibilò Jennifer. «Nessuno si merita di fare quella fine.» All'improvviso si girò. «Sei d'accordo con me, Ellen?»
Ellen fece un sussultò.
«S-sì.»
«Cosa ne pensi?» volle sapere Jennifer, proprio da lei. «Hai un'idea di chi possa averlo ucciso?»
Ellen rabbrividì.
«No.»
«Eppure sei tu quella che lo conosceva meglio di tutti» azzardò Jennifer. «Non sapevi con che gente avesse a che fare? Non hai idea di chi possa...»
Steve la interruppe: «Piantala, Jennifer. Ellen non conosce nessuno di Goldtown e Mark è stato ucciso non appena è tornato qui.»
«Se permetti, gliel'ho chiesto perché non ne avevo la minima idea» precisò Jennifer. «Mi stupisce che lo sappia tu. Non l'hai incontrata in questi giorni per la prima volta?»
«Ieri, per la precisione» affermò Steve, «Ma mi è bastato per sapere che non ha idea di chi frequentasse Mark qui. Non sapeva nemmeno della nostra esistenza, se non per il fatto che Mark le aveva detto che sarebbe venuto a casa mia, giovedì sera. Certe tue insinuazioni sono quantomeno sgradevoli, per non usare parole peggiori.»
Jennifer lo rassicurò: «Non voglio insinuare niente. Anzi, non capisco di che cosa tu stia parlando. Vi ho chiamati qua per condividere i nostri ricordi di Mark.»
«Ovvero?»
«Ovvero per parlare di lui, per raccontarci quello che vogliamo che continui a vivere nei nostri ricordi.»
Non sembrava nemmeno un'idea terribile, ma Ellen non riuscì a mantenere molto la concentrazione. Gli aneddoti che raccontavano Jennifer, Jack e Danny - gli unici tre che parlavano con una certa frequenza - le sembravano del tutto inutili. La maggior parte risalivano a diversi anni prima, tracciando un ritratto di un Mark Forrester adolescente ben diverso dall'idea che Ellen si era fatta di lui negli ultimi mesi.
Nonostante l'atmosfera cupa che si respirava in quella casa e Kevin che, seduto accanto a lei, non spiccicava parola, tutto proseguì senza problemi fino alle 22.45, quando Jennifer informò che di lì a poco sua nonna e sua zia sarebbero rincasate.
Danny e Jack accettarono di rimanere con lei ancora qualche minuto, per non lasciarla da sola fino al rientro delle sue familiari, mentre Ellen, Steve e Kevin si congedarono e uscirono insieme da casa Robinson.
Non fecero commenti su quanto appena avvenuto, né parlarono di Mark. Solo, per la prima volta nel corso della serata, Kevin si rivolse a Ellen.
«Tu sei la nipote della signora Freeman, vero?»
«Sì, sono io. La conosci?»
«Non personalmente, ma so chi è.»
Non si dissero altro ed Ellen salì sulla macchina di Steve, che la riaccompagnò a casa. Non notò la busta bianca appoggiata infilata sotto al portone fintanto che, rientrando, accidentalmente non le diede un calcio, facendola scivolare al centro dell'atrio. Sulla busta, con un pennarello indelebile, c'era scritto "per Ellen". Richiuse il portone, poi la raccolse, chiedendosi quale fosse il contenuto e chi l'avesse messa lì. Stringendola tra le mani, si sedette sulle scale, chiedendosi se fosse il caso di aprirla. O meglio, dato che la busta non era sigillata, se fosse il caso di scoprirne il contenuto.

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Capitolo 5
*** Le Lettere di Mabel - 28 Ottobre ***


LE LETTERE DI MABEL

[28 ottobre]
Lydia, Meredith, Cindy e Janet sorridevano l'una accanto all'altra in un vecchio scatto di oltre vent'anni prima. Intorno a loro una cornice sobria e poco vistosa, che non distoglieva l'attenzione dal ritratto. Janet sapeva che la sua scelta di piazzare quella foto nel piccolo soggiorno, alla vista di tutti, poteva essere considerata in maniera negativa, ma non le importava. C'era chi gradiva fingere che il tragico autunno 2002 non fosse mai esistito, comportamento che rispettava nella maniera più assoluta, ma aveva deciso ormai da molto tempo di non condividere quell'approccio.
Vi stava riflettendo proprio nel momento in cui il campanello suonò. Erano arrivati i suoi amici, uno dei quali in passato era stato più di un amico. Janet non aveva idea di cosa sarebbe accaduto tra di loro, adesso che erano entrambi single e vivevano di nuovo a Goldtown, ma preferiva non pensarci. Aveva trascorso i lustri precedenti a fare programmi che erano mestamente falliti, era giunto il momento di cambiare rotta.
Andò ad aprire la porta.
Lydia fu la prima a entrare in casa. Era già capitato che si vedessero, occasionalmente, dopo il ritorno di Janet a Goldtown, prima che l'appartamento nel quale si era trasferita fosse pronto.
Dietro di lei, c'erano Steve e Kevin. Erano passati almeno dieci anni dall'ultima volta in cui Janet e quest'ultimo si erano incontrati. Non era cambiato molto, così come sperava di non essere cambiata nemmeno lei.
Li accolse con un sorriso.
«Prego, entrate pure.»
Li invitò a seguirli in soggiorno e li fece sedere intorno al tavolo. Lydia diede solo un'occhiata fugace alla fotografia. Steve la ignorò, mentre Kevin vi posò gli occhi decisamente troppo a lungo.
«Allora» chiese Janet, cercando di sviare l'attenzione, «Come state?»
«Tutto bene, come al solito, o quantomeno proviamo a tirare avanti» rispose Lydia. «Tu?»
«Io sto bene.»
«Ti trovi bene nella nuova casa?»
«Diciamo di sì.»
Kevin intervenne: «Lydia ci ha raccontato che ti sei separata dal tuo compagno e hai trovato un nuovo lavoro a Goldtown, per questo sei tornata.»
A Janet piaceva il suo modo di essere diretto, ma soprattutto le piaceva fare altrettanto.
«Anche tu e tua moglie avete divorziato, giusto?»
«Per ora io e Leanne siamo solo legalmente separati» rispose Kevin, «Ma è quasi come se fossimo già divorziati. Mancano solo le ultime formalità.»
«È da molto che stai di nuovo a Goldtown?»
«Anch'io sono tornato dopo la separazione.»
«Dove abiti?»
«Per ora in casa con mio fratello.»
«E non ti sei ancora trovato una sistemazione tua?»
«Probabilmente Leonard se ne andrà presto, quindi rimarrà quella, la sistemazione mia. Mi farò intestare il contratto d'affitto e resterò dove sono.»
«Tuo fratello se ne va da Goldtown?»
«Non credo che se ne vada da Goldtown, ma probabilmente andrà a convivere con la donna che frequenta.»
Kevin fu piuttosto vago, ma in quella circostanza Janet preferì evitare le domande. Non si trattava più della sua vita privata, quanto di quella di Leonard Morgan, un uomo di almeno quarantacinque anni che conosceva a malapena. Sapeva che in passato aveva avuto una relazione con Sophie Robinson, ma non le sembrava il caso di domandare a Kevin se la fantomatica fidanzata con la quale intendeva andare ad abitare fosse proprio lei, oppure se si trattasse di un'altra persona.
Decise quindi di rivolgersi a Steve e, per quanto non la facesse impazzire l'idea di parlare soltanto della vita sentimentale di tutti loro, gli chiese: «Tu, invece, sei single, sei fidanzato o cosa?»
«Single» rispose Steve.
«Lydia mi aveva detto che stavi con Phyllis Moore, mi pare» azzardò Janet. «Non sono sicura, però, di ricordare bene. Forse lavorava con te e io ho capito male?»
«Hai capito benissimo» replicò Steve. «Phyllis lavorava con me allo studio fotografico, ma se n'è andata due anni fa. Ha trovato un'altra occupazione, qualcosa che considerava il suo vero lavoro. Poco dopo ci siamo lasciati e, prima che tu me lo chieda, non ci siamo lasciati perché ha cambiato lavoro. Ha aspettato tanto quell'occasione e sono stato contento per lei. Solo, non eravamo più felici insieme, se mai lo eravamo stati.»
«Adesso, quindi, lavori da solo o hai assunto un'altra persona?»
«Ci lavoro io con lui» intervenne Kevin. «Gli faccio da aiutante, da segretario, da contabile... insomma, non ho un ruolo ben preciso. Quindi, come puoi intuire, come tutto ciò che non è ben definito, anche questo lavoro fa esattamente per me.»
Il suo sguardo, ormai, si era allontanato dalla fotografia. Janet valutò l'eventualità di chiedere informazioni a proposito dei loro amici di un tempo. Per quanto avesse continuato a frequentare Lydia, non si era mai tenuta veramente aggiornata sui loro coetanei rimasti a Goldtown.
Si girò verso l'amica, nel domandare, non solo a lei ma a tutti quanti: «Cosa ne è stato di Danny Silver?»
«Lavora ancora nello stesso supermercato, più o meno da vent'anni» rispose Lydia. «Solo, adesso non è più in magazzino, fa il cassiere.»
«Jack, invece?»
Stavolta fu Steve a rispondere.
«Anche lui non ha cambiato lavoro. Fa ancora il meccanico, nell'officina di suo padre. L'unica differenza è che suo padre è andato in pensione e che adesso è lui a gestire l'attività.»
«Sono entrambi sposati, giusto?»
Steve si limitò a rispondere: «Non più.»
Kevin aggiunse: «Danny e Lacey si sono lasciati diversi anni fa. Da allora, Danny è tornato ad abitare a casa di sua madre. C'è anche sua sorella, che penso sia single. Hanno una figlia, Danny e la sua ex moglie, che ormai frequenta già le scuole superiori.»
Per quanto riguardava Jack, fu Lydia, invece, a darle spiegazioni.
«Era sposato con Elizabeth White, non so se te la ricordi.»
«Sì, eccome.»
«Hanno anche avuto due figli, che dovrebbero avere sette o otto anni. Hanno poca differenza d'età l'uno dall'altro. Poi si sono lasciti e adesso Elizabeth sta insieme a Ray, quello che gestisce il bar insieme a Patricia.»
Janet aggrottò la fronte.
«Ray, Ray... non mi dice niente. Non frequento il bar di Patricia.»
«Il fratello maggiore di Phyllis» le riferì Steve. «Non so se ce l'hai presente, è un po' più vecchio di noi. Avrà sui quarantaquattro anni, forse quarantacinque.»
«Non ce l'ho presente.» A quel punto Janet si rese conto di non avere ancora menzionato una persona con la quale almeno Kevin aveva avuto un rapporto di amicizia. «Jennifer Robinson, invece? Che cosa ne è stato di lei?»
«È ancora pazza come una volta» rispose Steve, a bruciapelo.
Kevin, che era seduto accanto a lui, gli allungò una gomitata.
«Non dire cazzate!»
«Che sia piuttosto particolare non lo si può negare, mi pare.»
«Sì, ma non è pazza.»
«Non ci manca molto.»
«Non sei mai riuscito a capirla.»
«Non mi ci sono neanche mai impegnato troppo, se devo essere sincero» ammise Steve. «È sempre stata inquietante. Lo era da ragazzina e lo è tuttora.» Si girò a guardare Janet. «Comunque, se proprio lo vuoi sapere, la vediamo abbastanza spesso. Lavora letteralmente di fronte a noi.»
«Nel negozio di sua nonna?»
«Sua nonna è andata in pensione molto tempo fa, e comunque è morta da un paio d'anni. Sono rimaste Jennifer e sua zia Sophie. Oppure, a volte, c'è Roberta.»
«La famosa sorella segreta? Ne ho sentito parlre, anche se non ho mai avuto il piacere di conoscerla.»
«Anch'io la conosco poco, ma sembra una persona decisamente più normale di Jennifer» puntualizzò Steve. «Non le somiglia per niente. O per meglio dire, le somiglia tantissimo, ma non c'è il minimo pericolo di scambiarla per lei. Non so di cosa si occupi quando non è a Goldtown, perché sembra venire solo ogni tanto, quando manca Jennifer.»
«Jennifer è single?»
«Sì, e non sembra dimostrare alcun interesse né per l'altro sesso né per il proprio... il che, se mi è permesso dirlo, è un punto di forza per una come Jennifer. Chi se la prenderebbe una così? Quindi tanto meglio se non le piace nessuno.»
Kevin sbuffò.
«Dai, Steve, piantala! Ti comporti ancora come quando eravamo ragazzini, quando si tratta di Jennifer.»
Steve ridacchiò.
«Perché lei, per caso si comporta in modo diverso?»
Kevin sospirò.
«Lo ammetto, Jennifer è una persona particolare, ma da come la descrivi tu sembrerebbe una mezza matta.»
Janet valutò l'eventualità di cambiare argomento, per evitare che quel discorso si protraesse all'infinito. Cercò di farsi venire in mente qualche altra persona di cui chiedere informazioni e la memoria gliene suggerì una improbabile.
«Che fine ha fatto la Richards?»
Lasciò i suoi amici spaesati per un attimo.
«Richards?» ripeté Lydia. «Di chi parli?»
«Era una ragazza piuttosto appariscente che aveva qualche anno più di noi. Forse aveva l'età di...» Esitò un attimo, prima di pronunciarne il nome, ma si disse che non c'era niente di male. «L'età di Mark Forrester. Si chiamava Kim o qualcosa del genere, forse.»
«Kimberly» rispose Steve. «Non so che fine abbia fatto. Non si vede a Goldtown da una vita, o quantomeno se anche c'è o non l'ho mai incontrata oppure non la riconosco più. Anzi, mi stupisce che tu te ne ricordi ancora. Se non sbaglio, se n'era già andata vent'anni fa, quando...»
Non finì la frase. Era un'abitudine abbastanza diffusa, non pronunciare certe parole. Era chiarissimo cosa stesse sottintendendo: Kimberly Richards si era trasferita prima che fossero uccisi Mark e gli altri.
Forse era giunto il momento di smettere strizzare l'occhio al passato.
«Vi faccio vedere la casa» suggerì Janet, alzandosi in piedi. «Certo, non c'è molto da vedere, l'appartamento è piccolo, però mi piacciono un sacco almeno i miei nuovi mobili e ci tengo a farvi vedere tutto. Poi, magari, possiamo bere qualcosa.» Le venne un'idea ancora migliore. «Anzi, possiamo andare a bere qualcosa al bar di Patricia, così magari riesco a vedere quel Ray di cui mi avete parlato.»
Kevin obiettò: «Che io sappia, Ray lavora la mattina e il pomeriggio, a quest'ora di solito non c'è, però potrebbe essere il tuo giorno fortunato.»



Il telefono squillò all'improvviso. Non accadeva tanto spesso, ormai nessuno utilizzava più le linee fisse per le chiamate, nemmeno quelle dei locali pubblici.
Patricia si diresse verso l'apparecchio e alzò il ricevitore. Esitò un attimo e, immediatamente, una voce femminile le domandò: «Pat, sei tu?»
«Sì, sono io» rispose Patricia. «Chi parla?»
«Non mi riconosci?» replicò la sua interlocutrice. «O devo pensare che tu ti sia dimenticata di me?»
Aveva un tono saccente, tipico di chi vuole spingersi a controllare il pensiero altrui. A Patricia faceva venire in mente una sola persona.
«Kim?»
«Già, sono proprio io.»
«Cosa vuoi da me? Perché mi stai cercando?»
«E tu perché sei così fredda?» replicò Kimberly. «Una volta non eri così.»
«Sono cambiate tante cose, da una volta» precisò Patricia. «Inoltre in questo momento sto lavorando e sono sola. Mi sono appena entrati nel bar quattro clienti.» C'erano Steve, sua cugina Lydia, Kevin e una donna con i capelli tinti di rosso acceso che con un po' di fatica Patricia identificò come Janet Birthy. «Mi dispiace, Kim, ma devo andare, ho da fare.»
«Non fa niente, tanto presto ci rivedremo di persona.»
«Cosa vuoi dire?»
«Che sto per tornare a Goldtown.»
«Oh, che bella notizia» borbottò Patricia. «Perché ci tenevi a comunicarmelo in anteprima?»
«Perché mi sono detta "povera Patricia, si starà annoiando a morte a lavorare di venerdì sera mentre tutti badano ai fatti propri, sarebbe il caso di sentirla e cercare di incoraggiarla in vista del suo imminente fine settimana di lavoro".»
«La povera Patricia ama il proprio lavoro, non le pesa passare il sabato e la domenica a servire clienti.»
«La povera Patricia avrebbe bisogno di un po' di sesso.»
«La povera Patricia è felicemente fidanzata e non ha questo tipo di problemi.»
«Potrei fare di meglio.»
«Nel senso che scopi più di me? Buon per te.»
«No, nel senso che, se accettassi di incontrarmi in privato, ti dimostrerei che me la cavo meglio della tua nuova ragazza.»
«Nemmeno la conosci.»
«Ho i miei informatori. Mi hanno detto che ti vedono spesso insieme a una delle Robinson. Un tempo avevi buon gusto, adesso ti sei messa insieme a una di quelle svitate.»
«Levati dalle palle, Kim. Ti ricordi, vero, quanto tempo è passato da quando stavamo insieme?»
«Me lo ricordo benissimo, così come sono sicura che tu mi abbia lasciato perché a me piace anche il cazzo.»
«Pure a Roberta piace anche il cazzo, ma non sente il bisogno di averne uno infilato in bocca quando è fidanzata con chi non ne possiede uno. Ti devo ricordare del perché ci siamo lasciate?»
«L'hai detto tu stessa, è passato tanto tempo. Hai ragione, non avrei dovuto tradirti, ma sono cambiata. Torna insieme a me e te lo dimostrerò.»
«Tu sei fuori di testa, altro che le Robinson! E adesso scusami, ma devo andare, ho da fare. C'è gente che aspetta.»
Senza aspettare una replica da parte di Kimberly, Patricia sbatté giù il ricevitore, dopodiché lo spostò dalla propria sede, affinché la sua ex fidanzata trovasse occupato, se avesse provato a ricontattarla nell'immediato.
"Tutto questo non ha senso" si disse, sperando che Kimberly avesse mentito, quando le aveva confidato di essere sul punto di tornare a Goldtown.

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Capitolo 6
*** Le Lettere di Mabel - 29 Ottobre ***


[29 ottobre]
La sera precedente sembrava ormai un ricordo lontano, così come la telefonata di Kimberly, quando Patricia entrò nel bar in tarda mattinata. Ray le lanciò una strana occhiata, un po' come a chiederle che cosa ci facesse lì a quell'ora. Forse era arrivata un po' in anticipo, ma almeno avrebbe potuto prendersela comoda.
«Vado a cambiarmi» disse a Ray, che cercava di fermarla.
«Aspetta un attimo» la pregò il collega. «Volevo solo sapere come sta la tua compagna.»
«Roberta sta benissimo, ma finché non fa un tampone negativo non può lasciare la casa di sua madre e venire a Goldtown.»
«Sua madre e sua sorella stanno bene?»
«Anche loro, però anche Jennifer è nelle stesse condizioni. E poi, stando a quanto mi ha detto Roberta, non è detto che Jennifer torni a Goldtown a breve.»
«Sbaglio o ultimamente Jennifer passa sempre meno tempo qui a Goldtown?»
Patricia alzò le spalle, con indifferenza. Non le importava molto di quello che faceva Jennifer, soprattutto alla luce del fatto che non sembrava avere un grande rapporto con Roberta - o quantomeno, non si frequentavano, Patricia non ricordava nemmeno di averle mai viste insieme - e, di conseguenza, non aveva la benché minima influenza sulla sua vita.
«Speriamo torni presto» si limitò ad affermare Ray, per poi specificare subito dopo: «Parlo di Roberta, ovviamente.»
Patricia sorrise.
«Già, speriamo che torni presto.»
Si allontanò, per andare nel privé a cambiarsi, e quando tornò in sala trovò Ray che parlava con una cliente appena entrata. A quanto sembrava, la nuova arrivata aveva ordinato un tè caldo, ma non sembrava fosse una sua priorità che le venisse preparato nell'immediato, da come parlava con foga.
Patricia si avvicinò, cercando di captare qualche frammento del loro discorso, che possibilmente non avesse a che fare con il tè. Non fu necessario, tuttavia, ascoltare di nascosto. Ray, infatti, le fece un cenno e la pregò: «Vieni qua, Pat.»
Patricia si fece più vicina.
«Hai bisogno?»
«Non proprio. La signora è una giornalista, sta facendo una ricerca sui delitti di Goldtown.»
Venivano definiti così, semplicemente "delitti di Goldtown". Non erano mai accaduti altri gravi fatti di cronaca in paese, né prima né dopo.
«E io cosa posso farci?»
«Ho pensato che magari ricordi qualche dettaglio in più, rispetto a me.»
«Oh.»
La giornalista - una donna elegante sui quarant'anni o poco più, slanciata, con i capelli tinti di biondo tagliati a caschetto - mise in chiaro: «Non voglio disturbare nessuno, ovviamente. Anzi, le chiedo scusa se le sembro invadente.»
«Si figuri.»
«Lasci che mi presenti, mi chiamo Janice Petterson e lavoro per...»
A Patricia non importava molto della testata per la quale lavorasse, quindi si affrettò a presentarsi a sua volta: «Io sono Patricia, la titolare del bar. Il mio collega, invece, si chiama Ray.»
Janice Petterson abbozzò un sorriso.
«Scusate ancora. Vivo da qualche mese a Goldtown, quindi attualmente devo occuparmi di...»
Patricia la interruppe: «Sì, abbiamo capito di cosa deve occuparsi, e del resto come sorprendersene? Mi stupisce piuttosto che lo stia facendo proprio adesso. Immagino che il progetto al quale sta lavorando debba vedere la luce in occasione del ventennale, ormai dovrebbe essere troppo tardi.»
La giornalista la ignorò.
«Sto scambiando qualche parola con persone che abitavano qui ai tempi dei fatti e ho pensato che anche voi poteste essermi utili. O quantomeno, il suo collega Ray sembrava ben disposto a parlarne.»
Patricia puntualizzò: «Per me non c'è problema. Non ci sono divieti al discutere di omicidi nel mio bar. Quello che non capisco è che cosa c'entri io.»
«Te l'ho detto» ribadì Ray. «Magari ricordi qualcosa che a me è sfuggito.»
Patricia si irrigidì.
«Non penso.»
«Puoi sempre limitarti ad ascoltare» ribatté Ray. «Se dico qualcosa di inesatto, magari te ne accorgi.»
Janice Petterson sembrava ben poco interessata alle loro chiacchiere.
«Sembra che tutti concordino, ormai, che l'inizio di tutto fu l'omicidio di Linda Miller, delitto che passò un po' in sordina.»
«Non penso sia corretto dire che l'omicidio di quella ragazzina passò in sordina» obiettò Ray. «Diciamo piuttosto che fu un caso isolato, almeno quello. Nessuno credeva che sarebbero morte altre persone. Semplicemente la gente non aspettava altro che saltasse fuori un colpevole, possibilmente che venisse fuori da Goldtown.»
«C'erano sospettati?»
«No.»
«Mi sembra di avere sentito accennare a un fidanzato...»
«Il fidanzato di Linda Miller era un ragazzino come lei» tagliò corto Ray. «Era una storia tra ragazzini, niente di che. Mentre Linda veniva assassinata, il suo cosiddetto fidanzato se ne stava a casa a guardare la TV, davanti alla madre e a due amiche di quest'ultima. Non trova malsano il volere per forza scaricare sempre le responsabilità sui partner delle vittime?»
Janice Petterson gli ricordò: «In molti casi l'assassino è il fidanzato o la fidanzata, o il coniuge.»
«E in molti altri casi non lo è. Nessuno ha mai avuto sospetti nei confronti del ragazzo di Linda, che peraltro non la vedeva da almeno un paio di giorni né l'aveva sentita. In più, dubito che avesse ragioni per ucciderla. Erano ragazzini, non certo depravati.»
«Li conosceva?»
«No. In seguito ho conosciuto l'ex ragazzo di Linda, ma non abbiamo molta confidenza.»
Janice Petterson annuì.
«Capisco. Dopo, invece, cosa successe? Voglio dire, nei mesi immediatamente successivi alla morte di Linda.»
«La gente si mise il cuore in pace, in un certo senso» intervenne Patricia. «Era stato un evento tragico e scioccante, ma pur sempre un episodio isolato. Ai tempi, quando accadeva qualcosa di grave a dei ragazzini, si dava la colpa alle chat. Linda avrà chattato con qualcuno, si diceva, che le avrà dato appuntamento spacciandosi per un suo coetaneo e l'avrà uccisa. Non c'era nulla che confermasse questa teoria, ma era quella che andava per la maggiore.»
Janice proseguì: «Poi, qualche mese dopo, morì Mark Forrester.»
«Già» confermò Ray. «Fu ucciso una notte di novembre, dopo avere incontrato dei suoi amici - uno dei quali era l'ex ragazzo di Linda - che al momento del delitto se n'erano già andati tutti a casa da un pezzo. Nessuno aveva idea di dove fosse. Doveva incontrarsi con una presunta fidanzata, la quale però pare non averlo mai incontrato.»
Janice Petterson continuava ad annuire. Patricia ebbe l'impressione che fosse arrivata alla parte della storia che preferiva, o forse quella sulla quale era maggiormente informata.
La informò, quindi: «La fidanzata di Mark lo stava aspettando qui al bar. La accompagnai personalmente a casa quando Mark non si presentò all'appuntamento. E, prima che me lo chieda, no, Mark non era ancora morto, al momento. Dove sia stato e chi abbia visto rimane un mistero.»
«So che i sospetti si concentrarono su un ragazzo che aveva all'incirca la sua età.»
«È esatto» disse Ray. «Si chiamava Will Mason. Pare che avesse litigato piuttosto pesantemente con Mark il pomeriggio prima del delitto. Le indagini si focalizzarono su di lui, ma senza trovare niente.»
«Si sa cosa fosse successo esattamente tra Forrester e Mason?»
«Facendo manovra per entrare in un parcheggio, Forrester aveva urtato la macchina di Mason, che si era messo a inveire contro di lui. Mark aveva reagito male. Nulla che giustificasse un omicidio, ovviamente. Mason aveva avuto la sfortuna di ritrovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato... e gli fu fatale.»
«Fu ucciso lui stesso, pochi giorni dopo.»
Ray precisò: «Con le stesse modalità.»
Patricia aggiunse: «Pare che, per cercare di allontanare i sospetti da sé, stesse cercando di scoprire cosa fosse accaduto davvero, facendo anche domande troppo invadenti in giro. È molto probabile che l'assassino, sentendosi in pericolo, abbia pensato di fare piazza pulita.»
«Qualcuno ipotizzò» continuò Ray, «Che ci fosse anche un'altra possibilità, ovvero che Forrester e Mason fossero entrambi invischiati in qualche affare poco chiaro - e che di conseguenza il vero motivo del loro litigio non sia stato l'incidente nel parcheggio - e che qualcuno con cui entrambi avevano avuto a che fare avesse deciso di eliminare tutti e due, ma rimase solo un'ipotesi. È pure vero che quei due si conoscevano - erano stati compagni di scuola qualche anno prima - ma Mark non abitava più a Goldtown e non sembra avesse avuto contatti con persone del posto, eccetto i familiari e gli amici più stretti, negli ultimi tempi prima del suo ritorno. Quello che era certo, comunque, era che Mason non poteva essere il colpevole e che, di conseguenza, il vero assassino era ancora in giro.»
«Quindi, se non ho capito male, in un primo momento l'omicidio di Will Mason venne ritenuto collegato a quello di Mark Forrester, ma non si ipotizzarono legami con il delitto della Miller.»
«Proprio così. Sembravano due faccende totalmente slegate.»
«Quando si iniziò a pensare che, invece, tutti e tre i delitti fossero opera della stessa persona?»
«Indicativamente, quando non furono trovati collegamenti tra Forrester e Mason e venne ipotizzato, di conseguenza, che Mason fosse stato ucciso proprio perché stava cercando di scoprire chi avesse ucciso Forrester.»
«Dunque, Will Mason non sarebbe stato probabilmente ucciso se non fosse mai stato visto litigare con Mark e, dopo che quest'ultimo era stato ucciso, non si fosse messo a fare ricerche per allontanare da sé i sospetti che gli erano caduti addosso.»
«Sembra sia andata così.»
«E Forrester e la Miller? Che legame c'era tra di loro?»
Ray si girò a guardare Patricia, un po' come se stavolta cercasse la risposta da lei.
Non c'erano risposte.
Patricia riferì: «Si iniziò a sospettare che i casi di Linda e Mark avessero a che fare l'uno con l'altro quando avvenne un altro delitto. Era una ragazza poco più grande di Linda, che pare conoscesse sia Linda sia Mark. Stesse modalità dell'uccisione di Mark e di Will, ma stavolta non di notte. Era tardo pomeriggio, stava scendendo la sera.»
«La nuova vittima, secondo quanto riportato dai giornali dell'epoca» affermò Janice Petterson, «Era stata vista in un luogo isolato litigare con quella che fu descritta come "una donna minuta che portava un cappuccio sulla testa da cui uscivano alcune ciocche di capelli, forse neri".»
«Descrizione che fu messa in dubbio più di una volta nel corso delle indagini.»
«Si ipotizzò che la testimone che le aveva viste litigare mentisse?»
«No, semplicemente quella testimone, mentre stava leggendo un libro, udì delle urla provenire dall'esterno e si affacciò alla finestra. Descrisse ciò che aveva visto e sentito: due donne che si insultavano e una delle due, descritta come minuta e incappucciata, che buttava a terra l'altra con uno spintone, per poi andarsene. Tuttavia non c'era più molta luce e la testimone, per sua stessa ammissione, aveva messo giù il libro e si era affaccita alla finestra, così com'era: con indosso i suoi occhiali da presbite, che le servivano per leggere, ma che le offuscavano la vista se portati per guardare da lontano.»
La giornalista azzardò: «Non le venne in mente, quindi, di togliersi gli occhiali e di guardare meglio?»
Ray rispose, con fermezza: «No. Per quanto la riguardava, la scena a cui aveva appena assistito era qualcosa di insignificante. Rientrò in casa e tornò a leggere. D'altronde quella ragazza non fu uccisa lì e non fu mai appurato che la presunta "donna incappucciata" fosse coinvolta nella sua morte. Anzi, la coltellata con cui fu uccisa la quarta vittima difficilmente avrebbe potuto essere sferrata da una persona descritta come minuta.»
«Questa donna minuta, tuttavia, non saltò mai fuori» aggiunse Patricia. «Anche se, dopotutto, non significa molto. Se davvero nessuno l'aveva vista litigare con la vittima, o quantomeno nessuno che potesse riconoscerla, avrà pensato che fosse molto meglio, per lei, rimanere nascosta. Avrebbe rischiato di essere sospettata, se non di essere l'autrice materiale del delitto, di esserne complice.»
«Oppure» azzardò Janice Petterson, «Anche qualcosa di peggio. Meglio starne fuori. Specie alla luce del fatto che, visto che l'ultima vittima aveva appena diciassette anni, è molto probabile che anche la presunta donna incappucciata fosse una ragazzina. È plausibile che fosse terrorizzata. Non ci sono mai stati sospetti sulla sua identità?»
«No» rispose Patricia. «Non c'erano motivi per cui la ragazza che fu ammazzata dovesse trovarsi prima davanti alla casa della signora presbite e poi sul luogo del delitto, quindi, con tutta probabilità, nessuno pensava minimamente che anche l'altra ragazza potesse essere da quelle parti. Dopotutto, ci pensi, è molto semplice. Non le è mai capitato, da adolescente, di uscire approfittando del fatto che i suoi genitori fossero al lavoro, facendo poi credere loro di essere rimasta tutto il pomeriggio a casa a studiare?»
«Questo cosa starebbe a significare?»
«Sta a significare che nessuno si aspetta che una ragazzina se ne vada in giro al buio nelle campagne che costeggiano Goldtown mentre con tutta probabilità c'è un pluriomicida che se ne va in giro così come se niente fosse. Di sicuro la tizia con il cappuccio non disse a nessuno dov'era stata e a nessuno venne mai in mente di chiederle se fosse lei la persona che se ne stava in aperta campagna a litigare con Cindy Spencer, aggredendola davanti a casa della signora presbite. È molto probabile che, se qualcuno le ha mai chiesto come avesse passato quel pomeriggio, abbia risposto di essere stata a casa a studiare, o a guardare la TV, o a leggere.»
«Già.» Janice Petterson guardò l'orologio. «Scusate, si sta facendo tardi. Vi lascio al vostro lavoro.»
Ray azzardò: «E il suo tè?»
Janice fece una mezza risata.
«Ha ragione, mi sono completamente scordata del tè. Adesso, però, si sta davvero facendo tardi. Devo andare, ma tornerò con piacere nei prossimi giorni.»
Ray le sorrise.
«Mi raccomando, la aspetto.»
Janice Petterson annuì.
«A domani, Ray.»
«A domani, signora.»
Patricia la guardò allontanarsi e attese che fosse andata fuori, prima di chiedere a Ray: «Cosa ne pensi di questa tizia?»
«Non penso niente» rispose Ray, impassibile. «Peccato che non abbia consumato niente e che, di fatto, non sia diventata una nostra effettiva cliente.»
Patricia non pensava affatto alla mancanza di consumazione, in quel momento.
«Non ti sembra strano?»
«No.»
«Si è messa a fare domande su...»
Ray non la lasciò finire: «Si è messa a fare domande scomode, è vero, ma si tratta del suo lavoro, o almeno così ci ha detto. Personalmente non mi metterei problemi perché una giornalista è venuta a farci delle domande a proposito di gente ammazzata vent'anni fa. Mi metterei molti più problemi se venisse ucciso qualcuno anche al giorno d'oggi.»

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Capitolo 7
*** Le Lettere di Mabel - 30 Ottobre ***


[30 ottobre]
Quando Ellen entrò in cucina, Janice era seduta al tavolo e sfogliava un giornale. Non si accorse di lei, fintanto che non la informò: «Ho già messo a posto le mie cose.»
Janice fece un cenno di assenso, senza staccare gli occhi dal quotidiano. Solo quando Ellen si sedette di fronte a lei, lo chiuse, lo piegò a metà e lo lanciò in direzione di una poltroncina situata contro la parete.
Il giornale urtò la poltrona e cadde a terra. Janice sbuffò, ma non si chinò a sistemarlo. Domandò, piuttosto, a Ellen: «Ci sono delle novità?»
Ellen scosse la testa.
«Nessuna. Tu, invece, hai qualcosa da raccontarmi?»
«Ieri sono andata a fare un giro al bar» la informò Janice. «Ho parlato con un uomo e una donna, credo che lei sia la titolare.»
«Patricia May Lynch?»
«Sì, mi pare si chiami Patricia. Il suo collega, invece, dovrebbe chiamarsi Ray.» «Non ce l'ho presente. Quando abitavo qui, il bar era del padre di Patricia e ci lavoravano insieme. Adesso il signor Lynch dovrebbe essere sulla settantina come minimo. Avrà ceduto l'attività a Patricia e sarà andato in pensione.»
«O magari sarà morto. Non ammazzato, altrimenti lo sapremmo.»
Ellen le scoccò un'occhiata di fuoco.
«Potresti almeno evitare il black humour?»
«Scusa, hai ragione» ammise Janice, «Non è molto elegante, specie considerato che ci hai perso un tuo ex ragazzo, qui a Goldtown.»
«Non è questione solo di Mark, la gente ha iniziato a morire così in fretta. Prima quel Will Mason, poi quella ragazza, Cindy...»
«Ne ho parlato con i due del bar. Mi sono fatta raccontare la loro versione dei fatti, come mi avevi suggerito tu.»
«E cosa ne è venuto fuori?»
«Niente.»
«Lo sospettavo.»
«Voglio dire, nessuna indiscrezione, nessuna idea su cosa sia davvero accaduto. Ci sono misteri che non vengono risolti per omertà o per menefreghismo. Qui, invece, sembra proprio che la gente non abbia la più pallida idea di cosa sia successo.»
«Sono passati vent'anni dal 2002, ma le cose non sono cambiate» realizzò Ellen. «Nessun indizio, nessun sospetto, solo gente che spera che chi ha colpito vent'anni fa ormai non abbia più intenzione di tornare a Goldtown.»
«Sempre ammesso che l'assassino non sia ancora a Goldtown.»
«O che ci abbia mai vissuto almeno ai tempi.»
«Dici che veniva qui solo per uccidere?»
«Dico che non è detto che abitasse qui in paese.»
«A proposito di gente che abitava qui in paese, ho parlato anche con Roger Callahan, l'altro giorno. È venuto qui, non so per quale motivo.»
Roger Callahan era il padrone di casa. Ellen non aveva ancora avuto l'occasione di incontrarlo.
«Gli hai chiesto il suo pensiero sui delitti di Goldtown?»
«Sì, ma non ha saputo darmi nemmeno una sua opinione. Non abitava a Goldtown quando quella gente fu uccisa, ma in un'altra cittadina qui nei dintorni. Non ricordo esattamente dove, anche se sono sicura che me l'abbia detto. Comunque si è trasferito a Goldtown mi pare tredici anni fa e ha posseduto per alcuni anni uno studio fotografico, quando abitava qua. È già da tempo che ha venduto l'attività a un tizio che si chiama Blackstone, uno molto più giovane di lui, che avrà più o meno la tua età.»
Ellen spalancò gli occhi.
«Steve?»
«Non so come si chiami questo Blackstone di nome. Lo conosci?»
«È un altro mio ex ragazzo.» Prima che Janice facesse battute squallide, Ellen precisò: «È un mio ex che non hanno ammazzato.»
Janice non ebbe il coraggio di replicare. Rimasero entrambe in silenzio per qualche istante, infine la sua coinquilina cercò di cambiare discorso.
«Così hai detto a Judith?»
«In che senso?»
«Che scusa hai usato con tua figlia? Come le hai spiegato che dovevi venire a Goldtown e rimanerci?»
«Le ho detto la verità, che sono venuta per motivi di lavoro, che lei nel frattempo starà a casa con il padre e che cercherò di andare a trovarla il più spesso possibile» chiarì Ellen. «Non le ho specificato per filo e per segno cosa deve fare, né glielo racconterà Brian, ma se mi stai chiedendo se sa dei delitti, allora sì, Judith sa dei delitti, anche se non tutto nel dettaglio. Per esempio, non sa che uno dei morti era il mio ragazzo.»
«Le hai raccontato tu degli omicidi?»
«Cos'altro potevo fare? Mia figlia ha quattordici anni. Guarda la TV, usa internet, prima o poi l'avrebbe scoperto da sola.»
«Hai ragione, non ci avevo pensato» fu costretta ad ammettere Janice. «Al giorno d'oggi è letteralmente impossibile tenere i ragazzini sotto una cappa di vetro. Meno male che non ho mai avuto figli, altrimenti non saprei come gestirli.»
«Il tuo ex, Dylan, invece, un figlio l'ha avuto, giusto?»
«Una figlia, perché?»
«Mi avevi detto che aveva sposato una ragazza di Goldtown, o sbaglio?»
«Sì, si è sposato circa dodici anni fa con una certa Lydia. Hanno avuto un figlio un paio d'anni prima dell'incidente.»
«Lydia? Che sia la cugina di Steve?»
Janice ridacchiò.
«Certo che il mondo è proprio piccolo.»
«Non sono sicura che sia quella Lydia.»
«Quella Lydia aveva un'amica che si chiamava Meredith Taylor, che tu sappia?»
«Sì.»
«Allora è lei. Meredith è la donna che era in macchina con Dylan, quando successe quello che sai.»
«Morì anche lei, vero?»
«Sì, sul colpo, proprio come Dylan. Da quanto ne so, Meredith lavorava vicino a casa di Dylan e si era offerto di accompagnarla al lavoro.»
«Me la ricordo, vagamente. Penso avesse un anno o due meno di me, andava ancora alle superiori quando abitavo a Goldtown. Non le ho mai parlato, ma so che era una cara amica di Lydia... e non solo amica sua. Si frequentavano anche con la Spencer, quella che fu uccisa.»
«Insomma, tutti a Goldtown hanno conosciuto almeno una delle persone che sono state uccise, se non di più.»
«Triste a dirsi, ma è più o meno così.»
«Ammiro il tuo coraggio.»
«Cosa vuoi dire?»
«In pochi avrebbero cercato di tornare. Avresti potuto mandare Brian, sbaglio o avevano proposto a lui questo ruolo?»
«Brian non è mai vissuto a Goldtown» puntualizzò Ellen. «Io c'ero dentro fino al collo, in quei giorni bui. Ero stata con Mark, dovevo vederlo la sera stessa in cui l'hanno ammazzato, ho iniziato a ricevere quelle lettere...»
«Lettere?»
Ellen realizzò solo in quel momento di non averle nemmeno accennato all'argomento.
«Sì, lettere da parte di una persona che sosteneva di tenerci a me e di volermi rassicurare. Si firmava Mabel.»
«Non ne ho mai sentito parlare. Sembra che gli inquirenti non si siano mai lasciati sfuggire questo dettaglio con la stampa.»
«Non ho detto a nessuno delle lettere.»
«Hai ricevuto delle lettere anonime dopo l'omicidio del tuo ragazzo e hai fatto finta di nulla?»
«Non erano anonime» chiarì Ellen. «La persona che mi scriveva si firmava Mabel. Solo, non ho mai conosciuto nessuna che portasse quel nome. E il testo delle lettere non era assolutamente da denuncia. Sembrava che a scrivermi fosse una persona che ci teneva a me, che mi voleva bene.»
«Eppure non si è mai fatta viva» osservò Janice. «È strano, non trovi?»
«Sì, forse sì.»
«Quante lettere erano in totale?»
«Sei.»
«E poi ha smesso?»
«Esatto, poi ha smesso.»
«Strano. Prima ti scrive, poi sparisce nel nulla. Possibile che si trattasse di uno scherzo e che la persona che ti mandava le lettere abbia pensato fosse meglio non scriverti più per evitare di finire erroneamente invischiata nella storia degli omicidi?»
«Non saprei. Perché qualcuno avrebbe dovuto farmi uno scherzo? La prima lettera è arrivata quando ancora non conoscevo quasi nessuno. Dopo mi sono attirata delle antipatie, questo sì, ma a quei tempi non ancora.»
«Antipatie legate a cosa?»
Ellen abbassò lo sguardo.
«Ti dirò le cose come stanno. La morte di Mark, in quel modo poi, fu un grosso trauma, per me. Tuttavia quel ragazzo non era certo il grande amore della mia vita. Ci stavo insieme perché era abbastanza attraente ed era bravo a letto, o almeno così mi sembrava dato che prima di lui non avevo mai fatto sesso con altri. Avevo solo diciannove anni, non cercavo nulla di più, ai tempi.»
«E poi?»
«Poi ho conosciuto uno dei suoi amici. Mi ha colpita fin da subito. Sapevo che molta gente non avrebbe capito, se mi ci fossi messa insieme, ma al cuore non si comanda... e alla vagina nemmeno.»
«Quindi, se ho ben capito, hai conosciuto questo Steve e all'improvviso ti sei accorta che il grande amore della tua vita ce l'avevi davanti.»
«Più o meno, anche se al giorno d'oggi lo definirei un amore adolescenziale. Come puoi immaginare, quando mi sono messa insieme a lui, così poco tempo dopo il delitto, la gente ha iniziato a parlare male di me.»
«Com'è finita tra voi?»
«Le cose non sono andate bene, alla fine. Mi sono anche presa una sbandata per un altro, ma non c'entra niente con i delitti di Goldtown. A quei tempi l'assassino aveva già smesso di colpire da un bel po'. Torniamo a Mabel, perché c'è dell'altro.»
«Ovvero?»
«Ovvero questa Mabel mi ha contattata qualche tempo fa su Forever Net.»
«Ha un profilo su Forever Net? Quindi esiste davvero?»
«Sarà un profilo creato con un'identità falsa, sicuramente in qualche posto dove c'è la rete libera. Mabel non voleva farsi trovare vent'anni e fa e non vuole farsi trovare nemmeno adesso. Mi ha mandato dei messaggi, però. È riuscita a trovarmi, nonostante, entrando raramente nel profilo, io non abbia mai modificato il mio nome neanche dopo il divorzio. Mabel mi conosceva come Ellen Jefferson, ma mi ha trovata anche sotto il nome di Ellen Hicks.»
«Cosa c'era scritto in quei messaggi?»
«Diceva che dovevo tornare a Goldtown e scoprire cosa fosse successo a Mark e a tutti gli altri.»
«È per questo che ti sei fatta affidare l'incarico che il vostro capo aveva proposito a Brian?»
«Diciamo di sì.»
«Secondo me è stata una pazzia» replicò Janice, secca. «Dovresti rivolgerti alla polizia postale, cercare di scoprire chi ti ha contattata su Forever Net...»
«No, non posso» obiettò Ellen. «Rischierei di far finire nei casini una persona che, con tutta probabilità, sta solo chiedendo il mio aiuto. Inoltre la stessa Mabel potrebbe aiutare me.»
Janice sospirò.
«Come vuoi. Chi sono io per cercare di portarti sulla retta via?»
«Hai già fatto abbastanza proponendomi di venire qui.»
«Mi faceva comodo qualcuno con cui dividermi le spese.»
«E a me fa comodo una coinquilina che possa fare qualche domanda in giro per conto mio senza destare sospetti. Come puoi immaginare, non posso mettermi a rievocare i delitti di Goldtown con gente che pensa che tutto ciò che dovrei fare è scappare a gambe levate il più lontano possibile da qui e cercare di dimenticare.»
«C'è qualcosa che puoi fare in prima persona?»
Ellen rifletté qualche istante. Poteva parlarle apertamente della pista che aveva seguito lontano da Goldtown?
Decise di accennare qualcosa, ma di non spingersi troppo oltre.
«Ho scoperto che molti anni fa, ben prima del 2002, qualcuno aveva tentato di ammazzare la madre di una delle vittime.»
Janice strabuzzò gli occhi.
«Qui a Goldtown?»
«No, non abitava a Goldtown, ai tempi. Tutt'altro contesto e tutt'altra situazione, ma mi viene il dubbio che non sia ancora stato ben identificato il punto di partenza. Così come quando Mark venne ucciso e nessuno pensava ci fosse collegamento con la morte di Linda Miller, nessuno ha mai ipotizzato che nemmeno la morte di Linda Miller fosse davvero l'inizio. Io parto da qui.»

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Capitolo 8
*** Le Lettere di Mabel - 31 Ottobre (giorno) ***


[31 ottobre]
Steve guardò l'orologio. Erano le dieci e un quarto. Quella mattinata era estremamente tranquilla. Stava valutando la possibilità di uscire dal negozio e andare a fumare una sigaretta sul marciapiede, quando all'improvviso la voce di Kevin lo fece sussultare.
«Ehi, Steve, puoi venire?»
Era un tono assolutamente concitato, che non lasciava presagire nulla di buono.
Steve si diresse verso l'ufficio sul retro, chiedendosi cosa potesse essere accaduto di tanto preoccupante.
Kevin teneva gli occhi fissi sul computer, quindi Steve ipotizzò che si trattasse di qualche genere di inconveniente tecnico.
«Se c'è qualche programma che non va, prova a riavviare.»
Kevin alzò lo sguardo.
«Come?»
«Se c'è qualcosa che non va, non c'è bisogno di allarmarsi. Non...»
Kevin lo interruppe: «Va tutto benissimo, è solo che abbiamo appena ricevuto uno strano messaggio su Forever Net.»
Steve sbuffò.
«Mi darai del vecchio, ma credo che i social abbiano fatto più danni che altro.»
Kevin ignorò il suo commento.
«Vieni a vedere.»
Steve azzardò: «Insulti? Gente che ci scrive per farci sapere che lavoriamo male, quando magari quando è venuta da noi ci ha fatto i complimenti?»
«Si chiama Mabel» si limitò a dire Kevin.
«La nostra detrattrice? Non mi sembra il caso di preoccuparsi. Dopo ci do un'occhiata, prima però vado un attimo a fumare. Credo di averne bisogno, prima di dedicare tempo a gente che non sa cosa fare.»
«Vieni qui a leggere questo cazzo di messaggio.»
Il tono secco di Kevin convinse Steve ad avvicinarsi al computer. Gli fu necessario leggere il messaggio della fantomatica Mabel due volte, prima di riuscire a spiccicare parola.
«Ma... è uno scherzo?»
«Non so se sia uno scherzo, ma io non scherzerei su certe cose» obiettò Kevin. «Ho provato a guardare il profilo di questa Mabel, non c'è nulla. Probabilmente l'ha aperto solo per scrivere messaggi di questo tipo.»
Steve lesse, ad alta voce: «"Caro Steve, stanotte sarà l'anniversario dell'omicidio di Mark Forrester. So che cerchi di dimenticare, ma sei sicuro che chi l'ha ucciso si sia dimenticato di te? Fai attenzione." Che cosa dovrebbe significare? E perché sul profilo dello studio?»
«Forse non ti ha contattato sul tuo profilo personale perché non lo aggiorni tanto spesso» azzardò Kevin. «Chiunque sia, voleva essere sicura che tu lo leggessi.»
«Può darsi, ma comunque non ne capisco il senso. Chi l'ha ucciso si ricorda di me? Perché dovrebbe? Chissà che fine ha fatto, ormai, l'assassino di Mark. Dopo il novembre del 2002 non è più successo niente a Goldtown, né nelle immediate vicinanze. Se fossi stato nella sua lista, probabilmente sarei morto da quasi vent'anni.»
«Cosa faccio?»
«In che senso?»
«La blocco? Oppure vuoi fare denuncia?»
«Ma quale denuncia. Sarà una megalomane. O un megalomane, non siamo sicuri che sia una donna. Bloccala. Anzi, no, fai finta di non avere mai visto il messaggio.»
Kevin annuì.
«Va bene, farò come dici.»
«Se ne manda altri, fammi sapere.»
«Tu, però, stammi a sentire, se dovesse esserci un prossimo messaggio.»
Steve accennò un mezzo sorriso.
«Hai ragione, mi dispiace se ti ho dato l'impressione di non prenderti sul serio. Pensavo fosse capitata qualche cavolata. Non che questa non lo sia, ma hai fatto bene a farmi vedere il messaggio. Adesso, però, vado a fumare. Ne ho ancora più bisogno di prima.»
Tornò nell'ambiente nel quale accoglieva i clienti e andò verso l'attaccapanni. Stava cercando nella tasca della giacca le sigarette e l'accendino quando la porta si aprì. Era entrata una cliente, o quantomeno una potenziale cliente.
Portava un soprabito beige, aveva jeans attillati con stampe floreali e indossava un paio di scarponcini con il tacco. Aveva lunghi capelli castani, ma distinguere i lineamenti del suo volto non era molto facile. Era in parte coperto da una mascherina chirurgica e gli occhiali da vista si erano appannati.
«Buongiorno signora» la salutò Steve. «In cosa posso esserle utile.»
La presunta cliente rise.
«Steve, da quanto tempo!»
La sua voce gli era familiare, anche se vederla comparire nello studio, per giunta proprio quel giorno, aveva in sé qualcosa di assurdo.
La vide sfilarsi la mascherina e allora non ebbe più dubbi.
«Ellen?»
«Temevo non ti ricordassi più di me. Ci sono rimasta male quando non mi hai riconosciuta.»
«Non eri molto riconoscibile. Comunque, a cosa devo l'onore di averti qui nel mio negozio?»
Ellen prese fuori da una tasca una chiavetta USB.
«Avrei delle fotografie da sviluppare. Le ho messe tutte qui. Non c'è altro, a parte le foto da stampare.»
Steve prese in mano il supporto che Ellen gli porgeva e lo appoggiò accanto al telefono.
«Che formato?»
Ellen non gli rispose, gli domandò piuttosto: «Come stai?»
«Bene, e tu?»
«Bene anch'io.»
«Cosa ci fai a Goldtown?»
«Per il momento mi sono trasferita qui.»
«Per il momento? Nel senso che te ne andrai?»
«Non lo so. Avevo bisogno di un posto dove stare e una mia collega che abita a Goldtown mi ha proposto di diventare la sua coinquilina.»
«È da molto che sei qui?»
«No, sono arrivata ieri.»
«E ti sei già ritrovata nel mio negozio per puro caso?»
Ellen sbuffò.
«Non posso far sviluppare delle foto? Che problema hai esattamente?»
«No, nessun problema» la rassicurò Steve. «Solo, sono un po' spiazzato. Non mi aspettavo di trovarti qui. Anzi, non mi aspettavo proprio di rivederti. Sei sparita totalmente, da quando hai lasciato Goldtown molti anni fa.»
Ellen alzò le spalle.
«Avevo le mie buone ragioni per andarmene. Non sopportavo l'idea di rimanere qui. Adesso, però, le cose sono cambiate. Sono passati molti anni, posso superare il passato, un po' come avete fatto voi che siete rimasti.»
Steve non sapeva cosa dire, quindi decise di non fare commenti.
«Quante sono le foto?»
«Una ventina.»
«Formato standard?»
«Va bene.»
«Puoi venire stasera. Sono aperto fino alle sette.»
«Verrò dopo le sei.»
Si salutarono ed Ellen gli voltò le spalle e uscì. Steve la guardò andare via, cercando di dare un significato a quanto era appena accaduto.



"PS. Dillo anche al tuo collega" recitava il secondo messaggio, che Kevin fissava ormai da alcuni minuti senza staccare gli occhi dal monitor. "L'assassino di Mark Forrester potrebbe ricordarsi anche di lui. C'eravate entrambi, la sera in cui è stato ammazzato."
C'erano entrambi, era vero, avevano incontrato Mark, ma era stato ore e ore prima del delitto. Avevano ormai fatto ritorno tutti quanti alle loro abitazioni, quando il loro amico era stato assassinato. Che cosa stava insinuando quella Mabel, chiunque fosse? Cosa voleva da loro?
Era immerso in quelle riflessioni, quando Steve entrò in ufficio, tanto che non si accorse di lui fintanto che l'altro non parlò.
«Come mai non sei venuto di là?»
Kevin sussultò.
«A fare cosa?»
«A salutarla.»
«Chi?»
«Non ci credo» ribatté Steve. «Va bene, non l'hai vista, ma non puoi non avere riconosciuto la sua voce.»
«Non stavo ascoltando» puntualizzò Kevin. «Non ho fatto caso alle voci. Ho sentito che parlavi con qualcuno, ma non me ne sono preoccupato.»
«Mi sembra difficile» replicò Steve. «Avresti potuto venire a salutarla.»
«C'è già Mabel che è impegnata a salutarmi» rispose Kevin. «Non riesco a occuparmi più di una persona per volta.»
«Mabel?»
«Sì, la persona che ci ha scritto quel messaggio.»
«Ho capito di chi stai parlando. Stai ancora pensando a lei?»
«È lei che sta pensando a noi» chiarì Kevin. «Ha scritto di nuovo.» Gli lesse il contenuto del secondo messaggio. «Questa Mabel sa dove ci trovavamo vent'anni fa, prima che Mark fosse ucciso.»
«Non mi sembra tanto sorprendente» obiettò Steve. «Voglio dire, è una faccenda che ha avuto una certa risonanza mediatica.»
«I nostri nomi non sono mai comparsi sui giornali» gli ricordò Kevin. «Nessuno ha mai avuto dei dubbi su di noi o messo in dubbio che c'entrassimo qualcosa con il delitto. La stampa ci ha lasciati in pace. O meglio, ha lasciato in pace tutti quanti noi, tranne Danny. Come fa questa Mabel a conoscere certi dettagli?»
«Non è difficile arrivarci in fondo. Basta chiedere alla maggior parte della gente che abitava a Goldtown già vent'anni fa. Chiunque sarebbe in grado di fare i nostri nomi. Quindi o Mabel è una persona che era già qui nel 2002...»
Kevin lo interruppe: «Se era qui nel 2002, perché si è svegliata solo adesso?»
«Stanotte saranno passati vent'anni dall'omicidio di Mark.»
«Okay, va bene, è il ventennale, ma perché svegliarsi proprio dopo vent'anni? E non dopo dieci, o cinque, o quindici?»
«È una bella domanda» ammise Steve, «Ma siamo con tutta probabilità di fronte a una pazza megalomane, una persona che non sa cosa fare e che con tutta probabilità ha deciso di passarsi il tempo tormentandoci. Vedrai, si stancherà.»
«Ti vedo tranquillo.»
«No, per nulla, mi servirebbe una sigaretta, dato che è da un po' che sto rimandando.»
«Allora vai» gli suggerì Kevin. «Dopo che avrai fumato, magari, avrai più voglia di starmi a sentire.»
«Va bene. Allora ci vediamo tra un po'.»
Steve stava per allontanarsi, ma a Kevin venne in mente che avevano lasciato in sospeso un discorso.
«Chi era?»
«Chi era chi?»
«Sei venuto di qua chiedendomi perché non fossi venuto a salutare una cliente o sbaglio?»
Steve alzò le spalle, con indifferenza.
«Non era nulla di importante. Schiarisciti le idee su quella Mabel, piuttosto.»
Non aggiunse altro e uscì.
«Schiarirmi le idee» borbottò Kevin. «Come se potessi farmi davvero venire in mente qualcosa.»
Steve rientrò oltre un quarto d'ora più tardi. Le sigarette dovevano essere stata più di una, oppure non era rientrato subito. Kevin, nel frattempo, aveva considerato l'ipotesi che poco prima fosse entrata nello studio fotografico una delle Robinson. Steve non aveva mai messo da parte i vecchi pregiudizi nei loro confronti, non c'era da sorprendersi che ci tenesse a informarlo. Chiaramente la faccenda di Mabel doveva preoccuparlo più di quanto desse a vedere e, di conseguenza, aveva pensato che informarlo dell'incontro con Jennifer o con una delle sue parenti non fosse fondamentale.
Kevin gli domandò: «Possiamo parlare di Mabel, adesso?»
«Ne parliamo tra un attimo» replicò Steve. «Mi è appena venuto in mente che avrei alcune commissioni da svolgere oggi, nel tardo pomeriggio.»
«Va bene, non c'è problema, ti posso sostituire» rispose Kevin. «Cercherò di fare del mio meglio.»
Steve obiettò: «Il problema è che devono venire alcuni clienti con cui preferirei avere a che fare di persona.»
«Quindi» dedusse Kevin, «Mi stai chiedendo se a quelle tue commissioni posso pensarci io.»
«Esatto, sapevo che avresti capito.»
«Va bene, non c'è problema.»
«Diciamo dalle cinque e mezza in poi.»
«Ci sto.»
«Sicuramente finirai prima delle sette, ma non importa che torni. Ti segno comunque giornata intera.»
«Va bene. Allora verso le cinque e mezza me ne vado e penso a tutto io.»
«È perfetto. Ti ringrazio tanto.»
«A proposito, cosa devo fare?»
«Te lo spiego dopo con calma. Adesso possiamo parlare di Mabel?»
Parlarono di Mabel, senza concludere nulla. Ne parlarono occasionalmente anche quel pomeriggio, prima dell'orario in cui Kevin avrebbe dovuto andarsene. L'incarico che gli aveva affidato Steve gli portò via pochissimo tempo. Avrebbe fatto tranquillamente in tempo a tornare allo studio, ma ne approfittò per tornare a casa in anticipo. Per un attimo gli venne il dubbio che Steve, per un motivo o per l'altro, desiderasse a tutti i costi sbarazzarsi di lui, ma valutò che non vi erano ragioni per cui avrebbe dovuto farlo.
Non ci pensò più. Del resto, nei giorni a venire ci sarebbe stato molto altro a cui pensare.

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Capitolo 9
*** Le Lettere di Mabel - 31 Ottobre (sera) ***


Steve aveva già perso il conto delle volte in cui aveva controllato l'orario quando, alle 18,07, Ellen entrò nel negozio. Indossava una giacca più pesante, rispetto a quando si era presentata quella mattina.
«Ellen, che piacere rivederti» la accolse Steve. «Ti prendo subito le tue foto.»
«Temevo di essere arrivata troppo presto» osservò Ellen.
Steve obiettò: «Per niente. Anzi, peccato che tu non sia arrivata in anticipo, così avresti potuto fermarti più a lungo.»
«L'idea di farmi perdere tempo ti alletta?»
«No, mi alletta l'idea di scambiare qualche parola con te, dopo tutto questo tempo. Per esempio, tu sai perfettamente che lavoro faccio, io, invece, non so ancora nulla di te.»
«Scrivo. A volte vengo pubblicata sui giornali cartacei, a volte devo accontentarmi del sito web.»
«Quindi hai realizzato i tuoi sogni.»
«Direi di sì. Anche tu, comunque, vedo che hai realizzato i tuoi.»
Steve avvampò.
«Ti ricordi ancora della mia passione per la fotografia?»
«Ricordo tutto» ammise Ellen. «Non c'era niente da dimenticare. O almeno, non c'era niente da dimenticare che riguardasse te. Lavori da solo?»
«No, ma adesso il mio aiutante non c'è.»
«Anche il tuo aiutante è un grande appassionato di fotografia come te?»
«Veramente no, lavorava in tutt'altro settore fino a pochi anni fa. Comunque si occupa di amministrazione e di quello che capita.» Steve porse a Ellen una busta. «Qui ci sono le tue fotografie.»
«Quanto ti devo?»
«Niente. È la prima volta che vieni, voglio che tu abbia un buon ricordo del mio studio.»
Ellen ribatté: «È un trattamento che riservi a tutti i clienti?»
«Solo a quelli a cui tengo sul serio» rispose Steve.
Ellen sorrise.
«Ti ringrazio. Allora...» Parve esitare. «Ci vediamo presto.»
Senza troppa convinzione gli voltò le spalle e si avvicinò alla porta.
Steve la trattenne: «Aspetta, Ellen.»
La guardò girarsi.
«Sì?»
«Ti va di cenare insieme, stasera? Così possiamo raccontarci qualcosa di più su di noi.»
Non sapeva cosa aspettarsi, forse che Ellen si inventasse una scusa, oppure che se ne uscisse con qualche discorso complicato sul fatto che non fosse bene cercare di riportare in auge legami che appartenevano al passato.
Ellen mise fine a tutte le sue peggiori fantasie.
«Mi farebbe molto piacere. Dove?»
«Non saprei, cerco di farmi venire in mente qualche trattoria fuori da Goldtown, ma non molto lontano.»
«Perché proprio fuori Goldtown?»
«Perché questo posto evoca brutti momenti.»
«Ci sto.»
«Dimmi dove abiti, così ti passo a prendere.»
Ellen gli diede l'indirizzo.
Steve confermò: «Conosco il posto. Va bene se passo da te alle otto?»
«Va benissimo, ma non sognarti di offrirmi la cena» ribatté Ellen. «Dividiamo il conto a metà.»
«Come vuoi. Quello che mi interessa è passare un po' di tempo con te, scoprire cosa ne è stato di te in tutti questi anni, non mi importa di chi deve pagare la cena.»
Ellen sorrise di nuovo.
«Anche a me farebbe piacere scoprire per filo e per segno cosa ne è stato di te. Cercherò di farmi un'idea precisa, prima che si facciano le otto, in modo che tu possa smentirmi punto per punto.»
«Cercherò di fare la stessa cosa» le assicurò Steve.
«Ci vediamo più tardi, allora.»
«A stasera.»
Stavolta Ellen uscì dallo studio. Steve la vide svanire lentamente oltre la porta trasparente.
Non riusciva a credere che fosse stato così semplice. Non riusciva a credere che, dopo tanti anni, sarebbe nuovamente uscito insieme a Ellen.


Mancavano ancora alcuni minuti alle otto della sera ed Ellen era già pronta. Realizzò subito che non era positivo, perché Janice le girava intorno come se avesse qualcosa da dirle e si trattava senz'altro di qualcosa che non le avrebbe fatto piacere.
Dal momento che la sua nuova coinquilina non parlava, Ellen azzardò: «C'è qualcosa che non va?»
«Solo che non mi sembra una buona idea questa cena con il tuo ex ragazzo.»
«Nemmeno l'hai mai conosciuto.»
«Ma infatti non ho niente da dire su di lui come persona. Non conosco Steve e potrebbe anche essere un principe azzurro che ti sei lasciata scappare e che ora vuoi riprenderti a tutti i costi. Quello che voglio dire è che sei qui per un motivo ben preciso. Non mi sembra il caso di coinvolgere altre persone in questa faccenda.»
Ellen sbuffò.
«Lasciami vivere.»
«Non preoccuparti, io ti lascio vivere, però non...»
Ellen la interruppe: «Non farò niente che mandi in vacca le mie ricerche, se è questo che ti preoccupa.»
Janice replicò: «Non si tratta solo di ricerche. Per quanto mi riguarda, se proprio vuoi correre il rischio di un flop totale dal punto di vista professionale, non sarò io a trattenerti. Però qui c'è di mezzo molto di più di un posto di lavoro. Devo essere io a ricordarti che stiamo parlando di gente che è morta ammazzata?»
«No, non c'è bisogno di ricordarmelo, perché non c'è un solo giorno della mia vita in cui io non ci abbia pensato. Anch'io sono convinta che possa essere pericoloso, ma non sarà una cena con Steve a peggiorare le cose. Non esco con lui per parlare di Mark. Abbiamo sempre cercato di parlarne il meno possibile. Sai, era un po' imbarazzante considerato che mi sono messa insieme a Steve pochissimo tempo dopo la sua morte e la gente non faceva altro che farmelo pesare.»
Janice si arrese: «Va bene, mi fido di te. Se mi dici che non farai danni, posso stare tranquilla.»
Ellen annuì.
«Sì, Janice, puoi fidarti. Dato che io non posso espormi, mi fa comodo avere delle frequentazioni qui a Goldtown. Seppure non intendo parlare con Steve dei delitti, posso almeno parlare con lui della gente del posto, informarmi sulla fine che hanno fatto.»
Janice ammise: «Questa non è una cattiva idea. Ricordati, però, di non destare sospetti.»
«Perché mai dovrei destare sospetti?» obiettò Ellen. «Me ne sono andata da Goldtown nel 2004 e non sono più tornata. Vado a cena con il mio ex fidanzato e gli chiedo che fine abbiano fatto i nostri amici di un tempo. Intanto gli racconterò del mio lavoro, del mio ex marito, di mia figlia... Sarà una conversazione normale tra due persone che non si vedono da un sacco di tempo. Ovviamente non gli chiederò solo delle persone che avevano in qualche modo a che vedere con le vittime. Gli chiederò anche della sua famiglia, della sua vita sentimentale, del suo lavoro...» Il campanello suonò. «Questo dovrebbe essere Steve. Buona serata, Janice.»
Janice azzardò, mentre Ellen si dirigeva verso la porta: «Forse sono io che dovrei augurare una buona serata a te.»
«Grazie» rispose Ellen, uscendo.
Scese in gran fretta i due piani di scale e uscì dall'edificio. Steve la stava aspettando. Ellen lo salutò con un cenno della mano, prima di avvicinarsi.


Il cameriere portò da bere. Non appena si allontanò, Steve decise di approfittare del tempo che sarebbe intercorso prima che arrivassero le pietanze che avevano ordinato per scambiare finalmente qualche parola con Ellen. Non si erano detti molto durante il tragitto in auto e, soprattutto, non erano andati oltre ai più banali convenevoli.
Seduti l'uno di fronte all'altra, all'interno del ristorante, l'atmosfera era decisamente più appropriata per passare oltre.
«Tua zia Georgia come sta?»
«Bene.»
«So che non abita più a Goldtown.»
«No, da quando è andata in pensione si è trasferita.»
«Tua sorella, invece?»
Ellen spalancò gli occhi.
«Davvero ti ricordi di Sarah? Non l'hai neanche mai incontrata!»
«Ricordo che mi raccontavi spesso di lei. Doveva avere sui dodici o tredici anni, se non ricordo male.»
«Sì, esatto, abbiamo sette anni di differenza. Adesso insegna storia dell'arte in una scuola superiore.»
«Un'altra Jefferson intellettuale.»
Ellen ridacchiò.
«I tuoi genitori, invece, come stanno? Ricordo che ogni tanto li vedevo.»
«Abbastanza bene. Io, peraltro, li vedo tutti i giorni. In passato hanno ricavato un appartamento al pianoterra, dove abitavamo, e mi sono trasferito al piano di sotto. Nell'appartamento dall'altra parte, invece, ci abitano ancora i miei zii. Lydia se n'era andata, ma è tornata a vivere con loro insieme alla sua bambina dopo la morte di suo marito.»
«Dylan Carter?»
«Come fai a saperlo?»
«Era l'ex fidanzato della mia coinquilina. Janice mi ha raccontato che Dylan poi si era sposato con una ragazza di Goldtown che si chiama Lydia e ho fatto due più due. È morto in un incidente stradale insieme a Meredith Taylor, giusto?»
«Purtroppo sì.»
«Me la ricordo, Meredith. Non parlava molto, o almeno non con me.»
«Nemmeno con me. Penso fosse riservata un po' con tutti.»
«L'altra amica di Lydia, invece?»
«Janet?»
«Sì, proprio lei.»
«L'ho vista pochi giorni fa, dopo un sacco di tempo» le raccontò Steve. «Se n'era andata via con il suo compagno, ma ora si sono lasciati ed è tornata ad abitare a Goldtown.»
Ellen fece una mezza risata.
«Mi sta venendo in mente una domanda imbarazzante.»
«Fammi indovinare» azzardò Steve. «Mi stai chiedendo se mi sono mai sposato o ho mai convissuto con una donna?»
«Qualcosa del genere.»
«No. Però sono stato insieme per molti anni a Phyllis Moore, non so se ti ricordi di lei.»
«Eccome se me la ricordo» borbottò Ellen. «Ti aveva messo gli occhi addosso da non so quanto tempo.»
Steve preferì evitare commenti su quell'epoca, concentrandosi sui tempi in cui Ellen non aveva nulla a che vedere con la vita sua e di Phyllis.
«Lavorava con me, fino a qualche anno fa. Dopo ho dovuto assumere il mio attuale assistente.»
«E i tuoi amici?»
«Jack, Danny e Kevin si sono sposati tutti quanti. Jack e Danny sono rimasti a Goldtown, mentre Kevin si è trasferito.» Steve valutò fino a che punto raccontare gli sviluppi successivi. «Kevin non ha mai avuto figli. Danny, invece, ha una figlia ormai adolescente, mentre Jack ha due bambini più piccoli. Sia Danny sia Jack, però, adesso sono di nuovo single.»
Ellen non chiese ulteriori delucidazioni su di loro, quanto piuttosto su un'altra persona che ricordava.
«Patricia del bar, invece?»
«Lavora nel suo bar insieme a Ray, il fratello di Phyllis.»
«Lavorano solo insieme o c'è dell'altro tra di loro?»
«Non penso che a Patricia interessi Ray. È fidanzata con Roberta, la sorella di Jennifer Robinson.»
Ellen sussultò, rimanendo in silenzio.
«Cosa c'è, ti lascia spiazzata il fatto che sia lesbica?» azzardò Steve. «Pensavo lo sapessero tutti.»
«No» replicò Ellen. «Ti dirò, non mi sono mai fatta domande sulla sessualità di Patricia, però sono abbastanza certa di non avere mai saputo dell'esistenza di questa Roberta Robinson.»
«Non si chiama Roberta Robinson, ma è una lunga storia.»
«Fammi capire, si chiama o non si chiama Roberta Robinson?»
«Porta un altro cognome.»
«È sposata, quindi? O meglio, lo è stata prima di fidanzarsi con Patricia?»
Steve non le diede una risposta diretta, sarebbe stato troppo lungo spiegarle la situazione. Si limitò a osservare: «Non mi stupisce che tu non sappia niente di questa Roberta. È saltata fuori dopo che te n'eri andata.»
«Abita anche lei a Goldtown?»
«No, ma è sempre venuta occasionalmente in visita alle sue parenti. Poi, ultimamente, ogni tanto viene da Patricia.»
«Capisco.»
«Non è strana come il resto della famiglia.»
«Mhm...»
Dopo quel monosillabo, Ellen rimase in silenzio, apparentemente pensierosa. Qualche minuto più tardi, Steve le domandò: «C'è qualcosa che non va? Ho detto o fatto qualcosa di sbagliato?»
«No, per niente» rispose Ellen, esibendosi in un radioso sorriso. «Tu non c'entri niente.»
«C'entrano Jennifer e Roberta, oppure la famiglia Robinson in generale?» ipotizzò Steve. «Ti vedo un po' strana, da quando ti ho parlato di loro.»
Ellen scosse la testa.
«No, non è niente. Solo, per qualche motivo questa Roberta mi ha fatto venire in mente una faccenda di lavoro, che c'entra poco con lei. A proposito, è più giovane o più vecchia di Jennifer?»
«Sono gemelle.»
«Oh.»
«Come lineamenti sono identiche, ma Roberta porta i capelli in un altro modo e si veste in modo molto diverso. Si fa chiamare Stewart, il cognome di suo padre. Sono state separate alla nascita o poco dopo, per quanto ne so. Pare che i genitori non andassero d'accordo e non volessero più avere nulla a che fare l'uno con l'altra, quindi si sono tenuti una bambina ciascuno. L'ho sempre detto che le Robinson sono delle svitate.»
«Che brutta storia. Capisco che non sia sempre facile andare d'accordo con i propri ex, anche se per fortuna ho un buon rapporto con il mio ex marito, ma arrivare a dividere le due bambine...»
Steve spalancò gli occhi.
«Sei stata sposata?»
«Ebbene sì. Ho anche una figlia di quattordici anni. Si chiama Judith. Ti faccio vedere le foto, se vuoi.»
Non poté farlo in quel momento, dato che il cameriere era già di ritorno.
«Credo che dovremo aspettare dopo cena» osservò Steve. «Me ne ricorderò. Sono curioso di vedere se ti somiglia.»


La cena andò bene. Quando Ellen iniziò a mostrargli le fotografie della figlia, Steve sembrò dimenticarsi completamente della famiglia Robinson. Gli fece qualche altra domanda a proposito di persone di Goldtown, ma nessuna su Jennifer e la sua famiglia. Quando venne ora di farsi portare il conto, si alzò per andare in bagno. Si chiese quanto tempo potesse rimanerci senza destare sospetti e valutò che non fosse il caso di fare una telefonata.
Una volta giunta alla toilette, scrisse quindi un messaggio a Janice: "Ho scoperto una cosa a cui non so che spiegazione dare".
Janice le rispose pochi istanti più tardi. Probabilmente non stava facendo nulla di importante, in quel momento.
"Di cosa si tratta?"
"Ti racconto tutto a casa" le scrisse Ellen. "Forse ho trovato un indizio che conferma le mie teorie."
"Quali teorie?"
"Quelle sull'agguato alla maestra elementare a cui ti ho accennato oggi a pranzo. Adesso, però, non posso spiegarti niente, devo tornare da Steve."
Ellen tornò in sala, dove Steve la stava aspettando. Divisero il conto a metà, pagarono e uscirono. Salirono sull'auto di Steve, pronti a rientrare a Goldtown. I chilometri da percorrere non erano tanti, la trattoria si trovava in un sobborgo.
«Non ero mai stata in questo ristorante» gli riferì Ellen, allacciandosi la cintura di sicurezza, mentre Steve faceva lo stesso. «Si mangia bene. C'era già, quando abitavo a Goldtown da ragazza?»
«Sì, c'era, ma hanno cambiato gestione» rispose Steve, avviando il motore. «Piace anche a me come posto. Ho fatto bene, quindi, a portarti qui.»
«Hai fatto decisamente bene, così come è stata una buona idea quella di allontanarci da Goldtown.»
Steve non disse nulla, mentre si immetteva sulla strada. La via non era molto illuminata, quindi rischiarono grosso quando, soltanto un paio di chilometri più avanti, all'improvviso si stagliò davanti a loro una persona sulla strada.
Steve scartò sull'altra carreggiata, che per fortuna era libera, mentre Ellen fissava con occhi sbarrati la figura che i fari dell'automobile avevano brevemente illuminato. Riuscì a cogliere per pochi istanti l'immagine di una donna molto magra, che indossava un abito bianco. Anche i lunghi capelli erano quasi bianchi.
L'avevano evitata da poco, quando a Ellen sfuggì una domanda che le sembrò stupida subito dopo: «L'hai vista anche tu?»
«Certo che l'ho vista» disse Steve, secco. «Farà una brutta fine se continua ad andarsene in giro in mezzo a una strada così buia. Mi chiedo cosa avesse per la testa!»
Ellen non ebbe la forza di replicare. Non riusciva a togliersi dalla testa ciò che era accaduto esattamente vent'anni prima: Mark che, all'incontro insieme agli amici, se ne andava in largo anticipo dopo l'improvvisa comparsa, in lontananza, di una donna vestita di bianco che guardava verso di loro.

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Capitolo 10
*** Le Lettere di Mabel - 1 Novembre ***


[1 novembre]
Ellen camminava senza meta per le strade di Goldtown. La serata trascorsa insieme a Steve era stata bella e non aveva nemmeno dovuto sorbirsi eccessive prediche da parte di Janice al suo ritorno, forse perché l'altra sembrava improvvisamente più interessata alla faccenda delle Robinson. Ne avevano discusso fino a sera inoltrata, senza giungere ad alcuna conclusione. Quella vecchia vicenda che Ellen aveva cercato di ricostruire tempo prima, quantomeno nelle sue sfumature, rischiava di essere più contorta di quanto avesse ipotizzato. Sapeva che prima o poi avrebbe fatto meglio a recarsi sul posto nel quale si erano consumati gli eventi, ma non si sentiva di farlo quel giorno.
Stava passeggiando, raccontando a se stessa qualcosa sulla necessità di tenersi in movimento e di fare attività fisica, invece di concentrarsi soltanto sul lavoro. Si stava raccontando che, dopotutto, quello era un giorno festivo, quindi non vi erano ragioni per dedicarsi a questioni che facevano solo ed esclusivamente parte della sua professione. Non sapeva se ci credesse fino in fondo - la sua relazione passata con Mark Forrester non le permetteva di qualificarsi come del tutto estranea - e non era ancora giunta a una conclusione definitiva, quando all'improvviso un'automobile di colore grigio metallizzato parcheggiò poco più avanti, a lato della strada. Ne scese un uomo al quale Ellen non fece molto caso, ma che doveva avere fatto caso a lei.
«Ellen?» chiamò.
Era una ragione più che sufficiente per mettere lo sguardo su di lui. Per un attimo Ellen i sentì spiazzata, poi si fece un'idea più definita. Quell'uomo lievemente stempiato, con i capelli lunghi fino alle spalle, un castano chiaro che tendeva lievemente al grigio in alcuni punti, non era un semplice sconosciuto.
Andò a colpo sicuro: «Jack.»
Fecero qualche passo l'uno verso l'altra.
«Sapevo che eri tu» disse Jack. «Mi sembrava di averti vista anche ieri, ma avevo pensato che non fosse possibile. Quindi, quando ti ho incrociata, poco fa, ho deciso di verificare.»
«Quindi» dedusse Ellen, «Non eri appostato come uno stalker.»
«No, figurati. Anzi, mi dispiace averti disturbata.»
«Nessun disturbo.» Ellen si avvicinò a lui e lo strinse in un fugace abbraccio. «Hai fatto benissimo. È sempre bello ritrovare un vero amico... soprattutto se si tratta di qualcuno che è stato davvero un amico.»
Si allontanarono e per qualche istante si fissarono in silenzio.
«Non riesco ancora a crederci» ribadì Jack. «Anzi, proprio non ci credo, continuo a pensare che presto mi sveglierò e sarà stato tutto un sogno.»
Ellen ridacchiò.
«Come sei diventato poetico, in questi ultimi anni. Se qualcuno ti sentisse, penserebbe che io e te abbiamo avuto una storia, in passato.»
«La gente banale lo penserebbe, ma tu non sei per niente banale. Dopotutto non capisco perché così tanta gente metta l'amore al primo posto e voglia a tutti i costi ricordarsi le proprie relazioni sentimentali con piacere. Le partner prima o poi ti mettono da parte, le amiche magari se ne vanno, spariscono per più di diciotto anni, poi all'improvviso ritornano ed è sempre un piacere incontrarsi un'altra volta.»
Ellen abbassò lo sguardo.
«Mi dispiace se non mi sono mai fatta viva.»
«Comprendo la tua scelta.»
«Voglio dire, ai tempi staccare con tutto e con tutti mi sembrava una buona opzione, poi, però, non ho cercato di riallacciare i contatti con nessuno, nemmeno da quando sono venuti fuori Forever Net e gli altri social.»
«Sei su Forever Net?»
«Sì.»
«Non sono mai riuscito a trovarti.»
«Mi chiamo Ellen Hicks.»
«Sposata?»
«Non più.»
«Anch'io sono stato sposato, in passato, ma non sto più insieme a Elizabeth.»
A Ellen non era nuovo quel nome.
«La tua crush adolescenziale?»
«Proprio lei.»
«Quindi, dopo che me ne sono andata, sei riuscito a conquistarla?»
«Non proprio dopo che te ne sei andata. Sono passati diversi anni, prima che io ed Elizabeth ci mettessimo insieme. Non è andata bene, ma ho due figli stupendi.»
«Anch'io ho una figlia.»
«Una piccola Ellen?»
«Non tanto piccola, ha già quattordici anni.»
«Essenzialmente, se ho fatto bene i miei calcoli, sei diventata mamma quattro anni dopo avere lasciato Goldtown... e quattro anni dopo avere lasciato Steve.»
«Steve l'ho incontrato ieri» gli confidò Ellen. «Sono andata nel suo negozio a sviluppare delle foto e poi mi ha invitato a cena.»
Jack parve positivamente impressionato.
«Dai che magari vi rimettete insieme. È single, adesso.»
«Lo so, ma non penso che ci rimetteremo insieme.»
«Mi piacevate come coppia.»
«Non posso scegliere se fidanzarmi e con chi sulla base di quello che pensi tu» obiettò Ellen. «Ho trentanove anni. Non posso fare scelte sulla base di quello che succedeva quando ne avevo venti o ventuno. Comunque sono felice che pensi tuttora che io e Steve facessimo una bella coppia, insieme. All'inizio non erano in tanti a stare dalla mia parte, ma tu mi hai sempre sostenuta, anche se per te non ero nessuno, solo la ragazza di Mark.»
«A proposito di Mark» disse Jack, con tono un po' esitante, «Oggi...»
Ellen comprese subito dove volesse andare a parare.
«Oggi sono passati vent'anni dalla sua morte, lo so.»
«Io e gli altri ragazzi ci dobbiamo trovare tra una decina di minuti nel posto in cui è morto. Vogliamo lasciare un mazzo di fiori, un segno che non l'abbiamo dimenticato.»
«Perché proprio sul luogo del delitto e non sulla sua tomba?»
«Perché sarebbe troppo facile entrare in un cimitero. È andare là, dove l'hanno ammazzato, che è davvero complicato. Glielo dobbiamo.» Guardò l'orologio che portava al polso. «Anzi, si sta facendo un po' tardi, è meglio che vada. Ti aggiungo su Forever Net, va bene?»
«Sì, puoi aggiungermi» replicò Ellen, «Ma vorrei venire con te.»
«Ne sei sicura?»
«Sì. Non sono riuscita a incontrarlo, la notte in cui fu ucciso, andare là sarà un po' come ricongiungermi con lui per un attimo.»
«Va bene, andiamo in macchina.»
Salirono a bordo. Mentre si allacciava la cintura, Ellen azzardò: «Ci siete tu, Danny e Steve?»
«Io, Danny, Steve e Kevin.»
«Kevin è venuto a Goldtown?»
Dopo avere acceso il motore, Jack si mise in strada.
«Certo che è a Goldtown. Ci abita. Anzi, mi stupisce che tu non l'abbia visto.»
«Sei l'unico che ho incontrato per caso» chiarì Ellen.
Jack le spiegò: «Non mi riferivo a un incontro casuale. Hai detto che sei andata in negozio da Steve o sbaglio?»
«Non sbagli.»
«Strano che tu non l'abbia incontrato, dato che lavora là.»
Ellen strabuzzò gli occhi.
«Kevin lavora insieme a Steve?»
«Sì, perché, la cosa ti stupisce?»
«Mi stupisce che Steve non me l'abbia detto. Mi ha raccontato che ha un collega, che non era presente in negozio ieri pomeriggio, ma non mi ha detto chi fosse. Anzi, mi aveva lascito intendere che non fosse un mio conoscente. In più, se non ho capito male, mi ha raccontato che Kevin si è sposato e ha lasciato Goldtown, in passato.»
«Infatti è andata proprio così» confermò Jack. «Kevin si è sposato con una certa Leanne, sarà stato una decina d'anni fa, poi è tornato quando si sono separati. Deve essere stato tre anni fa, quattro, non ricordo con esattezza.»
«Allora devo avere capito male» azzardò Ellen. «Forse avrei dovuto essere più esplicita, quando ho chiesto a Steve di voi.»
«Steve ti ha parlato di noi?»
«Sì, di te e di Danny. Mi ha accennato al fatto che i vostri matrimoni siano finiti, lo ricordo con chiarezza. Non mi sembra, però, abbia detto alcunché sulla separazione di Kevin. Magari credeva non mi interessasse saperlo.»
«Mhm...» borbottò Jack, senza aggiungere altro.
Ellen non lo esortò a esprimere un parere più concreto e chiaro in proposito: era meglio non sapere. Rimasero in silenzio per tutto il resto del tragitto. Arrivarono un po' in ritardo, erano gli ultimi.
Già prima di scendere dalla macchina, Ellen riconobbe Steve. Accanto a lui, con i fiori in mano, c'era Danny, che aveva i capelli più corti che in passato, tagliati a spazzola. Kevin era girato di spalle, ma non le volle molto per riconoscerlo. Di lì a poco, quando lo vide girarsi, le sembrò che, nonostante l'aspetto decisamente più adulto, non fosse cambiato molto rispetto a quando era ragazzo.
Jack scese dall'auto, Ellen fece lo stesso. Sarebbe stata dura spiegare a Steve come mai si fosse presentata sul posto, si disse, per poi realizzare che non doveva sentirsi in obbligo.
Dopo avere salutato tutti, Jack riferì: «Ho incontrato Ellen, che adesso è qui a Goldtown, e ho pensato di chiamare anche lei.»
«Da quanto tempo!» esclamò Danny. «È un piacere rivederti, Ellen.»
Ellen accennò un sorriso.
«È un piacere anche per me, Danny. E anche rivedere te, Kevin. Per quanto riguarda te, Steve, invece, ci siamo già visti di recente.»
Steve abbassò lo sguardo.
«Già. Non pensavo ci saremmo rivisti così presto.»
«Non vorrei avere in qualche modo disturbato i vostri piani» disse Ellen. «In realtà non è stato Jack a chiedermi di venire con voi, quindi non prendetevela con lui, sono stata io a insistere.»
«Non ti devi giustificare» intervenne Kevin, la prima volta che le rivolgeva la parola da quando era arrivata. «Sei qui e va bene così.»
Ellen non era del tutto sicura che la sua presenza fosse gradita, o quantomeno che nessuno la trovasse imbarazzante, ma non disse nulla.
Jack, nel frattempo, domandò agli amici: «Siete già stati sul posto? Voglio dire, a dare un'occhiata?»
«Non c'era niente a cui dare un'occhiata in anticipo» replicò Danny. «Stavamo aspettando voi. O per meglio dire, stavamo aspettando te. Adesso che siete arrivati, possiamo andare. Peccato solo che non ci sia Jennifer con noi, ma non è a Goldtown.»
«Jennifer?» chiese Steve. «E che cazzo c'entra con la morte di Mark?»
«Jennifer non c'entra niente con la morte di Mark, è vero, ma era una sua amica» ribatté Danny. «Anche lei sarebbe dovuta venire con noi.»
«Però si è tenuta ben lontana da Goldtown» azzardò Steve. «Evidentemente Mark e il suo anniversario di morte non erano al centro dei suoi pensieri.»
«Jennifer ha preso il coronavirus, mentre era a casa dalla madre» puntualizzò Danny. «Non è tornata perché non può ancora tornare.»
«Quindi» azzardò Steve, «Dopo tornerà per andare a lavorare nel negozio con sua zia Sophie?»
«Immagino di sì.»
«Peccato. Poteva mandare Roberta al posto suo, come fa altre volte. Sarebbe stato meglio per tutti.»
«Meglio per te, forse. Per me Roberta è un'estranea, Jennifer invece è la mia migliore amica.»
«Potresti frequentare gente migliore.»
«Lo so» tagliò corto Danny, secco, «E infatti frequento anche delle teste di cazzo come te. Hai rotto con le tue polemiche contro Jennifer. Ti lamentavi sempre quando ti toccava di vederla, adesso ti lamenti solo perché viene menzionata. Non ti sembra ora di smettere?»
Steve non replicò.
Jack li esortò: «Andiamo?»
«Sarà meglio andare.» Danny si avviò verso la pineta, seguito da Ellen. «Anche perché tra poco inizierà a fare buio.»
Continuò ad avanzare in mezzo agli alberi, nella direzione della zona nella quale il povero Mark era stato assassinato. Ellen continuò a seguirlo, sentendo rami rompersi al di sotto dei propri passi. Dietro di lei, si erano accodati tutti gli altri.
A giudicare dal modo in cui Danny sussultò, lasciando cadere il mazzo di fiori a terra, vide la donna vestita di bianco nello stesso momento in cui Ellen le posò gli occhi addosso.
I lunghi capelli biondo platino erano sparsi intorno a lei e il lungo abito candido era imbrattato da macchie rosse.
Ellen si voltò di scatto, scontrandosi accidentalmente con Steve, per quanto era desiderosa di distogliere lo sguardo.
«È la donna di ieri sera» mormorò. «È quella che per poco non abbiamo investito.»
Qualcuno imprecava, qualcuno si lasciava andare a commenti carichi di orrore. Ellen non avrebbe saputo attribuire ogni parola alla voce esatta che l'aveva pronunciata. Forse di lì a poco tutti quanti avrebbero avuto ricordi confusi di quanto era appena successo.
Riconobbe solo con chiarezza che era stato Jack a parlare, quando questo esclamò: «Cazzo, è Kimberly!»


«Kimberly Richards» ripeté Janice. «Sei riuscita a capirci qualcosa, a capire chi fosse?»
Ellen sbuffò, esasperata.
«Ti rendi conto che ho dovuto ripetere almeno venti volte quello che ho visto? Sono stata interrogata per quasi due ore. Mi è stato chiesto perfino perché io sia tornata a Goldtown. Uno degli agenti più anziani si ricordava di me. Ha insistito a farmi parlare di Kimberly, senza che ne avessi mai sentito parlare fino a oggi pomeriggio.»
Janice si rendeva conto dello stato d'animo di Ellen. Per fortuna non si era mai ritrovata né a scoprire il cadavere di una persona assassinata né a dovere rilasciare una deposizione in proposito, ma riusciva a fare uno sforzo di immaginazione. Nonostante tutto, riteneva importante ricordare a Ellen quale fosse il suo scopo.
«Non ti ho chiesto di quello che hai vissuto oggi» chiarì, «Ma solo se qualcuno dei tuoi amici ti ha spiegato chi fosse quella Kimberly. Peraltro, è accertato che si tratti proprio di lei?»
Ellen fece un sospiro. Quando riprese a parlare, era molto più calma.
«Non ti so dire con esattezza se la sua identità sia confermata, ma Jack è convinto che si tratti di una certa Kimberly Richards e anche gli altri sembrano concordare con lui. Pare sia stata una fidanzata adolescenziale di Mark, che aveva lasciato Goldtown ancora prima della sua morte, quando era appena maggiorenne o appena diplomata. Pare non si facesse più vedere a Goldtown da una vita.»
«Wow, questo è interessante» azzardò Janice. «Voglio dire, non era una tizia qualsiasi, era una ex di Mark. Ed è stata uccisa nello stesso posto a esattamente vent'anni di distanza.»
«E con tutta probabilità è la donna che abbiamo incrociato per strada ieri sera io e Steve.»
«Ne sei certa?»
«Non ne ho la certezza matematica, ma le somiglia molto, per quel poco che ho avuto modo di vedere.»
«L'hai detto alla polizia?»
«Mi è stato chiesto se avessi mai visto la vittima e ho spiegato che ieri sera, mentre ero in auto insieme a Steve, abbiamo rischiato di investire una donna che stava in mezzo alla strada, una che poteva somigliarle, ma che non potevo dire con sicurezza se si trattasse della stessa persona.»
«Ti hanno creduta?»
«Non lo so, ma perché non avrebbero dovuto credermi?»
Già, perché non avrebbero dovuto crederle? Per la seconda volta, dopo vent'anni, Ellen si ritrovava coinvolta suo malgrado in un caso di cronaca nera, sarebbe stato assurdo darle delle colpe. Janice non disse nulla e, anzi, fu scossa da un brivido quando Ellen ricominciò a parlare.
«Ho avuto una strana impressione.»
«Quale?»
«Che quella donna vestita di bianco potesse essere Mabel. Stamattina ho trovato un suo messaggio, che mi aveva mandato ieri sera verso ora di cena. Era lungo e ben articolato, sembrava quasi una delle sue lettere di un tempo.»
«Perché Kimberly Richards avrebbe dovuto scriverti? Cosa voleva da te?»
«Non ne ho idea, ma se Mabel non dovesse più farsi viva sarebbe un indizio a sostegno della mia teoria.»
Janice fu tentata di dirle che le sue teorie erano dettate dallo shock per il ritrovamento del cadavere, ma preferì tacere. Non aveva idea di come Ellen avrebbe reagito agli avvenimenti di quel giorno e preferiva non avere, nemmeno involontariamente, influenza negativa su di lei.

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Capitolo 11
*** Lacrime macchiate di sangue - 8 Novembre ***


LACRIME MACCHIATE DI SANGUE

[8 novembre]
A distanza di una settimana dall'omicidio che aveva sconvolto, vent'anni dopo, la cittadina di Goldtown, le indagini sembravano brancolare nel buio. In compenso fioccavano, non solo a livello regionale, innumerevoli approfondimenti televisivi in proposito. Anche quella mattina, girando distrattamente per i canali, Roberta aveva trovato ben tre emittenti televisive nelle quali si parlava del fatto, in alcuni casi con un interesse quasi morboso. Non ne era disturbata: certo, non riteneva particolarmente edificante il cercare a tutti i costi di far risaltare il macabro e lo scabroso facendo audience sul brutale assassinio di una persona, ma rigettava completamente chi se ne usciva con considerazioni del tipo "fare trasmissioni su un omicidio significa mettersi allo stesso livello di chi quell'omicidio l'ha commesso". Tra tutte le assurdità che Roberta ricordava di avere sentito, almeno di tanto in tanto, quella era senza ombra di dubbio la peggiore. Chi era disturbato da ciò che un'emittente televisiva proponeva aveva a disposizione il telecomando con il quale mettere su un altro canale. Quella povera donna che aveva perso la vita una settimana prima a Goldtown, invece, era sempre morta. Un assassino a piede libero stava probabilmente circolando a pochi chilometri o a poche centinaia di metri di distanza dal luogo in cui era stato consumato il delitto e non era assicurato che non tornasse a colpire.
Era un incubo, un dannatissimo incubo dal quale non c'era via d'uscita, altro che le televisioni che rimarcavano come la donna di quarant'anni che aveva perso la vita avesse risieduto a Goldtown fino all'età di diciannove anni e avesse avuto una relazione giovanile con Mark Forrester, vittima a sua volta di omicidio esattamente vent'anni prima, nello stesso luogo. Magari non era gradevole essere nell'occhio del ciclone a causa della morte di Kimberly Richards, ma Roberta era certa che l'intera cittadinanza di Goldtown e aree limitrofe avesse ben altro di cui preoccuparsi. Pur non essendo stata a Goldtown nelle ultime settimane, avvertiva a sua volta una tensione che credeva di avere dimenticato. Non era la sola, come poteva essere confermato anche dal diario di Jennifer, gettato come al solito sul comodino - Jennifer aveva sempre dato segno di lasciare in giro il proprio diario proprio perché desiderava che qualcuno lo leggesse.

Mercoledì 2 Novembre
Vent'anni fa chiamai i miei amici a casa mia. C'era anche Ellen insieme a loro. Ai tempi non la conoscevo, né mi interessava più di tanto conoscerla, ma sapevo che chiamare anche lei era la cosa giusta.
Non ricordo con esattezza che cosa dicemmo quella sera, ma ricordo che solo allora, quando ci riunimmo tutti in soggiorno e iniziammo a parlare di Mark, realizzai che il mio amico non c'era più e non sarebbe mai tornato indietro.
Non ho mai saputo se Mark fosse legato a me, oppure se mi considerasse solo una zavorra che stava al seguito di Danny, ma sono certa che, in fondo, non mi schifasse come ho avuto l'impressionedi fare ad altri a quei tempi e che magari faccio tuttora.
Sarebbe stato bello se Mark avesse potuto conoscere Roberta. Gli sarebbe piaciuta di sicuro. Roberta piace a tutti, anche alle persone che per me provano indifferenza. Comunque sono felice che Roberta ai tempi fosse lontana da Goldtown.
Sono passati vent'anni da allora e oggi è rimbombata una notizia terribile: è stata uccisa un'altra persona, a Goldtown. Non ci sono ancora indiscrezioni sulla sua identità, ma al telegiornale hanno detto che si tratta di una donna e che l'hanno ammazzata proprio dove morì anche Mark.
Non riesco a crederci, non riesco a credere che stia ricominciando un incubo. Spero sia stata una casualità, ma non credo nelle coincidenze. Non so chi sia quella donna, ma se qualcuno voleva ucciderla, è curioso come abbia scelto proprio l'anniversario dell'omicidio di Mark e lo stesso posto. Non può essere un caso.

Giovedì 3 Novembre
Ho provato a chiamare Danny, ma non mi ha risposto per tutto il giorno. Sicuramente era al lavoro. Ci ho riprovato anche stasera, ma mi ha risposto la sua ex moglie. Mi ha detto che Danny non c'era e che dovevo lasciarlo in pace e che ho già fatto abbastanza danni mettendomi tra di loro. Non so cosa le sia preso, io e Danny eravamo amici già molto tempo prima che conoscesse Lacey e non si sono certo lasciati per colpa mia.
Volevo parlare con Danny di quello che è successo, tutto qui. Sui giornali c'era scritto che hanno ucciso Kimberly Richards. Era la ragazza di Mark, credo, un paio d'anni prima che Mark morisse. Non andava a Goldtown da una vita, o almeno così pare. Non si sa ancora perché sia andata là a morire. Certo, non pensava di morire, ma comunque ha fatto una brutta fine.

Venerdì 4 Novembre
Danny mi ha richiamata. Non sapeva che Lacey avesse risposto e mi ha detto che non le ha chiesto lui di rispondermi. Si è scusato per quello che è successo e per avermi ignorata. Mi ha detto che sono stati giorni difficili, questi, per lui.
C'era, quando è stato trovato il cadavere. Era insieme a Kevin, Jack, Steve... ed Ellen. Non so cosa ci facesse a Goldtown, ma a quanto ho capito si erano trovati là per commemorare la scomparsa di Mark. Solo, una volta arrivati sul posto, hanno trovato il cadavere di Kimberly. Deve essere stato terribile. Se fossi stata a Goldtown, forse avrebbero chiamato anche me e sarei stata con loro. Mi tocca ringraziare il coronavirus.
Non gli ho detto del tampone negativo di stamattina. L'ho detto solo a Sophie, più tardi, quando l'ho chiamata. Mi ha chiesto se torno a Goldtown, mi ha detto che è un po' in difficoltà da sola al negozio. Non so se me la sento. Le ho chiesto qualche giorno, con la scusa che mamma non sta ancora bene e che sono il suo unico collegamento con l'esterno.
Non so, comunque, se me la sentirò di tornare così presto. Preferirei aspettare che prendano l'assassino di Kimberly. Non siamo più nel 2002, la gente viene inavvertitamente ripresa da telecamere di sorveglianza senza rendersene conto, oppure si porta lo smartphone ovunque facendo sì che gli spostamenti vengano rintracciati facilmente. Spero che lo prendano, che non Kimberly non sia un Mark 2.0.
Chissà se Roberta se la sente di tornare a Goldtown. Sophie continuerà sicuramente a insistere, minaccerà di assumere una commessa estranea alla famiglia. Mi dice sempre che, se voglio prendere un'altra strada, sono libera di farlo, ma devo parlare chiaro. Le manderò Roberta affinché stia tranquilla, prima o poi. La convincerò a farlo per stare vicina a Patricia, di solito è un'arma che funziona.

Sabato 5 Novembre
Vent'anni fa veniva ritrovato il cadavere di Will Mason. Gli avevano fatto fare la stessa fine di Mark. Aveva fatto troppe domande scomode in giro, forse, dopo essere stato sospettato del delitto perché aveva litigato con Mark dopo un incidente stradale o qualcosa del genere.
Povero Will, non lo conoscevo, ma era già assurdo pensare che avesse commesso un omicidio per qualche graffio sulla macchina, figurarsi dovere morire a sua volta per quella ragione. Era fidanzato con Meredith. Al giorno d'oggi la gente darebbe di matto, se sapesse che un ventenne stava insieme a una ragazza che frequentava ancora le scuole. Sono un po' spiazzata quando sento certi discorsi, c'è gente che pensa che ragazzini/e di sedici o diciassette anni siano da considerare come dei bambini e che, se si mettono insieme a una persona che ha un paio d'anni di più, questa persona sia un/una criminale.
Meredith, comunque, aveva diciotto anni, anche se frequentava la stessa classe di Lydia, Cindy e Janet. Se ben ricordo, una volta Lydia mi raccontò che Meredith, da bambina, aveva avuto un incidente ed era rimasta in ospedale molto a lungo, perdendo un anno di scuola. La gente di oggi, quindi, impazzirebbe solo al pensiero che Will frequentasse una ragazza maggiorenne che aveva due anni meno di lui.

Domenica 6 Novembre
Mamma sta meglio. Non appena risulterà negativa, Roberta partirà per tornare a Goldtown. Ha accettato e Sophie ne è stata piuttosto soddisfatta.
Volevo chiamare Danny, per chiedergli se ci fossero novità, ma non me la sentivo di rompergli le scatole un'altra volta. Così ho telefonato a Kevin.
Mi ha risposto, ma non era solo. L'ho sentito, a un certo punto, parlare con una donna che si trovava con lui. Mi è sembrato che si rivolgesse a lei chiamandola Ellen.
Credo che sia questa la grossa novità, Ellen Jefferson potrebbe essere ancora a Goldtown e, per qualche ragione, avere a che fare con Kevin. Non so cosa possa significare.
L'ho sempre trovata un po' strana. Non ho idea di che tipo di rapporto ci fosse tra lei e Mark e di quanto fosse seria la loro relazione, ma mi è sempre sembrato che non dovesse importarle molto di lui.
Non penso di potere essere la persona più giusta per giudicare, proprio io che non ho mai provato attrazione né sessuale né romantica per nessuno, ma ho sempre trovato un po' fuori luogo il fatto che Ellen e Steve stessero insieme apertamente e alla luce del sole così poco tempo dopo la morte di Mark.
Con questo non voglio dire che la gente che li denigrava facesse bene. Anzi, penso che avrebbero dovuto tenere per sé il loro parere, come ho sempre fatto io, ma era chiedere troppo.

Lunedì 7 Novembre
Roberta partirà mercoledì. Patricia è stata molto felice di scoprirlo. Sembra un po' preoccupata, anche se da una settimana a questa parte sembra non essere capitato ancora nulla.
Con questo non voglio dire che a Goldtown tutti possano fare vita normale, esattamente come prima. Piuttosto, possono iniziare a pensare che l'assassino volesse eliminare Kimberly e basta.
Non ci sono novità, per quanto riguarda le indagini. Lo dice la TV, lo conferma Sophie: anche a Goldtown non ci sono indiscrezioni in proposito. Non saprei dire se sia davvero un male. Per incastrare il colpevole, forse bisognerà aspettare che colpisca di nuovo e sarebbe terribile se accadesse.

Roberta richiuse il diario di Jennifer, tornò ad appoggiarlo sul comodino e si alzò in piedi. Si infilò la giacca di ecopelle e gli anfibi. In pochi istanti fu pronta per uscire, senza dire nulla. Prima di tornare a Goldtown, l'indomani, sentiva di avere qualcosa di importante da fare, di avere qualcuno da salutare.
Prese l'automobile di sua madre e percorse i sette chilometri che la separavano dal cimitero nel quale era sepolta la persona alla quale intendeva andare a fare visita. Parcheggiò lontano, non voleva che l'auto fosse vista da quelle parti.
Si sistemò in testa il cappuccio della felpa che portava sotto la giacca, lasciando ricadere all'esterno solo una ciocca di capelli. Se qualcuno l'avesse vista così, difficilmente avrebbe pensato che volesse nascondersi. Indossò un paio di occhiali da sole piuttosto ampi e diede un'ultima occhiata alla propria immagine che si rifletteva nel retrovisore. Era pronta. Scese dall'auto e proseguì a piedi verso il cimitero, andando a raggiungere la tomba della persona cara alla quale, per motivi ormai più grandi di lei, aveva scelto di non potere fare visita se non di nascosto.
«Non hai idea di quanto sia difficile recitare ogni giorno una parte» mormorò, rivolgendosi alla fotografia sulla lapide, che ritraeva una bambina sorridente. «Non hai idea di quanto vorrei che non mi fosse mai stato imposto tutto questo.»
Scosse la testa, sentendosi ridicola. Ogni volta in cui, nei film, vedeva qualcuno recarsi al camposanto e mettersi a fare conversazione con la fotografia di una persona defunta trovava la scena alquanto assurda e surreale, invece stava facendo la stessa cosa.
«Ciao, principessa» mormorò, prima di allontanarsi.
Uscì, senza essere notata da nessuno. Forse fu vista di sfuggita da una signora di una certa età che sistemava un mazzo di fiori accanto a quella che con tutta probabilità era la tomba del marito, ma si trattava di una perfetta sconosciuta che, senza ombra di dubbio, non aveva fatto caso a lei. In poche parole, quel giorno nessuno aveva visto Roberta Stewart al cimitero. La sua esistenza poteva continuare a scorrere nel modo più normale, sempre ammesso che fosse mai esistita normalità, nella sua vita, a partire dal giorno in cui un pazzo si era introdotto nella scuola elementare con l'intento di aggredire la maestra Melanie.
Roberta raggiunse la macchina, cercando di ricordare le fattezze della sua insegnante. Erano passati tanti anni e temeva di averla dimenticata. Peccato non avere potuto dimenticare anche tutto il resto, non le sarebbe affatto dispiaciuto.
Salì a bordo e si allacciò la cintura di sicurezza, realizzando che era l'8 novembre. Nel 2002 era caduto di venerdì. Se non andava errata, era stato il giorno in cui Jennifer aveva suggerito a Danny di farsi avanti con la ragazza che gli piaceva.

******

«No, non mi sembra il caso!» esclamò Danny. «Non pensi sarebbe ridicolo? Che cosa c'entro io con Cindy Spencer? È bellissima, potrebbe puntare a molto di più.»
«Anche tu non sei così male» lo rassicurò Jennifer. «Non fraintendermi, non significa che tu mi piaccia...»
Danny la interruppe: «No, non ti fraintendo, non preoccuparti. So che stai solo cercando di convincermi a fare quello che, secondo te, potrebbe essere la cosa migliore per me, ma ti assicuro che non lo è.»
Jennifer insisté: «Tra poco Cindy dovrebbe finire la lezione di pattinaggio. Dovresti andare ad aspettarla. Le potresti chiedere se puoi riaccompagnarla a casa. Non ti dirà di no, ne sono certa.»
Danny sbuffò.
«È un'idea assurda! Perché dovrebbe farle piacere essere accompagnata a casa da me?»
«Perché Cindy ha paura» rispose Jennifer. «Stamattina, a scuola, mentre ero in bagno, è entrata insieme a Janet. Le ho sentite discutere, Cindy diceva che non si sentiva sicura ad andarsene in giro da sola. Janet ha cercato di rassicurarla, le ha detto che non hanno niente di cui preoccuparsi.»
«Stavi origliando?»
«Stavo facendo la pipì. Queste si sono messe a parlare al di là della porta. Dovevo tapparmi le orecchie? Non stavano dicendo niente di segreto. Cindy, poi, si è messa a parlare di Meredith e di Will Mason. Ho sentito che menzionava anche Linda, ma Janet le ha detto di stare zitta, che forse dentro al bagno c'era qualcuno.»
«E poi?»
«Ho aspettato che se ne andassero, prima di uscire dal bagno. Non mi hanno vista.»
«Cosa dicevano su Linda?»
«Non ho capito. Janet ha interrotto Cindy prima che potesse dire davvero qualcosa.»
«Erano compagne di corso, a pattinaggio, però non penso fossero amiche. Linda mi ha sempre detto che Cindy se ne stava per conto suo e non parlava molto.»
«Magari Cindy ha qualche sospetto a proposito di Linda. Per questo ha paura. Questo potrebbe andare a tuo vantaggio. Almeno lei sa che non c'entri niente.»
Danny abbassò lo sguardo.
«Ovvio, no?»
«C'è gente che dice che l'hai uccisa tu» gli ricordò Jennifer. «Certo, solo pettegolezzi che hai fatto bene a ignorare...»
Danny non la lasciò finire.
«Va bene, andrò da Cindy e con una scusa la convincerò a fare la strada insieme a me. Però non le dirò che mi piace. Non adesso. Non mi sembra il caso.»
«È già importante che tu voglia fare qualcosa» concluse Jennifer. «Ti lascio andare. Mi raccomando, cerca di fare bella figura. Sono sicura che potresti piacerle, quindi cerca di giocare bene le tue carte.»
Danny le assicurò che avrebbe fatto del suo meglio e Jennifer lo guardò andare via.

******

"Sì, è stato proprio l'8 novembre" realizzò Roberta, mentre avviava il motore e si apprestava a tornare a casa di sua madre. Percorse i sette chilometri che la separavano dalla sua destinazione cercando di scacciare i pensieri che la tormentavano.
Quando rientrò, sua madre era nell'ingresso e sembrava quasi aspettarla.
«Dove sei stata?» volle sapere.
«A fare un giro» rispose Roberta.
«Ho visto che hai preso la macchina.»
«Sì, ho preso la macchina.»
«Dove sei stata?»
«Sono stata a fare un giro.» Roberta la guardò negli occhi. «A fare un giro in macchina.»
«Dovresti chiamare tuo padre» le ricordò la madre. «Sbaglio o, da quando sei qui, non ti sei ancora fatta viva con lui?»
Roberta alzò le spalle.
«Tanto fino a pochi giorni fa non potevo nemmeno uscire di casa per andare a trovarlo. Non sarebbe cambiato molto.»
«Ti ricordo che quell'uomo ti ha generata» replicò sua madre, secca. «Ha il diritto di vederti.»
«E io ti ricordo che ha abbandonato me e Jennifer alla nascita» replicò Roberta, «E che se ne è fregato di noi per molto tempo. In più ti ricordo che ho trentasei anni, penso di potere decidere da sola se voglio incontrarlo o no.»
Sua madre le scoccò un'occhiata di fuoco.
«Abbiamo un accordo con lui.»
«Abbiamo un accordo che abbiamo fatto quando ero solo una ragazzina facilmente influenzabile. Adesso le cose sono cambiate. Voglio che questa storia finisca.»
«Tu sei pazza!»
«No, sei tu che sei pazza se pensi che possa continuare a sottostare a questo giochetto per tutta la vita» tagliò corto Roberta. «Non voglio vedere John.»
«Avresti solo un modo per non vedere John» puntualizzò sua madre, «Ormai, però, non puoi più tornare indietro. Hai ragione, ho fatto degli errori con te, è per questo che non ti rendi conto che...»
Roberta sapeva dove stesse andando a parare, quindi non la lasciò finire.
«Non spetta a te spiegarmi chi sono. Tu non puoi sapere.»
Sua madre sospirò, con aria di rassegnazione. Almeno per quel giorno, realizzò Roberta, la discussione era terminata.

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Capitolo 12
*** Lacrime macchiate di sangue - 9 Novembre ***


[9 novembre]
Danny controllò l'orario sul display dello smartphone: erano quasi le undici. Il tempo era volato, quella sera, forse complice il fascino di Janice. Era stato riluttante, poche ore prima, all'invito di Kevin a uscire, quella sera, insieme a lui, Ellen e alla coinquilina di quest'ultima, ma in quel momento era felice di avere accettato, anche se non si spingeva a sperare di avere fatto sull'intrigante giornalista lo stesso effetto che la signorina Petterson aveva fatto su di lui.
Anche Janice controllò l'orario, sul quadrante dell'orologio da polso.
«Si sta facendo tardi, Ellen. Andiamo?»
Ellen sussultò. Doveva essere soprappensiero.
«Se vuoi.»
Stava fissando una persona entrata nel bar da poco, che aveva fatto un cenno di saluto sfuggente rivolto a Danny e Kevin, prima di andare a raggiungere Patricia. Danny era abbastanza certo che non si fossero mai incontrate, ma non era sicuro che Ellen l'avesse riconosciuta. Fu la Jefferson a confermarglielo, quando chiese a Kevin: «Quella è per caso Jennifer Robinson? Non è cambiata molto, a parte i capelli e il modo di vestire.»
In effetti Ellen era abituata a vederla con i suoi abiti vintage che sembravano usciti dagli anni '60 e con i capelli biondi. Quella donna dalla tinta color mogano, con un tocco dark nel proprio abbigliamento, era identica a Jennifer soltanto nei lineamenti.
«Quella è Roberta, la gemella di Jennifer» rispose Kevin. «Non mi sembra che tu abbia mai avuto l'onore di conoscerla.»
Ellen scosse la testa.
«No, ma Steve mi ha parlato di lei.»
«Steve?»
«Sì, quando l'ho visto in negozio e poi siamo andati a cena insieme.»
Kevin osservò: «Non sapevo fossi andata a cena insieme a Steve, né che fossi venuta in negozio.»
«Sì sarà dimenticato di dirtelo» azzardò Ellen. «Tu non c'eri, quel pomeriggio. Non avevo nemmeno capito che fossi tu, il suo aiutante.»
«Poi siete andati a cena insieme?»
«Sì, quella sera stessa. Mi ha raccontato un po' di cose sulla gente di Goldtown. Mi era sembrato di capire che tu non abitassi più qui.»
«In effetti non c'è da stupirsi che non ti abbia detto molto di me, se era impegnato a parlarti di Roberta Stewart. La sua storia è di gran lunga più interessante della mia.»
Ellen fece un mezzo sorriso.
«Sì, Steve mi ha accennato a qualcosa.»
Janice tornò a guardare l'orologio.
«Cosa ne dici, Ellen, andiamo via?»
«Aspetta un po'» replicò Ellen. «Anzi, magari puoi iniziare ad avviarti tu.»
Janice le ricordò: «Siamo con la tua macchina.»
Ellen prese fuori le chiavi dalla tasca della giacca.
«Puoi andare a casa con la mia macchina. Io ti raggiungo più tardi. Mi accompagni tu, Kevin?»
Proprio come Danny si aspettava, Kevin non ebbe problemi. Nel frattempo Janice si alzò in piedi e si infilò il giubbotto.
Prima che si allontanasse, Danny le chiese: «Hai detto "Janice Petterson", giusto? Ti trovo così, su Forevernet?»
«Sì, proprio così» confermò Janice. «Tu, invece, hai detto Daniel Silver?»
«Esatto.»
«Chiedimi pure l'amicizia. Ti aggiungo.» Janice si rivolse anche agli altri presenti. «Vi saluto. Buon proseguimento di serata. Ci vediamo a casa, Ellen.»
Si diresse verso l'uscita e se ne andò. Era appena sparita dalla loro vista, quando Kevin chiese: «Sbaglio o l'amica di Ellen ha fatto colpo?»
Danny avvampò.
«Stavamo solo parlando.»
«Sì, ho visto che stavate solo parlando, ma mi sembravi parecchio coinvolto. Tu cosa ne dici, Ellen?»
Ellen non gli diede molta soddisfazione. Non passava un istante senza che desse una rapida occhiata a Roberta.
Anche lo stesso Kevin se ne accorse e le suggerì: «Smetti di fissarla.»
«Hai ragione, scusa» ammise Ellen. «Finirà per accorgersene. È che somiglia così tanto a Jennifer...»
Kevin ribatté: «Se le parlassi, scopriresti che non le somiglia per nulla. Comunque, tornando a Janice, penso che si sia trovata bene in nostra compagnia.»
Danny capì che si trattava di un'altra allusione.
«Non so cosa ti sei messo in testa, ma faresti bene a dimenticartene subito.»
«Sei tu che non faresti bene a dimenticarti di Janice» obiettò Kevin. «Dopotutto, se ti piace, dovresti farglielo capire.»
«L'ho conosciuta un'ora e mezzo fa. E soprattutto non ho mai avuto molta fortuna con le donne che mi piacevano, fin da quando ero ragazzino.»
Calò il silenzio, come spesso accadeva quando Linda veniva menzionata, anche se in modo indiretto. Per giunta, Kevin sapeva ciò che molti altri non avevano mai saputo, ovvero che dopo Linda, nella sua vita, c'era stata Cindy.

******

Era solo un sabato sera vuoto, in cui non restava altro da fare che fingere che tutto andasse bene. Era la verità che Cindy si sforzava di raccontare a se stessa: se aveva resistito quando era stata uccisa la sua compagna del corso di pattinaggio, doveva continuare a resistere.
Conosceva Mark Forrester soltanto di vista e anche con Will, il ragazzo di Meredith, ci aveva avuto ben poco a che fare. Avevano fatto parte della sua vita molto meno di Linda Miller, a conti fatti, e la vita avrebbe dovuto continuare anche se erano stati uccisi.
Proprio in quel momento il suo cellulare vibrò. Le era arrivato un SMS.
"Ciao, come stai? Spero tutto bene."
Era Danny, che ancora una volta dava segno di avere ben poca immaginazione. Capitava spesso che le scrivesse messaggi di quel tipo e, anche dopo la lunga conversazione che avevano avuto il pomeriggio precedente, non sembrava essere in grado di sbizzarrirsi maggiormente.
Avrebbe potuto scrivergli "bene, e tu?", ma non sarebbe stata sincera. Non andava affatto bene e fingere che fosse così non avrebbe cambiato le cose. Inoltre non voleva essere così sbrigativa. Da quando Mark era morto, le era capitato più di una volta di pensare e ripensare a Linda. Non aveva mai fatto molto caso a lei. Del resto, Cindy era fatta così: non si apriva molto, con le persone che non facessero parte della propria stretta cerchia di amicizie, aveva rapporti cordiali con tutti, ma si trattava sempre di rapporti molto sommari. Linda era molto diversa. Che Cindy sapesse, non aveva amicizie strette, quantomeno non a scuola né al corso di pattinaggio artistico, ma non aveva problemi a dare confidenza alle persone. Se la ricordava, negli spogliatoi, mentre raccontava ad altre ragazze faccende anche private, come per esempio il fatto di essere decisa a scoprire chi fosse suo padre, nonostante la contrarietà della madre. Ne parlava molto spesso, nei tempi che avevano preceduto la sua morte, ed era certa che l'avesse raccontato anche a Danny.
Quest'ultimo, proprio in quel momento, fece uno squillo a Cindy, consuetudine che stava a significare "controlla il telefono, ti ho mandato un messaggio e sto aspettando con impazienza che tu mi risponda".
Cindy rifletté, mentre cancellava la notifica della chiamata senza risposta, poi gli scrisse: "Ti ringrazio per avermi accompagnata a casa ieri pomeriggio, mi manchi e non vedo l'ora che sia lunedì per rivederti."
Danny non doveva essere molto entusiasta di sapere che il loro prossimo incontro sarebbe stato fugace, se capitava, in giro per Goldtown. Infatti le fece subito una proposta più allettante: "Possiamo vederci domani pomeriggio? Prima che faccia buio, l'idea di stare fuori casa verso sera, con quello che è successo, non fa impazzire neanche me."
C'era solo una risposta possibile e fu quella che Cindy gli inoltrò: "sì".

******

Accadde tutto di colpo, prima che Danny avesse modo di rendersene conto. Un attimo prima, Roberta stava parlando con Patricia accanto al bancone del bar, un attimo dopo si stava sedendo al loro tavolo, prendendo il posto lasciato libero da Janice.
«Buonasera a tutti. Che piacere rivederti, Danny. Anche rivedere te, Kevin, ovviamente. Io e te, invece», si rivolse a Ellen, «Non mi pare abbiamo il piacere di conoscerci.»
«Mi chiamo Ellen Jefferson, sono un'amica di Kevin e Danny. Ho abitato a Goldtown, in passato, molti anni fa.»
«Io, invece, sono Roberta Stewart. Forse conosci mia sorella.»
«Jennifer? Sì, me la ricordo. Sono stata a casa sua, una volta, molti anni fa.»
Roberta parve riflettere qualche istante, prima di domandarle: «Per caso eri la fidanzata di Steve Blackstone?»
Ellen annuì.
«Sì, ma è stato molto tempo fa.»
«Steve è un tipo simpatico» disse Roberta, «Anche se non penso che sia mai andato molto d'accordo con mia sorella.»
«Che io ricordi, infatti, a Steve non piaceva molto Jennifer» ammise Ellen, «E la cosa era reciproca.»
«Però al momento non ci sono né Steve né Jennifer, quindi non è un problema» ribatté Roberta. «Tu cosa ne dici, Danny?»
A Danny venne da pensare al fatto che, da quella mattina, Jennifer non gli rispondeva al telefono. Aveva provato a contattarla più di una volta.
«Come sta tua sorella?»
«Molto meglio, grazie.»
«Non mi risponde al cellulare, sai se per caso aveva qualche impegno particolare?»
«No, si sarà dimenticata il telefono in silenzioso da qualche parte.» Roberta ridacchiò. «Anch'io, purtroppo, ho la stessa pessima abitudine. Patricia non fa altro che rimproverarmi per questo.» Si rivolse a Ellen. «Non so se conosci Patricia, la barista. È la mia fidanzata.»
«Sì, conosco Patricia» confermò Ellen. «O meglio, la conoscevo una volta. Adesso ci ho scambiato solo poche parole, non sono nemmeno sicura che si ricordi bene di me. Quando abitavo a Goldtown, più o meno vent'anni fa, mi capitava abbastanza spesso di venire in questo bar.»
Roberta non parve molto interessata al passato di Ellen. Tornò a rivolgersi a Danny: «Vedrai che, prima di andare a letto oppure domani mattina, Jennifer si chiederà dove sia finito il suo cellulare e si deciderà a contattarti. Fa sempre così, non è una novità.»
«Sai quando tornerà a Goldtown?» volle sapere Danny. «È da un po' che non la vedo. Mi piacerebbe incontrarla senza lasciare passare settimane o addirittura mesi.»
«Vedrai che presto tornerà» lo rassicurò Roberta. Lo disse senza convinzione, abbassando lo sguardo e senza poi aggiungere altro.
Non era l'unica ad apparire lontana con la mente. Anche Ellen sembrava condividerne lo stato d'animo, almeno in apparenza. Forse, però, si disse Danny, era solo stanca. Poco dopo, infatti, toccò a lei controllare l'ora e chiedere a Kevin di accompagnarla a casa. Kevin non se lo fece ripetere due volte e nemmeno un minuto dopo la richiesta di Ellen, i due erano già in piedi e si stavano avviando verso la porta.
Rimasta sola con Danny, Roberta azzardò: «Tra quei due c'è qualcosa?»
Danny alzò le spalle, cercando di mostrare indifferenza.
«Non che io sappia.»
«Mi sembrano molto intimi.»
«Non saprei. Kevin non mi ha detto niente e, di sicuro, io non gli faccio domande in proposito. Se vuole dirmi qualcosa, spetta a lui.»
«E non ti ha mai detto niente a proposito di quella Ellen?»
Danny avvampò.
«No. Non adesso, almeno.»
«Sono stati insieme in passato, per caso?» azzardò Roberta. «Ho avuto la vivida impressione che tra loro ci fosse del tenero.»
«Forse dovresti occuparti di più della tua vita sentimentale, invece che di quella degli altri» ribatté Danny. «Lasci Patricia da sola in continuazione. Quando ti deciderai a trasferirti a Goldtown in pianta stabile? E magari a trovarti un'occupazione fissa, invece di aiutare tua zia al negozio quando sei qui e lavorare con tuo padre quando non ci sei?»
Roberta si incupì di nuovo, ma si limitò a rispondere: «Lo so, la mia vita è complicata. Patricia, però, lo sa e lo accetta. Non penso che le piacciano le relazioni semplici.»
«Con te accanto, non sono sicuro che sarebbe possibile avere una relazione semplice. Penso che Patricia ormai si sia messa il cuore in pace, come hanno fatto altri prima di lei.»
«Anche Kevin si era messo il cuore in pace, vero?»
Danny spalancò gli occhi.
«Cosa vuoi dire?»
«Voglio dire che, facendo due più due, con tutta probabilità a Kevin piaceva Ellen già quando abitava a Goldtown» ipotizzò Roberta, «E adesso sta cercando di mettersi insieme a lei, ora che Steve non è più un ostacolo tra di loro. Oppure è Ellen che, a suo tempo, aveva dovuto rinunciare a Kevin per non complicarsi la vita, che adesso non vuole farsi scappare la sua seconda opportunità.»
Danny valutò la possibilità di confidare a Roberta che, con tutta probabilità, ci aveva visto giusto, ma non erano né fatti suoi né della Stewart. Sapeva vagamente che c'era stato qualcosa in passato, tra Kevin ed Ellen, ma era un segreto che aveva custodito per tutti quegli anni e che non aveva più alcuna importanza. O almeno, non aveva più importanza a livello teorico. Non c'era da stupirsi che qualcun altro sospettasse e avesse cercato di impedire un loro incontro. Non doveva essere un caso che Steve non avesse rivelato a Ellen che Kevin lavorava insieme a lui e che, anzi, le avesse riferito che aveva lasciato Goldtown insieme alla moglie Leanne, omettendo tuttavia il dettaglio della loro separazione e del suo ritorno nella sua cittadina natale. Ciò avrebbe significato che, a distanza di tanti anni, Steve era ancora attratto da Ellen, il che non sembrava del tutto plausibile a Danny, ma d'altronde, non doveva essere il solo a non avere superato le vecchie infatuazioni.
Dal momento che Roberta si aspettava una replica, si limitò a osservare: «Ne ho abbastanza di pensare alla mia vita privata, senza intromettermi in quella degli altri. Ellen e Kevin sono liberi di fare quello che vogliono, per quanto mi riguarda, senza che io debba mettermi dei problemi. Un po' come tutti, del resto. Ti assicuro che ho conosciuto persone invadenti abbastanza da farmi inorridire l'idea di potere diventare come loro.»
Roberta azzardò: «Per caso parli di quell'amica di Lacey che ha iniziato praticamente a perseguitarti dopo la vostra separazione? Quella che non faceva altro che tirare fuori argomenti come le tue relazioni passate, sostenendo che era colpa della povera Linda se tra te e Lacey non aveva funzionato?»
Danny sospirò.
«Vedo che Jennifer ti racconta proprio tutto.»
«Jennifer non parla molto di sé, quindi per non tacere racconta degli altri.»
«E Maryanne Sherman è uno dei suoi cavalli di battaglia, a quanto pare.»
«Se non sbaglio, a un certo punto ha iniziato a prendersela anche con Jennifer, accusandola senza fondamenti di essere stata la tua amante quando tu eri sposato con Lacey.»
Danny annuì.
«Sì, si è inventata un sacco di storie assurde. Per fortuna qualche anno fa si è trasferita. Non so che fine abbia fatto, non credo sia neanche su Forevernet.»
Roberta ridacchiò.
«L'hai cercata?»
«No, però a giudicare dal fatto che Maryanne non ha cercato me tramite quel mezzo per insultarmi, allora probabilmente non è iscritta» ribatté Danny. «Se non sbaglio, quando non era troppo impegnata a intromettersi nei fatti degli altri, tra le sue abitudini c'era quella di demonizzare i social media, quindi avrà tenuto fede alle proprie convinzioni. Comunque sia andata, chi se ne frega. È una persona terribile, spero di non vederla mai più.»
La sua speranza era destinata a non concretizzarsi: avrebbe rivisto Maryanne Sherman molto prima di quanto potesse immaginare.

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Capitolo 13
*** Lacrime macchiate di sangue - 10 Novembre ***


[10 novembre]
Il negozio doveva riaprire di lì a un'ora, quindi Roberta aveva tutto il tempo per passare a casa di Patricia, che non aveva ancora iniziato il turno al bar. Aveva voglia di vederla, da sole, loro due, non come la sera precedente quando era stata a trovarla al lavoro. La distanza che si era venuta a creare tra di loro quando era stata lontana da Goldtown pesava come un macigno e Roberta non era sicura ci fosse una soluzione. I segreti che si teneva dentro erano una barriera che, giorno dopo giorno, si faceva sempre più invalicabile e non era certa di essere l'unica, tra di loro, a non avere svelato ogni lato di sé.
Non importava, si disse. Non importava, perché il passato non era così interessante e perché la stessa Roberta sentiva di avere detto a Patricia la verità. Certo, non quella verità che le era stata cucita addosso fin da quando era bambina, ma la verità che sentiva davvero sua.
Suonò il campanello e Patricia la aprì subito, senza usare il citofono. Era molto probabile che l'avesse vista dalla finestra, pensò Roberta, salendo le scale. La stessa Patricia le confermò che era andata proprio così, quando si sciolse l'abbraccio con cui si salutarono.
«E cosa ci facevi alla finestra?» domandò Roberta, per non rimanere in silenzio.
Patricia sussultò.
«S-stavo... mhm... guardando fuori.»
«E che cosa c'era da vedere, fuori?»
«Niente... ma è un interrogatorio?»
Roberta rise.
«Tutto bene, Pat? Ti vedo un po' tesa.»
Patricia scosse la testa.
«No, non preoccuparti, non c'è niente che non va. È tutto a posto, se così si può dire.»
Roberta azzardò: «È per quella Kimberly Richards, vero?»
Patricia indietreggiò.
«Perché dovrei stare così per Kimberly Richards?»
Roberta replicò: «Non saprei, ma io non starei molto tranquilla se avessero ammazzato una persona a pochi passi da me, ti pare?»
«Non ero a pochi passi, quando è stata uccisa» puntualizzò Patricia, «Forse stavo ancora al bar, forse ero già andata a casa.»
«Ma la conoscevi, vero?»
«Te l'ha detto Jennifer?»
«Non mi hai risposto.»
«Nemmeno tu.»
Roberta confermò: «Me l'ha detto Jennifer, sì, le sembra di ricordare di averti vista insieme a lei, qualche volta, molti anni fa.»
Patricia precisò: «Kimberly Richards abitava a Goldtown più di vent'anni fa e, con il mio lavoro, mi è capitato di avere a che fare con tante persone. Non mi ricordo molto bene di lei. Certo, le foto che sono uscite sui giornali, scatti a partire da quando era ragazzina e fino ai giorni nostri, mi hanno fatto ricollegare il suo nome a una persona specifica, ma non saprei dirti molto su di lei. Qualche volta ci ho parlato, ma è stato una vita fa.»
Roberta si chiese se quel discorso le fosse uscito di getto, oppure se se lo fosse preparata in anticipo, ma non riuscì a giungere a una conclusione. L'unica certezza era quella che Patricia stesse mentendo, ma non poteva dirlo esplicitamente. Roberta stava iniziando a sentirsi prigioniera del proprio segreto e, se avesse osato smentire la versione dei fatti della sua fidanzata, con tutta probabilità avrebbe rischiato a sua volta.
Cercò di cambiare discorso, come tutela personale, e domandò: «Devi uscire tra poco?»
Non aveva ancora chiuso la porta, quindi provvide e vi si appoggiò contro, mentre Patricia confermava: «Sì, devo uscire tra poco. Certo, c'è Ray, e di lui mi posso fidare al cento per cento, ma preferisco non ritardare.»
«Anch'io, a breve, dovrei iniziare a lavorare.»
«Quanto ti fermerai?»
«Non lo so.»
«Non mi dire che anche stavolta pensi di lasciare Goldtown quando torna tua sorella. Non è ancora ora che tu decida dove vuoi vivere?»
Era una di quelle domande ostiche che Roberta si sentiva rivolgere in continuazione, perfino Danny le aveva chiesto qualcosa di analogo, la sera precedente. Con gli altri era più facile essere sfuggente, ma era utile per fare allenamento: anche al cospetto di Patricia, ormai, era in grado di inventare le stesse scuse.
«Sai benissimo che non è facile per me.»
«No, Rob, non lo so affatto. Non fai altro che ripetermi che non puoi lasciare tuo padre di punto in bianco e per sempre, ma non so niente di lui. So a malapena che lavoro fa. Anzi, non lo so affatto, so solo che sei la sua segretaria.»
Roberta annuì.
«Hai ragione, finisco per non parlare molto di lui, perché non abbiamo un buon rapporto. Ora mi chiederai perché ci lavoro insieme, ma...»
Patricia la interruppe: «No, non preoccuparti, mi sono messa il cuore in pace. So che, anche se non ci vai d'accordo, continui a lavorare con lui e continuerai. Quello che non capisco è che cosa significo io per te.»
Roberta sorrise.
«Tante cose, tutte positive.»
«Significo tante cose, ma non abbastanza per conoscere la tua famiglia.»
«Conosci Jennifer e Sophie.»
«Ma non tuo padre e tua madre.»
«Appunto. Conosci la parte della mia famiglia che conta davvero per me.»
Patricia azzardò: «È perché sono una donna, vero? Pensi che i tuoi genitori non accetterebbero la nostra relazione?»
«Ho trentasei anni e non c'è alcun bisogno che i miei genitori approvino le mie relazioni. Comunque mia madre sa benissimo che sto insieme a te e non ha problemi.»
«E tuo padre?»
«Chi frequento non sono fatti di mio padre. Non l'ho mai presentato a nessuno. Nemmeno ai ragazzi con cui sono stata insieme, intendo dire. Puoi chiedere a Jack, se non ti fidi di me.»
Patricia ridacchiò.
«Ma dai, non mi metto a parlare di te con Jack! È un po' imbarazzante il fatto che tu sia la sua ex.»
«È stato un sacco di anni fa, avevo appena vent'anni o poco più.»
«Sì, ma è strano.»
Roberta si arrese: «Hai ragione, capisco che possa farti questo effetto.» Era un buon modo, dopotutto, per portare la conversazione su argomenti che non fossero difficili da gestire per nessuna delle due. «In effetti anch'io non riesco a capacitarmi che la mia prima relazione sia stata, tra i tanti, con uno degli amici di Jennifer. È un po' assurdo, hai ragione.»
«Jennifer, invece?» chiese Patricia. «Per caso ha trovato l'anima gemella o è ancora single?»
«Oh, non credo che a Jennifer interessi trovare l'anima gemella.»
«È asessuale?»
«Non so cosa sia. Non ne parla, ma sembra che non le interessino molto le relazioni. Non penso che si identifichi come asessuale o qualcosa del genere, ma proprio perché sembra che la sua vita ruoti intorno ad altro. È una di quelle persone che non riescono a capire perché la vita della gente ruoti così tanto intorno all'amore e al sesso, perché per lei non funziona così, e quindi non sente il bisogno di etichettarsi in funzione di qualcosa che non fa parte di lei. Voglio dire, non ne parla neanche con me.»
Patricia rimase in silenzio per qualche istante, poi le chiese: «Di cosa parlate tu e Jennifer? Di solito, intendo.»
Roberta avvampò.
«Ma che domanda è?»
«Non ti ho mai vista parlare con lei. Anzi, se devo essere sincera, non sono nemmeno sicura di averti mai vista insieme a lei.»
«Delle volte» replicò Roberta, «Siamo state a Goldtown nello stesso periodo.»
«E ho anche visto entrambe, lo stesso giorno, a casa di Jennifer e Sophie» ricordò Patricia. «Però non credo di averti mai vista accanto a lei, o nella stessa stanza. Non ho nemmeno mai visto vostre foto insieme, a parte quelle di quando eravate bambine. Per caso anche con lei non hai un buon rapporto?»
«Non ho mai detto di non avere un buon rapporto con Jennifer» obiettò Roberta. «Anzi, andiamo abbastanza d'accordo. Solo, non sentiamo il bisogno di trascorrere il nostro tempo l'una insieme all'altra o di frequentare le stesse persone.»
Patricia obiettò: «Questo non mi sembra del tutto vero. Sbaglio o ieri sera ti sei seduta al tavolo insieme a Danny e a Kevin e poi hai passato un bel po' di tempo a parlare con Danny?»
«Non è un crimine.»
«Mai detto ciò.»
«E allora dove vuoi andare a parare?»
Patricia le ricordò: «Danny è il migliore amico di tua sorella, da sempre. Ogni volta in cui vi vedete, mi viene da pensare che tra te e Danny ci sia un legame simile.»
Roberta ammise: «Voglio bene a Danny. La sua storia personale mi colpisce da sempre: prima quello che è successo a Linda, poi a Cindy... Ha avuto una vita abbastanza difficile, anche se non ci tiene a farlo vedere.»
«Cindy» ripeté Patricia. «Sai cosa ci fosse esattamente tra di loro?»
«So quello che mi ha raccontato Jennifer a suo tempo» rispose Roberta. «Ecco, vedi che io e mia sorella abbiamo degli argomenti di cui parlare, almeno ogni tanto?»

******

Jennifer stava per finire il credito, quindi non poteva rispondere ai messaggi di Danny. Valutò la possibilità di mettersi in contatto con lui in un altro modo e realizzò che era fattibile. Sua nonna e sua zia erano impegnate a parlare tra di loro, in quel momento.
«Nonna, faccio una chiamata» annunciò, certa che nessuna delle due parenti si sarebbe preoccupata di ascoltare la sua conversazione con l'amico.
Chiamò Danny dal telefono fisso, sul numero di casa sua. Fu proprio Danny a risponderle, quindi non ebbe bisogno di farselo passare. Sembrava piuttosto soddisfatto di sentirla, o quantomeno sembrava soddisfatto in generale.
«Meno male, pensavo che non avessi letto i miei messaggi.»
«Li ho letti, ma ho pochi soldi, non potevo risponderti.»
«Non fa niente, adesso sei qui.»
Jennifer gli ricordò: «Mi hai scritto che è successa una cosa incredibile, di cosa si tratta? Per caso c'entra Cindy?»
«Sì, c'entra Cindy» rispose Danny. «Ci siamo visti oggi pomeriggio e...»
Jennifer azzardò: «E ti ha detto che non ne vuole sapere di te?»
«No, affatto, come ti viene in mente?»
«In effetti mi sembri un po' su di giri. Deve essere successo qualcosa di bello. Per caso vi siete messi insieme?»
«No, ma chissà, un giorno potrebbe succedere.»
«Per caso le hai chiesto se vuole diventare la tua ragazza e Cindy ha detto che ci deve pensare?»
«No» le confidò Danny, «Ma ci siamo baciati.»
Jennifer spalancò gli occhi.
«Quando?»
«Oggi pomeriggio.»
«Hai trascorso una domenica interessante, vedo.»
«Non mi posso lamentare. Però, mi raccomando, non dirlo a nessuno. Cindy mi ha fatto promettere che sarebbe rimasto un segreto. Non vuole che si scopra, a scuola, né che lo scoprano le sue amiche.»
Jennifer replicò: «Non mi sembra bello. È come si vergognasse di te. Sei sicuro che le abbia fatto piacere che l'hai baciata?»
Danny precisò: «È stata Cindy a prendere l'iniziativa. Comunque no, non si vergogna, è solo che non pensa sia il momento di farlo sapere in giro. Il ragazzo di Meredith è appena morto, forse non vuole farla sentire a disagio dicendole che frequenta me. La capisco, la capisco perfettamente.»
«Hai ragione, potrebbe avere i suoi buoni motivi» ammise Jennifer. «Hai fatto bene ad accettare, se è un modo per avere una vera possibilità con lei.»

******

Mancava poco alle 16,00, orario in cui quel giorno sarebbe finito il turno di Danny al supermercato. Gli piacevano le giornate in cui terminava a quell'ora, uscire quando il sole non era ancora tramontato, nemmeno d'inverno. Si stava già chiedendo come avrebbe trascorso il proprio tempo in attesa della sera, quando d'un tratto la vide: Maryanne Sherman stava spingendo un carrello verso le casse.
Danny rimase spiazzato per un attimo, ma la situazione era destinata a peggiorare: Maryanne si diresse proprio verso la cassa alla quale stava lavorando. Senza dire nulla, iniziò ad appoggiare la spesa sul rullo. Solo dopo avere depositato tutti i prodotti si girò a guardarlo. Danny era certo che la Sherman l'avesse già notato e riconosciuto, ma solo allora, fingendosi stupita, esclamò: «Danny, che sorpresa! E che piacere rivederti.»
«Il piacere è tutto mio» mentì Danny. «Non sapevo fossi a Goldtown.»
«Ebbene, sono tornata» replicò Maryanne, mentre Danny strisciata la sua spesa sul lettore. «A un certo punto finiamo sempre per tornare nei posti ai quali siamo legati.»
«Sei legata a Goldtown?»
«Molto, anche se ci sono ricordi sgradevoli.»
«Bene.» Danny passò l'ultimo prodotto e lesse l'importo. «Contanti o carta?»
Maryanne si mise ad armeggiare con il portafoglio, passandogli una tessera.
«Bancomat.»
Meglio così, sarebbe stato tutto più sbrigativo, pochi istanti e Maryanne si sarebbe levata di torno, solo il tempo che finisse di imbustare spesa. O almeno, era quello che Danny pensava. Purtroppo a quell'ora la clientela non era molta, quindi la Sherman si sentì autorizzata a fermarsi per scambiare qualche parola con lui. Ogni tanto qualche cliente lo faceva, ma Danny avrebbe pagato qualsiasi cifra perché non fosse quella cliente.
«Ho sentito della povera Kimberly.»
«Già, che fine terribile.»
Maryanne azzardò: «Non veniva a Goldtown da molto. Almeno la Richards non era un tua ragazza.»
Danny raggelò, ma riuscì a fare finta di niente.
«Lacey è stata sposata con me, ma mi pare sia ancora viva e vegeta, se vuoi dire che porto sfortuna.»
«Oh, no, non porti sfortuna» replicò Maryanne. «Sei proprio tu che sei marcio dentro. Domani è l'anniversario di morte di Cindy. Vent'anni. È stata l'ultima o ne hai fatte fuori delle altre in questi ultimi due decenni?»
«Sei sempre molto simpatica, Maryanne» ribatté Danny. «Mi sembra un po' fuori luogo, però, scherzare su certe cose.»
«Non scherzavo.»
«Non posso dire quello che penso di te, dato che sei qui in veste di cliente, ma penso tu possa immaginarlo.»
«Io, invece, ti dico quello che penso di te e della tua amica Robinson» concluse Maryanne, posando la busta della spesa dentro al carrello, ormai pronta per andare via. «Siete due disgustosi maniaci e prima o poi la verità verrà alla luce. Povera Linda, era una ragazzina innocente. E povera Cindy, era una puttana come tutto il gruppo di Lydia, ma non meritava di incontrare un maniaco come te.»
Non aggiunse altro. Per fortuna aveva parlato piano. Danny realizzò che né la collega dell'altra cassa aperta né alcun cliente avevano fatto caso a Maryanne. Era stata una fortuna e non era certo che si sarebbe ripetuta.

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Capitolo 14
*** Lacrime macchiate di sangue - 11 Novembre ***


[11 novembre]
«Siete voi?» chiese Janet, al citofono.
«Sì» rispose Danny, «Siamo noi.»
Il portone scattò e, solo infilandosi nell'atrio, Danny realizzò che, a meno che Janet non fosse così brava a riconoscere le voci, potenzialmente chiunque avrebbe potuto introdursi facilmente in casa sua.
Danny salì le scale, seguito da Jennifer. Era tornata a Goldtown proprio quella sera, ma non si sarebbe fermata a lungo. Aveva avvertito Danny che l'indomani mattina sarebbe ripartita per raggiungere la madre fuori città. Non le aveva fatto domande, anche perché c'era stato ben altro di cui parlare: l'incontro con Maryanne Sherman del giorno precedente. A distanza di ore da quel racconto, tuttavia, nessuno dei due vi stava dando molto peso, qualcosa di più importante li aspettava.
Janet li attendeva sulla porta.
«Prego, entrate. Che piacere rivedervi, soprattutto tu, Jennifer, sono passati secoli.»
Jennifer annuì.
«Già, un vero piacere. Ti abbraccerei, ma preferisco evitare i contatti troppo stretti. Sai, sono guarita da poco dal coronavirus.»
«Ma adesso stai bene?» si informò Janet.
«Sì, tutto a posto» rispose Jennifer. «L'ha avuto anche mia madre, che non sta ancora benissimo.»
«E tua sorella?» azzardò Danny.
«Oh, sì, anche mia sorella.»
«Potevi portare anche lei stasera.»
«Già» convenne Janet. «Avresti potuto chiamare anche Roberta.»
«Gliel'ho detto, ma non le sembrava il caso di venire» ammise Jennifer. «Penso si sentisse invadente. Dopotutto Roberta non era a Goldtown, vent'anni fa. Non ha mai conosciuto Cindy.»
Era una giusta osservazione, realizzò Danny, mentre entrava in casa insieme all'amica. Janet richiuse la porta alle loro spalle e li invitò a raggiungerla in soggiorno. La sala era piuttosto affollata: c'erano Lydia, Steve, Jack, Kevin e perfino Ellen, che in apparenza nessuno lasciava da parte.
«Prego, sedetevi» disse Janet. «Le sedie che sono rimaste forse fanno un po' schifo, ma sono tutte quelle che avevo.» Si avvicinò alla finestra e la accostò. «Fuori non fa molto freddo, magari facciamo cambiare un po' l'aria, siamo in troppi.»
A scopo precauzionale, Jennifer indossò una mascherina chirurgica, spiegando: «Ormai non dovrei più essere contagiosa, ma preferisco non esporvi al pericolo.»
Steve osservò: «È bello vederti comportarti come una persona normale, per una volta.»
Jennifer ribatté: «Proprio oggi Roberta mi diceva che scambia sempre qualche parola con te, quando vi incontrate davanti ai vostri negozi, quindi pensavo fossi in qualche modo migliorato, ultimamente. Mi ero illusa.»
Steve ignorò il suo commento e le chiese, piuttosto: «Roberta non c'è?»
«Sai benissimo perché siamo qui» gli ricordò Jennifer. «Non le sembrava giusto intromettersi.»
Era il ventesimo anniversario di morte di Cindy Spencer. Organizzare quella serata in suo ricordo era stata un'idea di Janet, che non aveva mai dimenticato l'amica e la triste fine che aveva fatto. Tutti i presenti, con la sola eccezione di Ellen che al massimo l'aveva vista qualche volta di sfuggita, avevano conosciuto Cindy. Danny sperò che Jennifer non rimarcasse quel particolare, ma quel desiderio venne bruscamente stroncato.
«Sai, Steve, Roberta non ha mai conosciuto Cindy. Qui, invece, mi pare che l'abbiamo conosciuta tutti, a parte una persona. Evidentemente Roberta ed Ellen la pensano in modo molto diverso. Sei stato tu a insistere perché venisse?»
Steve scosse la testa.
«Sei fuori strada, Jennifer.»
«Devo insinuare, allora, che ti somigli così tanto da non capire quando è inopportuna?»
Danny valutò se fosse il caso di intervenire, per pregare l'amica di non fare polemica, specie contro Ellen che poco aveva a che vedere con Steve, ultimamente, ma non fu necessario. Fu la stessa Ellen a precisare: «Non è stato Steve a chiedermi di venire qui e non capisco perché ti sia venuta una simile idea.»
«Eri la sua ragazza, no?»
«Appunto, lo ero, molto tempo fa.»
«Scusa, non avevo capito. Pensavo vi foste rimessi insieme.»
Ellen ridacchiò.
«Hai una strana idea di come funzioni la vita sentimentale. Del resto non c'è da stupirsi. Non hai molta esperienza in proposito, vero?»
Janet richiamò tutti all'ordine.
«Non vi ho chiamati qui per darvi la possibilità di litigare tra di voi o per dibattere delle vostre vite sentimentali. Cosa importa il numero di relazioni che abbiamo avuto? Tanto siamo più o meno tutti nella stessa barca, qui, mi pare. Nessuno di noi ha avuto una vita sentimentale felice e senza intoppi.»
Lydia azzardò: «Veramente io e Dylan stavamo bene insieme.»
«Sì, certo, parlavo di quelli che...» Janet si interruppe. «Hai capito.»
«Sì, ho capito» rispose Lydia. «Hai ragione, parlavi di chi ha ancora tutti gli ex partner in vita.» Il suo sguardo si incrociò con quello di Danny, che la vide subito abbassare gli occhi. «Voglio dire, di chi ha ancora in vita l'ex partner più importante.»
Danny la rassicurò: «Non preoccuparti, Lydia, ho capito cosa vuoi dire.»
L'atmosfera sembrava essersi fatta pesante e seguì un lungo silenzio. A sorpresa, fu Jack a interromperlo.
«Nessuno di noi ha avuto una vita particolarmente felice, un po' come se avessimo cercato di aggrapparci a tutti i costi a qualcosa, ma poi ci fosse sfuggito. Non è difficile capirne le ragioni. Spesso il nostro primo pensiero è stato quello di andare avanti e di dimenticare il passato a tutti i costi, rimpiazzandolo con qualcosa che riempisse il nostro vuoto. Quindi abbiamo fatto tante scelte sbagliate, anche in campo sentimentale.»
Era un discorso interessante, che Kevin, apparentemente, teneva ad approfondire: «Penso che quello che dici sia giusto. Alcuni di noi hanno cercato di andare via da Goldtown non appena ne è capitata l'occasione, altri si sono allontanati dalla loro vera strada perché si sentivano schiacciati dai brutti ricordi.»
Janet, ancora vicina alla finestra, si affacciò per guardare fuori, osservando: «Avete ragione, concordo in pieno. Per un lungo periodo, diciamo per anni e anni, tutto ciò che desideravo era andare via e cercare di togliermi dalla testa le ultime parole che avevo scambiato con Cindy, quel...» Si interruppe per un attimo. «Quel giorno, uscendo da scuola. La salutai sorridendo e le dissi "ci vediamo domani". Cindy rispose "a domani" e poi se ne andò, mentre io rimanevo un attimo nel cortile a scambiare qualche parola con non ricordo nemmeno chi. Non potevo nemmeno immaginare che non l'avrei rivista mai più. Non...»
Con una mano si sistemò la fascia con cui teneva indietro i capelli.
«Hai una ciocca che è rimasta infilata dentro» la informò Lydia.
Janet cercò di sistemarsi i capelli a tentoni, replicando: «Non fa niente, tanto la fascia la tengo solo perché non appena prendo un colpo d'aria inizia a farmi male la nuca.»
Lydia scherzò: «È l'età che avanza!»
«No, affatto» ribatté Janet. «È da quando ero ragazzina che soffro di dolori cervicali. È la ragione per cui a un tempo portavo sempre quelle stupide cuffie dai colori sgargianti.»
«Non ti stavano male.»
«Se le avesse viste Cindy, sarebbe inorridita. Da parte sua, non si sarebbe mai messa in testa qualcosa che avesse colori così assurdi.»
«Già, i suoi gusti in fatto di abbigliamento sono sempre stati molto più sobri dei tuoi. È incredibile quanto foste diverse tu e Cindy.»
Janet si girò a guardarla.
«No, io e Cindy non eravamo diverse. Eravamo molto più simili di quanto tu possa immaginare... di quanto tutti possano immaginare. Non so se sia per questo, che ho sentito la sua mancanza ogni fottuto giorno. Non c'è mai un solo momento in cui riesco a dimenticarmi davvero di lei, né voglio dimenticarla. Mi disse "a domani" e per me quel domani non è mai arrivato.»
Danny stava per dire qualcosa, ma vide Janet abbassare lo sguardo, prima di voltarsi e di tornare alla finestra. C'era qualcosa di insolito in lei, un po' come se si stesse mettendo in bocca frasi fatte per non spingersi troppo oltre, come se ci fosse dell'altro, che preferiva tenere per sé, ma che temeva di lasciarsi sfuggire. Danny provò a chiedersi cosa la tormentasse, ma non riuscì a trovare risposta. Molto probabilmente Janet si ritrovava a dovere fare i conti con la sensazione che tutti loro avevano conosciuto, il senso di colpa che derivava dall'essere ancora in vita mentre alcuni loro amici avevano trovato la morte così giovani e così all'improvviso.

******

Janet si guardò intorno. Non c'era nessuno, si potevano fermare. Anche Cindy doveva essere arrivata alla stessa conclusione, dato che di colpo aveva smesso di camminare.
«Va bene qui?» le chiese.
«Sì, va bene qui» rispose Janet. «Non potevo dirtelo stamattina a scuola...»
«Anch'io non potevo dirtelo stamattina a scuola» la interruppe Cindy, «Ma voglio che tu lo sappia. Non dirlo a nessuno, nemmeno a Lydia o a Meredith, ma ieri sono uscita con Danny Silver.»
Janet alzò gli occhi al cielo.
«Cazzo, Cindy, dobbiamo parlare di una cosa importante e tu mi vieni a raccontare che sei uscita con Danny?»
«Anche quella è una cosa importante.»
«Sì, capisco quello che vuoi dire, ma quell'altra storia potrebbe essere una questione di vita o di morte. Mi fa piacere se ti sei presa una cotta per qualcuno. Certo, mi sembra un po' strano che quel qualcuno sia Danny Silver, ma...»
Cindy scosse la testa.
«No, Janet, non hai capito. È vero, sono uscita con Danny e l'ho pure baciato, ma non l'ho fatto perché mi piace. Voglio scoprire cos'è successo davvero a Linda, tutto qui.»
«Non dire cazzate» replicò Janet. «Danny non sa niente, non può dirti nulla. Non c'entra niente con il delitto e, se pensassi il contrario, sarebbe assurdo uscirci insieme, ti pare?»
«So benissimo che Danny non sa niente del delitto» replicò Cindy, «Ma magari sa qualcosa su Linda. A volte la sentivo, quando parlava, al corso di pattinaggio. Raccontava che le sarebbe tanto piaciuto conoscere suo padre. Mi viene il dubbio che qualcuno possa essersi messo in contatto con lei, essersi spacciato per suo padre, averle dato un appuntamento e averla uccisa.»
«Ma perché?»
«E che cazzo ne so?! Perché qualcuno ha ucciso Mark e poi Will?»
«Ecco, era proprio di Will che dovevamo parlare» le ricordò Janet. «Ci ho pensato e ripensato. La notte in cui è stato ucciso Mark, l'ho visto.»
«La notte in cui è stato ucciso Mark, non eri in casa?» obiettò Cindy.
«Era la notte di Halloween, in TV stavano dando un film horror. Me lo sono vista, anche se certe scene mi facevano abbastanza schifo, poi mi sono messa a letto. Non riuscivo a dormire, avevo ancora il voltastomaco per le immagini del film, allora ho aperto la tapparella e mi sono messa a guardare fuori. L'ho visto passare. Sono sicura che fosse Will, perché la strada sotto casa mia è piuttosto illuminata. Ho guardato l'orologio, doveva essere l'una meno un quarto. Non ne ho mai parlato perché, all'inizio, era stato sospettato di avere qualcosa a che vedere con l'omicidio di Mark. Adesso che è morto, però, te lo posso dire.»
«Quindi pensi che c'entrasse davvero qualcosa con il delitto?»
«Non lo so. Mi viene il dubbio che potesse davvero avere qualcosa a che fare con quella storia, ma non da solo, insieme a qualcuno che poi si è sbarazzato anche di lui.»
Cindy azzardò: «Magari stava semplicemente facendo una passeggiata per strada?»
«Da solo e a quell'ora? Mi sembra un po' strano.»
«Sarà anche strano, ma non è certo un reato, ti pare? La gente è ancora libera di andarsene in giro per strada, non credi?»
«Tu vuoi scoprire cos'è successo a Linda» mise in chiaro Janet, «Io voglio scoprire cos'è successo a Will.»
«Meredith cosa ne pensa?»
Janet sussultò.
«Meredith non lo sa.»
«Devi dirglielo» replicò Cindy. «Devi dirglielo, che sei convinta che Will avesse qualcosa a che vedere con l'omicidio di Mark e che sia stato ucciso da un complice.»
«Tu sei pazza!» sbottò Janet. «Non posso certo dire a Meredith come la penso. Darebbe di matto e troverebbe un modo per farmi perdere credibilità! Aveva proprio perso la testa per Mason.»
«Anche tu avevi perso la testa per Mason» le ricordò Cindy. «Sbaglio o ti eri fatta avanti con lui? Poi Will ti ha detto che ti considerava troppo giovane e si è messo insieme a Meredith. Ti rendi conto che, per vendicarti della sua decisione, lo vuoi far passare per un potenziale assassino, e proprio adesso che è morto e non può più difendersi?»

******

«Janet? Ehi, Janet, ci stai ascoltando?» chiese qualcuno, facendola sobbalzare.
Janet si girò di scatto verso i suoi amici. Richiuse la finestra, adducendo al fatto che si iniziasse a sentire troppo il freddo, dentro casa, poi cercò di comportarsi come se nulla fosse successo. In fondo non era accaduto nulla, si era solo messa a pensare a ciò che, in realtà, era avvenuto al posto di quel "ci vediamo domani". Non si erano mai date appuntamento all'indomani, quel giorno di vent'anni prima, aveva incontrato Cindy in un secondo momento. Le aveva confidato i suoi sospetti su Will, sospetti che a distanza di vent'anni le apparivano del tutto ridicoli, ma di cui ai tempi era davvero convinta.
Lydia doveva essersi accorta che era turbata, dal momento che le chiese: «Tutto bene?»
Janet valutò fino a che punto potesse spingersi, poi confidò, a lei e a tutti gli altri: «Stavo pensando ai delitti di vent'anni fa. Non solo a Cindy nello specifico, ma anche a Will.» Molto tempo dopo il 2002 aveva riferito a Lydia di averlo visto quella notte, anche se si era dichiarata non certa al cento per cento che si trattasse proprio di lui. «Ricordi, vero, che diceva di essere stato in casa già da tempo, all'ora della morte di Mark, ma che io ero convinta che fosse fuori?»
«Sì, ma che importanza ha?» replicò Lydia. «È stato ucciso anche lui.»
«Lo so. Probabilmente era in giro per qualche altra ragione, ma preferiva evitare che si sapesse. Forse sapeva qualcosa.»
«Chi può dirlo.» A sorpresa, era stato Jack a intervenire. «Magari non ricordava nemmeno dove fosse, all'ora del delitto, se era stato fuori. Negli interrogatori chiedono l'ora esatta in cui hai visto qualcuno, come fosse vestito, da che parte stesse andando... ma in realtà non tutti badano a queste cose. Quanta gente avete incontrato oggi? Forse riuscite a ricordarvi ogni persona, ma sapreste descrivere, per tutti loro, come fossero vestiti? Oppure il minuto esatto in cui li avete incontrati? La verità è che gli orari che abbiamo in mente sono sempre imprecisi, a meno che non ci sia qualche motivo preciso per cui ce li ricordiamo. Ad esempio, se qualcuno mi chiedesse a che ora tornai a casa la sera in cui fu ucciso Mark, me lo ricorderei a distanza di vent'anni, ma per un motivo ben preciso: non avevo sonno e mi misi a guardare alla televisione la replica di una partita che c'era stata quella sera stessa. Iniziò a mezzanotte in punto e per i primi dieci minuti mi misi a parlare con i miei genitori, che poi andarono a letto. La mattina dopo mio padre si lamentò perché aveva notato la TV accesa fino a tardi e temeva che non fossi sveglio abbastanza per il lavoro che avremmo dovuto fare in officina.»
Ellen azzardò: «Non era un festivo, il giorno dopo?»
«Sì, era il primo novembre» confermò Jack, «Ma avevamo un lavoro urgente da finire, per un cliente importante che voleva assolutamente venirsi a prendere la macchina l'indomani, quindi andammo a lavorare anche se era festa. Per tutto il tragitto mio padre mi fece la predica, lamentandosi del fatto che ero andato a letto tardi per guardare una partita, nonostante di solito seguissi poco il calcio, quindi non sarei stato abbastanza concentrato.»
«Come mai avevi guardato quella partita, se non seguivi il calcio?» volle sapere Ellen.
«Per curiosità. Me ne avevano parlato Kevin e Danny, che l'avevano vista al bar.»
«Vista è una parola grossa» osservò Kevin. «Di solito andavamo a vedere le partite al bar solo per ascoltare i discorsi dei pensionati radunati davanti al televisore.»
«Infatti» concordò Danny, «Nessuno dei due era un grande appassionato di calcio, quella gente però faceva piegare in due dalle risate.»
Jack proseguì il suo racconto, dando le spiegazioni che Ellen aveva chiesto: «Non avevo sonno e, dato che di solito il calcio mi annoiava, speravo che la partita avesse un effetto soporifero. Invece fu l'esatto contrario. Era una delle fasi a eliminazione della Coppa d'Autunno, anche se non ricordo con esattezza quale fase. Era considerato un trofeo importante, ai tempi. Il risultato rimase sullo zero a zero per tutta la durata dei tempi regolamentari. Pensavo che mi sarebbero cadute le palpebre, invece no, vedere l'azione in campo, che non mancava, finì per svegliarmi più del dovuto. Ricordo alla perfezione il goal di Harvey Lee e ricordo perfettamente che fu al novantanovesimo. Fu una bellissima azione. A quel punto, ovviamente, non potevo più andare a letto. L'altra squadra diede tutto il possibile, per cercare di pareggiare, ma fu del tutto inutile.»
«Capisco perfettamente il tuo discorso: qualcosa di entra nella memoria per il motivo più disparato, ogni tanto, e magari ci torna utile per ricostruire altri eventi» rispose Danny. «Personalmente non ricordo più nulla di quella partita. Anzi, mi sembrava che il goal che ha deciso il risultato fosse arrivato molto vicino alla fine, ma potrei ricordare male.» Ridacchiò. «In effetti non era molto facile seguire con attenzione, con tutto il caos che facevano al bar... e magari parlando di tutto, tranne che della partita!»
«È sempre stato così, seguire qualsiasi cosa al bar a Goldtown» convenne Kevin, «E probabilmente succede la stessa cosa in ogni bar, in ogni luogo del mondo. Per quanto riguarda Cindy, invece...»
Disse qualcosa e altri risposero, ma l'attenzione di Janet venne attirata da Ellen, che le fece un cenno, come a indicarle di avvicinarsi. Janet fece qualche passo verso di lei.
«Dovrei andare in bagno» la informò Ellen, a bassa voce. «Da che parte è?»
Janet colse al volo l'opportunità per abbandonare almeno per qualche istante il soggiorno.
«Vieni, ti accompagno.»
Ellen si alzò in piedi e si lasciò condurre verso la toilette.
«Va tutto bene?» volle sapere Janet. «Mi sembri un po' pallida.»
Ellen alzò le spalle, con aria indifferente.
«No, è tutto a posto, penso sia solo un piccolo capogiro.»
Janet cercò di sdrammatizzare.
«Dì la verità, ti sei annoiata a morte sentendo Jack raccontare di quella partita, di quel Lee-come-si-chiama che faceva goal e dell'altra squadra che cercava a tutti i costi di ribaltare il risultato. Senza offesa per gli appassionati di sport, non capisco come si possano ricordare in modo così maniacale le azioni di una partita della Coppa d'Autunno a distanza di vent'anni.»
«No, Jack non c'entra niente» rispose Ellen. «Poi, ti dirò, c'è stato un breve periodo della mia vita in cui ho scritto di sport e in particolare di calcio.»
«Ah, già, Kevin mi diceva che sei una giornalista. Pensavo ti occupassi di cronaca.»
«Adesso sì, ma agli inizi della mia carriera mi mettevano a tappare buchi. Me ne sono fatta una ragione, pensando che un giorno tutto potesse essermi utile.»
«E ti è stato utile?»
«Non saprei. Le tue cuffie e le tue fasce sono utili per la cervicale?»
Janet aggrottò la fronte.
«In che senso?»
«Nel senso, tenere la testa coperta ti aiuta a evitare i dolori di cui hai parlato?»
«Dipende. Un po' sì, o almeno, voglio convincermi che conti qualcosa. Magari è questo che mi fa sentire meno il male.»
«Ecco, mi sembra un esempio calzante» disse Ellen, piuttosto criptica. «Allo stesso tempo io voglio convincermi che avere, in passato, sprecato ore a scrivere di cartellini gialli, cartellini rossi, sostituzioni, arbitri, golden goal e partite decise ai calci di rigore possa essermi stato in qualche modo d'aiuto. Non hai idea di quante lacrime ci ho buttato, su quei pezzi, e tuttavia non le rimpiango. Anche la cronaca non mi ha riservato di meglio: solo lacrime macchiate di sangue.»

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Capitolo 15
*** Lacrime macchiate di sangue - 12 Novembre ***


[12 novembre]
Ellen trovò Janice affacciata alla finestra, intenta a guardare fuori. La sera precedente era già andata a letto quando Ellen era rincasata e quella mattina era uscita molto presto. Senz'altro le avrebbe chiesto come fosse andata la serata a casa di Janet, ma non aveva ancora deciso quanto riferirle. C'erano questioni che le avevano fatto sorgere dei dubbi, che tuttavia non riusciva ancora bene a definire. Si preparò, comunque, all'ennesima predica: la sera precedente Janice era stata troppo occupata per lamentarsi delle sue frequentazioni, ma quel giorno l'avrebbe fatto senz'altro.
Non fu una sorpresa vedere Janice girarsi lentamente, tuttavia doveva essere il giorno fortunato di Ellen, dal momento che la sua coinquilina si limitò a chiederle: «Hai già pranzato?»
«No.»
«Nemmeno io.»
«Allora» suggerì Ellen, «Possiamo pranzare insieme.»
«Sono passata dal supermercato, poco fa» disse Janice, quasi distrattamente. «Ho comprato del petto di pollo da cuocere alla piastra. Ti può andare bene?»
«Sì.»
«Okay, allora ci penso io. Prima, però, dovrei parlarti di una cosa importante.»
Ellen sospirò.
«Per caso vedo Kevin troppo spesso per i tuoi gusti?»
La replica di Janice fu piuttosto piccata: «Forse ti sorprenderà scoprirlo, ma non tutto gira intorno a te.»
«Lo so perfettamente» ribatté Ellen, con lo stesso tono. «Di solito, però, non fai altro che mettermi in guardia, ripetermi che è pericoloso avere a che fare con i miei amici di vent'anni fa.»
Janet non fece commenti né parve minimamente interessata a quella polemica, mentre le annunciava: «Ieri sera è stato qui Roger Callahan.»
«Gli hai fatto vedere quella crepa nella finestra del bagno? Ha detto che possiamo chiamare qualcuno per sistemarla?»
«Lascia stare la finestra del bagno. È successa una cosa molto più interessante. Hai presente che Callahan se ne va sempre in giro con un borsello dove tiene il portafoglio e il cellulare?»
Ellen cercò di fare mente locale.
«Veramente no, non ce l'ho presente. Ho cose più importanti a cui pensare, non ho mai fatto caso a dove il nostro padrone di casa tenga il portafoglio.»
«Ieri sera» proseguì Janice, «Quando è andato via, si è dimenticato il borsello. È venuto a prenderselo dopo cinque minuti, ma ormai avevo già fatto quello che dovevo.»
«Ovvero?»
«Ovvero l'ho aperto per guardare cosa ci tenesse dentro.»
«Wow, molto interessante» borbottò Ellen. «Come ti è venuta in mente una simile idea? Chiedo perché mi ricorda un po' quando, da bambina, curiosavo dentro la borsa di mia nonna.»
«Conserva una foto nel portafoglio. Prova a indovinare di chi.»
«Della compagna?»
«Penso che sia single.»
«Un figlio o una figlia, allora?»
«Nemmeno, non penso che ne abbia.»
«Di un presunto compagno, allora?»
«No, sei totalmente fuori strada.»
Ellen sbuffò.
«La foto di un cane? Di un gatto? Dei genitori? O magari di Harvey Lee?»
Janice aggrottò la fronte.
«Harvey Lee? E chi cavolo sarebbe?»
«Un calciatore degli anni 2000 che ha fatto goal durante una partita vista in replica da Jack Mitchell vent'anni fa. Per qualche motivo ne abbiamo parlato ieri sera.»
«Mi dispiace deluderti. Non so se Callahan sia appassionato di calcio datato, ma si guarda bene dal tenere dentro il portafoglio fotografie di giocatori dei vecchi tempi. In compenso ci tiene dentro la foto di una ragazzina. E prima che tu mi dica che potrebbe essere una figlia o una nipote, ci tengo a precisare che non si tratta di una ragazzina qualsiasi. Non ci sono dubbi: è una foto di Linda Miller.»
Ellen sussultò.
«Perché mai il nostro padrone di casa dovrebbe tenersi una foto di Linda Miller nel portafoglio?»
«Ho richiuso tutto e fatto finta di niente» puntualizzò Janice. «Non potevo certo dirgli che avevo curiosato tra i suoi effetti personali scoprendo una foto di una vittima di omicidio, chiedendogli il motivo. Se fosse stato un altro, magari l'avrei fatto, ma abitiamo in affitto in casa sua, non mi sembrava un modo per fargli buona impressione.»
«E vorrei ben dire.»
«Resta il fatto che porta con sé una foto della Miller. Perché? Non riesco a trovare un sola spiegazione sensata.»
Ellen azzardò: «Potrebbe essere una sua parente alla lontana, oppure la figlia o la nipote di qualche suo amico. Non sappiamo niente di Callahan, non possiamo escludere che abbia una ragione valida e logica per tenersi il ritratto di Linda nel portafoglio.»
Janice convenne: «Hai perfettamente ragione, ma Callahan non abitava a Goldtown, ai tempi.»
«Hai mai sentito parlare di cose come le automobili, le moto, gli autobus o i treni? La gente si sposta, di solito non conosce solo ed esclusivamente i propri dirimpettai.»
«Callahan sapeva del nostro lavoro, quando mi ha affittato l'appartamento.»
«Però non sei tu quella che segue da vicino la vicenda dei delitti di Goldtown.»
Janice annuì.
«Questo è vero, ma gli avevo già accennato a te. Può darsi che sapesse o sospettasse che cosa saresti venuta a fare.»
Ellen obiettò: «Se avesse qualcosa di utile da dirci, con tutta probabilità l'avrebbe fatto. Non mi sembra abbia mai accennato neanche minimamente ai fatti del 2002.»
«Oppure» ipotizzò Janice, «Potrebbe avere ucciso Linda proprio lui stesso.»
«Perché portarsi in giro una sua foto e lasciarla incustodita?»
«Non saprei, magari ci sta chiedendo di fermarlo.»
«Se la persona che uccideva vent'anni fa è la stessa che ha ucciso Kimberly Richards, non mi sembra che abbia tutta questa volontà di smettere di uccidere. Anzi, ha ricominciato. In più, non siamo di fronte a un pazzo che uccide per caso, ma a qualcuno che segue un piano preciso, anche se non sappiamo quale.»
«In realtà non sappiamo nemmeno per certo che sia la stessa persona a uccidere. Non abbiamo la benché minima prova e anche le indagini sono a un punto morto.»
«Abbiamo i messaggi di Mabel.»
«Messaggi che hai deciso di tenere per te, come le lettere.»
Ellen dichiarò, con convinzione: «La persona che ha scritto su Forevernet sia a me sia al negozio di Steve firmandosi Mabel non può più fare del male a nessuno. Doveva trattarsi di Kimberly, i messaggi sono terminati con la sua morte.»
Janice ribatté: «Non c'erano motivi validi per cui la Richards dovesse scrivervi. Neanche la conoscevi.»
Ellen obiettò: «Kimberly doveva essere convinta di vivere in una soap opera. Forse pensava che io e Steve avessimo ucciso Mark per poterci mettere insieme, o qualcosa del genere. Magari ci ha scritto perché pensava di avere qualcosa contro di noi. Se dobbiamo pensare a una persona non nel pieno delle proprie facoltà mentali, penserei piuttosto a Kimberly, non certo all'assassino.»
«Dunque» ricapitolò Janice, «Dal nulla questa fidanzatina adolescenziale di Mark si sarebbe messa in testa che tu abbia avuto a che vedere con la sua morte e, a distanza di vent'anni esatti, si sarebbe messa a mandarti messaggi su Forevernet, così come a mandarne al tuo ex fidanzato, per mettervi in guardia, come a dirvi che sapeva tutto. È questo che stai cercando di dire?»
«Più o meno.»
«Interessante e perfino credibile. Stando a quanto si dice di questa Kimberly, sembra fosse una persona piuttosto melodrammatica e capace di farsi dei gran viaggi mentali per nulla. Avrebbe senso. Solo, c'è un piccolo dettaglio: se la Richards scriveva a te, Steve e Kevin, solo voi avreste dovuto essere al corrente dei deliri di questa Mabel. Invece, mi pare di capire, sei convinta che l'assassino di Mark e degli altri si sia sentito in pericolo e che l'abbia fatta fuori, dopo vent'anni dagli ultimi delitti. Come è venuto in contatto con Kimberly, se Kimberly seguiva una falsa pista? Perché avrebbe dovuto sentirsi spaventato da lei?»
Ellen fu costretta ad ammettere: «Questa è una domanda molto interessante, alla quale però non so dare risposta. L'unica ipotesi che mi viene in mente è che non fosse sola a fare certi deliri. Qualcuno la manovrava, oppure ha confidato i suoi sospetti a qualcuno di cui si fidava.»
«In più, sembra che dal suo numero sia partita una telefonata diretta al bar di Patricia, qualche sera prima del delitto. O almeno, queste sono le indiscrezioni. Sembra che la Lynch abbia dichiarato di non sapere che Kimberly l'avesse chiamata. Potrebbe essersi spacciata per una cliente qualsiasi. Eppure c'è qualcosa che non mi torna.»
«Quando mai le cose ti tornano?»
«Sono un'osservatrice, Ellen, e ho osservato qualcosa di molto interessante. Come ben saprai, in questi giorni alla televisione sono stati fatti un sacco di programmi su di lei, al limite del tabloid scandalistico. Ci sono stati inviati che sono andati a pescare dei suoi ex fidanzati o delle sue ex fidanzate.»
«TV spazzatura.»
«Basta solo sapere come riciclare i rifiuti... e ti assicuro che i rifiuti, in questo caso, si riciclavano bene. Da quello che ho visto, questa Kimberly sembrava avere dei canoni ben precisi, quando si trattava di rimorchiare.»
«Oh, capisco dove vuoi arrivare» realizzò Ellen. «Per caso le piacevano donne con i capelli lunghi e scuri, che amano vestirsi di nero?»
«E anche con fattezze fisiche simili a quelle della Lynch» confermò Janice. «Non ti sembra un campanello d'allarme?»
«Magari, in qualche momento del passato, Kimberly Richards si è scopata Patricia del bar» azzardò Ellen. «E allora? Come può esserci utile questo dettaglio?»
«In tal caso, Patricia potrebbe avere mentito a proposito della chiamata a cui sostiene di non avere fatto caso.»
«Potrebbe essere una reazione normale. Credo dovremmo smetterla di sospettare di ogni singolo dettaglio e soprattutto di credere che ogni relazione sentimentale o sessuale vera o presunta sfoci in un omicidio. Mi sembra abbastanza chiaro che non siamo di fronte a dei delitti passionali.» Ellen si diresse verso il frigo, pronta a passare oltre. «Lo vogliamo cuocere quel famoso petto di pollo o vuoi rimanere a parlare di delitti fino all'ora di cena?»
Janice la trattenne: «Aspetta ancora un attimo. Non mi hai detto niente di ieri sera. Com'è andata?»
«È andato tutto nel più normale dei modi» rispose Ellen. «Ho scoperto che Lydia aveva una vita coniugale serena prima che suo marito morisse in quell'incidente d'auto, che Janet soffre di problemi di cervicale, che Danny pensa ancora a Cindy, che Jennifer sembra alternarsi con la gemella tra il lavoro al negozio e quello con il loro padre, che Jack da ragazzo non era minimamente appassionato di calcio, ma guardava partite sperando che lo aiutassero a prendere sonno...»
«E Steve?» volle sapere Janice. «L'altro giorno mi avevi detto che, quando l'avevi visto per caso per strada, ti era sembrato freddo nei tuoi confronti. È perché frequenti Kevin?»
«Non ne ho idea» replicò Ellen. «Sono passati secoli, io sono stata sposata e Steve è stato fidanzato per molti anni con Phyllis. Perché dovrebbe avere problemi?»
«Dovresti parlarne con lui. Anzi, in realtà dovresti evitare Steve, Kevin e tutti i loro amici, sarebbe la cosa migliore.»
«Niente affatto. Senza di loro non avrei i miei agganci.»
Janice le scoccò un'occhiata di fuoco.
«Per caso esci con Kevin solo perché speri ti possa essere utile per scoprire qualcosa?»
«Frequento Kevin perché lo trovo sexy e intrigante» si affrettò a rispondere Ellen. «In più mi trovo bene con lui e mi sembra compatibile con me come persona. Te l'ho detto, che prima di lasciare Goldtown mi ero presa una cotta per lui e che la cosa era corrisposta. Se non fossi stata fidanzata con Steve, a quei tempi, non avrei esitato a portarmelo a letto.»
«Mi era parso di capire che fosse successo» obiettò Janice. «Non mi avevi parlato di qualcosa accaduto di nascosto tra di voi?»
«Ti ho detto che c'era stato qualcosa, ma non ti ho mai detto che quel qualcosa fosse un rapporto completo. Ci siamo andati abbastanza vicini, lo ammetto, ma non ce la siamo sentita di spingerci fino a quel punto. Un po' me ne sono pentita.»
«Di avere fatto del petting con Kevin Morgan o di averci fatto solo del petting senza spingerti oltre?»
«Di non essermi spinta oltre, ma ci sarà il tempo di rimediare. Gli piaccio, lo so. Non...»
Ellen si interruppe. Il suo cellulare, appoggiato sul mobile della cucina, aveva iniziato a squillare. Sul display, comparve il nome del suo ex marito. Gli rispose subito.
«Brian, cosa succede? Tutto okay?»
«Non sai niente?»
«Judith sta bene?»
Brian la rassicurò: «Sì, Judith sta benissimo. Se sei in casa, accendi subito la TV.»
Era una richiesta un po' strana, ma Ellen capì che doveva esserci un motivo preciso.
«Su che canale?»
«Gira un po', la troverai di sicuro.»
Ellen raggelò.
«È stato ucciso qualcun altro? Qui a Goldtown?»
«Sì. Il cadavere è stato trovato a casa di Daniel Silver, o meglio, nel garage di casa sua, dalla sorella.»
Ellen fu costretta ad appoggiarsi alla parete per non perdere l'equilibrio.
«Che cosa?!»
«Daniel Silver, il fidanzato di Linda Miller.»
«Sì, so di chi stai parlando. Com'è possibile?»
«Non lo so, il cadavere è stato trovato stamattina, verso le dieci e mezza. Pare che quella Christine Silver - così hanno riferito dei vicini - sia uscita per andare dal fornaio e, tornando a casa, sia entrata in garage e abbia fatto la macabra scoperta. Su come il cadavere sia finito là, non si sa ancora nulla. Un vicino, comunque, sembra avere riferito che i Silver tenevano spesso la porta del garage accostata.»
«Quindi» dedusse Ellen, «Il delitto potrebbe essere stato commesso da estraneo, che ha scelto deliberatamente quel luogo, oppure che ci ha portato il cadavere in un secondo momento.»
«Pare, ma quel Silver se la vedrà piuttosto brutta, se vuoi il mio parere in proposito» replicò Brian. «Avrà molte cose da spiegare e dubito che abbia una spiegazione per tutto. Insomma, se anche non c'entra niente, dubito che riuscirà a provare tanto facilmente la propria innocenza. Certo, non mi è ancora chiaro se lui e la vittima si conoscessero...»
Ellen volle sapere: «Chi è la vittima?»
Il nome pronunciato da Brian fu il colpo di grazia.
«È una donna. Si chiama Maryanne Sherman.»

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Capitolo 16
*** Lacrime macchiate di sangue - 13 Novembre ***


[13 novembre]
A casa Robinson non c'era nessuno, quindi Patricia deviò verso il negozio di Sophie. La domenica era chiuso, ma capitava occasionalmente che la titolare o le sue nipoti fossero là dentro a sistemare la merce in esposizione o a sbrigare altre faccende. Patricia sentiva di avere bisogno di molte spiegazioni. La vicenda di Jennifer, di per sé, non la riguardava, ma aveva bisogno di sapere che fine avesse fatto Roberta, che sembrava avere lasciato Goldtown senza dirle nulla, con tutta probabilità il venerdì sera.
La sua sensazione era esatta e, peraltro, fu piuttosto fortunata: dentro al negozio delle Robinson intravide non Sophie, ma Jennifer, con la quale sarebbe stato più facile confidarsi.
La porta era chiusa a chiave, ma quando Patricia bussò alla porta per attirare l'attenzione, Jennifer andò ad aprire e la invitò a entrare, richiudendo la porta subito dopo. Come sempre, Patricia fu colpita da quanto le due gemelle Stewart-Robinson fossero tanto diverse l'una dall'altra. Jennifer portava i capelli del loro colore naturale - biondo dorato - con qualche onda artificiale, probabilmente frutto di bigodini e non di un moderno arricciacapelli, aveva il volto reso più pallido dalla cipria biancastra e portava un abito lungo fino alle caviglie dallo stile antiquato. Per qualche verso, somigliava un po' a una bambola di porcellana.
«Patricia.» Jennifer la accolse con un sorriso. «Come mai sei da queste parti?»
Patricia non voleva essere troppo dura nei suoi confronti, del resto Jennifer non aveva colpe, ma non poté fare a meno di replicare: «Penso che tu lo possa intuire. Sono successe tante cose questo weekend... ed è solo domenica pomeriggio.»
Jennifer aggrottò le sopracciglia.
«Mi stai dicendo che sei qui perché vuoi che ti racconti la mia versione dei fatti?»
«Potrebbe essere un inizio.»
«Non c'è molto da dire.»
«Perché non cominci, intanto?»
Jennifer sospirò.
«Va bene, se proprio lo vuoi sapere. Sophie è partita, venerdì sera, è andata via per il fine settimana insieme al suo compagno. Io sono stata a casa di Janet Birthy. Sono andata via con Danny. Ci eravamo messi d'accordo perché venisse a dormire da me, al ritorno. Non fraintendermi, io e Danny siamo solo amici...»
Patricia la interruppe: «Non mi devi dare spiegazioni su quello che fate tu e Danny. È venuto a dormire a casa tua, punto.»
«Sophie non c'era e anche Roberta è andata via all'improvviso, quella sera» proseguì Jennifer. «Va bene, non devo darti spiegazioni, però vorrei che tu lo sappia: dopo quello che è successo a Kimberly Richards, non mi fido molto a stare a Goldtown. So che l'assassino finora non ha mai fatto effrazioni, ma mai dire mai. Così, non potendo tornare da mia madre la sera, ho chiesto a Danny di venire da me, per non rimanere a casa da sola. Ha dormito nella vecchia stanza di mia nonna. Non è granché, ma mi sembrava la sistemazione migliore.»
«Una vera fortuna.»
«Cosa?»
«Dico per Danny: avere passato tutta la notte a casa tua, con te disposta a dichiarare che era impossibile per lui uscire di casa aprendo il cancelletto della porta d'ingresso senza svegliarti. Di certo chi ha ucciso Maryanne Sherman e ha lasciato il cadavere nel suo garage non pensava che Danny avrebbe avuto un alibi per quella notte.»
Jennifer annuì.
«Sì, hai ragione, è stata una grande fortuna per lui.»
Patricia replicò: «Io, però, non sono qui per parlare di quanto sia andata bene a Danny, quanto piuttosto per chiederti dove sia andata a finire Roberta.»
Jennifer ammise, con schiettezza: «Non ne ho idea. Quando è andata via da casa, pensavo sarebbe venuta da te.»
«Invece non l'ho più vista, né mi ha chiamata» precisò Patricia. «Ho provato a telefonarle e a mandarle dei messaggi, ovviamente, ma ha il cellulare spento. Vorrei sapere dove posso trovarla.»
«Io ti ho già detto che non lo so.»
«È tua sorella. A chi devo chiedere?»
«È mia sorella, ma questo non significa che io sia al corrente di tutti i suoi spostamenti» chiarì Jennifer. «Quello che fa non mi tocca. Non fraintendermi, non ho niente contro di te e mi dispiace che Roberta si comporti così, ma è la sua vita privata, non la mia. Se una persona non è capace di gestire una relazione, non dovrebbe nemmeno fidanzarsi, a mio parere, piuttosto che fare dei casini.»
«Parli di te?»
«Parlo in generale.»
«Tu, comunque, sei single?»
Jennifer le strizzò un occhio.
«Per caso, in assenza di mia sorella, ci stai provando con me?»
Patricia rimase spiazzata per un attimo, poi si mise a ridere.
«Questa è proprio una delle battute che potrebbe fare Roberta.»
Jennifer abbassò lo sguardo.
«Quindi ti stupisce sentirla da me?»
«Un po'.»
«Ti capisco, ti capisco perfettamente. Io e Roberta non ci somigliamo molto, siamo un po' come il giorno e la notte.»
«Il giorno e la notte» ripeté Patricia. «Mi sembra una buona definizione. Solo, non ho ancora capito chi di voi due sia il giorno e chi la notte.»
Fece per tornare verso la porta, ma Jennifer la trattenne: «Dove vai?»
«A lavorare. Ray mi sta aspettando al bar.»
«Buon lavoro, allora.»
«Grazie, anche a te.»
Patricia uscì e, una volta in strada, si chiese se recarsi direttamente al bar fosse un'idea saggia. C'era altro che poteva fare per scoprire cosa fosse successo a Roberta? Non ne era sicura, ma decise di fare un tentativo. Cercò un numero nella rubrica del cellulare e fece una chiamata.
«Possiamo vederci?»
«Quando?»
«Subito.»
«Dove?»
«Posso passare a casa tua.»
«Va bene, ma non ho molto tempo. Devo uscire con i bambini.»
«Ti ruberò solo pochi minuti.»
Patricia riattaccò, pensando che fosse stato tutto fin troppo facile. A parte la ricerca di Roberta, tutto sembrava procedere senza intoppi. Dalla strada, lanciò un'ultima occhiata verso il negozio delle Robinson. Dentro, Jennifer era appoggiata alla parete. Chissà cosa le passava per la testa, se pensava alla sorella, oppure se fosse altro a tormentarla. Doveva essere altro. Era la migliore amica di Danny, dopotutto, e lo era da oltre vent'anni. Non era detto che a tormentarla fosse quello che era accaduto a Maryanne, era plausibile che dentro i suoi pensieri ci fosse ancora Mark, oppure Cindy.

******

Danny cercava di evitare tutti, perché preferiva non parlare dell'ultimo omicidio, ma Jennifer era riuscita, con una scusa, a farsi dire dalla signora Silver a che ora il figlio avrebbe smesso di lavorare. Andò ad attenderlo all'uscita, anche se sapeva che né sua nonna né sua zia avrebbero approvato, se avessero saputo che era fuori di casa mentre stava scendendo la sera. Ormai veniva buio presto e non era mai stato un problema, prima degli omicidi. Anzi, non era mai stato un problema prima dell'ultimo, quello di Cindy Spencer, due giorni prima: non era stata uccisa in piena notte come Mark Forrester e Will Mason, ma nelle primissime ore della sera.
"Tanto non lo scopriranno, sono ancora entrambe al negozio."
Salutò Danny con un cenno della mano, che l'amico ricambiò. Se non era felice di incontrarla, non lo diede a vedere.
«Come stai?» le chiese, per primo.
«Come al solito» rispose Jennifer. «Tu?»
«Di merda.»
«Posso immaginarlo.»
«Non riesco ancora a crederci, che Cindy non ci sia più.»
Jennifer ammise: «È stato un colpo duro per tutti, ma è chiaro che per te lo sia un po' di più.»
«Prima Linda, poi Cindy» mormorò Danny. «Quanto andrà avanti, ancora? E gli altri, Mark, Will... È un incubo.»
«No, non è un incubo, purtroppo» replicò Jennifer. «Sarebbe troppo bello svegliarsi di soprassalto e scoprire che tutto esisteva solo nella nostra mente. Non succederà. Possiamo solo sperare che un giorno tutto questo farà parte del passato, un passato lontano.»
«Non voglio aspettare vent'anni per vivere una vita normale!» sbottò Danny. «Non riesco ad andare avanti così.»

******

Jack era affacciato alla finestra quando Patricia arrivò. Andò ad aprire il portone e attese che salisse le scale. Solo quando sentì i suoi passi sul pianerottolo, aprì la porta di casa. Aveva già mandato i bambini nella loro stanza, pregandoli di non disturbarlo.
Sperando che Patricia rifiutasse - non vedeva l'ora che quel loro incontro terminasse - le domandò: «Posso offrirti qualcosa da bere?»
Per fortuna Patricia rifiutò, richiudendo la porta.
«Non sono qui per bere insieme a te.»
«Vuoi almeno sederti?»
«Non ce n'è bisogno.»
«Okay, allora puoi spiegarmi cosa vuoi?»
Patricia gli scoccò un'occhiata gelida.
«Vorrei che tu fossi meno freddo nei miei confronti. Non è colpa mia se tua moglie ti ha lasciato per mettersi insieme al mio barista.»
«Sapevi che quei due erano interessati l'uno all'altra, ma hai fatto finta di niente» replicò Jack. «Non è il comportamento che mi aspettavo da una persona che si è sempre definita mia amica.»
«Non potevo farci niente» puntualizzò Patricia. «Va bene, potevo mettermi in mezzo, ma non sarebbe stato corretto. Era giusto che fosse Elizabeth a dirti come stavano le cose. Io, peraltro, non sapevo con esattezza cosa stesse succedendo.»
«Metterti in mezzo non era corretto, ma spianare la strada a Ray sì?»
«Non ho mai spianato la strada a Ray.»
«Ma neanche gli hai messo i bastoni tra le ruote.»
Patricia sbuffò.
«Non sono venuta qui per ascoltare i tuoi deliri. Hai visto Roberta?»
Jack spalancò gli occhi. Quella era una domanda che proprio non si aspettava.
«Dovrei?»
«Non lo so.»
«Beh, direi di no, non la vedo da tempo.»
Patricia insisté: «Ne sei proprio sicuro?»
Jack replicò: «No, Pat, non ho visto Roberta. Non so di che cosa tu mi stia accusando, ma non ho l'abitudine di correre dietro alle partner altrui. Non sono come il tuo amico Ray.»
«Non ti sto accusando di niente, la sto solo cercando.»
«E la cerchi da me?»
«Da qualche parte bisogna iniziare. Non so dove sia, ha lasciato Goldtown venerdì sera senza dire niente nemneno a Jennifer. Anzi, Jennifer era convinta che Roberta fosse da me. Non riesco a contattarla e sto iniziando a preoccuparmi.»
Quella spiegazione aveva un senso. Jack evitò di continuare con il suo atteggiamento polemico e cercò di rassicurarla.
«È sempre stata una persona un po' particolare. È da anni che va e viene, penso che dovresti iniziare a rassegnarti, se davvero vuoi stare con lei.»
«Certo che voglio stare con lei» rispose Patricia. «So benissimo che devo accettare compromessi e, pur di stare con lei, sono pronta a venirle incontro. Però non è questo il problema. Non ho paura che Roberta voglia lasciarmi, oppure che in questo momento sia con un'altra persona. Ho paura che le sia successo qualcosa.»
Jack le suggerì: «Cerca di non farti suggestionare troppo. Lo so, è dura, dopo quello che è appena successo, fare finta di niente. Povera Maryanne, era appena tornata a Goldtown e ha fatto quella fine.»
«Sai per caso perché era tornata?»
«No. Non penso che ne abbia parlato nemmeno con Elizabeth, so che non si sentivano da tempo.»
«Anche Phyllis si è stupita del suo ritorno. Sembra sia tornata a Goldtown senza avvertire nemmeno le sue amiche di un tempo.»
«Con Elizabeth, non si sentivano quasi più. Va bene, Elizabeth non è un genio, ma essere amica di Maryanne doveva essere troppo pure per lei. Era già una stronza da ragazzina, purtroppo da adulta non è migliorata. Anzi, forse era anche peggiorata, anche se non sta bene parlare male dei morti.»
Patricia abbassò lo sguardo: «Prima è tornata Kimberly, dopo vent'anni, ed è stata subito ammazzata. Poi è tornata Maryanne, sempre dopo anni, e le è successa la stessa cosa. È tutto così strano, senza il benché minimo senso.»
Da una delle stanze giunse la voce di una dei bambini.
«Papà, tra un po' andiamo?»
«Sì, certo, voi iniziate a prepararvi» rispose Jack. Poi tornò a rivolgersi a Patricia: «Mi dispiace, ma dobbiamo chiudere qui la nostra conversazione. I miei figli mi aspettano e vengono prima di tutto.»
«Me ne vado subito» gli assicurò Patricia, «E mi dispiace se ti ho fatto perdere tempo. Ti chiedo solo una cortesia: se Roberta dovesse mettersi in contatto con te, ti prego di farmelo sapere.»
«Te lo farò sapere, ma so già per certo che non succederà.»
«Lo so, ma non perdo le speranze.» Patricia aprì la porta e fece per andarsene. «Buon pomeriggio, Jack, e divertiti con i bambini.»
«Ci proverò» concluse Jack. «Buon lavoro.»
La guardò andare via e ascoltò il rumore dei suoi passi lungo le scale, finché fu percettibile dall'interno dell'appartamento. Nonostante tutto, avrebbe voluto potere aiutarla in qualche modo, ma non sarebbe stato possibile, avrebbero solo dovuto attendere che Roberta desse segni di vita. Lo fece quella sera stessa, con un nuovo post su Forevernet. Non c'era più nulla di cui preoccuparsi, non era più una potenziale scomparsa, ma solo un allontanamento dalla donna che amava.

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Capitolo 17
*** Ellen non deve morire - 21 Novembre ***


ELLEN NON DEVE MORIRE

[21 novembre]
Era appena iniziata una nuova settimana, non restava altro da fare che sperare fosse più tranquilla di quella precedente. Nuovi dettagli erano emersi a proposito dell'omicidio di Maryanne Sherman: diversamente dalle altre vittime, era stata strangolata, e tutto lasciava pensare che il cadavere fosse stato posizionato nel garage dei Silver dopo il delitto, approfittando del fatto che spesso non fosse chiuso a chiave. L'alibi di Danny era considerato credibile, mentre nulla sembrava collegare sua madre e sua sorella alla vittima. Nessuno dei membri della famiglia risultava ufficialmente indagato, ma i tribunali dei pettegolezzi e dei social media spesso si sostituivano alla giustizia. Il supermercato nel quale Danny lavorava l'aveva costretto a un periodo di ferie forzate, dopo le proteste dei clienti che minacciavano boicottaggi qualora un "criminale efferato" avesse continuato a stare alla cassa. Pochi giorni dopo Danny era partito per prendersi una pausa, senza comunicare nemmeno agli amici più intimi la propria destinazione.
Jennifer era rimasta a Goldtown per circa una settimana, per poi andarsene nuovamente, venendo sostituita al negozio di Sophie dalla gemella Roberta. Affacciandosi a guardare la strada, fu proprio lei che Kevin vide, sulla soglia. La salutò con un cenno della mano, che la Stewart ricambiò. In quel momento, Steve lo raggiunse.
«Sai qualcosa di Jennifer?» gli chiese.
Kevin si girò verso di lui.
«È dalla madre, credo.»
«Sophie non ti ha detto niente di più preciso?»
«No.»
«Senza offesa, non voglio criticare la tua aspirante cognata, ma anche Sophie mi sembra un po' strana» osservò Steve. «Non mi sembra un comportamento normale, quello di Jennifer, che non fa altro che andare e venire facendosi sostituire da Roberta al negozio. Possibile che le vada bene e che non si sia ancora rotta di avere un'aiutante così?»
«Se è per questo, anche la tua amica Roberta sembra farsi andare bene questa situazione» puntualizzò Kevin. «Su di lei non hai mai niente da dire?»
«Non prendertela per quello che ho detto su Sophie. La trovo solo un po' strana, tutto qui. Non ai livelli di Jennifer, ovviamente, che è totalmente matta. Comunque l'ho rivalutata molto: quello che ha fatto per Danny è ammirevole.»
«Jennifer sapeva che Danny era a casa sua e non poteva avere fatto del male alla povera Maryanne, è normale che abbia testimoniato a suo favore e gli abbia dato un alibi. Non si è inventata niente.»
«Anche se non avesse potuto fornirgli un alibi, avrebbe fatto di tutto pur di aiutarlo. Non importa quello che la gente pensa di Danny, Jennifer è sempre dalla sua parte, qualunque cosa accada. Si vede quanto sono legati e quanto abbia sempre avuto la certezza della sua innocenza.»
Kevin rimase in silenzio qualche istante, pensando a qualcosa da dire. Poi le parole gli vennero fuori spontanee: «Anche noi siamo sempre stati certi della sua innocenza. Era assurdo anche solo pensare che potesse fare del male a Linda, figurarsi ucciderla in modo così cruento. Eppure c'è qualcuno che continua a pensare che abbia ammazzato anche tutti gli altri. Addirittura adesso sembra non possa più lavorare al supermercato perché la gente ha deciso così. Non mi piace questa deriva estremista, questa caccia alle streghe a tutti i costi.»
«Lasciarsi trascinare dai sospetti fa parte della natura umana, quindi non mi sento di condannare a priori chi, non conoscendo Danny, si spinge a ipotizzare che possa avere fatto qualcosa di male» replicò Steve, «Ma quello che non smetterà mai di stupirmi in negativo è che ci sia gente che, invece di cercare di difenderlo come merita, si adegui a certe teorie assurde e gli dia contro senza ragione. È assurdo che al supermercato l'abbiano di fatto costretto a stare a casa dal lavoro perché un criminale ha deciso di portare un cadavere nel suo garage. Possibile che ci sia gente che non vede correlazione tra l'omicidio di Kimberly e quello di Maryanne? Dicono che il killer di vent'anni fa, se si tratta di lui, accoltella le sue vittime e non le strangola, che i serial killer non cambiano mai le loro abitudini, quindi la Sherman deve essere stata ammazzata da un altro...»
«Non sono un esperto di criminali» ribatté Kevin, «Ma mi sembra che la gente che non ha niente di meglio da fare che spettegolare sui delitti si stia lasciando influenzare troppo da film e serie televisive. Il killer di Goldtown non è uno psicopatico che uccide vittime a caso, o quantomeno, è molto improbabile. C'è qualche legame tra le sue vittime. Certo, un legame che non è mai stato chiarito fino in fondo, ma finora ha ucciso solo persone della stessa generazione che, bene o male, si conoscevano: Mark conosceva Linda almeno di vista, Will era un ex compagno di scuola di Mark, Cindy praticava sport insieme a Linda ed era amica della fidanzata di Will... Poi adesso Kimberly, che in passato stava insieme a Mark e, stando a quanto dice Ellen, forse si vedeva ancora con lui anche poco prima della sua morte.»
Kevin vide Steve irrigidirsi, al sentire menzionare Ellen. Era palese che non gli andasse giù l'idea che si incontrassero, anche se non sapeva con esattezza cosa stesse succedendo tra loro.
«L'hai vista, in questi giorni?»
«Sì.»
«E non per caso, immagino.»
«No, non per caso» confermò Kevin, prima di riprendere il loro argomento principale. «Maryanne era un'amica dell'ex moglie di Danny e da anni, ogni volta in cui era possibile, lo tormentava con accuse campate in aria a proposito di Linda e Cindy. L'assassino l'ha strangolata e l'ha portata nel garage di casa di Danny. Non l'ha fatto per caso: conosce per filo e per segno la storia delle sue vittime e di chi sta intorno a loro. Cercava di far ricadere i sospetti su Danny, o comunque di colpirlo in qualche modo.»
Di fronte a quelle considerazioni, Steve ebbe solo una domanda.
«Come mai questa amicizia così stretta tra te ed Ellen? Una volta preferiva confidarsi con Jack, forse perché era l'unico che la sosteneva quando si è messa insieme a me, quando tutti le davate contro.»
Kevin replicò: «Non mi pare di avervi dato contro.»
«Ne sei proprio sicuro?» ribatté Steve. «Me lo ricordo ancora. Era proprio il 21 novembre, peraltro, quando vent'anni fa abbiamo ufficializzato la nostra relazione. Eravamo al bar dei Lynch e...»
Kevin lo interruppe: «Sono passati vent'anni.»
«Sono passati vent'anni, ma io non dimentico» puntualizzò Steve. «Nessuno era dalla nostra parte e tu lo eri meno di chiunque altro.»

******

Ellen non era convinta che mettere tutti a conoscenza di quello che era successo fosse l'idea migliore, ma Steve aveva fatto il possibile per incoraggiarla. Non c'era niente di male, le aveva detto e ripetuto, se erano innamorati l'uno dell'altra. Si era convinta, anche se sembrava piuttosto tesa, mentre si sedeva accanto a lui. Intorno a loro c'erano Kevin, Jack, Jennifer e Danny. Steve si chiese come avrebbe reagito la Robinson. Male, sperava, così almeno gli altri si sarebbero focalizzati sul cercare di calmarla, piuttosto che di esprimere giudizi non richiesti: a volte faceva comodo il comportamento piuttosto particolare di Jennifer, era una buona catalizzatrice di attenzione negativa.
«C'è una cosa che io ed Ellen dobbiamo dirvi» annunciò Steve, rendendosi conto che forse i suoi amici già se lo aspettavano. Di solito, quando si incontravano, non rimanevano tutti in religioso silenzio come ad attendere qualche rivelazione. «So che vi stupirà, ma io ed Ellen ci amiamo e ci siamo messi insieme. Ci tenevamo a farvelo sapere.»
Nessuno replicò, nell'immediato. Steve passò in rassegna i volti degli amici, uno dopo l'altro. L'unico dall'aria distesa era Jack, che fu anche il primo a parlare.
«Sono contento per voi, che in un momento così difficile siate riusciti a trovare qualcosa di positivo.»
«Grazie» rispose Ellen, «È un piacere sentirti dire queste parole.»
Subito dopo fu la volta di Danny. Era palesemente meno convinto di Jack, ma osservò, comunque: «Non l'avrei mai detto, ma sono io che ho poco intuito.»
Steve stava per replicare, ma si scontrò con lo sguardo torvo di Jennifer, che infine sbottò: «Tutto questo è inaccettabile! Mark è stato ucciso appena tre settimane fa! Non avete proprio un minimo di senso del pudore.» Si girò a guardare Ellen. «Ho capito fin da subito che di Mark non te ne è mai importato niente, che per te era solo una zavorra di cui volevi liberarti. Sei stata fortunata. Ci scommetto che sei stata felice, quando l'hanno ammazzato! Ti eri liberata di un peso e potevi cercare finalmente qualcuno che ti somigliasse davvero.» Si rivolse poi a Steve: «Non mi sei mai piaciuto, ma non pensavo potessi essere così squallido. Non avete il minimo senso del pudore, voi due. Siete proprio fatti per stare insieme.»
Danny, seduto al suo fianco, la invitò: «Stai calma, Jennifer. Forse hai travisato.»
«Non ho travisato un cazzo» replicò Jennifer. «Mi sembra tutto molto chiaro, anche troppo.»
«A me sembra chiaro che tu sei una pazza fuori di testa e, siccome non hai una vita, vuoi controllare quella degli altri» la accusò Steve. «Faresti meglio a badare agli affari tuoi, perché tanto io ed Ellen staremo insieme comunque, con la tua approvazione o meno. Non puoi permetterti di dirci che non possiamo amarci.»
«Non ho detto che non potete amarvi» puntualizzò Jennifer, «Ma solo che il vostro amore è squallido.»
Anche Jack cercò di intervenire per calmarla: «Solo Ellen e Steve possono sapere cosa sia giusto per loro. Non spetta a te giudicare.»
Kevin era l'unico rimasto in silenzio fino a quel momento, ma Steve si ritrovò ben presto a pensare che sarebbe stato meglio se avesse continuato a tacere.
«Dovreste sforzarvi di capire. Jennifer è sconvolta da quello che è successo a Mark e per lei è un duro colpo che Ellen e Steve si siano messi insieme. Anche tu, Steve, dovresti cercare di capirla. È probabile che stia pensando che tu abbia plagiato Ellen approfittando della sua fragilità.»

******

Steve proseguì: «Non hai nemmeno mai fatto niente per nasconderlo. Hai solo avuto la decenza di non attaccare Ellen in prima persona, come invece hanno fatto tutti gli altri. Se la sono presa tutti con lei, mentre per te il colpevole ero io, che mi approfittavo della situazione a mio vantaggio.»
Kevin gli ricordò: «Avevamo diciotto anni, non sempre a quell'età si capisce fino in fondo quello che capita, figurarsi poi in un momento come quello. Mark era stato ucciso, poi Will, infine Cindy. Nessuno di noi era davvero lucido abbastanza per potere prendere decisioni o per giudicare le decisioni altrui.»
Sperava fosse sufficiente per mettere fine a quella discussione, ma non lo fu. Steve era piuttosto agguerrito, quel giorno, sull'argomento Ellen, quindi insisté: «Le avevi già messo gli occhi addosso, fin dal primo momento. Hai fatto di tutto per allontanarla da me, ma non ci sei mai riuscito. Non so cosa ti sia messo in testa adesso, ma non ce la farai nemmeno stavolta. Ellen è tornata a Goldtown per una ragione.»
«Mi dispiace deluderti, ma temo proprio che quella ragione non sia tu» ribatté Kevin. «Ellen è a Goldtown per lavoro. Non so di che cosa si stia occupando con esattezza, ma ha a che vedere con i delitti di Goldtown. E, se proprio lo vuoi sapere, penso che a suo tempo, nel 2002, fosse venuta a stare a casa di sua zia proprio perché già allora stava seguendo qualche pista a proposito dell'omicidio di Linda Miller.»
«Inventatene una migliore. Anzi, non fare questo sforzo. Non servirà niente inventarsi scuse ridicole. Ellen non stava facendo indagini per conto suo. Ai tempi non lavorava ancora.»
«Non sto inventando niente. Se non sai quali fossero le intenzioni di Ellen, probabilmente è perché non ti è mai importato di capirla. Del resto a te interessava solo fidanzarti con lei. Avevi una bella ragazza e all'improvviso tutti si accogevano di te, perfino potenziali spasimanti che non ti avevano mai considerato. Deve essere stato a quel modo che Phyllis è entrata in fissa con te.» Kevin ridacchiò. «E pensare che le piacevo io, quando eravamo ragazzini.»
Steve gli strizzò un occhio.
«Se fossi in te, lo prenderei come un segno.»
«Un segno di cosa?»
«Anche Ellen adesso sembra interessata a te. Vedrai, anche nel suo caso finirà come con Phyllis.»
Kevin scosse la testa.
«Tu non stai bene. Se Ellen ti interessava così tanto, quando è tornata avresti fatto bene a farti avanti. Non l'hai fatto e per lei è stato un segnale chiaro: può frequentare chi vuole indipendentemente da quello che pensi tu. Non...» Si interruppe, perché il telefono stava suonando. «Mi dispiace tanto, ma credo dovremo mettere fine alla nostra conversazione.»
Andò a rispondere.
«Studio fotografico Blackstone» disse, dopo avere alzato il ricevitore. «In cosa posso esserle utile?»
Dall'altro capo del telefono giunse una voce confusa, probabilmente quella di una donna.
«Dille di fare attenzione.»
«Chi parla?» chiese Kevin.
La sua interlocutore continuò: «Sta cercando risposte che non dovrebbe puntare a trovare.»
«Chi?» domandò Kevin. «Chi parla?»
«Mabel» rispose la donna, facendolo raggelare. «Sono Mabel e voglio solo che qualcuno la metta in guardia. Ellen non deve morire.»
Kevin fu scosso da un tremito, nell'udire quelle parole.
«Che cosa significa questo?»
«Solo quello che ho detto, Ellen non deve morire.»
Kevin fece per replicare, ma era troppo tardi: la fantomatica Mabel aveva già riattaccato. Non si sarebbe stupito se la chiamata fosse stata fatta da uno dei pochi telefoni pubblici ancora in funzione, o comunque dall'interno di un locale pubblico.
Doveva dare l'idea di avere appena visto un fantasma, da come Steve gli chiese: «Chi era, va tutto bene?»
«No, non va bene un cazzo» rispose Kevin. «Qualcuno ce l'ha con noi. Non con Danny nello specifico, proprio con tutti noi. Non sarà contento finché non ci avrà ammazzati tutti, oppure non ci avrà convinti a buttarci giù da un ponte.»
Inaspettatamente Steve mormorò: «Lisa Belle.»
«Lisa Belle?» ripeté Kevin. «Cosa significa?»
«Era una ragazza che si uccise quando noi eravamo ancora bambini. Si gettò da un ponte. Nessuno comprese mai il motivo di quel gesto. Avevo capito male il suo nome. Per anni avevo creduto si chiamasse Isabel. Poi, tempo fa, l'ho trovata per caso, al cimitero. Non si chiamava Isabel. Si chiamava Lisa e il suo secondo nome era Belle. Lisa Belle Lynch, era la sorella maggiore di Patricia.»
Kevin spalancò gli occhi.
«Patricia aveva una sorella morta suicida?»
«Deve essere successo almeno trent'anni fa, se non di più, intorno al 1990, direi. Era più grande di lei, se fosse ancora viva dovrebbe avere sui cinquantacinque anni o poco ci manca.»
«Sei sicuro al cento per cento che il suo secondo nome fosse Belle?»
Steve annuì.
«Certo, ne sono sicuro, ma che importanza ha?»
Kevin non gli rispose. Prese il cellulare e telefonò a Ellen, sperando che gli rispondesse. Ebbe fortuna, non fu necessario che aspettare due squilli.
«Lisa Belle Lynch» le disse, a bruciapelo. «Potrebbe essere nata nel 1967, 1968. Si è uccisa intorno al 1990, anno più, anno meno. Cerca un suo legame con Mark, o ancora meglio, con Linda, o qualsiasi altro legame potrebbe avere con i delitti.»

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Capitolo 18
*** Ellen non deve morire - 22 Novembre ***


[22 novembre]
Ellen sapeva, più o meno, a che ora Ray Moore sarebbe uscito dal bar. Non lo conosceva che di vista, ma non importava. Allo stesso modo non importava più cosa pensasse Janice: non esporsi in alcun modo non era più possibile.
Lo attese, davanti al locale, finché non lo vide venire fuori. Gli fece un cenno di saluto con la mano, che Ray ricambiò, ma solo di sfuggita. Non si aspettava una conversazione con lei. Come biasimarlo? Non vi era alcuna ragione logica apparente, ma Ellen sapeva di dovere guardare oltre le apparenze.
Gli si avvicinò e solo allora, quando fece comprendere a Ray di avere qualcosa da dirgli, il barista si fermò.
«Ellen, vero?» le chiese.
«Esatto, Ellen. Ti dovrei parlare.»
Ray alzò gli occhi al cielo.
«Oh, no, non mi dire che sei un'invasata convinta che la mia compagna dovrebbe lasciarmi e rimettersi insieme al tuo amico.»
Ellen aggrottò la fronte.
«Come, prego?»
Ray ribatté: «Sei un'amica di Jack Mitchell o sbaglio?»
Ellen confermò: «Sono una sua amica, esatto, ma questo cosa c'entra? La sua vita privata non mi riguarda, così come non mi riguardano quella della sua ex moglie e la tua.»
Ray fece un sospiro di sollievo.
«Oh, meno male.»
«Aspetta a dirlo» replicò Ellen. «La faccenda di cui vorrei parlarti è un po' più ostica.»
«Illuminami. Non ho la più pallida idea di cosa tu possa volere da me.»
«In primo luogo, credo sia giusto dirti sono una giornalista. Da ragazza ho vissuto a Goldtown per un periodo e sono tornata qui per una questione di lavoro. Mi sto occupando dei delitti di vent'anni fa - e anche di quelli attuali, purtroppo - ma sto seguendo un metodo piuttosto inconsueto. Per intenderci, il mio obiettivo non è limitarmi a riportare i fatti. Questo è già successo per anni e anni. Voglio andare oltre.»
Ray azzardò: «Stai facendo una sorta di indagine parallela?»
«Non la chiamerei indagine parallela, ma sto facendo qualcosa di simile» ammise Ellen. «Ho scandagliato più che potevo la storia delle vittime, facendo qualche scoperta interessante. Ci sono tuttavia dei dettagli che vorrei approfondire e, per farlo, ho bisogno di qualche dritta da parte di qualcuno che conosca bene le persone del posto.»
«E quel qualcuno sarei io?»
«Perché no? Credo tu abbia già conosciuto la mia collega Janice. O meglio, ne sono sicura, dato che mi ha riferito di avere parlato con te dei delitti, al bar, qualche settimana fa. Magari non ti ricordi il suo nome.»
«Bionda con i capelli corti, sui trentacinque anni?»
«Trentacinque piuttosto abbondanti.»
«Era scortese dire quaranta.»
Ellen sorrise.
«Allora, ci stai? Accetti di farti fare qualche domanda? Non qui in mezzo alla strada. Puoi venire a casa mia e di Janice.»
Ray parve riflettere qualche istante, ma la sua risposta fu tutt'altro che esitante: «Va bene. Quando posso venire?»
«Se non hai da fare, puoi venire anche subito. Sei in macchina?»
«No, sono a piedi. Abito qui vicino.»
«Allora vorrà dire che andremo con la mia.»
Non vi fu alcun bisogno di convincere Ray, che ormai sembrava già deciso. Si diressero verso l'automobile, che Ellen aveva prontamente indicato a Moore, e salirono a bordo. Durante il tragitto, Ellen non introdusse l'argomento specifico del quale sarebbe andata a disquisire in un secondo momento. Rimase quasi sempre in silenzio, se non quando fu lo stesso Ray a interpellarla.
«Scusa per prima.»
«Per cosa?»
«Per averti accusata di essere stata mandata da Jack.»
«Non fa niente.»
«Tra di loro le cose andavano male anche prima, non sono stato io a mettermi in mezzo a loro.»
Ellen ci tenne a precisare: «Come ti ho detto, gli affari vostri non mi riguardano. Mi dispiace che il matrimonio di Jack sia finito male, ma non mi interessa di chi sia colpa, se sua, se di Elizabeth oppure tua. Quando vivevo a Goldtown, ho visto Elizabeth qualche volta, ma non posso dire di averla mai conosciuta. Quello che fa, oppure quello che fai tu, non mi importa.»
Non dissero altro in proposito e, di nuovo, proseguirono senza parlare. Giunsero a casa e, quando entrarono, Janice si ritrovò a fissare Ray senza capire.
Ellen glielo presentò: «Ray Moore, il cameriere del bar di Patricia Lynch.»
Janice annuì.
«Sì, ho presente chi sia il signor Moore.»
«Puoi...» Ray esitò. «Può...? Chiamarmi Ray, per me non è un problema.»
«Okay. Io sono Janice.»
Ellen li invitò a seguirla e si sedette al tavolo della cucina.
«Se volete accomodarvi. Scusami, Ray, mi piacerebbe accoglierti in una stanza migliore, ma il soggiorno è piccolo e c'è un po' di disordine. Non prevedevo di invitare qualcuno a casa.»
«Perché Ray è qui?» chiese Janice, prendendo posto, mentre anche Moore faceva lo stesso.
«Ray è qui per la mia inchiesta.» Vedendo che l'amica assumeva un'espressione di disappunto, Ellen mise le mani avanti. «Prima che mi dici che non era il caso, ti ricordo che le risposte non arrivano magicamente piovendo dal cielo. Va bene, può essere pericoloso fare troppe domande in giro, ma Ray non mi sembra un criminale.» Ridacchiò, lanciando un'occhiata al barista. «O quantomeno, non è un criminale molto pericoloso, in apparenza.»
«Mhm.» Janice non parve convinta. «Posso chiederti perché proprio Ray?»
Ray aggiunse: «Posso fare la stessa domanda?»
«Certo che potete chiederlo, è più che legittimo» replicò Ellen. «Va bene, mi sembra il caso di venire subito al dunque. Non voglio fare perdere tempo a Ray o distrarlo con chiacchiere inutili. Dunque, dovete sapere - e tu, Janice, già lo sai - che la mia convinzione è che questa vicenda sia rimasta oscura così a lungo perché non è ancora stato trovato il vero punto di partenza. Mark Forrester è stato verosimilmente ucciso perché sapeva qualcosa - non abbiamo, sfortunatamente, idea di cosa - a proposito del precedente delitto, quello di Linda Miller. A questo punto verrebbe spontanea una domanda: chi ha ucciso Linda Miller e perché? E, attenzione, non mi sto chiedendo in che modo l'assassino l'abbia trovata, ma proprio perché sia stata uccisa. Chi poteva volere uccidere una ragazzina della sua età, che di fatto non aveva altri interessi a parte la scuola, il pattinaggio e il suo ragazzo? Cosa poteva scattare nella testa di un criminale efferato per spingerlo a commettere un simile delitto?»
Ray precisò: «Ai tempi si pensava a un maniaco, a un pedofilo, a qualcuno che potesse averla adescata su internet.»
«Peccato che non vi sia mai stato alcun indizio a proposito di un simile soggetto. Va bene, ammettiamo per un attimo che Linda abbia chattato con il suo assassino. Non ne ha parlato con nessuno? Da quello che si dice era una ragazza molto socievole, che non aveva problemi a raccontare i suoi fatti privati alle ragazze del corso di pattinaggio, o ai compagni di scuola. Se avesse avuto una relazione virtuale con un impostore - cosa molto improbabile, dato che aveva già un ragazzo in carne e ossa nella vita reale - sarebbe davvero stata capace di non farne parola con nessuno?» Ellen fece una breve pausa, passando con lo sguardo da Janice a Ray, prima di riprendere a parlare. «In più, tutto quello che è successo dopo, non si incastra con le prime ipotesi. L'assassino sembrava avere una sua logica, uccidere persone per un motivo ben preciso. Mark, Will e Cindy potevano sapere qualcosa di troppo, ma Linda? Rimane sempre Linda e tutto ciò che sappiamo di lei è che le sarebbe piaciuto conoscere suo padre, nonostante, di fatto, sua madre si fosse sposata con un certo Styles e ci fosse già una sorta di figura paterna nella sua vita.»
Ray domandò: «Per caso stai ipotizzando che chi l'ha uccisa si sia messo in contatto con lei in qualche modo spacciandosi per suo padre? Ma in tal caso resterebbe pur sempre lo stesso dubbio: perché spacciarsi per suo padre e poi ucciderla? Questo manderebbe in crisi anche l'ipotesi del maniaco: se questo si fosse spacciato per un ragazzo della sua età innamorato di lei, avrebbe potuto chiederle foto o chat hard o qualsiasi altra cosa possa interessare a un maniaco. Ma spacciandosi per suo padre? Al massimo Linda gli avrebbe raccontato della scuola o del pattinaggio o delle sue amiche, insomma, tutte cose che a un molestatore di ragazzine difficilmente sarebbe interessato sentirsi raccontare.»
«La tua osservazione è giusta, non sappiamo ancora perché Linda sia stata uccisa» convenne Ellen. «Io mi sono fatta una mia idea, ovvero che dobbiamo spingerci più indietro e scavare non nel passato di Linda, ma in quello della sua famiglia. Era figlia di una ragazza madre che, facendo ricerche piuttosto contorte, ho scoperto avere denunciato di avere subito una violenza sessuale, dopo essere stata narcotizzata, nel 1985.»
«Quindi il padre naturale di Linda sarebbe uno stupratore?»
«Non lo so. Potrebbe, così come potrebbe essere un ex fidanzato della madre o un tizio con cui aveva incontri occasionali. Comunque non è di questo che voglio parlare. Lo stupro non è stato l'unica disgrazia occorsa alla povera Melanie Miller. O per meglio dire, lo stupro e l'omicidio della figlia. No, nel 1994 Melanie Miller è stata vittima di un potenziale tentato omicidio o, nel migliore dei casi, di un'aggressione armata da parte di qualcuno che non aveva intenzione di assassinarla.»
Ray spalancò gli occhi.
«Questa sì che è una novità!»
Janice intervenne: «Era una maestra elementare. Un giorno, dopo la fine delle lezioni, un uomo a volto coperto la aggredì colpendola alla testa con un'arma che non fu mai trovata.»
Ellen aggiunse: «Pare che la signorina Miller non fosse sola, ma insieme a un'alunna la cui madre era in ritardo. La bambina forse si era allontanata, si ipotizzò per andare in bagno. Si suppone che possa avere visto l'aggressore, che la colpì a sua volta. Uccidendola.»
Ray fissava Ellen con la bocca spalancata. Dopo qualche istante di palese stordimento, volle sapere: «Chi era l'uomo a volto coperto?»
«Non fu mai identificato» rispose Ellen. «Il caso venne dimenticato e la stessa Melanie Miller si trasferì in seguito a Goldtown. Si sposò successivamente con un tizio che di cognome faceva Styles - fa tuttora, immagino sia ancora vivo - ed ebbe un'altra figlia, Joyce, che adesso avrà sui venticinque anni. Dopo l'omicidio della figlia, la famiglia Styles si trasferì altrove, per non essere più al centro di una macabra attenzione.»
Janice spiegò a Ray: «La teoria di Ellen è che quanto accaduto alla madre di Linda, di cui non sappiamo se Linda fosse al corrente - quando sua madre fu ferita, forse le fu raccontato che aveva avuto un incidente, oppure qualcosa che potesse essere accettato da una bambina della sua età - sia stato alla base dell'omicidio di Linda. L'ipotesi è molto semplice: Melanie non sa chi l'abbia assalita e, per qualche ragione, in seguito ha avuto dei contatti con questa persona. Linda, alla ricerca del proprio padre biogico, trova accidentalmente un recapito dell'aggressore e, credendo possa essrte suo padre, lo contatta, probabilmente da una cabina telefonica, per non lasciare tracce che sua madre potrebbe trovare se le controllasse il cellulare... Con un po' di fantasia puoi immaginare il seguito.»
«Mhm, sì, potrei provarci» accettò Ray. «Linda gli dice "potrei essere tua figlia, vuoi conoscermi?" L'uomo accetta e la uccide. Però non ha molto senso.»
«Infatti, non ne ha» ammise Ellen. «Per questo la mia idea è un po' diversa: Linda vuole incontrare il presunto padre, ma sa che l'uomo che l'ha abbandonata potrebbe non volerla vedere. Quindi deve trovare un modo per convincerlo ad accettare un appuntamento. E in effetti un modo ci sarebbe: spacciarsi per la madre e dirgli che gli deve parlare con urgenza.»
«Avrebbe senso.»
«E spiegherebbe l'omicidio: l'uomo crede che Melanie l'abbia contattato perché ha ricordato qualcosa, perché l'ha riconosciuto. Non c'è solo l'aggressione, ma c'è il brutale omicidio di una bambina di otto anni in una scuola. Va all'appuntamento, in un luogo isolato e di sera. Pensa che la persona che lo sta aspettando sia Melanie e scambia Linda per la madre. La accoltella a morte e fugge. Ecco che, vedendo le cose da questa prospettiva, il delitto della Miller improvvisamente ha un movente.»
«Wow» esclamò Ray, «Una ricostruzione eccellente.»
«Senza alcuna prova» chiarì Ellen. «È solo un'idea che ho in testa e che difficilmente potrò dimostrare. Però si è aggiunto un elemento che non sono ancora riuscita a inquadrare e, se ti ho invitato a casa nostra, è perché spero che tu possa darmi una mano.»
«Mi hai chiamato qui per chiedermi se secondo me lo stupratore di Melanie Miller potrebbe essere poi l'uomo che l'ha aggredita a scuola, assassino di un'alunna e possibile assassino di Linda?» domandò Ray. «Credi che io sia un acuto osservatore della natura umana, o qualsiasi altra cosa da giallo classico, per via del mio lavoro a contatto con il pubblico, quindi vuoi un mio parere?»
«No, affatto» ribatté Ellen. «Tu conosci bene Patricia Lynch e immagino anche suo padre.»
«Sì, li conosco» confermò Ray, «Ma cosa c'entrano?»
Ellen lo fissò, poi gli chiese, a bruciapelo: «Cosa sai di Lisa Lynch?»
Ray impallidì. Sembrava avere visto un fantasma.
«Vuoi dire che anche la sorella di Patricia potrebbe essere in realtà stata uccisa dal suo...»
Si interruppe di colpo, come chi sapeva di avere parlato troppo.
«Dal suo...?» lo esortò Ellen.
Ray abbassò lo sguardo.
«Patricia non me parla quasi mai. Solo una volta mi ha raccontato di lei. Lisa era una ragazza solare ed entusiasta, appassionata di scrittura. Passava il tempo libero ad abbozzare racconti su agende e quaderni. Poi, di colpo, si suicidò. Nessuno riuscì a spiegarsene la ragione, a comprendere se ci fosse stato qualche genere di trauma nella sua vita. Patricia, molti anni dopo, quando si mise a leggere i suoi racconti, ne trovò uno che la colpì. Non si impressiona facilmente, ma quello la sconvolse, per quanto le sembrava reale.»
«Potrebbe essere stata uccisa dal suo stupratore, è questo che intendevi dire? Il racconto di Lisa che ha terrorizzato Patricia parlava di una violenza sessuale, vero?»
«Sì, la protagonista veniva narcotizzata e stuprata, proprio quello che apparentemente era successo alla madre di Linda Miller alcuni anni prima.»
Ellen lo guardò negli occhi.
«Grazie, Ray. Lo vedi? Mi sei stato molto utile.»
Ray replicò: «Non ho fatto niente di particolare. Non c'è nulla di certo in quello che ti ho riferito. Potrebbe essere solo un racconto di fantasia, quello di Lisa. Magari si è ispirata alla scena di un thriller o di un horror.»
«Potrebbe essere» rispose Ellen, «E non voglio affermare che più indizi facciano una prova. Però ogni indizio può essere utile.»
Janice aggiunse: «Anche il tuo silenzio può essere utile. Non riferire ad altri il nostro incontro, nemmeno a Patricia. E nemmeno a tua moglie o alla tua fidanzata, se ne hai una.»
Ray si alzò in piedi, accennando ad avviarsi fuori dalla stanza.
«Sarò muto come un pesce.»
«Ti accompagno.» Ellen lo condusse fino alla porta. Attese che stesse per uscire, poi lo trattenne. «Segui i campionati di calcio?»
A Ray sfuggì una risata.
«Che domanda è?»
«Ti ricordi Harvey Lee?»
«Vagamente.»
«Fece un goal memorabile alla Coppa d'Autunno, vent'anni fa.»
Ray annuì.
«Sì, ora che ci penso ne fece uno piuttosto bello che decise una partita. Un attimo prima il risultato sembrava in totale fase di stallo, con entrambe le squadre che cercavano solo di difendere la propria porta, poi Lee fece un tiro micidiale e la sua squadra vinse passando in semifinale. O in finale? Non ricordo.»
«Non ha importanza, quello che conta non è il risultato della partita, ma il modo in cui me la stai raccontando» replicò Ellen. «Agli albori della mia carriera scrivevo di calcio. È un po' come occuparsi dei delitti di Goldtown.»
«Perdonami, ma non vedo il nesso.»
«Prendi una serie di persone e chiedi loro di raccontare in sintesi cosa successe durante una partita. Ci sono osservatori, almeno in parte appassionati, che si lasciano andare a qualche dettaglio tecnico. Ci sono spettatori casuali, che si focalizzano sugli eventi principali e pensano che per ricostruire una partita basti dire chi ha fatto goal e quando. Ce ne sono altri che vedevano la partita al bar parlando d'altro e non ricordano niente. È un po' come cercare indizi durante un indagine. C'è chi vede calciatori chiusi a difendere la propria porta e chi invece li vede attaccare, per cercare di ribaltare il risultato, se capisci cosa intendo. Dare la caccia a un assassino per consegnarlo in pasto alla stampa significa avere a che fare con interpretazioni diverse degli stessi eventi. Tutti potrebbero dire la verità, ma sarebbe solo la loro verità. Oppure, se qualcuno mentisse, cercherebbe di costruire la propria verità, per raccontarla in un modo che a lui sembrerebbe credibile.»
«Non sono sicuro di seguirti.»
«Non importa. C'è sempre tempo per capire, quantomeno finché la partita non finisce. Però bisogna essere cauti, come i compagni e gli avversari di Lee quella volta. A volte puoi rischiare di prendere goal, a volte no. Se l'assassino tira in porta, è finita per sempre, senza possibilità di replica, un po' come successe quella sera.» Ellen indicò il pianerottolo. «Adesso vai, ma ne riparleremo.»
«Quando?» volle sapere Ray.
«Pensavo a una sera al bar, ma dovrò invitare anche altre persone» rispose Ellen. «Il mistero di Harvey Lee e i delitti di Goldtown, sarebbe un bel titolo per un romanzo poliziesco, ma in effetti non sarebbe esaustivo. C'è tanta gente che mente sui dettagli. Tu no, perché non avevi a che fare con nessuna delle vittime, ed è una delle ragioni per cui ho voluto coinvolgerti.»

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Capitolo 19
*** Ellen non deve morire - 23 Novembre ***


[23 novembre]
Quel pomeriggio i clienti si susseguivano uno dopo l'altro, proprio quando Steve stava aspettando il momento adatto per rimanere da solo con Kevin. Sembrava una congiura contro di lui, un po' come se fosse destinato a rimandare fino a sera ciò che contava più di ogni altra cosa: approfondire quanto aveva scoperto durante la pausa pranzo, quando si era fermato a scambiare qualche parola con Roberta Stewart e Sophie Robinson. Certo, si sentiva un po' fuori luogo, ma non poteva fare finta di niente, anche se l'attenzione di tutti era su altro e nessuno sembrava più avere tempo di occuparsi della propria vita privata.
Per fortuna ebbe un momento di tregua e ne approfittò per dirigersi sul retro, nel piccolo ufficio nel quale lavorava Kevin. Il collega non si accorse subito di lui, impegnato com'era a fissare il monitor del computer.
Steve ebbe un brutto presentimento e gli domandò: «Messaggi strani?»
«Oh, no» rispose Kevin, «È tutto a posto, solo un'e-mail di un cliente. Chiede se gli possiamo sviluppare delle foto che ha messo in allegato e quando può venire a ritirarle... ma in realtà si è dimenticato di mettere l'allegato.»
«Un classico» ribatté Steve. «Dopotutto dimenticare di dire o fare qualcosa è una pratica molto comune, non trovi?»
Kevin alzò lo sguardo.
«Cosa vuoi dire?»
«Voglio dire che anche tu, se ti sforzi, riesci sicuramente a trovare qualcosa che ti sei scordato di dirmi.»
«Mhm, non saprei. Ho dimenticato qualche scadenza o qualche appuntamento?»
Steve lo guardò negli occhi.
«Oh, no, sul lavoro sei sempre così preciso. Parlavo di quello che hai fatto ieri sera.»
«Quando? Sono stato a una cena con mio fratello.»
«Una cena a casa di Sophie, a cui Roberta non era presente.»
Kevin obiettò: «Roberta era a casa di Patricia, ha dormito da lei, e allora? Non posso andare con mio fratello a casa della sua fidanzata se la nipote di lei non è presente?»
«Sophie mi ha detto che sei andato a casa sua insieme alla tua fidanzata» replicò Steve. «Non ci ho messo molto per capire chi fosse e, del resto, Sophie me l'ha confermato. Perché non mi hai detto che stai insieme a Ellen?»
«Non sono obbligato a narrarti per filo e per segno le vicissitudini della mia vita privata» precisò Kevin. «O quantomeno non mi pare.»
«Quello che fai nella tua vita privata è affare tuo» chiarì Steve, «Ma avresti dovuto dirmi che ti sei messo insieme alla mia ex.»
«Una ex con la quale stavi insieme quando avevi vent'anni. Devo ricordarti che tra circa quaranta giorni ne compi trentanove? Era il 2004, quando Ellen ti ha lasciato.»
«Sai benissimo che cosa intendo.»
«Sì, mi è parso di capire che, quando hai scoperto che Ellen era a Goldtown, le hai fatto credere che io fossi ancora sposato e abitassi lontano da qua. Danny mi ha accennato qualcosa, qualche tempo fa, prima di andarsene dopo la morte di Maryanne. Non ne ho capito il senso.»
Steve si avvicinò e si sedette sul bordo della scrivania, rischiando di ribaltare una pila di documenti.
«Non prendermi per il culo, Kevin, sai benissimo perché l'ho fatto.»
Kevin lo guardò con aria innocente.
«Ti sbagli, non ne ho la più pallida idea.»
Steve replicò: «Sono sicuro che, se ti sforzi, sei in grado di capirne le ragioni. Oppure dobbiamo tornare alle origini? A quando io ed Ellen ci siamo messi insieme e tutti eravate coalizzati contro di noi?»
Kevin gli ricordò: «Ai tempi non te ne fregava niente. Ne abbiamo parlato un sacco di volte e non facevi altro che dirmi che non dovevo intromettermi e che quello che c'era tra te ed Ellen non erano cazzi miei.»
«Infatti non lo erano.»
«Va bene, forse no, ma avevamo diciotto anni e ai tempi vedevo tutto in modo molto diverso. Sono passati vent'anni.»
«Lo so, sono passati vent'anni, ma ricordo tutto come se fosse ieri: Jennifer che ci insultava, Danny che sotto sotto stava dalla tua parte, tu che giudicavi... Solo Jack rispettava i miei sentimenti e, soprattutto, quelli di Ellen. È stato un vero amico per lei, quando tutti la attaccavate.»

******

Ellen entrò in officina. Sapeva che quella mattina avrebbe trovato Jack da solo e, proprio per quella ragione, aveva scelto quella fascia oraria per portare la macchina al controllo che aveva già programmato.
Jack la accolse con un sorriso, facendola sentire come a casa. Parlarono dell'automobile per qualche minuto, Ellen gli spiegò i problemi riscontrati negli ultimi tempi, infine, quando venne quella che in linea teorica era l'ora di andarsene, gli disse ciò che doveva dirgli.
«Ti ringrazio per l'altro ieri sera. Jennifer è stata terribile. Ho l'impressione che mi detesti.»
«Jennifer è una persona molto prevenuta» rispose Jack, «E non ha idea di come funzioni l'amore. È giovane e inesperta, non credo si sia mai innamorata. Non può capirti, non può capire te e Steve.»
«Tu, invece?» azzardò Ellen. «Puoi comprenderci? Hai avuto una relazione complicata quanto la nostra?»
Era solo una battuta, ma all'improvviso si ritrovò ad ascoltare Jack che le raccontava i dettagli di una storia segreta che aveva avuto in passato con una ragazza più grande.
«Nessuno lo sapeva e, quando mi ha lasciato, non avevo nessuno con cui potere parlare di lei. Avevo sedici anni e avevo perso la ragazza che amavo. Prima diceva di non vedere l'ora che venisse il momento per rendere pubblica la nostra relazione, poi, di colpo, mi ha lasciato per fidanzarsi alla luce del sole con un altro, uno che non sapeva niente di noi. È stato un duro colpo, ma sono andato avanti, nonostante tutto.»
Ellen cercò di rassicurarlo: «Vedrai, anche tu troverai una persona che ti ama davvero, prima o poi.»
«Speriamo, ma non ho molta fortuna» ammise Jack. «Dopo di lei, mi sono preso una cotta per un'altra, una mia cara amica. Però non le interesso.»
«Magari cambierà idea.»
«No, non è possibile.»
«Va beh, magari adesso le piace un altro, ma un giorno si accorgerà di te.»
Jack scosse la testa.
«No, non succederà. Non ho nessuna speranza con lei. È lesbica. E si è pure fidanzata con la mia ex, che me l'ha raccontato poco tempo fa. Ho sempre saputo che la mia ex è bisessuale, ma il fatto che si sia fidanzata proprio con la ragazza che mi piaceva dopo di lei è surreale. So che il mondo è piccolo, ma non pensavo lo fosse così tanto.»
«In effetti» fu costretta ad ammettete Ellen, «Sembra una bella fregatura. Ma se adesso la tua ex sta con questa tua amica, che fine ha fatto il tizio per il quale ti aveva lasciato?»
«Oh, credo che le abbia messo le corna con un'altra o che l'abbia lasciata, oppure che abbia fatto entrambe le cose» ribatté Jack. «Ha avuto tanta fretta di sbarazzarsi di me, ma non le è andata molto bene. Quel tipo le sembrava più appetibile di me, ai tempi, ma non si è rivelato tale. Ha scelto la strada più facile e si è ritrovata fregata. È per questo che sostengo le persone come te e Steve: perché siete disposti a seguire percorsi complicati, pur di scegliere qualcosa di concreto. Si vede che vi amate, e avete la mia benedizione.»
Quelle parole riempirono di calore il cuore di Ellen.
«Grazie, non sai quanto mi faccia piacere sentire queste parole. Il tuo sostegno è importante.»
«Però non devi preoccuparti di quello che dice Jennifer» mise in chiaro Jack. «È un po' svitata, anche se non è bello da dire. Non fraintendermi, le voglio bene, in fondo, ma non riuscirei mai a starla a sentire per più di cinque minuti di fila, come fa Danny o, qualche volta, perfino Kevin.»
«Me ne sono accorta che è strana» confermò Ellen. «Già la prima volta in cui l'ho vista, a casa sua...»
«Quella è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso» replicò Jack. «Sembrava tutto così spettrale... Senza offesa, ma hai fatto male ad accettare il suo invito.»
Ellen fece una mezza risata.
«Non hai tutti i torti.»

******

Kevin non riusciva a spiegarsi come mai, all'improvviso, fatti accaduti vent'anni prima fossero divenuti di colpo così importanti. Per fortuna una cliente entrò in negozio, quindi Steve fu costretto ad allontanarsi. Non si aspettava che tornasse, quindi fu colto di sorpresa, quando lo rivide accanto a sé.
In tono accusarorio, Steve riprese: «So benissimo per quale ragione ti opponevi alla mia relazione con Ellen. Ho sempre saputo che ti piaceva e...»
Kevin lo interruppe: «Ancora con questa storia? Ti assicuro che Ellen non mi stava neanche simpatica, quando l'ho conosciuta.»
«Però hai cambiato idea in fretta.»
«Diciamo di sì. In breve tempo siamo diventati amici.»
«Oh, certo, siate diventati amici, ma le hai messo gli occhi addosso e non hai fatto altro che cercare di metterti tra di noi.»
Kevin scosse la testa.
«Stai delirando. Quella ragazza ti ha fatto perdere totalmente il contatto con la realtà.»
Steve insisté: «Non è affatto vero, anzi, sono sempre stato molto più a contatto con la realtà di quanto tu abbia mai pensato. Ho sempre saputo tutto.»
«Tutto... cosa?»
«Qualcosa come un anno più tardi le cose tra me ed Ellen iniziavano ad andare male. È stato a quel punto che hai deciso di giocare le tue ultime carte. So cosa c'è stato tra di voi - non nel dettaglio, grazie al cielo quello non lo so - verso la fine del 2003. Lo so da sempre, anche se ho sempre fatto finta di non sapere. Sapevo che, se avessi fatto capire di esserne al corrente, Ellen ne avrebbe approfittato per lasciarmi e si sarebbe messa con te. Fare finta di nulla era l'unico modo che avevo per tentare di salvare il nostro rapporto. Ed è servito.»
Kevin realizzò che non valeva più la pena di negare.
«Mi pare che poco dopo ti abbia lasciato e se ne sia andata.»
«Mi ha lasciato ed è andata via da Goldtown, appunto» precisò Steve. «Non mi ha lasciato per mettersi con te. Non si può avere tutto dalla vita, diciamo che mi sono accontentato.»
«E, sentiamo, perché hai fatto finta di nulla per tutti questi anni?»
«Perché pensavo non avesse più importanza. Non sapevo che fine avesse fatto Ellen, poteva essersi sposata e fatta una famiglia con un altro uomo, il che è proprio quello che era davvero accaduto. Io stesso mi sono rifatto una vita. Poi Ellen è tornata e questo ha cambiato tutto.»
Kevin ribadì: «L'ho detto, per è sempre stata come un'ossessione. Finché non era qui, non ti importava niente di lei, neanche ci pensavi. Adesso che è tornata, all'improvviso è diventata il tuo chiodo fisso.»
«Sei l'ultimo che può permettersi di giudicarmi» replicò Steve. «Hai già cercato più di una volta di metterti tra me e lei, ma non ci sei mai riuscito. Rassegnati, non ci riuscirai nemmeno stavolta.»
«E, sentiamo, come pensi di convincerla a cambiare idea? Se volevi tornare con lei, dovevi svegliarti prima. Adesso faresti meglio a non rompere i coglioni né a me né a lei.»
«Sei l'ultima persona al mondo che può dirmi cosa devo fare.»
Kevin guardò il monitor.
«È arrivata un'e-mail di un cliente. Devo rispondere.»
«Me ne sbatto dei clienti» ribatté Steve. «Non ho finito.»
«Non importa che tu abbia finito o meno» obiettò Kevin. «Per quanto mi riguarda non ho più niente da dire. È lo stesso cliente di prima, stavolta ha messo l'allegato. Ti scarico le fotografie.»
Per il momento Steve si arrese.
«Scrivigli che può venire a prendersi le fotografie domani mattina dalle nove in poi.»
Senza aggiungere altro, gli voltò le spalle e tornò a sua volta al proprio lavoro. Kevin cercò di togliersi dalla testa quello che si erano detti, senza riuscirci. Pensava che nessuno avesse mai sospettato cosa ci fosse stato molti anni prima tra lui ed Ellen, non aveva idea di come Steve l'avesse scoperto.
"Sarà stata Phyllis a dirgli di noi."
Non aveva idea di come la Moore potesse saperne qualcosa, ma aveva sempre avuto una certa propensione a intromettersi nei fatti altrui.
Era immerso in quelle riflessioni, quando il telefono squillò. Non gli venne spontaneo ripensare alla chiamata di due giorni prima: le telefonate normali erano molte di più.
«Studio fotogratico Blackstone. Chi parla?»
«Sono Mabel.»
La voce camuffata di quella donna lo fece sussultare, ma tornò subito in sé.
«Cosa vuoi da noi? Lasciaci in pace.»
«Voglio aiutarvi» rispose Mabel. «Vi vedo rischiare troppo. Ellen...»
Kevin la interruppe: «Lasciala in pace, oppure parlale, senza più nasconderti. Sappiamo chi sei e presto non potrai più fingere.»
«Oh, no» replicò Mabel. «Non puoi sapere.»
«So molto più di quanto tu possa immaginare, e anche Ellen» puntualizzò Kevin. «Ti è rimasto poco tempo per rivelarti, altrimenti lo farà Ellen al posto tuo. Hai le ore contate, al massimo i giorni.»
Le intenzioni di Ellen gli erano chiare, forse sarebbe riuscita a entrare in azione già la sera seguente. Gli aveva assicurato che ci sarebbero state grosse sorprese per tutti e Kevin le credeva.

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Capitolo 20
*** Ellen non deve morire - 24 Novembre (1/3) ***


[24 novembre]
Erano le 22.30 e ormai nel bar non c'era più nessuno. Ellen e la sua amica Janice Petterson dovevano avere tenuto d'occhio molto bene la clientela, dato che i piani della Jefferson si stavano realizzando. Le aveva chiesto di potere organizzare un piccolo raduno nel bar, per discutere degli accadimenti di Goldtown, e Patricia non aveva saputo rifiutare. O meglio, se fosse stato per lei l'avrebbe fatto, ma Ray le aveva suggerito di accettare.
Ellen era presente, mentre Janice non c'era. Se non altro, almeno non c'erano sconosciuti. Ray si era presentato da una decina di minuti, perché apparentemente figurava tra le persone contattate da Ellen, mentre c'erano Roberta, Kevin, Janet e Lydia.
«Ci siamo già tutti?» chiese Patricia, rivolgendosi a Ellen.
«No, mancano ancora due persone, anzi tre.» Si rivolse a Roberta. «Hai detto a tua sorella dell'incontro? Verrà?»
«No, non ci sarà» rispose Roberta, con naturalezza. «È a casa da nostra madre e, siccome non guida, non può venire a Goldtown.»
Lydia azzardò: «Potevi andarla a prendere tu.»
Roberta alzò le spalle, con indifferenza.
«Perché avrei dovuto? Non sono la sua balia.»
«Non mi stupisce che non ci sia, anzi, non mi aspettavo niente di diverso» osservò Ellen. «Dopotutto ho notato questa strana dinamica: o ci sei tu, o ci sei lei. Se non fosse per il modo di vestire o per i capelli, si potrebbe quasi pensare che siate la stessa persona.»
Kevin si lasciò andare a una risatina.
«In effetti non vi ho mai viste nella stessa stanza.»
«Piantatela di dire cazzate» li riproverò Roberta. «Sbaglio o siamo qui per una faccenda seria? Anche nelle occasioni solenni bisogna sempre prendere in giro Jennifer? Sembrate dei bulli delle scuole elementari.»
Ellen le diede ragione.
«Ti chiedo scusa, Roberta, se siamo stati sgradevoli. Effettivamente non deve essere bello, per te, essere tirata in mezzo ogni volta in cui si parla di tua sorella. Non è certo colpa tua se Jennifer è così.»
C'era qualcosa di insolito nel tono di Ellen e Patricia non sapeva che interpretazione darvi.
Kevin, da parte sua, sembrava decisamente di più lo stesso di sempre, mentre conveniva con lei.
«Ellen ha ragione, non avremmo dovuto prendere in giro Jennifer alle sue spalle. Ti chiedo scusa anch'io.»
Roberta accennò un sorriso.
«Non fa niente, Kevin, è tutto a posto. Ci sono abituata. Jennifer è strana, lo ammetto. Quello che dite su di lei è tutto corretto, però fareste meglio a farlo notare a lei. Io faccio quello che posso, quindi non certo miracoli.»
Patricia decise di mettere fine a quella discussione chiedendo: «Chi manca?»
«Steve e Jack» rispose Ellen, «Ma immagino saranno qui a momenti.»
Janet le suggerì: «Potresti chiamarli per sollecitarli. Sono le dieci e mezza. La maggior parte di noi, domani mattina, deve andare a lavorare.»
Ellen la rassicurò: «Cercherò di rubarvi poco tempo. Voi intanto sedetevi. Se Steve e Jack dovessero tardare, non esiterò a cercarli. Adesso, però, mi sembra troppo presto. Cosa faccio? Li chiamo per far notare loro che avrebbero dovuto essere qui trenta secondi fa?»
«Hai ragione» ammise Janet, prendendo posto a un tavolo con Lydia e Kevin. Nel frattempo Patricia, Roberta e Ray si sedevano a un altro, lì vicino. «Magari, nel frattempo, potresti spiegarci perché ci hai convocati qui, insistendo come se fosse una faccenda di vita e di morte.»
«Preferirei aspettare un attimo» replicò Ellen, «E darvi certe spiegazioni una volta sola, ma comprendo il tuo punto di vista. Come puoi immaginare, siamo qui per discutere di quello che sta succedendo a Goldtown. Forse ti sembrerà un po' ridicolo, ma mi sono ispirata ai gialli classici. Hai presente come finiscono di solito? Con l'investigatore che riunisce i sospettati in una stanza e tiene una sorta di comizio in cui espone i fatti e la soluzione. Io, ovviamente, non so chi abbia commesso i delitti, né vi sospetto di coinvolgimento, però sono arrivata a delle conclusioni che vorrei condividere con le persone che stavano vicine a parecchie vittime.» Indicò Ray. «Magari ti chiederai cosa c'entri lui, e in effetti non c'entra molto, però è stato illuminante, in certi momenti, quindi ho pensato che la sua presenza fosse un bene.»
Lydia le domandò: «Posso chiederti con quale autorità ti elevi al ruolo di investigatore?»
Ellen sorrise.
«Per lavoro, mi sto occupando dei delitti. Non ho alcuna autorità su di voi, siete liberi di insultarmi o mandarmi a quel paese. Per ora, però, mi tocca ringraziarvi perché siete qui. Sarà una bella esperienza cercare di vederci chiaro insieme a voi.»



Steve non era affatto sicuro che entrare al bar fosse una buona idea. Si confidò con Jack, che si trovava accanto a lui.
«Non me la sento di vederli insieme. Già è difficile passare tutta la giornata a pochi metri di distanza da Kevin, al lavoro. Non riesco a credere che Ellen si sia messa insieme a lui.»
Ne aveva parlato con Jack a più riprese in quei giorni e l'amico era sempre stato piuttosto comprensivo, ma in quel momento doveva averne abbastanza.
«Posso farti notare che Ellen è una ragazza con la quale stavi insieme vent'anni fa? Ormai dovresti rassegnarti all'idea che possa stare insieme a un altro.»
«Ma perché quell'altro dovrebbe essere proprio Kevin?»
Jack sospirò.
«Posso immaginare che non sia piacevole sapere che la donna che pensi di amare stia insieme a uno dei tuoi migliori amici, ma devi accettarlo. La vita continua, specie a distanza di decenni. Ti sei dimenticato che stavi con Phyllis in questi anni? E che, quando stavi con lei, il pensiero di Ellen neanche ti sfiorava?»
Steve alzò gli occhi al cielo.
«Te l'ha detto Kevin di farmi questo discorso? Sembrano parole uscite direttamente dalla sua bocca.»
«No, non ho parlato con Kevin di Ellen. Entriamo?»
Steve si rassegnò.
«Entriamo.»
Vide un buon numero di persone sedute, Ellen in piedi e due posti disponibili, l'uno a un tavolo, l'uno all'altro. Senza degnare Kevin di uno sguardo, andò a sedersi nell'altro tavolo. Solo mentre si accomodava realizzò di avere fatto la cosa giusta anche per Jack, che difficilmente avrebbe desiderato doversi mettere accanto a Ray Moore.
Ellen, che stava tenendo un discorso piuttosto infervorato mentre loro entravano, fece una breve sintesi: erano tutti dalla stessa parte, il loro interesse era cercare di comprendere cosa stesse accadendo a Goldtown e cosa fosse accaduto nel lontano 2002, ma per arrivare a un obiettivo comune dovevano essere sinceri, raccontare tutto ciò che sapevano e smetterla di nascondersi dietro una maschera.
Non tutti furono contenti di udire quelle parole. Ci fu qualche protesta, in primis da parte di Lydia.
«Non puoi tacciarci di mentire, così come se niente fosse. Tu hai sempre detto la verità su tutto? E, in tal caso, come possiamo esserne certi?»
Ellen la rassicurò: «Penso che molti di noi abbiano i loro segreti, ma non tutti. Io vi racconterò i miei e cercherò di svelare i vostri.»
«Dunque» osservò Janet, «Tu stessa hai dei segreti.»
«Io stessa ho dei segreti» confermò Ellen. «Ho sempre avuto una spiccata propensione a interessarmi ai retroscena dei casi di cronaca nera. Non retroscena da tabloid, come fanno alla televisione. Non mi interessa, per intenderci, se la vittima aveva degli amanti o se aveva il vizio del gioco, a titolo d'esempio, a meno che non siano dettagli rilevanti all'interno del caso. Purtroppo, per arrivare a una soluzione, bisogna esaminare in lungo e in largo la vita delle vittime, ma anche di potenziali colpevoli o potenziali testimoni, finendo per invadere la loro privacy. So che è sgradevole, ma è una necessità. Lo pensavo anche vent'anni fa e venni a Goldtown per fare questo, cercare di capire cosa fosse successo alla povera Linda Miller. È stato un segreto, non lo sapeva nemmeno Mark. Lavoravo di nascosto alle mie indagini, evitandolo occasionalmente con la scusa che mia zia, con la quale abitavo, era una donna all'antica che non apprezzava frequentazioni maschili da parte mia. Come vedi, ho un segreto, ma non è nulla di grave. Forse anche alcuni di voi hanno segreti ben poco scabrosi da rivelare. Vi invito a farlo.»



Kevin spostò lo sguardo dall'uno all'altro dei presenti. Nessuno proferì parola e non avrebbe saputo dire se fosse un bene o un male. Ellen gli aveva rivelato di dovere fare numerose rivelazioni scottanti, ma non sapeva fino a che punto potesse spingersi. Non restava altro da fare che ascoltarla e sperare che non accadesse niente di irreparabile.
«Bene, vedo che nessuno ha niente da dire» proseguì Ellen. «Un po' me lo aspettavo, del resto anch'io non sono mai stata pronta a dire tutto. Per esempio non ho mai parlato volentieri delle lettere anonime che ricevevo nell'autunno del 2002. Una persona mi scriveva, quasi come se volesse rassicurarmi, come se mi ritenesse una vittima indiretta. Qualche tempo fa, prima della morte della povera Kimberly Richards, ho iniziato a ricevere messaggi via social, da una persona che sosteneva di essere l'autrice delle lettere. Non ne ho parlato con la polizia, quando sono stata interrogata: un altro segreto ben poco scabroso, ma che potrebbe avere le sue conseguenze. Il punto è che spesso decidiamo di mentire o tacere, non perché sia necessario, ma perché è di gran lunga il modo più semplice per uscirne senza problemi.» Fece qualche passo, proprio verso il tavolo a cui Kevin era seduto. «Sei d'accordo, Lydia?»
«Non saprei» borbottò Lydia. «Mi capita di mentire, a volte, sì. Dico al mio capo che la macchina non si avviava e non che sono stata io a fare tardi, a volte. Oppure, quando vado a fare la spesa, dico a mia figlia che al supermercato le schifezze che vorrebbe mangiare lei erano finite, e le dico che è un caso se invece, quando la spesa la fanno i miei genitori, riescono a comprargliele sempre. Penso che tutti, bene o male, mentiamo su queste cose.»
Ellen la ignorò.
«Tu, Janet, invece, cosa ne dici?»
«Non saprei cosa dire.»
«Anche questa è una strada facile.»
«Cosa vuoi da me, Ellen?»
«Non voglio niente, solo raccontarti una storia. Inizia con due amiche che vanno a fare un giro nella periferia di Goldtown, un tardo pomeriggio di novembre. Non è chiaro cosa debbano fare, forse parlare di quello che sta succedendo. Magari una delle due, o entrambe, sospettano qualcosa, perché conoscevano una delle vittime. Ti dice niente tutto questo?»
Janet scattò in piedi.
«Che cazzo vuoi? Cosa stai cercando di dirmi?»
Ellen ridacchiò.
«Non saprei. Cindy cosa stava cercando di dirti quel giorno? Perché avete litigato? Perché l'hai aggredita?»
Janet scosse la testa.
«Tu sei completamente fuori! Che cazzo ti viene in mente?»
Gli occhi di Lydia erano fissi su Janet.
«Quello che sta dicendo Ellen è vero?»
«Certo che no» replicò Janet. «Quella testimone disse di avere visto una donna con i capelli scuri e la testa coperta da un cappuccio.»
«Quella donna vedeva sfuocato, a quella distanza, e non avrebbe saputo distinguere una ciocca rosso fuoco da una ciocca nera, al buio» le ricordò Ellen. «Però vide il cappuccio. Ci sono due ragioni per cui una persona potrebbe indossare un cappuccio: nascondersi o proteggersi dal freddo o dell'umidità. La testimone pensò alla prima ipotesi, perché probabilmente non le sembrava freddo abbastanza per tenere sulla testa il cappuccio di una felpa. Immagino fosse la seconda. Tu stessa hai detto di avere sempre sofferto di dolori cervicali. Eri tu?»
Janet tornò a sedersi.
«Certo che no.»
«Rifletti, Janet, noi possiamo aiutarti» la incoraggiò Ellen. «È normale che tu avessi paura. Ciascuno di noi sarebbe stato terrorizzato al posto tuo. Però non sei la sola che ha mentito, qui. Per esempio una delle persone qui presenti la notte dell'omicidio di Mark era fuori casa, ma si è fabbricato un alibi perfetto. Tu non hai fatto niente di male, hai solo avuto un violento litigio con la tua migliore amica, che probabilmente vorrebbe che tu ti liberassi dal peso che ti porti dentro. Sono vent'anni che questo segreto di logora. Parla. Raccontaci la tua versione dei fatti.»
Kevin decise di intervenire: «Ellen, lasciala in pace. Non era lei.»
Quelle parole ebbero il potere di sbloccare la situazione. Janet, infatti, lo smentì.
«Sì, ero io.»

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Capitolo 21
*** Ellen non deve morire - 24 Novembre (2/3) ***


Ellen si sentì colpevole per la propria insistenza, mentre un'affranta Janet raccontava di come Cindy, che si era avvicinata a Danny al solo scopo di cercare risposte sul delitto di Linda Miller, l'avesse tacciata di avere finto di avere visto Will Mason per strada, la notte in cui Mark era stato ucciso. Cindy l'aveva accusata di volerlo screditare a causa di un'attrazione non corrisposta e di essersi inventata che fosse passato proprio sotto la sua finestra.
«Non so che cosa mi prese, Will l'avevo visto davvero» concluse Janet. «All'improvviso io e Cindy iniziammo a insultarci e la spinsi a terra. Era sconvolta. Mentre si alzava, me ne andai, senza darle il tempo di reagire. Non c'è stato un solo giorno in cui non mi sia chiesta come sarebbe andata se non mi fossi comportata così, se non l'avessi lasciata da sola con un assassino a piede libero a Goldtown.»
«Se il killer voleva uccidere Cindy - e voleva farlo, altrimenti la tua amica sarebbe ancora viva - di certo avrebbe trovato un'altra situazione» cercò di rassicurarla Ellen. «Non è colpa tua.»
Un lieve segno di sollievo parve comparire sul volto di Janet, ma durò poco. Lydia si rivolse a lei, in tono critico: «Hai mentito a tutti per vent'anni, fingendoti distrutta per la sua morte. Come hai potuto spingerti a tanto?»
Janet si girò di scatto a fissare l'amica.
«Tu credi davvero che non fossi distrutta? Allora non hai capito proprio un cazzo di me!» Si alzò in piedi. «Bene, Ellen, hai già rivelato i miei segreti e hai anche scoperto che Cindy era in fissa con Linda. Non so come le fosse venuta quella fissa, nessuna di noi ne aveva parlato più di tanto, finché Will non comparve nella nostra vita e si mise insieme a Meredith. A lui, per qualche ragione, la storia di Linda sembrava importare parecchio. Detto questo, non credo di avere altro da fare, qua. Non ho altro da riferire e mi ritengo libera di andarmene.»
Senza aggiungere altro, si diresse verso la porta.
Ellen suggerì a Lydia: «Vai con lei.»
«Neanche per sogno» sbottò Lydia. «Quello che ha fatto è orribile.»
«È meno orribile di quanto pensi ed è molto simile a quello che vuoi fare tu. Siete venute insieme, con la tua macchina. Vuoi davvero lasciarla sola in giro per Goldtown con un assassino ancora libero? Vuoi che le accada qualcosa e sentirti colpevole per tutto il resto della tua vita, come è capitato a lei quando è stata uccisa Cindy? Lo so, può essere spiazzante sentirsi raccontare certi retroscena, ma non volevo che voi la giudicaste, volevo solo vederci chiaro.»
«E ci hai visto chiaro?»
«Più di quanto tu possa pensare. Davvero, Lydia, non ho bisogno di te. Janet sì, invece.»
Seppure riluttante, Lydia si alzò e si diresse fuori dal bar. Ellen si sedette in quello che era stato il suo posto, di fronte a Jack.
«Bene. Adesso veniamo a te.»
Jack la guardò storto.
«A me? E, sentiamo, che segreti scabrosi avrei io?»
«Non so, magari vuoi parlarne tu?» lo esortò Ellen. «Secondo me avresti tante cose da dirci. Oppure vuoi narrarci di come, dopo il goal di Harvey Lee, la squadra avversaria tentò tutto il possibile per pareggiare?»
Jack aggrottò le sopracciglia.
«Harvey Lee? Non capisco.»
«Sei davvero sicuro di non capire?»
«Certo al cento per cento. Perché stiamo parlando di una partita di calcio?»
«Il calcio, per un non esperto che ne parla con altri non esperti, quindi poco propensi a fare domande, potrebbe sembrare banale da narrare» dichiarò Ellen. «Pensa a quello che hai fatto tu: sei riuscito a raccontare una partita che in realtà non avevi mai visto, semplicemente leggendo il risultato - azzarderei a dire sul televideo, vista l'epoca - e inventandoti che il goal di Lee era stato bello ed emozionante, osservazioni che sarebbero bastate a chiunque per convincersi che tu avessi seguito con gli occhi incollati al televisore le vicissitudini di quei due club. Non fraintendermi, sono sicura della tua buona fede: non sapevi che Mark sarebbe stato ucciso, quindi non volevi crearti un alibi per l'ora del delitto, ma solo una scusa da usare con i tuoi genitori per uscire di nascosto per incontrare qualcuno di cui non volevi parlare con loro. Non si sarebbero mai sognati di controllare se tu stessi davvero guardando una partita al piano di sotto. Avrebbero dato per scontato che, se la TV era accesa, tu la stessi guardando e, se fossero entrati in soggiorno non trovandoti, che fossi andato in bagno o fossi salito nella tua stanza. Invece - provo a ricordare come fosse fatta casa tua - dovevi essere uscito passando per la porta sul retro. Dovevi incontrare la tua ex, quella notte, vero?»
«Tu stai delirando» replicò Jack. «Quella sera ho visto la replica della partita e il goal di Lee.»
«Al nono minuto del primo tempo supplementare, il che era facile da leggere sul televideo» ribatté Ellen. «Te la sei cavata per vent'anni, poi hai creduto all'improvviso che dire che il goal di Lee era bello ed emozionante non fosse sufficiente. Allora, qualche tempo fa, ti sei inventato anche calciatori che facevano il possibile e l'impossibile per tentare un pareggio. Dopotutto era la cosa più plausibile: al novantanovesimo c'erano ancora oltre venti minuti da giocare. È a questo che hai pensato, quando hai iniziato ad aggiungere dettagli, vero?»
«Lo ribadisco, stai delirando.»
«No, non sto delirando affatto. Adesso provo di raccontarti io come andò quella partita: i tempi regolamentari finirono sullo zero a zero e, quando iniziarono i supplementari, entrambe le squadre fecero l'esatto contrario di quello che avresti potuto immaginare tu. Non cercarono il goal a tutti i costi, quanto piuttosto a difendere la propria metà campo, tentando disperatamente di non prendere goal. Se qualcuno avesse segnato, l'altra squadra sarebbe stata fottuta una volta per tutte, perché quella partita non finì dopo centoventi minuti. Secondo le regole dei tempi, fu decisa dal golden goal segnato da Lee. Nessuno tentò il pareggio: la partita che non hai mai visto terminò al novantanovesimo, con la rete di Lee. Senza fare un grosso sforzo di immaginazione, mentre alla televisione veniva trasmessa la replica di quella partita, tu ti trovavi insieme alla tua ex ragazza, quella che, all'insaputa di tutti, ti aveva sverginato due anni prima, ovvero nientemeno che Kimberly Richards.»
«Ma è assurdo!» intervenne Patricia. «Jack non è mai stato insieme a Kimberly.»
«Oh, sì che è stato con lei» replicò Ellen. «Me l'ha detto lui in persona, vent'anni fa. O meglio, mi ha detto che la sua ex l'aveva lasciato per un altro che poi l'aveva tradita e lui, in seguito, si era preso una cotta non corrisposta per un'amica, che poi si era fidanzata proprio con la sua ex. Quindi, senza un grosso sforzo di immaginazione, Kimberly ha lasciato Jack per mettersi con Mark, che però le ha fatto le corna. A Jack, frattanto, piacevi tu... che però ti eri messa con Kimberly. Era lei la persona che ti aspettava a casa mentre tu finivi di lavorare, quella sera, vero? O meglio, tu la pensavi a casa tua, ad aspettarti. In realtà era con Jack.»
Jack, da parte sua, teneva lo sguardo basso, rivolto sul tavolo.
«Perché non dici niente?» gli chiese Kevin. «È così?»
Jack fece un sospiro e ammise: «È così. Sapevo che Kimberly era a Goldtown e le avevo detto che quella sera saremmo andati da Steve. Se fosse stato possibile, sarebbe venuta a cercarmi lei, proprio vicino a casa di Steve.»
«La donna vestita di bianco» osservò Ellen. «Era dunque Kimberly. Molto interessante. Non vi chiedo di cosa abbiate discusso o cosa abbiate fatto, perché la vostra vita privata non mi riguarda. Immagino, però, che il vostro incontro non avesse nulla a che vedere con Mark.»
Jack avvampò.
«Io e Kimberly abbiamo fatto sesso, sulla sua macchina.»
«Wow, complimenti, quindi il fantomatico ragazzo che Kimberly aveva incontrato quella sera e di cui mi ha confessato in un secondo momento eri tu!» esclamò Patricia. «Non eri quello che affermava di non farsela con le partner altrui? Sei proprio uno stronzo!»
«Per cortesia, non è il momento per discuterne» la mise a tacere Ellen. «Vorrei soffermarmi un attimo su Mark. Con chi era, mentre Jack e Kimberly facevano sesso in macchina? Chi doveva incontrare quella sera, intorno a mezzanotte o poco dopo? Credevo la donna vestita di bianco, ma abbiamo appurato che in quel momento si stava togliendo l'abito bianco al cospetto di Jack. Mi viene in mente una sola possibilità.»
«Ovvero?» le chiese Steve, intervenendo per la prima volta.
«Will Mason» rispose Ellen. «Era fuori a quell'ora, era passato sotto casa di Janet. D'altronde c'era una ragione per cui avrebbero potuto incontrarsi.»
Ray osservò: «In effetti ha un senso. Quel pomeriggio Forrester aveva accidentalmente fatto un'ammaccatura alla macchina di Mason, mentre parcheggiava. I due avevano litigato per quel fatto, tanto che Mason fu sospettato di averlo ammazzato. Magari, invece, si erano incontrati per mettersi d'accordo su come gestire la questione del danno.»
«Esatto, mi viene da pensare che Mark si sia reso conto di avere fatto una cazzata e abbia chiesto a Will di vedersi per dargli i soldi che gli sarebbero serviti per sistemare la macchina» confermò Ellen. «E qui inizia a venirmi un grosso dubbio. Mark non sembrava molto preoccupato dalla faccenda di Linda. Al contrario, Janet ci ha detto che Mason era molto interessato a quella storia. E se fosse stato Will quello che sapeva qualcosa? Se l'assassino li avesse visti insieme e avesse pensato che anche Mark si stesse impicciando in qualcosa che non lo riguardava? Magari, vedendoli scambiarsi dei soldi, potrebbe avere travisato.»
«Quindi» osservò Kevin, «Secondo te Mark potrebbe essere stato ucciso, diciamo, per sbaglio?»
«Non lo so» ammise Ellen, «Ma questo killer non sembra molto preoccupato di fronte alla prospettiva di uccidere le persone sbagliate. Personalmente sono convinta che Linda sia stata uccisa per errore al posto della madre - poi magari vi spiegherò perché.» Si alzò e si diresse verso il tavolo a cui erano seduti Ray, Patricia, Roberta e Steve. «La madre di Linda si chiama Melanie Miller e lavorava come maestra elementare. Qualcuno di voi ha mai avuto il piacere di conoscerla? Tu, per esempio, Roberta? Sbaglio o era la tua insegnante? E soprattutto, sbaglio o tu dovresti essere morta all'età di otto anni, il 7 ottobre 1994?»
Ray strabuzzò gli occhi.
«Ehi, Ellen, che cazzo di storia è questa? Mi avevi mandato in crisi con i tuoi monologhi su Harvey Lee, che alla fine hanno avuto un senso, ma questo mi pare troppo. Come sarebbe a dire che Roberta dovrebbe essere morta? È assurdo.»
«Lo ammetto, sembra assurdo, ma ti assicuro che ho visto la sua tomba. Roberta Robinson - questo è il suo vero cognome - è stata assassinata dall'uomo che tentò di uccidere la maestra Miller. Però Roberta è qui, quindi la domanda è chi ci sia seppellito, in quel cimitero. O molto più probabilmente chi sia la persona seduta a questo tavolo. Ce lo vuoi forse raccontare, Roberta? Credo che la tua storia sia decisamente più intrigante sia della rissa tra Janet e Cindy sia dell'incontro erotico tra Jack e Kimberly. Qui tocchiamo davvero vette altissime. A proposito, Patricia lo sa o hai ingannato anche lei?»
«Di cosa parli?» volle sapere Patricia. «Non ci sto capendo nulla. Che idea assurda è che Roberta sia morta? Questa chi sarebbe, un fantasma? Beh, ti assicuro che non lo è affatto!»
«Che sia viva non ci sono dubbi» ribatté Ellen. «Dato che lo è, appunto, penso che farebbe meglio a spiegarci lei come stiano le cose. Prima, però, permettimi di farle i complimenti: Roberta è una mente geniale, ha architettato un piano talmente perfetto che solo un'impicciona come me poteva scoprire. Senza vedere la tomba di quella bambina e il contenuto del suo armadio, non avrei mai creduto che un'idea simile fosse possibile.»
«Ha-hai...» balbettò Roberta. «Hai frugato nel mio armadio?»
«Mi dispiace, ma non potevo fare altrimenti» si giustificò Ellen. «Ero a cena da te con Kevin, Leonard e Sophie e, con la scusa di andare in bagno, ho dato un'occhiata. E allora tutti i miei dubbi sono diventate certezze.»

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Capitolo 22
*** Ellen non deve morire - 24 Novembre (3/3) ***


Roberta realizzò di avere a disposizione soltanto pochi istanti per decidere cosa fare. In altre circostanze avrebbe negato fino alla fine e accusato Ellen di inventarsi storie assurde, ma aveva appena avuto dimostrazione del suo intuito. Era riuscita a convincere Janet a confessare un segreto che si era tenuta dentro per vent'anni e, in pochi istanti, aveva ricostruito cos'avesse fatto Jack la notte in cui era stato ucciso Mark Forrester.
Non avrebbe mai gettato la maschera, se non fosse stata costretta, e ci tenne a precisarlo: «Ammiro il modo in cui ti sei dedicata con tutto il cuore alle tue ricerche, Ellen. Però, lasciatelo dire, sei stata sleale, se davvero sei andata a frugare tra i miei effetti personali.»
Ellen ammise: «Hai ragione, non sono stata molto corretta, ma tutto quello che mi interessava era il risultato finale. Ho ottenuto quello che volevo. Adesso non ti resta che decidere se raccontare la tua versione dei fatti o lasciare che sia io a spiegare a tutti com'è andata.»
Roberta si ritrovò puntato addosso lo sguardo di Patricia, che pretendeva spiegazioni.
«Che cosa sta dicendo Ellen? Che cosa ci stai nascondendo? È vero che da qualche parte c'è una tomba con il tuo nome?»
«Calmati, Patricia» le suggerì Ellen. «È una ruota che gira, come ha dei segreti Roberta, potresti averne anche tu. Inoltre non sei l'unica che è stata presa in giro da lei. Tutti siamo stati presi in giro, alcuni di voi per anni e anni.»
Ormai tutti stavano fissando Roberta. Il tempo a sua disposizione era ufficialmente esaurito, quindi scelse l'unica strada possibile: la verità di Ellen non avrebbe potuto liberarla, la sua sì, una volta per tutte.
«Ellen ha ragione, per qualche verso vi ho preso in giro» dichiarò Roberta, «Ma vorrei precisare che non l'ho fatto per ingannare voi, ma perché la mia vita si basa sulla menzogna, non da poco, ma da quando avevo otto anni, nello specifico dal giorno in cui qualcuno tentò di uccidere la mia maestra, Melanie Miller. A proposito, vorrei precisare che, nel 2002, quando fu uccisa Linda, non ero riuscita a ricondurla alla maestra Melanie. Per me era semplicemente la maestra Melanie, non la signorina Miller. Non ricordavo il suo cognome, non potevo pensare che fosse la madre di Linda.»
«Molto interessante» osservò Ellen, «Ma non credo proprio che tu abbia iniziato a mentire quel giorno. Nessuno di noi ti conosceva, ai tempi. O per meglio dire, nessuno conosceva Roberta Stewart. Oserei dire che, ai tempi, non esisteva ancora Roberta Stewart.»
«Questa è la dimostrazione che non sei riuscita a scoprire proprio tutto. Dopotutto era impossibile: solo io e mia madre sappiamo tutta la verità.»
«Allora raccontaci la tua verità, Roberta. O forse dovrei chiamarti Jennifer?» Ellen assunse un tono straordinariamente teatrale, mentre annunciava a tutti i presenti: «Ne abbiamo parlato all'inizio della serata, che nessuno di noi ha mai visto Jennifer Robison e Roberta Stewart nello stesso luogo, o quantomeno contemporaneamente. Non dubito che, in certe occasioni, la nostra amica qui presente sia riuscita a fregarvi, comparendo a distanza di pochi minuti prima in un ruolo e poi nell'altro. Già, perché non esistono due gemelle Robinson-Stewart. O meglio, esistevano due gemelle, ma una delle due è morta all'età di otto anni. Da quando Roberta ha fatto la sua apparizione, è sempre stata Jennifer a interpretarla.»
«Non è possibile!» sbottò Patricia. «Quello che dici non ha senso! Non è possibile che Roberta sia Jennifer!»
«Invece è possibile» insisté Ellen. «Mi dispiace molto deluderti, sei una brava persona e non meriti un simile colpo, ma la tua fidanzata non è chi dice di essere. Anzi, si è finta una persona diversa al solo scopo di stare insieme a te. Chissà, forse pensava che Jennifer non avesse speranze, quindi ha deciso di vestire i panni della sua defunta gemella, per rendersi più interessante ai tuoi occhi e agli occhi di tutti.»
«Si era detto che avrei raccontato la mia verità, non che tu avresti raccontato la tua» le ricordò Roberta. «È vero quello che dici, ho interpretato la parte di due persone diverse, ma non l'ho fatto per la ragione che pensi tu. Non ho mai creduto che Jennifer non fosse abbastanza interessante e, di conseguenza, iniziato a fingere di essere Roberta. È stata Jennifer la prima a fingere, ma è una storia molto più complicata di quanto possiate immaginare. Direi che possiamo farla iniziare da quando siamo nate.»
Patricia la fissava con occhi gelidi.
«Certo, ora darai la colpa a tua madre, vero?»
Roberta scosse la testa.
«No, mia madre faceva quello che poteva. Si è ritrovata sola con due neonate, senza un compagno. Mio padre si era dato alla macchia e per anni non ha voluto saperne di noi, almeno finché non ha deciso di entrare nella nostra vita all'improvviso. Ha deciso che voleva conoscere le sue figlie e che voleva farci da padre. Ho mentito quando vi ho detto che siamo state separate alla nascita, ma a un certo punto c'è stata una sorta di separazione tra di noi. Quando nostra madre era rimasta incinta, probabilmente nostro padre pensava di farsi una famiglia con un'altra donna. Non era accaduto, quindi era tornato a reclamarci a tutti i costi. Non so come i miei genitori siano arrivati a quell'assurdo accordo, ma hanno preso una decisione: mio padre avrebbe potuto avere solo una di noi, una sorta di erede alla quale cercare di trasmettere qualcosa. Ha scelto me. Mi diceva che Jennifer era una stupida bambolina che non sapeva imporsi, arrivava a deriderla per la sua difficoltà nell'allacciare relazioni sociali. A scuola tutti prendevano in giro Jennifer, quando era sola, ma nessuno osava farlo davanti a me. Per lei è stato un duro colpo essere rifiutata ancora una volta da nostro padre. Era la sua grande fortuna, ma non se ne poteva rendere conto. Poi è arrivata quella mattina. Dovevamo andare a scuola, ma non mi sentivo bene. Mia madre ha detto che sarebbe venuta la nostra vicina - una signora anziana dalla quale andavamo quando mamma era al lavoro - da me, mentre Jennifer sarebbe andata a scuola. Jennifer, però, non voleva andarci. Era terrorizzata dai nostri compagni, non voleva andare senza di me. Le ho detto di indossare i miei vestiti e di fare finta di essere me.»
Roberta si rese conto che perfino Ellen era stupita.
«Stai dicendo che Jennifer è morta ventotto anni fa?»
«Sì, sto dicendo proprio questo. Quel giorno nostra madre ha avuto un contrattempo ed era in ritardo. Jennifer era ancora a scuola, che fingeva di essere me. Doveva essere con la maestra Melanie. L'uomo che ha aggredito l'insegnante l'ha uccisa, forse perché l'ha colto sul fatto.»
«E tu avresti finto per tutti gli anni a venire di essere Roberta?»
«Sì.»
«Per quale motivo?»
«L'accordo tra i miei genitori. Mio padre aveva rifiutato Jennifer e aveva scelto Roberta. Mia madre non voleva che mio padre avesse alcun controllo su di me e sulla mia vita. È per questo motivo che prima mi ha imposto di fingere di essere mia sorella e poi, anni dopo, mi ha mandata a vivere con mia nonna e mia zia. Voleva allontanarmi da mio padre e non aveva tutti i torti. Solo, non si è mai resa conto di avermi costretta a recitare una parte.»
«Va bene, Jennifer era morta e tu eri viva, mentre tutti erano convinti del contrario» concluse Ellen, «Ma allora perché fingere che entrambe foste vive?»
«Questo è successo quando ero ormai adulta e mio padre si è ricordato di me» le spiegò Roberta. «Ha iniziato a insistere sul fatto che gli ricordavo tanto Roberta e che gli sembrava di averla ancora davanti. Allora ho capito che avrei potuto accontentare tutti se avessi iniziato a fingere. Ho iniziato a far credere sia lui sia a mia madre di sentire Roberta dentro di me, tanto che hanno iniziato a credere che avessi sdoppiamenti di personalità. Allora ho iniziato a impersonare Roberta, all'inizio solo qualche volta. Mi vestivo come mi sarei voluta vestire nella mia vita di tutti i giorni, se non avessi dovuto continuare a interpretare la parte di Jennifer. Portavo una parrucca, che somigliava a come avrei voluto portare i capelli se avessi potuto essere me stessa. Allora, all'improvviso, ho capito che solo quando ero Roberta ero davvero me stessa. Ho cercato di contenermi, di eliminarla, ma non era possibile. A poco a poco ho iniziato a diventare Roberta, cercando di limitare sempre più la presenza di Jennifer. Ho anche tinto davvero i capelli, portando una parrucca bionda quando dovevo tornare nei panni di Jennifer. Immagino che tu, Ellen, nel mio armadio abbia trovato sia i vestiti miei, sia quelli di Jennifer, oltre che delle parrucche.»
«Tutto questo è assurdo!» ribadì Patricia. «Non puoi avere mentito su tutto questo. Non ha senso.»
«Lo so, tu sei stata abituata a persone come Kimberly, che ti dicevano che ti aspettavano a casa, mentre in realtà erano in giro a scopare con qualcun altro» replicò Roberta. «Sai cosa ti dico? Forse mi sarebbe piaciuto essere una di quelle persone, che non hanno altro da fare che nascondere chi si portano a letto. Purtroppo la mia vita non è stata semplice come la loro. Sapevo che non mi avresti capita. Anche chi ha avuto una vita complicata finisce per convincersi che sia tutto facile per tutti.»
Patricia obiettò: «Non è questione di avere o non avere una vita facile. Ci sono cose normali su cui mentire. Per esempio Jack mi ha nascosto fino a stasera di avere fatto sesso con Kimberly quando lei era fidanzata con me. Certo, non posso dire di ammirarlo per quello che ha fatto e per non avermelo mai confessato in vent'anni, ma posso sforzarmi di comprenderlo. Quello che ha fatto, fa parte della natura umana. Quello che hai fatto tu, invece? Ti sei finta due persone diverse, mi hai fatto credere di essere chi non sei.»
«Non è vero» si difese Roberta. «Avrei potuto stare insieme a te con il nome di Jennifer Robinson, sarebbe stato molto più semplice. Allora sì che ti avrei mentito. Non ho finto di essere una persona che non sono. Ho raccontato un sacco di falsità, ma Roberta è chi sono davvero.»
«Per quanto mi riguarda puoi essere chi vuoi» replicò Patricia, «Basta che esci dalla mia vita e, già che ci sei, che esci anche dal mio bar.»
«Va bene, me ne vado.» Roberta si alzò in piedi. «C'è solo una cosa, tuttavia, che vorrei aggiungere. Negli ultimi tempi, come avrete notato, sono stata Jennifer più del dovuto. Non l'ho fatto perché avessi dei ripensamenti, ma solo perché era l'unico modo che avevo per testimoniare a favore di Danny. Ho mentito su tante cose, ma non sui miei sentimenti. Non importa che io vi sia stata amica come Jennifer o come Roberta, sono sempre stata sinceramente legata a tutti gli amici di una o dell'altra.» Si rivolse a Steve: «Anche a te. Anzi, sono stata felice di scoprire che Roberta ti era simpatica, anche se consideravi Jennifer una svitata.»
Steve fece un mezzo sorriso.
«Invece la mezza svitata era Roberta, che si fingeva ancora più svitata di prima. Non fa niente. Hai ragione, quando sei diventata Roberta ho capito chi eri davvero.»
Roberta lo guardò con occhi carichi di gratitudine e fece per avviarsi verso l'uscita.
«Aspetta, Roberta» la pregò Ellen. «O Jennifer, sinceramente non so più come chiamarti. Non sei stata l'unica a nascondere dei segreti, quindi vorrei tornare per un attimo sulla faccenda delle lettere e dei messaggi che ho ricevuto su Forevernet.»
Roberta obiettò: «Non devi rendermi conto di niente. È vero, sei stata scorretta nei miei confronti venendo a rovistare nel mio armadio, ma non voglio necessariamente vederti fare ammissioni compromettenti.»
«Non ho niente di compromettente da ammettere» precisò Ellen. «Torna a sederti.»
Roberta tornò indietro, seppure riluttante. Non comprendeva il senso del dovere prolungare ulteriormente la propria presenza.
Ellen proseguì: «Vi ho detto delle lettere che ricevevo e del fatto che poco tempo fa ho ripreso a ricevere dei messaggi. So per certo che anche Steve e Kevin sono stati contattati dalla stessa persona su Forevernet. Ne ho parlato anche con loro e abbiamo avuto l'impressione che la persona che scriveva tramite social fosse convinta di sapere chi avesse ucciso Mark. Ho pensato a Kimberly e ho ipotizzato che sapesse che dovevo vedere Mark, quella notte, quindi sospettasse di me.»
Steve intervenne: «La persona che vent'anni fa ti scriveva quelle lettere, però, non sospettava di te. Anzi, cercava di rassicurarti. Come mai avrebbe cambiato idea?»
«È molto semplice, non si trattava della stessa persona» replicò Ellen. «Vent'anni fa una certa Mabel mi scriveva lunghe lettere per incoraggiarmi. Poi, di colpo, una seconda Mabel si è messa a scrivere messaggi criptici, spesso molto brevi, con un tono molto diverso. Qualche volta si è sforzata di scrivere messaggi lunghi, ma a rifletterci si vede che non c'era la stessa mano, dietro. Le lettere di Mabel erano scritte da una persona innocente che sapeva ugualmente della mia innocenza. I messaggi su Forevernet erano scritti da qualcuno che mi riteneva colpevole perché qualcuno gliel'aveva messo in testa. Ebbene, la prima Mabel è qui, all'interno di questo bar. Se si vuole fare avanti, ne sarei molto lieta. In più vorrei ringraziare Kevin, perché senza di lui non sarei mai arrivata a questa conclusione.»
Roberta si girò a guardare Kevin che, da parte sua, non diceva una sola parola.
Fu ancora Ellen a continuare: «Per puro caso gli è capitato di ritrovarsi a parlare di un caso di suicidio risalente a più di trent'anni fa. La vittima si chiamava Lisa Lynch ed era la sorella di Patricia.»
Quest'ultima sussultò.
«Che cosa c'entra mia sorella?»
«Non so, magari ce lo vuoi spiegare tu?» replicò Ellen. «O almeno, vuoi spiegarci per quale curiosa coincidenza il nome Mabel sembra una sorta di acronimo dei vostri secondi nomi? Tu ti chiami Patricia May, tua sorella si chiamava Lisa Belle. Tu sapevi che non potevo avere ucciso Mark, ma soprattutto, ancora più importante, Kimberly era l'unica persona che poteva sapere delle lettere e magari perché ti firmassi a quella maniera.»
«Wow» sfuggì a Roberta. «Anche tu hai dei segreti di un certo livello.»
«Ho dei segreti che non ti riguardano» ribatté Patricia, «E ti ho chiesto di andartene.»
«Va bene, me ne vado» acconsentì Roberta. «Se Ray è stato chiamato qui solo perché ha in qualche modo illuminato Ellen e l'ha aiutata a schiarirsi le idee, ormai non c'è più nessuno di cui debba rivelare segreti scottanti: prima Janet, poi Jack, poi io, infine tu. Dubito che abbia qualcosa da dire a proposito di Steve e di Kevin, quindi immagino che la serata sia finita. È stato un piacere. Se avete bisogno di me, sapete dove trovarmi, ormai. E per quanto riguarda te, Patricia, mi dispiace che sia finita così, ma se è il prezzo da pagare per essere finalmente libera, allora lo accetto. Immagino che sia il primo passo per iniziare a guardare avanti.»
Si sentiva straordinariamente ottimista, quella sera, mentre usciva dal bar. Non sapeva che cosa le avrebbe riservato il futuro, ma era certa, almeno, di non dovere più interpretare la parte di due persone, poco importava che legalmente il suo nome fosse Jennifer Robinson. Poteva portare quel nome, ma poteva smettere di recitare una parte.
Sognava a occhi aperti, pensando che Ellen le avesse, del tutto accidentalmente, fatto un favore enorme, costringendola a prendere una decisione difficile, che non avrebbe mai avuto il coraggio di perseguire da sola. Aveva sconvolto la sua vita, ma le augurava tutto il bene possibile. Purtroppo, avrebbe scoperto, c'era chi aveva un pensiero diametralmente opposto in proposito. Pochi giorni più tardi Ellen sarebbe scampata a un tentativo di omicidio e qualcun altro, al suo posto, si sarebbe ritrovato a lottare tra la vita e la morte.

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Capitolo 23
*** Anche gli assassini sono vittime - 29 Novembre ***


ANCHE GLI ASSASSINI SONO VITTIME

[29 novembre]
«Alla porta c'è una donna che chiede di te.»
Lydia alzò lo sguardo dal depliant promozionale che stava leggendo.
«Una donna che chiede di me?» ripeté, rivolta a suo padre. «Chi è?»
«Non so, non la conosco. Non l'ho nemmeno mai vista a Goldtown.»
«Va bene, vado subito.»
Lydia si alzò in piedi e si diresse verso la porta. Sulla soglia trovò una donna con i capelli tagliati corti, tinti di biondo. Le era capitato, una volta o due, di vederla per strada, ma non aveva la più pallida idea di chi fosse.
«Lydia Blackstone?» le chiese l'ospite.
«Esatto» confermò Lydia. «Cosa posso fare per lei?»
«Mi chiamo Janice Petterson» si presentò l'altra. «Non so se ha mai sentito parlare di me.»
Lydia invitò la Petterson a uscire e si portò fuori casa a sua volta, limitandosi ad accostare la porta, dal momento che non aveva preso con sé le chiavi.
«Giornalista, vero?»
«Mi conosce di fama?»
«In un certo senso. Per caso è stata fidanzata con mio marito, in passato?»
«Molto in passato.»
«Allora ricordavo il suo nome» osservò Lydia. «Dylan mi ha parlato di lei, in qualche occasione. Non capisco, tuttavia, perché mi stia cercando.»
«Dovrò prenderla un po' in largo. Conosce Ellen Jefferson?»
«Eccome se la conosco.»
«L'ha incontrata, ultimamente?»
Lydia azzardò: «Non è un po' avventato che una perfetta sconosciuta mi chieda chi ho visto di recente?»
Janice accennò un sorriso.
«Ha ragione, devo sembrarle un po' scortese e impicciona.»
«Mi spieghi» la pregò Lydia. «Il fatto che si sia scomodata a venire da me significa sicuramente qualcosa. Perché vuole sapere se ho visto Ellen?»
«In realtà so che ha visto Ellen, deve essere stato qualche sera fa, la scorsa settimana» rispose Janice Petterson. «Me ne ha parlato Ellen in persona. Sa, siamo coinquiline qui a Goldtown.»
«Quindi Ellen le ha raccontato di...» Lydia esitò. «Di cosa le ha parlato Lydia?»
«Di Janet Birthy, di Jack Mitchell, di Jennifer Robinson che si spacciava per entrambe le gemelle... Come vede sono piuttosto informata. Comunque, come saprà, solo un giorno più tardi il fidanzato di Ellen ha avuto un grave incidente mentre era al volante dell'auto di lei.»
«Sì, lo so bene. Per caso sa come sta?»
Janice Petterson sorrise.
«Perché non lo chiede alla sua amica Janet?»
«Dovrei?»
«Ho ragione di pensare che la sua amica Janet sia molto legata a Kevin Morgan.»
«Non abbastanza da potersi intromettere così tanto» replicò Lydia. «Sicuramente Ellen ne sa molto di più e, a quanto capisco, le riferisce tutto.»
«Non proprio tutto, ma sono al corrente di una novità non ancora uscita sui giornali: qualcuno aveva manomesso i freni dell'auto di Ellen. È molto probabile che fosse lei la vittima designata.»
Lydia rabbrividì.
«Oh, mi dispiace.»
«Penso che, arrivata a questo punto, abbia capito perché sono qui» azzardò la Petterson. «Parlo dell'incidente in cui morirono suo marito e la sua amica Meredith Taylor.»
«Oh.»
«È sorpresa, Lydia?»
«Diciamo che non me lo aspettavo.»
Janice puntualizzò: «Ho provato a fare qualche ricerca e tutto lascia pensare a un incidente, ma mi stanno venendo molti dubbi... e non sono la sola. Anzi, devo ammetterlo, è stata proprio Ellen a farmi notare che, se il killer di Goldtown se la cava anche nella manomissione di auto, potrebbe esserci la sua firma anche dietro la morte di Dylan e Meredith.»
«Mi sembra un'ipotesi un po' labile, per quando la dinamica dell'incidente di mio marito non sia stata ricostruita con esattezza» obiettò Lydia. «Perché il killer avrebbe dovuto volere uccidere Dylan e Meredith?»
«Innanzi tutto, mi scusi per la domanda, Meredith Taylor era solita ricevere passaggi in macchina da Dylan?»
«Lavoravano insieme. Meredith non era giornalista, era un'impiegata della redazione. Capitava con una certa frequenza che Dylan la accompagnasse, quando dovevano andare al giornale alla stessa ora.»
«Quindi è plausibile che il killer volesse uccidere anche Meredith, non solo Dylan.»
Lydia le ricordò: «Non vi sono prove, e ai tempi nemmeno indizi che facessero pensare a un potenziale omicidio. Perché avrebbe dovuto ucciderli? Non ha senso.»
Janice replicò: «Non posso assicurarle che la mia idea sia esatta, ma quando stavo insieme a Dylan, mi sembrava molto affascinato dai delitti di Goldtown. Voglio dire, affascinato in senso giornalistico, il suo sogno era scoprire qualche retroscena. Sbaglio o, a suo tempo, Meredith stava insieme a una delle vittime?»
«Non sbaglia» ammise Lydia. «Sta pensando, quindi, che Dylan fosse ancora interessato quella storia e stesse cercando di scoprire qualcosa di più con l'aiuto di Meredith?»
«Le sembra improbabile?»
«Non del tutto.»
«Non scarterei questa ipotesi, allora» insisté Janice. «Vede, Lydia, ci deve essere una ragione per la quale Will Mason fu ucciso. Le viene in mente qualche possibile collegamento tra Will e Linda Miller?»
«No.»
«Come sospettavo. Conosceva bene Will?»
«No, non mi piaceva particolarmente. Non voglio dire che avesse qualcosa che non andava, ma non mi pareva tanto interessante. Non al punto da far interessare tutte le mie amiche a lui. Janet si era presa una cotta per Will, prima che si mettesse insieme a Meredith, mentre Cindy gli stava sempre intorno. Parlavano di Linda, penso di sì, ma ho sempre creduto fosse Cindy a tirare fuori quell'argomento. Conosceva Linda, anche se, a pensarci, quel suo desiderio di capirci qualcosa deve essere nato dopo che abbiamo iniziato a vedere Will.»
«Nessun legame tra Mason e Linda Miller, quindi» riassunse Janice, «Ma per qualche motivo Will nutriva molto interesse per quel caso. Per quel poco che conosceva Will, le sembra possibile che qualcuno lo pagasse perché scoprisse qualcosa?»
Lydia alzò gli occhi al cielo.
«Mi sta chiedendo troppo, Janice. Non ne ho la più pallida idea. Certo, gli piaceva avere a disposizione dei soldi da spendere, forse di più di quelli che il suo lavoro poteva consentirgli, quindi non sarei del tutto sorpresa se fosse stato pagato per fare una sorta di indagine parallela. Rimane solo una teoria, però, potrebbe essere solo una fantasia.»
«La ringrazio, Lydia. La nostra conversazione mi è stata molto d'aiuto.»
«Riferirà tutto a Ellen?»
Janice Petterson accennò una risata.
«A Ellen? Perché?»
«È Ellen, tra di voi, quella che sta facendo un'indagine parallela contemporanea, mi pare di capire.»
«Le sto dando una mano, anche se non posso fare molto. Ellen conosce le persone coinvolte, io non tanto. Comunque la metterò al corrente della sua ipotesi. È una mia ipotesi, dopotutto, e lei si è limitata a non stroncarla sul nascere.»
Lydia ritenne che fosse il momento di congedarsi.
«La lascio andare a casa da Ellen.»
«Sperando che sia a casa» ribatté Janice. «Non si può mai sapere.»
Non aveva tutti i torti, realizzò Lydia, dopo che la Petterson se n'era andata. Dalla finestra vide proprio Ellen e, per un attimo, si domandò cosa volesse da lei. Ellen, però, non la stava cercando. Era molto probabile che stesse suonando il campanello di Steve.

 

Ellen non aveva idea di cosa avrebbe pensato Janice se avesse potuto vederla in quel momento, ma tutto ciò che contava era che la sua coinquilina non la stesse vedendo. Prima o poi si sarebbe sorbita una predica perché se n'era andata in giro da sola al buio nonostante quello che era accaduto pochi giorni prima, ma non contava, in quegli istanti.
Aveva avvertito Steve del suo arrivo e non ebbe nemmeno bisogno di suonare il campanello: Steve doveva averla già vista, dal momento che il cancello scattò non appena Ellen vi si fermò davanti. Entrò nel giardino, lo richiuse e si recò verso la porta d'ingresso, che venne ugualmente aperta al suo arrivo.
«Entra» la invitò Steve. «Mi fa molto piacere vederti.»
Ellen non replicò.
Steve la esortò: «Vieni, ti faccio sedere.»
La accompagnò nel soggiorno, dove Ellen trovò il televisore acceso.
«Ti ho disturbato? Stavi guardando qualcosa?»
Steve spense la TV.
«Niente di interessante.» Si sedettero entrambi, poi le chiese: «Come sta Kevin?»
«L'intervento è riuscito, mi ha detto suo fratello, e i medici sono fiduciosi, ma è ancora troppo presto per sbilanciarsi.» Ellen sperò che quella sintesi fosse sufficiente. «Non riesco a credere a quello che è successo, potrebbe non essere stato un caso. Nessuno poteva sapere che avrei prestato la macchina a Kevin, quel giorno. Aveva avuto un problema con la sua e mi aveva chiesto se potevo accompagnarlo, ma siccome avevo da fare gli ho detto di prendere la mia auto. All'inizio non voleva. Ho insistito io e vorrei tanto non averlo fatto.»
«Non hai niente di cui rimproverarti» le assicurò Steve. «La cosa peggiore che può capitare è convincersi di essere in qualche modo responsabili di quello che succede. Nessuno di noi lo è, siamo solo vittime degli eventi.»
«Il colpevole, però, potrebbe nascondersi tra noi. Non vorrai dirmi che anche gli assassini sono vittime.»
«Gli assassini sono vittime? No, non lo direi mai, il killer di Goldtown non è una vittima. Però dipende cosa intendi, quando dici che è "tra noi". Non rischi di fare lo stesso errore che in tanti hanno fatto con Danny?»
«A proposito di Danny, è tornato, l'ho visto in ospedale da Kevin.»
«Lo so, è tornato proprio per lui. Si aspettava di trovarlo in condizioni migliori.»
Ellen sviò ancora una volta l'argomento.
«Comunque non penso di rischiare di fare lo stesso sbaglio che mezza Goldtown ha fatto con Danny. L'hanno tirato in mezzo perché Maryanne Sherman lo detestava e qualcuno ne ha approfittato per mettergli il cadavere nel garage, nonostante avesse un alibi. Il killer voleva incastrarlo, ma non ha funzionato. Nel nostro caso nessuno vuole incastrare nessun altro. Anzi, può darsi che, quando la mia macchina è stata manomessa, quel maledetto sperasse che io avessi un incidente che non destasse sospetti. Non posso fare a meno, però, di riflettere sulle tempistiche: ho smascherato i segreti di quattro persone e subito dopo qualcuno ha tagliato i freni della mia auto. Non può essere un caso.»
«Non è possibile!» esclamò Steve. «Non penserai che Janet o Jack o Jennifer o Patricia abbiano...» Si interruppe, come se non se la sentisse di pronunciare ad alta voce ciò che stava sottintendendo. «Sono nostri amici, sappiamo tutto di loro.»
«Proprio tutto non direi» ribatté Ellen. «Ti ricordo che Jennifer, o Roberta che dir si voglia, si è finta un'altra persona. Anzi, ha finto di essere due diverse persone. Non mi sembra una faccenda da poco.»
«Ha spiegato le sue ragioni.»
«Certo, e anche piuttosto bene, ma mi pare comunque avventato dire che sappiamo tutto di loro.»
«Comprendo quello che vuoi dire, ma a maggior ragione mi sembra assurdo ipotizzare che possa avere a che vedere con i delitti. Rifletti, Ellen, l'obiettivo del killer deve essere quello di cercare di dare nell'occhio il meno possibile. Quello che ha fatto Jennifer è l'esatto contrario: allestire tutta la sceneggiata della gemella, e farlo per anni, comportava il rischio di essere smascherata e, di conseguenza, avrebbe reso molto difficile continuare a passare inosservata. Non penso di potermi identificare con un killer al punto da fare ipotesi sul modo in cui potrebbe agire, ma di sicuro cercherei di non destare sospetti.»
Il discorso di Steve aveva molto senso, ma Ellen non poteva scartare la convinzione che la manomissione dell'automobile fosse legata alla serata in cui si era "divertita" a smascherare segreti altrui al bar di Patricia Lynch.
«Qualcuno deve avere saputo cos'è successo quella sera. Hai ragione, è difficile che qualcuno tra Janet, Jack, l'unica gemella vivente e Patricia se ne vada in giro ad ammazzare gente, ma l'assassino potrebbe avere legami con qualcuno di loro. Non parlo di complicità, né sto tacciando uno di loro di coprirlo, però fidarsi della persona sbagliata non è un errore così inconsueto. Quindi» azzardò Ellen, «Dovremmo passare in rassegna tutte le frequentazioni di quei quattro, o addirittura di tutta la gente presente.»
«Più facile a dirsi che a farsi» ammise Steve. «Addirittura dovremmo anche analizzare tutte le persone di cui noi stessi ci fidiamo o alle quali ci capita di confidare quello che ci succede.»
«Hai raccontato a qualcuno di quella serata?»
«No. Tu?»
«Nemmeno io, ne ho parlato solo con Janice.»
«E se fosse Janice la killer?» suggerì Steve.
Ellen sussultò.
«Che cazzo stai dicendo? Che cosa c'entra Janice con i delitti di Goldtown? Le tue accuse sono assurde.»
«Non sono accuse» chiarì Steve. «Era solo un modo per farti capire che non sempre dietro a un "non ne ho parlato con nessuno" c'è davvero quello che si dice. In più ci sono persone che non sospetteremmo mai di avere seminato cadaveri. Come tu nutri la fiducia più assoluta nei confronti di Janice, con tutta probabilità anche gli altri hanno punti di riferimento simili. Sono certo a mia volta della più totale estraneità di Janice a questa storia, ma potrebbe esserci qualcuno che si fida della persona sbagliata e per cui la "persona sbagliata" è talmente scontata da non citarla nemmeno esplicitamente.»
«Un genitore, un parente» suggerì Ellen, anche se l'idea la faceva inorridire. «Questo coinciderebbe con la mia idea iniziale, ovvero che Linda Miller sia stata uccisa da qualcuno che si spacciava per suo padre: una persona che nel 2002 aveva sui quarant'anni o quarantacinque, forse addirittura cinquanta. Però adesso basta parlarne, sto andando giù di testa. Possiamo vederci domani e parlarne a mente più libera?»
«Certo. O devi lavorare? Intendo dire, scrivere qualcosa che non abbia a che vedere con i delitti?»
Ellen propose: «Posso venire in negozio da te con il mio computer portatile. Quando abbiamo qualche ritaglio di tempo, possiamo cercare di schiarirci le idee.»
Steve borbottò: «O complicarle ancora di più.»
«Questo significa che accetti?»
«Sì, accetto.»

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Capitolo 24
*** Anche gli assassini sono vittime - 30 Novembre ***


[30 novembre]
Quando Patricia vide Janice Petterson entrare nel bar, era ormai troppo tardi. Cercò di defilarsi, chiedendo a Ray di occuparsi di lei, ma fu chiaro fin dal primo momento che la giornalista non si fosse recata sul posto in qualità di cliente. Si avvicinò a lei e le fece un cenno, al quale Patricia comprese di non potersi sottrarre.
«Bentornata» la accolse, sforzandosi di apparire cordiale. «Cosa posso fare per lei?»
«Potremmo darci del tu» propose Janice.
«A me va bene, ma immagino ci sia dell'altro.»
«Sì, certo, sono venuta qui per una faccenda che riguarda Ellen.»
Patricia azzardò: «Potrebbe venire lei, se vuole altre spiegazioni oltre a quelle che le ho già dato quella sera. Oppure ha qualcosa di cui lamentarsi perché ho preferito parlarle in privato, invece che davanti a tutti gli altri?»
«Non è stata Ellen a chiedermi di venire qui, è stata una mia spontanea iniziativa» chiarì Janice. «Ci sono alcuni punti che non mi tornano del tutto e non sono sicura che Ellen sia nelle migliori condizioni di lucidità, al momento.»
«Io qui sto lavorando.»
«Non c'è molta gente, adesso. Può pensarci il tuo collega.»
«Immagino che tu abbia cercato di proposito un orario in cui c'è poco traffico» azzardò Patricia. «Comunque quei pochi clienti che ci sono potrebbero sentirmi.»
Janice puntualizzò: «Non ti ho chiesto di parlare davanti a loro.»
«Però mi stai chiedendo di uscire di qua.»
«Mi va bene anche discuterne nel privé.»
Patricia avrebbe voluto rifiutare, ma stare a sentire cosa la Petterson avesse da dirle poteva essere l'unica via per poi, in un secondo momento, liberarsi di lei.
«Seguimi. E fallo subito, perché potrei cambiare idea.»
Janice non se lo fece ripetere due volte e, quando entrarono, si affrettò a chiudere la porta alle loro spalle.
Patricia la esortò: «Allora?»
«Allora sto cercando di schiarirmi le idee su tutto quello che è successo a Goldtown nel 2002 e su quello che sta accadendo tuttora, a vent'anni di distanza» le spiegò Janice. «Se non è possibile scoprire chi sia l'autore dei delitti, almeno si può ricostruire quello che gli accadeva intorno.»
«Quindi le mie azioni si sarebbero svolte intorno ai delitti. È questo che stai cercando di dire?»
«Non volevo essere offensiva. Sono fatti accaduti a Goldtown e Goldtown è il grande contorno di questa storia, questo volevo dire.»
Patricia sospirò.
«Va bene, ma fai presto. Non posso stare tutta la giornata dietro a te.»
«Lo immagino» la rassicurò Janice, «Quindi di chiedo solo di ascoltare la mia ricostruzione. Mi sono basata su quello che hai detto a Ellen quella sera. Nel 2002 avevi una ventina d'anni ed eri andata da poco a vivere da sola in un appartamento alla periferia di Goldtown, nel quale molti anni prima aveva abitato tua sorella Lisa. Non avevi mai parlato con Ellen fino alla tarda serata del 31 ottobre, ma quando si mise a raccontarti del suo fidanzato che le aveva dato buca, prendesti a cuore la sua storia. Ti ispirava simpatia, forse, ma per il momento tutto finiva lì. La accompagnasti a casa, dopo, e andasti da te. Avevi invitato Kimberly Richards, con cui avevi da poco iniziato una relazione. Le avevi dato un mazzo di chiavi, perché potesse andare ad aspettarti da te. Pensavi fosse rimasta là per tutta la sera, ma non era andata così. All'epoca, però, non lo sapevi. È tutto corretto?»
«Sì.»
«Poi, l'indomani sera, uscì la notizia dell'omicidio di Mark. Sentisti qualche pettegolezzo contro Ellen e, ancora una volta, prendesti a cuore le sue vicende. Quindi, mentre l'esistenza a Goldtown veniva totalmente sconvolta, iniziasti a scriverle lettere per rassicurarla, sperando che non ti scambiasse per una maniaca e non si rivolgesse alle autorità. Avevi intenzione di iniziare a firmarti con il tuo vero nome, prima o poi, o forse addirittura di parlargliene a voce, ma non venne il momento. Nel frattempo avevi messo Kimberly al corrente di quello che stavi facendo, le raccontavi gli sviluppi quando veniva a trovarti di nascosto da tutti. Le piaceva nascondersi, lo aveva già fatto in passato, ma se fosse stato per te avreste potuto vivere la vostra storia alla luce del sole.»
Patricia precisò, con amarezza: «C'era una ragione se a Kimberly piaceva nascondersi, ed è che si stancava in fretta delle persone con cui stava insieme. Era uno spirito libero, e questo ci può stare, il suo problema era che si ostinava a cercare persone che non lo erano. Ogni volta pensava di avere trovato il grande amore, ma la realtà è che era troppo immatura per legarsi davvero a qualcuno.»
Janice obiettò: «Non credo che la maturità delle persone dipenda da quanto siano in grado di avere una vita sentimentale stabile.»
«Mi sono spiegata male» replicò Patricia. «Le persone sono libere di non avere una relazione fissa. La maturità sta nel distinguere l'amore da un'attrazione momentanea. Kimberly non era capace di fare quella distinzione.»
«Finì per quella ragione?»
«Finì perché mi confessò un tradimento, che avvenne proprio la notte dell'omicidio. È inutile che ti racconti i dettagli, ormai Ellen ti avrà già riferito da tempo con chi mi avesse tradita. Il punto è che Kimberly continuava a ripetere che per lei era stata una cosa senza significato e che, di conseguenza, nemmeno io dovevo darvi peso. Non ammise mai di avere sbagliato, è per questo che la lasciai. Avrei potuto accettare che avesse fatto sesso con un'altra persona mentre era fidanzata con me, ma solo se fosse stata consapevole che, almeno per me, non era una cosa senza significato.»
«Eravate ancora in contatto?»
«No.»
«Non ti aveva chiamato, verso fine ottobre?»
«Io e Kimberly non eravamo in contatto» mise in chiaro Patricia. «Non ci sentivamo da anni. Il fatto che mi abbia telefonato al bar, questo sì, non ha significato. Il numero è facilmente rintracciabile e chiunque può telefonare liberamente. Di certo non avevo un recapito di Kimberly, così come lei non aveva il mio numero personale. Il numero del bar, però, è di dominio pubblico.»
«Quindi» dedusse Janice, «L'idea di iniziare a scrivere a Ellen con un profilo falso, spacciandosi per Mabel, è tutta farina del suo sacco.»
«Di sicuro non del mio, non sapevo di questa sua intenzione.»
«Perché avrebbe dovuto farlo?»
«Non ne ho la minima idea.»
«Ne sei certa?»
Patricia annuì.
«Che io sappia, Kimberly non ha mai incontrato Ellen. O almeno, non all'epoca in cui stavamo insieme.»
«Dai suoi messaggi, sembra che considerasse Ellen in qualche modo colpevole dell'omicidio di Mark» aggiunse Janice. «Ha scritto anche a Steve sul profilo del suo studio fotografico. Per quale motivo Kimberly avrebbe dovuto convincersi che Ellen avesse ucciso Mark oppure fosse complice dell'assassino?»
Patricia fece un sospiro.
«Perché dovrei saperlo? Non la sentivo da vent'anni e, per quanto abbia cercato di rintracciarmi sulla linea telefonica del bar, si è guardata bene dal venire qua a spiegarmi cosa le passasse per la testa. Tutto questo, però, l'ho già riferito a Ellen quella sera stessa. Te lo garantisco, Janice, non c'è altro che io possa dirti, perché non so altro.»
Janice azzardò: «Puoi dirmi cosa c'entra tua sorella.»
«Niente, è morta molti anni prima di Mark.»
«Il nome falso che usavi era l'acronimo dei vostri nomi.»
Patricia guardò Janice con fermezza.
«Volevo onorare la memoria di mia sorella, quando ho pensato al nome Mabel. L'avevo usato occasionalmente in chat, quando ero più giovane. Non c'è un motivo specifico per cui l'abbia scelto proprio per scrivere a Ellen. Se il mio vecchio nickname fosse stato un altro, allora mi sarei firmata in modo diverso.»
«Mi dispiace insistere su un argomento che per te potrebbe essere doloroso» proseguì Janice, «Ma sei davvero sicura che la storia di tua sorella non c'entri niente con i delitti di Goldtown?»
«Lisa si suicidò, non c'entra niente con le persone che sono state uccise.»
«Posso chiederti perché tua sorella commise quel gesto?»
«Puoi chiedermelo, ma io posso non risponderti. Non so perché l'abbia fatto.» Patricia non avrebbe voluto mentire su quella questione, ma tecnicamente non lo stava facendo. Non aveva prove di cosa fosse successo a Lisa, soltanto indizi. «Ero bambina, ai tempi, non veniva certo a raccontarmi i suoi problemi. Fu uno shock per tutti. Se fai qualche domanda in giro - e non dubito che tu o Ellen ne abbiate già fatte - scoprirai che chiunque potrebbe dirti le stesse cose.»
«Va bene, per ora ti ringrazio» concluse Janice. «È stato un piacere parlare con te.»
«Non so quanto sarei sincera se dicessi che il piacere è stato reciproco» ammise Patricia. «Il punto è che vorrei solo essere lasciata in pace. Non è facile essere circondata dal sangue, né scoprire da un giorno all'altro che la persona che pensavi di amare si è spacciata con te per la propria sorella morta da bambina. Vorrei che tutti mi dimenticassero, per potere finalmente tornare a una vita normale, o almeno a qualcosa che le somigli.»
«Allora, se ci tenevi tanto a restarne fuori, perché le chiamate allo studio fotografico Blackstone per riferire ai vari spasimanti di Ellen che la loro amata era in pericolo?» obiettò Janice. «Che senso avevano quelle chiamate?»
«Avevo paura per lei» rispose Patricia, «Tutto qui. Ero terrorizzata dall'idea che la sua ricerca della verità - perché ho capito cosa facesse qui a Goldtown fin dal primo momento in cui ho scoperto che vi conoscete - la portasse a fare una brutta fine. Non avevo tutti i torti, visto che la sua auto è stata manomessa. Kevin avrebbe fatto meglio a starmi a sentire, invece di ricordarmi che Ellen mi avrebbe scoperta o che, anzi, al momento in cui lo chiamavo, l'aveva già fatto ed era pronta a smascherarmi. Avevo ragione io: Ellen era in pericolo... e lo è ancora. Credimi, non volevo tornare a vestire i panni di Mabel, ma non avevo altri modi per sperare di essere presa sul serio. Purtroppo non è bastato.»

 

Ellen era seduta a fissare il giornale aperto, che già da vari minuti non si sforzava più di leggere, e non si accorse della presenza di Janice finché quest'ultima non le apparve davanti, facendola sussultare.
«Quando sei rientrata?» le chiese Ellen.
«Adesso» fu la risposta di Janice.
«Dov'eri?»
«Avevo dei giri da fare. Qualche ora fa, comunque, sono stata a scambiare qualche parola con Mabel.»
Ellen le scoccò un'occhiata di fuoco.
«Se ti riferisci a Patricia Lynch, fammi la cortesia di chiamarla con il suo vero nome.»
«Abbiamo parlato proprio delle lettere» le confidò Janice, «O meglio, del perché le ha scritte.»
«L'aveva già detto anche a me.»
«Volevo essere certa che non ci fosse qualcosa di più. Non ci sto vedendo molto chiaro. Hai detto tu stessa che temevi avesse qualcosa da nascondere.»
Ellen chiarì: «Il fatto che Patricia abbia qualcosa da nascondere non implica necessariamente qualcosa che abbia a che fare con i delitti. Lo sai, non riesco ancora a inquadrare bene la faccenda della sorella. Esiste la possibilità che ci sia stato, in qualche momento, un violentatore seriale, ma non so come incastrarlo in mezzo a tutto il resto.»
«Con un po' di fantasia, il violentatore seriale, se così vogliamo chiamarlo, potrebbe avere stuprato Melanie Miller e poi, a distanza forse di anni, Lisa Lynch. Per qualche ragione ha ucciso Lisa - forse l'aveva riconosciuto? - e tentato di fare lo stesso con Melanie, finendo per essere colto sul fatto da una delle gemelle Robinson, che poi ha ucciso.»
«Anche questo non torna. Perché uccidere una bambina? Se ha aggredito Melanie a volto coperto e non è stato riconosciuto da lei, a maggior ragione perché avrebbe dovuto avere paura di una bambina? Anche la Robinson non avrebbe potuto riconoscerlo, per forza di cose. E poi, perché uccidere Linda? Abbiamo ipotizzato che Linda si spacciasse per la madre, ma perché la madre avrebbe dovuto essere in contatto con quel tale?» Ellen si prese la testa tra le mani. «Ci sono momenti in cui tutto sembra filare liscio e poi altri in cui mi sembra che sia tutto un enorme castello di carte.»
«Linda poteva essere sua figlia» azzardò Janice. «Può essere che, a un certo punto, abbia contattato Melanie Miller convinto di potere conoscere sua figlia.»
«Quindi che non fosse Linda a volere conoscere il padre, ma viceversa?»
«Magari entrambi avevano in mente di conoscersi. Difficile stabilire come siano entrati in contatto, a questo punto, ma...»
Janice si interruppe all'improvviso.
Ellen la esortò: «Ma...?»
«Roger Callahan» disse Janice. «Tiene una foto di Linda nel portafoglio e, per l'età che ha, ha senso ipotizzare che possa essere il padre.»
«Stai accusando il nostro padrone di casa di avere violentato Melanie Miller e ucciso Linda sulla base di una foto?» obiettò Ellen. «Non sono contraria ai social network, ma è esattamente il tipo di accusa delirante che potresti leggere su Forevernet.»
«Quella storia è da approfondire, comunque» replicò Janice. «Non possiamo rimandare. Dobbiamo fare qualcosa.»
«Faresti meglio ad andarci piano.»
«Di solito sono io a dirlo a te.»
«Lo dici a me per molto meno. Ti impicci tanto sulle mie frequentazioni private, ma poi...»
Janice non la lasciò finire.
«A proposito di frequentazioni private, sbaglio o hai passato tutta la giornata nel negozio di Steve?»
Ellen avvampò.
«Non sbagli, ma perché ne stiamo parlando?»
«Non lo so» ammise Janice, «Ho un brutto presentimento. Sta succedendo qualcosa di sconveniente tra di voi?»
Ellen ribatté: «Il sesso è sconveniente, per i tuoi standard?»
Janice spalancò gli occhi.
«Hai fatto sesso con Steve? Dentro al suo negozio?»
«Hai detto tutto tu» precisò Ellen. «Ad ogni modo non avrei mai detto che ti scandalizzassi con così poco.»
«Prendiamo per ipotesi l'idea che tu abbia fatto sesso con Steve. È il tuo ex, è un amico del tuo attuale fidanzato e ci lavora insieme. In tutto ciò, il tuo fidanzato è in ospedale e si sta riprendendo lentamente da un grave incidente, con tutta probabilità innescato ad arte da una persona che voleva ucciderti. Sarebbe un casino immenso.»
«È un'ipotesi.»
Janice scosse la testa.
«No, non è affatto un'ipotesi. È successo davvero, giusto? È successo, ma non hai nemmeno il coraggio di ammetterlo.»
Ellen abbassò lo sguardo.
«È successo.»
«Quando?»
«Quando Steve ha chiuso per la pausa pranzo.»
«Perché?»
«Non lo so perché. Non tutto ha una spiegazione. So che gli piaccio e un tempo anche lui era tutto per me.»
Janice obiettò: «Non mi sembra una grande spiegazione.»
Ellen replicò: «No, non è una grande spiegazione, ma è andata così. Non doveva capitare, ma non possiamo più tornare indietro. C'è solo un piccolo problema: ne abbiamo parlato, oggi pomeriggio, e forse una persona ci ha sentiti.»
«Che tipo di persona?»
«Una cliente, ma non una qualsiasi: Phyllis Moore, la sua ex fidanzata.»
«Un po' avventata la vostra scopata» osservò Janice. «Seriamente parlando, Ellen, non avevi già abbastanza problemi? Perché cacciarti pure in un guaio sentimentale degno di una telenovela?»
Ellen alzò gli occhi.
«Ti ricordo che sei tu quella che vuole chiedere al nostro padrone di casa se ha violentato una donna molti anni fa e se da quello stupro sia nata una bambina che poi ha ucciso. Io sono solo stata con il mio ex ragazzo, mi sembra una cosa molto più normale.»
«Sono due questioni completamente diverse e non vedo il senso di paragonarle» ribatté Janice. «E poi non ho ancora parlato con Callahan. Devo fare le mie valutazioni, prima. Non fraintendermi, sarà necessario discutere con lui della foto di Linda che porta sempre con sé, ma devo capire come fare. Anzi, dobbiamo capire come fare.»
«Lascia fare a me.»
«Nemmeno per sogno.»
«Penserò a qualcosa» la rassicurò Ellen. «So benissimo che corro dei rischi, ma a volte bisogna accettare il pericolo, se ne vale la pena.»
«Parli di Callahan o di Steve?»
«Che cosa c'entra Steve?»
«Kevin sta un po' meglio» puntualizzò Janice. «Prima o poi dovrai dirgli che l'hai tradito e con chi.»
Ellen scosse la testa.
«No, non sono fuori fino a questo punto. Ho fatto una cosa avventata, è vero, ma non farò di peggio.»
«Agire alle spalle di Kevin non è peggio? E, prima che tu mi dia della moralista, non mi scandalizza il fatto che tu possa frequentare due uomini contemporaneamente. Mi turba il fatto che...»
Ellen si affrettò a interrompere Janice.
«Ti turba il fatto che siamo tutti coinvolti più di quanto vorremmo con i delitti di Goldtown.»
Janice replicò: «In realtà non pensavo a questo. Intendevo dire che mi turba il fatto che, invece di limitarti a frequentare due uomini diversi nello stesso periodo, tu sia anche riuscita a farli innamorare di te. Come se non bastasse, sono anche amici di vecchia data e colleghi. Finirai per fare del male a entrambi e te ne farai anche tu.»
Ellen alzò le spalle, con indifferenza.
«Questo è un problema nostro, non tuo. Restane fuori.»

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Capitolo 25
*** Anche gli assassini sono vittime - 1 Dicembre ***


[1 dicembre]
Era una mattinata tranquilla allo studio fotografico e Steve sperava rimanesse tale. Certo, non gli sarebbe dispiaciuto se fosse arrivato qualche cliente, ma aveva il terrore che, al posto di uno di questi, la porta si sarebbe aperta e ne sarebbe entrata Phyllis Moore, pronta a chiedergli spiegazioni sulla sua vita privata. Non gliene doveva, ovviamente, ma alla luce di quanto era successo il giorno precedente non era sicuro di poterla liquidare senza dire nulla.
Phyllis non arrivò, ma Steve ebbe comunque modo di preoccuparsi quando il suo cellulare si mise a squillare. Era convinto si trattasse di lei, gli sembrava piuttosto improbabile che intendesse lasciarlo in pace, qualora avesse sentito la sua conversazione con Ellen. Conosceva Phyllis, sapeva che non sarebbe mai cambiata.
Non era Phyllis, era Ellen.
In genere sarebbe stato piuttosto contento di sentirla, ma non sapeva come interpretare quella telefonata. Rispose, sperando di scoprirlo.
«Sì?»
«Sei impegnato?»
«No, perché?»
«Mi sto scervellando da ore. Sto cercando di capire.»
Non aggiunse altro, lasciando libera l'interpretazione.
Steve obiettò: «Non mi sembra il caso di parlarne al telefono. Possiamo vederci durante la pausa pranzo, se sei libera. So che prima o poi dobbiamo parlare di quello che è successo tra noi, ma...»
Ellen lo interruppe: «No, non parlo di noi. Mi riferisco ai delitti di Goldtown. Ho provato a fare una scaletta degli eventi, a prendere qualche appunto. Vorrei mandartelo via e-mail. Ci dai un'occhiata e guardi se mi è sfuggito qualcosa. Ci terrei a confrontarmi con te.»
Steve era talmente felice di non dovere dibattere dei fatti del giorno precedente - almeno per il momento - da non esitare nemmeno un istante.
«Mandamelo, ci guardo.»
«Va bene, ci sentiamo più tardi.»
«Aspetto la tua e-mail.»
Gli arrivò qualche secondo più tardi. La lesse sullo smartphone, realizzando che si trattava di un'ottima ricostruzione.

Anno 1985: Melanie Miller è vittima di una violenza sessuale.
Non è possibile rintracciare la data esatta in cui sia avvenuta, né il periodo. Lo stupratore è rimasto ignoto.

Luglio 1991: Lisa Lynch si toglie la vita, lanciandosi da un ponte. Il suo suicidio suscita molto stupore.
Vecchi scritti della Lynch lasciano ipotizzare che lei stessa sia stata vittima di una violenza sessuale (non ci sono prove, potrebbero essere eventi di fantasia).
Viste le dinamiche, non è del tutto impossibile che la Lynch possa essere stata assassinata.

Ottobre 1994: all'interno della scuola dove lavora come maestra, Melanie Miller viene aggredita da un uomo mai identificato che la colpisce alla testa. Lo stesso uomo uccide un'alunna, riconosciuta come Roberta Robinson, verosimilmente dopo essere stato colto sul fatto.
L'uomo era a volto coperto, non è chiaro perché si sia sentito smascherato dalla Robinson al punto da doverla eliminare, se poi pare non abbia mai tentato di uccidere la Miller.

Luglio 2002: viene uccisa Linda Miller, figlia di Melanie (e forse concepita durante lo stupro), l'assassino non viene mai identificato.
Linda stava cercando il proprio padre naturale, è possibile si sia messa in contatto con qualche vecchia conoscenza della madre a insaputa di quest'ultima.

Novembre 2002: nell'arco di poco tempo vengono assassinati Mark Forrester, Will Mason e Cindy Spencer.
È plausibile che Will fosse alla ricerca di informazioni sul delitto della Miller e che, in qualche modo, sia Mark sia Cindy diano venuti a che fare con le sue ricerche.

Settembre 2017: Meredith Taylor (ex fidanzata di Will e amica di Cindy) e Dylan Carter (giornalista che si stava verosimilmente occupando dei delitti di Goldtown) muoiono in un incidente stradale che al momento non desta sospetti.

Novembre 2022: nell'anniversario dell'omicidio di Mark Forrester, viene uccisa Kimberly Richards, tornata a Goldtown da poco con la convinzione di sapere chi avesse ucciso Mark.
Poco tempo dopo viene assassinata anche Maryanne Sherman, ugualmente tornata da poco tempo a Goldtown. Così come Kimberly, aveva a sua volta lanciato accuse, ma rivolte nel suo caso a Daniel Silver. Il suo cadavere è stato portato proprio nel garage di quest'ultimo.

Domande che ancora non hanno una risposta:
1) il suicidio di Lisa Lynch e l'aggressione a Melanie Miller possono essere collegate?
2) perché l'aggressore di Melanie Miller temeva così tanto "Roberta" Robinson al punto da ucciderla per non essere smascherato?
3) Melanie Miller conosce/ è mai venuta a scoprire l'identità dell'uomo che l'aveva violentata e di quello (probabilmente lo stesso) che l'ha aggredita?
4) cos'ha scoperto - e in che modo se ne è interessato - Will Mason su Linda o Melanie Miller di così importante da dovere eliminare ben tre persone?
5) è plausibile che Dylan Carter fosse venuto a conoscenza dello stesso segreto?
6) chi ha convinto Kimberly Richards e Maryanne Sherman a tornare a Goldtown per poi ucciderle?

Mancavano solo gli ultimi sviluppi, realizzò Steve: l'automobile di Ellen che veniva manomessa dopo la serata nella quale al bar di Patricia aveva messo diverse persone di fronte ai loro segreti più scottanti, manomissione che aveva fatto sorgere dubbi a proposito dell'incidente in cui erano morti Dylan Carter e Meredith Taylor.
Prese in mano il cellulare, chiamò Ellen e attese una risposta, che arrivò dopo appena due squilli.
«Allora? Hai letto? Cosa ne pensi?»
«Penso che ci siano come minimo altre due domande.»
«Ovvero?»
«Ovvero: considerato che è stato Kevin ad avere un incidente con la tua macchina, quando l'obiettivo del killer dovevi essere tu, che intenzioni ha? Vuole ancora tentare di ucciderti? E quando? In che modo? O preferisce stare tranquillo perché teme di fare un passo falso o perché crede di averti spaventata abbastanza da farti desistere dalle tue ricerche?»
«Domanda molto interessante» ammise Ellen, «Che mi suggerisce anche delle ipotesi su quale possa essere l'altra. Per caso pensi dovremmo chiederci come mai abbia manomesso la mia macchina dopo che avevo fatto quel discorso?»
«Più o meno» convenne Steve. «È chiaro che il killer abbia paura. Ammesso e non concesso che possa essere venuto a conoscenza di quella serata senza la complicità di qualcuno dei presenti, che cosa lo spaventava? Cosa temeva che potessi scoprire? E poi, domanda fuori lista, perché Patricia era così preoccupata per te? Va bene, aveva capito che tu e Janice stavate facendo delle indagini per conto vostro, non lo metto in dubbio, ma perché essere così convinta che tu fossi in pericolo? Era spaventata per via del suicidio di sua sorella, che teme possa non essere un suicidio? Crede che la sua morte abbia a che fare con questa storia e, di conseguenza, che chi ha ucciso Lisa - cosa ancora lontana dall'essere provata - possa uccidere anche te?»
Ellen confermò: «In effetti devo riconoscere che il comportamento di Patricia è stato molto più sospetto di quanto lei stessa lo voglia fare apparire. Mi ha dato le sue spiegazioni e ieri le ha date anche a Janice, ma c'è qualcosa che sembra sfuggirmi. Non so, l'impressione è che sospetti fortemente di qualcuno, ma che non abbia prove.»
«Qualcuno» borbottò Steve, «Ma chi? In che modo potrebbe essere entrata in contatto con questa persona o, in qualche modo, averci a che fare? Questo, devi ammetterlo, è inspiegabile.»
«Non del tutto» obiettò Ellen. «Ti ricordo che Patricia era una bambina e che, per quanto diamo per scontato che, in quanto tale, non sapesse niente, potremmo sbagliarci di grosso. I bambini origliano, ascoltano frammenti di conversazioni, senza che gli adulti vi diano troppo peso. Sono troppo piccoli per capire, ma un giorno potrebbero ricordare dettagli e comprendere ciò che un tempo sfuggiva alle loro menti innocenti. Potrebbe essere accaduto proprio questo a Patricia. Potrebbe non essere al corrente dell'identità di chi uccise sua sorella o la indusse al suicidio, ma avere individuato un potenziale candidato.»
«E non ha fatto niente? Voglio dire, niente a parte metterti in guardia?»
«Non possiamo saperlo. Patricia può avere fatto qualcosa, nella speranza di arrivarci in fondo.»
«Qualcosa di che tipo? Perché non ti ha detto niente?»
A Steve sembrò che Ellen esitasse a lungo, prima di dargli una risposta.
«Non lo so, non lo possiamo sapere. Intanto ti ringrazio per questo scambio di vedute. Ci sentiamo, magari domani.»
«Domani?» ripeté Steve.
«Domani» confermò Ellen. «Ho alcune cose da fare, oggi.»
«Non metterti nei guai.»
Ellen rise.
«Cose da fare di lavoro.»
«Dovrei sentirmi più tranquillo?» obiettò Steve.
«Ho un pezzo da scrivere sull'anticipo sempre maggiore con il quale la gente inizia a esporre decorazioni natalizie» puntualizzò Ellen. «Come vedi, non corro il rischio di morire, se non di noia. Ne avrò per un bel po', per qualche motivo gli alberi di Natale preparati sempre prima sono un argomento che comporta riflessioni che non mi sarebbero mai passate per la testa, se non fossi pagata per farlo.»
«Allora ti lascio ai tuoi alberi di Natale» ribatté Steve. «Mi raccomando, dedica tanto spazio al fatto che il Natale stia diventando troppo commerciale. Oppure al fatto che, essendo una festa di derivazione religiosa, sia un insulto ai valori laici.»
«Ti piace rigirare il dito nella piaga, eh?» replicò Ellen. «Si dà il caso che siano altri argomenti inutili che probabilmente presto dovrò approfondire. Non puoi immaginarti che gioia sia per me.»
«Allora ti lascio andare» la salutò Steve. «Si prospettano ore molto interessanti per te.»

 

Ellen ebbe a malapena il tempo di respirare, prima che Janice comparisse alle sue spalle.
«Allora?» le chiese. «Che intenzioni hai? Devi davvero scrivere un articolo sulle luci di Natale?»
«Purtroppo sì» ammise Ellen, «Ma lavorare a quel pezzo mi porterà via molto meno tempo di quanto ho fatto a credere a Steve.»
«Vuoi evitarlo o hai in mente qualcosa?»
«Entrambe le cose.»
«E vuoi evitare Steve per passare del tempo con il tuo ragazzo?»
Ellen scosse la testa.
«Kevin si sta riprendendo e ha bisogno di tranquillità. Non sono sicura che la mia presenza gli farebbe bene. Anzi, temo che gli farebbe male.»
Janice osservò: «Allora sarà meglio pensare alla faccenda che hai in mente. Stai pensando di fare qualcosa di azzardato, per caso?»
«Concedersi qualche azzardo, a volte, è l'unica soluzione» rispose Ellen. «Non voglio fare niente di pericoloso, solo andare a fare qualche ricerca su Melanie Miller.»
«Che tipo di ricerca?»
«Andare nel paese in cui abitava, oppure nei dintorni della scuola in cui è stata aggredita. Qualcuno che la conosceva doveva pure esserci.»
«E...?»
«E cosa?»
«Cosa pensi di fare? Cosa credi di potere scoprire?»
Ellen fu costretta ad ammettere: «Non ho le idee molto chiare ma, per ora, Melanie Miller è il punto di partenza. Se invece vogliamo iniziare dal 2002 e dal delitto di Linda Miller, abbiamo a che fare con una ragazzina che cercava suo padre, il che potrebbe esserle stato fatale. Vuoi che non esista nessuno a cui Melanie confidò chi fosse il padre della bambina, o quantomeno se avesse un fidanzato o un amante occasionale?»
Janice obiettò: «Se tutto fosse così semplice, qualcuno avrebbe dovuto pensarci prima.»
«No, affatto» replicò Ellen. «Non ci sono ragioni per cui qualcuno avrebbe dovuto preoccuparsi di chi fosse il padre naturale di Linda. Chi ci avesse messo lo sperma non era un dettaglio considerato importante, ai tempi. Si seguivano altre piste, non vi era ragione di credere che la storia del suo concepimento potesse avere rilevanza. Va da sé che certe questioni non sono mai state approfondite nella maniera opportuna. È anche questa la ragione per cui il mistero di Goldtown non ha ancora avuto soluzione: per lungo tempo, nessuno ha mai saputo da dove iniziare.»
Janice insisté: «Quello che vuoi fare non ha molto senso.»
Ellen scosse la testa.
«Ti ricordo che vorresti chiedere a Callahan, così a bruciapelo, se ha violentato Melanie Miller trentasette anni fa. Sei così sicura che la mia idea sia peggiore della tua?»
Janice sospirò.
«Almeno stai attenta.»
«Starò attenta.»
«Non sono sicura di poterti credere.»
Ellen sbuffò.
«Ne ho abbastanza delle tue preoccupazioni. Sono venuta a Goldtown per scoprire chi avesse ucciso Mark e gli altri. Non mi fermo. Anzi, il fatto che il killer abbia ucciso di nuovo dopo vent'anni è una buona ragione per non arrendermi. Non stiamo più parlando di delitti lontani nel tempo, ma di qualcosa che ha ancora i suoi effetti. È passato un mese dall'assassinio di Kimberly Richards e ancora non ci sono risposte. È ora di trovarle, non credi?»
«Compendo perfettamente quello che vuoi dire» ammise Janice, «Ma sei davvero sicura che tocchi a te? Lo capisco, vuoi arrivarci in fondo sia per motivi di lavoro sia perché tu stessa ne sei stata coinvolta, ma non sono sicura che sia l'approccio migliore. Arrivati a un certo punto, l'obiettivo non dovrebbe più essere scoprire la verità, ma cercare di sopravvivere.»
Ellen obiettò: «Non sono così pessimista. È vero, sto correndo dei rischi, ma non posso farne a meno. Devo capire. Per te è facile pensare che potresti allontanarti e dimenticare tutto. Per me non lo è: sono già andata via una volta da Goldtown, ma adesso sono ancora qui e non mi do pace.»
«Va bene, come vuoi» si arrese Janice.
«Anche perché non ci sono alternative» concluse Ellen. «Voglio solo avere una tregua e, finché non arriverò in fondo, non sarà possibile.»

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Capitolo 26
*** Anche gli assassini sono vittime - 2/ 3/ 4 Dicembre ***


[2 dicembre]
«Jack? Jack, ci sei?»
La voce di Patricia era riconoscibile lontano un miglio, specie quando urlava a quella maniera, per attirare la sua attenzione.
Non si accorse di lui finché Jack non arrivò alle sue spalle.
«Sono qui.»
Patricia si girò lentamente.
«Dov'eri? Ti ho cercato per tutta l'officina.»
«Ero un attimo fuori, sul retro» rispose Jack. «A cosa devo l'onore della tua presenza? È da un po' che non ci vediamo.»
«Non sarei venuta, se non fosse stato necessario.»
«Non devi giustificarti. Lo sai che sei sempre la benvenuta.»
«Quando non stai scopando con la mia fidanzata, quantomeno.»
«Sono passati vent'anni da quando mi sono scopato la tua fidanzata dei tempi. E poi non corri rischi, adesso. Mi sembra di avere capito che tu sia tornata single.»
Patricia confermò: «Esatto, sono tornata single e non sento la mancanza di... come devo chiamarla? non lo so più nemmeno io.»
Jack replicò: «Dovresti chiamarla Roberta, è così che preferisce.»
«Quindi tu e lei siete rimasti in contatto» osservò Patricia. «Meglio così, ho bisogno che fai qualche piccola ricerca per me.»
Jack aggrottò la fronte.
«Che genere di ricerca?»
«Niente di difficile. Vorrei solo che le facessi qualche domanda e poi mi riferissi quello che ti dice.»
«Se hai qualcosa in sospeso con lei, faresti meglio a parlarle tu stessa.»
Patricia scosse la testa con fermezza.
«Non ho intenzione di parlare con lei o di incontrarla. E poi non voglio che tu le faccia domande su di me. Voglio che tu scopra qualcosa sulla sua famiglia: chi sono i suoi genitori, cosa fanno...»
Jack le domandò: «Posso chiederti come mai questo interesse? Che cosa te ne fai di sapere di sua madre e di suo padre? Avresti potuto pensarci prima.»
«Roberta ha sempre raccontato di lavorare per suo padre» precisò Patricia, «Senza mai davvero entrare nei dettagli. Diceva di fargli da segretaria, ma non era così: quando in linea teorica Roberta era a lavorare con il padre, nella realtà non si era mai allontanata da Goldtown, stava al negozio nei panni di Jennifer. Mi piacerebbe sapere di più sul padre di Roberta: questo fantomatico John Stewart esiste davvero? In che rapporti è con Margaret Robinson? E soprattutto, in che rapporti è con la figlia? Da quanto ha raccontato quella sera, sembra che Roberta non lo apprezzi particolarmente.»
«Non c'è bisogno di fare domande» ribatté Jack. «Sappiamo già che Roberta non ha un rapporto idilliaco con i genitori. Ha fatto finta con entrambi di avere sdoppiamenti di personalità e mi ha perfino raccontato che teneva un diario di Jennifer nel quale si riferiva a Roberta in terza persona, lasciandolo in giro affinché qualcuno lo leggesse e la sua messinscena fosse più credibile.»
Patricia insisté: «Sei l'unica persona che può aiutarmi. Cerca di parlarle, di scoprire qualcosa in più. Per me è importante.»
Jack annuì.
«Va bene, domani la vado a trovare.»
«Domani è sabato, Roberta lavora.»
«La vado a trovare in negozio, magari porto Danny con me, tanto non ha ancora ripreso a lavorare» propose Jack. «Se permetti un consiglio, però, faresti bene a toglierti Roberta dalla testa. Interessarti alla sua famiglia non è il modo migliore per staccarti definitivamente da lei, se è quello che davvero vuoi.»
Patricia abbassò lo sguardo.
«Hai ragione, forse mi sto comportando un po' da stalker, ma è più forte di me. Non voglio più avere a che fare con lei, ma allo stesso tempo vorrei scoprire quello che mi ha nascosto per tutti questi anni.»
Quello di Patricia era un desiderio comprensibile, quindi Jack non disse altro che potesse farla desistere. Non gli veniva richiesto niente di impossibile: in quel periodo Roberta faceva molto affidamento su chi era rimasto dalla sua parte nonostante le scabrose rivelazioni sul suo conto. Jack era una di quelle persone e, in quanto tale, aveva un certo ascendente su di lei.



[3 dicembre]
Roberta era sola in negozio. Era arrivata in anticipo, quel sabato pomeriggio, Sophie l'avrebbe raggiunta più tardi. Non poteva fare a meno di pensare ai vecchi tempi, ormai dimenticati, quando ogni tanto Patricia passava a salutarla prima di recarsi al bar. Non sarebbe accaduto mai più, le conveniva rassegnarsi. Se non altro la sua relazione era terminata per una giusta causa. Essere una sola persona, invece che due, era più importante di un fidanzamento solido e stabile.
Era immersa in quelle riflessioni quando la porta si aprì. Si preparò per accogliere il cliente di turno, salvo accorgersi che a entrare erano Danny e Jack, difficilmente in veste di acquirenti.
«Ciao, è un piacere vedervi» li accolse Roberta. «Come state?»
«Abbastanza bene» rispose Danny.
«Va tutto okay» disse Jack, più o meno nello stesso istante.
Roberta guardò prima l'uno e poi l'altro.
«Avete notizie di Kevin?»
Danny annuì.
«Sono stato a trovarlo stamattina. Abbiamo parlato. Non è la prima volta che gli parlo, ma adesso è lucido. Sta meglio, molto meglio. Certo, ne avrà ancora per un po', in ospedale, ma lui stesso inizia a sentirsi ottimista.»
«Mi fa piacere» rispose Roberta, prima di domandare: «Come mai da queste parti?»
«Passavamo» replicò Jack, «Quindi abbiamo pensato di venire per un saluto.» La squadrò con attenzione. «Vederti senza i tuoi abiti da bambolina è sempre un piacere.»
Roberta avvampò.
«Diciamo che è stata una parentesi della mia vita che sono felice di essermi tolta di torno.»
«Anch'io sono contento che tu ti sia tolta di dosso ciò che non faceva parte di te» le assicurò Jack. «Comunque, dato che siamo qui, che cosa ne dici di venire a trovarmi stasera? I bambini non ci sono, è il compleanno della mia ex suocera, quindi sono con Elizabeth, devono fare una cena.» Si rivolse anche a Danny. «Anche tu, ovviamente. Beviamo qualcosa insieme e...»
Danny interruppe la proposta sul nascere: «No, grazie, preferisco rimanere a casa.»
Roberta ebbe l'impressione che quello di Jack fosse un piano ben preciso e che Danny si stesse limitando a eseguire una sua specifica richiesta.
Non le dispiaceva.
«Io ci sono. A che ora vengo?»
«Nove e mezza? Dieci?»
«Nove e mezza.»
«Perfetto, allora ti aspetto.»
Jack e Danny rimasero ancora qualche minuto, allontanandosi nel momento in cui entrò un'effettiva cliente. Roberta li lasciò andare via, iniziando a prepararsi mentalmente per la serata a casa di Jack. Non aveva idea di cosa aspettarsi, ma sarebbe stato un piacere scoprirlo.
Si rivelò un'ottima serata, con dei risvolti del tutto inaspettati. Purtroppo Jack fu un po' troppo curioso a proposito dei suoi genitori - argomento per il quale non aveva mai provato interesse nemmeno tanti anni prima, quando stavano insieme - ma per il resto andò tutto molto bene.
Quando uscì per tornare a casa si chiese se ci sarebbe stato un seguito e come sarebbe cambiata la sua vita. Al momento non importava: l'esistenza di Jack era un caos, così come la sua. Non importava accertarsi di quanto profondo fosse il caos, non in quel momento, almeno.



[4 dicembre]
Quando il campanello suonò, nelle prime ore della domenica pomeriggio, Ellen si preparò per scendere. C'era Janice in casa, con la quale aveva finalmente delineato un piano d'azione relativo a Roger Callahan - l'avrebbero incontrato la sera successiva - e non le sembrava opportuno ricevere Jack davanti a lei.
Scese le scale e raggiunse il suo vecchio amico nell'atrio.
«Scusa se non ti faccio salire, c'è la mia coinquilina. Possiamo andare in garage, a parlare.»
Jack scosse la testa.
«No, piuttosto andiamo in macchina. Come ti ho detto al telefono, ci sono delle cose di cui vorrei parlarti in privato. Qualcuno potrebbe passare e sentirci.»
Ellen comprendeva il suo stato d'animo.
«Va bene, magari andiamo in qualche posto un po' isolato, dove non ci sia tanta gente di passaggio.»
Seguì Jack all'esterno, poi salì sulla sua macchina. Si recarono nel parcheggio del supermercato, deserto per la chiusura domenicale. Solo quando furono a destinazione, Ellen si decise finalmente a fargli domande.
«È successo qualcosa?»
«In un certo senso.»
«Qualcosa di spiacevole?»
«Oh, no, non direi.»
«Mi hai detto che riguarda Patricia e Roberta» gli ricordò Ellen. «Cos'hanno combinato?»
«Niente» rispose Jack. «O meglio, venerdì mattina Patricia è venuta a trovarmi al lavoro e mi ha chiesto se potessi cercare di scoprire qualcosa, su suo incarico, a proposito dei genitori di Roberta.»
Ellen avvertì un brivido.
«Patricia voleva informazioni sui genitori di Roberta?»
«Sì, sembra che il suo desiderio di tenere lontana Roberta non riguardi il rimanerne lontana lei stessa. Proprio per questo ti ho chiamata. Vorrei un tuo parere. Secondo te dovrei riferire a Patricia quello che mi ha detto Roberta ieri sera, quando ci siamo visti a casa mia? Oppure pensi sia meglio per Patricia non venirlo a sapere? La situazione è un po' più complicata di come sembra.»
«Non saprei» ammise Ellen. «Ti va, intanto, di raccontarlo a me?»
Jack si girò a guardarla.
«Non so nemmeno io da dove iniziare. Lo sai che io e Roberta eravamo fidanzati, una volta, vero? È stato molti anni prima che lei si mettesse insieme a Patricia, quando io non stavo ancora con Elizabeth.»
Ellen annuì.
«Sì, lo avevo intuito. Sei stato il suo primo amore, o qualcosa del genere.»
«Sì, qualcosa del genere è la definizione più corretta, credo» confermò Jack. «Poi è finita, definitivamente. O almeno era quello che pensavamo. In fondo adesso siamo entrambi single, non ci sarebbe niente di male, se succedesse qualcosa tra di noi.»
Ellen si irrigidì. Si sentiva molto coinvolta da una simile osservazione, non perché avesse qualcosa a che vedere con Jack e Roberta, quanto piuttosto perché era stata con il suo ex senza essere single. Aveva rifilato a Steve delle scuse per non incontrarlo, negli ultimi giorni, ma non poteva durare a lungo. Per non parlare del fatto che, andando a trovare Kevin in ospedale, era sempre più difficile guardarlo negli occhi senza provare vergogna.
Jack le chiese: «Non dici niente?»
Ellen obiettò: «Cosa dovrei dire?»
Jack le strizzò un occhio.
«Dovresti chiedermi se ci sia già stato qualcosa tra me e Roberta.»
Ellen azzardò: «Forse non c'è più bisogno di chiedertelo. Fammi indovinare: mentre Roberta ti raccontava dei suoi genitori, all'improvviso è scoppiata la scintilla e vi siete baciati.»
«Veramente non ci siamo solo baciati.»
«Siete stati a letto insieme, allora?»
«Già.»
«Ti è piaciuto?»
«Molto.»
«E a lei?»
«Penso anche a lei.»
Ellen osservò: «Patricia potrebbe prenderla non troppo bene, se lo scoprisse.»
«Infatti non intendo dirglielo» chiarì Jack. «Il mio dubbio è se riferirle quello che mi ha chiesto oppure tenermi tutto per me.»
«Cosa ti ha detto Roberta?»
«Ha importanza?»
«Era questo che ti avevo chiesto di raccontarmi, mi pare.»
«Pensavo ti interessasse di più di quello che è successo tra me e Roberta.»
Ellen si affrettò ad annuire per non destare sospetti.
«Hai ragione, certo, però vorrei farmi un'idea più definita. C'è qualcosa di importante che hai scoperto?»
«Niente di eccezionale, solo conferme a sospetti che già avevo. Margaret Robinson si è ritrovata sola e incinta di due gemelle, con John Stewart totalmente lontano da loro. Non pensava si sarebbe mai interessato delle bambine, ma all'improvviso è rientrato nella loro vita, per poi uscirne quasi totalmente una volta che una delle gemelle è morta. Nonostante dicesse che avere dei discendenti era tutto ciò che contava per lui, si è dimenticato della figlia vivente almeno finché non ha iniziato a interpretare la parte dell'altra gemella. Roberta non ha molta stima nei suoi confronti e cerca di vederlo il meno possibile. L'ha solo usato come copertura, in tutti questi anni, ma lo incontrava raramente. Con sua madre ha un rapporto migliore e ogni tanto le fa visita - quando ha preso il coronavirus era davvero a casa dalla madre - anche se sostiene di sentirsi un po' a disagio con lei, specie quando doveva fingere di sentire l'altra gemella dentro di lei. Mi ha detto che non è mai riuscita a considerarla una famiglia normale e che solo sua nonna e sua zia Sophie le hanno saputo dare quella sensazione.»
«Ti sembrava sincera?»
«Sì, certo, perché avrebbe dovuto mentire?»
«Non so. Perché avrebbe dovuto fingere di essere sia Jennifer sia Roberta per anni e anni? Eppure l'ha fatto.»
Jack ribadì: «Non aveva motivo per fingere, anzi, si capiva che era sincera. Per questo non mi sentirei molto a mio agio a riferire tutto per filo e per segno a Patricia.»
«Non farlo, allora» gli suggerì Ellen, convinta che fosse la scelta migliore. «Puoi dire a Patricia che ti dispiace, ma non sei riuscito a scoprire niente di utile, che Roberta non ci tiene a parlare dei suoi genitori. Non hai obblighi nei confronti di nessuno, non puoi costringere le persone a raccontarti della loro famiglia contro la loro volontà, Patricia dovrà farsene una ragione.»
«Lo so, ma in un modo o nell'altro vorrei riconquistarmi la sua fiducia. Non l'ha presa molto bene, quando ha saputo che cosa successe tra me e Kimberly la notte in cui fu ucciso Mark.»
«Forse non prenderà bene nemmeno il fatto che tu adesso vada a letto con Roberta, dato che si sono lasciate meno di due settimane fa, quindi ti conviene prepararti a metterti il cuore in pace. Non hai bisogno di riferirle quello che Roberta ti ha raccontato, al solo scopo di farla felice, se poi probabilmente non vorrà più avere a che fare con te quando scoprirà che cos'hai fatto alle sue spalle.»
Jack precisò: «Non ho fatto niente alle sue spalle, così come non l'ha fatto Roberta. È stata Patricia a lasciarla e a mettere in chiaro che per lei non esiste la possibilità di tornare indietro. Ha fatto le sue scelte e adesso io e Roberta possiamo fare le nostre.»
«Ti capisco» rispose Ellen, «Ma non sono certa che Patricia sia comprensiva allo stesso modo.»
«Faresti meglio a occuparti della tua vita sentimentale, che mi sembra ancora più contorta della mia» replicò Jack, secco. «Phyllis dice che c'è qualcosa tra te e Steve. Io, naturalmente, non do molto peso a questo tipo di voci, ma Phyllis sembra molto convinta.»
«Non sapevo che Phyllis ti confidasse i propri deliri.»
«Phyllis non mi confida deliri. C'è qualcosa tra te e Steve?»
Ellen abbassò lo sguardo.
«Non è una faccenda semplice e ti consiglio di restarne fuori.»
Jack non ascoltò la sua richiesta e, anzi, puntualizzò: «Steve c'è rimasto molto male, quando ti sei messa insieme a Kevin. Ti dirò, speravo che tornassi sui tuoi passi e potessi rimetterti insieme a lui. Mi siete sempre piaciuti come coppia, secondo me eravate fatti per stare insieme. Però, se Phyllis ha ragione, quello che avete fatto non è molto corretto. Vuoi che ti ricordi in quali condizioni si trovasse il tuo attuale fidanzato fino a pochi giorni fa?»
«Vuoi anche ricordarmi che Kevin non avrebbe mai avuto quell'incidente se non fosse stato per causa mia?» obiettò Ellen. «Non mi sembra necessario. Comunque, in ogni caso, quello che è successo tra me e Steve non è affare tuo. Ti prego di non parlarne con nessuno. È già spiacevole sapere che Phyllis ha dei sospetti su quello che è successo.»
«Phyllis non avrebbe dei sospetti, se foste stati in grado di nascondervi meglio.»
«Mi stai dicendo che il problema mio e di Steve è che non abbiamo saputo nasconderci abbastanza?»
«Sto dicendo che, se foste stati in grado di nascondervi bene, dovreste fare i conti solo con la vostra coscienza.»
Ellen fu costretto ad ammettere che Jack aveva ragione.
«Lo so.»
Jack le assicurò: «Ovviamente non ne parlerò con altri. Però penso che dovresti schiarirti le idee e decidere cosa vuoi fare. Non ho niente contro le relazioni aperte, sia chiaro, ma non dovrebbero mai essere aperte senza che entrambi i partner lo sappiano.»

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Capitolo 27
*** Anche gli assassini sono vittime - 5 Dicembre ***


[5 dicembre]
Il primo giorno di lavoro della settimana era ormai terminato, mancavano pochi minuti all'orario di chiusura. Steve valutò se ci fosse il tempo di chiamare Ellen - sapeva che aveva un impegno importante, più o meno a quell'ora - ma preferì non farlo. Non aveva voglia di parlare di quanto fosse accaduto tra di loro e sapeva che, con tutta probabilità, se si fossero sentiti gli sarebbe toccato di farlo.
Non era il suo giorno fortunato, avrebbe scoperto di lì a pochi minuti. Jack, infatti, entrò nel negozio e, in qualche istante, Steve realizzò che non si trovava lì in veste di cliente. Da come gli accennò quasi subito all'avere incontrato Phyllis, di recente, non fu difficile comprendere dove volesse andare a parare: Steve comprese che avrebbe dovuto toccare proprio l'argomento scottante, anche se in assenza della diretta interessata.
Tanto valeva non sforzarsi di negare e far capire subito a Jack di essere al corrente della ragione di quella visita di cortesia.
«Immagino che Phyllis ti abbia raccontato alcune idee che si è fatta a proposito della mia vita privata.»
«Hai un modo elegante di dire le cose» osservò Jack. «Immagino che tu sappia perché sono qui.»
«Veramente immagino che cosa possa averti riferito Phyllis, ma se devo essere sincero mi sfugge il motivo per cui tu ti sia presentato qui. Se avessi voluto raccontare a qualcuno che cosa sta succedendo, mi sarei fatto avanti io.»
«Sì, certo, ti capisco. Solo, penso che i segreti non facciano bene. Prendi me, me ne sono portato dentro uno per vent'anni ed è stato un errore.»
Steve scosse la testa.
«Il tuo errore non è stato avere un segreto. Aveva funzionato bene per vent'anni e nessuno avrebbe più potuto smentirti. Poi hai deciso di riprendere in mano quella vecchia storia e di lavorarci su rendendola più intrigante. Ti sei fatto sgamare perché sei voluto scendere nel dettaglio e hai iniziato a dire cazzate. E poi il tuo segreto era ben più scottante del mio.»
Jack obiettò: «Non penso fosse tanto diverso. Io avevo fatto sesso con Kimberly, tu con Ellen. Kimberly stava con Patricia, Ellen sta con Kevin. Sono due situazioni molto simili.»
Steve puntualizzò: «Mentre tu facevi sesso con Kimberly da qualche parte in una strada fuori paese, Mark veniva assassinato. Mentre io facevo sesso con Ellen, nessuno è stato ucciso. Non ci verrà mai chiesto cosa stessimo facendo in quel momento.»
«Vedo che non hai problemi ad ammetterlo» osservò Jack, «Proprio come non ha avuto problemi Ellen a fare la stessa cosa.»
«Fammi capire, ne hai parlato anche con Ellen?»
«Sì.»
«Cosa ti ha fatto pensare che fosse opportuno?»
«Il fatto che io ed Ellen siamo sempre stati amici. Non penso che tu possa controllare anche le sue amicizie.»
«Non ho mai detto di volerlo fare.»
«Però, all'improvviso, il fatto che io abbia avuto delle conferme da lei ti dà fastidio. Forse dovresti schiarirti le idee, cercare di capire cosa ci sia tra di voi.»
Steve sospirò.
«Grazie per il consiglio, ma non era necessario. È una situazione complicata e non so come andrà a finire.»
Jack volle sapere: «Il tuo obiettivo è tornare insieme a lei?»
Steve replicò: «Ho sempre cercato di avere degli obiettivi, ma spesso non sono riuscito a farli diventare realtà. Non credo che Ellen voglia tornare insieme a me. A lei non l'hai chiesto?»
«Lo chiedo a te. Sei tu quello che non ha impegni sentimentali. Ellen avrebbe potuto sentirsi giudicata.»
«Anch'io potrei sentirmi giudicato, a questo non ci hai pensato? Non sempre rifletto fino in fondo, prima di fare qualcosa. È quello che è successo con Ellen. Non mi sono fatto domande, non mi sono chiesto cosa sarebbe cambiato tra di noi. Tutto quello che so è che qualcosa è cambiato e per ora me lo faccio bastare. Poi mi dirai che non avrei dovuto, perché so che lo farai, ma non posso tornare indietro, solo cercare di guardare avanti.»
«E, toglimi una curiosità, come si guarda avanti nella tua situazione? Prima ti sei sentito oltraggiato perché Kevin si era messo insieme a Ellen...»
Steve lo interruppe: «Questo che importanza ha? Ti ho spiegato le mie ragioni e mi pareva che le avessi capire.»
Jack ribatté: «Posso sforzarmi di capirti finché vuoi, ma tu non solo ti sei scopato Ellen mentre era fidanzata con lui, ma addirittura l'hai fatto mentre era ancora ricoverato in terapia intensiva.»
«Oh, capisco. Tutto questo discorso per arrivare a dire che è stato fuori luogo.»
«Se la vogliamo dire in termini civili, allora sì. Se preferisci che sia più spontaneo, credo che tu ti sia comportato da vero stronzo. Non fraintendermi, non do tutte le colpe a te, ma mi viene più facile dirlo a te, piuttosto che a Ellen.»
«Allora, se mi consideri uno stronzo, perché sei qui? Cosa vuoi?»
«Non ce l'ho con te. Non è affare mio chi ti scopi, però cerca di non fare casini.»
«Sei venuto per dirmi questo?»
«Sì. Forse non ti rendi conto delle conseguenze che le tue azioni potrebbero avere. Ellen è venuta a Goldtown per dei motivi ben precisi. Hai mai pensato che potrebbe essere pericoloso starle intorno?»
Steve sbuffò.
«Perché questo discorso lo fai a me? A Kevin non hai suggerito di stare lontano da Ellen.»
Jack gli ricordò: «Quando si sono messi insieme, non sapevo fino a che punto Ellen stesse dando dei potenziali problemi al killer. E poi, visto com'è andata, Kevin era effettivamente esposto a dei rischi. Vorrei solo che, almeno tu, non rischiassi di farti ammazzare.»
«Se una donna che ti piace davvero rischiasse la vita perché vuole scoprire la verità, tu staresti lontano da lei solo per pararti il culo?» replicò Steve. «Da quando Ellen è tornata a Goldtown, ho rimesso in discussione tutta la mia vita. Va bene, può darsi che la sua vicinanza mi esponga a dei pericoli, ma non vedo ragioni per cui non dovrei correrli.»
«Io, invece, penso che di motivi ce ne sarebbero tanti» obiettò Jack. «Ellen è tornata nella tua vita da quaranta giorni. In questi quaranta giorni si è fidanzata con il tuo collega e, solo in un momento di crisi, si è ricordata di te. Ne vale la pena? Voglio dire, se tu mi dicessi che tra te ed Ellen c'è attrazione sessuale reciproca e per questo avete fatto sesso, non avrei nulla da ridire. Il problema è che tu provi per Ellen qualcosa di molto diverso da quello che lei prova per te.»
«Te l'ha detto lei?»
«Non ne abbiamo parlato. Vedi, Steve, Ellen non prende nemmeno in considerazione l'idea che tra voi possa tornare tutto come una volta.»
«Magari mi accontento di quello che viene. Hai mai considerato l'idea che possa essere così?»
«Ho considerato l'idea che tu potessi darmi una risposta simile. Il punto è che non basta dirlo affinché diventi vero. Te lo ripeto, da quando Ellen è tornata, sei entrato in fissa con lei. Sembri disposto a qualsiasi cosa, pur di potere sperare di tornarci insieme. Però non succederà. Prima o poi Ellen tornerà ad andarsene e tutto finirà di merda, sia per te sia per Kevin. L'unica differenza è che Kevin mi sembra più ancorato alla realtà di quanto non lo sia tu.»
«L'hai visto?»
«Sì.»
«Come sta?»
«Non è morto e non morirà. Se speravi di ripetere quello che successe vent'anni fa, dovrai cambiare piano.»
Steve spalancò gli occhi.
«Ma che cazzo dici? Credi davvero che sperassi che Kevin morisse per avere campo libero con Ellen?»
«Non importa cosa credo io» replicò Jack. «Hai presente cos'è successo con Maryanne, vero? Ricordati che un giorno il killer potrebbe decidere di far ritrovare il cadavere di Kevin a casa tua.»
«Il killer non sa niente di me, di Ellen e di Kevin.»
«Phyllis sa tutto di te, di Ellen e di Kevin. Non penso sia difficile per il killer venire a sapere le stesse cose.»
Steve si oppose a quella teoria.
«Non succederà niente.»
«Sì, hai ragione, l'eventualità più probabile è che Kevin lo scopra e che inizi a pensare che sei un pezzo di merda» ammise Jack, «Ma non sottovaluterei altre possibilità. Il killer ha trovato il modo di tenerci d'occhio... voglio dire, di tenere d'occhio nello specifico noi che frequentavamo Mark. Per qualche motivo sembra sapere molto di noi. Stai attento, e soprattutto cerca di non tirare altre persone in mezzo ai tuoi casini.»
«Non metterò in pericolo nessuno, se è questo che ti preoccupa» lo rassicurò Steve. «In più, prima o poi questa storia finira. È impossibile che l'assassino riesca sempre a farla franca. Prima o poi farà un passo falso.»
«Mi piace il tuo ottimismo, ma non è detto che, quando farà questo passo falso, saremo ancora tutti vivi. Cerca di non dimenticartelo.»
«Non lo dimenticherò. Ad ogni modo Ellen mi ha assicurato che stasera scoprirà qualcosa di importante.»
Jack abbassò lo sguardo.
«Ellen punta in alto, ma forse le converrebbe volare più basso. Rischia davvero di scottarsi.»
Steve gli ricordò: «L'hai già detto più di una volta, ma non si tirerà indietro, né lo farò io. Mi auguro che quel bastardo smetta di uccidere tanto quanto te lo auguri tu.»

 

Ellen parcheggiò l'auto che Janice le aveva prestato davanti al portone di casa di Steve. Suonò il campanello e attese che la aprisse. Non fu necessario attendere molto a lungo.
Gli aveva chiesto di incontrarsi poco dopo l'appuntamento con Roger Callahan e Steve aveva accettato. Era probabile che avesse in mente qualcosa di preciso su come si sarebbe evoluta la serata, ma Ellen l'avrebbe smentito.
Appena Steve la fece entrare in casa, richiuse la porta alle loro spalle.
«Non puoi nemmeno immaginare che cosa sia successo» lo avvertì. «Non saprei dirti se io e Janice siamo ancora allo stesso punto di partenza o se tutto stia per cambiare, ma è comunque stato un incontro molto illuminante, quello con il nostro padrone di casa.»
«Oh» borbottò Steve, senza troppo apparente entusiasmo. «Andiamo a sederci, raccontami tutto.»
Ellen chiarì: «So che ti aspettavi qualcos'altro, ma penso che non dovremmo dimenticarci di quello che accade intorno a noi.»
Steve concordò: «Le tue indagini sono importanti. Ti ascolto volentieri, è giusto parlarne.»
Si sedettero l'uno di fronte all'altra.
«Non so nemmeno da dove iniziare» ammise Ellen, con un sospiro. «Forse dall'inizio. Te l'ho già raccontato: il nostro padrone di casa, il signor Callahan, se ne va in giro con una fotografia di Linda Miller nel portafoglio, l'ha scoperto Janice qualche tempo fa. Abbiamo quindi iniziato a chiederci perché... e abbiamo deciso di parlargliene, alla luce di alcune ricerche che ho fatto di recente.»
«Ricerche?»
«Eravamo nel dubbio che Callahan fosse il padre di Linda.»
Steve azzardò: «L'uomo che ha violentato Melanie Miller nel 1985?»
«Non eravamo sicure che lo stupratore fosse il padre di Linda» gli ricordò Ellen, «E stavamo pensando a un modo per approfondire la faccenda. A quel punto, però, mentre eravamo in una fase di stallo che durava da ormai troppo tempo, mi sono detta che Callahan poteva avere qualche legame di altro tipo con Melanie o, con la famiglia di Linda in generale, e ho voluto accertarmene. Sono quindi andata dalle parti in cui abitava Melanie a quei tempi e mi sono messa a fare domande.» Fece un mezzo sorriso. «Sai, non ho dedicato alle luci di Natale tutto il tempo che ti ho fatto credere. Dovevo cercare risposte.»
«E hai trovato risposte?»
«Non del tutto, ma c'era chi conosceva Roger Callahan. C'era chi lo definiva un caro amico di Melanie Miller, chi invece ipotizzava ci fosse qualcosa di più. Di colpo è stato molto più facile: io e Janice non avremmo più dovuto chiedergli se avesse violentato Melanie, quanto piuttosto se fossero mai stati fidanzati, o se fossero almeno legati da un rapporto di amicizia.»
«E Roger Callahan cosa vi ha detto?»
«Ci ha raccontato di avere avuto una relazione con Melanie, risalente a un periodo antecedente alla violenza che la Miller ha subito. Per farla breve, oltre a Melanie aveva anche un'altra ragazza. Ha dovuto fare una scelta e ha scelto l'altra. Non credo che poi abbia funzionato, fatto sta che poco dopo avere lasciato Melanie si è trasferito e non l'ha più vista. Per lui era una storia conclusa e, anzi, averla lontana era l'unico modo per cercare di tenere in piedi la storia con l'altra ragazza; altra ragazza che non c'entra nulla con questa storia, quindi possiamo metterla da parte. Callahan non è entrato nello specifico, ma dopo deve essersi rassegnato a una vita da single, o comunque non ha cercato mai Melanie. Ha riferito di avere scoperto dopo parecchi anni che si era sposata e che era diventata mamma. Non aveva idea di quando fosse nata Linda, né che la sua nascita fosse antecedente al matrimonio di Melanie. Solo molti anni dopo si sono incontrati a Goldtown.» Ellen fece una pausa, aspettando che Steve dicesse qualcosa. Dal momento che non proferì parola, riprese: «Roger Callahan continuava a non sapere quando fosse nata Linda e, anzi, Melanie gli aveva fatto credere che fosse nata un anno più tardi. Solo quando Linda è stata uccisa ne ha scoperto la data di nascita effettiva: era stata concepita circa due mesi prima della fine della sua relazione con Melanie.»
«Quindi» dedusse Steve, «Linda Miller non era figlia dello stupratore, ma di Roger Callahan.»
«Esatto, Melanie era già incinta quando è stata violentata. Dopo che Callahan ha scoperto la data di nascita di Linda e le ha chiesto spiegazioni, Melanie ha ammesso che era figlia sua e che glielo aveva nascosto, ai tempi, perché sapeva che era impegnato in un'altra relazione, poi in seguito perché non voleva che lo scoprisse dopo così tanti anni. È per questo che Callahan tiene una fotografia di Linda sempre con sé, perché era sua figlia e non ha mai potuto conoscerla.»
«Che storia triste.»
«Già.»
«Però in che modo vi è utile? Sapete chi è il padre di Linda, ma non può essere stato lui l'uomo con cui era in contatto, se né si sentiva con Melanie, né sapeva di avere una figlia, ai tempi. A meno che non abbia mentito...»
Ellen scosse la testa.
«No, non ci sono indizi che portino a pensare che stesse mentendo. Però, così come inizialmente Callahan non sapeva che Linda fosse sua figlia, perché non sapeva esattamente la data del concepimento e della nascita, anche qualcun altro poteva essere nella sua stessa situazione.»
Steve aggrottò le sopracciglia.
«Mhm... non capisco.»
«Lo stupratore.»
«Perché allo stupratore avrebbe dovuto interessare la data di nascita di Linda?»
«Lo so, è un ragionamento assurdo» ammise Ellen, «Ma ipotizziamo per un attimo che lo stupratore, a un certo punto, si sia messo in testa di volere figli a tutti i costi, ma per qualche ragione non ne abbia mai avuti. A quel punto, se sapeva che fine avesse fatto Melanie, potrebbe avere creduto che Linda fosse figlia sua e avuto il pensiero perverso di entrare a far parte della sua vita. A questo punto potrebbe avere senso credere che abbia cercato Melanie e che Linda sia riuscita a contattarlo spacciandosi per la madre.»
«Quindi» osservò Steve, «Questo depravato, che voleva figli a tutti i costi, avrebbe finito per uccidere proprio la figlia?»
Ellen avvertì chiaramente un brivido intenso che la attraversava. Quelle parole, pronunciate ad alta voce, facevano un effetto terribile.
Steve continuò: «Sembra assurdo, ma potrebbe non esserlo. È un uomo senza scrupoli, ce lo vedrei a uccidere la sua stessa figlia, se la sentisse come una necessità.»
«Non l'ha uccisa di proposito, o almeno è lecito credere l'abbia fatto perché l'ha scambiata per la madre» replicò Ellen, «Ma non dobbiamo dimenticarci di chi sia l'individuo con cui abbiamo a che fare. Un tipo del genere, con tutta probabilità, avrebbe potuto addirittura uccidere la propria figlia di proposito, se l'avesse considerata la soluzione migliore ai propri problemi. E...»
Si interruppe, convinta che fosse meglio non pensare ad alta voce.
«E...?» la esortò Steve.
«Niente.»
«Stavi per dire qualcosa. Intendevi dire che il killer potrebbe avere ucciso di proposito il proprio figlio o la propria figlia, a un certo punto? Pensi che il padre di Mark, Will o Cindy sia coinvolto? O il padre di Kimberly o di Maryanne?»
«No, Steve, sei tu che stai facendo questa ipotesi assurda» replicò Ellen. «Non ha senso, non ha alcun senso.»
«Non ha senso» confermò Steve, «Ma nulla ne ha.»
Ellen si alzò e gli si avvicinò. Aveva un solo modo per mettere fine a quella conversazione, anche se il prezzo da pagare era alto.
«Basta parlare di delitti» sussurrò, prima di posare le labbra su quelle di Steve, che si ritrasse.
«Non è il caso.»
Ellen sospirò.
«Eppure so che mi desideri tanto quanto io desidero te.»
«Se mi desideri» replicò Steve, «Me lo devi dimostrare.»
«Credo di avertelo già abbondantemente dimostrato» obiettò Ellen, «Così come me lo hai dimostrato anche tu. O devo pensare che hai cambiato idea?»
Le parve che Steve esitasse, mentre rispondeva: «Non ho cambiato idea.»
Lo lasciò vaneggiare per qualche istante, certa che le sue rimostranze non sarebbero durate a lungo. Aveva ragione: quando tentò di baciarlo di nuovo, Steve la lasciò fare.
Fu sempre Ellen a prendere l'iniziativa e Steve non oppose mai resistenza. Quando più tardi se ne andò, Ellen cercò di togliersi dalla testa quello che era successo, ma non funzionò. Doveva avere l'aria colpevole quando rincasò e trovò Janice ad attenderla.
La sua coinquilina la scrutò per qualche istante, prima di domandarle: «Cos'è successo con Steve?»
«Niente» rispose Ellen. «Non c'è niente di cui tu ti debba preoccupare.»
«Invece mi preoccupo eccome» replicò Janice. «Che cazzo stai combinando con quel poveretto?»
«Non preoccuparti» la rassicurò Ellen. «Presto sarà tutto finito.»
«Presto sarà tutto finito?» ripeté Janice. «Cosa vuoi dire? Che intenzioni hai con Steve? Anzi, che intenzione hai con tutti e due? Presto avranno entrambi il cuore spezzato e non vorranno più vederti.»
«Almeno saranno vivi.»
«Cosa significa?»
«Significa che, per la prima volta, credo di avere una vera pista da seguire. Non so se voglio trascinarli in questa storia, non voglio trascinarci nessuno.»
Janice rimase in silenzio per vari istanti, prima di replicare: «Non capisco. Che pista? Anche con Callahan stavamo seguendo una pista, che poi si è rivelata un buco nell'acqua.»
«Callahan aveva solo una foto di Linda nel portafoglio» le ricordò Ellen. «Non si incastra con tutto il resto della storia.»
«Una foto nel portafoglio e l'aria colpevole» replicò Janice. «Ho avuto la sensazione che ci stesse nascondendo qualcosa.»
Ellen annuì.
«Sì, molto probabile, ma siamo in una di quelle circostanze in cui la ragione per cui si mente è solo coprire un segreto spiacevole, come hanno fatto Janet o Jack vent'anni fa. Con un po' di fantasia, potrei intuire il segreto di Roger Callahan.»
«Ovvero?»
«Ovvero ha scoperto di avere una figlia e che questa era stata assassinata. Le ricerche delle autorità erano in una fase di stallo e probabilmente avrà pensato di rivolgersi a qualcuno che lo aiutasse a scoprire il colpevole.»
Il volto di Janice, di colpo, si illuminò.
«Ho capito cos'hai in mente: Callahan vuole scoprire chi abbia ucciso Linda e Will Mason vuole guadagnare soldi facili. Callahan lo ingaggia per fare ricerche, così Will cerca di avvicinarsi a gente che conosceva la conosceva. Mettendosi insieme a Meredith Taylor, Mason fa amicizia con Cindy Spencer, compagna di pattinaggio di Linda. Forse scopre qualcosa di scomodo, o forse il killer semplicemente pensa sappia qualcosa di scomodo, tuttavia, non sa chi stia pagando Mason. Quando vede Mark dargli i soldi del danno alla macchina, travisa, quindi ecco che Mark è la prima vittima, poi seguono Will e Cindy.»
«Tutto potrebbe filare liscio, devi ammetterlo.»
«Già, ma parlami della pista che stai seguendo.»
«Non ancora. Devo pensarci su. Lasciami un giorno per schiarirmi le idee e accertarmi se quello che mi è venuto in mente sia possibile.»

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Capitolo 28
*** Anche gli assassini sono vittime - 6 Dicembre ***


[6 dicembre]
Se Steve avesse dovuto scegliere un solo termine per definire Phyllis Moore, quel termine sarebbe stato "spiazzante". Il suo pregio era essere totalmente imprevedibile, pregio che smetteva di essere tale non appena poteva ritorcersi contro a chi aveva a che fare con lei.
Vederla comparire nel corridoio, in ospedale, fu una sorpresa. Steve la riconobbe da lontano, i suoi capelli neri con grosse striature rosso fuoco erano inconfondibili.
Phyllis si accorse di lui e lo salutò da lontano con un cenno della mano. Steve si guardò fugacemente intorno, cercando la possibilità di allontanarsi prima di incrociarla. Era impossibile, si trovavano in un lungo corridoio senza vie d'uscita, non poteva evitarla.
Si fermarono poco lontani l'uno dall'altra e si scrutarono a vicenda per qualche istante.
Fu Phyllis la prima a parlare.
«Cosa ci fai da queste parti?»
«Cosa ci fai tu, piuttosto?» replicò Steve, con freddezza.
«Se pensi che abbia raccontato a Kevin di certe questioni poco chiare, ti sbagli di grosso» rispose Phyllis. «Sono venuta qui solo per salutarlo e per assicurarmi che fosse ancora vivo.»
«Non l'hai raccontato a Kevin, però ne hai parlato con altri» le ricordò Steve. «Come ti è venuto in mente?»
«Forse dovresti chiederti perché tu abbia fatto quello che hai fatto e ti sia fatto sorprendere mentre ne parlavi.»
«O magari sei tu quella che dovrebbe farsi delle domande. Perché hai maturato questo improvviso interesse per la vita sentimentale e sessuale altrui? O forse non è così improvviso. Sei sempre stata un'impicciona.»
Phyllis puntualizzò: «Un tempo la mia abitudine di impicciarmi ti faceva comodo. Sbaglio o sei stato proprio tu, molto in passato, quello che voleva sapere da me cosa ci fosse tra Ellen e Kevin? Evidentemente siete voi che stimolate il mio interesse, e comunque trovo tutto ciò piuttosto deplorevole. Tu e Kevin siete liberi di correre dietro alla stessa donna, per quanto mi riguarda, ma almeno potreste evitare di fare sfoggio dei vostri gusti pietosi. Ellen Jefferson non è alla vostra altezza.»
Steve ribatté: «Sono stato insieme a te per molti anni, ho già dimostrato di avere gusti pietosi. Ellen è solo un passo avanti, rispetto a te. Anzi, oserei dire molti passi avanti.»
Phyllis sorrise.
«Hai sempre fatto finta di disprezzarmi, ma la realtà è che ti sono sempre piaciuta. Credo dovresti accettarlo.»
Steve sbuffò.
«Sono venuto qui per andare a trovare Kevin, non per ascoltare i tuoi deliri da stalker. Fino a una settimana fa o giù di lì, erano mesi che non ci vedevamo. Avresti potuto evitare di venire a cercarmi.»
«Mi fa piacere constatare che tu ritenga ancora che il mondo ruoti intorno a te, ma ti faccio notare che non ti sto seguendo. Sono qui perché un mio amico è ricoverato in questo ospedale, non perché sperassi di incontrarti. Anzi, immaginavo che tu avessi abbastanza senso della decenza per non presentarti qui, ma evidentemente mi sbagliavo.»
«Non mi segui, però mi giudichi. Non sono sicuro che sia molto meglio.»
«Sono le tue azioni che suscitano giudizi.»
«Azioni che non ti riguardano.»
Phyllis annuì.
«Sì, hai ragione, quello che fate tu ed Ellen non è affare mio, ma mi infastidisce sapere quello che avete fatto - o che fate tuttora? - alle spalle di Kevin. Siete stati così squallidi.»
Steve avrebbe voluto replicare, ma sapeva che c'era un fondo di verità nelle parole di Phyllis.
La sua ex fidanzata si accorse della sua indecisione.
«Lo sai anche tu, vero, Steve?»
«Per favore, Phyllis, lasciami in pace.»
«Posso anche lasciarti in pace, ma questo non cambierà nulla: ti sei scopato Ellen mentre Kevin lottava tra la vita e la morte.»
«Ormai era fuori pericolo» si difese Steve, avvampando nella consapevolezza che il concetto di fondo espresso da Phyllis fosse comunque esatto.
«Non mi sembra meno squallido.»
«E va bene. Mi sono comportato in maniera squallida. Ora mi lasci andare? Vorrei vedere Kevin prima che finisca l'orario delle visite.»
«Te lo ripeto, il fatto che tu sia qui per lui rende tutto ancora più squallido.»
«Io e Kevin lavoriamo insieme. Non gli ho scritto nemmeno un messaggio in questi giorni. Si chiederà che fine ho fatto, se mi sono dimenticato di lui.»
«Puoi dirgli di sì. È un po' come se ti fossi dimenticato della sua esistenza.»
«Fottiti.»
Steve si allontanò, sperando che Phyllis non facesse nulla per trattenerlo. Fu fortunato, o almeno ritenne di esserlo almeno per qualche minuto. Phyllis avrebbe potuto inventarsi qualcosa di spiacevole, in sua assenza, ma ci avrebbe pensato dopo.
Passo dopo passo, giunse a destinazione. Prima di entrare nella stanza, guardò un attimo all'interno. Kevin era seduto sul letto e stava trafficando con lo smartphone, non si era accorto di lui. Steve si domandò se fosse il caso di tornare indietro, come gli aveva indirettamente suggerito Phyllis.
Esitò troppo a lungo. Quando Kevin alzò gli occhi dal cellulare e guardò verso la porta, lo vide. Steve non ebbe alternative, entrò e gli si avvicinò, realizzando di non avere la più pallida idea di cosa dire.
Andò sul banale: «Come stai?»
«Molto meglio. Tra qualche giorno dovrebbero dimettermi.»
«Mi fa piacere.»
Kevin puntualizzò: «Dopo non potrò tornare subito al lavoro.»
«Non fa niente.» Steve fece una mezza risata. «Mi sto abituando a farcela da solo.»
«È un modo per dirmi che devo trovarmi un altro impiego?»
«No, a meno che non sia tu a volertene andare.»
Kevin azzardò: «Si direbbe che tu voglia liberarti di me. Per caso pensi di riprenderti Phyllis allo studio?»
Steve aggrottò la fronte.
«Phyllis?»
«È stata qua.»
«Cosa voleva?»
«Salutarmi.»
«Tutto qui?»
«Sì, tutto qui.» Kevin appoggiò sul comodino lo smartphone che fino a quel momento aveva tenuto in mano. «Si può sapere cosa ti prende? Mi sembri un po' strano. In realtà siete tutti strani, ultimamente, che cosa sta succedendo?»
«Non sta succedendo niente» rispose Steve. Poi ci ripensò. In fondo aveva un unico scopo, riconquistare Ellen, e informare Kevin di quello che era successo tra di loro poteva essere un buon modo per liberarsi di lui. «Anzi, sì, sono successe tante cose ed è giusto che anche tu ne sia informato.»
«Di cosa si tratta?»
«Sforzati. Sono sicuro che tu possa capirlo anche da solo.»
Kevin scosse la testa.
«Potrebbe trattarsi di qualsiasi cosa, quindi faresti meglio a illuminarmi.»
«Va bene, ti illumino subito» replicò Steve. «Hai presente quando ti avevo detto che sarei riuscito a riconquistare Ellen? Bene, credo di...»
Kevin lo interruppe: «Non voglio saperlo.»
Steve obiettò: «Invece faresti bene ad ascoltarmi.»
«Te lo ripeto, preferisco non sapere» ribadì Kevin. «Non so niente di quello che è successo fuori da qui in queste ultime settimane. So che non troverò nulla come l'ho lasciato e posso accettarlo, ma almeno evita di riferirmi i dettagli. In fondo sei tu, tra noi, quello che si è fatto un sacco di fantasie.»
Steve replicò: «Quello che è successo tra me ed Ellen non erano mie fantasie.»
Kevin precisò: «Mi riferisco ai viaggi che ti sei fatto. Da quando Ellen è tornata a Goldtown, ti sei messo in testa che vi sareste rimessi insieme. Hai iniziato a viaggiare di fantasia e sei diventato vittima di te stesso. Ellen non ha mai avuto in mente di tornare insieme a te. Al massimo sognava l'idea di un menage a trois, che non penso sia quello che avevi in mente tu.»
«Perché, è quello che speravi tu, quando ti sei messo insieme a lei?»
«No, ma non ho mai pensato che fosse il grande amore della mia vita. Ho smesso di crederci, nel grande amore, e in ogni caso ne ho avuto abbastanza quando stavo con Leanne. So che prima o poi Ellen andrà via da Goldtown fregandosene di tutti noi, ma questo non mi ha impedito di vivere con lei il mio presente. Non credo che tu abbia gli stessi obiettivi che ho io. Alla fine sarai tu a restare scottato.»

 

Steve se n'era andato da poco, quando Kevin fu raggiunto di nuovo da Phyllis. Non si aspettava che tornasse, ma doveva esserci una ragione ben precisa, non difficile da intuire.
«Sei qui perché hai visto Steve?» azzardò Kevin.
Phyllis non tentò nemmeno di fargli credere il contrario.
«Cosa vi siete detti?»
«Niente che ti riguardi.»
«Lo so che non mi riguarda, ma te lo sto chiedendo lo stesso.»
Kevin sospirò.
«Non vorrei che facessi tardi al lavoro per colpa mia.»
Phyllis prese fuori il cellulare da una tasca e controllò l'orario sullo schermo.
«Ho ancora quaranta minuti a disposizione per ascoltarti.»
«Non vorrai rimanere qui per quaranta minuti a farmi l'interrogatorio» ribatté Kevin. «Sono un povero infortunato scampato a un potenziale tentato omicidio, non ce l'hai un po' di compassione?»
«Non ti ha detto niente su Ellen?»
«Doveva dirmi qualcosa su di lei?»
«Dal tono con cui me lo chiedi, mi viene da pensare di sì.»
«Credevo fossi una designer, non una psicologa. Perché stai analizzando il mio tono di voce per cercare di capire di cosa abbiamo parlato io e Steve?»
Phyllis fece un sorriso subdolo.
«Con me puoi confidarti.»
«E va bene, ma non ho molto da dire» chiarì Kevin. «Non so cosa sia successo esattamente tra Ellen e Steve, perché non ho voluto che me lo riferisse.»
«Non hai... voluto?»
«Preferivo non sapere nel dettaglio.»
«Quindi sai, però, che c'è stato qualcosa tra di loro, immagino. Non ti lascerà indifferente come cosa, suppongo.»
«Non mi lascia indifferente, ma ho preferito che Steve lo credesse. Gli ho detto che non ho mai considerato quella con Ellen come una relazione seria e che non mi importa niente di lei.»
«Perché l'hai fatto?»
Kevin le strizzò un occhio.
«Lo sai, non mi piace giocare a carte scoperte. A me interessa di più l'obiettivo finale, rispetto a quello che è successo ieri o potrebbe succedere oggi o domani.»
Phyllis obiettò: «In pratica vuoi continuare a stare accanto alla persona sbagliata, un po' come facevi con Janet.»
«Non c'era niente di sbagliato in Janet.»
«C'era solo sesso tra di voi.»
«E quindi?»
«Quindi non costruirai mai nulla di concreto.»
Kevin sbuffò.
«Perché date tutti così importanza al costruire qualcosa, un po' come se l'unico scopo della vita fosse avere una relazione stabile e duratura?»
Phyllis alzò le spalle.
«Perché, non è forse quello lo scopo della vita?»
«Non per me.»
«Dici così solo perché non hai ancora trovato la persona giusta... e di sicuro Ellen non lo è.»
Kevin puntualizzò: «A un certo punto mi sono sforzato di trovare la persona giusta. Sono stato sposato. E sai com'è andata a finire? Che io e mia moglie abbiamo capito che il nostro scopo non era trovare la persona giusta. A volte, semplicemente, non ci sono persone giuste. Non ci sono persone, in generale. Ti è mai capitato di pensare che non tutti abbiamo le stesse aspettative e le stesse ambizioni?»
«E la tua ambizione» replicò Phyllis, «Sarebbe stare con Ellen nei momenti in cui non è già impegnata con Steve?»
«No, ma posso accettare una simile situazione più a lungo di quanto possa accettarlo Steve» rispose Kevin. «Quando si toglierà di torno, incapace di sopportare l'idea che lei non lo ricambi, Ellen non sarà più impegnata con lui.»

 

Ellen aprì la porta. Il campanello l'aveva colta di sorpresa, così come la voce di Steve che parlava al citofono. Lo fece salire, senza sapere se l'assenza di Janice fosse un bene o un male.
Si fissarono a lungo, dopo che Steve ebbe richiuso la porta. Ellen cercò di assumere un tono cordiale, mentre gli chiedeva: «A cosa devo l'onore di questa visita?»
Senza attendere sue istruzioni, Steve entrò in cucina, scostò una sedia dal tavolo e si accomodò.
«Gliel'ho detto. O almeno, gliel'ho fatto capire.»
Ellen lo guardò, carica di dubbi.
«Hai detto cosa a chi?»
«Ho accennato a Kevin quello che è successo tra me e te.»
Ellen spalancò gli occhi.
«Che cazzo hai fatto?»
«Dovevo» si giustificò Steve. «Era giusto così.»
«Vorresti farmi credere al tuo senso di giustizia?» replicò Ellen. «Dovrei crederti?»
Steve insisté: «Era sbagliato agire alle sue spalle.»
Ellen lo ignorò.
«Ti è mai venuto in mente che il mio legame con Kevin potrebbe, tra le altre cose, darmi agganci e aiutarmi nelle mie indagini?»
Mentre Ellen si sedeva di fronte a lui, Steve ribatté: «È assurdo. Non può essere. Io e te ci eravamo ritrovati e tu ti sei messa insieme a Kevin solo per la tua indagine?»
«Dovresti smetterla di fare congetture su quello che voglio io» rispose Ellen. «Non so cosa tu ti sia messo in testa, ma ho altro a cui pensare. Poi, quando posso staccare, allora è un piacere avere della buona compagnia maschile, ma in primo luogo voglio fermare un assassino e raccontare al mondo quello che ha fatto. Tutto il resto viene dopo e tu, per me, sei parte del resto. In quanto tale, potresti almeno sforzarti di darmi problemi il meno possibile.»
«Quindi sarei un problema, per te?»
«No. È un problema che tu ti sia insinuato nella mia vita solo perché temevi che preferissi Kevin a te.» Ellen fissò Steve con durezza. «Vuoi sapere come stanno le cose? Stanno che penso di sapere chi sia il killer di Goldtown, e l'ho capito grazie a te.»
Steve la guardò per qualche istante a bocca spalancata, prima di replicare: «Non è possibile. Io non ho idea di chi possa essere il killer di Goldtown, come potrei averti illuminata?»
«Hai detto una cosa che mi ha permesso di incastrare tutti i pezzi, di metterli nel posto giusto» ammise Ellen. «All'improvviso ho visto la luce. Ho capito che poteva esserci solo una persona che potesse avere qualche legame con tutte le vittime, anche quelle solo presunte, compresa Lisa Lynch.»
«Non è possibile.»
«Invece ti assicuro che è possibile, quindi smettila di dire che non lo è.»
Steve le ricordò: «Non sappiamo nemmeno se Lisa Lynch sia stata uccisa. E come mai le indagini ufficiali non l'hanno individuato, questo presunto assassino? Siamo per caso in un romanzo poliziesco del secolo scorso, in cui una vecchia signora che lavora a maglia, spiando il vicinato con il binocolo si rende conto che Scotland Yard brancola nel buio e risolve il caso?»
Ellen precisò: «Le indagini ufficiali sono sempre partite da Mark, oppure da Linda, senza mai andare più indietro. È per questo che quel bastardo l'ha sempre fatta franca, non perché sia insospettabile come avviene nei romanzi gialli, ma proprio perché, almeno in linea teorica, non ha nulla a che fare con le proprie vittime. Se vuoi un nome, te lo farò, a condizione che ti tappi la bocca, qualunque cosa accada. È tutto da dimostrare, sia chiaro, ma è una soluzione che spiegherebbe tutto, dal primo all'ultimo dettaglio, perfino aspetti che le indagini ufficiali non prenderebbero mai in considerazione.»
Non credeva che Steve le avrebbe fatto quella domanda, ma fu quello che accadde: «Chi pensi sia l'assassino di Goldtown?»
Ellen abbassò la voce, per pronunciarne il nome.
«Che cosa?!» esclamò Steve. «E che cazzo c'entrerebbe?»
«Te l'ho detto, nessun legame apparente con le vittime, a parte una, uccisa quasi per caso» replicò Ellen, «Però è l'unica spiegazione possibile. Perché un uomo mascherato dovrebbe uccidere per non farsi riconoscere? È molto semplice, dopotutto: perché la vittima potrebbe riconoscerlo anche senza vederlo in volto, dal modo in cui si muove, dagli indumenti che porta, oppure dalla voce. Deve essere quello che è successo alla povera Roberta Robinson, o Jennifer che fosse. Povera bambina, non meritava una fine simile. Come vedi, quello che sto cercando di fare non è solo un tentativo di realizzazione professionale. È vero, da un lato non voglio trovarmi ogni dicembre a scrivere stronzate sul fatto che il Natale sia commerciale e ciò offenda i cristiani quindi dovremmo smetterla di fare regali, oppure che il Natale sia una festa cristiana e ciò offenda chi pratica altre religioni, è ateo o agnostico quindi dovremmo smetterla di farci gli auguri, o parlare di quando la gente inizi ad addobbare gli alberi o ad accendere le luci. Però ci sono tutti loro: Linda, Mark, Will, Cindy, Kimberly, Maryanne. Poi Dylan e Meredith, forse. Lisa. E soprattutto lei, la piccola Robinson, uccisa a otto anni a causa di quello che aveva visto o sentito. Io sono questa, una persona disposta a tutto in nome dell'informazione e della giustizia, anche mettendo in pericolo la propria vita e quella degli altri, anche usando mezzi squallidi per conquistare la fiducia delle persone che ha intorno. Mi dispiace se non sono quella che credevi. Mi dispiace se, quando ci siamo rivisti, hai creduto che fossi tornata a Goldtown per te o perché ti amavo ancora. Non fraintendermi, credo di averti amato, quando ero giovane e talmente ingenua da ritenere che l'amore potesse essere una parte importante della mia vita. Mi piaci ancora, ma non abbastanza da far ruotare la mia vita intorno a te. Quando cercavo di scoprire il segreto delle gemelle Robinson, non ho esitato a iniziare a frequentare Kevin pur di avvicinarmi a Sophie, Jennifer e Roberta... e, prima che tu me lo chieda, no, non ho solo finto di essere attratta da lui. Nel mio mondo ideale, quello in cui la ricerca della verità è più importante di qualsiasi impegno sentimentale, sareste entrambi perfetti come rimedi alla solitudine. Però questo è il massimo che potrei dare, a te o a lui. Forse per te sarebbe più facile, se ti dicessi che non posso tornare indietro perché adesso amo Kevin, ma non è così.»
«Se ti può consolare» disse Steve, con freddezza, «Kevin non ha quasi avuto reazione, quando gli ho detto di noi. Se hai bisogno di lui per continuare a girare intorno alle Robinson, i tuoi piani possono andare avanti. Prima o poi questa storia finirà. So essere più paziente di quanto tu creda. Ti aspetterò.»
«Mi aspetterai invano, allora» mise in chiaro Ellen. «Non sono più la ragazzina che conoscevi.»
«Appunto. Ora sei una persona con degli ideali solidi, che merita molto di più il mio interesse. Non importa se sarà difficile, non importa quanto dovrò impegnarmi per dimostrarti che con me saresti più felice che con Kevin e che anch'io non sono più il ragazzino che ero vent'anni fa. Ci proverò con tutte le mie forze.»
«Dici di non essere il ragazzino di vent'anni fa, ma ti comporti ancora come tale.»
«Oh, no, ti sbagli. Se tu dovessi scegliere lui, lo accetterò. Non diventerò uno stalker, continuerò a pensare che sei una donna eccezionale e a considerare Kevin un amico. Però, finché avrò qualche possibilità, non smetterò di sperare.»
Ellen sbuffò.
«Se non fermiamo il killer, presto potremmo essere tutti morti. Allora non importerà più niente di chi abbia il cazzo più lungo tra te e Kevin. E comunque, se ti può consolare, avete più o meno la stessa misura.»

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Capitolo 29
*** La vendetta di Mabel - 27 Dicembre ***


LA VENDETTA DI MABEL

[27 dicembre]
Quando il telefono iniziò a squillare, Steve si chiese se la persona che lo cercava lo stesse sorvegliando. Era infatti arrivato al lavoro con un consistente anticipo, per mettersi avanti con delle stampe per un cliente importante, era piuttosto inusuale che il telefono dello studio suonasse a quell'ora.
Fece appena in tempo ad alzare il ricevitore che subito udì una voce ben conosciuta.
«Steve, sei tu?»
«Cosa vuoi? Perché mi stai cercando? Come sai che sono qui?»
«Non mi sembrava elegante contattarti sul cellulare» replicò Phyllis. «Però volevo dirti una cosa importante e non volevo più aspettare.»
«Sono le otto e venticinque. Apro alle nove. Come fai a sapere che sono qui? Mi stai spiando?»
«Se non avesse risposto nessuno, avrei riprovato più tardi. È inutile che tu ti voglia convincere che sono una stalker. Non lo sono. Non ci vediamo da tempo, ormai. Cosa sono passate, tre settimane? È stato quel giorno, all'ospedale.»
Steve le ricordò: «Devi dirmi qualcosa di importante, se non ho capito male. Dimmi questa cosa importante, così poi potrò rimettermi a lavorare.»
«Ieri ho visto Ellen, di sfuggita.»
«E allora?»
«Era da almeno due settimane che non mi capitava di incrociarla. Mi era parso di capire che non fosse più a Goldtown.»
In effetti, poco dopo avergli confidato il nome di chi credeva essere l'autore dei delitti, se n'era andata, sostenendo di dovere, per il momento, continuare altrove le sue ricerche. Non sapeva che fosse già rientrata a Goldtown, ma ritenne inopportuno lasciarlo capire a Phyllis. Non era difficile, dopotutto, inventare una scusa credibile.
«Ellen è andata a trascorrere le feste di Natale con i suoi familiari. Adesso è tornata.»
«Oh, e come stanno le cose tra di voi?» si intromise Phyllis.
«Le cose tra di noi non ti riguardano» puntualizzò Steve, «E ora scusami, ma devo andare. Sarà una lunga giornata.»
«Sono ancora in ferie» lo informò Phyllis. «Se hai bisogno, posso passare a darti una mano.»
«No, grazie, non ce n'è bisogno.»
«Ma sarai solo. Avrai bisogno di qualcuno che...»
Steve si affrettò a stroncare quella proposta: «Ho lavorato da solo per oltre un mese e tutto è andato bene. Non avrò bisogno di te proprio oggi che ritorna Kevin.»
«Peccato» borbottò Phyllis. «Non fraintendermi, sono felice che Kevin stia bene - e anzi, ti chiedo di salutarlo da parte mia - ma mi avrebbe fatto piacere venire ad aiutarti, in memoria dei vecchi tempi.»
«I vecchi tempi fanno meglio a rimanere nel passato» replicò Steve. «Ti saluto, Phyllis. Se non dovessimo più sentirci, ti faccio tanti auguri di buon anno.»
Senza aspettare una sua replica, mise giù il telefono. Prese poi il cellulare e scrisse un messaggio a Ellen.
"È vero che sei tornata?"
Fece per rimettersi a lavorare, ma non passò molto tempo prima che lo smartphone si mettesse a vibrare: Ellen gli aveva risposto.
"Sì, ormai siamo arrivati in fondo, o almeno così mi auguro."
Steve avrebbe voluto chiederle di più, ma non gli sembrò il caso di farlo tramite un'applicazione di messaggistica.
"Quando ci vediamo, mi racconti tutto" le scrisse, "Se puoi."
La replica di Ellen non si fece attendere: "Non so se posso."

 

Soltanto quando fu pronta per uscire, Roberta si rese conto che si era fatto tardi. Avrebbe dovuto essere già al negozio, a quell'ora, dove Sophie la stava aspettando. Avrebbe potuto cavarsela da sola ancora per un po', ma ci teneva ad arrivare il più puntuale possibile.
Prese le chiavi e aprì la porta, credendo di trovare il pianerottolo deserto. Non fu così. Si ritrovò subito addosso gli occhi dell'ultima persona che avrebbe voluto vedere.
John Stewart, suo padre, la fissava come se non riuscisse a credere a ciò che vedeva. Infine sorrise e osservò: «Roberta, è così bello rivederti dopo così tanto tempo.»
«Pochi mesi» replicò Roberta, «E mi hai chiamata spesso. Non sono passati anni.»
«Invece sì, ventotto anni» rispose suo padre. «Mi fai entrare?»
«Sto per andare al lavoro.»
«Ti accompagno, se vuoi.»
«No, grazie, vado da sola.»
«Ho detto che ti accompagno» insisté John Stewart. «Avresti dovuto venire a trovarmi più spesso. Avresti dovuto dirmi la verità.»
Roberta uscì e chiuse la porta.
«Quale verità?»
«Dicevi che sentivi Roberta dentro di te» le ricordò Stewart. «Ci hai fatto credere di essere Jennifer, la bambolina, l'angelo che non aveva carattere. Invece eri tu.» Allungò una mano e le sfiorò una guancia. «Eri la mia bambina adorata e tua madre ti ha costretta a fingere di essere Jennifer.»
Roberta si ritrasse.
«Nessuno mi ha costretta. Essere Jennifer sarebbe stato più facile.»
«Oh, no, non lo era, se poi hai dovuto fingere per tutti questi anni di sentire Roberta dentro di te» replicò suo padre. «Hai cercato comunque un modo per essere chi eri davvero. Sono contento che tu ci sia riuscita. Voglio il meglio per te.»
«Per Jennifer no, invece?» obiettò Roberta. «Anche lei era tua figlia, te ne sei dimenticato?»
«Quella che contava davvero eri tu. Non hai idea di quanto sia stato terribile perderti... e tutto perché tua madre ti ha plagiata per allontanarti da me.»
«Forse pensava che la mia vita senza di te potesse essere migliore della mia vita con te. Ti sei mai chiesto se non sei stato tu a darle dei motivi per fare quello che ha fatto?»
John Stewart precisò: «Ho sempre cercato di fare del mio meglio. Lo ammetto, all'inizio non ci sono stato, ma ho fatto il possibile e l'impossibile per rimediare. La prima volta in cui ti ho vista, ho capito che per me eri tutto.»
«Risparmiati questa stronzata dell'erede che desideravi a tutti i costi» lo mise a tacere Roberta. «Un giorno hai pensato che avere due figlie fosse qualcosa di figo, quindi hai deciso di entrare nella nostra vita. Poi hai capito che, per sentirti appagato, te ne bastava una. Hai scelto me e hai messo Jennifer da parte, quando in realtà non sapevi nemmeno distinguerci l'una dall'altra. Bastava che ci scambiassimo i vestiti ed ecco che, all'improvviso, la stupida bambolina poteva diventare la figlia che adoravi. Non sei mai stato un vero padre, per noi, o almeno non per me. Jennifer era più innocente, cercava di fare il possibile per piacerti e per compiacerti, ma senza risultato.»
«Non credo che io e tua sorella fossimo troppo compatibili.»
«Era una bambina. Sei stato tu a decidere che non lo eravate.»
«Questo, però, che importanza ha, tra me e te? L'angelo dai vestiti bianco latte non c'è più. Nemmeno tu cerchi più di vivere come avrebbe vissuto lei.»
Roberta scosse la testa.
«Jennifer non c'è più, quindi non importa se l'hai sempre trattata come qualcosa di troppo? Non sai quello che dici, quindi ti prego di smetterla e di lasciarmi in pace. Fai un giro per Goldtown, fai quello che vuoi, ma non stare qui.»

 

La porta si aprì di colpo e ne entrò un uomo sui sessant'anni. Kevin alzò lo sguardo e salutò il nuovo arrivato.
«Buongiorno, signor Blackstone» rispose il cliente.
«Morgan» lo corresse Kevin.
«Morgan?» ripeté il cliente.
«Sì, il titolare è dovuto uscire un attimo» rispose Kevin, «Ma può dire a me.»
«Gli ho inviato delle foto via e-mail la scorsa settimana. Mi ha detto che avrei potuto ritirarle stamattina.»
«A che nome?»
«Stewart.»
Kevin annuì.
«Ci guardo subito.»
Trovò la busta con le fotografie, con un appunto con l'importo. Comunicò la somma al cliente e gli passò la busta e lo scontrino.
«Conosce mia figlia?» gli chiese Stewart, mentre pagava. «Ha un negozio qui di fronte.»
Kevin esitò. Stava per domandargli se fosse il padre di Jennifer, ma non sapeva se fosse più opportuno riferirsi a lei con quel nome, oppure chiamarla Roberta.
«La nipote di Sophie?» domandò quindi. «Sì, la conosco, Sophie è la fidanzata di mio fratello.»
«Chi l'avrebbe mai detto.» Stewart sorrise. «Sa, io non so quasi niente delle persone che stanno intorno a mia figlia qui a Goldtown.»
«Non ci viene spesso?»
«Diciamo mai.»
«E allora, mi scusi se sono indiscreto, come mai è venuto qui per le foto?»
«Giusta domanda, signor Morgan. Diciamo che non ho mai avuto un grande rapporto con mia figlia e vorrei ricostruirlo. Venire a fare un giro a Goldtown era un buon modo per incontrarla.»
«Capisco. Le auguro di riuscire a fare quello che spera.»
«Sa, tutto ciò che conta, per me, è che Roberta sia felice. Ma non le faccio perdere altro tempo. Meglio che vada. Arrivederci, signor Morgan.»
«Arrivederci e tanti auguri di buone feste.»
«Anche a lei.»
Stewart si diresse verso la porta e uscì, scomparendo dalla vista di Kevin, ma non dalla sua mente. Doveva essere soprappensiero, dato che non si accorse nemmeno del rientro di Steve.
«Ehi, per caso hai appena visto un fantasma?» gli chiese l'altro, per attirare la sua attenzione.
A Kevin servì qualche istante prima di tornare in sé.
«Hai presente che un cliente ha fatto sviluppare delle foto a nome Stewart?»
«Sì.»
«È stato qui poco fa.»
«Bene. Ha ritirato le foto?»
«Quell'uomo è il padre di Jennifer e Roberta» riferì Kevin. «È stato lui a chiedermi se conoscessi sua figlia.»
Steve non parve molto sorpreso, mentre replicava: «John Stewart è stato qui? Interessante, per quel poco che so di lui, sembra sia strano tanto quanto Margaret Robinson, se non di più. Ti ha detto altro?»
Kevin azzardò: «Sapevi che era lui? Quel cliente, voglio dire.»
«Non chiedo ai clienti di chi siano parenti, specie quando non li vedo di persona» rispose Steve. «Peccato non averlo potuto vedere, sarebbe stata un'esperienza interessante.»
«Parli sul serio o mi prendi per il culo?»
«Dico sul serio. Quella famiglia è piena di gente un po' fuori dagli schemi. Non mi sarebbe dispiaciuto conoscere anche quello probabilmente più fuori di tutti.»
Kevin obiettò: «Sappiamo poco di lui e "Jennifer e Roberta" fingevano di frequentarlo, quando in realtà non lo vedevano. Non possiamo essere certi che sia uno svitato.»
«No, certo» convenne Steve, «Ma sarà sicuramente anche lui un po' toccato. Ti ha detto altro?»
Era la seconda volta che Kevin si sentiva rivolgere quella domanda, quindi era il caso di rispondere.
«Niente di che, solo che spera di fare felice sua figlia.»
«Per fare felice sua figlia dovrebbe trovare un modo per convincere Patricia a tornare insieme a lei, ma dubito che lo farà.»
«Pensi comunque che ci sia qualche speranza?»
«Non lo so. Patricia sembrava molto delusa, quando ha scoperto la messinscena di Roberta. Non vedo grandi possibilità per loro.»

 

Jack non si aspettava di vedere Patricia, ne aveva idea di cosa significasse la sua visita improvvisa. Già da molto tempo, ormai, i loro rapporti non erano esattamente idilliaci e, ogni volta in cui la situazione tra di loro sembrava stabilizzarsi, usciva fuori l'ennesimo problema. Da quando Jack aveva iniziato una relazione clandestina con Roberta - avevano deciso che, siccome tra loro c'era solo sesso, senza intento di costruire un legame più profondo, tanto valeva tenere tutto segreto - provava anche un certo imbarazzo nel ritrovarsi a tu per tu con l'amica.
Patricia non sospettava neanche minimamente che cosa stesse succedendo tra lui e Roberta, o almeno così sperava Jack, ma accadeva spesso che venisse menzionata, mettendolo in una situazione scomoda. Si ritrovò quindi a sperare che l'argomento non uscisse, ma sapeva che non sarebbe stato così fortunato.
«Disturbo?» chiese Patricia.
«No, in questo momento sono libero» rispose Jack. «Non è che ti apposti fuori e aspetti che non ci sia nessuno, per poi venire a farmi queste improvvisate?»
Patricia sorrise.
«Certo che no. Anzi, lo sai che mi fa piacere venire a trovarti, quando passo da queste parti.»
«Anche a me fa piacere che tu sia qui.»
«Meglio, specie considerato che ho una cosa da chiederti.»
Jack azzardò: «Problemi con la macchina?»
Patricia scosse la testa.
«Sono qui come amica, non come cliente.»
«Allora dimmi cosa posso fare per te» la esortò Jack. «Non sono sicuro di cavarmela bene tanto quanto con le auto, ma ci posso provare.»
La domanda che Jack temeva arrivò puntuale: «Hai visto Roberta di recente?»
«Sì, l'altro giorno. Ci siamo incontrati io, lei e Danny. Danny ha trovato un nuovo lavoro e ci ha invitati da lui a bere qualcosa per festeggiare.»
«Non torna più al supermercato, quindi?»
«No, ha già mandato la lettera di dimissioni un po' di tempo fa. L'hanno assunto in negozio di articoli per la pesca, poco fuori Goldtown, inizia a gennaio.»
Come prevedibile, Patricia non mostrò un grande interesse per il nuovo lavoro di Danny.
«Come sta Roberta?»
«Bene.»
«Vi ha parlato di me?»
«No.»
«E voi non le avete fatto domande?»
Jack ribatté: «Siamo persone discrete. Non forziamo Roberta a parlare di argomenti che forse preferisce evitare. Ormai non state più insieme, si sta rassegnando. Non mi sembra opportuno rigirare il dito nella piaga.»
Patricia azzardò: «Ma vi ha parlato di qualcun altro? Sta frequentando un'altra donna, che voi sappiate? Oppure un uomo?»
Jack avvampò. Come avrebbe reagito Patricia se avesse mai scoperto cosa fosse accaduto - e non certo per la prima volta - dopo che entrambi avevano lasciato la casa di Danny? Era meglio non chiederselo e, soprattutto, che non lo venisse mai a sapere.
«Roberta non ama sbandierare ai quattro venti la propria vita privata» si limitò a rispondere. «Non so cosa dirti. Di sicuro quella sera non ne ha parlato, ma non posso essere certo che non stia insieme a nessuno.»

 

«Ellen!»
La voce di Danny che la chiamava la fece girare di scatto.
«Ehi, da quanto tempo! Come stai?»
«Abbastanza bene, grazie. E tu?»
«Bene anch'io.»
A Ellen sembrò che Danny avvampasse, mentre le chiedeva: «Janice invece come sta?»
«Abbastanza bene anche lei» rispose Ellen.
«Una sera potremmo rivederci» azzardò Danny. «Io, tu, Janice e Kevin.»
Ellen abbassò lo sguardo.
«Non lo so.»
«Pensi non sia il caso che io e Janice ci vediamo?» Danny sembrava deluso, ma non intenzionato a insistere. «Hai ragione, sono stato un po' invadente.»
«Oh, no, non sei tu il problema» ammise Ellen. «Io e Kevin non ci sentiamo da quando sono partita e non gli ho nemmeno detto di essere tornata.»
«Non lo avevo capito. Kevin non me l'ha detto, pensavo stessi ancora insieme a lui.»
«È stata una relazione complicata. Non so se sia davvero finita, ma di sicuro adesso siamo in una fase di stallo.»
Danny le indicò il fondo della via, con il bar di Patricia.
«Ti va di andare a prenderci un caffè? O un tè se preferisci, così possiamo parlare senza stare in piedi e al freddo?»
Danny gliel'aveva chiesto così tanto gentilmente che Ellen non se la sentì di rifiutare. Entrarono, ordinarono e si sedettero a un tavolo.
Mentre aspettavano che Ray preparasse i caffè, Danny mise in chiaro: «Non voglio in alcun modo intromettermi nei fatti tuoi, ma c'è una cosa che vorrei dirti.»
«Dimmi.»
«Innanzi tutto, non voglio assolutamente insinuare che tu non sia libera di fare quello che vuoi, ma penso che, se vuoi stare insieme a Kevin, dovresti deciderti e farglielo capire. Non ti aspetterà in eterno, non adesso.»
«Non adesso, dici. Cosa intendi?»
«Mi prometti che quello che sto per dirti resterà tra noi?»
Proprio in quel momento Ray avvertì che i caffè erano pronti. Ellen si alzò per andare a prenderli. Di ritorno, si sedette e rispose: «Certo che resterà tra noi.»
«A Kevin piaci» le riferì Danny, «Su questo non ci sono dubbi, ma ora Janet è single e, quando sia Kevin sia Janet sono single, va a finire sempre nello stesso modo.»
Ellen azzardò: «Kevin e Janet stavano insieme?»
«Non esattamente. Se lo chiedi a loro, ti diranno che sono grandi amici fin da quando erano adolescenti. E in effetti è così, anche se omettono entrambi un dettaglio.»
«C'è stato qualcosa di piu?»
«Sistematicamente, a partire da quando Janet fu lasciata dal suo primo ragazzo. Aveva sedici anni e Kevin ne aveva diciassette. Non era mai stato con nessuna, prima di lei. Si fece le sue prime esperienze con Janet. Non stavano insieme, ma avevano deciso che, fintanto che erano entrambi single, sarebbero andati a letto insieme, impegnandosi a evitare coinvolgimenti sentimentali.»
«Per quanto tempo è andata avanti?»
«Sempre, a parte nei periodi in cui uno dei due era impegnato con un'altra persona. Hanno smesso quando Kevin si è messo insieme a Leanne e, più o meno nello stesso periodo, Janet si è fidanzata a sua volta. Adesso, però, sono entrambi liberi e vivono entrambi a Goldtown. Non passerà molto prima che si mettano a fare di nuovo qualcosa... e a Kevin potrebbe bastare, dato che non mi sembra molto convinto a volere provare di nuovo ad avere una relazione stabile e seria.»
«In sintesi» concluse Ellen, «Mi stai suggerendo di aprire le gambe prima che le apra Janet.»
«Non ho detto niente di così scurrile» si difese Danny.
Ellen gli strizzò un occhio.
«Comunque grazie per il consiglio. È stato...»
Si interruppe. Il suo sguardo fu catturato da un uomo dai capelli grigi appena entrato nel bar. Si guardava intorno e, infine, si diresse verso Ray.
«La signorina Patricia è qui?»
«No» rispose Ray, «La titolare arriverà nel pomeriggio, indicativamente verso le tre e mezza, quattro.»
«La ringrazio.»
«Devo dirle che l'ha cercata?»
«No.»
L'uomo se ne andò senza aggiungere altro. Ellen si accorse che anche Danny lo stava fissando. Infine le rivelò: «Quell'uomo è il padre di Jennifer, lo so perché ho visto delle sue foto.»

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Capitolo 30
*** La vendetta di Mabel - 28 Dicembre ***


[28 dicembre]
Lo sbalzo di temperatura fece appannare gli occhiali di Ellen, che imprecò sottovoce, sperando subito di non essere stata udita. Prima di entrare aveva verificato che Roberta fosse sola e, in effetti, non le era parso di vedere Sophie. Meglio così, si era detta, sperando che la zia della Robinson non fosse nel retro del negozio e non comparisse all'improvviso.
C'era solo Roberta, o almeno tutto continuava a suggerirlo.
«Ellen, che sorpresa vederti qui» osservò. «Cosa posso fare per te?»
A Ellen sarebbe piaciuto analizzare la sua espressione, in quel momento, ma non era possibile a causa delle lenti ancora appannate.
«Passavo.»
«Passavi e...?»
«E sono venuta a salutarti.»
«Gentile da parte tua» ribatté Roberta. «È sempre un piacere sapere che, almeno qualche volta, tu non voglia mettermi di fronte ai miei segreti.»
Ellen si sfilò gli occhiali e li pulì come poteva sulla sciarpa, prima di tornare a indossarli. Erano un po' alonati, ma la situazione era notevolmente migliorata.
«Quello che ho fatto, non l'ho fatto contro di te.»
«Lo so.»
«Non pensavo che Patricia ti avrebbe lasciata.»
Roberta replicò: «Quello che è successo ormai è successo, non si torna più indietro.»
«Davvero, mi dispiace» ribadì Ellen. «So che eravate felici insieme, prima che arrivassi io a rovinare tutto. Eri fidanzata con lei da molto?»
«Perché mi stai facendo domande a proposito di Patricia?»
«Semplice curiosità.»
Roberta scosse la testa.
«No, la semplice curiosità è un concetto che non conosci. Tutto quello che fai, lo fai per un motivo ben preciso. Non sono io che sono prevenuta, sei tu che hai le tue ragioni per chiedermi certe cose.»
«Vedi sempre del marcio ovunque. Non hai mai pensato che io sia semplicemente curiosa per natura e che questo mi abbia portata a scoprire i segreti tuoi e di altri?»
«Non vedo del marcio, mi limito a vedere un interesse che sorge di colpo in tempi piuttosto sospetti. Comunque, se proprio lo vuoi sapere, è stata Patricia ad avvicinarsi a me, anni fa. Non pensavo di piacerle, di essere il tipo di donna che poteva interessarle. All'inizio non mi piaceva nemmeno così tanto. Ero abituata ad avere a che fare con lei come Jennifer e sono certa che Jennifer non avesse msi suscitato un minimo di interesse da parte sua, non solo come potenziale partner, ma nemmeno come persona. L'idea che Patricia considerasse del tutto indifferente l'altra me non mi allettava più di tanto. Poi ci ho ripensato. Patricia ci teneva davvero a stare con me, quando ero Roberta. Il resto è venuto dopo, a poco a poco. Prima potevo essere Roberta solo ogni tanto, poi ho iniziato a mettere da parte Jennifer proprio per Patricia.»
Ellen sorrise.
«Mi fa piacere che tu abbia scelto di raccontarmelo. Come vedi, però, è solo una curiosità, per me.»
«Come vedo?» ribatté Roberta. «No, mi dispiace deluderti, ma non posso vederlo. Te l'ho raccontato solo perché non c'è nulla di segreto... a meno che tu non voglia vederci delle ombre a tutti i costi. In tal caso, però, mi sfuggono. Non vedo proprio perché dovrebbe insospettirti il fatto che sia stata Patricia a venirmi a cercare e non il contrario.»
«Ma infatti non mi insospettisce minimamente. Mi stupisce di più il fatto che Patricia fosse attratta da Kimberly, un tempo, era così diversa da te.»
«Anche a me stupisce che Patricia fosse attratta da Kimberly, ma molti di noi, a un certo punto, si sono innamorati della persona sbagliata. Purtroppo per Patricia, Kimberly era troppo piena di sé per prendere in considerazione l'idea di potere ferire le persone che ci tenevano a lei. L'ha fatto con Jack, l'ha fatto con Patricia e chissà con quante altre persone. Il suo grosso problema credo sia stato non cambiare mai, non imparare dai propri errori.»
«E tu?» le chiese Ellen. «Tu impari dai tuoi?»
Roberta accennò un sorriso.
«Potrei farti la stessa domanda.»
«Non preoccuparti dei miei "errori". Ho imparato da molto tempo che commettiamo sbagli peggiori di quelli fatti in campo sentimentale.»
«Di che errori parli?»
«Dare fiducia alle persone sbagliate, per esempio. Non so se ti sia mai capitato, forse no. Immagino che tu abbia dovuto imparare presto a non fidarti di nessuno.» Ellen cercò di avere almeno un minimo di tatto. «Hai raccontato che i tuoi genitori non erano esattamente persone affidabili e che, a un certo punto, sei stata lasciata a tua nonna un po' come un pacco postale.»
Roberta obiettò: «Non ce l'ho con mia madre per la scelta che ha fatto. Anzi, mi ha permesso di crescere insieme a mia nonna e a zia Sophie, due persone che mi hanno sempre trattata bene e hanno fatto il possibile per me. Avevo delle figure di riferimento e so che mia madre pensava fosse la cosa giusta per me.»
«Perché allontanarti da tuo padre, però?» replicò Ellen. «Aveva sbagliato, con lei e con voi bambine, ma perché non dargli una seconda possibilità?»
Roberta abbassò lo sguardo.
«Le persone devono almeno dare segno di essere cambiate, per avere diritto a una seconda possibilità. Mio padre era sempre lo stesso, forse era addirittura peggiorato. Per lui esisteva solo la bambina perfetta, di Jennifer non gli importava.»
Ellen rimase in silenzio per qualche istante, in attesa del momento più opportuno per sganciare la bomba. Roberta aveva alzato gli occhi e la stava fissando, quando le confidò: «Ieri tuo padre è stato a Goldtown.»
«Cosa ne sai?»
«L'ho visto.»
«Come fai a conoscerlo?»
«Ero al bar insieme a Danny. Mi ha detto lui chi fosse, che gli era capitato di vedere qualche sua foto, in passato. Pensavo potesse essersi sbagliato, ma poi mi è stato riferito che è stato allo studio di Steve a ritirare delle foto, quindi mi sono convinta che Danny avesse ragione.»
«Oh, vedo che hai le tue fonti di informazione» ribatté Roberta. «Naturalmente non voglio indagare su quale dei tuoi due cavalieri ti abbia passato questa preziosa informazione, però un dubbio ce l'ho: che cosa te ne frega di mio padre?»
«Avevo capito che non ci andassi d'accordo, ma non pensavo fino al punto di non volerne nemmeno parlare» replicò Ellen. «È una persona così terribile?»
«È una persona che prova interesse per me perché ha scoperto che sono davvero Roberta e che non sono Jennifer. Hai fratelli o sorelle?»
«Una sorella più giovane.»
«Come ti sentiresti se tua sorella morisse e tuo padre ti dicesse "meno male che è morta lei e non tu, non avrei potuto sopportare che succedesse il contrario"? Ecco, questo è il concetto che mio padre sta lasciando passare. È così assurdo, per te, pensare che non voglia avere a che fare con lui?»
«L'hai visto, ieri?»
«Sì.»
«È venuto a cercarti in negozio?»
«È venuto a cercarmi a casa, prima che uscissi per venire al lavoro. L'ho mandato via. Però, aspetta, hai detto che è stato al bar da Patricia?»
Ellen annuì.
«Cercava proprio Patricia, ma Ray le ha detto che non c'era.»
Roberta si incupì.
«Che cazzo voleva da lei?»
«Penso che tuo padre e Patricia non si siano visti» la rassicurò Ellen. «È stato ieri in tarda mattinata, dubito che sia tornato al bar.»
«Lo spero. Non vorrei che Patricia lo conoscesse. Ho fatto il possibile per evitarlo quando stavamo insieme, figurarsi cosa potrebbe pensare di me adesso, se lo incontrasse.»
«Come sapeva che stavi insieme a lei?»
«Gliel'ho detto io. Non mi ha mai detto di volerla conoscere. Dava per scontato che non sarebbe successo.»

******

«Patricia May Lynch» ripeté John Stewart. «È di Goldtown?»
Roberta notò una certa esitazione nella sua voce, un po' come se udirne il nome lo spiazzasse.
«Sì, è di Goldtown, perché?»
«Lynch» mormorò suo padre, distogliendo lo sguardo. «Oh, capisco. Porta lo stesso cognome di una ragazza che morì molti anni fa. Me ne ricordo ancora, non so perché mi rimase impressa. Sembrava così giovane, quando vidi le sue foto sul giornale. Ricordo di avere pensato che fosse terribile morire così a quell'età, anche se non ricordo cosa successe. Forse un incidente?»
«Penso tu stia parlando di Lisa, la sorella maggiore di Patricia» rispose Roberta. «Fu un suicidio, non un incidente.»
«Patricia le somiglia?»
«Non lo so.»
«Non ti ha mai parlato della sorella, fatto vedere qualche sua fotografia?»
Roberta scosse la testa.
«Patricia non parla volentieri di quell'argomento. Anzi, diciamo che non ne parla per niente. Era una bambina, quando successe. Deve essere stato un trauma, per lei.»
«Un po' come per te» osservò John Stewart.
«Quale trauma?» replicò Roberta, preparandosi a recitare ancora una volta la stessa parte. «Io sono qui, sono viva, e anche Jennifer lo è. Le dirò di venire a trovarti, qualche volta.»
John sorrise.
«Non importa. Se ha da fare può rimanere a Goldtown. L'importante è che sia venuta tu. Ma dimmi, quella Patricia davvero non parla nemmeno con te della sua povera sorella? Quella ragazza l'hanno dimenticata proprio tutti?»
«Non parlare di qualcuno non significa sempre essersene dimenticati» rispose Roberta. «Credo che Patricia preferisca fingere che sua sorella non sia mai esistita. Non ha sue foto in giro, non pronuncia mai il suo nome, se non è costretta a farlo. Quando qualcuno gliela menziona, non è mai scortese e non si tira indietro, ma si capisce che preferirebbe cambiare argomento. È raro che qualcuno accenni a Lisa in sua presenza, quel poco che so l'ho scoperto da altri e non da lei. Patricia si è limitata a spiegarmi di non essere figlia unica, contrariamente a quanto credevo io, ma che aveva una sorella, in passato. Tutto qui, non ha mai aggiunto altro e io non ho insistito. Non c'era motivo per farlo.»
«No, certo che no» convenne suo padre. «Hai fatto bene e forse sta facendo bene anche Patricia a comportarsi così. Qualcuno potrebbe scambiarlo per disinteresse o freddezza, ma a me sembra una reazione naturale.»
Quelle parole, per pochi attimi, lo resero più umano agli occhi di Roberta. Per poco si lasciò ingannare, pronta poi a tornare alla realtà: John Stewart non era un uomo empatico, non lo era mai stato e non lo sarebbe stato mai.

******

Patricia entrò nel bar con un certo ritardo, pronta a scusarsi con Ray per l'accaduto. Non l'aveva nemmeno avvertito, era certa che non ne sarebbe stato molto soddisfatto. Si preparò a inventarsi qualche giustificazione, ma non fu necessario: Moore non sembrava avere fatto caso all'ora e appariva molto concentrato sul suo aspetto.
«Pat, che cos'hai fatto?!»
La fissava con gli occhi spalancati e Patricia non ne era sorpresa: di certo non si sarebbe mai aspettata di vederla con un taglio a caschetto con qualche riflesso blu elettrico, invece che con i suoi lunghissimi capelli neri.
Si sforzò di sorridere.
«Ho fatto quello che fanno le svampite presentate come donne cool nei telefilm.»
«Ovvero?»
«Dopo la fine di un fidanzamento, ho cambiato radicalmente taglio di capelli.»
Per un attimo ebbe il timore che Ray non credesse a quella versione dei fatti, ma andò tutto bene.
«Ti stanno d'incanto.»
«Sul serio?»
«Se io non avessi una compagna e a te piacessero gli uomini, non mi dispiacerebbe uscire con una come te» scherzò Ray. «Non fraintendermi, eri carina anche prima, ma ora sei davvero una gran figa.»
«Grazie.»
«Adesso, però, vai a cambiarti. Dovevo andare a casa venti minuti fa. Sbaglio o sei un po' in ritardo?»
Patricia gli strizzò un occhio.
«Sbaglio o il capo sono io? Quindi smettila di darmi ordini.»
Ray ribatté: «Suonava meglio "scusa per il ritardo e per non averti avvertito", ma me lo farò bastare.»
Senza aggiungere nulla, Patricia si allontanò e andò a indossare la divisa da cameriera. Non le restava altro che attendere che Ray andasse a casa e che giungesse un momento nel quale la clientela si fosse diradata per tornare in azione.
Il nuovo taglio di capelli faceva parte di un piano ben preciso, che non vedeva l'ora di attuare. Era certa di poterlo mettere in pratica: per quanto Roberta non facesse nulla per mettersi in contatto con lei, era impossibile che avesse già voltato pagina. Patricia era certa che non avrebbe rifiutato la sua proposta.
Passarono quasi tre quarti d'ora prima che arrivasse l'occasione di telefonarle. Fece il numero del negozio e attese, sperando che fosse Roberta a rispondere. Fu fortunata, era lei, la riconobbe dalla voce.
«Sono Patricia» si limitò ad affermare.
«Come stai?» le chiese Roberta.
Patricia cercò di essere credibile, mentre le diceva: «Mi manchi, mi manchi tanto.»
«Mi manchi anche tu.»
«Mi dispiace per quello che è successo.»
«A te? Dovrebbe dispiacere a me.»
Patricia confermò: «Sì, assolutamente, non sto dicendo che io abbia delle responsabilità. Sei tu quella che mi ha ingannata, anche se non volevi ingannare solo me.»
Roberta ammise: «Se potessi tornare indietro, mi comporterei in modo diverso. Non so cosa farei, ma non credo potrei rifare quello che ho fatto.»
«Mi fa piacere sentirtelo dire» ribatté Patricia, «Ma non ti ho chiamato per questo. Mi manchi, te l'ho detto, e vorrei che tutto potesse tornare prima.»
«Lo vorrei anch'io.»
«Però mi rendo conto che non sia possibile.»
«Allora perché mi hai telefonato?»
«Perché tornare indietro non è possibile, ma guardare avanti magari sì.»
Roberta osservò: «Credo faresti meglio a parlare chiaro. Cosa stai cercando di dirmi, esattamente?»
«Che la mia vita senza di te è vuota» rispose Patricia, «E che mi dispiace che ci siamo lasciate. Vorrei che tutto potesse sistemarsi, ma non con le tue regole, quanto piuttosto con le mie. Sarei disposta a guardare avanti, ma c'è una cosa che devi fare per me.»
Roberta non si oppose.
«Va bene.»
Patricia puntualizzò: «Potresti non esserne felice. Vedi, sono stanca di non sapere chi siano i tuoi genitori.»
«Vuoi conoscere mia madre?» azzardò Roberta. «Va bene.»
«Tua madre non ha mai fatto niente per mettersi in contatto con me, mentre Ray mi ha riferito che ieri mattina tuo padre è stato qui al bar a cercarmi» replicò Patricia. «È lui che voglio conoscere.»
Seguì un lungo silenzio.
«Ci stai?» chiese Patricia, approfittando del fatto che Roberta non avesse ancora risposto.
L'altra non era molto convinta.
«Perché proprio mio padre?»
«Perché è tuo padre.»
Roberta le ricordò: «Sarei più felice se non lo fosse.»
Patricia ammise: «Lo so, ma è venuto da me perché voleva incontrarmi. Mi dispiace non essere stata qui, quando c'era. Vorrei rimediare.»
«Non lo so» obiettò Roberta. «Non sono sicura che sia una buona idea.»
«Non ti chiedo di rispondermi adesso» mise in chiaro Patricia. «Puoi prenderti qualche giorno per pensarci, ma non farmi aspettare troppo a lungo. Non sei l'ultima donna rimasta sulla faccia della Terra. Non voglio perdere potenziali occasioni per correre dietro a te.»
Sapeva che quelle parole avrebbero fatto effetto. Sarebbe stata questione di poco tempo, ne era certa: messa alle strette, Roberta si sarebbe affrettata a farle conoscere John Stewart.

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Capitolo 31
*** La vendetta di Mabel - 29/ 30 Dicembre ***


[29 dicembre]
Un'altra volta era scesa la sera, un'altra giornata era terminata, con il suo ritmo banale e ordinario. Solo poche settimane separavano Goldtown dagli ultimi delitti, ma ancora una volta sembrava regnare la rassegnazione, come vent'anni prima. Nel mentre, Roberta passava in rassegna le tante domande senza risposta che le giravano per la testa.
Si sentiva vicina a un punto di svolta, quel punto al quale sfuggiva da ormai troppo tempo. Aveva spesso chiuso gli occhi per non vedere, arrivando alla conclusione che la sua esistenza non stesse seguendo un cammino prestabilito da altri. Si era sbagliata, ma l'aveva fatto in modo quasi consapevole, con l'obiettivo di scegliere la strada più facile. Infine, il giorno precedente, era stata messa di fronte alla realtà che aveva negato.
L'incontro con Ellen Jefferson, venuta all'improvviso a farle visita in negozio, era stato un campanello d'allarme. Quella donna aveva sempre avuto qualcosa in mente, fin da quando era ragazza. Roberta non sapeva se ammirare la dedizione con cui inseguiva il mistero di Goldtown in nome della ricerca della verità, oppure se a dettare quell'immensa volontà fosse in primo luogo una malata mania di protagonismo. Qualunque fosse la realtà, il fatto che si fosse scomodata di farle certi discorsi poteva significare molto. Cos'aveva scoperto Ellen? I sospetti che aveva erano simili a quelli che, di tanto in tanto, erano balenati in mente anche a Roberta? Ma allora, in tal caso, perché tirare in mezzo anche Patricia? Di certo non solo per conquistarsi la sua fiducia, mostrandosi interessata alla sua - forse definitivamente terminata - storia d'amore.
La telefonata di Patricia, arrivata sempre il giorno precedente, ma nel corso del pomeriggio, aveva contribuito a confondere ancora di più le acque. Il mistero di Goldtown era un puzzle e Roberta iniziava a sospettare che Patricia fosse la tessera più ambivalente.
Non sapeva cosa fare. Doveva chiudere i contatti con lei una volta per tutte, oppure sottostare al suo gioco e convincere John Stewart a recarsi al suo cospetto?
Guardò l'ora, non era tardi, erano solo le dieci e un quarto. Poteva ancora chiamare qualcuno che l'aiutasse a prendere una decisione. C'era solo una persona che potesse darle una mano in quel momento senza sospettare cosa le passasse davvero per la testa. Per fortuna Jack rispose, anche se solo al quinto squillo.
«Roberta, come mai a quest'ora? Se volevi propormi di vederci, potevi chiamarmi un po' prima.»
Roberta avvampò.
«È questo che pensi di me? Che ti chiamo solo se ho voglia di scopare?»
«Scusa, avevo frainteso» ribatté Jack, «E poi anch'io ti ho chiamato solo per questo, negli ultimi tempi.»
Roberta si chiese per un attimo se fosse stato l'ennesimo errore, se potesse precluderle un futuro insieme a Patricia. No, era assurdo pensarlo. Patricia l'aveva lasciata, era libera di frequentare anche così intimamente altre persone. Se un giorno Patricia ci avesse ripensato, prima che fosse troppo tardi, avrebbe dovuto accettare quanto accaduto durante il loro periodo di separazione.
Non era di quello, tuttavia, di cui voleva parlare con Jack, quindi si affrettò a confidargli: «Patricia mi ha chiesto di rivederci.»
«Oh, sono contento per te» rispose Jack, anche se il suo tono di voce suggeriva altro.
Per caso si era fatto delle illusioni? Roberta sperava di no, in fondo avevano messo in chiaro l'uno con l'altra che non aveva senso cercare di impegnarsi quando nessuno dei due era pronto per passare a una nuova vera e propria relazione.
«Io non so se esserne contenta» ammise Roberta. «Dice che vuole conoscere mio padre e che potrebbe essere l'unico modo che ho per sperare di tornare insieme a lei.»
«Presentaglielo.»
«Non parli sul serio.»
«Perché no?» obiettò Jack. «Va bene, non sarà un padre modello o un uomo eccezionale, ma perché questa idea ti fa così tanta paura? Ti vergogni così tanto di lui?»
Roberta sospirò.
«È più complicato di quanto tu possa immaginare.»
Jack azzardò: «Fai quello che avrebbe fatto Jennifer al posto tuo.»
«Jennifer?» ripeté Roberta. «Aveva solo otto anni, come poteva capirci qualcosa?»
«Non quella Jennifer» replicò Jack, «Quella che abbiamo conosciuto tutti noi.»
«Quella che fingeva di essere Jennifer?»
«Sì.»
«Non capisco.»
Jack puntualizzò: «Sei riuscita per anni e anni a fingere di essere un'altra persona. Puoi benissimo fingere di non sentirti a disagio se per un'ora o due ti ritrovi con Patricia e tuo padre sotto lo stesso tetto. E poi, cosa ti ha detto esattamente? Ha parlato di un incontro formale?»
«No.»
«Allora portalo al bar, magari la sera dell'ultimo dell'anno, così è sicuro che non ci sarete voi da soli.»
Roberta fu costretta ad ammettere che era un'ottima idea.
«È geniale.»
«Lo farai?»
«Non lo so.»
«Se è così geniale, non puoi lasciarti sfuggire questa chance.»
«Ci proverò» confermò Roberta. «Domani provo a sentire mio padre, gli chiedo se è d'accordo.»
Dentro di sé, sentiva già che non le avrebbe detto di no, quindi a maggior ragione non avrebbe dovuto nemmeno provarci. Non ce la faceva, però, a rinunciare a un simile piano. Amava Patricia, ma aveva bisogno di capire. Era stata disposta a lasciarla andare, pur di non rivelare i propri atroci sospetti, ma il fatto che volesse incontrare John Stewart cambiava tutto.
«Quella sera ci sarò. Non...» Jack si interruppe. «Scusa, ma hanno appena suonato alla porta. Credo che sia Ellen, mi aveva detto che forse sarebbe passata.»
Roberta lo lasciò andare, sperando che quell'ennesimo elemento non cambiasse le carte in tavola. La Jefferson era sempre ovunque e ciò iniziava a stancare.



[30 dicembre]
Tutto procedeva come avevano ipotizzato la sera precedente, quando Ellen si era recata a casa sua. In quel momento Jack era al telefono con Roberta e, quando aveva riferito a Ellen l'argomento della loro conversazione, la sua amica si era convinta definitivamente a mettere da parte ogni dubbio. Non era entrata nel dettaglio, ma gli aveva riferito di nutrire fortissimi sospetti a proposito dell'identità del killer di Goldtown. Alla luce degli ultimi sviluppi, aveva aggiunto, era doveroso non tenere più solo per sé il "contenuto" delle proprie ricerche.
Jack non sapeva se essere uno dei pochi eletti a cui Ellen intendeva raccontare la presunta verità dovesse essere considerato un onore oppure una maledizione, ma all'orario stabilito si stava recando al luogo dell'appuntamento: lo studio fotografico Blackstone all'ora di chiusura.
Trovò Ellen ad accoglierlo, che subito lo ammonì: «Devi smetterla di fare tardi, stavamo aspettando solo te.»
Jack controllò l'orario.
«Credo di avere tardato non più di quaranta secondi.»
Ellen non aggiunse nulla e Steve chiuse la porta a chiave, prima di raggiungerlo sul retro, dove Kevin li stava attendendo.
«Scusami, Jack, se ti lascio in piedi, ma non ho tante sedie» disse, a quel punto. «Dobbiamo accontentarci di quello che abbiamo.»
Jack domandò: «Come mai ci siamo trovati qui in questo stanzino?»
Fu Ellen a rispondergli: «Dobbiamo cercare di non dare nell'occhio e questa era una soluzione sicura.»
«Cosa intendi per sicura? Che nessuno realizzerà perché siamo qui, quindi non saremo uccisi?»
«Non è il momento di fare del dark humor.»
Jack precisò: «Non è dark humor. Hai detto tu stessa che chiunque potrebbe rischiare grosso, ma soprattutto noi che conoscevamo praticamente tutte le vittime, o poco ci manca.»
Kevin interruppe il loro scambio di battute.
«Se non vi scoccia, vorrei capirci qualcosa. Perché siamo qui?» Si rivolse a Ellen. «Tu sai, noi non sappiamo, potresti cortesemente illuminarci?»
Ellen annuì.
«È già da diverse settimane che sono riuscita a identificare un candidato perfetto per il ruolo di insospettabile killer di Goldtown. Non ve ne ho parlato, perché non volevo mettervi a conoscenza di quelli che sembravano sospetti senza fondamento. Adesso, però, le cose sono cambiate. È giusto che sappiate a quali conclusioni sono arrivata. Anche tu, Steve, nonostante tu sappia il nome dell'uomo che bisogna fermare.»
Kevin si girò di scatto verso Steve.
«Tu sai chi è il killer?»
«So quello che mi ha detto Ellen qualche settimana fa.»
«E hai fatto finta di niente per tutto questo tempo?»
«Cos'altro potevo fare? Accusare un uomo che non conosco senza né prove né indizi?»
Kevin gli ricordò: «Quell'uomo è pericoloso.»
«Lo so benissimo» replicò Steve, «Ma non ho alcun fondamento per accusarlo. Ellen, invece, a quanto pare ha qualcosa di utile tra le mani. Cosa ne dici di lasciarla parlare?»
Jack li fissò, uno dopo l'altro, chiedendosi se non fosse stato meglio rimanere all'oscuro. Ormai, tuttavia, era troppo tardi, non gli restava altro da fare che ascoltare le parole di Ellen.
«Ciò che mi ha sempre incuriosito di questo caso è la sua enorme complessità, ma anche il fatto di non avere mai del tutto chiaro il punto di partenza. Ci sono delitti che sembrano del tutto scollegati gli uni dagli altri e, per quanto diverse vittime siano state accoltellate a morte, altre sono state eliminate con modalità molto diverse. Il killer di Goldtown sembra non avere una vera e propria logica, ma è proprio questa apparente mancanza di logica che l'ha protetto per così tanti anni. Cosa c'entra una bambina uccisa con un colpo alla testa con una serie di ragazzi e ragazze accoltellati? Cosa c'entra un incidente stradale in cui muoiono due persone? Niente, in apparenza. Eppure c'è un filo comune, e nello specifico, a mio parere, da un certo momento in poi l'assassino non ha potuto fare altro che eliminare persone a oltranza per proteggere i propri segreti e cercare di spaventare quelle che non sentiva il bisogno di sopprimere, a volte arrivando a uccidere di nuovo senza che la vittima fosse un vero pericolo.»
«Proteggere cosa?» obiettò Jack. «Come dici tu, è sempre riuscito a nascondersi grazie alla mancanza di collegamento tra un delitto e l'altro.»
«Alcuni delitti restavano fuori, ma non tutto si poteva nascondere tutto. Dal 2002 in poi, il killer deve avere tenuto d'occhio le persone che potevano costituire un pericolo per lui. Non era spaventato da indagini ufficiali o indagini giornalistiche, a meno che non ci fossero punti di contatto seri tra giornalisti e potenziali testimoni. Quindi ecco che, a un certo punto, si è sbarazzato in un colpo solo di Dylan Carter, marito di Lydia, e di Meredith. Poi deve avere tenuto d'occhio anche me. Forse lo spaventava l'idea che io potessi essere collegata ai delitti di vent'anni fa, quindi ha deciso di inventarsi un piano più elaborato: andare a caccia di persone che nutrissero sospetti infondati su persone innocenti. Kimberly credeva che io avessi ucciso Mark ed era facile da plagiare. Maryanne ce l'aveva a morte con Danny e avrebbe fatto qualsiasi cosa per denigrarlo. Solo, così facendo si riducevano due persone scomode. Si è sbarazzato di loro in due modi diversi, entrambi piuttosto teatrali. Erano persone che non gli avrebbero provocato nessun tipo di pericolo o danno, se non le avesse cercate in prima persona.»
Kevin intervenne: «Ciò che dici è interessante, ma in che modo il killer poteva sapere delle polemiche tra Maryanne e Danny? Ha pedinato Maryanne - che niente aveva a che vedere con i delitti del 2002 - per tutti questi anni?»
«La tua è una domanda interessante» ammise Ellen, «Ma ti risponderò in un secondo momento. Vorrei comunque far notare a tutti come, appunto, ci siano tante cose che ci siamo chiesti senza mai avere risposta. Ammettendo che Dylan e Meredith siano stati uccisi, tutto può incastrarsi. Anche la faccenda di Kimberly può incastrarsi: era stata la ragazza di Mark, anni prima della sua morte, e la notte del delitto si trovava a Goldtown. L'assassino poteva esserne al corrente. Ma Maryanne? Il suo odio nei confronti di Danny e di chi gli stava intorno? Questo era in apparenza poco spiegabile, mentre invece i delitti di novembre 2002 una spiegazione ce l'avevano. Roger Callahan, il padre naturale di Linda, su mia ripetuta insistenza ha ammesso di avere ingaggiato Will Mason affinché cercasse di scoprire chi avesse ucciso Linda. Mark può essere stato scambiato per la persona che pagava Will, mentre Cindy era una sua, diciamo, informatrice. Per tre vittime su tre, quindi, avremmo un movente. Da novembre 2002 a oggi, l'unico tassello a cui non diamo una spiegazione, per il momento, è Maryanne.»
Jack ascoltò poi Ellen fare un riassunto delle circostanze che potevano avere portato all'omicidio di Linda: un potenziale contatto con un uomo che credeva suo padre, un appuntamento preso fingendosi la madre Melanie e, di conseguenza, il delitto. L'uomo che l'aveva assassinata doveva essere preoccupato da Melanie, non dalla figlia. Per tale ragione, pur avendo ucciso la persona sbagliata, doveva avere dedotto che, avendolo la ragazzina ingannato sulla propria identità, la madre fosse ignara dei loro contatti e, soprattutto, non era davvero fonte di preoccupazione.
«Quindi» azzardò Jack, «A grandi linee anche il delitto di Linda potrebbe avere una spiegazione, per quanto contorta.»
Ellen annuì.
«Esatto, anche se la spiegazione, a mio parere, getta le basi sulla violenza subita da Melanie Miller. Purtroppo non sono riuscita a rintracciarla, né sono sicura che vorrebbe avere a che fare con me, ma mi sentirei di ricostruire come possano essere andate le cose. Tenetevi in mente che Melanie è stata narcotizzata, prima dello stupro. Da uno sconosciuto? Da qualcuno che conosceva? Entrambe le ipotesi hanno senso. L'ipotesi più plausibile è, a mio vedere, che il violentatore fosse uno sconosciuto, il quale, comunque, in seguito ha iniziato a temere di potere essere riconosciuto. Questo spiegherebbe l'aggessione a Melanie a scuola, forse per spaventarla, dopo la quale ha poi ucciso una delle gemelle Robinson. Questo delitto è un'altra grande domanda: perché uccidere una bambina, invece di scappare e basta? Però ci torneremo poi. Torniamo al nostro violentatore: sembra plausibile che, a un certo punto, nel 2002, si metta in contatto con Linda, scambiandola per Melanie, e si dica convinto di essere il padre della ragazzina. Noi sappiamo che lo stupratore non era il padre di Linda, mentre lui non ne era al corrente. Ma perché contattarla? Perché un improvviso desiderio di paternità così forte da pensare di conoscere Linda, a costo di rischiare di essere riconosciuto addirittura come l'assassino della Robinson, che per praticità chiamerò Roberta? In questo momento si prende un rischio enorme. Anche a questo, tuttavia, ci arriveremo in un secondo momento. Prima parliamo di Lisa Lynch.»
Jack spalancò gli occhi.
«Lisa Lynch?»
Steve intervenne: «La sorella di Patricia.»
Jack chiarì: «So benissimo chi fosse, ma cosa c'entra con questa storia?»
Ellen gli confidò: «Esiste la possibilità che lei stessa sia stata sedata e violentata, nei primissimi anni '90, e che il suo suicidio sia in realtà un delitto. L'ipotesi è che Lisa, diversamente da Melanie, conoscesse l'uomo che l'aveva violentata. Infatti sono venuta a sapere che, per un breve periodo, aveva lavorato insieme all'uomo che, a mio parere, ha il perfetto profilo dell'assassino. Esiste anche l'ipotesi che la stessa Patricia, molti anni dopo, possa avere iniziato a nutrire dei sospetti su quell'uomo.»
Kevin osservò: «Tutti questi elementi non possono portare a un nome specifico. Essenzialmente stai dicendo che Patricia potrebbe sapere chi ha ucciso Lisa, che quest'uomo aveva una buona ragione per uccidere "Roberta" Robinson lasciando in vita Melanie, che avrebbe rischiato di farsi smascherare pur di conoscere una sua potenziale figlia e che poteva essere al corrente dei dissapori tra Danny e Maryanne Sherman.»
«Oserei aggiungere che quest'uomo potrebbe avere narcotizzato e violentato almeno un'altra donna, più o meno nello stesso periodo in cui l'ha fatto con Melanie» lo informò Ellen, «E che quella violenza potrebbe avere provocato una gravidanza. Ci ho iniziato a pensare qualche tipo fa, a causa di qualcosa che Steve ha detto per caso.» Si rivolse proprio a lui. «Parlavamo di Linda e tu hai detto qualcosa sul killer che non si fermava nemmeno di fronte all'idea di uccidere la propria figlia. Io ti ho risposto che, anche se Linda fosse stata sua figlia, non l'aveva fatto di proposito... e poi ho realizzato. All'improvviso c'era una spiegazione a tutto, anche a quel dettaglio senza senso, di Melanie lasciata in vita e "Roberta" uccisa. La maestra non poteva riconoscere quell'uomo mascherato, la bambina invece sì... perché quell'uomo era suo padre, John Stewart, un uomo che, di punto in bianco, era entrato nella vita delle due figlie al punto che la madre aveva cercato di frenarlo riuscendo a tutelarne almeno una. Stewart ha ucciso deliberatamente quella che credeva la sua amatissima - almeno a parole - figlia Roberta perché poteva incastrarlo e, quando Margaret Robinson ha mandato a Goldtown quella che a suo tempo abbiamo conosciuto come Jennifer, ha capito che doveva rimanere lontano da lei, o almeno agire nell'ombra. Allora forse ha scoperto dell'esistenza di Linda e ha pensato fosse più facile puntare su quella potenziale figlia.»
Jack non riusciva a credere a una storia simile, ma al contempo nemmeno a replicare.
Kevin, frattanto, osservò: «Per quanto tutto questo sia folle, il padre di "Jennifer" poteva sapere dei problemi tra Maryanne e il migliore amico di sua figlia.»
«Esattamente» rispose Ellen, «Ma c'era un ultimo elemento che non sapevo come incastrare. Così ho parlato con la Robinson vivente e le ho chiesto come fosse nata la sua relazione con Patricia, scoprendo che è stata la Lynch a farsi avanti. Poi, ieri sera, ho scoperto da Jack dell'insistenza di Patricia affinché Roberta le faccia conoscere John Stewart, che a sua volta è andato a cercarla. Ho il sospetto che Patricia si sia avvicinata a Roberta, almeno inizialmente, perché alla ricerca dell'assassino di sua sorella. Non escludo che si sia veramente innamorata di Roberta, dopo avere scoperto che non ha mai avuto un grande rapporto con il padre e difficilmente sapeva dei suoi trascorsi, ma l'interesse iniziale doveva essere dettato da altro. Solo, c'è un problema. Tu, Jack, sicuramente sai quale.»
Era ancora un po' spiazzato, ma ci tenne a ipotizzare: «Che forse domani sera Patricia e John Stewart si vedranno?»
«Proprio questo» confermò Ellen, «E potrebbe succedere qualsiasi cosa. Dobbiamo capire come comportarci, trovare un modo perché nessuno si metta in pericolo.»
«E se fosse tutta una tua idea?» obiettò Jack. «Hai a malapena degli indizi, in mano, o sbaglio?»
«Non sbagli del tutto» ammise Ellen, «Ma è pur sempre meglio cercare di tutelarsi anche per nulla, piuttosto che farsi cogliere di sorpresa.»

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Capitolo 32
*** La vendetta di Mabel - 31 Dicembre (1/3) ***


[31 dicembre]
Steve era già pronto per uscire, quando sentì suonare il campanello. Non aspettava nessuno, quindi rimase spiazzato per qualche istante. Prima ancora di arrivare alla porta udì una voce familiare che, dall'esterno, lo chiamava.
«Steve, mi apri? Lo so che ci sei.»
Non aveva idea di cosa volesse sua cugina da lui, ma di solito Lydia era una persona di poche parole. Andò ad aprire.
«A cosa devo l'onore della tua presenza?»
«Vieni da noi?»
«Da voi... chi? Dove e quando?»
«Da me» chiarì Lydia.
Steve non si sentì abbastanza illuminato da quella risposta.
«Quando?»
«Adesso. Per festeggiare il capodanno insieme. Ci sono anche i tuoi genitori.»
Steve scosse la testa.
«Grazie per l'invito, ma preferisco declinare. Fai gli auguri di buon anno a tutti da parte mia.»
Lydia sospirò.
«Stai diventando uno di quelli che pensano che qualunque festività sia sorpassata e che bisognerebbe evitare di festeggiare? Insomma, uno di quegli intellettuali che ci scrivono un libro in proposito nella speranza di essere invitati in TV e di vivere di rendita?»
«No, sto diventando uno che ha un altro impegno» ribatté Steve. «Devo...» Valutò cosa dire, con esattezza, ma gli venne in mente una spiegazione molto semplice. «Devo incontrarmi con una persona, una che vorrei facesse parte della mia vita ogni giorno, non solo in occasione di festività e ricorrenze.»
Lydia azzardò: «Ellen?»
Steve confermò: «Ellen.»
«Fai attenzione» gli suggerì Lydia. «Janet dice che c'è ancora del tenero tra Ellen e Kevin.»
«Sono un uomo adulto e so badare a me stesso» replicò Steve. «Non ho quindici anni, ne ho trentotto. Per ora, domani saranno trentanove.»
«Appunto, hai quasi trentanove anni, alla tua età dovresti smettere di correre dietro a una donna che non fa che saltare da te a Kevin e poi tornare da te.»
«Non ti ho mai detto che io ed Ellen ci incontriamo in qualità di coppia o di amanti. Per quanto ne sai tu, potremmo vederci semplicemente per bere qualcosa insieme o per giocare a carte. Oppure per guardare uno di quei programmi televisivi di capodanno in cui invitano ogni anno gli stessi ospiti e te li presentano come una novità assoluta.»
«Va bene, fai come vuoi, ma sappi che non riesco a capirti.»
Steve le strizzò un occhio.
«Me ne farò una ragione.»
Anche se Lydia non lo comprendeva, lo lasciò andare. Meglio così: non aveva tempo da perdere, anche se non aveva idea di cosa potesse accadere. Avrebbe rivisto John Stewart, proprio come quando il padre di Roberta era andato a portargli un rullino di fotografie analogiche da sviluppare, niente che fosse degno di nota, banali scatti di una gita in una città d'arte, forse solo una scusa per passare a Goldtown. L'avrebbe rivisto e non aveva idea di quale potesse essere l'evoluzione di quella serata.

 

Kevin si diresse verso la propria auto, parcheggiata nel cortile del palazzo in cui abitava, quando vide Janet che lo attendeva accanto alla macchina. Non aveva programmato di incontrarla e, anzi, non riusciva a spiegarsi la ragione della sua presenza.
«Janet, perché sei qui?»
«Che accoglienza calorosa. Sembra quasi che ti dia fastidio vedermi.»
Kevin la rassicurò: «Non mi dà fastidio vederti, solo, stavo per andare via e non ti aspettavo. E poi, posso chiederti perché sei qui in cortile? Perché non sei venuta a suonare alla porta?»
«Stavo per farlo, ma ho incontrato tuo fratello che veniva fuori» gli spiegò Janet. «Mi ha detto che non aveva capito che dovessi vederti con me e che ci augurava una buona serata. Ne ho dedotto che dovevi vederti con un'altra donna e che, se fossi venuta su, mi avresti mandata via con una scusa. Quindi sono rimasta ad aspettarti per cercare di farti cambiare idea.»
«Hai fatto malissimo» replicò Kevin, «Perché ho da fare e mi tocca essere scortese. Non posso dedicarti del tempo, stasera, mi dispiace.»
«Dovresti accettare la realtà.»
«Quale realtà?»
«Ti vedo un po' teso, rilassati. Non voglio inventarmi che io e te siamo fatti per stare insieme o porcherie di questo tipo. Voglio solo ricordarti che quello che puoi avere da Ellen puoi averlo anche da me. È lei che devi vedere, vero?»
Kevin puntualizzò: «Non ho un appuntamento romantico stasera e, anzi, ti sarei molto grato se tu te ne tornassi a casa e mi lasciassi andare. Ho una cosa importante da fare.»
Janet ridacchiò.
«Qualcosa di più importante di me?»
Kevin sospirò.
«E va bene, non te lo volevo dire, ma è giusto che tu lo sappia. Potrebbe succedere qualcosa di molto spiacevole, stasera, e una persona pericolosa potrebbe essere non solo in giro per Goldtown, ma anche molto vicina a noi. Dobbiamo impedire che accada qualcosa di brutto.»
Janet spalancò gli occhi.
«Parli del killer?»
«Sì.»
«Ellen e l'altra impicciona che fa domande a mezza Goldtown sanno chi è?»
«Forse.»
«Wow! Qualunque cosa tu voglia fare, portami con te!»
«Non se ne parla.»
«Quell'uomo ha ucciso la mia migliore amica. Voglio sapere tutto.»
Kevin si arrese: «Come vuoi, ma glielo spieghi tu, agli altri, che mi hai praticamente costretto a portarti con me.»
«Spiego tutto quello che vuoi a chiunque, basta che mi porti con te» rispose Janet. «Dove dobbiamo andare?»
«Al bar.»
«Come al bar?»
«Sì, da Patricia» confermò Kevin. «Se non ti sembra abbastanza interessante, puoi sempre tornare a casa.»
Janet precisò: «Non ti ho chiesto di venire per fare un'esperienza interessante. Quel bastardo ha ucciso tanta gente e avrebbe potuto uccidere anche me. Voglio guardarlo negli occhi, cercare di capire che cosa gli passi per la testa.»
«Dubito che lo capirai» concluse Kevin, «Ma sali in macchina. Dobbiamo andare.»

 

Ellen entrò nel bar, seguita da Jack. Si guardarono intorno, per vedere se Roberta e John Stewart fossero già arrivati. Non c'erano e, a peggiorare la situazione, sembrava esserci il solo Ray, nonostante di solito non svolgesse turni serali, mentre non vi era traccia di Patricia.
«Merda» borbottò Ellen. «Siamo fottuti.»
Jack comprese immediatamente a cosa si riferisse e cercò di rassicurarla.
«Non è detto che siano da qualche altra parte. Magari la cosa è saltata all'ultimo.»
«Sei stato tu a dirmi che Roberta ti aveva confermato che l'incontro ci sarebbe stato» replicò Ellen. «A che cosa devo pensare? Che abbia cambiato idea all'ultimo secondo? Mi dispiace, ma mi è più facile pensare che abbiano deciso di vedersi, ma non qui.» Tornò ad aprire la porta. «Vieni un attimo fuori, aspettiamo che arrivino gli altri.»
Jack la seguì senza replicare.
Ellen si sforzò di riflettere sul da farsi, ma non le veniva in mente nulla che potesse avere senso. Sapeva di potere fare poco, ma vedere Stewart, Roberta e Patricia le avrebbe dato un senso di sicurezza che, in loro assenza, non poteva inventarsi. Quell'uomo era pericoloso, ne era certa, e poteva essere ovunque. Aveva già ucciso una delle sue figlie, probabilmente non avrebbe esitato nemmeno a sbarazzarsi dell'altra, se l'avesse ritenuto necessario.
«Forse faresti meglio a chiamare Roberta e a chiederle dove sia» suggerì Ellen. «Non possiamo permettere che succeda qualcosa a lei o a Patricia.»
«E con quale scusa dovrei chiamarla?» obiettò Jack. «Roberta mi ha detto cosa doveva fare stasera, non si aspetta certo una mia telefonata.»
«Hai ragione» convenne Ellen, «Ma non ti sto chiedendo di telefonarle e di dirle che suo padre è il killer di Goldtown e, di conseguenza, sia lei sia Patricia sono in pericolo.»
«La tua sicurezza mi sembra esagerata» obiettò Jack. «Non possiamo sapere per certo che...»
Ellen lo interruppe: «Quell'uomo ha stuprato almeno tre donne, ha ucciso la sua stessa figlia e altre nove persone. Che dubbi hai ancora? Ti sembra così difficile che la tua amica Roberta possa essere stata concepita da un simile depravato? O sei un sostenitore della presunzione di innocenza anche quando tutto porta a considerarlo colpevole?»
Jack insisté: «Sarei felice anch'io di avere un colpevole certo, qualcuno che possa essere definitivamente fermato. Però deve esserci la certezza. Non fraintendermi, ammiro la tua ricostruzione, ma si basa su ipotesi e anche belle grosse. Per esempio, sulla base del fatto che Melanie Miller è stata vittima di violenza sessuale, hai deciso di sana pianta che Jennifer e Roberta sono il frutto di uno stupro. Inoltre non ci sono prove, se non un racconto di fantasia, che la stessa Lisa Lynch sia stata violentata, né che sia stata uccisa. Non avrei problemi a credere alla tua storia, se ci fossero elementi certi o prove, ma ho l'impressione che tu stia commettendo il mio stesso errore.»
«Quale?»
«Una sera di vent'anni fa ho acceso il televideo, ho letto che una partita di calcio era stata decisa da un goal al novantanovesimo minuto, nel primo tempo supplementare. Ho dato per scontato che, se erano iniziati i tempi supplementari, dovevano anche essere finiti. L'ho fatto perché non mi era venuto minimamente in mente di accertarmi di quali fossero le regole che venivano applicate. Adesso ho l'impressione che tu stia facendo il mio stesso sbaglio. Ho immaginato una partita sulla base del goal di Harvey Lee. Tu stai immaginando Lisa Lynch vittima di un crimine sulla base della trama di un racconto di cui Ray ti ha parlato.»
«Mi stai dicendo che Ray può avere mentito su quel racconto?»
«No, ti sto ricordando che Ray ti ha riferito la trama di un racconto. Il fatto che tu, personalmente, in qualità di giornalista, scriva di eventi accaduti nella realtà, non significa che Lisa Lynch facesse lo stesso. Quel racconto potrebbe essere un'opera di fantasia, oppure ispirato a fatti accaduti ad altre persone. Hai verificato tante cose, dici. Hai mai verificato se Lisa conoscesse Melanie Miller?»
Ellen scosse la testa.
«Non c'erano ragioni per verificarlo. In più non capisco, perché vuoi difendere John Stewart a tutti i costi? Devo insinuare che tu stia dalla sua parte? Che per te stuprare e uccidere sia un comportamento da tollerare, se a farlo è il padre dell'amica che ti scopi?»
«Non conosco John Stewart e, se fosse colpevole di ciò di cui lo accusi, sarei il primo a dire che deve pagare per quello che ha fatto» replicò Jack, «Ma temo che la tua indagine ti stia sfuggendo di mano. Sei arrivata a dare per scontati dei crimini che potrebbero non essere mai accaduti, pur di avere un colpevole, e hai cucito le tue congetture a misura di John Stewart. Su che base, poi? Sulla convinzione che, siccome è stato un pessimo padre, ha abbandonato le figlie prima della loro nascita e non è mai stato in grado di amarle degnamente, allora deve per forza essere un criminale?»
«Non capisci» obiettò Ellen. «Non puoi capire. Tutto fila, tutti gli elementi si sono incastrati, è una soluzione perfetta...»
«Appunto» concluse Jack. «È una soluzione troppo perfetta. Se fosse tutto così semplice, come avrebbe fatto a nascondersi per così tanto tempo? C'è qualcosa che ti sta sfuggendo, forse.»

 

Steve era appena salito in macchina, quando il suo cellulare iniziò a squillare. Chiuse la portiera con la sicura e guardò chi fosse a cercarlo. Con una certa sorpresa, vide che si trattava del cellulare che utilizzava per lavoro, che occasionalmente aveva usato per contattarlo.
Fece appena in tempo a rispondere, ma non ebbe modo di parlare con lei: Ellen aveva già riattaccato. Fu tentato di ricontattarla, ma non ce ne fu bisogno. Gli arrivò un messaggio.
"Puoi venire a casa mia subito? Ti devo parlare, saremo soli. Non chiamarmi sul mio numero privato, ti aspetto qui."
Era una richiesta che Steve non si aspettava, ma non c'era ragione per non fare ciò che Ellen gli stava chiedendo. Non aveva idea di cosa potesse avere in mente, ma sapeva che sarebbero davvero stati: Janice si era presa una breve vacanza, in quei giorni.
"Va bene, cinque minuti e arrivo" le scrisse, preparandosi ad avviare il motore.
Non ne ebbe il tempo: qualcuno si mise a bussare al finestrino.
Steve spalancò la portiera, nel vedere lei, l'ultima persona che avrebbe voluto incontrare in quel momento.
«Phyllis, che cazzo ci fai qui?»
«Volevo sapere come stavi» rispose la sua ex fidanzata. «Tutto bene?»
«Tutto bene un cavolo!» sbottò Steve. «Sto andando a casa di Ellen, mi ha invitato da lei, lasciami in pace!»
«Complimenti, allora» ribatté Phyllis. «Non mi aspettavo che potesse finire così, che avrebbe scelto te.»
Steve la ignorò.
«Fammi andare via, non ho tempo da perdere.»
«Già, potrebbe cambiare idea.»
«Fottiti, Phyllis.»
Steve richiuse la portiera e controllò il cellulare. Ellen gli aveva scritto di nuovo e il contenuto del messaggio era spiazzante.
"Ti aspetto. Ti amo tanto."
Per un attimo si chiese se fosse ubriaca, poi smise di farsi domande. Partì, notando Phyllis che trafficava con il telefono, un attimo prima che sparisse dalla sua visuale.

 

Kevin sentì lo smartphone che gli vibrava in tasca proprio mentre scendeva dalla macchina. Era un messaggio o una notifica, ma non ritenne opportuno controllare davanti a Janet. Si stava già pentendo di averla portata con sé, specie nel momento in cui intravide Ellen e Jack davanti all'entrata del bar.
Li raggiunsero e, prima che Kevin potesse chiedere loro qualcosa, fu Janet a osservare: «C'è un gran freddo, come mai non siete andati dentro?»
Sia Jack sia Ellen lanciarono a Kevin strane occhiate.
Ellen gli chiese: «Come mai non sei venuto da solo?»
«Ho insistito io» mise in chiaro Janet. «Anzi, mi dispiace per essermi precipitata qui. So che state dando la caccia a un criminale, ma Kevin non ha voluto dirmi altro.»
«E non avrebbe dovuto dirti nemmeno quello» replicò Ellen. Si rivolse a Kevin: «Hai fatto un grave errore. Evidentemente tutti ci tenete a fare la cosa sbagliata, stasera. Tu che porti Janet, Jack che vuole stroncare le mie ricostruzioni a tutti i costi...»
Era palese la presenza di una polemica pregressa, da come Jack puntualizzò: «Non voglio stroncare nulla, ti sto solo facendo notare che sei ferma su delle convinzioni che potrebbero non avere un riscontro reale.»
Ellen obiettò: «Stai solo affermando che John Stewart non è colpevole perché non l'hai visto di persona uccidere.»
«John Stewart?» ripeté Janet. «Parente di Roberta?»
Kevin avrebbe voluto risponderle, ma non era il caso, preferiva seguire lo scambio tra Ellen e Jack.
«Non hai prove che sia colpevole!»
«E tu non hai prove che sia innocente!»
Jack le fece notare: «Di solito bisogna provare la colpevolezza di qualcuno, non la sua innocenza. Un racconto di fantasia scritto da Lisa Lynch non significa che Lisa Lynch sia stata stuprata da John Stewart - scelto come colpevole in quanto suo ex collega di lavoro - e di conseguenza uccisa. Ti stai comportando esattamente come la gente che accusava Danny di avere ucciso Maryanne Sherman, l'unica differenza è che ti sei andata a cercare un colpevole che abbia la reputazione di poco rispettabile.»
«Il nostro uomo ha aggredito Melanie Miller lasciandola in vita, mentre ha ucciso "Roberta" Robinson quando l'ha colto sul fatto» ribadì Ellen. «Per quale motivo, se non perché la bambina poteva riconoscerlo e la maestra no? Mi pare scontato che...»
Jack la interruppe: «No, non è scontato per niente. Il killer finora si è nascosto perché ha saputo rimescolare le carte. Che senso ha andare ad aggredire una persona senza ucciderla, quando poi si dimostra di potere uccidere a sangue freddo una creatura innocente? E se l'obiettivo fosse stata la bambina? Potrebbe avere assalito Melanie Miller per arrivare alla sua vera vittima.»
«Ti stai limitando a dire il contrario di quello che dico io» lo accusò Ellen, «Solo perché non accetti l'idea che Roberta sia figlia di un assassino.»
«Sto dicendo il contrario di quello che dici tu per farti capire che stai dando per scontato che le tue teorie siano esatte» replicò Jack, «Senza considerare minimamente il fatto che spesso siano solo teorie. Formuli ipotesi, le esponi e poi aspetti un pesce che abbocchi. Però, magari, ad abboccare sei tu, e solo perché vuoi una verità a tutti i costi. Ti guardi bene dal cercare le persone che potrebbero smentire le teorie che ti fanno comodo. Ti sei letteralmente inventata che Margaret Robinson sia rimasta incinta delle gemelle durante uno stupro, ma non sei andata a cercarla per chiederle conferma.»
«Non lo avrebbe mai ammesso, se ha permesso a John Stewart di continuare a fare parte della vita sua e di quella delle figlie.»
«Non lo avrebbe ammesso, quindi consideriamola un'ammissione. È così che lavori, di solito? Dando la caccia solo a ciò che ti fa comodo per ottenere consensi? Senza offesa, non sei tanto diversa dagli autoproclamati esperti che affollano i salotti televisivi.»
Janet li esortò: «Calmatevi. Piuttosto, aiutatemi a capire. E soprattutto, perché non entriamo?»
Kevin sentì il cellulare vibrare un'altra volta. Approfittò della confusione per prenderlo fuori. Phyllis gli aveva scritto diversi messaggi, il cui contenuto gli appariva piuttosto bizzarro.
Si rivolse a Ellen: «C'è qualcuno a casa tua, adesso?»
«No. Perché me lo chiedi?»
«Janice?»
«È fuori Goldtown. Perché lo vuoi sapere?»
«Niente, lascia stare.» Kevin indicò Janet. «Ha ragione lei, entriamo. Almeno staremo al caldo.»
«Aspettiamo Steve» propose Ellen.
«Steve deve venire qui?»
«Sì, certo. È un po' in ritardo, ma...»
Kevin la interruppe: «Entriamo comunque, ci raggiungerà dentro.» Mentre si infilavano dentro al bar, cercò una spiegazione logica a quanto gli aveva scritto Phyllis, ma non riuscì a trovarla. «Anzi, andate a sedervi. Vi raggiungo subito, mi sono ricordato che devo fare una telefonata.»
Ellen, Jack e Janet non misero in discussione le sue parole. Non avevano ragione per non credergli.
Chiamò Phyllis e mise in chiaro la situazione fin da subito: «Non ti sto telefonando per sentire stronzate, potrebbe essere una questione di vita e di morte. Ripetimi per filo e per segno quello che ti ha detto Steve.»
«Stai calmo» ribatté Phyllis. «Mi dispiace per te, se ora Steve è insieme a lei, ma...»
Kevin la interruppe: «Ellen in questo momento è seduta a un tavolo del bar di Patricia, davanti ai miei occhi, insieme a Jack e a Janet. Stando a quanto dice, Steve dovrebbe raggiungerci, ma non è qui. Ti ha detto in che modo Ellen l'ha contattato? Steve le ha parlato o ha ricevuto un messaggio?»
«Non lo so.»
«Temo possa essere una trappola. Dove sei, adesso?»
«Sto andando a casa.»
«Passo a prenderti» le propose Kevin. «Andiamo a casa di Ellen, vediamo se Steve è da quelle parti. Ci troviamo da te, cerco di fare presto. Prima, però, devo rubare le chiavi a Ellen, in caso ci servano.»
Phyllis obiettò: «Non sarebbe meglio chiamare Steve e chiedergli dov'è?»
«Non fare niente» la supplicò Kevin. «Mi sta venendo un'idea malsana.»
Entrò nel bar.
Ellen e Jack stavano ancora discutendo tra di loro, mentre Janet li esortava a stare calmi. Impossessarsi delle chiavi fu molto facile: subito dopo essersi seduto, a Kevin bastò ribaltare la borsa di Ellen, spargendone il contenuto sul tavolo. Si scusò per il misfatto e iniziò a mettere tutto a posto, tranne appunto le chiavi di casa. Nessuno se ne accorse, erano tutti impegnati nel loro dibattito.
C'era solo un'ultima domanda che doveva porre a Ellen: «Hai detto che Janice non c'è, ma qualcun altro ha le chiavi di casa vostra?»
«Certo che no» rispose Ellen. «Solo io, Janice e il padrone di casa, che però non entrerebbe mai senza suonare il campanello.»
«Il padre naturale di Linda, che non sapeva che Linda fosse figlia sua» osservò Kevin, «E che, quando gli hai chiesto se avesse pagato Will Mason per fare indagini sulla sua morte, alla fine si è arreso e ti ha detto di sì. Il signor Callahan non è riuscito a incastrare John Stewart, ma noi ce la faremo.» Sorrise. «Non importa cosa ne pensa Jack, sono sicuro che le tue teorie siano esatte.» Si rivolse all'amico. «Mi dispiace, so che non ti farà piacere sentirtelo dire, ma io le credo.» Si alzò in piedi. «Scusate, esco un attimo.»
Ellen lo guardò storto.
«Che intenzioni hai?»
«Vado a vedere se Steve arriva.»
Ellen azzardò: «Posso chiamarlo.»
Kevin cercò di dissuaderla: «Lascia perdere, magari sta guidando. Esco un attimo. Può essere che si sia fermato un momento a fumare una sigaretta prima di entrare. Vado a vedere.»
Sapeva di essersi contraddetto da solo, ma non importava, così come, a rigore di logica, non importava dove fossero in quel momento Patricia, Roberta e John Stewart.

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Capitolo 33
*** La vendetta di Mabel - 31 Dicembre (2/3) ***


Per la prima volta dopo tantissimi anni, Patricia sentiva di avere il coltello dalla parte del manico, un po' come se la vendetta di Mabel stesse per essere consumata. Non sapeva come, ma era riuscita a convincere sia Ray a sostituirla per qualche ora al bar, sia Roberta a organizzare l'incontro a casa. John Stewart sarebbe arrivato a breve, sempre se avesse avuto il coraggio di presentarsi.
Patricia non aveva certezze ma, finalmente, l'idea di non avere certezze aveva smesso di spaventarla. Non aveva la più pallida idea di come si sarebbe comportato John, nel vederla apparire con indosso l'abito preferito di Lisa e con la stessa acconciatura, ma sperava di spiazzarlo al punto tale da renderlo innocuo. Non sarebbe stato facile, considerando che doveva trattarsi di un pluriomicida, ma qualcuno doveva sacrificarsi per metterlo alla prova.
Roberta non sapeva niente di quella vicenda oscura, o quantomeno non aveva mai dato segno di essere a conoscenza del coinvolgimento del proprio padre. Credeva di essere figlia di un genitore inadatto e inaffidabile, ma di certo non era al corrente di essere la discendente diretta di un efferato criminale.
Patricia ricordava vagamente i discorsi di Lisa, quando da bambina insisteva per strapparle confidenze. Lisa non aveva mai dato segno di trovarla irritante, quando le chiedeva con insistenza se avesse un fidanzato. Qualche volta le aveva parlato di John, un contabile dell'azienda nella quale lavorava come centralinista, che doveva avere cinque o sei anni in più di lei. Era una relazione complicata e, per il momento, da tenere segreta. Questo le aveva detto Lisa e, solo molti anni dopo la sua morte, Patricia era riuscita a risalire a John, che già non stava più con sua sorella da qualche tempo, al momento del "suicidio".
Tante volte Patricia si era chiesta come agire e come fare giustizia, finendo per rassegnarsi all'idea di non avere niente tra le mani. Tra le righe del racconto di Lisa traspariva la triste vicenda di una donna vittima di una brutale violenza da parte del suo ex fidanzato, ma se non bastava il realismo delle scene narrate come indizio, figurarsi se poteva essere una prova.
Era stato terribile innamorarsi della figlia di John Stewart e, di colpo, Patricia si era ritrovata a volere staccare dal passato una volta per tutte. Si era resa conto che Roberta, la "gemella cresciuta con il padre" aveva lo stesso animo innocente e gentile di Jennifer e, a posteriori, non c'era da stupirsi, dato che si trattava della stessa persona. Nonostante il terribile inganno di Roberta, nel quale era stata travolta come tutti, la considerava ancora la donna della sua vita. Sarebbe potuta andare peggio: Roberta avrebbe potuto essere complice di suo padre, e di certo non lo era.
Patricia era immersa in quelle riflessioni quando il campanello suonò. Aveva a disposizione pochi istanti per convincere Roberta ad attendere in soggiorno e di non andare insieme a lei ad aprire la porta. Per fortuna aveva una grande arma tra le pani: quella sera la figlia di John Stewart pendeva dalle sue labbra, certa che, se avesse eseguito tutti i suoi ordini, per loro ci sarebbe stato un futuro.
John Stewart era arrivato. Patricia andò ad accoglierlo da sola, ferma sullo stipite della porta ad attenderlo.
Quando John apparve sul pianerottolo, studiò il suo sguardo che mutava. A Stewart bastò il tempo di mettere a fuoco per iniziare a fissare Patricia come se avesse appena visto un fantasma. Poi mormorò quel nome, facendola sentire come trafitta da mille lame.
«Lisa.»
Patricia sorrise, sprezzante: sapeva che l'abito, i capelli corti e le sfumarure blu avrebbero fatto effetto.
«Lisa non c'è più e nessuno meglio di te può saperlo.»
«S-scusa» balbettò John. «Mi dispiace. Somigli così tanto a tua sorella.»
Patricia rimase spiazzata. Stewart sembrava più scolvolto di quanto si sarebbe aspettata da un assassino seriale.
«Ti faccio entrare» gli propose Patricia. «Oppure pensi sia troppo pericoloso per me e per Roberta?»
John Stewart dava l'impressione di essere caduto dalle nuvole.
«Pericoloso?»
«Ti devo spiegare io del killer di Goldtowm?»
«Oh, no» rispose John, «Li vedo, i telegiornali. Perché dovrebbe essere pericoloso per voi se io entrassi in casa tua?»
Patricia si fece da parte. Lo lasciò entrare e richiuse la porta.
«Sarò sincera» ammise, «Non me ne frega un cazzo di Linda, di Mark e di tutti gli altri, nemmeno di quella testa di cazzo di Kimberly. Però so cos'hai fatto tu, so che stavi con mia sorella e farò di tutto per distruggerti.»
John si guardò intorno.
«Dov'è Roberta?»
«Le ho chiesto io di aspettare di là» rispose Patricia. «Non voglio che mi senta, mentre dico che è figlia di un maniaco assassino. Prima o poi pagherai per quello che hai fatto a Lisa.»
John spalancò gli occhi.
«Mi stai accusando di essere responsabile del suo... suicidio?»
«Ma quale suicidio» replicò Patricia. «So tutto di te. So quello che le hai fatto. Ho capito che non si è suicidata. L'hai ammazzata per impedire che ti denunciasse.»
«Denunciarmi? Non so di cosa parli» obiettò John. «Lisa mi ha lasciato perché ha scoperto del mio passato, sapeva che avevo lasciato la mia precedente fidanzata quando era incinta e non avevo riconosciuto le mie figlie. Mi ha detto che non voleva correre il rischio di fare la stessa fine di Margaret.»
«Lei ti ha lasciato e tu l'hai violentata» lo accusò Patricia. «Le hai messo qualcosa nel bicchiere, hai aspettato che perdesse i sensi e poi hai abusato di lei.»
«La somiglianza tra voi è solo fisica. Tu sei pazza, completamente pazza. Sono una persona di merda e ho fatto tanti errori, nella vita, ma non così tanto di merda.»
«Ho letto i racconti di Lisa. Ha scritto tutto, la storia di una ragazza innamorata, che si sente costretta a lasciare il fidanzato, ma lui non si rassegna e la stupra.»
John replicò: «Non avrei mai fatto del male a Lisa. Sai qual è stata la mia reazione, quando mi ha lasciato? Volevo sposarla, per farle capire che per lei ci sarei sempre stato. Le ho comprato un anello e le ho proposto di diventare mia moglie. Non voleva, ha rifiutato sia la proposta sia l'anello, diceva di non sentirsi pronta, e che comunque non cambiava quello che pensava di me, dopo avere scoperto che avevo abbandonato le mie figlie. È grazie a Lisa se ho cercato di diventare una persona migliore, se ho deciso di essere presente nella vita di Roberta e di Jennifer. Lisa era tormentata da una vecchia storia, per questo immagino abbia scritto quel racconto, ma ti assicuro che non le ho mai fatto del male e mai gliene avrei fatto.»
«Quindi» dedusse Patricia, «Sarebbe stato un altro ex fidanzato a violentarla? È questa la vecchia storia?»
«Nessuno ha violentato Lisa, né aveva mai avuto altri uomini prima di me, per quanto ne so, o quantomeno nessuna relazione stabile. Comunque era ancora vergine quando ci siamo messi insieme, quindi la protagonista non è lei. Quella storia parla di una sua amica, che aveva conosciuto durante il suo precedente lavoro. Io non ho mai incontrato quella donna, né sapevo come si chiamasse, ma so che Lisa era rimasta in contatto con lei e non sapeva cosa fare per aiutarla.»
«Perché dovrei crederti?»
«Non so, ma perché dovresti credere che sono uno stupratore e un assassino sulla base di un racconto di una grande appassionata di scrittura?»
Furono raggiunti da Roberta proprio in quel momento.
«Cosa succede?»
«Succede che la tua ragazza mi sta accusando di avere ucciso sua sorella» rispose John, con schiettezza. «Ora che se qui ad ascoltare, magari puoi testimoniare a mio favore, qualora dovessi querelarla per diffamazione.»
«Non sono la sola persona ad essere sempre stata sulle tue tracce» mise in chiaro Patricia. «Non so se tu conosca Ellen Jefferson, John, ma sono convinta che presto dovrai vedertela con lei.»
«Ellen Jefferson» mormorò John. «Non la conosco personalmente, ma ricordo il suo nome. Era la fidanzata di una delle vittime del 2002.»
«Mark Forrester» confermò Patricia. «Immagino che mi dirai che non sai chi fosse, così come non sai chi fosse Will Mason o chi fosse Cindy Spencer.»
«Non ho mai conosciuto Mark e Cindy» replicò John, «Mentre Will lo conoscevo. Ecco, se proprio vuoi accusarmi di qualcosa, ti concedo di dire che Mason sia morto per colpa mia. Ero io che gli avevo chiesto di fare indagini su Linda. Era la figlia dell'insegnante che, otto anni prima, era stata aggredita dall'assassino di mia figlia. Temevo di non potere scoprire mai chi avesse ucciso Jennifer e non volevo che Melanie Miller passasse quello che avevo passato io.»
«Fammi indovinare, Will Mason non ha scoperto niente?»
«Ovvio che no, è stato ammazzato anche lui.»
«E immagino che nessuno possa provare che l'incarico che gli avevi affidato fosse vero e che non sia una tua invenzione del momento.»
«La sua fidanzata dell'epoca, temo. Però anche Meredith Taylor, ormai, non può più parlare. Lo so, Patricia, ti sei messa in testa che ho ucciso Lisa ed è la mia parola contro la tua. Però, quando vuoi accusare qualcuno di omicidio, la parola non basta. Sei libera di credere nelle tue fantasie, se ti fanno stare meglio, ma non basterà per farle diventare reali.» John si diresse verso la porta. «Buon proseguimento di serata, Patricia.»
Se ne andò e calò il silenzio, che purtroppo non durò molto a lungo.
«Che cazzo hai fatto?» Roberta era incredula. «Come ti viene in mente una simile assurdità?»
«Sbaglio o hai sempre detto tu stessa che tuo padre non era degno si essere considerato tale?»
«Ho detto che era un pessimo padre e che lo consideravo alla stregua di un estraneo, non che dovesse diventare un folle a cui dare la caccia per hobby. L'hai fatto venire fino a qui e gli hai rivolto delle accuse gravissime solo sulla base di qualche fantasia.» Roberta prese il proprio cappotto appeso all'attaccapanni. «Quello che hai fatto è assurdo, devo dargli delle spiegazioni.»
«Accomodati» replicò Patricia. «O me, o l'assassino di mia sorella. Però devi decidere adesso.»
Roberta obiettò: «Non ci sono decisioni da prendere. Voglio anch'io che tua sorella abbia giustizia, se è stata uccisa, ma non puoi scegliere arbitrariamente a chi dare la colpa solo perché vorresti fosse così.»

 

Kevin si guardò intorno. Phyllis non c'era e non sapeva che interpretazione dare alla sua assenza. Frattanto, iniziò a pensare che fosse bene scoprire dove fossero andate a finire Patricia e Roberta. Ellen non sarebbe stata d'accordo con lui, ma scelse di mettersi in contatto con Roberta.
Ebbe risposta quasi subito.
«Kevin, perché mi cerchi adesso?»
Nel suo tono c'era un po' di stupore, ma non sembrava la voce di una persona in pericolo.
«Va tutto bene?»
«Diciamo di sì.»
«Sei con Patricia?»
«Perché me lo chiedi?»
«Sono passato dal bar e ho visto che non c'era» le spiegò Kevin. «Mi è stato detto che stasera doveva conoscere tuo padre.»
«Bella figura di merda che mi ha fatto fare» borbottò Roberta. «Patricia è a casa sua, o almeno penso sia ancora là. Io e mio padre siamo appena venuti via. A proposito, se vedi o senti Ellen, dille di badare ai cazzi suoi. Patricia è convinta che anche lei si stia impicciando dei fatti miei e di mio padre.»
Kevin obiettò: «Non mi sembra il momento di parlarne, se sei con lui e...»
Roberta lo interruppe: «Fammi indovinare, per caso anche Ellen si è convinta che mio padre sia il killer di Goldtown? E sulla base di cosa? Sono curiosa, spiegamelo.»
«Non posso farlo adesso» replicò Kevin. «È una storia lunga, che non ha convinto nemmeno me e ne sono sempre meno convinto. Però, davvero, non posso spiegarti adesso, devo andare da Ellen.»
Riattaccò senza dare a Roberta il tempo di replicare e riprese a pensare alla faccenda dell'assenza di Phyllis.
Poi udì la sua voce.
«Kevin!»
Si girò di scatto.
«Dove ti eri cacciata?»
Phyllis gli indicò una direzione vaga.
«Ero là in fondo a fumare.» Si avviò verso la macchina di Kevin e salì a bordo senza aspettare di essere invitata a farlo. «Riesci a spiegarmi per filo e per segno cosa sta accadendo?»
Kevin si sistemò in auto.
«Non te lo saprei spiegare per filo e per segno, ma ritengo plausibile che qualcuno abbia attirato Steve a casa di Ellen spacciandosi per lei.»
«Chi?»
«Mi sembra presto per fare nomi, anche perché si tratta molto probabilmente di qualcuno che non conosco di persona.»
«Mhm.»
«Cosa c'è che non ti convince?» Kevin chiuse la portiera e accese il motore. «Ti vedo perplessa.»
Phyllis replicò: «Come potrei non esserlo? Non ci sto capendo un cazzo. Per caso questa presunta trappola ha a che vedere con i delitti?»
«Temo di sì.»
«Allora, se pensi che Steve sia in pericolo e che tutto ciò abbia a che vedere con i delitti, perché non chiami la polizia?»
«Perché potrebbe essere un'assurdità che mi sono messo in testa e vorrei evitare di giocarmi la mia credibilità. Vorrei prima controllare cosa stia succedendo.»
Phyllis continuò a non sembrare convinta, ma non disse altro per tutto il breve tragitto che li separava da casa di Ellen. Parcheggiarono proprio accanto alla macchina di Steve che, evidentemente, si era recato all'appuntamento.

 

Stavano passando nella via in cui abitava Roberta, ma John Stewart non sembrava intenzionato a fermarsi. Per un attimo le venne spontaneo chiedersi se Patricia avesse ragione, se si stesse a sua volta esponendo a un pericolo che non aveva preso in considerazione.
«Dove mi stai portando?» chiese a suo padre, in tono secco. «Fammi scendere.»
John Stewart ignorò la sua richiesta.
«Sai dove abita quella Ellen?»
«Sì, perché?»
«Andiamo da lei, vorrei parlarle.»
«Non mi pare il caso.»
«Ti prego, Roberta» la supplicò John Stewart. «Credo che quella donna stia travisando, esattamente come Patricia. Io non c'entro niente con i delitti, tutto quello che volevo era scoprire la verità. Penso che anche tua sorella sia stata uccisa dalla stessa persona e che sia stata un'azione deliberata contro di me.»
«Tu non devi nemmeno menzionarla, mia sorella» replicò Roberta. «Faceva di tutto per compiacerti e tu la trattavi con indifferenza. La sua morte ti è dispiaciuta solo perché credevi fosse me. Fammi scendere.»
«Come vuoi, ma dimmi almeno dove abita Ellen. Dammi l'indirizzo, se lo sai, la troverò io, guardando sui citofoni.»
«Sul citofono c'è scritto Callahan, credo.»
Quelle parole ebbero un effetto inaspettato. John frenò bruscamente e ripeté: «Callahan?»
«Sì, è il suo padrone di casa» rispose Roberta. «Perché me lo chiedi?»
«Dimmi dove abita questa Ellen, per favore» la pregò John Stewart. «Le devo parlare con urgenza, a maggior ragione.»
«Chi è questo Callahan?»
«È una storia troppo lunga e tu volevi scendere.»
Roberta replicò: «Ho cambiato idea. Portami con te. Ti indicherò la strada, così potrai trovarla più velocemente. Però mi porti con te. Voglio sentire cos'hai da dirle.»
John Stewart rise, con amarezza.
«Vedo che non ti arrendi mai. Va bene, ti porto con me, tanto il problema non è Ellen, qualunque cosa si sia messa in testa su di me.»

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Capitolo 34
*** La vendetta di Mabel - 31 Dicembre (3/3) ***


Steve riprese i sensi lentamente, faticando a ricordarsi cosa fosse accaduto. Si rese conto di essere immobilizzato, legato a una sedia, e chi l'aveva messo in quelle condizioni si era premunito di tappargli anche la bocca.
Aveva la vista ancora annebbiata, ma guardandosi intorno riconobbe di essere nell'appartamento in cui abitava Ellen.
Rammentò.
Era andato da lei, dopo essere stato contattato con un messaggio.
Gli aveva scritto che lo amava e a quel punto aveva perso ogni contatto con la realtà. Si era recato a casa sua senza farsi domande, senza la benché minima preoccupazione.
Aveva capito di avere commesso un grave errore solo quando era entrato, rendendosi conto di non avere sospettato nulla nemmeno nel momento in cui aveva suonato il campanello, quando Ellen gli aveva aperto il portone senza nemmeno preoccuparsi di accertare la sua identità.
Non c'era nessuno ad accoglierlo sulla porta, ma non si era tirato indietro. Aveva richiuso la porta alle proprie spalle e, vedendo una luce accesa in cucina, era entrato nella stanza.
Ellen non c'era, al suo posto l'uomo che doveva avergli scritto quei messaggi spacciandosi per lei, una volta che aveva trovato il suo secondo cellulare, che utilizzava soltanto per lavoro e aveva lasciato a casa.
Prima di essere colpito alla testa, Steve aveva fatto in tempo a riconoscerlo, e ancora una volta lo riconobbe, trovandoselo di fronte. Era l'uomo che qualche anno prima gli aveva venduto lo studio fotografico, con il quale aveva lavorato per breve periodo prima che si ritirasse dall'attività.
Roger Callahan lo fissava con aria quasi divertita, mentre osservava: «Finalmente sei tornato in te. Sono le undici e quaranta, non ho idea di quando tornerà a casa Ellen, ma spero che non decida di mandare in vacca i miei piani.»
Steve avrebbe voluto replicare, ma soprattutto avrebbe voluto chiedergli tante cose. Purtroppo non gliene era data la possibilità.
Il suo sguardo doveva apparire assente, dal momento che Callahan gli chiese: «Sei tornato in te? Capisci quello che sto dicendo?»
Steve annuì, sebbene si sentisse ancora troppo confuso e stordito per esserne certo.
«Meglio così» rispose Roger Callahan. «Sai, mi sei sempre stato simpatico, ci terrei a darti qualche spiegazione... e lo so cosa vorresti dire. Vorresti chiedermi cosa avrei fatto se invece non mi eri simpatico, ma ti assicuro che quello che sta succedendo non è qualcosa che succede contro di te nello specifico. A volte dobbiamo prendere delle decisioni difficili, perché sono l'unico modo che abbiamo per uscire da una situazione di impasse. È esattamente il tipo di situazione in cui mi trovo, in cui mi ha messo la tua amata Ellen. Dovresti iniziare a maledire te stesso. Se tu non avessi perso la testa per quella donna, adesso non saresti qui, e non penso che ne valesse la pena. Tutto quello che farà sarà andare avanti. Ha già un rimpiazzo a disposizione, sempre ammesso che il rimpiazzo sia tuo collega e non tu stesso. Al posto tuo mi sarei fatto qualche domanda, invece di accettare tutto così come se niente fosse, ma in fondo ti capisco. Accettare la fine di una relazione è la soluzione più semplice. Se l'avessi fatto anch'io, forse la mia vita sarebbe stata diversa. Invece no, non sopportavo l'idea che Melanie mi avesse lasciato. Non sapevo con esattezza cosa volessi, se farla tornare insieme a me oppure fargliela pagare. Non sapeva che eravamo nello stesso posto, non mi aveva visto. È stato semplice. È bastato buttarle una pastiglia nel bicchiere. Non ti racconterò i dettagli, ovviamente, perché non approveresti, ma sappi che sarebbe andato tutto bene, se Melanie si fosse limitata a dimenticare.»
Steve iniziava a sentirsi disgustato. Quell'uomo gli stava rivelando di avere stuprato la sua ex fidanzata priva di sensi e stava insinuando che la Miller avrebbe dovuto cancellare il proprio vago ricordo dell'accaduto?
Come a leggergli nella mente, Callahan precisò: «Melanie aveva sporto denuncia contro ignoti, non sto dicendo che non avrebbe dovuto fare niente. Però, arrivata a un certo punto, deve avere iniziato a sospettare di me. Erano passati anni, ormai, e io non ci pensavo più. Me n'ero andato, avevo fatto credere a tutti di essermi fidanzato con un'altra donna, lasciando intendere che già stavo con lei quando ero ancora fidanzato con Melanie. Invece no, Melanie non ha mai dimenticato e ha iniziato a parlarne con quella sua nuova amica, una tizia che all'epoca lavorava come bibliotecaria e l'aveva aiutata per uno dei suoi progetti di scuola. Non era mai stata una persona che si apriva molto, poi è arrivata quella Lisa, appunto... e che cos'ha fatto? A un certo punto si è messa in testa di venirmi a cercare, voleva scoprire se fossi stato io, voleva che Melanie avesse delle risposte. Melanie non ne sapeva niente, era una sua iniziativa. Non pensavo di essere in grado di fare quello che ho fatto. Nessuno ha mai sospettato di me. Anzi, nessuno ha mai sospettato che quello di Lisa non fosse un suicidio. In un primo momento ero sconvolto, poi mi sono reso conto che avevo solo fatto quello che ritenevo necessario per proteggere i miei segreti, anche se, a pensarci bene, Lisa non aveva alcuna prova contro di me. Poi è arrivato John, l'ex fidanzato di Lisa. Non era risalito a me, ma sapeva che Lisa non poteva essersi uccisa. Quindi, invece di badare ai cazzi propri, si è messo in testa di cercare una verità che, per quanto ne sapeva, doveva esistere solo nella sua testa.»
John.
John Stewart.
L'uomo che Ellen da settimane bollava come assassino sicuro era un uomo alla ricerca della verità dopo l'omicidio della sua partner, il tutto mentre Roger Callahan era una persona rispettabile agli occhi del mondo.
Ancora una volta, Steve avrebbe voluto replicare, ma tutto ciò che gli era concesso era ascoltare i deliri dell'uomo che l'aveva sequestrato.
«Ho scoperto che, per puro caso, Melanie era diventata l'insegnante delle figlie di John. Erano passati ormai tre anni dalla morte di Lisa, ma quel tale non si dava pace. Allora ho pensato che gli servisse qualcosa che lo allontanasse da Lisa. Ho ucciso una delle sue bambine, facendo credere che il mio obiettivo fosse l'insegnante. È filato tutto liscio. John Stewart è diventato un uomo distrutto dalla perdita della sua amata figlia. L'ho messo fuori gioco, in un modo che poteva essere definitivo. Pensavo di potere vivere la mia vita con tranquillità, a quel punto, e in effetti per anni è stato così. Nessuno collegava la morte di Roberta Robinson a quella di Lisa Lynch, ero in una botte di ferro. O almeno lo ero finché Linda Miller non ha scoperto che, con tutta probabilità, ero suo padre. A me non importava niente di lei. Anzi, era un problema. Però le ho fatto giurare che non avrebbe detto niente a sua madre e che, se avesse usato la massima discrezione, sarei stato disposto a incontrarla.»
Ellen doveva averci visto giusto, realizzò Steve, a proposito di un uomo che, senza esitazione, aveva ucciso la propria figlia. Aveva solo sbagliato, oltre che la dinamica dei loro contatti, la sua identità: quell'uomo non era John Stewart, ma Roger Callahan. Probabilmente non sapeva che Linda fosse stata concepita ben prima dello stupro, in un rapporto consenziente avvenuto quando Melanie era ancora la sua fidanzata. Doveva essere stato spaventato dall'idea che il DNA di quella ragazzina potesse incastrarlo. Allora l'aveva uccisa, e l'aveva fatto deliberatamente, non perché l'avesse scambiata per la madre, come invece aveva proposto Ellen nella sua versione edulcorata della vicenda.
Da parte sua, Callahan proseguì: «Tutto il resto, penso che la tua amata sia stata in grado di ricostruirlo. C'era gente sguinzagliata in giro per Goldtown che cercava di scoprire chi avesse ucciso Linda. Per fortuna nessuno era in grado di collegarmi a lei. La stessa Melanie non sospettava minimamente di me. Pensava fossi lontano, magari fidanzato o sposato con un'altra donna, che non avessi la più pallida idea dell'esistenza di Linda. Non le ho mai parlato, dopo. Non mi ha mai rivelato, in un secondo momento, che Linda era figlia mia. Sono stato io a scoprire che Linda era stata concepita quando eravamo ancora fidanzati, ma non ho mai incontrato Melanie dopo la sua morte, anzi, l'ho evitata come la peste. Ho pensato, comunque, che Ellen avrebbe creduto alla mia versione dei fatti: Melanie vive all'estero, adesso, e non ha profili riconducibili a lei sui social network, idem suo marito e l'altra sua figlia. La tua amica sarebbe andata fino in capo al mondo, forse, ma solo se non ci fosse stata una persona affidabile e attendibile che potesse darle le risposte che cercava. C'ero io. Potevo interpretare la parte del padre disperato. La foto di Linda che ha trovato quell'altra giornalista invadente l'ho messa di proposito per potere recitare meglio il ruolo che volevano cucirmi addosso. Se non avessero curiosato tra i miei effetti personali, avrei fatto in modo che comunque la trovassero, prima o poi. Non sarebbe stato così difficile per Ellen arrivare a me, ma avevo dalla mia parte la data del probabile concepimento di Linda. Ero solo un ex fidanzato con il quale Melanie non stava più insieme, ai tempi del misfatto, e tutti credevano che avessi tradito Melanie con un'altra donna che avevo preferito a lei. Ero al di sopra di ogni sospetto. Quando Melanie se n'è andata, sono anche venuto a Goldtown. Era un'idea un po' malata, lo ammetto, ma volevo una seconda possibilità. Goldtown non doveva più essere il paese dei delitti, ma quello della mia nuova vita. Mi ero ripromesso di non cascarci più, di non uccidere più nessuno. Poi, qualche anno fa, quella Meredith è venuta nel mio negozio insieme a Dylan Carter, il reporter. Li ho sentiti parlare di un'indagine giornalistica sui delitti del 2002 e ho temuto di essere in pericolo. Non è stato difficile manomettere la macchina. Il difficile era il risultato, nulla mi assicurava che sarebbero morti. Per fortuna è andato tutto bene. Me li sono levati di mezzo e per me erano solo due numeri in più.»
Lisa, Jennifer, Linda, Mark, Will, Cindy, poi anche Meredith e Dylan: Roger Callahan aveva ucciso otto persone e per lui era una faccenda da nulla. Steve non era ancora lucido abbastanza da sentirsi inorridito tanto quanto avrebbe dovuto, ma iniziava a comprendere che difficilmente avrebbe avuto scampo. La sua sopravvivenza era legata al ritorno di Ellen, ma dubitava che Ellen sarebbe tornata a casa. Chissà dov'era, forse al bar a tenere d'occhio John Stewart, forse già altrove, magari insieme a Kevin.
Se fosse morto, sarebbe riuscita a scoprire il colpevole, o avrebbe continuato a inseguire l'illusione che John Stewart fosse il killer di Goldtown? Steve se lo stava chiedendo, quando la voce di Callahan interruppe le sue domande.
«Forse ti chiederai cosa sia successo a Kimberly Richards e Maryanne Sherman e perché. Ti rispondo subito: il mio desiderio più grande era non avere più bisogno di uccidere. Avevo anche lasciato Goldtown per allontanarmi da quello che è accaduto ormai tanto anni fa. Poi, però, sono arrivate loro, Janice Petterson ed Ellen Jefferson. Non avrebbero portato a nulla di positivo. Nonostante la Petterson non mi piacesse, le ho affittato l'appartamento: era il modo migliore per tenerla sotto controllo e fare lo stesso con la sua collega. Frattanto facevo le mie ricerche. Ho pensato che, se mi fossi avvicinato a Kimberly, sarei riuscito a ingannarla e metterle in testa presunte responsabilità di Ellen. Non è stato difficile, anzi, più facile di quanto mi aspettassi. Doveva essere ancora sconvolta da quello che era successo al suo ex ragazzo vent'anni prima e credeva che la Jefferson avesse qualcosa a che vedere con la sua morte. Ne ho approfittato. Le ho assicurato che, se mi avesse raccontato tutto quello che sapeva e avesse fatto quello che le chiedevo, saremmo riusciti a incastrare Ellen. Purtroppo non è servito a molto: la tua cara giornalista di merda aveva un grande seguito, tutti le stavate intorno. Speravo di togliere di mezzo almeno Silver, l'ex fidanzato di Linda - scoprire dei suoi trascorsi con Maryanne Sherman non era stato difficile, dopotutto Ellen e Janice mi trattavano come un banale elemento di tappezzeria, quando capitavo qua, e non avevano problemi a parlare di fatti personali altrui di fronte a me, al punto che non sarebbe quasi stato necessario usare altri mezzi per spiarle - ma non ha funzionato. È stato un successo riuscire ad attirare la sua nemica giurata a Goldtown, ma è stata molto banale, come cosa: è bastato contattarla in modo anonimo e lasciarle intendere di avere delle prove contro Silver. Il tuo amico, però, a quanto pare voleva solo vivere senza problemi, non andare a caccia di criminali, e la sua assenza non ha migliorato le cose, ma le ha peggiorate. Ellen ha continuato le sue indagini di merda, Janice ha continuato ad aiutarla ed entrambe hanno continuato a comportarsi come se io fossi trasparente. Non so dire cosa mi infastidisse, se il fatto che volessero incastrarmi o quello che non mi prendessero nemmeno in considerazione. Allora ho manomesso la macchina di Ellen e per poco non ho ammazzato il tuo aiutante. Sono arrivato a un punto di non ritorno. Non sapevo più come comportarmi, se mettere fine a questa storia una volta per tutte o se assistere agli sviluppi. Di recente, so che Ellen pensava di avere ricostruito tutto.» Roger Callahan rise. «Vorrebbe incastrare John Stewart. Tutto ciò è meraviglioso. Il mondo è piccolo ed Ellen è arrivata a un passo da me, senza accorgersi di avere davanti l'uomo che cercava. Non...»
Il campanello suonò.
Callahan sembrò spiazzato per un attimo, poi si rivolse di nuovo a Steve: «Ora sai tutto e hai i minuti contati. Spera che, chiunque sia, se ne vada senza dare problemi, altrimenti stasera morirete in due.»

 

Roberta stava per suonare un'altra volta ma suo padre la trattenne.
«Non ci sarà nessuno in casa, torniamo un'altra volta.»
Roberta gli indicò la luce che si intravedeva dalla tapparella non sigillata.
«Invece c'è qualcuno, o quantomeno hanno lasciato acceso.»
John azzardò: «Forse Ellen è in dolce compagnia. Meglio non disturbarla in questo momento. Posso sempre cercare di parlarle domani. Ancora meglio sarebbe se riuscissi a fare da intermediaria tra di noi. Lo so, ti sto chiedendo tanto, ma...»
Roberta lo interruppe: «Prima sembrava una questione di vita o di morte, adesso pare che non te ne importi niente.»
«Me ne importa eccome, solo che non posso farci niente. Roger Callahan non è qui, forse nemmeno Ellen. Dovrò rimandare.»
«Rimandare cosa? Cosa nasconde questo Roger Callahan?»
John Stewart non rispose, ma quel silenzio valeva più di mille parole.
Roberta azzardò: «È stato lui a uccidere Mark e tutti gli altri?»
«E Jennifer» aggiunse John, «E Lisa.»
Per un attimo Roberta non seppe cosa dire. Poi, dal momento che il padre faceva per andarsene, lo seguì. Il loro allontanamento non durò molto: quando Roberta vide Kevin e Phyllis dirigersi verso il portone, senza averla notata, trattenne John afferrandolo per un braccio e facendogli segno di non dire nulla.
Kevin e Phyllis parlavano in tono concitato, menzionando chiavi rubate. Roberta non era sicura che si trattasse di un campanello d'allarme, ma ritenne opportuno considerarlo come tale.
Entrarono.
Il portone, richiudendosi, si limitò ad accostarsi.
Nessuno dei due se ne accorse, oppure non gli diedero peso. Senza esitare, Roberta si diresse verso l'ingresso, seguita da suo padre.
«Che cosa sta succedendo?» borbottò John.
«Non lo so» ammise Roberta, «Ma presto lo scopriremo.»
Una volta entrata, iniziò a salire le scale. Accadde tutto molto in fretta, senza lasciarle il tempo di realizzare.
Udì chiaramente le urla di una voce femminile - quella di Phyllis - poi una porta che sbatteva e i passi concitati di una persona che si sarebbe rivelata essere Roger Callahan, il vecchio proprietario dello studio fotografico.
Vide tutto, anche ciò che sarebbe stato opportuno non vedere e che, all'occorrenza, non solo negò di avere visto, ma addirittura dichiarò impossibile. L'incubo di Goldtown finì quella sera stessa, almeno sulla carta, ma Roberta era consapevole che per tutti loro sarebbe durato per tutta la vita.

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Capitolo 35
*** Post mortem - 8 Gennaio ***


[8 gennaio]
Suonare un campanello non era mai stato così difficile, ma Ellen sapeva di doverlo fare. D'altronde aveva già avvertito Steve che si sarebbe presentata a casa sua, non sarebbe stata una sorpresa.
Steve le aprì la porta e per qualche istante si fissarono in silenzio. Infine Ellen si fece coraggio e gli domandò: «Mi fai entrare?»
Steve sembrava un po' spiazzato, anche se doveva aspettarsi una simile richiesta.
«S-sì, entra pure.»
Era la prima volta che si vedevano, dopo i fatti della sera del 31 dicembre. Più di una volta Ellen aveva pensato di chiamarlo, ma aveva sempre lasciato perdere.
Lo seguì all'interno e andarono a sedersi, l'uno accanto all'altra. Fino a poche settimane prima sarebbe stato tutto spontaneo e naturale, ma Ellen si sentiva a disagio. Così disse le prime parole che le vennero in mente, le uniche che potessero avere un po' di senso.
«Mi dispiace.»
«Per cosa?»
«Per tutto.»
«Non capisco.»
«Voglio dire, è colpa mia» chiarì Ellen. «Ho cercato di smascherare il colpevole senza rendermi conto di averlo sempre avuto davanti agli occhi. Ho inseguito un fantasma, pensando che bastasse per fare ipotesi esagerate perché poi queste trovassero conferma nella realtà. Non mi sono mai fermata a riflettere, non mi sono mai posta delle domande. Sono andata dritta come un razzo verso quella che credevo fosse la verità, senza mai chiedermi se stessi sbagliando qualcosa. Ho dato tutto per scontato, cadendo nella stessa trappola in cui rischiano di cadere gli agenti di Scotland Yard, e a volte anche i detective geniali, nei romanzi polizieschi vintage?»
«Ovvero?»
«Ovvero, durante le indagini, decidono che una particolare cerchia di individui sia composta da persone irrilevanti, nonostante potessero essere presenti al momento dei fatti. Talvolta lo sono davvero. Nonostante lo stereotipo sul fatto che il colpevole sia il maggiordomo, che non so da dove sia uscito, nei romanzi classici il personale di servizio viene spesso considerato come se non esistesse, così come chiunque altro non sia strettamente collegato alla vittima. Chi si occupa delle indagini, osserva che certe persone sono irrilevanti, quindi neanche le prende in considerazione. Io stessa sono caduta in questo tranello. Al posto di maggiordomi, governanti, cuoche e cameriere c'era il padrone di casa: poteva venire da me e da Janice con qualsiasi scusa senza destare sospetti, a condizione che lo facesse senza troppa frequenza. Aveva messo un registratore nascosto in casa per poterci tenere sotto controllo. Poteva procurarsi informazioni senza fare nulla. Roger Callahan recitava la parte dell'individuo irrilevante e ha continuato a farlo fino all'ultimo. Non sapremo mai perché, di punto in bianco, si sia sentito braccato al punto tale da esporsi fino a quel punto. Forse è stato l'arrivo di John Stewart a Goldtown e il fatto che sia venuto al tuo negozio deve avere temuto che potesse avere parlato con te di argomenti scottanti. Sapeva che consideravo il padre di Roberta colpevole e, di conseguenza, c'era il rischio che, per difendersi da eventuali accuse, Stewart potesse dire o fare qualcosa che potesse smascherare il vero assassino. Non so cosa mi passasse per la testa, forse mi sono lasciata trascinare dalla mentalità che va tanto di moda sui social, quella secondo cui, se hai sbagliato in un particolare ambito della tua vita, allora puoi essere accusato di tutto, indipendentemente che si tratti di crimini che non hai commesso. John Stewart sarà anche stato un pessimo padre, più interessato alla propria vita che a quella delle figlie e incapace di amarle entrambe, ma mi è bastato per cucirgli addosso un ruolo che non era il suo, senza nemmeno rendermi conto che Callahan si stava inventando cazzate che io stessa gli mettevo in bocca, pur di stare al di sopra di ogni sospetto.»
Steve puntualizzò: «Non era tuo compito scoprire il colpevole, tu sei solo una giornalista. Nemmeno le autorità erano arrivate a Roger Callahan.»
Ellen obiettò: «Le autorità non hanno esposto persone al pericolo mentre inseguivano fantasmi. Io non ho minimamente pensato che Callahan potesse entrare in casa quando non c'ero e usare il mio telefono per i suoi scopi. Ti ho messo in pericolo, avrebbe potuto ammazzarti e, se non fosse intervenuto nessuno, l'avrebbe fatto. Phyllis si è presa una coltellata per colpa mia.»
«Nemmeno Phyllis ha dato la colpa a te» mise in chiaro Steve, «E ti assicuro che non le sei mai stata molto simpatica. Sono stati lei e Kevin a venire da te e a cogliere Callahan sul fatto. Non hai costretto nessuno a fare nulla, ci siamo tutti messi in pericolo di nostra spontanea iniziativa. E poi, in ogni caso, è andata bene. Il colpo inferto a Phyllis non era grave, sta già iniziando a impicciarsi nella mia vita tanto quanto prima.»
«Lo farà sempre. Le piaci ancora, vorrebbe tornare insieme a te.»
«Lo dici come se non ti dispiacesse.»
«E infatti non mi dispiace. Solo perché ho mandato in vacca la mia vita sentimentale molto tempo fa, non significa che chiunque debba fare la stessa cosa. Chissà, magari sei stato avventato, quando vi siete lasciati. Potreste essere ancora felici insieme, se fossi al posto tuo non la scarterei come ipotesi.»
Steve abbassò lo sguardo.
«Mi stai dicendo definitivamente che non avrò speranze con te?»
«Ti sto dicendo che anche tu faresti meglio a smettere di inseguire fantasmi» rispose Ellen. «Eravamo giovani ed era un momento complicato della nostra vita. Poi le nostre strade si sono separate. Era giusto così. Solo perché due persone che sono state insieme non provano risentimento o rancore reciproco, non significa che tornare insieme sia la soluzione. Ormai non sono più la ragazza che ero nel 2002 e anche tu non sei più quel ragazzo. Abbiamo fatto vite separate fino a pochi mesi fa, senza sapere più niente l'uno dell'altra. Sono felice di averti rivisto, di averti come amico e anche di avere fatto sesso con te. Però non sarò mai la tua compagna. Lascerò Goldtown e tornerò a casa. Qualche volta tornerò a trovarvi tutti, ci sentiremo quando non sarò qui, ma non inseguirò altri fantasmi. Devo ricostruire tante cose e una relazione giovanile non è tra queste. Dopotutto cos'hai fatto in questi tanti anni senza di me, se non vivere la tua vita?»
Steve ammise: «Hai ragione, quando te ne sei andata ho guardato avanti e ho continuato senza di te. So vivere senza di te, se questo è il tuo dubbio. Però non significa che il tuo ritorno mi sia stato indifferente. Ho fatto di tutto per cercare di tornare insieme a te e magari ho sbagliato, ma sentivo di dovermi giocare ogni possibilità. Eravamo lontani, ma ho sempre avuto dentro di me il tuo ricordo. Forse il mio errore è stato non capire che eri solo un ricordo, ma ormai è andata così. Non ha senso recriminare. Non mi pento di quello che è successo tra di noi nelle ultime settimane, anche se so quello che succederà.»
«Cosa dovrebbe succedere?»
«Dirai che te ne vai, che vuoi staccare, ma non ti allontanerai davvero da Kevin. Credo che tu tenga a lui più di quanto dici.»
Ellen puntualizzò: «Non ho detto niente su Kevin, hai detto tutto da solo, senza che io lo menzionassi.»
Steve replicò: «L'ho tirato in ballo perché è stato lui l'inizio di tutto, quando ci siamo lasciati, molti anni fa. Credo che sia la ragione per cui te ne vai anche adesso: Kevin potrebbe accontentarsi di avere con te una relazione a metà.»
«Cioè scopare e basta? Oppure non abitare l'uno attaccato all'angolo dell'altra? Ti viene mai il dubbio che ci sia dell'altro? Ho un lavoro che potrei fare anche qui, è vero, ma ho una figlia che non voglio né portare a Goldtown né tenere a distanza.»
«In tutto questo, però, non mi hai risposto. Cosa provi per Kevin?»
«È importante?»
«Sì.»
Ellen sospirò.
«Non cambierai mai. Continuerai a pensare che tra noi non abbia funzionato perché c'era lui.»
«E ti dispiacerebbe, se lo pensassi?» obiettò Steve. «Ti dispiacerebbe se fosse una base concreta a convincermi che devo mettermi il cuore in pace? Vorrei solo capire se ti ho chiesto troppo, oppure se sarebbe andata comunque allo stesso modo.»
«Non mi hai chiesto niente e io non ho chiesto niente a te» ribatté Ellen. «Le nostre strade si sono incrociate, di nuovo. Non sono brava con le parole, almeno non in queste situazioni. Se il mio futuro fosse con te, ti avrei già sbottonato i pantaloni per convincerti a smetterla con le domande. Ti confesso che, se non corressi il rischio di confonderti le idee o di confonderle a me stessa, probabilmente potrei arrivare a farlo ugualmente.» Si alzò in piedi. «Meglio che vada, prima di fare altri danni. È stato un piacere rivederti. Intendo dire, incontrarti oggi pomeriggio: da quando sono tornata, sono successi ben troppi fatti poco piacevoli.»
Steve le propose: «Ti accompagno alla porta, se stai andando via.»
«Va bene.»
Vi si diresse insieme a Steve e, una volta giunta all'uscita, si fermò un attimo a guardarlo negli occhi.
«Mi dispiace, per tutto» ribadì.
«A me no» rispose Steve. «Ne è valsa la pena.»

 

Kevin attese che Danny si sedesse, poi gli domandò: «Allora, come va il nuovo lavoro?»
Danny non sembrava molto interessato a discutere di quell'argomento. Disse che era tutto a posto, ma passò subito ad altro.
«Ho scritto a Janice su Forevernet. Mi ha risposto.»
«Oh.»
«Voglio dire, abbiamo chattato a lungo, ieri sera» riferì Danny. «Mi ha fatto molto piacere. Temevo che non l'avrei né vista né sentita mai più. Le ho chiesto se tornerà a Goldtown, ma mi ha detto che verrà solo a prendere le cose che ha lasciato a casa di Callahan. La polizia ha tolto i sigilli all'appartamento, credo. Tu hai sentito Ellen in questi giorni?»
«No, non mi ha chiamato» rispose Kevin, senza scendere troppo nel dettaglio.
«Potevi chiamarla tu.»
«Temevo di disturbare. So che era ospite a casa di Jack, in questi giorni.»
«E tu non eri a lavorare. Potevi andare a trovarla.»
Kevin scosse la testa.
«Non ne avevo motivo.»
«Non ho ancora capito» ammise Danny, «Se state insieme o no.»
«Direi di no, o almeno Ellen non ci ha tenuto a mettere in chiaro il contrario» rispose Kevin. «Non fa niente. La mia vita va avanti anche senza di lei.»
«Sul serio o solo perché pensi di non avere alternative? Pensi che Janet...»
Kevin interruppe quel discorso sul nascere.
«Non penso niente, a proposito di Janet. Mi ha fatto piacere rivederla, dopo che entrambi siamo tornati, ma per me finisce qui. Non sempre quello che esisteva in passato deve essere replicato tale e quale.»
«Mi stai dicendo» azzardò Danny, «Che per Janet nella tua vita non c'è più posto, ma che questo non dipende da Ellen?»
«Janet faceva parte della mia esistenza molto tempo fa» mise in chiaro Kevin. «È cambiato tutto da allora. Non so se essere stato con Ellen, nei mesi scorsi, per me abbia cambiato qualcosa, ma che importanza ha? Non so se Janet si sia fatta dei film, ma non ne sono responsabile. Non posso controllare quello che passa per la testa ad altri, già mi è difficile badare a me stesso.»
«E se Ellen tornasse a cercarti? Cosa faresti?»
«Non lo so, ma non penso che mi cercherà. Da questo punto di vista è inutile parlarne. Veniamo alle cose serie: domani Steve riapre il negozio, riprendiamo a lavorare. Ormai l'interesse morboso sta iniziando a calare. Con un po' di fortuna non ci troveremo nessuno che venga per chiederci di parlare del precedente proprietario.»
«Tu, da parte tua, non dovresti comunque avere problemi. Non hai mai conosciuto Roger Callahan, o sbaglio?»
«Esatto, non l'ho mai conosciuto e adesso non potrò conoscerlo mai più. Non posso dire che mi dispiaccia. Avrebbe potuto ammazzarci tutti, se le cose fossero girate più a suo favore.»
«Cos'è successo esattamente?»
«Per favore, non chiedermelo anche tu. Ormai ne ho avuto abbastanza.»
«Non voglio dettagli macabri» chiarì Danny. «Sto solo cercando di capire. Hai detto che ha sequestrato Steve e che tu e Phyllis avete fatto irruzione in casa cogliendolo di sorpresa. Come ci siete entrati?»
«Con le chiavi di Ellen» rispose Kevin, senza preoccuparsi di riferire come se le fosse procurate. «Phyllis è entrata d'impulso, senza neanche andarci cauta. Callahan se l'è ritrovata di fronte, non aveva ancora visto che ci fossi anch'io. Quando l'ha accoltellata, Phyllis ha cercato di schivare il colpo, venendo colpita solo di striscio. A quel punto Callahan si è accorto anche di me. Ho pensato che avevo solo una possibilità: fuggire e chiamare aiuto. Se fossi rimasto là dentro, saremmo morti tutti, se fossi scappato, forse Callahan mi avrebbe inseguito, lasciando per un attimo da parte Steve e Phyllis. Mentre scendevo le scale ho visto Roberta e suo padre che venivano su. Li ho supplicati di aiutarmi e di fare attenzione. Poi è capitato tutto in un attimo. Non saprei dirti cosa sia successo con esattezza. Callahan mi stava seguendo. È inciampato, pare. È inciampato e ha battuto la testa.»
«Stai dicendo che il caso vi abbia aiutati? Anzi, che il caso vi abbia salvati?»
«Sto dicendo quello che ho detto e ripetuto più di una volta.»
«Okay, però è così strano.»
Kevin scoccò a Danny un'occhiata gelida.
«Non so che cosa tu stia cercando di insinuare, ma dovresti essere contento che questa storia sia finita.»
«Non fraintendermi, ne sono contento, ma sembra tutto così maledettamente semplice» obiettò Danny. «Quell'uomo ha ucciso gente per anni e anni, poi all'improvviso batte la testa e muore. Inciampando per caso.»
«Ti assicuro che non sono stato io a farlo cadere» ribatté Kevin. «Mi sono solo ritrovato nello stesso posto.»
«Non ho mai accusato te di avere facilitato la sua caduta» replicò Danny. «Magari ci ha pensato qualcun altro.»
Kevin scosse la testa, dandogli del visionario. Era meglio fare così, piuttosto che rivelare di avere lo stesso tipo di sospetto.

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Capitolo 36
*** Post mortem - 9 Gennaio ***


[9 gennaio]
Erano passati nove giorni - poco più di otto e mezzo, in realtà - da quando Roberta aveva lasciato l'appartamento di Patricia insieme a John Stewart e non era sicura che tornarvi fosse la cosa giusta. Ormai, tuttavia, si era già accordata con Patricia per andare da lei ed era già sul pianerottolo: non poteva più tornare indietro, anche se non sapeva cosa aspettarsi e l'ignoto le faceva paura.
Patricia la attendeva sulla soglia e sembrava spaesata tanto quanto lei. La invitò a entrare e ad andare a sedersi. Si misero l'una di fronte all'altra e rimasero in silenzio fin troppo a lungo, come se nessuna delle due sapesse cosa dire.
Roberta si fece coraggio e riuscì a chiederle: «Cosa ne pensi, adesso? Ti senti almeno un po' colpevole per avere sempre sospettato di mio padre e non avermi mai detto niente?»
«Non ho niente di cui sentirmi colpevole» replicò Patricia. «Volevo giustizia per mia sorella, indipendentemente da chi fosse il colpevole. Lo stavo cercando da anni, non potevo certo immaginare che il punto di partenza fosse Melanie Miller.»
«Quindi hai dato per scontato qualcosa che non lo era» la accusò Roberta, «E hai deciso, di default, che siccome mio padre era un uomo inaffidabile ed era stato fidanzato con tua sorella, doveva averla uccisa lui senza alcuna ragione apparente, per poi avere iniziato a seminare il panico a Goldtown molti anni più tardi.»
«Non mi è mai importato niente delle vittime di Goldtown» obiettò Patricia. «O per meglio dire, mi dispiace molto per loro ma la loro morte non mi tocca in prima persona. Non ho mai cercato la verità per loro, ma solo per Lisa. E poi anche tuo padre ha le sue ombre. Da quanto tempo sospettava di Roger Callahan?»
«Mio padre non aveva alcuna prova contro Roger Callahan» puntualizzò Roberta, «E nemmeno una ragione per sospettare del suo coinvolgimento, fino a poco tempo fa. Si era messo il cuore in pace, pensava che l'omicidio di Jennifer fosse ormai una faccenda archiviata, di non potere tornare indietro. Vent'anni fa aveva pagato Will Mason perché facesse un'indagine parallela sull'assassinio di Linda Miller, finendo per provocare una scia di delitti. Non voleva correre il rischio che succedesse di nuovo, che altri innocenti potessero pagare con la vita qualcosa che non li riguardava. Si è rassegnato e solo quando il killer ha ripreso a uccidere ha deciso di iniziare a scavare e di cercare di capire. Non ha mai sospettato di Callahan finché non ha scoperto che a casa sua abitavano due giornaliste che stavano indagando sui delitti di Goldtown. Non puoi tacciarlo di non avere fatto niente. Anzi, è forse la persona che, più di ogni altra, ha contribuito a risolvere la situazione.»
«Tu c'eri.» Patricia la guardò negli occhi. «Com'è andata? È stato terribile, vero?»
Roberta sostenne il suo sguardo e approfittò della sua considerazione per sostenere: «Terribile, sì, ma non nel momento in cui succedeva. Non ho avuto il tempo di rendermene conto, è stato tutto così veloce.»
Patricia insisté: «Ti andrebbe di raccontarmi quello che è successo?»
«No.»
«Credo ti farebbe bene parlarne.»
Roberta scosse la testa.
«No, non mi fa bene per niente. Solo felice che quell'uomo abbia smesso di essere un pericolo, ma non è stato molto bello vederlo morire davanti ai miei occhi.»
«C'è dell'altro, vero?»
«No, per nulla.»
«Ti conosco. Ormai riesco a capire quando menti.»
Roberta puntualizzò: «Per anni mi hai scambiata per mia sorella Jennifer, non sono sicura che tu riesca a capirlo così bene.»
Patricia sbuffò.
«Ogni volta in cui inizio a sentirmi a mio agio con te, finisci sempre per dire qualcosa che non va!»
«Sono sempre stata così» obiettò Roberta. «Non è colpa mia se mi hai idealizzata. E, a dire la verità, nemmeno se, a un certo punto, ti eri messa in testa di stare con me a ogni costo per carpirmi informazioni su mio padre, convinta che fosse l'assassino di tua sorella. Io ti ho mentito, è vero, ma tu hai fatto la stessa cosa.»
«Stai cercando di dire che sono peggio di te?»
«Non sto dicendo niente di tutto ciò, hai detto tutto da sola. Forse perché lo pensi?»
Patricia abbassò lo sguardo.
«Non lo so. Mi dispiace avere creduto che il killer fosse tuo padre, e sinceramente anche di essermi avvicinata a te solo per questo, anni fa. Ti assicuro che ho capito molto in fretta che non c'entravi niente. Mi sono innamorata davvero di te. Ho sempre pensato che fossi la donna della mia vita, anche quando andavi e venivi senza darmi grosse spiegazioni, solo perché dovevi recitare la parte di Jennifer. Vorrei solo che gli ultimi mesi non ci fossero mai stati. Eravamo così felici insieme. A me non importa se tu sia Roberta o Jennifer, tutto quello che volevo era stare con te... e credo di volerlo ancora.» Di colpo alzò lo sguardo. «Però ho bisogno di capire. Devi dirmi cos'è successo quella sera. Siete stati tu e tuo padre, vero?»
Roberta finse di non avere capito.
«A fare cosa?»
«Non me la bevo, la storia di Callahan che cade dalle scale e sbatte la testa.»
«È esattamente quello che è successo.»
«È la versione ufficiale, ma sappiamo che non sempre la versione ufficiale corrisponde a realtà. Siete stati tu e tuo padre a spingerlo o a farlo inciampare? Ci siete voi dietro alla sua morte?»
«Ti ricordo che stai parlando dell'assassino di tua sorella, è lo stesso uomo che ha ucciso Jennifer quando aveva solo otto anni e chissà quante altre persone. Vuoi davvero farlo passare per una vittima?»
Patricia negò con fermezza.
«Vi capisco, se l'avete fatto.»
«Io non ho fatto niente» replicò Roberta. «Non sapevo nemmeno cosa c'entrasse con i delitti. L'ho riconosciuto come il vecchio proprietario dello studio fotografico di Steve, ma non lo ricollegavo certo agli omicidi, quella sera.»
«Però tuo padre sì.»
«Non gli ho mai letto nella mente.»
Patricia si arrese: «Va bene, non sei stata tu e non ne avevi motivo. Per caso è stato lui?»
Roberta avrebbe voluto mentire, ma si rese conto di non sentirsela. Si limitò a replicare: «Mi hai fatto una domanda a cui preferirei non rispondere.»
«Una non risposta che vale più di mille risposte.»
«Cosa ti cambia come sia andata davvero? Quell'uomo è morto, non può più fare del male a nessuno. Lascia in pace mio padre, per una volta. Volevi che il killer di Goldtown pagasse per avere ucciso Lisa. Quello che è accaduto è la cosa più simile a quello che desideravi. Non ti basta?»
«Sì, mi basta, ma è l'ennesima prova che devi sempre mentire o nascondere qualcosa.»
Roberta rimase in silenzio qualche istante, chiedendosi se valesse la pena di replicare. In un primo momento non le sembrò una buona idea, ma cambiò subito opinione.
«Non voglio né mentire né nascondermi» mise in chiaro. «Se quella sera ci fossi stata solo io, se quello che è successo riguardasse solo me, non avrei problemi a dirti chiaro e tondo come sia andata. Purtroppo non è così. Non fraintendermi, tu sei la persona più importante della mia vita e sento di poterti dire tutto, quando si tratta di me. Però non si tratta solo di me. Non sono legata a mio padre e probabilmente non lo sarò mai, ma non è giusto fingere che quello che è accaduto con Callahan riguardi me e non lui.»
«Quindi» dedusse Patricia, «Hai bisogno di proteggere la tua famiglia da me.»
«No, ho bisogno di proteggere noi due dalla mia famiglia» replicò Roberta. «Perché pensi che non abbia mai voluto presentarti i miei genitori? Non certo perché non volevo che tu facessi parte della loro vita. Volevo solo tenerli lontani, impedire che potessero interferire con la nostra esistenza. È stata mia madre ad allontanarmi da lei e da John e, alla fine, non sarebbe potuta andarmi meglio. Sophie non mi ha mai messa in difficoltà, mia nonna nemmeno. Mia madre, però, sì, e John Stewart ancora più di lei, nonostante abbia avuto ben poco a che fare con lui. Voglio solo dimenticare. Lo so che sembra banale da dire, e un po' una frase fatta, ma vorrei tornare a quando era solo una figura defilata con cui dovevo mettermi in contatto ogni tanto. Se non fosse mai venuto a cercarti al bar, non vi sareste mai conosciuti.»
«Perché è venuto a cercarmi, quel giorno?»
«Perché voleva fare parte della mia vita e anche della tua, credo. Oppure perché eri la sorella di Lisa e forse non l'ha mai davvero dimenticata. Non lo so, ho smesso molto tempo fa di chiedermi che cosa gli passi per la testa e non intendo ricominciare ora. Anzi, cominciare, temo di non averlo mai fatto.»
«E quindi? Se io e te tornassimo insieme, dovrei accontentarmi di averti solo a metà?»
«Sono i miei genitori che devono accontentarsi di avere una figlia a metà, indipendentemente dal fatto che io e te torniamo insieme o no.»
Roberta sperava che Patricia dicesse qualcosa, ma si ritrovò di fronte soltanto il suo silenzio. Era chiaro che parlasse ancora per ipotesi, che non si sentisse pronta a riprendere la loro relazione. Era comprensibile, come del resto la stessa Roberta aveva ancora molti dubbi sul loro futuro insieme.
Se ne andò senza avere concluso nulla, se non confessarle pur senza dire niente come fosse morto Roger Callahan. Cercò di togliersi dalla testa la conversazione avuta con la sua ex, ma non fu semplice. Peraltro sapeva per certo che di lì a qualche ora qualcuno le avrebbe chiesto come fosse andata.
Si stava già pentendo sia di essersi confidata con Danny sia di avere accettato di vedersi quel tardo pomeriggio, ma non poteva tirarsi indietro.

 

Si incontrarono a casa di Roberta, che quella sera era sola. Danny entrò, trovando l'amica di sempre con indosso uno degli abiti che un tempo erano "appartenuti" a Jennifer.
La fissò, spiazzato, per diversi secondi, chiedendosi se fossero tornati indietro nel tempo.
Roberta, frattanto, lo invitò a entrare.
«Vuoi qualcosa da bere?» gli chiese.
«No, non voglio niente da bere, voglio solo capire» replicò Danny. «Chi sei veramente?»
Roberta ridacchiò.
«Dai, piantala, non essere come tutti gli altri. Vieni a sederti e raccontami come stai, come va con il nuovo lavoro.»
«Sei sicura di volerne sentire parlare?» obiettò Danny, mentre la seguiva nel soggiorno in cui più di vent'anni prima si erano riuniti con i loro amici per commemorare Mark. «Non credo che le esche per la pesca siano un argomento di tuo interesse.»
«In effetti no, sono pure un po' disgustose» ammise Roberta, mentre si sedevano. «Per il resto va tutto bene?»
«Nessuno mi ha portato dei cadaveri nel garage e l'unica persona capace di avere simili intuizioni ha lasciato questo mondo» replicò Danny, con amarezza. «Spero non sia più in alcun mondo, che non ci sia nemmeno una minima particella di quel maledetto Roger Callahan, perché sarebbe in grado di fare dei danni anche da morto.» Riprese a fissare l'abito di Roberta. «Chi sei davvero? La storia che hai raccontato, secondo cui sarebbe Jennifer la bambina morta, è vera?»
«Perché non dovrebbe?»
«Perché sei vestita come lei.»
«Jennifer è morta quando aveva otto anni» gli ricordò Roberta. «Da allora ci sono sempre stata io a impersonarla. Fingevo di essere Jennifer, ma i suoi vestiti erano miei, anche se stavo recitando una parte. Sono Roberta ed è mia sorella la vittima di quel maledetto Callahan, ma tutto ciò che ho mostrato di Jennifer era solo quello che credevo che Jennifer potesse diventare. Ho cercato di renderla l'opposto di Roberta, ma nel frattempo rendevo sia l'una sia l'altra sempre più estreme. Non c'erano più Jennifer e Roberta, c'erano solo due lati opposti di me. Ho sbagliato tante cose e non solo nel mio rapporto con gli altri. Ho mentito a tutti e nel frattempo mentivo anche con me stessa.»
Danny le domandò: «Non è che stai solo cercando un modo per dimostrare a Patricia che sei diversa da come ti crede?»
«Intendi dire che, se Roberta non ha più speranze con lei, io stia cercando di farla innamorare di Jennifer?» Roberta parve divertita da quell'ipotesi. «No. Io sono di più. Non sono solo l'ex fidanzata di Patricia. La vita contibua, con o senza di lei. Nessuno meglio di te dovrebbe riuscire a capirmi.»
Danny scosse la testa.
«Mi sono stancato di cercare di capire le altre persone. È estenuante. Basta girarsi un attimo e all'improvviso tutto sfugge. Fino a due settimane fa mi sembravi interessata a Jack, adesso vuoi tornare insieme a Patricia...»
«Io e Jack non siamo fatti per stare insieme» replicò Roberta. «Mi è piaciuto quello che c'è stato tra di noi, ma basta così. È Patricia la persona con cui vorrei stare. O lei o nessuno, almeno per ora. Comunque sono fiduciosa, anche Patricia vorrebbe tornare insieme a me. Ti prenoto già come testimone, se un giorno dovessimo sposarci.»
«Non fare il passo più lungo della gamba. Neanche state insieme, al momento.»
«Possiamo chiamarla una pausa di riflessione. È stato un periodo lungo ed estenuante per tutte e due. È successo tutto e il contrario di tutto.»
«Le dirai di te e di Jack?»
«Non lo so.»
Danny esitò, non sapendo se fosse il caso di confidare le proprie impressioni a Roberta. Per via della fiducia insindacabile che nutriva nei confronti dell'amica, si decise.
«È da un po' di tempo che vedo Jack più pensieroso e tormentato del solito. Mi viene il dubbio che possa dipendere da quello che c'è stato tra di voi. Se tornerai insieme a Patricia, credo ti convenga mettere bene in chiaro le cose con entrambi, per evitare problemi futuri.»
Roberta alzò le spalle con indifferenza.
«Jack pensieroso e tormentato? Chissà mai che novità. Non credo proprio di essere io la causa dei suoi malesseri interiori. Se mai dovesse esserci una donna di mezzo, credo sia Elizabeth. E comunque non penso nemmeno che si tratti di lei. A Jack piace inventare scuse. Solo perché non è in grado di vivere in pace con se stesso, finisce sempre per dare la colpa ad altri: prima Elizabeth che lo lascia, poi Elizabeth che si mette insieme a Ray, poi io, poi Patricia... no, non siamo noi la causa dei suoi conflitti interiori. Non so cosa lo tormenti, ma sono certa che non c'entriamo noi.»
«Mhm.»
Danny non era convinto, ma non avrebbe saputo come replicare. Lasciò correre e tornò a parlare di Patricia. Roberta l'aveva incontrata, nel primo pomeriggio, e ci teneva a sapere che cosa si fossero dette esattamente.

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Capitolo 37
*** Post mortem - 10 Gennaio ***


[10 gennaio]
Ellen guardò la schermata bianca del computer, sperando che le uscissero le parole. Finito il Natale e gli articoli spazzatura a proposito di come dovesse o bon dovesse essere festeggiato, il calendario offriva ovviamente tanti altri spunti. Le era stato affidato un compito ancora più noioso e, in circostanze normali, non avrebbe avuto alcuna difficoltà a inventarsi qualcosa. Quella, tuttavia, non era una circostanza normale: le vicende legate ai delitti di Goldtown continuavano a girarle avanti e indietro per la testa, come se ci fossero domande alle quali non aveva potuto dare risposta.
Sapeva che smettere di tormentarsi sarebbe stata di gran lunga la soluzione migliore. Aveva rischiato di provocare danni colossali, quando si era sforzata di trovare a tutti i costi la soluzione a tutto in una mezza verità. Diverse persone si erano ritrovate in pericolo a causa del suo comportamento avventato, non poteva dimenticarlo.
"Ellen, smettila" cercò di ordinarsi. "Restane fuori, sarà meglio per tutti."
Purtroppo c'erano ordini ai quali non era possibile obbedire e si rendeva conto di essere proprio in una di quelle situazioni.
Prese il cellulare e scrisse un messaggio.
"Sei l'unico con cui posso parlare. Ci sono delle cose che non mi tornano. Posso chiamarti?"
Kevin le rispose subito.
"Manca un quarto d'ora all'apertura pomeridiana. Steve mi starà già aspettando al lavoro."
"Steve è sempre in anticipo" replicò Ellen. "Ti prego, non ti disturberei se non fosse fondamentale."
Kevin mise in chiaro: "Non ho voglia di parlare di faccende private."
Ellen sospirò.
"Non succederà."
Non le sarebbe affatto dispiaciuto se fosse accaduto, ma sapeva di non potersi esporre troppo. Poteva già ritenersi fortunata se Kevin non l'aveva totalmente esclusa dalla sua vita, visto com'era andata tra di loro.
Attese che Kevin le scrivesse, ma non successe più. Si stava rassegnando, ma ricevette una chiamata, alla quale si affrettò a rispondere.
«Grazie, non ci speravo.»
«Sì che ci speravi» la smentì Kevin. «Non hai mai fatto niente senza un obiettivo, né quando non c'era la possibilità di ottenere quello che volevi. Perché mi hai cercato?»
«Sei arrivato a smascherare Roger Callahan prima di me» gli ricordò Ellen, «E per giunta quando non stavi nemmeno cercando la verità. Non posso tenerti all'oscuro di quello che sento.»
«Cosa senti?»
«Non so, non c'è tutto. Qualcuno, vicino a noi, ha mantenuto qualche segreto, a causa del quale la soluzione ai delitti di Goldtown rimarrà sempre incompleta.»
Kevin azzardò: «Non mi avrai chiamato per chiedermi ancora una volta di quella notte. Non ho visto niente, non so come abbia fatto Callahan a cadere dalle scale e sono stanco di ripeterlo.»
Ellen puntualizzò: «In realtà sei stato tu a chiamare me. Ad ogni modo, non voglio chiederti di quella sera. Non parlo della sua morte, parlo della morte di tutti gli altri. Continuo a pensare che le conclusioni a cui siamo arrivati - sia noi, sia le autorità - a proposito di Mark siano incomplete.»
Kevin le ricordò: «Sei stata la prima a teorizzare che Mark sia stato ucciso quasi per caso, per via dei suoi contatti con Will Mason, contatti che però nessuno ha mai potuto provare per l'assenza di tracce telefoniche - il che non deve sorprendere, dato che sappiamo bene come Mark preferisse non usare il cellulare.»
«Sono stata la prima a formulare anche altre teorie» replicò Ellen, «Che si sono rivelate incomplete. Temo di non essere arrivata davvero in fondo alla verità.»
«Importa ancora?» obiettò Kevin. «Sono passati più di vent'anni. È giusto che i morti possano riposare in pace, non credi? Lascia perdere Mark e vai avanti con la tua vita, invece di guardare indietro.»
«Non ho mai guardato indietro» chiarì Ellen, «Anche se devo avere dato questa impressione. Mi dispiace che tu l'abbia pensato. Mi piacevi davvero e mi piaci tuttora, non è solo per via della nostra sbandata giovanile.»
«Non stavamo parlando di questo.»
«Però credo sia giusto parlarne.»
«Non adesso. Stavo per uscire per andare a lavorare, allo studio insieme all'altro tuo ex. Non mi sembra il momento.»
«Scusa se ti ho complicato la vita.»
«Scuse accettate, ma adesso devo andare.»
Ellen cercò di trattenerlo.
«Aspetta. Quando possiamo rivederci?»
«Rivederci?» obiettò Kevin. «Vuoi rivedermi?»
«Sì, anche una di queste sere. Judith si è abituata a dormire a casa del padre. Possiamo incontrarci a casa mia, se te la senti.»
Per un attimo Kevin non rispose, facendole temere che per lui quell'idea fosse da scartare sul nascere. Fu prontamente smentita, quando lo sentì dire: «Perché no? Così mi parlerai anche di Mark, se lo vorrai.»
«Grazie. Allora ci sentiamo. Ti lascio andare a lavorare. Saluta Steve da parte mia.»
«Non sono certo che sia il caso, proprio ora che le cose stanno andando meglio, tra me e lui.»

 

Kevin aprì la porta e si precipitò all'interno. Proprio come si aspettava, non solo Steve era già arrivato allo studio, ma sembrava già immerso nel proprio lavoro.
Gli venne spontaneo scusarsi per il ritardo e solo a quelle parole Steve guardò l'orologio appeso alla parete.
«Non fa niente» replicò con tono apatico, «E comunque non mi pare tardi. Sono io che sono arrivato presto.» Si girò a guardarlo e, solo allora, con una voce che appariva più interessata, gli domandò: «È successo qualcosa?»
«No» rispose Kevin. «Ho solo perso un po' di tempo al telefono.»
«Fammi indovinare, un operatore di telemarketing che non ti lasciava più andare via? Ti capisco, nemmeno a me riesce tanto facile sbattere il telefono in faccia a gente che sta lavorando, magari sottopagata.»
«No, era una chiamata personale.»
«Qualcosa di interessante?»
«Niente di che.»
Steve arrivò molto in fretta alle conclusioni.
«Per caso era Ellen? Guarda che non devi per forza fare finta che non ti interessi. Sono capace di accettare l'idea che tu e lei stiate insieme.»
«Non è necessario che fai questo sforzo» replicò Kevin. «Non sto insieme a Ellen. Ora, se non ti dispiace, ho perso già abbastanza tempo, ho del lavoro da fare.»
Si diresse verso il retro e, mentre si toglieva la giacca, aprì il programma di posta elettronica; aveva lasciato il computer acceso prima della pausa pranzo.
C'erano diverse e-mail e, subito dopo essersi seduto, iniziò a leggerle. Riuscì a farlo solo per pochi istanti, dato che venne immediatamente raggiunto da Steve.
«Se pensi di insistere a parlarmi di Ellen, non ho altro da aggiungere» ribadì Kevin. «La mia vita privata non è affare tuo, specie adesso che Ellen non ne fa più parte.»
«Mi rendo conto di essere l'ultima persona al mondo con cui vorresti parlare di lei» ammise Steve, «E mi dispiace per i casini che ho fatto. Però te lo ripeto, non devi sentirti obbligato a fingere che tra voi non ci sia niente.»
Kevin sbuffò.
«E va bene, se proprio lo vuoi sapere, mi ha invitato ad andare a trovarla a casa sua, qualche sera, quando ne avrò voglia. Non so cosa ci sia tra noi e non lo sa nemmeno lei. Mi ha invitato da lei perché vuole scopare? Probabilmente sì. Ci andrò? Anche in questo caso, probabilmente sì. Ho soddisfatto il tuo desiderio di sapere?»
«Sei stato anche fin troppo esplicito.»
«Perfetto. Adesso mi lasci lavorare, spero.»
«È un modo elegante per dirmi che per te questa conversazione è finita?»
«Non credo ci sia molto altro da dire.»
Steve arrese: «Hai ragione, non sono la persona giusta con cui parlarne.»
Stava per andarsene, ma Kevin lo trattenne.
«Un po' ti invidio, sai?»
Steve lo fissò senza capire.
«Di cosa parli?»
«Se fossi al posto tuo, mi sentirei imbarazzato a indagare sulla mia frequentazione con Ellen. Tu no, a quanto pare, nonostante tutto.»
«Sono molte le cose che non mi imbarazzano» ribatté Steve. «Penso di essere troppo sicuro di me stesso... e non sempre è un bene. Anzi, oserei dire quasi mai, dato che, per un eccesso di sicurezza, ho rischiato di farmi uccidere.»
«A proposito, tu che conoscevi Callahan, hai capito come mai abbia studiato quella trappola? Perché voleva uccidere qualcuno a tutti i costi?»
«Posso solo immaginare che volesse spingere Ellen a fermarsi o far ricadere i sospetti su di lei. Ha scelto me perché ero l'obiettivo più facile, senza pensare che, in ogni caso, Ellen non si sarebbe fermata fino alla fine. Se Callahan non si fosse incastrato da solo, starebbe ancora dando la caccia alla verità.»
«Temo che lo stia ancora facendo, nonostante tutto. Certo, adesso non è più pericoloso, ma non è del tutto soddisfatta.»
«Te l'ha detto oggi quando vi siete sentiti?»
«Sì, secondo lei c'è ancora qualche elemento che non quadra, ma le ho consigliato di lasciare perdere. L'assassino è morto, cosa importa se anche qualcuno non ha detto tutta la verità su qualche aspetto? E poi, chi avrebbe dovuto mentire?»
Steve annuì.
«Hai ragione, questa storia è diventata una specie di ossessione per lei. Le farebbe bene staccare. Tutti dovremmo staccare. Si stava così bene, quando nessuno veniva ammazzato e non c'erano criminali efferati da fermare. Non mi illudo: niente sarà mai più davvero come prima, ma dovremmo sforzarci tutti di lasciarci questo periodo alle spalle.»
«Capisco perfettamente quello che dici» convenne Kevin. «Se qualcuno ha qualche segreto che si porta dietro da settimane, oppure da vent'anni, non è un problema nostro, fintanto che non può nuocere. Dobbiamo rassegnarci: non possiamo sapere tutto. Quello di cui siamo a conoscenza dovrebbe bastarci.»

 

Jack non si accorse di Lydia Blackstone fintanto che non udì la sua voce.
«Disturbo?»
Alzò gli occhi di soprassalto. Non si aspettava di vederla e impiegò qualche istante prima di rendersi conto che era andata da lui in veste di cliente.
«Come posso aiutarti?»
«Quando avvio la macchina, mi esce una strana spia. Quando te la posso portare?»
«Anche oggi pomeriggio, se vuoi. Ci sono fino alle sei. Non mi è rimasto molto da fare, posso guardarci subito.»
Lydia diede un'occhiata all'orologio.
«Sì, va bene. Allora vado a prenderla.»
«Okay, ti aspetto.»
Jack la guardò allontanarsi, tornando con il pensiero a Elizabeth, la sua ex moglie. Lydia non le era mai piaciuta, fin dall'adolescenza. Jack aveva sempre pensato che la ragione per cui in tanti la screditavano, a quei tempi, fosse l'invidia. Lydia era sempre stata una bella ragazza, molto desiderata, anche se a lei sembrava non piacere mai nessuno. Ai tempi delle scuole superiori circolavano parecchi pettegolezzi sul suo conto, molti messi in giro da persone - come la povera Maryanne Sherman - che si divertivano a mettere in cattiva luce chi non andava loro a genio.
A distanza di anni e anni, a volte Elizabeth aveva insistito affinché anche Jack si scagliasse contro Lydia. Non l'aveva mai assecondata, ma le aveva sempre fatto credere di essere del tutto indifferente alla faccenda, le aveva sempre nascosto che, in realtà, a lui Lydia non aveva mai dato fastidio.
Si ritrovò a chiedersi se l'avere spesso indossato una maschera l'avesse allontanato dalla sua ex moglie e concluse che, chiunque si trovasse nella sua situazione, poteva indossare qualsiasi maschera senza sentirne il peso.
Andò a sedersi all'interno del gabbiotto nel quale gestiva le pratiche dell'officina. Prese fuori lo smartphone, che teneva in tasca. Trovò un messaggio di Ellen, che lo informava di avere sentito Kevin e di avergli proposto di incontrarsi.
Gli faceva piacere avere riallacciato i contatti con Ellen, qualche mese prima, dopo tanti anni di separazione. Era sempre stata una vera amica, per lui, fin da quando si erano conosciuti. Aveva cercato di fare il possibile per essere all'altezza, per renderla felice. Avrebbe preferito di gran lunga rivederla accanto a Steve - erano loro la coppia ideale, secondo i suoi standard - non le avrebbe messo i bastoni tra le ruote, in fondo anche con Kevin poteva essere felice.
"Sono contento per voi" le scrisse. "Mi raccomando, se tornate insieme tienimi aggiornato."
Ellen rispose con una semplice emoticon: un sorriso. Meglio così, si meritava di sorridere e di non scoprire mai cosa fosse successo davvero la notte tra il 31 ottobre e il 1° novembre 2002.
Jack ricordava ancora ogni singolo momento di quella tarda serata: l'uscita di soppiatto da casa, l'incontro con Kimberly, su insistenza di quest'ultima, fatto che Ellen era riuscita a scoprire a vent'anni di distanza. Era saltata alla conclusione affrettata che il loro fosse un incontro romantico e Jack glielo aveva lasciato credere. Non poteva rivelarle che, su richiesta di Kimberly, quella notte avevano pedinato Mark, perché la Richards riteneva fosse coinvolto in un affare poco pulito per via del quale era tornato a Goldtown.
Ellen ci aveva visto giusto, sull'incontro tra Mark e Will, ma non si erano trovati per discutere dell'incidente dello specchietto della macchina. Jack aveva udito chiaramente, così come Kimberly, i due che facevano il nome di Linda Miller. Will si era messo ad accusare Mark di avere accettato dei soldi per fare qualcosa che aveva preferito non menzionare.
C'era qualcosa di grosso in mezzo, Jack e Kimberly l'avevano compreso subito. Mark aveva replicato che i suoi interessi economici non erano affare di Will e che non aveva tempo di rimanere a dibattere di quell'argomento insieme a lui, dato che doveva incontrarsi con la persona che lo pagava e che, a causa sua, stava perdendo tempo prezioso.
Si erano lasciati così, mentre Jack e Kimberly si defilavano di soppiatto, valutando il da farsi. Sull'auto della ragazza non avevano avuto un rapporto sessuale, come credeva Ellen, bensì concordato che, qualunque cosa fosse accaduta, avrebbero dovuto fingere di non sapere niente dell'incontro tra Mark e Will. Jack avrebbe utilizzato come "alibi" la visione della partita, Kimberly avrebbe fatto credere a Patricia di averla attesa in casa tutta la sera, facendole giurare di non rivelare a nessuno del loro appuntamento. Più avanti avrebbe cercato di lasciarla con una scusa - il tradimento se l'era inventato - e di non recarsi più a Goldtown, per evitare di rimanere invischiata in una storia più grande di tutti loro.
Jack poteva solo immaginare cosa fosse accaduto dopo: Mark doveva essere andato a un appuntamento con Roger Callahan, che invece di consegnargli altri soldi l'aveva ammazzato. Non era difficile ipotizzare il movente: doveva essere stato lui il tramite con cui Callahan si era messo in contatto con Linda. Jack dubitava che Mark fosse al corrente delle intenzioni di Callahan, prima dell'omicidio, ma dopo la morte della ragazza doveva avere intuito il coinvolgimento di quell'uomo. Era probabile che gli avesse chiesto altro denaro in cambio del suo silenzio.
Era plausibile anche che Will, pagato invece da John Stewart per scoprire invece chi avesse ucciso Linda, avesse seguito Mark e visto o udito qualcosa di compromettente, da cui la decisione del killer di eliminarlo a sua volta. Kimberly, infine, sapeva soltanto che quella sera Mark doveva vedere una persona che lo pagava in merito a un affare inerente la Miller: era quello che Mark aveva detto, testualmente. Doveva avere fatto due più due ed essere arrivata alla conclusione errata che quella persona fosse Ellen.
Jack non aveva mai sospettato di lei, non aveva ragioni per farlo. Dopo la morte di Mark aveva deciso sia di proteggere la sua memoria, sia di impedire che Ellen scoprisse di che pasta era fatto. Peraltro, visto il suo interesse giornalistico, già ai tempi, per il delitto della Miller, Jack sospettava fortemente che Mark si fosse messo insieme a Ellen con il secondo fine di carpirle eventuali informazioni, forse utili per estorcere soldi all'assassino.
Non gli era stato difficile realizzare che, innamorandosi di Steve, Ellen si era finalmente avvicinata a un ragazzo che ci teneva davvero a lei e che non aveva segreti infamanti. Infine, quando vi rifletteva, Jack si rendeva conto di avere a sua volta un segreto infamante.
Non sapeva cosa sarebbe cambiato se avesse parlato, a suo tempo, di quello che aveva sentito la notte del delitto. Forse non sarebbe stato sufficiente a fermare Callahan, ma esisteva la possibilità che almeno alcuni dei delitti che erano seguiti potessero essere evitati.
"Magari sarei morto io, ma qualcuno di loro sarebbe ancora vivo."
Ci pensava sempre più spesso, negli ultimi tempi, un po' come se i delitti più recenti e la fine di Roger Callahan avessero riaperto una ferita che per vent'anni aveva cercato di cancellare. Sapeva di non esserci riuscito, sperava solo, nonostante tutto, di essere in grado di continuare a tenerso dentro quel peso.
Mentre il suo cellulare vibrava, stavolta per informarlo che la batteria era ormai scarica, Jack si maledisse per non essere rimasto a casa a guardare davvero la partita in replay, quella sera. Assistere al goal di Harvey Lee, invece che a quella maledetta conversazione tra Mark e Will, sarebbe stata un'opzione decisamente più accettabile. Purtroppo non poteva tornare indietro, nonostante per una parte fosse ancora il novembre del 2002. Se non altro, seppure per ragioni diverse, aveva molto in comune con gran parte dei cittadini di Goldtown.





Era con tutta probabilità il 22 ottobre 2002 quando scrissi le prime righe de "Le Lettere di Mabel", così si chiamava inizialmente il mio tentativo di romanzo, su un foglio di bloc notes a quadretti di cinque millimetri. Mesi di fogli, quaderni, ripensamenti, trame assurde, un triangolo amoroso nonsense tra Ellen, Steve e Kevin (a un certo punto continuai la storia solo perché non ero convinta della ship Ellen/ Steve con la quale l'avevo fatta terminare), l'apparizione di Roberta, gemella segreta di Jennifer (ai tempi una delle due era già fidanzata con Patricia, anche se non ricordo quale, per colpa dei continui scambi), moventi nonsense per i delitti e quant'altro.
La trama è cambiata molto nel corso di questi vent'anni, ogni tanto provavo a scrivere versioni nuove, ma nessuna mi aveva mai convinta. Nessuna prima di questa. "Le lettere dell'innocenza", il titolo che poi prese "Le Lettere di Mabel" a un certo punto del 2003, è ricominciata verso la fine di ottobre del 2022, con la volontà di celebrare in qualche modo il ventennale di quello che consideravo il mio "primo romanzo". Mi piace ancora considerarlo in questi termini e il 31 gennaio 2023, dopo tre mesi, sono arrivata in fondo. I titoli delle varie parti, "Le Lettere di Mabel", "Lacrime macchiate di sangue", "Ellen non deve morire", "Anche gli assassini sono vittime" e "La vendetta di Mabel" sono tutti ispirati (oppure presi tali e quali) da titoli di sottosezioni o seguiti della versione originale. Il periodo di ambientazione è simile a quello delle prime due parti della versione del 2002, anche se in parte spostato più in là di vent'anni: ai tempi spesso scrivevo giorno per giorno, ambientando i fatti nella stessa data del giorno in cui scrivevo, questo successe per circa due mesi, fino verso la fine di dicembre.
Vorrei ringraziare la mia compagna di banco di prima superiore S., che probabilmente nemmeno si ricorda di questa "opera", ma alla quale parlavo costantemente delle mie idee, la mia amica E., che si ricorda ancora dell'esistenza del Mabel-verso e alla quale tempo fa ho riferito di avere ricominciato questa avventura, i ragazzi del forum Scrittori della Notte, con cui in passato ho condiviso stralci di versioni prodotte nel corso degli anni, ma soprattutto le persone che mi leggono su EFP e quelle che hanno recensito e recensiranno. Sappiate che anche grazie a voi ci sono arrivata in fondo.
Aggiungo che "Le lettere dell'innocenza" ha contribuito a risvegliare il mio interesse per la scrittura, riportandomi a percorrere vie che credevo ormai abbandonate. In primo luogo mi ha condotta su EFP, dove ho condiviso diversi miei scritti risalenti agli scorsi anni, e in secondo luogo mi ha spinta a rimettermi in gioco. Pensavo che ormai la scrittura non facesse più parte di me, invece mi sbagliavo. Chissà che qualche altra storyline vecchia di decenni non torni alla luce in una nuova forma.

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