Sogno lucido

di Moodymoon
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Stordimento ***
Capitolo 2: *** Solitudine ***
Capitolo 3: *** Una figura nel nulla ***
Capitolo 4: *** Lo strano villaggio ***
Capitolo 5: *** Sparizioni ***
Capitolo 6: *** Strani modi di fare ***
Capitolo 7: *** Discorsi rivolti a sé stessi ***
Capitolo 8: *** Terribilmente reale ***
Capitolo 9: *** Michele ***
Capitolo 10: *** I cambiafaccia ***
Capitolo 11: *** Manuel ***
Capitolo 12: *** Non calpestare i fiori ***
Capitolo 13: *** Negli occhi altrui ***
Capitolo 14: *** Mamma e papà ***
Capitolo 15: *** Rimanere insieme ***
Capitolo 16: *** Dentro la peggior paura ***
Capitolo 17: *** Racconti diretti ***
Capitolo 18: *** Partenza ***
Capitolo 19: *** Dolci e insensati inframezzi ***
Capitolo 20: *** Parti di te ***
Capitolo 21: *** Chiacchiere ***
Capitolo 22: *** La porta di Colin ***
Capitolo 23: *** La porta di Eleonora ***
Capitolo 24: *** Sogno, non son desto ***
Capitolo 25: *** Camera numero 174 ***
Capitolo 26: *** Giulia ***
Capitolo 27: *** Correre e cadere ***
Capitolo 28: *** Osservatori inaspettati ***
Capitolo 29: *** Quotidiana routine ***
Capitolo 30: *** Come un padre ***
Capitolo 31: *** è sempre bene metterlo il punto ***
Capitolo 32: *** Sfortune e borsoni ***
Capitolo 33: *** Dire addio fa sempre male ***
Capitolo 34: *** Pestaggio ***
Capitolo 35: *** Come un taglio a carne viva ***
Capitolo 36: *** Come giocattoli rotti ***
Capitolo 37: *** Via d'uscita dal dolore? ***
Capitolo 38: *** Dipendenza ***
Capitolo 39: *** Non è mai facile chiudere un capitolo ***
Capitolo 40: *** Vittime degli eventi ***
Capitolo 41: *** La verità, tutta la verità, solo la verità ***
Capitolo 42: *** Qualcuno di nuovo ***
Capitolo 43: *** L'insensato è routine ***
Capitolo 44: *** Trovarsi ***
Capitolo 45: *** Ambra ***



Capitolo 1
*** Stordimento ***


  Si ritrovò immersa in un'oscurità profonda, non percepiva alcun suono, alcun movimento intorno a sé, non capiva dove fosse distesa perché il suo senso del tatto sembrava assopito, le sembrava quasi d’essere sospesa nel buio.
Non percepiva il caldo o il freddo e il suo corpo era immobile, tanto da farle venire il dubbio d’averlo ancora; provò a riempire la sua mente totalmente vuota d’un qualsiasi pensiero ma non vi riuscì, poi d’improvviso delle lettere le comparvero davanti, non erano molto chiare così provò a renderle tali, piano piano vide una parola, era un nome: Eleonora; le piacque, in qualche modo le sembrò familiare, l’afferrò con tutte le sue forze e lo riconobbe come suo.
Pian piano l’intorpidimento totale al quale il suo corpo era sottoposto scemò, sentì che un lieve solletico le era procurato dalle ciglia, così capì di avere gli occhi chiusi e decise di doverli aprire; non seppe se farlo piano o velocemente, così optò per la prima opzione e non appena le sue ciglia si separarono dei violenti raggi di una fortissima luce capitolarono nei suoi occhi bruciandoli, li richiuse di scatto, riprovò una seconda volta, stavolta con il secondo metodo e appena furono spalancati vide un limpidissimo cielo azzurro con delle nuvole bianche e rosa pallido. Lasciò che i suoi occhi si abituassero a quella luce, poi notò che il suo braccio era sollevato come se avesse effettivamente afferrato qualcosa, lo abbassò incerta e appena esso toccò terra le sembrò di toccare ruvida asfalto, tuttavia sollevandosi vide una distesa d'erba verde, quindi costrinse le sue gambe a reggerla per permetterle di ammirare il paesaggio intorno a sé: l’erba era lunga e adornata di brillanti goccioline di rugiada mattutina, degli altissimi alberi con foglie grandi e piccole formavano un bosco fitto fitto ma spettacolare, le foglie e i petali dei fiori e degli alberi risplendevano accarezzati dal sole; d’improvviso un forte calore le si propagò per tutto il corpo, si sentì bruciare, non sentì odore di erba bagnata come avrebbe dovuto ma di gas.
Nonostante di suoni dovessero esservene ben pochi in relazione al paesaggio, Eleonora sentì un frastuono di voci urlanti, macchine e clacson a dir poco assordante. Tutto quello che sentiva era in totale contrasto con ciò che vedeva e ciò portò le sue gambe a cedere e farla cadere sulle sue ginocchia, quindi si accasciò confusa e senza apparente ragione dolorante, chiuse gli occhi e si concentrò, pensando che non fosse possibile che sentisse odore di gas e rumori di clacson in una simile radura ricca di verde.
Quando riaprì gli occhi percepì il solletico dell'erba sul suo corpo, un dolce vento leggero accarezzarle la pelle, il profumo della rugiada mattutina e il fruscio delle foglie; si sentì sollevata, il bruciore e il dolore che aveva provato sul suo corpo sparirono. Eleonora si lasciò trasportare per un po' da tutto quello che la circondava, allargò le braccia godendosi il vento, ascoltò la dolce cantilena prodotta dalle gocce di rugiada che si schiantavano al suolo, dal fruscio di foglie e petali secchi che si rincorrevano tra i cespugli e si perse a guardare le dolci nuvole di mille dimensioni e forme diverse. Poi si iniziò a sentire inquieta, la sua testa da vuota divenne talmente pesante per le domande che vi si formarono che le sembrò il suo collo non riuscisse a reggerla:
Cos’è questo luogo? Perché sono qui? Dovrei andarmene? E dove in quel caso? Da dove vengo? Chi sono io? Conosco qualcuno qui? C'è qualcuno in questo luogo incontaminato?
Iniziò ad agitarsi, un’ansia profonda s’impossessò di lei fino a scuotere ogni parte del suo corpo, improvvisamente il cielo non sembrava così azzurro, la dolce cantilena non era così piacevole e nemmeno quel tiepido vento era dolce, diventò fastidioso e le si scaglio sul viso come se volesse ferirla. Eleonora spaventata iniziò a camminare da qualche parte, ma non sapeva dove andare, lì non vedeva nessuno, così iniziò a correre disperata nella prima direzione che le sue gambe scelsero, allontanandosi dal bosco, dalla cantilena e dai profumi dei fiori, ora diventati bruschi e irruenti nelle sue narici.
Corse verso un luogo che non conosceva, abbandonando un altro luogo che non le era familiare; corse velocemente ma il paesaggio sembrava sempre lo stesso, persino le nuvole non cambiavano, chiuse gli occhi perché quel paesaggio sempre uguale la terrorizzava, aumentò la velocità, andando sempre dritto verso il luogo alla quale le sue gambe l’avevano indirizzata, l’unica cosa che sentiva era il suo cuore battere freneticamente, sentì lo sforzo che il suo corpo stava facendo per correre così velocemente, sentì piano piano le gambe diventare pesanti, sempre di più, sentì il cuore battere talmente forte da farle male al petto; sentì le gambe cedere e cadde rovinosamente a terra rotolando su se stessa percossa dal terreno instabile, tenne gli occhi chiusi finché  non si fu fermata, bloccata dal tronco d’un enorme albero scuro; improvvisamente sentì il rumore d'acqua che correva veloce e aprendo gli occhi vide di essere a pochi metri da un fiume, vide che il terreno non era più fatto d’erba ma era spoglio e frastagliato di sassolini, vide che non vi erano che pochi alberi lì intorno, il cielo era meno azzurro e brillante, le nuvole un po’ più grigiastre, l’aria più calda e secca, si sentì affaticata e assetata, quindi gattonando si sforzò di arrivare fino alla riva del fiume e tenendosi ben stretta ad essa infilò la testa sott’acqua rinfrescandosi un po’, per poi tirarla fuori facendosi ricadere l’enorme massa di capelli bagnati sulle spalle a bagnarsi la felpa, quindi prese un po’ d’acqua con le mani a conchiglia e se la portò alle labbra per dissetarsi. Il bruciore che provava ai piedi la scosse e quindi si mise seduta e immerse le gambe in acqua fino al polpaccio sentendo subito il dolore alleviarsi, la mente farsi più lucida e il corpo meno caldo.
Aspettò un po’ di tempo in quella posizione, osservando il sangue proveniente dalle piante ferite dei suoi piedi mischiarsi all’acqua fresca e quando vide che esso cessò di scorrere tirò le gambe fuori dall’acqua e si rimise in piedi, si guardò un’altra volta intorno e vide che il fiume continuava verso la sua sinistra e verso la sua destra invece si interrompeva mischiandosi all’azzurro del cielo. Andò a controllare e vide che quel fiume moriva in un enorme lago con intorno numerosi alberi e piante di vario tipo, vide delle rocce appuntite lungo la cascata e notando quanto fosse ripido quel punto, vi si allontanò: quindi decise che quel punto sarebbe stato il suo sud, osservò oltre il fiume e vide che il suo est era una pianura in cui si alternavano alberi enormi e fiori piccoli e delicati, quindi osservò il luogo da cui era venuta, il suo ovest, e non vide più il dolce prato con le gocce di pioggia e di rugiada sulle foglie e sui fili d’erba se non come un puntino verde in lontananza, si rese conto di quanto aveva corso e le vennero i brividi: quindi decise di proseguire a nord, da dove proveniva il fiume, sperando d’incontrare qualcuno che potesse aiutarla.
Proseguì camminando a passo svelto senza mai fermarsi fino a che il sole non iniziò a calare, intanto il paesaggio intorno a sé si fece più cupo, con il terreno marrone scuro, le pietre dal grigio chiaro al marroncino si fecero più grandi, non erano più sassolini ma pietre grandi quanto la sua testa, lisce lisce, vi era sempre meno verde: solo qualche albero qua e là e qualche pianta incastonata tra le rocce alla riva del fiume.
Quando fu troppo stanca e il cielo si tinse d’un arancione ed un rosso intenso decise di fermarsi, bevve un po’ d’acqua e cercò un luogo dove potersi riposare, quindi si sistemò in posizione fetale sotto un albero non molto lontano dalla riva del fiume, poggiando la testa su una delle radici che andavano ad infiltrarsi nel terreno ora freddo; osservò il cielo farsi scuro, il sole sparire, vide il fiume brillare quasi e piano piano un vento gelido raffreddò il suo corpo accaldato fino a farle sentire freddo, quindi i suoi occhi non ressero, la mente inquieta si arrese e il corpo cedette calando in un sonno profondo.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 2
*** Solitudine ***


 
Non appena aprì gli occhi percepì una ruvida stoffa fra le dita, ma sotto di sé non vi era altro che una fitta rete di radici; una fredda carezza da parte del vento la portò ad alzarsi, si avvolse nella felpa facendosi piccola al suo interno, chiuse gli occhi per un tempo indefinito ed immaginò che qualcuno la stesse abbracciando: una lacrima di frustrazione nel rendersi conto di non riuscire anche solo a dare un volto alla figura immaginaria che l’abbracciava si fece strada fino al suo collo e poi s’asciugò col sole.
Riaperti gli occhi vide una pozzanghera d’acqua limpida, vi si provò a specchiare e vide labbra rosse, guance pallide, occhi dal bizzarro colore: viola; si ritrasse e scosse la testa, vagabondò senza meta seguendo il nord, sempre camminando sulla riva del fiume; un pesciolino giallo e rosso la seguì per un po’, nuotava nella stessa direzione di lei e schizzava ogni tanto fuori dall’acqua, ma dopo un po’ probabilmente scese sul fondo del fiume perché Eleonora non lo vide più.
Si fermò quando vide un coniglio seguito da altri piccoli tre coniglietti, uno bianco con un orecchio nero uno bianco con il musetto e la zampa neri, l’altro con tutta la testa nera eccetto il muso e l’orecchio sinistro: la madre si fermò quando il primo dei tre leprotti si mise a fissarla, così fecero anche gli altri due. La madre del coniglio sembrava ansiosa, aveva probabilmente paura che Eleonora fosse una minaccia per i suoi piccoli. Lei prese un fiore incastrato tra due pietre, aveva notato che i tre coniglietti prima l’avevano osservato, lo porse alla madre e lei annusò un po’ e poi lo porse ai piccoli, una volta finto di mangiare questi si avvicinarono ad Eleonora, che solo dopo aver avuto un lungo scambio di sguardi con la madre dei piccoli li accarezzò, i tre s’infilarono nella tasca della felpa e così fece la più grande.
Riprese a camminare con i conigli addormentati nella tasca della sua felpa, guardò intorno a sé più volte ma nulla sembrava mutare, tutto era immobile, persino l’aria. Sentì sfiorarsi il fianco, percepì la carezza di qualcuno sul viso e disse a sé stessa che avrebbe dovuto smetterla di immaginare o sarebbe impazzita.  
Si fermò nuovamente quando un crampo improvviso allo stomaco la costrinse a piegarsi in avanti, lasciando che i coniglietti uscissero dalla tasca, la madre si allontanò e dopo una mezz’oretta tornò dai piccoli e da Eleonora trascinando con sé una carota fin troppo grande, la porse a lei. Eleonora la lavò dalla terra nel fiume, ne spezzo la metà in quattro pezzi e la diede ai coniglietti, il resto lo mangiò lei, accarezzando dolcemente la testolina della coniglietta.
Si distese e lasciò le emozioni scorrere come il fiume che aveva di fianco, un profondo disorientamento prese sotto braccio la confusione e la tristezza e si sedette nel lato destro della sua mente; frustrazione e paura si presero invece per mano e si sedettero sul buio lato sinistro; ma al centro stava una donna con gli occhi viola, con braccia e spalle piccole, con vita stretta e fianchi larghi, con capelli neri lunghi fin sotto la schiena: lei, la solitudine, dominava su tutte le atre emozioni senza volto e forma.  
La coniglietta la svegliò dallo stato di irrequieta calma al quale s’era abbandonata poggiandole il morbido muso sulla fronte, quasi cercasse di consolarla, quindi lei aprì gli occhi, sorrise e fece entrare i conigli nella tasca della sua felpa. Dopo diverse ore vide una tana, la coniglia più grande salto giù da sola, i piccoli li aiutò Eleonora, tutti e quattro s’infilarono dentro la tana, ma prima di sparire la coniglietta guardò nuovamente verso Eleonora e le portò una carota da dentro la tana: ‘Grazie’, sembrava voler dire, poi sparì.
Ore ed ore da sola pesarono sulle condizioni di Eleonora. Si accasciò a terra triste, non avendo forza per continuare a camminare, preferendo stare ferma ed aspettare che uno strano avvenimento la portasse a sentirsi meno persa. Si strofinò le braccia da sola abbracciando se stessa ed immaginando che qualcuno lo facesse per lei, cullandosi nel suono del silenzio.
Rimase per ore in quella posizione ed il sole salì alto sulla sua testa, d’improvviso però sentì una nuova energia scoppiarle nel petto: non si sarebbe arresa, non sapeva come ma avrebbe trovato qualcuno, o almeno ci avrebbe provato.
 
Il suo primo tentativo fu cercare l’albero più alto dei dintorni ed arrampicarvisi in cima: da lì avrebbe osservato tutto il resto e deciso se continuare in quella direzione o cambiare, nel caso in cui avesse visto villaggi, paesini o città. Trovò l’alberò adatto dopo poco, cominciò ad arrampicarsi, poggiando i piedi nelle rientranze, nelle crepe, finché non raggiunse il ramo più basso e vi si aggrappò: rimase per qualche minuto a penzoloni, fino a trovare la forza nelle braccia di sollevare il suo intero peso, riuscire a poggiare i piedi su quel ramo e aggrapparsi al successivo;  a più di metà salita vide uno scoiatolo riempire la tana di ghiande e guardarla diffidente, gli sorrise ma non si trattenne, salì fino in cima, rimanendo in equilibrio con i piedi in due rami, osservò intorno a sé ed in lontananza vide un puntino, un agglomerato di minuscoli puntini che potevano somigliare a case, così minuscole che si chiese se non le vedesse solo per speranza. Avrebbe proseguito a nord, non vedendo di meglio nelle altre direzioni.
Provare a scendere dall’albero fu complesso, troppo, infatti dopo pochi passi cadde rovinosamente fin quando non riuscì ad aggrapparsi ad un ramo con la mano destra, sentendola piena di schegge; goffamente scese fino all’ultimo ramo, poi si lanciò a terra cadendo sulle sue gambe.
 
Il secondo tentativo fu utilizzare diversi tronchi non troppo piccoli come sostegno, li legò insieme utilizzando dei giunchi e poi provò a porvisi sopra e ‘navigare’ sul fiume, ma dopo non molto i giunchi cedettero e lei finì trascinata qua e là dalla corrente del fiume. Rischiò d’annegare, perché non ricordava come nuotare, così aspettò che la corrente la facesse sbattere contro la riva per aggrapparsi ad una roccia: si tagliò la mano sinistra ma tornò sull’erba con il busto, lasciando le gambe a penzoloni in acqua. Non si arrese, vide un tronco molto robusto e risalì sul terreno, vi andò dietro e cominciò a spingere con tutte le sue forze, fino a spingerlo sulla riva del fiume.
“Coraggio tronco, cadi giù!”
Il tronco finì in acqua e galleggiava veloce, così Eleonora si buttò e vi si aggrappò, tenendosi ben salda. Il suo obbiettivo era quell’agglomerato di puntini e grazie a quel trucco riuscì a risparmiare fatica sulle gambe per un bel po’, fin quando il tronco non urtò contro un masso sulla destra del fiume girandosi e facendo incastrare Eleonora fra il tronco stesso ed un masso. Lei si divincolò da quella stretta e decise di smettere di chiedere passaggi a quel fiume.
 
Come terzo ed ultimo tentativo decise di chiedere aiuto, di provare a farsi vedere, quindi prese rami secchi in enorme quantità e li ammucchiò non molto lontano dalla riva del fiume, poggiandoli su una base fatta di pietre grandi e piccole, una base con diametro di due metri e trentasei, quindi prese due rami secchi e dopo quasi un’ora ottenne una piccola fiamma: subito l’alimentò fin quando il legnetto non somigliò ad una torcia, quindi lo poggiò in un punto non preciso della montagna di legni ed erbe secche e tutto prese a fuoco: le fiamme arrivarono a metri e metri d’altezza, non sembrava neanche reale. Eleonora quindi aspettò, aspettò paziente per ore, stanca e provata dai numerosi tentativi e dai pericoli affrontati. Quindi crollò sfinita, abbandonandosi allo scoppiettio delle fiamme di fronte a lei.

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Capitolo 3
*** Una figura nel nulla ***


Quando il sole l’indomani sorse, lei fu svegliata da una ventata d’aria calda, si alzò piano intorpidita e con ancora la mente in parte addormentata, il fuoco si era spento e nessuno l’aveva soccorsa. Si avvicinò al fiume e si gettò dell’acqua gelida in viso per svegliarsi, allargò le braccia godendo delle gocce d’acqua prodotte dall’infrangersi di quest’ultima sulle pietre che sporgevano dalla riva e ricominciò a camminare.
Dopo un paio d’ore iniziò a sentire lo stomaco brontolare piano, ma fece finta di nulla continuando per la sua strada che piano piano si riempiva di verde, di alberi, piante e fiori, ad un certo punto non ce la fece più e sentì lo stomaco contorcersi dalla fame, girò su se stessa cercando qualcosa di commestibile, vide che nel fiume nuotavano molti pesci ma non pensò nemmeno di provare a catturarne uno, quindi decise di avvicinarsi agli alberi sparando in un qualunque albero da frutto, non trovò nulla e dovette sperare che continuando a camminare in direzione nord trovasse qualcosa. Per fortuna un paio d’ore dopo, nonostante non avesse fatto molta strada poiché rallentata dai morsi della fame, vide che su degli alberi un po’ distanti dal fiume c’erano delle mele rosse e brillanti, quindi vi si avvicinò, si arrampicò un po’ finché non raggiunse quei frutti, ne staccò un paio infilandoli nella tascona della sua felpa e tornò a terra; si fermò a mangiare due di quelle mele di cui non sentiva il sapore e per la prima volta da quando era in quel posto a lei sconosciuto si chiese quale fosse il suo aspetto, non aveva neanche idea di come fosse fatta. Si osservò le mani, erano abbastanza sottili e con le dita lunghe, le unghie non erano curate ed erano piuttosto corte, si osservò le braccia con le maniche della felpa arrotolate fin sopra le spalle e notò che erano molto chiare, così come le gambe, notò di avere i capelli molto lunghi e neri come la pece, si alzò e si sfilò la felpa lasciandola cadere al suolo con le mele, vide un paio di pantaloni da ciclista e una canottiera, neri entrambi, anche la felpa lo era; notò di indossare un vecchio ed usurato braccialetto verde e uno di cuoio a precederlo, entrambi sul polso sinistro, si toccò il collo e lo sentì sottile e lungo, vide di avere un seno un po’ pronunciato nonostante la vita non troppo sottile, poi toccò i suoi fianchi e storse il naso: erano troppo larghi, quindi tornò a guardarsi e vide che le sue gambe non erano molto grosse, le cosce erano morbide e i polpacci proporzionati, con le caviglie sottili, all’improvviso si fermò, le sembrò di sentire delle voci e parlò tra sé e sé:
“Ma quanto sono stupida, non ricordo il mio aspetto ma non devo perdere tempo, devo trovare qualcuno che possa dirmi cos’è questo posto e come tornare a casa, o comunque a ricordare quale sia…”
Quindi afferrò la sua felpa avvolgendovi le mele fuoriuscite dalla tasca e iniziò a correre verso quelle che le erano sembrate delle voci. Corse a perdifiato, corse per un tempo che le sembrò interminabile, quel rumore si faceva più vero, lo sentiva, lo inseguì disperatamente, ma più lei correva più sembrava essere lontano, erano voci o stava impazzendo? Non lo sapeva più ma continuò a correre finché, piano piano, quel rumore simile al sovrapporsi di diverse voci, non si fece sempre più debole, fino a sparire; quindi Eleonora si gettò sulle sue ginocchia, cadde con le mani a terra, i capelli sul terreno marrone e l’erba e disperata, confusa e triste, iniziò a piangere: delle grandi e pesanti lacrime le bruciarono il viso, era nuovamente pomeriggio, era in un luogo che non conosceva e nessuno era lì, sarebbe finita così per lei? Morta di fame, senza ricordi di sé, di dove fossero le persone che conosceva o di chi fossero, o se ne conoscesse? senza nessuno intorno e completamente sola? Pianse, pianse tutte le sue lacrime, pianse tutta l’acqua che aveva in corpo, pianse fino al tramonto e le lacrime non cessarono, non riuscì a smettere, pianse per tutto il resto del giorno, si disperò tutta la notte e la mattina dopo ancora; pianse lacrime più piccole e meno feroci però,  mentre camminava e mangiava mele, pianse finché gli occhi non ressero più  e, il pomeriggio del suo quarto giorno dispersa, si chiusero facendola nuovamente sprofondare in un sonno anche più profondo del precedente.
Quando si svegliò faceva molto freddo, non sentiva più nulla, né dolci cantilene, né profumi, né suoni, solo freddo; aveva camminato tanto, i piedi quasi non reggevano più, era notte e una profonda tristezza si impossessò di lei, quindi si mise ad urlare tanto forte da farsi male alla gola, si alzò in piedi ed iniziò ad urlare:
“Non c’è nessuno qui? Ho bisogno d’aiuto! Se esiste qualcuno in questa terra desolata vi prego, vi scongiuro, aiutatemi!”
Le lacrime tornarono.
“Vi prego! Non so da dove vengo, non so chi sono e non so dove sono, non so che giorno sia, non so se conosco qualcuno, non so se ho una famiglia, aiuto!”
Si guardò intorno ma non vide nulla, quindi si infilò la felpa che aveva sotto il braccio e tornò a correre, corse continuando ad urlare:
“Aiuto! Qualcuno mi aiuti vi prego! C’è nessuno? Dove mi trovo?”
I piedi iniziarono a bruciare, inciampò in una roccia ma si rialzò e continuò a correre:
“Cosa faccio qui?”
Mentre correva le sembrò d’attraversare, ad un certo punto, uno strato trasparente di un vetro sottilissimo, come se avesse rotto qualcosa.
I suoi piedi perdevano sangue, era inciampata diverse volte e ora sanguinavano anche le ginocchia: era indolenzita e piena di lividi,  quindi si accasciò a terra, arresa all’idea che in quel luogo non vi fosse nessuno, pronta a lasciarsi morire, quando improvvisamente in lontananza le sembrò di vedere un puntino di luce, aveva passato ore ad urlare e correre e non ce la faceva più e anche se vedeva quella luce si disse che il suo cervello le stava giocando un brutto scherzo proprio come con le voci che aveva sentito, così tornò a piangere distrutta. Però la luce non se ne andava e anzi si faceva più vicina, da puntino divenne punto e si fermò:
“Ecco, lo sapevo, ora svanirà anche questo miraggio.”
Però non spariva e anzi, ora che era più vicino le sembrò di riconoscere una figura, aveva quelle che sembravano due gambe e due braccia e una testa e un busto:
“Magari…”
Sentì una voce provenire da quel puntino, ma poi vide che si allontanava, le tremarono le gambe, ormai aveva corso tanto ed era allo stremo, ma si chiese:
E se quello non fosse un miraggio e io stessi sprecando l’unica occasione di incontrare qualcuno qui? Ma è troppo lontano e io non riesco più a muovermi, devo urlare anche se la gola brucia
Provò ad urlare ma dalla sua gola usciva solo un debole suono.
Ti prego voce, un ultimo sforzo.
Provò ancora, ancora ed ancora, ma niente. E intanto la luce si allontanava sempre più e le sue gambe per quanto Eleonora provasse non riuscivano più a sostenerla, quindi cercò di urlare, un’ultima volta prima di arrendersi, urlò con tutta sé stessa e finalmente un suono uscì:
“AIUTAMI TI PREGO! NON ANDARE VIA, SONO QUI!”
Dopodiché crollò a terra sfinita, ormai neanche le braccia la reggevano più, tenne gli occhi aperti.
Il puntino di luce, che in realtà era un ragazzo di nome Colin che tenera in mano una torcia, si fermò di nuovo e iniziò a correre molto velocemente in direzione di quel disperato grido straziante del quale a malapena si comprendevano le parole pronunciate, finché non arrivò di fronte a quella ragazza stesa a terra senza forze che lo guardava con i suoi grandi occhi violacei ora illuminati dalla luce della sua torcia.
Appena le fu vicino, Eleonora sorrise e svenne, non prima che il suo cuore facesse le capriole dalla felicità poiché finalmente aveva trovato qualcuno…
Colin prese la torcia tra i denti e si mise Eleonora tra le braccia, la sua testa pendolava e i capelli arrivavano fino a terra, era pallidissima illuminata dalla luce lunare, aveva due profonde occhiaie violacee, le guance rigate dalle lacrime, le labbra screpolate per la sete ma gonfie e rosse per il pianto e per i  morsi che avevano ricevuto; lui quindi liberò la felpa dalle mele rimaste, sistemò la testa della ragazza a lui sconosciuta sulla sua spalla e camminò svelto verso il suo villaggio.

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Capitolo 4
*** Lo strano villaggio ***


Dopo circa mezz’ora Colin arrivò al principio della strada primaria del villaggio e proseguì fino ad una casa in legno col tetto spiovente, che si trovava quasi fuori da quel luogo.
Una volta dentro imboccò l’unico stretto corridoio che prima portava ad una stanza abbastanza ampia con un divano rosso scuro, una piccola cucina sul lato opposto ad esso, un tavolo in legno al centro e una grande finestra che occupava buona parte della parete frontale all’ingresso con tende bianche a coprirla, lunghe fino al pavimento in legno scuro; subito dopo ad un’altra stanza, molto meno ampia della precedente, con un letto in legno massiccio da una piazza e mezzo, un’ampia finestra, coperta da tende porpora, che dava sul paesaggio verde e dalla quale si poteva sbirciare uno scorcio del fiume, una piccola lampada poggiata s’una sedia a fianco del letto che, una volta accesa, emanava una dolce e calda luce gialla e una cassettiera, anch’essa in legno, proprio al centro della vuota parete di fronte al letto.
Adagiò delicatamente la ragazza a lui sconosciuta sul letto, accese la lampada e le scostò i capelli dal viso, scoprendole la fronte dalle ciocche ribelli appiccicatevisi. L’osservò per qualche secondo e poi s’alzò dirigendosi verso l’ultima porta del corridoio, superando altre due stanze, dirigendosi verso il bagno: dal mobiletto bianco appeso alla parete sopra il lavello prese del disinfettante, qualche garza e del cotone, quindi tornò dalla sconosciuta e le pulì le ferite, le disinfettò e le fasciò, uscì dalla stanza chiudendosi la porta dietro, lasciando dormire lei.
Le altre due stanze erano impolverate ed inutilizzate e si trovavano a seguito di quella in cui Eleonora riposava:  quella subito dopo alla sua, la prima delle due, aveva un letto a castello sulla parete sinistra, la finestra frontale in questo caso coperta da una lunga tenda rosa, e un armadio a quattro ante  sulla parete destra, tutti i mobili erano bianchi, in contrasto alle pareti in legno della casa; nella seconda il letto era scuro come le pareti, a due piazze, con coperte bianche, le tende bianche anch’esse e un armadio a quattro ante sulla parete destra; ognuna delle stanze aveva la medesima sedia con la medesima lampada poggiata sopra, dalla medesima luce gialla.
Quando Eleonora si svegliò, provò lo stesso intorpidimento di quando, il primo giorno, si era ritrovata in quella radura con un bosco alle spalle, ma ora non percepiva odore o suoni e tutto era silenzioso;  notò che da quando aveva lasciato quella radura, i suoni e i profumi sembravano essere spariti, come se tutto fosse immobile intorno a lei e ciò le dava un profondo senso di smarrimento, si chiese se fosse davvero stata aiutata da quella figura che il giorno prima aveva intravisto, quindi aprì gli occhi, vide d’essere stesa in un letto, si mise a sedere e si guardò intorno: la stanza era così vuota che sentì freddo, poi notò di avere delle garze a coprirle ginocchia e che i piedi erano fasciati a loro volta, quindi s’alzò dirigendosi verso l’unica porta di quella stanza, afferrò la maniglia dorata e si ritrovò in uno stretto corridoio dalle pareti in legno.
Girò lo sguardo verso destra e vide molte porte chiuse, ognuna con la medesima chiave, poi si girò verso sinistra e vide l’ingresso ad una stanza senza porta, quindi vi si avvicinò e scorse con lo sguardo un ragazzo in piedi di fronte ad una grande finestra, che si girò a guardarla con degli occhi profondi dai quali lei rimase incantata per qualche istante, fino a che lui non parlò, momento nel quale il suo sguardo si posò sulle sue pallide labbra.
“Bentornata dal mondo dei sogni, io sono Colin, hai dormito un giorno intero, mi chiedevo quando ti saresti svegliata”
“I-io mi chiamo Eleonora”
“Vuoi bere?”
“Io… si grazie, sono abbastanza assetata”
Lui si avvicinò verso il frigo e porse ad Eleonora un bicchiere d’acqua, lei bevve osservandolo: era alto, molto, ed aveva i capelli biondo cenere quasi sulle spalle, molto curati, negli occhi sembrava vi si fosse fusa dell'ambra e si fosse mescolata a lievi striature marroncine, le labbra erano rosa pallido, piene ma non eccessivamente carnose, il viso era squadrato, dai tratti un po’ spigolosi, caratteristica anche del suo naso un po' all'insù; la sua figura era slanciata e apparentemente atletica, aveva dei jeans chiari abbastanza larghi e dall’aspetto comodo, una maglietta smanicata dello stesso grigio sbiadito dei jeans, ed una felpa rossa sopra.
Eleonora gli restituì il bicchiere d’acqua, Colin la guardava come ad incitarla a parlare e quindi cercò di spiegargli tutto dall’inizio, di come non avesse idea di come fosse arrivata lì, di come non riuscisse a ricordare nulla di sé oltre il suo nome, di come fosse spaventata e triste…
“Dove sono?” chiese quindi a Colin.
“Questo posto non ha un nome, il villaggio è poco abitato e si ferma alla strada principale e le case ai suoi lati. Ci sono solo una locanda in cui mangiare qualcosa ed un posto dove comprare bende o altro per la medicazione” Rispose lui senza alcuna emozione nella voce, quasi si fosse preparato la risposta.
“E il cibo dove lo compri? O i vestiti?”
“Non ci sono posti del genere qui”
“Cosa vuol dire?” Chiese lei confusa.
“Nulla, non preoccuparti”
“Ma, ecco…”
Colin la interruppe: “Non ricordi nulla eccetto il tuo nome ma ricordi che i vestiti e il cibo li compri da qualche parte?”
“Non ricordo la mia vita, solo cose generiche, come queste, come il fatto che ai piedi dovrei avere delle scarpe ma non le ho e neanche tu, o che in testa spesso si hanno i capelli, che per vivere devi mangiare e bere, che se cadi e ti tagli ti fai male, che ci sono dei suoni che formano la musica e che esistono le canzoni, ma non ne ricordo nessuna, ricordo che si hanno una mamma ed un papà, i fratelli e le sorelle o gli amici, ma io non so se ne ho, non ricordo neanche un nome eccetto il mio ed ora il tuo e non ricordo nemmeno alcun viso o voce”.
Mentre parlava delle lacrime le scesero dal viso e Colin le asciugò raccogliendole sul dorso della sua mano, quindi le fece segno di smettere di parlare, la guardò negli occhi intensamente e le disse che avrebbero cercato una soluzione con lo stomaco pieno, lei annuì, e lui, poco prima che uscissero di casa, le disse:
“Le persone che ci sono qui non sono come me o te, sono diverse”
“In che modo?”
“Lo vedrai”
uscirono di casa e mentre camminavano lei gli chiese:
“Ma non chiudi la porta a chiave?”
“Dovrei?”
 “Dei ladri potrebbero entrare in casa”
“Non ci sono ladri qui, come ti ho già detto le persone sono diverse”
Eleonora non rispose, ma la sua mente era piena di domande e dubbi.
“Chi è lui? Vive solo? Dove sono i suoi genitori? Li ha? Perché ha una casa così grande e con tante stanze se è solo? Perché mi ha aiutata? Come ha fatto a sentirmi urlare? In che modo sono diversi gli altri? Perché non risponde davvero alle mie domande? Che vuol dire che questo posto non ha un nome? E perché non sento suoni intorno? E gli odori? O il sapore delle mele?”
D’improvviso Colin si fermò di fronte ad una porta di legno un po’ rovinata, uguale a tutte le altre, con la facciata di quella che apparentemente era una casa, che aveva la medesima dimensione, forma e aspetto delle altre; entrarono in una stanza troppo spaziosa, almeno 5 volte più della facciata, con diversi tavoli al suo interno, un bancone alla destra e una porticina nell’angolo in fondo a destra, dietro il bancone. Ai due si avvicinò una donna con un grembiule bianco ed un vestito nero che copriva anche i piedi e subito Eleonora capì cosa volesse dire Colin poco prima.
Eleonora si guardò intorno, tutte le donne erano la copia identica l’una dell’altra, sembravano delle bambole fatte in serie più che vere persone: il viso ovale, gli occhi neri, le labbra rosa e sottili, il naso piccolo ma non troppo, i capelli neri e lisci, lunghi fin sotto le spalle, retti, i corpi tutti uguali, magri ma non troppo; gli uomini, anche loro in serie, avevano il viso ovale con la mascella pronunciata, gli stessi occhi neri delle donne, lo stesso naso, le stesse labbra, più sottili. Tutti i visi erano sorridenti, ma nessuno parlava e nessuno aveva una vera espressione, gli occhi erano vuoti, non vi era differenza tra l’iride e la pupilla, erano neri entrambi, l’unica cosa che c’era su quei volti era un fintissimo sorriso, come fosse disegnato.
“Ma che scherzo è questo?” Eleonora lo disse in tono leggermente più alto del dovuto, tutti quindi s’alzarono dalle loro sedie senza provocare alcun rumore e si diressero a gran velocità verso di lei. L’accerchiarono spalancando gli occhi e allargando quegli inquietanti sorrisi fino quasi agli zigomi. Una donna aprì la bocca, la spalancò e si sentì un urlo altissimo, troppo alto, si avvicinava sempre di più ma Colin si introdusse del cerchio formato intorno ad Eleonora, fronteggiò la donna e urlò, le urlò contro: lei richiuse la bocca, tutti tornarono ai loro posti, nessuno guardò più verso di loro.
“Cos-“ La bocca di Eleonora fu tappata dalla mano di Colin, che le fece segno di rimanere in silenzio.
Chiese alla donna che li aveva accompagnati al tavolo qualcosa da mangiare e lei tornò con due piatti di carne e patate fumanti, che tuttavia non avevano odore, né sapore e intorno non si sentiva nulla se non i respiri suo e di Colin.
Finito il pranzo Colin portò Eleonora a camminare per la strada del loro paese e le disse di andare a parlare sulla riva del fiume.
“Cosa diavolo è successo? Cos’era quello?” chiese lei terrorizzata e con voce bassa e spaventata.
“Loro amano il silenzio, se lo rompi in loro presenza… non farlo e basta”
“Perché?”
“Non farlo, sono serio”
“Ma perché?” Colin rimase in silenzio, facendole il segno di sedersi sulla riva del fiume insieme a lui.
Lei si arrese e gli si avvicinò, quindi lo guardò ed aprì bocca, pronta a fare altre domande, ma ancora prima che pronunciasse una sillaba lui l’anticipò:
“Eleonora, non c’è mai stato un altro qui con me, qualcuno di normale intendo. Ho sentito che era cambiato qualcosa, ti ho sentita urlare e quando ti ho vista e ti ho raggiunta… ho provato qualcosa di strano. Non credo di poterti dire cos’è questo posto, lo devi capire tu, io posso mostrartelo”
“A quale scopo?”
“Vuoi indietro i tuoi ricordi?”
“Non chiedo altro! Voglio recuperarli!”
“E poi?”
“Non lo so, perché non so cosa mi aspetta tra i miei ricordi, quando li riavrò deciderò cosa fare”
“Se li rivuoi non devi farti assorbire da questo luogo, devi sforzarti di ritrovarli, devi arrivare al cuore di questo posto e parlarci. Lì credo che li ritroverai”
“Come si fa? Come posso parlare ad un cuore? È una persona? Come sai che sarei arrivata? E perché sai che è così che recupererò i miei ricordi?” Lui ignorò le sue domande e continuò a parlare guardando il cielo come aveva fatto fino a quel momento.
“Per un paio di giorni aspetteremo qui al villaggio che tu sia stabile e non affaticata, senza ferite, nel frattempo ci prepareremo, per poi partire”
“Perché non rispondi mai alle mie domande?”
“Perché una domanda senza la sua risposta rimane sospesa riempiendo la tua mente vuota, privata dei suoi ricordi”
“Che cavolo vuoi dire?” chiese lei sconcertata; Colin la guardò con la coda dell’occhio, di sottecchi, quindi si tolse l’espressione seria dal viso e scoppiò a ridere.
“Dovresti vedere la tua faccia! Ci hai creduto? Cosa sono secondo te, un vecchio saggio?! Non ti rispondo perché non c’è bisogno che tu sappia tutto, nemmeno io so perché questo posto è così, è questo e basta e me lo faccio andare bene! Che tu saresti arrivata era una mia sensazione, l’unico modo per avere risposte qui è quello di raggiungere il cuore di questo strano luogo”
Eleonora rimase sbigottita, le sembrò che lui le stesse mentendo spudoratamente, tuttavia trovò la sua risata contagiosa, tanto che si mise a ridere anche lei, senza alcuna ragione, ed entrambi presero a ridere con la schiena contro l’erba; e se la godettero quella ingiustificata felicità, ma non senza una piccola angoscia nel cuore, angosce differenti per ognuno dei due, ma simili nel loro peso.

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Capitolo 5
*** Sparizioni ***


*Mi dispiace davvero tantissimo di essere sparita e non aver più pubblicato nulla, sono stata completamente assorbita dagli impegni scolastici. In questi due giorni mi sono dedicata però alla revisione di diversi capitoli, perciò spero di farmi perdonare pubblicandoli tutti in una volta*

Eleonora aprì gli occhi ancora assonnata, era giorno e dovevano essere almeno le dieci, si portò le mani sul viso ancora confusa da tutto ciò che le stava capitando; il dubbio di cosa quel luogo fosse la torturava, tutto ciò che aveva visto superava la normalità, le sembrava quasi d’essersi ritrovata in uno strano incubo.

Scese dal letto e percorse il corridoio dirigendosi in soggiorno, Colin non c’era, lo cercò nel resto della casa ma di lui nessun segno, così uscì in strada stando attenta a non far rumore e non dire nulla, si diresse nella locanda del giorno prima ma non era neanche lì, lo cercò al fiume ma niente, così tornò in casa.

Si richiuse la porta alle spalle ed osservò nuovamente quella stanza:

Il divano sembrava più vecchio e rovinato del giorno prima e sopra di esso vi era una mensola con sopra delle foto, alcune completamente nere ed una con due persone e un bambino, la donna teneva un bambino in fasce dai capelli biondi e l’uomo l’osservava di sottecchi, nessuno sorrideva eccetto il bambino, d’un tratto la donna sembrò chiudere e riaprire le palpebre, forzare un sorriso e aspettare lo scatto della foto. Eleonora fece cadere la cornice sul divano e spaventata fece diversi passi indietro.

“Le foto non si muovono, non si muovono, non si muovono… L’ho solo immaginato” guardò indecisa la cornice caduta sul divano e si riavvicinò, aprì il retro e si accertò che vi fosse davvero solo una foto dentro, quindi lo richiuse e dopo qualche secondo rigirò la cornice per osservare: Prese il bambino e lo porse ad una donna sulla trentina che consolò il pianto del neonato. Entrarono in una macchina con autista e si fecero portare in una casa molto ampia e pulita, priva di vita; la donna guardò l’uomo e con voce fredda gli disse che la sua vita era stata rovinata, che non avrebbe più dormito nel suo stesso letto per evitare un’altra gravidanza, che non voleva che la toccasse, che era infuriata con lui… L’uomo la pregò di calmarsi, le disse che insieme avrebbero convinto la compagnia di ballo a riprenderla, che tutto sarebbe tornato a posto, ma la donna non volle sentire ragioni. D’improvviso il pianto del bambino si sentì, la tata l’aveva riportato alla madre dicendole che il piccolo era inconsolabile e che forse lei avrebbe potuto calmarlo.

“Fallo smettere di piangere da sola o ti licenzio, non voglio quel marmocchio tra i piedi”

“Calmati ti prego” le disse l’uomo, ma lei non ascoltò, si barricò in una stanza dalla quale provenne musica classica di un violino, cominciò a danzare. Il padre del bimbo guardò affranto verso quella porta, poi rivolse uno sguardo insofferente verso il neonato e disse alla tata di farlo smettere di piangere, quindi andò nel suo studio a lavorare. La madre del bambino danzò per ore, leggera nei passi come una piuma che cade al suolo, precisa e piena di sentimento, malinconica e triste. Uscì stanca dalla stanza e il silenzio e il gelo del salone regnava sovrano, il turno della tata era passato quindi aveva già lasciato il neonato nella culla; andò nella stanza, aprì con cautela la porta e vide il piccolo dormire con gli occhi ancora bagnati di lacrime, stringendo un pupazzo a forma di coniglietto blu e tenendo il ciuccio in bocca. Sistemò la copertina sul bimbo che si era scoperto un piede e poi scansò le mani quasi si fosse bruciata, uscì dalla stanza e si appoggiò alla porta chiusa, osservò la porta dello studio e vi entrò, suo marito guardava una registrazione di lei che danzava con la sua amata compagnia, gli si avvicinò e gli baciò il collo abbracciandolo da dietro.

“Perdonami, io ti amo ma non so come fare a perdonare il fatto di essere rimasta incinta, la mia carriera da ballerina è finita e la danza è la mia vita da quando avevo cinque anni”

“Lo so e mi dispiace, ma ormai siamo qui, lui è qui. La mia attività sta andando a gonfie vele, posso darti i soldi per aprire la tua scuola di ballo, so che non è la stessa cosa ma…”

“Ma è meglio che non ballare affatto. Posso cercare di non far soffrire il bambino ma non chiedermi di fargli da madre, di amarlo o che so io, non riesco a farlo, non posso, non ora comunque”

“Non te l’avrei chiesto, neanch’io volevo un figlio. Starà bene con le tate e i soldi non ci mancano”.

Come se si stesse svegliando Eleonora riaprì gli occhi accorgendosi d’essere stesa sul divano con la foto poggiata sul petto, guardò la foto, ora ferma come all’inizio e la ripose sulla mensola. Ripensò alle parole della donna e allo sguardo lanciato verso il piccolo e le venne da piangere, versò delle lacrime e sentì qualcosa cambiare in casa, uno spostamento d’aria alle sue spalle.

“Che stai guardando?”

“Colin? Dov’eri?”

“Da un’altra parte, perché piangi?”

“Ti ho cercato ovunque… Stavo guardando questa foto e si è mossa e poi ho visto delle cose, forse sognato”

“Cosa hai visto?”

“Un bambino e i suoi genitori, loro non lo volevano e la madre non riesce ad amarlo, il padre gli è indifferente e vuole affidarlo alle tate”

Colin s’irrigidì e guardò verso la foto perdendosi per qualche secondo nei suoi pensieri.

“Strano, io non vedo nulla, credo tu l’abbia sognato”

“Già, forse è così. Posso chiederti qualcosa su quello che è successo ieri?”

“Forse, tu chiedi”

“Perché quando hai urlato la donna ha smesso e tutti si sono allontanati?”

“Scrutano le tue paure se parli e se non fai nulla ti ci buttano dentro lasciandoti lì. Se vai contro le tue paure invece ti lasciano stare”

“Ma perché hai urlato?”

“Perché urlare è il mio modo per andare contro le mie paure”

“In che senso?”

“Perché lo chiedi? Che te ne importa?”

“Sono in un posto assurdo che supera i limiti del razionale e della realtà, con persone strane che sembrano strani esperimenti di laboratorio di film sulla fantascienza, tu sei l’unico che sembra normale, almeno vorrei capire chi sei, qualcosa di te”

“E se fossi io il più strano di tutti? Se ti dicessi che sono io ad aver plasmato le persone qui cosi come sono?”

“In che senso? Sono tipo robot che crei tu? È questo che fai? E perché portarmi qui?”

“Niente di tutto ciò”

“E allora cosa? Diamine!”

“chi è che dice diamine in questo secolo?”

“Io va bene? Lo dico io!”

“Okay non scaldarti, non sono uno scienziato pazzo e non sei in un film, le persone sono così e basta qui, non è un posto normale quindi smetti di pensare al mondo normale perché non è questo”

“Ma esiste vero? Il posto normale che ricordo… Non sto impazzendo giusto?”

“Certo che esiste, ti aiuterò a tornarci okay? Ma ti devi fidare di me”

“Come faccio a fidarmi di qualcuno che ho appena conosciuto e di cui non so nulla? Perché non mi dici qualcosa di te o quantomeno rispondi alle mie domande! Io non ci capisco niente, mi sembra di star vivendo un incubo, uno di quelli stranamente reali e vividi, solo che non mi sveglio e non vado a piangere tra le braccia dei miei genitori, non ricordo nemmeno se li ho”

“Senti, parliamoci chiaro, quali alternative hai se non fidarti di me? Sei stata sola per un bel po’ e come hai visto qui non c’è nessun altro o meglio, ci sono ma non sono persone normali o alle quali puoi chiedere aiuto. Quindi fidati di me senza farti troppe domande, neanch’io so chi tu sia o da dove venga, potrei avere dubbi su di te e sul fatto che non ricordi nulla di te, ma capisco che non avrebbe senso farmeli venire. Vedi questo posto come un’assurdità, non paragonarlo ai ricordi che recupererai o a ciò che sai dovrebbe essere normale. Piano piano capirai, devi solo tenere duro.”

Eleonora annuì restia, anche lei sapeva di non avere alternative e sentiva che poteva fidarsi di lui, tuttavia non sarebbe mai riuscita a non porsi trilioni di domande al minuto su chi lui o quel luogo fossero, se quella fosse fantasia o realtà, se fosse tutta una presa in giro.

Colin le mostrò un sorriso sghembo e le spiegò che in quel luogo le percezioni dei loro sensi erano alterate, comprese quelle del dolore e della paura: il dolore diminuiva o addirittura era assente, la paura spesso diventava insopportabile; niente di ciò che ricordava della realtà era come avrebbe dovuto essere e non doveva forzarsi a capirne il motivo.

“So che non mi dirai il perché, ma dimmi solo se c’è un motivo, almeno questo”

“Sì c’è”

“Devo capirlo da sola giusto?”

“Esatto, non chiedermi altro al riguardo”

Eleonora tacque e soppesò le parole di Colin: nessuno in quel luogo parlava, il dolore quasi spariva e la paura sarebbe stata amplificata. Le sembrò davvero di star vivendo in un incubo, sconforto e angoscia le intorpidirono il corpo. Colin percepì l’inquietudine della ragazza e le poggiò una mano sulla spalla: non le dava una pacca, non l’accarezzava, non la spintonava per farla rinvenire dai suoi pensieri, non provava a dire nulla. Lei piegò la testa di lato guardandolo confusa, poi un sorriso le nacque spontaneo.

“Sei goffo”

“Cosa?” lui sembrava non capire.

“Questo è il tuo modo per cercare di consolarmi? Sei goffo”

“Non sono abituato a questo genere di contatto, non so che fare”

“Non hai mai consolato qualcuno o sei stato consolato? Io sono sicura di averlo fatto. E poi a che genere di contatto saresti abituato se non a questo?”

“Di solito per consolarmi uso il sesso senza sentimento, è un ottimo modo per distrarsi”

“Ma è temporaneo e non vale quanto un abbraccio quando si sta male”

“Odio gli abbracci”

Il suo sguardo si spense al pronunciare quelle parole, come se non f0sse solo nell’affermarlo, come se fosse il riflesso di qualcun altro, così Eleonora tacque e lasciò Colin immerso nei suoi pensieri.

 

 

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Capitolo 6
*** Strani modi di fare ***


Passarono un paio di giorni prima che Eleonora si riprendesse dalla stanchezza, che le sue ferite si rimarginassero e prima che la sua mente s'acquietasse un po’. tuttavia tutto in quel posto sembrava surreale, finto, incredibilmente monotono e spaventoso al medesimo momento. Eleonora passava le sue giornate sola, Colin non era mai in casa con lei e anche quando lo cercava per quel piccolo villaggio lui non c’era; rientrava la sera salutandola, portando qualcosa da farle mangiare che, esattamente come le pietanze precedenti e quelle successive, non aveva né odore né sapore, sembrava di mangiare aria.
Le domande la tormentavano, i dubbi erano tremendi e la mente che in quei giorni sembrava essersi acquietata era ora tormentata ma ormai aveva capito che qualunque domanda gli porgesse, Colin non avrebbe mai risposto.
 
Colin quel giorno era tornato particolarmente presto e alla solita aria scrutatrice di Eleonora rispose con uno sbuffo, le fece cenno di seguirlo e la portò in un prato vicino ad un laghetto. Quel piccolo lago sorgeva dal nulla proprio nel mezzo d’una immensa distesa verde con parecchie buche di tane di conigli e talpe, qualche cespuglio e pochi formicai, l’erba era soffice ma non troppo, come un lenzuolo di cotone chiuso da troppo in un cassetto.
Lui si tolse la felpa e alzò i pantaloni alle ginocchia, quindi immerse le gambe in acqua e guardò verso l’orizzonte. Come ormai Eleonora aveva notato nei giorni passati insieme a lui, Colin era sempre elegante e delicato nei gesti, mai avventato, nessuno scatto improvviso, sempre e solo gesti  azioni cauti e moderati, ben calcolati.
“No vieni?” girò leggermente il viso, fino a permettersi di vedere Eleonora con la coda dell’occhio, lei era in piedi ad un paio di metri di distanza da lui, lo osservava e continuò a farlo fin quando non gli fu vicino, imitandolo nei gesti per poi immergere a sua volta le gambe in acqua.
Anziché rigirarsi verso l’orizzonte Colin continuò a guardare Eleonora con la testa reclinata leggermente all’indietro. I suoi occhi la scrutavano quasi non credessero di averla davvero accanto e lei capì che era proprio quello che Colin stava valutando: che lei non fosse davvero lì. Lui allungò la mano sinistra fino a toccarle la guancia, il collo, la spalla; si fermò sul braccio e saldò la presa, poi ritrasse la mano e la poggiò nuovamente sulla riva del lago mentre la destra la portò fra i suoi capelli corvini facendosi scivolare le ciocche tra le dita e scorrendo fino alla fine dei capelli di lei. La mano la portò dal basso dalla zona lombare fino a quella cervicale della sua schiena, ripercorrendo più volte la sua colonna vertebrale, ritrasse anche quella mano e senza alcun preavviso avvicinò di molto il suo viso a quello di Eleonora, facendo sì che una manciata di millimetri separassero il suo naso da quello di lei.
“Perché sento la temperatura della tua pelle, i tuoi capelli tra le dita e il tuo respiro sulla mia bocca?”
“Perché mi hai toccato, hai passato le dita tra i miei capelli e ora sei inquietantemente vicino”
“Tu mi senti?”
“Sì, sento anch’io la tua temperatura, sento anch’io i tuoi respiri. Sei troppo vicino”
“Assurdo…” Colin non sembrava intenzionato a darle retta e lei cercò di ritrarre indietro la testa, ma lui la seguì avvicinandolesi nuovamente, era come se fosse impressionato da cose per lei assolutamente normali.
“Se ti baciassi sentirei le tue labbra come se stessero davvero toccando le mie?”
“Provaci e ti tiro in acqua” ancora una volta l’ignorò, le si fece ancora più vicino quasi fino a toccare le sue labbra, ma prima che potesse farlo Eleonora gli mise entrambe le mani sul petto e lo spintonò in acqua.
“Raffredda la testa, mi sembri un po’ confuso! Dico ma che ti prende? Neanche mi rispondi quando ti chiedo cose su di te per capire se sei o no uno di cui fidarsi e ora mi tocchi incuriosito dal fatto che senti davvero il contatto? Che problemi hai?!”
Colin la guardò stupito per qualche secondo per poi scoppiare a ridere senza sosta mentre lei lo guardava stranita chiedendosi cosa gli passasse per la testa. Lui si avvicinò alla riva e risalì senza troppa fatica, constatò d’essere bagnato fradicio e sembrò sconcertato mentre lei lo guardava. Aveva i capelli bagnati appiccicati al viso e al collo che sembravano più scuri di quanto non fossero a causa dell’acqua, la maglietta bianca aderiva al suo corpo ed era diventata trasparente facendo intravedere in piercing al capezzolo sinistro, i jeans sgualciti si erano abbassati lasciando scoperti per metà dei boxer rossi. Colin si ricompose e poi ritornò in sé.
“Scusa ma qui è strano, diciamo che non avevo mai… provato queste sensazioni”
“Ma se hai detto che ti sfoghi col sesso come è possibile che non senti la pelle delle altre persone o il loro respiro sul tuo?”
“Ecco… non… non posso risponderti”
“Perché?”
“Capiresti delle cose a cui devi arrivare da sola”
“Come si va a letto con qualcuno? La lezione sul sesso mia madre me l’ha già fatta sta tranquillo”
Colin si mise a ridere insieme a lei ma tornò serio dopo poco.
“Tua madre? Ti ricordi com’è?” Eleonora si sforzò di pensarci ma non vi riuscì.
“No, però so che mi ha fatto il discorsetto quando avevo tredici anni… ahi!”
“Che succede?”
“Ho una fitta alla testa”
“Sforzati, continua a parlare”
“Ma… okay. Lei mi ha fatto il discorsetto e poi mio padre si è infuriato perché secondo lui ero piccola per questo genere di cose, ma lei gli ha risposto che per lui sarei sempre stata piccola, anche a trent’anni e… poi non ricordo più”
“Era un ricordo”
“Si ma non ne sono sicura, poteva essere la scena di un film, insomma… non ricordo le loro facce, ricordo figure nere”
“Ma è già qualcosa, non ne sei felice?”
“Sì… diciamo di sì”
Colin le si avvicinò e l’osservò mentre si massaggiava le tempie per il dolore provato.
“Cosa dovrei fare se volessi farti sentire meglio ma anche evitare gli abbracci?”
“Magari dirmi cosa intendevi quando mi hai detto che combatti le paure urlando?” gli fece gli occhi dolci facendolo sospirare, poi lui si distese sull’erba ancora bagnato e lei lo seguì.
Colin non parlava molto in realtà, rimaneva sempre in silenzio in casa propria, non parlava mai più del necessario neanche in pubblico; l’unico con cui parlava molto era il suo migliore amico Daniele, l’unico a poterlo sopportare a detta sua. Era abituato al suono del silenzio e ci si crogiolava anche se non gli piaceva, perciò…
“Perciò in un certo senso odi i rumori?”
“Odio il silenzio”
“Ma hai detto che…”
 “che ci sono abituato, non che mi piaccia. Lo odio” piegò la testa verso Eleonora e rimase a fissare il vuoto, lei provò in un certo senso pena per lui, una persona che detestava il silenzio costretta ad abituarcisi. Fece come per portargli una mano sul viso per accarezzarlo ma lui gliela bloccò a mezz’aria e lei la ritirò. Colin voltò lo sguardo al cielo e lei fece lo stesso, avvicinandoglisi appena, in modo che la propria spalla toccasse quella di lui, era come se gli stesse chiedendo: Solo questo va bene?
Lui non si scostò.

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Capitolo 7
*** Discorsi rivolti a sé stessi ***


Ogni giorno che passava si svolgeva al medesimo modo. Colin non era mai in casa quando Eleonora si svegliava, lei usciva un po’ ma non si allontanava più di pochi metri dal villaggio perché lui le aveva detto che probabilmente se avesse vagato da sola si sarebbe persa. Quando poi tornava lei sentiva come un formicolio e lo raggiungeva in casa, rimanevano per un po’ in silenzio perché lui sembrava confuso al suo ritorno e gli ci voleva qualche minuto per riprendersi. Colin aveva detto ad Eleonora che faceva escursioni nei posti più remoti di quel luogo per conoscerlo al meglio e che l’aveva trovata proprio durante una delle sue escursioni.
Ogni giorno in casa qualcosa mutava, talvolta sparivano mobili, talvolta oggetti come fotografie, modellini di macchine in metallo o giochi per bambini comparivano nelle stanze, Eleonora credeva fosse Colin a portarli ma lui non ne faceva cenno, perciò non chiese nulla al riguardo, anche perché ogni oggetto aveva qualcosa di strano. Il giorno prima era comparso un soldatino in legno con un cappello rosso e una giacca blu sempre intagliati nel legno, un naso triangolare in rilievo dipinto di bianco e la bocca scavata nel legno; questo era rigido e senza alcun meccanismo che gli permettesse di muoversi, eppure cominciò a parlare:
“Mi usava ogni giorno prima, ogni giorno perché lui mi comprò e al bimbo questo piaceva. Ma lui non lo apprezzò e il bimbo smise di usarmi, triste ma vero”
“Il bimbo è lo stesso che ho visto in foto?” Eleonora si sentì pazza a provare a parlare con un pezzo di legno, ma non le restava altro che interagire con gli oggetti in casa e cercare di capire cosa succedesse quando Colin non era con lei.
“Quale foto?” rispose il soldatino con voce roca e debole, lei prese la foto di qualche tempo prima e gliela mostrò.
“Si, si è lui ma era più grande quando mi portava con sé”
“E come si chiama il bambino?”
“Parli sola?” Colin era entrato nella stanza.
Il soldatino smise di parlare, era tornato ad essere un pezzo di legno intagliato ed Eleonora sospirò.
“Parlavo col soldatino di legno”
“Ti ha parlato di te?”
“No di un bambino che giocava con lui ma che poi non l’ha più usato”
“I giochi fanno questa fine”
“Sì ma è triste”
“Alzati da terra dai”
“Perché non sei stupido del fatto che parlassi con un giocattolo per bambini?”
“Se dici che ci hai parlato ci hai parlato” fece spallucce.
“Non mi credi”
“A me gli oggetti non hanno mai parlato”
“A me sì, va bene? Quando non ci sei succedono cose strane, le foto si muovono come fossero film, i giochi parlano, oggetti compaiono in casa… Ma so già che non mi risponderai se ti farò delle domande, perciò è inutile chiedere”
“Non era mai successo” Eleonora si stupì, a modo suo le aveva risposto.
Dopo che Colin tornava le mostrava la mappa di quel luogo, le faceva capire quale strada avrebbero preso per arrivare dove dovevano e ottenere risposte su tutta quella situazione. Tuttavia la mappa ogni giorno cambiava di qualche dettaglio, quel luogo sembrava effettivamente star mutando sotto i loro piedi e non avrebbero potuto prevedere tutto. Poi capitava che chiacchierassero delle cose più strane, di come il mondo fosse assurdo, Eleonora faceva ipotesi sulla vita di Colin, ipotesi alle quali lui non rispondeva mai. Lei si rese conto del fatto che effettivamente Colin parlasse poco o meglio in poche occasioni, ogni tanto era molto eloquente ma la maggior parte delle volte si limitava a rispondere sinteticamente alle domande di Eleonora e poi zittirsi. A cena ad esempio non parlava mai.
Cenarono silenziosamente anche quella sera, nulla si sentiva da fuori, nulla si sentiva da dentro. Poi d’improvviso lui cominciò a parlare, ma non ad Eleonora, sembrava quasi parlasse a sé stesso dato che non la guardava negli occhi, fissava un punto ben definito verso l’ingresso a quella stanza, ma lì Eleonora non vedeva nulla di particolare, così gli fissò gli occhi mentre lo ascoltava:
“Da quando tu sei qui ed io ho l’opportunità di comunicare con qualcuno ho quasi la sensazione che tutto questo sia sbagliato, noi non dovremmo parlare, noi non dovremmo comunicare, dovrei solo sorriderti; so che è sbagliato farlo, ma non riesco a smettere di parlarti o ascoltarti”
Perché non dovresti parlarmi? Perché questo ti sembra sbagliato?
Lo pensò ma non volle interromperlo nel suo flusso di pensieri, con la speranza di ottenere una qualche informazione.
“Pensavo d’essere stato in silenzio così a lungo da non ricordare come si parlasse, pensavo quasi di non esserne più capace, ho tenuto il silenzio per anni di mia volontà, non pronunciai una parola per un anno intero o forse più. E rimasi fermo ad ascoltare le voci degli altri nella mia testa, quindi forse questa è stata la mia punizione da scontare: essere costretto al silenzio. Ci hai mai fatto caso? Quando decidi di fare una cosa tu, che sia quella positiva o negativa, non ti pesa anche se difficile, ma se te la impongono ti sembra di morire dentro, parte per parte”
Con chi hai tenuto il silenzio?  Anche questa domanda rimase nella sua mente.
“Perché?” Non ce la fece e dovette chiedere.
“Non mi ascoltava nessuno, quindi perché sforzarmi di parlare e non limitarmi a quei pochi convenevoli di dovere?”
“Chi non ti ascoltava?” Chiese Eleonora.
D’improvviso Colin sembrò essere stato scosso da qualcuno, la guardò negli occhi, prese una forchettata di pasta e ignorò le sue domande:
“Non è bello il cielo oggi? È viola”
“Stai guadando me”
“è riflesso nei tuoi occhi, è per quello che è viola; dovremmo soffermarci qualche volta ad osservare le cose negli occhi di qualcun altro, questo le renderebbe diverse nonostante siano la stessa cosa”
“Vuoi dire con gli occhi di qualcun altro'?”
“Se guardo il cielo dai miei occhi è nero, piatto, privo di luce oltre la poco luminosa luna; se invece lo guardo nei tuoi è viola, con striature più chiare, con qualche sfumatura blu e indaco, con una luna così luminosa che il sole l’invidia nonostante sia lui stesso a renderla così com'è; quella parete per me è vuota, se la guardo nei tuoi occhi, posso vederci cose che solo con i miei non vi vedevo, capisci?”
“No” 
Eleonora si voltò verso la parete in legno, l’osservò bene ma non vi vide nulla, poi osservò l’ingresso alla stanza, dove le sembrava stesse guardando lui poco prima, era dritto e liscio. Colin le si mise di fianco, guardando anche lui il medesimo punto, lei guardò nei suoi occhi e le sembrò strano, diverso, non lo vide liscio: l’ingresso era la cornice di una porta, ma senza porta, c’erano le cinghie, ma la porta mancava. Eleonora si voltò nuovamente e stavolta vide esattamente ciò che aveva visto negli occhi di Colin.
“Che scherzo è questo?” Balzò indietro e cadde a terra.
“Cos’è successo?  Era diversa, non era così! Colin! Che succede?” Chiese presa dal panico.
“Non capisco a cosa tu ti riferisca, è come al solito”
“No! Non lo è! Adesso sembra quasi qualcuno abbia strappato la porta dai suoi cardini, prima era un ingresso normale, dritto, ora invece no, c’è persino la cornice della porta!”
“Porta? Cornice? Non c’è nulla, è come al solito”
“Ma io l’ho visto nei tuoi occhi e poi è apparso nella realtà, non puoi non averlo visto!”
“Nei miei occhi?” Chiese perplesso lui.
“Ho fatto come hai detto tu! Ho guardato negli occhi di qualcun altro e ho visto le cose in modo diverso”
“L’avrei detto io?”
“Si! Colin smettila di fare così! Hai anche detto che hai tenuto il silenzio per un anno e questa è la tua punizione: di essere costretto al silenzio! E hai detto che non ti ascoltavano ma non so chi”
“Sicura di stare bene? Io non ricordo di aver detto nulla di tutto ciò! Sicura di non averlo detto tu stessa e d’esserti confusa?”
“IO NON MI SONO CONFUSA: PER NIENTE!” 
“Eleonora, non capisco cosa tu stia dicendo o perché tu stia urlando, forse è meglio che tu vada a dormire, sembri esausta, domani partiremo”
“Partire? Dove? Non abbiamo finito di controllare la cartina”
“Non serve a niente dato che cambia, tanto vale cominciare a metterci in viaggio, dubito sarà una passeggiata da pochi minuti”
“Basta, vado a dormire” disse spazientita Eleonora.
“Ottima idea, andrò anch’io”
 
 
 
 
 
 
 
 

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Capitolo 8
*** Terribilmente reale ***


Colin sorrise tra sé e guardò l'uomo poggiato alla porta con quattro bambine in braccio, erano tutti viola, viola chiaro e indaco, ma non sapeva chi fossero.

In pochi secondi la stanza si svuotò, Eleonora era turbata, non capiva lo strano comportamento di Colin, non sapeva se potersi fidare e non capiva cosa fosse successo: rifletté a lungo, valutando di non aver mai guardato attentamente quel punto, ma ciò non era possibile; valutò di esserselo solo immaginata, ma quando tornò in quella stanza, tutto era come l’aveva visto negli occhi di lui e quindi neanche ciò era possibile. Si girò e rigirò nel letto, ma niente, tutto sembrava assurdo, in più Colin non sembrava aver visto quel cambiamento. Che stesse impazzendo? Con la mente confusa si addormentò, cadendo nuovamente in quella temporanea morte.

Nella sua stanza Colin si fermò ad osservare il cielo, ormai lui lo vedeva viola, con una bellissima luna e tante striature diverse, lo trovava affascinante:

“Tutto questo non è come sembra e non dovrebbe confondermi, allora perché non riesco a smetterla di vedere il cielo così? In qualche modo so che devo farle recuperare la memoria, ma non so ciò che dico. Come faccio a farle capire senza parlare troppo?”

Colin uscì di casa lasciando la porta aperta, ormai era da troppo che si trovava in quel luogo ogni notte ed era cambiato solo da quando lei era lì; nella mente gli affiorarono dubbi e domande, sorgevano ansietà, perplessità e tuttavia non sapeva le risposte. Non poteva rispondere alle domande di lei, ma ciò che le aveva detto lo pensava davvero: che negli occhi d’altri le cose fossero diverse. Ma non lo diceva mai, non diceva mai ciò che pensava o gli accadeva, quindi perché raccontarle del suo silenzio? Tutto ciò che stava accadendo era assurdo, perché le aveva detto che nessuno l’ascoltava? Perché dirlo a qualcuno di quel luogo? Eppure lei sembrava così reale, così vera, mentre il resto lì era così triste, deprimente, finto; ma se ne accorse solo in quel momento, che da quando c'era lei il cielo che lui aveva visto nero o grigio per un anno intero ora splendeva anche, che c'erano dei prati in più e meno rocce appuntite, che ora vi erano un giorno e una notte persino in quel luogo.

Si era accorto del cambiamento quando sentì un suono simile a quello prodotto dal vetro quando s’infrange, provò la sensazione di non essere più solo, come quando nonostante si è girati di spalle si percepisce che nella stanza non si è più soli.

Mentre continuava a pensare s’accorse d’essere arrivato al fiume, ci si immerse con tutti i vestiti, non sentì nulla come ogni volta, questo lo calmò, uscì dall’acqua ed era asciutto come al solito e anche questo lo calmò; corse per chilometri e quando si fermò sembrava non esistesse più il villaggio talmente era lontano, tuttavia per fare tutta quella strada ci sarebbe voluto un intero giorno, invece lui aveva contato ed erano passati solo 53 secondi, quindi si voltò, immaginò il villaggio con forza e nel mentre camminò percorrendo dieci passi, si fermò e il villaggio era lì, davanti ai suoi occhi: anche questo lo calmò, si sentì sollevato, quella lì era la normalità in quel luogo.

Da quando quella ragazza era arrivata le cose avevano iniziato a cambiare, quando lei gli stava vicino i chilometri li percorreva in ore e i ritorni duravano lo stesso tempo dell’andata o il tempo che necessitavano; quando lei gli stava vicino l’acqua lo bagnava, i graffi avevano bisogno di tempo per rimarginarsi, non bastava lui pensasse fossero rimarginati. Da quando lei gli stava vicino, ogni cosa aveva preso nuovamente il suo tempo, l’acqua bagnava e dissetava, tutto sembrava più reale, più normale e per quel luogo questo non era normale.

Immerse la testa nel fiume e ci rimase per ore, ma l’aria non gli mancò, questo non era normale ma lì lo era; si arrampicò su d’un albero altissimo, alto più del normale e si lanciò su un terreno roccioso, quando atterrò aveva molti graffi e probabilmente s’era rotto qualche osso, ma non sentì dolore, chiudendo gli occhi pensò di star bene, che il sangue smettesse di colare, che le ferite piano si rimarginassero come se si dovesse ricucire un buco su d’una vecchia maglietta e che dopo aver infilato il filo, tirandolo, il buco sparisse: e così fu, le ferite erano rimarginate, le ossa rotte non lo erano più e il sangue era sparito, senza lasciar traccia o macchie sulla maglietta in cui era colato. Tutto ciò, nonostante non fosse normale, lì lo era; lì era giusto così, lì era così che funzionavano le cose: non si provavano gioia, tristezza, odio, amore, eccitazione, desiderio, bramosia, invidia o gelosia, nulla eccetto paura e apatia. Lì era la pace dei sensi, lì nulla stupiva, nulla scioccava, nulla allietava; tuttavia se lei gli stava vicino, provava quelle emozioni, rideva, si sentiva triste per lei perché voleva che recuperasse i suoi ricordi, era curioso di scoprire se lei forre reale, come mai fosse lì e se fosse normale, anche se probabilmente dato che lei era lì non lo era.

Bip… bip… bip…

E poi c’era quel suono, che comparve da quando lo fece anche lei che tuttavia non sembrava sentirlo, ma era lì, costante e lui lo sentiva, senza una ragione era comparso così com’era comparsa lei, anche lei senza un motivo apparente.

Decise di tornare verso casa, ma di allungare un po’ la troppo corta strada, quindi pensò che questa fosse più lunga e mentre camminava si perse a guardare il cielo, lo guardò come poco prima, viola come negli occhi di lei, quegli occhi strani e particolari. Colin era contento che fossero com’erano, erano magnetici e stonavano quasi stagliati in un viso tanto bianco da risultare inquietante, avevano un’espressività dalle mille sfaccettature, si potevano cogliere i pensieri di lei nell’esatto istante in cui affioravano nella sua mente confusa; era normale fosse confusa, ma lui non poteva dirle ciò che sapeva, la verità su quel luogo che ormai conosceva a memoria; non ne sapeva la ragione, sapeva solo che era così, sapeva che avrebbe causato un danno enorme rivelandole la verità prima del tempo, non sapeva nemmeno quando sarebbe stato il momento di dirglielo, immaginava sarebbe stato quando i ricordi di lei sarebbero tornati, ma in ogni caso sapeva che avrebbe sentito dentro di se quando il momento sarebbe stato quello giusto, così come aveva sentito che qualcosa sarebbe cambiato e che qualcuno sarebbe arrivato.

Quindi giunse a casa, entrò chiudendo dietro di sé la porta d’ingresso, si diresse verso la stanza in cui era solito dormire, si stese a letto e si addormentò.

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Capitolo 9
*** Michele ***


Quando l’indomani mattina il sole sorse, Eleonora si svegliò provando una forte inquietudine, la sua mente non si era liberata dalle domande della sera precedente e per questo doleva, ma ormai ci aveva fatto l’abitudine da quando era in quel luogo.
Quando si fu alzata si diresse in cucina e notò qualcosa che fino a quel momento non aveva notato, la parete affianco alla cucina che l’era parsa vuota aveva dei segni ad altezze varie, troppo dritti per essere casuali; assorta nei suoi pensieri non si accorse quando Colin le arrivò dietro le spalle, quindi quando questo la salutò dandole il buongiorno lei sobbalzò spaventata e ricambiò dopo essersi ripresa.
“Perché stamattina ci sei? Nessuna escursione?”
“No”
Lui fissò lo stesso punto di lei, notò i segni e vide delle bambine, ognuna di altezza diversa, ognuna con un 0roprio segno sul muro, le vide sovrapposte l’una all’altra. Quando Eleonora guardò negli occhi di lui, vide anche lei quelle bambine e vide anche un bambino più alto delle altre, quindi un dolore fortissimo alla testa la costrinse a cadere sulle ginocchia, strinse i capelli scivolati fra le dita e urlò. Il dolore era lancinante e d’improvviso sentì una risata dalla voce di una bambina, la vide correre verso un bambino e mentre rideva chiamò un nome: “Mike".
Il viso di Eleonora era ricoperto di lacrime, la gola bruciava tanto da farla tossire, la sua mente pulsava e il fiato le mancava; d’improvviso sentì Colin dire: “Eleonora! Perché fai così? Smetti di combatterli, lasciali riempirti la mente, chi è Mike? Com’è fatto? Questi sono i tuoi ricordi Eleonora!”
“Ma fanno male!” si ritrovò ad urlare senza averlo pensato.
“Tutto fa male! Se non farebbe male saresti morta!”
Lei lasciò  andare quelli che  a quanto sembrava erano i suoi ricordi anche se non ne era convinta: sentì  altre risate, vide degli occhi blu, blu come il mare, intensi e profondi, molto espressivi, sembrava stessero ridendo, vide una bocca rosea e un naso  sottile, dei capelli castano chiaro con i riflessi rossi culminare in un ricchissimo ciuffo che copriva due folte sopracciglia;  vide un fisico allenato ed esattamente come successe al suo risveglio, delle lettere si unirono in un nome: “Michele" e lei lo urlò  forte;  poi svenne dormendo fino al pomeriggio.
Colin si prese cura di lei, la portò a letto e poiché tremava, la coprì con la gigantesca felpa nera abbandonata sulla sedia vicino al letto e lei per la prima volta dopo quella che le era sembrata un’intera vita, quando lui le strinse la mano per farla calmare provò un caldo tepore…
Sognò; sognò  di quel bambino di cui ancora non vide bene il volto, ma vide che era solo in una casa enorme, moderna, dalle pareti d’un verde pallido, con lievi brillantini dorati, con rifiniture d’un caldo verde muschio agli angoli delle pareti e uno zoccoletto del medesimo bianco del pavimento;  vide il bambino solo, immerso in una montagna di giocattoli, belli, colorati e gioiosi; tuttavia lui non sorrideva e aveva un viso apatico come se non sentisse  nulla e prese a distruggere tutti quei colorati balocchi che avrebbero dovuto renderlo felice. Poi si svegliò e guardò Colin stringerle la mano, mentre la guardava:
“Ho fatto un sogno strano"
“I sogni sono sempre strani, era un ricordo?”
“No non lo era, non ha fatto male, c’era un bambino pieno di giochi in una bella casa, ma era solo e non era felice. Ha distrutto tutti i giochi"
“è ingrato verso chi glieli ha comprati" rispose Colin in tono distaccato.
“Io credo avesse voluto che chi glieli ha comprati fosse stato lì con lui, mi dispiace per quel bambino. Per te cosa vuol dire questo sogno?”
“Non deve avere un significato, è solo un sogno, i sogni sono stupidi e senza senso. Se ora stai bene andiamo, mangiamo qualcosa e poi ti porto da una parte"
“Non sono stupidi! I sogni sono ciò di cui tu stesso ti componi, sono la tua sostanza. Tu sei il tuo sogno”
“E chi non ne ha?” chiese Colin con una finta indifferenza.
“Non è vero che non ne ha, ne aveva ma si sono infranti. E non ha il coraggio o la forza di trovarne di nuovi, va aiutato."
“Se come dici tu siamo fatti del nostro sogno, se questo s'infrange allora noi siamo come i giocattoli rotti dal bambino del tuo sogno; inutili, vuoti, incompleti, da buttar via”
“No! Il punto è riaggiustarsi sempre, ricordarsi di sé, rialzarsi se si cade e trovare un nuovo sogno. E poi nessuno è inutile e da buttar via, abbiamo sempre strade e vie d’uscita, qualche volta serve qualcuno che ci indirizzi”
“Se ripari il braccio di un robot giocattolo troppe volte, prima o poi questo diventerà irreparabile e rimarrà rotto. E un giocattolo rotto, così come una persona vuota e rotta, è inutile; le persone sono troppo egoiste per perdere tempo con lei"
“Ma questo non è vero! Perché hai una visione così negativa delle persone e della vita?”
“Dico solo ciò che penso, ma ora basta, stiamo parlando del nulla e parlare del nulla non ha senso. Alzati che ti porto da una parte"
Disse così e uscì dalla stanza, abbandonando la mano di Eleonora, strappata dalla sua dolce culla calda…
“Stiamo parlando di sogni, non del nulla!” Gli urlò dietro lei, prima di alzarsi ed uscire a sua volta.
Vide Colin osservare il cielo, lo guardò e notò che aveva la schiena sempre dritta, come fosse sotto esame, stava composto e la guardava sempre dritto negli occhi, era sempre pensieroso e sembrava non dicesse mai la verità o che dietro le sue parole vi fossero sempre più significati. Quando Colin notò che lei l’osservava si girò, la guardò come al solito dritto negli occhi, le si avvicinò e iniziò a parlare con occhi vuoti, come quando si perse nel suo monologo:
“Cos’altro sai di generale sulla vita? È consuetudine che una ragazza come te stia in casa di un ragazzo che non conosce, senza ricordi, senza sapere dove sia e cosa stia facendo? è consuetudine che dormi con la mano stretta a quella di qualcuno che non sa nemmeno se sia reale? Non è consuetudine che tu sia qui e questo te lo dico io. È consuetudine che io le ragazze qui non le veda, perché tu sì? Chi sei? Ma non lo sai e non puoi saperlo, quindi parliamo con lei, col cuore di questo posto e poi sparisci, perché sto impazzendo”.
Ad Eleonora  scivolarono delle lacrime sul viso, si sentì  strana e non ne individuò neanche il perché  ma stava piangendo, eppure le sue lacrime non le baciarono il viso, sembrava lo stessero bruciando lasciando una scia come traccia del proprio passaggio;  però  tra i lacrimoni, guardando negli occhi di lui ch'era vicino a lei a meno d’un  palmo vide se stessa: sono appoggiata ad un tavolino mezzo rotto, con gli occhi rossi e lucidi, stringo una bustina in mano e di fianco a me vedo quel ragazzo di nome Michele, anche lui ha gli occhi rossi, ma uno dei due è violaceo, la bocca rossa è spaccata da un taglio. Prendo la bustina, un accendino… e d’improvviso  tutto sparì, ma rimasero delle sensazioni: improvvisamente si sentì  stordita, con la testa leggera, senza pensieri pesanti e assordanti; quindi guardò  di nuovo Colin e vide due enormi occhiaie, vide i capelli legati in una coda e scarmigliati, vide un viso duro e freddo, una bocca rossa e vide gli occhi più  vuoti che potessero esistere e anche se non ricordava altri occhi oltre i suoi e quelli di questo Michele, sentì  che gli occhi di Colin fossero i più  soli e tristi di tutto il pianeta. Si mise a piangere, cadde a terra, Colin tornò in sé, il suo aspetto era normale non quello che Eleonora aveva visto, quindi la rimise in piedi facendole sentire un dolce e accogliente calore sul punto delle braccia in cui le sue mani la toccarono e le portò una mano tra i capelli:
“Scusa, a volte non so cosa dico"
“Io ho ricordato qualcosa e poi ho visto la tua faccia in modo diverso; così fredda… e i tuoi occhi così vuoti e tristi"
“Mi sono perso in pensieri spiacevoli, mi dispiace"
“Dove mi vuoi portare?"
“Dobbiamo iniziare a dirigerci verso il cuore di questo posto, dobbiamo andare da lei, il viaggio durerà un po’”
“Quindi è una persona?”
“Non proprio, vedrai non appena saremo lì”
Detto questo uscirono di casa, verso una meta sconosciuta ad Eleonora.

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Capitolo 10
*** I cambiafaccia ***


*Sono davvero dispiaciuta di aver abbandonato questa piattaformwa per così tanto tempo, a causa di numerosi impegni non ho avuto tempo per revisionare la storia, perciò visto che ormai mi ero assentata per molto ho preso un mesetto per revisionare tutto e caricherò tutti i capitoli in una volta, mi scuso ancora*

Quando Eleonora riaprì gli occhi provò la stessa la sensazione di intorpidimento totale della prima volta che si svegliò in quel luogo, sentì come bassi sussurri nonostante non vi fosse nessuno accanto a lei quindi li scacciò fingendo di non sentirli.
Si alzò cercando Colin, si guardò intorno e vide d'essere bloccata in quel cerchio d'alberi alti e spessi. Guardò verso il cielo ma attraverso quei rami non riuscì a scorgerlo, un'improvvisa angoscia la catturò e la fece stare male, d'improvviso tutto le sembrò così sbagliato in quel luogo che ne ebbe paura.
“Colin? Dove sei? È buio qui, non lasciarmi sola per favore!”
Cominciò a piangere sulle proprie ginocchia, quando sentì la testa dolere e si concentrò sul ricordo che sapeva sarebbe arrivato:
Ho la testa poggiata sulle ginocchia, piango mentre Michele mi sta affianco abbracciandomi, piangendo anche lui; il viso di entrambi è segnato dalla disperazione, entrambi per una tragedia avvenuta da poco, ma Michele ha anche un altro motivo, ne sono sicura, ma non mi ha detto qual è.
Eleonora cercò di concentrarsi sul perché Michele stesse male e scavò più a fondo nella sua mente alla ricerca di ricordi:
“Michele non esci da quattro giorni dalla tua stanza e neanche mangi, mi devi dire che cavolo sta succedendo o sfondo la porta!” lancio sassi contro la finestra della sua stanza ma non mi risponde, quindi scalo l’albero vicino alla finestra grazie al quale arrivo a quest'ultima e mi ci lancio dentro, rompendo il vetro e trovando il mio migliore amico nello stretto spazio vuoto tra la scrivania bianca e l'armadio scuro della sua stanza. Vedo che Mike trema con occhi vuoti mentre ascolta musica stretto a sé stesso, mi avvicino preoccupata lasciando cadere lo zaino; lo trascino fuori da quell'antro nonostante le sue resistenze e vedo segni viola sui polsi. Michele mi rivela di suo padre, di come fosse stato rivederlo, lo abbraccio dicendogli che andrà tutto bene. Insieme guidiamo le nostre biciclette fino alla riva del fiume, ci immergiamo con tutti i vestiti addosso per poi sdraiarci al sole.
Confusa Eleonora alzò la testa, ma sentì un altro ricordo percuoterla e la lasciò ricadere sulle ginocchia:
Io e Mike siamo in un vicolo a fumare, ho paura che qualcuno che conosciamo ci possa vedere.  Mike prende dubbioso qualcosa dalla tasca del mio zaino logoro, visibilmente preoccupato. Io senza dubbio tendo il braccio e lo incoraggio, non mi importa più di nulla ormai.
Svenne.
Alzò la testa e vide tutto il paesaggio ondeggiare, vide gli alberi e le foglie di colori assurdi e sgargianti, si alzò confusa e sentì qualcuno apparire alle sue spalle, era arrivato Colin.
Appena apparì in quel luogo vide com'era mutato il paesaggio, andò verso Eleonora e le afferrò le spalle facendola voltare verso di sé, guardandola negli occhi vide anche lui i ricordi che lei aveva recuperato in sua assenza e questi confermarono la sua ipotesi, si sentì così stupido ad averlo capito solo dopo tutti quei giorni, eppure era così semplice.
“Non si sveglia” sussurrò tra sé.
“Chi non si sveglia?” Chiese lei confusa.
“Non preoccupartene, stavo riflettendo. Hai dormito per 3 giorni ancora e hai raccontato tutto ciò che hai ricordato. Che succede qui?”
“Non lo so! È tutto così assurdo”
“Faccio tornare tutto normale, tranquilla”
Colin si concentrò, chiuse gli occhi immaginando il solito paesaggio e tutto tornò normale.
“Come hai fatto?”
“Ho immaginato che tutto tornasse normale”
Prima che Eleonora potesse fare altre domande, entrambi sentirono una presenza alle loro spalle: voltandosi videro un uomo dal medesimo aspetto degli altri, ma sul suo viso che sembrava dipinto, comparvero due occhi troppo realistici e d'improvviso l'uomo portò le mani sul suo volto e se lo strappò via. Eleonora urlò terrorizzata mentre Colin la portò dietro sé per difenderla in caso di pericolo, ma non successe nulla, il viso dell'uomo mutò semplicemente: ora aveva un viso duro, una mascella larga e quadrata, un naso visibilmente storto dopo una rottura, un dente mancante ed uno grigio in mezzo a tutti gli altri bianchi, circondati da una bocca sottile e quegli occhi neri che Colin aveva visto osservando Eleonora mentre lei dormiva.
Lo strano individuo non si mosse e anche Eleonora e Colin parvero pietrificarsi; ma ad un certo punto nella scena immobile mutò qualcosa… Si sentì un rumore di ossa rotte e osservando meglio l’uomo i due videro che la sua schiena contorta e le sue gambe anche, quando si ricomposero le sue ossa egli parve diverso: le sue gambe risultarono essere più lunghe di prima, le sue spalle più grosse, era più imponente ma non in forma, non  in salute, il suo incarnato era spento, gli occhi neri solcati da due occhiaie profonde; allungò quasi in modo esagerato gli angoli della sua bocca verso l’alto in gesto sofferente quasi gli fosse difficile sorridere, infatti ciò che risultò da quell’azione fu più simile ad un ghigno inquietante.  Fece diversi passi fino a giungere vicino ad Eleonora cercando di prenderle il mento tra il pollice e l’indice, ma immediatamente quel gesto fu impedito da Colin, che però ritrasse la mano quando quell’uomo lo guardò storto, con uno sguardo glaciale, immobilizzandolo; quindi spostò nuovamente il suo sguardo verso di lei e le prese il viso, sfiorandone la bianca pelle con la sua olivastra e ruvida mano, quel gesto fece capitolare dei ricordi nella mente di Eleonora, che ebbe delle fitte fortissime e dovette reggersi all’albero di fianco a lei per il dolore che minacciava di farla cadere seduta stante.
In casa regna un triste silenzio, una pesante sensazione di immobilità, una densa cortina di pensieri annebbiata da malinconia e tristezza, una pioggia di lacrime pesanti, assordanti e silenziose; mia madre ha poggiata sulle sue gambe la medesima divisa miliare mentre stringe forte a sé tre ragazzine, due identiche, una poco più grande, che piangono sincronizzate mentre lei farfuglia in tono sommesso che andrà tutto bene, io non le credo. Guardo la scena dalla fessura della mia camera, vietandomi di piangere insieme a loro e stringermi tra le braccia di mamma anche se lo vorrei tanto:
“Eleonora, ti prego vieni qui” mi chiamò.
“Sto meglio così mamma, vado da Mike” rispondo mentendo, non voglio farla stare peggio di così.
Esco velocemente dalla stanza dirigendomi verso la porta d’ingresso, ignorando lo sguardo preoccupato di mia madre che mi implora con quest’ultimo di andare a rifugiarmi nel loro nido di bisogno reciproco. Salgo sul sellino della mia vecchia bici scolorita, imboccando una strada frastagliata di buche fino ad arrivare al cortile sotto la finestra di Michele, mi arrampico sul solito albero ed entro nella camera di lui, trovandolo a contare delle banconote con uno zaino pronto vicino a sé, poggiato sul piumone grigio del suo letto.
“Cosa fai?” 
“Vado via, non voglio più stare in questa casa”
“Stai scherzando? E dove vai? Mi lasci ora che ho più bisogno di te?”
“Non sto lasciando te, sto lasciando questo posto, vado a stare un paio di settimane in un hotel. Mio padre è tornato, ha scoperto che sono omosessuale e ha cercato di ammazzarmi, è troppo da reggere”
“Vieni da me, ti prego, stammi vicino”
“Ma a casa vostra state già abbastanza male…”
Mi lascio cadere sfinita sul letto di lui, comincio a piangere a dirotto e allungo le braccia verso Michele:
“Ti prego -singhiozzai- non lasciarmi sola neanche un secondo”
Quindi Mike mi viene vicino, mi abbraccia a sé e sussurra delle parole che non capisco.
Il ricordo si interruppe bruscamente e un altro la pervase: Io e Michele siamo in un vicolo buio, entriamo in una casa dalle luci scure, un uomo -quello che aveva di fronte- prende il viso di Mike guardandolo e fa lo stesso con me, quindi va verso una cassaforte, prende delle bustine e ce le pone, ma non ce le lascia prima di avere in mano le nostre banconote.
“Tornate quando volete, questa sarà la vostra casa quando ne avrete bisogno” ci congeda con un ghigno e tutto si fa confuso, sembra che il paesaggio vortichi intorno a noi, portandomi una forte sensazione di nausea.
Eleonora si riscosse, turbata da ciò che aveva ricordato ma felice di sapere che da qualche parte una famiglia ed un amico stupendo l’aspettavano.

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Capitolo 11
*** Manuel ***


Iniziarono a camminare affianco al fiume, verso il punto in cui il fiume moriva in un lago tramite un cascata, scendendo verso quella che pareva essere una valle: l’erba verde si alternava a grosse pietre, sassi, ciottoli, ramoscelli e papaveri; vi erano diversi cespugli di bacche e mirtilli, le lepri scappavano dalle volpi dalla coda foltissima, gli alberi imponenti erano frastagliati da nidi e insetti; tuttavia nulla emetteva suono, né le foglie che frusciavano sull’erba, né gli uccellini nonostante muovessero il becco, né le lepri che correvano. Nonostante ormai vi si stesse abituando, Eleonora provava un forte senso d’inquietudine per tutto ciò che la circondava, quindi si fece un po’ più vicina a Colin, lui a quel gesto sembrò insicuro sul da farsi ma poi le porse il braccio e lei vi si avvinghiò inquieta; camminarono in silenzio per quelle che sembrarono ore, fin quando non arrivarono ad un sentiero di ciottoli bianchi e marroncini, quindi lo imboccarono e presero a camminare più velocemente.
Il silenzio fu rotto da Eleonora: “A cosa pensi?”
 “A nulla" rispose sereno Colin
“Eppure sembri perso nei pensieri, mi piacerebbe conoscerli, io non so a cosa pensare, vorrei pensare alla mia vita ma non la ricordo”
“Vuoi che ti dica ciò che penso? E a che scopo?”
“Per conoscerti"
 “Perché?”
“Non so, se ti dà fastidio fa finta che non lo abbia proposto" disse Eleonora infastidita dal comportamento di lui.
“Oh non posso, ormai l’hai fatto, comunque non mi irrita la tua domanda o il fatto che sia tu a porla, mi irrita parlare della mia vita, non mi piace"
“Eri tu il bambino che ho visto?”
“Si"
“Qualcuno ha infranto i tuoi sogni?”
“Hanno impedito che me ne creassi in realtà"
“Chi?”
“Io, nascendo”
"Che vuoi dire?”
“Voglio dire che- senti non ti riguarda!” Colin aveva alzato il tono della voce.
“D’accordo non ne vuoi parlare, ho recepito il messaggio. Scusa se volevo sapere qualcosa di te, non serve urlarmi contro però!”
Poiché Colin aveva cominciato a tremare Eleonora gli si fece vicino, gli accarezzò dolcemente le spalle e ne accompagnò la testa sul suo petto; lui era così alto, risoluto, enigmatico, però in quel momento le sembrava solo essere un bambino triste e solo. Quando Colin tornò in sé e si rese conto di ciò che stava accadendo, si allontanò violentemente, quasi fosse stato bruciato.
“Non provarci mai più”
“Io, volevo solo… scusami, mi ero dimenticata che odi gli abbracci o questo genere di contatto”
Ripresero a camminare silenziosi fino a quando Colin si fermò di colpo e le si bloccò di fronte, poggiò la fronte su quella di Eleonora, le sue ciocche biondo cenere le sfiorarono il viso e le pose una mano fra i capelli neri come la pece. Le gote di Eleonora si tinsero d'un leggero rosa mentre contemplava lui che anche se senza parole sembrava si stesse scusando.
“Non riesco più di così”
 Rimasero un tempo che sembrò infinito in quella posizione, poi Colin si scostò e imboccò un sentiero stretto, dal terreno frastagliato di rami e foglie secche che piano piano si addentrava in un bosco, sempre di più, fin quando non si trovarono circondati di alti e fitti alberi che non permettevano neanche ad un timido raggio di sole di passare creando un'oscurità tale da far sembrare che all’esterno fosse calata la notte. Dei piccoli arbusti si agitavano per farsi spazio tra gli alti abeti che li imprigionavano tra le proprie radici, radici che persino i fiori non osavano tentare di oltrepassare, rimanendovi nascosti sotto. Quel posto creò un’inquietudine sempre maggiore in Eleonora, non capiva come il paesaggio fosse cambiato così tanto, tanto che guardando dietro sé neanche vide l’uscita da quel bosco e questo le portò alla mente un ricordo: sono arrampicata su un grosso albero e un uomo alto, dalle spalle larghe e i capelli castani, mi chiama dicendomi di gettarmi sulle sue braccia e che mi avrebbe sicuramente presa…
Colin l’aiutò ad alzarsi da terra mentre lei continuava a tremare, non capiva perché ma quella volta il ricordo le provocò dei violenti tremori, talmente forti da costringerla sul terreno brullo e più si concentrava sulla figura di quell’uomo, più la testa le doleva, tanto da sembrare che qualcuno stesse cercando d’aprirgliela. Iniziò ad avere dei violenti spasmi, continuò a tremare, poi ricordò anche qualcos’altro: un uomo in blu, con delle medaglie al petto, con un cappello dritto in mano e con un atteggiamento stoico e impassibile, parla con espressione compassionevole ad una donna e la donna scoppia in lacrime cadendo a terra…
Eleonora non capì cosa i ricordi le stessero suggerendo, ma si sentì come se qualcuno le avesse strappato l'unica ragione per poter sopravvivere. Cominciò ad urlare tremando, fin quando Colin le prese il viso e poggiò nuovamente la fronte sulla sua: le lacrime si scatenarono, gli urli spezzarono il silenzio e dopo un po’ lei fece scivolare stanca la fronte sulla spalla di lui; Colin s’irrigidì e fu quasi sul punto di scostarla da sé ma si trattene dal farlo vedendola tremare ancora.
“Andrà tutto bene, capiremo tutto, ti aiuto io"
“Non so quale sia il significato di tutto questo dolore, ma credo che in questi miei ultimi ricordi si nasconda qualcosa di significativo o non me lo spiego"
“Sopporta il dolore e concentrati sulla cosa del sogno che fa più male"
“Non ce la faccio ora ho la mente vuota e il cuore infranto, ma non so perché. Sento come se qualcuno me lo stesse stritolando" Colin non proferì parola, la fece mettere in piedi, la guardò meglio occhi e le sussurrò di chiuderli e concentrarsi.
Eleonora lo fece, sentì il corpo intorpidito e immobile, sentì i capelli come fossero appoggiati a qualcosa e le si appiccicassero alla nuca, sentì gli occhi pesanti, le labbra secche, si concentrò su quelle sensazioni, guardò dentro di sé e provò a ricordare qualcosa, si concentrò su quell’uomo con delle medaglie al petto: Ha una faccia seria, triste ma non troppo, i segni di un viso abituato alla stanchezza, cala la testa mantenendo un atteggiamento stoico e tra le medaglie ne porta una d’onore, è un soldato, no, è più di un semplice soldato; quell’uomo sta consegnando una divisa alla donna, le poggia la mano sulla spalla, pronuncia delle parole che sembrarono bruciargli la bocca e che sembravano essere “Mi dispiace signora… non c’è stato niente che potessimo fare" e a quel punto la donna crolla sul pavimento di legno, con viso stremato dalle lacrime, con la divisa d’un soldato tra le mani, urla un nome, qualcosa che inizia per M, ma gli urli sono talmente pieni di singhiozzi da non capirci nulla, sembra che le stiano tagliando la gola da quanto siano forti e rauche quelle grida di dolore. Eleonora si concentrò sempre di più per ricordare quel nome, sapeva che fosse importante, né era sicura, ma non riusciva a ricordare e per sforzarsi tremò così tanto che le cedettero le ginocchia e quasi cadde rovinosamente a terra, ma Colin la scorresse in tempo, strinse la presa sulle sue braccia e lei gli artigliò le spalle e poggiò la testa nuovamente sulla sua spalla: “MANUEL" Urlò disperata Eleonora.
“Manuel?” chiese Colin.
“Io non so chi sia ma… ho ricordato di un albero in cui da piccola mi sono arrampicata e di un uomo che ero sicura mi avrebbe presa; poi di un altro uomo, con delle medaglie e la divisa d’un soldato tra le braccia, che diceva ad una donna che non c’era nulla da fare e la donna crollò a terra e urlò un nome, ed era Manuel. Ma non sento che Manuel sia lo stesso del ricordo dell’albero. E non so perché ma ho sentito come se il cuore mi venisse stritolato"
“Chi erano la donna, Manuel e quel tizio, che collegamento avessero con te, lo scoprirai un’altra volta, per ora sei stata brava, non sforzarti più di così. Perché ora non fa più male il tuo cuore?”
“Non lo so, so solo che farmi stringere da te mi ha fatto resistere anche se mi hai fatto male, in qualche modo era una bella sensazione"
“Sei una masochista per caso?” disse Colin con un sorrisetto divertito.
“Che idiota, ti sembra il momento?" Eleonora tolse la testa dalla spalla di lui e Colin le asciugò i lacrimoni dagli occhi raccogliendo le lacrime sul pollice, Eleonora quindi non disse nulla, si sentì la testa pesare, iniziò a sentire quel suono costante e lento: bip… bip… bip… bip… E si addormentò crollando all’indietro.
Colin le poggiò la propria felpa sotto il capo ed iniziò ad interrogarsi su ciò che lei gli aveva rivelato d’aver ricordato: un uomo con delle medaglie che porta la divisa d’un soldato in casa d’una donna dicendole che non c’era stato niente che potesse fare; per lui era ovvio che si trattasse della morte di un soldato e la notizia era stata data a questa donna, la donna aveva urlato il nome “Manuel", quindi il soldato probabilmente morto in battaglia era Manuel, ma che rapporto aveva lui con Eleonora? Poi lei aveva ricordato di un uomo che cercava di farla scendere da un albero su cui si era arrampicata da bambina. Colin osservò il viso di Eleonora mentre dormiva con espressione tormentata: Perché non sparisci? Perché quando torni indietro non sparisci? A meno che -balenò tra i pensieri di Colin- lei non torni affatto.
Erano già passati almeno dodici giorni da quando lui l'aveva trovava e lei non spariva mai, quindi Colin realizzò, capì cosa stesse succedendo, o meglio lo capì in parte.
“Sono così stupido”
Forse non aveva ricordi perché erano talmente dolorosi da non poterli sopportare o forse per un fattore esterno. Tuttavia non riuscì a capire perché lei fosse lì, non aveva senso, non sembrava essere fantasia, era così reale da star male, sentiva tutto ciò che sentiva lei, provava tutto ciò che provava lei, percepiva la sua ansia, il suo malessere e anche il suo batticuore; quindi non poteva essere solo fantasia.
“Scusami se non avevo capito, mi dispiace" Lo chiese all’Eleonora dormiente, le guardò gli occhi chiusi e la bocca gonfia e rossa a causa del pianto e d’improvviso la vide: Bianca e pallida in un'asettica e fredda stanza, con le labbra pallide, due profonde occhiaie viola sotto gli occhi del medesimo bellissimo colore, ma privi di vita, spenti; la vide ciondolare in una via isolata, entrare in una lugubre catapecchia abbandonata, stringere la mano a qualcuno e dirigersi verso degli scattanti occhi neri su d'un viso affilato.
“Ma che hai combinato...” sussurrò nuovamente mentre lei dormiva, accorgendosi che in quel luogo era notte e che quindi era ora per lui di tornare.
Non riuscì ad accarezzarla, non riuscì a toccarla, ci provò ma rimase bloccato, quindi le si sdraiò vicino stringendole la mano. Non sapeva perché ma quella ragazza gli provocava la stessa sensazione che provocò in lui la sonata 18 di Mozart la prima volta che l'affrontò: doveva suonarla, nonostante la sua difficoltà, forse proprio per la sua difficoltà. Così si sentiva nei confronti di quella ragazza: doveva capirla, doveva coglierla nonostante sembrasse impossibile, era insensatamente e inscindibilmente legato al desiderio di conoscerla ed averla tra le braccia, gli sembrava così piccola da poterla spezzare con una pressione troppo forte. Chiuse gli occhi e li riaprì poco dopo nel solito letto…

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Capitolo 12
*** Non calpestare i fiori ***


Colin la scosse facendola tornare in sé, poi guardò sorto quell’uomo che d’improvviso tornò ad essere uno del villaggio e sorridendo andò via, sparì tra gli alberi. Eleonora ancora non ripresasi si alzò con fatica e guardò Colin preoccupata. “Michele voleva andarsene, io stavo malissimo e l’ho pregato di restare con me, di non lasciarmi neanche un secondo da sola. Quell’uomo ci ha dato qualcosa dicendoci he quella catapecchia sarebbe diventata casa nostra. Non ci capisco niente” “Prendi le cose con calma, piano piano capiremo, non dobbiamo ipotizzare sulla tua vita, devi ricordarla pian piano” “Hai ragione. Ma che cosa è successo? Perché quello si è trasformato?” “Non lo vedevo da parecchio, ma l’ultima volta che era successo non era stato così spaventoso. Uno di loro si era tramutato in qualcuno che conosco ma non così, si era tramutato e basta, niente faccia strappata e niente rumori di ossa rotte. Io credo che tu sia davvero spaventata e le emozioni si riflettono in questo luogo, forse è per questo che tutto ciò che ti sta accadendo è angosciante, questi alberi stessi intorno a noi” “Non so come fare per calmarmi, cosa potrei provare se non paura?” “Indifferenza o… curiosità magari, non è tutto così terribile qui” “A me sembra il contrario” Colin cercò di rilassare la postura per far sentire lei più a suo agio, cercò di essere più informale nei gesti e provò a convincerla. “Ti giuro che non tutto è terribile, è perché tu hai paura e sei angosciata che lo vedi così. Per esempio vedi quei fiori? Calpestane uno” “perché?” “Tu fallo e basta” Poco convinta Eleonora calpestò uno dei fiorellini ma subito si sentì il piede spinto verso l’alto e vide il fiore utilizzare le foglie per uscire da terra, usando le radici come gambe lo vide salire su d’un albero e cominciare a borbottare su come fossero maleducati gli ‘esseri viventi non piante’, già una volpe quel giorno l’aveva leccato e aveva provato a sradicarlo, un’ape si era appoggiata pretendendo il suo polline e aveva persino discusso con un insetto che gli aveva rosicchiato una foglia. Mostrò la fogliolina all’albero che gli carezzò i petali con un ramo come per consolarlo e poi tornò immobile. Il fiore non aveva bocca o occhi però i suoi petali azzurri si piegavano mentre parlava e da essi fuoriusciva il suono stridulo della sua voce, si avvicinò ai due e rivolgendosi a Colin gli disse “Dico, ma ti sembra una cosa carina da suggerire dico? Suggerire alla tua amica umana di calpestarmi dico, e a che scopo dico? Per farla stare meglio ci sono altre cose dico, accarezzarmi dico, cogliermi no dico, ti sei impazzito dico?” “Scusa scusa, ma non avresti parlato e non ti saresti mosso se non per lamentarti, voi siete tutti così permalosi che vi si può solo guardare” Colin parlò in modo dolce e con voce bassa al piccolo fiore che si portò sulla spalla, il fiore si girò poi verso Eleonora. “Noi fiordaliso ti sembriamo permalosi dico? Il tuo amico è impazzito dico! Voi non avete mai parlato con le orchidee, questo vi dico. E le rose dico? Così vanitose quelle, così poco simpatiche dico. Non le si può non guardare o si offendono vi dico!” “Queste sono calunnie Fiordaliso temo! Voi non avete capito nulla temo!” un fiore d’elleboro sbucò fuori dal suo posticino all’ombra e si arrampicò su di lei. “Ha frainteso temo, le rose si sono vanitose, ma sono i girasoli i peggiori temo! Tutto il giorno a vantarsi d’essere i soli delle piante temo. Insopportabili temo. Piacere sono Elleboro, spero il mio odore non ti disturbi, per alcuni può risultare spiacevole temo!” “Non ti preoccupare non mi da fastidio il tuo odore” rispose Eleonora incuriosita. Un altro fiore sbucò fuori camminando e decise di arrampicarsi anch’egli su Eleonora, era un papavero. “Noi siamo i più simpatici credetemi. I tulipani non hanno il senso dell’umorismo e voi cari non sapete scherzare credetemi. Prendete troppo sul serio le vanita delle rose e la presunzione delle orchidee credetemi. I gigli? Quelli li adoro credetemi, tipi simpatici credetemi!” Le piantine continuarono a discutere fin quando non decisero di tornarsene ai loro posti e si rinfilarono nel terreno. Eleonora aveva un enorme sorriso sul viso che non accennava a scendere, guardava Colin con occhi che brillavano e lui le disse di prestare attenzione. Sentì un “psss, pss signorina”, un giglio giallo la chiamava. Quando lei gli fu vicino, tutti gli altri gigli gialli ridacchiarono e lui disse: “Ascoltami bene non-pianta, tu che sei alta e grande prendi un po’ quella foglia rigida piena d’acqua lì non-pianta, poi gettala su quei narcisi che si fanno i complimenti a vicenda su’ non-pianta, noi non li tolleriamo proprio non-pianta!” Eleonora li assecondò e raccolse quella foglia, andò verso i narcisi e lasciò che l’acqua li bagnasse: tutti i gigli, gli ellebori, i papaveri, i fiordalisi e tutti gli altri fiori risero rumorosamente e uno dei narcisi cominciò poi a sbraitare: “Avreste potuto rovinare i miei bellissimi petali voi tutti! Io amo i miei petali e voi avreste deturpato i miei amati voi tutti. Siete ridicoli voi tutti, invidiosi voi tutti. Poveri, poveri che pena ci fate, che pena ci fate!” Eleonora tornò da Colin e lui la guardò sornione: “Te l’avevo detto che non tutto è brutto qui” “Come fanno a parlare? Sono carinissimi!” “Si ma quando cominciano non la smettono più, alcuni ti seguono anche pretendendo che poi li riporti al loro posto, quindi stiamo stesi per un po’ senza dargli retta e loro tornano silenziosi” Eleonora si stese con Colin vicino, lui le porse la felpa e lei la piegò in modo che entrambi potessero poggiarvisi, così fecero. Poco prima che si zittissero un tulipano rosa parlava di quanto bella fosse la sua famiglia di tulipani, diceva che i tulipani avevano un senso di famiglia come nessun altro e che in base al colore ogni famiglia aveva un carattere suo, alcuni erano rozzi, altri delicati, altri puntuali nello sbocciare, altri sempre in ritardo. “Bella la famiglia sapete? È importante sapete? E quella delle non piante su due gambe com’è? Lo sapete se è bella come le nostre?” poi tacque. Colin s’irrigidì mentre Eleonora chiuse gli occhi ascoltando il silenzio, ora un po’ meno opprimente. Si goderono la presenza silenziosa ma costante dell’altro per ore, senza proferire parola perché non ne avevano bisogno, si guardavano negli occhi e in qualche modo sembrava che Colin dicesse ad Eleonora di star tranquilla, che si fidava di lei e che lei avrebbe dovuto fidarsi di lui. Eleonora sembrava dirgli che avrebbe voluto sentirlo parlare.

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Capitolo 13
*** Negli occhi altrui ***


D’improvviso un vento gelato soffiò e fece venire la pelle d’oca ad entrambi. Eleonora riaprì gli occhi e li puntò verso Colin, cercò la sua mano sperando in quell’unico contatto che lui riusciva a reggere, ma ciò che vide fu solo la schiena di lui che prima era stesa di fianco a lei. Non parlava ed era immobile, seduto in una composta e rigida posizione affatto comoda. Eleonora si avvicinò cauta a Colin, osservò nei suoi occhi e vide i ricordi che lui stava rivivendo in quel momento, o meglio il ricordo che si ripeteva all’infinito nella sua mente:
Aveva undici anni, stava suonando un difficilissimo brano al pianoforte a coda posto nella loro sala da pranzo, suonava di fronte ad importanti amici di suo padre e a tanto belle e aggraziate, quanto ingannevoli, amiche di sua madre, tutti l’osservavano meravigliati ma pronti alle critiche verso il nuovo trofeo dei suoi genitori. Finita la sua esibizione nessuno applaudì, tutti sorrisero e gli dissero d’essere stato molto bravo. Quando la casa fu quasi vuota e rimasero lui, suo padre e sua madre, lei lo guardò piegando la testa di lato e dicendo:
“Avresti potuto essere più delicato nei movimenti, sembravi un camionista, non il mio elegante ed impressionante figlio” cambiò stanza, prese la borsa e andò via di casa affermando di dover lavorare.
Il padre invece lo guardò con un sorriso forzato, gli prese il mento tra il pollice e l’indice della sua mano sollevandogli il viso verso il proprio:
“I miei amici erano contenti, non sei andato male” lo disse in tono freddo, più freddo del suo sorriso forzato, più freddo delle sue parole, ma meno freddo del gesto di ripulirsi la mano col fazzoletto di stoffa, che portava con sé nel taschino della propria giacca dopo il contatto col figlio e dirigersi con una ventiquattr’ore in mano verso il suo ufficio.
Colin corse verso la stanza al piano inferiore, rifugiandosi fra le braccia di Ester, la sua domestica, che gli disse che era stato bravissimo e gli baciò la fronte.
Il bambino era Colin. Ed era così  solo…
 
Il ricordo s’interrompeva qui e cominciava dal principio un’altra volta, ma prima che questo accadesse per la quinta volta Eleonora scosse Colin per le spalle e poggiò la fronte sulla sua. Colin sembrò attraversato da una scossa elettrica, la guardò negli occhi e capì che lei aveva visto il suo ricordo.
La testa di lei era poggiata sulla sua fronte, imitandolo, ma lei era così vicina da sentirne il battito cardiaco, ne sentì prima uno veloce poi uno lento. Il sentire quel battito quasi troppo lento lo scosse e lei percependo un cambiamento negativo in Colin gli accarezzò il viso guardandolo negli occhi, ma lui reagì irrigidendosi e allontanandole la mano, facendola scostare e alzandosi in piedi.
Camminando avanti e indietro per calmarsi si voltò verso di lei anche se non avrebbe voluto e vide gli occhi bassi, la bocca all’ingiù, quella che fino a poche ore prima era piegata in un candido sorriso, vide la delusione in lei. Tornò seduto ma a debita distanza e solo dopo, come un gattino diffidente si avvicina a qualcuno che cerca di tritarlo fuori dal tombino in cui è rimasto incastrato, le poggiò una mano sulla testa, accarezzandola:
“Anche tu hai passato dei periodi difficili” disse più a sé stesso che a lei.
“A quanto pare… ne so quanto te, non ci capisco nulla”
Eleonora alzò piano il braccio destro, avvicinandolo al collo di Colin accarezzandogli la nuca, stavolta Colin non la scacciò, la lasciò fare mentre studiava il suo viso in ogni particolare, facendo scivolare e risalire meccanicamente la sua mano tra le ciocche nere di lei.
 
Tornarono a stendersi e un giorno intero era passato, un giorno fatto unicamente di sguardi tra i due, di parole percepite ma non dette.
“Non ti sembra strano? È passata una decina di giorni e non ho bisogno di sentirti parlare per capire che vuoi sentirmi parlare a mia volta” disse Colin.
“Sono passati sedici giorni, siamo rimasti parecchio al villaggio, ormai mi stavo abituando alla routine che si era creata, forse per questo non ricordavo molte cose, stare con te non mi dispiace mentre il mio passato, la mia vita, mi spaventano a morte”  
“Neanche a me”
“Dillo”
“Non ci riesco”
“Posso toccarti?”
“Non ora, ti prego, non voglio scattare e rovinare questo momento”
Eleonora annuì e girò il volto verso l’alto guardando il cielo.
“Guardami…” le chiese Colin. Eleonora si voltò e guardò sé stessa affogata nell’ambra, sembrava bella, più di quanto non volesse.
I due rimasero a studiarsi l’un l’altra per un tempo che parve infinito…

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Capitolo 14
*** Mamma e papà ***


Un forte rumore interruppe quel momento: uno degli enormi alberi che li catturava era caduto, invitandoli a procedere per un sentiero molto stretto.
Per quanto fosse giorno, in quel sentiero sembrava fosse calata notte fonda, il cielo non riusciva ad intravedersi attraverso i fitti rami adornati di innumerevoli foglie che coprivano quella stradina, rami talmente fitti e foglie talmente spesse da non permettere neanche al più forte dei raggi solari di passare. Ciò che illuminava quel luogo erano soltanto delle lucciole che sembravano galleggiare nell’oscurità, illuminando poco per volta quel sentiero.
Colin cominciò a salire sull’albero, prendendo Eleonora per mano in modo da permetterle di salirvi a sua volta; attraversarono quella quercia secolare assurdamente grande e non appena poggiarono il primo piede sul sentiero scuro, le lucciole, che galleggiavano in modo casuale, si posero dolcemente ai lati del sentiero creando due fasce di luce ad illuminare la via; man mano che i due procedevano le lucciole si abbassavano ai lati del sentiero e quelle dietro di loro li superavano e si poggiavano a terra, lasciando la strada percorsa in preda all’oscurità. Ad un certo punto le lucciole si bloccarono e anziché procedere nell’illuminare quel luogo rimasero ferme, quindi Colin guardò a terra e vide che lo stretto passaggio era bloccato da qualcosa di grande, era Eleonora collassata a terra con qualcuno vicino, un ragazzo, anch’egli privo di coscienza.
Strinse ancor di più la tremante e gelida mano della ragazza che aveva di fianco per accertarsi che lei fosse ancora con lui, le guardò il viso contorto dal dolore e capì che un terribile ricordo si stava facendo spazio nella confusa mente di lei; vide che Eleonora ricambiava la sua stretta, quindi non la lasciò, anzi fece qualcosa che non si sarebbe mai aspettato da sé stesso: l’abbracciò.
Non sapeva come stringerla, se lo stesse facendo troppo forte o se fosse troppo poco, ma Eleonora gli si aggrappò alla schiena e gli sussurrò un debole “grazie, capisco quanto ti costa”
Per la prima volta non ebbe bisogno di guardarla negli occhi per vedere il suo ricordo e mentre la stringeva ad occhi chiusi questo invase la sua mente…
L’idea di abbandonare il luogo in cui siamo cresciuti terrorizza me e Michele, non voglio lasciare questo luogo, non voglio separarmi dai dolci ricordi che riempiono ogni angolo, ogni albero, ogni vecchia casa, ogni persona, ogni anziano, ogni bambino, ogni cosa; ma allo stesso momento non posso pensare di rimanere ancora nel luogo dove alcuni tra gli episodi più terribili della mia vita hanno sconvolto le nostre famiglie. Il mio cuore è scisso fra la voglia di rimanere ancorata ai ricordi felici e quella di scappare dalle memorie terribili che li accompagnano e mi divorano da ormai più d’un anno.
L’unica via di fuga sembra solo rifugiarsi in una calma apparente, in una tranquillità fittizia. Accompagnati da questi pensieri saliamo ognuno nella rispettiva macchina, insieme a ciò che rimane delle rispettive famiglie, che fragili si dirigono verso una nuova città, per mostrarci il nuovo appartamento, lì dove vivremo insieme, lì dove dovremo ricominciare a vivere, lì dove dovremo superare ciò che è accaduto.
L’appartamento è grande, il vicinato sembra tranquillo, la città è così grande, la nuova scuola sarà pulita, con aule spaziose e piene di nostri coetanei e non con cinque o sei ragazzi per classe.  Nulla rende Michele e me più angosciati che vedere quanto questo luogo sia diverso da casa nostra. Mentre le mie sorelline esplorano felici la nuova scuola e mentre le nostre madri cercano di convincerci di quanto questa città faccia al caso nostro, noto un ragazzo che suona il pianoforte, mentre il mio migliore amico guarda l’accompagnatore dai capelli rosso fragola di questo ragazzo dagli occhi ambrati: entrambi dall’aria assorta nella musica ed indifferente a tutto il resto.
“Credo di averti già visto prima” Disse Eleonora riprendendosi dal suo ricordo.
“Ho visto, ma io non credo noi ci conoscessimo” rispose Colin
“No, non ti conosco, ma so che ti ho visto, una volta. Non so per quale motivo ma ho cambiato città ad un certo punto, dopo qualcosa di terribile. Ho una madre, due sorelle gemelle e una poco più grande di loro ma non ricordo i loro nomi; ho un migliore amico che si chiama Michele, ma non so ancora niente su mio padre. Non so perché sono qui, dove sono loro, cosa sia questo posto o perché tu, estraneo che credo di aver visto solo una volta nella mia vita, sia qui con me; sento che sai qualcosa che non mi stai dicendo. Ma tanto non mi rispondi mai”
“La città è Firenze, è dove vivo. Io… non posso risponderti prima di aver capito come stanno le cose”
“Dimmi dove siamo Colin” Eleonora si sciolse dall’abbraccio.
“Non posso, sento che non posso ancora farlo”
“Cosa vuol dire? Almeno dimmi il perché o dove sono i miei familiari, o perché tu sia qui da solo! Perché? Dove sono i miei genitori? E i tuoi? Ho visto che li hai! Dove sono? Sei qui da solo perché vuoi oppure ti ci hanno mandato loro?”
“Smettila di fare tutte queste domande cazzo! Non posso risponderti! E comunque non so come tu abbia fatto a vedere i miei genitori ma non devi nominarli, capito? Questo posto non è normale ma io non posso dirti il perché, prima voglio capire perché cazzo sei qui con me, perché non ha senso, non c’è mai stato nessun’altro ed è normale! Anche se io fossi andato via da casa loro non se ne sarebbero accorti! Perciò non nominarli più. Capito?” Colin vomitò quelle parole con la flemma che aveva acquisito nel corso del tempo, man mano che imparava a rimanere quieto in loro presenza.
“No, non ho capito. Non capisco perché tu possa sapere tutto di me guardando i miei ricordi come se niente fosse! E non capisco perché se io cerco di capire qualcosa di te e nomino qualunque cosa sulla tua vita tu ti scaldi tanto e mi tratti in questo modo. Io non so chi sei, non ho ancora capito bene chi sia io stessa e sto cercando di capire cosa ci faccio qui, sono spaventata e tu sei l’unico con cui io possa parlare, scusa se voglio sapere chi cazzo sei e se posso fidarmi di te o se sei un maniaco che mi ha portata qui dopo avermi fatto qualcosa di strano! Per quanto ne so io potresti benissimo esserlo!” Eleonora si sottrasse all’abbraccio cominciando a gridare, a differenza di Colin perdeva la calma molto facilmente e l’impulsività la guidava.
“Oh bene se pensi questo perché cazzo stiamo qui a perdere tempo? Trovalo da sola quello schifo di posto ed io potrò tornare alla mia solita vita!”
“Io ho… mi sono innervosita e ho detto cose che non penso… o meglio ho esagerato. Scusami, tu ti stavi sforzando di abbracciarmi e io ti ripago così”
Colin si sentì improvvisamente in colpa, il fatto che lui non capisse cosa quella ragazza facesse lì o il perché non avrebbe dovuto fargli dimenticare che la sua mente era vuota: non sapeva nulla su ciò che aveva fatto o chi era e ciò doveva essere frustrante e la stava chiaramente tormentando; ritrovarsi in quel luogo aveva spaventato anche lui che aveva tutti i suoi ricordi e la coscienza di cosa quel luogo fosse con sé, non avrebbe dovuto scaldarsi così con lei, magari il fatto della sua presenza lì era un segno per dirgli che doveva aiutarla e farsi aiutare da lei, ormai non sapeva più cosa pensare, la razionalità non aveva senso usarla arrivato a quel punto, decise quindi di abbandonarla e vivere quell’assurda follia.  
“Mi dispiace, ho una vita complicata e i miei genitori sono il mio punto debole; per favore non nominarli, anche se vedi i miei ricordi concentriamoci sul farti recuperare i tuoi. Io ti prometto che prima o poi ti parlerò di me, ma dammi il tempo, anche tu per me sei un’estranea” disse Colin con un tono rassicurante, le poggiò la fronte sulla sua.
“L’hai sentito anche tu prima vero? Quando eravamo stesi in mezzo a quegli alberi”
“Sì, ho sentito quasi qualcosa scorrermi nelle vene mentre ti guardavo”
“Anch’io, scusa per prima”
“Scusa tu, sei quella più confusa al momento”
“Non sono facile da trattare però, me lo dice sempre Mike. Sono impulsiva e avventata, mi sono subito” Colin provò ad accarezzarle i capelli ma Eleonora scacciò la sua mano, sconvolta dal suo corpo vicino a quello del suo migliore amico, stesi esanime a terra. Un capogiro la fece cadere a terra e Colin le andò affianco per sorreggerla.
I miei occhi non si muovono, sento il fiato mancarmi dal petto, sento la gola secca e non riesco a parlare, non riesco neanche a chiedere a Michele se sta bene o no. Questa volta abbiamo esagerato, a Mike cominciano degli spasmi e dopo poco si solleva sulle ginocchia a fatica, infilandosi due dita in gola per vomitare, per poi venire verso di me e farmi fare a stessa cosa. Stanchi e avendo rischiato grosso, ci abbracciamo piangendo:
“Non ce la faccio più, fa così male” dico al mio migliore amico.
“Non cedere, io non posso stare senza te in questo posto” 
Qualcosa comparve vicino alle mani dei corpi a terra, delle pillole, quindi i corpi sparirono, così come quelle pillole.
“Mi drogavo, lo facevo con Mike, lo facevamo per non pensare, ma non so a cosa non volevamo pensare”
“Avevo capito già quando sono tornato qui e tutto questo posto era strano e colorato”
“Ma io non capisco, perché avrei dovuto drogarmi? Cosa può avermi spinta a farlo?”
“Non lo so, non ci conoscevamo”
“Hai ragione, ma mi sembra di capirti un po’”
“Già, anche a me”
“Cosa hai capito?”
“Credo tu abbia perso qualcuno”
“Perché?”
“Hai ricordato di un uomo in divisa con delle medaglie al petto, che riportava una divisa militare a tua madre, giusto? Succede quando muore un soldato” Colin ebbe paura di aver sbagliato a dirle ciò che pensava, ma voleva davvero venire a capo di quella storia.
“Credo conoscessi quel soldato, quello morto, credo fosse il fratello di mia madre”
“Credi?”
“Non lo so, so solo che mi sento stanca, mi sta per tornare in mente qualcosa, ma non credo sia qualcosa di brutto questa volta”
“Lasciati andare, ci sono io qui, non ti succederà nulla”
“D’accordo”
Aspetto che torni dal momento in cui ha varcato la porta di casa, due mesi fa, tutte e quattro lo stiamo aspettando con ansia e quando vediamo la porta aprirsi e i suoi scarponi varcarne la soglia ci lanciamo tutte addosso a lui, io prima di tutte.
“Ciao piccole ninfe, mi siete mancate tantissimo” ci dice lui, -di cui Eleonora non ricordava il viso ma la voce calda e sicura e le mani grandi e dolci-. Dopo averlo riempito di baci scendiamo e facciamo spazio alla mamma. I caldi occhi marroni di mio padre li vedo immergersi in quelli violacei della mamma, innamorati come se la vedesse per la prima volta.
“Mi sei mancata da morire” Le dice poco prima di prenderla tra le braccia e baciarla con trasporto.
“Ho preparato tutti i tuoi piatti preferiti, anche la mia speciale torta al miele e cannella”
“Noi stasera dormiamo da Matilde per giocare con Mike”
Io e le mie sorelle usciamo di casa per andare da Michele, non prima di aver origliato:
“Siamo soli quindi?
“Quelle pesti hanno fatto tutto da sole senza dirmi nulla, abbiamo la casa per noi stasera”
“Facciamo un bagno caldo e poi andiamo a cena?” chiede papà.
“Ottima idea direi”
Tutte e tre felici della nostra trovata lasciamo mamma e papà soli a casa.
“Ho ricordato mio padre, non del tutto ma so che ne ho uno!” Disse esaltata Eleonora, saltando addosso a Colin e stringendolo forte.
“Si ho visto! Sembri amarlo moltissimo e anche tua madre” disse con un velo di tristezza della quale la ragazza non si accorse.
“Si! Ma credo viaggi molto per lavoro, tu che dici?”
“Mi sa di sì, però credo vi ami, siete una bella famiglia” disse nuovamente con lo stesso tono.
“Si infatti, sento che lui è lo stesso del ricordo in cui mi arrampicavo sull’albero da piccola, era mio padre! Chiamava me e le mie sorelle ninfe e mia madre la mattina l’apostrofava con ‘mia venere’ e mi ricordo che quando litigavano lei lo chiamava Ade e lui Medusa. Sono appassionati di mitologia greca e si sono conosciuti in biblioteca, perché volevano lo stesso libro e hanno iniziato a leggerlo insieme. Mi ricordo anche che i litigi li vince sempre mia madre, perché fa l’indifferente per più tempo e mio padre cede per primo e le chiede scusa anche se ha ragione, dice che la ama troppo e non riesce a tenerle il muso; poi però si offende perché lei invece ci riesce e ricominciano a litigare come due bambini!” Eleonora parlò a raffica sorridendo, n0n riusciva a smettere di farlo mentre parlava dei suoi genitori.
“Sembra bellissimo”
“Colin, stai bene?” improvvisamente Eleonora vide che Colin aveva il viso spento, malinconico e che anche se sembrava detestarlo, una lacrima era scappata a forza dai suoi occhi ambrati lucenti.
“Io… sì, non sono abituato a questa idea di famiglia, quindi tutte le immagini che parlando mi hai proiettato in testa mi hanno fatto commuovere, devi tornare a casa, ti aspettano persone stupende; anche il tuo migliore amico sarà triste” disse Colin con la tristezza più profonda in petto: quella ragazza, bloccata lì, aveva una famiglia meravigliosa che l’aspettava a casa e non sapeva come ma doveva aiutarla a tornarci, a qualsiasi costo; l’avrebbe cercata, trovata, e avrebbe fatto qualcosa.
Mentre era perso nei suoi pensieri Colin sentì una leggera pressione sul viso, spalancò gli occhi vedendo vedendo nuovamente Eleonora accarezzargli piano la guancia, avvicinandoglisi piano come fosse un piccolo gatto spaventato che soffia e gonfia il pelo per sembrare aggressivo. Aveva cominciato a piangere senza nemmeno rendersene conto ed Eleonora stava piangendo insieme a lui, per lui. Si era appoggiata al suo petto e gli aveva messo una mano sul cuore come a pregarlo di calmarsi.

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Capitolo 15
*** Rimanere insieme ***


Colin la vide di nuovo: distesa su d’un letto bianco, sul quale la già chiara carnagione risultava ancora più pallida, con le labbra prive di colore, immobile.
Tornatosi a concentrare sul loro contatto, un forte senso di angoscia e disagio presero posto nella sua mente, portandolo ad allontanare Eleonora quasi si fosse bruciato. Rimase immobile.
Eleonora d’improvviso sentì una voce lontana, ma in qualche modo sembrava non esserlo poi tanto:
“Ce la farai tesoro, torna ti prego, Michele si è ripreso, adesso tocca a te” era la voce di sua madre.
Fu in quel momento che si vide distesa in un letto bianco, immobile.
“Non capisco, è un ricordo?”
“Sembra diverso” rispose Colin confuso.
“Sembra stia accadendo”
Eleonora si prese la testa fra le mani, si chiuse su se stessa appoggiandola alle ginocchia, aspettando che Colin le andasse vicino come aveva fatto ormai parecchie volte, ma poi si accorse che Colin non si avvicinava, che il suo tocco non arrivava, quindi alzò la testa verso di lui e vide che era seduto con le gambe distese, le braccia a sorreggerlo, sembrava fosse scioccato e sentì un ricordo non suo invaderla, non faceva male ma era una sensazione strana, era come se la vita di qualcun altro le stesse scorrendo nelle vene:
Colin attendeva una telefonata nella quale ormai non sperava più. Tale telefonata doveva essere il suo regalo di compleanno dopo otto mesi senza vedere i propri genitori, ma non arrivò. Una forte solitudine s’impossessò di lui, sentiva freddo. Rimase immobile ad osservare una coppia di donne con due bambine identiche a seguito, sembravano felici e ciò lo rese invidioso. Si sentì amareggiato, quindi uscì dalla propria stanza, attraversò il grande salone, scese le scale, bussò alla porta di Ester.
“Non hanno chiamato” disse solo, ancora davanti alla porta della sua domestica. Colin aveva compiuto tredici anni quel giorno, Ester ne aveva ventotto.  
“Entra” gli disse lei.
Colin aprì la porta e vide Ester di schiena, non aveva vestiti addosso a sé, aveva i capelli biondi bagnati che le ricadevano sulla schiena, fino alle fossette di venere. Quando la sua domestica si girò, Colin osservò il corpo di una donna per la prima volta, rimase immobile, con occhi privi di luce, anche quando la sua domestica gli si avvicinò, anche quando si chinò e poggiò le sue labbra sulle proprie, anche quando lo portò verso il letto dietro di loro.
“Ci penserò io a te piccolo, non sentirti solo, questa casa e tutto il resto ce li godremo insieme”
Quando la mattina si svegliò, Colin ripensò alle parole della sua domestica.
“Voglio una nuova domestica” Disse in tono freddo a suo padre.
“Per quale ragione? Ti segue da molti anni” rispose con la voce coperta dal suono delle macchine.
“Ha rubato dei gioielli dal portagioie di mia madre, li ho visti questa notte nella sua camera”
“Cosa facevi lì?”
“Le stavo dicendo che oggi avrebbe dovuto accompagnarmi alla lezione di equitazione, l’hanno anticipata di un giorno”
“Capisco, da quando fai equitazione? Anzi non rispondere. La licenzierò e ne assumerò un’altra”
“Certo, grazie”
Colin poggiò il telefono sul tavolo, aspettò quieto per venti minuti, poi sentì una porta sbattere, Ester furiosa dirigersi verso di lui,
“Stupido ragazzino, dopo quello che h0 fatto per te mi fai licenziare inventando che ho rubato dei gioielli a tua madre?!”
“Inventare? Tu li hai rubati, ho visto i suoi orecchini con diamanti sotto al tuo cuscino”
“Dopo quello che è successo tu…! Io ti sono stata vicina ieri”
“Tu volevi sedurmi per avere il mio denaro, mio padre mi affiderà la sua azienda, ho insegnanti privati che a scuola mi insegnano come muovermi sul mercato internazionale, organizzare, scoprire truffe e cogliere buone occasioni e gestire soldi. Vai fuori dalla mia proprietà entro tre ore o ti denuncio,”
Ester preparò in fretta e furia scatoloni e valigie e uscì da quella casa dopo due ore e mezza.
Colin ripensò alle mani gentili di Ester che gli accarezzavano il viso dicendogli di non piangere, ripensò alla voce dolce di lei mentre gli diceva di amarlo tantissimo, le sue morbide braccia mentre lo abbracciavano, le labbra sulle sue la notte passata. Una lacrima, una sola, sgattaiolò fuori dal suo occhio sinistro.
 
Eleonora capì da cosa derivava la sua paura per l’affetto, per la gentilezza, anche qualcuno che sembrava volergli solo fare del bene l’aveva usato per i suoi scopi. Aveva dovuto crescere in fretta, da solo.
Gli si avvicinò piano gattonando, poiché non riusciva a reggersi in piedi. 
Giuntagli vicino l’abbracciò scoppiando in lacrime, si strinse a lui, dolorante e confusa. Colin rimase immobile, poi si sciolse, ricambiò l’abbraccio e pianse parecchie lacrime insieme ad Eleonora.
Dopo un tempo che parve fin troppo breve lui sciolse l’abbraccio e guardò la ragazza in lacrime di fronte a sé.
“Perché piangi? Ritroverai casa tua”
“Non piango per quello, piango per te”
“Perché?”
“Perché sei solo e non ti fidi di nessuno, tu non hai qualcuno che ti aspetta, vero?”
“No”
“Rimaniamo insieme, non ci conoscevamo ma ora si”
Colin sorrise soltanto, non poteva pronunciare una singola parola, non riusciva.
Tutto d’un tratto sentì di star per sparire.
“Aspettami, torno tra un po’, ti prego non ti muovere, dormi, sta ferma qui finché non torno” Colin corse dietro degli alberi.
“Dove vai? Vengo con te!” Gli andò dietro ma era sparito, non c’era più, così tornò sul sentiero e si poggiò contro un albero appettando che lui tornasse e nel farlo si addormentò.
 
Dopo molte ore Colin riuscì a tornare indietro e vide Eleonora addormentata con le lacrime agli occhi. Le andò vicino e la chiamò piano, quando lei aprì gli occhi lesse la domanda nei suoi occhi:
“Non potevo restare scusa, ma sono qui ora. Non posso spiegarti”
“Va bene” rispose con voce impastata dal sonno lei.
Le prese la mano, si alzarono e le indicò il sentiero, proponendo silenziosamente di continuare a camminare.
Percorsero quel buio sentiero nel silenzio più assordante, l’uno accanto all’altra, senza toccarsi.
Ad un certo punto il sentiero s’interruppe in un bivio, vi erano due strade, l’una col nome di Colin, l’altra col nome di Eleonora.
“Cosa significa? Sai dove siamo?”
Colin scosse la testa e si diresse verso la strada col nome di Eleonora, porgendole la mano; afferrata quella mano Eleonora si ritrovò nella strada principale di una cittadina non troppo grande, vi era un fiume non molto lontano dai confini del paese. Camminarono seguendo le gambe di le, che sembravano conoscere bene quel luogo, a dispetto della sua mente vuota.
Li portarono ad una casa, molto simile a quella del villaggio in cui Colin l’aveva portata il primo giorno, solo che questa era in cemento, non in legno, ed i mobili al suo interno erano bianchi, le pareti d’un giallo pallido, vi erano delle scale al posto della stanza in cui era stata portata Eleonora per riposare, quelle scale portavano alla stanza in questione; tutto il resto era uguale. Percorrendo il corridoio lungo e stretto si diressero verso una delle porte che nella prima casa erano chiuse: la stanza col letto a castello era impolverata e vi era un alto scaffale in metallo arrugginito, riempito con giocattoli, bavaglini, piccoli vestiti per neonati, tutti gialli e rosa; il letto a castello era rotto e dal legno marcio. Entrando in quella stanza, Colin vide una cartella medica sul pavimento polveroso, la prese porgendola ad Eleonora:
“Questa casa è di Michele, sua madre ha perso una figlia, per la quale aveva preparato una stanza col letto a castello, perché se si fosse sentita sola Michele avrebbe dormito con lei; questa cartella è una radiografia, il cuore della piccola ha smesso di battere” pronunciò quelle parole con mente distante, quasi non fosse lei a farlo.
“Mi dispiace, ma perché ci troviamo qui?”
Lei non rispose e salì le scale, entrò nella camera di Michele e riconobbe l’albero fuori dalla finestra, ma vide anche un quaderno, aperto sul letto del suo migliore amico.
“Non riesco a leggere, Colin ti prego fallo tu”
Il ragazzo obbedì, prese il quaderno e lesse la pulita e chiara calligrafia:
“Voglio andare via un paio di settimane, non reggo più niente e nessuno, tutto quello che stiamo facendo mi sembra un’assurdità ma non riesco a trovare alternative, ho bisogno di lasciare questo posto per poco e schiarirmi le idee, torno te lo giuro, so quanto abbiamo bisogno l’uno dell’altra e sai che non ti lascerei mai, ma ho bisogno di stare solo”
Eleonora e Colin videro sé stessa leggere il quaderno, lanciarlo contro la parete e calpestarlo, la videro togliersi i vestiti e prendere una felpa del migliore amico, quindi macchiare la sua felpa bianca sul pavimento di vino rosso, poggiarci una lametta sopra e dopo di che, nascondersi sotto il letto, aspettando. Videro Michele entrare in stanza, afferrare la felpa e i vestiti dell’amica e terrorizzato chiamare al telefono il tizio con cui si era organizzato per andare via qualche settimana:
“Non posso, scusa. Si hai ragione. No, una mia amica  ha fatto una cazzata… niente… ciao”.
Eleonora si vide saltare fuori da sotto al letto e afferrare l’amico per la vita, quando caddero a terra lui la strinse accusandola di avergli quasi fatto venire un infarto:
“Non scapperai senza di me. Rimanimi vicino, scappiamo insieme” Lo disse porgendogli una bustina con delle pillole.
“Come hai fatto? Fa male questa roba”
“Non può farci stare peggio di così, aiuterà a non farci del male, le ho chieste a Martino quando te ne sei andato”
“Ele…”
Ingoiarono una pillola ciascuno.

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Capitolo 16
*** Dentro la peggior paura ***


La scena si dissolse davanti i loro occhi, la casa e l’intero villaggio scomparvero e i due caddero in una voragine apertasi sotto i loro piedi. Colin era sulla desta ed Eleonora sulla sinistra.
“Colin?”
“NO NON PARLARE!”
Un gruppo di donne l’accerchiarono, i sorrisi di tutte si allungarono fino ai loro occhi, una si fece avanti, vicinissima al viso di lei, i suoi occhi erano diventati neri ed enormi e una scena si stava pian piano formando dentro di essi: Eleonora vide se stessa in quegli occhi, immersa nel buio, Colin l’abbandonava camminando dandole le spalle e dopo che scomparve dalla visuale vide se stessa prendere una pillola e ingoiarla, poi un’altra, poi un’altra ancora, si vide fumare con una cartina ciò che era stato consegnato a lei e Michele in una bustina, poi si vide prendere un mucchio di pillole e infilarsele giù in gola, ad ogni pillola le sanguinava il naso un po’ di più, poi cominciò ad uscirle sangue dalla bocca, poi dagli occhi pianse lacrime di sangue. Di colpo era a terra tremando per gli spasmi e non solo lei, anche Mike. Lei l’aveva spinto a farlo, a prendere quelle pillole, a drogarsi. Lei si riprese ma Michele no, Lui rimase a terra. Si vide mentre impanicava e ricoperta di sangue controllava il battito del suo migliore amico, si vide cadere in terra sentendosi colpevole della sua morte. 
La scena si ripeteva negli occhi della donna, che urlava contro Eleonora, come se quel grido fosse composto di migliaia di voci intrappolate nel corpo della donna. Senza che se ne fosse accorta Eleonora tremava ed era scoppiata in lacrime, senza che se ne fosse accorta la donna l’avvolgeva in catene nere che facevano scomparire il suo corpo nel vuoto. Di colpo sentì un grido: era Colin.
 
Aveva detto che devo affrontarle, questa è una paura non un ricordo. È la mia paura…
“Non è reale! Stai Mentendo! State tutte mentendo! Basta! Io non ho ucciso Michele e non lo farei mai. IO SO CHE STAVAMO CERCANDO DI SMETTERE, NOI STAVAMO SMETTENDO. BASTA!”
L’urlo delle donne cessò, tornarono normali e sparirono, ma Colin non c’era.
“Eleonora! Eleonora!”
“Colin sono qui!” Eleonora sentiva la voce di lui provenire dall’alto, quasi lui fosse già uscito da quella voragine. Lo spazio si rimpicciolì, di colpo poteva toccare sopra di se e sentire come un soffitto roccioso. Prese a  dare pugni e tirar via rocce dal soffitto mentre Colin la chiamava urlando e lei gridava il suo nome.
Una delle donne ancora l’osservava, così capì:
“No ho paura di te! Non ho paura di questo posto! Voglio rivedere Colin! Fammi uscire strega!”
Il sorriso della donna tornò normale e lei scomparve. Eleonora tornò a scavare e finalmente la mano di Colin sfiorò la sua. Lui inserì il braccio e allargò il varco, poi la tirò fuori dal terreno e la strinse tra le proprie braccia.
“Ero terrorizzato, che ti hanno fatto? Cosa è successo?”
“Tutto bene, gliele ho cantate! È bello sentirti dire quello che provi”
“Ti piace vedermi preoccupato eh?” sorrise lui.
“Molto lo ammetto!”
“Io ero rimasto bloccato per tre giorni quando mi è capitato. Ho intravisto le loro figure pochi secondi prima che parlassi ed ero lontano da te. Ho avuto paura, nella tua condizione non sapevo se l’avresti superata”
“La mia condizione?”
“La memoria dico”
“Oh, beh, ho parecchia forza di volontà. Comunque Colin?”
“Sì?”
“Mi stritoli”
“Oh scusa…” allentò la presa e le spolverò la felpa

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Capitolo 17
*** Racconti diretti ***


Colin fischiò ed un’aquila enorme, molto più del normale, li fece poggiare sul suo dorso permettendogli di volare insieme a lei; sussurrò qualcosa all’aquila e questa aumentò la velocità costringendo Eleonora ad aggrapparsi a lui per non cadere, quindi si diresse verso un oceano che sembrava essere spuntato dal nulla e portò i due ragazzi sott’acqua, per poi scomparire.
Colin prese a parlare sott’acqua spiegando ad Eleonora che era possibile in quel luogo, così come volare, bastava pensarlo:
“Ma io ricordo come nuotare e l’acqua dovrebbe affogarmi, entrarmi nei polmoni, come faccio a parlare? Non sento d’esser sott’acqua”
“Non pensarci, divertiti”
“Non ricordo se so nuotare”
Colin le spiegò come nuotare sott’acqua, quindi si diressero verso una parete rocciosa apparsa dal nulla e lui condusse la ragazza verso una grotta sott’acqua, nuotando salirono un po’, si arrampicarono su delle rocce. Eleonora afferrò una roccia troppo poco stabile e cadde, cercò di aggrapparsi da qualche altra parte e per farlo si graffiò la gamba, il ragazzo subito l’aiutò a salire e si ritrovarono in uno spazio privo d’acqua, nel quale si entrava attraverso un piccolo e ripido canale roccioso che saliva verso la superficie. La grotta era altissima e varie fessure sulla parte superiore permettevano di intravedere la luce, l’entrata era sott’acqua.
Colin vide Eleonora sul letto bianco, vide che un graffio le era comparso sul polpaccio destro e che una donna preoccupata e sconvolta la fasciava: “Com’è successo? Chi è stato? Sono sicura non sia entrato nessuno, non dormo da due settimane ormai, non le stacco gli occhi di dosso!”
Terrorizzato Colin aiutò la ragazza a pulire la ferita e gliela fasciò con delle bende che fece comparire lì accanto.
“Brucia?” le chiese.
“Non sento nulla, mi sento intorpidita”
“Facciamo un esperimento, però non muoverti, ti prego” lei annuì. Colin si distese e fece poggiare la testa di Eleonora sul suo petto, le raccontò che ogni tanto gli piaceva immergersi e di come, in una delle sue immersioni, all’età di 16 anni, avesse trovato quel posto ed esattamente come lei si fosse tagliato la gamba, ma testardo, ci fosse tornato una seconda volta, rimanendo ore in quel luogo.
“Tornai a casa dopo un giorno intero, l’unica persona preoccupata era la mia nuova domestica filippina di cui non ricordo il nome. Mia madre mi rimproverò di non aver suonato il violino per le sue amiche, mio padre mi rimproverò di non aver suonato il piano davanti ai suoi colleghi. Entrambi mi dissero di avergli fatto fare una pessima figura, lo dissero all’unisono e mi mandarono in camera mia. Neanche mi asciugai i capelli o mi cambiai, andai direttamente nel letto della mia domestica. Poi la feci licenziare. Le tenevo un paio di mesi andandoci a letto fin quando s’illudevano di potermi abbindolare e avere i miei soldi, poi le licenziavo, ormai non avevo neanche più bisogno del consenso di mio padre, la casa la gestivo io”
“è una cosa crudele, perché lo facevi?”
“Perché loro volevano approfittarsi di me e io per ripicca mi approfittavo di loro, sapendo già che non avrebbero rifiutato. Ma in realtà ero arrabbiato con i mei genitori”
“Ora non più?”
“No, ho capito, non mi volevano, gli ho rovinato la vita. Per quello dico che sono stato io a distruggere i miei sogni, volevo essere apprezzato, ho fatto di tutto, suono il pianoforte, il violino, la chitarra e il basso, ballo per mia madre, imparo a gestire i soldi e come dirigere un’azienda per mio padre, sto zitto per entrambi e parlo solo se interpellato, ma non è mai servito, quindi ho smesso di provare”
“Cosa ti piace fare davvero?”
“Non lo so, suonare mi piace, ballare anche; ma preferisco portarmi a letto una ragazza piuttosto che impegnarmici, sento come se, in fondo, lo facessi solo per loro.”
“Io credo che in fondo ti amino, magari non sanno come dirtelo”
“No, non sanno come farlo, non sanno come amarmi, mio padre mi tr0va insignificante. A mia madre ho rovinato il sogno”
“Perché dici questo? Come gliel’avresti rovinato?”
“Nascendo”
“Cosa”
“Lascia stare”
Colin la guardò per un istante e d’istinto poggiò le sue labbra su quelle di lei, che di scatto gli tirò uno schiaffo con volto severo.
“Ti allontani se cerco di consolati dandoti un abbraccio e mi baci così? All’improvviso?”
“Non posso?”
“No”
“Posso abbracciarti allora?”
Eleonora lo guardò con fare sospetto ma poi lo lasciò fare, sentì di non poter fare nient’altro che assecondarlo, la strinse a sé portando il viso nell’incavo del collo di lei, sentendo il profumo dei suoi capelli corvini invadere le proprie narici. Dopo lunghissimi istanti si distese e portò la testa di lei sul proprio petto: Eleonora rimase immobile, i suoi battiti accelerarono e lei si addormentò lasciandosi cullare dal silenzio e dal confortante odore muschiato di Colin.
 
Un rumore assordante ruppe quella dolce atmosfera, lasciando posto al rumore di rocce e terra che rotolavano giù, schiantandosi contro alberi e animali. Il paesaggio cambiò, i due si ritrovarono in un piccolo spazio verde ai piedi d’una collina piuttosto grande, il luogo era pieno d’alberi irti di foglie d’ogni colore, gli alberi erano un po’ spogli, l’erba non aveva un bel colorito verde, era d’un verde più tenue, una pioggia leggera avrebbe dovuto bagnare i loro capelli e i vestiti, ma lì non accadeva.
“Dove siamo?” chiese Eleonora.
“Ero in gita con il mio migliore amico, Daniele, avevamo quindici anni e stavamo cercando di acchiappare qualche lepre lì intorno, poi ad un certo punto ha cominciato a piovere ma non gli abbiamo dato importanza, poi sono iniziati tuoni e fulmini ed uno colpì uno degli alberi, quello crollò provocando una frana”
“Vi siete feriti?”
“Io inciampai su una pietra e mi ferii la gamba, lui non si fece nulla per fortuna. Mi è rimasta la cicatrice”
“Posso vedere?”
Colin si scoprì la gamba, mostrando una cicatrice lasciata da un taglio profondo, che andava da metà polpaccio fino al tallone; nel frattempo notò un tatuaggio, erano due figure umane formate da una sola linea continua, si tenevano per mano, e con le altre tenevano insieme un fiore.
“Ha un significato? Comunque sia è molto bello”
 “Rappresenta l’egoismo dei miei genitori, la mia delusione nei loro confronti”
“Perché hai scelto un’anemone?”
“Mi stupisce che tu abbia subito riconosciuto il fiore. L’Anemone rappresenta l’abbandono, un amore tradito una speranza mal riposta, viene regalato quando si vuole far notare a qualcuno di essere trascurati. Nella mitologia Anemone era una delle ninfe di Flora, la quale era talmente gelosa dell’amore che Zeffiro e Borea provavano per Anemone, che la trasformò in un fiore delicato condannato a sfiorire precocemente. Per questo l’ho scelto, mi piace la storia dietro a questo fiore ed anche il fiore stesso”
“Io credevo il suo significato fosse dolore, per quello ti chiedevo”
“Ti piace informarti sul significato dei fiori?”
“Sì, ma solo per curiosità, amo informarmi un po’ su tutto. Mi ricordo che amo la mitologia greca, una volta una mia compagna ha dato del narciso a Mike e io le ho chiesto se sapesse cosa stesse dicendo ma non lo sapeva, quindi ho sproloquiato per mezz’ora raccontando il mito di narciso, ma anche le varie interpretazioni e di come si dia il significato di egoismo anche al fiore”
“Sarebbe stato divertente essere un tuo compagno di classe, anche se non la conosco molto, la mitologia greca mi affascina”
Il paesaggio mutò e si ritrovarono nuovamente nella grotta. Distesi nella medesima posizione.
“Tu cosa pensi dei tatuaggi?” Chiese Colin.
“Mi piacciono molto e avevo deciso di farne uno ai miei diciott’anni. Volevo tatuarmi un lupo, sulla gamba, oltre che per il fatto che mio piacciono moltissimo, anche poiché è una dei simboli di apollo, Dio delle arti, della musica, della poesia, della conoscenza”
“Sei proprio ossessionata tu eh?”
Eleonora lo guardò un po’ offesa, quindi lui si scusò silenziosamente come ogni volta: poggiò la fronte su quella di lei, i capelli le sfiorarono dolcemente le guance, l’osservò per un po’ scusandosi con gli occhi.
Senza pensare Eleonora si alzò sulle punte e dopo aver portato una mano sulla nuca di lui, lo baciò decisa. Colin ne fu sorpreso inizialmente ma ricambiò il bacio, poi la guardò perdendosi nei suoi occhi viola, ricambiando lo sguardo, Eleonora si vide specchiata negli occhi di lui, quindi un forte tremore s’impossessò di lei, paura e angoscia le formarono un nodo in gola, fece fatica a respirare e sciolse il morbido intreccio di quel tiepido bacio.
“Non ti andava bene prima ma ora sì?”
“Sì”
“Perché, di grazia?” chiese Colin con un sorrisetto di scherno sul viso.
“Perché preferisco essere io a prendere l’iniziativa”
“Ah sì? E da quando Miss Cado-sulle-ginocchia-tremo-e-aspetto-che-mi-consoli?”
“Idiota!” gli tirò un pugno sulla spalla e scoppiarono a ridere.

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Capitolo 18
*** Partenza ***


Sono distesa su un telo molto grande d’un rosso intenso poggiato sull’erba d’un verde pallido, sto leggendo un libro mentre ascolto Christina Aguilera, ho 15 anni. Mio padre si avvicina a me togliendomi un auricolare, mi sorride dicendo che è pronta la cena, mi dice che ho passato tutto il pomeriggio sotto al sole e mi rendo conto di essermi scottata le spalle e le gambe. Porto una canotta a strisce nere e grigie e dei pantaloncini neri, è estate.
Entro in casa e mentre siamo seduti a tavola mio padre stringe la mano a mia madre:
“Devo partire per altri 4 mesi circa, mi dispiace perdermi i vostri compleanni”
Io e le mie sorelle siamo deluse, deve già andar via.
 “Tra quanto parti?” Chiedo io con ansia.
“Due giorni”
Il giorno dopo lo passiamo tutti e sei insieme per tutto il tempo, la sera, dopo aver guardato per l’ennesima volta Pretty Woman, che è il film preferito di mamma, io e le mie sorelle andiamo ognuna nelle nostre stanze, solo che io rimango in corridoio e origlio la conversazione dei miei genitori:
“Ti prego stai attento”
“Non preoccuparti mia venere, tra quattro mesi sarò di ritorno, niente e nessuno potrà impedirmelo”
“Questa volta sarà più difficile, perché hai accettato?”
“Non potevo rifiutare amore, lo sai bene”
“Ti prego torna a casa”
“Lo farò”
Mi dirigo a letto col cuore in gola, mi ci infilo sotto, abbraccio un cuscino e chiamo Michele:
“Mio padre domani parte di nuovo e stavolta è più pericoloso”
“Non preoccuparti tesoro, tuo padre torna ogni volta, lo farà anche questa, vedrai che tra quattro mesi sarà a casa”

“Hai la voce strana, ti sei fatto male?”
“Non è niente, stavo scendendo le scale della mia stanza ma si è rotta la ringhiera e sono volato di sotto, colpa di quell’ubriacone di Paolo che ogni volta che beveva si aggrappava qui per salire e poi tirava calci e pugni ovunque”
“Che uomo orribile, menomale che è sparito dalla tua vita”
“Sono d’accordo, ti senti meglio?”
“Si, sentirti mi fa bene, domani passo da te”
“No vengo io, così magari tua madre si distrae un po’”
“D’accordo Mike, a domani, buonanotte”
“Buonanotte Ele bella”

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Capitolo 19
*** Dolci e insensati inframezzi ***


Eleonora non capì perché fosse così preoccupata del viaggio lavorativo di suo padre, poi ricordò che sua madre aveva detto che lui era caduto da una delle piattaforme, quindi pensò che suo padre facesse l’architetto o aiutasse nella costruzione di edifici e magari era stato chiamato per un progetto importante, quindi erano tutte preoccupate; si convinse che quella fosse la verità, non volle indagare sul resto. Colin cercò di crederle, ma sentiva che qualcosa non quadrava, mancava qualcosa in quello schema, ma non poteva sapere cosa fosse poiché non aveva idea di chi fosse Eleonora, non l’aveva mai nemmeno vista, non ci aveva mai parlato. Come poteva trovarla?
“Aiutami a ragionare Colin, Colin?” Gli diede un pizzicotto per farlo rinvenire dai propri pensieri.
“Scusa, mi ero perso” 
“A che pensavi?”
“A come trovarti” Rispose senza pensare, quando si accorse di ciò che aveva detto si corresse subito:
“Volevo dire, trovare la tua famiglia, farti tornare a casa”
“Colin tu non mi dici qualcosa, che posto è questo? In che regione siamo? Perché non sento rumori oltre la tua voce? Perché non sento i profumi e le persone sono tutte uguali? Sembra tutto così finto che a volte mi chiedo se sia reale, ma poi se cado mi faccio male e le ferite rimangono e si rimarginano a poco a poco, come è giusto che sia! Perché se ti guardo negli occhi vedo tutto ambrato e posso ricordare cose che non mi appartengono ma che appartengono a te?”
Colin vide che Eleonora era troppo spazientita, vide gli occhi di lei diventare lucenti per via delle lacrime di rabbia, le labbra rosse e gonfie poiché le stava torturando mordendole, le mani le tremavano.
“Mi dispiace ma non posso dirtelo, non posso spiegarti, ci devi arrivare tu da sola”
“Ma perché?”
“Credo di aver capito una cosa troppo importante sulla tua situazione e sul perché sei qui e non posso dirtela. Ho paura potrebbe avere effetti indesiderati”
“Spiegami solo una cosa, perché sei qui anche tu? Siamo nella stessa condizione?”
“No, siamo in due situazioni diverse, io… non posso dirti altro, perdonami ti prego”
“Perché Colin?” Eleonora scoppiò in lacrime, la sua frustrazione era talmente immensa da sopraffarla, non poteva più sopportare quella situazione senza capire cosa stesse succedendo. Colin la strinse, era irrazionale, non aveva senso, non l’aveva mai incontrata, ma conosceva la sua vita, la vedeva attraverso gli occhi di lei, non sapeva come fosse successo ma…
“Ti aiuterò, ma per ora devi fidarti, ti scongiuro. Non ne ho motivo ma credo di tenerci a te” Lo disse tutto d’un fiato, bruciandosi la lingua e il palato nel pronunciare quelle poche parole, procurandosi l’emicrania e facendo scaturire in sé la voglia di scappare, di slacciarsi da Eleonora e andare via, lasciarla sola, ma non lo fece.
“Proverò a fidarmi, ma rispondi almeno a qualche domanda”
Mentre Eleonora si preparava alla lista infinita di domande da porre, Colin la baciò in quel luogo privo di ogni suono, privo di ogni disturbo, estraneo al tempo stesso.
“Era un modo per tapparmi la bocca?”
“Mi avresti riempio di domande”
“Non farci l’abitudine” sorrise impercettibilmente.
“Potrei”
“Non contarci”
“Non ti sottrarresti”
“Ne sei convinto? Se volessi fartici prendere l’abitudine sarei io a decidere come, quindi non avrei bisogno di sottrarmi”
“Ah sì?” Colin l’osservò con aria di sfida e di colpo si sentì strano, guardandosi immerso in quel mare violaceo lasciò trapelare il suo flusso di coscienza:
“Non ha senso te ne rendi conto? Abbiamo passato circa diciotto giorni assieme e sento una strana connessione tra noi, non nego che la cosa mi preoccupa, sono abituato a cose più semplici, il sesso è semplice. Questa invece è la cosa più complicata della mai vita e della mia non-vita. Non chiedere. Il punto è che tu mi influenzi, io sto impazzendo, non so se ti troverò o se è possibile farlo, ci sei davvero? E cosa ci sta succedendo? Io ti ho baciata e ho percepito le tue labbra sulle mie, ho sentito quanto sono secche ma sento già di non poterne fare a meno. Non sono mai stato uno avventato nelle cose e nelle situazioni, sono sempre rigido e posato ma con te non riesco, in questa situazione come faccio?”
“Molte delle cose che hai detto non le capisco ma so che non posso chiederti e non lo farò, aspetterò di capire. Io sono una persona avventata invece, spesso seguo l’istinto e non penso prima di agire, penso mentre agisco e so che sbaglio a farlo. Però non mi sembra che in un posto assurdo come questo, in cui i fiori parlano, le foto si animano, le persone sono sosia con strane capacità inquietanti non facciamo del male a qualcuno se ci lasciamo trasportare da quello che sentiamo. So che non sei abituato a questo tipo di emozioni, al tenere a qualcuno e volerlo conoscere e toccare anche nell’aspetto emotivo, però sta succedendo, noi siamo qui, tu sei qui e ho bisogno che assecondi questa cosa insieme a me. Quando ci osservavamo da stesi è cambiato qualcosa”
“Da quel momento è stato tutto diverso, l’ho sentito anch’io”
“Ti prego non scappare”
“Va bene, te lo prometto”

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Capitolo 20
*** Parti di te ***


Eleonora dormiva spesso, troppo spesso la stanchezza prendeva il sopravvento e la costringeva ad addormentarsi.
Un senso opprimente d’angoscia premeva sul petto di Colin che osservava accuratamente ogni sfaccettatura del viso di lei, ogni espressione. Ad ogni ricordo nuovo, la stringeva a sé sussurrandole di accettare i propri ricordi ed ogni volta si sentiva sempre più protettivo nei confronti della sconosciuta che ormai occupava i suoi pensieri ad ogni ora del giorno o della notte.
La confusione delle prime giornate aveva ormai lasciato posto al desiderio di scoprire più cose su quel luogo e sul ragazzo che l’accompagnava. Sempre più spesso capitava che Eleonora fosse rapita da ricordi non suoi, catturata in emozioni diverse dalle proprie, spesso rabbia, quasi sempre rancore, ogni tanto dolore.
Nessun ricordo aveva più sconvolto la sua mente, ora tranquilla, ma si chiese cosa vi fosse nella via che avevano evitato di prendere tre giorni prima, quella di cui l’ingresso era indicato da un vecchio cartello in legno a forma di freccia, con inciso in oro il nome ‘Colin’.
Mentre camminavano, esattamente come l’era apparsa tra i pensieri, la via si materializzò in mezzo alle rocce della strada che avevano preso.
“Mi sembra un suggerimento” disse lei
“Non so se sia il caso di seguirlo”
Eleonora si avviò comunque, sentendo dopo poco i passi di Colin dietro di sé; ben presto il terreno brullo lasciò il posto alla grigia asfalto, gli alberi ai lampioni e ai palazzi. Poco dopo davanti a loro comparve una porta.
“Questo è l’ingresso di casa mia” disse Colin.
Aprì la porta ed entrarono, Eleonora vide il salotto dai mobili moderni, le pareti verde pallido con dei leggeri brillantini del medesimo colore, il pavimento bianco, al posto dei giochi numerosi strumenti musicali, spartiti, libri su libri di economia, di marketing, uno di inglese, l’altro di francese, un altro ancora di tedesco ed uno di cinese; vide quaderni aperti dalla calligrafia disordinata, ne vide uno riempito da soli caratteri cinesi, ne prese un altro ed era pieno di testi di poesie, un altro ancora era riempito da spartiti; passò le dita sulla carta consumata, sulle numerose scritte, sui versi allegri e su quelli tristi. Vide un libro di poesie di Baudelaire e ne aprì una pagina casualmente: parole sottolineate a matita, interi versi cerchiati, annotazioni di pensieri scritte sui margini della pagina come ‘questo verso mi ha messo tristezza’, ‘queste parole insieme suonano benissimo, 0 ancora ‘vorrei qualcuno a cui dedicare una poesia’. Riposò il libro scossa, poi notò l’archetto d’un violino abbandonato sul tavolo in vetro e il violino cui apparteneva poco distante:
“Suoneresti qualcosa per me?” lo chiese voltandosi e vide lo sguardo di lui divenire dubbioso.
“Cosa vuoi che suoni?”
“Quello che vuoi”
Colin prese il violino e l’archetto, si mise in posizione, ma prima d’iniziare a suonare fu interrotto:
“Qualcosa di tuo, ho visto che scrivi”
“Non so se mi va di suonarti qualcosa di mio”
“Per favore…” Eleonora gli si fece vicino guardandolo con sguardo da cerbiatto e quando lo vide sospirare sconfitto sorrise beffarda.
Colin prese a suonare delle note dolci che riempirono il silenzio, l’aria sembrò divenire zuccherina, i colori della casa mutavano dal verde pallido al rosa; delle note più brusche poi trasformarono il rosa in viola, dando alla melodia un tono sempre più malinconico; blu, i toni della casa mutarono nuovamente, agitazione e stanchezza si riflettevano in quelle note, poi una forte rabbia cambiò la stanza in nera e grigia, l’aria era amara, le note melodiose ma disturbanti, poi pesanti, incalzanti, troppo veloci; infine tornò serena, ma non felice, sofferente ma arrendevole.
 I sentimenti di Colin scandivano tempi e ritmo, arrivavano come coltelli nel cuore di lei, che prima che lui finisse il suo brano lo abbracciò guardandolo negli occhi.
“Scusa per avertelo chiesto, non volevo forzarti a dirmi tutte queste cose”
“Dirti?”
“Ho sentito tutto quello che volevi dire, forte e chiaro. Sei davvero bravo a suonare”
“Non mi hai costretto, mi ha fatto sorridere vederti aprire e leggere i miei quaderni, vederti analizzare quello che vedevi per capire cose su di me, l’ho notato sai? Ho visto come guardavi questa casa, ti sei innervosita”
“Si, mi fa arrabbiare, è vuota e asettica. È piena ma vuota, non so spiegarlo, ma so che sai cosa intendo e so anche che ti fa stare male”
“Posso baciarti?” Colin la guardava intensamente, e a dispetto di quanto pensasse Eleonora, attendeva davvero una sua risposta.
“Non ti stai abituando un po’ troppo?”
“Avevamo detto di lasciarci andare a ciò che proviamo no? Ora ti tiri indietro?” chiese lui ironico
“Mi sembra tu l’abbia accettato parecchio velocemente”
“Oh fidati, non è così”
“Da quanto frullano queste paure nella tua testa?”
“Da quando sono diventato consapevole del fatto che mi piaceva tornare e vederti in quella casa e mi piaceva parlare con te, mi piaceva la routine che si stava creando e ti ho detto di cominciare a incamminarci”
Lui la baciò, questa volta però non fu un bacio innocente e veloce, non fu un modo per zittirla, le cinse i fianchi e le baciò il collo, sentiva la pelle fredda di lei sulla sua, sentiva l’elettricità scorrere tra i loro corpi, sentiva una scossa elettrica in ogni punto in cui la loro pelle entrava in contatto, sentiva le mani delicate ma decise di lei fredde contro la sua nuca, sentiva il solletico dei capelli di lei tra le dita, sentiva il calore e il sapore del loro bacio, vedeva il viso di lei arrossarsi e la sua pelle scaldarsi, sentiva le mani fremere e il desiderio aumentare; inizialmente si lasciò trasportare, tirò giù la zip della felpa larga e nera di lei rivelando le bretelle del reggiseno grigio e quelle nere della canotta, le mani di lei gli si intrufolarono sotto la maglietta e a quel punto lui si tirò indietro, poggiando la sua fronte su quella di lei:
“Scusa”
Eleonora non seppe cosa rispondere, risistemò la sua felpa, alzò la cerniera e rimase ferma a contemplare le labbra e gli occhi di Colin.
“Non so che diavolo stessi facendo”
“Io credo di sì”
“Si ma non puoi capire, è complicato, non dovrei sentire il calore della tua pelle o meglio il suo non calore, cosa sei, una specie di rettile a sangue freddo?”
“Stai sviando il discorso per non farmi fare domande vero?”
“Fa finta di non averlo capito e assecondami, per favore”
“E va bene… sei uno stupido”

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Capitolo 21
*** Chiacchiere ***


Passarono numerosi giorni, nessun ricordo avvicinò Eleonora alla sua vita, nessun ricordo di Colin la invase; i due passarono tutto il tempo a parlare, a conoscersi, scoprirsi.
Il rumore di fondo era sempre più forte nella mente di Colin.
Bip… bip… bip…
Diventò impossibile ignorarlo, ma Eleonora pareva non sentirlo.
“Hai avuto un ragazzo?” chiese Colin rompendo il silenzio in cui erano caduti.
“Si, uno, si chiamava Gabriele, è durata otto mesi, poi ho scoperto che aveva picchiato Michele con dei suoi amici e si è giustificato dicendomi che era colpa di quel finocchio del mio migliore amico, quindi l’ho lasciato”
“Non capisco le discriminazioni, soprattutto quelle per orientamento sessuale. Il mio migliore amico, quello con i capelli rossi che hai visto nel mio ricordo, sa che io sono bisessuale ma non se n’è mai fatto un problema; anche dopo che gliel’ho detto ha continuato a fare la doccia con me dopo gli allenamenti cose così”
“Non lo so, la penso allo stesso modo, è sbagliato già solo che esista un nome per due donne o due uomini che si piacciono a vicenda o per uno che li ama entrambi e così via. Non credi? Dargli un nome è diversificarli, quindi nascono le discriminazioni”
“Capisco il tuo punto di vista, ma la storia dell’uomo dimostra come, per avere il controllo, questo classifichi e identifichi ogni cosa sotto una categoria. E alla fine fa più casino di prima”
“Già, è stupido”
“Siamo tutti stupidi”
“Non chiamiamoci”
“Come prego?” Chiese Colin alzando un sopracciglio in un’espressione interrogativa.
“Facciamo finta d non avere un genere sessuale, facciamo finta di non avere un nome, che nulla lo abbia, io ti chiamo ambra”
“Io ti chiamerò tanzanite allora”
“Tanzanite?”
“è una gemma che tende al viola”
“Da cosa deriva il suo nome?”
“Dal fatto la trovarono per la prima volta al nord della Tanzania”
“Come fai a conoscere queste cose? Io non sapevo neanche esistesse una gemma tendente al viola e tu sai persino dove fu scoperta”
“Mi piace informarmi. Una volta, quado avevo 15 anni ed ero in viaggio con i miei genitori, loro si sono allontanati per degli affari lavorativi e io sono rimasto in una panchina ad ascoltare musica; ad un certo punto mi si avvicinò un uomo anziano, sulla novantina d’anni e, sedendomisi vicino, si mise a raccontare di quando lavorava in miniera per cercare oro e gemme”
“Dove ti trovavi?”
“In Francia”
“Quindi parli francese?”
“Si, ma sono praticamente stato costretto, mia madre ama la Francia e ci andavamo ogni estate”
“Trovo sia una lingua affascinante”
“Io noiosa, comunque dopo quell’incontro mi sono interessato alle miniere e alle gemme”
“Gli hai chiesto quale fosse la gemma più bella che avesse trovato?”
“No, tu l’avresti fatto?”
“Sì, sarei stata curiosa di saperlo”
“Secondo me quando stai troppo a contatto con cose stupende e ogni giorno lavori vedendone di nuove ma sempre simili, beh, perdono il loro fascino. Una cosa è e rimane stupenda, provocandoti meraviglia e affascinandoti quando la guardi, solo se non la vedi spesso”
“Ma no, secondo me dipende da come la guardi. Anche se sei a contatto con quella cosa ogni giorno, non è detto tu la osservi davvero, magari la vedi ma non la guardi, quindi quando lo fai, ne rimani comunque affascinato”
“Mah, credo che proprio il gesto di vederla ma non guardarla sia segno del disinteresse che ti provoca. È un po’ come quando da piccolo ti sembra stupendo fare la vita degli adulti, poi cresci e arriva il disincanto: non è stupenda, è triste”
“Lo dici perché sei troppo pessimista”
“Ci sono nato”
“No, eri un bambino sempre allegro che andava sempre in giro per casa col suo orsacchiotto blu”
“Ehi! Ma come lo sai? Comunque era un coniglietto” Chiese Colin in imbarazzo.
“Non ne ho idea, non chiedermelo, lo so e basta”
Eleonora rise piano, poi chiese a Colin:
“Se ti va, puoi parlarmi di te?”
“Cosa vuoi sapere?”
“Vorrei sapere tutto, la tua infanzia, la tua vita di adesso. Ah, quanti anni hai? Questo posto è così privo di tempo che ti fa sentire senza età”
“Hai ragiona sai? Presentazione base: Mi chiamo Colin Martinelli, 20 anni, ho superato da poco l’ultimo anno del liceo e studio Marketing e Management all’università per prendere il posto di mio padre alla direzione della sua azienda, ma in realtà vorrei poter diventare un musicista, poiché anche se mi ci avvicinai costretto dai miei genitori, amo la musica. Dimmi di te”
“Sono Eleonora Sartori, ho 18 anni e sono al quinto anno del liceo classico, voglio studiare giurisprudenza all’università e amo la letteratura, sia italiana che inglese, ma soprattutto la mitologia greca.”
Si presentarono facendo un inchino e poi scoppiarono a ridere.
“Giurisprudenza eh?”
“Sì, vorrei poter aiutare qualcuno nella mia vita. Perché non provi a diventare un musicista?”
“Non mollerò un lavoro sicuro e una vita agiata per ritrovarmi in un appartamento minuscolo, bevendo da dei bicchieri presi con i punti del supermercato solo per seguire il mio sogno, non sono in un film americano. I miei genitori non accetterebbero mai che lasciassi tutto. Quindi farò entrambe le cose, studierò per l’azienda e col tempo mi impegnerò anche per diventare un musicista”
“Ho capito, non sai cosa scegliere e le scegli entrambe”
“Esatto”
Risero insieme e poi Colin lasciò vagare la sua mente:
“Guardami negli occhi, ti racconto un po’ di me”
Eleonora obbedì e tacque, sentendo che era un momento importante, non erano ricordi di Colin ad invaderla, era lui stesso a volersi aprire a lei. Mentre Colin parlava, lei vedeva i suoi ricordi all’interno di quell’ambra lucente, come se stesse guardando una di quelle vecchie pellicole che rendevano i toni di un film tendenti al giallo.
“Mia madre era una prima ballerina di danza classica, era in tournee a Parigi con una compagnia di cui non ricordo il nome, lo spettacolo di cui era protagonista era Lo schiaccianoci, lei aveva 23 anni, alla fine dello spettacolo, mentre salutava il pubblico, notò in prima fila mio padre, che alla fine dei saluti, dopo che si era anche cambiata, le si avvicinò regalandole una rosa blu. Sono stati insieme per 4 anni, poi mentre mio padre era nel pieno della sua vita lavorativa poiché aveva appena sollevato la sua azienda e mentre lei era in tournee per lo spettacolo Coppelia, scoprì di essere incinta. Fece finta di niente ma poi la compagnia ne venne a conoscenza e l’allontanò dalla scena, la sua carriera crollò a picco e lei non fu più in grado di riprendersi. Per i primi due anni non mi volle vedere, fui cresciuto da Linda, una dona anziana che avevano assunto; non volle vedere neanche mio padre. Il loro rapportò si raffreddò, avevo rovinato la carriera a mia madre con la mia nascita, e anche il matrimonio di mio padre. Quindi entrambi mi trattano da sempre freddamente. Da piccolo cercavo di impressionarli per farmi apprezzare e amare, avevo sempre il massimo dei voti, tantissimi amici, sorridevo sempre. Poi vidi mia madre ballare da sola, in salotto, sulla musica di un violino, quindi cominciai a studiarlo; poi sentii mio padre ascoltare del piano mentre lavorava nel suo ufficio e cominciai a suonare anche quello. Una volta, dopo che mia madre aprì la sua scuola di ballo, portò le sue amiche a casa e mi disse di suonare per loro, suonai tutti i brani più difficili e più belli che conoscevo, volevo impressionarla, alla fine, quando se ne andarono tutte, lei mi si avvicinò e mi mise una mano sulla spalla dicendomi che non le avevo fatto fare una brutta figura. È la cosa più gentile che lei mi abbia mai detto, è l’unico ricordo che ho di lei che mi trattiene dallo scappare via da quella casa. Divenne un’abitudine: i miei genitori mi facevano suonare per i loro ospiti, e a tavola dovevo sostenere le conversazioni complesse di mio padre e i suoi colleghi. Poi mio padre costruì una sede dell’azienda anche in svizzera, quindi passava lì mesi e mesi. Mia madre iniziò a partecipare a delle tournee e partiva con le sue ballerine, si è fatta un nome in fretta come insegnante, poiché tutti sapevano del suo passato da ballerina e del fatto che avesse perso l’occasione d’oro per colpa di una gravidanza imprevista. Non hai idea di quante volte ho sentito dire ai miei parenti e anche ad estranei: “Eh se il ragazzo non fosse mai nato, avresti vissuto il tuo sogno”. A 13 anni aspettavo una loro chiamata per il mio compleanno, ma dopo che non si degnarono di chiamarmi, decisi di andare da Ester, ne ero cotto e lei voleva i miei soldi. Poi la feci licenziare e come ti ho detto, ho iniziato ad usare il sesso per distrarmi dalla mia vita. Le uniche cose davvero belle sono la musica e il mio migliore amico, Daniele, l’ho conosciuto all’asilo ed è sempre stato con me. Mi ha sempre aiutato e mi è sempre stato vicino.”
“Posso solo immaginare quanto deve essere stato ed è difficile”
“Non lo è più, a sedici anni ho smesso di preoccuparmi di loro, mi sono fatto il tatuaggio come dimostrazione del fatto che non me ne interessa più nulla”
“Non è così, altrimenti non continueresti a suonare per loro e a discutere di cose noiose con tuo padre e i suoi colleghi”
“Chi ti ha detto che ancora lo faccio?”
“Non lo fai?”
“Sì”
Eleonora lo guardò con aria di vittoria, pronta a riempirlo di domande e costringerlo a mostrarle il suo lato ferito e debole, ma Colin la baciò per evitare il discorso. Quel bacio, cosi come ogni contatto con Eleonora, sembrava reale, sembrava che le sue labbra toccassero davvero quelle di lei, sentiva i suoi capelli fra le dita, percepiva il calore della sua pelle.
Venne la sera, ma era troppo presto perché venisse. Le giornate, i momenti di luce, erano sempre più brevi e non era una percezione distorta dal divertimento e dalla serenità che provavano stando insieme. Colin era conscio del fatto che il tempo con Eleonora, andava via via diminuendo. La sua coscienza svaniva, lei sarebbe svanita pian piano. 
Il rumore di fondo che Colin sentiva divenne talmente forte da non poterlo più sopportare, la sua preoccupazione aumentò e anche se vide Eleonora stanca, desiderosa di addormentarsi, la costrinse a ricordare, la costrinse a pensare, forzò la mente di lei ad una verità alla quale lui era ormai arrivato da tempo:
“Come si chiamava tuo padre Eleonora?”
“Non lo ricordo e poi, perché ti sei rivolto a mio padre al passato? Mi inquieta”
“Smettila di raccontarti scemenze. Tu te lo ricordi e lo sai”
“No”
“Eleonora, accettalo, dimmi il nome di può padre!” Colin si mise ad urlare.
“Non voglio! Fa male! Non voglio dirlo!” Eleonora rispose col medesimo tono di voce di Colin, ma piangendo.
“Eleonora! Ti prego!” Colin le prese il viso tra le mani, la costrinse a guardarlo negli occhi.
“MANUEL! Mio padre è morto! Era un soldato ed è morto, io lo amavo Colin, lo amavamo tutti. Il dolore era troppo grande e mi sono rifugiata nella droga insieme a Michele. Io e lui stavamo così male e io l’ho trascinato giù con me. Ci siamo avvicinati a quell’uomo, ci ha venduto delle canne, poi non bastava la marijuana e ci siamo spinti oltre, troppo oltre. Mi dispiace. Io stavo male! La morte di mio padre mi ha lacerato l’anima. Non lo potevo sopportare. Le nostre madri volevano aiutarci, avevano deciso di lasciare quel posto quando il padre mi Mike sarebbe stato allontanato da casa. Ma avevamo paura!”
Eleonora scoppiò in lacrime, Colin la prese tra le sue braccia, le disse che non aveva colpe, che aveva sofferto e per questo aveva fatto scelte sbagliate, le disse che l’avrebbe aiutata, che sarebbe tornata dai suoi genitori, che sarebbe uscita da quel giro, che sarebbero rimasti insieme.
Poco prima che potesse dirle che tutto si sarebbe risolto una voragine si aprì sotto i piedi di Eleonora e si richiuse non appena la ragazza fu caduta al suo interno.

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Capitolo 22
*** La porta di Colin ***


Il paesaggio intorno a lei scomparve, si ritrovò in un limbo oscuro privo di ogni minima fonte di luce. Una sola lucciola comparve poco distante da lei, si alzò in piedi e la raggiunse, la lasciò poggiare sulla propria mano e vide arrivarne molte altre a formare una scia di luce.

Seguì il percorso indicatole fino a raggiungere uno specchio: le lucciole si posero ai bordi in legno di quest’ultimo ed Eleonora non vide sé stessa riflessa nello specchio rettangolare, ma Colin.

Vide comparire una scritta dietro sé e la lesse attraverso lo specchio:

apri la porta e prosegui.

Confusa, Eleonora vide lo specchio assumere la forma d’una porta, la aprì e fu catapultata in un letto dalle lenzuola rosse, in una stanza enorme, con un ragazzo in sola canottiera vicino a sé.

Non si stupì nel capire di star vivendo un ricordo di Colin, ormai nulla le sembrava assurdo da quando si era ritrovata in quel luogo.

Si alzò, o meglio, Colin lo fece, lei era mera spettatrice dentro di lui. Si sentiva stanca e spossata, aveva un forte mal di testa, prese un cuscino e lo tirò al ragazzo dai capelli biondi che dormiva beatamente nel letto:

“Rivestiti e va via, i miei genitori arriveranno tra qualche ora”

Quello si stropicciò gli occhi alzandosi dal letto, si infilò i boxer e i pantaloni color cachi e la camicia bianca.

“Sei proprio uno stronzo Colin, chiamami quando ti va di rifarlo”

“Sì certo” non l’avrebbe più chiamato, dopo la seconda volta non richiamava nessuno.

Vide già pronti sul tavolo dei cornetti, ancora fumanti e ringraziò mentalmente sé stessa di aver assunto una cameriera Francese.

Vide il proprio migliore amico entrare dalla porta di casa con le chiavi in mano:

“Chi era quel damerino con i pantaloni di quello schifo di colore?”

“Non lo so, credo il suo nome inizi per G”

“Almeno potresti ricordare il nome di chi ti porti a letto”

“Ricordo solo il nome di chi non mi porto a letto e quello di chi è degno di nota, e lui non è degno di nota”

“Parla troppo?”

“Non sta un attimo zitto”

Daniele afferrò uno dei cornetti e porse un caffè Starbucks al suo amico.

“Oggi tornano i tuoi, no?”

“Sì, devo suonare il violino per mia madre e le sue allieve, e poi intrattenere a cena gli ospiti di mio padre, come ogni singola volta”

“Perché non suoni un pezzo tuo?”

“Non esiste, non mi piace farli ascoltare”

“Io li ho sentiti tutti”

“Tu sei tu coglione”

“Ma magari se glieli fai ascoltare…”

“Cosa? Si accorgono di avere un figlio? Non credo proprio. Discorso chiuso, non iniziare”

“Va bene, va bene” Daniele alzò le mani in aria in segno di resa, poi convinse l’amico a fare una partita a calcetto con un gruppo di loro conoscenti, invitarono un paio di amici a casa di Daniele e giocarono a biliardo fino alle sei e mezza. Eleonora si vide controllare l’ora sull’orologio, correre in camera di Daniele e prendere una camicia nera e dei pantaloni bianchi:

“Te li riporto domani, i miei saranno già in casa!”

Corse giù per le scale e saltò sulla moto, comprò dei gigli per sua madre e le sue amiche e un buon whiskey per suo padre e i suoi colleghi.

Entrò in casa con le proprie chiavi e vi trovò già i propri genitori con i loro ospiti:

“Eccoti finalmente, ci hai fatto aspettare per un buon motivo spero” Disse sua madre, lui le porse i fiori, e fece lo stesso con le sue tre colleghe.

“Hai un figlio adorabile” disse una.

“Tenerissimo” continuò l’altra mentre lo guardava con occhi languidi.

Sorrise a tutte presentandosi e poi andò nello studio di suo padre, portando il whiskey con sé:

“Bel lavoro campione, amo questa marca!” Lorenzo, il socio di suo padre che tentava di rubargli la compagnia, gli diede una pesante pacca sulla schiena.

“Ne sono felice” rispose educatamente.

“Non è la marca migliore ma mettila in frigo” disse solo suo padre.

Eleonora sentì la rabbia aumentare ogni minuto di più. Quando si mise a suonare il piano, sentì le dita di Colin rilassate sui tasti del meraviglioso pianoforte a coda nero del salone, le sentì rigide ma consapevoli sull’archetto del violino: ‘non un errore, neanche un errore, neanche un solo minuscolo errore’, sentiva ripetere nei pensieri non suoi.

Il disprezzo e il rancore aumentavano nel suo cuore mentre intratteneva a cena gli ospiti, ma sul suo viso vi era solo un sorriso educato, solo sorrisi ben calcolati, parole e discorsi pronunciati con una flemma incredibile, risate controllate.

Quando gli ospiti se ne andarono furono accompagnati alla porta dai suoi genitori, ma Rosa, la ragazza amica di sua madre, sua allieva, gli lasciò un bigliettino col suo numero sotto il tovagliolo.

“Hai suonato bene ma a tavola eri pessimo” disse sua madre.

“Troppo teso ma te la sei cavata al piano” disse il padre.

“Hai sorriso troppo” continuò lei.

“Farò meglio la prossima volta, vado a dormire”

“Domani parto di nuovo” disse solo il padre.

“Io non starò molto a casa, andrò nella mia vecchia scuola di danza a tenere qualche lezione lì”

“Pensi di tornare in Francia a breve?” chiese.

“Sì, sto cercando una ballerina che possa andare bene per il ruolo di prima ballerina nel mio nuovo spettacolo”

“Capisco”

“Andiamo a letto” disse suo padre posandole una mano sul fianco.

 

Alle quattro di notte Rosa entrò in casa, Colin le aveva aperto la porta senza far rumore: insoddisfazione, amarezza, rabbia, tristezza, solitudine… riversò tutto su quella ragazza quella notte come ogni notte.

 

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Capitolo 23
*** La porta di Eleonora ***


Tutto sembrò farsi gelido mentre colpiva con pugni e spallate il punto nel quale la voragine si era richiusa, il cielo divenne grigio e nuvoloso, la terra brulla sotto suoi piedi fu presto sostituita da strade strette, gli alberi da case in legno o mattoni un po’ vecchio stile. La via nella quale si ritrovava la riconobbe come quella in cui il sentiero di Eleonora li aveva introdotti, era nel paesino natale i lei.
Le sue mani erano grandi ma dalle dita sottili e delicate, non erano le sue, le nocche erano spaccate e la pelle troppo bianca, il suo corpo sembrava più leggero, si alzò sulle gambe ma si sentì più goffo e meno alto, era in qualche modo nel corpo di Eleonora e appena se ne accorse divenne misero spettatore d’un film già registrato.
Si vide dirigersi verso una casa, quella in cui era stato con lei qualche tempo prima, si arrampicò su di un albero spesso e molto vecchio come fosse la cosa più naturale del mondo.
Conosceva bene ogni ramo di quell’enorme albero, e proprio da uno di questi si sporse fino ad aprire la finestra della porta di Mike, entrò e s’infilò tra le sue coperte, senza dire nulla lui si girò e l’osservo con occhi spenti: pianse stringendosi all’amico, ferito a sua volta, la perdita dell’ancora li aveva lasciati come due zattere prive di remi in un mare in tempesta e niente e nessuno avrebbe potuto riportarli indietro.
In quella stanza piansero tutte le loro lacrime per tutta la notte, senza pause, senza tregua. Colin sentì le guance di Eleonora diventare bollenti e bruciare, corrose dalle lacrime salate e pesanti. Una profonda tristezza aveva reso il suo cuore pesante e gonfio di disprezzo verso la vita ed i sorrisi, verso le persone, verso sua madre che si sforzava di sorridere ed andare avanti, verso suo padre che non c’era, verso chi c’era e tentava dio starle vicino.
Non un raggio di sole colpiva quella stanza buia dalla serranda abbassata, non un filo di luce entrava dallo spiraglio tra la porta ed il pavimento, non un suono se non quello dei suoi singhiozzi, miscelati ai pesanti sospiri dell’amico si udiva, nulla all’infuori della loro tristezza.
Dopo ore di nulla Michele si alzò e decise di cambiarsi, si spogliò ed indosso il solito jeans nero ormai sgualcito, una felpa viola e delle scarpe nere, le porse una felpa verde e l’indossò infastidita da quel cambio di programma improvviso.
Michele alzò la serranda lasciando passare la luce, girò la chiave nella serratura aprendo la porta:
“Andiamo al fiume Eleonora”
“Non riesco a camminare”
“Ti porto sulla schiena”
“Grazie”
Era vero, camminare le veniva difficile, Colin sentiva ad ogni passo un dolore lancinante, come la sirenetta che per avere le gambe accettò che ogni passo dolesse come se venisse trafitta nelle piante dei piedi da dei coltelli, e sul petto gravava il peso d’altre mille lacrime chiassosamente silenziose.
Michele la portò in spalla fino al fiume, Colin sentiva la tristezza di Eleonora nel percepire il dolore nell’amico, ma anche il suo senso di colpa per voler essere egoista, per non volersi sforzare di reagire, il peso di odiare una vita che da quel momento in avanti sarebbe stata vuota e angosciante.
“Sento di non sapere più come sorridere, mi ci sono sforzata per mia madre ma… vedere le mie sorelle ridere e divertirsi… mi fa arrabbiare”
“Stanno solo cercando di andare avanti” disse Michele.
“Io non voglio, io non voglio andare avanti, Non voglio dimenticare e nemmeno mettere da parte, lo voglio con me ogni giorno. Se io non stessi male, se non ripensassi ogni secondo ai momenti con lui… ho paura che svanirebbero per sempre, che io non li possa mai più rivivere nemmeno nella mia testa”
“Assillarti con momenti che non torneranno più non serve Ele, non serve a nessuno dei due”
“Lo so… anche tu non puoi farne a meno? Di ricordare intendo”
“No…. Non riesco. Sai lui era un faro luminoso per tutti, e per me era importante il suo sostegno, era l’unico padre che io avessi”
“Lo vorrei qui”
“Anch’io”
Eleonora scoppiò nuovamente in lacrime e l’amico la strinse in un abbraccio portandosela al petto e lasciandola sfogare tutta la sua tristezza.
Tremava e gridava dal dolore, gridava fino a graffiarsi la gola, gridava senza emettere un suono, gridava con il tremore, gridava con le mani che si aggrappavano e stringevano con le unghie la felpa dell’amico, gridava torturando il proprio labbro inferiore fino a farne uscire sangue.
Dopo diverse ore le rispettive madri li chiamarono pregando che tornassero a casa per la notte, ormai dormivano fuori molto spesso, si addormentavano in riva al fiume e non tornavano a casa se non per cambiarsi o dormire in un letto ogni tanto.
Eleonora fu accompagnata fin sotto casa dal suo migliore amico, Colin ne percepiva l’apprensione, la tristezza, la paura che l’amica scomparisse da un momento all’altro, ma lo vide andare verso casa sua nonostante non volesse; sentì i suoi sospiri farsi nuovamente pesanti, pensanti ma controllati, si sentì calcolare la lentezza dei suoi passi per sembrare normale, si sentì desideroso di controllare le proprie emozioni, sentì di voler proteggere sua madre fingendo un sorriso, “solo uno” continuava a ripetersi “ce la posso fare”… ma la scena che vide pararsi di fronte ai suoi occhi fu talmente difficile da sopportare che qualcosa si ruppe, quel piccolo, minimo interesse verso gli altri, quel barlume d’umanità, quel briciolo di speranza rimaste: si sgretolarono, si polverizzarono e furono spazzate via.
Sua madre preparava dei biscotti al burro con le sue sorelle: il profumo aleggiava per tutta la casa come ai vecchi tempi, le gemelle avevano i grembiuli sporchi di farina e leccavano l’impasto dalle proprie dita, Lucia dava le forme ai biscotti tutta precisa come suo solito; ma quella che la ferì maggi9ormente fu sua madre, che sorridente infornava la prima teglia di biscotti, non aveva un sorriso finto ma uno vero, che veniva dal cuore, un velo di allegria aleggiava in casa insieme all’odore di zucchero e burro fuso. Colin sentì una sensazione di rabbia e rancore diradarsi dal profondo del suo cuore, un disgusto tale dal costringerla a vomitare fuori tutto ciò che teneva dentro, senza filtri, senza misurare le parole, senza metafore, col solo intento di ferire: era appena avvenuta la sua trasformazione in un mostro di pura sofferenza e com’è tipico di chi soffre, punto a ferire:
“Come fai a sorridere? Mio padre è in una cazzo di tomba sottoterra e voi pensate a fare i biscotti cazzo! Mi viene solo da vomitare guardandovi, vi odio, tutte, siete delle stupide bambinette immature! Papà non tornerà più, mai più, tutti i momenti che abbiamo passato con lui non torneranno. Né le pacche sulla testa, né i suoi nomignoli, ne la sua calda e profonda risata, né il suo sorriso confortante! Come ti permetti di sorridere? Tu non puoi essere mia madre!” 
Alessandra la seguì fino al fiume, cercò di parlarle con calma ma lei non volle ascoltarla, gli effetti dell’astinenza dalle droghe si faceva sentire ed Eleonora non si seppe controllare dallo spintonare sua madre, che cadde all’indietro finendo nel fiume: Colin vide una scia rossa in acqua ed in un attimo il terrore ammontare in sé.
Si gettò immediatamente nel fiume pregando che sua madre non si fosse ferita gravemente e per fortuna si era solo graffiata una caviglia nel cadere all’indietro, non aveva battuto la testa e non si era fatta nulla, non sgridò la figlia ma anzi, la prese tra le braccia e lasciò che urlasse, per davvero questa volta, tanto che la sentì metà del paese, tanto che persino dei carabinieri arrivarono per controllare che andasse tutto bene, tanto che per tre giorni non ebbe voce…

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Capitolo 24
*** Sogno, non son desto ***


Colin tornò in sé e si ritrovò disteso a terra: guardò intorno a sé e tutto ciò che vide furono una dozzina di piccole vie e solo una con su scritto Eleonora, subito tentò d’entrarci ma non vi riuscì, era come se qualcosa d’invisibile gli impedisse di passare, come la prima volta che andò da lei s’immaginò rompere un vetro e sentì il rumore di qualcosa frantumarsi, un dolore lo colpì alla mente e al cuore ma proseguì.

 

Eleonora non capiva che cosa stesse succedendo, tonata in sé si ritrovò nuovamente nella distesa di nulla, nuovamente di fronte allo specchio che aveva assunto la forma d’una porta. La aprì nuovamente, sempre più confusa, e fu catapultata in un sentiero stresso e angosciante, camminò per lunghe decine di minuti fin quando la via si allargò, fino a portarla in uno spazio rotondo, pieno di persone di quel luogo, la via scomparve, così come la porta: rimase su quello spazio rotondo immerso nel nero più buio, accerchiata da quelle persone dal volto identico, con identica statura e sorriso disegnato a matita.

Una donna si portò le mani ai lati del viso, si afferrò le guance e cominciò a tirare, pian piano le dita le si riempirono di sangue, il suo volto venne via e ne rivelò uno identico a quello di Eleonora, ma col naso ed il mento più sottili e gli occhi un po’ meno rotondi; si sentì un rumore di ossa rotte e bel presto vide la donna divenire più alta di almeno dieci centimetri. Un uomo tirò via il suo volto rivelando quello di Michele, i suoi capelli divennero dorato-rossicci, gli occhi blu, le labbra rosee.

Un altro ancora assunse le sembianze di Gabriele, una di lucia, una ancora si ruppe la schiena e le sue metà divennero le gemelle, una ancora divenne Matilde.

Tutti le si avvicinarono, e sua madre cominciò a vomitare parole e frasi che le erano state dette da Eleonora, le gemelline le correvano intorno dicendo continuando a ripetere “infantili” come fosse una cantilena, Michele le tirava contro delle bustine contenenti erba ed altre con delle pillole dentro, Gabriele continuava a rompersi un braccio e poi riaggiustarlo, producendo un rumore doloroso e terrificante.

Eleonora cadde a terra sulle proprie ginocchia, poggiò le mani sul terreno e cominciò ad urlare:

“Basta! Smettetela! Uscite dalla mia testa!”

In quel momento si bloccò, tutto divenne silenzioso e lei rimase prigioniera di un assordante nulla.

Vide comparire una stradina proprio di fronte a sé, Colin correrle incontro ansimante: non appena le fu vicino tutto sparì, non appena gli fu tra le braccia lacrime dolci chiesero il permesso d’uscire.

“Non sparire mai più”

“Sei tu che sei sparita, non sapevo che fare; ma che stava succedendo?” chiese lui con preoccupazione

“C’erano le persone, loro giocano con i tuoi sentimenti, si prendono gioco di te, sono diventate persone che conosco! Non bastava l’avermi chiusa sotto terra e terrorizzata con la mia peggior paura. Non bastava l’essersi trasformato nel tizio da cui compravo la droga!”

“Lo so… è capitato anche a me”

“Quando?”

Colin l’osservò e una scena ambrata fu girata nei suoi occhi:

era in quel luogo da tempo ormai, in una radura delle tante, ma uno del villaggio l’aveva seguito, si strappò il viso e divenne suo padre, dal volto austero e lo sguardo severo. Gli tirò un ceffone, “Sei inutile come pianista e come figlio, se torni ancora una volta a casa così e mi fai fare queste pessime figure non tornare affatto, non considerarti più mio figlio e sparisci” disse, poi si dissolse come fumo, Colin pianse.

“Era un ricordo che ho rivissuto mentre ero qui, era stato il mio compleanno il giorno prima e i miei genitori come sempre non c’erano, così ero andato a bere e fumare e il giorno dopo sono tornato a casa con i vestiti sgualciti e che puzzavo d’alcol, c’erano i colleghi di mio padre e le amiche di mia madre, ho suonato note stonate al pianoforte e poi sono stato trascinato da mio padre nella mia stanza: mi ha detto quello che hai visto e poi mi ha chiuso dentro lasciandomici per due giorni”

“Sono sicura che deve esserci un minimo d’interesse verso di te nei loro cuori! Com’è possibile trattare un figlio così? Io ho ferito mia madre molte volte ma lei… lei…” Eleonora scoppiò in lacrime.

“No piangere”

“Sono lacrime di rabbia, rabbia nei confronti dei tuoi genitori, rabbia verso la solitudine che ti fanno provare ogni giorno, rabbia verso come ti trattano, verso la sfiducia che hanno fatto nascere in te. E lacrime di tristezza perché non voglio separarmi da te, sento che sparirai e non voglio, ne ho paura, ne ho il terrore. Sono diventata dipendente, lo sai?”

“Lo so, non sai quanto ti capisco… quando ti abbraccio e ti stringo per farti calmare sento di averti tra le braccia ma… io non…”

“Samo in un sogno, non è vero? Io prima ho detto alle persone di uscire dalla mia testa. In fondo lo sospettavo ma nascondevo a me stessa il mio sospetto. Ti prego Colin… se svegliarmi vuol dire non rivederti mai più io non voglio farlo, se svegliarmi vuol dire perdere te io non so se voglio”

“Eleonora no… ti prego non dirlo…”

 

Bip… Bip… Bip

Eleonora ti prego…”

 

“Era mia madre!”

“Eleonora devi assolutamente tornare a casa!”

“No! Perderei te! COLIN! Che succede?!”

Eleonora cominciò a svanire pian piano e lo stesso fece Colin…

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Capitolo 25
*** Camera numero 174 ***


Per la prima volta in vita mia non ero sicuro di ciò che stessi facendo. Più volte pensai che fosse un’assurdità, più volte valutai la possibilità di tornare indietro per paura di non trovare ciò che cercavo o per paura che fossi arrivato troppo tardi, ma non lo feci.
 
Scese lento dalla macchina, osservò l’uomo e la donna che l’avevano accompagnato scendere a loro volta e chiudere gli sportelli: l’uomo si diresse sicuro verso l’ingresso ed entrò nel corridoio principale, la donna lo seguì a ruota e lui fece lo stesso, terrorizzato.
Gli fu indicata una stanza e da solo seguì la direzione mostratagli da un’infermiera. Osservò le pareti bianche, i muri bianchi, i pavimenti opachi d’un grigio chiaro: tutto era asettico, bianco ma privo di luce. La tristezza e la malinconia di cui quel luogo era colmo, erano talmente dense da potersi tagliare con un coltello. Osservò i piedi dell’infermiera camminare frettolosi davanti ai propri, che la seguivano placidamente.
La serenità che mostrava era solo apparenza, la paura o sarebbe meglio dire il terrore che l’accompagnava era così grande da dover essere nascosto ad occhi indiscreti con una maschera in piombo. L’indifferenza che segnava il suo viso e la sua aria di sfida scomparvero quando i piedi della donna che aveva di fronte si fermarono; alzando lo sguardo le percorse il corpo fino ad individuare il braccio di lei sollevato, la mano che indicava una porta, poi sollevò ancora lo sguardo e capì quali parole le labbra di lei stessero pronunciando, senza però sentirne la voce, poiché le sue orecchie erano occupate dalla fredda angoscia che ovattava i suoni esterni al proprio pensiero.
“Dovrebbero entrare solo i parenti, ma faremo un eccezione perché tuo padre lo conosciamo da molto e ha aiutato l’ospedale più volte”
Con un cenno del capo la ringraziò e la vide allontanarsi, girò il viso verso la porta in legno che aveva di fronte a sé, il suo sguardo seguì la propria mano poggiarsi sulla maniglia abbassandola e proseguì lungo i suoi piedi che entravano nella stanza; alzò gli occhi e vide due donne, un ragazzo e tre bambine: li riconobbe tutti.
Non seppe rispondere altro ai loro occhi interrogativi se non un misero:
“La conosco ma è difficile da spiegare, vi prego posso avvicinarmi?”
Il suo tono tradì la sua maschera di piombo; il terrore, l’angoscia, l’irrequietezza, l’amore: tutto fu svelato.
Solo dopo aver ricevuto il consenso dei presenti si avvicinò cauto al letto, vide una pelle estremamente pallida, dei capelli neri lunghi quasi fino alle ginocchia, il viso inespressivo, le labbra secche, gli occhi chiusi immersi in due occhiaie violacee. Accarezzò la mano fredda di lei e pianse insieme ai presenti…

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Capitolo 26
*** Giulia ***


Era il 2008, in un piccolo paesino del nord Italia che sorgeva nei pressi di un piccolo fiume sulle rive del quale Michele chiacchierava con Eleonora. Era estate, l’11 Luglio, ed entrambi indossavano una felpa nonostante i 25 gradi.
Michele stava raccontando alla sua migliore amica di come un ragazzo di Roma lo avesse cercato su Facebook e avessero iniziato a parlare del più e del meno e nel mentre fumava una sigaretta.
Il fumo arrivò sul viso di Eleonora, che lamentandosene spense su una pietra la sigaretta dell’amico strappandogliela dalle labbra, per poi metterla stropicciata nella tasca della felpa:
“Ti va di fare una nuotata?”
“E va bene, ma poi mi ricompri le sigarette, me ne hai buttate 6, mi hai praticamente rovinato un pacchetto”
“Se tu smettessi di rovinare i tuoi polmoni io non dovrei più buttare tutte le tue sigarette. Pensaci, spendi soldi per riempirti i polmoni di catrame”
“Che esagerata, non è così”
“lo zio di Giuliana ci è rimasto secco però”
“Quando mio padre si calmerà non avrò bisogno di fumare”
Eleonora scosse il capo contrariata e si sfilò la felpa, tolse la canotta sottostante e tolse a poco a poco la sua seconda pelle, quando anche i suoi leggings furono piegati a terra si girò verso Michele, ancora alle prese con la cintura mezza rotta dei suoi jeans.
“Ce la farai entro quest’era?”
“Non è colpa mia se la cerniera si blocca!”
“Ci penso io” Eleonora tirò giù con forza e la cerniera si aprì, quindi si gettò in acqua e poco dopo la raggiunse anche il suo amico.
Non erano gli unici a fare un bagno nel fiume d’estate, ma erano gli unici ad andare in quella zona, l’acqua era troppo fredda ma perfetta per permettergli di evitare i loro coetanei. Dopo 3 gare di nuoto e altre 2 ore di chiacchiere uscirono dall’acqua tremanti e stremati. Si gettarono sul telo che avevano portato con sé, Eleonora dava le spalle al sole e dopo aver messo la protezione solare osservò Mike mentre la stanchezza cominciava a portarla nel mondo dei sogni. Rimasero a guardarsi in silenzio per molto tempo, poi quando le palpebre di Eleonora si fecero pesanti e cominciarono a chiudersi, Mike le coprì protettivo la parte inferiore del colpo posandovi la propria felpa, lasciando cadere poi il proprio braccio sulla schiena di lei.
I riccioli di Michele le solleticavano la fronte, mentre i suoi lunghi capelli neri ormai asciutti avvolgevano il braccio di lui, ma non fu quello a svegliarli, a farlo fu una voce alta e squillante, un po’ nasale ma chiara:
“Siete rimasti qui per tutto il giorno, avete anche saltato il pranzo, su sveglia -disse Matilde, la madre di Michele, scuotendoli entrambi per le spalle- che dobbiamo andare a preparare la cena”
I due si alzarono brontolando e infreddoliti si rivestirono; Matilde diede un passaggio ad Eleonora e poco dopo fu a casa. Michele entrò in casa, salì le scale che portavano alla sua camera e dopo aver preso dei vestiti puliti di ricambio, si fece una doccia: l’acqua tiepida scorreva sulla sua pelle, scaldando il corpo infreddolito, passandosi le mani fra i capelli riccioluti pensò a quando sarebbe tornato a casa suo padre con qualche povera lepre uccisa.
Vestitosi scese, infilandosi in cucina, osservò i capelli rossi di sua madre, i suoi grandi occhi marroni e il suo corpo esile, osservò la gentilezza nei suoi movimenti, la grazia e la cura con cui preparava la cena per quelli che diceva sempre essere ‘gli uomini più importanti della sua vita’, le si avvicinò da dietro e l’abbracciò stretta:
“Posso darti una mano?”
“Ma si Amore, apparecchia la tavola che se ti metti ai fornelli mi fai scoppiare la cucina, poi ci guardiamo un film mentre l’arrosto cuoce”
“D’accordo” rispose sorridendo.
Mentre sua madre si sistemava sul divano cercando di far partire Pretty woman la guardava, quindi lei si voltò:
“Oggi mi osservi molto, devi dirmi qualcosa non è vero?”
Per un attimo fu tentato dal confidarsi, ma la paura prese il sopravvento.
“Posso andare a dormire da Eleonora stasera, dopo che finiamo di vedere il film?”
“E va bene, ma sei sicuro non ci sia altro? Non stai più dormendo a casa di questi tempi”
“lo so mamma scusami, ma Ele ed io abbiamo diverse cose in corso”
“Quali cose?”
“Nulla d’importante, la sto aiutando con un ragazzo, ma non dire nulla a sua madre”
“Tranquillo, Alessandra non saprà nulla da me, chi è? Quel ragazzo carino che l’è venuta a trovare qualche settimana fa, mentre era qui?”
“Sì proprio lui, si chiama Gabriele, mi raccomando mamma”
“Ma sì, sì. Ma tesoro a te non piace proprio nessuna ragazza?”
“No mamma, non ho trovato ancora quella giusta”
 “E vediamo quando la troverai”
Guardarono il film, poi suonò il campanello e Matilde si alzò, aprendo la porta al marito. Paolo entrò con una lepre morta tenuta per le orecchie, sporco di terra; dopo aver lasciato un bacio sulla guancia della moglie infangò il pavimento fino alla porta del bagno, dal quale uscì venti minuti dopo lavato e con un paio di boxer puliti.
La cena era già servita, Michele era seduto di fronte a sua madre, Paolo come capotavola: erano in tre in una tavola da sei persone, il silenzio regnava sovrano.
“Stasera non dormo a casa, sono da Ele”
“Ancora? Porta un dolce così almeno li ripaghi per il disturbo” rispose Paolo.
“D’accordo”
“Vai dopo che finisci di guardare un film con tua madre, così non la lasci sola, io devo dormire che domani mi alzo alle 4”
“Certo” Michele rispose automaticamente, trattenendo il disprezzo che provava verso quell’uomo massiccio, muscoloso, dalla pelle olivastra e gli occhi blu, che sedeva a tavola con indosso solo i boxer, con i capelli ancora bagnati e la terza birra in mano. 
Finita la cena, Paolo si diresse dritto a letto e Matilde fu aiutata dal figlio a sparecchiare e lavare i piatti:
“Ami Paolo?”
“Certo che lo amo, siamo sposati da 20 anni. E chiamalo papà, ti tira un ceffone se ti sente chiamarlo per nome”
“Sì, come se importasse, trova un altro motivo per tirarmelo. Ma lo ami o ci stai per abitudine? Lo mantieni da 20 anni, non parlate, torna a casa, si lava, mangia e neanche ringrazia per la cena e poi va a dormire”
“Michele, basta! Tuo padre è stanco”
“Ha aperto il gin, mamma per favore chiuditi in camera mia, non dormire nel suo stesso letto stanotte”
“Ti fa stare tranquillo?”
“Si, ti prego mamma”
“Va bene, ora asciuga quella pentola e andiamo a finire il film”
“Sì”
Michele si accertò che sua madre si chiudesse in camera sua, poi mandò un massaggio ad Eleonora:
-Ele bella, io vado da Giulio, ho detto ai miei che sono da te, se chiama mia madre mi copri?
-Si Mike, domani mi racconti come vanno le cose.
-ok
Camminò per un po’, poi imboccò una strada e si diresse a casa di Giulio, lo avvertì di essere arrivato con un messaggio, quindi vide la porta aprirsi:
“Dobbiamo fare paino, anche se mia madre si è imbottita di antidepressivi potrebbe svegliarsi se facciamo troppo casino, mio padre ha i sonniferi e non si sveglia”
“Si tranquillo”
Si richiuse la porta alle spalle molto lentamente, cautelando ogni passo percorsero il salotto, poi imboccarono il corridoio che, passando davanti alla camera da letto dei genitori di giacomo e al bagno, li avrebbe finalmente portati alla cucina, dalla quale si arrivava in un altro corridoio e quindi alla camera di Giulio, ben riparata dalle altre. Giunti alla cucina, sentirono un rumore di passi, Giulio nel panico nascose Michele dietro una tenda e fece finta di cercare qualcosa in frigo:
“Cosa fai alzato? È mezzanotte passata, dovresti dormire” chiese in dormiveglia la madre.
“Si scusa mamma, avevo fame”
“Oh, la cena non ti bastava?”
“Diciamo che è uno spuntino di mezzanotte”
“Spostati” fece due panini, prese due fette di torta e ne diede uno di entrambi al figlio:
“Mi sono alzata per lo stesso motivo, avevo fame, mi prendo il sonnifero di papà dopo lo spuntino che sennò non riesco a riaddormentarmi, siediti e mangiamo”
Giulio non poteva rifiutare, gli spuntini notturni erano una loro abitudine, sarebbe stato sospetto se non avesse seguito la prassi: mangiarono, sua madre prese i sonniferi, pretese di fare due chiacchiere col figlio e poi si addormentò sul tavolo.
Col cuore in gola Michele lo vide accompagnare la madre a letto, poi avvicinarsi alla tenda e farlo uscire. Quindi si diressero piano verso la camera del ragazzo e appena entrati Michele chiuse la porta a chiave mentre l’altro abbassava le serrande, chiudeva le tende e accendeva la lampada poggiata sul comodino, che illuminò parzialmente la stanza con una luce giallastra.
Giulio sedette sul letto, invitando Michele ad imitarlo e quando furono entrambi con la schiena poggiata a muro, le loro mani si strinsero e Michele osservò il suo ragazzo: gli occhi verdi, i capelli castano scuro, le labbra rosse e carnose, il viso un po’ tondo, il corpo snello, le gambe sproporzionalmente lunghe. Le loro mani si intrecciarono, l’altro mise una mano sulla sua nuca e lo baciò, cominciarono a svestirsi e scivolarono piano sul materasso.
All’incirca alle nove e mezza dell’indomani, dopo aver parlato e scherzato per più di 5 ore, Michele dovette percorrere tutta la casa al contrario e uscire di soppiatto dall’ingresso, assicurandosi di non essere visto da nessuno:
“Torni stanotte?” Gli chiese Giulio
“Credo di sì, dipende da come mio padre torna a casa, se è ubriaco devo difendere mia madre”
“Giusto, spero vada tutto bene, mi dispiace non poterci vedere fuori di casa, di giorno, ma lo sai quello che pensano i miei degli omosessuali”
“Non preoccupartene, anch’io non sono libero di farmi vedere, i miei neanche vogliono parlarne, figurati”
“Sei sicuro che Ele non dirà nulla, vero?”
“Certo Giu, non preoccuparti”
“Va bene scusa, ho solo paura, hanno pestato a sangue Tommaso perché la sua maglietta era viola scolorita e sembrava rosa”
“Quando è successo?”
“La settimana scorsa, sono stati i nostri compagni”
“Li detesto”
“Pure io, ci vediamo allora, fammi sapere”
“Certo, ti amo”
“Io anche”
Si sorrisero, poi Michele uscì dal cancelletto e tornò a casa sua, entrò in camera arrampicandosi sull’albero vicino alla sua finestra e trovò sua madre che rassettava.
“Sei tornato presto, di solito state tutta la mattina insieme”
“Si, oggi volevo tornare a casa prima, ero preoccupato per te, è successo qualcosa di notte?”
“Ma no, ha bussato alla porta un paio di volte in modo aggressivo, poi si è stufato e si è addormentato, poi è andato a caccia”
“Capito”
“Sembri stanco”
“Abbiamo parlato tutta la notte”
“Eleonora di solito non sta sveglia fino a tardi, eri da una ragazza?” lo guardò divertita la madre.
“Mamma ma che dici?!”
“Hai un segno rosso sul collo, anche se provi a nascondermelo con la maglietta l’ho notato mentre entravi dalla finestra” sorrise bellamente.
“Allora, è la tua ragazza?” chiese speranzosa.
“Ecco... sì, è da lei che vado in queste notti, scusa se non te l’ho detto; i suoi genitori non vogliono abbia una relazione, quindi ci vediamo di nascosto”
“Oh capisco, capisco, allora non dico nulla a nessuno”
“Grazie mamma”
“Pregio amore, ma come si chiama?”
“Giulia”

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Capitolo 27
*** Correre e cadere ***


Dormì per tutta la mattina e si svegliò solo all’ora di pranzo poiché il suo cellulare continuava a squillare senza sosta. Era Eleonora che gli ricordava di vestirsi e andare in piazza, così avrebbero potuto vedere Gabriele e dei suoi amici.
Michele si vestì controvoglia, indossò un paio di jeans blu sbiaditi, una maglietta rossa a manica corta molto larga e delle semplici Vans nere. Scendendo i gradini ebbe la spiacevole sensazione che sarebbe successo qualcosa quel giorno, ma la scacciò via etichettandola come risultato del suo stupido pessimismo. Raggiunse la sua migliore amica in bici e insieme si diressero verso l’unica piazza del paesino.
 
La piazza era piccola ma molto frequentata, tutti si riunivano lì in gruppi più o meno grandi. I due si fermarono ad osservare le persone lì presenti: per la maggior parte erano loro coetanei, le ragazze indossavano tutte jeans a vita bassissima e magliette che lasciavano scoperto l’ombelico; i ragazzi invece si diversificavano in chi indossava jeans sbiaditi et-shirt larga, e chi invece indossava jeans e camicia a maniche corte lasciata fuori dai pantaloni.
Michele ed Eleonora sembravano sempre essere fuori posto, lui ci si sentiva poiché omosessuale, lei poiché non si adattava alla moda dei tempi e si scopriva il meno possibile, indossando sempre e solo leggings neri e felpe lunghe fino al ginocchio, nella maggior parte dei casi chieste in prestito a Mike e mai più tornate.
Una ragazza, spinta dalle proprie amiche, si avvicinò a Michele chiedendogli se disturbasse e alla risposta negativa di entrambi chiese:
“Per caso state insieme?”
“Perché t’interessa?” rispose lui
“No” Rispose al medesimo momento Eleonora
“Beh, volevo chiederti se ti va se ti lascio il mio numero, magari qualche volta usciamo”
“Non ha voglia di sentire nessuno al momento, scusalo, è un po’ per i fatti suoi” rispose prontamente Eleonora, in tono abbastanza aspro.
“Non ho chiesto a te” rispose la ragazza con lo stesso tono.
“Mi dispiace tesoro ma ha ragione lei, il mio cuore non può appartenere a nessuno al momento” le rispose Michele congedandola con un cenno del capo.
La ragazza li salutò indispettita e tornò al proprio gruppetto.
“Quante volte ti ho detto di essere meno acida con le persone?”
“Non è colpa mia se loro hanno una faccia irritante Mike! E poi quella era Francesca della 3D, presuntuosa e convinta di sé a non finire, farebbe le scarpe a narciso!”
“Va bene, va bene, ho afferrato il concetto: non ci piace!”
“Esatto bravo!”
“Ecco lì c’è Gabriele, posso ripeterti di nuovo che questo ragazzo non mi piace?”
“Si ma sai che sono estremamente testarda e che non ti ascolterò”.
“E va bene, andiamo”
Erano in cinque: Gabriele, Luca, Luisa, Michele ed Eleonora. Luisa era interessata a Michele, quindi Gabriele l’aveva portata per farglielo conoscere, Luca invece era il cugino di Gabriele, fidanzato con una ragazza che gli diede buca all’ultimo. Per sua fortuna Michele non era lontanamente interessato alle avances di Luisa, così ebbe qualcuno con cui parlare mentre Eleonora e Gabriele chiacchieravano un po’ più distanti dagli altri.
Tutti insieme si diressero verso il fiume, vicino alla riva del quale distesero due teli. Pranzarono insieme e parlarono per un po’, finché Eleonora e Gabriele non si allontanarono per fare due passi da soli; quindi Michel scrisse a Giulio:
-Mia madre ha visto il succhiotto sul collo
-Cazzo, ma l’avevo fatto in basso per non farlo notare
-L’ha notato comunque, in ogni caso le ho detto che sto uscendo con una ragazza
-Una ragazza? Ma ora vorrà conoscerla o lo dirà a qualcuno!!!
-Ma no, non lo fa. Le ho detto che i suoi genitori non vogliono abbia una relazione, che sono protettivi e il padre mi ucciderebbe.
-Ah, quindi non ti ha chiesto nulla?
-No, solo il nome, le ho detto che si chiama Giulia
-Cosa? Non potrebbe ricondurlo a me??
-E in che modo scemo? Ci sono almeno 15 ragazze con quel nome qui e poi non sa che sono gay, non capirà mai che sei tu
-in effetti è vero, hai ragione. Dove sei?
-al fiume, Eleonora doveva uscire con quel tipo di cui ti ho parlato
-quello che non ti piace?
-sì, ci sono una ragazza che ci prova con me ed un ragazzo che si chiama Luca
-Hm… è com’è lui? Carino?
-Oh sì, sembra la versione meno divina di Brad Pitt.
- CHE?
-Ma sto scherzando XD
-Non mi fido, dico ai miei che esco e faccio finta di vederti per caso e unirmi a voi :)
-Davvero vieni? E se ci vedono insieme?
-Non staremo mica appiccicati, se chiedessero diremo che siamo amici
-Va bene. Sono felice.
-Io anche.
Dopo mezz’ora arrivò Giulio, proprio quando Luisa fu chiamata dai suoi genitori e dovette tornare a casa. Unitosi a loro sfidò entrambi ad una gara di nuoto, quindi si tuffarono tutti tre in acqua. La gara la vinse Luca, nel mentre tornarono Eleonora e Gabriele e lui fu sfidato da suo cugino, che perse.
Eleonora si fermò a parlare con Michele e Giulio:
“Si stancheranno mai? È già la terza gara che fanno!”
“Non credo proprio, sembrano intenzionati a continuare per un bel po’”
“Hai ragione Giulio, ma se ce ne andiamo?”
“Ma come, non vuoi rimanere a fare il tifo per Gabriele?” chiese Michele all’amica, sogghignando.
“Non proprio e poi si sono fatte le cinque del pomeriggio, mia madre vuole fare dei dolci, vieni con me?” disse rivolgendosi a Michele.
“Si ovvio, a casa ci torno per le otto, tanto mia madre mi aveva detto che sarebbe passata a trovare tua madre Alessandra”
“Beh, perfetto allora, corsetta fino alle bici? Giulio tu vieni?”
“Rimango un altro po’ per evitare di far capire che sono venuto per Michele” disse sottovoce ai due.
Eleonora annuì, salutò i due in acqua e iniziò a correre con Michele. Lui adorava correre, lo faceva sentire libero, lei non tanto, inciampava spesso e riempiva le sue gambe di bulloni. Allo stesso tempo a volte ne sentiva il bisogno, di correre, di far sfinire le gambe, e Michele la prendeva in giro dicendole che aveva una strana passione nel farsi male.
Come ogni volta arrivò prima lui ed Ele lo sfidò ad una gara con la bici; fecero il giro lungo e in mezz’ora furono a casa, stavolta vinse lei.
“Uno pari” disse
“Palla al centro” Rispose lui
“Partita a calcio con le mie sorelle?”
“Assolutamente sì, ma non massacratemi, siete aggressive!”
Risero entrambi e chiamarono la quattordicenne Lucia e le gemelle di dodici anni Sara e Maria.
Alle sei rientrarono in casa e si unirono a Matilde ed Alessandra che cucinavano, battibeccando complici. 
“Stasera ceniamo qui e io ho portato le cose per fare una bella crostata di mele” Disse Matilde
“Papà non torna a casa stasera?”
“No, sta fuori, puoi andare, ti rispondo già prima che tu lo chieda”
“Grazie mamma!” rispose Michele contento.
Eleonora lo guardò con aria complice e lo trascinò nella propria camera per farsi raccontare quanto accaduto con Giulio.
“è stato stupendo! Dopo abbiamo parlato per un bel po’, infatti non ho chiuso occhio! Però sua madre ci ha quasi fatto morire di crepacuore, si è alzata mentre eravamo quasi nel corridoio che porta alla sua camera e mi sono nascosto dietro la tenda”
“Non ci credo e non si è accora di nulla?”
“Ma no, non aveva gli occhiali, era assonnata e poi si era imbottita di antidepressivi”
“Cavolo, ma ti ha spiegato cos’ha?”
“Non si è ripresa dopo la morte di sua madre, la nonna di Giacomo, due anni fa”
“Dev’essere terribile perdere qualcuno di così importante, voglio sperimentarlo il più tardi possibile” disse Eleonora un po’ intristita.

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Capitolo 28
*** Osservatori inaspettati ***


Quella sera avrebbe finto di dormire con Eleonora, infatti all’una di notte, quando tutti dormivano profondamente, lei l’aiutò ad uscire di casa senza farsi notare, poi gli disse che l’avrebbe aspettato per le otto del mattino, ammonendolo di non tardare o se ne sarebbero accorti.
Michele percorse la strada lentamente, la casa della sua migliore amica non distava troppo da quella del suo ragazzo, ma non desiderava ripetere la stessa esperienza della sera precedente, essere scoperti voleva dire doversi lasciare e inventare qualche scusa e ciò non poteva sopportarlo, quel ragazzo era l’unica cosa che sembrava funzionare nella sua vita. Quando si ritrovò a pochi metri dalla porta d‘ingresso di Giulio gli scrisse di aprirgli, quindi l’aspettò sulla soglia, come tutte le volte e proprio come di consuetudine vide la porta aprirsi piano, ma il terrore e l’angoscia l’attraversarono lacerandogli lo stomaco quando vide che ad aprire non fu Giulio ma il padre.
“Tu cosa fai qui a quest’ora? Che vuoi?”
Pochi secondi dopo Lui era lì, trafelato si mise a fianco di Michele chiedendogli con lo sguardo di inventarsi qualcosa, ma il panico aumentò in entrambi quando il padre rivelò di essersi accorto che spesso entrava in casa loro di notte, troppo spesso, chiedendone la ragione.  Michele disse la prima cosa che gli passò per la testa.
“Mi scusi per tutto questo, io sono il figlio di Matilde Castorina, ho delle difficoltà con mio padre e quando torna a casa ho preso l’abitudine a dormire fuori, suo figlio si è offerto di ospitarmi la sera, sono un suo amico, mi dispiace”
Il padre del ragazzo d’improvviso, appena sentì dire il nome di Matilde, cambiò espressone da severo e sospettoso a compassionevole e benevolo:
“Oh conosco bene tuo padre, lavora con me alla fabbrica, parlavamo ogni giorno e ricordo anche il suo pessimo carattere, è sempre stato aggressivo. Ha ancora il vizio del bere?”
“Sì, diventa molto volgare e aggressivo a parole” Michele sperò che bastasse. Il cuore dei due ragazzi palpitava all’unisono, inarrestabilmente veloce.
“Entra pure, mi dispiace ma credevo che mio figlio mi nascondesse qualcosa di grave, pensavo centrassero la droga o cose del genere”
“Papà non lo farei mai!”
“Si lo so ma eri così schivo e sospettoso, stavi aiutando un tuo amico, avresti potuto dirmelo” fece un sospiro sollevato ed invitò Michele ad entrare.
Fu molto gentile, gli diede un pigiama pulito e si fermò un po’ a chiacchierare con loro, poi dopo un’ora o poco meno fu sfinito e tornò a dormire al fianco della moglie.
Giulio tornò a respirare, portò il suo ragazzo nella propria stanza e senza neanche dargli il tempo di pronunciare una sola sillaba lo baciò con foga, scaricando l’ansia accumulata.
“Trovata geniale” gli disse solo, poi senza attendere risposta cominciò a spogliarlo.
Fu ripetuto il solito schema: i due ragazzi rimasero abbracciati, Michele accarezzò i capelli di Giulio mentre lui gli parlava della sua giornata, di quanto gli fosse difficile non poterlo vedere alla luce del sole, entrambi sfogavano le proprie frustrazioni, entrambi parlavano immergendosi l’uno nella voce dell’altro fino al mattino. Michele si scostò solo alle sette passate del mattino, quando si rivestì per tornare da Eleonora ed uscì di casa chiedendo al proprio ragazzo di ringraziare suo padre.
Sulla strada del ritorno ebbe una spiacevole sensazione, nonostante la felicità per la notte appena trascorsa sentì qualcosa di strano, guardò intorno a sé e vide Luca, il cugino di Gabriele, gli sorrideva e gli si avvicinò, un sorriso di scherno stampato sul viso:
“Passata bene la notte col tuo fidanzatino?”
“Cosa?” Disse solo
“Avete scopato e vi siete fatti tante coccole fino al mattino? Vi ho visti baciarvi dalla finestra”
“Sei rimasto a guardarci?”
“Non neghi?”
“Non ha senso se mi hai visto, cosa vuoi?”
“Niente, solo dirti che lo so. Non dirò nulla in giro tranquillo, voglio vedere fino a che punto arrivi”
“Di che stai parlando?”
Luca fece per andarsene ma Michele gli saltò addosso bloccandolo a terra, furibondo.
“Di che cazzo stai parlando?”
“Sto dicendo che voglio la tuia disponibilità 24 ore su 24, mi servirà qualche favore”
“Non farò niente per te!”
“Ah davvero? Quindi ti sta bene che tutti lo sappiano?”
“Che genere di favori?” chiese nervoso.
“Te lo dirò quando mi servirai, ora levati di dosso o lo urlo”
Luca fece per urlare e Michele gli si scostò di dosso mimandogli di star zitto. Luca andò via divertito e lui ebbe l’impellente bisogno di correre dalla sua migliore amica il più velocemente possibile, ma prima non poteva non chiederglielo.
“Non farlo anche con lui, non regge la pressione”
“Tu si?” Michele lo guardò seriamente, colmo di immagini di suo padre che aggressivo si scaraventava contro la porta della sua stanza e di sé stesso che proteggeva Matilde.
“Rimarrà una cosa tra noi due” disse Luca, poi andò via.
Gli ci vollero dieci minuti prima di riprendersi, rimase immobile, al centro della strada, apprensivo, preoccupato, per sé e per Giulio; tornò l’impellente bisogno di vederla e parlarci, quindi le sue gambe corsero veloci mentre la sua mente galoppava sul nulla che la riempiva. Arrivò da Eleonora, entrò piano in casa e sì infilò sotto le coperte. Lei piano aprì gli occhi e lo vide, capì senza che parlasse che qualcosa non andava, come sempre, lesse nel suo sguardo. Eleonora era così, senza che lui parlasse sapeva esattamente quale fosse il suo stato d’animo, allungò le braccia e intrecciò le dita ai rossi boccoli di Mike, quindi lo strinse a sé e gli sussurrò di lasciarsi andare. Lui pianse, silenzioso come sempre, pianse calmo.
“Che genere di favore potrebbe volere da te?”
“Non ne ho idea, so solo che ho paura crolli tutta la mia vita”
“Calmati, andrà tutto bene, gli paro io?”
“No Ele, tu sei impulsiva, soprattutto se si tratta di me. Non voglio che ti possa fare nulla”
“Ma Mike, come posso non far nulla?”
“Ho solo bisogno di te, va bene? Ti prego aiutami, non so se dirlo o no a Giulio”
“Forse è meglio se prima vedi cosa vuole Luca; già lui soffre di attacchi di panico no? Non riuscirebbe a non farsi venire la paranoia”
“Ce l’ho anch’io”
“Rilassati, se prova a parlare gli rompo la mascella. E sai che lo farei”
“Sì ed è per questo che mi preoccupa quando lo dici, a Lorenzo hai quasi rotto il naso in prima superiore”
“Già, colpa sua. Gliel’avevo detto che non gli conveniva tirarti quel pugno. E cosa ridi? Tu non sei meglio! Quando quel ragazzo mi ha insultata l’hai steso, è rinvenuto dopo un’ora!”
“Ti stava molestando! Che avrei dovuto fare? Tuo padre quando l’ha saputo mi ha dato una pacca sulla spalla dicendomi: ‘Bravo Michele, questo sì che è il mio ragazzo!’”
“Cosa? Ma io non ne sapevo nulla”
Si misero entrambi a ridere, poi sentirono un dolce profumo, ma non era un dolce profumo normale, no, era un forte odore di cannella e miele, di cioccolato fondente tagliato in pezzi grossi; era il rumore di uovo che veniva battuto in una ciotola in metallo, era il sordo rumore del grande coltello ormai vecchio che tagliava il cioccolato.
Eleonora saltò giù dal letto, precedendo le sue sorelline, seguita da Michele, si lanciò in corsa verso la cucina e si gettò tra le sue braccia.
Non dovette neanche guardare, chi fosse per lei era ovvio: solo lui poteva avere delle mani così grandi, così ruvide ma gentili, sempre calde, solo lui aveva delle braccia così grandi e accoglienti, solo lui aveva sempre quel profumo d’erba bagnata e rugiada mattutina, solo lui aveva una risata così bassa e calda, una voce così profonda, degli occhi marroni così immersivi, un sorriso così perfetto, un viso così amorevole, una pelle così abbronzata ma luminosa. L’amore più profondo e sincero che potesse esistere era in quel gesto, quel gesto che Eleonora aspettava da tre mesi: arrivò. La mano di suo padre le si poggiò sulla testa, la accarezzò scompigliandole i capelli e la frase di rito sciolse tre mesi di preoccupazione, di ansia, di paura:
“Buongiorno piccola ninfa” Eleonora poté riempire di nuovo d’aria i polmoni, era lì, non era uno dei suoi sogni.
 “Io e mamma volevamo svegliarvi con i dolci già pronti per colazione, ma credo che l’aver chiesto alla mia Afrodite di prepararmi per la millesima volta la torta alla cannella e miele mi abbia smascherato”
“Sì, ti ha decisamente smascherato” confermò lei accostando alle sue parole un luminoso sorriso.
“Oh, c’è anche il mio quarto figlio! Troppo grande e troppo maschio per un abbraccio?”
“No per niente!” rispose Michele sorridendo mentre abbracciava Manuel.
“La torta è pronta!” Annunciò Alessandra mentre apriva il forno, con i capelli eri sciolti sulle spalle, gli occhi violacei sorridenti, il sorriso splendente più che mai, che mostrava il dente scheggiato che si portava sin da bambina, dopo esser rotolata giù da un albero sul quale sua madre, la nonna di Eleonora, le aveva proibito di arrampicarsi.
“E anche i cupcakes!” Annunciò felice Lucia, con i boccoli marroni arruffati in una coda spettinata, dopo essersi scottata il dito infilandolo in uno dei dolcetti.
Fecero colazione sorridendo felici.
I tre mesi d’attesa erano stati difficili da sostenere, non potevano contattare granché il padre quando era in trasferta.
Suo padre lavorava per l’esercito, era un soldato, sempre in prima linea. Non era l’esercito in sé a terrorizzare tutti in quella casa, ma il carattere di Manuel, lui non avrebbe mai sopportato di avere salva la vita se voleva dire sacrificare quella dei suoi compagni o di poveri civili inermi. La consapevolezza di quel suo lato eroico terrorizzava la sua Afrodite, terrorizzava le sue tre ninfe, terrorizzava il suo quarto figlio.

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Capitolo 29
*** Quotidiana routine ***


Sembrava fossero passati pochi attimi, giusto quel tempo necessario per permettere alle ciglia d’abbracciarsi, ma in realtà passarono sei mesi.

Michele non ricevette più notizie da Luca. Lui e Giulio erano stati bravi a nascondersi, a tener nascosto a chiunque ciò che erano.

Manuel avrebbe dovuto andarsene nell’arco di due mesi, avrebbe avuto una missione, stavolta sarebbe stato più difficile uscirne indenni.

In uno dei tanti sabati di gennaio, era il 2009, Michele stava tornando a casa sua dopo aver passato la notte da “Giulia”, un messaggio fece suonare il suo telefono:

-Vieni alla fine del fiume stasera alle 24.

Era un messaggio da parte di Luca, gli rispose affermativamente, sapeva che prima o poi gli avrebbe chiesto qualcosa, ma non aveva idea di cosa potesse volere.

Varcò la soglia di casa con un piede e trasalì, ansia e preoccupazione s’impossessarono di lui: vide una bottiglia di Gin sul pavimento, rotta, percorse il corridoio e vide una birra lasciata piena per metà abbandonata vicino la camera da letto, un mozzicone di sigaretta vicino la porta della sua camera.

Bussò alla porta.

“Michele?” chiese debolmente sua madre.

Sollevato, rispose a sua madre e appena lei aprì la porta la strinse forte tra le braccia, sua madre gli arrivava appena sotto la spalla, quindi stringerla era facile. Le prese il viso tra le mani infreddolite, con le sue dita sottili e lunghe controllò che non ci fossero lividi sul viso, poi ispezionò le spalle, le braccia, la schiena ed infine le gambe; non vi trovò nulla e la strinse nuovamente a sé.

“Tesoro se mi stringi così forte non mi permetti di respirare”

“Mi sono preoccupato, all’ingresso ho visto quella bottiglia rotta, poi la birra, pensavo ti avesse fatto del male mentre era ubriaco”

“No tesoro tranquillo, mi sono chiusa qui. Ieri sera è tornato dalla taverna un po’ brillo, mi ha detto che il capo della fabbrica gli ha fatto fare gli straordinari e non li avrebbe pagati, quindi era nervoso e ha cominciato a bere Gin. All’inizio andava tutto bene, stavamo chiacchierando, poi mi ha chiesto dove fossi stata di pomeriggio e non mi ha creduta quando gli ho detto che ero da Alessandra, ora si è messo in testa che gli faccio le corna. Si è agitato e mentre venivo a chiudermi qui lui ha lanciato la bottiglia contro la parete per inseguirmi”

“Mi avresti dovuto chiamare! Magari avrei potuto…”

“No, ti avrebbe solo fatto male, lo sai com’è quando beve”

“E quand’è che non beve, mamma?”

Sua madre lo guardò di traverso con uno sguardo severo, poi i suoi occhi cambiarono e divennero maliziosi.

“Allora, con la tua ragazza Giulia?”

Michele arrossì.

“Lei è stupenda e mi piace passarci il tempo”

“Ma sei sicuro che suo padre non si possa convincere a lasciarla uscire con un ragazzo?”

“Oh no, l’ultima volta che lei ha provato a chiederglielo lui l’ha chiusa in camera per un mese” la scusa l’aveva già pronta da un po’.

Sua madre sospirò infastidita, poi chiese a Michele se volesse fare colazione.

In cucina si sentì un forte profumo di caffè e di torta al cioccolato.

“L’ho fatta ieri con Alessandra, dimmi come ti sembra”

“Mamma è deliziosa! Ma che ci hai messo?”

“Segreto!” disse sorridendo.

Sempre con il sorriso sul volto chiese a suo figlio se qualcosa non andasse e alla sua risposta negativa, si alzò a tagliare altre due fette di torta.

“Beh devi dire al tuo ragazzo che deve essere un po’ meno aggressivo, ti lascia succhiotti troppo rossi! Vuole per caso esercitarsi a fare il vampiro?”

Michele si bloccò, la mano rimase a mezz’aria con la tazza di caffè sospesa, sgranò gli occhi e soppesò lo sguardo della madre, era serena e consapevole delle sue parole: ‘va tutto bene, ti prego parlamene’, gli diceva con quei suoi stupendi occhi.

“Da quanto sai che sono…”

“Omosessuale? Da qualche mese, l’ho sospettato perché ho visto un messaggio sul tuo telefono da parte di Giulio, ti chiamava Amore”

“Io… mi dispiace”

“Per cosa? Non scherziamo! All’inizio sono rimasta sorpresa, ma che avrei dovuto fare? Sei mio figlio e chi ti pace non m’importa”

Michele pianse, le lacrime caddero da sole e sua madre gli prese la mano, poi appena fu consapevole di poterlo fare, lo abbracciò.

“Avevo paura che non l’avresti accettato. Io ero terrorizzato all’idea. Mamma qui hanno tutti una mentalità ristretta, non capirebbero, ci dobbiamo nascondere sempre”

“Lo so piccolo mio, mamma però è sempre mamma, non avere dubbi sul fatto che ti amo, a tuo padre però non farne parola”

“Non ne avevo neanche l’intenzione”

“Mi vuoi raccontare?”

“Sì, però chiamo Eleonora”

“Va bene”

La parte più complicata fu cominciare a parlare, ma superato l’ostacolo, Michele procedette a raffica.

“Tutto è cominciato quasi un anno e mezzo fa, quando studiavo nella biblioteca della scuola perché papà tornava a casa il pomeriggio e non riuscivo a studiare. Un giorno Ele non poteva rimanere oltre le sei perché sarebbe arrivato Manuel, quindi io sono rimasto lì da solo e ho perso la percezione del tempo. Erano quasi le otto e mezza quando Giulio, che stava dando una mano alla segretaria della biblioteca in quel periodo, mi ha detto che doveva chiudere e mi ha fatto notare l’ora. Quella sera per scusarmi di averlo fatto stare così tanto lì gli ho offerto una pizza e quindi abbiamo cenato assieme. Ci siamo messi a parlare e a scherzare e quella cosa di cenare assieme è divenuta un’abitudine. Poi una sera, era sabato, abbiamo cominciato a bere, non so quando sia successo, ma dopo un paio di birre siamo rimasti fermi a guardarci e l’ho baciato. All’inizio mi sono scusato perché non capivo cosa mi fosse passato per la testa e me ne sono andato lasciandolo lì sul fiume. Non sono andato in biblioteca per un po’, rimanevo a studiare in classe, per quanto fosse meno silenziosa, ma tra una conversazione e l’altra mi sa che gli avevo detto in che classe andavo e mi è venuto a trovare con due pizze. Mi ha spiegato che non l’aveva disturbato il fatto che l’avessi baciato e che ci aveva ripensato spesso, quindi quando siamo andati di nuovo al fiume e abbiamo riprovato. Da lì abbiamo cominciato ad uscire e stiamo insieme da poco più di un anno adesso. Ad Eleonora l’ho detto subito, già quando l’avevo baciato. Ci vediamo solo di notte e di giorno ci trattiamo da amici non particolarmente intimi, perché se si venisse a sapere che siamo omosessuali, beh sarebbe complicato. Ad un nostro compagno l’hanno massacrato per il colore della sua maglietta”

“Aveva paura di parlartene, pensava non lo avresti accettato, ho provato tante volte a dirgli che si sbagliava ma non era pronto” Eleonora spiegò alla donna il silenzio dell’amico.

“Michele tesoro, sono tua madre, anche se all’inizio, quando lo sospettavo, sono rimasta un po’ sorpresa e non sapevo come reagire non avrei mai potuto rifiutarti o proibirti di essere quello che sei, sei mio figlio e ti amo, questo non cambia solo perché ti piacciono i ragazzi. Certo salta il tanto sperato matrimonio con Eleonora, ma io ed Alessandra ce ne faremo una ragione!”

Matilde ridacchiò per poi invitare Eleonora a rimanere per cena.

Il brodo di pollo in cui stavano cuocendo i tortellini inondò tutta la casa del suo buon profumo; le carte ormai usurate che strofinavano le une contro le altre e lo scoppiettare dell’acqua che bolliva creavano una dolce melodia, di sottofondo il ticchettio della cinghietta delle scarpe di Matilde, che batteva ritmicamente sulla gamba della sedia seguendo il nervoso ritmo della gamba di lei. Matilde si alzò e spense il fuoco, Eleonora raccolse le carte e Michele apparecchiò la tavola.

Mangiarono chiacchierando piano rilassati, fin quando non si sentì il rumore d’un motore un po’ vecchiotto, una portiera aprirsi e sbattere, dei passi pesanti e scostanti; Michele prese Matilde ed Eleonora per le spalle e le portò in camera sua nonostante le loro proteste, ma le due gli impedirono di chiudere a chiave la porta e rimasero a guardare la scena, promettendo di chiudere la porta in caso di necessità.

Paolo entrò in casa con una bottiglia di vodka in mano, finita. Non appena vide Michele gli tirò contro la bottiglia ordinandogli di servirgli la cena seduta stante. Michele ignorò la bottiglia e preparò il piatto al padre, lui lo costrinse a sederglisi vicino mentre cenava.

“Questa merda è fredda. Dove cazzo è quella puttana di tua madre?”

“Li ha preparati più di un’ora fa, si sono freddati. Smettila di riferirti a lei in questo modo”

“Faccio come voglio! -disse afferrando la terza birra da quando era arrivato- Per colpa di quella fabbrica di merda mi è saltata la battuta di caccia, torno a casa mia e trovo solo quel bastardino di mio figlio, mia moglie neanche c’è e quando c’è poi si chiude nella tua fottuta stanza!”

“Se tu non bevessi e non fossi così aggressivo lei non lo farebbe!” Michele rispose col tono carico di rancore.

“Come ti permetti? Chi credi ti paghi questo cibo, eh? E questa casa chi pensi l’abbia comprata?” Paolo aveva cominciato ad urlare, mentre Michele tenne il tono rancoroso ma basso e lento.

“Mia madre, ecco chi. Lei col suo lavoro da veterinaria paga il cibo che stai mangiando, lei cucina, lei sistema la casa e io le do una mano. Quindi se per una volta la cena è fredda, dato che avresti dovuto stare tutta la n0tte fuori, te la mangi. E se proprio non ti piace alza il culo e cucinati qualcos’altro. Ma sei troppo ubriaco per farlo, non è vero?”

Paolo scattò, diede un ceffone a Michele e gli tirò contro la birra, versandone il contenuto sulla parete e sul pavimento, graffiando la guancia del figlio con i pezzi di vetro. Matilde tentò di uscire dalla stanza ma Eleonora la trattenne; Michele bloccò il padre mentre gli cercava di tirare un pugno, un secondo però lo colpì e cercò di scappare per correre in camera sua. Suo padre fece fatica, ubriaco com’era, a salire le scale, quindi lui ebbe il tempo di entrare in camera sua e chiudere la porta a chiave.

Suo padre dopo un po’ riuscì a salire e cominciò a colpire violentemente la porta. Matilde crollò a terra quando vide il labbro spaccato del figlio e il graffio, quindi lui la strinse tra le braccia dicendole che l’aveva provocato, che stava bene, che non gli faceva male; Eleonora fece altrettanto mentre copriva tutti e tre con il piumone poggiato sul letto del migliore amico, confortò Matilde e nel frattempo strinse la mano a Michele, a cui tremava.

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Capitolo 30
*** Come un padre ***


Matilde si era addormentata alle dieci e quarantacinque minuti, quindi Eleonora sciolse sé stessa e glia altri due dall’abbraccio del piumone, Michele prese sua madre tra le braccia e delicatamente la sollevò da terra, per poi adagiarla sul proprio letto, chiedendo ad Eleonora di farle compagnia quella notte.
“Luca si è fatto vivo, mi ha detto di raggiungerlo a mezzanotte, ho già detto a Giulio che non potevo lasciare mia madre e te quindi lui non sa nulla. Stai tu con lei finché non torno?”
“Tranquillo, ci penso io, quando arrivi bussa alla finestra così ti apro”
“Si certo”
“Michele ti prego, fammi sapere cosa vuole”
“Certo Ele”
Alle undici e mezzo suo padre si addormentò, dopo dieci minuti Michele scese le scale, ammonendo l’amica di chiudersi a chiave, quindi uscì piano dalla porta d’ingresso e si incamminò verso il luogo dell’incontro.
Percorse la strada illuminata solo una volta ogni tanto da dei lampioni dalla luce molto gialla, tutto era immerso nella penombra e nel silenzio totale; a differenza delle altre volte superò la casa di Giulio, superò la piazza centrale e dopo qualche manciata di minuti arrivò a destinazione. Luca sembrava essere lì già da un po’, stava fumando quando Michele gli si avvicinò.
“Cosa c’è?”
“Che scortese, sto buono e zitto per tutto questo tempo e mi saluti con astio?” rispose ironicamente Luca.
“Ti prego va dritto al punto”
“No, prima siediti e fumati una sigaretta con me, poi parliamo del favore che mi devi fare, ti racconto una cosa”
Michele si sedette controvoglia e controvoglia si fece accendere una sigaretta.
“Cosa devi raccontarmi?”
“Mesi fa sono stato a Roma con mio cugino, sai lì le cose sono diverse, non è un buco come questo stupido paesino, è enorme e ci sono parecchie persone, tantissimi tipi diversi di persone. Una sera abbiamo deciso di provare dei brividi nuovi e ci siamo avvicinati a Martino, un ragazzo di lì, lui ci ha dato delle canne, poi dopo un po’ abbiamo provato anche altro e quando siamo tornati qui ci siamo portati dietro un po’ di roba”
“Dove vuoi arrivare?”
Riamasse in silenzio fino ad aver finito la sua sigaretta, poi la spense su una roccia lì vicino e la gettò nel fiume, Michele finì la sua e fece lo stesso.
“Dopodomani mio padre torna a casa, era andato in viaggio di lavoro, ha deciso di ospitare i nostri parenti di Verona, che staranno qui due mesi. Martino mi ha portato della roba ieri, parecchia roba, che non può stare a casa mia perché la troverebbero. Tienila per me, poi tra un mese me la riporti e io la do al tizio a cui è destinata, io ci guadagno senza venir scoperto, tu non verrai neanche visto”
“Cosa? Assolutamente no, non voglio avere niente a che fare con questa storia”
“Senti, devi, non te lo so chiedendo, ricordi i patti no? Io non dico a nessuno che tu sei frocio e tu mi fai dei favori. Questo tizio paga bene, e Martino mi dà la metà, quindi tu lo fai”
“Ci deve essere qualcun altro a cui chiederlo! Tuo cugino Gabriele ad esempio”
“Io e lui viviamo insieme, ricordi? Il problema è di entrambi e di certo non metto in mezzo i miei amici quando ho te”
“Non puoi chiedermi qualcos’altro? Qualunque altra cosa andrebbe bene, non voglio avere a che fare con la droga”
“Inginocchiati e fammi un pompino”
Michele lo guardò con rabbia e disgusto, tese la mano e prese il borsone.
“Bene, vedo che ci capiamo. Tra un mese ci rivediamo qui, ti contatto io”
“Mi chiederai altre volte di farlo, non è vero?”
“Sì”
Michele si diresse verso casa con rabbia, bussò alla finestra dopo essersi arrampicato sull’albero, Eleonora gli aprì e gli disse che Paolo aveva da poco ricominciato a tirare pugni contro la porta e che Matilde si era svegliata per questo.
“Cos’è quel borsone Michele?” gli chiese la madre spaventata.
“Un mio amico aveva degli attrezzi che non poteva tenere per via dello spazio, quindi mi ha chiesto di tenerglielo per un po’, finché non libera casa”
“Oh, ecco perché è così grande, non poteva darteli di giorno?”
“è molto impegnato in questo periodo, ha trovato un po’ di tempo solo adesso”
La madre annuì convinta, Eleonora invece lo guardò severa, indagando nei suoi occhi, seguendolo con lo sguardo mentre spostava le lenzuola, metteva la borsa sotto al letto e si appoggiava alla porta con le spalle per contrastare i colpi di suo padre. Eleonora prese del disinfettante dalla scrivania e del ghiaccio dal mini freezer poggiato a terra, Matilde avvolse il ghiaccio in una tovaglia e lo porse al figlio, che se lo appoggiò sul labbro inferiore, in cui cominciava a vedersi un livido nero derivante dal pugno non schivato, mentre Eleonora tamponava del cotone col disinfettante sulla ferita del migliore amico.  
Fino alle tre del mattino la situazione rimase statica, poi Paolo tornò a dormire, i tre si sistemarono sul letto e Matilde si addormentò. Dopo un’oretta Eleonora chiese all’amico di spiegarle tutto, quindi nonostante l’iniziale rifiuto Mike confessò. Le raccontò tutto.
L’espressione inorridita e agitata di Eleonora disse tutto, si disse furiosa verso luca e ancor di più verso Gabriele che sicuramente sapeva tutto, dicendo che l’avrebbe lasciato per quello.
“No Ele, non devi lasciarlo per questo, io non avrei dovuto dirti nulla”
“Ma non posso lasciar correre!”
“Ti prego” Michele la pregò con gli occhi ma lei lo guardava storto e borbottava, in fine le disse che altrimenti sarebbe scoppiato un putiferio e la sua già complicata situazione sarebbe peggiorata di netto.
“D’accordo, non so niente”
‘Grazie’, mimò con al bocca Mike mentre accarezzava la testa di sua madre. Propose ad Eleonora di dormire un po’, lei accettò e stanchissima si addormentò verso le tre e venti.
Alle sette del mattino Michele sentì bussare alla porta sommessamente.
“Ieri ho alzato il gomito di nuovo, mi dispiace d’averti fatto male”
“Va bene”
“Tua madre?”
“Dorme in camera mia, c’è anche Eleonora”
“Oh bene, vi siete messi insieme?”
“No, siamo amici”
Il padre lo guardò con disappunto e gli ordinò di andare in cucina con lui per fare colazione prima che andasse al lavoro.
“Fammi del pane con burro e miele, il pane abbrustolito. Mangia anche tu” disse.
“Va bene” rispose passivo.
Mentre sentiva il pane croccante scivolargli lungo la gola, dei passi rivelarono la presenza di Matilde ed Eleonora: la prima, prima di sedersi diede un bacio al marito e preparò del caffè, la seconda lo salutò educatamente e prese posto affianco all’amico.
“Devi lavorare oggi?” chiese Matilde.
“No, oggi sono libero dalla fabbrica, sto a casa e vado alla taverna con gli altri stasera”
“Oh, ti dispiace se ceno da Alessandra? Gliel’ho promesso, anzi sono sicura le farebbe piacere se venissi anche tu”
“Bene, allora alla taverna ci vado dopo cena”
“D’accordo, lo dici tu alla mamma?” Disse Matilde tutta sorridente.
“Si certo” rispose Eleonora.
Dopo aver fatto colazione, Eleonora e Michele si diressero in camera di lui, si lavarono e lei prese in prestito un suo maglione, quindi nascosero il borsone in uno spazio dentro l’armadio e decisero di andare a casa di Eleonora, erano le nove.
Studiarono per tutto il giorno diritto e letteratura italiana, poi alle sei del pomeriggio Manuel bussò alla porta:
“Si può?”
“Si certo!” risposero entrambi sorridenti.
“Siccome avete studiato tutto il giorno pensavo che non ti sarebbe dispiaciuto aiutare tua madre nella preparazione della sette veli, ninfa”
“Oh sì, ma perché solo io?”
“Perché io ti prendo in prestito Michele. Ti va se ti insegno a portare la macchina? Devo andare a prendere un paio di cose dal fornitore fuori dal villaggio, ho un certo progetto per il gazebo, magari ti insegno anche qualche tecnica di sopravvivenza, come sciogliere dei nodi e un paio di queste cose, ti va?”
“Assolutamente sì!” rispose Michele sorridendo.
“Ehi! Anch’io voglio impararle!”
“Oh no, se te le insegnassi cercheresti di metterti in situazioni pericolose solo per provarle, Michele è più responsabile quindi meglio che le sappia lui, così ti può difendere!” rise il padre canzonando sua figlia, che in tutta risposta si mise a ridere dicendo che gli avrebbe dato la fetta di torta più brutta per ripicca. In realtà non l’avrebbe mai fatto, la più brutta la dava a Lucia, per Manuel sceglieva sempre la più bella, con tutte le guarnizioni sopra, della giusta misura.
Manuel gli spiegò come tenere lo sterzo, come ingranare le marcie, come capire quando doveva cambiarla e quando usare frizione, freno ed acceleratore. Non era la prima guida che lo facevano, solo che l’ultima volta risaliva a prima che partisse per la sua missione, quindi Michele era un po’ arrugginito.
Manuel comprò ciò che gli serviva, sulla strada del ritorno guidò lui, Michele sentì quel calore che avrebbe dovuto sentire quando tornava Paolo a casa, ma invece il calore d’un padre lo sentiva solo con lui; fu per quello, forse per la tranquillità di quell’uomo, per la sua gentilezza, per il fatto che lo trattasse come se fosse davvero parte della sua famiglia, che prese una grossa boccata d’aria e parlò:
“Manuel, posso dirti una cosa?”
“Ehi, sai che preferisco quando mi chiami papà due; puoi dirmi tutto”
“Scusa lo so, è solo che è una cosa importante e sono un po’ nervoso”
“Sei in qualche guaio? Ti do una mano lo sai”
“No, niente guai. È solo che… da un po’ormai ho capito che non mi piacciono le donne, cioè, io preferisco… beh… gli uomini… e sei la prima persona dopo Eleonora a cui lo dica di mia spontanea volontà. Per me sei un padre e volevo dirtelo” i suoi occhi si inumidirono, la voce gli rimase bloccata in gola, attendeva una risposta e temeva la reazione, aveva paura che avrebbe potuto cambiare qualcosa nel loro rapporto quasi padre-figlio per colpa di ciò che era.
“Qualcuno ti ha costretto a dirlo?” chiese solo, apprensivo.
“No, beh più o meno. Mamma l’aveva capito e mi ha spinto a parlargliene, poi beh… un mio amico mi ha visto con il mio ragazzo, ma ha detto che non l’avrebbe detto”
“Matilde non ha pazienza per questo tipo di cose, dovrebbe aver avuto un po’ più di tatto. Non c’è nulla di male Michele, avevi paura di parlarmene perché pensi sia sbagliato? Beh lasciatelo dire, mi dispiace per le speranze della mia Afrodite e di Matilde, perché riponevano fiducia nel tuo matrimonio con Eleonora, ma se ne faranno una ragione tranquillo!” Lo guardò benevolo, accostò la macchina e gli diede un abbraccio.
“Se dovessero crearti problemi dimmelo, ci penserò io, capito?” lo strinse con le sue grandi mani gentili e Michele ricambiò l’abbraccio affondando il viso nella sua spalla, mentre si sfogava piangendo con Manuel su quanto fosse difficile avere a che fare con suo padre, su quanto temesse per la salute di sua madre, su quanta rabbia gli provocasse l’atteggiamento sottomesso di lei nei confronti di Paolo, su quanto fosse difficile sostenerla senza crollare quando suo padre lo terrorizzava da ubriaco, su quanto fosse frustrante dover vedere Giulio solo di notte per non farsi vedere da nessuno.
Manuel lo lasciò sfogare, poi prese parola e la sua calda voce gentile spazzò via il suono delle lacrime del suo ‘quarto figlio’, rimasto ad aleggiare nella macchina:
“Tua madre si sente quasi in dovere di rimanere con Paolo, lo ha visto trasformarsi nel corso della loro relazione, passare dall’essere il suo affettuoso, operoso e sempre sorridente compagno, all’ubriacone e violento uomo che alza le mani a lei e suo figlio; so che per te non è facile, ma vedila così: la vita ti sta formando, ti sta facendo crescere in fretta e nel modo peggiore, ma ti ha dato anche una seconda casa in cui andare quando senti di crollare. Sono sicuro che tra un po’ di tempo Matilde riuscirà a lasciare Paolo, piano piano si sta rendendo conto che il suo non è un matrimonio sano, lo sta già vedendo attraverso quello che tuo padre ti fa, tu cerca di non farti picchiare perché tua madre ne soffre, chiuditi in camera con lei da subito, oppure uscite da casa e venite qui quando siete sicuri che tornerà ubriaco. Per ora non potete fare molto, aspetta solo che lei lo capisca, che lei abbia il coraggio di divorziare, io e Alessandra la stiamo facendo ragionare sulla cosa, non ti preoccupare. Inoltre, per quanto riguarda te e Giulio, capisco che sia difficile nascondersi e ti darò un consiglio: è complicato, è la strada meno facile, ma dillo, dì a tutti ciò che sei perché la vita è troppo breve per nascondersi e ignorare ciò che si è, prendi tutti in contropiede ed esci allo scoperto; all’inizio sicuramente avrai problemi, ma quando vedranno quanto sei forte, quanto bene reggi lo stress e la pressione, quanto bravo sei a ripulirti le ferite e tornare come nuovo, la smetteranno. Cerca di convincere il tuo ragazzo, preparalo, ma fatelo, è importante che voi possiate vivere liberi e felici” 
“Dici davvero? Credi sia ciò che dovrei fare?”
“Sì, ma solo quando sei sicuro di essere pronto ad affrontare le critiche e gli insulti delle persone bigotte che vivono qui”
“Lo farò, non tra poco, ma lo farò”
Manuel diede una carezza sulla testa di Michele, gli mise la mano sulla spalla e con l’altra prese il volante e tornò a guidare.
Arrivarono a casa verso le sette e mezza.

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Capitolo 31
*** è sempre bene metterlo il punto ***


Il campanello suonò, aprì la porta Alessandra, fece entrare Matilde, lei indossava un cappello che le copriva il viso e si teneva la parte superiore del braccio sinistro con la mano destra. Manuel le chiese come mai fosse sola, Matilde rispose che Paolo era andato alla taverna dopo che avevano litigato.
Michele ed Eleonora distrassero le tre sorelline di lei portandole in camera e chiedendogli di nascondersi. Lucia non era molto felice della cosa ma obbedì. Michele si avvicinò a sua madre e le tolse il cappello: l’occhio di lei era leggermente rosso, si stava formando un livido, il labbro superiore aveva sanguinato, si vedeva. Alessandra le prese una pomata e la mise sul suo livido, Manuel prese del ghiaccio dal freezer e glielo porse, per poterselo appoggiare sul braccio dolorante.
Prima che i due coniugi potessero anche solo proferire una sillaba, la frustrazione, la rabbia repressa, il disgusto di Michele verso suo padre esplosero in un discorso ruvido, senza filtri, non addolcendo le parole:
“Ho diciassette anni ed è da quando ho coscienza di cosa sia la violenza che vedo che tu la subisci ogni giorno. Quel pezzo di merda che mi chiedi di chiamare papà è solo un uomo disgustoso che si è fatto licenziare ormai più di dieci anni fa e che lavora in una fabbrica senza portare nulla a casa, che non ha saputo trovarsi un lavoro che lo soddisfacesse. È un mostro che uccide animali per sfogare le proprie frustrazioni e che poi chiede a te, una veterinaria, di spellarli e cucinarli. Non ha sensibilità, è un orco disgustoso e puzzolente che spreca l’ossigeno di questo pianeta. È da quando avevo dodici anni che mi faccio picchiare al posto tuo. Ti avevo chiesto una sola cosa mamma: Ti prego non restare sola con lui, neanche da sobrio. Perché ho mentito quando ti ho detto che mi picchiava solo da ubriaco, non è così, però ne saresti stata distrutta. Ma vederti con un livido in faccia e dolorante per il braccio che non riesci a sollevare è troppo. Non lo sopporto più, non riesco più a stare a casa quando c’è lui, l’hai notato? Scappo sempre mamma. Scappo dal tuo senso di dovere verso quell’uomo, scappo dalla tua sottomissione a lui, scappo dal bene che mi vuoi perché ho paura che io un giorno non ci sarò a casa e lui non ti lascerà viva! Ti prego io sono terrorizzato all’idea di perderti per colpa sua, non voglio mai più vederti così! Ti proteggo da 5 anni, non ti ha più provocato un livido per 5 anni, manco per solo un pomeriggio in cui c’è lui a casa e quel bastardo ti mette le mani addosso! E se io fossi costretto per motivi scolastici a lasciare casa per tre giorni? Cosa ti farebbe? Ne usciresti viva? Mamma io ti amo ma non ce la faccio più, mi sta distruggendo, tutto mi sta distruggendo. Paolo, la tua resa nei suoi confronti, il dovermi nascondere. E come se non bastasse sono un omosessuale in paesino di bigotti che pestano ragazzi con colori anche solo vagamente femminili, Nicolas due anni fa è stato massacrato e costretto all’ospedale per mesi perché aveva detto ad un suo amico di essere bisessuale, ha cambiato città cazzo. Tutto questo mi sta portando alla pazzia, io non ce la faccio più. Non lo voglio più vedere, mi dispiace essere crudele, Manuel so che quello che mi hai detto sarebbe la cosa più giusta da fare, ma io non ce la faccio più, Mamma adesso scegli: me o lui. Io non posso più rimanere nella sua stessa casa”
Matilde scoppiò in lacrime e a Michele si strinse il cuore, ma sapeva che avrebbe dovuto continuare, era l’unico modo per cercare di sistemare le cose:
“A sette anni lo vidi trascinarti per i capelli giù dalle scale, gli dissi di non fare male alla mia mamma, ricevetti il primo ceffone. A nove anni lo vidi forzarti ad andarci a letto, urlai nel corridoio fingendo di aver avuto un incubo e lui venne, mi tirò un ceffone capendo che avevo mentito, io corsi da te e ti abbracciai per impedirgli di farti altro. A undici anni vidi il livido che ti aveva lasciato sulla gamba, quando andasti a fare la spesa gli buttai tutte le birre, lui tornò a casa e mi tirò il primo pugno. A dodici anni lo vidi diventare aggressivo, vidi la sua mano stringersi, le vene gonfiarsi, ti spinsi via, lo chiamai Paolo e lui lo diede a me, quel pugno. Da quel giorno li presi tutti io, per proteggerti. Non è vero che la cicatrice che ho sulla schiena me la sono fatta cadendo mentre correvo con Ele, me l’ha fatta lui tirandomi contro una bottiglia rotta quando avevo quattordici anni. Sai quando rimasi due giorni e due notti a letto, senza muovermi, al buio, mangiando poco e niente? Non ero stanco per non aver dormito, è solo che non riuscivo a muovermi per il dolore. Mi aveva picchiato quando ti ho protetta dicendoti di dormire qui da Alessandra perché a me e i miei amici serviva la casa per una festa, avevo quindici anni”
Alessandra guardò Michele con sguardo sbalordito, Manuel anche, ma nel suo vi era anche una forte rabbia, un’amara consapevolezza di non essere stato in grado di capire quanto fosse grave la situazione di quel ragazzo che vedeva come suo figlio, quanto male fosse stato, quanto dolore avesse provato. Matilde, dal canto suo, era una valle di lacrime, era rimasta ad ascoltare il figlio, soffrì di più ad ogni sua parola, ad ogni episodio narratole la sua disperazione aumentava; al termine di ogni frase nuove emozioni, mai provate prima, mai, neppure una volta, la invadevano: rancore, rabbia, odio, ira, disgusto, disprezzo, ribrezzo.
Matilde prese singhiozzante Michele tra le sue braccia, esterrefatta dalla resistenza di suo figlio pronunciò solo poche parole, prima di uscire da quella casa con passo talmente svelto da superare in velocità una macchina in autostrada:
“Non potrei mai scegliere nessun altro se uno dei due sei tu, non avevo mai voluto vedere quanto stessi soffrendo. Alessandra e Manuel hanno provato ad aprirmi gli occhi. Ma credo mi servissi solo tu”
 
La seguirono tutti i presenti, dopo che Manuel raccomandò alle sue ninfe più piccole di restare in casa.
Matilde entrò in casa sua ammonendo tutti quanti di restare fuori in giardino, prese tre valigie  in cui infilò tutti i vestiti, le scarpe, gli zaini di Paolo e le scaraventò in giardino; prese tutti i fucili da caccia e le munizioni del marito e le scaraventò sulle valigie; prese tutti i suoi oggetti, le sue cose, le loro foto insieme e le gettò in uno scatolone, portandolo vicino alle valige; prese tutti gli alcolici di lui, dal primo all’ultimo, li portò fuori e poi disse a Manuel di seguirla alla taverna, perché se fosse andata a chiamarlo da sola lui l’avrebbe picchiata e Michele avrebbe sofferto.
Dopo poche decine di minuti furono lì, Manuel entrò per primo, salutando Paolo e tutti glia altri che l’accolsero come un amico, disse a Paolo che doveva andare con lui, che non c’era tempo, quello lo seguì, non dopo aver sbraitato. Quando Paolo vide sua moglie provò a picchiarla accusandola di averlo tradito con Manuel, quest’ultimo parò il colpo diretto alla donna e torse le braccia di lui dietro la sua stessa schiena, bloccandolo nei movimenti. Dopo averlo calmato lo liberò e Matilde gli disse che dovevano esserci dei cambiamenti e che la doveva seguire. Quindi tornarono a casa loro, con Manuel nel mezzo fra i due, che teneva sott’occhio Paolo. 
 
Alessandra aveva chiuso la porta di casa a chiave, aveva sistemato le valige, la scatola, i fucili da caccia e gli oggetti di Paolo nel furgone di lui, aiutata da Michele ed Eleonora.
Appena paolo vide tutti lì si innervosì, poi vide il furgone aperto con dentro tutti i suoi averi e la sua ira esplose: le vene del collo gli si gonfiarono, divenne rosso in volto, gli occhi erano spalancati in uno sguardo colmo solo di follia.
“Come vi siete permessi, tutti voi, a prendere le mie cose e metterle fuori dalla mia casa? Mia moglie, quella stupida e insulsa donna che non vale niente e non è brava a farmi trovare la cena calda in tavola, pretende pure che me ne vada dalla mia casa?”
“Smetti di urlare” gli disse solo Matilde, colma di rabbia.
Le persone del vicinato uscirono sulla porta di casa, si affacciarono dalle finestre o si misero sul vialetto, alcuni della taverna erano andati a curiosare, il proprietario della locanda si godeva lo spettacolo. In poco tempo metà del paese era lì ad osservare: la notizia arrivò persino ai genitori di Giulio, suo padre gli disse che la madre di quel suo amico stava cacciando il marito di casa e gli chiese se lui volesse andare a vedere come stava quel Michele, ovviamente Giulio rispose affermativamente e uscì di casa con entrambi i suoi genitori, preoccupato per il suo ragazzo.
“E voi cosa volete? Non è uno spettacolo, andate via!” urlò Paolo.
“Puttana che non sei altro! Mi cacci di casa quando non sai fare niente! Senza di me creperai! Creperete tu e quel bastardo di figlio che ti ritrovi! Quello smidollato non può certo essere mio figlio, mi avrai tradito con qualcuno e sarai rimasta incinta! Tutte le mie miserie sono cominciate quando mi hai detto che eri incinta! Deve per forza essere colpa della tua stupida gravidanza e della nascita di questo bamboccio!”  Continuò urlando, andò per aggredire la donna e ancor prima che Manuel lo bloccasse senza fargli male, Michele scattò in avanti e gli tirò un pugno in peno viso, suo padre cadde a terra barcollando, lui gli si mise sopra e cominciò a tirargli un pugno dopo l’altro gridandogli contro:
“Sei solo tu la causa di tutto il dolore di questa famiglia! Tu hai persino fatti perdere mia sorella a mia madre tirandole un pugno sullo stomaco quando era quasi al terzo mese di gravidanza! Come ti permetti d’insultarla e denigrarla così?! Non vedi come l’hai ridotta? Ti restituisco tutto quello che hai dato a me e mia madre in questi anni! TI piace? Ti fa stare bene? Ecco cos’hai fatto per noi!”
Matilde gridò a Michele di calmarsi, Alessandra bloccò Eleonora dal correre ad aiutare Michele a pestare Paolo perché troppe volte aveva visto Mike soffrire e perdere sangue a causa di quell’uomo, Michele fu sollevato in aria da due braccia forti e robuste che gli dissero di calmarsi, sentì il calore della voce di un padre sussurrargli di prendere fiato, respirare profondamente e andare ad abbracciare sua madre. Così fece, mentre Manuel bloccava le braccia a Paolo, che con un taglierino in mano cercava di alzarsi e inseguire il figlio.
Michele abbracciò sua madre, ma lei si divincolò e andò sulla soglia della porta di casa, prese le bottiglie di alcolici e le gettò su Polo, dopo che Manuel gli si allontanò su ordine della donna.
“Ti sei permesso di farmi scoprire l’unica cosa che non avresti ami dovuto farmi scoprire. Hai osato ferire, picchiare, lasciare cicatrici e distruggere mio figlio, il sangue del mio sangue, l’unica ragione per cui vivo. Tu ti sei permesso di toccarlo -disse tutto a voce moderatamente alta, mentre continuava a tirargli contro bottiglie in vetro piene d’alcol- e di fargli del male. Sono stata ceca per anni, ho voluto esserlo per anni, ma non potrei mai continuare dopo quello che Michele mi ha rivelato! Tu, mostro orrendo che mi ha rovinato la vita, omuncolo che mantengo da diciannove anni, sparisci dalla mia vista e dalla mia vita! Vai a dormire sotto a un ponte, tanto non hai nulla! Fuori dalla casa mia e di mio figlio, dalla casa che io ho comprato e arredato, in cui io e mio figlio abbiamo vissuto amorevolmente, lontano dalla quiete e dalla pace che io e mio figlio da soli abbiamo. Sta lontano da noi!”
Paolo, attonito, non pronunciò parola, umiliato di fronte a tutti, intimidito dalla moglie per la prima volta, rimase fermo, non si mosse. Alessandra corse da Matilde, abbracciandola e lasciando fare lo stesso alla figlia col suo migliore amico, tremanti; Manuel si avvicinò a Paolo e gli chiese di salire in macchina e andare via, Paolo non rispose subito, poi vi riuscì e con tono aspro e amaro disse:
“Vado via, ma non dormirò sotto un ponte, me ne vado da questo villaggio, a casa della mia amante” Salì in macchina, che le persone gli fecero largo e andò via.

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Capitolo 32
*** Sfortune e borsoni ***


Tutti furono felici di veder Paolo lasciare il paese, alcuni dei presenti ebbero una parola di sostegno e conforto per Matilde e Michele, altri rientrarono semplicemente in casa, soddisfatti per la scelta della donna, altri bisbigliarono di essere sorpresi dall’esplosione del ragazzo, alcuni commentarono quanto fosse orribile quell’uomo che aveva persino fatto perdere una figlia a Matilde, altri apprezzarono i pugni del ragazzo verso suo padre, altri ancora lo criticavano affermando che non avrebbe dovuto sfogare la sua rabbia a quel modo.
“Per favore, ringraziamo tutti i presenti per il sostegno dimostrato a Matilde e Michele in questa situazione difficile, grazie da parte nostra e loro per le vostre parole confortanti, ma vi preghiamo di lasciarli soli perché si possano riprendere e riposare” Disse Eleonora, conscia del nervosismo creato da quelle voci.
I vicini rientrarono tutti, il proprietario della taverna riportò sé stesso e i suoi clienti al locale, cloro che erano arrivati fin lì tornarono alle proprie abitazioni, solo uno, Giulio, rimase lì mandando i suoi genitori a casa, dicendogli che sarebbe rimasto col suo amico.
“Aiuta il tuo amico in questo momento difficile, io e tua madre però torniamo a casa, non abbiamo il diritto di ficcanasare oltre” gli disse solo suo padre.
“Si papà” rispose lui.
Aspettò che i suoi genitori e che tutti gli altri se ne fossero andati: nessuno ascoltava più, nessuno guardava, tutti lasciavano la donna, il figlio e quella famiglia, a leccarsi le ferite. Giulio non era neanche stato notato da Michele, perciò si avvicinò cauto, educatamente salutò tutti i presenti, Michele lo guardò stupito: ‘cosa stai facendo?’ gli chiedeva con lo sguardo.
“Sono qui per te” gli rispose a voce Giulio.
“Piacere a tutti, io sono ‘Giulia’, il ragazzo di Michele” disse, stringendo la mano di Matilde.
“Grazie di essere qui” rispose la donna.
Michele non riuscì a dire nulla, allungò solo la mano e senza sciogliersi dall’abbraccio protettivo della migliore amica, gliela strinse.
“Beh che ne dite di andare a casa nostra? La cena si sarà freddata ma scommetto che è ancora deliziosa” affermò Alessandra.
“Non so voi, ma sto morendo di fame” disse Matilde, sorridendo soddisfatta.
“Direi che vieni anche tu, i tuoi genitori ti hanno lasciato libero di dormire fuori casa o sbaglio?” chiese Eleonora a Giulio.
“Sì, certo non sanno che sono… che Michele è il mio… si insomma loro non lo sanno quindi mi hanno lasciato senza problemi”
“Bene, allora andiamo a mangiare su, stasera dormite tutti da noi, arrangeremo i letti!” affermò Manuel.
Cenarono tranquilli, si misero a scherzare tutti insieme, persino Giulio, che si sentì talmente tranquillo e a proprio agio dal prendere in giro Michele su alcuni suoi comportamenti quando erano insieme.
A fine serata Sara, Maria e Lucia andarono a dormire, e gli altri si misero a parlare in soggiorno.
 
“Così sei tu quello più geloso? Ci avrei scommesso!” disse Alessandra rivolta a Michele.
“E dai, ma perché ci avreste scommesso tutti?”
“Perché sei iperprotettivo con tutti quelli a cui tieni! Hai quasi rotto il braccio ad un ragazzo che aveva provato a toccarmi il sedere e fulmini con lo sguardo chiunque osi guardare Matilde in modo lascivo!” Affermò Eleonora ridendo e dando un morso al suo Muffin.
“Hi usato quelle tecniche di difesa che ti avevo mostrato tempo fa vero?” disse Manuel fiero.
“Oh sì, gli ho fatto malissimo!”
“Ma dai, devi insegnarle anche a me” disse Giulio a Michele.
“Senti Giulio tesoro, ma quando avete iniziato a vedervi a casa tua?” Chiese Matilde afferrando un cupcake alle fragole.
“Beh in realtà quasi da subito, dato che non possiamo vederci di giorno o in generale fuori perché è rischioso. I miei genitori non la prenderebbero bene ora come ora, mia madre è in un momento complicato, come tutti sanno prende antidepressivi forti sia la mattina che la sera, quindi aspetto che si senta meglio e poi cercherò di dirlo ad entrambi” ripose lui sereno.
Michele quasi si affogò col suo cupcake quando sentì la sua risposta.
“Ma tu quando l’hai decisa questa cosa? Non me ne hai parlato!”
“In realtà poche ore fa. Mio padre mi ha detto cosa stava succedendo e sono corso a vedere come stavi, quando le persone hanno iniziato ad andare via ho visto che rapporto hai con tutti loro -disse indicando i presenti con un gesto della mano- nonostante sappiano che sei… omosessuale e mi ha confortato. Mi è passata la paura di dirlo, certo non in giro, non a tutti, ma voglio che i miei genitori lo sappiano. L’ho capito guardandovi. Spero che mio padre reagisca come ha fatto lei -concluse riferendosi a Manuel-, lo spero davvero”
“Lo farà sicuramente, conosco i tuoi genitori, entrambi, sono persone discrete e che tendono a stare tranquille per i fatti loro, ma tengono talmente tanto a te che ti hanno portato dal tuo ‘amico’, entrambi. E saprai meglio di me quanto odiano questo tipo di situazioni” Rispose Manuel pacato e benevolente, con su solito mellifluo e dolce tono di voce. Giulio gli sorrise.
“Scusa un attimo” Alessandra interruppe il momento: “L’hai detto prima a lui che a me? Mi sento tradita Michelino, sappilo!”
Alessandra guardò il marito con aria di sfida e tutti scoppiarono a ridere, lei compresa.
Poco dopo tutti erano stanchi e si misero a dormire.
Alessandra e Manuel dormivano con lucia nel letto; Matilde con le gemelle; Eleonora, Michele e Giulio invece dormivano nella stanza di lei.
“Non scambiatevi troppe effusioni che sennò mi sento sola e triste!” disse lei.
“Le diamo a te le effusioni!” disse Giulio, e poi entrambi i ragazzi le saltarono addosso facendole il solletico.
“Basta! Basta! Tregua, tregua!” disse lei.
Poco dopo si fermarono, sistemarono il letto e si posizionarono per dormire. Verso le tre di notte nessuna mente formulava più pensieri, solo sogni, solo positivi: Michele abbracciava Eleonora sulla destra e Giulio sulla sinistra, entrambi gli avevano bloccato una gamba con la propria, e lui fui imprigionato in quella posizione fino al mattino seguente. 
Passarono all’incirca quattro settimane, Paolo non si fece più vivo, Michele passava molto tempo in casa di sua madre con Giulio, Eleonora passava sempre meno tempo con Gabriele.
Il suo ragazzo non era a conoscenza della sessualità di Michele, ma lo venne a sapere tramite Luca.
 
Quel giorno, il primo martedì di febbraio, i parenti in vacanza di Luca e Gabriele erano andati via, quella sera, Martino avrebbe dovuto presentarsi col suo amico Vicenzo per ritirate il carico che i due ragazzi avevano affidato a Michele. Quando furono le dodici e quaranta di sera, Michele, che aveva ricevuto il messaggio di Luca quella mattina, si fece trovare nel medesimo punto della prima volta, col borsone.
Rispetto alla prima volta però erano cambiate diverse cose, La prima era il fatto che aveva informato Giulio di tutto, che lo aspettava nascosto dietro l’angolo della strada nel caso fosse successa qualcosa, la seconda era che ad aspettarlo vi erano quattro individui: Gabriele, Luca, un ragazzo poco più grande di loro e uno di una trentina d’anni. Dietro di loro vi era un furgone con almeno un’altra decina di persone dentro. Michele fece per andarsene ma Gabriele lo trattenne per il braccio, senza un apparente motivo.
Luca gli si avvicinò per prendere la borsa, la porse a Vincenzo che la ispezionò: il suo viso si contrasse in una smorfia di disappunto:
“Manca della roba”
“Cosa? È impossibile, io vi ho dato tutto” Disse Martino rivolgendosi a Gabriele e Luca.
“Non mi piace chi ruba” Disse solo Vincenzo, tirando fuori un tirapugni un metallo. Luca entrò nel panico, Gabriele invece, con tutta calma, spintono Michele verso l’uomo e disse:
“Abbiamo affidato tutta la merce a questo frocetto perché a casa nostra l’avrebbero trovata. Avrà rubato lui qualcosa, è tutto tuo”
“Ma che cazzo stai dicendo? Io neanche la volevo tenere quella borsa! Non volevo averci niente a che fare con questa storia!” disse Michele sperando di essere ascoltato, ma capì che a Vincenzo non importava, l’uomo tirò fuori dalla giacca un manganello e si preparò a colpire il ragazzo, tuttavia poco prima che lo facesse fu bloccato da Martino:
“Ehi, ehi, ehi Vince, calmiamoci, non credo che il ragazzo abbia delle colpe, suppongo di aver sbagliato io dandogli qualcosina in meno. Nel furgone ho ciò che ti serve, te lo aggiungo e siamo apposto?”
“Questi errori da bambocci con me non devi farli, si scende a 5000 per questo inconveniente” rispose duro l’uomo, liberando Michele.
“Nessuno si muova” disse Martino. Si diresse verso il furgone, uno gli passò ciò che gli stava chiedendo, pillole su pillole, qualche siringa, della cocaina. Li porse a Vincenzo, che diede i contanti al ragazzo e salì nella sua auto sportiva.
“Stasera abbiamo rischiato di essere ammazzati tutti quanti! Vi siete fatti mentre avevate la roba non è vero?” urlò Martino contro Gabriele e Luca.
“Non pensavamo che se ne rendesse conto”
“Non me ne fotte niente, quello è un mafioso! Non ci sta niente a farci saltare le teste! Tu chi cazzo sei?”
“Mi chiamo Michele, non sono neanche un loro amico, mi ha costretto Luca a tenergli quella borsa!” si difese Michele.
“Visto che sei stato tu ad occuparti della roba al posto loro e sono sicuro non ti sei fumato niente perché quella era tutta la loro roba preferita dammi il tuo numero, d’ora in poi avrò contatti con te”
“No, non voglio, non mi interessa avere a che fare con questa cosa!”
“Forse non ci siamo capiti -disse puntandogli una pistola alla testa-, a me serve un altro con cui avere a che fare, uno che a differenza di questi due non vuole morire. Quindi dammi il tuo telefono”
Michele gli diede tremante il telefono e con la pistola puntata alla testa registrò il proprio numero su quello di Martino, il quale, ripreso il telefono, gli prese il volto guardandolo prima da un lato e poi dall’altro:
“Andrai bene, hai un viso pulito, si fiderà di te”
“Chi? Per cosa?” chiese lui.
“Non ti riguarderà fin quando non te lo dirò io, ci vediamo tra tre mesi, intanto tienimi questa” Gli porse la borsa che uno degli uomini dentro al furgone gli aveva portato.
“Vai via adesso, a questi due devo dire due cose”
Michele obbedì, corse via con la borsa, raggiunse Giulio e subito lo lasciò a casa.
“Non dirmi nulla”
“Non posso! Che diavolo di storia è? Michele io non voglio averci a che fare! Mi avevi detto che Luca ti aveva promesso che non li avresti incontrati! E adesso invece un tizio ti fa tenere la sua droga! Non possiamo continuare a vederci, sparisci!”
“Ma Giulio io ne sapevo quanto te! Stai scherzando? Non capisco che ti prende!”
“Non voglio avere a che fare con questa cosa! Ecco che mi prende! Perché hai accettato?”
“Ma sei scemo? Avevo una fottutissima pistola puntata sulla tempia! Che cazzo avrei dovuto fare? Farmi sparare?”
“Io… non l’ho vista, sentivo solo”
“Deficiente! Me ne vado, come vuoi tu, non ci vedremo più”
“No, no, no aspetta. Non sapevo ti stessero minacciando, io ascoltavo e basta! Non incazzarti, per ora sei l’unica cosa a farmi stare bene”
“Mi stavi lasciando! Come faccio a non incazzarmi?”
“Scusa è che lo sai che soffro di paranoie, pensavo che a te stesse piacendo questa situazione… scusa… rimani da me, ti prego” disse passandogli le mani dentro la camicia, scendendo verso la cintura e abbassandogli la zip dei pantaloni.
Michele non ragionò più, lo perdonò come ogni volta e come ogni volta rimase a dormire da lui.

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Capitolo 33
*** Dire addio fa sempre male ***


Si svegliò di soprassalto, ciò che il suo migliore amico le aveva raccontato l’aveva sconvolta. Ogni volta che lui aveva qualche problema, lei non poteva resistere dall’aiutarlo, ma il non poterlo fare in quel caso, il non poter picchiare Gabriele per quel motivo, le provocavano incubi: sognava di Paolo che ornava e uccideva Matilde e Michele con uno dei sui fucili da caccia, sognava di Vincenzo che pestava Michele a sangue, sognava di questo Martino che le portava via Michele, chissà dove.
L’indomani suo padre sarebbe partito, quindi lei mancò da scuola per stare più tempo possibile con lui.
Si alzò alle sei e trentadue minuti, uscì dalla sua camera e si diresse in cucina, preparò una torta al cioccolato dal cuore caldo, una spremuta d’arancia fresca e due tazzine di caffè. Portò il caffè ai suoi genitori:
“Ehi piccola, che buon odore…” la saluto la madre con un bacio.
“Ninfa mi stai facendo morire di fame con questo profumo, tra quindici minuti siamo tutti a tavola, potresti apparecchiare?”
“Già fatto papà, sveglio le monelle!”
Eleonora corse dalle sue sorelle, si gettò su Lucia, questa si svegliò all’improvviso e la mandò al diavolo, svegliando quindi le gemelle, che le insultarono entrambe per la loro poca sensibilità.
Le quattro sorelle sentirono la porta della camera da letto aprirsi e andarono in cucina, dove fecero colazione scherzando e ridendo con entrambi i loro genitori.
Dopo la colazione Manuel propose di andare a fare un giro per i negozi, voleva comprare qualcosa alla sua dea e alle sue ninfe.
Ad Alessandra comprò un anello, un solitario, promettendole una seconda luna di miele; a Lucia comprò una collana, così come alle due gemelle; ad Eleonora invece, prese un bracciale d’oro bianco, era delicato e sottile, con un’incisione nella parte interna: ‘la lontananza non divide le persone’.
Alessandra gli regalò una collana, con un ciondolo a forma di rombo in cui era inciso: ‘pensami guardando questa collana’ l’aveva fatta incidere appositamente.
 Tornati a casa chiamarono Michele e Matilde, che arrivarono un’oretta dopo. Pranzarono tutti assieme, passarono il pomeriggio guardando film, divertendosi con giochi di società, poi arrivò la sera, cenarono e le gemelle, così come Lucia, furono messe a letto da Manuel, che le consolò per la loro preoccupazione, dicendo che il loro papà sarebbe tornato come tutte le volte sano e salvo.
Poi si diresse in camera di Eleonora, quando lei aveva appena finito la chiamata con Mike.
“Esci da lì sotto, ninfa?” Eleonora non se lo fece ripetere, uscì da sotto al letto e guardò suo padre, aspettando che parlasse.
“Tutto ciò che faccio lo faccio per il vostro bene, perché vi amo e amo anche tutti gli innocenti di questo pianeta. Ma ti giuro che cercherò di tornare sano e salvo; non posso prometterti che non rischierò la vita, perché lo farò sicuramente, ma ci sarò, tornerò a casa. Te lo prometto piccola mia. Quando to0rnerò sarai già maggiorenne, non sai quanto dolore provi nel perdermi il tuo gran giorno. Ti prego Eleonora, devi farmi una promessa: sta vicina a tua madre, lei non vorrebbe che io andassi ma non posso rifiutare questa volta, non mi è possibile, ho rifiutato qualunque trasferta, anche quella più breve, in questi otto mesi, per prepararvi a questo giorno, per godermi il tempo con voi al massimo. Statevi vicine, promettimelo”
“Tornerai, vero papà?” disse Eleonora con le lacrime agli occhi.
“Ma certo che tornerò, ho già promesso a tutte voi di portarvi in viaggio a Parigi e a tua madre una seconda luna di miele, no?”
“Va bene papà, ti prego torna, non so come potrei vivere senza di te” Eleonora si gettò tra le sue braccia, affondò il viso nel suo petto, bagnò la sua maglietta con molte lacrime e lui la strinse forte, con quelle enormi braccia calde e accoglienti.
“Ninfa, se io…”
“Cosa?”
Manuel non proseguì la frase, la baciò sulla fronte e le disse di dormire.
“A che ora esci di casa?”
“Alle quattro”
“Sarò sveglia”
“Come sempre”
Eleonora non chiuse occhio, come ogni volta che suo padre doveva partire, uscì di soppiatto dalla sa stanza, senza richiudersi la porta alle spalle, osservò nella camera da letto dalla fessura lasciata da Alessandra e le sue ansie furono confermate: sua madre piangeva disperata, singhiozzava e tremava, stringeva Manuel lasciandogli il segno delle unghie sulla schiena. Sentì suo padre parlare:
“Mi dai già per morto, afrodite?”
“Lo sai che è una missione suicida, non voglio perderti, non so come fare senza di te, sei l’altra metà del mio cuore, mi completi, senza di te sono come un uccello senza un’ala: non posso vivere, non posso volare”
“Anche tu sei la mia metà, lo sai, ma non è detto che io non torni a casa”
“Quante probabilità ci sono che tu torni, che torni da me, dalla tue figlie?”
“Circa il dieci per cento”
“Se dovessi tornare, ti prego, dimmi che poi lascerai l’esercito, io non riesco più a sopportarlo!”
“Te lo giuro, lavorerò in ufficio, lascerò questo lavoro. Tornerò da voi, te lo giuro amore mio”
“Ti amo, più della mia vita”
Alessandra pianse, contino, non aveva mai smesso; a Manuel cominciarono ad inumidirsi gli occhi per le lacrime:
“Se io non dovessi tornare, se non dovessi farcela, ti prego vai avanti. Le bambine hanno bisogno di te, se io non ci sarò ti prego, Alessandra, non chiuderti come quando ti ho conosciuta: ama di nuovo. Se io dovessi morire, ti prego innamorati di un altro, fai che le nostre figlie lo accettino. Non vivere pensando solo a me, ti prego, promettimelo” Alessandra non rispose subito, pronunciò a fatica delle parole che sembrarono bruciarle la gola e il palato.
“Non posso, tu sei l’unico e lo sarai sempre. Io non posso prometterti questo, chiedimi tutto ma non questo…”
“Alessandra ti prego! Giuramelo! Dimmi che lo farai, dimmi che se dovessi morire ti permetterai di amare di nuovo, ti prego!”
Manuel piangeva, disperato, terrorizzato all’idea di bloccare la vita di sua moglie.
“E va bene, te lo giuro, mi permetterò di amare. Ma non ti prometto che riuscirò a farlo, non ti prometto che riuscirò ad innamorarmi di qualcun altro, questo non posso farlo”
“Non riesco ad immaginare di non sentire più la tua voce la mattina, di non vedere i tuoi bellissimi occhi viola gonfi dal sonno, le tue labbra rosa sempre secche, le tue guance pallide, il tuo corpo stupendo, i tuoi capelli morbidi e lucenti. Tu sei la mia dea, lo sei sempre stata, lo sarai sempre. Eleonora è identica a te, ha il tuo carattere, per questo ho paura, non farla finire nei guai. Le bambine invece sono uguali a me, quindi ti rallegreranno se non dovessi tornare. Ti amo amore, non scordarlo mai, sei la mia anima gemella. Su sette miliardi di persone, nessun’altra avrebbe, mai, potuto completarmi e amarmi totalmente come te, nessuna”
“Manuel, Apollo, non potrei mai incontrare nessun altro come te, nessuno che mi completi come fai tu, nessuno che mi ami totalmente come te, nessuno che mi senta, nessuno che mi legga nel profondo, nessuno con cui potermi permettere di non parlare ed essere comunque compresa, capita, anticipata. Sei la mia anima gemella, Se dovessi morire, non mi dimenticherei mai e poi mai di te”
Eleonora scoppiò in lacrime in camera sua, urlò nella sua mente e parlò con Michele fino alle quattro del mattino.
Manuel baciò appassionatamente Alessandra, la strinse e fece l’amore con lei per quella che sapevano entrambi sarebbe stata la loro ultima volta.
Alle tre e venti si vestì, fece una doccia con sua mogie, poi andò sulla porta, la baciò un’ultima volta e aspettò Eleonora.
“Ci vediamo piccola ninfa” le accarezzò la testa, scombinandole i capelli, strinse le due donne, strinse le piccole che si erano svegliate per salutarlo e richiuse la porta dietro di sé.

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Capitolo 34
*** Pestaggio ***


Eleonora si svegliò poiché un’angoscia pressante le impediva di respirare, paranoia e paura le attanagliavano il cuore dalla notte che precedette la partenza di suo padre. Le parole che lui pronunciò, il suo discorso a sua moglie, sconvolsero e terrorizzarono Eleonora poiché sembrava quasi che suo padre fosse sicuro di non tornare a casa vivo.

Il suo migliore amico era stato trascinato negli affari di qualche mafioso per colpa del cugino del suo ragazzo, che dal canto suo voleva nascondere la propria colpa incolpando Michele e la cosa più assurda era che se non ci fosse stato uno dei due mafiosi, Mike non ne sarebbe uscito sano e salvo, forse neanche vivo.

Eleonora sembrava essere entrata in un tornado d’emozioni negative, scaraventata da un lato all’altro della propria testa. Il mondo intorno a sé, la piccola realtà nella quale viveva da tutta la vita, quel piccolo e statico ecosistema, sembrava stesse piano sgretolandosi, disturbato da un’infima casualità.

Tuttavia rifiutava di rifugiarsi in pensieri deprimenti e constatazioni pessimistiche sulla piega che gli eventi avevano preso, perciò si alzò, incoraggiata dalla sua caparbietà: non avrebbe permesso a degli stupidi ragazzini immaturi di rovinare la vita al suo migliore amico.

Aprì le ante dell’armadio, ne estrasse un paio di leggings neri e una felpa rosa e blu ‘presa in prestito’ dall’amico da ormai due anni, indossò nelle sue vans blu e uscì di casa in tutta fretta.

Camminò a passo svelto fino all’abitazione di Michele, ma quando bussò non trovò altri che Matilde indaffarata a pensare a come trattare un cucciolo di Labrador che aveva in cura. Il suo Migliore amico non rispondeva ai suoi messaggi, Giulio neanche; cercò in piazza, a scuola e persino alla taverna, ma non fu in grado di trovarlo. Ad un certo punto sentì una ragazza lamentarsi dei ragazzi con una sua amica, dicendo che era in corso una rissa nei pressi del fiume. Le gambe si mossero da sole, inciampando dopo una decina di minuti, rialzandosi e continuando a correre, tutto senza che Eleonora avesse il tempo di pensare a cosa stesse facendo.

Vide una trentina di suoi coetanei, sentì alcuni dire:

“Non credo se lo meriti, insomma, a loro che importa chi gli piace?”

“Fanno bene, così impara a non essere disgustoso!” dicevano altri

“In fondo colpa sua, se non si fosse fatto scoprire non l’avrebbero ridotto così” altri ancora.

Eleonora perse del tutto la ragione, come sempre si lasciò guidare dall’istinto e dalle sue emozioni, sebbene in quel caso fosse solo una l’emozione di traino: rabbia. Spintonò diverse persone permettendosi di passare e ciò che vide la fece infuriare: Gabriele, Luca e due suoi compagni di classe pestavano Michele, che da solo si difendeva. Tutti e quattro avevano preso qualche pugno, ovviamente Michele, essendo da solo, era colui che aveva preso più colpi. Giulio dal canto suo osservava la scena in rima fila, senza fare nulla.

“Ma che cazzo state facendo! Gabriele!” Urlò Eleonora.

“Fatti da parte Bimba, questo qui se le merita!”

“Ah sì? E illuminami sul motivo!”

“Ti illumino io: il tuo amichetto è un frocio di merda” disse l’altro dei quattro.

“E quindi? A te che cosa cambia?”

“Che ci fa senso ed è sbagliato!” disse l’altro

“Stanne fuori” disse Luca.

Gabriele buttò Michele a terra e Luca gli tirò un calcio sullo stomaco, mentre gli altri due lo prendevano ripetutamente a pugni. Eleonora scattò in avanti e gettò a terra Gabriele colpendolo in pieno viso facendogli colare sangue dal naso, gli blocco le mani con la sinistra e con la destra cominciò a tirargli ripetutamente pugni in pieno viso, continuò fino a che il sangue non colò dal naso di lui e gli riempì tutto il viso.

“Calmati Ele!” Michele si divincolò e la trattenne.

“Come faccio a calmarmi? Prima quello che sai, ora ti pestano pure? Vedete che io so tutto e ho una lingua lunga!” disse lei rivolgendosi a Luca e Gabriele.

“Cosa cazzo vuoi dire?” chiese il primo preoccupato.

“L’avete capito” disse solo

“Senti fatti da parte e faccio chiudere questa storia” disse poi Gabriele spingendola a terra e tirando un pugno a Michele che lo parò, non facendo però lo stesso con quello di Luca, che glia arrivò da dietro.

Eleonora si rialzò piano e guardò Giulio, che non faceva nulla:

“Giulio ma insomma! Aiutalo!”

Tutti si girarono verso di lei e poi osservarono Giulio, compresi tutti e quattro i ragazzi che se la stavano prendendo con Michele.

“Perché dovrei? Hanno ragione a pestarlo, lui è sbagliato!” fece ciò che meglio sapeva fare: nascondersi. Seguì l’opinione popolare. A quelle parole Michele rimase esterrefatto, non riuscì a muoversi e incassò tutto ciò che gli arrivo: calci, pugni, strattoni. La risposta di Giulio sconvolse anche Eleonora, che guardò l’amico venir pestato a sangue.

“Michele scusa, ma io non mi trattengo, a differenza tua sono una persona vendicativa!”

“Non ti fermo, non me ne importa più nulla” rispose Mike sommesso.

“Bene!”

Tutti si bloccarono, incuriositi da dove volesse andare a parare la ragazza.

“Trovo ipocrita da parte tua, Giulio, dire che il mio migliore amico, lo stesso ragazzo che incontravi tutte le notti a casa tua è sbagliato. Eppure non mi sembrava che lui fosse così sbagliato per te mentre te lo scopavi! Sbaglio forse? O vuoi negare anche i segni che gli hai lasciato addosso, come i tuoi succhiotti sul collo?”

Giulio impallidì, tutti lo guardarono scioccati, uno dei ragazzi che l’aveva vicino lo spintono dicendogli di levarsi da vicino a lui o l’avrebbe infettato.

“Ma sei stupido? Non è mica una malattia! Sono solo preferenze, idioti tutti!” un gran numero di persone cominciarono a litigare tra loro, in contrasto d’opinione le une con le altre.

Dei ragazzi cominciarono ad insultare Giulio ed Eleonora prese Michele e lo fece appoggiare a sé, poi fischiò forte per richiamare l’attenzione a sé:

“Lui, Loro, non sono sbagliati, né malati. Sono persone, coetanei, non dovrebbe cambiarvi nulla se gli piacciono gli uomini o le donne, sono affari loro. Siamo nel ventunesimo secolo santo cielo! Dovrebbero esserci meno bigotti! E Giulio, tu sei il peggiore di tutti”

“Non prenderti il disturbo di rivolgermi neanche un cenno se mi vedi da qualche parte, tanto non risponderei” disse Mike rivolto verso Giulio, poi andarono via voltando le spalle a tutti coloro che gli rivolgevano insulti.

Matilde e Alessandra aiutarono Michele con i lividi mentre Eleonora prendeva del ghiaccio e l’avvolgeva in una tovaglia.

“Mi ha mandato un messaggio Giulio chiedendomi di vederci al fiume, mi sembrava strano dato che è giorno, ma ci sono andato comunque. Solo che quando sono arrivato c’erano già quei quattro, all’inizio mi ha pure tenuto fermo per fargli colpire meglio. Mi ha detto all’orecchio che non aveva scelta, che schifo, lo odio da morire”

Michele raccontò alle due donne l’accaduto, che subito decisero di parlarne con le autorità locali. Infatti senza attendere risposta da Eleonora o Michele uscirono di casa.

“Sarà stata la cosa giusta?” chiese dubbioso Michele.

“Ti riferisci all’aver detto a Giulio quello che ho detto o ad aver raccontato l’accaduto alle nostre madri?”

“Entrambi… magari Giulio l’hanno minacciato come hanno fatto con me… e poi loro andranno dalla polizia e sappiamo come sono fatte, se si tratta dei loro figli non le si può controllare”

“Non avrebbe dovuto farlo, se ci avesse tenuto a te non avrebbe accettato, si sarebbe fatto pestare, come hai fatto tu con Luca, che ti ha coinvolto in questa merda, comunque l’avrebbero saputo lo stesso prima o tardi, tanto vale dirglielo subito”

“Hai ragione… su tutto…”

Michele si mise a piangere frustrato sulle gambe della sua amica, pianse per il tradimento di Giulio, pianse per la prima volta in vita sua si era sentito dire di essere sbagliato da qualcuno che non fosse suo padre e ciò lo ferì più di quanto volesse accettare, pianse per aver permesso che qualcuno spintonasse a terra Eleonora…

 

La polizia non prese particolari provvedimenti, tranne che parlare con le famiglie dei ragazzi sull’accaduto e affermare che se fosse successo ancora li avrebbero tenuti due giorni dentro per farli calmare. In giro sussurravano tutti ogni volta che Eleonora e Michele passavano, altri cominciarono ad avvicinarglisi ed essere amichevoli con loro come sostegno, come forma di protesta verso coloro che denigravano Michele solo per il suo orientamento sessuale; Giulio rimase solo, i suoi amici più stretti gli si allontanarono, chi per il suo orientamento sessuale, chi per ciò che aveva fatto. Gabriele e Luca cambiarono città, andarono a vivere a Roma, dove i loro genitori avevano una seconda casa per le vacanze.

Eleonora non ebbe molta voglia di festeggiare i suoi diciott’anni, rimase in casa con la sua famiglia, con Michele e Matilde, aprì i loro regali, mangiarono assieme e poi fecero un piccolo viaggio in città.

Era il diciotto di Marzo, erano passati circa due mesi dalla partenza di suo padre.

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Capitolo 35
*** Come un taglio a carne viva ***


Dopo la festa Michele e Matilde si ritirarono, Eleonora sollevò il piumone dal proprio letto e vi si intrufolò, non lasciano uscire dalla coperta neanche un capello e dopo quelli che sembrarono cinque minuti, Alessandra entrò in camera e la scoprì. In realtà erano le cinque del mattino ed era sabato:
“Mamma non c’è scuola il Sabato!”
“Pensi ch’io sia così vecchia da scordarmi quando c’è scuola e quando no?”
“Sì, inizi a perdere colpi oramai”
“Ah sì? Vieni qui!”
Alessandra cominciò a farle il solletico per un po’ sembrò funzionare, quella complicità, sembrò distrarre entrambe dalla realtà: nessuna delle due aveva chiuso occhio, entrambe provavano una strana sensazione, come se da un momento all’altro dovesse arrivare una catastrofe. Rimasero abbracciate nel letto di Eleonora, parlano di tutto quel periodo assurdo che stava scombussolando Eleonora, di Gabriele, di Michele, di Giulio, dei pregiudizi della gente, di Manuel…
“Hai ascoltato, non è vero?” chiese Alessandra
“Sì, ho sentito ciò che il nostro Apollo ti stava dicendo”
“mi ha turbata, ma dovevo prometterglielo, capisci vero?”
“Sì, papà ha ragione a volere che la tua vita vada avanti, ma non pensavo ce la facessi a giurarglielo”
“Ho mentito, per la prima volta nella nostra relazione gli ho detto ciò che voleva sentirsi dire, anziché solo ciò che pensavo. Ma non potevo fare altrimenti, ne aveva bisogno”
“Hai fatto bene mamma, non devi scusarti con me”
“Lo so ma… pensavo mi disprezzassi per aver promesso a tuo padre di innamorarmi di nuovo se lui non dovesse tornare, avevo così aura che tu potessi aver frainteso piccola mia...”
“Mamma non potrei mai…”
Si abbracciarono per un po’ e non appena cominciarono ad addormentarsi, alle sette e trentacinque minuti, qualcuno suonò al campanello di casa. Le due, così come le tre sorelline di Eleonora, andarono in soggiorno, ancora in pigiama.
Alessandra chi fosse e sentì una voce bassa e ferma rispondere:
“Sono il generale dell’esercito, a capo della missione nella quale ha preso parte suo marito”
“Oh, prego entri pure”
“No signora, ci vorrà poco”
“Mi dica allora…”
L’uomo, con atteggiamento stoico, prese una divisa e una medaglia e li porse alla donna dicendo:
“Nel villaggio in cui ci trovavamo ci siamo riparati in una vecchia abitazione. Due dei nostri uomini, tra cui il nuovo arrivato che avevamo affidato a Manuel erano stati feriti ed erano rimasti all’esterno, Suo marito e un altro uomo sono andati a recuperarli, purtroppo però i nemici sono arrivati prima che loro riuscissero a rientrare e hanno aperto il fuoco, i due ragazzi e Manuel hanno perso la vita, l’altro uomo si è salvato per miracolo. Mi dispiace molto signora, non c’è niente che potessimo fare”
Alessandra cadde a terra stringendo la divisa di suo marito tra le braccia, cominciò a piangere disperata, con la testa bassa, accompagnata da tutte le sue figlie.
Le gemelle scapparono in camera; Lucia cadde a terra, svenuta; Eleonora invece rimase immobile, andò verso l’uomo, accarezzando la spalla alla madre:
“Il suo corpo?”
“L’abbiamo portato in obitorio, ci occuperemo personalmente del funerale di tuo padre e degli altri due uomini che hanno perso la vita”
“Lo possiamo vedere?” chiese Alessandra
“Certo signora, sarebbe preferibile in giornata, già domani la bara sarà pronta”
“Bene, grazie”
“Oh ancora una cosa -disse estraendo una foto dalla tasca della giacca-, questa la portava sotto la maglietta della divisa, era di suo marito”
L’uomo lasciò un modulo con tutte le informazioni sulla morte di Manuel, l’ora, Il giorno e il modo, ma anche sul posto in cui si trovava il cadavere del soldato deceduto, poi uscì di casa chiudendosi la porta alle spalle.
Ciò che gli aveva dato era una piccola foto che ritraeva Manuel mentre baciava Alessandra, con Eleonora, Lucia e le gemelle ancora piccole che si rincorrevano intorno ai loro genitori; era una foto vecchia di almeno dieci anni. Alessandra singhiozzò e si mise ad urlare disperata:
“MANUEL! TU LO SAPEVI CHE NON CE L’AVRESTI FATTA! TI AVEVO CHIESTO DI NON FARE L’EROE PER L’AMAOR DEL CIELO!”
Si alzò poco dopo e guardò sua figlia, immobile e col viso ricoperto di lacrime silenziose, non emetteva un singolo, piccolo, suono: il pigiama era zuppo di lacrime, le mani tremavano. Alessandra le si avvicinò e la strinse forte, poi si accorse di Lucia e fu aiutata da Eleonora a farla rinvenire; insieme a lei si diressero in camera delle gemelle, dove le bambine piangevano nascondendo la testa sotto al cuscino. Nessuno riuscì a proferire parola, rimasero vicine, tutte, strette l’una all’altra.
Dopo appena dieci minuti Eleonora si svincolò, un’aria opprimente la stava schiacciando, aveva smesso di piangere quando la madre le era venuta incontro, guardando nei suoi occhi disperati le lacrime le morirono sulle guance.
Si alzò e disse alle altre di aver bisogno di stare da sola, implorando sua madre di non dirle nulla e non seguirla. Si diresse verso la sua camera, passo dopo passo giunse davanti la sua porta, la aprì, entrò nella sua camera e si richiuse la porta alle spalle. Chiamò Michele, dandogli la notizia, il ragazzo si mise a piangere al telefono con lei e le disse che le avrebbero raggiunte immediatamente. Dopo appena quindici minuti furono lì. Matilde andò subito da Alessandra e le bambine, Michele da Eleonora: non appena entrò nella stanza Eleonora gli si gettò contro, si sciolse in un pianto incontrollabile insieme al suo amico, piansero lacrime pesanti, tanto brucianti da lasciare i segni del loro passaggio, tanto copiose da rendere impossibile vedere qualcosa.
Andarono a vedere il corpo, Alessandra, Michele ed Eleonora. Matilde rimase con Lucia, Sara e Maria.
 Quando quel corpo fu scoperto dal telo che lo ricopriva, Alessandra crollò sul pavimento piangendo, Mentre Michele ed Eleonora si immobilizzarono: qualcosa dentro di loro si ruppe irrimediabilmente ed entrambi lo percepirono chiaramente.
Sulla via del ritorno un ricordo invase la mente di Eleonora: MI arrampicavo sull’albero più alto del parco in cui mi avevano portata mamma e papà. Mamma era occupata a badare a Lucia e alle gemelle, papà invece era tutto mio, tutto per me. Mi arrampicai fino alla cima, senza paura, perché sapevo che se fosse caduta lui sarebbe stato lì. Io lo sapevo. Le sue forti braccia mi avrebbero presa al volo, la sua voce calda mi avrebbe confortata dallo spavento, le sue mani gentili mi avrebbero scompigliato i capelli.
Ad un certo punto non trovai più un appiglio per continuare ad arrampicarmi, sentii chiaramente i miei piedi scivolare, la mia mano sinistra scivolare, il mio corpo cadere. Mi sembrò di precipitare per chilometri nonostante fossi a soli tre metri da terra, ma ero piccola e mi sembrarono molti di più. Le braccia che mi presero però non erano quelle grandi e forti di mio padre, io queste braccia non le conoscevo. Un ragazzino aveva provato a prendermi ma l’avevo praticamente schiacciato a terra.
“Stai bene?” mi chiese, io non risposi.
Vidi mia madre correre preoccupata verso di me:
“Eleonora, ti avevo detto di non arrampicarti! Lo sai che se non c’è tuo padre non puoi salire sugli alberi, santo cielo avresti potuto romperti qualcosa!”
Ah già, è vero, non c’era papà. Lui era in trasferta ma io lo credevo lì. Lo desideravo talmente tanto che la mia mente s’ingannava da sola.
“Oh cielo, tu stai bene? Scusami tanto per mia figlia!” disse mia madre al ragazzino, io lo guardai e notai solo i suoi occhi ambrati, non riuscii a concentrarmi su altro, anche lui guardò i miei occhi, lo vedevo, mi vedevo riflessa nei suoi.
Lui rispose molto educatamente a mia madre:
“Non si preoccupi signora, osservavo sua figlia da un po’ perché avevo paura che cadesse, perciò quando ho visto che stava accadendo mi sono precipitato ad aiutarla”
“Grazie mille piccolo, ma tu sei qui da solo?”
“No, mia madre sta danzando nella scuola qui di fronte, insegna danza”
“Oh capisco, vuoi stare con noi?”
Una donna alta e molto magra, dall’aria seria e fredda, con i capelli biondi molto chiari raccolti in uno chignon e gli occhi inespressivi e freddi si avvicinò a noi, non mi piaceva; si avvicinò al bambino e capii che era sua madre, lui aveva gli stessi tratti spigolosi di lei, lo stesso naso all’insù.
“Colin, come ti sei ridotto a questo modo?”
“Oh mi scusi, è colpa di mia figlia, si stava arrampicando su quest’albero ma è caduta, suo figlio l’ha aiutata prendendola al volo”
“Oh bene, allora sono felice che sua figlia stia bene. Andiamo Colin, devi suonare a casa” il bambino annuì, sembrava triste.
“Ciao Colin! Grazie!” gli urlai io, lui si girò e mi guardò mentre veniva portato via. Rimasi a fissargli gli occhi finché mia madre non mi fece andare con le mie sorelle.
Eleonora non capì perché si fosse ricordata una cosa del genere in quel momento, sperò solo di tornare a casa il più presto e rifugiarsi sotto le coperte assieme a Michele.
Qualcosa si era rotto, non solo qualcosa ma tutta sé stessa era stata rotta. Vedere il cadavere di suo padre le fece realizzare troppo in fretta la sua morte, il fatto che non l’avrebbe visto mai più, il fatto che non l’avrebbe mai più sentito pronunciare il suo “Buongiorno piccola ninfa”, non avrebbe mai più ricevuto quella tanto amata carezza sulla testa che le scompigliava tutti i capelli.
Nulla di tutto questo sarebbe mai più accaduto…
 

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Capitolo 36
*** Come giocattoli rotti ***


In casa regnava un silenzio abissale, l’aria stagnante era gremita di malinconia, d’una densa tristezza, di sospiri e singhiozzi strozzati. Eleonora non riusciva ad impegnare il suo tempo se non piangendo e appesantendo la sua mente di ricordi, di momenti, di piccoli gesti rivolti a lei e ad altri che non sarebbero mai tornati indietro, di piccole abitudini che non avrebbe mai potuto rivivere. Ad esempio la dolce cantilena di Manuel mentre cucinava la pasta fresca, sua specialità, il tic alla mano destra che aveva quando non era impegnato a far qualcosa e sentiva di star sprecando tempo, lo sguardo innamorato che rivolgeva a sua madre ogni volta che la rivedeva dopo mesi in trasferta, il gesto di farsi scivolare i morbidi capelli neri di lei tra le dita lasciandole un leggero bacio sulle labbra ogni volta che partiva, le carezze delle sue ruvide ma gentili mani, l’incurvare il lato destro delle labbra se in disaccordo e il lato sinistro se in accordo con qualcosa.
Mai più avrebbe sentito la sua voce salutarla chiamandola ‘piccola ninfa’, mai più gli avrebbe sentito chiamare sua madre ‘afrodite’, mai più avrebbe visto i suoi occhi compassionevoli, dolci, benevoli e caldi accoglierla con un sorriso quando tornava da scuola; mai più avrebbe potuto stringersi a lui se spaventata, mai più avrebbe potuto gettarsi tra le sue braccia per essere consolata dalle sue carezze; mai più…
“Somigli così tanto a tua madre Eleonora” mi disse mentre mi pettinavo i capelli in camera mia.
“Spero sia così, mamma è bellissima, gentile, forte, sempre premurosa”
“La mia afrodite è stupenda ma a volte si trasforma in medusa, purtroppo hai preso anche questo lato del suo carattere. Troverai qualcuno che farà di te la sua dea, come io ho fatto con tua madre”
“E come lei ha fatto con te, sai di essere il suo dio”
“Sì, l’amore più bello è quello di cui non ti rendi conto. Non nasce né all’improvviso, né piano piano. Non capisci quando nasce ma è lì e te ne rendi conto in un momento, ti sembrerà stupido ma non sottovalutarlo, l’amore può farti impazzire, è stupendo ma terribile, il miglior scudo ma anche una spada pronta a trafiggerti. Non dimenticarti della testa, quando uno si innamora si tende a zittire la piccola vocina razionale che dice al cuore di controllarsi: ascoltala, non fare come me. Per zittirla ho quasi perso tua madre una volta”
“Perché?”
“Il cuore ci rende impulsivi, eravamo ai primi anni della nostra relazione e la mia irrazionalità mi spingeva ad essere troppo impulsivo, ero folle di gelosia e zittivo la vocina che mi diceva di pensarci bene a ciò che mi stava infastidendo. Tua madre non ne poteva più delle mie scenate e se n’è andata di casa, abitavamo già insieme”
“Cos’hai fatto per farla tornare?”
“Mi sono scusato, le ho promesso che sarei cambiato e le ho chiesto una seconda possibilità, nulla di speciale, ma l’ho fatto mettendo la giusta dose di ragione e ammettendo le mie colpe, quindi mi raccomando piccola ninfa, quando troverai il tuo lui ascolta sia il cuore che la testa, cerca di trovare il giusto equilibrio tra i due”
Il viso di Eleonora fu attraversato da una sola lacrima: capitolò giù e percorse la guancia, rallentò sulle labbra e vi morì.
Eleonora sollevò lentamente il piumone da sé, poggiò i piedi sul pavimento e si vestì subendo il doppio della normale gravità. Il suo corpo era pesante come il piombo, il suo cuore anche di più, la sua mente invece era priva di pensieri e colma di ricordi. Osservò il soggiorno dalla sua camera: sua madre era seduta sul divano con le sue sorelle vicino, le stringeva e le consolava, gli accarezzava i capelli e canticchiava la canzone preferita di Manuel “La vie en rose”. La guardò e la pregò con gli occhi di unirsi nel loro abbraccio, voleva aiutarla, sapeva quanto la figlia fosse stata distrutta dalla morte di suo padre e sapeva anche che stava costruendo un muro introno a sé. Nessuno doveva vederlo, nessuno doveva toccarlo, nessuno doveva avere a che fare con il suo dolore, solo lei e un’unica altra persona: Michele.
 
Le giornate si ripetevano, l’una uguale all’altra, susseguendosi senza uno scopo. Con la consapevolezza che Manuel fosse morto, tutto l’odio, l’astio, gli insulti e le cattiverie gli scivolavano addosso. D’improvviso tutto ciò che l’avrebbe turbato, rattristito e ferito, sembrava stupido e gli scivolava semplicemente addosso. Michele si alzò pesantemente dal letto costringendosi a vestirsi e mangiare qualcosa per colazione. Uscito di casa incontrò Eleonora e insieme si avviarono verso la scuola: le classi erano formate da un massimo di otto persone, nella scuola tutti conoscevano tutti poiché in totale erano circa trecento; Eleonora era iscritta al classico e desiderava studiare giurisprudenza, Michele invece allo scientifico poiché interessato alla ingegneria biomedica.
Le giornate si suddividevano in diverse fasi: denigrazioni rivolte a Michele per il suo orientamento sessuale, difesa del suddetto da parte di pochi, seguiva una rissa e un richiamo diretto della preside, dopodiché durante le lezioni arrivavano bigliettini e palline di carta fra i capelli dei due e durante l’intervallo si ripeteva la prassi della prima ora, poi altre tre ore di lezione e alle due uscivano da scuola non facendosi notare.
Pranzavano al fiume e sfogavano la propria rabbia tirandovi sassi e parlando di quanto fosse difficile per loro quel periodo, uno dei due poi crollava in un pianto isterico e l’altro lo consolava, alternandosi nelle proprie crisi di pianto.
“La mia casa, che da sempre è stata il mio rifugio, adesso sembra la peggior prigione che ci possa essere. Io non voglio piangere di fronte a mia madre, lei già deve pensare a calmare Lucia, Maria e Sara e non è facile. Sono inconsolabili, come tutti noi d’altronde. Io non sono mai stata brava a parlare con lei, non so quale sia la ragione ma non mi viene naturale, la sento vicina ma lontana allo stesso tempo” disse piangendo Eleonora.
“Io credo che in fondo tu sappia di essere la sua copia anche nel carattere, quindi il fatto che saprebbe tutto ciò che ti passa per la mente e come stai reagendo al lutto ti spaventa, non vuoi essere capita da lei”
“Michele no, io so che siamo uguali ma non è questo a spaventarmi”
“Allora cosa?”
“Io credo che metabolizzare il lutto, essere conscia del fatto che non lo rivedrò mai più se non nei miei ricordi e che non rivivrò mai più determinate cose con lui, mi abbiano rotta quasi, capisci?”
“Ho sentito lo stesso, come se dentro di me fosse cambiato qualcosa”
“La mia mente è un inferno, anzi lo sono entrambe, sia la mia che la tua. Lo so che anche tu fai incubi tutte le notti. Sogni Paolo?”
“Non solo, la mia mente sogna di tuo padre che viene ucciso, di mio padre che uccide mia madre, di Giulio che si ammazza”
“Cosa?”
“I suoi genitori possono non smembrarlo ma sono dei bigotti ignoranti, lui soffre di attacchi di panico e ho paura che potrebbe fare qualche cavolata ora che si sa che lui è gay come me”
“Non credo, si stanno tutti concentrando su di te. Comunque smetti di pensare a lui”
“Non riesco Ele, lo sai che sono fatto così”
“Sei stupido! Ha accettato di tenerti fermo mentre ti pestavano a sangue. L’ho visto il sangue che avevi tra i capelli, mica sono cieca, io non l’avrei mai fatto se avessi tenuto ad una persona, mi sarei fatto pestare io al posto suo”
“So che hai ragione ma non posso farci nulla”
“Mi sento male”
“Anch’io”
Piansero abbracciandosi per un tempo indeterminato, finché non calò la sera e decisero di dover tornare a casa. Eleonora disse a sua madre che sarebbe rimasta a dormire da Michele quella sera, ormai succedeva spesso, nelle tre settimane dalla morte di suo padre aveva dormito a casa solamente tre volte. 
Michele vide il furgone di suo padre nel vialetto di casa, il garage aperto, la porta di casa chiusa, chiese ad Eleonora di tornare a casa sua.
“Non posso lasciarti solo con lui!”
“Eleonora ti prego, sai che se rimanessi qui io sarei troppo preoccupato per voi due per difendermi, non so nemmeno perché sia qui, ti prego vai a casa”
“Va bene ma voglio che mi chiami non appena se ne va”
“Certo”
Non appena lei superò la casa dopo la sua, Michele si diresse a passo svelto dentro casa dalla porta del garage, entrò nel salotto e trovò i cuscini del divano sul pavimento e il tavolo sottosopra, il vaso con i fiori rotto; sentì la voce di sua madre provenire dalla camera da letto e mentre vi si avviava a passo svelto gettò un’occhiata alla cucina: sua madre doveva star lavando i piatti, l’acqua del rubinetto ancora sgorgava e il sapone era arrivato fino al pavimento, ricoperto di piatti e bicchieri rotti; la sua ansia continuò a salire fin quando arrivò in camera da letto, in cui vide suo padre che strappava la gonna a sua madre e le stringeva la gola con la mano sinistra, soffocandola. Come una furia si gettò contro di lui e lo strappò via da sua madre, lo vide afferrare un grosso coltello arrugginito e andargli contro, spintonò sua madre sul letto ed evito d’essere accoltellato, lo prese per il braccio e glielo torse dietro la schiena, come gli aveva insegnato Manuel, quindi lo portò via dalla camera da letto.
“Cosa cazzo sei tornato a fare?”
“Brutto frocio! Lo sapevo che non eri mio figlio, il sangue del mio sangue non avrebbe mai potuto essere un omosessuale del cazzo”
“Finiscila adesso! Neanche a me fa piacere essere tuo figlio ma è così! Meglio Omosessuale che ubriacone e fannullone, violento e fallito”
“Ora basta!” si gettò all’indietro atterrando il figlio e usci una pistola dalla giacca puntandogliela contro. Michele divenne pallido, non l’avrebbe davvero ucciso giusto? In fono era suo padre…
Paolo lo prese a calci per una ventina di volte, lui non riusciva a reagire, poi gli mise il piede sul braccio, facendo troppa pressione e un dolore lancinante invase il corpo del ragazzo. Ciò che gli fece più male, più della pistola puntata contro e del braccio calpestato da suo padre, che probabilmente gliel’aveva rotto, fu la consapevolezza che nel profondo del suo cuore sperava che non gli avrebbe fatto ulteriormente del male, sperava che fosse ubriaco ma non lo era, non puzzava d’alcol. Le lacrime bagnarono il suo viso e non riuscì più a trattenersi:
“Coraggio sparami, dai! Levami da questo mondo! Tanto mi fai solo un favore!”
Vide il dito di suo padre mentre abbassava leggermente il grilletto, ma prima che potesse sparare lo vide atterrato: sua madre l’aveva colpito con una padella da cucina, talmente forte da averlo fatto svenire.
“Non dire mai più una cosa del genere” gli disse piangendo, nervosa e spaventata, con la camicetta strappata e la gonna sgualcita e il telefono nella mano sinistra.
“Hai chiamato la polizia?”
“Sì” si sentì un rumore, entrarono dei poliziotti in casa, videro le condizioni di Matilde e la coprirono con una coperta, videro com’era ridotto Michele, in che condizioni fosse il suo braccio e la pistola sul pavimento, misero delle manette a Paolo, Michele svenne e fu portato all’ospedale, dove gli ingessarono il braccio e poi la polizia gli fece alcune domande sull’accaduto, così come a sua madre.
 
Tornati a casa sistemarono tutto, Matilde si addormentò per la stanchezza e la paura, Michele andò in camera sua e non ne uscì per quattro giorni, non mangiò nulla se non dei grissini ogni tanto. In tutto il paese si sapeva dell’accaduto. Rimase rannicchiato in un angolo, ad ascoltare musica e pensare.
Non aveva raccontato nulla ad Eleonora e sapeva che lei non si sarebbe accontentata di venirne a conoscenza per sentito dire, presto o tardi avrebbe dovuto parlargliene. Ciò che lo preoccupava era lo stato d’animo di entrambi: nessuno di loro si era ancora ripreso dalla morte di Manuel, era una parte fondamentale della loro esistenza: una delle poche certezze della loro vita era crollata, si era sgretolata all’improvviso e senza preavviso e questo aveva lasciato un segno profondo nel loro cuore.

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Capitolo 37
*** Via d'uscita dal dolore? ***


Il tempo passò lentamente ed ormai i due ragazzi quasi non parlavano più se non l’uno con l’altro. Ogni mattina la depressione e l’ansia, l’una vestita di nero e l’altra di blu, prendevano per mano Michele ed Eleonora, li costringevano ad alzarsi e ad uscire dal letto, mentre rabbia e rancore si aggrappavano a loro, pesandogli sulla schiena. Avevano dormito da Michele, dopo aver fatto colazione ascoltarono passivamente le lezioni, subirono disinteressati gli eventi intorno a loro, pranzarono, non studiarono ed ascoltarono musica in riva al fiume, congelando nelle loro felpe.

Verso le sette il suono dell’arrivo di un messaggio risvegliò i due dalla tiepida apatia che li cullava, lo ignorarono ma poco dopo il telefono di Michele prese a suonare, Martino lo stava chiamando:

“Devi rispondere immediatamente quando ti chiamo, capito?”

“Non sapevo il messaggio fosse il tuo” disse Michele spaventato.

“La prossima volta stai attento. Questa notte alle due e mezza ci vediamo all’uscita del paese, poco dopo il filo spinato rosso, porta l’amichetta con cui passi tutte le giornate”

“Cosa?”

“Ti ho controllato, so che lei sa tutto, voglio parlarle”

“Ti prego lasciala stare…”

“Non fare quella voce disperata, non le faremo male, tu portala, Vincenzo non aspetterà voi due, siate puntuali”

“Va bene”

“Che ti ha detto?” chiese Eleonora in ansia.

“Ci tengono d’occhio, sanno che sai, devo portare anche te”

“A che ora?”

“Le due e mezza”

“Va bene, stasera però sono costretta a dormire a casa, questo mese non ci sono andata neanche una volta. Mi inventerò qualcosa”

 

Tornando a casa presero una stradina secondaria per assicurarsi di essere soli. Parlarono di cosa avrebbero fatto se quello avesse voluto fare del male ad uno dei due, parlarono di come sfuggirgli e come comportarsi se ne avesse preso solo uno dei due. Immaginarono gli scenari più spietati ed assurdi: Vincenzo che prendeva la borsa e Martino che afferrava Eleonora, portandola da qualche parte per violentarla e ucciderla. Michele ucciso con un colpo di pistola e i loro corpi bruciati o seppelliti in pezzi. Le loro famiglie che non li vedevano più tornare. Alessandra e Matilde che nella disperazione si sarebbero tolte la vita. Le piccole rimaste sole affidate ognuna a famiglie diverse, oppure rimaste sole a dover badare a sé stesse, morendo di fame e senza soldi.

“Okay basta stiamo esagerando. Gli diamo la borsa e ne usciamo”

“Hai ragione Eleonora, ma non so se sarà così facile”

Mentre camminavano dei ragazzi li assalirono, erano amici di Giacomo e Luca. Picchiarono Michele e uno fece l’errore di tirare uno schiaffo ad Eleonora tenendola ferma, lei non ebbe il tempo di reagire che Michele si alzò da terra superando i due che lo pestavano per tirargli un pugno, Eleonora si scagliò su un altro dei ragazzi e Michele mise a terra gli altri due, poi liberò l’amica e i tre si ritirarono.

“Non ne posso più! È tutto così snervante! Ti sei fatta male?” dissero Michele

“No, tu sei ridotto male, vieni da me, se tua madre ti vede così le viene un infarto”

“E tua madre?”

“Starà distraendo le mie sorelle, se facciamo piano non ci nota”

“Bene”

 

La casa era immersa in un dolce tepore, sua madre era in cucina, girata di spalle, stava impastando la pastafrolla, i capelli le cingevano le spalle arrivandole fino ai fianchi, la pelle era bianca, talmente tanto da confondersi con le mattonelle bianche del para schizzi dietro ai fornelli, le vene si vedevano abbastanza chiaramente, canticchiava muovendo a ritmo i fianchi, seguendo movimenti nei quali solitamente la guidava Manuel, era come se lui fosse lì, come se la sua mano fosse poggiata sul fianco di lei, come se stesse canticchiando assieme a lei, però non le tolse il matterello di mano per tirare la pasta dato che amava farlo, la stese lei, la mise lei al posto suo nella teglia, infatti i bordi non furono tagliati a 4 centimetri dal fondo, erano storti e ad altezze diverse, cosa che lui non sopportava, una lacrima scese sul viso di Alessandra e su quello della figlia, che notò la voce della madre incrinarsi nel canticchiare “La vie en rose”, non cantava altro; Sara sbucciava le mele e Maria le tagliava in cubetti, mentre Lucia le cuoceva sul fuoco col burro e lo zucchero.

“Sei tornata piccola mia, vieni a cucinare con noi? Magari sistemi i bordi della torta, io non riesco ad essere precisa, lo sai”

“No mamma non mi va, vado in camera con Michele”

Lo sguardo speranzoso della madre si spense, tornò a canticchiare, ma senza energie, lo fece per le sue altre tre figlie, che guardarono la sorella scontente; Lucia la guardò rancorosa, col suo sguardo tagliente, con gli occhi scuri del padre la scrutò a fondo come faceva lui, interruppe il movimento ritmico che stava facendo eseguire al mestolo e parlò senza parlare, mimò le parole con le labbra ed Eleonora le capì una ad una, lettera per lettera; le trafissero il cuore come taglienti coltelli: sforzati anche tu di stare bene, stai uccidendo mamma, non ti perdono.

Portò Michele in bagno e lo aiutò a sistemarsi, poi controvoglia andò in cucina, prese senza parlare la teglia dalle mani della madre e si mise a sistemare i bordi, Michele aiutò Lucia.

Alessandra guardò Eleonora e Michele e le caddero delle lacrime sulle guance, contenta tornò a canticchiare e poco dopo chiamò Matilde, chiedendole di raggiungerli e dormire lì con loro. Quando Matilde arrivò aiutò Alessandra a preparare la crema, poi tirarono fuori la base dal forno e assemblarono il tutto. Riposero la torta nel frigo e guardarono un film mangiando pizza, Alessandra e Matilde stringevano tutti nelle loro braccia, erano felici. Tra quelle braccia, con quell’amore, Eleonora si sentì soffocare, Michele come schiacciato; non erano ancora pronti a cercare di stare meglio, non potevano, era troppo presto, loro erano rotti, erano come un vaso rotto, non ancora pronto per essere incollato, ancora lasciato sul pavimento.

Alle due e dieci ormai dormivano, il secondo film che avevano cominciato non era ancora terminato. Michele ed Eleonora coprirono tutti con varie coperte calde, uscirono dal nido sicuro e si misero in strada, arrivarono con tre minuti d’anticipo al punto d’incontro con le bici, Martino era già lì.

I due ragazzi si avvicinarono con la borsa, Michele gliela porse e lui controllò che ci fosse tutto:

“Bene, sei affidabile, è la prima volta che c’è tutta la roba che lascio da quando ho iniziato. Tu, Eleonora, vieni avanti”

Eleonora fece come gli era stato detto.

“Sei carina, ma copri gli occhi, sono particolari e qualcuno degli uomini di Vincenzo potrebbe ricordarseli” ancora una volta obbedì senza dire una parola, come Michele le aveva chiesto, si erano posti due regole: Non disobbedire e parlare il meno possibile.

Vincenzo fu puntuale come un orologio, controllò il suo borsone, lo diede ad uno dei suoi uomini, poi li osservò entrambi e si soffermò su Eleonora:

“Alza la testa e scopriti il viso” aveva cacciato i suoi compagni, erano solo loro quattro. Michele guardò in ansia il volto inquietante e gli occhi neri di quell’uomo, non vi vide nulla mentre la sua amica si scopriva il volto, la vide riflessa negli occhi di lui, ma non vide desiderio o malizia, anzi, stupendo i due ragazzi, Vincenzo li guardò benevolo:

“State passando proprio un brutto periodo voi due, eh? Vi si legge negli occhi, sembrate disperati e pronti al suicidio”

Eleonora sentì qualcosa dentro, non seppe come spiegarlo, come un ‘click’ di serratura che si apre, un macigno sul muro che aveva costruito: il suo dolore era visibile e questo la sconvolse.

Pensava che lei e il suo migliore amico stessero fingendo bene, ma non era così.

“Sembra che urlino aiuto” Martino finì di ucciderli entrambi, diede loro il colpo di grazia.

Eleonora scoppiò in lacrime, seguita da Michele, Vincenzo abbracciò i due ragazzi, Martino strofinò loro le spalle:

“Aiutateci e vi faremo stare meglio, ve lo promettiamo”

“Non è possibile…” rispose Michele.

“Come?” chiese Eleonora.

“Vi daremo qualcosa per stare meglio, ma prima devo controllare una cosa -Vincenzo afferrò il viso di Michele, lo girò a destra e sinistra, si allontanò e squadrò il suo corpo dall’alto in basso, poi continuò a parlare- va bene, sei pulito, puoi aiutarci”

“Per cosa?” non ottenne risposta.

“Te lo avevo detto che sarebbe stato perfetto” disse Martino.

“Inventate qualcosa ai vostri genitori, venire tre giorni con noi tra quattro mesi e ci tornerete il favore” disse Vincenzo, per poi andare via.

“Che favore?” Chiese Eleonora.

Martino prese delle bustine con delle pillole dentro, disse ai due ragazzi di iniziare col prenderne una al giorno promettendogli che poi sarebbero stati meglio.

“Non ne abbiamo bisogno, sul serio noi…” Michele lasciò che la sua voce si affievolisse e che le sue parole bruciassero in gola.

“Non dovete accettarle per forza, ma questo sì” disse Martino porgendo al ragazzo un borsone.

“Ci vediamo tra un mese, per un altro cliente, non dovete neanche alzare lo sguardo quando c’è lui, guardategli le scarpe, non è Vincenzo”

“Va bene, ma per cosa sono adatto?” rispose Michele.

“Per il favore che ci farete fra quattro mesi, non fate domande, tanto non vi risponderei” Volle anche il numero di Eleonora, poi i due ragazzi se ne andarono e arrivati a casa Michele si rimise tra le braccia di sua madre controvoglia, ma dovevano far credere di non essersi mai sposteti. Eleonora mandò un messaggio a Martino:

-Se non te ne sei andato, tra un’ora posso venire a prendere quello che volevi darci?

-il tuo amico non lo sa, non è vero?

-ha paura, ma io voglio stare meglio

-starai meglio piccola, fidati di me, ci vediamo fra un’ora ;)

Eleonora aspettò che Michele si fosse addormentato, poi sgattaiolò via per la seconda volta quella sera, uscì di casa dalla finestra e prese la bici. Prima non avrebbe mai fatto qualcosa senza dirlo a Michele ma nulla adesso aveva più senso e lei aveva bisogno di stare bene.

Quando arrivò a destinazione vide Martino lì ad aspettarla, fumava poggiato alla sua macchina, poi la notò e le fece cenno di avvicinarsi con la testa. D’improvviso sentì freddo, era anche spaventata.

“Sembri congelare” Martino entrò nella macchina e le diede il proprio giaccone verde:

“Nella tasca destra ci sono le pillole, una al giorno; ma cosa vi è successo?” senza sapere perché parlò, per la prima volta con qualcuno che non fosse Mike.

“è morto mio padre, era la nostra ancora. Il padre di Michele l’ha quasi ucciso, lo ha sempre odiato. Adesso tutti… cioè, non abbiamo amici”

“Perché il tuo amico è gay? Non fare quella faccia stupita, l’ho saputo da Gabriele e Luca”

“Si”

“Deve essere terribile per voi, ma vedrai che starete meglio con queste”

“Perché lo fai?”

“A me e Vincenzo servono persone fidate e vi abbiamo coinvolti senza che lo voleste, ci stiamo scusando, ma ovviamente se poi volete altro dovete pagare, vi faccio lo sconto”

“Va bene” Eleonora si strinse infreddolita nel giaccone verde di lui, Martino le accarezzò i capelli e le sollevò il viso, le diede un bacio e l’abbracciò:

“Passano questi periodi, non preoccupatevi”

Eleonora pianse su quello sconosciuto, non si seppe trattenere, lasciò che la stringesse e lasciò che le poggiasse le mani sui fianchi in modo lascivo, che la baciasse, che la invitasse a seguirlo nell’auto, ma lì si bloccò, si irrigidì:

“Ehi, non faccio nulla contro la tua volontà, ci vediamo tra un mese allora, state attenti alla borsa e non fumatevi nulla”

“Grazie per non avermi costretta, avresti potuto”

“Non mi servi se mi detesti o che hai paura di me”

Eleonora tornò indietro con un peso nel petto, sentì freddo senza il giaccone, le pillole sembravano pesare tonnellate. Tornata in casa le nascose nella sua stanza, si infilò sotto la coperta sul divano, nella posizione iniziale vicino a Sara, tra le braccia di Alessandra, dormì.

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Capitolo 38
*** Dipendenza ***


Ogni notte Eleonora compiva lo stesso incubo: suo padre tornava a casa e le abbracciava come di rito, tuttavia d’improvviso un uomo gli sparava e il sangue cominciava a sgorgare; le sue mani si riempivano di sangue e il suo cuore si stringeva sempre più, si osservava allo specchio e vedeva il suo viso sporgo del sangue del padre, tremava e prendeva un coltello, la madre le correva contro e lei si tagliava la gola.
Quel giorno dopo non aver pronunciato neanche una sola sillaba con la madre o le sorelle cercò Michele, tuttavia in camera dell’amico altro non trovò che una lettera.
“Voglio andare via per un po’, non reggo più niente e nessuno, tutto quello che stiamo facendo mi sembra un’assurdità ma non riesco a trovare alternative, ho bisogno di lasciare questo posto per poco e schiarirmi le idee, torno te lo giuro, so quanto abbiamo bisogno l’uno dell’altra e sai che non ti lascerei mai, ma ho bisogno di stare solo” lesse quelle parole con amarezza crescente, un brivido le percorse la schiena e si diresse in bagno per sciacquarsi il viso. Vide una lametta da barba di Mike e un’idea sbagliata e malsana prese il sopravvento.
E se questa fosse la soluzione ai miei problemi? Un taglio in verticale lungo la vena e tutto finirà.
Estrasse la lama e con mano tremante l’avvicinò al polso, ve l’appoggiò piano e sentì lo stomaco contorcersi e la mente farsi pesante per l’angoscia e l’adrenalina. Una scarica elettrica la spinse a premere di poco sul polso: la sua pelle bianca di pallore lunare fu macchiata d’una linea rossa; la ferita bruciò ed Eleonora strizzò gli occhi per qualche secondo, poi girò tremante la lametta per tagliare in verticale, la pose nel punto in cui vedeva la vena e chiuse gli occhi incerta e disperata… D’improvviso si sentì strattonata, aprì gli occhi e vide il suo migliore amico terrorizzato di fronte a lei, con i capelli appiccicati sulla fronte; le fece cadere la lametta di mano ed i suoi occhi divennero furenti di rabbia.
“Che cazzo ti stava passando per la testa?”
“Che cazzo vuoi? Mi stavi abbandonando!”
“Quella lettera del cazzo l’ho scritta ieri sera, ho avuto un attimo di smarrimento. Ma avevo già cambiato idea stamattina quando mi sono messo in auto col borsone con le pillole e qualche cambio”
“Che diavolo volevi fare?”
“Portarlo a Roma a Martino e poi non so, speravo la smettesse di usarci, magari parlandogli della situazione”
“Non sarebbe servito” mostrò a Mike la bustina con le pillole che Martino aveva offerto loro.
“Scappa con me, da sola non riesco a farlo”
Michele era troppo stanco e ‘rotto’ per usare la ragione, perciò ingoiarono una pillola e una calma improvvisa s’impossessò di loro dopo poco, una tranquillità fittizia li portò a sproloquiare:
Si distesero a terra e rimasero fermi a fissare il soffitto per un po’, finché Michele non voltò il viso verso l’amica per chiederle quando avesse contattato Martino.
“Gli ho mandato un messaggio nel cuore della notte, gli ho detto che volevo le pillole e gli ho chiesto di darmene altre spiegandogli come stiamo e perché. Non so per quale motivo ma con lui ho parlato, ci siamo anche baciati e mi aveva chiesto di salire nella sua macchina ma non me la sono sentita e non mi ha costretta a far nulla”
“Hai corso un rischio enorme, ora non riesco ad arrabbiarmi ma hai corso davvero un grosso pericolo scema di una Ele! Sei un’incosciente che segue sempre e solo l’istinto, maledetta tu mi farai venire un infarto prima o poi”
“Lo so perdonami, ma avevo bisogno di un modo per evadere, ora non ti senti meglio? Come se potessi provare a fingere di star bene?”
“Avevo perso la forza e la voglia di respirare, l’unica cosa che riuscivo a fare era stare male ma ora sono rilassato, hai ragione”
 
Ogni giorno presero una pillola, quantomeno all’inizio si limitarono a quell’unica piccola pillola che gli permetteva d’avere la forza di andare in casa e fingere di sorridere, interagire con le loro madri e ad Eleonora persino di giocare con le sue sorelle, facendo pensare a Matilde ed Alessandra d’essere riuscite a scalfire un minimo la corazza di dolore all’interno della quale entrambi si erano rannicchiati a piangere.
Il giorno dopo, quello dopo ancora, poi un altro e quello dopo, ancora uno, due, otto, ventotto giorni: finirono le pillole e avrebbero incontrato Martino a due giorni da quel momento. La prima mezza giornata si svolse tranquillamente, ma arrivata la sera non riuscirono a fingere come al solito, passarono il giorno dopo assieme, in preda ad un’apatia grigia, imprigionati nel silenzio e nel bisogno d’una via d’uscita. Sentirono i morsi della fame perseguitarli per tutto il giorno, una difficoltà nel parlare, nel comunicare, nel guardare negli occhi le persone volendo solo gridare e scappare via. Dovevano avere altre pillole, sentivano la necessita impellente di calmare tutto il cumulo d’ansie, paure, timori, rabbia, rancori e negatività che li schiacciava.
 La sera incontrarono Martino, gli portarono la borsa e senza fiatare aspettarono che il cliente l’esaminasse e se ne andasse. Poi presero centocinquanta euro dai risparmi per il viaggio che avrebbero voluto fare dopo la maturità e li diedero a Martino:
“Bastano per le pillole?” chiesero.
“Sì, ne basta la metà, ma facciamo che vi do qualcosa di migliore, vi sentirete ancora meglio” diede ai ragazzi delle pillole diverse, dell’erba e due siringhe:
“Queste due provatele quando vi sembra di star per morire, starete molto meglio, ci vediamo tra un mese, ecco la borsa”
 
Dopo appena una settimana una sola pillola presa durante la mattinata non bastò per placare il loro groviglio interno, così fumarono un po’ d’erba. Anche in quel caso però sembrava poco, così ne fumarono altra, presero più pillole al giorno e da lì fu una discesa verso il tetro antro della dipendenza.
Mai osarono toccare la merce contenuta nella borsa, nessuno dei due era così stolto da rischiare la pelle, perciò quando videro che le loro scorte personali cominciavano a ridursi cercarono distrazioni. Nuoto, corsa, gare in bici, giri in macchina, tutto a patto di distrarsi.
Tuttavia nulla sembrava togliergli dalla testa le sensazioni provate durante l’assunzione di quelle maledette pillole, così si ritrovarono nell’arco di due settimane a non poter più cominciare la giornata senza assumerne una, a non poter affrontare il pomeriggio senza fumare dell’erba, a non potersi addormentare senza una pillola, a non poter sostenere un’interrogazione o un compito in classe.
 
Un giorno Alessandra chiese alle figlie di visitare la tomba del padre.
Andarono con Matilde e Michele lungo una strada lunga e tortuosa che li portò a destinazione. Eleonora scese dalla macchina lasciando impronte sul terreno, era primavera e l’erba era già verde. Michele aveva compiuto diciott’anni ad aprile e aveva festeggiato con tutti loro, ma in realtà non aveva parlato tutta la sera e di notte aveva fumato con Eleonora vicino al fiume. Il senso d’amarezza era tale che Michele aveva accettato di vedere un uomo di trentacinque anni fuori città e andarci a letto per un paio di volte; quel circolo di sbagli continuava a ripetersi.
Guardò la foto del padre nella tomba, sorridente, con la divisa, i suoi occhi caldi e profondi incurvati come se stessero sorridendo a loro volta:
“Sai piccola mia, la più grande gioia del papà arriva quando vi avvicinate a lui perché siete spaventate, ha sempre amato proteggere, per questo ha scelto di farne un mestiere, ma sa che mi fa soffrire non sapere se tornerà sano e salvo”
“E perché non lascia il militare? Odio averlo lontano, le altre non capiscono quanto sia spaventoso vederlo ritardare anche solo di un’ora” risposi nervosa; questa conversazione risaliva a un paio d’anni fa, io e mia madre eravamo sedute sul mio letto e prendevamo un tè.
“Sono piccole, è normale che non capiscano bene, ma papà mi ha detto che si impegnerà per altri due anni, poi mi ha promesso che farà di tutto per non andare più in missione, allenerà i soldati alla base, ma deve ancora garantire due anni di servizio”
“Va bene, non vedo l’ora, poi potremo essere una famiglia intera sempre”
“Sì, dobbiamo solo tenere duro”
Le si lacerò il cuore nel petto, sentì di starsi per spezzare, ma fu sorretta da Michele, che riuscì a non far notare a nessuno lo stato di Eleonora, poi lei alzò lo sguardo, Mike guardava perso nei suoi ricordi la foto di Manuel, Eleonora osservò gli occhi di lui e vide delle lacrime formarsi e litigare per chi dovesse scendere per prima, ma soprattutto vide a cosa Michele stava pensando, immaginò ed ebbe poi conferma di quale ricordo il ragazzo stesse artigliando guardando quella foto.
“Dai lanciati, ci sono io tranquillo!” Mi urlava Manuel. Ero spaventato ma lo feci: avevo nove anni ed amavo l’altalena, quella altissima che c’era nel parco in cui ogni tanto andavo con Eleonora e la sua famiglia, mentre mia madre lavorava e mio padre beveva. Quel giorno ero arrivato molto in alto e volevo buttarmi dall’alto per volare, avevo paura ma Manuel era lì, quindi mi lanciai, mi sembrò di poter davvero volare, ma quando la gravità mi trascinò verso terra Manuel era lì, pronto a soccorrermi, mi prese tra le braccia e risi, rise anche lui, sentii il calore d’un padre, Alessandra venne con Eleonora e si strinse a noi, mio sentii al sicuro, mi sentii bene, mi sentii a casa.
Piansero in silenzio per tutto il silenzioso viaggio di ritorno. Tutti avevano gli occhi lucidi, i cuori pesanti, la mente persa nei ricordi. Ognuno di loro era legato a Manuel, ognuno di loro aveva perso una parte importante e salda della propria vita con lui, ognuno di loro reagì a modo suo: Sara e Maria misero gli auricolari nelle orecchie e osservarono il paesaggio correre e cambiare velocemente; Lucia canticchiò “la vie en rose” con Alessandra e Matilde, contando ogni albero che vedeva; Alessandra canticchiava e si concentrava sulla strada; Matilde canticchiava mettendo in ordine le carte sotto al sedile; Michele ed Eleonora ancora più rotti di prima non pensavano, non ricordavano, non piangevano, non parlavano. Non esistevano.
Tornati a casa avrebbero dormito tutti assieme da Alessandra; Michele ed Eleonora dissero di voler andare un attimo a casa di Michele per prendere i vestiti: Matilde e lui si sarebbero fermati una settimana lì, lo avevano deciso ritornando a casa.
In camera di Mike tirarono fuori dallo zaino le siringhe, con mani tremanti tolsero il cappuccio dell’ago, l’infilarono sottopelle e svuotarono la siringa.
Sentirono una strana sensazione pervaderli, una sorda calma, la camera però cominciò a vorticare sopra i loro occhi, caddero sul pavimento e svennero.
Con la bocca secca e la gola completamente chiusa per lo stesso motivo Eleonora aprì poi gli occhi, dopo un’oretta. Tuttavia si rese conto che quella volta le cose non sarebbero andate bene, lei cominciò a tremare, vide il proprio migliore amico avere spasmi e tremare a sua volta, senza< però essere cosciente. Cercò di calmarsi e piano piano riprese il controllo di sé, dopo un po’ Michele rivenne a sua volta e riuscirono entrambi a mettersi in piedi.
“Stai meglio?”
“Ora sì” rispose debolmente.
Inizialmente non capirono a cosa quella siringa fosse servita, ma dopo poco più di un’ora si sentirono sollevati, quasi allegri, il cuore sembrò ricucirglisi nel petto e la casa sembrava avere colori più accesi. Sorrisero per la prima volta dopo mesi.

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Capitolo 39
*** Non è mai facile chiudere un capitolo ***


Martino portò un nuovo cliente, poi un altro ancora, passarono due mesi e i ragazzi gli portavano sempre più soldi per avere sempre più pillole, siringhe, erba. Erano stati portati, una notte, direttamente da Vincenzo, che gli aveva personalmente dato delle pillole ancora diverse. Un giorno gli diede una bustina con una polvere bianca dentro: “La prima dose di una nuova cosa ve la offro, impazzirete per questa, mi tornerete il favore”
“Va bene” rispose Michele.
“Niente borsa da tenervi?” Chiese Eleonora.
“No, abbiamo spostato il giorno in cui ci tornerete il favore, tra tre mesi verrete due giorni con me e Vincenzo”
“D’accordo, inventeremo qualcosa”
Tornata a casa Eleonora pensava che tutti stessero dormendo, entrò in camera sua dalla propria finestra, ma appena si girò vide gli occhi affilati come lame di Lucia osservarla, spaventata fece un balzo sul posto:
“Dove sei stata? Dove vai una volta al mese? Mi sono accorta che esci periodicamente, dove vai e cosa fai? Lo voglio sapere o faccio notare questa cosa a mamma”
“Vedo un ragazzo di un’altra città per distrarmi, può venire solo una volta al mese, non voglio che lo sappia mamma, Michele mi copre” disse la prima cosa che le venne in mente, sperando che Lucia le credesse.
“Sei dimagrita, pensavo stessi facendo qualcosa di male… era per lui?”
“Sì, mi vedevo grassa”
“Non lo eri, prendi peso che mamma è preoccupata, ti controllo”
“Va bene, lo so” gli occhi affilati della sorella le rimasero impressi.
 
Un giorno rimasero senza nulla, avevano terminato tutto nella metà del tempo della volta precedente. Martino li avrebbe riforniti solo dopo due giorni e nonostante il primo riuscirono a non avere troppi effetti collaterali se non il desiderio ardente d’incontrarlo e averne dell’altra, il secondo giorno fu più duro. Il bisogno impellente si fece spazio nelle loro menti e nei loro corpi, né mangiare, né nuotare né correre poteva distrarli, arrivarono a contorcersi sul letto dalle fitte alla testa e i crampi in tutto il corpo; la cosa peggiore però accadde verso sera: i due erano appena rincasati quando sentirono un odore speziato ed invitante per tutta la casa.
“Dobbiamo occuparci del dolce, venite a darci una mano!” disse Matilde, ma i due di controvoglia dissero che sarebbero andati in camera per un po’.
“Ma no dai, state sempre per i fatti vostri, state qui e aiutateci su’” insistette Alessandra. Eleonora sentì ammontare la rabbia e scattò senza freni.
“Non rompeteci i coglioni! Non abbiamo voglia di passare tempio con nessuno oggi!”  le due donne li guardarono con amarezza e dispiacere ma Lucia invece rispose con voce tagliente e quegli occhi taglienti assurdamente identici a quelli del padre.
“E quale sarebbe la novità? Voi due non avete mai voglia d stare con noi, sapete cosa? Decidetevi a fare qualcosa per non essere due statue senza vita in mezzo alla casa andate da un dannato psichiatra e fatevi imbottire di antidepressivi perché non vi si sopporta più! Vi avevano solo chiesto di fare qualcosa in famiglia e voi vi incazzate e le mortificate? Andate al diavolo! Tutti e due”
“Lucia fatti i cazzi tuoi, sei troppo piccola per capire che casino abbiamo dentro quindi stanne fuori e non romperci le palle” a parlare fu Michele, perché Eleonora rimase immobile e non riuscì ad aprir bocca.
La serata si concluse con i due chiusi in camera e le due donne a cercare di riportare un po’ d’ordine in casa e placare Lucia.
 
Il giorno dopo Michele ed Eleonora provarono la nuova sostanza che gli era stata offerta da Martino, si nascosero in una casa abbandonata, e sistemarono tutto come Martino gli aveva spiegato, ma una volta assunta capirono di aver commesso un errore, ebbero per la seconda volta una brutta reazione, ma questa volta spasmi, tremori, nervosismo e inquietudine durarono per ore ed ore e anche quando subentrò una sorta di euforia non si sentirono bene: capirono che avrebbero dovuto smettere prima che fosse troppo tardi.
“Eleonora basta, domani non compreremo nulla”
“Mike ma…”
“Niente ma! Manuel che direbbe cazzo? Ci siamo drogati e oggi avremmo potuto morire! Cosa pensi che ne avrebbe pensato tuo padre? Non ce l’ho fatta a dirtelo prima, ma lo penso da un po’, però ne avevi bisogno e pure io, ma ora basta, mi sento come colpevole di un reato d’omicidio, non sopporto più tutto questo! O smettiamo o ne devo parlare a mia madre e alla tua!” Michele era rosso in viso, stava urlando contro Eleonora per la prima volta da quando erano bambini, lei pianse e si rese conto di ciò che avevano fatto, quindi lo pregò di non dire nulla: ne sarebbero usciti.
Entrambi sapevano che non avrebbero potuto smettere di drogarsi dall’oggi al domani, così Michele chiese a Martino di ridare loro via via pillole più leggere, cominciarono col ridurre le pillole a tre al giorno, poi a due e quando le ridussero ad una e cercarono di non assumerne più e limitarsi a fumare dell’erba, ebbero la loro prima crisi d’astinenza. Entrambi erano ridotti ad un fascio di nervi, Michele piangeva lacrime amare per il nervosismo, Eleonora svuotava le dispense ed il frigo per cercare di riempire lo stomaco. Fallirono nel trattenersi e cominciarono il processo da capo.
Dopo due mesi e mezzo erano riusciti a ridurre la dose delle pillole ad una ogni due settimane, ma quella settimana non ne sentirono necessità, seppero riconoscere che a quel punto avevano abbastanza forza di volontà per non assumerle, così si limitarono a fumare un po’ la sera soltanto.

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Capitolo 40
*** Vittime degli eventi ***


Il giorno prestabilito arrivò, avevano parzialmente convinto le loro famiglie di voler staccare la spina per due giorni e volersi rilassare da soli.
Quando Martino arrivò salirono sulla sua auto e gli chiesero di parlargli prima di partire:
“Martino per favore, dopo di oggi facci chiudere con tutta questa storia, non ne possiamo più” cominciò calmo Mike.
“Non è facile disintossicarsi”
“Ci abbiamo già lavorato lo sai, ci basta fumare qualcosa la sera per ora, ma riusciremo ad eliminare anche questo, vogliamo smetterla con gli acidi”
“Michele apprezzo il tentativo, ma non sarà semplice, avrete ricadute, comunque dopo questo favore vedremo”
“Vedremo un cazzo Martino, noi ce ne tiriamo fuori e basta, finiamola qui. Non abbiamo intenzione di diventare dei tossicodipendenti che venderanno un rene per comprarsi l’eroina, basta”
“Eleonora! Dovevo parlare io o sbaglio?”
“Non preoccuparti, non vi ammazzo, è vero che sono un pessimo soggetto ma non siamo parte della mafia o col cavolo che ne uscivate. E va bene, volete smettere? Ve lo concedo, ma solo dopo che ci aiutate con il cliente di oggi, poi potrete tornare a casuccia e stare tra le cosce di mamma”
Michele precedette Eleonora:
“Va bene” disse stringendo i pugni e cercando di far tacere l’amica.
 
Arrivarono in un palazzo malandato, era un vecchio Hotel ormai in disuso, le pareti erano coperte di carta da parati staccata in diversi punti e del tutto ingiallita. Le vecchie e logore tende erano per la maggior parte ammuffite e nei letti alcuni materassi avevano molle visibilmente fuoriuscite.
Percorsero i corridoi tenendo lo sguardo fisso sui pavimenti color terra di Siena bruciata stando attenti alle blatte ed i ragni che passavano vicino a loro. Giunsero davanti ad una porta e Martino spiegò loro che avrebbero dovuto attendere fino a quando lui non sarebbe uscito da quella stanza, solo a quel punto sarebbero dovuti entrare e far contenti i due uomini che avrebbero trovato per far avere a loro il primato su diverse zone.
“In che razza di modo ti aspetti che li convinciamo?”
“Michele pensavo fossi più acuto, secondo te come?”
“Se toccano con un solo dito Eleonora ti giuro che non risponderò di me e manderò a puttane tutto, ti faccio perdere l’affare a costo di rimetterci la pelle, è una cazzo di promessa”
“Miche-“ Eleonora fu bruscamente interrotta dall’amico, il quale assottigliò gli occhi carichi di rabbia e l’ammonì con uno sguardo di non intromettersi e non osare proferire parola.
“Tuo padre non me lo perdonerebbe mai” le disse solo, lei capì e rimase in silenzio, abbassando un po’ lo sguardo.
Martino soppesò le parole di Michele, capì che davvero non avrebbe mai permesso ad Eleonora d’essere toccata e agì di conseguenza.
“Allora sentiamo, te la senti da solo? Dirò loro che c’è solo il frocio”
“Portala via da qui”
“E va bene, tu non verrai immischiata”
“NO! Rimaniamo nei paraggi, questa è l’unica cosa che pretendo” disse perentoria Eleonora.
 
Non appena Martino uscì da quella stanza disse loro che avrebbe fatto dormire Eleonora nella sua auto mentre lui la sorvegliava, poi disse a Michele che avrebbe dovuto rimanere lì fin quando i due non l’avrebbero lasciato andare con gli accordi firmati da entrambi e così si congedò portando con sé la furiosa Eleonora.
Michele entrò nella stanza e ciò che vide furono due uomini, uno sulla quarantina che disse di chiamarsi Nicolò, con capelli ed occhi scuri, capelli brizzolati e barba non molto folta su una mascella piuttosto quadrata, non troppo alto e con fisico poco allenato; l’altro era un uomo sulla trentina, dai capelli lisci e marroni, occhi verdi e labbro inferiore diviso a metà da un taglio ormai rimarginato ma ancora fresco, alto e con fisico abbastanza allenato.
Il più grande gli disse di spogliarsi da subito e rimanere senza nulla, così lui prese a spogliarsi osservato dagli occhi viscidi dei due. Quando rimase senza nulla addosso l’uomo gli ordinò d’inginocchiarsi, così fece e continuò ad eseguire ogni loro ordine.
Dei due fu il più giovane a divertirsi con lui, toccandolo e costringendo Michele a toccarlo a sua volta, ad interagire con lui. Il più adulto rimase a guardare ogni istante, e dopo che i due ebbero finito ordinò a Michele di rivestirsi e rimanere tutta la notte seduto sulle ginocchia, affermando che se fosse riuscito a non fiatare e tenere quella posizione fino al pomeriggio dell’indomani, dopo aver ripetuto l’amplesso una seconda volta avrebbero firmato gli accordi.
Michele rimase tutta la notte e la mattina in ginocchio, percependo l’intorpidimento dei suoi arti e il dolore causato dai crampi in tutto il corpo, osservando i segni lasciatigli sul corpo con disgusto. Rimase fedele alle sue parole, alla promessa fatta a Manuel di proteggere Eleonora, nonostante in ogni istante dell’amplesso, non appena le mani di quell’uomo entravano a contatto con la sua pelle, un conato di vomito risaliva fino alla gola, un dolore alla testa lo torturava ed il suo corpo rimaneva rigido e contratto, anche ai soli loro sguardi. Tuttavia il dolore da lui provato esaltava e divertiva quei due, che il giorno dopo ripeterono il medesimo schema a ruoli invertiti, poi firmarono i documenti e la sera lo lasciarono andare via.
Nonostante il disgusto, il dolore, il malessere provato, Michele si sentiva soddisfatto nell’esser riuscito a proteggere Eleonora.
Dal canto suo quest’ultima rimase per due giorni interi con Martino, trattenuta nei suoi istinti come un leone in gabbia, costretta alla compagnia della persona che aveva costretto il suo migliore amico a difenderla nella peggiore delle maniere.
Quando lo rivide gli corse incontro osservandone bene le espressioni, ma non vide turbamento o possibile trauma, dispetto ciò che si aspettava di trovare, al contrario trovò determinazione furente in lui. Mike la portò dietro di sé con atteggiamento protettivo, consegnò i documenti firmati a Martino e poi gli disse:
“Con questo siamo pari, la chiudiamo qui”
“Un patto è un patto, sei ridotto maluccio vedo”
“Non è qualcosa di cui tu ti debba interessare, ciò che interessa a me è che d’ora in poi non avremo più a che fare con te”
“Promesso. Vi do uno strappo a casa?”
“Col cavolo, prima andiamo a cambiare scheda, poi ci lasci a casa! Te l’avevo già detto!” disse Eleonora con tono irritato.
“Bene bene, andiamo allora”
Martino mantenne la parola data, li accompagnò al negozio dove i due cambiarono scede e telefoni, dopo di che guidarono per quattro ore per arrivare fino al loro paesino, da quel momento non si fece più vivo.
“Tanto mi ricercherete” disse solo.
“Non ci sperare, non accadrà idiota!” gli urlò dietro Eleonora, tirando una pietra nella direzione dell’auto di lui.

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Capitolo 41
*** La verità, tutta la verità, solo la verità ***


La cosa più difficile fu cominciare a parlare, a raccontare come avevano cominciato a perdersi. Michele ed Eleonora erano seduti con le loro madri nel salotto di Matilde, avevano chiesto loro di rimanere da soli per parlare perché avevano bisogno d’aiuto.
“Qualsiasi cosa sia successa, noi siamo qui per voi, nulla potrebbe mai farci cambiare opinione sui nostri figli, apritevi con noi, per favore” Matilde parlò con tono supplichevole mentre Alessandra scrutava i sentimenti della figlia tramite la copia dei propri occhi.
“Le cose sono cambiate nell’esatto momento in cui quell’uomo è entrato in casa e ha annunciato la morte di papà. Una parte di me, di noi, è morta insieme a lui, siamo come giocattoli rotti e non sapevamo come fare” Eleonora si bloccò guardando in direzione dell’amico, si strinsero la mano.
“All’improvviso gli insulti, gli attentati di aggressione dei nostri coetanei e tutta la situazione che stavamo in qualche modo gestendo è diventata insostenibile, non potevamo reggere oltre. Un giorno Luca mi ha visto uscire da casa di Giulio, ci ha visti baciarci e l’ha usato come ricatto, lui e quell’idiota di Gabriele erano in un pessimo giro, tenevano droghe e quant’altro per un tizio conosciuto a Roma e in sintesi ci hanno tirati in mezzo” il ragazzo non riuscì a trattenere le lacrime mentre parlava.
“Io avevo sognato più volte papà morirmi di fronte ed io che finivo con l’uccidermi, così quando Michele ha pensato di allontanarsi per un po’ sono entrata nel panico e ho cercato di farmi del male. Alla fine non è andato via e mi ha salvata per un pelo, da lì ho preso le pillole che quel tizio ci aveva offerto e tutto è cominciato come un modo per poter reggere meglio, fingere meglio per voi”
“Ma è stato ovviamente uno sbaglio, ci siamo ritrovati a dipenderne e abbiamo usato i soldi conservati per il viaggio post maturità per comprarne altre. Abbiamo reagito male per due volte ma la seconda abbiamo rischiato grosso e da lì abbiamo provato ad uscirne. Tra ricadute ed altre fatiche abbiamo eliminato gli acidi, le pillole, ma l’erba no, ancora fumiamo la sera, per ora non riusciamo a smettere”
“Quel tizio ci ha commissionato l’ultima consegna, questa volta fuori città, l’abbiamo dovuto aiutare a trasportare tutto e abbiamo pernottato in un hotel finché gli acquirenti non sono arrivati e si sono portati tutto, da lì abbiamo chiuso con lui” come il suo migliore amico le aveva chiesto, Eleonora omise parecchi dettagli e mentì sull’ultima parte della storia, nessuna delle due donne era pronta ad ascoltarla.
“Scusate” lo dissero entrambi, nel medesimo momento, piangendo disperati nascondendo il viso fra le mani, le due donne si alzarono e piangendo anche loro li abbracciarono e li strinsero tra le braccia.
“Scusateci voi, noi avremmo dovuto essere più presenti, avremmo dovuto accorgercene prima. Invece eravamo troppo occupate a non crollare per abbattere il muro che stavate costruendo. Eleonora, tuo padre non potrebbe che essere fiero di te e questo vale anche per te Michele; state chiedendo aiuto, avete capito di aver sbagliato, capita a tutti di perdersi, l’importante è ritrovare la retta via, ce lo insegna anche Dante, giusto?”
“Vi aiuteremo, siamo qui per questo. La prima cosa che faremo è lasciare questo posto, andremo a Firenze, lì abbiamo trovato entrambe lavoro e tra tre giorni vedremo due case in cui abitare tutti insieme, vi porteremo dallo psicologo se volete, può aiutarvi, sono specialisti” Continuò Matilde, piangendo come l’amica.
“Supereremo questo momento, tutti insieme” disse Alessandra.
Poi si abbracciarono e tutti sentirono il cuore più leggero: rabbia e rancore scivolarono dalle spalle dei due ragazzi, lasciando graffi rossi sulle loro schiene e cicatrici indelebili.
 
Col cuore in gola partirono con due auto e dopo ore di viaggio arrivarono a destinazione. Firenze era una città grande, non il piccolo paesino da 4000 anime cui erano abituati. Abbandonarlo voleva dire far un passo oltre tutto ciò che era successo, oltre le discriminazioni, oltre la droga, oltre la sofferenza, oltre la morte di Manuel. Tutti i momenti passati insieme a Manuel in quel paesino, in quella cucina, in riva a quel fiume, nel casotto in giardino, tutto sarebbe sparito. Sarebbe volato come fumo, si sarebbe diradato come la nebbia autunnale. Compiere quel passo, cambiare citta e frequentare nuove persone, significava lasciare indietro una parte della loro vita; allontanarsi dai luoghi in cui avevano vissuto con Manuel, significava allontanarne il ricordo e questo li faceva impazzire. Tuttavia non farlo significava rimanere ancorati, bloccati in un passato che li avrebbe perseguitati ed inseguiti a vita, imprigionati in una gabbia d’oro, bellissima, ma pur sempre una gabbia.
Nessuna eccitazione per la nuova grande città, nessuna voglia di conoscere nuove persone, l’unica cosa che provavano era il desiderio di dimenticare ma la paura di farlo. Non farlo avrebbe portato alla pazzia, ma farlo anche. Tal volta la mente è una lama a doppio taglio, ingannatrice, porta a galla ricordi dolorosi; salvatrice, permette di non far dimenticare cosa ha provocato le proprie cicatrici, rafforzando la consapevolezza di aver superato grandi ostacoli, aiutando a superarne di nuovi. 
La nuova casa si trovava in un palazzo, era al terzo piano e s’intravedeva il fiume dal balcone della cucina, vi erano cinque stanze oltre a salotto, cucina e bagno: una per Michele ed Eleonora, una per Sara e Maria, una per Lucia ed una per Matilde ed Alessandra, la quinta sarebbe rimasta arredata ma vuota, nel caso Michele avesse deciso di voler dormire in una stanza propria.
La scuola che avrebbe frequentato Lucia era l’artistico, Sara e Maria invece andavano alle medie, e per la prima volta Eleonora e Michele non avrebbero frequentato la stessa scuola; nel paesino in cui vivevano i differenti indirizzi erano concentrati in un’unica grande struttura che conteneva tutti gli studenti delle scuole superiori, le medie e le elementari si trovavano invece in due strutture più piccole e separate, quindi i due avevano sempre frequentato le stesse persone, si erano sempre potuti vedere tra un’ora e l’altra, avevano sempre fatto strada insieme sia all’andata che al ritorno, ma ora sarebbe cambiato tutto e questo li spaventava.
 
Dopo un mese tutti i preparativi erano pronti, Michele era stato iscritto allo scientifico, Eleonora al classico e le sue sorelle nei vari istituti. I due licei dei ragazzi non erano troppo distanti l’uno dall’altro e in quello di Michele, in un auditorium molto ampio quasi sicuramente dedicato alle assemblee, vi era un pianoforte. In un giorno di fine luglio, quando ormai Matilde e Alessandra avevano acquistato la casa e iscritto Eleonora al proprio liceo ed erano impegnate nell’iscrizione di Michele, i due ragazzi notarono, di sfuggita, un ragazzo dai capelli biondo cenere ed uno dai capelli rossi, intenti a suonare il piano in quel grande auditorium:
“Sono due talentuosi studenti che frequentano il nostro liceo, sapete, ci piace organizzare delle giornate di benvenuto per i nuovi studenti provenienti dalle medie e loro suonano, così come altri nostri alunni ovviamente. Dovesti venire anche tu, Michele, non sei mai stato qui prima d’ora d’altronde” disse la vicepreside, che stava mostrando la scuola a Michele, accompagnato da Eleonora.
La sera di quello stesso giorno, tornando a casa, Matilde ed Alessandra si fermarono al supermercato mentre Eleonora e Michele li aspettavano fuori, fumando una sigaretta. D’improvviso Eleonora vide una bambina da sola per strada, mentre raccoglieva il cappello che continuava a spostarsi per via del vento, un’auto piuttosto grande, un suv grigio scuro, attraversava la strada a tutta velocità, quindi lei e Michele si lanciarono istintivamente in aiuto della bambina, spingendola poco più in là dalla traiettoria dell’auto, che li prese in pieno entrambi…
L’asfalto bruciava sotto la loro pelle, le auto, con centinaia di decine di luci diverse si bloccarono dietro al suv e dall’altro lato della strada, Matilde ed Alessandra si lanciarono verso i loro figli urlando e la sirena dell’ambulanza stordì la mente dei due ragazzi…

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Capitolo 42
*** Qualcuno di nuovo ***


Il sole sorse colpendo gli occhi chiusi di Colin attraverso la tenda verde poco coprente della finestra nella sua stanza, Colin scostò il braccio della ragazza di cui non conosceva il nome da sé, si alzò e indossò un paio di boxer neri, poi svegliò la ragazza:

“Ehi senti, dovresti alzarti ed andartene, tra mezz’ora devo essere fuori di casa”

“Ti sembra il modo di trattarmi dopo stanotte?” disse lei indispettita, con voce assonnata.

“Non so neanche chi tu sia, non c’è un modo carino per dirlo, rivestiti ed esci”

“Vaffanculo Colin!” s’infilò il suo succinto vestito argentato e con le scarpe in mano uscì dalla camera, sbattendo la porta d’ingresso rumorosamente.

Colin scosse la testa, terminò di prepararsi ed uscì di casa indossando un maglione a collo alto bianco e dei pantaloni di jeans larghi e neri. Accese il motorino e uscì di casa lasciando la nuova domestica ucraina a pulire il soggiorno. Uscito di casa accese il motorino e si diresse verso casa di Daniele, il suo migliore amico. Salì le scale fino al quarto piano, aprì con la sua copia delle chiavi ed entrò in camera dell’amico, interrompendolo nel baciare la propria ragazza, ancora nudi sotto le lenzuola:

“Ma insomma Colin, potevi almeno avvertire!”

“Non devio avvertirti se vengo a casa tua, non l’ho mai fatto e non lo farò mai. Ciao Giulia”

“Ciao Colin, è proprio spiacevole vederti la mattina presto”

“Tu non dovresti tornare a casa? Vedi che sono già le otto”

La ragazza balzò dal letto, s’infilò l’intimo, i jeans bianchi e la maglietta gialla, poi uscì di tutta fretta affermando che sua madre l’avrebbe uccisa se avesse scoperto che non aveva passato la notte a casa.

“Ora esci dal letto e sbrigati a vestirti”

“Cosa vuoi Col’”

“Andare in un negozio di un paesino qui vicino, fanno archetti da violino assurdi intagliati a mano, ne ho richiesto uno d’i legno di ciliegio identico a quello del mio violino, con una volpe”

“Come quella sul violino?”

“Esatto”

“Bello, mi vesto e andiamo, hanno anche plettri?”

“Sì certo, ne vuoi uno?”

“Si, decido lì il soggetto”

Arrivarono, dopo un’ora in moto, alla loro destinazione.

“A proposito di moto, hai sentito dell’uscita della Vyrus 987 c3 4v v? Si è detto arriverà a 310 chilometri orari, fantastico vero?” annunciò Daniele entusiasta.

“Spettacolare, me la regalerò a Novembre, almeno i miei genitori servono a qualcosa”

“Beh, il primo dopo di te a farci un giro sai già che sarò io”

“Forse la farò provare prima a Franco, che dici?”

“Non dirlo neanche per scherzo!” gli tirò un pugno sulla spalla e cominciarono a picchiarsi fin quando non dichiararono resa stendendosi a terra, poco dopo si alzarono e diressero al negozio.

 

Era piccolo, al massimo sei metri quadri, vi era un forte odore d’incenso e le pareti erano ricoperti da oggetti dio vario tipo intagliati in legno. Colin ritirò il suo arco, Daniel attese un’oretta per il suo plettro a forma di serpente attorcigliato su sé stesso, poi tornarono indietro e mangiarono in un ristorante di cucina asiatica per pranzo, di pomeriggio suonarono un po’, Colin provò il suo nuovo archetto, Daniele il plettro. Si esercitarono fino a sera ed ordinarono una pizza d’asporto.

Colin indossò dei jeans bianchi, una camicia nera e dei mocassini in pelle nera, una collana e un orecchino d’argento; Daniel dei jeans neri ed una camicia viola scuro, aperta fino a metà petto, quindi andarono in una discoteca ad ingresso limitato, passando la notte a ballare e bere.

Quasi ubriachi, uscirono dal locale con due ragazze, si fumarono delle canne bevendo birra, poco lontano da un pub lontano dal centro, Daniel tornò a casa con la bruna, Colin fece lo stesso con la ragazza dai capelli rossi.

Quella sera si sentì particolarmente disponibile e decise di riaccompagnarla a casa quando finirono, ma ritornando alla sua moto vide un suv per strada impazzire ed una bambina che sarebbe sicuramente stata investita: corse sul marciapiede verso la bambina ma prima che tentasse d’aiutarla vide una ragazza ed un ragazzo lanciarla verso l’altro lato della strada, lui prese la bambina e la portò sul marciapiede, ma vide i due ragazzi investiti in pieno dalla macchina. Due donne urlavano disperate, lui riconsegnò la bambina ai suoi genitori, poi si avviò verso la sua moto e tornò turbato a casa.

S’infilò nudo sotto il leggero copriletto, godendo dell’aria fresca che entrava dalla finestra spalancata:

“Avrei voluto vedere negli occhi di quei ragazzi cosa pensavano, cosa li ha spinti a rischiare la vita per quella bambina, io probabilmente mi sarei tirato indietro vedendo quanto era vicino il suv. La morte è così vicina da essere inquietante, è come se fossimo costantemente in bilico s’un burrone, sostenuti solo da un crine di cavallo”

“Cosa?” Disse l’ucraina, poggiata sullo stipite della porta della sua camera, con indosso solo una sottile camicia da notte.

“Cosa fai qui, Oksana?”

“Io pensava che signorino sarebbe sentitosi solo, io volevo aiutare” Era una ragazza di ventott’anni, i capelli biondo chiaro, la pelle molto pallida e gli occhi azzurri, non era bella, aveva il viso scarno, era troppo magra, il naso era troppo stretto rispetto alla bocca, ma aveva delle gambe mozzafiato e un bel seno; Colin la squadrò dall’alto in basso, spostò il copriletto e la fece entrare nel letto.

L’avrebbe licenziata quando si sarebbe stufato di lei, come ogni volta.

 

Quando Oksana lasciò la stanza, Colin si diresse in bagno per farsi una doccia tiepida, poi senza asciugarsi i capelli o vestirsi tornò tra le proprie lenzuola grigio scuro e si addormentò a tarda notte, dopo aver preso una pillola che l’aiutasse con la sua insonnia.

Ormai da molto tempo, ogni notte si trovava nello stesso luogo, una dimensione diversa, nella quale non percepiva suoni, colori o rumori, una sorta di limbo. Com’era ovvio, non si feriva, non aveva percezioni tattili o d’alcun altro tipo, d’altronde era solo un sogno.

In quel luogo nessuno parlava, solo lui, ogni persona era identica all’altra, con un’inquietante sorriso disegnato sul viso estremamente realistico, col quale quel fintissimo sorriso entrava in contrasto: Colin credeva che 1quella fosse la riproduzione della sua visione della società, persone vere che fingevano d’essere chi non erano, persone che fingevano sotto ogni punto di vista, inutili persone che fingevano felicità, inutili persone che ostentavano ciò che non possedevano, nocive persone che temevano la propria ombra ma fingevano d’essere leoni, nocive persone che fingevano amore ed affetto.

Quella notte però provò una sensazione strana, come se qualcosa in quella strana dimensione fosse cambiata, come se qualcosa fosse diversa. Controllò ogni angolo del paesino abitato da quelle strane persone ma non vi trovò nulla di strano; la notte dopo controllo la radura vicino al fiume; quella dopo ancora controllò i frutteti; quella ancora dopo le grotte sottomarine; infine, la quinta notte, sentì un urlo, lo sentì nel sogno, gli sembrò d’impazzire ma vi si diresse contro e trovò una persona, una ragazza dai lunghi capelli neri, gli occhi viola ed indaco, la pelle bianca, sfinita e ferita. Rimase sconvolto dal fatto che quella ragazza fosse diversa, rimase sconvolto dal fatto che anche se stesse dormendo nel sogno, non stesse scomparendo, rimase terrorizzato dal fatto che quando la sollevò da terra sentì la stoffa ruvida della sua felpa, sentì la sua pelle fredda e i suoi capelli solleticargli il braccio.

Una volta che l’ebbe portata nella sua casa al villaggio e l’ebbe curata, si allontanò da lei ed ebbe la sensazione che il sogno fosse tornato tale, anche se per un attimo era apparso come realtà.

Si svegliò per via degli scossoni di Daniele:

“Amico, sei sudato come un maiale e sei in iperventilazione, che diavolo ti è preso? Stai bene? Che è successo?”

“Io… sai cosa sogno ogni notte”

“Si, ma che c’entra, è cambiato qualcosa?”

“Una ragazza, c’era una ragazza diversa e quando l’ho toccata sembrava che l’avessi davvero qui”

“Cosa? Aspetta, aspetta, aspetta, vestiti, non riesco a prenderti sul serio nudo e spaventato, fatti una doccia e mentre mangiamo me ne parli”

“Che ore sono?”

“Le due e mezza, dovevamo vederci ma non sei venuto e non rispondevi, Oksana ha detto che eri immobile e non ti svegliavi, mi sono preoccupato”

“Cazzo”

Dopo che gli raccontò tutto, all’amico vennero i brividi, disse che magari era stato solo un episodio strano e decisero di distrarsi andando in spiaggia a Roma per poi tornare la sera, andare a bere e tornare nuovamente a casa di Colin.

“Questo è assurdo, se succede niente di strano, fammelo sapere”

“Si Dan”

“Ciao bello”

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Capitolo 43
*** L'insensato è routine ***


Colin non riuscì a non pensare alla ragazza che aveva visto la notte precedente, quindi tornò a dormire dopo essere stato nella camera della sua domestica e anche quella notte la vide: il sogno divenne nuovamente estremamente reale, parlò con la ragazza, si comportò come se ciò che stava sognando stesse accadendo nella realtà, venne a conoscenza del fatto che lei non ricordasse nulla della sua vita, ma senza saperne la ragione le disse che quando le doleva la testa un ricordo le stava tornando in mente. Non rispondeva alle domande della ragazza su quel luogo, non sapeva come farlo, non sentiva di potergliene parlare. Poi si ricordò di quell’albero col volto di donna, quello nella grotta sott’acqua al centro della radura nella quale si era trovato quando per la prima volta aveva sognato quella strana dimensione e decise di portarla lì, senza saperne il motivo, sperando in risposte esaustive.
Ogni notte tornò da lei, ogni notte sognava lei, la percepiva come se gli fosse accanto ed ogni volta che lei ricordava qualcosa della sua vita, era come se qualcuno gli aprisse il cuore e la mente, infilandovi informazioni e ricordi di un’altra persona, infilandovi la vita di qualcun altro.
Era una sensazione orribile, ma ben presto ne divenne terrorizzato e dipendente.
 
La prima volta che la vide, spaventata, irrazionale, istintiva, incauta, tremante a terra per un ricordo troppo doloroso sentì il bisogno di fare qualcosa per lei, ma la paura del contatto con quella ragazza fin troppo reale lo bloccò, la paura dell’irrazionale affetto che sembrava aumentare in lui lo portò a non far altro che darle una pacca, poi a poggiarle la propria fronte sulla sua, poi ad abbracciarla. Di volta in volta, di giorno in giorno riusciva un po’ di più a non temerla, a seguire un po’ meno la logica, finché una sera le loro labbra entrarono in contatto, aveva seguito un istinto primordiale e lo sconvolse il sentire davvero le labbra di lei, la loro morbidezza, la loro pienezza sulle sue, provò la sensazione dei capelli neri come il mantello della notte di lei tra le proprie dita; attratto come una farfalla dalla luce non poté fare a meno di scusarsi silenziosamente ogni qualvolta la vide delusa, triste o arrabbiata. Tutte le contrastanti sfaccettature di quella ragazza lo portarono irrazionalmente a tenere a lei.
“Credo di star impazzendo Daniele”
“Amico rilassati, ci dev’essere una spiegazione, andiamo da uno specialista?”
“No, non c’è spiegazione, lei c’è ed è reale, te lo giuro.  Io credo che lei esista davvero”
“Chiedile dov’è”
“L0’ho vista in un letto d’ospedale, ormai i suoi ricordi mi arrivano nella testa anche di giorno, non solo quando di notte sto con lei”
“Colin parli come se davvero fossi lì con lei”
“Io non so spiegartelo ma è così! Ti giuro credimi!”
“Okay, okay amico, io credo dovresti distrarti, conosco una ragazza carina che potrebbe tenerti impegnato per tutta la notte…”
“No! Non voglio vedere nessuno!”
“Mi stai dicendo che non vai a letto con una ragazza o un ragazzo da un mese e mezzo? Da quando hai visto questa ragazza?”
“Sì cazzo! Non ce la faccio a non pensarla, credo di starmi affezionando a lei, ci tengo e ho bisogno di sapere che esiste”
“Colin cazzo, lei è… è… un sogno amico. È finta, una produzione della tua testa. Non esiste davvero!”
“No invece! Ti giuro che lei è vera! Deve esserlo per forza”
“E come lo sai?”
“Non lo so, so solo che lo so! E tu devi aiutarmi a trovarla”
“Questo è assurdo!”
“TI prego!”
“E VA BENE!”
Colin balzò dalla sedia, portò l’amico al suo computer fisso e aprì una pagina di Word.
“Che cos’è tutta questa roba?” Chiese confuso Daniele.
“Tutto quello che so su di lei. Ha diciott’anni, mi ha visto una volta mentre io e te suonavamo in auditorium ma non ci conosciamo. Me l’ha detto lei, mi ha visto di sfuggita. Credo suo padre facesse il soldato, anzi lo so, ma lei non se l’è ancora ricordato”
“E allora come lo sai?”
“Te l’ho detto! I suoi ricordi mi invadono la testa anche di giorno! Comunque si drogava con il suo migliore amico. Ci sono quasi rimasti secchi. Poi… ah sì, ha tre sorelle e sua madre si chiama Alessandra, lei è la sua fotocopia. Ha i capelli neri e gli occhi viola, è alta sul metro e cinquantasei credo, mi arriva sotto la spalla più o meno”
“Colin parla più lentamente, mi sembri pazzo, sai altro?”
“Io credo sia in coma…”
“Questo spiegherebbe perché lei non sparisce quando nel tuo sogno si addormenta, perché in realtà non si sveglia”
“Esatto!”
“Okay, se ti ha visto vive qui, giusto?”
“Non lo so, so che da piccola ci veniva spesso con i suoi genitori, me l’ha raccontato lei. Magari è solo passata di qui”
“Però ti ha visto a scuola”
“Giusto, ed era con il suo amico, si chiama Michele, ha i capelli rossi e gli occhi blu”
“Okay iniziamo da questo. Cerchiamo nella nostra scuola tutte le ragazze che si chiamano Eleonora e se non la troviamo, vediamo tutti i Michele. Domani ci facciamo dare gli elenchi”
“Grazie”
“Mi sembro pazzo da solo ad assecondarti”
 
Quella notte Eleonora era entrata in casa sua, aveva visto i suoi quaderni, aveva sfogliato i suoi spartiti, gli aveva chiesto di suonare e lui aveva suonato un suo brano. Era assurdo ma gli sembrava di star suonando davvero. Fu svegliato dopo che si misero a parlare sul suo divano e lei s’addormentò, rimanendo dov’era. Lo svegliò Oksana, dicendo qualcosa che lo terrorizzò:
“Oksana non ha diritto di dire cosa signorino non può fare, però io credo che signorino non dovrebbe suonare in piena notte il violino. Oksana ha ricevuto lamentele dai vicini”
 
“Hai capito? È assurdo Dan! Ero nudo e steso nel letto quando Oksana mi ha svegliato!”
“Okay basta amico! Ti credo! Ho fatto ricerche e ho l’elenco di tutte le Eleonora della nostra scuola, anche di tutti i Michele”
“Li cerchiamo?”
“Sì, ormai devo capire se sei completamente pazzo o se queste persone esistono davvero!”
 
Quella notte Eleonora ricordò che suo padre era morto, lo ammise a sé stessa, poi ricordò dell’incidente e sparì, o meglio, fu Colin a farlo. Si ritrovò in un luogo uguale a quello in cui era con Eleonora ma in cui lei non c’era, sentiva la voce di lei che lo chiamava, sentiva i suoi pianti e i suoi singhiozzi, ma non poteva parlare, era costretto al silenzio e per quanto corresse non la raggiungeva. Si era accorto del fatto che le giornate, o meglio il tempo che passava con lei si era ridotto drasticamente: prima non si svegliava prima di quattordici ore, poi dodici, poi otto, poi solo due. Da quando aveva conosciuto Eleonora non aveva più preso medicine per dormire, non ne aveva avuto bisogno.
Si svegliò di soprassalto e spiegò a Daniele che da due notti non la vedeva più, non poteva più interagire con lei, ma che la sentiva e che era terrorizzata, che rischiava di cadere in voragini e che gli abitati di quella dimensione la stavano trascinando sott’acqua e cercavano di ucciderla in sogno.
“Colin cosa può voler dire?”
“Io credo stia morendo”
Lo disse tutto d’un fiato e le parole gli ustionarono il palato.
“La troviamo, te lo giuro”
“Lo so che è assurdo ma ormai è da almeno due mesi che va avanti e… io credo di essermi innamorato”
“Ti ho detto che la troviamo”
Prima che potesse pronunciare un’altra parola, Colin svenne e non si risvegliò per quarantott’ore: tutti gli avvenimenti che avevano caratterizzato la vita di Eleonora degli ultimi due anni, tutto ciò che aveva vissuto con Michele, le notti che aveva coperto il suo amico mentre andava dal suo ragazzo, Gabriele e Luca che lo pestavano, Martino che la baciava, la dipendenza da quella droga, la paura provata in quell’hotel scadente ed isolato. Vide tutto, come se la vita di Eleonora gli fosse stata infilata dentro la testa.
 
Si svegliò e scattò sull’attenti, uscì dalla propria camera e vide Daniele che parlava ai suoi genitori, che appresa la notizia erano tornati a casa. Daniele gli saltò addosso quando lo vide, sua madre sospirò, sembrava un sospiro di sollievo, lo sguardo crucciato di suo padre si distese leggermente.
“Eleonora Sartori, vi prego trovatela, chiedete a Michele, Michele Rossi, lui è il suo migliore amico. È ricoverata, è in coma” 
 
Spiegò tutto ai suoi genitori: nonostante gli fosse già stato detto da Daniele non ne fecero parola. Per la prima volta da anni stavano cercando di ascoltare loro figlio davvero, per la seconda volta avevano avuto paura che potesse morire.
Quattro anni prima Colin aveva avuto un incidente con la macchina, aveva rischiato la vita, era stato in ospedale, incosciente per due giorni, poi si era svegliato e da quel momento aveva guidato solo moto. Saperlo sul letto senza che desse segni di vita, che respirava appena li spaventò, quindi anche se riluttanti si sforzarono di credergli.

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Capitolo 44
*** Trovarsi ***


“Faremo ricerche su questa ragazza, parleremo anche con questo Michele Rossi dopo averlo trovato, sapremo in quale ospedale si trova e la andrai a vedere”
“Padre… Io vi ringrazio, entrambi” Colin fece un inchino con la testa rivolta al pavimento.
Sentì la mano di sua madre sollevarlo, la vide rigida avvicinarsi a lui, ponendogli le braccia attorno alle spalle in quello che doveva essere un abbraccio, anche se non vi somigliava per niente.
“Dopo che l’avremo trovata, porteremo sia te che lei da uno specialista, cercheremo di capire cosa vi è successo in tutti i modi” disse la donna.
“Mamma lei è…”
“In coma lo so, ma se ancora la senti non è morta. E poi vista la strana connessione che avete, magari trovandola dal vivo e standole vicino si sveglierà dal coma” sua madre era rigida come sempre, come sempre composta, era chiaramente poco convinta e cercava spiegazioni razionali in tutto ciò, lo faceva perché in fondo aveva appena capito di non volerlo vedere morire, di volerlo accanto a sé.
Colin rimase sbalordito… sua madre tentava di consolarlo, di essere d’appoggio. La donna che lo correggeva, che non dimostrava affetto verso di lui, quella che lui aveva sempre creduto odiarlo, lei ora cercava di supportare l’assurda storia del figlio.
Si sarebbe aspettato che lo credessero pazzo e lo facessero ricoverare in un ospedale psichiatrico e invece non accadde, suo padre fece ricerche e trovò Michele con l’aiuto di Daniele. Quella fu la dimostrazione del fatto che tutto ciò fosse reale. Sua madre gli fu affianco, non lo lasciò solo neanche un minuto, si fece raccontare nel dettaglio tutto ciò che Colin aveva visto e sentito in quei due mesi nei suoi sogni e sulla vita di quella ragazza.
 
Daniele trovò Michele, frequentava il loro ex liceo, quello in cui ancora andavano a suonare quando la preside lo chiedeva. Dopo aver scoperto la sua classe e conoscendone l’aspetto per le descrizioni. Secondo ciò che glia veramente detto Colin aveva i capelli tendenti al rosso, gli occhi blu, era alto e dal fisico allenato, era solare e solitamente sempre circondato da persone, aveva un orecchino a forma di croce nel lobo sinistro da quando Manuel era morto. Daniele trovò  un ragazzo che combaciava alla descrizione, solo che non gli sembrò a suo agio in mezzo a quei ragazzi che lo circondavano ed il suo era un sorriso forzato, diverso da quello spontaneo e radioso descrittogli. Daniele gli pose la mano sul collo come fossero vecchi amici e lo tirò via dalla folla, Michele lo seguì fin dietro la scuola in un posto tranquillo, poi si scostò e rimase ad un metro di distanza guardandolo sospettoso, sembrava a disagio e si toccava inquieto il collo. Daniele sapeva cosa aveva passato, Colin gli aveva detto tutto.
“Chi sei e cosa vuoi? Ti manda Martino?”
“Oh no no, però so di fosse stai parlando ma non c’entro nulla, è complicato ma mi piacerebbe spiegarti, sono il migliore amico di Colin, lui… Lui sa di Eleonora, la conosce”
“No, non l’ho mai sentito nominare da lei e poi la mia migliore amica è in coma. Chi cazzo sei e cosa vuoi dire che sai di cosa sto parlando?”
“Te l’ho  detto, Colin conosce Eleonora anche se è  in coma ma è  difficile spiegarti, sa di voi, so anche perché  ti fa ribrezzo che ti abbia toccato il collo e mi dispiace averlo fatto ma non avevo modo per tirarti via dalla folla altrimenti, ti prego seguimi e ti farò  spiegare tutto per bene. Vogliamo aiutarla”
“Sei stato mandato”
“So che cosa ti hanno fatto quei due. E che il tuo ex ti ha fatto pestare. So di tuo padre. Ma non ci siamo mai visti. Ora mi credi?”
Il pomeriggio stesso Michele fu portato a casa di Colin, il ragazzo gli spiegò tutto.
“Mi stai dicendo che hai conosciuto Eleonora tramite dei sogni, mentre è in coma?”
“Non so neanch’io come sia possibile, ma è così”
“Mi viene difficile crederci, scusa”
“Chiedimi qualcosa su di lei o anche su di te, so tutto di voi due. Degli avvenimenti so solo quelli di questi ultimi due anni”
“Non è possibile”
“Prova” gli disse Daniele.
Michele sedeva cauto e rigido sulla sedia, il volto con sofferenza velata, gli occhi in parte vitrei.
“D’accordo, ti chiedo qualcosa che solo io e lei sappiamo. Cosa è successo il giorno in cui abbiamo incontrato Martino?”
“Intendi dire quando gli avete dato la borsa e lui vi ha offerto le pillole? Tu le hai rifiutate, ma come al solito Eleonora non ti ha dato retta e quando ti sei addormentato è sgattaiolata fuori ed è andata a prenderle. Avete la starna abitudine di entrare ed uscire l’uno dalla casa dell’altro dalle finestre. Poi Martino le ha dato le pillole e l’ha anche baciata. Quando l’hai saputo eri sotto effetto della droga ma hai sentito di volerlo uccidere”
“Cazzo…”
“Una volta ho già provato ad andare da solo?”
“Lei ha fatto finta di essersi tagliata o comunque fatta del male dopo aver letto la tua lettera, poi ti è saltata alle spalle abbracciando in vita dopo averti sentito disdire” rispose prontamente Colin, Michele deglutì rumorosamente.
“Suo padre una volta mi ha insegnato qualcosa che ha lei non ha insegnato. Cos’era e perché a me sì è a lei no?”
“Ti ha insegnato la lotta a corpo libero, a fare e sciogliere vari tipi di nodi e come tenere il sangue freddo in situazioni di forte stress. Non poteva insegnarlo ad Eleonora, è avventata ed impulsiva, tu invece rifletti e stai attento”
Gli fece qualche altra domanda, poi chiese:
“Okay, ti credo. Perché sono qui?”
“Dov’è ricoverata Eleonora?”
“All’ospedale Santa Maria Nuova, vieni domani mattina, saremo tutti lì come ogni domenica per tutto il giorno”
“Va bene, grazie”
“Mi piaci ma non mi fido, tengo ad Eleonora”
“Lo so, so cos’hai passato per proteggerla… ti sono grato in qualche modo, anche se non la conoscevo ancora” lo disse guardandogli il fianco destro, quello su cui sapeva esserci la bruciatura di una sigaretta.
“Questa è la cosa meno strana che tu abbia detto. Ti prego svegliala. Io non so più cosa fare senza di lei, avrei voluto essere io a non svegliarmi, avrei preferito fosse lei a svegliarsi dopo una settimana appena”
“Lo capisco cosa provi, sento davvero di capirlo. Io… spero di poterla portare indietro”
“D’accordo, se lo fai… ti sarò debitore a vita”
Michele andò via, accompagnato a casa da Daniele. Colin non dormì, non fino a quando, il giorno dopo, non si mise in macchina con i suoi genitori. Svenne per un’ora, più che addormentarsi.  
 
Si diresse verso il cuore del luogo in cui si trovava, vide quell’albero col viso d’una donna incastrato dentro:
“Ti prego, voglio vederla, voglio parlarle, so che tu puoi farlo. Cosa ci sta succedendo?”
Una voce roca, bassa e caratterizzata dal fatto che ogni sua parola rimbalzasse per quello spazio scuro con una forte eco, parlò lentamente, troppo lentamente:
“Mi stai chiedendo di rimettere in contatto le vostre anime, è pericoloso per voi, avrete cambiamenti perenni, le vostre menti rimarranno connesse. La sua vita è stata quasi spezzata e come altre persone anche lei si è ritrovata in questa dimensione di vita e morte al medesimo tempo. Ti ricordi quando ci sei entrato tu? Quando hai rischiato la vita, ma a differenza di altri non sei mai uscito da questo posto, lo sai perché? Perché non lo volevi. Odi la vita e questo ti lega qui. Le vostre anime erano nel medesimo luogo nel medesimo tempo, tu eri destinato all’incidente, non lei, saresti morto perché non potevi indugiare ulteriormente in questo luogo, ma anche Eleonora odiava la vita e si è buttata. Il fatto di aver sottratto a te il tuo destino ha portato la sua anima e la sua coscienza ad entrare in contatto con la tua. Vi siete riversati a vicenda la vita dell’altro in testa. Sei sicuro di voler legare il tuo cammino a quello di un’altra anima?”
“Se tutto quello che è successo fossero solo i vaneggiamenti di un pazzo allora io non l’avrei ritrovata nella realtà, non sarei riuscito a trovarla. Ma invece l’ho fatto, lei c’è, esiste e ormai non posso farne a meno. Io non posso e non voglio non starle vicino dopo tutta questa storia assurda”
“Ne sei sicuro?”
“La amo” rispose senza neanche pensare, non sapendo più se credere che quello fosse un sogno o la realtà.
Il viso della donna si spezzò, l’alberò si aprì in due, creando un passaggio che avrebbe portato Colin dall’altra parte.
“L’abisso tra la morte e la vita di Eleonora”
Colin corse senza sosta finché non cadde su Eleonora.
“Colin! Ero così spaventata, questo posto sembrava volesse uccidermi! Le persone m’inseguivano e poi tu non c’eri”
“Eleonora non ho tempio di spiegarti, sento di avere pochi secondi. Ti devi svegliare Eleonora, so che fa paura ma devi farlo! Ti prego!”
“Se io lo facessi… se io aprissi gli occhi, quelli veri, tu saresti lì? Io non voglio perderti di nuovo Colin!”
“Eleonora non ho tempo per convincertene ma ti prego aprili! Ti prego se provi anche solo la metà di quello che sento di provare per te allora apri gli occhi”
“Non so quello che provi! So solo quello che provo io Colin!”
“Io ti amo Eleonora. Ti amo!”
 
Colin fu catapultato nella realtà, l’auto dei suoi genitori si fermò.
Una forte angoscia, una forte paura, un cumulo di sentimenti negativi s’impossessarono di lui. Li coprì con una maschera d’indifferenza, li nascose, li soffocò.
Seguì i passi dell’infermiera passivamente, la vide indicare una stanza… vi entrò e la vide: Eleonora giaceva inerme tra le bianche lenzuola di quel triste ed asettico letto d’ospedale, la sua pelle si confondeva con le lenzuola bianche, i suoi occhi erano sotterrati in profondi solchi violacei, le labbra rosse erano pallide, i battiti del suo cuore erano lenti.
“La conosco ma è difficile da spiegare, vi prego posso avvicinarmi?”
Alessandra e le ragazzine si scostarono dubbiose, Colin pianse con loro, con tutti loro, abbandonando la sua maschera. Michele lasciò la mano ad Eleonora e gli fece cenno di avvicinarsi. Le sfiorò la pelle fredda della mano e solo a quel lieve contatto qualcosa cambiò: i battiti del cuore di Eleonora aumentarono, le sue dita si mossero quasi impercettibilmente, i suoi capelli sembrarono tornare lucenti, la sua pelle sembrò diversa da quella d’un cadavere, le occhiaie sembrarono meno profonde.
“Ti prego Tanzanite, voglio sentire la tua voce e vedere di nuovo il mondo viola ed indaco” disse Colin con voce spezzata.

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Capitolo 45
*** Ambra ***


Anche se ero spaventata, piano aprii gli occhi, vidi mia madre e Matilde sconvolte, sorridenti mentre piangevano di gioia, sentii le mie sorelline urlare di gioia e saltare per la stanza, sentii Lucia urlare di gioia con loro, vidi Michele piangere dalla gioia e stringersi a Matilde e mia madre, ma mi sentii morire… era stato un sogno? L’avevo immaginato?
Ma poi sentii un tocco a me conosciuto anche se non avrebbe dovuto esserlo, sentii un calore familiare, una scossa elettrica attraversò il mio corpo, quindi mi voltai e…
 
 annegai nell’ambra.




*Ecco l'ultimo capitolo della storia, spero vi sia piaciuta e siate arrivati fino alla fine! Se vi fa piacere i commenti e le critiche costruttive sono ben acette. Oh inoltre ho visto che molti stanno leggendo l'ultimo capitolo, cioè questo, per capire se la storia finisce bene o no; beh vi posso dire che sì è un finale lieto, ma non credo possiate capirlo per bene se non leggete la storia perché ho usato soprannomi per indicare i vari personaggi, quindi se vi va date un occhio al resto XD*

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