Matrix Resistance

di Fragolina84
(/viewuser.php?uid=110041)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La colonia di Zhaka ***
Capitolo 2: *** Il mondo reale ***
Capitolo 3: *** Il capitano e il generale ***
Capitolo 4: *** Festa della Liberazione ***
Capitolo 5: *** Fiducia ***
Capitolo 6: *** La missione ***
Capitolo 7: *** La Città delle Macchine ***
Capitolo 8: *** Trinity ***
Capitolo 9: *** Decisioni terribili ***
Capitolo 10: *** Ritorno a Zhaka ***
Capitolo 11: *** La sentenza ***
Capitolo 12: *** Il piano ***
Capitolo 13: *** Codice Sorgente ***
Capitolo 14: *** La fine della guerra ***
Capitolo 15: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** La colonia di Zhaka ***


Caro lettore,
se sei arrivato qui, presumo che anche tu sia rimasto un po' deluso dall'ultimo capitolo di Matrix.
Io avevo tantissime aspettative e, lo ammetto, sono state disattese.
Spero che questa mia interpretazione ti piacca e che vorrai farmelo sapere lasciandomi una recensione.
Buona lettura!

 

La notte artificiale di Zhaka aveva steso il suo manto sulla città e tutto era più tranquillo del solito. 
Il montacarichi si arrestò e Calbet uscì, fermandosi sul pianerottolo e appoggiandosi alla balaustra in ferro. Il baratro sotto di lui sembrava volerlo risucchiare, ma lui c’era abituato e lasciò che lo sguardo vagasse intorno. 
Il camminamento su cui si trovava proseguiva con andamento circolare lungo quello che sembrava lo scavo ad imbuto di una miniera. Numerose porte di ferro si aprivano sul perimetro, alloggi piccoli e modesti che ospitavano una popolazione sempre più esigua. 
I piani inferiori, sul fondo del grande cratere, erano dedicati alla logistica e alle sale che contenevano i macchinari che li tenevano tutti in vita. Curioso che altre macchine cercassero in ogni modo di ucciderli. 
Sospirò e alzò lo sguardo. Lassù, da qualche parte, oltre le luci che simulavano il giorno e la notte, oltre lo strato di roccia che li proteggeva, c’era il mondo vero. Lui l’aveva intravisto, per un momento, cosa che coloro che erano nati e cresciuti a Zhaka non potevano dire. La verità era che nessuno sapeva in che condizioni fosse, dopo centinaia di anni sotto il dominio delle macchine. 
Quel pensiero gli mise addosso una profonda tristezza e, allo stesso tempo, gli incendiò le vene di una rabbia vivida e corrosiva: le mani strinsero con tanta forza la ringhiera di metallo che le nocche sbiancarono. 
Scosse la testa, come per liberarsi di quei pensieri, e si sistemò lo zaino sulla spalla, incamminandosi sulla passerella di metallo. Giunto di fronte ad una porta esattamente uguale a tutte le altre girò la grande maniglia centrale e spinse il battente, che ruotò sui cardini con un leggero cigolio. 
«Raelynn, sono tornato» disse, lasciando cadere lo zaino. 
Non ricevette risposta, ma udì lo scroscio dell’acqua della doccia. Sogghignò e fece leva con l’alluce per togliersi uno stivale. Si diresse verso il bagno, seminando i vestiti lungo il tragitto. Giunto alla porta, la trovò socchiusa. La spinse con delicatezza: il vapore riempiva la stanza e la tenda si muoveva appena. Dietro, Calbet intuiva le forme sinuose di un corpo femminile e il desiderio gli mandò un brivido lungo la spina dorsale. 
La ragazza nella doccia canticchiava una canzone a mezza voce ed era evidente che non si era accorta che lui era arrivato. Calbet scostò appena la tenda: lei era girata di spalle, la massa di capelli castani fermati sul capo con uno spillone, e gli mostrava un paio di natiche sode che gli seccarono la bocca. 
Incapace di trattenersi, si avvicinò e le posò le mani sulla vita sottile, lì dove si allargava sbocciando nei fianchi. La giovane sussultò e lanciò un gridolino di sorpresa. 
«Scusa, avrei dovuto essere più delicato. Ma adoro coglierti di sorpresa.» 
«Cal!» esclamò Raelynn, mentre lui abbassava la testa per baciarle la spalla. I rimproveri che le salirono alle labbra svanirono mestamente quando lui la fece girare verso di sé e si impossessò della sua bocca. La spinse contro la parete, soffocando le proteste che lei stava per rivolgergli dato che le aveva fatto bagnare i capelli. 
Non si vedevano da quattro giorni e la passione divampò come un incendio. Raelynn gli passò le mani sul petto, graffiandogli delicatamente i muscoli con le unghie. Calbet ringhiò qualcosa e si abbassò per sollevarla: lei gli allacciò le caviglie dietro la schiena, posandogli le mani sulle spalle. 
«Lynn…» sussurrò e la ragazza annuì, gemendo sulle sue labbra. 
Si puntellò alla parete e in un istante fu dentro di lei. Si mosse con decisione e Raelynn lo assecondò, reggendosi alle sue spalle, sentendo i muscoli guizzare sotto i palmi. Finì tutto in breve e Calbet rimase ad ansimare con la fronte appoggiata alla spalla di lei, reggendola con un braccio attorno alla vita. 
Quando il respiro si acquietò, la rimise a terra e le circondò il viso con le mani, baciandola con delicatezza. 
«Mi sei mancata, dolcezza» sussurrò. 
«Anche tu» replicò lei con una risatina soddisfatta. 
Finirono la doccia e Calbet allungò una mano per afferrare gli asciugamani. Se lo legò in vita e avvolse lei nel telo, rubandole un altro bacio. 
«Tutto bene sulla Mayrein?» 
Calbet aveva prestato servizio sulla nave del suo amico Tost, che comandava appunto la Mayrein, l’ammiraglia della flotta di hovercraft di Zhaka. Tost aveva perso due membri del suo equipaggio nell’ultima missione e, dato che Calbet era libero, gli aveva chiesto aiuto. 
«Sì, tutto ok» confermò Cal. «Ma sta diventando davvero difficile uscire. Le Sentinelle sono sempre più agguerrite e Matrix era piena zeppa di agenti.» 
Matrix, la loro eterna condanna. Un mondo fittizio, messo di fronte ai loro occhi per nascondere una verità di sfruttamento e schiavitù. Un programma creato dalle macchine per tenerli tutti soggiogati. Loro due, così come molti altri nel corso dei secoli, erano stati liberati. Ma la maggior parte degli umani continuava ad essere sfruttata senza pietà, privata della propria energia e della libertà. 
Per un certo periodo, dopo la Rivoluzione, le cose erano andate diversamente e c’era stato un lungo periodo di pace. Ma erano passati trecentododici anni da allora e, da tempo, il conflitto tra gli umani e le macchine si era riproposto e ogni giorno raggiungeva nuovi livelli di crudeltà. 
Ormai liberare qualcuno era diventato estremamente difficile, e la comunità degli umani liberi si stava assottigliando sempre più. I vecchi morivano e i giovani venivano uccisi nel tentativo di dare nuovo respiro a Zhaka. 
Raelynn era stata liberata a quindici anni, ossia dodici anni prima, proprio nell’anno del trecentesimo Anniversario della Liberazione. Mentre viveva in Matrix, aveva sempre avuto la sensazione che ci fosse altro sotto la superficie, come se la realtà fosse nascosta sotto un velo. Quando era stata contattata da Bree, la donna che l’aveva liberata, non aveva avuto dubbi nello scegliere la pillola rossa. 
Un anno dopo era già in Accademia, dove si era laureata come la migliore del suo corso ad appena vent’anni. Aveva servito per cinque anni sulla Ninvar e, in seguito, il Consiglio le aveva affidato il comando della Livelyan, facendo di lei una dei più giovani capitani di Zhaka. 
Calbet aveva due anni più di lei ed era stato liberato dieci anni prima. Anche lui era entrato in Accademia e si era laureato, anche se non con gli stessi risultati di lei, aggregandosi all’equipaggio della Ninvar. Lì aveva conosciuto Raelynn e tra i due era scoccata la scintilla, tanto che quando le era stato affidato il comando, Calbet l’aveva seguita ed era diventato il suo secondo. 
«Ho saputo che ne avete liberato uno» disse la donna. Nei tempi passati, un solo umano liberato sarebbe stato tutt’altro che un gran bottino. Ma, per come stavano andando le cose ultimamente, la prospettiva era radicalmente cambiata. 
Raelynn aprì un barattolo preso dall’armadietto, diffondendo un forte odore di canfora nella piccola stanza. «Mi aiuti?» gli chiese, porgendogli il vasetto. 
Calbet immerse le dita nella pomata biancastra e prese a spalmargliela delicatamente sulla spalla, sotto la clavicola sinistra. 
«Ogni volta che vedo questa cicatrice penso a quanto vicino sono stato a perderti» mormorò, mentre lei si sottoponeva a quel massaggio con gli occhi chiusi. 
Un anno e mezzo prima, mentre si trovavano a quota trasmissione, erano stati attaccati dalle Sentinelle. Raelynn avrebbe dovuto abbandonare la nave, ma si era rifiutata di farlo, visto che lui era ancora bloccato in Matrix. Aveva evacuato l’intero equipaggio, ma lei era rimasta, mentre le Sentinelle penetravano nello scafo, facendogli da operatore per guidarlo fuori da Matrix. 
Una di quelle macchine infernali l’aveva raggiunta e trapassata da parte a parte con uno dei suoi tentacoli di acciaio, prima che Raelynn riuscisse ad azionare l’EMP, che aveva fritto tutte le Sentinelle nel raggio di chilometri, così come tutti i circuiti della Livelyan, in seguito recuperata e rimessa a nuovo. 
«Acqua passata, ormai» mormorò, mentre Cal le spalmava l’unguento sulla schiena. Anche se aveva rischiato di perdere il braccio, la ferita era perfettamente guarita, ma a volte tornava a farle male. 
«Ecco fatto» disse, chiudendo il vasetto e riponendolo. 
Raelynn lo ringraziò, mentre lui prendeva il rasoio e il sapone per farsi la barba. 
«Che fai?» chiese con un sopracciglio inarcato. 
«Mi taglio questa barba di giorni» spiegò. «Il mio comandante è un vero aguzzino e non transige su certi argomenti.» 
Raelynn sorrise e gli circondò la vita con le braccia, baciandogli le fasce di muscoli ai lati della spina dorsale. 
«Sono sicura che il tuo comandante, quando vedrà quanto sei sexy con la barba, chiuderà un occhio» sussurrò, uscendo poi dal bagno. 
Calbet scosse la testa con un sorriso ad incurvargli le labbra e si limitò a regolarla, lasciandola più lunga di come era solito portarla. 
Indossò abiti puliti e raggiunse Raelynn che stava preparando la cena. 
«Novità sulla Livelyan?» le chiese, mentre la giovane alzava lo sguardo su di lui e approvava il nuovo look con un sorriso. 
«Le riparazioni sono terminate stamattina. Domani usciremo per un collaudo, dopodichè torneremo in servizio attivo.» 
La Livelyan era a terra ormai da due settimane. L’ultimo incontro con le Sentinelle era stato piuttosto complicato. Si trovavano a quota trasmissione assieme ad una seconda nave, la Gariter. Dopo la sortita in Matrix, loro erano tornati, ma l’equipaggio della Gariter era ancora collegato quando erano stati agganciati dalle Sentinelle. 
Usare l’EMP avrebbe significato uccidere tutti quelli collegati e rendere inutilizzabile la nave, perciò Raelynn aveva ordinato che la Gariter spegnesse tutti i sistemi non necessari, sperando così di trarre in inganno le Sentinelle. Poi si era messa personalmente al comando della Livelyan, andando incontro ai nemici. Come aveva sperato, eccitato dalla vicinanza con la sua nave, lo sciame si era lasciato sfuggire il fatto che era presente un secondo hovercraft e si era messo all’inseguimento. 
L’obiettivo di Raelynn era sfruttare le dimensioni ridotte e la maneggevolezza della propria nave per allontanare il più possibile le Seppie dalla Gariter. Persino Calbet, che pure l’aveva già vista pilotare in quel modo, aveva avuto paura. Le aveva fatto da copilota e si era ritrovato a trattenere più volte il fiato mentre Raelynn lanciava la nave in curve sempre più strette e la faceva infilare in cunicoli con appena una spanna tra le piastre e le pareti del tunnel. 
Raelynn aveva fatto disattivare tutti i sistemi non essenziali per la navigazione, ma quando poi gli aveva ordinato di spegnere quasi tutte le piastre che li facevano fluttuare, Cal l’aveva guardata come se la ritenesse pazza. 
«So quello che faccio, Cal» era stata la sua replica. «Ora spegni quelle piastre». 
Erano passate due settimane e ancora non aveva idea di come Raelynn avesse potuto mantenere in aria l’hovercraft in quelle condizioni. Ma il motivo della sua scelta era stato evidente poco più tardi quando, raggiunta una distanza sufficiente dalla Gariter, Raelynn aveva fatto posare la nave e lanciato l’EMP. Spegnere completamente una nave richiedeva tempo: meno sistemi erano attivi e più veloce era il processo. Le Sentinelle erano rimaste fulminate dall’impulso e loro erano riusciti a tornare indietro a difendere la Gariter finché l'equipaggio non era tornato e avevano preso la via di casa.
Raelynn si era beccata un richiamo ufficiale per quell’azione e Calbet sospettava che le riparazioni fossero durate così tanto solo perché il Consiglio voleva tenerla a terra per punizione. Certo, non potevano ufficializzare una sospensione ad un capitano che aveva sgominato un tale numero di nemici, ma potevano agire in altri modi, come rallentando le riparazioni della Livelyan. 
«Hai detto che il collaudo sarà domani?» le chiese, mentre le rubava un gambo di sedano e si metteva a sgranocchiarlo. Come facessero i tecnici di Zhaka a produrre frutta e verdura in quelle condizioni restava un mistero per lui, ma era grato del loro impegno che forniva alla colonia tutto ciò di cui aveva bisogno. 
«Esatto» risposte la ragazza. 
«Ma domani è la Festa della Liberazione» mormorò Calbet. 
«Sì, una gran bella liberazione direi» replicò, piccata. 
Trecentododici anni prima, proprio quel giorno, Neo e Trinity avevano raggiunto la città delle macchine con un hovercraft e, pagando con la loro vita, erano riusciti a sancire un accordo con l’Architetto, il programma responsabile di Matrix. 
Tutti a Zhaka conoscevano la storia, anche se con il passare delle generazioni si era arricchita di dettagli e si era ammantata di un velo di mistero e di quella patina di eroismo che avevano solo le leggende. 
Per quasi cinquant’anni, le cose erano andate come promesso: le Sentinelle pattugliavano ancora i condotti in cui si muovevano gli umani, ma non li attaccavano più. Nemmeno i programmi di sorveglianza di Matrix davano più la caccia agli umani, finalmente liberi di scegliere il proprio destino. Per i primi tempi era stato difficile abbandonare i vecchi pregiudizi, e gli umani guardavano ancora con sospetto a quelle macchine mortali. Ma, man mano che la convivenza proseguiva in maniera pacifica, avevano abbassato la guardia. 
Quello che gli umani non sapevano, era che quella delle macchine era una tregua momentanea. Il loro obiettivo non era cambiato, anzi: vedevano nella progressiva fiducia degli umani un’occasione per infiltrarsi fra di loro. 
Ormai a conoscenza della posizione di Zion, le macchine avevano costituito un poderoso esercito e sferrato un attacco al cuore della città. Gli umani ci avevano messo poco a capire che stavolta non c’era nessun Eletto a salvarli e, dopo una furiosa battaglia durata giorni, Zion era caduta. 
I pochi superstiti, feriti nel corpo e fiaccati nello spirito, erano riusciti a far perdere le proprie tracce alle Sentinelle, rifugiandosi ancora più in profondità, ormai rassegnati ad una lenta estinzione. 
Ma la resilienza del genere umano aveva nuovamente fatto il miracolo. Nuove colonie erano state fondate, agglomerati come Zhaka, e le comunità erano tornate a vivere. C’erano voluti cinquant’anni per ricostruire ma, alla fine, gli umani avevano trovato i materiali e le risorse per ricostituire la flotta e il coraggio per riportarla a quota trasmissione a sfidare nuovamente Matrix. 
Gli umani celebravano ancora la memoria della Liberazione e del sacrificio dell’Eletto. Raelynn era grata a Neo e Trinity per ciò che avevano fatto, erano i suoi idoli, ma era in disaccordo con i vertici del potere politico e militare di Zhaka. Secondo lei non si stava facendo abbastanza, dovevano essere più presenti in Matrix e liberare più persone possibile: non serviva a nulla celebrare il loro sacrificio se poi non si era disposti a rischiare quanto loro per liberare l’umanità.  
«Tranquillo, torneremo in tempo per la festa» riprese Raelynn, dedicandosi ad affettare del formaggio di soia. Non c’erano animali a Zhaka, quindi nessuno dei due aveva mai mangiato carne, né bevuto latte: coltivavano quel che serviva loro nei sottolivelli logistici ed era già in miracolo che potessero permettersi verdure fresche. Mentre erano in missione a bordo degli hovercraft, per questioni di peso e di spazio, si nutrivano di immonde brodaglie costituite di proteine e amminoacidi e, non appena sbarcavano, non vedevano l’ora di mangiare cibo vero, per quanto a volte surrogato di quello reale. 
Raelynn mise in tavola la cena che aveva preparato ma, prima che potesse sedersi, Calbet le cinse i fianchi con le braccia e la strinse a sé. 
«Non mi interessa tornare per la festa» dichiarò. «Ma vorrei che partecipassi sul serio e ti lasciassi andare, solo per una sera.» 
La ragazza sbuffò e cercò di divincolarsi dal suo abbraccio. 
«Non sbuffare, donna» la rimproverò bonariamente. «Voglio solo vederti serena per qualche ora» aggiunse in tono serio, sfiorandole la fronte con il dito per farle distendere le rughe di preoccupazione che vedeva sempre più spesso corrugarle la pelle. Raelynn parve rilassarsi e permise ad un sorriso di curvarle le labbra. 
«Amos avrebbe dovuto lasciarti in Matrix, quella volta» borbottò riferendosi alla sua liberazione. 
Poi la sua espressione cambiò, quando si rese conto, con la solita fitta di sgomento, che Amos non c’era più. Era il migliore, senza dubbio, e la mente volò in un lampo a quel giorno di dodici anni prima, il giorno in cui aveva conosciuto Amos e la sua compagna Bree. Il giorno in cui era stata liberata da Matrix.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Il mondo reale ***


Dunque, le macchine non hanno rispettato il patto con Neo
e sono tornate ad attaccare gli umani.
Zion è caduta da secoli, ma la Resistenza vive.
E in questo capitolo conosceremo meglio
uno dei personaggi di questa storia.
Buona lettura!


«Megan! La cena è pronta. Non te lo dirò una seconda volta.»
La ragazza arrovesciò gli occhi, ma non aveva voglia di mettersi a discutere perciò chiuse il portatile e uscì dalla propria stanza.
Megan era orfana dall’età di tre anni. I suoi genitori erano morti entrambi in un incidente stradale: anche lei era in auto con loro ma ne era uscita miracolosamente illesa.Da allora, Megan era passata da una famiglia affidataria all’altra. Gli ultimi due anni li aveva passati con i Miller. Lui era un affermato chirurgo vascolare e lei una ex modella e vivevano in un enorme appartamento in una delle zone più Chic di Manhattan. Per ragioni a lei incomprensibili, dato che a volte aveva l’impressione di essere solo un fastidio per loro, avevano deciso di diventare i suoi tutori.
A dodici anni, Megan era un piccolo genio dell’informatica. Computer e smartphone non avevano segreti per lei e leggere il codice binario non era più complicato che sfogliare il New York Times. Meno di un anno prima aveva superato il firewall della Casa Bianca solo per dimostrare a se stessa che poteva farlo: la sua incursione era stata talmente ben congeniata che l’FBI non si era ancora presentato a casa loro per chiedere spiegazioni, segno che nessuno si era accorto della sua scorreria informatica.
Non c’era codice che lei non potesse violare, né password che potesse resisterle. I computer e l’informatica erano il suo mondo. Eppure…Eppure, sentiva che c’era qualcos’altro sotto. Era come se vivesse la propria vita con un velo steso davanti agli occhi. Era una sensazione che l’accompagnava da che aveva memoria, come quando vedi qualcosacon la coda dell’occhio, un movimento, uno sfarfallio, ma quando ti volti in quella direzione non c’è assolutamente nulla. Era questa la sensazione che sentiva addosso tutti i giorni come una seconda pelle.
Scese l’asettica scala in vetro e acciaio e raggiunse i Miller in sala da pranzo. John non alzò nemmeno gli occhi dal suo cellulare quando entrò mentre Allison si limitò a squadrare con una vaga espressione di disgusto la felpa e i jeans strappatiche indossava.
Megan sedette al proprio posto senza una parola, mentre i domestici – ma chi diavolo aveva ancora i domestici nel ventunesimo secolo? – servivano la cena. Mangiò senza appetito, lo sguardo concentrato sul piatto. Sentiva Allison ciarlare con il marito di non sapeva nemmeno cosa e lui rispondere con monosillabici grugniti. Chissà perché era così importante che cenassero insieme? Avrebbe preferito cenare in camera sua, ma Allison sosteneva che quei momenti “cementavano la famiglia”. Già, proprio una splendida famiglia, pensò Megan, piluccando svogliatamente la cena.
Quando finalmente quella farsa terminò e lei poté tornare in camera sua, trasse un sospiro di sollievo, appoggiata alla porta della sua stanza illuminata solo dai led colorati dietro i monitor dei suoi computer. L’unica cosa positiva dei Miller era che erano pieni di soldi e decisi a non farle mancare nulla. Infatti, aveva sempre l’ultimo modello di smartphone e qualsiasi diavoleria elettronica chiedesse poteva essere sua, oltre a poter frequentare le migliori scuole private del paese.
Sedette alla scrivania e riavviò il portatile, mentre infilava gli auricolari nelle orecchie e alzava al massimo il volume della musica, alla ricerca di un ottundimento dei sensi che le facesse scordare la sua situazione.
Non appena il computer fu avviato, una piccola icona a forma di stella attirò la sua attenzione dalla barra delle applicazioni. Non era un’icona conosciuta, non l’aveva mai vista. Mentre la osservava, indecisa se cliccarci su o meno, l’icona lampeggiò due volte, una volta in rosso e una in blu.
Un brivido le corse lungo la schiena: aveva letto di quell’icona nel dark web, ma era avvolta da strati di mistero talmente impenetrabili che aveva finito per credere che fosse nient’altro che una chimera.
Con il fiato sospeso, mosse il mouse e cliccò due volte sulla stellina che ora, dopo quei due lampeggi, era tornata ad essere di un anonimo colore bianco. Una schermata totalmente nera sostituì l’esplosione di colori astratta che era il suo desktop. Un cursore verde lampeggiava in alto a sinistra.
Le mani di Megan, sospese sulla tastiera, attesero. Poi, d’improvviso, il cursore si mosse.
Ciao, Raelynn.
Oh, cavolo! Chiunque fosse al di là di quella schermata nera, conosceva il suo pseudonimo hacker. Qualcuno si era infilato nel suo computer, il che era impossibile. Sfiorò con le dita i tasti, ma non sapeva come rispondere a quel messaggio.
Non devi avere paura di me.
Oh, l’ultima cosa che aveva era paura. Eccitazione, sì. Curiosità, sì. Paura, assolutamente no.
Non ho paura, si decise finalmente a rispondere. Chi sei?
La risposta arrivò immediata: Il mio nome è Bree. Domani, davanti alla tua scuola sarà parcheggiato un SUV blu scuro con i vetri oscurati. Sali a bordo, ti spiegherò tutto.
Non fece in tempo a rispondere che la schermata nera si chiuse. L’icona con la stella era scomparsa, quasi non fosse mai esistita. Batté freneticamente le dita sulla tastiera, cercando tracce di quello strano scambio di messaggi, ma Bree, chiunque fosse, era tornata ad essere invisibile.
Quella notte, Megan non riuscì a chiudere occhio e il mattino seguente, stupendo i suoi tutori, fu la prima ad arrivare a colazione. Trangugiò in fretta i suoi cereali, agguantò una mela per merenda e uscì, infilandosi in auto. L’autista la salutò con uno sguardo allo specchietto retrovisore e la portò a scuola.
Non appena la scaricò davanti all’istituto, Megan si guardò intorno. C’erano una quantità di auto di lusso parcheggiate di fronte alla sua scuola, ma un solo SUV blu scuro con i vetri oscurati. Si guardò intorno e attraversò la strada correndo. Senza alcuna esitazione afferrò la maniglia dalla parte del passeggero e salì. Non era la prima volta che marinava la scuola, ma mai per questioni eccitanti come quella di quel giorno.
C’era una donna al volante. Era giovane, forse sui venticinque anni, con i capelli cortissimi di un biondo quasi bianco e gli occhi verdi.
«Io sono Bree» disse a mo’ di presentazione. Poi mise in moto e si immise nel traffico.
«Come hai fatto a entrare nel mio computer?» chiese Megan, ma Bree non rispose, limitandosi ad un sorriso.Guidò in silenzio per una decina di minuti, finché non si infilò in un parcheggio sotterraneo. Si fermò in un posto vuoto.
«Seguimi. Ti spiegherò tutto» disse e scese.
Di nuovo, Megan non esitò e seguì Bree dentro un ascensore. Si aspettava che Bree selezionasse il piano, ma la donna digitò una specie di codice e la cabina si mosse verso il basso, sebbene sulla tastiera non fossero segnati piani più bassi rispetto a quello in cui si trovavano.
Quando le porte di aprirono, Megan si trovò in una specie di bunker. In quel luogo c’erano più attrezzature tecnologiche di quante ne avesse mai viste e si trattenne a stento dal correre a mettere le mani su quei congegni.C’erano altre due persone in quel luogo. Uno era un ragazzo a cui Megan non avrebbe dato più di quindici anni. Era seduto ad una consolle grande quanto la plancia di comando dell’Enterprise: le rivolse un sorriso incoraggiante e le fece l’occhiolino, scuotendo i rasta.L’altro era un adulto e, a giudicare dallo sguardo che posò su Bree, doveva essere il suo compagno.
«Benvenuta, Raelynn» disse rivolto a lei. «Non vedevo l’ora di conoscerti. Io sono Amos» aggiunse, tenendole la mano.Era un uomo piuttosto attraente, con i capelli scuri appena spruzzati d’argento alle tempie e profondi occhi castani. Al pari di Bree, le risultò subito simpatico.
«Non vedevi l’ora di conoscere me?» chiese in tono incredulo. «Io sono solo una ragazzina dodicenne.»
Amos sogghignò: «Sei molto di più, credimi.»
Girò lo sguardo su Bree e le fece un cenno. La donna le posò delicatamente una mano sulla spalla, spingendola verso una sedia. Megan sedette e Bree trascinò una seconda sedia davanti a lei, prendendo posto.
«Quello che ti dirò, ti sembrerà assurdo. Ma è importante che mi ascolti con attenzione. Poi potrai scegliere di non credermi e tornerai alla tua vita.»
Qualunque cosa Bree avesse da dirle sarebbe stata meglio della sua insulsa vita; quindi aprì le orecchie e si dispose ad ascoltarla con attenzione.
Bree le disse che il mondo in cui viveva non era altro che un’illusione, una simulazione virtuale creata dalle macchine per tenere soggiogato il genere umano, sfruttato come fonte d’energia. La donna le spiegò che in un passato talmente remoto da essere quasi perduto, le macchine avevano preso il controllo del mondo. Gli umani avevano oscurato il sole, sperando che bastasse a fermarle, ma l’unico risultato era stato rendere la superficie della Terra inabitabile. Decimati e braccati dalle macchine, gli umani rimasti si erano rifugiati in profondità. Narrò di città costruite vicino al nucleo del pianeta, di navi di acciaio che combattevano una guerra contro le Sentinelle, di battaglie sanguinose che avevano portato quasi all’estinzione il genere umano.
Su una cosa Bree aveva ragione: tutto era assurdo. Ma, cosa altrettanto vera, a Megan non sembrava tale. Tutto quello che la donna le stava raccontando collimava perfettamente con le sensazioni che lei si era sempre sentita addosso. Non ricordava nemmeno quando fosse cominciata quella sensazione, ma a memoria ce l’aveva sempre avuta. E quando lo disse a Bree, la donna annuì.
«Sì, a volte succede. Alcuni di noi nascono, come dire, refrattari al sistema. Queste persone di solito vengono intercettate e resettate. Ma a volte, come nel tuo caso, arriviamo prima noi.»
Amos si avvicinò alla donna e le sussurrò qualcosa all’orecchio.
«Raelynn, noi siamo pronti. Ora la decisione sta a te» le disse. Le allungò una scatoletta argentata, invitandola ad aprirla.Dentro Megan vide due pillole traslucide, una rossa e una blu.
«Con la pillola azzurra, ci salutiamo qui. Dimenticherai questo incontro e tutte le cose che ti ho detto, tornando alla tua vita di prima» spiegò Bree. «Con la rossa… beh, con la rossa ti sveglierai nel mondo vero.»
Megan non ebbe alcuna indecisione e afferrò la pillola rossa, pronta a metterla in bocca.
«Aspetta!» la bloccò Bree. «Devi essere sicura, Raelynn. La vita non è facile, nel mondo da cui veniamo.»
«La mia non lo è stata mai» borbottò la ragazza, trangugiando la pillola rossa.
Non appena ebbe compiuto quel gesto, un certo sollievo si dipinse sul volto di Bree e Amos. La donna si alzò e raggiunse il ragazzo alla consolle, mentre Amos si accosciava accanto alla sua sedia.
«Ora rilassati, ok? La pillola che hai preso ci permette di localizzarti per venirti a prendere quando ti sveglierai. Ti sembrerà un incubo, ma durerà poco, te lo assicuro. Saremo lì, Raelynn.»
La ragazza annuì. Dietro di lei sentiva Bree parlare con l’altro ragazzo, ma non riusciva a concentrarsi sulle loro voci. Poi sentì le mani di Bree su di sé: le applicò un piccolo elettrodo sul collo che restituì nella stanza il battito cardiaco. Trasse un sospiro, cercando di normalizzare la corsa forsennata del cuore che sentiva galoppare nel petto come un mustang lanciato sulla prateria.
«È normale che il cuore corra così?» chiese, ansimando leggermente.
Si rese conto che la vista si stava restringendo, divenendo nera ai bordi. Scosse la testa, come a volerla schiarire, ma la situazione non migliorò.
«Tranquilla, Raelynn. Va tutto bene» cercò di rassicurarla Amos, sfiorandole il dorso della mano.
La vista si oscurò del tutto, il battito del cuore accelerò ad un livello esagerato.
«Non ci vedo più!» gridò la ragazza, che percepì le mani di qualcuno racchiuderle il viso.
«Va tutto bene, Raelynn». La voce rassicurante di Bree le arrivò come da una grande distanza. «Starai bene, tesoro. Lasciati andare, ti prenderemo noi.»
Megan avvertì una forte fitta al petto e qualcosa si spezzò dentro di lei. Ebbe la sensazione di cadere in un buco oscuro, nero come la pece. In un angolo della sua testa era consapevole di stare morendo ma non era preoccupata: era come se percepisse che quel passaggio era necessario e vi si abbandonò.
Quando riaprì gli occhi, non capì subito dove si trovava. Era distesa sul dorso e galleggiava in una specie di gelatina rosa. Si rese conto che aveva un tubo in gola ed era quello a permetterle di respirare e, quando allungò lo sguardo verso il proprio corpo, vide che aveva tubi infilati nelle braccia, nelle gambe, sul petto.
Un oscuro terrore si impadronì di lei e, d’istinto, tese le mani verso l’alto, come a volersi liberare da quel bozzolo. La parete traslucida si spaccò e Megan riuscì ad uscire. Cercava freneticamente aria, ma il tubo che aveva in gola le impediva di respirare, così lo afferrò e tirò per liberare la trachea.
Ci riuscì, tossendo mentre i polmoni si riempivano di aria. Non fece in tempo a guardarsi intorno che i tubi che aveva conficcati sul corpo si staccarono con un sibilo e, quando fu libera, una botola sul retro della capsula si aprì e la risucchiò dentro.
Ancora intontita da quella situazione spaventosa e del tutto nuova, scivolò in un condotto scuro finché piombò in un bacino di acqua gelida. Sorpresa, riuscì in qualche modo a tenersi a galla, ma era come se i muscoli non rispondessero agli stimoli inviati dal cervello. Mentre l’acqua si chiudeva sulla sua testa vide delle luci sopra di sé, ma era troppo stanca per curarsene e perse conoscenza.
Quando si risvegliò, si accorse di essere distesa su quello che le parve un tavolo operatorio di acciaio. Sopra di sé, nonostante la vista annebbiata, scorse tubi e condotti, finché il viso conosciuto di Bree non entrò nel suo campo visivo.
«Ben tornata, Raelynn» la salutò. «Come ti senti?»
«Stanca» mormorò con un filo di voce.
Bree sorrise, posandole una mano sulla fronte con delicatezza: «Lo so. Riposa, presto starai meglio.»
E lei chiuse gli occhi, cedendo a quella immane stanchezza.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Il capitano e il generale ***


Liberata da Amos e Bree,
Raelynn è ora un membro attivo della comunità di Zhaka.
E con la sua nave vuole fare la differenza.
Ma non tutti, a Zhaka, sono dalla sua parte...
Buona lettura!

Quando le porte dell’elevatore si aprirono sul molo numero tre della darsena di Zhaka, Raelynn precedette Calbet fuori dalla cabina e lui non poté fare a meno di notare una nuova baldanza nel passo della sua compagna: anche se aveva passato quelle due settimane a sovrintendere alle riparazioni, stare a terra doveva essere stata una tortura per lei. 
La Livelyan era attraccata al molo. Non era un gigante come la Nabucodonosor, la nave del capitano Morpheus che aveva passato la vita a cercare l’Eletto, ma quello era vero per tutte le navi della loro flotta. Dopo la caduta di Zion e la fuga, non c’erano le risorse per costruire una flotta potente come quella del passato e, cosa ancor più importante, avevano bisogno di hovercraft più piccoli e maneggevoli, in grado di infilarsi negli stretti cunicoli in cui le Sentinelle li avevano costretti a vivere. 
La nave era quindi piccola e compatta, ma armata fino ai denti. Era una delle ultime e più tecnologiche aggiunte alla flotta, costruita cinque anni prima nei cantieri navali di Zhaka e da due sotto il comando di Raelynn. 
Qualcuno mormorava, scontento per quella scelta del Consiglio: assegnare una nave come la Livelyan ad un comandante così giovane, secondo loro, era un azzardo che Zhaka non poteva permettersi. Ma Calbet, che serviva sotto di lei, sapeva che il Consiglio aveva visto giusto e Raelynn, nonostante la giovane età, aveva già avuto modo di distinguersi. 
Vereena e Edjac, due membri dell’equipaggio, erano sul molo e dirigevano alcuni inservienti che stavano caricando le munizioni. Vereena era una ragazza dagli occhi di un azzurro prodigioso e i capelli biondi tagliati corti. Era stata liberata da Matrix giovanissima, ad appena dieci anni, assieme ai suoi genitori. Suo padre era attualmente membro del Consiglio di Zhaka. Da un anno faceva coppia con Thorner, l’operatore della Livelyan. Aveva trentasei anni e aveva rifiutato il comando perché non si sentiva in grado di gestire quella responsabilità, preferendo rimanere al servizio di un comandante molto più giovane di lei. 
Quando vide Raelynn, portò il pugno al petto in segno di saluto, chinando rispettosamente il capo. La donna le aveva detto più volte che non era necessario, che erano una famiglia più che un equipaggio, ma tutti loro ci tenevano, soprattutto quando erano in pubblico. 
Edjac, ventidue anni, era uscita da pochissimo dall’Accademia. Come Thorner, era nata a Zhaka e si era offerta volontaria per prestare servizio sulla nave di Raelynn, che venerava come fosse una dea. 
«Bentornata, capitano» disse infatti, con un enorme sorriso stampato sulle labbra, evidentemente ansiosa di partire. 
«Siamo pronti?» chiese e Vereena annuì. 
«Queste sono le ultime» spiegò, indicando le quattro casse di munizioni che gli inservienti stavano spingendo all’interno del vano di carico. 
«Molto bene» approvò la donna. «Vi aspetto a bordo.» 
Mentre percorreva la passerella di metallo, alzò gli occhi e sorrise, accarezzando con lo sguardo la struttura della Livelyan, di nuovo integra e pronta a prendere il largo. Attraversando il portello alzò la mano e sfiorò il metallo con il palmo. 
«Ciao, Liv» sussurrò, utilizzando il nomignolo con cui chiamavano affettuosamente l’hovercraft. 
Raggiunsero la sala link dove Thorner era già alla sua postazione. Era un gigante che superava i due metri e Raelynn si chiedeva sempre come facesse a far passare la sua mole nei più nascosti meandri della nave. Proprio per il suo fisico possente, tutti a bordo lo chiamavano Thor. I lunghi capelli castani erano raccolti in un codino e gli occhi nocciola erano grandi e luminosi. Era un “umano DOC”, come gli piaceva definirsi, ovvero era nato e cresciuto nel mondo reale e non aveva sul corpo gli spinotti che costellavano le braccia e il petto di tutti coloro che erano stati liberati da Matrix. 
«Capitano» la salutò, con il pugno sul petto. «La Liv è pronta a salpare, tutti i sistemi sono online.» 
«Grazie, Thor. È bello tornare a bordo.» 
Calbet le sfilò dalla spalla la borsa e sparì lungo il corridoio, diretto alla loro cabina. 
Oltre agli umani, il personale di bordo contava due NBO (Non-BiologicalOrganism). Erano macchine senzienti che si erano unite agli umani dopo la Liberazione. La maggior parte di queste, quando le Sentinelle avevano attaccato Zion per la seconda volta, si erano rivoltate contro di loro. Ma molte avevano sviluppato una sorta di attaccamento e avevano combattuto al loro fianco contro le macchine. 
Raelynn salutò Alpha, una macchina grande quanto un grosso scooter, la cui forma ricordava quella di un grosso gamberetto con un carapace di metallo, e Beta, più piccola e compatta, che nelle forme richiamava quelle di un grillo. Si fidava di quelle due macchine come di qualsiasi altro membro della sua nave e non avrebbe esitato ad affidar loro la vita. 
Calbet tornò e prese posto accanto a Thor, mentre Raelynn invece si incamminò dalla parte opposta, verso la cabina di pilotaggio. 
«Capitano» disse Rosius, l’ultimo membro dell’equipaggio, dandole il benvenuto in plancia. 
Aveva un anno meno dei ventisette di Raelynn. Era entrato in Accademia più tardi degli altri ed era al suo primo incarico. Era un bravo pilota e Raelynn si fidava di lui e gli lasciava spesso il timone, eccetto quando erano in piena battaglia. Era di origini miste e la pelle color caffellatte e i capelli neri e ricciuti lo dimostravano. 
«D’accordo. Vediamo di muoverci.» 
Rosius prese posto sul sedile del copilota, lasciandole il comando: sapeva che spettava a lei il compito di portare la nave fuori da Zhaka per quel giro di collaudo dopo le riparazioni. 
«Grazie, Rosius» mormorò riconoscente, sedendo sul sedile e indossando le cuffie. 
«Equipaggio a bordo, portelli chiusi» le disse Thor in cuffia. «La nave è tutta sua, capitano.» 
Raelynn sorrise sentendo la frase che le rivolgeva sempre prima di partire: non c’erano formalità fra loro e quella era l’unica volta in cui le dava del lei. Poi premette un pulsante sulla cloche e si collegò con il centro di comando. 
«Controllo, qui nave Livelyan. Chiediamo il permesso di lasciare l’attracco.» 
Dietro di loro, nel grande complesso della capitaneria di porto, alcuni soggetti erano collegati ad un programma virtuale che permetteva loro di gestire il porto, in costante contatto radio con le navi della flotta e con le unità APU, giganteschi esoscheletri meccanici comandati dagli umani che, pesantemente armati, avevano il compito di difendere la darsena.  
«Nave Livelyan, qui Controllo. Restate in attesa.» 
Mentre attendeva l’ok, Raelynn avviò i potenti motori della nave. Con un sibilo acuto, le piastre ad energia elettromagnetica si accesero una dopo l’altra e Raelynn avvertì il brivido della nave nella cloche, quasi come un purosangue che non attende altro se non lanciarsi in una folle corsa. 
«Nave Livelyan, qui Controllo. Avete il permesso di lasciare l’attracco. Dirigetevi al varco due.» 
Raelynn accusò ricevuta e diede potenza alle piastre. La nave si sollevò da terra e Rosius si affrettò a ritirare il carrello. La donna tirò leggermente a sé la cloche e la Liv alzò appena il muso, librandosi in aria per acquisire spazio di manovra, dato che il varco due era dietro di loro. 
Zion aveva quattro varchi, uno per ogni punto cardinale, e una flotta di decine di navi. Zhaka aveva solo due varchi, uno a nord e l’altro a sud, e oltre alla Livelyan, c’erano solo altre tre navi: la Ninvar, su cui sia Raelynn che Calbet avevano iniziato il loro servizio, la Gariter e la Mayrein, l’ammiraglia della flotta. In quel momento erano tutte all’attracco. 
La Liv ruotò su se stessa e si allineò per l’uscita. Le grandi porte di acciaio si stavano aprendo, cigolando sui rulli, trascinate da pesanti catene collegate ad enormi argani, e la nave rimase in volo stazionario a mezz’aria, in attesa. Sotto di loro, due unità APU presidiavano il varco, le armi puntate all’esterno, verso il condotto buio, pronte ad intervenire in caso di problemi. 
Non appena i battenti furono spalancati, Raelynn spinse la cloche in avanti e la Liv rispose con l’entusiasmo di un cavallo brado, spingendosi all’esterno, nell’oscurità rischiarata solo dal bagliore azzurrino delle piastre e dalla luce dei fari ad alto rendimento che la nave montava sopra la cabina di pilotaggio. 
Non rimase ad attendere che il varco si richiudesse e spinse la nave nel cunicolo. Ormai conosceva a memoria quei passaggi e non aveva bisogno della mappa olografica davanti a sé per guidare la Livelyan. Si infilò nei cunicoli scavati nel corso dei secoli dagli umani fuggiti dalla superficie ormai invivibile, dedicando quei primi minuti a saggiare le reazioni della nave. 
Al suo fianco, Rosius teneva d’occhio gli scanner: non c’erano Sentinelle nei paraggi, il che era senz’altro una buona cosa. Il cunicolo che stavano navigando non era molto più grande della loro nave, perciò Raelynnprocedette con cautela, giocando con la cloche con tocchi delicati, finché arrivarono ad uno snodo da cui si dipartivano diverse gallerie più grandi. 
Gettò un’occhiata agli scanner termici e, non vedendo minacce, spinse avanti la barra di comando con decisione. La Livelyan si infilò nel passaggio, accelerando quando diede più potenza. 
«Thor» chiamò nell’auricolare, «qualcosa non va al posteriore. È pesante sul lato sinistro.» 
«Notato» replicò subito l’altro, che evidentemente aveva già visto l’anomalia sui suoi computer. «Sto verificando.» 
Raelynn era fiera del suo equipaggio proprio per questo motivo: ormai lavoravano a stretto contatto da anni e si era instaurata una sorta di comunicazione non verbale che aveva in sé qualcosa di straordinario. Ognuno sapeva quale fosse il suo posto e lavorava in splendida sinergia con gli altri: non avrebbe voluto nessun altro a bordo. 
Qualche istante dopo, Raelynn sentì cambiare il comportamento della nave, mentre Thorner equilibrava la potenza sulle quattro piastre posteriori. 
«A posto» disse, laconico. 
La nave avanzava nella galleria, sorretta dalle piastre elettromagnetiche. Davanti a loro, distante meno di un chilometro, la mappa olografica mostrava un altro snodo di grandi dimensioni. 
«Va bene. Vediamo se sei ancora agile come prima, Liv» disse Raelynn rivolta alla nave. Accanto a lei, Rosius si strinse meglio le cinture attorno al petto e comunicò agli altri di fare lo stesso. 
«Potenza al settantacinque percento» ordinò, e Rosius batté alcuni comandi sulla tastiera. 
La nave balzò avanti e Raelynn ne controllò la spinta senza problemi. 
«Pronto al mio comando» disse a Rosius. 
La Livelyan sbucò all’improvviso nello snodo, una grande caverna su cui si aprivano diversi tunnel. 
«Ora, novanta percento. Duecentosettanta gradi» ordinò la donna con voce calma. 
Rosius eseguì: Raelynn fece compiere alla nave una rotazione di tre quarti in senso antiorario, fino a trovarsi con la poppa in alto e la prua in basso. Quindi si infilò con la parte posteriore in uno dei tunnel sul soffitto e proseguì verso l’alto in verticale. Le cinture li trattennero al sedile, mentre la forza di gravità li attirava verso il basso, verso il fondo della caverna che videro sparire nell’oscurità. 
«Se mi avessi detto che avevi intenzione di fare manovre di questo genere avrei saltato la colazione stamattina» borbottò Thorner e Raelynn sogghignò. 
La manovra era stata repentina, eppure la Livelyan aveva risposto alla perfezione, segno che le riparazioni erano andate a buon fine. Raelynn aveva bisogno di sapere che tutti i sistemi della nave, in qualsiasi momento ce ne fosse stato bisogno, avrebbero funzionato al cento percento. Non c’era margine di errore quando si era inseguiti da un nugolo di Sentinelle e lei aveva la responsabilità di riportare a casa sana e salva la sua ciurma. 
La Livelyan sbucò in una galleria più ampia e Raelynn la rimise in orizzontale, ordinando a Rosius di ridurre la potenza. Il giovane continuava a tenere d’occhio gli scanner, ma navigavano talmente in profondità che era molto improbabile trovare Sentinelle. E Raelynn non aveva intenzione di portarsi a quota trasmissione. Non quel giorno, almeno. 
«Thor, facciamo esercitare gli artiglieri» disse in cuffia. Poi si rivolse a Rosius: «Trasferisci i comandi a Thorner e vai anche tu.» 
Mentre Thor caricava il programma di addestramento, tutti i membri dell’equipaggio si portarono alle loro postazioni: Calbet, che era capo artigliere, e Edjac alle torrette superiori mentre Rosius e Vereena a quelle posizionate in coda alla nave. 
Mentre Raelynn avrebbe pilotato la nave con l’aiuto di Thorner, gli altri sarebbero stati impegnati in una simulazione di attacco da parte delle Sentinelle. L’addestramento avrebbe avuto effetti anche sulla nave: se non fossero riusciti a fermare le Sentinelle virtuali, il programma avrebbe simulato i danni sulla Livelyan, costringendo Raelynn a governarla in condizioni di emergenza. Era un bell’esercizio per tutti loro. 
Quando tutti furono in posizione, Thor fece partire il programma. Il computer simulò l’arrivo di Sentinelle di fronte e in coda alla Livelyan in contemporanea: era la peggior situazione possibile. Eppure, furono tutti impeccabili: Raelynn impegnò tutta se stessa nel condurre la nave in evoluzioni sempre più complicate, lanciandola in curve strettissime e manovrando con tutta la propria maestria in cunicoli decisamente angusti, mentre gli artiglieri sbaragliavano orde virtuali di nemici con proiettili altrettanto virtuali. 
Non appena la simulazione terminò, Raelynn impostò il pilota automatico per tornare a Zhaka e lasciò la plancia. Raggiunse il centro della nave, dov’era la postazione di Thor, e si complimentò con la ciurma per l’ottimo lavoro. 
«Sono felice che queste settimane a poltrire non vi abbiano rammollito» esclamò. 
«Io non ho poltrito granché» borbottò Calbet. 
«Solo perché sulla Mayrein non te la fai col comandante» scherzò Rosius. 
«Tost non è proprio il mio tipo» replicò Cal, fingendo un brivido e strappando una risata a tutti. 
«Va bene, ora basta» li riprese Raelynn. «Questo non è un picnic, manteniamo una parvenza di disciplina». Poi, rivolta a Rosius: «Riportaci a Zhaka». 
Il giovane, orgoglioso di poter pilotare la nave personalmente fino a casa, scattò verso la plancia. Gli altri si dedicarono a riordinare le scorte e le munizioni, sempre in stato di allerta, pronti ad entrare in azione nel caso avessero incontrato delle Sentinelle. Comunque, non trovarono intoppi e un paio d’ore dopo Rosius annunciò che i cancelli di Zhaka erano in vista. 
Raelynn tornò in plancia ma, quando Rosius fece per cederle il timone nella delicata operazione di attracco, rifiutò. 
«L’hai portata fin qui» disse, calma. «Finisci il lavoro.» 
Rosius, tentando senza riuscirci di mascherare la sua gioia per quella prova di fiducia, contattò il Controllo di Zhaka e prese accordi per il rientro. I sistemi di difesa vennero disattivati e il varco fu aperto davanti a loro. Rosius fece rallentare la nave, in attesa che i battenti si spalancassero abbastanza da farli passare. 
«Cancelli aperti e letti fatti. Bentornati a Zhaka» disse il giovane operatore del Controllo, nella frase tradizionale che già era usata a Zion ogni volta che una nave rientrava in porto. Risentire quelle parole, ogni volta, mandava un brivido lungo la schiena di Raelynn: le ricordava per cosa stavano lottando e perché era fondamentale liberare più persone possibile. 
Rosius manovrò la nave con perizia, dirigendosi con sicurezza verso l’attracco e, con altrettanta padronanza, fece posare la Livelyan al suolo e spense i sistemi. 
Raelynn slacciò le cinture e gli strinse la spalla: «Ottimo lavoro, Rosius». 
Prima di scendere fecero un veloce briefing, analizzando quel giro di collaudo, mettendo in luce quello che non aveva funzionato, valutando ogni decisione e ogni manovra, per essere pronti a tutto in caso di un attacco vero da parte delle Sentinelle. 
«Bene, ragazzi» proclamò infine Raelynn. «Direi che per oggi è abbastanza, potete andare.» 
Scesero dalla nave e Edjac, la sacca in spalla, si fermò di fronte a Raelynn: «Ci vediamo stasera, alla festa?» 
Non fece in tempo a rispondere che qualcuno la chiamò dalla passerella superiore. 
«Capitano Raelynn!» 
Il tono non era per nulla amichevole e la testa di Raelynn scattò verso l’alto. Era il colonnello Linuth e, a giudicare dalla sua faccia, non era portatore di buone notizie. Assieme al generale Velius era uno dei più accaniti sostenitori del fatto che Raelynn fosse troppo giovane per comandare una nave. La donna aveva mantenuto il comando solo perché aveva diverse conoscenze all’interno del Consiglio, persone che la stimavano e che sapevano che era un ottimo capitano. 
«Il generale chiede di vederla immediatamente» aggiunse in tono burbero, come se non fosse abbastanza evidente il motivo per cui si era scomodato a raggiungere la darsena. 
Raelynn allungò la propria borsa a Calbet: «Ci vediamo a casa». 
Salì agilmente la scaletta e seguì Linuth. L’uomo la precedette in silenzio fino al quartier generale, mentre Raelynn gli fissava la nuca e la testa pelata, evitando di girare lo sguardo attorno ma percependo gli occhi di tutti addosso. 
Il colonnello si fermò davanti ad una porta metallica e la colpì una volta con le nocche. Un tonante “avanti” risuonò dall’interno: Linuth fece ruotare la maniglia e si scansò per farla passare. Lei avanzò decisa ed entrò nell’ufficio del generale. 
Come tutte le celle di Zhaka, era arredato in modo semplice e spartano. Una massiccia scrivania metallica occupava quasi tutto lo spazio e dietro di essa, su una poltrona imbottita, stava il generale Velius. Era un ometto piccolo di statura, prematuramente calvo e la scrutava con un paio di occhietti porcini. Non si alzò per accoglierla e non le disse di accomodarsi sull’unica sedia presente, perciò Raelynn rimase in piedi, le mani allacciate dietro la schiena. Linuth rimase un passo dietro di lei, in atteggiamento marziale. 
«Capitano, so che oggi ha effettuato il collaudo della Livelyan» esordì. Niente saluto, niente preamboli, non aveva nemmeno alzato gli occhi su di lei, continuando ad esaminare il documento posato sulla scrivania: il suo astio nei confronti di Raelynn era più che mai manifesto. 
«Sì, signore» replicò, telegrafica. 
«Qualcosa da segnalare?» 
«Nulla, signore.» 
Finalmente sollevò lo sguardo e la fissò, appoggiandosi allo schienale e congiungendo le mani davanti a sé. Raelynn rimase immobile, finché fu lui ad abbassare gli occhi. 
«Mi auguro si renda conto che questo collaudo non sarebbe stato necessario se lei non avesse contravvenuto agli ordini e non avesse ingaggiato battaglia contro uno sciame di Sentinelle.» 
La rabbia per quel commento le bruciò nelle vene, ma cercò di non mostrare alcuna reazione. Sapeva che Velius poteva rovinare la sua carriera e quella del suo equipaggio ed era decisa a far sì che non succedesse. Ma le seccava che il potere militare di Zhaka fosse in mano a tipi come lui, incapaci di spostarsi dalle proprie convinzioni: non pretendeva che le dessero una medaglia per ciò che aveva fatto, ma almeno che riconoscessero che c’erano una cinquantina di Sentinelle in meno là fuori per merito suo. 
«Non ha niente da dire, capitano?» insistette il generale. 
«No, signore» disse, orgogliosa del tono impassibile che riuscì ad imbastire. 
«Spero che abbia ben chiaro che la Livelyan le è solo affidata e non può disporne come le pare e piace. Le navi della flotta di Zhaka sono troppo preziose per essere messe in pericolo come si è permessa di fare.» 
Raelynn aveva la replica sulle labbra, ma le tenne chiuse. Avrebbe voluto chiedergli cos’avrebbe fatto lui in quella situazione. Avrebbe attivato l’EMP, uccidendo tutti quelli collegati a Matrix e mettendo fuori uso due navi? Quello che lei aveva fatto aveva salvato l’equipaggio della Gariter e riportato entrambe le navi al porto.
Avrebbe voluto dire a quel pomposo buffone che le navi della flotta dovevano essere utilizzate per salvare le persone che le macchine tenevano prigioniere di Matrix. E fargli notare che rimanere alla darsena non era una grande strategia: prima o poi le macchine avrebbero scoperto dove si nascondevano – ammesso che già non lo sapessero – e allora sarebbero arrivate per distruggerli. E non ci sarebbe stato scampo per nessuno di loro, come avevano già avuto modo di constatare in passato. 
Eppure, tacque. Rimase zitta senza reagire a quella che non era altro che una provocazione. Pensava alla propria carriera, sì. Ma pensava anche a quella del suo equipaggio: mai avrebbe permesso che loro pagassero per i suoi errori. E sapeva che mettersi contro Velius non aveva alcun senso, né l’avrebbe portata da qualche parte. Lui era nato a Zhaka e, a differenza sua, non sapeva cosa volesse dire vivere in Matrix con la costante percezione che ci fosse qualcosa di sbagliato, né era mai stato sfruttato dalle macchine come fonte di energia. Lei invece veniva da quel mondo e avrebbe fatto di tutto per salvare il resto dell’umanità, a qualunque costo. 
«Le è chiaro, capitano?» le domandò in tono brusco, dato che non aveva replicato alla sua precedente affermazione. 
«Perfettamente chiaro, signore» disse, mettendo un sottile velo di sarcasmo che Velius non percepì ma che, a giudicare da come strusciò i piedi sul pavimento, non sfuggì a Linuth. 
Velius annuì e riportò l’attenzione sul documento ancora posato davanti a sé. 
«Può andare, capitano» la congedò. 
«Grazie, signore» replicò Raelynn, girando sui tacchi e raggiungendo la porta senza degnare Linuth di un’occhiata. Era già con la mano sulla maniglia quando Velius la fermò. 
«Dimenticavo» esordì e, quando lei si volse e vide il viscido sorrisetto sul suo viso, Raelynn capì che non l’aveva dimenticato per niente ma che aveva atteso proprio quel momento. «La sua nave è stata assegnata al servizio di pattuglia dei confini di Zhaka. Non ci saranno sortite a quota trasmissione fino a nuovo mio ordine.» 
Raelynn strinse i pugni con il desiderio impellente di abbatterli sulla faccia di quei due idioti, mentre un fiotto di acida collera le si riversava nello stomaco. Senza presunzione, Raelynn sapeva di essere uno dei migliori capitani di Zhaka: quello che stavano facendo era mera vendetta e tenere lei e il suo equipaggio di pattuglia nei dintorni della colonia era uno spreco di risorse. Ma non poteva permettersi di dare a quei due ulteriori pretesti per avercela con lei. Quindi rilassò le mani e abbassò il capo in un piccolo inchino. 
«Ricevuto, signore.» 
Velius annuì di nuovo, evidentemente soddisfatto della sua resa. Quindi fece un cenno con la mano ad indicare che poteva uscire. 
Appena ebbe richiuso dietro di sé la porta dell’ufficio serrò le palpebre e trasse un profondo respiro, cercando di mettere a tacere la rabbia che le ribolliva in corpo. Poi, recuperata una parvenza di autocontrollo, si avviò verso l’alloggio che condivideva con Calbet. 
Lui l’attendeva lì, stravaccato in poltrona a leggere. Alzò lo sguardo, notò la sua espressione e mise da parte il libro, alzandosi per accoglierla. 
«Qualche novità che dovrei sapere?» chiese, mentre lei sfilava la maglia, scompigliandosi i capelli. 
«Nessuna novità» replicò. «Nulla che già non sapessimo, ossia che non sono la preferita di Velius e se dipendesse da lui mi avrebbe già tolto il comando» concluse, gettando con rabbia la maglia sul pavimento. 
Sedettero al tavolo e lei gli raccontò brevemente quanto era successo. Cal sbatté con rabbia il pugno sul piano di metallo: «Non può tenerci di pattuglia, è uno spreco terribile.» 
«Credi che io non la pensi così? Ma non posso fare nulla, Cal. La mia posizione è già abbastanza precaria: se disobbedisco ad un ordine diretto come quello che mi ha dato, mi metterò ancor più nei guai. E non voglio rovinarmi la carriera, né tantomeno trascinare tutti voi nel fango.» 
«Lynn, sai che tutta la squadra ti seguirebbe senza fiatare» constatò lui. 
«Sì, lo so. Ed è proprio per questo che ti chiedo di aiutarmi a fare in modo che accettino la decisione come ho fatto io. Se dovessi perdere il comando della nave, non avremo più la possibilità di entrare in Matrix e liberare gli umani. E io non posso permettere che accada.» 
Calbet rimase in silenzio. Sapeva che la sua compagna aveva ragione, ma non poteva smettere di pensare al fatto che non era giusto che subisse tali vessazioni. Tutto ciò che aveva fatto, Raelynn l’aveva fatto, mettendo sempre il bene degli altri davanti al suo. Non aveva perso nessuno di quelli che le erano stati affidati e aveva sempre riportato la nave a Zhaka, per quanto danneggiata. 
La mano della donna gli si posò sul braccio e lo strappò ai suoi pensieri: «Posso contare su di te, Cal?» domandò. 
«Certo, Lynn. Non hai bisogno di chiedermi lealtà e fedeltà, sai che farò ciò che mi hai chiesto» replicò. Poi sogghignò: «Anche se avrei voglia di prendere a pugni quella faccia da stronzo di Linuth da che si è presentato sulla darsena come se ne fosse il padrone.» 
«Sapessi io!» confermò la donna, scoppiando a ridere. Quindi si alzò e gli tese la mano: «Andiamo a fare una doccia, che dici?» 
«Con il più grande piacere, donna!» esclamò, e la seguì in bagno.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Festa della Liberazione ***


A Zhaka è una sera importante:
è la Festa della Liberazione, il ricordo del sacrificio di Neo e Trinity.
Ma Raelynn ha molti pensieri che le frullano in testa dopo l'incontro con il generale Velius.
Pensieri che si moltiplicheranno quando un amico porterà notizie da Matrix.
Buona lettura!


Erano in ritardo. La doccia era durata molto più del previsto – Cal aveva paura che un giorno o l’altro avrebbero ricevuto un richiamo per aver abusato della scorta d’acqua dolce di Zhaka – e avevano perso la nozione del tempo mentre si perdevano l’uno nell’altra. 
Cal si affrettò sulle passerelle deserte di Zhaka, trascinandosi dietro Lynn, diretto alla caverna dove sapeva che erano tutti riuniti per la Festa della Liberazione. 
Lo scroscio di un applauso lo avvertì che i discorsi delle varie personalità erano già iniziati perciò allungò il passo, rallentando solo quando fu all’ingresso della caverna. Entrarono insieme e Calbet procedette un po’ piegato, sperando che la sua statura non lo rivelasse troppo: non voleva far sapere a Linuth o a uno dei suoi scagnozzi che erano in ritardo, non avrebbe fatto bene alla reputazione di Lynn. 
Riuscì a portarsi abbastanza avanti, ma quella sera tutta Zhaka era riunita in quel luogo e sapeva che Lynn, più piccola di lui, non avrebbe visto nulla. Si avvicinò a una delle colonne che sostenevano il soffitto e la issò sul basamento, circondandola con il braccio per sostenerla. 
Da quella posizione privilegiata, Raelynn si guardò intorno, al di sopra delle teste dei convenuti. La caverna era una grande stanza di forma irregolare. Non l’avevano scavata loro, l’avevano trovata quando erano fuggiti dalla devastazione di Zion ed era stato il primo insediamento degli umani scampati al massacro. Da quello che sapeva dai racconti che si tramandavano, anche a Zion era presente una caverna simile. 
La popolazione di Zhaka contava circa tremila persone e ognuna di loro era presente quella sera, per rendere omaggio al sacrificio di Neo e Trinity. Lynn si ritrovò a pensare che non aveva senso celebrare la Liberazione, se poi la sua nave veniva tenuta a pattugliare inutilmente i confini della colonia invece che essere mandata a liberare altri umani dalla tirannia delle macchine, ma i suoi foschi pensieri furono interrotti da un boato che si alzò nella sala. 
Dall’altra parte del grande antro era installata una piattaforma di metallo, posta ad una certa altezza in modo che fosse visibile da ogni punto. Su quel palco era appena salito Garjac, uno dei membri del Consiglio, e l’ovazione era tutta per lui. Era uno dei personaggi più amati dagli abitanti più giovani di Zhaka, un fermo sostenitore della lotta contro le macchine. Era il padre di Vereena e Lynn sapeva che, se aveva ancora il comando della Livelyan, era anche merito suo, perché l’aveva sostenuta strenuamente quando era stata costretta a comparire davanti al Consiglio per difendersi dalle accuse di insubordinazione. 
Garjac alzò le braccia per imporre silenzio all’assemblea: il vociare si ridusse ad un brusio sommesso. 
«Buonasera, gente di Zhaka» esordì, e il silenzio che era appena riuscito ad ottenere si spezzò, e gli echi dell’entusiasmo si infransero contro la cupola di roccia. 
«Siamo qui riuniti questa sera» riprese, quando le grida si furono acquietate, «per celebrare la Festa della Liberazione. Trecentododici anni fa, proprio in questo giorno, Neo e Trinity raggiungevano la città delle macchine per donare a ciascuno di noi la libertà.» 
Nessuno sapeva come fossero andate le cose laggiù. Ma i racconti narravano che le Sentinelle, in quel momento impegnate nell’attacco a Zion, si erano fermate ed erano rimaste in standby a lungo. Poi, improvvisamente come erano arrivate, avevano fatto ritorno in superficie, lasciando gli umani liberi in una seppur devastata Zion. Neo e Trinity non erano mai tornati e, in seguito, coloro che avevano fatto visita all’Oracolo avevano ricevuto la conferma del sacrificio dei due, proclamati ben presto eroi. 
Ma, mentre ascoltava il delirio di grida di gioia, Lynn non si sentiva altro che un’ipocrita. Come poteva festeggiare la Liberazione quando, poco più di tre secoli dopo, erano nelle stesse condizioni? Anzi, erano messi peggio di allora, costretti a vivere ancor più in profondità, incapaci di lottare contro le macchine ora che l’Eletto non c’era più, quasi impossibilitati a raggiungere Matrix per liberare gli umani dalla schiavitù, governati da persone come Velius che usavano il loro potere come mezzo per tenere soggiogati i più giovani. 
«E anche se oggi» proseguì Garjac, «ci sentiamo oppressi da quelle stesse macchine che avevano promesso di non perseguitarci, non dobbiamo dimenticare chi ha dato la vita per noi. Perseguire l’obiettivo della libertà e della fine della guerra è un nostro sacro dovere in memoria di quanti si sono sacrificati per noi.» 
Le grida si alzarono più forte e Lynn si trovò a gridare con gli altri, infiammata dalle parole di Garjac. Accanto a lei, Cal alzò il pugno, urlando il suo sì, ripreso e moltiplicato dalle voci di tanti giovani presenti quella sera. 
Dal suo punto di osservazione, la donna girò lo sguardo intorno. Accanto al podio da cui stava parlando Garjac, Velius e Linuth battevano le mani, apparentemente assecondando la smania della folla. Ma Lynn li conosceva bene entrambi e dalle loro espressioni si sarebbe detto che non fossero per nulla in accordo con quanto il consigliere stava dicendo. 
Garjac proseguì nel suo discorso, appellandosi al senso del dovere dei giovani, facendo leva sul loro desiderio di essere finalmente liberi, spingendo la folla a gridare la propria approvazione. Era un abile comunicatore, ma Lynn sapeva che la disperazione stava mettendo radici sempre più profonde in tutti loro, costretti da troppo tempo a vivere come topi in gabbia e che ben presto avrebbero dimenticato il fuoco che ardeva nelle loro vene in quel momento. E, se non l’avessero fatto, ci avrebbe pensato qualcun altro a spegnerlo, come stava facendo Velius con la sua inutile crociata contro di lei. 
«Stasera, miei cari, lasciamo da parte la paura e il timore. Stasera festeggiamo la nostra Liberazione e non dimentichiamo che Zion è viva. Zion vive in noi!» 
La musica esplose su di loro, facendo tremare lo stomaco. Lynn si appoggiò alla spalla di Cal e scese dal pilastro. Lui l’afferrò per i fianchi e la spinse contro la colonna, infilando una gamba fra le sue e impossessandosi della sua bocca. Lynn gli gettò le braccia al collo e rispose al suo bacio, mentre la folla si scatenava nella danza. 
«Non ho avuto tempo di dirti che sei splendida stasera» le disse, interrompendo il bacio ma restando con le labbra vicinissime alle sue. 
A differenza dell’informe maglione rosso scuro, simbolo del suo grado, che indossava quando era in servizio sulla Livelyan, e che comunque non bastava a nascondere l’armoniosità delle sue forme, Lynn quella sera portava un vestito di una stoffa sottile e diafana che mostrava più di quanto nascondesse. Un po’ lo infastidiva che risultasse così sexy, ma Lynn era la sua donna e su quello non c’era dubbio alcuno: e se qualcuno avesse dimenticato la cosa, ci avrebbe pensato personalmente. 
In quel momento però aveva qualche difficoltà a resistere alla tentazione di passare la lingua nel solco fra i seni, lasciato scoperto dalla vertiginosa scollatura, o a quella di abbassare la mano per verificare se lei fosse eccitata quanto lui. 
«Almeno dovremmo far finta di ballare» sussurrò lei, che aveva intuito alla perfezione i suoi pensieri. 
«Sì, dovremmo» ridacchiò, afferrandola per la vita e sollevandola per farla piroettare. 
Lynn abbandonò la testa all’indietro e rise, felice. Era così strano vederla abbandonarsi in quel modo: da tempo aveva l’impressione che la preoccupazione per la sorte di Zhaka le pesasse fin troppo sulle spalle. 
Ballarono per un po’, dimentichi di tutto al di fuori di quella sala. Poi, mentre la musica si calmava e i balli scatenati lasciavano il posto a una festa dai toni un po’ più tranquilli, Lynn e Cal si riunirono con il loro equipaggio. 
«Bel discorso, consigliere Garjac» disse Cal. L’uomo, il braccio gettato sulle spalle di Vereena, sorrise e gli porse la mano. 
«Vorrei che le mie parole si traducessero in realtà e che la guerra finisse domani» commentò. Aveva i capelli bianchi ma un fisico tonico e asciutto che lo faceva sembrare più giovane. 
«Tutto bene, Raelynn?» chiese e la giovane annuì. Non aveva ancora detto agli altri della conversazione avuta con Velius e non le sembrava che fosse il momento. 
Garjac socchiuse gli occhi, ma non replicò. 
«Bene, ragazzi. Vi lascio ai vostri divertimenti» esclamò, baciando la guancia di sua figlia e allontanandosi. 
Ma più tardi, mentre Lynn era sola al tavolo delle libagioni, Garjac la avvicinò. 
«Non ci ho creduto un solo secondo quando mi hai assicurato che va tutto bene» disse alle sue spalle e Lynn sorrise prima di voltarsi. 
«Mi conosci troppo bene» confermò lei. 
«Probabilmente perché un po’ ti ho cresciuta, ragazzina» replicò. 
Quando era stata liberata, Raelynn era stata affidata alla famiglia di Garjac che si era presa cura di lei e l’aveva supportata quando era entrata in Accademia. 
«Che c’è che non va?» le chiese e Lynn lo invitò con un cenno del capo a mettersi un po’ in disparte. 
«Velius» disse, sibilando quell’unica parola con rabbia. 
«Che ha fatto stavolta?» replicò in tono rassegnato. 
La donna gli spiegò che l’aveva convocata non appena erano rientrati dal giro di collaudo della Livelyan e che il colloquio era stato tutt’altro che piacevole. 
«Oh, si è anche premurato di ricordarmi che la Liv non è mia e che il mio atto sconsiderato l’ha messa inutilmente in pericolo. Per questo, io e il mio equipaggio saremo di pattuglia ai confini di Zhaka per le prossime settimane. O mesi, forse.» 
«Che gran testa di cazzo!» sbottò il consigliere e Lynn strabuzzò gli occhi: era strano sentirlo esprimersi in quel modo, lui che solitamente era tanto posato. «Gli farò rimangiare il suo stupido ordine.» 
Fece per voltarsi, di certo per andare a cercare Velius e sistemare la faccenda proprio in quel momento, ma Lynn lo trattenne, facendogli segno di abbassare la voce. 
«Non farlo.» 
«Non permetterò che un capitano del tuo calibro venga tenuto di pattuglia. Negli ultimi mesi avete liberato più menti che il resto della flotta messo insieme.» 
Lynn represse un moto di orgoglio per le sue parole: «Peggioreresti le cose, Garjac. Velius non tornerà mai sui suoi passi, ma sarebbe ancor più stizzito nei miei confronti.» 
L’uomo sospirò. 
«Non spetta a lui disporre delle risorse di Zhaka. Abbiamo bisogno di menti nuove, altrimenti ci estingueremo.» 
«Lui però può disporre della mia nave. E se mi toglie la Liv, io non avrò più niente» mormorò lei. 
L’eventualità che Velius decidesse di rimuoverla dal suo incarico era qualcosa che la spaventava a morte. Pensare di essere tenuta a terra, di non poter contribuire a smantellare pezzo per pezzo la perfida organizzazione di Matrix, era qualcosa che la atterriva. 
«Quindi?» chiese Garjac in tono delicato, posandole la mano sulla spalla. «Che hai intenzione di fare?» 
«Obbedirò all’ordine che mi è stato dato, magari vedrà la nostra buona volontà. In fondo, quanto potrà mai tenerci in queste condizioni? Due settimane, tre?»
 
***
 
Un mese e mezzo. Sei lunghissime settimane passate in noiosissimi giri di pattuglia nei condotti che circondavano Zhaka. Minacce incontrate: zero. 
Tanto Lynn quanto il resto del suo equipaggio erano delusi e infastiditi da quella punizione che si stava protraendo da troppo tempo. In compenso, la Livelyan non era mai stata così pulita e in ordine dato che, per ingannare il tempo, non facevano altro che dedicarsi alla pulizia. 
Garjac, venuto a conoscenza della cosa tramite sua figlia Vereena, aveva manifestato di nuovo la volontà di andare a lamentarsi con Velius, ma Lynn si era impuntata: continuava a pensare che il basso profilo fosse la cosa migliore da mantenere. 
Una notte, mentre Lynn e Cal dormivano nel loro alloggio, qualcuno bussò in modo perentorio alla loro porta. Entrambi si svegliarono immediatamente: la donna si rizzò su un gomito e si passò una mano sugli occhi, come a voler cancellare i residui di sonno, mentre Cal borbottò qualcosa di indistinto mentre buttava giù le gambe dalla branda. 
Bussarono di nuovo. 
«Vengo» biascicò Calbet, ciondolando fino alla porta e aprendola. 
Tost si stagliò nell’apertura. Con lui c’erano altri due membri dell’equipaggio della Mayrein. 
«Ciao Cal. Scusa il disturbo. Possiamo entrare?» 
L’uomo si scostò e li fece entrare nel piccolo soggiorno. Lynn, buttandosi addosso la giacca di Calbet che era appesa ad una sedia, li raggiunse. 
«Che succede, Tost?» chiese. Non c’erano molti motivi per cui il comandante dell’ammiraglia poteva presentarsi alla loro porta in piena notte e nessuno di essi era positivo. 
«Siamo appena rientrati da una sortita in Matrix» spiegò Tost. «L’Oracolo ha chiesto di vedervi» concluse, senza girare troppo intorno alla questione. 
Lynn e Calbet si scambiarono un’occhiata perplessa. 
L’Oracolo era uno dei programmi più antichi di Matrix, uno strumento di controllo creato per bilanciare eternamente l’equazione che era il fondamento della struttura del programma. Da molti anni l’Oracolo aiutava la Resistenza ed era grazie a lei se Neo era riuscito ad arrivare alla Città delle Macchine. 
Anni addietro, chiunque fosse liberato da Matrix veniva portato a conoscerla. Da tempo questo non era sempre possibile, ma sia Lynn che Calbet avevano avuto quel privilegio.  
«L’Oracolo?» domandò la donna. «Che cosa vuole da noi?» 
Tost fece spallucce: «Non ha voluto dircelo. Ma ha chiesto di vedervi ed è urgente». 
Raelynn scosse la testa. 
«Non possiamo, Tost. Non ho il permesso di portare la Liv a quota trasmissione.» 
La testa di Calbet si girò di scatto nella sua direzione: «Lynn, è l’Oracolo. Non possiamo liquidarla così.» 
«Credi che io non vorrei precipitarmi in Matrix?» sbottò la donna, seccata. «Ho le mani legate, Cal. Se disobbedisco a Velius, mi toglierà il comando. E io non posso e non voglio perdere la Livelyan, non sarei per nulla utile alla causa.» 
«Forse c’è qualcosa che possiamo fare» intervenne Tost. 
E il sorrisetto da delinquente che le rivolse non era per nulla rassicurante.
 
***
 
«Continuo a pensare che sia un’idea del cazzo» borbottò Raelynn mentre, accanto a Cal, attendeva in piedi vicino al portello, aggrappata ad uno dei sostegni di acciaio. 
«Lo è. Per questo funzionerà» replicò Calbet, sorridendo come un monello, tanto da far comparire le fossette che tanto le piacevano. 
Lynn si voltò verso Thorner, seduto alla sua postazione da operatore: «Sai cosa devi fare in caso di contatto da parte del Controllo, vero?» 
«Non preoccuparti» replicò con una smorfia. «Diremo che quello scemo di Rosius ha strisciato contro il soffitto e ha fatto fuori parte dell’antenna.» 
«Ti ho sentito!» urlò il giovane, invisibile, dalla cabina di pilotaggio. 
Edjac ridacchiò, ma Lynn non trovava che la faccenda fosse poi molto divertente. 
«Vereena, sei l’ufficiale più anziano e più alto in grado sulla nave. Mi raccomando.» 
«Capitano, se non la smetti di preoccuparti riempirai la Liv con il fumo che ti esce dal cervello. Sta’ tranquilla, andrà tutto bene.» 
Lynn stava per replicare, ma avvertì che la Livelyan rallentava e si sistemò meglio la sacca sulla spalla. La nave si fermò e rimase sospesa a circa un metro da terra. 
«Portello in apertura» annunciò Thorner. 
Non appena fu aperto, Cal e Lynn saltarono giù, atterrando sul fondo del condotto. La Livelyan richiuse subito il portello e Rosius diede potenza, facendola allontanare lentamente. 
L’aria nel condotto era fredda e umida e il fondo era cosparso di detriti. Cal fece per prendere la torcia, ma due fanali sfolgorarono nel buio, tanto da costringerli a distogliere lo sguardo. 
La Mayrein si abbassò verso di loro, con il portello già aperto. La nave, ben più grande della Livelyan, rimase ferma mentre entrambi gettavano le sacche all’interno e si issavano sul portello, dove Tost li stava aspettando e tese una mano verso Raelynn per aiutarla ad alzarsi. 
«Benvenuti a bordo» li accolse. Poi abbaiò alcuni ordini: il portello fu chiuso e la nave si inclinò in avanti, prendendo velocità mentre si allontanava da Zhaka. 
Il piano che Tost aveva proposto due sere prima, quando aveva bussato alla loro porta in piena notte, era semplice. La Livelyan sarebbe uscita di pattuglia come tutti i giorni, li avrebbe scaricati di nascosto e la Mayrein li avrebbe raccolti. 
«Visto? È stato facile» esclamò Tost. 
«Se Velius scopre quello che stiamo facendo…» 
Tost arrovesciò gli occhi: «Vuoi piantarla di preoccuparti di Velius?» 
«Oh scusa, dimenticavo che sei il suo cocco» ribatté Lynn. 
Tost scoppiò a ridere: «Sì, come no! Sorella, credo tu mi abbia scambiato per quell’idiota di Wintor» disse con una smorfia. 
Wintor era il figlio di Velius. Aveva la stessa età di Raelynn, capitanava la Ninvar da meno di un anno ed era il peggior ufficiale di Zhaka. Ma ovviamente, dato che era il figlio del comandante in capo, gli era stata affidata una nave e qualsiasi cazzata dicesse in sede di Consiglio veniva accolta da suo padre come l’osservazione del secolo.
Raelynn ridacchiò mentre Tost dava ordine ai suoi di dare potenza e di raggiungere in fretta la quota da cui avrebbero potuto collegarsi a Matrix.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Fiducia ***


Un incontro con l'Oracolo è sempre un'esperienza
in grado di sconvolgere la vita.
Sarà così anche stavolta?
Cos'avrà di tanto importante da dire a Raelynn e Calbet?
Buona lettura!


Rientrare in Matrix era sempre un’esperienza. Raelynn poi, considerato il fermo per riparazioni della nave e i successivi giri di pattuglia a cui Velius l’aveva relegata, mancava da un po’.
La realtà virtuale che l’Architetto di Matrix aveva creato era pressoché perfetta. Raelynn fremeva di rabbia al pensiero che, centinaia di anni prima, il mondo reale fosse uguale a quello che Matrix replicava con tanta attenzione e che poi le macchine avevano distrutto.
Lei e Cal erano a bordo di una berlina nera e il giovane guidava piano lungo le strade congestionate di New York. Erano entrati loro soltanto, come da richiesta dell’Oracolo. Raggiunsero una delle zone meno nobili della città, fermando l’auto davanti ad un palazzo molto male in arnese. C’era spazzatura accumulata lungo i marciapiedi e una generale aria di degrado. Due o tre ragazzini cenciosi stazionavano davanti ai palazzi fatiscenti e lanciarono un’occhiata svogliata alla loro auto.
«Ok il basso profilo, ma qui è decisamente troppo basso» borbottò Cal.
Raelynn scese dall’auto ridacchiando. Quando la videro, i ragazzini si rianimarono e uno di loro fischiò al suo indirizzo. La ragazza li ignorò e precedette Cal nell’androne.
Un cartello sbilenco annunciava di non utilizzare l’ascensore, perciò salirono velocemente le scale, fermandosi davanti ad una delle tante porte dell’ennesimo corridoio perfettamente uguale agli altri.
Cal sollevò la mano per bussare ma, come sempre, la porta si aprì prima che le sue nocche la colpissero: una donna dalla pelle del colore del cioccolato al latte e i capelli acconciati in una miriade di treccine li accolse con un sorriso.
«Benvenuti» disse con voce dolce. «L’Oracolo vi sta aspettando.»
La donna si scostò e li fece entrare. L’appartamento odorava di dolci, di cannella e cacao, ed entrambi sapevano dalle loro precedenti visite che l’Oracolo era un’ottima cuoca e un’inguaribile golosa.
Una donna di colore dall’età indefinibile era intenta a ricamare alla luce che proveniva dalla finestra presso cui era sistemata la poltrona. Girò la testa non appena varcarono la soglia e sorrise come una nonna farebbe con i nipoti preferiti.
«Bentrovati, ragazzi» esclamò con voce resa roca dalle sigarette, facendo un cenno a Raelynn perché si abbassasse. Le prese il viso fra le mani rese ruvide dall’età e le baciò entrambe le guance. Poi tese la mano e strinse quella di Cal.
Fece cenno di accomodarsi sul divano liso e scambiò con loro cordiali convenevoli. Alla fine, vedendo che Raelynn sedeva sul bordo del cuscino ed era talmente impaziente da non riuscire a stare ferma, mise da parte le formalità.
«Non serve essere una veggente per capire che vi state chiedendo perché vi ho convocati qui» mormorò con un sorriso. «E so che quanto vi dirò vi sembrerà del tutto assurdo.»
«Abbiamo smesso da tempo di mettere in dubbio le tue parole, Madre» replicò Calbet con sicurezza. L’Oracolo non reagì all’appellativo che lui aveva usato, ma Raelynn vide i suoi occhi brillare di emozione.
«Ebbene, miei cari, temo che l’affermazione di Calbet sarà presto messa a dura prova». La donna mise da parte il ricamo che aveva posato sulle gambe e li scrutò a lungo con i suoi occhi neri, occhi che scavavano dentro l’anima, occhi che sembravano senza età.
«Neo e Trinity sono ancora vivi.»
Se l’Oracolo avesse sparato un colpo in pieno petto ad entrambi avrebbe ottenuto una reazione meno sorpresa. A Calbet cascò letteralmente la mascella, lo sguardo perso nel vuoto come a voler trovare un senso a quella dichiarazione. Raelynn, dopo un istante di smarrimento, balzò in piedi come se le parole dell’Oracolo avessero reso il divano incandescente.
«Non può essere» sbottò e l’Oracolo sorrise, constatando che quanto aveva ribadito Calbet solo pochi secondi prima era già decaduto.
«Siediti, bambina. E ascolta le mie parole.»
Raelynn scambiò un’occhiata con Cal e tornò a sedersi.
«So che tutti conoscete la storia così come vi è stata raccontata» iniziò la donna.
La storia diceva che, dopo aver raggiunto la Città delle Macchine, Neo e Trinity erano morti entrambi per salvare Zion. Nessuno sapeva i dettagli di quella storia perché i due erano partiti da soli a bordo di un hovercraft. Ma, quando la battaglia si era conclusa e l’Architetto aveva visitato l’Oracolo, gli aveva confermato il sacrificio di entrambi.
«Quando l’Architetto mi comunicò la loro morte, e l’accordo che Neo aveva fatto con le macchine prima di liberare Matrix dall’anomalia, ebbi una visione.»
In quella visione, l’Oracolo aveva visto anni di pace tra gli umani e le macchine, ma aveva visto il potere delle macchine infiltrarsi fra le maglie di Zion in maniera subdola e infida. Gli umani, desiderosi di tornare a fidarsi, avevano aperto le porte della loro capitale sepolta.
Con gli occhi della mente, l’Oracolo aveva visto i fumi della guerra oscurare tutto ancora una volta e la potenza del braccio armato delle macchine arrivare al cuore di Zion e sterminare gli umani. I pochi che erano riusciti a fuggire si erano rintanati ancora più in basso, dove le macchine faticavano ad arrivare, quasi rassegnandosi ad un’esistenza buia e ad una lenta estinzione.
Sapeva che quelle cose sarebbero successe, ma non poteva intervenire: c’erano un tempo e un luogo per tutto e ciò che le veniva mostrato doveva essere custodito finché non sentiva dentro di sé che era giunto il momento per divulgare le informazioni e influenzare così il corso degli eventi.
Aveva visto gli anni passare e la proverbiale forza di volontà degli umani tornare prepotente alla ribalta. Avevano ricostruito le città, ripristinato la flotta e, a dispetto degli agenti sempre più presenti e potenziati, avevano ricominciato a fare sortite in Matrix.
Tra i liberati erano sorti due ragazzi. Una ragazzina orfana di entrambi i genitori e un giovane in cerca del significato profondo di una vita piena di difficoltà. Quei due le avevano immediatamente ricordato altri due giovani che aveva conosciuto oltre tre secoli prima, due ragazzi di grande forza d’animo che non avevano esitato a sacrificare se stessi per un bene superiore.
Li aveva visti crescere e diventare forti e poi, quasi stordita dalle nebbie della sua visione, era stata trasportata nella Città delle Macchine, aveva volato sopra i campi dove gli umani venivano coltivati per dare energia alle macchine, fino ad un luogo diverso, molto all’interno del centro di comando.
Lì aveva visto due corpi nudi contenuti in due capsule gemelle, l’una speculare dell’altra. Non le era stato permesso di vedere chi era prigioniero nelle capsule, ma non ne aveva avuto bisogno: lo sapeva nel cuore. Sapeva che quei due erano Neo e Trinity, che in qualche modo l’Architetto aveva tenuto in vita, chissà a quale prezzo. E sapeva con altrettanta certezza che quei due non avevano esaurito il loro compito: erano ancora fondamentali per il perpetuarsi della vita umana sul pianeta, assieme ai due ragazzi, nel frattempo diventati adulti, ora seduti sul suo divano.
«Questo è ciò che ho visto» concluse la donna. Poi rimase in silenzio, attendendo che i due assimilassero le sue parole.
«Se sapevi che sarebbero arrivati a Zion...» iniziò Calbet in tono titubante.
«Non mi era permesso intervenire» spiegò, bloccando il resto della sua considerazione. «Ciò che è accaduto doveva accadere nel modo in cui è accaduto. Se Zion non fosse caduta, voi due non sareste stati liberati. Ed entrambi, figlioli, siete indispensabili alla causa.»
Lynn taceva, riflettendo su ciò che aveva sentito. Sapeva che l’oracolo non poteva rivelare alcunché fino al momento stabilito, ma si sentiva come tradita. Tutto il dolore che gli umani avevano patito avrebbe potuto essere evitato?
Doveva però considerare che aveva sempre avuto piena fiducia nell’Oracolo. Era dalla loro parte fin dall’inizio e aveva fatto di tutto per proteggere e assistere gli umani, senza minimamente tener conto della propria sicurezza.La lealtà dell’Oracolo non era e non era mai stata oggetto di discussione.
«Che significa che siamo indispensabili?» domandò Cal, interrompendo i pensieri della compagna.
L’Oracolo rimase in silenzio a lungo. Lynn immaginò che, qualsiasi cosa avesse da dire, avrebbe cambiato profondamente le loro esistenze.
«A voi spetta il compito di recuperare Neo e Trinity. Loro due sono gli unici in grado di porre fine, stavolta in maniera definitiva, a Matrix.»
Quelle parole rimasero ad aleggiare nella stanza. La fine definitiva di Matrix, l’interruzione del secolare dominio delle macchine sugli umani. Era davvero possibile?
«Lottiamo con le macchine da troppi anni per immaginare la fine della nostra schiavitù» disse Lynn. L’Oracolo si tese in avanti e le posò la mano sul ginocchio.
«L’ho visto, bambina. Credimi: è possibile.»
«Anche se fosse» intervenne Calbet, «non sappiamo come arrivare alla Città delle Macchine. Solo l’Eletto c’è riuscito.»
L’Oracolo infilò una mano nella tasca del grembiule e ne estrasse una chiavetta.
«Tutte le informazioni che vi servono sono contenute in questa chiavetta» spiegò, mentre la posava sul palmo della mano di Lynn. «Qui dentro ci sono la rotta che dovete seguire, elenchi di materiale che vi servirà, nomi di persone che sono dedite alla causa e le coordinate presso cui vi incontrerete con la nave diZyron che si unirà a voi.»
Zyron era un’altra colonia di umani. Per ragioni di sicurezza, gli umani di Zion si erano divisi in piccole colonie che intrattenevano pochissimi rapporti l’una con l’altra.
«Anche Zyron si unirà a noi?» chiese Lynn e l’Oracolo annuì.
«È importante che non parliate con nessuno di questa missione» proseguì. «Tanto a Zhakaquanto a Zyron ci sono persone che non vogliono questa rivoluzione, persone che si sono ricavate il loro bozzolo nelle colonie e che non sono interessate a rovesciare le macchine.»
I due giovani si scambiarono un’occhiata. Chi mai poteva preferire quella vita alla libertà? Chi mai poteva pensare che la schiavitù di Matrix fosse un’alternativa?
«Come pensi che possiamo prendere una nave e partire senza che nessuno si accorga dei nostri piani?» domandò Calbet.
«So che ce la farete. Le mie visioni non mentono. E io ho fede in voi». Poi, l’Oracolo si rivolse a Calbet: «Ti prego, lasciami un istante sola con Raelynn.»
Il ragazzo si alzò e uscì.
«Morpheus credeva che Neo fosse l’Eletto»disse quando furono sole. «Aveva ragione, ovviamente. Ma Neo trae la sua forza da Trinityed è l’Eletto solo insieme a lei. Dovrete liberarli entrambi, o quanto speriamo non potrà avere successo.»
Lynn tacque, assimilando quanto la donna le stava dicendo.
«Questa è la tua missione, Lynn» proseguì. «È per questo che sei stata liberata, è a questo che ti prepari da tutta la vita. Liberare Zhaka e le altre colonie è il tuo destino. E al destino, come sai, non ci si ribella.»
Raelynn percepì una nota stonata in quelle parole e assottigliò lo sguardo.
«Che cosa cerchi di dirmi, Madre?»
Non le era permesso rivelare troppo del futuro, ma quelle parole avevano attivato un campanello che ora trillava fastidioso nella mente della ragazza.
«Il destino del genere umano è nelle tue mani e dipenderà dalle decisioni che prenderai sin da quando uscirai da questa stanza. Decisioni terribili, che tu stessa non comprenderai.»
Insistere per avere altre informazioni non sarebbe servito, Lynn lo sapeva per esperienza. Ma tentò comunque.
«Devi dirmi di più. Questa battaglia è troppo importante» provò, ma già l’Oracolo scuoteva la testa.
«Come sai, non possiamo vedere oltre le scelte che non ci sono chiare. Ma io non ho mai visto il futuro limpido come ora. Farai la scelta giusta, Lynn. Ora va’.»
L’Oracolo si appoggiò allo schienale e riprese il ricamo: non avrebbe detto altro.
«Ti ringrazio, Madre» mormorò Lynn prima di uscire e raggiungere Calbet.
Quando sentì la porta richiudersi, l’Oracolo si lasciò andare ad un sospiro.
«Non vacillare quando sarà il momento, bambina»mormorò, non sapeva bene a chi.
 
***
 
Calbet era un po’ preoccupato. Da quando erano usciti dall’appartamento dell’Oracolo, Lynn non aveva fatto che poche parole, limitandosi a rispondergli a monosillabi. Anche una volta tornati sullaMayrein le cose non erano cambiate: Lynn si era seduta su uno dei seggiolini imbullonati alla paratia, fissando stolidamente davanti a sé.
Raggiunsero il rendez-vous con la Livelyan ed entrambi ringraziarono Tost per l’aiuto.
«Non so cosa ti abbia detto l’Oracolo» disse Tost, che aveva notato il suo turbamento, quando Calbet fu sceso, «ma, per qualsiasi cosa, non esitare a chiamarmi.»
Lynn annuì e gli strinse il braccio muscoloso prima di seguire il compagno sulla propria nave. In loro assenza, non c’erano stati problemi: il Controllo ormai li ignorava quasi completamente, tanto che non avevano avuto necessità di mentire sulla loro assenza.
I membri dell’equipaggio osservarono Lynn in attesa di spiegazioni, ma la donna non se ne accorse nemmeno e si diresse alla propria cabina. Calbet scosse la testa all’indirizzo dei compagni e la raggiunse, bussando con delicatezza prima di entrare, anche se quella cabina era anche sua. Lynn mormorò qualcosa che non capì ma che sperò essere un “avanti”, sicché entrò.
Lei era seduta sulla cuccetta e si era tolta gli stivali e il maglione, restando in canottiera. Cal sedette sul materassino, vicino ma senza toccarla. Era distante da lui quanto il sole che avevano oscurato era lontano dalla Terra.
«Ti va di dirmi cosa ti turba?» chiese con dolcezza.
Anche Calbet aveva avuto incontri strani con l’Oracolo. A volte era destabilizzante, ma gli era sembrato che in quest’occasione fosse tutto normale, almeno finché lui era uscito e Lynn era rimasta sola con la veggente. Sì, senz’altro le aveva detto qualcosa di molto importante e Lynn, come faceva di solito, ci stava rimuginando sopra. Non appena avesse messo tutto in ordine, sarebbe tornata da lui.
«Sai bene anche tu che le parole dell’Oracolo spesso sono pesanti da digerire» confermò.
Lui sorrise di rimando e le cinse le spalle con il braccio, attirandola contro di sé: «Sì, lo so. Quando potrai o vorrai dirmi di più, io sarò qui» mormorò, posandole un bacio delicato sulla tempia. Poi si alzò e uscì, tornando ai suoi doveri.
La Livelyan terminò il suo giro di pattuglia e rientrò. Con la chiavetta, pesante come un macigno, nascosta nella tasca dei pantaloni, Lynn lasciò che fosse il suo equipaggio a sbrigare le formalità e a predisporre la nave per il giorno successivo e, in compagnia di Calbet, raggiunse il proprio alloggio.
Calbet si aspettava che la donna avrebbe subito sbirciato il contenuto della chiavetta (non l’avevano fatto a bordo per non lasciare tracce), invece Lynn si girò verso di lui e lo baciò, cogliendolo di sorpresa. Sorpresa che durò un istante, il tempo necessario a rendersi conto che Lynn gli stava sfilando la cintura dai passanti. Al che, Cal lasciò cadere la borsa e le infilò le mani sotto il maglione, spingendola verso la camera da letto.
Più tardi, mentre se ne stavano nudi nella semioscurità, Cal le chiese il motivo di quell’impeto di passione.
«Non che mi lamenti, sia chiaro» mormorò, mentre faceva scorrere la mano lungo la schiena liscia della compagna.
«Perché non stiamo abbastanza insieme» mormorò lei, schiacciando ancor di più il corpo contro il fianco di lui.
«Ma se praticamente non vediamo altre persone!» scherzò lui, ma sapeva ancor prima della risposta di Lynn che non era quello che lei intendeva. E la convinzione che l’Oracolo le avesse detto qualcosa di terribile prese consistenza.
«Ciò che dovremo fare per liberare Neo e Trinity sarà qualcosa di estremamente pericoloso» affermò la donna, in tono pacato. Non aggiunse che sarebbero potuti morire nel tentativo: non era necessario, entrambi ne erano ben consapevoli.
«Beh, non credo che questi basti a farti desistere» replicò lui.
Raelynn non rispose, limitandosi a guardarlo negli occhi. La forza e la determinazione di quello sguardo non avevano bisogno di parole.
«Appunto» fece lui. Le prese delicatamente il viso fra le palme e la baciò: «Ora, vogliamo toglierci il pensiero?»
Senza una parola, Lynn si alzò e raccolse i pantaloni che aveva lasciato cadere sul pavimento quando si erano spogliati, prendendo la chiavetta dalla tasca. Poi, nuda, recuperò il computer portatile e lo avviò, sedendosi poi sul letto accanto a Calbet che a sua volta si raddrizzò e si appoggiò ai cuscini.
Quando inserì la chiavetta nello slot, il computer ne mostrò automaticamente il contenuto. Come aveva promesso l’Oracolo, c’era di tutto, suddiviso per cartelle. Raelynn puntò subito quella denominata “Mappe” ed entrambi rimasero ad osservare mentre il computer decrittava il messaggio. L’immagine si compose lentamente, mostrando una dettagliata rotta per raggiungere il luogo in cui Neo e Trinity erano tenuti prigionieri.
Senza parole, Raelynn indossò un maglione senza smettere di leggere e si dedicò ad esplorare il resto del contenuto. C’erano i progetti delle capsule che contenevano l’Eletto e la sua compagna, le coordinate di Matrix presso cui avrebbero trovato i loro avatar, elenchi di persone di cui potevano fidarsi (poche) e di cui dovevano diffidare (molte di più).Calbet indicò un nome che spiccava tra gli altri: Velius.
«Ci avrei scommesso che lui era uno di quelli da cui avremmo dovuto guardarci» sbottò Lynn.
Discussero di tutto e un piano iniziò a delinearsi. Si sarebbe reso necessario parlarne al resto dell’equipaggio e Lynn sapeva di doverli coinvolgere sin da subito. L’avrebbe volentieri evitato ma senza di loro non c’era possibilità di riuscire.
Così, il mattino seguente, con la notte passata in bianco, si presentarono all’attracco delle Livelyan e si imbarcarono. Rosius portò fuori la nave e iniziarono il monotono lavoro di pattuglia. Tutti i membri dell’equipaggio avevano capito che qualcosa bolliva in pentola, ma nessuno di loro sfiorò il discorso.
A metà del giro, nel punto più lontano da Zhaka, Raelynn ordinò a Thorner di segnalare al Controllo una inesistente avaria. Fu lei stessa ad avvisare che si sarebbero fermati per una piccola riparazione che però non poteva attendere il rientro al porto: il Controllo accusò ricevuta, raccomandando la massima attenzione.
Quando i motori furono spenti, Raelynn radunò l’equipaggio in plancia e raccontò loro dell’incontro con l’Oracolo, mostrando il contenuto della chiavetta.Poi espose il piano che lei e Calbet avevano ideato. La fiducia verso di loro non era, né era mai stata, in discussione. Alla fine, tutti rimasero in silenzio a lungo.
«So che dovete essere sconvolti, lo capisco. Ma questa cosa la dobbiamo fare al più presto, quindi ho bisogno di sapere se siete con me.»
Girò lo sguardo su tutti loro e poi riprese: «So che vi sto chiedendo molto, non è una missione come le altre. Non ci sono garanzie. E, semmai riusciremo a tornare, è sicuro che finiremo di fronte alla corte marziale, sempre che ci vada bene.»
Nessuno parlava, tutti tenevano lo sguardo fisso a terra, sicuramente considerando tutto quello che lei gli aveva detto.
«Credetemi, se potessi farlo da sola, senza coinvolgervi, lo farei. Il fatto è che non posso sperare di arrivare laggiù senza aiuto. Non obbligherò nessuno a questa missione, è ovvio;ma ho bisogno di sapere chi di voi è con me.»
Calbet fu il primo a prendere la parola: «Per quanto la mia risposta sia abbastanza scontata, io ci sto.»
Uno alla volta, senza alcuna esitazione, tutti i membri dell’equipaggio manifestarono la loro adesione. Aveva sperato in quell’esito, ma rimase comunque sorpresa: era un attestato di fiducia nei suoi confronti, fiducia che non sapeva se sarebbe stata in grado di ripagare. Giurò a se stessa che li avrebbe riportati tutti indietro sani e salvi, ma già mentre formulava quel pensiero sapeva che le cose potevano andare in maniera molto diversa.
Avevano dieci giorni di tempo prima dell’appuntamento con la Nidàs, la nave della colonia di Zyron che li avrebbe aiutati. Fino a quel giorno era fondamentale non attirare sospetti su di loro; perciò comunicarono al Controllo che la riparazione era stata effettuata e ripresero a pattugliare i condotti deserti.
Quella sera, quando tornarono a Zhaka e rientrarono nel loro alloggio, Lynn attese che Calbet facesse la doccia seduta sul loro letto. Quando uscì, frizionandosi i capelli con un telo, Cal socchiuse gli occhi.
«Che c’è?» chiese.
«Devo chiederti una cosa» fece lei.
Cal sbuffò e sedette accanto alla compagna: «E non dev’essere una gran bella cosa, se hai su quella faccia» borbottò.
«Ci sono due momenti fondamentali in questa missione, due momenti che devono essere coordinati alla perfezione. Per questo, non posso affidarli a nessun altro.»
Calbet sapeva bene a cosa si riferiva e annuì: «Lo so. L’idea di separarci non mi piace, ma porterò la Liv alla Città delle Macchine.»
Ma già Raelynn stava scuotendo la testa: «Io andrò laggiù. Ho bisogno che tu e Vereena andiate sulla Nidàs, vi colleghiate a Matrix e liberiate Neo e Trinity.»
«Avrei scommesso che avresti tenuto per te la parte più difficile» sbottò Calbet, balzando in piedi. «Non ti lascerò andare laggiù da sola, dobbiamo pensare a qualcos’altro. Io verrò con te e manderemo qualcun altro in Matrix.»
Tra i files contenuti nella chiavetta c’era una panoramica completa sui sistemi di difesa della Città delle Macchine. Certo, l’Oracolo aveva fornito loro i codici per mascherare la loro presenza, inducendo le macchine a pensare che la loro nave non fosse pilotata da umani. Ma non c’era garanzia che quei codici avrebbero funzionato: un milione di cose potevano andare storte e, se le macchine si fossero accorte che un hovercraft di Zhaka aveva oltrepassato i confini, la Liv non avrebbe avuto alcuna possibilità di sostenere un combattimento contro quello schieramento di forze.
«Non c’è altro modo, Cal. Lo sai.»
«Lascia andare me, Lynn.»
«Ti prego, siediti» disse la ragazza, battendo con la mano sul materasso. Controvoglia, Calbet cedette e tornò ad accomodarsi al suo fianco.
«Non appena Neo e Trinity saranno scollegati è probabile che le macchine capiscano che qualcosa non va. Potremmo essere costretti a fuggire in fretta. E sai che non c’è pilota bravo quanto me in tutta Zhaka.»
Sì, Calbet lo sapeva. Non era presunzione, era la pura e semplice verità: la vedeva pilotare ogni giorno, sapeva che era l’unica a poter far uscire la Livelyan dalle file nemiche, se le cose fossero virate al peggio. Ma non gli piaceva, non gli piaceva essere separati, non gli piaceva nulla di quella storia.
Rimase in silenzio a lungo, rimuginando, tentando di farsi venire un’idea per evitare quello che Lynn gli aveva prospettato. Ma su quel piano ci avevano ragionato per ore intere e non c’era altra possibilità: due navi, una a quota trasmissione per localizzare e liberare Neo e Trinity, l’altra nel luogo che più temevano a recuperare i soli che, a detta dell’Oracolo, potevano salvare il genere umano.
Raelynn gli prese la mano fra le sue: «Ho bisogno che tu faccia la tua parte in questa cosa, Cal. Potrei darti un ordine ufficiale quale comandante della Livelyan, ma non vorrei doverlo fare.»
Per tutta risposta, Calbet si girò di scatto verso di lei e la baciò. Poi appoggiò la fronte sulla sua, restando ad occhi chiusi.
«Farò quello che devo fare, Lynn. O meglio, farò quello che mi chiedi di fare. Ma promettimi che starai attenta laggiù. La tua vita è troppo importante per me, non voglio perderti. Giurami che tornerai da me, anche se questo volesse dire continuare a vivere in questa schiavitù.»
«Farò attenzione, te lo giuro».
Non gli sfuggì che aveva giurato di fare attenzione, non di tornare da lui.Lei era troppo dedita alla causa e troppo altruista per mettere se stessa davanti agli altri: si sarebbe sacrificata, se l’occasione l’avesse richiesto. E sapere che non sarebbe stato con lei per impedirglielo lo metteva in agitazione.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** La missione ***


Nella massima segretezza,
la missione di Raelynn e Calbet ha inizio.
Buona lettura...
e, se vi va, fatemi sapere cosa ne pensate!
Grazie

 

Nei giorni seguenti sfruttarono gli inutili giri di pattuglia per affinare il piano che Lynn e Calbet avevano escogitato. C’erano mille e mille scenari da tenere in considerazione, ognuno doveva sapere esattamente quale fosse il suo posto e quali azioni compiere. Il margine d’errore era minimo e non avrebbero avuto un’altra possibilità.
La sera del nono giorno, quando attraccarono con la Livelyan al molo, Lynn non disse nulla. Ognuno di loro aveva ben chiaro in mente che il giorno dopo sarebbe cambiato tutto, in un modo o nell’altro.
Quando raggiunsero il loro piano con l’ascensore, Raelynn fece per scendere ma Calbet la trattenne per il braccio. Salutarono i compagni e il giovane premette uno dei pulsanti dei livelli più bassi prima che Lynn potesse chiedergli spiegazioni.
«Ho una piccola sorpresa per te» affermò.
Uscirono dall’ascensore e Calbet la prese per mano, trascinandola dietro di sé. Là sotto i sibili e gli schiocchi delle macchine che li mantenevano in vita a quella profondità, quando altre macchine non avevano altro scopo che trovarli ed ucciderli, erano più forti e l’aria odorava di metallo e olio motore. Il calore era terribile e ben presto entrambi furono ricoperti di un velo di sudore.
«Ma si può sapere dove stiamo andando?» brontolò Raelynn ma Cal non le rispose nemmeno, infilando con sicurezza un tunnel dietro l’altro, mentre il metallo delle installazioni umane lasciava spazio alla pietra e alla roccia viva.
Finalmente, dopo aver superato un cunicolo talmente basso che dovettero procedere chinati per non sbattere la testa, sbucarono in una piccola caverna. Una pozza d’acqua cristallina sobbolliva e fumigava, rendendo l’aria pregna di umidità, che stillava anche dalle pareti ed il cui gocciolio creava una specie di armonia negli echi che si infrangevano nelle grotte intorno.
«Questo posto è una meraviglia» mormorò Lynn, mentre si guardava intorno con l’espressione estasiata di una bimba di fronte ai regali di Natale.
«Avevo pensato di venire qui per il nostro anniversario…» replicò Cal, lasciando la frase in sospeso. Il loro anniversario era di lì a tre mesi e nessuno dei due poteva sapere se l’avrebbe vissuto. Ma entrambi tennero per sé quel pensiero.
Lynn si volse verso di lui e si avvicinò. Afferrò il bordo del maglione e glielo sfilò dalla testa, lanciandolo in un angolo. Si alzò in punta di piedi, porgendogli la bocca da baciare, facendo scivolare le mani sul petto e sull’addome piatto. Cal, che soffriva il solletico, ritirò i muscoli mentre lo sfiorava, strappandole un sorriso.
Si spogliarono, continuando a baciarsi, ridacchiando come ragazzini quando Cal quasi perse l’equilibrio togliendosi i jeans. Poi si spinsero nell’abbraccio bollente di quella piscina naturale. Non era molto profonda, quindi Cal sedette sul fondo, con l’acqua che gli arrivava al petto e la schiena appoggiata alle rocce, mentre Lynn gli si metteva a cavalcioni.
Fecero l’amore in modo lento e dolce, prendendosi tutto il tempo che rischiavano di non avere più. Poi rimasero abbracciati in silenzio, Lynn appoggiata al petto del suo compagno che, complice anche il rilassante abbraccio di quelle acque termali, si assopì. Non così lei, che rimase con l’orecchio appoggiato sul suo cuore, consapevole che il modo in cui si erano donati l’una all’altro aveva troppo il sapore di un addio. Non aveva scordato le parole dell’Oracolo: il futuro dell’intero genere umano dipendeva dalle sue decisioni. Sperò di essere degna di una tale responsabilità e di essere in grado di portarne il peso.
Quando uscirono dall’acqua e tornarono al loro alloggio, Raelynn si fermò sul camminamento appena fuori dalla porta e guardò verso il baratro che si apriva davanti a lei. Zhaka dormiva, ignara del tormento che attanagliava lei, misto all’eccitazione per la missione del giorno seguente.
Calbet l’abbracciò da dietro e le baciò la tempia.
«Lo facciamo per loro» disse la donna sottovoce, «per i nostri figli e i figli dei nostri figli. Perché non abbiano più a vivere come schiavi ma come uomini e donne liberi.»
Il compagno non rispose, limitandosi a baciarla di nuovo.
 
***
 
Il mattino seguente si alzarono al solito orario. Nonostante tutto, erano riusciti a dormire, forse anche grazie alla spossatezza indotta dal bagno termale. Si prepararono e uscirono con le sacche in spalla, diretti al porto.
Come sempre, la darsena era semideserta a quell’ora. La Livelyan era attraccata al suo posto e Lynn si fermò ad osservarla da una certa distanza: quel giorno, la sua nave sarebbe stata chiamata alla missione più difficile e, con lei, anche tutto il suo equipaggio. Ma ormai la decisione era presa, i dadi del destino erano stati lanciati, non c’era modo di fare marcia indietro.
I suoi erano già a bordo, insolitamente taciturni. Lynn fece chiudere i portelli e li riunì in plancia.
«Questa è l’ultima occasione per tirarsi indietro, ragazzi» affermò, cercando di mettere nel tono di voce una sicurezza che era ben lungi dal provare. «Se volete restare a terra, nessuno ve ne farà una colpa.»
Si scambiarono un’occhiata, ma nessuno parlò né fece alcun cenno.
«Va bene» disse. «Rosius, avvia la nave, per favore.»
Ognuno scattò ai propri compiti.
Lynn sistemò il borsone in cabina mentre i motori della nave si avviavano e la stessa era scossa da un brivido. Poi raggiunse Rosius in cabina di pilotaggio.
«La nave è tutta sua, capitano» tuonò il vocione di Thorner in cuffia.
Lynn premette il pulsante del microfono sulla cloche: «Controllo, qui nave Livelyan. Chiediamo il permesso di lasciare l’attracco.» 
Il Controllo accusò ricevuta e li pregò di attendere. Nel frattempo, Lynn fece avviare tutte le piastre: i motori elettromagnetici sibilarono come un cesto di serpenti irritati.
«Nave Livelyan, qui Controllo. Permesso accordato, varco uno.» 
Lynn scambiò una veloce occhiata con Rosius: era insolito che li facessero uscire dal varco uno e andava decisamente a cozzare con il loro piano. Avevano appuntamento con la Nidàs di lì a due ore ma uscire dal varco nord li obbligava ad una lunga deviazione per aggirare la colonia. Lynn non era sicura che due ore sarebbero bastate.
«Controllo, richiesta di uscita dal varco due. In attesa» tentò la donna, ma l’addetto le ribadì che doveva lasciare Zhaka dal varco nord.
Non poteva insistere, non senza far insospettire il Controllo. Perciò, sbuffando irritata, diede potenza e fece librare la nave: non erano ancora partiti e già si trovavano di fronte la prima difficoltà. Nell’uscire dal varco, la tentazione di girarsi indietro e dare un’ultima occhiata alla darsena era forte, ma resistette. Le porte si chiusero dietro di loro, mentre la Liv si inclinava in avanti e prendeva velocità nel tunnel.
L’istino le gridava di accelerare per recuperare il ritardo che quell’uscita dal lato sbagliato avrebbecausato, ma il Controllo di Zhaka avrebbe notato tutto sui propri schermi e si sarebbe chiesto perché aveva tanta fretta di aggirare la colonia. Ufficialmente erano usciti per un giro di pattuglia e in tal modo si dovevano comportare.
«Credi che sospettino qualcosa?» chiese Rosius dal sedile del copilota.
Lynn scosse la testa: «Se così fosse, ci avrebbero semplicemente impedito di lasciare l’attracco.»
Man mano che la nave si allontanava dalla colonia, Lynn aumentò la velocità. Erano in volo da poco più di mezz’ora quando ordinò a Thorner di avviare una diagnostica sul radar. Era ovviamente una comunicazione in codice: non c’era nulla che non andasse nel loro radar. Era il segnale per il suo operatore di lanciare uno dei programmi che l’Oracolo aveva fornito loro e che generava un falso segnale di localizzazione della Livelyan. Il Controllo di Zhaka avrebbe continuato a vedere la nave che pattugliava i condotti, ma loro in realtà non sarebbero stati lì.
«Diagnostica completata, capitano» confermò Thorner. «Siamo invisibili ora.»
Non appena ricevette la comunicazione, Lynn ordinò massima potenza e lanciò in avanti la nave, chiedendo a Rosius di mandare sul suo schermo il countdown per l’appuntamento con la Nidàs.
«Ros, trovami una rotta per tagliare da qualche parte o non arriveremo mai al rendez-vous in tempo.»
Mentre il giovane si metteva a digitare freneticamente sulla tastiera, Calbet si affacciò in cabina di pilotaggio.
«In anni di servizio credo di poter contare sulle dita delle mani le volte che siamo usciti dal varco nord» borbottò.
«Già, maledizione!» sbottò Lynn. Il radar segnalò un detrito più avanti: non appena i fari della Livelyan lo illuminarono la donna fece alzare il muso della nave, passandoci sopra senza danni.
«C’è un cunicolo, a circa cinque chilometri e mezzo. Ci permetterà di recuperare almeno venti minuti» intervenne Rosius. Ma il dubbio nella sua voce era evidente.
«Qual è il problema?» chiese Cal, avvicinandosi al suo sedile.
«Non so se la Liv possa passarci. È davvero angusto» commentò, mandando poi sul monitor la cartina che mostrava il passaggio evidenziato in rosso.
«Prendi il comando» gli disse Lynn, in modo da essere libera di analizzare l’opzione che Rosius aveva trovato.
Dalla conformazione doveva essere un vecchio tunnel di scarico. Quel tipo di cunicoli era molto stretto ma almeno non era ingombro di detriti come accadeva con le gallerie più grandi. Lynn ci aveva già navigato in passato, ma non alla velocità che avrebbe dovuto tenere per recuperare il tempo perso fino a quel momento.
«Ci graffieremo ben bene la vernice in quella strettoia» affermò Calbet, indicando la mappa, dove il tunnel si biforcava. Lynn avrebbe dovuto far fare alla nave una virata di quarantacinque gradi in un punto in cui non c’era spazio di manovra.
La donna taceva, concentrata sul percorso. Cal aveva ragione, quella biforcazione era il punto davvero critico. Se avesse ritardato di un solo secondo la virata avrebbe colpito le pareti del tunnel, se avesse sbagliato le misure di appena una manciata di centimetri, l’esito sarebbe stato lo stesso. E subire un danno grave lì in mezzo, oltre a decretare la fine di quella missione, avrebbe significato mettere in pericolo il suo equipaggio.
«Due chilometri all’imbocco del tunnel» annunciò Rosius.
«Che vuoi fare, piccola?» sussurrò Calbet vicino al suo orecchio.
Raelynn inspirò e trattenne il fiato per qualche secondo. Poi lo ributtò fuori: «Va bene, entriamo.»
«Cazzo, questa proprio non me la voglio perdere» esclamò Cal, assicurandosi al sedile dietro la compagna.
Lynn riprese i comandi della nave mentre Rosius dava la comunicazione all’equipaggio di allacciare le cinture.
La Livelyan raggiunse l’imboccatura del cunicolo. Lynn la allineò con l’ingresso che, visto dal vivo, sembrava ancora più angusto di quanto non le fosse sembrato sulla mappa. Prima di pensare troppo alla pazzia su cui stava imbarcando se stessa e il suo equipaggio, Raelynn spinse avanti la cloche.
«Porca puttana» mormorò Rosius al suo fianco.
Lynn non replicò concentrata sul compito di tenere la Liv lontana dalle pareti del tunnel. Una goccia di sudore le scivolò sul collo ma non poteva permettersi nemmeno quella minima distrazione perciò lasciò che scendesse.
«Potenza al settanta percento» ordinò Lynn e Rosius si affrettò ad eseguire mentre la donna, con tocchi delicati della cloche, teneva la nave al centro della galleria.
«Ottanta percento» chiese, appena un minuto dopo. Le pareti del condotto sfrecciavano sui lati ad una velocità spaventosa.
«Due chilometri alla biforcazione» annunciò Rosius con voce atona.
«Ok. Ros, al mio segnale ho bisogno che tu riduca la potenza delle piastre di sinistra al quaranta percento. Massima potenza a quelle di destra.»
Calbet tenne per sé l’imprecazione che gli era salita alle labbra: Lynn voleva sfruttare quello squilibrio di potenza per aiutare la Livelyan a virare e infilarsi nel canale di destra senza diminuire la velocità. Si fidava di lei ma non era sicuro che l’hovercraft fosse stato progettato per una cosa del genere. Ed era certo che in Accademia non insegnassero manovre di quel tipo. Lynn era guidata unicamente dal suo istinto.
«Quando avremo virato» proseguì Lynn, «dovrai ridare potenza alle piastre ma in maniera graduale o non riuscirò a tenerla.»
Rosius rispose con un laconico okay: Cal era certo che anche il giovane avesse capito quanto pericolosa fosse quella manovra. Raelynn attivò l’interfono: «Sarà una brusca virata, ragazzi. Reggetevi.»
Dal suo posto da operatore, Thorner vedeva tutto sui suoi schermi e si strinse di più le cinture sul petto, presagendo quanto brutta sarebbe stata.
Rosius iniziò il conto alla rovescia dei metri che mancavano. Arrivato a dieci metri, Lynn diede l’ordine con voce da cui traspariva una calma che Cal non sapeva davvero spiegarsi.
I fari della Livelyan illuminarono i due tunnel davanti a loro: Lynn inclinò la cloche a destra. La spinta asimmetrica la aiutò nella virata, ma dovette lottare con il timone, reso pesante proprio dallo squilibrio di potenza. Lynn digrignò i denti per la fatica, mentre Cal vedeva i tendini sul collo spiccare orgogliosi mentre la donna si impegnava con tutte le forze per tenere in linea la nave.
«Inizia a riequilibrare» ordinò e Rosius eseguì.
La nave reagì grata all’aumento della potenza sul lato sinistro, diventando subito più docile. La cloche risultò più morbida e gestibile e la nave iniziò a rimettersi in assetto. Lynn stava per ordinare a Rosius di rallentare un po’ per aiutarla a rimettersi dritta quando, con uno stridore di metallo, la Livelyan strisciò la sovrastruttura sul soffitto del tunnel. Un brivido scosse la nave e un allarme cominciò a gridare la sua protesta.
«Merda!» sbottò Lynn mentre lottava per non perdere il controllo della nave. «Ros, dammi una mano a tenerla» gridò la donna, mentre sentiva la nave scivolare verso sinistra con troppo abbrivio. Rosius afferrò la cloche e l’aiutò nella manovra.
«Thor, fa’ tacere quel maledetto allarme» gridò e il gigante diede una manata al pulsante di emergenza, silenziando il fastidioso bip.
Finalmente, con la forza combinata di entrambi sulle cloche, la Livelyan si rimise dritta. Lynn lanciò un’occhiata alla strumentazione: perfettamente in assetto.
«Non ci credo: siamo passati» mormorò Rosius, lasciandosi andare contro il sedile.
Raelynn però non poteva ancora rilassarsi: «Thor, rapporto danni.»
Il gigante stava già controllando: secondo lui il danno era poca cosa. Avevano strisciato sul soffitto in un punto dove non c’erano né antenne né altri sensori. Non c’era evidenza di una breccia e tutti i sistemi erano regolarmente in funzione.
Lynn non disse una parola mentre pilotava la nave fuori dal cunicolo. Solo quando finalmente sbucarono dall’altra parte, in un condotto ben più ampio, lasciò il timone a Rosius e abbandonò la testa all’indietro, lasciando cadere le braccia, esausta.
Cal si sganciò le cinture di sicurezza e si avvicinò da dietro. Le circondò il viso con le mani e la baciò. Poi si scostò e incatenò lo sguardo al suo.
«Qualche giorno fa mi hai detto che non c’è pilota bravo quanto te in tutta Zhaka» sussurrò. «Beh, credo che non ci sia un pilota in grado di fare quello che hai appena fatto in nessuna delle colonie. Forse nemmeno un computer avrebbe potuto farlo.»
Calbet era ancora incredulo. Lynn aveva appena pilotato una nave in un cunicolo sconosciuto, ad una velocità da infarto, effettuando una virata in un punto in cui sarebbe stato difficile far navigare una nave più piccola, figurarsi un hovercraft delle dimensioni della Liv. Portava la nave come se fosse un’estensione del proprio corpo, affidandosi ad un istinto che Cal poteva solo intuire.
Con quella manovra avevano risparmiato chilometri di navigazione. Calbet diede un’occhiata al display: all’appuntamento con la Nidàs mancavano meno di cinquanta minuti e, secondo il computer di bordo, sarebbero arrivati con meno di dieci minuti di ritardo. Ma era certo che Lynn avrebbe pilotato personalmente e quel divario si sarebbe ridotto ancora.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** La Città delle Macchine ***


Si entra nel vivo della missione
per recuperare Neo e Trinity.
E Cal e Lynn ora dovranno separarsi.
Buona lettura!


Erano a circa otto chilometri dal punto di incontro quando Raelynn ordinò a Thorner di rompere il silenzio radio e di comunicare alla Nidàs che erano leggermente in ritardo. L’operatore della nave di Zyron accusò ricevuta.
Quando sbucarono nel luogo convenuto, la Nidàs sfolgorava di luci. Era una nave di poco più grande della Livelyan, più spigolosa nelle forme. Il punto di scambio in cui si trovavano era una caverna di dimensioni abbastanza ampie da permettere alle due navi di fare manovra.
Lynn fece posare l’hovercraft sul fondo, di fronte all’altra nave.
«Tieni la nave in standby, voglio essere pronta a partire subito» ordinò Lynn a Rosius, prima di slacciare le cinture di sicurezza e seguire Calbet.
Dovevano fare in fretta: anche se erano molto in profondità, ogni secondo che passavano rischiavano di attirare l’attenzione delle Sentinelle. Se li avessero sorpresi con le navi a terra e l’equipaggio all’esterno sarebbe stato un massacro.
Quando arrivarono in plancia, Calbet prese in spalla il borsone. Vereena aveva già salutato Thor ed era pronta a scendere. Lynn fece un cenno al gigante che aprì il portello posteriore.
Appena scesi, tutti levarono lo sguardo alla sovrastruttura. Il punto in cui avevano strisciato contro la parete del tunnel era ben visibile, l’acciaio segnato e strisciato come da una cicatrice. Non era la prima volta che riportavano ferite del genere, ma quella, fresca, spiccava quasi fosse illuminata anche nel buio del luogo in cui si trovavano.
Raelynn accompagnò i due membri dell’equipaggio all’altra nave che, come loro, attendeva con il portello aperto. Nel vano si stagliava un giovane che indossava il maglione rosso del comandante. Mentre si avvicinavano scese con passo scattante: biondi capelli lunghi, barba dorata e occhi azzurri sembrava più un vichingo che un umano. Riconobbe Raelynn dal maglione uguale al suo e le tese la mano.
«Capitano Halliam della Nidàs» si presentò. La sua stretta di mano era forte e decisa: a Raelynn piacque subito.
«Capitano Raelynn, nave Livelyan di Zhaka» replicò la donna. «Ti chiedo scusa per il ritardo.»
Gli occhi di Halliam volarono al danno subìto dalla Livelyan. Lynn girò la testa e seguì la direzione del suo sguardo.
«Il Controllo di Zhaka ci ha imposto una rotta che andava in direzione opposta a questa, stamattina. Ho dovuto navigare in un condotto di scarico per ridurre il ritardo.»
L’espressione di Halliam passò dallo stupore al dubbio.
«Un condotto di scarico? Con quella nave?»
«Credimi» intervenne Calbet, «anche io che ero lì stento a crederlo. Ma l’ha fatto.»
Il comandante della Nidàs rimase in silenzio a lungo. Poi il sorriso si aprì sulle sue labbra: «Parola mia, l’Oracolo mi aveva detto che eri una tosta. Ma non credevo così tanto.»
Presero in fretta gli ultimi accordi, sincronizzandosi in modo da sferrare l’attacco nello stesso momento. Lynn gli presentò Vereena e Calbet che si sarebbero uniti al suo equipaggio per aiutarli nella ricerca di Neo e Trinity. Poi, terminati i preparativi, Raelynn tese la mano verso Halliam che la prese e la strinse.
«Buona fortuna, Halliam. Prenditi cura dei miei.»
L’altro chinò il capo in segno d’assenso. Non c’era altro che potesse dirle e un banale “buona fortuna” sembrava pateticamente inadeguato per qualcuno che si stava apprestando a raggiungere la Città delle Macchine.
Halliam girò i tacchi e andò verso la Nidàs. Vereena abbracciò Lynn e si avviò dietro di lui. Lynn e Calbet rimasero soli: si erano già detti tutto quello che c’era da dire, eppure Cal era restio ad andare. Fu lei a spezzare il silenzio.
«Non facciamo aspettare Halliam.»
Cal fece un passo verso di lei, le prese il viso fra le mani e la baciò. Entrambi erano consapevoli che quello poteva essere l’ultimo bacio ed era evidente dalla frenesia con cui si strinsero l’un l’altra.
Il sibilo dei motori della Nidàs li riscosse. Lynn fece mezzo passo indietro e alzò gli occhi verso il suo viso.
«Sta attenta, piccola» sussurrò. Quindi si voltò e raggiunse la Nidàs, fermandosi sulla soglia del portello.
Lynn sollevò la mano in un cenno di saluto a cui lui rispose mentre il portello si chiudeva e la Nidàs prendeva quota, ruotando su se stessa e ripartendo sulla propria rotta.
Non appena Raelynntornò sulla Liv, Thorner richiuse il portello e Rosiusdiede potenza e fece alzare la nave, mettendola sulla rotta che l’Oracolo aveva fornito loro: Lynn si aggrappò ad uno dei sostegni mentre l’hovercraft si metteva in assetto. Dopodiché, Rosius mise il pilota automatico e li raggiunse in plancia.
«Va bene. Facciamo un po’ il punto della situazione.»
Il piano era semplice, forse troppo. Avrebbero raggiunto la Città delle Macchine e usato i sistemi di oscuramento forniti dall’Oracolo. Grazie a quelli contavano di arrivare alle capsule in cui erano mantenuti i corpi di Neo e Trinity. Contemporaneamente, la Nidàs si sarebbe trovata a quota trasmissione e avrebbe inviato due squadre in Matrix, una alla ricerca dell’Eletto, l’altra sulle tracce di Trinity. Era fondamentale che la loro liberazione avvenisse nello stesso momento: secondo l’Oracolo, le macchine avrebbero percepito il loro risveglio e si sarebbero messe in allarme. Lynn ed il suo equipaggio avrebbero recuperato gli Eletti prima che le macchine riuscissero a fermarli e si sarebbero dileguati, facendo perdere le tracce nei cunicoli prima di tornare a Zhaka con il loro prezioso carico.
«Finché non saremo in superficie non c’è molto altro che potremmo fare. Cercate di riposare, avrete bisogno di tutte le energie quando saremo laggiù. Ros, prendi il comando, io farò l’ultimo tratto.»
Si ritirò in cabina e, nonostante la preoccupazione per il piano e per Calbet, si addormentò subito.
 
***
 
Fu Edjac a svegliarla due ore dopo. Lynn aveva dormito con gli stivali ai piedi, perciò si alzò e si stiracchiò.
«Mi avete lasciato dormire troppo» brontolò, non troppo convinta.
«Siamo in anticipo sulla tabella di marcia e tu avevi bisogno di riposare dopo quella folle corsa nel condotto» replicò la ragazza. Nel suo tono non era difficile intuire tutta l’ammirazione che la giovane provava per lei. Lynn pensò per un istante che, proprio per quella stima,Edjac avrebbe fatto di tutto per lei.
In plancia, Thor non era al suo posto.Raelynn lo sentì russare prima di vederlo raggomitolato sulla cuccetta.Edjac si mise la cuffia in testa e sedette sulla poltrona di Thorner. Lynn diede un’occhiata agli schermi per farsi un'idea di dove fossero e di come fossero messi in relazione con l’obiettivo.
«Vado da Rosius» disse. Poi indicò Thor con la testa: «Sveglialo e fatti dare il cambio, anche tu hai bisogno di riposare.»
La Livelyan viaggiava con il pilota automatico inserito. Rosius aveva come unico compito quello di tenere d’occhio i sistemi sul computer di bordo. Ragguagliò in fretta Lynn – non era successo nulla di significativo mentre lei dormiva – e le trasferì i comandi. Quindi la donna lo congedò e Rosius raggiunse la sua cabina per dormire un po’ in vista dell’arrivo alla Città delle Macchine, previsto di lì a tre ore.
Raelynn si mise comoda, tanto non c’era nulla che dovesse fare almeno per le successive due ore, e la mente andò a Calbet e Vereena. Il passaggio dei due sulla nave di Zyron si era reso necessario in quanto Halliam era decisamente sottorganico: il copilota e l’operatore erano nati nelle colonie e, oltre ad Halliam stesso, c’era solo un altro membro dell’equipaggio in grado di collegarsi a Matrix. Anche quello era un segno del cammino lento ma ineluttabile verso l’estinzione: senza gente in grado di entrare in Matrix non c’era possibilità di liberare altre persone e indebolire il sistema.
Secondo il piano, a bordo della Nidàs, avrebbero raggiunto quota trasmissione e sarebbero entrati in Matrix. L’Oracolo aveva fornito loro l’esatta posizione di entrambi gli Eletti. Trinity viveva in Georgia, Neo in California: l’Architetto li aveva mandati ai capi opposti degli Stati Uniti, di certo per fare in modo che non si incontrassero. Evidentemente sapeva quanto fossero pericolosi insieme e voleva evitare di ritrovarsi con la struttura della sua preziosa Matrix di nuovo in pericolo.
Cal aveva obiettato che quella di Lynn era la parte più pericolosa della missione, ma non ne era così sicura. Secondo le loro informazioni, le Sentinelle attorno alla Città delle Macchine erano in numero esiguo. Il che, era comprensibile: di certo le macchine non si aspettavano che qualcun altro arrivasse fin nel cuore della loro città e, dall’altra parte, il loro compito era quello di localizzare e uccidere gli umani, quindi la maggior concentrazione di quelle macchine infernali era di pattuglia nei tunnel più distanti dalla città, nella speranza di intercettare e attaccare una delle loro navi.
Viceversa, tenere una nave a quota trasmissione a lungo li esponeva al pericolo di essere intercettati perché le Sentinelle erano in grado di percepire il loro segnale con maggiore chiarezza. In più, se qualcuno era collegato a Matrix non era possibile usare l’EMP, l’unico strumento davvero in grado di sbaragliare le Sentinelle, a meno di non uccidere anche tutti quelli che erano connessi.
Un allarme attirò la sua attenzione e Lynn si raddrizzò sulla poltrona. Il radar della Livelyan segnalava un nutrito gruppo di Sentinelle in arrivo dalla direzione opposta. La donna digitò in fretta alcuni comandi e visualizzò la mappa dell’area in cui stavano navigando: doveva trovare una soluzione in fretta, il tempo all’intercetto era di circa cinque minuti.
L’unica possibilità era fermarsi da qualche parte e sperare che le Sentinelle se li lasciassero sfuggire. C’era una derivazione poco più avanti: non era molto profonda, ma sarebbe bastata per contenere l’hovercraft.
«Edjac, dobbiamo fare una deviazione. Sentinelle in arrivo. Carica l’EMP.»
Sperò di non doverlo usare, non voleva attirare l’attenzione.
Prese i comandi della nave e la fece fermare davanti al condotto. Il tunnel in cui stavano navigando era ampio quindi non ebbe difficoltà a farla ruotare, allineando la parte posteriore con il condotto secondario ed entrando a marcia indietro. Si infilò più in profondità possibile, poi tirò la leva accanto al proprio sedile e la Livelyan si posò.
«Spegni tutto e resta in attesa» disse a Edjac.
Tutti i sistemi si spensero e la nave rimase buia e silenziosa: «EMP armato» confermò Edjac.
Mancava un minuto e mezzo al contatto. Lynn si tese in avanti. Poi, improvvise nonostante le stesse aspettando, le Sentinelle comparvero nella galleria principale. L’aspetto era quello di seppie metalliche, con una grossa testa piena di occhi rossi e lunghi tentacoli di acciaio. Era stato proprio uno di quelli ad averla trapassata da parte a parte. Istintivamente la mano andò alla spalla, alla ferita che talvolta ancora le doleva.
Lo sciame contava una ventina di elementi che passarono davanti a loro, ignorandoli completamente. Quando l’ultima Sentinella fu passata, Lynn tirò un sospiro di sollievo ma impegnò altri minuti preziosi per far sì che si allontanasser. Poi fece riavviare la nave e uscì, riprendendo la rotta.
Non ci furono altri incontri e il viaggio proseguì senza problemi. Da quando erano partiti avevano progressivamente preso quota, avvicinandosi alla superficie. Ma fu solo quando l’hovercraft cominciò decisamente a salire che il capitano fece svegliare e tornare operativi tutti i membri della Livelyan, ognuno pronto ai suoi compiti.
A quel punto, a Zhaka dovevano aver capito che la Livelyan non sarebbe rientrata dal giro di pattuglia. Chissà se Velius avrebbe mandato qualcuno a cercarli: probabilmente no, sapendo quanto fossero preziose le navi di Zhaka e quanto poco fosse amata lei in seno ai vertici del comando militare. Pensò al consigliere Garjac: sarebbe stato terribile per lui non sapere cosa fosse successo a sua figlia Vereena: sperò che Garjac alla fine l’avrebbe perdonata per non aver detto nulla circa la missione.
Quando Rosius tornò al suo fianco, Lynn riprese il comando della nave, disattivando il pilota automatico: ormai mancava poco alla superficie e la donna voleva comandare personalmente la nave. Mentre coprivano gli ultimi chilometri, Thorner attivò il programma che avrebbe schermato il loro segnale, inducendo le macchine a credere che fossero un veicolo di servizio e non una nave che arrivava da una delle colonie. Anche i vetri anteriori dell’hovercraft sarebbero stati oscurati.
Il condotto in cui stavano navigando saliva ora in maniera decisa. Lynn lo seguì, facendo prendere quota alla nave, finché sbucarono in superficie. E rimasero senza parole di fronte a quella vista. Nessuno eccetto gli Eletti – che però non avevano mai fatto ritorno a Zion – aveva mai visto quella realtà. Nemmeno nei suoi peggiori incubi Lynn aveva pensato che potesse essere così.
«Dio mio» mormorò Rosius al suo fianco.
Il cielo era nero, coperto di nuvole grevi dentro cui lampeggiavano ininterrottamente i fulmini, come se un’eterna tempesta si stesse consumando lassù. Sotto quei cumuli lividi si estendeva una terra arida e desolata. Una catena montuosa in lontananza interrompeva la monotonia del paesaggio, altrimenti piatto e deserto. Al di sotto del ventre delle nubi sfrecciavano piccole navi e velivoli più grossi, forse hovercraft da trasporto.
Erano stati gli umani ad oscurare il sole, sperando che le macchine esaurissero così l’energia necessaria al loro funzionamento. Ma non era successo e l’unico risultato era stato rendere inabitabile il pianeta. Lynn si chiese se sarebbero riusciti a renderlo di nuovo adatto ad ospitare la vita oppure se, anche se liberi da Matrix, sarebbero stati costretti comunque a vivere sottoterra.
Lynn virò a sinistra, come da indicazioni dell’Oracolo che aveva fornito loro anche velocità e quota a cui navigare. Mentre avanzavano su quella terra devastata, si trovarono a sorvolare i campi. Di coloro che erano a bordo, soltanto Raelynn aveva visto quel luogo. Ma non aveva avuto modo di guardarsi molto intorno, stordita dal risveglio, prima che il sistema di scarico, ritenendola ormai inutile, la facesse scivolare nelle fogne.
C’erano colonne altissime, fitte di capsule che rilucevano di una sinistra luce rossastra, come finestre di un grattacielo infernale. In ognuna di quelle capsule, un umano era collegato ai cavi, sospeso in un coma indotto. Viveva una vita virtuale in Matrix, mentre le macchine rubavano la sua vera vita e la sua energia per alimentare loro stesse.
«Tu eri in una di quelle capsule?» chiese Rosius sottovoce.
«Esatto» confermò Raelynn, la mano che andava da sola a sfiorare uno dei connettori che aveva sul braccio, retaggio dei cavi a cui era stata collegata.
«Incredibile che abbiamo permesso loro di schiavizzarci in questo modo». La voce di Thorner, seria e grave, le arrivò attraverso la cuffia.
«Se Dio vorrà, cambieremo questa cosa» replicò decisa Lynn, virando di nuovo e allineandosi con una grande costruzione visibile in lontananza. Uno sguardo al monitor le confermò che quella era la loro destinazione finale. Si trattava di un enorme edificio di pianta circolare, simile ad un grosso silos per il grano.
Il programma che l’Oracolo aveva fornito loro doveva essere davvero valido: nessuno dei velivoli che incrociarono li degnò di attenzione. Lynn diresse la nave verso un portello circa a metà altezza e allineò a quello la paratia di destra. Digitò alcuni comandi e la Livelyan rimase in volo stazionario.
Lynn sganciò le cinture e lasciò la cabina. In sala link Thorner la stava aspettando, assieme ad Alpha e Beta, già pronte per uscire dal portello laterale. Non appena Edjac lo aprì, le due macchine scivolarono fuori e armeggiarono con la chiusura della botola sull’edificio, riuscendo ad aprirla. Lynn e Thor scattarono, infilandosi nel vano, mentre Edjac richiudeva il portello e Rosius faceva allontanare la nave: sarebbe rimasto ad una certa distanza, disegnando degli otto in cielo in attesa di tornare a riprenderli.
L’interno era immerso nella penombra, ma la luce che filtrava dall’esterno era sufficiente per mostrare una scala che scendeva verso il fondo. Cominciarono a scendere: Alpha fluttuava nel vuoto mentre Beta si avviò giù per la scala con le zampette d’acciaio che ticchettavano sui gradini metallici. Entrambi gli NBO erano in grado di farsi riconoscere dalle altre macchine presenti, nel caso si fosse reso necessario. Tuttavia, arrivarono sul fondo senza incontrare ostili. Lynn lo trovò strano: certo, le macchine non si aspettavano che gli umani arrivassero fino al cuore della loro città, ma quella mancanza di difesa era una dimostrazione di presunzione che lei sperò di far pagare cara.
Sul fondo, le cose cambiarono. Per due volte lei e Thor furono costretti a nascondersi fra tubi e cavi, in attesa che Alpha e Beta liberassero il passaggio. I codici di identificazione che l’Oracolo aveva fornito loro si rivelarono provvidenziali e li fecero avanzare fino ad un grande portone d’acciaio, difeso da due macchine armate. Di nuovo, Alpha e Beta entrarono in azione: non potevano sperare che quelle guardie sgombrassero il campo ma riuscirono ad avvicinarsi abbastanza da lanciare su di loro due piccoli congegni a impulsi elettromagnetici. La scarica che ricevettero li disattivò e le due sentinelle rimasero in piedi, inservibili.
Beta usò le zampette anteriori per digitare il codice di apertura della porta che scivolò di lato con un leggero sbuffo. Lynn e Thorner si infilarono all’interno e lì, proprio di fronte a loro, c’erano le due capsule gemelle. L’aria era gelida, tanto che il fiato di entrambi si condensava in nuvolette di vapore.
Si avvicinarono a passo lento, quasi timorosi. All’interno, immersi in una gelatina rosa, i corpi di Neo e Trinity erano collegati ai cavi infilati nelle braccia, nelle gambe, sul petto e la schiena. Gli occhi erano chiusi ma Lynn vide le palpebre fremere, come capita a chi dorme e sogna. Nonostante fossero passati oltre tre secoli, nessuno dei due sembrava invecchiato di un giorno.
«Mi sento come se fossi alla presenza di due divinità» mormorò Thorner, spezzando il silenzio. Il gigante di Zhaka era un tipo molto pragmatico e sentirlo esprimersi in quei toni quasi sognanti fu una sorpresa per Raelynn. Ma anche lei provava la stessa cosa. Quei due umani erano gli artefici della Liberazione, gli Eletti che Zion aveva cercato per anni e che avevano impedito la distruzione della città ad opera delle macchine. Avevano negoziato la pace, sacrificando se stessi per il bene dell’umanità. Certo, le macchine poi avevano infranto quella pace, ma il loro gesto non era meno nobile.
«Quanto al risveglio?» chiese Lynn.
«Trentasette minuti» replicò Thor.
«Ok, mettiamoci al lavoro.»
Lynn ricordava con estrema chiarezza il momento in cui si era risvegliata e, anche se l’Oracolo aveva assicurato che entrambi avrebbero ricordato tutto della loro precedente esperienza, era determinata a far sì che fosse il meno traumatico possibile. Anche perché dovevano essere in grado di collaborare, se volevano uscire da lì nel più breve tempo possibile.
Mentre Lynn con un taglierino incideva le membrane superiori delle capsule in modo che, quando si fossero svegliati, non avrebbero dovuto faticare per guadagnare l’esterno, Thor si infilò sotto ogni capsula e aprì un pannello con il cacciavite. Armeggiò per un po’ tra i fili elettrici fino a collegare delle batterie che si erano portati dalla Livelyan. Nel momento in cui Neo e Trinity fossero stati scollegati il sistema avrebbe percepito l’interruzione dell’energia e sarebbe andato in allarme: speravano che quello stratagemma avrebbe ingannato i computer per il tempo necessario alla lora fuga. Era stato Thorner a suggerire quella soluzione dopo aver dato un’occhiata ai progetti delle capsule che l’Oracolo aveva fatto avere loro.
Poi disposero a portata di mano teli per ripulirli dal gel di governo e coperte per avvolgerli come difesa dal freddo. Quindi non restò altro da fare che attendere.
Lynn, accanto alla capsula di Trinity, osservò la donna che era da sempre il suo idolo. Il suo corpo era costellato di ferite rimarginate: nessuno sapeva cos’avesse subìto per arrivare fin lì ma, dai brandelli di informazioni che avevano racimolato, era morta prima di Neo, probabilmente per le conseguenze di quelle ferite. Chissà cos’avevano escogitato le macchine per riportarla in vita.
«Un minuto» annunciò Thorner e, nel medesimo istante, quasi avesse ricevuto un segnale, Neo si raddrizzò nella sua capsula. Lynn notò che la batteria sotto la capsula si era attivata all’istante ma rimase comunque in attesa di un allarme che, per fortuna, non scattò.
Entrambi si precipitarono accanto a Neo che si era aggrappato ai bordi della capsula.
«Tutto bene, sono qui» gli disse Thorner.
Le squadre entrate in Matrix dovevano averlo avvisato della loro presenza perché non sembrò sorpreso.
«Ora ti tolgo questa roba» disse, afferrando il tubo che gli scendeva in gola e che gli permetteva di respirare nella capsula. Neo fece uno stanco cenno di assenso.
Non appena fu libero, pur se piegato in due dall’accesso di tosse, Thorner afferrò il trancino e tagliò ad uno ad uno i tubi che lo tenevano legato come una miriade di cordoni ombelicali. Più tardi, quando fossero stati al sicuro sulla Liv, si sarebbero occupati di estrarre i monconi e gli aghi infilati nei connettori. Poi lo prese fra le braccia con delicatezza e lo estrasse dalla capsula. Lo depose sulla coperta che avevano preparato sul pavimento, mentre Lynn, con un occhio attento alla capsula di Trinity, lo aiutava a ripulirlo.
Poi lo avvolsero in una coperta asciutta e Thorner lo sostenne dato che i suoi muscoli, indeboliti dalla lunga permanenza nella capsula, non erano in grado di mantenerlo seduto.
«Trinity?» domandò con voce roca.
Lynn lanciò un’occhiata preoccupata alla donna, sempre bloccata nella realtà virtuale di Matrix: «Avrebbe dovuto svegliarsi insieme a te» disse.
Erano passati dodici minuti: nel piano originale il risveglio di Neo e Trinity era previsto più o meno nello stesso momento, in modo da cercare di ridurre la possibilità di essere scoperti, ma doveva essere successo qualcosa.Calbet e Vereena erano la squadra che doveva occuparsi di Trinity, quindi provò un fremito di allarme.
D’improvviso, il corpo di Trinity fu scosso da uno spasmo e la donna si sollevò dalla culla che l’aveva mantenuta in vita per quei trecento anni.Raelynn scattò per aiutarla, sostenendola e liberandole la trachea.
Non poteva credere che ce l’avessero fatta: avevano liberato entrambi gli Eletti, nel cuore della Città delle Macchine, sotto il naso dei loro nemici. Adesso la Resistenza poteva avere nuovo slancio.
Ma la sua gioia si trasformò in vera paura quando le arrivò la voce di Edjac nell’auricolare.
«Capitano, Cal e Vereena sono in difficoltà.»

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Trinity ***


Calbet e Vereena sono in difficoltà.
Cosa sarà successo in Matrix,
mentre i due cercavano di arrivare a Trinity?
Buona lettura!

 


Calbet guidava il SUV scuro lungo le affollate strade di Atlanta, capitale della Georgia. Si fermò diligentemente ad un semaforo e guardò fuori dal finestrino.
Attorno a loro, il mondo fittizio di Matrix si mostrava in tutta la sua disarmante bellezza. Sotto quella facciata, la Terra era un pianeta invivibile, in cui solo le macchine potevano muoversi. Quella ragazza con uno svolazzante foulard rosso al collo, quel giovane con i dread, quell’uomo in completo scuro con la ventiquattrore in mano, quella madre con il figlio in braccio: tutti loro erano schiavi di quelle macchine e, sospesi in una “non vita”, trascorrevano l’esistenza derubati della loro energia vitale, asserviti a Matrix e al sistema. Un sistema che, forse, adesso potevano distruggere.
«Ogni volta che vengo qui mi rendo conto di quanto ho odiato ogni singolo giorno della mia vita prima di essere risvegliata. Non so spiegarlo, è come se nel profondo dell’animo sapessi che tutto questo era finto» commentò Vereena al suo fianco.
«Già, ti capisco» replicò.
Il semaforo divenne verde e Calbet ripartì. Poco più avanti, l’edificio in vetro e cemento della Georgia State University brillava nel sole. Erano le undici e mezza e il movimento davanti all’istituto era abbastanza tranquillo. Arrivato all’incrocio, girò a sinistra su Peachtree Street, proseguendo per qualche centinaio di metri prima di lasciare l’auto in un parcheggio.
Scesero entrambi: la loro meta era un caffè accanto all’università, il RisingRoll Gourmet. Secondo le informazioni che avevano, Trinityinsegnava presso l’ateneo e andava lì a pranzo. Vereena lo prese sottobraccio e, fingendo di essere una coppia, raggiunsero il locale e si accomodarono ad un tavolino posizionato in modo da tenere d’occhio l’ingresso e il bancone.
Presero del caffè e si disposero ad attendere, fingendo di chiacchierare del più e del meno, finché Vereena sollevò la tazza e la usò per coprire la bocca mentre annunciava che Trinity era entrata. Calbet si passò una mano fra i capelli mentre girava la testa per osservarla: indossava un corto blazer blu sopra un paio di jeans blu scuro e una camicia beige. I capelli neri, tagliati corti, erano fissati con il gel in un ordinato disordine.
Si avvicinò al bancone dove venne accolta con il sorriso riservato ad una cliente abituale. Fece la propria ordinazione e sedette, accavallando le gambe e immergendosi nella lettura del giornale che aveva estratto dalla borsa.
Calbet si augurò che l’altra squadra, guidata da Halliam, fosse nella loro stessa situazione. Anche loro dovevano aver stabilito il primo contatto con Neo: secondo l’Oracolo la liberazione doveva avvenire in modo il più possibile sincronizzato per evitare che le macchine percepissero qualcosa.
Attesero che le portassero da mangiare prima di alzarsi dal loro tavolo. Mentre Calbet andava a pagare le loro consumazioni, Vereena si avvicinò al tavolino del loro obiettivo.
«Ciao Trinity» disse.
La testa della donna si sollevò di scatto. Vereena la vide socchiudere le palpebre sugli occhi azzurri come il ghiaccio.
«Quel nome…» mormorò, come se sentirsi chiamare con il suo nome da hacker avesse stuzzicato la sua memoria. Era un bene, avevano sperato proprio in quello.
«Se vuoi saperne di più, vieni qui tra mezz’ora» replicò Vereena, facendo scivolare un foglietto sul tavolino e voltandosi per uscire.
«Aspetta!» esclamò Trinity.
«Non qui, ci osservano» sussurrò Vereena e seguì Calbet fuori dal locale.
Sul foglietto che aveva lasciato a Trinity c’era una semplice scritta: Fontana Woodruff Park. Si diressero lì, trovando posto su una delle panchine in vista della grande fontana circolare che chioccolava dolcemente. Era una assolata giornata d’autunno e nel parco c’era un bel po’ di gente che faceva jogging, passeggiava o semplicemente leggeva il giornale o un libro. Avevano scelto quel posto proprio sperando che fosse abbastanza affollato da far passare la loro presenza il più inosservata possibile.
Entrambi continuavano a far saettare lo sguardo in giro, nel timore di veder comparire qualche agente. Erano diventati molto bravi a mimetizzarsi, ma mantenevano una rigidità e un portamento marziale che riuscivano quasi sempre a identificare. Se ne avessero visti in giro avrebbero dovuto abortire la missione e sganciarsi immediatamente. Cal sperò che non fosse necessario o tutto il lavoro che avevano fatto per arrivare a quel punto sarebbe stato buttato via.
«Quanto tempo è passato?» chiese Calbet, scrutando preoccupato verso la direzione da cui sarebbe dovuta arrivare Trinity.
«Ventotto minuti» borbottò.
Il pensiero volò a Lynn. A quel punto, la sua donna doveva essere arrivata in superficie, alla Città delle Macchine. C’erano talmente tante cose che potevano andare storte lassù che rischiava di fottersi il cervello solo a pensarci. Ma era preoccupato per lei e quel suo cervello traditore gli restituì l’immagine orribile della Livelyan in fiamme che precipitava dal cielo.
Vereena gli sfiorò il braccio, strappandolo alla ridda di pensieri tutt’altro che piacevoli che gli affollava la testa. Seguì lo sguardo della donna e vide Trinity venire verso di loro. Aveva la borsa appesa alla spalla e camminava con passo deciso. Non appena li vide, li raggiunse e si fermò davanti a loro.
«Si tratta di uno scherzo, vero?» chiese ridendo. «È stato Jake, ci scommetto.»
Nessuno dei due replicò e il sorriso di Trinity si spense lentamente.
Non sapeva nemmeno perché aveva risposto all’invito scritto su quel foglietto. La ragazza vestita di pelle con i capelli biondi che gliel’aveva lasciato sul tavolo era una perfetta sconosciuta. Frequentava quel bar tutti i giorni da quando insegnava alla Georgia State ed era sicura di non averla mai vista. Ne era assolutamente certa, non era qualcuno che potesse passare inosservato.
Era stato quel nome a farle decidere di uscire e raggiungere il parco. Non appena l’aveva sentito, un’immagine si era formata nella sua testa: un cielo plumbeo solcato di fulmini, una catena montuosa all’orizzonte e tre enormi tubature che correvano sul terreno. Era stato solo un flash, ma l’immagine si era stampata nel suo cervello. Anzi, era come se ci fosse sempre stata, tanto che si meravigliò di non averla mai visualizzata prima.
«Trinity» cominciò Calbet, ma lei lo interruppe bruscamente.
«Quello non è il mio nome…» ma mentre lo diceva un’altra immagine la colpì, ancor più difficile da interpretare rispetto alla prima. Sembrava una grande navicella spaziale, con grandi piastre circolari che brillavano di luce azzurra e un nome scritto su una placca di metallo corrosa: Nabucodonosor.
«Ascolta, c’è qualcosa di molto importante di cui dobbiamo parlare con te» intervenne Vereena. Cal lasciò che fosse lei a condurre: di solito erano lei e Raelynn ad entrare in contatto con coloro che dovevano scollegare. Erano molto più brave di lui.
«Bene, ditemi» proruppe Trinity.
«Non qui» fece Vereena. Cal continuava a guardarsi intorno: si sentiva esposto e vulnerabile lì fuori. Halliam gli aveva detto che, su indicazione dell’Oracolo, tenevano d’occhio Neo e Trinity da tempo e non avevano visto agenti aggirarsi nelle loro zone. Ma Matrix era pericolosa e non era da escludere che sapesse che qualcosa bolliva in pentola.
«Devi venire con noi.»
«Ah sì? E dove?»
«In un luogo sicuro, dove potremo spiegarti tutto.»
Trinity fece un passo indietro e scoppiò a ridere.
«No, io non vengo da nessuna parte con voi» esclamò, voltandosi per andare via.
«Aspetta, Trinity.»
Un altro flash, stavolta talmente potente che quasi la fece barcollare. Un’auto ferma sotto un ponte, con la pioggia che scrosciava talmente forte da dare l’impressione di essere sotto una cascata. Lei sul sedile posteriore che tratteneva un ragazzo che cercava di uscire dall’auto.
«Perché dovrei fidarmi di voi?» chiese, ma Vereena colse un’esitazione nel suo tono. Sapeva che stava per cedere, doveva solo dire le parole giuste.
«Perché quello che c’è là fuori già lo conosci. È come quella strada» aggiunse, indicando la grande strada trafficata che si allontanava dal parco in direzione dell’università, «sai esattamente dove porta. E io so che non è qui che tu vuoi stare.»
Furono evidentemente le parole giuste. L’espressione di Trinity cambiò all’istante e fece un cenno di assenso con il capo, lieve ma sufficiente perché i due scattassero in piedi. Calbet le precedette verso il parcheggio presso cui avevano lasciato l’auto. Le due donne salirono dietro e Cal si immise nel traffico, diretto verso la periferia della città.Vereena parlava fitto con Trinity, spiegandole la verità su Matrix, preparandola a ciò che si apprestavano a fare.
Calbet imprecò quando dovette frenare all’improvviso. In un istante si ritrovò bloccato nel traffico e controllò nervosamente l’orologio. Rischiavano di ritardare l’estrazione e non potevano permetterselo. Cercò di sbirciare più avanti, ma non riuscì a vedere cosa causava il blocco. Trascorsero diversi minuti prima di riuscire a muoversi e comunque avanzarono a passo d’uomo. Cal sbuffò la sua frustrazione mentre dietro di lui le spiegazioni di Vereena proseguivano, intervallate dalle domande di Trinity. Gettò un’occhiata allo specchietto retrovisore: il viso di Trinity non era di certo quello di qualcuno che si ritrova catapultato in qualcosa di completamente estraneo.
«Tu sai che le parole di Vereena sono realtà, non è così?» disse dopo un po’.
Trinity incrociò il suo sguardo.
«Non so come, ma lo so» ammise. E raccontò loro delle immagini che aveva visto.
«Sono i ricordi della tua vita precedente che affiorano» spiegò Vereena.
Trascorsero interminabili minuti con l’auto a passo d’uomo, prima che il blocco, causato da un piccolo tamponamento, si dissolvesse. Calbet accelerò bruscamente, deciso a recuperare il tempo perso, ma erano in ritardo di una decina di minuti quando finalmente si inoltrò in una zona di costruzioni abbandonate e fatiscenti, fino a parcheggiare sul retro di un edificio dal tetto basso con le finestre sprangate da assi di legno. Quando scesero dall’auto un gatto spaventato corse via, rovesciando con gran fracasso il bidone in cui stava rovistando mentre un secondo animale si appiattì tra due casse con le orecchie abbassate sul cranio.
Trinity si guardava intorno dubbiosa.
«Lo so. Cerchiamo di non attirare l’attenzione» affermò Calbet, mentre apriva una porta e si scostava per lasciarle entrare.L’interno dell’edificio era immerso nella penombra ma due monitor spandevano un chiarore azzurrino, creando un’isola di luce al centro della stanza altrimenti vuota.
Vereena accompagnò Trinity ad una sedia posizionata di fronte ai monitor e Calbet sedette di fronte ai monitor. Ora Trinity doveva fare la sua scelta, ma il fatto che fosse arrivata fin lì era già un enorme passo. La donna le diede le ultime istruzioni quindi le presentò le due pillole: la blu per tornare alla sua vita inconsapevole, la rossa per andare fino in fondo a quella storia.
Trinity tese la mano verso la rossa, non senza una certa esitazione. La ingoiò con un sorso d’acqua dalla bottiglietta che Vereena le aveva teso ed emise un lungo respiro. Sul monitor, attraverso gli elettrodi che Vereena le aveva applicato, Cal vide i suoi parametri cambiare immediatamente. Era strano che accadesse così in fretta, ma in effetti questo era il primo caso di qualcuno che veniva liberato per la seconda volta. Sperò che tutto andasse bene.
«Il cuore è in fibrillazione» annunciò Calbet prima che Trinity inarcasse la schiena in uno spasmo per accasciarsi poi inerte sulla sedia. Calbet sperò che Lynn fosse riuscita ad arrivare alla Città delle Macchine, altrimenti Trinity si sarebbe svegliata sola.
«Se le cose sono andate come dovevano, Halliam dovrebbe aver liberato Neo» commentò Vereena mentre il corpo di Trinity si dissolveva in una miriade di puntini luminosi verdi. Non era ovviamente il suo corpo reale ma solo la proiezione digitale presente in Matrix.
«E se Lynn ha raggiunto la Città della Macchine, a quest’ora entrambi sono a bordo della Livelyan» replicò Calbet, mentre spegneva le apparecchiature e staccava i cavi, applicando un congegno a tempo che avrebbe detonato non appena loro fossero tornati a bordo della Nidàs, cancellando tutte le prove della loro sortita.
Si accingevano a tornare all’hovercraft di Halliam quando un rumore improvviso che proveniva dal vicolo dove avevano parcheggiato fece scattare entrambi. Le mani corsero alle pistole nascoste sotto la giacca. Cal si mosse con cautela, raggiungendo una delle finestre. Poteva essere semplicemente un altro gatto che fuggiva. Ma fuggiva perché spaventato da qualcosa? E se sì, cosa l’aveva spaventato? Stando riparato dietro la parete sbirciò fuori attraverso le assi. Da quella posizione poteva tenere d’occhio tutto il vicolo che si allungava dietro il SUV, parcheggiato nel sole.
Il cellulare gli vibrò nella tasca. Doveva essere l’operatore della Nidàs, che li stava osservando attraverso i monitor. Quella chiamata aveva un unico significato: agenti. Nell’attimo in cui formulò quel pensiero, tre di quegli odiosi programmi di Matrix sbucarono nel vicolo. Non si curavano nemmeno di mimetizzarsi e indossavano il solito completo scuro e gli occhiali da sole. Sembravano tre bodyguard alti e ben piazzati, molto ben piazzati. E non era escluso che altri ne arrivassero o fossero già presenti sulla scena.
Dovevano sganciarsi al più presto o sarebbero rimasti bloccati lì. Doveva mandare via Vereena e distruggere tutto o gli agenti avrebbero potuto seguirli e quella sarebbe stata una vera tragedia. Poi avrebbe cercato un’altra via per tornare.
Gli agenti si guardavano intorno. Due di loro abbatterono con un calcio la porta dell’edificio di fronte a quello che avevano occupato mentre il terzo restò all’esterno. Avevano qualche minuto di tempo e dovevano agire subito.
Attirò l’attenzione di Vereena indicandole il telefono a linea fissa posato accanto al monitor e facendole segno di usarlo per tornare sulla Nidàs. La donna scosse la testa: non voleva lasciarlo in quella situazione.
Soffocando un’imprecazione, Calbet diede un’altra occhiata all’esterno e raggiunse Vereena.
«Devi andare, non c’è altro modo» sussurrò.
«Non ti lascio.»
«Devi, Vereena. È un ordine» comandò, sollevando la cornetta dalla forcella e allungandola verso di lei. Era più alto in grado e lei doveva obbedire. Con espressione affranta, Vereena l’afferrò e la avvicinò all’orecchio.
«Tranquilla, me la caverò» disse, mentre la donna scompariva, risucchiata nella rete attraverso l’apparecchio.
Rimise il ricevitore al suo posto e passò velocemente nell’altra stanza, appostandosi dietro lo stipite. Attese, l’arma puntata, guatando il buio in attesa delle mosse dei suoi nemici che non si fecero attendere. Con uno schianto che lo fece sussultare, la porta fu abbattuta. Gli agenti entrarono, senza curarsi di verificare se la situazione fosse sicura. Potevano schivare le sue pallottole, Cal lo sapeva, ma non era a loro che stava mirando.
Uno degli agenti si avvicinò al tavolo su cui stava l’attrezzatura che avevano usato. Prima che potesse allungare la mano verso il telefono, Cal tirò il grilletto. Da quella distanza non poteva sbagliare e infatti centrò in pieno il congegno esplosivo che deflagrò con un gran botto. L’agente fu investito in pieno dall’esplosione che lo scaraventò indietro di diversi metri, dritto contro la parete. I suoi due colleghi finirono a gambe all’aria.
Calbet non rimase oltre a contemplare quella devastazione e corse in fondo alla stanza dove aveva intravisto una scala a chiocciola che saliva sul tetto. Salì velocemente i gradini fino alla sommità. I due agenti finiti a terra si rialzarono e lo seguirono, sparandogli contro. Le pallottole fischiavano come uno sciame di calabroni inferociti, rimbalzando sul corrimano in metallo della scaletta, ma Calbet spalancò la botola e uscì sul tetto.
Raggiunse di corsa il parapetto di cemento e guardò giù. C’erano due agenti sotto di lui e, avvisati dai loro colleghi, stavano per alzare la testa per controllare che lui non arrivasse dal tetto. Sparò in testa al primo e si lanciò sul secondo. Era un volo di almeno cinque metri, ma lui era addestrato e Matrix sottostava alle regole di una realtà virtuale che potevano essere, in qualche modo, aggirate.
Cadde addosso al secondo agente e l’urto spezzò il collo al nemico, ma gli piantò comunque una pallottola in testa, giusto per essere sicuro. Poi raggiunse il SUV e saltò a bordo. Davanti a lui, una berlina nera che doveva essere quella degli agenti di Matrix bloccava la via, perciò mise la retromarcia e partì a razzo. Una seconda berlina sbucò all’improvviso dall’angolo, ma lui era lanciato e non rallentò. La colpì con il paraurti posteriore e il peso del SUV la spinse via quel tanto che bastava per liberargli la strada.
Sterzò violentemente per rimettere dritta la vettura e accelerò. Se avesse avuto più tempo sarebbe forse stata una buona idea mettere fuori uso la seconda auto, ma non poteva sperare di resistere molto con cinque agenti nei dintorni. Ne aveva fatti fuori due, forse tre se l’esplosione che aveva colpito il primo era stata abbastanza forte, e poteva dirsi soddisfatto. E comunque, quei bastardi potevano spostarsi molto più velocemente di lui, quindi sarebbe stato un guadagno relativo.
Per il momento non lo stavano seguendo, ma sarebbero arrivati. Calbet pescò il cellulare dalla tasca.
«Operatore» rispose Jine, il giovane operatore della Nidàs con cui aveva fatto conoscenza appena salito a bordo.
«Vereena sta bene?» chiese subito Cal.
Il ragazzo confermò che era tornata sana e salva.
«Bene. Ora devi tirarmi fuori di qui, Jine.»
«Ho una vecchia uscita nel distretto di Jefferson Park» gli disse. Il fatto che avesse già trovato una soluzione lo elevò parecchio nella considerazione di Calbet, che rimase ancora più impressionato quando il navigatore del SUV su cui stava viaggiando si attivò da solo, mostrandogli il percorso: neanche tredici chilometri, dieci minuti alla velocitàfolle che stava tenendo.
Riattaccò, gettando il cellulare sul sedile del passeggero, e uscì dalla zona industrialeimmettendosi su Tara Boulevard, in direzione nord. Bruciò i semafori, ignorando la cacofonia di clacson che lo seguiva. Era pericoloso attirare l’attenzione in quel modo, ma era già compromesso e doveva arrivare all’uscita il prima possibile.
Accelerò sulla rampa della Interstate 75, sorpassando un camion sulla destra e schivando di misura il guardrail di cemento. Il traffico era intenso e non gli dispiaceva, dato che gli avrebbe forse permesso di far perdere le proprie tracce.
Rallentò un po’, ma andava comunque più forte di tutti coloro che, per lavoro o diletto, si stavano spostando sulla grande arteria a sei corsie. Cercava di evitare i sorpassi sulla destra, ma quando lampeggiare i fari non bastava a far spostare qualcuno più lento, era costretto a manovre che per miracolo non provocarono incidenti.
Era all’altezza dell’Hartsfield-Jackson, l’aeroporto internazionale di Atlanta, quando notò due berline scure che zigzagavano nel traffico ad una certa distanza. Un’occhiata al navigatore gli disse che mancavano circa cinque chilometri e mezzo alla salvezza.
«E ogni metro dovrò guadagnarmelo» borbottò, affondando il piede sull’acceleratore. Il SUV fece un balzo in avanti e lui dovette concentrare tutto se stesso nel compito di tenerlo in strada e di evitare di andare ad impattare contro qualcuno.
Non appena le due berline si accorsero del cambio di velocità abbandonarono qualsiasi precauzione e si buttarono all’inseguimento. Riuscì a mantenere il vantaggio fino ad un chilometro e mezzo dall’uscita quando tardò un secondo di troppo nel cambiare corsia e si ritrovò bloccato dietro un’utilitaria talmente carica che lo chassis quasi strisciava sull’asfalto e non riusciva a superare un TIR.
Imprecò e sollevò lo sguardo al retrovisore: la berlina inseguitrice guadagnava terreno. Inchiodò di colpo, lasciandosi superare dal camion e sterzando repentino a destra. L’agente alla guida dell’auto aveva intuito la sua manovra e aveva accelerato per speronarlo. Lo mancò di un soffio, mentre Calbet dava gas e ripartiva. Ma la mossa gli aveva fatto perdere tutto il vantaggio e ora le due auto degli agenti lo tallonavano.
Lo sparo arrivò inatteso e gli mandò in frantumi il lunotto posteriore. Abbassò la testa, sperando che bastasse per non essere colpito. Attraverso la rete di crepe vide una delle due auto inseguitrici tentare di affiancarlo a sinistra, tentativo che bloccò con un colpo di sterzo. La parte posteriore entrò in collisione con il muso dell’altra auto, il fanale andò in pezzi ma bastò per costringere il guidatore ad alzare un po’ il piede per riprendere il controllo del mezzo.
Un altro sparo gli spazzò via lo specchietto destro sicché ora da quel lato era cieco. In lontananza vide il cartello verde dell’uscita 241 verso Cleveland Avenue: mancavano trecento metri o poco più. Rimase in terza corsia, braccato dagli inseguitori. Superò l’uscita e proseguì, in mezzo ad altri spari. In quel tratto non c’era guardrail tra l’uscita e la interstatale; perciò, prima che cominciasse la linea degli alberi, frenò di colpo e sterzò tutto a destra.
Il SUV rispose bene nonostante la mole. Tagliò le corsie sulla destra, saltellò sul tratto di erba e guadagnò l’uscita, beccandosi l’ennesima suonata di clacson.
«Scusa!» gridò, non sapeva bene a chi.
Le due berline, colte in contropiede dalla subitaneità della manovra, proseguirono per un tratto prima di fare inversione a U e tornare indietro contromano. Uno degli agenti alla guida non fu così pronto e fu centrato in pieno da un TIR che sopraggiungeva. Ma ormai Calbet era arrivato all’incrocio e prese a sinistra sulla Cleveland, tagliando diagonalmente: ormai aveva infranto così tante norme del codice della strada che gli venne quasi da ridere al pensiero.
Da quel punto mancavano circa due chilometri e mezzo. Aveva due alternative: o li percorreva rispettando coscienziosamente limiti e semafori, evitando di attirare l’attenzione – per quanto fosse possibile visto il vetro in frantumi e i bozzi sulla carrozzeria – sperandoche gli agenti superstiti avessero girato a destra all’incrocio, oppure teneva giù il piede per arrivare il prima possibile. Prevalse la seconda opzione e guidò come un pazzo fino ad un edificio un tempo adibito a tavola calda e ora abbandonato.
Era un po’ troppo in vista, ma Calbet usò il SUV per abbattere la sbarra che chiudeva il parcheggio e si portò sul retro. Lasciò l’auto ammaccata e malconcia nel parcheggio e scese, raggiungendo di corsa la porta che era chiusa da un pesante lucchetto. Farla saltare con un colpo di pistola fu affare di pochi istanti, dopodiché fu dentro.
La polvere copriva ogni cosa e appiccicose ragnatele gli si attaccarono alla faccia. Le scostò con la mano, mentre avanzava nel locale. Qualcosa si mosse nel buio ma era solo un ratto che fuggiva, spaventato dalla sua intrusione. Poi, benedetto e provvidenziale, udì lo squillo del telefono provenire dall’altro lato della vecchia locanda, da dietro una porta con l’immagine stilizzata che indicava la toilette che pendeva sghemba.
Si diresse verso la salvezza ma non aveva fatto due passi che uno sparo risuonò così forte da stordirlo. Una bruciante fitta di dolore gli saettò nel cervello mentre la gamba gli si piegava sotto, facendolo cadere sul pavimento lurido.
Riuscì a girarsi sulla schiena e li vide. Erano in due, sempre con addosso lo stesso completo e gli stessi occhiali da sole anche in quell’ambiente buio. Si chiese come mai Jine non l’avesse avvisato, poi ricordò che aveva lasciato il cellulare in macchina.
Che errore da principiante, pensò.
Ma arrendersi non era nel suo vocabolario. Sollevò la pistola, deciso a vendere cara la pelle ma, prima di riuscire a tirare il grilletto, un secondo colpo lo colse alla spalla. L’arma gli cadde dalle dita inerti.
Il telefono smise di suonare. Jine, che stava vedendo tutto, doveva aver chiuso la comunicazione. Non sarebbe bastato a fermare gli agenti, ma era un messaggio chiaro: per lui era finita.
Uno degli agenti lo raggiunse e lo sovrastò, puntando la pistola verso il basso.
«Notevole, per un umano» disse.
E sparò.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Decisioni terribili ***


Trinity è stata liberata
ma ad un prezzo altissimo.
E le cose, alla Città delle Macchine,
si stanno complicando.
Buona lettura!


«Capitano, Cal e Vereena sono in difficoltà.»
Quelle parole avevano continuato a risuonare nella sua testa mentre risalivano verso il portello. Alpha aveva portato Neo, tenendolo fra le estremità metalliche simili a grosse chele, mentre Thorneraveva sollevato Trinity fra le braccia e l’aveva tenuta contro il petto. Raelynn aveva dovuto più volte fermarsi per aspettarli. Il suo compito era proteggerli nel caso fossero stati scoperti, ma l’ansia le faceva accelerare il passo. Lo stesso valeva per Thor, comunque: la sua Vereena era in pericolo quanto Calbet.
Finalmente erano arrivati all’apertura. Rosius, avvisato via auricolare, aveva fatto accostare la Livelyan ed erano saliti a bordo. Avevano portato entrambi in infermeria e Edjac aveva lasciato la cuffia a Thorner per occuparsi di loro, fermandosi solo un istante per aggiornarli su quanto era successo.
«Vereenaè uscita, Calbet l’ha rimandata sulla Nidàs.» Thor emise un sospiro di sollievo. «Lui sta fuggendo, ha degli agenti alle calcagna.»
«Capitano, la rotta?» chiese Rosius, ma Lynn doveva vedere cosa stava succedendo in Matrix ed era già con Thor davanti ai monitor. Era pericoloso attendere oltre, ma doveva sapere che Cal stava bene.
«Tienila a fare otto, al momento» replicò, e la Livelyan prese quota ricominciando la serie di ampie virate.
Thornerstava già seguendo Calbet che, a bordo di un SUV nero, sfrecciava su una strada a più corsie, serpeggiando tra le altre vetture. Senza una parola Thor indicò le due berline nere che lo seguivano.
«Sì, li vedo» borbottò Lynn, l’odio che traspariva dalla voce.
Ormai lo incalzavano da vicino e Lynn vide l’agente sul sedile del passeggero sporgersi dal finestrino e sparare qualche colpo in direzione del SUV.
D’improvviso, Calbet piegò tutto a destra, imboccando l’uscita della I-75. Le due auto inseguitrici tardarono un secondo di troppo e lo superarono, sicuramente ingannate dalla manovra repentina. Ma, incuranti degli altri automobilisti, effettuarono un’inversione, cercando di guadagnare a loro volta l’uscita. Solo una ci riuscì: l’altra fu centrata da un camion e ridotta ad un groviglio di lamiere. Nessuno, a bordo della Livelyan, avrebbe versato lacrime per gli agenti coinvolti, quanto piuttosto per il camionista.
Thorner richiamò su un secondo schermo la mappa della città. Calbet prese a sinistra all’incrocio e Thor indicò qualcosa con il dito tozzo: «Di certo sta cercando di raggiungere questa uscita.»
Era un edificio abbandonato, una vecchia tavola calda. Erano i luoghi perfetti dove trovare uscite da Matrix: c’era sempre qualche vecchia rete telefonica dismessa che potevano usare. Calbet, infatti, si fermò nel parcheggio e fece saltare il lucchetto con uno sparo.Era appena entrato che il telefono si mise a squillare: l’operatore della Nidàs stava guardando la stessa scena ed aveva attivato il canale per l’estrazione con celerità.
Fu con sgomento che Lynn osservò un’auto entrare nel parcheggio e fermarsi ad una certa distanza. Ne scesero due agenti. Si aspettava che Calbet si affrettasse verso il telefono, ma non accadde, né lo videro tentare di mettersi al riparo.
«Perché l’operatore della Nidàs non lo avvisa?»
«Non credo abbia il cellulare» mormorò Thorner.
E poi accadde. Lo sparo arrivò fino a loro attraverso le cuffie. Calbet gemette e si accasciò, colpito alla gamba.
«No!» esclamò Lynn, sporgendosi verso il monitor come se facendolo potesse in qualche modo aiutare il compagno. Ma la verità era che Cal era da solo ed era lei ad averlo mandato laggiù.
Calbet rotolò sulla schiena, alzando la pistola per sparare. Ma non fece in tempo e, mentre l’arma gli sfuggiva di mano, una macchia di sangue si materializzò sulla spalla e un’espressione di dolore si dipinse sul suo viso.
…Il destino del genere umano è nelle tue mani e dipenderà dalle decisioni che prenderai…
Inun lampo di chiarezza, Lynn capì che Cal era spacciato e le tornarono alla mente le parole che l’Oracolo che le aveva rivolto nel corso dell’ultima visita.
…Farai la scelta giusta, Lynn…
Con una freddezza che era ben distante dal provare, diede un ordine secco.
«Taglia la linea.»
…Decisioni terribili, che tu stessa non comprenderai…
Thor girò la testa verso di lei: «Ma Cal…»
«Cal è perduto. Taglia la linea, prima che gli agenti arrivino ad essa e a tutti noi.»
Ma Thorner esitava. Se l’avesse fatto, Calbet non avrebbe avuto modo di tornare da quel punto. E c’era anche altro: ogni linea che veniva tagliata era un’uscita in meno da Matrix, qualcosa di non più ripristinabile, un’uscita che per qualcun altro poteva significare la salvezza.
…Decisioni terribili…
«Taglia quella cazzo di linea!» gridò Lynn.
E Thorner eseguì. Il telefono smise di suonare.
L’agente che aveva sparato a Calbet si avvicinò. Era alto e massiccio sotto la giacca dal taglio classico e lo sovrastò, guardando verso il basso. Tese il braccio, mirando al petto di Cal, che sanguinava impotente.
«Notevole, per un umano» disse.
Non c’era altro modo in cui potesse finire, ma quando lo sparo arrivo fino a loro, Lynn udì qualcuno gridare. Era un suono disumano, intriso di un dolore talmente potente da stordire. Non si accorse di essere lei a gridare, almeno fino a quando non crollò in ginocchio sul duro pavimento d’acciaio della plancia, gli occhi fissi sul monitor che mostrava l’enorme macchia di sangue che si allargava sulla camicia di Cal.
Lacrime presero a scorrere dai suoi occhi mentre singhiozzi potenti quanto lo sparo che aveva messo fine alla vita di Calbet le squassavano il petto. Edjac, richiamata dal trambusto, giunse di corsa dall’infermeria e non le servì l’occhiata ai monitor per capire che era successo qualcosa di terribile a Calbet. Si gettò accanto a Raelynn e l’abbracciò.
Due cose accaddero contemporaneamente: i monitor di Matrix si spensero all’improvviso e un allarme prese a suonare sotto di loro.
«Sanno che siamo qui» annunciò Thorner con calma.
Raelynn si ritrovò a pensare che perire a bordo del suo hovercraft non sarebbe stata una brutta fine. Sì, aveva trovato e risvegliato Neo e Trinity, ma il prezzo che aveva pagato era decisamente troppo alto. Tutto l’entusiasmo che aveva provato per quella missione era evaporato di colpo, lasciandola con quel tremendo vuoto al centro del petto. Lei e la Liv sarebbero finite insieme in una pira di fuoco e, se esisteva una vita dopo la morte, forse avrebbe trovato il modo di ricongiungersi a Cal.
Poi però girò lo sguardo su Edjac. La ragazza la guardava con l’espressione di una ventiduenne che crede ciecamente nel suo idolo. Sì, Lynn avrebbe anche potuto abbandonare la missione e lasciar morire se stessa sulla Livelyan. Ma non poteva permettere che altri venissero coinvolti. Non poteva permettere che il sacrificio di Calbetdiventasse un gesto inutile.
Mentre l’allarme diventava un assordante urlo di agonia, scostò Edjace si asciugò le lacrime con il dorso della mano. Una gelida determinazione si impadronì di lei, rendendola tesa e affilata come un pugnale.
«Ai posti di combattimento. Ce ne andiamo!»
Scattò verso la cabina di pilotaggio e sedette al suo posto, prendendo i comandi. La situazione le fu chiara alla prima occhiata fuori dai grandi finestrini frontali. C’era movimento sotto di loro: grandi macchine si aggiravano sul terreno, simile a grossi insetti, sondando il buio con potenti fasci di luce. 
«Cercano noi» commentò Rosius. 
Lynn non rispose ma spinse avanti la cloche. La Livelyan interruppe la serie di otto e si mosse, tornando indietro sulla rotta che avevano seguito per arrivare fin lì. Avanzano lentamente, con solo sei piastre attive: speravano così di non attirare l’attenzione. 
Dietro di loro, l’edificio da cui avevano estratto Neo e Trinity si illuminò a giorno. Gli allarmi si moltiplicarono diventando un grido ininterrotto. Era ovvio che avevano scoperto che qualcuno si era infiltrato ed era arrivato alle capsule degli Eletti. 
Raelynn mantenne una velocità costante. Nessuno puntava su di loro: la schermatura fornita dall’Oracolo funzionava. In lontananza vide i campi e, sorvolati quelli, avrebbero dovuto virare a destra e infilarsi nel cunicolo da cui erano usciti. Stava per dare istruzioni a Rosius quando percepì un urto. La Livelyan tremò e la strumentazione di bordo andò in blackout. 
«Merda!» imprecò, mentre la nave, più pesante nella parte anteriore, si inclinava in avanti e iniziava a precipitare. 
«Non è un EMP, non capisco» disse Rosius, trafficando con i pulsanti e con il computer che non dava però segni di vita. La Livelyan era ormai lanciata in picchiata e le cinture si tesero, mordendo loro le carni. 
«Ci hanno solo tolto l’elettronica» affermò Lynn. Rosius si voltò verso di lei, del tutto stupefatto del tono calmo con cui aveva pronunciato quelle parole. «Ma ci vuole altro per tirare giù la Liv.» 
Trafficò sulla consolle, quindi azionò alcuni pulsanti e una leva uscì dal proprio alloggiamento sopra le loro teste. Il suolo si avvicinava sempre più veloce. 
«Capitano, non so cosa tu voglia fare, ma se devi fare qualcosa suggerirei di farlo subito.» 
Lynn afferrò la leva, la tirò verso il basso una volta, contò fino a tre e la rimise in sede. La Livelyan si avviò con un sibilo e la donna trasse a sé la cloche, gridando per lo sforzo di riprendere il controllo della nave. Riuscì a farle alzare il muso: le piastre si avviarono alla massima potenza, inondando di scariche elettriche il terreno. 
La mano della donna corse alla manetta, tirandola verso di sé in modo da togliere un po’ di potenza. La Liv rispose grata, raddrizzandosi e rimettendosi in assetto. 
«Mi ero sempre chiesto a cosa servisse quella leva» borbottò Rosius. 
«Dipendi troppo dai tuoi computer, Ros.» 
Le navi di Zhaka venivano pilotate esclusivamente attraverso i sistemi elettronici. Il Comando aveva proibito a tutti i capitani di usare quei comandi, raccomandando di affidarsi del tutto ai computer e all’elettronica. Ufficialmente perché navigavano troppo in profondità e in cunicoli troppo stretti e non potevano rischiare le preziose navi. Ma la realtà era che Velius aveva preso la decisione per coprire le cazzate di suo figlio che si era più volte distinto in maniera negativa quando aveva tentato di pilotare personalmente la sua nave. Quindi, per fare in modo che gli altri capitani non potessero metterlo ulteriormente in ridicolo, aveva proibito quelle iniziative. Ma in quel momento Velius era a migliaia di chilometri di distanza. 
L’interruzione dell’elettronica aveva disattivato i programmi di oscuramento; pertanto, dal terreno sorsero diverse navette che avevano tutta l’aria di sentinelle. L’impressione fu confermata quando si misero all’inseguimento ed esplosero alcuni colpi contro di loro. Lynn guidò l’hovercraft in una serie di manovre evasive.
«Rispondiamo al fuoco?» chiese Thor.
«No. Risparmiamo munizioni. Ci serviranno, temo.» Poi si rivolse a Rosius: «Devi fare in fretta, Ros. Io posso anche infilare il cunicolo giusto, ma poi ho paura di non riuscire a portarvi a casa a memoria.»
«Ci sto lavorando» borbottò l’altro, digrignando i denti quando Lynn fece inclinare la nave su un lato per evitare un missile sparato da uno degli inseguitori.
«Dio mio, sono così insistenti!»
Con mossa improvvisa, Lynn spinse avanti la cloche. La nave si tuffò in basso, perdendo velocemente quota, finché la fece raddrizzare proprio sopra i campi.
«Vediamo se sparano ora, col rischio di colpire le loro preziose fonti d’energia.»
Come previsto, i colpi cessarono. Le macchine non potevano permettersi di danneggiare le capsule con un colpo accidentale o, peggio ancora, di farci precipitare sopra la Livelyan. Le conseguenze potevano essere catastrofiche per le loro “colture”.
Mentre volavano sfiorando le torri irte di capsule, i computer tornarono finalmente a vita ma Lynn mantenne i comandi manuali o il sistema avrebbe cercato immediatamente di riportare la Liv ad una quota di sicurezza.
«Arrivano guai» annunciò Thorner, mandando sullo schermo principale della cabina di pilotaggio le immagini che stava vedendo.
Il profilo della catena montuosa all’orizzonte sembrò cambiare. Le cime vibravano e si gonfiavano, come se ci fossero centinaia di formiche che brulicassero sulla sommità.
«Ma che diavolo…?» fece Rosius, ma Lynn aveva già capito.
«Sentinelle.»
Migliaia di occhi rossi si accesero mentre le grandi seppie metalliche si lanciavano verso di loro. Il loro numero impressionò Lynn: coprivano l’orizzonte da un capo all’altro, fitte come uno sciame di locuste. Diede massima potenza e la Livelyan balzò avanti, spinta dai potenti motori ad energia elettromagnetica. Doveva arrivare al cunicolo prima di loro, era la loro unica possibilità. Se le Sentinelle li avessero raggiunti prima, non avrebbero avuto alcuna possibilità di farcela contro il loro numero. Ma negli stretti tunnel la situazione cambiava: sarebbero state costrette a sgranarsi e allora potevano tentare di dare battaglia.
La cosa positiva era che, nella loro arroganza, le macchine non avevano pensato a sorvegliare i cunicoli che sbucavano in superficie dal sottosuolo. Evidentemente, trascorsi più di tre secoli dalla precedente visita di Neo e Trinity, pensavano che nessun altro umano sarebbe stato abbastanza pazzo da ripetere l’esperienza.
Raelynn abbandonò la relativa protezione data dal fatto di volare sopra i campi di coltivazione degli umani e si diresse a tutta velocità verso il varco da cui erano saliti in precedenza. Le Sentinelle, intuendo ciò che voleva fare, si allinearono per intercettarla.
«Reggetevi» annunciò Lynn con voce tranquilla. «Sarà dura passare sotto il naso di quelle bastarde.»
L’ideale sarebbe stato rallentare e allinearsi correttamente per l’ingresso che era leggermente angolato verso il basso. Ma, se l’avesse fatto, le Sentinelle le sarebbero state addosso in un istante. C’era una sola cosa che poteva fare ma era una manovra talmente al limite che aveva il dubbio che la Livelyan non riuscisse a sopportarla.
Giunta sopra il tunnel che dovevano imboccare, tolse improvvisamente potenza alle piastre sotto il muso della nave, mentre effettuava una virata strettissima a destra. La Livelyan abbassò la parte frontale come un toro che si prepari a caricare, mentre la spinta delle piastre sul posteriore accentuava la virata. Ebbe appena una frazione di secondo per valutare l’allineamento – ma se anche non fosse stato corretto avrebbe potuto farci poco – e furono dentro, mentre le lamiere dell’hovercraft gemevano la loro protesta. Riattivò subito le piastre e la Livelyan si mise in assetto quasi senza intervento da parte sua.
«Ros, potenza all’ottanta percento» ordinò, mentre seguiva il percorso indicato dal computer.
«Capitano, le Sentinelle ci stanno dietro.»
Thor stava controllando la situazione dietro di loro e gli scanner gli segnalarono che lo sciame di Sentinelle si era lanciato nel tunnel, seguendoli nel sottosuolo.
«Adesso sì che possiamo aprire il fuoco.»
Erano decisamente troppo pochi per quella missione, perciò ordinò a Rosius di raggiungere gli altri due alle torrette e quando questi protestò che non poteva portare la nave da sola, chiese che mandasse in cabina Beta.
I cannoncini posteriori della Livelyan iniziarono a tuonare, inondando gli inseguitori di proiettili. Le Sentinelle non erano particolarmente difficili da abbattere, ma avevano nel numero la loro forza. Erano piccole e veloci e recuperavano terreno sul grosso hovercraft, costretto a muoversi in quegli angusti pertugi. Al momento, il pesante armamento della Liv riusciva a tenerle a distanza.
Con l’assistenza di Beta, le cui zampette anteriori ticchettavano sulla tastiera ogni volta che Lynn ordinava una correzione, proseguirono la loro corsa.Raelynn sapeva che le Sentinelle avevano la possibilità di lanciare ordigni verso di loro e si teneva pronta ad ordinare a Beta di attuare le dovute contromisure ma, mentre sfrecciavano nei cunicoli bui, non si rese necessario. La donna si chiese perché, poi capì: le macchine dovevano avere tutta l’intenzione di recuperare Neo e Trinity sani e salvi. Non avrebbero cercato di abbatterli, rischiando un’esplosione che avrebbe potuto vaporizzare i corpi degli Eletti, ma solo di fermarli. Poi avrebbero ucciso gli occupanti della Livelyan e recuperato quelle due risorse per loro preziosissime.
Tuttavia, era solo questione di tempo. Far perdere le proprie tracce con quella quantità di seppie era impossibile. Ad un certo punto loro avrebbero terminato le munizioni e non avrebbero avuto modo di difendersi. Ed era sicura che le macchine avessero già inviato comunicazione alle altre Sentinelle sparse nei cunicoli, segnalando loro la rotta e la velocità che stavano tenendo, in modo che cercassero di intercettarli.
La mente di Raelynn lavorava freneticamente, ma non riusciva a pensare a qualcosa che potesse aiutarli a sganciarsi da quella situazione. Qualcosa le picchiò con delicatezza sulla spalla.
«Alpha, non è un buon momento» sbottò, lottando con la cloche mentre la Liv strisciava con la fiancata sulla parete del condotto.
Alpha non poteva parlare, ma scrisse il proprio pensiero sul monitor di Lynn.
Io so come fermarle.
Ma quando Raelynn lesse il commento successivo quasi perse il controllo dell’hovercraft.
«Non esiste, Alpha. Non se ne parla.»
Lo sai che è l’unico modo. Devi lasciarmelo fare.
Perentoria, le arrivò in cuffia la voce di Thorner: «Sono troppe, capitano. Non riusciremo a tenerle a bada ancora per molto.»
Se non mi lasci fare questa cosa, tutto quello che abbiamo sacrificato per arrivare qui sarà stato inutile. I caratteri si rincorrevano sullo schermo, sbattendole in faccia una verità che non voleva leggere. Non possiamo permettere che mettano di nuovo le mani su Neo e Trinity.
Un grido soffocato di Rosius precedette un repentino cambio di assetto della Livelyan. Le Sentinelle ormai gli erano addosso e due di loro erano riuscite ad arrivare ad una delle piastre posteriori, mettendola fuori uso. Lynn compensò la potenza, ma sapeva che ormai non avevano scampo: altre sarebbero riuscite ad eludere ai loro cannoni ed era solo questione di tempo prima che li tirassero giù.
«Vorrei poter abbandonare il comando per ringraziarti come si deve per questi anni passati insieme»mormorò Lynn rivolta all’NBO.
Alpha posò la bulbosa testa metallica sulla sua spalla. Lavorava con Alpha e Beta da anni e ormai non si stupiva più che avessero sviluppato quella che sembrava, a tutti gli effetti, una coscienza.
È stato un onore servire tutti voi, capitano.
Ci fu un breve scambio di bip con Beta, dopodiché Alpha lasciò la cabina di pilotaggio.
«Thor, quando Alpha sarà pronta, falla uscire dal vano di carico posteriore» ordinò sommessamente Lynn.
Un silenzio teso avviluppò l’equipaggio della Livelyan. Thor lasciò il suo posto da artigliere e raggiunse la sala link. C’era un solo motivo per cui avrebbe dovuto aprire il vano in quella situazione e non gli servì vedere Alpha che usciva dalla stiva munizioni con un grosso ordigno fra le chele anteriori per capire cosa avesse in mente l’NBO.
Le rivolse un breve saluto militare, con la mano destra stretta a pugno sul petto. Quindi, non appena Alpha fluttuò davanti al portello, digitò alcuni comandi e lo aprì a sufficienza perché potesse passare, richiudendolo subito dietro di lei.
Nonostante si stessero allontanando velocemente, le telecamere posteriori della Liv ripresero ogni sequenza, rimandando le immagini sui monitor in tutta la loro cruda verità. Appena fuori dal portello, Alpha si lanciò contro lo sciame impazzito di Sentinelle che ormai era vicinissimo, spingendosi decisamente verso l’alto. Colpì il soffitto del tunnel e l’ordigno detonò con una deflagrazione resa terribile dal cunicolo angusto.Alpha sacrificò la sua esistenza in una fiammata infernale mentre Raelynn controllava l’hovercraft che sgroppò con la violenza di un cavallo selvaggio a causa dell’onda d’urto.
Il condotto crollò su se stesso, bloccando del tutto il passaggio, schiacciando sotto i detriti la moltitudine di Sentinelle. Ben poche riuscirono a passare e furono comunque abbattute dalle mitragliatrici della Livelyan.
E quando finalmente le mitragliatrici tacquero, Lynn si asciugò le lacrime con la manica del maglione.No, non piangeva per una semplice macchina: piangeva per la perdita di un membro del suo equipaggio.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Ritorno a Zhaka ***


Raelynn è riuscita a recuperare
Neo e Trinity ma il prezzo è stato terribilmente alto.
E ora, tornata a Zhaka, dovrà affrontare
l'ira dei suoi superiori.
Buona lettura!


Ci misero cinque interminabili giorni a rientrare a Zhaka. Procedevano lentamente, con poche piastre attive, nella speranza che bastasse per non attirare l’attenzione delle Sentinelle che davano loro la caccia. Per ben tre volte gli scanner segnalarono grossi sciami in movimento ma ogni volta riuscirono ad evitarli, a prezzo di lunghe deviazioni o di lunghe ore di attesa nel buio.
Edjac e Thorner si alternavano in infermeria, lavorando a turno per estrarre gli spinotti rimasti nei connettori presenti sul corpo di Neo e Trinity e ricostruire mediante elettrostimolazione i muscoli atrofizzati dalla lunghissima immobilità. Anche Raelynn passò diverso tempo con loro.
Ricordavano tutto della loro vita precedente e si dimostrarono molto stupiti del fatto che fossero passatipiù di trecento anni da quando avevano liberato Zion. Raccontarono a Lynn la vera storia di come avevano raggiunto la Città delle Macchine e di come Neo, rimasto solo dopo la morte di Trinity, aveva affrontato il Deus Ex Machina liberando Matrix dall’anomalia che aveva ormai preso possesso del sistema.
«Secondo l’Architetto il genere umano doveva essere salvo» disse Neo. «Accettai che Matrix fosse mantenuta in funzione dietro la promessa che chiunque volesse uscirne sarebbe stato liberato.»
«Le cose sono andate così, per un po’» spiegò Raelynn. Raccontò loro di come le macchine avevano attaccato Zion quando ormai gli umani avevano abbassato la guardia nei loro confronti. «Ci hanno spinti talmente in profondità che è diventato sempre più difficile arrivare a quota trasmissione ed entrare in Matrix. Eravamo destinati ad una lenta agonia, fino all’estinzione. Almeno finché l’Oracolo non ha chiesto di vedermi e mi ha detto che eravate vivi entrambi.»
Neo sorrise quando gli raccontò della convocazione da parte dell’Oracolo.
«Non mi pare che sia cambiata, in tanti anni» commentò, scambiando un’occhiata con Trinity che rispose con un sorriso.
Il loro legame era più che evidente. Non sopportavano la lontananza e ogni pochi minuti Trinity allungava la mano per toccarlo, quasi a sincerarsi che fosse davvero lì. In quei momenti, Neo concentrava su di lei tutta l’attenzione ed era come se tutto intorno a loro crepitasse di energia.
Neo si allungò e baciò il sorriso di Trinity. Lynn vide in quell’immagine se stessa e Cal e gli occhi le si riempirono di lacrime. Distolse lo sguardo, ma Trinity notò il suo turbamento e le afferrò la mano, stringendola con una presa energica e decisa.
«Edjac mi ha detto di Calbet. Mi dispiace molto per la tua perdita.»
Raelynn annuì e si ricompose. C’era ancora troppa strada da fare e non poteva permettersi di cedere, non ancora. Il suo compito era riportare a casa il resto del suo equipaggio: poi ci sarebbe stato tempo per il dolore.
Quando finalmente imboccarono l’ultimo tratto dei condotti che conducevano a Zhaka, Lynn ordinò a Rosius di rompere il silenzio radio e di comunicare al Controllo che stavano rientrando. Il Controllo, che evidentemente li aveva dati per dispersi da tempo, chiese a Raelynn di fornire i codici di accesso: non si fidavano ed avevano pienamente ragione.
Lynn fornì i codici e, dopo un’attesa che parve interminabile ma che non durò più di dieci minuti, furono autorizzati ad avvicinarsi al varco due. Portò personalmente la nave in quell’ultimo tratto. Rosius indicò qualcosa fuori dal finestrino laterale: i sistemi di difesa, che solitamente venivano disattivati all’arrivo di una nave, erano in funzione. Sfilarono nella galleria con le mitragliatrici che li puntavano, seguendo il loro lento avanzare.
Un sospetto si fece strada nella mente di Lynn. Forse, quelle precauzioni non erano tutte per il timore di un attacco. Era certo che in quei dieci minuti di attesa il Controllo aveva contattato Velius e, se il suo istinto non sbagliava, forse quelle armi erano per lei.
«Attracco due.»
La laconica voce dell’operatore del Controllo arrivò sino a loro. Niente “cancelli aperti e letti fatti”, nessun messaggio di bentornato. Ma, almeno, il pesante portone di accesso al varco due si aprì. Tutti, eccetto Neo e Trinity, erano in cabina di pilotaggio e si godettero la gioia del ritorno a casa. Lynn attraversò il varco e, sorvolando la darsena, notò che tre unità APU erano già sul molo, accanto al punto di attracco riservato alla Liv.
«Guai in vista» mormorò.
Fece posare l’hovercraft e spense tutti i sistemi. Le unità APU si mossero, avvicinandosi al portello di uscita, in atteggiamento cauto ma non ancora ostile.
Prima di scendere, Raelynn riunì l’equipaggio in plancia, compresi Neo e Trinity che, in quei cinque giorni, si erano ripresi abbastanza da riuscire a stare in piedi e a muoversi, per quanto lentamente e reggendosi ad attrezzature e paratie.
«Non appena metteremo piede a terra mi assumerò la piena responsabilità per ogni azione compiuta nell’ultima settimana da questo equipaggio» esordì, diretta e senza girare troppo attorno alla questione.
«Cosa?» sbottò Thorner con il suo vocione.
«Dichiarerò» proseguì, come se il gigante non avesse parlato, «che avete agito perché costretti da me e che nulla di quanto accaduto è da imputare a voi.»
«Dio santo, Raelynn!» intervenne Edjac. «Velius ti farà a pezzi, non aspetta altro.»
Anche Rosius e Thor espressero il loro dissenso, ma Lynn bloccò con decisione le loro proteste.
«Velius mi toglierà il comando in ogni caso. Ma ho bisogno che qualcuno continui la missione.»
I suoi borbottarono di nuovo.
«Non ve lo sto chiedendo. È un ordine. L’ultimo che riceverete da me. È necessario che io mi prenda tutta la responsabilità per quanto accaduto e che voi sosteniate la mia versione. Così facendo, è probabile che restiate assegnati alla Livelyan, a chiunque venga affidata.»
Il pensiero che un altro comandante avrebbe preso il suo posto, calcando i ponti della sua nave, le metteva addosso una grande tristezza, ma non poteva indugiare in quei pensieri.
«Non sono molti quelli di cui potrete fidarvi, ma rivolgetevi a Tost. È uno a posto, vi aiuterà.»
Un’occhiata agli schermi le confermò che le unità APU si erano avvicinate allo scafo della Livelyan e, mentre osservava, notò che un piccolo manipolo di quattro o cinque soldati guidati da Linuth stava percorrendo il molo, diretto inequivocabilmente verso di loro.
«Va bene, non facciamo innervosire oltre questi simpatici signori» borbottò.
Premette il pulsante sulla consolle e il portello si aprì con uno sbuffo pneumatico. Non appena mise piede sulla passerella, i soldati che seguivano Linuth puntarono le loro armi verso di lei. Raelynn alzò le braccia per mostrare che era disarmata e raggiunse il molo con passo deciso.
«Giù, in ginocchio! Mani dietro la testa» le abbaiò contro Linuth.
«Tutto questo non è necessario, colonnello» replicò lei mentre il resto dei soldati la circondava. «Sono disarmata, verrò con te.»
«Ho detto, in ginocchio.»
Uno dei soldati la colpì con il calcio del fucile fra le scapole, facendola barcollare. Lynn capì che era meglio obbedire perciò intrecciò le dita dietro la testa e si mise in ginocchio.Fu ammanettata in modo rude e sbrigativo mentre Linuth, piantato davanti a lei a gambe larghe, la guardava dall’alto in basso con uno scintillio crudele negli occhi. La tirarono in piedi e il colonnello fece un passo verso di lei.
«Raelynn» disse, omettendo di proposito il suo grado, «ti dichiaro in arresto per insubordinazione, ammutinamento, sedizione e sottrazione di beni militari.» Abbassò la voce e si accostò al suo orecchio: «Non sai da quanto aspettavo questo momento.»
Raelynn avrebbe voluto replicare che se aveva vissuto nell’attesa di poter arrestare lei forse avrebbe dovuto riconsiderare un attimo la sua vita, ma si morse la lingua.
Poi Linuthfece un cenno ai suoi: «Fate scendere il suo equipaggio.»
«No, loro non c’entrano nulla in questa storia. Hanno agito perché li ho costretti io quale comandante della Livelyan.»
«Questo lo accerterà il Consiglio.»
I soldati di Linuth salirono a bordo dell’hovercraft e spinsero fuori gli occupanti, compresi Neo e Trinity.Raelynn vide la donna incespicare sulla passerella: il soldato dietro di lei fece per colpirla, ma Thorner si frappose fra i due e la protesse con il proprio corpo.
«Colonnello, deve portarmi di fronte al Consiglio, ci sono cose che devono sapere.»
Linuth si scagliò contro di lei con rabbia: era alto e la sovrastava di parecchi centimetri.
«Non sei nella posizione di poter chiedere alcunché, è chiaro?»
«Lo sai chi sono quei due?» gli chiese.
L’uomo mise mano alla pistola che portava nella fondina: «Fossi in te, mi tapperei la bocca. Non sfidare il sistema più di quanto tu non abbia già fatto.»
La donna decise di mantenere un basso profilo: l’identità di Neo e Trinity non ci avrebbe messo molto a venire a galla ed era certa che tutta quella animosità fosse per lei e per lei soltanto. Il fatto che il suo equipaggio non fosse stato nemmeno ammanettato la faceva ben sperare.
«Muoviamoci» ordinò il colonnello.
Circondata da soldati armati, Lynn fu scortata lungo il molo. I curiosi, richiamati dal ritorno della Livelyan e dal trambusto che ne era seguito, osservavano il drappello che si muoveva verso i grandi portoni in fondo al porto. Raelynn notò che la maggior parte di coloro che facevano ala al loro passaggio studiava la scena con un misto di preoccupazione e amarezza nello sguardo, ma non mancavano quelli che sogghignavano quando incrociava i loro occhi.
Uno soltanto, quando gli passò davanti, chiuse la destra a pugno e si batté il petto, riservandole il saluto dovuto al comandante di una nave. Era Tost. Lynn fece un quasi impercettibile segno di assenso con il capo. Gettò uno sguardo dietro di sé, prima di oltrepassare le porte. La Livelyan sfolgorava ancora di luci e, con un tuffo al cuore, si rese conto che poteva essere l’ultima volta che la vedeva. Poi un soldato la spinse avanti e si ritrovò all’interno.
Aveva pensato che Linuth l’avrebbe portata subito da Velius, ma quando si inoltrarono nei cunicoli capì che si stavano dirigendo verso la Sala del Consiglio. Si trattava di una grande stanza semicircolare, una sorta di anfiteatro naturale sotterraneo. Da un lato c’erano nove scranni identici, disposti a semicerchio, riservati ai membri del Consiglio, personalità di spicco che dirigevano la colonia in ogni suo aspetto. Sull’altro lato, invece, erano state intagliate nella roccia delle gradinate. Quei posti erano riservati ai capitani della flotta e ai loro equipaggi e ai vari rappresentanti delle categorie che abitavano Zhaka, dagli scienziati che lavoravano per permettere a tutti loro di sopravvivere, alle insegnanti che si occupavano dell’istruzione dei più piccoli, ai capitani dei reparti militari che costituivano la difesa della colonia.
Quel giorno, gli spalti erano vuoti. Solo le sedie erano occupate e neanche tutte. Quella centrale era occupata da Bollud, in quel periodo a capo del Consiglio, un uomo di mezza età stempiato e dal fisico allampanato. Non poteva dire che fosse un suo sostenitore, ma non aveva neanche mai manifestato insofferenza nei suoi confronti. Alla sua sinistra, con addosso la giacca dell’uniforme che scintillava di decorazioni, stava Velius. Lo sguardo trionfante che posò su di lei mentre avanzava diceva più di mille parole, ma ciò che preoccupò maggiormente Lynn era che la sedia alla destra di Bollud, che doveva essere occupata da Garjac, era vuota. Non ebbe però tempo di farsi domande perché la sua scorta la fece fermare di fronte alla linea delle sedie, disponendosi a ventaglio dietro di lei e tenendola sotto tiro con le armi puntate. A sua memoria, nessun capitano di nessuna nave era mai stato trattato in quel modo.
«Capitano Raelynn» esordì Bollud, «siamo lieti che siate riusciti a tornare.»
«Grazie, signore.»
L’uso del suo grado l’aveva fatta ben sperare, ma Bollud non disse nulla sul fatto che era ammanettata e tenuta sotto tiro, come se tutto quello fosse normale.
«Tuttavia,» proseguì, «non possiamo sorvolare sul fatto che ha, di fatto, requisito una nave della flotta per scopi personali.»
La pausa che fece la incoraggiò a parlare: «Non erano scopi personali, Consigliere. Ho portato la nave alla Città delle Macchine…» Velius sbuffò una risata, ma Lynn proseguì senza degnarlo di un’occhiata, «per recuperare Neo e Trinity.»
A quel punto, Velius non trattenne la risata che rimbombò nella sala silenziosa.
«Gli Eletti sono morti da trecento anni» sbottò, ma con la coda dell’occhio Lynn notò l’espressione di Linuth che, nonostante non fosse il più sveglio di Zhaka, aveva fatto due più due, intuendo finalmente chi fossero i due passeggeri sconosciuti che erano sbarcati dalla Livelyan.
«Gli Eletti sono vivi e vegeti, signore» replicò Lynn, sempre rivolta a Bollud. «Sono sbarcati pochi minuti fa dalla mia nave.»
Un mormorio sorpreso serpeggiò lungo la fila di consiglieri. Velius scambiò un veloce sguardo con Linuth che parve in imbarazzo per non aver riferito subito una notizia di quella portata.
«Abbiamo ricevuto informazioni circa il fatto che erano tenuti in vita e che il loro contributo sarà fondamentale per la Resistenza.»
«Chi vi ha dato queste informazioni?» chiese Bollud.
«L’Oracolo, signore.»
Velius colpì con rabbia il bracciolo del suo scranno con il palmo della mano e il rumore secco fece sussultare buona parte dei consiglieri.
«L’Oracolo non è altro che un programma di Matrix, alla stregua degli agenti che combattiamo. Non le è passato per la testa che forse il suo unico obiettivo era quello di attirarvi lassù, in modo che le macchine potessero seguirvi fino a Zhaka?»
«Sta con noi da ben prima che tutti noi nascessimo. Non lo farebbe» la difese Lynn. «E nessuno ha seguito la mia nave» concluse, rifiutando di chiamarlo signore.
«Può smettere di chiamarla “la mia nave”» sputò Velius con rabbia.
Bollud decise in quel momento che ne aveva abbastanza. Posò una mano sul braccio di Velius, facendogli capire che doveva calmarsi e chiese a Raelynn di raccontare come si erano svolti i fatti, sin dall’incontro con l’Oracolo. Nessuno dei consiglieri parve accorgersi delle manette che le bloccavano i polsi dietro la schiena e nessuno la invitò a sedersi.
Raccontò ogni cosa: l’incontro con l’Oracolo, il rendez-vous con la nave di Zyron, il viaggio verso la Città delle Macchine e la liberazione degli Eletti. Mentre raccontava, non le sfuggì che Velius scuoteva la testa ad intervalli. Lo ignorò e continuò a raccontare di come erano fuggiti dallo sciame di Sentinelle e di come Alpha avesse sacrificato se stessa per permettere loro di avere una possibilità. Terminato il racconto rimase immobile, in attesa.
«Davvero pensa che quei due possano in qualche modo aiutarci in una guerra che dura ormai da secoli?» chiese Bollud dopo un lungo silenzio di riflessione, e quando lei annuì, aggiunse: «Come?»
«Suppongo che debbano essere portati a incontrare l’Oracolo, signore. Lei saprà cosa fare…» ma prima che potesse aggiungere qualcosa, Velius balzò in piedi.
«Ma vi rendete conto?» domandò rivolto al Consiglio. «Questa ragazzina ha preso una delle nostre navi, ha impegnato il suo equipaggio in una missione ad altissimo rischio per recuperare due personaggi che, a detta di una pazza scatenata, dovrebbero aiutarci a sconfiggere un nemico che nemmeno Zion nella sua potenza fu in grado di contrastare.»
«Ciò che ho fatto, l’ho fatto per il bene di Zhaka» affermò Lynn con la stessa veemenza. «Ma non vi accorgete che stiamo morendo? Il genere umano si sta lentamente estinguendo.»
«Ed è per il bene di Zhaka che ha mandato due membri del suo equipaggio a morire su una nave di Zyron?» le sbatté in faccia Velius.Era un colpo davvero basso, anche per Velius.
«Non ho mandato nessuno a morire» mormorò. «Calbet è rimasto ucciso in Matrix, dopo aver estratto Trinity. Vereena è tornata sana e salva sulla Nidàs…»
«La nave di Zyron è stata abbattuta, non lo sapeva?» fece Velius, con più di una punta di crudeltà nella voce. «Mio figlio ne ha trovato i resti in un condotto, appena al di sotto della quota trasmissione. È probabile che siano stati intercettati mentre tornavano e non hanno avuto scampo. Non era rimasto molto dell’hovercraft, impossibile recuperare i corpi dell’equipaggio»
«No…» fece Lynn. All’improvviso l’assenza di Garjac aveva un senso.
…Il destino del genere umano è nelle tue mani e dipenderà dalle decisioni che prenderai… Decisioni terribili…
Lei aveva deciso di dar credito alle parole dell’Oracolo, lei aveva deciso di imbarcarsi in quella missione, lei aveva deciso di mandare Cal e Vereena sulla Nidàs, lei… avrebbe dovuto proteggere i suoi e invece li aveva condannati a morte. Mentre tornavano dalla Città delle Macchine, aveva sperato almeno di riuscire a recuperare il corpo di Cal per avere qualcosa su cui piangere, per potergli dire addio e avere le sue ceneri a cui rendere onore.
L’enormità di quello sviluppo rischiò di annientarla. Fu solo grazie ad un residuo di forza di volontà trovato chissà dove dentro di sé che riuscì a non cadere in ginocchio di fronte a quel consesso. Rimase ritta di fronte a loro, mentre grosse lacrime le rigavano il viso, unico segno esteriore dell’accartocciarsi della sua anima morente.
«Calbet e Vereena, l’adorata figlia del Consigliere Garjac, sono morti per colpa sua. Così come tutti gli occupanti della Nidàs. Possiamo aggiungere l’omicidio ai reati di cui è accusata.»
Bollud si alzò in piedi: «Dispongo che il capitano Raelynn sia trattenuta in custodia fintanto che il Consiglio non avrà deciso come procedere in base alle informazioni ricevute. Ci riuniremo fra cinque giorni da oggi in seduta plenaria per decidere se le sue azioni debbano essere punite.»
Raelynn chinò appena la testa, poi lasciò che la sua scorta armata la conducesse alle celle di detenzione. La fecero fermare davanti ad una porta di ferro. Linuth in persona usò una pesante chiave per aprire la cella e la spinse dentro. Lynn rimase immobile e attese che la liberassero delle manette, evitando di sospirare di sollievo dopo essere stata costretta per lungo tempo in quella scomoda posizione. Linuth sbatté la porta con malagrazia e la donna sentì la chiave girare nella serratura.
La cella era un angusto buco di tre metri per due e gli unici arredi erano una branda di ferro e un WC nell’angolo più lontano dalla porta, ma a Lynn non interessava. Sedette sul letto duro e scomodo, raccolse le ginocchia al petto e, finalmente, permise al pianto di rompere gli argini. Pianse tutte le lacrime che aveva, tutte quelle che aveva trattenuto fin dalla morte di Cal. Pianse per lui, per Vereena, per Alpha… pianse per il suo equipaggio superstite che ora, per colpa sua, chissà cosa avrebbe dovuto affrontare… e pianse per l’intero genere umano perché non era più sicura che Neo e Trinity avrebbero potuto salvare tutti loro.
Alla fine, svuotata di ogni emozione e distrutta dalla fatica, cadde in un sonno profondo come una piccola morte.

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** La sentenza ***


Raelynn è stata arrestata
e ora deve attendere il giudizio del Consiglio.
Buona lettura!


Per quattro lunghi giorni il suo unico contatto con l’esterno fu la guardia che le portava i pasti. Non che Lynn avesse voglia di vedere qualcuno, comunque. Passò le lunghe ore di prigionia per lo più dormendo: era l’unico modo per non pensare.
La mattina del quinto giorno – o almeno quello che pensava e sperava fosse il quinto giorno – udì qualcuno muoversi fuori dalla sua cella. La colazione era già stata consumata, le sembrava presto per il pranzo e le avevano detto che il Consiglio si sarebbe riunito solo in serata; perciò, fu con un certo stupore che sentì la chiave girare nella serratura.
«Cinque minuti»disse una voce e qualcuno chinò la testa per passare dalla bassa porta di ferro. Quando si raddrizzò, Lynn vide che era Garjac.Aveva gli occhi segnati da scure occhiaie e sembrava invecchiato di dieci anni dall’ultima volta che l’aveva visto. L’uomo rimase immobile a fissarla, senza dire nulla.
«Mi dispiace» sussurrò alla fine lei, non riuscendo più a sostenere il suo sguardo.
«Mia figlia è morta per colpa tua. I tuoi mi dispiace valli a dire a qualcun altro.»
Lynn sentì una lama trafiggerle lo stomaco a quelle parole, pronunciate in tono freddo e duro, ma ormai era molto al di là del dolore.
«Se avessi potuto fare tutto da sola, l’avrei fatto» spiegò, mentre si passava le mani fra i capelli. Erano sporchi e aggrovigliati, non faceva una doccia da giorni. Doveva offrire uno spettacolo davvero patetico, ma non le importava. «Ho tenuto per me stessa quella che pensavo essere la parte più rischiosa, più di questo non potevo fare.»
Garjac la fissò a lungo senza replicare, la linea della mascella resa dura dalla rabbia che provava. Poi, un’unica parola lasciò le sue labbra: «Perché?»
«Perché volevo che i miei figli crescessero nel mondo reale. Volevo che potessero correre scalzi sul prato, rincorrendo una farfalla, che potessero respirare aria pura e non filtrata, che potessero bere l’acqua di un ruscello, non quella depurata che abbiamo qui. Volevo che potessero vedere il cielo e il sole...»
La sua voce si spezzò, mentre realizzava che quelle cose non sarebbero mai accadute.
«E hai pensato che questa missione potesse risolvere qualcosa? Che davvero quei due potrebbero fare la differenza?»
«L’Oracolo…» tentò, ma Garjac la interruppe.
«L’Oracolo ha sbagliato, Lynn» sbottò. «Neo e Trinity sono rottami umani che le macchine hanno mantenuto in vita per tre secoli perché servivano loro come fonte d’energia. Come credi che possano essere utili in una guerra? Come possono due persone cambiare questo mondo?»
«Una volta lo credevamo possibile. Una volta tu lo credevi possibile.»
Garjac non replicò. Girò sui tacchi e alzò la mano per bussare e chiedere che gli venisse aperto ma non lo fece.
«Velius voleva mandarti di fronte al plotone d’esecuzione» disse in tono sommesso. «Ho votato contro di lui.»
«Grazie.»
Garjac si voltò verso di lei: «Non ringraziarmi. L’ho fatto solo perché voglio che tu viva tutta la vita con il pensiero di aver ucciso mia figlia. La morte sarebbe stata una scappatoia troppo facile.»
Dette queste terribili parole, il Consigliere colpì la porta di metallo con il pugno. La guardia all’esterno aprì e lo fece uscire, e lei rimase sola con i suoi pensieri.
Non era stupita del fatto che Velius avesse chiesto la pena capitale. Il generale non aveva mai nascosto l’animosità nei suoi confronti e, in quel modo, poteva liberarsi definitivamente di lei. Tuttavia, per una richiesta del genere c’era bisogno dell’unanimità nei voti del Consiglio. Con il voto contrario di Garjac – e, sperava, anche di altri Consiglieri – non era riuscito nel suo intento.
Le parole di Garjac l’avevano ferita, molto più di quanto aveva dato a vedere. Insieme ad Amos, Garjac era stato una figura fondamentale nei primi anni dopo la sua liberazione. L’aveva presa con sé e cresciuta come una figlia, sostenendola nel suo percorso in Accademia. L’aveva guardata con orgoglio quando si era laureata ed era stato uno dei primi a chiedere che le venisse affidato un comando, difendendola poi dagli attacchi di Velius.
Aveva perso Amos e Bree era stata uccisa in missione poco dopo – e quanto avrebbe potuto essere diverso il mondo se Amos fosse diventato generale al posto di Velius – e ora aveva perso anche Garjac. Aveva perso Calbet e Vereena, il suo equipaggio, la sua nave. Era sola.
Dopo pranzo la porta della sua cella fu aperta di nuovo. Una guardia la scortò verso i bagni: le consegnò un pezzo di sapone e abiti lisi ma puliti. Dopodiché rimase a braccia conserte sulla soglia della doccia, con un sogghigno sulla faccia da ebete.
Se credeva che quello bastasse a metterla in imbarazzo, si sbagliava di grosso. Raelynn si liberò degli abiti puzzolenti e fece la doccia senza degnarlo di una seconda occhiata. Usò il sapone per lavarsi i capelli, felice di potersi liberare della sporcizia. L’acqua era tutt’altro che calda, ma non le importava: era troppo bello sentirla scorrere sul corpo.
Terminato che ebbe, tamponò i capelli con l’asciugamano e indossò i vestiti che le erano stati forniti: un paio di pantaloni di telaccia ruvida e un’informe casacca grigia. La guardia la scortò di nuovo nella sua cella, dove attese che venissero a prenderla per portarla di fronte al Consiglio.
Venne Linuth, con la solita scorta armata. Prima che parlasse, Raelynn si voltò e tese le braccia dietro di sé. Le manette scattarono di nuovo e, circondata dai soldati di Linuth come il peggiore dei criminali, fu condotta nella Sala del Consiglio.
Tutti gli spalti erano gremiti e il brusio sembrava quello di un alveare in piena attività. Lynn gettò un veloce sguardo a destra: ciò che restava del suo equipaggio era lì. Thor, Edjac e Rosius sedevano in seconda fila, accanto ai posti vuoti suo, di Cal e Vereena. Thorner doveva aver saputo che la sua compagna non ce l’aveva fatta e, quando incrociò i suoi occhi, Lynn vide tutta la pena e l’angoscia della perdita.
Raelynn venne sospinta in avanti. Si fermò al centro della sala, di fronte agli scranni su cui era assiso il Consiglio al completo. Garjac non la guardò neppure mentre Velius, invece, la fissava con un’espressione di trionfo. Lei tenne lo sguardo fisso di fronte a sé, decisa a non mostrare alcuna emozione.
Bollud si alzò in piedi e chiese silenzio. In poche concise frasi espose i fatti che avevano portato al suo arresto e Lynn fu infastidita dal fatto che tutto quello che avevano sopportato e sacrificato per arrivare dove erano arrivati fosse liquidato in così breve tempo. Mise ben in evidenza il fatto che lei aveva deliberatamente contravvenuto agli ordini ricevuti, ma non fece alcun accenno a cosa avevano recuperato dalla superficie.
«Quest’oggi» proseguì Bollud in tono solenne, «vi abbiamo chiesto di essere presenti per ascoltare la sentenza che sarà pronunciata contro il capitano Raelynn.»
Non le sfuggì la smorfia di Velius quando Bollud l’apostrofò di nuovo come capitano. Avrebbe voluto dire che una sentenza di solito veniva emessa dopo un processo, eppure lei un processo non l’aveva avuto. Ma la verità era che non le interessava. Il prezzo che aveva pagato era stato troppo alto, era svuotata di ogni emozione, di ogni voglia di lottare. Che facessero pure quello che volevano, anche se questo significava consegnare la vittoria nelle mani di Velius.
Bollud terminò di parlare e sedette, facendo un cenno alla sua sinistra. Velius si alzò in piedi.
«Raelynn, in qualità di generale delle forze armate di Zhaka, le comunico ufficialmente che lei è sollevata dal suo incarico. Le è tolto il comando della nave Livelyan che sarà riassegnata.»
Il suo proposito di non mostrare emozioni vacillò. Sapeva che quello era il minimo che poteva aspettarsi e aveva dato l’addio alla sua nave quando era scesa cinque giorni prima. Eppure, sentirlo dire di fronte agli altri capitani della flotta e alle personalità di Zhaka lì riunite, era tutt’altra cosa.
Si era impegnata con tutto quello che aveva per raggiungere gli obiettivi che si era prefissata. Sapeva che la concorrenza di un mondo, quello militare, prettamente maschile era spietata. Poche donne avevano raggiunto risultati degni di nota e lei voleva essere una di loro.
Il primo passo era ottenere dei buoni risultati in Accademia. Aveva studiato, si era allenata, aveva cercato di apprendere il più possibile dai migliori. I suoi risultati, alla fine, erano stati eccellenti: la migliore in tutte le materie, raccomandata dai suoi istruttori per l’attitudine al comando e la professionalità.
Quando aveva ottenuto il comando della Livelyan, dopo i suoi anni di praticantato a bordo della Ninvar, era al settimo cielo. Sapeva che con quella nave poteva fare la differenza, poteva liberare altre persone come lei dalla tirannia delle macchine, poteva essere un ingranaggio del meccanismo che, un giorno, avrebbe rovesciato Matrix.
E ora, quel sogno era finito in mille pezzi. Deglutì ma non mosse gli occhi, continuando ostinatamente a fissare un punto al di sopra della testa di Bollud.
«Verrà congedata con disonore e rimarrà in carcere per il resto dei suoi giorni.»
Ergastolo. No, quello non se l’era aspettato. Dietro di lei, un brusio sorpreso scosse gli astanti. Il suo sguardo saettò verso Garjac per il più breve degli istanti: le aveva detto che Velius voleva il plotone d’esecuzione, ma non aveva pensato che quella pena fosse stata tramutata in carcere a vita. Lui, però, continuò a fissare il pavimento.
Ci fu del trambusto dietro di lei, ma non si voltò.
«Non potete farlo!» tuonò il vocione di Thorner e Lynn sentì le lacrime salirle agli occhi. Era colpa sua se Vereena era morta, era stata lei a mandarla sulla Nidàs. Eppure, Thor ancora la difendeva, ben altro atteggiamento rispetto a quello tenuto da Garjac.
Linuth diede un ordine secco e le guardie dietro di lei si girarono, pronte ad intervenire in caso di problemi. Di nuovo, la voce tonante dell’operatore della Livelyan echeggiò nella sala: «Quella che avete di fronte è il capitano più brillante della flotta, tenerlo a terra, in carcere addirittura, è consegnare un vantaggio nelle mani dei nostri nemici.»
Bollud si mise in piedi, cercando di sedare il tumulto. Lynn avrebbe voluto girarsi e dirgli di lasciar perdere, che non valeva la pena compromettere la sua carriera per lei. Ma, se l’avesse fatto, avrebbe ceduto al fermento che sentiva dentro di sé. Altri, di cui non riconobbe le voci, si schierarono dalla sua parte e il baccano crebbe di intensità.
Un altro ordine secco da parte di Linuth e un rumore di passi risuonò nella sala. Lynn non poteva vedere che una ventina di soldati armati stavano entrando, salendo i gradini per posizionarsi in mezzo ai presenti. A quella vista, il rumore dietro di lei scemò in maniera sensibile e tornò una parvenza di ordine.
Veliusriprese a parlare, forse motivando la sentenza, ma lei non lo sentiva neppure. Rimase immobile, ragionando su quanto fosse grave quella situazione. Velius e Linuth stavano usando l’esercito per imporre la loro legge. Non ricordava che fosse mai successo che uomini armati avessero dovuto intervenire per sedare una discussione in sede di Consiglio. Lì, ognuno aveva libertà di parola, ognuno poteva esporre liberamente il proprio pensiero. In più, cosa ancora più grave, nessuno dei Consiglieri si era stupito per quell’intromissione: tutti erano rimasti seduti tranquillamente sui loro scranni, come se quello che era successo fosse del tutto naturale.
Fu Velius, alla fine, ad attirare la sua attenzione.
«Le ho chiesto se ha compreso ciò che questo Consiglio ha deciso in merito alla questione» ripeté, secco.
«Ho compreso» confermò lei con voce chiara e limpida.
Bollud prese la parola: «Il Consiglio ratifica quanto esposto dal generale Velius.»
Era il sigillo definitivo alla questione e, solo in quel momento, Raelynn si permise di abbassare lo sguardo su Bollud, continuando ad ignorare Velius.
«Prendo atto di quanto il Consiglio ha ritenuto fosse la pena adeguata per aver guidato un’incursione presso la Città delle Macchine e aver recuperato Neo e Trinity, gli Eletti» affermò.
Con la coda dell’occhio notò l’espressione feroce sul volto di Velius e capì perché, all’inizio di quella farsa, Bollud si era ben guardato dallo specificare chi avevano recuperato alla Città delle Macchine. La liberazione degli Eletti non era di dominio pubblico ed erano ben intenzionati a far sì che si sapesse il meno possibile. Ora, grazie a lei, la notizia non era più un segreto per nessuno.
Il vociare dietro di lei riprese. Tutto il Consiglio si mise in piedi e le guardie che l’avevano scortata fin lì si strinsero attorno a lei. Velius scese dal suo scranno e si avvicinò, mentre i soldati facevano sfollare la gente dagli spalti.
«Immagino tu sia molto fiera di te, è così?» sibilò Velius.
Lynn lo ignorò.
«Guardami, stronza!» sbottò e Lynn girò su di lui uno sguardo che cercò di caricare di tutto il disprezzo che provava. «Non uscirai mai da quella cella, te lo giuro. Non viva, almeno» aggiunse, in tono irato.
Di nuovo, Lynn non aprì bocca. Fu lui a distogliere per primo lo sguardo: fece un cenno a Linuth che l’afferrò per il braccio e la trascinò di nuovo lungo i corridoi fino alla sua cella.
Non appena fu sola, si stese sulla dura brandina, fissando il soffitto d’acciaio della sua cella. La sua liberazione risaliva a dodici anni prima e da allora aveva sempre vissuto sottoterra. Ma essere rinchiusa in quella minuscola cella, con l’unica compagnia dei suoi foschi pensieri, era ben diverso.
Sarebbe stata dura sopportare la prigionia senza impazzire.

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Il piano ***


Raelynn è in prigione,
messa fuori dai giochi dal subdolo Velius.
Ma nemmeno il generale può sperare
di tenerla imprigionata a lungo...
Buona lettura!
 
Un inferno.
Lynn non avrebbe saputo come altro definire quei primi dodici giorni di prigione. Se quello era il destino che le sarebbe stato riservato per il resto della sua esistenza era probabile che sarebbe impazzita molto presto. E forse avrebbe iniziato a trovare invitante il fatto di creare un cappio con la coperta sotto cui dormiva.
Dopo le parole di Velius, che le aveva promesso che non sarebbe uscita di lì da viva, non si fidava di nessuno. Diffidava perfino di chi le portava i pasti e ogni volta assaggiava piccoli bocconi delle pietanze che le venivano servite, attendendo poi di vedere se si verificavano reazioni avverse, sperando che bastasse per evitare un avvelenamento.
La prigione di Zhaka non era molto affollata, ma qualche detenuto c’era. Dai movimenti che percepiva fuori dalla sua cella le parve di intuire che gli altri non erano mantenuti in isolamento come lei che veniva fatta uscire solo due volte a settimana per la doccia.
Le sue giornate erano tutte uguali. Si svegliava quando le portavano la colazione, quindi faceva allenamento per evitare di perdere tono muscolare. Poi arrivava il pranzo e iniziava la lunga noia. Non poteva ricevere visite, non aveva niente da leggere, niente da fare. Dopo cena, ad un orario imprecisato, le luci venivano spente e lei aveva già iniziato ad avere un sacro terrore di quel buio. Era talmente fitto, talmente greve, da avere quasi un sapore e una consistenza. Era quello il momento peggiore perché quel buio nero pece era come uno spesso sudario steso su di lei, talmente pesante da toglierle il respiro. Doveva affidarsi a tutto il suo autocontrollo per non mettersi ad urlare.
Fu in una di quelle notti atroci che accadde qualcosa. Raggomitolata sulla scomoda branda, Lynn non riusciva a dormire. Ci fu un trambusto fuori dalla sua cella: ormai era lì da quasi due settimane e conosceva tutti i rumori che facevano parte della routine di quel luogo, quindi capì subito che era qualcosa di estraneo.
La serratura scattò e, d’improvviso, la porta della sua cella si spalancò. Nella fioca luce del corridoio esterno vide tre persone fare irruzione nella sua cella: erano vestite di scuro e indossavano dei passamontagna neri a coprire i volti.
Si lanciarono su di lei e le tapparono la bocca con un pezzo di nastro. Cercò di divincolarsi, scalciando, ma uno di loro le infilò un cappuccio in testa. Poi la colpirono con qualcosa di duro sul lato della testa. Ogni energia l’abbandonò, lasciandola molle come una bambola di pezza.Nello stordimento del colpo percepì che uno dei suoi assalitori se la caricava in spalla.
Alla fine perse conoscenza, cedendo al buio che la chiamava.
Potevano essere passati minuti o ore quando tornò consapevole poco alla volta. E, ancor prima di capacitarsi di essere distesa su un materassino, polsi e caviglie immobilizzati, con un mal di testa lancinante, si accorse di essere su una nave.Non poteva sbagliare: sentiva il sibilo dei motori e il dondolio tipico di un hovercraft in navigazione. Ma non capiva come fosse possibile.
Le tornarono alla mente le tre figure incappucciate che erano penetrate nella sua cella, ma da lì in poi non aveva memoria di cosa fosse successo.Cercò di mettersi a sedere solo per accorgersi di essere legata. Cercò di tirare, ma una voce di donna la fermò.
«Tranquilla, sono qui.»
E la sua sorpresa fu grande quando si rese conto che conosceva quella voce.
Il cappuccio le fu sfilato dalla testa e Lynn sbatté gli occhi come un gufo sorpreso dai fari di un’auto. Davanti a lei, con un sorriso a tutta bocca, Edjac.
«Ma che diavolo…?»
«Perdonaci per il trattamento poco ortodosso, capitano» disse la ragazza, mentre la slegava e la aiutava a sedersi sul materassino. Il cuore di Lynn, a sentirsi chiamare capitano, caprioleggiò.
Si guardò intorno. Erano effettivamente in una cabina, ma Raelynn conosceva la propria nave e poteva dire che senza dubbio non erano a bordo della Livelyan.
«Edjac, che cosa sta succedendo?» chiese, mentre la testa le pulsava in maniera orribile. Si toccò la tempia con la mano: un grosso cerottoera stato applicato dove l’avevano colpita.
Non fu la ragazza a rispondere. Lynn girò la testa verso la porta della cabina, soffocando un’esclamazione per il dolore che quel movimento le provocò.
«Ricordi l’ultima cosa che hai detto ai tuoi?» chiese Tost, entrando e sedendosi sul lettino accanto a lei. «“Rivolgetevi a Tost, vi aiuterà”, hai detto. E loro si sono rivolti a me.»
«Siamo sulla Mayrein?» domandò.
Tost annuì. Poi si alzò in piedi e prese qualcosa da una nicchia ricavata nella paratia, allungandola poi verso di lei.
«Cambiati e raggiungici in plancia. Ti spiegheremo tutto.»
Uscirono entrambi e Lynn rimase sola. Fra le mani stringeva il maglione rosso dei capitani di Zhaka, che Tost le aveva passato pochi istanti prima. Ne accarezzò il tessuto: non aveva pensato che sarebbe tornata ad indossarlo.
Si liberò dei vestiti della prigione e si infilò il maglione e un paio di pantaloni neri. Accanto alla branda c’era un paio di stivali della sua misura. Quando fu pronta uscì e raggiunse la plancia come le aveva chiesto Tost e la trovò piuttosto affollata.
Il primo che le venne incontro fu Thorner. Si chinò e la strinse in un abbraccio, senza dire nulla.
«Mi dispiace per Vereena» mormorò Lynn.
«Non è colpa tua. Sapeva i rischi che correva» replicò il gigante.
Anche Rosius e poi Edjac l’abbracciarono. E Beta sbucò da dietro un pannello e corse verso di lei, con le zampette che tamburellavano sul pavimento di metallo.Il suo equipaggio era tutto lì, insieme a quello della Mayrein. E non solo: a bordo della Mayrein c’erano anche Neo e Trinity che la salutarono con un cenno della mano.
«Qualcuno mi spieghi cosa sta succedendo» fece Lynn ad un certo punto.
«Hai ragione» disseTost. «Vieni!»
Si infilarono in sala mensa e Lynn sedette sul bordo della panca. Ogni movimento le provocava una tremenda fitta alla testa.
«Ma era proprio necessario colpirmi?» si lamentò, stropicciandosi gli occhi.
«Scusa» borbottò Tost. «Però tu continuavi a scalciare.»
«Mi dimenavo perché avevo paura che foste gli uomini di Velius venuti a finire il lavoro. Se vi foste fatti riconoscere avrei collaborato.» Poi tornò seria: «Tost, non hai idea dei guai in cui ti stai cacciando.»
Lui fece un gesto noncurante con la mano, come a voler scacciare le sue preoccupazioni, ma Lynn non si lasciò smontare facilmente.
«Velius vorrà la tua testa, così come ha preteso la mia.»
«E allora sarà il caso che il nostro piano funzioni.»
«Ah, c’è anche un piano. Ma non mi dire…»
«Ricordi la notte che venni da te dicendoti che l’Oracolo voleva vederti?» disse Tost, ignorando il suo sarcasmo.
Sembravano passati secoli da quel momento, ma lo ricordava come fosse successo il giorno precedente. Annuì e Tost riprese a parlare.
«Ero stato io stesso dall’Oracolo quel giorno. Mi aveva detto che avrei dovuto fornire tutto l’aiuto possibile a te e al tuo equipaggio. Quindi, quando è successo quel che è successo e i tuoi sono venuti da me, non ho avuto dubbi su cosa dovevo fare.»
Lynn avrebbe voluto commentare che era stato fortunato ad aver capito con così tanta chiarezza il messaggio dell’Oracolo: con lei era sempre stata molto criptica. Ma non disse nulla e si voltò verso Neo.
«Quindi? Che dobbiamo fare adesso? Devi vedere l’Oracolo o che altro?»
Neo scosse la testa: «C’è un luogo, all’interno di Matrix, chiamato La Sorgente. È dove è custodito il Codice, la prima versione di Matrix, ciò da cui tutto è stato generato. Devo arrivare a quel luogo e sostituire il Codice con quello di cui io sono portatore. Questo ci permetterà di riprendere il controllo sulle macchine e sui programmi che girano su Matrix.»
Tutti tacquero, mentre assimilavano quelle informazioni.
«Cosa succederà a tutti coloro che sono collegati a Matrix, coloro che sono imprigionati nei campi in superficie?» chiese Lynn.
«Non accadrà nulla, resteranno nello stato in cui sono, per il momento.» Neo la fissò negli occhi: «Tu hai visto la Città delle Macchine: non sarebbe utile a nessuno farli risvegliare lassù, non finché non saremo pronti a gestirli.»
Aveva senso, in effetti. Le colonie non avrebbero mai potuto sostenere un tale numero di individui. Occorreva prima rendere il pianeta di nuovo abitabile in superficie. Raelynn fremette a quel pensiero: non poteva credere che stessero davvero parlando della fine della guerra secolare con le macchine. Ma quel momento era ancora lontano, c’erano tante cose che potevano andare storte. Magari lei non avrebbe nemmeno visto il momento in cui Zhaka e le altre colonie sarebbero tornate a vivere in superficie, ma non per questo avrebbe messo meno impegno.
«Però avremo noi il controllo e, una volta resa la Terra di nuovo in grado di ospitare vita biologica, potremo spegnere definitivamente Matrix.»
Tutte le persone in quella stanza non ambivano ad altro che a quello. Ripensò alle parole che aveva detto a Garjac pochi giorni prima: volevo che i miei figli crescessero nel mondo reale… che potessero correre scalzi sul prato… che potessero respirare aria pura… che potessero bere l’acqua di un ruscello… che potessero vedere il cielo e il sole... Con la morte di Calbet forse lei di figli non ne avrebbe mai avuti. Ma doveva farlo per i figli degli altri, per i figli di Zhaka e delle altre colonie. Se c’era una minima possibilità di riuscire, lei avrebbe tentato di tutto.
«Okay» intervenne Tost. «Quindi dobbiamo portarvi a quota trasmissione.»
Quando Neo confermò, Lynn scosse la testa, socchiudendo gli occhi per la nuova fitta che le causò il movimento.
«Ormai anche un idiota come Velius avrà capito che la mia evasione è collegata alla sparizione della nave ammiraglia di Zhaka. A proposito: come sei riuscito a portare la Mayrein fuori dal porto?»
«Ho i miei contatti al Centro di Controllo» ammiccòTost.
«Comunque,» riprese Lynn, «ci metterà poco a intuire che siamo diretti a tutta forza a quota trasmissione e manderà Wintor ad intercettarci.»
La maggior parte dei punti di trasmissione era in mano alle Sentinelle. C’erano poche possibilità di accesso a Matrix e per Wintornon sarebbe stato difficile beccarli.
«Ho una soluzione anche per questo» annunciò Tost. Uno dei suoi gli allungò una mappa arrotolata e Tost la stese sul tavolo. Marcò un punto sulla cartina con il dito e Lynn si tese per vedere meglio.
«Non potrai mai far arrivare la Mayrein in quel punto» contestò. Era un vecchissimo tunnel di derivazione, molto vicino alla superficie.
«Lo so. Io non posso. Tu sì, però.»
Raelynn sgranò tanto d’occhi. «No, no. Non posso portare questa nave, non in quei condotti.»
«Con la Liv l’hai fatto, capitano» s’intromise Edjac.
«Sì, ma questa nave è grande una volta e mezza la mia. Non l’ho mai pilotata, non ho le misure con questo bestione.»
Il silenzio si protrasse a lungo e fu Tost a infrangerlo.
«Una volta conoscevo qualcuno di nome Amos» disse e Raelynn, che sapeva dove stava andando a parare, chiuse gli occhi e li coprì con la mano. «Un giorno, guardando una giovane cadetta dell’Accademia che si stava addestrando, mi disse: “Quella ragazza diventerà un comandante eccellente, riesce a pilotare qualsiasi cosa come fosse un’estensione del suo corpo. Quando è al timone è puro istinto, non ho mai visto nessuno con le sue capacità”.»
«Tirare in ballo Amos è un colpo veramente basso» mugugnò Raelynn, ma dentro di sé era fiera per i commenti che il suo vecchio comandante le aveva riservato. «E se volevi farmi infilare la tua nave in quel budello potevi evitare di rompermi la testa due ore fa!»
«Se qualcuno può farlo, sei tu, Raelynn. Anche con la testa rotta» commentò.
Tutti guardavano lei e lei abbassò lo sguardo sulla cartina. Sì, forse poteva farcela a portare la Mayrein dentro quella conduttura. Ma sarebbe stato maledettamente difficile e pericoloso. La cosa certa era che quel tunnel richiedeva il pilotaggio manuale e Wintor, anche con una nave più piccola, non sarebbe mai riuscito a seguirli.
«Va bene, proviamoci» capitolò alla fine.
«E sia! Ai posti, sfaticati» ordinò Tost ai suoi che uscirono in fretta.
«Ho bisogno che Rosius mi faccia da copilota» comunicò la donna e Tost annuì.
A livello di strumentazioni, tutte le navi di Zhaka erano uguali; quindi, Rosius non avrebbe avuto problemi. Ma, per Raelynn, le cose sarebbero state ben diverse. Pilotare una nave sconosciuta in un tunnel di quelle dimensioni richiedeva tutta la sua attenzione e un’intesa perfetta con il suo copilota.
Tost in persona l’accompagnò in cabina di pilotaggio. Il suo pilota, che si chiamava Bristol, le lasciò i comandi.
«Cercherò di restituirtela tutta intera» mormorò in tono di scuse.
Bristol si colpì il petto con il pugno chiuso: «La Mayrein non potrebbe sperare in un pilota migliore di lei, capitano.»
Lo ringraziò con un cenno del capo e sedette ai comandi, mentre Rosius prendeva posto sul sedile accanto.
«Con il tuo permesso» disse Bristol rivolto a Tost, «vorrei restare in cabina.»
«Accordato» affermò Tost: se quello che si diceva in giro circa l’abilità di Lynn al timone era vero, sicuramente al suo pilota avrebbe fatto bene assistere.
«Va bene, disattiva il pilota automatico, Ros» ordinò Lynn. Voleva prendere dimestichezza con i comandi e capire quanto fossero diverse le reazioni di quella nave rispetto alla Liv.
«Se questo era il tuo brillante piano potevi rubare la Livelyan» borbottò rivolta a Tost, mentre spingeva avanti la cloche e la nave rispondeva in modo molto più brutale rispetto alla sua. Anche Rosius lo sentì e riequilibrò la potenza sulle piastre senza che lei dicesse nulla.
«È ancora in riparazione?» chiese Lynn.
Tost sospirò e parlò in tono rassegnato: «Speravo non chiedessi.»
«Perché?» replicò lei.
«Le riparazioni sono state ultimate a tempo di record dopo che siete tornati. Velius l’ha già riassegnata.»
Lynn provò un istintivo moto di fastidio a quell’affermazione. «A chi?»
«Lamos.»
«COSA?» gridò Lynn, girandosi a metà sul sedile. Tost notò che il mal di testa di cui si era lamentata fino a quel momento sembrava svanito. «Ma se non sa distinguere la destra dalla sinistra!»
Lamos era il migliore amico di Wintor e, quanto a idiozia, i due potevano essere gemelli omozigoti. Avevano passato gli esami di Accademia insieme e solo grazie alle loro illustri conoscenze. Nessuno sano di mente avrebbe mai affidato un hovercraft a Wintor, men che meno a Lamos.
«In realtà, Lamos non l’ha mai portata fuori. La prima volta che ci ha provato ha perso il controllo e colpito la darsena. Noi eravamo all’attracco, dall’altra parte del porto: abbiamo sentito una gran botta e perfino la Mayrein ha tremato. Ha danneggiato pesantemente la banchina e distrutto almeno tre piastre sul lato di dritta e due a prua. La Livelyan attualmente è in bacino di carenaggio e ci resterà per un bel po’.»
«Che testa di cazzo!» sbottò Lynn, tornando a concentrarsi sul tunnel davanti a sé. «Sarà meglio che questa guerra finisca in fretta, così potrò riprendermi la mia nave.»
Raelynn non commentò oltre. Per la successiva mezz’ora la cabina di pilotaggio rimase silenziosa eccetto che per gli ordini che la donna impartiva a Rosius di tanto in tanto, mentre navigava nei condotti salendo verso quota trasmissione. Osservandola, Tost non poteva che essere d’accordo con il suo vecchio amico Amos: quella ragazza aveva appena ventisette anni ma dimostrava una padronanza e un’autorità che gli era capitato raramente di vedere. Stava pilotando la nave più grande di Zhaka come se fosse nata per quello. Erano persone come lei che potevano far pendere la bilancia dalla loro parte ed era sicuro che, se al comando di Zhaka ci fosse stato qualcuno diverso da Velius, Raelynn sarebbe diventata ammiragliomolto prima di chiunque altro.
«Ros, per favore comunica a tutti di allacciare le cinture. Tost, se vuoi stare qui dovrai allacciarti anche tu. Ci siamo quasi» affermò la donna, indicando il tunnel che si dipartiva sulla mappa olografica davanti a loro.
A Zhaka ogni hovercraft era diverso dall’altro. Questo perché erano stati costruiti in epoche diverse dopo la caduta di Zion. Se però le altre navi erano tutte compatte e tondeggianti e si assomigliavano nelle forme, la Mayrein era più massiccia e più lunga. Dai pochi resoconti che i loro antenati erano riusciti a salvare prima di fuggire da Zion, somigliava un po’ alla Nabucodonosor, la nave del leggendario Morpheus.
«Il punto di trasmissione è troppo angusto per poter fare manovra» spiegò Lynn, mentre digitava alcuni comandi e la mappa si ingrandiva davanti ai loro occhi. «Entrerò a marcia indietro, cosa che ci darà anche un vantaggio nel caso dovessimo uscire di fretta, per qualsiasi motivo.»
C’era un solo motivo che avrebbe potuto farli fuggire in fretta da lì e sperò che non si verificasse. In quel punto confluivano diversi condotti più piccoli dove una nave non poteva passare, ma una Sentinella sì. E, una volta che una di quelle orrende macchine li avesse scoperti, avrebbe dato l’allarme e si sarebbero trovati addosso uno sciame in un battito di ciglia.
«L’unica cosa positiva è che non dovrò navigare in quel cunicolo a velocità folle.»
Tost non disse nulla. Lui la sua nave l’aveva pilotata in passato e la pilotava ancora ogni tanto, ma non si sarebbe mai arrischiato ad entrare con la parte posteriore in un tunnel di cui non sapeva nulla neanche a passo d’uomo. Sperò che Lynn sapesse davvero quello che stava facendo, come la sicurezza con cui parlava lasciava presagire.
«Ci poseremo lì» indicò il punto sulla mappa virtuale a Rosius, in modo che sapesse come si sarebbe mossa e fosse pronto.
Giunti all’imbocco del condotto, Raelynn fece girare la nave, allineando la poppa per l’ingresso che era angolato verso l’alto di una ventina di gradi. Le dimensioni del tunnel erano a malapena sufficienti per farli passare. I computer che gestivano la nave non avrebbero mai permesso manovre del genere: doveva esserci un margine di sicurezza tra la parete della galleria e l’hovercraft e lì non c’era. Secondo la strumentazione di bordo, quel tratto non era navigabile.
«Ok, saliamo lentamente. Potenza al cinquanta percento davanti, sessanta dietro.»
La nave si mosse. Lynn non poteva vedere dietro di sé, quindi si affidava del tutto ai dati del computer e alle telecamere montate sulla parte posteriore della nave. Non appena la poppa si infilò nella strettoia, un allarme cominciò a suonare, ma Rosius lo silenziò. Lentamente, la Mayrein scomparve all’interno, come inghiottita dalla galleria.
Tost vide i dati sullo schermo: c’erano meno di trenta centimetri tra le piastre e la parete. Raelynn stava pilotando manualmente con meno di trenta centimetri di margine. Se gliel’avessero raccontato non ci avrebbe creduto.
«Ros, più dieci» ordinò.
Il giovane aumentò la potenza anteriore e posteriore, rispettando lo scarto tra l’una e l’altra per aiutare Lynn a mantenere la nave correttamente angolata. Il tocco della donna sulla cloche continuava ad essere delicato ma fermo: con piccole correzioni la manteneva al centro del tunnel, perfettamente in assetto. C’era davvero qualcosa di magico nel modo in cui la donna “sentiva” la nave che manovrava.
La salita durò quattro interminabili minuti. Poi, giunta in quota, Raelynn stabilizzò l’hovercraft in orizzontale. Lo fece indietreggiare ancora un po’, diminuendo progressivamente la potenza.
«Ok, nave in sicurezza» mormorò, quando con un leggero scossone si posarono sul fondo del condotto.
Tost si accorse che aveva trattenuto il fiato, non sapeva bene da quanto. Sganciò le cinture di sicurezza e si alzò in piedi. Posò la mano sulla spalla di Lynn e gliela strinse.
«Non ho mai dubitato di Amos, era bravissimo a giudicare le persone. Ma credo che nemmeno lui sospettasse quello che saresti diventata.»
«E se non mi avessi rotto la testa avrei potuto andare anche più forte» ridacchiò Raelynn.
Tost rovesciò gli occhi: «Mi darai il tormento in eterno con questa storia, vero?»
Quando raggiunsero la sala link, l’equipaggio della Mayrein, evidentemente non abituato come il suo a quegli exploit, la osservava con un rispetto tutto nuovo negli occhi.
Trinity e Neo erano già pronti sulle poltrone per i link, assieme ad un altro membro dell’equipaggio di Tost che si chiamava Jayden, un tipo alto e magro dallo sguardo penetrante e dall’espressione risoluta.
«Entro con loro» annunciò Tost.
«Dovresti venire con noi» disse Neo rivolto a Lynn.
«Non credo sia una buona idea» contestò. «Se le Sentinelle dovessero trovarci potrebbe essere necessario andarcene in fretta da qui.»
Neo la scrutò con quei suoi profondi occhi scuri, quasi come se le stesse leggendo dentro l’anima.
«Le Sentinelle non attaccheranno. E tu dovresti davvero venire con noi.»
C’era qualcosa nelle sue parole. Qualcosa che toccò un punto molto in profondità dentro di lei. Aveva ragione Neo: era necessario che lei entrasse. Non sapeva perché, ma la sua presenza era fondamentale.Di nuovo, le parole dell’Oracolo risuonarono nella sua mente.
Liberare Zhaka e le altre colonie è il tuo destino. E al destino, come sai, non ci si ribella.
«Bristol, pensi di poterla portare fuori, in caso di emergenza?»
«Se Rosius mi fa da copilota sì, capitano.»
Lynn prese posto su una poltrona. Thorner si accostò e preparò il computer, poi afferrò lo spinotto. La donna alzò lo sguardo verso di lui.
«Vendicheremo Cal e Vereena. Te lo giuro» mormorò.
«Sta’ attenta lassù, ok?»
Raelynn annuì. Thor le tenne ferma la testa mentre inseriva lo spinotto nel connettore che aveva alla base del cranio. La donna provò la solita sensazione di fastidio: le prime volte quell’inserimento era molto doloroso, con il tempo era diventato appena percepibile.
«Quando vuole, capitanoRaelynn» disse l’operatore della Mayrein.
Lei sospirò, rilassò i muscoli e chiuse gli occhi.

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Codice Sorgente ***


Raelynn torna in Matrix con gli Eletti:
l'egemonia delle macchine
sta per volgere al termine.
Buona lettura!

 

Le strade di New York erano affollate nonostante l’ora tarda, confermando la diceria che la Grande Mela fosse una città che non dormiva mai.
Emersero dalla metropolitana sulla Quarantaduesima, nei pressi di Bryant Park.Neo prese decisamente a destra, diretto verso il Chrysler Building che era la loro destinazione. Quando aveva detto loro che la Sorgente si trovava in uno dei luoghi più frequentati della città,Tost aveva commentato che era proprio tipico dell’arroganza delle macchine piazzare qualcosa in piena vista in quel modo.
Lynn camminava un passo dietro agli altri e scandagliava con lo sguardo i marciapiedi affollati, cercando di scorgere eventuali minacce.Qualcuno la urtò con una certa violenza, facendole perdere il passo e sussurrò qualcosa al suo orecchio, qualcosa che le fece girare la testa di scatto. L’uomo che l’aveva colpita era però già sparito.
Tost si accorse che si era fermata e tornò indietro.
«Stai bene?» chiese, di fronte alla sua espressione sbalordita.
La donna si riscosse e annuì, riprendendo a camminare. Mentre seguiva Neo e gli altri, si convinse che si era sbagliata, che quell’uomo si era solo scusato, che non aveva sentito quello che aveva sentito.
Calbet è vivo.
No, non poteva aver detto quello. Di certo si trattava solo della sua fantasia surriscaldata, forse il colpo in testa che le aveva rifilato Tost le aveva provocato un trauma cranico o qualcosa del genere. Sì, doveva essere così. Calbet era morto, l’aveva visto con i suoi occhi.
Si fermarono al semaforo, attendendo che diventasse verde per attraversare. Accanto a Lynn due ragazze, una bruna e l’altra bionda, vestite in abiti succinti e truccate con ombretti glitterati, chiacchieravano animatamente. E di nuovo, come con l’uomo che le era finito addosso pochi minuti prima, udì quella frase, stavolta chiara e limpida: «Calbet è vivo.»
«Che cosa hai detto?» domandò, girandosi di scatto verso le due.
«Scusa?» fece la ragazza bruna.
«Ripeti quello che hai detto» intimò.
Entrambe la guardavano come se fosse svitata.
«Ma che problema hai?» intervenne la ragazza bionda con aria di supponenza.
Tost si avvicinò e cercò di trascinarla via, ma la donna oppose resistenza. Non poteva essersi sbagliata una seconda volta, era sicura di quello che aveva sentito.
«L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è attirare l’attenzione» sibilòTost, tirandola per un braccio con una certa veemenza.
Il semaforo si fece verde e le due ragazze attraversarono, non mancando di lanciare un’ultima occhiata a Lynn e Tost. Il capitano della Mayrein la tirò in disparte.
«Che ti prende, Raelynn?» le chiese.
Pur con il timore che Tost la prendesse per pazza, Raelynn gli raccontò quello che era successo. Tost rifletté per qualche istante, poi le posò la mano sulla spalla.
«Tesoro, sei stanca e debilitata.» Poi addolcì il tono il più possibile: «Se anche Cal fosse sopravvissuto agli agenti, il suo corpo si trovava a bordo della nave di Zyron e di quella non è rimasto più nulla.»
Aveva ragione, ovviamente. Ma Calbet le mancava così tanto che era stato semplice aggrapparsi a quella illusione, come un naufrago che si tiene stretto ad un relitto.
«Ti rimando indietro» aggiunse Tost, prendendo il cellulare dalla tasca per chiamare l’operatore e farsi dire quale fosse l’uscita più vicina.
«No!» esclamò la donna. «Sto bene. Resto.»
Tost la guardò con il dubbio dipinto sui tratti del volto, le chiese se era sicura e lei annuì.
«Dobbiamo andare» sollecitò Neo.
Ripresero il cammino. Il mastodontico grattacielo risalente agli anni Trenta in stile Art Déco si innalzava su Lexington Avenue come un baluardo. Neo li condusse ad un ingresso laterale sulla Quarantatreesima e scivolarono all’interno senza farsi troppo notare.
Neo si guardò intorno. Lynn sapeva che lui poteva vedere ad occhio nudo il codice di Matrix ed era certa che stesse verificando se c’erano agenti nelle vicinanze.
«Dobbiamo salire al quarantesimo piano. Le back doors sono lì.Ci saranno anche un bel po’ di agenti nei corridoi» disse con tranquillità. «Cercheremo di evitarli, se qualcuno di loro dà l’allarme ci troveremo con più problemi di quanti possiamo gestirne.»
Neo avrebbe voluto evitare l’ascensore ma si rendeva conto che né lui né Trinity erano in grado di salire quaranta piani a piedi. Salirono fino al trentacinquesimo con l’elevatore; quindi scesero e presero le scale. Tost apriva la fila, seguito da Neo e Trinity, quindi da Jay e Lynn in retroguardia.
Tost si fermò sulla porta con un grosso numero quaranta appiccicato sopra, sbirciando attraverso l’oblò. Dovette ritenere che il corridoio fosse libero perché fece per afferrare la maniglia ma Neo lo fermò, facendogli segno di togliersi dalla porta.
Il battente si spalancò e un agente oltrepassò la soglia. La mano di Raelynn corse d’istinto alla pistola che teneva infilata nella cintura dei pantaloni, sulla schiena. L’agente non fece nemmeno in tempo a rendersi conto di chi avesse di fronte che Neo tese una mano di fronte a sé, facendogli perdere i sensi. Lo afferrò prima che cadesse: il suo corpo si trasformò, prendendo le sembianze di un fattorino. Gli agenti facevano così: si impossessavano del corpo di un umano e ne mantenevano il controllo fintanto che gli serviva.
Neo lo adagiò con la schiena contro la parete. Era la prima volta che Lynn vedeva all’opera il suo potere e doveva ammettere che ne era piuttosto impressionata.
«E se avesse dato l’allarme?» chiese Tost, e Neo scosse la testa in segno di diniego.
«No, non l’ha fatto. E non potrà neanche più tornare, ormai è fuori dal sistema.»
Non diede ulteriori spiegazioni e nessuno di loro aveva tempo di chiederle. Neo aprì la porta di uno spiraglio e sbirciò fuori. Quando fu sicuro che non c’era nessuno in vista, fece loro cenno di passare.
Lynn estrasse la pistola e seguì il gruppo, tenendo l’arma puntata verso il pavimento. Arrivarono ad una porta esattamente uguale alle altre. Neo appoggiò il palmo alla maniglia e si udì un leggero click. Quando aprì la porta tutti si affrettarono ad entrare.
Davanti a Lynn si estendeva un labirinto dalle asettiche pareti bianche. Lungo tutti i muri, ad intervalli regolari di un metro l’una dall’altra, una serie infinita di porte color verde salvia.
«È il corridoio più inquietante che abbia mai visto» borbottò Tost.
«Venite» li invitò Neo, procedendo lungo il corridoio con sicurezza. Lynn e gli altri lo seguirono, guardandosi intorno spaesati: quell’uniformità confondeva e creava in tutti loro un senso di nausea.
Alla fine, l’Eletto si fermò davanti ad una porta esattamente uguale a tutte le altre decine che avevano oltrepassato e si girò verso di loro.
«A mezzanotte io e Trinity varcheremo la soglia. Voi non potete entrare, resterete a guardia della porta. Di solito qui gli agenti non vengono, ma possono passare programmi minori.»
«Dieci secondi» disse Trinity al suo fianco.
«Chiunque si trovi a passare qui è un nemico e deve essere abbattuto. Mantenete alta l’attenzione.»
L’orologio di Trinity emise un bip e Neo tornò a voltarsi verso la porta. Di nuovo, posò il palmo sul pomello e si udì un leggero scatto. Quando aprì il battente, Lynn vide solo buio all’interno. I due entrarono senza esitazione e richiusero la porta dietro di sé.
 
***
 
Erano trascorsi venti minuti. Quando avevano chiesto a Neo quanto tempo gli sarebbe servito, era stato piuttosto vago. Lynn si chiedeva se avrebbero avvertito il cambiamento o se ci sarebbe stata qualche avvisaglia. Possibile che le macchine non subodorassero nulla? Le era sembrato tutto troppo semplice. Perché il palazzo che conteneva la Sorgente era così poco sorvegliato? Soprattutto dopo l’evasione di Neo e Trinity si sarebbe aspettata ben altro livello di sicurezza: le macchine erano davvero così arroganti da non considerare che sarebbero potuti arrivare alla fonte del loro potere?
«Quest’attesa mi uccide» affermò Tost.
Lynn stava per replicare che era lo stesso per lei quando lo vide arrovesciare gli occhi nelle orbite e cadere a terra come un sacco di patate. Accadde lo stesso a Jay e, in un istante, entrambi erano a terra, privi di sensi. La donna sollevò la pistola, scandagliando i corridoi a destra e a sinistra: erano deserti.
Si accucciò accanto ai due uomini e posò due dita sul collo. Il battito c’era, forte e regolare. Ma che diavolo era successo?
«Tranquilla, sono vivi.»
La voce veniva da dietro di lei e Lynn si raddrizzò in fretta, puntando l’arma davanti a sé. Un uomo era in piedi in mezzo al corridoio bianco. Indossava un tre pezzi grigio chiaro, abbinato ad una camicia bianca e ad una cravatta color borgogna e teneva le mani affondate nelle tasche. Ai piedi calzava mocassini di una tonalità più scura rispetto al vestito. Il viso era quello di un uomo giovane, forse sui trentacinque, con i capelli biondi tagliati corti e gli occhi azzurri. La barba era regolata in modo perfetto era bionda anch’essa.
«Chi sei?» chiese Lynn, mentre considerava se era il caso di bussare alla porta dietro cui erano spariti Neo e Trinity. Neo le aveva detto che chiunque fosse comparso nel corridoio doveva essere eliminato ma, nonostante avesse l’arma pronta a fare fuoco, provava una strana riluttanza a tirare il grilletto.
«Il Costruttore» affermò l’altro.Quel nome non le diceva nulla e dovette capirlo dalla sua espressione perché si prodigò in una spiegazione. «Matrix è la mia creatura, la mia Nona Sinfonia, la mia Cappella Sistina. È il capolavoro che io ho costruito.»
«Credevo fosse stato l’Architetto a creare Matrix.»
«Lui l’ha pensata. Io l’ho creata» replicò.
«Non un altro passo» intimò Lynn quando si mosse verso di lei. «Non muoverti, o sparo.»
«Oh, dovresti» replicò il Costruttore con un sorriso, perfettamente a proprio agio nonostante la pistola puntata contro. «Ma non lo farai. Perché, se mi sparassi, non sapresti mai dov’è lui
Non c’era bisogno che specificasse altro, Raelynn aveva già capito. La pistola si abbassò quasi di sua volontà, come se tutta la forza le fosse defluita dalle braccia.
«Vuoi saperne di più?» bisbigliò in tono cospiratore, tendendosi verso di lei.
«Non c’è nulla da sapere.»
Il Costruttore sorrise di nuovo e camminò con disinvoltura verso di lei. Lynn sollevò di nuovo la pistola, ma non c’era convinzione nel suo gesto e lui glielo fece notare. Si fermò a mezzo metro da lei.
«Calbet è vivo, Raelynn. E io posso portarti da lui.»
Stavolta non c’erano dubbi. Aveva davvero sentito quelle tre parole: Calbet era vivo. Una parte del suo cervello stava urlando che non era possibile, che aveva visto con i suoi occhi che gli avevano sparato, che la Nidàs dove era rimasto il suo corpo era stata fatta a pezzi. Da ogni parte considerasse i fatti, si arrivava ad una sola conclusione: il Costruttore stava mentendo.
«Mia cara, so bene cosa ti sta passando per la testa. Pensi che io stia mentendo, vero?» Il Costruttore la superò, scavalcando con grazia il corpo di Tost e fermandosi di fronte ad una porta sul lato opposto del corridoio rispetto a lei.
Prese una chiave passe-partout dal taschino interno della giacca e la infilò nella serratura. Spalancò la porta e si fece da parte, facendo un gesto verso di lei, come invitandola ad entrare. Raelynn non poteva vedere all’interno da dove si trovava, ma sentiva rumori provenire da lì, sibili e schiocchi tipici delle macchine.
Il Costruttore le tese la chiave: «Come segno di buona volontà» specificò, di fronte alla sua espressione perplessa. «Potrai uscire quando vorrai, non ti tratterrò» aggiunse.
Contro ogni logica, Raelynn si avvicinò al Costruttore.
«Che posto è?» chiese, timorosa di varcare la porta. Al di là della soglia, il buio.
«Questa back door conduce direttamente alla Città delle Macchine, in un luogo protetto.»
Sapeva di non doversi fidare. Da quando avevano assunto il controllo, le macchine non avevano fatto altro che mentire e lavorare contro gli umani, cercando in tutti i modi di distruggerli. Perché il Costruttore avrebbe dovuto essere differente? Eppure, l’illusione che le aveva messo davanti era così dolce e lei voleva disperatamente credere alle sue parole. Perciò, trattenendo il fiato, varcò la porta.Il Costruttore entrò dopo di lei e la richiuse.
«Seguimi» disse con cortesia.
Una volta che i suoi occhi si furono abituati, Lynn si rese conto che si trovavano in una stanza di forma esagonale il cui soffitto si perdeva nell’oscurità. Grossi pilastri di acciaio delimitavano il perimetro ad intervalli. Al centro del pavimento c’era una struttura rettangolare alta circa un metro che, dalla parte superiore, emanava una tenue luminosità azzurrina. Il Costruttore si mosse con decisione e si fermò lì accanto, posandovi sopra una mano.
«Te l’avevo detto che non mentivo.»
Raelynn avanzò, accostandosi alla struttura che si rivelò essere una sorta di vasca lunga due metri e mezzo e larga uno. Attraverso il coperchio trasparente Lynn guardò dentro e trasalì: Calbet era lì, davanti a lei, immerso in un liquido azzurro.Su un lato di quella insolita bara c’era un display che registrava i parametri di pressione e battito cardiaco.
La donna appoggiò le mani sul vetro. Calbet era ad occhi chiusi e indossava solo un paio di boxer neri. Sulla spalla e al centro del petto vide due cicatrici corrugate, i fori rimarginati delle pallottole che l’agente gli aveva sparato addosso in quella tavola calda. Aveva un tubo infilato in gola che gli permetteva di respirare nonostante fosse immerso in quella soluzione sconosciuta e un altro inserito in uno degli spinotti sul braccio come una sorta di flebo.
Vederlo lì, palesemente vivo, dopo che aveva pianto la sua morte, fu troppo per lei. Le lacrime presero a scorrerle sulle guance e Lynn non fece nulla per fermarle.
«Abbiamo recuperato il suo corpo prima di abbattere la Nidàs.»
La voce del Costruttore, di cui aveva praticamente dimenticato la presenza, la spinse ad alzare la testa.
«Sapevamo che lui rappresentava qualcosa di estremamente prezioso per te» proseguì, aggiustandosi la cravatta già perfettamente annodata, «e pertanto ritenevamo che avremmo potuto usare lui per arrivare a te.»
«Perché io?»
«Perché tu hai preso qualcosa che ci appartiene, qualcosa che rivogliamo.»
Si riferiva chiaramente a Neo e Trinity. In qualche modo dovevano aver scoperto che era lei la responsabile dell’incursione alla Città delle Macchine e avevano anche capito il legame che aveva con Calbet. Tuttavia, era abbastanza palese che il Costruttore sapesse quello che gli Eletti potevano fare alla sua preziosa Matrix: se così era, perché non sembrava affatto preoccupato dalla loro presenza nel sistema?
«Se sai tutte queste cose, mi chiedo perché tu non li abbia fatti catturare quando sono entrati in Matrix.»
Qualcosa passò sul volto del Costruttore. Fu un attimo, ma Raelynn lo stava osservando con attenzione e non le sfuggì quel fremito della palpebra, come una crepa nella perfetta compostezza del Costruttore: non aveva idea che Neo e Trinity fossero lì. Tuttavia, si riprese subito.
«Non puoi fidarti di loro, Raelynn» chiosò. «Sono personaggi molto pericolosi, c’era un motivo se li tenevamo al sicuro.»
«E di voi dovrei fidarmi?» Il tono era carico di astio, non poteva e non voleva far nulla per mascherarlo. «Prometteste a Neo che avreste fermato la guerra, che chiunque avesse voluto essere liberato avrebbe potuto essere risvegliato. E, invece, la vostra promessa durò meno di cinquant’anni. Dopodiché vi adoperaste per sterminare ogni uomo, donna e bambino di Zion.»
«Temo che la tua sia una visione un po’ semplicistica di come andarono le cose» affermò con calma il Costruttore.
«Vallo a dire alle migliaia di persone che avete ucciso a Zion» replicò la donna. «Credevate di averci annientati, ma non avevate fatto i conti con la forza del genere umano. Ci siamo risollevati, abbiamo ricostruito, abbiamo ripreso a lottare. E finché uno solo di noi continuerà a respirare, la Resistenza non cesserà.»
Il Costruttore fece una smorfia e aprì la bocca per parlare, ma Raelynn era lanciata e continuò ad inveire contro di lui.
«Sai qual è la verità?» chiese, e proseguì senza attendere risposta. «La verità è che voi avete paura. Avreste dovuto eliminare Neo e Trinity quando ne avete avuto la possibilità. Ma non l’avete fatto perché la loro energia era troppo allettante. Siete stati ingordi e avete pensato che nessuno mai sarebbe arrivato nella vostra maledetta città per rubarveli da sotto il naso. E, invece, oggi loro sono qui. E sono pronti a mettere fine per sempre alla vostra tirannia.»
«Va bene, adesso basta!» sbottò il Costruttore, colpendo con il pugno il coperchio del sarcofago di Calbet, perdendo tutto il suo aplomb. «Mi dirai cos’hanno in mente quei due, e lo farai immediatamente.»
Lynn sogghignò: «Non riuscirai a farmi parlare.»
«Davvero ne sei convinta?»
All’improvviso, il corpo di Calbet fu scosso da un fremito. Mosse le braccia a scatti e Raelynn vide il petto contrarsi come se i suoi polmoni stessero cercando aria.
«Che succede?» chiese, mentre Calbet, sempre ad occhi chiusi, sussultava nel liquido azzurro.
«Ho solo disattivato le macchine che gli forniscono ossigeno.»
Lynn lo guardava impotente. Un allarme iniziò a suonare e i movimenti inconsapevoli di Calbet si fecero più frenetici.
«Basta, ti prego!» supplicò la donna, aggrappandosi inutilmente al bordo del coperchio.
Così come era iniziato, il parossismo cessò. L’allarme tacque e Calbet si rilassò. Lynn ebbe il terrore che fosse morto, ma uno sguardo al display mostrò che il suo battito cardiaco si stava stabilizzando nuovamente.
«Posso restituirti Calbet o posso ucciderlo. La scelta, quella patetica illusione umana, è soltanto tua.»
Il Costruttore si mosse, avvicinandosi a Lynn.
«Decidi» sussurrò.
Già una volta aveva condannato Calbet, quando l’aveva mandato sulla Nidàs. L’aveva perso e il colpo aveva rischiato di annientarla. Aveva trovato in qualche modo la forza di sopravvivere, di cercare di far sì che quel sacrificio non fosse vano. Poi, in modo del tutto inaspettato, le cose erano cambiate. Lui era lì, davanti a lei, vivo.
Raelynn non era spaventata da quello che potevano fare a lei. Poteva resistere, lo sapeva. Ma non cedere alle richieste del Costruttore avrebbe condannato Calbet. Di nuovo, sarebbe stata lei a decidere di condannarlo.
…Decisioni terribili, che tu stessa non comprenderai
Di nuovo quelle parole, che l’Oracolo le aveva rivolto l’ultima volta che l’aveva vista. Eppure, Raelynn non poteva prendere ancora una volta quella decisione.
Sarebbe davvero così terribile se cedessi?, si chiese. Non ho la forza per sopportare questo fardello, non posso farlo. Rivoglio solo indietro l’uomo che amo. È chiedere troppo?
Rivelare al Costruttore i piani di Neo e Trinity poteva essere la fine della Resistenza. Ma le stava promettendo ciò che fino a poche ore prima riteneva impossibile: la sua vecchia vita con Calbet. Un futuro in cui i suoi figli non avrebbero corso a piedi nudi sull’erba, è vero. Però era un futuro in cui lei e Calbet avrebbero avuto dei bambini, li avrebbero cresciuti a Zhaka. Una vita insieme, anche in quel mondo difficile, non era forse preferibile ad una vita senza di lui?
L’Oracolo ha sbagliato. Sarà qualcun altro a liberare l’umanità dalle macchine. Non io.
Si volse verso il Costruttore il quale, vedendo la sua espressione, capì che si stava arrendendo. Sorrise.
Fu in quel momento, un attimo prima che Raelynn cedesse alla sua richiesta e vuotasse il sacco su quanto stava accadendo ad opera di Neo, che accadde.
Davanti agli occhi stupefatti di Raelynn non c’era più il Costruttore. O meglio, c’era ancora, ma lei lo vedeva in maniera diversa. Il codice di Matrix, quello che per tante ore della sua vita aveva osservato dai monitor a bordo del suo hovercraft, ora lo vedeva ad occhio nudo. Il corpo del Costruttore era formato dagli inconfondibili caratteri verdi che cadevano a cascata.
Non capiva cosa fosse successo. Abbassò gli occhi: le sue mani, posate sul coperchio della capsula di Calbet, erano formate dallo stesso codice, a differenza di Calbet e della stanza che la circondava. E capì.
Il Costruttore le aveva detto che quel luogo si trovava nella Città delle Macchine. Il che significava che erano nel mondo reale. Ma il Costruttore non era altro che un programma di Matrix e lei stessa non era reale, era la semplice proiezione del suo corpo reale che si trovava a bordo della Mayrein.
Anche il Costruttore si accorse che qualcosa era cambiato. E stavolta, sul suo volto, c’era paura.
«Non è possibile» commentò.
Dentro il petto del Costruttore, più o meno dove avrebbe dovuto trovarsi il cuore, brillava qualcosa. Raelynn agì d’istinto e infilò la mano, afferrando quella scintilla di luce. Il Costruttore boccheggiò come se provasse dolore fisico. Senza una parola, Lynn ritirò la mano e, non appena l’ebbe estratta completamente, il corpo del Costruttore andò in frantumi. Il codice che lo componeva si infranse sul pavimento, sciogliendosi come se non fosse mai esistito.
Raelynn aprì la mano: sul palmo, avvolto in una spirale simile a quella del DNA, il codice scintillava come fosse fatto di smeraldi. Sapeva che quello era il Codice Sorgente, la struttura su cui il Costruttore aveva poggiato la sua Matrix.
Guardò giù, verso Calbet.
«Verrò a prenderti, te lo giuro» disse.
Poi corse via. Usò la chiave che il Costruttore le aveva lasciato e tornò nel corridoio delle back door. Tost e Jayden si stavano rialzando in quel momento, storditi e barcollanti.
«Che è successo?» chiese Tost vedendola sbucare da una delle porte.
«Ti spiegherò tutto più tardi» borbottò Lynn.
Non ebbe esitazioni a fermarsi davanti alla porta dietro cui erano spariti gli Eletti. Posò il palmo sul pomello come aveva fatto Neo e udì il click. Spalancò il battente e si immerse nel buio che per lei, ormai, non era più tale.

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** La fine della guerra ***


La guerra contro le macchine è finita e Matrix è ormai in mano agli umani.
Raelynn ce l'ha fatta ed è riuscita a ritrovare Calbet.
Ora a lei e agli altri spetta il compito di tornare alla colonia con la notizia.
Buona lettura!

 
 
A bordo della Mayrein erano increduli. Quando Raelynn e gli altri tornarono, i componenti dell’equipaggio si misero a parlare tutti insieme. Non avevano potuto vedere nulla mentre loro si trovavano nel corridoio delle back door, ma avevano visto su Matrix gli effetti di ciò che avevano operato.
Il sistema, apparentemente, non era cambiato. Come aveva predetto Neo, dovevano procedere in maniera graduale, non potevano permettersi di scollegare in un solo colpo tutti gli umani. Per quello ci sarebbe stato tutto il tempo in seguito. Però, una cosa era cambiata: tutti i programmi non necessari alla sopravvivenza degli umani, come ad esempio gli agenti, erano stati disattivati ed eliminati da Matrix.
«La guerra è finita?» chiese Edjac a Raelynn e, quando il capitano annuì, incapace di parlare a causa dell’emozione, la giovane la strinse in un abbraccio, e lacrime di gioia riempirono gli occhi di entrambe.
Mentre riprendevano la rotta verso casa, dopo che Raelynn ebbe fatto uscire l’hovercraft dal cunicolo in cui si erano nascosti, raccontarono ciò che era successo.
Quando Neo e Trinity si erano addentrati nella Sorgente si erano subito resi conto che mancava qualcosa. Il codice originale di Matrix, quello che dovevano modificare, non c’era. Da abilissimi hacker si erano infiltrati nel mainframe, cercando di capire il perché di quell’anomalia e avevano scoperto che, così come Neo era portatore del nuovo codice, il Costruttore lo era del codice originale.
Localizzarlo era stato affare di pochi minuti, ma si erano accorti che si trovava nel mondo reale. E che non era solo. Avevano seguito con apprensione tutto lo scambio con Raelynn. Trinity sapeva che la donna avrebbe ceduto: anche lei, in passato, aveva sacrificato tutto per l’uomo che amava. Così, avevano fatto l’unica cosa che potevano fare: avevano modificato il codice di Raelynn. Neo sapeva che, se avesse raggiunto il suo livello di consapevolezza, avrebbe capito cosa doveva fare, proprio come era successo a lui tanto tempo prima.
Così era stato e Raelynn aveva ottenuto il Codice Sorgente, portandolo da loro. Da lì, era stato tutto in discesa. Neo aveva operato direttamente sul codice, sostituendo intere parti dello stesso, generando gli effetti che tutti loro avevano potuto vedere. Agenti e Sentinelle erano stati disattivati, così come tutti i programmi che potevano essere una minaccia per loro.
Non appena fossero tornati a Zhaka, Lynn sarebbe partita nuovamente per la Città delle Macchine per recuperare Calbet. Si sentiva in colpa nei confronti di Thorner: lei aveva riavuto indietro il suo uomo, ma lui non avrebbe mai potuto riabbracciare Vereena.
«Tost, stai vedendo vero?» li interruppe Bristol dalla cabina di pilotaggio.
Tutti gli occhi si voltarono verso i monitor. I potenti fari della Mayrein illuminavano il condotto in cui stavano navigando sul fondo del quale c’era un tappeto di Sentinelle disattivate. L’intero sciame, dopo l’intervento di Neo, era caduto a terra, innocuo e inservibile. Anche quello era un simbolo potente della loro vittoria.
A una ventina di chilometri da Zhaka intercettarono una trasmissione della Ninvar che, con tutta evidenza, stava cercando loro. Tost diede ordine di rispondere alla chiamata, pentendosene un minuto dopo quando Wintor in persona intimò loro di tornare immediatamente alla colonia: il tono di potere che aveva usato non gli era piaciuto per niente.
La Ninvar li aspettò all’imbocco dell’ultimo tratto navigabile. Tutti a bordo notarono che era in assetto da battaglia e li teneva sotto tiro con i cannoni di prua.
«Non è propriamente il benvenuto che mi aspettavo» borbottò Tost mentre Bristol imboccava il condotto verso il grande portone che dava accesso al porto.
«Forse non lo sanno ancora» commentò Rosius, ma nemmeno lui sembrava molto convinto.
Il Controllo ordinò loro di entrare e dirigersi al solito attracco. Niente “cancelli aperti e letti fatti”, neanche l’ombra di un “bentornati”.Certo, Tost aveva agito più o meno come Lynn quando era partita per la Città delle Macchine e, di sicuro, Velius immaginava che lei fosse a bordo. Ma non era davvero possibile che non sapessero che il mondo era cambiato, stavolta davvero e per sempre.
Mentre Bristol faceva posare la nave, Tost indicò qualcosa sui monitor: un plotone di almeno cinquanta uomini correva sul molo verso di loro. Dietro il drappello, ad un passo più lento e dignitoso, Linuth e Velius.
«Volevi il comitato d’accoglienza, no?» chiese Raelynn in tono sarcastico.
Prima che potessero rendersi conto di quello che stava accadendo, i soldati fecero saltare il portello dall’esterno. Storditi dall’esplosione, i membri dell’equipaggio osservarono impotenti gli uomini di Linuth che dilagavano all’interno dell’hovercraft. Le manette scattarono e tutti loro vennero immobilizzati senza troppe cerimonie. Raelynn fu afferrata da dietro da un colosso d’uomo che le bloccò le braccia dietro la schiena. La sua presa era ferrea, impossibile da infrangere per lei.
Tost, che inveiva e gridava contro di loro, fu colpito duramente al volto e cadde in ginocchio sul pavimento, sputando una boccata di sangue e una scheggia di dente.
Non appena la situazione fu sotto controllo, Velius salì a bordo. La sua espressione non faceva presagire nulla di buono. Ignorò Tost e si avvicinò a Raelynn che continua a dibattersi cercando di liberarsi. La colpì con uno schiaffo a mano aperta talmente forte che sentì la faccia formicolare.
«Il plotone d’esecuzione non te lo leva nessuno, stavolta» sibilò.
«La guerra è finita!» esclamò Raelynn d’un fiato. «Abbiamo ripreso il controllo delle macchine, il mondo è di nuovo nostro.»
L’espressione di Velius le confermò che lo sapeva benissimo, diversamente dai soldati che li stavano trattenendo che, all’udire ciò, si guardarono l’un l’altro perplessi.
«Stronzate!» sbottò Velius.
Raelynn vide che, fuori dal portello, era arrivato un grosso camion da trasporto. Era un veicolo elettrico che solitamente veniva usato per trasportare munizioni e forniture da un capo all’altro del porto.
«Portateli via» ordinò Linuth ad un cenno di Velius e i soldati cominciarono a far uscire l’equipaggio, facendolo salire velocemente a bordo del mezzo. Era evidente che Velius non voleva che loro entrassero in contatto con gli abitanti di Zhaka e rivelassero la verità sulla fine della tirannia delle macchine.
…Ci sono persone che non vogliono questa rivoluzione, persone che si sono ricavate il loro bozzolo nelle colonie e che non sono interessate a rovesciare le macchine…
«Ti farò processare per tradimento e stavolta ti eliminerò, stanne certa. Hai finito di crearmi problemi» le disse con un sogghigno crudele.
Raelynn raccolse la saliva in bocca e gli sputò in faccia. Velius indietreggiò, sorpreso, un’espressione schifata dipinta sul volto.
«Sei un maledetto figlio di puttana. Doveva esserci Amos al tuo posto» gli urlò contro.
«Oh sì, Amos» replicò Velius, asciugandosi con la manica. «Il perfetto Amos. L’uomo giusto, il condottiero senza macchia e senza paura. Non era il grande eroe che tu credi. Anche lui aveva paura: il giorno che è morto mi supplicava di aiutarlo.»
Raelynn strinse gli occhi in due fessure. Qualcosa non tornava in quell’affermazione:Amos era morto per un attacco di cuore ed era stato ritrovato ore dopo, accasciato sulla scrivania del suo ufficio.
Un odioso sorriso comparve sul volto di Velius: «Mi prendo tutto il merito di quell’infarto. Così come della morte del tuo prezioso mentore» sussurrò.
Quella verità, che nel suo cuore era sempre stata più che un sospetto, la colpì come la scarica di un defibrillatore. Una forza di cui non conosceva l’esistenza si impossessò di lei. Si divincolò con veemenza e il soldato che ancora la teneva stretta, forse colto di sorpresa, allentò la morsa. Raelynn piroettò su se stessa, afferrò la pistola dell’uomo e gli diede un violento spintone, mandandolo a sbattere con il capo contro la paratia della Mayrein. Il soldato scivolò a terra, forse tramortito, forse morto, non le interessava.
Mosse il braccio in un arco, tendendo la pistola davanti a sé e puntandola alla fronte di Velius.
Il tutto si era svolto in frazioni di secondo, tanto che né Linuth né i soldati che erano rimasti all’interno della nave si erano resi conto dell’accaduto. Ora però reagirono: estrassero le armi e le puntarono verso di lei.
«Giù le pistole» ordinò Lynn con calma. Continuava a puntare la propria al centro della fronte di Velius che la fissava con occhi allucinati.
«Giù le pistole» ribadì, scandendo bene, quando notò che nessuno aveva obbedito, «o daremo un’occhiata al cervello di questo bastardo.»
Linuth dovette scorgere qualcosa nei suoi occhi perché ordinò ai suoi soldati di fare quanto lei aveva detto.
«Ora, libera l’equipaggio della Mayrein.»
«Non ci penso proprio» replicò l’altro.
Raelynn colpì la fronte di Velius con la canna della pistola. La pelle si spaccò e prese a sanguinare. Non era una ferita grave, ma sanguinava copiosamente ed era dolorosa, tanto che il generale cadde in ginocchio tenendosi la faccia fra le mani.
«Fa’ quello che dice, idiota» piagnucolò rivolto a Linuth che obbedì.
L’equipaggio della Mayrein fu fatto uscire dal mezzo e tornò a bordo. Con loro c’erano, ovviamente, anche Rosius, Edjac e Thorner.Tost diede un’occhiata all’energumeno che Raelynn aveva atterrato e sogghignò: «Ricordami di non farti mai incazzare!»
Linuth fu immobilizzato e portato fuori. Thorner si chinò per afferrare Velius per le braccia e lo sollevò.
«Mi occuperò personalmente di scortarti al Consiglio. Confesserai ciò che hai fatto ad Amos di fronte a loro» affermò Raelynn. Poi si rivolse a Tost: «I contatti che ti vantavi di avere al Centro di Controllo potrebbero trasmettere in tutta la colonia le immagini che abbiamo registrato?»
Lui sorrise: «Entro dieci minuti chiunque a Zhaka saprà che la guerra è finita.»
Le ore che seguirono furono frenetiche. Come aveva predetto Tost, la notizia della fine delle ostilità volò letteralmente in tutta la colonia. Ovunque risuonavano grida di gioia e ogni corridoio era affollato di persone che piangevano, si abbracciavano, cantavano e danzavano.L’equipaggio della Mayrein si premurò di far circolare voci sul ruolo che avevano avuto gli Eletti e Raelynn e, ben presto, chiunque la incrociava si batteva il pugno sul petto e chinava il capo in un rispettoso inchino.
Raelynn pretese di vedere immediatamente il Consiglio. Velius, il capo fasciato alla bell’e meglio, confessò l’omicidio di Amos, operato con il fine di ottenere la carica di generale. Sembrava invecchiato improvvisamente e di certo aveva perso tutta la sua boria. Di fronte alle domande incalzanti di Bollud capitolò in fretta, snocciolando i nomi dei suoi complici e lacchè. Dei nove membri del Consiglio, quattro erano collusi con lui e furono immediatamente allontanati.
Alla fine, mentre Velius veniva condotto via, Bollud si rivolse direttamente a lei.
«A nome di tutto il Consiglio, le porgo le nostre scuse per quanto è successo. È evidente che l’influenza di Velius e dei suoi era molto forte e ha distolto la nostra attenzione dalla verità.»Raelynn avrebbe voluto dirgli che quelle scuse servivano a poco, ma ebbe il buonsenso di tacere e far buon viso a cattivo gioco.«Le sono resi tutti i privilegi del suo grado, capitano Raelynn» concluse Bollud.
«Quello che conta è che siamo riusciti ad estirpare il marcio, signore. Ce ne sarà altro in giro, ma lo scoveremo e ce ne sbarazzeremo.»
Bollud annuì: «Non ci sono parole per esprimere la gratitudine che proviamo per ciò che avete fatto per la colonia e per l’intero genere umano. Chieda ciò che vuole, le sarà concesso.»
Raelynn aprì la bocca per dire che desiderava soltanto che le dessero una nave per andare a recuperare Calbet quando Garjac si alzò in piedi.
«Abbiamo saputo che Calbet è ancora vivo quindi immagino che vorrai un hovercraft per andarlo a prendere.» Scese dalla pedana su cui si trovavano gli scranni e camminò verso di lei, fermandosi a poca distanza. «La tua nave, la Livelyan, è in riparazione. Spero che accetterai di assumere temporaneamente il comando della Ninvar. Amos ne sarebbe felice.»
Raelynn deglutì, incapace di parlare. Quindi, annuì.
All’improvviso, fece un passo avanti e la strinse in un abbraccio. Raelynn si irrigidì: non se l’era aspettato. Poi, come animate da una volontà esterna, le sue braccia si sollevarono e ricambiarono la stretta.
«Ti chiedo scusa per come mi sono comportato, ero accecato dal dolore. Sappi che sono fiero di te, piccola» sussurrò.
Raelynn si abbandonò fra le sue braccia e gli bagnò di lacrime la tunica.

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Epilogo ***


Siamo arrivati all'epilogo di questa storia.
Spero che vi sia piaciuta e che vorrete farmelo sapere.
Grazie a tutti coloro che sono arrivati sin qui.
Buona lettura!

 

«Mamma!»
Raelynn si girò di scatto sul sedile di guida: «Che cosa ci fai tu qui?»
La bambina scosse i riccioli castani: «Sono venuta a vedere se siamo arrivati» affermò, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Zoey era nata otto anni prima nella colonia di Zhaka, due anni dopo la fine della guerra con le macchine, diventando in un istante la gioia assoluta di mamma Raelynn e papà Calbet, recuperato dalla Città delle Macchine e perfettamente ristabilito. Si chiamava Zoey in onore della madre di Calbet, che era morta dandolo alla luce. Era una bimba dagli occhi e capelli scuri, vivace e sempre allegra, e Calbet diceva che aveva preso l’attitudine al comando da lei, visto che capeggiava una masnada di ragazzini più o meno della stessa età che erano diventati croce e delizia di buona parte della colonia.
Zoey batté il piede sul pavimento: «Allora, siamo arrivati?» chiese, riguadagnando l’attenzione della madre.
«Sì, siamo quasi arrivati. Proprio per questo dovresti essere legata al tuo sedile» replicò, seccata.
«Ormai sono qui» ribatté, avvicinandosi al sedile di Raelynn che si tese per prenderla in braccio.
«È stato tuo padre a slacciarti le cinture?» domandò, mentre se la sistemava sulla coscia destra.
«No, l’ho fatto da sola. Però mi ha detto che potevo» replicò.
Raelynn borbottò che con Calbet avrebbe fatto i conti più tardi.
«Posso pilotare io?»
«Non penso che le centocinquanta persone che abbiamo a bordo sarebbero entusiaste di sapere che la nave è nelle mani di uno scricciolo di otto anni.»
Quel giorno era un giorno speciale per tutta la colonia. Era il decimo anniversario dal giorno in cui la secolare lotta con le macchine era finita per merito di Raelynn, Neo e Trinity.
Le condizioni in cui versava il pianeta erano disastrose. Era un paesaggio arido e invivibile, desolato e desolante. Il sole non riusciva a bucare la coltre di nubi e non cresceva nulla in superficie, non un fiore, non un filo d’erba. Avevano pensato che ci sarebbero voluti decenni per riuscire a renderlo adatto alla vita. Invece, la Terra aveva dimostrato ancora una volta una grandissima capacità di guarigione.
La maggior parte della popolazione aveva continuato a vivere nella colonia, ma molti erano stati portati in superficie e avevano cominciato a lavorare per rendere il mondo di nuovo in grado di ospitare gli umani.
Dieci anni erano passati da allora. Dieci anni di duro lavoro, di viaggi continui verso la superficie, di fatica e di sudore.
Quel giorno, in quell’anniversario così importante, era stata l’ultima volta che la Livelyan aveva lasciato l’attracco di Zhaka. Avevano caricato le ultime centocinquanta persone rimaste alla colonia, avevano spento tutte le macchine che li avevano tenuti in vita in quei sotterranei e l’avevano salutata per l’ultima volta: non sarebbero più tornati là sotto. Da quel giorno iniziava una nuova vita in superficie, un nuovo capitolo tutto da scrivere.
«Quasi nove» contestò Zoey.Zoey aveva compiuto otto anni il mese prima, quindi era parecchio lontana dai nove. «Dai, mamma. Ti prego.»
Non era la prima volta che la lasciava pilotare. Adesso che i condotti erano stati liberati dalle Sentinelle non c’erano più pericoli e l’aveva portata con sé in diversi viaggi verso le altre colonie.
Dopo la liberazione avevano scoperto che c’erano più colonie di quante pensassero. Quella di Zyron che li aveva aiutati nella liberazione di Neo e Trinity era quella più vicina ma ce n’erano altre che, purtroppo, si trovavano in condizioni ben peggiori di loro. Così, non appena avevano stabilito i contatti e portato loro la notizia della fine del conflitto, si erano offerti di aiutare e alcune colonie erano state abbandonate e i loro abitanti trasferiti a Zhaka o in altri agglomerati.
«Va bene. Ma devi fare molta attenzione, ok?»capitolò infine Raelynn, lanciando al contempo uno sguardo a Rosius che sedeva al suo fianco e annuì, confermando che sarebbe stato pronto ad intervenire in caso di problemi.
Zoey posò tutta contenta le mani sulla cloche e Raelynn le tolse, lasciandole il timone. Raelynn teneva d’occhio lei e la mappa olografica, anche se aveva percorso quella rotta talmente tante volte da conoscerne ogni centimetro.
«C’è un ostacolo più avanti, lo vedi?» glielo indicò sulla mappa e Zoey annuì. «Dovrai far alzare la nave per evitarlo, ma non troppo o striscerai sul soffitto. Sei pronta?»
Non appena l’ostacolo si materializzò di fronte a loro, illuminato dai potenti fari della Liv, Zoey tirò leggermente la cloche verso di sé. L’hovercraft alzò il muso e sorvolò l’ostacolo. Non appena l’ebbero superato, Zoey lo fece riabbassare, riportandosi al centro del canale navigabile.
La manovra non era per nulla complicata, ma si trattava pur sempre di pilotare una nave di diverse tonnellate in cunicoli dove il più piccolo errore poteva costare carissimo, e Zoey l’aveva eseguita alla perfezione.
Raelynn scambiò un’occhiata con Rosiuse si complimentò con Zoey che si gonfiò di orgoglio per l’elogio ricevuto.
«Ottima manovra. Sei davvero brava, Zoey» la lodò Rosius.
«Grazie, zio Ros» replicò. E aggiunse: «Da grande voglio diventare comandante come la mia mamma.»
Lasciò che la bambina portasse la nave ancora per un buon tratto, poi tirò indietro la manetta e ridusse la velocità.
«Ok, ora siamo davvero vicini. Da qui ci penso io.»
Zoey le lasciò la cloche e Raelynn si preparò alle ultime manovre. Imboccò l’ultimo tratto in salita. Era lo stesso che aveva percorso nella sua prima visita alla Città delle Macchine dieci anni prima, ma era stato ampliato e la pendenza era stata migliorata per consentire un migliore accesso.
Non appena sbucarono in superficie, Zoey non poté trattenere un sonoro “wow”. Sia Lynn che Rosius scoppiarono a ridere.
«È quello il sole, mamma?» chiese la bambina, indicando l’enorme palla arancione che stava tramontando all’orizzonte.
«Sì, tesoro. Quello è il sole.»
«E il cielo… com’è azzurro» mormorò in tono riverente.
Raelynn la capiva benissimo. Anche se per lei non era la prima volta, non mancava mai di provare lo stesso senso di meraviglia che aveva fatto spalancare la bocca a Zoey. Era qualcosa che poteva capire soltanto chi aveva passato tutta la vita nelle profondità della terra.
Raelynn virò a destra. Sotto di loro, gli uomini erano impegnati nei loro compiti. Erano abitanti di Zhaka e delle altre colonie che vivevano stabilmente lì e si occupavano di bonificare i terreni, di costruire nuove case, di coltivare i campi per sfamare la popolazione presente e quella che sarebbe arrivata in seguito.
«Le vedi quelle torri?»
Raelynn attirò l’attenzione della figlia sulle grandi strutture all’orizzonte.
«Tu e papà eravate dentro una di quelle capsule?»
Zoey conosceva a memoria quella storia. I suoi genitori avevano voluto fortemente che crescesse con la piena consapevolezza di cos’era il mondo prima della sua nascita. Era l’unico modo per far sì che quanto era successo non accadesse mai più.
«Quelle cose fanno paura» disse la piccola, additando le macchine in forma di grossi insetti che ancora si muovevano sulle capsule.
«Non devi temerle. Ora abbiamo noi il controllo di quelle macchine.»
Raelynn aveva vissuto in un tempo in cui le macchine facevano davvero paura, perché programmate per uccidere. Però aveva sempre cercato di non passare quel pensiero a sua figlia. La sopravvivenza dell’umanità dipendeva ancora dalle macchine. C’era bisogno di equilibrio. L’equilibrio nasceva dalla conoscenza, non dal terrore.
Da alcuni anni ormai il genere umano si serviva di fonti di energia alternative e non sfruttava più l’energia prodotta dai corpi umani. Tuttavia, la Terra non era ancora pronta a ospitare quella moltitudine. Non c’erano le risorse, non c’erano gli alloggi, non c’erano le strutture. Perciò, avevano preso la pur sofferta decisione di mantenerli in quello stato, vivendo la loro vita inconsapevole in Matrix, in attesa che si creassero le condizioni per liberarli.
Sì, c’era ancora tanto lavoro da fare, ma Raelynn non era spaventata dall’enormità di quel compito. Forse non avrebbe visto la fine di quel cammino, ma i suoi figli e i figli dei suoi figli avrebbero proseguito ciò che lei e gli altri avevano iniziato.
«Torre di controllo, qui nave Livelyan di Zhaka.» Raelynn si mise in contatto con il Centro di Controllo che ora gestiva tutto il traffico di hovercraft in superficie. «Chiediamo il permesso di atterrare.»
«Nave Livelyan, qui torre di controllo. Permesso accordato, posteggio numero due.»
Era la voce inconfondibile di Edjac che lavorava alla torre di controllo ormai da qualche anno. Era
Raelynn obbedì alle istruzioni ricevute, facendo abbassare la Livelyan per posarla al suolo. Sotto di loro, diversi inservienti si muovevano attorno alle navi a terra. La Mayrein era ormeggiata al posteggio uno, come sempre, ma molte altre navi si muovevano lì intorno, appartenenti alle altre colonie o costruite dopo la Seconda Liberazione, come avevano preso a chiamare la fine della guerra.
La Livelyan scese dolcemente e si posò a terra con la delicatezza di una farfalla.
«Vado da papà» annunciò Zoey, scivolando dalle gambe di sua madre. «Fai presto, mamma. Voglio scendere subito» aggiunse, correndo via.
Raelynn scosse la testa e si rivolse a Rosius: «Grazie per avermi permesso di pilotare.»
«È sempre un onore, capitano Raelynn.»
Da qualche mese, la Livelyan era passata sotto il comando di Rosius. Il giovane le aveva ceduto il comando in via eccezionale: riconosceva che spettasse a lei il diritto di quell’ultimo viaggio dalla colonia.
Raelynn sganciò le cinture e raggiunse Calbet. Zoey gli saltellava intorno, impaziente di scendere.
«Non so dove tua figlia trovi tutte queste energie»borbottò.
La donna sorrise e tese le mani verso di lui che le passò il bambino che teneva in braccio. Amos aveva due anni e stampò sulla guancia della madre un umido bacio. Gli avevano dato il nome di Amos in onore dell’uomo che aveva risvegliato entrambi, assassinato da Velius tanto tempo prima.
«Scendiamo, prima che questa piccola peste diventi ingestibile.»
Seguirono il resto dei passeggeri sulla scaletta. Per la maggior parte di loro era la prima volta e si guardavano intorno con vari gradi di meraviglia dipinti sul viso.
In fondo alla scaletta una donna dai capelli biondi e dagli occhi di un azzurro impossibile spuntava i nomi dei nuovi arrivi sulla sua lista e li indirizzava verso le navette che li avrebbero portati ai loro alloggi. Alzò gli occhi verso di loro e sorrise.
«Ciao Vereena» la salutò Raelynn.
Era stata una sorpresa per tutti loro quando l’avevano ritrovata a Zyron. La donna aveva spiegato loro che, quando erano stati attaccati dalle Sentinelle, dopo aver liberato Neo e Trinity, il comandante Halliam era riuscito ad evacuare la nave. Era rimasto da solo a bordo – più il corpo senza vita di Calbet – e aveva guidato la nave in un attacco per distogliere l’attenzione dello sciame da loro che, scesi dalla Nidàs, cercavano di allontanarsi e nascondersi.
Aveva sacrificato se stesso ma era riuscito nell’intento. Due giorni dopo, due giorni di paura passati nei freddi cunicoli bui, una nave di Zyron era passata di lì in cerca proprio della Nidàs e loro erano riusciti a farsi prendere a bordo.
Raelynn ricordava bene il momento in cui Thorner l’aveva vista sulla banchina del porto di Zyron. Era corso giù non appena avevano aperto il portello e l’aveva sollevata, facendola piroettare. Era stato strano vedere un gigante come lui piangere come un bambino.
«È bello sapere che, finalmente, tutta la colonia di Zhaka è qui» commentò Vereena dopo aver risposto ai loro saluti.
«Non credevo che avremo visto tutto questo con i nostri occhi» replicò Calbet, alzando lo sguardo verso il cielo in cui si soffici nuvole bianche si rincorrevano pigramente.
«Ehi, ce ne hai messo di tempo!»
Era stato Tost a parlare. Strinse la mano a Calbet e strizzò l’occhio a Raelynn. Era ancora il comandante della Mayrein, dopo aver rifiutato il ruolo di ammiraglio che il Consiglio gli aveva proposto.
«Abbiamo fatto il giro panoramico» replicò la donna.
Trascinati dall’entusiasmo di Zoey, Raelynn e Calbetli lasciarono e si incamminarono verso un’area di parcheggio situata accanto alla struttura della torre di controllo. Era da lì che partivano le navette, ma Raelynn aveva una propria auto, un mezzo elettrico a guida autonoma di ultima generazione.
Mentre camminavano verso il parcheggio, incrociarono Thorner. Il gigante, che era stato l’operatore della Livelyan, ora era diventato capo manutentore, con la responsabilità di tenere in perfette condizioni le navi della flotta.
«Quand’è che io e Vereena avremo il piacere di avervi a cena?» domandò con il suo vocione.
«Non appena ci saremo sistemati, promesso» replicò Calbet.
Arrivati all’auto di Raelynn, Zoey si bloccò come se avesse sbattuto contro una barriera invisibile. Davanti all’area di parcheggio c’era un grande spiazzo libero coperto di soffice erba verde.
«Posso?» chiese.
Raelynn annuì con un sorriso e la piccola si sedette per terra e si tolse le scarpe; quindi corse a piedi nudi sul prato, ridendo felice. Raelynn tolse le scarpine anche ad Amos che caracollò dietro la sorella, ridacchiando per il solletico dei fili d’erba sotto i piedi.
Calbet l’abbracciò da dietro e le baciò la guancia. Rimasero a guardare i bambini che si rincorrevano felici nel tramonto.
…Volevo che i miei figli crescessero nel mondo reale… Volevo che potessero correre scalzi sul prato, rincorrendo una farfalla…
Quella scena che aveva solo immaginato ora si svolgeva davanti a lei e sentì le lacrime pungerle gli occhi. Calbet le posò le mani sul ventre.
«Il prossimo nascerà qui» sussurrò.
Avevano scoperto solo da pochi giorni che erano in attesa del terzo figlio e non l’avevano ancora detto a nessuno.
«Sì. Il prossimo nascerà qui» ripeté la donna.
Erano ancora abbracciati quando arrivò un inserviente dalla torre di controllo.
«Ammiraglio» chiamò.
Raelynn si voltò: «Sì?»
«Un messaggio da parte del Consiglio, signora» le disse, porgendole un foglietto.
Lo ringraziò e quello, con un inchino, girò sui tacchi e tornò alla torre.
Il messaggio era del Capo del Consiglio.
«Neo chiede la mia presenza sul palco alla riunione di stasera» lesse Raelynn.
Quella sera si sarebbe tenuta l’annuale Festa della Seconda Liberazione e, per la prima volta, l’avrebbero vissuta in superficie tutti gli abitanti di Zhaka. Raelynn aveva sperato di poterla passare divertendosi con i bambini, ma aveva degli obblighi istituzionali e non vi si sarebbe sottratta. Sebbene lei tendesse sempre a minimizzare quando qualcuno accennava agli eventi passati, tutti la ritenevano un elemento fondamentale nel percorso che avevaportato alla fine della guerra.
Era stato quello che aveva pesato in maniera determinante nella sua nomina ad ammiraglio. Il Consiglio l’aveva proposto a Tost per questioni di anzianità, ma tutti sapevano che doveva essere lei. Anche Tost, che aveva rifiutato immediatamente.
«Anche se è un delitto togliere quella ragazza dal timone di una nave, non c’è nessun’altro più degno di lei per questa carica» aveva detto.
In realtà, Raelynn aveva mantenuto il comando della Livelyan anche dopo essere diventata ammiraglio. C’era troppo da fare perché lei potesse limitarsi ad un ruolo istituzionale che prevedesse il restare bloccata dietro una scrivania. Non era proprio nella sua natura.
«Quindi avrò i bambini tutti per me?» domandò Calbet.
Raelynn scosse la testa: «Temo di no. L’invito è esteso anche a lei, generale.»
Calbet aveva ottenuto il ruolo che era stato di Velius e comandava con perizia e con il vigore della giovinezza l’intero dispiegamento delle forze di superficie che, non dovendo più combattere con le macchine, si dedicavano alla ricostruzione. Ora accennò con il capo a Zoey.
«Credi di riuscire a recuperarla prima della festa?»
«Sarebbe una missione difficile anche per Neo stesso» borbottò. «Ma a noi sono sempre piaciute le missioni complicate, no?»
E, mano nella mano con Cal, si avviò verso i bambini che si rotolavano sull’erba, ridendo come pazzi nell’ultima luce di quel primo giorno di vera libertà.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=4037205