Frammenti di storie

di Ely_Pommy
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Una cioccolata per Sofia ***
Capitolo 2: *** La Palestra può aspettare ***
Capitolo 3: *** La Sinfonia della Vita ***
Capitolo 4: *** La magia del Trucco ***
Capitolo 5: *** La Nuvola che non voleva stare in cielo ***
Capitolo 6: *** La Notte di Apeiron ***
Capitolo 7: *** Polline Omicida ***
Capitolo 8: *** Un Unicorno sui Jeans ***
Capitolo 9: *** Ombra nella Luce ***
Capitolo 10: *** Un'ape al reparto dolci ***
Capitolo 11: *** La Macchina del Karma ***
Capitolo 12: *** Una Pelle Color del Cielo ***
Capitolo 13: *** Franco ***
Capitolo 14: *** La nascita della mozzarella ***



Capitolo 1
*** Una cioccolata per Sofia ***


Il vapore del suo respiro si diffondeva nell’aria in tante nuvolette: sorrise pensando a quanto divertisse da bambina a usare quello che lei chiamava “il suo potere” per appannare i finestrini della macchina di sua madre e disegnarci sopra l’unicorno, che voleva disperatamente.
Immersa nella sua sciarpona morbida Sofia adocchiò il bar dove andava da bambina e di cui era ormai cliente abituale, decise di entrarvi.
«Questa è aria di neve».
Fu l’ultima frase che la ragazza sentì da un passante, prima di chiudersi alle spalle la porta del bar.
Mentre si avvicinava ad un tavolo libero e si toglieva i pesanti abiti, con cui si era finora difesa dal freddo, assaporò gli odori di brioche, caffè e ovviamente di cioccolato che popolavano l’aria del locale.
«Ehi ragazza della cioccolata! Pronta per ordinare?» la voce era di un giovane cameriere che si preparava ad ascoltare cosa lei avrebbe chiesto. Non era la prima volta che la serviva quel ragazzo e non era la prima volta che la faceva arrossire col suo sorriso amichevole, la voce calda come un abbraccio e i capelli perfettamente spettinati.
«Una cioccolata calda, perfavore» aveva risposto.
Da quando era piccola, l’inverno ed in particolare il periodo natalizio erano quello: l’odore del cioccolato, che le inebriava i sensi e il caldo della bevanda, che le scaldasse il cuore, a discapito della fredda stagione.
«Il solito in pratica, giusto? Arrivo subito.»
Il ragazzo si allontanò.
Lei sorrise, sentendo stranamente le gote più calde del dovuto.
Per distrarsi si perse nei suoi pensieri.
Si rivide bambina, seduta a quello stesso tavolo, mentre coi genitori rideva e si sporcava la bocca col cioccolato, per imitare i baffi del padre, che ora erano bianchi come la neve d’inverno.
Prese in mano la sua borsa nera e ne estrasse il cellulare: notò che la sua migliore amica le aveva mandato la gif di un pulcino infreddolito, per lamentarsi del clima a lei non congeniale.
Le rispose con una sequenza di emoji che era ormai la sua firma: una ragazza con le braccia aperte, un fulmine e delle gocce d’acqua, che nella sua mente malata si riferivano alla battuta: “potrebbe andar peggio, potrebbe piovere”.
Ribloccò il telefono.
Quando il cameriere tornò da Sofia, allungandole la tanto attesa cioccolata, vide che le porgeva anche una piccola ampolla con dentro un bigliettino arrotolato.
Il ragazzo sorrise e non disse nulla. Si limitò ad andare al bancone per ritirare gli ordini degli altri clienti.
Sofia aprì l’ampolla e ne estrasse il biglietto scritto in una calligrafia frettolosa.
Alla ragazza dolce come la sua cioccolata.
Da molto ti ho notata.
Ma sono molto impacciato
E questo stratagemma ho trovato.
Se ti va di parlare
Mike è qui per ascoltare.
Sofia ebbe un colpo al cuore. Forse era l’inizio di qualcosa.
Forse quell’inverno non sarebbe stato così freddo. Forse la voce di Mike poteva scaldarlo, come scaldava il suo cuore e i suoi pensieri da ormai molto tempo.
La ragazza allora decise e prima di prendere un sorso della sua cioccolata fumante, si girò e chiamò: «Mike»

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Capitolo 2
*** La Palestra può aspettare ***


Forse erano i colori di cui si tingevano gli alberi, forse era l’odore che si respirava dopo la pioggia, forse era il vedere le foglie staccarsi dai propri rami e fluttuare fino al suolo mosse dal vento come ballerine folli, ma comunque per Davide l’autunno era da sempre la sua stagione preferita.
Quel pomeriggio percorreva la stessa via di sempre che lo portava da casa alla palestra.
La borsa con i testi universitari era stata sostituita da una sacca con tutto il necessario per il suo solito allenamento.
Quel giorno però, c’era qualcosa di diverso nell’aria, qualcosa che non gli permetteva di ascoltare la musica che aveva nelle orecchie con la solita spensieratezza.
Se ne accorse quando sul viale principale del suo paesino, seduti su una panchina di legno, vide una coppia di anziani: la mano di lui che un tempo doveva esser stata forte, formata nei campi e ora segnata dal tempo, sembrava proteggere con delicatezza quella di lei. Davide non potè fare a meno di sorridere constatando che lei guardasse il marito come fosse una ragazzina innamorata.
Davide provò qualcosa che non aveva mai provato prima, qualcosa che pensava di non poter provare: la stessa amara sensazione di quando ci si sente soli: sentì tutto il freddo di quel mese d’ottobre.
Aveva sempre riempito la sua vita di impegni, di libri, di tutto in quegli anni ed era amaro constatare che in tutto quel riempire, una parte era rimasta vuota.
Mentre i pensieri lo attanagliavano, qualcosa lo fece cadere a terra, mentre un paio di occhiali finì davanti alle sue ginocchia.
Li raccolse, si girò e notò che appartenessero a un ragazzo: doveva avere la sua stessa età, ma appariva più esile, più impacciato e in qualche modo… sì non c’era altro modo per descriverlo: affascinante.
Davide tolse le cuffie e pulì sommariamente gli occhiali e si rivolse verso il giovane impegnato a raccogliere il contenuto dei sacchetti della spesa, che si era riversato al suolo.
«Penso che con questi sarà più facile vedere cosa ti è caduto» disse Davide porgendogli gli occhiali.
«Grazie -disse il ragazzo prendendoli con delicatezza e sistemandoseli addosso- perdonami, ho sopravvalutato la tenuta di queste buste riciclabili.»
«Già, fanno impazzire anche me» rispose Davide ridendo
«Comunque piacere, Giacomo» disse il giovane ancora in ginocchio, allungando una mano
«Davide» rispose l’altro stringendogliela
Uno strano senso di calore riscaldò Davide, fino in profondità, infiammandogli le guance.
Una sensazione che lo portò a dire, dopo un colpo di tosse che nascondesse l’imbarazzo: «Penso che senza più i sacchetti sarà un’impresa portare quella roba, posso aiutarti?»
«Mi faresti un favore, grazie» disse Giacomo mentre anche le sue gote prima pallide, cominciarono a prendere colore.
«Dove abiti?»
«Nel condominio in fondo alla strada»
«Davvero? Anche io! Aspetta sei tu il tizio che ha preso l’appartamento in affitto dei De Carli?»
«Sì, esatto»
«Allora sei di fianco a me, che coincidenza!»
«A quanto sembra!»
«Già» i due risero e si incamminarono insieme, felici del nuovo incontro e forse di un nuovo inizio.
Davide si disse che forse quel giorno la palestra poteva aspettare e forse, non solo quel giorno.

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Capitolo 3
*** La Sinfonia della Vita ***


Ci fu un tempo in cui nel mondo regnava il silenzio.
Non un suono, non un respiro, solo infinito nulla.
In quella nullità comparve un’entità.
Si  chiamava musica: non aveva corpo, era fatta di note e suoni, in essa vi erano tutte le melodie dell’universo.
Vagava riempiendo il nulla della sua presenza, creando corpi che cominciavano a suonare: un passero che cantava, gli alberi che scuotevano le loro foglie al vento, gli animali che cominciavano ad emettere i loro versi.
La terra cominciò a suonare, ma nessun suono era in armonia con gli altri.
Musica non capiva perché tutto stonasse, perché fosse tutto rumore.
Fu a quel punto che apparve un altro essere: un bambino con gli occhi luminosi come il sole, la pelle di mille colori e un sorriso stampato nel volto: era l’amore.
Rise e la sua risata apparve come una melodia perfetta in quel caos di suoni.
Con le note che riuscì a produrre, musica chiamò il bambino e gli chiese aiuto.
Il bambino rise ancora e disse: «Che sciocchina che sei musica: hai dimenticato di dar loro il tempo…prendi questo»
Il piccolo essere porse all’entità un cuore che batteva, ritmico e perfetto: «Questo è uno strumento potente: riesce a tenere il tempo di ogni emozione: dello stupore, della tristezza, della felicità, del dolore, della passione. Vedrai che prodigi può fare.»
Musica sollevò il cuore rosso verso il cielo ed esso si divise, in tanti piccoli cuori che andarono a finire in ogni essere creato da musica.
Ed ecco che la Terra intera suonò in armonia una sinfonia perfetta: la sinfonia della vita.
Il bambino fece per andare, ma la musica lo trattenne con le sue note, chiedendogli di rimanere: «Non preoccuparti musica, mi rivedrai negli occhi dei bambini, nel loro stupore, nella loro capacità di amare incondizionatamente, di sperare, di sognare.»
Da allora musica suona per ogni bambino, raccontandogli di Amore e di come egli abbia donato loro il metronomo per suonare le loro vite e renderle canzoni uniche e perfette, intonate con l’antica sinfonia della vita.
 

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Capitolo 4
*** La magia del Trucco ***


La primavera di quell’anno era travolgente.
Quei colori, quei profumi, sembrava che solo allora quella stagione assumesse il suo vero aspetto.
Uliogi camminava per i campi di papaveri e ne ammirava i colori: carezzava delicatamente i petali di quei magnifici fiori e ne respirava appieno il profumo.
Decise che quell’anno per la festa degli elfi, avrebbe celebrato quel tripudio della natura con una maschera adatta, ma non voleva limitarsi a quello, bensì decise che avrebbe reso il suo stesso volto la sua maschera, usando tutta la bellezza che lo circondava.
Raccolse i petali dei fiori caduti, tritò le pietre argentee delle profondità dei boschi, si immerse nel lago d’ossidiana per raccoglierne le alghe nere, chiese alle sue amiche api del polline dorato, si arrampicò fino alla punta del cedro reale per procurarsi le sue foglie viola, estrasse la resina da delle pigne e seguì il corso del sole.
Ad ogni mossa, il suo vestito si sporcò, si stracciò, ma a lui andava bene così: anche quello era opera della natura: come lui doveva raccogliere da essa i suoi prodotti, egli doveva anche essere disposto a donarsi e farsi portar via qualcosa.
Quando ritenne di avere tutto l’occorrente, tornò nella sua dimora, nella sua quercia secolare piantata dal suo trisavolo: con dei rametti secchi, della resina e i peletti lasciati qua e là dai suoi compagni scoiattoli, fabbricò dei morbidi pennelli, con cui con cura e maestria creò un’opera d’arte sul suo volto: attaccò i petali, stese le polveri e si guardò allo specchio: era orgoglioso, era un arcobaleno di bellezza che univa la felicità dentro al suo cuore con quello che i suoi sensi avevano potuto cogliere della sua amata natura.
Il sole stava per lasciar spazio alle altre stelle.
L’elfo indossò la sua corona cerimoniale fatta di foglie d’edera e si avviò alla festa.
Tutti si voltarono verso di lui, nessuno poteva evitare di rimanere abbagliato dalla sua bellezza e dalla sua originalità: si domandavano se avesse usato qualche magia, qualche trucco… Uliogi rise e disse solo: «Non ho usato alcun trucco, mi sono truccato.»
Fu così che la sua arte venne tramandata nei secoli a tutte le creature: anche agli uomini che da allora ancora esprimono la bellezza del loro cuore, dipingendola sul loro viso.
 

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Capitolo 5
*** La Nuvola che non voleva stare in cielo ***


Fu proprio una goccia d’acqua a svegliare il minuscolo essere assopito all’ombra di una foglia di girasole.
Vi si era rifugiato, per sfuggire alla calura di quel pomeriggio d’estate.
Il piccolo folletto si stropicciò gli occhi, per asciugarsi il volto e sollevò lo sguardo: sopra di lui aleggiava qualcosa, ma non sapeva cosa.
Non riusciva a vedere nient’altro che la foglia che l’aveva riparato, i petali del girasole e il cielo, con una nuvola, ma…ora che guardava bene quella nuvola non era in cielo, no quella nuvola era sopra di lui.
Rimase a bocca aperta quando ne ebbe la conferma, ma soprattutto quando la nuvola semplicemente disse: «Ciao! Diventiamo amici?»
«Tu parli?» disse il folletto un po’spaventato.
«Anche tu parli, che c’è di strano?»
«È che non mi aspettavo che tu potessi.»
«Perché?»
Fu lì che il folletto si accorse di non saper rispondere: era vero, perché non gli sembrava strano che i suoi simili parlassero, che gli animali lo facessero, ma le nuvole no.
Nessuno gli aveva detto che le nuvole avessero un’anima.
«Non lo so» disse mentre le sue guance già rosee si tingevano di un più acceso color rosso.
«Non importa, ora lo sai. Diventiamo amici?»
«Perché?»
«Non mi piace stare sola.»
«Ma ci sono tante nuvole in cielo»
«Ma io non voglio stare con una nuvola, sono noiose, parlano sempre di quanto sono vaporose, di quanto siano forti i loro tuoni e luminosi i loro lampi. La vita lassù è sempre uguale. Io voglio stare con uno come te.»
«Ma io non sono speciale»
«E nemmeno io, possiamo non essere speciali insieme: io ti riparerò dal caldo, ti riempirò il bicchiere di pioggia quando avrai sete, ti porterò dove vorrai e tu mi mostrerai la bellezza di vivere coi piedi per terra, del passare del tempo, di non sapere come andrà la giornata.»
E fu così che un’anima del cielo e un’anima della terra si unirono in una strana e magnifica amicizia, perché forse tra simili non si è speciali, ma lo si diventa negli occhi di un amico.

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Capitolo 6
*** La Notte di Apeiron ***


La brezza era una gradita compagna in quella sera d’estate di Apeiron.
Le due avevano abbandonato il villaggio e i festeggiamenti per la vinta battaglia, per stare tranquille.
I rumori di quella magica natura riempivano l’aria, ma ad un certo punto il tranquillo silenzio nella mente di Owena fu rotto: «Non ti manca il tuo mondo? Insomma, non hai un minimo di nostalgia?»
Gala la osservava coi suoi profondi occhi dello stesso colore del miele che la madre di Alessia, quando ancora si chiamava così, usava per i suoi dolci; poteva ancora sentirne il profumo, sentire il calore della cucina avvolgerla come un abbraccio.
Ma quello era solo il ricordo di un attimo, di un mondo che non significava più nulla per lei, così sorrise facendo apparire sulla guancia la fossetta che tanto la caratterizzava; prese una ciocca dei capelli argentei di Gala e carezzando la sua pelle ambrata, la ripose dietro l’orecchio a punta, che tradiva la sua natura elfica.
«No, non più. Sono trascorsi tanti anni: questa è casa mia, con te.»
Le due erano sedute sulla riva del mare cristallo, così chiamato per le sue acque bianche che la leggenda diceva fossero nate dalle lacrime di un drago argenteo, che piangeva la sua specie estinta.
Quelle acque così belle, quando venivano colpite dalle prime luci di Akuelos, la stella del giorno, davano vita a mille arcobaleni che rimbalzavano da una parte all’altra perdendosi nell’orizzonte, nulla a che fare con alcuna spiaggia terrestre.
Le due erano sdraiate e i loro capelli si mischiavano alla terra ferrosa.
«Owena…»
«Dimmi Gala.»
«In tanti anni che abiti qui, da quando ti ci sei svegliata, non hai mai provato a tornare?»
«I primi mesi sono stati duri: avevo paura, ero sola. Consultai l’elfo stregone della città che mi ospitò: mi disse che avrei trovato casa, seguendo il tramonto di Akuelos. Non sapevo cosa avrei trovato, forse una qualche sorta di astronave che mi avrebbe riportata indietro, ma quando incontrai te provai una cosa che non avevo più sentito dopo la morte di mia madre: la felicità. Nel mondo da cui provengo non mi ero mai sentita a casa e l’unica cosa che mi ancorava a quella realtà era lei. Quando la persi, mi sembrò che le forbici del destino avessero reciso quel legame: non trovavo niente per me e non volevo cercarlo. Qui, solo qui ho trovato casa, ho trovato me stessa.»
«Persino quando ti ho quasi soffocata evocando l’edera?»
«Come primo incontro non è stato l’ideale, devo ammetterlo, ma non chiedermi perché, qualcosa è scattato e lì ho saputo di esser vicina alla fine del mio viaggio, ma perché mi poni tutte queste domande?»
«La guerra contro gli elfi celesti ci metterà ancora a dura prova: tu sei stata la prima a lanciarti nella battaglia: mi chiedevo come potessi mettere la tua vita in pericolo la tua vita per un mondo che non ti appartiene, poi quando hai cambiato il tuo nome, le domande sono aumentate: hai gettato la tua identità e…»
«In realtà l’ho trovata e avrò voglia di combattere per questo, finché il mio cuore batterà.»
«Spero per molto, perché fino ad allora batterà il mio.»

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Capitolo 7
*** Polline Omicida ***


Ah, la primavera coi suoi colori, i suoi fiori e il maledetto polline!
Per un allergico come me, la primavera è quella magica stagione in cui praticare la sacra arte di tirare i santi a due a due finché non diventano dispari.
Ormai la mia massima aspirazione all’arrivo di ogni primavera è non morire.
Se il mio zaino venisse ispezionato, mi prenderebbero per uno spacciatore, date le quantità di pastiglie che mi porto dietro. Tra l’altro come simpatico effetto collaterale i miei farmaci mi danno quella sonnolenza talmente leggera, che se arrivasse un’astronave di plutoniani a dichiarare guerra al mio appartamento, non me ne accorgerei.
Ma poi, in centro città non c’è un albero che sia uno, qualcuno gentilmente mi spiega da dove arriva tutto questo polline? Ormai dovrebbero fare un’allerta meteo solo per allergici, dopo l’allerta neve, anche l’allerta polline.
Tra l’altro ieri ho dimenticato di fare la spesa e non ho comprato i fazzoletti, ora, dato che mi soffio il naso con la stessa frequenza del battito d’ali di un colibrì, mi sono dovuto arrangiare con lo scottex, che mi ha graffiato il naso con la forza di mille trinciapolli, facendomi temere di dover chiamare l’ospedale per una trasfusione
Ad ogni modo, dato che per concludere la giornata, un piccione che a quanto pare non aveva niente di meglio da fare, che sfogare la frustrazione di un’esistenza inutile, mi ha cagato sulla giacca rendendola un quadro di Pollock e dato che la macchia è grande quanto un catamarano, mi toccherà uscire di casa per andare in lavanderia.
Prepariamoci allo shock anafilattico.
Pace a tutti!

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Capitolo 8
*** Un Unicorno sui Jeans ***


Il rombo della moto, che le faceva vibrare il corpo, la ricompensava dell’ardita scelta di utilizzare quel mezzo in quella fredda giornata di dicembre. Martina in sella alla sua V-strom si sentiva invincibile, capace di prendere la vita a morsi con la stessa facilità con cui mordeva i pancake che si preparava al mattino. Un’altra giornata di lavoro al negozio di strumenti musicali stava per iniziare e sapeva benissimo che quel giorno, avrebbe dovuto coprire il turno mattutino di Alan, che si era dato malato per poter sgattaiolare da tutt’altra parte d’Italia per il diciottesimo del suo cuginetto. Martina aveva parcheggiato, era entrata e aveva appoggiato il casco sotto il bancone della cassa: sapeva benissimo che a quell’ora, poteva godere di un po’di tranquillità dato che non avrebbe visto alcun cliente almeno fino alle 10.30. Si mise quindi a provare la chitarra classica che stava puntando da un sacco di tempo, ma per cui stava ancora risparmiando: la prima cosa che le venne da strimpellare fu “Il Mondo è mio” di Aladin. Benchè il suo aspetto e i suoi gusti dicessero tutt’altro, in fatto di cartoni era completamente ossessionata dalla Disney. Mentre era alle prese col ritornello, il suono di un pianoforte cominciò ad accopagnarla. Sussultò, ma non smise di suonare, anzi si avvicinò al pianoforte a coda nella sala antistante: una ragazza era seduta, intenta a far danzare le dita sui tasti neri e bianchi. Martina non poté fare a meno di notare la toppa a forma di unicorno attaccata sui suoi jeans, proprio all’altezza della coscia. Si sorprese a constatare che il suo cuore aveva cominciato a battere il tempo di quelle note, pompando il sangue fino alle sue guance. Non servì dirsi nulla. Continuarono a suonare. Bastarono le poche occhiate furtive che si scambiarono tra un pezzo e l’altro nell’ora che ne seguì. Cosa le avrebbe detto quando la musica sarebbe finita? Ancora non lo sapeva, ma mentalmente Martina ringraziò il cugino di Alan. Ora stava a lei non far svanire la magia, ma far diventare un sogno realtà.

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Capitolo 9
*** Ombra nella Luce ***


«Aren, fratello ti prego parlami!»
«Astrid non posso, lo capisci?»
Le due fate si trovavano al limitare del bosco, in un punto in cui la vegetazione si diradava, per ospitare la nuda roccia di una montagna.
Astrid aveva seguito il fratello che fin troppe volte aveva visto sgattaiolare in piena notte, fuori dalla quercia che li ospitava.
Aveva vagato con lui, non vista, finchè la luna non aveva iniziato la sua discesa verso l’orizzonte.
In quel momento Aren si era fermato davanti ad una roccia precisa e con un gesto della mano, l’aveva liberata dal muschio e dalla neve, rivelando 6 anelli scolpiti nella viva pietra.
Il giovane li aveva toccati con la punta dei piedi in una precisa sequenza, alla fine del quale l’intera parete aveva emesso un leggero bagliore, in cui Aren era passato con decisione, mentre Astrid vi si era lanciata a tutta velocità, prima che l’incanto svanisse.
Varcata la soglia era piombata sopra il fratello, sfoderando il suo minuscolo pugnale di selce: «Che segreto nascondi fratello?»
Aren l’aveva scagliata lontano da sè con tutta la forza di cui era capace: «Astrid non dovevi venire.»
La giovane fata aveva insistito, aveva provato a raggiungere il fratello, che continuava a non volerle rispondere, ma insisteva a tenerla lontana da sé.
Quando Astrid lo fermò con un incantesimo, Aren scoppiò in lacrime: «Sono condannato, va bene?»
«Che cosa?» disse la fata smontando l’incanto
«Un mostro d’ombra mi ha attaccato circa un mese fa, mentre ero di vedetta al nostro bosco. In pochi giorni la mia magia è svanita e la mia luce diminuita. Tra qualche tempo non ne resterà alcuna.»
«E come hai fatto ad arrivare qui?»
«Il saggio del pino secolare mi ha concesso tre giorni di magia e sette giorni per riunirmi alla bestia che mi ha attaccato, morendo insieme a lei altrimenti…»
«Diventerai un’ombra» disse Astrid, sentendo il suo sangue argenteo diventare freddo come quel rigido inverno.
Aren annuì: «Sono riuscito ad imprigionarla in queste notti: oggi è il mio momento: userò l’ultima magia che mi rimane»
«Fratello! La possiamo sconfiggere insieme.»
«è per questo che non volevo parlartene, ma ora non c’è altro tempo, addio sorella.»
Dicendo queste parole, Aren abbracciò la sorella, rubandole il pugnale.
Con un gesto della mano l’addormentò, consapevole che quando si sarebbe svegliata, il pericolo sarebbe svanito.

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Capitolo 10
*** Un'ape al reparto dolci ***


Il fresco del supermercato era sicuramente un sollievo in quella già torrida mattinata d’agosto.
Matilde aveva passato tutta la mattina al mare e aveva deciso di fare la spesa prima di rientrare a casa.
La salsedine era ancora appiccicata alla sua pelle ambrata, coperta da un prendisole blu, come il cappello a tesa larga che indossava.
Percorreva le corsie del supermercato senza nemmeno guardarsi intorno, sapendo già di cosa avesse bisogno.
Ad un certo punto, a turbare l’automatismo delle azioni della ragazza, mentre stava per prendere i suoi biscotti preferiti, un’apina le volò poco distante dal volto, facendola spaventare: il carrello di Matilde ne urtò un altro e lei stava quasi per scivolare, se solo le forti braccia di qualcuno non l’avessero accolta in un abbraccio.
«Sta bene signorina?» disse una voce calda e gentile.
La giovane aprì gli occhi, che prima erano stretti per la paura. Per prima cosa vide le braccia di lui: forti, ma allo stesso tempo la tenevano con delicatezza.
Sollevando lo sguardo incrociò i suoi occhi color dell’autunno e i suoi capelli biondi e spettinati, come la leggera barba che gli puntellava il mento.
Anche lui doveva aver avuto la sua stessa idea, dato che indossava una camicia hawaiana aperta e dei calzoncini da mare.
Matilde si accorse con imbarazzo che con la testa appoggiata al suo petto, poteva sentire il battito del suo cuore.
«S-Sì, sì tutto ok…grazie…mi scuso, un’ape» cominciò a balbettare.
Come in un ballo, dopo un casque, il giovane uomo la tirò su.
«Non si è fatta male, vero?»
«No, no, anzi grazie per aver evitato il peggio.»
I due risero.
Il ragazzo per assicurarsi che stesse bene, l’accompagnò nel resto della spesa, alla cassa e poi verso la macchina.
I due avevano continuato a parlare, a scherzare e quando furono davanti alla macchina di lei, si resero conto che dovevano separarsi.
Fu lì che Matilde si rese conto che non voleva. Non doveva separarsene e ringraziò che l’abbronzatura le nascondesse il rossore delle guance quando disse, con lo sguardo basso: «Beh dato che mi hai salvato da un capitombolo ed è ora di pranzo, ti va se ti offrissi qualcosa per ringraziarti?»
Passarono pochi secondi che il cuore di lei scandiva, facendoli sembrare una dolorosa eternità
Benché la ragazza lo desiderasse, non si aspettava la frase che poi venne da lui «Sì, mi piacerebbe molto»
Forse, pensò Matilde, quell’estate il sole aveva deciso di illuminarle la vita di un dolce color oro, che aveva il suono di una voce calda e gentile.

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Capitolo 11
*** La Macchina del Karma ***


Ore cinque e mezza.
La sveglia suona. Constato purtroppo di non essere ancora morto nel sonno e che perciò devo alzarmi.
Fuori dalle coperte c’è talmente freddo, che mentre mi si rizzano pure i peli dei peli, faccio in tempo ad incontrare una famiglia di orsi polari che si è trasferita nel mio corridoio, perché col riscaldamento globale l’artico è diventato una spiaggia meglio delle Bahamas, mentre qui hanno trovato l’habitat ideale.
Mentre considero seriamente l’idea di farmi una bella pelliccia bianca, lo spirito di Greta Thumberg decide che i miei pensieri meritano l’intervento del karma e proprio all’imbocco delle scale per scendere in cucina, c’è la macchinina di mio figlio che mi aspetta lì, pronta, consapevole della sua missione.
Dopo avere fatto invidia a Carolina Kostner col mio carpiato ed essermi procurato molteplici microfratture e un trauma cranico in omaggio su ogni gradino, decido che quel giocattolo finirà presto nel trita-rifiuti.
Mi preparo un caffè, o meglio chiedo alla macchina del caffè di emettere del liquido sporco, con una cialdina che mi costa quanto un rene e che sa del concime con cui cerco di mantenere in vita una pianta ormai morente di basilico.
Basilico d’inverno…che idea del cazzo ho avuto, ma piuttosto che farmi dire “Te l’avevo detto” da mia moglie, sono disposto a fare le manovre di rianimazione ad ogni singola foglia.
Dopo essermi cambiato con gli unici abiti che non puzzino di quel favoloso mix si biscotti plasmon e birra, mi preparo per andare al lavoro.
Chiavi, metto in moto l’auto, ma a pochi passi dal cancello, mi ricordo di aver dimenticato il telefono: sia mai che il capo mi dica che oggi vuole un macchiato, nero, con zucchero, ma raccolto sulle nuvole che sorvolano l’Himalaya tra le 10.00 alle 11.00, anziché il solito ginseng, macchiato freddo, senza zucchero, ma con panna: che gusti di merda!
Esco dall’auto. Rientro. Prendo il cellulare.
Non faccio in tempo ad uscire che un boato mi fracassa i timpani.
Sono sul vialetto e lì capisco che se esistesse la lotteria dei minchioni, avrei sbancato: non avevo inserito il freno a mano e l’auto si è scaraventata contro il garage, ma non solo! È partita la pioggia, ma non una pioggia leggera: diluvia così tanto che considero l’idea di chiedere a Mosè se mi possa aprire le acque portate dalla pioggia fino al lavoro.
Bene.
Raccolgo i pochi cocci della mia dignità, metto in moto il neonato catorcio, cerco su google quanto valga un rene al mercato nero, considerate le future spese del carrozziere e parto.
Che giornata di…
 

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Capitolo 12
*** Una Pelle Color del Cielo ***


La gioia di aver trovato la Tracer che tanto voleva ad un prezzo stracciato, si era volatilizzata poco dopo averla messa in moto.
In pochi secondi era tutto sparito: il concessionario, il venditore: tutto era diventato un turbinio d’ombra e luce che gli procurava un enorme senso di nausea.
Quando l’effetto svanì e le ruote della moto toccarono di nuovo terra, partì a tutta velocità, tramortendo però qualcuno o meglio qualcosa davanti a lui.
Leonardo in tutta fretta spense la moto, lasciandola nella neve per soccorrere il caduto, ma prima che potesse anche solo toccarlo, venne travolto da un altro individuo.
«Idris grazie, grazie! Se non fosse stato per te, quest’orribile mostro mi avrebbe uccisa. Finalmente sei tornato, ora abbiamo una possibilità.» disse una voce femminile.
Leonardo scostò colei che gli stava parlando: vide i suoi tre occhi color del grano, la sua pelle grigia come un cielo in tempesta, ma soprattutto le sue orecchie a punta che spuntavano dai suoi capelli rosa.
«Ci sarà uno sbaglio, io mi chiamo Leonardo» fu tutto quello che riuscì a dire.
«Oh Idris! Sempre a fare lo sciocco! Va bene -disse strizzando l’occhio- piacere Leonardo, io sono Aeryn.»
Leonardo era confuso, si scagliò poco più in là dove dei sassi contornati di neve lasciavano spazio ad un lago argenteo ghiacciato: si guardò: l’immagine che gli venne offerta fu di un giovane forte con la pelle color delle nubi, i capelli verdi come la pianta di alloro che coltivava il suo vicino e gli occhi argentei, ma soprattutto notò le sue orecchie a punta.
La cosa che lo sconvolse maggiormente è che quell’immagine non gli era estranea e man mano che si specchiava, diventava sempre più famigliare, prima un ricordo, poi una consapevolezza: sapeva chi era. Lo sapeva, se lo ricordava: «Aeryn? Aeryn sei davvero tu. Sono tornato!» disse andando ad abbracciarla.
«Sì Idris, lo sei.» disse lei stringendolo con tutta la sua forza.
Idris guardò l’essere che aveva atterrato, che veniva già avvolto dalla terra che lo stava richiamando: «Gli elfi delle faglie…»
«Siamo ancora in guerra.»
Idris annuì guardando quel corpo ora totalmente coperto da terra e da neve. In quel momento ricordò chi lo avesse spedito sulla Terra, perché si fosse dimenticato di chi era.
Guardò Aeryn e le tolse il pugnale dal fodero assicurato alla sua cintola: «Portami da Baltasar: mettiamo un punto a questa follia.»

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Capitolo 13
*** Franco ***


Franco era il classico campagnolo: sembrava uscito da un libro per bambini.
Tondo e rubizzo in volto, lo sguardo gentile, riparato dal sole da un cappello di paglia a tesa larga.
Aveva addosso una camicia in flanella e una salopette.
Viveva in un paesino alla periferia, della periferia di una città fatta di quattro anime e un sacco di animali: i suoi.
Una cosa però lo rendeva conosciuto anche al di fuori della sua oasi tranquilla: il suo BURRO fatto in casa.
Si diceva che non ne esistesse uno migliore e dalla scuola più piccola al GRATTACIELO più alto della provincia, tutti volevano rifornirsi da lui.
Franco però non voleva abbandonare la sua vita alla fattoria, perciò non aveva una fabbrica, un’azienda: i prodotti che vendeva erano solo e soltanto quelli che riusciva a produrre il giorno prima con l’aiuto della moglie e animali permettendo: era capitato infatti che la mucca Silvana un giorno fosse particolarmente contrariata, perché il figlio dei Marchi l’aveva urtata con le RUOTE della sua bici: per circa un mese, il suo latte era spumoso, chiaro segno di irritazione, praticamente inutilizzabile per il burro, perciò quel mese i prodotti venduti, erano calati, anche se per i cappuccini freschi, quella era la svolta.
Ad ogni modo, Franco era ormai abituato a vedere ogni tipo di faccia nuova e conosciuta perché non possedendo un telefono, la gente era costretta a venire di persona, come una volta.
Serviva davvero chiunque e con un sorriso sempre in faccia.
Questo andava avanti da anni e ogni giorno.
Arrivò però un giorno in cui si presentò un CLIENTE molto strano, anzi stranissimo quasi spaventoso…no, no: era PROPRIO spaventoso.
Portava una lunga veste nera e il viso era oscurato dal cappuccio.
Benchè Franco lo avesse salutato, il nuovo arrivato non aveva proferito parola, ma aveva puntato una grossa falce contro il fattore emettendo un sinistro sospiro: era il FALCIATORE di vite, il cupo mietitore, ma questo Franco non lo sapeva.
Pensando fosse semplicemente qualcuno che si era smarrito, esclamò: «Oh buon uomo, sembrate così malconcio: chissà che strada avete fatto. Mia moglie deve avere una vecchia cartina di questi posti, mentre vado a chiamarvela, gustate una fetta di pane burro e marmellata: è così buona che resusciterebbe un morto.»
Il cupo mietitore era sbigottito e stranito nel vedere l’uomo preparargli quella…roba, per poi andare a chiamare la moglie.
Decise comunque di sedersi: quel giorno aveva prelevato ben 48.576 vite, poteva aspettare qualche minuto.
Addentò quella cosa marrone, bianca e rossa con non curanza.
Immediatamente la sua lingua secca, che mai aveva conosciuto sapore diventò viva e ogni papilla gustativa festeggiava di quella sensazione sconosciuta.
Inutile dire che da quel giorno nessuno seppe mai dire quanti anni avesse Franco o la moglie, ma ciò che si seppe era che un tizio strano, vestito di nero era sempre il primo ad accaparrarsi il primo panetto della giornata.

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Capitolo 14
*** La nascita della mozzarella ***


Vi siete mai chiesti da dove nasca quel formaggio estivo che tanto amate?
Beh, sono qui per raccontarvelo.
Chi sono io? Sono un semplice VERME, ma quel giorno fui scelto per raccontare questa storia.
Era un’assolata estate di molto molto tempo fa.
Mi trovavo in un pascolo, intento ad uscire dal cunicolo sottoterra che mi ero costruito, riparato in superficie da una FOGLIA, perché a calura di quel giorno, non penetrasse anche nel mio angolino fresco.
Misi la testa fuori e notai una gran frescura, ma guardandomi intorno, capii subito che essa non poteva esser dovuta solo alla foglia da me scelta.
Spostai lo sguardo in alto e notai una creatura gigantesca: era nera con delle corna imponenti, che pascolava poco distante da me: era un BUFALO.
Non ne avevo mai visto uno prima e decisi di conoscerlo.
Poiché era intento a brucare l’erba mi misi il più vicino possibile al suo orecchio e con tutto il fiato che avevo in corpo, urlai: «Ehi Signore! Piacere! Mi chiamo Jules Verme»
Girò il suo volto e due giganteschi occhi neri puntarono verso di me: capendo la mia minutezza, il possente animale sussurrò gentilmente: «Piacere! Sono Bufalo Bill, arrampicati sotto il mio orecchio, così non devo stare piegato, mentre ti farò ombra.»
Così feci e in poco tempo vidi tutto quello che non avevo mai visto: io vedevo solo terra e fili d’erba, ma la vista di quel pascolo era bellissima: purtroppo il mio nuovo amico non sembrava felice.
«Sei triste Bill?»
«Sì, hai visto quell’uomo là infondo? È un mio amico, ma non ha amici umani: è timido. Ha come amici solo noi bufali e bufale»
«Ci vorrebbe una magia per aiutarlo. Hai mai sentito parlare della STREGA delle parole?»
«No»
«Un mio amico coleottero, ha conosciuto questa maga potente: se le regalerai le tue parole, può trasformarle in magia.»
«Farei questo ed altro per il mio amico.»
I due corsero dalla strega.
Il bufalo espresse il suo desiderio ad alta voce e donò alla strega le sue parole.
Per magia, da quel giorno, le bufale cominciarono a produrre latte, che il ragazzo poté lavorare per creare la MOZZARELLA di bufala.
Tutto il villaggio ne andò matto e pian piano, il ragazzo facendosi conoscere, riuscì a esprimersi con quelle parole che prima non aveva.
Il bufalo da quel dì poté esprimersi solo a muggiti, ma a muggiti di felicità nel vedere la gioia del suo vecchio amico, che mai lo abbandonò e del suo nuovo amico: me, che ancora racconto la sua storia.

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