Odore di stalle e competizioni

di Melisanna
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un vero fantino ***
Capitolo 2: *** Se solo fossi mio ***
Capitolo 3: *** La maschera ***
Capitolo 4: *** Schiacciare fiori sotto gli stivali ***
Capitolo 5: *** Che cosa aveva ancora da perdere? ***
Capitolo 6: *** La pelle si fa verde ***
Capitolo 7: *** Niente poteva salvarlo ***
Capitolo 8: *** Vicino che non m'ode ***



Capitolo 1
*** Un vero fantino ***


Questo racconto ha preso parte alla challenge May I write sulla pagina facebook Non solo Sherlock - gruppo eventi multifandom.

Questa serie di racconti, pur essendo tutti legati e coerenti fra di loro, possono essere letti singolarmente.

 
Un vero fantino

 
– Maledizione Jonathan, vuoi  prendermi in giro?

Le mani di Johnny si contraggono e stringono le redini. Cherrypie sbuffa infastidito e arretra di un paio di passi, Johnny allenta la presa. Le lacrime gli salgono agli occhi, si morde le labbra per trattenerle. Perché a suo padre non va mai bene niente? Cos’ha sbagliato stavolta? È certo di aver fatto tutto bene, ha trattenuto il cavallo fino all’ultimo rettilineo, perché non si sfiancasse, non ha mai sbandato, è restato saldo sui piedi, senza gravare sulla sella, ha preso tutte le curve alla perfezione… Ah, le curve! Spalanca gli occhi mentre realizza di essersi spostato all’esterno sulla quarta curva, mentre allentava le redini e dava di sprone allo stallone sauro per fargli prendere il rettilineo alla massima velocità. Ha perso qualche decimo, di sicuro, forse persino un intero secondo, forse di più.

– Hai completamente sbagliato l’ingresso nel rettilineo, cosa cazzo stavi pensando? Ti sei bevuto il cervello?

Il labbro gli trema, vorrebbe ribattere che non poteva fare meglio, è impossibile, che Cherrypie è nervoso oggi, che pesa sulle redini e che scarta al minimo stimolo. È colpa del tempo, Johnny ne è sicuro, di quel cielo nuvoloso e pesante come una lastra di piombo, di quell’aria greve in cui si fa fatica a respirare. Cherrypie è nervoso, non avrebbe potuto prendere la curva più stretta, non sarebbe riuscito a controllarlo. Ma sa che se provasse a parlare balbetterebbe, suo padre si accorgerebbe che è sull’orlo delle lacrime.

Si arrabbierebbe ancora di più. Piangi sempre Johnny, sei una femminuccia, un bamboccio, hai nove anni, sei troppo grande per questo. Tuo fratello è sempre stato il migliore fra voi due, aveva carattere lui, non come te, tu sai solo frignare. Pappamolla.

Si arrabbierebbe ancora di più, ma Johnny non riesce a impedire alle sue labbra di tremare e agli occhi di riempirsi di lacrime, perciò sta zitto. E poi a cosa servirebbe cercare di difendersi? Suo padre non gli crederebbe comunque, direbbe che Nicholas avrebbe fatto di meglio, che chiunque avrebbe potuto fare di meglio, anche se Johnny è sicuro che, no, non è possibile, che con Cherrypie così nervoso, non era possibile prendere la curva più stretta, avrebbe scartato e sarebbe stata la fine.

– Non so perché faccio la fatica di continuare ad allenarti, non vali niente come fantino, potrei scegliere qualsiasi ragazzino del circondario e farebbe meglio di te.

L’accusa è così ingiusta che Johnny non riesce a impedirsi di ribattere. È un bravo fantino, sa di esserlo. Nessuno poteva fare di meglio ne è sicuro.
– P-p-p-padre, n-n-n-on è così. Cherryp-p-pye è n-n-nervoso, è imp-p-p… imp-p-p-p… impossibile…

Mentre parla già realizza che avrebbe dovuto stare zitto, soprattutto non avrebbe mai dovuto pronunciare la parola che inizia per i, sa che la detesta. Il volto di suo padre diventa viola dalla rabbia, gli occhi spariscono sotto le sopracciglia cespugliose. Johnny si interrompe ancora prima che esploda, chiude gli occhi e aspetta che la sua furia gli si rovesci addosso.

Quando parla, però suo padre è calmo.

– Scendi da cavallo.

Johnny lancia una gamba oltre il dorso lucido di Cherrypie e si lascia scivolare giù. Questo è molto peggio.

- Non potevi fare meglio, eh? Era impossibile, eh? Tu – Si volta e indica uno dei ragazzi di stalla, che sta trascinando un secchio di mangime grande quasi quanto lui. È un ragazzino, ancor più minuto di Johnny. Johnny l’ha visto altre volte, i suoi vestiti sembrano stracci, non porta nemmeno le scarpe ed è sempre sudicio, tanto che non si capisce nemmeno di che colore abbia i capelli.

– Sali in sella e fai il tuo miglior tempo su un giro di pista – gli intima suo padre.

Il ragazzino lancia uno sguardo calcolatore a Cherrypie – Posso andare a prendere gli stivali, signore, per favore, signore?

– No, Johnny ti darà i suoi. Tanto a lui non servono a niente.

Johnny sente di nuovo le lacrime salirgli agli occhi, ma non vuole piangere davanti al bambino sudicio. Si leva gli stivali e glieli porge. Il bambino li prende con reverenza.

– Sono bellissimi – mormora – I miei non sono così belli.

– Ci posso giurare che non lo sono – sbotta suo padre con una risata e anche Johnny si lascia sfuggire un risolino. Il bambino sudicio cadrà alla partenza – Se riesci a fare meglio di Johnny sono tuoi.

Johnny non si preoccupa, non ha più neanche voglia di piangere, è impossibile fare un tempo migliore del suo. Di sicuro è impossibile per questo bambino sudicio. Forse Nick ci sarebbe riuscito, ma questo bambino no, mai. Suo padre capirà che ha fatto il meglio possibile e si scuserà con lui.
Il ragazzino si mette gli stivali e sale in sella. Almeno quello lo sa fare. Si china e accorcia le staffe: è ancora più basso di Johnny.  Cherrypie scuote le orecchie, sospettoso e arretra di un paio di passi. Il bambino gli sfiora il collo e gli mormora qualcosa, Cherrypie lo ascolta attento. Ma Cherrypie è nervoso, Johnny lo sa, è colpa del tempo, non basteranno due parole a blandirlo, scarterà e farà cadere il ragazzino alla prima curva. Lui non lo conosce, non come Johnny.

Si dirigono alla riga di partenza. Cherrypie scuote la testa, le froge frementi, sa di star per correre. È nervoso, Johnny lo vede. Il ragazzino è costretto a tenere le redini tese, per trattenerlo. Forse cadrà ancor prima della partenza. Johnny lo spera.

Ma suo padre dà il via e il ragazzino è sempre in sella e Cherrypie si lancia sulla pista con le lunghe zampe sottili che divorano il terreno. Sono partiti troppo veloci, Johnny ne è sicuro, Cherrypie non riuscirà a prendere bene le curve, così, e arriverà troppo stanco sull’ultimo rettilineo.

Cherrypie entra nella prima curva senza nemmeno rallentare e restando al centro della pista, il ragazzino chino sul suo collo, il volto che quasi affonda nella sua criniera. Escono dalla curva in perfetto equilibrio. Il ragazzino allenta appena le redini e Cherrypie si tuffa in avanti ancora più rapido.

Sono troppo veloci, Johnny ne è sicuro, sbanderanno sull’ultima curva, Cherrypie non riuscirà a prendere bene l’ultimo rettilineo. È nervoso, Johnny lo sa, colpa di quel tempo, del cielo pensante come piombo e dell’aria greve. Scarterà e farà cadere il bambino sudicio.

Ma Cherrypie prende l’ultima curva così stretta che quasi sfiora lo steccato. Lui e il ragazzino sudicio sembrano tutt’uno, escono dalla curva in assetto perfetto. Il ragazzino si china ancora di più, tutto il corpo proteso in avanti, come se potesse farlo correre con la sola forza di volontà e lo incita e Cherrypie  lo ascolta e accelera ancora mentre affronta il rettilineo.

Johnny li vede superare la linea di fondo a tutta velocità. Ma non è possibile, Johnny lo sa, è nervoso, colpa del tempo, avrebbe dovuto scartare all’uscita dell’ultima curva, far cadere il ragazzino sudicio o fargli perdere secondi preziosi. È impossibile.

Il ragazzino torna verso di loro, in sella a un Cherrypie rilassato e ancora pieno di energie. Le nuvole si aprono e Johnny realizza che, sotto il sudiciume, i suoi capelli sono biondi e risplendono alla luce del sole come oro pallido.

– Come sono andato, signore? – Chiede. E Johnny è sicuro che lo sappia benissimo.

Suo padre non risponde subito e quando Johnny si volta a guardarlo realizza che il ragazzino dai capelli splendenti ha sorpreso anche lui, anche se non vuol darlo a vedere.

– Puoi tenerti gli stivali. Sei un vero fantino, un talento, il primo che vedo da tempo. Forse dovrei adottare te, invece che cercare di insegnare qualcosa a questa pappamolla. Come ti chiami?

Il ragazzino sorride – Diego – risponde – Diego Brando.

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Capitolo 2
*** Se solo fossi mio ***


Questo racconto ha partecipato alla challenge May I write sulla pagina facebook Non solo Sherlock - gruppo eventi multifandom che è stato un ottima occasione per cominciare a scrivere su alcuni fandom a cui facevo la corte da tempo.


Se solo fossi mio

Diego si sciacquò il volto nella fontana. L’acqua era gelata, ma non sgradevole. Anestetizzava il dolore degli ematomi. Era stato stupido. Non parlare se interrogato era la prima regola. Come aveva potuto essere così ingenuo da credere che informare il padrone fosse una buona idea? Il piccolo, nervoso stallone con il buffo nome arabo era fuggito nel recinto delle giumente e quando avevano scoperto che aveva montato Darling Mary, Lord Wallgrave si era infuriato. Darling Mary era la sua preferita. Si era infuriato e se l’era presa con gli stallieri. E gli stallieri se l’erano presa con lui.

Era stato stupido.

Ma aveva imparato la lezione, così quando intuì che Darling Mary era gravida, non disse nulla. Aspettò che lo capissero da soli.

Lord Wallgrave arrivò con il veterinario un paio di settimane dopo e, quando emersero dalle stalle, aveva un’espressione funera dipinta sul viso.

– John, non pensa che possa davvero essere incinta di quel ronzino? Dovrò tenerla ferma per mesi!

– Il seme di un cavallo vale quello di un altro, Milord, la cavalla è indubbiamente gravida e se siete sicuro che non ha abbia avuto altri… intercorsi, temo che non ci siano altre possibilità.

– Per Dio, che spreco! Speravo di farla accoppiare con Cloudy Black.

– Suvvia, Milord, non sarà una tale disgrazia! Il padre è comunque un purosangue arabo, mi sembra di capire.

– Quel piccolo demonio! L’ha voluto acquistare mia figlia quando siamo andati a Suez. Bestia intrattabile, nessuno è mai riuscito a montarlo. Ho bisogno dei suoi puledri come di una muta di gatti.

A Diego dispiacque per Darling Mary, era una brava cavalla, quando la spostarono in un recinto isolato, con un rozzo capanno a farle da stalla. Si era solo comportata da cavallo, non era colpa sua se un ragazzino stupido si era lasciato sfuggire la cavezza di Juldin Rih’. A Diego dispiacque, Darling Mary non mordeva mai quando la strigliava e non gonfiava la pancia quando le stringeva il sottosella, ma non disse niente.

Aveva imparato la lezione.

Ma, quando venne la stagione, andò a raccogliere le piccole mele selvatiche che crescevano dietro la tenuta, per offrirgliele. Darling Mary le accettava cortesemente e le mangiava dal palmo della sua mano, solleticandolo con le froge vellutate, il calore del suo respiro che si irradiava lungo il braccio. Era una brava cavalla, a Diego era sempre piaciuta, non si meritava di stare lì. Diego la strigliava, anche se sapeva che il mantello color cannella si sarebbe impolverato appena finito in quel terreno brullo e le puliva i piedi, controllando che i sassi non si incastrassero nelle fessure degli zoccoli.

Quando il momento del parto si era avvicinato, Lord Wallgrave ordinò di spostare Darling Mary, era la sua preferita, neanche quella caduta dalla grazia poteva farglielo scordare e non poteva rischiare di perderla. Ma non era ancora disposta a perdonarla, perciò la fece sistemare in un’ala in disuso delle stalle.

Diego le gettava le mele asprigne dall’alta finestra sul retro e restava lì ad ascoltarla scrocchiarle sotto i denti.

Il puledro nacque la notte del decimo giorno. Fu mandato a chiamare il dottor Thompson e Lord Wallgrave assisté e con lui il fantino di Darling Mary e l’assistente del dottore e due stallieri e Miss Elizabeth, che era curiosa. Diego no, nessuno lo voleva fra i piedi.

Così non era presente, mentre nelle stalle riecheggiavano i nitriti angosciati di Darling Mary, né quando fu sparato il colpo di pistola che vi mise fine, né assistette quando il suo corpo fu portato via e condussero la vecchia capra bizzosa, perché facesse da balia al puledro, eppure, senza che nessuno glielo dicesse, seppe tutto lo stesso, come si sapeva sempre tutto su ogni evento che accadesse nelle stalle.

Seppe che Lord Wallgrave era infuriato e che solo la pietà di Miss Elisabeth aveva salvato il puledro, che il puledro era stato lasciato solo con la vecchia capra bizzosa, in quei vecchi box bui e cadenti e che nessuno gli aveva dato un nome. Che senso aveva dare un nome a un puledro che non sarebbe arrivato a fine mese?

Diego sentì il suo cuore di tredicenne farsi di pietra per il puledro che aveva portato via Darling Mary e non provò pietà per la sua sorte. Aveva voluto nascere a tutti i costi, anche se nessuno lo voleva, era responsabile di tutto ciò che gli accadeva. Non pianse, né quel giorno, né i giorni seguenti.

In fondo i cavalli muoiono. Anche i bravi cavalli. Anche i cavalli che non mordono mai quando li si striglia e non gonfiano la pancia quando gli si stringe il sottosella e accettano cortesemente le mele che gli vengono offerte. È normale.

Diego non pianse, ma un giorno, quando ebbe terminato tutti i compiti che gli erano stati assegnati e le ore di duro allenamento che li avevano seguiti e aveva riportato Sunset nelle stalle e si era preso cura di lui ed era così stanco che gli occhi li si chiudeva e quasi non si reggeva in piedi, Diego andò a trovare il puledro di Darling Mary.

Il puledro aveva lunghe gambe ossute e dinoccolate e lo studiava incuriosito con grandi occhi vellutati, allungando il muso sopra la porta del box. Diego gli vomitò addosso tutto il rancore che aveva covato in quei giorni, ma lo vomitò con tono dolce e cantilenante e gli strofinò le froge, perché con i cavalli si fa così e il puledro gli afferrò le dita con le labbra soffici, lasciandogliele viscide di saliva. Diego aprì la porta del box e scivolò dentro, chiudendosela alle spalle.

Il puledro gli annusò il viso, poi spinse forte la fronte contro il suo petto.  E qualcosa si ruppe dentro a Diego. Gli avvolse le braccia intorno al muso delicato e gli appoggiò il capo tra le orecchie, respirando il suo profumo di strame e pianse nella sua criniera argentea, mentre il puledro sbuffava delicatamente e gli tirava l’orlo della maglietta.

Pianse fino ad addormentarsi e la mattina seguente gli stallieri trovarono lui e il puledro accoccolati insieme, come due cuccioli della stessa cucciolata. E probabilmente sarebbe finita lì e il puledro sarebbe stato venduto com’era nelle intenzioni di Lord Wallgrave e Diego avrebbe continuato a fare il ragazzo di stalla e a montare i cavalli più anziani o riottosi, se uno degli stallieri non avesse pensato che l’immagine del ragazzino biondo addormentato tra le zampe del puledro argenteo, non avesse potuto solleticare l’immaginario poetico di Miss Elizabeth e Miss Elizabeth non si fosse intenerita a quella vista e non avesse pregato suo padre di lasciare che Diego si occupasse del figlio della cara Darling Mary.

E quando, tre anni dopo, Diego volò per primo oltre il traguardo della Royal Ascot, sapeva indicare con certezza il momento in cui la sua vita aveva avuto una svolta.

Quando, mentre piangeva abbracciato a un puledrino ancora instabile fra le gambe, aveva momorato:

– Se solo fossi mio, ti chiamerei Silver Bullet.

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Capitolo 3
*** La maschera ***


Questo racconto è stato scritto in occasione della challenge May I write, sulla pagina facebook Non solo Sherlock - Gruppo eventi multifandom
 
La maschera.

 
Mentre si avvicinava ai cancelli di partenza, Johnny vibrava di orgoglio. In mezzo a tutti quei Lord e Milord inglesi, lui era l’unico americano ed era il concorrente più giovane, con i suoi quattordici anni. Qualunque piazzamento sarebbe stato oggetto di ammirazione.

Non che si aspettasse qualcosa di diverso dal primo posto.

Gli inglesi impazzivano per il loro piccolo Lord biondo, ma Johnny li avrebbe riportati tutti sulla terra. Il ragazzino nobile poteva anche volare sulla pista come un angelo, a sentir loro, ma lui gli avrebbe insegnato come correva un demonio. Era così eccitato da non riuscire a star fermo sulla sella e Pearl Jam nitrì infastidito, scartando sulla sinistra. Johnny mantenne il controllo senza difficoltà, ma quando sollevò lo sguardo, il piccolo Lord Fautleroy lo stava fissando con aria condiscendente, come si guarda un bambino che fa i capricci in pubblico.

Johnny si sentì avvampare dalla rabbia. Gli avrebbe levato quell’aria sprezzante dalla faccia, appena fossero stati in pista.

Dieci giorni prima, quando era appena sbarcato dall’America e aveva iniziato a studiare il percorso, era scivolato e solo una mano che l’aveva prontamente sorretto per un gomito, gli aveva impedito di finire col culo nel fango.

– Fate attenzione, Mister. Quando piove, il terreno qui è insidioso. E qui piove sempre.

Gli era stato istintivamente antipatico fin dal primo sguardo, con la redingote di un turchese polveroso e la cravatta bianca da dandy perfettamente annodata e quel sorriso inutilmente cortese. Non aveva bisogno di aiuto, tanto meno da un ragazzino arrogante e spocchioso che gli diceva cosa fare, con quel forzato accento da gentiluomo.

L’aveva rivisto due giorni dopo, mentre stava sellando Pearl Jam per gli allenamenti. Ascoltava con espressione seria e intenta, un uomo elegante e severo dargli le ultime indicazioni prima della gara. Gli era stato ancora più antipatico quando una bella Miss dai capelli corvini, l’aveva abbracciato e gli aveva stampato un bacio su una guancia, sussurrandogli qualcosa all’orecchio.

Avery aveva seguito il suo sguardo e aveva annuito.

– Mr Diego, brutta bestia, con il padre e suo preparatore, Lord Wallgrave, uno dei più importanti allevatori di cavalli di tutta la Corona Unita. E non ti scordare della sorella, Miss Elisabeth Wallgrave, quella ragazza ha un occhio eccellente per i cavalli. Eccellente.

Johnny gli aveva rivolto un’occhiata incredula. Lord Wallgrave e Miss Elisabeth alti, bruni, con gli occhi infossati e il naso aquilino, non avevano neanche la più vaga rassomiglianza con il fantino biondo, minuto ed efebico.

Il suo allenatore aveva intuito la sua domanda silenziosa, perché aveva scrollato le spalle e aveva commentato – Adottato. Figlio di un lontano cugino, un certo Brando, scomparso in India.
Madre morta di parto. O qualcosa del genere. Chi ci capisce niente con queste manfrine da aristocratici.

A Johnny era stato ancora più antipatico. Non era neanche un vero conte, chi gli dava il diritto a guardare la gente dall’alto in basso?

Ma il momento in cui avrebbe avuto la sua rivincita si stava avvicinando. Diego Brando cavalcava un brutto cavallino palomino, mezzosangue arabo all’occhio esperto di Johnny, quasi troppo piccolo di statura per partecipare a un Derby. Avery l’aveva messo in guardia dal prenderlo sottogamba, ma Johnny era sicuro che, se anche il sangue arabo avrebbe potuto renderlo pericoloso sulle lunghe distanze, su un percorso più breve l’ampia falcata di Pearl Jam avrebbe fatto la differenza.

Al trillo della campanella, i cavalli si gettarono in avanti. Johnny spronò Pearl Jam per uscire dalla massa e restare nel gruppo di testa. Mantenne la posizione senza affaticare lo stallone, curandosi solo di non perdere posizioni e mantenere un distacco facilmente recuperabile dal primo.

Il gruppo di testa si allungò, mentre sempre più cavalli restavano indietro. Johnny recuperò terreno rispetto a Greenday che guidava la gara. Silver Bullet li seguiva sull’interno, ma Johnny era ormai sicuro che non li potesse raggiungere. Quel Brando non era niente di ché, Lord o non Lord che fosse.

Si preparò a fuggire in avanti, all’uscita dall’ultima curva e in quel momento, senza apparente sforzo, Silver Bullet passò avanti e si piazzò dietro i quarti di Greenday. Johnny diede di sprone, anche se una parte del suo cervello gli urlava che era troppo presto. Riuscì a mantenere composto Pearl Jam all’uscita dalla curva tenendolo praticamente insieme a forza di polpacci, ginocchia e braccia. Silver Bullet intanto scattava in avanti, superava Greenday dall’interno e iniziava per primo la fuga verso il traguardo.

Johnny frustò Pearl Jam e lo stallone si lanciò in avanti, forte delle sue lunghe zampe. Superò Greenday con la facilità che Johnny sapeva avrebbe avuto. Si chinò sul suo collo e si lanciò all’inseguimento di Silver Bullet. Erano solo tre lunghezze, lo avrebbe ripreso non era un problema, solo due, una, Pearl Jam aveva la testa all’altezza della sella di Brando.

Doveva solo superarlo. Un ultimo sforzo. Non era un problema.

Non lo era.

Eppure Silver Bullet rimaneva davanti e Johnny non riusciva nemmeno a capire come. Superarono il traguardo in un rombo di zoccoli frenetici, con Silver Bullet sempre in testa.

Johnny saltò giù da Pearl Jam schiumando di rabbia.

Brando gli si accostò, in sella a Silver Bullet, sfilandosi il cap.

– Complimenti, Mr Joestar. Ottima gara. Siete degno della vostra fama.

Johnny gli rivolse uno sguardo furibondo, cercando una risposta sufficientemente malevola. In quel momento un raggio di sole colpì i capelli d’ora pallido di Brando. E per Johnny fu come rivivere per una seconda volta lo stesso umiliante momento.

– Io… mi ricordo di te. Tu sei quel ragazzino. Lo straccione che si è preso i miei stivali.

Il viso di Brando si fece di pietra.

– Non so di cosa stiate parlando, Mister – commentò facendo voltare Silver Bullet.

Ma ormai era troppo tardi.

Johnny gli aveva levato la maschera.

 

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Capitolo 4
*** Schiacciare fiori sotto gli stivali ***


Questo racconto è stato scritto in occasione della challenge May I Write indetta dalla pagina Facebook Non solo Sherlock - Gruppo eventi multifandom

 
Schiacciare fiori sotto gli stivali

 
Appena Johnny aumentò la pressione dei polpacci, Golden Brown fuggì in avanti, lasciandosi alle spalle il gruppo di testa. Johnny si accosciò ancor più sulla sella e allentò le redini, lasciando che lo stallone prendesse velocità. Nelle orecchie gli vibrava il suono ossessivo degli zoccoli e il rombo del vento e il battito euforico del cuore. Si azzardò a lanciare uno sguardo sotto l’ascella verso i suoi inseguitori.

Silver Bullet stava uscendo a sua volta dalla massa di corpi, Brando quasi sdraiato sul suo collo, ma Johnny era davanti. Era in testa. Questa volta era in testa. Per la prima volta da quando lo conosceva, Johnny era in testa. Avrebbe interrotto la serie delle sue vittorie, questa volta non sarebbe riuscito a raggiungerlo, era troppo tardi.

Udì il battito degli zoccoli di Silver Bullet farsi più vicino e, con la testa che quasi gli girava dall’esaltazione, diede di sprone a Golden Brown per fargli mantenere il vantaggio e Golden Brown, le orecchie schiacciate contro il cranio, aumentò l’ampiezza delle falcate.

Avvertì, quasi più che vederlo, Silver Bullet che tentava di superarlo dall’interno. Sapeva che lo avrebbe fatto, se lo aspettava. Brando si sarebbe giocato il tutto per tutto. Johnny gli chiuse il passaggio stringendo verso la palizzata.

E Silver Bullet lo affiancò dall’esterno. Johnny colse in una sola occhiata il suo mantello dorato fluire sui muscoli guizzanti, la casacca turchese di Brando, i suoi guanti e i suoi pantaloni candidi, i capelli che si contorcevano dietro di lui e il suo sguardo intento, appuntato sulla linea di arrivo con una fissità famelica.

Johnny frustò Golden Brown ancora e ancora e Golden Brown azzannò il morso schiumando.

Silver Bullet lo superò implacabile, Brando che lo incitava. Johnny colpì freneticamente il purosangue, incitandolo, cercando di recuperare, tentando di restare spalla a spalla col palomino, ma le zampe sottili di Silver Bullet, quelle zampe sottili, dagli zoccoli come pugni di bambini, divoravano la pista sotto di lui e il mezzosangue arabo volò oltre la linea del traguardo con tre lunghezze di vantaggio.

La folla esultante si riversò in pista. Attorniò Silver Bullet e il suo cavaliere. Il pubblico festoso e elettrizzato si allungava per cercare di sfiorare il suo manto metallico, la folla che lo acclamava. Mani afferrarono la giubba turchese e trascinarono Brando giù dalla sella, lo portarono in trionfo.

Johnny, dall’alto del dorso fremente di Golden Brown, masticò rancore, il fiele della sconfitta che colava venefico nel magma rovente di rabbia, umiliazione e infelicità che ribolliva in lui da quando aveva incrociato il cammino con Diego Brando. Sentì le lacrime pungergli gli angoli degli occhi e strinse i pugni intorno alle redini, furioso contro la propria debolezza.

Gli assistenti arrivarono a prendere le redini di Golden Brown e Johnny smontò e si allontanò dando le spalle al palco, dove un ridente Diego Brando tirava la cavezza di Silver Bullet, tentando di fargli salire i ripidi scalini, mentre il cavallo gli brucava le maniche della giubba.

Mentre Johnny stava per uscire dal campo, udì uno scoppio di risa e si voltò appena in tempo per vedere Silver Bullet che strattonava le redini e Brando che cadeva dal palco, in mezzo alla folla, afferrandosi alla sua criniera. Brando gli lasciò le braccia al collo, ridendo contro il manto argenteo, mentre il mezzosangue gli sfiorava i capelli con le froge vellutate.

Johnny distolse lo sguardo di scatto, insultandosi per essersi voltato. Un dente di leone cresceva solitario tra la terra battuta e il muro di pietra delle stalle. Lo sguardo di Johnny si appuntò sui petali dello stesso oro dei capelli selvatici di Brando, sulle foglie dello stesso verde pallido dei suoi occhi. In un impeto d’odio schiacciò il dente di leone con la suola di cuoio dello stivale, il veleno del livore che gli risaliva in gola, amaro e bruciante. Se solo far sparire Brando fosse stato altrettanto facile. Invece ogni volta che pensava di averlo schiacciato, distrutto, sconfitto, Brando riappariva, imperturbabile come sempre, in sella al suo cavallo bastardo come lui. Con lo stesso sorriso arrogante, lo stesso sguardo altezzoso, le stesse parole sarcastiche sulla punta della lingua.

E vinceva.

Vinceva sempre.

Lui e Silver Bullet, i due figli prediletti del mondo d’oro insanguinato delle corse inglesi.

Si nascose dietro all’edificio delle stalle, così da poter piangere in pace. Aveva bisogno di sfogare la frustrazione e non voleva che nessuno lo vedesse. Era già abbastanza umiliante così. Aveva perso di nuovo, di nuovo sconfitto da un ragazzo di stalla che non sapeva nemmeno il nome di suo padre e da un ronzino di dubbia ascendenza. Avrebbe litigato con suo padre. Come se non litigassero già a sufficienza. Doveva cercare un altro cavallo, pensava che Golden Brown avrebbe fatto la differenza, un buon purosangue inglese arrivato direttamente dallo Yorkshire, non uno del ranch di suo padre, ma non era cambiato assolutamente niente.

Aveva sempre vinto! Sempre! O almeno molto spesso. Finché non si era scontrato con Brando e da quel momento la sua serie gloriosa si era interrotta impietosamente e non c’era stato più modo di risorgerla.

Quando si alzò in piedi e tornò alle stalle per controllare le condizioni di Golden Brown e dell’equipaggiamento era quasi l’imbrunire e l’ippodromo si era acquietato. Si udivano solo lo sbuffare dei cavalli, lo scalpitio degli zoccoli sulla paglia e un occasionale nitrito. Ma quando Johnny aprì la porta delle stalle, una voce familiare, che parlava a voce troppo bassa per essere compresa, disturbava la calma.

Diego Brando stava appoggiato alla porta del box di Silver Bullet, il capo biondo inclinato verso quello del cavallo e gli parlava, mentre il mezzosangue mangiava pezzi di mela dalle sue mani. Disturbato dal cigolio della porta alzò lo sguardo e incontrò quello di Johnny. Il mondo di Johnny si paralizzò, mentre l’ira lo invadeva.

Brando porse l’ultimo morso a Silver Bullet, si scosse i frammenti di mela dai pantaloni e si avvicinò alla porta.

“Joestar” mormorò, portandosi due dita alla fronte in un rapido segno di saluto, mentre gli passava accanto e faceva per uscire.

Johnny si riscosse dal torpore furioso che l’aveva invaso e, prima di capire cosa stava facendo, lo aveva afferrato per il collo del maglione, turchese, come la giubba con cui correva, e aveva alzato un pugno per colpirlo. E in quel momento vide il volto di Brando, sereno e ironico. Essere picchiato, che fosse da Johnny o da uno degli altri fantini, non era niente di più né niente di meno di quello che si aspettava.

Era una ragazzo bastardo con un cavallo bastardo che vinceva tutte le corse a cui partecipava.

Cos’altro poteva aspettarsi?

Johnny lo strattonò a sé e baciò il sorriso beffardo, mordendo le labbra rosee e quando lo spinse via gli occhi di Diego Brando erano spalancati in un’espressione confusa e impaurita. Durò solo un secondo, prima di venire rimpiazzata dalla sua abituale maschera sprezzante, ma Johnny l’aveva vista.

Avere il potere di trascinare fuori da Diego Brando quel bambino perduto era un potere che lo riempiva di esultanza. Forse era un vittoria meschina, ma era una vittoria.

Un antidoto al veleno che covava nel petto e gli faceva marcire le viscere.

Almeno questo, questo poteva farlo. Vedere quel suo volto fragile e inaspettato come un dente di leone in una crepa del terreno.

E schiacciarlo sotto gli stivali.

Quasi sorrise, mentre lo baciava di nuovo.

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Capitolo 5
*** Che cosa aveva ancora da perdere? ***


Racconto scritto in occasione della challenge May I write della pagina facebook Non solo Sherlock - Gruppo eventi multifandom
 


Che cosa aveva ancora da perdere?

 
Diego poteva indicare con assoluta esattezza il momento in cui si era accorto di essere innamorato di Johnny.
Non era stato quando l’aveva visto per la prima volta, bimbetto dal viso rotondo e dall’espressione arrogante, in sella a una giumenta baia, né la prima volta che avevano corso l’uno contro l’altro, poco più che fanciulli. Non era stato nemmeno la prima volta che avevano scopato, rabbiosi e famelici, rotolandosi nello strame.

Era stato un anno preciso dopo il ritiro di Johnny.

Diego era volato una volta di più oltre il traguardo, con un distacco di tre lunghezze dal secondo classificato. Aveva ritirato la coppa fra ali di folla adorante. Aveva lasciato che gli mettessero un mazzo di fiori fra le mani e incoronassero con altri fiori Silver Bullet. Si era prestato ai fotografi e aveva risposto con garbo ai giornalisti. Aveva bevuto champagne, stretto le mani ai gentiluomini e sorriso alle signore.

E dopo, mentre allentava la sella a Silver Bullet, non lasciava che nessun altro, mai, si occupasse di lui, mentre gli allentava la sella, aveva appoggiato la fronte contro il fianco sudato e aveva realizzato quanto si sentisse vuoto e insoddisfatto. Annoiato delle vittorie, del successo, persino del denaro. E quando si era chiesto cosa volesse invece, la risposta era stata lì, a portata di mano: voleva vedere Joekid. No, voleva Joekid.

Aveva preso quella rivelazione e l’aveva studiata come avrebbe osservato un’articolazione gonfia o un ferro allentato: con freddezza e attenzione, senza sottovalutarne i rischi, né esagerarne l’importanza. Aveva sempre derubricato i sentimenti per Johnny a una sana rivalità, tanto più soddisfacente in quanto dai loro scontri sapeva che ne sarebbe ogni volta uscito vincitore. Una sana rivalità condita da una violenta, divorante lussuria.

Niente a che fare con l’amore.

Non è che ritenesse di non potersi innamorare. Era pragmatico e razionale e, per quanto ritenesse di valere più della maggior parte degli altri esseri umani, non si considerava ontologicamente diverso. Non è che ritenesse di non potersi innamorare, ma si era sempre immaginato che, se fosse successo, sarebbe successo con una persona come sua madre, dal cuore gentile e l’animo buono e, soprattutto, che l’amasse a sua volta.

Qualcuno che l’amasse a sua volta, non Johnny il cui primo istinto era sputargli in faccia e il secondo prenderlo a pugni. Johnny, con cui non poteva mai fare la prima mossa, senza ritrovarsi col naso rotto o un occhio nero. Johnny, al cui fratello aveva consegnato le redini del cavallo che lo avrebbe ucciso.

Si era sempre immaginato che, se fosse successo, sarebbe successo con una persona come sua madre, dal cuore gentile e l’animo buono e, soprattutto, che l’amasse a sua volta, eppure, dopo più di un anno che non lo vedeva, dopo più di un anno dall’incidente che l’aveva lasciato paraplegico e un anno esatto dopo che si era ritirato per sempre dal mondo delle corse, Diego si era accorto di essere innamorato di Johnny. Johnny che non l’amava e non l’avrebbe mai amato, che l’odiava con una ferocia viscerale.

Voleva sentire il suo odore di fieno e di sudore equino, di cuoio e di sole, odore di stalla e di competizione, perché anche se Diego sapeva che doveva esistere una realtà di Johnny al di fuori delle stalle e delle competizioni, era una realtà a cui Diego non aveva accesso e ora che Johnny aveva abbandonato le stalle e le competizioni era perduto per lui, come e più che se fosse morto. Voleva sentire il suo odore e mordere la sua pelle dorata e stringere i suoi fianchi sottili, ma ancora di più desiderava poterlo guardare negli occhi mentre scopavano, guardarlo negli occhi come non aveva mai fatto, come non aveva mai osato fare per timore di quello che avrebbe potuto leggerci o forse per timore di quello che Johnny avrebbe potuto leggere nei suoi, baciare la sua bocca sprezzante e addormentarsi accanto a lui. Accanto a Johnny, che non gli aveva mai neanche permesso di abbracciarlo e Diego era sempre stato abbastanza prudente da non provarci. Accanto a Johnny che lo baciava solo quando quei baci si trasformavano in morsi che gli lasciavano le labbra sanguinanti e tumefatte. Accanto a Johnny che gli rovesciava addosso il suo rancore con ogni parola, ogni sguardo, ogni gesto.

A mesi di distanza da quella rivelazione, Diego, durante le sue notti insonni, continuava a fissare l’oscurità sopra di sé, rivivendo ogni singolo istante di quel momento, sperando ogni volta di scoprire di essersi sbagliato o, magari, poiché Diego era pragmatico e razionale e non riteneva che, se si fosse innamorato, avrebbe dovuto essere per sempre, non si riteneva ontologicamente diverso dagli altri esseri umani, solo superiore alla maggior parte di essi, di scoprire, magari, che quel sentimento si fosse attenuato.

E ogni volta l’istante in cui aveva appoggiato la fronte al fianco sudato di Silver Bullet si riproponeva uguale alla prima volta e negli occhi della sua mente Johnny rideva beffardo e irraggiungibile. E ogni volta si sentiva più vuoto e insoddisfatto. Annoiato delle vittorie, del successo, persino del denaro.

Perciò venire a sapere della Steel Ball Run e firmare per la sua partecipazione fu un tutt’uno, perché, in fondo, che cosa aveva, ancora, da perdere? Johnny Joestar era perduto per lui, come e più che se fosse morto.
 

 

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Capitolo 6
*** La pelle si fa verde ***


Racconto scritto in occasione della Challenge May I Write indetta dalla pagina Facebook Non solo Sherlock - Gruppo eventi multifandom
 
La pelle si fa verde
 

La pelle si fa verde, azzurra, con striature giallo acido, lunghe striature che si diramano dalla spina dorsale e avvolgono il torace, striature come quelle delle tigri, delle belve feroci. La pelle si fa verde, azzurra, striata e si squama. Squame affilate, piccole e compatte sul ventre, grandi placche solide sulla schiena e intorno agli occhi. Dolore, dolore, il dolore è terribile, si contorce cercando di scacciarlo, si afferra la testa fra le mani e le unghie lo feriscono con crudeltà inaspettata. Allontana le mani, le guarda con orrore, sono mani? le sue mani? La pelle si fa verde, azzurra, sfumata di giallo dalla punta delle tre dita, i palmi di un pallore malato, come il ventre di un pesce.

I cavalli nitriscono, terrorizzati. Silver Bullet è terrorizzato. L’unica certezza che ha sempre avuto si sfa come come un castello di sabbia al soffio del vento. I cavalli sono terrorizzati, terrorizzati da lui. I cavalli, i suoi unici, affidabili amici. I cavalli, i suoi compagni di sempre. I cavalli che quando lo vedono sbuffano contenti e gli afferrano le vesti con le labbra morbide, le froge vellutate che gli sfiorano la pelle pallida. Ma la pelle si fa verde, azzurra, striata di giallo e i cavalli nitriscono terrorizzati e si lanciano contro le porte dei box cercando disperatamente di fuggire.

Le ossa vengono strappate dalle articolazioni, schiacciate, allungate, incurvate, alcune svaniscono, altre se ne aggiungono. Dolore, il dolore è terribile, il mondo è una rossa cortina di dolore. Qualcuno lo faccia smettere. Urla, cercando di placarlo e il suo urlo è un ruggito che fa impazzire i cavalli. Si contorce e nella sua furia distrugge il divisorio vicino. La coda è mobile, massiccia e potente, lunga quasi quanto il resto del suo corpo. Ha sempre avuto una coda? La pelle si fa verde, azzurra, striata di giallo e i cavalli nitriscono terrorizzati.

Grida si levano nella notte, passi, gente accorre.

C’è una scheggia di lucidità nella sua mente, che lo avverte che è tempo di fuggire, ma i cavalli nitriscono terrorizzati e il dolore è terribile, il mondo in bianco e nero e ogni rumore gli trafigge il cranio. Da quando i rumori sono così forti?

I passi si fanno più vicini, la porta si spalanca.

C’è Johnny sulla soglia, lo guarda e Diego sa di essere un mostro, ha l’aspetto della belva feroce che è, una creatura primordiale che divora le sue vittime ancora vive. La pelle è verde, azzurra, striata di giallo, gli artigli neri e ricurvi, i denti, lame di coltello.

Ma Johnny lo guarda e chiude la porta dietro di sé. È bello come sempre, con le gambe così lunghe da sembrare alto anche se è minuto, il fisico asciutto, il volto lentigginoso da bambino. Il mondo è in bianco e nero, ma i capelli di Johnny risplendono ramati, i suoi occhi azzurri come il cielo estivo. Sorride.

Si avvicina e gli posa una mano sul collo possente.

“Sei sempre così melodrammatico” gli dice, mentre col pollice gli accarezza la mandibola.

Diego avvicina il muso ai suoi capelli soffici, ne aspira il profumo. Poi spalanca le fauci e affonda le zanne nella pelle delicata tra il collo e la spalla.

Il sangue caldo gli riempie la bocca, il sapore è inebriante.

I cavalli nitriscono terrorizzati.

Nella camera di albergo gli occhi verdi di Diego si spalancano. Sa che è stato un sogno, ma l’impressione che gli ha lasciato è così violenta da stringergli le viscere e lasciarlo ansimante e paralizzato. Resta fermo nel letto straniero, aspettando che la sensazione scemi.

Avrebbe dovuto capire subito che era un sogno, quando ha visto Johnny in piedi. O quando gli ha sorriso. Non rivedrà mai più Johnny in piedi e ci sono ancora meno probabilità che gli sorrida. Se prima il loro rapporto era burrascoso, adesso non è rimasto che un odio violento, per quanto unilaterale.

Il sogno allenta la presa sul suo corpo e Diego si mette lentamente a sedere sul letto. Il sudore gli ha appicciato i capelli biondi al cranio e spiovono in ciocche scomposte sul viso.

Sorride, di un brutto sorriso aguzzo e amaro.

Neanche nei sogni resiste alla tentazione di fare a pezzi ciò che ama.

 

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Capitolo 7
*** Niente poteva salvarlo ***


Questo racconto ha preso parte alla challenge May I write sulla pagina facebook Non solo Sherlock - gruppo eventi multifandom.
 

Nulla poteva salvarlo

 
Il fantino davanti a lui montava in modo improbabile, con entrambe le gambe raccolte e legate in un modo così scomodo e inefficace da dover essere stato una scelta obbligata. Non faceva leva sulle ginocchia e non utilizzava neppure i quadricipiti per sollevarsi dalla sella, se riusciva a non gravare sul dorso del cavallo era solo grazie a tecnica ed esperienza, ma non poteva, in quelle condizioni, gareggiare alla pari contro Diego; non in un ippodromo, dove Silver Bullet avrebbe staccato fin dalla partenza il suo robusto pony indiano, ma anche su un percorso lungo e accidentato come la Steel Ball Run, dove la resistenza delle cavalcature e la tattica dei cavalieri avevano tanto più valore.

Non stando in sella così. E l’uomo in sella all’appaloosa aveva troppa tecnica ed esperienza per non esserne consapevole, ma aveva ugualmente raccolto e piegato le gambe in quel modo scomodo ed inefficace, perciò non doveva aver avuto altra scelta. Non poteva usare le gambe, dovevano essere paralizzate, dalla nascita o per un incidente, le gambe tanto fondamentali per un fantino erano per lui un fardello inutile.

Senza poter usare le gambe, non era un avversario all’altezza di Diego. Senza difficoltà, riuscì a guadagnare terreno sul galoppo affaticato dell’appaloosa e a inserirsi nella sua scia che gli avrebbe permesso di raggiungere i due cavalli in testa, senza stancare inutilmente Silver Bullet.

Il fantino si chinò improvvisamente e l’appaloosa scalciò, accelerando. Una pioggia di ghiaino colpì Silver Bullet e Diego fu costretto a farlo scartare di lato per evitare che venisse colpito agli occhi. Il fantino non poteva usare le gambe, ma conosceva trucchi che Diego era convinto fossero limitati al ristretto mondo delle corse britanniche e li sapeva mettere in atto nonostante quelle gambe tanto fondamentali fossero per lui un fardello inutile.

Così Diego, non potendo restare nella sua scia, aveva dato di sprone per superarlo, prima di quando avesse previsto. Quando Silver Bullet lo aveva affiancato il fantino si era voltato verso di lui e lo sguardo di Diego aveva incontrato un lampo di blu ombreggiato da lunghe ciglia scure.

Era stato in quel momento che Diego aveva riconosciuto Johnny in quel fantino dalle gambe raccolte e legate in modo così inefficace.
L’aveva fissato senza riuscire a distogliere gli occhi, come ipnotizzato da quella figura uscita dai suoi sogni e dai suoi incubi. Johnny, era Johnny, che aveva creduto di non rivedere mai più, perduto per sempre, peggio che morto. Johnny che non era più asciutto e atletico come ai tempi delle competizioni e degli ippodromi, ma aveva sviluppato una muscolatura massiccia, così poco da fantino, nel torso e nelle braccia, mentre le gambe erano inutili accessori sottili e sgraziati. Johnny che aveva sempre un volto dorato da fanciullo cosparso di lentiggini aranciate, col naso delicato un po’ all’insù e gli zigomi che premevano contro la pelle e occhi di un blu profondo pieni di quella rabbia e quella fame e quell’autocompatimento che Diego aveva imparato a conoscere.

L’aveva fissato senza riuscire a distogliere gli occhi, quella figura uscita dai suoi sogni e dai suoi incubi, come acqua per un assetato. Aveva perso il tempo, strattonato le redini  e Silver Bullet si era appoggiato sul morso con sconcertata ribellione, aveva pesato sulla sella – che errore da principiante! – facendolo inciampare. Non era riuscito a distogliere gli occhi, troppo sconvolto di essersi trovato di nuovo di fronte Johnny, come sapeva che sarebbe successo fin da quando si era reso conto di essere così vanamente, così disperatamente innamorato di lui.

Si era cullato nell’idea che non l’avrebbe mai rivisto, che non avrebbe mai dovuto venire a patto con quei sentimenti che lo rendevano così stupidamente vulnerabile, che gli avrebbero fatto fare un passo falso, gli avrebbero sfilato la vittoria dalle mani. Non avrebbe mai più rivisto Johnny, separati com’erano dal suo infortunio che l’aveva strappato alle competizioni degli ippodromi, avrebbe continuato a sentirsi vuoto e disilluso e annoiato, ma avrebbe continuato a conquistare il potere e la ricchezza che gli permettevano di sopravvivere, di non finire schiacciato da un mondo malevolo e crudele. Ne era stato sicuro.

E invece aveva riconosciuto Johnny in quel fantino dalle gambe raccolte e legate in modo così inefficace e già la vittoria gli sfuggiva dalle mani, il gruppo di testa lo lasciava indietro, Johnny, così menomato, lo lasciava indietro. Lo lasciava indietro dopo avergli concesso solo uno sguardo di disprezzo e irrisione, perché gli era bastata un’occhiata per capire che Diego era così vanamente, così disperatamente innamorato di lui e ancora meno per rifiutare quei sentimenti. Lo lasciava indietro a portare il peso del suo disprezzo e della sua irrisione e del suo rifiuto.

E poi Silver Bullet aveva superato l’appaloosa e Diego non aveva guardato Johnny che per una frazione di secondo, non più di quanto avrebbe guardato qualsiasi altro fantino al momento di affiancarlo. Il suo corpo allenato non aveva perso il tempo, né strattonato le redini, né pesato sulla sella e le falcate di Silver Bullet si erano fatte sempre più ampie e rapide sotto la sua guida sicura. La vittoria non gli sfuggiva dalle dita, né il gruppo di testa lo lasciava indietro e Johnny faticosamente cercava di mantenere la sua andatura.
Allora Diego l’aveva capito. Se neppure quell’amore così vano, così disperato, poteva strappargli quel destino che si era da sé stesso intessuto, allora niente ci sarebbe riuscito.

Niente poteva salvarlo.
 

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Capitolo 8
*** Vicino che non m'ode ***


Vicino che non m’ode

 
Nel profumo aleggiavano le note dolciastre del caramello e quelle intense e calde del cioccolato e il ricordo rassicurante del pane appena sfornato, che sua madre cuoceva una volta al mese, quando era il suo turno di usare il forno della fattoria, quattro piccoli filoncini che bastavano a malapena a loro due, ma, oh, Diego non ricordava di aver mai mangiato qualcosa di altrettanto buono, da allora. E poi, ancora, riconosceva l’odore legnoso della nocciole e il sentore asciutto del tabacco e un aroma pungente, esotico che gli accese nella mente il ricordo di chiese e processioni e di incensieri d’argento che dondolava dalle mani di prelati in abiti cerimoniali e, in fondo, una punta cruda e metallica.

Era profumo di caffè, realizzò, anche se non si era mai accorto prima di quanto il caffè profumasse e di quante note, ricordi, odori, sentori, aromi contenesse. Era notte, era in pieno deserto e quello era profumo di caffè.

Aveva un ferita alla testa, che ancora sanguinava e i denti e la mandibola gli facevano male, aveva una tappa da concludere e una gara da vincere, ma non aveva mai desiderato tanto qualcosa, quanto una tazza di caffè. Avrebbe dovuto comunque fermarsi per la notte e chi mai avrebbe potuto rifiutargli una tazza di caffè?

Il profumo proveniva da una stamberga che doveva venire usata da chi attraversava il deserto come punto di appoggio, per riposare e lasciare le provviste. Diego lasciò Silver Bullet fuori dalla porta, allentandogli appena la sella, nel caso gli occupanti della baracca non volessero condividerla con lui per la notte, ed entrò.

Ovviamente nella stamberga da cui proveniva il profumo celestiale di caffè c’era Johnny Joestar, perché chi altri avrebbe potuto esserci dei miliardi di esseri umani se non l’unico che non avrebbe voluto incrociare? Chi se non l’unico di cui era così stupidamente, così dolorosamente, così disperatamente innamorato?

Jonny si reggeva faticosamente in piedi con l’aiuto di due stampelle e la sola forza delle braccia. Gli rivolse un’occhiata allarmata e Diego temette che avrebbe chiamato aiuto, ma si limitò a mettere il broncio – Cosa fai tu qui? Siamo arrivati prima noi. Non mi fido di te.

Diego registrò quel “noi” e controllò ogni muscolo del volto, per non abbassare lo sguardo, non mordersi le labbra, non deglutire – Volevo solo una tazza di caffè, me ne vado subito.

Johnny fece una smorfia. Non gli credeva, come non gli aveva mai creduto, qualsiasi cosa Diego dicesse o facesse, per Johnny era sempre stato un rivale e un nemico dalla prima volta che si erano incrociati – C’è una tazza lì, bevilo e vattene.

Diego guardò il tavolo davanti a sé e realizzò con sconcerto di non riuscire a mettere a fuoco. Vedeva che c’erano vari oggetti cilindrici e metallici, ma non riusciva a distinguerli. Ne afferrò uno a caso e si trovò tra le mani una latta di fagioli. La riappoggiò sul tavolo. L’odorato lo assicurava che lì davanti a lui c’era una tazza di caffè fumante, ma i suoi occhi si rifiutavano di collaborare.

- Che accidenti fai?

Diego si voltò a guardare Johnny che, accanto a lui, lo fissava con sospetto. Il suo odore di sudore equino e cuoio e sole e ostinazione era ancora più forte del profumo di caffè. Diego non poté impedirsi di riempirsene le nari. – Qual è la tazza? – chiese, cercando di mantenere qualche frammento di dignità e già sapendo quanto quelle parole sarebbero apparse ridicole.

– A che gioco stai giocando? È lì, di fronte a te! – Jhonny indicò col mento verso il tavolo. I suoi capelli d’oro rosso si mossero delicatamente attorno al suo viso. Diego riusciva a vederlo, non bene non come avrebbe dovuto, ma vedeva le sue palpebre che sbattevano, le espressioni del suo volto, gli aggiustamenti che il suo corpo doveva fare per restare in piedi.

Diego contrasse la mascella e si voltò di nuovo verso il tavolo. Continuava a non distinguere gli oggetti metallici. Allungò incerto una mano. Johnny, sbuffando, si appoggiò contro il piano, ne afferrò uno e glielo porse e in quel momento Diego vide che, sì, era una tazza di caffè, come aveva fatto a non rendersene conto prima.

L’afferrò e bevve temendo quasi che sparisse. Il caffè era buonissimo, non si ricordava di aver mai bevuto del caffè così buono.

Johnny gli levò la tazza di mano, Diego alzò lo sguardo verso di lui e incontrò i suoi occhi. Ti prego, no, non farlo, non di nuovo, non adesso, non riportarmi indietro. Lo pensò, ma non lo disse, perché non avrebbe mai implorato, mai e perché sapeva che sarebbe stato inutile. Johnny, ti prego, non farlo. Prima, quando non lo sapevo, potevo sopportarlo, adesso non più. Adesso non più.

Jonny si allungò verso di lui e gli afferrò la nuca con una mano, prima di baciarlo e Diego gli avvolse le braccia intorno alla vita e lo sorresse, mentre lasciava cadere la stampella e si appoggiava contro di lui e l’odore di Johnny lo sconvolse come lo sconvolgeva un tempo, ma, adesso che sapeva di essere innamorato di lui, così stupidamente, così dolorosamente, così disperatamente, ancora di più. Morse appena le labbra soffici e sentì la pelle spaccarsi sotto il suoi denti aguzzi e sentì nelle nari l’odore metallico e allettante del sangue.

Johnny si sciolse dal bacio e Diego vide la sua bocca da fanciulla, da bambino, piegarsi in un sorriso che evidenziava gli angoli piegati all’insù. Non lo fare, Johnny, non lo fare, lasciami andare. Johnny sorrise e disse, con un tono allegro che era una sentenza a morte – Con J.Lo. sarebbe meglio. Se solo volesse! – e lo baciò di nuovo.

Diego chiuse gli occhi e smise di pensare.

E quando li riaprì era un dinosauro.

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