A&A: Strane Indagini – “IN MORTE DI EDITH MAYER”

di Orso Scrive
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. ***
Capitolo 3: *** 2. ***
Capitolo 4: *** 3. ***
Capitolo 5: *** 4. ***
Capitolo 6: *** 5. ***
Capitolo 7: *** 6. ***
Capitolo 8: *** 7. ***
Capitolo 9: *** 8. ***
Capitolo 10: *** 9. ***
Capitolo 11: *** 10. ***
Capitolo 12: *** 11. ***
Capitolo 13: *** 12. ***
Capitolo 14: *** 13. ***
Capitolo 15: *** 14. ***
Capitolo 16: *** 15. ***
Capitolo 17: *** 16. ***
Capitolo 18: *** 17. ***
Capitolo 19: *** 18. ***
Capitolo 20: *** 19. ***
Capitolo 21: *** 20. ***
Capitolo 22: *** 21. ***
Capitolo 23: *** 22. ***
Capitolo 24: *** 23. ***
Capitolo 25: *** 24. ***
Capitolo 26: *** 25. ***
Capitolo 27: *** 26. ***
Capitolo 28: *** 27. ***
Capitolo 29: *** 28. ***
Capitolo 30: *** 29. ***
Capitolo 31: *** 30. ***
Capitolo 32: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo

 

 

Settembre 1903

 

 

«Edith…»

Il suono del suo nome, sulle labbra di Marta, era dolce come un balsamo. La ragazza si protese verso quella bocca meravigliosa per poter suggere quel suono, per smarrirsi nell’incanto di quel momento che il tempo avrebbe cristallizzato per sempre.

L’estate volgeva al termine. Le foglie sugli alberi cominciavano ad arrugginire, e stormivano adagio nel sussurro del vento ancora tiepido, profumato dalle acque del lago. Il prato era un drappo variopinto di quei fiori azzurri, rossi e gialli che si schiudevano ai sospiri dell’ultimo calore trattenuto dall’aria, quasi in segno di benvenuto per l’autunno venuta a bussare alle porte. Le stelle gettavano la loro malia su tutto il creato. La pallida luce della Luna trasmutava tutte le cose con un velo intriso di magia.

Quel prato che tante volte era stato il silenzioso e discreto testimone di quell’amore che sfuggiva a tutte le convenzioni, che si sottraeva alle catene in cui avrebbe voluto rinchiuderlo e annichilirlo il mondo intero. Non c’era altro, non c’era nulla, all’infuri di quel prato e di loro due, di Marta e di Edith, insieme nell’amore.

«Baciami ancora, Edith…»

Baci, carezze, sorrisi segreti. E sguardi. Perché c’era una forza irresistibile negli occhi di Marta, la stessa energia che Marta trovava in quelli di Edith. Occhi grigi che si abbeveravano in quelli nocciola, pietre preziose che sfolgoravano nel riverbero della pallida signora della notte, la loro complice, la favoreggiatrice dei loro amori di cui nessuno sapeva nulla.

Edith Mayer accarezzò il corpo caldo di Marta. Ne percepì la vita sotto i polpastrelli, sulla punta della lingua, nel contatto tra le loro pelli. Vi scivolò sopra, piano, amandone il misterioso segreto. Quel segreto che sarebbe stato solo suo, per l’eternità.

E fu il più bello e prezioso di tutti i boccioli di rosa, quello che le fiorì davanti agli occhi.

«Ti amo, Edith…» mormorò Marta.

«E io amo te, e ti amerò per sempre…» promise Edith, guardando i suoi occhi magici.

La sua voce era carica di una serietà adulta, di una consapevolezza che contrastava con le immagini ancora acerbe dei loro giovani corpi.

«Ti amerò in vita… e ti amerò in morte…»

 

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Capitolo 2
*** 1. ***


1.

 

Maggio 1946

 

«Ahahaha!!! Ahahaha!!! Noooo!!!»

L’uomo urlava e gemeva. Gridava e piangeva. Delirava. Rideva come un ossesso, prima di essere scosso da nuovi attacchi convulsi di risa. Attacchi a cui seguivano altre crisi di pianto, subito interrotte da eccessi di folle ilarità.

I suoi occhi erano spalancati, acquosi. Brillavano di follia. Si rotolava sul pavimento, si rialzava e correva avanti e indietro come per difendersi da una persona visibile solo a lui che cercasse di afferrarlo e fargli del male. Continuava a stringere le mani, cercando di pulirsele sulla sudicia camicia a righe, che lo inquadrava come internato numero 1612.

«Il suo sangue…! Ho il suo sangue sulle dita! Ahahaha!!! Ma non è morta, non è morta, non è morta, non è morta…!»

Fece per lanciarsi a capofitto contro la parete. Non ne avrebbe ricavato alcun risultato, essendo imbottite di piume e foderate di pelle. Ma i due infermieri prontamente accorsi nella cella lo bloccarono e, tenendolo stretto, lo schiacciarono contro il pavimento, immobilizzandolo.

Il dottore entrato dalla porta di metallo rimasta spalancata lo contemplò con il volto atteggiato a una vera sconfitta. Era un medico molto giovane, con capelli nerissimi tenuti a bada con la brillantina e baffetti sottili. Eppure, nonostante l’età, si capiva quanto avesse preso a cuore la sorte del suo paziente.

«Che peccato», sussurrò, scuotendo la testa. «Sembrava che avessimo fatto dei seri progressi, dopo aver provato a cambiare il metodo di cura…» Prese una stilografica d’oro dal taschino del camice bianco, svitò il tappo e scribacchiò qualcosa sopra un taccuino dalla copertina nera. «Temo che dovremo ricominciare con l’elettroshock, per quanto poco approvi l’uso di una tale tecnica.»

«Questo qui è un caso disperato», commentò uno dei due infermieri, sempre tenendo fermo il paziente, mentre l’altro preparava un’iniezione di calmante. «Ormai sono passati più di quarant’anni da quando lo hanno acciuffato – da quando ha ammazzato la figlia e un’altra ragazza, in pratica – ma dice di continuare a vederla. Lei lo ha perseguitato per tutto il tempo che è resistito in quella casa dove l’ha fatta a pezzi, e il suo ricordo o quello che è l’ha inseguito fin qui dentro. Non si sa bene per quanto tempo sia rimasto rinchiuso in quella casa a impazzire, con le visioni della figlia a tormentarlo di continuo, giorno e notte. Mesi, probabilmente, almeno a giudicare dalle condizioni in cui furono ritrovati i due cadaveri. Io avevo diciotto anni, mi avevano assunto da poco qui al manicomio, e fui tra quelli che andarono a prelevarlo e… be’, quella villa era diventata un luogo da brividi. Mi terrorizzava stare là dentro. D’accordo che ero uno sbarbatello e dovevo ancora farmi le ossa, ma… non era solo quello. C’era davvero qualcosa di sbagliato, in quel posto, e non parlo soltanto dei due poveri corpi. Ci credo che poi questo tizio finì col vedere i fantasmi. Non c’è alcun rimedio con lui. Mi sa che smetterà di vederla quando creperà.»

«Con tutti i barbiturici che gli abbiamo propinato in questi anni, dovrebbe ormai essere già morto da un pezzo, con rispetto parlando», disse l’altro, iniettando il calmante nella coscia dell’uomo. «Mi sa che ormai non morirà nemmeno più e resterà qui in questa clinica per sempre.»

Il dottore si strinse nelle spalle. Ascoltava sempre con attenzione le chiacchiere degli infermieri, specialmente dei più anziani. Lo aiutavano a capire parecchio, riguardo i suoi pazienti.

«Il caso della figlia di quest’uomo, a dire il vero, è interessante», ammise. «Parecchio interessante. Dovrebbe entrare di diritto nel novero degli studi parapsichici. Non è il solo a dire di averla vista, dopo la sua morte. Pare che anche altri, entrando in quella casa, l’abbiano incontrata. E non è stata una bella esperienza, visto che lei li ha fatti diventare matti.»

Il medico sollevò le sopracciglia e incontrò gli occhi scettici dei due assistenti. Si sentì in dovere di giustificarsi. Parlare di fantasmi e di visioni spiritiche non era ciò che ci sarebbe aspettati da uno psichiatra come lui, laureato di fresco a Pavia e specializzatosi nella psicanalisi a Vienna.

«Mi sono un po’ interessato alla faccenda per capire meglio il quadro clinico del mio paziente, tutto qui.»

I due infermieri si scambiarono uno sguardo e un sorrisetto. Il paziente si agitò sempre più debolmente, poi sprofondò in un sonno chimico. Finalmente, poterono lasciarlo andare e rimettersi dritti.

«Dottore, lei è giovane, è fresco di laurea, dovrebbe saperlo meglio di altri che i fantasmi non esistono…» commentò l’infermiere più anziano. «…sono tutte baggianate per intortare vecchi e creduloni, fargli credere di avere appiccicato addosso il malocchio e levarglielo a suon di soldoni.»

«Robe da vecchie zitelle», gli fece eco l’altro infermiere. Colpì piano con la punta della scarpa il paziente privo di sensi. «O robe da pazzi, appunto.»

Il medico fece un sorriso tranquillo.

«Certo, certo, avete ragione», asserì. «Sapete com’è, tra nevrotici, casi patologici e malati di mente, non faccio che ascoltare storie del genere dalla mattina alla sera. Presumo di non sbagliare troppo nel dire che, alla fine, si finisce per accettare in un certo modo tutto questo per impedirsi di crollare nell’abisso di cui sa rendersi capace la psiche umana. Eppure…»

Tacque un momento, mordendosi le labbra, e il suo tono divenne quasi sognante. Fissò il suo paziente, ma senza davvero vederlo. Il suo sguardo si perse nel vuoto, focalizzandosi su qualcosa che si trovava al di là dell’uomo addormentato, dei due infermieri, della cella, del manicomio criminale e del mondo intero.

Riprese, e la sua voce divenne più profonda.

«…eppure, signori, sono certo che non tutto sia ancora stato indagato e scoperto, riguardo al mondo che ci circonda. C’è qualcosa, oltre il velo, qualcosa che abbiamo disimparato a vedere quando i nostri antenati svilupparono i cinque sensi, all’inizio della storia umana. Abbiamo perduto la facoltà di vedere più in là – intendo più in là del mondo fisico. Forse, quella che ci circonda, quella con cui abbiamo a che fare giorno per giorno, è solo pura illusione, e la realtà – la vera realtà – è altrove, oltre quel velo… il velo di Maya, per usare le parole del grande Schopenhauer. Ma il sesto senso, forse… e dico forse… forse esiste davvero, e se riusciremo ad apprendere come adoperarlo, forse un giorno potremo squarciare le tenebre che si pongono tra noi esseri umani e quel qualcosa che chiamiamo aldilà, potremo penetrare il velo che ci è calato sugli occhi e dischiudere i nostri sguardi verso la vera realtà di tutte le cose.»

Fissò un istante gli occhi annebbiati e semichiusi del paziente. Si domandò che cosa vedessero davvero. Forse quegli occhi avevano veramente oltrepassato il limite degli esseri umani.

Alzò lo sguardo e incontrò quelli imbarazzati dei due infermieri. Si rese conto di aver appena detto cose che, sulla bocca di un medico, non avrebbero mai potuto trovare posto. Era il momento di chiudere quella breve e strana parentesi. Doveva tornare a calarsi nel suo ruolo di psichiatra e dimenticarsi di tutto il resto.

«Ma ora basta con i forse», disse, riprendendo il tono pratico. «Non sarà così che spereremo di curare questo poveraccio. Tenetelo d’occhio e, se dovesse avere un’altra crisi, lo porteremo all’elettroshock. Mi dispiace dover ricorrere a questi metodi drastici e a mio avviso barbari e superati, ma se non c’è modo di calmarlo, io devo attenermi alle disposizioni della direzione.»

«Dottore, dia retta a me», disse l’infermiere più anziano, con un mezzo grugnito, «lei non può saperlo perché a quell’epoca non era nemmeno nei pensieri dei suoi genitori… ma se lei avesse visto come aveva ridotto quelle due poverine… poco più che bambine, mi creda, due fiorellini innocenti e delicati che non poterono mai sbocciare come avrebbero meritato… non solo non lo compatirebbe, ma – mi scusi il linguaggio volgare – gli applicherebbe elettrodi anche al buco del culo, a questo scarto umano.»

Il medico fece un sogghigno amaro e non commentò quelle parole. L’etica professionale glielo impediva. Girò le spalle alla cella e uscì nel lugubre corridoio del manicomio.

Era un uomo di scienza, la sua fede posava su granitiche basi materialiste. Il resto, gli avevano insegnato, erano chiacchiere e aria fritta per sciocchi superstiziosi, nulla di più. Non c’era nulla da vedere oltre il velo, perché – in poche parole – non c’era nessun velo oltre cui guardare: questo era lo scientismo, questo era l’atteggiamento che tutti si attendevano da parte sua, questo era ciò che ci si aspettava di sentire dire da un uomo laureato, da un medico e da uno psichiatra come era lui.

Eppure, mentre camminava, il dottor Joseph Bernasconi non poté fare a meno di pensare a tutte le storie che erano circolate negli anni, a tutti quei racconti a tratti orripilanti che erano seguiti alla morte di Edith Mayer.

E forse, si disse aggiungendo un altro forse alla sfilza che aveva già enumerato, forse tutte quelle storie agghiaccianti erano state create per non pensare al modo ancora più agghiacciante in cui era finita quella povera giovane, ammazzata senza pietà e senza alcuna colpa dal suo stesso padre.

 

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Capitolo 3
*** 2. ***


2.

 

 

Ottobre 2011

 

 

«Un libro sui fantasmi?» domandò il bibliotecario, un omone grande e grosso, ma con uno sguardo antipatico che stonava con il suo aspetto. Squadrò la ragazzina. «I vostri professori, in quella scuola, non hanno nulla di meglio, da farvi leggere?»

Scosse il capo lanuto, in segno di esasperata disapprovazione.

Valeria, in piedi davanti al bancone della biblioteca comunale, si sentì diventare ancora più piccola di quanto già non fosse. Tuttavia, cercò di vincere il turbamento che l’aveva colta e di rivolgere all’uomo un sorriso, quasi in segno di scusa.

«Devo fare una ricerca, ma non sui fantasmi fantasmi», precisò. «Sui fantasmi visti dal punto di vista clinico… studiati dagli psicologici, queste cose così. È per scienze sociali. Io frequento il Liceo delle Scienze Sociali…»

L’omaccione la scrutò per un istante di troppo, come se stesse cercando di dare un senso ai suoi capelli tinti di uno sgargiante blu elettrico, alla sua cuffietta di lana arancione e alla sua felpa sformata verde e grigia, che sembrava potesse contenerle almeno tre, di lei.

Si alzò.

«Settore parapsicologia», grugnì, schifato. «Vieni con me.»

La condusse attraverso vari reparti, passando tra gli scaffali pieni di libri. Le sue falcate erano tanto lunghe che la ragazzina doveva quasi mettersi a correre, per riuscire a stargli dietro. Ovunque regnava il silenzio sacrale, quasi cimiteriale, che permea sempre le biblioteche. Anche se fuori la giornata era uggiosa e grigia, Valeria non vedeva l’ora di uscire da quel posto. Le sembrava di avere messo piede in un antro oscuro… un antro di cui quel bibliotecario simile a un orco era l’unico abitante. O, meglio, non l’unico. Di quando in quando, tra uno scaffale e l’altro si imbattevano in un tavolo dove sedeva qualche studente universitario chino sui libri e sui fogli d’appunti. Personaggi amorfi, ingobbiti e dall’aspetto cadaverico, per i quali non esisteva nulla all’infuori delle parole che leggevano, delle nozioni che apprendevano e degli esami che si apprestavano a dare. La luce al neon che emanava dalle lampade appese al soffitto aumentava il loro aspetto di zombie. A vederli, a Valeria passò tutta la voglia che, fino a quel giorno, aveva avuto di iscriversi all’Università, una volta terminate le scuole superiori.

Infine, si fermarono in un’area ancora più tetra e scura della biblioteca. A giudicare dalla polvere sugli scaffali, non doveva essere molto frequentata.

«Qua c’è la roba di esoterismo, paranormale e parapsicologia», grufolò il bibliotecario, con l’aria di stare avendo una molesta indigestione. Sembrava quasi che prendesse come un insulto personale il fatto che qualcuno avrebbe potuto leggere – per non parlare di chi aveva perso tempo prezioso a scriverli – roba del genere. «Di preciso, che titolo ti serve?»

Valeria si strinse nelle spalle.

«Mah, non so», disse, con una vocina piccola piccola. «Il professore ha detto di leggere uno studio sulla parapsicologia per capire come funziona, non ha specificato quale.»

«Certo, perché anche lui si vergogna ad assegnare roba del genere», sbottò il bibliotecario. Lanciò uno sguardo agli scaffali, bofonchiando le sgradevoli parole: «A certa gente dovrebbero togliere la laurea, altro che permettergli di insegnare.» Alzò la voce. «Toh, prendi questo.»

Infilò la mano nella scansia più vicina e ne fece uscire un libro. Lo scelse completamente a caso e lo buttò senza nessun riguardo tra le manine protese di Valeria. Un libro abbastanza vecchiotto, un’edizione economica dalla copertina bianca, con i lati sgualciti e i bordi ingialliti. La ragazza lanciò solo un breve sguardo alla copertina che il tempo aveva patinato – oltre a una banda nera verticale che ne attraversava sulla sinistra una grigia orizzontale, che era stato il massimo che qualche copertinista svogliato fosse riuscito a concepire, vi era scritto “In morte di Edith Mayer – Studi, analisi e osservazioni di un fenomeno parapsichiatrico, di J. Bernasconi” – e poi tornò a sollevare il naso verso la figura sgraziata del bibliotecario.

«Hai un mese per leggerlo e restituirlo», grufolò quello, «anche se, se te lo tieni, mi fai soltanto un favore.»

Valeria pigolò in contemporanea un saluto e un ringraziamento e poi sgusciò via in fretta, senza fermarsi nemmeno per sfilare dalle spalle lo zaino nero e infilarvi dentro il libro.

 

* * *

 

Sull’autobus di linea, mentre tornava a casa, la cartella contro le gambe e le cuffiette del lettore mp3 nelle orecchie – «Ti voglio tanto bene, e ci sarò per te, se sentirai nel cuore, un amore che non c’è», stava cantando la Gianna – Valeria tirò fuori il libro e cominciò a sfogliarlo. Diede un’occhiata all’indice e poi, girando in fretta i fogli ingialliti e macchiati di umidità vicino ai margini, saltò subito alla pagine centrali plastificate, dove erano raccolte alcune fotografie, tutte in bianco e nero.

La prima mostrava l’autore della ricerca, il professor Bernasconi, un uomo dallo sguardo severo, con un paio di enormi baffi da tricheco, di circa sessant’anni; considerato che l’edizione che lei aveva tra le mani risaliva agli anni ‘80, ormai il professore doveva essere molto anziano, sempre ammesso che fosse ancora vivo. Valeria trovava sempre divertente e affascinante fantasticare sulla sorte degli autori con cui si approcciava, qualunque ne fosse l’opera: come per gli attori del cinema, trovava straordinario che un uomo potesse maturare, invecchiare e morire, lasciando però di sé un erede non biologico destinato a sopravvivergli e a portare il suo nome a persone che mai si sarebbero nemmeno sognate di poterlo sentire nominare. In un certo senso, pensava, scrivere un libro era come sconfiggere la morte e vivere per sempre, o perlomeno molto più a lungo di quanto stabilito dalle leggi della natura.

«...troppo tempo che ti aspetto,

è troppo tempo che ti voglio,

tu sai di costa sto parlando

mi fa sentire bene

persino il silenzio

intorno a me...» stava intanto cantandole la Laura nelle cuffie.

La seconda immagine, invece, mostrava due ragazze molto giovani, ritratte in una città di montagna in riva a un lago, con abiti dell’inizio del secolo precedente. La didascalia diceva che quelle erano “Edith Mayer e Marta Bonofede nella loro unica immagine insieme, scattata nell’estate del 1903”.

Valeria fissò lo sguardo senza tempo delle due fanciulle, che sorridevano in eterno attraverso la pagina, inconsapevoli che una di loro due sarebbe senza dubbio morta di lì a breve. Non aveva letto ancora nulla, del libro, ma bastava averne visto la copertina e il titolo per sapere che quella Edith sarebbe finita male nel giro di poco tempo. Come mossa da un istinto irresistibile, fece scorrere il dito sul viso della fanciulla che presunse essere Edith. Provò a fissare dentro quello sguardo ammantato di tempo e tentò di captarne i pensieri, le sensazioni, le emozioni. Chissà se, in un certo senso, la fotografia era riuscita a rubare qualcosa di ciò che la giovane donna aveva dentro di sé per trattenerlo per sempre sulla carta.

Valeria guardò, guardò…

«Signorina, siamo al capolinea, deve scendere», disse all’improvviso una voce maschile al suo fianco.

Come colpita da un pugno invisibile, Valeria si riscosse e staccò gli occhi dalla fotografia. Guardò stralunata il controllore che le faceva cenno di alzarsi e poi lanciò uno sguardo confuso fuori dal finestrino. Era buio e le luci dei lampioni illuminavano una zona industriale che non ricordava di avere mai visto in vita sua. Nelle cuffie non aveva più Gianna Nannini e Laura Pausini, ma soltanto il silenzio. Il suo lettore aveva finito di riprodurre l’ultimo brano della raccolta e si era messo in stand-by.

«Ma…» disse interdetta.

Provò a riconnettere la mente. Un istante prima era pomeriggio – un pomeriggio uggioso, con qualche gocciolina di pioggia che striava i finestrini della corriera – e stava guardando la fotografia di Edith, ascoltando le sue canzoni preferite. Subito dopo quell’uomo l’aveva chiamata ed era notte ormai fatta, e non c’era nessuna musica a tenerle compagnia. I vetri erano ancora bagnati, ma non pioveva più.

Guardò il controllore con aria smarrita.

«Ma non siamo a…?» disse il nome della sua destinazione.

L’uomo sgranò gli occhi.

«Quella fermata l’abbiamo passata almeno due ore fa!» disse, stupito.

Valeria sentì montare dentro di sé una marea di lacrime. Le ricacciò all’indietro a fatica.

«Oddio, che figura, devo essermi assopita!» esclamò, parlando in fretta e a voce alta perché il controllore non notasse il suo disagio.

«Suvvia, non è la fine del mondo», tentò di consolarla l’uomo. «Noi dobbiamo mettere l’autobus in deposito, ma se lo desidera possiamo chiamarle un taxi…»

«Non c’è bisogno», disse lei, in fretta. «Ho il telefonino, chiamerò mio papà perché venga a prendermi. Solo… potrebbe dirmi la via in cui siamo?»

Più tardi, mentre aspettava nel cono di luce arancione di un lampione, la cartella su una spalla e le mani infagottate nelle tasche del giubbotto, sbattendo i piedi sul cemento crepato del marciapiede per combattere il freddo dell’autunno, Valeria si disse certa di non essersi addormentata. Aveva continuato a fissare quegli occhi, come se vi avesse visto dentro qualcosa di unico, e si era… sì, si era dimenticata di esistere.

Per quanto assurdo fosse pensarlo.

Quegli occhi l’avevano catturata e l’avevano trasportata altrove.

Be’, concluse, avrebbe avuto qualcosa di interessante da inserire nella sua ricerca per scienze sociali.

 

* * *

 

Quella sera, Valeria ebbe di nuovo la tentazione di prendere in mano il libro e dare un’altra occhiata alla fotografia che le aveva cagionato quella misteriosa e inspiegabile reazione.

Quando era tornata a casa, erano quasi le ventuno ed era stanca morta. Le sembrava di aver addosso il peso di due vite intere… e dire che, quella mattina, a scuola, c’erano state tre ore di supplenza, e nel pomeriggio non aveva fatto nulla di più che entrare in biblioteca e sbagliare fermata dell’autobus. Nulla che potesse giustificare la stanchezza che si sentiva in corpo. Così, controvoglia, aveva piluccato giusto qualcosa dal piatto che sua madre le aveva tenuto in caldo. Aveva soltanto voglia di andarsene a letto.

«Sei molto pallida», aveva detto la mamma, mettendole la mano sulla fronte. «Non scotti, ma c’è in giro l’influenza e quest’anno pare sia più forte… farai meglio ad andartene a nanna…»

Valeria non stava aspettando altro.

E così aveva fatto. Si era lavata i denti, aveva infilato il pigiama e si era buttata sotto le coperte. Nonostante la stanchezza, aveva scoperto molto presto di non riuscire a chiudere occhio. Continuava a rivedere le due ragazze, e in particolare rivedeva Edith, e quando la vedeva si sentiva accelerare il cuore, mentre uno strano calore le accarezzava tutto il corpo, come se fosse una persona conosciuta, un’anima perduta e ritrovata…

«Ridicolo!» sbottò a un certo punto.

Si girò dall’altra parte e cercò di dormire.

Non ci riuscì.

La tentazione divenne necessità.

Scivolò fuori dalle coperte e appoggiò i piedi nudi sul pavimento. Quel contatto freddo le procurò un brivido che le risalì lungo la spina dorsale. Accese la lampada sul comodino e si alzò in piedi.

Il libro era rimasto nella cartella, che aveva sbattuto senza troppo cerimonie sotto la scrivania, accanto a un pallone da volley che si trovava lì da tempi immemorabili. Senza fare caso ai cantanti che la seguivano dai poster incollati con lo scotch alle pareti – i Green Day erano praticamente ovunque, una costante irrinunciabile – si accucciò accanto allo zaino e rovistò fino a trovare il libro.

Lo aprì quasi in preda al parossismo.

Non poteva più aspettare.

Doveva… doveva guardare quegli occhi…

 

* * *

 

Il mattino seguente, visto che non si alzava da sola, la mamma era venuta a vedere che cosa stesse combinando, per dirle che avrebbe fatto tardi a scuola. L’aveva trovata semisvenuta sotto la scrivania, con il libro scivolato poco più in là.

Dopo averla visitata e aver concluso che non avesse nulla che non andasse, il suo medico aveva prescritto una settimana intera di riposo.

 

* * *

 

Ma Valeria non poté riposare, in quella settimana.

Almeno, non bene come avrebbe voluto il dottore.

Finché era sveglia e faceva altro, andava tutto bene. Si sentiva piuttosto in forma, solo appena un poco stanca. Nessuna traccia di febbre o di qualche altro malanno. Non appena prendeva in mano il libro per provare a leggerlo, però, finiva immancabilmente per volare a quella fotografia, e stava di nuovo male. Si sentiva peggio che mai, tanto che dovette chiedere a suo padre di riportarlo in biblioteca senza che avesse letto neppure una riga per la sua ricerca per scienze sociali.

«Sembra un libro interessante», commentò il papà, sfogliandolo.

«Meno di quello che sembri», replicò lei, a disagio.

Non vedeva l’ora di sbarazzarsi di quel libro. Era certa che la causa di tutto quello che le stava capitando fosse in quelle pagine – anzi, in quella fotografia – e aveva concluso che, sbarazzandosene, sarebbe guarita del tutto da qualunque cosa le fosse capitata.

Sarebbe bastato questo.

Solo che questo non bastò.

Ormai l’immagine delle due ragazze era impressa in lei, qualcosa di profondo e radicato, che non se ne sarebbe più andato.

Ed Edith Mayer cominciò a farle visita in sogno.

Nei sogni, però, Edith le si rivolgeva chiamandola Marta. E Valeria, dopo poco tempo se ne rese perfettamente conto, trovava del tutto normale che lei la chiamasse in quel modo. Ma Edith la chiamava da lontano, e Valeria – o Marta che fosse – si struggeva e si disperava perché non riusciva a raggiungerla. Anche lei la chiamava. La invocava in modo disperato. Cercava di correre da lei, di afferrarla, ma più si avvicinava e più Edith si allontanava. Entrambe allora piangevano, e gridavano, finché Valeria si svegliava nel cuore della notte, ansante e madida di sudore, con il cuore che batteva impazzito.

Dormire, ormai, stava diventando un’impresa sempre più difficile. Valeria era spossata, eppure cercava di resistere il più a lungo possibile, prima di addormentarsi: non voleva precipitare di nuovo in quell’incubo. Ma non poteva vegliare all’infinito. Alla fine, il suo corpo cedeva, le palpebre si facevano pesanti e lei scivolava di nuovo nel sonno.

Peccato solo che il suo non fosse più un sonno ristoratore come avrebbe dovuto essere.

Edith veniva a visitarla sempre più spesso, ma questo non cambiava la situazione: restava sempre irraggiungibile, figura intangibile e inafferrabile, e tutto si riduceva a una cupa disperazione. E allora Valeria – o Marta, come ormai si chiamava nei sogni – urlava e piangeva, finché si risvegliava, con le lenzuola attorcigliate contro il corpo stanco e bagnato.

La ragazzina sperò che tutto quanto si sarebbe esaurito da solo nel volgere di qualche giorno soltanto.

Non accadde.

I sogni continuarono a tormentarla, Edith ormai non l’abbandonava più. Si palesava subito dopo che i suoi occhi si erano chiusi. A volte, si faceva largo persino nel dormiveglia, senza nemmeno attendere il sonno profondo.

Da questo derivarono ansie e frustrazioni che si riflessero sulla sua vita di tutti i giorni. Infine, dopo aver sopportato per tre mesi quella situazione, Valeria si risolse a chiedere aiuto a uno specialista. Aveva perso quindici chili, si era smunta e scolorita, e la sua vita sociale era ridotta praticamente a un nulla totale.

Quello la visitò, la fece parlare, cercò di sondare i suoi pensieri.

«Sei stata suggestionata, nulla di così anormale, alla tua età», le spiegò, con fare sicuro. «Posso prescriverti un leggero antidepressivo. E ti consiglio di fare una cura vitaminica per rimetterti un po’ in forma. Cerca di mangiare di più, sei in una fase dello sviluppo molto delicata, non puoi dimagrire così. Ma non crucciarti più. Vedrai che, con il sopraggiungere della primavera e poi dell’estate, il disturbo sparirà del tutto.»

Così come aveva detto lo specialista, la primavera arrivò e passò, e così fece l’estate, e dopo vennero l’autunno e l’inverno; gli anni si sommarono gli uni agli altri, e Valeria da ragazzina divenne una donna. Una donna che si portava ormai sempre appresso una scatola di antidepressivi molto forti ed era costretta a lottare giorno per giorno con l’idea terribile e allo stesso tempo allettante di farla finita e porre termine una volta per sempre a quella vita impossibile.

Perché Edith continuò a chiamare Marta durante i suoi sogni, e mai una volta lei riuscì a raggiungerla.

 

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Capitolo 4
*** 3. ***


3.

 

 

Novembre 2021

 

 

«Te l’avevo detto che qui era carino!» trillò Aurora Bresciani, guardando fuori dal finestrino appannato – e parecchio graffiato – della vecchia Fiat Punto blu.

La macchina stava superando un piccolo e stretto ponticello che solcava un ruscelletto che scorreva in mezzo ai boschi spogli e nebbiosi. Il paesino in cui entrarono era poco più grande di un gruppetto di case addossate le une alle altre, come se si tenessero su a vicenda per resistere in quell’angolo quasi dimenticato di mondo.

«Non ho mai messo in dubbio nemmeno per una volta le tue capacità di scegliere una meta turistica», la apostrofò Alberto Manfredi, smettendo di tamburellare con le dita sul volante per scalare la marcia e poter affrontare una curva abbastanza stretta in mezzo agli antichi edifici di pietra.

Tenente e sottotenente avevano deciso di concedersi una breve vacanza insieme dopo che il loro comandante – il colonnello Iannaccone, un omaccione burbero e dall’aria marziale, che non faceva altro che pretendere, pretendere e pretendere e di rado dispensava licenze, millantando guai a non finire che non potevano attendere nemmeno mezza giornata per essere risolti – aveva incredibilmente acconsentito a concedere loro qualche giorno di riposo.

In fondo, Alberto e Aurora si conoscevano da moltissimo tempo, da molto prima di arruolarsi insieme nel Nucleo Tutela del Patrimonio Culturale dell’Arma dei Carabinieri; ogni tanto, quindi, piaceva a entrambi rituffarsi nel passato e trascorrere qualche spensierato giorno in solitudine, senza un solo pensiero per la mente.

«Ma non più di quelli che abbiamo concordato», aveva abbaiato Iannaccone al telefono. «Abbiamo un mucchio di casi e di indagini da portare a termine, ci sono stati un sacco di furti di opere d’arte e bisogna sorvegliare numerosi siti archeologici. L’organico è ridotto ai minimi termini, i fondi sono quelli che sono e il maresciallo De Crescenzo, lo sapete, comincia ad avere una certa età, e non si può più pretendere troppo da lui. Insomma, mi servite qui e vi sto davvero dando un premio enorme, e solo perché vi siete impegnati parecchio ultimamente. Quindi, riposatevi per i giorni che ho detto, ma se sgarrate di un solo minuto vengo a recuperarvi in elicottero! E il combustibile lo pagate voi!»

Iannaccone era uno degli uomini più tirchi del pianeta.

Manfredi aveva sudato freddo al solo pensiero di dover aprire il portafogli. Anche lui, in fatto di braccino corto, non aveva troppi rivali. Inoltre, con quel suo innato senso del dovere che Aurora considerava poco meno che ripugnante, avrebbe quasi voluto rinunciare alla breve vacanza per correre a mettersi a completa disposizione del colonnello. Lei – intuendo le sue intenzioni – glielo aveva impedito, rubandogli il telefono di mano e chiudendo in modo repentino la comunicazione.

«Non se ne parla proprio», aveva sbottato. «Già mi hai fatto passare una notte di Halloween di merda…»

Alberto aveva sogghignato.

«Ma se ti ho persino fatto incontrare il demonio in persona, con corna, coda, forcone e tutto il resto!»

Lo aveva detto cercando di ridere per mascherare lo sgomento e il terrore che lo coglievano al solo ricordo di essersi trovato a così breve distanza dal Signore dell’Inferno. A volte si diceva di averlo soltanto sognato. Purtroppo, sapeva bene che non era affatto stato un sogno. Poteva soltanto sperare, per il futuro, di non ripetere più una simile esperienza: con i demoni infernali non voleva averci nulla a che fare. Mai più. A lui competevano ladroni, falsari e tombaroli: delle altre cose, che se ne occupasse il reparto dell’Arma deputato. Sempre che esistesse.

Aveva qualche dubbio, in proposito.

«Sarebbe stato un bell’Halloween se il diavolo mi avesse lusingata e portata a letto, per prendermi in modo infernale – e io gliel’avrei mollata volentieri, a quel manzo – oppure se avesse ingaggiato con me una lotta senza riserve», commentò Aurora. «Starmene appostata in quel tuo cesso di macchina puzzolente non è esattamente quello che avevo in mente. Per cui, adesso si fa come dico io!»

Il che, nei fatti, si era tradotto andarsene in vacanza dove voleva lei.

Adesso, dopo aver percorso tutta quella strada, tra tornanti e saliscendi, per arrivare in quel luogo sperduto di cui non ricordava nemmeno il nome, Alberto avrebbe voluto sottolineare che, il suo cesso di macchina, anche se malmessa e maleodorante, ancora una volta, li aveva portati a destinazione senza problemi.

Ma io mica te lo dico.

Non aveva voglia di bisticciare proprio adesso che erano arrivati.

Invece, si limitò a domandare: «Come hai detto che si chiama, quell’affittacamere? E quanto costa? Nel senso, non è che ci spenna, vero? Sai, con quella miseria che chiamano stipendio…»

Aurora alzò pericolosamente le sopracciglia.

Ahia…

Meglio cambiare subito argomento.

«Che poi, mi dico…» si affrettò a borbottare, «chi è che dice ancora “affittacamere”? Insomma, siamo nel terzo decennio del terzo millennio, se è sfuggito a qualcuno, mica nel 92 avanti Cristo. B&B è troppo moderno, per questo tizio?»

Stavolta, Aurora ridacchiò.

«La Tana di Orso», rispose. «E non affitta solo camere, comunque. È prevista anche la colazione e volendo pure il pranzo e la cena.»

«Ecco, allora dovrebbe proprio cambiare nome, se no è una frode e…»

Lei allungò la mano e gli mollò un’allegra pacca sulla gamba.

«Ehi, Manfredino, siamo in ferie, finiscila di fare lo sbirro ligio al dovere, per un po’! E non dimenticare che tu non sei un finanziere, quindi non metterti a rompere i coglioni con robe che nemmeno ti competono!»

«Ahio! Stai ferma con quelle zampacce, o andremo a sbattere…»

Non ci volle molto per individuare il posto che stavano cercando. Del resto, il paese era composto da poco più che tre vie che si incontravano in una minuscola piazzetta – dove c’era un monumento in memoria dell’unico caduto che il luogo aveva offerto alla Patria nella Grande Guerra – e da un paio di vicoletti dove sarebbero a stento passate due biciclette affiancate. L’unico cartello stradale che videro fu quello che indicava un parco di divertimenti che doveva sorgere nelle vicinanze. Comunque, per arrivare all’affittacamere, non ebbero bisogno di cercare troppo a lungo.

Scoprirono che la loro destinazione, un tempo, doveva essere stato un fienile, riadattato a struttura ricettiva. Sul davanti, c’era uno spiazzo sassoso, dove era parcheggiata soltanto una macchina, che doveva essere quella del proprietario. Alberto fermò la Punto accanto a quella.

«Bene, eccoci arrivati», disse.

Attraverso il vetro appannato, scrutò l’edificio rimodernato. Sopra la porta, era appesa un’insegna di legno verniciata di blu, su cui capeggiava la scritta “La Tana di Orso”. Sotto, più in piccolo, si leggeva “Affittacamere – Sono benvoluti tutti i clienti”.

«Vedi che persona educata?» disse Aurora, accennando con la testa alla scritta. «E tu vorresti già fargli una multa, brutto piedipiatti che non sei altro.»

«Io non voglio fargli una multa…» grugnì Alberto.

«Tu sei sbirro dentro, Manfredino.»

Perché, tu che cosa cavolo saresti? Una pazza scatenata?

Anche questo non lo disse. Ci teneva alla propria incolumità.

Aprirono le portiere. L’aria era fredda, satura di umidità. Dal terreno si stavano levando leggere volute nebbiose. Davano l’impressione di eterei fantasmi protesi verso le loro vittime, come a volerle catturare per trascinarle in una dimensione irreale.

Aurora si guardò attorno. Fissò le spire nebbiose, scrutò i profili delle case antiche e risalì con lo sguardo lungo i versanti boscosi che circondavano come in un abbraccio eterno il piccolo centro abitato.

«Questo luogo ha qualcosa di strano», sussurrò la giovane donna. «Mi sembra di essere stata catapultata in un altro mondo, in un’altra dimensione… come se avessimo varcato un passaggio.»

«Magari», borbottò Alberto, girando attorno all’automobile per affiancarla, «è uno di quei posti dove esistono mostri pieni di tentacoli, in stile Lovecraft. Magari senti un botto nel bagagliaio della tua macchina e, all’improvviso, ne schizza fuori un tentacolone, viscido e pieno di ventose… be’, io te lo dico, siamo ancora in tempo a prendere e andarcene… ci troviamo un altro posto per passarci le vacanze…»

Aurora gli tirò un pugno scherzoso sul braccio.

«Non dire idiozie, Manfredino», lo rabbonì. «Ho guardato su Google, questo affittacamere ha un mucchio di recensioni positive. E poi ormai ho prenotato, che figura ci faremmo? Non mi pare che questo tizio stia facendo grossi affari, in questi giorni. Forza, sbrighiamoci a entrare, piuttosto: qui fuori mi si sta congelando persino la figa, e non voglio trovarmi a pisciare cubetti di ghiaccio, stasera.»

«Riesci sempre a essere così raffinata e delicata», commentò lui. «Una vera donzella vittoriana.»

Si fermarono davanti al bagagliaio della Punto e, per un istante, esitarono. Tesero le orecchie, ma non sentirono nulla. Niente botti o tentacoli che strisciavano nell’oscurità del baule.

Aprirono.

Dentro, c’erano soltanto i loro zaini.

Recuperati i bagagli, andarono alla porta dell’affittacamere. La ghiaia umida dello spiazzo scricchiolò sotto le suole delle loro scarpe. Cric-cric. Suonarono il campanello. Per quasi tre minuti, non successe assolutamente nulla, tanto che cominciarono a pensare che non ci fosse nessuno.

«Forse dovremmo provare ad andare a vedere nella casa sul retro…» cominciò a dire Manfredi.

In quell’esatto momento, la porta venne spalancata e davanti a loro apparve un tizio magro e un po’ ciondolante, con capelli e barba castani lunghi e arruffati. Non sembrava avere idea del funzionamento di un pettine. Portava un paio di occhiali dalla montatura dorata e indossava jeans scoloriti e felpa nera, dalla quale spuntava il colletto di una camicia a quadri.

Manfredi non poté fare a meno di domandarsi se fosse un nerd o un pazzo sclerato, o magari un serial killer, o tutte e tre le cose insieme.

Lì scrutò per un momento quasi con spavento. Poi dischiuse le labbra in un sorriso e tese la mano.

«Voi dovete essere Alberto e Aurora», disse, con voce sottile e un po’ impastata. «Io sono Orso. Benvenuti nella mia Tana.»

 

* * *

 

Orso registrò i loro nomi su un antiquato quaderno dalla copertina di pelle nera. L’interno dell’affittacamere era caldo a arredato in maniera alquanto bizzarra. Il pavimento era coperto da una moquette con disegni che potevano essere cavallini o peni con tanto di scroto pendulo: Manfredi non seppe decidersi.

Di certo, è la roba di più cattivo gusto che abbia mai visto in vita mia, si disse.

Alla pareti rivestite di perline di legno chiaro erano appesi quadri da pochi soldi che raffiguravano paesaggi montani, mucche, orsi, uccelli rapaci – civette, barbagianni, gufi, assioli – e altri animali del bosco. Altri quadri parevano raffigurare strane e variegate scenette. In uno, si vedeva un cacciatore che si tuffava a pesce in quello che sembrava un vero e proprio mare di ortiche. Un’altra tela, dall’aria parecchio naif, mostrava una coppietta – nuda e coperta di sangue – che massacrava un tizio a coltellate. Il quadro era appeso un po’ storto. Un terzo dipinto raffigurava un commesso viaggiatore che guardava con aria terrorizzata quella che sembrava essere la porta tetra e spaventosa di un ascensore. Il tizio aveva Paperino appollaiato sulla spalla, come una specie di coscienza. Manfredi, per qualche istante, si interessò a studiare nei dettagli una tela che mostrava un giardiniere impegnato in una lotta all’ultimo sangue con delle palme assassine armate di motosega. Il giardiniere stava avendo la peggio e non si era reso conto che un tagliaerba impazzito lo stava attaccando alle spalle. Frenò a stento la tentazione di gridargli di voltarsi e di fare attenzione.

A guardare tutti quegli strani quadri ci sarebbe stato da perdersi. Alberto decise di ignorarli e continuò a guardarsi attorno, stranito da quell’ambiente assurdo. Un tavolino d’angolo accoglieva una collezione di orsacchiotti di peluche. Uno degli orsetti aveva una penna in mano. E sopra un grande camino acceso e scoppiettante era appesa, quasi come un trofeo, una vecchia roncola.

«Quella è Bloody», presentò Orso, seguendo lo sguardo perplesso di Alberto.

«Ah», fece lui.

Un nome un programma?, gli avrebbe voluto domandare, ma Aurora, che come sempre sembrava in grado di leggergli nel pensiero, lo fulminò con lo sguardo.

«Venite», disse Orso, uscendo da dietro il banco. «Vi mostro la vostra stanza.»

Senza smettere di ciondolare nemmeno un istante, li condusse lungo un breve corridoio e poi su per una stretta rampa di scale. Si fermò davanti a una porta e fece scattare la serratura. Dopo aver aperto, si scostò per lasciarli passare.

L’interno della camera profumava di pulito. Un grande letto matrimoniale aveva la testiera rivolta contro la parete. Un armadio a doppia anta vi si trovava proprio di fronte. Un tavolino, una sedia e un mobiletto con sopra il televisore completavano l’arredamento. Una porta accanto all’armadio immetteva in un piccolo ma funzionale bagno.

«Spero che vi troverete bene, nella vostra tana», disse Orso, con un sorriso. «A volte penso che dovrei fare qualcosa per rendere più accoglienti queste camere…»

«Ci troveremo benissimo», assicurò Aurora, con un largo sorriso.

Lo stomaco di Manfredi brontolò sonoramente. Questo gli ricordò che era dalla mattina che non mettevano nulla sotto i denti.

«Scusi, signor…»

«Datemi del tu e chiamatemi solo Orso», precisò lui.

«Certo, ehm… Orso…» fece Manfredi. Si sentiva vagamente a disagio, vicino a quella persona. Come se si trovasse a tu per tu con qualcuno di davvero proveniente da un altro mondo. «Ehm… volevo chiederti, dove potremmo andare per mangiare?»

«Se cercate un posto per mangiare, da queste parti, potete stare pure certi di morire di fame, a meno di non farvi una quarantina di chilometri per scendere in città», rise Orso. «Ma se vi accontentate di una cucina non troppo raffinata, posso ospitarvi io a casa mia.» Accennò alla finestra. Oltre la cortina ormai fittissima di nebbia, si intravedeva una vecchia casa. «Io abito lì. Sarebbe un piacere avervi a cena!»

«Non vorremmo disturbare…» tentennò Aurora.

«Ma quale disturbo e disturbo», la interruppe Orso. «Sono sempre lì da solo con il mio gatto. Gli parlo insieme, ma tra tutti e due non siamo esattamente due principi della conversazione. Ogni tanto, un po’ di compagnia non può che farmi bene. Per una sera, almeno, non starò lì a deprimermi da solo tra libri e computer.»

Aurora e Alberto si consultarono con lo sguardo. Il viaggio gli aveva messo fame. E nessuno di loro avrebbe avuto voglia di rimettersi in macchina per cercare una trattoria. Di sicuro, Orso non avrebbe cercato di avvelenarli, lo sentivano. Soprattutto perché non avevano ancora saldato il conto.

«Sei davvero molto gentile, grazie», disse Aurora.

«Ottimo!» esclamò Orso, sinceramente contento. Riprese subito il suo tono lento e quasi impercettibile. «Allora vi lascio soli, vorrete lavarvi e riposarvi un po’. Quando siete pronti, basta che scendete dabbasso, prendete la porticina sul retro e venite a bussarmi alla porta.»

Con un ultimo sorriso, uscì dalla stanza e richiuse la porta.

 

* * *

 

Rimasti soli, Aurora si lasciò cadere di schiena con le braccia spalancate sull’ampio letto – il materasso emise un cigolio esasperato sotto il suo peso. Alberto – sudato e infreddolito, perché guidare gli dava sempre quella leggera tensione che gli inzuppava gli abiti – cominciò a spogliarsi.

«Guarda che bel lettone tutto per noi, Manfredino», sospirò Aurora. «Vedrai quante belle robe inaspettate, che ti farò fare qui dentro.»

Alberto diventò rosso come un pomodoro maturo e cercò di evitare di guardarla.

«So già come andrà», bofonchiò. «Russerai come un trombone come al solito e non mi farai chiudere occhio per tutta la notte.»

«Quanto sei scemo!»

Manfredi si strinse nelle spalle e cominciò a sbottonare la camicia.

«Be’, ora ho proprio bisogno di farmi una doccia, guidare mi ha distrutto. Cercherò di fare in fretta.»

«Sarà meglio, perché ho una fame da lupi. Quindi muovi il culo e non impiegarci più di cinque minuti, altrimenti vengo a prenderti per le palle e ti trascino a casa del nostro amico Orso così come sei.»

Alberto non poté fare a meno di farsi scappare un ghigno amaro.

«Ah, è già nostro amico?» chiese. «A me dà l’aria di uno psicopatico.»

Aurora fece un sorrisetto.

«Proprio perché è uno psicopatico mi piace. Sai che noia, la gente normale? Non hanno nulla di interessante da farti scoprire. E intanto, Manfredino, ti avviso che i tuoi cinque minuti di doccia sono già diventati quattro.»

Senza aggiungere altro, il tenente schizzò dentro il bagno e cominciò a far scrosciare il getto dell’acqua calda.

 

* * *

 

Il profumo che li accolse quando entrarono in casa di Orso fu davvero invitante. A dispetto della sua pretesa di non essere un granché ai fornelli, sembrava che avesse preparato qualcosa di davvero succulento.

E infatti, dopo averli fatti accomodare, dispose nei loro piatti delle belle e saporite polpette di carne impanate, con contorno di zucca al forno.

Prima di mettersi a sedere insieme a loro, Orso stappò una bottiglia di lambrusco e ne versò tre bicchieri.

«Bene», disse. «Allora brindiamo a questo incontro…»

Alberto, di per sé, era abbastanza timido, e mai avrebbe offeso qualcuno. E tuttavia, non riuscì a trattenersi dal domandare: «Così, per curiosità, come sapevi che non siamo astemi…» guardò le polpette, «…e nemmeno vegani? Di vegani, al giorno d’oggi, ce ne sono in giro davvero tanti, persino troppi. E hanno la tendenza a offendersi, se non li si prende in considerazione come desiderano.»

Per un istante, un sorriso misterioso aleggiò sulla labbra di Orso. Parve che in lui ci fosse una consapevolezza profonda, un’autentica conoscenza di tutte le cose. Quando si erano presentati alla sua porta non aveva avuto necessità di domandare se fossero i due clienti che avevano effettuato la prenotazione, e ora sembrava conoscere alla perfezione anche i loro gusti culinari. Fu solo un istante, comunque. Il sorriso misterioso lasciò il posto a un’espressione imbarazzata.

«Oh, ho tirato a indovinare», si schermì. «Ma se non volete le polpette, vi assicuro che la zucca è cotta con l’olio d’oliva, del tutto vegana… e di là ho quattro o cinque casse di acqua minerale, se il vino non vi va…»

«Va tutto benissimo!» si affrettò a dire Aurora, sferrando un calcio sotto il tavolo a Alberto. «Perdona il tenente, Orso: è uno sbirro ed è abituato a inquisire la gente, sempre e comunque. Se potesse, metterebbe tutti quanti sotto torchio, in ogni momento. Il suo più grande cruccio è che abbiano abolito i metodi dell’inquisizione spagnola per far parlare i sospettati, altrimenti ci darebbe dentro alla grande.»

Alberto e Orso si scambiarono uno sguardo e a un tratto si sorrisero entrambi con aria serena.

«Ero solo curioso, non volevo certo dire nulla di male», si scusò Manfredi. «Anzi, ottima pensata le polpette, sono uno dei miei piatti preferiti. E pure la zucca mi fa impazzire, in questo periodo. Anche se è raro trovarne una davvero dolce…»

«Questa lo è», assicurò Orso, mettendosi a sedere. «È di Mantova», aggiunse, come se questo avesse messo un sigillo alla questione.

Finalmente tutti e tre sollevarono il bicchiere di lambrusco e bevvero a quel loro incontro.

Per qualche istante mangiarono in silenzio, accompagnati da quel silenzio un poco imbarazzato che si crea tra persone che si conoscono per la prima volta. Poi, però, riscaldati dal lambrusco – un autentico lambrusco frizzante di Modena – cominciarono a sciogliersi e a lasciarsi andare alle confidenze.

«Allora, ho visto dai vostri documenti che siete Carabinieri», disse Orso, rilassandosi contro lo schienale della sedia. «Che cosa vi porta, da queste parti? Solo vacanze, o c’è in ballo qualcosa? Se posso domandarlo, ovvio…»

Manfredi fece un cenno affermativo. Fu Aurora a rispondere.

«Ci siamo voluti prendere una pausa», spiegò Aurora. «Erano mesi che non avevamo un giorno di licenza. Ultimamente, poi, ci sono capitate delle cose leggermente assurde… volevamo staccare un po’, tutto qui. Così abbiamo scelto questo posticino tranquillo.»

Alberto rivide di nuovo il diavolo che parlava con Ceccarelli.

Leggermente assurde

Rabbrividì. Si protese un poco in avanti verso Orso.

«È tranquillo, vero?» quasi implorò.

Il padrone di casa si lasciò sfuggire una risatina.

«Oh sì, certo che lo è: quando non arrivano ragazze con gli abiti insanguinati, mostri pieni di verruche e di tentacoli o pazzi che controllano a loro piacere il tempo, qui è sempre tutto tranquillo. Non succede mai nulla, in pratica.»

Tra tenente e sottotenente passò uno sguardo. Ansioso quello di lui, elettrizzato quello di lei. Orso se ne accorse.

«Sto scherzando!» rise. «Questo è il posto più anonimo e insulso che conosca, ve lo posso assicurare. Certo, c’è Villa Mayer, però non conta davvero, no? In fondo, quella è nel bosco, un po’ fuori dal paesino.»

Un guizzo attraversò lo sguardo di Aurora.

«Villa Mayer?» domandò.

«Si dice che ci siano i fantasmi», rispose Orso. «Leggende, dicerie… se volete dopo vi racconto. Raccontare è il mio hobby preferito.»

Alberto ingurgitò l’ultimo boccone di carne.

«Inventi storie?» domandò.

Orso arrossì, imbarazzato.

«Be’, a dire il vero le scrivo… poi, qualche volta, capita che qualcuno le legga. Ma non pensate che ci faccia i soldi, eh… quella è pura illusione, anche se ogni tanto mi piacerebbe poter dire che vivo grazie a ciò che più amo fare… avete presente Steven Spielberg, quando disse che lui, per lavoro, sogna? Ecco, magari fosse così…»

Aurora si chinò verso di lui quasi a sfiorarlo.

«Che genere di storie?» chiese. «Ora sono curiosa!»

Orso si prese del tempo per finire di spazzolare la zucca che gli restava nel piatto. Non sembrava molto propenso a rispondere a quella domanda. Ormai, però, il dado era stato tratto.

«Uhm… fino a qualche tempo fa scrivevo storie dedicate a un personaggio del cinema, un avventuriero con frusta e cappello, sono sicuro che sappiate a chi sto alludendo, in questi stessi giorni stanno girando un nuovo film su di lui, non vedo l’ora che esca al cinema, anche se di recente lo hanno spostato di un altro anno, mi tocca aspettare fino alla fine di giugno del 2023… vabbe’. Non fa differenza. Il tempo passa più in fretta di quello che si creda», borbottò. «Poi però ho smesso con lui, mi sentivo troppo legato, ho voluto creare dei personaggi tutti miei, come in passato. E… be’, guardate, non vi dico chi sono, come si chiamino o che cosa facciano, i personaggi con cui mi do da fare adesso, perché tanto non mi credereste.»

Li guardò di sottecchi e fece uno strano sorriso. Prese il bicchiere e lo scolò in un solo sorso.

Alberto e Aurora restarono in attesa che riprendesse il discorso, ma Orso non sembrava intenzionato a ritornarci sopra.

«Vi va un dolce?» disse, invece. «Non ho granché… ho i biscotti che prendo quando bevo il tè al pomeriggio, oppure qualche tavoletta di cioccolato… fondente, al latte… bianco no perché non mi piace… avrei potuto prendere una torta, visto che venivano ospiti, non ci ho pensato…»

Alberto si batté sullo stomaco.

«Per me più niente, grazie», disse. «Era tutto buonissimo e sono pieno che scoppio.»

«Nemmeno per me, ma grazie mille uguale», gli fece eco Aurora.

«Oh, be’… allora…» Orso si guardò attorno. «Allora vi offro un goccio di vecchio Jack. Un goccio di vecchio Jack, dopo cena, fa sempre bene. È come il caffè: il liquido scende, ma l’essenza sale. Stimola il cervello che è un piacere.»

Senza attendere risposta, andò a un armadietto e ne prese una bottiglia di whiskey. Tornò al tavolo e guardò i piatti sporchi. Non parve avere molta voglia di mettersi a sparecchiare.

«Che ne dite se andiamo a sederci sul divano?» propose. «Il vecchio Jack, sul divano, va giù che è una meraviglia.»

«Perché no?» replicò Alberto. «Mi pare una buona idea.» Guardò verso una finestra, oltre la quale premeva ormai una vera e propria cortina di nebbia impenetrabile. «Poi, con questo clima, un goccetto di roba forte è proprio quello che ci vuole.»

«E così, già che ci siamo, puoi raccontarci di Villa Mayer», propose Aurora.

«Ti ho proprio colpita, eh?» ridacchiò Orso. «Okay, affare fatto.»

Raggiunsero il soggiorno, illuminato soltanto dalle fiamme che ardevano nel camino scoppiettante. Orso si lasciò cadere in una vecchia poltrona dall’aria lisa, piena di peli di gatto, e Alberto si mise quasi di traverso sul divano. Aurora sedette a gambe incrociate sul tappeto, la schiena contro il bracciolo del divano. Un vecchio gattone europeo, sbucato da un angolo, si avvicinò, la annusò un poco e decise che lei gli piaceva. Le saltò in grembo, si acciambellò e cominciò a fare le fusa.

«Musica?» propose Orso.

Si protese verso sinistra e schiacciò il tasto di accensione di uno stereo. Dalle casse, cominciò a uscire la musica delle colonne sonore dei film di John Carpenter.

«Una volta avevo una vicina di casa, una vecchia rimbambita che rompeva sempre le scatole dicendo che tenevo la musica troppo alta», rammentò Orso. «Ora però si è trasferita in via definitiva al cimitero e che ci resti pure. Qualche volta, per farle dispetto, vado sulla sua tomba, tiro fuori il telefono e faccio partire le stesse canzoni che le davano tanto fastidio da viva. Lamentati ora, vecchiaccia rompipalle, le dico. E sapete una cosa? Non solo non si lamenta, ma secondo me le piace pure, sentire un po’ di roba vitale in mezzo a tutto quel mortorio.»

La bottiglia cominciò a girare. Aurora prese il primo sorso, poi la passò a Alberto che ne mandò giù un secondo. Entrambi fecero una smorfia quando il liquido amaro e dal sapore legnoso sfiorò la loro lingua. Orso ne tracannò una dose piuttosto cospicua, prima di restituirla a Aurora. Per qualche istante non parlarono, presi a bere, mentre l’alcol forte cominciava a fare effetto nei loro organismi.

«Allora, Villa Mayer», rammentò Aurora.

«Giusto», ridacchiò Orso. «Ormai è fatta. Vi devo parlare di Villa Mayer…»

Passò la mano sulla barba, più che altro un vezzo, dal momento che non servì minimamente a darle una parvenza di ordine.

«…e, soprattutto, vi devo parlare di Edith Mayer, che dopo quasi centoventi anni dal giorno in cui fu uccisa, si dice che abiti ancora dietro quelle mura, là in mezzo al bosco…»

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Capitolo 5
*** 4. ***


4.

 

 

Villa Mayer, dicembre 1903

 

 

La neve vorticava in volute sinuose al di là dell’ampia vetrata. Il cielo, al di sopra della cortina bianca, era una lastra plumbea che sembrava pronta a precipitare sulla terra schiacciando tutto ciò che conteneva. Il panorama delle vallate e dei grandi monti circostanti, con le casette dai comignoli fumiganti e gli alberi spogli, era stato quasi interamente celato da quel bianco e farinoso candore che sembrava non avere né un inizio né una fine. Tutto era bianco, tutto principiava nel bianco e in esso si perdeva all’infinito. Soltanto una figura solitaria, avvolta in un pesante tabarro nero, avanzava a passi lenti nella neve, sfidando il freddo intenso e tagliente di quel tardo mattino d’inizio inverno.

All’interno della vastissima magione – un edificio che non nascondeva il prevalere e l’assommarsi in se stesso di un certo gusto neogotico, al punto da apparire come un castelletto irto di guglie e torrette – costruita in cima a un poggio da cui si dominava l’intera valle cinta dai pennacchi aguzzi e congestionati dal gelo delle montagne, regnava un delicato torpore. Il grande caminetto scoppiettante spandeva un calore gradevole e un profumo resinoso. I ciocchi bruciavano con allegria e, di quando in quando, un nodo scoppiava con un suono soffuso e uno spandersi di faville variopinte. Eppure, questo non bastava del tutto a combattere il gelo che si faceva largo attraverso le fessure nelle finestre, gli spifferi aperti nelle vecchie pareti di pietra, i fori che i tarli avevano scavato negli infissi antiquati.

O, forse, il gelo era soltanto quello che riempiva il cuore e l’anima di Edith Mayer. Un gelo che si propagava da tutto il suo essere e che riempiva l’intera stanza, contrastando il calore benevole del fuoco.

La giovane sospirò e si strinse le braccia contro il petto, cercando un po’ di quel calore che andava perdendo sempre più alla svelta. Se avesse voluto guardarsi in uno specchio, i suoi occhi avrebbero incontrato il riflesso di una bellezza che andava sfiorendo in fretta. Profonde ombre nere avevano sottolineato i suoi occhi grigi. La pelle del viso si era fatta diafana, quasi traslucida, e si era tirata sulle guance smagrite in eccesso, come il resto del suo corpo. La florida pienezza e la morbida rotondità delle sue forme, che avevano fatto voltare verso di lei innumerevoli sguardi soltanto pochi mesi, quando aveva trascorso l’estate sulle sponde di quel lontano e soleggiato lago ai piedi delle montagne – il suo primo viaggio oltre frontiera – erano ormai solo un ombroso ricordo. E tra i suoi capelli neri, che lei non faceva più nulla per acconciare, erano apparsi fili argentati. Un mutamento di cui era consapevole ma che aveva semplicemente deciso di ignorare. Edith aveva deciso di non contemplare mai più il proprio viso in uno specchio.

Anche suo padre aveva notato quel cambiamento. Lui non lo aveva affatto ignorato. Da uomo pratico quale era, aveva deciso di prendere in mano la situazione. Di «prenderla energicamente in pugno», anzi, per usare una sua espressione che utilizzava in pratica sempre, per ogni cosa.

Tipico del signor Mayer, il proprietario della più grande industria tessile della zona, uomo ricco che si era fatto da sé, avere la presunzione di poter controllare tutto e tutti. Lui sapeva sempre ciò che voleva e ciò che era necessario – per sé e per gli altri.

Così, all’inizio dell’autunno, aveva chiamato un medico. Il migliore, naturalmente. Edith quasi si era messa a ridere, quando da Vienna era arrivato il dottor professor Carl Henning Frank Sigmund Gustav Husserl. Dottore in medicina, studioso di psicanalisi, accademico, fondatore e primario della clinica privata che portava il suo nome. Un vecchio e borioso caprone avvolto in un palamidone nero che gli arrivava fin quasi ai piedi e il nasone sottolineato da un pizzetto bianco macchiato della nicotina del suo inseparabile e puzzolente sigaro; un protervo umiluomo che, con una discreta dose di rara modestia, palesando modi di fare superiori – perché lui era superiore a chiunque gli si fosse parato di fronte, fosse stato anche il demonio in persona – si definiva un “luminare in tutto, un tuttologo di chiara fama, il massimo esperto dello scibile umano”.

Solo il meglio, per la figlia del signor Mayer.

Nonostante tutto, pur sapendo che nessuna medicina – a parte una, di cui lei sola era a conoscenza – sarebbe valsa a guarirla, Edith non si era opposta. Si era spogliata, si era lasciata manipolare in ogni modo dal dotto erede di Asclepio, aveva permesso al sapientone di infilarle le mani dappertutto, dato che questo era il volere del padrone di casa.

«Nevrosi», aveva stabilito infine il dottor professor Husserl. Lo aveva detto con assoluta certezza dopo averle spremuto a lungo tra le dita i seni nudi, quasi che fosse proprio lì l’origine del disturbo psichico.

Non aveva usato certo quest’unico termine. Quando il dottor professor Husserl parlava, parlava tanto. Si compiaceva del suono della sua voce. Gli piaceva non tanto rendere edotti gli altri, quanto dimostrare a qualsiasi inferiore di come lui fosse acculturato, in una maniera che gli altri non si sarebbero mai nemmeno potuti sognare. Conosceva a menadito tanto i più recenti quanto i più antiquati vocabolari medici, e non ne faceva alcun mistero. Che, poi, sapesse abbinare un reale significato ai paroloni che sparava, era tutto un altro paio di maniche. Qualcosa che non aveva alcuna importanza. L’importante, per lui, era fare colpo. E sul signor Mayer, ovviamente, aveva fatto colpo: se il medico da lui ingaggiato diceva che nevrosi era – oltre a tutte quelle altre parole in greco, in latino e in chissà quale lingua sconosciuta e inintelligibile – allora nevrosi doveva essere.

Nulla di più, nulla di meno.

Ma Edith non lo aveva nemmeno ascoltato. Aveva dovuto soffocare un attacco di insana ilarità. Ne sapeva abbastanza di psicanalisi per essere certa che, per riconoscere una nevrosi, il medico dovesse parlare con la paziente, ascoltarla, seguire i suoi flussi di coscienza, tracciare un quadro generale della sua storia psicologica. Cose che non erano neppure state prese in considerazione. Di certo, non aveva mai sentito dire che una simile diagnosi potesse derivare da toccatine più o meno invadenti nelle sue parti intime.

«Propongo di condurre con me la paziente nella mia clinica di Vienna per poter iniziare un’analisi accurata», erano state le parole che Edith, scossa dal tentativo di impedirsi di scoppiare a ridere, era riuscita a captare.

A quel punto le risatine si erano spente sulle sue labbra. Si era sentita morire dentro. Non aveva nessuna intenzione di andare a Vienna con quel vecchio schifoso. Finché si era trattato di essere toccata a quel modo lì, in casa sua, illudendosi che fosse una normale procedura medica, aveva potuto chiudere entrambi gli occhi e trattenere il respiro e il disgusto. Si era detta che, tanto, di lì a breve sarebbe finito tutto; bastava resistere ancora per qualche minuto. Ma seguirlo in Austria avrebbe significato diventare la vittima continua e indifesa delle sue persecuzioni. Perché di una cosa era certa: quello che quel vecchio maiale voleva da lei, con la sua guarigione c’entrava poco o nulla. E, inoltre, andarsene da lì per andarsi a chiudere tra le mura invalicabili di un manicomio, avrebbe significato allontanarsi dall’unico luogo in cui lei… in cui lei – la sola lei – avrebbe potuto trovarla e forse salvarla…

«No…» aveva mormorato.

Era stato come se non avesse nemmeno parlato. I due uomini non le avevano prestato la minima attenzione. Probabilmente non l’avevano neppure sentita. Erano troppo presi da se stessi.

«Non posso mandare lontana da qui mia figlia, soprattutto non in una clinica», stava dicendo il signor Mayer, con tono che non ammetteva repliche. «Che scandalo sarebbe? Come potrei guardare in viso i miei soci, se si sapesse in giro che ho una figlia minorata mentale? Che cosa direbbe la gente, venendolo inevitabilmente a sapere? No, è del tutto fuori luogo.»

Il professore non si era minimamente scandalizzato a quelle parole. Che avessero ferito Edith, che era lì ad ascoltarle, pronunciate come se non potesse ascoltarle o comprenderne il significato, non era importato a nessuno.

«Vorrà dire che verrò io, circa ogni quindici giorni, per visitarla», disse. «Nel frattempo, le prescriverò un tonico da bere tutte le mattine.»

Edith si era sentita liberata… ma solo fino a un certo punto. Il solo pensiero che quell’uomo tornasse ogni due settimane per metterle le mani addosso la ripugnava. Ma non si era opposta, così come non si era opposta al tonico, che aveva cominciato ad assumere regolarmente.

Non che questo avesse contribuito a migliorare le sue condizioni. Era servito soltanto a riempirle il palato dell’amarissimo sapore delle erbe che componevano l’intruglio preparato dal luminare, che evidentemente era convinto che zucchero, miele o altre sostanze dolci avrebbero avuto effetti devastanti, sulla psiche già sconvolta della ragazza. Solo ciò che era amaro come la bile avrebbe potuto giovarle. Almeno, questo era quello di cui era convinto lui.

E nemmeno c’erano riusciti i continui incontri con il medico. Anzi, Edith aveva continuato a peggiorare e a deperire, fino a quando Husserl non aveva più voluto metterle le mani addosso, forse timoroso di essere contagiato da un male che non era riuscito a diagnosticare. Edith aveva scoperto che non era neppure stata una liberazione: le era diventato del tutto indifferente che il professore, dopo averla fatta restare con indosso solo la camicia, e a volte nemmeno quella, la toccasse in un modo tale che con una visita aveva poco o nulla a che fare, per poi scomparire un paio di minuti nel piccolo gabinetto attiguo alla sua camera da letto.

Il tormento era continuato dall’inizio dell’autunno fino a quei freddi giorni di dicembre. Alla fine, Husserl si era dovuto arrendere, concludendo che il suo male era incurabile perché la paziente non voleva essere curata. Il che, dal punto di vista medico, significa una resa incondizionata su tutta la linea.

E in questo, Edith era più che d’accordo con quel vecchio schifoso.

Perché il male di cui lei era ammalata era un male che non aveva altra guarigione che quella di essere continuamente vivificato e rinforzato: l’amore.

Era iniziato tutto l’estate precedente – che adesso sembrava lontanissima, come relegata in un’altra vita che non era più la sua – quando aveva passato le vacanze sul lago.

Giorni che Edith non avrebbe mai dimenticato, nemmeno se fosse vissuta cento anni… nemmeno se fosse sopravvissuta in eterno, oltre i confini del tempo e del mondo fisico.

 

* * *

 

Luglio 1903

 

La verde amenità del lago aveva messo di buonumore Edith.

Le sponde verso cui si protendevano i dirupi delle montagne – aveva lasciato le montagne di casa sua e aveva trovato in villeggiatura altre montagne, come se la sua vita non potesse che essere legata ai contrafforti rocciosi che narravano storie e racchiudevano leggende e misteri – sembravano una bellezza incantata, come essere immersa in una favola. I dolci profumi delle acque le avevano solleticato il naso, l’aria delicata aveva accarezzato e colorito la sua pelle. Il caldo della stagione, che sarebbe potuto essere eccessivo per il suo corpo abituato ai climi montani, era stato mitigato dalla brezza che spirava dal centro dello specchio d’acqua e dalla cima dei monti.

Questo le regalava sorrisi e le faceva scordare la malinconia che l’aveva colta quando aveva scoperto il vero motivo di quella vacanza oltre confine. Un regalo che era giunto inaspettato e che, troppo presto, si era dimostrato per quello che era davvero: una questione di affari, fatta e finita. Nulla di più e nulla di meno. Come sempre. Tutto ciò che il signor Mayer faceva e decideva, alla fine, si riduceva a quello: affari. I più ricchi e lucrosi che fosse possibile mettere a segno.

Suo padre, appunto nel tentativo di portare a termine un buonissimo affare, aveva insistito per farla alloggiare all’Hotel Du Lac, lo stesso rinomato albergo dove aveva prenotato diverse camere per sé e per la propria famiglia il cavalier Arrigo Bonofede, ricco industriale milanese. Bonofede aveva un figlio della stessa età di Edith, Carlo Maria, in pratica un giovane scapolo d’oro: al signor Mayer non era parso vero di poter fondere i due imperi industriali – entrambi erano coinvolti nel tessile – con un matrimonio combinato all’occorrenza.

«Ma papà…» aveva cercato di protestare Edith.

Mayer padre non le aveva concesso il diritto di parola.

«Zitta, Edith», l’aveva interrotta. «Tu sei la mia unica figlia e ti stai facendo grande, mentre io invecchio a vista d’occhio: ho già quarant’anni e ancora non mi hai reso nonno di una prole numerosa… inaudito, oltre che vergognoso e inaccettabile. La gente comincia a mormorare, a sussurrare che resterai zitella per tutta la vita. Non sia mai. Per di più, ho notato che preferisci andartene a zonzo nei boschi o svagarti con i tuoi libri, piuttosto che pensare al matrimonio e ai figli come dovrebbe fare ogni signorina della tua età. Rischi per davvero di diventare una zitella inacidita, e io questo non posso permetterlo. Era ora che prendessi io energicamente in pugno la situazione. Sposerai il figlio del cavalier Bonofede: così ho deciso.»

Solo che il cavalier Bonofede era uno di quegli uomini che non hanno nessuna intenzione di condizionare il destino dei propri eredi. Piccolo e gioviale, con una testa pelata che rifletteva la luce come un sole e occhialetti tondi sul naso, non aveva acconsentito alla richiesta di Mayer, ma nemmeno l’aveva scartata a priori.

«Lasciamo che i due giovani si incontrino», aveva proposto, con accento allegro, dopo che Mayer gli aveva illustrato la propria personale visione del futuro, in cui la dinastia Bonofede-Mayer avrebbe dominato nei secoli a venire il settore dell’industria tessile. «Facciamo fare loro un giro in carrozzella per la città e per le campagne, da soli. Se si piaceranno, allora si potrà discutere di un’eventuale matrimonio.»

Subito, il signor Mayer aveva intravisto lo scandalo.

«Ah, no!» aveva esclamato, agitando la mano. «Non permetterò mai e poi mai che mia figlia si accompagni da sola a solo con un giovane senza prima averlo sposato! Che cosa direbbe la gente?! Mi pare quasi di udirne i mormorii maligni! Giammai!»

Così, si era stabilito che i due giovani si sarebbero sì incontrati, ma insieme alla sorella di Carlo Maria, Marta. La presenza della ragazzina di diciannove anni insieme ai due adulti di ventuno avrebbe smorzato sul nascere qualsiasi diceria. Mayer, di questo, era più che sicuro.

E quando li aveva incontrati, Edith aveva capito di essere davvero innamorata. Era stato amore a prima vista, un fuoco che le era esploso nel petto e aveva cominciato ad ardere con una passione appagante e tumultuosa, che l’aveva invasa nel profondo. Mai, in vita sua, aveva provato qualcosa di tanto bruciante e avvolgente. E mai, ne era certa, avrebbe potuto provare ancora qualcosa di simile.

Non era esistito più nulla – nessun essere umano, né la città, o il lago, le montagne, nulla di nulla – al di fuori di quegli occhi nocciola e di quei capelli dalla sfumatura ramata.

Solo che, in barba a tutte le previsioni di Mayer padre, quegli occhi e quei capelli non erano quelli di Carlo.

 

 

* * *

 

Era accaduto qualcosa di magico, di unico, di incredibile.

Era stato un pomeriggio assurdo.

Avevano vagato per la città seduti sulla carrozzella, accompagnati dal trotto leggero degli zoccoli del cavallo sul selciato delle strade. Immersa in un limbo profondo, gli occhi persi in quelli di Marta che non la lasciavano un solo istante, Edith non aveva sentito nessuna dell’infinita serie di chiacchiere a tema industrial-tessile che Carlo Maria le aveva riversato addosso. Ogni tanto, meccanicamente, faceva un cenno di assenso o si lasciava sfuggire una parolina di comprensione, quando captava parole quali “nuova filanda”, “cotone indiano”, “lana scozzese”, “fatturato annuo”.

Per lei, con lei, in lei, c’era solo Marta.

Era stato un lunghissimo sogno, una visione onirica a occhi aperti, da cui si era risvegliata quasi di forza quando il giro in carrozzella era terminato. Aveva permesso a Carlo Maria di farle il baciamano e poi, spinta da una forza che non aveva saputo spiegare da dove provenisse, si era avvicinata a Marta e le aveva posato un bacio – un unico e leggerissimo bacio – sulla guancia sinistra. Si era aspettata di arrossire, oppure che la ragazza sarebbe arrossita a sua volta, o che peggio ancora l’avrebbe respinta.

Nulla di tutto questo.

Marta aveva accolto il tocco delicatissimo delle labbra di Edith sulla pelle e poi, presala per mano, gliel’aveva stretta per un istante che era sembrato prolungarsi in eterno. Nemmeno per un attimo i loro occhi si erano lasciati andare. Tra di loro era passato qualcosa di indefinito, di unico, come se un legame senza nome si fosse appena stabilito per l’eternità.

Carlo Maria era stato costretto a schiarirsi la gola per ricordare alla sorella che era ora di andare.

Quella notte, Edith era andata a trovarla. Aveva scoperto di non poter prendere sonno, senza prima averla rivista, senza averle almeno rivolto una parola, qualcosa che potesse aiutare a capire che cosa fosse successo tra di loro… Sapeva quale camera occupasse la giovane, e non aveva resistito alla tentazione di rivederla, di parlarle, di dirle che… non sapeva nemmeno lei che cosa.

Aveva camminato lungo i corridoi come una sonnambula, silenziosa come un fantasma. Si era fermata davanti alla porta. Imbambolata. Aveva cercato inutilmente di appoggiare le nocche al legno massello e tamburellarvi sopra. Non ce l’aveva fatta e non era servito. Come se la stesse aspettando, Marta aveva spalancato la porta e ancora una volta si erano trovate una di fronte all’altra.

Questa volta sole.

Si erano guardate negli occhi e un sorriso era sbocciato sulle loro labbra e nei loro sguardi. Poi Marta aveva preso la sua mano e l’aveva condotta dentro, lentamente, senza smettere un istante di guardarla, senza più negarle nulla di ciò che il sole nel pomeriggio aveva impedito. Ora era buio, era notte, ed Edith, da quel momento in avanti, benedisse le tenebre e l’oscurità, che tutto celano e tutto permettono.

E quella era stata la più dolce notte che fosse mai scivolata sulla Terra da quando la forza delle stelle era esplosa nell’infinito mistero del cosmo.

 

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Capitolo 6
*** 5. ***


5.

 

 

Novembre 2021

 

 

«Vale, lo sai, io farei qualsiasi cosa per te…»

Daniele sedeva sul sedile del passeggero. Era infagottato in uno spesso cappotto antivento. Il cappuccio, sollevato, gli copriva i capelli scuri, che non erano più stati tagliati da diversi mesi. Nell’abitacolo faceva molto freddo, perché nelle due ore e più che avevano trascorso fermi ai margini del bosco, il calore dell’aria calda sparata contro i loro piedi dal radiatore si era dissipato. I fiati si condensavano in nuvolette vaporose, e le mani dei due ragazzi si erano fatte gelide. Entrambi tremavano.

Ma non era soltanto il freddo, a scuoterli a quel modo.

Valeria, pur non essendo davvero nelle condizioni di farlo, aveva insisto per essere lei stessa a guidare. Era stato quasi stupefacente. Nessuno di loro due era mai stato da quelle parti, eppure la ragazza aveva trovato la strada senza bisogno di indicazioni, né del navigatore satellitare, nulla di nulla. Aveva imboccato ogni curva, ogni svolta, ogni bivio con una sicurezza che aveva quasi del paranormale. Non aveva esitato un solo istante, aveva continuato a guidare per chilometri, chilometri e chilometri senza un solo dubbio.

E poi, alla fine, aveva frenato di colpo e aveva spento il motore, davanti a quell’anonimo e quasi invisibile sentiero che si perdeva in mezzo agli alberi, fitti e neri, bagnati di gelida umidità. Chiamarlo sentiero era un vero e proprio complimento. Sembrava più che altro una pista aperta da qualche animale selvatico. Daniele non lo avrebbe nemmeno notato. Ma Valeria vi aveva fermato la macchina davanti e si era girata a osservare quella stradina con un’intensità tale da metterlo a disagio.

Erano rimasti lì, in attesa. Forse sarebbe successo qualcosa. Ma non era accaduto nulla. Valeria aveva continuato a guardare verso il bosco, persa in chissà quale limbo di pensieri. Daniele aveva atteso, paziente, sempre più infreddolito; ma non era il freddo a metterlo a disagio. Sarebbe rimasto insieme a Valeria per sempre, e sarebbe sceso con lei nella più congestionata e congelata delle piane infernali, se lei glielo avesse chiesto.

Alla fine, però, quando il silenzio stava facendosi fin troppo pesante, si era deciso a dire quella cosa. Aveva un dubbio che gli bruciava sulle labbra screpolate dal freddo, e sentiva il bisogno di esternarlo.

«Qualsiasi cosa…» ripeté. «Ma sei sicura – proprio sicura – che questa sia la cosa giusta?»

Valeria fece fatica a staccare lo sguardo dalla stradina. Si voltò a guardarlo.

In lei fioriva tutta la bellezza dei suoi venticinque anni, questo lo si poteva notare a prima vista. Ma se appena appena si faceva attenzione a scalfire la superficie, si notava un disagio profondo, antico, che le stava lacerando l’anima. Qualcosa di tetro e oscuro che si era impadronito dei suoi occhi, privandoli di tutta la luce.

Un sorriso stanco e disilluso le arricciò le labbra, che il freddo e la stanchezza avevano seccato e screpolato.

«Dani, sono dieci anni che cerco di fare qualcosa che non sia questo», mormorò. La sua voce era sottile, velata dell’estenuazione che si portava appresso ovunque andasse e qualsiasi cosa facesse.

Palpò la tasca del cappotto, trovò accendino e sigarette e se ne accese una. Aver resistito per oltre due ore senza farlo doveva essere una specie di record, per lei. Il tabacco non sembrò darle alcun sollievo apparente – almeno, a giudicare da come si mantenne tetra la sua espressione – ma il fumo che cominciò a scivolare all’interno dell’automobile aggiunse un tocco di familiarità al momento.

Daniele non disse nulla, limitandosi a respirare l’odore del tabacco combusto.

Lei si tolse la sigaretta di bocca e riprese a parlare.

«Le ho provate tutte, mi hanno detto di tutto. Che sono schizofrenica, che sono malata… che immagino le cose… ho preso più medicine di quante riesca a ricordare, tutte con un nome più assurdo della precedente… ho parlato con specialisti sempre più specializzati… il più sincero tra loro ha detto che chiaramente sto mentendo per attirare le attenzioni…»

La giovane fece un profondo sospiro e si appoggiò con le braccia al volante. Il suo giubbotto scricchiolò. Tra le sue dita, la sigaretta continuò a bruciare, dimenticata.

«Mi è rimasto solo questo… è il mio ultimo scoglio. Mi sono serviti tutti questi anni per riuscire a leggere quel libro maledetto, e speravo di trovarvi la soluzione… ho solo capito che dovevo venire qui. Se Edith Mayer è davvero là dentro, al termine di questo sentiero, in quella vecchia villa, io voglio domandarle che cosa cazzo vuole da me… perché mi perseguita così… sono stufa, Dani… sono stanca di non poter vivere…»

Daniele fissò per un attimo il sentiero, sempre più scuro nelle ombre della notte e celato dalla bruma umida che aveva cominciato a salire dal terreno. Non si vedeva nulla, al di là delle piante. Non c’era ragione di sospettare che, oltre quegli alberi, potesse esserci la vecchia Villa Mayer di cui la sua amica gli aveva parlato. Non c’erano cartelli, né indicazioni di sorta, nulla di simile. Ma se Valeria sosteneva che la villa si trovava appena oltre il sentiero, e se diceva che in quella villa vagava ancora lo spirito della ragazza che vedeva nei suoi sogni…

…allora lui le credeva.

Si erano conosciuti da qualche mese, tramite un forum su Internet, uno dei pochi ancora attivi, nell’era in cui anche i social network stavano ormai tramontando verso il loro ineluttabile destino.

Valeria aveva lasciato un messaggio disperato, in cui aveva raccontato il suo caso. Aveva narrato di come, da quando appena ragazzina aveva visto una vecchia fotografia, avesse iniziato a essere perseguitata in sogno dal volto di quella creatura triste e sola, che le si rivolgeva chiamandola Marta. All’inizio aveva pensato a suggestione, poi a un disturbo, poi si era convinta di aver perso la ragione… ma a quel punto la sua mente si era ribellata, le aveva fatto intendere che lei non era pazza, che c’era qualcosa di più di una semplice tara, in ciò che vedeva e sentiva nel sonno. Ma nessuno era stato in grado di aiutarla, e così si era rivolta a quel forum di appassionati del mistero e dell’occulto per raccontare il suo caso, sperando che qualcuno potesse aiutarla.

Quasi nessuno le aveva dato credito. Per la maggior parte di loro, il suo era un racconto di fantasia, nemmeno troppo originale. Magari qualcuno l’aveva presa in considerazione, ma non aveva voluto approfondire l’argomento e se l’era lasciato scivolare di dosso, dimenticandosene quasi subito. Daniele era stato il solo a risponderle. Le aveva dato credito fin dal primo momento, l’aveva ascoltata e le aveva promesso che avrebbe fatto tutto il possibile, per aiutarla.

Lo aveva detto subito, aveva messo le cose in chiaro: lui non era uno psichiatra, né un esperto di occultismo. Non era nemmeno un eroe. Era solo… solo Daniele, un ragazzo della sua stessa età convinto che il mistero che aveva avvolto il mondo intero fin dai suoi albori non fosse ancora stato dipanato del tutto. Era un giovane che vedeva oltre, che sapeva che il Tutto non si limitava al mondo fisico e materiale di ogni giorno. Lui, in un modo o nell’altro, era consapevole dell’esistenza di qualcosa che si trovava in quello che veniva sbrigativamente detto l’aldilà, qualsiasi cosa fosse davvero.

«Non so cosa ci sia, oltre il mondo materiale, ma so che qualcosa c’è, e mi basta questo», aveva sintetizzato.

Lui voleva crederle. E lo aveva fatto.

Aveva accettato di incontrarla e di inseguirla in quella strana avventura in luoghi sperduti, se questo fosse servito a liberarla dal suo tormento. Aveva capito subito quanto lei fosse vera, quanto fosse bella, dentro come fuori. Si era sentito legato a doppio filo a lei in una maniera repentina e inesplicabile.

«Sono con te, Vale», disse.

Allungò la mano e la posò su quella dell’amica. Due tocchi gelidi che cercarono reciproco calore.

«Mi hai capito? Sono con te… qualunque cosa succeda…»

Valeria scosse la testa. Una lacrima le luccicò tra le palpebre. La sigaretta, ormai, era ridotta a un tubicino di cenere che stava su sfidando la legge di gravità. Un altro dei misteri inspiegabili per la scienza.

«Io… devo farlo da sola…» sussurrò. «Devo essere io a trovarmi a tu per tu con Edith Mayer… non posso chiederti questo… non posso domandarti di metterti in pericolo per me… avevo bisogno di qualcuno che mi spronasse a venire fin qui, e tu l’hai fatto… e te ne sarò grata per sempre… ma non posso pretendere più di questo…»

Daniele non esitò un istante. Si sentì infiammare le gote dalla timidezza per quello che stava per fare, ma per una volta – la prima volta nella sua esistenza – ignorò l’istinto che gli stava suggerendo di aprire la portiera e fuggire, o perlomeno di rimanere immobile e non fare alcunché. Si protese verso di lei, le prese il viso tra le mani, la fece girare verso di sé e la baciò. Un bacio goffo, affrettato, a fior di labbra, ma in cui entrambi sentirono scivolare una sensazione di benessere, di appagamento, di felicità. La cenere della sigaretta, questa volta, schizzò da tutte le parti, imbiancando i loro cappotti.

«Forse non ti conosco da abbastanza tempo per questo», ammise Daniele, staccandosi da lei. «Forse ti faccio pure schifo… ma mi hai dato qualcosa di grande, di profondo, in te sento qualcosa di unico che mi fa sentire davvero vivo… e ora non ti lascio sola. E se in quel posto ci sarà da creparci… be’…»

Scrollò le spalle.

«…farlo con te mi sta più che bene…»

Valeria lo fissò con gli occhi pieni di lacrime. Le labbra le tremarono. E questa volta fu lei a chinarsi verso di lui, facendogli scivolare le braccia attorno al collo.

Restarono stretti l’uno all’altra per un tempo che parve interminabile.

 

* * *

 

Adesso erano in piedi, fuori dalla relativa sicurezza dell’automobile. Il freddo li aveva aggrediti quasi subito, con morsi profondi e dolorosi. Avevano percorso il sentiero, che si era rivelato più breve del previsto. Avevano proceduto in silenzio, lei davanti e lui subito dietro, senza mai distanziarsi di non più di pochi centimetri soltanto. Al di là di una macchia d’alberi non troppo fitta, si elevava il poggio, cinto da una cancellata arrugginita e contorta, invasa dai rampicanti. Il cancello dell’ingresso, irto di punte, era spalancato. Villa Mayer vi era appollaiata sopra, come un gigantesco animale selvaggio pronto a scattare alla minima distrazione e a fagocitare l’incauto viandante nelle proprie ingorde e fameliche fauci.

Di fronte a loro l’ignoto, il buio e la paura.

Soprattutto la paura.

La nebbiolina si abbarbicava attorno alle loro caviglie come fantasmi che cercassero di catturarli nelle loro spire. Al di sotto della coltre umida, si vedevano le pietre, la terra e i rami caduti screziati di leggerissimi cristalli di ghiaccio.

Daniele rabbrividì. Per istinto, si strinse a Valeria. Si cinsero la vita a vicenda, dandosi coraggio.

«Sei pronta…?» sussurrò Daniele.

«No», ammise la giovane. «Non sarò mai pronta. Ma devo farlo, in un modo o nell’altro.»

Lui evitò di dirle che sarebbe scappato volentieri. Non volle farle sapere che razza di terrore avesse inghiottito il suo cuore nel vedere quell’edificio tetro e spettrale. L’istinto di sopravvivenza gli suggeriva – anzi, gli urlava nelle orecchie – di fuggire, di andarsene di lì finché era ancora in tempo, di abbandonarla a se stessa e che si arrangiasse da sola con le sue farneticazioni da pazza scatenata.

Daniele decise di mandare l’istinto di sopravvivenza a prenderlo in quel posto. Aveva motivi molto più profondi e importanti della sopravvivenza, per restare dove si trovava e seguirla anche oltre. Aveva Valeria. E Valeria era la ragione più importante.

Non aveva mai conosciuto nessuna, come lei. Né mai più gli sarebbe successo di imbattersi in una creatura così importante e preziosa. Se mai aveva sperato di trovare un’amica vera, a cui abbandonarsi completamente, ora l’aveva trovata. E il suo posto era accanto a lei, qualsiasi cosa questo avesse potuto significare.

Non l’avrebbe abbandonata. Mai. Per nessun motivo. Perché, se lo avesse fatto, non ne avrebbe più avuti lui, di motivi per restare ancora nel mondo. Forse era un pensiero totalizzante e pazzesco, ma lo sentiva vero più di qualsiasi altra cosa. E gli piaceva.

«Senti», mormorò, «io non so che cosa sia stato a spingermi a risponderti, su quel forum… ma qualunque cosa fosse, voleva che arrivassi fin qui. E sono qui. Con te. Anche se ho una paura fottuta.»

Valeria cercò di fare una risatina. Le uscì più che altro un suono stridulo.

«Ho una paura fottuta anche io», riconobbe a mezza voce.

«Bene!» esclamò Daniele, con voce un po’ troppo acuta. «Due paure fottute sono due punti negativi, no? E meno per meno fa sempre più! Siamo a posto!»

«Siamo a posto così», sussurrò Valeria, protendendosi per dargli un altro abbraccio, seguito da un bacio leggero sulla guancia gelida.

Poi, tenendosi per mano, varcarono la cancellata divelta e arrugginita e si inerpicarono tra le erbe alte e secche del poggio.

Villa Mayer li fissò dall’alto, sorniona, pronta ad accoglierli.

 

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Capitolo 7
*** 6. ***


6.

 

 

Estate 1903

 

 

I giorni che seguirono furono i più belli che Edith avesse mai vissuto nel corso della sua esistenza.

Lei e Marta cominciarono ad approfittare di ogni più minuta occasione per restare insieme da sole. Qualsiasi momento da condividere divenne, in breve, il loro momento.

Le passeggiate in carrozzella con Carlo Maria non ebbero vita lunga. Si scoprì che il ragazzo, piuttosto che accompagnare in giro le due giovani che, decisamente, non sembravano interessate a lui e alle sue chiacchiere relative all’andamento dell’industria tessile, preferiva di gran lunga spassarsela nelle sale da gioco, in teatro o al cinematografo – ne era da poco stato aperto uno in città, e i manifesti entusiasti annunciavano la proiezione dei grandi film d’oltreoceano, come Vita di un pompiere americano e la Grande rapina al treno, o ancora Al fuoco!, il tutto con l’accompagnamento musicale di uno dei migliori pianisti del posto.

Così, molto presto, si ritrovarono ad andarsene in giro per la città da sole – sebbene, per quello che ne sapevano i loro genitori, Carlo Maria le accompagnasse ovunque, come una specie di ombra.

«Non dirlo a nessuno», sussurrò un pomeriggio Marta, con aria complice, «ma credo che Carlo Maria abbia scoperto che in città c’è una casa di tolleranza molto rinomata! Ci sta spendendo un mucchio di soldi!»

«Oh!» fece Edith, arrossendo e reprimendo a stento il riso. «E dici che preferisce la compagnia di quelle signorine alla nostra?!»

Marta le sfiorò la mano.

«Mio fratello non capisce proprio nulla!» trillò. «Non sa riconoscere la bellezza, quando se la trova di fronte!»

Due giovani ragazze sorridenti e ridenti, che passeggiavano sotto il sole, tenendosi a braccetto e riparandosi sotto un ombrellino di tela bianca, ornato di pizzo come una tovaglia di Fiandra. Nulla su cui nessuno avrebbe potuto sparlare. Tutt’al più, con la loro grazia e il loro fascino giovanile, attraevano qualche compiaciuto sguardo maschile. Quasi non se ne accorgevano, e indirizzavano misteriose risatine agli uomini in doppiopetto che, sudando nell’afa estiva, si toglievano il cappello in segno di riverenza al loro passaggio.

Ma non appena l’albero di un parco, l’anfratto di una caletta o un vicolo ombroso offrivano un poco di riparo da guardi indiscreti, si trovavano l’una stretta all’altra, le bocche che si cercavano quasi avide, le mani che si esploravano e scoprivano e riscoprivano. Erano momenti veloci, quasi rubati al mondo intero che le circondava, ma di cui non avrebbero saputo fare a meno. E il pensiero di poter essere viste, scoperte, non solo non le fermava, bensì le rendeva più audaci. Conferiva a quella loro relazione clandestina qualcosa di eccitante, regalava loro l’avventuroso senso del proibito. Di sicuro, lo trovavano più emozionante della trama dei film che Carlo Maria andava a guardare al cinematografico, o dei romanzetti d’appendice che Marta leggeva quando non era a spasso con Edith.

E gli episodi audaci non erano certo mancati.

Un pomeriggio si erano trovate distese sotto una quercia, con la mano di Marta che frugava e accarezzava tra le cosce di Edith. Quando da lontano avevano visto un paio di gendarmi avanzare verso di loro con passo indolente, non solo non si erano fermate o ricomposte in fretta, ma la ragazza aveva anche aumentato la frenesia delle sue dita attorno al clitoride bagnato di Edith, strappandole un gemito roco. I due uomini, senza degnarle di un solo sguardo, le mani incrociate dietro la schiena, erano passati a pochi metri di distanza, sprofondati in una conversazione riguardo l’esito della gara ciclistica che si stava correndo in Francia, e di cui entrambi sembravano molto appassionati.

Una sera, dinanzi a un monumento a qualche misconosciuto re dei tempi andati acceso dalla luce rossa e calda del tramonto, Edith si era protesa a catturare tra le sue le labbra di Marta. Lo aveva fatto dove chiunque avrebbe potuto scorgerle, incurante del via vai della gente attorno a loro. E, come se un velo magico le avesse protette, nessuno si era voltato dalla loro parte, e non avevano sentito urla furenti per quello scandalo dato in pubblico.

Qualche altra volta, invece, si divertivano a impersonare ruoli differenti, giocando come due bambine.

La spiaggia diventava l’ambiente ideale perché Marta si trasformasse in un sanguinario pirata, venuto a rapire la principessa Edith per farne la propria schiava. Camminare nel bosco tramutava Edith in un orco, che la fata Marta doveva liberare dalla sua maledizione. E il giorno in cui, sfidando le canicola del primo pomeriggio che aveva tenuto chiusi in casa tutti gli abitanti della città, si avvicinarono ai resti diroccati di un fortilizio arroccato sopra un piccolo monticello, entrambe si trasformarono in due guerrieri medievali. Due cavalieri audaci e senza macchia, che si diedero battaglia tra i resti dei muri invasi dai rampicanti e dai rovi, prima di atterrarsi insieme e di abbandonarsi reciprocamente alle brame dell’amore.

In hotel, a tavola, all’ora di pranzo e di cena, sedevano sempre vicine.

Mentre i tre uomini discutevano di come avrebbero incrementato la produzione tessile nei mesi autunnali e dell’aumento dei costi delle materie prime, Edith e Marta giocavano un loro gioco speciale fatto di sguardi furtivi, di calcetti, di sfioramenti, di piccoli tocchi in apparenza casuali. Far cadere il tovagliolo diventava la scusa per chinarsi e regalare un fugace bacetto sulle caviglie dell’altra, chiedere di assaggiare una pietanza era il modo perché le loro mani si toccassero quasi per sbaglio.

Poi, la sera, senza farsi scorgere da nessuno, ancora accaldata per le avventure del giorno, Edith andava nella stanza di Marta, da cui sgattaiolava fuori – ombra furtiva – dopo diverse ore. Entrava arrossata e pettinata e ne usciva sempre arrossata ma molto più scarmigliata.

Una di quelle sere, il cavalier Bonofede aveva aperto all’improvviso la porta e le aveva sorprese, sedute una accanto all’altra sul letto. Erano voltate e gli davano le spalle, quindi il cavaliere non poté vedere che cosa effettivamente stessero facendo, né notò che entrambe avevano la gonna sollevata molto al di sopra del ginocchio. Edith si era sentita sprofondare. Avrebbe desiderato scomparire nel nulla. Dentro di lei, si era fatto largo il timore che tutto, di punto in bianco, sarebbe finito: il cavalier Bonofede, mangiata la foglia, avrebbe fatto in maniera di separarle per sempre. Ma non aveva fatto i conti con le doti di quella ragazza che, fino a un secondo prima, le stava affondando le dita dentro il punto più intimo e segreto. Marta, dimostrando una prontezza di spirito unica, aveva cominciato a recitare alcuni versi della Divina Commedia.

 

«Amor, che al cor gentil ratto si apprende,

prese costui della bella persona

che mi fu tolta; e quel modo ancor m’offende.

Amor, che a nullo amato amar perdona,

mi prese del costui piacer sì forte,

che ancor non mi abbandona.

Amor condusse noi ad una morte:

ma Caina attende chi a vita ci spense.»

 

Poi, come accorgendosi solo in quel momento della presenza del padre, Marta si volse verso di lui con lo sguardo più candido e innocente che Edith le avesse mai visto in viso. E considerato che, fino a un minuto prima, le stava muovendo le dita tra le cosce in modo tutto fuori che innocente, dovette fare del suo meglio per non scoppiare a ridere.

«Oh, ciao papà», disse la ragazza. «Edith mi sta dando una mano a ripassare la letteratura italiana.»

Il cavalier Bonofede annuì compiaciuto.

«Oh, bene, bene», disse, con il suo solito tono pacato. «Allora, non vi disturbo più, ragazze. Ho sentito che devi ancora lavorarci un pochino qua e là, cara, ma ci sei quasi.» Sorrise con fare affabile. «Sono molto contento che abbiate fatto amicizia, sapete?»

Prima ancora che la porta si fosse rinchiusa del tutto, Marta fu di nuovo addosso a Edith, trattenendo a stento una risata nervosa. Aveva il cuore che batteva impazzito, tanto che l’altra se lo sentì sbattere forte contro il petto: tutte e due avevano avuto paura.

Ma quando Marta rovesciò Edith sul letto, scivolando lungo il suo corpo fino a lambirle il bocciolo delicato della vagina con la lingua frenetica, dall’Inferno salirono in Paradiso.

E così fu tutta quell’estate, la più bella delle loro esistenze.

Un continuo volo nel Paradiso.

 

* * *

 

Settembre 1903

 

 

Era stata un’estate meravigliosa. Ma era passata, come passano tutte le estati, e tutte le altre stagioni, una in seguito all’altro, nel continuo succedersi dei mesi, degli anni e delle epoche. Tutto passa, e questo è l’ineluttabile destino delle cose fisiche, soggette alle regole ferree e spesso crudeli del tempo, a cui non possono sottrarsi.

Edith aveva dovuto fare ritorno a casa. Aveva dovuto separarsi dalla sua amata Marta, anche se questo le aveva svuotato l’anima e riempito di lacrime gli occhi. Allontanarsi da lei l’aveva lacerata nel profondo. Il freddo l’aveva invasa, minacciando di non abbandonarla mai più.

E non era stata la sola difficoltà da affrontare. Suo padre era furente.

«Non sposerò Carlo Maria», aveva comunicato, risoluta, la mattina della partenza, dopo essersi sollevata dal baule che stava riempiendo di abiti e biancheria ripiegata, quando lui le aveva domandato conto dei mesi appena trascorsi.

A replicarle era stato un ceffone violento che le aveva tolto il fiato e le aveva lasciato un profondo segno rosso sulla guancia.

«Mi stai facendo perdere la pazienza, Edith!» aveva ruggito il signor Mayer, guardandolo con occhi spaventosi. «Io comincio a non tollerare più questa situazione ridicola e oltraggiosa!»

Senza fiato, interdetta da quella reazione inaspettata, la ragazza non era riuscita nemmeno a dire nulla. Era rimasta a bocca aperta per lo sconcerto. Suo padre era sempre stato un uomo brusco e autoritario ma mai, per nessun motivo, si era sognato di alzare le mani su di lei. Ora, nei suoi occhi quasi spiritati, vedeva qualcosa di sinistro.

Qualcosa di mostruoso che, però, non seppe interpretare.

«Non capisci che, facendo così, rovini non solo la tua vita, ma soprattutto, cosa ancora più importante, la mia vita e la mia reputazione?!» aveva proseguito l’uomo, sbraitando. «Rinunciando a sposare quel giovane, mi farai perdere tantissimo denaro! Con tutto quello che mi è costato tenerti qui tutti questi mesi, quando saresti potuta rimanere a casa come al solito! Per non parlare di quello che potrebbe pensare o dire la gente, sapendo che mia figlia, pur potendolo e dovendolo fare, non vuole prendere marito!»

Quella era stata l’estate delle novità, per Edith. La sua vita era mutata profondamente. Non solo aveva scoperto che cosa significasse amare qualcuno con tutto se stessi, donando in piena libertà il proprio corpo e la propria anima a un altro corpo e un’altra anima. Adesso aveva anche trovato il coraggio per replicare a suo padre. Mai, prima di quell’estate, si sarebbe spinta a tanto. Ma la vecchia Edith, quella sempre piegata ai doveri di figlia, non libera di essere una donna con la propria vita e i propri sogni, ora non c’era più. Marta le aveva mostrato chi fosse davvero. E non se lo sarebbe scordata mai.

Si sentì montare dentro una furia che non aveva mai provato prima in vita sua.

«Non me ne importa nulla né dei soldi né di quello che potrebbe pensare la gente!» strillò, fissandolo dritto negli occhi, senza ombra di paura. «Io sono una donna libera! Se non te ne sei ancora ancora, te lo dico io: siamo in un nuovo secolo, è tutto diverso! Io… ahhh!»

Restò senza fiato. Suo padre le aveva afferrato un polso e glielo stava torcendo con rabbia.

«Papà… così mi fai male…» singhiozzò.

«È nulla, se lo paragoni al dolore che provo io a sentire mia figlia che parla in questo modo!» ruggì lui.

Allentò un po’ la stretta. Ora non sbraitava più, e parlava con tono freddo.

«Non osare rivolgerti a me in questo modo, Edith, non osare mai più… nemmeno tua madre ci ha mai provato, o sarebbe finita male. Molto male. Le avrei spaccato la testa a bastonate e la schiena a cinghiate per molto meno, posso assicurartelo. E tu non sei lei… non sfidare la mia autorità, o te ne farò pentire nel peggiore dei modi. Stai a cuccia, sciocca bestiolina, o diventerò cattivo per davvero…»

Quel riferimento a sua madre riempì di lacrime gli occhi di Edith. Questo era davvero troppo.

«Io non sono la mamma!» strepitò. «Forse lei avrebbe obbedito in tutto, ma io…»

«NON OSARE BESTEMMIARE LA SANTA MEMORIA DI TUA MADRE!» ruggì il signor Mayer, fuori di sé, riprendendo a torcerle il polso.

Edith gridò forte per il dolore acuto, ma lui non ci fece caso. Continuò a stritolare il braccio in quella specie di implacabile morsa e a urlare, la voce che saliva di tono e si faceva sempre più stridula a ogni parola.

«Non dimenticare che è morta nel darti alla luce! Tu sei responsabile della sua morte! Non provare a trincerarti dietro di lei o non avrò pietà! Vedrai di che cosa sono capace e ti prometto che non ti piacerà per niente!»

Con uno spintone l’allontanò da sé, mandandola a ruzzolare sul pavimento. La ragazza scivolò all’indietro e picchiò con la testa contro lo spigolo del cassettone. Per un istante, a Edith parve di galleggiare in un nero nulla, fatto di pura tenebra e vertigine. Scivolò nel niente, e non seppe per quanto a lungo ci rimase sospesa. Poi la luce rifluì ai suoi occhi e tornò a mettere a fuoco la stanza. Provò un senso di nausea, ma si riprese non appena riconobbe il viso che la fissava da pochi centimetri di distanza.

Marta era china su di lei e la guardava con apprensione. Si accorse che le aveva stretto la mano. Era sudata. Spaventata. Suo padre era in un angolo della stanza, rosso di collera, con accanto il cavalier Bonofede e Carlo Maria, che cercavano di calmarlo con qualche parola.

«Edith, amore…» disse Marta.

Edith non fu nemmeno certa se lo avesse soltanto sussurrato o se avesse parlato ad alta voce, senza curarsi di ciò che avrebbero potuto pensare gli altri. Scoprì che non le importava.

«Devo essere svenuta», mormorò.

Marta aveva nell’altra mano una pezzuola inumidita. Odorava di aceto. Gliela passò sul viso.

«Ora sto meglio», sussurrò, cercando di mettersi a sedere.

Ebbe un capogiro seguito da un nuoto attacco di nausea. Il polso, dove suo padre glielo aveva ritorto, pulsava forte, mandando fitte dolorose lungo tutto il braccio. Non resistette e tornò a sdraiarsi sul pavimento.

«È inciampata», proclamò ad alta voce il signor Mayer. Respirava molto forte, in preda a una specie di frenesia. «Edith aveva fretta di partire per casa nostra ed è inciampata! Non ne può più di questo posto e di questa gente, vuole soltanto tornarsene a casa, ma la fretta è sempre cattiva consigliera.»

Nessuno gli badò. Il cavaliere fece un passo verso di lei, tallonato da vicino da Carlo Maria, che non sembrava troppo felice di trovarsi nei paraggi di un uomo violento e rancoroso come Mayer.

«Come sta, signorina Edith?» domandò il cavalier Bonofede, con fare bonario.

«Sta bene, sta bene», tagliò corto Mayer, indispettito. «Anzi, ora basta perdere tempo, Edith: ci aspetta un lungo viaggio e dobbiamo partire al più presto! Vedi di darti una mossa!»

Marta si girò di scatto verso di lui, pronta a dire qualcosa di tagliente, ma tornò subito a guardare Edith quando lei le strinse la mano. Si guardarono negli occhi e tra loro passò un’intesa silenziosa.

Lascialo perdere. Non ne vale la pena.

Anche il cavaliere dovette pensare qualcosa di simile. Non degnò Mayer di uno solo sguardo e continuò a sorridere con fare bonario alla ragazza.

Edith, questa volta, riuscì a mettersi seduta. Con l’aiuto di Marta, si alzò in piedi. Le gambe vacillarono un istante, minacciando di cedere, poi la ressero. Si toccò il cranio e una smorfia dolorosa le si disegnò sul viso: le si stava allargando un grosso bernoccolo nel punto in cui aveva sbattuto. Il polso pulsò ancora, ma iniziava già ad andare meglio. Incrociò di nuovo gli occhi di Marta e le comunicò con un sorrisetto che andava tutto bene.

«Be’, caro signor Mayer, pare che siamo ai saluti», disse il cavaliere, voltandosi in modo brusco all’industriale. «Evidentemente, questo matrimonio non s’aveva da fare. Né sua figlia né mio figlio sono riusciti a intendersi, a quanto pare. Ma spero che questo non guasterà i nostri rapporti: se sua figlia lo vorrà, potrà essere ospite a casa nostra tutte le volte che lo desidererà. Non ho potuto fare a meno di notare che, tra lei e la mia Marta, è nata un’amicizia molto profonda, particolare e… intima.»

Il cavalier Bonofede disse queste ultime parole senza riuscire a celare un sorrisetto che pareva voler alludere a molto più di quanto avesse detto. Marta e Edith avvamparono, ma si scambiarono uno sguardo dolce e pieno di felice speranza per l’avvenire.

Mayer non fece caso a tutto questo. Forse non se ne accorse nemmeno. Ignorò in modo ostentato e plateale la mano che il milanese gli stava porgendo.

«Ai miei tempi non era questione di intendersi tra figli, quanto piuttosto tra padri», disse, con accento ripugnato. «Io proprio non so dove stia andando a finire questo mondo… in quanto a mandare mia figlia ospite in casa di estranei, me ne guarderò bene. Che cosa potrebbe mai pensare la gente, sapendo una cosa del genere? Lo scandalo sarebbe inimmaginabile. Probabilmente, dalle vostre parti, l’onore e la reputazione non si sa più nemmeno dove stiano di casa, ma le assicuro che, dove vivo io, sono ancora tenuti in grande considerazione.»

«Oh, be’…» fece Bonofede, un poco interdetto. Ritrovò subito la sua solita aria gioviale. «In fondo, chi siamo mai, noialtri, per decidere come debba andare il mondo o che cosa debba pensare la gente? Non abbiamo voce in capitolo, mio caro Mayer. È una faccenda molto più grossa di noi.»

Per tutta risposta, Mayer si voltò a guardare dalla finestra, rifiutandosi di rispondere qualsiasi cosa.

Il cavaliere si strinse nelle spalle e si rivolse con un sorriso paterno a Edith. Le porse la mano per una stretta che lei fu molto felice di ricambiare.

«Signorina Edith, è stato un piacere immenso fare la sua conoscenza. Le auguro di fare un buon viaggio. E mi raccomando, scriva e telegrafi tutte le volte che lo desidera.» Strizzò l’occhio con fare complice e soggiunse, sottovoce: «Questo, almeno, non dovrebbe creare scandalo tra i benpensanti, giusto?»

«Ci siamo già scambiate gli indirizzi», sottolineò Marta. La guardò con quei suoi occhi grandi in cui Edith avrebbe voluto perdersi a annegare. «E ha già promesso di scrivermi una lettera non appena sarà arrivata, vero?»

«Certo…» rispose Edith, arrossendo.

Non era mai arrossita davanti a Marta per via di qualcosa che aveva detto o fatto lei, ma con tutte quelle persone attorno era tutto molto diverso. Non era semplice come quando erano sole.

Si erano già scambiate il bacio dell’arrivederci la notte prima – era stato molto, molto più di un semplice bacio, a dire il vero, e quando avevano pianto per l’imminenza della separazione, si erano sapute consolare a vicenda – ma ora avrebbe tanto desiderato dargliene un altro, un altro ancora e di nuovo uno, e non smettere più di baciarla, mai più…

Ma era il momento di andare.

Fu il momento di ricacciare indietro le lacrime.

Le loro dita si sfiorarono, un tocco segreto e misterioso; e in quel tocco delicato vibrò ancora una volta la promessa che si erano già fatte: si sarebbero amate per sempre. Quello era stato un inizio, soltanto un inizio. Nulla e nessuno avrebbe mai separato le loro anime, legate a corpi differenti ma capaci di fondersi in un’unica essenza calorosa e dolce come il più saporito dei mieli.

Ora ci sarebbe stata la vita intera, davanti a loro.

Ognuna doveva tornare alla propria casa, consapevole che la separazione sarebbe stata di breve durata.

 

* * *

 

Villa Mayer, ottobre 1903

 

 

Le lettere che scriveva Marta erano appassionate, trasudavano amore vero e totale da ogni singola parola. Nessuno, leggendole, avrebbe potuto fraintenderle. La prima volta che Edith ne aveva letta una, si era sentita rimestare tutta come se lei – lei, il suo amore, e come altro chiamarla, altrimenti? – fosse davvero stata lì con lei, a toccarla, a baciarla, ad accarezzarla e a farle conoscere tutti i segreti della passione più ardente.

All’inizio, le lettere di Edith erano state più formali, più posate. L’aveva colta il timore che qualcuno potesse intercettarle e leggerle. Aveva fatto giri di parole per dirle ciò che pensava.

Così, se da una parte Marta le scriveva senza mezzi termini o finte allusioni: “Vorrei che la mia figa si spalancasse tra le tue dita calde”, Edith rispondeva: “Quanto agognerei essere ancora con te in quel giardino incantato in cui cogliere il bocciolo di rosa più prezioso e levigato”; e se Marta non si faceva scrupoli a dire: “Avrei voglia che mi chiavassi adesso, spremendo e sfregando la tua vulva contro la mia”, Edith replicava con un più pudico: “Desidererei tanto ricominciare a studiare letteratura insieme a te. Mi manca soprattutto lo studio di Dante!”. Poi, però, anche lei aveva a poco a poco ceduto alla passione che le ardeva in petto e che si era trasmessa alla penna e alle parole. Al diavolo ogni formalità, si era detta, mentre scriveva: “Vorrei perdermi tra le tue cosce, vorrei allattarmi al tuo seno, vorrei bere alla tua bocca e infine morire per sempre tra le tue braccia”. Certo, non era riuscita a raggiungere lo stile sboccato di Marta, che in una lettera accartocciata e ancora un poco umida aveva scritto, con mano tremante: “Sono qui allo scrittoio e mi sto toccando da sola mentre immagino di far scivolare la lingua sulle tue belle poppe sode e di bere i succhi saporiti che sprigionano dalla tua figa, e intanto spremere le dita sul vello che la circonda… sei il mio tesoro più prezioso, Edith, amore mio”. Nondimeno, pur essendo incapace di adoperare certi termini molto popolareschi, aveva trovato il coraggio di rivelarle di essersi data piacere da sola, quasi con furia, mentre teneva quella lettera premuta contro il viso.

Solo che poi, all’improvviso, la corrispondenza si era interrotta. Pensando a un errore, alla possibilità che la sua ultima lettera fosse andata smarrita chissà dove, aveva scritto di nuovo. E, di nuovo, non aveva ricevuto alcuna risposta.

Marta, da un giorno all’altro, era scomparsa. Lo aveva fatto senza un solo segno, passando dall’ardore più assoluto al silenzio totale di momento in momento.

Avrebbe potuto ricorrere al telegrafo. Ma nel paesetto di poche case che sorgeva vicino alla villa non c’erano uffici telegrafici, e l’unico disponibile era all’interno della fabbrica tessile, in uno stanzino proprio accanto all’ufficio del signor Mayer. Impossibile pensare di adoperare quel mezzo per avere notizie della donna che amava.

Così, poco a poco, Edith aveva cominciato a soffrire.

All’inizio aveva continuato a sperare. Ogni volta che arrivava il postino davanti al cancello della villa, il suo cuore prendeva a battere molto forte. E la delusione raddoppiava e triplicava ogni volta che scopriva che, in mezzo a conti, fatture, lettere commerciali e altra corrispondenza lavorativa del signor Mayer, non c’era nessuna letterina da Milano per lei.

Le notti insonni si erano sommate alle notti insonni. Il pianto aveva preso a scorrere dai suoi occhi, fino a che non aveva più avuto lacrime da versare e le erano rimasti soltanto singhiozzi e singulti silenziosi e asciutti. Era deperita a vista d’occhio.

In quelle settimane, una volta compreso che il silenzio si era ormai fatto definitivo, aveva odiato Marta. Aveva maledetto il giorno in cui l’aveva conosciuta, aveva pensato a lei come a una perfida strega arrivata per incantarla e irretirla con la sua rete magica e ingannatrice, per poi abbandonarla a morire da sola con la sua disperazione.

Solo che l’odio non era riuscito a prevalere.

L’amore – quell’amore vero, totale, colmo di passione – tornava sempre a farsi largo in lei, e allora soffriva ancora di più, soffriva sempre più forte, perché anche se l’amava così forte da essere certa di poter devastare il mondo, forse l’intero Universo, con la potenza della sua passione, Marta non tornava da lei.

Marta taceva e Edith soffriva.

Soffriva e deperiva.

Fino a quando suo padre, quel suo padre violento e dispotico, che aveva sempre a cuore il proprio interesse e il pensiero della gente e di ciò che avrebbe potuto sussurrare alle sue spalle, prese energicamente in pugno la situazione e mandò a chiamare il professor Husserl.

 

* * *

 

Villa Mayer, dicembre 1903

 

 

Ora l’umiliazione di quelle settimane era finalmente conclusa. Husserl se n’era andato per sempre, non l’avrebbe più toccata con le sue mani sporche e ripugnanti. Questo non cambiava la sostanza, comunque. Lei non c’era, lei non si faceva più viva, lei l’aveva abbandonata, e le sue sofferenze non erano diminuite. Erano soltanto aumentate. La cura era stata del tutto inutile.

Edith si era aspettata di non poterla passare liscia, e infatti così era stato.

«È tutta colpa tua!» sbraitò suo padre, entrando come una furia nella grande sala. «Ti rifiuti di guarire per farmi un dispetto, per rovinarmi l’anima e avvelenarmi il sangue! Tu vuoi la mia morte, svergognata che non sei altro!»

Edith continuò a fissare la neve vorticare oltre la vetrata, stringendo le braccia contro il petto rattrappito. Fu come se non lo avesse nemmeno udito. Ormai, quell’uomo non contava più nulla, per lei. Cercò ancora con lo sguardo la figura intabarrata che aveva notato poco prima, ma non la ritrovò. Forse se l’era soltanto immaginata.

«Girati quando ti parlo, sgualdrina!» tuonò Mayer, facendo un passo in avanti.

Stavolta Edith si girò a fronteggiarlo. Nel mezzo del suo viso pallido, i suoi occhi grigi parvero mandare bagliori spettrali.

«Non provarci un’altra volta, a chiamarmi in una maniera simile», minacciò. «Non puoi permetterti di dirmi una cosa come questa! Non ho fatto nulla di nulla, perché tu debba chiamarmi con un tale epiteto!»

Il labbro inferiore di Mayer tremò in maniera pericolosa.

«Non hai fatto nulla di nulla, dici?!» sussurrò.

I suoi occhi emanarono di nuovo la stessa luce sinistra e infernale che Edith aveva già notato in settembre, alla partenza dall’albergo, quando lui l’aveva picchiata. Un moto di spavento la attraversò tutta.

«E come dovrei chiamarti, visto le sozzerie che non stanno né in cielo né in terra che vi scrivete tu e quella puttanella della figlia di Bonofede?!» urlò l’uomo.

A Edith mancò un battito. Ebbe un giramento di testa e per poco non perse l’equilibrio. Incespicò all’indietro fino ad appoggiarsi con la schiena alla vetrata gelida.

«Tu… tu sai…?»

«Ho intercettato tutte le lettere piene di lerciume che quella puttana ti ha scritto in questi ultimi mesi!» ruggì Mayer. «Mi sono reso conto troppo tardi di che cosa correva tra voi due bestie innaturali, ma ho comunque cercato di rimediare! Ho dovuto dare ordine all’ufficio postale di consegnare a me di persona tutte le lettere indirizzate a te e quelle che tu imbucavi! Le ho prese e le ho bruciate tutte quante, e continuerò a farlo finché questa storia assurda non avrà fine! Io non posso credere che mia figlia… mia figlia sia… sia… sia… ahhhh!» Si portò le mani sulla testa e si strappò interi ciuffi di capelli. Aveva gli occhi quasi fuori dalle orbite. «Ah, che vergogna indegna! Speravo che il dottor Husserl ti guarisse, ti riportasse alla normalità…! Nulla, tutto vano! Quanto vorrei che fossi morta tu, invece di tua madre! Cosa diranno, in paese, quando si saprà quale vergogna mi sono messo in casa?! Ormai sei inguaribile! Nemmeno se io stesso ti rovesciassi in terra e ti penetrassi con furia equina, insegnandoti quale sia il solo scopo di una femmina, potrei farti rinsavire dalla tua insania!»

Durante quel delirante discorso, Mayer aveva preso a muoversi avanti e indietro per la stanza, come un ubriaco. Edith, invece, paralizzata dall’orrore, era rimasta inchiodata dove si trovava. Non riusciva a capacitarsi del fatto che tutta la sofferenza che aveva patito per tutta l’autunno, tutto ciò che aveva subito, tutti i patimenti che aveva sentito nel cuore e nello spirito, fossero dovuti all’opera maligna di suo padre. Quel padre che adesso delirava, dicendo cose che mai e poi mai una figlia dovrebbe ascoltare.

«Vergogna della famiglia!» ululò Mayer. Ormai, più che un uomo, pareva un essere mostruoso. Si agitava, in preda a un crescente e insano farneticamento. «Mia colpa! Mia! Avrei dovuto sopprimerti appena nata, sudicia e abominevole bestia! Ah, la rovina è caduta sulla mia casa! Vergogna! Onta! Depravazione tra queste mura! Hai infettato il mio sangue, essere schifoso, lurido e innaturale!»

Di colpo, il furore esplose dentro di lei. Una rabbia cieca. La consapevolezza che le fosse vietato di essere se stessa… che le fosse vietato di vivere. Il pensiero che chi avrebbe dovuto amarla, proteggerla e sostenerla in tutto fosse in realtà il suo più spietato e mortale nemico.

Troppo, per Edith.

Troppo.

Troppo da sopportare ancora.

«Bastardo!» gridò.

Si scagliò in avanti, i pugni protesi. Non avrebbe saputo dire nemmeno lei che cosa volesse. Voleva colpire, voleva fare male. Voleva annientare. Uccidere. Sentiva un odio antico, primordiale, sentiva dentro di sé la forza irresistibile di milioni di altre donne come lei che chiedevano solo di essere considerate, trattate come creature umane e non come oggetti. Sentì dentro di lei il sapore rabbioso e turbolento di una vendetta che bruciava attraverso le pieghe del tempo.

Fece per colpire, ma era troppo debole.

Suo padre la spintonò bruscamente e, come già mesi prima, la gettò in terra. Solo che questa volta Mayer non si fermò a quello. Si avventò di lei e cominciò a prenderla a calci, colpendola ovunque riuscisse ad arrivare. La sollevò di peso con entrambe le mani e la sbatté di nuovo al suolo, facendola urtare con la testa contro la mensola del caminetto. Il colpo si riverberò dentro di lei, frastornandola e paralizzandola.

«Ti uccido, sconcezza!» gridò Mayer.

Ma ormai i suoi urli erano i ruggiti, i versi di una bestia, di un mostro indescrivibile. Non c’era più nulla di umano, in lui. Sempre che qualcosa di umano fosse mai esistito, dentro l’essenza mostruosa del signor Mayer.

Il dolore che Edith provò fu dapprima lancinante, poi scomparve. Ancora una volta, provò la sensazione di star scivolando in una dimensione di tenebra e di vertigine, dove non c’era fisicità, ma soltanto vuoto, un vuoto pieno di altri come lei, di milioni e miliardi di individui che chiedevano vendetta, che imploravano che qualcuno riscattasse il loro nome.

Eppure, a Edith non sembrò di crollare del tutto in quell’altro mondo.

Continuò a vedere la stanza, in un certo senso. La vedeva da lontano, distorta, come se la stesse guardando attraverso una lente sfocata, o un vetro appannato, ma la vedeva sempre. E vedeva il mostro – suo padre – continuare a colpirla con calci in faccia, in testa, nel petto, sullo stomaco, contro la schiena ormai spezzata. Colpi che rompevano, spappolavano, sfiguravano quel suo povero corpo da cui l’anima era stata costretta a fuggire.

E poi con i suoi occhi, anche se ormai ciechi, vide la porta spalancarsi alle spalle di suo padre e la figura col tabarro nero che poco prima – una vita prima – aveva visto arrancare nella neve.

 

* * *

 

«Nooo, Edith!» gridò Marta.

Mayer, tutto intento alla sua opera devastatrice, quasi non si accorse di lei. Impazzito, continuò a colpire il cadavere della figlia, come se desiderasse distruggerla, annientarla fino a farla scomparire.

Marta scostò il lungo manto nero che le rendeva difficili i movimenti e si buttò in avanti. Con una spallata nella schiena, allontanò Mayer da Edith e lo mandò a ruzzolare in terra. Era forte, Marta, anche se in apparenza sembrava uno scricciolo. Era tanto forte da essere fuggita di casa per salire fino a quel luogo lontanissimo per scoprire come mai la sua amata Edith non avesse più risposto alle sue numerosissime lettere. Sospinto dalla sua furia, Mayer si accasciò e restò immobile.

Marta crollò sulle ginocchia e si protese ad abbracciare il corpo caldo e insanguinato di Edith.

«Edith… Edith, amore… non lasciarmi… torna qui…» implorò.

Calde lacrime le scivolarono dagli occhi e bagnarono il volto esanime della sua giovane innamorata. Marta avvicinò le labbra a quelle martoriate di Edith e vi cercò un alito di vita, ma quelle restarono inerti. Stavano diventando cianotiche. Le sue dita tremanti le cercarono le mani, sperando di riceverne in cambio una stretta.

Invano.

«EDITH!» urlò a pieni polmoni la ragazza. Un urlo isterico, disperato. «EDITH, TORNA QUI!»

Per un istante, Marta ebbe l’impressione che Edith avesse sollevato una palpebra. Troppo tardi si rese conto che era stato solo un gioco di ombre alle sue spalle, un cambio di luce dovuto a qualcosa che si era mosso.

Si voltò, ma non fu abbastanza veloce.

Attraverso il velo di lacrime, vide che Mayer si era alzato in piedi e aveva brandito l’attizzatoio del caminetto. Con un movimento secco, la punta aguzza e incandescente dell’attrezzo calò verso di lei e le forò la parte bassa della schiena, uscendo dalla parte del ventre.

Marta, senza emettere un solo gemito, si accasciò contro il corpo di Edith. Cercò di respirare, ma le costò troppa fatica. Il sangue le gorgogliò nei polmoni, soffocandola. Non riuscì a compiere nessun movimento, né poté impedire a Mayer di sollevarla di peso e di scaraventarla con la testa dentro il camino acceso, sopra il ciocco ardente. Le fiamme le attecchirono ai capelli, avvolsero il viso e consumarono pelle e carne. La ragazza tremò, si irrigidì e infine il suo corpo si rilassò per sempre.

«Sgualdrine, puttane, abomini della natura!» abbaiò Mayer. «Per fortuna ho preso energicamente in pugno la situazione contro di voi, mostri schifosi!»

Per un momento, Mayer parve sul punto di cadere ancora, come se lo avesse colto un mancamento. Si riprese quasi subito e si chinò ad afferrare il corpo di sua figlia. Le mani gli si macchiarono di sangue.

«Vi porterò nel bosco, carogne, e lascerò che gli animali selvaggi pasteggino con le vostre carcasse putride, e poi io…»

Le parole gli morirono in bocca.

Perché Edith – il cadavere di Edith – era stretto tra le sue mani.

Ma Edith era anche lì, in piedi di fronte a lui, accanto al camino.

Era lì, in piedi, e lo guardava con due occhi che erano pozzi neri attraverso cui scorreva tutta l’eternità, pozzi neri oltre i quali gridavano voci che non avevano corpo, volti che non avevano identità.

Il signor Mayer urlò.

 

 

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Capitolo 8
*** 7. ***


7.

 

 

Novembre 2021

 

 

Orso si scusò un momento.

«Troppo vecchio Jack e lambrusco, e la natura chiama», biascicò, andando verso la porta del bagno.

Aurora stava accarezzando distrattamente il gatto ronfante. Aveva le lacrime agli occhi. Qualche volta – qualche rara volta – persino lei sapeva dimostrarsi un essere umano, in grado di commuoversi e di provare emozioni.

«Che storia tremenda», sussurrò. «Io… io non riesco a credere che un padre possa avere fatto qualcosa di simile a sua figlia. Nessuno al mondo dovrebbe fare una cosa così, ma un padre…! A sua figlia…»

Manfredi la guardò con tenerezza.

Gli sarebbe piaciuto dirle che era soltanto una storia, frutto di fantasia, che non c’era nulla di vero. Purtroppo, che lo fosse o meno in quel specifico caso, questo non cambiava la realtà dei fatti: storie simile erano ancora all’ordine del giorno. Non passava una sola sera senza che al telegiornale si sentissero simili racconti macabri. Uomini brutali che si arrogavano diritti che non possedevano e che decretavano la vita o la morte della creature preziose che avrebbero dovuto difendere e amare con tutto se stessi… tutto questo lo ripugnava. Non riusciva proprio a spiegarsi come potessero esistere, in giro per il mondo, simili individui. Non se la sentiva di definirli uomini. Erano mostri, fatti e finiti.

Quel Mayer era solo la raffigurazione di una realtà devastante con cui le forze dell’ordine dovevano fare i conti ogni giorno. E la cosa che più lo turbava e lo riempiva di sgomento, era che il numero di casi che veniva portato alla luce era irrisorio, rispetto al dato reale: perché di simili violenze si parlava soltanto quando scaturivano in una morte o in un tentativo di omicidio, su cui si puntavano riflettori, telecamere e penne dei giornalisti. Ma la triste verità era che le percosse, gli abusi, le vite distrutte che passavano sotto un silenzio totale – il silenzio di chi le compiva, dei familiari, di chi chiudeva gli occhi, delle stesse vittime che avevano perduto la capacità di difendersi o che, peggio ancora, a causa di profondi lavaggi del cervello a cui non erano più capaci di sottrarsi e ribellarsi, credevano di meritare davvero una simile violenza – erano innumerevoli.

Era sconvolgente anche solo pensarci.

«È disgustoso», commentò. «So che non bisogna augurare nulla del genere a nessuno… ma spero che quel demonio di Mayer abbia sofferto.»

«Lo ha fatto, posso assicurarvelo», disse Orso, tornando in salotto.

Si sistemò gli occhiali che gli erano scivolati sul naso e si rimise a sedere.

«Nelle settimane successive, Mayer restò rinchiuso in quella casa con i cadaveri delle due giovani. Impazzì. Alla fine, qualcuno se ne accorse e le guardie fecero irruzione nella villa. Non poterono fare molto, dovettero far venire il personale di un manicomio per prelevarlo, da tanto era diventato isterico. Urlava, sproloquiava e cercava di prendere a pugni e a calci chiunque gli si avvicinasse. Diceva di vedere Edith ovunque andasse, farneticava che lei lo stesse perseguitando, impedendogli di mangiare e di dormire… Probabilmente aveva perduto il lume della ragione nel momento stesso in cui aveva messo le mani addosso alla figlia… perlomeno, io me lo auguro. Mi rifiuto di credere che un padre abbia ridotto la sua creatura in quelle condizioni con cognizione di causa, anche se Mayer aveva più volte dimostrato di essere autoritario, violento e brutale…»

Orso tacque, disgustato al solo pensiero.

«Ma quindi non c’era un vero fantasma?» domandò Aurora, più che altro per deviare un po’ dall’argomento del massacro. «Nel senso, era tutto nella testa di Mayer?»

Orso fece un cenno vago, che non voleva dire né no né sì.

«In un primo momento, la cosa fu interpretata proprio in questa maniera», confermò. «Un assassino ormai privo di senno, carne da manicomio… e fu così che andò, eh. Passò il resto dei suoi giorni a subire elettroshock e a venire imbottito di farmaci. Tutto inutile. Edith continuava a perseguitarlo. E il vecchio aveva un tale attaccamento alla vita che sopravvisse per qualcosa come altri quarantacinque anni… immaginatevi che roba, passare quasi mezzo secolo sepolti vivi dentro le quattro pareti imbottite della cella di un manicomio, uscendone solo per trovarsi degli elettrodi in testa o immersi in una vasca d’acqua gelida, oppure a pranzo e a cena con altri pazzi, con le immagini della figlia che hai ucciso che non ti abbandonano un solo attimo. Alla fine, quando finalmente crepò, lo buttarono in una fossa comune e addio, senza funerali e senza niente, come un animale selvatico.» Orso si fissò i piedi. «Non credo che esista una trama dell’orrore peggiore.»

«Be’, ben gli sta, a quel mona», commentò Aurora, dura.

«È quello che dico anche io», le fece eco Alberto.

«E io sono con voi», rispose Orso. «S’è meritato ogni brutta cosa che ha avuto.»

Aurora scostò con delicatezza il gatto e si alzò in piedi per sgranchirsi le gambe. Si tastò la tasca posteriore dei jeans e ne tirò fuori il pacchetto di sigarette tutto ammaccato e schiacciato.

«Cazzo, questa storia mi ha messo addosso una roba…» borbottò. «Ti dispiace se fumo, o vuoi che esca? Non ce la faccio più senza.»

«Fai pure come se fossi a casa tua», rispose Orso, con un sorriso gentile.

Aurora fece scattare il suo accendino. Incendiò la punta della sigaretta e ne trasse una lunga boccata. Sottili fili di fumo le uscirono dal naso, e si lasciò andare a un sospiro soddisfatto.

«Mi ci voleva proprio», commentò.

Cominciò a camminare avanti e indietro per la stanza, piano piano, osservando le varie suppellettili sparse sui mobili: fotografie, soprammobili di gusto più o meno dubbio, vecchi ricordi. Oltre a questo, qua e là c’erano mucchi informi di scontrini, di cataloghi del supermercato, di riviste di enigmistica tutte stropicciate, compilate con una grafia nervosa e assai poco ricercata. Lo strato di polvere che incorniciava il tutto lasciava presagire che Orso, quando faceva le pulizie, si concentrava molto più sul pavimento, che non sui mobili. Aurora ridacchiò nell’immaginarlo mentre, lanciatasi un’occhiata furtiva in giro per accertarsi di essere solo, spazzava tutto sotto i tappeti.

«Abiti solo, in questa grande casa?» domandò.

Si girò a guardarlo.

«Se non sono invadente…» cercò di scusarsi.

Stavolta fu il turno di Alberto di prenderla in giro.

«Perdonala, ma il sottotenente è uno sbirro fatto e finito, e se non ti inquisisce prima di andare a letto, poi non riesce a dormire», commentò, con accento sarcastico.

Orso sorrise, lasciando intuire che la domanda non era affatto invadente o indiscreta.

«Ogni tanto viene qualcuno», spiegò. «Di posto ce n’è più che in abbondanza. Però per il resto sì, ci sto da solo. Questo è il mio rifugio, in fondo. La mia vera tana, che non c’entra nulla con l’affittacamere. Qui è dove creo.»

«Crei», ripeté Aurora, fissandolo attraverso il fumo della sigaretta.

«Credo che sia il termine corretto, almeno», si giustificò Orso, senza celare l’accento timido che aveva nella voce. «Scrivere è un atto creativo. Non siete d’accordo? È un po’ come essere il piccolo dio di un mondo tutto mio. I miei personaggi, alla fine, dipendono in tutto e per tutto da me: quello che fanno, da dove vengono, dove vanno… tutto è compito mio, anche se loro non se ne rendono conto e vivono la loro vita in modo del tutto normale. Si muovono in un mondo di cui io ho creato e impostato le regole… anche se, qualche volta, succedono degli imprevisti, cose che non avevo preso in considerazione, roba del genere. A volte mi domando come reagirebbero, se si trovassero a tu per tu con il loro dio creatore onnipotente e scoprissero che è poco più che un trentenne disperato che non sa bene che cosa fare della propria vita, e che di onnipotente non ha assolutamente nulla.»

Orso guardò da Aurora a Alberto e poi da Alberto a Aurora.

«Credo che non se ne renderebbero conto, comunque», concluse. «Nessuno di noi saprà mai se la persona che ha avuto accanto per un po’ era un essere normale come chiunque altro oppure un dio. Forse perché gli dèi, in fondo, si atteggiano tanto, ma alla fine valgono meno di nulla.»

Aurora fumò ancora, senza dire nulla. Sembrava persa a rincorrere qualche pensiero. Manfredi, invece, parve un po’ a disagio da quei discorsi.

«Io spero proprio di non trovarmi mai e poi mai alle prese con un dio, anche se ultimamente ci siamo andati vicini… il diavolo può essere considerato un dio, giusto?»

«Ci sono tanti dèi, in questo mondo e fuori da esso», replicò Orso, annuendo. «Il fatto che le religioni monoteiste onorino e glorifichino un solo dio non significa che lo riconoscano davvero come unica divinità esistente. Si sono scelte un dio e credono che sia il migliore, tutto qui. E lo credono solo loro: per come la vedo io, per esempio, il dio patibolare che appare nel più noioso fantasy mai scritto è soltanto di un pusillanime con manie di grandezza, capriccioso e asfittico, sempre bisognoso che i suoi fedeli gli cantino le lodi per poter respirare e sopravvivere.»

«E tornando a Villa Mayer…» intervenne Aurora.

«So cosa vuoi chiedermi», la anticipò Orso, lasciando perdere le sue personali idee di ambito religioso e tornando in argomento. «Ci furono altri avvistamenti di fantasmi, che ne giustifichino la fama sinistra che l’ha circondata fino a oggi?» Si mise un po’ più comodo sulla poltrona. «Ebbene, la risposta è sì.»

Prese la bottiglia di vecchio Jack che Alberto gli stava porgendo – ormai, era piena per metà – e ne bevve un sorso, stavolta più moderato.

«Vedete…», ricominciò.

Offrì la bottiglia a Aurora, che scosse la testa in segno di diniego. La appoggiò sul tavolino posto tra il divano e la poltrona e si risistemò contro lo schienale.

«Vedete…» riprese, «…la villa restò chiusa per diversi anni, intanto che veniva svolto il processo a Mayer. Essendogli stata riconosciuta l’infermità mentale, venne rinchiuso in manicomio, come vi dicevo poco fa. Non aveva parenti, e c’erano da pagare tutte le spese processuali, e poi c’era da versare un enorme risarcimento alla famiglia del cavalier Bonofede. Le sue industrie vennero spartite tra diversi uomini d’affari, mentre la villa fu sequestrata e posta all’asta. Per qualche tempo, i bandi andarono deserti: la villa aveva già allora un aspetto sinistro, e oltre a questo c’era da considerare che non si trovava in una zona propriamente facile da raggiungere. Ad acquistarla, un po’ più di dieci anni dopo gli omicidi delle due ragazze, fu un musicista…»

 

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Capitolo 9
*** 8. ***


8.

 

 

Villa Mayer, settembre 1915

 

 

«Maestro, ma è davvero sicuro di voler abitare in questo posto?»

Veniero Zucconi, che a suo tempo era stato annoverato tra i maggiori compositori di musica sinfonica e da camera contemporanei, non rispose subito. Stava esaminando quello che, in passato, doveva essere stato uno dei principali salotti della casa – probabilmente adibito a studiolo del padrone di casa – ma che ora era ridotto a un ammasso di mobili fatti a pezzi, come se qualcuno si fosse divertito a martellarli per il puro gusto di romperli e di spargerne i rottami in giro.

«Più che sicuro», affermò il musicista. «E per tre motivi più che validi, mio caro Calogero.»

Veniero si voltò a guardare il suo domestico. Calogero era impettito e marmoreo come una statua, le mani incrociate dietro la schiena, e restò impassibile in una rispettosa distanza sociale, come sempre.

«Vuoi che te li elenchi?»

«Con tutto il rispetto, come desidera lei, maestro», rispose Calogero, senza scomporsi.

«Primo», disse Veniero, facendosi largo tra pezzi di mobilia e calcinacci per andare ad affacciarsi all’ampia finestra dello studio, «questo posto mi piace. Mi piace lo stile architettonico della villa, così insolito e variegato. E poi mi piace il luogo in cui è ubicata, mi piace il panorama di cui si gode da qualsiasi parte si osservi, mi piace il profumo resinoso dei boschi di conifere che si sente quando si apre la porta… mi piace tutto, di questa dimora.»

Si spostò di qualche passo per passare la mano sulle pareti scrostate. I lavori di restauro avrebbero richiesto molti sforzi. Ma il maestro era abituato a ben altro, e non si sarebbe lasciato scoraggiare da così poco.

«Secondo», proseguì, «qui sento che ritroverò la giusta tranquillità per ricominciare a comporre. Come già ben sai, la città e il suo caos non mi permetteva più di dedicarmi alla mia musica. Inoltre, la vicinanza al luogo in cui dimora la persona che sappiamo era ogni volta un rinnovato dolore nel petto, perché mi costringeva a ripensare di continuo al rifiuto che ne ho ricevuto. Finalmente sarò libero, nel fisico come nella mente. Potrò ricominciare le mie ricerche e inoltrarmi nelle sperimentazioni musicali, uscendo dagli schemi in cui sono stato rinchiuso fino a oggi. Inoltre, ormai si parla solo di guerra, di guerra e di guerra, e di morti e di trincee, e di assalti e ritirate. Qui, nella pace, potrò finalmente ignorare quelle funeste notizie.»

Il domestico tossicchiò.

«Perdoni l’ardire, maestro, ma il fronte non è poi così lontano da dove ci troviamo in questo momento…»

Veniero lo ignorò.

«Terzo», concluse, «il lato pratico e venale della faccenda, a cui nemmeno uno spirito libero e alto come il mio può sottrarsi: ormai ho tirato fuori una cifra da capogiro per acquistare questa proprietà, e nessuno me la restituirà. Pertanto, caro Calogero, se abbiamo terminato con gli elenchi, con i come e con i perché, direi che sia ora di cominciare a darci da fare per rendere questo posto finalmente degno di essere chiamato dimora. D’accordo?»

Calogero sospirò in modo quasi impercettibile.

«Perfettamente d’accordo, come sempre, maestro.»

 

* * *

 

Novembre 1915

 

I lavori di restauro si rivelarono abbastanza complessi, molto più di quanto Veniero e il suo domestico avrebbero potuto prospettare.

Innanzitutto, nei paraggi non si trovò l’ombra di un manovale che fosse intenzionato a mettere piede in quella villa. Anzi, a dire il vero, sembrava che la gente del posto non volesse avere a che fare non soltanto con la costruzione, ma anche con chi l’abitava – a prescindere da quanto tempo vi si fosse trascorso dentro – come se il solo stare a contatto con quel posto rendesse in qualche modo contagiosi.

Non appena Veniero o Calogero facevano la loro apparizione nel piccolo villaggio che sorgeva a qualche chilometro da Villa Mayer, appena fuori dal bosco, era tutto uno sbattere di porte, di chiudersi di imposte e di passi affrettati, finché attorno a loro restavano soltanto il silenzio più assoluto e la nebbia che, da quelle parti, in autunno come in inverno – e, in certe giornate particolarmente uggiose, anche in primavera e in estate – era una costante quasi irrinunciabile.

«La gente di montagna è un po’ chiusa con i forestieri», si limitò a commentare Veniero. «Bisogna dargli il tempo di conoscerci meglio, tutto qui.»

Così, dovettero spingersi a parecchia distanza per trovare un rigattiere disposto a portarsi via i mobili sfasciati. E, ancora più complesso, fu trovare la manodopera per occuparsi dei lavori di restauro. Alla fine, Veniero fu costretto a scendere in città per assoldare un gruppo di muratori disposti a lavorare nella villa.

Questa fu soltanto la prima parte dei problemi.

Il peggio doveva ancora venire.

Il rigattiere a cui erano riusciti a vendere la mobilia ormai ridotta a poco più che legna non buona nemmeno da ardere, fu visto scappare a gambe levate pochissimi minuti dopo aver messo piede nel salone in cui si trovava il grande caminetto.

Veniero e Calogero, in quel momento, erano nell’atrio, a studiare la disposizione di alcuni mobili che il musicista si era appena fatto recapitare. Sentirono uno strillo isterico e, subito dopo, videro il rigattiere scendere di corsa lo scalone dell’entrata. Fece i gradini a due a due, a tre a tre, sollevando sbuffi di polvere. Inciampò nei propri piedi e ruzzolò, percorrendo rotolando gli ultimi cinque o sei gradini.

Fu come se non se ne fosse nemmeno accorto.

Sempre strillando – con acuti tali che avrebbero fatto invidia a un soprano lirico, riconobbe in seguito Veniero, che di quelle cose se ne intendeva – l’uomo balzò in piedi, dette uno strattone al lungo e sgualcito cappotto di fustagno che gli si era impigliato tra le gambe, e schizzò all’esterno. In un attimo, fu in cassetta al suo carretto e con le briglie incitò il mulo perché si allontanasse il più in fretta possibile.

Tutto accadde così in fretta che Veniero e Calogero non poterono fare altro che guardarlo sfilare a quel modo di fronte a loro, senza riuscire a chiedere che cosa diavolo stesse succedendo.

Lo videro sparire al di là della cancellata e allontanarsi lungo il sentiero che serpeggiava in mezzo al bosco.

«Non credo che tornerà, vero?» domandò Veniero.

«Ne dubito alquanto, maestro», replicò Calogero, sempre impassibile e imperturbabile.

«Con tutta la fatica che avevo fatto per trovare un solo rigattiere, ora sarà assai difficile riuscire a scovarne un secondo», constatò il musicista. «Mi sa che ci toccherà arrangiarci.»

Così, il padrone di casa e il suo domestico furono costretti a chiedere l’aiuto dei muratori per poter raccogliere la vecchia mobilia e serrarla negli ampi e oscuri scantinati della villa. Nessuno dei manovali sembrò molto felice di restare a lungo là sotto, nel buio che premeva addosso quasi come se fosse stato un qualcosa di fisico e di tangibile, e tutti quanti trassero un lungo sospiro di sollievo quando poterono riemergere alla luce tiepida del sole.

Ma le cose non finirono lì.

I muratori cominciarono a lamentarsi. Dicevano di perdere gli attrezzi, che i sacchi di cemento si rompevano un po’ troppo spesso e che i secchi di malta si rovesciavano senza alcun motivo apparente per farlo. Poi, prima uno, poi due, infine tutti quanti, dissero di aver visto la ragazza.

«Non ci sono ragazze, qui dentro», chiarì Veniero, quando il muratore eletto a portavoce del gruppo andò a lamentarsi che non potevano lavorare, se quella signorina discinta non l’avesse finita di aggirarsi nel cantiere provocando danni e facendo scherzetti di vario genere – tutti, comunque, di cattivo gusto. «Ci siamo soltanto io e Calogero, e come può vedere di persona siamo entrambi maschi, e anche piuttosto avanti con gli anni, quindi abbiamo perduto quei pochi tratti femminei che ci portammo addosso all’epoca remota dell’infanzia.»

«Io le sto solo riferendo quello che mi è stato detto di dirle, signore», replicò il muratore. «Addirittura, il Giobatta se l’è trovata davanti mentre si era ritirato in un angolo a pisciare… per lo spavento, se l’è versata tutti sui calzoni e sulle scarpe.» Abbassò il tono della voce, come per accertarsi che nessun altro potesse sentirli. «E… detta tra di noi, signore… anche io l’ho vista. Meglio, l’ho intravista. Quasi un guizzo. Capelli lunghi e neri, un abitino bianco e quasi trasparente, che si vedeva praticamente tutto, sotto…»

Veniero scambiò uno sguardo divertito con Calogero, come sempre ritto al suo fianco come una specie di ombra parlante.

«Per averla soltanto intravista – come dice lei, giusto un guizzo – l’ha descritta molto bene», fece il musicista. «Per quanto riguarda gli abiti del suo compare Giobatta, sarà mia premura farglieli lavare, se lo riterrà necessario.»

«No, certo che no…» farfugliò il muratore.

«E ora, detta tra noi, caro signore…» proseguì Veniero. Anche lui abbassò la voce, con fare carbonaro. «…voi altri ragazzi siete davvero così infoiati da non essere in grado di lavorare, se vedete una signorina curiosa che viene a dare una sbirciata su come procedono i lavori?»

Il muratore lo fissò come se fosse impazzito.

«Io ho moglie e figli, signor mio!» specificò, piccato. «Non penso più alle altre donne da molto, molto tempo. Magari giusto il sabato pomeriggio, quando faccio una capatina al casino, e nemmeno tutte le settimane! Sono un uomo responsabile, io!»

«Molto bene, e allora…»

«E allora, evidentemente, lei non ha visto quella ragazza, perché se l’avesse vista…» Il musicista lasciò cadere la frase, scuotendo la testa. Né Veniero né Calogero furono capaci di cavargli alcunché d’altro dalla bocca.

In ogni caso, in un modo o nell’altro, tra incidenti di vario genere e apparizioni misteriosi, verso la metà di novembre i lavori vennero ultimati. I muratori non sembrarono affatto dispiaciuti di sfilare davanti al padrone di casa, prendere il loro compenso e affrettarsi a tagliare la corda. Tutti quanti si guardarono bene dal dire: “Arrivederci”.

Quando fu il turno di quello che aveva fatto da portavoce, tra lui e il musicista corse uno strano sguardo.

«Se non l’ha ancora vista, signore…» disse il muratore, che in quei giorni era parecchio dimagrito e impallidito, «…lo farà… lo farà…»

Poi l’uomo se ne andò, e né Veniero né il domestico Calogero ebbero il coraggio a esprimere ad alta voce quello che avevano in mente: quell’uomo era terrorizzato a morte.

Come se avesse visto un fantasma.

 

* * *

 

Dicembre 1915

 

 

Veniero Zucconi, il grande musicista che, agli inizi del secolo, aveva fatto piangere il pubblico della Scala di Milano, della Fenice di Venezia e del San Carlo di Napoli con le sue struggenti composizioni, finalmente era tornato a immergersi appieno nel suo elemento.

Lui, il maestro che si era innamorato non ricambiato, e che per quel dolore aveva perduto il tocco magico, ora scriveva di nuovo. Era di nuovo lui. La musica era tornata a essere la sua vita, cancellandogli dal cuore il peso che lo aveva oppresso troppo a lungo.

Non sarebbe più riuscito a comporre quelle musiche sinfoniche colme di malinconia che lo avevano reso celebre, di questo era sicuro. Però stava componendo. I solfeggi che uscivano dalle sue dita, le sue mani che vagavano sulla tastiera del pianoforte stavano creando qualcosa di molto differente. La sua nuova musica era secca, sperimentale, usciva dagli schemi della composizione classica. Però era piena d’anima, lo riconosceva.

L’anima di Villa Mayer.

Aveva fatto sistemare il suo grande pianoforte a coda nel salone del camino, proprio di fronte alla vetrata da cui si ammirava il panorama della vallata, che si scontrava all’orizzonte con i contrafforti delle montagne. Adesso il paesaggio era stato imbiancato quasi completamente da una freddissima coltre di bianca neve, che aveva ammantato ogni cosa tramutando il mondo in una distesa piatta e misteriosa.

Quasi per caso, Veniero aveva saputo che, in quella sala, anni prima, si era consumato un efferato delitto. Era stato Calogero a riferirglielo, dopo averlo saputo da una delle abitanti del paese vicino.

La gente diceva che quel posto era scalognato, quindi evitava il più possibile ogni contatto con i due abitanti di quella che, per tutti – compreso Veniero, del resto – era rimasta Villa Mayer. Ma anche quei due uomini avevano bisogno di nutrirsi, così Calogero aveva battuto il paese alla ricerca di qualcuno disposto a vendere verdura, frutta, farina, carne, formaggio, latte e uova. Alla fine, qualcuno doveva aver pensato che quel povero domestico fosse solo una vittima di un padrone instabile, e le porte – per lui, solo per lui, non certo per Veniero – avevano cominciato ad aprirsi.

E nell’aprirsi le porte, si erano sciolte le lingue.

«Fu qui, stando alle dicerie, che l’uomo uccise le due giovani amanti», spiegò una sera Calogero, mentre, stringendo l’attizzatoio tra le dita, smuoveva le braci ardenti nel tentativo di far attaccare il fuoco al grosso ceppo che aveva messo nel caminetto. «Le uccise in modo brutale, disumano.»

«L’omicidio è disumano in qualsiasi forma si palesi», gli rammentò Veniero, seduto sullo sgabello, gli occhi fissi alla tastiera. «Ma credo che questo possa giocare a mio favore, caro Calogero.»

«Non riesco a seguirla, maestro.»

Il musicista voltò la testa e guardò le fiamme che cominciavano a guizzare attorno alla legna, intaccando i primi strati di corteccia. Il fumo profumato di bosco prese a salire a spirale lungo la canna fumaria.

«Se questo posto ha mantenuto intatte al suo interno delle vibrazioni negative, le sfrutterò a mio completo vantaggio. Lascerò che lo spirito di quella Edith si impadronisca di me e guidi le mie mani sulla tastiera. Attraverso la mia musica, il suo tormentato amore per Marta rivivrà ancora. Io lo eternerò. Forse il grande pubblico, ormai, si è scordato di me, ma un giorno non lontano dovrà ricredersi e saprà presto di che cosa sia capace Veniero Zucconi! E anche colui che non ricambiò il mio amore, verserà lacrime amare nel constare di quali struggenti storie sappia essere latore il mio cuore ferito.»

«Come desidera lei, maestro», replicò Calogero, accondiscendente come suo solito.

 

* * *

 

Quella notte, Veniero fu strappato al sonno da una serie di suoni improvvisi.

Sollevò le palpebre e si guardò attorno, stralunato e infreddolito. Si era addormentato sopra il divano del salone, dove si era coricato pensando alla sinfonia che stava componendo. Un insieme di suoni secchi, sempre più lenti e cupi, quasi disarmonici, che nelle sue intenzioni avrebbero dovuto comunicare con la voce della musica gli ultimi palpiti dell’animo innamorato di Edith morente. Solo che, adesso, stava sentendo per davvero quella stessa sinfonia, e non era lui a suonarla.

Nel caminetto languivano ancora le braci. Rosseggiavano da sotto la cenere, spandendo una luminescenza che faticava a farsi strada attraverso la stanza. Dai vetri appannati della finestra, vide rincorrersi alcuni nuvoloni rischiarati dal riflesso della neve su cui si riversavano i raggi della luna piena, non del tutto celata dalle nubi.

La musica proveniva dal pianoforte.

Qualcuno lo stava suonando.

Come ipnotizzato, Veniero si mise a sedere e si alzò. La veste da camera nera e argentata, che si era attorcigliata, si distese fino a sfiorargli i piedi nudi. Si avviò a piccoli passi verso la figura china sulla tastiera dello strumento. Da dove si trovava, vedeva soltanto un manto bianco su cui ricadevano lunghi e sfilacciati capelli neri.

«Ma chi…?» mormorò.

La musica si interruppe.

Un volto grigio, spettrale e acceso d’odio, si girò a fissarlo. Occhi che parevano pozzi senza fondo si fissarono nei suoi. Veniero restò paralizzato dall’orrore e dallo sgomento.

La figura si alzò con lentezza dallo sgabello. Si voltò per intero. La veste aperta lasciava intravedere un corpo femminile, bianco, piagato e martoriato. Le mani erano scheletriche, bianche, storte. Sembrava fumo, perché Veniero era certo di stare vedendo attraverso quella donna. Vedeva il suo pianoforte, ma vedeva anche lei.

Era come guardare un’ombra sgranata. Un’ombra che lo fissava attraverso il buio, attraverso l’oscurità e il tempo.

«C… chi…» balbettò Veniero.

La figura spettrale spalancò la bocca ed emise un urlo acuto che fece vibrare i vetri alle finestre e ferì i timpani del musicista. Veniero si portò le mani alle orecchie per cercare di difendersele. Sembrava che in quell’urlo ci fosse una parola, forse un nome, qualcosa che cominciava con la lettera EMME.

«Maestro, che succede?!» gridò Calogero, facendo irruzione in vestaglia nella stanza, con un candelabro in mano.

La sua flemmatica tranquillità venne meno quando la figura ammantata di bianco gli si avventò addosso, strappandogli il candeliere di mano e gettandolo da una parte. Calogero venne sbattuto contro la parete, mentre l’urlo non cessava un istante, e anzi cresceva sempre più di intensità.

Veniero, nell’assistere a quella scena, si riscosse.

Non aveva idea di che cosa stesse succedendo e nemmeno voleva saperlo.

Era conscio soltanto di una cosa: dovevano andarsene tutti e due alla svelta da quel posto maledetto.

Si mosse di scatto e non si sorprese di avere tutti i peli del corpo rizzati per il terrore. Gli sembrò di galleggiare in un incubo mentre correva verso la porta, afferrava Calogero per il braccio e lo trascinava in fretta verso le scale.

«Via, via!» urlò Veniero, in preda all’isteria.

Rivide il rigattiere. Rivide il muratore.

E comprese.

Così com’erano, senza nemmeno perdere tempo a coprirsi o a infilarsi le scarpe ai piedi, i due uomini fuggirono a rotta di collo. Preferirono il freddo del bosco e della neve a ciò che si erano lasciati alle spalle.

Dietro di loro, il grido non cessò, continuò a echeggiare accompagnato dalle note di quella partitura che Veniero Zucconi non avrebbe composto mai più. Li inseguì oltre la soglia e giù dal poggio su cui sorgeva Villa Mayer.

Poi si perse nella notte.

 

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Capitolo 10
*** 9. ***


9.

 

 

Novembre 2021

 

 

«Mi sento come quei tizi su YouTube che vanno in giro per vecchie case e cimiteri abbandonati, con le telecamere e tutti quegli aggeggi assurdi pieni di microfoni e led, a cercare se ci sono fantasmi», commentò Daniele, con un sorriso.

Anche Valeria trovò la forza per dischiudere le labbra in un piccolo sorriso.

«Gli HUL, gli Hunters of Unusual, li seguo sempre», disse. «Magari è tutto finto, però… chissà. A volte mi fanno fare qualche balzo sulla sedia, lo ammetto. Fanno sempre vedere di quei luoghi assurdi, con le loro esplorazioni. Alcuni sono molto affascinanti e mi piacerebbe visitarli di persona, prima o poi. Però loro ci trovano sempre dentro di tutto: demoni, strane presenze, fantasmi… io ne ho visti tanti, di cimiteri abbandonati, ma non ci ho mai trovato nulla al di fuori di un senso di pace. E, in fondo, perché mai un’anima dovrebbe restare legata a un cimitero che non ha mai avuto alcun significato per la sua esistenza? Lì ci sono i resti di un corpo, ossa e poco altro, ma nessuno di noi si interessa di quale fine facciano i suoi vestiti vecchi e logori e sciupati, dopo essersene disfatto, no?»

Erano immobili sotto il portico d’ingresso a Villa Mayer.

Dopo aver risalito adagio il poggio che un tempo aveva accolto il parco della dimora, e che ora si era tramutato in un intrico di vegetazione non dissimile dal resto del bosco circostante – non fosse stato per la presenza di palme, allori e oleandri ormai inselvatichiti, piante che difficilmente sarebbero potute crescere da sole a simili latitudini – avevano superato i tre gradini che immettevano nel portico. Il cemento sbriciolato aveva scricchiolato sinistro sotto le suole delle loro scarpe. Cric-cric.

Superare il sentiero nel bosco, per quanto breve, era stato complicato.

Dal buio sotto gli alberi, dalle spire della nebbia, sembrava di essere osservati da creature misteriose e silenziose, pronte a balzargli addosso. Oltrepassare il parco, poi, era stato difficilissimo: non avevano fatto altro che guardarsi attorno, cercando di sondare le insidie celate nelle ombre fitte. Gli alberi – le palme, soprattutto: Daniele aveva scoperto che le palme gli mettevano addosso un’ansia tremenda, forse perché in quel luogo erano del tutto fuori posto, qualcosa di estraneo e sbagliato, così dritte in un mondo dove le altre piante tendevano a crescere storte e contorte per assecondare il vento e gli altri elementi – sembravano sagome immobili, forme oscure grondanti umidità, i cui scricchiolii erano mormorii indistinti in una lingua sconosciuta.

Peggio del parco e del bosco messi insieme, però, si era rivelato essere il porticato. Molto peggio. Vi si respirava l’atmosfera della villa. Vi si sentiva aleggiare sopra quella sensazione che tutto fosse… ancora una volta, che tutto fosse sbagliato. Se le palme nel parco erano fuori posto, l’intera struttura di Villa Mayer era dannatamente fuori posto. Era un brivido lungo la spina dorsale, una mano gelida che si chiudeva a tenaglia sui loro cuori, un pugno nello stomaco che smorzava il respiro e stringeva come una morsa.

Lì si erano fermati.

Tesero le orecchie. Non udirono altro suono all’infuori dei loro respiri. Non si udiva più null’altro, neppure i sussurri degli alberi, come se salendo quei tre gradini avessero varcato la soglia di un’altra dimensione. Il mondo dei vivi dietro di loro e il regno della morte davanti, oltre la soglia, come la porta della perduta gente. E loro nel mezzo, in un limbo di irrealtà.

Gli occhi di Daniele sfiorarono l’immagine di Valeria. Cercò in lei un poco di conforto. Senza di lei, non si sarebbe mai neppure avvicinato. Ma la presenza della giovane donna gli diede una delicata parvenza di sicurezza. Magari soltanto una parvenza, appunto; ma meglio di niente.

Accanto alla porta di legno, un tempo, doveva esserci stata una grande vetrata. Ora però era stata sigillata con delle assi inchiodate. Non si poteva vedere alcunché dell’interno di Villa Mayer. La tettoia sopra il porticato era sfondata, e tegole e calcinacci avevano ricoperto l’impiantito. Il resto della dimora era celato dall’oscurità, dalla vegetazione che vi si protendeva addosso quasi a volerla ricoprire per intero e dalla nebbia. Quella assurda nebbia, quel mare di latte che non faceva che aumentare e che penetrava sotto i cappotti e gli abiti, gelando i corpi e strappando brividi quasi dolorosi.

Daniele distolse con parecchia fatica gli occhi da Valeria e fissò la porta chiusa.

Qualcosa, dentro di lui, sperava che fosse serrata a chiave, sbarrata, inviolabile. Avrebbe tanto voluto che non si potesse aprirla, e neppure abbatterla, nemmeno se fossero tornati con un ariete come soldati all’assalto di una fortezza. Quell’immagine gli richiamò alla mente alcuni giocattoli che aveva da bambino: soldatini di plastica che, con una torre d’assedio, dovevano abbattere il muro di un castelletto. Quanto giocare che aveva fatto, nei lunghi pomeriggi d’inverno: era un continuo inventare storie, avventure. Ogni personaggio aveva un nome, delle sue proprie caratteristiche. Non riuscì nemmeno a spiegarsi perché quei ricordi fossero affiorati proprio adesso: forse, la sua mente stava cercando di appellarsi alla realtà della sua esistenza, di ancorarsi ai ricordi concreti per sottrarsi al terrore che fuoriusciva a lente spire da ogni più minuto intaglio in quella porta, da ogni microscopico buco di tarlo, da ogni fessura appena accennata.

Voleva andarsene. Voleva fuggire il più lontano possibile. Sentiva di non doversi trovare lì. Avrebbe preso Valeria per la mano e l’avrebbe trascinata via, portandola dove non avrebbero più avuto paura. Avrebbe pensato lui, per il resto della sua vita, a proteggerla dal mondo intero. L’avrebbe tenuta al sicuro da tutto e da tutti, compresa quella dannata Edith che la tormentava. Ma il più lontano possibile da quel luogo. Eppure, sapeva che non era possibile: non avrebbe potuto fare nulla, per Valeria, se lei prima non avesse messo piede in quella vecchia casa, scoprendone i segreti.

Dalle labbra gli sfuggì una risatina nervosa, che si tramutò nell’immediato in un indistinto suono gutturale. Aveva una fifa tremenda in corpo e, per quanto si appellasse al proprio autocontrollo, non si sentì molto capace di poterla scacciare.

Era quel luogo. La villa, il parco, la nebbia. Il silenzio. Quel silenzio assurdo e irreale, quel silenzio sospeso tra due piani dell’esistenza di solito separati.

Era tutto questo e altro ancora, altro che non sarebbe riuscito a definire.

Era tutto così… così sbagliato.

Potevano esserci mille parole differenti, si sarebbe potuto sfogliare il più grosso vocabolario mai compilato, ma quella sarebbe l’unica definizione possibile, la sola corretta per tutto questo: sbagliato.

Sbagliato.

«Gli HUL, però, in questo posto non ci sono mai venuti», disse, cercando di apparire calmo. Non ci riuscì. La voce gli tremò forte.

«Credo che si cagherebbero addosso dalla paura», fece eco Valeria.

«Di sicuro, io mi sto cagando addosso dalla paura», borbottò Daniele. «Se senti qualche strano odore, sono io.»

Il braccio di Valeria gli scivolò attorno alla vita. Tenersi stretti aiutò entrambi a superare lo sgomento che li stava invadendo, come se dalle fessure nelle pareti di Villa Mayer stesse strisciando fuori una paura sottile capace di solidificarsi attorno a loro.

«Allora temo che ottureremo il cesso, perché mi sto cagando addosso pure io», confessò la ragazza. «E mi sa che, in questo posto, nessuno si sarà preso la briga di pulire il bagno da un bel mucchio di anni. E mi sa che il bidet non funziona.»

Daniele ebbe un altro guizzo di ricordi del passato. Stavolta, fu un tuffo nella musica demenziale che ascoltava da adolescente.

«Se sarà così, ci toccherà tenerci le croste di merda nel culo», borbottò.

Valeria si girò di scatto verso di lui.

«Anche tu conoscevi gli Zio Ematitos?!»

«Non puoi dire di aver vissuto davvero gli anni Duemila, se non hai mai conosciuto Ezio Stimato», rimarcò lui, sogghignando.

Guardò di nuovo verso la porta di Villa Mayer. Il sogghigno gli si affievolì fino a scomparire del tutto.

«Siamo ancora in tempo a darcela a gambe, andare a cercare un bel posto caldo e passare il resto della notte a bere cioccolata e guardare i cartoni animati», mormorò, con un filo di speranza nella voce. «Lascio scegliere a te se preferisci i Digimon, o Paperino, o Dragon Ball, o qualsiasi altra cosa, basta che sia tutta colorata e faccia sorridere… o, al massimo, facciamo partire una playlist con tutta la discografia degli Zio Ematitos…»

Valeria annuì.

Lo guardò negli occhi e parlò con tono sereno.

«Tu sei ancora in tempo e io non ti tratterrò dall’andartene, se lo vorrai. Hai fatto anche troppo, per me. Non dovresti essere qui. Ma io non posso… io non posso più fuggire. Voglio capire, sapere. E se la risposta è oltre questa porta, allora intendo trovarla.»

Non c’era risentimento, nella sua voce, e nemmeno delusione. Soltanto dolcezza e risoluzione.

Stavolta fu il turno di Daniele di tenerla stretta. Cercò la sua mano e la prese nella sua.

«Non ti lascio sola», disse, secco. «Non valgo niente, non sono un granché in nulla, al massimo sono un nerd da quattro soldi che bazzica forum in internet come se fosse rimasto fermo a dieci o quindici anni fa e si fa sciogliere il cuore quando si imbatte in una signorina in difficoltà…»

Lei sorrise e gli diede un buffetto sulla guancia. Aveva la mano gelida, ma Daniele percepì un delicato calore che lo scaldò nel profondo.

«…e ti posso assicurare che, se là dentro c’è davvero un fantasma, o un lupo mannaro, o un mostro affamato di carne umana, o un che cazzo ne so… be’, te lo dico, sarà assai poco quello che potrò fare», riprese. «Probabilmente durerò tre secondi, prima di finire steso al tappeto o quello che sarà. Ma non mi importa. Non ti lascio sola. Te l’ho promesso… e non è solo perché te l’ho promesso.»

Valeria, che si era girata di nuovo verso la villa, come se sentisse una voce chiamarla da dentro, distolse gli occhi dalla porta e li fissò in quelli di Daniele. In quelli dell’amico lesse la paura, ma anche la determinazione. La stessa profonda paura e la stessa terribile determinazione che doveva animare il suo sguardo.

«Voglio stare con te, Vale», sussurrò il ragazzo. «Qualunque cosa succeda, io voglio stare con te. Magari siamo due pazzi visionari che credono ai fantasmi, forse siamo due idioti che invece di vivere la realtà si aggrappano ai sogni… non mi interessa. Io voglio restare con te, e questo è quello che ho nel cuore. Sono felice di averti conosciuta, sono felice di essere qui con te… e non ti lascio. Né ora né mai.»

Valeria sentì gli occhi pungere. Era abituata al pianto. Non aveva fatto altro che piangere, in quegli ultimi dieci e disperati anni in cui la sua vita era stata del tutto stravolta. Ma per una volta, le lacrime non minacciarono di fare capolino per la frustrazione o per la rabbia di non avere più il controllo della propria esistenza.

«Dani…» sussurrò.

Non seppe che cosa dire. Non ebbe bisogno di dirlo. Si avvinghiarono in un abbraccio, più stretti che poterono. I loro corpi, addossati l’uno all’altro, si confortarono a vicenda, si diedero forza e coraggio. Sentirono la vita scorrere in loro, in mezzo a loro. Fu come se le loro anime si stessero scambiando di posto, facendoli diventare una cosa sola.

Non seppero dire per quanto restarono abbracciati. Forse pochi secondi. Minuti, magari. Per quello che ne avrebbero saputo dire, forse anche una vita intera. Persero la cognizione del tempo.

Fu un rumore improvviso a riscuoterli. Uno schiocco, forse un ramo secco che cadeva nel parco, probabilmente un calcinaccio, magari qualcosa d’altro. Qualcosa di indefinito.

Sussultarono e si sciolsero dall’abbraccio, ma restarono vicinissimi.

La porta di Villa Mayer incombeva davanti a loro. Sbarrata, una palpebra chiusa, la pupilla cieca di un mostro addormentato.

Non dissero nulla.

Valeria appoggiò la mano destra alla maniglia, coperta di polvere e di ragnatele. Il metallo era talmente freddo che si sentì le dita rattrappire, congelare. Provò ad abbassarla. Era dura, non rispondeva. Si rifiutava di aprirsi, quasi stesse suggerendo a quei due sciagurati di tagliare la corda e andarsene al sicuro, prima che fosse troppo tardi.

Ma era già troppo tardi, Valeria lo sapeva bene.

Aveva cominciato a essere troppo tardi dieci anni prima, quando quel bibliotecario burbero le aveva sbattuto tra le mani quel vecchio libro e lei aveva posato i suoi occhi inconsapevoli su quella fotografia, sull’unico ritratto esistente di Edith Mayer e Marta Bonofede. L’immagine stessa della felicità. Quella felicità che avrebbero perso di lì a poco e che, oltre un secolo dopo, avrebbero strappato anche a lei.

Tante volte se l’era domandato. Tante volte si era chiesta come mai anche lei fosse dovuta diventare la vittima di quel dolore perpetrato quando ancora non esisteva ombra di Valeria, né dei suoi genitori, o dei suoi nonni. Perché anche lei? Che cosa c’entrava lei, in tutto questo?

«Perché?» domandò.

La porta restò muta. Non era lì la risposta. Quello era solo un varco. Ciò che cercava era oltre quell’ingresso, tra quelle mura fredde in cui si era consumata la tragedia. E Valeria era lì, adesso.

Era lì e presto avrebbe saputo.

Spinse più a fondo la maniglia. Serrò gli occhi, facendo forza con tutto il suo corpo. Quella si oppose, cercò di tenerla fuori da lì.

Ma il tocco caldo della mano di Daniele si sovrappose al suo. Insieme, i due amici spinsero, fecero leva. Appoggiarono le spalle al legno e vi concentrarono tutte le loro energie.

Il legno cedette. I cardini emisero un gemito di protesta, la polvere soffiò dai pertugi.

L’ingresso di Villa Mayer si spalancò di fronte a loro.

 

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Capitolo 11
*** 10. ***


10.

 

 

Novembre 2021

 

 

«Quindi, alla fine, un fantasma c’era davvero…» borbottò Alberto.

Ancora non era riuscito a capire se quella di Orso fosse una storia inventata – magari, era solito intrattenere in quel modo i suoi clienti, dato che in quel posto non sembrava esserci molto altro da fare – o se nascondesse un fondo di verità.

Guardò Aurora, ma non provò a domandarle nulla.

Sapeva più che bene che la sua amica, a certe cose, credeva con assoluta buona fede. Per quello che la concerneva, quel racconto era del tutto reale. Lei non aveva alcun dubbio, riguardo il fatto che il mondo non finisse lì, e che ci fosse ben altro, oltre l’apparenza manifesta delle cose. Fantasmi, spiriti, anime, per Aurora erano reali, e ogni tanto si poteva averci a che fare, in un modo o nell’altro. Alberto, invece, era sempre stato più scettico, più terra-terra, e proprio non ce la faceva ad accettare come vere certe cose.

Era un inguaribile materialista. Aveva le sue certezze. Se le era costruite un poco per volta, nel corso degli anni. Se, da bambino, aveva accettato l’esistenza di un dio onnipotente e creatore, era stato solo perché così gli era stato detto che doveva fare. Crescendo, aveva cominciato a porsi quesiti e a trovarvi risposte. La strada dell’ateismo gli si era spianata davanti a quattordici anni e l’aveva intrapresa senza indugi.

Alla fine, aveva concluso che, di mondi, ce n’era uno soltanto, con le sue regole e i suoi problemi, ed era già abbastanza complicato senza sentire la necessità di andarne a scomodare un altro, più evanescente, distante e sfuggente. Il fatto che gli esseri umani, sin dall’inizio della loro storia, si fossero sempre confrontati con ciò che di volta in volta veniva chiamato con il nome di anime, di fantasmi, di angeli oppure di divinità, era qualcosa che non lo riguardava. Le riteneva suggestioni e fantasie, tutto qui.

E poco importava se, in tempi più o meno lontani, gli fosse capitato di vedere qualcosa di assurdo, che si discostava del tutto dalla realtà a cui era abituato, quella delle spiegazioni scientifiche e della logica razionale. La sua mente, il suo cervello, finivano sempre col relegare tutto in un angolino per poter continuare ad appellarsi alle granitiche certezze del materialismo.

Il resto non si confaceva alla sua idea di realtà.

Ogni tanto, per questo motivo, Aurora lo prendeva in giro. Gli dava dei pizzicotti e gli diceva che non era in grado di vedere al di là del proprio naso, che se per lui una cosa era fatta in un modo, allora così doveva essere e non poteva esserci alcuna alternativa.

«Se ti mettessi in quella testina dura che la figa non esiste ed è soltanto il frutto dell’immaginazione di qualche pazzo visionario, Manfredino, continueresti a dire che non esiste nemmeno se ti sbattessi la mia davanti alla bocca per fartela ciucciare e leccare come piace a me», gli ripeteva quasi ogni giorno.

Lui replicava con una risata e non aggiungeva altro.

Per come la vedeva lui, in ogni caso, quello che Orso stava raccontando era appunto un racconto, una storia come un’altra… e, per giunta, nemmeno troppo originale. Di storie di fantasmi ne aveva già sentite parecchie, persino troppe, e grossomodo erano tutte uguali: uno spettro spaventoso che, per qualche suo strano motivo, rimaneva legato al luogo in cui era morto, manifestandosi di quando in quando per spaventare il malcapitato di tutto.

Si poteva fare di meglio.

Di molto meglio.

Orso aveva fatto una pausa per bere un altro sorso del suo vecchio Jack. Stava cominciando a impallidire e le ombre nere che aveva sotto gli occhi arrossati e solcati da capillari si stavano accentuando. Stanchezza e troppo alcol.

«Sì, il fantasma c’era», confermò Orso, annuendo. «E adesso lo sapevano tutti. In paese, vedete, qualche scettico aveva resistito fino a quel giorno: anche tra i montanari più superstiziosi si trova sempre qualcuno che non accetta certe cose per semplice partito preso, e finché non vede non crede.»

Altra pausa, altro sorso di whiskey.

«Ma la fuga precipitosa di Zucconi e del suo domestico nel cuore della notte, in pigiama e a piedi nudi, mise a tacere ogni resistenza positivista. Tanto più che, per diverse settimane, nel silenzio delle notti, si continuò a sentire il pianoforte suonare, sebbene la casa fosse di nuovo deserta e nessuno osasse entrare per vedere che cosa stesse accadendo.»

Aurora era già alla terza sigaretta. Si era seduta di nuovo a gambe incrociate sul tappeto, questa volta con la schiena contro la poltrona di Orso. Si era procurata un piattino da usare come posacenere e lo teneva in equilibrio sul ginocchio. Lui aveva distrattamente allungato la mano libera dalla bottiglia e gliel’aveva posata sulla spalla. Alberto si sentiva rodere dalla gelosia.

Ma figurati se glielo dico, si ripeté per la centesima volta.

«Che cosa accadde, a quel punto?» chiese la giovane donna.

Orso si strinse nelle spalle.

«Nessuno mise piede là dentro per almeno tre anni, se è questo che vuoi sapere. Non si avvicinarono a più di cinquanta metri nemmeno quando il pianoforte, finalmente, si zittì. Zucconi non si fece più vedere e non mandò nessuno a prendere la roba che aveva abbandonato. Se ne tornò nella sua casa di città e non toccò mai più uno strumento musicale. Pare che fosse diventato pazzo e che continuasse a delirare di ragazze pianiste che vedeva dappertutto. Dopo un paio d’anni o giù di lì, gli venne un colpo secco che lo fulminò. La gente, qui in paese, ovviamente diceva che era stata la vendetta di Edith a seguirlo ovunque andasse, o qualcosa del genere. Sta di fatto che, morto lui, Villa Mayer fu ovviamente compresa nella sua eredità, che andò ad alcuni parenti. Una cugina di secondo grado, mi pare, che era sposata e aveva due figli. E quindi, nell’inverno del 1918, i nuovi proprietari decisero di venire a trascorrere le vacanze di Natale proprio qui… lo avessero mai fatto.»

Orso e Aurora si fissarono. Tra i loro sguardi passò qualcosa. Alberto se ne sentì escluso e provò una nuova e acuta punta di gelosia.

«Immagino che non furono vacanze felici», intervenne. Quei due, in qualche modo, dovevano continuare a ricordarsi che c’era anche lui, in quella stanza.

Orso ci mise un po’ a staccare gli occhi da quelli verdi e ipnotici di Aurora per spostarli su di lui. Negò con il capo.

«No», disse. «Non lo furono affatto. Perché la cugina del maestro Zucconi aveva una figlia adolescente, che era grossomodo della stessa età di Marta quando Edith l’aveva conosciuta, e forse fu proprio per questo che…»

Orso si concesse un altro goccio di whiskey – ormai, la bottiglia cominciava a scarseggiare – e aspirò un poco del fumo che Aurora, proprio in quell’istante, aveva soffiato dalla bocca dopo essersi tolta la sigaretta dalle labbra.

«…be’, che Edith si scatenò in quel modo…»

 

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Capitolo 12
*** 11. ***


11.

 

 

Dicembre 1918

 

 

Abbellita a festa con le decorazioni colorate, il presepio di fianco al caminetto e l’albero di Natale in un lato del salone, la vecchia villa aveva perduto buona parte del suo aspetto spettrale. O forse lo aveva perduto proprio del tutto – sempre che mai lo avesse avuto per davvero, al di fuori della fama sinistra che la circondava – ma a Julie piaceva pensare che, almeno un briciolo di tetra e sottile inquietudine, si fosse conservato in quel luogo.

Quando le avevano riferito che avrebbero trascorso le vacanze di Natale in quella villa che si diceva infestata dal fantasma di una giovane uccisa in modo orribile, non le era parso vero. A quindici anni, l’occulto e il mistero erano la sua passione più grande. Una passione che suo fratello Robert, tredicenne, non condivideva affatto.

«Non c’è nulla di vero, cretina!» le aveva detto durante il viaggio.

La ragazzina – con il volto estasiato di una bambina che ha appena ricevuto una bambola nuova – aveva ritirato fuori di nuovo quell’argomento che le stava a cuore e la elettrizzava, parlandone a briglia sciolta. Suo fratello l’aveva ascoltata con aria disgustata e a tratti sofferente, come se fosse in preda a qualche forma di malessere gastrico.

«Se tu studiassi chimica e fisica come me, e ti interessassi soltanto di scienze positiviste come faccio io, anziché perdere tutto quel tempo con le letture dei tuoi occultisti e teosofi del piffero, sapresti che, al di fuori della materia, non esiste nulla. Fantasmi e spiriti sono soltanto aria fritta, buffonate per creduloni e ingenui come te.»

Erano seduti in treno, uno di fronte all’altra. Julie indossava un abito a fiori, e aveva un cappellino posato sopra i riccioli color dell’oro. Robert, in giacca e cravatta e con i capelli spartiti nel mezzo e tenuti immobili dalla brillantina, dimostrava qualcosa come cinquantaquattro anni, anziché tredici. Fuori dal vetro del finestrino, scorreva un paesaggio bucolico, spogliato dall’autunno e già un poco imbiancato dalle primi nevi. Il fumo nero della locomotiva si addensava in volute oleose e si perdeva nel nulla.

Julie non vedeva l’ora di arrivare a destinazione. Non faceva che parlare di ciò che avrebbero trovato laggiù. Quando aveva espresso il suo desiderio di incontrare il fantasma della ragazza e domandarle i segreti dell’oltretomba, suo fratello l’aveva apostrofata in quella maniera antipatica.

Lo guardò di sottecchi, risentita.

«E allora come spieghi che il padre di quella ragazza uccisa sia ancora internato in manicomio, dicendo di vederla di continuo?» chiese. «Come lo spiega, questo, la tua scienza positivista? Eh, sapientone?»

Robert alzò gli occhi al cielo, esasperato.

«È proprio perché la vede di continuo che è internato al manicomio, cretina!»

«E smettila di chiamarmi cretina!»

«Perché? Come ti devo chiamare, se è questo che sei? Una cretina!»

«Mamma…»

La signora non alzò gli occhi dal libro di poesie che stava leggendo. Sulla copertina di colore blu, in lettere argentate, era stampato il titolo Le canzoni di Bilitis. Sembrava parecchio interessata, e prestò solo una mezza attenzione agli infiniti battibecchi tra i suoi due figli.

«Robert, finiscila di dare della cretina a tua sorella», disse, con fare meccanico.

Appena arrivati a destinazione, comunque, anche Robert aveva dovuto riconoscere che, Villa Mayer, aveva perlomeno qualcosa di sinistro. L’avevano trovata avvolta nella nebbia, che saliva dall’abitato poco distante e si faceva largo tra gli alberi del bosco per poi protendersi nel parco e stringerla in un gelido abbraccio. Inoltre, il fatto che al loro passaggio nel villaggio fossero stati accolti da un generale sprangarsi di usci e di finestre non aveva fatto che peggiorare la situazione.

«Hanno paura perché sanno che stiamo andando ad abitare nella casa maledetta», aveva sussurrato Julie, impressionata.

«Sono solo dei cretini superstiziosi che vivono ancora nel medioevo», era stato l’aspro commento di Robert.

«È solo gente di montagna, un po’ chiusa quando si tratta di forestieri», aveva detto la signora. «Vedrete che, appena superate le diffidenze iniziali, verranno a farci visita e a offrirci qualche prodotto di queste parti.»

«Per me avranno troppa paura, per avvicinarsi», disse Julie. «Sanno del fantasma della ragazza…»

«Io, con certi cretini, non voglio averci proprio nulla a che fare», tagliò corto Robert.

In ogni caso, l’aspetto sinistro aveva ceduto il posto al dolce calore del Natale man mano che la mamma si era data da fare con decori e festoni. Erano bastati un paio di giorni perché Villa Mayer, ripulita e riordinata alla meglio, diventasse un luogo accogliente e confortevole. Almeno, se non si faceva caso agli angoli bui, ai tetri e gelidi corridoi che non si scaldavano mai, con le pareti ricoperte di muffa nerastra, e ai numerosi graffi – parevano proprio fatti con le unghie di una mano umana – che avevano rovinato porte e infissi in vari angoli della casa, oltre a parecchi mobili.

«Vedrete, quando papà ci raggiungerà, questa casa sarà meravigliosa», aveva commentato la signora, mentre accendeva una delle candele in bilico sui rami dell’abete decorato.

Più interessata all’aspetto esoterico della villa che non agli addobbi natalizi, Julie si era subito data all’esplorazione della grande casa. Aveva salito scale, aperto porte, si era intrufolata in ogni camera. Era salita nella soffitta ed era scesa in cantina, dove si era imbattuta nei vecchi mobili fatti a pezzi. Anche su molti di essi, come sulle porte, aveva trovato lunghi e sottili graffi, come se una piccola mano vi avesse conficcato le unghie e poi le avesse trascinate a forza nel legno, a rischio di spezzarsele.

«Qui c’è qualcosa…» si era detta, in preda all’emozione. Aveva fatto scorrere le dita su quei solchi profondi, provando a immaginare quale forza sarebbe servita per provocarli. «…qualcosa di arrabbiato.»

Ma – e non serviva che fosse Robert a ricordarglielo – buio e graffi non erano prove di un’infestazione spettrale.

Non aveva visto apparizioni fantasmagoriche o notato ombre misteriose. Non era accaduto nulla che potesse davvero dimostrare che, in quella villa, abitasse ancora lo spirito di una povera fanciulla assassinata in modo brutale.

Non ancora, almeno.

 

* * *

 

Quella sera, dopo aver cenato, Julie si ritirò nella camera da letto che le era stata assegnata. Era una stanza piuttosto grande, con un vasto letto a baldacchino. Quando entrò, le cortine attorno al letto erano tirate e glielo nascondevano alla vista.

Gettò un’occhiata alla scrittoio. Nel primo cassetto, sotto il quaderno dei compiti, aveva rinchiuso il libro di poesie che la mamma aveva letto con tanto interesse. Glielo aveva preso senza che lei se ne accorgesse, e non vedeva l’ora di scoprire che cosa ci fosse scritto di tanto curioso. Di certo, aveva trovato quantomeno insolito – per non dire bizzarro – il rossore che si era propagato sulle gote di sua madre quando lei gli aveva chiesto se poteva averlo. La mamma aveva balbettato in modo evasivo di non ricordare dove lo avesse appoggiato.

«Forse l’ho persino dimenticato in treno», le aveva detto. «Sono proprio sbadata.»

Ma Julie – ficcanaso come pochi – sapeva più che bene che la mamma, quel libro, lo aveva con sé quando erano arrivate a Villa Mayer. Così si era messa a cercarlo finché era riuscita a scovarlo, infilato nell’armadio della mamma, sotto una pila di vestiti.

Il fatto che fosse stato nascosto aveva ovviamente accentuato la sua curiosità per quelle pagine dal sapore proibito.

Cominciò a spogliarsi per prepararsi alla notte.

Mentre sbottonava la camicetta, notò un movimento con la coda dell’occhio. Si girò di scatto a guardare. La stanza era immersa nell’oscurità quasi totale, perché a Villa Mayer non c’era la corrente elettrica. La sola fonte di luce era quella della lampada a olio appoggiata sulla cassettiera. Il piccolo caminetto della stanza era stato acceso la mattina e il pomeriggio, ma adesso le ceneri erano fredde e le braci avevano finito di rosseggiare da un pezzo.

Julie guardò meglio, ma non notò nulla.

Sullo scrittoio era posato un libro. Quel libro, al contrario di quello rubato alla mamma, poteva starsene in bella vista. Residui psichici della terza via. La ragazza lo aveva letto e riletto, al punto da conoscerlo quasi a memoria. L’autrice, membro della Società Teosofica e medium, sosteneva che spettri e fantasmi si manifestavano sempre di notte, con il buio. Si nutrivano di tenebre, ne traevano l’energia utile per prendere forma e compiere movimenti, perché la luce toglieva loro ogni forza e ogni velleità. Julie non era certa che fosse vero; dopotutto, per quanto aperta al mistero, anche lei conservava pur sempre qualche dubbio. Per precauzione, comunque, allungò lo stoppino e aumentò l’intensità della luce.

Ricominciò a prepararsi.

Indossata la vestaglia da notte – rabbrividì un poco, quando la sua pelle calda ebbe il primo contatto con la seta fredda – sedette di fronte allo specchio e cominciò a raccogliere i capelli biondi e ricci per legarli nel crocchio sopra la testa. Un’operazione che richiedeva sempre particolare attenzione, considerata la sua massa di capelli. Robert, per prenderla in giro, di quando in quando la chiamava Riccioli d’Oro. Lei, piccata, gli replicava che se non l’avesse piantata, sarebbe corsa dalla famiglia dei tre Orsi e avrebbe chiesto a Papà Orso di venire lì e mangiarselo in un sol boccone.

«Scema!» rispondeva Robert. «Dici sempre cretinate!» Poi, però, scappava immancabilmente via, come se temesse che sua sorella potesse davvero tirare fuori di tasca un grosso plantigrade dal manto bruno, gli unghioni e i denti acuminati e scatenarglielo contro. Perché a tredici anni si può sì essere appassionati di chimica e dediti al positivismo e allo scientismo, ma soltanto fino a un certo punto.

Il movimento si ripeté.

Stavolta Julie lo vide bene, riflesso nello specchio. Non era stato un inganno della sua percezione. Una delle tende del letto a baldacchino si era mossa, come se fosse stata spinta. Spinta dall’interno. C’era qualcuno sul suo letto.

Per poco, a Julie non mancò il fiato. Trattenne a stento un grido, ma non poté evitare che il cuore cominciasse a martellarle impazzito nel petto. Se lo sentì pulsare nelle tempie. Un rivolo gelido di sudore le solcò i peli dell’ascella, scese lungo il fianco e si adagiò dalle parti della vita. Rabbrividì.

«Cercavi mistero ed emozioni, Julie, vecchia mia», si disse. «Ora li hai trovati…»

Facendo piano, attenta a non provocare nessuno scricchiolio, spinse indietro la sedia e si alzò in piedi. L’orlo inferiore della vestaglia bianca, ornato di pizzo rosa, le scivolò fino alle caviglie snelle. Adagio, cauta, pronta a schizzare via al primo pericolo, si mosse di qualche passo verso il letto.

Ora sembrava tutto calmo.

Troppo calmo.

Le tende del baldacchino si agitarono, vorticarono, si sollevarono… e una figura avvolta in un lenzuolo candido saltò davanti a lei e le corse incontro, travolgendola.

«Booooh», fece la figura spettrale. Poi cominciò a ululare. «Uuuuhh… uuuhh…»

«Aaaaahhhh!» gridò Julie, impazzita di terrore.

Lo spirito l’afferrò per le spalle, la trattenne per le braccia impedendole di sgusciare via, la fece cadere in terra… e, subito dopo, ridendo come un idiota, anche lo spirito inciampò nel lenzuolo e si rovesciò sul pavimento, dove continuò a contorcersi in preda al riso.

«Robert! Deficiente!»

Districandosi con fatica dal lenzuolo che le si era avvolto tutto attorno formando un tutt’uno con la sua vestaglia, Julie riuscì a rimettersi in piedi. Trovandoselo a portata di tiro, non risparmiò al fratello un calcione nel sedere.

«Ahahah, ci sei cascata, cretina!» continuò a ridere Robert.

«Stupido! Deficiente! Decerebrato! Mentecatto!» strepitò Julie, facendo appello a tutti gli insulti di cui disponesse il suo vocabolario personale. Trovò il peggiore che conoscesse e lo sciorinò. «Rincitrullito testa di rapa!»

Anche Robert si rialzò. Raccolse il lenzuolo in un mucchio scomposto e se lo infilò sotto il braccio. La ridarella continuò a scuotergli il petto.

«Vedi perché la gente crede ai fantasmi, cretina?» domandò, con le lacrime agli occhi. I capelli, di solito pettinati alla perfezione, si erano tutti arruffati. «Perché si fa prendere in giro dal primo venuto sotto uno straccio!»

«Fuori di qui, scemo e idiota!» ringhiò la sorella, spingendolo senza troppe cerimonie verso la porta della stanza. «Se lo rifai lo racconto alla mamma! Anzi, peggio ancora: lo dirò ai tuoi amici! Vedrai come ti prenderanno in giro, quando sapranno che ti sei ridotto a spiare tua sorella mentre si spoglia! Non vorranno più fare con te quelle stupide gare in cui vi misurate il coso per vedere chi ce l’ha più lungo! Ti prenderanno in giro per mille anni!»

Robert arrossì e impallidì insieme. Non sembrava una minaccia da sottovalutare, quella.

«Ehi, io non ti ho spiata! Non ho visto niente di niente! Ero sotto il lenzuolo, dietro la tenda e…»

Julie non lo lasciò finire. Lo spinse nel corridoio nero e tetro e gli sbatté la porta in faccia.

«Scemo», ripeté, tornando verso lo specchio e ricominciando a sistemarsi i capelli.

 

* * *

 

Robert restò fermo per un momento, fissando la porta chiusa. Continuò a ridacchiare da solo per qualche istante, ripensando alla faccia che aveva fatto sua sorella. O, almeno, alla faccia che immaginava avesse fatto Julie: da sotto il lenzuolo, procedendo alla cieca, non era riuscito a vedere nulla.

Ciò che contava, comunque, era aver dimostrato la sua teoria scientifica: i fantasmi esistono soltanto per chi vuole crederci. I fantasmi se li crea la gente, ed è finita lì. Basta avere un briciolo di razionalità nella testa per rendersi conto che, di faccende nel genere, non è vero nulla.

Robert, a tredici anni, aveva i piedi ben saldi sulla terra, molto più di quanto li avessero persone assai più adulte di lui. E ora che le aveva dato una bella lezioncina, anche sua sorella sarebbe stata avvolta dai dolci tepori del positivismo, ne era certo. Julie aveva quindici anni, insomma: era ben ora che la smettesse con il romanticismo e con tutte quelle faccenduole dall’aria gotica.

Fischiettando, tenendo sempre il lenzuolo avvolto sotto il braccio, Robert si avviò a passo allegro lungo il corridoio, le mani infilate in tasca.

Il corridoio era tetro, buio, sembrava una galleria indeterminata dove regnavano soltanto le tenebre… tenebre e gelo. Gelo che adesso si fece più intenso, come se mani invisibili fatte di puro ghiaccio si stessero protendendo verso di lui, cercando di afferrarlo…

«Suggestione», sbottò Robert. Parlò ancora, a voce più alta. «Pura e semplice malia creata dal cervello sovreccitato, a causa di certi discorsi che non si dovrebbero mai fare.»

Per persuadersene, fischiettò più forte. Cercò di modulare una qualche romanza. Magari, se fosse riuscito a ricordarsene una, avrebbe potuto rievocare qualche composizione di quel cugino di mamma a cui era appartenuta la villa…

Uno scricchiolio in fondo al corridoio, proprio nella direzione in cui si stava muovendo, lo bloccò dove si trovava. Uno scricchiolio che parve provocato da un piccolo passo.

«Sarà stato un topo», disse, ad alta voce. Quel posto vecchio e decrepito doveva esserne pieno, dopotutto.

Nel dirlo, il fiato gli si condensò davanti in fosche nuvolette. Il freddo stava aumentando, diventava pungente. Un freddo innaturale. Cominciò a tremare. E si scoprì incapace di muoversi. Qualcosa lo aveva inchiodato al pavimento.

Qualcosa a cui, malgrado tutto, seppe dare un nome.

Terrore.

Puro e semplice terrore.

«F-figurarsi s-se ho p-p-paura…» balbettò, in falsetto.

Di che cosa avrebbe dovuto avere paura, poi? Del buio? Che stolida fanciullaggine. Delle storielle di sua sorella? Peggio ancora.

No. La sola cosa che c’era, insieme a lui, era quel freddo intollerabile. E di quello sì, che era meglio avere, se non paura, almeno rispetto, per quello che avrebbe potuto provocargli ai polmoni. Mai sottovalutare il freddo, e mai prenderlo sottogamba come se nulla fosse. L’architetto che aveva costruito quel posto doveva essere stato un idiota, incapace di pensare a come riscaldarlo a dovere, tutto qui. Prima di correre il rischio di buscarsi un raffreddore, avrebbe fatto meglio ad andarsene in camera sua, riattizzare il fuoco nel caminetto e infilarsi al caldo sotto le coltri di lana…

Sul fondo del corridoio qualcosa si mosse.

Le orecchie di Robert percepirono chiaramente il rumore di un passo. Un passo solo, ma pesante. Non il passo di un topo.

Nell’oscurità qualcosa si mosse… una sagoma.

E no, non era un topo.

I topi – almeno, quelli che conosceva Robert – non hanno una forma umana, quando si spostano di soppiatto nell’ombra e nel buio.

«C’è… c’è qua-qualcuno?» domandò. La voce gli tremò e gli uscì di gola simile a un raglio indistinto. «M-mamma?»

Non gli rispose altro che il silenzio. Un silenzio assurdo, irreale, così profondo da essere assordante come un grido…

E poi, da quel silenzio, provenne un fischiettare tetro. Un fischiettare anormale. Un fischiettare sbagliato.

Perché era tutto sbagliato, adesso.

Era tutto… era tutto troppo romantico. Non vi era nulla di positivista, in tutto questo.

«Julie…» mormorò, la voce che tremava sempre più forte. «…Julie, va bene, sei più brava di me, con gli scherzi… ora…»

Robert indietreggiò. La figura fischiettante venne avanti. Il ragazzino incespicò nei propri piedi, barcollò e cadde di peso sul pavimento gelato. Si trascinò all’indietro per mezzo metro, poi si arrese e restò immobile. Si sentì congestionare dalla paura. Il suo cervello riconobbe il motivetto che quella figura stava modulando tra le labbra: era proprio una delle ariette del cugino che avrebbe voluto ricordare lui.

Ma fu anche l’ultimo pensiero razionale che il suo cervello fu in grado di formulare, prima di precipitare per sempre – un per sempre, comunque, che non si sarebbe protratto troppo a lungo – nel baratro della follia.

Perché ora Robert la vide.

La vide bene.

Urlò.

 

 

* * *

 

Julie finì di sistemarsi i capelli. Rassettò la vestaglia che quel cretino di suo fratello aveva riempito di pieghe. Mentre si sistemava meglio il fiocco che chiudeva l’alto colletto, cominciò a escogitare un modo per vendicarsi.

«Ci saranno salamandre, nel bosco?» domandò, alla propria immagine riflessa. «Domani bisogna che ne catturi una… e poi gliela ficco nel letto. Anzi no, gliela infilo direttamente nei pantaloni. Così magari gli morde pure il coso.»

Julie ormai sapeva che cosa fosse il coso e a che cosa servisse.

Una volta, quando lei aveva otto anni e Robert ne aveva sei, lo aveva visto tutto nudo. Lì per lì, quel coso sul davanti di suo fratello l’aveva fatta ridere. Era contenta di non avere un aggeggio del genere, che aveva l’aria di provocare un certo fastidio nelle mutande, anche se riteneva che fosse piuttosto comodo, quando si trattava di adoperarlo per fare pipì. Poi, col tempo, aveva capito, e quello che non aveva capito da sola glielo aveva detto la sua amica Annamaria, che ne sapeva sempre una più del diavolo.

E, visto che per i maschi quel coso era più prezioso dell’oro – non per niente, lo sapeva, Robert e i suoi amici una volta al mese si riunivano in circolo, abbassavano i pantaloni e, riga alla mano, misuravano chi ce l’aveva più lungo: Annamaria sapeva benissimo dove si tenevano queste riunioni segrete da maschi, e più di una volta aveva condotto Julie a spiarle di nascosto, e li avevano spesso guardati anche quando, con le mani chiuse a pugno, se lo agitavano finché non ne veniva fuori uno strano succo bianchiccio e denso – lei avrebbe fatto in maniera che la salamandra glielo mangiasse.

Oppure si sarebbe procurata una di quelle polveri di cui aveva bisogno la nonna quando faceva fatica ad andare al gabinetto e ne avrebbe versato un barattolo intero – magari anche due o tre – nella minestra di suo fratello.

«Sei perfida, Julie, bella mia», disse a se stessa, scambiando con la propria immagine riflessa un sogghigno malefico, satanico.

L’urlo strozzato di suo fratello le giunse attraverso la porta chiusa. L’urlo si ripeté, più acuto. Un urlo di terrore.

Julie balzò in piedi e guardò la porta… ma subito si rilassò.

«Piantala con i tuoi scherzi del cavolo, Robert!» strepitò.

Robert urlò ancora. La maniglia della porta si abbassò di scatto, con violenza. Non successe nulla. Julie, proprio per evitare che quel piantagrane esagitato venisse di nuovo a infastidirla, si era premurata di girare la chiave nella toppa.

«Vattene via, voglio dormire!» urlò.

Non si curò di non disturbare la mamma. Loro madre, per riuscire a prendere sonno, prendeva sempre una dose abbondante di sonnifero. A quell’ora doveva essere già immersa nel mondo dei sogni e vi sarebbe rimasta almeno fino all’alba. Nemmeno una bomba d’artiglieria sarebbe riuscita a svegliarla.

«Julie! Aprimi! Aiuto!» gridò Robert, tempestando di pugni la porta.

Per un momento, la ragazzina restò incerta.

Sembrava che suo fratello fosse davvero spaventato… e non le era mai sembrato un granché, come attore. Alla recita scolastica, l’ultimo anno di scuole elementari, il maestro aveva assegnato a Robert la parte di una statua. Immobile sopra un piedistallo, con il viso dipinto di grigio e una toga da antico Romano drappeggiata attorno al busto. Non gli era nemmeno riuscita bene, perché a metà dello spettacolo era balzato via ed era corso a cercare un posto dove svuotare il coso – sempre quello – che gli stava scoppiando. Julie lo aveva preso in giro per una settimana intera.

Ma forse, nel frattempo, aveva affinato le sue capacità recitative.

«Basta, vai via, ho sonno, sto andando a letto!» rispose, secca.

Due scherzi nella stessa sera, a distanza di pochi minuti l’uno dall’altro, le sembravano un po’ troppi. Robert non aveva il senso e la misura delle cose. Non capiva mai quando fosse arrivato il momento di piantarla.

Suo fratello continuò a tempestare di pugni la porta.

«Julie…!» gridò, e la sua voce sembrava davvero colma di isterico terrore. «Julie! Apri, apri, a…»

Pugni e voce tacquero all’improvviso, all’unisono. Un silenzio irreale e avvolgente discese su tutta Villa Mayer. Julie, che non se lo aspettava, sussultò.

Si avvicinò a passi lenti alla porta e accostò l’orecchio al legno.

Dall’altro lato non sentì nulla…

Ascoltò meglio.

Silenzio.

A un certo punto le sembrò di avvertire uno strano suono. Una specie di gorgoglio, come se qualcuno stesse facendo i gargarismi. E, al di sotto di questo, un altro rumore. Strofinamento. Un corpo che veniva trascinato lungo il corridoio.

«Che scherzi del cavolo», insinuò.

Ma il suono della sua stessa voce le risultò anomalo e le mani le tremarono forte. La stanza sembrava essersi fatta di ghiaccio; Julie non se ne era ancora accorta, ma la temperatura aveva continuato a scendere. Nonostante questo, i rivoletti di sudore che le scesero dalle ascelle e dal petto e andarono a inumidirle la biancheria sotto la vestaglia furono molto copiosi.

Fu scossa da un brivido così forte che quasi si piegò in due.

«Domani ti uccido, Robert, te la faccio pagare cara», sussurrò alla porta.

Girò le spalle all’uscio.

La maniglia si abbassò di colpo, con un suono secco che la fece sobbalzare per lo spavento.

Da dietro il pannello di legno giunse una voce… una voce sconosciuta… una voce lontana, sbiadita… una voce sbagliata.

«Marta…?» sussurrò la voce.

La maniglia si mosse ancora.

Stavolta, Julie non seppe trattenersi. Cominciò a piangere forte.

Corse verso il letto, scostò una delle cortine e si infilò sotto le coperte.

Se le tirò sopra la testa, scomparendo in un bozzolo di lana e di cotone, e restò lì, a tremare e singhiozzare. I suoi sensi, tutti tesi, cercarono di cogliere ogni singolo rumore, ogni più piccolo suono proveniente dalla stanza.

Per un istante – un meraviglioso, lunghissimo, interminabile istante – sembrò che tutto fosse in quiete, in pace.

Poi, nitido come un boato nel silenzio della notte, si udì lo scatto della chiave che girava. Che girava da sola.

La porta cigolò sui cardini. Un passo pesante avanzò nella stanza. Un secondo passo risuonò poco dopo, quindi un terzo. Era un modo di procedere barcollante, come quello di un ubriaco.

Respiri profondi, pesanti, riempirono la stanza.

Julie si strinse più forte al cuscino, ormai inondato di lacrime.

«Marta…?»

Le coperte cominciarono a scivolare via dal materasso. Qualcuno – qualcosa – le aveva afferrate e le stava tirando piano. Un rumore secco, di dita spezzate, di falangi rotte e disidratate che si contorcevano attorno alle coltri. Il corpo di Julie fu a poco a poco liberato. Il freddo intenso, pungente – il gelo più profondo che avesse mai provato in vita sua – le coprì la pelle, le rizzò ogni pelo.

La ragazzina non guardò. Tenne il volto affondato nel cuscino. Non piangeva nemmeno più, anche se continuava a essere scossa. Non avrebbe saputo affermare nemmeno lei se a scuoterla in quel modo fossero i singhiozzi asciutti, i brividi o entrambe le cose.

Quando qualcosa – una mano di ghiaccio – le sfiorò la caviglia – un tocco delicato, quasi una carezza affettuosa – Julie perse il controllo.

Urlò con tutto il fiato che aveva in gola.

Urlò fino a sfiatarsi completamente.

Urlò fino a perdere i sensi.

L’ultima cosa che il suo corpo sentì fu quella mano di ghiaccio, quella mano estranea, quella mano sbagliata che dalla caviglia le saliva piano sulla coscia, insinuandosi sotto la stoffa della vestaglia di seta.

E l’ultimo suono che udirono le sue orecchie fu ancora quel nome, sussurrato da quella voce che non doveva più esistere da tanti anni e che ancora risuonava in quelle stanze tetre.

«Marta… amore mio…»

 

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Capitolo 13
*** 12. ***


12.

 

 

Novembre 2021

 

 

 

«La madre trovò Julie la mattina seguente», proseguì Orso, fissando nel vuoto. Aggrottò la fronte, pensoso. «Non vedendola arrivare a tavola per la colazione, pensò di andare a svegliarla. Quel mattino avevano in programma di ultimare le ultime pulizie, prima che arrivasse il padre per Natale, e si erano date appuntamento molto presto apposta. Andò a cercarla in camera sua. La trovò ancora a letto, in una specie di stato catatonico. Le coperte erano ammucchiate sul pavimento, e la ragazza aveva la vestaglia sollevata molto al di sopra dell’inguine, mentre la biancheria intima era abbassata fino alle caviglie. Era sotto shock, non parlava, continuava a tremare. Immaginate che cosa poté pensare quella povera donna, trovando la figlia in quello stato: erano in un luogo isolato, lei aveva dormito come un sasso per tutta la notte, e chiunque avrebbe potuto introdursi in casa e… be’, ci siamo capiti.»

Aurora stava fumando di nuovo. Lasciò fluttuare un sottile filo di fumo e lo guardò disperdersi nel nulla.

«Non oso pensare a come dovette sentirsi quella donna… per non parlare di Julie.»

Orso si alzò per sgranchirsi le gambe. Andò piano alla finestra e fissò un punto oltre il vetro, nel cortile invaso dalla nebbia fittissima. Alberto e Aurora lo seguirono con lo sguardo, silenziosi, in attesa che proseguisse.

«Fu fatto chiamare un medico. Ce n’era uno in paese – il dottor Fortunato Della Morte, faceva da veterinario e da dottore degli uomini insieme, e se serviva anche da barbiere e falegname: a quei tempi, da queste parti, bisognava arrangiarsi – e ce ne volle del bello e del buono, per convincerlo a salire alla villa. Non voleva saperne, di mettere piede in quel postaccio maledetto. Comunque, alla fine, si ricordò di essere un uomo di scienza – per quanto superstizioso – e di avere dei doveri nei confronti di chi si stava male. Inforcò la bicicletta e arrivò. Visitò Julie e constatò che non era stata violentata… almeno, non in senso fisico.»

Orso si girò verso di loro, con una specie di smorfia sarcastica in mezzo a tutto il pelame dietro cui si nascondeva. La barba arruffata e i capelli lunghi e spettinati gli coprivano quasi per intero il volto, e la scarsa illuminazione faceva il resto. A trovarselo davanti di notte, magari seduto nell’ombra con aria losca, lo si sarebbe potuto facilmente scambiare per un maniaco omicida o qualcosa di simile.

Speriamo che non sia un serial killer uso a avvelenare le sue vittime, si disse Alberto, un po’ preoccupato, ripensando a tutto ciò che quel tizio gli aveva fatto mangiare e bere nel corso delle ultime ore.

Scartò l’ipotesi.

«Immagino che il concetto di violenza abbia molte possibili declinazioni», riprese a parlare Orso. Il suo tono aveva perso un po’ della spensieratezza di prima, ed era diventato amaro. «E quella che Julie aveva subito era senza dubbio una violenza atroce. Venire strappati a ogni certezza da qualcosa di indefinito è qualcosa che segna nel profondo e che non se ne va più. Non volle raccontare nulla di ciò che le era accaduto… per anni se ne restò rinchiusa in un mutismo quasi totale. Ogni tanto, la notte, la mamma la sentiva chiamare un nome: Marta. Non aveva idea del significato, e nessuno degli psicanalisti che la presero in cura riuscì a tirarle fuori granché. Naturalmente, quel Natale del 1918, non lo trascorsero a Villa Mayer. Se ne andarono alla chetichella, sotto gli sguardi compiaciuti della gente del paese – roba del tipo, “noi lo avevamo detto” – e la vecchia casa restò di nuovo abbandonata. Fu solo dopo molto tempo, attorno all’inizio degli anni ‘50 o verso la fine dei ‘40, non so bene, che Julie si decise a raccontare tutto di quello che le era successo quella notte. Era invecchiata anzitempo, si era ammalata ai polmoni e sapeva che non le restava molto da vivere. Prima di andarsene immagino che desiderasse liberarsi da quel peso che la opprimeva da decenni. Lo fece con uno psichiatra, il dottor Bernasconi, che aveva deciso di scrivere un libro sulla strana vicenda di Edith.»

Orso riprese in mano la bottiglia di vecchio Jack e se ne rovesciò in gola una più che discreta quantità. Fece una smorfia e inghiottì tutto in una volta sola. Fu troppo perfino per lui, che per qualche istante si trovò a tossire come una vecchia caldaia sfiatata.

«Coff-coff…» scusate, borbottò. «Coff…!»

Finalmente, riacquistò il controllo. Si schiarì un paio di volte la gola, con le lacrime agli occhi.

«Disse di non aver visto quasi nulla… dopo che le coperte le furono strappate di dosso, sentì soltanto delle mani su di sé, che la toccavano in un modo che… che le facevano robe, insomma. Robe che, in ben altri frangenti, si sarebbero potuto considerare piacevoli. Soltanto verso la fine, quando la faccenda stava ormai prendendo una piega, be’… come dire… inaspettata… insomma, quando Julie si sentì prossima a un orgasmo… si decise a togliere il viso dal cuscino per vedere chi… o cosa… le stesse riservando quelle carezze. Raccontò che quel viso cadaverico la fissò attraverso il buio. Sembrava che emanasse una sorta di luminescenza. Un viso stanco, disfatto, pallido e smagrito, solcato da ombre scure e profonde, ma non deturpato: il viso di chi sta patendo e soffrendo pene infinite, eppure non vuole arrendersi. E quando gli occhi di Julie incontrarono quelli di… be’, chiaro, di Edith Mayer… e attenzione: Julie non disse “occhi”. Disse “i pozzi oscuri e senza fondo che stavano nel mezzo del volto esausto di quella creatura”, usò pressapoco queste parole… ecco, dicevo, quando quelle due si guardarono in viso, Edith sussurrò “tu non sei Marta” e, all’improvviso, scomparve, portandosi via tutte le più diverse sensazioni che Julie aveva provato fino a quel momento. Da quel momento, Julie non la rivide mai più.»

Orso tacque. Aurora fumò ancora più forte. Alberto si rannicchiò sul divano e represse a stento un brivido.

Lo sapevo che non dovevo darle retta. Altro che la Tana di Orso. Ce ne saremmo dovuti andare in vacanza al Tropico del Capricorno, anche se costa un botto. O alle Isole San Blas. Lì, almeno, la storia più drammatica che ti raccontano è che, purtroppo, quel giorno ci sono soltanto dodici signorine in topless, in spiaggia, anziché le solite venti o trenta.

Nonostante questi pensieri, una domanda gli affiorò alla mente.

«E Robert?» chiese.

Orso scosse il capo.

«Per anni non se ne seppe più nulla», rivelò. «Quella notte il ragazzino sparì. La mamma, che in un primo momento era stata tutta presa dalle condizioni di Julie, se ne accorse soltanto verso le otto del mattino, quando anche lui era solito alzarsi per fare colazione – ma non quel giorno. I genitori lo fecero cercare, ma invano. Qualche coraggioso setacciò Villa Mayer da cima a fondo, ma lì non c’era. Delle squadre si sparpagliarono tra i versanti della montagna, senza alcun risultato. In quei giorni cadde molta neve, che rese tutto ancora più difficile. Alla fine, venne concluso che doveva essere uscito di notte per un’escursione nel bosco e si fosse perso. Caduto chissà dove, o morto di freddo e altre ipotesi del genere. Finché, una decina d’anni fa, mentre era da queste parti a raccogliere porcini, un tizio ha trovato ossa umane. Sono state esaminate ed è venuto fuori che appartenevano a un ragazzino di tredici o quattordici anni al massimo, e che erano vecchie di quasi un secolo. In effetti era nel bosco. Non è mai stato identificato con certezza, ma ho visto dov’erano, non lontano dalla villa; credo proprio che fossero i resti di Robert. Ho una mia ipotesi, al riguardo.»

Aurora schiacciò la cicca nel piattino che aveva già riempito di cenere e di mozziconi. Ormai, nella stanza, non c’era altro odore all’infuori di quello del suo tabacco bruciato.

«Mi piacerebbe sentirla», mormorò.

A me piacerebbe andarmene via e non avere più a che fare con questo pazzo visionario e con l’aspetto da assassino in potenza, pensò Alberto.

Orso guardò Aurora con intensità. Ancora una volta, tra di loro parve passare qualcosa di segreto e di misterioso. Infine annuì.

«È solo un’idea che mi sono fatto, chiaro», borbottò. «Ma io non credo che Edith fosse davvero cattiva. Non avrebbe mai fatto del male a qualcuno. Era arrabbiata, questo sì… e forse lo è ancora, chissà… ma non arrabbiata al punto di vendicarsi e sfogarsi contro degli innocenti. Non era odio, il suo, ne sono convinto. Non credo che Edith sia rimasta là dentro per odio. Nessuno resta per odio, l’odio si spegne, non resiste tanto a lungo, sapete? No, io credo… anzi, sono sicuro… che Edith sia rimasta per amore. Forse, se è vero, se arde come una fiamma dolce e buona, una fiamma intensa, l’amore non può davvero morire. È un fuoco inesauribile. Forse l’amore sopravvive all’odio degli uomini, alla cattiveria e alle storture del mondo intero. L’amore sopravvive e aspetta con pazienza. Almeno, mi piace pensare che sia così…»

Orso fece un sorriso mesto, rivangando chissà quali pensieri che danzavano nel suo profondo. Scrollò le spalle e tornò di nuovo con loro nella stanza.

«La sua unica vittima, per quello che ne sappiamo, fu suo padre», riprese. «E non penso per quello che aveva fatto lei, bensì per ciò che aveva fatto a Marta. Le altre furono tutte vittime incidentali: gente che si trovò sulla sua pista, sul suo cammino cieco, tutto qui. Lei cercava soltanto la sua Marta, e avrebbe allontanato chiunque da quella casa fino a che la sua amata non fosse tornata. Probabilmente percepì Robert come un estraneo e lo allontanò dalla stanza in cui credeva dormisse il suo amore perduto. Solo che Robert, in preda al terrore, fuggì dalla villa e corse a perdifiato nel bosco. Inciampò, presumo. Magari picchiò la testa sopra un sasso o una radice sporgente e perse i sensi. Il freddo fece il resto, e lo fece alla svelta. Non penso che abbia sofferto.»

Di nuovo calò il silenzio.

Un silenzio carico d’aspettativa.

«E poi?» domandò Manfredi, dopo quasi tre minuti senza che nessuno avesse detto nulla.

Nonostante tutto, pure lui era curioso di saperne di più, riguardo quella storia. Era sicuro che non fosse finita lì. Che ci fosse dell’altro.

Orso si rimise a sedere. Guardò il pacchetto che Aurora stava di nuovo maneggiando, quasi volesse domandarle una sigaretta. Forse c’era qualche ricordo, in quelle sigarette che si accendevano e si spegnevano a raffica, una dietro l’altra, senza interruzioni. Lasciò perdere e si accontentò di un’altra sorsata alcolica. Ognuno muore poco a poco nel modo che preferisce.

«Poi venne la medium», riprese Orso. «Madame Sophia. Non pensate che si servì di una tavola Ouija, di pendolini o di tutto l’ambaradan fantascientifico che va di moda oggi in quei video che girano su YouTube di presunti ricercatori del paranormale. A quei tempi per le sedute spiritiche si era molto più spartani: un tavolino, qualche candela colorata e via, era fatta. E, comunque, la cosa funziona solo se si è davvero dei medium. Quell’altro mondo non si apre mica per tutti. Ci vuole qualcosa di profondo e di innato, per mettersi in comunicazione, per aprire un canale o comunque la vogliate chiamare.»

Orso sorrise tra di sé. Forse, per quanto li ritenesse assurdi, e checché ne dicesse, lui quei video dei ricercatori del paranormale si precipitava a guardarli non appena venivano caricati sulle piattaforme online. Ognuno ha le sue debolezze.

Si riscosse e tornò a quello che stava dicendo.

«La storia di Villa Mayer era abbastanza celebre, a quell’epoca, e di ciarlatani ne capitavano parecchi, da queste parti. Gente che voleva mettersi in contatto con Edith, che asseriva di poter placare il suo spirito e via discorrendo. Inutile dirvi che nessuno ne cavò nulla: la maggior parte nemmeno la vedeva. Qualcuno di loro, comunque, deve averla almeno intravista, perché se la diede a gambe con la strizza al culo. Ma Madame Sophia – chissà come accidenti si chiamava davvero, in realtà – aveva qualcosa di diverso dagli altri. Di molto diverso. Lei, forse, sentiva e vedeva veramente. Era una medium fatta e finita, lo era per davvero. Un dono rarissimo. E non era solo un sentire, il suo. Lei si immedesimava, provava le stesse sensazioni di coloro con cui si metteva in contatto. Di certo quello psichiatra di cui vi ho detto, quello interessato alla parapsicologia e a Edith – il dottor Bernasconi – la prese sul serio, dato che la contattò lui stesso per domandare il suo aiuto… la sua consulenza, insomma.»

C’è chi contatta una escort per una notte di follia, chi si accontenta di farsi fare un pompino a bordo strada da una battona da due soldi e chi va in cerca di una medium per parlare con l’aldilà, pensò Alberto. Ciascuno vede il mondo a modo suo, immagino.

Aurora lo fulminò con lo sguardo. Anche Orso gli gettò un’occhiataccia storta.

Manfredi se ne accorse e si agitò sul divano, a disagio.

Cazzo, non dirmi che ora sono persino in due a riuscire a leggermi nel pensiero!

Che Aurora possedesse quella capacità medianica, ormai non ne dubitava quasi più – anche se non era molto propenso a indagare in merito – ma che pure quel tipo bisognoso di un barbiere ne fosse in grado, era troppo.

Troppo!

Aurora distolse l’attenzione dall’amico e tornò a rivolgersi allo scrittore.

«Fu prima o dopo di parlare con Julie?» chiese.

Orso si strinse nelle spalle. Aggrottò le sopracciglia, ma poi scosse la testa.

«Non me lo ricordo… non è come scrivere un racconto, vero? Lì uno sa già in quale momento si è svolto ogni fatto, sa già come collocare ogni singolo dettaglio, e può mettere insieme tutti gli elementi un poco per volta, come preferisce, per dare vita alla trama, anche se può capitare che la situazione sfugga di mano e le cose vadano in un modo che non si era programmato… vabbe’, lasciamo perdere, non è il momento di perdermi in teoria della scrittura creativa.»

Ridacchiò. Scosse il capo.

«Qui comunque è un poco differente», andò avanti. «Non so se, quando il professore venne a Villa Mayer, avesse già saputo quelle cose da Edith, oppure se se le fece raccontare in seguito. Bernasconi, vedete, aveva avuto in cura il padre di Edith nei suoi ultimi anni di vita, in manicomio. Restò turbato da ciò che delirava di continuo quell’uomo – sarebbe meglio dire, quel cadavere vivente, per come era ridotto – e così volle venire di persona fino a qui per scoprire che cosa ci fosse di vero, in tutta quella strana faccenda. Era curioso, Bernasconi, e non era affatto tipo da farsi fermare dalla certezze consolidate nell’ambito scientifico. Il suo era un atteggiamento molto più jungiano che freudiano. Sapete, no, come la pensava Jung, sui temi parapsicologici? Va be’, diciamo che era un tipo assai poco ortodosso, e molto più aperto. Bernasconi, allora, si rivelò essere una sorta di Jung. Uno che voleva andare fino in fondo alle cose, a costo di scoprire chissà cosa e di mettere in crisi le più radicate convinzioni. Era pronto a rovesciare il paradigma dominante, per parlare con un po’ di linguaggio tecnico. È così che va la scienza, no? Fino a un certo punto domina un paradigma, poi tramite nuovi studi quel paradigma viene ribaltato e ne nasce uno nuovo. E Madame Sophia accettò di accompagnarlo e di aiutarlo a mettersi in contatto con Edith, di aiutarlo a rovesciare il paradigma…»

 

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Capitolo 14
*** 13. ***


13.

 

 

Gennaio 1947

 

 

La neve era caduta fitta fino a un paio di giorni prima. I nuvoloni carichi avevano cominciato a riversare sulla terra il loro contenuto denso e vorticoso alla vigilia di Natale e avevano smesso di vuotarsi soltanto dopo aver valicato le porte dell’anno nuovo. Ora, anche se dal cielo grigio e pesante come una lastra di piombo non scendeva più nulla, tutta quella parte della montagna era svanita al di sotto di una trapunta innevata.

I boschi era come se non esistessero più, celati sotto la coltre bianca. I sentieri erano svaniti, inghiottiti dal candore. Le cime apparivano come delle pietre aguzze color del latte, che riflettevano la luce fino a rendersi accecanti. Anche le strade carreggiabili, pur se ripulite alla meglio dai montanari, erano appena praticabili, circondate su entrambi i lati da un’alta muraglia di neve ghiacciata.

Ma la neve non fermò il dottor Joseph Bernasconi.

Ripensava di continuo agli ultimi istanti di vita del suo paziente. Un ricordo indelebile e che continuava a turbarlo. Se aveva sempre sospettato che ci fosse qualcosa di più, oltre la concretezza delle cose, ora ne aveva la certezza.

Una certezza assoluta.

Questo, in un certo senso, lo affascinava, di sicuro lo incuriosiva e lo stuzzicava nel profondo; ma gli dava anche molte inquietudini perché, se da un lato aveva una nuova certezza, dall’altro non capiva. E, per un uomo di scienza quale era lui, non capire equivaleva a perdere l’orizzonte e crollare oltre il limite conosciuto. Per questo desiderava arrivare a Villa Mayer. Perché se esisteva una spiegazione a tutto questo, un modo per rimanere a galla e non perdere la bussola, era sicuro che l’avrebbe trovata lì.

Forse, dovunque si trovasse per davvero adesso, Edith aveva la capacità di manifestarsi in qualunque luogo desiderasse farlo, come gli aveva dimostrato; ma tali manifestazioni avvenivano solo per un motivo valido, e nei confronti di determinate persone. Se lui voleva sperare di incontrarla, di parlarle, di capire qualcosa di più, non poteva che essere lui ad andare da lei. Il contrario era impensabile.

Mentre guidava con attenzione la sua malmessa Fiat 500 color topo – del resto, se era universalmente nota come “Topolino”, un motivo doveva pur esserci – affrontando adagio ogni tornante quasi sommerso e svanito nel mezzo della coltre bianca, lo psichiatra non faceva che ripensare a ciò a cui aveva assistito. Era pressoché impossibile togliersi dalla testa quei ricordi. Era certo che lo avrebbero accompagnato fino al suo ultimo respiro.

Lanciò uno sguardo alla donna immobile al suo fianco. Seppure turbato, trovò la forza per atteggiare le labbra a un breve sorrisetto. Gli piaceva la compagnia di quella persona. Era contento che lei fosse lì, insieme a lui, pronta a condividere qualsiasi cosa ci fosse stata davvero al termine di quell’insolita ricerca.

Madame Sophia era imbacuccata in una pelliccia dall’aria lisa. Aveva raccolto i capelli ricci e nerissimi sotto un ampio scialle vaporoso. Ai polsi, al collo, alle orecchie, aveva un intero e variegato campionario di ciondoli, ninnoli e altri pezzi di bigiotteria da pochi soldi. A ogni movimento, era un tintinnare allegro e rassicurante. Il suo viso affilato, ma non per questo privo di una certa dolcezza, fissava fuori dal parabrezza, lo sguardo scuro e profondo – gli occhi più belli e straordinari che il dottore avesse mai visto in vita sua – perso in una distanza che poteva percorrere soltanto lei.

Quando il dottore, tra mille incertezze e crescente imbarazzo, le aveva spiegato la situazione chiedendo il suo aiuto, la donna non aveva battuto ciglio, e lo aveva ascoltato con pazienza e attenzione.

Alla fine, dopo che lui le aveva esposto i suo motivi, si era limitata a dire, con quella sua voce profonda, esotica e senza tempo: «Andiamo.»

E dire che la storia che Bernasconi le aveva riferito era davvero oltre il limite dell’incredibile. Chiunque, ascoltandola, si sarebbe messo a ridere, credendola una presa per i fondelli, oppure avrebbe pensato che al dottore avesse dato di volta il cervello. A restare troppo a lungo insieme ai pazzi, si finisce coll’impazzire. Chiunque altro lo avrebbe pensato o detto. Probabilmente, sarebbe stato il medesimo pensiero che avrebbe attraversato la mente di Bernasconi, se fosse stato lui a trovarsi dall’altra parte del tavolo, ad ascoltare invece che a parlare. Ma non Madame Sophia. Lei aveva accettato tutto questo come una verità assodata. Una verità imperscrutabile, magari, ma pur sempre una verità.

Eppure, quando ci rifletteva troppo a lungo e con troppa intensità, persino lo psichiatra arrivava vicino – molto vicino – a non crederci più. A pensare di essersi ingannato, di aver frainteso, o qualcosa di simile. Magari di essersi addormentato senza accorgersene, e di aver sognato ogni cosa. O, come ultima spiaggia, a dirsi di essere vittima di un esaurimento nervoso, proprio lui che certi disturbi sarebbe dovuto essere in grado di riconoscerli, diagnosticarli e guarirli. Probabilmente, avrebbe fatto meglio a chiedere di essere sospeso dal lavoro e messo in cura da qualche parte.

Distolse lo sguardo dal profilo enigmatico della donna – aveva un naso leggermente aquilino che, insieme all’incarnato molto scuro, le conferiva un fascino orientale e misterioso – e si concentrò sulla stretta curva. Dopo il tornante, la salita si fece ancora più ripida. Le ruote, lisce, consunte e vetrificate, slittarono per un momento sul fondo ghiacciato e il motore protestò piano, ricordando a quello scriteriato di un autista di essere stato concepito per le strade pianeggianti di città, e non per simili mulattiere. Dopo un attimo di indecisione, però, la Topolino riprese l’arrampicata. La vecchia ragazza non deludeva.

Bernasconi, con un buon tratto di strada libero e diritto di fronte a sé, poté di nuovo immergersi nelle recenti memorie che lo turbavano. Senza accorgersene, la mano gli salì a tormentare i baffi sottili che gli ornavano il labbro. Se li era fatti crescere per assomigliare il più possibile a Eduardo De Filippo, il suo attore e drammaturgo preferito. Gli tornò in mente una frase di Eduardo, da uno dei suoi lavori più recenti, che era andato a vedere a teatro.

I fantasmi non esistono… li creiamo noi, siamo noi i fantasmi…! I fantasmi siamo noi, ridotti così dalla società che ci vuole ambigui, ci vuole lacerati, insieme bugiardi e sinceri, generosi e vili…

Gli sarebbe piaciuto essere d’accordo. Avrebbe tanto voluto aggrapparsi a quella frase e usarla per mantenersi nel mondo delle certezze, dei dogmi matematici e scientfici… ma non ci riusciva.

Non più.

Perché adesso, il dottor Bernasconi non faceva che ripensare a quegli eventi, a ciò che era accaduto e di cui era stato testimone – l’unico testimone (o, meglio, l’unico ancora vivo), come se qualcuno o qualcosa avesse deciso che sarebbe dovuta andare così, che lui avrebbe dovuto vedere, sapere, comprendere.

Continuava a rivivere quell’istante che aveva cambiato per sempre il suo modo di percepire il mondo intero.

 

* * *

 

Dicembre 1946

 

Nelle ultime settimane, il signor Mayer aveva vaneggiato sempre più forte, preda di un delirio crescente e estenuante, e non era servito a nulla imbottirlo di farmaci in dose sempre più massiccia o sottoporlo a elettroshock di volta in volta più potenti, che gli avevano lasciato bruciature nere sulla pelle delle tempie. Ogni tipo di cura si era rivelato inutile. Il paziente non reagiva, come se non sentisse più nulla al di fuori di sé: tutto, ormai era soltanto dentro di lui. Alla fine, il dottore si era dovuto arrendere all’evidenza: se avesse insistito con la terapia, quell’uomo sarebbe senza dubbio morto. Così, era stato costretto a dare ordine di legarlo al letto per vedere che cosa sarebbe successo.

Per un’intera e interminabile settimana Mayer aveva continuato a urlare. Non aveva chiuso occhio, e Bernasconi, che lo vegliava, era rimasto sveglio insieme a lui. Lo guardava contrarsi, osservava le sue braccia scarne e il suo corpo ossuto che si dibattevano e cercavano di liberarsi dalle cinghie di cuoio che lo tenevano inchiodato al letto. Distrutto dalla stanchezza, ormai prossimo a crollare, lo psichiatra non riusciva più a capacitarsi di come quel relitto umano potesse avere a disposizione tanta energia. Non riusciva a capire da dove le traesse.

Poi, in un giorno di dicembre, era accaduto l’incredibile.

Bernasconi si era assopito sulla sedia. Stava facendo un bel sogno.

Si trovava in un grande parco cittadino, in un giorno di primavera, e assisteva al concertino di una banda di ottoni, accompagnati da una grancassa. I musicisti indossavano cappelli bianchi, camicie a righe color salmone come i pantaloni e gilet candidi. L’unica nota stonata, era che dagli strumenti musicali non uscivano note leggere, ma le urla farneticanti del suo paziente. Al di là di quel piccolo inconveniente, era comunque piacevole trovarsi seduto sulla panchina, all’ombra dei faggi, circondato da fiori, farfalle e api ronzanti. L’aria era tiepida, profumata. C’erano anche belle signore, elegantissime nei loro abiti leggeri e dai colori tenui, che passeggiavano insieme a uomini in giacca e cravatta, con la paglietta in testa. Nel centro del parco c’era un laghetto, con delle anatrine che facevano cra-cra mentre una coppia di anziani lanciava loro bricioline di pane secco. Una bambina stava inseguendo il suo cagnolino, un barboncino che agitava la coda festosa.

Era molto bello. Joseph non se ne sarebbe più andato. Gli sarebbe piaciuto restare lì per sempre. Ma i sogni non si controllano. Gli era toccato lasciare quel luogo.

All’improvviso si era riscosso.

A svegliarlo non erano state le urla di Mayer – urla a cui aveva ormai fatto l’abitudine – bensì, al contrario, la loro improvvisa assenza. Nella stanza era calato un silenzio assoluto. Un silenzio accompagnato da un calo repentino della temperatura. Tutto in un momento, la camera dell’ospedale psichiatrico si era tramutata in una vera e propria ghiacciaia.

Confuso, il medico si era guardato attorno. Aveva cercato l’interruttore della luce, certo di quello che avrebbe trovato. Mayer doveva essere morto. L’agonia durata per oltre quattro decenni aveva avuto termine.

Invece lo aveva trovato sveglio, che respirava adagio. Era calmo come non ricordava di averlo mai visto. Nel suo sguardo non c’era alcuna traccia della follia che vi aveva regnato fin da quando Bernasconi lo aveva visto la prima volta. I tratti del suo viso erano distesi, quieti. Il fiato, che usciva regolare dalle narici e dalla bocca, si condensava nel freddo inspiegabile che aveva riempito la stanza.

«Signor Mayer, come si sente…?» aveva cominciato a dire il medico.

Ma l’uomo lo aveva del tutto ignorato e si era messo a parlare da solo. Teneva gli occhi fissi al soffitto, come se stesse guardando qualcosa di visibile solo a lui.

«Edith…» disse l’uomo, con voce roca. «È oggi, vero? È oggi che… che ti ho uccisa? Oggi, dopo tutti questi anni… sei venuta a prendermi, Edith? Ma io non ti ho perdonata, Edith… tu mi hai deluso e lo stai facendo ancora…»

Gli occhi dell’uomo si accesero di un cieco odio. Bernasconi non avrebbe saputo come altro definire quell’espressione tremenda.

«Mi hai deluso, Edith… e hai avuto quello che meritavi!»

Ora parlava a voce alta, sempre più alta. Ricominciò a sgolarsi. Riprese a contrarsi sul letto, contorcendo i polsi nelle cinghie di cuoio fino a lacerarsi la pelle e la carne. Il dottore restò immobile, incapace di reagire a quel nuovo attacco.

«Mi hai capito, Edith?! Sei la mia vergogna! Che cosa penserà la gente, quando saprà di te?! E con che faccia mi presenterò davanti ai soci, quando in giro si saprà che disgrazia che ho avuto per unica figlia?! Sei un abominio, Edith! Sei uno scherzo della natura e io mi vergogno che tu abbia in te il mio sangue…!»

A quel punto, lo sguardo di Mayer si era fatto di nuovo vitreo. Poi gli occhi gli si erano gonfiati fin quasi a uscirgli dalle orbite, e l’uomo aveva ricominciato a urlare frasi sconnesse, suoni disarticolati e versi animaleschi. Strillava come se lo stessero scannando vivo, come se una lama incandescente e invisibile gli stesse frugando nelle viscere.

Ma Bernasconi non vi aveva fatto caso.

In quel momento, aveva ben altro a cui badare. Mentre il cuore gli correva nel petto a rischio di scoppiare, il suo sguardo e tutti i suoi sensi erano tesi verso l’incredibile.

La sua attenzione era tutta per la figura che si era materializzata al livello del soffitto e stava calando adagio verso il vecchio pazzo. Una figura femminile, una figura magra e pallida, dai lunghi capelli neri che si protendevano come serpenti sottili verso il volto di Mayer. L’abito bianco e lacero che la copriva svolazzava, mosso da una brezza che non si poteva avvertire sulla pelle.

«Tu non mi hai perdonata…» disse la figura.

Un sussurro flebile, come una bava di vento, sottile e tagliente. Bernasconi si addossò alla parete, incapace di muoversi, con mani e gambe che tremavano. Il cuore continuò a martellargli impazzito dentro il petto, ma neppure se ne rese conto.

«…e io non posso perdonare te», proseguì la figura.

La sua voce, per quanto appena percettibile, sovrastava le urla furiose di Mayer.

«…non per quello che hai fatto a me… ma per quello che hai fatto a lei… per quello che hai fatto a Marta… la tua cattiveria sarà punita… l’Inferno è ciò che aspetta quelli come te… Caina attende… chi a vita ci spense…»

Mayer urlò più forte. Bernasconi sentì un dolore al petto ed ebbe il vago timore di stare per avere un infarto per via della paura. Non ci badò poi troppo. Non riusciva a staccare gli occhi da quell’assurda situazione che stava avvenendo davanti ai suoi occhi.

«Tu sia maledetto per ciò che hai fatto a Marta!» gridò Edith. «Mostro infernale che non sei altro, per sempre maledetto!»

La figura femminile si adagiò sul letto del vecchio pazzo. Poi, così come era apparsa, scomparve, svanendo nel nulla come un sogno. L’uomo strillò e gorgogliò. D’improvviso, grossi lividi gli comparvero sul volto, come se pugni invisibili lo stessero percuotendo con forza crescente.

Mayer si agitò. Si agitò al punto da riuscire a strappare i legacci che lo tenevano bloccato. I polsi scorticati presero a far schizzare sangue sulle pareti. Si rizzò a sedere, ma non poté fare altro. Un pugno invisibile – o forse un calcio, chi avrebbe potuto dirlo davvero – lo colpì con violenza e lo rovesciò sul pavimento. Cadde di peso e subito si portò le mani davanti al viso, come se volesse parare una raffica di pugni.

Bernasconi si riscosse.

Doveva aiutarlo. Non capiva che cosa diavolo stesse succedendo, sentiva il gelo nelle ossa – e non era soltanto una sensazione: come aveva già notato poco prima, nella camera era calato un freddo intenso, tanto che il fiato ormai aveva creato delle vere e proprie nuvolette azzurrine che lo circondavano da ogni parte, come fantasmi protesi verso di lui – ma sapeva di dover intervenire.

Doveva aiutare il suo paziente.

Doveva fare qualcosa per Mayer.

Si precipitò in avanti, piegandosi sull’uomo che si contorceva sul pavimento…

E mani freddissime – mani che non poteva vedere, mani che esistevano – lo abbrancarono per le spalle, lo strattonarono come un pupazzo e lo spintonarono via. Il dottore si ritrovò a rotolare sul pavimento e finì contro la parete, sbattendo la testa contro il battiscopa. L’urto fu violento e un’ombra scura calò sugli occhi di Bernasconi.

Prima di perdere del tutto i sensi, vide ancora.

Vide la ragazza, bellissima e terribile, furiosa. Era solida, viva, vera, ma era anche un’ombra, soffusa di luce, trasparente. Era tutto e non era niente al medesimo tempo. La vide accanirsi con calci e pugni contro il corpo del vecchio. Vide Edith Mayer uccidere il proprio padre esattamente come suo padre aveva ucciso lei.

Poi il dottor Bernasconi perse i sensi.

 

* * *

 

Erano stati gli infermieri a strapparlo alle tenebre in cui era precipitato. Non aveva idea di quanto tempo fosse passato, ma doveva esserne trascorso parecchio: la stanza rifulgeva della luce mattutina, e il cadavere martoriato di Mayer era già freddo. Del gelo innaturale che aveva permeato l’ambiente non c’era più alcuna traccia, e il riscaldamento centralizzato aveva reso di nuovo tiepida la stanza.

«Sta bene, dottore?» gli domandò uno degli infermieri, chino su di lui.

Era lo stesso vecchio infermiere che, tanti anni prima, aveva portato via il signor Mayer dalla sua villa. Adesso che lo aveva visto morto, sembrava che il suo volto fosse attraversato da un’espressione di puro sollievo.

«Io…» borbottò Bernasconi, portandosi la mano alla fronte dolorante.

Aiutato dall’infermiere, si rialzò in piedi. Ebbe un breve capogiro, ma riuscì a non cedere e a vincere il senso di nausea che lo aveva colto.

«Io credo di sì», bofonchiò.

Poi rammentò ogni cosa, rivide tutto quanto. Risentì le urla di Mayer e le parole appena sussurrate del fantasma.

Le parole di Edith.

Si voltò di scatto a frugare con gli occhi nella camera, cercando di scorgere qualcosa. Qualunque cosa. Non c’era nulla di insolito. Almeno, se non si badava al corpo del suo paziente, abbandonato sul pavimento e ridotto a un sacco di carne sanguinolento, quasi irriconoscibile.

Un brivido percorse la spina dorsale di Bernasconi. Questa volta il capogiro risultò troppo forte per essere contrastato. Barcollò e fu costretto a mettersi a sedere.

I due infermieri si scambiarono uno sguardo d’intesa. Poi, il più vecchio dei due gettò un’occhiata all’apparenza casuale alle mani e alle scarpe di Bernasconi. Erano pulite, intonse. Nessuna traccia di sangue, né di escoriazioni di qualche tipo. Inoltre, lo psichiatra era troppo magro e gracile per pensare che fosse stato lui a conciare in quel modo Mayer. Il sospetto che potesse essere lui il responsabile della morte del pazzo svanì con la stessa facilità con cui si era presentato.

Meglio così.

«Deve avere fatto tutto da solo», ipotizzò l’inserviente. «Si è liberato, l’ha messa al tappeto e si è massacrato di botte fino a restarci secco…»

Forse, lui stesso non era troppo persuaso da una simile spiegazione. Per quanta mania autolesionistica avesse in corpo un essere umano, una cosa del genere sarebbe stata di troppo, persino per un pazzo ormai completamente privo di senno. Ma non parve importargliene più di tanto. Mayer era morto, finalmente. Era morto e tanto bastava.

Il resto non aveva nessuna importanza.

Bernasconi annuì.

«Sì, deve essere andata così…» bofonchiò, evitando di incontrare lo sguardo dei due uomini e la figura del morto. Si concentrò sulla finestra, guardando oltre il vetro appannato i colori del sole dicembrino. «Si è liberato… mi sono avvicinato per bloccarlo, e mi ha colpito… mi ha spinto via, meglio, e ho picchiato la testa da qualche parte… poi sono svenuto e non ho visto altro…»

Non fu certo di essere risultato convincente. Di certo, non aveva convinto se stesso. Ma ai due infermieri bastò. Lui era il medico e, quello che il medico diceva, valeva legge, lì dentro.

«Nessuno sentirà la mancanza di questo macellaio», disse il vecchio infermiere, con accento duro. «Era ora che si togliesse di torno. Speriamo sia già all’Inferno a soffrire per ciò che ha fatto. Adesso buttiamo questa carcassa in una fossa comune e che resti lì a marcire per l’eternità.» Deglutì e la sua voce tremò debolmente. «Dottore, lei non può nemmeno immaginarselo, ma il ricordo di quelle due giovani ridotte in quello stato… soprattutto, il ricordo della povera Edith, massacrata di botte… ha continuato a perseguitarmi per tutti questi anni.»

Bernasconi non disse nulla.

Eppure capiva, capiva benissimo.

Perché l’immagine di Edith stava perseguitando anche lui.

 

* * *

 

Gennaio 1947

 

 

«Voglio capire, desidero sapere… è un mese, ormai, che mi rivedo davanti agli occhi Edith Mayer, e che non faccio che pensare e ripensare a ciò a cui ho assistito. Ho bisogno di dare un significato a tutto questo. E sono certo che l’unico modo per riuscire a trovare un senso a ciò che ho visto sia entrare in quella villa maledetta. Perché, se è vero che Edith è là dentro, io…»

Il dottor Bernasconi si interruppe. Si strinse le mani, non sapendo che altro aggiungere. Non aveva idea nemmeno lui di che cosa avrebbe trovato dentro Villa Mayer, o di come si sarebbe comportato una volta che vi avesse trovato qualcosa. Di qualsiasi cosa si fosse trattato.

Madame Sophia aveva accettato di incontrarsi con lui in quella caffetteria del centro. L’ambiente era caldo e accogliente. Soltanto di quando in quando, se qualcuno apriva la porta a vetri per entrare o uscire – un movimento accompagnato dal tintinnare rassicurante del campanellino appeso sopra l’ingresso – una sferzata d’aria fredda si insinuava all’interno. Ma durava un breve istante, poi il calore tornava a permeare tutto. Il profumo del caffè e dei pasticcini – caffè e pasticcini veri, dopo gli autarchici e disgustosi surrogati del Ventennio e la pressoché totale assenza di ogni cosa durante l’ultima guerra – riempiva l’ambiente, ed era avvolgente. Infondeva un senso di allegria e di sicurezza, smorzava la malinconia di cui sarebbe stato altrimenti permeato quel giorno di inizio anno. Una fragranza dolce e rassicurante. Un profumo che andava a frammischiarsi a quello esotico di vaniglia e di resina che emanava il corpo della medium.

Alta, con la pelle scura, i capelli neri e crespi raccolti sotto uno scialle che le ricadeva sulle spalle, un abito scuro con una profonda scollatura che metteva in risalto la bellezza del suo corpo, magro eppure formoso nei punti giusti. Una donna senza una vera origine – orientale, turca, siriana, indiana forse, oppure greca o nordafricana, o ancora spagnola o magari sudamericana, chi avrebbe potuto dirlo con certezza – e senza una vera età. Era impossibile capire quanti anni potesse avere. Il tempo non era in grado di fare nessuna presa, sull’essenza esteriore di Madame Sophia. Nei suoi occhi – neri e profondi, lucenti come ossidiana, intelligenti e astuti – brillavano il mistero e la consapevolezza di chi ha visto cose proiettate al di là della vita di ogni giorno.

Se non fosse stato incupito, se ciò che aveva veduto non lo avesse tramortito nel profondo, il dottor Bernasconi sarebbe pure stato un po’ in imbarazzo nel trovarsi a tu per tu con una simile donna. Aveva trascorso l’adolescenza a studiare, e da quando si era laureato aveva passato le sue intere giornate sempre chiuso in manicomio. Ala maschile. Il suo unico rapporto con l’altro sesso avveniva durante le riunioni con gli altri medici e il personale della struttura, quando si trovava a tu per tu con le infermiere – vere e proprie valchirie, montagne di muscoli prive di forma e probabilmente anche di sesso. Preso com’era da quella vita, non aveva mai neppure pensato di investire un paio di lire per fare visita al postribolo. Un’idea, questa, che non lo aveva mai nemmeno sfiorato per sbaglio.

Così, quando aveva incontrato la donna che lo attendeva nella caffetteria, si era sentito un poco a disagio, rendendosi conto di non sapere affatto come fare a comportarsi con una signora. Non aveva potuto fare a meno di notare gli sguardi interessati degli uomini che scivolavano verso quel tavolino, e quelli infastiditi delle loro compagne. Sguardi che – sia da una parta che dall’altra – si erano riempiti di invidia quando lui l’aveva salutata e – cercando di fare appello alle buone maniere che gli erano state insegnate da bambino e a ciò che aveva visto spesso fare a teatro e al cinema – le aveva fatto un delicato baciamano. Probabilmente, il baciamano era fuori moda da mezzo secolo o giù di lì, ma Joseph non ne era troppo sicuro.

Inoltre, Madame Sophia sembrava averlo molto apprezzato, perché aveva sorriso con fare delicato. Per un attimo, il giovane dottore si era sentito a suo agio.

Ma era durato un solo istante.

Il suo imbarazzo era infatti cresciuto e tornato a galoppare quando si era trovato nelle condizioni di doverle dire tutto. Aveva rimuginato a lungo ciò che aveva visto e sentito, avrebbe saputo rivelare i dettagli a memoria. Ma parlarne di fronte a un’altra persona – per di più, parlarne con una persona che, in un certo senso, rappresentava l’irrazionale e il pensiero magico, cioè tutto ciò che Bernasconi, laureandosi, si era impegnato a combattere con ogni mezzo – si era rivelato molto più difficile del previsto.

Madame Sophia però gli aveva rivolto un nuovo sorriso, incoraggiante. Senza nessun imbarazzo, aveva allungato il braccio attraverso il tavolino rotondo, distendendolo sul piano di marmo scuro – i numerosi bracciali che portava al polso avevano tintinnato nello sbattere piano contro il ripiano – e gli aveva stretto la mano. Aveva continuato a stringerla mentre lui, lasciandosi andare, raccontava tutto quanto. Il suo tocco era caldo, solido e confortevole. Con la mano racchiusa tra quelle dita forti, Bernasconi si era sentito attraversare tutto il corpo da un piacevole brivido che gli aveva infuso nuovo coraggio.

Era sparito tutto. Erano scomparse le vetrate che affacciavano sulla piazza innevata, erano svanite le vetrinette con pasticcini, torte, confetti e bottiglie di rosolio, si erano fatti un nulla i decori a stucco delle pareti e del soffitto, così come le lampade dorate attaccate ai muri. Erano diventati poco più che ombre inconsistenti gli avventori della pasticceria e i camerieri che si spostavano qua e là sopra il pavimento di un tenue beige, e il loro chiacchiericcio si era trasmutato in un semplice e incomprensibile brusio di sottofondo.

Erano rimasti solo Joseph e Sophia.

E così le aveva detto tutto.

Quando ebbe finito di ascoltarlo, la donna ritrasse la mano e finalmente si dedicò alla tazzina di caffè che aveva davanti. Rimestò a lungo il cucchiaino nel liquido nero, ormai raffreddato. I suoi occhi si fissarono nel vorticare di acqua, zucchero e caffeina.

«E posso domandarle, dottore, perché si è rivolto a me?» chiese, con voce soave. «Lei è un uomo di scienza. La scienza, forse, non le offre gli strumenti necessari a dare una risposta certa a ciò di cui ha fatto esperienza?»

Stavolta, l’imbarazzo di Bernasconi esplose come una bomba. Sentì una vampa ardente salirgli dal collo fino alle orecchie. Tra i suoi studi c’era anche la filosofia e, all’improvviso, comprese come dovevano sentirsi gli antichi Ateniesi, quando Socrate li interrogava. Qualcosa gli disse che lo sguardo di Socrate non doveva essere stato troppo dissimile da quello di Madame Sophia.

«Io… signora, spero che lei non creda che io sia qui per imbrogliarla, per prendermi gioco di lei…»

Sapeva più che bene che, il rapporto tra gli psichiatri e gli esperti – o presunti tali –del mondo dell’invisibile, del paranormale, non era mai stato facile. Anzi, dire che non fosse facile era un eufemismo fatto e finito. Molte volte, gli studiosi della psiche umana, facendo comunella con prestigiatori e illusionisti, cercavano di cogliere in fallo medium e sensitivi per dimostrare la vuotezza delle loro parole e l’assenza di prove in ciò che asserivano e facevano.

Ma quello non era il suo caso.

Non lo era affatto.

Madame Sophia alzò gli occhi dalla tazzina e lo fissò. I suoi occhi scuri parvero dilatarsi all’infinito. Rilucerono delle tante lampade accese attorno a loro. Due universi pieni di stelle sfavillanti che scrutarono in profondità dentro di lui. Seppure a disagio, Bernasconi sostenne quello sguardo. Se quella donna poteva davvero aiutarlo, non si sarebbe sottratto a nulla.

Un delicato sorrise increspò le belle labbra della medium.

«Lei è sincero, dottore», disse. «Un dono raro, tra gli esseri umani.»

Bernasconi provò ad addentare un bignè alla crema di pistacchio per superare quel momento di imbarazzo. Scoprì di non poterlo fare. Aveva lo stomaco chiuso a doppia mandata.

Sentì di doverle dire tutto.

«Signora… Madame… non è stato facile, chiederle di incontrarmi», confessò. «Io… lo ha detto lei stessa, sono un uomo di scienza… ma certe volte…»

Impacciato, non riuscì a proseguire.

Lei gli venne in aiuto, senza smettere di sorridere in modo gradevole.

«Certe volte, la scienza non può spiegare tutto», mormorò Sophia. «Ed è ovvio che sia così, non crede? La scienza ha un limite, un confine ben netto. Poi deve arrendersi, gettare le armi e sventolare bandiera bianca.»

Il dottor Bernasconi, nonostante tutto, ebbe un moto d’orgoglio.

«Non mi chieda di rinnegare la scienza, signora…» cominciò a dire.

Sophia scosse il capo.

«Non glielo sto chiedendo, infatti», lo rassicurò. «La scienza, per come la vedo io, ha un limite ben preciso: la mente dell’uomo. La scienza scaturisce dal cervello degli esseri umani, e può limitarsi al campo in cui la psiche della gran parte degli esseri umani si trova appunto confinata: il mondo materiale, la quotidianità delle esistenze terrene, regolata dalle leggi della fisica. Ma, oltre questo limite, c’è qualcosa che sfugge alla nostra comprensione, al nostro tentativo di darne una spiegazione logica. Ogni tanto questo qualcosa si affaccia al nostro mondo, ma soltanto pochi di noi possono vedere oltre…»

«…oltre il velo di Maya», completò per lei il dottore.

Madame Sophia annuì una volta.

«Vedo che mi segue», disse. C’era una leggera traccia di soddisfazione, nella sua voce. «Sì, alcuni lo chiamano velo di Maya. Altri soltanto velo, per via della sua estrema sottigliezza. Altri ancora parlano di barriera psichica, o di tenebre dell’aldilà, o di luce interiore, o di ultimo arcano… comunque la si voglia chiamare, c’è una dimensione che va oltre il nostro mondo fisico e la nostra mente. Una dimensione appena oltre, separata da noi da una linea sottilissima, eppure tanto ostica da abbattere che, per la gran parte dei nostri simili, non esiste affatto.»

Il dottore si protese verso di lei, affascinato. Ormai, era come se la caffetteria, con i suoi aromi e il cicaleccio dei clienti, non esistesse proprio più. C’erano soltanto Joseph Bernasconi e Madame Sophia, sospesi in un vuoto che riempivano soltanto loro.

«Ma non è fuori dalla portata per la mente di tutti, dico bene?» domandò. «Qualcuno può vedere.»

La donna fece un altro accenno affermativo.

«Tutti, in teoria, possiamo guardare oltre il velo», sussurrò. «Inneres Auge. L’occhio interiore. Tutti quanti possediamo quella facoltà sopita, la terza vista, sviluppata agli albori dell’esistenza. Ma quasi nessuno se ne rende conto, e pertanto pochissimi si esercitano per dischiudere quell’occhio che è dentro di noi. Qualche volta, però, a qualcuno può capitare qualcosa di strano… succede che l’occhio mistico si risvegli da solo, schiudendosi di fronte all’altro mondo. Accade, quando il velo di Maya viene scosso da una forza improvvisa. Perché le tenebre vengono squarciate quando meno ce lo si potrebbe aspettare. E, a quel punto, questo mondo e quell’altro interagiscono tra loro.»

Gli occhi di Bernasconi furono catturati ancora una volta da quelli quasi ipnotici di Sophia. Restò muto, lasciandola continuare.

«Lei è uno di quei fortunati, dottore, altrimenti non mi avrebbe mai cercata per parlarmi di Edith Mayer. E credo che sia stata proprio Edith a svelare l’arcano per lei: quando è tornata per vendicarsi, lei era presente… e la grande forza scatenata da Edith ha coinvolto anche lei, riaprendole la vista atrofizzata.»

Un rivolo di sudore freddo solcò la tempia sinistra dello psichiatra. Per quello che lo riguardava, non si considerava affatto fortunato. Ne avrebbe fatto volentieri a meno. Comunque, tenne per sé quell’osservazione.

«E lei, signora…» mormorò, mentre le sue dita nervose giochicchiavano con il cucchiaino. «Anche lei… anche lei ha dischiuso quell’occhio?»

Il volto di Sophia si fece ancora più enigmatico e misterioso. Un sorriso increspò le sue labbra. Un sorriso che aveva molto da spartire con quello ieratico e indecifrabile delle antiche statue egizie.

«La mia storia è molto differente dalla sua, dottore.»

A quel punto, disse qualcosa che fece rabbrividire tanto forte Bernasconi da costringerlo ad aggrapparsi al pianale del tavolino per non correre il rischio di cadere dalla sedia.

«Io sono antica.»

Una pletora di domande si affannò nella mente sovreccitata del giovane medico. Avrebbe voluto chiederle conto di quelle parole, chiarimenti, lumi. Si controllò. Soltanto fissandola negli occhi, comprese che da Madame Sophia non avrebbe appreso altro, da quel punto di vista. Almeno non quel giorno. Quella donna custodiva un segreto e non glielo avrebbe svelato… perlomeno, non lo avrebbe fatto in quella caffetteria, in mezzo a tanti estranei. Ma forse, con lui si sarebbe aperta, perché loro… loro non erano estranei. Per quanto assurdo fosse il solo pensarlo, il medico ne era certo.

Adesso, però, non era il momento di insistere al riguardo.

Invece, riuscì a tornare nei binari che lo avevano condotto fin lì.

«Lei crede di potermi aiutare?»

Di nuovo, lo sguardo di Madame Sophia fu illuminato da un bel sorriso. Un sorriso in cui, questa volta, aleggiò anche un leggero tocco di maliziosa ironia.

«Sono una sensitiva e una medium, dottore», affermò, «ma non sono un’indovina. Se io fossi un’indovina, capace di leggere il futuro nelle carte o nelle linee di una mano, stia pur certo che avrei già sbancato il banco del lotto e mi starei godendo la vita molto lontano da qui.»

Bernasconi fece un sogghigno. Non fu affatto certo di quella risposta. Per quel poco che stava imparando a conoscerla, era sicuro che, una donna come Madame Sophia, non sarebbe mai andata molto lontana da dove si trovava adesso, nemmeno se avesse posseduto tutto il denaro del mondo.

«Già, mi scusi…» bofonchiò. «Io vorrei soltanto che lei mi… mi aiutasse a parlare con Edith. Io devo sapere, capisce? Ho avuto in cura quell’uomo sin da quando sono entrato a lavorare in quella clinica, e ora voglio… desidero solo capire perché. Desidero sapere perché non se ne è andata… ovunque vada la gente che muore… ma sia rimasta… e sia tornata a prendere suo padre… a ridurlo in quel modo. Ho percepito un odio profondo, in quel momento, e se non lo avrò spiegato… non sarò più in me…»

Deglutì a fatica. Avrebbe tanto desiderato che Madame Sophia allungasse di nuovo la mano per toccarlo e dargli coraggio. Ma le braccia della medium restarono ferme e le sue dita continuarono a rimestare il cucchiaio dentro la tazzina ancora intatta.

«E io… io sono convinto…» riprese lo psichiatra, «…sono convinto che il solo modo per parlare con Edith sia entrare in quella villa…»

Per un momento, un lunghissimo momento che parve protrarsi a dismisura, Madame Sophia non disse nulla. Il suo sguardo fissò lontano, chissà dove, oltre le vetrate della caffetteria. Fuori aveva ricominciato a nevischiare, e un leggero manto bianco stava iniziando a trapuntare di un candido velo sottile il marciapiede da poco pulito da un netturbino.

Infine sospirò.

«La risposta che cerca potrebbe turbarla molto più della domanda che vuole porre», mormorò. «E potrebbe trovare molto più della sua risposta. Altre domande. Che richiederebbero altre risposte. Il mondo oltre il velo è molteplice, dottore. È fatto di quesiti, prima ancora che di spiegazioni.»

«Io devo sapere», disse Bernasconi, risoluto. «Non posso più vivere così.»

Madame Sophia si alzò di scatto. Lo fece con tale impeto che molti occhi si girarono verso di loro. Lo psichiatra restò di sasso e si fece piccolo sulla sedia, temendo che lei avesse deciso di dargli il benservito e piantarlo lì dove si trovava.

Invece, Madame Sophia gli tese la mano.

«Andiamo», disse.

 

* * *

 

Con un sussulto, facendo slittare gli pneumatici sul terreno ghiacciato, la Topolino si fermò davanti all’imbocco del sentiero. Era quasi buio, ormai. Le ombre degli alberi erano fitte e tetre, come fantasmi in agguato nell’oscurità insondabile.

Sembrava proprio che tutto complottasse per rendere il più difficile possibile quella visita a Villa Mayer.

Nell’abitacolo freddo continuò a regnare il silenzio che aveva accompagnato lo psichiatra e la medium nel loro viaggio sui monti. Bernasconi si sentì attraversare tutto il corpo da una profonda fitta di nervosismo. Distolse lo sguardo dallo stretto passaggio in mezzo al bosco che conduceva alla vecchia villa abbandonata e si voltò a contemplare la sua compagna. Madame Sophia non mostrava alcun segno di turbamento. Era serena, tranquilla, in pace con il mondo intero.

Come intuendo ciò che stava passando nella mente del giovane medico, la donna finalmente ruppe il mutismo in cui era sprofondata fin dal momento in cui erano partiti.

«Se non se la sente di andare avanti, dottore, la comprendo benissimo», sussurrò. «Se preferisce così, possiamo tornare al paesetto che abbiamo attraversato per venire qui e scoprire se c’è una locanda o un qualche altro tipo di alloggio in cui passare la notte.»

Bernasconi sussultò. Nonostante tutto, scoprì che lo avrebbe turbato maggiormente trascorrere la notte insieme a quella donna enigmatica, che non entrare insieme a lei a Villa Mayer.

«Sono arrivato fin qui», borbottò. Non si meravigliò di avere la voce roca. «Non voglio tornare indietro proprio adesso.»

Madame Sophia annuì, come sempre una volta soltanto. Aprì la portiera e scese con grazia dall’automobile. Si chinò per prendere una borsa di vimini che aveva appoggiato sul piccolo sedile posteriore e Bernasconi avvertì il profumo speziato che emanava dal suo intero corpo.

Poi anche lui scese.

Il freddo lo aggredì immediatamente, strappandogli un brivido. Era ancora più pungente di quanto avesse immaginato. Si strinse nel logoro cappotto impermeabile grigio che gli arrivava fino alle caviglie e si calcò meglio in testa il borsalino di feltro nero. Pestò i piedi intorpiditi sul terreno per scaldarli un poco. I suoi mocassini non erano proprio le calzature adatte a simili luoghi e temperature. Subito dopo il gelo, venne il silenzio assoluto della montagna. Un silenzio impressionante per chi, come lui, era abituato ai rumori continui della città e alle urla farneticanti e ininterrotte degli internati del manicomio. Tese le orecchie, sperando di captare qualcosa – il sussurro del vento, il bisbiglio di un barbagianni, lo scricchiolio di un ramo, il rotolare di un sassolino, magari il gorgoglio dell’acqua di un torrente – ma non udì nulla.

Nulla di nulla.

Era come se, scendendo dalla macchina, avessero messo piede dentro un altro mondo.

Il mondo oltre il velo, fu il pensiero che attraversò la mente del dottore.

Rabbrividì di nuovo, e stavolta il freddo non vi ebbe alcuna parte. Guardò il sentiero. Si stavano davvero avvicinando. Quello era il luogo in cui l’ultimo arcano era davvero stato svelato, il punto in cui la soglia era stata oltrepassata.

Ora non si poteva più tornare indietro.

Il dottore esitò ancora un istante. Il braccio di Madame Sophia scivolò al di sotto del suo e fu lei, con passi brevi ma decisi, a condurlo attraverso il bosco, verso la vecchia villa dei Mayer.

Verso il luogo in cui Edith era in attesa.

 

* * *

 

«C’è qualcuno qui, insieme a noi?»

Erano entrati nel lugubre e gelido cuore della villa.

Quando avevano oltrepassato la porta, il dottor Bernasconi si era sentito serrare il petto da una morsa di terrore. Tutte le sue ultime convinzioni scientifiche erano venute meno nell’esatto momento in cui aveva cominciato a camminare sotto lo stesso tetto di Edith Mayer. Sarebbe fuggito volentieri. Ma Madame Sophia, forse intuendo il suo sgomento, non lo aveva lasciato andare nemmeno per un momento, continuando a tenerlo stretto a sé. Il contatto di quel corpo femminile caldo e sicuro aveva confortato il giovane psichiatra, inducendolo a proseguire.

Avevano salito in silenzio l’ampia scalinata che immetteva nei piani alti.

Da dietro ogni colonna, dall’angolo di ogni muro, dalle ombre di ogni corridoio, dal buio che si snodava al di sotto degli stipiti e attraverso le fessure delle porte socchiuse, Bernasconi aveva avuto la sensazione di essere spiato e studiato. Qualcosa era in agguato nel nero. Qualcosa che sembrava soltanto attendere il momento giusto per colpire.

Per nulla spaventata, senza esitare – come se sapesse di già dove dovevano andare – Madame Sophia lo aveva condotto verso una porta chiusa. Aveva appoggiato la mano sulla maniglia e, a quel punto, aveva rivolto gli occhi al medico.

Lui sapeva già che cosa lei gli avrebbe detto.

«Qui dentro è dove avvenne», sussurrò.

Bernasconi annuì ed emise un grugnito incomprensibile persino a lui. Se avesse voluto tornare indietro, quella sarebbe stata l’ultima possibilità. Una volta entrato, avrebbe per davvero oltrepassato la soglia. Ma non volle sottrarsi a ciò che lui stesso aveva chiesto.

«Lo so», sussurrò.

Non disse da dove gli provenisse quella certezza, né Madame Sophia sentì la necessità di domandarglielo. Allo stesso modo, lui non volle indagare su come facesse lei, a esserne tanto certa.

Entrarono.

Non fu il grande camino freddo e spento a colpire Bernasconi. Non furono nemmeno i mobili sfasciati e il grande pianoforte ridotto a un ammasso informe di corde ammucchiate, legno marcito e tasti d’avorio ingialliti. E nemmeno l’ampia vetrata, con alcuni pannelli scheggiati, nera e appannata contro la notte invernale. Non furono soltanto queste, almeno.

Ciò che lo prese alla gola, mozzandogli il respiro e accendendogli dentro un crescendo di panico, fu la sensazione di orrore che provò nel trovarsi lì dentro. Avvertì come un pugno nello stomaco e si sentì raggelare al punto che cominciò a tremare come in preda alla febbre alta.

Era la stanza.

Quella stanza era sbagliata, storta.

Quella stanza era il ricordo di legno ammuffito, pietra annerita e vetro opacizzato del delitto efferato e mostruoso che vi era stato commesso. Era ancora lì, vivo.

Era lì e gridava vendetta… e non solo vendetta.

C’era qualcosa di profondo, in quella stanza, qualcosa di indefinito e di stonato, che Bernasconi non riuscì a comprendere per davvero. Di una cosa soltanto, poté dirsi certo: non era odio, quello che aleggiava lì dentro. Non più, almeno.

«Rancore», sussurrò Sophia. «Rimpianto.»

Fece un profondo sospiro.

«Attesa», disse ancora.

Prima che lui avesse avuto modo di domandare di che cosa stesse parlando – ma Bernasconi non lo avrebbe comunque mai chiesto, perché le corde vocali gli si erano annodate in gola – lei lo guidò con sicurezza verso il camino. Fu lì che lo lasciò andare.

Il dottore avrebbe tanto desiderato che quel contatto tra di loro non si interrompesse mai. Si sentì vuoto e perso appena Sophia ebbe ritirato il braccio da sotto il suo.

Immobile, nervoso, la guardò appoggiare sopra i resti di un tavolino la sua borsa di vimini. La donna ne estrasse cinque candele rosse, che dispose con cura sul pavimento, proprio davanti al caminetto. Formò i vertici di un pentacolo invisibile. Poi, servendosi di un unico fiammifero, la donna le accese tutte quante.

Bernasconi si rese conto di una cosa. Le fiammelle tremolanti delle candele proiettavano una vaga luminescenza sul pavimento polveroso, mettendo in risalto una macchia scura. Una sagoma che si era impressa nelle assi.

Allora capì.

Quello era il punto esatto in cui Edith Mayer aveva perduto la vita. Lo stesso punto in cui il suo povero corpo aveva giaciuto e si era lentamente decomposto per settimane – forse per mesi – prima che suo padre fosse arrestato e qualcuno avesse provveduto a portarla via da lì per darle una sepoltura.

«No…» sussurrò, quando vide Sophia porsi nel centro del pentacolo di candele, proprio sopra la macchia scura. Protese il braccio. Voleva fermarla.

«Non sto oltraggiando Edith», assicurò la donna. «Voglio solo mettermi in contatto con lei… e devo farlo qui, dove il suo spirito si è separato dal corpo.»

Bernasconi tentò di dire qualcosa. Comprese di non poterlo fare.

Tacque.

E Madame Sophia porse quella domanda.

«C’è qualcuno qui, insieme a noi?»

 

* * *

 

Fu un istante lungo un’eternità. Un istante in cui il tempo sembrò cristallizzarsi, rendendosi immobile. Forse un istante in cui il tempo cessò persino di esistere.

Poi tutto accadde, in una manciata di secondi che si susseguirono in rapidissima successione, anche se parvero dilatarsi all’infinito, come l’assurdo tempo dei sogni, in cui pochi istanti soltanto diventano ore e ore e anche giorni interi.

Una folata di gelido vento spalancò la porta della sala e la richiuse sbattendola. L’ambiente divenne freddissimo, così freddo che il pavimento e le pareti si ricoprirono di sottili lamine di ghiaccio. I vetri delle finestre tintinnarono, il legno scricchiolò. Dal pianoforte disfatto sfuggì una nota simile a un lugubre lamento.

Scosse dal vento, le fiamme delle candele guizzarono, mandarono scintille, oscillarono come se stessero ballando una folle danza, ma non si esaurirono. Il loro fuoco continuò ad ardere, unica luce nelle tenebre più profonde che gli occhi di Joseph Bernasconi avessero mai incontrato.

Poi accadde.

Qualcosa strisciò veloce in avanti, qualcosa che sfiorò le gambe dello psichiatra. Bernasconi cercò di ritrarsi, orripilato come se un serpente viscido gli si fosse attorcigliato alla caviglia. Non ci riuscì. L’orrore lo aveva paralizzato lì dove si trovava.

Nel centro del pentacolo, la medium distese le braccia, come se si stesse preparando ad accogliere qualcuno per un abbraccio, facendo squillare tutto il suo variegato assortimento di braccialetti e ninnoli. Inspirò a fondo, quasi a voler inalare del fumo, e si irrigidì. Cominciò a tremare fortissimo. La sua schiena si inarcò, spinse la testa verso l’alto e rovesciò gli occhi all’indietro. I piedi sbatterono contro il pavimento e tutto il suo corpo ondeggiò, ma non cadde. Dalla bocca le sfuggì un lungo e basso lamento. Una bava biancastra le affiorò gorgogliando alle labbra, scivolò sul mento e gocciolò sullo scialle che aveva avvolto attorno al collo.

«Signora…» tentennò Bernasconi.

Il suo dovere di medico gli disse di correre da lei, di aiutarla. Quella donna doveva essere in preda a un colpo apoplettico, o a un attacco di epilessia. Doveva intervenire prima che fosse troppo tardi. Ma le gambe non gli obbedirono. Anzi, fu tutto il corpo a non ascoltare. Restò immobile dove si trovava, congestionato dal gelo crescente, incapace di compiere un qualsiasi movimento. Poteva soltanto vedere la stanza, articolare pensieri e ascoltare il proprio respiro, ma non era più padrone del proprio corpo. Si sentì come in preda a una paralisi ipnagogica, con la sola differenza che vi era scivolato dentro attraverso la veglia e non per mezzo del sonno.

E alla paralisi si accompagnò il terrore.

Un terrore indicibile, che Bernasconi avrebbe voluto sfogare urlando.

Ma non poté farlo.

Nemmeno quello gli era più possibile.

I suoi occhi spalancati stavano guardando lo spettacolo più assurdo e incredibile che mai avrebbero potuto immaginare.

Di fronte a lui stava avvenendo una vera e propria metamorfosi.

Madame Sophia era sempre lei. Ne intuiva il corpo, i tratti del viso, i movimenti. Ma era anche un’altra persona. Una sagoma le si era sovrapposta, tramutandola. Sembrava di guardare quelle stampe lenticolari che da qualche anno si cominciavano a vendere nei negozi di souvenir. D’un tratto vedeva Sophia, e subito dopo, nella stessa posizione, vedeva un’altra persona.

Vedeva una ragazza giovane, dai lunghi capelli neri e lisci, il volto pallido e affilato, uno strano sorriso sulle labbra sottili. L’unica cosa che restava in comune con la donna più adulta, erano gli occhi: occhi scurissimi, neri come pozzi senza fondo oltre cui brillava l’eternità.

Bernasconi lo sapeva benissimo, per quanto assurdo fosse: stava guardando Edith Mayer.

Adesso era Edith, ora di nuovo Madame Sophia.

Le labbra di Sophia si mossero.

«Ciao dottore.»

Un suono gutturale, profondo, che sembrava provenire da… da un luogo che non aveva confini materiali.

Tacque e fu di nuovo Edith a guardare verso lo psichiatra.

«Vuoi conoscere la mia storia, dottore?» sussurrò Edith. «Vuoi sapere quale follia scatenò tutto questo?»

Bernasconi avrebbe voluto dire di no, avrebbe tanto desiderato scuotere la testa, portarsi le mani alle orecchie per non sentire nulla. Avrebbe voluto fuggire. Qualunque fosse stata la pazzia che lo aveva condotto fin lì, ora voleva soltanto che avesse fine, il più presto possibile. Ma non poté fare niente di tutto questo. Dovette soltanto ascoltare ogni parola.

E ascoltò.

Ascoltò la storia di Edith, udì di quei lontanissimi giorni di un’estate spensierata in cui aveva trionfato l’amore, di quell’autunno fatto di un’incomprensibile attesa, di un silenzio insensato, e sentì l’esplodere dell’orrore di quei primi giorni di inverno.

«Sono ancora qui, dottore», concluse Edith. «E non me ne andrò finché non avrò ritrovato Marta. E se tu davvero vuoi redimerti dall’esserti preso cura del mostro che mi fece questo, tu dovrai aiutarmi. Aiutami, dottore, e io potrò andarmene da qui. Aiutami a ritrovare la mia Marta, riportala da me. Solo quando saremo insieme, io e lei, e avremo per davvero ucciso il mostro, allora sarò libera. Non voglio andarmene senza la mia amata Marta.»

Finalmente, una parola sfiorò le labbra di Bernasconi. Forse la pensò soltanto. Edith però la udì lo stesso.

«Come?»

Le sembianze di Madame Sophia tornarono a emergere. Fu ancora Edith a parlare.

«Racconta ciò che è stato, dottore», sussurrò la voce dello spettro. «Trascrivi ciò che ti ho detto. Ascolta le parole di chi mi conobbe. Trova le mie fotografie ancora racchiuse in questa casa e mostrale al mondo intero. E quando Marta le vedrà, allora ricorderà la sua storia e tornerà da me.»

Ancora una volta, Edith apparve di fronte agli occhi di Bernasconi.

«Aiutami, dottore…»

Il vento gelido tornò ad avvolgere la stanza. Questa volta le candele si spensero con un guizzo. La porta sbatté di nuovo.

Madame Sophia, riacquistata la sua figura, barcollò sulle gambe malferme e cadde in terra. Mise le mani avanti appena in tempo per evitare di picchiare il mento. Si voltò dall’altra parte e iniziò a vomitare.

Bernasconi non poté aiutarla.

Era crollato sulle ginocchia e stava piangendo tutte le sue lacrime.

 

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Capitolo 15
*** 14. ***


14.

 

 

Novembre 2021

 

 

 

L’interno della dimora era gelido.

Gelido e tetro.

Il pavimento cosparso di calcinacci scricchiolava a ogni passo. Uno scricchiolio che non era il solito cric-cric rassicurante, simile a quello che si può ascoltare camminando su un vialetto oppure su di una spiaggia sassosa, in riva a un lago. C’era qualcosa di sinistro e di contorto, di profondamente errato, in quel suono: sembrava la voce di un morto che si levasse da oltre il velo per invocare quelle due anime votate a perdersi nel buio innaturale di quel luogo.

Le sagome dei mobili, rosi dai tarli e marciti dall’umidità, assomigliavano a ombre in agguato. Forme indistinte soltanto all’apparenza immobili. Le pareti, scrostate e ammuffite, recavano tracce di graffiti a bomboletta spray. Alcuni sembravano molto vecchi, altri più recenti. Citazioni di canzoni e disegni artistici si susseguivano a frasi e riferimenti osceni. Ad andare per la maggiore, erano gli organi genitali maschili – di ogni forma e dimensione, alcuni dotati persino di occhi e bocca, gambe e braccia, colti nell’atto di eiaculare sostanze di ogni colore. Sembrava proprio che, tra gli artisti del Ventunesimo secolo, quello fosse il soggetto più ricercato e benvoluto. C’era anche qualche data, scarabocchiata su muri. La più recente che notarono risaliva a pochi anni prima.

«Be’, almeno sappiamo di non essere i soli, a essere entrati qui dentro», borbottò Daniele, distogliendo lo sguardo da un grosso pene che camminava in posizione eretta sui suoi testicoli. Non che la cosa facesse troppa differenza, comunque. Perché non avevano la più pallida idea di quanto a lungo fossero resistiti i vandali, lì dentro… né, tantomeno, che fine avessero fatto. Per quello che potevano pensare – e sperare – avevano fatto tutti quanti ritorno alle proprie case. Ma non ne avevano la completa certezza.

Lui e Valeria continuavano a tenersi vicini. Avevano acceso le torce dei loro smartphone e si guardavano attorno con aria circospetta. La luce fredda e abbagliante emessa dalle piccole fotocamere dei due telefoni non era molto forte e, anziché creare una parvenza di conforto, aumentava il senso di disagio: a ogni loro passo, le ombre si muovevano insieme a loro, come se li stessero accompagnando danzando nell’interno di Villa Mayer. Quei movimenti, uniti agli scricchiolii e ai tonfi che, di quando in quando, provenivano dalle stanze più remote e dagli ambienti più lontani, accresceva la sensazione che li aveva colti sin dal momento in cui avevano varcato l’ingresso.

Una brutta, bruttissima sensazione.

Quella di non essere soli.

Valeria sospirò, aspirando il forte odore di cui era pervaso l’ambiente. Odore di umidità e di muffa, unito a quello dolciastro del marciume. C’era anche un vago sentore di putrefazione e di escrementi: topi e altri animali di piccola taglia dovevano aver deputato quel luogo come propria dimora. E anche come tomba. Augurandosi che fossero stati soltanto mammiferi minuti a farlo.

«Speriamo di non strappare al letargo prima del tempo qualche orso», buttò lì il ragazzo.

Valeria si costrinse a sorridere, nonostante la sensazione di disagio crescente che l’aveva colta sin dal momento in cui aveva messo piede nella vecchia costruzione.

«Dai, gli orsi sono coccoloni e simpatici, è risaputo», disse.

Daniele fece una breve risata. Una risata che non mascherò il suo nervosismo.

«Non fosse per quegli artigli e quei dentoni affilati, potrei essere d’accordo con te», borbottò.

Non avevano percorso molta strada.

Superata la porta d’ingresso, si erano fatti avanti a piccoli passi circospetti in quello che, un tempo, doveva essere stato il salone in cui venivano accolti gli ospiti. Era molto vasto, e in passato era stato illuminato dall’ampia vetrata adesso sbarrata con assi inchiodate e dal lucernario che si trovava sul soffitto. Lucernario che, pur essendosi mantenuto intatto, ormai era del tutto ricoperto di guano e di altra sporcizia, tanto che nemmeno nei giorni più luminosi di primavera doveva riuscire a filtrare un poco di luce, da lì.

Si immobilizzarono nel mezzo della vasta stanza, guardandosi attorno. Mobili, divani, tappeti ormai ridotti a brandelli tenuti insieme dalla muffa, i resti di quello che doveva essere stato un albero di Natale, e che ora giaceva rovesciato come un corpo morto. Non c’era un solo angolo che avesse mantenuto una parvenza intatta. Probabilmente, ad accrescere il senso di malessere, era il fatto che – al contrario di come accadeva in molti altri vecchi edifici ormai abbandonati – nessuno si fosse preso la briga di portare via qualcosa. Gli ultimi abitanti del luogo se n’erano andati – e probabilmente, a giudicare dai diversi dettagli, lo avevano fatto da un momento all’altro, senza alcun preavviso – e ciò che aveva fatto parte della loro vita era rimasto lì, a marcire poco a poco, disfacendosi un po’ per volta, come un cadavere dimenticato.

Di fronte a loro, oltre la sala, uno scalone conduceva ai piani alti. Ai suoi tempi, doveva aver fatto una gran bella figura, con i gradini in marmo lucido e i corrimani in legno rivestito di bronzo dorato. Ora assomigliava più che altro a una colonna vertebrale ischeletrita e giallognola. Il pensiero che, oltre quella scala, si trovasse il teschio dell’abitazione, il luogo dove aveva risieduto – e, forse, vi risiedeva ancora – l’anima pulsante del posto, strappò un grande brivido a tutti e due. Un brivido che li scosse da capo a piedi, tanto che dovettero aggrapparsi l’uno all’altra per non perdere l’equilibrio.

«Vale…» mormorò il ragazzo.

Lei gli strinse per istinto la mano.

«Io devo salire. Perché è lassù che…»

Non terminò la frase. Non ce ne fu bisogno.

Daniele assentì con un cenno. Senza lasciarsi andare, ripresero a camminare, a piccoli passi. Ogni loro movimento produceva uno scricchiolio sinistro, che nel silenzio assoluto di Villa Mayer si amplificava a dismisura. I loro respiri, rochi e profondi, si perdevano in quella quiete assoluta e sbagliata.

Daniele, dentro di sé, cercava di ripetersi che non c’era nulla di cui aveva timore – nulla, al di fuori della possibilità per nulla remota che una parte del soffitto o qualche muro gli crollasse in testa, oppure che il pavimento gli si sfondasse sotto i piedi. Problemi comunque legati alla fisica, alla concretezza, alla materialità di ogni giorno. Nulla di irrazionale, nulla di inspiegabile.

Purtroppo non era così.

La sensazione di essere osservati, scrutati, spiati era palpabile. Si percepiva qualcosa, lì dentro. Una sensazione estranea ai loro corpi. Se fosse stata solo qualcosa di proveniente da loro, avrebbero sentito paura, timore e angoscia. Ma nell’aria, a ondate, quasi come se fosse emessa da una sorta di radio soprannaturale, da un’antenna ultraterrena, si avvertiva anche un presentimento di attesa, di rabbia. A ogni metro guadagnato, si sentivano entrambi come se stesse per accadere qualcosa.

Giunti finalmente ai piedi dello scalone, si fermarono di nuovo.

Valeria sospirò. Provò a dire qualcosa. Non ci riuscì.

Tacque.

Daniele, pur consapevole di essere quasi in preda al panico – era impossibile non sentirlo, lì dentro: quell’edificio era intriso di qualcosa che lo generava e lo accresceva a dismisura – cercò di dire qualcosa di sensato.

«Non posso più provare a persuaderti ad andarcene…» bofonchiò.

Tentò di controllare il battito inconsulto del cuore, che gli si propagava ai denti, facendoli sbattere veloci uno contro l’altro. Una sensazione spiacevole, che provò a ignorare. Non ci riuscì molto bene.

«Ti giuro che, se solo me lo chiedessi, ti trascinerei via da qui e ti porterei mille miglia lontano, al sicuro, al caldo, dove ci saremmo soltanto io e te, noi…» riprese. «Ma non si può, vero?»

Valeria fece un cenno negativo con il capo. La sua mano si strinse più forte attorno a quella dell’amico. Non ebbe necessità di spiegare nulla. Non poteva fuggire, adesso. Anche perché, ovunque fosse andata, Edith Mayer l’avrebbe sempre raggiunta, chiamandola di nuovo qui, dove si trovava adesso.

«A-allora lascia che vada prima io…» andò avanti il ragazzo. Deglutì a fatica. La bocca gli si era fatta arida. Ormai balbettava. «E s-se succede qualcosa… s-scappa. Ha-Hai capito, Vale? I-io ci provo ad aiutarti, m-m-ma tu… s-se devi sca-scappare… scappa. No-non… non pensare a me o… pensa solo a metterti in salvo, va b-bene? S-sei… sei troppo importante p-per…»

Lei distolse l’attenzione da ogni cosa che avevano attorno e la concentrò su di lui. Gli occhi avevano cominciato a luccicarle. Tirò su con il naso. Eppure, un sorriso delicato le increspò le labbra.

«Non devi…» mormorò. Alzò le mano per accarezzargli il viso, congestionato dal gelo e dalla paura. «Non devi metterti in pericolo… per me. Non è giusto…»

Daniele esitò un istante, chiedendosi se dovesse dirle qualcosa. Comprese che il momento di parlare era passato. Anche perché, ormai, la sua lingua, la sua ugola e le sue corde vocali sarebbero state del tutto incapaci di articolare un qualsiasi suono sensato. Ora era venuto un altro momento. Quello di agire.

Sei sempre lì che fai videogiochi con eroi sprezzanti del pericolo o che guardi film degli anni ‘80 con machi che non devono chiedere niente a nessuno, pensò. Ora fai tesoro di tutte quelle esperienze e prendi esempio.

Ritrasse la mano e, senza indugio, cominciò a salire lo scalone.

«Vieni, andiamo», disse, cercando di modulare la voce sulla frequenza della sicurezza. Gli uscì un suono stridulo, ma almeno aveva cessato di balbettare. «Vediamo di trovare questa Edith e di dirle di lasciarti in pace, una buona volta.»

Sorpresa, Valeria lo guardò fare i gradini uno dopo l’altro, a passo fermo.

Questo, proprio, non se lo sarebbe aspettata.

Poi anche lei, pur impaurita – e consapevole che, l’audacia dell’amico, fosse volta a celare il terrore che lo stava avvincendo tra le sue spire come un malefico e subdolo serpente velenoso – cominciò a salire verso i piani alti.

Stava andando da Edith Mayer, la stava raggiungendo dopo che lei, per dieci anni, l’aveva invocata nei suoi sogni.

E un pensiero irrazionale e terribile le attraversò la mente.

Marta stava tornando da Edith.

 

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Capitolo 16
*** 15. ***


15.

 

 

«E poi?» chiese Aurora. Mosse piano la schiena contro la poltrona. Doveva iniziare a sentire un certo intorpidimento a gambe e braccia. «Come prosegue la storia?»

Io spero che non prosegua e basta, pensò Alberto.

Cominciava a non poterne più. L’alcol ingurgitato, la stanchezza del viaggio che stava venendo a galla, il tepore della stanza, la monotonia della voce di Orso – poteva anche essere capace di scrivere racconti, non voleva mettere le mani avanti in questo, ma come oratore era decisamente bocciato – tutto quanto stava contribuendo a mettergli addosso un senso di spossatezza. Avrebbe soltanto desiderato uscire da lì, raggiungere la loro stanza e infilarsi sotto le coperte.

Anche il loro anfitrione cominciava ad accusare la stanchezza. Aveva gli occhi arrossati e fu costretto a soffocare uno sbadiglio.

«Be’, nel corso degli anni successivi ci furono altri avvistamenti di Edith», spiegò. «Un tale, negli anni ‘60, acquistò la villa per due lire e decise di sistemarla. Penso volesse trasformarla in un albergo o qualcosa del genere, anche perché in quegli anni nevicava molto più di oggi e la possibilità di attirare turisti invernali da queste parti non era così remota. Comunque, non ne fece molto. Entrò a fare un sopralluogo insieme a un geometra, e dopo dieci minuti filarono via tutti e due a gambe levate, e da queste parti nessuno li ha mai più rivisti.»

Orso si sfregò la barba incolta.

«Poi, verso la metà degli anni ‘80, arrivarono i punk», ridacchiò. «Mi sarebbe tanto piaciuto vederli. Immaginatevi la scena: un gruppo di personaggi stravaganti in jeans, giubbotti senza maniche e immense creste colorate, che risalirono la strada e andarono a occupare la villa. Mi sa che i vecchi del paese ebbero un mezzo infarto. Se non ho capito male quello che mi è stato raccontato, resistettero addirittura per una settimana intera, giusto il tempo di coprire di graffiti le pareti. Poi se ne andarono, con i capelli in piedi… e, questa volta, non per una questione di moda. Da allora, che io sappia, Villa Mayer ha avuto solo qualche sporadica visita, da parte di curiosi o di ragazzini che si sfidano in prove di coraggio oppure vanno lì per fare qualche disegno sulle pareti. Io, per dovere di cronaca, ci sono entrato una volta, ma non ho visto nulla di particolare, a meno che uno non si interessi di un vero e proprio campionario di… uhm… – scusate la franchezza – cazzi disegnati a pennarello, di tutte le fogge e le misure, alcuni così smisurati che nemmeno un essere gigantesco potrebbe averne… però ve lo dico, là dentro si respira un’aria greve e pesante, c’è un atmosfera… come dire… difficile.»

Tacque ancora un istante, riordinando le idee. Si stropicciò la fronte e le tempie, non nascondendo la stanchezza che lo stava cogliendo sempre più, di momento in momento.

«Per quanto riguarda Bernasconi e Madame Sophia, decisero di occuparsi insieme della faccenda di Edith», borbottò poi. «Il dottore prese davvero a cuore le parole che lo spirito della giovane gli aveva rivolto, e ne fece quasi una missione personale. Da quel che ne so, anzi, da quel momento non si occupò di niente altro che non fosse Edith Mayer. Sophia, che era stata colpita sia dall’apparizione di Edith che dalla determinazione di Joseph, decise di dargli una mano. Andarono in giro a interrogare chi aveva avuto a che fare con Edith – e quindi, ora che ci penso, è probabilissimo che il colloquio tra Bernasconi e Julie avvenne dopo che lui era entrato a Villa Mayer – e, con tutto il materiale che raccolse, comprese le fotografie, il dottore scrisse un libro.»

Orso si alzò dal divano. Barcollò un poco. Forse aveva ingurgitato una quantità di vecchio Jack eccessiva persino per lui. Ripreso il controllo delle proprie gambe, si avvicinò a una credenza in stile Old America addossata a una parete. Aprì una delle antine. Lo scaffale era ingombro di libri e di carte. Tra i libri, impilati alla meglio, erano appoggiati oggettini di ogni sorta: souvenir di gusto più o meno cattivo, palle di vetro con paesaggi innevati, posacenere, un drago di plastica, un piccolo Budda di gesso, un paio di bottiglie vuote, tazze di ceramica raffiguranti vari disegni e recanti le più differenti frasi – la peggiore era decisamente quella con scritto, con lettere di vari colori, “Buongiornissimoooo” – e altro ancora. In mezzo a tutta quella paccottiglia, erano ammucchiati alla rinfusa biglietti con vecchie liste della spesa, scontrini ormai sbiaditi e illeggibili, fatture e bollette, cartacce e altra roba inutile ma che il proprietario non si decideva a buttare via.

Sotto lo sguardo incuriosito di Aurora e quello assonnato e quasi indifferente di Manfredi, Orso fece scorrere il dito sui dorsi dei libri. Alla fine – faticando un po’ per staccarlo dai compagni a cui sembrava essersi incollato – ne estrasse uno e tornò verso il divano. Valutò in fretta la situazione e porse il volume alla giovane donna, ignorando del tutto il tenente mezzo addormentato.

«Il libro che Bernasconi scrisse sulla vicenda», disse.

Aurora sfiorò con le dita la copertina sbiadita e ne lesse il titolo. In morte di Edith Mayer – Studi, analisi e osservazioni di un fenomeno parapsichiatrico, di J. Bernasconi. Aprì il volumetto e lo sfogliò fino a trovare la fotografia delle due ragazze uccise dal signor Mayer. Le fissò a lungo, con intensità. Gli occhi le si inumidirono.

Orso guardò lei e sorrise in modo delicato, senza dire nulla.

«Ma allora… allora è tutto vero?» sussurrò Aurora.

«Chi può dirlo…» borbottò Orso, con accento enigmatico. «Chi può dire che cosa sia vero e cosa sia falso? Dov’è che finisce la realtà e inizia la finzione? Forse siamo tutti in un’illusione, tutti in un sogno… è la domanda che non smetteremo mai di porci, e che non avrà mai una reale risposta… cosa è reale e cosa è sogno…?»

Alberto si alzò e si stiracchiò. Sbadigliò in modo sonoro.

«Tra poco in un sogno ci sarò io», grugnì. «Comincio ad avere un sonno della madonna, e temo di non essere più molto di compagnia.»

Orso guardò l’orologio appeso alla parete, che ticchettava rumorosamente. Tic-tac-tic-tac. Nel centro del quadrante aveva un segno, una specie di graffio profondo, come se una volta o l’altra fosse stato percosso con violenza per venire zittito.

«Mannaggia, vi sto tenendo qui tutta la notte!» esclamò. «Scusatemi, sono mortificato, mi sono lasciato prendere dalla storia e non ho più tenuto conto del tempo che passava!»

Aurora si alzò a malincuore. Dall’espressione dei suoi occhi, sembrava proprio che lei non fosse affatto stanca e che, del passare delle ore, non gliene importasse proprio un accidente di nulla. Per quello che la riguardava, avrebbe continuato ancora a lungo a perdersi in chiacchiere, anche fino all’alba. Tanto era più che certa che Orso non sarebbe andato a buttarli giù dal letto alle nove, come invece avveniva in altri hotel.

Mostrò il libro che aveva in mano.

«Posso tenerlo per un po’?» chiese. «Mi piacerebbe dargli un’occhiata.»

Orso sorrise. Fece un cenno d’assenso con la mano.

«Fai pure, te lo lascio volentieri», rispose. «Bernasconi ha aggiunto anche molti altri dettagli che io non vi ho detto. E c’è pure qualche suo commento a riguardo, qualche tentativo di dare all’intera faccenda una spiegazione logica e razionale: dopotutto, è rimasto pur sempre un medico e uno psichiatra. Uno scienziato. Doveva almeno tentarci.»

«Immagino che non ci sia riuscito», grugnì Alberto, cercando di tenere gli occhi aperti.

«No, infatti: non c’è riuscito», concluse Orso.

 

* * *

 

Chino sul lavandino, con indosso soltanto le mutande e la camicia slacciata sul petto, Alberto cominciò a sfregarsi i denti con lo spazzolino. L’aroma del dentifricio gli fece pizzicare gli occhi e il naso. Non era mai riuscito a capire che sapore avesse davvero, quell’affare. Di primo acchito sarebbe potuto sembrare menta, ma a un’analisi più dettagliata non era tale. Una volta, preso dalla curiosità, aveva cercato una spiegazione negli ingredienti riportati sul retro del tubetto. Non era servito a nulla. Vi era indicato soltanto un non meglio specificato “aroma”.

Misteri del cosmo.

Del cosmo e dell’industria chimica, soprattutto.

Aurora entrò in bagno. Si era spogliata. Ora era nella sua tipica tenuta da notte, ossia una canottiera larghissima e nera, su cui era stampigliato il logo dei Metallica, e un paio di boxer dello stesso colore. Si lasciò cadere sulla tazza del water e lo fissò con occhi accesi di una luce sinistra.

Alberto la guardò attraverso lo specchio. Non badò alle gambe, bianche e snelle ma muscolose, o alle braccia forti e lentigginose e neppure alla notevole possanza del seno, che la canottiera non faceva nulla per tenere celato. In altre occasioni, una simile visione sarebbe stata allettante e difficilmente ignorabile. Ma, in quel momento, fu catturato soltanto dagli occhi di Aurora. Ne ebbe un vago disagio. Molto più che vago, anzi.

Conosceva quello sguardo.

Lo conosceva fin troppo bene.

Voleva dire guai.

Per una volta, fu lui a leggerle nel pensiero.

Sta per chiedermi di andare a cercare quella villa del demonio per vedere se c’è qualcosa di vero, in quella storia.

E, per quello che lo riguardava, era l’ultima cosa che aveva in mente di fare.

Decise di provare a ignorarla.

Forse, se faccio finta di non averla vista, se ne andrà a letto senza dire nulla.

Non ne fu troppo persuaso, ma tanto valeva provare lo stesso.

Continuò a spazzolarsi con attenzione i denti. Metteva sempre molto impegno, in quell’attività. Non aveva nessuna intenzione di finire tra le grinfie di una di quelle sanguisughe che vanno sotto il nome di odontoiatri. Dopo averti torturato strappandoti i denti dalla bocca, tanto quelli malati che quelli sani, giravano il coltello della piaga chiedendoti un conto esorbitante. Pagare per soffrire: che mondo alla rovescia.

Alberto spiò Aurora.

Lei lo stava fissando. Aveva infilato un dito nell’elastico dei boxer e lo faceva andare avanti e indietro, stringendo e allargando la fascia. A ogni movimento, un po’ del pelo rossiccio al di sotto faceva capolino, ma Manfredi non fu attratto da quella visione che, in altri frangenti, sarebbe potuta essere poco meno che estatica. La sua attenzione era tutta per il viso dell’amica. Nei suoi occhi continuava a brillare la scintilla pericolosa.

Ahia…

Evidentemente, il tentativo di fingere di non essersi reso conto della sua presenza non stava sortendo l’effetto desiderato. Decise di cambiare strategia. Sputò il dentifricio nel lavabo e sorrise.

«Se te la stai facendo addosso da non resistere un attimo di più, ti lascio il bagno», commentò.

«Non dire sciocchezze, Manfredino», sbottò lei, senza smettere di fissarlo e continuando a giocherellare con l’elastico delle mutande. «Se mi scappa da pisciare, metto all’aria la figa e ti piscio davanti senza farmi problemi, lo sai.»

Alberto trattenne una risata.

«Sei sempre così franca e delicata che mi meraviglio ogni volta a sapere che non ti abbiano mai accolta tra le pie donne della parrocchia.»

Aurora si alzò. In tutta la sua altezza, sembrò riempire per intero il piccolo bagno. Le sue braccia e le sue gambe, bianche come il latte, spruzzate di lentiggini come il petto e il viso, parvero emanare una luce propria. Ogni tanto, Alberto veniva colto dal dubbio che lei fosse una specie di creatura sovraumana. In questo momento, con i capelli rossi che scivolavano tra le pieghe della sua canottiera troppo larga e gli occhi verdi che emanavano scintille enigmatiche, ne ebbe quasi una certezza assoluta.

«Stavo riflettendo sul racconto di Orso», disse lei.

Alberto finì di sciacquarsi la bocca con l’acqua del rubinetto.

Chissà perché, lo sapevo già.

«Quel tipo ha qualcosa che non va», commentò, asciugandosi nella salvietta. «Mi sa che tutto quel whiskey gli ha mandato il cervello in pappa. Quella roba fa male e non mi è mai piaciuta. Non mi sorprenderei se venisse fuori che il nostro affittacamere sia in realtà uno psicopatico. Uno psicopatico assassino, per giunta. Hai visto quell’aggeggio che tiene di sotto, appeso sopra il caminetto? La roncola, mi pare… ecco, scommetto che in questo momento sta valutando l’ipotesi di adoperarla per farci a pezzi…»

La giovane lo ignorò.

«Ho deciso che anche noi dobbiamo andare a dare un’occhiatina a Villa Mayer.»

Nel piccolo bagno calò un silenzio roboante.

Manfredi cercò di non incrociare lo sguardo dell’amica, sempre puntato su di lui, e si dedicò con estrema cura e lentezza a rimettere al loro posto dentro l’astuccio da viaggio il dentifricio e lo spazzolino da denti.

Avrei potuto piazzare una scommessa e sarei diventato ricco sfondato.

Aurora mosse un passo verso di lui. Era a piedi nudi e la sua pelle, a contatto con le piastrelle fredde, emise un leggero stridio.

«Pronto?» lo sollecitò. «C’è qualcuno, in casa Manfredi?»

Alberto avrebbe voluto dirle che aveva sonno. Che era stanco, e che non aveva voglia di pensare, tantomeno di parlare, in quel momento. In verità, come sempre gli accadeva in casi come quello, la botta di stanchezza che lo aveva colpito si era dissipata quasi subito, e ora era più che sveglio. Anche se si fosse buttato a letto, sarebbe rimasto lì a girarsi e rigirarsi per un’ora o due, prima di riuscire a prendere sonno. Come minimo. E lei lo conosceva da fin troppo tempo e troppo a fondo per non sapere con precisione quale fosse l’astruso funzionamento del suo organismo.

Una simile scusa non avrebbe funzionato e ne erano consapevoli tutti e due molto bene.

Doveva prenderla alla lontana.

«Perché?» chiese.

«“Perché” cosa, Manfredino bello?»

Alberto sospirò.

«Perché vuoi andare a cacciarti in un simile guaio?» borbottò. «Siamo in vacanza…»

«…e le vacanze sono fatte per divertirsi insieme», gli rammentò lei.

Un grugnito incomprensibile sfuggì alle labbra di Manfredi.

«Si vede che il mio concetto di divertimento è molto differente dal tuo», gli riuscì di dire. «Entrare in casa Satanassi o quello che è non è mai stato il mio…»

Aurora gli si avvicinò ulteriormente. Lo afferrò da dietro e gli si strinse addosso. Le parole morirono in gola al tenente, quando il calore di lei si unì al suo. Le tette sode e insieme morbide premute contro la schiena rubarono un sospiro di soddisfazione a Alberto e gli rapirono istintivamente qualsiasi altro pensiero. Era sempre una sensazione paradisiaca, doveva riconoscerlo, pur sapendo che si trattava del preludio di qualcosa di cui poi si sarebbe pentito.

Pentito amaramente.

«Dai, Manfredino, non fare sempre il noioso», gli sussurrò nelle orecchie.

Si mosse piano, su e giù, facendo in modo che i suoi capezzoli turgidi massaggiassero la schiena dell’amico. Una strategia ben collaudata. Se ne rese conto da come lui rabbrividì.

«Si tratta solo di una passeggiatina, in fondo», proseguì, con tono suadente e profondo. «Andiamo là, diamo un’occhiata veloce, e poi ce ne veniamo qui, al calduccio, sotto le copertine, a fare robine belle…»

Per sottolineare meglio il concetto, gli premette più forte il seno contro le scapole e, insinuata la mano destra dentro la sua camicia, gli solleticò il petto.

«Ah… be’… allora… se la metti in questo modo…» borbottò Manfredi, «… domani, magari…»

«Subito!», lo corresse lei.

Alberto sussultò.

«Ma è notte!»

Aurora fece scivolare le dita attorno ai suoi capezzoli. Li toccò, accarezzandoli, li prese tra i polpastrelli, li spremette, diede loro qualche leggero tiretto. Manfredi cominciò a non capire più nulla.

«E tu a che ora vorresti andare a cercarli, i fantasmi? A mezzogiorno?»

«Giu-giusto…» grugnì Manfredi. «Però non sappiamo dove…»

La mano della giovane scivolò lungo il ventre di Alberto, girò attorno all’ombelico e scese ad accarezzarlo sull’inguine. Un brivido lo scosse tutto.

«Nel libro che mi ha dato Orso, c’è disegnata una cartina che ci permetterà di raggiungere la villa in un baleno. Non è lontana da qui, sono giusto un paio di chilometri.»

Di nuovo, Manfredi cercò di titubare.

«Sì, ma… ci siamo già spogliati… eravamo pronti per dor…»

Non terminò la frase. La mano di Aurora non glielo permise. Scivolò piano dentro le sue mutande, sfiorò il pene con una carezza delicata che gli strappò un brivido estremo e scese a cercare lo scroto. Prima che Alberto avesse avuto il tempo per rendersi conto di quello che stava succedendo, gli artigliò le palle.

«Augh…» sbottò.

«Sei diventato un pellerossa, Manfredino?» lo derise lei, soffiandogli nell’orecchio. Strinse un po’ più forte. «Io sono buona, ma non mi piace perdere tempo. Se uno mi fa perdere tempo, divento nervosa, e quando sono nervosa tendo a essere dispettosa, e se sono dispettosa, io…»

Alberto sapeva fin troppo bene di che cosa fosse capace Aurora, quando diventava “dispettosa”. Lo aveva già provato sulla sua pelle. Innumerevoli volte. Andare nel bosco, in mezzo alla nebbia e al gelo, nel pieno della notte, per cercare una villa che si diceva fosse infestata da un fantasma dalle tendenze aggressive, non gli sembrò più una seccatura così grossa.

C’era di peggio.

Di molto peggio.

Per esempio, Aurora quando si sentiva “dispettosa”.

«Se mi lasci le palle, mi metto pantaloni e giubbotto e andiamo», disse.

«Così mi piaci, Manfredino», trillò lei, depositandogli un bacetto sulla guancia. «Attivo, scattante e, soprattutto, spontaneo. Sì, sì: tu mi piaci.»

Il tenente Alberto Manfredi cercò di ribattere qualcosa.

Qualsiasi cosa.

Non ci riuscì.

 

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Capitolo 17
*** 16. ***


16.

 

 

Febbraio 1969

 

 

«Staremo facendo la cosa giusta?»

Un sorrisetto privo di allegria si disegnò sulle labbra incorniciate dai baffi brizzolati di Joseph Bernasconi, quando udì risuonare quella domanda. Sollevò gli occhi dal blocco degli appunti, su cui aveva appena finito di tracciare alcune frasi con la sua vecchia stilografica d’oro, e li soffermò sulla donna che gli sedeva di fronte. Bella e senza età, ancora capace di conturbarlo come la prima volta che l’aveva incontrata.

Ormai aveva smesso di sorprendersi nel constatare di come il tempo non sembrasse avere alcuna presa su Sophia: mentre lui, un poco per volta, si stava facendo grigio, con le rughe che gli si allargavano sulla fronte e agli angoli della bocca, e le spalle che si incurvavano sempre di più, lei non pareva mutata di un solo giorno, da quando gli si era seduta di fronte in quella caffetteria. Eppure, il calendario non mentiva; erano trascorsi oltre vent’anni, da quel lontano pomeriggio di gennaio. Era priva di età, e ogni tanto gli risuonava in mente quella frase sibillina che lei aveva accennato.

“Io sono antica”.

In ogni caso, aveva cessato quasi subito di porsi domande in merito, perché aveva compreso che non ci sarebbe stata la possibilità di trovare una risposta.

«Ti stai facendo prendere dagli scrupoli di coscienza?» chiese invece, lisciandosi i baffi con le dita.

Erano diventati compagni in quella strana e lunga avventura, che si stava dipanando attraverso gli anni. Molto più che compagni, a dire il vero. Ormai le loro esistenze si erano legate, annodate insieme, e quel filo sarebbe stato tagliato soltanto dalla morte.

O magari nemmeno da quella, si diceva ogni tanto il dottore, ripensando al misterioso caso di Edith e Marta.

Avevano viaggiato attraverso l’Italia e l’Europa – e in un’occasione anche oltre oceano – alla ricerca di informazioni e di notizie, raccogliendo testimonianze e aneddoti. Avevano confrontato la storia di Edith con altre che la rammentavano, accadute nel passato, alla ricerca di paragoni, punti di contatto, similitudini, e naturalmente di divergenze e di differenze. Si erano rivolti a vari studiosi dell’occulto – tanto a convinti assertori dell’esistenza dell’aldilà quanto a scettici razionalisti che lo negavano in pieno – per poter disporre di vari tipi di approccio all’argomento. Avevano partecipato a convegni e seminari sul tema del paranormale, per poter raccogliere quanti più punti di vista possibile. Avevano intervistato chi aveva visto e sentito di persona, avevano consultato i diari di memorie di chi non c’era più, si erano rivolti alle persone che, a loro volta, avevano conosciuto persone che avevano avuto a che fare in modo diretto con gli eventi.

A bordo della Fiat Nuova 500 del dottore – grigio topo, in onore della vecchia Topolino, che aveva esalato l’ultimo sbuffo di carburante nel 1961 – erano tornati più volte a Villa Mayer, alla ricerca di indizi, di prove, di fatti. Edith non si era più manifestata, ma questo non aveva scoraggiato Bernasconi, anzi lo aveva indotto a lavorare più alacremente: lui voleva incontrarla di nuovo, voleva parlarle, voleva porle domande… voleva capire.

Capire e sapere.

«Forse stiamo andando troppo oltre, stiamo davvero cercando di sbriciolare le pareti di un mondo che dovrebbe rimanere intatto», sussurrò Sophia.

C’era una punta di angosciosa tristezza, nella sua voce. Standole accanto per tutto quel tempo, il dottore era riuscito a scalfire la superficie ferrea di Madame Sophia. Al di là della medium e della veggente, aveva trovato una donna vera, con tutte le sue emozioni, i suoi sentimenti, i suoi difetti e le sue paure.

Anche lei, a modo suo, era umana.

«Cosa intendi dire?» domandò lui.

«Nulla…» sussurrò Sophia. Trasse un profondo sospiro e lo lasciò andare con lentezza. «Ma ogni tanto mi chiedo se stiamo facendo tutto questo veramente per aiutare Edith Mayer, come continuiamo a ripeterci, oppure soltanto per noi due… per riuscire a scoprire la verità che si trova oltre il velo.»

«L’ipervelo è una realtà di cui noi e molti altri siamo a conoscenza», replicò lo psichiatra, sicuro di sé. «Non possiamo ignorarla, né fingere che non esista. È mio preciso dovere trovare una spiegazione a tutto questo. Bisogna che la scienza apra gli occhi e si occupi di ciò che, fino a questo giorno, le è sfuggito. Sono uno scienziato, non dimenticarlo. Non posso tirarmi indietro, di fronte a certe cose. Tu avresti potuto, ma hai accettato di darmi il tuo appoggio e il tuo sostegno, e io te ne sarò per sempre grato, anche se sai bene che, in ogni momento, sei libera di ritirarti.»

Sollevò un sopracciglio, riconoscendo il turbamento sul volto della donna. Ormai, a dispetto di quelle parole, anche lei era andata troppo avanti, per poter pensare di tornare indietro adesso.

«E sì, ovvio», si affrettò ad aggiungere. «Lo stiamo facendo anche per aiutare Edith.»

Joseph Bernasconi e Madame Sophia avevano deciso di dare ascolto alla richiesta del fantasma che si era manifestato nella villa e di scrivere un libro. Un libro in cui, con dovizia di particolari, avrebbero raccontato la vicenda di Edith. Come lei stessa aveva predetto, erano certi che – un giorno o l’altro – qualcuno, leggendolo, si sarebbe riconosciuto in quella vicenda. Non sapevano né come né quando. Erano sicuri, però, che sarebbe accaduto. Marta si sarebbe risvegliata, ovunque si trovasse, e sarebbe tornata da Edith, spinta dal richiamo mai sopito dell’amore.

E, quel giorno, Bernasconi e Sophia sarebbero stati pronti a osservare, a scoprire che cosa sarebbe successo. Avrebbero filmato, registrato, raccolto ogni singolo dato. Non ci sarebbe stata possibilità di errore, e nessuno avrebbe potuto accusarli di frode, come veniva spesso fatto nei confronti di parapsicologi e investigatori che si occupavano di occultismo. Avrebbero rivelato – con prove certe e inconfutabili – la verità del mondo che andava oltre quello fisico, e avrebbero aperto nuovi paradigmi scientifici, fino a quel momento impossibili persino da concepire. Sarebbero stati i pionieri di un nuovo modo di guardare al mondo e all’intero universo.

Bernasconi aveva già pronta la definizione per tutto questo. Ormai, quando si riferiva all’aldilà, al mondo che andava oltre il mondo, parlava di ipervelo. Era certo che, con una simile dizione scientifica – che aveva derivato sia da Platone che da Einstein – sarebbe stato preso sul serio da chi di dovere. Nessuno avrebbe messo in dubbio le sue scoperte, né lo si sarebbe potuto tacciare di ingenuità.

Il dottore aveva lasciato il suo lavoro alla casa di cura. Ormai, la ragione della sua esistenza era soltanto quella di scoprire la verità. Non aveva più avuto tempo per dedicarsi ad altro. Scrivere il libro su Edith – il punto di partenza per ogni cosa, ne era più che certo – era diventato il suo unico obiettivo. E Sophia, affascinata quanto lui da quel mondo con cui era in contatto ma che non comprendeva fino in fondo, aveva scelto di essergli a fianco, di aiutarlo, di sostenerlo in ogni modo – anche dal punto di vista economico, il che non era certo poco.

Per questo, si erano ritirati a vivere in quella specie di eremo sperduto, una vecchissima casetta di pietra nel centro del piccolo borgo che sorgeva non lontano da Villa Mayer. In quel paesetto di montanari superstiziosi e timorosi – che attribuivano temporali e bufere di neve all’azione di streghe malefiche, vedevano gnomi con il cappello a punta aggirarsi nei boschi ed erano sicuri che i folletti portassero via gli attrezzi dalla legnaia, e via di questo passo – sarebbe nata la nuova scienza. La scienza del futuro, che avrebbe rivoluzionato del tutto il modo di guardare al mondo, e di approcciarsi alla vita e alla morte. Morte che, presto, non sarebbe più stata considerata come una fine, bensì soltanto come un nuovo inizio verso qualcosa di molto più grande e complesso, verso un piano dell’esistenza ancora tutto da esplorare, scoprire, approfondire.

Non importava se, per il momento, i vicini di casa li guardassero storto e cercassero di mantenersi il più possibile lontano da loro, convinti che fossero una maga e uno stregone che portavano male, magari persino in grado di fare il malocchio. Un simile atteggiamento, anzi, veniva loro in aiuto: non c’era il rischio di trovarsi qualche impiccione alla porta. Avevano arredato la loro abitazione secondo gli ultimi dettami della moda, in modo di non farsi mancare nulla, e vi avevano trasferito tutto quello che sarebbe servito per portare a termine il libro e per compiere gli esperimenti una volta che Marta fosse tornata.

«Il libro è quasi finito», disse Bernasconi, tamburellando con le dita sui suoi appunti. «Ormai manca davvero pochissimo. Abbiamo ricostruito con estrema cura la storia di Edith e abbiamo riportato con attenzione le testimonianze di chi, nel corso del tempo, ha avuto a che fare con lei…»

Spinse indietro la seggiola e andò alla finestra. Il paesetto era imbiancato dalla neve che era caduta fitta nel corso dell’ultimo mese e mezzo. Il cielo era ancora grigio, però qua e là cominciavano ad apparire i primi sprazzi azzurri. L’inverno, per quanto rutilante, cominciava a cedere la sua forza, e prima o dopo sarebbe tornata di nuovo la primavera, come ogni anno. Era l’andare delle cose, il ripetersi instancabile delle stagioni, che segnavano il continuo mutare del mondo e il ritmo della vita.

Scrivere la storia di Edith Mayer, scoprendone i particolari un poco alla volta, aveva fatto capire qualcosa di più al dottor Bernasconi. Aveva compreso quale rabbia l’avesse trattenuta nel mondo. Non aveva mai scordato l’immagine tremenda degli ultimi istanti di vita del suo paziente, ma adesso non erano più un mistero insondabile. Ora comprendeva che cosa avesse spinto Edith a comportarsi in quel modo, che cosa l’avesse costretta a rivelarsi e a manifestarsi in una maniera tanto brutale e spaventosa.

«Nessuno dovrebbe ergersi ad arbitro dell’amore e dell’esistenza umana», mormorò. «È un diritto che non compete a nessuno, e che non ci si può arrogare.»

Per un istante, si domandò se anche lui e Sophia non stessero a loro volta commettendo quel grave errore. Scrivendo il libro, preparandosi a pubblicarlo per farlo leggere a una persona di cui non conoscevano nulla – una persona che, forse, ancora non era nemmeno nata – non stavano forse cercando di manipolare l’esistenza di un essere umano, per indurlo a rammentare qualcosa che aveva dimenticato, per portarlo da Edith, un affetto del passato? Non stavano, forse, comportandosi proprio come il signor Mayer? Lui, sovvertendo la natura, aveva ucciso le due giovani, dividendole per sempre… e loro stavano sovvertendo a propria volta la natura, riunendole con la forza.

Un dubbio gli attraversò la mente.

Forse, qualche volta – qualche rara volta – è possibile che due anime che si erano perdute si ricongiungano, si ritrovino ancora, si disse. Proprio come nel mito dell’androgino, quello che Platone fa raccontare a Aristofane nel suo Simposio: due anime, separate una volta, continuano a cercarsi in eterno, e non si sentono vive, complete e felici se prima non si ritrovano. È il loro destino, quello di cercarsi per essere ancora unite.

Bernasconi fissò un pettirosso che si era posato sopra il ballatoio del balcone della casa di fronte. L’uccellino, per un istante, parve ricambiare il suo sguardo, prima di cominciare a trillare e solfeggiare la sua dolce melodia.

Ma questo deve accadere con naturalezza. E forse non può accadere allo stesso modo e allo stesso tempo per tutti. Magari certe anime non possono ritrovarsi, o non subito… magari devono compiere un loro cammino autonomo, prima di incontrarsi ancora… o forse non devono incontrarsi mai più. Chi può dirlo? Chi siamo, noi, per conoscere certi segreti? Forse è da arroganti, interferire in certe faccende…

Non poté fare a meno di domandarsi se, riunendo Edith e Marta, lui e Sophia non si stessero comportando come Mayer, che le aveva separate in modo brutale. Gli venne in mente il terzo principio della dinamica: a ogni azione, corrisponde una reazione uguale e contraria. Forse, stavano davvero forzando la natura delle cose, dando avvio a una serie di conseguenze di cui non avrebbero potuto prevedere i limiti…

«Sciocchezze!» concluse.

La sua voce attraversò il vetro della finestra. Il pettirosso, indignato per essere stato interrotto in quel modo nel corso del suo concerto, volò via, andando in cerca di un luogo dove la sua delicata melodia sarebbe stata meglio apprezzata.

Lui non stava agendo a quel modo solo per riunire due anime. Lui lo stava facendo per la scienza. Non poteva curarsi dei sentimenti di Marta, in qualsiasi veste si sarebbe presentata adesso. Tantomeno, non doveva pensare a quelli di Edith.

Quello che il dottor Joseph Bernasconi stava conducendo – anche se non osava esprimere questa convinzione ad alta voce di fronte a Sophia – era un vero e proprio esperimento scientifico. E, quando c’è in ballo la scienza, lo si sa, non si può lasciare il posto ai sentimenti, né a qualsiasi scrupolo di scienza. Tutto deve essere fatto per un obiettivo superiore, senza pensare ad altro.

Si allontanò dalla finestra e tornò al tavolo da lavoro.

«Forza», disse. «Rimettiamoci all’opera.»

 

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Capitolo 18
*** 17. ***


17.

 

 

Novembre 2021

 

 

Fuori si congelava.

Faceva talmente freddo che sembrava un vero e proprio miracolo che la nebbia non si stesse ghiacciando a mezz’aria, creando una barriera infrangibile e insuperabile. Il suolo gelato e cosparso di minuscoli cristalli scricchiolava a ogni passo. Cric-cric. Bisognava anche fare attenzione a come si mettevano i piedi, perché c’era davvero il rischio di scivolare e fare un ruzzolone. Sulle foglie immobili e sulle pietre si erano formate ragnatele di ghiaccio, disegni di incredibile bellezza che mandavano bagliori quando la luce arancione dei lampioni, facendosi spazio con raggi sottili e rettilinei attraverso l’umida bruma, li colpiva in pieno. Si aveva l’impressione di essere immersi in una schiuma densa e bianchiccia, da cui di quando in quando spuntava la sagoma scheletrica di un albero spoglio, o la vaga forma umida e spettrale di un qualche vecchio muro di pietra. Nel cielo doveva essere sorta la luna quasi piena, la cui luce biancastra faticava a farsi largo in quella caligine a tratti misteriosa.

Alberto si strinse nel giubbotto in doppio gore-tex e calcò meglio sulla testa il basco di lana nera, che cominciava a essere infeltrito e sformato dall’usura. Tra i capelli, sulla barbetta rada e sul copricapo si era già formata la condensa, che gli gocciolava addosso in maniera fastidiosa. Tornò subito a infilare le mani arrossate in tasca, prima che gli si staccassero le dita per il freddo. Aveva la sensazione che stessero già diventando insensibili.

Ancora un po’ e me le dovranno amputare, lo sento. Anzi, altro che amputarle: basterà un colpetto secco e si staccheranno da sole. Resterò con due moncherini e sarò un inutile rottame per il resto della mia esistenza.

Brutta prospettiva.

Ma chi me l’ha fatto fare, pensò ancora. Dovevo puntare in piedi, fare l’uomo e obbligarla a restarcene in camera al calduccio. Tanto, cosa avrebbe potuto farmi?

Andò con la memoria ai vari tipi di torture e sevizie a cui Aurora – un po’ per punirlo di qualcosa su cui lei non era d’accordo, un po’ per un sadico divertimento tutto suo – lo aveva sottoposto nel corso degli anni da cui durava la loro amicizia. Lei era sempre molto fantasiosa e raffinata, quando si trattava di escogitare un modo nuovo per fargli provare una sensazione dolorosa. Qualche volta, si divertiva a provare su di lui le tecniche che avrebbe volentieri utilizzato con i delinquenti che arrestavano, “se soltanto le leggi non fossero tanto stupide da vietare di strapazzare giusto un pochino la feccia”, diceva in simili occasioni.

Rammentò un episodio in particolare.

Al massimo, se proprio si fosse arrabbiata per davvero, mi avrebbe addentato le palle. All’inizio fa un po’ male, ma poi passa e diventa pure piacevole avere la sua bocca da quelle parti. Una sensazione che definirei curiosa, per così dire. In ogni caso, non arriverebbe mai a uccidermi o a mutilarmi in modo permanente, come invece sembra intenzionato a fare questo cazzo di freddo del… E qui, Manfredi invocò il Capriccioso Massimo accostandolo alla figura di un suino colto nell’atto di rotolarsi nel fango e nella lordura.

Deglutì, non del tutto persuaso dal suo stesso ragionamento.

Credo, almeno.

Guardò l’amica che gli camminava davanti. Andava avanti in fretta, con precisione. Sembrava che avesse una bussola interiore, capace di guidarla senza problemi alla loro meta. Non che fosse poi troppo complicato orientarsi, da quelle parti. La strada era una soltanto, a meno che non si considerasse l’idea di addentrarsi nel fitto del bosco, a rischio di cadere in un crepaccio o di finire in un torrente. Abbassò di qualche centimetro lo sguardo, all’altezza del suo didietro tornito e tondo al punto giusto, che riempiva con allegria i jeans neri.

Sempre una bella visione.

«Concentrati sulla strada, Manfredino, perché se inciampi io non mi fermo a raccoglierti: sei avvertito», lo raggiunse la voce rauca e beffarda di Aurora. «E, con il dislivello che c’è da queste parti, se cominci a rotolare rischi di non fermarti più.»

Cazzo.

Tanto per cambiare, lei gli aveva letto nel pensiero.

Grazie alle indicazioni contenute nel libro di Bernasconi, fu un’impresa piuttosto semplice trovare la strada che conduceva verso Villa Mayer. Del resto, da quelle parti, non c’erano poi troppi incroci, né biforcazioni che avrebbero potuto trarli in inganno. Rabbrividendo nel freddo, accompagnati dai loro aliti che si condensavano in nuvolette – Come fantasmi, non seppe trattenersi dal pensare Manfredi, e questo gli cagionò un tremito peggiore dei precedenti – percorsero una strada in ripida salita, fiancheggiata sui due lati da boschi dall’aria impenetrabile. Dai rami, protesi verso la strada, pendevano cristalli appuntiti di ghiaccio. La nebbia attutiva ogni suono, contribuendo all’atmosfera irreale e indefinita che sembrava pervadere l’intera zona.

Chissà perché i fantasmi devono sempre abitare in posti tenebrosi e mai, che ne so, in posticini caldi e colorati, pieni di lustrini e animaletti coccolosi. Magari in un negozio di dolciumi, tutto profumato. Oppure su una bella e calda spiaggia, piena di ragazze nude che si spalmano a vicenda di olio abbronzante.

Manfredi fece una smorfia.

Ma poi… ma che cosa dico? I fantasmi non abitano da nessuna parte. Basta con queste sciocchezze. I fantasmi mica esistono! Quella che ci ha rifilato quel tipo è una panzana, altro che. Anzi, sono quasi certo che non esiste nemmeno nessun dottor Bernasconi: il libro lo avrà scritto lui, come minimo. E poi… dai! Un fantasma innamorato che aspetta il ritorno del suo amore perduto… almeno un po’ di fantasia in più poteva mettercela. Questa è una storia trita e ritrita. Quell’Orso lì si crede bravo a inventare storie, ma ne ha ancora parecchia, di strada da fare, prima di riuscire a centrare il bersaglio come si deve.

Trattenne a stento un grugnito beffardo.

In morte di Edith Mayer… che storiella insulsa. Ci avesse raccontato, che ne so, di un archeologo che risveglia una mummia, o di un agente dell’Interpol scatenato sulle tracce di due ladroni di antichità, o cose del genere insomma, sarebbe di sicuro stato più avvincente, anche se pure lì non è che sarebbe stato granché fantasioso.

Sperò di essere riuscito a convincersi. Non fu troppo sicuro del risultato.

Peccato solo che a lei quella storiella sia piaciuta anche troppo, pensò, tornando a fissare il didietro di Aurora, mentre nuovi brividi di freddo lo scuotevano da capo a piedi. Era comunque una visione mica da ridere. Valeva proprio la pena di affrontare il gelo della notte, per vederla sculettare a quel modo…

«Manfredino… guarda la strada», lo richiamò lei, senza voltarsi.

Ma come diavolo ci riesce?!

Infine, dopo aver superato un paio di tornanti attorniati da rocce umide, giunsero davanti alla stradicciola che, stando al libro, era stato l’antico viale d’ingresso a Villa Mayer. Si fermarono, ansanti e con il fiato corto per l’arrampicata. La strada era davvero ripida.

E qui si imbatterono nella prima sorpresa.

«Che ci fa una macchina, da queste parti?» borbottò Manfredi, fissando il veicolo parcheggiato sul bordo della strada, proprio all’imbocco del viale della villa.

Guardingo, mosse un passo per avvicinarsi con cautela all’automobile. Era un vecchio modello di Ford KA, dalla carrozzeria rossa, anche se ormai il colore aveva cominciato a sbiadire, tendendo a una specie di rosa salmone. A giudicare dalla targa, doveva risalire agli anni ‘90. I vetri erano appannati, da dove si trovavano non si riusciva a vedere nulla all’interno.

Aurora, che nell’ultimo tratto di strada lo aveva affiancato, sollevò le sopracciglia.

«Sempre questa mania di voler fare lo sbirro a tutti i costi, tenente», lo richiamò. Lo afferrò per la manica e lo trattenne. «E se lì dentro ci fossero due persone in intimità? Magari hanno scelto questo posto isolato apposta per non essere disturbate. Non credo che sarebbero troppo contenti di vedere il tuo brutto muso da piedipiatti fare capolino dal lunotto, mentre sono impegnati a fare le loro robe…»

Manfredi borbottò qualcosa di incomprensibile e si fermò.

Restarono dove si trovavano e tesero le orecchie. Dall’automobile non sembrò provenire nessun suono, né voci né nulla. E restava perfettamente immobile.

«Se lì dentro ci fosse qualcuno – specialmente impegnato a fare quelle che tu chiami “le loro robe” – un minimo di cigolio le sospensioni dovrebbero mandarlo», obiettò lui. «Non si sente nulla. Al massimo staranno dormendo, no? Ma chi è così pazzo da dormire in macchina con questo freddo? Si rischia di morirci dentro, congelati.»

Finalmente, Aurora gli lasciò andare la manica. Fece un cenno d’intesa. Adagio, si avvicinarono all’automobile. Senza guardare dentro, Manfredi picchiettò con il dito sulla carrozzeria per richiamare l’attenzione di eventuali occupanti. Non accadde nulla.

«Manfredino, tu come pensi che ti sentiresti, se fossi seduto in macchina, in mezzo al nulla, magari con una ragazza mezza nuda montata addosso, e all’improvviso qualcuno ti bussasse contro il vetro?» sbottò lei, scuotendo la testa con fare rassegnato. «Minimo, ti verrebbe un infarto, no? Con tutte le storie assurde di maniaci assassini che si sentono raccontare in giro…»

Il tenente assentì.

«Sì, può essere…» Il freddo e la nebbia gli avevano reso roca la gola. Se la schiarì e poi disse, a voce alta: «Carabinieri! C’è qualcuno, lì dentro?» Per meglio sottolineare il concetto, mise mano al taschino e ne estrasse il tesserino di riconoscimento.

Manovra del tutto inutile.

Ancora una volta, non ricevettero alcuna risposta. Si decisero a sbirciare all’interno. Non fu facile, e dovettero individuare uno spazio nei vetri lasciato libero dalla condensa.

«Vuota», precisò Alberto, infilando di nuovo in tasca la sua tessera.

«Forse è di qualcuno che è andato nel bosco», ipotizzò Aurora. «Un cacciatore di frodo, magari.»

Manfredi aveva acceso la torcia dello smartphone e stava spiando oltre i vetri appannati.

«Non mi sembra proprio la macchina di un cacciatore», chiarì. «Sui sedili posteriori ci sono libri, quaderni, fumetti, lattine, pacchetti di sigarette, scatolotti vuoti di tramezzini, e un mucchio di altre cianfrusaglie… c’è pure una borsa decorata con cuoricini e orsacchiotti da cui spunta un computer portatile… sembra più che altro l’auto di uno studente in crisi.»

Aurora si picchiettò le tempie e la sua mano corse per istinto alla tasca posteriore dei pantaloni, dove teneva il pacchetto di sigarette. Il solo fatto di averle sentite nominare le aveva messo in corpo la voglia irrefrenabile di fumarsene una. Si trattenne a stento.

«Forse qualche escursionista, o qualche amante della natura che voleva provare il brivido di vedere il bosco di notte», congetturò.

Manfredi le lanciò uno sguardo storto.

«Non fare la finta tonta, è una parte che non ti riesce affatto bene», sbottò. «Qui i casi sono due: o qualcuno ha rubato questo trabiccolo e poi se ne è pentito e lo ha abbandonato qui…»

«Detto da te, trabiccolo è un complimento, visto il cesso di macchina con cui hai il coraggio di farti vedere in giro», lo prese in giro la giovane donna.

Alberto la ignorò.

«…oppure», proseguì, «questa è la macchina di qualche amante del mistero che ha pensato bene di andarsi a fare un giro proprio stanotte a Villa Mayer.»

Tornò a far luce verso l’interno dell’automobile. Si concentrò sui titoli dei libri e sui fumetti ammucchiati sul sedile posteriore. Una raccolta di poesie di Edgar Allan Poe, alcuni numeri di Dylan Dog, qualche titolo di Stephen King, un paio di volumi presi in biblioteca su ricerche inerenti il paranormale e i misteri. C’era anche una scatola con un gioco in scatola: una Tavola Ouija marcata Hasbro. Da sotto il sedile, spuntava una scatola di Tarocchi.

«E, a giudicare dalle letture e dai passatempi, possiamo concludere che la seconda ipotesi sia quella giusta.»

Aurora si strinse nelle spalle.

«Bene, bene», disse. «Vorrà dire che, per questa notte, avremo un po’ di compagnia vivente, oltre a quella morta che ci offrirà Edith.»

Quest’ultima affermazione, strappò un lungo e doloroso brivido a Manfredi. Un brivido che gli si insinuò lungo la spina dorsale e lo scosse quasi completamente. Finse di non aver udito quell’ultima parte di frase.

«Magari, chiunque sia, vorrà restarsene da solo», bofonchiò. «Non sono soltanto io ad avere un brutto muso, eh. Ti sei mai vista in uno specchio? Non vorrei che a questo tipo, vedendoti arrivare, brutta come sei, prendesse davvero un colpo per lo spavento. Okay entrare a cercare i fantasmi, ma magari i mostri non li vuole incontrare…»

Aurora gli indirizzò un sorrisetto beffardo.

«In altre occasioni non l’avresti passata liscia, Manfredino. Nessuno può dire che sono brutta e sperare di cavarsela come se niente fosse. Ma so qual è il tuo scopo: farmi arrabbiare per non andare più a Villa Mayer. Ti sbagli di grosso. Ormai abbiamo deciso di andarci e ci andiamo.»

Alberto si lasciò sfuggire un: «Tu hai deciso tutto da sola, a dire il vero. Quasi quasi ti lascio andare e torno ad aspettarti in camera.»

«E tu saresti un cavaliere?» ridacchiò lei. «Per di più, uso a obbedir tacendo e tacendo morir? Sul serio, lasceresti andare in quel postaccio tenebroso una povera fanciulla sola, inerme e indifesa? Credevo che tu avessi un paio di palle, nascoste là sotto, Manfredino bello.»

Lui sbuffò.

«Puoi sempre rinunciare e…»

«No», tagliò corto Aurora, secca.

Senza aggiungere altro, si incamminò a passo rapido lungo il sentiero che si inoltrava in mezzo al bosco. Manfredi restò a guardarla per un paio di secondi. Poi, sollevati per un secondo gli occhi al cielo con fare rassegnato, si affrettò a seguirla.

 

* * *

 

Il silenzio, in mezzo al bosco, era tanto assoluto da risultare assordante. Premeva contro i timpani quasi come se fosse stato una cosa solida, e li faceva ronzare forte. Si aveva di continuo la netta sensazione che si stessero tappando le orecchie, come quando si sale troppo in fretta di quota.

Se ci si faceva un po’ più di attenzione, comunque, ci si rendeva conto che il silenzio era soltanto un’illusione. In realtà, ad accompagnare il loro cammino, c’erano innumerevoli rumori di ogni sorta. Rumori sordi, bassi, profondi, ma che si insinuavano attraverso il silenzio e l’oscurità.

Lo schiantarsi di un ramo, spezzato dal gelo. Il gocciolare dell’umidità. Lo stridio di qualche rapace notturno. Lo scricchiolio del pietrisco sul sentiero. Il bosco non dormiva, nel freddo e nel buio. Il bosco era vivo e, sopra l’illusione di un silenzio che non poteva esistere, vegliava e mormorava le sue storie antiche e dimenticate, raccontava con la sua voce arcaica i mille segreti che custodiva con gelosia nel fitto del proprio cuore fatto di legna, foglie, acqua e pietra.

Alberto e Aurora, tremando nel freddo, accompagnati dal condensarsi dei loro aliti, andarono avanti abbastanza in fretta. Entrambi erano stati colti da un vago senso di inquietudine, e si sentivano come se, fermandosi, si sarebbero potuti esporre a chissà quale arcano e inafferrabile pericolo. Oppure, e questo era ancora più strano da accettare, era come se una strana forza li stesse evocando a sé, attirandoli verso la meta che si erano prefissi.

Fu un tragitto più breve di quanto avessero potuto immaginare, ma la sensazione di stare andando incontro a un grande mistero – e a una paura sottile, perché ciò che non si conosce e che non si può spiegare riempie sempre il cuore e il cervello di sgomento – parve allungare a dismisura la strada da seguire.

Aurora, dentro di sé, non aveva alcun dubbio. Lei lo sapeva. Lei era certa che ci fosse qualcosa che andava oltre il mondo fisico in cui erano immersi. Qualcosa di inspiegabile, di lontano, ma che – di quando in quando – sapeva rendersi tangibile, una presenza quasi fisica. Lei stava andando verso quella casa con la certezza più che assoluta che, tra quelle mura, fosse sopravvissuta l’anima di una giovane donna strappata troppo in fretta – e con un dolore insopportabile e indescrivibile – alla vita che le sarebbe spettata. Non sorgevano quesiti, nella sua mente.

Alberto, dal canto suo, provava a mantenersi scettico. Si era sempre creduto un incallito razionalista, un materialista fatto e finito, eppure… eppure non poteva negare di star provando sempre più forti brividi lungo la schiena. Brividi che, con il freddo e con l’umidità, non avevano proprio nulla da spartire. E più cercava di appellarsi alla solita, vecchia e rassicurante formula – poco meno che magica – del “c’è sempre un’altra spiegazione”, sentiva le proprie barriere crollare passo dopo passo. Le esperienze vissute in passato continuavano a emergere, quasi con prepotenza, suggerendogli che, se aveva potuto accettarle come vere, non aveva alcun motivo per dubitare della storia di Edith.

Ma io non voglio crederci, si disse, aggrappandosi all’ultimo scoglio di autodifesa che ancora gli rimanesse tra i neuroni. Se i fantasmi esistono per chi ci crede, allora deve voler dire che non esistono per chi…

Una figura bianca e velocissima attraversò il cielo, volando pochi metri sopra le loro teste. Ogni pensiero gli morì nella mente e si ritrovò a sobbalzare. Un lampo di occhi luminosi, capaci di penetrare le tenebre. La sagoma lasciò dietro di sé un fruscio, quasi un sibilo di morte, respirando profondamente, come un moribondo che si aggrappa agli ultimi aneliti di ossigeno per non abbandonare il mondo fisico. E poi cominciò a ridere. La risata di un’anima dannata.

Manfredi trattenne a stento un grido. Sentì il cuore accelerare all’impazzata.

Aurora si voltò verso il punto in cui la candida figura si era volatilizzata, nel fitto degli alberi.

«Oh…» disse, con accento estasiato. «Un barbagianni! Non ricordo di averne mai visto uno, dal vivo…»

Lo stomaco di Manfredi fece le capriole. Le gambe tornarono a rispondere ai suoi comandi. Si trattenne a stento dallo scoppiare a ridere.

Ecco, pensò. Ecco come nascono le storie di fantasmi. La gente vede qualcosa di normalissimo, non lo riconosce e gli attribuisce chissà quale assurdo significato. Tutto qui.

Si sentì fiero della propria spiegazione. Il vigore tornò a infondersi nelle sue membra. All’improvviso, provò la sensazione di essere un grande scienziato appena reduce dalla più geniale e importante scoperta del secolo.

Altro che fantasmi.

Imbaldanzito da quel traguardo, riprese a camminare. Lo fece a grandi passi, senza più una minima traccia di fifa in corpo…

Ma tutto cambiò non appena il bosco si allargò attorno al poggio e Villa Mayer si stagliò, nera e lugubre, sopra di loro.

Perché Villa Mayer, semplicemente, era sbagliata. Era un oggetto errato, incastonato in una cornice che sembrava rifiutarsi di accoglierla. Come un moscerino fastidioso finito dentro un occhio che inutilmente si apre e si chiude e lacrima per cercare di disfarsene.

Manfredi si bloccò, il cuore che gli martellava contro le tempie. Un battito impazzito, che sembrava scandire le parole: «Scappa, scappa, vattene da lì, scappa finché sei in tempo, via via, scappa! Scappa! SCAPPA!» Se non riusciva a dare retta a quel consiglio, era soltanto perché le sue gambe, all’improvviso, sembravano aver dimenticato come si facesse a camminare, o anche di contenere delle ossa. Gli pareva di avere dei budini tremebondi, al posto degli arti inferiori.

Aurora lo affiancò e trattenne il respiro.

Oscurità e nebbia impedivano di riconoscere lo stile architettonico dell’edificio. Dal loro punto di osservazione, poterono notare un’accozzaglia di torri e torrette, di merli e di spalti, di guglie e di tetti appuntiti. Sembrava l’opera di un pazzo visionario, che avesse frammischiato tra di loro i sogni di altrettanti folli. Ma non era soltanto la forma a mettere spavento. Era tutto l’insieme, tutto il resto. Non c’era nulla di normale, in quella casa. Dava l’impressione di un tumore, di un cancro maledetto nato per deturpare il bosco. La nebbia che aveva avvolto tutte le cose, sembrava essersi formata dal cuore stesso di Villa Mayer, fumigando dai suoi camini, dalle sue porte e dalle sue fessure, per poi discendere a spire malevole e infingarde giù per la collina, cancellando il mondo intero. La vegetazione stessa, pur risalendo il poggio e avvicinandosi alla villa, sembrava non volerla del tutto avvinghiare, come se ne avesse timore.

Lo stesso timore che, all’improvviso, avvolse il cuore di Alberto Manfredi.

La paura si fece largo a ondate dentro di lui. Tremò tanto forte che rischiò di cadere. Non sapeva da dove gli derivasse, un tale stato d’animo. Non poteva essere soltanto la casa: ne aveva visti tanti, persino troppi, di edifici bizzarri e astrusi. Era qualcosa di più profondo. Di più remoto e inafferrabile. Come se, per davvero, quelle mura fossero intrise di dolore, di rabbia e di un’attesa capace di sfidare il tempo, il mondo, le leggi stesse della natura che regolavano l’intero universo.

«Andiamo via…» si scoprì a mormorare. Afferrò la mano dell’amica e la strinse in modo spasmodico. Si sentì sconvolto, e non fece nulla per tenerlo nascosto. «Aurora, ti prego… andiamo via… poi farò sempre tutto quello che vuoi, ma… ora… andiamo via…»

Lei si girò a fissarlo. Attraverso l’oscurità della notte, accesa della misteriosa luminescenza della nebbia, il suo volto pallido sembrò risplendere. I suoi occhi verdi incrociarono quelli nocciola e arrossati di Alberto e tentarono di dargli conforto.

«Se hai paura per davvero, allora va bene, andiamocene…» cominciò a dire.

Un urlo raggelante la interruppe.

Un urlo che non aveva alcunché di soprannaturale. Era una voce umana, quella che invocava aiuto. Una voce disperata, ricolma di angoscia. Una voce maschile, che proveniva dall’interno della vecchia casa.

Impossibile sbagliarsi.

«LASCIALA STARE! NOOO! AIUTO!»

Qualcuno era nei guai. Qualcuno chiedeva aiuto.

«APRI! NON TI PERMETTERÒ DI FARLE DEL MALE!»

Lassù, tra le mura di Villa Mayer, stava accadendo qualcosa.

Qualcosa di drammatico.

«MALEDETTAAAAAHHH!»

L’ultimo urlo si perse in un lamento soffocato, che l’umidità della nebbia parve dissipare. Ne seguì un rumore di vetri infranti e di legno schiantato, un fracasso che, dopo le urla, lacerò il silenzio del bosco. Qualche uccello notturno fece eco a quel frastuono con stridii infastiditi.

«Cazzo…» sbottò Aurora.

Manfredi deglutì e cercò di controllare il tremito che gli stava facendo sobbalzare le membra.

Loro non potevano sottrarsi dall’intervenire, quando qualcuno era in pericolo. Era loro dovere. Avevano pronunciato un giuramento. Mettere da parte se stessi per correre là dove fosse servito il loro intervento. Anche se questo significava andare a cacciarsi in un postaccio che non aveva nulla di ospitale.

Non che questo potesse bastare a cacciare via la paura. Ma serviva a nasconderla, a celarla. A metterla da parte, nel profondo del cuore, per il bene di altre persone.

Dopo essersi scambiati un breve cenno d’assenso, Aurora e Alberto cominciarono a correre su per il pendio accidentato e infestato da piante selvatiche, diretti verso Villa Mayer.

 

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Capitolo 19
*** 18. ***


18.

 

 

«Marta…»

Un sussurro. Una bava di vento. Un alitare che si perse nell’oscurità.

Valeria non reagì. Restò immobile, rannicchiata su se stessa. Continuò a tenere gli occhi serrati, le braccia strette al petto, cercando una protezione contro l’ignoto che l’aveva catturata nelle sue spire.

Era accaduto tutto molto in fretta. Troppo in fretta perché potesse capire davvero.

Sapeva soltanto che, un momento prima, lei e Daniele stavano salendo le scale, adagio. Erano diretti verso la sala che si trovava al primo piano di quella strana costruzione, in cui nulla sembrava essere al proprio posto… lei sapeva dove dovevano andare. Aveva salito quei gradini troppe volte, nei suoi sogni – negli incubi da cui voleva fuggire – per non conoscere la strada. Sapeva dove si sarebbe dovuta dirigere, dove Edith Mayer l’avrebbe attesa…

E poi era successo tutto.

Qualcosa di freddo come il ghiaccio l’aveva toccato. Era scivolata in avanti, e si era ritrovata distesa sui gradini. Prigioniera. Una morsa che si era stretta sulle sue braccia, trascinandola in alto, come una marionetta appesa a un filo.

Di una cosa era certa. Aveva gridato. Valeria era sicura di averlo fatto. Poteva quasi sentire ancora il suo urlo riecheggiare tra le mura della casa. Non era del tutto certo di aver cercato di divincolarsi, di liberarsi da quella presa, tanto sbalorditiva era stata la sensazione di essere afferrata dal nulla e dall’invisibile, ma di sicuro aveva urlato. Poi Daniele aveva detto qualcosa. Aveva fatto appena in tempo a percepire lo sbalordimento del suo tono, subito sostituito da qualcos’altro.

Qualcosa di peggio.

Paura.

Ma non se n’era andato. Come aveva promesso, non l’aveva abbandonata.

Era tutto buio e confuso. Non era riuscito a vedere nulla, ma aveva sentito le mani del suo amico stringersi attorno alle sue spalle nel tentativo di trattenerla. Per un attimo Valeria si era sentita tirare in avanti e all’indietro, e la folle idea di essere strappata in due parti le aveva attraversato la mente.

Era stato solo un attimo.

Un soffio di vento ghiacciato le era sventagliato in mezzo ai capelli e la presa di Daniele era svanita. Aveva sentito una serie di tonfi, seguiti da gemiti e lamenti dolorosi. Era rotolato giù dalle scale.

Qualcosa…

…qualcuno –

Edith…

– lo aveva spinto giù.

Valeria non aveva potuto fare altro che lasciarsi trascinare verso l’alto, la testa e i piedi che urtavano uno dopo l’altro i gradini. Questa volta aveva di sicuro provato a divincolarsi, a liberarsi. Non c’era riuscita.

«BASTARDA! LASCIALA ANDARE!»

La voce furente di Daniele era risuonata dal basso.

Nuovi tonfi sulle scale. Il suo amico stava correndo da lei, e sembrava – sì, Valeria ne era certa – sembrava proprio incazzato nero. Non avrebbe saputo trovare definizione più adatta di quella. Probabilmente aveva paura, una paura folle e fottuta, ma aveva ancora più paura di perdere lei… e l’adrenalina aveva fatto il resto. Doveva averne le vene piene.

Daniele l’aveva superata di un balzo e si era gettato in avanti, affrontando chiunque – Edith Mayer – l’avesse catturata.

Non era servito.

La sensazione di gelo era aumentata, fino a diventare insopportabile. Valeria aveva sperato di morire alla svelta, per smettere di avere tanto freddo. Aveva sentito le mani e i piedi contrarsi, preda di crampi dolorosi.

Stavolta, Daniele era stato letteralmente scagliato verso il basso, ed era atterrato con un rumore sordo e sinistro sul pavimento. I calcinacci avevano scricchiolato nell’impatto con il suo corpo.

Valeria era scoppiata a piangere. Aveva paura che il suo amico fosse stato ucciso…

Poi, però, lo aveva sentito gridare ancora e ancora, ma non aveva inteso il significato delle sue parole, perché era stata trascinata dentro la sala e la porta si era richiusa sbattendo dietro di lei. Aveva sbattuto tanto forte che le vibrazioni si erano propagate al resto della stanza e avevano mandato in frantumi alcuni pannelli della vetrata sul lato opposto del salone.

Il gelo l’aveva invasa completamente. Si era stretta su se stessa, sperando che tutto potesse finire alla svelta.

Poi un tocco delicato e freddo sulle scapole l’aveva fatta sussultare.

E quella voce…

Quel sussurro inafferrabile, che proveniva da altre epoche…

«Marta…»

 

* * *

 

Il terreno era ghiacciato e l’erba accartocciata e cristallizzata si spezzava sotto le suole delle scarpe. Una serie di pietre sconnesse ma ancora disposte in fila, che qua e là emergevano dal terriccio e dalla vegetazione che le aveva rese quasi del tutto invisibili, era quanto rimaneva dell’antico vialetto di accesso alla magione.

Pietre che, adesso, si erano tramutate in un’insidia nascosta.

Correndo lungo il poggio, Aurora appoggiò male il piede sopra la superficie liscia di uno di quei grossi sassi lucidi e neri. Si sentì la terra mancare e provò ad afferrarsi a qualcosa. Ma non c’era nulla a cui aggrapparsi. Piombò come un sasso e sbatté duramente il fondoschiena contro il terreno.

«Ti sei fatta male?» sbottò Alberto, fermandosi al suo fianco e guardandola.

«No, figurati, mi sono fatta bene…» borbottò lei.

Appoggiò i palmi delle mani sul terreno gelido e, facendo leva, si rialzò. Con una smorfia, si massaggiò il didietro dolorante.

«Mi sono presa una botta al culo, cazzo…»

Il tenente fu quasi tentato di proporsi per massaggiarglielo. Si trattenne e tornò a voltarsi verso la villa, che incombeva su di loro come una minaccia oscura, sempre più vicina.

Vicina e inquietante.

Adesso le grida non si sentivano più. Un segno che non sapeva come interpretare. Comunque, non gli piaceva affatto.

«Tu non hai con te la pistola, vero?» chiese.

Aurora si dedicò ancora qualche istante al suo didietro, premendolo forte e stropicciandolo con le dita.

«Non funziona», borbottò. «Perché diavolo i massaggi non funzionano mai, quando una se li fa da soli? Non è giusto!»

Sollevò un poco la mano destra e tastò a livello della cintura. Con l’altra mano, slacciò il giubbotto di pelle ed estrasse da sotto la sua Beretta 92.

«Giro sempre con il ninnolo, Manfredino», disse, spianandogliela davanti come un pistolero del vecchio West. «Figurati se esco senza. Peccato che non sia ancora arrivato in armeria il mio regalo di Natale anticipato, devo passarci quando torniamo a casa…»

Alberto si strofinò il mento infreddolito.

«Non ho il coraggio di…»

«Una Smith e Wesson 29, quella da .44 Magnum, come Dirty Harry», fu la risposta pronta.

«Ecco…»

«E comunque, a te, Manfredino, nemmeno ci provo a domandarlo, se hai un’arma addosso.»

Alberto non rispose. Evitò di dirle che non riusciva nemmeno a ricordare se, la pistola, l’avesse lasciata nel cruscotto della macchina oppure direttamente a casa. Il suo rapporto con le armi da fuoco non era mai stato un vero idillio.

Ma non era il caso di discuterne adesso.

Non era certo il momento per perdersi in chiacchiere.

Tornarono a volgersi entrambi verso Villa Mayer.

«Pronto?» chiese Aurora.

Manfredi scosse il capo.

«No», disse.

«Apprezzo l’onestà», replicò lei. «Stammi vicino, Manfredino, e nessuno ti farà del male, anche perché, se ci provano…» un’espressione satanica le si dipinse in viso, «…poi dovranno vedersela con me. E senza bisogno di pistolone o altri cannoni. Li torturo a morte, lentamente, se ti fanno qualcosa di brutto.»

Ricominciarono l’arrampicata. Questa volta andarono avanti adagio, guardinghi. Il silenzio che era calato li aveva messi in allarme.

«Preferivo le urla…» biascicò Manfredi. «Credi che quel tizio sia morto?»

Aurora non rispose. Le sue mani si strinsero più forte sul calcio della pistola, che teneva puntata in avanti. Era pronta a sparare al minimo movimento sospetto. Perché, per quante arie potesse darsi, e per quanto le piacesse fare la dura, anche lei era spaventata, adesso.

Ad accompagnare la loro avanzata ci fu soltanto lo scricchiolio dell’erba ghiacciata. Un suono che, in altre occasioni, sarebbe apparso gradevole, confortante. Familiare. Ora lasciava addosso soltanto lo sgomento. I brividi che incuteva li scuotevano da capo a piedi.

Senza una parola, tenente e sottotenente si avvicinarono sempre più alla costruzione. Si fermarono ai margini dell’edificio e si scambiarono una breve occhiata. Negli occhi verdi di Aurora e in quelli nocciola di Alberto era riflessa la scintilla dell’apprensione. Fecero un breve cenno d’assenso e salirono i gradini che immettevano nel porticato ricoperto di detriti e calcinacci.

La porta di Villa Mayer era spalancata. Un buco nero che immetteva in un’oscurità tanto densa da apparire palpabile. Dall’interno, soffiava leggera una corrente d’aria freddissima, maleodorante di muffa, vecchiume e quelli che sembravano essere escrementi. Un soffio che, incuneandosi nell’ingresso, e passando tra le diverse fessure presenti nel muro, emetteva uno strano e misterioso sibilo. Dava l’impressione che l’intero edificio stesse respirando. Il respiro – il rantolo – di un moribondo rimasto troppo a lungo attaccato alla vita, incapace di andarsene una volta per tutte.

Stavolta, fu Alberto a porre la domanda.

La fece perché non si sentì affatto sicuro di quello che stavano per fare. Ma ormai erano lì. Indietro non si tornava.

Non potevano.

«Pronta…?»

Sussultò al suono della sua stessa voce.

Quell’unica parola, sussurrata a fior di labbra, nel silenzio innaturale che era disceso su Villa Mayer, fu assordante come un’esplosione.

A rispondere, però, non fu Aurora.

Dall’interno della casa, ripresero le urla, e alle loro orecchie giunse un specie di martellare attutito, uno sbattere di pugni contro una superficie di legno.

«APRI QUESTA PORTA, MALEDETTA! LASCIALA ANDARE!»

 

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Capitolo 20
*** 19. ***


19.

 

 

«L’Inferno è così freddo…»

Valeria ebbe un singulto. Singhiozzò forte e tenne gli occhi serrati. Non voleva vedere. Come una bambina rannicchiata sotto le coperte insieme al suo orsetto per vincere le mostruose insidie celate nelle tenebre, si cullava nell’illusione che, se non avesse visto nulla, tutto sarebbe finito alla svelta.

«Freddo come il mio cuore…»

Quel tocco gelido sulle sue spalle continuava a essere reale. Le trasmetteva una sensazione di freddo intenso, che le si propagava in tutto il corpo. Aveva la sensazione che le ossa – e la sua stessa anima – si stessero cristallizzando. Sarebbe bastato un piccolo colpo per mandarle in briciole, fragili come dovevano essere diventate.

Eppure, in quel tocco non avvertiva negatività. Aveva paura, questo sì. Il cuore impazzito le pulsava nelle orecchie, minacciando di scoppiare al più presto. Quasi si meravigliava che quei rintocchi non rimbombassero nel silenzio della vecchia dimora. Ma la sensazione che stava provando, per quanto assurdo fosse riconoscerlo, era qualcosa di positivo, di dolce. Nonostante il freddo che la stava avvolgendo, e che si stava allargando all’intera stanza, che ormai era diventata una vera e propria ghiacciaia, Valeria vedeva evocare dentro di sé immagini calde, colorate, profumate.

Vide un lago dalle acque verdi e pulite, circondato da alte e aguzze montagne coperte di boschi odorosi di resina, che si stagliavano azzurre contro un cielo estivo, limpido e abbagliante. Le rondini si inseguivano in quell’aria tersa e fragrante. E sentì la sensazione dell’erba, quella di un prato fiorito, tra i cui colori danzavano le farfalle, le più belle che i suoi occhi avessero mai viste, così delicate da potersi paragonare a fatine leggiadre, leggere, variopinte.

«Sì, Marta, ricordati di te… di noi…» sussurrò la voce. «Scalda il mio cuore e il tuo, troppo a lungo divisi… strappami all’Inferno che mi ha tenuto prigioniera, liberami e portami con te in Paradiso…»

Valeria fu tentata di aprire gli occhi.

Voleva vedere. Voleva sapere.

Era venuta lì per quello, in fondo. Per conoscere la verità, per scoprire perché proprio lei fosse stata condannata a una simile sofferenza. E aveva sempre saputo che non sarebbe stato facile.

Che avrebbe avuto paura.

Ma adesso non era soltanto il terrore a tenerla inchiodata lì, con gli occhi serrati.

Erano quelle dolci immagini… quel bel sogno, sereno e tranquillo, il primo dopo tanti anni di incubi…

 

* * *

 

Le pareti e il pavimento scricchiolarono forte quando varcarono la soglia. Fu come se, a modo suo, Villa Mayer stesse dando il benvenuto ai due nuovi arrivati.

Suo malgrado, pur desideroso di mantenere il controllo sulla situazione, Alberto fu colto da una sensazione crescente di paura. Anche se sapeva che era suo preciso dovere quello di intervenire in aiuto di chi ne aveva bisogno, il primo suggerimento che gli diede il suo istinto di conservazione fu quello di voltare le spalle e darsela a gambe.

Non sono un eroe, si disse. Cazzo, se non lo sono.

Si concentrò per controllarsi. Cercò un po’ di sicurezza e di conforto stringendosi addosso ad Aurora.

Lei, nonostante facesse sempre di tutto per dimostrarsi sprezzante di ogni pericolo, una bulletta fatta e finita, non parve affatto infastidita da quel contatto. Anzi, pure lei si strinse contro l’amico, cercando in lui il sostegno che serviva per poter andare avanti.

Adesso tutto taceva. Nel silenzioso immobilismo di Villa Mayer, sembrava che il tempo fosse sospeso. Gli scricchiolii che erano risuonati al loro apparire, cessarono subito di farsi udire.

«Siamo ancora in tempo a tagliare la corda», suggerì Manfredi, tremebondo. «Ce ne torniamo al caldo e ti faccio un massaggio da capo a piedi, davanti e dietro, fino all’alba… ci so fare coi massaggi…»

«Non tentarmi, Manfredino», replicò lei, facendo dardeggiare i suoi occhi attraverso l’oscurità. «Se…»

Le urla ripresero a echeggiare nella casa, distruggendo e annientando la quiete spaventosa e sbagliata che li aveva avvolti.

«APRI QUESTA PORTA!»

Entrambi guardarono verso il soffitto. Chiunque fosse a urlare, si trovava al piano di sopra. Si guardarono ancora una volta, poi scattarono.

Percorsero di corsa l’atrio polveroso e ridotto a un ammasso di detriti. Non badarono alla caotica confusione che li circondava. I graffiti che coprivano le pareti furono semplici macchie di colore sfocate che a stento bucarono il buio quasi assoluto. Raggiunsero lo scalone che conduceva ai piani alti e cominciarono a salire, facendo i gradini due alla volta. A ogni passo, rischiarono di inciampare e di ruzzolare. Non vi fecero caso.

Una volta in cima, si trovarono in una specie di vestibolo, buio e oscuro. Da entrambi i lati del pianerottolo, si dilungava un tetro corridoio.

Ansimando, si fermarono. Mentre riprendevano fiato, guardarono dove dovessero andare. Dal soffitto scrostato, pendevano pezzi di malta e di intonaco sfibrati. Anche lì, l’impiantito era tutto un ammasso di detriti e calcinacci.

Qualcosa sbatté forte. Il colpo si ripeté una volta, due, tre, sempre più veemente e violento…

SBAM

SBAM-SBAM

SBAM-SBAM-SBAM

Un rumore che, per un istante, li disorientò. Poi compresero di che cosa si trattasse. Qualcuno, alla loro destra, a qualche metro di distanza – impossibile comprendere davvero le distanze effettive, lì dentro – stava prendendo a pugni una porta chiusa.

I due agenti si scambiarono l’ennesimo cenno di intesa.

Non parlarono.

Scattarono in quella direzione.

Anche se avevano il cuore che martellava impazzito, anche se ogni passo guadagnato in quella casa pesava loro addosso come un macigno insopportabile, non si lasciarono suggestionare.

Andarono avanti.

Corsero nel buio, alla cieca. A orientarli erano ormai soltanto i rumori dei pugni, dei calci e delle spallate contro la porta, che resisteva tenacemente. Suoni che, all’improvviso, furono forti più che mai.

Aurora, slanciata in avanti, non fece in tempo a fermarsi. Andò a sbattere contro il ragazzo che si stava massacrando le nocche e le ossa contro il legno robusto di una porta di rovere massello. Entrambi, gridando per lo sconcerto e la sorpresa, finirono stesi sul pavimento coperto di polvere. La pistola sfuggì dalle mani della giovane donna e roteò sulle piastrelle, perdendosi da qualche parte.

Alberto si fermò. Mise mano alla tasca e prese lo smartphone. Accese la torcia. La luce non era granché, ma bastò a illuminare il groviglio di braccia e di gambe che si agitavano ai suoi piedi. La luce si amplificò sui capelli rossi del sottotenente Bresciani e si rifletté sul volto pallido e terrorizzato di un ragazzo che non poteva avere ancora venticinque anni. Il giovane ansimò forte, sgomento, e socchiuse gli occhi per ripararseli dal bagliore della torcia.

«Chi… chi…» riuscì soltanto a balbettare, ritraendosi.

«Carabinieri», replicò Manfredi, in un tono secco che sperò apparisse autoritario. Non fu troppo sicuro del risultato. «Che sta succedendo, qui?»

Aurora riuscì a districarsi dal tipo che aveva investito. Si rialzò e, borbottando qualcosa di incomprensibile, cominciò a cercare la sua Beretta. Il ragazzo, invece, non si mosse da dove si trovava. Sembrava lievemente tramortito. Il sottotenente Bresciani non era certo un peso piuma. Sul suo volto sconcertato, però, passò una scintilla di speranza.

«Lei ha preso la mia amica!» strepitò. «Lì dentro!»

Alberto spostò lo sguardo dal ragazzino alla porta chiusa. Non perse tempo a fare domande. Non chiese chi fosse la sua amica, né tantomeno chi fosse colei che l’aveva presa. Aveva troppa paura di conoscere la risposta, a dire il vero.

Decise di agire.

Agire è il modo migliore per non pensare e non porsi domande.

Tentò la maniglia. Non si poteva mai sapere. Inutile, comunque. La serratura chiusa a chiave non scattò e la porta restò inviolabile. Anche cercare di fare forza sulla leva di metallo per provare a farla cedere non sortì alcun risultato apprezzabile.

Pazienza.

C’erano molti altri modi, per aprire una porta chiusa.

Si spostò all’indietro di mezzo metro. Caricò tutto il peso sulla spalla destra e si buttò contro la soglia. Il legno scricchiolò, i cardini emisero un gemito e sbuffarono polvere e la serratura si lamentò, ma la porta non cedette. Era molto pesante, legno pieno e ben stagionato. Ma se quell’affare era un osso duro, Manfredi, quando valeva, sapeva essere molto più tenace e testardo di quanto potesse apparire a prima vista.

Di nuovo, concentrò il peso sulla spalla. Di nuovo prese lo slancio. Di nuovo impattò contro il legno. Questa volta, sentì rumori sordi di cedimento, ma sentì anche qualcos’altro: i suoi muscoli e i suoi nervi attraversati da fitte dolorose che, dalla spalla, discesero con feroce malignità lungo tutta la schiena.

«Aspetta, tenente…»

Aurora riemerse dal buio. In mano reggeva la pistola.

«Hai i tuoi attrezzi da scassinatrice provetta?» domandò Manfredi, speranzoso, premendosi con la mano sinistra il braccio destro lussato.

«Ho di meglio», replicò lei. «State indietro!»

Alberto fece appena in tempo a capire. Si spostò davanti al ragazzino sempre disteso a terra, per metterlo al riparo da eventuali schegge e frammenti che sarebbero potuti volare da tutte le parti. Aurora puntò la pistola contro la serratura e fece fuoco.

Il rumore fu assordante, amplificato dall’ambiente chiuso e ristretto. Il fumo e l’odore di cordite riempirono il corridoio. Al posto della serratura, rimase un buco parecchio grosso.

La donna sollevò una delle lunghe gambe e sbatté il suo robusto anfibio militare contro il legno. Stavolta, senza più opporre alcuna resistenza, la porta si aprì di scatto, completamente, e sbatté contro il muro dall’altra parte. Rimbalzò all’indietro, ma Aurora la trattenne e si buttò a capofitto dentro la stanza, puntando la Beretta in avanti. Manfredi e il ragazzo, che si era rialzato, si affrettarono a seguirla.

Ciò che si palesò ai loro occhi li paralizzò.

Il salone era congelato. Letteralmente. Il ghiaccio, come una lastra di vetro, aveva avvinghiato il pavimento, le pareti, il soffitto. A causa dell’intensità del freddo, l’ampia vetrata era esplosa, e i frammenti erano sparsi ovunque. Ciò che restava di un pianoforte e di uno scrittoio marciti dal tempo e fatti a pezzi da una forza sovraumana, formava adesso dei blocchi di ghiaccio, simili a iceberg alla deriva.

Ma ciò che procurò maggior sgomento ai loro occhi fu la figura distesa vicino al grande caminetto. Era una ragazza rannicchiata, che si teneva stretta le braccia contro il petto e singhiozzava piano. Inginocchiata accanto a lei, con le mani bianche e scheletriche appoggiate alle sue spalle e alla sua schiena, c’era una figura pallida e tetra. Una figura femminile, scheletrica, avvolta in abiti simili a stracci, con i lunghi capelli neri e sfibrati che le ricadevano sul volto incavato e smunto.

La figura alzò lo sguardo su di loro. Uno sguardo senza tempo. I suoi occhi non erano veri occhi. Erano pozzi, erano buchi neri oltre i quali non esisteva una dimensione reale.

Aurora mugolò qualcosa di incomprensibile. Il ragazzo ansimò forte e le si aggrappò come se avesse timore di stare per annegare e lei fosse il solo scoglio nella corrente tumultuosa e impazzita.

Manfredi deglutì.

Non è vero, si disse. Non è vero. Quella non è Edith Mayer. Non è lei. No. Dai. No. Me lo sto immaginando, dai. È quel cazzo di whiskey schifoso che mi ha fatto bere quel tipo. Oppure gli allucinogeni che mi ha messo nelle polpette. Una delle due. È quello, insomma.

Nonostante questa convinzione profonda, non poté impedirsi di mettersi a tremare.

Qualcosa, dentro di lui, gli suggerì di afferrare Aurora e il ragazzo e trascinarli via, il più lontano possibile da quella crescente follia. Via, da quel delirio a mente lucida. Poi, però, i suoi occhi riuscirono a staccarsi dal vuoto cosmico che si leggeva nel volto di Edith – perché, in cuor suo, per quanto odiasse doverlo riconoscere, non aveva alcun dubbio che, quella che avevano davanti, fosse davvero Edith Mayer – e incontrarono il corpo abbandonato e tremante della ragazzina. Ascoltò i suoi singhiozzi rompere il silenzio assoluto e si sentì avvolgere da una rabbia crescente e roboante.

Qualunque cosa stesse accadendo, chiunque fosse quella poveretta, stava subendo una forma di violenza. Una violenza atroce. E lui, questo, non poteva permetterlo. E non perché fosse un carabiniere. Non era un semplice dovere, il suo. Era qualcosa di più profondo, di molto più intenso. Qualcosa di radicato dentro di lui, nella sua anima. Odiava i soprusi, di qualsiasi forma e di qualsiasi origine. Li odiava con tutto se stesso.

Compresi quelli di tipo soprannaturale.

«In nome della legge, allontanati da lei!» gridò. «Alza le mani in alto e mettiti con la faccia al muro! Sei in arresto!»

Aurora si voltò a guardarlo. Aveva in viso un sogghigno, parte esasperato e parte divertito.

«Manfredino, ti prego… non dirmi che hai davvero dichiarato in arresto un fantasma…»

Lui fece una smorfia.

«Be’, la legge è uguale per…»

Tutto accadde in un momento.

Edith scomparve e una staffilata di aria gelida volò contro di loro.

Prima che avessero avuto modo di capire che cosa stesse accadendo, Alberto, Aurora e il ragazzo furono avvolti da un turbine gelido e impazzito, che li avvinghiò come tra le spire di un serpente. Incapaci di reagire, vennero sollevati dal pavimento e trascinati attraverso il salone, sbattuti qua e là come bambole di pezza.

Poi, con un’ultima sferzata freddissima, vennero sbattuti fuori da Villa Mayer attraverso ciò che restava della vetrata.

 

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Capitolo 21
*** 20. ***


20.

 

 

«Se ne sono andati, amore mio…» mormorò Edith, tornando verso di lei. «Non permetterò che ti portino via, né che ti facciano alcun male… nessuno ci separerà mai più, anima mia…»

Valeria tremò più forte. Cominciò a singhiozzare senza più alcun ritegno. Sentì le lacrime calde solcargli le guance e scenderle fin sul collo, in netto contrasto con il gelo di cui era pervasa la stanza.

La mano spettrale di Edith tornò a sfiorarla.

«Non fare così, Marta…» sussurrò la voce senza tempo della giovane morta. «Siamo noi, ricordi? Siamo soltanto io e te, adesso… come troppo tempo fa, sulle rive del lago… l’attesa è stata lunga, ma adesso ricordati di me, di te, di noi, amore mio…»

Una carezza sui capelli fece sussultare Valeria. Eppure, nonostante la paura folle che le stava facendo accapponare la pelle e rizzare tutti i peli che aveva sul corpo, non percepì nessuna minaccia in quei tocchi leggeri e delicati. La disperazione che aveva provato per anni nei suoi incubi era svanita.

Ora c’era un senso di pace, di tranquillità.

Ma erano una pace e una tranquillità sbagliate, storte. Non poteva andare così, se lo sentiva nel profondo. Perché quella creatura – quell’essere, quel fantasma, quel ricordo cristallizzato, qualsiasi cosa fosse per davvero – continuava a chiamarla Marta, Marta, Marta… ma lei non era Marta.

Non era mai stata Marta.

Lei era Valeria. Solo e soltanto Valeria.

«Valeria…» sussurrò a fior di labbra.

Aprì gli occhi di colpo. Fu quasi estraniante farlo, dopo averli tenuti serrati tanto stretti da credere che le pupille le si fossero incollate tra di loro e i bulbi si fossero ritratti per sempre sul fondo del cervello. Di fronte a sé vide solo un angolo buio della stanza, ricoperto di ghiaccio. C’era anche una sorta di strana luminescenza, la cui intensità aumentava e diminuiva di momento in momento, e fu certa che a emanarla fosse Edith.

La paura non andò via. Non diminuì per nulla. Ma alla paura, adesso, si sommò la determinazione, la stessa che l’aveva guidata fin lì. Perché lei era giunta fin lì per risolvere una volta per tutte quella questione.

«Valeria!» esclamò.

Rotolò sul posto e si adagiò sulla schiena. Sollevò gli occhi nel volto scheletrico e deturpato – e che, nonostante tutto, manteneva ancora una traccia dell’antica bellezza – che la sovrastava. Deglutì la paura, cacciò il terrore in fondo ai piedi, lontanissimo dal cervello che, altrimenti, non sarebbe riuscito a reggere a lungo.

«Hai capito?!» gridò, senza poter fare nulla per impedire che le lacrime le inondassero il viso. Attraverso quel velo acquoso, non perse il contatto con il volto dello spettro. «Io sono Valeria, non Marta! Valeria! Valeria! E sono venuta qui per dirtelo, per dirti di lasciarmi in pace, una buona volta!»

Edith sorrise con dolcezza. La sua mano, traslucida, quasi trasparente, eppure più concreta che mai, si avvicinò al viso della giovane e lo accarezzò. Un tocco tanto gelido che, contro la pelle di Valeria, sembrò bollente. La ragazza sussultò e si schiacciò contro il pavimento. Sentì il cuore martellare contro il petto, minacciando di sfondare la cassa toracica per schizzare fuori.

«No, amore mio…» disse la voce di Edith. «Tu sei Marta… e sei venuta qui perché desideri ricordare, perché è questo il tuo destino… guarda, amore mio, guarda…»

Valeria cercò di opporsi, ma non poté fare nulla.

Un velo discese dinanzi ai suoi occhi. La stanza tetra e nera scomparve e lasciò di nuovo il posto al paesaggio montano, alla dolcezza dell’estate sul lago, ai balli delle rondini e delle farfalle, ai profumi della natura incontaminata.

E Edith, inginocchiata al suo fianco, non fu più la spettrale figura priva di vita, ma una giovane di incredibile bellezza, quella di cui lei – Marta – si era innamorata profondamente, un amore forte, immortale e incorruttibile.

Un amore capace di sfidare la furia malvagia degli uomini, l’implacabile scorrere del tempo, il dolce bacio liberatore della morte.

 

* * *

 

L’impatto con il suolo fu violento.

Alberto rimbalzò sulla terra congestionata dal gelo e rotolò dentro un mucchio di rovi contorti e spinosi, una vera e propria selva che aveva invaso quelle che un tempo lontanissimo erano state le aiuole curate dalle mani amorevoli di un qualche giardiniere. Avvertì un forte dolore quando la sua spalla già malandata colpì un sasso aguzzo, sporgente dal terreno. Terminò la sua folle corsa contro il tronco peloso e durissimo di una palma, le cui chiome lo fissarono dall’alto con perfido e sadico compiacimento.

Non andò molto meglio ad Aurora.

La giovane, nella caduta, riuscì a raccogliersi a palla, per assorbire l’impatto; ma questo non le impedì di sbattere forte con il fondoschiena e di venire sbalzata contro un mucchio informe e molto duro di calcinacci – tegole, per lo più – che dovevano essere precipitati dal tetto di Villa Mayer nel corso dei decenni. Picchiò la fronte contro un mattone e un profondo livido violaceo cominciò subito ad allargarsi sulla sua pelle.

Per un istante, tenente e sottotenente restarono immobili, storditi, confusi e doloranti. Scossero entrambi la testa, cercando di capire che cosa fosse accaduto davvero. I dolori di vario genere si allargarono a ondate concentriche dentro i loro organismi; un modo come un altro, comunque, per rendersi conto che la caduta non li aveva uccisi. Poi, come se avessero ricevuto all’unisono l’ordine di reagire, cominciarono a muoversi e si rimisero in piedi. Lo fecero quasi di scatto, come se fossero balzati sull’attenti dinanzi all’improvviso apparire di un alto papavero dello Stato Maggiore.

«Cazzo, ho preso un’altra botta al culo», piagnucolò Aurora, massaggiandosi la parte interessata. «Non è giusto…»

Aggrappandosi al tronco della palma, Manfredi cercò di mantenersi in piedi. Si sentì barcollare tutto. Le spine dei rovi gli avevano strappato in più punti il giubbotto e i jeans. Qualcuna, con maligna e pungente soddisfazione, era riuscita a raggiungergli la pelle delle gambe e a bucherellarla. Aveva anche parecchi graffi sulle mani e sul viso. Con una manata, allontanò una ciocca di capelli che gli era finita negli occhi. Aveva perso il basco, e lo vide pendere inerte da un ramo spinoso. Lo agguantò e se lo ricacciò alla meglio sulla testa.

«Tutto bene?» borbottò, parlando più a se stesso che agli altri due.

«Ti paiono domande da fare, tenente?» lo fulminò Aurora, con una smorfia dolorosa. Provò a muovere un paio di passi, ma il didietro le inviò delle scosse dolorose lungo la spina dorsale. «Cazzo, il culo. Giuro che…»

Non terminò la frase. I suoi occhi avevano individuato la sagoma del ragazzo più giovane, che giaceva a poca distanza, del tutto immobile. Era a pancia in giù, il volto affondato nell’erba e nella terra.

«Cazzo…» disse, per la terza volta.

Un po’ zoppicando e un po’ saltellando, riuscì a raggiungerlo. Alberto, vincendo la sensazione di vertigine che lo aveva colto, le andò dietro. Entrambi si lasciarono cadere in ginocchio accanto al giovane e, ricorrendo alla massima cautela, lo rivoltarono sulla schiena.

Il giovane aveva gli occhi chiusi. Un rivolo di sangue gli usciva dal naso, nel punto in cui doveva aver preso una botta. Aveva anche un paio di tagli superficiali sulla fronte, e alcune escoriazioni sulle mani. Ma era vivo. Un po’ rideva e un po’ piangeva. Lacrime amare che si sommavano a risate inconsulte e senza senso.

«Ehi…» sussurrò Aurora.

Con una dolcezza di cui sapeva essere capace solo in circostanze simili a quella, gli fece una carezza sul viso bagnato di pianto e macchiato di sangue.

«Come ti senti?» mormorò Alberto, chinandosi su di lui.

Il giovane non rispose. Continuò a piangere e a ridere. Aurora non smise di accarezzarlo.

Speriamo non abbia picchiato la testa, pensò Alberto, sconfortato. Ci manca appena che sia diventato pazzo. Bella idea, quella di venire in gita a Villa Mayer. Non si può andare semplicemente a visitare un museo o a fare una visita guidata in un castello, vero? No, bisogna cacciarsi in un guaio come questo per poi volare fuori dalla finestra.

Scosse la testa. Oramai era fatta. Non valeva la pena perdersi dietro a quelle fantasie.

«Sai dirmi il tuo nome?» domandò, con tono delicato.

Per un momento, il ragazzo non disse nulla. Almeno non piangeva e non rideva più. Le dita gentili di Aurora sembravano averlo calmato e confortato.

Infine, le sue labbra si dischiusero.

«Daniele», mormorò.

Aurora si abbassò un po’ di più verso di lui.

«E la tua amica?» chiese.

Un sospiro sfuggì dalle labbra di Daniele.

«Vale…»

All’improvviso, spalancò gli occhi e, come se una molla invisibile lo avesse spinto, si rizzò a sedere. Lo fece con tale impeto che, per poco, Alberto e Aurora non finirono di nuovo stesi al suolo.

«Valeria!» gridò il ragazzo. Cercò di rimettersi in piedi. «Quella là l’ha presa, bisogna che…»

Aurora gli mise una mano sulla spalla, trattenendolo con salda gentilezza, e con l’altra gli accarezzò di nuovo il viso, cercando di calmarlo.

«Lo sappiamo», replicò Alberto, risoluto. «E quella là, chiunque sia, è capace di un bel po’ di effetti speciali, dato che ci ha sbattuti fuori dalla finestra come se fossimo fuscelli di paglia.»

Sollevò gli occhi a Villa Mayer, tetra e nera.

Individuò la vetrata sfondata da cui erano stati invitati ad andarsene. Vista dal giardino, sembrava davvero in alto. Era un vero e proprio miracolo, che non fossero rimasti uccisi nella caduta. O forse, qui i miracoli non c’entravano un bel niente. Magari, come aveva suggerito Orso durante il suo racconto, Edith non era realmente cattiva. Non avrebbe fatto mai del male – non in modo intenzionale, almeno – a degli innocenti. Forse li aveva sì sbattuti fuori, ma aveva anche fatto in maniera di attutire la loro caduta.

Un pensiero confortante, soprattutto per quello che riguardava la ragazza rimasta là dentro.

Però, questo non significava poter fare finta di nulla e andarsene a letto come se nulla fosse.

Proprio no.

Distolse lo sguardo dalla casa e lo fece scorrere dall’amica al ragazzo.

«Ma non abbiamo nessuna intenzione di dargliela vinta, dico bene?» sbottò. «Quale che sia la vera ragione che ha indotto quella… quella cosa… a tenere prigioniera Valeria, e a buttarci fuori da lì in quel modo, noi non ci arrenderemo e ci daremo da fare per tirare fuori da lì quella signorina. Anche a costo di dover volare fuori dalla finestra altre cento volte.»

Aurora si morse il labbro.

«Certo, però…»

«Però noi non possiamo fare granché, da soli», le venne in aiuto Manfredi.

Si rimise in piedi e porse la mano ad Aurora per aiutarla a rialzarsi. Lei l’accettò volentieri. Daniele restò dove si trovava, guardandoli con dolorosa speranza.

«Davvero potete aiutare Vale?» domandò.

«Ci proviamo», replicò Alberto.

«E speriamo di potercela fare, anche se è un po’ fuori dalla nostra portata, quella di combattere contro i fantasmi», mugugnò Aurora.

Si chinò in avanti, passò le mani sotto le braccia di Daniele e lo aiutò a rimettersi in piedi. Le si aggrappò e accettò volentieri il breve ma intenso e confortevole abbraccio che lei gli regalò.

Alberto Manfredi riuscì a fare un sorrisetto.

«Ma c’è qualcuno che sembra saperla parecchio lunga, su questa casa e sulla sua ectoplasmatica occupante», disse. «Perciò, adesso andiamo a buttarlo giù dal letto, gli facciamo bere un bel po’ di caffè per aiutarlo a digerire tutto l’alcol che si è scolato stanotte e gli chiediamo che caspita dobbiamo fare per aiutare quella poveretta.»

 

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Capitolo 22
*** 21. ***


21.

 

 

«Amore mio…»

Marta socchiuse gli occhi. La luce del sole, caldo e sfolgorante, era abbagliante. Sentiva una strana vibrazione, tutta attorno a sé. Era una sensazione estraniante. Qualcosa di leggerissimo, quasi etereo, faceva muovere l’aria in volute leggere, che le accarezzavano il viso e le ronzavano nelle orecchie.

Dischiuse le palpebre, desiderosa di capire. Uno spettacolo meraviglioso, mai visto prima, le mandò il cuore in gola.

Era distesa in un prato screziato di fiori colorati. Nontiscordardime azzurri, bocche di leone arancioni, vedovine fucsia, fragolaria gialla… e bianche pratoline, rossi papaveri, dorati favagelli, profumate violette e altre mille essenze selvatiche che non sarebbero fiorite mai tutte insieme, nemmeno nel più curato dei giardini. Il soffio che aveva attratto la sua attenzione era quello delle ali diafane e variopinte di migliaia e migliaia di farfalle che passavano da un fiore all’altro, inseguendosi e giocando nell’aria mite di quella primavera senza tempo.

«Sono qui, tesoro mio…»

Marta si volse al dolce suono di quella voce delicata. Sulle sue labbra si disegnò un sorriso e i suoi occhi parvero emanare scintille di felicità quando incontrarono lo sguardo pieno d’amore di Edith.

Era bella, più bella di quanto la ricordasse, di come l’avesse mai vista.

Il suo viso era l’emblema stesso della bellezza. I capelli che lo incorniciavano, neri e vaporosi, cadevano leggeri sulla seta della camicetta bianca, i cui primi due bottoni erano slacciati, lasciando intravedere la pelle bianca del collo e del petto. Una pelle bianca ma viva, arrossata dal desiderio di tenerla tra le braccia.

«Edith…» sussurrò Marta, tendendo le braccia verso la giovane. «Mi sei tanto mancata…»

Anche Edith allargò le braccia. Si chinò in avanti, pronta a racchiuderla in quell’abbraccio che era stato loro negato troppo a lungo…

E poi Valeria rammentò.

Lei non si chiamava Marta. E non era lì per accogliere a quel modo Edith Mayer. Era arrivata lì per opporsi a lei, per combatterla, per dirle una volta per tutte di lasciarla in pace, di smettere di darle quel tormento che non si era affatto meritata.

Era lì per sconfiggerla, una volta per sempre.

«Allontanati!» gridò.

Si alzò a sedere, scattò all’indietro e si allontanò dalle braccia gelide del fantasma. Il prato e le farfalle scomparvero, il calore del sole divenne un gelido inferno e la luce venne risucchiata e annichilita dalla tetra oscurità della sala in rovina.

«Marta», disse Edith, immobile. «Non opporti a me… non opporti al nostro amore!»

Valeria si trascinò contro la parete, a fianco del caminetto. Adesso non piangeva più e riuscì a sostenere senza alcun timore il volto spettrale della defunta, che incombeva su di lei.

«Io sono Valeria, non Marta!» gridò.

Una sana follia si impadronì di lei. Non aveva più alcun briciolo di paura. Aveva avuto paura per troppi anni, doveva aver esaurito le pile o qualcosa di genere. Si sentiva euforica, adesso. Euforica, sprezzante e pronta a tutto, pur di mettere fine una volta per sempre a quella storia assurda.

«Mi hai capito, razza di lenzuolo slavato?! Valeria, cazzo, Valeria, Valeria! Non sono Marta… e di certo non ti amo, brutto cadavere fosforescente!»

Il volto di Edith si trasfigurò. Non prese una piega rabbiosa, ma fu contratto da un profondo dolore, dalla delusione di udire quelle parole.

«Certo che mi ami…» sussurrò. Un sussurro che sembrava provenire da altri mondi.

Si spostò un po’ in avanti, cercando di protendere le mani verso Valeria.

«No!» gridò la ragazza.

Nella rastrelliera accanto al caminetto era infilato un vecchio attizzatoio. Era ricoperto di ruggine, ma aveva ancora l’aria letale di un attrezzo acuminato. Valeria lo afferrò e, puntellando la schiena contro il muro, riuscì a rialzarsi. Brandì la sua arma improvvisata come se fosse stata una spada e la puntò contro lo spettro.

«Indietro!» urlò. «Indietro o giuro che ti ammazzo…!»

La folle idea di star minacciando di morte una creatura già morta non la sfiorò neppure da lontano. Voleva soltanto dimostrare – a Edith come a se stessa – di essere più forte, di essere capace di reagire. Voleva mettere in chiaro che, adesso, in un modo o nell’altro, tutto quanto sarebbe finito.

Erano alla resa dei conti. Erano arrivate al duello risolutore, come in un vecchio film western. Una sola di loro ne sarebbe uscita vincitrice.

E non importava chi delle due.

Edith divenne trasparente, riacquistò forma e colore, svanì ancora, riducendosi a poco più di un’ombra. Un’ombra fumosa che, come scossa da una brezza, non riuscì a mantenere intatta la sua forma. Valeria non capì subito quello strano comportamento.

Poi comprese.

Edith stava tremando.

«Tu tocchi quell’oggetto…» mormorò la sua voce lontana. «Tu tocchi l’arnese con cui quel mostro ti ha uccisa…»

«Nessuno mi ha uccisa!» strepitò Valeria, impugnando più forte l’attizzatoio. Le sue nocche si sbiancarono attorno al ferro annerito e rugginoso. «Io sono viva! Mettitelo in quella testa vuota da ectoplasma, una volta per tutte!»

«Marta…» sussurrò Edith.

La ragazza raccolse tutto il fiato che aveva nei polmoni.

«VALERIA!» urlò.

Il fantasma si mosse improvviso verso di lei e Valeria sollevò l’attizzatoio, preparandosi a colpire.

 

* * *

 

«Ha preso una ragazza…» bofonchiò Orso, passandosi la mano nei capelli arruffati.

Aurora, Alberto e Daniele erano tornati in fretta in paese, correndo più volte il rischio di scivolare sulla strada ghiacciata. La nebbia, per quanto assurdo, sembrava essere diventata ancora più fitta di prima, al punto che ormai non si vedeva oltre una spanna dal naso. Avevano scoperto che, in quelle condizioni, era assai difficile riuscire a orientarsi in quel luogo che avevano appena cominciato a conoscere.

Nonostante questo, pur se disorientati, avevano fatto ritorno senza troppi problemi alla Tana di Orso. Senza perdere tempo a guardare dentro il B&B, erano corsi all’abitazione dall’altra parte del cortile e si erano attaccati al campanello. Erano serviti quasi cinque minuti abbondanti perché il volto di Orso, pallido, assonnato, con gli occhi arrossati e sottolineati da ombre scure, facesse capolino a una finestra del piano superiore.

Aveva impiegato un poco per riuscire a distinguerli e a riconoscerli, attraverso la nebbia. Poi, con la voce impastata dal sonno, aveva bofonchiato: «Oh, siete voi… arrivo ad aprirvi…»

Adesso erano riuniti in cucina, l’ambiente più caldo della casa.

Alberto e Daniele erano seduti al tavolo, con quest’ultimo che si contorceva le mani in preda al nervoso e alla tensione crescenti. Aurora passeggiava avanti e indietro, con la sigaretta accesa stretta tra le labbra, livide per il freddo e per la irrequietezza. Orso, che aveva cercato di svegliarsi mettendo la testa sotto il rubinetto, era ai fornelli, grondante acqua gelida dai capelli e dalla barba, e stava armeggiando con la caffettiera.

A turno, cercando di dire le cose una volta soltanto, gli avevano raccontato quello che era accaduto. Non era stato facile, perché tutti e tre si erano contraddetti più volte e si erano ingarbugliati con frasi, ricostruzioni e spiegazioni.

«Allora, cerchiamo di ricapitolare in modo chiaro…» borbottò Orso.

La caffettiera gorgogliò in modo domestico e rassicurante. Il profumo invitante del caffè si sparse per tutta la stanza. Orso versò il liquido nero e bollente in una tazza e, senza perdere tempo a zuccherarlo o a farlo almeno un poco raffreddare, se ne rovesciò una discreta quantità in gola. Sembrò non sentire per nulla il bollore sul palato o sulla gola, ma ebbe un breve sussulto quando quella specie di magma incandescente gli fece bruciare lo stomaco.

«Mi ci voleva», brontolò. Fece un sospiro soddisfatto. «Devo smetterla, di esagerare con il vecchio Jack, la sera…»

«Allora, noi…» cominciò a ricapitolare Aurora.

Orso la interruppe con un cenno della mano sinistra, mentre con la destra continuava a reggere la tazza. Aveva adoperato quella con la scritta “Buongiornissimoooo” multicolore. Alberto la trovò più brutta e inguardabile che mai, ma si astenne dal commentarlo.

«Allora, adesso parlo io», disse Orso. «Vediamo se ho capito tutto. Voi due, incuriositi dalla mia storia e dal libro di Bernasconi, avete deciso di andare a fare una visitina notturna a Villa Mayer…»

Alberto alzò lo sguardo.

«Io, a dire il vero, non ho deciso proprio nulla», obiettò. «È stata Aurora che mi ha costretto…»

«Sì, sì, okay», tagliò corto l’altro. «Fatto sta che ci siete andati. E avete sentito le urla che venivano da dentro, e una volta entrati avete incontrato questo ragazzo, che vi ha detto che la sua amica è stata catturata dal fantasma di Edith. Allora siete corsi per provare ad aiutarla, ma Edith non l’ha presa bene e vi ha buttati fuori dalla finestra.»

Aurora sbuffò una boccata di fumo.

«È andata così», precisò.

Orso bevve un secondo sorso di caffè e lanciò un’occhiata a Daniele, che fissava il pavimento senza davvero vederlo, lo sguardo perso nel vuoto.

«E voi due eravate lassù perché la tua amica Valeria sta subendo la persecuzione di Edith Mayer da tanti anni e voleva provare a liberarsi di lei affrontandola a viso aperto, giusto?»

Daniele fece un vago cenno con la testa.

«Sì…» sbottò.

Alzò gli occhi e fissò Orso.

«…ma queste cose le sappiamo già, le abbiamo dette!» strepitò, rianimandosi all’improvviso. Balzò in piedi, sorprendendo persino Alberto e Aurora. Orso, invece, rimase impassibile.

«Ma non sarà standocene qui a bere caffè e a chiacchierare, che salveremo Vale da quel mostro!» andò avanti il ragazzo. «Quindi, se siamo venuti solo per perdere tempo, io vi saluto e torno in quella dannata villa!»

Fece per avviarsi verso la porta, ma Orso allungò una mano e lo trattenne. Nonostante l’apparenza data dalla sua esile corporatura, riuscì a bloccare il ragazzo senza nessuno sforzo.

«Non stiamo perdendo tempo», sottolineò. «Stavo solo facendo un riassunto. È così che si fa – o, almeno, che sarebbe utile fare – quando si scrive una storia: arrivato quasi alla fine, ai limiti della scena madre, l’autore rivede un po’ tutto quello che ha messo in campo fino a quel momento, per sincerarsi di non aver tralasciato e di non essersi dimenticato nulla. Così, può procedere senza intoppi verso il finale.»

Alberto lo guardò stralunato.

«Ma noi non siamo in una storia…» borbottò.

Orso fece uno dei suoi sorrisi enigmatici, che celavano chissà che cosa.

«Dipende dal punto di vista…» disse.

Vuotò la tazza di ciò che rimaneva del caffè e il suo sorriso si allargò.

«Posso aiutarvi, con questa faccenda di Edith Mayer?» chiese. Lo domandò più che altro a se stesso, non a loro.

Tutti e tre lo fissarono con un’aria vagamente esasperata, ma a cui si aggiunse una lieve speranza.

«No», soggiunse. «Non posso farlo.»

Lo sconforto discese sui volti di Alberto, Aurora e Daniele.

«Allora è come ho detto io, stiamo solo perdendo tempo…» sbottò il ragazzo, cercando di liberarsi dalla presa di Orso, che non lo aveva ancora lasciato andare.

«La mia funzione è un’altra», proseguì Orso, imperterrito. «Continuiamo a fingere di essere in un racconto. Voi tre siete i protagonisti, che si sono incontrati verso la metà della storia. Io, dal canto mio, sono una specie di deus ex machina. Sono qui, in apparenza del tutto inutile, un personaggio secondario, un comprimario di supporto, ma ho lo scopo di sbloccare la trama e di risolvere la situazione. Senza di me, non si andrebbe da nessuna parte. “Come?”, vi starete chiedendo. Ebbene, venite con me a fare una passeggiatina nella nebbia e lo scoprirete. È il momento di farvi conoscere gli altri protagonisti di questa storia.»

 

* * *

 

Ancora una volta, fu il morso del gelo ad accompagnarli lungo il tragitto. Il gelo e, ovviamente, la nebbia. Sempre più fitta, densa come una schiuma. Una foschia che sembrava premere addosso con forza prepotente, che rendeva ovattate tutte le cose e che si dilungava contro la luce dei lampioni arancioni, come se cercasse di impossessarsi anche di quella.

Sembra di essere in The Fog, quel film di John Carpenter, rifletté Alberto.

Quanto gli sarebbe piaciuto, in quel momento, essere a letto, sotto le coperte, a gustarsi un bel film senza nessun altro pensiero al mondo.

Invece mi tocca starmene qui, al freddo, col rischio di andare a sbattere il naso da qualche parte, dato che non si vede un accidente di niente.

Che vita grama.

Orso, comunque, conosceva troppo bene quei paraggi per correre il rischio di perdersi. Li condusse a passo sicuro lungo la strada principale – poco più larga di una mulattiera, comunque – per poi infilarsi senza perdere tempo dentro uno dei vicoletti che, dalla minuscola piazza, serpeggiavano tra gli antichi edifici, costituendo di fatto tutto l’insieme del piccolo borgo.

Camminarono forse per una manciata di minuti, sebbene il freddo e la nebbia contribuissero a rendere strana persino la percezione del tempo. Pochi o molti che furono i minuti trascorsi in mezzo alla bruma, quando si fermarono dinanzi a un vecchio portone di legno annerito dal fumo e dall’umidità avevano i capelli e gli abiti grondanti di acqua, come se avessero fatto un bagno in una vasca.

«Ecco…» disse Orso. «È qui che…»

Alberto e Aurora si scambiarono uno sguardo veloce. Daniele, dal canto suo, era sempre più nervoso, perché aveva l’impressione di star abbandonando la sua amica.

«Orso, chi è che abita qui?» domandò Aurora.

Lei e Manfredi provarono a leggere il nome sul campanello, ma non c’era alcuna targhetta.

«Le uniche persone che possono aiutare quella poveretta», replicò Orso.

«Sì, ma…» bofonchiò Alberto, a disagio. «A quest’ora staranno dormendo…»

L’altro fece un vago cenno con il capo.

«Sono loro che hanno dato avvio a tutto questo, in un certo senso», replicò. «Venire buttati giù dal letto a un’ora assurda è il minimo che potrebbero aspettarsi. E poi, se voi lo avete fatto con me, non vedo perché io non possa farlo con loro…»

Quindi, senza perdere tempo, premette il dito sul campanello. Suonò una volta, due… la terza, tenne premuto il pulsante fino a quando, al piano superiore, si accese una luce.

Una finestra sbatté e una voce maschile – una voce anziana, impastata di stanchezza e di stupore, oltre che di un qualche briciolo di spavento – gridò nella notte: «Chi accidenti è, si può sapere?!»

Tutti alzarono la testa. Nella foschia, non era facile distinguere i tratti dell’uomo che li stava guardando. Orso fece un passo all’indietro per farsi riconoscere.

«Sono il suo vicino di casa, il proprietario dell’affittacamere, e questi sono alcuni miei ospiti», disse. «Temo che abbiamo un problema…»

«Se ha troppi clienti e non sa dove metterli, io non posso farci nulla!» gracchiò l’uomo, con fare scorbutico. «Non ho stanze vuote da prestarle. Non posso risolvere i vostri problemi! E ora, fuori dai piedi! Buona…»

«Abbiamo un problema, e anche bello grosso, con Edith Mayer!» si affrettò a dire Orso. «Temo proprio che lei sia il solo in grado di risolverlo, dottor Bernasconi!»

 

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Capitolo 23
*** 22. ***


22.

 

 

«Stai lontana da me, hai capito?!»

Valeria minacciò con l’attizzatoio sollevato lo spettro, che si bloccò dopo essersi mosso di pochi centimetri. Nel farlo, sollevò uno sbuffo d’aria gelida, che avvolse la ragazza in maniera quasi dolorosa, strappandole un brivido così intenso che la sua arma improvvisata rischiò di sfuggirle di mano. Serrò più forte le dita attorno al metallo e riuscì a tenerlo saldo.

«Amore mio… Marta…» sussurrò Edith. C’era un che di lamentoso, nel tono della sua voce priva di tempo. I suoi occhi neri, profondi, lontani, fissarono quelli pieni di lacrime – ma determinati – di Valeria.

«Sai dire soltanto questo?!» strepitò la giovane. La sua voce era stridula, piena di angoscia. I singhiozzi che la facevano sussultare di continuo minacciavano di strozzarla, ma non si sarebbe lasciata sopraffare. Tra i singhiozzi, le sfuggì anche una stridula risata, simile al gracchiare di un uccello rapace. «Be’, allora adesso stattene zitta e lascia che parli io, visto che di cosine da dire ne ho un po’ di più!»

Il cuore le martellava impazzito nel petto, con tale violenza che sentiva il seno fare avanti e indietro contro la stoffa ruvida della camicia di flanella che indossava sotto la felpa e il giubbotto; i polsi tremavano tanto forte da minacciare di rompersi, ma fece appello a tutto il suo coraggio per resistere.

Era il momento della verità… della resa dei conti.

Dentro di sé, Valeria riuscì persino a sorridere. Ancora una volta, immaginò se stessa come una pistolera giunta dinanzi all’avversario di sempre. Mani pronte, il sole alto nel cielo… e, al momento giusto, al dodicesimo rintocco, tutti e due avrebbero estratto e fatto fuoco. Forse non era il momento adatto per perdersi a contemplare scene di film immaginari, ma si rese conto che soltanto appellandosi a immagini conosciute e familiari sarebbe riuscita a non perdere il senno in quella situazione assurda e incredibile.

L’adrenalina le si riversò nelle vene, a fiotti incontrollabili. Sentì le gambe vibrare, al punto che dovette spostare il peso da un piede all’altro per non perdere l’equilibrio. La paura che le stava esplodendo di dentro la stava rendendo consapevole come non mai del suo corpo. Le sue dita strinsero più forte l’attizzatoio.

«Tu devi lasciarmi in pace, hai capito?!» urlò. «Sono stufa marcia di essere perseguitata da te! Io non ti ho fatto nulla di male, e non mi merito questo! Devi andartene via! Stammi lontana! Ti proibisco di continuare a tormentarmi! Non so come cazzo si usasse dire nel medioevo o in qualsiasi altro periodo schifoso tu sia vissuta, MA DEVI SMETTERLA DI ROMPERMI I COGLIONI, CAPITO?!»

Aveva la gola in fiamme. Non credeva di essere capace di poter urlare con una voce così acuta e insieme stentorea. Ora che aveva cominciato, non aveva nessuna intenzione di fermarsi. Si sentiva euforica, ubriaca, come se avesse dato fondo a una bottiglia di roba molto forte. Persino la testa le girava – il mondo intero ondeggiava, a dire il vero – ma resistette. Represse la voglia e insieme l’istinto di mettersi a vomitare e gridò ancora.

«Non so che cosa vuoi da me, non so a cosa cazzo miri davvero, ma so che devi piantarla, una volta per tutte! Io voglio vivere! Vivere! VIVERE! E non sarai tu a continuare a impedirmi di farlo! Tu sei morta, la tua cazzo di Marta è morta, se mai siete esistite davvero e non siete solo un delirio schifoso… ma io sono VIVA! IO SONO VIVA, CAZZO!»

La voce di Valeria salì di intensità, sempre più. Rasentò l’isterismo, ma questo la fece sentire bene, la fece sentire meglio di quanto si fosse sentita da tantissimo – troppo – tempo.

La fece sentire viva.

Lei viva a fronteggiare una morta.

Edith rimase immobile. A tratti appariva solida e concreta, subito dopo tendeva a sbiadire fino a diventare una sagoma informe, un’ombra tra le ombre, prima di riacquistare quella solidità stonata.

«Ti prego, Marta…»

«IO SONO VALERIA!» urlò la ragazza. Più che urlare, si scoprì a ruggire come una tigre inferocita. E, proprio come una tigre, si sentì pronta a estrarre gli artigli e a battersi per la sua stessa esistenza. «VALERIA!»

Qualcosa di simile a un sorriso si allargò sul volto smunto e magro di Edith.

«Forse è così che ti chiamano adesso…» sussurrò. «Ma ciò che conta è quello che tu sei dentro di te… la persona che eri… la persona che non se ne è andata perché sapeva che un giorno saremmo state di nuovo insieme, unite dal nostro amore… Marta, tesoro mio… ricordati chi sei…»

Valeria aveva la bocca spalancata. Fissò lo spettro, cercando di scrutare oltre il terrore che l’avvolgeva a ondate terribili, che toglievano il fiato. Per un breve istante, le parve davvero di vedere qualcosa… di rammentare… un lampo, una rapida esplosione di immagini, sensazioni e suoni confusi…

«NO!» gridò, ritraendosi da tutto questo. «Non è vero niente! NIENTE! Io sono Valeria, ho la mia vita, anche se tu la stai distruggendo… ma è la mia vita! Schifosa finché vuoi, ma è mia! MIA NON TUA! Ho la mia macchina, ho tutte quelle pastiglie schifose che non servono a nulla, ho i miei fumetti!»

Ormai, dentro la sua mente, era tutto un vorticare di immagini confuse, un susseguirsi di lampi della sua quotidianità, che apparivano e fuggivano rapidissimi. Ogni tanto, riusciva ad afferrarne uno e a urlarlo, quasi lo stesse sputando contro quello spettro che non avrebbe mai dovuto frapporsi tra lei e la vita.

«Mi piacciono i film d’amore e quelli horror, specie quelli con le scene sanguinose e raccapriccianti!» strepitò, ormai incapace di controllarsi.

Senza rendersene conto, aveva cominciato a piangere senza nessun ritegno. Urlava e piangeva, gettando la sua intera esistenza addosso a quello spettro.

«Ho un orsacchiotto marroncino che si chiama Gigi, lo tengo sulla scrivania e mi fa compagnia quando sono più depressa che mai…!» Singhiozzò forte, ormai stremata. «Mi faccio fuori non so quanti pacchetti di sigarette ogni giorno…! a volte prendo un libro e leggo pagine e pagine per ore e ore, notti intere, fino a farmi uscire gli occhi dalle orbite, pur di non addormentarmi…! oppure guardo serie televisive a non finire, un episodio dopo l’altro, fino a non capirci più nulla…! mi riempio la pancia di cioccolata e tortilla fino a quando mi sento scoppiare…! e ho trovato il coraggio di andare al discount e comprarmi un vibratore, anche se quella troia della cassiera mi ha guardata malissimo, ma non me ne è fregato nulla e ho preso quello con cinque velocità differenti e ora lo uso quando tutto è davvero troppo, fino a quando il piacere mi fa male e brucia tutto, perché non voglio fermarmi e vado avanti ancora e ancora…!»

Ormai si sentiva sul punto di crollare. Stava rivelando i suoi segreti più intimi a una cosa che non sarebbe nemmeno dovuta esistere, forse a qualcosa che vedeva soltanto lei… forse era la sua mente che, ormai, stava cedendo completamente – o, forse, aveva già ceduto. Forse era tutto finito, e quello era il delirio estremo…

E poi rivide Daniele. Daniele, che si era offerto di aiutarla, senza pretendere nulla in cambio… Daniele, così dolce e sincero, che le aveva dimostrato che anche a una come lei – una che aveva perduto la mente chissà dove e chissà quando – si poteva volere bene… Daniele che l’aveva abbracciata, il primo abbraccio pieno d’affetto che ricordasse di aver ricevuto da moltissimi anni…

«La mia vita è mia!» strillò, cercando di mettere a fuoco qualcosa attraverso il velo di lacrime. «Farà anche schifo, va bene, ma è la mia! Non devo ricordarmi di null’altro, perché io non sono qualcun altro! Sei tu che devi andartene! Sparisci, schifosa!» Di nuovo, la voce di Valeria esplose, graffiandole la gola. «VATTENE! LASCIAMI IN PACE PER SEMPRE! LURIDA PUTTANA CHE NON SEI ALTRO, TORNATENE ALL’INFERNO O IN QUALSIASI ALTRO POSTO DA CUI SEI STATA CAGATA FUORI!»

Qualcosa di simile a un sospiro triste provenne dallo spirito di Edith.

«Se tu non vuoi ricordare, amore mio, sarò io a far riaffiorare tutte le tue memorie», disse. La sua voce, al contrario, era bassissima, appena accennata, ma la ragazza la percepiva fin troppo chiaramente, come se le stesse parlando direttamente dentro il cervello. «Ho atteso troppo a lungo… non puoi essere così ostinata ed egoista da impedire che il nostro amore, finalmente, torni a vivere…»

Di nuovo, lo spettro scattò in avanti. Questa volta non si fermò. Le sua mani bianche, dalle dita lunga e traslucide, simili a ossa spolpate, si protesero verso i fianchi di Valeria, pronti a ghermirli in un abbraccio.

La ragazza urlò.

Urlò per lo spavento, per la rabbia e per darsi coraggio.

Abbassò con furia l’attizzatoio, mirando alla testa di Edith. Il ferro sibilò rompendo l’aria… ma non arrivò a destinazione. O ci arrivò, e ci passò attraverso. Invece di provocare danni, l’arnese arrugginito trovò il vuoto e continuò la sua discesa ad arco verso il pavimento. Lo colpì con un clangore pesante e, a causa della ruggine che lo aveva corroso e indebolito, si spezzò in due parti. Valeria, sorpresa e disorientata, si sbilanciò in avanti e cadde sulle ginocchia. Abbassò le mani per sostenersi e si scorticò i palmi. Il dolore, simile a una scossa elettrica, le risalì lungo l’avambraccio, fino alle spalle.

Non ebbe nemmeno il tempo per rendersi conto di ciò che fosse successo.

Edith le fu subito addosso, adesso più concreta che mai. L’afferrò per le spalle e la spinse in terra, schiacciandola contro il pavimento. Valeria sentì, distinta e solida, una mano che le serrava il seno con impeto furioso, mentre un braccio fortissimo la teneva inchiodata dove si trovava.

«Lasciami!» gridò.

Diede uno strattone e si sentì liberare dalla presa. Subito sollevò il busto, pronta a scattare in piedi.

Si guardò attorno, cercando di capire dove fosse rotolata Edith. Con lo spintone che le aveva dato, doveva averla allontanata da sé.

Invece, lo spettro incombeva su di lei.

Adesso era spaventoso.

Non era tanto l’aspetto cadaverico. Non era nemmeno il fatto che fosse diventato tanto grande da sfiorare con la testa l’altissimo soffitto della sala. Non era neppure il fatto che fosse trasparente al punto da vederci attraverso.

Era la sua espressione.

Un’espressione rabbiosa… piena d’odio.

«Non puoi rifiutarmi, Marta!» urlò. «Non puoi essere tanto egoista!» La sua voce era rintronante, rimbombava con la prepotente furia di mille valanghe. «Ti aspetto da sempre, sono rimasta per te, e tu ora devi amarmi!»

Valeria si rannicchiò su se stessa, tremando. Cominciò a piangere, incapace di trattenersi oltre. Tuttavia, tra i singhiozzi e i singulti, riuscì a farsi sfuggire qualche parola farfugliata.

«L’a-amore… n-non è… un dovere…»

Edith Mayer non attese oltre.

Si avventò su di lei, la coprì interamente con il suo corpo e Valeria, avvinghiata dal freddo più intenso e terribile che avesse mai provato, scivolò nell’oblio.

 

* * *

 

E questo sarebbe l’uomo che dovrebbe aiutarci a tirar fuori da guai quella poverina?

Alberto fissò il dottor Joseph Bernasconi.

Vecchio, curvo, decrepito. Il suo volto era una maschera di rughe, appena nascosta dai folti baffi, dai fili bianchi e sottili, così come erano bianchi e sottili i radi – e rari – capelli che ancora gli sopravvivevano sulla nuca, quasi del tutto pelata e coperta di macchie scure. I suoi occhi, però, si mantenevano giovanili, astuti.

Ma non sarà certo con uno sguardo, che potremo salvare quella ragazza, si disse ancora Manfredi.

Per spostarsi – a una lentezza esasperante, come se si muovesse al rallentatore – il vecchio psichiatra si appoggiava a un deambulatore, perché le gambe non dovevano più avere la forza per sorreggere il suo corpo, che pure era smunto e magrissimo, avvolto in un pigiama di seta che doveva essere passato di moda da una quarantina d’anni.

Il tenente cercò di mascherare la smorfia di disappunto che minacciò di affiorargli sulle labbra nel trovarsi davanti a quel vecchio rottame umano.

È già tanto se arriva vivo a domani mattina, altro che venire con noi fino a Villa Mayer per liberare la ragazzina…

Bernasconi lo fissò. I suoi occhi acuti e intelligenti furono attraversati da una scintilla scaltra e densa di ironia.

«È inutile fare quella faccia, tenente Manfredi», gracchiò, con la sua voce simile al verso di una vecchia cornacchia stanca e sfiatata. «Non sono rimbambito. Conosco i miei estremi di nascita. So perfettamente di avere novantanove anni compiuti da troppi mesi, al punto da essere ormai più vicino ai cento che altro. Mi piacerebbe vedere come sarà ridotto lei, quando avrà la mia età… sempre se ci arriverà, beninteso.»

Alberto arrossì violentemente e cercò di dire qualcosa per discolparsi. Riuscì soltanto a farfugliare qualche parola insensata.

Dopo un’attesa che era parsa interminabile, Bernasconi era venuto ad aprire la porta e li aveva fatti accomodare in un salotto il cui arredamento era rimasto fermo alla moda degli anni Sessanta. Mobiletti laccati, tappezzeria dai disegni sgargianti e variopinti, lampade a stelo, tendine rossicce alla finestre. Anche la maggioranza dei libri impilati negli scaffali, a giudicare dai risvolti, doveva risalire a quel periodo. Tutto rovinato e reso fragile e polveroso dal tempo. Nell’aria aleggiava un odore stantio di chiuso e di vecchiume.

Orso aveva fatto rapidamente le presentazioni e aveva spiegato quello che era accaduto. Bernasconi li aveva ascoltati in silenzio, con il fiato corto, fino a quando si era voltato verso Alberto e aveva detto quelle poche parole.

Aurora, ferma al fianco di Daniele, sentì il ragazzo vibrare di impazienza. Evidentemente, anche lui non doveva essere troppo persuaso dall’aiuto che gli sarebbe arrivato da quel vecchio uomo. Cercò di calmarlo sfiorandogli la mano con la sua e pizzicandoli con leggerezza il polso.

«Lei si è interessato al caso di Edith Mayer», disse, cercando di tenere un tono di voce basso. «Ha scritto un libro, al riguardo. Può aiutarci?»

Il vecchio la fissò con una certa intensità, studiando con attenzione i suoi capelli rossi e gli occhi verdi come smeraldi. Un sorrisetto compiaciuto gli si allargò sotto i baffi. A quanto pareva, non gli dispiaceva trovarsi a tu per tu con una donna simile.

Il sorriso, però, disparve quasi subito, lasciando il posto a un’espressione triste e depressa.

«Edith ci domandò aiuto, e noi accettammo di darglielo», mormorò. «Abbiamo pensato a lei, e non abbiamo pensato nemmeno per una volta alla disgraziata che l’avrebbe riconosciuta. Forse… non è un modo per sminuire le mie colpe, per carità… forse, però, avevo finito col convincermi che non sarebbe mai successo. Forse quell’ultimo barlume di razionalità scientifica che ancora resisteva dentro di me cercava di dirmi che, tanto, una cosa del genere non sarebbe mai potuta accadere…»

All’improvviso, parve ancora più vecchio e stanco di come fosse apparso fino a quel momento.

«Ma dopo tutti questi anni… ormai ero davvero certo che Marta non sarebbe mai tornata da Edith… che realmente fosse stata tutta un’illusione.»

Orso, Alberto e Aurora si scambiarono uno sguardo allucinato, senza davvero comprendere il significato di quelle parole. Daniele, invece, fece un passo in avanti e sospirò profondamente, raccogliendo il coraggio.

«Signore», disse, con la voce che tremava in modo leggero, «la mia amica Valeria ha letto il suo libro, una decina d’anni fa.»

Bernasconi fissò lo sguardo su di lui, ascoltandolo in silenzio.

«Da quel momento, da come mi ha raccontato, non è più stata lei. Quella Edith ha cominciato a perseguitarla nel sonno, facendola precipitare in un incubo… alla fine, non ce l’ha più fatta, ed è venuta fin qui. Ora quella cosa l’ha presa e io voglio salvarla prima che sia troppo tardi… e lei sapeva che tutto questo sarebbe successo? Lei ha scritto quel libro pur sapendo che Valeria, o una qualsiasi altra ragazza, avrebbe potuto patire a quel modo?!»

La voce di Daniele era cresciuta di intensità. Una vena gli si era gonfiata sulla fronte, pulsando forte, in modo pericoloso. Il giovane divenne rosso di rabbia.

«Bastardo!» gridò.

Si gettò verso il vecchio, pronto a colpirlo. Protese le mani, come se volesse stringergliele al collo e spezzarglielo. Bernasconi non reagì e non batté ciglio.

Aurora scattò. Afferrò il ragazzo per la cintola e lo trascinò all’indietro, sbattendolo contro il muro. Lui tentò di divincolarsi, me la braccia del sottotenente lo trattennero con forza, impedendogli di muoversi.

«Buono adesso, eh…» gli soffiò nell’orecchio.

«Dottore, tutto a posto?» domandò Orso, forse sentendosi colpevole per aver portato lì Daniele.

«Senti, amico, va bene essere sconvolti, ma questo è…» cominciò a dire Manfredi.

Una voce flautata lo interruppe. Una voce femminile priva di tempo.

«Sì, hai detto bene: bastardo. Bastardo lui e bastarda io. Siamo stati due bastardi, due ipocriti che hanno preferito aiutare una morta, un’anima che avrebbe dovuto volare oltre il limite del mondo materiale, piuttosto che pensare alle conseguenze per i vivi…»

Tutti si volsero verso l’ingresso della sala.

Una donna era ferma sull’uscio. Una donna dalla pelle molto scura e dai lineamenti esotici. Indossava un lungo abito blu, che le scendeva fino alla caviglie snelle, e aveva un velo bianco e ricamato con arabeschi avvolto attorno alla testa. I suoi lunghi capelli, neri e ricci, sfuggivano da sotto il foulard e ricadevano sul petto, mischiandosi ai numerosi ninnoli che lo ornavano. Bracciali e catenine le impreziosivano anche i polsi esili e tintinnavano a ogni suo respiro. I suoi occhi erano neri, profondi, imperscrutabili. Un vago sorriso, leggermente triste, le arricciava le labbra.

«Vi presento Sophia», borbottò il dottor Bernasconi, guardando prima lei e poi il pavimento. «E lei sì, che è vecchia davvero.»

«Tu sei vecchio», lo corresse lei, senza scomporsi. «Io sono antica. È diverso.»

Il dottore abbozzò un sorrisetto.

«Già… mi confondo sempre…»

 

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Capitolo 24
*** 23. ***


23.

 

 

Il profumo del lago era come un’essenza rara. Un odore vago, di essenze arboree e piante acquatiche, di profondità inesplorate e di spiagge accarezzate dal sole, che si legava a quello colorato e silvestre delle due giovani, avvinghiate l’una all’altra, distese nella verde frescura del prato. Sui loro corpi sudati e frementi si rincorrevano profumi di legno, di aghi di pino, di resina e di oli essenziali di mille fiori diversi e variegati, come se trasudassero un elisir di giovinezza.

Gli unici suoni erano il canto degli uccelli e il ronzio delle api che volavano di fiore in fiore, di petalo in petalo, di corolla in corolla, cadenzati dai loro brevi e rochi mugolii. Paroline segrete che si sussurravano all’orecchio, mentre le loro mani si toccavano, le loro bocche si incontravano e i loro corpi caldi e vivi si cercavano.

Pelle contro pelle, carne contro carne. Le labbra di Marta avevano un sapore dolce e delicato. Quelle di Edith possedevano un gusto più marcato, quasi selvatico. Baci che non finivano mai, baci leggeri, quasi vaporosi, e baci più violenti, in cui esplodeva forte la passione che le univa.

Marta quasi gridò quando le dita di Edith, bramose di nuove scoperte, scivolarono in profondità dentro di lei. Un urlo che fu soffocato dall’ennesimo bacio.

Rotolarono sull’erba, in mezzo ai fiori. Si abbandonarono a quella lotta selvaggia e primordiale, dolce e appassionata. Furono sopra, sotto, ai lati. Non si lasciarono andare nemmeno un istante. Continuarono a stringersi, ad accarezzarsi, a scambiarsi quei baci sempre più infuocati. Le labbra esplorarono le labbra e poi scesero a lambire il collo, il petto, a scoprire ogni forma dei loro corpi, anche la più nascosta e segreta.

«Ti amo, Marta…» sussurrò Edith, accarezzando piano i capelli ramati della giovane, scompigliati da quella loro contesa destinata a finire ad armi pari.

Marta aveva affondato il viso tra le gambe di lei, i suoi occhi accesi e luccicanti stavano contemplando la leggiadra bellezza del più prezioso bocciolo di rosa che avesse mai visto. Lo annusava, perdendosi in quella fragranza divina, e si apprestava a conoscerne ancora una volta il delicato e irripetibile sapore.

Prima, però, sollevò lo sguardo. Lo fece scivolare sul ventre bianco, sull’ombelico, sul seno morbido, sul collo delicato e sul bel viso di Edith, fino a incontrare i suoi occhi neri, due pietre preziose incastonate nel più meraviglioso dei gioielli.

«Ti amo anche io, Edith…» mormorò.

«Per sempre?» chiese lei, anelante.

«Per sempre», giurò Marta.

 

* * *

 

 

«Non possiamo fare nulla per quella ragazza», sentenziò Sophia, mettendosi a sedere sopra una poltrona coperta da un telo a fiorellini. Raccolse le mani in grembo e accavallò le gambe, in una sensuale posa d’altri tempi. «Purtroppo, siamo impotenti. Ci sono energie che non possono essere combattute dalla forza mortale. Deve cavarsela da sola… ma non ha grandi speranze. Se una parte di lei è legata a Edith, allora è destino che vada con lei… e quando questo avverrà, non possiamo sapere che cosa accadrà all’altra parte, la parte che non si chiama Marta.»

Tra Alberto, Aurora e Orso corse uno sguardo pieno di apprensione. Se i due agenti si erano rivolti al padrone del B&B per chiedergli aiuto, lui li aveva a sua volta condotti dalle uniche persone che, a suo dire, avrebbero potuto risolvere la questione.

Non era certo questa la risposta che si erano aspettati di ricevere.

«Là dentro c’è una ragazza in pericolo», rammentò Manfredi, con tono secco. «Non possiamo…»

«Ripeto: non possiamo fare nulla, per lei», rimarcò Sophia, imperterrita.

Aurora stava ancora tenendo stretto Daniele, per impedirgli colpi di testa. Lo sentì tremare come se fosse in preda a un attacco di qualche tipo. Strinse più forte le sue spalle, quasi affondandovi le dita, e si appoggiò con il petto alla sua schiena, premendovi contro il seno. Si sarebbe aspettata una qualche protesta, ma il ragazzo parve non farci nemmeno caso. La sua attenzione era tutta per la strana donna che abitava insieme al dottore.

«Non so come e nemmeno perché, ma voi due vi riconoscete colpevoli per quello che sta accadendo», sbottò il giovane, con la voce malferma. «E, nonostante questo, volete restarvene qui seduti senza fare nulla, mentre la mia amica è in pericolo?!»

C’era una sfumatura di rabbia e di disprezzo, nel suo tono. Aurora, dentro di sé, non poté fare a meno di condividerla. Lo strinse un po’ di più, sperando che quel contatto tra i loro corpi bastasse a tenerlo quieto.

Comunque, quell’accento non sfuggì nemmeno a Bernasconi e a Sophia.

«Siamo stati disumani», riconobbe il dottore. «Abbiamo accolto la richiesta di aiuto di Edith e non ci siamo fatti scrupoli, per fare quello che ci domandava. Sapevamo quali sarebbero potute essere le conseguenze, ma non ce ne siamo curati. Abbiamo svolto le ricerche, abbiamo scritto il libro e lo abbiamo pubblicato, certi che, prima o dopo, la reincarnazione di Marta lo avrebbe trovato. Ci importava soltanto di questo. Che la nuova Marta potesse avere un’identità, dei sentimenti, dei ricordi e delle emozioni differenti da quella che fu in passato non ci interessò per niente. Siamo venuti qui, in attesa. Il tempo è passato… tanto, tanto tempo. Alla fine credevamo che non sarebbe venuto più nessuno… e, forse, era un sollievo, perché più gli anni si trascinavano lenti, e più comprendevamo il nostro errore…»

«Già», sussurrò Sophia. «Nel silenzio e nell’attesa, logorati dall’attendere qualcosa che non accadeva mai, abbiamo compreso che legare la vita di un essere umano a quella di un fantasma era stato uno sbaglio… uno sbaglio imperdonabile. Ce ne siamo resi conto troppo tardi, quando noi stessi, in un certo modo, siamo diventati fantasmi: due fantasmi dimenticati dal resto del mondo, rinchiusi in questo luogo sperduto e lontano…» Si strinse più forte le mani in grembo e sospirò. «Eravamo consci di aver fatto del male, senza sapere a chi lo avessimo fatto… e senza sapere nemmeno quando quel male si sarebbe verificato.»

Manfredi dardeggiò lo sguardo dall’uno all’altra, ascoltando quella confessione. Una delle peggiori confessioni che gli fosse mai capitato di raccogliere in tutta la sua carriera di sbirro.

«E però, non avete fatto nulla per rimediare!» esclamò, disgustato.

«Che cosa avremmo potuto fare?!» esclamò Sophia, alzando la testa di scatto per fissarlo negli occhi.

«Ormai il libro era stato stampato ed era circolato…» bofonchiò Bernasconi, che invece preferì tenere lo sguardo rivolto al pavimento. «Non potevamo più sperare di ritirarne tutte le copie. Potevamo solo pregare che nessuno lo leggesse più…»

Daniele si agitò tanto forte che Aurora fu costretta a lasciarlo andare.

«Calma…» cercò di mormorargli nell’orecchio. Lui la ignorò.

«Scuse! Vi state aggrappando a delle inutili scuse del cazzo!» ruggì il ragazzo, inferocito. «La verità è che volevate vedere che cosa minchia sarebbe successo, e avete pensato solo a questo, senza fottervene nemmeno un momento di trovare un rimedio per quello che stavate facendo!»

Bernasconi fece un cenno d’assenso, sempre interessato soltanto alle piastrelle del pavimento.

«Sì», mormorò. «Sì, è così. Ho agito da scienziato, da medico… perché questo sono sempre stato e questo rimango. Un uomo di scienza. E questo… questo è stato il mio grande esperimento. Speravo di scoprire qualcosa di nuovo… qualcosa di incredibile e di rivoluzionario, che avrebbe iscritto il mio nome nel pantheon dei grandi scienziati. Dopo Einstein e la relatività, dopo Heisenberg e la quantistica, dopo Freud e la psicanalisi, la gente si sarebbe ricordata anche di me, di Bernasconi e dell’ipervelo. Avrei tracciato una nuova pagina, avrei aperto un nuovo paradigma.»

Questa volta alzò la testa e accennò un sorriso. Il sorriso amaro della sconfitta.

«Sì, l’ipervelo. Avevo già pronto il nome per la mia grande scoperta, per quando avrei scritto la pubblicazione in cui avrei rivelato l’esistenza di un mondo altro, di ciò che va oltre i sensi fisici… avrei reso normale il paranormale, avrei riportato tra le braccia sicure della scienza tutto quell’insieme di strani fenomeni fino a oggi rimasti inspiegabili.» Sospirò profondamente. «È stato un esperimento di laboratorio. Ho cercato di applicare il metodo empirico a ciò che, per sua stessa natura, è sempre stato l’antitesi stessa dell’empirismo. Volevo rendere razionale l’irrazionale…»

«Sulla pelle di una ragazza innocente», sbottò Aurora. Sul viso le si disegnò una smorfia stomacata, come se fosse sul punto di mettersi a vomitare. «Distruggendo la vita di una creatura che non c’entrava nulla, che non sapeva nulla di voi e di ciò che stavate facendo…»

«È andata esattamente così», confermò ancora il dottor Bernasconi, annuendo di nuovo. «Volevo portare a termine il mio esperimento. Mi credevo onnipotente, in grado di poter fare tutto, di poter disporre di tutto e di tutti a mio piacimento. Come ogni scienziato, mi reputavo alla pari… anzi, no: persino superiore, a dio. Avevo visto delle cose, e ora volevo che quelle cose avessero una spiegazione logica, perché la mia mente scientifica non poteva accettare che qualcosa sfuggisse a una teoria, a un meccanismo certo… insomma, che qualcosa andasse oltre il metodo galileiano su cui avevo improntato il mio unico credo. Ma per raggiungere i miei scopi mi serviva una cavia, e non mi sono curato di dove l’avrei trovata, né di preciso quando…»

Daniele, nel sentire la parola “cavia”, fu scosso da un brivido. Aurora lo agguantò di nuovo e lo tenne stretto a sé, per impedire che saltasse addosso al vecchio e lo facesse a pezzi. Gli si strinse addosso e lo accarezzò, cercando di calmarlo. Lei stessa dovette ricorrere a tutte le sue capacità di autocontrollo per non mettersi a fare qualche cosa di insano.

Il dottore ignorò quel siparietto e proseguì imperterrito con il suo monologo.

«Ho cercato di illudermi di star facendo tutto questo solo per aiutare Edith Mayer, per salvarla dalle sue sofferenze…» Il vecchio ridacchiò, schifato da se stesso. «La verità, pura e semplice, era che stavo cercando di capire, di comprendere ciò che avevo visto con questi stessi occhi e ascoltato con queste orecchie… e qualsiasi cosa sarebbe andata bene pur di prolungare per più tempo possibile il fenomeno, per osservarlo di nuovo, per raccogliere i dati necessari a studiarlo e a spiegarlo…»

Lo psichiatra deglutì a fatica e il suo petto sussultò.

«Avevo bisogno di Marta Bonofede o, meglio, della sua reincarnazione», riconobbe. «Non per Edith… non per aiutare quello spirito che, in un giorno lontanissimo, aveva chiesto il mio aiuto. No. Non poteva importarmene di meno… avevo necessità di ritrovare Marta solo perché così avrei potuto incontrare ancora Edith, e comprendere ciò che si trova oltre il velo… nell’ipervelo. Ho agito in nome della scienza. Dovevo dimostrare al mondo intero che il dottor Joseph Bernasconi era riuscito a giungere là dove uomini dai nomi ben più altisonanti del suo non avevano mai nemmeno voluto guardare per sbaglio.» Alzò la mano ischeletrita e contorta dall’artrite e indicò Sophia. «E questa creatura, pur sapendo a che cosa mirassi, pur conscia di che razza di individuo fossi realmente, ha accettato di aiutarmi, e non ha smesso di farlo per tutti questi anni, rendendosi mia complice nella follia…» Fece una breve risata. «E dire che, mentre mi ostinavo a cercare di studiare Edith, avrei potuto fare un mucchio di esperimenti su di lei, che è al di fuori del tempo e di qualsiasi comprensione umana…»

«Avresti scoperto più di quanto la tua mente sarebbe stata in grado di accettare, lo sai», gli rammentò Sophia, con tono dolce.

Daniele cercò di dire qualcosa. Non riusciva a credere a ciò che stava ascoltando. Aprì la bocca un paio di volte, prima di riuscire ad articolare qualche parola.

«Vale… la mia amica…» balbettò. «Sono dieci anni che soffre… che non vive più… e ora è chiusa in quella casa con un fantasma che vuole farle chissà cosa… tutto per il vostro dannato esperimento!»

Bernasconi fece un ghigno in cui rilucé qualcosa di satanico.

«Si dice, a torto, che il sonno della ragione generi mostri», sibilò. «Per come la vedo oggi, è soprattutto la troppa ragione a farlo… i mostri non nascono nel sonno… i mostri nascono quando ci scordiamo di dormire… e, soprattutto, di sognare… noi, piccoli uomini convinti di essere gli unici portatori di una verità universale, siamo noi i veri mostri, scatenati contro noi stessi… ora lo so. Anche se è tardissimo, lo so.»

Sophia lasciò andare una risatina. Una risata del tutto priva di felicità. Era colma di scherno, invece. Scherno per se stessa e per l’uomo che le era stato accanto per oltre settant’anni.

«Quella povera ragazza ha sofferto per il nostro esperimento, sì», mormorò. «E la cosa ridicola è che noi lo stiamo scoprendo solo adesso, alla fine… il dottore, qui, voleva scoprire la verità, e io con lui, perché il mio dono è anche una dannazione, quella di non comprendere fino in fondo. Ma non ci siamo riusciti. L’esperimento è continuato senza che noi lo osservassimo. E non potremo conoscerne i risultati, perché ormai è alla sua fine…»

«Non è la fine!» urlò Daniele.

Si divincolò dalla presa del sottotenente Bresciani, liberandosi. Mosse un passo verso la donna, che lo guardò imperturbabile. Aurora, questa volta, non provò nemmeno a trattenerlo. Manfredi e Orso lo fissarono con crescente nervosismo, certi che sarebbe capitato qualcosa di irreparabile da un momento all’altro. Nemmeno loro, però, fecero alcunché per bloccarlo.

«Non è la fine, mi hai capito, zoccola che non sei altro?!» urlò ancora il ragazzo. Tremava dalla testa ai piedi. «Se tu ti ostini a non voler aiutare la mia amica, lo farò io, da solo!»

Senza attendere una risposta, si lanciò come un razzo verso la porta del salotto e corse fuori dalla stanza.

Alberto e Aurora si scambiarono un rapidissimo cenno d’intesa. Lei si affrettò a seguire Daniele. Il tenente, invece, si volse di nuovo a Sophia.

«Davvero volete restarvene qui, senza muovere un dito, mentre una povera ragazza è vittima di qualcosa che non ha chiesto e che non dipende da lei?» domandò.

La donna fece un altro sospiro.

«Non so che cosa potrei fare», sussurrò. «Io ho sempre comunicato con il mondo oltre il velo, ho sempre tentato di comprenderlo e interpretarlo… ma, interferire con esso, non è nelle mie capacità. Io vengo da esso, ne sono certa, ma non ho potere di fare alcunché. Va oltre i miei limiti.»

Orso la guardò con ostilità.

«Stronzate!» rugliò. «Se quel mondo può interferire con il nostro fino al punto da sbattere qualcuno fuori dalla finestra, deve essere possibile anche il contrario! O, almeno, ci si può provare, invece che restarsene qui seduti a fare la muffa! Oppure, sul serio volete soltanto aspettare il risultato del vostro esperimento, lasciando che succeda quel che deve succedere e disinteressandovi dell’esistenza di una ragazza che non ha vissuto quasi nulla, al contrario di voi due, che state insudiciando l’aria che respirate da fin troppo tempo?!»

Bernasconi alzò lo sguardo e incontrò quello di Sophia. Negli occhi di entrambi c’era la consapevole vergogna di ciò che avevano fatto.

«Sentitemi bene», disse Manfredi. «Quello che avete commesso è un crimine. Un vero e proprio crimine. Uno dei peggiori in cui mi sia mai imbattuto. È meglio uccidere qualcuno, a questo punto, piuttosto che farlo vivere sospeso in un limbo da cui non può fuggire. Dubito che sia perseguibile, perché non c’è una legge che vieti di evocare fantasmi o altre cose del genere, ma…» Si morse il labbro per reprimere la rabbia che si stava impadronendo di lui. «…ma io vi giuro che, se esiste anche solo un modo per sbattervi tutti e due in galera e buttare via la chiave, allora lo farò. Metterò a soqquadro le vostre vite schifose fino a trovare il più piccolo pretesto per sbattervi dentro, lo giuro.»

Madame Sophia si alzò. Lo fece con mosse eleganti, che misero in evidenza tutta la bellezza del suo corpo privo di tempo. Il suo sguardo nero divenne penetrante come una lama sottile e affilata. Una consapevolezza nuova passò sul suo volto.

«Potrà fare tutto quello che desidera, tenente Manfredi», disse, con voce profonda. «Se vorrà arrestarci, se deciderà di giustiziarci… quello che vorrà. Ma a suo tempo. Prima verrò con voi a Villa Mayer e, se potrò, salverò quella povera giovane da ciò di cui io e Joseph siamo gli unici responsabili.»

Detto questo, si avvicinò a una credenza e recuperò uno scialle. Se lo drappeggiò per bene attorno alle spalle e, con passo lievemente ancheggiante, uscì dalla porta. Prima di seguirla, Alberto si girò a guardare Bernasconi.

«Lei, dottore, non creda di cavarsela tanto facilmente», disse. «Quando saremo di ritorno, ci saranno dei provvedimenti molto seri, per quello che ha fatto.»

Il vecchio psichiatra fece un cenno stanco.

«Sono pronto a pagare tutte le conseguenze delle mie azioni», garantì.

«Sarà…» borbottò Alberto. Guardò Orso. «Tu resta qui con lui. Assicurati che non provi a fuggire.»

Orso annuì, mentre Bernasconi si lasciò sfuggire una risata roca. Diede una manata al suo deambulatore. Le sue vecchie giunture scricchiolarono in modo lugubre.

«Tranquilli, signori, dubito che vi obbligherò a un folle inseguimento nella notte», brontolò.

 

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Capitolo 25
*** 24. ***


24.

 

 

«Per sempre…» sussurrò Marta.

E quella promessa rimase ad aleggiare sopra di loro, mentre le labbra della giovane, dopo aver vagato su ogni centimetro di carne, si avvicinavano al bocciolo più delicato di Edith e la sua lingua cominciava a muovervisi sopra, attorno, dentro, infondendole piacere. Un piacere fondo e avvolgente, che crebbe con l’intensità della luce calda e dorata di un pomeriggio di primavera.

Il corpo di Edith ebbe un palpito. Il suo ventre si alzò e si abbassò rapido, mentre la pelle bianchissima cominciava a tingersi di rosso. Rizzò tutti i muscoli, poi li rilassò. I nervi tesi vibrarono. Il calore – un calore differente da quello del giorno d’estate – l’avvinghiò completamente. Il suo respiro si fece più veloce, lievi gemiti le sfuggirono dalla bocca socchiusa.

Serrò gli occhi. La sua mano protesa accarezzò i capelli di Marta. L’altra si immerse nell’erba e nei fiori, li strinse fino alle radici, affondando nella terra.

Il profumo della sua amante si mischiò a quello delle essenze arboree e del terriccio. L’aria tiepida della bella stagione si sommò ai delicati effluvi di sudore del suo corpo affannato dall’amore. Il ronzare degli insetti divenne un tutt’uno con i suoi respiri profondi e con il liquido suono che produceva la morbida lingua di Marta muovendosi dentro di lei.

Edith sentì le mani della sua amata accarezzarle le cosce, stringerle, palparle. Brividi si aggiunsero ai brividi, il piacere esplose a ondate dentro di lei, scuotendola tutta. Non riuscì a trattenere un breve ma acuto gridolino. Marta non si fermò, continuando a regalarle quelle sensazioni impagabili e irripetibili.

Ora Edith ne fu certa. Non si trovavano più in un luogo del mondo, da qualche parte sul pianeta fisico. Avevano varcato le dimensioni del tempo e dello spazio ed erano scivolate in Paradiso.

Forse era quello il mondo iperuranico tanto cantato dai poeti e celebrato dai filosofi, a cui anelavano i fedeli di mille religioni e a cui tendeva la maggioranza degli esseri umani. Non un mondo fatto di nuvole, non un luogo dove si innalzassero lodi eterne a un’entità astratta e maledetta, un essere malvagio e capriccioso, né un posto di santi, di angeli e di gente noiosa e priva della più minuta capacità di concepire il divertimento, l’amore e la dolcezza.

Il vero Paradiso – perduto e ritrovato – era questo, dove in eterno si sarebbe stati insieme alla persona che si amava, facendo insieme e liberamente ciò che gente maligna avrebbe voluto impedire, dove non ci sarebbero più state persone incapaci di provare quel profondo, inesplicabile e indistruttibile sentimento che va sotto il nome di amore…

Il piacere più intimo esplose ancora una volta dentro Edith. Si propagò nel suo insieme, e lei fu certa che venisse da Marta: emanava da lei e vibrava dentro ogni suo nervo, fin nel più inaccessibile dei suoi muscoli… di nuovo, gemette.

Gemette, godendo ogni stilla di quella sensazione piacevole, avvolgente, appagante.

Ma insieme al piacere venne il pensiero ripugnante di chi a quelle sensazioni e a quell’amore si era opposto, venne il ricordo maligno di colui che lo aveva contrastato e distrutto, l’immagine dell’abominevole essere – il mostro – che aveva spento la vita delle due amanti…

Caina attende chi a vita ci spense…

E la brezza tiepida scomparve, sostituita da un odore umido, freddo. L’erba sotto il corpo di Edith fu sostituita da un pavimento gelido e polveroso, che ferì la sua pelle nuda, facendola accapponare. La calda luce del sole, che aveva acceso di rosso le sue palpebre abbassate, divenne un nero impenetrabile, ghiacciato. Quando le sollevò, non vide più nulla.

Nuda e inerme, Edith si scoprì sola, rannicchiata su se stessa.

Il pianto le sgorgò dagli occhi, inondandole il viso. Rabbrividì e tremò. Si strinse le braccia al petto, cercando un poco di calore. Del tutto inutilmente. Così come era svanita Marta, era svanito anche il caldo. Ora c’era freddo.

Tanto freddo.

«Marta…» chiamò, tra le lacrime.

Un’ombra venne avanti. Un’ombra incombente, minacciosa.

L’ombra maligna.

Il Male nella sua forma più assoluta e raccapricciante.

«Sono molto deluso, Edith…» disse il mostro. «Ora che cosa dirà la gente?! Sei la mia vergogna! Ma io porrò rimedio a tutto questo!»

 

* * *

 

Alberto seguì Sophia all’esterno dell’abitazione. Ancora una volta, la sferzata di gelida umidità gli penetrò nelle ossa, facendolo rabbrividire.

Figa, che razza di freddo. Le prossime vacanze andiamo a farle per davvero in un posto caldo. Tipo in Egitto.

Oltretutto, in un luogo del genere, non ci sarebbero stati fantasmi e altri simili orrori. Ne era più che certo.

Si guardò attorno. Nella nebbia, riconobbe la sagoma della donna. Si stava dando da fare con la serratura di un ampio portone a doppio battente, a volta curva. La raggiunse. Il legno del portale, bagnato di bruma, era nero come un abisso. Doveva essere parecchio antico, come tutto in quel borghetto.

«Che stiamo facendo?» domandò, guardingo.

Sophia spinse i due battenti, rivelando una rimessa. L’odore dell’umidità venne smorzato da quello ferroso degli attrezzi, dell’olio, della benzina. Nel centro del garage, era parcheggiato uno degli ultimi modelli di Fiat 500, color topo. Lungo le pareti, erano allineati scaffali ingombri di robaccia. Una porticina socchiusa immetteva in quella che sembrava essere una legnaia.

«Prendiamo la macchina», rispose la donna. «Alla mia età, tenente, non si ha tanta voglia di andarsene in giro di notte per le montagne a piedi, con questo freddo… e poi questa auto, anche se a vederla non sembrerebbe, è piuttosto veloce: arriveremo a Villa Mayer in un battibaleno.»

Alberto fissò la donna, di cui era praticamente impossibile stabilire un’età. A giudicare dall’aspetto esteriore, non poteva certo dimostrare più di trenta o trentacinque anni. Ma nei suoi occhi c’era qualcosa che andava ben oltre una possibilità di comprensione. Decise di non fare commenti.

Lei gli indicò la portiera dalla parte del passeggero. Manfredi salì e si strinse le mani gelide tra le gambe. Un leggero campanellino elettronico cessò di suonare quando entrambe le portiere furono chiuse.

«Bella macchinina», commentò il tenente, guardandosi attorno. Fissò il cruscotto, pieno di tasti e con un piccolo schermo digitale sopra la radio. Era molto diverso da come si presentava quello della sua Punto che pure, a suo tempo, doveva essere sembrato rivoluzionario e all’avanguardia, se paragonato a quelli spartani delle macchine degli anni ‘90. «Piccolina ma funzionale. Magari ci farò un pensierino pure io, quando mi deciderò a cambiare la mia.»

«L’abbiamo presa usata», rivelò la donna, posando una mano sul volante e girando il motorino d’avviamento. «Nuove, ormai, le fanno solo elettriche o ibride. Ma Joseph ha sempre avuto auto a benzina e voleva che anche l’ultima fosse a benzina.» Fece un sorrisetto. «E ha sempre avuto Fiat 500, pensi. La prima volta che sono salita in macchina con lui, poco dopo la fine dell’ultima guerra, aveva una Topolino grigio topo. È sempre riuscito anche ad avere lo stesso colore. La sua è una specie di fissazione.»

Nella sua voce, adesso, c’era una punta di rimpianto, forse di nostalgia. Venne soffocata dal motore che tossì e cominciò a fare le bizze, rifiutandosi di mettersi in moto. Sophia girò di nuovo la chiave e, questa volta, il motore si accese. Dalle bocchette del radiatore cominciò a uscire aria freddissima. I loro fiati si condensarono in nuvolette vaporose.

«Ci vorrà qualche minuto, prima che si scaldi…» sussurrò lei.

«Non possiamo andare lo stesso?» domandò Manfredi. Cominciava a essere preoccupato per Aurora. Non voleva che, rincorrendo Daniele, tornasse di nuovo a Villa Mayer, senza di loro. Era talmente preoccupato, anzi, da non badare nemmeno al fatto che la donna che gli sedeva a fianco avesse appena asserito di essere andata in macchina con il dottor Bernasconi qualcosa come settanta o più anni prima.

«Non c’è fretta, tenente Manfredi», replicò la donna, imperturbabile. «Edith Mayer ha atteso finora, può concederci ancora qualche minuto.»

Un ghigno amaro deformò le labbra di Alberto.

«Non è tanto di Edith, che mi preoccupo, signora, quanto dell’altra ragazza…»

E di Aurora. Questo però non lo disse.

«Probabilmente lei ha ragione e io ho torto», rispose Sophia.

Schiacciò la frizione, inserì la marcia e uscirono in retro dal garage. Inserita la prima, la donna fece una rapida manovra nella stretta stradina e si avviò a passo d’uomo. Era del tutto impossibile vedere al di là di un metro, oltre il parabrezza. Sembrava di stare immersi in un bicchiere di latte. Il motore, umido e freddo, tossì, mandò dei colpi a vuoto e sobbalzò.

«La macchina che avevamo prima – la vecchia Cinquecento che Joseph chiamava “Topo” – non faceva mai nessuna storia, quando c’era da andare. Quella sì, che era più veloce dei sogni. Questa invece è una signorina di città a cui piace fare la preziosa», commentò Sophia, infilandosi in un vicoletto. Accese i fendinebbia, senza ottenere grandi risultati apprezzabili. Lo spesso e impenetrabile muro di nebbia continuò a mantenersi tale.

Alberto non le badò. Non era granché interessato alla dinastia automobilistica di quella strana coppia. Tenne gli occhi fissi a quel poco che si riusciva a scorgere della strada. Cominciava a essere davvero preoccupato.

Molto preoccupato.

Dove saranno?

Calcolò da quanto tempo Aurora e Daniele avessero lasciato la casa del dottor Bernasconi. Non potevano essere trascorsi più di cinque o dieci minuti. Anche se il ragazzo era partito di corsa, era impossibile che fossero già arrivati alla villa. Nondimeno, non poté impedirsi di scoprirsi a sudare freddo.

«Stia calmo, tenente», sussurrò Sophia, posandogli la mano sul ginocchio sinistro e stringendoglielo adagio. Alberto si sentì attraversare da un leggero brivido. Qualcosa di tutto sommato piacevole. «Andrà tutto bene.»

«Una delle frasi più abusate della storia», replicò lui, secco.

«Non in questo caso», lo rassicurò la donna. «Nessuno ha da temere nulla, da Edith… nessuno tranne suo padre. Colui che la uccise.»

«Quel tizio sarà sceso a tenere compagnia a quel vecchio caprone di Satana da un bel pezzo», mugugnò Alberto.

«Non ne sia tanto sicuro, tenente.»

Manfredi non aggiunse niente. Aveva imparato da un bel pezzo a non essere più sicuro di nulla. Ora gli premeva soltanto trovare la sua amica. Al resto avrebbero pensato dopo.

La strada si srotolava davanti a loro, in un susseguirsi di curve e di strettoie in pendenza che apparivano dal nulla della bruma. Dove non c’erano vecchie case, erano grandi pietroni coperti di muschio a fare da contorno alla via. Poi, quasi per incanto, mentre affrontavano la salita, i macigni cedettero il posto agli alberi oscuri e alle erbe selvatiche, appena intuibili in quella vaporosa sospensione della realtà.

Finalmente, dalla nebbia uscì un guizzo rosso. I capelli di Aurora fiammeggiarono quando i fanali della macchina li illuminarono.

Non sono mai stato contento di rivedere quel culo, pensò Alberto, fissando il punto in questione.

Aurora, che stava camminando in fretta a lato della strada, si voltò e gli gettò un’occhiata al vetriolo attraverso il vetro appannato.

Cazzo. Anche a distanza, adesso!

Manfredi si affrettò a distogliere lo sguardo. Sophia frenò.

«Forza, sali», disse Alberto, aprendo la portiera. Nebbia e gas di scarico gli infastidirono le narici. «Dov’è Daniele?»

Aurora aveva uno sguardo imbronciato.

«Mi è sfuggito. C’era del ghiaccio sul selciato e sono scivolata di nuovo. Ora che mi sono rialzata, era già sparito. E questa è la terza volta in un’ora, che picchio il culo.»

Alberto riuscì a sogghignare.

«Di questo passo, invece che piedipiatti, ti chiamerò culopiatto.»

Il sogghigno gli morì sulle labbra quando incontrò gli occhi di Aurora. Vi lesse un presagio di morte. Meglio cambiare argomento.

«Diamoci una mossa», borbottò.

Scese e ribaltò il sedile per sedersi su quello posteriore. Aurora occupò il suo posto su quello del passeggero. Prima ancora che avesse richiuso la portiera, Sophia pigiò di nuovo l’acceleratore e ripartirono.

«Non preoccupatevi», disse, con la sua voce calda, in netto contrasto con il gelo di quella notte misteriosa. «Non può essere lontano. Lo troveremo prima di arrivare a Villa Mayer.»

Aurora afferrò una ciocca di capelli, che l’umidità della nebbia aveva increspato, e la lisciò muovendo le dita in modo nervoso.

«Di preciso, una volta laggiù, che cosa faremo?»

Alberto si sporse in avanti. Anche lui era curioso di scoprirlo.

Sophia fece un profondo sospiro. Tenne lo sguardo dritto davanti a sé e lasciò trascorrere una manciata di secondi, prima di dare una risposta.

«Sono una medium, lo sono stata da sempre, anche se mi ci sono voluti anni per scoprire di possedere questo dono…» rivelò, «…e il modo di padroneggiarlo al meglio. All’inizio ne avevo paura, poi ho scoperto che le anime non potevano farmi del male. Quasi mai, almeno. Qualcuna di queste si manifesta in modo molto più potente e invadente, e avere a che fare con loro diventa difficile e doloroso. Ma sì, avete capito bene. Posso mettermi in comunicazione con le anime sospese tra questa realtà e l’altra, e qualche volta posso interagire debolmente con loro. Ma più di così non ho mai fatto.»

Un altro sospiro le sollevò e abbassò in fretta il petto florido.

«Edith è uno degli spiriti più forti che mi sia mai capitato di incontrare», disse, sottovoce. «Quando mi sono messa in comunicazione con lei, tanti anni fa, mi ha fatto male. Si è impadronita del mio corpo, e non è stata una bella esperienza. Quella volta ho davvero sofferto.»

Alberto sollevò un sopracciglio. Fu Aurora a parlare a nome di tutti e due.

«Ma pure sapendo questo, lei e il dottore avete fatto in modo di…»

«Sì», la interruppe Sophia. Affrontò uno stretto tornante e proseguì lungo la salita successiva. «Sì, lo sapevamo. Sapevamo che avere a che fare con Edith sarebbe stata un’esperienza terribile. Lo era stata per me, che ero pronta… figurarsi cosa sarebbe potuta essere, per chi non aveva alcuna dimestichezza con il mondo al di là.» Le sue labbra si schiusero in un sorrisetto amaro. «E però, non ci siamo lasciati fermare.»

Alberto si sfregò il mento.

«Lasciando perdere quello che è stato, adesso crede che basterà potersi mettere in contatto con lei?» domandò.

La donna fece un cenno di diniego.

«No», ammise. «Edith non si limiterà a darmi retta, non adesso che ha ritrovato il suo amore. Dovrò escogitare qualcosa.»

Aurora la fissò attraverso l’abitacolo scuro, a malapena rischiarato dalle spie colorate accese sul cruscotto.

«Per esempio cosa?» chiese.

Stavolta, il sorriso di Sophia fu quasi divertito.

«Non ne ho la più pallida idea. Io e Joseph abbiamo aspettato tanto a lungo che arrivasse questo momento, ma non ci siamo mai preparati per davvero ad affrontarlo. Forse, dentro di noi, speravamo che non sarebbe mai arrivato. Ho avuto settantacinque anni a mia disposizione per escogitare un piano, e ora mi tocca improvvisare tutto in pochi minuti. Ma qualcosa riuscirò a fare, vedrete. Conosco formule, segreti, ho avuto accesso a conoscenze che potrebbero permettermi di… be’, vedremo lì. Qualcosa combinerò. Quel tanto che sarà sufficiente a distrarre Edith, per permettervi di prendere la ragazza e portarla via di lì. Sperando che basti.»

Manfredi non disse nulla. Non osava farlo. Di nuovo, fu Aurora a prendere l’iniziativa a nome di tutti e due.

«Funzionerà?» chiese, in un sussurro appena percettibile.

Sophia parlò con un soffio ancora più arduo da intendere.

«Non lo so. Ma lo scopriremo tra pochissimo.»

Frenò. Davanti a loro, sempre avvolta nella nebbia, apparve la Ford KA. La stradina che conduceva a Villa Mayer era appena oltre.

Erano di nuovo lì.

 

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Capitolo 26
*** 25. ***


25.

 

 

«Dovrei buttarla dalla finestra, e sarebbe ancora troppo poco, per uno come lei.»

Il dottor Bernasconi, che stava fissando le braci morenti rosseggiare sul fondo del caminetto, sollevò lo sguardo su Orso.

«E lei rischierebbe di andare in galera per uno come me?» domandò, sinceramente curioso. «Crede che ne varrebbe la pena, a conti fatti?»

Orso era seduto al tavolo della sala. Fece spallucce.

«In galera, al giorno d’oggi, non ci va più nessuno. Ci sarebbe la fila di criminali in attesa, davanti a me. E poi mi basterebbe dire che lei ha cercato di fuggire, che mi ha aggredito – magari cercando di uccidermi, giusto per aumentare un po’ la suspense – e che nella lotta ha avuto la peggio, è inciampato finendo contro il vetro della finestra e ha fatto un bel capitombolo.»

«Interessante», ammise il dottore. «Però, dobbiamo prendere atto che, come trama, non è tutto questo granché. Lei ha fatto di meglio, di molto meglio. In altre occasioni, come minimo, avrebbe detto che un mostro pieno di tentacoli è sbucato dalla cappa del camino, ghermendomi e facendomi a pezzi. Oppure che io stesso, dopo essermi tramutato in mostro, avrei ingaggiato con lei una lotta all’ultimo sangue, uscendone poi sconfitto all’ultimo istante.»

Orso evitò il suo sguardo. Tirò su con il naso.

«Ora non mi venga a dire che ha letto i miei racconti», mugugnò. «Non sarà certo questo a salvarla, sa?»

«Se vuole così, non glielo dico», concesse il vecchio psichiatra. Fece un cenno con il capo. «Ma, prima che lei metta in atto i suoi propositi omicidi, lasci che le dica questo: quando ho lavorato in una clinica per malattie mentali, in gioventù, ho visto un gran numero di assassini perseguitati dai fantasmi delle loro vittime. Uno di questi era il padre di Edith. La maggior parte di loro, questi fantasmi, se li creava nella propria mente. Erano sconvolti da ciò che avevano fatto; era come se, uccidendo, strappando l’anima di un’altra persona al corpo di cui era ospite in quel momento, avessero spezzato qualcosa dentro di sé. Non riuscivano a darsi pace, e così impazzivano senza possibilità di guarigione. Per altri la faccenda era un po’ differente, e in quei casi i fantasmi, be’… lo riconosco, ho fatto molta fatica e c’è voluto del tempo, ma alla fine l’ho accettato: quei fantasmi erano reali. Non so cosa fossero davvero: ricordi, residui di anime, emozioni condensate, proiezioni, chissà. So solo che erano reali, così come siamo reali io e lei in questo momento.»

Il dottore fece una breve pausa, tornando a fissare per un istante le braci, che la cenere stava rendendo biancastre. Guardò di nuovo l’uomo seduto al suo tavolo, che fissava in silenzio la superficie del mobile.

«Lei non vuole essere perseguitato per il resto dei suoi giorni dal mio spettro, dico bene?»

«Dubito che accadrebbe», replicò Orso. Eppure, non sembrò tanto convinto delle sue parole.

«E poi», proseguì il dottore, imperturbabile, «quale sarebbe la differenza, tra il buttarmi dalla finestra e lasciarmi stare così come sono? Mi guardi. Sono inchiodato qui, con entrambi i piedi nella fossa, ormai. Non ne ho per molto, a questo punto. Sono vecchio, molto vecchio, se lei non se ne è accorto. Sono il residuo di un’epoca finita, e mi trovo a respirare in un tempo che non è più il mio, di cui non capisco nulla. Cosa ci guadagnerebbe, a farmi fuori?»

Orso fece un sorriso amaro.

«La differenza sarebbe darle la fine che merita, quella di uno scarto buttato via, anziché concederle di morirsene tranquillo nel suo letto», obiettò.

Bernasconi accolse quelle parole con la medesima ieratica imperturbabilità con cui avrebbe ascoltato un’ipotesi di laboratorio espressa da un collega.

«E dica: secondo lei, deteriorarsi poco a poco fino a morire nel proprio letto, circondati dagli affetti di persone che si disperano vedendoci andarcene e che, con le loro lacrime a stento trattenute, non fanno che renderci ancora più triste e angoscioso il momento del trapasso, è una bella morte?»

Orso fu colto alla sprovvista da quella domanda. Sopratutto, perché possedeva la risposta.

«Non ho nessuna intenzione di finire decrepito come lei», grugnì. Continuò a evitare lo sguardo del medico, come se ne fosse infastidito. «E di sicuro non voglio necrologi da esporre dappertutto per mettermi al pubblico ludibrio o alla comune commiserazione di cui non saprei che farmene, né camere ardenti piene di fiori che mi farebbero solo venire il raffreddore – anche perché non ho mai sopportato quell’odore di fiori recisi che riempie i negozi dei fiorai e i cimiteri – e neppure visite di parenti che non ho mai visto in vita mia, e tantomeno gente che manipoli il mio corpo o sciocchi funerali con sacerdoti dal fiato pestilenziale che blaterano a vanvera di inutili resurrezioni, di petulanti e capricciose divinità in cui non credo affatto e di altri bla bla bla senza significato, e nemmeno la terra di un cimitero, che per alcuni è consacrata e che per me, invece, non è altro che un insieme di sostanze organiche decomposte, come in qualsiasi altro terreno del mondo… quando sentirò che sarà il momento giusto, prenderò due o tre bottiglioni di roba buona, me ne andrò nel bosco da solo e addio. Saluterò tutto e tutti respirando la natura, tra un sorso e l’altro. Poco a poco diventerò terriccio, da cui germoglieranno alberi e nuova vita. E di quello che accadrà alla mia anima, lo scoprirò in quel momento: di certo, non andrò all’Inferno solo per aver evitato da morto tutta quella robaccia in cui non ho creduto da vivo, anzi. Ma spero proprio di non andare nemmeno in Paradiso – anzi, a dirla come va detta, spero che un postaccio del genere non esista proprio – perché ci sarebbe da morire di noia per l’eternità a starsene lì con vergini e santi a cantare alleluia alleluia in onore di un idiota vanaglorioso con l’aureola in testa, e il solo pensiero che sia così mi fa venire da vomitare. Se proprio me lo domandassero, allora sì che preferirei il piano di sotto, per andare a farmi fare torture speciali da qualche bella diavolessa, magari bionda e con le tette grosse.»

Aveva parlato tutto di fila, senza tirare il fiato, barbugliando proprio come un orsetto brontolone. Ora fece una pausa per respirare. Concluse.

«Quando verrà il momento, nessuno mi troverà mai più.»

Sul volto rugoso di Bernasconi si allargò un sorriso.

«Sarà difficile andare nel bosco, se la condanneranno all’ergastolo per avermi buttato dalla finestra.»

Orso sbuffò.

«Sì, certo, figurarsi se mi danno l’ergastolo per aver fatto secco una vecchia mummia bavosa», brontolò. «Ma, in ogni caso, meglio non rischiare. Non si sa mai, visto e considerato come vanno le cose: magari lasciano in giro la merda e poi in galera ci buttano la brava gente. Crepi come le pare e nei tempi che preferisce, dottore; non sarò certo io a darle una mano a farlo.»

Si alzò.

«Addio, dottore. Io mi tolgo dai coglioni. Ne ho avuto abbastanza, di stare qui in sua compagnia, rinchiuso in questa specie di sepolcreto che puzza di muffa. Spero di non incontrarla mai più in vita mia.» Fece un cenno verso il deambulatore. «Casomai le venisse qualche proposito di fuga, mi auguro di cuore che con tutto quel suo trespolo finisca giù da un burrone. E che, dopo essersi rotto tutte le ossa, patisca una lunga e lenta agonia di dolorosa sofferenza, prima di smetterla di insozzare il mondo con il suo fiato schifoso.»

«Anche per me è stato un piacere incontrarla questa notte, signore», replicò Bernasconi, con il tono di chi si stia divertendo parecchio.

Senza più degnarlo di una sola parola o di uno sguardo, Orso imboccò la porta e se ne andò.

 

* * *

 

Edith si guardò attorno.

Il prato era scomparso. Era di nuovo in quello squallido salone. Lo stesso in cui suo padre l’aveva assassinata, e dove aveva ucciso la sua amata Marta. Quel luogo in cui lei, vendicativa, era uscita dal corpo per perseguitare quel mostro fino a strappargli il senno.

Ora la sala sembrava però una caverna tetra, un oscuro budello ghermito dal ghiaccio, che aveva cristallizzato tutte le cose. Ghiaccio che aveva avvinghiato il pavimento, che si era arrampicato lungo le pareti e che pendeva dal soffitto in aguzze stalattiti. Era il covo oscuro, il luogo abitato dal mostro.

Lo stesso mostro, deforme e spaventoso, che ora incombeva su di lei.

«Sei una vergogna, Edith!» ruggì l’essere. «Tu non sei mia figlia! Sei solo uno scherzo della natura!»

Il mostro mosse un passo verso di lei. Stringeva tra le mani l’attizzatoio acuminato, grondante sangue. Edith serrò gli occhi. Non voleva vedere. Perché lei lo sapeva… quello era il sangue di Marta. Il mostro l’aveva uccisa. Aveva distrutto il suo amore.

Il loro amore.

«Ma io porrò rimedio a tutto questo!» sbraitò il mostro. «Porrò su di te il marchio della vergogna e della lussuria, perché tutti sappiano in quale modo crudele e doloroso vengono puniti gli abomini!»

Sollevò la sua arma, pronto ad affondarla nel corpo indifeso di Edith. Piangendo, la giovane si schiacciò sul pavimento. Era consapevole che la sua schiena nuda stesse offrendo un facilissimo bersaglio all’essere ripugnante che la sovrastava. Ma fuggire era impensabile. Non riusciva a muoversi.

Aveva atteso per tanto tempo… aveva atteso oltre la vita e oltre la morte, al di là dell’esistenza. Aveva aspettato con lenta e inesauribile pazienza che Marta tornasse finalmente da lei, perché il loro amore potesse vivere… perché, ne era sempre stata certa, il loro era un legame destinato ad andare oltre i vincoli del mondo fisico. Lo aveva sempre saputo. Non c’erano stati dubbi riguardo a questo, nella sua mente.

Ma il mostro era tornato. Era riuscito a liberarsi dalla catene infernali e le aveva trovate. Le aveva divise ancora una volta, strappandole al loro Paradiso, quel Paradiso perduto che avevano con fatica e calma ritrovato. Ma era stato solo un flebile barlume, un’illusione di speranza, una piccola e indifesa goccia luminosa nell’oceano della disperazione. Il calore era stato ghermito e vinto dai lacci del gelo. Il male di cui l’essere umano sapeva essere capace era sorto di nuovo, per impedire che l’amore vivesse…

«Edith, te l’ho promesso…» sussurrò la voce di Marta, vicina al suo orecchio. «Sarà per sempre…»

La giovane riaprì di scatto gli occhi. Ebbe un fremito e il cuore le balzò in gola.

Marta era al suo fianco. Non era nuda come lei. Era avvolta nel pesante tabarro nero con cui aveva sfidato e vinto la neve e la tormenta per venire da lei. E i suoi occhi erano accesi di determinazione. La determinazione di un guerriero venuto a sfidare e a vincere contro il mostro.

L’essere mostruoso abbassò l’attizzatoio. Le braccia di Marta si tesero in avanti, le sue dita si strinsero con sicurezza sul metallo e lo bloccarono a mezz’aria. Il mostro ruggì ed emise versi disumani, cercando di opporsi, di liberarsi da quella presa.

Marta non glielo permise.

Con uno strattone, strappò l’attizzatoio dalle mani del mostro. Lo impugnò stretto, come una spada.

I due si fronteggiarono per un istante. Gli occhi nocciola di Marta sfidarono senza alcun timore quelli rossi e bestiali dell’essere indescrivibile. Il respiro di lei, tranquillo e rassicurante, si sovrappose agli sbuffi mefitici e puzzolenti di zolfo di quella specie di orco.

Una smorfia si diffuse sulle labbra di Marta. Una smorfia di rabbia, di dolore… ma anche di soddisfazione. La soddisfazione di star finalmente mettendo la parola fine a quella storia che durava da fin troppo tempo.

«Caina attende chi a vita ci spense!» gridò, scattando in avanti.

Con tutta la potenza e la rabbia che aveva in corpo, Marta spinse l’attizzatoio nel ventre del mostro. Lo squarciò, passandolo da parte a parte. La bestia gridò, cercando di sottrarsi, di mettersi al riparo. Il suo respiro divenne un gorgoglio crescente. Ma la giovane non ebbe alcuna pietà delle sue urla e della sua sofferenza. Ritrasse l’arma e colpì ancora e ancora, lacerando, strappando, squartando.

L’attizzatoio vibrò, come se cercasse di opporsi all’uccisione del suo padrone. Gridando, la ragazza tenne duro. Continuò a sferrare colpi, fino a quando l’arma rimase conficcata nel cuore del mostro e lei, vinta dallo sforzo, dovette lasciarlo andare.

Pallida e tremante, Marta crollò in ginocchio, accanto a Edith. Lei si sollevò e le due amanti si strinsero in un abbraccio, stretto e avvolgente. Il tabarro le coprì entrambe, tenendole al riparo come una soffice e calda coperta.

Con un ultimo ruggito, agitando inutilmente le braccia nel tentativo di liberarsi dal ferro che lo aveva trapassato, l’essere ripugnante barcollò all’indietro. Incespicò nei propri piedi, cominciò a cadere…

«Caina attende chi a vita ci spense!» gridarono Marta e Edith, insieme, con una sola voce.

Il pavimento si aprì sotto i piedi di Mayer. Spire di ghiaccio e braccia di gelida pietra sorsero dal nulla, afferrandolo stretto. Il mostro tentò di divincolarsi, di sottrarsi a quella tortura, ma la presa sul suo corpo era troppo salda perché potesse opporsi. Il freddo dell’Inferno lo ghermì, lo avvolse completamente e lo trascinò con sé nel baratro dell’eterna ghiacciaia della Caina. Le sue urla terrorizzate, cariche di indicibile dolore, echeggiarono nell’oscurità crescente in cui sarebbe rimasto rinchiuso per sempre.

Fu un istante che si dilungò per un tempo che parve infinito, poi il pavimento si richiuse. Il ghiaccio che aveva congestionato la sala si dissolse, la luce del tardo mattino invernale tornò a incunearsi attraverso la vetrata. Nel caminetto, il fuoco riprese a scoppiettare, spargendo un morbido profumo resinato per tutta la stanza.

Le due giovani restarono strette l’una all’altra. Mille sensazioni le attraversarono. Ma furono tutte sensazioni positive. La felicità esplose nei loro petti, scaldandole come un fuoco buono e dolce. I loro cuori, appoggiati l’uno all’altro, batterono all’unisono, vivi come non erano più stati da tantissimo tempo.

Si lasciarono andare per quel poco che servì a guardarsi negli occhi.

«Marta…» sussurrò Edith, sorridendo.

«Edith», mormorò lei. «Grazie per avermi aspettata… ora è il momento per stare insieme… per sempre…»

 

* * *

 

Camminando a passo sostenuto, Alberto, Aurora e Sophia percorsero il sentiero in mezzo al bosco. Presto, la cancellata di Villa Mayer comparve davanti ai loro occhi, aguzza nella nebbia.

Daniele era lì, appoggiato al cancello. Ansimava forte e tremava.

«Ehi…» lo chiamò Aurora, raggiungendolo.

Lui si volse a guardarli. Era pallido, molto più di quanto non fosse normalmente. I suoi occhi erano pieni di lacrime amare.

«I-io non ce la f-faccio…» balbettò. La sua voce era impastata di paura. «M-ma non p-posso a-abbandonare Valeria…»

Cercò di muovere un passo, staccandosi dal cancello. Barcollò e rischiò di cadere. I due carabinieri si affrettarono ad affiancarlo e lo sorressero.

«Non l’abbandoniamo», promise Aurora, parlando con voce piena di calore. «Anche noi abbiamo paura, eh… ma tutti e quattro insieme possiamo farcela.»

«Tireremo fuori dai guai la tua amica», soggiunse Alberto. «Non preoccuparti per lei. Presto sarà con te e sarete entrambi al sicuro, e sistemeremo quel brutto fantasmaccio come merita.» Si girò a cercare lo sguardo di Sophia. «Giusto?»

La donna non disse nulla. Aveva gli occhi puntati in direzione della grande villa, che si intuiva a malapena nel grigiore della nebbia. Sul suo volto si stava susseguendo una serie indescrivibile di emozioni differenti e contrastanti.

«Giusto?» disse ancora Manfredi, a voce un poco più alta, tentando di richiamare la sua attenzione.

Gli occhi nerissimi di Sophia restarono puntati ancora per un lungo istante verso Villa Mayer. Poi, li piantò sui tre che aveva davanti e che aspettavano qualcosa – qualsiasi cosa – da parte sua.

«Il mostro è morto», sussurrò. «Caina se l’è preso. Edith e Marta sono libere.» Un sussurro roco, che si perse nel silenzio ovattato della nebbia. «Il loro amore adesso può vivere…»

Alberto e Aurora si scambiarono uno sguardo irrequieto. In mezzo a loro, Daniele vibrò con violenza.

«Che significa?!» esplose il ragazzo. «Chi cazzo se ne frega, di Edith e Marta! A me importa di Vale!»

Uno strano sorriso si dipinse sulle labbra della donna.

«Ma non riesci a capire?» chiese. «Non ti rendi conto che la tua amica Valeria è Marta e allo stesso tempo è Edith? E ora loro sono insieme e…»

Daniele fece per dire qualcosa. Manfredi la precedette.

«Basta con queste cazzate!» quasi gridò il tenente. «Siamo venuti qui per aiutare quella ragazza, non per altro! Quindi ora sbrighiamoci ad andare a toglierla dai guai, senza perdere altro tempo in chiacchiere!»

Avrebbe voluto aggiungere “prima che sia troppo tardi”, ma si trattenne appena in tempo. Sentiva Daniele già abbastanza agitato e preoccupato, non gli sembrò affatto il caso di mettergli addosso ulteriori motivi d’ansia. Come al solito, fu come se Aurora gli avesse letto nel pensiero. Lo guardò e fece un lieve cenno d’assenso.

Sophia esitò.

«Io non so se avrò la forza di…» si interruppe, incapace di dare una vera forma ai pensieri che le stavano attraversando la testa.

«Scusate un attimo», sibilò Aurora.

Si staccò dai due giovani uomini e, a passo lento e ancheggiante, si avvicinò alla donna. Lo fece con movimenti sinuosi, come quelli di una serpe che cerchi di irretire la preda prima di attaccarla con un morso velenoso.

Ahia, pensò Manfredi.

Non si sarebbe voluto trovare nei panni di Sophia, in quel momento.

La mano di Aurora scattò e si richiuse con precisione sulla sommità della testa di Sophia. Tenendola stretta, la costrinse a piegarsi verso di sé. La donna cercò di sottrarsi, gemendo con dolore, ma il sottotenente strinse più forte, tenendola salda. Avvicinò il viso al suo, in modo da poterle parlare nell’orecchio.

«Stammi a sentire», soffiò. «Stammi bene a sentire. Là dentro c’è una ragazzina in pericolo a causa di quello che avete fatto tu e quel rottame di uno psichiatra da due soldi. Non hai il diritto di chiederti se avrai o meno la forza di fare qualcosa, dal momento che non te lo sei domandata quando avresti dovuto farlo per davvero. Ora devi sistemare le cose, in un modo o nell’altro. Altrimenti, sarò implacabile, te lo assicuro. E non ti immagini nemmeno che cosa potrei farti, quali patimenti sarei capace di affliggerti… e non pensare che il fatto che tu sia una donna, o che sia vecchia, o qualsiasi altra scusante che ti salti in mente, possa in qualche modo salvarti da me.»

C’era qualcosa di davvero minaccioso, nel tono sottile della giovane. Qualcosa che non sfuggì alle orecchie di Sophia. Per la prima volta nel corso della sua vita innaturalmente lunga, quella medium che era stata capace di parlare con i fantasmi e di guardare oltre il velo, provò un moto di paura.

Di paura profonda, che la ghermì fin nelle interiora.

«Mi hai capito?» sussurrò Aurora, tagliente.

Sophia rabbrividì. Tentò di articolare qualche parola, ma dalle labbra le uscì solo un suono indistinto.

Il sottotenente tirò più forte i capelli della donna, costringendola a piegarsi ancora di più. Con l’altra mano, le trovò il polso e glielo torse, stando attenta a farle davvero male.

«Mi hai capito?» ripeté.

«Io ho capito», gemette Sophia, che stava cominciando a essere attraversata da tremiti dolorosi.

Aurora la lasciò andare all’improvviso.

«Era solo questione di intenderci», trillò, ilare. «Nessun risentimento, vero?»

Sophia ansimò e si massaggiò il polso dolorante. Poi passò al collo, che doveva pulsarle parecchio. Tuttavia, fu capace di sorridere.

«Nessun risentimento», rispose. La sua voce era leggermente più roca di prima.

Guardò di nuovo Villa Mayer.

«Andiamo?»

Senza attendere risposta, si avviò, a passo veloce e deciso. Oltrepassò il cancello e cominciò a risalire il lieve pendio dell’antico parco, spettrale nella nebbia.

Gli altri tre la seguirono subito.

 

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Capitolo 27
*** 26. ***


26.

 

 

«…insieme…» ripeté Edith. Nella sua voce rifluì una nota di incredulità, che fu subito spazzata via. «…per sempre…»

«Sì, amore mio, ora nessuno potrà più dividerci…» disse Marta.

Si tennero strette l’una all’altra, dandosi calore a vicenda. La stanza, attorno a loro, era immobile in una mattina d’inverno. Una mattina d’inverno che stava proseguendo, che non le avrebbe più riviste morire.

Oltre la vetrata, il paesaggio era imbiancato. La cappa grigia dell’inverno premeva dall’alto. Ma non dava un senso di pesantezza. Al contrario, comunicava una lievità, una leggerezza che sembrava accarezzare le due giovani di nuovo unite. Ogni tanto, qualche fiocco leggero vorticava nell’aria pura.

«Siamo vive?» sussurrò Edith, guardandosi attorno. C’era qualcosa di strano e indefinito, nella stanza. Qualcosa che sfuggiva al loro sguardo. «Sembra di essere in un sogno…»

Marta le accarezzò i capelli e la strinse ancora di più. Il corpo nudo di Edith ebbe un fremito quando le dita dell’altra ragazza lo percorsero tutto in una dolce carezza.

«Non è un sogno, amore mio», le sussurrò all’orecchio. «È tutto vero. Noi siamo vere, noi siamo vive.»

Lo sguardo di Edith incontrò una figura opalescente distesa al suolo. Sembrava la forma fumosa e impalpabile di una giovane donna priva di sensi. Ebbe un sussulto, quando se ne accorse.

«E… lei… l-lei chi…»

Marta la accarezzò ancora, tranquillizzandola. Adesso, altre ombre si muovevano per la stanza. Ombre confuse, agitate, in cui gli occhi delle due ragazze scorsero immagini indistinguibili ma dalle forme vagamente umane. Due uomini e altrettante donne – senza contare quella distesa di fronte al caminetto – che sembravano parlare tra di loro, anche se le parole che dicevano non giungevano fino a loro.

«Fantasmi», disse Marta. «Ombre e sogni. Sono inconsistenti. Non dobbiamo averne paura. Non ci faranno del male… presto, se ne andranno.»

Edith chiuse per un attimo gli occhi. Qualcosa di fugace le attraversò la mente. Un’idea indefinita, il ricordo di qualcosa che non riusciva a comprendere e a mettere a fuoco.

Infine, l’afferrò.

«I-io», balbettò, «io e-ero un f-fantasma…»

Marta scosse il capo.

«Questo era ciò che voleva farti credere tuo padre. Voleva privarti della tua vita. Voleva costringerti a non essere chi sei, rendendoti del tutto asservita a lui. Ma ti ho salvata, amore mio. Ci siamo salvate. E ora siamo insieme, e non siamo fantasmi…»

Edith riaprì gli occhi. Le ombre erano ancora attorno a loro. Sembravano danzare nella stanza, intangibili come fumo.

«Non lo siamo…» disse. «Noi no…»

«Noi no…» ripeté Marta, facendole una carezza sui capelli. «Loro… loro sono i fantasmi… coloro che vivono oltre il velo concreto delle cose…»

 

* * *

 

Sempre preceduti da Sophia, Alberto, Aurora e Daniele entrarono di nuovo nella vecchia dimora abbandonata. Ancora una volta, li accolse un senso di vaga inquietudine. Adesso, però, sapevano di preciso a che cosa attribuire la paura che quel luogo generava. Non che questo rendesse più semplici le cose, comunque.

Anzi.

Se possibile, era persino peggio della prima volta che ci erano entrati, non più di un paio d’ore prima.

«Stavolta evita di arrestare i fantasmini, tenente», commentò Aurora.

Forse cercava di apparire sprezzante per dare sicurezza prima di tutto a se stessa. Non ci riuscì troppo bene. La sua voce risuonò un po’ troppo acuta e stridula.

«L’importante è dare almeno un avvertimento, e io quello l’ho già dato», borbottò Manfredi. «Adesso non ci sarà bisogno di rispettare nessuna procedura…»

Senza fermarsi a domandare dove dovessero dirigersi, Sophia si diresse con decisione verso lo scalone che portava ai piani superiori. Cominciò a salirlo senza alcuna esitazione.

«Ehi, pare che adesso la nostra amica sia proprio decisa ad andare fino in fondo», borbottò Alberto. «Non voglio nemmeno provare a immaginare che cosa mai puoi averle detto, per metterle un simile fuoco al didietro.»

«Quando voglio, so essere persuasiva, Manfredino», tagliò corto Aurora.

Tutti e tre raggiunsero le scale. Si fermarono. L’angoscia premette contro i loro petti con la medesima intensità del buio che avvolgeva ogni cosa.

«Forse dovrei andare avanti io», mugugnò Manfredi. «Essendo che sono il più alto in grado. Non voglio fare la parte di quegli ufficialoni che mandano avanti le reclute per pararsi il culo.»

«Se è per questo, dovrei andare prima io, visto che Valeria è amica mia, e questa non mi pare una questione che richieda procedure e gradi», gli fece eco Daniele.

Entrambi però continuarono a esitare. Sembrava che ciascuno dei due attendesse che l’altro facesse qualcosa. Aurora li sorpassò e cominciò a salire alle spalle di Sophia.

«Mentre voi eroici maschietti state lì a misurare chi ce l’abbia più lungo, noi povere fanciulle dobbiamo pensare a tutto», finse di lamentarsi.

Daniele arrossì. Manfredi sospirò. Anche loro iniziarono a percorrere i vecchi gradini di pietra, uno alla volta. Salirono adagio, attenti a non scivolare sulla polvere e sugli altri detriti che avevano reso scivoloso il marmo.

Infine, furono nel corridoio. Sophia si concesse un momento di raccoglimento, poi si diresse verso la porta della grande sala. Gli altri la seguirono.

Timorosi di quello che avrebbero potuto trovare, raccolsero ogni stilla di coraggio. Si affacciarono alla soglia.

Valeria era ancora distesa vicino al caminetto freddo e vuoto. Ora però non singhiozzava più, e non tremava. Era del tutto immobile. Di Edith, della figura bianca e spaventosa che avevano visto prima, non c’era nessuna traccia.

«Oddio, non ditemi che…» fece Daniele, angosciato, avviandosi verso la giovane.

Sophia gli si parò davanti. Lo bloccò, impedendogli di passare.

«La tua amica non è morta», sussurrò. «Ma lo sarà tra poco, se non interverrò. Più lei perde le sue forze, più le acquistano Marta e Edith. Guardate là.»

Indicò un punto, poco lontano dalla giovane priva di conoscenza. Dapprima, non riuscirono a distinguere nulla.

Poi le videro.

Due figure trasparenti, appena percettibili, abbracciate. Una specie di vapore condensato, che acquistava sempre più una forma concreta. Sembrava di osservare qualcosa di lucido e fumoso che, di momento in momento, si faceva opaco e materiale.

«Evviva, non bastava un fantasma solo, ce ne volevano due», commentò Manfredi, a denti stretti.

Daniele tremò così forte che, per l’ennesima volta, Aurora fu costretta a sorreggerlo. Gli passò le braccia attorno alle spalle e appoggiò la guancia fredda alla sua, cercando di dargli conforto. Gli occhi del sottotenente non riuscirono a staccarsi da quelli delle due figure. Suo malgrado, Aurora era affascinata da tutto questo.

«Che cosa facciamo?» domandò il ragazzo, ormai sul punto di mettersi a piangere. Il suo sguardo, al contrario, aveva indugiato solo un istante sulle figure opalescenti, e poi era tornato a puntarsi sul corpo esanime dell’amica.

«Voi niente», disse Sophia. «Tocca a me…»

Si guardò attorno con frenesia. Sembrava che stesse cercando qualcosa. Alla fine, trovò ciò che cercava: accanto ai resti del vecchio pianoforte ormai marcito, erano abbandonate cinque candele. Dovevano essere vecchissime, e all’apparenza erano parecchio fragili. Un tempo dovevano essere state rosse, ma la sporcizia e l’ossidazione le avevano rese nere.

Dopo averle afferrate, Sophia le dispose in fretta attorno al corpo di Valeria, formando i vertici di un pentacolo. Gli stoppini erano quasi del tutto marciti, ma la donna scavò con le unghie quel tanto che bastò a riportare in superficie la parte che era stata preservata dalla cera.

«Mi serve qualcosa per accendere…» mormorò.

Aurora, avendo compreso le sue intenzioni, si era già frugata in tasca alla ricerca dell’accendino. Non volendo lasciare andare Daniele, lo porse a Manfredi, che si avvicinò a Sophia per consegnarglielo.

«Signora», borbottò il tenente, guardando le cinque candele, «è sicura che…»

«Non sono sicura di nulla», replicò lei. Prese l’accendino, lo accese e si abbassò verso le candele. Prima di dargli fuoco, però, si voltò di nuovo verso Alberto. Sorrise con il suo modo di fare insieme rassicurante ed enigmatico. «Ma invece lei è sicuro di qualcosa, tenente? Ora che sa che il mondo non finisce qui, che c’è un velo oltre il quale qualcosa di forte sopravvive, può davvero ancora dirsi sicuro di qualcosa?»

Manfredi ci pensò solo un istante.

Scosse la testa.

«No, infatti…»

Si ritrasse e lasciò che Sophia accendesse le candele, una dopo l’altra, girando in senso antiorario attorno al corpo di Valeria. L’ultima che accese fu quella in prossimità della sua testa, il vertice superiore della stella. Il punto corrispondente allo spirito, secondo le dottrine esoteriche. Quando lo stoppino prese fuoco, la fiamma guizzò, rossa come sangue, e un vento gelido attraversò per intero la stanza, scompigliando i loro capelli e facendo tintinnare i pochi pannelli di vetro rimasti intatti sulla finestra. Le candele si agitarono, ma le fiammelle continuarono a bruciare.

La donna gettò via l’accendino e si inginocchiò accanto ai piedi di Valeria. Si strinse le braccia al petto, serrò forte gli occhi e prese un profondissimo respiro. Poi parlò.

«C’è qualcuno, qui, che possa sentirmi?»

 

* * *

 

Le ombre parlavano. Il loro sembrava un brusio, un mormorare indistinto, come il gorgoglio dell’acqua di un torrente, incessante eppure impossibile da afferrare. Suoni che giungevano indistinti alle orecchie delle due giovani, abbracciate.

«Perché non se ne vanno?» sussurrò Edith, con il cuore che batteva in gola. «Marta, ho paura…»

«Non devi averne, amore mio.» Eppure, anche nel suo tono c’era traccia di una crescente inquietudine. Fece un profondo sospiro, prima di aggiungere: «Tranquilla. Ci sono qua io, con te… e tu sei qui con me. Non c’è niente che possa spaventarci, adesso.»

Davanti ai loro occhi sgranati, una delle ombre venne avanti con passo sicuro. Solo che non era più una semplice ombra. Più si faceva vicina e più assumeva le sembianze di una forma concreta, di una figura tangibile, che diventava sempre più riconoscibile. Ora poterono osservarla molto bene. Una vecchia signora, rugosa e magrissima, con capelli radi e candidi, vestita con un lungo abito blu, avvolta da scialli colorati e con il collo grinzoso e le braccia scheletriche impreziositi da bracciali, collanine, ninnoli.

La vecchia fissò le due giovani. Gli occhi chiari delle due ragazze fissarono quelli neri, profondi e antichi della donna. Due occhi vividi e scintillanti nel mezzo di un volto rugoso e incartapecorito, raggrinzito come quello di una mummia. I capelli erano pochi, ma bianchissimi e puliti. Aveva un naso lungo e adunco, che le conferiva il classico aspetto di una strega delle fiabe.

«C’è qualcuno, qui, che possa sentirmi?» chiese la donna, con voce flebile.

Edith e Marta, per istinto, si strinsero ancora più forte. Ciascuna delle due tremò tra le braccia dell’altra. Il tabarro nero era ormai la sola difesa che avessero contro quel prodigio inaspettato.

La vecchia dischiuse la labbra sottili in un sorriso, che mise allo scoperto una serie di denti irregolari, ingialliti e screziati di tartaro.

«Potete sentirmi… vedermi?» gracchiò. Il suo tono, nonostante l’asprezza del tempo, era gentile.

Nessuna delle due osava parlare.

«Non voglio farvi del male», le rassicurò lei, sempre con lo stesso tono di voce gracchiante ma insieme rassicurante.

Finalmente, Marta si ricordò di tutto il coraggio che aveva raccolto per scappare di casa, attraversare tutto il Nord Italia, affrontare la montagna impervia e gelida, giungere fino a quel luogo remoto nel cuore dell’inverno e poi affrontare il signor Mayer tramutato in mostro. Di quel coraggio, da qualche parte, doveva essere rimasto almeno un briciolo. Provò a raccoglierlo.

E poi, la vecchia – anche se era comparsa dal nulla – non sembrava troppo spaventosa, né pericolosa.

«C-chi… chi sei?» le riuscì di domandare, con una vocina piccola piccola.

La vecchia signora sorrise.

«Chi può dirlo?» domandò, rivolgendosi più a se stessa che a loro. «Nel corso del tempo, ho avuto tanti nomi, tante identità differenti, e anche se il mio spirito ha sempre avuto un lato femminile indiscutibile, qualche volta sono anche stata un maschio… sì, ho avuto tante realtà, dentro di me: così innumerevoli che nemmeno io sono più sicura di quale sia stato il principio e di quale sarà la fine… se mai ci sarà, una fine… e se mai ci fu per davvero, un principio…»

Edith, confortata dal coraggio di Marta, riuscì a sua volta a porre una domanda.

«Da dove vieni?»

Di nuovo, la vecchietta sorrise con fare amabile.

E, di nuovo, diede la stessa risposta di poco prima.

«Chi può dirlo?» disse. «Voi lo domandate a me, ma nemmeno io lo so. Qui, oltre il velo, la mia mente può spaziare con maggiore libertà, mi permette di vedere al di là dei confini dello spazio e del tempo, e posso vedere ciò che ero, ciò che sarò… e ciò che fu e ciò che sarà… se guardo a me stessa, vedo una lestofante matricolata, e prima ancora un contadino brontolone, e poi uno scrittore di talento e persino una sacerdotessa votata al culto del Sole Invitto… e vedo un’infinità di identità, alcune celebri, la maggior parte del tutto anonime, nomi oggi impronunciabili e forse mai nemmeno pronunciati in questo mondo, in questa lontana periferia di Universo… e vedo luoghi lontanissimi… borgate lontane e vicine, immense città e piccoli villaggi, e vedo terre il cui nome e il cui ricordo si è perduto nell’oblio del tempo e della memoria… e, se alzo gli occhi al cielo, vedo il Sole compiere la sua orbita celeste, ma vedo anche costellazioni mai vedute prima, e pianeti, e genti che li abitano, oggi, ieri, domani… perché le anime viaggiano, piccole mie, si muovono, non si fermano mai, come un vento incessante e che non si posa in nessun momento, e la mia anima è venuta da lontano, da molto lontano, e chissà se adesso ha raggiunto la sua ultima meta…»

Quel monologo della vecchia aveva scosso le due giovani, che per istinto si erano avvinghiate ulteriormente, rannicchiandosi il più possibile l’una accanto all’altra. La donna aveva parlato guardando lontano, verso le profondità imperscrutabili dell’ignoto, ma ora i suoi occhi si abbassarono su di loro.

«E quindi, per davvero… chi può dirlo? Chi può dire chi sono io e da dove vengo? E chi siete voi e da dove provenite? Chi è ogni essere vivente, e da dove viene? E quanta strada ha compiuto un’anima, e quanta ancora dovrà compierne, prima di giungere all’ultima destinazione?»

Il suo sorriso si allargò, amabile e confortante.

«Ma non ho squarciato il velo che separa le realtà per parlare di questo…»

Edith trattenne a stento un singulto. Marta singhiozzò. Le loro mani si strinsero spasmodiche.

«Q-quindi…» domandò la giovane dai capelli ramati, con la voce che tremava senza più alcuna parvenza di coraggio, «…quindi t-tu… v-vieni…» deglutì a fatica, «…vieni dal mondo dei m-morti?»

La vecchia scosse piano il capo. C’era un che di sottilmente malinconico, adesso, nel suo sguardo.

«No, piccola mia», mormorò. La sua voce si velò di tristezza. «No. Non c’è un mondo dei vivi e uno dei morti. Cosa sono la vita e la morte, se non due facce della stessa medaglia, se non due semplici ingressi distinti per uno stesso mondo? Ma se dovessimo appellarci a simili definizioni per poter dare una parvenza di spiegazione a tutto quanto, allora questo…»

Non terminò la frase. Non ne ebbe necessità.

Ciò di cui erano già consapevoli, piombò addosso alle due ragazze come un macigno. Un peso insopportabile che le gettò nello sconforto. Entrambe si abbandonarono alle lacrime.

«C-ci… ci siamo… ci siamo appena ritrovate…» singhiozzò Edith, cullando Marta e tenendola stretta.

«Dopo tanto tempo», mormorò Marta, tra le lacrime che, dai suoi occhi, scivolavano sulle guance e finivano tra i capelli di Edith.

La vecchia fece un profondo sospiro.

«E nessuno vi separerà, mai più», promise. La sua voce, sempre simile al gracchio di un corvo nero, riusciva comunque a risuonare dolce come miele, in quel momento. «Ma dovete andare oltre. Dovete accettare quello che è accaduto. Non potete rimanere ancorate per sempre a una realtà che non è più la vostra. Dovete lasciare che il tramite per cui vi siete ritrovate possa vivere la sua vita, secondo i ritmi della natura…»

Edith sussultò.

«No…» mormorò. «Non posso…»

Alzò gli occhi verso la vecchia. Ora fiammeggiavano.

«Non posso perdere il mio amore!» urlò. «Non ora che è tornata da me!»

La vecchia tentò di calmarla.

«Non la perderai, ma devi accettare che…»

«NO! BUGIARDA!»

Edith balzò in piedi. Il tabarro che l’aveva avvolta scivolò via, rivelando la bellezza incorrotta del suo corpo che non aveva avuto – e mai avrebbe avuto – il tempo di invecchiare. Era sudata, tremava. I suoi occhi parvero emanare scintille di rabbia.

«NON ME LA PORTERAI VIA ANCHE TU!» strepitò.

Marta sussultò e finì di lato. Cercò di rialzarsi, ma incespicò nel tabarro che le si era arrotolato attorno ai piedi. Cadde in ginocchio. La vecchia fece un passo in avanti e sollevò uno scheletrico braccio tremebondo, ma Edith le si scagliò contro e la spintonò, buttandola sul pavimento.

Fragile e debole com’era, la vecchia scricchiolò tutta. Proprio come una vecchia mummia. Si sollevò una nuvoletta di polvere, quando colpì l’impiantito. Forse, fu parte del suo corpo rinsecchito che si sbriciolava.

«Edith…» mormorò.

«NO!» gridò la ragazza. «Se hai oltrepassato il velo, ebbene io ti ricaccerò a calci in quel sedere secco nel luogo da cui sei venuta…!»

Si avvicinò, minacciosa.

La vecchia la fissò con i suoi occhi neri e antichi, impotente.



___


La vecchia che dice "Chi può dirlo" l'ho rubata, perché sono un brutto Orsetto che ruba ruba ruba.
Scusami Topino <3 <3 <3

 

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Capitolo 28
*** 27. ***


27.

 

 

Per alcuni minuti che parvero interminabili, non accadde nulla.

Quando il vento misterioso aveva attraversato la stanza, sferzandolo da parte a parte, Alberto era indietreggiato per istinto. Aveva sfiorato Aurora e aveva cercato la sua mano, per avere una parvenza di conforto. Le loro dita si erano strette, e lei aveva continuato a tenere saldo Daniele, che ormai tremava come una foglia abbandonata nella tempesta e non faceva più nulla per trattenere le lacrime.

Uniti a quel modo, tutti e tre avevano tenuto gli occhi puntati addosso a Sophia, cercando di scoprire se il suo tentativo avrebbe sortito qualche risultato.

«Credete che…» cominciò a dire Aurora.

Un roco sospiro di Sophia la interruppe.

La donna si piegò in avanti, fino a sfiorare il pavimento con il mento. Cominciò a fare respiri sempre più profondi. Il suo petto si alzò e si abbassò rapidissimo, facendo tintinnare una delle collanine che portava al collo, piena di ciondoli dal significato arcano. Un suono che si sovrappose a un fischio che le usciva dalla bocca e dal naso. C’era qualcosa che sibilava, nei suoi polmoni.

Qualcosa di non buono.

«Sta male!» esclamò Manfredi. Gli sembrava di aver riconosciuto i sintomi di un enfisema. «Dobbiamo aiutarla…!»

Fece appello mentale alle tecniche di pronto soccorso che aveva appreso al corso a cui era stato obbligato a partecipare all’epoca dell’accademia militare. Erano passati un po’ di anni. Forse troppi. Scoprì di non ricordare un granché.

Cazzo, devo segnarmi di dire a Iannaccone che ho bisogno di un ripasso. Dovrà iscrivermi a qualche corso di aggiornamento. Ma scommetto che quel vecchio tirchio si guarderà bene dal farmelo fare.

Non era il momento di pensare al suo superiore.

Sophia emise un gemito. All’improvviso, come spinta da una molla invisibile, si rizzò sulle ginocchia e si irrigidì. Inarcò la schiena e spinse la testa verso l’alto. Cominciò a tremare sempre più forte. Dalle labbra semichiuse iniziò a uscirle una bava biancastra, screziata di rosso.

«Porco di quel…!» Manfredi non riuscì a trattenersi dal chiamare in causa una delle massime divinità. Giove, o qualcosa di simile.

Fece per scattare verso di lei, ma la mano di Aurora, per quanto sudata a causa della tensione, restò salda nella sua e lo trattenne.

«Aspetta, Manfredino…» sussurrò, senza staccare lo sguardo da ciò che stava succedendo davanti a loro.

Ci fu un altro movimento. Dapprima quasi non lo notarono, da quanto fu debole. Poi però divenne chiaro. Valeria si era mossa. Si mosse ancora una volta. Il suo volto, pallido, con gli occhi spalancati e segnati dalle occhiaie, si girò a fissare Sophia. Anche la ragazza si alzò sulle ginocchia.

Daniele sussultò.

«Vale!» chiamò. «Vale!»

Lei lo ignorò. Forse non lo sentì nemmeno.

Restando sulle ginocchia, Valeria allungò le braccia, posò i palmi aperti sul petto di Sophia e la spinse, allontanandola da sé. La ragazza urlò, articolando parole e suoni in una lingua sconosciuta.

«Mg! Ymg' mgep mgepch' n'ghft'drn, vulgtmnah Y' ephaikick ymg' ph'nglui cahf ' agl hup hh' ymg' mgepnog!»

Sophia mugolò qualcosa di incomprensibile in risposta, finendo sdraiata sulla schiena. Attorno a loro, guizzando ed emettendo scintille colorate, le fiamme delle cinque candele si sollevarono all’unisono, unendosi fino a formare una specie di rete luminosa, che le imprigionò entrambe.

I tre spettatori di quella specie di pantomima erano poco meno che sconvolti. Quelle parole impossibile da decifrare continuarono a risuonargli nelle orecchie, strappandogli brividi lungo la schiena. La luce della rete di fuoco li illuminò e li abbagliò, facendogli lacrimare gli occhi.

«Che cazzo succede…» piagnucolò Daniele.

Io so solo che il mio lavoro consisterebbe nell’andare a cercare reperti trafugati, quadri rubati e cose di questo tipo, pensò Manfredi. Al massimo dovrei trovarmi ad avere a che fare con qualche banda organizzata, ma per la maggiore con tombaroli da strapazzo e ladruncoli da due soldi. Ai corsi di addestramento sono stato istruito sul modo migliore per rincorrere un ladro e su come ammanettarlo senza fargli del male, ma nessuno ha mai parlato di roba del genere, e di certo nessuno mi paga abbastanza per tutto questo

«È il velo…» sussurrò Aurora. «È stato squarciato… davanti ai nostri occhi…»

Manfredi non aveva idea di che cosa intendesse dire.

Nemmeno gliene fregava nulla.

Voleva solo che tutta quella faccenda finisse in fretta.

 

* * *

 

«Edith, per favore, non commettere la stessa colpa di tuo padre», implorò la vecchia, senza smettere di fissare la giovane. «Non lasciarti trascinare da un cieco furore come fece lui…»

Era distesa a terra, e respirava a fatica. Sembrava più minuta e antica che mai. La ragazza, nuda e bellissima, incombeva su di lei, pronta a colpirla ancora. Ricordava un terribile angelo della morte venuto a portare la sua vendetta.

«Io non sono lui!» gridò la giovane, furibonda. Tremava ed era sconvolta. Il rossore le si allargava sul petto, chiazzandole la pelle del seno e rendendola ancora più affascinante. «Non osare nemmeno di fare un paragone del genere! Quel mostro è andato all’inferno, come meritava!»

«Allora dimostralo», gracidò la vecchia, fissandola. «Lascia che quella povera creatura innocente viva. Non prenderti la sua vita. Sarebbe un’ingiustizia. Questa storia è cominciata con qualcosa di profondamente ingiusto, storto e sbagliato… lascia che, almeno, possa concludersi con un lieto fine. Il tuo amore, quello di Marta, il vostro amore, sopravvivrà a tutto questo, te lo prometto, ma voi dovete guardare e andare avanti…»

Edith fece una smorfia rabbiosa.

«Avanti?!» ripeté. «Ho atteso per tutto questo tempo che Marta tornasse da me, e ora dovrei andare avanti senza di lei?!»

La vecchia scosse il capo.

«Con lei, Edith, non senza di lei… con lei… per sempre con lei… ma non in questo modo…»

La ragazza fece un passo in avanti.

«E allora come?» disse.

La vecchia non disse nulla. Respirava in modo sempre più affannoso. Sembrava che non ne avesse più per molto. Questa volta fu Marta ad aprire bocca. Le parole le uscirono flebili ma nitide dalle labbra che il freddo aveva screpolato.

«Hai atteso per tanto tempo il mio ritorno», sussurrò. «Ma quanto a lungo lo hai fatto, amore mio? Da quanto davvero mi aspetti, Edith?»

Edith si girò di scatto verso di lei. Le sorrise.

«Mesi, tesoro. Dall’inizio dell’autunno. Temevo che non saresti più tornata, pensavo di averti persa… ma mio padre ha detto di aver rubato e distrutto lui, tutte le lettere che mi hai scritto… e forse, dentro di me, ho sempre saputo che non te ne saresti potuta andare davvero, che non mi avresti abbandonata in quel modo, senza nemmeno una spiegazione. Sono stati mesi terribili, ma ora sono finiti, ora siamo insieme, ed è questo che conta.» Si girò a guardare la donna. Una smorfia sprezzante le contrasse la mascella. «E non sarà questa vecchia racchia spuntata da chissà dove a separarci, te lo assicuro. Questo decrepito sacco di ossa scheggiate non ci farà del male. Un roito simile non mi fa paura!»

«Un po’ di cortesia da parte tua non guasterebbe, però», bofonchiò la vecchia, leggermente offesa. «Avrei voluto vedere come ti saresti ridotta tu, alla mia età, se avessi avuto occasione per arrivarci.»

«Mesi…» ripeté Marta. Scosse il capo, cercando di schiarirsi le idee. «Mesi… sospesi nell’irrealtà di un sogno… mesi come anni… anni come decenni…»

Edith tornò a guardarla, confusa. Non capiva che cosa stesse dicendo.

«Come…?» sussurrò.

La vecchia riuscì a rimettersi in ginocchio. Il suo respiro era sempre roco, ma sembrava che stesse tornando regolare.

«Decenni, sì», mormorò. Ormai, la sua voce gracchiante era ridotta a un flebile e stridulo sussurro. Sollevarsi doveva averle fiaccato le ultime forze su cui ancora poteva contare. «Sono quasi dodici decenni che vi aspettate… una lunga attesa, da quando il velo della morte è disceso sui vostri corpi… anche se ci sono anime per cui l’attesa è stata molto più lunga, e per alcune ancora non è finita, dopo interi millenni… ma l’amore non può essere sconfitto, non dall’odio, non dalla violenza, tantomeno dal tempo, che non può nulla contro le anime, e che può regnare solo su un mondo, che non è questo… e adesso vi siete ritrovate, adesso siete insieme, come doveva essere…»

Qualcosa scattò all’unisono dentro le due ragazze. La consapevolezza di tutto, all’improvviso, si fece largo dentro di loro. I loro occhi si sciolsero in lacrime disperate. Corsero una verso l’altra e si strinsero in un nuovo abbraccio, il più stretto, forte e avvolgente che si fossero mai date.

«M-ma noi…» singhiozzò Edith, sfregando il viso contro il collo di Marta, «…ma noi siamo vive… noi ci amiamo»

«Sì, amore mio… noi siamo vive… e ci amiamo… perché l’amore non può morire mai per davvero…» sussurrò Marta, accarezzandole la schiena. Teneva gli occhi chiusi, e attraverso le palpebre serrate scivolavano lacrime calde e salate, abbondanti. «Ti ricordi quella promessa che ti feci? Le parole che ti dissi? Che ti avrei amata in vita…»

Edith sussultò tra le sue braccia. Non si lasciarono andare. Se possibile, si avvinghiarono con maggiore forza.

«…e che mi avresti amata in morte…» disse, tra i singhiozzi.

Restarono strette, mentre attorno a loro la stanza cominciava a sfumare sempre di più, circonfusa di una luce evanescente e misteriosa. Entrambe, attraverso il velo delle lacrime, tornarono a cercare la vecchia, che stava già ridiventando ombra tra le ombre, riassorbita là da dove era giunta. Nonostante si stesse facendo sempre più difficile poterla scorgere, videro con chiarezza che sorrideva. Un sorriso dolce, rassicurante, forte come l’eternità. Un sorriso che voleva dire che non avrebbero dovuto avere paura di nulla, perché non ce n’era bisogno.

«Non siate tristi, piccole mie», sussurrò ancora, mentre la sua forma svaniva davanti ai loro occhi bagnati di pianto. «Non è la fine… non lo sarà mai… è come avete detto voi… l’amore non può mai morire… è l’eterno e inarrestabile ritorno… vi siete trovate una volta… lo farete ancora e ancora, perché le vostre anime sono unite, sono unite da un filo che non potrà mai essere spezzato…»

La voce della vecchia divenne un’eco sempre più flebile e lontana. La sua figura disparve nella luce, che riempì tutto quanto.

Un dolce calore discese su Edith e Marta.

Le due ragazze restarono insieme. I loro occhi si incontrarono ancora una volta mentre le loro labbra si univano in un ultimo bacio…

 

 

 

…ma non sarebbe stato l’ultimo…

 

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Capitolo 29
*** 28. ***


28.

 

 

Con un lampo accecante e un forte schianto che si propagò a tutta Villa Mayer, facendola ondeggiare e scricchiolare in modo sinistro fin nelle fondamenta, la rete di fuoco svanì in una nube di fumo. Le candele, che il fuoco aveva letteralmente divorato, consumandole in pochi istanti fino alla base, smisero di ardere. Ne restarono soltanto piccoli moccoli fumosi e informi.

Sophia e Valeria, con un gemito, crollarono all’indietro.

«Vale!» gridò Daniele.

Il ragazzo si divincolò, liberandosi dalla presa di Aurora, e corse dalla sua amica. Cadde in ginocchio accanto a lei, sedette sul pavimento a gambe larghe e l’afferrò con delicatezza. Le passò una mano dietro le spalle e una sulla nuca e la sostenne, sollevandola da terra. La giovane era cianotica.

«Vale…» chiamò Daniele, scrollandola. «Vale, ti prego, non…»

Valeria tossì. La sua bocca si spalancò e un fiotto di vomito le risalì dalla gola, rovesciandosi sul giubbotto di Daniele. Tossendo, scossa dai conati, aprì gli occhi velati di lacrime e li fissò in quelli dell’amico. Nonostante l’odore nauseabondo del cibo rigurgitato e dei succhi gastrici, lui la continuò a tenere stretta. La cullò piano e le accarezzò la fronte, madida di sudore. La guardò dritta negli occhi e la trovò più che bella che mai.

«Vale…» ripeté per la quarta volta, questa volta sussurrando. «Come stai?»

Lei cercò di dire qualcosa. Fu scossa di nuovo e un rutto sonoro le sfuggì dalle labbra. Un altro attacco di nausea terminò di liberarle lo stomaco. Il vomito passò dal suo naso e dalla sua bocca al giubbotto e ai pantaloni dell’amico.

«Sto da schifo, mi scoppia la testa…» mormorò, a mezza voce. «Però mi sento libera… leggera…»

Spostò lo sguardo di pochi centimetri e si accorse di come aveva conciato Daniele.

«Oh, cacchio… ecco perché!» borbottò, con aria mortificata. Nonostante il pallore, arrossì per l’imbarazzo. «Dani, mi dispiace, non volevo…»

«Ma chi se ne frega!» esclamò lui. Si chinò e le appoggiò le labbra sulla fronte, dandole un bacetto. Incapace di resistere, gliene diede un altro sulla punta del naso, e subito dopo un terzo sulla guancia. «L’importante è che tu stia bene!»

Alberto e Aurora, dopo essersi accertati che la ragazza fosse in buone condizioni, si inginocchiarono insieme accanto a Sophia, uno per lato. La donna respirava a fatica. La sua pelle aveva perso molto del suo colore naturale, al punto da apparire grigiastra, e vistose rughe le erano comparse sulla fronte e agli angoli degli occhi.

«Sembra invecchiata di colpo di dieci anni», sussurrò Alberto, incredulo.

Sophia sollevò le palpebre, fissando il suo sguardo nero e profondo negli occhi nocciola di Manfredi.

«Solo dieci anni, tenente?» sussurrò. «Mi è andata anche bene… ho visto come sarei potuta essere realmente, e be’, insomma…»

Trovò la forza per fare una risatina. Poi si abbandono sul pavimento e perse i sensi.

Aurora e Alberto si scambiarono uno sguardo interrogativo.

«Che diamine avrà voluto dire?» borbottò lui.

Lei fece spallucce.

«Non ne ho idea…» ammise. «Però credo che sia meglio portarla via da qui, prima che le si ghiacci il culo. A lei, e anche a noi: mi si stanno indurendo persino i peli della figa. Questa stanza è gelida, e quel tremolio di poco fa non mi è piaciuto per nulla.»

«Già…» borbottò Manfredi, ignorando il solito linguaggio scurrile del sottotenente. «Immagino che tocchi a me prenderla in braccio, vero?»

Aurora sorrise. Protese il braccio e con la mano gli mise di sghimbescio il basco e gli arruffò i capelli.

«Non fare finta che non ti piaccia tenertela stretta… scommetto che approfitterai di ogni oscillazione per toccarla e infilarle quelle ditina curiose dappertutto.»

«Mi rifiuto di commentare.»

Manfredi si chinò in avanti, fece passare le braccia sotto la schiena di Sophia e la sollevò. Barcollò un poco e avvertì una fitta alla schiena, sotto il peso morto della donna, ma riuscì a bilanciarsi muovendo un po’ le gambe.

Lui e Aurora si girarono verso Daniele e Valeria.

«Come ti senti?» chiese la giovane donna, chinandosi verso la ragazza.

Lei la fissò con aria smarrita, non capendo chi fosse.

«Va tutto bene», la rassicurò Daniele. «Sono amici. Sono venuti qui per aiutarti.»

«Io…» mormorò Valeria. «Io sono confusa… però credo di stare bene…» Sfiorò il giubbotto di Daniele, appiccicoso e maleodorante. «Ma mi dispiace di…»

«Finiscila, Vale, non è niente», replicò il ragazzo. Fece un sorriso tirato. «Al massimo, ti manderò il conto della lavanderia.»

Come era accaduto quando le candele si erano spente, l’intero edificio oscillò di nuovo da cima a fondo. Questa volta, alcuni calcinacci caddero dal soffitto, sollevando una nuvoletta di polvere.

«Ci mancava solo il terremoto!» esclamò Daniele, spaventato.

«Non è un terremoto», commentò Aurora, gettando un’occhiata nervosa verso l’alto. «È questa dannata casa marcescente che sta cominciando a cadere a pezzi per davvero. Meglio tagliare la corda alla svelta.»

Si chinò e, senza aggiungere una sola parola, prese Valeria dalle braccia di Daniele e la sollevò. Il ragazzo si rimise in piedi al suo fianco, protendendo le mani per provare ad aiutarla.

«Signora, ce la faccio da sola…» mormorò Valeria, imbarazzata.

«Non chiamarmi signora, no eh!» replicò Aurora, stizzita. «Avrò si e no cinque anni più di te… o stai per caso dicendo che sembro vecchia?!»

Un nuovo tremito dell’intero edificio minacciò di mandarla a gambe all’aria.

«Non mi pare il caso di pensare adesso a queste questioni!» brontolò Alberto. «Sarà meglio filare!»

«È sempre il caso di pensarci, invece!» rimarcò Aurora. Poi soggiunse, borbottando a mezza voce tra di sé: «No, perché io non sembro vecchia, no, no: io sono giovane! Che a nessuno venga in mente di dire il contrario, perché mi incazzo per davvero, e a quel punto sono cazzi amari!»

Manfredi non le badò. Fece per avviarsi verso la porta.

In quel momento, sulla soglia, si stagliò una sagoma umana, incappucciata di nero. Per un momento, tutti e quattro sussultarono, temendo che Edith fosse tornata, o che Villa Mayer stesse riservando qualche nuovo e inaspettato scherzetto di stampo metafisico. Ci mancava soltanto che, dalle profondità dell’edificio, sbucasse una bestia assassina, un diavolo infernale, un serial killer fantasma o qualcosa di simile.

Ma lo spavento passò subito. Si rilassarono non appena riconobbero la barba arruffata di Orso. Si era tirato il cappuccio della felpa sulla testa, ma parte dei suoi capelli disordinati ne sfuggivano di sotto, mischiandosi ai peli della barba in un guazzabuglio unico, che gli finiva sul naso e sulle lenti degli occhiali.

«Ehi, sono venuto a vedere se avevate bisogno di aiuto!» disse, girando lo sguardo tutto attorno. Ci fu un un altro tremito, che scosse tutta la villa. A giudicare dall’espressione di Orso, sembrava già essersi pentito di quella sua decisione avventata.

«E quel vecchio criminale?!» strepitò Manfredi. «Non lo avrai mica lasciato libero di scappare e di darsi alla latitanza, spero!»

«Ma che se ne vada a crepare come preferisce, quel decrepito rottame», borbottò Orso. «Non ne potevo più di rimanere chiuso in quella specie di tomba che ha per casa…»

L’ultima parola venne soffocata da un boato crescente. Ancora una volta, la casa venne scossa da un tremolio violento. Questa volta, ebbero l’impressione che l’intero edificio si fosse abbassato, come se stesse in qualche maniera sprofondando nel terreno.

«Discutiamone quando saremo fuori di qui», sbottò Aurora, nervosa.

Aiutata da Daniele, corse fuori dalla sala, trasportando Valeria. Orso seguì quello strano terzetto con lo sguardo, poi si avvicinò a Manfredi.

«Serve una mano a trasportare questa cariatide?» domandò.

«Se non vogliamo cedere alla tentazione di lasciarla qui…» bofonchiò Alberto, barcollando per il peso della donna e per il pavimento che, ormai, oscillava senza più nessuna pausa tra una scossa e la successiva.

«Sarebbe certamente una bella trovata», borbottò l’altro.

Afferrata la donna per i piedi, cominciò a muoversi verso l’uscita della stanza. Manfredi, adesso libero da metà del peso, la sostenne per le spalle e si incamminò insieme a lui.

Uscirono nel corridoio, che ondeggiava sempre più forte. Il pavimento sussultava, tanto che si faceva fatica a mantenere l’equilibrio e a reggersi in piedi. Tra scricchiolii crescenti, sordi boati che salivano dalle profondità e il fragore dei pezzi di mattoni e di malta che cadevano dalle pareti e dal soffitto, riuscirono in qualche modo a guadagnare lo scalone.

Guardarono in giù. Aurora e Daniele, senza smettere di trasportare Valeria, erano già a metà discesa. Si mossero per seguirli alla svelta.

Avevano disceso solo un paio di gradini, quando all’improvviso ci fu un sussulto più forte e secco dei precedenti. Orso e Alberto si trovarono a cercare di calpestare l’aria, mentre i gradini sprofondavano di mezzo metro verso il basso. Privi di appoggio caddero, lasciando andare Sophia. La donna sbatté duramente e rotolò per un buon tratto giù dalle scale.

Figa, fu il solo pensiero di una certa coerenza che il tenente riuscì a mettere insieme, mentre un dolore lancinante gli si propagava dalle ginocchia, che avevano picchiato sul marmo e gli si dovevano essere sbucciate sotto la tela dei jeans.

Spostò lo sguardo, cercando di mettere a fuoco qualcosa nel buio e nella confusione della polvere che ormai aveva invaso tutto l’ambiente. Anche se avesse avuto modo di vedere qualcosa, gliene mancò il tempo. Dal soffitto franò una grande massa di pietrisco e di mattoni, mista ai vetri taglienti del lucernario che era andato in frantumi. Calcinacci, pietrame di vario genere e vetri rotti riempirono per intero il grande vestibolo e coprirono quasi del tutto la scalinata, sommergendola. Se si fosse trovato pochi centimetri più in basso, Manfredi sarebbe rimasto sepolto vivo sotto il crollo.

Il fracasso fu assordante, e la nuvola di polvere che si sollevò coprì tutte le cose e rese irrespirabile l’aria.

Tossendo, bianco di calcina, tremante per il dolore e per lo spavento, Manfredi cercò di mettersi in ginocchio.

«Aurora!» urlò. «Aurora!»

La sua voce si perse nel rumore crescente dei crolli e delle vibrazioni. Agli strepiti, si univa anche il rombo misterioso e incessante che continuava a salire dal sottosuolo.

«AURORA!» chiamò ancora, sgolandosi. Sentì le corde vocali sussultare e infiammarsi. Era in preda al panico. L’ultima immagine che gli era rimasta impressa negli occhi, era quella della sua amica e di Daniele che trasportavano la ragazza nel punto che, subito dopo, era stato colpito dal cedimento.

Provò ad alzarsi. Aveva un piede bloccato dalla massa di macerie. Sassi e mattoni gli formavano di fronte una parete dall’aspetto inespugnabile.

Orso uscì dalla polvere, sbucando al suo fianco. Era bianco come un fantasma, sia per lo spavento sia per il pulviscolo della calcina che lo aveva ricoperto tutto.

Era un Orso Bruno, si trovò a pensare Alberto, forse nel tentativo di non perdere il senno in mezzo a quel delirio, e ora è un Orso Polare. Che storia!

«Non può sentirti!» si spolmonò Orso, cercando di sovrastare il frastuono. «Vediamo di toglierci da qui!»

Si chinò e, con uno strattone, gli liberò il piede. Manfredi digrignò i denti. Aveva preso qualche botta di troppo per i suoi gusti, ma non sembrava avere nulla di rotto. Poteva muovere tutte le articolazioni, perlomeno. Senza perdere tempo in accertamenti medici troppo approfonditi, Orso lo aiutò a rialzarsi. A fatica, barcollando e sostenendosi a vicenda, si trovarono fianco a fianco.

Si guardarono attorno.

A dire il vero, era impossibile vedere qualcosa. Le macerie avevano riempito per intero la sala. La polvere creava una foschia impalpabile e impenetrabile. Il buio faceva il resto. Non potevano andare avanti.

«Non possiamo scendere dalle scale!» bramì Orso. «Dobbiamo vedere se c’è un’altra via per uscire!»

Risalirono in fretta le poche scale che avevano disceso. Fecero per gettarsi di corsa lungo il corridoio, quando con la coda dell’occhio ormai abituato all’oscurità, Alberto scorse un guizzo. Un movimento che non aveva nulla a che fare con la casa che continuava a franare su se stessa.

«Guarda!» urlò, indicando da quella parte.

Sophia, anche lei coperta di polvere e con gli abiti stracciati, si stava trascinando a fatica su per i gradini. Perdeva sangue da una ferita alla tempia, ma per il resto sembrava illesa.

«Presto!» gridò ancora il tenente, precipitandosi verso di lei.

«Guarda cosa mi tocca fare, lo sapevo che non avrei mai dovuto aprire quel dannato affittacamere, poi arrivano clienti pazzi che non si accontentano mai di una semplice passeggiata nel bosco…» si lamentò Orso, parlottando tra sé e sé.

Aiutandosi a vicenda per non cadere, i due uomini discesero di nuovo i pochi gradini rimasti liberi dai calcinacci e afferrarono Sophia per la vita e per le braccia. Si scambiarono un cenno d’intesa e la tirarono su.

«Niente di rotto?» chiese Manfredi, dandole una veloce occhiata.

«Non saprei…» mormorò la donna, scossa.

«Lo scopriremo quando saremo fuori, ora non è il momento delle formalità», brontolò Orso.

Senza aggiungere altro, digrignando i denti per lo sforzo, la sollevò di peso e se la caricò in spalla.

«Ehi, posso camminare!» gracchiò Sophia, scalciando inutilmente nell’aria.

«Zitta, vecchia cariatide!» borbottò Orso. Sbuffò. «Pesi come un macigno, poi! Hai mai considerato l’idea di mangiare un po’ di meno?! Un po’ di dieta non guasterebbe!»

«Adagio con le offese, razza di plantigrade miope!»

Barcollando, tornarono un’altra volta in alto, nel corridoio. Alberto aprì la strada. Orso e il suo carico scalciante e lamentoso lo seguirono. A fatica, cercando di tenersi in piedi e riparandosi la testa dai mattoni e da altri pezzi di calcinacci che volavano da tutte le parti, seguirono per alcuni metri il passaggio che immetteva negli altri ambienti della casa.

«Ci sarà bene un’altra scala per scendere di sotto!» grugnì Manfredi.

L’alternativa, lo sapeva fin troppo bene, era buttarsi un’altra volta dalla finestra. E farsi un volo del genere, per la seconda volta in poche ore, non gli andava troppo a genio.

Ma certo è meglio che restarsene qui schiacciati sotto le macerie, pensò.

Per il resto, cercava di concentrarsi solo sul momento. Non voleva pensare a quello che poteva essere capitato alla sua amica. Eppure, l’immagine di lei che correva nell’ingresso un istante prima che franasse tutto quanto continuava a riaffacciarglisi nella mente. Dovette sforzarsi di scacciarla, per non cedere e cadere in preda al panico. Le lacrime minacciarono di sgorgargli dagli occhi.

Figurati se quella non se la cava, si costrinse a pensare.

«Ce la facciamo a uscire, prima che crolli tutto?!» si lagnò Orso.

Da sopra la sua spalla, giunse la voce flautata di Sophia.

«Non sta crollando! Mayer è stato spedito all’Inferno, ma il Signore delle Tenebre è incontentabile e pretende di averne persino la dimora! Sta trascinando nel regno infernale l’intera Villa! E, se non ci sbrighiamo ad andare via, noi saremo trascinati di sotto con essa!»

«Magnifico!» commentò a mezza voce Alberto, sarcastico.

Un sussulto più forte degli altri li rovesciò di lato. Si trovarono a rotolare dentro una porta aperta. Erano di nuovo dentro il grande salone con il caminetto, quello in cui si era consumata la tragica fine di Edith Mayer.

«Ma non ce n’eravamo appena andati, da questo postaccio schifoso?» borbottò Orso.

Sophia, finita poco più in là, si mise a quattro zampe, scrollando la testa per riordinare le idee. Manfredi la imitò. I suoi occhi corsero al soffitto, che si stava letteralmente aprendo a metà. Ogni centimetro della sua superficie era percorso da una ragnatela di crepe che si andava allargando a dismisura. Non c’era la necessità di essere ingegneri per comprendere che, di lì a pochi secondi, anche quella stanza sarebbe stata riempita per intero dai calcinacci crollati.

E loro ci sarebbero rimasti sotto.

Brutta prospettiva.

Bruttissima.

Pessima, anzi.

«Okay!» strillò, fino a sgolarsi. «È destino che ci sia un solo modo per uscire da questo posto!»

Tentò di alzarsi in piedi. Impossibile. Il pavimento ondeggiava troppo per mantenersi in equilibrio sui solo piedi. Fu costretto ad avanzare gattoni, come un neonato. Gli altri si affrettarono a seguirlo, speranzosi che sapesse quello che faceva.

Raggiunsero la vetrata infranta. Dall’esterno penetravano aria fresca e l’umido odore della nebbia. Un qualcosa di rassicurante e familiare, ma che sembrava ancora troppo lontano e irraggiungibile, come un miraggio nel deserto.

«Dobbiamo saltare!» urlò.

«Cosa?!» strepitò Sophia.

«Io soffro di vertigini!» gridò Orso, con voce ancora più acuta della donna.

Manfredi si girò a guardarli. Passò lo sguardo in fretta dall’una all’altro.

«Poche storie e giù!» ordinò.

Reggendosi al davanzale, tutti e tre riuscirono ad alzarsi in piedi. Guardarono in basso, verso l’antico giardino ormai inselvatichito. Sembrava parecchio alto.

Quando quel demonietto mi ha fatto volare fuori pareva più basso, rifletté Alberto.

Alle loro spalle echeggiò uno schianto sonoro e assordante. Il soffitto della stanza aveva cominciato a collassare, dando inizio a una vera e propria pioggia di travi, mattoni, pezzi di cemento, mattonelle e tegole.

«Forza, prima voi!» li sollecitò.

«No, no e no!» si impuntò Orso. «Ho una paura fottuta! Forse c’è un’altra uscita!»

Sophia si voltò a guardare il crollo. Era come osservare una cascata solida di pietra e di polvere che andava cancellando per sempre la sala che aveva visto estinguersi le giovani vite di Edith e di Marta, ma non il loro amore destinato a sopravvivere per sempre. Era l’epilogo definitivo di quella storia durata troppo a lungo.

«Non c’è altra uscita, testone!» strillò.

Detto questo, la donna si allacciò alla vita di Orso e, dimostrando di possedere una forza impensabile per un fisico tanto minuto, saltò fuori dalla finestra, trascinandolo con sé. Lui non ebbe nemmeno il tempo di rendersi conto di quello che era successo, che già stavano atterrando dentro un cespuglio di oleandro che andò letteralmente in pezzi sotto il loro urto.

Alberto Manfredi li guardò saltare, poi anche lui scavalcò il davanzale e, senza pensare più a nulla e ignorando il battito impazzito del cuore che gli pulsava a livello della gola, si lanciò nel vuoto.

 

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Capitolo 30
*** 29. ***


29.

 

 

Il rombo che saliva dalle profondità della terra era assordante. Il rumore incessante di un tuono che, invece che propagarsi nel cielo, si faceva strada attraverso la roccia e la terra. Il terreno vibrava e sussultava, sempre più forte, come un terremoto interminabile.

La nebbia si contorceva attorno a Villa Mayer. Le volute fumose della bruma formavano strane immagini e ghirigori, creavano l’illusione di demoni dalle ali dispiegate e dalle lunghe dita protese a lambire l’antico edificio che, con assurda tenacia, ancora resisteva, rifiutandosi di accettare il suo destino finale.

«Tenente!»

Alberto era caduto tra le frasche della stessa palma contro il cui tronco aveva impattato nel corso del primo volo. Le larghe foglie avevano attutito la caduta, prima di farlo scivolare sul suolo cosparso di sassi. A fatica, con tutte le ossa doloranti, riuscì a rimettersi in piedi. Si massaggiò le tempie, cercando di mettere al posto giusto le idee.

Cosa non facile, in quel frangente.

Cercò di capire chi fosse stato a chiamarlo.

«Tenente!» disse ancora la voce celata nel nero della notte e nel bianco della nebbia.

Questa volta la riconobbe. Sophia.

«Sono qui!» gridò.

«Qui dove?!» brontolò la voce di Orso, ad appena pochi centimetri di distanza. «Con questa nebbia, non si vede un bel niente!»

Manfredi allungò la mano e lo agguantò per un braccio, attirandolo verso di sé. Orso sbucò dalla bruma, e Sophia lo seguì subito dopo.

«Bene, ora che ci siamo tutti direi che sia il caso di allontanarsi in fretta da qui…» disse la donna.

«Ci siamo tutti un cazzo!» sbottò Alberto.

Ignorando il tremore che cresceva dalla terra e il frastuono dei crolli, partì di corsa. Le caviglie doloranti gli mandarono delle fitte acute al cervello, ma non ci badò. Cercò di mantenersi il più vicino possibile al muro della dimora, per potersi orientare e ritrovare l’ingresso. Con tutta quella nebbia, sarebbe stato facilissimo disorientarsi e allontanarsi senza accorgersene.

«Tenente, dove va?!» gridò Sophia, colta alla sprovvista. «Venga con noi, è pericoloso!»

Alberto Manfredi la ignorò. Aveva un solo pensiero fisso nella mente. Uno soltanto. La sola cosa importante in quel momento.

Aurora, dove sei finita?

Solo questo contava. Trovare la sua amica.

Lei era più importante di tutto. Anche della sua stessa vita.

Il resto sarebbe venuto dopo, se ne fosse rimasto il tempo.

Dietro le proprie spalle, Alberto sentì risuonare delle grida confuse e passi differenti. Due paia di passi affrettati. Orso e Sophia lo stavano rincorrendo.

Ormai c’era quasi, se ricordava bene, l’ingresso di Villa Mayer era vicino… presto sarebbe entrato di nuovo in quell’edificio maledetto e scalognato, proprio nel punto in cui era franato ogni cosa mentre Aurora ci stava passando sotto…

Non pensarci, si disse.

Continuò a correre. Aveva le orecchie tese al rumore e ai passi che lo inseguivano. A quelli di Orso e di Sophia se ne aggiunsero altri. Passi pesanti, rapidissimi, che superarono quelli dei due inseguitori e gli si avvicinarono…

«Manfredino, che cazzo stai facendo?!»

Due mani robuste e callose, abituate a maneggiare energumeni e a metterli al tappeto con facilità, lo afferrarono per il collo della giacca e lo trascinarono all’indietro. Ansante e confuso, ancora slanciato in avanti, Alberto provò la vaga sensazione di venire tranciato in due metà. Infine, il suo corpo smise di correre e lui si ritrovò steso a terra, sdraiato sulla schiena, mezzo soffocato.

Tossì forte, cercando di riprendere fiato dopo essere stato quasi strozzato. Provò a mettere a fuoco la figura alta e massiccia che incombeva su di lui.

«Aurora!» esclamò. Farlo gli procurò un dolore lancinante alla gola. «Sei viva!»

Non seppe nemmeno lui se mettersi a ridere oppure a piangere per la gioia.

«Io sono immortale, tenente», trillò lei. «Ma se non la finisci di fare l’idiota e di andare a buttarti a capofitto dentro un vecchio rudere sul punto di crollare, non penso che metterò di nuovo alla prova la mia immortalità per correre a salvarti quel culetto secco e ossuto!»

Sorridendo, gli tese la mano. Lui l’afferrò. Aurora lo trasse in piedi senza nessuno sforzo. Ancora tremante e ansante, Manfredi quasi le crollò addosso, e dovette aggrapparsi alle sue braccia per mantenere la posizione eretta.

Lei ne approfittò per avvicinargli la bocca all’orecchio.

«Ma grazie per aver pensato a me, Manfredino», sussurrò.

Un rumore crescente di crolli e di vetri infranti si fece largo fino ai loro timpani per rammentargli che non era il momento adatto alle smancerie.

Tenendosi per mano, si lanciarono in corsa ratta e folle giù per il pendio.

 

* * *

 

Villa Mayer fu scossa da un ultimo fremito, come un corpo morente che, fino all’ultima stilla di energia, si oppone al trapasso. Lampi di luce accecante la attorniarono, come se dei silenziosi fulmini le stessero esplodendo tutto attorno. Fulmini e scariche che non scendevano dal cielo, ma che salivano dal suolo.

Infine, spaccata in due metà come dal colpo della scure di un gigante invisibile, la collina si aprì al di sotto dell’antica dimora. Con un sussulto mortale, ciò che ancora restava in piedi dell’edificio venne inghiottito nell’oscurità, illuminata a tratti da quei fulmini misteriosi e da rossori e bagliori arancioni che parvero emanare da un fuoco sotterraneo. Una nube di polvere si levò altissima, al di sopra della nebbia, confondendosi con essa. Una nuvola che, per un brevissimo istante, parve assumere le fattezze di un mostro orrido e sofferente. Poi anch’essa tornò a posarsi, mentre la collina collassava e crollava su se stessa, seppellendo per sempre ciò che avrebbe celato nei propri più oscuri e impenetrabili recessi.

Uno sbuffo di vento soffiò dal meridione, dissipando gli ultimi rimasugli di pulviscolo. Anche la nebbia, colta alla sprovvista da quell’aria tiepida e secca, cominciò a diradarsi, sollevandosi in fretta per poi disperdersi e lasciando comparire il cielo punteggiato da migliaia di stelle e di altri corpi celesti.

Fermi ai margini del bosco, coperti di polvere e malconci – ma grossomodo illesi – Alberto, Aurora, Daniele, Valeria, Sophia e Orso contemplarono il vuoto lasciato dalla villa. Poi alzarono gli occhi verso il cielo, che brillava di una purezza impareggiabile.

Avevano ancora nelle orecchie l’eco fastidioso del frastuono. L’assoluto silenzio che era disceso su tutta la vallata, adesso sembrava quasi assordante, come un ronzio incessante acceso dentro i timpani. Per qualche minuto nessuno osò parlare, perso a rincorrere chissà quali pensieri.

Fu Orso il primo a riscuotersi. Aveva tolto gli occhiali, perché le lenti si erano riempite di polvere, e li sorreggeva con la mano sinistra. Visto così, con gli occhioni liberi, sembrava più giovane di quanto fosse apparso fino a quel momento.

«Ecco», borbottò. «Ora avrò qualcosa in più da raccontare ai miei clienti.» Si portò la mano destra al viso e si sfregò la barba, cosparsa di polvere. «E tutto questo senza essermi scolato nemmeno una bottiglia intera di vecchio Jack.» Ripensò alla conversazione che aveva avuto con il dottor Bernasconi. «Ma quasi quasi, invece che raccontarla, questa storia la scrivo: così, chi vorrà, potrà leggersela anche tra un mucchio di anni, quando io sarò scomparso tra i boschi.»

Valeria era pallida e tremava. Aveva profonde occhiaie sotto gli occhi. Nonostante questo, aveva trovato la forza per sorridere.

«Pensavo di essere prigioniera di Edith Mayer», sussurrò. «Non avevo capito che anche lei era prigioniera, e da più tempo di me. Ma ora siamo libere. Libere tutte e due.»

Daniele le pose con garbo la mano sulla spalla. Lei sollevò la sua e gliela strinse.

«Grazie per essere rimasto con me», aggiunse.

Il ragazzo sorrise.

«Non ti avrei mai lasciata sola, anche se sono stato del tutto incapace di gestire la situazione…» mormorò. «Sei mia amica, Vale… è andata come doveva andare, non poteva essere diversamente…»

La ragazza si girò di scatto a fissarlo negli occhi. Nel suo sguardo acceso dalla luce eterea degli astri lontanissimi passò una consapevolezza nuova. I loro corpi si unirono in un abbraccio in cui vibrarono segreti da cui furono escluse le altre persone attorno a loro.

Sophia li fissò per un momento, sorridendo tra sé. Poi spostò lo sguardo su Aurora e Alberto. Lei si era appoggiata al tronco di un enorme faggio, che aveva ancora alcuni rami coperti di foglie gialle, e aveva infilato tra le labbra una sigaretta spenta. Era in preda al nervosismo, mentre si tastava le tasche alla ricerca di un accendino che non c’era più. Lui si era seduto direttamente sul terreno, con il fiato corto.

«Allora, tenente», disse la donna, con tono basso e roco, ammantato di qualcosa di ammaliante. «Ho fatto del mio meglio per aiutarvi tutti. Spero di aver in qualche modo rimediato ai miei errori. Ora, se desidera arrestarmi, sono a sua completa disposizione. Le vorrei soltanto chiedere di usarmi la cortesia di non mettermi le manette. Prometto che non tenterò di fuggire. Sa, alla mia età non ho voglia di vivere in latitanza.»

Alberto e Aurora si scambiarono uno sguardo fugace.

«Non ho tanta voglia di arrestare nessuno, ora come ora», borbottò Manfredi. Si rigirò tra le mani il basco che si era tolto. «Per questa notte, ne ho abbastanza di tutto. Ho fatto anche troppo. Con quella miseria che mi passa lo Stato e che hanno il coraggio di chiamare stipendio, poi…»

«Ma lasciamo che sia la giuria, a decidere che cosa ne sarà di lei, signora», soggiunse Aurora, masticando il filtro della sigaretta. Il suo sguardo corse su Daniele e Valeria, che si erano lasciati andare e li stavano guardando.

Sophia comprese l’antifona.

Si avvicinò alla ragazza.

«Piccola mia, mi dispiace tanto», sussurrò. «È stata colpa mia e di Joseph, se ti è accaduto tutto questo. Con quel libro abbiamo teso una trappola, senza nemmeno sapere chi avremmo voluto farci finire dentro. Tu hai avuto questa sfortuna. Potrai mai perdonarci?»

Lo sguardo di Valeria indagò i tratti misteriosi della donna che aveva di fronte a sé. Poi guardò il punto rimasto vuoto, dove era sorta Villa Mayer. Sollevò gli occhi alle stelle, e infine li posò su Daniele. Lo prese per la mano e gliela strinse.

«Non c’è nulla di cui debba perdonare nessuno», sussurrò. «Devo solo dirle grazie, signora.»

Daniele annuì.

«Sì, signora…» mormorò. «Grazie.»

Tra tutti e tre corse un sorriso complice, che Manfredi non comprese. Aurora forse sì. Orso, dal canto suo, aveva soltanto un pensiero per la testa.

«Visto che siamo tutti felici e contenti, che ne direste di toglierci da questo bosco e andare al caldo? Mi sto congelando persino i… insomma, fa un freddo boia! È novembre, se non ve ne siete accorti. E, per una volta che è andata via la nebbia, si gela ancora più del solito.»

«Puoi pure dire senza problemi che ti si stanno congelando i coglioni», rimarcò Aurora, con una delle sue smorfiette. «Siamo tra gente adulta, non c’è bisogno di censurarsi.»

Alberto grugnì qualcosa di incomprensibile. Aurora lo aiutò ad alzarsi.

«Va bene, andiamo pure», borbottò il tenente. «Io, però, non sono ancora troppo convinto di non sbattere in cella quel vecchio psichiatra convinto di essere onnipotente. Gli scienziati pazzi stanno bene e al sicuro dietro una porta blindata chiusa a doppia mandata dall’esterno. Non si sa mai, cos’altro potrebbe mettersi in testa di combinare.»

Nessuno trovò nulla da aggiungere.

Probabilmente, erano tutti quanti ancora troppo emozionati per riuscire a fare discorsi più lunghi di così. Di sicuro, nessuno di loro accusava la stanchezza di quella notte folle e indimenticabile. Erano ancora troppo scossi da tutto quello a cui avevano assistito e troppo carichi di adrenalina. Avrebbero dovuto aspettare che cessare di rombargli nelle vene e di scorrergli a fiumi impetuosi sotto la pelle, per sperare che la stanchezza e il sonno tornassero a calare nei loro corpi.

Per il momento, erano svegli e lo sarebbero stati ancora a lungo.

A passi lenti, dosando ogni movimento per non offrire troppe chance ai diversi dolori che provavano nelle ossa e nei muscoli, si avviarono lungo il sentierino che si faceva largo tra gli alberi oscuri del bosco.

Alle loro spalle, il vuoto di Villa Mayer fu un cielo nero e punteggiato di stelle meravigliose. Due stelle, in particolare, parvero brillare più delle altre, e si mossero insieme, affiancate, lasciando dietro di sé una scia variopinta e meravigliosa.

 

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Capitolo 31
*** 30. ***


30.

 

 

Orso mandò giù una generosa dose di whiskey aromatizzato al miele. L’alcol gli scese lungo la gola, senza quasi sortire nessun effetto apprezzabile – se non si teneva conto del suo fegato che, lentamente, bevuta dopo bevuta, dava il proprio addio al mondo. La prima volta che lo aveva assaggiato, tanti anni prima, si era sentito bruciare e ritorcere le budella, e aveva provato la sensazione di un fuoco acceso sulle guance e sulla fronte. Per finire un bicchierino scarso, quella volta, gli ci era voluta quasi una mezz’ora intera. Ora gli sembrava di aver ingollato qualcosa di poco più forte dell’acqua.

«Vecchio Jack, di questo passo mi toccherà sostituirti con qualcosa che faccia maggiore effetto», borbottò, guardando la bottiglia. Poi fece un sorriso rassicurante. «Figurati, non lo farò mai, non preoccuparti.»

Era seduto nel suo salotto, sul divano. Si era tolto di dosso gli abiti pieni di polvere e ne aveva indossati di puliti, sostanzialmente identici a quelli di prima: jeans, camicia e felpa. Aveva anche cercato di riordinare barba e capelli, dopo esserseli lavati alla meglio. Con risultati poco meno che scarsi.

Il gatto faceva le fusa, acciambellato sulla sua poltrona. Nel camino scoppiettava ancora qualche ciocco di legno. Sul display dello stereo lampeggiava il segnale della pausa, quasi che John Carpenter non vedesse l’ora di ricominciare a pestare sulla tastiera per riempire l’ambiente con la musica delle sue colonne sonore.

Orso puntò lo sguardo contro la finestra. Per una volta, non c’era più nebbia a premerci contro. Cosa rara, da quelle parti.

Più unica, che rara.

«Forse la nebbia faceva parte della maledizione di Villa Mayer, o quel cavolo che era davvero», borbottò. «Magari ora è andata via…»

Il gatto sollevò una mezza palpebra, non troppo interessato. Ripiombò subito nel sonno, all’inseguimento di topolini e uccellini onirici.

Orso si domandò se la nebbia sarebbe tornata ancora a fargli compagnia, o se fosse svanita per sempre. Sperò che non fosse così. Avrebbe sentito la sua mancanza. Ma magari era un segno: era venuto il momento di cambiare davvero vita. Doveva lasciarsi alle spalle tutto quello che gli era stato familiare fino a quel giorno, e gettarsi in nuovi tipi di avventure e di scoperte.

«Forse, appena i miei attuali clienti saranno partiti, farò meglio a chiudere l’affittacamere per un tempo indeterminato», si disse. «Mi sa che questo posto, di storie da raccontare, non ne ha più. Non sarebbe credibile, se ne avesse ancora. Dovrò andarmene a cercare altre da altre parti.»

Sorrise.

La cosa, in fin dei conti, non gli dispiaceva affatto. Avrebbe trovato altrove il materiale necessario per arricchire i suoi racconti, per farne nascere di nuovi, per dare vita a storie fantastiche in cui non si sarebbe più capito dove avesse termine il reale e inizio la fantasia. Sempre che sia davvero possibile discernere appieno tra l’una e l’altra cosa. Dopotutto, il mondo è un libro aperto: basta saperlo leggere, cogliendone le frasi migliori per poterle adoperare. Rubare un po’ qua e un po’ là per scrivere qualcosa di inedito, per imprimere sulla carta parole e frasi sempre nuove, sempre uguali e sempre diverse.

In fondo, scrivere non è altro che rubare pezzettini di un po’ di tutto, un po’ a tutti. A qualcuno di meno, a qualcun altro molto, molto di più. E, per quello che lo riguardava, non intendeva smettere: avrebbe continuato a osservare, rubare, raccontare.

Avrebbe continuato a scrivere.

Bevve un altro sorso di vecchio Jack addolcito dal sapore del miele. Il suo pensiero corse a Sophia.

Non riusciva ancora a capire se fosse stato lui, a salvare la vita di quella donna, portandola via da Villa Mayer, o se fosse stata lei a salvarlo, buttandolo fuori dalla finestra. Magari entrambe le cose si potevano considerare vere.

«Di sicuro, di voli dalla finestra ne ho avuti abbastanza», borbottò, rivolto al volto di Jasper Newton Daniel (per gli amici, Jack) impresso sul lato della bottiglia squadrata.

Ciò di cui Orso poteva dirsi certo, era che quella donna lo intrigava. Anche se l’aveva definita una vecchia cariatide, quella strana tizia gli piaceva. Gli piaceva tanto. Gli piaceva il mistero che le aleggiava attorno, gli piacevano gli arcani segreti che custodiva dentro di sé… e, lato non certo da scartare o da tenere in bassa considerazione, gli piaceva il suo corpo. Quando se l’era caricata in spalla e l’aveva sentita scalciare a quel modo, agitandoglisi addosso, non gli era affatto dispiaciuto.

«Magari potrebbe essere mia nonna», bofonchiò. «Ma è tanto di guadagnato, chissà. Non sono certo uno di quelli che si fanno fermare dalla differenza di età, basta che non ci siano minorenni di mezzo… e, in questo caso, mi pare proprio di no.»

Si domandò dove fosse in quel momento. Si erano separati all’ingresso del piccolo borgo. Lui e gli altri quattro avevano proseguito verso l’affittacamere, mentre Sophia era tornata a casa, dal dottor Bernasconi. Prima, però, lei gli aveva preso la mano nella sua e aveva sussurrato un: «Grazie.»

Lui non aveva potuto fare a meno di trattenersi.

«Ci vediamo», aveva risposto. Poi, quasi a cercare conferma: «Va bene?» aveva aggiunto.

«Va benissimo», aveva risposto Sophia, prima di lasciarlo andare.

Dentro di sé, provò un’involontaria punta di gelosia. Non poté farne a meno, sapendola insieme a quel vecchio rognoso. Avrebbe tanto desiderato averla lì con sé.

Sì, Orso lo avrebbe desiderato davvero tanto.

Un altro sorriso gli illuminò lo sguardo.

 

* * *

 

Sophia trovò il dottore ancora nel salotto. Era sprofondato in una logora poltrona di pelle, tutta macchiata e lacerata dal troppo uso, e sembrava più vecchio e fragile che mai. La stanza era fredda, perché il vecchio psichiatra aveva lasciato spegnere il camino, e il calore si era dissipato alla svelta.

«Joseph», lo chiamò, con un tono di voce non troppo alto ma nemmeno basso. Il tono che si utilizza quando non si è davvero sicuri che la persona invocata possa sentire.

Lui si riscosse. Non stava dormendo. Era soltanto stato catturato e avvolto da chissà quali pensieri. Da sotto le folte sopracciglia la guardò con aria interrogativa e curiosa, studiando il suo aspetto trasandato e la polvere di cui era ricoperta da capo a piedi.

«Joseph, è fatta», disse la donna.

Gli si avvicinò e si inginocchiò di fronte a lui. Gli posò la mano sinistra sul ginocchio, e con l’altra gli accarezzò il vecchio viso rugoso.

«Ho guardato oltre… mi sono addentrata nell’ipervelo…» sussurrò. «Ho parlato con Edith Mayer e con Marta, e le ho aiutate ad accettare la loro condizione. E ho visto anche tante altre cose… cose che riguardano il passato, il futuro e il presente. Il mio, il tuo… quello di tutte le anime. Ed è vero, Joseph, è tutto vero…»

Il vecchio chiuse per un istante gli occhi, beandosi del tocco delicato della donna con cui aveva condiviso per intero quell’esistenza terrena. Una delle tante. Lo aveva sempre sospettato, ma ora ne aveva la sicurezza.

Li riaprì.

«Troppo tardi per farne una pubblicazione scientifica seria, immagino», borbottò, ritrovando per un momento i suoi modi da uomo dedito allo studio e alla ricerca.

Sophia sorrise con dolcezza. Non smise di accarezzarlo.

«E a che servirebbe?» disse. «Come ti dissi già una volta, alla scienza compete questo mondo. Non può spingersi oltre, in ciò che non sa e non saprà mai spiegare.» La sua mano scese a cercare quella del vecchio e la strinse. «L’importante, ciò che davvero conta, Joseph, è che queste cose le sappiamo io, te e coloro a cui importano davvero. Per gli altri, sarà una scoperta incredibile e stupefacente, che avverrà coi tempi di ciascuno: qualcuno la accetterà, altri vi si opporranno… come è sempre stato, da quando le anime si sono incarnate per la prima volta nelle forme degli esseri umani.»

Bernasconi aggrottò le sopracciglia cespugliose.

«Chissà poi perché proprio negli esseri umani», si domandò, pensieroso e perplesso. «Chissà perché non in altri animali. Perché non in un topo, per esempio.»

«Chi può dirlo?» fece Sophia. «Forse, qui sulla Terra, era la forma più adattabile, quella migliore. In altre parti dell’Universo… chi può dirlo.»

«Già, chi può dirlo…» ripeté il dottore, con voce flebile.

Prese un lungo e faticoso respiro. La voce gli uscì quasi deformata dalla stanchezza che, sempre di più, si faceva largo dentro il suo corpo.

«E, comunque, sono incorreggibile», disse. «Ancora adesso, a questo punto, continuo a pormi interrogativi. Non posso farne a meno…»

Sophia gli si fece più vicina.

«Questo perché le anime non invecchiano mai», lo rassicurò, con un dolce sussurro. «Si arricchiscono, crescono, diventano consapevoli… ma restano sempre le stesse. Le anime sono antiche, non vecchie. Ricordi che io sono antica?»

Lo psichiatra annuì con debolezza.

«Anche tu lo sei», andò avanti lei. «Ora lo so. Forse l’ho sempre saputo, ma non te l’ho mai detto. E, questa notte, ho incontrato altre anime antiche e consapevoli della propria antichità…»

«Il tizio di quella specie di alberghetto? I due sbirri?» domandò Bernasconi, curioso.

Sophia assunse un’aria pensosa.

«Forse…» sussurrò. «Di due di loro sono abbastanza certa, di uno forse un po’ meno, non so, ma lasciamogli il tempo di accettare… forse una di quelle anime ha ancora diversa strada da compiere, prima di potersi davvero dire antica e consapevole: ogni anima ha bisogno di percorrere la propria strada, con i propri tempi. Ma non sono loro che avevo in mente, adesso.»

Il dottore emise un flebile singulto, quasi una specie di assenso. La sua testa parve annuire.

«Sophia…» soffiò, con la voce che moriva a poco a poco, «…Sophia… tu allora puoi promettermi che… che ci ritroveremo ancora? Perché, anche se non ho… se non ho mai avuto il coraggio di dirtelo… io ti ho sempre amata… e adesso…»

La delicata promessa che il dottor Joseph Bernasconi lesse negli occhi meravigliosi, neri, profondi e antichi di quella donna enigmatica, fu una risposta che valse più di mille parole. Perché quando due anime vibrano di un amore vero e intenso, che arde nel profondo, è destino che si ritrovino sempre, oltre la vita, oltre la morte.

Il vecchio non lasciò più andare quegli occhi. Fissò dentro gli occhi di Sophia, vi si immerse, mentre il loro nero senza eguali – quel nero così bello e confortante – si spandeva tutto attorno a lui, avvolgendolo come un caldo abbraccio.

Un nero profondo, remoto, oltre il quale anche lui, alla fine – o magari all’inizio, nel mezzo del cammino, chissà – poté vedere.

 

* * *

 

La cicca consumata della sigaretta non aveva ancora quasi toccato il terreno del cortile che Aurora già se ne stava accendendo un’altra. Una fiammata, uno sbuffo di fumo e l’odore di carta e di tabacco raggiunse ancora una volta le narici del tenente.

Alberto spostò il peso da un piede all’altro. La ghiaia scricchiolò sotto le sue suole. Cric-cric. Aveva cercato di tenere il conto delle sigarette che Aurora si era accesa da quando erano tornati e aveva recuperato un accendino nuovo dalla sua Punto, ma aveva rinunciato.

Impresa impossibile.

La notte era fredda. La nebbia, diradandosi, aveva lasciato il posto a un cielo sereno, di una bellezza incomparabile. Ma la bellezza ha i suoi lati negativi, a partire dalla temperatura, che in sua presenza tende ad abbassarsi oltremisura, quasi desiderasse preservarla il più a lungo possibile. Tutti e due continuavano a sbattere le ginocchia ed erano scossi da tremiti violenti. Però non avevano nessuna intenzione di rientrare nella loro stanza.

«Direi che, come primo giorno di vacanze, si è rivelato più interessante del previsto», commentò la giovane donna, tra un tiro e l’altro. «Come preludio, è stato divertente. Vedremo il resto…»

Manfredi, che si era appoggiato al cofano della macchina parcheggiata, la fissò con tanto d’occhi.

«Devo commentare per davvero?» sbottò. «No, perché, insomma…»

«Sto scherzando, Manfredino!» rise lei, interrompendolo. «Ti giuro che, per almeno dieci giorni, con le emozioni forti sono a posto! Voglio passare il resto di questa bella vacanzina distesa a letto, a farmi coccolare da te. È ancora valida la tua proposta di farmi un massaggio, sì?»

Alberto non aveva in mente il massaggio da farle, in quel momento. Era rimasto fermo alla prima parte della sua frase.

Per almeno dieci giorni…

Preferì sorvolare. Non aveva ancora imparato a riconoscere quando lei facesse sul serio o meno, e non gli parve il momento di indagare troppo a fondo, adesso. Sapeva più che bene che avrebbe potuto pentirsene.

Pentirsene amaramente.

Inoltre, aveva domande ben più pressanti, a gironzolargli nella mente.

«Ma secondo te è stato tutto vero?» domandò. C’era un vago tono di scetticismo, nella sua voce. «Intendo, è accaduto realmente, o ce lo siamo soltanto immaginato?»

Aurora fece un sorrisetto.

«Sei forse convinto che Orso ci abbia rifilato qualche droga allucinogena, con la cena? Magari nel ripieno di quelle sue fantastiche polpette?»

Manfredi ripensò al tipo.

«A vederlo, ne sarebbe senza dubbio capace…» commentò.

Aurora gli si avvicinò e gli passò il braccio attorno alle spalle. Si tolse di bocca la sigaretta, sorreggendola tra le dita della mano sinistra.

«Manfredino, posso capire il tuo punto di vista, anche se non lo condivido», disse. «Comprendo che, per te, è difficile accettare certe verità. E presumo che provare ad aggrapparti in ogni modo alla realtà che ti è familiare sia una sorta di autodifesa. Ma sento che, prima o dopo, anche tu finirai col renderti conto che il mondo non si limita a ciò che puoi vedere e toccare giorno per giorno con i tuoi occhi e con le tue mani.»

Aurora gli spazzolò la polvere che gli copriva gli indumenti.

«Però, ora come ora, devi almeno riconoscere che questo pulviscolo non è il frutto di una droga. E non lo sono nemmeno quei due ragazzi che Orso è stato così gentile da ospitare nel suo B&B senza chiedere nulla in cambio.»

Alberto mugugnò qualcosa di incomprensibile. Gli sarebbe piaciuto dire che non era affatto così, che lui non aveva una mente chiusa e tutto il resto. Ma si rese conto che sarebbe suonato fasullo.

Perché lui, nonostante tutto, continuava a mantenersi scettico. Per quello che lo riguardava, non era successo nulla di più che il crollo di un vecchio edificio e pochi altri fenomeni. Fenomeni che adesso faceva fatica a spiegarsi, ma che di certo una spiegazione logica e razionale dovevano pur averla, da qualche parte.

Sarebbe bastato cercarla.

Tanto per cambiare, fu come se Aurora gli avesse letto nel pensiero.

«Un giorno, io lo so, anche tu finirai coll’accogliere in te certe verità. È solo questione di tempo. E io sarò sempre con te per darti una manina, Manfredino. Non so se lo sai, ma stiamo entrando nell’Era dell’Aquario: l’era della consapevolezza nuova. Sono certa che tutto questo, in un modo o nell’altro, influirà anche su di te.»

Prima che lui avesse avuto il tempo anche soltanto per riflettere su quelle parole, Aurora lo aggirò e lo avvolse in un caldo e stretto abbraccio. Gli si premette addosso. Una delle più belle sensazioni possibili.

«Grazie, Manfredino», sussurrò. «Grazie per esserti preoccupato per me. Stavi rischiando tutto per correre ad aiutarmi…»

«E lo rifarei per sempre», disse lui, parlando contro la sua spalla.

Avrebbe desiderato chiederle spiegazioni. Su come avessero fatto lei, Daniele e Valeria a cavarsela senza un graffio, per esempio. O su che cosa avessero davvero visto, in quella strana notte. O che cosa significasse, quell’allusione alla nuova era che si stava preparando nel mondo. Queste e altre mille domande che gli affollavano la mente.

Ma non era il momento.

Restarono abbracciati, in silenzio, mentre all’orizzonte i primi raggi dell’aurora tingevano di viola il cielo.

 

* * *

 

Il getto dell’acqua bollente scrosciava dal rubinetto. Il vapore creava una nube che avvinghiava i due corpi, scaldandoli a poco a poco. La pelle, dopo il freddo intenso e pungente della notte, si arrossava velocemente e diventava pruriginosa, e le vene delle braccia e delle gambe pulsavano gonfie, in risalto sui muscoli stanchi.

Valeria e Daniele non si erano domandati nulla. Non si erano scambiati cenni d’intesa o mezze illusioni. Non avevano provato nemmeno una minima traccia di imbarazzo. Appena erano entrati nella camera dell’affittacamere che Orso aveva messo a loro disposizione, si erano tolti tutti i vestiti, erano entrati nel piccolo bagno e, non appena l’acqua aveva raggiunto la temperatura ideale, si erano lasciati scivolare insieme nella doccia.

Per qualche interminabile minuto non parlarono. Restarono muti, con gli occhi socchiusi, godendo del tepore che li avvolgeva, rinfrancandoli. Si sentirono distendere i muscoli e gli animi, mentre il grande spavento di quella notte defluiva via, nello scarico dove finiva l’acqua sporca e consumata.

Infine, cominciarono a rendersi davvero conto di dove si trovavano. Insieme, nudi, in una stretta cabina che stava diventando bollente.

Le gambe si sfiorarono. Il seno di Valeria, a un movimento, scivolò contro il petto di Daniele e poi restò a premervi contro. Le loro mani si toccarono. I loro inguini uno di fronte all’altro, quasi si cercarono. E i loro occhi si incontrarono, mentre le labbra si distendevano in un sorriso delicato.

Sarebbe potuta essere una stranissima situazione, se soltanto ci avessero pensato. Ma non ci pensarono. Continuarono a non provare nessun tipo di imbarazzo. Non ce ne sarebbero mai stati, tra loro due.

L’istinto prevalse. Si strinsero ancora di più uno contro l’altra. Si abbracciarono stretti e forte, godendo di quella sensazione di pelle su pelle, carne contro carne. I loro cuori poterono battere insieme, mentre l’acqua ribollente continuava a confortarli, ad aggiungere calore esterno a quello che sentivano esplodere dentro di sé.

Ci sarebbe stato il tempo, per fare l’amore. O forse non lo avrebbero fatto mai. Non lo sapevano e non era importante saperlo. Quello che contava, da quel momento e per sempre, era essere insieme. Il fatto di essere completamente nudi serviva soltanto ad accentuare quella sensazione di reciproco e profondo benessere che provavano nell’essere vicini.

Daniele spostò le labbra quel tanto che bastò per trovare la guancia di Valeria e lasciarvi un bacio. Lei lo imitò. Lui gliene diede un altro e lei fece lo stesso. Si guardarono e risero.

«Non credi che sia il caso di smettere di mettere in crisi le riserve idriche mondiali?» sussurrò Daniele, con una nuova risatina.

Anche Valeria ridacchiò di nuovo.

«Forse hai ragione», rispose.

Chiusero insieme il rubinetto, mettendoci sopra la mano nello stesso momento. Anche questo li fece ridere ancora una volta. Per un po’ non si mossero, restando abbracciati a godersi il caldo vaporoso rimasto intrappolato nella cabina della doccia.

Gli occhi di Valeria erano arrossati di stanchezza. Quelli di Daniele erano il loro specchio.

Lui le accarezzò i capelli grondanti, che l’acqua aveva appiattito e incollato alla testa.

«Non hai voglia di fare un po’ di nanna?» domandò.

Lei annuì adagio.

«Forse questa sarà la prima volta da tanti anni che potrò dormire serena», mormorò. C’era un che di incredulità e di paura, nella sua voce. Forse non riusciva ancora a capacitarsi che quella maledizione fosse stata spezzata. «Non riesco a crederci…» soggiunse infatti, a mezza voce.

Lui le avvicinò le labbra alla fronte per darle un altro bacio leggero e gentile.

«Sarà così, vedrai», promise.

La mano di Valeria scivolò lungo la schiena di Daniele e salì a stringergli il muscolo del braccio destro.

«Mi terrai abbracciata, per questa volta?» domandò, con tono quasi supplichevole.

«Questa e tutte le volte che vorrai», la rassicurò il ragazzo. Si morse il labbro, prima di dire ancora: «E tu terrai abbracciato me? Io…» deglutì, cercando le parole adatte per esprimere quello che aveva in mente. Vinse l’imbarazzo. «…io mi sento al sicuro, vicino a te. Prima avevo dentro un senso di vuoto che non mi lasciava mai e che in certi momenti era davvero opprimente, ma ora non c’è più.»

Valeria annuì, senza altre parole. Nel suo sguardo, però, sembrava aleggiare una domanda. Una domanda che non aveva davvero il coraggio di porre.

Uscirono dalla doccia tenendosi per mano, attenti a non scivolare sulle piastrelle gelide e inumidite dalla condensa. Furono percorsi da un brivido di freddo, quando si immersero in quell’ambiente più freddo. Daniele prese un asciugamano e, con estrema cura e delicatezza, tamponò il corpo di Valeria, asciugandolo con attenzione da ogni singola goccia d’acqua. Lei fece lo stesso con lui, attenta a non tralasciare un solo centimetro del suo corpo.

Poi, tenendosi stretti per la vita, si rimirarono nello specchio mezzo appannato. Erano stanchi e sfiniti, arrossati come se l’acqua bollente li avesse cotti. I loro capelli erano arricciati e spettinati, come ogni altro pelo che cresceva sui loro corpi. Sorrisero di rimando alle loro immagini riflesse.

«Siamo noi», disse Valeria. «Quei due lì siamo noi e siamo insieme.»

«Sì, siamo insieme», le fece eco Daniele.

Valeria sorrise.

«E siamo anche belli», constatò.

«Certo», confermò lui, annuendo. Poi ammiccò. «Tu, però, molto più di me.»

«Magari è questione di punti di vista», argomentò la ragazza.

Senza smettere di rimanere allacciati in quel modo, passarono nella camera. Disfarono in fretta il letto e, senza prendersi la briga nemmeno di indossare le mutande, si infilarono così com’erano sotto le coperte. Lenzuola e materasso erano gelidi, ma cominciarono subito a scaldarsi con i loro calori corporei. Si incontrarono proprio nel centro del letto e si avvinghiarono ancora, rannicchiandosi uno contro l’altra, vicinissimi. Le punte dei loro nasi si sfiorarono, i loro corpi si legarono, le gambe si intrecciarono. Le dita si strinsero.

Non dissero nulla. Chiusero gli occhi e cominciarono a respirare in modo sempre più profondo, disteso e regolare. Il sonno cominciò a distendere le sue dolci dita verso di loro.

Era bello stare insieme. Si sentivano al sicuro. Lui era lì per lei e lei per lui. La solitudine che avevano patito per tanti anni si era finalmente dissipata, dissolta chissà dove. Non sarebbero più stati soli.

Si erano cercati senza nemmeno saperlo.

Ora si erano ritrovati.

Prima che il sonno la sprofondasse nei sogni, Valeria trovò il coraggio di esprimere la domanda che l’aveva colta fin dal momento in cui, a rotta di collo, facendosi largo tra le macerie come una specie di Terminator implacabile, quella donna dai capelli rossi li aveva trascinati fuori da Villa Mayer.

«Se io ero Marta», sussurrò, «tu allora…» Non seppe nemmeno se Daniele l’avesse sentita. Forse dormiva già.

Invece era sveglio.

«Non me l’ero mai chiesto», mormorò lui. «Però so che con te sto bene. Mi piaci, Vale… ma c’è anche qualcosa di diverso. Qualcosa di più antico. È come se avessi sempre cercato di raggiungerti. Ora sono felice.»

Fece una breve pausa. Ascoltarono il silenzio, interrotto dai loro respiri.

«Ma per il resto, non so darti una risposta», disse poi. «Io so solo di essere Daniele. E che tu sei Valeria. Adesso conta questo.»

Lei annuì contro il cuscino. Non era troppo morbido – Orso doveva aver tenuto a mano sugli arredi delle stanze – ma era comunque comodo.

«Sì», disse. «Adesso conta questo.»

Si tennero ancora più stretti, avvinghiati in una dolcissima presa, e il sonno scivolò sui loro corpi e sulle loro anime.

Un sonno finalmente libero da angosce e da paure.

Ed entrambi si trovarono a vagare nei contorni irreali e fantastici dello stesso sogno.

Un sogno dove trionfò l’amore e soltanto quello.

 

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Capitolo 32
*** Epilogo ***


Epilogo

 

 

Sotto un cielo tinto di cobalto e solcato da qualche nuvoletta sfilacciata e vaporosa, il prato punteggiato di fiori dai mille colori ondeggiava placido nella brezza profumata. I raggi del dolce sole di primavera coloravano quella bellezza, esaltandola. Rondini in festa si inseguivano nell’aria, e farfalle variopinte danzavano di petalo in petalo, sulla scia delle api ronzanti e delle coccinelle volteggianti. Ai margini del campo verdeggiavano gli alberi secolari di un bosco senza fine, dal quale giungeva il misterioso stormire delle fronde, simile alla voce di mille creature fatate. Al di là del bosco, lontani sull’orizzonte si stagliavano monti altissimi e frastagliati, che racchiudevano segreti millenari e raccontavano storie meravigliose con le loro bocche di pietra.

Seduta sull’erba a gambe incrociate, il vestito di cotone leggero e dai colori tenui che si gonfiava nell’arietta tiepida che giocava con i suoi lunghi capelli neri, Edith faceva scivolare le dita tra i petali delle pratoline, delle primavere e delle violette. Gli steli morbidi le solleticavano i palmi, facendole nascere delicati sorrisi sulle labbra. La delicata fragranza dei fiori saliva alle sue narici, solleticandole e riempiendole della vaga estasi di una primavera indefinita, senza fine. Attorno a lei, occhieggiavano favagelli d’oro e veroniche azzurre, quei piccoli fiori che la tradizione popolare aveva sempre indicato come gli occhi della Madonna.

Un guizzo ramato attrasse la sua attenzione. Sollevò gli occhi nel riverbero della luce.

Marta era in piedi, ferma a pochi metri da lei. In una mano stringeva il fiore purpureo del trifoglio dei prati, e con l’altra ne staccava i piccoli petali per portarseli alle labbra e succhiarne il nettare che aveva il sapore del miele. Sorrideva. Il più bel sorriso che Edith ricordasse di aver mai visto.

Un sorriso contagioso. Anche le sue labbra, già solleticate da tutto questo, si dischiusero, facendola apparire ancora più bella di quanto già non fosse.

«Marta…» sussurrò. «Ti amo, Marta…»

La ragazza venne verso di lei, coprendo con i suoi piedi nudi i pochi metri che le separavano. Si abbassò, accoccolandosi al suo fianco. Profumava di fiori, di miele, di legno e di vaniglia. Un profumo che accelerò i battiti del cuore di Edith.

«Anche io ti amo, Edith», rispose. «E ti amerò per sempre.»

I loro corpi si allacciarono, le bocche si incontrarono nel più bello e più profondo dei baci. Si lasciarono andare sull’erba, e di nuovo furono soltanto loro.

Edith e Marta, per sempre.

I fiori danzarono nella brezza e le farfalle insieme a loro.



___

Questa storia è qui, se mai qualcuno avrà voglia di leggerla.

 

Potrei dire tante cose. Però mi limito a questa: riconosco di essere un brutto Orso che arraffa qua e là dalle meravigliose storie scritte da un bellissimo Topino biondo, come se avesse trovato un barattolino di miele dolcissimo in cui infilare le sue zampacce.
Scusami <3 <3 <3

 

 

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