Sulle vespe

di Cladzky
(/viewuser.php?uid=746970)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Limoni ***
Capitolo 2: *** Spelonca ***
Capitolo 3: *** Lacrime ***



Capitolo 1
*** Limoni ***


Sollevò la testa dal pentagramma di quella zagara, osservando la spiaggia dal ramo più alto dell’albero. Aveva lavorato al punto da vedere il sole sbocciare dal mare. Il cielo si acquerellava di un viola bagnato, mentre le poche nuvole s’incurvavano, fumose, in sudari trasparenti.  Il mare borbottava la sua solita cantilena, sfrigolante quanto la spuma salata che andava sciogliendo la sabbia. Non tirava un filo di vento e l’aria andava scaldandosi. Era il caso di tornare. Tentò di muoversi ma perse contatto su quel ripiano friabile e scivolò giù dalla cima delle antère, annaspando inutilmente, cadendo sul bronzeo fondo umido della campana e toccando di schiena il fusto fibroso del pistillo. Scosse il capo, ancora intorpidita dal sonno, mentre la neve dorata andava cadendo da quegli stami di polline che ancora vibravano del suo passaggio, ricoprendola d’uno strato di cenere gialla. Si abbassò le antenne a livello del viso, per poi passarsele in bocca pigramente, liberando da quelle proteine i suoi sensori dolorosamente pizzicati. Fece fatica a mandar giù quell’impasto dolciastro dopo averne già consumato a sufficienza due fiori fa e desistette a leccarsi il resto del corpo. Prima o poi sarebbe scivolato via, sicché non aveva setole per trattenerlo a lungo. Si rimise dritta, aggrappandosi alla superficie vellutata e fredda della corona, e fece per cascare dal sonno dopo quello sforzo, ma ebbe un fremito e considerò una migliore idea sgusciare fuori da quella penombra. Arrampicandosi per la fibra inclinata, si portò sul bordo di uno dei petali, che sporgeva di molto dalla pianta di limoni, cadendo perpendicolarmente dritta sull’erba una decina di metri più in basso. Riguadagnò il paesaggio di prima, abbandonando l’odore della caverna di nettare per venire molestata dall’aspro sentore degli agrumi, ma quantomeno i raggi le impedivano di gelare nell’atmosfera pregna d’acqua. Si guardò nuovamente intorno per riprendere l’orientamento. La marea, macchiata di verde all’aurora, saliva la spiaggia, al limitare del quale si trovava la pianta. Al lato opposto della testa, il suo occhio mirava contemporaneamente una collinetta rotonda, irta di senecione. Collegò i due punti di riferimento e le fu chiaro da dove fosse venuta. Dacché si guardava oltre le spalle, concentrò le sue orbite nere, e relativo ocello, davanti a sé per trasalire, non dal freddo stavolta, ma dallo strano essere che le apparve.

Era un imenottero, questo era sicuro, ma era talmente cotonoso nel pelo e di colore così sgargiante da esserle alieno. Le proporzioni, poi, lasciavano intendere un corpo che iniziava in un testone e andava a restringersi nell’addome. Un bombo forse? Ma le ali erano troppo sottili. Ebbe il desiderio di alzarsi in volo, ma non aveva il coraggio di fare la prima mossa. Inclinò il capo e così fece il nuovo arrivato. Che volto affilato che aveva sotto quella peluria, pareva una come lei. Arretrò per guadagnare terreno e quello non la seguì, addirittura fece un passo indietro a sua volta. Inspirò più lentamente dai propri stigmi e rilasciò un sospiro a vedere un comportamento così poco aggressivo e la creatura fece lo stesso, distendendo la testa. Prese a digrignare. Se la creatura non l’attaccava poteva darsi fosse stanca quanto lei, ma ora la stava innervosendo con queste imitazioni. Credeva di rendersi simpatica? Si avvicinò decisa e lo stesso fece l’essere. Si bloccò da quell’improvvisa iniziativa e si arrestò sulle proprie zampe tremolanti, battendo le mandibole dalla tensione e, prevedibilmente, così si arrestò a tremare l’avversario, inspessendo il proprio manto d’ambra, ma con ben più foga rispetto a lei, tanto da deformare l’intero suo aspetto. Un bagliore improvviso scaturì sopra di lui, accecandola. Distolse lo sguardo, massaggiandosi il viso, nascosto fra gli arti anteriori, accucciandosi. Vibrò le antenne. Nulla? Neppure un rumore o un odore di qualche insetto all’infuori di lei. Che fosse scappato? Tornò a guardare e vide il mare verde, brillare di riflesso del sole.

“Che stupida”, si disse, gorgogliando in un riso amaro e tornando a fronteggiare il suo rivale. Avanzò un tarso verso di lui e questo tese il proprio. S’incrociarono precisamente sulla punta, ma non sentì nulla di solido, solo la superficie di una goccia di rugiada che aderiva alla sua zampa. “Farsi ingannare dal proprio riflesso”.

La perletta d’acqua dava un’immagine ben curiosa rispetto a come si ricordava, ignorando la deformazione naturale della superficie convessa. Tutto quel pelo ocra, per esempio, da dove veniva? Girò il capo di novanta gradi e vide che il riflesso non mentiva. Da quel che vedeva dei suoi fianchi, dal torace fino all’ultimo urosternite, il polline di prima le era rimasto addosso, appiccicato dalla stessa umidità mattutina che aveva creato quel globo in cui si era specchiata. Ovvio che muoversi le risultasse tanto estenuante. Vibrò le ali e trovò pure quelle pesanti, lanose di granuli e difficili da scollare dal proprio dorso. Le mancò il respiro. Sentì un solletichio elettrico agli stigmi e scoprì anch’essi intasati. Saltò un paio di respiri, alzò l’addome e rilasciò la cosa più vicina che un insetto potesse avere a uno starnuto. Niente da fare, doveva aspettare di asciugarsi al sole.

Percepì un ronzio con le sue antenne libere. Stavolta non c’era inganno, era il rumore di qualcun altro che si avvicinava. Tendendo per bene i suoi flagelli lo trovò sopra la propria testa. S’issò per osservare quel bruscolino nero cirolare la pianta un metro più in alto, con movimenti rilassati e pesanti. Riconobbe le manovre. Doveva trattarsi di un’ape. S’irrigidì nel tentativo di smuovere le ali abbastanza velocemente, ma le due paia si erano incollate fra loro in quell’impasto argilloso di polline bagnato. Il suo addome prese a palpitare più di prima e sentì un suo settimo arto grattare la superficie del fiore. Aveva estratto il pungiglione istintivamente. Osservò l’ape circolare un altro paio di volte. Forse si sarebbe potuta posare su un’altra di quelle zagare della cima ma ovviamente non lo fece. Precedentemente aveva già consumato le secrezioni degli altri fiori dopo il suo lungo viaggio e solo quello sopra cui si trovava era stato lasciato intonso, dacché era sazia. Individuando dunque il più invitante pasto, la mellifera scese nella sua direzione con larghe curve. Sapendo di non poter correre abbastanza veloce da seminarla, di poter volare affatto o di poter combattere dato il suo torpore, decise che mostrarsi innocua fosse l’azione migliore. Camminò all’indietro lungo il petalo, lontano dagli stami, sempre mantenendo gli occhi sul profilo dell’ape in avvicinamento. Si era fatta tanto prossima da poterne distinguere i profili ingrossati delle corbicule nelle zampe posteriori, le antenne nere e la criniera color miele che dalla testa gli vestiva il torace. Cercò di mantenere un atteggiamento placido ma non indifeso e trattenne un sobbalzo quando questa si poggiò dinnanzi a lei. Appena più minuta in statura, l’ape prese a grattarsi il capo dalle forme rotondeggianti senza alcuna fretta di finire. Lei continuò ad arretrare nella speranza di non venire calcolata, fino a sfiorare, rabbrividendo, la goccia di rugiada con la punta dell’addome. Durò un momento il gelo, appena per farle scappare un gridolino al sentirselo salire per la schiena, poi la perletta scivolò via, sospinta sull’estremità del petalo. Quest’ultimo si inclinò leggermente per il cambio di peso, piegandosi verso il basso. Girò la testa, ignorando momentaneamente la nuova arrivata per vedere quella pesante sfera rotolare via, in procinto di cadere. Si assicurò per bene alla fibra bianca della zagara, aderendo alla superficie con il torace. La goccia cadde e rilasciò del proprio peso il petalo, piegato come il braccio di un trabucco, che scattò verso l’alto. Lo slancio verticale le staccò l’anima dal corpo. Quando il petalo tornò come un elastico indietro, il suo corpo rimase sospeso per aria, senza presa sulla superficie. Cadde a peso morto e fece di tutto per issarsi su quella fibra, ma era fin troppo umida per una presa al volo e i suoi empodi scivolarono sul bianco.

“Oh” Fu il suo unico verso mentre le sue zampe posteriori già sentivano il vuoto sotto di lei. Di norma non doveva temere le cadute, ma chi lo sapeva che tutto quel polline non l’avesse appesantita abbastanza da schiantare al suolo? Chissà poi che non cadesse proprio sopra un formicaio, così frequenti fra le radici degli alberi, o l’attendesse qualche geco, lucertola, o peggio, una sua simile e parassitaria muratrice. Sbatté le ali, ma ancora si muovevano appena e goffe. Già vedeva il cielo ora che il suo corpo era perpendicolare al terreno, in attesa che scivolassero via anche le sue ultime paia di zampe, ma non lo vide allontanarsi. Due tardi adesivi si chiusero intorno il suo torace e poi un altro paio l’afferrarono ai lati della testa. Un paio ancora, stavolta di occhi a specchio al retrogusto di mirtillo, la scrutarono dalle orbite di una testa appiattita e dal morbido villo leggerissimo. Con la sola forza delle zampe posteriori, la nuova arrivata impediva ad ambo i loro corpi di precipitare, sfregando il petalo con il petto, distesa in avanti. Perché protendersi ad aiutarla? Non vi era motivo per impedire l’allontanamento di una sua competitrice, eppure faceva di tutto per tirarla su, agitando i suoi segmenti chetinosi lucidi all’alba. Le unghie dell’ape andavano però anch’esse a slittare in avanti. Non aveva la forza di tirarla su del tutto. Senza pensare accettò l’aiuto e saldò con precisione le proprie nella fibra della foglia, sollevandosi con una trazione. L’ape indietreggiò, lei si fece avanti. E ora che voleva fare? Api come lei, mellifere, non erano certo carnivore a differenze di certe loro simili, quindi perché non la lasciava andare? Detto fatto, la paffuta mollò la presa dalla sua testa e torace solo per avvicinarsi ancora di più e finirle con la testa triangolare dietro la propria, poggiandole la ligula sul collo, chiudendovi le mandibole intorno per tenerla ferma. Si scosse violentemente e questo bastò a far arretrare l'inopportuna salvatrice, che rimase immobile, con una zampa sospesa in un giro incompleto a osservarla chinando il capo, con mezzo boccone di polline in bocca. Infine si girò del tutto, volando con un balzo energico sulla cima delle antère.

“Chiaro” Considerò rigirando il collo, ancora disturbata da quel tocco “Se neppure io potevo riconoscermi così conciata, come poteva un’ape?” E si scosse un poco di granuli dall’ocello. “Il mio odore dev’essere stato celato come il mio aspetto. Potrebbe avermi confusa per l’operaia di un’altro nido o che so io”. Proseguì a speculare, camminando giù per il ricettacolo della zagara, non prima di aver buttato un’occhiata a quell’altra che andava a ricoprirsi come lei di gameti. Scese fino a un buon punto illuminato dal sole che si alzava timido, fino a capitare sopra la calda superficie di uno dei limoni. Tutto quel polline le rendeva più sopportabile l’odore di quell’agrume e finalmente potè scollegare parte del cervello e riposare le sue membra sfinite. Tutto il mondo si fece fioco e sfumato, mentre il gelo andava fugato dal calore penetrante del mattino. La brezza marina cominciò ad alzarsi, agitando le fronde della pianta, ma salda era la sua presa sulle rughe della buccia. Passò qualche secondo e ancora non sentiva il bisogno di muovere una zampa. Doveva essere proprio stanca per ristorare così a lungo e patire il solo stare in piedi. Erano avvenute così tante tangenti a farle perdere tempo, dalla scivolata, al riflesso, all’apparizione dell’ape, che si era dimenticata di nuovo i suoi punti di riferimento per tornare indietro. Bah, li avrebbe ristabiliti ancora una volta svegliatasi. 

Un volteggiare turbò il suo sonno. Era l’ape di prima quel bruscolino che a malapena vedeva sfregare il rosa del cielo? No, ne avrebbe udito il ronzio. Quei movimenti ampi lasciavano intendere una massa maggiore e quell’apertura alare… Era un uccello, ma di che tipo. Provò a metterlo a fuoco. Quell’arcobaleno di penne, quelle ali taglienti da libellula, quel lungo becco, quelle piccole zampette chiare. Era un gruccione. Non poteva proprio avere un attimo di pausa, vero? Non le riuscì di muoversi come le impartiva l’istinto. Stanca com’era non sarebbe andata lontano a piedi e le ali ancora non si erano asciugate del tutto da quella segatura bagnata. Richiuse il collegamento con gli occhi e tornò al suo riposo snervante, piacevole ma così scoperto, abbassando le antenne. Se non si fosse mossa non l’avrebbe vista, ma era dura non vedere una macchia nera come lei su un limone maturo. Nera? Ma no, lei non era più nera, come aveva visto lei stessa e l’ape pocanzi. La brezza fece vibrare il manto di polline dal suo dorso. Se era gialla come credeva poteva anche credere di non essere avvistata dagli occhi saettanti di quel merope azzurrino. Ma il gruccione scese ugualmente verso la loro pianta con una virata improvvisa. Ecco, era finita, muoversi adesso era inutile, ma era preferibile che aspettare la morte. Con passi tremolanti scese lungo l’equatore dell’aspro elissoide, fino a tornare nell’ombra. Udì il trillo lacerante del gruccione, un frullare d’ali e infine, impercettibile a chi manca di antenne, l’orrore di un imenottero. Ma tutto questo avvenne alla sua sinistra, più in alto. La zagara dondolava, strappata nei suoi petali dal passaggio di unghie da rapace, lo stesso che ora si allontanava, lasciandosi dietro, nella polvere di polline, solo una piccola ala trasparente, preda della brezza salata.

“Se fosse un mondo giusto, una buona samaritana come lei non sarebbe finita così”. Ponderò, guardandosi intorno. Da una parte la spiaggia, lambita dal verde, da un’altra il colle di senecione. Troppo giallo per i suoi gusti quel giorno. Scordò l’ape e prese vibrare le ali. Finalmente si erano asciugate e la polvere andava staccandosi dal suo corpo. Si scrollò un altro poco per alleggerirsi fino a lasciarsi cadere dal frutto. Compì una parabola rovesciata in planata e riprese quota con la spinta della caduta. Battè le ali finché non gli fu possibile mantenere l’assetto di volo e si allontanò dall’albero, verso l’entroterra. Sarebbe stato un viaggio lungo quanto l’andata. Si leccò un poco di gameti che gli erano rimasti sul metatarso per tirarsi su di morale. Funzionò e cominciò a fare una lista di tutte le cose che avrebbe riferito al vespaio, distratta però da una canzoncina da operaia che gli tornava ora alla mente sulle carcasse e i fiori.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Spelonca ***



    Il viaggio di ritorno fu più lungo di quanto si aspettasse: dopo ben due minuti ancora non aveva superato la collina di senecione ai cui piedi era appena giunta, oltrepassando il campo di terreno brullo. Un’ombra alla coda dell’occhio le fece abbassare quota fino a raschiare terra, schivò delle giovani marruche e sparì con un guizzo sotto una pila di ciottoli, dove si fece andare il sangue alla testa con un movimento sull’asse di volo e si fermò con uno strattone, tenendosi salda a penzoloni dalla superficie fredda del masso all’ombra, molto più morbida di quanto si aspettasse. L’ombra, proiettata diagonalmente dal sole, si portò velocemente sul tracciato secco che lei stessa aveva percorso due istanti fa, entrando da sinistra e ingrossando sempre di più. Provò a trattenere il fiato e strinse la presa sul masso di spugna filamentosa, ma non riuscì a smettere di tremare, osservando la bocca dell’insenatura in cui si era infilata. Ormai tutto il polline le era scivolato di dosso, ridotto in polvere disidratata. L’ombra si era finalmente allineata con il suo precedente tragitto e di colpo si connesse con la sfumatura azzurrina cui apparteneva. Il gruccione piombò con uno schiocco d’ali lì di fronte e infilò il volto affilato nell’insenatura, protendendosi tanto in avanti da alzare le piume del collo, aprendo il duro becco e scuro per chiuderlo immediatamente abbastanza forte da farle sentire un colpo d’aria calda sulla schiena. Con la testa a guardarsi oltre la spalla, mirò quell’essere mai così vicino prima d’ora, che per lei era sempre stato un’ombra da evitare secondo il consiglio delle anziane. Ebbe un moto nel cuore e affossò la testa sul torace, girando di centoottanta gradi, non perchè potesse difendersi ma per l’irrazionale istinto di poter essere meno vulnerabile se aveva il nemico innanzi a sé. Studiandoselo meglio aveva un aspetto ancora più spaventoso di quanto descrittogli, specie con un aspetto tanto vivo, con le semichiuse e spettinate ai lati del corpo, le palpebre degli occhi sgranate e rugose, a scoprire delle scintille rosse, quasi magenta e soprattutto una bocca fetidica, scoperta da quel portale in ranfoteca, che metteva in mostra le sue interiore mollicce di una lingua ruvida che non smetteva più di tremolare che dava su una gola di muscoli biancastri in continuo movimento compressorio e fu lì, appicicata al palato, che la vide. La zampa recisa nella deglutazione dell’ape di poco fa, così fresca da sembrare di poter scalciare. Fu la visione di pochi secondi. Il gruccione, continuando a sbattere il muso da ogni parte, aveva capito di non potere sgusciare abbastanza in profondità da entrare, fermandosi con abbastanza centimetri da lei. Richiuse il becco, si guardò deluso in giro, sbuffò e si tirò indietro, dopo aver riempito l’intero anfratto del suo alito, sbloccando l’ingresso alla luce del mattino.

    “Sia lodata” Si ricordò di respirare, mentre osservava la bestia passare gli artigli sul terreno, sollevando un polverone, e volare via, generando una tale corrente dentro la spelonca da farle perdere la presa dal soffitto. Prefigurando di sbattere sulla roccia, fu abbastanza sorpresa di cadere sullo stesso morbido materiale a cui si era tenuta aggrappata. Non aveva mai sentito di nuvole dentro le caverne, ma se per questo neppure di api che aiutavano le vespe. Si rimise in piedi abbastanza a fatica dato il terreno non proprio stabile. Appendirvici come liane era facile, ma da calpestare era come fare pressione su delle molle. Quando credeva di essere riuscita a issarsi, ecco che distribuì troppo peso in avanti e la nuvola si era piegata sotto di lei, facendola piombare di faccia. Non si fece male a contatto con il terreno, infatti il suo viso passò attraverso i suoi filamenti, fino a bloccarsi a livello delle spalle, troppo larghe per la rete. Scosse il capo e tendette le antenne. Non convinta, stirando il collo, riuscì a raggiungere uno dei verdi filamenti più vicini e dargli un morso. Muschio, constatò sputando immediatamente dopo. Provò ad alzarsi una prima volta, ma finì solo per fare la verticale. Ritentò, abbassando l’addome che andava arricciando, per spingere indietro piuttosto che verso l’alto, solo per sentirsi gli angoli del suo capo bloccati dalla matassa di piante legate troppo strette, per quanto flessibili. Il suo viso a punta aveva facilitato l’incastro, ma la sua nuca piatta non le permetteva di liberarsi. “E mi sta pure venendo sete”, si disse.

    Proprio allora, riposando fra uno sforzo e l’altro, bastò il rumore di una goccia che casca in una pozzanghera a soverchiare il lontano indugiare del mare sulla spiaggia. Drizzò ogni suo muscolo. Quel muschio non poteva essere nato dal nulla. Assetata moltiplicò i sui sforzi, ma finì solo per sentirsi decapitare a forza di tirare contro quelle funi. Camminò intorno per trovare una sistemazione più favorevole ma fece solo un giro con perno la testa. Provò a mettersi di profilo per slittare tra le funi, ma si sentì quasi strappare antenne, troppo protendenti. Avrebbe potuto provare a strappare quei filamenti a morsi, ma in tutto quel movimento si era solo intrappolata ancora di più nella matassa e non poteva più sollevare le mandibole verso un legame che un altro lo tratteneva. Prese a maledirsi per la sua avventatezza. Da quanto tempo si trovava in questa situazione? Trenta secondi? Che ritardo, disperò mentre lottava per togliersi un legaccio di muschio che le stringeva un’antenna alla fronte che già un altro gli passava sopra l’ocello, mentre un altro ancora le si era attorcigliato sugli gnatiti, chiudendole la bocca in un sapore d’alga. Cominciava a farle male il collo dall’angolo retto che era costretto ad assumere. Ponderò sulle sue possibilità, ma non le veniva in mente nulla. Possibile che fosse appena scappata ad un gruccione solo per finire vittima di un maledetto strato di muschio? Riuscì con uno strattone a divincolare almeno le antenne, doloranti da quella stretta. Con movimenti palpitanti e lenti di queste ultime, scansionò il circondario. L’infiltrazione continuava a battere il suo tamburello di scherno goccia dopo goccia, a pochi passi ma irraggiungibile per la sua ligula. Ma ecco un altro rumore, la camminata di sei zampe leggerissime, le giungeva. L’individuo non creava rumore eccetto nello strappare le unghie dal muschio sul quale poggiava senza sforzo. Il rumore era troppo indistinto da poter riconoscere che razza di animale fosse e avrebbe dovuto passarsi le stregghie sui suoi flagelli per acuirli, ma preferì usare i suoi tarsi per moltiplicare i suoi sforzi di liberarsi da quella maglia troppo flessibile per spezzarsi. L’oggetto era più vicino dell’acqua. Cosa poteva vivere in quella spelonca bagnata? Un gerride forse uscito dallo stagnetto non sarebbe stato un problema in un contesto normale: aveva sentito dire che fossero piuttosto leggeri e poco armati, ma questo non era un contesto normale e l’avrebbe sopraffatta così com’era sistemata. Sfoderò il pungiglione inquieta, ma come avrebbe potuto pungere un gerride se neanche riusciva ad alzare la testa dalla sua buca d’intrecci? Peggio ancora se si trattava di qualcosa di più pesante, come uno scarabeo, allora non ci sarebbe stato nulla da fare neanche se fosse stata libera se non fuggire. Provò quantomeno a dargli le spalle, mostrando il fondo dell’addome da cui fuoriusciva a battiti accellerati l’arpione velenoso. Era il massimo che poteva fare. Nella fretta mise nuovamente male il peso, avvicinando troppo le zampe l’una all’altre sei per alzare meglio la sua unica arma, con il risultato di concentrare il peso abbastanza da far sprofondare anch’esse e, prima che se ne rendesse conto, nel movimento scoordinato di issarsi alle funi vegetali per risalire, si erano ingarbugliate nelle stesse. Per la prima volta nella sua giovane vita, un’area del suo cervello, finora rimasta inutilizzata, cominciò a dosare adrenalina nella sua emolinfa, destandola dal suo torpore mentale di impassibilità all'ineluttabile natura. Se prima il dibattere del cuore era un riflesso incondizionato del suo corpo al pericolo, ora era la cosciente risposta all’angoscia di morire che le tagliava il respiro.

    “Indietro!” Inalò e provò a gridare a chiunque le si avvicinasse la peggiore delle minacce, con la voce rotta, sapendo di non poter essere compresa,  “Sono una vespa!”

    “Anch’io” Replicò una voce agrodolce di tono ed età alle sue spalle. Che miracolo, sospirò la giovane, sentendo svanire quel terrore per l’ignoto che l’attanagliava e lasciandosi andare, senza più lottare contro i suoi legacci. Questa salvatrice le giunse accanto, posandole un tarso fra le ali per reggersi meglio e si genoflesse. Presto potè percepire delle mandibole, più grandi delle sue, lavorarle intorno una zampa, fino a sciogliere, con un sentito taglio, il muschio, per poi spostarsi e lavorare alla successiva. Cominciò a conversare, fra una lacerazione e l’altra, parlando come se non avesse interlocutori al di fuori di sè. “Hai un nome”.

Non capendo bene se fosse una domanda, replicò imbarazzata, data la loro disposizione.

“Cinquantasette Quarti”, disse mentre scuoteva con cautela la gamba liberata per paura di incastrarla di nuovo.

“È un nome curioso” Osservò l’altra, finendo di districare la seconda, pulendosi la bocca.

“A me sembra chiaro” Obiettò, con voce sinceramente sorpresa “Sono la cinquantasettesima vespa nata nella quarta generazione di quest’anno”.

“Oh” Sospese un momento il lavoro quella più attardata “Quindi sei una di quelle vespe”.

“Che vuoi dire?” Cercò di voltarsi Cinquantasette Quarti, solo per rimanere invischiata in funi ancora non rimosse, limitandosi a parlare ancora una volta al pavimento dell’anfratto sottostante lo strato di muschio. “Tu non sei come me?”.

“Affatto” Si fermò per strappare il terzo blocco e riprese, camminandole sopra la schiena per giungere dall’altro fianco. La giovane trattenne una risata a sentirsi lisciare il dorso dalle sue setole fini “Stavo giust'ora allargando il nido”.

“Oh!” S’illuminò nel buio umido della pianta l’operaia, stringendo dalla sorpresa le zampe libere su sè stesse e arricciando l’addome. “Non c'è da stupirsi se hai mandibole così forti allora. Anch'io stavo per diventare un'impastatrice cartonaia, ma hanno detto che sono troppo lenta a lavorare il legno e come vedi non sarei mai riuscita a uscire da quest'impiccio non fosse stato per te. Dimmi, è curioso trovarti qua sotto però, è già tanto che io sia giunta fin qui. Oh, forse ho capito, ti serviva dell'acqua da collante, vero? Ero certa di avere fatto una bella scoperta a trovare questa infiltrazione e invece vedo che già tu...”

“Per favore, risparmia parole e movimenti, ti stai annodando nel filo che ho sciolto” La rimbrottò senza rabbia nella voce la grossa vespa. “Chiamami Sappho”.

“Sappho?” Non riuscì a trattenersi Cinquantasette Quarti, per poi scuotere la testa in disapprovazione di sè stessa, mordendosi la ligula al non essere riuscita a rispettare un'ordine appena datogli. "A me questo sembra un nome curioso".

"Non mi è stato dato, me lo sono scelto".

"Scelto?" Rizzò il capo dalla sorpresa solo per essere sbattuta giù di nuovo con forza elastica "Non sapevo che la vostra casta avesse questa libertà".

"Non è un diritto della mia casta, chiunque può farlo".

"Davvero?" Cinquantasette Quarti roteò i sensori flagellati, ma ancora non sentiva ormoni conosciuti. E dire che di muratrici ne aveva incontrate, ma questa era tutta particolare, non solo nel discorrere. Se solo avesse potuto vederla in faccia! Invece poteva solo basarsi sulla sensazione di quel tarso posatole sul dorso, lieve ma inamovibile nella morsa di arolio e pulvilli chiusi sottovuoto. Ogni tanto le sfioravano il fianco due mandibole spesse come ossa rinsecchite, preavviso di una grossezza che tradiva quel leggero movimento. Forse è una regina, rimuginò. Aveva sentito, per voci di corridoio, che fosse appena stata prodotta una nuova madre per poter dividere l'alveare sovrappopolato, ma non sapeva fosse già uscita dallo stadio larvale. Certo, certe cose rimanevano nello stretto cerchio della sua corte fino al volo nuziale e in tal caso, se aveva incontrato chi pensava che fosse, aveva fatto proprio una bella figura a osare discutere con una regina. Le avrebbe evitato così tanto timore riuscire a capire con chi stesse parlando. Tutto quel che sapeva era che si trattava di una vespa, ma era poi vero? Dopotutto aveva solo la sua parola come prova. Ma che assurdità, se non fosse stata una vespa come avrebbero potuto comunicare altrimenti? Inoltre, avesse voluto farle del male, perché liberarla e non approfittarne? Eppure, quella prova di sincerità nelle intenzioni, non acquietava la sua preoccupazione per quegli ormoni così strani. Inoltre, il ridicolo di essersi infilata in una tale condizione per la sua goffaggine, era quasi peggio dell’idea che ne sarebbe lentamente morta sola e lontana da casa, non fosse passato qualcuno a salvarla. Senza contare poi la colpa più grave di tutte. Erano passati quasi sei  minuti e ancora il suo viaggio di ritorno non era concluso. Che ritardo, si diceva, che ritardo per il vespaio.

“Fatto” Esclamò la voce e, senza che se ne fosse accorta, tutti i suoi arti da esapoda erano ora liberi. Provò a issarsi in piedi, ma il tarso di Sappho spinse contro i suoi sforzi, facilmente abbassandola di nuovo al suolo. “Ancora no”, fu quel che bisbigliò prima di abbassarsi a lavorare sul nodo che le stringeva il volto.

Ecco, si era abbassata al suo cono di visione con una testa piuttosto ingombrante, ma decisamente triangolare come la sua, ma era talmente buio sotto il muschio che i dettagli del viso andavano persi in quell’ombra marcia. Le sue mandibole, ancora chiuse, non completavano la forma geometrica del volto, anzi, protendevano in lame molto seghettate, mentre le sue antenne, sollevate in verticale fuori dall’intrico, uscivano dalla sua visuale tanto erano lunghe. Aprì la bocca, si avvicinò alle lenti dei suoi occhi e la richiuse con uno scatto che fendette l’aria nel generare un rumore di forbici. Invece che tagliarle il bulbo oculare, quelle sciabole si chiusero sopra la corda fibrosa che le attraversava la fronte e copriva l’ocello. Passò poi, con similare avventatezza nell’usare quelle mandibole, a strapparle di dosso ogni restante filamento. Al passaggio di quei coltelli, Cinquantasette Quarti considerò saggio chiudere ognuno dei suoi cinque condotti visivi e aspettare che fosse finita. L’ultimo schiocco giunse poco dopo.

“Ora puoi alzarti” Fu più lontana la voce di Sappho, già sollevatasi. Subito riaccese i suoi occhi composti e tentò di buttare la testa all’indietro così da rimetterla parallela al corpo, ma una fitta di dolore al collo glielo impedì e gemette. Tornò in piedi, a capo chino, con il volto segnato da quella morsa e ancora dolorante da quella innaturale posizione che era stata costretta ad assumere. Senza essersi spostata, la voce riprese. “Tutto bene?”

“Solo un po’ di torcicollo” Rispose mugugnando, guardando la buca nel muschio in cui poggiava, scavata da chi le stava di fronte. “Conosci un rimedio?”

“Potrei provare a scrocchiartelo a posto”.

“Aspettare che sparisca sembra un’ottima idea” Con fatica riuscì a sollevare lo sguardo da terra. Di fronte a sé si parò l’alta figura della sua salvatrice, grossomodo delle dimensioni che si era immaginata, ma nondimeno sorprendenti, frapposta fra lei e l’entrata, così abbacinante, seppure alle prime luci del mattino, ai suoi occhi finora forzati al buio del sottostrato, tanto che, per contrasto, Sappho le sembrava nera come inchiostro. Ma è solo la silhouette, si diceva, scuotendo la testa per togliersi i frammenti di verde dal viso. Tornò a osservarla, ma all’infuori di sfumature arance alle estremità del corpo, non vide il manto caratteristico della sua razza. Anzi, parlando di manto, le peculiarità crescevano, considerando che, pur in contrasto con il sole, neanche un minimo di peluria appariva a fargli da aurea bianca sulla sua cheratina dai riflessi di ceramica. Quelle antenne, così lunghe come aveva già visto, erano ancora più lunghe viste per intero e proiettavano un’ombra, sul suo viso, ipnotica nella forma incurvata che avevano sul finire i flagelli, quasi a formare due cerchi, in maniera che non aveva visto neppure coronare le più bizzarre falene.

“Beh, neppure un grazie?” Chiese quella, voltandosi un poco per osservarla meglio coi suoi occhi laterali. Così facendo, scoprì un profilo ben riconoscibile nel suo vitino lungo e sottile a terminare in una goccia d’addome. Quelle lunghe, opache ali rossicce lasciavano traslare una luce di sangue a coprirla. Dove gli ormoni erano illeggibili, le proporzioni rievocavano la base dell’apprendistato larvale delle nutrici.

“Sei una vasaia!” Strepitò e subito si alzò in volo, salendo verticalmente. Da quell’altezza aveva ancora di più l’aspetto di una grossa formica piuttosto che una vespa. Gli erano state riferite molte cose terribili sulle vasaie, ma non che fossero delle ottime volatili in ambienti stretti. Difatti non la seguì. Sappho levò gli occhi al soffitto, dove Cinquantasette Quarti si era appena aggrappata, ciondolando appena le antenne con fare svogliato.

“Sì” Ammise, abbassando la lunga coda svilita “Ma non avere paura”.

“Parli così perché vuoi che scenda” Insistè la più piccola “Ma non fido. Mi hai già mentito dicendo di essere una vespa, ma so come siete in realtà”.

“E come siamo?” Si strofinò le zampe frontali, inclinando il capo.

“So che le vostre larve sono carnivore” Cercò di ripassare a memoria ogni avvertimento delle nutrici “E che paralizzate altri animali da trascinare ai vostri nidi per sfamarle”.

“Non fate così anche voi?” Si toccò la guancia Sappho.

“Sì, ma non è una questione di morale, è che non voglio fare la stessa fine” E detto questo scattò verso l’uscita con un sonoro ronzio da riecheggiare nell’intero anfratto da quanto si sforzava a filare. Era vero che le vasaie non si muovevano bene, con la loro aerodinamica, in spazi angusti come quello, ma appena uscite sarebbe stata tutta un’altra faccenda. Si diceva che fosse impossibile seminarle, quindi era meglio mettere più vantaggio possibile fra loro e sperare che si trattasse di un'esagerazione. Nel mentre sorvolava rapidamente la sconosciuta, lasciandosela alle spalle, avvertì però il sentore di una vecchia conoscenza. Possibile che non se ne fosse andato? Rallentò la sua fuga, indugiando all’uscita, giusto in tempo per vedere saettarle davanti, rovesciato, il collo arruffato di un rettile in affondo. Quel lampo azzurrino calava la testa dalla cima del masso sotto il quale si era rifugiata. Era stato lì tutto il tempo. I gruccioni erano animali così pazienti, osservò, mentre quel becco semichiuso sferzava l’aria come la punta di un arpione; dopotutto, uno di loro, poteva vivere la vita di dieci delle loro regine. Non poteva fermarsi in tempo, allora virò, nella speranza di essere più veloce. Evitò il becco, che le sibilò accanto, ma rasentò il piumaggio bianco del muso con le zampe, generando così tanto calore in quel breve attrito, fino a inciampare, con tutto il femore, sul sopracciglio sporgente, sollevato in una smorfia di cieca fame. Da lì non potè più fare affidamento agli occhi, perché la vista divenne una cascata: Prima saliva il marroncino della cresta d’uccello, ci affondava col muso, risaliva, il pesca del cielo, il verde del mare, il terreno ingiallito e via di nuovo. Quel caprioleggiare durò un infinitesimo che si protrasse troppo a lungo. Quando, con grande rinculo, riuscì a piantare le proprie setole a qualcosa, subito venne attirata verso il basso. Poteva sentire un cuore battere. Poteva vedere la nuca del gruccione e a destra la sua coda. Era finita sul fianco dell’animale, ora sceso in posizione eretta a terra. Prima di poter registrare altro, la gravità si fece più pesante per poi invertirsi tanto improvvisamente da strappare quasi ogni sua zampa dalle penne cui si era aggrappata. Queste ultime si erano allontanate dal fianco dove erano foderate. Il gruccione aveva dipanato le ali nella più completa confusione. I suoi occhi rossi cominciarono a scansionare l’ambiente frenetici dopo così tanta attesa. Con ancora la testa che le girava, vide quei bulbi a palla smettere di vagare e puntare su di lei, stringendosi. Il rapace ansimò quanto la sua preda, immobile, alzando appena le piume della cresta, come a prendere per bene la mira. A malapena reggendosi sul margine superiore dell’ala sinistra, Cinquantasette Quarti realizzò che stava letteralmente guardando la sua morte in faccia. Il suo cuore riprese a mancare dei battiti. Quell’istinto di prima riaffiorò. Il gruccione reclinò la testa e parte del busto in una torsione innaturale, mentre avvicinava simultaneamente l’ala alle sue fauci prive di denti. Senza il tempo di scaldare le ali per volare, la vespa mollò la presa lasciandosi cadere. Vedette appena il becco chiudersi sull’ala stessa, prima di agitare abbastanza i muscoli per ronzare via. Non fece in tempo a percorrere dieci centimetri che della pelle squamata di chiaro si alzò a colpirle il ventre dal basso e tagliarle il respiro. Vide il cielo allontanarsi, sentì il duro terriccio rinsecchito farle da letto e un sabbione penetrargli i polmoni, sollevato dalla stessa zampa artigliata che nel suo scalciare furioso l’aveva sbattuta al suolo. Ancora occupata a contare le nuvole, una d’arcobaleno e ben appuntita piombò su di lei con due occhi tanto sfavillanti da lasciare una scia al passaggio. Un colpo di reni, se così possiamo dire per un insetto, e riuscì a rotolare su un fianco, l’istante prima che il terreno dove stava esplodesse in zollette di sabbia. Rimessasi in piedi lo vide. L’occhio, nel suo cerchio perfetto, era tanto vicino da specchiare i suoi, che a loro volta andavano a incorniciarlo e s’aprì in quella pausa un varco sull’infinito, la stessa durata di quell’attimo. Dacché era inchiodato a terra, il becco si disincastrò diagonalmente verso di lei, cogliendola nel mezzo di un tentativo di fuga in volo. Evitò il morso, ma finì colpita in pieno da quel manrovescio, stringendosi nello schock a quel materiale così freddo e scheggiato. Il gruccione alzò la testa, disturbato dall’avere un insetto afferrarsi alle sue narici, e di scatto, con un trillo rimbombante, lanciò via quel fastidio verso l’alto. In quel momento, sospesa a mezz’aria e paonazza, Cinquantasette Quarti realizzò di non poter più andare avanti così, ed erano passati solo dieci secondi da quando aveva messo piede fuori dalla spelonca. Forse avrebbe potuto trovare un nascondiglio sotto cui riposare, ma dove? Non aveva il tempo di cercarne nessuno. Conosceva quale fosse l’unica azione che l’avrebbe salvata dal gruccione ma davvero doveva tornare lì? L’uccello fece un salto. Con una spinta in avanti evitò un altro morso e per poco gli finì sul capo. Tanto peggio. Estrasse l’arma e inoculò il proprio veleno sulla fronte verdognola del gigante piumato. Non restò a vedere il risultato che, usando la stessa come piattaforma, balzò verso il masso e scivolò nuovamente lì sotto, al freddo e il buio, ma al sicuro. Si agganciò al soffitto e rilassò ogni muscolo di colpo, rimanendo appesa a peso morto. Fuori, il gruccione sbatteva i suoi speroni dal dolore in versi infernali. Dentro, la vasaia parve osservarla con aspetto sornione dal basso.

“Quindi hai scelto il male minore”.

“Oh, sia lodata” Mormorò, rendendosi conto solo ora che si distendeva quanto ogni fibra del suo corpo le facesse male per quelle botte. Non doveva però apparire troppo malconcia agli occhi di quell’altro animale, dunque agitò il pungiglione insanguinato. “Ora sono bloccata con te, ma ti avviso che ho ancora del veleno”.

“Tienilo per te. Avessi voluto paralizzarti e trascinarti al nido lo avrei già fatto quando ne avevo l’occasione”.

“E perché mi hai aiutato?”

“Perché non ho ancora deposto le mie larve, sciocchina” Esclamò con naturalezza Sappho, dirigendosi verso il cuore dell’anfratto senza alcuna difficoltà a pestare il tappeto di muschio. Fuori, l’ombra del gruccione smise di ballare e riprese il volo, certo non troppo lontano. La vasaia sparve nel buio.

“Aspetta, ho ancora delle domande” E subito dietro venne Cinquantasette Quarti, ancora galvanizzata dal pericolo per poterlo riconoscere. Avanzò sempre a testa in giù, insicura di atterrare nuovamente. Quel buco andava piuttosto in profondità. Riuscì a raggiungere, correndo a fatica, la sua camminata “Tanto per cominciare non mi hai ancora risposto”.

“Come?” Chiese senza sollevare il capo.

“Hai detto perché non mi hai uccisa, non perché tu mi abbia aiutata”.

“Ti stai lamentando?”

“Dico solo che è strano” Camminò in tondo la vespa “Ci hanno sempre detto di starvi lontano”.

“Saggio consiglio” Annuì Sappho “Ma oggi mi sentivo di buon’umore”.

“E quindi?”

“Quindi non mi pesava aiutare qualcuna che ho visto in difficoltà”.

“Perché?”

“Perché mi facevi pena” La guardò negli occhi.

“Pena…” Biascicò confusa Cinquantasette Quarti. La pena le era comprensibile fintanto si finalizzava il discorso al bene del vespaio. Aiutare un’operaia a trasportare un pesante carico, assalire chi predava una sua compagna, trasportare ferite al sicuro, era tutto un sacrificio per la comunità che portava via tempo alla sua tabella di marcia. Ma aiutare qualcuno che non fosse del proprio alveare? Sarebbe stato un sacrificio che non avrebbe contribuito ad alcun miglioramento nella vita della sua gente. Scosse la testa “E che ti importa? Non sei una vespa!”

“Non hai mai provato pena per qualcosa al di fuori di una vespa?”

Stava per rispondere immediatamente, ma ci pensò meglio. Ritornò alla vista di quell’ala d’ape che svolazzava recisa e così l’arto amputato in bocca al gruccione.

“Forse”.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Lacrime ***


"Forse è il caso che mi segui allora" Riprese a camminare nel buio, scendendo giù in una depressione fra due rocce tanto stretta che appena ci passava, sparendole alla vista. Cinquantasette Quarti non era del tutto sicura di voler condivere uno spazio strett e scuro con lei.

"Perché dovrei?" Calò sul pavimento dell'antro, correggendosi a mezz'aria per tornare dritta, ma non osando muovere un passo verso la frattura. Temeva che dentro ci fosse qualcosa di abbastanza terribile da congelarle il sangue. Forse il nido brulicante di larve carnivore era lì dentro, in fondo era un posto ideale, sicuro per loro ma non per chiunque si avvicinasse.

"Vuoi tornare in bocca al gruccione?" Giunse di rimando la voce di Sappho, invisibile nel suo manto nero nell'ombra. Sembrava che a parlare fu l'antro stesso ed era curiosa la sua scelta di vocaboli, perché con l'immaginazione dettata dall'ansia, sembrava proprio una sorta di ghigno dentato nella pietra.

"Dove mi porti?" Azzardò un passo e tese la testa avanti, col terrore che qualcosa molleggiasse in avanti per strappargliela. Pur sforzandosi non vedeva niente.

"Fuori."

"Ma l'uscita è da quella parte!" Si lagnò in maniera infantile, rigirandosi un attimo indecisa se attraversare la soglia di nuovo. Eppure, quelle spighe verdi là fuori, carezzate lentamente dall'azzura brezza salata che sibilava fra la pietra, non le incutevano meno timore del buio melmoso dentro cui stava per immergersi.

"La tua razza è troppo abituata agli spazi vasti" Sbucò fuori il capo della vasaia, ancora così alieno alieno nelle sue forme allungate. Ne era così poco abituata da farle mancare un battito alla sola vista, sentendola troppo vicina. Rabbrividiva a pensare che quella bocca artigliata fosse stata così vicina al suo collo. Quel pensiero però, nonostante il rigetto iniziale, la mise in dubbio su quella mancata aggressività e ciò bastò a non farla schiodare da terra come prima "Siete tanto claustrofobiche da credere che ogni buco non ha fine. Ma se mi segui ti assicuro che ti porterò dall'altra parte della collina in non più tempo di quanto ci metteresti a sorvolarla."

"Vorrei crederti" Si abbassò col ventre a terra Cinquantasette Quarti.

"Allora fallo" E detto questo ritrasse la testa e sparì nel buio. La vespa attese qualche secondo, aspettandosi che tornasse, ma non lo fece. Dopo una quantità imbarazzante di tempo si fece avanti, verso la spaccatura. Giusto sulla soglia, emise un gridolino.

"Sei lì?" Ma nessuna risposta le tornò indietro. Forse non aveva parlato abbastanza forte e ritentò.

"Vieni, scema!" Colse un vocione lontano. Cinquantasette Quarti trovò quella distanza di sicurezza ragionevole e proseguì. La strada subito s'inclinava oltre il bordo e piantò le zampe alla superficie rocciosa umida. Si abbassò per tenere il baricentro vicino a sè e tentò i prossimi passi, convinta data la tranquillità con cui Sappho era andata avanti. Purtroppo la pietra cadeva con un inclinazione maggiore,  più che verticale, rientrando in sè stessa e si ritrovò a cadere per un attimo, appesa solo per le due zampe posteriori e annaspando a cercare appiglio oltre la lastra da cui pendeva. Con il cuore in gola, tornò la voce sospesa nel vuoto di Sappho "E occhio al gradino."

"Molto divertente" La preoccupazione cedette il posto all'indignazione. Reputandosi scema per davvero, scosse le ali che aveva finora trascurato di avere. Dato il decollo da una posizione poco ortodossa, partì, senza pensare, capovolta. Purtroppo, perpendicolarmente al terreno non aveva lo stesso equilibrio e, anzi, l'addome cominciò a cadere in avanti come un vaso pronto a traboccare. Che posizione ridicola, pensò lei a testa in giù, grata di trovarsi nel buio più completo, sforzandosi di tornare dritta con ogni suo nervo, ma tardò solo la caduta del suo segmento inferiore, che agì da contrappeso, facendola girare a mezz'aria fino a riportarla parallela alla terra, sebbene confusa da quel vorticare. Ancora ebete, fu meno grata dell'oscurità quando finì per sbattere  con la fronte addosso una sporgenza del soffitto, anbastanza forte da farle dimenticare di essere in volo e si prese il viso precipitando. Non durò molto, si interruppe subito, l'antro era molto più stretto di quanto credesse e finì in acqua. Acqua sotto la pietraia, ecco da dove veniva tutto quel muschio, considerò in mezzo alle gocce  che sollevava. Piovve di schiena lì in mezzo, trovandola più fredda di quanto potesse tollerare. Quando la sua testa andò sotto, tutto sparve nella sua mente, dal gruccione, alla caverna e la vasaia, rimaneva solo il cieco istinto di togliersi di torno dal gelo in cui era immersa. Si rigirò, raffreddando anche il ventre e gli arti dentro quel ghiaccio liquido e proseguì indietro, verso dove sperava di trovare la riva e la toccò, ci si erse su e tentò di volare di nuovo. Purtroppo tutte quelle gemme d'acqua addosso l'appesantivano al punto da cadere nella ghiaia dopo un balzo. Sentì un ridere innocente, troppo innocente per qualcosa di così penoso.

"Sì, molto divertente" Confermò Sappho, che nella sua scomparsa era diventata il lago che rideva di lei.

"Era una trappola, non è vero?" Si voltò di scatto, aprendo più che potè la mandibola. Avrebbe voluto strapparle quel sorriso a morsi. La cercò e non la trovava. Si mise in piedi e corse fino al limitare della pozza "O volevi solo prenderti gioco di me?"

"Non dire sciocchezze, Cinquatassette Terzi"

"Quarti! Cinquantasette Quarti!" Gridò all'aria fredda, leccandosi un'antenna bagnata.

"D'accordo, scusa" Si fece più vicina "Forse avrei dovuto avvisarti dell'acqua, però…"

"Però cosa?"

"Eri così antipatica che pensavo di farti uno scherzo per scioglierti un po'"

"Antipatica io?" Esclamò, prima di piagnucolare per faccende più importanti "Io voglio solo uscire da qui, non ho tempo per i tuoi scherzi."

"Dì, non ti sarai offesa?"

"Smettila di prendermi in giro" Cercò di ordinarle con tutta l'autorità che poteva "Non c'è mai stata un'uscita, vero?"

"Non ti arrabbiare, ascolta" Fece più piano lei, avvicinandosi abbastanza da tornare visibile. Ma non era possibile, pensò la vespa, perché quel torso si ergeva fantasma sopra il pelo di quello specchio ancora un poco tremolante per l'agitazione precedente "L'uscita c'è, dobbiamo solo andare avanti."

"Sull'acqua?" Chiese, sbigottita dal vederla camminare, con tutte e sei le zampe, increspando appena la superficie come una coperta “Non sarebbe più facile volarci sopra?”

"No, il soffitto è troppo basso" Sorrise, inclinando il volto e chinandosi un poco, come a farsi piccola “Vieni che ti insegno.”

"Ma come fai?" Chiese senza ombra di terrore, sinceramente curiosa, tanto da poggiare una zampa in acqua. Quando ci scivolò col peso sopra, questa affondò. La trasse su dubbiosa.

"Normalmente affonderemmo, ma tu hai sentito quanto è fredda l'acqua, vero?"

"Certo" Sputò lei, scuotendo la zampa coperta di globi ghiacciati e adesivi, lanciandoli in tutte le direzioni. Aveva il tremendo dubbio che le stesse, di nuovo, tirando un brutto tiro. Non aveva più intenzione di cascarci e rendersi ridicola più di quanto le importasse uscire dalla caverna.

"Lo sai che l'acqua, quando fa freddo, diventa ghiaccio?" Appoggiò la testa sulle zampe anteriori incrociate.

"Certo, per chi mi hai preso?" Alzò la testa, indignata.

"Saprai allora che non è un cambiamento radicale" La guardò con un sorriso insopportabile.

"Spiegati meglio."

"Significa che quest'acqua è molto fredda, non abbastanza da diventare solida, ma sufficiente a camminarci sopra."

"Che idiozia, io ci sono affondata prima."

"Perché non hai distribuito bene il tuo peso" Fu la voce saccente della vasaia, alzandosi in alto e intrecciando le sei gambe con una posa da ballerina.

"Sembra complicato" Sgranò gli occhi Cinquantasette Quarti.

"Ci prendi l'abitudine in fretta. Prova a tenerti bassa quando cammini per iniziare" Si fece vicina, scivolandole addosso, andandole a fianco. Lei si trattenne dal ritrarsi "Metti una gamba sull'acqua, poi l'altra. Quando le senti salde, datti la spinta con quelle inferiori."

"Facile a dirsi" Mormorò, poggiando un tarso in avanti. Tenendo il peso sulla riva, l'acqua rimaneva tesa abbastanza da non riuscire a trapassarla, dunque poggiò la seconda. Rimanendo con le altre quattro attaccate alla ghiaia, se ne stava lì, a muovere i tarsi anteriori in cerchio, carezzando l'acqua così lievemente da cancellarne subito la scia.

"Ti stai divertendo?" Sospirò un po' seccata la vasaia. Puntandola, la vespa dovette riconoscere che era strano starle accanto e ancor più strano giocarle sotto gli occhi.

"Scusa" Ammise, prima di mordersi la lingua "Stavo tastando le acque."

"Era una battuta?" Sappho si coprì le mandibole con un  palmo a due dita per nascondere una risata, ma era difficile nascondere quell'apparato così sporgente con un arto tanto esile.

"Anche noi vespe abbiamo un senso dell'umorismo" Confermò con serietà Cinquantasette Quarti, camminando senza pensare. Nel mezzo di spostare anche il terzo arto sull'acqua, si rese conto di quanto fosse sdrucciolevole il liquido, scivolando in avanti, zampe divaricate, ventre a mollo, bocca sommersa. Virò la testa di lato, implorando nello schock termico l'altra, incapace di muoversi rispetto a prima per paura di peggiorare la situazione. Attualmente galleggiava per miracolo e le sue ali non si erano ancora asciugate del tutto.

"Lo vedo" Osservò Sappho coi suoi occhi sporgenti, scivolandole attorno come un gerride. Lei tentò di risponderle a modo, ma al primo tentativo gorgogliò soltanto, alzò il mento fuori dall’acqua e riprese, ma di nuovo fu costretta a sputare.

"Smettila di scherzare e fa qualcosa" Rabbrividì tutta, dalla bocca, alle ali, arricciando l'addome. Quel freddo sullo stomaco la induceva al vomito.

"Non riesci a metterti dritta?” Le si mise di fronte, abbassando la testa. Lei ci provò, trasse a sé una volta le zampe così distese ma, data la forma tubolare del suo corpo, si ritrovò per rovesciarsi di lato dato il peso della sua schiena, dunque spinse di nuovo con i tarsi sulla superficie, rimettendosi dritta, evitando di capovolgersi e annegare. Provò subito una seconda volta, appena l’acqua si calmò e smise di sobbalzare. Stavolta non sollevò le zampe, ma le ritrasse a sé fin quando i peli recettivi delle tibie non le solleticarono i fianchi, o forse fu il contrario. Provò a spingere verso l’alto, ma non riusciva a fare presa sul terreno, lasciando scviolare gli arti al punto di partenza.

“No” RIspose infine. Sappho mosse un momento il suo clipeo per pensare, poi le diede le spalle. Cinquantasette Quarti si sforzò di guardarla, sebbene costretta a stare con la testa volta di lato per non bere “Non vorrai lasciarmi qui?”

“Afferrati ai miei tergiti e tirati su” Ordinò l’altra, voltando la testa oltre la spalla. Lei rimase un attimo confusa “Che ti prende?”

“Non mi sembra igienico” Arrossì la vespa, osservando il pungiglione della vasaia dondolargli di fronte, appeso ad un vitino tanto sottile.

“Non è il momento di fare la bambina” Alzò la voce Sappho. Annuendo timidamente, provò una volta ad afferrarle l’addome, ma appena alzate le zampe anteriori finì con la testa sotto. Scuotendo il capo riprovò, avvicinandosi le tibie al corpo come prima, ma nel salto si rese conto di poter spingere contro l’acqua nello stesso modo in cui si fa sulla terra. Al terzo tentativo si accontentò di rimanere in equilibrio su quattro arti, mentre i frontali protendevano, con cautela, verso la terminazione della sua compagnia. Quando i suoi aroli riuscirono ad aderire  ai filamenti coronanti il pungiglione, Sappho non potè fare a meno che contrarlo, scattando col torso verso l’alto, facendola cadere in avanti, ancora appesa. La vasaia soffocò una risata “Fai piano.”

Scalando i tergiti, Cinquantasette Quarti riuscì a riposare con i coxa sull’addome di Sappho e la testa poggiata sul peziolo. Fra le gambe poteva sentire battere il cuore di Sappho sotto la cheratina segmentata.

“E ora?” Sussurrò la vespa.

“Ora guarda” La vasaia prese a muoversi. Adoperando le sue zampe in meccanici movimenti, si allontanarono dalla riva ghiaiosa in poco tempo. Cinquantasette Quarti studiò a lungo quel nuoto, dato che la vista le si era finalmente abituata al buio. Sappho non spingeva tanto il suo corpo, come avrebbe fatto sulla terra ferma, ma spostava l’acqua dietro di sé, in moti circolari prima delle prototoraciche, poi mesatoraciche e infine metatoraciche, mai tutte insieme e ognuna con un raggio sempre diminuendo verso l’indietro, tanto che la spinta delle ultime era più una scalciata, ma non dritta, bensì voltata verso l’esterno per fare più attrito con tutto il tarso. Quando imparò a memoria quell’ipnotica danza vide che l’acqua mutava. Non era più lo specchio perfetto, piegato solo dai loro passi, scorreva infatti nella loro stessa direzione. La voce della sua guida tornò a riverberare le pareti umide che scorrevano infinite “Ora prova a lasciarmi, dovrebbe essere più semplice seguire la corrente.”

“La corrente cade sempre da qualche parte” Titubò senza muoversi.

“Non subito, ci vuole ancora un po’.”

Cinquantasette Quarti meditò se ascoltarla o meno. Stava così comoda lì sopra e aveva avuto una così brutta esperienza a navigare, prima. Eppure c’era della stanchezza nella voce di Sappho. Ma in fondo non era stanca anche lei? E poi non riusciva di considerarla simpatica, sgarbata com’era. Ma l’aveva aiutata sin lì, questo significava qualcosa? Un fine doveva esserci, perché le era stato insegnato che ogni azione doveva avere uno scopo.

“Noi andiamo nella stessa direzione, vero?”

“Certo, oltre la collina di senecione, ci siamo quasi.”

“Di già?”

“Te l’avevo detto che era una scorciatoia.”

Cinquantasette Quarti smontò lentamente dalla sua compagnia e scoprì che questa aveva ragione: mantenere l'equilibrio in movimento era più facile e senza dargli un nome conobbe il principio di conservazione del moto angolare. Senza pensarci troppo ripetè i movimenti di Sappho, ma di primo acchito, contraendo velocemente le zampe e alzandosi, finì per esagerare e volteggiare su sé stessa. Stirando i muscoli pur di non cadere di lato e con la testa che girava, non le riuscì di sentire la vasaia che le gridava di allargare le zampe e abbassarsi per rallentare. Dovette intervenire personalmente. Sappho aprì le mandibole, attese il momento giusto e scattò in avanti. Quando la vespa smise di colpo il suo circolo, si ritrovò dolorosamente arrestata per il collo dalle fauci della vasaia così strettamente che poteva sentire la proboscide sfiorarle la gola. Paralizzata un momento, si scosse il successivo, per sottrarsi a quegli occhi così grandi e neri, le loro antenne intrecciate e le guance che si sfioravano. La presa di Sappho era soffice, ma rigida.

“Lasciami andare!” Strillò e premette con le zampe anteriori contro le spalle di quella più grande. Sentiva di non riuscire a respirare, il fiato s’ingolfava nella gola al vedersi così stretta per la prima volta a qualcosa di diverso da lei. Non riusciva più a vedere chi l’aveva strappata al muschio o le stava guidando fuori dalla caverna, davanti a lei c’era qualcosa fatto della stessa materia di un gruccione, ma anche dell’ape incontrata sulla zagara e fu quest’ultimo pensiero che la trattenne all’ultimo dal masticarle via il pedicello sinistro. Congelate nel ritratto epico di una lotta mortale, le due aculeate ripresero a respirare incerte.

“Ecco, così, calmati” Sussurrò Sappho. Quando quella le lasciò il flagello dell’antenna, la prima le mollò la gola, assicurandosi prima che si tenesse stabile su quegli arti tremanti.

“Mi dispiace, è stato involontario” Chinò il capo Cinquantasette Quarti.

“Non mi hai fatto male” Si sforzò di starle vicina nonostante fosse controcorrente.

“Ma avrei potuto.”

“E ti senti in colpa. Non sei una cattiva persona.”

Questo complimento giunse alle orecchie dell’operaia per vie che non erano mai state toccate prima da alcuna considerazione rivoltegli dalle sue nutrici. Non era rivolto alla sua efficienza, né spirito di sacrificio o utilità. Cinquantasette Quarti ancora non aveva capito cosa le stava toccando dentro, ma continuò a sentirlo e pensarci a lungo.

Ripresero la strada. Sappho le rimase dietro, a correggerle la postura ogni tanto con qualche spinta, ma presto non ce ne fu bisogno. La vespa rimase zitta. Forse non sentiva di meritare la parola dopo quello che aveva fatto o non aveva nulla da dire. La vasaia seguì il suo esempio per un tratto, almeno fin quanto fu necessario.

“Senti questo rumore?” Riprese la meastra. La vespa tese le orecchie e sentì un ritmico suono di qualcosa che cadeva in sè stesso “Più avanti la sorgente si fa ripida, ma il soffitto è più alto. Dobbiamo riprendere il volo.”

L’altra annuì, con lo sguardo vuoto. Frullarono ambedue le ali e si alzarono dall’acqua collosa, avendo premura di non levarsi troppo, ma la sensazione di sfiorare la volta graffiante con il dorso le accompagnò per tutto il tempo. Il rumore si fece più forte e l’odore di minerali pungente, così aumentavano i vapori nell’aria, le ali si bagnavano, divenivano pesanti ed era dura sbatterle. Il rumore divenne un ruggito, la cascata doveva essere sotto di loro, ma sembrava di non lasciarsela mai alle spalle ed echeggiava dappertutto. Sappho perse quota e lei la seguì senza esitazione. La sorprese virando di scatto a destra, ma recuperò presto con una curva larga e quasi superandola. Poteva tranquillamente sorpassarla ma non poteva lasciarla e le stette ancora più addosso di prima, così vicino che sentiva quasi le loro ali toccarsi. Ali, che osservava, risultava ancora più dura sbattere per qualcuno di poco aerodinamico come la sua compagna vasaio. Decise di rallentare ancora.

“Davanti a noi!” Esclamò Sappho e lei guardò. La luce del sole traspirava in fondo l’antro, in una fenditura ancora più stretta dalla quale era entrata e la cascata si faceva lontana. La raggiunsero presto, rimanendo accecate, posarono le zampe sulla terra, terra umida che avvertì familiare al tatto e proseguirono verso quell’imbuto che si restringeva, in un groviglio di radici sopra e acqua fluttuosa sotto. Alla fine furono costrette a uscire una alla volta e la vespa si mise in testa, impaziente. Camminando a testa in giù corse verso il buco e si fermò di colpo, smorzando l’entusiasmo. E se ci fosse stato il gruccione fuori? Ma perché preoccuparsi? I gruccioni ci sarebbero sempre stati. Saltò fuori alla rovescia e vide il cielo violetto sopra la cresta della collina, non coperta di senecione, ma di variegata macchia mediterranea. L’alba era ancora in corso. Sentì spingere contro il suo addome e si fece da parte, issandosi su uno stelo d’erba che pendeva sopra lo sgorgante rivolo e la sua guida sbucò a sua volta, salendo al suo stesso livello da una foglia differente. Si scrutarono un po’.

“Dobbiamo lasciarci, Sappho?” Fremette realizzando di essere alla fine.

“Non sei contenta di essere a casa?” Si adagiò sullo stelo esausta dal volo, ancora con le ai gemmate.

“Amo il mio nido” Si difese e cominciò a pensare a quanto tutte sarebbero state contente laggiù quando avrebbe comunicato di aver trovato, nella sua escursione, un ottimo posto, oltre la collina, dove trovare nettare, polline, acqua e anche un bel posto in cui far nidificare la regina dopo l’inverno, una volta che fossero tutte morte. Scosse la testa con un sorriso sognante “Ma ora so che sono in grado di amare molte altre cose, Sappho”

Rimasero a guardarsi a vicenda per un po’, poi la vallata, che si estendeva fin dove gli arbusti si arrampicavano lungo i muri bianchi degli uomini. In mezzo, un campo di papaveri non ancora sbocciati e graminacee veniva decorato dallo sbattere di farfalle, i salti dei grilli e il ronzare infinito di un nugolo di vespe cartonaie affacendate.

Persa com’era a scrutare il quadro, mancò inizialmente di notare Sessantanove Terzi chiamarla dalla riva del fiume. Se ne stava lì, a rigirarsi il fango nella bocca per salivarlo e renderlo argilla, come faceva da quando era diventata adulta, poco prima di lei. Strano, pensò Cinquantasette Quarti, che non avesse nulla da ridire sulla sua compagnia. Guardò alla sua destra, ma lo stelo era vuoto.

“Salute, Cinquantasette Quarti” Squillò lieta Sessantanove Terzi, piegando appena la testa e voltandosi, proseguendo a masticare “Ci hai messo un po’ a tornare, ci stavamo preoccupando.”

“Grazie a tutte per essere state in pensiero. Ho avuto un incontro con un’ape, un gruccione e una vasaia.”

“Spiace sentirlo” Trattenne un moto di emozione “Non mi sorprende che sei viva. Eri sempre così brava a seguire le maestre.”

“Sì, ho una predisposizione ad ascoltarle” Ed ebbe un singhiozzo alla memoria che ancora non poteva credere essere tanto distante.

“Vorrano sentire tutte che hai trovato e io ho un carico per le nuove celle. Vieni, ti accompagno a casa.”

“Vengo.”

Ripresero il volo all’unisono in perfetta armonia, fianco a fianco, allontandosi dalla riva e superando la ginestra. Sessantanove Terzi non potè non notare le gocce fredde che brillavano dietro la sua compagna.

"Cinquantasette Quarti, le tue ali sono bagnate.”

“Ho imparato a piangere, Sessantanove Terzi.”

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=4009848