Max Misery

di lo_strano_libraio
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo sull’abisso della vita di Maxine Mayfield ***
Capitolo 2: *** Ricordi Soleggiati ed Esaurimenti Nervosi ***
Capitolo 3: *** Comics Tragedy ***
Capitolo 4: *** Carestia, portami via ***
Capitolo 5: *** Quando la notte ci aggredisce, insieme resistiamo ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6- A Natale puoi... ***
Capitolo 7: *** Mai dire: “ti odio” ***
Capitolo 8: *** Se manchi troppo da casa, casa verrà da te ***
Capitolo 9: *** Quando guardi a lungo l’abisso, l’abisso ti guarda dentro ***
Capitolo 10: *** Cosa c’è nella mia testa ***
Capitolo 11: *** Che le danze abbiano inizio! ***
Capitolo 12: *** Ci siam voluti tanto bene, ma la tempesta è preceduta dalla quiete.. ***
Capitolo 13: *** Se volete la pace, preparatevi alla guerra ***
Capitolo 14: *** Tremate Malvagi: arriva la JHL: Justice League Of Hawkins ***
Capitolo 15: *** Mad Max: Returns ***
Capitolo 16: *** Finale- Epilogo sul resto della vita di Maxine Mayfield ***



Capitolo 1
*** Prologo sull’abisso della vita di Maxine Mayfield ***


Capitolo 1-Prologo sul precipizio della vita di Maxine Mayfield

 

Era buio, sempre, metaforicamente e non.

In vita sua, Maxine Mayfield non ricordava un periodo talmente tetro, triste e doloroso della sua vita. 

Sua madre ormai non era più una madre, ma uno zombie che si trascinava tra il lavoro, il sofà durante le sue crisi alcoliche e chissà dove quando scompariva anche per giorni interi.

Casa sua non era più casa sua, ma una sudicia e buia bettola, in un altrettanto schifoso parcheggio di caravan; dove però in confronto alle altre “abitazioni”, pareva una reggia.

E lei non era più lei: a causa della loro povertà e della mancanza della madre, Max non mangiava tre pasti decenti al giorno da tempo. Era dimagrita, il suo volto non presentava più quelle gioviali guanciotte rossicce, ma era incavato e anche se non esageratamente, smunto.

I suoi occhi erano cerchiati da occhiaie nere e profonde, perché faceva costantemente fatica a dormire.

I suoi capelli, un tempo rossi radiosi, che tanto avevano attirato l’attenzione di Lucas; ora erano scoloriti, di un castano rossiccio spento.

La malnutrizione, la depressione, la mancanza di sonno la stavano rendendo l’ombra di se stessa.

Si ritrovava quasi sempre a dover mangiare da sola la sera, con cosa trovava nel frigo. Era sempre cibo spazzatura del discount: spaghetti di riso precotti, tramezzini al formaggio, verdure e tonno in scatola. Quando sua madre non faceva la spesa (se così la di può chiamare), era costretta a usare i soldi della paghetta per andare a comprarsi qualcosa di poco costoso e facile da preparare al mini market vicino. Ma quei soldi bastavano sempre meno, e certi giorni mangiava soltanto qualche barretta, presa ai distributori automatici della scuola, per poi essere costretta a digiunare la sera. Quando capitava, per addormentarsi ascoltava la musica dalle cuffie del walkman, per sopportare meglio i morsi della fame, contorcendosi dal dolore e lacrime che le rigavano il viso.

Solitamente era abituata a essere invitata a cena dai Sinclair, due volte a settimana. Quando il periodo di crisi iniziò (in seguito alla morte di Billy e all’abbandono di Neil), per lei smisero di essere semplici momenti di convivialitá, ma una necessità fisica ed emotiva per mangiare qualcosa di buono e mentale, per ritrovare quel senso di famiglia perduto. I genitori di Lucas erano sinceramente affezionati a lei, ma Max iniziò a vergognarsi di tutto questo. Non voleva essere un peso, dover elemosinare cibo o affetto. Pian piano allontanò sia Lucas, che gli amici del gruppo da lei.

L’ultima volta che li incontrò per stare insieme a loro un pomeriggio, fu praticamente un mese fa. Già era passato già un mese...

Nel periodo dopo il funerale, tutti (non solo i suoi amici), cercavano di starle vicino, confortarla, darle il loro supporto materiale ed emotivo. Se andavano alla sala giochi, le offrivano le monete per le partite, e Lucas pagava molto volentieri per lei la pizza. Ma forse proprio questo la fatta cadere nel baratro: questa insistenza, questo starle sempre addosso; l’asfissiava, le ricordava costantemente il motivo per cui stava male. E poi, come già detto, il dover costantemente chiedere aiuto le faceva male. Non si è mai ritenuta una ragazza egoista, ma arrivare a dover dipendere da tutti gli altri per tutto, la feriva profondamente nella coscienza di sé.

Era Novembre, il loro ultimo incontro. Pomeriggio bruno. I ragazzi andarono a casa sua, bussarono alla porta, aprí sua madre; contenta di liberarsi della figlia per qualche ora in più. Lei era contenta tutto sommato, ma anche desolatamente confusa: Jane e Will erano già partiti, sarebbe stato lo stesso?

Scesero nel loro rifugio a casa Wheeler, caldo, accogliente, rumoroso. Il sorriso dei genitori di Mike, di Nancy, della sorellina; tutti premurosamente affettuosi con lei, come se fosse una cugina in visita. Si sedette su uno di quei grossi cuscini fatti a mo’ di poltroncina. Lucas in quello affianco, tenendola per mano. Mike e Dustin stavano spiegando loro le caratteristiche di una nuova edizione di D&D; e data la mancanza del Dungeon Master, avrebbero votato chi tra di loro sarebbe stato il successore di Will. I due principali candidati erano ovviamente loro due. Max peró era assonnata, confusa e affamata. Li ascoltava, ma quelle discussioni le sembravano solo chiacchiere tra bambini. Pur essendo ancora all’inizio della crisi economica della sua famiglia (quindi la fame non l’aveva ancora segnata nell’aspetto), il suo stomaco brontolone si faceva sentire. E quando arrivò la più forte lamentela delle sue viscere, tutti si girarono a guardarla preoccupati, lei imbarazzata come se avesse fatto qualcosa di male. 

Terribili secondi di silenzio. 

“Mi sa che qualcuno ha un po’ di fame eheh.” 

Cercò di sdrammatizzare Dustin. Lei arrossì in volto, più dei suoi capelli. 

“Ah...no é che...ero di fretta, non è che...”.

La mano di lui si fece ancora più stretta, ma senza farle male, i loro occhi si incrociarono.

“Max, tranquilla se ti va di mangiare qualcosa, possiamo tranquillamente andare a farci una pizza o un hamburger.”

“Il fatto è che...ho dovuto prestare la paghetta a mia mamma, e quindi adesso non ho contanti con me. Ma di cosa hai detto che parla questa edizione? Un drago d’oro?! Non sanno più cosa inventarsi eh?”

“Max! Non cambiare argomento, lo sai che comprendiamo che sei in un periodo difficile, non ci costa nulla offrirti la cena una volta in più.” 

La interruppe Mike, impedendole di deragliare la discussione su argomenti più neutri. 

“Il punto è che non so quante volte ancora saranno...”

“Ma non serve che tu giochi a Dungeons and Dragons per essere parte del nostro party.” Le disse col suo indistinguibile sorriso Dustin. 

Tutti le si fecero accanto, e Max venne combattuta tra l’affetto nei loro confronti e l’imbarazzo più totale, si essere esposta ancora una volta, sulle sue difficoltà personali. Non si rendeva conto che se Billy era morto, Neil li aveva abbandonati, e sua madre era diventata un ubriacona, non era colpa sua. 

Dato che era evidentemente disagiata nel far vedere in giro che le offrivano da mangiare, cucinarono tutti insieme delle omelette. Quella sera fu felice, per l’ultima volta dopo molto tempo.

Per il suo indolore verso questa situazione,  per la sua crescente insofferenza e vergogna, iniziò a isolarsi, e loro iniziarono a pensare che fosse il momento di lasciarle un po’ di respiro, per darle un po’ di tempo per stare con se stessa e pensare. La ragazza decise anche di prendersi una pausa da Lucas, che nel frattempo era sempre più preso dalla squadra di basket; passatempo che lei non apprezzava molto, vista l’antipatia che le suscitavano gli altri giocatori della squadra. 

Ma proprio questo incidere di eventi e decisioni uno sull’altro, portò al disastro tranviario che investì la sua vita: arrivarono le vacanze di natale, che quell’anno furono più lunghe del solito per motivi ministeriali; tutti iniziarono a stare in famiglia. Ma non sua madre, che di ritrovò come tanti lavoratori precari statunitensi (i così detti “wage slave”), ad avere meno soldi sotto dicembre; e questo non poté che peggiorare il suo alcolismo. Quindi Max finí sola, sempre più povera, in quel luogo orrendo e abbandonato da dio dove abitava.

Questo è solo il prologo della tragedia che fu quel mese della sua vita. Rimanete in ascolto, che qualcuno almeno ascolti la storia di questa povera disgraziata. 

Il 1 dicembre, il primo giorno di quella che sulla carta doveva essere una vacanza; Maxine Mayfield si strinse alle ginocchia, seduta nel suo letto. 

Si stava preparando, perché L’abisso stava arrivando, l’abisso stava arrivando...

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Capitolo 2
*** Ricordi Soleggiati ed Esaurimenti Nervosi ***


Capitolo 2-ricordi soleggiati ed esaurimenti nervosi

 

Max era da sola in camera sua. Buio d’ovunque, spifferi d’aria e un freddo terribile, che oltrepassava le pareti e le entrava fin dentro le ossa. Avevano staccato il riscaldamento una settimana prima per bollette arretrate, proprio quando il gelo stava arrivando; in una casa poi, che non aveva muri troppo spessi. Per fortuna avevano almeno l’acqua calda. Un oretta prima era in cucina a cercare di mettere qualcosa sotto i denti, aveva trovato solo cereali ai muesli, con latte in via di scadenza e due carote bollite dal giorno prima, con qualche fagiolo rosso in mezzo. Aveva fatto quindi una sorta di pasticcio tra colazione e pranzo, che di certo non l’aveva riempita e non poteva farle bene alla salute. Guardando il colore delle carote, si rese conto che erano ormai più arancioni dei suoi capelli, facendole ricordare dello scolorimento che avevano progressivamente subito dalle scorse settimane. Il suo deperimento fisico era iniziato, facendole percepire ancora più acutamente il freddo. Indossava un triste pigiama grigio, e pantofole con disegnati occhi da coniglio e con tanto di orecchie in peluche che uscivano ai lati. Ma fuori dal letto, doveva girare con un plaid addosso per sopportare il freddo, e non dover sbattere i denti costantemente. La casa era immersa nel buio: il cielo era grigio, ma anche se ci fosse stato il sole, non ne sarebbe arrivato molto dentro le finestre, schermato dalla fitta vegetazione che circondava la radura del parcheggio caravan. Non potevano neanche usare per troppo tempo l’illuminazione, se volevano mangiare almeno quel poco che si potevano permettere. Accendevano quindi le luci, soltanto quando dovevano fare qualcosa di potenzialmente pericoloso al buio, come scendere le scale; ma soltanto quando erano sicure di non poter vedere niente, e la paura del buio aumentava.

Mentre era seduta a tavola, sua madre rientrò, sbattendo la porta come suo solito, in quello stato tra il rincretinimento e l’incazzatura. Entrò in cucina; madre e figlia si scambiarono un occhiata, e si salutarono brevemente e a bassa voce, come se si vergognassero nel farlo. La madre prese qualcosa da un cassetto, lo mise in una busta che aveva in mano. Lasciò una manciata di dollari sul tavolo e si incamminò all’uscita.

“Starò via un po’ di giorni, vedi di farteli bastare”. 

La figlia finí di sgranocchiare velocemente la manciata di cereali che aveva in bocca, per chiederle:

“Aspetta, ma dove vai?”

“A guadagnare qualcosa in più”. Le rispose aprendo la porta.

“Ma quando torni? Non so se basteranno per una settimana intera, ho fame! Non vedi a cosa mi sto riducendo a mangiare?! Questa dovrebbe essere la mia cena?!” 

Le urlò, aumentando il tono col fluire delle parole, e sbattendo la scodella sul tavolo per farsi sentire in segno di protesta. Schizzi di latte e pezzi di cereali rimasti attaccati, le volarono addosso al pigiama e per terra. L’indifferenza e la superficialità con cui le aveva lanciato quella “mancetta”, avevano fatto ribollire dentro di lei il risentimento verso quell’ostilità che percepiva provenire dalla genitrice: non era una mendicante a cui lasciare l’elemosina, o un cagnolino a cui schiaffare un giocattolino per farlo stare contento. La signora di casa però non rispose, e uscì come se non avesse sentito niente. Così Maxine rimase sola ancora una volta. Guardò fissa la porta per un minuto buono, sfidando l’entrata, come se tenere lo sguardo fisso su di lei, fosse un tiro alla corda, una sfida per vedere se si sarebbe arresa ad avercela con lei, e tenerlo abbastanza a lungo, potesse far tornare sua madre indietro per chiederle scusa per come l’aveva trattata.

A un certo punto però si arrese. Abbassó lo sguardo e concluse la faccenda con un sussurrato, energico:

“Ti odio anch’io sai...”

Finito di consumare il “magro pasto”, gettó la scodella nella pila di stoviglie sporche del lavandino, e copertasi bene col plaid, si rintanò in camera sua su per le scale.

Le spesse coperte la abbracciarono in un caldo incontro, dandole un po’ di sollievo e riparo dal freddo, ma ben lungi dal non potersi dire più infreddolita. Prese il Walkman e le cuffie, per chiedere a Barbara Bush e i Rolling Stones di distrarla dalla sua miseria. Premuto il pulsante però, la musica non partí. Cercò di ripetere il processo più volte, anche togliendo la cassetta dall’alloggio; fino a quando non realizzò che il problema era un altro: le pile erano scariche. 

“Diamine...non ne ho altre” 

Ne era sicura, perché aveva rovesciato da cima a fondo tutta casa per trovare queste due. Iniziò a fare due calcoli: i soldi che le aveva lasciato sua madre sarebbero bastati a malapena per comprarsi da mangiare, se di cosa di cibava ora poteva essere considerato mangiare. Ma doveva anche prendere del detersivo per i piatti: stava finendo quel poco che era rimasto; e per quanto non gli andasse a genio fare la casalinga con quella montagna di stoviglie, ci mancava solo che dovesse anche mangiare nei piatti sporchi. 

Un sonoro e lungo sospiro uscì dalle sue narici e labbra:doveva rassegnarsi anche a questa privazione, chissà per quanto tempo poi. Meglio distrarsi con altro, e forse muovendosi un po’, avrebbe sentito meno freddo. Messasi il plaid a mo’ di poncho, prese a vagare per la camera per trovare qualcosa con cui passare il tempo. Giunse alla libreria dei fumetti: tutti della DC comics, la maggior parte, sulla Justice League, Lanterna Verde, ma soprattutto Wonder Woman, che per lei era una vera fonte d’ispirazione. Per l’ultimo suo compleanno Neil e mamma le avevano regalato anche un action figure, che ora svettava in cima alla libreria, come un templietto dedicato a lei. La mancanza di luce non la faceva risaltare particolarmente, ma su Max aveva comunque un effetto catartico vederla così dal basso in alto. Era così contenta quel giorno: prendeva sempre in giro il gruppo dei ragazzi dandogli dei nerd per la loro passione per il fantasy; ma in fondo l’amazzone dell’isola paradiso aveva lo stesso effetto su di lei. Dando un occhiata veloce agli scaffali ripieni di albi in formato giornalino, si rese conto di averli letti già tutti. I fumetti erano diventati la sua ultima preoccupazione recentemente. Facendo mente locale, si ricordò anche di aver messo da parte quell’estate un gruzzoletto di dollari, per comprare il formato graphic novel di “crisi sulle terre infinite” che sarebbe uscito quel mese.  Bob (il proprietario della fumetteria locale), le promise anche di metterle via una copia per lei, essendo una cliente abituale. Ma quando la situazione peggiorò, dovette usarli per i beni di prima necessità, come una ragazzina di un paese del terzo mondo; e finí per scordarsene proprio, non era neanche passata a dire a lui che non poteva più permetterselo. Questi pensieri le attaccarono ancora più tristezza addosso, facendole passare la voglia di storie di supereroi. 

Si accostò a un mobiletto, dove aprí un piccolo forziere di legno, di quelli dove tenere segreti e ricordi; e fu proprio un ricordo lì contenuto, che avrebbe fatto da capolinea emotivo della giornata. Una foto, tenuta con cura come una reliquia: un parco di skateboard, con sfondo sul blu del mare e del cielo californiano, intervallato da alte palme che svettano come torri. Tre ragazzini in primo piano: lei al centro e i due due migliori amici dell’epoca ai lati. Tommy, il biondino brizzolato alla sua destra e Arianna, con la sua abbronzatura messicana a sinistra. Tutti e tre con parastinchi, caschetto, skateboard sotto braccio e un sorrisone stampato in volto. La foto l’aveva fatta suo padre, che li aveva portati lì quel giorno: era la prima volta che andavano in un vero parco con così tanti altri skateboarder. Prima erano troppo piccoli: si esercitavano nel viale di casa sua, ma ora erano in prima media, stavano tra i “grandi” ed erano migliorati molto tutti e tre. Dopo uno dei pomeriggi più divertenti della loro vita, papà aveva preso il gelato per tutti al Cream King, il più buono di Los Angeles; il suo preferito era quelli vaniglia e fragola. Tornata a casa, raccontò a sua mamma di quanti salti e acrobazie aveva fatto e di quanto fosse diverso farlo sulle rampe del parco; e lei la abbracció e le disse quanto fosse orgogliosa di lei. Da quanto tempo non si abbracciavano o avevano un momento cosí...

Ora come ora, il suo skateboard prendeva polvere in un angolino della camera. Le poche volte che aveva provato a usarlo recentemente era caduta in breve tempo; la mancanza di energie dovuta alla fame le faceva perdere l’equilibrio, e con esso la voglia. Da quando i suoi avevano divorziato e lei si era trasferita, con Tommy e Arianna si erano scritti un paio di volte l’anno, ma mai più visti di persona. Quest’anno però non si erano scambiati lettere: Il funerale e tutto il resto le avevano fatto scordare anche questo. Tutto della sua vita precedente stava svanendo via, come cancellato con la varichina. Accarezzava la foto con le dita, come sperando che il contatto potesse farle sentire ancora il caldo californiano, il rollio e il ribaltarsi delle tavole, le loro risate. O potesse aprire un un portale magico che la catapultasse nel passato, le desse la possibilità di cercare di non far separare i suoi, poter rivedere i loro due amici...

Questa ondata di malinconia fu la goccia che fece traboccare il vaso. Senza rendermene conto, iniziò a uscire una cantilena di versi brevi ma sonori dalla sua bocca; ritmati e ripetuti come un motore che doveva partire: ma era un motore molto doloroso che stava per ingranare la marcia.

“Uh...uh...uh...AAAAAAAHAHAHAAAAAH!”

Scoppiò in un fiume di lacrime, accompagnato da un urlo lungo e atroce, il viso deformato dallo sfogo. 

“TOMMY! ARIANNA! DOVE SIETEEEEEEEH?! SCUSATEMI, NON VI VOLEVO ABBANDONAREEEEEH! NON LASCIATEMI SOLAAAAAAH!”

Una fitta raffica di singhiozzi seguí, intervallo per il secondo tempo:

“VI VOGLIO BENEEEEEH! E TUTTA COLPA MIAAAAH! TOMMYH...ARIANNAH...DOVE Siete...ee...eeeh...”

Il pianto scemò in una patetica ma meno rumorosa piagnistea. Max si piegò in due, facendo piovere la cascata di lacrime sulla foto. L’attacco isterico le aveva fatto ferrare le mani sui bordi della Polaroid, piegandola ma non strappandola in due. Iniziandosi a riprendere dall’esaurimento nervoso, rifocalizzò i pensieri, e resasene conto, si asciugò le lacrime col palmo della mano sinistra, e iniziò a cercare di lisciarla.

“No...no...ci manca che la rompa anche...è tutto quello che mi rimane di loro.”

Riuscì ad appiattirla abbastanza da lasciare su di essa soltanto una cicatrice nel mezzo, che stropicciava la sé stessa del passato. Non era poi qualcosa di troppo distante dalla realtà. Il rossore peperonesco del pianto iniziò a svanire dal suo viso, che impallidì in fretta, e il calore dello sfogo venne sostituito da sudori freddi. Max si ricordó cosa le avevano insegnato sul primo soccorso a scuola: erano i sintomi di uno stato di shock, causato da forti emozioni di gioia...o dolore...

Iniziò a fare quindi profondi respiri per abbassare la pressione, poi avvicinò con le mani la sedia della scrivania dallo schienale, si distese sul letto e vi poggió le gambe stese in alto. Un ondata di dopamina la investí, il battito del cuore tornò a livelli normali; e finalmente si concesse un po’ di riposo. Chiuse gli occhi e cadde in un profondo, ma necessario sonno.

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Capitolo 3
*** Comics Tragedy ***


Terzo capitolo: comics tragedy

 

Si svegliò che era mattino; ma non lo capì dalla luce che non era cambiata molto, ma   guardando l’ora sull’orologio del comodino. Il freddo si era acuito ulteriormente, e guardando fuori dalla finestra comprese il motivo: nevicava.

“Ci mancava anche questa...”

I bambini e i ragazzi della sua età, stavano esultando ed tutta Hawkins all’idea di fare pupazzi di neve, giocare a lanciarsi palle l’un l’altro; ma le sue condizioni non gli garantivano quel lusso. Cercando di alzarsi dal letto, starnutí l’anima sopra le coperte e il pigiama. Accadde così improvvisamente che si spaventò lei stessa del suo naso.

“Oh...che schifo...”

Crollò all’indietro dal nervoso, la testa sul cuscino le girava come se l’avessero messa in una centrifuga, la fronte e la gola le bruciavano terribilmente ed era percorsa da brividi lungo tutto il corpo: era febbre. Troppo debole per trovare le forze per alzarsi e cambiare le coperte con altre pulite, si arrese e rimase bloccata nel letto. 

Decisamente tipico dei californiani che si trasferiscono a nord, e sembrano sul letto di morte al primo freddo dell’anno. Era talmente pallida e l’azzurro dei suoi occhi avevano perso talmente vigore, che se qualcuno fosse entrato e l’avesse vista in quel momento, si sarebbe spaventato facilmente parendole morta. 

Si addormentò di nuovo, riposando per un altra oretta. Svegliatasi in parte rinvigorita, decise che un bagno caldo e una Tachipirina l’avrebbero fatta stare meglio. In effetti il calore delle coperte le aveva alzato la temperatura corporea, abbassando la febbre, ma facendola sudare copiosamente. Andò a fatica in bagno, e prese delle pastiglie solubili dal mobiletto, che mise a sciogliere in un bicchiere d’acqua. Nel frattempo, iniziò a riempire la vasca d’acqua calda, mischiata a bagno schiuma. Trangugiò velocemente l’acqua del bicchiere e nell’abbassarlo insieme alla testa, l’occhio cadde sul suo riflesso allo specchio: i capelli erano unti al punto che spremendoli, l’olio caduto sarebbe bastato a fare fritture per un reggimento. Sciogliendosi le trecce, li sentì sulle mani. Il pensiero la fece sorridere: “É un idea...almeno potrei risparmiare su questo.”  Ma ripensandoci un attimo dopo, si rabbuiò all’idea di stare scherzando su una cosa simile. D’altronde se i suoi capelli erano ridotti così, non era colpa solo della febbre, ma della sua recente mancanza di cura per sé stessa, che di certo non era tipico di lei. Ora che il naso incominciava a stapparsi, infatti sentiva la sua puzza. Normalmente era una ragazza che dava molta importanza all’igiene personale, e non indossava gli stessi vestiti due volte di fila. Ma da quando si era chiusa in casa, e iniziò a sentire il bordo delle costole sul tatto, quando cambiava vestiti; sviluppò la paura di vedere la sua magrezza. Anche ora aveva paura, ma per lo più per il freddo, tipica degli ammalati che soffrono le basse temperature e non vedono l’ora di immergersi nell’acqua bollente, ma hanno il terrore di esporsi al gelo in quell’intervallo di tempo che precede l’immersione. La vasca ora era piena; il fumo dell’acqua trasportò il profumo del bagnoschiuma al suo naso, come per convincerla a entrare al più presto. Finalmente si decise: si svestí in fretta, evitando accuratamente di guardarsi allo specchio o direttamente il suo corpo. Cercò quindi di tenere il suo sguardo dritto davanti a lei, e gettó i vestiti a terra mentre sbatteva i denti e tremava dal freddo. Entrò finalmente, tenendosi con tutta la forza possibile con le mani al bordo della vasca per evitare di scivolare. Sdraiatasi, dentro entrò in universo di benessere. Il caldo abbraccio del bagno, la curò come un elisir magico, una fonte di giovinezza dal gelo che l’attanagliava. Quasi si stava scordando della sensazione stessa del freddo; come quando in piena estate, ci sembra stupido il ricordo di quando ci coprivamo dalla testa ai piedi per uscire di casa. Le serviva così tanto questo calore, che immerse tutto il corpo tranne la parte del viso che va dagli occhi alla bocca. Sembrava l’Ofelia di John Everett Millais, lo sguardo era perso ed effimero allo stesso modo, ma la situazione in cui si trovava decisamente meno romantica ma decisamente

squallida. 

Dopo un lungo bagno di più di un ora, uscì rinvigorita. Copertasi con un accappatoio, sentiva la febbre svanire rapidamente, e con essa il raffreddore in generale: almeno non si sarebbe ammalata per un po’ di tempo. 

Tornò in camera e decise che era il momento di smettere di stare in pigiama: la impigriva. Per coprirsi dal freddo si mise una maglia a maniche lunghe sotto un maglione, e pantaloni di velluto. Scese in cucina, dove una brutta sorpresa le diede il buongiorno: un topo stava sgranocchiando le banconote lasciatele da sua madre, che aveva scordato sul tavolo. “No!” 

Si lanciò su di lui, che spaventato corse via, infilandosi in una crepa tra il muro e un mobile della cucina. “No! No! NO!” Max prese per mano i fogli, ma ormai erano fatti tutti a pezzi. Si sedette sospirante su una sedia, e rimase a pensare sul da farsi: chiedere soldi a qualcuno non se ne parlava neanche. Cosí decise di ingegnarsi al meglio. Salí in camera e rovistò nella libreria.

Impacchettò con un nastro per regali una pila di fumetti vecchi, tra quelli che le piacevano meno. Li mise in un sacchetto di plastica e di preparò per uscire. Non aveva giacche abbastanza spesse da ripararla dal clima innevato, quindi se ne mise due addosso. infilò i guanti invernali alle mani, e nel farlo con troppa foga ruppe accidentalmente la parte finale dello spazio per l’anulare di quello destro, che sbucò fuori dal tessuto. “Diamine!” 

In effetti erano piuttosto vecchi, ma avrebbe potuto fare più attenzione. Sciarpa e cappello completarono la bardatura, e ciondolante uscì dalla porta di casa. Lungo la strada, si coprì il più possibile il viso con la sciarpa, non solo per ripararsi dal gelo, ma soprattutto perché non voleva essere riconosciuta da sguardi indiscreti in quelle condizioni pietose. 

Arrivò alla coloratissima bottega dei fumetti, e come una falena su una lampione notturno, si fiondò sulla porta d’entrata illuminata dal giallo della sfavillante luce proveniente dall’interno. Dentro non era troppo affollato, visto l’orario serale e il periodo dell’anno. C’erano comunque un po’ di ragazzi della sua età, sparsi un po’ qui e là, intenti a sfogliare raccoglitori di albi e ripiani, chiacchierando sulle storie in esse contenute. Ancora prima che di arrivasse al balcone, Bob la riconobbe a distanza: pur dovendo indossare degli occhiali da vista, riusciva sempre a riconoscere le persone che frequentavano il suo negozio, anche da lontano. Era un uomo sulla trentina, robusto ma non troppo. Indossava una camicia a quadri, con sotto una maglietta con disegnati gli Avengers sopra. Il faccione bonario, contornato da una corta barba e sotto un cappellino, con la scritta: “I’m a nerd, and I’m proud of it!”, gli fece un sorrisone a trenta denti:“Maxine! Mi stavo proprio chiedendo che fine avessi fatto: è arrivata la tua copia; e visto che a natale siamo tutti più buoni, ti ho trovato la limited edition. Ma tranquilla, non ti farò pagare di più, sei pur sempre una delle mie clienti preferite!” 

L’uomo tirò fuori da sotto il banco un tomo dal titolo: “Crisi sulle terre infinite: gold edition”. Gli occhi di Max di spalancarono, illuminati alla sola vista della copertina. Era ancora più bella di come se l’immaginava: la copertina era colorata d’oro sui bordi, che incorniciavano i membri della Justice League, mentre si scagliavano contro Anti-Monitor. Tra loro il suo sguardo riconobbe subito Diana, affianco a Superman, protrarsi in una delle sue famose pose supereroistiche, col pugno sinistro che protendeva in avanti, seguito dal resto del corpo. Max sospirò, rassegnata come un beduino nel deserto quando di rende conto che l’oasi dove credeva di stare giungendo, era solo un miraggio. Abbassó lo sguardo, vergognandosi di quello che stava per accadere.

“No, senti Bob...io ti ringrazio davvero, ma scusami; in famiglia abbiamo avuto dei gravi problemi, e non posso più comprarlo, anche se sai quanto lo vorrei. Infatti...” 

si interruppe un momento, per tirare fuori il plico dalla busta.

“So che acquisti anche l’usato, e quindi sono venuta qui a venderti un po’ di vecchi fumetti, perché ne ho davvero bisogno.” 

Bob rimase stupito dalla richiesta, non gli era mai capitato che un cliente, cosí giovane poi, venisse a vendergli fumetti per problemi economici. Tanto meno avrebbe pensato che Maxine Mayfield, la ragazzina spigliata e spiritosa, che tanto rendeva le sue giornate meno noiose, basate sullo sgridare bambini moccolosi, che che sgualcivano gli albi prendendoli in mano con la grazia di un elefante, e rispondere a stupide domande di nerd sull’uscita dei nuovi numeri delle loro serie preferite o su chi sia più forte tra Superman e Thor; sarebbe un giorno presentatasi con la coda tra le gambe, per chiedergli denaro. Anche perché Hawkins sarà piccola, ma non al punto di conoscersi veramente tutti; Bob era completamente all’oscuro dei recenti sviluppi nella vita di Maxine Mayfield.

“Ma Max, non posso darti molto per questi: al massimo due, tre dollari; sono vecchi solo di qualche anno, compro perlopiú albi storici. Ma se ti serve aiuto, sai che posso tranquillamente darti dei soldi.” 

Guardandola bene, si rese conto di quanto fosse emaciata in viso, e di come i suoi vestiti non fossero in ottimo stato: erano scoloriti, e il freddo li aveva bucati in più punti. In mezzo a tutto quel colore che permeava il negozio,appariva come una busta della spazzatura, gettata in un orto frutta. Ma la sua premura non fece altro che aumentare il nervosismo di lei, che come sempre, doveva dare retta al suo ego e rifiutare l’aiuto d’altri. 

“No...no...cazzo Bob! Non mi stai ascoltando! Non voglio chiederti l’elemosina: devo venderti questi fumetti, perché mi servono soldi per mangiare!” 

Gli altri ragazzi nel negozio si girarono a guardarla, distratti dal suo sfogo. Un vocio si diffuse per la stanza; poteva sentire una coppia di lato, parlare sottovoce:

“Ma che problemi ha?” Disse lui a lei.

“Ma guardala: sembra una scappata di casa, poverina...chissà cosa le è capitato...” commentò lei.

Maxine girò la testa un paio di volte, come risposta a quelle voci, decisamente nera in volto, ma imbarazzata per non essersi resa conto di aver alzato troppo la voce. Salendole il nervoso, prese a battere leggermente il tacco della scarpa a terra, anche questo inconsciamente, facendola sembrare ancora di più una pazza agli occhi dei presenti.

Bob evidentemente costernato dalla piega che aveva preso la discussione, cercò di calmarla, alzando una mano in segno di amicizia: “calma, si vede che è successo qualcosa che ti ha scosso; dov’è tua mamma? Sa che sei qui?”

E premette ancora una volta il tasto sbagliato.

“Non tirare mia madre in questa storia! Sono venuta io qui a parlare con te, non sono una bambina che deve essere accompagnata in giro!”

La sua voce si fece lamentosa e squittiva ogni parola, sul l’unto di scoppiare a piangere.

“Ok, ok, ma sei comunque una minorenne e non dovresti essere costretta a fare certe cose per mangiare. I servizi sociali dovrebbero sapere che sei in questa condizione.”

Alla parola “servizi sociali” la ragazzina smise di ascoltarlo, rimise nella busta il plico di fumetti legati, e l’afferró per uscire.

“Ok, ho capito; credevo almeno tu mi avresti capita. Va a quel paese tu, mia madre e i stramaledetti servizi sociali. Non ti azzardare a chiamarli: non c’erano quando ne avevo bisogno; non mi serve aiuto da nessuno, baderò da sola a me stessa.”

Si voltò e tornò sui suoi passi verso l’uscita. Non però, ovviamente, non poteva stare zitto e neanche provare a fermarla. Uscì dal balcone e cercò di raggiungerla. “Aspetta, Maxine!” arrivando a portata di mano, le afferrò il polso rimanendo sorpreso, da quanto fosse esile. La sua presa quindi non fu troppo stretta, permettendo lei di sfilare la mano subito. 

“Non mi toccare! Ti credi un eroe soltanto perché vendi fumetti di supereroi? Sei solo un ciccione mai cresciuto!” Questo lo ferì dentro, ma era comunque abbastanza adulto da capire che non fosse sincera, ma una di quelle scenate che fanno gli adolescenti, quadruplicata. “Siete tutti dei f-falliti!” Questa volta si rivolse a tutti i presenti, singhiozzando e indicandoli col dito a sinistra e destra. La scenata aveva raggiunto vette grottesche, e un ragazzo cercava di nascondere un sorriso dietro la mano sulla sua bocca. Max si voltò ancora e sulla strada verso la porta, mise la ciliegina sulla torta, tirando un calcio a un cartonato di Superman, spezzandolo in due. “Max, asp-“ non serví a nulla, sbatté la porta di vetro, evitando di romperla solo per la mancanza di forza nelle ormai esili braccia. Arrivata a un cassonetto, lanciò dentro il sacchetto coi fumetti. Sulla strada di casa, cominciò a piangere, e il calore della rabbia, almeno le fece sentire meno il freddo. Entrando in camera sua, il pianto si fece grido. Lanciò un occhiata in segno di accusa all’action figure di Wonder Woman, svettante dalla libreria. 

“TU NON ESISTI! Mi HAI MENTITA TUTTI QUESTI ANNI! NON SERVE A NIENTE ESSERE EROI: TI FAI SOLO DEL MALE! SE NON AVESSI CERCATO DI IMITARTI, NON SAREI IN QUESTA SITUAZIONE!”

La plasticità, il fisico perfetto di Diana, rappresentato bene dallo scultore della statuetta; era come un insulto per Maxine: magra, debole, sconvolta, costretta a vedere quella dea dal basso, come una divinità lontana, irraggiungibile ma opprimente nella sua perfezione. La ragazza tirò un calcio al mobiletto, facendo cadere Wonder Woman. Le sputò sulla faccia di c’era dipinta, come se fosse una persona vera, capace di offendersi per il gesto. Si buttò sul letto, faccia sul cuscino. Singhiozzò per due minuti buoni, per poi chiudere gli occhi e addormentarsi ancora una volta.

Dormí per un oretta buona: al suo risveglio stava un po’ meglio. Il sonno le aveva portato consiglio; in sogno ebbe la risposta al quesito di ieri: perché era sola? Non lo era. Le era apparso il parco di skateboard, il fragore delle onde che si scagliano sugli scogli in sottofondo. Tommy e Arianna che la guardavano. 

“Perché mi avete abbandonata? Non potete neanche immaginare quanto stia male! La solitudine mi sta ammazzando...”

“Ma noi non ti abbiamo mai abbandonata stupidina!” Rispose con tono irale, ma non canzonatorio il biondino.

“Ti pensiamo sempre, e non vediamo l’ora di rivederti, ma devi avere pazienza: l’Indiana non è dietro l’angolo, e tu dovresti anche scriverci un po’ più spesso.” L’accento spagnoleggiante di lei, le fece tornare alla mente le cene a base di tortillas, cucinate dal padre di Arianna, cuoco in un ristorante messicano. “E poi...non è che tu non abbia amici lì!” Tommy indicò con il dito alla sua destra. Lo sguardo di lei si spostò di un centimetro, ma non serví continuare oltre: una mano nera le accarezzò dolcemente il mento, indirizzandolo verso il volto affettuoso di Lucas. Gli occhi di Max si riempirono di commozione: “L-Lucas, io ti amo ancora...ma è difficile per me, dover dipendere sempre dagli altri. Non voglio dovermi sentire un peso...” Lui le mise un dito sulle labbra, un dolce modo per zittire qualcuno che non sa cosa dice. “Tu c’eri quando serviva aiuto a noi, e più di chiunque altro hai perso qualcosa nel farlo.” 

“Saremmo egoisti a non starti accanto, aiutarti, anche solo perché sei nostra amica, figuriamoci con tutto quello che hai fatto.” Undi era comparsa alla sua sinistra. “Tu sei un eroina!” Le disse Mike. “Ti ricordi quando mi sono rotto la gamba, e tu mi hai accompagnato a casa per un intero mese?” Aggiunse Dustin. “O di quando hai accettato di prendere il posto di Mike nelle nostre sessioni di D&D, perché stava male? A te sarà sembrata una cosa da Nerd, ma per me è significato molto.” 

Era circondata dai suoi amici, un ondata di felicità e tenero affetto da tempo scordato la investí. “Vai da loro, e vedrai che arriveremo anche noi!” Gli amici californiani la salutarono con le mani, come fecero il giorno della sua partenza; quando vide le loro sagome e i loro volti bagnati di lacrime farsi sempre più piccoli dal finestrino dell’auto di mamma, e con essi il ricordo della loro voce. Si svegliò di colpo, spinta fuori dal sogno, nelle braccia della realtà; forse un invito a seguire nel concreto il consiglio onirico dei suoi amici.

Lei non era sola: aveva deciso di esserlo. Doveva solo trovare la forza di andare dai suoi amici.

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Capitolo 4
*** Carestia, portami via ***


Quarto capitolo: Carestia, Portami Via

 

La mattina del giorno successivo Max si svegliò sentendo voci fuori dalla porta dell’entrata, e voci che la chiamavano. 

“Maxine! Sei in casa? Vogliamo solo parlare.” A primo acchito pensó, o forse sperava, che fossero i suoi amici. Si stropicciò gli occhi e sbirciò dalla finestra. Erano un ragazzo, accompagnato da una donna sulla quarantina; lui era vestito casual con una giacca di jeans con sotto una camicia, lei invece indossava abiti da ufficio, e stava guardando circospetta alle finestre. “Merda...i servizi sociali...” si abbassó a raso della finestra per occultarsi il più possibile. “Bob ci ha detto che ti piace molto il gelato di Captain Ahoy: te ne abbiamo portato un po.” Il ragazzo sollevò una vaschetta col logo dalla busta, sventolandola come una bandiera. Solo il pensiero del gelato alla crema e fragola sul palato, le fece venire l’acquolina in bocca. “Ma ti abbiamo portato anche altre cose da mangiare; sappiamo che hai fame, se non ci apri però, non possiamo portartele”. Avrebbe voluto aprirgli e accettare il cibo: era disperatamente affamata. Ma c’era un problema: se l’avessero trovata in quello stato da sola, sua madre avrebbe passato guai seri con la legge. L’abbandono di minore era un reato punito col carcere, e anche se una parte di lei avrebbe voluto farla pagare a sua madre, perché comunque l’aveva abbandonata; le voleva comunque bene e sapeva quanto avesse sofferto. Inoltre, c’era il rischio che la sbattessero in una casa famiglia, e forse non avrebbe rivisto più i suoi amici; non se ne parlava neanche. O avrebbero chiamato sua padre, che l’avrebbe trascinata via in California, e a quel punto se li sarebbe visti in sogno gli amici di qui, come accaduto con Tommy a Arianna. 

Doveva resistere fino al suo ritorno, a quel punto anche se fossero tornati, non avrebbero potuto far arrestare sua madre se era con lei, e avrebbe potuto giustificare la scenata alla fumetteria di bob come una bravata adolescenziale, o almeno ci avrebbe provato per quanto improbabile che le credessero. 

“Credi che sia fuori?” Lui chiede a lei.

“Probabile, proviamo dopo...”

“Vorrà dire più gelato per noi Maxine...” disse ad alta voce lui, voltandosi, per un ultimo tentativo.

I due andarono via seguendo la strada sul viale. Max posò la testa al muro e tirò un sospiro di sollievo. 

Scese in cucina; mangiò quello che rimaneva in casa, rovistando ogni sportello, ogni ripiano, ogni anfratto della cucina; trovò un pacchetto di cracker, qualche cetriolo sott’olio sul limite dell’ammuffire e una banana già fin troppo matura. Si sedette a tavola con austera tristezza, e tale era il suo abbrutimento, divorò tutto con le mani: senza tagliare i cetrioli o cercare di disporli a fette sui cracker, per dargli un apparenza di cucina. No, ingurgitò tutto con ferocia animalesca, usando come piatto un pezzo di carta casa. Con le stesse mani sporche di olio e pezzetti di cracker, mangiò anche il frutto, dopo aver velocemente tolto la buccia, le sue mani sfangarono la polpa ormai nera della banana, obbligandola a trangugiarla rozzamente, anche leccandosi le dita dove si era creato un disgustoso miscuglio di banana e olio di sottaceti. Era così affamata, che non le venne neanche nausea nel mangiare questo rozzo pasto, in questo ancor più barbaro modo. Ma comicamente, si pulì prima col tovagliolo e poi lavandosi le mani in bagno, col fare perfettino di una signorina; come se si fosse resa conto dell’inciviltà di un momento prima, e stesse cercando di lavarla via col sapone, facendo finta di niente. La “colazione” comunque non l’aveva ovviamente riempita, e la fame la attanagliava, fomentata al pensiero che quello era tutto il cibo rimastole, e non aveva neanche denaro per acquistarne altro. Dissetatasi dall’arsura dell’olio con un bicchiere d’acqua, questa non mancava di certo, restò a rimuginare seduta al tavolo per un po’. Sua madre non sarebbe tornata prima di un altra settimana e mezzo probabilmente, quindi non poteva sperare sul breve periodo sul suo arrivo coi fantomatici soldi che aveva promesso. Infine comprese che fissare i muri tutto il giorno, l’avrebbe fatta uscire ancora più di testa, e già non si poteva dire fosse molto a posto, viste le scenate dei recenti giorni. 

Ricompose la treccia dietro la sua testa, per cercare di darsi un accenno di presentabilitá, e per non non dover vedere più i suoi capelli scoloriti, la cui vista la deprimeva. Si rimise gli sgualciti capi invernali e uscì di casa, prese con sé anche il suo zainetto: non si sa mai se sarebbe potuto tornare utile. 

Non sapeva esattamente dove fosse diretta, o cosa avesse intenzione di fare; tutto pur di non rimanere ferma in quella prigione, pensare, deprimersi. L’importante era muoversi, non rimanere ferma troppo a lungo in un posto, anche se le mancavano le energie. Prima o poi avrebbe trovato l’occasione per mettere qualcosa sotto i denti.

Cosí passò la maggior parte della giornata, ma il vagabondaggio non sembrava portarle consiglio; anzi, vedere le coppie felici passeggiare amoreggiando, le famiglie coi bambini fare compre per i regali di Natale, i ragazzi della sua età farsi un giro insieme agli amici di scuola; aumentò solo la sua malinconia, la coscienza di non essere come loro. Stava passando vicino a un diner, dal cui interno proveniva una grande e calda luce gialla. Dalla vetrata, poteva vedere tavoli pieni di gente, intenta a straforasti di hamburger e patatine fritte. L’acquolina in bocca divenne un mare in tempesta, la cui corrente la portò ad appoggiarsi con la mano sul vetro, e a contemplarne uno poggiato su un vassoio con occhi sognanti, quasi sul punto di sbavare come un cane. L’omone che stava per addentarlo la notò dal vetro, e rimase interdetto. Quando Max se ne accorse, si allontanò immediatamente vergognandosi in volto. Si mise le mani nelle tasche e fece dietrofront, facendo finta di niente. 

Arrivata ai cassonetti del diner, illuminati dai lampioni, affianco all’edificio; le venne un idea: “se guardò dentro, potrei trovare qualcosa da mangiare; buttano via sempre così tanto cibo buono in questi posti.” L’idea di fare qualcosa del genere, l’avrebbe disgustata fino a un mese prima; ma la disperazione ci porta a rivalutare al ribasso i nostri standard. Prima di aprire il portone, si guardò intorno circospetta: va bene tutto, ma davanti ad altri no. Non c’era comunque nessuno per strada; a dicembre la gente preferisce passare il tempo al chiuso che per strada; lei era la scena del villaggio. Spalancò il portellone, e lo fissò con il fermo; il blocco si inserì con un rozzo suono metallico. Sbirció dentro, e la puzza di spazzatura le investí il naso. C’erano principalmente sacchetti chiusi, dall’aspetto e odore non troppo invitante. Ma qualcosa attirò la sua attenzione: uno sbrilluccichio splendeva nel mezzo dei rifiuti. Fece strada con le mani, e infine trovò tra delle buste una barretta al cioccolato al latte “Milky Way”. Era aperta, ma qualcuno gli aveva dato solo un morso, per poi buttarla lí dentro; forse di fretta perché qualcuno lo aveva chiamato dall’altro lato della strada. Sta di fatto, che la concezione del cibo cambia radicalmente a seconda della situazione sociale. Cosí, se per quella persona questa barretta era solo un impedimento, per Max sarebbe stata la cena di quella sera. La prese in mano, e la fame era tanta che i suoi occhi l’ammirarono quanto l’hamburger di prima. Non sentiva la puzza che la spazzatura le aveva attaccato, o comunque il suo cervello la censurava appositamente, per spingerla a soddisfare la sua necessità di cibo. Abbassata verso il fondo la carta, i denti affondarono nella morbida cioccolata. La dolcezza era intatta, e la soddisfazione fu tale che chiuse gli occhi, come se stesse pregustando un piatto gourmet, facendo addirittura versi di soddisfazione nel masticare il cioccolato. Al primo morso ne seguì un altro e un terzo, ma sempre di quantità inferiore, per prolungare il più possibile il gusto, come se mangiare più lentamente avesse ingannato lo stomaco, facendogli credere di stare mangiando di più. 

La degustazione fu interrotta da delle risate provenienti dalla porta del diner. Erano uscite due ragazze, che Max riconobbe subito: Valery e Cassidy. Erano delle ragazze di un anno più grandi di lei, ed erano famose per essere delle stronzette principessine.

“No! Ma non mi dire, quello sfigato ci ha provato con te?!” 

“Ti dico di sì! Probabilmente si aspettava un no, ma io gli ho fatto: “bleh”. Devi vedere che faccia! Ahahah”. 

Non era di certo la situazione migliore per incontrarle, e Max rimase bloccata, indecisa sul da farsi. Lo sguardo di Cassidy (la biondina), cadde su di lei e il suo volto si trasformò da allegro, in una smorfia di sorpresa e disgusto.

“Oh, mio, dio! Ma quella è Maxine Mayfield che rovista nella spazzatura?!” 

Anche Valery la notò e si aggiunse al coro:

“Santo cielo, che schifo! Deve averla presa lì dentro quella! E poi guardala, da come è vestita sembra una barbona!”

Max rimase paralizzata, e sul suo viso si leggeva senso di colpa, dagli occhi tremanti e la bocca aperta come se stesse per dire qualcosa in sua difesa. La mano alzata e tesa come in segno di resa. 

“Cos’è sei diventata una barbona?! Facevi tanto la fighetta con la tua amica, al centro commerciale, e ora guardati!” 

In effetti, l’avevano trovata con la bocca sporca di cioccolata, presa da un cassonetto a cui era appoggiata, e con addosso vestiti non proprio in ottime condizioni; chiunque vedendola avrebbe potuto scambiarla per una senzatetto. 

“No...no, giuro! Voi non capite!”

Si avvicinò alle due ragazze, come per voler spiegare qualcosa di straordinario che fosse appena accaduto, e a cui non avrebbero potuto credere.

“Uh! Non ti avvicinare! Chissà cosa hai toccato lì dentro” Cassidy si strinse il naso, mentre cercava di distanziarsi da lei, e con l’altra mano le faceva segno di andarsene.

“Lasciatemi spiegare...”

Ma Cassidy le sputò in faccia, e non avrebbe dovuto farlo. Max prima chiuse gli occhi, trasse un profondo respiro, e poi li riaprí con pura ira dentro loro. 

“Brutta stronza io ti ammazzo!”

Lanciò per terra la barretta, e le si lanciò contro; le sue mani ritrovarono grazie all’adrenalina la forza e attanagliavano ora il collo di Cassidy, che di dimenava e urlava. Max le stava addosso, coi denti sbarrati e gli occhi iniettati di sangue, desiderosi di vedere l’avversaria soffrire. 

“TU NON MI CONOSCI! NON TI IMMAGINI NEANCHE COSA HO VISSUTO! STUPIDA OCHETTA VIZIATA DEL CAZZO!”

“Aaah! Lasciami! Sei impazzita?!” 

Valery dopo un primo momento di shock, corse in difesa della sua anica, e separò la rossa furiosa da lei spingendola via. Cassidy tossí un paio di volte, per poi partire al contrattacco: un pugno si schiantò sulla guancia di Max, che crollò a terra, avendo ormai esaurito le energie del momentum di un minuto prima.

Valery afferrò l’amica prima che colpisse la ragazza a terra con un calcio.

“Dai, andiamocene: se ci vede qualcuno passiamo dalla parte del torto...”

Cassidy la seguì, ma nel frattempo continuava a sfogarsi, urlando contro la ragazza in stato di semi coscienza.

“E sei fortunata che non abbia deciso di spaccartela quella faccia! Psicopatica del cazzo!”

Prima di voltarsi e andarsene, mise la ciliegina sulla torta facendole il dito medio, come se la disgraziata con la faccia a terra, potesse vederla. Max si massaggiò dolorante il punto in cui aveva ricevuto il colpo, la testa le girava e faticava a mettersi in piedi. “Ooooh...”Si rigirò un paio di volte come si fa nel letto la mattina presto, quando la sveglia ti chiama, ma non sei entusiasta all’idea di alzarti. Il cemento del marciapiede non era però altrettanto comodo: il contatto con esso aumentava solo l’indolenzimento. Si impose quindi, almeno di mettersi seduta. Che l’aiutó a recuperare in parte le energie mentali. Guardò la barretta a terra. “Tutto questo per quella schifezza? Sono caduta proprio in basso.” Finalmente riuscì a rimettersi in piedi, aiutandosi con le mani.

Si trascinó a un bagno pubblico lì vicino; guardandosi allo specchio constatò che un segno nero le era rimasto sullo zigomo sporgente sinistro. Si diede una ripulita come poteva, e massaggiò la zona contusa con dell’acqua calda per alleviare il dolore. 

Ora camminava sul bordo del marciapiede di una strada di periferia, al limitare del bosco. non c’era nessun’altro vicino, nel sul suo lato che l’opposto. L’aria era fresca e il bianco della neve copriva le cime degli alberi che costeggiavano la strada, formando un affascinante panorama bianco-verde. Il cielo era grigio, come tutti gli altri giorni del mese, e il colore incupiva ulteriormente il suo umore. Iniziò a sentire un rombo fragoroso provenire dietro lei: girandosi vide un camion avvicinarsi a grande velocità. Un pensiero le attraversò il cervello: “e se mi investisse? Non c’è nessuno...crederebbero tutti che sarebbe un comune incidente, nessuno penserebbe che mi ci sia lanciata contro.” I suoi piedi iniziarono a muoversi verso il bordo del marciapiede, mentre il camion continuava ad avvicinarsi e il flusso di pensieri continuava a fluire. 

“Un colpo e via, niente più dolore, umiliazioni, mi toglierei anche lo sforzo di dover tornare con la coda tra le gambe da loro; che non so neanche se avrei la forza di farlo, sinceramente...”

Il fragore delle ruote si faceva sempre più vicino, incessante, e l’attirava come il canto di una sirena dell’Odissea. I piedi toccarono l’asfalto e lei si muoveva sempre di più verso il centro. “Ci sono...ancora per poco...” 

il camion tuonò con il potente clacson, scuotendola e risvegliandola da quello stato sognante. Balzò all’indietro e cadde sul marciapiede, salvandosi per poco dalla rovina. “Sta attenta a dove metti i piedi, dannazione!” Le urlò l’autista affacciandosi, rosso in volto, dal finestrino. Max rimase a tremare seduta, scossa da quello che era appena successo. Davvero aveva provato a suicidarsi? Lei?! Che aveva affrontato mostri da un altro mondo e ne era uscita viva; voleva veramente gettare via la sua vita, soltanto perché non riusciva a chiedere aiuto ad altri, poi? 

Offesa con sé stessa, si rialzò e prese una decisione: non poteva andare avanti così; quindi, fino a quando non avrebbe trovato il modo di trovare la forza per andare dai suoi amici, avrebbe dovuto prendere decisioni drastiche per uscire da questa miseria. Si incamminò quindi verso un il supermarket dove andava sempre; le dispiaceva dover fare proprio loro questa cosa, ma conoscendola non avrebbero sospettato di lei. Entrando vide che il negozio era pieno, famiglie che facevano acquisti per il cenone di Natale: “bene, sarà ancora più difficile sgamarmi”. Prese all’entrata un cestino della spesa, di quelli piccoli con le maniglie che di alzano ai lati. Cosí non avrebbe dato l’impressione che fosse entrata per fare una grossa spesa, e quando sarebbe uscita a mani vuote non avrebbe insospettito nessuno; al massimo, avrebbero pensato che si fosse scordata di comprare qualcosa che le serviva, ma a un certo punto si fosse resa conto di averla già. Indossava in testa anche le cuffie del Walkman dallo zaino, che era spento non avendo le batterie, ma così facendo, se avessero provato a chiederle qualcosa lei avrebbe potuto fare finta di niente facendogli lecitamente credere che non li stesse sentendo per l musica.

Cercò accuratamente di non parlare con nessuno, né di incrociare i loro sguardi, passare come un fantasma in mezzo alla folla. D’altronde, lo era già: non faceva più parte del loro mondo felice e ordinato, ne era stata esclusa. Doveva accettare che fino a quando non sarebbe riuscita a sistemare la sua vita, sarebbe dovuta coesistere con gli altri in questo “sottosopra sociale”. Un sottosuolo, dove sarebbe vissuta come i ratti che le avevano mangiato il denaro, prendendoli ad esempio. Schivando sistematicamente chi incontrava, arrivò allo scaffale degli snack salati, affianco a quello del cibo in scatola. Magra com’era, sarebbe riuscita a nasconderne un po’ sotto i vestiti senza destare sospetti rigonfiamenti alla vista. Avrebbe messo un paio di buste di salatini sotto il maglione, tanto le fanno grosse solo per far credere che siano piene, ma essendone solo per metà, si appiattiscono facilmente. Una scatoletta di tonno per tasca dei pantaloni; poi si sarebbe diretta nel reparto frutta e lí avrebbe preso qualche mandarino da nascondere nella tasca della felpa: le servivano vitamine. Se tutto fosse andato liscio, avrebbe potuto anche provare a mettere una mela sotto il cappello; e facendo finta di niente, qualcos’altro nello zaino. 

Tutto nella sua testa pareva chiaro e coinciso, ma ora che era lì davanti allo scaffale la paura saliva: non aveva mai fatto niente del genere, e se l’avessero scoperta? Sarebbe finita dalla padella alla brace, in qualche carcere minorile? Tremava come una foglia al vento, con i nervi a fior di pelle. Pensò: ”non puoi comunque stare qui impalata! È sospetto, devi andare fino in fondo: non puoi mica frugare ancora nei cassonetti per mangiare qualcosa...”

Alzò la mano, pronta per afferrare una busta di paratine, stava per toccare la plastica quando-

“EHI!”

Una voce squillante e energetica sulle due spalle, la fece saltare. Il cestino le cadde dalle mani, che alzò a coprirsi il viso in segno di difesa.

“M-mi dispiace non volevo, giuro!” 

La sua voce squittiva dal senso di colpa.

“Max, che c’è? Non volevo spaventarti, ma non mi hai riconosciuta?”

Una voce familiare, amica. Abbassó le mani; si tolse le cuffie e si stropicciò gli occhi incredula: davanti a sé c’era Undi che le sorrideva.

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Capitolo 5
*** Quando la notte ci aggredisce, insieme resistiamo ***


Capitolo 5: Quando L’a notte ci aggredisce, insieme resistiamo

 

Stava avendo un allucinazione? Lei non poteva essere lì, era andata via da Hawkins! Stava veramente impazzendo? 

“S-sei veramente tu? Sei reale?” La sua voce sussurrante e incerta, per non farsi sentire dai presenti, in caso di risposta negativa.

Undi si fece preoccupata: “Ma che dici? Certo che sono io! Sono venuta a trovare insieme a Will, Mike! Ci ospita a casa sua. Sono venuta per comprare le nocciole per cucinare insieme a Mike, Nancy e Will, la torta preferita del signor Wheeler; per fargli una sorpresa e ringraziarlo dell’ospitalità. Inoltre, ho grandi notizie: torneremo tutti a Hawkins! Papà è vivo! Lo hanno trovato in un gulag siberiano e verrà estradato qui grazie a uno scambio di prigionieri.”

Poi le diede un occhiata da capo a piedi.

“Tu piuttosto, non mi hai più scritto, ero preoccupata da cosa mi raccontavano via posta gli altri; e ora che ti vedo sembri messa male, che ti è capitato? Sei così magra, e cos’è quel livido? Qualcuno ti ha fatto del male?”

Max era però ancora ferma a fissarla: era tutto troppo bello, per realizzarsi effettivamente in comparazione con quello che era avvenuto nei giorni e mesi precedenti. La sua mente non era capace di concepire, che le cose potessero finalmente girare per il verso giusto: troppe volte era stata ferita. Per confermare quindi che quella che stava vedendo fosse veramente la sua amica, e non un frutto di un principio di schizofrenia; fece il salto dello squalo: avvicinò la sua mano al viso di Undi, e provó a toccarlo. La mano ruvida, rovinata dal freddo e segnata dalla psiorasi; si mosse incerta e tremante, spaventando un pochino l’amica, per il suo strano comportamento. Ma quando atterrò sulla superficie della sua guancia, la morbidezza e il calore umano dell’amica venne subito riconosciuta da Max: era vera! Il contatto sembrò trasmetterne un po’ dalla mano al suo corpo indebolito, che tanto ne aveva bisogno. Incominciava a piangere e singhiozzare; in quel momento Undi capí che qualsiasi cosa fosse capitato a Max, era il momento di un abbraccio. La strinse forte, tirandola a sé, le mani che la coccolavano sulla schiena per consolarla, e la testa sulla sua spalla. 

“Graz...grazie...” non si ricordava neanche quando fu l’ultima volta in cui sentì questo calore e contatto umano; ma ne aveva un bisogno fisiologico. 

“Max, sei così leggera! Parlami, cosa ti è capitato?” 

La voce di Jane era cadenzata e patetica, anche lei era sul punto di piangere: mai avrebbe creduto di poter incontrare la gioiosa e vivace amica, che le aveva fatto conoscere il mondo, le gioie dell’amicizia; in questo stato pietoso. 

Max si separò dall’abbraccio, e guardò l’amica dritta negli occhi:

“U-Undi...m-mi sono rotta...”

Tremava come una foglia, e i clienti iniziarono a guardarle incuriositi; Jane comprese che fosse il momento di sottrarla al pubblico ludibrio. Paghó alla cassa quello che aveva nel sacchetto e la accompagnò fuori, tenendola per mano. 

Si sedettero su una panchina: Undi la paró davanti a se, con mani e occhi, senza permetterle di scappare o divagare. La morsa non era però ostile; la mano sulla spalla, lo sguardo posato su di lei, triste ma affettuoso, servivano a rincuorare Max che non avrebbe potuto evitare le sue attenzioni e quell’aiuto. Con voce tremula, sinceramente preoccupata, ma anche spaventata all’idea di quello che avrebbe sentito; Undi fu la prima a parlare: “Adesso...mi dici cosa ti è successo; perché non posso ritrovarti in questo stato. E non ti azzardare a mentirmi, perché gli amici..”

“...non mentono.” Finí la frase lei. 

L’amica annuí seria, facendole capire che si fidava di quello che le avrebbe confessato.

“M-mia madre...si è trovata a dovermi mantenere da sola: il padre di Billy ci ha abbandonate senza dire nulla, neanche un biglietto...e da lì è andato tutto in malora! Oh, tu non ti immagini neanche cosa ho passato Undi!”

Soffocò un pianto, sforzandosi per trovare le forze per andare avanti. L’amica le pose la mano sulla guancia, accarezzandola, per darle coraggio.

“Lei è andata in depressione nera: beveva alcol di continuo, la trovavo buttata in ogni angolo della casa, ciuca come un mulo. Poi, qualche giorno fa parte dicendomi che tornerà con dei soldi, ma non quando. Io lì sono crollata del tutto: i topi si sono mangiati gli spiccioli che mi aveva lasciato, e ho dovuto fare cose assurde per mettere qualcosa sotto i denti! Oggi ho anche frugato in un cassonetto...OOOOH!”

La vergogna era troppa: il suo viso si nascose tra le gelide mani, che vennero scaldate dalla calda cascata di lacrime furiose. Undi rimase sbigottita, e indignata; questa volta dovette interromperla.

“E gli altri non ti hanno aiutata?! Non me ne hanno neanche parlato nelle lettere!”

Max si destò ed ebbe l’urgenza di correre in soccorso dei suoi amici, per questa incomprensione. 

“No! No! Ti giuro Jane che loro mi hanno aiutata molto nei mesi scorsi; praticamente ero ospite fissa metà settimana a casa di Lucas; quando andavamo in sala giochi mi offrivano di tutto: dai gettoni per i videogiochi alla pizza che c’è dentro. A scuola poi, mi chiedevano sempre come stavo, e se mi servisse qualcosa.” Tirò un sospiro, sapendo di stare arrivando al punto doloroso, in cui avrebbe dovuto svuotare il sacco e ammettere le sue colpe. “Ma...arrivate le vacanze di Natale...mi vergognavo così tanto di continuare a farlo, quando tutti sono felici con le loro famiglie...Oh Undi, non ti immagini neanche quanta fame ho.!”

Jane le sollevò la faccia che stava affondando ancora una volta. “Ma è proprio questo il periodo in cui gli amici si aiutano: Sai che quando Mike mi trovò nei boschi, era proprio sotto a Natale? E mi nascose nella stanza dove ci vediamo sempre, per quasi un mese...e credo che adesso non si rifiuterà di certo di accogliere te in casa sua!”

“C-come?! Vorresti chiedere a Mike e ai suoi di ospitarmi?! Ma non so se i genitori accetteranno, cioè intendo: un conto è farmi le condoglianze al funerale; ma non abbiamo la stessa confidenza che ho con quelli di Lucas...”

“Ma non dire sciocchezze! Se si aiuta una persona, si va fino in fondo! E poi a Natale siamo tutti più buoni, no?”

Presa da un ondata di energico altruismo, Undi afferrò per mano l’amica, obbligandola a seguirla. Sembrava che la sua vitalità stesse contagiandola, e nonostante la testa le dicesse che mostrarsi così snaturata, a mendicare alla porta dei Wheeler, sarebbe stata soltanto l’ennesima umiliazione; ma il cuore, il cuore prese a pompargli sangue in corpo come le accadde poche volte in vita sua. Il sangue che gli fece arrivare ai piedi, le diede la forza di ignorare la tristezza, il freddo, la stanchezza, la fame, il dolore e tutto quello che l’aveva fatta soffrire nei giorni precedenti. Sentiva profondamente che cosa stava per succedere le serviva, e che la fine delle sue sofferenze era vicina. Salirono in bicicletta, Max si stringeva forte con le braccia al basso addome di Undi, e respirava affannosamente. “Coraggio, reggiti ci siamo quasi!” 

Giunti alla porta di casa, l’amica telepate fece strada e suonò il campanello; lei intanto, stava al suo fianco, e ormai si sorreggeva al suo braccio, anche solo per stare in piedi. Tremava di paura ma anche eccitazione, sentiva che quella soglia, se superata sarebbe stato l’inizio di un nuovo capitolo della sua vita. Finalmente la porta si aprì dopo un minuto, che per lei fu un attesa interminabile; il volto gioviale di Nancy comparve, circondato dalla gialla e accogliente luce gialla del camino, accompagnata dal calore e profumo di legna bruciata, che tanto sapeva di Natale. 

“Jane, eccoti qui! Grazie mille per essere andata a prendere le nocciole con questo freddo; purtroppo me le sono scordate uscendo dalla redazione, perché ho sempre la testa per aria! Che vuoi farci? Eheh. Devi vedere Mike e Will: sono di lá a fare l’impasto; sono ormai dei pasticcieri provetti...” improvvisamente la sua testa si girò leggermente di lato, interrompendosi: aveva notato la presenza di un altra persona oltre all’ospite di casa. “Jane...Capisco che sei una ragazzina buona e altruista, e lo apprezzo; ma non so se i miei vorrebbero che facessimo entrare una senzatetto in casa...oh cielo, è così giovane; ma quanti anni hai?” Disse chinandosi, per guardare meglio la “senzatetto”. 

“Santo cielo, Nancy! Ma non la riconosci?!” Disse lei, portando l’amica un po’ più avanti, sollevandola dall’ascella, e permettendo alla luce di illuminarle meglio il viso. Nancy peró pareva più confusa di prima: prese ad esaminare da vicino il volto segnato della ragazzina, ma senza progressi. La situazione tragicomica strappò un sorriso alla diretta interessata. 

“Eheh...ciao Nancy! Sono io, Max...”

La costernazione e la sorpresa picchiarono sul volto di lei, corrugandolo in un istante, mentre si portava le mani sulla bocca dallo shock, e gli occhi si inumidivano. 

“Oddio! Tesoro, ma cosa ti è successo?!” 

“Non so neanche da dove iniziare, anzi sì: ho molta fame...”

“Presto, portala dentro Jane!”

La accomodarono su una sedia della cucina, sorreggendola da entrambe le braccia. Tremava così tanto, che oltre al cappello e i guanti non si sentirono di farle toglierle altro. Il calore della casa la investí dandole una sensazione di sicurezza, che le risvegliò le sinapsi indolenzite. Mentre Undi le sedeva accanto, tenendola per mano e ripetendole che tutto andava bene, e che ora era al sicuro; Nancy stava cucinandole una bistecca con spinaci al formaggio in una padella, sul fornello a gas. 

“Ehi! Mamma, papà siete già tornati?!” La squillante voce di Mike provenne dalla stanza accanto. 

“Eh...non venite ancora qui; stiamo preparando una sorpresa...ma ci vorrà un po’!” Si aggiunse quella titubante di Will. 

“Scemi! Non sono loro, venite qui!” Li rimproverò Nancy con fare da mamma, puntando anche il dito in basso, come se potessero vedere l’ordine mimato.

I due fecero capolino; e a Max venne da ridere nel vederli sbucare indossando grembiuli e cappelli da chef. “Ci stai distraendo dalla nostra opera d’arte...” disse teatralmente Will, mimando la parlantina francese. “Spero che sia qualcosa di importante Nancy; perché se ci hai chiamati soltanto per prenderti qualcosa dal ripiano, perché sei una tappa, e nel frattempo, si brucia l’impasto, ditó personalmente a mamma che hai rovinato la torta.” 

“Cretinetti! Guardate chi c’è!” Li rimproverò Undi, indicando col dito l’amica sedutale accanto. I due rimasero interdetti: evidentemente era talmente cambiata, che solo Undi (che d’altronde considerava la sua migliore amica), i suoi genitori e forse Lucas, l’avrebbero riconosciuta al primo sguardo. 

“Cavolo, tontoloni eravate e tontoloni

siete rimasti eh, stalker?” 

Mike e Will si guardarono l’un l’altro, sorpresi e scioccati. “Max?! Sei tu?! Sembra che tu sia uscita da un gulag!”.

“Veramente! Nelle foto di Hopper che ci hanno mandato dalla Siberia, era messo meglio!”

Nancy li fulminó con lo sguardo, girandosi dai fornelli, sbottando con la padella in mano.

“Ma vi sembrano cose da dirle?! Sedetevi piuttosto!”

“Tranquilla Nancy...hanno ragione...lo so, il mio aspetto non è dei migliori.”

La ragazza arrivò a posare il contenuto della padella nel piatto, che Max aveva di fronte. 

“Dai mangia: le proteine del manzo e il ferro degli spinaci ti daranno energia; e non dire così: nessuno ha il diritto di dirti che sei brutta. Sei solo stravolta per quello che hai passato, qualsiasi cosa sia stata; ma quando starai meglio, sarai ancora più bella di prima!” Le accarezzava affettuosamente la testa, mentre la rincuorava con tono materno. 

“Grazie Nancy...sei la migliore sorella maggiore che non ho mai avuto.” Max arrosí. Dalle sue labbra spaccate dal freddo si aprì un sorriso, e nei suoi occhi si leggeva sincero affetto. Lei ricambiò e si sedette alla sua destra.

“Comunque...non volevo dirti che sei brutta; é solo che...a primo impatto...ci hai fatto un certo impatto...” Mike gesticolava comicamente con le mani aperte, per cercare di avvalorare la sua giustificazione, annegando nel frattempo nell’imbarazzo.

“Mike...se smetti di parlare forse è meglio...” lo fulminò Undi.

“Beh, se faccio paura solo a vedermi, non è poi così un male; c’è tanta gente che non vorrei mi girasse intorno, ma tranquilli, voi due nerd non siete tra loro.” Disse Max tirando una frecciatina a Mike e Will.

Nancy le aveva anche tagliato in piccoli pezzi la bistecca, vedendo quanto fosse esausta. Max inforchettó una manciata di spinaci su un pezzo di carne, e la addentò con foga vorace. I suoi occhi si socchiusero e inclinarono al primo morso, trapelando il piacere del morbido del manzo cotto a puntino, affondato dai denti. Quando la pietanza scivoló sulle papille gustative, stimolandole I ricettori del gusto ormai assopiti; e poi scese ancora più giù, iniziando a dare finalmente nutrimento al suo stomaco implorante. I suoi occhi si chiusero del tutto, e il suo volto si distese in una leggiadra goduria. La dopamina condì il tutto, propagando un ondata di gusto e soddisfazione a tutto il corpo; era decisamente meglio di quella barretta pescata nella spazzatura.

“Oh...non credo di essere mai stata così felice di mangiare qualcosa in vita mia.” Tutti la stavano a guardare in silenzio mentre masticava; trovava comicamente imbarazzante essere al centro dell’attenzione, soltanto per stare mangiando. “Hmm...il mio modo di masticare dev’essere davvero interessante. 

Ahah non fissatemi così, vi prego, mi imbarazza!” 

A tutti venne da ridere; rifocillatosi la pancia, aveva riempito anche il suo senso dell’umorismo. 

“Ahah hai ragione, scusaci; è questa la Max che ci ricordavamo...” Le ammiccava con un occhiolino Will.

Undi le sorrideva con malinconia: i ricordi delle avventure dell’estate precedente si stavano riflettendo sulla sua retina, come il telo di un cinema illuminato dal proiettore. Sentiva senso di colpa per aver trovato la sua migliore amica affamata, infreddolita e ferita, come se la sua partenza fosse stata la causa scatenante della sua rovina. E pensare che quando l’ha vista per la prima volta, voleva farle del male...

“Ci stiamo scordando di chiamare Dustin, ma soprattutto Lucas!” Esclamò Will, colpendosi sul palmo della mano in fronte.

“No! No! Lucas no!” Tutti la guardarono interrogativi.

“Non voglio che mi veda in questo stato; vi prego, non ora!” 

“Va bene, tranquilla ti capiamo; neanch’io vorrei che Johnathan mi vedesse In certe situazioni; è comprensibilissimo.” 

Dalle scale al piano superiore, stava scendendo una bimba bionda in pigiama, stropicciandosi gli occhi e sbadigliando. 

“Mi avete svegliata...sono tornati mamma e papà?”

Era Molly, la sorellina minore; il trambusto delle voci aveva interrotto il suo pisolino. 

“Molly, vieni qui!” Nancy la mise a sedere sulle sue gambe. “E stanotte non trovare scuse: se non fai la nanna, Babbo Natale non viene.” Lei annuí ancora assonnata.

Finiti di stropicciare gli occhi, la bambina guardò in direzione dell’ospite.

“Ciao Max!”

“Ciao Molly!” Contraccambiò lei, con il sorriso più grande che potesse fare.

“Ehi! Aspetta, non vale! Come hai fatto a riconoscerla al primo colpo, quando praticamente tutti gli altri non ci sono riusciti?” Chiese Mike stupefatto.

“Perché lei ha gli occhi azzurri, e la maestra dice sempre che quando ti ricordi qualcosa di una persona, non te lo scordi mai.”

“Aww, Molly...” Max si sporse per arruffarle i capelli, e lei si mise a ridacchiare.

“Max...ma hai fatto a botte?!” Nancy le stava esaminando il livido che andava sbiadendo sull’angolo dello zigomo destro.

“Eh...più o meno...però devo dire che sono stata io a iniziare; all’incirca...”

“In che senso? Cos’è successo? Chi è stato a colpirti?” Chiese Jane, corrucciata all’idea che qualcuno potesse averle fatto del male, vedendola già ridotta così. 

“É stata Cassidy Lane: mi ha sputato addosso dopo avermi vista fare qualcosa di cui non vado fiera, e non ho reagito bene”.

“Lo sapevo, quella oca!” Esordí Jane.

“Ha una faccia da schiaffi...che se ne meriterebbe di prenderne finché campa...” Aggiunse Nancy.

“Una volta mi ha buttato lo zaino nella spazzatura, soltanto perché l’avevo posato sul tavolo della mensa dove voleva sedersi!” Testimoniò Will.

“Ma chi è Cassidy Kane?” Mike come suo solito, era un po’ più lento degli altri.

“Ma lo ha fatto perché stavi cercando di rubare qualcosa in un altro supermercato, e ti ha visto?” Chiese Undi.

“No...stavo cercando da mangiare in un cassonetto...eheh”.

“E non gli è neanche venuto in mente di chiederti se stessi bene?! Che razza di pu...”

Molly guardava interrogativa Nancy, cercando di capire quale fosse la parola.

“Pu...zzona, si, Molly sappí che chi si comporta così la di chiama Puzzona! Questa e nessun’altra parola!”

“Puzzona! Puzzona!” La bimba prese a gridare ridendo e agitando le manine.

“Poi dovrei anche chiedere scusa a Bob del negozio di fumetti. Gli devo un cartonato...”

“In che senso?” Chiese Will.

“Ho anche schivato i servizi sociali, nascondendomi in casa mia. Sono state giornate piuttosto turbolente, ve la racconto domani ok?”

Mentre finiva di mangiare, si guardò intorno: era circondata dai suoi migliori amici, ed era finalmente felice. Incredibile come la sua situazione fosse cambiata radicalmente da un momento all’altro; e se non avesse incontrato Undi al supermercato? Cosa ne sarebbe stato di lei? Avrebbe veramente passato il Natale tutta sola, in quel rudere che chiamava casa, mangiando patatine rubate dal supermercato, con la compagnia dei ratti?

“Ragazzi, vi voglio bene; siete una famiglia per me.” Tutti esplosero in un sorriso collettivo, e io rossore li colorò con varie gradazioni. 

Mentre Max passava alla frutta,con una macedonia che aveva preparato insieme a Undi e Nancy; I due uomini di casa finirono la torta, aiutati dall’apprendista pasticciera Molly. Un’ora e mezza dopo i signori Wheeler tornarono dalla visita ai nonni, e anche le poche paure rimaste a Max sparirono: quando la videro e sentirono cosa le fosse successo, la trattarono come se fosse loro figlia; anche il signor Wheeler, solitamente scontroso e con la testa per aria, divenne un agnellino con lei. 

“Ovviamente dormirai qui non solo stasera, ma fino a quando tua madre non sarà tornata: non puoi stare tutta sola in quel posto malfamato e al freddo. Festeggerai con noi il Natale, e questa faccenda sarà per te soltanto un brutto ricordo.” La rassicurò la madre di Mike. 

“Non so che dirle...grazie mille!”

“Credo ti serva una doccia calda per riscaldarti, hai ancora addosso segni di un principio di congelamento.” Le spiegò Nancy, toccandole la pelle delle mani; d’altronde lei era l’acculturata della famiglia.

“Oh grazie davvero! Mi serve solo un passaggio a casa per prendere un pigiama e dei vestiti-“

“Ma stai scherzando?! Te lo presto io il pigiama! Joyce mi fa sempre riempire la valigia come se stessi andando in guerra!” Saltò nella conversazione Jane.

“E io ho tanti di quei vestiti di quand’ero piú piccola che non mi vanno più, che te li posso anche regalare, così faccio spazio nell’armadio!” Aggiunse Nancy.

Max annuí sorridente, gratificata da quelle premure.

“Però mamma, non perché non la voglia qui, ci mancherebbe solo; ma credo che il 26 la dovremmo portare in ospedale.” Max la guardò preoccupata: c’era qualcosa che aveva notato della sua salute che non aveva avuto il coraggio di dirle?

“Addirittura in ospedale?! Ma soltanto perché aveva un po’ di fame e ha sofferto un po’ di freddo, non significa che stia morendo! E quel livido le è praticamente già andato via!” Protestò il padrone di casa. 

“Non sto dicendo che stia male ora, già adesso che si è rifocillata ed é stata al caldo per un po’ sta visibilmente meglio; ma c’è il rischio che sviluppi la sindrome da rialimentazione: quando una persona sta per un lungo periodo senza mangiare regolarmente e manca di vitamine, nel momento in cui ricomincia a nutrirsi bene, alle sue cellule possono mancare alcune sostanze che servono al loro corretto funzionamento, perché ingranano una marcia superiore a cui non erano più abituati. Per capirci, è un po’ come se a un auto abituata a viaggiare a basse velocità con sempre poco benzina, e senza cambiare gomme, o un adeguata manutenzione; venisse montato da un giorno all’altro un motore più potente e pretendere che viaggi a 120 all’ora. Ora, tu non hai sofferto di forme gravi di fame come l’inedia, grazie a dio; ma anche se è meno probabile, e in forme minori; potrebbero cederti i reni, avere problemi respiratori o venirti un infarto improvvisamente.”

Max si allarmó visivamente; anche Karen aveva un fare apprensivo, e per l’ansia che le aveva trasmesso quella storia, prese a rigirare la collanina che aveva al collo.  Solo il signor Wheeler non sembrava impressionato, ma aveva un espressione confusa e corrucciata, non avendo capito nulla del discorso della figlia. Comunque, alla fine furono tutti d’accordo che sarebbe andata il 26 a fare dei controlli; d’altronde non si può passare il Natale in ospedale, e ora stava già meglio. 

Dopo essersi riscaldata con una doccia calda; ricevette da Undi un adorabile pigiama rosa, che Joyce nella sua frivolezza aveva regalato a lei. A prima vista era proprio un regalo che esprimeva la dolcezza materna, quel tipo di regali che una madre fa ai figli perché li trovano pucciosi, ma non si rendono conto che quando hanno più di 6 anni iniziano a diventare imbarazzanti per loro. Era di un rosa vivido e acceso, lungo tutta la maglia erano sparse fatine che spargevano volando polvere magica, su un unicorno in posa su due zampe; un pugno in un occhio praticamente. È la dissonanza si faceva ancora più vivida su Max, che pur essendosi riscaldata, portava  ancora segni del freddo, dandole un pallore cadaverico; sembrava una goth a un pigiama party di fan di my little pony. 

Guardava Undi con ironia.

“Veramente?...”

“Ma dai sei carinissima!” Rispose vivacemente, incrociando i palmi delle mani.

“Me l’hai dato perché non volevi che Mike ti vedesse con questo addosso, vero?” Le sorrise canzonatoria.

“Si, ma anche perché credo ti stia sinceramente bene: il rosa ti dona!”

Max rise in sottecchi socchiudendo gli occhi e scuotendo la testa; poi sospirò brevemente.

“Ok...ma Lucas non deve categoricamente vedermi così; piuttosto preferirei che lo facesse con gli stracci di prima.”

“Ah ma domani ti presto la salopette con gli orsetti che mi ha regalato Joyce per il mio compleanno, cascherà ai tuoi pie-“

Non finí la frase, che Max le diede un amichevole pungerti sulla spalla. Jane scoppiò a ridere, e poi anche lei.

Will fu messo nel divano-letto in sala; mentre loro due avrebbero dormito nella camera degli ospiti insieme, un po’ come fecero quella estate a casa di Max.

Jane aveva ancora una sorpresa per l’amica: aveva portato con sé il numero di Wonder Woman che le aveva regalato il giorno della partenza, e le raccontò che era addirittura diventata una fan, iniziando a leggerli per conto suo. L’amica si sentí orgogliosa come un maestro di letteratura, quando scopre che uno dei suoi alunni ha letto Guerra e pace senza che fosse per compito. Lo rilesserò insieme, facendo una alla volta le voci dei personaggi; per la prima volta dopo molto tempo Max sentí il piacere di gustarsi un fumetto, senza preoccuparsi su cosa avrebbe mangiato il giorno dopo, o su cosa avrebbe dovuto indossare per ripararsi dal freddo. 

Jane spense la luce sul comodino; prima di addormentarsi, si girò a guardarla nel buio:

“Undi sei sveglia?”

“Si, perché?”

“Ti voglio un mondo di bene.”

“Anch’io.”

Si addormentò e fu uno dei sonni più belli della sua vita.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6- A Natale puoi... ***


Capitolo 6-A Natale puoi...

 

Era mattina presto, la luce illuminava filtrata la stanza, passando dalle tapparelle semi abbassate e dalla tenda, che la schermava in un’aura diffusa dolce e piacevole, che avrebbe svegliato i dormienti cullandoli nella sua radiosità, piuttosto che scuoterli bruscamente fuori dal sonno. Undi aprí gli occhi e si girò alla sua sinistra verso l’amica: stava ancora dormendo. Max era assorta in qualche bel sogno, lo capiva dall’espressione: aveva la bocca aperta, e la fronte distesa ma non apatica, faceva così quando era felice. Nel complesso faceva una grande tenerezza, l’espressione, il pigiama e il tenero e basso modo in cui respirava la facevano regredire all’immagine che si ha di una bimba dell’età di Holly che dorme sognante Babbo Natale. I segni del freddo che aveva sul volto, pur stando via via svanendo e i ricordi del giorno prima, la facevano ancor di più apparire agli occhi di Jane tragicamente innocente. Poteva vantarsi che fosse stato merito suo, l’aveva tirata fuori lei da quell’inferno. Sarebbe stata la stessa cosa con papà? Si stava solo allenando per quando l’avrebbe riaccolto nella sua vita da quel gulag siberiano? Si alzò più piano possibile per non svegliarla, e rimise le coperte a posto come se fosse ancora nel letto, per non infreddolirla; poi passando dall’altro capo del letto, le diede un leggero bacio sulla fronte per poi uscire lentamente dalla porta. Arrivata in cucina trovò Nancy intenta a preparare il caffè. 

“Siamo le uniche sveglie?”

Lei risponde annuendo e sorridendole.

“Siamo il club delle mattiniere a quanto pare...come sta Max?”

“Oh dovresti vederla, é adorabilmente immersa nel sonno” le prese la mano ora libera dalla tazzina, che aspettava di essere riempita dalla macchinetta “ieri abbiamo fatto qualcosa di veramente buono e giusto Nancy: per la prima volta in vita mia mi sento parte di come le persone vivono e interagiscono, e finalmente posso dire di aver fatto qualcosa per qualcuno che non sia stato ammazzare mostri da un altra dimensione...che non potrei raccontarlo comunque ad alta voce...” 

Nancy le diede un amorevole pizzicotto sulla guancia.

“Terra chiama Jane: sono d’accordo con te, sei stata veramente un eroina e devi esserne fiera; ma ricorda, nella società chi si vanta costantemente di cosa ha fatto è antipatico, ma soprattutto” e sottolineò con la voce quest’ultima parola “non dovrai MAI, farlo pesare a Maxine, neanche se in futuro vi capitasse di litigare, sarebbe soltanto crudele. Tu non sai quanto non avrei voluto farlo con una mia amica, che ora non c’è più...”

Undi aveva capito cosa volesse dirle, ma la guardava interrogativa, cercando di capire a chi si riferisse, mentre fissava trasognata il vuoto.” Il suono della macchinetta del caffè la risvegliò, facendola affrettare a prendere la tazzina.

“Si, tranquilla! Stavo soltanto confidandomi con te, ma non ho assolutamente intenzione di parlarne ancora oggi o qualsiasi altro giorno con lei, riguardo la giornata di ieri.”

“Bene, piuttosto ricordale dei ricordi felici che condividete, e di quelli che potreste avere in futuro.” 

Pian piano tutti arrivarono e incominciarono a fare colazione, l’ultima fu proprio l’ospite speciale, che giunse stropicciandosi gli occhi, ma decisamente riposata rispetto al giorno precedente. 

“Oddio, che ora é? Non avrò dormito troppo? Scusatemi veramente!”

“Ma che dici? Sono soltanto le 9, ti sei alzata soltanto dopo una decina di minuti rispetto a noi, e ti meritavi un bel sonno!” La accolse calorosamente il signor Wheeler.

“Vieni a prendere un po’ di biscotti fatti in casa con del caffè, ti piace il caffè?”

“Si molto!” Il padrone di casa le fece posto a tavola, mettendole a posto la sedia. Una volta sedutasi, le passò anche i waffles e lo sciroppo d’acero.

Mike lo guardava ironicamente corrucciato: come mai suo padre non era mai così gentile con lui? 

Max fece una colazione abbondante come non ne aveva da tempo. Poi tutti andarono sotto l’albero per scartare i regali. Lei sapeva che molto probabilmente non c’è n’erano per lei, ma non gli importava: il regalo più bello era già essere lì con tutti loro in quel momento. Ma a sua sorpresa, Undi e Karen si fecero avanti con un pacchetto a testa porgendoglieli. 

“Non pensavi davvero che io e Will saremmo tornati a mani vuote, vero?”

“Mentre questo è da parte di tutti noi: ma devi ringraziare Mike, che ci ha dato una dritta su cosa ti potesse piacere”. 

Lei non credeva ai suoi occhi, e un sorrisone le si stampò in volto. Ringraziatili una miriade di volte prese i pacchetti e lì aprí con foga. Quello di Undi era una maglietta con una foto di Tony Hawk, e perlopiú autografata. 

“Cavoli, ma dove l’hai incontrato?”

“Ehi, guarda che ora sono californiana almeno quanto te; faceva un esibizione a un parco vicino dove abitavamo noi, avendoti già comprato il regalo mi son detta: “fatto 30, facciamo 31”. E poi devo dire che è un tipo davvero gentile”

“Oh si, pensa che, non per vantarmi ma, io l’ho conosciuto nell’81, quando non era ancora famoso, perché si allenava al parco dove andavo coi miei amici, e ci ha insegnato personalmente come si fa un black flip. Quindi grazie mille, significa molto per me!”

La abbracciò e poi passò al regalo di Mike. 

Era un nuovo Walkman grigio dalle grandi cuffie, con all’interno la cassetta del nuovo album di Kate Bush: “Hounds Of Love”. Se lo mise sulle orecchie; i cuscinetti erano comodissimi e accendendolo poté constatare che il suono della sua vecchia radiolina era ormai molto disturbato, e rovinato in confronto a questo. Mentre la musica di “Running Up That Hill”, le entrava nel cervello, seguiva il tempo ad occhi chiusi, ondeggiando la testa e sorridendo. Era la prima volta che sentiva questa canzone, ma era già la sua preferita. Se lo tolse, guardò Mike con un sorriso sardonico ma dolce.

“E così è stata una tua idea eh?”

Si avvicinò e gli diede due bacini amichevoli sulle guance. “Grazie...è un regalo bellissimo”

Lui divenne rosso come un peperone.

“P-prego...ma che fai? E se ti vedesse Lucas?”

“Oh! Ci manca solo che inizi a fare il geloso soltanto perché voglio ringraziare un amico in comune” poi si volse a Undi, indicando col pollice lui “Si vede che le sei mancata, chissà quante volte si è arrossato come un semaforo in questi mesi, soltanto perché una ragazza le ha detto grazie”. Jane scoppiò a ridere, e annuí.

“Oh Mike...si vede che siamo le tue uniche amiche femmine!”

Tutti scoppiarono a ridere, mentre Mike affondava in un tenero imbarazzo. Alzò le mani in segno di resa.

“Ok...ok, é vero, ma devo dire che non mi immagino amiche migliori di voi.”

Tutti scoppiarono in un “Owwww...” collettivo. Il suono del campanello attirò la loro attenzione. La signora Wheeler aprí e si ritrovarono davanti Dustin con sua madre e Lucas ed Erika coi loro genitori, che libretto alla mano, intonavano un canto di Natale. Quando gli sguardi di Lucas e Max si incrociarono, lui rimase visibilmente sorpreso, mentre fu questa volta il turno di lei ad arrossire, perché ovviamente oltre a non aspettarselo di fronte, non avrebbe voluto farsi trovare con quel pigiama rosa di fronte a lui.

“Ah Lucas! No!” Si nascose dietro la schiena di Nancy, cercando di coprirsi il più possibile. “Non mi guardare, ti prego!”

Lui entrò e cercò di spiare di lato.

“Max? Che ci fai qui?!”

Undi andò vicino lei, e cercò di tirarla fuori dal suo riparo. 

“Dai, che così è solo più imbarazzante, devi parlargli”. 

Lei cautamente uscì e con un sorriso smorzato, e alzando la mano, gli fece un cenno di saluto.

“Ciao...”

Lui la guardò dall’alto in basso. 

“Ma questo pigiama?...” sorrideva.

“Eh si lo so, é un po’...”

“Ti sta benissimo!”

“Davvero?!” Reagì corrucciata dalla sorpresa. 

“Si! Il rosa ti dona!”

Max guardò Undi che le fece l’occhiolino.

Karen stava parlando coi genitori dei ragazzi.

“Vi va di unirvi a noi? Compriamo sempre più del necessario per il pranzo di Natale, almeno quest’anno non dovremo buttare via niente.”

Accettarono e mentre gli ospiti si toglievano le giacche, i ragazzi di casa andarono a cambiarsi. Rientrate in camera, Max prese per mano Jane e guardandola negli occhi sorridendole le disse con ferma decisione:

“Undi, dammi la salopette con gli orsetti!”

Il volto di lei si illuminò.

“Davvero?”

“Si! Se gli piaccio veramente carina e pucciosa, andiamo fino in fondo!”

Le due annuirono con complicità, come se stessero complottando qualche piano super segreto. 

Max fece la sua comparsa davanti a Lucas che si apprestava a sedersi a tavola, con indosso l’adorabile salopette con stampati sopra orsacchiotti che spacchettavano regali, e le trecce ai lati del viso a mo’ di Pippi Calzelunghe. Si mise in posa e gli chiese ironicamente:

“Ti piace ciò che vedi?”

Lui si illuminò.

“Si cavolo! Sei adorabile!”

Lei gli diede un bacio e si sedettero una vicino all’altro. Affianco a lui c’era Dustin.

“Ehi Max! È da tanto che non ci sentiamo, come te la passi?”

“Oh vediamo...mia madre mi ha lasciata sola a casa per andare chissà dove, i roditori hanno mangiato i soldi che mi aveva lasciato, ho cercato da mangiare nella spazzatura e ho fatto a botte come i barboni; poi Undi mi ha trovata e mi ha portata qui. Ieri ero tutt’altra persona, non mi avreste neanche riconosciuta, ma ehi, ora sto bene.” E fece il segno della pace.

I due la guardavano confusi, e fu Lucas a parlare.

“Ma seriamente?!”

“Si!”

“E perché non sei venuta da noi quando è successo questo? Lo sai che siamo felici di aiutarti.”

“Il fatto è che...mi vergognavo di chiedere aiuto in generale...e non ti immagini neanche quanto fossi messa male, non volevo che mi vedessi...”

Lui le mise una mano sulla spalla.

“Non dirlo neanche per scherzo, se ti amo ti amerò sempre, anche quando sei in difficoltá”

Lei lo guardò teneramente negli occhi e si baciarono ancora.

Il pranzo fu molto buono, e chiacchierarono amabilmente come una famiglia per tutta la durata. Il pomeriggio adibirono il salone col parquet in legno a sala da ballo, e il signor Sinclair insegnò a tutti il boogie-woogie. Lucas e Max fecero ovviamente coppia e la sera erano diventati già ballerini provetti.

Fu una bella giornata, e uno dei Natali più belli di sempre. 

Ma un’ultima, seppur brutta sorpresa, attendeva Max. Il campanello suonò di nuovo, ma non capivano chi sarebbe potuto essere, inoltre chiunque fosse, lo stava premendo più volte di fila, furiosamente, come se avesse fretta di entrare. I signori Wheeler aprirono alla porta, e gli occhi di Max incrociarono quelli estremamente incazzati di sua madre.

“Maxine! Che cosa ci fai qui?! Non sai che spavento mi hai fatto prendere, la casa era vuota e non hai lasciato neanche un biglietto! Ti ho cercata d’ovunque, credevo fossi morta!”

Inizialmente questo rimproverò la spaventó, anche perché in quelle ore aveva smesso finalmente di pensare a sua madre, quindi questa comparsa improvvisa e furiosa la sconvolse. Poi però la rabbia prese a salirle: lei non se n’era forse andata senza dirle niente di concreto? E cosa avrebbe dovuto fare? Stare chiusa a patire la fame aspettandola in eterno, anche il giorno di Natale?!

“Ah, certo, perché tu non te ne sei andata senza dirmi niente?! E poi se ci tieni a saperlo, in quella topaia i ratti si sono mangiati i soldi che mi hai lasciato, non sapevo che fare.”

La madre sembrò non gradire questo rimprovero in pubblico, guardò le possibili reazioni degli altri, per poi tornare sulla figlia e arrabbiarsi ancora di più.

“Maxine!...Ora sono tornata e torni a casa con me, su!”

E gli allungò la mano, dall’alto in basso.

“No! Io non ci vengo con te! Vuoi che passi anche il Natale a vederti ubriacarti e buttarti sul divano, mentre mi dici di stare zitta, che l’alcool ti ha fatto venire mal di testa?! Lo sai che i servizi sociali sono venuti a cercarmi, avevano da mangiare e anche il gelato, ma io mi sono nascosta, cercando di proteggerti?! E ora mi vieni a rimproverare perché ho chiesto aiuto a degli amici, che mi hanno trattata molto meglio di come hai fatto tu nei mesi scorsi, che sei mia madre?! Vaffanculo mamma! Vaffanculo te e il tuo cazzo di Brandy!”

La signora Mayfield si voltò verso la Wheeler con fare astioso.

“Gli hai messo in testa tu queste cose Karen?! Stai cercando di portare via mia figlia da me?! Ti credi tanto superiore nella tua grande casa, piena di-“

“Sei fuori di te, Max è arrivata qui sconvolta e affamata, l’abbiamo solo aiutata come abbiamo già fatto un passato; devi calmarti e comprendere che nessuno c’è l’ha con te”

“Oh ma lei sí!” E indicó con l’indice la figlia “sai che ti dico?! Rimani pure qui se stai meglio che a casa tua con tua madre!” 

Sbatté la porta di casa più forte che poté, e scomparve. Un silenzio assordante gettó nell’imbarazzo i presenti, che guardandosi a vicenda non sapevano che cosa fare.

Max peró si, e fissava nera in volto la porta ansimando silenziosamente, un po’ come aveva fatto quando lei era uscita di casa. Questa volta però prese a singhiozzare e piangere; Lucas lo notò e gli mise una mano sulla spalla, ma lei la rimosse e corse in camera piangendo sempre più forte.

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Capitolo 7
*** Mai dire: “ti odio” ***


Capitolo 7-Mai dire: “ti odio”

 

Max era distesa a faccia in giù sul cuscino, bagnato fradicio delle sue lacrime. La sua voce era raggomitolata in un singhiozzare forte e alternato dalle pause per prendere respiro, carburante per riprendere a piangere. Si reggeva disperatamente alle ante del letto, come se dovesse trattenersi da qualcuno o qualcosa che la volesse tirare via da lí. Undi la consolava accarezzandole la schiena e sostenerla a sfogarsi.

“Coraggio dai, butta tutto fuori, ti fará solo che bene.”

La signora Wheeler era anch’essa seduta a lato del letto tenendole le trecce dietro la schiena in modo che non le andassero sugli occhi e la guardava con i suoi umidi; sua figlia maggiore in piedi vicino la porta chiusa, con le braccia conserte e incapace di decidere sul da farsi, le dispiaceva non poter essere d’aiuto.

“La odio! La odio! LA ODIOOOOO!”

Dopo questo climax di sfogo, finalmente la ragazzina si girò e asciugandosi le lacrime, rossa in volto, cercò di calmarsi.

“Lei...non era così, é sempre stata un po’ apprensiva e a volte litigavamo, ma non ha mai avuto problemi di alcol; non avrei mai pensato che saremmo potute arrivare a questo punto.”

“Oh, tesoro ma é normale: sei sua figlia, e quello che hai appena detto significa che gli vuoi bene; ma vedi, a volte le persone soffrono molto, e ci sono periodi in cui per il dolore fanno cose stupide, che normalmente non farebbero.”

Karen le accarezzava il viso, e nelle sue parole si leggeva quella stessa premura che avrebbe rivolto a uno dei suoi figli.

“Ma non é colpa mia se Billy e morto...non è colpa mia...”

“Ma certo che no! É stato un incendio, un tragico incidente; sono sicura che non lo pensa neanche lei.”

Mentre sua madre confortava Max, Nancy e Jane si scambiarono un occhiata di sconforto, comprendendo che lei non poteva sfogarsi veramente con sua madre, perché non poteva di certo dirle cosa fosse realmente successo quella notte al Starcourt. Max guardò la padrona di casa in volto.

“So che il patto era di aspettare fino a che lei fosse tornata, e di certo non è stato bello fare quella scenata proprio la sera di Natale quando ci stavamo divertendo; quindi non si preoccupi, tornerò a casa da mia madre questa sera stessa.”

“No, il patto era che saresti andata in ospedale domani, e così sarà, perché dobbiamo assicurarci che tu stia bene.”

Poi abbassó un attimo lo sguardo, per posarsi nuovamente su di lei ma con un tono doloroso: stava per dire qualcosa che non avrebbe voluto. Max lo percepì e contraccambiò caricandosi di ansia ma anche curiosità.

“Ascolta tesoro, sto per dirti qualcosa che ti farà male, ma ti assicuro che non te lo dirò per offenderla o allontanarti da lei in nessun modo. Anzi, voglio che te ne renda conto per aiutare te e lei: stasera non sembrava in pieno controllo delle sue facoltà mentali; l’ho vista dritta negli occhi e aveva il rossore di chi ha bevuto. Non era ubriaca, ma era comunque alterata dall’alcol.”

“Confermo, ero affianco a lei, e sentivo l’odore venire dalla sua bocca.” Annuí Nancy.

Max non sembrava offesa, ma dall’inclinazione degli occhi si intravedeva molta tristezza e imbarazzo. Karen Wheeler la prese per mano.

“Quello che voglio dire è che forse hai fatto bene a non seguirla stasera: le serve aiuto e non devi essere da sola nel darglielo. Quello che ti ha fatto non va bene! Non devi giustificarla o proteggerla dalle sue responsabilità, perché tu sei una minorenne che dipende da lei, ma puoi aiutarla a rimettersi sulla retta via. Capisco perché ti sei nascosta da loro, sei stata buona con lei, ma i servizi sociali vi possono aiutare.”

A sentire di nuovo quelle due parole Max fece un piccolo sobbalzo indietro e tirò un brevissimo sospiro. Evidentemente, era terrorizzata all’idea di cosa avrebbe potuto comportare farli entrare nella sua vita.

“So cosa stai pensando, ma no, non preoccuparti; girano tante storie esagerate su di loro: non ti allontaneranno da tua madre, lo fanno solo in casi davvero estremi. Loro possono aiutarla seriamente a uscire dal tunnel dell’alcolismo e impedirti di soffrire di nuovo la fame.”

Lei sembrava capire e mentre Karen finiva la frase, incominciò ad annuire. Poi prese la parola.

“Il fatto è che...sono così stufa di sentirmi in colpa per quello che è successo; non è giusto che lei mi tratti sempre con quella sufficienza di chi parla con qualcuno in torto, e che io alla fine finisca sempre per incolparmi davvero.”

Tutte e tre le si avvicinarono per farle sentire la loro presenza.

“Oh, finalmente l’hai capito: devi pensare anche a te stessa!” Le sorrise Jane.

Max guardò tutte a una a una negli occhi, piena di gratitudine, si asciugò gli occhi e sorrise. A quel punto la signora Wheeler non poté trattenersi dal darle un abbraccio, a cui si aggiunsero anche le altre due in un incontro fisico collettivo. Entrò nella stanza Holly, con un foglio di carta in mano. Si avvicinò a lei e glielo porse: era un disegnino fatto da lei.

“Max non voglio che stai male perché litighi con la tua mamma, così ho fatto un disegno dove” e indicò sopra col dito “ci sei tu con lei, e sorridete e siete felici, così se glielo fai vedere, magari magari, fate pace e succede davvero!” La bimba esprimeva tutto il suo entusiasmo, quasi fosse un piano di un diplomatico dell’ONU per porre fine a una guerra. Max si sentiva sciogliere dalla tenerezza di questa proposta e non poté trattenersi dal darle un abbraccio forte. “Oh Holly...spero proprio che sarà così”.

Lucas bussò alla porta e Nancy gli aprí, le ragazze compresero che fosse il momento di lasciarli un attimo soli. Max lo guardava con occhioni grandi e umidi dallo sfogo precedente, ma con una tristezza interna che trasudava copiosamente un: scusami per prima” senza che dovesse essere detto. Lui si sedette al suo fianco, ma prima che iniziasse a parlare lei gli diede un lungo bacio, e i due rimasero così a lungo, esprimendo quello che volevano dirsi senza parole. 

Il giorno dopo Max venne accompagnata all’ospedale dove i medici iniziarono a farle dei controlli. Le paure di Nancy si dimostrarono fondate, per fortuna soltanto a metà: aveva una carenza di alcune sostanze e vitamine in corpo, ma niente di grave. Le avrebbero fatto seguire quindi una dieta iper proteica, tenendola in osservazione per alcuni giorni, facendole contemporaneamente degli esami. In quelle giornate ricevette anche alcune visite, molto speciali: i due agenti dei servizi sociali fecero la loro comparsa, muniti anche questa volta del gelato di Captain Ahoy. 

“Lo abbiamo testato per te l’altra volta, e devo dire che hai degli ottimi gusti Maxine”. Scherzava James, il ragazzo del cui nome aveva appreso dal cartellino al collo. Lei li ascoltava seduta nel letto d’ospedale, con indosso il camice da paziente. Si strafogava del gelato nella vaschetta, come se fosse l’ultimo che avrebbe mangiato in vita sua, incurante del fatto di avere i capelli sciolti davanti al viso, rischiando di sporcarli di crema, nella sua voracità.

“Accidenti, quanto sono stata stupida a rifiutarlo...” Decantava assaporando un abbondante cucchiaiata; alzò gli occhi e li guardò come se fossero dei messia. 

“Scusate se non vi ho aperto l’altro giorno, ero...molto confusa...” scuoteva la testa abbassata, vergognandosi per le sue azioni di quella giornata. 

“Oh beh, almeno non ci hai sparato addosso, non sai quante volte ci succede...” replicò con tono ironico ma rassicurante, Rosalie, la signora afroamericana, superiore di James. Max rise immaginandosi con un fucile a canne mozze, sparare dalla finestra a gente che bussa alla sua porta, come un perfetto bifolco redneck che vive in una palude. 

dovette chiedergli una cosa:

“Ma come facevate a sapere quale fosse il mio gusto preferito?”

“Beh ce l’ha detto lui”. Rispose indicando la porta Rosalie. 

Era ferma sulla porta una persona che non aveva notato entrare: era Bob. 

“Ciao Maxine, come stai?” C’era nella sua voce quel tipo di incertezza che c’è in chi é dispiaciuto di qualcosa successo con chi si sta parlando. Ma ancora di più si leggeva dispiacere nello sguardo di Max, con quegli occhi semichiusi a mezza luna, tristi ma volenterosi di comunicare qualcosa di positivo. Posó la vaschetta sul comodino, e mentre i due assistenti sociali uscivano per lasciarli parlare da soli, si puliva la bocca col tovagliolo per rendersi il più presentabile possibile. Finito, la sua bocca si socchiuse più volte, nel disperato tentativo di trovare qualcosa da dire. 

“M-mi disp...mi dispiace Bob: sono stata ingiusta con te, scusami ti prego...”

Lui sentiva che era sull’orlo di piangere, così si avvicinò premurosamente al letto.

“No, no, tranquilla! Mi hanno spiegato cosa ti è successo, e io non ho gestito ottimamente la cosa.”

“Ma come?! Non sei arrabbiato con me per le cose orribili che ti ho detto? E per aver rotto quel cartonato, soltanto per farti un dispetto?” 

Gli occhi di Max si spalancarono: era genuinamente sorpresa, circondata com’era da adulti isterici e repressivi, che Bob non fosse arrabbiato con lei. Lui si sedette sulla sedia accanto al letto e gli mise una mano sulla spalla. 

“No, Maxine: credo ti servisse sfogarti, e l’hai fatto. E quei cartonati c’è li regalano le case editrici di continuo: ne avrò una ventina in magazzino; e poi diciamocelo: Superman é sempre stato un po’ un pallone gonfiato, gli hai dato una lezione! La prossima volta che uno di quei nerd verrà a chiedermi quale sia stata la sua più grande sconfitta, dirò: “senza dubbio quella contro Maxine Mayfield, meglio conosciuta come Mad Max!” Dichiarò trionfalmente per concludere facendole l’occhiolino.

Lei rise: Bob era una delle persone più autoironiche che conosceva, ed era questo che più apprezzava di lui. 

“Però Bob...sappi che non penso veramente quelle cose orribili che ti ho detto...” disse piena di senso di colpa, occhi bassi e tono da cane bastonato. Non sembrava però volesse impietosirlo: si capiva fosse genuinamente dispiaciuta e stava vergognandosi della scenata di giorni prima nel suo negozio. Lui le si fece ancora più vicino e le tirò su il mento minuto con la sua manona. 

“Ehi...tutti diciamo a volte cose che non vorremmo dire; erano di pancia ma non di testa, ok?”

Lei annuí e lo abbracciò forte, sollevandosi in parte dal letto. Lui la strinse cercando però di non farle male o di staccarle la flebo. Max non poteva sapere che quella sera, quando uscì dalla sua fumetteria sbottando e sbattendo la porta, i ragazzi e le ragazze presenti risero di lei, e uno di loro arrivò a commentare: “Ma da dove è uscita questa? Sembra scappata da un manicomio!” Aumentando l’ilarità generale. Ma Bob non rideva, era l’unico, ma assolutamente non stava ridendo. Con severa rabbia, tirò a se il ragazzino dal colletto, e alzando un dito guardandolo negli occhi: “Non ti permettere, mai più! Di giudicare qualcuno come lei soltanto perché è stata più sfortunata di te! Non ti immagini neanche cosa possa aver passato, non è un clown venuta qui per il tuo intrattenimento, ma un essere umano come te.” Poi lasciandolo, si girò a guardare tutti indicandoli “E se sento un altro risolino o una battuta su di lei, chi l’ha fatta esce si qui immediatamente, intesi?!” Il silenzio caló nella bottega di fumetti. Bob non aveva moglie o figli, ma se avesse potuto scegliere, avrebbe voluto che lei fosse sua figlia.

Il ragazzone la lasciò e si acucció a un sacchetto che aveva posato a terra.

“E per dimostrarti definitivamente che non sono arrabbiato con te...” fece una pausa per sollevare qualcosa “ti ho portato questo”. 

Gli occhi di Max si illuminarono come nel loro incontro giorni fa, perché davanti a sé c’era la Golden Edition di “Crisi Sulle Terre Infinite”. 

“M-ma, sei sicuro di volermelo regalare? Costa 54$!” 

“Si, assolutamente si: i fumetti sono fatti per essere letti, e tu ne hai bisogno”. 

Lei arrossì e lo guardò come fa chi riceve un inaspettato regalo di Natale, senza saper cosa rispondere, se non un semplice, sincero, dal profondo del cuore:

“Grazie, ti voglio bene.”

Rosalie e James le spiegarono che quando sarebbe stata meglio, avrebbero cercato insieme di risolvere il problema alcolico di sua madre, e fino a quando non sarebbe riuscita a mantenere economicamente entrambe, sarebbero passati ogni settimana a portare loro la spesa, grazie a un programma di aiuto alimentare; nella speranza che il presidente Reagan non lo abolisse. 

Nel pomeriggio, il “party” al completo, accompagnati da Steve, venne a farle visita, ma non sua madre.

Il gruppo esplose d’eccitazione nella sorpresa di vederla sotto la supervisione di un infermiere nel cortile dell’ospedale, sfrecciare e fare acrobazie a bordo del suo skateboard. Era stato dato ai due agenti da sua madre durante una visita a casa, ma non disse loro quando sarebbe venuta a trovarla.

“Sono già passati due giorni...credete che verrà? Sono stata troppo dura con lei...”

“Vedila così” Steve le mise una mano sulla spalla  “ha avuto la premura di dare lo skateboard agli assistenti sociali: significa che ha pensato a te, e ti vuole bene, gli serve solo tempo per riflettere.” 

Quel pomeriggio insegnò ai ragazzi ad andare sullo skateboard, Dustin si dimostrò il migliore tra loro, ed ebbe l’impressione che Jane stesse un po’ barando, correggendo il suo equilibrio coi suoi poteri telepatici, visto che cadeva di continuo all’inizio ma diventò brava stranamente con velocità.

“A proposito Max...devo confessarti una cosa riguardo il tuo skateboard...” le disse con un sorriso imbarazzato. Lei la guardava perplessa, non capendo cosa potesse dirle sul suo passatempo preferito. Poi qualcosa le passò per la testa e si illuminò di felicità ed eccitazione. Prese la sua mano:

“Non mi dire...in California hai iniziato anche ad andare sullo skateboard! Oh quel posto è così magico, se non ci foste voi cercherei con tutta ne stessa di convincere mamma a tornarci!”

“Wow, wow, aspetta: mi dispiace dover deluderti ma non è questo. Vedi...ti ricordi quando tre anni fa cadesti dallo skateboard di fronte a Mike?”

Lei ritornò nella confusione di prima, arricciando le sopracciglia.

“Si...ma, come fai a saperlo? Non c’eri; gliel’hai raccontato tu Mike?”

Lui alzò le mani in segno di resa.

“Assolutamente no! Giuro.”

“No, vedi; sono stata io a farti cadere: non sapevo chi fossi ed ero ancora molto confusa riguardo le relazioni umane. È stata la mia prima scenata di gelosia eheh”. 

Max rimase a bocca aperta: non ci aveva mai pensato, ma aveva perfettamente senso.

“Ah! Lo sapevo, eri veramente tu!” Euforico, Mike abbracciò forte Jane e gli diede un bacio. 

“Ah, ecco perché sei corso a guardare in giro: avevi già il chiodo fisso all’epoca.” Mike arrossì.

“Ma comunque, non sei arrabbiata con me?”

Max si corrucciò di ironico biasimo, scuotendo la testa:

“Ma che dici? Ti sembra che possa portarti rancore per qualcosa del genere?! E poi la gelosia ci sta, significa che ami davvero Mike” poi si girò verso il suo fidanzato “tu ne sai qualcosa delle mie sfuriate, eh Lucas?!” Facendogli un occhiolino.

Lui quasi impallidì al ricordo di quando l’anno scorso, un’altra ragazzina rossa, Eleonore Barts, gli rivolse delle attenzioni. Max si avvicinò con gli occhi iniettati di sangue, chiedendo cosa stessero combinando, e spaventando la poveretta che si allontanò con una scusa. Procedette a fare il quarto grado a lui, e a tenergli il broncio per giorni, quando lui non aveva fatto niente, ricordandogli che: “Di foglie rosse, ne prendi soltanto una volta quando cadono. Se ti piacciono tanto e cerchi di prenderne due allo stesso tempo, te ne ritroverai solo di marroni in mano”. Un detto inventato da lei, per fargli capire che se era già gelosa di suo, lo sarebbe stata ancora di più con altre pel di carota. Alla fine, fece pace con lei regalandole una rosa, e dopo una settimana di scuse continue. 

“B-beh, difficile scordarsene...” deglutì nervoso lui. 

“Sarà meglio...” gli sorrise in sottecchi lei.

La accompagnarono in camera, tenendole compagnia in attesa della cena. Si vedeva che il trattamento e la dieta iper proteica stavano funzionando: i suoi capelli erano ritornati di un arancione vivace, e i suoi occhi non erano più di quel grigio spento e vacuo, ma si erano ricolorati del loro caratteristico azzurro indaco. Le sue guanciotte tonde erano tornate ad adornarle il viso, e nel muoversi non ciondolava più per lo sforzo, avendo recuperato tonicitá negli arti, grazie alla fisioterapia e il suo passatempo sulla tavola a ruote. La sua pelle si era ripresa dai geloni che l’avevano marchiata, e grazie a delle creme dermatologiche, ora era uniformemente morbida. Nessuno l’avrebbe potuta più scambiare per una senzatetto vedendola ora: era ben nutrita, sana e forte; inoltre, Nancy aveva ragione: la ripresa la stava facendo fiorire nella sua pubertà, rendendola per la gioia di Lucas in particolare, nel complesso più bella. Per lei questo periodo di recupero era motivo d’orgoglio: era una ragazza atletica, che detestava stare ferma per ore, doveva sempre fare qualcosa e tenersi attiva. Quando iniziò a vedersi dimagrire allo specchio, e a sentirsi debole, affaticata nel fare anche le cose più semplici, incapace di usare lo skateboard per lo spossatezza, la vergogna la pervase. Non si guardava più allo specchio, evitava in tutti i modi di guardare proprio il suo corpo, che le sembrava quello di un estranea, una prigione in cui l’avevano rinchiusa. Mentre le sue coetanee si preoccupavano di perdere peso, lei faceva di tutto per prenderne, e cercava di nascondere il suo dimagrimento, per esempio indossando più vestiti del necessario. La cosa si fece inquietante, quando un giorno alla mensa della scuola, Cynda Mars, una ragazza seguita dalla psicologa della scuola per un disturbo anoressico, si sedette al suo tavolo e con uno dei suoi sorrisi nervosi scheletrici le disse che la trovava molto bella. Lei non le rispose neanche da quanto era sconvolta dal gesto, e si allontanò con gli occhi sbarrati e il vassoio in mano, andando al tavolo più vuoto e lontano dagli altri che potesse trovare, in un angolo buio. Da quel giorno le sue paure si acuirono sempre di più: non era un anoressica, non voleva assolutamente che la gente lo pensasse, tantomeno si sentiva bella in questo stato, e l’idea che qualcuno lo potesse pensare le gelava il sangue. Non era magra come Cynda, ma temeva di essere sulla strada per diventarla. Tutto questo la spinse ad auto isolarsi, in particolare modo da Lucas perché non voleva apparire brutta ai suoi occhi. Non c’era un piano dietro tutto questo: era pura e miserevole disperazione. Ora invece, si svegliava la mattina felice e carica; passava anche mezz’ora a guardarsi allo specchio del bagno della sua camera d’ospedale, pettinandosi i capelli, e immaginandosi con addosso i vestiti che vedeva sulle riviste di moda che prendeva dall’edicola dei pazienti. Quando non doveva stare a letto con la flebo, ballava ascoltando la musica dal walkman, utilizzando la spazzola come microfono, come faceva nella sua vecchia camera. Un giorno scoprí che Cynda aveva finalmente accettato di farsi ricoverare per curarsi dal suo disturbo, e ora si trovava nel reparto accanto al suo. Le fece visita, e nel vederla, la poveretta scoppiò in lacrime. Aveva capito cosa ci fosse di sbagliato in quello che le aveva detto, ma ora che la vedeva ripresasi, la invidiava davvero e avrebbe mirato ad essere come lei: felice di mangiare. In quelle giornate in cui non potevano uscire, divennero vere amiche: si tenevano compagnia a vicenda per quanto possibile; visto che Cynda non poteva ancora alzarsi dal letto. 

Dopo essersi cambiata nuovamente con gli abiti d’ospedale e mentre l’infermiere le riattaccava la flebo, Undi le spiegò tutti i piani che avevano in mente per rendere queste le vacanze di Natale più belle della sua vita. Ma appena rimessasi nel letto, il dottore a sua sorpresa, venne ad annunciarle che aveva delle visite speciali. 

Fremeva dall’attesa: forse sua mamma era finalmente venuta a trovarla! Ma la sorpresa fu ancora più grande, e i suoi occhi si inumidirono e arrossarono immediatamente, quando dalla porta fecero capolino un ragazzino dai capelli biondi brizzolati, e una dalla pelle scura come il cacao.

“Ciao Max! Siamo corsi qui appena ci hanno detto tutto!”

Erano Tommy e Arianna: quel sogno diceva il vero, pensavano ancora a lei.

Max si alzò di scatto senza pensarci due volte, facendo cadere la flebo a terra, e correndo verso loro in lacrime. Appena oltre il letto, i ragazzi si incontrarono e fecero un abbraccio di gruppo, tutti e tre piangendo fiumi. 

“Mi siete mancati tantissimo! Non immaginate neanche quanto...”

“Shhh, adesso siamo con te, andrà tutto bene.” Le sussurrava Arianna. 

Intanto gli amici di Hawkins erano rimasti piuttosto spiazzati dall’avvenimento, non sapendo neanche chi fossero i nuovi arrivati; di sicuro rappresentavano qualcosa di importante per lei, se era corsa da loro in quel modo. Si guardavano imbarazzati, non sapendo cosa fosse meglio fare. Dustin, con la sua spontaneità caratteristica, fu il primo a prendere parola. 

“Ehm ehm, scusa Max, ma potresti presentarceli?”

Lei si voltò verso loro, asciugandosi le lacrime con un sorriso imbarazzato, essendosi resa conto della sua reazione esagitata.

“Ah già, non vi ho mai parlato di loro: lui è Tommy, mentre lei è Arianna” li indicò col dito, e loro a turni salutarono alzando la mano e sorridendo “sono i miei migliori amici della California!”

Jane era visivamente meravigliata. E si portó le mani sulle guance.

“Ma perché non ce ne hai parlato prima?! Mi sarebbe piaciuto tantissimo incontrarli lì!”

“Hai ragione, scusami; ma col periodo che ho passato non avevo proprio la testa per queste cose.” 

“Sei vissuta in California? Dove?” Chiese Tommy a Jane.

“A Lenora Hills, vicino Los Angeles.”

“Wow! Eri proprio a un passo da noi! Comunque piacere di conoscervi!” Esclamò Arianna.

“Come stanno i tuoi? Gestiscono ancora il ristorante messicano?” Il pensiero le fece ricordare il sapore delle gustose tortillas, il calore delle cene di gruppo dove erano invitati tutti i loro genitori, che si conoscevano a loro volta da molti anni prima che nascessero. 

“Si! E l’hanno anche ingrandito da quanto é diventato di successo, ora ha cento coperti; il commercialista di papà crede che potrebbero aprire addirittura una catena.”

“Caspita! Non sai quanto sono felice di sentirlo! E tu Tommy che racconti? Di ai miei amici di qui che lavoro fanno i tuoi, dai!” Lo punzecchiava lei, carica di eccitazione, quasi fosse un vanto per lei cosa avrebbe detto loro. 

“Ok, ok, vedete, i miei genitori sono agenti cinematografici per attori di Hollywood.”

Tutti rimasero a bocca aperta, Max rideva a sottecchi con le braccia conserte, avendo previsto la reazione. Il ragazzo alzò le mani.

“Eh già, lo so, tutti reagiscono così, ma guardate che in fondo è un lavoro molto burocratico piuttosto noioso.”

“Ma chi se ne importa! Comunque conoscono gente come John Travolta!” Esplose di entusiasmo Dustin.

“Ma quindi hai incontrato Herrison Ford?” Chiese Lucas.

“Barbara Streisand o ancora meglio, Clint Eastwood?!” Aggiunse Mike.

“Si, si, e si! A volte mi portano anche a vedere i set. Nel’82 io, Max e Arianna andammo per un giorno sul set di “Il Ritorno Dello Jedi” e ci facemmo una foto con Chewbecca.”

Tutti rimasero a bocca aperta, tempestandolo di domande.

Il gruppo fece conoscenza e Max fu così felice di trovare tutti i suoi amici in un unico posto. Si sentiva di nuovo completa, quella stanza d’ospedale sapeva di casa in quel preciso momento. Ma a un certo punto, una domanda si fece largo per la sua testa, e dovette interromperli per chiederla ai ragazzi californiani.

“Scusate, ma...come siete arrivati fin qui?”

“Ah già, sarebbe una sorpresa, ma chissà che fine ha fatto...” Tommy sembrava volutamente voler nascondere qualcosa.

Arianna lo tirò per la manica e fece un accenno con la testa alla porta.

“Max, girati, guarda chi c’è dietro di te!” Le disse sorridendo lei.

Max si voltò e rimase bloccata nel vedere un viso ancora più familiare, che non rivedeva da anni ma solo ora si rendeva conto di quanto le servisse rincontrare. Un uomo sulla quarantina, dai capelli e barbetta rossi come i suoi le sorrise affettuosamente, salutandola con una mano.

“Ciao tesoro, scusa il ritardo dovevo cercare parcheggio; ma ora papà è qui!”

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Capitolo 8
*** Se manchi troppo da casa, casa verrà da te ***


Capitolo 8-Se manchi troppo da casa, casa verrà da te

 

“Papà...papà!”

Max corse verso di lui, la forte ma tenera presa delle sue braccia si strinse contro il busto dell’uomo; e quelle di lui contraccambiarono accogliendola, in un paterno accudimento. Questa volta però non piangeva, ma sorrideva, sorrideva come non ha mai fatto in vita sua; era la ragazza più felice del mondo, la gioia a trenta denti guardava con occhioni grandi e sognanti, aperti e blu come il cielo californiano, all’ in sú verso l’orgoglioso sguardo di suo padre; felice di sapere che la figlia gli voleva ancora così tanto bene, nonostante la lontananza. In quello scambio di sguardi si rifletteva sulla retina di entrambi una vita intera che sembrava svanita via fino a un minuto prima: le alte piante di Palm Beach, la spagnoleggiante casa bianca dalle regole rosse, con finestre arabesche, dal giardino fiorito davanti al cancello e il terrazzo con vista sul mare, che tanto profumava di brezza estiva, l’aria pregna d’estate tutto l’anno. I picnic sulla spiaggia con gli zii e i cugini a base di sandwich fatti in casa, che profumavano delle mani di mamma; le acrobazie al parco di skateboard il sabato insieme a Tommy e Arianna, il cinema coi suoi migliori amici, Ron il loro cane che inseguiva il postino la mattina e suo padre doveva inseguirli per tutto l’isolato, come nei più comici film slapstick. 

“Esatto, papà è finalmente qui...” la sua mano scorreva sulla testa rossa, con premura e affetto, un gesto rassicurante per farle capire che andava tutto bene; quell’abbraccio era casa. Il gruppo dall’altro lato della stanza si stava genuinamente commovendo, anche più di Max stessa, tanta era la tenerezza di quell’evento. Jane, in particolare piangeva seriamente e Mike le stava vicino cercando di consolarla; sapeva benissimo perché era stata colpita così intensamente: stava pensando a suo padre, a Hooper, sperando che sarebbe stato lo stesso quando l’avrebbe rivisto. Lucas convinse gli altri a lasciare soli padre e figlia per un po’. 

“Non ti devi più preoccupare di niente, ora papà penserà a tutto, vedrai, sarà come prima...” lei si fece perplessa.

“Cosa intendi dire?”

“Intendo che tornerai con me Tommy e Arianna in California! Siamo venuti appositamente per prenderti e riportarti a casa, lontano da questo gelido buco dimenticato da dio, nel mezzo dei boschi!” Lei si staccò di colpo dall’abbraccio e gli lanciò un’ostile sguardo di sfida: quando faceva così era offesa.

“No! Non posso andarmene di colpo così, hai visto che ho degli amici qui, no?!”

“Ma non puoi stare qua, con quella scriteriata di tua madre! Diamine Maxine, ma ti rendi conto che mi hanno chiamato i servizi sociali una mattina, dicendomi che eri in ospedale, malnutrita, abbandonata da quella stronza alcolizzata!” Le sue braccia di aprivano mentre sbraitava, fomentando il suo discorso, nel tentativo di ingigantire il senso delle parole. Era iracondo, in quel preciso momento Max rivisse le lunghe litigate tra i suoi, nei mesi prima del trasferimento, quando lui scoprí che sua moglie aveva come amante un collega di lavoro, ovvero Neil.

“Innanzitutto, so benissimo che i servizi sociali ti hanno detto che non stavo morendo di fame quando sono arrivata in ospedale; e in secondo luogo non permetterti di parlare male di mamma davanti a me! Ti ho già detto che non sono il premio della vostra contesa: gliene ho già dette quattro per conto mio; ma devi capire, e io con te, che è colpa di quel figlio di puttana di Neil se ci siamo ritrovate in questa situazione: ci ha abbandonate di punto in bianco una mattina, dopo la morte di Billy!”

“A certo quel tempista di suo figlio...cos’è, si è schiantato in auto dopo aver alzato troppo il gomito come suo padre?”

“No! Mi ha salvato la vita in un incendio!” Ora era veramente incazzata: lui non avrebbe dovuto toccare quel tasto.

“Oh...cazzo, mi dispiace piccola...” il padre si sedette su una sedia, con la testa reclinata, poggiata sulle mani come se fosse stato colpito da una forte emicrania, sospirando a fondo. Max si calmò e gli mise una mano sulla spalla.

“Papà, va tutto bene. É solo che, non pretendo di certo che vi mettiate di nuovo insieme, e ritorniamo a essere la famigliola felice delle pubblicità, ma ogni volta che vi date addosso e vi insultate, per me è una pugnalata al cuore. In fondo, siamo ancora una famiglia, e continuando così, ci facciamo solo del male da soli.” Lui la guardò con occhi umidi ma affettuosi.

“Ma Maxine...non vuoi rivedere il viale di casa, zio Ned e zia Mary e tutti i cugini, nonna e nonno, il vecchio Omar il nostro vicino, Sally la tua ex babysitter, che ora, pensa un po’, frequenta l’università e studia legge? Andare di nuovo a scuola con Tommy, Arianna e gli altri tuoi compagni delle medie, lo sai che sono tutti in classe insieme anche alle superiori?” La sua voce era tenera e triste “Mi chiedono tutti di te, e dopo questa faccenda, ti aspettano e stanno organizzando tutti assieme una festa di ben tornato, hanno anche fatto un cartellone guarda!” Gli porse dalla tasca della borsa una polaroid, dove un gruppo di una ventina di persone, che conosceva praticamente da quando era nata, teneva disteso un lungo cartellone nel mezzo della strada, di fronte la facciata di casa sua, con scritto a caratteri cubitali:”Maxine, ti stiamo aspettando!” Una lacrima rigó il suo viso, accarezzò per qualche secondo la foto, quasi cercando di avere un contatto fisico con loro. Si portò le mani al volto, che alzò al soffitto, tirando lunghi e rumorosi sospiri. “Cazzo...cazzo...”

Ora come non mai prima d’ora sarebbe voluta essere a casa sua, lontana da Hawkins, in California...

Abbassó le mani e guardò dritta negli occhi, suo padre, col dolore nei suoi.

“Oh, tu non ti immagini neanche quanto vorrei essere a casa! Ma-“ Lui la interruppe “E allora andiamo! Saluta i tuoi amici, prendi le tue cose, e stasera siamo tornati!”

“MA, non potete sbucare così all’improvviso e chiedermi di abbandonare tutto così di punto in bianco: ho degli amici qui, con cui ho condiviso tantissimo: per esempio, hai visto quel ragazzo nero? È il mio fidanzato, si chiama Lucas, mi ha dato il mio primo bacio.” Lui spalancò gli occhi, era visivamente sorpreso di aver scoperto così di essersi perso il primo amore di sua figlia, e di non averlo saputo per anni.

“Perché non me ne hai parlato nelle lettere? Mica sono razzista io, lo sai che per me, se è un bravo ragazzo, mi va bene che tu ti metta anche con un marziano!”

“It’s complicated: there are things I can’t told you; things happened, stranger things (😉).....”

“Ok, ok, ma cosa farai in questo periodo? Non vorrai mica stare in una casa famiglia, in attesa che mamma si rimetta in sesto?!”

“No, no, i genitori di Mike, il ragazzo dai capelli neri che era prima qui, mi hanno ospitata, e comunque so per certo che non ho nulla da temere da mamma, ha soltanto avuto un momento di debolezza. Uscita da quí tornerò da lei, mettiamo le cose in chiaro, cercò di mettere tutto a posto in questo casino, e ti giuro, TI GIURO! Che sto prendendo in considerazione la tua proposta: devo solo trovare il modo migliore per dirlo agli altri, ma quando sarà il momento tornerò con voi in California.” Suo padre era rincuorato da queste parole e l’abbracció.

“Grazie Maxine...grazie...”

Uscirono nel parcheggio col resto del gruppo, che li aiutarono a portare in camera delle cose che il trio del sud-ovest aveva portato in caso di emergenza per Maxine: vestiti, soldi, cibo sotto vetro dal ristorante dei genitori di Arianna e spray anti orsi, da buoni californiani che si addentrano nelle foreste selvagge dell’entroterra. Mentre stavano finendo di scaricare le ultime cose, ci fu l’ultima sorpresa della giornata, ma questa decisamente non ben accolta: Neil con in mano un mazzo di fiori, e un biglietto di buona guarigione. 

“Ciao, Maxine...ho saputo cos’è successo e ho deciso di farti una visita, ero preoccupato per te, ma sembri stare bene...” era palesemente in imbarazzo e difficoltà: si trovava davanti un gruppo di una decina di persone che lo guardavano in cagnesco, tra cui la diretta interessata che non sembrava gradire la visita, ma ancora di più Bart Mayfield: l’uomo a cui aveva messo le corna tre anni prima, portandogli via sua moglie e sua figlia, in una romantica fuga d’amore tra le terre selvagge dell’Indiana, per poi abbandonarle una mattina, a causa della sua crisi personale. Deglutì per cercare il coraggio di essere il più diplomatico possibile con il rivale in amore.

“Ehm...ciao Bart, non pensavo di trovarti qui, tutto bene?” L’uomo non prese bene questa considerazione, ritenendola una sfida e fece per avanzare verso di lui.

“Non pensavi di trovarmi qui? IO, sono il padre di Maxine, non TU! Soprattutto dopo quello che hai fatto, non-“ venne interrotto dalla figlia che lo bloccò, con una mano sul petto.

“Ci penso io papà.”

Max si parò davanti a Neil con braccia conserte. 

“Ti ringrazio per il gesto Neil, lo apprezzo, ma ora puoi tranquillamente andartene A FANCULO!” Lui si spaventò per la reazione, che non si aspettava da quella ragazzina, che con lui era sempre stata timorosa e sottomessa. Anche gli altri erano sorpresi, ma euforici, perché conoscendola sapevamo che lo show era appena incominciato.

“Ma Maxine...che dici?”

“Che dico?! Dico che sei un grandissimo figlio di puttana! Che neanche ti immagini cosa abbiamo passato per colpa tua: perché è colpa tua sé mia madre è depressa al punto da bere più alcol che acqua, e io ho letteralmente patito la fame per mesi! Quindi, come già detto, apprezzo il gesto, ma ora puoi prendere quei fiori, il bigliettino E FICCARTELI SU PER IL DERETANO!” Lui rimase pietrificato e sconvolto dall’essere stato liquidato in quel modo da una ragazzina di 14 anni, di fronte a tutti. 

“EHEH EHEH EHEH! Ben detto Mad Max!” Scoppiò nella sua tipica fragorosa risata Dustin. Lei lanciò un ultima occhiata al patrigno, e si diresse verso l’amico battendogli il cinque, mentre l’adulto se ne andava mogio mogio, come un bambino messo in castigo, suo padre invece la guardava orgogliosa, dandogli una pacca sulla spalla.

“Questa è la mia ragazza!” Lei gli fece l’occhiolino. 

“Max, devo convincere i miei a farti scritturare per il prossimo Die Hard! Se questo fosse stato un provino, avresti fatto un figurone!” Esclamò Tommy.

Bart prese per un momento in disparte Lucas, dietro il suo SUV; era giunto il momento di fare il discorsetto al ragazzo di sua figlia.

“É un piacere conoscerla signor Mayfield, Maxine le ha accennato per caso, che noi siamo un po’ più che am-“

“Si, si, lo so, le hai dato il suo primo bacio; me l’ha detto lei.”

“Ah...”

“Ascolta ragazzo mio, mi sembri una brava persona e sono felice che sia stato tu e non qualche punk strafatto con la cresta d’apache, o un motociclista pieno di tatuaggi e cicatrici; sai com’è, quando ho capito che Maxine era una testa calda come mamma e papà, ho avuto il terrore che avesse certi gusti.”

“Oh si, certo la capisco, ma può stare tranquillo che-“

“Ma comunque! Devo dirti, che avendo già  lei sofferto molto, se vengo a scoprire anche solo che tu l’abbia fatta piangere mezza volta; GIURO, che vengo qui dalla California e ti apro in due con queste mani.” E gli diede una sonora pacca sulla guancia. Lucas deglutì fortissimo.

“Io, io, non succederà...”

“Ma certo che non succederà figliolo, te lo leggo negli occhi. Dai, goditela finché dura...” quest’ultima affermazione tese perplesso Lucas.

“Aspetti, cosa intende dire?”

“Eh, capirai da te...” conclude con un tono triste, come se volesse consolarlo per qualcosa, per poi tornare dagli altri. 

Lucas rimase qualche secondo a riflettere sul significato di quelle parole, prima di essere chiamato dalla fidanzata. 

Il gruppo salutò il padre di Max e i due amici californiani: non potevano rimanere ora ad Hawkins, perché Bart aveva potuto prendere soltanto due giorni di ferie dal lavoro in falegnameria; ma sarebbero tornati presto. Max non sarebbe rimasta comunque sola, e insieme agli altri incominciò a pianificare sul da farsi.

Il giorno successivo sarebbe stato il penultimo in ospedale: si era ripresa bene e velocemente, quindi i dottori ritenevano che il pericolo della sindrome da rialimentazione fosse a quel punto nullo. Iniziò quindi a fare i saluti al personale , con cui aveva instaurato un rapporto di amicizia in quei giorni, ma soprattutto a Cynda, a cui promise che sarebbe tornata a trovarla spesso, e disse che non vedeva l’ora di rivederla a scuola. Decise insieme al party, che sarebbero andati al centro commerciale per trovare un regalo di Natale per sua mamma; glielo avrebbe dato il giorno dopo, quando avrebbe provato a incontrarsi con lei a casa loro, e forse il presente avrebbe aiutato a riconciliarsi. 

Quella mattina, seguí la sua solita “morning routine”: colazione a base di uova e bacon, l’ora di fisioterapia, e ritorno in camera. Ora era nel bagno, davanti lo specchio, scioltasi i capelli a contemplare i risultati dei suoi sforzi mattutini. Alla base dell’addome guizzavano i suoi nuovi piccoli addominali, frutto dei cento e più piegamenti che era riuscita ad arrivare a fare per sessione; al centro delle braccia si gonfiavano i bicipiti quando fletteva gli arti. Non era ovviamente muscolosa come un culturista, ma era riuscita comunque a recuperare la tonicitá di una volta. Era tornata a essere una ragazza atletica, e il ricordo di quello scricchiolo magro e debole, che si aggirava penosamente affamata, per le stanze di casa sua era scomparso. Il ricordo di una mattina a scuola saltò alla mente: ora di pranzo, il gruppetto della classe di spagnolo l’aveva invitata a sedersi a tavolo con loro. C’erano Dustin, Mike, Jill, Annie e Josh. Ridevano e scherzavano su quanto fosse buffa la lingua spagnola.

“Buenos dias, mi amorrr!” Mimava Dustin, un galantuomo spagnolo, uscito da qualche romanzo storico, mentre tutti ridevano. Lei però non era propriamente sulla stessa lunghezza d’onda, cercava comunque di passare finalmente un po’ di tempo in compagnia, gustandosi un po’ di leggerezza. Si sforzava quindi di ridere anche lei, ma le due erano risate nervose, fustigate dal chiodo fisso che aveva in testa: fame. Il suo vassoio era pieno a metà rispetto a quello degli altri: c’era solo il cartone del latte, un po’ di purè di patate con pezzi di salsiccia. Quando era arrivato il suo turno al bancone del cibo, e la cuoca rimase sorpresa di vederla prendere così poco per l’ennesima volta; utilizzò il suo cavallo di battaglia delle scuse: “Mi sono scordata i soldi a casa di nuovo! Che tonta che sono...” “Che stupida che ero!” Pensava lei ora: le sarebbe bastato andare dal preside, o anche solo spiegare tutto ai suoi amici, e qualcuno l’avrebbe aiutata. Quando tutti ebbero finito, vide che Mike e Jill avevano mangiato poco quel giorno, così mise in moto un suo piano per mettere qualcosa in più sotto i denti, almeno quel giorno.

“Ragazzi, lasciate pure i vassoi, ci penso io oggi a buttarli dai!” Disse con un finto sorrisone.

“Oh...molto gentile da parte tua Max...” rispose, confuso da quell’una spettata premura Dustin. 

“Ehi, non guardarmi così! La sottoscritta se si alza col piede giusto, come oggi, è capace di grandi atti di gentilezza”

“Io l’ho sempre saputo che Mad Max sotto sotto ha un cuore d’oro; tieni, grazie mille.” Jill le diede un veloce abbraccio, per porgerle poi il suo vassoio. Dopo aver buttato quelli vuoti, mentre tutto uscivano, zitta zitta si mise in piedi davanti il cestone della spazzatura, coprendo il più possibile cosa stava facendo inarcando le spalle. Non stava infatti buttando il cibo del vassoio di Jill, come aveva fatto con gli altri, ma forchetta alla mano, stava mangiando in fretta cosa c’era sopra. La foga era tale, che tra sé e sé parlava a sé stessa a bassa voce:

“Coraggio, prendi peso, prendi peso! Non dimagrire ancora...mangia, mangia.”

“Ehi!” Una forte voce alle sue spalle, la fece sobbalzare.  Si girò di scatto, terrorizzata all’idea di essere stata scoperta nel fare qualcosa di tanto penoso. Ma ad incontrarla non ci fu uno sguardo giudicante, ma i teneri occhi di quella donnona della cuoca, con le mani sui fianchi.

“Tutto bene?”

“Oh, si! Mi sembrava solo un peccato buttare tutto questo cibo.” 

“Sono d’accordo con te. Prenditi il tuo tempo e...” andò al bancone e fece ritorno con qualcosa in mano.

“...E prenditi anche questa” le porse una grossa succosa mela rossa.

“Grazie.”

Ormai quei ricordi, pur essendo soltanto di qualche mese prima, sembravano appartenere a una vita passata, forse un sogno, un brutto incubo, mai avvenuto veramente.

Ora si sentiva Wonder Woman; quando sarebbe tornata a casa, avrebbe rimesso a posto in cima alla libreria la sua paladina, chiedendole scusa per aver perso fede in lei. Mise le braccia sopra la sua testa, flettendo il corpo e socchiudendo gli occhi nel guardare il riflesso del suo viso, gustandosi quel momento di ritrovata vanità femminile. 

“Sono bella...” pensava sorridendo orgogliosa.

Aveva deciso che per oggi avrebbe smesso di vestirsi da maschiaccio, cogliendo l’occasione di indossare il bellissimo vestito rosso a fiori, che suo padre le aveva portato come regalo di Natale da parte della nonna. Il clima di era fatto più mite e la neve si era sciolta, permettendole così di sfoggiare il lungo vestito e i capelli raccolti in trecce, senza doversi bardare come un cavaliere medievale, tra sciarpe, cappelli e giacche. 

“Ma sei bellissima!” Esclamò istintivamente Lucas nel vederla. Lei ridacchiò abbassando gli occhi, e si fece vedere facendo una giravolta, ondeggiando la gonna e roteando sui mocassini. 

“La cucita quel tesoro di mia nonna, ma non fatevi strane impressioni, anche se le piace cucire è una tosta come me: negli anni’ 60 era una hippie e portava mia madre alle parate contro la guerra in Vietnam.”

Facendo il giro per negozi, Jane la sua attenzione venne attirata da qualcuno da lontano che una coppia di persone che guardava una vetrina: erano Cassidy Lane e la sua amica.

“Dai, vai da lei, ti immagini la sua reazione quando ti vedrà così?!” Lei annuí sorridendo con complicità.

“Ah quindi è lei la tizia con cui hai fatto a botte!” Mike di percosse la fronte col palmo della mano, avendo realizzato finalmente di chi stessero parlando quella sera.

“No aspettate, cosa?! Hai avuto una rissa con lei?!” Esclamò Dustin

“Già, non me ne hai parlato!” Aggiunse Lucas.

“Vi racconto tutto dopo, ora scusatemi, ma vado a prendermi una piccola rivincita.” 

Si incamminò verso le due, e giunta a qualche passo da loro la sua voce esplose in una calorosa ironia, attirando la loro attenzione.

“Cassidy! Come stai?”

Le due impallidirono alla vista di quel fiore di ragazza che si trovarono davanti, radicalmente diversa dalla “barbona”, vestita di stracci di quella sera.

“M-Maxine...ma che ti è successo?!” Lei pensò che raccontasse tutto di lei, come le stesse chiedendo questo proprio ora e non quando la trovò a rovistare nella spazzatura per cercare del cibo, come se fosse dispiaciuta di averla ritrovata rimessa in sesto e in salute; era l’esempio perfetto di quanto fosse una stronza. 

“Oh vediamo...forse il pugno che mi hai tirato mi ha rimesso le rotelle a posto, chissà!” E sgambettando tenendosi la gonna, ritornò dai suoi amici, mentre le due si guardavano sempre più perplesse. 

“Devi vedere che faccia hanno fatto quando te ne sei andata!” Si stava scompisciando dalle risate Undi. 

Dopo un pomeriggio di ricerche, Max decise che avrebbe regalato a sua madre una macchina da scrivere: da giovane teneva un diario, e in passato aveva lavorato come dattilografa; James e Rosalie le avevano consigliato di cercare di convincere la madre a trovarsi un hobby, per tenerla occupata e lontana dall’alcol, questo poteva essere uno.

Il giorno dopo si ritrovarono davanti a casa sua nel parcheggio roulotte: era una giornata uggiosa, dal cielo grigio e nuvoloso, una di quelle giornate che sanno di Halloween. Fuori erano stesi i panni, sembrava quindi che sua madre avesse ricominciato a prendersi cura della loro umile dimora, era un buon segno. Max sospirò tesa come una corda al tifo alla fune: sperava con tutta sé stessa che quel giorno sarebbe andato tutto bene. Ma il ricordo dell’ultimo incontro con sua madre la tormentava ancora; non le era mai successo di litigare così con lei, tantomeno di dirle certe cose. 

Gli amici le muserò ognuno una mano sulla spalle, per farle capire che erano con lei quel giorno. 

“Guarda che se non te la senti, possiamo venire un altro giorno, o potremmo entrare con te se ti farebbe sentire a tuo agio.” Le disse Will. 

“No, no...grazie mille per le vostre premure, ma devo fare questo da sola. Aspettatemi qui fuori, torno a dirvi dopo, ok?” Tutti annuirono.

Scatola della macchina da scrivere in mano, la ragazza si diresse alla porta d’entrata, afferrò il pomo e dopo qualche attimo di indecisione lo girò. La porta si spalancò, investendola dell’aria e dell’odore di quel posto, che tanto aveva odiato nei mesi precedenti, ma che le ricordava più di tutti sua mamma; sua mamma, quello era il suo obbiettivo. Quella soglia rappresentava l’inizio di un nuovo capitolo della sua vita, e quando lo attraversò, tutto cambiò radicalmente.

Ma ancora non poteva saperlo...

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Capitolo 9
*** Quando guardi a lungo l’abisso, l’abisso ti guarda dentro ***


Capitolo 9-Quando guardi a lungo l’abisso, l’abisso ti guarda dentro.

 

N.B. Ho ricaricato il capitolo per problemi col correttore dell’iPhone, ci sono anche delle piccole modifiche, quindi vi suggerisco di rileggerlo. 

Attenzione: questo capitolo tratta temi forti, preparatevi perché sarà una montagna russa d’emozioni.

 

La casa era silenziosa, anche troppo silenziosa. Le tapparelle, semi abbassate, ma quello era normale: sua mamma soffriva spesso di mal di testa, sopratutto quando beveva: la luce non aiutava molto. Il salotto e la cucina sembravano in ordine, tutto era a posto e la pila di stoviglie da lavare nel lavandino non c’era più. Qualcosa però l’inquietava: respirava un atmosfera cupa, sinistra, come se in quella buia normalità ci fosse qualcosa fuori posto; un intruso che snaturava il tutto. Si incamminò verso il salotto, dove posò la scatola della macchina da scrivere sul tavolo. 

“Mamma! Sono Maxine, sono tornata, vieni a vedere cosa ti ho portato!”

Nessuna risposta, silenzio tombale. 

La sua voce navigò su per le scale, dove lei l’aveva direzionata: se non era seduta in cucina o stravaccata sul divano, doveva essere in camera da letto. Diede un ultima occhiata alle stanze del piano terra, cercando un segno del passaggio della madre. Poi si mosse verso l’inizio delle scale, ma si bloccò dubbiosa al primo gradino. C’era qualcosa di profondamente oscuro che l’inquietava riguardo quella salita, come un aura negativa proveniente dal piano di sopra che la spaventava all’idea di salire. Scosse la testa, scacciando quei pensieri. 

“Ma che ti prende? Su, sali e vai da lei, che aspetti?!” Ora sembrava calmarsi, e i suoi piedi potersi muovere. 

Arrivò in cima al pianerottolo, dove la porta della camera di mamma era leggermente socchiusa.

“Mamma! Sono io, ma non mi hai sentita di sotto?”

Aprí la porta, ma sulla soglia si bloccò nuovamente, a causa di cosa vide dentro: sua madre era seduta a letto, con la schiena poggiata sui cuscini rialzati sullo schienale. Il suo sguardo era catatonico, e le pupille spaventosamente bianche. Gli occhi sfarfallavano, sbattendo di tanto in tanto; la testa si muoveva con scatti brevi laterali, come colpita da veloci tic nervosi.

“Mamma!” Max corse al suo fianco, guardandole le pupille da vicino, e cercando di smuoverla, scuotendola dalle spalle. 

“Cazzo mamma! Dicevano che avessi smesso; cosa ti sei presa? Alcol e psicofarmaci?!” 

Ma non serviva a niente: sua mamma era in uno stato catatonico duro e puro. Provó anche a tirargli schiaffi in faccia, a urlarle nelle orecchie: tutto inutile. All’improvviso, sentí una sinistra presenza alle sue spalle, e poi le sue orecchie vennero investite dal rumoroso e rimbombante suono di un orologio a pendolo che segna l’ora. Unico problema: non c’e n’erano in casa. 

Spalancando gli occhi e tremando come una foglia, si voltò e vide alle sue spalle una densa e profonda oscurità davanti la porta di camera, decisamente più fitta di quella presente in casa e assente quando era entrata. Questa sorta di varco sull’abisso copriva del tutto l’altro lato della stanza, offuscando completamente la porta. Max era terrorizzata e non capiva cosa diamine stesse succedendo, incapace di muoversi, pensare o anche solo prendere una qualsiasi decisione. Quel buco nero sembrava stare assorbendo a sé la sua mente e tutti i suoi pensieri, tutto il resto non esisteva più.

“Ma cos-“

“Ciao Maxine...é da tanto che non ci vediamo...”

Una sinistra voce proveniva da quel vortice oscuro, rimbombando nella sua testa. Una mano pallida, squarciata, si fece largo dal varco, trascinandosi sul pavimento; poi un altra, un busto, delle spalle e sopra di esse una testa cadaverica, con ciuffi biondi sparsi qua e là sulla cute squarciata che faceva intravedere parti di cervello marcio, senza naso, occhi chiarissimi e un ghigno pendente come la sua bocca, stampato sulle labbra quasi recise. L’apparizione geló ancora di più il sangue a Max.

“Che cos-che cosa sei tu?!”

“Ma dai, non ti ricordi di me?! Oh beh, forse qui ho un aspetto diverso...ma abbiamo condiviso momenti tragicamente toccanti insieme, piccola Maxine, e ora  lo faremo di nuovo...”

“Che dici?! Io non ti conosco! Va via!” La , ragazzina si aggrappò alla madre, come se potesse essere difesa da lei.

“No, no, no...lei è mia Maxine! come te stessa sei mia. Mia, mia, mia...ti ho presa: sei un giocattolo, una bambolina nelle mie mani ormai. E ora giocheremo insieme a tua mamma.”  Il cadavere puntò il dito verso la donna.

“Susan, fammi il piacere di tagliarti la gola col giocattolo che ti ho messo in mano, per favore...”

La madre sollevò il braccio e Max poté notare che fosse apparso, quasi per magia, un coltello nella sua mano sinistra. Il suo braccio si dirigeva verso il collo, e la figlia si mosse con entrambe le braccia per bloccarlo.

“Mamma, no! Fermati!” Disperata, premeva con tutta la sua forza, cercando di allontanare l’arnese dalla pelle della madre. Ma una forza spaventosa sembrava aver posseduto il corpo di Susan Mayfield, e lo sforzo era immenso. 

“Ma che cazzo fai?! Fermati per l’amore del cielo!” Urlava a squarciagola.

Il cadavere fissava lo sforzo di lei con fare infastidito, scuoté la mano dal polso quasi disarticolato, facendo scricchiolare le ossa fratturate all’interno.

“Susan, eddai! Comportati da madre e tira un pattone a quella guastafeste di tua figlia!” Si lamentò con tono rauco e scocciato, agitando il polso fratturato della sua mano scheletrica; lo scricchiolio del polso rotto rendeva il gesto così semplice e umano, comicamente lugubre. Dal modo in cui le parlava, sembrava che il tentativo di Max di salvarle la vita, fosse soltanto una scortesia, una terribile scocciatura per lui.

Susan interruppé il suo sforzo suicida e colpì a gran forza, col dorso della mano disarmata la guancia della figlia, facendola cascare a lato del letto. Lei si rilanciò immediatamente a trattenere il braccio della madre, che ora puntava il coltello a soltanto pochi millimetri dalla gola. Lo sforzo fisico era immane ormai, e la ragazzina non sapeva quanto avrebbe potuto resistere ancora, a trattenere l’atto che pareva essere diventato d’acciaio da quanto era forte. 

“Questo è troppo! Non voglio che tu muoia! Mi dispiace tantissimo per quello che ti ho detto, non farlo! Prometto che non litigheremo più e saremo felici!” Max era scoppiata in un pianto terribile, disperata e incapace di comprendere cosa stesse succedendo o cosa potesse fare. L’incubo si fece ancora più profondo, quando lo zombie la chiamò per attirare la sua attenzione su qualcosa.

“Maxine, tesoruccio, dovevi pensarci prima di gettare via tua madre trattandola come un peso. Sai che ti dico? Forse qualcun’ altro può convincerti: guarda chi c’è qui: presto lei lo raggiungerà!”

In mano teneva dai capelli lunghi e biondi, la testa cadaverica di Billy, che agitava dolorosamente gli occhi rossi e dilatati, e boccheggiava dalla bocca, come i pesci a cui manca l’ossigeno nella boccia di vetro. 

“Aaaaah...Max, aiutamiiii...perché mi hai lasciato morireeeee...guarda cosa mi fa sopportareeeee...” La sua voce sembrava proprio il lamento di un dannato proveniente dall’inferno. 

Un conato di vomito salí fino alla bocca di Max, che rimase impietrita nel fissare quell’immagine diabolica: era davvero lui?

“B-Bill-Billy! Io...oddioooooh!”

Cercò di concentrarsi sul volto della madre, ma quell’aura vacua e spenta che gravitava nei suoi occhi, dava l’idea che la madre fosse già morta dentro, e che quello sgozzamento, se fosse avvenuto, sarebbe stato soltanto una formalità. Lo sconforto e il terrore giunsero a livelli assurdi nella sua testa, sconvolgendola nel profondo.

“E basta piccola stronzetta! Smetti di tormentare tua madre, e lascia che ponga fine alle sofferenze che hai portato nella sua vita, dal giorno in cui sei nata!” Le urlava il demonio da dietro, facendo rimbombare la stanza. Le sembrava di stare impazzendo, la testa vagava indiscriminatamente da un pensiero all’altro, perché ognuno di essi era un peso insostenibile, un ostacolo inutile che non le avrebbe permesso di uscire da questo incubo; tutto quello che poteva fare era urlare.

“MAMMAAAAAAAH!!! TI SCONGIURO BASTAASAAAAAAAH!!!”

 

Erano passate ormai tre ore da quando Max era entrata in casa, oltre al cinguettio degli uccelli, e il sibilare delle foglie al vento; il parco caravan era immerso in un silenzio pacifico e solenne. Il gruppo di amici, tra l’impazienza e la preoccupazione che qualcosa potesse essere andato storto, incominciarono a discutere sul da farsi.

“Io dico che dovremmo entrare a chiedere se è tutto a posto!” Propose Will.

“Ma no! Magari, semplicemente, hanno fatto pace, e si sono messe a parlare perdendo la cognizione del tempo; se entrassimo così di colpo ora, le interromperemmo e non sarebbe gentile da parte nostra!” Rispose Dustin.

“Beh, non è comunque casa nostra, dovremmo essere invitati per entrare...” disse dubbioso Lucas.

“Ragazzi, state perdendo di vista il punto focale: siamo qui per aiutarla, e lei lo sa; non ci costa niente dare un occhiata, no? Anche perché di sta facendo una certa ora, e credo che andarsene senza dire niente sarebbe decisamente peggio.” Cercò di convincerli Mike.

Jane annuí decisa alla proposta del fidanzato; lo dimostrò battendo un pugno sulla mano aperta per attirare la loro attenzione.

“Esatto! E così la mamma di Max, vedrà anche quanti amici ha che si preoccupano per lei; la renderemo orgogliosa!”

Si fiondò quindi alla porta d’entrata, seguita a ruota dagli altri. Bussò forte col pugno sulla porta di legno bianco.

“Ehi! Siamo noi, possiamo venire dentro un attimo?!” Urlò a gran voce, nella speranza di farsi sentire bene dall’interno. Ma non ci fu alcuna risposta, ne si sentirono rumori di passi dall’altro lato.

Si girò a guardare Mike, e lui fece spallucce in risposta. Lucas si fece avanti.

“Fa provare me”

Il ragazzo aprí uno spiraglio della porta, dove piazzó il viso, cercando di intravedere qualcosa. Stranamente però le tapparelle erano ancora semi chiuse, e non sentiva voci. 

“Max! Sono Lucas, ci chiedevamo perché ci mettessi così tanto, entriamo un attimo ok?” Ancora nessuna risposta; silenzio tombale.

Lucas spalancò la porta, incuriosito e impressionato allo stesso tempo, dalla situazione. Il gruppo di ragazzi entrò nella casa, e incominciarono a guardarsi intorno nel piano terra. Non c’era anima viva, ne trovarono segni di recenti attività umane, come bicchieri sporchi sul tavolo in cucina, da cui avrebbero potuto bere le due ritrovatesi. 

“Questa è bella! Cos’è? Sono scappate dal retro per partire in una gita madre e figlia, senza dircelo?” Sogghignò Dustin, cercando di sdrammatizzare. Nessuno rise però: c’era un certo nervosismo che condividevano tra loro.

“Proviamo a salire.” Propose il fidanzato della ricercata. 

Salirono lentamente, timorosi, le scale, e arrivati in cima, videro la porta della camera sulla destra, semi chiusa come l’aveva trovata Max. 

“Ehi, aspetta, quella è pur sempre una camera da letto, non possiamo entrare così come se non fosse niente!” Sussurrò tesi Will a Lucas.

“Senti: c’è chiaramente qualcosa che non va, dobbiamo farlo; meglio maleducati che  menefreghisti!” Il fatto che questo scambio di battute si fosse svolto a un basso tono di voce, spiegava quanta tensione ci fosse tra i ragazzi: percepivano che stessero per scoprire qualcosa di profondamente sbagliato. 

Ma quando Lucas aprí la porta per primo, non si immaginava neanche lontanamente di trovare quello che i suoi occhi videro.

“Oh...porca...troia...”

Il resto del gruppo accorse dentro, e uno dopo l’altro rimasero pietrificati sul posto, congelati nel terrore, sconvolti ognuno in modi diversi, alla vista di quello spettacolo. 

Undi coprí la bocca con le mani, per evitare di urlare, prese a tremare come un gattino caduto nell’acqua e i suoi occhi rossi cominciarono a versare cascate di lacrime. Dustin si tolse il cappello dall’incredulità, cosa che non faceva mai, e i suoi denti si sporsero dalla bocca spalancata, che affannosamente cercava aria per i polmoni affaticati dalla paura.

Addirittura Will si mise una mano sul cuore dallo shock, e sarebbe caduto se Mike non l’avesse sorretto.

Davanti loro infatti, c’era il letto, alla cui fine vi erano Susan Mayfield e sua figlia Maxine, abbracciata a lei. La gola della madre era squarciata lungo tutta la lunghezza e un lago di sangue era spruzzato fuori insozzando tutto quello che c’era intorno. Lo strumento che aveva causato questo era ancora nella mano della donna, posata sulla gamba destra, con stretta ad essa quella della figlia. Max era appoggiata al cadavere, con l’altro braccio al fianco della madre; una gamba era a lato del corpo, mentre l’altra a cavallo tra le gambe della donna e il braccio con l’arma. Dalla posizione, sembrava come se si fosse lanciata addosso alla vittima, forse nel tentativo di fermarla. La sua testa non era però girata verso quella di Susan, ma voltata verso la porta, con gli occhioni azzurri spalancati, vacui, e la bocca semi aperta. Era completamente ricoperta del sangue di sua mamma: il maglione bianco a maglia che indossava aveva assorbito il liquido come una spugna, cambiando colore in più punti. Sul viso, era talmente sporca della sostanza che anche i denti esposti si erano finti di rosso, e si era venuto a creare un suggestivamente terribile contrasto tra i suoi occhioni azzurri e la pozza di sangue che la ricopriva. Era ferma immobile; il dubbio terribile che attanagliava gli amici, veniva non solo dall’immobilità, ma anche dal fatto che non potevano capire dalla quantità di sangue, se c’è ne fosse anche del suo, se avendo fatto prima di loro la terribile scoperta, avesse reagito estremamente. D’altronde, c’era anche la sua mano sul coltello. Sembrava a tutti gli effetti morta, la domanda albergava nelle teste di tutti senza che dovessero chiederselo a vicenda, ma nessuno voleva conoscere la risposta; così, per una quantità di tempo indeterminato, rimasero lì, fissi in piedi, a contemplare quell’oscenità. Lucas peró non poteva trattenersi oltre, doveva cercare di capire. 

“Max!”

Gli occhi di lei si mossero di scatto, tracciando la direzione della sua voce. Il movimento fu così repentino e inaspettato, che tutti sobbalzarono, e Dustin tirò anche un breve grido. 

La ragazzina inizio a respirare più profondamente, rendendolo più visibile rispetto a prima. 

“Max...stai bene?!” Chiese disperato Mike, mentre Undi, singhiozzante, doveva ancora far uscire le parole. 

Max iniziò a far rimbalzare gli occhi sui presenti, come se non si aspettasse di vederli lí, e non potesse credere alle immagini riflesse sulla sua retina. Poi si fissò su Mike, mosse per un po’ la bocca, facendo sibillare il respiro, e vocalizzando brevemente. Stava esercitandosi a parlare, come se non lo avesse fatto da secoli. Infine, strozzata e stridula, la sua voce si compose finalmente in parole.

“La mamma...si è fatta male...devo starle vicino, così guarisce...” il tono era incredibilmente bambinesco: lo shock dell’accaduto l’aveva fatta regredire, cercando disperatamente l’affetto materno perduto.

“VOGLIO LA MAMMAAAA! VOGLIO LA MAMMAAAH!” Scoppiò in un disperato pianto infantile, scalciando sul letto con le gambe, come i bambini quando fanno i capricci. I ragazzi erano completamente spiazzati dalla reazione, ma non Lucas, che si fiondò su di lei, cercando di tirarla via di lì. 

“Su, Max! Ci siamo noi con te, lasciala, vieni via...ragazzi, datemi una mano, dai!” Tutti lo seguirono, ma non Undi, che tremava ancora e fissava in lacrime quello spettacolo pietoso. Mike forzó la sua mano a lasciargli il coltello che lanciò sul pavimento per evitare che si facesse male. Poi le strinse il braccio, tirandola cercando di obbligarla ad alzarsi. Will la afferrò dall’addome con entrambe le braccia; mentre Dustin la tirava a sé dalle gambe. Ma lei si stringeva alla madre con tutte le forze, respingendoli in tutti i modi, come se standola attaccata stesse difendendo un rifugio sicuro, l’ultimo rimastole al mondo. 

“LASCIATEMI! VOGLIO STARE CON LA MAMMAAAH!” 

“Eddai! Tirate più forte!” Cercava di stimolarli Mike. A un certo punto lei si fece manesca: Mike venne colpito da una gomitata sul naso, ma non troppo forte, riuscendo a mantenere salda la presa; ma Dustin non fu altrettanto fortunato: Max gli piazzó un calcio nel basso ventre, facendolo volare col sedere a terra, in un gemito di dolore.

“Max, santo cielo! Siamo qui per aiutarti, lasciala!” La implorava disperato, Lucas.

“NO! NO! LASCIATEMIIIIH, VOGLIO STARE CON LA MAMMAAAAAH! DEVO AIUTARLAAAA!”

“Ragazzi basta! Così le fate solo del male! Lasciate fare a me!” Urlò loro contro Jane, ripresasi dalla paralisi.

I ragazzi si fecero da parte, esausti e ansimanti per lo sforzo fisico. Mike si massaggiava il naso, mentre Dustin si stringeva il punto della pancia dove era stato colpito, dolorante. La ragazza si avvicinò all’amica, chinandosi al suo fianco, prendendola dolcemente per mano. Max si era riattrapita sul corpo di sua mamma, ma quando sentì la sua presenza, si voltò immediatamente verso lei.

“Undi...”

“Si, sono io! E lui chi é?” Gli indicò il fidanzato, senza staccare gli occhi da lei.

“Lucas!” Quelli di Max si illuminarono, spostando la loro attenzione su di lui. Il ragazzo andò accanto a Jane, e le prese l’altra mano. 

“Max...” 

la ragazza si sporse avanti, fissandolo con quegli occhi trasognati. 

“E loro chi sono?” Undi le indicò il resto dei ragazzi.

“Mike...Dustin...Will...” li guardava uno a uno, pronunciando i loro nomi sospirati, come se le mancasse il respiro. 

Tutti le si fecero vicino.

“Siamo i tuoi amici: siamo qui per aiutarti.” Le disse dolcemente Jane. Max la guardò e iniziò a lacrimare di nuovo, ma questa volta si leggeva nei suoi occhi, in mezzo al mare di disperazione, una goccia di felicità.

Si strinse in un forte abbraccio all’amica, e Undi contraccambiò accogliendola senza riserve. Non importava se si stesse sporcando così del sangue che aveva addosso: in quel momento le serviva un abbraccio e lei glielo avrebbe dato. Anche gli altri si aggiunsero, facendole sentire tutto il loro affetto.

L’aiutarono a scendere le scale e ad uscire da quella casa maledetta; sorreggendola, perché era talmente scossa che le tremavano le gambe. 

Will chiamò la polizia e un ambulanza utilizzando il telefono di casa, balbettando nel dover riferire notizie così tragiche, poi si aggiunse agli altri, seduti tutti insieme sulle scalinate di legno all’entrata. 

“Ok, stanno arrivando...”  Undi, accennò a lui con la testa; stava consolando la rossa passandole una mano sulla schiena, rivestita da una coperta di lana, per evitare che prendesse freddo.

Max guardava in basso, alle sue scarpe, le sue mani, semichiuse, toccavano le punte delle rispettive dita. Muoveva leggermente le labbra, pareva fosse sempre sul punto di iniziare a dire qualcosa ma si interrompesse ogni volta. D’altronde era comprensibile: doveva ancora metabolizzare tutto quanto. Una mano scura di posò teneramente sulla sua destra, la sua testa si sollevò: era Lucas che le sorrideva. Si guardò intorno: alla sua sinistra c’era Undi, mentre davanti a sé si erano piazzati seduti sullo scalino inferiore, Mike, Dustin e Will. Tutti la guardavano con premura: non era sola.

“Ragazzi...grazie, vi voglio bene!”

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Capitolo 10
*** Cosa c’è nella mia testa ***


Capitolo 10-cosa c’è nella mia testa

 

Nota: non siete stati molto loquaci nei commenti eh? 😢

Fa niente dai, non posso costringervi a commentare se siete timidi. Ma se cambiate idea, un parere o una vera recensione è sempre ben accetta! Eccoci arrivati al capitolo tanto decantato, chissà chi di voi si aspettava cosa succederà 😉Buona lettura!

Il suono delle sirene ruppe la quiete della radura. Tutti si voltarono verso la strada, e aiutarono Max ad alzarsi indirizzandola verso una delle due ambulanze. Le avevano dato una ripulita dal sangue che aveva in faccia, nella bocca e sui vestiti, con lo Scotex trovato in casa, per renderla più presentabile e non far venire un coccolone agli ambulanzieri. Ma era comunque visivamente stravolta, tanto che quando scendendo dal veicolo la videro, a due di loro scappò uno scambio di battute: 

“Povera piccola, ha l’età di mia figlia...”

“Nessuno della sua età dovrebbe vivere qualcosa di simile.”

I paramedici scaricarono le barelle, un gruppo accolse la poveretta e con tutte le premure del caso, la fece accomodare sopra una, mentre l’altro si incamminò verso la triste dimora. 

“Vieni tesoro, è tutto apposto, ti porteremo al sicuro”. Le diceva un ormone in divisa della croce rossa e dalla voce affettuosa, cercando di metterla a suo agio mettendole la sua manina sulla spalla; ma lei guardava i colleghi che entravano nella porta di casa, dotati di telo per cadaveri, pensando probabilmente all’ingrato compito che stavano dirigendosi a compiere. 

“Non dovrei...aspettare che loro...” Chiese all’uomo indicando col dito in direzione di casa sua.

“Non pensarci, ci penseranno i nostri colleghi; avrai tutto il tempo necessario per vederla ma ora dobbiamo pensare a te.” 

Lei titubava incerta, così i ragazzi si proposero di salire in ambulanza con lei, convincendola a salire a bordo. Nel tragitto tremava vistosamente e soffriva di sudori freddi, dovuti allo stato di shock. Quindi le somministrarono dei calmanti, e una volta arrivata in ospedale la misero in una sorta di “mini coma” artificiale, facendola addormentare con dei pesanti sonniferi. Il dottore spiegò ai ragazzi, e ai loro genitori accorsi tempestivamente dopo essere stati chiamati e aver udito dell’accaduto; che i suoi nervi erano sovra stimolati dal tragico evento accaduto e senza un aiuto farmacologico, non sarebbe riuscita a placare la nevrosi calmandosi abbastanza da dormire. Sarebbe rimasta quindi un giorno in sonno indotto, permettendole di riposare e calmarsi; una volta risvegliatasi, sarebbe stato compito degli psicologi dell’ospedale e dei servizi sociali, insieme al supporto di amici e famiglia, aiutarla a superare questo trauma. 

Nell’oscurità del sogno, Max ebbe una strana visione: le comparve una ragazza uguale identica a lei, che le sorrideva presentandosi piena di entusiasmo, tanto che pareva fosse la sua fan numero uno.

“Ciao! Non sai da quanto volessi conoscerti! Lascia che mi presenti: mi chiamo Sadie Sink, e sono te”. Lei rispose accigliandosi.

“O almeno, tecnicamente sarei te, nel senso che sono un attrice e interpreto il tuo personaggio!” Cercò di spiegarsi la ragazza alzando le mani; ma questa spiegazione convinse ancora di meno Max, che fissava la ragazza con braccia conserte. 

“Ma che dici?! Diamine, devono avermi dato farmaci veramente forti per sognarmi certe cose...”

“Ma ti giuro che è vero!”

“Scusa ma, in che senso interpreti me? Cos’è nel futuro sono diventata famosa per le mie sfighe apocalittiche e ci hanno fatto un film sopra?”

“No, no, vedi; nel mio mondo tu non esisti, perché sei un personaggio fittizio di una serie tv, che io interpreto.”

“Senti ciccia, io so di esistere e non mi serve che tu venga a dirmelo o meno per saperlo. E poi sentiamo, se tu sei veramente me, o almeno la persona che interpreta il mio personaggio, allora dimmi qualcosa che sai solo tu di me stessa.” La sosia rimase a pensare per qualche secondo.

“Vedi...il fatto è che io conosco della tua vita soltanto le parti sceneggiate, ma tutto il resto posso solo immaginarmelo: a volte mi chiedo cosa fai nella vita di tutti i giorni, tra una stagione e l’altra, ma fino a quando non lo scrivono non posso esserne certa. Per quello d’altronde ci sono le fanfiction, a volte mi fa piacere leggerle proprio per questo, ma non sono comunque canoniche.”

“Le fan che?!”

“Storie aggiuntive scritte dai fan.”

“Ah ah, ok...beh allora dimmi tu qualcosa di te.”

“Vediamo...non faccio il dito medio alla gente con la stessa tua frequenza, sono più una persona piuttosto casalinga...e sono vegana!”

“Ah questa è bella: Ma se a me piace strafogarmi di carne! Come fai a essere me, se siamo così tanto diverse?!” In effetti anche nel modo di parlare, esprimersi e muoversi, questa ragazza era ben poco una testa calda come Max, ma piuttosto, aveva una personalità dolce, timida e dalle buone maniere. 

“Beh, il bello di fare l’attrice é proprio interpretare personaggi così diversi da te stessa.” Max si massaggiava il mento, sondando la plausibilità della spiegazione. 

“Ok...diciamo che ti possa credere su questo punto; ma come faccio a essere sicura che tu esista davvero? Perché ora come ora sono addormentata sotto effetto di psico farmaci: chi mi dice che tu non sia soltanto una mia allucinazione?”

“Beh posso dirti che in questo momento, sono andata a dormire anch’io, ma non con l’aiuto di droghe ahah; quindi come posso essere sicura che non sia tu, un mio sogno?” Le due presero ad arroventare gli ingranaggi nelle loro testoline, meditandoci su. Poi, Max alzò un dito entusiasta, avendo formulato un ipotesi:

“Eureka! E se esistessimo entrambe, ma questo fosse solo un ponte tra universi paralleli?”

Sadie annuiva convinta.

“Si! Direi che è la risposta migliore a questo dilemma”. Poi iniziò a guardare in alto, coprendosi con la mano da un fascio di luce comparso nel cielo buio del sogno.

“Oh no! Guarda là, ci stiamo svegliando...”

Max guardò in quella direzione e venne investita anche lei, coprendosi alla vista con la mano e arricciando gli occhi, da una forte luce che pareva una stella cadente, dritta verso di loro. 

“Ok...allora ciao, e speriamo di vederci di nuovo...” salutò la sua sosia.

“Ma certo! Mi trovi sempre qui quando vuoi, basta che dormendo pensi a me, ciao!” La ragazza la salutò con la mano.

Luce

Si era svegliata nel letto d’ospedale, accecata dal mattino invadente la finestra. Si stropicciò gli occhi indolenzita, non essendosi mossa per un giorno intero. Guardandosi intorno, scoprí sulla sedia accanto al letto Lucas addormentato. Era rimasto vicino a lei ogni ora, ogni minuto, ogni secondo di quel coma farmacologico. Arrossì e sorridendo, dovette trattenersi dal saltargli addosso per riempirlo di baci e abbracci. Quindi, nel suo tipico stile, optò per un approccio più drastico. 

“Lucas!” 

Il fidanzato sobbalzò sulla sedia, cadendo comicamente per terra; evidentemente non si aspettava che si sarebbe svegliata così presto. Si rialzò in fretta e furia, recuperando malamente l’equilibrio; dopo dieci secondi buoni di tentativi  riuscì a ricomporsi.

“Ehm ehm! Max...come va, stai bene?”

“Ti amo, si ti amo!” Si sporse dal letto per baciarlo; lui non aspettandosi neanche questa reazione perse nuovamente l’equilibrio, e avendole preso le mani, la trascinò con lui a terra. Ora si trovavano una sopra l’altro, con i loro visi a millimetri di distanza, guardandosi negli occhi a vicenda.

“Non c’è la facciamo proprio a essere romantici eh? Siamo la coppia più buffa di Hawkins” scherzó lei.

“Alcuni dicono che la poca serietà è la forma più alta di romanticismo in una coppia...” rispose lui.

“Dove l’hai letto? Su: “Terapie Coniugali Oggi?”

“No, lo so perché a scuola me lo dicono di noi; come un complimento, si intende...”

“Oh beh, allora siamo famosi...ma anche se parlassero male di noi non me ne fregherebbe un fico secco: perché vai bene così come sei Lucas...” le loro labbra si incontrarono finalmente. Si rialzarono, sedendosi sul bordo del letto, uno affianco all’altra.

“Sai, mi dispiace molto di avere messo dei muri tra me e voi ragazzi, soprattutto te, voglio rimediare e recuperare il tempo perso; ancora di più ora che non mi rimane mol...” si fermò, interrotta da un singhiozzo. Una lacrima scese dal suo occhio sinistro, asciugandola, rimase a fissare il dito bagnato da essa.

“Shhh shhh, va tutto bene!” Le sussurrò Lucas.

“Lo so. Ti amo non meno di prima, e ci sarò sempre per te...” sembrava essersi interrotto a metà frase, e ora con lo sguardo abbassato, rifletteva su qualcosa. Lei lo guardava dubbiosa e preoccupata, ma dopo qualche secondo lui rialzò lo sguardo incontrando il suo.

“Max, ascolta, devo chiederti una cosa...tuo padre l’altra volta, mi ha detto qualcosa di strano riguardo la nostra relazione: “goditela finché dura”. Sai a cosa si potesse stare riferendo?” Lei sembrava iniziare ad agitarsi per la domanda; d’altronde, non si sentiva ancora pronta a dirgli della sua decisione di tornare in California. 

“Ehm, io...”

Non dovette continuare oltre, perché per sua fortuna, se così la si può definire, ricevette in quel momento una inattesa visita: la polizia. 

Da quando era scomparso Hopper, il ruolo di sceriffo era passato al suo vice, Tom. Era un uomo di colore sulla quarantina, snello e con un paio di baffi, più sottili di quelli di Hopper, sopra il labbro superiore. A questo, punto pareva fossero parte integrante della divisa da sceriffo di Hawkins.

Tom e Jeff il nuovo vice, si presentarono accompagnati dal dottore e un infermiera, gentili e ossequiosi, come si fa quando si va a parlare con qualcuno in lutto, soprattutto così giovane. Poi il dottore e Lucas lasciarono soli gli agenti a parlare con lei. Tom si sedette su una sedia a fianco del letto, ed estrasse taccuino e penna; mentre l’altro accendeva un registratore a nastro posandolo sul comodino. 

“Ascolta piccola, so che è difficile per te e se non te la senti, non ti costringeremo a sforzarti a confidarti con noi; quindi potrai interrompere questa “intervista” quando vorrai, basta dircelo davvero.” Lei annuí, e lui fece segno di aver compreso.

“Ma dobbiamo sapere, in quella casa, cosa è successo”

COSA È SUCCESSO SUCCesso Successo successo...cosa è succ...esso...

Flash di immagini terribili attraversarono la mente di Maxine Mayfield, facendole dolere il cervello come se un ferro rovente l’avesse oltrepassato, sparato alla velocità di una freccia scoccata, per poi uscire dall’altro lato della testa e volare via. Prima spalancò gli occhi, poi li chiuse e si tenne la testa dal dolore. Sua madre che apriva il collo davanti lei; un fiotto di sangue che le innonda la faccia, finendole anche in bocca mentre urla, strepita, piange. Il cadavere sul pavimento che ride di lei, gioisce di quella tragedia, come un tifoso di baseball al momento del fuori campo.

“Tornerò per te ricordalo! Non puoi scappare, sei mia! MIA!”

Poi il nulla l’apatia, la disperazione più totale, fino a quando non sono venuti loro a risvegliarla.

“Ehi, ehi, tutto bene?! Vuoi che chiamiamo il dottore?!” Riprese la concentrazione: Tom la scuoteva dalle spalle, Jeff affianco a lei.

“No, no! Voi non capite mamma non si è suicidata, c’era un...un uomo...lui l’ha uccisa! L’ha costretta a farlo...” Tom annuí serio.

“Potresti descrivermelo? Era per caso Neil, il tuo ex patrigno? O qualcun altro che conosci?” 

“No, no, lui era...” l’indecisione la paralizzò, spaventandola nella desolante realizzazione di non poter raccontargli la verità: la polizia non poteva dare la caccia a zombie usciti da portali oscuri, che controllano mentalmente la gente.

“Io...io..,” non si rendeva conto di stare singhiozzando le parole, con gli occhi spalancati e la bocca aperta. I due agenti si guardarono negli occhi, poi Tom sospirò, provando una gran pena per la ragazzina.

“Facciamo così, torniamoci altro giorno, così avrai più tempo per pensarci su, ok?”

Lei intanto si era stretta alle ginocchia coperte dal lenzuolo, con quello sguardo stravolto seminascosto con la testa tra le gambe.

“Si...si...va bene...” si dondolava, la sua voce era tornata a quell’incidere patetico, facendo parere agli occhi dei poliziotti che stesse perdendo la facoltà di intendere e di volere. In realtà Max non stava impazzendo: pur essendo ancora scioccata, era in pieno possesso delle sue facoltà mentali. Molto semplicemente, era terribilmente confusa riguardo i recenti eventi, non capiva più cosa stesse succedendo nella sua vita, tutto era assurdo anche per i suoi standard; ma sentirsi a disagio in un mondo senza senso è un segno di sanità mentale. 

Chi era quel, “coso”? Perché diceva che si fossero già incontrati e quando? Perché i ragazzi non l’avevano sentita urlare come una disperata da fuori alla casa? Che cazzo stava succedendo?! Per avere delle risposte, si sarebbe potuta confidare solo con gli altri, solo loro le avrebbero creduta. 

A mezzogiorno, mentre mangiava in camera, giunsero i ragazzi insieme ai Wheeler, i Sinclair e addirittura Joyce con Johnathan a farle visita. Era così felice di sapere che così tanta gente pensava a lei. Ricevette anche una telefonata da suo papà, che in lacrime le disse che era in viaggio e sarebbe arrivato il giorno stesso insieme a zio Ned, che avrebbe guidato per il fratello, che era in uno stato decisamente troppo alterato per un viaggio così lungo; e infine sua cugina Sally, Tommy e Arianna. Alle 13 tutti uscirono per andare a mangiare qualcosa per tornare da lei nel pomeriggio, tranne Undi, che decise di rimanere a farle compagnia. Erano sedute una a fianco all’altra: Jane sulla sedia, e Max nel letto con la schiena poggiata al cuscino. Guardava seria e sconsolata la porta d’entrata della camera. Le immagini della madre che esce sbattendo quella di casa loro e dei Wheeler riaffiorarono: l’aveva lasciata andare via, se avesse insistito sarebbe andato diversamente? Poi però si ricordò di un altra porta: camera di mamma, un buco nero si apre e quell’essere ripugnante sbuca fuori. È stato lui a ucciderla, non lei! 

I suoi occhi si riempiono di rabbia, si morde il labbro, e si gira verso Undi per raccontargli tutto. Accadde però qualcosa di strano: l’amica aveva assunto un’espressione confusa, e guardava a vuoto con gli occhi sbarrati ma coscienti, sbattendo le palpebre come se stesse avendo delle allucinazioni a cui non poteva credere. 

“Ehi, già basto io a dare di matto, che ti prende?” Ma lei non rispondeva; così Max provó a scuoterla da una spalla. 

“Non è divertente! Basta Jane!”

“OWWWW!” Undi sobbalzò con un grido, facendo saltare all’indietro anche Max, decisamente confusa. 

“Wow! Che volo! È stato decisamente più turbolento che con quelle vasche di deprivazione sensoriale.” Max la fissava confusa, l’amica si girò verso di lei e il suo volto si illuminò di felicità e sorpresa.

“MAX! Ti ho trovata subito, che fortuna!” Si lanciò su di lei sopra il letto, abbracciandola e riempiendola di baci sulla guancia. Lei non sapeva come reagire a questa improvvisa, esagerata dimostrazione di affetto. 

“Non sai quanto mi sei mancata! Temevamo fossi morta!”

“Ehm...Jane, eri qui fino a un momento fa, di che stai parlando?”

La ragazza lasciò la presa, sistemandosi sul letto affianco a lei. 

“Ma certo, mi hanno detto che potevi non esserne cosciente qui: ascolta, abbiamo vissuto esperienze decisamente strane, e ti fidi ciecamente di me, giusto?” 

“Ehm...si, certo! Ma arriva al punto, perché non ci sto capendo niente!” 

“Ok, ho una buona notizia e una brutta notizia; partiamo da quella negativa, che però in parte è anche positiva: sei in coma.”

Max rimase in silenzio scioccata. 

“CHE CO-“  Undi la precedette.

“MA, qualsiasi cosa di assurdo e incomprensibile lui ti abbia fatto vivere recentemente, non è successa davvero: era solo nella tua testa!” 

“Aspetta, quindi mi stai dicendo che mia mamma non si è suicidata? È ancora viva?!”

“Esatto!”

“M-ma com’è possibile? Io sono sicura di averlo visto, di avere vissuto tutto quanto: sento il passare delle ore, respiro, mangio, dormo, mi sembra di stare vivendo tutto...”

“Perché è il tuo inconscio che cerca di farti sentire come se fossi fuori dal coma, ma in realtà è tutto soltanto un vivido sogno.”

“E gli altri scusa? Mi parlano, si comportano come se fossero reali; non sembrano i ricordi sbiaditi delle persone che sogni normalmente.” 

“Sono proiezioni mentali delle persone che conosci, o che potresti conoscere, create del tuo inconscio. Io sono entrata nella tua testa coi miei poteri, prendendo possesso del ricordo che hai di me.”

“Un momento, cazzo! Quando, come e perché sono finita in coma?!” Agitava le mani mentre parlava, nervosa nella voce.

“Aspetta, innanzitutto devo chiederti in che mese siamo, mi serve per spiegarti tutto, poi capirai.”

“Dicembre 1985, perché me lo chiedi? Non è lo stesso anche la fuori?!”

“No, perché ad aprile 1986, abbiamo scoperto che il Mind Flayer, altro non era che un ex esperimento di mio padre; un ragazzo dai poteri paranormali come me, che feci finire nel sottosopra. Lo chiamiamo Vecna.”

Quel nome rimbombò nella sua testa, accompagnato come una colonna sonora dal rimbombo di un orologio a pendolo, lo stesso del falso suicidio di sua madre. Era lui.

“L’ho visto, in sogno qui nel coma: é stato lui a farmi credere che mia mamma sia morta! Quel bastardo!”

“Vedi Max, nel mondo reale, lui...ti ha come posseduta. Io ho cercato di venire in tuo aiuto, ma era troppo forte...”

“Undi, dimmi cosa mi ha fatto è non mentire!” 

“Ok, a lui servivano cinque vittime per aprire un portale tra il sottosopra e Hawkins per invadere il nostro mondo. Tu eri la quinta: ti ha rotto le braccia, le gambe, ti ha lussato ma non rotto il collo, perché l’ho interrotto io. Sanguinavi dagli occhi, non sentivi più niente e poi sei caduta in coma mentre Lucas ti stringeva tra le sue braccia. Non sei morta soltanto perché ti ho fatto ripartire il cuore, coi miei poteri.” 

Max era allibita, veramente era successo tutto questo è non se lo ricordava? 

“Tranquilla però, non sei in pericolo di vita e tutte le tue ossa sono guarite. I dottori dicono anche che sei stata solo temporaneamente cieca dallo shock, ma una volta sveglia vedrai benissimo.” 

“Ma allora, da quando gli eventi che ho vissuto qui hanno smesso di essere veri, ed é stato solo un sogno?”

“Da quando sei entrata quel pomeriggio in casa tua per rivederti con tua mamma: nella realtà, quel giorno vi siete rincontrate, avete parlato un po’ e poi lei ci ha invitati dentro per assaggiare i biscotti che aveva appena sfornato. É stata una bella giornata!” Max sospirò dal sollievo, rammaricata solo di non ricordarselo. 

“Tutto quello che hai visto qui, dopo che sei entrata in casa sono ricordi falsi. Nella realtà passarono mesi, i tuoi si sono rivisti qui ad Hawkins e hanno fatto pace”. Max si alzò con le spalle illuminata in volto 

“Ma no, mi dispiace deluderti ma non vivono di nuovo insieme”. Si riabbassò, delusa. 

“Ma tranquilla, lui è venuto a trovarvi un po’ di volte con amici e parenti di Los Angeles così li abbiamo conosciuti. Nei mesi successivi io e Will siamo tornati in California, in attesa del ritorno di papà, che alla fine è uscito da quel gulag grazie a un rocambolesco piano di Joyce e il suo amico agente segreto. Voi siete tornati a scuola qui; mi hanno detto che tu hai ricominciato a stare un po’ male, ma non per problemi economici, ma eri depressa per il ricordo di Billy. Vecna ha sfruttato ad aprile questa cosa per attaccarti, ed eccoci qui.”

Per Max tutto questo era molto da metabolizzare tutto insieme, e dopo qualche secondo di smarrimento iniziò a piangere coprendosi il viso con le mani. Jane la abbracciò cercando di consolarla.

“Ehi, è tutto a posto, sono venuta qui per risvegliarti...”

“Ohh...da quanto tempo sono in coma?”

“Soltanto un mese: siamo a maggio, ora ti risvegliamo, un mesetto di fisioterapia e avremo tutta l’estate da goderci insieme.”

La ragazza sembrava starsi calmando: annuiva asciugandosi gli occhi.

“Non voglio morire Jane! Voglio vivere, non voglio più essere così triste, voglio vivere! Voglio fare un mucchio di cose insieme a voi!”

“Ma certo: se lui non riuscisse a ucciderti, Vecna sarà sconfitto e questo incubo sarà finito; tu salverai il mondo risvegliandoti e potremo finalmente goderci la vita...”

“Come hai fatto a entrare nella mia testa?”

“Oh oh adesso arriva la parte divertente. Abbiamo escogitato tutti insieme un piano:  io coi miei poteri ho “scavato” nella tua mente, con mia mamma che coi suoi mi fa da “satellite” per potenziarmi e rendermi più facile il lavoro, e infine Will, che col suo “senso di ragno” mi avverte dove Vecna sta muovendosi nel tuo sogno.”

“Aspetta, come?! Tua madre non era paralizzata su una sedia a rotelle?!”

“La sua testa funziona ancora: l’abbiamo portata nella tua camera d’ospedale, e tenendoci per mano tutti e tre, in tranche siamo entrati nella tua testa. Può sentirti anche ora, mamma, di qualcosa a Max!” La voce di una donna si fece strada nella sua testa.

“Ciao Max! Sono la madre di Jane, mi ha parlato molto di te!” La rossa rimase in disibilio, a bocca aperta: questa era la prova che tutto quello che le aveva detto finora fosse vero!

“Ehm...salve signora, piacere di conoscerla, eheh!”

“Ciao Max! Mi dispiace molto per cosa ti è successo, quando ti abbiamo vista per la prima volta, conciata in quel modo con le braccia e gambe fasciate e il collare ortopedico al collo, abbiamo pianto tutti.” La voce di Will fece la sua comparsa.

“Will...sei veramente tu?!”

“Si Max, siamo tutti qui.” 

Undi le prese le mani.

“Sono tutti qui: intorno a te, nel letto d’ospedale. Riusciamo a comunicare con te solo io, mamma e Will, perché siamo gli unici con una sorta di potere o percezione ultra sensoriale, ma puoi sentire gli altri; dai fatevi sentire!”

“M-Max! Mi dispiace così tanto, oddioooh! Io ed Erika abbiamo provato di tutto quella sera, ma non sapevamo cos’altro fareeeh...” sentiva nelle orecchie l’inconfondibile voce di Lucas, spezzata dal pianto.

“Lucas! Non è colpa tua, ti amo, ti amo, ti amo con tutta me stessa e quando uscirò da qui te lo dirò: cento, mille volte!”

“Max, si che ce la farai perché sei la ragazza più tosta che conosci; ok, la seconda dopo Undi. Ma comunque sei più che abbastanza forte per fare il culo a quel figlio di puttana!” Mike.

“Signorino, va bene l’entusiasmo, ma cos’è questo linguaggio?!” La signora Wheeler.

“Eravamo entrati nel suo nascondiglio del sottosopra e a dargli fuoco; ma per qualche motivo è ancora vivo. Sono sicura che tu e Jane lo sconfiggerete!” Nancy.

“Max, io...non so che dire...ho sempre cercato di proteggervi, come dei fratelli minori...ma, ma questo...” Steve, rotto dal dolore.

“Oh poverino, dai ci penso io a dirglielo. Ehm qui Robin, quello che voleva dirti Steve è che gli dispiace di non essere riuscito a proteggerti; ma non capisce che non è dio sceso in terra, e per quanto si sforzi di fare “Action Man”, come tutti noi mortali non è perfetto, quindi non è colpa sua. Comunque! Ho sempre saputo che sei una tipa in gamba, quindi in bocca al lupo e dacci dentro!” La parlantina di Robin non necessitava presentazioni.

“Max! Quando Undi e Will mi hanno spiegato cosa volessero fare ho pensato “wow! Questa roba è decisamente più fuori di testa di qualsiasi campagna di D&D, o di un film di Cronemberg sui telepati tipo “Scanners”. Ma ora che loro sono con te, sono sicuro che andrà tutto bene! Qui Dustin passo e chiudo! Eheh”.

“Bimba, non posso essere lì a sparare a quel demonio con la mia magnum, ma mia figlia ha proiettili in canna ben più letali!” Hopper, ritornato dalla Siberia.

“Maxine...mamma ti vuole bene, non ce l’ho con te, anzi, avrei dovuto esserti più vicino. I tuoi amici mi hanno raccontato tutto; oddio Bart...” sua mamma venne interrotta dai singhiozzi. 

“Non preoccuparti tesoro, ci penso io ok? Ciao amore di papà, io e mamma siamo qui con te e ti rimarremo vicini fino a quando non sarà finita tutta questa storia. Quando hai fatto il culo a Neil quel giorno, ho capito che hai preso il meglio di noi. Va e dalla pagare a quel mostro!” I suoi genitori, finalmente insieme per lei.

Max voleva piangere dalla gioia, ma non lo fece, perché la determinazione di svegliarsi, incontrarli e vivere la fece concentrare sull’obbiettivo. 

“Undi, ringraziali tutti da parte mia!”

“Ma certo, ehi! Vi ringrazia e vedo dal suo volto che le vostre parole l’hanno incoraggiata!” 

“Ok, spiegami il piano!”

“Ora arriva la parte forte: vedi, qui dentro se sei determinata e convinta di riuscirci, e so che lo sarai; puoi controllare la realtà!”

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Capitolo 11
*** Che le danze abbiano inizio! ***


Capitolo 11-Che le danze abbiano inizio!

 

“Ok, funziona così: siamo dentro la tua testa, ma il subconscio dove sei rimasta bloccata. Quindi sei conscia di quello che pensi, ma non come quando sei sveglia...come dire...” Max l’ascoltava senza battere ciglio, interessata molto più di qualsiasi lezione le avessero impartito a scuola; ma Undi annaspava, non riuscendo a trovare le parole giuste per un discorso più grande e complesso di lei.

“Jane, forse è meglio se glielo spiego io, che ne dici tesoro di mamma?” L’amorevole voce di sua madre, fece capolino nella testa di entrambe le ragazze. La pel di carota rimase un attimo sorpresa. Non era ancora abituata a sentire voci di altre persone nella sua testa, interrompere il flusso dei suoi pensieri come se fosse lì, fisicamente presente. 

“Oh si! Hai ragione mamma, sei senza dubbio più esperta di me in queste faccende!” La figlia arrossiva per quelle premure. Max, dal canto suo, si stava intenerendo ad ascoltare l’amica avere finalmente un amorevole, per quanto paranormale, discussione con sua madre, come una normale famiglia. Non vedeva L’ora di uscire da lì e potere ritornare a farlo anche lei. 

“Max, ascoltami attentamente, perché per quanto possa essere chiara, rimane qualcosa di surrealmente complicato” disse la voce della donna, che assurdo che fosse, per quanto parlasse di paranormale e viaggi mentali, aveva un tono da normalissima casalinga. Max annuí, sapendo che la donna potesse vederla “Cosa hai intorno è la tua testa, dovrai sempre tenerlo a mente, perché tu puoi decidere qui cosa è reale e cosa no. Detto questo, purtroppo essendo in coma, non puoi veramente controllare ogni singolo dettaglio, perché non avendo pieno controllo delle tue facoltà mentali, il tuo inconscio genera per te queste immagini che hai intorno e sembrano il mondo reale. Vecna questo lo sa, e vuole quindi farti sprofondare nello sconforto, farti perdere la voglia di vivere, per rinchiuderti qui e ucciderti facilmente; può farlo perché ha poteri paranormali come me, Will e Jane.  Noi possiamo guidarti verso una uscita verso l’esterno del coma, o per meglio dire, il tuo conscio, la veglia. Ma devi volerlo con tutta te stessa, perché come hai visto, quello psicopatico è capace di farti vedere cose orribili e convincerti che siano reali.” 

Fin qui tutto chiaro, doveva solo sperimentare questi poteri.

“Ok, ma le proiezioni mentali cosa faranno? Da che parte stanno?”

“Loro continueranno a comportarsi come se fossero persone reali, perché non li comandi ne tu ne Vecna, ma il subconscio in cui sei immersa. Ti possono aiutare però”

“Infatti...” si inserì Jane nel discorso “ora andrò a cercare Will per fargli prendere il controllo della sua proiezione, facendo entrare anche lui nel coma.”

“Tu intanto dovrai uscire di nascosto da qui e aspettarli fuori dall’ospedale, ti condurranno all’uscita; ma siate furtivi e attirate meno attenzione possibile, così Vecna non vi troverà.” 

Max annuí, seria e decisa sul riprendersi la sua vita in mano. “Ma quindi, per manipolare la realtà qui; cosa dovrei fare esattamente?”

“Guarda, questa per assurdo è la parte più facile di tutte!” Intervenne Undi “Devi solo pensare di poter modificare qualcosa che hai intorno e questo succederà; ovviamente non puoi semplicemente decidere di uscire di qui o far comparire cose dal nulla, perché come detto prima, il subconscio pone dei limiti, ma puoi fare comunque molte cose. Per esempio: guarda quel bicchiere che hai sul comodino e pensa di farlo levitare come farei io coi miei poteri”.

Max si concentrò sul bicchiere di carta, accigliando la fronte e immaginandolo alzarsi in volo. Neanche un istante dopo, l’oggetto levitò di qualche centimetro, sorprendendo più del previsto la ragazza. “Wow! È una figata essere una telepate come te!”

“Ahah, ma tu puoi fare molte più cose, vedrai!” L’oggetto si accartocciò e voló nel cestino della spazzatura all’angolo del letto. 

Improvvisamente la porta si aprì e una folla di gente fece la sua comparsa alla soglia. Tra loro, i ragazzi, i loro genitori; ma sorpresa delle sorprese anche i suoi amici californiani con davanti loro suo padre, o almeno l’immagine mentale di lui, rosso in volto come i capelli di lui e sua figlia e con le lacrime agli occhi.

“Oh Maxine!” Si lanciò verso il letto, abbracciandola forte ma anche dolcemente, e piangendo sulla sua testa.

“Tesoro di papà...non oso immaginare quanto dev’essere stato terribile tutto questo...”

Di colpo così, si trovò catapultata in una situazione imbarazzante: sapeva che sua madre non fosse morta e che lui non era veramente suo padre, ma come poteva dirglielo? Tutto sommato era comunque il ricordo di papà, e c’era del tenero nel sapere che nella sua testa, che se fosse successo veramente, lui avrebbe guidato di corsa insieme a Tommy e Arianna per quattro stati soltanto per consolarla. Così ricambiò l’abbraccio, consolandolo con una mano sulla schiena. 

“Grazie papà...”

Lui la prese dalle spalle.

“Maxine, é il momento di fire ai tuoi amici della tua decisione!”

“Come?! Proprio ora?!”

“Si! Non possiamo aspettare oltre, non dopo quello che è successo, coraggio diglielo!”

Bene, ora era caduta dalla padella alla brace: se fosse stata costretta a dire soltanto alle altre proiezioni mentali dei suoi amici che sarebbe tornata a casa sua a Los Angeles, non sarebbe stato poi questo dramma, visto che non erano reali. Ma ora era presente anche Undi, quella vera! Ed era in ascolto anche Will! Sospirò profondamente, comprendendo che non poteva scappare da questa situazione è che forse era un segno del destino. Guardò dritta negli occhi Jane, prendendola per mano.

“Io...io ho deciso che finito tutto questo tornerò in California.” L’amica rispose sobbalzando leggermente indietro, nei suoi occhi di leggeva tristezza, sorpresa e un po’ di tradimento. Lo stesso valeva per Max, che era dispiaciuta dal aver dovuto dirglielo in questo modo. 

“Ed è finito tutto ora, dai vestiti, prendi le tue cose, saluta tutti e andiamo via!” 

“Cazzo papà! C’è la fai ad essere un briciolo più delicato?! Sei piombato qui come un rinoceronte in una gioielleria! Dammi un po’ d’aria: fuori di qui! Tutti! Devo parlare con lei da sola!” Prese a urlare esasperata.

Il “padre” sembrava genuinamente sentirsi in colpa per la mancanza di tatto e alzò le mani. “Ok...ma non metterci tutto il giorno, coraggio venite ragazzi...” fece per uscire, seguito da tutti; solo Lucas sembrava opporsi. 

“Ma Max...”

“Lucas credimi, ti spiegherò tutto, ma ora devo parlare da sola con lei...” alla fine anche lui si arrese, seppur sentendosi offeso, e uscì.

Le due ragazze si trovarono da sole, in silenzio. Max che si mordicchiava il labbro dalla tensione e imbarazzo, mentre Jane rifletteva china. La nostra non c’è la faceva più a immaginare i suoi pensieri, doveva parlarle:

“Senti lo so che ci sei di sicuro rimasta male ma-“

“No, no, va bene! Va benissimo Max!” La bloccò alzando le mani.

“D-davvero? Cioè, non sei arrabbiata o delusa? Guarda che non voglio abbandonarvi, solo che-“

“Max ascolta: al massimo posso dirmi triste, perché non ci vedremo più come prima; maso anche benissimo quanto difficile sia stato per te questo periodo, quindi è comprensibile che tu voglia tornare a casa tua, lontana da questa trappola mortale di cittadina. Io voglio che tu sia felice!”

“Oh non sai quanto sia felice sentirtelo dire...ma ti giuro che ci rivedremo, e anzi vorrei davvero che voi veniate a trovarmi a Los Angeles.”

“Promesso! Lo faremo”.

Le due si abbracciarono, ma nel silenzio di quel gesto, entrambe si resero conto di sentire nelle orecchie qualcuno piangere. Entrambe si guardarono perplesse, poi Max alzò gli occhi in sú come se quel qualcuno fosse sul soffitto.

“Will, sei tu?”

“Certo che sono io! Mi sono emozionato per la notizia! Proprio ora che ti sveglierai te ne andrai subito via!”

“Owww ho sempre saputo che fossi un tenerone, ma tranquillo: non è che partirò così da un giorno all’altro, ci vorrà tempo per sistemare tutto, ok?”

Si sentiva che stava tirando su col naso e asciugandosi le lacrime. “Ok...”

“Ehi però non azzardarti a dirlo agli altri ok?! Sarà lei a decidere quando farlo.” Lo rimproveró la sorellastra.

“Ma certo, ma certo...”

“Allora qual’é il piano?” Chiese Max a Undi.

“Ora io vado alla ricerca di Will per fare entrare anche lui nel sogno, poi io e lui distraiamo gli altri per permetterti di sgattaiolare fuori dall’ospedale. Ci rivediamo tutti e tre al parcheggio del Diner qua vicino ok?” Lei annuí.

Dopo che Jane fu uscita, Max andò in bagno per darsi una sciacquata al viso prima di uscire, e lì la voce di Will la raggiunse di nuovo all’improvviso e con urgenza:

“Max! Guarda nel buco del lavandino, presto!”

Il suo occhio cadde lì e incontrò letteralmente lo sguardo di un altro occhio, che la spiava dal buco, come in uno dei più terrificanti  romanzi di Stephen King. Era di sicuro Vecna. 

“Ciao Maxine...hai fatto sogni d’oro?” Probabilmente aveva origliato da lì tutto il loro discorso è solo ora Will lo aveva percepito.

“Vaffanculo! Ho capito i tuoi trucchetti, non mi freghi più! E per la cronaca, devi chiamarmi Max, Mad Max!”

“Oh piccina, ti credi forte, fai la prepotente; pensi che soltanto perché hai scoperto che tua madre non è davvero morta, non possa ucciderla davvero? O che riuscirai seriamente a uscire di qui? Povera illusa, io te la farò pagare per avermi teso una trappola con i tuoi amici, e avermi ridotto così! Un cadavere ambulante: ti porterò con me nei più profondi abissi del sottosopra, e TI TORTURERÒ PER L’ETERNITÀ, FINO A QUANDO NON RIMPIANGERAI DI ESSERE NATA E MI PREGHERAI DI UCCIDERTI, PICCOLA SCHIFOSA BIMBETTA DI MERDA!”

“Oh, ho colpito al segno a quanto pare, cos’è? ti brucia ancora di essere stato fregato da una ragazzina?! Hai finito di rovinarmi la vita, pagherai per tutto quello che hai fatto e presto capirai il perché del mio soprannome!” Prese la bottiglietta del collutorio, desiderò che diventasse acido muriatico; ne scaricò metà sull’occhio, che si ritrasse fumante giù per lo scarico, insieme a un profondo urlo di dolore. “Ti aspetto, stronzo!” Disse lei avvicinandosi con la bocca al condotto. Chiuse con il tappo il buco, e si fiondò all’uscita. 

Correndo per i corridoi, si sentiva presa da uno strano senso di euforia. Si sentiva onnipotente, e mentre correva, notava intorno a sé qualcosa di strano: gli oggetti a cui passava accanto sembravano animarsi, stimolati in qualche modo dal suo stato d’animo. Giunse nella sala d’aspetto dell’ospedale; non c’era anima viva, ma in compenso anche lì ci pensava il mobilio ad animare la festa. Una radio posata su un tavolino circondato da poltroncine, si accese da sola, mentre sembrava ondeggiare come se stesse cercando di ballare a tempo. Sopra il bancone, era appesa al muro una testa d’alce imbalsamata e incorniciata in legno. L’animale riprese vita facendo un sonoro bramito, che sembrava però l’imitazione di un umano, essendo d’altronde nella testa di uno di loro, per poi rivolgersi alla ragazza:

“Che ne dici Max, ci facciamo quattro salti a suon di rock?”

Guardò la testa e rispose annuendo con una smorfia isterica. Max scoppiò in una grande risata, e iniziò a ballare come una forsennata con ancora indosso il camice d’ospedale, sulle note di “Bird is the word”. Uno scheletro anatomico, con in testa un cappello elegante, preso da un appendiabiti all’entrata, le tese la mano invitandola a ballare con lui. La strana coppia si lanciò in un pezzo di boogie woogie, conclusosi con una giravolta di Max, che ringraziò il ballerino ossuto, soffiandogli un bacio a distanza, a cui lui rispose mettendo le mani sul cuore inesistente e crollando a terra in un mucchietto d’ossa. Una sedia si avvicinò e le sue gambe iniziarono a muoversi come se fossero umane, mimando i movimenti della ragazza. Le mani di lei si piazzarono sulle ginocchia: iniziò a sforbiciarle, guardando la sedia per vedere se fosse riuscita a mimare anche questa mossa; incredibile ma vero, le gambe di legno erano così elastiche che riuscivano a piegarsi fino a far combaciare le loro metá, come se fossero ginocchia. Jane entrò nella stanza quando la musica iniziava a rallentare, e rimase allibita nel vedere tutto questo.

“Max! Capisco l’euforia di poter controllare la realtà nella tua mente, ma dobbiamo uscire di qui prima che ci catturino.”

L’amica la zittí piazzandole un dito sulla bocca; era arrivata la parte più divertente: cantare il ritornello!

“Ah, Bap-a-pa-pa-pa-pa-pa-pa-pa-pa-pa-pa-pa-pa-pap”.

“Dai, l’hai cantato ora-“ non poté continuare, che Max la prese per le mani, tirandola nel suo ballo scatenato e continuando la canzone.

“Ma-ma-mow, pa-pa, ma-ma-mow, Ma-ma-mow, pa-pa, ma-ma-mow ”

Infine, Undi venne influenzata da questo entusiasmo, e dopo un inizio timoroso e imbarazzato, si lanciò nel ballo. D’altronde, non la vedeva nessuno oltre a lei, e quando le sarebbe ricapitato di ballare in una stanza incantata come nei film della Disney? L’euforia si fece così grande, che tutto il mobilio si stava animando, unendosi alle danze delle due ragazze. 

Finita la musica, tutto tornò alla normalità, se così la si può definire: gli oggetti si fermarono crollando a terra. I più fragili tra quelli che levitavano in aria, come i quadri, si ruppero in mille pezzi nello schianto. Le sue amiche si lasciarono cadere con la schiena sul pavimento, ridacchiando e prendendo fiato. Erano circondate da oggetti lanciati qui e lá; se fosse entrato qualcuno, avrebbe creduto che un uragano fosse appena passato nella sala d’accoglienza.

“Oddio! È stata la cosa più divertente che abbia mai fatto!” Esclamò Max.

“Ma sai cos’è ancora migliore? Sapere di averlo fatto davvero! Quando saremo fuori dal tuo coma, faremo un mucchio di cose divertenti insieme agli altri e sarà ancora più soddisfacente, perché saprai che saranno reali e non solo nella tua testa!” 

Le due si guardarono negli occhi con tenerezza e complicità, poi si presero per mano e si rialzarono. 

“Dai andiamocene da qui!” Disse Max, Jane annuí. 

Cambiatesi entrambi i vestiti per non essere riconosciute, uscirono dall’edificio passando per l’uscita della lavanderia. 

Si incamminarono cappuccio delle felpe in testa, muovendosi con naturalezza, per non attirare attenzioni, fino al parcheggio del pub lì vicino. Laggiù incontrarono Will, Tommy e Arianna, che le aspettavano biciclette alla mano, con due aggiuntive per loro poggiate al palo della luce.

“Will, sei veramente riuscita a convincere le proiezioni mentali dei miei amici californiani ad aiutarci?”

“Ma certo! Ti vogliamo bene, e anche se non esistiamo veramente, vogliamo che tu raggiunga i veri noi stessi nel mondo reale!” Rispose per lei Tommy. 

Li guardò negli occhi per qualche secondo, per poi abbracciare entrambi.

“Voi esistete, anche qui: perché siete il ricordo di persone reali a cui voglio un mondo di bene”.

Will gongolava, felice che la sua idea avesse portato a questo bel momento. Arianna si separò dall’amica: aveva una domanda per lui.

“Ma cosa succederà a noi quando Max si sveglierà dal coma? Smetteremo di esistere?”

“No, no, voi esistevate già prima e continuerete a esistere nella sua testa: lei vi ha già incontrati nei suoi sogni; siete stati semplicemente abbastanza fortunati da incontrarla mentre é conscia di cosa siete davvero”. 

“Quindi mi stai dicendo che quando quella sera di dicembre, li ho sognati perché mi mancavano, erano loro?” Chiese la diretta interessata indicandoli.

“Esatto! Anch’io l’anno che sei arrivata qui, quando caddi in tranche a causa di quello che credevamo essere il Mind Flayer, incontrai in sogno i miei ricordi delle persone che conosco. Quando dormo, li incontro di nuovo e ora sono conscio che siano reminiscenze del mio inconscio.” 

Entrarono nel Diner per fare il punto della situazione e mettere qualcosa sotto i denti prima di iniziare il loro piano. Max diede sfogo alla sua voracità, visto che ne aveva l’occasione: ordinò uno di quei tipici menù americani da camionisti, in preda ad attacchi di fame dopo estenuanti ore di viaggio. Un piatto di salsicce e patatine fritte, condite di mostarda e ketchup era accompagnato da un triplo cheeseburger su cui svettava una bandierina americana. Come ciliegina sulla torta si concludeva il tutto con una tradizionalissima fetta di torta di mele. La cameriera la guardò sorpresa a sentire l’ordine, ma piacevolmente scrisse tutto sul taccuino: “beh in effetti devi mangiare per crescere signorina. Ah, quanto vorrei che fosse così facile mangiare così anche i miei nipotini!”

Ora si stava strafogando nel piatto di salsicce, tutta sporca in viso delle salse.

“Hmmm, quanto adoro la carne! E poi quella tizia vegana dice di essere me...ah ah, CERTO!” Scoppiò in una risata ironica, dopo aver ingoiato il boccone”.

“Scusa, ma di chi stai parlando?” Chiese Arianna.

“Oh niente...é complicato da spiegare...”

Jane intanto la guardava sorpresa con un sopracciglio alzato.

“Ehm...Max, sei sicura di voler mangiare così tanto?”

“Ma si! Tanto siamo in un sogno, basta che pensi di aver mangiato meno e tutta questa roba scomparirà dallo stomaco. E poi, quando mi ricapita di poter mangiare così senza prendere peso!”

“Ok...ma vedi non fare così quando ti svegli ok?”

“Tranquilla. Ma a proposito: cosa e come mi fanno da mangiare la fuori se sono in coma?” 

“Ti hanno piazzato una sonda nel naso, attraverso cui iniettano nel tuo stomaco delle pappe di vitamine e altre sostanze” spiegò Will “praticamente non ti serve masticare perché il “cibo” ti arriva direttamente dentro il corpo”.

“Ewww, meglio svegliarsi il prima possibile per mangiare cibo vero! Ma per andare al bagno...come funziona?”

Undi la prese per mano.

“Credimi non vuoi saperlo: anche il dottore che ti ha in cura a preferito non spiegarlo a noi ragazzi. Ti dico solo che una volta ci hanno fatto uscire dalla stanza per assistirti nel farlo...e avevano un macchinario con collegato un tubo...”

Max la guardava in shock con gli occhi spalancati, rimettendo nel piatto l’hamburger che aveva in mano.

“Ok...mi è passata la fame, e devo decisamente svegliarmi al più presto!”

“Esatto! Quindi ragazzi è il momento di concentrarci sul nostro obbiettivo principale; per l’appunto, farti risvegliare!” Li ammonì la amorevole voce della madre di Jane.

“Quindi dobbiamo andare dove tutto è iniziato: Will, vuoi avere l’onore di dirlo tu?” Chiese Undi.

“Ma certo: il fortino Byers! Dove venni rapito dal Demogorgone quella notte dove tutto ebbe inizio...”

Una strana malinconia prese il ragazzo e la sorella adottiva, strana perché triste a dirsi non era un bel ricordo: quella notte la vita di Will venne segnata indelebilmente, mentre Undi dovette scappare dall’unica casa che conosceva, ma almeno trovò l’amore della sua vita nel bosco...

Max aveva un approccio più neutro riguardo la situazione: per assurdo non era neanche nello stesso stato quando quando accadeva tutto questo, gliene avevano solo parlato. Anzi, la sua vita all’epoca era ancora serena: andava a scuola a Los Angeles con Tommy e Arianna, viveva a casa sua col balcone sul mare, giocava col suo cagnolino il pomeriggio; non si immaginava neanche che il matrimonio dei suoi era in crisi, e che l’anno successivo sarebbe dovuta andare via di lì, con sua madre insieme a due perfetti sconosciuti.

“Però ragazzi dovete capire che in questo sogno vivido, la gente si comporta come se fosse reale: quindi adesso vi staranno cercando anche con l’aiuto della polizia, e Vecna se ne approfitterà di certo. Non potete quindi pedalare in bella vista con le vostre biciclette, dovete trovare un modo più anonimo di viaggiare: tipo nascondervi in una macchina guidata da un adulto che vi aiuti”. 

Iniziarono a fare delle ipotesi: il primo che venne loro in mente di ovviamente Steve, ma lui era all’ospedale col padre di Max, e comunque ci sarebbe voluto troppo tempo per tornare da lui. Nancy non avrebbe mai creduto alla loro storia, e non era la tipa che aiuta a scappare dei minori in fuga. Poi, mentre gli altri si arroventavano gli ingranaggi del cervello, Max notò qualcuno dall’altra parte del locale.

“Oh...so già che sarà una pessima idea...ma non abbiamo altra scelta..”

“Di chi stai parlando?” Chiese Tommy. Lei indicò loro un uomo buttato su un divanetto a muro, in stato semi catatonico, con davanti un tavolino pieno di bottiglie di birra vuote: era Neil.

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Capitolo 12
*** Ci siam voluti tanto bene, ma la tempesta è preceduta dalla quiete.. ***


Capitolo 12-Ci siam voluti tango bene, ma la tempesta è preceduta dalla quiete.

 

Max si avvicinava con passo cauto e timoroso, a quel rudere d’uomo buttato sulla poltroncina a muro, come uno scatolone di vecchi vestiti da buttare via. La visione impietosì sinceramente Max: d’altronde, anche se in parte era colpa di lui, la vita di Neil era stata rovinata nel giro di un anno. Prima era morto suo figlio e ora anche la donna che, pur non dimostrandolo nel migliore dei modi, amava e aveva intrapreso con lei una folle fuga dalle loro vecchie, ordinarie vite, aveva lasciato il mondo dei vivi. Anche se non era il vero lui, e nel mondo reale sua madre non fosse morta veramente; sentiva che se il suo subconscio glielo stesse facendo apparire così, significava che nel profondo, alla fine, gli dispiacesse veramente per lui, e che voleva perdonarlo. 

Arrivatagli di fronte, non sapeva cosa fare: lui sonnecchiava con gli occhi chiusi, e non sapeva proprio decidersi su quale fosse il modo migliore per attirare la sua attenzione; soprattutto visto il loro turbolento, ultimo incontro. Per sua fortuna, fu lui a fare il primo passo: probabilmente percependo che qualcuno gli si fosse parato di fronte, le sue palpebre si mossero febbrilmente, per poi aprire gli occhi. Questi la riconobbero subito, spalancandosi immediatamente dalla sorpresa. Neil cercò di ricomporsi il meglio possibile, sedendosi dritto e mettendo freneticamente a posto le bottiglie vuote sul tavolo; pareva volesse nascondere la stato di abbandono in cui versava. 

“M-Maxine! Cosa ci fai qui?’ Ho saputo tutto, mi dispiace così tanto, tesoro…” Si sporse con le braccia, intento ad abbracciarla, ma vedendola tentennare, si bloccò subito.

“Oh scusami, non volevo metterti a disagio…” lei lo interruppe.

“No, no, tranquillo, lo apprezzo, è solo che non me lo aspettavo. Capisci, non sei mai stato particolarmente quel tipo di patrigno affettuoso.”

“Già è vero, ma vorrei che tu capissi, che ti voglio e ti ho sempre voluto veramente bene: ma è difficile per me esprimere le mie emozioni. Mio padre non me l’ha insegnato, era un uomo violento, molto violento…Tua madre riusciva a tirare fuori da questo guscio duro, il meglio di me. Quella sera che Billy è venuto a cercarti, sono stato io a imporglielo, perché volevo che fossimo una famiglia, e che tu potessi vedermi come un secondo padre. Ma ho rovinato tutto…” si chinò sul tavolo, coprendosi il volto con le mani, mentre singhiozzava.

Lei, inteneritosi per quel discorso di cui percepiva la sincerità, gli si sedette accanto, prendendolo per mano. Lui si voltò sorpreso, non aspettandosi questa premura. 

“Ascoltami Neil: io ti perdono, veramente, ti perdono per tutto. E anzi, ti devo anche chiedere scusa per l’altra volta: tu hai cercato di scusarti ed essere gentile con me, e io ti ho trattato malissimo davanti a tutti. Non è stato educato, da parte mia.”

“Oh, grazie piccola…” questa volta la abbracciò davvero, e lei non si tirò indietro. Quando di lasciarono, lei inizió a spiegargli la parte difficile:

“Ascolta, mi servirebbe il tuo aiuto per una cosa davvero importante: papà è tornato per portarmi via da qui in fretta e furia; ma voglio prima sotterrare un ricordo di mamma e Billy in un posto speciale. Mi aiuterai?”

“Aspetta…mi stai dicendo che sei scappata via per fare questo di nascosto?! MaMaxine, tuo padre sarà disperato, non ci pensi a lui?! E poi, sarebbe sequestro di minore! Io poi, se ci beccano prima mi ammazza e poi mi chiudono in galera buttando la chiave! No, no, mi dispiace, ma assolutamente non se ne parla!”

“Senti, lo so che ti sto chiedendo tanto, ma lui è fuori di sè per cosa è successo a mamma, ha dovuto guidare mio zio perché non era neanche nelle condizioni di guidare! Ascolta: hai detto che mi vuoi bene e che volevi fossimo una famiglia, giusto? Bene, questo è il momento di dimostrarlo: fai questa piccola follia per me e te ne sarò grata per il resto della vita!” Mentre gli parlava, lo teneva per le mani, facendo gli occhioni dolci, per convincerlo al meglio.

Lui sospirò, guardò verso il basso, per poi tornare su di lei.

“Ok…ma una volta fatto, ti riporto da tuo padre dicendogli che ti ho trovata in giro, e ti ho convinta io a tornare da lui. Così magari smetterà di volermi sbranare vivo; intesi?”

Lei annuí sorridendo. Poi si lanciò a sorpresa di Neil in un abbraccio.

“Grazie, grazie, e ancora grazie! Non ti immagini neanche cosa significa per me questo! Ti voglio bene Neil!”

Lui arrossì visibilmente: era letteralmente la prima volta che sentiva dirsi questo da lei, quindi doveva essere sincera.

“Grazie, piccola…”

Quando Max si staccò da lui, e lo vide in volto, si intenerì: Si ri promise in quel momento, che avrebbe cercato di perdonare anche il vero Neil, una volta fuori dal coma. 

Il gruppo salí sulla station wagon marrone dell’uomo, accucciandosi sui sedili, almeno fino a quando non sarebbero arrivati fuori città. L’auto viaggiava per le strade di Hawkins, ogni tanto sentivano una volante della polizia sfrecciare accanto a sirene spianate. In quei momenti Max sudava freddo: si ricordava di aver parlato agli agenti in ospedale, di un uomo che avrebbe istigato il suicidio di sua madre. Il loro principale sospetto era proprio Neil, per i loro trascorsi. Si era dimenticata però di avvertirlo, e ora temeva che uno sguardo indiscreto, un sorriso per far finta di nulla, agli agenti nelle volanti, potesse attirare la loro attenzione. Non avevano a sua disposizione molto margine d’errore: se fossero stati catturati, non sarebbe riuscita ad uscire dal coma e Vecna l’avrebbe uccisa.

“Ok…siamo fuori Hawkins…nei boschi, non ci sono neanche macchine in giro, potete uscire.”

“Aaah, mi stavo spezzando la schiena!” Esultò Tommy, mentre Arianna lo massaggiava. Max si rimise dritta sul sedile, e Will, seduto su quello accanto a lei, vedeva chiaramente che era pensierosa. 

“Ehi, ti va di confidarti su cosa ti frulla nella testa?”

Lei spostò di poco lo sguardo verso di lui, mantenendo sempre quella maschera di incertezza e dubbio.

“Il fatto è che, ultimamente, ho un tarlo nella testa di cui non riesco a liberarmi”

“Bene, ci sono io per questo: vedrai, sono un esperto di disinfestazioni mentali.”

“Stavo pensando: se mesi fa avessi accettato di andare via con papà, certo sarebbe stato triste perché vi avrei detto addio di punto in bianco e non ci saremmo rivisti sul breve periodo. Ma non sarebbe neanche successo tutto questo: Vecna non mi avrebbe massacrata, non sarei in coma a lottare per la mia vita. Avrei convinto papà a portare mamma con noi, avrei rivisto tutti quelli che conosco laggiù, e sarei ritornata alla mia vecchia vita…”

Will le mise una mano sulla spalla, distraendola dai suoi sogni ad occhi aperti.

“Ascolta, quello che stai provando ci sono passati tutti nella vita: si chiama rimuginare sul passato. Ma devi anche capire, che non puoi essere certa che le cose sarebbero andate come te le immagini ora: se Vecna ti avesse raggiunto laggiù, per esempio, non saremmo riusciti a proteggerti, e saresti finita decisamente peggio.”

“Si…probabilmente hai ragione…” Will però vedeva che pur avendola convinta, una tristezza di fondo rimaneva persistente, dentro lei.

“Ehi, hai mai sentito parlare dell’imperatore romano Marco Aurelio”

“Ehm, no, che c’entra?” Ora era invece piuttosto confusa.

“È chiamato “l’imperatore filosofo”, perché era uno stoico. Da giovane visse una vita molto tranquilla, e anche quando divenne imperatore perché fu adottato da Adriano, come suo successore, perché stupito da quanto fosse saggio e pacato quel ragazzo: riuscì a governare mantenendo pace e prosperità nell’impero”.

“Ok, ma cosa ha a che fare con-“

“Aspetta, fammi finire…”

“Ok, scusa, ma vedi di essere coinciso…”

“A un certo punto, nell’impero scoppiarono epidemie terribili, anche a Roma stessa, e lui andò ad aiutare di persona i malati, rischiando la vita. Poi, iniziarono delle invasioni: a est, i persiani, mentre a nord i germani, che furono l’anticipazione di quelle che fecero cadere l’impero tre secoli dopo. Aurelio mandó il suo migliore amico a sconfiggere i persiani, e lui vinse rimandandoli oltre il confine; successe però una cosa terribile: gli arrivò la notizia che Aurelio fosse morto, e i suoi legionari iniziarono ad acclamarlo come nuovo imperatore, ma quando scoprí che era solo una falsa notizia, i suoi comandanti lo uccisero, mandando la testa a Marco Aurelio, nel tentativo di salvare la faccia. Il povero buon imperatore non volle neanche vederla, disgustato da quello che era appena accaduto. Ma il disgusto e la miseria continuavano ad attanagliarlo, perché le guerre contro i germani non sembravano finire, costringendolo a rimanere a combatterli per anni, sul gelido confine del Norico; quando avrebbe voluto vivere con la sua famiglia, passare le giornate a leggere e scrivere, a casa sua nella soleggiata campagna romana. I suoi comandanti cercavano di convincerlo ogni giorno, che l’unico modo per far finire il conflitto fosse commettere un genocidio comprendente donne e bambini contro i Marcomanni, l’avanguardia dei popoli germanici alleati. Aurelio non se la sentiva di fare qualcosa del genere, lo riteneva una crudeltà a cui di sarebbe potuto ovviare in altri modi, perché era un uomo buono e gentile. Ma proprio in quel momento, dove la sua vita era immersa ogni giorno nella morte e la violenza, non di perse d’animo; e sai cosa fece? Si mise a scrivere! Si, proprio così! Ogni sera scriveva un diario, dove si confidava sui pensieri che lo tormentavano. Grazie a questo “hobby” non impazzì al dolore e la vergogna di quello che era costretto a fare per proteggere i romani e la sua famiglia. Queste pagine divennero “Le confessioni a me stesso” una delle più grandi opere della filosofia stoica di tutti i tempi! E le massime contenute all’interno, aiutano ancora tantissime persone in difficoltà come te. Per esempio: “Aspettati niente dalla vita, e accetta tutto quello che ti succederà. Sii sincero in quello che dici e fai, e la tua sarà una bella vita” “La migliore vendetta contro i tuoi nemici è non essere come loro” Oppure la mia preferita: “La morte sorride a tutti noi. Tutto quello che possiamo fare è ricambiare il sorriso!”

Will non era stato decisamente coinciso, ma il racconto aveva preso talmente Max, che l’aveva ascoltato concentratissima, è arrivata alla battuta finale le scappò anche un risolino. 

“Quello che voglio dirti è che se Aurelio fosse vissuto in pace, non avrebbe mai scritto una pagina di quei diari! Come tu, non puoi giudicare te stessa e il tuo passato, su eventi di forza maggiore di cui non hai colpa e neanche controllo. Tu hai già sconfitto Vecna dentro di te, perché non ti sei arresa e sei decisamente migliore di lui!”

“Grazie Will, queste parole mi confortano molto…” lo abbracciò.

L’auto si fermò nei boschi, tutti scesero e Will individuò subito la strada sterrata che conduceva al fortino. Neil rimase a vigilare sull’auto, e loro gli promisero che ci avrebbero messo poco. Il gruppo, con Max e Will davanti, si muoveva con passo rapido, ansioso, perché la fine di tutto questo era a soli pochi passi di distanza. Arrivarono alla facciata del castello di legna in rovina: essendo il “lord” partito, nessuno se n’era preso cura in questi mesi. La bandiera era afflosciata sul tetto, perché l’asta era quasi caduta, spinta giù dal vento. Le assi erano storte e si notavano anche fratture in alcuni punti. Will era sul punto di commuoversi, d’altronde l’aveva costruito lui, per poi scordarsene completamente quando le cose si sono complicate, lasciandolo a sé stesso. E questi erano i risultati. Ma una volta fuori di lì si sarebbe preso cura di quello vero, che sarebbe tornato a essere il suo piccolo, prezioso, rifugio. 

“Quindi, se ho capito bene, ora entrò in quella tenda e uscirò dal coma, giusto?”

“Si!” Annuí Undi.

“Uhh, cavoli, non pensavo che mi sarei emozionata così tanto. Ma che dire, ci siamo!”

Max sporse lentamente la tenda di lana, ma dall’altro lato, l’aspettava una brutta sorpresa: una coltre di viticci organici bloccava il passaggio, lungo tutta la sua altezza. 

“Che cazzo é questa roba?!” Max cercava di smuoverla, ma erano troppo saldi. 

“È di sicuro opera di Vecna! Sono gli stessi che si trovano nel sottosopra.” Spiegò Will, memore di quando venne imprigionato da essi, quando fu rapito dal demogorgone. 

Max provó a invocare un coltello, poi una fiamma ossidrica, ma era tutto inutile: i viticci resistevano a tutto, perché erano frutto del potere psichico del mago nero. 

“Max, mi dispiace, ma credo che l’unico modo per aprire la porta verso il mondo esterno sia sconfiggere Vecna.”

“Ci ha tesi una trappola, per costringerci a combatterlo in uno scontro diretto. Ma puoi giurarci che lo farò a pezzi!”

“Che cos’è quella roba?!” A sorpresa di tutti, Neil si era avventurato sul percorso, e ora esaminava basito l’intreccio di tentacoli che attanagliava la porta d’entrata del fortino. 

“Caspita, e io che pensavo che l’erba di casa nostra crescesse troppo in fretta! Figliolo, la tua casetta ha un serio problema d’intestazione!” Disse rivolgendosi a Will, paonazzo perché non sapeva proprio come spiegargli cosa fossero. 

“No, Neil! Ti avevo detto di rimanere laggiù!” Si lamentò la figlioccia. 

“Oh sú, se sei venuta a seppellire dei ricordi di Billy e tua madre, potrò anche essere presente io, no? Ero pur sempre il padre di lui e il marito di lei!”

Ora Max si ricordava perché non lo sopportava proprio: era un testone! 

“Ascolt-“

“MAX!” Dal folto bosco fecero capolino Lucas è un esausto Bob.

“Aspetta…anf anf…non sono abituato a correre così tanto…ah…” si fermò ansimante, chinandosi con le mani sulle ginocchia, avendo inseguito Lucas per il bosco. Arrivarono anche Mike e Dustin, che gli porsero una bottiglietta d’acqua per evitare gli prendesse un infarto.

“Ay dios mio…” si fece scappare Arianna, nella sua lingua nativa, alzando gli occhi al cielo.

Lucas, però era più interessato alla fidanzata, andando rapidamente da lei.

“Ma che ti è preso?! Eravamo tutti spaventati per te, temevamo ti avesse rapito un demogorgone! Così, ci siamo divisi per cercarti”

“Hai ragione scusami, ma-“ L’attenzione di Lucas però si spostò, quando notò l’uomo che era accanto a lei.

“Tu! Sei stato tu a portarla via?!”

“Cosa?! No! Ehi, ti giuro che è stata lei a chie-“

“ADESSO BASTAH!” L’oggetto della contesa sbottó, urlando e sbattendo i piedi sul terriccio con un salto.

“Ora statemi a sentire tutti e tre! Guardate quell’albero!” Indicò con un dito una quercia li vicino.

Guardarono dove indicava, confusi se fosse partita del tutto di testa o se avesse visto qualcosa da cui dovessero stare attenti. Improvvisamente, sul largo tronco dell’albero, comparve per magia un faccione fatto di corteccia ma dagli occhi umani. 

“Oh Oh Oh, date retta a Max! Quello che vedete intorno a voi non è reale! Ma tutto un suo sogno! OHOHOH” 

I nuovi arrivati erano allibiti, a bocca aperta. Bob si stropicciava gli occhi.

“Cazzarola! E poi mi prendono per i fondelli perché leggo Il Signore Degli Anelli e mi commuovo per gli Ent!”

“Ma che porc…” sussurrava Neil.

Max prese per mano Lucas, ma rivolgendosi a tutti loro.

“Sono in coma, ma posso controllare cosa ho intorno a me qui! Voi siete i ricordi delle persone che conosco, tranne Undi e Will che sono entrati nella mia testa per aiutarmi ad uscirne. Un tizio con poteri oscuri ha messo lì quei tentacoli…o qualsiasi cosa siano, e vuole uccidermi per fare un sacrificio rituale, che aprirà un varco dal sottosopra, una dimensione demoniaca, facendo invadere Hawkins e il mondo intero dalla sua armata di mostri. Allora, mi volete aiutare a svegliarmi, si o no?”

Passarono secondi, dove la guardavano cercando di metabolizzare tutte quelle informazioni assurde.

“Ehm…ok!” Concluse Lucas.

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Capitolo 13
*** Se volete la pace, preparatevi alla guerra ***


Capitolo 13- Se volete la pace, preparatevi alla guerra

 

Max intraprese un lungo discorso per i nuovi arrivati, dove ricapitolava tutto quello che era successo, cosa stavano cercando di fare prima del loro arrivo e cosa potevano fare per sconfiggere Vecna. 

“Però Undi, dovrei chiederti un favore un po’ particolare: a quanto ho capito, tu e Will avete sviluppato insieme la capacità di rivedere il passato e i possibili passati alternativi delle persone con cui siete in contatto mentale, giusto?”

“Esatto”

“Allora vorrei per piacere, che mi mostraste cosa sarebbe successo se quella sera al supermercato, non ti avessi seguita a casa di Mike, accettando il vostro aiuto.”

“Ma Max, non ti ricordi cosa ti ho det-“

“Tranquillo Will, non ve lo sto chiedendo perché stia rimuginando su cosa è o possa essere successo, ma devo vedere una cosa che ci servirà per farla pagare a quel mostro.”

“Va bene…mi fido di te. Ok, avvicinatevi, così, mettendo tutti una mano sulle nostre spalle potrete vedere anche voi cosa sarebbe accaduto.” Il gruppo seguí il consiglio di Will: una metà toccò lui, gli altri lei. Intanto, Undi mise le sue mani sulle teste di loro due, mentre il fratellastro e la migliore amica entravano in contatto guardandosi negli occhi, e posando i palmi delle mani sulle rispettive guance. Dopo qualche secondo, tutti entrarono in tranche e i loro occhi si colorarono di bianco. 

Se fosse giunto qualche timorato di dio un po’ bigotto e li avesse visti in quel momento, avrebbe creduto di stare assistendo a un rituale satanico, venendogli probabilmente un coccolone.  

Le loro menti divennero spettatrici all’unisono quindi, di un’eventualità quantistica: un passato verificabile ma mai avvenuto.

Sera della vigilia di Natale: Max era serrata di fronte a Jane, entrambe sedute mani nelle mani, sulla panchina fuori dal supermarket. L’aria era fredda per la nevicata avvenuta il giorno stesso, Max tremava come una foglia, nelle giacche leggere e logore che indossava. I suoi occhi incominciarono a vagare confusi.

“Coraggio, andiamo da Mike! Vedrai che starai bene, ci prenderemo noi cura di te!”

Lei però tremava anche per un motivo interiore: ritrovatasi davanti a questa scelta, così improvvisamente, la scombussolava. Perché era stata costretta a trovarsi ridotta così davanti a Undi, la sua migliore amica? Non voleva che anche gli altri la vedessero in questo stato, e dover chiedere loro l’elemosina per l’ennesima volta! 

Ruppe la stretta delle mani, spaventando l’amica che non se l’aspettava proprio. 

“Basta Undi! Non voglio il vostro aiuto, non siete i miei genitori…” l’ultima frase gli morí in bocca: d’altronde, proprio loro l’avevano abbandonata. 

“Ma che cosa dici?! Siamo sempre stati felici di aiutarti, gli amici fanno questo e altro!”

“Beh, evidentemente io non sono sempre stata felice di essere aiutata da voi!”

Questa ultima affermazione ferì dentro Undi, che con occhi umidi iniziò a scuotere la testa incredula.

“Questa non sei tu Max…che ti è successo…”

“Me lo chiedo anch’io…Forse la Max che conoscevate è morta…quella sera, insieme a Billy!”

Scoppiò in lacrime, e comprese cosa doveva fare: andarsene di lì e farla finita con questa farsa. Afferrò lo zainetto, e incominciò a correre, correre più velocemente che potesse. 

“Max aspetta! Ma cosa stai facendo?!” Niente da fare, nulla la poteva fermare da scappare via. 

Arrivò a casa esausta, ma sentendosi finalmente al sicuro. Quella topaia era il suo rifugio, nessuno sarebbe venuta a dirle cosa dovesse fare a casa sua. Aprí lo zainetto, incominciando a tirare fuori tutte le cose che era riuscita a sgraffignare dal supermercato. Alla fine era riuscita a riempirlo, rivelandosi un abile ladruncola. D’altronde sceglieva sempre la classe della ladra, quando giocava con loro a D&D; forse le aveva portato fortuna. Prese un pacchetto di patatine, iniziando a mangiarle voracemente: era la prima cosa che metteva sotto i denti quel giorno. Una curiosa sorpresa condì la cena: Max sentí degli squittii, provenire da sotto la sedia, vicino i suoi piedi. Abbassò lo sguardo nella direzione da cui provenivano, e trovò uno di quei topini che affollavano casa sua, guardarla con i suoi occhietti neri, come per chiederle qualcosa.

“Che c’è piccolino, ne vuoi una, eh va bene! Avrai fame anche tu, e a Natale si deve essere buoni…ti scuso per aver mangiato i miei soldi, ma non farlo mai più, intesi?” Si accucció, posandogli sul pavimento una patatina, su cui L’animaletto si avventò, sgranocchiandola mentre la teneva ferma con le zampine.

“Woo Ooh! Sono la regina dei ratti!” Esultò alzando le braccia al cielo, come un tifoso del baseball, al momento di un fuori campo. Non le serviva nessuno, se le fosse mancato qualcosa, se lo sarebbe preso da sola come aveva fatto oggi. Ma ancora una volta, quando credeva di avere delle certezze, queste crollarono subito. 

La porta di casa si spalancò e sua madre entrò di corsa, con grandi e piene buste della spesa nelle braccia. 

“Mamma è a casa Maxine! Una mano sarebbe gradita: pesano molto.” Lei rimase inizialmente bloccata dalla sorpresa, ma alla fine si sbloccò e le andò in contro, aiutandola a posare le buste della spesa sul tavolo della cucina. 

“Sei tornata in anticipo!”

“Eh già, mani hanno pagata bene, così mi sono fermata con l’auto a un supermarket sulla statale, e ho fatto il pienone per il frigo.”

Posate le buste, prese di sprovvista la figlia in un abbraccio tenero e caloroso, mentre le accarezzava la testa. Si vedeva che le fosse mancata, facendo uscire di nuovo quelle premure materne che ultimamente aveva espresso meno. Aveva deciso che coccolare sua figlia, doveva avere la precedenza sul mettere a posto la spesa. Max dal canto suo, non chiedeva altro dopo la tristezza di quelle giornate; affondò quindi il mento sulla spalla di sua madre, mentre si reggeva a lei.

“Mi sei mancata…”

“Anch’io piccola, non c’è giorno che non pensassi a te e fossi in pena per come ci siamo lasciate. Abbiamo passato un brutto periodo, ma ora andrà tutto bene” Lei rispose annuendo.

Susane Mayfield le sollevò il mento, per guardare in volto sua figlia, e vedendo come fosse ridotta, una lacrima rigó il suo, mentre le accarezzava la guancia smunta e segnata dal freddo.

“Guarda come sei sciupata, tesoro mio…sei così magra…” Anche lo sguardo di Max si intristiva, conscia delle condizioni in cui era.

“Lo so mamma…purtroppo…non avendo potuto mangiare molto ultimamente, questo è il risultato…” 

“É colpa mia, ma ti prometto che non soffrirai più la fame. Adesso che ho trovato questo lavoro part-time, i soldi non saranno più un problema. Infatti, ora ci facciamo una bella cenetta io e te, ok?”

Lei le sorrise, felice di ricominciare ad avere momenti affettuosi con lei.

“Come sono stati questi giorni, tutta sola soletta?”

“Ah…bene, solo un po’, noiosi…” non poteva di certo dirle cosa avesse fatto: le sarebbe venuto un coccolone. Doveva quindi fare la gnorri, sperando che nessuno facesse la spia. 

Sua mamma intanto aveva cominciato a disporre la spesa tra la dispensa e il frigo, ma continuandole a parlare nel frattempo.

“Certo che, anche se ero via, potevi pur vederti coi tuoi amici ogni tanto eh? Non mi sarei mica arrabbiata se fossi uscita a farti un giro con Lucas e gli altri…non sei più una bambina piccola, e Hawkins non è grande come Los Angeles. Ultimamente stai sempre chiusa in camera dopo scuola, non ti fa bene!”

“Ma mamma, é solo che…ho appena iniziato il primo anno delle superiori, volevo concentrarmi questo semestre su prendere buoni voti. Così sarà meno difficile il resto dell’anno.”

“Suvvia sciocchina, a me fa piacere che ti impegni; ma si va a scuola anche per imparare a socializzare, specialmente quando ci si è trasferiti da poco. Lo sai che anche i tuoi prof sono preoccupati più per il tuo atteggiamento che per i voti?” Max sospirò.

“Questa è bella: non gli basta che vada bene a scuola?”

“Certo che no! Sono d’accordo con loro: non si va a scuola per stare tutto il tempo chini sui banchi Maxine! Devi anche divertirti stando con i tuoi coetanei. Perché non provi a partecipare a un attività extra scolastica, o a unirti a un club?”

“Uff, dovrei giocare a D&D con quegli strambi dell “Helfire Club?”

“Tra di loro ci sono Dustin, Mike e Will, sono anche loro strambi?”

“Gli voglio bene, ma sí, sono strambi! Allora preferiresti che mi unissi alle cheerleader, sgambettando e facendo capriole per piacere a quelli della squadra di football?”

“Io ti ci vedrei: oh, saresti adorabile con una di quelle divise verdi; e nella squadra c’è Lucas, no? Sono sicura che anche lui apprezzerebbe. Brava come sei a fare acrobazie sullo skateboard, saresti capace anche di fare capriole, giravolte e spaccate, no?” Max però sbuffava roteando gli occhi, non riuscendo a farle comprendere che il punto non fossero questi hobby in sè, ma l’insofferenza verso la gente, che provava ultimamente.

“È questo tuo modo di fare il problema: Mr. Ronald, il tuo prof. di inglese, mi ha addirittura detto che spesso, quando uno dei tuoi nuovi compagni di classe cerca di fare amicizia con te, tu li allontani rispondendogli male.”

“Se non ho voglia di parlare, si devono fare gli affari loro! Scommetto che hanno tutte queste premure con me, soltanto perché sanno del lutto di Bil…” si fermò un attimo strozzata nella voce.

“Ehi, tutto ok?”

“Si…si, quello che intendevo dire è che la psicologa della scuola, avrá fatto una testa così agli insegnanti su quanto sia un periodo difficile per me; così mi stanno sempre tutti col fiato sul collo, a chiedermi se sto bene, se mi serve qualcosa…quando vorrei solo stare un po’ da sola…”

“Non fa bene isolarsi troppo; sono passati dei mesi ormai…” Susan fermò il suo trafficare, per mettersi faccia a faccia con lei.

“Facciamo così: se non vuoi farlo per dare il contentino ai tuoi insegnanti, proveresti almeno a fare un po’ di amicizia per me?”

“Eh va bene…per te posso sforzarmi di farlo…” Sua madre le diede un bacio sulla guancia, per poi finire il lavoro di sistemazione.

“E i soldi ti sono bastat…” Rialzando lo sguardo e vedendo cosa c’era sopra il tavolo di fermò confusa. 

“Cazzo!” Pensò nella sua testa Max: si era scordata che quello che aveva “preso in prestito” era lì in bella vista.

“Max, da dove viene tutta questa roba? È tutta nuova! Ma non ti avevo dato così tanti soldi da poter comprare così tanto…” Ora si era messa le braccia sui fianchi, guardandola con fare severo e inquisitorio.

“Mamma, io ti giuro che-“

“Signorina! Sputa subito il rospo, che le bugie hanno le gambe corte, e io poca pazienza!” Max tentennava agitata, cercando di inventarsi qualcosa. Ma alla fine, decise che non poteva fare altro che svuotare il sacco e sperare che comprendesse le due ragioni.

“Le ho rubate, ok?!”

Sua madre rimase di stucco, non aspettandosi una risposta di tale gravità. 

“COSA HAI FAT-“

“Ah facile per te giudicarmi, ma i topi si erano mangiati i soldi, dovevo fare qualcosa, no?!”

“Dovevi stare attenta, allora! Lo sai che questo posto è infestato da animali: viviamo letteralmente in mezzo al bosco! E poi non hai visto che ti ho lasciato un numero per chiamarmi in caso di emergenze, lì sul frigo?! Ti avrei mandato dei soldi!” 

Max guardò l’elettrodomestico, ed effettivamente vide che c’era un foglietto con un numero scritto sopra, tenuto su da una calamita. “Ma sono scema!” Si disse da sola nella sua testa: tutto quello che avrebbe dovuto fare in questi giorni, sarebbe dovuto essere semplicemente alzare la cornetta e chiamarla. Cazzo, era arrivata addirittura a frugare nella spazzatura! Ancora una volta, sarebbe bastato chiedere aiuto…

“E non cambiare discorso: tu non sei una ladra, non hai mai fatto niente del genere! Ti rendi conto che è un reato?! Se ti avessero scoperto, e speriamo che non lo facciano, saresti potuta finire in un riformatorio!” Max non c’è la faceva più a sentirla sbraitarle in faccia.

“Adesso basta! Credevo che saremmo andate d’accordo e invece ricominci ad urlare come al tuo solito! Ho sbagliato va bene?! L’ho detto, ma vogliamo parlare di te?! Lo hai ammesso anche tu, no?! E sai qua l’è il tuo problema mamma?! Che sei una ubriacona!” Gli occhi di sua madre rivelarono tristezza e rabbia, dal sentirsi dire certe cose da sua figlia. 

“Quel giorno eri così brilla che non me ne hai parlato proprio del foglietto! Hai preso e te ne sei andata! Mi hai abbandonata! E lo vedo anche adesso nei tuoi occhi e nel tuo alito, non mentire: hai bevuto! E il bello è che hai anche guidato nel frattempo; potevi schiantarti contro un albero e sarebbero venuti a dirmi che sei morta! Ma non ci pensi a me?!”

“Penso di continuo a te! Mi faccio un mazzo cosí per cercare di tenere insieme quello che rimane della nostra famiglia: tu sei tutto quello che mi rimane nella vita Maxine!”

“E allora perché bevi come un mulo?! Perché anziché comprarti la birra, non prendevi di più da mangiare?! Se sono così magra è colpa tua!” Susan non seppe rispondere a questa domanda, perché sapeva che sua figlia aveva ragione. 

“Non è colpa mia se Billy è morto e Neil ti ha abbandonata, hai capito?!” Lo sfogo di fermò e riprese fiato, ancora rosso in volto.

“Io questo non l’ho mai detto…”

“Ma lo hai pensato…”

Silenzio.

“Non ti riconosco più Maxine…” nella sua testa immagini della ragazzina sorridente e vivace che era sua figlia, scorrevano in un colorato fiume di ricordi.

“Non lo so mamma, me lo chiedo anch’io di te…”

Sua madre iniziò a piangere lentamente, si asciugò le lacrime, e si mosse verso la porta di casa.

“Dove vai?!”

Nessuna risposta, la porta sbattè e sua madre scomparve di nuovo. 

Max si sedette al tavolo, pensando a braccia conserte. Davanti a lei c’era un tubetto di smarties. Mamma sapeva che lei ne fosse ghiotta, e l’aveva quindi lasciato lì per festeggiare il suo ritorno;  ma poi era andato tutto in vacca, come sempre ultimamente…

Max lo colpí furiosamente con il braccio, facendolo volare per terra, e grugnendo di rabbia nell’atto, non potendone sopportare la vista, perché le ricordava la sua colpa. 

Passarono alcuni minuti, e stanca di stare lì a rimuginare, salí in camera. Si mise addosso uno dei suoi tristi pigiami invernali, si sciolse i capelli e infine,  si buttò sotto le coperte. Erano solo le 17, ma forse il sonno le avrebbe dato ancora un po’ di pace.

La suddetta pace non durò a lungo: tempo dieci minuti e il campanello suonava. Ma lei non perse tempo. Inforcò ai piedi le buffe pantofole rosa di peluche con le orecchie da coniglio, e corse giù dalle scala. Sperava con tutta sé stessa che fosse sua mamma, per poterle chiedere scusa; i sensi di colpa la stavano ammazzando. 

“Mamma non volev-“ rimase bloccata alla vista di chi c’era sulla soglia.

Era il party al completo: Undi, Mike, Will, Lucas e Dustin. 

“Ragazz…che ci fate qui?”

“Dobbiamo parlare: li ho riuniti io dicendogli del nostro incontro!” Fece da portavoce Jane. 

“Tu non stai bene Max, lo vediamo da qui, lascia che ti aiutiamo ancora una volta”. Aggiunse Lucas. Ma lei titubava ancora.

“Ma-“

“No! Non trovare scuse, non ci scolliamo da qui!” Dustin si mise con le braccia conserte, venendo mimato prontamente da Lucas, affianco a lui. 

“Senti, ci faresti entrare e ne parliamo con calma?” Mike tentò una via più diplomatica. Lei abbassò gli occhi, e messasi laterale alla porta, gli fece cenno di entrare con la mano.

“Ok…” sussurrò rassegnata. 

Chiusa la porta, si sedette con loro sul tavolo.

“Belle ciabatte!” Le disse Lucas, riferendosi ai coniglietti rosa che portava ai piedi. Lei rispose con un mezzo sorriso, rivolto a lui.

“Scemo…” lui contraccambiò sorridendole e poggiandole una mano sulla spalla mentre si sedeva. Ora però che si era sistemata, i pensieri ricominciarono a girarle in testa, facendola rabbuiare di nuovo. 

Will posò sulla tavola qualcosa che teneva in mano, ma essendo dietro a tutti gli altri del gruppo, lei non lo aveva notato prima: un cartone di pizza deliziosamente fumante.

“Tieni, questa è per te: salame piccante e patate, Undi ci ha consigliato cosa ti potesse piacere. Buon appetito!” L’acquolina le saliva rapidamente in bocca, e guardava con desiderio quella pizza, come un cane con l’osso. Poi però, ancora una volta, l’odio per se stessa la fece desistere.

“Si può sapere perché vi state tanto preoccupando per me? È la vigilia di Natale: dovreste stare a festeggiare con le vostre famiglie, essere felici; invece che passare il tempo con questo scarto umano…” diceva mogia, con sguardo basso.

“Ma senti le idiozie che dici?! Max! Tu non sei assolutamente uno scarto umano!” Arringava a difesa di Max stessa, Undi, sporgendosi verso di lei dal tavolo. Era scioccata come tutti, nel sentirla commiserassi, anzi, schifarsi in quel modo. 

“No! Non è vero! NON È VERO! Faccio schifo e mi merito tutto quello che mi sta capitando. Oggi ho frugato in un cassonetto, poi ho rubato, fatto a botte e per concludere ho insultato mia madre. E poi dico io, guardatemi! Sono brutta, la mia pelle è tutta rovinata, i miei capelli sbiaditi. Non posso vedermi allo specchio da quanto sono magra. Sembro un cadavere che cammina!” 

“Ma non è colpa tua se i problemi economici della tua famiglia, ti hanno costretta a patire la fame. Anzi, se proprio ti dovessimo incolpare di qualcosa, non avresti dovuto allontanarci da te, quando volevamo solo continuare ad aiutarti.” Questa volta Mike, già proprio Mike su tutti, aveva colpito nel segno. Max alzò gli occhi lucidi su di lui, con senso di colpa. “Mamma e il prof di ginnastica dicono che mangio troppo: se vuoi ti passo volentieri un po’ di ciccia!” Sdrammatizzò Dustin, mostrando un rotolo di pancia, che stringeva tra le mani. Max era sul punto di scoppiare a ridere, ma quella vocina nella testa non voleva proprio lasciarla andare, sussurrandole che non si meritava di essere felice. 

“Ultimamente penso che dovrei morire, così smetterei di rendere infelice me e chi mi sta intorno…si, sarebbe la cosa giusta: voglio morire e far finire questo dolore!”

“Non dirlo neanche per sogno! Non ti immagini quanto starei male se succedesse…” Intervenne Lucas, stringendole la mano così forte, da farle quasi male.

“Questi pensieri li hanno tante persone che soffrono di depressione, in seguito a eventi traumatici come te.” Questa volta fu Will, il saggio del gruppo, a cercare di infonderle un po’ di speranza. “Ma devi considerare che se morissi ora, il dolore non finirebbe veramente,lo passeresti soltanto a chi ti sta intorno e ti vuole bene: a noi, i tuoi amici, a tua mamma!” Max rimase impressionata dal ragionamento: non ci aveva mai pensato, ma era vero! Se si fosse veramente lanciata sotto quel camion qualche ora prima, nessuno ne avrebbe giovato, perché tutti sarebbero stati in lutto, come era lei ora per Billy. Avrebbe scaricato un peso ancora più grosso, una staffetta di tristezza e disperazione a chi le è più cara. Anzi, sarebbe stato anche peggio, perché Billy era morto sacrificandosi, mentre lei si sarebbe solo tolta la vita. Come una codarda…

“Max, ascoltami: io c’ero quella sera con te, e ho visto che Billy è morto  salvando la vita a te e a noi. Era un eroe! Vuoi veramente buttare via il suo sacrificio in questo modo?” Le fece la fatidica domanda Lucas.

“No…”

“Esatto! Abbiamo solo 14 anni, non è tempo di pensare alla morte. Abbiamo ancora tutta la vita d’avanti, mille esperienze ed emozioni ti aspettano!” Aggiunse Undi.

“Avete ragione, che stupida che sono…basta, devo smetterla di commiserarmi, voglio vivere.” Max si asciugava le lacrime.

“Ma la prima cosa che dovrò fare sarà chiedere scusa a mamma, chissà dov’è finita…”

“Guarda che è qui fuori: sta piangendo in auto.” Disse Dustin, indicando col pollice la porta.

“Davvero?! Non è scappata via un altra volta?!”

“No anzi, quando siamo arrivati le abbiamo bussato al finestrino per chiederle se stesse bene, e lei era felice di vederci,  ci ha chiesto di entrare a parlarti.”

“Devo andare da lei!” Max corse più veloce che poteva, spalancò la porta ed uscì.

“Ehi, aspetta! Mettiti una giacca, fa freddo!” Ma la foga era troppa. 

Il gruppo la raggiunse fuori, trovandola abbracciata alla madre sul prato, entrambe singhiozzandosi scuse a vicenda. Poi entrarono tutti, e mentre Max e sua mamma mangiavano la pizza in due, i ragazzi intonarono un canto di Natale che si erano preparati. Fu una bella serata, la prima di tante, dopo tanto tempo.

Il gruppo uscì dalla visione, e tutti ritornarono alla finta versione di Hawkins nel coma.

“Wow…” Undi si stropiccia a gli occhi, emotiva come al suo solito.

“Grazie, vi voglio bene!” Max abbracciò lei e Will.

“Voglio bene anche a voi ovviamente, ma sapete com’è, loro esistono veramente…”

Le immagini mentali degli altri suoi amici e Neil, annuirono, con varie gradazioni di comprensione.

“Oh, cavoli, sta funzionando davvero!”

“Cosa Max?” Le chiede Will.

“I miei ricordi dei mesi precedenti lo scontro con Vecna e il mio coma! Avevo ragione: vi ho chiesto di farmi vedere cosa sarebbe successa quella sera, perché così ho stimolato il mio cervello a ricordarsi cosa è successo davvero.”

Nella sua testa infatti, stavano scorrendo flashback di eventi, buoni e brutti, che avevano segnato la sua vita da gennaio all’aprile 1986. Tra quelli più negativi c’era il dolore delle sue ossa che si rompevano, mentre Lucas inerme la vedeva fluttuare in aria e Vecna credeva di avere vinto. Ma poi Jane, con la forza della disperazione era riuscita a liberarsi dai viticci e salvarle per un pelo la vita. Il suo cuore stava battendo per l’emozione, al ricordo del potere mentale che l’aveva fatto ripartire a forza. Ma anche ricordi più sereni, nel tumulto di quella settimana, le balzarono a mente: Dustin che cercava di farla venire a giocare a D&D, l’ultima sera della campagna del “Hellfire Club”. Lucas che la invitava alla sua prima partita di Basket. Jane che le faceva arrivare lettere, raccontandole quanto le mancasse, Will con le sue premure sul mangiare abbastanza e sano. Ma anche il giorno della verifica di matematica, quando il naso incominciò a sanguinarle di punto in bianco. Mike, che le era seduto accanto, lo notò subito e si preoccupò per lei. 

“Che carino, lo tratto sempre male, ma è stato il primo a notare che ci fosse qualcosa che non andasse…”

“Di chi parli?”

“Di Mike: un giorno a scuola, mi vide sanguinare dal naso come capita a te, e mi consigliò di vedere un medico, ma io ero troppo assorta dai miei pensieri per rendermi conto che ci fosse qualcosa dietro. Solo quando abbiamo letto i fascicoli sugli altri ragazzi morti, ho capito cosa mi stesse succedendo.” Si volse verso la proiezione mentale di Mike.

“Grazie…” 

“Oh, Di niente…ma non dovresti piuttosto ringraziare il vero me la fuori?”

“Già è vero! Undi ringrazia Mike da parte mia.” Undi rimase un attimo in attesa, stando parlando nel mondo reale. Per poi rivolgersi di nuovo a lei.

“Oh oh, sta diventando ancora una volta rosso come un peperone: Mike, sei incorrigible! Ahah.” Anche Max sorrise.

“Ok, ascoltatemi: ho un piano per sconfiggere Vecna!” Tutti le si fecero vicino, chinandosi in cerchio e bisbigliando, come quando una squadra di football ripassa gli schemi in campo. 

Mezz’ora dopo, il gruppo si divise. Undi e Will arrivarono ai sobborghi di Hawkins, gironzolando per le stradine deserte e guardando le vetrine, come se nulla fosse e non si trovassero nella mente in coma della loro amica.

“Ma guarda che bella televisione!”

“Già, è così grande che puoi farci un piccolo cinema in camera. Peccato che non abbiamo un mobiletto abbastanza grosso dove metterlo.”

Una sinistra presenza li osservava e pedinava dai tombini lungo la strada. Stufo di seguirli a vuoto e confuso dal loro comportamento, l’essere si lanciò fuori dal buco e afferrò con furia Jane dal collo.

“Mi state prendendo per i fondelli?! Che diamine state facendo?!”

“Ehi lasciala stare!” Will tirava calci all’essere mostruoso, cercando di fargli lasciare la presa ma senza successo.

“Tu non vincerai…hai già perso…” Undi parlava a fatica, essendo stretta alla trachea. Il mostro la guardava con occhi iniettati di sangue: aveva in parte recuperato la sua forma “aliena”, ma portava ancora i segni delle molotov lanciategli contro da Nancy, Robin e Steve. La guancia era aperta, rivelando in parte la dentatura della mandibola destra. Gli mancava anche un occhio, a causa dell’acido che Max gli aveva lanciato dal buco del lavandino. Ma non era tutto: sembrava che stesse mutando. Tutt’intorno a lui si andavano formando protuberanze ed escrescenze, come se fossero degli arti in via di formazione. Sulla testa poi, sembrava esserci l’accento di un corno, sporgente diagonalmente sul lato destro. 

“Basta giochetti Undici! Dovresti aver capito che sono più potente di te; ti ho dato la possibilità di prendere il mondo insieme, nelle nostre mani di esseri superiori. E tu l’hai gettata via per cosa?! Una casetta di legno, waffles a colazione e quel ragazzino scemo che ti corre dietro?!” 

“Ora ho una famiglia e degli amici: quello che non avrai mai tu. Hai ucciso i tuoi cari perché non ne comprendevi il valore.”

“E tu Will, ti avrei reso il mio avatar. Hai sempre giocato a essere un grande mago; se solo avessi accettato il mio dono, ora avresti poteri magici incredibili!” 

“Puoi tenertela quella nube nera! Mi avresti costretto a fare male alla mia famiglia e ai miei amici, non lo farei mai!” Undi cercò di attirare di nuovo l’attenzione su di sè: 

“Henry, ti prego ascoltami: sono convinta che ci sia del bene in te: mi aiutasti a scappare dagli esperimenti di papà, non volevi che mi facesse male. Per favore, fermati e cerca di capire che distruggere il mondo non ti renderà felice.” 

“Mi stai veramente facendo la morale?! Tu non puoi minimamente comprendere la portata dei miei scopi; tu e i tuoi amici siete solo microbi nel mio piano per il mondo! Non è più tempo delle chiacchiere: dimmi dov’è la mocciosa dai capelli rossi o giuro che-”

“VECNAAAAAAAAAAAAAAAA!”

Lo stregone oscuro si voltò con ardore, ma anche terrore da quanta terribile rabbia c’era in quel grido. Ma appena girata la testa, venne colpito sul muso da un idrante. L’impatto lo costrinse a lasciare la presa, permettendo a Undi di liberarsi e scappare con Will. Si massaggiò il volto dolorante, per poi guardare chi glielo avesse lanciato. 

In fondo alla strada, in piedi sulla linea di divisione delle corsie, Max con i pugni stretti e l’ira negli occhi lo scrutava. Ai suoi lati, la schiera degli amici, a cui si aggiunsero anche Undi e Will, le copriva le spalle, rivolti anche loro nella stessa direzione. Non era sola in questo scontro. 

“Hai finito di rovinarmi la vita, bastardo!”

“Ti sei fatta coraggiosa. Credi di potermi veramente fermare?!”

“Certo! Siamo qui per finire questa storia una volta per tutte, noi ti uccideremo!”

“Allora fatti sotto…” la beffava facendole segno con le mani di avvicinarsi. 

“Arrivo!” 

E la battaglia finale ebbe inizio.

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Capitolo 14
*** Tremate Malvagi: arriva la JHL: Justice League Of Hawkins ***


Capitolo 14- Tremate malvagi, arriva la JLH: Justice League of Hawkins!

 

“Arrivo!” 

“Ma per favore…cosa pensate di poter fare realisticamente contro di me?” Vecna li sbeffeggiava, come fanno le babysitter con i bambini capricciosi.

“Ho una sorpresa in serbo per te. Non hai notato niente di strano, in cielo, nell’aria?”

L’essere iniziò a guardare in alto incuriosito. In effetti notò che il cielo era stranamente sereno, e ora che ci faceva caso (anche perché non aveva di certo la normale percezione del calore, di noi comuni mortali), l’aria non era più fredda, anzi un caldo estivo pervadeva l’ambiente. Loro poi, non indossavano più vestiti invernali, ma altri più leggeri.

“Ma che cosa-“

“Vedo che hai compreso: sto recuperando lentamente coscienza. Infatti, il mio subconscio ha capito che non ci troviamo piú a dicembre 1985, ma a maggio del 1986; quindi sto percependo la differenza di temperatura del mondo esterno anche qui nel sogno. Una volta svegliatami, il tuo piano sarà fallito!”

“Non se ti uccido prima…questo non cambia niente, dovrò solo fare più in fretta.”

Max sorrise incrociando le braccia.

“Ne sei così sicuro? Vedi, essendo più cosciente di prima, i miei poteri immaginifici stanno aumentando. Guarda qui!” Alzò un pugno al cielo. 

Un grande flash di luce si diffuse da dove era il gruppo dei nostri eroi, abbagliando Vecna. Quando scomparve non poteva credere ai suoi occhi: davanti a sé non c’era più un gruppo mal assortito di ragazzini e adulti, ma sempre le stesse persone con addosso i costumi dei supereroi, che leggeva quando era ancora un (quasi) normale bambino. Max, davanti a tutti nei panni di Wonder Woman, che sorrideva nella sua direzione, beffarda e orgogliosa, con le mani sui fianchi, nella famosa posa della sua eroina. I suoi amici stavano intanto osservando stupefatti i loro travestimenti, che rispecchiavano come lei li pensasse: Undi era Zatanna la maga prestigiatrice e telepate, Lucas Superman perché era il SUO Superman personale, Dustin Lanterna Verde perché era il più ingegnoso del gruppo, Mike Acquaman per la sua faccia da pesce lesso, ma anche perché era sempre disposto a proteggere i suoi amici; Bob Shazam perché oltre a essere il suo supereroe preferito, lui riusciva a infonderle forza e coraggio, ma anche perché sotto sotto era ancora un bambino con un grande cuore. Tommy e Arianna erano Hackman e Hawkgirl, perché erano volati fin qui dalla California per aiutarla. 

“Ehm…scusami Maxine, ma perché io ho delle saette attaccate ai piedi?” Chiese Neil, non molto studiato in materia di supereroi.

“Sei Flash, l’uomo più veloce del mondo: perché sei stato velocissimo a scappare dalle tue responsabilità.”

“Uhm…penso in effetti di meritarmelo…”

“Ehi, guarda che è uno dei più forti supereroi, e personalmente mi piace molto”. La figlioccia gli fece l’occhiolino.

“Oh, grazie!” L’uomo si stava genuinamente intenerendo, avendo ricevuto per la prima volta dei sinceri complimenti da lei.

E Will? Will al contrario degli altri non era un supereroe, ma bensì un mago di Dungeons and Dragons. Non aveva però addosso quel pacchiano costume viola da carnevale che indossava durante le loro sessioni, ma un elegantissima tunica blu, con tanto di mantello in seta e in cima un colletto di pelliccia, che gli donavano un aura di potere e saggezza. 

“Max…grazie! Hai esaurito il mio sogno!” Lei gli si avvicinò dandogli un affettuoso pizzicotto sulla guancia. 

“Visto che ti conosco meglio di quanto credi?”

“Ma che?! Mi stai prendendo in giro?!” Vecna non capiva se fosse solo un altro diversivo.

“Neanche per sogno! Guarda che questa non è una semplice mascherata: abbiamo veramente i superpoteri!” Max tirò un poderoso pugno a un auto, facendola volare in aria e schiantandola a due isolati di distanza. 

Vecna si stava allarmando, avendo previsto erroneamente che la sua vittima non potesse difendersi, e come l’altra volta l’unica che avrebbe dovuto tenere sottocchio sarebbe dovuta essere Undici. Poi però scacciò questi pensieri: quanto mai poteva essere forte, se rimaneva comunque uno scontro mentale e lui era il più potente telepate tra i presenti? Inoltre, come avrebbe constatato Max di lì a poco, in seguito al rituale, pur non concluso, il suo potere aumentava e aumentava, pian piano che il sottosopra si infiltrava nel mondo reale. 

“Allora coraggio, fatti sotto!”

A sua sorpresa, la ragazzina iniziò a marciare decisa e furiosa, senza un attimo di esitazione.

“Per ora state indietro, voglio spaccargli la faccia con le mie mani”.

“Oh oh oh! Ma sentila: anziché scappare terrorizzata come l’ultima volta, stai venendo dritta verso di me!”

“Certo: ti prenderò a calci in culo da qui al sottosopra…”

Infine giunse di fronte a lui. I due si fissavano negli occhi in cagnesco, aspettando che l’altro facesse la prima mossa. L’iniziativa fu di Max.

“Muori!” Iniziò a lanciargli contro una raffica di velocissimi e super potenti pugni, urlando tutto il suo odio nei suoi confronti.

“AAAAAAAAH!”

Anche Vecna aveva sviluppato dei super poteri e cercava di parare tutti i colpi a una velocità sovrumana. 

“Inutile inutile inutile INUTILE!”

Un gancio riuscì a evadere le sue difese, colpendo di striscio lo zigomo del mostro, facendolo sanguinare. 

“Niente male…ma sei ancora troppo debole!” Un destro era diretto verso il volto di Max, che alzò le braccia a sua difesa. Riuscì così a parare il colpo, ma l’onda d’urto era così forte da sbalzarla indietro di una decina di metri. I suoi piedi, saldi al terreno, raschiarono il cemento lasciando su di esso la scia. Max annaspava dalla fatica: se fosse andato a segno sarebbe già morta, non poteva esporsi in questo modo da sola. 

“Ok ragazzi, mi serve il vostro aiuto”. Tutti annuirono decisi.

“Non così in fretta bimba: anche io ho portato i rinforzi.” Tirò fuori dal buco dell’occhio mancante un seme. Poi spaccó il cemento con un pugno, aprendo all’aria la terra antistante. Inserì nel buco il seme, e si spostò oltre questo, mentre da lì andava formandosi un tronco. La struttura lignea cresceva a dismisura, alzandosi a una velocità impressionante su per il cielo. Raggiunta una certa altitudine, dal busto principale si propagarono dei possenti rami, che completarono così la forma di questo albero stregato. Sarà stato alto almeno 100 metri, nessun edificio in Hawkins raggiungeva certe grandezze; in effetti, era la cosa più alta che molti dei presenti avessero mai visto in vita loro. Non aveva foglie, ma alle appendici dei rami stavano crescendo dei bozzoli, di grandezze molto variabili tra loro. 

“Che cos’è?!” Chiese Max, rivolta al mostro. 

“Il seme della follia. Una parte di sottosopra che ho portato con me, per far conoscere alla tua testa direttamente l’orrore che ti aspetta nel mio reame.”

Il cielo si stava colorando di rosso, e nuvole temporalesche trepidanti di folgori iniziavano ad affollarla. Non c’era dubbio: era il cielo del sottosopra. 

Ma no era tutto: i frutti dell’albero stavano sbocciando. Da essi caddero a terra le peggiori creature che la dimensione oscura potesse offrire. Demogorgoni, democani, demopipistrelli e un essere gigantesco a tre teste di fiore e una lunga coda accumunata sulla punta. Infine ce n’era uno che Max conosceva fin troppo bene: il mostro a quattro zampe che aveva ucciso Billy. Vedendolo le venne istintivo digrignare i denti dalla rabbia del ricordo di lui trapassato da  ti li artigli del mostro, e lei che urlava disperata il suo nome. 

“Non va bene! Quella cosa allontanerà la tua mente dalla realtà, per farla sprofondare nel suo potere!” Si disperava Will, scuotendo le spalle dell’eroina, ancora fissata sulla creatura. Si rivolse a lui, prendendogli le mani, seria e sicura negli occhi.

“Will, credimi: oggi non perderemo, il piano funzionerà!”

Undi intanto, si rivolse agli altri:

“Ok, ascoltatemi tutti bene: solo i veri esseri umani possono uccidere altre persone in uno scontro mentale, quindi voi occupatevi dei mostri e di bruciare il “Demo-Albero”; mentre noi sconfiggeremo Vecna!” 

“Si!” Esposero all’unisono.

“All’attacco!” Max li lanciò alla carica col pugno alzato, con Will e Jane ai suoi lati. Una parte del gruppo corse loro dietro, mentre chi poteva volare si alzò in cielo. Dall’altro lato, l’orda demoniaca gli si lanciò contro in un coro di terribili versi, mentre il loro oscuro signore rimaneva in disparte, pazientemente aspettando che i suoi nemici giungessero a lui, per colpirli al momento giusto. 

I due schieramenti si scontrarono a metà strada e iniziò un furibondo scontro:

Mike falciava demogorgoni e democani col suo tridente.  Arianna e Tommy colpiscono in un unico colpo delle loro mazze ferrate un demogorgone, facendolo schiantare contro uno stormo di demopipistrelli, che caddero spappolati al suolo. Dustin generó intorno a sè, col potere della lanterna verde, un megazord grande quanto il colosso di Vecna, battagliando con lui. 

“Neil, vedi quel mostro? È stato lui a uccidere Billy!” Max indicò al patrigno l’abominio dello Starcourt Mall. 

“Davvero?! Adesso me la pagherai!” L’uomo corse a velocità supersonica, prese delle sbarre di metallo da un cantiere a qualche isolato di distanza, e tornò indietro per conficcarle nelle zampe dell’essere, bloccandolo a terra. Una raffica di pugni supersonici investí il brutto muso del mostro. 

“Questo è per mio figlio, bastardo!” L’ondata di energia propagata dai pugni illuminava come un faro. La testa della bestia esplose, lanciando in lungo e in largo pezzi di polpa rossa. Neil ora riprendeva fiato, seduto sul prato a lato della biblioteca pubblica, esausto per lo sforzo.

“Ah…ah…mi serviva proprio!” Si distese a braccia all’aria sull’erba bagnata dagli innaffiatori automatici. 

Intanto lo scontro tra Dustin e il bestione era giunto a un punto di stallo: bloccato il gigante, tenendolo stretto al collo, non poteva però muoversi a causa dei tentacoli parte del suo corpo, che lo stavano aggrovigliando. Bob giunse in soccorso, correndo sopra la mano di Luce, verde verso la testa a fiore. La pianta si aprí pronta a divorarlo, ma lui nel frattempo aveva già preparato un boccone ben amaro.

“Shazam!” Il suo pugno lanciò una folgore roboante. Il fiore venne avvolto dalle fiamme, la bestia urlò dimenandosi. Dustin, finalmente libero ripartí al contrattacco. Un raggio verde smeraldo, partí dalla colossale armatura ologramma,  spezzando in due il nemico. I servi di Cecna cadevano come mosche, e ora che si era aperto un varco nella loro formazione, Super Lucas poté volare contro il demo albero e bruciarlo con la sua vista al laser.

Vecna guardava con disgusto il fallimento del suo esercito.

“Ugh…riconosco che tu abbia più fantasia di me bimba, ma questo non cambia niente: dovrete comunque uccidermi per averla vinta.” Il corno sulla sua testa cresceva a dismisura, e artigli si formavano ai lati delle braccia. 

“Come puoi ben vedere, il mio arsenale non manca di colpi in canna.”

“Non aspettavo altro, ora ragazzi!” Il trio partí all’attacco. 

Undi e Will lanciavano magie e incantesimi  addosso allo stregone, che riusciva però a negarli tutti, vastando uno scudo d’oscurità attorno a sé. La barriera venne rotta da uno dei poderosi pugni dell’ amazzone Max. Incominciò un furibondo scontro corpo a corpo tra i due, ma sembrava che ancora una volta Vecna avesse la meglio. La trasformazione lo aveva potenziato ulteriormente, e la povera ragazza incassava pugni costantemente. Le sue braccia e gambe erano sanguinosamente segnate da tagli causati dalle lame dell’avversario, nei suoi tentativi di pararsi. Il mostro la afferrò dalla gola, lei cercava di dimenarsi con le gambe e di colpirlo con calci, ma era troppo bassa per raggiungerlo.

“È finita, arrenditi mocciosa!” Un ghigno inatteso si stampó però sul viso dell’ostaggio.

“Interessante: quindi credi di avere di fronte a te Max…” non era la sua voce, anzi era quella di un ragazzino di sua conoscenza!

Il corpo di Max si tramutò per magia in quello di Will.

“Sono io il mago più potente in città, coglione!” Vecna era allibito.

“Invocazione di primo livello: Mani Elettriche!” Fulmini blu circondarono l’immondo essere, facendolo contorcere e urlare dal dolore. Dopo qualche secondo di agonia però, le mani squamose di Vecna generarono un fumo nero, che assorbí la scossa annullandola. Il suo corpo ancora fumava e il suo sguardo si alzò colmo d’ira su Will, che deglutì dalla paura che quella visione gli procurava. 

“Questa è l’ultima volta che mi freghi Will!” Le sue mani si strinsero sul collo del maghetto, strizzandogli il respiro. Will sussultava dal dolore, cercando disperatamente di respirare. Vecna aprí la bocca e il fumo nero che due anni prima cercò di possederlo, iniziò a riversarsi ancora una volta nella bocca del ragazzino. Bene viola salivano su per il suo collo e gli occhi iniziavano a imbiancarsi. 

“È il momento, Max: vieni e tirami il pugno più forte che hai!” Undi urlò alla vera eroina, che corse verso l’amica, caricando il destro. 

“Eccomi, arrivo!”

“Mi raccomando, devi spaccarmi la faccia!” Vecna si distolse dalla sua occupazione, chiedendosi cosa stesse passando per la testa di quelle due.

“Sono impazzite?! Ma che diamine…”

Max era ora a un metro dall’amica, pugno carico e muscoli guizzanti dalla tensione. 

“È il momento di un trucco di magia: inversione!” Undi fece roteare la bacchetta tra le sue dita della mano destra, mentre si reggeva con l’altra il cappello a cilindro, storto sulla testa. Improvvisamente sparí in un batter d’occhio. Riapparve davanti Will, con la mano sul suo collo al posto di Vecna; il quale a sua volta, per magia venne teletrasportato dov’era lei in precedenza: a un passo da Max, pronta a colpirlo. Era per la prima volta in vita sua, terrorizzato e incapace di muoversi. 

“Prendi questo: Los Angeles Roll Out!” Il gancio scatenò tutta la sua super forza contro il ventre del mostro, facendolo piegare in due e sputare sangue mentre spalancava gli occhi dal dolore. Un onda d’urto si propagò dal punto d’impatto, frammentando il cemento della strada e facendone volare frammenti in aria. Lo afferrò dal corno, costringendolo a guardarla negli occhi.

“Mi hai costretta a patire la fame, a rovinare il mio fisico, facendomi diventare una debole ombra di me stessa. Ero sull’orlo del suicidio per colpa tua, ma poi i miei amici mi hanno mostrato la luce, protetta, curata. Grazie a loro ho questa forza, che mi ha permesso di risalire l’abisso per urlartelo in faccia: IO SONO VIVA!”

Nella sua mano comparve una spada che infilzò nel petto di Vecna. Max lo guardava furiosa, gustando nel vederlo dolorante e in fin di vita: il contrappasso perfetto per le sue azioni. 

Intanto, Jane lasciò dalla stretta involontaria il fratellastro. 

“Oh scusami! Come stai?”

“Huh…ora decisamente meglio!”

Entrambi si girarono a guardare l’amica, esultando per la vittoria. 

“Uh Uh! Grande Max: gliel’hai fatta pagare!” Lei alzò un pugno in segno di vittoria. 

Ma un la luce di fronte a lei si oscurò, quando la sagoma di un ombra da dietro, iniziò a palesarsi. I suoi amici impallidirono dalla paura.

“Max, attenta, dietro di te!” Urlò disperato Will. 

Si voltò e a fissarla c’erano gli occhi di Vecna, pulsanti del rosso del Sottosopra.

“Ma come cazzo-come è possibile che tu sia vivo?! Ti ho trafitto il cuore!”

“Ho spostato la posizione degli organi nel mio corpo: un trucchetto che ho imparato poco dopo la mia trasformazione.” Un cazzotto si schiantò sul naso di Max, rompendolo e schiantandola a terra. L’impatto fu così brusco che perse i sensi.

Buio. 

Era di nuovo nel “limbo onirico”, ma questa volta, insieme a Sadie fecero la loro comparsa anche due tizi sulla trentina.

“Ciao Max, dato che avevi delle domande per loro, con l’aiuto di una medium, siamo riusciti a convogliare i nostri sogni in un unico di gruppo: ti presento Matt e Ross Duffer, i creatori della tua storia. 

“Ciao Max! È un piacere conoscerti di persona.” “Già, un conto è scrivere di te, un altro parlarti direttamente”.

“Ah, non credo che vi piacerà cosa ho da dirvi, brutti stronzi!” 

“Ma come? Non sei contenta di conoscerci?” Chiese Ross.

“Certo che sì, così posso chiedervi: ma che cosa cazzo vi passa per la testa?! Prima fate morire Billy proprio quando abbiamo iniziato a legare, poi il mio patrigno abbandona me e mia madre, che così diventa alcolizzata, io depressa; così quel mostro mi spedisce in coma e la mia vita è diventata un fottuto incubo. E il bello è che fino a un anno fa ero anche molto felice. Poi però un giorno cos’è successo?! Vi siete alzati con la luna storta, e avete pensato: “Ma sì, perché non sfogarsi su Max, tanto è già sfigata di suo, cosa sará mai qualche puttanata in più?!” Beh, io vi dico: “andatevene a fanculo!”

I due rimasero a riflettere titubanti, presi dai senso di colpa.

“Beh, il suo modo di esporsi sarà quello che conosciamo fin troppo bene; ma dovete ammettere che non ha tutti i torti.” Disse Sadie, rivolta ai fratelli sceneggiatori.

“Ok Max, hai perfettamente ragione. Scusaci. A volte ci facciamo prendere troppo dal pathos nel scrivere una tragedia, e non consideriamo così la possibilità che se tu esistessi davvero, le nostre scelte ti farebbero soffrire profondamente.” Si scusò Matt. 

“Ma ti promettiamo, che d’ora in avanti andrà tutto bene per te!” Aggiunse Ross.

“Si è visto: Vecna non la smette di tormentarmi: è arrivato a farmi credere di aver ucciso mia madre…” disse scocciata Max.

“Ehm…noi non abbiamo ancora iniziato a scrivere la stagione finale. Credo che tu stia vivendo una fanfiction…”

“Una di quelle storie scritte dai fan?! E chi sarebbe questo stronzo? Lo immagino lì ora, nella sua cameretta, a farsi le pippe mentali su come mettermi i bastoni tra le ruote.”

“A guarda, proprio chiunque: ce ne sono a milioni in tutto il mondo, che scrivono fanfiction.” Disse Sadie. 

“Comunque io non so più che fare…” la protagonista della quarta stagione iniziò a piangere, voltandosi nel frattempo, dalla vergogna di mostrarsi nella sua fragilità davanti loro. I tre rimasero spiazzati, non riuscendosi a decidere su cosa fosse meglio fare.  

“Ragazzi, vi prego, lasciateci un attimo sole. Ci penso io a lei.” 

“Ok, hai ragione. Dille solo da parte nostra, che le vogliamo bene…” “E che ci dispiace per tutto quello che è successo”.

“Vi perdono.” Max aveva sentito tutto, e ora si stava rivolgendo a loro, asciugandosi al meglio le lacrime. I due le fecero cenno, annuendo. Uscirono dal sogno, indietreggiando nel buio, come attori che escono nel dietro le quinte di un palcoscenico. 

“Ti va di parlarne…me e te?” Chiese Sadie al suo personaggio.

“Va bene, ma in fondo, a cosa servirebbe? Non puoi mica venire tu a sconfiggere Vecna; e tutti i miei piani sono falliti miseramente. Lui è sempre un passo avanti, trova sempre il modo di fregarci…”

“Ascolta: voglio raccontarti una cosa. Tanti mi vedono come una star della televisione; fanno paragoni con la tua cazzutaggine, perché quando vedono me, di riflesso pensano a te. Ma come hai visto, io sono l’esatto opposto di Maxine “mad Max” Mayfield. Anzi, per la verità, per un pelo non ho perso il tuo ruolo al casting.”

“Davvero?!”

“Eh già: I Duffer e i produttori mi avevano selezionata, ma non erano sicurissimi delle mie capacità attoriali. Inoltre, avevano paura che fossi troppo grande per il ruolo, avendo 14 anni, come te adesso.”

“Ma sembri una tredicenne! Scusa ma, quanti anni hai adesso?”

“20.” Max era proprio stupita ora: non l’avrebbe mai detto.

“Hai l’età di Nancy?! Ma che cazzo…”

“Eh giá, ahah. So cosa stai pensando, me lo dicono tutti. Ma loro non potevano comunque sapere che il mio aspetto sarebbe rimasto così giovanile, anche col passare degli anni. Ma alla fine, si sono fidati di me, ed eccomi qua!”

“Nel futuro i ragazzi crescono più lentamente?”

“No, é che c’entra molto anche il modo in cui ci si veste: la moda è cambiata molto. Ma quello che volevo dirti, è che grazie alla fiducia che hanno riposto in me, se sono riuscita a diventare la tua attrice. Da lì in poi, è stato tutto più facile e bellissimo: ho conosciuto un mucchio di gente, tutti diversi tra loro. Molti sono diventati miei amici, abbiamo condiviso esperienze di una vita. È stata un avventura incredibile, non so come mi sentirò quando finirà tutto e ti dirò addio, Max. Quindi, ti dico questo: Vecna non potrà sconfiggerti, se tu ti fiderai di chi hai vicino. Perché questa è la tua mente, tu vai benissimo così come sei. I tuoi amici lo sanno, e ti proteggeranno: insieme vincerete!” 

“Grazie Sadie. È una delle cose più belle che qualcuno mi abbia mai detto. Ora, sento che vincerò!” Le due si abbracciarono.

“Proveresti per me, anche solo un pochino, di provare a mangiare vegano?”

“Eh va bene…per te posso provarci, ma non ti garantisco che funzionerà, eh?”

“Ahah, questo è già tanto!”

“Oh guarda, di nuovo quella luce…”

“Vai e stendilo: Mad Max!” Sadie le fece l’occhiolino.

Luce.

“Max, Max! Svegliati!” La voce di Undi, la chiamava al mondo dei vivi; o quasi, considerando che era ancora in coma.

“Ah merda!” Risvegliatasi, toccò il setto, e la sua mano si sporcò del sangue colante. Se lo mise a posto, ruotandolo a forza, dopo una breve ma acuta fitta e il crack dell’osso, smise di avere male a ogni respiro. 

“È tempo di spaccarti tutte le ossa anche nei tuoi sogni…” Vecna si avvicinava a lei, scricchiolandosi le nocche. 

“Lasciala stare!” I suoi due amici stavano ripartendo all’attacco, ma Vecna, sollevando un dito, li imprigionò in una rete di viticci stregati, partiti dal terreno al suo segnale. 

Ora Max indietreggiava, terrorizzata, trascinandosi con le mani all’indietro sul cemento. Ma proprio in quel momento, un urlo, proveniente da un portale apertosi alle spalle del mostro, squarciò la tensione del momento.

“Ehi, pezzo di merda! Prenditela con qualcuno della tua taglia!” Vecna si voltò e venne colpito allo stomaco, con una mazza con chiodi incastrati sopra. Il cuore di Maxine Mayfield si fermò per un momento, i suoi occhi calarono lacrime come stelle cadenti; il respiro le mancava per l’emozione, inspirava ed espirava cercando di calmarsi, ma l’inaspettata felicità era troppa. A difenderla era apparso Billy!

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Capitolo 15
*** Mad Max: Returns ***


Capitolo 15-Mad Max: Returns

 

Nota autoriale: a Natale si è tutti più buoni, quindi questa settimana doppio capitolo. E che capitolo! 

Qui vedrete la fine della battaglia finale e vi annuncio ufficialmente che questo è il penultimo. Mi prenderò quindi un po’ di tempo per scrivere il finale, che per me sarà molto sentito, essendo quello della prima fanfiction che ho scritto. Ma tranquilli, non ci vorrà tantissimo! So che non vedete l’ora di sapere come vada a finire, quindi vi lascio alla lettura. Ciao e passate un buon Natale! 🎄 

 

Era vestito come la notte in cui era morto, ancora sporco di sangue su tutta la canottiera. Ma qualcosa non tornava: perché il suo ricordo era apparso così dal nulla? Inoltre, un immagine mentale non potrebbe ferire un vero essere vivente; eppure, gliene stava suonando a Vecna. 

“È lui, Max! È veramente lui, lo percepisco grazie ai miei poteri!” Disse Undi.

“Cosa intendi dire, esattamente?”

“Non è il tuo ricordo; ma il vero fantasma di Billy, venuto qui per salvarti!” Aggiunse Will. 

“Lascia, stare, mia, SORELLA!” Ogni parola, un colpo sul nemico impotente a terra. 

“Billy!” Si girava tremante, incerto, spaventato all’idea di incontrarla di nuovo.

“Billy…oddio Billy!” Corse in lacrime, ad abbracciarlo. 

“Maxine…non piangere; sono qui per te…” le accarezzava la testa per consolarla. 

“Billy? Ma come-“ Neil si era avvicinato alla scena cautamente, non credendo ai suoi occhi.

“Papà, ma come cazzo sei conciato?” Chiese, facendosi scappare un sorriso, vedendolo ancora vestito col costume da Flash. Per la prima volta in vita sua, la vista di suo padre non lo spaventava. 

“È stata un’idea di Maxine, giuro! Ci ha dato dei superpoteri e dei costumi colorati: è stato divertente, si…non mi divertivo così da tanto tempo!” Billy non poteva credere alle sue orecchie: suo padre che prende qualcosa alla leggera? 

“Come hai fatto ad arrivare qui?” Chiese Max al fratellastro.

“È strano, non so come spiegarlo…ho vagato nel buio per tanto tempo, ma poi ti ho sentita piangere e a volte dire il mio nome: “caro Billy…”. Così ho seguito la tua voce, fino a quando non ti ho vista venire aggredita da lui; e non potevo lasciargli farti del male.”  

“Oh Billy…mi sei mancato tantissimo!” stava per abbracciarlo, quando degli altri viticci sbucarono dal terreno, allontanando Billy dalle mani di Max e imprigionandolo. 

“Mi dispiace rovinare questa piccola riunione di famiglia, ma presto vi rincontrerete all’inferno.” Vecna si era alzato ancora una volta: sembrava che niente potesse ucciderlo.

Neil corse, cercando di attaccarlo, ma anch’esso venne imprigionato nella rete di tentacoli semi-vegetali. 

“Ora basta: lascia stare la mia famiglia!” Anche Max partí alla carica. Vecna pensava che sarebbe stato uno scontro facile, ma sembrava che la rabbia avesse potenziato la piccola Wonder Woman. 

Schivava tutti gli attacchi dei viticci, anche quando partivano dal terreno sotto i suoi piedi, precedendoli e schivandoli in tempo. Scivolando sul pavimento con le ginocchia, riuscì ad evitare l’ennesimo attacco; prima di rialzarsi prese il coperchio di un tombino, per poi lanciarlo in direzione di Vecna. La super forza con cui era stato lanciato, gli permise di tranciare in due la massa di tentacoli che il mostro stava evocando come scudo. Ma era comunque abbastanza forte da riuscire a pararlo con le mani. Non di rendeva conto che la strategia di Max prevedeva proprio questo: essendosi già fatta strada nelle sue difese, ed avendogli bloccato la vista col coperchio che ora teneva saldo tra le mani davanti il volto; fu libera di colpire l’oggetto con un calcio volante, stampando il metallo in faccia a Vecna. 

Mentre era ancora destabilizzato dal colpo, la ragazza non perse tempo, caricando un altro super, anzi, iper pugno. L’aria intorno all’arto venne risucchiata come in un vortice nella mano destra, quando si chiuse serrando le dita, tale era la forza racchiusa in essa. 

“United States Of Smash!” Tutto quel potere venne rilasciato su Vecna, che voló nel cielo come un razzo.

“Che figata…” commentò Will, assorto in quello spettacolo.

“Non siamo in un fumetto! Dobbiamo liberarci ed aiutarla…ugh…questi affari sono indistruttibili!” Lo rimproverò Undi, sforzandosi di rompere la “gabbia organica”.

Intanto, lo stregone oscuro riprese il controllo di sè, e incredibile ma vero, per la prima volta non si stava preparando a contrattaccare, ma a scappare!

Dalla sua schiena sbucarono due grandi ali di pipistrello, che si agitavano per permettergli di volare via in alto, il più velocemente possibile. Max però lo stava inseguendo, volando anch’essa, ed era solo questione di tempo prima che lo raggiungesse. 

“Sto arrivandoooooh!”

“No no no! Non è giusto: io sono destinato a grandi cose, non a dover combattere contro una mocciosa nella sua testolina di cazzo, e a dover scappare come un codardo da lei. Voglio rovesciare gli imperi del mondo, far crollare il cielo addosso agli uomini: I WANT TO RULE, THE WORLD!”

All’improvviso, qualcosa di assurdo avvenne: tutto di fermò. Le nuvole, gli uccelli in cielo, Maxine stessa poteva solo parlare e muovere la testa, ma il resto del corpo era bloccato in aria, come bloccato da una forza invisibile.

“Che cosa hai fatto?!” Urlò al nemico.

“Ti ho bloccato le sinapsi: ti ho paralizzata nel tuo stesso sogno, così ora posso divertirmi con te senza scocciature!” Cadde in picchiata verso di lei, la afferrò per i capelli per schiantarla al suolo.

“Aaaaah!” Ma le sue sofferenze erano appena iniziate. Vecna la alzò, rigirandola verso Di sè.

“Sai come di dice: occhio per occhio…”

“No, aspetta no!” Vecna le trapassò l’occhio destro, con il suo dito indice.

“AAAAAAAAH!” L’urto della povera Max era agghiacciante, nessuno dei presenti aveva mai sentito qualcosa di così terribile in vita loro. 

“Lasciala stare,, schifoso verme!” Will si dimenava inutilmente. 

“Bastardo, quando mi sarò liberato da qui, ti farò a pezzi!” La furia di Billy era incommensurabile. 

“È solo una ragazzina…oddio…” Neil aveva liberato il suo lato tenero, piangendo come un bambino e distogliendo lo sguardo. 

“Sai cos’è il lato più divertente di tutto questo Maxine?! Che avendo ora il controllo della tua mente, una volta che ti sarai arresa e sprofonderai nel mio incubo, potrò seviziarti quanto mi pare, per tutto il tempo che vorrò: perché non potrai morire veramente se il tuo corpo sarà già morto, ma io possederò comunque la tua anima. Oh…mi pregherai di farla finita, rimpiangerai di essere nata…perché ho tanti di quei modi in mente per farti soffrire e fartela pagare per tutti i problemi che mi hai causato.” Max era percossa da spasmò di grande dolore, urlando senza sosta. L’occhio sinistro si agitava senza sosta, mentre Vecna continuava a martoriarla, letteralmente rigirando il buco nella piaga dell’altro. 

“Su, di che ti arrendi, implorami di farla finita…dai, so che lo vuoi…”

“Max ti scongiuro: non farlo! È quello che vuole: se ti fai prendere dallo sconforto, morirai sprofondando nel coma, i portali nel mondo reale di apriranno e lui avrà vinto!” Undi implorava l’amica tra le lacrime.

Max era appesa a un filo: non voleva arrendersi proprio ora, dopo tutto quello che aveva passato; ma allo stesso tempo il dolore era così grande, che non riusciva a pensare ad altro. Anche se fosse riuscita a resistere, era comunque paralizzata alla mercé di Vecna. Era solo questione di tempo. Sembrava la fine di tutto, era sul punto di cedere, quando si ricordò cosa le disse Will, riguardo quella famosa frase di Marco Aurelio:

“La morte sorride a tutti noi. Tutto quello che possiamo fare è ricambiare il sorriso.” E così iniziò a ridere, a crepapelle.

“Ahahahah!” Non riusciva a contenersi, e tutti, Vecna per primo, rimasero allibiti nel vedere le sue lacrime trasformarsi in grosse risate nel giro di un attimo. 

Tutto d’un colpo, riuscì anche a riprendere a muoversi, forzando il braccio del nemico a rimuovere il dito dal suo occhio. Cadde a terra, e toccandosi in volto constatò che l’occhio era risposrso di nuovo.

“M-ma come hai fatto?!”

“È come ti ho detto: questa è la mia mente, e il dono la padrona! Posso fare tutto quello che voglio. Per tua sfortuna, ho realizzato una cosa: per sconfiggerti non devo combattere la follia che porti nella mia testa, ma abbracciarla!”

Il rosso dei suoi capelli si tramutò In fuoco, fuoco vivo. Non sembravano danneggiarsi o far male a Max, anzi, il suo corpo stesso stava generando quelle fiamme. I suoi occhi da blu diventarono rossi accesi. I suoi vestiti si trasmutarono in una sorta di vestito da signorina di un mondo post apocalittico: con una gonna di lamiere e parte superiore in pelle, con coltelli e altri arnesi allacciati a cinghie un po’ d’ovunque. Sulle spalle c’erano spalliere metalliche, e su una di esse erano saldati dei bulloni a mo’ di decorazione, mentre sull’altro era disegnato con uno spray, un teschio. Alle mani comparvero dei tirapugni con lame sporgenti. Sui piedi, stivaloni di cuoio, con punte di metallo che uscivano da tutti i lati. A un certo punto, anche il mondo circostante sembrava stare andando a fuoco, tra cui i viticci che imprigionavano i suoi amici, liberandoli.

Vecna indietreggiava, terrorizzato come non mai in vita sua. 

“Ma c-che succede?!”

“Sta succedendo che per te è finita: sto finalmente rilasciando la vera me

Perché io sono:

L’urlo risuonò in tutto il mondo onirico, facendo tremare la terra stessa. La sua voce rimbombava come se fosse uscita dalla bocca di un entità demoniaca; ogni parola suonava come un tuono. 

“Max?!” Undi, come tutti gli altri d’altronde, era senza parole.

“AHAHAHAH!” Le sue risate fecero sanguinare le orecchie di Vecna, che traballava dalla confusione e dolore. 

“Ooooh, Vecna caruccio, non volevi giocare con me?! Eccomi qui: non vedo l’ora! Ho smesso di piangermi addosso, ora voglio ridere, RIDERE A CREPAPELLE! AHAHAHAH” il suo sorriso era una smorfia  incredibilmente inquietante, e nel mentre, ballava come un clown: alzando le gambe ai lati, una alla volta, tenendo le braccia dritte verso il basso. (Quella di Pennywhise, per intenderci).

Ripartí all’attacco, ferendo con multipli colpi delle punte metalliche sui suoi guanti; Vecna, ripresosi, provava a rispondere, ma le sue lame si ruppero al primo contatto con quelle di lei.

“Muori, muori, muori, MUORI!” All’ultimo urlo, dal cielo piovvero degli arpioni, che conficcandosi nella schiena dell’essere e ancorandolo a terra. Si dimenava dall’agonia. Max gli staccò con le mani il corno dalla testa, indebolendolo ulteriormente. 

“Ora sei la mia puttanella, Vecna!”

 Il mostro cercava con tutte le forze di scappare, trascinandosi sul terreno. Max prese dalla cintola una boccetta di liquido nero, ne bevve il contenuto, e sputò fiamme addosso a lui. Il metallo delle sbarre si sciolse, colando sulla ripugnante pelle dell’essere, sciogliendola. Le sue urla raggiunsero l’apice.  In compenso però, riuscì a liberarsi, ma quello che rimaneva di lui, erano i miseri resti di Henry Creel, sgusciato da quell’involucro mostruoso, che aveva costruito intorno a sé. 

“Aiutooo…mamma, papaaaaah….mi dispiace per quello che ho fatto, scusatemi vi prego…voglio tornare a casaaaa…”” Piangeva come un bambino, rivelando tutta la sua miseria umana. 

“Mamma e papà non ci sono Henry! Lei l’hai uccisa insieme alla tua sorellina, e lui è chiuso in un manicomio con gli occhi cavati, PER COLPA TUA! AHAHAH”

Mad Max lanciò in aria Henry, per poi impalarlo al muro di un distributore di benzina con un altro arpione. 

“Uuuh, ti prego Maxine abbi pietà di me!”

“Come tu l’hai avuta per i ragazzi che hai ucciso?! E per me?! NO CAZZO! Anche se lo facessi, sono sicura che torneresti a far male all’unanimità. LA PAGHERAI PER TUTTO AHAHAH!”

Estrasse dalla cintura un telecomando per auto, fatto di materiali compensati. Lo premette e il clacson e il roteare di pneumatici di un auto, venne udito avvicinarsi dalla strada accanto. Svoltando all’angolo, fece la sua comparsa niente meno che l’Interceptor: l’auto di Mad Max!

Il veicolo si fermò accanto alla ragazza, che stava indicandogli dove fermarsi facendo il segno dell’autostop. 

Aprí la portiera, si sedette al posto di guida e inserì la marcia, tenendo sempre lo sguardo fisso su Henry.

Questo si dimenava dal terrore, piangendo e pregando.

“Oddio! Mi dispiace Maxine…mi dispiace! Ti prego, no!”

“Te l’ho già detto: IO SONO MAD MAX!”

Premette il pedale dell’acceleratore, mentre alzava il pugno sinistro teso, fuori dal finestrino. 

“AMMIRATEMI!” 

Gli amici alzarono i loro pugni e gridarono all’unisono: “TI AMMIRIAMO!”

Il motore sul cofano dell’ interceptor profluí in fiammate, le ruote ruotavano senza sosta e il motore rombava come un tuono. Il veicolo partí alla carica e investí Henry, facendo esplodere nell’impatto l’intera pompa di benzina: un degno finale da Mad Max. 

Tutto ora sembrava calmarsi, il cielo tornó azzurro e gli amici di raccolsero intorno alle fiamme, apprensivi riguardo la sorte della loro amica. 

Per il sollievo di tutti, Max uscì incolume, camminando fuori dalle fiamme, ritornata normale.

“Wow…quello è stato tanto anche per me, eh?”

“Decisamente. Ma è stato divertente! E mi stanno dicendo dal mondo reale, che i portali per il sottosopra si sono chiusi: abbiamo vinto!” Disse Undi.

“Mi serviva sfogarmi un po’ evidentemente, eheh.” Billy si avvicinò a lei.

“È stata la cosa più cazzuta che mai visto in vita mia!” Lei le sorrise e si abbracciarono.

“Ti voglio bene Billy!” “Anch’io ti voglio bene Max!”

Un auto si avvicinò: da essa uscì un furioso Bart Mayfield.

“Neil! Figlio di puttana! Giù le mani da mia figlia, o giuro che ti ammazzo!” L’uomo, terrorizzato, alzò le mani in segno di resa.

“No, aspetta Bart! Posso spiegarti tutto, ti giuro!”

“Papà, no! È tutto apposto!”

“Max, per l’amor del cielo, non so proprio cosa stia succedendo, perché sei scappata via così, sono tuo papà, ti voglio bene!” Lo sguardo dell’uomo cadde su Billy.

“Tu…ma non eri morto?” 

“Si papà, perché non siamo nel mondo reale, ma nella mia testa, e tu lo sai.”

“Si è vero, lo so, ma come?”

“Perché mi sto finalmente svegliando dal coma.” 

“Già lo sento…”

“Tornerò da te nel mondo reale, sei proprio lì che mi reggo la mano, mentre sono nel letto d’ospedale: e rivedrò tutti voi.” Disse rivolgendosi ai presenti. 

“Ma Undi, non c’è proprio modo di riportare indietro anche Billy?”

“Mi dispiace Max, ma no: non posso riportare in vita i morti.”

Max guardò con occhi lucidi il fratellastro.

“Ma mi manchi così tanto…non è giusto quello che ti è capitato!” 

“Ma Max, non hai visto cosa hai fatto? Non ti servo, sei perfettamente in grado di affrontare il mondo così come sei. E sappi, che io sarò comunque con te, guardandoti da lassù: perché sono orgoglioso di te!” 

Finalmente entrambi scoppiarono a piangere, abbracciandosi per l’ultima volta.

“Grazie…grazie!”

“Coraggio Max, è il momento di svegliarsi, andiamo al fortino Byers!”

Il gruppo arrivò alla casetta di legno. L’intreccio di viticci era scomparso, essendo Vecna morto.”

“Quindi, ora entro lí, mi sveglierò e sarà tutto finito?”

“Si Max! Niente più mostri, misteri e cose strane che escono da portali malefici.” Disse Jane. Max tirò un profondo respiro.

“Uhhh! Ci siamo: che dire? Non credevo mi sarei emozionata così tanto.” Si rivolse a loro un ultima volta. 

“Grazie di tutto, ci vediamo la fuori!” L’ultimo sguardo fu rivolto a Billy, che le sorrideva con una lacrima all’angolo dell’occhio. 

Entrò nel varco, e una porticina in un tunnel buio, si fece sempre più vicino a ogni passo. Raggiuntolo, girò il pomolo.

Luce.

Voci che le risuonano in testa, chiamandola per nome.

Mani che le stringono dolcemente le sue.

Il tatto setoso delle lenzuola e il morbido del cuscino dietro la sua testa. 

Il suono squillante e alternato del suo battito del cuore sull’elettrocardiogramma. 

Il profumo di varichina, infuso nella stanza.

L’aria che le entra nelle narici e la bocca; cerca di respirare sempre di più, vocalizzando brevi suoni dalle corde vocali. I polmoni, il cuore e il cervello le stanno dicendo che è sveglia, è viva!

“Max, aprí gli occhi tesoro!” La voce di mamma.

Gli occhi si aprono timidamente, devono socchiuderai un paio di volte prima di poter osare di spalancarsi veramente. Perché la luce è troppo forte, e non sono abituati da tempo a vedere. 

Ma poi, i colori si aggiungono al bianco, le linee e le forme si fanno più nitide, e finalmente li vede:

I suoi genitori e i suoi amici, tutti lì intorno a lei a guardarla dritta negli occhi. 

C’erano Jane, Will, Lucas coi suoi, Mike, Dustin, Steve, Nancy, Johnathan, Hopper, i signori Wheeler con la piccola Holly, Bob e addirittura Cynda, che nel periodo trascorso aveva ripreso carne ed ora le appariva come una normalissima ragazza in salute.

“Ciao, sono qui: sono viva.” Le sue prime parole.

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Capitolo 16
*** Finale- Epilogo sul resto della vita di Maxine Mayfield ***


Capitolo 16-Finale-Epilogo sul resto della vita di Maxine Mayfield 

 

Nota autoriale: 

Ho pianto scrivendo il finale: anche perché questa é la mia prima fanfiction e mi ha preso 6 mesi e 16 capitoli. Max è un personaggio veramente speciale, che mi ha dato l’ispirazione per mettermi alla prova e scrivere. Grazie mille a tutti, e rimanete in ascolto per altre fanfiction. 

 

Un cielo azzurro, uno dei più belli che si possano vedere al mondo. Gabbiani in volo, alcuni solitari, altri a coppie di due o tre, punteggiano il cielo insieme alle nuvole, e all’ondeggiare delle palme, regalandogli una leggera dinamicità, che non turba la serenità dell’insieme. Faceva caldo, ma una brezza salmastra rendeva l’aria sopportabile, anzi, pure godibile. Risate di bambini e vocii di turisti tedeschi, con i calzini sotto le infradito, condivano di allegria l’ambiente. Tutto era immerso in una calma felicità, pareva che quell’angolo di mondo fosse un universo a sé, impenetrabile da negatività di ogni sorta. 

Max era sdraiata su un lettino da spiaggia, a riprendere quella tintarella tipica dei californiani, che aveva perso dopo qualche mese dal trasferimento nella più mite Hawkins. 

Teneva le mani appoggiate dietro la testa dai capelli sciolti, che le correvano giù lungo le spalle, adornando di arancione i lati del lettino. Il cappello di paglia che indossava prima di sdraiarsi, era ora posato all’angolo del parasole sopra di lei. Sugli occhi, occhiali da sole e un sorrisone stampato in faccia. 

“Ah però: non mentivi quando dicevi che il sole era diverso qua.” Disse Lucas, sdraiato sul lettino affianco a lei. 

“Ed è così tutto l’anno, pensa un po’!” Rispose lei. Erano presenti tutti i membri del party (più Tommy e Arianna ovviamente), venuti in vacanza a Los Angeles, dove lei era appena ritornata. 

“Ehm…Max, ho messo la crema solare, ma dici che posso scottarmi comunque? Già sono pallido di mio, in più non sono abituato a prendere il sole…” Mike si era rapidamente rimesso addosso la maglietta, terrorizzato all’idea di scottarsi. D’altronde, questa era la prima volta in vita sua, come di tutti gli altri di Hawkins del resto, che andava al mare. 

“Mike! Ma ti ho appena messo la crema sulla schiena…devi lasciare la pelle al sole perché la assorba.” Protestò Jane. 

Max abbassò gli occhiali neri, per fargli vedere la sua disapprovazione negli occhi: “E dai Mike, ci fai fare la figura degli scemi: sembri uno di quei turisti tedeschi.”

“Io ho origini tedesche in effetti, sarà per questo che mi scotto facilmente?” Cercò di giustificarsi lui.

“Guarda me e Will, è anche la nostra prima volta al mare, ma non ce la stiamo facendo sotto.” Cercò di convincerlo Dustin. 

“Ma se non siete pallidi neanche la metà di me?!”

“Dai Mike, voglio vederti senz-“ Will interruppe la frase, vedendo lo sguardo perplesso dell’ ”amico”. “Ehm…volevo dire, Jane di certo non sta apprezzando, che ti copra quando ti ha messo la crema.”

“Uff…se mi scotto passerò tutte le vacanze chiuso in camera col ghiaccio addosso…”

Tommy approcciò il turista di Hawkins: “Ascolta, ti fidi di me? Ti assicuro che l’insolazione non avviene, così, da un momento all’altro. Facciamo così: per un oretta te la togli, poi ti copri di nuovo fino alle sei, quando il sole si sarà abbassato e sarà impossibile scottarsi.”

“Ok, sì, proviamoci.” 

“Oh finalmente! Non vuoi ottenere una tintarella californiana?” Poi, Arianna si rivolse a Jane: “Chica, scommetto che non vedi l’ora.” Gli fece l’occhiolino.

“Eh già Mike, siamo venuti qui anche per questo, no? Secondo me ti donerebbe!” La ragazza abbracciò sul fianco il fidanzato, che contraccambiò. 

“Magari smetteranno di chiamarmi: “Mozzarella Wheeler.” 

“Puoi fidarti dei consigli di Tommy: é un surfista.” Lo rassicurò Max.

Intanto, una alta e bella ragazza dai lunghi capelli neri, con indosso un costume a strisce bianche e blu si avvicinò al gruppo. Aveva tra le mani due alti bicchieri di té alla pesca con ghiaccio e cannucce che sporgevano oltre al bordo. Era Cynda, rifiorita. 

Già al momento del risveglio di Max, si era ripresa completamente dall’anoressia. Quando aveva saputo dell’“incidente” che aveva subito, la sua missione divenne uscire dal tunnel in cui si era persa, per far vedere all’amica, una volta svegliatasi, che anche lei ce l’aveva fatta. 

“Ho lottato ogni giorno pensando a te! Sei stata la forza che mi ha spinta ad andare avanti: non ti abbandonerò proprio ora! Starò al tuo fianco, e verrò a trovarti ogni giorno, fino a quando non avrai finito la fisioterapia.” Le diceva mentre spingeva la sedia a rotelle, nel corridoio dell’ospedale. 

“Cynda…non sai quanto mi renda felice sapere di esserti stata d’aiuto anche mentre dormivo!” Affianco a loro, camminava anche la mamma di Max.

“È venuta tutti i giorni, anche Lucas e gli altri sono rimasti impressionati dalla sua assiduità. Oh tesoro mio, sono così felice di sapere che hai così tanti amici che tengono a te. Vedi perché ti ho detto che è importante essere gentile con chi ti sta intorno?” 

“Ehm…non fui molto cortese con lei all’inizio…me ne vergogno; ma dopo siamo andate più che d’accordo, vero?” 

“Sì, però signora Mayfield, é stata colpa mia se il nostro primo incontro non è stato dei migliori: non sapevo della situazione in cui si trovava Maxin-ehm Max.”

“Tu puoi chiamarmi Maxine, Cynda…”

“Addirittura?! Allora devi considerarla più come una sorella che un amica!” Commentò Lucas, all’altro lato della carrozzina. 

“Quando si guarisce insieme in un periodo di convalescenza, si forma un legame.”Intanto Max voltandosi, fece cadere lo sguardo sull’amica, sorprendendosi da quanto fosse cambiata in meglio.

“Ma quanto sei diventata bella, Cynda? Hai superato le mie più rosee aspettative.” 

Lei arrossì, abbassando lo sguardo.

“Sei troppo gentile! Il mio aspetto è migliorato per forza di cose, ma tu rimani più bella di me.”

“Nah…”

“Invece sì!”

“Ok, Lucas diglielo tu!”

“Come?! Non mettermi in mezzo a queste diatribe da ragazze!” Esclamò imbarazzato, e spaventato all’idea che potesse essere una delle sue prove di gelosia.

“L’importante è che tu ti trovi bene nel tuo corpo, Cynda.” 

“Grazie Maxine…” disse dolcemente lei. 

Cynda, nel periodo a venire, non dovendosi più preoccupare della sopravvivenza dell’amica, rifletté a lungo sulle parole di Max. Guardandosi di più allo specchio, notò come non era cambiata solo in volto e nell’altezza che aveva recuperato, ma riscoprì la femminilità del suo intero corpo che non aveva mai conosciuto prima: essendosi concentrata troppo negli anni precedenti sul perdere peso, solo ora che aveva smesso, si stava sviluppando nella sua vera forma, e solo ora quindi, Cynda poteva vedere la vera sé stessa riflessa allo specchio. 

Quel giorno al mare, non aveva più paura di mostrare il suo corpo a clessidra e camminava dritta, sporgendo orgogliosa il petto prominente. Era rinata un altra volta grazie a Max. La prima fisicamente: superando la fobia del cibo; e ora psicologicamente: vincendo la paura di vedersi per come appariva veramente. 

“Ecco il tuo té dolcezza!” 

“Grazie zuccherino!” Rispose Max, iniziando a sorseggiare la bevanda.

“Sembrare una coppia di lesbiche, quando fate così le sdolcinate.” Commentò sarcastico, Lucas.

“Non ci tentare: un giorno potremmo scappare via insieme, in Messico o in Europa…e tu rimarresti con un pugno di mosche.” Ribatté piccata, la fidanzata.

“Aspetta, come?!”

“Dai, sto scherzando! E poi guarda che Cynda è già impegnata: c’è una fila di ragazzi cascano ai suoi piedi ad Hawkins.”

“Davvero? Chi é?” Chiese incuriosito Dustin. 

“Jason Ford, l’ho conosciuto al club di poesia che mi hanno consigliato di seguire per aiutarmi ad esprimere le mie emozioni negative, e superare così del tutto la fobia del cibo. Lui è così sensibile, premuroso e affettuoso: mi é stato vicino fin da subito, gli é bastato sapere il motivo per cui ero lì…” 

Ma tutti erano stati costanti e premurosi con Max, prima e dopo il suo risveglio. Lucas, per ovvi motivi, lo fece con un modo tutto suo. Quando le nuove infermiere arrivarono a inizio maggio, vedendolo sempre accanto alla madre della ragazza, al suo capezzale, iniziarono a pensare che fosse un figlio adottivo della donna. Quando superarono la timidezza professionale che frena il personale sanitario a fare domande personali ai pazienti, rimasero stupite nel scoprire che la signora Mayfield fosse così attaccata al ragazzo. D’altronde venivano da Detroit, dove era una visione davvero rara vedere afroamericani e irlandesi andare d’accordo. E c’è da dire che Susan, in particolar modo quando era assente il marito, riversò tutto l’affetto materno di cui disponeva su Lucas: ogni giorno gli chiedeva come fosse andata a scuola, se aveva preso brutti voti lo biasimava ma senza essere troppo dura, incoraggiandolo a fare di meglio; se invece i voti erano buoni, diventava felice come una Pasqua e lo riempiva di lodi. Cucinava per entrambi degli spuntini pomeridiani, ricordandosi cosa piacesse a lui. Li si poteva vedere insieme in quei pomeriggi, intenti a rimboccare le coperte a Max, raccontarle la giornata come se fosse sveglia nella speranza che le loro voci potessero raggiungerla nella profondità del sogno. Le facevano le trecce ai capelli, ognuno a un lato del letto; quest’ultima attività in particolare fece scoppiare in una risata la diretta interessata, quando glielo raccontarono, una volta svegliatasi. Volle anche la prova, chiedendo a Lucas di fargliele davanti a lei, e rimase piacevolmente stupita dal scoprire quanto fosse diventato bravo, ringraziandolo con un bacio. Ma la vera sorpresa arrivò una mattina, quando mamma e papà, soli in camera con lei, le diedero un lieto annuncio:

“Torniamo a vivere tutti insieme a Los Angeles, e poi…glielo vuoi dire tu?” Chiese Bart alla moglie, guardandola teneramente in volto mentre era stretto a lei.

“Va bene: Maxine, avrai una sorellina!”

Lei rimase felicemente scioccata, con la bocca aperta e gli occhi spalancati come reazione. Poi da questi iniziarono a scendere lacrime.

“D-davveroh?! Non sto sognando…ditemi che non sto sognando!”

“È tutto vero, tesoro! Lo abbiamo scoperto tramite un test un mese fa.”

“E vogliamo che sia tu a scegliere il nome!”

“Grazie…grazieeeh!” La abbracciarono, asciugandole le lacrime. 

Ora Max vedeva dalla sua sdraio i suoi genitori passeggiare vicino il bagnasciugha, dove il padre aiutava la moglie a camminare reggendola per mano e dalla schiena, essendo appesantita dal pancione. Alla fine, Max scelse come nome Sadie, ricordandosi di quella ragazza tanto simile ma anche diversa da lei, apparsale in sogno, che l’aveva spinta a non arrendersi nel momento più buio. 

Le era capitato di rincontrarla nei suoi sogni un altro paio di volte, e in una di queste sessioni le venne presentata una persona speciale. Sadie apparve con affianco una ragazza identica a Jane, ma dallo stile radicalmente diverso, con tanto di occhiali da sole. 

“Sei l’attrice di Undi, immagino.”

“Puoi contarci: mi chiamo Millie Bobby Brown, baby!” Concluse con un segno della pace.

“Caspita…siamo davvero l’opposto dei nostri personaggi!”

“Eh già ahah” commentò imbarazzata Sadie. 

“Comunque hai un nome tosto!”

“Grazie, ma Max è proprio il massimo!” 

Max rimase colpita dal scoprire quante sorelle e fratelli avessero entrambe le ragazze. Le invidiava un sacco, ma presto lo avrebbe fatto un po’ di meno. Infatti, anche lei riuscì a sorprendere la sosia dicendole della sorellina in arrivo, e della scelta del nome. Sadie scoppiò in lacrime e la abbracciò, ringraziandola tra i singhiozzi. 

Max e i suoi erano tornati a vivere nella loro vecchia casa sul mare dal tetto rosso. Aveva rincontrato tutti ed era ritornata a scuola con Tommy e Arianna. Sarebbe sbagliato dire però che fosse tornata alla sua vecchia vita, perché aveva mantenuto i contatti con gli amici di Hawkins assiduamente. Andavano a trovarsi a vicenda più volte l’anno: Jane era ancora la sua migliore amica e Lucas il suo fidanzato Era con due piedi in due vite diverse ma contigue, e non poteva chiedere di meglio. 

Vedendola ora, nessuno avrebbe creduto alla storia del punto più basso della sua vita che vi ho raccontato: si era ripresa completamente grazie alla fisioterapia, ed era guarita al punto che non portava neanche segni delle ferite del rituale di Vecna. Oltre i piccoli problemi della vita, non aveva più motivi per essere triste, anzi, era la ragazza più felice del mondo. 

Si rimise gli occhiali da sole sugli occhi, appoggiò le mani dietro la testa e si distese, offrendosi liberamente ai raggi del sole.

“Ragazzi…sento che questo sarà un anno bellissimo.”

Era il 4 luglio 1985.

Andava tutto bene.

 

Fine.

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