Il mondo del Natale

di ConstanceKonstanz
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1- L'attacco ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2- Passaggio Infra-Mondo ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3- Times Square ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4- Cose Dimenticate ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 - Volatili-Kamikaze ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6- Ci serve un piano. ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7- Fuoco e ghiaccio ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8- L'ombra vivente ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9- Il prezzo di un sogno ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10- Dinah ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11- L'abisso del dolore ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12- La morte e l'oblio ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13- La conta della morte ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Ehi :) Pubblicherò un capitolo a settimana (in genere la Domenica) 




PROLOGO (OBBLIGATORIO)

Questa storia inizia nel passato.
In un mondo diverso dalla Terra, più freddo della Terra, più piccolo della Terra.
Dove abbiamo imparato a lavorare il ghiaccio, a usarlo come arma, come sostegno per le case. Dove la pioggia non è acqua, ma un tesoro da conservare. Dove la neve è più di un elemento: è una pietra preziosa. Dove il nostro nemico maggiore è ciò che ha permesso ai vostri antenati di sopravvivere: il fuoco. Così semplice da procurarsi, così distruttivo. Capace di sciogliere case, città, montagne.
Questa storia inizia nel Mondo del Natale.
Ed inizia con un nome.
Quello della mia nemica, o dell’unica persona che abbia mai conosciuto veramente:  Dinah
Era notte, faceva freddo, le imposte sbattevano, le piante si piegavano. Io ero piccola. Non potevo avere più di cinque anni. Dinah sei. Non ricordo dove fossero i nostri genitori. Non ricordo neppure dove fossimo noi. E tutt’ora ogni volta che provo a rivivere quei momenti la testa mi gira e ogni cosa perde di significato.
“Ho paura” avevo detto a Dinah.
“Non devi.” Mi aveva risposto “E’ solo vento … Il vento non è pericolosa.”
Nello stesso istante, il rombo di un tuono aveva coperto gli ululati del vento e fuori aveva iniziato a diluviare.
Ricordo di aver iniziato a tremare. “Dinah … la pioggia è pericolosa?”
Lei mi aveva guardata. Aveva solo un anno più di me, ma i suoi occhi erano già quelli di un’adulta. Scuri, profondi, velati di una sfumatura di tristezza che avrebbe dovuto conoscere solo più tardi. 
“No”
“Però fa paura lo stesso”
“La paura è per i soldati, Siena, i contadini, le persone comuni. Non per una principessa”
Mi ero sentita mortificata. Avevo già sentito quella frase. Mio padre me la ripeteva sempre. E mia madre, la notte, prima che mi addormentassi, raccontava solo storie di principesse intelligenti e abili nel combattere. Principesse che non avrebbero mai avuto paura di un temporale.
Avevo guardato Dinah. Non sembrava avere paura.
“Dinah” avevo sussurrato “Tu sei una principessa?”
Ricordo distintamente il suono della sua risata. Basso, amaro, una specie di borbottio che esplodeva in un unico boato spaventosamente simile a quello dei tuoni.
“No, non lo sono e per quel che mi riguarda, non dovresti esserlo neppure tu”
Non avevo reagito.
Il temporale era durato tutta la notte.
Dinah era mia cugina, ma non era destinata al trono. I suoi genitori erano stati accusati di tradimento ed erano stati condannati al esilio. Mio padre, il re, aveva deciso di perdonare la loro unica figlia, all’epoca poco più di una neonata,  e di accoglierla nel suo palazzo. Ma non sarebbe mai più stata trattata come una nobile. Le furono tolti i titoli, i possedimenti, l’eredità dei suoi genitori, perfino i suoi ricordi. Mia madre le spiegò che i suoi genitori erano dei traditori, che lei era stata graziata e che avrebbe passato il resto della sua vita a difendermi. Nessuna di noi due seppe mai nulla di più al riguardo. Dinah fu la mia prima guardia del corpo. Trascorse diversi anni in una scuola militare, imparò a maneggiare il guio, un piccolo pugnale dalla lama di ghiaccio, la nostra arma più resistente e più umile. Quando terminò l’addestramento venne dichiarata primo Babbo, il grado militare più basso,  e durante una cerimonia d’investitura legò la sua vita alla mia e giurò  di proteggermi fino alla morte.
Quella fu la prima volta che la vidi.
Al termine della cerimonia, Dinah  venne condotta davanti a me.
“Principessa” sussurrò, inchinandosi.
“Alzati, guerriera” replicai come mi era stato insegnato.
Ricordo che la vidi scuotere la testa e portare una mano al pugnale. Non mi mossi. Mi era stato insegnato che la mia figura era inviolabile ed io non avevo mai dubitato, neppure per un secondo, che qualcuno potesse toccarmi senza il mio permesso.
“Grazie, principessa” borbottò infine, allentando la presa e alzandosi.
Io l’avevo guardata. Avevo cercato nel suo volto qualcosa che testimoniasse la nostra parentela, ma i suoi occhi erano marroni, i suoi capelli castani e corti, i suoi tratti più dolci, la sua carnagione più scura. Non ci assomigliavano. Eppure, quando lei aveva incrociato il mio sguardo avevo avvertito la sensazione, netta e inconfondibile, che le nostre vite, da quel momento in poi, sarebbero state legate per sempre. 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1- L'attacco ***


CAPITOLO 1
IL MONDO DEL NATALE

Passarono dieci anni e le cose cambiarono nel mio regno.
Non in meglio.
Circolavano delle voci. Si diceva che il re fosse stato maledetto, che una strega avesse lanciato un incantesimo su di lui e sulla sua stirpe e che saremmo tutti morti presto.
Forse ,era per questo che il numero delle mie guardie continuò ad aumentare di anno in anno. Ma più traditori imprigionava, più il re diventa timoroso. Aveva paura per me. Non voleva essere il primo della sua stirpe a non riuscire a passare il regno al suo erede.
Ogni giorno sentivo di gente condannata, uccisa senza un processo, torturata da quello stesso uomo che io chiamavo padre. Erano voci. Dinah non commentava mai. Si limitava a raccontarmi cosa mormorava il popolo. Si limitava ad alzare le spalle quando le chiedevo se ci credeva.
Poi, un giorno, le cose precipitarono.
Era sera e fuori minacciava pioggia. In camera mia, due cameriere mi stavano vestendo e preparando per la cena. Era stata una giornata come tutte le altre: noiosa e grigia. Vissuta con la costante sensazione di essere sul filo del rasoio.
Dinah era entrata come una furia nelle mie stanze, senza farsi annunciare, senza inchinarsi. Con i vestiti sporchi e strappati, il mantello rosso, segno di riconoscimento delle guardie di sua maestà,  strappato e macchiato di sangue e terra, i capelli castani abbandonati disordinatamente sulle spalle, il braccio destro ferito, gli occhi scuri e impauriti. Respirava a fatica e continuava a muovere la mano in cui stringeva il pugnale. Il suo guio, di solito immacolato e brillante, era chiazzato di sangue. Quando la luce delle candele lo colpiva, restituiva sinistri bagliori purpurei.
“Hanno … hanno” provò, ma un brivido lungo la spina dorsale la fece accasciare per terra
“Dinah!” urlai.
“Siamo in pericolo ”continuò, il viso pallido.
“Un panno bagnato!” ordinai ad una delle mia cameriere “Subito!”
Ma nello stesso istante, un violento boato scosse l’intero palazzo ed io provai l’inconfondibile sensazione di essere in pericolo.
Una guardia corse alla finestra.
Poi indietreggiò, pallida in volto.  
“Cosa succede?” domandai seccata.
Lui non rispose subito. Si limitò a guardarmi in volto.
“Ti ordino di dirmi cosa hai visto” riprovai, incrociando le braccia “Odio ripetermi”
 “Ci … ci attaccano” mormorò infine “Il popolo ci attacca”.
 
Tutt’attorno al palazzo milioni di persone si stavano radunando. Ovunque andassi, sentivo il suono delle loro voci, gli insulti che ci lanciavano, ciò che minacciavano di fare una volta entrati, il modo in cui avrebbero appiccato il fuoco se non avessimo aperto subito le nostre porte.
Ero confusa. Peggio, ero spaventata. Sapevo che mio padre aveva inasprito le misure di sicurezza, ma non pensavo che il popolo fosse giunto ad odiarci. Mi era stato insegnato che le principesse erano superiori al popolo, valevano di più e che perciò, erano per il popolo intoccabili. Avevo sempre vissuto nella ridicola certezza che nessuno avrebbe mai potuto uccidermi. E che il mio popolo mi avrebbe sempre protetta. Ma quella sera, mentre la luce delle loro lanterne colorava di rosso il cielo, mentre le loro lame di ghiaccio brillavano pericolose nella notte, mentre le loro voci urlavano tutte le pene che ci attendevano, ricordo di aver pensato che nessuno, nessun sovrano, nessuna principessa, nessun mago o sacerdote, avrebbe potuto salvarsi.
Mia madre entrò in quel momento.
Aveva i capelli biondi raccolti in una treccia ed un piccolo diadema bianco appoggiato sulla fronte, fatto di neve e decorato con gocce di rugiada. Un sottile velo azzurro pendeva dai lati e le ricopriva il viso. Il simbolo della sua regalità. Indossava un abito celeste, ma come me, non aveva ancora finito di prepararsi. La gonna le ricadeva larga in vita e non tutti i lacci del corpetto erano stati allacciati.
“Siena!” urlò, correndo ad abbracciarmi “Grazie al cielo”
“Che succede, mamma?” sussurrai, sperando quasi che lei mi sorridesse, mi portasse a letto e mi rispondesse che quello che era solo un brutto sogno e che tra poco mi sarei svegliata e tutto si sarebbe risolto.
“Non lo so, ma andrà tutto bene” Mi accarezzò il volto “Ti fidi piccola mia?”
Annuii, ma dentro di me ero sempre più spaventata.
Mio padre arrivò in quel momento, preceduto da svariate guardie “Siete qui!” ringhiò sollevato. Ci circondò in un ruvido abbraccio. “Dobbiamo muoverci. Non manca molto tempo. Nico dice che è questioni di ore prima che sfondino le porte”
Sentendosi chiamare, il capo delle guardie reali si fece strada tra i suoi uomini e si inchinò davanti a me e mia madre. Nico era giovane, aveva diciotto anni, l’età minima per diventare comandante. Mio padre l’aveva scelto perché ,in pochi mesi, aveva mandato a morte metà dei suoi soldati più capaci ed esperti e il numero di uomini in età adatta per rivestire  le cariche maggiori si era notevolmente ridotto. Ragazzi come Nico erano stati l’ultima possibilità per il re di evitare che l’intero esercito disertasse e fomentasse ulteriormente il popolo.
Nico era alto per la sua età e fin troppo magro per essere un soldato, ma ciò che gli mancava in corporatura, lo guadagnava in astuzia. Si diceva fosse un ragazzo dalla capacità tattica strabiliante ed era proprio per questo motivo che era diventato capo delle guardie reali. Aveva un viso dai tratti squadrati, la pelle chiara, un principio di barba sul mento, una zazzera di capelli biondi, quasi bianchi e due profondi occhi grigi con la stessa sfumatura di dolore che avevo imparato a conoscere in Dinah. Indossava una divisa rossa, con dei risvolti bianchi alle maniche e aveva una lunga spada di ghiaccio sul fianco destro. Quando parlò, sembrò più vecchio della sua età. “Secondo i miei calcoli, ci metteranno due ore a rompere le porte. Da lì in poi saranno inarrestabili. Non tutti sanno combattere, ma sono molti, moltissimi, e alcuni di loro sono dei disertori, non potremo resistere per molto”
“Fuggire?” domandò mia madre “Almeno Siena. Siena deve andarsene. Vogliono noi, non lei”
Al suono di quelle parole mi strinsi ancora di più a mia madre. “Non voglio lasciarti” sussurrai. Lei si limitò a ricambiare la stretta e capii che l’idea di lasciarmi non le piaceva più di quanto piacesse a me.
“Glielo avevo già chiesto” rispose mio padre, a voce bassa. Alzai lo sguardo. Era vicino alla finestra, continuava a guardare fuori come se non riuscisse a credere a ciò che stava accadendo. “Hanno circondato tutte le uscite”
Il re era un uomo alto, forte, dai tratti decisi. Aveva un portamento sicuro, una barba rossa ai lati del viso, gli occhi più verdi che avessi mai visto, quasi come delle nuvole che annunciano tempesta e molti e ribelli capelli rossi. Sapevo di assomigliare molto più a lui che a mia madre. Sapevo di avere gli stessi capelli, gli stessi occhi e secondo alcuni avevo persino lo stesso portamento. Ma i nostri libri di storia dicevano che lui possedeva “Il fuoco fuori e dentro di sé” Ed io, quel fuoco, non l’avevo. A dirla tutta, era passato un po’ di tempo dall’ultima che l’avevo visto brillare anche nei suoi occhi, ma sapevo bene a cosa si riferiva quella frase. C’era una forza in mia padre, un’energia, una capacità di trarre forza dal pericolo, dalle avversità, paragonabile solo al potere distruttivo del fuoco. Era un’energia che anni prima gli aveva permesso di sottomettere i popoli di del Nord, di ereditare il regno al posto di suo fratello più grande, di far innamorare di sé la donna più bella del regno e di riuscire ad essere amato dal popolo. Ma quel fuoco aveva iniziato a spegnersi dopo il tradimento di mio zio e aveva continuato ad affievolirsi sempre più di anno in anno. E quella sera, davanti alla mia finestra, per quanto ognuno di noi desiderasse vederlo, di quel fuoco non c’era traccia. 
I gemiti di Dinah ci riportarono tutti alla realtà.
Mi gettai su di lei.  
Lei aprì gli occhi e cercò di mettermi a fuoco.
“Siamo in pericolo …” la sentì sussurrare.
“Lo so, lo so ” risposi “Va tutto bene? Mi senti? Mi riconosci?”
“Io …”
Ma l’urlo di mia mamma la interruppe “Un medico! Per l’amor del cielo, un medico!”
“Non è necessario” tossicchiò Dinah “Sto bene, davvero” continuò, mettendosi a sedere. Ma la smorfia di dolore sul suo volto e la ferita al braccio sembravano dire il contrario. Guardai il sangue che colorava di rosso l’intera manica della camicia. Lei seguì il mio sguardo ed alzò le spalle. “Non preoccuparti, principessa. Ho visto di peggio”
Non le credetti, ma conoscevo abbastanza bene Dinah per sapere quanto fosse orgogliosa.
“Esattamente, mio re” disse Nico, riportandomi alla realtà “Non c’è via di fuga. Dobbiamo trovare il modo di resistere a questi ribelli. Ho già calcolato che il castello può sopravvivere a un assedio per quattro giorni, anche cinque e in questo lasso tempo, il resto dell’esercito riuscirebbe a raggiungerci e a quel punto dovremmo riuscire a pareggiare le forze ” Nico parlava velocemente, i suoi occhi si fermavano su ognuno di noi senza guardarci realmente. Sembrava pensare alla velocità della luce. Ogni suo gesto accompagnava un pensiero. Per un attimo, sembrò davvero il miglior stratega di tutti i tempi “Dovrei solo riuscire a trovare un mio uomo molto veloce e un altro capace di convincere la folla a desistere dall’assalto, per stasera. Alcuni di loro sono soldati, bisogna trovare il modo di risvegliare il loro onore. Bisogna che ricordino che non c’è vittoria, se non c’è onore, bisogna che …”
“E a cosa servirebbe?”
Il tono con cui mio padre parlò ci colse di sorpresa. Non era un tono da re, non era il tono di un uomo che ,si diceva, avesse ucciso dieci uomini dei popoli del Nord a mani nude. E le parole che disse non erano le parole di un uomo con il fuoco dentro. “Ci riattaccheranno. Se non stasera, domani, se non domani, dopodomani, ma ci riattaccheranno” Si voltò, un’ombra nello sguardo “Non voglio condannarvi tutti. Chiunque voglia è libero di andarsene, di unirsi a loro” e con un gesto di stizza indicò la mia finestra “Ma io ho combattuto troppe battaglie e ho perso quelle più importanti. Mio fratello mi ha tradito, mia figlia è condannata, ho decimato il mio popolo e là fuori ci sono persone pronte a mettere a ferro e fuoco il mio regno per punirmi, ma io non sarò mai più codardo, mai più” Si voltò verso mia madre e le strinse la mano “Devo saldare i miei debiti, Luce” mormorò “Ho ucciso il mio popolo, mi merito la sua vendetta”
“Ti prego, Severio, no!” Si oppose lei, afferrandogli le mani “Pensa a tuo padre, hai giurato di proteggere per sempre la sua casa, pensa a me! Pensa a tua figlia!” Quelle parole sembrarono catturare la sua attenzione “Pensa a Siena” continuò mia madre “Credi che la risparmierebbero? Credi che la lascerebbero libera solo perché tu ti sei consegnato? E’ l’erede al trono! Severio, se tu ora ci abbandoni, la condanni a morte. La prenderanno, la imprigioneranno, la umilieranno e poi la uccideranno. Ti prego …” mormorò mia madre, scoppiando in singhiozzi “Salva almeno lei”.
Mio padre le accarezzò il viso, asciugandole le lacrime, poi mi guardò.
“Non la abbandonerò” disse infine. E il sollievo che provai mi fece quasi piangere “Ma non posso combattere contro il mio popolo”
Tutti nella stanza si irrigidirono. Mia madre sussultò. “Non vorrai … ”
“Sì” la interruppe il re, recuperando per un attimo la forza che gli apparteneva “E’ l’unica soluzione”
“Mio re” s’intromise Nico, facendo un piccolo inchino “Non credo che sia la scelta migliore. Il passaggio infra-mondo è sempre stato molto instabile ed è molto tempo che nessuno lo usa, non sappiamo cosa potrebbe esserci dall’altra parte e …”
Mio padre lo interruppe con un gesto “Non ho detto che è la scelta migliore, ho detto che è l’unica”.
“Ma …” fece debolmente Dinah, tentando di inchinarsi “Sarebbe comunque un suicidio. La principessa non è pronta, non sarebbe capace di affrontare nessun pericolo da sola …”
“Non sarà da sola” la interruppe mio padre fissandola “E  … per l’amor del cielo! Chiamate un medico” fece rivolgendosi a una cameriera che uscì traballante dalla stanza.
“Come non sarò da sola?” protestai, iniziando a capire ciò a cui tutti erano già arrivati: non sarebbero venuti con me. I miei genitori, mio padre, mia madre, la mia vita. Mi avrebbero lasciata. Per il mio bene. E loro sarebbero rimasti a farsi massacrare. “Padre” lo implorai “Non farmi andare! Non lasciarmi sola! Tienimi qui con te. Non mi interessa di morire, non mi interessa. Non mi lasciate. Voglio rimanere con voi” Mentre parlavo, cercando di nascondere il tremore della mia voce, i miei occhi iniziarono ad offuscarsi. Lacrime calde caddero sul mio viso.
Tutta la mia tristezza si rifletteva in mio padre. “Mi dispiace, piccola” fece abbracciandomi “Non possiamo venire e tu non puoi rimanere. I sovrani possono salvarsi, sai?” fece, abbassandosi fino ad arrivare alla mia altezza “I sovrani, di solito, si salvano. Perché, anche se sono stati stupidi, il popolo si ricorda anche di quando sono stati buoni e giusti. Ma una principessa si salva più difficilmente, perché non ha ancora dato prova del suo valore”
“E allora diteglielo voi!”
Gli occhi di mio padre si fissarono nei miei e mi guardarono intensamente “Ci vuole del tempo. Dobbiamo prima riacquistare la fiducia del popolo. Poi, potremo parlare anche della loro principessa, delle sue doti, di quanto bene potrebbe portare, tornando. Ma non prima, capisci Siena?”
Annuii. Sembrava tutto ragionevole. Tutto giusto. “Quindi non è un addio?” chiesi.
“No, piccola, non lo è” disse lui, abbracciandomi, ma stava piangendo. Non mi mossi. Volevo credere a mio padre, a ciò che mi aveva detto. “Non è un addio” mormorai a voce bassa, assaporando il suono rassicurante di quelle parole “Non è un addio” ripetei cercando di convincermi. Era tutto ciò che mi rimaneva.
Mio padre si rialzò e gettò uno sguardo per la stanza. “Nico, Dinah voi accompagnerete mia figlia”
Se uno di due si stupì di quest’ordine, non lo diede a vedere. “Sì, mio signore” risposero all’unisono.  
Notai, con sollievo, che la ferita di Dinah era stato pulita e medicata e che faceva meno fatica a muoversi.
Mio padre annuì soddisfatto, ma nello stesso istante un rumore sordo riecheggiò per le mura. Udimmo le loro urla ancora prima che entrassero.
“Hanno sfondato le porte” annunciò Nico,  incrociando il mio sguardo. Impallidii. Per un secondo, solo per un secondo, avevo visto una scintilla di paura nei suoi occhi. Nico era il capo delle guardie reali, dei Babbi Natali, come li chiamava il popolo. Era già stato in battaglia, aveva già ucciso, si diceva che con un suo piano di attacco avesse fatto naufragare un’intera flotta nemica. Quelli come lui non potevano avere paura.
“Non è un addio” mi ripetei. Mentre da lontano, udimmo centinaia di persone salire le scale per venirci incontro.
“Andate! Presto!” ordinò mio padre, abbracciandomi un’ultima volta.
“Siena” mi chiamò mia madre “Prendi questo” disse, estraendo un piccolo pugnale da una tasca nascosta nelle gonna “Potrebbe servirti, là dove andrai”
Lo fissai. Aveva l’elsa d’oro e la lama di ferro. “Non è del nostro mondo” sussurrai.
Lei mi strinse forte e mi baciò “Ti voglio bene, piccola” Poi, con ultimo, triste sguardo, mi spinse via.
“Andiamo!” ordinò Nico, afferrandomi per un braccio.
Guardai i miei genitori finché riuscii.
Anche se quello non era un addio, ne aveva decisamente il sapore. E trattenendo le lacrime, iniziai a correre nelle sale del mio palazzo, della mia casa, illuminate a giorno dal fuoco con cui il mio popolo voleva uccidermi.

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Capitolo 3
*** Capitolo 2- Passaggio Infra-Mondo ***


Ricordo di aver pensato che il palazzo era davvero grande.  E che, se non ci fossero stati Dinah e Nico a guidarmi, mi sarei persa.
Ci muovevamo furtivi. Io, con tutti quei metri di tessuti e un pugnale nella mano, con i piedi nudi, dato che mi ero anche dimenticata le scarpe, rallentavo il gruppo. Ma Nico e Dinah mi aspettavano sempre. Formavano una squadra perfetta, a dire il vero. Sapevano cosa fare, anche senza dirselo. Sapevano chi dei due doveva aspettarmi e chi doveva andare in avanscoperta per assicurarsi che la strada fosse libera.  Cambiammo strada solo un paio di volte. Immaginai che il popolo non conoscesse il mio palazzo tanto meglio di me, perché più ci allontanavamo dalle stanze reali, più le loro grida si attutivano.
Iniziammo a scendere. Attraversammo le stanze della servitù, quelle dei soldati, la dispensa, scendemmo fino ad arrivare alle fognature del palazzo.  Non sapevo dove mi stavano portando, ma fu a quel punto che iniziai ad avere paura.
“Dove siamo?” domandai  “Dove stiamo andando?”
“Non c’è tempo per questo” ringhiò Dinah, afferrandomi per il polso “Muoviti, Siena!”
So benissimo che una guardia non dovrebbe rivolgersi così al proprio sovrano, ma Dinah lo aveva sempre fatto. Quando eravamo da sole, era raro che mi chiamasse principessa. E anche se non ne conoscevo il motivo, quella confidenza non mi aveva mai dato fastidio. Nelle notti più buie, quando fuori aveva fatto freddo e il vento ululava più forte di qualunque cosa, sentire la sua voce, il mio nome pronunciato con tono di disapprovazione e non di rispetto, mi aveva sempre fatto sentire al sicuro.  Dinah era come una sorella per me. Per la maggior parte del tempo. Ma nessuno lo sapeva. Forse neanche lei.  
Ci arrestammo di colpo e io sbattei contro la schiena di qualcuno.
“Che succede?” chiesi seccata, massaggiandomi il naso.
Davanti a me c’era un muro. Era piuttosto malridotto. Ricoperto di muffa e ragnatele. Dinah e Nico gli sia avventarono contro e iniziarono a colpirlo con fendenti e calci. A un certo punto, Nico iniziò perfino a prenderlo a testate.
“Che state facendo?” sbottai, afferrandoli per le spalle. Non servì a molto, si liberarono dalla mia stretta e ricominciarono a menare fendenti a destra e manca.
“Fermi!” riprovai “Fermatevi! Esigo di sapere cosa state facendo!”
“Non si vede?” rispose Dinah, con la fronte imperlata di sudore “Stiamo cercando una porta”
La fissai perplessa.  “Quale porta? C’è solo un muro!”
“E’ una porta segreta, infatti” spiegò Nico, infilzando la sua spada in una fessura tra due mattoni “Dietro questo muro c’è una stanza. E’ lì che si trova il passaggio infra- mondo”
“Ancora questa parola” incrociai le braccia “Cos’è un passaggio infra-mondo?”
Le spalle di Nico si irrigidirono improvvisamente. Allentò la presa sulla sua spada e si voltò verso di me. Mi studiò con un’intensità tale da mettermi a disagio. “Davvero non sai cosa sia?”
“No” risposi, sforzandomi di non distogliere lo sguardo.
“Non può essere … Tutti i sovrani sanno cos’è. C’è stato un tempo in cui anche ogni suddito lo sapeva” un lampo improvviso negli occhi, un passo nella mia direzione “Come puoi non saperlo?”
“Non lo so!” sbottai, trattenendo a stento le lacrime “Non so un sacco di cose! E c’è stato un tempo in cui il mio popolo non avrebbe mai attaccato il palazzo! Quindi dimmelo tu! Sei qui per proteggermi! Dimmelo tu!”
Lampi d’odio nei suoi occhi grigi. Lui torreggiava su di me, la mascella contratta, le spalle tese. Ma io ero la sua principessa ed un giorno sarei stata la sua regina. Mi costrinsi a sostenere il suo sguardo. Non sarei stata io ad indietreggiare.
Qualcosa nella sua espressione mutò. L’odio tornò ad essere calcolo, il grigio degli occhi, una nebbia impenetrabile.  
Si allontanò di qualche passo. “Il passaggio infra- mondo è un specie di tunnel tra il nostro mondo e la Terra” mormorò infine, tornando a colpire il muro.
Terra … Non conoscevo il significato di quella parola. Non ancora. Ma l’ avevo già sentita. Anche se non ricordavo né dove, né perché. Avvertii la testa iniziare a girare, mentre una parte di me, una parte che era stata nascosta per molto tempo, tornò a farsi sentire. Mi guardai attorno. Mi sembrava di essere già stata lì. In un altro tempo, quando ero più piccola. L’occhio mi cadde sul muro. Mi mossi come un automa, con la sensazione di stare sognando. Ogni cosa, attorno a me, si fece confusa, ogni suono ovattato. Misi una mano al centro del muro e la sentii combaciare perfettamente con un’impronta, una specie di serratura nascosta da anni di sporcizia. Osservai una luce bianca disegnare i contorni della mia mano e poi esplodere in un unico, meraviglioso bagliore che colorò ogni singola crepa di quel muro. Tutto a un tratto, la luce aumento di intensità e mi costrinse a chiudere gli occhi. Quando li riaprii, davanti a me, come se fosse sempre stata lì, c’era una porta di legno.
Mi allontanai lentamente, avvertendo la testa girare terribilmente. Sentii qualcuno cingermi la vita.
“Siena, ti senti bene?” domandò Dinah, ma io non ero sicura di avere le forze di risponderle.
Nico mi guardò, poi guardò la porta, infine scrollò le spalle e l’aprì con un calcio.
“Via libera” annunciò, entrando.
Dinah annuì, poi, sorreggendomi, raggiunse Nico.
Entrammo in una stanza circolare più alta di quello che mi era immaginata. Il pavimento era fatto di ghiaccio. Un ghiacciò così liscio, così bianco da brillare quasi di luce propria. Una luce molto simile a quella di poco prima. Osservandolo meglio, capii che non era lui a brillare, ma le minuscole scritte incise su di esso. Era così minute, così perfettamente intagliate, da sembrarne parte integrante. Mi abbassai per sfiorarne una e quando la toccai, la luce divenne più intensa. Sorrisi. Era un bel posto per morire.
“Che lingua è?” domandò Dinah, osservando il pavimento.
Aguzzai lo sguardo. Era vero, quello non era il nostro alfabeto. Ad essere sincera non assomigliava a nessun genere di alfabeto di mia conoscenza. Ogni scritta sembrava variare a suo piacimento. Alcune erano tondeggianti, altre più rigide, certe si rimpicciolivano, altre ancora andavano a capo in maniera brusca, fino a formare due ordinate colonne. Il mio sguardo si posò su delle scritte più elaborate, avvicinandomi capii che non erano scritte, ma dei disegni. Figure con il corpo d’uomo e la testa d’animale .
“Dobbiamo darci una mossa” la voce di Nico riecheggiò tagliente nella stanza “Dinah, estrai la tua spada, principessa, anche tu, prendi il tuo pugnale”
Mi riscossi all’improvviso e ancora un po’ intontita strinsi il pugnale di mia madre. Quando vidi la velocità e la precisione con cui Nico e Dinah estrassero le loro armi, avvertii una fitta di paura. Il suono metallico delle loro spade risuonò nella stanza, perforandomi i timpani. Sospirai. Non era il momento di perdere la testa.
“Io, Nico di Noci, cavaliere del mondo del Natale” esordì il ragazzo, con una voce così severa, da farmi credere , ancora una volta, che avesse molto più di diciotto anni “Dichiaro di proteggere fino alla morte, in questo mondo o in un altro, contro ogni tipo di nemico, ricordando che il mio compito principale è mantenerla in vita, la principessa Siena di Spagna” e così dicendo si inginocchiò e infilzò con tutta la forza che gli era rimasta, la sua spada nel ghiaccio. Vidi le parole attorno a lui illuminarsi e aumentare di intensità e lentamente, librarsi  in aria e avvolgerlo. Lui chiuse gli occhi, sembrava non accorgersi di nulla.
Gridai, ma prima che potessi muovermi, anche Dinah conficcò il suo guio nel ghiaccio e le parole presero ad alzarsi e a circondarla. Sembravano quasi dei piccoli tatuaggi. Ma poi il suo volto iniziò ad apparirmi confuso, troppo luminoso e tutto ciò che riuscii a distinguere ,alla fine, fu la sua sagoma, bianca ed immobile.
Provai ad alzarmi, ma fu inutile. Ero come incollata, una forza invisibile mi vietava di muovermi. Gridai, ma nessuno rispose. D’improvviso avvertii un forte calore alla mano destra, dove stringevo il pugnale. Una scritta, una piccola scritta, di una lingua sconosciuta, andò a imprimersi sul palmo. Vis. Forza. Era Latino. Sussultai. Io non sapevo neppure cosa fosse il latino. Cercai di cancellarla, ma ottenni solo di aumentare il suo calore. Trattenni le lacrime, mentre tutte le scritte di quella stanza iniziarono a brillare ed alzarsi in volo. Avevo paura. Molta paura. Ed ero sola. Guardai Nico e Dinah le loro sagome illuminate e la disperazione divenne odio. Non avrebbero dovuto abbandonarmi così! Io ero la loro principessa, avevano fatto un giuramento. Il calore alla mia mano iniziò a diminuire e divenne quasi piacevole. Vis . Risuonava bene nella mia mente. Guardai il pugnale di mia madre, le parole che volevano attorno a me e tutto ciò che pensai fu che io avevo già vissuto quel momento, qualcuno mi aveva insegnato il latino, qualcuno mi aveva già portato lì. Chiusi gli occhi e lasciai che a guidarmi fosse quello stesso passato che di solito mi indeboliva fino a farmi perdere i sensi. C’era un vuoto, nei miei ricordi. Un specie di buco nero che iniziava con la mia nascita e finiva con il ricordo di quel temporale e le parole di Dinah non sono una principessa.
Ogni volta che provavo a ricordare qualcosa di più, la testa mi girava, le gambe cedevano ed io dovevo rimanere a letto per giorni. Avevo provato a chiedere spiegazioni. A mia  madre, mio padre, alla stessa Dinah, alla servitù, alle mie dame di compagnia. Ma tutto ciò che avevo sempre ottenuto in cambio erano stati sguardi di paura e dolore. “Non preoccuparti, piccola” mi diceva mia mamma, di solito “Un giorno ricorderai”. Per il resto del tempo, cercavo di non pensarci. Stavo troppo male e ricordare, col tempo, era diventato sempre meno importante. Ma, quella sera, in quel momento, capii che ricordare era la mia unica speranza.
Perciò presi il pugnale, lo alzai in aria e giurai di vivere fino a che il mio regno avesse avuto bisogno di me, che non sarei mai venuta meno ai miei doveri.  Poi, quasi con dolcezza, incastrai il mio pugnale nel ghiaccio, sapendo che lo avrebbe tagliato come burro. Vidi le parole volare verso di me, le sentii stringere, bruciare, ma non provai dolore. Chiusi gli occhi mentre sentivo il mio corpo sollevarsi da terra e perdere consistenza.
Non so come descrivere la sensazione di un viaggio infra-mondo. Sembra quasi di sognare, solo che ti rendi conto che quel momento è vero. E’ come non sentire il tuo corpo, ma sapere benissimo che dentro ci sei ancora tu. Ti senti schiacciato, la testa sempre più compressa, l’aria ti manca fino a che, all’improvviso, capisci che ,invece, stai volando, che sei in mezzo al nulla e che potresti rimanere lì anche per l’eternità. Poi, tutto finisce. E ti ritrovi in caduta libera, a gridare, con milioni di luci che si fanno sempre più vicine.
 
Avevo letto da qualche parte che cadere nell’acqua da un’altezza elevata, era come spiaccicarsi su una lastra di ghiaccio. Ecco perché , quando capii di stare andando a schiantarmi in un fiume, le mie grida aumentarono. Mi guardai attorno, ma non sembrava esserci nessuno in grado di aiutarmi e con orrore mi resi conto che sarei morta in un fiume, a causa di una panciata. E se la situazione non fosse stata così drammatica, avrei anche riso. Ma lì per lì, tutto ciò che mi venne in mente di fare fu di agitare le braccia su e giù come avevo visto fare agli uccelli, convinta ,immagino, che sarei riuscita a volare. Logicamente non fu così, perciò ,quando mi trovai a pochi metri dall’acqua, chiusi gli occhi e lasciai uscire una lacrima.
Fu a quel punto che qualcosa mi afferrò per la vita, ma quando tentai di aprire gli occhi , sbattei la testa e tutto divenne nero.
 
Quando mi ripresi, la testa continuava a girare terribilmente. Mi guardai attorno, ma era tutto troppo scuro perché potessi distinguere qualcosa. Alle mie spalle, sentii qualcosa grattare, poi una specie di mormorio.
“Siena?” fece una voce, cogliendomi di sorpresa. Mi voltai, cercando di ignorare il dolore lancinante alla testa e incontrai un paio di occhi color cioccolato “Ti senti bene?” mi chiese Dinah.
Annuii, ma sapevo che la mia faccia non era d’accordo.
“Nico ti ha presa appena in tempo” fece, avvicinandosi e tastandomi le costole “Non sembra esserci nulla di rotto”.
Un grugnito attirò la mia attenzione “Non sarebbe dovuto esserci nessun appena in tempo” borbottò Nico, alzandosi in piedi e mettendosi davanti a Dinah. Li guardai e per la prima volta mi accorsi dell’espressione sui loro volti: rabbia.
“Che è successo?” tossicchiai, tentando di alzarmi.
“Stai giù, principessa” mi ordinò Nico, degnandomi appena di uno sguardo “Sei troppo debole”
“Non è troppo debole” lo corresse Dinah seccata “E comunque non possiamo passare qui la notte”
“Qui dove?” chiesi. C’era troppa poca luce perché riuscissi a distinguere qualcosa, ma in lontananza sentii l’acqua infrangersi a riva. Evidentemente non dovevamo essere così distante da dove avevo rischiato di morire. Con un brivido ricordai quei momenti. Gli ultimi che avevo creduto di poter vivere.
“Se tu avessi aspettato la principessa, lei non avrebbe rischiato la vita ed ora sarebbe abbastanza in forze per muoversi” stava dicendo Nico, facendo saettare continuamente gli occhi dal fodero della sua spada a Dinah.
“Sei tu che dovevi dirmelo, capo” ribatté lei, sarcastica.
Osservai la mano di Nico serrarsi attorno all’elsa della sua spada “Il nostro compito è quello di difenderla, primo Babbo, capito?”
L’aria si fece pesante. Il primo Babbo era il grado militare più umile di tutti. Di solito, era conferito solo agli schiavi liberati o ai figli dei contadini più poveri. Dinah era stata la figlia di un erede la trono, era stata la nipote del re, era stata nobile, molto più di quanto Nico avrebbe mai potuto essere. E poi era diventata figlia di un traditore, era stata graziata e accolta in casa del uomo che aveva condannato i suoi genitori, era stata privata dei suoi titoli e ed era stata costretta a diventare primo Babbo e ad accettare che quella era e sarebbe rimasta la massima carica militare a cui avrebbe mai potuto aspirare. Dare del primo Babbo a Dinah voleva dire ricordarle ogni singolo evento di un passato ancora più oscuro del mio.
Ma Nico non sembrava sentirsi particolarmente in colpa. Mi si avvicinò e si inchinò “Principessa, ci muoveremo tra un’ora, d’accordo?”
Annuii e mi chiesi quale sarebbe stata la sua reazione se avessi provato a contraddirlo.
“Nico” lo chiamai, mentre sentivo la testa riprendere a farsi pesante “Dove siamo?”.
I suoi occhi brillarono, ma non riuscii a capire perché “New York, principessa. Il posto dove la magia del Natale batte più forte”.
C’erano almeno un altro milione di domande da fare, come, ad esempio, capire cosa fosse la magia del Natale, ma Nico mi fece segno di tacere ed io mi sentii improvvisamente davvero tropo stanca.
 
 

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Capitolo 4
*** Capitolo 3- Times Square ***


Non avevo mai visto così tante persone in una solo luogo. Fu questa la prima cosa che pensai quando sbucammo in quel enorme viale illuminato da milioni di immagini. La seconda fu che una donna mi fissava.
Non avevamo camminato a lungo. Almeno, io no.
Dinah mi aveva improvvisamente svegliata e mi aveva detto che era il momento di andare e che stavo ritardando l’intero piano. Io avevo annuito e con la testa ancora dolorante, mi ero messa in cammino. La verità, immagino, è che quando si vuole bene a qualcuno, riesce impossibile pensare che quel qualcuno proverebbe mai a fare qualcosa che non sia per il nostro bene.
Non faceva freddo. Nevicava, ma ricordo che l’aria era calda. Nico era davanti a noi, camminava spedito, una mano sulla spada pronto a sguainarla in caso di pericolo, le orecchie tese a captare ogni suono, gli occhi fissi sulla strada, per distinguerla nel buio. Non avevo mai visto nessuno affidarsi in modo così totale ai propri sensi. Non avevo mai visto un bravo sodato combattere un nemico che non conosceva.
Risalimmo la riva e sbucammo in una strada ancora più scura. Storsi il naso. L’aria sapeva di pesce. “Di qua” disse Nico, scattando a destra. Lo seguii.
Ci ritrovammo di fronte ad una strada minuscola, stretta da due muri altissimi. Aguzzai lo sguardo, ma il buio sembrava addirittura aumentare lì dentro. Nico esitò.
“Non c’è un’altra strada?” domandai, ascoltando la mia voce rimbalzare su quelle mura fino a diventare simile all’ululato del vento. Rabbrividii.
Lui scosse la testa “Non lo so, ma non c’è tempo per provare. Dobbiamo allontanarci il più possibile da lì. Se il popolo trovasse quella sala, se capisse cosa abbiamo fatto, lo rifarebbe immediatamente e arriverebbe esattamente dove eravamo noi prima” osservai la sua mandibola tendersi “E tutto questo non sarebbe servito a nulla”. Mi guardò e ancora una volta, anche se nell’oscurità più totale, feci fatica a sostenere il suo sguardo.
“E allora muoviamoci” disse Dinah, schioccando la lingua.
Nico distolse lo sguardo . “Sì” approvò ed avanzò per primo.
Dinah gli fu subito dietro ed io ,a malincuore, li seguii. Quando misi un piedi a terra, lo sentii sprofondare. Repressi un conato di vomito e mi augurai che fosse solo fango.
Ad ogni passo che muovevamo, le pareti sembravano restringersi. Nico voltava a destra, poi a sinistra, sembrava conoscere perfettamente la strada fino a che, d’improvviso, si fermò.
“Che c’è ,ora?” domandò Dinah seccamente.
Nico si voltò “Mi sono perso.”
Trattenni un urlo, mentre il mio sguardo iniziava a guardare in ogni direzione, cercando una via d’uscita.
“Come puoi esserti perso?” sibilò Dinah, riducendo gli occhi a una fessura “Sei riuscito ad orientarti fino ad adesso, puoi farcela ancora!”
Lui sbuffò “Non si trattava di orientamento” ribatté, voltandosi verso il muro “Si trattava di logica. La sponda di un fiume la puoi risalire in un solo modo, non trovi?”
Dinah non rispose, ma la vidi serrare i pugni. Non le piaceva perdere.
“Come pensavo” continuò lui, aggrappandosi ad una specie di sporgenza “Adesso, se non ti dispiace, dammi una mano e arrampicati! In cima dovremo riuscire ad orientarci” .
Lei grugnì, ma era pur sempre un soldato e obbedì all’ordine di un superiore. Si diresse verso un muro e iniziò a tastarlo in cerca di un appiglio.
Fu a quel punto , immagino, che due dei migliori soldati del mio regno non furono in grado di scavalcare un muro. Ci provarono, diverse volte. Cercavano sporgenze, si issavano con tutta la forza di cui erano capaci e riuscivano persino ad avanzare di qualche metro,ma ,poi, puntualmente ,cadevano giù. Li guardai. La situazione era anche divertente. Diverse volte dovetti trattenere una risata, ma dopo un po’, quando la loro frustrazione divenne rabbia, bastò uno sguardo a zittirmi.
Infine, quando Dinah cadde per l’ultimo volta, tirò un calcio al muro che però, stranamente, risuonò. Un suono metallico, ma anche di contenitore vuoto. Non era il suono di un muro.
“E’ una cassa” mormorò incredula, tirando un altro calcio “E’ una stupida e gigantesca cassa di metallo!”
Nico si avvicinò “Lo sono tutte”.
Mi guardai attorno. Nell’oscurità più totale sembravano solo pareti. Appoggiai una mano su quella più vicina a me e la sentii fredda. Fredda come ghiaccio. Ma conoscevo la differenza e quello era davvero metallo. Pensai al mio mondo, il vostro non lo conoscevo ancora e mi chiesi a cosa diavolo sarebbero potute servire casse di metallo di quella dimensione. Alzai lo sguardo e seguii il loro profilo.  Arrivano così in alto che sembravano quasi toccare le nuvole. Nico aveva ragione, da lassù avresti potuto orientarti.
Fu proprio allora che una strana idea si fece largo nella mia mente. Aumentai la presa sulla cassa e strinsi più forte il coltello di mia madre. Sapevo che quella era un’idea assurda. Sapevo che le casse erano di metallo e che il metallo era duro come il ghiaccio. Sapevo che non avrei mai avuto abbastanza forza neppure per scalfire quella superficie, ma una parte di me, una parte piuttosto testarda, evidentemente, non lo sapeva ed io le creddetti. Chiusi gli occhi e poggiai delicatamente il coltello sulla cassa.  Alle mie spalle sentii Dinah e Nico discutere. Le loro voci mi giungevano ovattate e confuse, come se fossi stata avvolta da un telo invisibile. Fui tentata di allontanare il pugnale e mettere più forza nel colpo, ma una parte di me, sempre la stessa, immagino, sapevo che non era necessario. Trassi un profondo respiro, poi, spingendo leggermente, conficcai la lama nella parete di metallo ed iniziai a salire. Il suono che il pugnale emetteva ogni volta che perforava la cassa sembrava quasi innaturale. Era come una specie di melodia. Una melodia dolce che avevo già ascoltato, anche se non sapevo dove. Scossi la testa. Non era il momento di perdere i sensi. Appoggiai la mano libera su una specie di vite mentre con l’altra estrassi il coltello e lo conficcai un po’ più in alto. Dovevo stare attenta, nonostante il pugnale, faticavo a salire. Dovevo guardare dove c’erano degli appigli, dove cercare di appoggiare i piedi. A metà tragitto i muscoli iniziarono a fare così tanto male da bruciare. Urlai, ma qualcuno mi aveva già preceduto. Guardai in basso e mi vennero i brividi. Dinah e Nico stavano gridandomi di tornare giù , agitavano le braccia e si muovevano in tutte le direzione, con lo sguardo allarmato. Non riuscivo a sentirli . Ero troppo in alto. E d’improvviso, mi sentii stanca. Così stanca da non avere nemmeno paura. Sentii le braccia cedere, le mani allentare la presa, il pugnale suonò un’ultima nota. Un mi. E una voce risuonò nella mia testa. Chiusi gli occhi e ricordai mia madre accarezzarmi di notte e intonare quella ninnananna per proteggermi dal temporale. Ricordai anche che ero sempre stata troppo pigra per imparare il testo, eppure, quella notte, la mia voce si unì a quella di mia madre e alle  notte emesse dal pugnale.  Ed io mi sentii rinascere
 
La neve scende
E le luci si spengono,
non temere la pioggia,
non temere il freddo,
il cuore di chi ti ama rimane con te
non temere il buio, perché
i sogni sono colorati
 
Solo quando arrivai in cima, mi resi conto di aver cantato. Solo quando arrivai in cimami resi conto che nessuno mi aveva mia cantato quella ninna nanna. La stessa che il coltello di mia madre intonava.
 
Quando tornai a terra , Nico e Dinah mi sgridarono, mi abbracciarono, mi dissero di non farlo mai più, mi domandarono cosa avessi visto, come avessi fatto, vollero provare il pugnale, vollero sapere perché avessi cantato. Ma quando non riuscirono a incastrare il coltello nelle casse, dopo che ebbi spiegato a Nico per l’ennesima volta cosa avevo visto, sentii la testa iniziare a girare e persi i sensi. Fu allora che smisero di tempestarmi di domande. 
 
Non so per quanto rimasi incosciente. So solo che al mio risveglio, ero sdraiata su una roccia, che aveva smesso di nevicare e che anche se non c’era il sole, finalmente riuscivo a distinguere l’ambiente attorno a me. Ci trovavamo in un enorme giardino, delimitato ai lati da un bosco. Oltre il bosco c’erano le montagne più strane che avessi mai visto. Erano alte e squadrate e risplendevano. Avevano come delle piccole lanterne quadrate sui lati ed io mi chiesi come riuscissero a non prendere fuoco. Provai a muovermi, ma Dinah mi fermò “Stai bene?” fece, apprendo dal nulla e riportandomi a terra “Sei sicura di riuscire a muoverti?”
Non l’avevo mai vista così allarmata. Aveva le pupille dilatate e parlava velocemente come se avesse avuto paura.
“Sto bene” tossicchiai “Ed in ogni caso non voglio passare la notte fuori”
“Beh” intervenne Nico, venendo a sedersi accanto a Dinah “La verità è che io non so dove andare. Dopo che hai perso i sensi, principessa, siamo usciti da quella specie di labirinto a quel punto ci siamo trovati su una strada piena di strane carrozze. Andavano velocissime ed erano piene di luci e andavano in direzioni diverse. Non sapevamo cosa fare, quindi siamo saltati sul retro piatto e scoperto di questa carrozza arancione e rotta e siamo arrivati fino a qui. Poi il cocchiere è sceso e quando ci ha visti a iniziato ha gridare, aveva tanti capelli e sapeva di alcool” al suono di quella parola suo viso di Nico comparve una strana smorfia “Ho preferito andarcene ed ora siamo qui”E con un gesto indicò quel giardino “Per stasera non posso offrirti altro, principessa”.
Annuii sconsolata, mentre Dinah sbadigliava.
“Credo che sia il caso di dormire” disse, sdraiandosi accanto a me.
Nico annuì “Faccio io il primo turno di guardia”
Ma il tono con cui parlò mi allarmò. Alzai lo sguardo. Era stanco, gli occhi erano arrossati e cerchiati da profonde occhiaie e stava rannicchiato su se stesso, come se non avesse più avuto le forze per stare dritto.
“Nico”bisbigliai , cercando di non svegliare Dinah “faccio io il primo turno”
Lui si irrigidì “Principessa, non sono sicuro che tu sappia come …”
“Non era una proposta” lo interruppi “Era un ordine”
Lo vidi corrucciare la fronte, non si fidava, ma era troppo stanco e per stavolta, cedette .
“Va bene” acconsentì “Ma svegliami se senti qualcosa di sospetto”
“Agli ordini”risposi, sorridendo. Ma lui si limitò a guardarmi, poi scosse le spalle.
“A più tardi principessa” mi salutò.
“A più tardi”
Poi, chiuse gli occhi, ma sospettavo che nessuno dei due dormisse completamente.
 
Alla fine feci anche il secondo e il terzo turno di guardia. Non avevo sonno, avevo già perso troppe volte i sensi ed erano accadute molte cose, me ne erano state strappate troppe, perché potessi dormire. Cercai di assimilare quella lunga giornata, cercai di darle un senso. Ma tutto quello che vedevo, tutto quello che sentivo, illuminata dai fuochi di quelle strane montagne , erano i miei fantasmi. Desideravo l’abbraccio di mia madre, la carezza di mio padre, la sicurezza della mia camera, l’amore del mio popolo. In una sola notte, in un solo momento, tutte le mie convinzione, tutto quello in cui avevo sempre creduto, tutto quello in cui mi era stato insegnato a credere, era stato ucciso, devastato, rotto in mille pezzi. Rabbrividii. Non era un addio. Mio padre me lo aveva detto e io gli credevo, ma faceva lo stesso paura. Accarezzai il coltello di mia madre. Cercai di capire che storia volesse raccontarmi, perché avesse suonato, perché Nico e Dinah non fossero riusciti ad usarlo e non capii. Mi vidi riflessa nella lama. Una ragazzina spaventata, con un abito azzurro e sporco, i capelli in disordine e gli occhi pieni di tristezza. Se quello era un incubo, desiderai finisse presto.
 
Quando il sole sorse il giardino si colorò di verde, il bosco divenne meno oscuro e le luci delle montagne dietro di loro si spensero . Fu a quel punto mi resi conto che non erano montagne, ma case. Enormi e larghissime case. Mi alzai in piedi e ruotai su me stessa. Erano ovunque. Incredibili palazzi di dimensioni improbabili. Qualunque città fosse quella, era mozzafiato.
“Sono bellissime” mormorai.
“Sì”  concordò Dinah, facendomi sobbalzare.
Era accanto a me , gli occhi che brillavano di fronte a quello spettacolo.
Sentii le lacrime pungere. Quel momento era così bello da fare male. Dinah si voltò e mi guardò.
“Stai tranquilla” mormorò, toccandomi il braccio “Ce la caveremo anche stavolta”.
Annuii poco convinta, mentre la voce di Nico ci ordinava di muoverci.
 
Quando arrivammo in quella enorme via, avevamo tutti molta fame.
“Cosa c’è scritto, principessa?” mi chiese Nico indicando un cartello.
Come la maggior parte dei miei sudditi, Nico non sapeva leggere. Era figlio di contadini e solo gli starti più alti della società aveva i mezzi per far istruire i figli. I contadini, gli artigiani avevano bisogno di braccia, non di libri. Credo che Nico sapesse che se non fosse stato per gli eccessi e le ingiustizie di mio padre lui non sarebbe mai riuscito a diventare capo delle guardie reali. Era intelligente ed era coraggioso, mi aveva salvato la vita una volta ed ero certa che l’avrebbe rifatto, ma mia mamma diceva che le idee di un popolo, specie se antiche, sono più forti di qualunque qualità e io sapevo che aveva ragione. Per quanto ingiusto potesse essere.
Aguzzai lo sguardo, ma quell’ era un alfabeto diverso dal nostro.
“Non lo …” iniziai, ma poi, un ricordo mi colpì. Un nome. Come era successo nel mio palazzo. E senza sapere perché, conoscevo la risposta“Times Square” .
Nico annuii. Non sembrava particolarmente colpito. Non conosceva il nostro alfabeto, del resto.
Dinah, invece, mi guardò in modo strano ,ma prima che potessi chiederle qualunque cosa, una luce  catturò la mia attenzione ed io mi ritrovai ad osservare la più bella serie di dipinti che avessi mai visto.
Erano giganteschi, brillanti, si muovevano, cambiavano colore: blu, rosso, verde. Le persone erano dipinte così bene da sembrare vere. Bevevano, chiacchieravano, cantavano. Uomini che baciavano donne, donne che baciavano altre donne. Vidi una ragazza bere una bibita scura, sembrava quasi birra, ma una parte di me sapeva che non era così. Cercai di guardare meglio, ma fu proprio allora che ,in mezzo alla folla di persone che si muoveva attorno a me, notai una donna anziana fissarmi. Era piccola e magra, portava i capelli bianchi raccolti in una crocchia ed indossava un paio di pantaloni chiari ed un giubbotto nero. Quando incrociai il suo sguardo, notai che gli occhi grigi risplendevano anche da quella distanza. Mi sorrise ed io esitai.
“La conosci ,principessa?” chiese Nico, avvicinandosi a me e portando una mano alla spada.
Scossi la testa “Come potrei?”
“Si avvicina” annunciò Dinah ,mettendosi davanti a me “Che facciamo, Nico? Attacchiamo?”
 
Lo vidi far saettare gli occhi da me, a Dinah a quella donna. Pensavo fosse nervosismo, ma per la prima volta capii che stava pensando alla svelta.
“Restiamo” rispose infine “Se si rivelerà pericolosa scapperemo. Ma non la attaccheremo, okay? Non voglio attirare l’attenzione”.
Dinah annuii e allentò la presa sul guio. Fu a quel punto che la donna arrivò.
“Cosa ci fai qui, principessa?” esordì osservandomi. La sua voce era dolce, mi faczeva sentire al sicuro. Una sensazione che avevo creduto di non potere più provare.
“Mi conosci?” mormorai, muovendomi verso di lei.
“No, Siena” intimò Dinah, afferrandomi per un polso.
La donna la guardò. Si mise a fissarla con una tale forza da costringerla a girarsi. Dinah sollevò lo sguardo. I suoi occhi scuri non tradivano nessuna emozione, ma sapevo che era sulla difensiva. Non distolse lo sguardo, ma la stretta al mio polso aumentò fino a diventare una morsa.
“Capisco …” fece la donna,infine distogliendo lo sguardo e tornando a me. Mi sorrideva. Nel suo viso leggevo una tenerezza tale da spingermi a fidarmi di lei “Principessa, lei non mi conosce, ma io stavo aspettando il vostro arrivo.  Mi chiamo Bianca e se mi seguirete vi darò da magiare e potrete chiedermi ogni cosa. “
Sapevo che era sbagliato, peggio era stupido. Sapevo che dopo quello che era successo non avrei dovuto fidarmi così facilmente di una sconosciuta. E sapevo anche che stavolta, se mi fossi sbagliata, non ci sarebbero altre vie d’uscita, altri mondi in cui scappare. Ma la guardai in viso e una parte si illuse di rivedere lo sguardo di mio padre, uno sguardo d’amore che forse avevo perso per sempre e decisi di seguirla.
Lei sorrise. “Non abito lontana da qui” fece prendendomi per mano “Venite”.
Alle mie spalle Dinah e Nico sbuffarono, poi allungarono il passo e mi furono accanto. Strinsi forte il pugnale di mia madre. Avevo paura. Con loro accanto un po’ meno, ma la mano della donna era fredda al tatto.

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Capitolo 5
*** Capitolo 4- Cose Dimenticate ***


CAPITOLO 4
COSE DIMENTICATE
La casa di Bianca era molto piccola.
A dirla tutta, non era neppure una casa.
Era un ‘appartamento’ come lo chiamava lei.
Avevo sentito quella parola poche volte, nel nostro mondo si parlava di palazzi, si parlava di case di contadini o di regge. Gli appartamenti erano per gli strati più poveri della popolazioni,per quegli uomini che non avevano nessun’altra ricchezza oltre la prole, voi li chiamati ‘proletari’. Le loro case erano sono minuscole, fatiscenti e sovrappopolate. I nostri libri di storia raccontavano che le cose non erano sempre andate così male. Dicevano che c’era stato un tempo in cui ogni uomo aveva avuto della terra, una casa, di che vivere, un tempo in cui la felicità aveva regnato sovrana. Le nostre città avevano brillato di ricchezza, avevano brillato di sogni ed erano state  bellissime. Questi anni erano chiamati ‘Anni d’oro ’, voi avevate vissuto momenti simili diverse volte nella vostra storia ed io riesco tutt’ora a capire perché non siate stati in grado di prolungarli. Non sapevo perché gli ‘anni d’oro ’ fossero finiti, nessuno me lo aveva mai spiegato e i libri di storia erano molto confusi al riguardo, non sapevo neppure quando fossero finiti, sapevo solo che ,dopo di loro, il mio regno non era più stato lo stesso ed aveva iniziato a decadere inesorabilmente. E le vecchie case, gli antichi appartamenti costruiti e comprati da persone benestanti, erano stati sventarti oppure occupati abusivamente da tutti coloro che non avevo i mezzi per vivere da nessun altra parte.
La voce di Bianca mi riportò alla realtà.
“Volete da magiare? Posso darvi un po’ di cioccolata calda” e così dicendo scomparve in una stanza che immaginai essere la cucina, anche se era molto più piccola e molto più bianca di quelle a cui ero abituata. La vedi afferrare un pentolino e buttarvi dentro del latte, poi aprire una busta e mischiarvi il cacao. Mentre un odore molto invitante si diffuse per la cucina, Dinah e Nico si scambiarono un’occhiata preoccupata. 
“Principessa” sussurrò Nico, prendendomi per un braccio “Credo che faremo meglio ad andare …”
Ma la voce di Bianca ci interruppe “Ecco qua, tre tazze per tre eroi” disse, appoggiando sul tavolo la cioccolata calda. Qualunque cosa Nico volesse dirmi, perse importanza alla vista delle tazze. Vidi i suoi occhi brillare e sentii il mio stomaco borbottare. Solo Dinah sembrava avere ancora delle remore.
“Coraggio!” ci invitò Bianca “Mangiate! Io risponderò a tutte le vostre domande” e come per dimostrare che faceva sul serio, si sedette su una sedia e mise la mani sotto il mento.  
Guardai Dinah in attesa di conferma, ma lei continuava a tenersi lontana, una mano sul pugnale.
“Lo so che non vi fidate di me” disse Bianca a un tratto, cogliendoci alla sprovvista “Ma sono vostra alleata. Il re aveva stabilito delle basi sulla terra ,in caso di necessità e le aveva affidate alcuni tra i suoi uomini più fidati. Ci chiamano i guardiani.”
“Chi vi chiama?” domandò Dinah con tono di sfida “Io non vi ho mai sentiti”.
“Siamo un ordine segreto, piccola. Il re ci ha dato questo nome e chi sa della nostra esistenza ci chiama così”.
“Io non ho mai sentito nulla di simile” ribatté Nico, continuando a guardare ossessivamente la sua cioccolata.
“Ve l’ho già detto. Siamo un ordine segreto”
“Perché?” la incalzò Dinah, alzando la voce “Perché dovreste esserlo? Che ragione c’era di tenervi nascosti al popolo o all’esercito?”
Vidi gli occhi di bianca ingrandirsi. Non sembrava arrabbiata, sembrava dispiaciuta, come se stesse ripensando a qualcosa di doloroso.
“Voi sapete quando è stato usato il passaggio infra-mondo per l’ultima volta, vero?” si voltò verso di me “Ma scommetto che tu non sapevi neppure cosa fosse prima di stasera”.
Annuii ed una parte di me iniziò a chiedersi cosa ci fosse sotto. E se ,davvero, fossi disposta scoprirlo. Bianca sospirò e intrecciò le mani. “Sedetevi” ci invitò “E’ una storia lunga e da molti dimenticata”.
Dinah e Nico non si mossero, io ,invece, mi avvicinai al tavolo e presi una sedia. Volevo delle spiegazioni, volevo che qualcuno mi dicesse dov’ero, che mondo era quello e soprattutto, se potevo tornare a casa.
 
“Quando mi venne affidato questo compito, ero giovane, avevo ventidue anni e non ero sposata. Il re Livio, tuo nonno” fece Bianca indicandomi con il mento “era preoccupato per la magia del Natale, proprio in quegli anni aveva iniziato a calare.”
“Cos’è la magia del Natale?” la interruppi e la mia domanda sembrò prenderla in contropiede. Sgranò gli occhi, ma poi mi sorrise dolcemente e si ricompose “Ovviamente i tuoi genitori avranno reputato giusto non dirtelo, ma credo che sia arrivato il momento che tu lo sappia” E così dicendo, Bianca si portò le mani al collo e mi mostrò una piccola collana di ghiaccio bianco che prima non avevo notato. Al centro c’era una piccola gemma bianca che sembrava pulsare ed emettere luce propria, la stessa che animava le scritte del passaggio infra- mondo. Ma il bianco era meno intenso, ad ogni battito sembrava perdere lucentezza. “La magia del Natale è una magia molto potente che collega il nostro mondo alla Terra, il luogo in cui vi trovate e che dà forza al nostro mondo. Ogni cosa, la luce,i raccolti, le nostre miniere dipendono da lei. Negli anni d’oro, è stata molto potente, ha raggiunto il suo massimo, ma poi, a poco a poco, ha iniziato a spegnersi e con lei il nostro mondo. Le terre sono diventate aride, le miniere si sono impoverite il clima è diventato così rigido da costringere interi popoli a lasciare la propria terra” Con un brivido ripensai ai popoli del Nord vinti da mio padre. Non poteva esserci un nesso,vero? Loro ci avevano davvero invaso per conquistarci e non per sopravvivere, vero? Avrei voluto chiederlo, ma la domanda mi morì in gola. Mio padre non era un assassino, mio padre era un re. E nonostante questo, sospettavo che la risposta a quella domanda non mi sarebbe piaciuta “Il Natale, sulla Terra, è una festa, la più famosa di tutta. Si tratta di un giorno in cui un uomo grasso e vestito di rosso porta doni a tutti i bambini buoni,lo chiamano Babbo Natale” alzai lo sguardo. Babbo Natale , nel nostro mondo, non era il nome di un uomo grasso che faceva regali ai bambini. Babbo Natale era il nome della maggior carica militare cui un uomo potesse aspirare. Veniva subito dopo la figura del re. In alcuni momenti un Babbo Natale era stato addirittura più importante del proprio sovrano e molti reali discendevano da Babbi Natali. Io ero una di quelli, il mio trisavolo lo era stato e dopo aver sconfitto ogni popolo ribelle, dopo aver ottenuto le ricche miniere delle regioni del Sud, alla morte del suo re, era stato proclamato sovrano dal popolo. Era stato mio padre ad abolire quella carica. Suo fratello l’aveva ricoperta per ultimo e dopo il suo tradimento, il re aveva decretato che più nessuno sarebbe stato un Babbo Natale.
“Non allarmarti, principessa”  fece Bianca, guardandomi “La storia è ancora lunga e ti sono state taciute molte cose”.
Sentii la mano di Dinah stringere la mia spalla “Forse è meglio così” sibilò a denti stretti, nella direzione di Bianca, ma la donna fece spallucce e tornò a fissarmi “La magia del Natale si basa su un unico e potentissimo fattore: la fede di un bambino. Quasi ogni bambino sulla Terra crede in Babbo Natale, crede che questo panciuto signore porti i doni e ha ragione. O meglio, l’aveva. Un Babbo Natale, assieme al suo re, è anche responsabile di questo, di fare in modo di consegnare i regali ad ogni bimbo in una sola notte. Naturalmente, l’esercito dà una mano. Ogni soldato è responsabile di una determinata zona. I bambini non lo sanno, credono che una sola persona faccia tutto il lavoro e quando  la mattina trovano i doni, sono felici ed in cambio ci offrono la loro fiducia,il loro amore. E questi sentimenti, in un bambino, sono puri, non sono ancora stati intaccati e sono così potenti da permettere la sopravvivenza del nostro mondo”
“Ma mio padre ha abolito la carica di Babbo Natale” sussurrai.
Bianca annuii “Tuo padre è un sovrano … speciale che ha fatto scelte particolari. Lui, principessa, era convinto di poter governare tutto senza l’aiuto di un Babbo Natale. Pensava di poter contare sulla semplice collaborazione dell’esercito, ma un esercito ha bisogno di una causa per combattere, una causa  che reputi giusta e la politica di tuo padre, il modo in cui  ha iniziato a condannare a morte persone innocenti” vidi il suo volto storcersi in una smorfia di disapprovazione “Beh, diciamo solo che ben presto nessun soldato ha più voluto combattere per lui e molti hanno pagato per questo con la morte. Del resto, per la legge, loro si erano ammutinati e l’ammutinamento è punibile con la morte. Senza un esercito, consegnare i regali in tutto il mondo divenne impossibile e tuo padre, tu eri troppo piccola per ricordare, chiuse il passaggio infra-mondo e ordinò a me ed altri guardiani di rimanere di qua per tenere sotto controllo la situazione. Ci tenne nascosti. Niente sarebbe mai più entrato o uscito dal mondo del Natale. Da quel giorno la magia del Natale iniziò ad indebolirsi sempre più” mi mostrò la gemma bianca della sua collana “la vedi questa luce?” Annuii “E’ la Magia del Natale nel suo stato più puro. Ed è debole. Il motivo per cui il nostro paese si è sempre più indebolito, per cui il nostro popolo …”
“Nostro?” la fermai.
“Vostro” si corresse subito Bianca, stringendo la gemma “Il vostro popolo si è impoverito, è legato proprio a questa debolezza. Senza magia del Natale, non ci può essere vita nel mondo del Natale.”
“Ci parli di lei” saltò su improvvisamente Dinah “Ha detto che è stato re Livio ad affidarle questa carica. Ha detto che l’ha fatto quando la magia del Natale ha iniziato a calare, cosa intendeva?”
Bianca sorrise “Che sbadata che sono!” fece, colpendosi in fronte “Stavo dimenticando”
La guardò “Come ben saprai, la magia del Natale ha iniziato a indebolirsi già da prima che  il re chiudesse il passaggio” .
Dinah annuii “Te lo insegnano all’accademia”.
Bianca tornò a fissarmi. “Vedi, principessa, i bambini crescono e quando crescono i sentimenti che provano non sono più così puri. Diventano adolescenti, amano e soffrono per la prima volta, si fidano dei loro amici e vengono traditi, credono, ma non sempre nelle cose giuste e inevitabilmente cambiano e smettono di aspettare il Natale. E’ un processo che è sempre esistito, ma fino a poco tempo fa non era preoccupante. Perché anche i bambini sono sempre esistiti. Poi sono arrivate le guerre, quelle più devastanti, le chiamano prima e seconda guerra mondiale e sono stati conflitti che hanno interessato, per la prima volta, tutto il mondo. E più gente partecipa ad una guerra, più gente muore. Molti bambini non videro più i loro padri tornare a casa, videro le loro sorelle morire di febbre o di fame, i loro fratelli combattere e sopravvivere perdendo gambe o braccia o entrambe.” Fece una pausa, mentre una parte di me avrebbe desiderato tapparsi le orecchie e non ascoltare più niente di quella storia“Durante la seconda guerra mondiale, poi, prese il potere un uomo di nome Hitler. Lui credeva che un popolo fosse superiore ad un altro e forte di questa idea, imprigionò milioni di persone, di donne e di bambini. E poi li uccise. Tutti quanti. Naturalmente, i bambini ne uscirono devastati e in quegli anni la magia del Natale iniziò a indebolirsi. Fu a quel punto che re Livio ci incaricò di giungere sulla terra e di capire cosa stesse succedendo. Noi lo scoprimmo e quando lo informammo, lui ci ordinò di rimanere qui, di cercare di aiutare, di fare il possibile sia durante sia dopo la guerra. Ubbidimmo.”
Bianca chiuse gli occhi per qualche secondo, come se ripensare a quei momenti fosse troppo doloroso, anche dopo tutti quegli anni “All’inizio fu difficile, i bambini sembravano aver perso ogni gioia, ogni candore. Eppure, lentamente, la situazione migliorò. I bambini ritornarono a credere  in Babbo Natale, ma il ricordo della guerra rimaneva. Quei bambini crescevano troppo in fretta, smettevano di credere già verso i cinque anni, alle volte aiutati anche dai fratelli più grandi” storse la bocca a quel pensiero.
“Ma poi la guerra non è passata?” domandai io, non essendo totalmente sicura di quale anno fosse. Bianca rise divertita “Certo, principessa, la guerra passò. Ora come ora è passata una sessantina d’anni da quel momento, ma ,come ho già detto, le cose non si sistemarono. Quando il ricordo della guerra passò, arrivarono altri problemi: radio, tv, I-pod, cellulari, face book. Il mondo tecnologico e  virtuale divenne più desiderabile di quello del Natale. I bambini oggigiorno smettono di credere in Babbo Natale ad otto anni e quello che è peggio” mormorò Bianca abbassando la voce  “E’ che hanno ragione. Non siamo più noi a consegnare i regali, sono i loro genitori. Quando tuo padre chiuse il passaggio qui era il 1960, il tempo scorre diversamente nei due mondi, e i genitori di allora seppero con certezza che Babbo Natale non sarebbe arrivato e iniziarono a comprare loro i regali. Li informammo con una specie di magia, fu come un sentore, ma capirono. E il Natale fu salvo , ma la magia che otteniamo è meno forte, è debole, si consuma. Non è più pura. Capisci, principessa?”
Io annuii, ma mi faceva male la testa. Come potevo non conoscere una parte così importante della mia storia? Come potevo non sapere cosa fosse la Terra? Quanto dipendessimo da lei? Perché non lo sapevo? Perché non mi era stato detto?
“Perché” mormorai con un filo di voce “Perché non ne sapevo niente?”.
Forse fu solo una mia impressione, ma l’aria, d’improvviso, sembrò farsi irrespirabile.
Bianca mi guardò con fare materno “Non credo spetti a me risponderti, principessa. I tuoi amici dovrebbero saperne molto di più”
Mi voltai verso Nico e Dinah che subito distolsero lo sguardo a disagio.
“Perché?” chiesi “Cosa sapete voi?”
Nessuna risposta.
“Rispondete alla vostra principessa, dannazione!” grugnì alzandomi in piedi. Ero più bassa di Nico e di Dinah e non ero capace di combattere come loro, non avevo armi, avevo solo un pugnale che suonava, eppure non mi ero mai sentita più determinata.
Fu Nico a rispondere per primo. “Principessa …” iniziò con voce incerta, lo sguardo sfuggente “Non potevamo disubbidire agli ordini. Il re in persone ce lo aveva ordinato, ci aveva fatto giurare sul nostro onore, sulle nostre …”
“Non mi interessa!” lo interruppi “Quello stesso re vi ha detto di proteggermi e mi ha affidata a voi. Io sono la vostra principessa, il re non è neppure in questo mondo” e la mia voce tremò leggermente “Voi dovete rispondere a me e solo a me, ora. Intesi?”.
Nico mi guardò e per qualche istante il suo sguardo divenne intenso come al solito, vidi nuvole muoversi nei suoi occhi, ma poi grugnì “Intesi” e abbassò la testa. Mi mossi verso di lui, volevo delle risposte, ma la voce di Dinah mi prese in contropiede.
“Fu dopo il tradimento di mio padre” annunciò e qualcosa ,nella sua voce, mi costrinse a voltarmi “Dopo che lo esiliò. Non so il perché, non lo sa nessuno. Gira voce che ti rapirono, Siena, che lui ti rapì” la guardai. Non parlava mai di suo padre, non parlava mai della sua famiglia, non parlava mai di nulla che non fosse il presente. Aveva lo sguardo fisso, la testa alta, gli occhi brillavano per l’emozione, ma la voce restava ferma. In quel momento, mi resi conto che c’erano due principesse nella stanza “Ti portò sulla Terra e ti nascose, non ti fece del male, ma quando lo trovarono, quando il re venne a sapere cosa era successo, quando pensò a cosa sarebbe potuto accadere, chiuse il passaggio infra-mondo e ordinò che ti venisse taciuta ogni cosa al riguardo. Pensava di poter trovare una fonte alternativa di energia, non voleva che tu sapessi nulla di questo, voleva eliminare i momenti in cui ti aveva perso. Dalla sua mente e da quella degli altri. Salvò me perché ero poco più di una neonata e gli ricordavo te.” sospirò e chinò il capo. Vidi la sua schiena tremare e una parte di me desiderò poterla stringere e dirle che era tutto a posto, ma prima che potessi
fare qualcosa, sollevò lo sguardo e lo fissò nel mio. “Non sai queste cose perché il re tentò di proteggerti, perché voleva che almeno tu non ricordassi”.
“E ora?” proseguii allarmata, una strano sospetto stava nascendo in me “Ora di cosa vive il mio pianeta, il mio popolo?”
Dinah e Nico si scambiarono un’occhiata, a disagio.
“Rispondetemi!” urlai esasperata.
Dinah mi fissò, inchiodò il suo sguardo nel mio e si avvicinò. “Di niente Siena, il tuo popolo sta morendo, il tuo pianeta sta morendo.”
 

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 - Volatili-Kamikaze ***


CAPITOLO 5
VOLATILI-KAMIKAZE
Non riuscii a dormire neppure quella notte.
Bianca offrì a me e Dinah una stanza con un solo letto a una piazza e mezza. Non era molto grande, ma con un po’ di fatica riuscimmo a starci lo stesso ed in ogni caso era sicuramente più confortevole della roccia della sera passata.
A Nico toccò dormire sul divano del salotto. Non sembrava starci molto comodo. Era troppo alto; le gambe spuntavano fuori e rimanevano a penzoloni e aveva sistemato la testa in una posizione innaturale. Bianca lo liquidò con una scrollata di spalle. Disse che era un soldato e che doveva aver sicuramente visto giacigli peggiori. Se la sua era una battuta, nessuno rise.
Passai l’intera notte a tormentarmi. Ero stanca, ma avevo paura dei  miei pensieri. Se chiudevo gli occhi,  rimbombavano più forti. Lo strano orologio luminoso di Bianca segnava le 2:40 di mattina quando decisi di alzarmi. Cercai di muovermi il più silenziosamente possibile, ma appena misi un piede a terra, Dinah scattò a sedere e impugnò il suo guio.Lo teneva sempre vicina a sé.
“Siena?” domandò, la voce allarmata “Che stai facendo?”.
Sospirai “Non riuscivo a dormire”.
Alle mie spalle, la sentì armeggiare con il pugnale “E’ per quello che ti abbiamo detto?”
“E’ solo che pensavo di conoscere il mio popolo, io …” m’interruppi.
“Io, cosa?”  
Non le risposi. D’improvviso mi sentii stanca. Rivedevo il mio popolo, il mio popolo che ci attaccava, il mio popolo che gridava contro di me, contro i miei genitori ... ed i miei genitori, gli orrori a cui speravo fossero scappati. Mi nascosti il viso tra le mani. Nulla aveva più senso.
“Torna a dormire, Siena” sussurrò Dinah, coricandosi “Non puoi farci niente. Quello che è stato è stato”
E dal modo in cui pronunciò quella frase, mi chiesi quante volte l’avesse già ripetuta, quante volte, la sera, da sola, senza sapere dove fossero i suoi genitori e se fossero ancora vivi, l’avesse pensata per trovare il coraggio di chiudere gli occhi.
Appoggiai la testa sul cuscino e iniziai a piangere. Se Dinah mi sentì, fece finta di niente. Mi calmai solo  all’alba, quando il sole iniziò a sorgere. La luce che filtrava dalle finestra era di un bianco inconfondibile. Mi alzai per controllare. E sorrisi. Neve. Una unica, grande macchia bianca che rendeva le vostre strade uguali alle nostre, le vostre case uguali alle nostre. Casa. Fu buffo il modo in cui quella parola, dopo aver passato una notte a pensarci, mi colse di sorpresa la mattina. Casa. Osservai la neve scendere e d’improvviso fu tutto chiaro. Dovevo tornare a casa. Mio padre aveva detto che il nostro non era un addio ed io gli credevo. Ecco perché sarei tornata. Casa. Non mi importava di ciò che avrei trovato là. Non poteva fare più paura della Terra. Avrei ritrovato i miei genitori e quella era l’unica cosa importante.
 
“Siena, tu sei pazza!” ricordo che urlò Dinah poco dopo. Dopo che avevo detto a tutti dove volevo tornare. Ricordo che mi afferrò per le spalle ed iniziò a scrollarmi “Non possiamo tornare indietro!” urlava “Siamo scappati! Scappati! Sai cosa significa? Significa che là non ci possiamo tornare.”
“Non possiamo tornarci, infatti” sibilai “noi dobbiamo tornarci”.
Sbuffò “Non è il momento di fare i filosofi. Là non si torna. Discorso chiuso.”
“Principessa” s’intromise Nico “Dinah ha ragione. Tornare nel mondo del Natale sarebbe un suicidio”.
Incrociai le braccia “Questo non è il nostro mondo. Non è casa nostra. Rimanere qui è una pazzia”.
“Principessa” sopragiunse Bianca “Tornare a casa non è una scelta molto sicura. Non sappiamo cosa vi siete lasciati alle spalle. Non sappiamo come il popolo potrebbe reagire al vostro ritorno”
“Il mio popolo mi ama” protestai.
“Siena” mi corresse Dinah “ Il tuo popolo voleva farti fuori”.
Feci per ribattere, ma Nico reagì prima “Ed inoltre usare il passaggio infra-mondo per tornare è molto difficile.”
Fu quella parola ad attirare la mia attenzione. Difficile è meglio di impossibile.“Quindi, potremmo tornare  a casa?”
L’occhiata che Dinah lanciò a Nico era carica di odio. “Bella mossa, genio” sibilò. E confermò i miei sospetti.
“Quindi possiamo!” esultai, facendo una piccola giravolta. Con la coda dell’occhio vidi Dinah e Nico darsi una botta in testa e grugnire.
“Principessa” continuò Bianca, prendendomi dolcemente per le spalle e fermandomi “Usare il passaggio infra-mondo per tornare non è impossibile, ma rimane molto difficile”. Qualcosa, nella sua voce, mi convinse a fermarmi ed ascoltarla.
“Il passaggio infra-mondo è magia del Natale allo stato più puro. Le scritte scalfite sul pavimento sono lingue sconosciute nel nostro mondo, ma usate in questo e sono impregnate di magia. Venne ideato in questo modo perché potesse essere utilizzato in qualunque momento per andare in qualunque parte del mondo, ma tornare ha sempre presentato delle difficoltà.”
“Che genere di difficoltà?” domandai.
 “Il passaggio ha bisogno di molta energia per funzionare. E questa energia può essere ottenuta solo la  vigilia di Natale.”
“Quando?”
Bianca s’interruppe e fissò un punto alle mie spalle.
“Che succede?”  chiesi “Bianca?”.
“Mancano tre giorni, principessa” rispose lei, lo sguardo allarmato “Solo tre giorni alla vigilia”.
La guardai senza capire “Che problema c’è? Tra tre giorni torniamo a casa. Dobbiamo solo andare al passaggio e …”
La risata di Bianca mi interruppe “Principessa, non si va verso il passaggio, si trova il passaggio.”
Corrucciai la fronte “Trovare, in che senso?”.
“Trovare, Siena!” saltò su Dinah “Trovare! Bisogna girare per tutta questa città di pazzi e trovarlo.”
“Ma è impossibile, ci saranno state delle mappe!”
Bianca annuì “C’erano, principessa, ma andarono distrutte. Venne stabilito che i passaggi infra-mondo cambiassero luogo di apparizione ogni volta. Era una scelta pensata per evitare che gli umani, ma anche i nostri nemici, li utilizzassero. Solo noi guardiani avevamo delle mappe che ci avvisavano dove sarebbe comparso il prossimo passaggio, ma quando tuo padre stabilì la loro chiusura, ci costrinse a distruggerle e noi ubbidimmo”.
Annuii,ma mi sentivo svuotata. Avevo pensato che le cose si sarebbero davvero sistemate così facilmente. Mi vedevo già tra le braccia dei miei  genitori , di nuovo nel nostro palazzo, nel mio mondo, a casa. Ora scoprivo che bisognava girare una intera città, in soli tre giorni ed incrociare le dita.
“E’ tanto estesa New York?” domandai infine, speranzosa.
“E’una delle città più grandi di questo mondo” confermò Bianca ed io mi sentii male.
Per un po’ non parlai. Dinah e Nico continuarono a borbottare tra di loro. Ogni tanto, mi giungeva qualche pezzetto di conversazione. Per lo più erano frasi del tipo “Moriremo tutti” e “Questa è una follia”.
Andai alla finestra e ci appoggiai la testa. Il vetro era freddo e quando ci soffiai sopra,si appannò. Era bello stare lì, mi sembrava quasi di essere tornata nella mia stanza. E poi capii. Dovevo muovermi, il mondo mi stava aspettando ed io avevo bisogno di lui. Spalancai i vetri e lasciai che l’aria fredda e la neve pungessero il mio viso. Mi tornarono in mente le mie montagne, i miei giardini, tutte le volte che avevo giocato accarezzata dalla neve.
“Noi torneremo a casa” annunciai con una forza nelle voce che sorprese anche me “Ed inizieremo subito le ricerche”
“E da dove vuoi iniziare, Siena?” mi chiese Dinah, con tono provocatorio “Vuoi girare a caso?”.
“No” ribattei “Inizieremo dalla fine, dall’ultimo posto in cui il passaggio è comparso. Bianca, puoi portarci, vero?”
 
Prima di partire, Bianca ci obbligò a cambiarci. In effetti, anche se non lo avevo notato, voi umani vi vestivate in maniera diversa dalla nostra. Con cappotti pesanti,cappelli, guanti, sciarpe e stivali. Noi tre, con i miei abiti lunghi e azzurri e i mantelli rossi di Dinah e Nico dovevamo aver dato parecchio nell’occhio. Logicamente,non soffrivamo il freddo tanto quanto voi. I nostri climi sono molto più rigidi dei vostri, il vostro inverno equivale alla nostra primavera, ma Bianca disse che era meglio non dare nell’occhio e ci comprò dei nuovi vestiti.
Mi fece indossare un paio di strani pantaloni blu e aderenti, che lei chiamò ‘jeans’ e una casacca ancora più strana, rosa accesso, con un cappuccio sul dietro e una serie di strane scritte sul davanti ,chiamata ‘felpa’. Nico e Dinah erano vestiti più o meno come me, ma i pantaloni di Nico erano più larghi dei nostri.
Bianca ci fece prendere la ‘metropolitana’ una enorme carrozza che viaggiava sotto terra piena zeppa di persone di ogni tipo. Il tragitto non durò molto, scendemmo alla quarta fermata. Quando sbucammo in superficie, una folla inferocita di persone ci investì. Un uomo piuttosto grosso e piuttosto nervoso mi venne addosso e mi colpì con la sua valigetta che si aprì. Mi guardò in cagnesco,ma qualunque insulto volesse lanciarmi, gli morì in gola alla vista della lama di Nico. Bianca ci guidò attraverso una serie di vie innevate e piene di ‘macchine’ come le aveva chiamate lei. La prima volta che avevo camminato per New York la magia di Times Square mi aveva totalmente stregato e non avevo fatto caso al chiasso delle auto che circolavano, dei pedoni, dei ‘trapani’ dei muratori e ai canti degli ‘artisti di strada’. All’inizio risultò anche piacevole, allegro, c’era sempre qualcosa di nuovo che attirava la mia attenzione,ma quando iniziammo ad allontanarci dalle zone più trafficate, mi resi conto che mi mancava il silenzio di casa mia.
Bianca si fermò di fronte ad un edifico bianco e più basso degli altri. I muri erano scrostati e i fiori sui davanzali congelati. Sopra l’entrata, in un alfabeto che non conoscevo, era scritta la parola library. Libreria. Ed io, senza sapere come, riuscii a leggerla.
“Una libreria?” domandai stupita.
Bianca mi guardò in modo strano per una frazione di secondo, poi tornò a sorridere amabilmente “Il modo in cui un passaggio appare , è del tutto causale, ma c’è sempre qualcosa che classifica un luogo più speciale di un altro.”
Mi guardai attorno. Quella strada era piccola, più silenziosa delle altre, ma anche più buia. In lontananza sentivo dei bambini urlare e giocare. Non c’era nulla di speciale, nulla di grandioso.
“Andiamo” mi spronò Nico, indicando la porta con la testa.
Dentro,la biblioteca era più grande di quello che mi era sembrata, con soffitti più alti e stanze più ampie. Le finestre erano tutte chiuse e davano sulla strada, le luci erano accese e molto forti,ma nessuno sembrava farci caso. I libri erano sistemati ordinatamente su scaffali di legno antichi e su scaffali  rossi più nuovi. Non c’era molta gente. Un paio di ragazze dall’aria piuttosto annoiata, un uomo anziano che alternava momenti di sonno a momenti di veglia e un ragazzo che teneva un libro tra le mani e guardava fuori dalla finestra. Quando entrammo ci guardò distrattamente, ma lo vidi soffermasi su Dinah qualche secondo di più. Non era brutto, immagino. Aveva tanti capelli neri e ricci che sembravano non avere mai visto un pettine in vita loro, la pelle era olivastra e gli occhi erano scuri come la notte,ma buoni ed ingenui, addirittura intelligenti e per un secondo lo invidiai. Avrei dato qualunque cosa per essere al suo posto, per avere ancora una luce così bella nel mio sguardo. 
“Per di qua” disse Bianca spalancando una porta e portandoci fuori.
“Insomma, prima dentro, poi fuori” sentii Dinah borbottare “Si decida la  vecchia carampana!”
Ma quello che vedemmo, ci zitti tutti quanti. La biblioteca era dotata di un piccolo giardino, circondato da un muretto non molto alto e di mattoni. Là dentro i suoni della città sembravano essere lontani anni luce. Chiusi gli occhi per un secondo e sentii fischiare solo il vento. Mi figurai quel posto di Estate e immaginai che dovesse essere anche più bello di così. Ovunque mi voltassi vedevo delle piante, sembrava essercene un numero innaturale per un luogo così piccolo. Alcune erano alte e verdi, altre basse spoglie, ma erano tutte parte di un quadro bellissimo. Al centro del giardino c’era un laghetto. Era ghiacciato e ricoperto di neve, ma intuii che proprio lì, anni fa , il passaggio infra-mondo era stato usato per l’ultima volta. Mi guardai attorno, quel posto era magico. Non c’erano altre parole per descriverlo. Dinah e Nico sembravano colpiti quanto me.
“E’ meraviglioso” disse Nico.
Bianca mi sorrise“Capisci principessa perché questo era un luogo speciale?”
“Inizio a capire, sì”.
Per un po’ nessuno parlò, eravamo troppo strabiliati, sembrava quasi casa. Poi Bianca batté le mani e ci disse di rientrare.
“Aspetta” mormorai “Ancora qualche minuto”.
 Lei annuì comprensiva, poi mi prese per mano “Vi aspetto dentro” disse con dolcezza.
 
Quello che successe dopo continua a fare paura anche adesso. D’un tratto il vento divenne più forte, quasi fastidioso e delle nubi grigi iniziarono a raggrupparsi sopra la nostra testa, togliendoci la luce. Quando il fulmine esplose e toccò terra, Dinah riuscì a spingermi via appena in tempo, ma la mia felpa si bruciacchiò comunque.
“Ma che cavolo …” chiesi stordita, il rombo del tuono ancora nelle mie orecchie,ma prima che potessi finire la frase un ringhio agghiacciante mi fece sobbalzare.
Scattai in piedi, mentre Dinah e Nico sguainavano le loro armi.
In fondo al giardino, un paio di cespugli si mossero e le fronde di alcuni alberi tremarono.
“Che succede?” domandai impaurita. Anche se non ero sicura di voler conoscere la risposta.
Dinah e Nico si strinsero attorno a me “Qualunque cosa esca da lì” ordinò Nico, lo sguardo puntato sui cespugli “Non perdiamo la testa”.
Dinah annuì, ma io mi ritrovai a rabbrividire.
Il tremore, tutto a un tratto, si placò. Vidi le spalle di Nico ammorbidirsi, ma la stretta sulla spada non diminuì. Intanto, le due ragazze che avevo notato all’inizio fecero capolino dalla porta,seguite, a breve distanza, dal ragazzo.
“Tutto bene?” chiese una di loro. Non era la nostra lingua, non avremmo dovuto capirla, ma i suoni erano gli stessi. L’alfabeto era diverso, le nostre lettere lo erano, ma non il modo di pronunciarle.
“Si” risposi confusa“Tutto …”
Ma prima che potessi finire la frase, un ringhio profondo si diffuse per tutto il cortile ed io sentii il sangue gelarmi nelle vene. Dai ogni cespuglio, da ogni albero, sbucarono cani, gatti e uccelli. Ma, non erano solo quello, erano più grossi, avevano il pelo era meno folto, il corpo marchiato di cicatrici e gli occhi rossi. Canni e gatti ringhiarono e mostrarono i denti, lunghi e aguzzi denti pronti a mordere.  Le ragazze urlarono e Dinah sobbalzò. “Tutti dentro!” urlò ,guardandole“Subito!”.
Non ci fu bisogno di ripeterlo due volte, ma quando stavo per seguirle e chiudere la porta, qualcosa mi fermò.
“Che aspetti?” gridò la ragazza allarmata “Entra!”.
Ma non lo feci. Lo sapevo, sapevo di non dovere nulla a Dinah o a Nico, sapevo che erano loro a dover rischiare la vita per me e non viceversa, sapevo che gli ero stata affidata da mio padre, ma non riuscii ad abbandonarli lo stesso e con un colpo secco chiusi la porta e mi misi davanti.
“Siena?” domandò Dinah vedendomi “Cosa vuoi fare? Vai dentro,dannazione!”
Ma prima che potesse sgridarmi ulteriormente, un gatto la attaccò.
“Attenta!” gridai, un secondo prima che venisse atterrata. Il gatto iniziò a graffiarla, i suoi artigli erano affilati e tagliavano la stoffa dei vestiti senza difficoltà, sentii Dinah bestemmiare,mentre afferrava il pugnale e cercava di mirare al collo di quello. Nico fece per aiutarla, ma appena mosse un passo, un cane latrò e gli corse incontro. Lui reagì subito e gli puntò la spada addosso, quando il quello gli fu addosso, la lama lo trafisse senza pietà e un acre odore di sangue si diffuse per tutto il giardino. La neve, ai suoi piedi, si macchiò di rosso.
D’improvviso, l’attenzione di tutti i cani sembrò spostarsi su Nico. Vidi fissare i loro occhi rossi fissarlo e un brivido mi percorse la schiena.
Un cane dal pelo rossiccio abbaiò e tutti gli altri lo imitarono, poi, si lanciarono su Nico. Lo vidi menare fendenti a destra e a manca. Alcuni di loro venivano subito colpiti, la maggior parte schivava i colpi e lo mordeva. Quando un cane lo morse al polpaccio, sentii Nico grugnire e trattenere un urlo di dolore. La cosa più strana era il silenzio. Nonostante la battaglia, nessuno urlava, i cani e gatti ringhiavano e miagolavano solo prima di attaccare,gli uccelli non cinguettavano. L’unico rumore costante era quello delle spade di Dinah e Nico. E questo mi fece anche più paura. Sembrava di essere rimasti soli al mondo.
Dinah sbatté a terra il gatto, e con un unico, fluido gesto, lo uccise. Poi, si alzò velocemente, la fronte imperlata di sudore.
“Aiutami,Dinah!” gridò Nico, mentre ,con un calcio, spediva un cane contro il muro. Lei annuì, ma quando fece per aiutarlo, un altro gatto le fu addosso e poi un altro e un altro ancora. La sommersero. Letteralmente.
La vidi cercare di scacciarli con calci e pugni, ma non sembrava funzionare.
Lanciai un’occhiata agli uccelli ancora appollaiati sugli alberi. Pessima mossa. Uno di loro iniziò a cantare. Non era un cinguettio piacevole, aveva un sottofondo duro, quasi metallico e la melodia non era allegra, sembrava quasi un canto di guerra. E guardandolo negli occhi capii. Quello era un canto di guerra. Sguainai il pugnale di mia madre, ma la mano tremava e gran parte della teatralità della scena si perse quando dovetti chinarmi per raccogliere il fodero.
“Attenta!” gridò una voce che non conoscevo. Alzai lo sguardo. L’uccello si stava per schiantare addosso a me. E quando dico schiantare, intendo proprio quello. Era un volatile-kamikaze. Si muoveva ad una velocità molto elevata, probabilmente era grosso come un’aquila e credo che sapessimo entrambi che l’impatto contro il muro della biblioteca sarebbe stato abbastanza potente da uccidermi.
Tentai di muovere il pugnale, sperai che così sembrasse più grande di quello che era e che l’uccello si spaventasse, ma non funzionò. E quando smisi di agitarmi e lo fissai, capii di essere ad un passo dalla morte.
Fu a quel punto, credo, che un libro volò addosso all’uccello ,tramortendolo.
“Canestro!” esultò qualcuno alle mie spalle “No , cioè … Centro!”.
Mi voltai. Era il ragazzo della biblioteca. Indossava un paio di jeans e una felpa verde, dall’aria piuttosto pesante. Quando incrociò il mio sguardo, accennò un sorriso.
“Rientra!” ordinai, indicando la porta “Qui non è sicuro per te”
“Ma ti ho appena salvato la vita” replicò lui.
“E’ stata fortuna, solo fortuna!”
Scosse le spalle, ma non sembrava molto convinto “Qualunque cosa fosse, ti servirà ancora”
Provai a ribattere, ma proprio in quel momento, decine e decine di uccelli-kamikaze iniziarono a cantare. Lo guardai ed un brivido mi percorse la schiena.
“Non è un buon segno, eh?” fece lui.
Grugnì “Non hai altri libri, vero?”.
“Spiacente, moby dick era l’ultimo”.
Corrugai la fronte, quel nome mi diceva qualcosa, ma non ne ero sicura. E comunque, quello non era un buon momento per perdere i sensi.
Strinsi il pugnale e lo puntai contro lo stormo di uccelli che stava volando verso di noi.
“Stai dietro di me” gli ordinai.
“Certo, capo” rispose lui, portandosi una mano alla fronte. Non capii il motivo di quello strano gesto “Rimango qui mentre tu uccidi tanti polli alieni con uno stuzzicadenti”. Non capii fino in fondo neppure quella frase, ma decisi di rimandare le spiegazione ad un altro momento.
Il primo uccello che mi raggiunse, iniziò a colpire  e graffiare e ben presto si unirono anche gli altri. Il dolore, da penoso divenne insopportabile. Sembravano quasi possedere degli artigli. Ogni ferita bruciava sempre più. Tentai di colpirne qualcuno, ma prendere la mira era impossibile.
Guardai il ragazzo. Tremava e rivoli di sangue iniziavano a scorrere lungo le sue braccia. Immaginai che il freddo e uccelli-kamikaze non fossero il massimo per un umano. E poi pensai che si erano ficcato in quella situazione per noi, per delle persone che neppure conosceva e desiderai salvarlo. Fu allora che ricordai cosa fare. In realtà, ricordare non è la parola giusta. Era come se il mio corpo sapesse qualcosa che la mia mente aveva scordato completamente. Strinsi i denti, feci forza sulle braccia  e cercai di non pensare al dolore che stavo provando, poi, finalmente, riuscii ad attraversare la barriera vivente che mi circondava. Nella mano stringevo il pugnale e anche se sapevo che era sbagliato, anche se c’erano mille ragioni per non farlo, ascoltai quella piccola parte di me che non lo ignorava e lanciai il pugnale il più lontano possibile.
“Grande mossa, capo” sentii il ragazzo urlare. Le sue braccia erano ormai, totalmente insanguinate.
Non risposi, sperai,semplicemente, che funzionasse.
 
Il bello è che non funzionò. Non subito. Gli uccelli continuarono a beccarci e graffiarci, fino a che, all’improvviso, uno di loro cantò. Era un canto diverso, basso, quasi sussurrato, ma tutti i suoi amici si fermarono ad ascoltarlo. Sentii il ragazzo accanto a me ansimare. Lo guardai. Era stato colpito anche in faccia e in testa, ma le braccia rimanevano la parte messa peggio. Avrei voluto portarlo al sicuro, ma non potevo. Guardai verso gli uccelli. Li osservai uno ad uno, infine mi soffermai su quello che aveva cantato. Era più grosso degli altri, gli occhi era più rossi e più folli, il becco sembrava quasi storto in un ghigno. Trattenni un brivido, mentre con cautela mi avvicinano a lui. Sembrava aspettarmi.
“Capo” bisbigliò il ragazzo, facendomi quasi sobbalzare “Che vuoi fare?”.
Non gli risposi. Quando mi trovai abbastanza vicina all’uccello, trassi un profondo respiro e senza smettere di guardarlo negli occhi, tesi una mano verso di lui. Sperai non mordesse e non lo fece. Non indietreggiò,neppure. Cinguettò, invece. Un cinguettio minaccioso, simile ad un ringhio. Fui tentata di darmela a gambe,ma non potevo. Il trucco era non mostrare la propria paura, se lo avessi fatto, tutto quello non sarebbe servito a niente. Trattenni un urlo, poi, chiudendo gli occhi, appoggiai dolcemente la mano sulla sua testa. Le piume, sorprendentemente, erano soffici. Al mio tocco il canto s’interrupe,poi, gradatamente, cambiò. Divenne più dolce, più allegro. Tornò ad essere un cinguettio.
“Grandioso, capo” disse il ragazzo, dal tono sembrava sinceramente colpito.
Aprii gli occhi. Davanti a me l’uccello di poco primo era tornato ad essere un normale piccione e assieme ai suo compagni, stava volando via. Li guardai sorpresa.
Alle mia spalle, sentii Dinah gridare di stupore, quando il gatto contro cui combatteva diminuì di due taglie. Quando la vide, quello miagolò impaurito e corse via, così come tutti i suoi amici.
Alzai lo sguardo in cerca di Nico, ma lui era ancora sommerso di cani. Solo che stavolta, al posto di azzannarlo, lo leccavano. “Okay” disse ridendo e alzandosi “Ora basta, belli”.
“Cosa è successo?” domandò seccamente Dinah, avvicinandosi e squadrandomi “Tu non hai una bella cera”
“Lui è messo peggio” protestai, indicando il ragazzo.
Lei seguì il mio sguardo e spalancò gli occhi “E tu cosa sei? Un umano”.
La domanda sembrò coglierlo alla sprovvista “Ehm ,credo di sì”.
 “Perfetto” borbottò lei “Ci mancava un umano per finire in bellezza” .
“Dinah” feci,tirandola per la manica “E’ …”
“Ferito” concluse lei “Lo so. Lo siamo tutti.”
La guardai. Aveva ragione. Il suo viso era sporco e arrossato, pieno di lividi e graffi e lungo le gambe i vestiti erano stracciati ed insanguinati. Capii che stava soffrendo. Ma quando feci per dire qualcosa, Nico ci raggiunse. Non era messo meglio di noi. Le braccia erano segnate da morsi, i vestiti erano rotti e sporchi, le gambe sanguinavano ed una sembrava addirittura rotta.
Non sapevo che aspetto avessi io, ma la testa mi girava terribilmente.
“Chi è lui?” domandò Nico con un tono di voce più basso del solito, quasi debole.
“Sono Nicholas Grace” si presentò il ragazzo, tendendo una mano verso Nico “Ma per gli amici, Nick”. Lo guardammo male ed io pensai che voi umani avevate proprio delle strane usanze. Dopo qualche secondo, Nick tirò indietro la mano. “E voi sareste?”.
Lo ignorai, ma guardai le sua braccia. Perdeva molto sangue.  
“Dobbiamo andarcene” dissi “Dobbiamo …”
“Che è successo?” la voce di Bianca mi fece sobbalzare. Mi voltai. Era in piedi sulla porta, sembrava fosse stata lì tutto il tempo.  
“Cosa non è successo, vorrai dire” sibilò Dinah, rifoderando il suo guio “Tu dov’eri?”.
“Stavo portando in salvo le altre persone”
“E ti ci è voluto tutto questo tempo?”
“Un lavoro accurato richiede tempo”
Dinah scoppiò a ridere “Già, beh, te ne è sfuggito uno” e con un gesto distratto indicò Nick.
Vidi Bianca sobbalzare “Ma è ferito!” gridò “Presto!” fece avvicinandosi a lui e conducendolo fuori “Vieni con me, piccolo.”  
Dinah grugnì “Ma guarda te cosa mi tocca vedere” borbottò, prima di seguirli.
Nico fece per muoversi, ma quando fu sulla porta, si fermò.
“Non vieni?” chiese.
Annuii “Aspetta.”
E allontanandomi verso il laghetto, afferrai il coltello di mia madre. Non volevo perderlo . Era l’unica cosa che mi rimaneva di lei e sospettavo, anche l’unico modo di cavarmela in quel mondo.
Osservai il mio riflesso nella lama e sorrisi amaramente.
“Ti manca?” chiese Nico, tutto a un tratto.
“Molto”  risposi “A te non manca casa tua?”.
Scrollò le spalle “Casa mia era un casolare desolato in piena campagna, piccolo e fatiscente. A undici anni i miei mi hanno mandato a lavorare e da allora non li ho più rivisti.”
Lo guardai. Gli occhi di Nick era grigi, profondi e duri. Lo squarcio di un mondo di ferro. Ma c’era anche una luce in quel mondo. Era piccola. Un bagliore così minuscolo da passare inosservato, ma che in quel momento pulsava come una stella. Paura.
“Mi dispiace” dissi,distogliendo lo sguardo.
“Non devi ,principessa. Ci sono cose peggiori.”
 “Sbrigatevi” gridò  Dinah interrompendoci“Il nuovo amico di Siena qui, non sta per niente bene!”.
 

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Capitolo 7
*** Capitolo 6- Ci serve un piano. ***


CAPITOLO 6
CI SERVE UN PIANO.
“Ahi” si lamentò Nick, quando Bianca iniziò a disinfettare le sue ferite “Non potevamo andare in ospedale?” chiese per la centesima volta
Dinah sospirò “No che non potevamo,non erano umani quei cosi, ragazzo, chiaro?” .
Lui la osservò per qualche secondo, poi sorrise ed iniziò a canticchiare. Lo guardai, continuava a tremare, non sapevo se per il freddo o il dolore, ma sospettai per entrambi.  
Accanto a me, Nico trasalì .
 “Devo pulirla” disse seccamente, tastandosi la gamba ancora sanguinante “Hai delle stecche bende, Bianca?”
 “In cucina, terzo cassetto. Sotto le posate”.
Nico annuii e facendo leva sulla gamba ancora sana e barcollò fino in cucina.
Lo seguii con lo sguardo, poi, quando notai l’occhiata che Nick mi lanciò, mi voltai subito.
 
“Deve andarsene” Sibilò Dinah  indicando Nick.
Io lo guardai. Nick sembrava nascondere un segreto. I suoi modi, le sue parole erano così lievi da risultare forzati, quasi studiati. Era come un attore confuso. Aveva dovuto imparare una parte e l’aveva fatto così bene da non riuscire più a vivere senza. Pure alle volte se ne dimenticava e uno sguardo timoroso, un sorriso affranto facevano capolino sul suo volto. Erano brevi attimi, Nick era bravo a controllarsi. Ma a me piaceva osservare le persone e tra le risate e le battute avevo intravisto un ragazzo fragile.
“Devi andartene” ripeté Dinah, stavolta rivolgendosi direttamente a Nick.
Lui sembrò a disagio, quasi in imbarazzo, l’attore era stato colto impreparato. Fu un attimo. Poi piegò la bocca in un sorriso ironico e iniziò ad aggirarsi per la stanza “Vi ho aiutati. Almeno, lei lo aiutata di sicuro” fece indicandomi “Quindi mi dovete un favore”
“Noi non ti dobbiamo proprio niente!” protestò Dinah.
“ E andiamo!” protestò Nick, voltandosi “E’ davvero così esclusivo quello che fate? Siete degli accalappiacani così di lusso?”
Non credo che tutti avessimo capito ciò che aveva detto, ma a Dinah non importava granché. Attraversò il salotto e gli si piantò davanti. Era più piccola di lui, gli arrivava alla spalla, ma incuteva lo stesso un certo timore e quando portò una mano al guio, trattenni il fiato. Nick, invece, non sembrava essere minimamente preoccupato. Continuava a sorridere, teneva le braccia conserte e lo sguardo fisso in quello di Dinah.
“Ora tu te ne vai” sibilò lei “Così nessuno si farà male, intesi?”
Lui sbuffò, poi scrollò le spalle e ricominciò a girare per la stanza “Certo che è carino forte questo appartamento”
Lo guardai stupita. Quell’appartamento era tutto tranne che ‘carino forte’. Aveva un bagno, un salotto una cucina e un paio di stanze, non esattamente una reggia. Ma Nick sembrava seriamente colpito. Quando scoprì le due stanze da letto, fischiò.
“Io lo ammazzo” sibilò Dinah e sembrava fare sul serio.
“Non essere sciocca”  ribattei, trattenendola.
“Principessa” intervenne Bianca “Non abbiamo tempo da perdere, dobbiamo trovare il passaggio e New York è molto estesa …”
“New York?” la voce di Nick ci colse di sorpresa “Avete bisogno di una guida? Perché io conosco questa città come le mie tasche!”
“Sarà Bianca la nostra guida” replicò Dinah, ma Bianca la interruppe.
“A dire il vero, non sono più quella di una volta, le mie ossa sono vecchie e vi rallenterei e basta. Ma credo che questo ragazzo possa fare al caso vostro”.
Vidi Dinah ridurre gli occhi a una fessura. Non si fidava di Bianca, ma non voleva neanche coinvolgere Nick. Lo guardammo. Era un ragazzo normale, come tanti altri. Sarebbe potuto uscire da quella porta e dimenticare tutto di quella mattina, il sangue, le ferite. Sarebbe potuto uscire e tornare a casa. Aveva una scelta, al contrario di tutti, aveva una scelta.
“Nick” dissi, fissandolo “Quello che è successo stamattina, potrebbe ripetersi. Se tu ci aiuterai, devi sapere che potrebbe diventare pericoloso”
“Molto pericoloso” rimarcò Dinah, con un accenno di sfida nella voce.
Lui sembrò riflettere. Per un secondo, creddetti che avrebbe deciso di andarsene, ma poi, mi guardò e sorrise “Voi siete i buoni, giusto?”.
Annuii .
“E allora vi aiuterò!” decise “Tanto, queste vacanze di Natale si stanno rivelando estremamente noiose”.
 
“Gli animali contro cui avete combattuto ,stamattina” ci spiegò Bianca poco dopo, sedendosi sul divano “Erano stati stregati”.
“Stregati, in che senso?” la interruppe Nick.
Lo guardai “Non esiste la stregoneria sul vostro pianeta?”
Lui alzò le spalle “Sì, ma  una balla”
“No, invece” protestò Bianca “Le fate lo sono, le streghe sono vere. Da dove veniamo noi,le streghe possono essere di due tipi. Buone o cattive. Quelle buone si occupano della magia del Natale e vengono chiamate Befane”
Nick scoppiò a ridere ed io non capii perché. Dopo che Dinah gli tirò un pugno sul braccio, si tranquillizzò.
“Stavo dicendo” riprese Bianca leggermente stizzita “Le streghe cattive sono nemiche potenti. Spezzare un loro incantesimo è molto difficile e …”
“Ma lei ce l’ha fatta” la interruppe nuovamente Nico, guardandomi.
“Sì” concordò Bianca, seccata “E’ difficile ma non impossibile e lei è la persona più adatta per riuscirci e …”
“E quindi chi è stata?” chiese nuovamente Nick “Una strega cattiva? Sarebbe una figata!”
Bianca lo fulminò con lo sguardo e Nick decise che era meglio zittirsi . “Continui pure” la invitò, un secondo prima di arrossire.
“Molto bene” riprese “Cosa stavo dicendo? Ah, già, le streghe. Sì, beh, penso che la magia da cui quelle povere bestiole sono state colpite, fosse una magia cattiva. Le streghe sono potenti, come ho già detto. Hanno un raggio d’azione molto largo. Per loro non è neppure necessario essere nello stesso mondo della propria vittima.”
“Stai dicendo che chi li ha stregati, potrebbe non essere neppure a New York?” domandai, incredula.
“Come sarebbe a dire neppure nello stesso mondo? Da dove venite? Da Marte?” Un  altro pugno da parte di Dinah, zittì Nick.
Bianca mi guardò con espressione grave “Non sto dicendo solo questo, principessa”
“Principessa?” Gridò Nick, alzandosi in piedi per lo stupore “No, lascia, mi picchio io”
Bianca scosse la testa, poi tornò a guardarmi “Una strega può agire senza essere nello stesso luogo della sua vittima, ma non senza conoscere l’esatta posizione della vittima”
Alzai lo sguardo, allarmata “Dici che le streghe lo sanno? Che sanno dove sono?”
“Peggio, principessa, dico che il popolo sa dove siete ed ha chiesto aiuto alle streghe”
Rimasi senza fiato e nella stanza calò il silenzio. Ascoltai l’orologio ticchettare, il mio cuore battere. Doveva esserci un errore, il mio popolo non lo avrebbe mai fatto, le streghe cattive erano persone che vivevano in solitudine, ai margini della vita sociale. Non era ben volute da nessuno e chiunque veniva visto con una di loro, era subito arrestato e processato. Mai, mai, in tutta la nostra storia, un popolo aveva cercato aiuto in una strega cattiva.
“Perché?” chiesi infine, con un fil di voce “Dici queste cose?”
Bianca sospirò tristemente e mi prese la mano “Il passaggio infra-mondo è nel cuore del tuo palazzo, principessa e le streghe hanno avuto comunque bisogno di utilizzarlo per scagliare quell’incantesimo e chi altri, oltre al popolo, avrebbe potuto aiutarle?”
“Il popolo non sa dove si trovai passaggio” protestò Nico “Non più, almeno. E’ una conoscenza che si è persa da anni. Solo i comandanti dell’ esercito e alcuni uomini di fiducia del re lo sanno”.
Bianca sobbalzò a quella notizia, poi il suo volto si aprì in un sorriso “Ma è meraviglioso, principessa!” esclamò .
La guardai senza capire. Cosa c’era di meraviglioso in una strega che vuole ucciderti?
“Capo” mi chiese Nick, bisbigliando “La devo picchiare?”
Lo ignorai. “Bianca, cosa è meraviglioso?”
“Questo, principessa!” ribatté lei “Il popolo non lo sapeva! Certo che non lo sapeva! Sono stati solo alcuni consiglieri, solo qualche comandante dell’ esercito! Quando tornerai nel nostro mondo e il popolo saprà che questi traditori hanno osato legarsi a delle streghe,ti riaccoglierà! Non è meraviglioso”
La ascoltai intontita. Non ero sicura che mandare a morte delle persone fosse una cosa così meravigliosa, ma pensare che il mio popolo mi avrebbe rivoluto, pensare che avrei potuto vedermi restituita la mia famiglia, la mia vita, mi fece quasi piangere di gioia.
“Sì”  ammisi “E’ meraviglioso”.
Voltata com’ero, non vidi l’occhiata preoccupata che Nick e Dinah si scambiarono.
 
“Quindi”disse Nick poco più tardi, mentre camminavamo per le strade di New York “Fatemi capire. Abbiamo tre giorni di tempo per riuscire a trovare un passaggio interplanetario …”
“Infra-mondo” lo corresse Dinah.
“Sì, quella roba lì. Insomma, tre giorni per trovare questo passaggio che potrebbe essere ovunque a New York, una delle città più grandi del mondo, stando anche attenti a non rimetterci la pelle, perché alcuni cattivoni dei vostri non vogliono che torni la loro principessa, che poi, sei tu capo e che quindi si sono alleati con le streghe che sono la categoria di persone più infima di tutte, giusto?” concluse, traendo un respiro.
“Giusto” concordai.
“E non avete la minima idea di dove il prossimo passaggio possa comparire, giusto?”
“Giusto”
“Sapete solo dove sono comparsi gli ultimi passaggi, giusto?”
“Giusto”
“E la libreria era uno di quelli, giusto?”
“Giusto”
“E …”
“Penso che tu ti sia fatto un quadro abbastanza corretto della situazione” lo interruppe Dinah.
“Si, certo” concordò Nick scuotendo la testa “E penso che non ce la farete”.
Lo disse con semplicità, come se stesse parlando del tempo, ma quelle erano esattamente le ultime parole che volevo sentire.
Mi fermai e lo afferrai per un braccio, costringendolo a guardarmi.
“Perché dici così?” lo attaccai.
“Mi limito ad osservare i fatti, capo”
“Rimangiatelo”
“Ma è vero!”
Una strana sensazione d’impossessò di me. Sentii calore, un calore bruciante che invase tutto il mio corpo e poi, d’improvviso, quando il dolore stava per diventare insopportabile, il caldo divenne freddo e la stretta al braccio di Nick aumentò  senza che io me ne rendessi conto.
“Capo mi fai male” protestò lui.
Non lo ascoltai, non riuscivo a capire  quello che diceva, era come se un muro invisibile ci dividesse. Potevo vederlo, ma non sentirlo.
Dinah e Nico si buttarono su di me e tentarono di farmi allentare la presa, ma non riuscirono.
“Siena, lascialo!” gridò Dinah “Gli fai male”.
Avrei voluto farlo, davvero, avrei voluto lasciarlo, ma, chissà perché, non riuscivo. Nico, alle mie spalle, cercò di sollevarmi e portarmi via di peso.
“Lascialo, principessa” ordinò.
Spalancai gli occhi, le parole tornarono ad avere senso. Ma con terrore, mi resi conto di non riuscire ad allentare la presa.
“Non posso” biasciai.
“Come sarebbe a dire non posso?” protestò Nick
“Non posso”
Fu a quel punto che Dinah sguainò il suo pugnale e me lo puntò contro “Molla” ordinò.
Sentii una morsa invisibile stringere il mio corpo e farmi cadere. Allentai la presa, mentre tutto il mondo attorno a me prese a girare ed io boccheggiai in cerca di ossigeno. Avvertivo le mie ossa comprimersi sempre più. Dinah si chinò verso di me e mi afferrò per i polsi.
“Siena!” urlò “Siena che ti prende?”
Scossi la testa e mi aggrappai al suo braccio. “Sono qui” mormorò “Non ti lascio.”
Io annuii e lentamente sentii la morsa allentarsi. Confusa, mi ritrovai a fissare il braccio di Nick. Tremava e c’era della brina sulla manica della sua felpa. Quando la arrotolò, vidi che la pelle sotto era diventata secca. Non lo stavo solo stringendo, lo stavo congelando. D’improvviso la testa iniziò a girare cosi intensamente da farmi perdere l’equilibrio. Dinah mi afferrò prima che cadessi.
“Cosa ti prende,Siena?” domandò.
Non risposi. Non lo sapevo neppure io.
 
Nick non era una persona rancorosa. Bastarono un paio di cioccolate calde per fargli subito dimenticare tutto.
O meglio, quasi tutto.
“Rimango dell’idea che non riusciremo mai a setacciare tutta New York in tre giorni ”
Dinah e Nico mi lanciarono un’occhiata nervosa e anch’io, per sicurezza, incollai le mani al tavolo.
Nick, invece,  non sembrava essere minimamente turbato. “La verità” continuò “E’ che ci serve un piano”.
“Un piano?” domandò Dinah “Un piano che non si basi su nessuna certezza e nessun indizio? Già, gran bel piano”
Nick la ignorò e continuò a sorseggiare la sua cioccolata. Quando la finì, con ancora attorno alle labbra i baffi della panna, ci sorrise. “Io penso che tutte le cose seguano un ordine. Anche i vostri passaggi. Bisogna solo capire quale.”
Corrucciai la fronte, non ero sicura di aver capito “In che senso, Nick?”.
“Nel senso che non credo a quello che dice la nonnetta.”
“E’ una guardiana” protestai “Se ci fosse stato un ordine glielo avrebbero detto!”
“Magari no, capo. Nel nostro paese, tu puoi essere un soldato, ma non è detto che  sappia tutto della guerra che stai combattendo”
“Il vostro paese non è il nostro.”
“Può darsi” fece, pulendosi la bocca con la mano “Ma ci somiglia molto”.
Non ribattei. Non sapevo come.
“Comunque, capo, questa è una bella notizia! Vuol dire che siamo un passo più vicini al passaggio interplanetario! Basta capire lo schema”
“In che modo?” domandai dubbiosa.
Nick alzò le sopraciglia “Prima di tutto, bisogna chiedere a Bianca tutti i luoghi in cui si ricorda che siano apparsi questi passaggi. Poi bisogna lavorarci e magari incrociare le dita.”
“Incrociare le dita” ripeté Nico “Strategia vincente”
Storsi la bocca. Nico aveva ragione, quella non era una strategia vincente. Non era nemmeno una strategia. Ma era l’unica possibilità che avevo di tornare a casa e per una volta, decisi che avrebbe funzionato.
 
Nick aveva letto un sacco di libri. Lo scoprii quel pomeriggio, quando arrivammo in biblioteca. Un’ altra. Decisamente più grossa e più bella della scorsa. Le stanze erano numerose, alte e piene zeppe di libri. Non ero sicura che nel mio mondo esistesse un posto simile e la Terra iniziò a piacermi un po’ di più.
Nick , lì dentro, si muoveva come se fosse stato a  casa sua, indicava scaffali, prendeva libri e ne lasciava altri. Ci guidava attraverso le stanze e ritornava sui suoi passi. Il suo sguardo brillava di fronte ad ogni cosa.
Alla fine, arrivammo in una stanza un po’ più piccola delle altre, divisa dal resto della biblioteca da due librerie piene di volumi antichi.
“Qui è perfetto” annunciò, lanciando il suo giubbotto su un tavolo di legno non molto distante e voltandosi verso uno scaffale.
Subito dopo aver finito le nostre cioccolate, Nick aveva deciso di tornare da Bianca e di farsi dire tutto quello che ricordava sui passaggi infra-mondo. Lei aveva protestato che era vecchia, ormai, e la sua memoria poteva fare cilecca, ma Nick era stato abbastanza irremovibile. Persino uno, aveva detto, era meglio che zero indizi sui cui basarsi.
Alla fine, Bianca aveva ricordato abbastanza luoghi. Quando era sembrata troppo stanca, ce ne eravamo andati.
Nick aveva evidenziato su una mappa di New York tutti i luoghi in cui erano apparsi i passaggi. Poi l’aveva stesa sul tavolo, di fronte a noi.
“Non hanno nessun senso” mormorò Dinah sconfortata.
Aveva ragione. Non c’era nessun ordine, nessun disegno. I passaggi erano apparsi dentro a palazzi,parchi, porti,  scuole e alcuni, persino in mezzo ad una strada. Ma niente sembrava unire un luogo ad un altro.
“E’ qui che ti sbagli” la corresse Nick, scaricando sul tavolo mezza tonnellata di libri “Loro hanno un senso. Hanno qualcosa in comune”
“E cosa?” lo attaccò lei.
Sorrise “Non lo so ancora, ma loro” fece indicando i libri “Di sicuro sì.”
 
Nick non aveva previsto che sarebbe stato l’unico in grado di leggere. Io e Dinah potevamo prendere appunti, alle volte, vedendo delle parole, mi veniva in mente il loro significato, ma non riuscivo a essergli molto più di aiuto. Dinah non era veloce come me a scrivere, ma lo seguiva di più. Lo ascoltava con attenzione, ascoltava dove la voce calcava maggiormente. Capiva quando una cosa non lo interessava o quando era importante. Non aveva studiato tanto quanto me, ma mia mamma aveva voluto che anche lei fosse istruita. Diceva che, anche se era stata educata come un soldato, rimaneva la nipote del re. Quel pomeriggio, gliene fui grata. Avevo sempre odiato i dettati e dopo poco, iniziai ad essere stanca di fare la segreteria. Inoltre, non capivo quanto degli appunti scritti in un alfabeto che non era il suo, potessero tornare utili a Nick. Anche se, intuii, più che gli appunti, gli interessava stare accanto a Dinah. Sorrisi.
 
Nico non sapeva leggere e non sapeva scrivere, quindi era quello messo peggio. Passava il tempo seduto, a giocare con la spada, oppure in piedi, avanti e indietro per la libreria.
Dopo un paio d’ore, ne avevamo entrambi abbastanza.
Quando il sole iniziò a tramontare, Nico si sporse sul tavolo.
“Secondo me” disse “Dobbiamo andare fuori”.
Dinah non sollevò neppure lo sguardo, ma io e Nick lo fissammo.
“In che senso?” chiese lui. Aveva usato un tono strano. Lo guardai. Gli occhi erano ridotti ad una fessura,la bocca era serrata. Abbassando lo sguardo, notai che le mani erano chiuse a pugno.
“Nel senso che i tuoi libri parlano di un mondo che è la fuori ad aspettarci” ribatté Nico,
“Già, beh, quel mondo, che per inciso non è il tuo, dovrà aspettare ancora un po’.”
Nico  sbuffò “Non puoi rimanere tutto il tempo in biblioteca. A un certo punto dovrai uscire”
“Sì, quando avrò ottenuto delle risposte.”
“Magari ,mentre tu stai qui, qualcuno, là fuori, ha già capito”
“Qualcuno come te, Nico?” domandò, chiudendo di scatto un libro. Sobbalzai. Era arrabbiato , ma non capivo perché.
Nico rise. “Non sicuramente come te.”
Prima che me ne rendessi conto, Nick balzò in piedi e tirò un pugno in faccia a Nico. Lo fissammo interdetti.
“Che ti prende?” grugnì Nico con rabbia. Non gli aveva fatto male. Non abbastanza per soffrire. Ma abbastanza per volerlo picchiare a sua volta. Lo vidi avanzare.
“Penso che possa bastare” intervenne Dinah, mettendo una mano sul braccio di Nick. Al suo tocco, lui sembrò rilassarsi. “Può darsi” borbottò.
Ma il clima era diventato teso.
“Penso che sia il caso che tu esca, Nico” continuò Dinah “Vai un po’ a vedere questo posto. Dovrebbe essere vicino” e così dicendo indicò un punto sulla cartina.
“Porta Siena” aggiunse “In caso d’emergenza, non riuscirei a difenderne due”.
Nico annuì, ma non sembrava vedermi. Uscì a grandi passi senza aspettarmi.
 
New York aveva qualcosa di diverso la sera. Quando il sole tramontava, la città iniziava  a brillare. Tutte le strade, gli edifici, le macchine erano in movimento e assomigliavano a stelle veloci. Non avevo mai visto così tante luci. E ne ero completamente rapita. Per un po’ camminammo in silenzio, poi, mi resi conto che stavamo girando in tondo.
“Nico” dissi, fermandomi “Qui ci siamo già passati”.
Lui sembrò riscuotersi all’improvviso. Afferrò la cartina e corrucciò la fronte. “Sì” concordò “Ehm … Di qua” e voltandosi bruscamente, si infilò in un vicolo.
Era più buio dell’ altra strada e anche meno trafficato. L’aria sapeva di minestre e pianti di bimbi.
“Ora dobbiamo voltare qui” dichiarò indicando un muro. Feci per avvertirlo, ma era già troppo tardi e Nico andò a schiantarsi contro.
“Nico!” Sbuffai.
“E’ tutto a posto” protestò lui, alzandosi. Lo guardai ed impallidì. Non era tutto a posto. Il naso perdeva sangue. Molto. Sperai che non fosse rotto.
 “Ti fa male?”
Lui scosse la testa, ma dal suo sguardo capii che mentiva.
“Perché fai così?” protestai, una rabbia improvvisa dentro di me.
“Così come?”
“Come con Nick poco fa … Sei scostante, respingi tutto e tutti! Perché?”
Lui alzò le spalle.
“Anche adesso! Perché non mi dici come stai davvero?”
“Sto bene, principessa.”
“Non è vero!”
“Invece sì”
“E allora lasciami vedere!”
Lo vidi tentennare “Principessa …”
“E’ un ordine, Nico.”
Sbuffò, ma stavolta, mi lasciò avvicinare. Tentai di essere il più dolce possibile, ma un paio di volte lo vidi trasalire.
“E’ rotto” annunciai, alla fine.
“E allora?”
Lo guardai. Avrei voluto ribattere, avrei voluto dirgli che c’era bisogno di un medico o di qualunque altra diavoleria avessero in quel luogo, ma quando incrociai il suo sguardo, ogni parola mi morì in gola. I nostri volti erano dannatamente vicini. Per la prima volta, il ghiaccio nei suoi occhi non mi fece paura. Mi attrasse. Desiderai saperne di più. Nico tenne lo sguardo incatenato al mio. Inconsciamente, colmai la distanza tra di noi. Quando gli fui più vicina, sentii la sua mano sfiorare la mia.
Sorpresa, spostai lo sguardo sul pugnale di mia madre “Voglio provare a fare una cosa” mormorai.
Lui annuì.
Senza sapere perché, avendo la semplice sensazione che quella fosse la cosa giusta cosa da fare, accostai la mia fronte alla sua. Sentii il mio corpo perdere di consistenza, quasi come se volassi. E lentamente, mi trasformai. Divenni ogni altra cosa di quella via: neve, luce, ombra, aria, muro. Mi lasciai avvolgere, mi affidai completamente a loro e una parte di me, sapeva che Nico era assieme a me. Volai, come l’aria,  poi caddi, come neve. E tornai me stessa. Aprii gli occhi. Nico, di fronte a me, non aveva più nessuna traccia di sangue, il naso era tornato quello di sempre. Incredulo, si toccò il viso.
“Sei stata tu?” chiese, ma prima che potessi rispondere una bambina iniziò ad urlare , poi urlò una donna e poi un un’altra ancora. Ci voltammo. Accanto a noi, silenzioso, un incendio stava bruciando un palazzo dal quale, terrorizzati, si affacciavano persone in cerca di aiuto.

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Capitolo 8
*** Capitolo 7- Fuoco e ghiaccio ***


 
CAPITOLO 7
FUOCO E GHIACCIO.
Il nostro più grande nemico è il fuoco. E’ una costatazione semplice, a pensarci, logica. In un mondo fatto interamente di ghiaccio, il fuoco deve necessariamente essere il pericolo maggiore.
La verità è che mentre voi imparavate ad usarlo, noi imparavamo a temerlo.  I vostri antenati ne carpivano ogni segreto, lo rendevano arma di difesa, sfruttavano il suo calore, i nostri antenati imparavano a rifuggirlo, a difendersi, a rinforzare il ghiaccio perché non potesse scioglierlo.  Ai nostri militari insegniamo come sopravvivere al fuoco, non come vincerlo. Perché il nostro credo fondamentale è uno solo: niente è più forte del fuoco. 
Ecco perché quella sera, in quella via, quando io e Nico alzammo lo sguardo e vedemmo l’edificio in fiamme, le persone sporgersi e implorare aiuto, i loro volti deformati dalla paura, provammo l’impulso di scappare il più lontano possibile.
Iniziarono a radunarsi delle persone. Sembravano impaurite tante quanto noi.
“Qualcuno chiami aiuto!” gridò una donna, dall’alto. Accanto a me, una ragazza sfoderò uno strano aggeggio luminoso e se lo portò all’orecchio, poi iniziò a parlare da sola.
Non le prestai molta attenzione. Nico, accanto a me, continuava a far saettare gli occhi da una finestra all’altra.
“Tra poco cadrà” mormorò ad un certo punto “Hanno una manciata di minuti prima che il primo piano si sfaldi”
Lo guardai, aveva una strana luce negli occhi, pericolosa quasi quanto quella dell’incendio. “Cosa vuoi fare?”
Non mi rispose. Si limitò a fissarmi. E quando capii, mi spaventai.
“No!” protestai, afferrandolo per un braccio “Tu non andrai lì dentro! Non si può vincere il fuoco e tu lo sai”
“Principessa, se io rimarrò qui, moriranno delle persone”
“Anche se tu entrerai!”
Scosse la testa “Posso riuscire a portare fuori quasi tutti i bambini e magari qualche adulto, basterà entrare e …”
“Non te lo lascerò fare” replicai a voce bassa.
Per qualche secondo, distolse lo sguardo dalle fiamme e lo fissò sul mio viso. “Se questo è un ordine …”
“Lo è”
“Non posso eseguirlo, principessa, mi spiace.”
Liberò il braccio dalla mia stretta con facilità, poi si inchinò, infine, si diresse verso la porta dell’ edificio. Prese una piccola rincorsa e la buttò giù con una spallata. Un’ondata di calore irruppe addosso a noi. Mi schermai il volto con le mani. Quando alzai lo sguardo, Nico era già sparito.
 
Per un po’ non successe niente. Mantenni lo sguardo fisso nel punto in cui l’avevo visto sparire. Non mi muovevo. Attorno a me, le persone parlavano senza sapere cosa dire, guardavano il palazzo in fiamme, ascoltavano le grida degli altri riecheggiare per tutta la via, i pianti dei bimbi coprire il rumore del traffico. Eravamo tutti immobili, come davanti ad uno spettacolo, ad aspettare un lieto fine che sarebbe anche potuto non arrivare.
D’improvviso, un urlo più disperato degli altri, catturò la mia attenzione. Guardai in alto. Un uomo, una sagoma scura e tremolante, stava sporgendosi dalla finestra. All’inizio non capii, era pericoloso, sarebbe potuto cadere. Delle mani, attorno a lui, cercavano di trattenerlo. Cercai di dirglielo, altre voci si unirono alla mia. Inconsciamente, mi avvicinai. Ma quando capii, era già troppo tardi. Si alzò sul davanzale, guardo in giù, per un attimo, sembrò quasi incrociare il mio sguardo, poi, si lasciò andare. Chiusi gli occhi un secondo prima dello schianto, ma udì lo stesso un suono sinistro, come di un qualcosa di pesante che si era appena rotto in mille pezzi. L’odore di sangue si mischiò a quello del fuoco, l’aria divenne irrespirabile. Là dove era caduto, la neve si tinse di rosso. Distolsi lo sguardo più in fretta che potei, non abbastanza per riuscire a non piangere.
Alcuni si mossero verso di lui, ma proprio in quel momento, si udì uno scricchiolio. Era fastidioso e sempre più intenso, come se qualcuno avesse continuato a camminare sulla stessa trave. Ripensai alle parole di Nico “Hanno una manciata di minuti prima che il primo piano si sfaldi” e rabbrividii. Alzai lo sguardo, lo fissai sul primo piano. Lo scricchiolio era diventato molesto, l’incendio aumentava sempre più. Osservai i volti di intere famiglie deformati dalla paura. 
“Cadrà” mormorai, ma, un secondo dopo, lo scricchiolò cessò.
Una dopo l’altra, le persone attorno a me distolsero lo sguardo e ricominciarono a parlare. Avrei voluto imitarle, ma qualcosa mi diceva che il peggio doveva ancora arrivare. Guardai verso la porta, sperai di vedere Nico, ma non fu così.
Poi, un rumore sordo. Non feci neppure in tempo ad alzare lo sguardo. Il primo piano crollò. Il soffitto si staccò, alcune travi si rovesciarono, dei muri si sgretolarono e in un attimo, delle persone non esistevano più.
Forse fu quello a provocarmi. Le fiamme dell’incendio divennero dannatamente simili alle fiaccole con cui il mio popolo aveva minacciato di bruciarmi. Il ricordo di quella notte si fece strada nella mia mente, divenne così intenso da farmi tremare.
Ma c’era qualcosa era diverso.
La paura che avevo provato, la paura che mi aveva immobilizzato, le lacrime che avevo versato per i miei genitori, per la vita che abbandonavo si trasformarono. Divennero rabbia. Una rabbia cieca. Una rabbia folle. Così folle da spingermi ad entrare in quel edificio, tra le fiamme, in pasto al nemico più grande di tutti. 
Non era logica, era istinto.
Non potevo rimanere a guardare.
Quindi entrai.
 
Ho dei ricordi molto confusi di quello che accadde dopo. Ricordo che delle mani provarono a fermarmi, che io le scansai e che ,superate le fiamme dell’ingresso, dovetti liberarmi in fretta della mia felpa, ormai in fiamme. Tutt’attorno a me, non riuscivo a distinguere nulla. Faceva troppo caldo, gli occhi bruciavano e anche l’aria sembrava andare a fuoco. Cercai di ricordare quello che mi era stato insegnato, quello che ,qualche volta, mio padre si era lasciato sfuggire. C’erano delle precauzioni da prendere di fronte ad un incendio, ma non me ne tornò in mente neppure una. Mi mossi incerta, provai a stare il più lontano possibile dalle fiamme, ma era impossibile. I pantaloni si carbonizzarono nel giro di qualche minuto e ogni movimento iniziò a costarmi sempre più fatica.
“Nico?” rantolai, scorgendo una sagoma in fondo. Era piccola e magra, ma sperai lo stesso  che fosse lui. La sagoma non rispose e io feci per avvicinarmi, ma appena mi mossi, un rumore sordo attirò  la mia attenzione. Alzai la testa. Riuscii a scansarmi appena in tempo, un secondo prima di morire spiaccicata sotto una trave di legno. Tossii e cercai di rialzarmi, ma quando mossi le gambe, scoprii che quella destra era incastrata sotto la trave. Tenta di muoverla, di alzare la trave, di gridare aiuto. Tutto inutile.
Credetti  di morire così.
Le fiamme mi avrebbero avvolta o il soffitto sarebbe crollato e mi avrebbe sepolta viva e tutto si sarebbe concluso. La cosa peggiore è che non ne avevo il controllo. Non avevo il controllo sulla fine della mia vita. Forse è questo che spaventa tutti così tanto: essere impotenti di fronte ad una cosa così grossa. E’ buffo, ma la verità è che ,quando si muore, si è solo spettatori. Quella sera me ne resi conto e ne fui atterrita.
Ma non morii. Al contrario, iniziai a piangere e tra le lacrime scoprì di desiderare di vivere. Fu una sensazione strana, alcuni la chiamerebbero disperazione, ma io che l’ho provata, posso giurare che sia qualcosa immensamente più forte, una forza più inarrestabile, più incontrollabile. Qualcosa capace di spingerti al di sopra delle realtà, oltre i tuoi limiti.
Strinsi la mascella, poi sfoderai il pugnale di mia madre ed mi avvicinai alla trave. Sapevo di avere poco tempo, le fiamme attorno a me divampavano. Accostai il pugnale alla trave, lo incastrai tra quella e la mia gamba, di piatto, poi, lentamente, usando tutta la forza di cui ero capace, inizia a sollevarla, facendo leva. Sentii il  sudore imperlarmi la fronte, le mani tremare ed una scossa improvvisa, percorrere il mio braccio. Sobbalzai e per poco, non mollai la presa. Da sola, in quello stato, non ce l’avrei mai fatta, ma sapevo che c’era un’ultima possibilità. Sentivo una voce, una specie di ricordo, che lottava disperatamente per farsi sentirsi e salvarmi. E disperata, decisi di ascoltarla. Tolsi il pugnale e lasciai ricadere la trave, poi lo alzai, lo strinsi con forza e con un unico, gesto, lo conficcai nel legno. Quello che successe dopo, continuò ad essere un mistero per molto tempo, ma a contatto con la lama, la trave si ruppe in mille pezzi, come se fosse stata fatta di vetro ed mi ritrovai libera. O meglio, circondata dalle fiamme, ma con la gamba libera.
Mi alzai in piedi, ma non c’erano vie d’uscita. Guardai in alto, il soffitto minacciava di  cadere da un momento all’altro, perlustrai la stanza con lo sguardo. Tutto inutile. Ero in trappola.
Indietreggiai brandendo il mio pugnale contro la fiamme, quando, con gli occhi annebbiati dalle lacrime, mi sembrò di distinguere una sagoma in lontananza.
“Chi sei?” borbottai, ma la mia testa girava terribilmente. Provai ad aguzzare lo sguardo. “Devi uscire di qui” ma la sagoma continuava ad avanzare, fino a che, attraverso la coltre di fumo e di fuoco, distinsi il volto annerito di Nico.
“Nico …” farfugliai, ma un secondo dopo le gambe cedettero. Lo sentii afferrarmi. “Come hai fatto a trovarmi?” mormorai con un fil di voce.
Luis cosse la testa. “Me l’hanno detto fuori. Hanno detto che c’era ancora qualcuno dentro. Io ho gridato che lo sapevo, che non ero riuscito a salvare tutti …” anche se così debole, percepii lo stesso il rimorso nella sua voce “Poi, hanno detto che eri tu e non ho capito più niente”
“Non dovevi rientrare” protestai debolmente.
“Sta zitta” replicò “Ho promesso a tuo padre che ti avrei protetta e dannazione, lo farò”
Non ribattei, non ero sicura di avere abbastanza fiato in corpo. Quando mi lasciò, disse qualcosa, gli occhi impauriti, ma io non capii e d’improvviso, prima che potessi realizzare cosa stava succedendo, mi spinse con violenza via di lì. Mi voltai. Alle mie spalle, esattamente dov’ero stata fino a un secondo prima, il soffitto aveva ceduto, bloccando l’unica strada verso la porta.
“Così non va bene” tossì Nico accanto a me.
Lo guardai stordita, lui si limitò a scuotere la testa e prendermi per mano.
Iniziammo a muoverci. Lo vedevo cercare vie d’uscite, nuove porte, nuove finestre, un modo per scappare il più lontano possibile, ma tutte le volte, ogni corridoio, ogni stanza, ogni angolo conducevano ad un vicolo cieco. D’improvviso, mi resi conto che Nico tremava. Sollevai lo sguardo.
Le ginocchia gli cedettero nello stesso momento.
Cademmo a terra assieme. Troppo deboli per resistere. Troppo deboli per rialzarci. Il fumo ci aveva avvelenato i polmoni, ci bruciava gli occhi e la gola.
Nico si strinse a me. Stremati, spaventati, avvolti dalle fiamme, ci ritrovammo stretti in un angolo, abbracciati, con l’unica, flebile certezza, di non essere soli. Non per quella volta.
“Ho paura, Nico”
“Ci sono modi peggiore per andarsene”
Non replicai, ma desiderai guardare il pugnale di mia madre per l’ultima volta. C’erano davvero modi peggiori di andarsene? Non lo sapevo, ma pensai che avere un pezzo di lei al fianco, qualcosa che me la ricordasse, sarebbe stato meglio. Lo sguainai.
Poi, accadde qualcosa di strano. Udii come una voce, un fischio, come se qualcuno avesse cercato di chiamarmi. Mi guardai attorno, ma non vidi nessuno. Sentii la stretta di Nico perdere potenza.
“Che succede, Siena?” domandò.
Per un secondo, assaporai il suono di quella parola, del mio nome, pronunciato da lui. Era piacevole. Sapeva quasi di casa.
Mi alzai in piedi e lasciai che quella voce sconosciuta mi avvolgesse, che quel fischio diventasse il mio. E senza rendermene conto, iniziai a cantare. Era un canto strano, basso, ritmato. Qualcosa di ancestrale, che sapeva di terra e tribù, di lotte per la sopravvivenza. Un canto ideato dai nostri antenati per combattere il nemico più grande: il fuoco. Al suono di quelle parole  vidi le fiamme tremolare, fermarsi, lottare ed infine, indietreggiare. Alle mie spalle, sentii Nico rialzarsi a fatica e raggiungermi. Capii che avrebbe voluto chiedermi qualcosa, ma si trattenne. Immagino sapesse che quello non era il momento adatto. Si accostò a me e per tutto il tempo, rimase lì, accanto alla mia spalla destra, con la mano sulla spada e gli occhi pieni di meraviglia.
 
Non credo di aver mai respirato tanto come quando uscii da quell’edificio –o da quel che ne restava-. Le persone si radunarono attorno a noi, ci accerchiarono, vollero sapere tutto, ma a quel punto, davvero, i miei ricordi si fanno confusi. Forse svenni, Nico no. Quando arrivarono i soccorsi, raccontò di non sapere nulla, di avermi trovata là dentro e che insieme, ne fossimo usciti. In seguito, mi dissero che erano morte tre persone in quell’incendio, che quattro erano ferite gravemente e che tutti i bambini erano salvi e illesi. Ricordo di aver guardato Nico in quel momento, e ricordo di aver riconosciuto sotto quelle cicatrici, in quel volto scuro e sporco, arrossato, in quel corpo sempre troppo magro e alto per figurarselo soldato, nel suo sguardo così altero e così intenso, un eroe.
 
Mi svegliai in una stanza bianca. L’aria aveva uno strano odore, acre. Aprii gli occhi e cercai di mettere a fuoco l’ambiente attorno a me. L’occhio mi cadde su degli strani macchinari. Erano alti, e in parte, si muovevano, uno brillava e aveva dipinta una sottile linea curva che continuava ad alzarsi ed abbassarsi. Quando mi mossi, un fastidioso bip si diffuse nella stanza e le curve divennero più aspre, quasi dei triangoli. Mi avvicinai e cercai di metterlo a tacere, ma una voce mi fece sobbalzare.
“Principessa ?”
Mi voltai. Nella penombra, appena illuminato dalla luce dei lampioni che filtrava dalla finestra, a braccia conserte, con le lunghe gambe incastrate nei braccioli della poltrona, Nico mi fissava.
“Non devi toccarlo, principessa” fece lui alzandosi “I medici hanno detto di non farlo”
“I medici? Dove siamo?”
“All’ospedale, quel posto di cui Nick continuava a parlare.”
Annuii. Sentivo la testa pesare e anche se ancora non lo sapevo, dopo quella sera, avrei sofferto d’asma per tutta la mia vita.
“Dove sono …”
“Come hai fatto …”
Parlammo nello stesso istante, ma io non mi fermai. “Dove sono Dinah e Bianca?”
Lui alzò le spalle “A casa, credo. Alcune donne mi hanno chiesto chi eravamo, un numero di telefono. Ho risposto che Bianca non vive lontana da Times Square. Stanno cercando di rintracciarla.”
Annuii di nuovo e appoggiai la testa al cuscino.
“Stai bene, principessa?”
“Sì … no” farfugliai. Avevo le idee confuse. “Chiamami Siena”
Nico spalancò gli occhi, ma non ci badai. Chiusi gli occhi. Le fiamme tornarono a divampare e sobbalzai.
“Che  succede?” domandò lui, allarmato.
Scossi la testa. “Nulla”
Lo vidi abbassare le spalle e andare alla finestra “Mi hanno anche tolto la spada” borbottò.
Non replicai e per un po’, nessuno parlò. Sapevo che non era finita lì. Era nell’aria, lo avevo letto nello sguardo di Nico. Qualcosa stava ancora bruciando per lui. Un rumore acuto proveniente dalla strada ruppe il silenzio. Nico si voltò verso di me e trasse un profondo respiro “Cosa è successo durante l’incendio, princi … Siena?”.
Alzai lo sguardo e sentii la testa tornare a girare. I ricordi di quello che avevamo appena vissuto erano troppo freschi. Cercai di concentrarmi, sapevo a cosa alludeva, ma ancora una volta, tutto ciò che vidi, furono fiamme, fiamme sempre più vicine e sempre più calde. Urlai senza accorgermene e Nico iniziò a scuotermi.
“Fuoco!” continuai “Al fuoco!”
Lo sentii più vicino , aumentò la stretta. “Non va a fuoco un bel niente!” protestò “Siamo qui, siamo al sicuro. Siamo qui, siamo al sicuro”
Continuò a ripetere quelle parole finché non mi calmai. La sua voce si ridusse ad un sussurro, divenne quasi dolce.
“Siamo al sicuro” mormorò un’ultima volta ed io mi lasciai cadere all’indietro, sui cuscini, senza più forze. Allentò la presa solo quando fu sicuro che stessi meglio, ma non si mosse dai  piedi di quello strano letto. Avrei desiderato chiederglieli come faceva ,lui, a mantenersi così calmo, come poteva, dopo tutto quello che avevamo passato, trovare ancora le forze di calmarmi, ma non lo feci.
Parlò lui, invece.
E disse tutto quello che avevo bisogno di sapere.
“Ti ho mentito, princ .. Siena, sai? E mi dispiace”
La sua voce tagliava l’aria.
“Ho trasgredito il nostro codice d’onore, ho abusato della fiducia che una reale aveva in me e chiedo perdono per questo, ma ho raccontato questa storia solo ad un’altra persona al mondo ed entrambe avete in comune una cosa” Mi fissò “Vi devo la vita”
Socchiusi gli occhi. La sua voce copriva il ricordo dell’incendio ed io desideravo solo che continuasse.
“Una volta ti dissi che i miei genitori erano povera gente, che scappai di casa e che non li rividi mai più e Dio solo sa quanto vorrei che ciò fosse vero, ma le cose stanno diversamente. Abitavo in un piccolo villaggio nelle montagne di Nord, quelle più impervie, quelle che tu, dal tuo palazzo, nelle sere più terse, vedi brillare. La mia famiglia non era molto ricca, ma mio padre possedeva qualche albero e la legna per scaldarci non è mai mancata. Era un paesino piccolo, poi, così piccolo che tutti erano la famiglia di tutti. Noi davamo legna, altri, in cambio, pecore, cibo, armi … No, di quelle poche, molto poche” Serrò le labbra “Io ero il piccolo di casa, mio fratello avevo cinque anni più di me e un corpo più grosso, già la barba. Era carismatico, leale e forte. Lo adoravo. Lo adoravamo tutti. Un giorno andammo a tagliare legna insieme. Io avevo dieci anni e ne dimostravo otto. Ci inoltrammo troppo, i nostri genitori non avrebbero approvato, ma io ero con mio fratello, non poteva succedermi nulla di male. Perdemmo di vista il nostro villaggio e anche la cognizione del tempo. Quando tornammo, quella sera, la luna splendeva, ma per tutta la valle regnava una calma innaturale, avevamo una strana sensazione …” strinse il bordo del letto “Iniziammo a correre”
Si allontanò di scatto. Muoveva passi bruschi, disarmonici per la stanza, come se fosse tornato a quella notte, ancora bambino, ancora impaurito.
“Arrivammo al villaggio e lo trovammo … lo trovammo … ” si fermò. Le mani a pugno stese lungo i fianchi, le braccia tremanti.
“Nico?”
Mi fissò e c’era una tempesta nei suoi occhi che minacciava di sommergermi. “Era bruciato tutto, ogni cosa, ogni persona. Gli uomini uccisi, le donne rapite, le bambine scomparse, come i bambini, ma solo quelli piccoli. I ragazzi erano stati tutti feriti a morte. Io piansi, mio fratello anche.  Lui giurò vendetta. Una delle ragazze uccise era il suo amore. Gridò loro di farsi vedere, che sentiva, sapeva che loro erano ancora lì, di affrontarlo se avevano il coraggio. E loro comparvero”
Lo guardai, il suo sguardo si era fatto scuro, imperturbabile, lontano anni luce.
“Chi?” sussurrai.
Un fulmine nella stanza.
“Le streghe”
Avrei voluto avvicinarmi, dirgli che andava tutto bene, che era al sicuro ormai. Ma non mi riuscii. Quando una persona affida frammenti così oscuri della sua vita a qualcun altro, possiamo solo accogliere questi frammenti, accogliere la sofferenza di cui sono imbevuti. Perché accettandola, il dolore di chi soffre diventa più piccolo. Impercettibilmente più piccolo. Ma abbastanza perché quello spazio possa essere colmato da un’emozione diversa. Magari, migliore.
“Lui le affrontò, ma perse” continuò Nico, la voce roca “Ne uccise una e di per sé, è già una gran cosa. Prima di morire, mi disse di scappare, me lo ordinò, imprecò a vedermi lì impalato. Non morire mi disse, non deludermi. Ed io scappai. Lontano. Nella confusione del momento, dopo l’omicidio di una loro compagna, loro si distrassero e mi lasciarono andare. Vagai per boschi che non conoscevo, mi persi e piansi. Continuai a rivivere quei momenti per giorni e persino adesso, a distanza di anni, ne sono quotidianamente tormentato”
Sbuffai per il dispiacere.
“Dopo non so quanto tempo, svenni. Mi trovò un uomo, io ero mezzo morto. Mi curò, mi diede da mangiare, mi portò a casa sua, in un paese lontano, sul grande lago gelato. E lì, mi presentò a sua moglie, ai suoi figli. Era un mercante e stava bene, molto più di quanto io ero mai stato. Ascoltò la mia storia, la raccontò a sua moglie, la riadattò. Mi giunsero alle orecchie versione in cui  io sembravo quasi un eroe” ridacchiò, un suono fragile “Devo tutto a quella famiglia, ogni mese invio la mia paga a loro. Però me ne andai. Dopo due anni, a dodici anni, me ne andai nella capitale. Loro cercarono di farmi cambiare idea, non li ascoltai, avevo troppi debiti da ripagare e divenni soldato. Mi applicai e divenni il migliore di tutti e grazie alla assurda politica di tuo padre, divenni capo delle guardie reali ed ora sono qui”
Non mi guardò, quando finì di raccontare. Rimase lontano, fermo alla finestra, le mani strette al davanzale. E capii che ne aveva bisogno per non cedere.
“Mi spiace, Nico” mormorai e la mia voce suonò strana, quasi sbagliata.
Pensai alle streghe, a quale forza possedessero, le stesse streghe che in quel momento mi volevano morta. Pensai al mio popolo. C’era così tanto da dire. Volevo assicuragli che non era  come lui diceva, che non aveva debiti da saldare, che era un eroe, ma rimasi zitta, invece. Ad ascoltare il mio respiro e il suo prendere inconsciamente lo stesso ritmo.
“E’ per questo che sei entrato in quell’incendio? Perché sei in debito?”
Lui annuì.
“Quando salderai il debito, Nico?”
Non rispose. 
“Voglio sentirtelo dire”
“Quando avrò sacrificato la mia vita per salvarne un’altra”  si voltò e fissò lo sguardo nel mio “Se morirò per salvarti, avrò saldato il mio debito”
Rabbrividii.
Rimanemmo a fissarci.
Mi addormentai senza accorgermene.  Il mio dolore, la mia paura si mischiarono a quelle di Nico. Piansi nel sonno. Nei momenti peggiori, la voce di Nico rimbombava nella mia testa, giurando che eravamo al sicuro.
Ancora oggi, è l’unico modo in cui riesco a dimenticare i miei fantasmi, almeno per la notte. Ripensando a quella voce.
“Sei un eroe, Nico” ma non seppi mai se l’avessi detto o solo sognato.

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Capitolo 9
*** Capitolo 8- L'ombra vivente ***


CAPITOLO 8
L'OMBRA VIVENTE

Ho pochi ricordi di quello che avvenne dopo. So che Bianca venne in ospedale, so che portò me e Nico fuori da lì, so che riuscì perfino a riottenere le nostre armi. Dopodiché ogni ricordo diventa sfocato e faccio sempre molta fatica a fissare le immagini di quei momenti. Impiegai tutta la notte a riprendermi. E come se non bastasse, feci pure un incubo.
A dirla tutta, all’inizio, non sembrava proprio un incubo. Assomigliava più ad uno spettacolo teatrale, ad una scena che guardavo, ma della quale non facevo parte. Mi trovavo a casa di Bianca e avevo indosso una camicia da notte, mi muovevo silenziosa, come in una specie di trance. Una luce pallida, alla fine del corridoio, che filtrava dalla camera di Bianca, attirò la mia attenzione.
“Bianca?” mormorai. Nessuna risposta. Eppure, quando fui abbastanza vicina, udii delle voci provenire dall’interno. Cioè, una sola voce. La sua. Solo che aveva qualcosa di strano, sembrava più graffiante del solito, più antica.
Appoggiai una mano alla porta, ma quando feci per bussare, qualcosa mi fermò. Avevo una sensazione. C’era qualcosa che dovevo vedere.
Con cautela, mi avvicinai al buco della serratura. All’inizio non distinsi molto. Un letto, una lampada ed un’ombra proiettata sul muro. Rimasi in attesa, ma tutto ciò che scoprii fu una scrivania di legno appoggiata poco lontano dal letto.
Stavo quasi per andarmene quando l’ombra parlò.
Proprio così.
L’ombra.
Aveva una voce strana, simile a quella di Bianca ma più spettrale e debole. Immensamente più temibile. Era più grossa di una persona normale, più lunga e magra.
Uscì dal muro.
Io sobbalzai.
Il viso era lungo e scarno, le mani avvizzite e tremolanti, le unghie curve ed affilate come artigli. I capelli fluttuavano disordinati attorno al suo volto. Ma si confondevano, non potevi vederne la fine. Come la parte inferiore del corpo, sbiadivano fino a formare una nube, qualcosa di oscuro e velenoso. Rimanevano nel muro. Creavano un buco nero che risucchiava ogni altra luce.
Indietreggiai.
Quella non era un’ombra. Era qualcosa di vivo.
“E’ sopravvissuta” sibilò l’ombra, ma non riuscivo a vedere con chi parlasse. “Non vi preoccupate, sorelle. Il mio piano è infallibile. Avremo la nostra vendetta”
Udii dei bisbigli correre nella stanza.
Sembrò coglierli anche quella figura, ma al contrario di me, non ne fu spaventata.
“Lei non sospetterà mai di loro. E loro hanno sempre fatto il nostro gioco. La schiacceremo”
D’improvviso, la figura proruppe in una risata che mi fece accapponare la pelle. Sembrava quasi un ringhio, un basso latrato che stillava malvagità. I bisbigli, attorno a lei, soffiarono più forte e la temperatura nella stanza si abbassò di colpo. Era come se ogni risata avesse coperto un urlo, una richiesta di aiuto. Come se dietro ogni bisbiglio, dietro quella sagoma, ci fosse tutto il male del mondo. E fosse pronto ad esplodere.
 
Mi svegliai urlando, madida di sudore. Dinah, allarmata, spalancò gli occhi ed impugnò velocemente il suo guio. Perlustrò con gli occhi la stanza, ma quando non vide niente, si voltò a guardarmi.
“Che succede?”
Potevo ancora sentire quelle risate. Potevo ancora vedere quella figura. La schiacceremo, aveva detto. E una parte di me, tremò.
“Che succede?” ripeté Dinah, abbassando il pugnale.
Scossi la testa. Per un attimo, fui davvero tentata di dirglielo, ma poi, una vocina insistente, mi fece desistere. Non era il caso di allarmarsi, era stato solo un brutto sogno. Tutto qui. “Niente” replicai “Ho fatto un incubo”
Lei annuì, ma non sembrò del tutto convinta “Perché sei in piedi?”
“Cosa?” Farfugliai, ma un secondo dopo mi resi conto che aveva ragione. Cosa ci facevo in piedi? Ancora una volta mi tornarono alla mente quelle risate, quei bisbigli. Sarebbe bastato andare a controllare, la stanza di Bianca era proprio in fondo al corridoio. Osservai Dinah, mi avrebbe difesa. Ne ero certa. E fu proprio questo a fermarmi. Se davvero fossimo andate di là, se davvero avessimo trovato quella figura, una parte di me sapeva che non l’avremmo vinta. E che una di noi sarebbe morta provandoci.
Sbuffai. Ero solo stanca. Stanca morta. Mi avvicinai al letto e chiusi gli occhi.
La schiacceremo.
“Siena” chiamò Dinah alle mie spalle. Sentivo il suo calore sulla mia schiena.  “Sei sicura che vada tutto bene?”
Mi morsi la lingua. Davanti a me, danzavano ancora quelle risate, quella sagoma.
La schiacceremo. Finsi di sbadigliare e nascosi il viso tra le coperte.
“Sì” risposi “Sono solo un po’ stanca”
 
 
Mancavano due giorni. Due giorni e ancora non avevamo idea di dove si trovasse questo maledetto passaggio. Quando chiesi a Dinah se lei e Nick fossero riusciti a scoprire qualcosa, lei distolse  lo sguardo e diventò rossa.
“No … Cioè sì … Cioè …”
“Dinah?” la interruppe Nico brusco “Sì o no?”.
Lei raddrizzò le spalle e lo guardò. Qualunque traccia di imbarazzo era sparita dal suo viso “Nick ha delle idee. Una in particolare. Dice che non guardiamo le cose nella giusta prospettiva e che forse, lui conosce il modo.”
Nico sbuffò indispettito. “Di che prospettiva stiamo parlando?” .
“Dice che dobbiamo guardare dall’alto”
La guardai confusa. “In che senso?”
“Appunto” intervenne Nico “Vuole portarci tutto sull’orlo di un precipizio e poi spingerci giù?”
Dinah sbuffò mentre io cercai di mascherare la mia risata con un colpo di tosse. Nico, di fronte a me, mi lanciò uno sguardo divertito.
Proprio in quel momento, un rumore forte e prepotente si levò dalla strada. Sobbalzai, mentre Nico sfoderava la spada. Dinah si alzò di scatto e con circospezione, si sporse dalla finestra. “Non vedo niente di strano” mormorò, ma proprio in quel momento suonarono il campanello ed io sobbalzai di nuovo.
“Vado io!”  gridò Bianco materializzandosi di fianco alla porta.
“Sta attenta” la ammonì Nico. Poi, con un gesto secco, ordinò a Dinah di venirmi di fianco ed io mi trovai racchiusa in una specie di scudo umano. Potevo vedere ogni loro muscolo in tensione, i sensi in allerta. Erano pronti a combattere qualunque cosa fosse entrata. 
Sentimmo Bianca aprire la porta, e qualcuno muovere dei passi ed entrare. Forse fu solo una mia impressione, ma ogni rumore sembrò amplificarsi.
Ascoltammo i passi risuonare per la casa, erano veloci, quasi cadenzati. Come di qualcuno che aveva fretta. Per la paura smisi di respirare, ormai era vicino. Nico puntò la spada di fronte alla porta, poi, proprio quando lo sconosciuto mise piede in cucina, lui gridò ed attaccò.
 
Ovviamente, non era stata intenzione di Nico attaccarlo così. Se solo lui avesse gridato il suo nome prima, niente di tutto questo sarebbe successo e Nick non si sarebbe ritrovato sbattuto a terra, con un ginocchio di Nico sulla schiena e la sua spada a pochi centimetri dal naso.
“Ma che ti prende?!” Sbottò “Se è per il pugno, mi spiace! Ma tutto questo mi sembra esagerato”
Dinah sbatté gli occhi un paio di volte. Incredula quanto me, poi rinfoderò il pugnale ed insieme, ci avvicinammo.
“Scusa, Nick” borbottò Nico, liberandolo.
“Sono cose che capitano” ribatté quello tirandosi su. Poi mi guardò, gli occhi che brillavano “Capo” dichiarò  “Ho la soluzione ai tuoi problemi!”
“Sì” replicai scettica “Dinah ce l’ha detto. Vuoi cambiare prospettiva, qualunque cosa significa”
Nick non si sembrò per nulla colpito dal mio tono. Sfoderò un sorriso a trentadue denti e batté le mani “New York è così grossa che impossibile vederla tutta a piedi.” E calcò la voce su a piedi. “Quindi, mi sono detto, e se, invece, non camminassimo affatto? Se, puta caso, volassimo?”
“Nick” lo interruppi “Hai bevuto?”
Lui sbuffo “Andiamo! E’ così semplice, prendiamo un elicottero e …”
“Elicottero?” lo interruppe Nico.
“Sì, certo. Elicottero. Un jet mi sembra esagerato, ovviamente potrei cercare di prenderlo, ma …”
“Jet?” Intervenne Dinah.
Nick annuì. “Certo, Jet, ma come stavo dicendo non mi sembra la cosa migliore perché …”
“Nick” lo interruppi “Noi non sappiamo nemmeno cosa sia un elicottero”
Lui si fermò con le mani a mezz’aria e ci guardò uno ad uno. “Davvero?” chiese, infine.
Annuimmo tutti e tre.
“Ma, capo, ma voi avete la slitta volante e …”
“Le slitte non volano” lo corresse Dinah “Le renne sì”
Nick annuì, sembrava quasi più perplesso di noi, ma poi tornò a sorridere.
“Bene” esclamò “Allora, state per scoprilo, vecchi miei” e così dicendo, ci fece l’occhiolino e scappò in strada.
 
Sei mai stato su un elicottero? Mi correggo. Sei mai stato su un elicottero che sorvola tutta New York in una giornata di sole? E’ un’esperienza indescrivibile. La città sembra così grandiosa, così bella. Ogni rumore è attutito. In cielo, New York, non è caotica è semplicemente magica.
La parola mi colpii come un pugno.
Ricordai ciò che Nico aveva detto all’inizio, che quella era la città dove la magia del Natale era più forte. Guardando l’Empire State Building, iniziavo a capire perché.
Appena saliti sull’elicottero ci diedero degli strani aggeggi da appoggiare sulle orecchie. Delle cuffie. Con quelle addosso potevo sentire le voci di tutti, anche quando il rombo dell’elicottero diventava assordante. Nick ci fece da guida, continuava ad indicare palazzi e raccontarci le loro storie. Tutto era talmente perfetto che per un po’ dimenticai il mio mondo ed ogni altro problema. Nick indicò un palazzo piuttosto piccolo, con la facciata interamente ricoperta dalla bandiera  Americana. “Quella è Wall Street” disse “E’ il palazzo della borsa. E’ uno dei posti dove sono sicuro che sia apparso un passaggio infra-mondo. Diversi giornali raccontano che la vigilia di Natale del 1929, tutte le finestre brillarono di bianco, ma che l’indomani, quando la polizia andò a controllare, non trovò nulla”
Guardai meglio quel palazzo, cercai di capire cosa ci fosse di magico. Ma più lo osservavo, più volevo andarmene. Sentivo levarsi solo emozioni malvagie. Paura, rabbia, disperazione. La magia buona non c’entrava niente con quel posto.
“Cosa è successo qui dentro?” domandai “Mi sembra disperato”
Lui si strinse nelle spalle “Nel 1929 Wall Street non se la passava bene. Sai, capo, c’è stato un giorno nel 1929, il cosiddetto Giovedì Nero, in cui Wall Street perse un sacco di titoli, le azioni colarono a picco e …”
“Cosa sono le azioni?”
 Si morsicò il labbro “Diciamo che un sacco di gente perse un sacco di soldi, okay? Durante questo Giovedì nero, Wall Street perse montagne di soldi e beh, molti investitori andarono in banca rotta, altri ritirarono i propri titoli ed in un lampo, non c’era più denaro. Tutto andato. Moltissimi si suicidarono. In poche ore, moltissimi persero tutto e decisero di buttarsi giù dalle finestre e la fecero finita.”
“Per i soldi?”
“Per tutti i loro soldi” confermò Nick “Quel Giovedì iniziò una crisi economica devastante che avrebbe avuto ripercussioni enormi anche sulla storia futura, perfino sul nostro presente. La crisi si espanse ovunque, da qui all’Europa sono solo poche ore, alla fine. Subito dopo Wall Street, crollarono anche le altre borse, iniziò un periodo di magra. Non c’erano più soldi, l’inflazione era salita alle stelle e così via. Quando poi, finalmente, questa crisi finì” continuò Nick con un sorriso triste “Beh, scoppiò la seconda guerra mondiale”.
Annuii e lanciai un’ultima occhiata a quel palazzo. In quel momento, ricordai una cosa che mia mamma aveva sempre detto sulla magia delle befane: “La magia buona non serve solo a combattere. Una magia buona serve sempre e prima di tutto, ad aiutare”
“Ben detto, capo” fischiò Nick “Che significa?”
Sbattei le palpebre. Non mi ero resa conto di aver parlato. Ma Nico e Dinah mi fissavano con uno sguardo nuovo, quasi smarrito, come se avessi riporto alla loro mente un ricordo lontano.
“Che la magia del Natale va dove può rendersi utile” sussurrai. Lanciai un ultimo sguardo alla facciata di Wall Street, mentre la lasciavamo alle nostre spalle “E qui ce n’era dannatamente bisogno nel 1929”
 
Volammo ancora. Superammo il ponte di Brookling, Central Park,il  Chrisler Bulding, il Plaza. Di ogni luogo, Nick conosceva la storia, le vicissitudini, qualche volta, anche i proprietari. Conosceva  ogni dettaglio. Ed ogni volta, mi faceva capire perché la magia del Natale fosse strettamente legata a quei luoghi.
Per ultima vedemmo la Statua della Libertà. Si trovava su un’isola poco distante da New York. Nick disse che per gli immigrati, per coloro che scappavano dal proprio paese per cercare fortuna negli Stati Uniti, quella statua rappresentava la salvezza. Vederla significava essere arrivato ed essere arrivato era l’inizio della loro nuova vita. Provai ad immaginare le urla, la gioia, perfino la confusione e l’incredulità di avercela fatta.
“Prima di entrare in città dovevano approdare qui” Disse Nick “Dovevano essere visitati, bisognava essere certi che non portassero malattie, dopodiché, salivano su delle barchette e finalmente, sbarcavano a New York”
“Erano così in tanti?” chiese Dinah, avvicinandosi al finestrino e sfiorando il braccio di Nick, che sobbalzò come se gli avesse dato la scossa. Mascherai un sorriso.
“Sì” borbottò Nick “Erano tantissimi. I miei antenati erano tra di loro”
“I tuoi antenati?” continuò Dinah, voltandosi “Da dove vieni?”
“Io …”
“Signorino” una voce ci fece sobbalzare tutti. Il pilota ci stava parlando “Devo atterrare a … ”
“Va bene ovunque, Jack” lo interruppe bruscamente Nick.
“Ma devo …”
“Dove preferisci”
Dopodiché si udì un ronzio e la conversazione terminò.
“Non dovresti trattarlo male” balbettò Nico, seduto accanto a me. Aveva qualcosa di strano nella voce. Lo guardai, era molto più pallido del solito, lo sguardo era teso. Teneva le mani strettamente ancorate al sedile, quasi come se avesse paura di cadere.
“Hai le vertigini!” esclamò Nick, lo sguardo divertito. 
 Nico lo fulminò con lo sguardo “Non che non le ho! Semplicemente, preferisco sentire la terra sotto i piedi”
“Sarà” continuò l’altro “Ma secondo me hai paura di volare”
“Non ho paura di volare, ragazzino. Sono il capo delle guardie reali, dannazione! Io non ho paura di niente”
“Tranne che di volare”
“Giuro che ti faccio lavare i calzini dei folletti se continui così!”
Proprio in quel momento, qualcosa, fuori dal finestrino, catturò la mia attenzione. Non vidi bene, l’immagine durò una frazione di secondo. Ma per quella frazione, ogni singola cellula del mio corpo si contrasse per la paura. Là fuori, proprio sulla testa della Statua della Libertà, avevo rivisito la stessa ombra del mio incubo. Solo che stavolta non rideva, mi guardava. Ed io ebbi la sgradevole certezza che di lì a poco, sarebbe successo qualcosa di davvero molto brutto.
“Ragazzi” provai, ma nessuno mi diede retta.
“Raga …”
Ma prima che potessi avvertirli, l’elicottero sobbalzò e si capovolse.
“Jack!” urlò Nick “Che succede?”
Nessuna risposta.
“Jack!” riprovò lui, gridando più forte. Nico, accanto a me, sembrava sul punto di vomitare.
Di nuovo silenzio.
D’improvviso, nacque in me uno spiacevole sospetto. Cercai di raddrizzarmi e di guardare verso il sedile del pilota. All’inizio non capii. Non vedevo nessuno. Poi, i miei peggiori dubbi trovarono conferma. Il pilota non c’era. Non c’era nessuno. L’elicottero stava precipitando perché nessuno lo guidava.
 
“Come può non esserci nessuno?” gridò Nick, in preda al panico.
“Non lo so, ma è così!”
“E’ impossibile. Le persone non scompaiono!”
“Te l’avevo detto di non trattarlo male” s’intromise Nico, che nel frattempo era diventato verde.
“Cosa facciamo ora?” gridai, cercando di sovrastare il rombo dell’elicottero.
Prima che Nico potesse rispondermi, le eliche dell’elicottero andarono a graffiare la Statua della Libertà. Sotto di noi, si levarono grida terrorizzate. L’urto, scaraventò Dinah fuori dal suo sedile. Sul tetto dell’elicottero.
“Dinah!” chiamai allarmata “Stai bene?”
Lei si voltò, aveva un segno sulla fronte che ben presto sarebbe diventato un bernoccolo “Sì” rispose  “Provo ad andare i comandi” disse gattonando fino al posto del pilota e cercando di issarsi sopra. 
Guardai fuori dal finestrino, la terra si avvicinava pericolosamente.
“Vedi perché preferisco camminare?” sbraitò Nico.
Lo fulminai con lo sguardo.
Di fronte a me, Nick cercava di slacciarsi la cintura.
“Che vuoi fare?” chiesi, allarmata.
“Voglio dare una mano! Tra tutti noi, sono quello che ne sa di più di elicotteri, Dinah non …”
Ma prima che potesse finire la frase, l’elicottero si fermò bruscamente, a mezzo metro da terra, facendoci prendere una testata e ancora più bruscamente, si raddrizzò.
“Dinah!” la ripresi.
“Sto facendo del mio meglio!” ribatté lei, ululando nelle cuffie e perforandomi un timpano. Guardai Nico, aveva gli occhi sbarrati, la bocca chiusa, le mani così saldamente ancorate al sedile da lasciarci le impronte.
“Nico?” provai.
Lui si voltò lentamente. “Sì?”
“Ripigliati!” s’intromise Nick, senza neppure guardarlo, continuando ad armeggiare con la cintura “Accidenti” borbottò “Si è bloccata”.
“La tua non mi sembra una buona idea” borbottò Nico, ma l’altro non lo sentì neppure. Con un colpo secco, si liberò della cintura ed iniziò ad arrancare verso il sedile del pilota.
“Dai a me” ordinò quando arrivò vicino a Dinah. Pessima mossa: Dinah accettava ordini solo ed unicamente dai suoi superiori. Se in quel momento la situazione fosse stata diversa, immagino che Nick si sarebbe nuovamente ritrovato con un pugno stampato in faccia.
“Prego?” si limitò a dire lei, a denti stretti, guardandolo. Altra pessima mossa: mai distogliere lo sguardo dalla traiettoria di un elicottero in caduta libera. La situazione potrebbe diventare da drammatica a disperata.
“Dai a me i comandi” ripeté Nico, scadendo ogni parola con una calma irritante.
“Perché ? Me la sto cavando egregiamente”
E non appena finita la frase, l’elicottero sterzò bruscamente e falciò due alberi.
“Dinah!” urlai, mentre Nick, con un movimento fulmineo, cercò di stabilizzare l’elicottero. 
“Dicevi?” incalzò lui, gli occhi divertiti.
Lei sbuffò. “E va bene, capitano, è tutto tuo” e alzandosi seccata, andò a sedersi al posto del co-pilota.
“Pilota” la corresse Nick,in tono canzonatorio. Ma prima che lei potesse replicare, un sinistro ronzio percorse l’elicottero. “Che cos’è?” chiesi, lanciando a Nico uno sguardo allarmato.
“Nulla di buono” rispose lui, serrando così tanto le mani al sedile da far sbiancare le nocche. Un secondo dopo, un’elica si staccò.
 
Iniziammo a precipitare. L’elicottero disegnava una serie di spirali sempre più veloci  e sempre più contorte. Vedevo Nick armeggiare con i comandi, ma immaginai fosse impossibile pilotare un elicottero senza elica. Dinah, accanto a lui, continuava a muoversi.
“Dove sono le attrezzature di salvataggio?” gridò.
“Intendi giubbotti e quelle cose lì?” replicò Nick, la voce affannata.
“Intendo qualunque cosa possa salvarci!”
“Non lo so!”
“Come non lo sai?” tuonò Nico. Sembrava sull’orlo di un collasso nervoso.
“Non lo so! Dovrebbero uscire automaticamente, ma non lo fanno! E’ come se l’elicottero fosse stato manomesso”
Non ebbi il tempo di soffermarmi su quelle parole. Sotto di noi, l’acqua si avvicinava sempre di più. Nel mio mondo, dicono che se cadi con una slitta in un lago ghiacciato devi pregare di morire subito, all’impatto con l’acqua e non dopo annegato dal risucchio. Immaginai che schiantarsi nel porto di New York con un elicottero fosse più o meno simile come esperienza e distolsi gli occhi dall’acqua, accecata dalla paura.
Quando alzai lo sguardo, notai che Nico e Dinah mi guardavano. Un brivido mi percorse la schiena. Mio padre mi aveva affidata a loro, aveva detto di salvarmi anche a costo delle loro vite. In quel momento, loro non temevano per sé stessi, ma per me. Perché non sarebbero riusciti a portare a termine il loro compito.
Perché non avevamo scampo.
Udii Nick chiedere aiuto. Gridava in una strana scatolina grigia, collegata al resto degli aggeggi con un filo. Quando il filo si staccò, Nick imprecò e la lanciò a terra.
Giravamo così velocemente che l’acqua divenne un massa grigio-verde indistinta. In un ultimo, assurdo atto di coraggio, estrassi il pugnale di mia madre. Se non altro, mi sarebbe stato di conforto. Nella mia mente iniziarono a vorticare una serie di parole che non riuscivo a cogliere, come se un ricordo nascosto e chissà quando dimenticato, stesse lottando per tornare a galla. Perché lo sapevo, avvertivo questa sensazione, che ricordare, in quel momento, era vitale.
Poi, il buio.
 
Dapprima pensai di essere morta, poi mi resi conto che la testa girava e faceva male e che il braccio destro era sicuramente malconcio.
Ma ero viva.
Viva!
Mi alzai, ma feci leva sul braccio sbagliato e urlai per il dolore.
“Siena?”  chiamò Dinah, mi voltai verso la sua voce, ma non vidi nulla. Mi resi conto che eravamo completamente al buio.
 “Stai bene?”
“Sì”
“Principessa … Cioè, Siena? Dinah? Dove siete?” La voce di Nico era vicina. Più vicina di Dinah. E ferma. Era tornato ad essere il capitano delle guardie.
Avvertii la sua presenza davanti a me.
“Stai bene?” chiese.
“Come ti senti?” domandai nello stesso istante.
Lui ridacchiò. “Sto bene. Sto sempre bene”
“A parte sugli aerei”
I suoi scintillarono nell’oscurità. “Non potevi proprio trattenerti”
“Nick sarebbe fiero” Il suo ricordo mi colpì improvvisamente “Dov’è? Sta bene?”
“Non lo so” rispose Dinah, il tono teso. “Lo sto cercando”
Poco lontano da noi, sentii qualcosa muoversi, come dei pezzi di ferro.
“Tu stai bene?” ripeté Nico, la voce si era fatta più vicina. Così vicina che si era ridotta ad un sussurro. Mi voltai. Ero sicura che fosse lì accanto.
“Nico?” mormorai, muovendo una mano in avanti. Ma fui troppo veloce e gli piantai in faccia un sonoro ceffone
“Ahi” borbottò lui “Stavolta che ho fatto?”  
“Scusa” Replicai imbarazzata, mentre sentivo le guance diventare rosse “Non volevo”
Avvolta nel buio, non potevo sapere quanto Nico fosse vicino a me, eppure lo sentivo, che era anche peggio. Lo sentivo respirare, sentivo il suo odore, lo sentivo muoversi davanti a me. Mi immobilizzai e attesi. Lascia che gli occhi si abituassero al buio e li fissai sul suo volto. E mi sembrò di non averlo mai visto prima. Appoggia una mano sulla sua guancia e ne studiai il contorno, sentii la barba graffiarmi il palmo, dolcemente esaminai il mento, la bocca e risalì fino agli occhi, alla fronte. Lui non rispose, era come immobile, ma avvertii il suo battito aumentare. Con cautela, alzò un braccio e lasciò che la sua mano si chiudesse attorno alla mia. Poi , con delicatezza, quasi avesse avuto paura di rompermi, avvicinò la mia mano alle sue labbra e soffiò un bacio. Io avvertii come una scossa attraversarmi lo stomaco e pensai che per me, in quel momento, il mondo era tutto lì. Eravamo noi due.
Poi, qualcuno accese la luce, Nick cadde da una pila di casse di legno, piantando un volo di un paio di metri. Dinah corse ad aiutarlo e una donna, decisamente scontenta di trovarci lì ,con uno strano coltello in mano, ci intimò di andarcene.
Inutile dirlo, l’atmosfera si perse.

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Capitolo 10
*** Capitolo 9- Il prezzo di un sogno ***


CAPITOLO 9
IL PREZZO DI UN SOGNO

La donna in questione era un tipetto piuttosto strano, a essere onesta.
Il viso era affascinante, dai tratti eleganti. C’era una luce intelligente negli occhi e teneva la bocca sottile chiusa in una smorfia spavalda. Aveva la pelle olivastra, scura quasi quanto quella di Nick, ma i capelli erano chiari, rossi e scendevano lungo la schiena in delicate onde. Indossava degli abiti blu ricoperti di macchie scure. Le mani erano affusolate, ma piagate. Era magra, non molto alta e con un portamento fiero.
Qualcosa non andava in lei. Aveva lo sguardo di una regina, e i vestiti di una contadina. Quando vide che la squadravo, mi fulminò.
“Andatevene!” ringhiò, brandendo un coltello enorme. Non indietreggiai. Non sembrava una persona pronta ad uccidere. Era lucida.
Nico, accanto a me, avanzò.  “Dove siamo?”
 “Come sarebbe a dire dove siamo? A New York, siamo!”
“In che parte di New York?”
“Che scherzo è questo!? Che cosa volete?! Andatevene!”
“Non possiamo” s’intromise Dinah.
Sul volto della donna apparve un’ombra. Durò un attimo, poi lo sguardo si rifece tagliente.
Dinah teneva Nick appoggiato ad una spalla, sembrava essersi rotto qualcosa. “Se vuole che ce ne andiamo, deve dirci dove siamo”
La donna non rispose subito. Sostenne i nostri sguardi. E per la prima volta in vita mia mi sentii a disagio. Nico si irrigidì accanto a me.
Infine, quando l’aria sembrava essersi fatta ormai irrespirabile, la donna sbuffò.
“Perché siete tutti bagnati?”
 
Siamo vivi. La notizia mi colpì solo in quel momento.
La donna ci aveva dato dei vestiti nuovi –altre tute blu-, ci aveva fatti asciugare e aveva improvvisato una fasciatura per Nick. Poi ci aveva guidato su per una stretta rampa di scale e infine, ci aveva fatto accomodare in una stanza piuttosto piccola, dalle pareti verdi, con un divano marrone e malconcio su un lato e un libreria traballante su un altro.
In quel momento mi resi conto di essere ancora viva.
L’occhio mi cadde sui libri, erano tutti titoli a me sconosciuti, scritti in una lingua che non avrei dovuto capire. Mi avvicinai. Uno era blu, spesso. Lo presi in mano e guardai la copertina. Una balena bianca. Una balena enorme ed un ometto piccolo, su una barca scura che cercava di trafiggerla. La balena sembrava triste. Gli occhi erano chiusi, disegnati con una riga sottile, veloce. Non vedevo l’uomo sulla barca. Era solo abbozzato. Una macchia scura.
Moby Dick.
Repressi un brivido. Rimisi velocemente il libro a posto.
Non avrei dovuto saperlo fare.
Parlare quella lingua era una cosa, era possibile, assomigliava così tanto alla nostra, ma leggerla era diverso. L’alfabeto era diverso. Ed io non avrei dovuto esserne capace. D’improvviso la testa prese a girarmi così fortemente che dovetti aggrapparmi alla libreria per non cadere. Perché avevo la costante sensazione che qualcosa, qualcosa di oscuro e dimenticato, lottasse per venire nuovamente fuori?
La voce della donna mi riportò alla realtà. Voleva la storia, la nostra storia. Capire cosa ci facessimo nel suo deposito, perché fossimo tutti bagnati. Solo che io non potevo raccontargliela, perché non la conoscevo.
Fu Nick a rompere il silenzio.  “Tu chi sei?” domandò, fissando la donna. Il suo sguardo era cambiato. Me ne accorsi in quel momento. Non c’era più ingenuità in quegli occhi, non c’era più curiosità. Avvertii una fitta di rimorso. Lui non c’entrava niente con questa storia. Avrei dovuto lasciarlo fuori fin dall’inizio.
Incespicando, mi avvicinai al divano e ci caddi sopra, senza forze. Dinah mi lanciò un’occhiata preoccupata.
“Mi chiamo Maria” rispose le donna, lo sguardo fiero “E dirigo questa officina da cinque anni.  E voglio che mi si dia del lei quando si parla con me. Ora tocca a voi. Cosa ci facevate qui?”
Non risposi. Nick ci fissò dubbioso, poi si voltò nuovamente verso la donna, prese fiato e le raccontò tutto. Ogni dettaglio della nostra storia, come ero scappata dal mio regno, come ci avesse accolti Bianca, come lui ci avesse incontrati in biblioteca. Descrisse lo scontro contro gli uccelli-kamikaze, le nostre ricerche per il passaggio infra-mondo ed infine, passò all’elicottero, a come i piloti fossero spariti, e a come fossimo miracolosamente sopravvissuti.
Maria ascoltò senza battere ciglio. Poi, quando Nick finì di parlare e noi lo guardammo indecisi se ucciderlo subito o sulla via del ritorno, scoppiò a ridere. Una risata vera e  propria, grassa e forte, come quella di un soldato.
“Che immaginazione, ragazzo!” esclamò tra le lacrime, guardando Nick.
Lui sbuffò. “Sapevo che non c’avrebbe mai creduto”
 “Ciò nonostante” ringhiò Dinah “La prossima volta che vorrai spiattellare tutti i nostri piani ad un’estranea, facci un fischio”
Nick non replicò. La guardò e basta. Uno sguardo di sfida.
“Sul serio” s’intromise Maria, interrompendoli “Come è andata veramente? Cosa stavate cercando?” Poi, d’un tratto, il suo sguardo cambiò e ritornò ostile. “Tu sei Nicholas Grace, vero?” Nick si irrigidì “Mi era sembrato di riconoscere una faccia nota … e voi” continuò indicandoci “Voi siete in combutta con lui! Ed io che ho detto … ho sperato … Oh, stupida!”
Spostai lo sguardo confusa da lei a Nick. Volevo delle spiegazioni. “Perché ti conosce, Nick?”
Lui non rispose. Chinò la testa, le braccia strette al petto. Non sembrava lo stesso ragazzo di quella mattina, assomigliava di più ad un uomo, un uomo stanco e solo.
Dinah, accanto a me, aveva uno sguardo indecifrabile. “Di cosa parla?” domandò, puntando il mento verso Maria.
Quella inarcò le sopracciglia. “Non fate i finti tonti con me”
“Non lo stiamo facendo” ribatté Nico.
Maria lo guardò e sembrò leggerlo dentro. Nico non si sottrasse, sostenne lo sguardo e rimase al suo posto. Ma aveva istintivamente portato la mano alla spada.
Alla fine, Maria sbuffò e distolse lo sguardo. “Sapete quello che si dice sulla famiglia di Nick?” sibilò “Che posseggano così tante miniere di rame da non riuscire a contarsi i soldi”
Guardai Nick, teneva ancora lo sguardo fisso a terra, non si muoveva neppure.
“Ma i Grace hanno anche una, diciamo, passione” Maria agitò le mani “Credono nelle dimensioni alternative, nei mondi paralleli e nella magia. Hanno ingaggiato alcune tra le menti più brillanti di questo pianeta perché ne trovassero le prove” lo sguardo di Maria si fece tetro “Ed io, fino a cinque anni fa, ero una di loro. Con il mio team sviluppammo una macchina in grado di captare delle onde radio diverse, delle onde magiche. Ogni passaggio per universi paralleli emette questo tipo di onde prima di apparire. La mia macchina avrebbe dovuto sentirle e condurti nel posto in cui stavano avvenendo. Solo che era solo un prototipo, non il modello definitivo. Era instabile, insomma. Ma i Grace vollero provarlo lo stesso. A nulla valsero i miei divieti. A nulla” I suoi occhi si ridussero ad una fessura “All’inizio, l’esperimento sembrò andare bene, la macchina ci condusse in una biblioteca fuori mano, piccola, con un giardinetto. Si respirava aria di pace”
Dentro di me, iniziò a nascere lo sgradevole sospetto che quella biblioteca fosse la stessa dove avevamo incontrato Nick per la prima volta.
“Ma poi, le cose sfuggirono di mano. Il prototipo si sovraccaricò ed esplose. Le conseguenze furono enormi. C’erano cinque persone dentro la libreria quel giorno. Morirono tutte. Una di loro non aveva ancora sedici anni. Morirono tre impiegati della libreria. Morì un uomo che stava passando lungo la strada per caso. Morì un bimbo che stava correndo più avanti della sua tata.  Morì un membro del mio team. Morimmo un po’ tutti quel giorno. Un pezzo di noi morì per sempre. Ma non morì neppure un Grace. Loro erano in salvo, su un elicottero in alto del cielo. La videro solo da lì l’esplosione” Maria indurì la voce, un fuoco doloroso bruciava nei suoi occhi. “Dopo quella volta, mi licenziai. Suo padre provò a richiamarmi, mi offrì sempre di più, ma non accettai mai. E giurai di non costruire mai più nulla. Ora riparo macchine e basta. Ma i Grace … loro non si sono fermati. Vanno avanti in questa loro assurda ricerca” passò lo sguardo tra me, Dinah e Nico “Non so chi siate voi ragazzi, ma se lavorate per loro, il mio consiglio è di scappare dalla parte opposta” strinse i pugni “Prima che sia troppo tardi”  
 
Non ci credevo. Non potevo. Nessuno di noi poteva. Nick era nostro amico, lui si era unito a noi per aiutarci, perché era buono. Maria si sbagliava. Doveva sbagliarsi. Ma nella mia mente ogni pezzo andava dolorosamente apposto. Ora capivo perché Nick avesse creduto così facilmente alla nostra storia, nei passaggi infra-mondo, ci avesse portato su un elicottero, si fosse adoperato così tanto per noi. No, mi corressi, trattenendo le lacrime per la frustrazione, non per noi, per sé e per la sua famiglia. Perché credeva in questi mondi. Gli era stato insegnato fin da piccolo a farlo e ora, ora che aveva trovato delle prove, delle certezze, non ci avrebbe mai lasciati andare. Guardai Maria, sembrava quasi dispiaciuta.
“Posso portarvi a casa” propose, a disagio “Ho una macchina”
Annuii, in quel momento non ero in grado di fare nient’altro. Dinah, invece, aveva i riflessi più pronti. “Quando avevi intenzione di dircelo?” aggredì Nick “Quando?”
Lui si strinse nelle spalle, non sollevò lo sguardo. “Presto”
“Presto quanto?” lo incalzò lei “Abbastanza presto per trovare il passaggio? Per farci fare un altro giretto sul tuo elicoso?”
“Elicottero” la corresse lui.
Pessima mossa.
Dinah grugnì e gli tirò un pugno, facendolo cadere.
“Sei solo un bugiardo!” lo attaccò “Un vile ed un bugiardo!”
“Dinah, io … lasciami spiegare”
“No!” sbraitò lei. Non l’avevo mai vista in quello stato. Era fuori di sé, sembrava pronta ad uccidere. E inghiottendo un po’ di saliva, mi resi conto che avrebbe potuto“Tu non devi spiegare! Tu ci hai traditi!”
Nick non rispose. Con fatica cercò di rialzarsi, ma la gamba ed il suo orgoglio bruciavano troppo.
“Non voglio più vederti” sibilò Dinah, quando Nick si fu sollevato abbastanza da guardarla negli occhi “Io odio i traditori”
Gli voltò le spalle e uscì come una furia dalla stanza. Nico la seguì subito, ma quando fu sulla porta si voltò verso di me. “Vieni, Siena?”
Lanciai uno sguardo a Nick. Aveva gli occhi umidi, i pugni chiusi. Faticavo a scorgervi lo stesso ragazzo di poche ore prima.
“Addio, Nick”
Poi, in silenzio, me ne andai.  
 
In macchina, nessuno parlò. Eravamo tutti troppo afflitti, confusi. Impegnati a metabolizzare una realtà che aveva colpito forte come un macigno. Dinah era accartocciata su stessa, le gambe vicino al petto, la testa appoggiata alle ginocchia. Non piangeva. Teneva gli occhi chiusi. Pensava e pensando, perdeva le forze. Non avrebbe mai più detto nulla sull’argomento. Picchiando Nick aveva toccato il fondo. Qualunque cosa avesse provato per lui, era qualcosa che voleva lasciarsi alle spalle al più presto.
Come i suoi genitori.
Mi sembrò di vederla per la prima volta. Dinah non si confidava con me, non commentava le storie che raccontavo, non cercava di starmi vicino nei momenti di sconforto. Sapevo perché. Sapevo che quando aveva deciso di chiudere i suoi genitori e la sua vita precedente fuori dalla porta l’aveva fatto per sopravvivere. Potevo solo immaginare quanto dolore avesse provato.
Ma io ero diversa.
Io ero arrabbiata.
Con Nick, con lei, con il mio popolo, con mio padre per avermi abbandonata e con me stessa. Avrei voluto urlare, rompere qualcosa, picchiare anche io qualcuno. Alzai lo sguardo. La macchina era troppo piccola e quel silenzio gridava troppo forte. Come me, si ribellava. Maria si fermò ad un semaforo. Eravamo vicini a Times Square, la vedevo risplendere fin da lì. E senza pensarci, senza chiedermi quanto fossi nel giusto, senza pensare alla mia vita o alla loro, afferrai la maniglia e la tirai. Un secondo dopo, ero in mezzo alla folla e correvo. Fingendo di non sentire le voci che mi chiamavano.
 
New York era enorme.
Fu questo il mio primo pensiero, dopo minuti o forse ore, di totale black-out  mentale. Non volevo pensare a quello che avevo fatto. Non volevo farlo perché sapevo che era sbagliato, che una principessa non doveva comportarsi così, che doveva infondere fiducia, invece, rimanere vicino al suo popolo o a chiunque avesse avuto bisogno di lei. Una principessa non fuggiva. Iniziai a piangere e con gli occhi annebbiati, svoltai in un vicolo, poi in un altro e in un altro ancora. Ad un certo punto, la strada divenne troppo buia per camminare e decisi di tornare indietro. Fu a quel punto, credo, che le cose precipitarono.
 
Sentii un paio di mani afferrarmi e tapparmi la bocca. Spalancai gli occhi per il terrore ed iniziai a scalciare. Non servii a nulla. Una sagoma scura si parò davanti a me.
“Stai ferma” mi intimò, facendo brillare uno strano oggetto. Era scuro e piccolo, di ferro. Un’arma. E ogni singolo muscolo del mio corpo si paralizzò. 
“Dammi quello che hai” continuò. Era un uomo. Grosso e piuttosto muscolo, con una voce rozza che sembrava raspare gola e bocca prima di uscire sotto forma di ringhio. Ad ogni  movimento, lasciava nell’aria un’ inconfondibile scia di alcool misto a fumo. Era ubriaco. Lo notai quando impugnò l’arma. La mano con cui la stringeva tremava. Di uomini così, ne avevamo anche nel mio regno. Erano pericolosi ed innocui allo stesso tempo. Riacquistai un po’ di lucidità.
“Non ho niente” sussurrai.
Anche nel buio più totale, distinsi il luccichio selvaggio nei suoi occhi “Bugiarda!” gridò “Io ti ammazzo” E senza preavviso, senza aspettare oltre, mi puntò l’arma addosso.
Fu il pugnale di mia madre a fermarlo. Non perché, in un impeto di coraggio, l’avessi stretto in mano, ma perché, colpita da una pallida luce, la lama aveva brillato.
“Dammi quello” ordinò, indicandolo con la pistola.
Strinsi le mani. Non volevo darglielo, era il mio pugnale, l’ultimo regalo di mia madre. Non potevo
darglielo. Per un attimo valutai di usarlo, di combattere e di puntarglielo al collo. Ma poi l’occhio mi cadde sulla sua arma, sembrava pronto ad usarla. E da qualche parte dentro di me, sapevo di aver già visto qualcosa di simile. E sapevo di non aver scampo.
Lo guardai e in quell’occhiata ci misi tutto l’odio che stavo provando, poi, con attenzione, estrassi il pugnale e glielo diedi.
Subito mi sentii svuotata. Sembrava quasi che qualcuno avesse strappato e cancellato una parte di me. Mi sentivo nuda. Peggio, mi sentivo indifesa. Mi accorsi solo in quel momento di quanto New York fosse grande, dei suoi pericoli. Quella non era casa mia. Quello non era il mio mondo. I miei genitori erano da un’altra parte, la mia vita lo era. Dovevo tornare a casa. Mancava poco ormai, solo un giorno. Ed io non avevo fatto alcun progresso, ma dovevo tornare.
Vidi la lama brillare e voltai lo sguardo, allarmata. L’uomo teneva il pugnale  in alto, puntato su di me. Ghignava. Ed in un lampo di dolorosa lucidità, mi resi conto di quanto stupida fossi stata.
 
Aspettai il colpo, il dolore, ma non arrivarono mai.
Al loro posto, una sensazione di bruciore e un taglio poco profondo sulla guancia. Portai una mano al viso, stupita. Sanguinavo, ma, ancora una volta, ero viva. Vidi l’uomo puntare i suoi occhi porcini su di me. Urlò, poi alzò l’arma ed un suono assordante riempì il vicolo.
Mi voltai.
L’uomo non aveva mirato a me, ma a qualcosa alle mie spalle.
Udii un gemito affannato, una voce strozzata. Un dubbio si fece strada in me. Cercai di avvicinarmi a quella voce, ma l’uomo mi spintonò a terra, era talmente ubriaco che per poco non cadde. Poi mi puntò l’arma addosso ed in quel momento si levò un grido. Ma non era il mio. Era di una sagoma, quella colpita dall’uomo. La osservai buttarsi addosso a quello, tentare di colpirlo, di spaventarlo. Cercai di distinguerne i tratti. Quando venne sbattuta a terra, la riconobbi. E i miei dubbi trovarono dolorosamente conferma.
“Scappa Siena!” urlò, saltandogli nuovamente al collo.
Ma non lo feci. Non te lo nascondo, non è che non ne fui tentata, non è che rimasi senza aver pensato seriamente di scappare. Ma, non lo feci. Perché, nello stesso istante in cui mi resi conto che avrei potuto andarmene, una rabbia velenosa montò in me.
Non ero un soldato, né una combattente. Ero un principessa. Ed ero dannatamente stufa di scappare.
Attaccai l’uomo, lo colpii alla mano, lo morsicai –molto fine come strategia, lo so-, ma funzionò e l’uomo perse l’arma. Non mi fermai neppure a pensare, con un balzo l’afferrai, poi gliela puntai addosso.
Lui ululò di rabbia, disarcionò la sagoma che mi rotolò di fianco, poi mi puntò gli occhi addosso.
“Dammi il pugnale!” ordinai, cercando di mascherare il tremore della mia voce “Subito!”
L’arma era pesante, molto più di quello che avevo pensato ed io non la sapevo neppure usare. Sperai che l’uomo non se ne rendesse conto, ma non fu così. Sputò e per poco non mi prese, poi si voltò e corse via. Provai a rincorrerlo, ma scomparve nella folla. 
Un gemito alle mie spalle mi convinse a tornare indietro.
Nick, ancora steso sulla strada, era pallido. Aveva i capelli incrostati di sporco, gli occhi semi chiusi, la bocca storta in una smorfia di dolore, come se avesse trattenuto un grido. Ma ciò che faceva più impressione era il braccio destro. Molle, tenuto in una posa innaturale, sanguinante laddove l’arma dell’ uomo doveva aver colpito.
“Nick!” gridai allarmata, tentando di sollevarlo “Nick! Ti prego, reagisci! Non so dove andare! Non so cosa fare!” Iniziai a piangere per la frustrazione, mentre lo sguardo di Nick diventava sempre più vacuo. Mi sentivo così impotente. Così sola. D’improvviso ricordai la sera che il mio popolo ci aveva attaccato, il bagliore del fuoco. Esattamente come allora ero in balia degli eventi, senza nessuna possibilità di controllarli.
“Nick ” ansimai “Rimani. Rimani, ti prego” Gli accarezzai il volto cercando di metterlo a fuoco tra le lacrime. “Dimmi cosa fare”
Poi, lentamente, la sua mano si mosse, frugò nella tasca dei suoi pantaloni. Ogni movimento gli costava una scossa di dolore. Infine, tirò fuori una strana scatolina. Era nera, sottile, quando la toccò, si illuminò.
“Usa questo” mormorò stremato “Digita 911”
 
Era la seconda volta che entravo in un ospedale, la prima da cosciente. Rimasi vicino a Nick per tutto il tragitto in ambulanza. Poi, una volta arrivati, dovetti lasciarlo. Lo seguii con lo sguardo finché riuscii, fino a che delle pesanti porti bianche lo nascosero alla mia vista.
Non era migliorato. Avevo sperato che riprendesse conoscenza durante il viaggio, ma i dottori dissero che era svenuto, che bisognava muoversi ad estrargli la pallottola e di togliersi, signorina, si tolga!
Le infermiere erano più gentili. Un’infermiera giovane, sui vent’anni, la pelle abbronzata, i capelli castani raccolti in una crocchia, lo sguardo dolce, mi rimase accanto tutto il tempo. All’inizio tentarono di calmarmi. Piangevo e respiravo a fatica, ho solo vaghi ricordi di quei momenti. Poi, mi calmai ed iniziarono le  domande. Chi ero, dove vivevo, cosa era accaduto e come si chiamava il ragazzo.
Quando risposi Nicholas Grace, tutti i presenti si irrigidirono. Un paio di infermiere, due donne sui cinquanta, scattarono in piedi e si diressero verso degli strani apparecchi. Erano bianchi, con dei tasti sopra. Ne tolsero un pezzo ed iniziarono ad urlarci dentro. Avete delle strane usanze sulla terra.
 
Ricordo che aspettai. Aspettai per un’ora, poi due, poi tre. Aspettai con la testa sempre più pesante, il corpo sempre più stanco. Aspettai che la porta si spalancasse e che un uomo con gli stessi occhi di Nick entrasse trafelato e chiedesse di suo figlio. Aspettai fino a notte fonda ed oltre. Aspettai. Ma dopo un po’, quando la città iniziò a spegnersi sotto i miei occhi, dopo che ogni singolo paziente si addormentò, una volta finito l’orario delle visite, rimasi sola. Il corridoio vuoto e buio faceva paura. Regnava una calma innaturale che sapeva di morte. Rabbrividii, ma poi ricordai cosa mia madre mi aveva detto una volta. “La morte non è paurosa, Siena. E’ come dormire. Alla fine della propria vita si è molto stanchi”
 
All’alba ero di pessimo umore ed infreddolita. Mi appollaiai su una scomoda sedia di plastica e appoggiai la testa al muro. Avevo sorvegliato la porta tutta la notte e nessuno era entrato a chiedere di Nick. Nessuno.
“Piccola?” Una voce mi fece sobbalzare. Era un’infermiera. La stessa che mi era stata accanto al mio arrivo in ospedale. Sorrideva, ma di un sorriso triste. Per qualche secondo, il suo sguardo indugiò sulla porta. “E’ fortunato ad avere te” mormorò alla fine. Non replicai. Stremata, chiusi gli occhi.
 
Nick era vivo. Era pallido, la gamba era sempre rotta e la spalla non sarebbe mai più stata quella di una volta, ma era vivo. I medici avevano fatto del loro meglio. La gamba era stata ingessata ed ora era sospesa a mezz’aria, incastrata in una specie di tasca verde, la spalla era stata pulita, avevano tolto la pallottola, l’aveva medicata. Nick non doveva muoverla. Mi lasciarono entrare nella sua stanza solamente a mattina inoltrata. Dormiva, ma respirava e dovetti lottare per non piangere. Ero così sollevata, così ridicolmente felice.
“Posso chiamare?” chiesi, voltandomi verso il medico “I miei amici? Suo padre? Io …”
“Capo” la voce di Nick, poco più di un sussurro, mi interruppe. Mi voltai. Un debole luccichio brillava nei suoi occhi.
“Cosa c’è?” Balbettai per il sollievo.  
Non rispose. Nessuno dei due aggiunse altro. Per qualche secondo ci limitammo a fissarci. Non ci sembrava vero. Poi Nick fece un mezzo sorriso “Non hai un bel aspetto, capo”.
Risi e sentii una lacrima scorrere  lungo la guancia. Avrei voluto dire così tante cose, ma quando incrociai il suo sguardo, non ci riuscii. C’era qualcosa in quegli occhi. Una specie di urgenza. D’improvviso si fece serio e distolse lo sguardo. “Devo parlarti, capo”
Annuii e mi sedetti accanto a lui. Volevo sembrare forte, ma avevo paura di ciò che avrebbe detto. Dal suo sguardo, capii di non essere l’unica.  
“Quello che è successo ieri …” iniziò “Quello che ha detto Maria sulla mia famiglia è tutto vero. Abbiamo questa passione, noi crediamo nei mondi alternativi e nelle realtà diverse. L’abbiamo sempre fatto, andiamo avanti così da generazioni. Le altre persone, gli altri adulti, perdono questa capacità di credere molto presto, noi la manteniamo. E’ quasi una specie di tratto genetico” sorrise triste “Prova, quindi, ad immaginare la rabbia e la delusione di mio padre quando si è accorto che il suo unico e preziosissimo figlio non credeva in queste cose” Sollevai lo sguardo confusa, ma Nick si limitò ad annuire “Quel giorno, quello di cui ha parlato Maria, fu il giorno in cui aprii gli occhi. Vidi un ragazzo morire, capisci? Un ragazzo innocente che per sbaglio era passato troppo vicino alla biblioteca quella mattina. Lo vidi saltare in aria e smisi di credere. Quando lo dissi a mio padre lui cercò di minimizzare, non mi credette. Quando capì che non scherzavo andò su tutte le furie. Disse che era colpa di mia madre, che era il suo sangue quello sbagliato e che aveva fatto bene a divorziare e mi mandò via, mi spedì da lei, in Italia”
“I tuoi antenati” mormorai, lui annuì sbrigativo. “Mia madre era tornata in Italia, a Roma, dopo il divorzio da mio padre. Abitava in campagna e per me, quelli, furono dei momenti davvero felici. Gli unici. In quegli anni, vedi, capo, iniziai ad appassionarmi alla scienza, la scienza vera però, quella che dà una spiegazione logica per ogni cosa, ogni fenomeno. Ma mio padre lo venne a sapere e decise di riportarmi a casa, dove poteva controllarmi meglio. Ma io ero grande a quel punto e non ci cascai più. Iniziai a tappezzare casa di formule chimiche e spiegazioni scientifiche a fenomeni paranormali. Iniziai a capire quanto mio padre fosse ottuso a credere in mondi paralleli come un bimbo di tre anni, ma poi … ”
Mi fissò.
“Poi siamo arrivati noi”
Nick annuì “All’inizio ,naturalmente, non vi credevo. Avevo deciso di seguirvi solo per vedere quanto avrebbe retto la vostra messa in scena, poi, però, gradatamente, qualcosa è cambiato. Ti ricordi quando ho tirato un pugno a Nico?” Non attese risposta. “Mi aveva ricordato lui, mio padre. Aveva parlato allo stesso modo, aveva usato lo stesso tono, aveva detto le stesse cose. Avevo già avuto mille e mille discussioni simili e quel pomeriggio sono esploso. Fu quello a scombussolarmi. Per costa stavo combattendo? Perché avevo litigato sul modo migliore per trovare passaggi infra-mondo? Io non avrei neppure dovuto crederci. Capisci? ” Il suo sguardo si fece più intenso, più tormentato “Alla fine, aveva vinto mio padre. Io vi credevo, credevo nel vostro mondo del Natale, con le renne e tutto quanto e il bello, il lato comico è che mi sentivo bene, benissimo. Credere nel tuo mondo mi fa sentire libero come non mi capitava più da anni. A mio padre non ho detto nulla, non voglio dargli nessuna soddisfazione, ma dopo quindici anni ho capito che ha ragione, che l’ottuso ero io e non lui”
D’improvviso, distolse il suo sguardo dal mio e chiuse gli occhi.
Aspettai che aggiungesse qualcosa, ma non lo fece. Vidi la sua schiena scossa dai brividi. Piangeva. Con cautela, come se avessi avuto paura di vederlo svanire, gli poggiai una mano sulla spalla.
“Dov’è tuo padre, Nick?”
Non rispose. Pensai non mi avesse sentita o che si fosse addormentato. Mi alzai, ma proprio quando stavo per aprire la porta, la sua voce mi colse di sorpresa.
“Gli ho detto di non venire”
Non mi voltai. Le spalle rigide, la mano sulla maniglia, mentre nella mia mente non tornavano i conti.  “Quando? Sei stato incosciente fino ad ora”
 “Un anno fa litigammo brutalmente. Alla fine gli urlai di stare fuori dalla mia vita, di diseredarmi pure, ma di non parlarmi più. Gli dissi che io non ero più suo figlio” Sospirò. Si fissò le mani in cerca di chissà quali ricordi. “Per la prima volta, mio padre mi ascoltò. Si trasferì. Volò in Canada e mi lasciò a New York, con mio nonno”
 Mi voltai. C’era una tale tristezza nel suo sguardo, un tale abbattimento. Mi resi conto che ,per certi versi, ricordava Dinah .
“Nick” mormorai “Mi dispiace così tanto. Io non immaginavo …”
Lui mi interruppe con un gesto “Non potevi. E comunque la colpa è mia. Avrei dovuto dirvelo.”
Mi avvicinai e gli presi una mano. “Come hai fatto a trovarmi? Come facevi ad essere anche tu in quel vicolo?”.  
Lui socchiuse gli occhi, stanco “In lontananza avevo visto Nico e Dinah correre e cercarti, li ho seguiti, poi li ho persi di vista. In compenso ho trovato te. Spiccavi su tutti. Sembravi fatta di anfetamine, continuavi a camminare a zig zag e a cambiare direzione. Di solito, le persone non camminano così” concluse lanciandomi uno sguardo divertito.
Pensai a Nico e Dinah a come le cose sarebbero potute andare se Nick non li avesse seguiti, se poi non li avesse persi di vista. C’erano troppi se in quella frase. Troppi punti bui.
“Grazie” sussurrai, ma Nick stava già dormendo.
Fuori, il sole era alto nel cielo. Mi alzai ed andai verso la finestra. Appoggiai la testa contro il vetro. Volevo tornare a casa. Mai come allora fui certa che quella fosse la cosa giusta da fare.
 
 

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Capitolo 11
*** Capitolo 10- Dinah ***


 
CAPITOLO 10
DINAH
“Manca solo un giorno, Siena! Un solo dannatissimo giorno”
Dinah l’aveva già ripetuto tre volte. Era di fronte a me, mi stringeva le spalle. Gli occhi erano gonfi, cerchiati da profonde occhiaie. Mi avevano cercata tutta la notte. Nico, accanto a lei, annuiva senza distogliere lo sguardo dal mio. Sembrava terrorizzato di vedermi scappare di nuovo. Ma non c’era tenerezza in quegli occhi, solo calcolo. La preoccupazione di un soldato che per un attimo ha visto sfumare l’obbiettivo della sua missione. E chissà perché mi fece male. 
“Cosa ti è saltato in mente, si può sapere?” sbraitò Dinah “Cosa pensavi di fare?”
Eravamo nel parcheggio dell’ospedale. Mi avevano trovata poche ore prima, addormentata accanto a Nick.
“Come avete fatto a trovarmi?” la interruppi.
Nel frattempo si alzò un vento forte e freddo. Intuii che di lì a poco avrebbe iniziato a nevicare.  
“E’ stata un’idea di Nico” rispose Dinah, indicandolo con lo sguardo “Abbiamo sentito di Nick a uno strano aggeggio tutto nero … Com’è che l’ha chiamato Bianca?”
“Radio” suggerì lui.
“Sì, alla radio e Nico ha pensato potessi esserci anche tu. E grazie al cielo che ci ha pensato!”
Non risposi, un fiocco di neve cadde fra i nostri visi.
“Dobbiamo andare” continuò Dinah, stringendomi un polso “Manca solo un giorno, Siena! Un solo, dannatissimo giorno”
 Fece per portarmi via, ma io non mi mossi. “Che ti prende ,Siena?”
La fissai. “Io non vengo”
“Che significa che non vieni?”
“Non posso abbandonarlo”
“Chi?”
“Nick” grugnì Nico.
Annuii.
Dinah fissò il suo sguardo nel mio. Iniziò a nevicare. Ricordai la prima volta che l’avevo vista. Un mattino di tanti anni prima, un mattino che sapeva d’Inverno come quello. Lei era piccola, lo sguardo d’acciaio, i capelli argento con le punte blu tagliati in un caschetto, il corpicino da bambina tutto avvolto in un mantello rosso. Si era inginocchiata di fronte a me e aveva sfiorato il suo pugnale. “Principessa” aveva detto. Io non mi ero mossa, ero piccola, sapevo solo ciò che mi era stato insegnato; che ero intoccabile, che sarei sempre stata protetta dai miei sudditi. Le avevo ordinato di alzarsi e lei aveva scosso la testa. La mano sempre sul guio. A distanza di anni, per la prima volta, in quel parcheggio d’ospedale, compresi ciò che aveva desiderato fare, ciò che, per un secondo, aveva oscurato il suo sguardo. Io ero suo cugina e lei la mia, ma io era l’erede al trono e lei una guardia del corpo. E, per un secondo, aveva voluto uccidermi. In un impeto di rabbia , mi liberai dalla sua stretta. “Io non vengo” ribadì con voce tremante.
Dinah sbuffò “Siena cosa stai dicendo? E’ stata tua l’idea di tornare nel nostro mondo!”
“Lo so, ma senza di noi, Nick rimarrà solo”
“E allora? Oggi è la nostra ultima possibilità, non possiamo rischiare”
Corrugai la  fronte. C’era qualcosa, in tutta quella situazione, che non tornava. Mio padre aveva dato un ordine preciso: che non tornassi mai più. L’aveva dato a due tra i soldati migliori del suo regno. E i soldati eseguono gli ordini. Loro erano sempre stati contrari. E allora perché quella mattina Dinah insisteva così tanto? Perché né lei né Nick si opponevano più strenuamente al nostro ritorno? Perché, mi chiesi rabbrividendo, sembrava quasi che avessero più fretta di me di tornare nel nostro mondo?
Socchiusi gli occhi e repressi un gemito.
Sapevo perché.
C’era un solo motivo che poteva spingere due guardie del re a trasgredire un suo ordine: l’interesse. Dinah e Nico avevano una missione ,nel nostro mondo, qualcosa che non c’entrava con me o con la mia salvezza, qualcosa che, anzi, avrebbe potuto mettermi in maggior pericolo. Inconsciamente, indietreggiai di un passo. Mi ero sempre sentita protetta al loro fianco, perfino la notte in cui il mio popolo mi aveva attaccata, quella in cui avevo abbandonato i miei genitori. Mai, neppure per un attimo, avevo dubitato di loro.
Quella mattina successe. Li guardai e fu come vederli per la prima volta. Vidi le loro spade, le lame affilate, i loro muscoli, lo sguardo calcolatore. E mi sentii indifesa.
“Siena che hai?” sbottò Dinah, avvicinandosi.
Non risposi, la guardai, invece. E qualcosa nel mio sguardo, la convinse a fermarsi. Attorno a noi, prese a nevicare sempre più forte. Non m’importava. Avevo gli occhi lucidi, la gola secca, i pugni chiusi. Non mi importava. Tutto ciò che vedevo era Dinah. Dinah che mi diceva che il vento era solo vento, Dinah che mi difendeva, Dinah che afferrava il suo guio pronta a colpirmi.
“Perché?” domandai con voce malferma “Perché?”
“Perché cosa?” sbuffò, incrociando le braccia. Il guio brillò.
“Perché volete tornare nel nostro mondo?”
Dinah spalancò gli occhi. “Tu vuoi tornare nel nostro mondo!”
“E perché voi acconsentite? Perché, nonostante mio padre abbia ordinato il contrario, voi sareste disposti a riportarmi indietro?”
“Noi siamo tutt’ora contrari, ma sei la nostra principessa e ti obbediremo”
“Smettila Dinah!” Strillai, cercando di mascherare il tremito nella mia voce. Lei mi guardò stupita. Era tanto tempo che non mi sentiva più alzare la voce “Voglio la verità”
Li vidi scambiarsi uno sguardo, a disagio. E desiderai essere lontana anni luce. Il vento ululò più forte.
“La verità” ripetei.
Dinah lanciò un ultimo sguardo a Nico, lui scrollò le spalle, poi mi guardò.
“Siena, non è come pensi tu” iniziò e una parte di me avrebbe voluto tapparsi le orecchie e non ascoltare più una sola parola “Noi ti proteggeremo sempre, siamo qui per questo”
“Ma …” incalzai, la voce impastata.
“Ma ci sono delle cose che dobbiamo fare. Cose che non ti riguardano, ma che ci stanno aspettando nel nostro mondo”
Gridai. Ricordo che gridai e che qualche passante si fermò. Ricordo che gli occhi di Dinah brillarono senza che io ne comprendessi la ragione e ricordo che mi sentii disperata. E la disperazione è qualcosa di pericoloso. Azzera la tua volontà, ti acceca. Divora chiunque tu sia, qualunque cosa tu creda. Ed il peggio è che non puoi opporti.
Persi l’equilibrio e barcollai. Nico feci per avvicinarsi, ma poi si fermò.
“Che genere di cose?” ringhiai, alla fine.
Dinah si strinse nelle spalle. “Cose”
“Ti ho chiesto di che genere, Dinah. Sono la tua principessa. Rispondimi!”
Non rispose subito. Per un attimo sorrise tristemente, poi inchiodò il suo sguardo nel mio e intuii che era pronta a colpire.
“Principessa, eh?”  iniziò, ma la voce  era alterata, gli occhi ridotti ad una fessura. Stava perdendo il controllo.  “Principessa di cosa, esattamente? Di un popolo che ti odia? Di un regno in rovina? Principessa senza un re, giusto? Principessa sola. Mi spiace, Siena, ma tu non sei più la mia principessa da un po’” La guardai senza rispondere, ma dentro di me qualcosa si ruppe “Sei solo una ragazzina viziata a cui è stato insegnato che il mondo è ai suoi piedi. Non c’è nulla di regale in te. Hai paura, piangi sempre e non sai maneggiare una spada.  Tu non sei niente senza i tuoi genitori e non sei tagliata per guidare un popolo. Il re lo sapeva, ecco perché ti ha mandata via, sapeva che il tuo adorato popolo ti avrebbe uccisa, impiccata. Perché dovrei servirti?” Distolse lo sguardo dal mio e curvò le labbra in un sorriso malizioso “Lo sai che potrei essere io regina? Se tu morissi, se non ritornassi a casa, chi credi che erediterebbe il trono? La figlia del traditore, no? Colei i cui genitori avevano già tentato di detronizzare i tiranni!” Le brillarono gli occhi, di una luce così sincera da fare male “Ritroverei i miei genitori, finalmente, regnerei, non sarei un più un soldato, sarei ciò per cui sono nata: una reale. Perché credi che sia qui?” domandò, il sorriso divenne un ghigno “Per riportarti a casa, naturalmente. Per essere sicura che tu venga giustiziata oppure perché tu rimanga qua, da sola. Per me è uguale, morirai comunque.”
Tremai. Un brivido percorse tutta la mia spina dorsale fino a invadere le mani, le braccia, la testa, le gambe, le ginocchia. Il mio sguardo si annebbiò.
La neve scendeva e mi ricopriva, mi bagnava. Allargai le mani e sfiorai ogni fiocco. Chiusi gli occhi e per un attimo, mi sentii a casa.
Fu abbastanza.
Trattenendo un gemito, trovai la forza di sussurrare: “Me la caverò, invece”.
Dinah rise, una risata amara “E come pensi di fare, Siena? Non è un mondo buono, questo. Non è come il nostro. Le persone non credono, i bambini non credono. Nessuno crede in Babbo Natale, nessuno crederà a te. Morirai, provandoci”
Avrei voluto replicare, dirle che non era così, che Nick credeva, ad esempio, che quel mondo aveva alle spalle uno storia diversa dalla nostra, fatta di guerre, di morte, dirle che noi non eravamo migliori, ma rimasi zitta. Non ero sicura di avere abbastanza forze anche per quello. Ma Nico mi aveva guardata per tutto il tempo e non so come, capii.
“C’è lui, vero?” sibilò. La voce calma, il tono neutro, ma negli occhi brillava una luce sinistra “Nick, non è così? Lui sì che crede, lui è ricco e tu ci hai già fatto la pace, andrà tutto bene, non è vero? E’ così che la pensi Siena, non è vero?”
Non risposi, la sua voce bruciava troppo.
“Beh, se le cose stanno così” s’intromise Dinah “Sei davvero un’illusa. Nick non è dalla nostra parte, non te accorgi? Ci ha traditi, ci ha usati! Ti porterà da suo padre e ti costringeranno a parlare, dovrai dirli dove è il nostro mondo, come arrivarci. Non meriti di servire il tuo popolo, Siena. Sei egoista e per un tuo capriccio, lo metteresti in pericolo”
Fu quell’ultima frase a darmi la forza. Se non meritavo io di servire il mio popolo, non lo meritavano di certo loro.
“Non è così!” sbottai “Non è come dite voi! Nulla, voi non sapete nulla! Né di me, né di Nick! Perché non dovrei fidarmi di lui e dovrei fidarmi di voi? Siete dei traditori. Non voglio più vedervi. Lasciatemi! andatevene! Siete banditi da questo e dal nostro mondo! E non provate neppure a dire che se tornerò, mi uccideranno, che la monarchia è finita, perché io sono ancora viva e finché il mio cuore batterà, batterà quello del mio regno” Alzai lo sguardo e incrociai quello di Dinah “Tu non sei una regina. Non lo sarai mai. Sei vile, il popolo lo sente questo. Mio padre ha sbagliato tante cose, ma non è mai stato un codardo in vita sua. E’ rimasto, la notte che tutto questo ha avuto inizio, lui è rimasto, ad affrontare il suo popolo, la sua rabbia, a consegnarsi a persone che ama come figli” A quel ricordo una lacrima scese lungo la mia guancia “Tu, non sarai mai degna di lui. Sei una traditrice, esattamente come tuo padre prima di te”
Avevo esagerato, lo sapevo. L’avevo colpita nell’unico punto che lei non poteva difendere e non ne andavo fiera. Ma la rabbia e il dolore di quel momento avevano deformato i miei pensieri.
Incrociai lo sguardo di Dinah. Era folle, accecato dal dolore. Repressi un brivido, ma non indietreggiai. Lei ringhiò, un suono basso, ancestrale, simile al richiamo di un lupo. Poi, con una rapidità micidiale, estrasse il guio dal fodero e si avventò su di me. Non ebbi tempo di pensare o di urlare, ebbi solo il tempo di reagire. Afferrai la lama e la strinsi in una morsa disperata. Dinah spingeva per colpirmi, ma il movimento l’aveva colta inaspettata. Annaspò ed in quel momento, sapendo che non avrei avuto una seconda occasione, reprimendo le grida di dolore che mi straziavano il petto, le sferrai un calcio negli stinchi. Barcollò, ma non cadde e non allentò la presa. Digrignava i denti e nel suo sguardo brillava la forza selvaggia di una guerriera. Per la prima volta capii perché mio padre avesse voluto lei come mia guardia del corpo.
Indietreggiai e la situazione, in un attimo, si capovolse. Lasciai andare la lama che brillò di una luce scarlatta e sinistra. La mia mano destra sanguinava, la testa mi girava, ma ero figlia di mio padre, ero una combattente e mi era stato insegnato a non fermarmi mai. Travolsi Dinah con tutta la forza che mi rimaneva e finalmente allentò la presa sul pugnale che cadde a terra, imbrattando la neve di rosso.  Lo raccolsi con un scatto fulmineo e glielo puntai alla gola.
Il tempo si fermò, il resto del mondo scomparve. Eravamo solo io e lei. Fissai i suoi occhi nei miei e per un attimo rividi la bambina che era stata. E capii che non avrei mai potuto ucciderla. Abbassai il pugnale, ma nello stesso istante lei mi sferrò un calcio e riprese il guio.
La neve tornò a cadere, Nico era vicino, le mani sulla spada. Da una finestra vidi i ricci di Nick fare capolino. Ci osservava. Vidi un paio di infermiere costringerlo ad allontanarsi. Non guardarono neppure verso di  noi. Dinah appoggiò il pugnale sul mio volto, lo premette ed io non riuscii a trattenere un gemito di dolore.
Lentamente si avvicinò a me, fino a sfiorarmi l’orecchio.
“Regola numero uno” sussurrò “Se hai la possibilità di uccidere il tuo avversario, fallo”
Aprii gli occhi spaventata, ma Dinah fu più veloce e rinfoderò il guio. Prima che potessi vedere il suo sguardo, lei si voltò.
Nico apparve accanto a me e mi aiutò a rialzarmi.  “Non verrai con noi, vero?” +
“No” risposi e nello stesso istante la sua presa su di me si allentò. Sapevo già che avrei sentito la mancanza di quell’abbraccio.
Dinah mi guardò un’ultima volta, uno sguardo strano, che non riconobbi. Poi, assieme a Nico se ne andò. Li osservai finché le loro sagome non scomparvero, a quel punto una lacrima mi bagnò una guancia. Ma non mi permisi il lusso di crollare. Strinsi i pugni, invece e con passo incerto ritornai da Nick. Se non ero più la principessa di Dinah, avrei almeno fatto in modo di esserla per il mio regno.
 
“Devo tornare a casa, Nick”
“Come sarebbe a dire devo? Capo ci sei? Hai visto cosa ha fatto Dinah poco prima, stava per infilzarti come uno spiedino!”
“Dinah non è il mio popolo”
“Sai, dovresti smetterla di parlare così. Sembri un libro di storia”
Lo guardai confusa, ma lui aveva già ripreso ad abbuffarsi. A quanto pare, rischiare la vita prosciuga energie.
“Questo budino è la fine del mondo” esclamò tutto a un tratto.
Sorrisi e lanciai uno sguardo alla finestra. Era già mezzogiorno. Non mi rimaneva molto tempo.
“Nick io devo andare” dissi, improvvisamente tesa. Non sapevo neppure che faccia avesse un passaggio infra-mondo.
“A far che?”
“A trovare un passaggio per casa”
Lui emise un fischio “Aspetta solo che recuperi i vestiti e verrò con te”
Se la situazione non fosse stata così critica, sarei anche scoppiata a ridere. “Non essere ridicolo, Nick! Hai una gamba ingessata e sei appena stato ferito. Non sei nelle condizioni di aiutarmi”
Lui mi fissò. Lo sguardo serio. “Invece, credo proprio di essere l’unico in tutto il mondo a poterlo fare, capo”
 
 
Non so come, ma Nick riuscì a convincere tutti i medici dell’ospedale che stava bene. Dopodiché digitò un numero ed un’enorme macchina nera venne a prenderci. Quando fu il momento di  andarcene Nick uscì dall’ospedale tenendo in mano un intera scatola di budini.
“Erano troppo buoni” si giustificò.
Sorrisi, ma mi sentivo stanca. Rivedere tutte quelle strade mi faceva male. Molto più di quello che avevo pensato. Era come rivivere la paura, la tristezza, la delusione di quella notte. Stava tornando tutto a galla in un unico, doloroso vortice. Strinsi forti la maniglia della macchina.
“Sei stata molto coraggiosa, capo”
La voce di Nick mi colse di sorpresa, lo guardai, ma lui era voltato verso il finestrino.
“Anche tu” replicai.
 
La casa di Nick era un’enorme edificio rosso, con i muri ricoperti di edera, un prato verde tutt’attorno e un sacco di finestre bianche. Il cancello d’entrata era gigantesco e di ferro battuto. Quando lo superammo un paio di uomini ci aprirono le portiere e ci condussero in casa. All’interno ogni ambiente era straordinariamente grande, il pavimento era di legno ed ogni mobile, ogni vaso, quadro  o tappeto sembrava estremamente prezioso.
“Porta questi in cucina, Pierre, per favore” Fece Nick porgendo i budini ad un cameriere.
Nello stesso istante, una donna con i capelli tinti di rosso e le unghie laccate di rosa comparve alle sue spalle. Era bella. Fu questa la prima cosa che pensai quando la vidi. Gli occhi erano scuri, la pelle abbronzata, sorrideva e con quel sorriso sembrava pronta a sciogliere qualunque dolore. Emanava anche energia, una dolcezza potente.
“Nicholas, tesoro mio!” cinguettò stritolando Nick in un abbraccio. Per un attimo pensai fosse una sua qualche zia, poi l’occhio mi cadde sulla divisa da cameriera.
“Rosa” la salutò Nick teneramente, ricambiando l’abbraccio.
Corrugai la fronte. Perché Nick trattava così una cameriera? Perché sembrava quasi volerle bene come ad un familiare?
“Come stai?” Continuò lei interrompendo il flusso dei miei pensieri.  “Ti senti bene? Perché hai la gamba rotta? Ero così preoccupata! Ho seguito tutto alla tv! Vuoi un po’ del mio brodo? Sai che il mio brodo aggiusta tutto”
Nick rise. “Rosa, vorrei presentarti Siena” la interruppe indicandomi.
Lei mi guardò. Per qualche secondo rimase interdetta ,come se cercasse di capire il mio ruolo in tutta quella storia, poi la sua espressione si sciolse in nuovamente in un sorriso e mi abbracciò.
“Un’ amica di Nick. Che piacere Siena!” trillò nel mio orecchio.
Per qualche secondo non mi mossi, sembravano passati secoli dall’ultima volta che qualcuno mi aveva stretta così. Mi sentivo straordinariamente al sicuro. Come tra le braccia di mia madre. Rosa sapeva di fiori, aveva un odore di dolce e di fresco. D’istinto l’ abbracciai anche io. “E’ un piacere anche per me” 
Quando ci staccammo c’era ancora il suo profumo nell’aria. Nick teneva lo sguardo basso, era appoggiato sulle stampelle come qualcuno che porta tutto il peso del mondo con sé .
Stavo per chiedere cosa avesse, ma Rosa mi precedette.
“Non è in casa, Nicholas. E’ partito due giorni fa per la Russia, pare abbiamo avvistato Big Foot”
Lui alzò lo sguardo “Deduco non tornerà a casa per Natale, giusto?”
Per la prima volta da quando ero entrata mi colpì la vastità di quella casa. Poteva essere un enorme luogo solitario, in fondo. 
Rosa gli si avvicinò e gli scompigliò i capelli. “Vado a farti il mio brodo”
 
Quando arrivammo in camera sua, dopo che Rosa ci ebbe portato il brodo ed un’infinità di altri piatti deliziosi, mentre il sole stava già iniziando a tramontare, guardai Nick.
“Qual è il tuo piano, quindi?”
Lui finì il suo budino, poi alzò lo sguardo e lo inchiodò nel mio. “Devo farti vedere una cosa”.
 
I Grace possedevano una piscina, una sala da biliardo, una da poker e anche una biblioteca. Ma ciò di cui andavano più fieri, il vero gioiello della loro corona, era il laboratorio.
 “E’ più piccolo di quello Boston” spiegò Nick fermandosi di fronte al quadro di un signore dallo sguardo arcigno “Ma mio padre ci tiene gli esperimenti o le idee più importanti. Quelle da cui non vorrebbe separarsi per nulla al mondo”
Una parte di me iniziava a capire dove volesse arrivare. Con una manata, Nick rovesciò il quadro. Sul muro, proprio di fronte a noi, era incastrata una specie di piccola tavola di metallo coi numeri. Nick ci schiacciò sopra velocemente. “Spero non abbia cambiato codice” borbottò.
Aspettammo quelle che parvero ere, poi, un fischio riempì l’aria e la parete si aprì rivelando uno stretto corridoio. I muri e i pavimenti erano di metallo, i tubi correvano sul soffitto e l’aria che si respirava era rarefatta.
“Prima le signore” fece Nick cedendomi il passo. Mi morsi  le labbra ed entrai. Quel posto mi innervosiva. Percorsi il corridoio concentrandomi solo sul tintinnio delle stampelle di Nick sul metallo. Poi, sbucai in una stanza circolare. Era disordinata, piccola, piena zeppa di libri accatasti alla rinfusa, di modellini abbandonati negli angoli, di fogli sparsi sul pavimento e di tazze di caffè vuote o semivuote disseminate in ogni angolo. Era così diversa da tutto il resto della casa. Un paio di oggetti più grandi, quelli che intuii essere gli esperimenti, era addossati alla parete destra ed erano pieni di polvere. L’unica cosa che sembrava essere al suo posto era un quadro appeso alla parete opposta, pulito e straordinariamente realistico. Attraverso il vetro un bimbo piccolo, sorridente, con tanti ricci indomabili mi fissava. Accanto a lui un uomo dai tratti duri, la bocca sorridente, lo guardava con dolcezza. Una cosa mi colpì: avevano gli stessi occhi.
Nick mi si avvicinò senza far rumore.
“E’ tuo padre quello nel quadro?”
“Non è un quadro, è una foto”
“E’ lui, vero?”
“Sì”
Non aggiunsi altro, ma lasciai Nick da solo di fronte alla foto, intuii di non essere l’unica a vederla per la prima volta.
Osservai gli esperimenti. Uno in particolare attirò la mia attenzione. Era piccolo, scuro, sembrava una cassa, ma di metallo. C’erano un paio di placche rotonde sul davanti con un ago rosso al centro. Non sembrava qualcosa in grado di causare molti danni. Con un brivido mi chiesi se non fosse esattamente ciò che il padre di Nick si era detto quel giorno.
Nick appoggiò una mano sulla mia spalla.
“E’ quella?” chiesi.
Lui annuì.
“Pensavo fosse esplosa con tutto il resto”
“E’ esplosa, infatti. Questa è  una copia, costruita sulla base dei progetti di Maria. E’ identica, Siena. In ogni dettaglio”
Lo guardai. In ogni dettaglio voleva dire solo una cosa.
“Se lo useremo” mormorai “Moriremo”
“C’è una sola persona che può ripararlo”
Non dissi niente. Sapevo chi era.  E quindi sapevo anche che avrebbe detto di no.
 
Né io né Nick sapevamo dove abitasse Maria. I ricordi di quella notte erano fin troppo dolorosi e confusi.
“Non hai un modo di rintracciarla?” gli dissi “Non avete una sorta di registro di quelli che lavorano qui?”
Nick sbatté gli occhi un paio di volte. “Intendi per rintracciare il suo indirizzo?”
Sbuffai “No, Nick, intendo per vedere se ha famiglia e decidere così il suo regalo di Natale”
“Fai sarcasmo, capo?”
Sbuffai.
Lui alzò le mani in segno di resa. “E va bene, va bene. Stavo scherzando. E comunque, no. Dovrei bypassare il sistema e ci impiegherei ore, inoltre, ci sarebbe scritto solo l’indirizzo di quando lavorava per noi e non possiamo essere sicuri che nel frattempo non si sia trasferita”
Mi morsi il labbro. Era tardi. Troppo tardi per affrontare anche quel problema. Il sole era già tramontato e di lì a poco sarebbe stata la Vigilia. Ricordai le parole di Dinah: mancava un solo giorno. Un solo dannatissimo giorno. Poi, mi venne un’idea.
“Capo?” fece Nick, il tono preoccupato “Tutto bene? Hai uno sguardo strano”
Sorrisi “Ho un’idea.
 
Quando entrai, il pavimento scricchiolò sotto i miei piedi. Forse era per via della sproposita grandezza della casa di Nick o per il fatto che ,per la prima volta da quando ero arrivata sulla Terra, ero completamente sola, ma la casa di Bianca mi sembrò terribilmente desolata.
Chiusi la porta e mi guardai attorno. Rimpiangevo di non avere Nick al mio fianco, ma era ancora troppo debole per accompagnarmi.
“Bianca?” chiamai, ma nessuno rispose.
Mi mossi lentamente. Ogni finestra era chiusa e non lasciava passare luce. Non si muoveva nulla e perfino i suoni della città giungevano ovattati. C’era un clima di irrealtà che mi dava i brividi.
“Bianca?” riprovai.
Una sgradevole sensazione mi assalì. Mi voltai, ma non vidi nulla. Eppure sentivo di non essere più sola nella stanza ora.
“Chi va là?” gridai, ma non ottenni risposta. Al suo posto un rumore, un lieve fruscio che ricordava i passi di un lupo di notte, in un bosco.
Feci per impugnare il pugnale, ma nello stesso istante ricordai che non l’avevo più. Strinsi i pugni e mossi un passo, ma stavolta il fuoco circondò la mia gamba facendomi cadere. Trattenni un urlo e annaspai alla ricerca d’aria mentre il fuoco saliva fino al petto, ai polmoni e mi stringeva in una morsa incandescente. Gridai sperando che qualcuno potesse sentirmi, ma non successe nulla. Provai a muovermi. Luce, avevo bisogno di luce. Qualunque cosa fosse, sospettavo che potesse attaccare solo nell’oscurità.  Mi trascinai fino alla finestra con la vista sempre più annebbiata, il fiato ancora più corto. Le braccia tremavano per lo sforzo. Mi aggrappai al davanzale e provai a tirare una tenda, ma il fuoco stringeva troppo forte. Con un ultimo sospiro, mi riversai a terra.
 
“Principessa?” chiamò una voce “Principessa?”
Aprii gli occhi, ma non riuscii a mettere a fuoco la figura di fronte a me.
“Principessa!” la sentì esultare “Siete viva! Ecco, prendete un po’ di acqua”
La donna mi tirò a sedere e mi porse un bicchiere. Lo afferrai con mani tremanti, mentre la testa mi girava fino a scoppiare.
“Principessa, state bene?” chiese Bianca, quando riuscii finalmente a distinguere i tratti del suo volto. “ Sono tornata a casa e vi ho trovato in preda a delle convulsioni selvagge”
Mi accarezzò i capelli, ma io sobbalzai. Qualunque tocco ricordava la morsa incandescente di poco prima.
“Non parlare così, Bianca. Sembri un libro di storia”
“Prego?” fece lei strabuzzando gli occhi.
Scossi le spalle “Niente, scusa. Volevo dire …” Nascosi il viso tra le mani. “Sono solo confusa” mormorai. “Non sembravano convulsioni”
“No?”
“No”
“Probabilmente è la stanchezza, principessa. Non avete dormito molto ultimamente, vero?”
Annuii.
“Potrei preparavi del latte caldo o magari del tè”
Scossi la testa “Bianca” mormorai “Devo chiederti una cosa”
Lei spostò lo sguardo su di me ed attese. Io osservai il mio corpo, non c’erano segni di bruciature o tagli. Stavo bene, la testa girava terribilmente, ma il fuoco di poco prima sembrava essere solo un ricordo lontano che  presto sarebbe sfumato. Guardai fuori dalla finestra. Ricordo che pensai a Dinah, se fosse stata con me, non avrei avuto così tanta paura. Pensai anche a Nico. Mi sarebbe bastato un suo sguardo per essere sicura di non stare impazzendo. Ma loro due non c’erano più. Spariti a cercare un portale, ammesso che non l’avesse già trovato.
“Se ne sono andati” mi ritrovai a dire prima di rendermene conto. Guardai Bianca “Dinah e Nico se ne sono andati”
Lei annuì. “Lo sospettavo”
“Mi hanno tradita Bianca, loro non volevano aiutarmi, non l’hanno mai voluto.”
“Mi dispiace, principessa” sussurrò lei.
Io sentii una lacrima bagnarmi la guancia e con fastidio alzai la testa al soffitto. E lì, per un secondo, troppo velocemente perché potessi mettere a fuoco, mi sembrò che un’ombra, la stessa che ci aveva guardato precipitare dall’elicottero, mi osservasse. Fu un attimo, ma bastò perché il ricordo del fuoco tornasse a bruciare sulla mia pelle.
Abbassai lo sguardo su Bianca, ma lei non sembrava essersi accorta di nulla. Dopotutto, pensai, poteva essere solo stanchezza.
Sbuffai. ”Bianca”
Lei mi guardò.
“Ieri hai visto Dinah e Nico?”
“Sì, principessa.”
“Hai visto anche chi gli ha portati fino a qui?”
 
Bianca si ricordava solo a grandi linee l’aspetto di Maria e comunque non ci aveva parlato. Ma aveva parlato con Nico. E Nico era un soldato addestrato a memorizzare ogni tipo di percorso, a distinguere le differenze tra due strade perfettamente identiche per riuscire a sopravvivere in un mondo perennemente bianco. E quindi si ricordava come avevamo fatto a tornare e come si chiamasse la strada da cui eravamo partiti. Bianca fece fatica a ricordare, ma alla fine disse un nome che mi sembrava di aver già sentito.
Me ne andai subito dopo. Quella casa, ora, senza più Nico e Dinah, mi dava i brividi.
Salì sulla lunghissima macchina di Nick e dissi al conducente –che voi sulla terra chiamate autista- il nome della strada.
“Sì, signorina” rispose. Asettico. Persa sotto un cielo buio e spaventoso, mi ritrovai a desiderare un abbraccio di Rosa.
 
Maria era fuori quando arrivammo. Stava buttando un sacco nero e dall’aria pesante dentro una cassa verde e malconcia. Ancora una volta mi colpì il contrasto tra la regalità dei suoi gesti e la povertà della sua vita. Più di tutto mi colpì la durezza del suo volto. Presi coraggio e scesi dall’auto.
“Maria!” gridai.
Lei alzò lo sguardo su di me. Non sembrava contenta di vedermi. “Cosa ci fai qui?”
“Beh” borbottai “Anche a me fa piacere vederti”
“Fai sarcasmo, principessa?”
“A quanto pare mi riesce bene quando sono spaventata.”
Mi guardò come se fossi pazza.
“E comunque non sono qui per questo” ripresi “Ho bisogno di te”
Lei mi fissò per qualche, poi proruppe in una risata esasperata. “Scordatelo” fece, dandomi la spalle “Di favori non ne faccio più”
“Non hai neanche ascoltato di cosa ho bisogno!”
Si voltò. “Lo so fin troppo bene, invece” Il tono era duro, ma lo sguardo no. Riconobbi quella luce: era paura.
“Maria, lo so che ti senti in colpa per quello che è successo, ma devi credermi se ti dico che non succederà di nuovo. Ora sai dove hai sbagliato, puoi ripararlo e lo farai”  Lentamente mi avvicinai a lei “Ti prego” sussurrai “E’ l’unico modo che ho per tornare a casa”.
Sperai di averla convita. Pensai di avercela fatta, ma quando incrociai il suo sguardo repressi un brivido. Una rabbia selvaggia, infinita sfigurava il suo viso. Sembrava che un fantasma mi guardasse attraverso i suoi occhi. Lo stesso che da anni la tormentava ogni notte.
“Io non ti aiuterò” ringhiò “E quello che è successo è colpa mia. Solo colpa mia. Se non avessi costruito quella macchina, se non avessi avuto quell’assurdo di rivederlo, tutto questo non sarebbe successo.”
“Rivedere cosa?” chiesi. Pessima domanda.
Lei urlò, un urlo generato dalla disperazione del suo cuore, poi mi afferrò un braccio e mi condusse all’interno della sua officina.
“Devo mostrarti una cosa” farneticò.
Fantastico, pensai, era in preda ad un collasso nervoso.
 
Maria mi condusse all’interno di una stanza piccola e scura, che sapeva di tristezza. La poca luce che filtrava dalla finestra illuminava una scrivania dalle gambe arrugginite e un paio di scaffali pieni di libri stropicciati. Maria si avvicinò alla scrivania ed aprì un cassetto. Le mani le tremavano e gli occhi erano lucidi mentre mi porgeva un piccolo quaderno dalla copertina blu.
Con la testa mi fece cenno di aprirlo. Io eseguì. Sulla prima pagina era stata messa la foto di una donna sulla trentina, con i capelli chiari tagliati corti e gli occhi che ridevano. Sotto, in modo veloce, immaginai per l’urgenza del dolore, era stato scarabocchiato il suo nome. Ancora una volta, con un brivido di terrore, mi resi conto di riuscire a leggerlo. Voltai pagina in fretta. Stavolta, la foto era più piccola e ritraeva un ragazzo con tanti capelli ricci e un sorriso caldo. Continuai a sfogliare mentre una sgradevole idea iniziava ad invadere la mia mente. Ogni pagina conteneva una foto nuova, uomini, donne e bambini tutti diversi tra loro, tutti legati tra loro da un oscuro destino: erano i fantasmi che ogni notte popolavano i sogni di Maria.
“Sono tutte le persone che ho ucciso” sussurrò Maria.
Ne mancava una. La guardai. Le parole non sarebbero mai bastate ad esprimere il dispiacere che provavo per lei.
Lei sembrò capirmi perché sorrise tristemente. “Ora sai perché non posso aiutarti”
Era vero, lo sapevo e quindi sapevo anche che non sarei riuscita ad insistere ulteriormente. La mia unica possibilità di tornare a casa in tempo era rimasta intrappolata tra le pagine di quel quaderno. Mi voltai con il cuore pesante e la testa che girava. Quando fui sulla porta, un secondo prima di aprirla, dissi l’unica cosa che,se fossi stata al suo posto, avrei voluto sentirmi dire. “Andrà meglio, Maria. Un giorno andrà meglio.”
 
Trovai Nick nella stessa posizione in cui l’avevo lasciato. La testa china su un foglio, gli occhi semichiusi, la gamba ingessata distesa sul letto. Stava scrivendo qualcosa e sembrava avere fretta. La mano sinistra schizzava velocemente da una parte all’altra. Avvicinandomi mi resi conto che non era la fretta a preoccuparlo, ma la frenesia dell’idea. Stava cercando di tenere il passo dei suoi pensieri. Si accorse di me solo quando mi piazzai di fronte alla luce.
“Capo, è fantastico” sussurrò estasiato “Ho capito ogni cosa!”
Sbuffai. “Spero che in quel ogni cosa ci sia un modo di riportarmi a casa”
Nick sorrise, non sembrò nemmeno avermi sentita “Era così semplice, per tutto il tempo è stato sotto i nostri occhi, se solo ci avessi pensato prima”
“Pensato a cosa?” insistetti.
Lui guardò attorno a sé, c’erano fogli scarabocchiati ovunque. L’occhio mi cadde su una foto di Wall Street  e un barlume di speranza si riaccese in me. Nick seguì il mio sguardo.
“Hai capito, capo?”
Annuii. Osservai ogni altra foto, ogni foglio, capii che quelli non era scarabocchi,ma cartine, parole. Riconobbi in quelle linee le strade di New York. E il mio cuore si sciolse.
Nick mi porse un foglio, l’ultimo, quello stava finendo di scrivere. Era un’altra cartina, ma aveva qualcosa di diverso, lo sentivo. C’erano delle strade, strade che non riconoscevo, che correvano attorno ad un unico punto evidenziato in rosso. Accanto, a lettere piccole e confuse, era stato scarabocchiato un nome. Ground zero. E per la prima volta, non ebbi paura di quelle parole che non avrei dovuto conoscere.
“Il prossimo passaggio apparirà lì, capo”
L’avrei abbracciato. Meglio, gli avrei eretto un monumento. Non ero mai stata così grata ad una persona in vita mia. Ma prima che potessi dire qualcosa, Nick mi fermò, sembrava imbarazzato.
“E’ stato un piacere” borbottò, afferrando le stampelle ed alzandosi. Lo osservai dirigersi verso la finestra e armeggiare con la maniglia, dopo qualche secondo lo raggiunsi e lo aiutai ad aprirla. L’aria fredda investì i nostri volti, in lontananza si vedevano le luci di New York brillare. Nevicava.
“Come  hai fatto a capirlo?” domandai dopo un po’.
Lui non rispose subito e quando lo fece, la voce era bassa. “E’ il dolore, capo. Il dolore fa da collante tra un passaggio e l’altro. Ho osservato ogni luogo in cui ne era apparso uno e all’inizio non capivo, pensavo ad un collegamento logico, ad un’immagine aerea. Ragionavo da uomo, ma voi, voi non siete uomini, non come noi, siete creature magiche e ragionate come tali. Avete un’altra concezione del dovere, delle leggi, perfino della vita. E quindi, quindi ho pensato come voi e ho iniziato ad andare oltre i soliti schemi” Aprì la mano e lasciò che un fiocco di neve si posasse sul palmo. Lo guardammo per poco, poi prima che si sciogliesse, soffiai per mandarlo via “E allora ho capito. Non era uno schema a legare i portali, ma un’emozione. I portali  appaiono dove è successo qualcosa di molto grave, dove è scoppiata una guerra, una bomba o dove un disastro naturale ha cancellato tutto. Appaiono con un compito preciso: devono riportare la speranza. E’ questa la magia del Natale, capo, lo capisci? E’ questo il suo potere, portare speranza, è la capacità di credere che qualcosa che è stato, potrebbe essere ancora. Voi avete bisogno di noi, del nostro credere, ma noi, noi abbiamo bisogno di questa magia, ne abbiamo un disperato bisogno. Abbiamo perso la capacità di produrre speranza molto tempo fa”
Non risposi, una parte di me, una parte che non conoscevo e che non riuscivo a controllare, stava lottando per emergere. Avevo già sentito quelle parole, qualcun altro me le aveva di già dette. Ricordai un volto, uno sguardo limpido che sfocò subito, una ninnananna, mia madre che mi cullava, una risata, lacrime, un pianto di bambina. Sequenze di immagini correvano alla rinfusa nella mia mente, si alternavano veloci, graffiavano per riuscire a catturare la mia attenzione. Rividi Times square, ma aveva qualcosa di diverso, le immagini, le macchine, non sembravano essere le stesse di quella mattina, ricordai una notte in cui il vento aveva ululato più forte che mai, risentii la voce di Dinah sussurrarmi di non avere paura. Cercai di mettere a fuoco la stanza attorno a noi, ma prima che ci riuscissi l’immagini sfumò. Sentii la testa farsi pesante, le gambe tremare. Mi aggrappai al davanzale prima di cadere.
“Capo tutto bene?” chiese Nick guardandomi preoccupato.
Avrei voluto rispondergli di no, che non andava tutto bene. Che da quando ero arrivata sulla Terra avevo la costante sensazione di aver dimenticato un’intera parte della mia vita, che sapevo leggere la sua lingua anche se nessuno me lo aveva insegnato e che stava nascendo in me l’agghiacciante sospetto di essere già stata lì, in un’altra vita, la stessa che qualcuno o qualcosa aveva voluto cancellare. Avrei voluto dirgli tutto questo ed ero sul punto di farlo, ma poi commisi l’errore di guardarlo e nei suoi occhi vidi riflessi i miei. Per un secondo dimenticai dove fossi e confusi il mio sguardo con quello di mio padre. Lui non si sarebbe mai permesso di crollare, non di  fronte ad un suo amico, a qualcuno spaventato quasi quanto lui.
“Capo?” mi richiamò Nick “Vuoi sederti?”
Scossi la testa. “Sto benissimo”
Lui mi lanciò un’occhiata dubbiosa, ma io lo precedetti.
“Che cos’è Ground zero, Nick? Che cosa è successo di così brutto?”
Abbassò lo sguardo e strinse i pugni, sembrava dover reggere il peso del mondo. “C’è stato un attentato” rispose infine “A Settembre, pochi mesi fa, degli aerei pilotati da dei kamikaze si sono schiantati contro due torri …”
“Le Torri gemelle” sussurrai, ma Nick non sembrò notarlo.
“E’ stato un momento gravissimo. Quelle torri erano uffici, ci lavoravano centinaia di persone, tutte con famiglia, tutte morte”
Voltò il viso a destra, immaginai che un tempo, dalla sua finestra, si vedessero quelle torri.
“E’ morto anche un mio amico. Stava andando a raggiungere suo padre in un ufficio, un colpo e lui non c’era più. Un altro colpo e anche il padre era morto. E dopo … dopo è stato anche peggio. Ci sono andati di mezzo interi gruppi di persone, solo perché credono in un dio diverso, solo perché sembrano diversi” Storse la bocca ed alzò lo sguardo su di me “Se la mia teoria è giusta, il portale potrà apparire solo lì. Certo, il congegno di Maria ci darà una mano, ma …”
“Maria non ci aiuterà” lo interruppi.
Nick non sembrò sorpreso, si limitò a fare spallucce.
“Tu lo sapevi!” protestati
 “Avevo qualche sospetto”
“E perché non me lo hai detto?”
Stizzita, gli voltai le spalle, ma Nick mi si avvicinò, si abbassò finché la sua bocca non sfiorò il mio orecchio. “Siena” sussurrò con una voce che mi fece rabbrividire  “Tu non sai cosa vuol dire sentirsi responsabile della morte di qualcuno, capito? E ti auguro di non scoprilo mai”
Avrei voluto replicare, dirgli che nessuno di loro due era responsabile di un bel niente, ma proprio in quel momento una voce bassa, adulta, che non avevo mai sentito, ci interruppe.
“Cosa sono questi disegni, Nicholas? Chi è la tua amica?” chiese un uomo alto e robusto, sulla quarantina. I tratti del volto erano duri, la mascella squadrata, gli occhi scuri sembravano un cielo senza stelle. Si muoveva per la stanza con passi lunghi e secchi. Sembrava preoccupato di perdere qualcosa, qualcosa che riguardava il mondo e la sua grandezza. Per un secondo posò il suo sguardo su di me ed in quel volto, riconobbi i tratti di suo figlio.
Mi voltai verso Nick . “Ciao papà” borbottò.

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Capitolo 12
*** Capitolo 11- L'abisso del dolore ***


CAPITOLO 11
L’ABISSO DEL DOLORE
Il padre di Nick era un genio.
Non in senso metaforico, come dite spesso voi, sulla Terra. In senso letterale. Aveva un QI superiore alla media. A quanto pare era un fattore ereditario.  Da secoli, i Grace erano abituati ad essere più intelligenti del normale. Il bisnonno di Nick lo era stato e aveva inventato qualche strana caramella alla menta di cui voi andate pazzi, il nonno di Nick lo era e aveva scoperto le loro miniere, il padre di Nick lo era ed era stato il più vicino a realizzare le fantasie della sua famiglia. E Nick … Nick  avrebbe dovuto esserlo, ma il gene, senza un motivo apparente, l’aveva saltato. L’ultimo erede dei Grace non era un genio, solo un ragazzo molto sveglio. E questo, naturalmente, non era abbastanza.
“Chi è la tua amica?” domandò il padre di Nick.
Lui gli rivolse uno sguardo di fuoco “Non ti interessa”
L’aria si fece pesante. Non mi piaceva il modo in cui quel uomo mi guardava. Sembrava avere già mille domande e mille risposte a tutto ciò che ero. Spostò lo sguardo su Nick. C’era tensione nell’aria. C’era odio nei gesti di padre e figlio, dura acredine, ma c’era anche affetto nei loro occhi, la muta preghiera di guarire una ferita mai sanata. Volevano abbracciarsi, ma erano separati da un abisso di incomprensioni. Volevano saltare, ma l’orgoglio li bloccava.
“Non rivolgerti a me con quel tono, ragazzino!” sbottò il padre, agitando seccamente la mano. Nick sbuffò, il padre abbassò la mano. Sembravano due attori stanchi.
Per un po’ nessuno parlò, vidi Nick far saettare continuamente gli occhi dai fogli sparsi sul letto a suo padre.
Quando capii, era già troppo tardi.
“Cos’è un passaggio infra-mondo” disse suo padre. Senza punto interrogativo. Più che una domanda, la sua sembrava una affermazione. Aveva gli occhi che brillavano, ovviamente lo sapeva. Sapeva cos’erano. Sapeva chi ero.
Nick reagì per primo.
“Niente!” rispose preoccupato, lanciandosi in avanti per quanto una gamba ingessata glielo consentisse. Ma suo padre fu più veloce e afferrò il foglio di Ground Zero.
Il tempo sembrò fermarsi, sentii il mio battito accelerare, l’aria diventare pesante, fissai lo sguardo sul padre di Nick e mi immobilizzai.
“Papà, ti prego, lasciaci stare!” protestò Nick, cercando di strappargli il foglio di mano, ma quello non lo ascoltava, non sembrava neppure sentirlo. Sollevò lo sguardo su di me. Uno sguardo folle.
“T-tu …” balbettò, le mani tremanti. Allentò la presa sul foglio e Nick riuscì a riprenderselo, ma perse l’equilibrio e cadde a terra. Inconsciamente, mi allontanai di un passo. Suo padre sembrava in preda ad una crisi, tremava e continuava a balbettare “Tu … “
“Smettila!” sbottò Nick.
Suo padre lo ignorò. “Da dove vieni?” continuò “Perché sei qui? Come si chiama il tuo mondo?”. Ad ogni domanda, si avvicinava di un passo.
Io indietreggiai fino ad incontrare il muro. Quel uomo mi impauriva e a nulla servivano le preghiere di Nick. Ero il premio che aspettava da un vita Ricordai le parole di Dinah, mi aveva avvertita che non sarei stata al sicuro, che non ce l’avrei fatta. Strinsi i pugni. Il padre di Nick era ormai davanti a me.
“Sembra così umana!” squittì, stringendomi il viso in una morsa. “Però sei fredda” sentenziò alla fine “Molto fredda”
D’improvviso mi afferrò per i capelli e tirò.
“Ahi!” gridai, lui mi lasciò subito.
“Interessante” mormorò “Sente il dolore come noi” Si allontanò di qualche passò e mi osservò.
“Parli la nostra lingua?” domandò “Hai qualche potere magico? Perché sei qui? Com’è il tuo mondo? Posso vederlo?”
“Piantala!” Intervenne Nick “Sei un pazzo se credi a queste cose, è solo una mia compagna di …”
“Taci, Nicholas!” sbottò suo padre, spostando lo sguardo su di lui. “Nick …” sussurrò di nuovo, ma stavolta, qualcosa era cambiato nella sua voce. Era più dolce, immensamente più delicata, quasi grata.
Gli occhi di Nick lampeggiarono per la sorpresa. Mi chiesi da quanto tempo suo padre non lo chiamasse così. 
“Nick, figlio mio, sapevo che eri un Grace, sapevo che ti saresti ricreduto, che un giorno saresti stato il più grande di tutti, più grande di me e perfino di tuo nonno! Figlio mio!” sospirò un’ultima volta, prima di abbracciarlo. Vidi i muscoli di Nick tendersi per la sorpresa, osservai le sue mani stringersi ancora di più attorno alle stampelle, ma i suoi occhi si riempirono di lacrime. Si rifugiò in un abbraccio che gli era mancato per così tanto.
In quel momento capii di essere in pericolo.
Corsi verso la porta, ma suo padre se ne accorse.
“Ferma!” urlò, lanciandosi verso di me ed afferrandomi per un braccio.  “Devo portarti in laboratorio” sentenziò “Quello grande. Dobbiamo chiederti così tante cose! Dobbiamo farti alcuni esami! Abbiamo aspettato così tanto … ”
“Esami?” Avevo la gola chiusa. Guardai Nick, ma lui distolse lo sguardo.
Suo padre alzò le spalle “Esami, banalissimi esami. Tanto per vedere le tue funzioni vitali, come reagisci a degli stimoli interni, magari una piccola vivisezione, ma per quella c’è tempo”
“Nick?” provai, ma lui mantenne lo sguardo fisso a terra.
Suo padre sorrideva felice, lo sguardo estasiato. “E parla anche! Coraggio, non dobbiamo perdere un attimo” aprì la porta e chiamò Rosa.
“Fa preparare l’elicottero” le disse quando comparve “Dobbiamo andare al laboratorio”
 “Dobbiamo?” chiese stupita.
“Sì, dobbiamo” replicò quello seccato “Mio figlio, io e la sua amica”
 Rosa mi guardò, poi guardo lui ed infine spostò lo sguardo su Nick. Se ne stava dietro, in silenzio, con lo sguardo basso e le spalle curve. Sembrava invecchiato di trent’anni in un solo colpo.
“Capisco, signore” rispose infine.
 
Il padre non mi mollò per un secondo. Ero la cosa più preziosa che gli fosse mai capitata, non poteva permettersi di perdermi. Osservò tutti i preparativi con fredda attenzione. Suo figlio, accanto a lui, non riusciva ad alzare lo sguardo da terra. Io non mi ero mai sentita così impotente e stupida allo stesso tempo. Dinva aveva sempre avuto ragione. Sarei morta. Non riuscivo nemmeno a piangere al pensiero. Se ero disperata, non lo ero per me, ma per la mia famiglia. Perché non sarei mai più riuscita e rivederla. E per il mio popolo, perché sarebbe morto consumato dal suo stesso odio.
“E’ tutto pronto, signore” annunciò Rosa.
“Perfetto” replicò lui estasiato “Sai, Rosa” aggiunse poi “Appena avremo diffuso la notizia della nostra scoperta, dovrai ricordarmi di darti una promozione. Anzi, dovrai ricordarmi di dare una promozione a tutti quelli che erano presenti oggi”
Rosa rimase ferma, le mani incrociate, lo sguardo fisso sul padre di Nick.
“Non per me, signore”
Lui la guardò confuso. “Che intendi dire?”
“Che mi licenzio, Aldobaldrino”
Aldobaldrino? Era quello il suo nome?
“Che cosa?!” protestò Nick, rianimandosi all’improvviso “Non puoi abbandonarmi, Rosa! Avevi promesso che non l’avresti mai ! Mai”
A quelle parole, gli occhi di Rosa divennero lucidi.
“Mi dispiace, Nick” mormorò “Ma temo di non aver fatto un buon lavoro”
 “Non puoi lasciarmi! Non puoi!”
Lei sospirò, mi rivolse una rapida occhiata. “Non ho fatto un buon lavoro”
“Rosa, ti prego!”
“Mi dispiace” ripeté, avvicinandosi a lui e baciandolo delicatamente sulla fronte. Per un attimo ebbi l’impressione che qualcosa brillasse nelle sua mani, ma velocemente come era apparsa, la luce scomparve.
Il padre di Nick sbuffò, aveva fretta di andarsene. Inoltre era infastidito dal comportamento di Rosa. Non era abituato a venire contraddetto.  
“Basta smancerie” dichiarò bruscamente “Dobbiamo andare!”
Rosa si scansò e nel farlo, disperse il suo profumo nell’aria.
La guardai. “Aiutami” sussurrai.
Lei mi strinse delicatamente una mano, poi con un movimento fulmineo,  si avvicinò.
“Non perdere la fiducia in Nick” mormorò. “Non perdere la fiducia in nessuno di noi, principessa”
Spalancai gli occhi e quasi caddi per la sorpresa.
Non potevo crederci.
Cercai conferma nei suoi occhi, ma lei si era già ritratta. Nelle orecchie sentivo ancora la sua voce. Principessa.
“Chi sei?” urlai, ma nello stesso istante il padre di Nick mi strattonò. Quando mi voltai, Rosa non c’era più.
 
 Aldobaldrino parlò per tutto il tempo. Era troppo emozionato per tacere, preso da un’ansia quasi febbrile di analizzare e ricordare qualunque cosa di quell’eccezionale momento. Non riuscivo a guardare Nick negli occhi. Rosa mi aveva detto di fidarmi di lui, mi aveva chiamata principessa. Ma più andavamo avanti, più la sua voce si affievoliva . Iniziai a pensare di aver solo sognato. Mi appoggiai la sedile e chiusi gli occhi. Ero in trappola. Esattamente come aveva previsto Dinah. Una fitta di dolore mi artigliò lo stomaco. Pensare a lei, pensare a Nico faceva male. Strinsi i pugni e cercai di concentrarmi sulle parole del padre di Nick, ma fu inutile.
Ripensai ai miei genitori, a mia madre e mio padre ed ebbi paura. Mi accorsi di tremare al pensiero che non gli avrei rivisti mai più. Ma sarei morta piuttosto che rivelare l’esistenza del mio mondo.
Forse non sarebbe servito a molto. In fondo, Nick sapeva come arrivarci. Ma ero la principessa del mio popolo e l’avrei protetto fino alla fine.
Ero sull’orlo delle lacrime e strinsi i pugni. Nick, accanto a me, si mosse e mormorò qualcosa, non lo ascoltai. Mi misi a canticchiare, invece. Mi ricordai di una vecchia ninnananna che avevo sentito tante volte da piccola.
 
La neve scende
E le luci si spengono,
non temere la pioggia,
non temere il fuoco,
il cuore di chi ti ama rimane con te
non temere il buio,
 perché i sogni sono colorati
 
Mano a mano che ripetevo quelle parole, sentivo la paura abbandonarmi. Ritornavo a casa, da mia mamma, accanto a mio padre, potevo nuovamente giocare con Dinah nel giardino, conoscere il mio regno senza paura di esserne inghiottita. Sulla Terra dite che solo il dolore fa crescere, che tutto quello che non ti uccide ,ti rafforza. Io sono dovuta crescere di improvviso e troppo presto e vi assicuro che non c’è nulla di eroico in questo. I mostri che da piccoli si nascondono sotto il letto, da grandi indossano una maschera e tentano ancora di spaventarti. Esattamente come allora, devi imparare a non temerli. Cantare quella ninnananna mi fece ritornare piccola, felice. Per qualche secondo, riuscii ad estraniarmi.
Poi, Nick urlò, il terrore si dipinse sul volto di suo padre e per la seconda volta in vita mia mi ritrovai a precipitare da un elicottero.
 
La cosa strana era che non ricordavo di essere scesa dall’elicottero. Avevo aperto gli occhi e mi ero ritrovata in caduta libera. Nick e suo padre precipitavano accanto a me.  Nessuno dei due sembrava in vena di spiegazioni.
La cosa ancora più strana era che non avevo paura. Ero confusa, arrabbiata, stanca, ma non spaventata. Era una strana sensazione di calma quella che mi aveva presa, sentivo ogni suono attutito, vedevo ogni cosa al rallentatore. Una sensazione strana e pericolosa.
“Siena!” urlò Nick perforandomi un timpano “Siena!”
Lo guardai e fu come vederlo per la prima volta.  
Poi, l’aria mi sferzò le guance ed io divenni drammaticamente consapevole di quanto stavamo rischiando.
“Nick!” urlai, non sapendo cos’altro ribattere “Nick!”
“Mi dispiace!”
La terra, sotto di noi, si avvicinava ogni secondo di più.
Scossi la testa e afferrai la mano di Nick. Quando si sta per morire, si perdona più facilmente. Aldobraldino, più pesante, cadeva più velocemente, ma lo vedevo dimenarsi cercando di recuperare la presa sul figlio, oppure su di me. Non avrei saputo dire a chi tenesse di più.
“Mi dispiace, Siena!” urlò Nick. Piangeva, ma non sapevo se per l’aria che ci tagliava il viso o per paura.
Non ribattei, mi limitai ad aumentare la forza della mia stretta.  
“Rosa aveva ragione” borbottò Nick “Rosa …” ma non riuscì mai a terminare la frase.

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Capitolo 13
*** Capitolo 12- La morte e l'oblio ***


CAPITOLO 12
LA MORTE E L’OBLIO
Non riuscì mai a terminare la frase perché qualcosa lo distrasse.
Si tastò in tasca ed il suo sguardo si illuminò.
“Ho trovato!” esclamò, stringendo una bomboletta grigia.
Lo guardai preoccupata, mentre la strada si avvicinava sempre di più. “Che cosa?”
Era questione di secondi prima che ci sfracellassimo a terra. Ma Nick non sembrava rendersene conto. Guardò in basso.
“Dobbiamo andare più veloci!” urlò guardandomi, come se io avessi potuto fare qualcosa al riguardo. “Abbracciami!”
“Che cosa?!”
“Abbracciami, così cadremo più velocemente!”
Era la cosa più pazza che avessi mai sentito, ma era anche l’ultima cosa avrei mai sentito, per cui lo feci.
La caduta durò ancora qualche secondo, l’aria mi sferzava il volto. Nick, alle mie spalle, era teso. Guardava suo padre con attenzione, si rilassò solo quando lo superammo. Io tenevo lo sguardo fisso sulla strada. Era questione di una manciata di metri, ormai. Sentii Nick tremare e lo abbracciai più forte, pronta all’impatto.
“Ora!” Ringhiò lui puntando la bomboletta verso terra.
D’improvviso, un’ondata di vento polare mi bruciò la schiena. Un vortice di migliaia di fiocchi di neve uscì dalla bomboletta di Nick e andò a formare una soffice cunetta a terra. Ci piombammo dentro.
Risi. Risi non appena compresi il piano di Nick, risi e mi lasciai che la neve mi bagnasse le braccia, i capelli e non avrei potuto  essere più felice. Nick ,accanto a me, sembrava frastornato, tremava, mi guardava, ma non sembrava riconoscermi.
“Siamo vivi!” gli urlai in faccia “Vivi!”
Lui annuì. Si voltò in tempo per vedere suo padre schiantarsi nel cumulo. A quel punto, Nick mutò espressione e scoppiò a ridere così forte da cadere all’indietro.
“Lo siamo!” esultò, alzandosi in piedi e cadendo un secondo dopo. Nella confusione della caduta aveva perso le stampelle. “Siamo vivi Siena!” mi attirò a sé e cercò di sollevarmi in aria.  Risi ancora più forte e le risate si mischiarono alle lacrime.  Il sollievo divenne ansia, quasi isteria. Per quanto ancora sarei riuscita a sfuggire alla morte?
Abbracciai Nick tentando di calmarmi, ma tremavo.  Attorno a noi le macchine sfrecciavano ad una velocità impressionante, nessuno sembrava essersi accorto di noi.
“Che cos’era quella?” Domandai, accennando alla bomboletta.
Lui scosse le spalle “Era un esperimento a cui aveva lavorato mio padre un po’ di tempo fa. Avrebbe dovuto produrre tempeste di neve per attirare il big foot, ma non si è mai andati oltre il prototipo”
“Beh, qualunque cosa fosse, ci ha salvati” lo fissai “tu ci hai salvati Nick”
Lui tossì imbarazzato, ma una luce orgogliosa brillava nei suoi occhi. “E’ stata Rosa a darmelo”  borbottò  
A quelle parole, sentii il mio cuore farsi pesante.
Ma il padre di Nick ci interruppe. “Sei stata tu” sibilò indicandomi.
Io indietreggiai.
“Sei stata tua farci cadere! Come hai iniziato a canticchiare, io mi sono sentito strano ed un secondo dopo eravamo in caduta libera!” Muoveva le mani come se non potessi crederci, scuoteva la testa e teneva gli occhi fissi nel cielo.
Non capivo cosa volesse, ma mi sentivo in pericolo. Nick, accanto a me, tentò di alzarsi.
“Sei ancora più potente di quello che credevo!” esclamò il padre, estraendo una specie di scatolina blu dalle sue tasche -I Grace erano pieni di risorse- “Per questo non correrò il rischio di perderti una seconda volta”
Toccò la scatolina e un ronzio sinistro si diffuse nell’aria.
“Quella è una pistola elettrica!” urlò Nick, agitandosi. Qualcosa, nel suo tono, mi fece sospettare di essere in pericolo. 
“Non ti preoccupare, figliolo. La stordirà e basta, ma non possiamo permetterci il lusso di un altro giochino come quello di prima, vero?” continuò sorridendomi.
Rabbrividii. “Lei è pazzo”
Lui si immobilizzò, la mano che reggeva la pistola tremò. “Pazzo?” sibilò “Pazzo io? Io che credevo in te?”
Nick, accanto a me, mi sfiorò il polso. “Scappa, capo”
“Pazzo!” gridò il padre di Nick ed il suo grido mi perforò il cuore  “Visionario, semmai, ma pazzo mai. Io sono il più grande scienziato di tutti i tempi! E tu, tu sei il mio biglietto di riscatto. Vieni qui, piccola” proseguì, brandendo la pistola elettrica “Non sentirai tanto dolore, te lo prometto” E prima che potessi replicare, Aldobraldino si lanciò su di me.
“Scappa Siena!” urlò Nick nello stesso istante, frapponendosi tra me e suo padre.
Lo vidi, lo vidi spiccare il salto e chiudere gli occhi, vidi lo sguardo di suo padre passare dalla follia all’incredulità. Vidi la pistola bruciare il petto di Nick, sentii un ronzio fastidioso diffondersi  nell’aria.
Nick cadde a terra, esamine.
Suo padre si fermò.
Lo guardò.
Poi, iniziò a tremare.
Tentò di gridare, ma la voce gli morì in gola, si guardò le mani e alla vista della pistola, sobbalzò e l’allontanò da sé.
Mi guardò. Non sembrava vedermi. Iniziò a piangere, nascose il volto nel petto del figlio.
“Nick” chiamò disperato “Nick …”
Le lacrime rigavano il suo volto e bagnavano la maglia di Nick. Suo padre tremava, mentre le persone attorno a noi iniziavano a fermarsi, urlare, bisbigliare. Qualcuno chiamò la polizia, altri l’ambulanza.
“Avevo regolato la pistola ad un livello troppo alto … era regolata per lei” singhiozzava “Per lei …”
Le lacrime mi pungevano gli occhi, ma cercai di respingerle. Allungai una mano verso quella di Nick e gliela strinsi. Fu allora che sentii qualcosa di sottile tra le sue dita fredde. La presi e con dolcezza, la guardai. Era un foglietto bianco, spiegazzato, di quelli che solo poche ore prima avevo trovato in camera sua. Nel centro, a chiare lettere, si leggevano due parole: Ground zero.
Sobbalzai al ricordo del passaggio e del mio mondo, al ricordo di una vita che non mi era mai sembrata più lontana.
Ma Nick aveva creduto, aveva creduto fermamente in quel piano ed in me, aveva fatto la tacita promessa di riportarmi a casa e aveva dato la sua vita perché io potessi salvarmi.
Ricordai le parole di Bianca in un vortice confuso di emozioni, ricordai cosa aveva detto di quel mondo e come mio padre avesse voluto tenermi lontana, anche a costo di sacrificare il suo popolo. Per la prima volta in vita mia, lo vidi per quel che era. Per la prima volta, vidi mio padre come un uomo e non come un eroe. Riconobbi nel suo sguardo fiero e nel suo passo deciso, l’ombra della paura e dello sbaglio. Mio padre, il re del mio mondo, il valoroso guerriero, non era altro che un uomo. Un uomo che aveva compiuto scelte sbagliate e che ,per certi versi, era simile al padre di Nick.
Ma fu quest’ultimo pensiero a darmi la spinta necessaria.
Dovevo cambiare le cose.
Lo dovevo al mio popolo e lo dovevo a Nick.
Dovevo tornare a casa.
A casa avrei aggiustato tutto.
Casa era dove le cose si sistemavano.
Casa era dove sarei stata salva.
Dove i miei genitori sarebbero stati salvi.
A casa sarei stata al sicuro.
Dovevo tornare a casa.
Mi alzai e strinsi forte il foglietto, poi, malferma sulle gambe, corsi via di lì.
 
Corsi a perdifiato per le strade di New York. Avevo un vuoto allo stomaco che mi intimava di non fermarmi. Superai vie, persone, palazzi. Le vedevo scivolare accanto a me come ombre indistinte. Se mi persi, non lo ricordo. So solo che a un certo punto, quando ormai i polmoni erano sul punto di collassare e la gola mi bruciava ad ogni respiro, sbucai su di una piazza aperta e densa di tristezza. E capii di essere nel posto giusto. I volti delle persone portavano con sé i segni inequivocabili di un lutto. I bambini non correvano, le madri non sorridevano, i padri non richiamavano. Tutti tenevano lo sguardo basso, le mani intrecciate, si muovevano in silenzio o parlavano sottovoce. Passavano accanto ad una rete metallica e lasciavano cadere fiori o biglietti. La neve ricopriva tutto, cercava di mascherare anche quelle immense macerie che erano molto più visibili ora, di quando avevano svettato su tutte le loro teste. Con cautela mi avvicinai. Avrei desiderato avere qualcuno accanto a me per avere la certezza di essere viva, ma l’unica cosa che mi accompagnava era il biglietto di Nick e lo strinsi con tutte le mie forze. Cercai di individuare dove sarebbe apparso il passaggio, provai a concentrarmi. Sperai che un segnale, un bagliore o un suono, mi avrebbero aiutata, ma non sentii niente. Intanto, le prime stelle erano apparse in cielo. La piazza iniziò a svuotarsi, ma rimanevano ancora molte persone. Per lo più, stavano immobili, di fronte alla rete e la fissavano. Fissavano cosa c’era dietro, le macerie. Mi resi conto che, come me, erano alla ricerca di qualcosa. Qualcosa che non volevano rassegnarsi a lasciar andare. D’improvviso un movimento attirò la mia attenzione. Mi voltai ed avvertii un sibilo che mi fece accapponare la pelle. Sobbalzai, ma non distinsi nulla di strano. Sbuffai e tornai a concentrarmi sulle macerie.
Fu proprio allora che la vidi.
Stava seduta su un pezzo di cornicione e mi guardava. I suoi occhi fiammeggiavano di rabbia. Una rabbia antica che già una volta aveva divorato il mondo. Era più grossa delle altre volte, il corpo più snello ed il viso più tondo. I capelli ricadevano morbidi sulle sue spalle fino a sfumare nella gonna, nella mani, in una nebbia densa come la notte.
Era bella ed immensamente spaventosa.
Tentai di gridare, ma la voce mi morì in gola.
L’ombra mi sorrise.
Un sorriso diabolico che rischiò di uccidermi in tanti modi. Puntò le mani sulla roccia e con un movimento aggraziato si avvicinino a me. Prova ad indietreggiare, ma una forza invisibile mi inchiodò sul posto.
 L’ombra fissò il suo sguardo nel mio e fu come bruciare dall’interno.
Caddi e terra e sentii l’aria mancarmi. Lei sorrideva e più il suo sorriso si allargava, più io sentivo il mio cuore fermarsi. Un fuoco inestinguibile scorreva nelle mie vene, faceva ribollire il mio sangue, avviluppava le gambe, le braccia, la gola, i capelli. Cercai conforto nella neve, la strinsi, la bevvi, me  la passai su tutto il corpo, ma quella si sciolse un attimo dopo. Iniziai a sudare, tentai di oppormi a quella fiamma, ma non riuscivo a pensare chiaramente.
 Ecco perché quando sentii una voce chiamare il mio nome, quando mi sembrò di distinguere Maria tra i milioni di puntini che danzavano nei miei occhi, pensai di stare sognando. Rantolai qualcosa, ma dal sguardo capii che vedeva anche lei l’ombra e come me, ne era spaventata. Tentai di andarle in contro, ma non riuscii. Lottavo contro le fiamme, ma era una resistenza sempre più disperata.
Poi, proprio quando mi ero sentita vicino alla fine, l’aria tornò ad accarezzare il mio viso, nei miei polmoni. Sentii il fuoco abbandonarmi e la neve stringermi dolcemente. Gradualmente i miei occhi tornarono a vedere, i miei muscoli a rilassarsi. Mi guardai attorno e incontrai lo sguardo di Maria. Era in piedi, tremante e teneva un coltello tra le mani, ma era lei.  Davanti a me.
“M-maria …” chiamai.
Lei scosse la testa e rinfoderò il coltello. Ero felice di vederla. Più che felice e se ne avessi avutole forze, l’avrei abbracciata, ma riuscivo a malapena a muovermi. Lei sembrò accorgersene.
“Riesci a muoverti?”
Annuii, ma quando provai a rialzarmi, emisi un gemito di dolore.
“Lascia che ti aiuti” ordinò dolcemente e con un movimento veloce, si avvicinò e  mi rimise in piedi. “Appoggiati a me finché non recuperi le forze”
 
Quando mi fui totalmente rimessa, iniziarono le domande. Ma io non avevo risposte. Non sapevo dove fosse il passaggio, né cosa fosse quell’ombra, non sapevo dov’era andata, né se ne fosse davvero andata. Sapevo solo che Nick era morto, che Nico e Dinah mi avevano abbandonata e che io volevo tornare a casa. Le mostrai il biglietto di Nick e le spiegai come ci fosse arrivato. Lei ascoltò tutto il tempo, lo sguardo fisso sulle macerie.  
“Sai perché sono qui?” domandò.
Io seguii il suo sguardo. “Perché vuoi farti perdonare”
“Ho bisogno di ottenere il loro perdono, in qualche modo. Devo riuscirci. Solo così potrò scacciare i miei fantasmi”
“Credo che sia la battaglia più dura di tutte” sussurrai “E che non si vinca mai del tutto”
Lei mi lanciò uno sguardo indecifrabile.
Io mantenni lo sguardo sulle macerie. “Significa che mi aiuterai?”
“Sì”
Eravamo vicine. E per un attimo, mi sembrò di riconoscere il suo profumo. Ma nello stesso istante Maria si allontanò ed io tornai ad osservare la piazza. Era semideserta ormai.
“Manca poco alla mezzanotte” mormorò Maria.
Ed il passaggio non si era ancora rivelato.
Cercai conforto nel suo viso.  
Lei si limitò a stringersi nelle spalle. “Alle volte, bisogna solo avere fede”
Non risposi e tornai ad osservare le macerie. Fissai la mia attenzione sul cornicione su cui l’ombra era apparsa poco prima e un brivido mi attraversò la nuca.
Un’intuizione improvvisa.
Era quello il posto, il portale sarebbe apparso lì.
Inconsciamente mi aggrappai alla rete.
“Siena?” domandò Maria.
“E’ lì”
Lei non rispose subito. Aguzzò lo sguardo e cercò un segno che confermasse la mia teoria, ma non lo trovò.
“Ne sei sicura?
Io mi voltai e la guardai negli occhi.
Non ne ero solo sicura. Lo sentivo. Come se quel detrito mi avesse chiamata. Ogni singola particella del mio corpo gridava che quello era il posto, che lì sarebbe apparso il passaggio. Era una sensazione. Come quando rileggi un libro che avevi dimenticato da molto tempo e ti accorgi di sapere cosa succederà nel capitolo dopo; era un meccanismo di cui non dubitavo.
“Sì”
Nessuna di noi due aggiunse nulla, Maria si limitò a sollevarmi sulle spalle e farmi scavalcare la rete.
 
Dopo molte acrobazie riuscii a cadere dall’altra parte. Maria, alle mie spalle, tentò di arrampicarsi, ma i fori erano troppo piccoli e i suoi stivaloni da meccanico troppo grossi. 
“Non riesco” borbottò “Devo trovare un’altra entrata, magari se vado …”
“No!”
“No?”
Attese, in silenzio, lo sguardo curioso.
“Ho paura” risposi infine “Rimani qui”
Lei annuì, la bocca curvo in un’espressione di protezione. Io la guardai ancora per qualche secondo, poi, con un movimento secco, prima di cambiare idea, iniziai a correre. Il cornicione, visto da vicino, assomigliava più ad un davanzale. Era grigio, rotto per metà e annerito dal fumo, ma sapevo che quello era il posto. Iniziai a girarci attorno. Più la mezzanotte si avvicinava, più mi innervosivo. Facevo saettare di continuo il mio sguardo da lui a Maria, da Maria a lui. Più volte mi venne voglia di toccarlo, ma qualcosa, nella mia testa, mi diceva che era meglio  lasciare perdere.
Infine, arrivò la mezzanotte. Il lontananza sentii delle macchine strombazzare, dei ragazzi ridere. Vidi alcune luci spegnersi, altre accendersi. Immaginai che proprio in quel momento milioni di genitori stessero depositando i regali di Babbo Natale e promisi a me stessa che quella sarebbe stata l’ultima volta. Un’energia improvvisa, inebriante si impossessò di me. Sentii il mio corpo rilassarsi, rivitalizzarsi ad ogni tocco. Le ferite, il fuoco distruttivo dell’ombra sparirono, la fatica abbandonò il mio corpo, la paura, la diffidenza vennero annientate. Qualcosa di molto più bello, molto più potente scorreva nelle mie vene, era come acqua, gocce di rugiada che lavavano via il dolore. Era la magia del natale. La sentivo, la riconoscevo, come se fossi stata appena risvegliata da un lungo sonno. Sentivo che era parte di me, che lo era sempre stata, solo che quella sera bussava più forte. Chiusi gli occhi e mi lasciai avvolgere. Altre migliaia di persone, in tutto il mondo, stavano facendo lo stesso. Pensai che qualcuno, per la prima volta da molto tempo, si permetteva di credere di nuovo nei miracoli, in una persona, in se stessa e ne fui felice. Il mio popolo aveva bisogno di quella magia, il mio mondo ne aveva bisogno e io gliela avrei ridata. Delle immagini iniziarono ad ammassarsi nella mia mente, immagini sfocate, disordinate, scure che riguardavano quel mondo, la mia vita, un segreto che avevo nascosto così bene da dimenticarlo. Mi rividi da piccola, mi rividi a camminare per quelle stesse strade, per quella città. Rividi le torri gemelle ancora in piedi, sentii una mano stringere la mia, una risata sbiadita colorare quel mondo, una voce sottile chiamarmi, insegnarmi quell’alfabeto. Cercai un volto, ma non lo trovai. C’era solo uno sguardo, un paio di occhi scuri come la notte. Gli occhi di Dinah.
Rabbrividii.
Quelle non erano immagini, ma ricordi. Li sentivo spingere, sentivo il mio cuore battere, la magia del Natale cullarmi e smisi di opporre resistenza. Fu come aprire un argine, i ricordi presero a scorrere ad una velocità insostenibile. Ricostruii tutta la mia infanzia, tutto quel pezzo di vita che non ero mai riuscita a riempire, d’improvviso si arricchì di emozioni, posti, sapori.
Avevo tre anni e un vestitino rosso, rincorrevo le foglie di Central Park mentre ingiallivano e si staccavano, seguivo il loro volo aggraziato e soffiavo affinché non si posassero mai a terra. Dinah accanto a me, rideva e saltava nelle pozzanghere. Una voce di donna mi chiamò da lontano, il mio nome, urlato con una dolcezza materna, mi voltai e la foglia era caduta.
Il ricordo cambiò. Ora avevo quattro anni, i capelli rossi bagnati ed ero senza Dinah. Era sera a New York e faceva caldo, l’Estate non avrebbe dato tregua fino a Ottobre. Stavo sdraiata sul letto a pancia in giù e sentivo una voce, alle mie spalle, cullarmi dolcemente mentre delle mani gentili mi intrecciavano i capelli. “Sei bellissima, stellina” Mormorò la voce, ma prima che potessi riconoscerla, il ricordo cambiò di nuovo.
Era Inverno. La neve cadeva e ricopriva tutto. Mi affacciai ad una finestra e osservai il vetro appannarsi.
“E’ una magia!” strillò Dinah divertita, ma prima che potessi ribattere, qualcuno mi strappò bruscamente da lì. Un lampo, una donna che veloce, di spalle, chiudeva le tende.
“State lontane da lì, bambine. Stasera siamo in pericolo”
“Ma è Natale” protestai “Niente può andare storto a Natale”
Lei sospirò “Vorrei avessi ragione, stellina”
Nello stesso istante, l’aria si fece rarefatta e una donna apparve nella stanza. Il corpo era snello, il volto aggraziato, ma sfocato, i capelli dei colori dell’autunno.
“Sorella” salutò e l’altra donna si strinse con forza alla tenda.
“Sono qui solo per dirti che è tardi, ormai” Continuò “Sanno dove sei e stanno venendo a prenderti. Arrenditi finché puoi”
“Mai”
La donna sospirò “Dammele, dammi mia figlia e mia nipote”
“Piuttosto la morte”
“Ci sei molto vicina”
A queste parole lei sobbalzò “Lui oserebbe farmi questo?” sibilò “A me? Alla madre di …”
“Non sei più solo una madre” la interruppe l’altra “Ora sei anche una traditrice”
Lei ringhiò, un suono selvaggio e oscuro che mi fece rabbrividire “Che vuole fare? Vuole togliermi mia figlia?”
“Non lo so, ma non lo escluderei. E’ il re, può fare quello che vuole”
Lei rise, una risata disperata che graffiava la pelle, poi si avvicinò a me e mi afferrò.
“Che vuoi fare?” domandò preoccupata sua sorella, muovendo un passo verso di noi. Ma l’altra non la sentiva, rideva e mi stringeva sempre più forte. “Farò quello che voglio ”gridò “Gli toglierò la stessa cosa che lui vuole togliere a me”
Non  farlo, sorella!” La pregò l’altra.
D’improvviso qualcuno bussò violentemente alla porta e la voce di mio padre ordinò di aprire. Sentii la donna iniziare a tremare, implorare di stare indietro, di lasciarla stare, ma le sue preghiere furono vane. Mio padre sfondò la porta ed entrò. Non era da solo, con lui c’era un manipolo di guardie ed un altro uomo. Era più grande di mio padre, più alto e grosso. Ma aveva gli stessi occhi verdi, gli stessi capelli rossi e ispidi, gli stessi tratti duri e secchi. Si muoveva rapidamente e i suoi occhi studiavano la stanza con una brutalità urtante, eppure non c’era rabbia nel suo volto, ma preoccupazione. Quando vide Dinah sorrise sollevato, poi incontrò gli occhi dell’altra donna, di sua moglie e il volto assunse i contorni del dolore.
Quell’uomo era mio zio.
“Tu …” sibilò mio padre, indicando mia zia, negli occhi la luce del tradimento “Che ci fai qui?”
“Sono venuta per …”
Ma sua sorella fu più veloce “E’ qui per Dinah” s’intromise “E’ qui per Dinah e per aiutarmi con sua nipote”
“No” balbettò mio zio, cadendo in ginocchio, vidi le spalle dei miei genitori curvarsi sotto il peso del tradimento
“Oh sì” esultò l’altra donna “Invece sì. Lei ha sempre saputo dove mi trovavo. Sempre. Ma non ve lo ha detto, ha preferito proteggermi. Vi ha tradito. Esattamente come me”
Mia zia cercò lo sguardo di suo marito, ma non lo trovò. Mio padre la fissò ed in quello sguardo le sputò addosso tutta la sua rabbia. Lei sostenne il suo sguardo, ma le tremava il labbro.
Ma quando le parlò, la voce era bassa, il tono sommesso. Non c’era rabbia, ma tristezza. “Perché?”
Mia zia scosse la testa. Il volto era oscurato dalla penombra della stanza, ma vidi della lacrime luccicare sulle sue guance.
“E’ vero?” continuò lui “L’hai sempre saputo?”
Sapevo cosa voleva. Cosa volevano tutti loro. Una smentita. La muta preghiera che sua sorella avesse mentito, che lei li avesse preceduti per caso o per fortuna. Tutto era meglio della verità. Ma mia zia stava piangendo, teneva la testa china e aveva ferito l’uomo che amava. Non aveva più le forze di mentire.
“Sì” rispose.
Sua sorella scoppiò a ridere, di una risata diabolica e spietata e finalmente allentò la presa su di me facendomi cadere.
Fu un attimo, poi il buio.
 
Lancia un urlo e rinvenni ansimando. Nella mia mente i ricordi si ammassavano e aumentavano di velocità, perdendo di significato. Maria, dall’altra parte della rete, mi chiamò, ma non le risposi.
Io ero già stata sulla Terra.
Qualcuno, per chissà quale ragione, mi aveva strappata alla mia famiglia e mi aveva portata lì. E così anche con Dinah. Mi appoggiai al cornicione, ma sobbalzai un secondo dopo. Maria era sparita.
“Maria!” chiamai allarmata, cercandola con lo sguardo, mentre un brutto presentimento si faceva largo in me. Corsi verso la rete e urlai più forte. Ma lei sembrava sparita.
“Maledizione!” imprecai, tirando un calcio alla rete e nello stesso istante avvertii una presenza alle mie spalle. Non ebbi bisogno di voltarmi. Riconobbi il fuoco che incendiò la mia schiena. L’ombra era dietro di me e mi aspettava, ma stavolta non era sola.
“Siena …” sentii Maria rantolare e senza fiato per la paura, mi voltai. 
CAPITOLO 12
L’OBLIO
Non riuscì mai a terminare la frase perché qualcosa lo distrasse.
Si tastò in tasca ed il suo sguardo si illuminò.
“Ho trovato!” esclamò, stringendo una bomboletta grigia.
Lo guardai preoccupata, mentre la strada si avvicinava sempre di più. “Che cosa?”
Era questione di secondi prima che ci sfracellassimo a terra. Ma Nick non sembrava rendersene conto. Guardò in basso.
“Dobbiamo andare più veloci!” urlò guardandomi, come se io avessi potuto fare qualcosa al riguardo. “Abbracciami!”
“Che cosa?!”
“Abbracciami, così cadremo più velocemente!”
Era la cosa più pazza che avessi mai sentito, ma era anche l’ultima cosa avrei mai sentito, per cui lo feci.
La caduta durò ancora qualche secondo, l’aria mi sferzava il volto. Nick, alle mie spalle, era teso. Guardava suo padre con attenzione, si rilassò solo quando lo superammo. Io tenevo lo sguardo fisso sulla strada. Era questione di una manciata di metri, ormai. Sentii Nick tremare e lo abbracciai più forte, pronta all’impatto.
“Ora!” Ringhiò lui puntando la bomboletta verso terra.
D’improvviso, un’ondata di vento polare mi bruciò la schiena. Un vortice di migliaia di fiocchi di neve uscì dalla bomboletta di Nick e andò a formare una soffice cunetta a terra. Ci piombammo dentro.
Risi. Risi non appena compresi il piano di Nick, risi e mi lasciai che la neve mi bagnasse le braccia, i capelli e non avrei potuto  essere più felice. Nick ,accanto a me, sembrava frastornato, tremava, mi guardava, ma non sembrava riconoscermi.
“Siamo vivi!” gli urlai in faccia “Vivi!”
Lui annuì. Si voltò in tempo per vedere suo padre schiantarsi nel cumulo. A quel punto, Nick mutò espressione e scoppiò a ridere così forte da cadere all’indietro.
“Lo siamo!” esultò, alzandosi in piedi e cadendo un secondo dopo. Nella confusione della caduta aveva perso le stampelle. “Siamo vivi Siena!” mi attirò a sé e cercò di sollevarmi in aria.  Risi ancora più forte e le risate si mischiarono alle lacrime.  Il sollievo divenne ansia, quasi isteria. Per quanto ancora sarei riuscita a sfuggire alla morte?
Abbracciai Nick tentando di calmarmi, ma tremavo.  Attorno a noi le macchine sfrecciavano ad una velocità impressionante, nessuno sembrava essersi accorto di noi.
“Che cos’era quella?” Domandai, accennando alla bomboletta.
Lui scosse le spalle “Era un esperimento a cui aveva lavorato mio padre un po’ di tempo fa. Avrebbe dovuto produrre tempeste di neve per attirare il big foot, ma non si è mai andati oltre il prototipo”
“Beh, qualunque cosa fosse, ci ha salvati” lo fissai “tu ci hai salvati Nick”
Lui tossì imbarazzato, ma una luce orgogliosa brillava nei suoi occhi. “E’ stata Rosa a darmelo”  borbottò  
A quelle parole, sentii il mio cuore farsi pesante.
Ma il padre di Nick ci interruppe. “Sei stata tu” sibilò indicandomi.
Io indietreggiai.
“Sei stata tua farci cadere! Come hai iniziato a canticchiare, io mi sono sentito strano ed un secondo dopo eravamo in caduta libera!” Muoveva le mani come se non potessi crederci, scuoteva la testa e teneva gli occhi fissi nel cielo.
Non capivo cosa volesse, ma mi sentivo in pericolo. Nick, accanto a me, tentò di alzarsi.
“Sei ancora più potente di quello che credevo!” esclamò il padre, estraendo una specie di scatolina blu dalle sue tasche -I Grace erano pieni di risorse- “Per questo non correrò il rischio di perderti una seconda volta”
Toccò la scatolina e un ronzio sinistro si diffuse nell’aria.
“Quella è una pistola elettrica!” urlò Nick, agitandosi. Qualcosa, nel suo tono, mi fece sospettare di essere in pericolo. 
“Non ti preoccupare, figliolo. La stordirà e basta, ma non possiamo permetterci il lusso di un altro giochino come quello di prima, vero?” continuò sorridendomi.
Rabbrividii. “Lei è pazzo”
Lui si immobilizzò, la mano che reggeva la pistola tremò. “Pazzo?” sibilò “Pazzo io? Io che credevo in te?”
Nick, accanto a me, mi sfiorò il polso. “Scappa, capo”
“Pazzo!” gridò il padre di Nick ed il suo grido mi perforò il cuore  “Visionario, semmai, ma pazzo mai. Io sono il più grande scienziato di tutti i tempi! E tu, tu sei il mio biglietto di riscatto. Vieni qui, piccola” proseguì, brandendo la pistola elettrica “Non sentirai tanto dolore, te lo prometto” E prima che potessi replicare, Aldobraldino si lanciò su di me.
“Scappa Siena!” urlò Nick nello stesso istante, frapponendosi tra me e suo padre.
Lo vidi, lo vidi spiccare il salto e chiudere gli occhi, vidi lo sguardo di suo padre passare dalla follia all’incredulità. Vidi la pistola bruciare il petto di Nick, sentii un ronzio fastidioso diffondersi  nell’aria.
Nick cadde a terra, esamine.
Suo padre si fermò.
Lo guardò.
Poi, iniziò a tremare.
Tentò di gridare, ma la voce gli morì in gola, si guardò le mani e alla vista della pistola, sobbalzò e l’allontanò da sé.
Mi guardò. Non sembrava vedermi. Iniziò a piangere, nascose il volto nel petto del figlio.
“Nick” chiamò disperato “Nick …”
Le lacrime rigavano il suo volto e bagnavano la maglia di Nick. Suo padre tremava, mentre le persone attorno a noi iniziavano a fermarsi, urlare, bisbigliare. Qualcuno chiamò la polizia, altri l’ambulanza.
“Avevo regolato la pistola ad un livello troppo alto … era regolata per lei” singhiozzava “Per lei …”
Le lacrime mi pungevano gli occhi, ma cercai di respingerle. Allungai una mano verso quella di Nick e gliela strinsi. Fu allora che sentii qualcosa di sottile tra le sue dita fredde. La presi e con dolcezza, la guardai. Era un foglietto bianco, spiegazzato, di quelli che solo poche ore prima avevo trovato in camera sua. Nel centro, a chiare lettere, si leggevano due parole: Ground zero.
Sobbalzai al ricordo del passaggio e del mio mondo, al ricordo di una vita che non mi era mai sembrata più lontana.
Ma Nick aveva creduto, aveva creduto fermamente in quel piano ed in me, aveva fatto la tacita promessa di riportarmi a casa e aveva dato la sua vita perché io potessi salvarmi.
Ricordai le parole di Bianca in un vortice confuso di emozioni, ricordai cosa aveva detto di quel mondo e come mio padre avesse voluto tenermi lontana, anche a costo di sacrificare il suo popolo. Per la prima volta in vita mia, lo vidi per quel che era. Per la prima volta, vidi mio padre come un uomo e non come un eroe. Riconobbi nel suo sguardo fiero e nel suo passo deciso, l’ombra della paura e dello sbaglio. Mio padre, il re del mio mondo, il valoroso guerriero, non era altro che un uomo. Un uomo che aveva compiuto scelte sbagliate e che ,per certi versi, era simile al padre di Nick.
Ma fu quest’ultimo pensiero a darmi la spinta necessaria.
Dovevo cambiare le cose.
Lo dovevo al mio popolo e lo dovevo a Nick.
Dovevo tornare a casa.
A casa avrei aggiustato tutto.
Casa era dove le cose si sistemavano.
Casa era dove sarei stata salva.
Dove i miei genitori sarebbero stati salvi.
A casa sarei stata al sicuro.
Dovevo tornare a casa.
Mi alzai e strinsi forte il foglietto, poi, malferma sulle gambe, corsi via di lì.
 
Corsi a perdifiato per le strade di New York. Avevo un vuoto allo stomaco che mi intimava di non fermarmi. Superai vie, persone, palazzi. Le vedevo scivolare accanto a me come ombre indistinte. Se mi persi, non lo ricordo. So solo che a un certo punto, quando ormai i polmoni erano sul punto di collassare e la gola mi bruciava ad ogni respiro, sbucai su di una piazza aperta e densa di tristezza. E capii di essere nel posto giusto. I volti delle persone portavano con sé i segni inequivocabili di un lutto. I bambini non correvano, le madri non sorridevano, i padri non richiamavano. Tutti tenevano lo sguardo basso, le mani intrecciate, si muovevano in silenzio o parlavano sottovoce. Passavano accanto ad una rete metallica e lasciavano cadere fiori o biglietti. La neve ricopriva tutto, cercava di mascherare anche quelle immense macerie che erano molto più visibili ora, di quando avevano svettato su tutte le loro teste. Con cautela mi avvicinai. Avrei desiderato avere qualcuno accanto a me per avere la certezza di essere viva, ma l’unica cosa che mi accompagnava era il biglietto di Nick e lo strinsi con tutte le mie forze. Cercai di individuare dove sarebbe apparso il passaggio, provai a concentrarmi. Sperai che un segnale, un bagliore o un suono, mi avrebbero aiutata, ma non sentii niente. Intanto, le prime stelle erano apparse in cielo. La piazza iniziò a svuotarsi, ma rimanevano ancora molte persone. Per lo più, stavano immobili, di fronte alla rete e la fissavano. Fissavano cosa c’era dietro, le macerie. Mi resi conto che, come me, erano alla ricerca di qualcosa. Qualcosa che non volevano rassegnarsi a lasciar andare. D’improvviso un movimento attirò la mia attenzione. Mi voltai ed avvertii un sibilo che mi fece accapponare la pelle. Sobbalzai, ma non distinsi nulla di strano. Sbuffai e tornai a concentrarmi sulle macerie.
Fu proprio allora che la vidi.
Stava seduta su un pezzo di cornicione e mi guardava. I suoi occhi fiammeggiavano di rabbia. Una rabbia antica che già una volta aveva divorato il mondo. Era più grossa delle altre volte, il corpo più snello ed il viso più tondo. I capelli ricadevano morbidi sulle sue spalle fino a sfumare nella gonna, nella mani, in una nebbia densa come la notte.
Era bella ed immensamente spaventosa.
Tentai di gridare, ma la voce mi morì in gola.
L’ombra mi sorrise.
Un sorriso diabolico che rischiò di uccidermi in tanti modi. Puntò le mani sulla roccia e con un movimento aggraziato si avvicinino a me. Prova ad indietreggiare, ma una forza invisibile mi inchiodò sul posto.
 L’ombra fissò il suo sguardo nel mio e fu come bruciare dall’interno.
Caddi e terra e sentii l’aria mancarmi. Lei sorrideva e più il suo sorriso si allargava, più io sentivo il mio cuore fermarsi. Un fuoco inestinguibile scorreva nelle mie vene, faceva ribollire il mio sangue, avviluppava le gambe, le braccia, la gola, i capelli. Cercai conforto nella neve, la strinsi, la bevvi, me  la passai su tutto il corpo, ma quella si sciolse un attimo dopo. Iniziai a sudare, tentai di oppormi a quella fiamma, ma non riuscivo a pensare chiaramente.
 Ecco perché quando sentii una voce chiamare il mio nome, quando mi sembrò di distinguere Maria tra i milioni di puntini che danzavano nei miei occhi, pensai di stare sognando. Rantolai qualcosa, ma dal sguardo capii che vedeva anche lei l’ombra e come me, ne era spaventata. Tentai di andarle in contro, ma non riuscii. Lottavo contro le fiamme, ma era una resistenza sempre più disperata.
Poi, proprio quando mi ero sentita vicino alla fine, l’aria tornò ad accarezzare il mio viso, nei miei polmoni. Sentii il fuoco abbandonarmi e la neve stringermi dolcemente. Gradualmente i miei occhi tornarono a vedere, i miei muscoli a rilassarsi. Mi guardai attorno e incontrai lo sguardo di Maria. Era in piedi, tremante e teneva un coltello tra le mani, ma era lei.  Davanti a me.
“M-maria …” chiamai.
Lei scosse la testa e rinfoderò il coltello. Ero felice di vederla. Più che felice e se ne avessi avutole forze, l’avrei abbracciata, ma riuscivo a malapena a muovermi. Lei sembrò accorgersene.
“Riesci a muoverti?”
Annuii, ma quando provai a rialzarmi, emisi un gemito di dolore.
“Lascia che ti aiuti” ordinò dolcemente e con un movimento veloce, si avvicinò e  mi rimise in piedi. “Appoggiati a me finché non recuperi le forze”
 
Quando mi fui totalmente rimessa, iniziarono le domande. Ma io non avevo risposte. Non sapevo dove fosse il passaggio, né cosa fosse quell’ombra, non sapevo dov’era andata, né se ne fosse davvero andata. Sapevo solo che Nick era morto, che Nico e Dinah mi avevano abbandonata e che io volevo tornare a casa. Le mostrai il biglietto di Nick e le spiegai come ci fosse arrivato. Lei ascoltò tutto il tempo, lo sguardo fisso sulle macerie.  
“Sai perché sono qui?” domandò.
Io seguii il suo sguardo. “Perché vuoi farti perdonare”
“Ho bisogno di ottenere il loro perdono, in qualche modo. Devo riuscirci. Solo così potrò scacciare i miei fantasmi”
“Credo che sia la battaglia più dura di tutte” sussurrai “E che non si vinca mai del tutto”
Lei mi lanciò uno sguardo indecifrabile.
Io mantenni lo sguardo sulle macerie. “Significa che mi aiuterai?”
“Sì”
Eravamo vicine. E per un attimo, mi sembrò di riconoscere il suo profumo. Ma nello stesso istante Maria si allontanò ed io tornai ad osservare la piazza. Era semideserta ormai.
“Manca poco alla mezzanotte” mormorò Maria.
Ed il passaggio non si era ancora rivelato.
Cercai conforto nel suo viso.  
Lei si limitò a stringersi nelle spalle. “Alle volte, bisogna solo avere fede”
Non risposi e tornai ad osservare le macerie. Fissai la mia attenzione sul cornicione su cui l’ombra era apparsa poco prima e un brivido mi attraversò la nuca.
Un’intuizione improvvisa.
Era quello il posto, il portale sarebbe apparso lì.
Inconsciamente mi aggrappai alla rete.
“Siena?” domandò Maria.
“E’ lì”
Lei non rispose subito. Aguzzò lo sguardo e cercò un segno che confermasse la mia teoria, ma non lo trovò.
“Ne sei sicura?
Io mi voltai e la guardai negli occhi.
Non ne ero solo sicura. Lo sentivo. Come se quel detrito mi avesse chiamata. Ogni singola particella del mio corpo gridava che quello era il posto, che lì sarebbe apparso il passaggio. Era una sensazione. Come quando rileggi un libro che avevi dimenticato da molto tempo e ti accorgi di sapere cosa succederà nel capitolo dopo; era un meccanismo di cui non dubitavo.
“Sì”
Nessuna di noi due aggiunse nulla, Maria si limitò a sollevarmi sulle spalle e farmi scavalcare la rete.
 
Dopo molte acrobazie riuscii a cadere dall’altra parte. Maria, alle mie spalle, tentò di arrampicarsi, ma i fori erano troppo piccoli e i suoi stivaloni da meccanico troppo grossi. 
“Non riesco” borbottò “Devo trovare un’altra entrata, magari se vado …”
“No!”
“No?”
Attese, in silenzio, lo sguardo curioso.
“Ho paura” risposi infine “Rimani qui”
Lei annuì, la bocca curvo in un’espressione di protezione. Io la guardai ancora per qualche secondo, poi, con un movimento secco, prima di cambiare idea, iniziai a correre. Il cornicione, visto da vicino, assomigliava più ad un davanzale. Era grigio, rotto per metà e annerito dal fumo, ma sapevo che quello era il posto. Iniziai a girarci attorno. Più la mezzanotte si avvicinava, più mi innervosivo. Facevo saettare di continuo il mio sguardo da lui a Maria, da Maria a lui. Più volte mi venne voglia di toccarlo, ma qualcosa, nella mia testa, mi diceva che era meglio  lasciare perdere.
Infine, arrivò la mezzanotte. Il lontananza sentii delle macchine strombazzare, dei ragazzi ridere. Vidi alcune luci spegnersi, altre accendersi. Immaginai che proprio in quel momento milioni di genitori stessero depositando i regali di Babbo Natale e promisi a me stessa che quella sarebbe stata l’ultima volta. Un’energia improvvisa, inebriante si impossessò di me. Sentii il mio corpo rilassarsi, rivitalizzarsi ad ogni tocco. Le ferite, il fuoco distruttivo dell’ombra sparirono, la fatica abbandonò il mio corpo, la paura, la diffidenza vennero annientate. Qualcosa di molto più bello, molto più potente scorreva nelle mie vene, era come acqua, gocce di rugiada che lavavano via il dolore. Era la magia del natale. La sentivo, la riconoscevo, come se fossi stata appena risvegliata da un lungo sonno. Sentivo che era parte di me, che lo era sempre stata, solo che quella sera bussava più forte. Chiusi gli occhi e mi lasciai avvolgere. Altre migliaia di persone, in tutto il mondo, stavano facendo lo stesso. Pensai che qualcuno, per la prima volta da molto tempo, si permetteva di credere di nuovo nei miracoli, in una persona, in se stessa e ne fui felice. Il mio popolo aveva bisogno di quella magia, il mio mondo ne aveva bisogno e io gliela avrei ridata. Delle immagini iniziarono ad ammassarsi nella mia mente, immagini sfocate, disordinate, scure che riguardavano quel mondo, la mia vita, un segreto che avevo nascosto così bene da dimenticarlo. Mi rividi da piccola, mi rividi a camminare per quelle stesse strade, per quella città. Rividi le torri gemelle ancora in piedi, sentii una mano stringere la mia, una risata sbiadita colorare quel mondo, una voce sottile chiamarmi, insegnarmi quell’alfabeto. Cercai un volto, ma non lo trovai. C’era solo uno sguardo, un paio di occhi scuri come la notte. Gli occhi di Dinah.
Rabbrividii.
Quelle non erano immagini, ma ricordi. Li sentivo spingere, sentivo il mio cuore battere, la magia del Natale cullarmi e smisi di opporre resistenza. Fu come aprire un argine, i ricordi presero a scorrere ad una velocità insostenibile. Ricostruii tutta la mia infanzia, tutto quel pezzo di vita che non ero mai riuscita a riempire, d’improvviso si arricchì di emozioni, posti, sapori.
Avevo tre anni e un vestitino rosso, rincorrevo le foglie di Central Park mentre ingiallivano e si staccavano, seguivo il loro volo aggraziato e soffiavo affinché non si posassero mai a terra. Dinah accanto a me, rideva e saltava nelle pozzanghere. Una voce di donna mi chiamò da lontano, il mio nome, urlato con una dolcezza materna, mi voltai e la foglia era caduta.
Il ricordo cambiò. Ora avevo quattro anni, i capelli rossi bagnati ed ero senza Dinah. Era sera a New York e faceva caldo, l’Estate non avrebbe dato tregua fino a Ottobre. Stavo sdraiata sul letto a pancia in giù e sentivo una voce, alle mie spalle, cullarmi dolcemente mentre delle mani gentili mi intrecciavano i capelli. “Sei bellissima, stellina” Mormorò la voce, ma prima che potessi riconoscerla, il ricordo cambiò di nuovo.
Era Inverno. La neve cadeva e ricopriva tutto. Mi affacciai ad una finestra e osservai il vetro appannarsi.
“E’ una magia!” strillò Dinah divertita, ma prima che potessi ribattere, qualcuno mi strappò bruscamente da lì. Un lampo, una donna che veloce, di spalle, chiudeva le tende.
“State lontane da lì, bambine. Stasera siamo in pericolo”
“Ma è Natale” protestai “Niente può andare storto a Natale”
Lei sospirò “Vorrei avessi ragione, stellina”
Nello stesso istante, l’aria si fece rarefatta e una donna apparve nella stanza. Il corpo era snello, il volto aggraziato, ma sfocato, i capelli dei colori dell’autunno.
“Sorella” salutò e l’altra donna si strinse con forza alla tenda.
“Sono qui solo per dirti che è tardi, ormai” Continuò “Sanno dove sei e stanno venendo a prenderti. Arrenditi finché puoi”
“Mai”
La donna sospirò “Dammele, dammi mia figlia e mia nipote”
“Piuttosto la morte”
“Ci sei molto vicina”
A queste parole lei sobbalzò “Lui oserebbe farmi questo?” sibilò “A me? Alla madre di …”
“Non sei più solo una madre” la interruppe l’altra “Ora sei anche una traditrice”
Lei ringhiò, un suono selvaggio e oscuro che mi fece rabbrividire “Che vuole fare? Vuole togliermi mia figlia?”
“Non lo so, ma non lo escluderei. E’ il re, può fare quello che vuole”
Lei rise, una risata disperata che graffiava la pelle, poi si avvicinò a me e mi afferrò.
“Che vuoi fare?” domandò preoccupata sua sorella, muovendo un passo verso di noi. Ma l’altra non la sentiva, rideva e mi stringeva sempre più forte. “Farò quello che voglio ”gridò “Gli toglierò la stessa cosa che lui vuole togliere a me”
Non  farlo, sorella!” La pregò l’altra.
D’improvviso qualcuno bussò violentemente alla porta e la voce di mio padre ordinò di aprire. Sentii la donna iniziare a tremare, implorare di stare indietro, di lasciarla stare, ma le sue preghiere furono vane. Mio padre sfondò la porta ed entrò. Non era da solo, con lui c’era un manipolo di guardie ed un altro uomo. Era più grande di mio padre, più alto e grosso. Ma aveva gli stessi occhi verdi, gli stessi capelli rossi e ispidi, gli stessi tratti duri e secchi. Si muoveva rapidamente e i suoi occhi studiavano la stanza con una brutalità urtante, eppure non c’era rabbia nel suo volto, ma preoccupazione. Quando vide Dinah sorrise sollevato, poi incontrò gli occhi dell’altra donna, di sua moglie e il volto assunse i contorni del dolore.
Quell’uomo era mio zio.
“Tu …” sibilò mio padre, indicando mia zia, negli occhi la luce del tradimento “Che ci fai qui?”
“Sono venuta per …”
Ma sua sorella fu più veloce “E’ qui per Dinah” s’intromise “E’ qui per Dinah e per aiutarmi con sua nipote”
“No” balbettò mio zio, cadendo in ginocchio, vidi le spalle dei miei genitori curvarsi sotto il peso del tradimento
“Oh sì” esultò l’altra donna “Invece sì. Lei ha sempre saputo dove mi trovavo. Sempre. Ma non ve lo ha detto, ha preferito proteggermi. Vi ha tradito. Esattamente come me”
Mia zia cercò lo sguardo di suo marito, ma non lo trovò. Mio padre la fissò ed in quello sguardo le sputò addosso tutta la sua rabbia. Lei sostenne il suo sguardo, ma le tremava il labbro.
Ma quando le parlò, la voce era bassa, il tono sommesso. Non c’era rabbia, ma tristezza. “Perché?”
Mia zia scosse la testa. Il volto era oscurato dalla penombra della stanza, ma vidi della lacrime luccicare sulle sue guance.
“E’ vero?” continuò lui “L’hai sempre saputo?”
Sapevo cosa voleva. Cosa volevano tutti loro. Una smentita. La muta preghiera che sua sorella avesse mentito, che lei li avesse preceduti per caso o per fortuna. Tutto era meglio della verità. Ma mia zia stava piangendo, teneva la testa china e aveva ferito l’uomo che amava. Non aveva più le forze di mentire.
“Sì” rispose.
Sua sorella scoppiò a ridere, di una risata diabolica e spietata e finalmente allentò la presa su di me facendomi cadere.
Fu un attimo, poi il buio.
 
Lancia un urlo e rinvenni ansimando. Nella mia mente i ricordi si ammassavano e aumentavano di velocità, perdendo di significato. Maria, dall’altra parte della rete, mi chiamò, ma non le risposi.
Io ero già stata sulla Terra.
Qualcuno, per chissà quale ragione, mi aveva strappata alla mia famiglia e mi aveva portata lì. E così anche con Dinah. Mi appoggiai al cornicione, ma sobbalzai un secondo dopo. Maria era sparita.
“Maria!” chiamai allarmata, cercandola con lo sguardo, mentre un brutto presentimento si faceva largo in me. Corsi verso la rete e urlai più forte. Ma lei sembrava sparita.
“Maledizione!” imprecai, tirando un calcio alla rete e nello stesso istante avvertii una presenza alle mie spalle. Non ebbi bisogno di voltarmi. Riconobbi il fuoco che incendiò la mia schiena. L’ombra era dietro di me e mi aspettava, ma stavolta non era sola.
“Siena …” rantolò Maria. 
Senza fiato, mi voltai. 

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Capitolo 14
*** Capitolo 13- La conta della morte ***


CAPITOLO 13
LA CONTA DELLA MORTE
“Lasciala!” gridai e sperai di riuscire a mascherare il tremito nella mia voce.
L’ombra rise, di una risata grottesca e aumentò la stretta attorno al pallido collo di Maria.
Lei era senza forze, il viso sfigurato dal dolore, lo sguardo soffocato da un incendio che ingoia tutto.
“La ucciderai!” provai disperata. Mi scagliai contro di lei, ma non riuscii neppure a scalfirla. Le passai attraverso e caddi dall’altra parte.
Allargai gli occhi, mentre la paura si fece strada in me. Come puoi vincere un nemico che non riesci neppure a toccare? Stupidamente, cercai il pugnale di mia madre.
L’ombra mi osservò e strinse gli occhi, poi schioccò le dita e nella sua mano brillò il mio pugnale.
“Eri tu” sibilai.
Balzai in piedi e cercare di afferrarlo, ma veloce come era apparso, scomparve.
Un pensiero si fece strada in me.
Nel consegnarmelo, mia madre aveva detto che quel pugnale mi sarebbe servito. Mi chiesi se intendesse quello. Se quel pugnale fosse un’arma più potente di come appariva.
Se fosse l’unica arma in grado di ferire l’ombra.
Maria rantolò. I suoi capelli stavano diventando bianchi, il volto si stava scavando.
“Lasciala, maledizione! Prendi me, ma lascia lei! Lei non c’entra niente!” Piangevo e gridavo. Sentivo la frustrazione crescere in me e mi resi conto di non provare più paura.  Ma disperazione. Dovevo salvarla.
A qualunque costo.
Con un grido, balzai addosso a Maria e cercai di liberarla da quella morsa. Aveva lo sguardo completamente annebbiato, perdeva bava dalla bocca.
Per un attimo, l’ombra sembrò allentare la presa su Maria.
Ma fu troppo poco.
Mi spinse con un movimento secco. Caddi a terra e sentii il mio braccio andare a fuoco.
Digrignai i denti e trattenni un urlo.
Avevo una sola possibilità.
Non ero mai stata così certa di qualcosa in tutta la mia vita.  
“Ascoltami ” tuonai “Farò qualunque cosa per salvarla. Qualunque
Ed era vero. Anche se non sapevo bene cosa avrei potuto fare.
“Ma se tu adesso la lasci andare, io starò ai tuoi ordini”
L’ombra sembrò riflettere. Nella sua mano, Maria appariva più piccola. Per un secondo, il suo sguardo mi ricordò quello di Nick. E una lacrima mi rigò il volto.
“Tu vuoi qualcosa da me” continuai “Giuro che ti darò tutto, ma prima devi lasciarla andare”
Nick era morto per colpa mia. Non avrei permesso che succedesse un’altra volta.
“Allora?” ringhiai minacciosa.
L’ombra sorrise, un sorriso che mi divorò l’anima.
Con un gesto noncurante liberò Maria.
Le corsi incontro. Era pallida, esamine, il suo corpo era scosso da spasmi, ma era viva. Con sollievo, osservai il suo viso colorarsi di nuovo. Le presi una mano. “Scusami” sussurrai.
L’ombra mi toccò su una spalla ed io sentii il mio corpo bruciare nuovamente, ma ero troppo felice per aver salvato Maria e il dolore s’acquietò.
Mi voltai.
L’ombra  teneva in mano il mio pugnale. Brillava colpito dai riflessi della neve. Mi ricordò di mia madre. Guardai l’ombra e lei guardò me.
Non ci fu bisogno di parole. 
“Va bene” acconsentii.
Lei non aggiunse altro. Gli occhi accesi da una scintilla malvagia. Aspettava.
Io guardai Maria. “Promettimi che non le farai nulla”
Lei annuì e tracciò una croce nera per aria.
Giuro.
“Bene” poi guardai il pugnale.
Una volta, mio padre mi disse che quando devi fare qualcosa di particolarmente difficile, basta contare fino a cinque e poi farlo. Così. Aveva detto. Ecco fatto. Aveva detto.
Io sorrisi disperata.
Almeno avevo salvato Maria.
Con mano tremante afferrai il pugnale.
Uno.
Non lo ricordavo così pesante.
Due.
Lo alzai ad altezza del cuore.
Tre.
Non avrei mai più rivisto il mio regno.
Quattro.
Strinsi più forte il pugnale.
Poi premetti contro la carne.
Non avrei mai più rivisto casa mia.
Cinque.
 
“Ferma!” un urlo squarciò l’aria.
Sobbalzai e aprii gli occhi.
L’ombra sembrava piuttosto contrariata e mosse un passo in direzione della voce.
Rosa mi raggiunse nello stesso momento. Aveva il fiatone e gli occhi le brillavano per la paura. “Ferma!” gridò di nuovo, afferrandomi per i polsi. “Grazie agli Elfi  sono arrivata in tempo, grazie, grazie …” mi tirò indietro i capelli, mi accarezzò il volto “Sei viva”
Il suo sguardo era così intenso che non riuscii a sopportarlo.
“No …” balbettai. “Ho promesso”
Lei spalancò gli occhi. “No! Non farlo, principessa, tu non conosci tutta la storia, lei non è …”
Ma nello stesso istante l’ombra si avventò contro di lei e la scaraventò lontano.
“Rosa!” urlai , correndole incontro, ma l’ombra mi sbarrò la strada.
“Lasciami passare!” urlai brandendo il pugnale e lei tentennò.
La guardai.
Era spaventata.
Aveva paura  del pugnale.
Lo strinsi più saldamente e glielo puntai contro.
“Fammi passare”
I suoi occhi brillarono d’odio, ma Maria tossì ed io mi distrassi. L’ombra ne approfittò e con un gesto deciso colpì la mia mano.
“No!” protestai aspettando un fuoco che non arrivò mai. Fissai la mia mano. Non bruciava. L’ombra sembrava più incredula di me e approfittai di quel momento per correre da Rosa.
“Rosa” chiamai, prendendole una mano “Rispondimi!”
Lei aprì gli occhi, sembrava affaticata, ma riuscii a trovare le forze di parlare. “Principessa …” mormorò “C’è una cosa che devo dirti, tu non sai …”
“Come stai?” la interruppi.
“Maria è …”
Ma prima che potesse finire la frase l’ombra si avventò su di me e sentii il mio corpo bruciare da dentro. Era come se il mio sangue si fosse trasformato in lava. Soffrivo ovunque, tranne che nella mano destra. Ogni organo, ogni osso, ogni cellula andava a fuoco ed io non potevo fare altro, non potevo pensare ad altro che a quell’incendio. Volevo scoppiare, liberarmi dei miei vestiti, della pelle.
Ma non lasciavo il pugnale di mia madre.
Sapevo che l’ombra avrebbe stretto fino a che non glielo avessi ridato, e volevo farlo, stavo per rompermi sotto il peso di quel fuoco, ma una piccola parte di me, l’unica ancora lucida, sapeva che quel pugnale era l’unica ragione per cui ero ancora viva.
Urlai e cercai di colpire l’ombra, ma il mio braccio tremava e la mia vista era annebbiata. Sentivo i sensi abbandonarmi. Dovevo continuare a stringere il pugnale. Ma era così difficile.
Provai il lancinante desiderio di lasciarmi andare alle fiamme. Non sentivo più alcun suono, non vedevo più nulla, il fuoco continuava a bruciare. Morire non era nulla di così brutto alla fine. Morire, in quel momento, mi sembrava un meraviglioso epilogo. Sentii il fuoco smettere di stringere lo stomaco, i polmoni, la gola fin quasi alle braccia. Sorrisi. Ora mancavano solo le mani, ora solo le dita.
D’improvviso una luce mi accecò.
Mi trovavo a casa, nel parco del mio castello. Era una giornata di sole e il vento soffiava gentile tra gli alberi spogli. La neve rifletteva delicatamente la luce dell’alba ed io ne ascoltavo gelosamente lo scricchiolio ad ogni mio passo.
Delle risate attirarono la mia attenzione.
Mi voltai.
I miei genitori erano lì. Lanciai un urlo e corsi nella loro direzione.
Potevo rivederli, abbracciarli di nuovo. Mi resi conto di quanto mi fossero mancati. Piangevo di felicità. “Sembra un sogno!” esclamai, correndo da loro.
E qualcosa si ruppe.
Mi guardai attorno.
Dov’era Dinah? E le altre persone? Cosa ci facevano i miei nel nostro giardino? Avevano dato fuoco al giardino.
Fuoco.
Bastò quella parola per svegliarmi. Con un urlo ritornai alla realtà e avvertii la morsa dell’ombra stritolare il mio corpo. Attorno a me il mondo tornò a prendere forma, colori, senso.
Mossi la mano destra per assicurarmi che il pugnale fosse ancora lì e mi resi conto di quanto fossi stata vicina alla fine.
Sospirai. Poi strinsi il pugnale con tutta la mia forza, il mio dolore e le mia lacrime. Mi impossessai del fuoco che mi bruciava dentro e lo scagliai contro il pugnale. Sentii l’ombra allentare la morsa attorno al mio polso e con un gesto veloce la colpii. Un brivido la percorse per intero e finalmente mi liberò. Quasi incredula, mi aggrappai all’aria con tutte le mie forze e lascia che la neve mi bagnasse completamente.
Rosa mi sorrideva, ma poi la sua espressione mutò. “Siena attenta!”
Mi scansai un secondo prima che l’ombra mi imprigionasse di nuovo. Rotolai di lato e la guardai. Era più piccola di prima. E stava molto più attenta alle mie mosse. Ma mi sottovalutava ancora. Mi guardava, ma  guardava molto di più il pugnale. Sorrisi.
Essere sottovalutati, in guerra, può essere una benedizione.
Urlai e con un balzo le fui addosso e iniziai a colpirla. Lei mi feriva, mi incendiava, ma ad ogni colpo che le infierivo, i suoi attacchi perdevano di potenza.
Alzai il pugnale per infliggerle il colpo fatale, ma nello stesso istante Maria mi guardò.
“Non farlo” sussurrò.
Tentennai.
“Non darle ascoltò!” urlò Rosa.
Confusa, mi distrassi e l’ombra ne approfittò per balzare addosso a Rosa.
“No!” urlai, ma Maria mi fermò.
“Dammi ascolto” borbottò, afferrandomi saldamente per le spalle “Lei ti avrebbe dato in pasto ai leoni, avrebbe permesso ai Grace di ucciderti, lei è la cattiva. Lascia che sia divorata dall’ombra. E’ la giusta punizione, principessa”
Fu quell’ultima parola a svegliarmi.
Maria non mi aveva mai chiamata ‘principessa’, fin dal principio aveva usato il mio nome.
Mi accorsi che era stranamente calma per essere una donna che aveva appena sfiorato la morte e che guardava l’ombra come si guarda un cane fedele.
D’istinto, strinsi il pugnale.
Ma prima che potessi capire meglio, Rosa urlò di dolore ed io vidi che stava sanguinando.
L’ombra l’avvolgeva completamente, lasciando scoperte solo le mani, che pendevano senza vita. Era questione di una manciata di secondi e sarebbe morta.
Stavo per correre da lei, ma qualcosa mi fermò.
Fissai Maria.
Sorrideva.
Le puntai il pugnale al collo.
E nello stesso istante l’ombra si fermò.
Ci guardò ed io guardai lei.  “Lascia andare Rosa o la uccido”
L’ombra sembrò combattuta e allentò la presa.
“Siena!” urlò Maria, la voce ferita. “Cosa stai facendo?”
Tentennai.
Non avevo mai puntato un’arma contro nessuno.
Il suo collo emanava un calore insopportabile.
Il mio braccio tremava.
Ci fu un secondo.  
Un secondo di calma dopo la tempesta.
In cui il mio sguardo si incrociò con quello di Maria.
Ed io presi una decisione.  
Balzai in avanti e prima che Maria riuscisse ad afferrarmi,  lanciai il pugnale nel petto dell’ombra, dove sperai si trovasse il suo cuore o qualcosa di simile.
“No!” gridò Maria, affondando le unghie nelle mie gambe.
Io aspettai.
Attimi che sembrarono ore.
Poi, si udì un lieve cigolio. Come di ghiaccio che si spezza.
E l’ombra scoppiò in mille schegge.
Divenne luce. Una luce accecante.
Lasciò andare Rosa ed mi precipitai verso di lei. Maria, alle mie spalle, scoppiò in urlo esasperato. Fu allora che avvenne la cosa più strana di tutta la giornata.
L’ombra non si volatilizzò come avevo sperato, ma si trasformò.
 In una persona.
La stessa che la prima sera avevo visto parlare con un’ombra, quella che mi aveva accolto in casa sua, che era scomparsa nel momento in cui eravamo stati attaccati dai piccioni-kamikaze, la stessa che aveva causato la caduta del nostro elicottero.
Bianca.
La guardai e avrei avuto così tante domande, ma lei non sembrava vedermi.
Aveva gli occhi annebbiati e con un sospiro, cadde a terra.
Guardai Rosa.
“Principessa” sussurrò.
 Le strinsi la mano. “Sono qui”
“C’è una cosa che devi sapere …” mormorò. Ogni parola era interrotta da un gemito. Vidi che perdeva sangue dal petto.
“Non ti affaticare”
“Maria ed io …” S’interruppe e sputò sangue “Noi siamo …”
Ma prima che potesse finire, un rumore sinistro attirò la mia attenzione. Mi voltai e con un brivido di sorpresa osservai gli occhi di Maria tingersi di rosso, i suoi capelli scurirsi, il volto impallidire, le gambe allungarsi fino a perdere consistenza. Busto e braccia si fusero insieme in un lungo e tetro abito nero. Un bagliore rosso si delineò attorno alla sua sagoma. 
Non era un’ ombra.
Potevo ancora distinguere il suo volto, le mani e il collo.
Ma non era nemmeno umana.
Ricordai la storia di Nico, della sua famiglia, di come tutto il suo villaggio fosse stato spazzato via dalla stessa terribile potenza.
E capii.
Non era un’ombra.
Era una strega.

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