Giù al Nord

di Dorabella27
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 - Premessa ***
Capitolo 2: *** 2- Capitolo 1 - Un messaggio della Regina ***
Capitolo 3: *** 3 - Capitolo 2: In udienza privata da Sua Maestà ***
Capitolo 4: *** 4- Capitolo 3: A very strange thing ***
Capitolo 5: *** 5 - Capitolo 4 - Giù al Nord? ***
Capitolo 6: *** 6- Capitolo 5: Notte alla locanda ***
Capitolo 7: *** 7- Capitolo 6 - L'Orfanello ***
Capitolo 8: *** 8 - Capitolo 7 - Il misterioso Monsieur D. ***
Capitolo 9: *** 9- Capitolo 8 - Incontro ***
Capitolo 10: *** 10_ Capitolo 9 - Il nipote di Madame de Rosemonde. E ... ***
Capitolo 11: *** 11- Capitolo 10 - Also sprach Girodelle ***
Capitolo 12: *** 12 - Capitolo 11 - Di visite inaspettate, omaggi e inviti a pranzo ***
Capitolo 13: *** 13- Capitolo 12. Pranzo a quattro, o della noia. ***
Capitolo 14: *** 14 - Capitolo 13 - Notte agitata, notti tranquille ***
Capitolo 15: *** 15 -Capitolo 14 - Scoperte ***



Capitolo 1
*** 1 - Premessa ***


Giù al Nord  
 
  1. Premessa 
Si stanno  rivestendo, piano, con un poco di imbarazzo. 
 
Lui si sta richiudendo la camicia, con quella espressione sottilmente triste che non lo abbandona mai, e le rivolge uno sguardo fugace, credendola assorta in altri pensieri, più dolorosi, rivolti a un altro, a un altro che sta oltre l’Oceano. 
Lei si sta infilando la giacca rossa della sua uniforme sopra la camicia, lo jabot già chiuso, gli occhi bassi, di tre quarti, seduta sul letto che hanno condiviso quella notte. 
Improvvisamente, però, si gira verso di lui che le dà le spalle, ma in modo fugace, come a vedere a che punto della vestizione  mattutina sia André  ... e allora lo vede, mentre lui, a sua volta, la scruta furtivo: è solo un attimo, ma i loro sguardi si incrociano. 
Poi, lei torna, come sempre, a volgergli le spalle, gli occhi bassi, concentrata, in apparenza, sui bottoni dell’uniforme, mentre in realtà si chiede come mai siano arrivati a quello ... a quell’intimità imprevista, la notte appena trascorsa. E, soprattutto, si chiede che cosa ormai debba aspettarsi da questo viaggio a Lille ... 
Perché mai si è lasciata coinvolgere, pensa Oscar? 
Ma poi,  si domanda, poteva forse di dire di no? No, certo che no. 
Non avrebbe proprio potuto. 
Non poteva proprio fare altrimenti. 
 
...continua 
 
Si ringrazia per la fan art Galla88, qui al topo del top
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Ma come è successo che siano finiti così Oscar e André? 
Che cosa è accaduto di preciso la notte precedente? 
E perché stanno andando a Lille? 
Prestissimo saprete tutto: per una volta, ho voluto iniziare in medias res. 
Mi perdonerete il titolo, scientemente rubato a un film molto divertente, ambientato proprio dove farò avventurare i nostri beniamini; ma la tonalità generale del mio racconto sarà diversa: decisamente.....dark? Mah! Nera? No...diciamo
nera con venature di rosa.
A presto!!!! 
D. 
 

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Capitolo 2
*** 2- Capitolo 1 - Un messaggio della Regina ***


2- Capitolo 1.  Un messaggio della Regina
Era accaduto quattro giorni prima: Sua Maestà la Regina l'aveva fatta chiamare per un colloquio privato.
Oscar stava esaminando con Girodelle le note di comportamento delle nuove reclute della Guardia Reale: la mano chiusa davanti alle labbra, l'espressione pensosa, aggrondata, mentre cercava di intravedere, nelle scarne note degli ufficiali inferiori, in quale dei giovani da poco arruolati si celassero le qualità necessarie a un futuro capitano, a un tenente, o a un ufficiale superiore.
Girodelle, seduto di fronte, alzava ogni tanto lo sguardo sul suo Comandante, bene attento a non intercettare quello di lei: come avrebbe potuto incrociare l'azzurro cristallino degli occhi di Madamigella, senza abbassare i suoi, subito dopo, imbarazzato, e senza confessare che, da quando le loro lame si erano incrociate, oltre dieci anni prima, in quella radura che sapeva di primavera e di fiori di campo, il suo cuore era rimasto impigliato fra le lunghissime ciglia arcuate del Colonnello Jarjayes?
Allo stesso tempo, pensava con stizza che, ormai da anni, non capitava più di collaborare attivamente con Madamigella Oscar in qualche indagine, come era accaduto, per esempio, al tempo della congiura sventata contro i principi reali, ormai da qualche tempo insediati sul trono.  Ma se la sua familiarità con Madamigella Oscar sembrava ormai essersi impantanata, ferma in uno stallo da cui non sapeva come uscire, il suo attendente, invece, quel Grandier, sembrava essere con lei in una familiarità assoluta: addirittura, una volta, l'aveva colto  - quel villano ripulito! - accelerare impercettibilmente la sua andatura, in modo da ridurre lo spazio di quel mezzo passo che sempre lo separava dal Comandante de Jarjayes, in modo che il braccio di lei sfiorasse la spalla di lui[1]. Li aveva osservati bene, oh, fin  troppo bene, muoversi così, e bordeggiare la piazza d'arme, schiumando di rabbia mentre, dalla finestra, vedeva la donna che amava sfiorata da quel plebeo, che non chiedeva scusa, non rallentava, - segno che si trattava di un gesto tutt'altro che fortuito, ma, anzi, abituale e come concordato - mentre nemmeno Madamigella Oscar, horribile dictu!, si ritraeva.
E allora, aveva iniziato a riflettere, anzi, a rimuginare; e rimuginando e ripensando era arrivato alla conclusione che quel contatto indebito, quello sfioramento apparentemente casuale, ma, in realtà, con tutta chiarezza voluto e concordato, doveva far parte di un alfabeto tutto loro, che, nei loro anni insieme, Madamigella Oscar e il suo attendente dovevano avere elaborato per comunicare senza parole. E che cosa avrebbero avuto mai da comunicarsi segretamente un Colonnello e il suo attendente, ma anche una padrona e un servo, una donna e un uomo, cresciuti insieme, vissuti sotto gli occhi di tutti, e ora impegnati ogni giorno a Versailles, il luogo, dove più di ogni altro, le parole, la loro inflessione, i gesti, ogni minima sfumatura delle espressioni del viso venivano analizzati, scrutati, divinati, commentati da un platea infinita, perennemente pettegola, e malevola, che costituiva al contempo il soggetto e il pubblico dello spettacolo che si andava interpretando ogni giorno?
Ovviamente, qualche accordo poco limpido, per abboccamenti segreti, incontri amorosi, sicuramente, che si tenevano - e qui la fervida fantasia di Victor Clément de Girodelle, eccitata dalla gelosia e dall'amore senza speranza e da lunghi anni compresso, si scatenava  senza posa - nelle scuderie di Palazzo Jarjayes, negli angoli bui dei corridoi meno frequentati della Reggia, nelle radure sulla via del ritorno, nel piccolo appartamento riservato a Versailles al Comandante delle Guardie Reali, appartamento che era proprio accanto al suo, per cui Girodelle si sorprendeva, a volte, ad appoggiare l'orecchio, a volte con l’ausilio di un bicchiere di cristallo di Boemia, alla parete di una delle stanze che gli erano state assegnate, e che la divideva dagli appartamenti del Comandante, per cercare di cogliere ....che cosa? Parole infuocate, sospiri, gemiti... e invece, niente, non aveva mai colto niente, se non l'eco della bella voce bassa e profonda di Grandier che leggeva ad alta voce Orazio o Platone (perché conosceva il latino e il greco, quel fannullone!), alternandosi con la voce musicale e quieta di Madamigella Oscar; oppure, li sentiva ridere, dopo che Grandier aveva letto qualche passaggio di Rabelais : e che risata franca e argentina aveva, Madamigella Oscar!
Perché non rideva mai, con lui?
Ma, del resto, si disse Girodelle, facendo un'amara autocritica, quando mai lui aveva saputo fare una battuta di spirito di fronte al suo Comandante?
In parte, rifletteva, il senso dell'umorismo non faceva parte della pur ricca dotazione di virtù mondane di cui la Natura e l'educazione impeccabile che gli era stata impartita lo avevano fornito; in parte, a lui, di sicuro, non capitava mai di intrattenersi con Madamigella Oscar su questioni frivole, o che non avessero una stretta attinenza con i doveri connessi con il loro incarico alla Guardia Reale: inoltre, il Comandante de Jarjayes non amava particolarmente le occasioni mondane, e, quando capitava che, per puro senso del dovere, partecipasse a balli e feste nei giardini della Reggia, sfoderava sempre un cipiglio severo e un austero mutismo che scoraggiavano ogni genere di conversazione. Né, del resto, nonostante oltre due lustri passati a lavorare a stretto contatto, era mai accaduto che il Vicecomandante delle Guardie Reali si trovasse da solo a solo con Madamigella Oscar, nel suo boudoir cinese, nella dimora dei conti Girodelle, a sorbire una cioccolata leggendole Ovidio o Pierre de Ronsard.
Sovrastato e come travolto dall'ombra di quelle meste riflessioni, il Maggiore de Girodelle sospirò; e il suo sospiro venne intercettato da Madamigella Oscar, la quale levò gli occhi dalle carte che tanto la assorbivano.
"Girodelle, che vi succede? State bene? Siete stanco? Gradireste una pausa?", chiese sollecita, con una espressione sottilmente preoccupata che intenerì l'interlocutore ("Si preoccupa! Si preoccupa per me! Quanto è sollecita e cara!"); ma la risposta di Girodelle non fece in tempo ad arrivare, perché in quel momento un paggio reale bussò alla porta dell'ufficio del Comandante de Jarjayes, e dopo l' "AVANTI!" un poco brusco di Madamigella Oscar, il paggio entrò recando su un vassoio d'argento un biglietto sigillato con la ceralacca. "Da parte di Sua Maestà la Regina per il Colonnello de Jarjayes", proferì il paggio, con austero sussiego, porgendo il vassoio a Madamigella Oscar, che, nel frattempo, si era alzata per raggiungere il servitore. Afferrato con decisione il messaggio e aperta la busta, Madamigella Oscar l'aveva letta in fretta, sotto gli occhi di Girodelle, che la osservavano di sotto in su, increduli perché, proprio nel momento in cui, finalmente, dopo tanto tempo, una crepa sottile, oh, infinitesimale!, sembrava essersi aperta nel contegno irreprensibile del Comandante, una crepa tale da potercisi insinuare, e fare cuneo, per arrivare a uno scambio di battute più personale, ai fini una ritrovata o inedita confidenza, ecco che, proprio in quel momento, arrivava un paggio della Regina!


Da parte sua, Madamigella Oscar, subito dopo aver letto il messaggio, aveva risposto al paggio con sollecitudine: "Riferite a Sua Maestà che arriverò immediatamente", riponendo con grazia e decisione, come aggraziati e decisi erano tutti i suoi gesti, il messaggio sul vassoio, e congedandosi con elegante fermezza dal suo secondo.
"Perdonatemi, Girodelle, ma la Regina ha chiesto di parlarmi urgentemente in udienza privata: continueremo il nostro discorso in un'altra occasione". E, mentre queste parole erano ancora nell'aria, Oscar si avviò a passi decisi, oltre la soglia, appena varcata dal paggio che le avrebbe fatto strada verso gli appartamenti della Regina, lasciando Victor Clément de Girodelle solo al tavolo del Comandante, inebetito e contrariato. Quando poi il vicecomandante si alzò e, girando attorno alla scrivania in legno di rosa finemente intarsiata, una volta davanti alla grande vetrata vide Madamigella Oscar percorrere la Piazza d'Armi seguita dal suo attendente, non potè trattenere, in barba al suo leggendario autocontrollo, un gesto di stizza, e, mentre si percuoteva la coscia con la mano destra, di bianco guantata, stretta a pugno, esclamò: "Villano ripulito! Che il diavolo ti porti! Maledizione a te!".
 
 
[1] Ringrazio Settembre17 per avermi suggerito, in una sua ff, "Le parole sono finite", questo particolare: certo, Girodelle non ha affatto colto il vero motivo di questo accelerare impercettibilmente il passo di André.

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Capitolo 3
*** 3 - Capitolo 2: In udienza privata da Sua Maestà ***


3 -  Capitolo 2 -In udienza privata da Sua Maestà
"Madamigella Oscar, sono così lieta di vedervi!", esclamò la Regina Maria Antonietta, con il consueto sorriso e il calore che le imporporava le guance quando vedeva Madamigella Oscar accorrere a una sua richiesta.
Poi, con un gesto aggraziato del capo e un impercettibile: "Lasciateci un istante, signore", aveva congedato Madame Campan e le due dame che attendevano in piedi, accanto alla fastosa poltrona imbottita e rivestita di damasco dorato su cui sedeva la Sovrana.
Anche André, discreto come sempre, comprendendo la delicatezza del momento, si avviò verso la porta, ma venne subitamente richiamato dalla Regina: "Oh, no, vi prego, André: restate, restate! In fondo, quanto devo comunicare a Madamigella Oscar interesserà anche voi!". Così, trattenuto da queste parole della Sovrana, André Grandier tornò sui suoi passi, e, dopo un inchino, si dispose in disparte, contro la parete, accanto alla porta.
"Madamigella Oscar", esordì Maria Antonietta, levandosi e prendendo le mani della sua interlocutrice con un gesto che tradiva tutta la sua preoccupazione, "Vi ringrazio tanto di essere venuta subito da me. Non avrei saputo a chi altri ricorrere in questa delicata situazione...". L'imbarazzo della Regina era palese, e Oscar pensò di facilitarle il compito accogliendo il suo timido preambolo con un sorriso: "Maestà, sono sempre al Vostro servizio, e Voi lo sapete bene, con dedizione e discrezione assolute . ..:"
"Oh, Oscar, come sono felice di sentire queste vostre parole! Sono stata molto incerta se convocarvi, ma non avrei saputo a chi altro ricorrere, e vorrei che interpretaste questa mio gesto anche come una testimonianza dell'assoluta fiducia che nutro in voi".
"Naturalmente, Maestà", sorrise Oscar, annuendo, per incoraggiare Maria Antonietta a proseguire in un discorso con tutta evidenza spinoso.
"Bene, Oscar", rispose la Regina, "è quasi superfluo chiedervi di mantenere l'assoluto riserbo su quanto vi dirò a breve". Poi, dopo aver preso un profondo respiro, una volta lasciate le mani dell'amica e congiunti i palmi sotto il grande fiocco rosso che adornava la scollatura del corpetto del suo fastoso abito verde acqua, esordì, torcendosi le mani a tratti: "Vi sarete certo chiesta, Oscar, dove sia Madame de Noailles". Oscar, a quelle parole, si volse e percorse con lo sguardo la stanza, imitata da André: in effetti, riscontrò, non vi era traccia della Prima Dama d'Onore, Anne Louise Claudine D'Arpagon, Contessa di Noailles, soprannominata da Maria Antonietta -  ancora Delfina - "Madame Étiquette" per la sua minuziosissima conoscenza del cerimoniale di Corte, oltre che per la sua grande insistenza nel pretendere che la giovane Arciduchessa, proveniente dall’assai meno formale famiglia regnante absurgica, si adeguasse alle finezze dell'etichetta di Versailles, di cui era diventata indiscutibile esperta già negli anni trascorsi accanto alla Regina consorte Maria Leszczýnska.
"Madame de Noailles", continuò la Regina, con sul volto una espressione indecifrabile, che si faceva sempre più tesa e cupa, "non si trova a Corte perché la sua presenza è stata urgentemente richiesta al capezzale della sua prozia, a Lille: la povera signora, sorella del nonno di Madame, e cui ella è assai affezionata, ha avuto un tracollo, e ha rischiato di non riprendersi più dal deliquio in cui era caduta a seguito di una brutta avventura avvenuta nella nuova casa in cui aveva deciso di soggiornare...".
 
L’assenza di Madame de Noailles combinata alla menzione di Lille ...che cosa si sta preparando? Sono sicura che a qualcuno sarà già scattato un campanellino d’allarme in testa.
Capitolo breve e interlocutorio.... ma presto arriva “la ciccia”, come dice Qualcuno...
 

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Capitolo 4
*** 4- Capitolo 3: A very strange thing ***


4 – Capitolo 3. A very strange thing
 
"E così, fammi capire, Oscar: in nome delle ubbie e delle paure di una anziana signora, noi dovremmo andare in missione segreta a congelarci giù al Nord, sino a Lille? E perché mai, poi? Per chiedere a un fantasma dispettoso, ma, tutto sommato, innocuo, di sloggiare dalla casa che la cara vecchietta ha preso in affitto dopo che ne sono scappati a gambe levate i suoi amici inglesi?". La risata di André, bassa e piena di calore, ebbe il potere di farla uscire dai gangheri: per cui Oscar gli lanciò, mentre cavalcavano verso Palazzo Jarjayes, al tramonto, uno sguardo di brace, più affocato, se possibile, dell'orizzonte oltre il quale stava calando il sole.   
"E poi, la sorella del nonno di Madame de Noailles? Ma quanti anni deve avere questa vegliarda? Come minimo, centocinquanta!", continuò imperterrito André, con la sua risata di gola, reggendo le briglie per un attimo con la sola mano destra, l'indice sinistro che percorreva il profilo del naso, come sempre accadeva quando un pensiero lo divertiva particolarmente.
"André", lo rimbrottò Oscar, gelando la sua allegria, "Mi sembra davvero oltremodo inopportuna questa tua ironia su un argomento che sta molto a cuore alla nostra Regina e che, come hai ben visto tu stesso, la angustia profondamente". Quelle parole ebbero il potere di zittire André, che cavalcò silenziosamente accanto a Oscar sino al monumentale cancello di Palazzo Jarjayes, ricordando il lungo e preoccupato discorso della Regina, che, effettivamente, aveva disegnato un assai strano scenario, sul quale era richiesta la presenza, quali attori e solutori del mistero, sua, e soprattutto, quella di Oscar.
"Madamigella Oscar", aveva esordito la sovrana, entrando nel vivo della questione con un'aria al contempo tragica e imbarazzata, " quanto vi dirò ora vi sembrerà incredibile, ma mi è stato riferito da Madame de Noailles in una lunga e dettagliata lettera che, con il permesso della sua autrice, posso esibirvi nel caso che la vicenda vi sembri priva di credibilità. Vedete, qualche mese fa la prozia di Madame de Noailles ebbe la gradita sorpresa di ricevere una lettera da alcune sue antiche conoscenze inglesi  - e alla parola "antiche" ad André sfuggì un mezzo sorriso, che, fortunatamente, nessuno poté vedere, perché il giovane si trovava addossato al muro del salotto privato di sua Maestà -la quale lettera l'avvisava che di lì a poche settimane Lady Catherine Crowe si sarebe trasferita per un periodo con la famiglia a Lille per passare un periodo di riposo, vicino a dove viveva la sua amica, appunto la prozia di Madame de Noailles, cui la legavano lieti ricordi di gioventù, quando si erano conosciute a Spa, nell'occorrenza delle cure termali cui facevano ricorso i loro amati nonni.
(E qui, André Grandier non poté trattenere un secondo sorriso, immaginando due bambine vestite alla moda dei primi anni del regno di Luigi XIII che si rincorrevano per i viali di uno stabilimento termale, schivando dame e gentiluomini abbigliati come se dovessero essere ricevuti di lì a poco dal Cardinal Richelieu).
"Tuttavia", aveva soggiunto Maria Antonietta, il bel viso oscurato dalla preoccupazione, "Lady Crowe, nonostante le fosse stata trovata una casa ampia e confortevole, che era stata riadattata alle esigenze di una numerosa famiglia, si era fermata solo pochi giorni. Quando infatti la prozia di Madame de Noailles, Madame de Rosemonde, trascorso un periodo decoroso dal giorno dell'arrivo di Lady Crowe e dei suoi familiari, aveva ritenuto che, avendo essi avuto ampiamente il tempo di sistemarsi, avrebbe potuto far loro visita senza recar loro incomodo, una volta spedito un biglietto per annunciarsi, ebbe l’amara sorpresa di non ricevere risposta: anzi, il suo biglietto, che aveva mandato a consegnare a mano, stante la confidenza che da sempre esisteva con Lady Crowe, non venne nemmeno ritirato, perché il valletto inviato con il delicato e lieto incarico trovò la casa chiusa e sbarrata".
Oscar inarcò le sopracciglia: la faccenda si faceva strana. Ma tutti i suoi sensi si tesero - e André, che era addossato alla parete, fece un mezzo passo avanti - , quando Maria Antonietta, dopo un sospiro di incertezza, disse al suo Comandante delle Guardie Reali: "And now, I'll tell you a very strange thing".
A Versailles, quando i sovrani e i membri del Consiglio del Re e gli altri nobili volevano toccare qualche argomento delicato, che doveva restare segreto, al riparo dai cento, mille, diecimila orecchi curiosi sempre appostati in ogni angolo della Reggia, a caccia di pettegolezzi succosi e scandalose rivelazioni, si parlava in inglese[1]: per cui, in quella stanza, oltre al Colonnello de Jarjayes, solo André, cui, per speciale concessione illuminata del Generale de Jarjayes era stata impartita la stessa educazione - lezioni di violino escluse-dell'erede della casata, poteva intendere il racconto della Regina.
"Quando Madame de Rosemonde, stupita dal racconto del suo valletto, si volle recare di persona, accompagnata dal giovane nipote, alla dimora presa in affitto di Lady Crowe, trovò, in effetti, il portone d'ingresso sbarrato e le imposte in parte chiuse, in parte aperte, come se gli abitanti della casa se ne fossero andati in fretta e furia. Incredula e impensierita, pensò allora che, per affrontare il viaggio di ritorno, la sua amica aveva dovuto certo cambiare la valuta francese di cui si era provveduta al suo arrivo nuovamente in valuta inglese, e si rivolse all'agenzia di cambio dalla parte opposta della piazza su cui sorgeva la casa presa in affitto dall’amica. L'impiegato di servizio, cui Madame de Rosemonde chiese informazioni, non aveva certo dimenticato la scena cui aveva assistito. "Sembrava", raccontò il giovanotto, ancora stupito mentre rievocava quei fatti, "che la dama inglese e suo figlio si fossero alzati e vestiti in tutta fretta, lei con la cuffia di traverso, lui con il giustacuore abbottonato maldestramente, e un'aria spiritata e impaurita da fare pietà". I due, raccontò l'impiegato, avevano cambiato nuovamente in sterline le livres che avevano ritirato da pochi giorni, e riscosso un paio di lettere di credito, e tutto con quell'aria frettolosa e terrorizzata di chi sente che la terra gli brucia sotto i piedi e non vede l'ora di fuggire. E infatti, poco dopo che i due inglesi, usciti di gran carriera dalla banca, avevano raggiunto il palazzo dalla parte opposta dalla piazza, ne erano usciti con anche i due figli del giovane, nipoti di Lady Crowe, un bambino e una ragazza, una cameriera personale e un lacché che trasportavano valigie e un baule, e tutti erano saliti in fretta e furia su una vettura di piazza, evidentemente fatta arrivare di proposito, chiudendo la casa come se non dovessero tornarci mai più, tra lo sconcerto generale.
Madame de Rosemonde, impensierita e preoccupata, non riusciva a capacitarsi del comportamento della sua amica, che aveva sempre conosciuta per persona sensata e poco incline ai colpi di testa e ai gesti affrettati. Per cui, informatasi circa la possibilità di affittare la dimora, l'anziana signora stipulò un regolare contratto d'affitto e si insediò, a partire dal giorno dopo, con il nipote, che si era graziosamente messo a disposizione della zia, per aiutarla a venire a capo di quella strana faccenda, e insieme con una governante, tre cameriere, un lacché, un cocchiere, una cuoca e due sguattere, nella casa lasciata così frettolosamente dall'amica.
Dopo soli due giorni, però, Madame de Rosemonde ebbe l'amara sorpresa di essere informata dalla sua governante circa il fatto che due delle camierere, al suo servizio da oltre dieci anni, avevano dato le dimissioni senza preavviso,
"Ma come può essere successo?", chiese, stupita, l'anziana signora.
"Mathilde e Mireille hanno detto che non sarebbero rimaste un'ora in più in questa casa, perché non sarebbero sopravvissute a un'altra nottata come quella che avevano passato ieri dopo essere andate a letto".
"E perché mai?", chiese la vecchia dama, rimescolando col cucchiaino il caffé servitole nel frattempo dal lacchè. "Forse che mio nipote...?", avanzò il dubbio, levando il sopracciglio.
"Oh, no! No, di certo!", esclamò con vivacità la governante, Madame Bertillon, che per il nipote della sua padrona, giovane dal notevole fascino, e per la sua fama di seduttore scavezzacollo aveva un debole."Per tutt'altro motivo! Hanno parlato di una figura evanescente che entrava e usciva a ripetizione dalla loro stanza, e che si era piantata fra i loro due letti – (Mireille e Mathilde dormivano affiancate in un'ampia camera al secondo piano, ben riscaldata e ben areata, per concessione della loro padrona)-  tirando loro anzi le coperte, come un bambino che volesse giocare!".
"Impossibile!", esclamò Madame de Rosemonde, "Non vi sono bambini in questa casa!":
"É esattamente quel che ho detto loro anch'io, Madame: è probabile che abbiano fatto un brutto sogno, o mangiato di straforo troppa crema di marroni  - quelle ragazze sono golose come scimmie! - o che siano state ingannate dalla luce della luna che filtrava attraverso le tende male accostate, con gli scuri lasciati aperti, e che si siano così creati dei giochi di luce, che le due disgraziate hanno scambiato per una figura umana. Ma"- e qui Madame Bertillon scosse la testa, rassegnata - "Sapete bene che cosa possa la superstizione in un cervellino poco educato: le due ragazze erano spaventate come se avessero visto un fantasma, - ah ah ah, è davvero il caso di dirlo! -, e hanno insistito, oltre ogni ragionevolezza, per essere pagate delle loro prestazioni per il mese corrente e per andarsene, e quanto alla buonuscita loro dovuta, non avendo io in cassa in casa abbastanza danaro per liquidarle, ho proposto loro di attendere in cucina, dove Marthe avrebbe servito loro qualcosa di caldo, mentre aspettavo che la banca qui di fronte aprisse, per ritirare del contante; ma quelle due erano talmente spaventate, anzi, terrorizzate, da ripetere che non si sarebbero fermate sotto quel tetto un solo minuto più del necessario, e che chiedevano solo che quanto loro dovuto venisse depositato a loro nome nella banca dall'altro lato della piazza, dove sarebbero andate a riscuoterlo una volta che si fossero riprese dallo sconvolgimento della notte prima.
Madame de Rosemonde dovette però ricredersi quando, quella stessa nottata, il suo riposo fu turbato da passi che si trascinavano davanti alla sua porta, e poi al piano di sopra, esattamente sopra la sua stanza. Madame, donna pragmatica e assai poco impressionabile, pensò che si trattasse di suggestione, che l'aveva colta nel dormiveglia, ma, quando si sentì tirare le coperte, aprendo gli occhi, vide nella penombra una figura piccola e bianca, dai contorni del volto sfumati, ma di cui intravedeva un timido sorriso, che teneva un lembo del suo lenzuolo: era in tutto e per tutto simile a un bambino che avesse scambiato il giorno per la notte e volesse giocare.
La povera donna cacciò un urlo e cadde svenuta.
 Quando riprese i sensi, al suo capezzale trovò il nipote, la governante e la sua cameriera personale: terrorizzata, espresse loro immediatamente la ferma volontà di lasciare quella casa, e la notte stessa, senza aspettare il sorgere del sole, Madame lasciò quella dimora, ma, pur tornata nell'ambiente riposto e familiare della sua casa, la povera signora verte in uno stato di sconvolgimento tale che Madame de Noailles, che è molto affezionata alla prozia, ha ritenuto opportuno e doveroso non solo recarsi dalla sua anziana parente, ma anche cercare di indagare su che cosa abbia messo così a rischio il povero cuore di Madame de Rosemonde.
“Ora", concluse la Regina, porgendo a Oscar una busta con una lettera e altri documenti, "Ho pensato che solo voi avreste potuto, Madamigella Oscar, venire a capo di questa faccenda così torbida, e pertanto, con il consenso di Madame de Noailles, che anzi, mi ha suggerito il vostro nome, vi chiedo di recarvi a Lille e di passare almeno una settimana nella dimora che tanta pena ha procurato alla sua prozia. Con il suo consenso, vi consegno anche la lettera con cui Madame de Noailles mi ha riferito la questione, l'atto di affitto della casa, e tutto quello che potrà esservi utile. Per mia iniziativa, del personale di servizio fidato e proveniente da città estranee da Lille, e quindi non viziato da pregiudizi su quella dimora, è stato da me incaricato di preparare la casa per tutte le vostre necessità, ma di non pernottare in essa prima che voi e il vostro attendente siate arrivati. Una volta giunti a Lille, troverete cuoca, cameriere, stalliere presso una locanda nota con il nome di "Au cheval pâle"[2], il cui indirizzo troverete nei documenti che vi sto consegnando. Non so dirvi, Madamigella Oscar, quanto vi sia grata per l'impegno che so porterete a termine in nome dell'amicizia che nutro per voi e che so che voi contraccambiate con uguale profondità di sentimenti".
Oscar aveva accolto questo lungo discorso con un sorriso, e, la mano destra sul cuore, congedandosi con un inchino, aveva risposto, sempre in inglese: "Vostra Maestà sa bene che sono la sua umile servitrice, e che ogni suo desiderio è un ordine cui ottemperare con tutto il mio impegno. Vi prometto di venire a capo di questa incresciosa vicenda per poter rassicurare Madame de Noailles, la sua prozia, e per poter compiacere il desiderio della mia Regina". Poi, levatasi in piedi, aveva guadagnato la porta senza più dire una parola, seguita da un André sempre più perplesso.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
[1] Particolare che ritroviamo anche in "Addio, mia regina", il film tratto dall'omonimo romanzo di Chantal Thomas.
[2] Ogni allusione a un celebre romanzo di Agatha Christie.... è puramente voluta!

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Capitolo 5
*** 5 - Capitolo 4 - Giù al Nord? ***


4 - Giù al Nord?
“Quindi, Oscar, grazie al capriccio di una vegliarda e alle ubbie di una vecchia signora inglese, ci ritroviamo a fare una vacanza imprevista", sorrise André, cercando di suscitare un'analoga espressione sul volto di Oscar.
Avevano viaggiato per tre giorni, cambiando i cavalli alle stazioni di posta, per non affaticare troppo César e Alexandre, e arrivare prima possibile a Lille; per le prime notti, avevano soggiornato presso conoscenze della famiglia Jarjayes, le cui dimore sorgevano lungo il percorso, e che si erano dette onorate e felici di poter ospitare il Colonnello de Jarjayes con il suo attendente, immaginando che il Comandante delle Guardie Reali stesse svolgendo qualche delicato incarico per conto di sua Maestà.
        La quarta sera, però, trovandosi Oscar e André nei pressi di Lille, scesero a una locanda che sembrava promettere buon cibo e ambiente confortevole, "Le coq vert". Scendeva una pioggia leggera, ma fitta, simile ad aghi ghiacciati, e i mantelli di Oscar e André erano zuppi: la città era poco lontana, e certo Oscar avrebbe voluto proseguire sino al centro dell'abitato, ma André, preoccupato per quel freddo glaciale che si insinuava fin dentro le ossa - ché le dicerie e i luoghi comuni che, con un po' di enfasi, avevano per oggetto il clima perfido e inclemente della regione di Lille e Calais non erano certo del tutto infondati - aveva preso l'iniziativa di proporre una sosta per la notte.
"Oscar, fa molto freddo e comincio a essere davvero intirizzito. Che dici se ci fermassimo in una locanda lungo la via e percorressimo domani mattina, con il favore del giorno e, speriamo, del sole, le poche miglia che ci separano da Lille? In fondo, anche se arrivassimo oggi, entreremmo in città dopo il tramonto, e non sarebbe buona cosa chiedere alla servitù di trasferirsi nella dimora dove dobbiamo passare una settimana con il buio".
"Hai ragione, André", convenne Oscar, che aveva colto la discrezione con cui egli aveva mascherato quella che era una delicatezza nei suoi confronti con una propria esigenza, e, insieme, con un'attenzione verso il personale di servizio.
In un villaggio poco distante da Lille, trovarono una locanda dall'aria vecchiotta e rispettabile. Il locandiere, un uomo con folte sopracciglia cespugliose e un grembiale con pettorina a fasciargli il petto e il ventre prominente, li accolse con affabilità.
"Cerchiamo due stanze per la notte, una per me e una per il mio attendente", disse Oscar, "e prima vorremmo cenare, se è ancora possibile".
"Certo", rispose l'oste, indicando la sala, dove molti tavoli vuoti, fosse l'ora ormai tarda per mangiare, o fosse il tempo inclemente che aveva dissuaso chi poteva dal mettere il naso fuori di casa, facevano bella mostra di sé, "Accomodatevi pure: questa sera abbiamo dell'ottimo stufato ed eccezionalmente delle bottiglie di vino del Reno", continuò, magnificando la sua cucina, avendo, con il suo occhio esercitato, colto dagli abiti di Oscar, che pure non vestiva l'uniforme da colonnello, la certa solvibilità dei due clienti appena arrivati, "e abbiamo ancora un coq-au -vin, giusto due porzioni: posso servirvi subito, se volete, oppure preferite asciugarvi e rassettarvi un po' prima di scendere nella sala da pranzo?".
"In effetti", accondiscese Oscar, che aveva, come André, appena abbassato il cappuccio del mantello, mostrando i capelli incollati alla testa e al volto, comunque infradiciati dall'acqua che aveva attraversato il tessuto, "sarebbe forse meglio provare ad asciugarci e riscaldarci un poco, prima", e allungò la mano verso l'oste, che le porgeva una chiave.
Una sola.
Al suo sguardo interrogativo, il buon uomo, certo di avere ormai in pugno i due potenziali clienti, che di sicuro, in quella nottata buia e gelida e piovosa, dopo aver quasi sentito sulla bocca il sapore dello stufato e del coq-au-vin, non si sentivano invogliati a rimettersi in viaggio per cercare un'altra locanda, spiegò, quasi mortificato, che "purtroppo è rimasta una sola stanza, ma con un letto abbastanza ampio per Voi e per il Vostro attendente".
In fondo, pensava l'oste, quanti viaggiatori, anche sconosciuti, dopo aver passato insieme scomode ore sballottati sulle carrozze di posta, si ritrovavano per la notte nella stessa stanza; e un attendente, quasi sempre, trascorreva la notte in una stanza comunicante, o, talvolta, nella medesima camera del suo padrone; e quando anche avessero diviso il letto, beh, che cosa c'era di strano? I militari, si sa, sono abituati a certi piccoli disagi, anche se quell'ufficiale biondo, che aveva dichiarato nientemeno di essere un Colonnello delle Guardie Reali, firmando il registro delle presenze ed esibendo preventivamente le sue regie patenti, gli dava l'aria, con la sua corporatura esile, con i suoi lineamenti fini e delicati e con quei capelli biondi che la pioggia aveva pressato sulla testa e attorno al volto, ma che dovevano essere spettacolari da asciutti, di uno di quei tipetti che indulgono nell'amore all'italiana, la deprecabile abitudine della Corte di cui tanto gli aveva parlato suo fratello Marcel, che a Versailles faceva il cocchiere per una famiglia di baroni che abitava alla reggia, e ne aveva viste – gli assicurava – di tutti i colori; senza contare che l'attendente, quel brunaccione alto e muscoloso, su cui le due ragazze di servizio in sala - una delle quali, maledizione! era Marianne, proprio la figlia dell'oste - avevano lasciato subito gli occhi, secondo il modesto parere del taverniere, che un pochino il mondo l'aveva conosciuto e sapeva come vanno certe cose, il biondino non doveva proprio esserselo lasciato scappare.
E sicuramente dopo qualche manfrina, giusto per distogliere i sospetti e non far pensare male gli ingenui, i due chi sa come dovevano passare le loro notti!
Eh, lo sapeva bene, lui!
In fondo, anche lui era uomo di mondo, che cosa credevano?
Che non sapesse come funzionano le cose, perché da anni gestiva quella locanda solo apparentemente isolata, ma dove, alla fin fine, aveva soggiornato, almeno una volta, tutta la buona società di Lille nelle sue soste verso i luoghi di villeggiatura?
E poi, mercanti, nobili di passaggio, forse anche qualche spia!
 E quindi, tirò silenziosamente le somme l'oste, chiudendo quella ideale discussione interiore fra sé e sé, che quei due non credessero di dargliela a bere, perché, fra l'altro, lo vedeva benissimo come quell'attendente bruno e straordinariamente virile, sebbene esteriormente fosse molto corretto, senza risultare però cerimonioso o stucchevole, si dimostrasse molto protettivo nei confronti del suo padroncino, e non le vedesse nemmeno le occhiate di sospiroso desiderio che la cameriera - e accidenti, anche sua figlia Marianne! - gli lanciavano, cercando di intercettare il suo sguardo, ma inutilmente, visto che quello là non aveva occhi che per il biondo colonnello. 
Una volta che ebbero salito le scale, l'ufficiale sempre mezzo passo davanti all'attendente, e percorso il corridoio, Oscar girò la chiave nella serratura, ed entrò, seguita da André. Nella stanza, ampia e ordinata, troneggiava un grande letto con le lenzuola che dovevano essere state cambiate da poco e odoravano di spigo.
"Oscar, non vedo perché non abbiamo percorso ancora qualche miglio per trovare una locanda con due camere....in fondo, siamo poco distanti da Lille e avremmo comunque trovato una sistemazione ..." L’obiezione, questa volta, veniva da André, che aveva intercettato un dardeggiare di disagio, minimo, ma inequivocabile, nell’azzurro delle iridi di Oscar, al vedersi finalmente troneggiare davanti agli occhi quel morbido lettone, morbido, accogliente, invitante, sicuramente caldo, in quella notte gelida, ma, dannazione, uno, solo e unico!
"André, ti prego", aveva però risposto Oscar, il tono pacato, mentre, ancora con addosso il mantello fradicio, guardava ora fuori dalla finestra la pioggia battente che cadeva sulla campagna buia, "Non è poi una tragedia se per una notte condividiamo la stessa stanza. In fondo, abbiamo dormito insieme nello stesso letto tante volte, da bambini. E poi, sei stato tu a farmi notare come sarebbe stato meglio fare una sosta questa notte, prima di entrare in città. Non c'è bisogno di cercare un'altra sistemazione, davvero. Questa stanza andrà benissimo; senza contare che non vedo il motivo per spendere per due camere quando possiamo accomodarci senza problemi in questa. In questa bella poltrona così ampia, per esempio, potrò riposare egregiamente, se la metto davanti al caminetto, con questo bel parascintille e con addosso una coperta calda e un buon libro..:"
"Ah, certo, Oscar", la canzonò André, nella sua solita maniera leggera e affettuosa, "dimenticavo la leggendaria sobrietà del Comandante de Jarjayes! No, no, ma che dici, Oscar? Ho insistito io per fermarmi qui, e io ne pagherò il fio", rise André, mentre fra sé e sé lo pungeva una spina dolorosa, al pensiero di quali fossero le letture cui Oscar avrebbe probabilmente inteso passare il dopocena.
"E ora"; tagliò corto André, senza darle la possibilità di controbattere, "Asciughiamoci e rimettiamoci in sesto per la cena: ho una fame da lupi!", esclamò nel tono più ilare e leggero che poté assumere, e, aperte le borse da viaggio che aveva depositato, quella di Oscar sul ripiano del cassettone, (fingendo di ignorare bellamente il libro che occhieggiava da sotto quel lino e quella batista) - e la suabsu una sedia che aveva visto tempi migliori -, ne aveva tratto due camicie pulite e asciutte, una per sé e una per Oscar; quindi, dopo aver lasciato sul letto quest'ultima, aveva preso una delle serviettes calde che il sollecito taverniere aveva fatto loro trovare in camera, ed era sparito dietro il paravento.
Oscar si era morsa il labbro, e si era spogliata, asciugata, rivestita, frizionata i capelli con una seconda serviette, e infine, una volta pronta, si era seduta, anzi, si era accasciata nella poltrona, guardando le fiamme, con le loro lingue rosse nervosamente danzanti.
"Ti aspetto qui in poltrona, André. Fa' con comodo. Io ... non credo di avere molto appetito", comunicò debolmente.
 Il malessere sottile che da molti, molti, troppi mesi la assaliva nei pochi momenti di inattività che si concedeva, quando la mente era libera di vagare senza costrizioni di turni di sorveglianza da organizzare, ed esercitazioni delle reclute cui assistere, e duelli di allenamento in cui misurare e potenziare la sua perizia e agilità, anche quella sera si era presentato, e il pensiero aveva attraversato l'Oceano, con un sospiro, sino a quelle lande favolose e terribili, irte di rischi e coperte di foreste antiche quanto il mondo su cui cui cercava disperatamente informazioni su ogni libro che parlasse di esplorazioni nell'America del Nord, come quello che si era portata appresso, sepolto sotto un monte di biancheria, quando aveva con orgoglio rivendicato la sua capacità di farsi da sé la propria borsa da viaggio, senza l'aiuto sempre solertemente offertole da André.
Sospirò.
 E, come era naturale, quando il pensiero volava oltre la distesa di acque insidiose dell'Atlantico, lo faceva solo per seguire lui, lui, la cui unica lettera, in cui la informava della perigliosità e della lunghezza del viaggio, e dello stupore con cui aveva riscontrato quanto le grandi foreste del Nuovo Mondo somigliassero a quelle della Svezia, e le chiedeva di perdonarlo per essere fuggito così senza preavviso dalla Francia, e di vegliare sulla Regina, per non compromettere ulteriormente la sua reputazione, era sempre custodita alla maniera di un tesoro prezioso, nella tasca interna del suo farsetto, letta e riletta sino a conoscerla a memoria, sino ad avere stampata nella mente ogni voluta, ogni svolazzo della grafia, ogni asperità della carta ... sino a immaginare, la notte, quando la rileggeva sotto le coperte, le sue mani che maneggiavano la penna d'oca, che si posavano sulla carta, che ripiegavano la lettera una volta asciutta e la infilavano nella busta, i gesti precisi ed eleganti con cui aveva scritto il suo nome, con quella grafia insieme aerea e disciplinata, come era tutto in Fersen ...
"Sono pronto anch'io, Oscar". La voce di André, che, con una camicia asciutta, riemergeva da dietro il paravento, le fece volgere il capo nella sua direzione, con un debole sorriso, che, pensava Oscar, anche se l'amico di una vita non lo sapeva, era di gratitudine per aver interrotto il giro dei suoi pensieri che, come falene intorno alla fiamma, giravano e giravano a vuoto, sino a cadere rovinosamente.
"Un giorno mi spiegherai come è possibile che tu sia sempre pronta prima di me!", rise lui, e subito si bloccò, rimproverandosi per la sua stessa audacia, quasi che avesse voluto evocare il luogo comune secondo il quale le donne sono lente e perennemente in ritardo quando devono vestirsi e scendere a cena.
"Che cosa intendi dire, André?", lo gelò Oscar, con uno sguardo rivoltogli da sotto in su, di un azzurro glaciale, mentre chiudeva la porta della camera per scendere a piano terra nella sala dove sarebbe stata servita la cena, quasi che le parole di lui sottintendessero il gustoso paradosso per cui, per una volta, una donna, quantunque educata come un uomo, e avvezza a vestire panni maschili, non indulgesse in quelle vanità che portavano i membri del gentil sesso a protrarre i preparativi per uscire sino a renderli della lungheza di una Bibbia.
"Oh, nulla, nulla", se la cavò lui. "Dimenticavo che il Colonnello Jarjayes è un uomo in tutto e per tutto".
Scesero quindi le scale silenziosamente e altrettanto silenziosamente sedettero a tavola.
Le poche parole che scambiarono con la cameriera, una ragazzina castana dagli occhi di un azzurro slavato, furono per chiedere una porzione di stufato e una di coq-au-vin, e una bottiglia di vino del Reno, oltre a del pane.
Oscar piluccava quanto aveva nel piatto, senza entusiasmo, consapevole dello sguardo di André su di lei.
"Se non ti piace lo stufato, possiamo fare cambio, sempre se non ti formalizzi", propose sorridendo lui, ingollando un bicchiedere di vino, "e sempre se hai voglia di  assaggiare le coq-au-vin, che, devo dirti, è molto saporito e ben cotto".
"Grazie, André. Sei molto caro, ma credo di non avere molto appetito" (E quando mai ce l'hai, Oscar?, si chiese mentalmente André, intenerito e un filo preoccupato).
"Anzi", continuò sorridendo lievemente e spingendo con garbo il piatto verso di lui, con un movimento appena accennato, "Se vuoi, puoi prendere anche la mia parte di stufato".

"Oscar: ma non hai mangiato quasi nulla!".
"André, per favore: adesso, quando siamo lontani da casa, fai anche le veci di nanny? Semplicemente, questa sera sono troppo stanca e infreddolita per mangiare. Preferisco riscaldarmi con un buon bicchiedere di vino del Reno e poi salire in camera: per una volta, non deperirò di sicuro", aveva spiegato, paziente e pacata (Per una volta?, pensò André. "Ma a chi credi di darla a bere, Oscar? Io ti osservo, ti osservo sempre, anche quando non lo sai. Soprattutto quando non lo sai).
Avevano continuato, André a mangiare, Oscar a bere, in silenzio.
Oscar teneva gli occhi bassi, André, ogni tanto, levava lo lo sguardo dal piatto e lo rivolgeva in direzione del fuoco del grande camino nella sala comune, che illuminava di riflessi rossastri le chiome di lei, e, nel frattempo, vedeva le occhiate incuriosite e cupide che le cameriere e alcuni degli uomini seduti ai tavoli accanto lanciavano a Oscar, senza che lei se ne rendesse conto
Giunti in camera, ci aveva provato, André, a esercitare il suo ufficio di servo e insieme di amico magnanimo, proponendo di dormire vestito nell’ampia poltrona davanti al fuoco. Ma Oscar non aveva sentito ragioni: “André, ti prego, non essere ridicolo: il freddo è così pungente qui al Nord che ti prenderesti di sicuro un malanno, e non me lo perdonerei mai. Senza contare che siamo qui con una missione ben precisa, e non vorrei certo sottrarre forze e tempo all’incarico che ci è stato affidato da Sua Maestà per curarti!”: l’effetto di quelle sorrise parolette lievi era stato, come sempre, immediato su di lui, che non aveva saputo opporsi.,
“E poi, André”, aveva chiosato lei, riprendendo l’argomento di poco prima, “quante volte abbiamo dormito insieme, da bambini? Direi che non è davvero il caso di formalizzarci”, aggiunse, quasi per dare forza alla sua affermazione, andando ad affondare nei ricordi di un tempo felice in cui lei era ancora semplicemente “Oscar” (la sua Oscar, anche se non si era mai preso la briga di dirglielo), non ancora Madamigella Oscar, o Monsieur le Comte, o il Colonnello de Jarjayes, comandante delle Guardie Reali, uno strano ibrido guardato con interesse e curiosità, concupito da uomini, per i motivi più disparati, e donne, costretta a distogliere sempre lo sguardo e a imparare a non badare a quegli occhi che la scrutavano, la percorrevano, la frugavano, quando percorreva i corridoi di Versailles o montava a cavallo.
“Certo, Oscar: hai ragione”, rispose André, debolmente, ma fingendo entusiasmo e convinzione. “Allora”, propose, dando prova del consueto senso pratico, “mentre me ne sto qui davanti al fuoco in poltrona, potresti cominciare a prepararti tu per la notte; poi, farò anch’io lo stesso e ti raggiungerò a letto”.
“Va bene”, rispose, asciutta, lei, e in due passi andò alla sua borsa da viaggio aperta sul letto, e ne trasse brevemente camicia da notte, vestaglia, un paio di morbide calzature da casa in velluto blu, ritirandosi dietro il paravento, dove la figlia del locandiere aveva sollecitamente provveduto a far portare un catino e una brocca di acqua calda per consentire almeno una veloce abluzione prima del sonno notturno a quei viaggiatori così insoliti.
André, sprofondato in poltrona, seguiva con l’orecchio teso i rumori che provenivano da dietro il paravento: fruscii di stoffe che scorrevano sulla pelle, un lieve scalpiccio, il tonfo di uno stivale che cade a terra, seguito subito dopo da un secondo tonfo, il suono di acqua che viene versata, il rumore di una brocca di ceramica posata su un mobile di legno, e un lieve rabbrividire soffocato; e intanto, pensava a quel libro, a quel volume che Oscar aveva portato con sé, e che era nascosto sul fondo della sua borsa da viaggio di cuoio, sobria e dalla rigorosa eleganza: Pierre Gaultier de la Vérendrye, “Relation authetique des voyages et des explorations dans les grandes forêts de l’Amerique du Nord”, chez l’Imprimerie Royale de Paris, 1774. André non si era certo stupito di trovarlo fra le nuove acquisizioni della biblioteca di palazzo Jarjayes: da quando il conte di Fersen si era arruolato per la guerra che le truppe francesi stavano combattendo insieme ai coloni che reclamavano la libertà dalla madrepatria inglese, improvvisamente nel Colonnello Jarjayes era esploso l’insopprimibile desiderio di conoscere tutto sulla vita che i coloni conducevano oltreoceano, in quelle città che replicavano in tutto e per tutto le finezze europee, ma a poche miglia alle spalle delle quali si aprivano lande selvagge e foreste antiche quanto il mondo, misteriose e per largo tratto inesplorate, e sulle usanze e le tradizioni dei primi abitatori di quel continente per largo tratto ancora vergine. E, come tutte le passioni di Oscar, anch’essa aveva le stimmate della silenziosa metodicità, del muto accanimento, che, senza darlo da vedere agli osservatori distratti, dentro consuma e logora. Un giorno, preso da uno scaffale, per puro ozioso interesse, aveva scoperto sottolineature ripetute, che non potevano essere state opera di altri che non di Oscar –lei, che per abitudine non segnava mai nemmeno con un sottile tratto di lapis copiativo i suoi libri! – a proposito della pratica di “prendere gli scalpi”, e gli si era stretto il cuore.
 
 
 
 
 

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Capitolo 6
*** 6- Capitolo 5: Notte alla locanda ***


6 – Capitolo 5 - Notte alla locanda
- “Eccomi, André, ho finito”. A riscuotere André da quel giro di pensieri tetri erano bastate le quattro parole di Oscar, pronunciate con tono incurante mentre usciva da dietro il paravento, vestita di una lunga e severa camicia da notte bianca, che occhieggiava appena, all’altezza del collo, sotto una pesante vestaglia da camera maschile blu scuro, dello stesso colore, il passo leggero nelle calzature da camera, morbide e calde.
“Bene, Oscar”, aveva, altrettanto incurantemente risposto lui, alzandosi, e mentre quella si metteva sotto le coperte, rabbrividendo, con addosso la pesante vestaglia, sparendo fra le coltri con un movimento felino, che gli aveva appena fatto balenare i suoi piedi bianchi e delicati, si era concentrato sulla sua borsa da viaggio, sulla biancheria da recuperare, e poi, smorzando un pesante sospiro, si era apprestato a preparasi per la notte.
Ci aveva provato, sì, una volta rinfrescatosi sommariamente e indossata la lunga camicia bianca,  ad accomodarsi nella poltrona, davanti alle braci ancora ardenti, tirandosi addosso una seconda coperta, che era stata provvidenzialmente lasciata ben ripiegata su uno sgabello accanto al fuoco. Ma era stato subito richiamato da Oscar al mantenimento della decisione presa insieme: “André, per favore: non eravamo d’accrordo che saresti venuto a letto?”.
“Cedo alla violenza”, aveva sorriso quello, levando le mani, in segno di resa, mentre si avviava verso il letto, e si coricava, un poco troppo rigido nella postura, un po’ troppo verso il bordo del letto, supino come Oscar, le mani, però, sotto i capelli, ancora raccolti nella coda.
“Non ti sciogli i capelli?”, gli chiese Oscar, ravvolta nelle coperte sino al mento, le belle mani bianche, se doveva indovinare da quanto intravedeva da sopra le coltri, tenute raccolte in grembo. E chi sa se le stringeva nervosamente, all’idea di dover per quella notte rinunciare a leggere sino all’alba – come ormai faceva sempre più spesso – delle meraviglie e dei pericoli cui era esposto il conte di Fersen, anzi, si corresse mentalmente André,  delle meraviglie e dei pericoli cui volontariamente era andato a esporsi il conte di Fersen, quando il suo senso dell’onore gli aveva fatto decidere che non poteva più restare in Francia a oltraggiare la già oltraggiosamente deminuta reputazione della regina Maria Antonietta.
“No, questa sera no”, le aveva risposto con tono incurante lui.
E non sapeva bene nemmeno lui perché sciogliere il nodo del nastro blu che teneva sempre ben stretto a cingere i suoi capelli quella notte non gli era passato nemmeno per la testa.
Spente le candele sui comodini, conversarono per circa mezz’ora, del più e del meno, con tono apparentemente disinvolto e sciolto, in realtà cauti e guardinghi, senza rivolgere gli occhi l’uno verso l’altra, come a voler misurare la ritrovata, imposta, familiarità, nella sua estensione e nei suoi limiti e confini.
Parlarono della loro infanzia, com’è ovvio, il porto franco in cui rifugiarsi quando l'initimità diventava bruciante, e rischiosa.
“Ti ricordi...? ...E quella volta, che ti accorgesti che Monsieur de Bellevue rubava i libri che il Generale acquistava per la biblioteca?"
"Sì, per rivenderli ai librai parigini..:"
"E allora...:"
"Allora ci inventammo un ex libris, tutto nostro... lo ricordi, André?".


"Come no? Ex Libris Generale François Augustin Réynier de Jarjayes/ Qui furabit librum istum / non videbit Iesum Christum[1] Lo scrivemmo in bella grafia sul frontespizio di tutte le ultime acquisizioni del Generale, in modo che il nostro precettore non potesse rivenderle..."
"... E lui divenne verde di bile! E ci punì!", rise Oscar. Rise proprio, e, nel buio, parve ad André di avere visto l'azzurro fiordaliso dei suoi occhi sfavillare. Impossibile, naturalmente.
"E ci punì, Oscar? Credo che tu ricordi male: punì me e solo me, con la prima scusa che trovò: nello specifico, un errore in un problema di matematica! Figuriamoci se poteva osare punire il Signor Contino! Dava certe bacchettate sulle mani, il buon Monsieur Bellevue!". La risata di André risuonò nel buio, seguita da quella di Oscar, un poco meno immediata, però.
"Bene, direi che dovremmo dormire, adesso: che ne dici? Domani dovremo svelare l'arcano della casa di Place du Lion D'Or", aggiunse André, cauto, preoccupato che la sua ultima battuta potesse avere dato il via a un giro di pensieri poco lieto; pensieri che avessero come oggetto l'isolamento in cui Oscar era cresciuta,
il senso di splendida solitudine in cui era maturato quel fiore raro e ostinatamente fragile,
splendida, ma pur sempre solitudine;
il senso di vicinanza provato, forse per la prima volta, per...
senso di vicinanza, di familiarità, ammirazione...
forse anche amore ........
per lui.......
amore maturato piano, nel segreto di un cuore di una ex bambina,
troppo preziosa anche solo per essere punita,
men che meno per essere una bambina, come le altre,
ma sacrificabile, in fondo, a maggior gloria della casata,
come e più delle altre sorelle,
come e più di una donna....
e poi...improvviso...quel calore nel petto...
che doveva avere sorpreso Oscar per prima, André lo sapeva...
I suoi pensieri continuavano a vorticare nella testa, come falene impazzite....come quella ghiandaia che era entrata un giorno nel grande salone della musica...
e sbatteva,
sbatteva contro le pareti affrescate,
contro le vetrate,
contro i mobili massicci e monumentali,
mentre lui e Oscar cercavano in ogni modo di farla dirigere verso la sola finestra aperta,
e il povero animale girava, e batteva il capo e le ali,
batteva le ali e volava,
 batteva il capo, impazzito, senza riuscire a trovare sollievo o via d'uscita ...
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André era disteso supino, il braccio destro piegato sotto la testa, il sinistro abbandonato lungo il corpo, sotto le lenzuola. Ora, il pensiero che lo torturava era che, a un palmo, forse a due, dalla sua mano sinistra, c'era la mano destra di Oscar.
Stava dormendo?
Sì, sicuramente sì.
 Il suo sonno era sempre stato immediato e profondo, mentre lui, André, era votato al rimuginio per lunghe mezz'ore prima di sprofondare in quel sopore ormai costantemente animato da sogni, in cui Oscar era l'assoluta protagonista.
Ogni cosa era immersa nel brusio della pioggia lieve, che continuava a cadere fuori, oltre le finestree chiuse e oltre gli scuri accostati, e negli scricchiolii che rendevano quella camera e quella locanda un organismo vivo. E intanto, riflessi di stille di acqua piovana, in qualche modo, entravano nella stanza e si rincorrevano, sui muri e sul soffitto.
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Oscar marciava con ostinazione, le lunghe falcate decise che si susseguivano solo in grazia della forza della disperazione, nell'erba alta, irta di sterpi, dietro a lui.
Lui le volgeva le spalle, la precedeva, ed era sempre due passi avanti, un passo avanti, mezzo passo avanti, il lunghi capelli color biondo scuro raccolti da un nastro blu, che ondeggiavano sulla schiena.
E lei voleva raggiungerlo, essergli a fianco, stare a fianco a lui, ma non ci riusciva: le gambe le dolevano, e il fiato si spezzava, e non riusciva nemmeno a respirare, a tratti, figuriamoci se le bastava per gridare: "Fersen, aspettatemi!!": e poi, nemmeno l'avrebbe fatto, nemmeno se avesse avuto fiato avrebbe gridato, implorandolo di fermarsi, di rallentare, per lei.
Marciavano da .... da quanto?
Non sapeva dirlo, aveva dimenticato quando avevano lasciato la città, o il forte?
Perché un forte o una città doveva esserci stato, prima (ma quando?); la colonna di ufficiali, soldati, portatori, scout, era in marcia ... da chi sa quanto ... e lei era sfinita, accaldata: il colletto dell'uniforme, con il suo bordo rigido e dorato, le graffiava il collo sudato; la camicia, sotto la giacca di pesante panno blu, era fradicia, E si sentiva il sudore colare lungo le braccia, sotto il tessuto, dal giromanica verso il polso.
E la cintura dei pantaloni le stringeva la vita,
 e sentiva che il tessuto stava escoriando la pelle sudata,
i piedi dolevano negli stivali....
e alzando gli occhi verso il cielo, di un azzurro smorto, ma che prometteva un prosieguo di giornata afosa, vedeva quel colore sbiadito aprirsi, in alto, lontano, lontano, fra le cime di quegli abeti immensi, che sembravano toccare il sole.
Foreste, vaste come città e antiche quanto il mondo ... misteriose e inesplorate ... chi sa che segreti custodivano.
E lei, lei l'aveva mai concepito il pensiero di inoltrarsi nel folto di quegli alberi, di quel verde immenso e cupo, di lasciarsi tutto (tutto?) alle spalle, senza mai volgere lo sguardo indietro...?
Poi, dopo un infinito marciare, Oscar si rivolse a un uomo, un europeo, ma vestito come uno dei nativi, che viaggiava con loro, i lunghi capelli neri che ricadevano sul tomawhaak portato appeso a una cinghia che gli attraversava il petto, il profilo aquilino e intento, gli occhi sfavillanti d'intelligenza.
"È ancora lontano, il forte?"
"Chiedete al Vostro scout Mohawk, Colonnello",
"Ma no...la nostra guida è un Urone"
"No Urone. Mohawk".
"Ma che dite? Gli Uroni sono gli alleati dei francesi, non i Mohawk!", ribatté Oscar, sfiatata, incredula. E poi, un attimo dopo, inalato un respiro dal sapore ferroso: “Ma perché un Urone vorrebbe farsi passare per Mohawk? Che senso avrebbe?”. La domanda di Oscar era incalzante, e parlare tenendo il passo di quello sconosciuto dal profilo tagliente la affaticava ancora di più.
"Non lo so. Ma deve avere i suoi motivi, ve lo dico io. Una vendetta o un'offesa da lavare nel sangue".
“Una vendetta? E contro chi! Parlate”. Oscar, allarmatissima, cercava di piantare gli occhi in faccia a quell’europeo abbigliato e armato come i nativi, con la lunga carabina in spalla, che non la degnava di uno sguardo, e parlava camminando, e guardando dritto davanti a sé.
“Non lo so. Ma quell’Urone non è un Urone:  credete a me!”
“Ma perché?!”. Adesso Oscar era esasperata, e si era fermata, facendo fermare anche l’europeo abbigliato all’indiana, che l’aveva fissato, pungente: “Non lo so. Ma il mondo è pieno di gente che vuole farsi passare per quello che non è, non è vero? Non lo sapete anche voi?!”.
Il tono sicuro e come di sfida che aveva messo in quelle parole fece sentire Oscar scoperta e trafitta.
Il mondo è pieno di gente che vuole farsi passare per quello che non è.
E non lo sapeva, lei?
Una donna che si fa passare per un uomo, per un soldato, addirittura per un ufficiale.
Un ufficiale che ha la nomea di severissimo servitore di sua maestà la Regina ... e invece ... e invece, osa provare dei sentimenti per l’uomo che la sua sovrana ama, riamata.
Una persona che mostra amicizia e nasconde l’amore.
Il mondo è pieno di gente che vuole farsi passare per quello che non è.
E lei lo sapeva bene.
Deglutì, sbigottita, e subito richiamata all’ordine da quello strano individuo.
“E ora, presto: ricominciate a marciare”!.
Quel breve scambio di battute, però, l'aveva rallentata ancor di più, Fersen era ormai molto più avanti, troppo avanti, e quasi Oscar non lo vedeva più.
Prese fiato, preoccupata, e cerco di accelerare i suoi passi, ma le gambe esili non la sostenevano quasi più.
 Si fermo, per prendere fiato, il busto chinato in avanti, i palmi appoggiati sulle cosce che tendevano il tessuto dei pantaloni bianchi, il bocca un sapore sanguigno di fiato corto, mentre il resto della colonna lo superava. E allora poté vedere, da ambo i lati del sentiero che fendeva il fitto della vegetazione inoltrandosi nella foresta, dei pellerossa aggredire la colonna, e altri lanciare frecce, e colpire in piena fronte con le loro corte asce da guerra soldati, e ufficiali ... e poi ... e poi .. Oscar aveva corso, corso, a perdifiato, col cuore in gola, con la bocca invasa da quel vago, sgradevole sapore di sangue che le saliva alle labbra, corso fra i corpi che ingombravano il sentiero, schivando gambe e torsi e mani ... e aveva visto ...
La loro guida ... china su di lui ...
l'aria feroce, intenta, lo sguardo fisso, spietato ...
il coltello che si muoveva veloce nella mano sicura..
l'altra mano tesa a tendere i capelli, lunghi e chiari...
e poi ... lo scalpo ... insanguinato, levato con sguardo fiero ...
Oscar iniziò a gridare. Gridare ... gridare  ... e ancora gridare...
lacrime le solcavano le guance ...
il petto le doleva tanto forti erano le sue grida...
"NOOOOO! FERSEN! NOOOOO! NON MORITE, FERSEN!!!".
 Voleva correre verso quel corpo riverso, ma era come inchiodata al terreno ...
non riusciva a muoversi ...
non riusciva ad avanzare di un passo...
e l'Urone, o il Mohawk, allora, con un riso di scherno, aveva gettato lo scalpo ai suoi piedi, sui suoi stivali, scalpo insanguinato, orribile, e mentre lei faceva un salto all’indietro, con un grido, no, un verso, di raccapriccio, quello si era ancora chinato ...
Oscar continuava a gridare ... a gridare ... e poi, poi la guida si era alzata di nuovo, e in mano aveva ... mentre il sangue gli colava fra le dita, lungo il braccio levato con fare di trionfo...
una massa rossa e cruenta ...
una massa inconfondibile ...
un cuore ... il cuore...
il cuore di lui...
il cuore di Fersen.
"NOOOOOOO! FERSEN! NOOOO! FERSEN NO!!!
"NOOOOOO!!!!! NO, FERSEN! NO"
Due mani salde le stringevano le spalle.
Una voce amica la scuoteva: "Oscar, Oscar! Che succede?!".
Realizzò di essere in un letto caldo, sotto delle lenzuola profumate e fresche, ma bagnata fradicia di sudore, gelata e bagnata di sudore ....e, nonostante quell'incubo atroce fosse finito, non osava ancora aprire gli occhi, quasi temendo, una volta sollevate le palpebre, di scoprirsi in quella radura sinistra e insanguinata.
"Oscar! Sta' tranquilla ... ci sono io qui con te ... non è successo niente ... hai avuto un incubo". La voce gentile e calda e piena di premura di André la fece rientrare in sé. Realizzò il corpo caldo di lui volto e proteso verso il suo, il suo respiro caldo sul suo viso, le sue mani che la stringevano.
Aprì gli occhi, cauta. Dunque...André l'aveva sentita... gridare?
"Stavi sognando: hai iniziato a lamentarti, e poi a gridare, ma non riuscivi a svegliarti..."
"Ti ho...svegliato? Scusami, André: mi spiace molto..."...una debole maschera di urbanità, per coprire l'imbarazzo di quel segreto che aveva tanto gelosamente custodito e che un banale, per quanto orribile, incubo, aveva svelato.
"Oh, Oscar, non preoccuparti, davvero. Prima di tutto, non stavo ancora dormendo. E poi..."
"Non riuscivo a svegliarmi ... Non riuscivo a svegliarmi”, ripeteva “Urlavo, ma ... non riuscivo a svegliarmi"
.La voce di lei, spezzata, aveva l’inflessione del pianto, ma gli occhi erano ancora asciutti.
"Lo so ... lo so...". La voce di lui, rassicurante e quieta. "Ma ora stai bene ...non è vero?"
"Sì, André. Sei molto caro, davvero".
"Ho provato a scuoterti, ma sembrava che non riuscissi a svegliarti..."
"Sì, era un sogno ... molto .. .molto realistico", balbettò lei.
Una pausa.
Deglutì.
Poi, ecco la domanda, timida, imbarazzata: "E ... ho gridato?".
"Un po'. Ma, tranquilla", aggiunse André; "Non credo che ti abbiano sentita dalle stanze vicine".
Oscar non osava chiedergli che cosa avesse gridato: troppa era la confusione al pensiero di essersi svelata, di aver scoperto il fianco...di essersi tradita.
"Vuoi che accenda una candela, Oscar?"; le domandò André, cercando di togliere dalla sua voce ogni ombra di quella pena che lo aveva colto, sentendo Oscar gridare, disperata, nel suo incubo, il nome di Fersen.
Che cosa poteva mai avere sognato?
"Fersen! Non morite!", aveva gridato.
L'aveva visto in pericolo?
L'aveva visto morire?
L'aveva visto aggredito nelle forme e nei modi terribili che aveva letto su quel libro, quel libro che si era portata anche a Lille, certo per compulsarlo, avida e impaurita, anche quella notte, se non fosse stata costretta a dividere la camera e il letto con lui, e per tormentarsi ancora, e ancora ...
A quel pensiero, André venne colto da una pena ancora più grande: era in fondo plausibile che quello non fosse il primo incubo di quel tipo, ma che tante altre fossero state le notti funestate da quelle preoccupazioni, da quelle ansie, da quei terrori; solo, in tutte le altre notti, solide pareti e una porta chiusa vegliavano sul segreto doloroso del Colonnello de Jarjayes.
"No, no, grazie, André. Torna a dormire. Io .... anch’io cercherò di prendere sonno", mormorò, sciogliendosi con fare imbarazzato dalla stretta affettuosa di lui e rimettendosi supina.
André la imitò, tenendo però il capo, nel buio, rivolto a sinistra, verso di lei. Gli pareva di intravedere il suo profilo, immobile, nel buio. 
O forse era solo suggestione.
"E che cosa gridavo, André?", chiese lei, cauta.
"Nulla ... solo "no", ripetuto infinite volte", mentì lui, con tono sicuro.
"Ah. Grazie, André".
Avrebbe giurato che ora Oscar avesse chiuso gli occhi.
Li chiuse anche lui, sentendosi il cuore pesante, sino a quando i raggi del sole mattutino non filtrarono dagli scuri accostati.
 
 
E così il primo dei tre fantasmi – dickensianamente parlando – si è palesato.
M. Mann mi perdonerà, ma “L’ultimo dei Mohicani” è un film che ho visto e rivisto tante, tante, ma tante volte, e l’assalto alla colonna in marcia non poteva che essermi ispirato, nella dinamica e nello svolgimento, da quello che ci presenta la pellicola.
 Buon agosto a tutti e a presto! E grazie di essere arrivati sino a qui!| d.
 
[1] L'ex libris è mio, lo ammetto. Il significato? "Chi ruberà questo libro/ non vedrà Gesù"(scil. perché andrà "laggiù"): è un motto, adattato, che era su una cinquecentina, vergato dalle mani di due studenti del XVI secolo, che dunque sono polvere da secoli. Ma mi è piaciuto rendere mio il motto che essi coniarono in un momento di divertimento: Lorenzo e Giovanni, ovunque voi siate, io vi penso ogni volta che timbro uno dei miei libri, e vi ringrazio.

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Capitolo 7
*** 7- Capitolo 6 - L'Orfanello ***


 
7 – Capitolo 6 - L’Orfanello
 
Mai vestizione fu più imbarazzata di quella del mattino successivo.
 
Oscar aveva aperto gli occhi molto presto, alle prime luci dell’alba, dopo averli chiusi, con affanno e come guardinga, solo dopo molto tempo da quando aveva proferito l’ultimo ringraziamento ad André, l’ennesimo grazie, grazie per... la sua sollecitudine, la sua sollerzia, la sua attenzione, e anche per la sua discrezione, per il suo saper vedere senza chiedere, sentire senza domandare, senza esercitare quella improntitudine curiosa che tutti si sentivano, presto o tardi, autorizzati a usare con lei.
 
Aveva tenuto a lungo gli occhi spalancati nel buio, esitando persino a girare la testa, nel timore che André, anche se immerso nel buio, cogliesse il movimento del suo capo e capisse che la sua compagna di letto non dormiva.
 
Mentre stava con gli occhi spalancati sul nero della camera, Oscar si tormentava
all’idea che André, che aveva così signorilmente mentito, discreto come era sempre, l’avesse sentita invocare e gridare disperata il nome di Fersen:
all’idea che quel segreto che le artigliava il cuore e lo spirito non fosse più così segreto;
all’idea che proprio André, proprio lui, dovesse alfine avere scoperto quello che ella da anni cercava di soffocare, di non mostrare, di negare;
all’idea che quel sentimento, destinato, certo, a rimanere inespresso e segreto, fosse comunque un’offesa, un insulto nei confronti della sua Regina e della lealtà che le era dovuta;
perché anche se Maria Antonietta di Asburgo-Lorena non avesse mai saputo, come non doveva sapere, nulla di quell’amore che Oscar – oh, poteva giurarlo! – aveva cercato di tacitare in ogni modo, di strangolare sul nascere, lei, Oscar François de Jarjayes, lo sapeva benissimo che cosa provava, lo sapeva benissimo come pensava al conte di Fersen, e in questo le sembrava che la sua devozione alla Regina ne fosse incrinata, resa opaca e torbida, priva di quella brillantezza adamantina che il confortante tribunale della coscienza le aveva sempre presentato.
 
Se anche nessuno avesse mai saputo nulla, lei, Oscar, sapeva che cosa provava: e se ne sentiva in colpa, terribilmente. Crimen maiestatis ... le frullava nella mente ... e anche, peggio, tradimento di un’amica, di uno spirito semplice e puro e bello, e ingenuo, anche; di un’anima che, sbalzata nella Corte più malignamente pettegola d’Europa, senza difese e senza risorse, aveva, dopo anni di solitudine, trovato qualcosa di bello, un sentimento vivo, e ricambiato; e lei, Oscar, ne  suo spirito, glielo insidiava, glielo invidiava ... glielo voleva strappare?
No, certo che no.
 Ma solo provare quel che solo Maria Antonietta era autorizzata a provare era un delitto. E ancora più grave perché era davanti alla sua coscienza che Oscar doveva rispondere. Non si pecca forse, le avevano insegnato tanto tempo prima, in pensieri, parole, opere e omissioni?
E se i pensieri vengono per primi, in questa successione, non è forse perché sono la forma più grave di peccato, quella da cui tutto trae origine?
Scosse la testa, e continuò a vestirsi, con gesti lenti, sottilmente imbarazzati. André, che le voltava le spalle, mentre Oscar, riemersa da dietro il paravento, si allacciava lo jabot e la giacca dell’uniforme, le rivolse uno sguardo che lei intercettò, distogliendo però subito lo sguardo, e abbassando le palpebre. “Come devono fare le ragazze modeste e bennate”: le risuonarono nelle orecchie, provocandole un accenno di sorriso amaro, le parole di sua sorella Clothilde, la voce sempre argentina, ma fredda e antipatica, ogni sillaba scandita con estenuante precisione, e compiacimento, mentre spiegava a Oscar quel che le avevano insegnato in convento le monache circa la postura di una demoiselle ben educata, e perché, invece, quella dell'ultimogenita di casa Jarjayes, seduta con la gamba destra inclinata di sghimbescio sulla sinistra, con il gomito appoggiato alla coscia e il palmo della mano a sorreggere il mento, fosse assolutamente proibita alle signorine come lei, Clothilde, e a tutte coloro che un giorno avrebbero fatto il loro ingresso a Corte.
"Versailles?!", l'aveva interrotta sarcastica Oscar, aggiungendo, sprezzante: "Non metto piede in quel luogo!", fiera dell'espressione scandalizzata che si era dipinta sul volto di Clothilde.
 
Finito di vestirsi, Oscar prese la porta, dicendo solo: “Ora scendiamo a fare una buona colazione, André: sarà una giornata lunga”.
 
E mentre l’oste si affaccendava intorno a loro, proponendo caffé, cioccolatte, persino the, o un più robusto inizio di giornata a base di pane e formaggio e un distillato locale di buona qualità, Oscar taceva, sorseggiando il suo caffé, mentre André cercava di rispondere alle domande del padrone del locale, e poi della cameriera, Marianne, che si avvicinava compita e sorridente esibendo un bricco lucido e bollente, ma, soprattutto, intenzionata a chiedere dove fossero diretti quei due viaggiatori così insoliti e distinti.
 
“A Lille: abbiamo un appuntamento nella casa di Place du Lion d’Or 6”, disse André, con semplicità, mentre girava il cucchiaino nella chicchera.
Un boato di ceramica che si infrange coprì quasi le ultime parole del giovane, che si girò di scatto: Milène, l’altra cameriera, aveva lasciato cadere il vassoio con le tazze che stava portando a un tavolo affollato, e si teneva il volto fra le mani, gli occhi sgranati. Nel frattempo, gli altri avventori, che avevano assistito alla scena, si erano volti tutti, inspiegabilmente, non verso la servetta, ma verso André, scrutandolo con espressione indefinibile, fra il curioso e l’incredulo.
 
Subito dopo, Mylène si riscosse. “Perdonate, perdonatemi!”, disse, disperata, rivolta all’oste, agitando la mano destra e insieme chinandosi sui cocci di ceramica, mentre il taverniere, rivelando un fare sollecitamente paterno su cui Oscar e André non avrebbero scommesso una livre, si affrettò, con uno straccio, a raggiungere la ragazza, aiutandola ad asciugare il lago di caffé e rassicurandola: “Tranquilla, Mylène, tranquilla. Vedi bene che non è successo niente: qualche tazza rotta e nulla più. Lascia fare a me, qui: tu va’ in cucina e prenditi qualcosa di forte!”.
E, senza farselo ripetere due volte, la ragazza si alzò e volò letteralmente in cucina.
 
Oscar aveva distolto lo sguardo, prima ostinatamente concentrato sul caffé che fumava nella sua chicchera, e aveva piantato con fare inquisitorio gli occhi in faccia a Marianne, immobile come una statua di cera, una mano a reggere il bricco del caffé e l’altra sul cuore, una smorfia incredula e spaventata sul volto.
André, allora, con dolcezza, si era alzato aveva sfiorato il braccio della ragazza e l’aveva invitata a sedersi fra lui e Oscar.
“Mia cara ragazza, mi scuserete certo se ho detto qualcosa che non va  ...”
“Non ci andate, Monsieur, non ci andate! Vi prego; non ci andate laggiù!”
Ora Marianne aveva posato il bricco sul tavolo, e, rivolta ad André, gli stringeva il braccio con la mano sinistra, mordendosi il labbro con i denti, gli occhi stravolti e pieni di pianto.
 
“Dove non dobbiamo andare, Mademoiselle? A Lille?”

        “In Place du Lion D’Or numero 6”, soffiò Marianne disperata, ignorando bellamente Oscar, che fissava la nuca della ragazza incredula e indispettita di essere, forse per la prima volta nella sua esistenza, trascurata a quel modo, come se fosse inesistente.
 
“E perché mai, Mademoiselle, non dovremmo andarci?”, chiese sorridendo André, con il tono più rilassato e tranquillo del mondo.
 
“Perché vi farà diventare pazzi!”, disse, fra le lacrime, Marianne.
 
“Chi ci farà diventare pazzi, Mademoiselle?”, chiese Oscar, in tono freddo e indagatore.
 
A quella domanda, Marianne si volse di scatto, e, senza lasciare la mano che artigliava il braccio di André, rispose, il viso a meno di due pollici da quello di Oscar: “La casa! LA CASA! LA CASA DI PLACE DU LION D’OR NUMERO 6! Quella casa è ... è maledetta!”.
Nel frattempo, il padre, arrivato, reggendo cocci e strofinaccio bagnato, al tavolo dei tre, aveva lanciato alla figlia un’occhiata silenziosa, facendo sì che Marianne si alzasse e, senza una parola, corresse in cucina, raggiungendo Mylène.
Poi, sedutosi di fronte a Oscar e André, e deposti i cocci sul tavolo, aveva detto, imbarazzato.
 
“Dovete scusare mia figlia, e anche la piccola Mylène: si sa, le donne ... così sensibili, sono facilmente impressionabili”.
 
Era un brillìo d’ira quello che André, con la coda dell’occhio, aveva colto nelle iridi di Oscar, che fissava il taverniere con aria intenta e concentrata?
 
“E quindi, si tratta solo di vecchie superstizioni?”, chiese Oscar,con tono severo.
 
“Oh, no, Messieurs, no”, rispose l’oste, diretto a tutti e due. “Perché, vedete ... nessuno a Lille , uomo o donna, vecchio o giovane che sia, entrerebbe ed entrerà mai a cuor leggero nella Casa dell’Orfanello!”
 
“La Casa dell’Orfanello?”, domandò Oscar, interessatissima, come se lo scetticismo avesse lasciato il posto al desiderio di sapere.
E poi, dopo una breve pausa, fissando l’oste neglio occhi: “Monsieur, che cosa  c’è nalla casa di Place du Lion d’Or numero 6?”
“Ecco, vedete...”. L’oste, a dispetto dell’età e della corporatura ursina, sembrava imbarazzato come un bambinetto che non ha studiato la lezione, colto in flagrante dal maestro: era com se non trovasse le parole. Infine, prese coraggio: “Nessuno a Lille entrerebbe ed entrerà mai nella Casa dell’Orfanello a cuor leggero!”, esclamò l’uomo.
“Questo, ce l'avete già detto, Monsieur. Ma perché mai?”, gli chiese André:
“Oh, beh, è una lunga storia...”, bofonchiò l'oste, come a voler tagliar corto.
“E noi la ascolteremo con pazienza”, rispose André, allungando le gambe sotto il tavolo  e mettendosi a braccia conserte, l’espressione concentrata, mentre Oscar, allontanata la chicchera con la mano destra, si portava la mano sinistra, il gomito puntato sul tavolaccio rigato e macchiato, a sostenersi il mento, le dita che sfioravano le labbra nervosamente mentre ascoltava l’incredibile storia dell’oste.
 
“Vedete, Colonnello de Jarjayes, anni fa comprò, o comunque si stabilì nella casa di Place Du Lion d’Or numero 6 una giovane famiglia: lui era il figlio di un droghiere, o di un mercante di stoffe, arricchitosi con i suoi commerci, ma lei, la sua gentle moglie, era la figlia illegittima di un grande principe, che aveva sempre voluto tenere segreta la sua nascita, ma che l’aveva riccamente provveduta di mezzi: vigneti in Provenza, o in Normandia, e terre, e castelli in Piccardia, o in Bretagna ...”
“Un po’ vago come inizio di una storia vera!”, provò a scherzare André, con un sorriso.
“Non si scherza con queste cose, Monsieur!”, lo rimbeccò l’oste, severo. “Non si scherza! Mai”. E poi continuò il suo racconto, torcendosi le mani: "La giovane moglie aveva ricevuto una gran dote, e i due coniugi avevano un bambino, bellissimo, con i capelli neri come l'ala di un corvo, e gli occhi azzurri come il cielo. La povera signora aveva raccontato alla balia che, purtroppo, per l’imperizia della levatrice e del medico che l’avevano assistita durante il parto, non avrebbero potuto avere altri figli, e quel bambino era il solo erede di tutti i beni della famiglia.
La giovane madre non aveva parenti in vita, o meglio, non aveva parenti che potessero e volessero palesarsi per tali, visto che era stata allevata come una damda dell’alta società, ma aveva trascorso praticamente tutta la sua vita in collegio; mentre il giovane marito, orfano e solo, aveva solo uno zio, che i due buoni genitori avevamo nominato tutore del loro figlioletto, contro ogni evenienza luttuosa che avesse potuto accadere loro.
Lo zio del marito, che i due giovani invitarono a vivere con loro, per dare al loro bimbo il calore di una famiglia con un vecchio zio che potesse essere una sorta di nonno affettuoso, era in realtà un uomo avido e malvagio: ben presto maturò il proposito di impadronirsi delle ricchezze della giovane famiglia. Inspiegabilmente, la giovane madre iniziò a dimagrire e deperire: a nulla servirono i consulti e l’opera dei medici più illustri, che non riuscirono a venire a capo del misterioso male della donna, la quale, in breve tempo, morì.
Il marito, com’è naturale, dopo la morte di una moglie giovane, bellissima e amatissima, perse ogni voglia di vivere, di uscire di casa, financo di mangiare e di alzarsi dal letto. Ma, dopo alcune settimane, fu chiaro che le radici del male di quel giovane uomo non affondavano solo nel crepacuore e nello spirito addolorato per la perdita della sua amata: vi era nella sua afflizione un’origine fisica, un male che nemmeno in questo caso alcun medico poté curare, e che lo portò ben presto alla tomba, accanto alla sua amata; né mancò chi credesse che lo zio disonesto e rapace avesse fatto ricorso, per affrettare la morte del nipote e prima della sua sposa, a qualche misterioso veleno, come l’Acqua Tofana, che non lascia tracce.
Il vecchio zio, dunque, restò  a vivere in quella casa con il bambino, rimasto solo al mondo: o meglio, solo al mondo, eccetto quel vecchio parente. E che il Signore mi perdoni, ma sarebbe stato molto meglio se quel povero piccino fosse stato davvero solo al mondo, senza parenti! Ora, lo zio, diventato tutore del bambino, e amministratore dell’ingente fortuna che il piccolo avrebbe ereditato di lì a qualche anno, una volta cresciuto, non trovava altri ostacoli alle sue bramosie, se non una comprensibile prudenza: giacché l’orfanello era un bimbo bianco e rosso da fare invidia al figliuolo di un re, e godeva di ottima salute, e non sarebbe stato credibile se avesse perso la vita a poca distanza dai suoi genitori, e magari a causa di una malattia misteriosa e dal decorso inspiegabilmente veloce. No, il piano  di quell’uomo malvagio fu più perfido e sottile”.
L’oste fece una pausa, deglutì, come se facesse fatica a trovare le parole giuste per proseguire, poi si coprì gli occhi con la mano, e continuò:
“Ebbene, se, agli occhi di tutti, il contegno di quell’uomo mostruoso era impeccabile, quando passeggiava per i viali della città con il nipotino e la bambinaia, in realtà il tutore, una volta dentro le mura di casa, si comportava ben diversamente: la notte, infatti, tutta la servitù doveva lasciare il palazzetto di Place du Lion d’Or – tale era il vincolo che quell’anima nera aveva imposto, compensando codesta strana soluzione con ricchi salari – e allora si mostrava il vero volto di quel mostro di tutore, che rinchiudeva l’orfanello in una gabbia, collocata in quella che avrebbe dovuto essere la sua stanza; poi, spento il caminetto e ogni lampada, e lasciato il bambino al freddo e al buio, quello zio crudele chiudeva la stanza a chiave e si ritirava nel suo appartamento.
Immaginate, Messieurs, il pianto e la disperazione, il freddo e il senso di abbandono di quel bambino; ma nessuno poteva sentire i suoi pianti, nessuno poteva tendergli una mano; e così, l’orfanello iniziò a deperire, farsi sempre timido e tremebondo, impaurito dal mondo e dagli uomini, come riscontravano i passanti che lo incrociavano nelle sue sempre più rare passeggiate per i viali cittadini; sino a quando, il freddo patito in quella camera ghiacciata gli fece prendere una polmonite e il bambino, già debilitato, morì.
Ma la notte stessa, dopo il suo funerale, mentre, al caldo sotto le coperte del suo fastoso letto a baldacchino, si apprestava a prendere sonno senza che la sua coscienza nera avesse un solo sussulto, lo zio ebbe un’amara e spaventosa sorpresa: non appena spenta la candela che aveva sul comodino, si vide ai piedi del letto, evanescente, ma ben riconoscibile, la figura dell’orfanello, che, con un sorriso, gli chiedeva di giocare con lui, come aveva fatto tante volte in vita, senza che mai quell’uomo perfido e malvagio l’avesse mai degnato di attenzione, o di un moto di affetto.
 
L’uomo urlò, per il terrore, ma in casa non c’era servitù – retaggio delle vecchie abitudini contratte per dissimulare il suo piano criminoso -, ma la piccola figura non si dissipò; anzi, protese le braccine verso lo zio, il quale prese a urlare pazzamente, e poi, presa di slancio la porta, si precipitò nel salotto,  quindi in cucina, e di lì nella sala della musica: ma, quale che fosse la stanza in cui entrava, ci trovava sempre l’Orfanello, sorridente, che protendeva le braccine verso lo zio e lo invitava a venire a giocare con lui.
A questo punto quell’assassino senza cuore, terrorizzato, si sedette in un angolo della sala della musica e, copertosi le orecchie e chiusi gli occhi, iniziò a gridare e piangere, sino a quando le forze non gli vennero meno e cadde in deliquio. La mattina dopo, la governante e la servitù , che, come sempre, arrivavano in Place du Lion d’Or numero 6 alle otto e mezza in punto, trovarono il vecchio tutore ancora in camicia da notte, in un angolo della sala, con gli occhi sbarrati e come istupidito e contratto.         Venne chiamato un medico; dopo di che, con fatica, l’uomo fu messo a letto, nonostante le membra rigide come uno stoccafisso. Dalla sua bocca non uscivano parole, gli occhi erano sbarrati, il polso accelerato. Il medico diagnosticò una forma subitanea di paralisi e portò l’uomo all’Hotel Dieu, dove quell’essere spregevole finì i suoi giorni poco tempo dopo, senza mai aver più articolato parola.
Ma l’Orfanello, lui, rimase per sempre a vagare in quella casa, a cercare, negli occupanti di quelle stanze, la compagnia, il calore, e l’affetto che non aveva avuto in vita. E per questo nessun cittadino di Lille potrebbe mai soggiornare o accettare di mettere piede nella casa di Place du Lion D’Or numero 6!”. Così concluse il taverniere, alzandosi dalla tavola e lasciando Oscar e André con passo affrettato, e, parve ai due, anche con le lacrime agli occhi”.
 
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E così, abbiamo fatto indirettamente conoscenza con la presenza che alberga nella casa in Place du Lion d'Or 6 a Lille. La storia dell'Orfanello, che ho debitamente rielaborato, è un classico dei racconti di fantasmi: vi consiglio in materia il bel saggio di F. Camilletti. Avrete, ovviamente, riscontrato delle volute incongruenze in questa storia, come sempre ce ne sono nelle storie di fantasmi. Ora, però, il quesito è: che cosa attende davvero Oscar nella misteriosa dimora in Place du Lion d'Or?

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Capitolo 8
*** 8 - Capitolo 7 - Il misterioso Monsieur D. ***


8 - Capitolo 7 - Il misterioso Monsieur D.
1 - “È davvero incredibile, Oscar, che ancora nel diciottesimo secolo, anzi, quasi nel diciannovesimo[1], esistano persone così scioccamente superstiziose!”, si accalorava André mentre, sotto il sole freddo di quella giornata luminosa e gelida, percorrevano le ultime miglia che li separavano da Lille.
“Sei stato tu, mi pare, a nominare la casa dove dovremo soggiornare”, obiettò Oscar, il mento e il naso affondati nel colletto del mantello, le spalle incassate, per ripararsi dall’aria ghiacciata del mattino.
“Solo per vedere che effetto avrebbe fatto evocare la casa di Place du Lion D’Or”, rispose lui, con fare noncurante e quasi allegro.
“Ebbene: credo che tu abbia ottenuto un effetto ben chiaro”. Era neutra la voce di Oscar, o solo molto stanca?
“Beh, Oscar, adesso non sarai per caso preoccupata?”. Il tono di André era tranquillo, rilassato, analitico, pacato; come sempre: razionale, con ironia.,
“Pensa alla storia che ci ha  propinato quel bravo locandiere: oh, impressionante, ne debbo convenire, e anche lacrimosa al punto giusto, con quel povero orfanello tanto ricco e tanto solo” - e se solo gli occhi di Oscar avessero potuto indugiare sul volto di André, avrebbero visto il verde delle iridi del giovane oscurarsi brevemente, evocando un piccolo orfano, fragile ed esposto alla cattiveria del mondo,- “ma”, riprese quello, con tono sicuro, “ripensa un po’, al netto dei particolari melodrammatici, alla storiella che ci ha servito: quel furbone di un taverniere non ci ha detto né quando sia vissuto l’orfanello – se mai è esistito! – con i suoi sfortunati genitori; non ci ha saputo precisare di chi fosse figlia la madre dell’orfanello, né dai lombi di quale principe del sangue discendesse quella giovane sfortunata, né in quale convento fosse cresciuta, o la professione del genitore del padre dell’Orfanello. E poi: se l’oste sa concertezza che i genitori sono stati assassinati, suppongo che sia perché siano circolate delle voci: possibile che nessuno in questa disgraziata città si sia mai preso la briga di indagare?
E aggiungiamo anche questo: se nessuno ha mai assistito ai maltrattamenti inflitti dal tutore all’orfanello, giacché lo zio aveva cura di allontanare la servitù per la notte, quando lo rinchiudeva al freddo e al buio nella gabbia, come può l’oste, e, suppongo, non soltanto lui, ma anche una gran quantità di altre persone, conoscere il genere e il tipo delle angherie con cui il tutore vessava il bambino affidato alle sue cure?
E se nessuno, oltre al perfido tutore, si trovava in quella casa quando, la notte dopo il funerale, si sarebbe manifestato il fantasma dell’orfanello, e se davvero lo zio era così sconvolto e toccato da quella esperienza agghiacciante, da non recuperare mai più la parola, come è possibile sapere dell’apparizione notturna dello spettro del bambino?
 E se anche il perfido tutore è morto, adesso di chi è la casa? A chi pagava l’affitto Lady Crowe? A chi la prozia di Madame de Noailles?”.
“Noto che ultimamente sei diventato molto razionale”, disse, con voce incolore Oscar. Eppure, nell’indifferenza ostentata di quel rilievo, André ci colse un’implicita allusione alle sue letture delle nuove uscite librarie, letture da qualche tempo intensificate; per cui, giacché la miglior difesa è giocare d’anticipo, ci fece su una risata, Dio solo sa quanto forzata, ma che sembrò naturalissima, come sempre tutto quel che faceva, e aggiunse: “Eh, già, un vero philosophe!”, tirando dentro anche lei, in quella risata che acquisiva calore nel momento in cui ad André si aggiungeva Oscar.
Non ci fu più bisogno di parlare: perché, che necessità ne avevano, in fondo?
 
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2 -  “Adesso lascia fare una prova a me”, ruppe il silenzio Oscar, mentre si avvicinavano a Place du Lion d’Or.
Le chiavi della casa al numero 6 erano state lasciate in deposito alla filiale della banca dall’altra parte della piazza.
Oscar, forte dell’uniforme da Comandante delle Guardie Reali, indossata quella mattina, si rivolse direttamente, fulgida nel rosso del tessuto e nel biondo dei capelli, al cassiere della banca, che, una volta identificato un ufficiale dell’esercito di Sua Maestà, anzi, nientemeno che il Comandante delle Guardie di Sua Maestà, si profuse in mille inchini, e propose di condurre sua Eccellenza il Colonnello De Jajayes al piano di sopra, dal direttore della banca, Monsieur de Vergeron, che sarebbe stato ben lieto, e anzi onoratissimo, di accogliere un personaggio di tanto riguardo nel suo ufficio, e...
“Ma non sarà necessario, Monsieur”- lo interruppe Oscar sorridendo, quasi con superiore noncuranza, “mi basterà ricevere dalle vostre mani le chiavi lasciate in deposito presso questa filiale da Madame de Rosemonde”.
“Ah, certo, certo ... sapete, Colonnello, qui molti viaggiatori lasciano in deposito chiavi ed efffetti personali ... ah ah ah ...”, e aggiunse, con una punta di campanilismo nemmeno troppo malcelato: “Sbaglierebbe, e di grosso, chi pensasse Lille una città sonnolenta e isolata: ah, no! Gente che va, gente che viene: non ci si crederebbe, o meglio, molti parigini non ci crederebbero, ma è così. Ma in ogni caso, avreste potuto farvi consegnare il mazzo di chiavi direttamente davanti alla soglia della vostra dimora, Colonnello de Jarjayes: sarebbe bastato un messaggio, e io o – e qui il tono del cassiere si fece untuoso – un nostro galoppino saremmo accorsi a portarvi le chiavi ... dove avete detto che risiederete nei prossimi giorni?”
“Non ve l’ho ancora detto, in effetti”, sorrise Oscar, soave, “Ma non c’è bisogno di nessuna consegna davanti alla soglia di casa: io e il mio attendente soggiorneremo per qualche giorno proprio dall’altro lato della piazza, al numero 6”. L’espressione del cassiere si fece eloquente: si morse il labbro inferiore, abbassò gli occhi, e poi soffiò, in tono piatto: “Ah, beh, allora, in questo caso ... no, non credo che avremmo potuto consegnarvi le chiavi ... no, davvero, in questo caso, no”.
“Perché no, Monsieur?”, s’intromise André, con fare sornione.
“Perché, perché .... insomma ... eh eh, beh, lo vedete anche voi, Messieurs, siamo qui ... e dunque ... certo capite anche voi ... eh, eh, via, per pochi passi....” Come dovevano dare fastidio le mani, al cassiere, durante quella confusa spiegazione! Se le fregava sulla marsina, o tentava di intrecciarle maldestramente, le dita che battevano le une contro le altre, se le portava alla fronte – era davvero madida di sudore, nonostante il freddo della giornata, che penetrava fin nelle ossa, anche dentro i locali della banca? - si toccava il naso: il poveretto era, evidentemente, nella confusione più totale!
Ma ci pensò Oscar a toglierlo dalle ambasce: “Monsieur, mi perdonerete, ma avrei la curiosità di sapere chi sia il proprietario della casa al numero 6 della piazza”. Per tutta risposta il cassiere le piantò in volto due occhi scialbi e spauriti, come se Oscar gli avesse chiesto di indicarle la dimora di Lucifero, e di condurvela. Poi, preso fiato, quell’omino dall’aria infelice rispose: “Questo non lo so, ma credo, Colonnello de Jarjayes, che potrete soddisfare la vostra curiosità direttamente dal direttore della nostra banca. Con permesso, lo vado ad avvertire perché vi riceva immediatamente”; e così dicendo, volse le spalle ai due visitatori e si avviò per la scala di marmo rosa verso il piano superiore.
 
 
3 - Una volta fatte le presentazioni, e dopo che si furono seduti nelle morbide poltrone damascate davanti alla scrivania del Direttore, Monsieur Pierre de Vergeron, Oscar e André ebbero la sensazione di essere in un mondo diverso da quello in cui si trovava lo stanzone gelido al pian terreno, di essere entrati in una dimensione in cui tutto era già risolto e previsto, in cui a tutto si poteva provvedere con voce bassa e passi felpati, attutiti dallo spesso tappeto che rivestiva quasi integralmente il pavimento dell’ampia sala e in cui sprofondavano i piedi dei visitatori.
Monsieur de Vergeron, onoratissimo di aver di fronte a sé nientemeno che il Comandante delle Guardie Reali, aveva offerto loro un cioccolatte, che un solerte impiegato era andato a ordinare dall’appartamento personale del Direttore, comunicante con il suo ufficio, al secondo piano del palazzo; e ora, dopo averlo sorbito, i tre si disponevano a una tranquilla chiacchierata.
“E così, Colonnello de Jarjayes, voi avete intenzione di trascorrere con il vostro attendente alcuni giorni nella casa al numero 6 della piazza?”.
“Sì, Monsieur de Vergeron”, rispose Oscar, le gambe incrociate e allungate, il gomito sinistro sopra il bracciolo della poltrona, e le dita a sorreggere il mento, mentre l’altra mano reggeva i guanti di capretto bianco, facendoli oscillare nel vuoto ritmicamente.
“Saprete certo che non è la casa con la reputazione più specchiata di Lille ...”. Il preambolo del vecchio banchiere, gli occhi vivissimi, infossati nel cranio, a sfavillare in un deserto di rughe, mirava a sondare quanto i due visitatori conoscessero delle dicerie relative alla dimora collocata dall’altro lato della piazza. Ma il silenzio di Oscar e André, silenzio eloquente, teso e intento, venne da lui accolto come la risposta che, in fondo, si aspettava. “Avrete certo i vostri affari da concludere, e i vostri motivi, sui quali non voglio indagare”, convenne il vecchio, con aria pensosa, prendendo un dolcetto alle mandorle di quelli che aveva fatto portare insieme al cioccolatte, e facendo sparire nella bocca dai denti ancora bianchissimi e saldi (“Denti da predatore”, annotò mentalmente Oscar, come in un automatismo) la minuscola, morbida collinetta dolce e chiara, culminante in una deliziosa e succulenta amarena color porpora.
Monsieur, ci chiedevamo se Voi poteste aiutarci”, prese la parola André cui Monsieur de Vergeron, come tutti i borghesi affascinati dalla nobiltà e come supini di fronte al fascino che ne promanava rivolse uno sguardo distratto, quasi avesse a che fare con l’animale domestico di un visitatore, che, inopinatamente, si fosse messo a parlare.
“Sì?”, chiese Monsieur de Vergeron, con fare interrogativo, e senza un’oncia delle belle maniere sfoggiate con il Colonnello de Jarjayes.
“Ci chiedevamo”, continuò André, senza dar vista di aver notato il tono colloquiale che il Direttore aveva assunto nei suoi confronti – mentre gli occhi di Oscar si appuntavano su quel vecchio elegante, e arrogante, con silenziosa disapprovazione, “se poteste dirci a chi appartiene la casa al numero 6 della piazza. Sulla dimora si addensano racconti superstiziosi di cui non mette conto neppure ricordare l’insensatezza, ma il Colonnello de Jarjayes e io vorremmo tanto capire come possano essere nate tutte queste dicerie frutto di ignoranza e oscurantismo”.
“Volete dire, Monsieur Grandier, che vi trasferite temporaneamente, insieme al Colonnello de Jaryaes, in una dimora, senza sapere a chi pagherete la pigione? Molto interessante!”, scoccò, sarcastico, il Direttore della banca.
Monsieur de Vergeron”, intervenne Oscar, apparentemente conciliante, in realtà cercando di coprire con una dose aggiuntiva di maniere riguardose la sua irritazione, diretta verso quell’uomo che si permetteva di svillaneggiare André, e di mettere becco nella loro linea di condotta a Lille, “in verità siamo, in un certo qual modo, ospiti. Ospiti per volontà di una Dama molto influente a Corte, la quale ci ha provveduto di questa dimora per il tempo che trascorreremo in città”; e, così dicendo, Oscar tese, dall’incartamento ricevuto a Versailles, una lettera, allungandola sulla scrivania verso Monsieur de Vergeron. Il quale, pur se freddo come un’anguilla, e aduso a mettere in pratica il motto latino che ammonisce: nihil mirari – da lui praticato in decenni di transazioni d’affari fruttuose e succulente, che gli avevano permesso di conoscere le situazioni più strane e più pazze che si possano immaginare (come sempre accade quando si trattano affari e si maneggiano grandi quantità di danaro, avendo a che fare con gente di ogni tipo) – riconosciuto sulla busta il sigillo reale, perse la sua impassibilità, divenuta ormai proverbiale a Lille, e arcuò le sopracciglia, rendendo poi, con un gesto cerimonioso, la lettera a Oscar, all’altro capo della scrivania.
“Bene, capisco, Colonnello de Jarjayes, l’importanza del vostro soggiorno nella nostra bella città”, disse con un sorriso il vecchio, “e pertanto”, continuò, con tono di profonda degnazione, “in via del tutto eccezionale, e solo in considerazione degli interessi superiori che intuisco coinvolti in questa vicenda, vi dirò quanto so, violando quell’obbligo di discrezione che sempre deve vincolare chi svolge un’attività come la mia”. E, non appena il Direttore ebbe suonato un campanello, si materializzò sulla soglia un impiegato, la marsina scura un poco gualcita e l’aria non meno gualcita di chi già da molte ore sforza gli occhi, al quale Monsieur de Vergeron disse solo: “Portami il registro rosso, quello sul terzo scaffale dell’archivio, a sinistra, verso la porta”. Mentre l’impiegato se ne andava trottando, e Oscar e André osservavano perplessi il Direttore, questi, con un sorriso tirato, che si sarebbe persin potuto definire mesto, spiegò: “Messieurs, non stupitevi se conosco ogni singolo documento custodito in questo palazzo, e la sua posizione: la banca è stata fondata dal padre del mio trisavolo, e vi hanno lavorato il mio trisavolo e il mio bisnonno, e poi mio nonno e mio padre, e anch’io, da che ne ho memoria, ho trascorso tutte le mie ore e il mio tempo qui, prendendo familiarità, prima ancora di saper far di conto scioltamente, con gli archivi, il computo degli interessi semplici e composti, i libri mastri, i ritmi del lavoro necessario per gestire questa impegnativa eredità familiare: ma del resto, che sciocco sono! Parlo di retaggio familiare proprio a voi, Colonnello, per il quale ereditare titolo e grado di vostro padre deve essere un onore, oltre che un piacere, cui siete avviato da molti anni!”.
Nel frattempo, l’impiegato era ritornato, recando al Direttore il registro richiesto. Monsieur de Vergeron lo aprì a colpo sicuro e informò i suoi ospiti, con tono didattico che lo rendeva, se possibile, ancor più antipatico: “Ecco qui, Messieurs: la casa di Place du Lion d’Or numero 6 risulta di proprietà di Louis-Ferdinand Destouches[2], che in data 2 maggio 1630 la acquista proprio dal presente istituto bancario, pagandola ... beh, questo dettaglio non vi dovrebbe importare ... eccetera eccetera, e aprendo presso di noi un conto corrente su cui ancora oggi sono depositati gli affitti di quanti vengono a soggiornarvi”. Monsieur de Vergeron chiuse il registro, guardando Oscar e André con aria soddisfatta, come a dire: “Ecco, adesso sapete. Contenti? E ora filare, grazie, e lasciatemi solo con i miei conti e il mio caffé, ché l’ora della mia chicchera corroborante di metà mattina si sta avvicinando”.
“Perdonate, Monsieur de Vergeron” – le parole di André suonavano insopportabilmente curiose alle orecchie del Direttore - “Ma se ho ben capito, dal 1630 a oggi il conto corrente è sempre stato intestato a questo Louis-Ferdinand Destouches, giusto?”
“Ebbene, sì!”, rispose stizzito il Direttore, quasi rendendosi conto, solo in quel momento, di una leggerissima incongruenza, che decenni di lavoro metodico e assiduo fra conti e interessi e ipoteche non gli avevano fatto notare, e che veniva, invece, rilevata immediatamente da quel visitatore intrigante.
“Dal 1630?”, chiese ancora André; con tono incredulo.
“Ebbene, sì, Monsieur Grandier”, ripeté, stizzito, il vecchio (ma era davvero stizza la sua?). “Tuttavia”, continuò, con fare disinvolto e rassicurante, da uomo di mondo, “vedete, può essersi trattato di semplice praticità: molti sono i conti in questo istituto bancario ancora a nome di quanti li hanno aperti decenni fa, e che ora sono ereditati dai figli, dai nipoti, e forse anche dai bisnipoti, senza che essi si siano sognati di modificare l’intestazione del deposito giacente presso il nostro istituto. In fondo, siamo una piccola città, e ci conosciamo tutti, fra impiegati e clienti abituali della banca: perché compiere una simile fatica?”.
“E allora chi ritira il denaro depositato sul conto di Louis Ferdinand Destouches?”, intervene Oscar.
Questo lo ignoro[3], Comandante de Jarjayes”, rispose Monsieur de Vergeron, “ma possiamo scoprirlo senza difficoltà”. E, suonato un secondo campanello, che, questa volta, stava dal lato opposto della scrivania, e che aveva un suono leggermente più cupo del precedente, fece apparire un altro impiegato, giovanissimo e dall’aria spaurita, cui ordinò di portargli: “Il registro dei movimenti contabili, lettera D, intesi?”.
Il registro, un volume imponente, venne sfogliato dal Direttore, la cui espressione si fece sempre più incredula.
“Ehm, ehm ...”, disse, perdendo l’abituale compostezza, “Devo ammettere che la cosa è piuttosto strana! Non ci sono movimenti in dare a carico del titolare di questo conto ...”
“Ovvero ...?”, chiese Oscar, bisognosa di chiarimenti.,
“Nessuno ...”, iniziò Monsieur de Vergeron, la cui voce, perplessa, venne coperta da quella di André, voltosi verso Oscar: “Nessuno ha mai prelevato denaro da questo conto corrente”.
“Nell’ultimo anno?”, domandò Oscar, bisognosa di chiarimenti.
“No: mai, mai una volta dal 1630 a oggi”, sancì Monsieur de Vergeron, stupito, la voce leggermente tremante, mentre Oscar e André si alzavano di scatto e, aggirata la scrivania, disposti l’uno a destra e l’altro alla sinistra del Direttore, si chinavano sul registro per sincerarsi con i loro stessi occhi di quella bizzarria.
 
4 - “Allora, ricapitolando: abbiamo un fantasma bambino e burlone, cui piace comparire la notte, cercando di coinvolgere i vivi nei suoi giochi, un fantasma di cui tutti in città sono perfettamente informati, pur non avendolo mai visto, in una casa il cui proprietario, per quanto ne sappiamo, è altrettanto fantasmatico, e continua, dal 1630 a oggi, a riscuotere la pigione, senza però essersi mai ricordato di andare a prelevare qualche Luigi per farsi una buona bevuta ... alla salute dei creduloni!”, rise André, facendo oscillare fra le dita il monmentale mazzo di chiavi ricevuto in banca.
Erano accomodati al tavolo di una taverna, poco lontano da Place du Lion D’Or, dove si erano rifugiati per discutere della linea d’azione da tenere, e dello strano caso, per non dire dell’enigma, costituito dalla casa dell’Orfanello. Avevano concordato di attendere ancora qualche ora prima di andare a conoscere la servitù assunta alla bisogna, invitandola a trasferirsi al numero 6, e di riservarsi quel tempo per una prima ricognizione della casa, senza altri testimoni. E, poiché anche nelle scuderie il personale avrebbe dovuto prendere servizio insieme alla cuoca, alla governante e ai camerieri, decisero di lasciare i cavalli momentaneamente nella stalla messa a disposizione dall’oste, collocata sul retro dell’edificio, e di procedere a piedi fino a Place du Lion d’Or.
“Ed eccoci davanti alla casa dei misteri!”, annunciò allegro André, aprendo il pesante portone d’ingresso.
“Stupido!”, rise Oscar con un sorriso, facendogli un cenno con la mano aperta, per farsi ridare il pesante mazzo di chiavi.
La casa, a una prima occhiata, sembrava avere molto poco di misterioso: solida e un poco tetra, con una boiserie scura che rivestiva tutte le stanze, eccetto le cucine, fino a metà delle pareti, era, per il resto, l’emblema della rispettabilità borghese e del buon gusto: al piano rialzato si trovavano sale ampie, con mobili di buona fattura, intarsiati, ma senza vezzi eccessivi; con tendaggi curati, ma non lussuosi; con stanze ampie, ma non fastose; in una parola, sembrava la classica dimora in cui, da una porta, ci si aspetta di veder sbucare una buona istitutrice con al seguito tre o quattro bambine trotterellanti e boccolute, figlie dei padroni di casa, cui impartire lezioni di canto e di grammatica, o una cameriera con una pila di lenzuola pulite e stirate, odorose di spigo, da sistemare negli armadi.
Nessun mistero, nessuna atmosfera paurosa, nessun brivido.
“Bene, André”, disse Oscar, “Credo che ora dovremo ispezionare le camere al piano superiore”.
“Va bene”, rispose quello. E, salito lo scalone di marmo, si trovarono in un corridoio, dalle cui pareti occhieggiavano vedute di Venezia, delle rovine del Foro Romano, e paesaggi marini graziosamente eseguiti: quanto di più convenzionalmente borghese si potesse immaginare.
Passarono così in rassegna una camera interamente tappezzata di rosso carminio, una camera rosa, una azzurra, una verde: tutte arredate con il consueto solido buongusto, con un orologio dorato sopra la mensola di marmo del camino, e un letto a baldacchino comodo e invitante, e poltrone morbide e comode.
“Bene: camera rossa, camera verde, camera azzurra, camera rosa: abbiamo quasi esaurito lo spettro dei colori, ma del nostro spettro non vi è traccia!”. André aveva parlato con leggerezza, mentre esaminava il fondo dei due grandi armadi per la biancheria posti subito all’inizio del corridoio, dove portavano le scale che salivano dal piano rialzato. Intanto Oscar, pochi passi avanti a lui, aveva posto la mano  sul pomo dorato dell’ultima porta di quella teoria di camere da letto: chiusa a chiave, la sola di tutta la casa.
“Ma cosa...”, mormorò Oscar, armeggiando con la maniglia, l’aria spazientita. Infine, le sovvenne il mazzo di chiavi ricevuto poco prima da André, che aveva messo nella tasca dell’uniforme, e, con pazienza, tentò con tutte, sino a quando, con un breve armeggiare, come se quella serratura non venisse sollecitata da molto tempo, la porta non si aprì. Poi, il Colonnello de Jarjayes, il fiero Comandante delle Guardie Reali, varcò la soglia, fece mezzo passo ... e si bloccò, lo sguardo fisso verso l’interno della stanza.
 
[1] Scusate, ma non ho potuto trattenermi da un'allusione al “Millequattrocento, quasi Millecinque” di Non ci resta che piangere.
[2] Proprio non ho resistito ....
[3] E anche qui, mi perdonerete: lo ricordate Gassman-Nostradamus?

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Capitolo 9
*** 9- Capitolo 8 - Incontro ***


9 – Capitolo 8 – Incontro
1 -  “Vieni a vedere, André”, disse, con voce atona, senza rivolgergli lo sguardo, solo facendogli un cenno con la mano, gli occhi fissi a quello che vedeva nella camera.
“Che cosa c’è Oscar? Che cosa hai trovato?”, chiese André, che aveva colto con preoccupazione l'immobilizzarsi di lei, e che aveva solcato il corridoio a grandi passi affrettati per raggiungerla prima possibile.
 “André, io  ...  io credo che abbiamo trovato la camera dell’Orfanello”, disse Oscar, e fece un passo avanti nella stanza.
La camera in fondo al corridoio non si distingueva per nulla dalle altre: identica la boiserie di legno di noce, identico il camino dalla mensola di marmo rosa, identico il pesante orologio laccato che faceva bella mostra di sé sul ripiano; soltanto, la tappezzeria di cui erano rivestite le comode poltrone, la causeuse e il letto a baldacchino era di un caldo color giallo damascato. In più, però, quella stanza era più spaziosa delle altre, lunga forse il doppio, perché, ampia e minacciosa nella sua mole scura, oltre le poltroncine e il divano che creavano uno spazio simile a un salottino da conversazione davanti al bel camino, faceva bella mostra di sé, occupando quasi metà della camera, una vasta gabbia di solido metallo.
Oscar la fissava, muta e immobile, attratta e insieme piena di incredulità e ripugnanza, e, in quegli attimi infiniti in cui non riusciva  distogliere lo sguardo da quelle sbarre di ferro, al suo profilo si affiancò anche quello di André.
 Deglutì, Oscar, smarrita, e André, lanciandole uno sguardo furtivo, non poté non notare i suoi occhi velati di lacrime.
. “Per questo era stata chiusa a chiave”, aggiunse, pensosa e cupa, quasi a continuare la frase interrotta poco prima.
“Ma che dici, Oscar!”, tentò di razionalizzare André, minimizzando: “L’Orfanello! Pfui! Ma non vorrai credere a questa storia inverosimile! La gabbia sarà stata lasciata da un inquilino che si era divertito a tenere per qualche tempo prigioniero un povero animale esotico, una scimmia, forse un orangutang, o qualche altra bestia che intendeva tenere bene al sicuro, evitando che se ne andasse a spasso per la casa combinando guai, o, peggio ancora, creando spavento o aggredendo la servitù!”
E mentre diceva così, André, insieme con Oscar percorreva la camera a passi tardi e lenti, osservando sotto il letto, dietro il paramento cinese, aprendo il cassetto del comodino, senza trovare nulla di interessante o significativo. Forse, però, pensò lei, nella gabbia ci poteva essere qualche indizio interessante, e si avvicinò a quel metallo freddo e repulsivo, forgiato per imprigionare e infondere disperazione.
“E tu daresti a una scimmia questo?”, chiese Oscar a un tratto chinandosi e allungando una mano fra le sbarre della gabbia.
Si rialzò reggendo nella destra un orsacchiotto di pezza, simile a quello che aveva avuto da bambina, e che aveva seppellito sotto la grande quercia del parco di Palazzo Jarjayes[1]. Soltanto, a differenza del giocattolo che Oscar e André si erano tante volte contesi nei loro pomeriggi di giochi infiniti, tanti anni prima, questo aveva la parte centrale del muso in porcellana, con occhi dalle palpebre mobili, e dalle lunghe ciglia. Un fiocco rosso fissato sulla testa del pupazzo, e un abito rosa che voleva somigliare a una gonna indicavano che, più che un orso, quella doveva essere un’orsetta: un assai strano giocattolo, se davvero doveva dilettare le ore di reclusione di una scimmia o di qualche altro animale, come pretendeva André: ne faceva fede, fra l’altro, il perfetto stato di quel pupazzo. E mentre nella testa di Oscar risuonavano le stesse considerazioni di André, si chinò a riporre nuovamente l’orsetto nella gabbia, con una delicatezza reverenziale che sorprese il suo compagno. Poi, seguita da lui, si diresse verso la porta.
“Penso che dormirò in questa stanza, durante il nostro soggiorno a Lille”, disse, con il tono asciutto che André le conosceva tanto bene, e contro il quale non valeva nemmeno la pena di incaponirsi a proporre soluzioni alternative, men che meno avanzare obiezioni.
 
 
2 - Le ore successive trascorsero velocemente, occupate dalle necessarie cure per recarsi alla locanda dove soggiornavano i domestici – i quali risultarono tutti, invariabilmente, originari da fuori Lille, e, in un paio di casi, per la cuoca e lo stalliere, da fuori regione; per sistemarsi comodamente nella dimora, e per dare le necessarie istruzioni relative agli orari dei pasti e alle altre necessità quotidiane, nonché, dopo cena, per passare in rassegna con scrupolosa attenzione i testi della ricca biblioteca, nella quale troneggiava anche un biliardo, un poco irritualmente rivestito di rosso.
Quindi, dopo una partita, regolarmente vinta da Oscar, come sempre era accaduto negli oltre quindici anni da che i due avevano scoperto quel gioco con cui talvolta si dilettava anche il Generale Jarjayes, e con un bicchiere di Armagnac sorbito seduti davanti al fuoco, i due fecero il punto della situazione.
“Quindi, nessuno dei dipendenti assunti per questa settimana viene da Lille? Ne sei sicuro, André?”, domandò Oscar, evocando il particolare che più l’aveva colpita sino a quel momento.
“Sicurissimo, Oscar. Mentre la cuoca preparava la cena, e prima, nel tempo in cui lo stalliere sistemava i cavalli che ero andato a riprendere alla locanda, ho trovato modo di chiacchierare un poco con loro, e non solo con loro: ebbene, nessuno di loro è originario di questa città, e nemmeno dei dintorni, e tutti sono abbastanza scettici, per non dire fortemente increduli, rispetto alla fama di questa casa.
 Quando poi ho accennato alla stranezza delle circostanze che ci hanno portati qui, Madame Blondette, la cuoca ha anzi ridacchiato, liquidando le paure superstiziose a proposito dell’Orfanello e la nomea di questa casa, con una frase secca: “Ebbene, Monsieur Grandier, io, per conto mio, non ho mai incontrato uno spirito, ma non credo che nulla possa essere più spaventoso di non sapere se il giorno dopo si potrà mangiare, o se si avranno soldi sufficienti in tasca per poter avere un tetto sopra la testa e comprare legna da ardere nel camino, e sfamare i propri figli, o pagare il medico per curarli se si ammalano!”.
“Davvero ha detto questo, André?”, chiese Oscar, pensosa, con lo sguardo fisso al fondo del suo bicchiere di liquore.
“Naturalmente, Oscar: perché mai ti dovrei mentire?”.
“È davvero così difficile  ... “mormorò lei, per tutta risposta, come risucchiata dentro il gorgo delle sue riflessioni; e si interruppe così, senza concludere la frase, e lasciando André in sospeso.
“Ebbene”, disse poi lui, con tono deciso, e quasi allegro, alzandosi e andando a colpo sicuro verso un volume che aveva adocchiato poco prima, “direi che potremmo concludere degnamente la serata con una lettura appropriata alla situazione!”; e così dicendo, si sedette nuovamente in poltrona, davanti al fuoco, e iniziò a tradurre all’impronta, con la sua bella voce, calma e profonda:

“C’era ad Atene una casa spaziosa e ampia, ma che aveva una cattiva fama, e apportatrice di sventura ai suoi inquilini. Nel silenzio della notte si sentiva un suono di ferraglia, e, se si prestata ancora più attenzione, un rumore di catene scosse, dapprima che veniva più da lontano, e poi da molto vicino; subito dopo appariva il fantasma, una figura terribile per magrezza e squallore, con una lunga barba incolta e capelli ispidi e ritti in testa; le gambe erano avvinte dai ceppi, nelle mani reggeva delle catene, e le scuoteva. Per questo motivo gli inquilini passavano, a causa del terrore provato, nottate tristi e piene di afflizione; e ben presto, alla mancanza di sonno teneva dietro la malattia, e poi, a misura che la paura cresceva, la morte...”
Oscar lo fissò, stupita, e quasi sorridente, a dispetto dell’argomento del brano che André andava traducendo dal latino.
“Te lo ricordi, vero, Oscar?”, chiese, con un sorriso André[2].
“Certo che me la ricordo!”, sorrise a sua volta, piena di vivacità, Oscar. “Quanto abbiamo riso, leggendolo, e immaginandoci la scena del fantasma che appare al protagonista! Ora, però, lascia tradurre un poco a me!”. E così, ricevuto il libro dalle mani di André, sempre attento a non sfiorarle nemmeno le dita,  - quanto diversa questa loro intimità adulta, rispetto a quella della loro infanzia, così spontanea e irriflessa, così fisica e ingenua e senza preoccupazioni! –Oscar prese a sua volta a tradurre, concentrata, gli occhi che percorrevano intenti la pagina: “Giunse ad Atene il filosofo Atenodoro, lesse il cartello e, sentito il costo della pigione, dal momento che quel prezzo così conveniente gli suonava sospetto, domandò e venne informato su tutti i particolari della storia, e nondimeno, anzi, a maggior ragione, prese in affitto la casa.
Quando iniziò a fare buio, ordinò che gli si apparecchiasse il letto nella parte più esterna della dimora, quella che dava sulla strada; poi chiese le sue tavolette, lo stilo, il lume, e mandò tutti i suoi familiari e servitori nella parte interna della casa; lui, invece dispose l’animo, gli occhi e la mano alla scrittura, perché la sua mente, libera da impegni, non si fabbricasse da sé immagini fantasmatiche a partire da rumori casuali, e paure vuote di ogni consistenza. All’inizio, ci fu solo il silenzio della notte, quale è dovunque; poi, iniziò a sentirsi un suono di ferraglia scossa e di catene agitate. Lui non sollevava gli occhi, non lasciava lo stilo, ma teneva ben saldo il suo animo e tendeva le orecchie. Allora il rumore iniziava a intensificarsi, si avvicinava e già lo si sentiva come sulla soglia, e ormai come entro la soglia. Atenodoro alzò lo sguardo, vide e riconobbe il fantasma di cui gli era stato raccontato: stava ritto in piedi e gli faceva un cenno con un dito, simile in tutto e per tutto simile a una persona che richiami l’attenzione di un’altra. Ma costui, il filosofo, gli fece cenno con la mano di aspettare un poco, e di nuovo si dedicò con alacrità alle tavolette di cera e allo stilo. Il fantasma allora, ostinato, gli faceva sferragliare le catene sopra la testa mentre era intento a scrivere..:”
“E poi, ricordi come finisce la storia, Oscar?”, la interruppe André.
“Certo che sì, André: finalmente, una volta finito di scrivere, il filosofo degna il povero fantasma di un briciolo di attenzione, e viene condotto in giardino, dove gli viene indicato dallo spettro un punto preciso, che il filosofo segna con delle foglie. Quindi, il fantasma si dilegua, ma il giorno dopo il filosofo fa scavare in giardino in quel punto preciso, e trova lo scheletro di un uomo, con mani e piedi incatenati, forse uno schiavo ucciso in seguito a una punizione, o comunque di un uomo perito di morte violenta; viene così  data una degna sepoltura a quei resti umani, e il fantasma, evidentemente appagato, non compare mai più”.
“Bravissima, Oscar: l’Abbé Armand ti avrebbe coperta di elogi!”, disse André, evocando l’elemosiniere di casa Jarjayes, loro antico insegnante di Catechismo e precettore di latino.
“Non credo proprio, André!”, obiettò Oscar, ridendo. “L’Abbé Armand ci avrebbe anzi puniti, se avesse saputo che indulgevamo a certe letture! Mi pare ancora di sentirlo biasimare tutte le storie di fantasmi e spettri, dato che i morti vanno lasciati stare, diceva, che stanno bene nel luogo dove il Signore li ha assegnati dopo la loro dipartita da questa valle di lacrime, e che nessuna persona perbene deve pensare di poter parlare con loro, o che essi abbiano qualcosa da dire a lui; al massimo”, e qui Oscar distorse la sua bella voce da contralto, imitando le note stridule e querule del vecchio sacerdote, “si può pregare per la liberazione delle sante anime del Purgatorio dai loro tormenti, e sperare che esse, a loro volta, preghino per noi”. E poi, rivolta un’occhiata complice e divertita ad André, Oscar scoppiò a ridere insieme a lui, al ricordo di quel sacerdote incartapecorito, che tanto tempo prima incuteva tanto timore, con la sua bacchetta di legno, a due bambini cresciuti insieme, unico riparo l’uno per l’altra, sottomessi all’ autorità inflessibile di un prevosto pieno di pregiudizi, secco come un ramo novembrino, e leggero come una piuma.

      3 - “Bene”, esordì André, quando l’eco dell’ultima delle loro risate si fu spento e non si sentì altro che lo scoppiettio del fuoco nel camino a rompere il silenzio, come di gelo imbarazzato, che era calato nuovamente fra loro due. “Credo che sia ora di andare a dormire”, affermò, alzandosi dalla poltrona, seguito da Oscar, che ancora vestiva la sua uniforme rossa.
“Sì, André, hai ragione: buonanotte”.
 Poi, dopo quell’asciutto congedo, ognuno dei due prese uno dei doppieri che erano posti sulla mensola del camino, e si avviarono verso le loro camere.
“Ah, André”, disse Oscar, volgendogli le spalle, mentre apriva la porta della camera in cui aveva deciso di passare la notte, “Credo che domattina dovremmo andare ad ascoltare di persona Madame de Rosemonde e suo nipote per sentire dalla loro viva voce il racconto dei fatti”.
“Sta bene, Oscar”, rispose André, annuendo, anche se l’altra non poteva vederlo: “Pèuò essere che a Madame De Noailles non sia sfuggito qualche dettaglio utile, nella sua pur dettagliatissima lettera”,
“Buonanotte, André”, concluse, per tutta risposta Oscar, sparendo dietro la porta.
“Buonanotte, Oscar”, augurò a sua volta lui, rivolgendo le sue parole al legno immacolato che quella si era chiusa dietro le spalle.
 
Non si stupì tanto del tepore del sole primaverile sulla sua pelle, quanto di vedersi addosso il giustacuore senza  maniche color verde salvia che era stato il suo capo d’abbigliamento preferito, tanti anni prima (quanti, poi? Ed erano davvero “tanti”?).
Quel giustacuore l’aveva accompagnata in infinite giornate di gioco, di studio, in cavalcate interminabili, eterne avventure mozzafiato in boschi e frutteti, pascoli e roveti, sempre con André al suo fianco; ed era stato infinite volte aggiustato e ripulito da Nanny, sempre provvida nel riattaccare bottoni, sostituire fodere strappate, smacchiare sbaffi di marmellata di more e coprire due piccoli buchi con il minuscolo ricamo in filo di seta blu delle iniziali OFJ mirabilmente fitte e intrecciate; sino a che, uno strappo sul bordo, rimediato chi sa come e che aveva sbrindellato l’orlo dell’indumento, e di cui Oscar si era resa conto, sollecitata da Nanny, soltanto al tramonto di una giornata passata all’aperto con André per prati e scuderie, aveva reso il giustacuore inservibile. Inutile era stata l’insistenza di Oscar nel supplicare Nanny per l’ennesima riparazione di quel capo cui tanto era affezionata: l’erede del casato Jarjayes non poteva certo vestire abiti rattoppati, nemmeno in casa, nemmeno nell’intimità delle sue stanze; e così il giustacuore era stato fatto sparire,  -  probabilmente ne erano stati ricavati stracci -,  nello scontento della piccola Oscar, che aveva manifestato la sua contrarietà rifiutandosi di mangiare a pranzo e a merenda e di prendere il suo bagno per quella giornata.
Adesso, trovarsi ancora rivestita con quell’indumento che le era stato così caro e che associava a tanti momenti spensierati la stupiva, ma l’effetto straniante di quella scoperta, difficilmente collocabile nello spazio e nel tempo, era attutito dalla presenza di André, che le lanciava una palla multicolore, di morbida stoffa imbottita.
“Vieni a giocare con me?”, le chiese, mentre la palla ruzzolava ai suoi piedi.
“Sì, André, arrivo!”, diceva lei, e intanto raccoglieva la palla, e si stupiva, osservandosi la mano, di ritrovare le fossette in corrispondenza delle nocche che da anni erano affilate e sottili. E dopo aver lanciato la palla, si avvicinava ad André, riducendo la distanza fra lei e lui, e cercando di mettere a fuoco il viso di quello, e per farlo riparava gli occhi dalla luce violenta del sole che aveva in fronte.
Ed era strano, davvero stranissimo, il giardino in cui si muoveva, così simile, per alcuni tratti, al parco di Palazzo Jarjayes, e così diverso (quella fontana a forma di tritone, per esempio, c’era sempre stata? E quelle aiuole di camelie, da quando erano state piantate?), e in cui, pure, riusciva, provandone lei stessa stupore, a orientarsi senza difficoltà.
E, intanto, mentre seguiva André, sempre due passi avanti a lei, per un dedalo si sentieri contorti, così poco somiglianti ai viali geometrici del parco che le era familiare fin dalla sua più tenera infanzia, si toccava le braccia, il busto, si passava il palmo delle mani sulle guance e sulle cosce, quasi per saggiare la consistenza di quelle carni che erano indubitabilmente sue, ma sue come lo erano state tanti anni prima.
“Andiamo al lago?”, propose André, la voce calma e dolce, volgendosi ad aspettarla e poi tendendole la mano.
“Sì”, rispose lei, stringendogli la mano, felice.
Poi, quando furono seduti sulla riva, i piedi in ammollo nell’acqua, una volta tolte calze e scarpe, Oscar propose, facendo già l’atto si slacciarsi lo jabot: “André, perché non ci facciamo il bagno?”.
“Oh, no, il bagno no; non posso davvero, Oscar! Io, vedi, non so nuotare!”.
“Ma che dici, André?! Ma se sei stato proprio tu a insegnarmi a fare le prime bracciate, in questo stesso laghetto”, obiettò Oscar, incredula, e con un lieve senso di inquietudine che le correva per le membra.
“No, non posso davvero: la mamma si adirerebbe moltissimo, se mi mettessi a rischio!”,  continuò l’altro, testardo.
“Tua madre?! Tua nonna, se mai. Perché, André ...”, e in quella Oscar rimase gelata, osservando il bel volto del bambino bruno che si era volto verso di lei, l’espressione dolce e gentile, il sorriso aperto, i riccioli di ebano che ombreggiavano due occhi azzurri come il cielo nelle più terse giornate estive.
Chi era quel bambino, che aveva i lineamenti di André, i capelli di André, le movenze di André, ma che non era André?
La voce morì in gola a Oscar, ma l’altro non se ne avvide, apparentemente; però, alzandosi, si rimise calze e scarpe, sotto gli occhi della piccola Oscar, e poi, levatosi in piedi, accanto a lei, ancora seduta sulla riva del laghetto della tenuta, le porse un orsacchiotto dal volto in ceramica, con un fiocco rosso sulla testa e le zampe celate da una gonna di seta rosa, dicendole: “Puoi tenerla, se vuoi: so che il tuo signor padre non vuole che tu abbia bambole o giocattoli vestiti da femmina, ma sono sicuro che ti farà piacere averla con te”. E mentre Oscar prendeva fra le mani il pupazzo, con aria incredula e stranita, piena di dubbi, il suo strano compagno di giochi si allontanò, rassicurandola. “Tranquilla, Oscar, puoi tenerlo sino a quando non ci rivedremo. Perché ci rivedremo, vero?”. Le ultime parole le pronunciò volgendo il capo verso di lei, e strizzandole l’occhio con una espressione troppo adulta per un bambino di otto o nove anni, quale dimostrava di essere a una prima occhiata.
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4 - Quando si destò, Oscar era in un bagno di sudore. “Ho incontrato l’Orfanello!”, mormorò, gli occhi sgranati nella penombra, spaventata e stupita insieme. Ma davvero, era  proprio possibile che quella povera, infelice creatura, per prima cosa esistesse, e poi fosse venuta a farle visita nei suoi sogni?
Via, andiamo! Scosse la testa, energicamente, come se il padre potesse vederla: lei era un soldato, no? E i soldati credono a quel che vedono con i loro occhi, non si lasciano certo suggestionare dai racconti di un oste abituato ad alzare troppo il gomito e di una ragazzina sentimentale!
Si alzò, e a, alla luce fioca della candela, guardò il suo riflesso nello specchio della toeletta: pallida, affannata, con le occhiaie, e una espressione indefinibile negli occhi. “Non sembro nemmeno io”, si disse. In quello stesso istante, l’orologio sulla mensola del camino batté le ore: le sei; poteva dunque alzarsi e vestirsi, e  poi, seduta nella poltrona davanti al caminetto, con i tendaggi ancora tirati, ma gli scuri aperti, attendere André che sarebbe venuto di lì a un’ora, come sempre faceva da anni, a bussare alla sua porta.
E così fu: poco dopo il settimo rintocco dell’orologio, q       uattro colpi alla porta, tre ravvicinati e uno più distanziato, il loro codice fin da bambini, annunciarono l’arrivo di André, che entrò nella stanza di Oscar con la lieta furia di un giovane uomo ristorato da una solenne dormita e dalla prospettiva di una robusta colazione, e che si appresta a passare l’intera giornata, ancorché impegnato in un compito noioso e fors’anche ingrato, in compagnia della sola persona con cui, per lui, valga la pena trascorrere il tempo, ben lungi, finalmente, dalla Corte, con i suoi ritmi, le sue incombenze, le sue costrizioni.
“Oscar, sei presentabile?”, aveva chiesto, allegra, la voce di lui oltre la porta.,
“Certo che sì! Entra pure,  André!”, aveva risposto lei, vedendolo subito dopo comparire oltre la soglia mentre reggeva con la mano sinistra un vassoio su cui facevano bella mostra di sé due chicchere di cioccolatte, ancora fumante, e degli appetitosi panini al burro appena sfornati che spandevano un profumo invitante per tutta la camera.
Vedendola vestita di tutto punto, sprofondata nella poltrona, con le lunghe gambe accavallate, André la fissò per un attimo, perplesso, intuendo, dall’espressione pensosa, che qualcuno avrebbe potuto scambiare per imbronciata, che era accaduto qualcosa di insolito e strano. Ma poi, distolto lo sguardo, pose il vassoio sul basso tavolino davanti al caminetto, e si sedette sull’altra poltrona, che faceva pendant con quella su cui sedeva Oscar.
“Ho pensato che ti avrebbe fatto piacere fare colazione insieme”, disse, in tono volutamente leggero.
“Grazie, André: sei molto caro”, disse lei, cercando di dissipare l’inquietudine che quello strano sogno le aveva lasciato addosso.
Suggestione”, si era ripetuta più volte, in quell’ora di preparativi solitari, mentre si sciacquava il viso, si rinfrescava, si toglieva la veste da notte, rabbrividendo per il gelo della stanza, e indossava la sua camicia di seta con trine e jabot, senza indugiare a scrutare il busto snello e bianco e roseo appena intravisto nello specchio che sovrastava il grande cassettone intarsiato.
“Pura suggestione”, si era detta indossando le lunghe calze di seta, fermandole con le giarrettiere blu, e poi infilando le gambe nei pantaloni bianchi.
“Figuriamoci se l’Orfanello esiste davvero!”, si ripeteva, calzando gli stivali che profumavano di cuoio bene ingrassato, e poi allacciando i bottoni della giacca dell’uniforme. “Devo essere stata così colpita dal racconto dell’oste, e dalla stranezza di quel conto aperto alla banca nel 1630, e così stanca per il viaggio, da essermi immaginata tutto”.
“Sciocchezze”, ripeteva fra sé, sempre più convinta, mentre ravvivava il fuoco, mentre attendeva André, le gambe accavallate, muovendo ritmicamente nel vuoto, in su e in giù, la punta del piede sinistro.
E ora, ora che vedeva André, seduto accanto a lei, che le augurava il buongiorno, e che le porgeva la chicchera con la cioccolata, e che sorrideva mentre la sorbiva, il sogno angosciante della notte le sembrava, di fronte alla realtà della persona di André, alla concretezza delle sue mani, al calore del suo sorriso, all’odore di sapone di Marsiglia e di acqua di colonia che veniva dalla sua persona, una fantasticheria angosciante e irrimediabilmente lontana.
“Allora, Oscar, come hai passato la notte nella camera del delitto?”, chiese lui, cercando di sdrammatizzare come sempre la situazione.
“Non ho mai dormito meglio!”, mentì lei.
“E non sei stata svegliata dal suono di catene scosse?”, domandò André.
“No”.
“Niente lamenti e gemiti nel cuore della notte?”, incalzò ancora lui, con fare divertito.
“No”, ripeté lei, alle soglie del riso.
“Niente immagini evanescenti accalcate ai piedi del tuo letto?”.
“No!”, disse per l’ennesima volta Oscar, scoppiando poi a ridere quando André, alzandosi, e ritirando il vassoio per riportarlo nelle cucine, osservò: “Del resto, povero fantasma, se davvero ha deciso di spaventarti svegliandoti nel cuore della notte: c’è da compatirlo! Infatti, è risaputo che nemmeno le cannonate potrebbero svegliare dal suo riposo notturno il Colonnello Oscar François de Jarjayes”.
“Che sciocco che sei!”, ridacchiò Oscar, mentre si allacciava la spada al fianco.
Ma a quel punto, André aggiunse, con un tono di sottile, ironico dileggio: “Eppure, per proteggerti, ti sei tenuta una bella guardia del corpo accanto al letto, stanotte”.
“Che cosa vuoi dire, André?”, domandò Oscar, perplessa.
“Beh, guarda qui”, rispose André, le mani occupate a reggere il vassoio ingombro di tazze e piattini vuoti, con un cenno del mento, in direzione del comodino, proprio accanto alla testiera del letto: sul ripiano, faceva bella mostra di sé l’orsacchiotto dell’Orfanello, quello che stava nella gabbia e che Oscar stessa, il giorno prima, aveva esaminato e poi rimesso dove l’aveva trovato.
“O forse non vorrai venire a dirmi che l’austero, l’irreprensibile Comandante delle Guardie Reali, Oscar François de Jarjayes dorme ancora con l’orsacchiotto!”, proruppe lui, soffocando una risata – e anche un moto di tenerezza – immaginando una  giovane donna dai lunghi capelli color dell’oro, rannicchiata sotto le coperte, tiepida di sonno, e abbracciata a un pupazzo.
“Stupido! Se fossi un mio soldato potrei sbatterti in cella di rigore per una battuta come questa, lo sai?”, rispose in tono leggero Oscar; ma  un attimo dopo si bloccò, fissando lo sguardo sul comodino: perché era sicurissima che, quando si era addormentata, il pupazzo fosse ancora nella gabbia, dove l’aveva appoggiato molte ore prima di mettersi a letto.
“Volevo solo esaminarlo meglio”, mentì allora, nemmeno troppo disinvoltamente, il Colonnello de Jarjayes, e uscì, dietro André, chiudendosi ancora una volta la porta a chiave dietro le spalle.
 
 
[1] Il doppiaggio italiano dell’Episodio 12 ci dice che il “piccolo tesoro” di Oscar sepolto in giardino consisteva in una trottola e un coltellino dal manico rosso: ma nella versione originale di questa puntata dell’anime ci parla anche di un orsacchiotto di pezza.
[2] Si tratta del racconto della casa infestata, che Plinio il Giovane (vissuto fra I e II secolo d. C.) narra in ep. 7, 27: la casa, in questo racconto, è effettivamente infestata da uno spettro, che in realtà non vuole seminare terrore, ma solo chiedere una giusta sepoltura per i suoi resti mortali, sepolti in giardino; ottenuto quanto richiesto, sparisce, e cessa di apparire nel cuore della notte. Ho qui offerto una traduzione molto libera e parziale della lettera pliniana.

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Capitolo 10
*** 10_ Capitolo 9 - Il nipote di Madame de Rosemonde. E ... ***


10 – Capitolo 9 – Il nipote di Madame de Rosemonde. E ...
 
1 - Mondano, svagato, svogliato: questi tre aggettivi potevano ben sintetizzare l’atteggiamento con cui il nipote di Madame de Rosemonde, il Visconte di Valmont, ricevette la visita del Colonnello Oscar François de Jarjayes. Al loro ingresso nel salottino dove il Visconte stava oziosamente passando la mattinata, Oscar e André si trovarono di fronte a un nobiluomo che, abbigliato fastosamente – e incongruamente, data l’ora e la località provinciale in cui si trovavano –d’un completo color rosa cipria dai sovrabbondanti ricami argentati, se ne stava stravaccato su una poltroncina intarsiata di madreperla, una gamba a terra e l’altra negligentemente poggiata di traverso sul bracciolo, a dondolare pigra, osservando con attenzione il pomo d’avorio incrostato di turchesi e di onice del suo nuovo bastone da passeggio.
“Che piacere incontrarvi, Comandante de Jarjayes!”: il tono mellifluo del Visconte, e il suo attardarsi, appena un istante più del necessario – ma un istante che Oscar, e soprattutto André, colsero benissimo – a ricomporsi in un inchino formale, insinuarono un sottile disagio nei visitatori.
“Ma prego, sedetevi, Comandante. Gradite del caffé? Del the?”. La posa da perfetto padrone di casa assunta dal Visconte suonava palesemente ipocrita, e forse era proprio quello che il nobiluomo voleva comunicare ai suoi visitatori.
“No, Visconte. Noi, come vi abbiamo annunciato nel biglietto con cui vi chiedevamo la disponibilità di qualche minuto del vostro tempo prezioso, desideriamo soltanto parlare”, tagliò corto Oscar, sedendo di fronte a Valmont. André, da parte sua, non essendo stato esplicitamente invitato a sedere, si mantenne in piedi, qualche passo dietro Oscar, cercando di fissare i propri occhi il meno possibile sulla figura del visconte, e assumendo uno sguardo distante, mentre scrutava oltre le vetrate il giardino addormentato nel gelo invernale.
“Certo, certo. Mi dispiace che ci rivediamo soltanto ora, dopo tanto tempo dal nostro primo  ... o forse secondo incontro a Versailles? Ricordo una magnifica passeggiata al tramonto durante la quale mi scortaste lungo l’Allée d’Apollon”, disse Valmont, sedendosi, questa volta compostamente, seguito da Oscar, che aveva già posto dinnanzi a lui.
 Di fronte all’allusione così scoperta alla sua serata al Casinò[1], Oscar non poté trattenere un fremito, quasi impercettibile, ma che Valmont colse senza difficoltà. André, da parte sua, si manteneva ostinatamente silenzioso, come assente.
“Ma veniamo al motivo della vostra visita, Colonnello”, proseguì Valmont, recuperando da un vassoio d’argento su un vezzoso tavolino a tre gambe in legno di rosa, poco discosto dalla sua poltroncina, e poi rigirandosi fra le dita il biglietto scritto da Oscar e consegnatogli a mano poco prima.
“Voi esprimete il desiderio di poter parlare con la mia cara, vecchia zia, in merito alla brutta esperienza accadutale nella Maison di Place du Lion d’Or. Ebbene, mi duole deludervi, Colonnello, ma la mia risposta è no. Vedete, la mia povera zia, Madame De Rosemonde, è ancora molto scossa da tutta questa faccenda, e, data la sua età, non vorrei sollecitare ulteriormente la sua già fragile complessione”. Poi, dopo una pausa, segnata da un sorriso come quello del gatto che ha chiuso ogni via di fuga al topo, aggiunse, “Ma, poiché anche io ho soggiornato in quella casa, e per tutto il tempo in cui ci è stata mia zia, e ho un’ottima memoria, e un sonno leggerissimo, posso adeguatamente informarvi di tutto ciò che ho visto e sentito di strano in quei giorni  ... e in quelle notti”-
“E sarebbe, Visconte?”, chiese Oscar.
“Nulla. Niente di niente”, tagliò corto Valmont. E, di fronte allo sguardo perplesso di Oscar  - e di André, totalmente ignorato – Valmont chiarì: “Colonnello, non vorrete credere a queste ubbìe da  ... donnicciole superstiziose. Vi assicuro che nelle notti trascorse nella casa di Place Du Lion D’Or non ho udito nulla, nulla di terrorizzante o di spaventoso, nulla che potesse indurmi a pensare che per quelle stanze si aggirasse una presenza soprannaturale”, concluse il Visconte, arricciando la bocca in un sorriso a labbra chiuse che sapeva quasi di smorfia di scherno, e congedando così i visitatori, anzi, l’illustre visitatore e il suo attendente, visto che ad André non era stata riservata una sola parola.
 
2 - “MAGNIFICO!”, tuonò Oscar, levandosi in piedi dalla poltrona e  dando, non appena la cameriera si fu ritirata dal salottino  cinese tutto lacche, un pugno solenne contro il muro.
Erano tornati alla casa di Place du Lion D’Or silenziosi e con un senso di insoddisfazione e di delusione paragonabile a quello che si provererebbe in una giornata di caccia in cui si riponeva una grande speranza e che fosse però finita in un ritorno a carniere vuoto.
“Oscar, sta’ tranquilla: non migliorerai certo la nostra situazione dando in escandescenze”, la ammonì André, alzandosi e coprendo in pochi passi la distanza che li separava, ma senza osare poggiarle la mano sulla spalla, come sarebbe stato il suo primo impulso.
“E come potrei stare tranquilla?! Ci troviamo in una casa di proprietà di non si sa chi, la prima inquilina, che è fuggita spaventata, si è rifugiata chi sa dove senza lasciare recapiti oltre Manica, e Madame de Rosemonde è impossibilitata a riceverci, o almeno così dice il nipote, il quale, a sua volta, afferma di non avere notato nulla di strano nelle sue nottate passate sotto questo tetto
E intanto, noi ci troviamo a un punto morto!”, concluse, aprendo il palmo della mano alla parete, e poggiandovi la fronte, scoraggiata.
“Oscar, non ti accalorare!”, cercò di rincuorarla André. Eppure, sapeva bene che quello che più le bruciava era il timore di tornare a Versailles a mani vuote, senza uno straccio di spiegazione per soddisfare la Regina, che le aveva affidato quell’incarico. Fallire era il maggior timore di Oscar, da sempre; e quando poi si trattava di non essere all’altezza delle aspettative nutrite su di lei da figure per le quali nutriva rispetto e una autentica venerazione, come suo padre, il Generale, e la regina: una colpa da cui Oscar si sarebbe assai difficilmente assolta.
“Stanotte cerchiamo piuttosto di restare svegli il più a lungo possibile: potremmo dormire prima di mezzanotte, e poi fare un giro di perlustrazione delle camere da letto; che ne pensi?”, propose André, pur se poco convinto lui stesso della sua linea di condotta: ma che altro poteva pensare di fare? Non si trattava certo di perlustrare le stanze della magione in cerca di una spilla perduta, o di un altro oggetto smarrito, ma sicuramente contenuto entro le mura domestiche! Provava un poco di compassione, André, per la sua Oscar, sempre pronta a partire, lancia in resta come un paladino medievale, quelli delle cui imprese si erano beati nei loro lunghi pomeriggi di letture infantili, non appena la “sua Regina” le affidava un incarico, per quanto palesemente campato in aria come quello che erano giunti a compiere a Lille. Per lui, ebbene, quella sarebbe potuta essere un’ottima occasione per una piccola vacanza dagli impegni quotidiani, sempre così pressanti, lontano dal grigiore dei doveri e degli obblighi, sempre muto e senza la possibilità di aprire il suo cuore alla sola donna che avrebbe mai amato, ma, almeno, a fianco a lei, in un ambiente più libero e rilassato di Versailles. E invece, ecco Oscar preda dei suoi nervosismi, del suo carattere che non conosceva tranquillità e pace, ma che era, sempre, in ogni momento, irrequietezza pura, e smania di essere all’altezza delle aspettative cui doveva tener fede, per non essere da meno dei suoi antenati, gloriosi militari di una stirpe guerriera che risaliva alle crociate, per non deludere il padre e la regina.
“Sta bene, André”, annuì lei. “Ci troveremo a mezzanotte in punto in questo stesso salotto. Potremmo anche pensare di chiamare il personale di servizio con qualche pretesto, per capire se qualcuno ha notato strano movimenti nottetempo”, propose poi, quasi dubbiosa.
“Potrebbe essere un’idea”, approvò lui. “Ma prima, vediamo che cosa ci riserva questa notte”.
Oscar annuì, come rincuorata dalla prospettiva di poter fare qualcosa: incapace per indole di accettare l’inerzia coatta, era consolante potersi impegnare in un compito concreto, per quanto dal risultato dubbio.
3 -  Le ore del pomeriggio passarono con una lentezza esasperante: Oscar più volte chiamò, con un pretesto, la cameriera assegnata alla sua persona e la governante, cogliendo l’occasione per chiedere se avessero notato qualcosa di strano nella casa, e senza ottenere nessuna risposta degna di nota. Allo stesso modo, André aveva passato un po’ di tempo nelle scuderie, e poi nelle cucine, per la gioia della cuoca, aiutandola a pelare le carote e ad attingere acqua dal pozzo nel cortile, e intanto informandosi con fare pacato e interessato a come avesse passato la notte, se il sonno fosse stato tranquillo ... e senza ricavarne assolutamente nulla, ovviamente.
Innervosito anch’egli da quella situazione di stallo, aveva allora proposto a Oscar un giro per i le piazze e i vicoli della città, ma quella, sdraiata sul letto della stanza dell’Orfanello, le mani sotto la testa, aveva rifiutato, dicendo: “Forse sarebbe meglio se riposassimo in vista della nottata, che sarà lunga e impegnativa, se dovremo perlustrare tutta la casa”. Ma sul comodino gli occhi di André, allenati a non lasciarsi sfuggire nessun particolare, scorsero un libro che avevano già intravisto, alla locanda, nel bagaglio di Oscar, e dunque non ritenne opportuno dire null’altro per cercare di distoglierla da quella apparente inerzia, affollata di pensieri angosciosi, che non avrebbe né potuto né voluto condividere.
 
4 - – Dopo una cena silenziosa – consommé, fagiano, crême brûlée e frutta sciroppata, il tutto annaffiato da vino del Reno, Oscar e André si ritirarono presto. Allungata nel suo comodo letto, e troppo di malumore per ingannare il tempo che la divideva dalla mezzanotte leggendo, Oscar, una mano a torturarsi le lunghe ciocche di capelli, e, l’altra a disegnare infiniti arabeschi sulla coperta, osservava, come affascinata, lo sguardo fisso, la gabbia che si stagliava di fronte al suo letto nella penombra della stanza illuminata dal fuoco del camino che si stava spegnendo dolcemente, e da un doppiere.
L’Orfanello.... che storia assurda!
Come aveva potuto crederci? Eppure, eppure ... lei stessa, con tutto la sua feroce ragionevolezza aveva vacillato. Del resto, non era stata certo lei a spostare quel pupazzo. Che idea! OVVIAMENTE doveva essere stata lei, soprappensiero: non c’era altra spiegazione. A meno che Martine, la cameriera che era stata assegnata alla cura della sua persona e della sua stanza, la sola che sarebbe stata autorizzata a entrare nella sua camera ,non lo avesse preso fra le mani e sollevato, forse per curiosità, e l’avesse poi riposto in un luogo diverso da dove l’aveva trovato: non le sembrava davvero il tipo, quella ragazza mite e incolore, con quell'aria sempre spaurita nel momento in cui le si doveva rivolgere, da prendere una simile, audace iniziativa; ma chi può dirlo? Però, la chiave della sua stanza l’aveva sempre tenuta Oscar, e, dopo che il letto era stato rifatto e le lenzuola cambiate, e le tende e l’ambiente profumato, e lei se ne era andata a cena per poi rientrare dopo la serata trascorsa in biblioteca con André, la porta era rimasta chiusa a chiave, ne era certa; e quando si era addormentata, la sagoma dell’orsacchiotto era ancora nella gabbia; o forse la vista l’aveva ingannata.
Ma no! Dannata suggestione! Era tutta colpa di André: il lungo passo che si era divertito a tradurre e a sottoporle, in quella situazione, doveva averle scosso i nervi più di quanto lei non fosse cosciente.
Si rigirò nel letto, scontenta di sé e della conclusione cui stava arrivando.
Nervi! Pfui! Un colonnello di Sua Maestà non ha nervi! Figuriamoci!
Sospirò, e si girò sull’altro fianco: le tre ore che la separavano dalla mezzanotte sarebbero state molto lunghe, si disse.
Sbuffò. Bella davvero questa veglia di guardia in un’impresa proprio eroica, rifletté, seccata con se stessa e con la sorte, che aveva condotto, lei, il Colonnello Oscar François de Jarjayes, cresciuta come un soldato e capace di guidare battaglioni e reggimenti, a cercare le tracce di un fantasma giocherellone in una sonnolenta città di provincia, mentre altri si coprivano di gloria oltreoceano, sfidando pericoli reali, attacchi dei nemici, nel mezzo di una natura selvaggia e insidiosa, in un continente sconosciuto.
Fersen ... si autorizzò a mormorare, affondando il viso nel cuscino, senza capire se le lacrime che le bagnavano le guance e che intridevano la fodera di lino ricamata fossero nate dalla stizza o dal senso di nostalgia e della mancanza ... di lui, anche solo del fatto di vederlo, parlargli, incrociarlo per i corridoi della reggia e lungo i viali del parco, dei pomeriggi trascorsi duellando e delle sere in cui era ospite a Palazzo Jarjayes.
Desiderium, ovvero, non desiderio di qualcosa o qualcuno, ma rimpianto per una mancanza, da de- sidero, cesso di contemplare le stelle, e pertanto ne sento la mancanza: così aveva insegnato, a lei e André, l’Abbé Armand; ma chissà se era proprio quello il senso vero e ultimo della parola?
      E chissà mai se, qualora fosse stato André ad allontanarsi da Palazzo Jarjayes, lei ne avrebbe sentito altrettanto rimpianto e nostalgia? André in fondo era il compagno, e il testimone, di tutta la sua vita ... come diceva il poeta? Dimidium animae meae? Ma davvero?!
E perché mai André avrebbe dovuto allontanarsi dalla loro casa, e da lei...?
André ....
        Un improvviso ascesso di impazienza la indusse a troncare quei pensieri che si stavano inerpicando lungo una china che non le piaceva. L’orologio sulla mensola del camino batté undici rintocchi pieni e tre più leggeri: le undici e tre quarti. Era dunque ora di prepararsi per la ronda notturna nelle camere di quella magione così misteriosa.
Vincendo il freddo, e con la disciplina di un vero soldato, Oscar uscì da sotto le coltri calde, e iniziò a vestirsi: camicia, pantaloni, stivali, giustacuore pesante...aveva appena finito di allacciare lo jabot, quando un grido squarciò la notte.
Si precipitò fuori dalla stanza, lasciando la porta spalancata: nel corridoio trovò André, anch’egli vestito di tutto punto, proveniente, con ogni probabilità, dalla camera rossa all’altro capo del corridoio,  bloccato davanti alla porta della stanza di Oscar, dove evidentemente l’aveva raggiunta un attimo prima, poco avanti l’orario concordato, intenzionato a bussare per verificare se fosse pronta, per partire quindi in ricognizione.
“André! Hai sentito anche tu?”, gli chiese lei, allarmatissima, i sensi all’erta.
“Sì, Oscar: impossibile non sentire!”, rispose André, la mano al mento.
“Veniva di là”, aggiunse, indicando l’altra estremità del corridoio.
Si avviarono a passi spediti, mentre una voce, dagli accenti noti, ancorché stravolti dal terrore, urlava ancora: “NO! NO! VATTENE! VATTENE VIA! TI PREGO, VATTENE!”.
Aprirono la camera rosa, la verde: nessuno!
Spalancarono la porta della camera azzurra e videro, sotto le coperte del baldacchino, una forma che si agitava, interamente occultata dalle coltri, mugolando lamenti incomprensibili.
Oscar avanzò con passi marziali, e con un gesto non meno deciso sollevò e rovesciò a terra le coperte, scoprendo, carponi e con gli occhi chiusi come a non vedere uno spettacolo orribile, la camicia da notte ridotta a uno straccio che gli scopriva le gambe, i capelli arruffati e le belle mani contratte, Victor Clément de Girodelle.
 
[1] Alludo alla mia ff, “Pourquoi est-ce qu’on se déguise”, e a anche a “Dopo il lampo arriva il tuono”.

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Capitolo 11
*** 11- Capitolo 10 - Also sprach Girodelle ***


11 – Capitolo 10 - Also sprach Girodelle
 
“Girodelle!”, tuonò Oscar, “ma che ci fate qui?!”
“NO, NO, VIA, VIA, VATTENE VIA, NON VOGLIO VEDERTI!”, ripeté ancora, senza aprire gli occhi, il Maggiore Girodelle, secondo di Oscar alla guida della Guardia Reale, uomo di rinomata eleganza e di comprovato sangue freddo, caratteristiche che, evidentemente, erano andate momentaneamente a farsi benedire in quel momento.
“Ma ... Ma.... Madamigella Os.... Oscar!", balbettò Girodelle mettendosi a sedere sul letto, con espressione vergognosa.
“Proprio io, Girodelle”, rispose lei, secca, “E voi, invece, che cosa ci fate qui?”
“Io,....io....se ne è andato, vero?”, rispose Girodelle, incongruamente, guardandosi attorno con sguardo spaurito.
“Ma..chi?”, chiese Oscar.
“Quello...quella...quella cosa...”
“Quale cosa, Girodelle?”!, incalzò lei.
“Ma...ma...io...è andato via, vero?”
“CHI?! Chi deve essere andato via?”.
“Il fantasma! Il fantasma che era qui poco fa!”, sibilò Girodelle, in evidente stato di sconvolgimento mentale, tremando e battendo i denti.
“Oscar”, intervenne Andrè, avanzando di pochi passi, sino a essere al fianco di lei, “è evidente che il Maggiore Girodelle ha subito un duro colpo. Forse sarebbe meglio dargli il tempo di riprendersi e di riordinare le idee, e poi ci spiegherà il motivo della sua presenza a Lille  ...e in questa casa”, terminò con tono fattosi sottilmente severo.
        Nel frattempo, Girodelle si era alzato, ancora tremante e spaurito, aveva indossato una veste da camera, appoggiata alla poltrona davanti al camino, e si era seduto al tavolo che costituiva, insieme ad alcune graziose sedie dallo schienale intagliato, un angolo adatto alla conversazione.
“Gradite qualcosa da bere, Maggiore de Girodelle?”, gli chiese André, con tono fattosi quasi amicale.
“No ... sì, anzi, qualcosa di forte”.
Cognac?”, chiese André.
Brandy, se possibile”, soffiò l’altro. “Liscio”.
“Con permesso”, disse André, la voce bassa e modulata, sparendo oltre la porta.
Quando, pochi minuti dopo, varcò nuovamente la soglia della camera azzurra, si trovò di fronte a uno spettacolo talmente strano che avrebbe persino potuto sembrargli buffo, se non avesse sentito una sotterranea puntura di compassione per il terrore che aveva a tal punto sopraffatto Girodelle da togliergli tutta l’aura da impassibile uomo di mondo di cui sempre era circonfuso, catapultandolo nel novero dei comuni mortali, quelli che gridano di paura, inciampano, si spettinano, e portano, nelle chiome scarmigliate e nell’espressione stravolta, il segno che la vita ha lasciato su di loro:  Oscar sedeva, silenziosa, un gomito appoggiato sul tavolo, la mano a sorreggersi il mento, mentre le dita dell’altra mano tamburellavano nerovsamente sul legno, e intanto fissava, severa e con sguardo di ghiaccio, il suo secondo, che si stringeva nella veste da camera, senza osare guardarla altro che per fuggevoli istanti, con dipinta in volto un’espressione di contrizione e di disagio quale André non ne aveva mai viste di simili, nemmeno sul viso delle neo-arrivate in servizio a Palazzo Jarjayes cui capitava, nei primi giorni, di compiere qualche bestialità, come rompere una coppa di cristallo o bruciare un capo di biancheria dei padroni stirandolo col ferro rovente.
        Mai come in quel momento, Girodelle guardò con sollievo, e anzi con gioia André, che era arrivato reggendo una bottiglia e un bicchiere su un vassoio. “Oh, André, siete qui!”, disse, con un timidissimo accenno di sorriso sulle labbra.
“Ecco a voi, Visconte de Girodelle”, rispose, cortese e impersonale, André, porgendogli il bicchiere pieno per metà.
“Vi prego”, disse quasi imbarazzato, “riempitelo sino all'orlo”, e poi, di fronte al lampo azzurro degli occhi del suo superiore, aggiunse, quasi confuso: “Ne ho un gran bisogno”.
Poi, levato il bicchiere che André, con un’espressione indecifrabile (ironia? Compatimento? Compassione? Divertimento? O forse un misto di tutti e quattro quei moti d’animo?) aveva riempito a filo e depositato sul tavolo, lo finì in tre sorsi, senza quasi prendere fiato, e lo posò sul legno ben lucidato, ancora con aria stranita, anzi, a maggior stragione, stranita.
 
Oscar non aveva mosso un muscolo, oltre a quelli delle dita che avevano continuato a tamburellare sul tavolo, e non aveva staccato per un istante gli occhi dall’ospite inatteso.
“E ora, Girodelle, spero che ci spiegherete che cosa ci fate qui”, esorì, severa.
“Ecco, io..”, iniziò titubante il suo secondo.
“Oscar, se qui avete finito con me, io potrei anche ritirarmi”, intervenne André.
“No, André. Resta qui. Siedi con noi”. La voce di Oscar era ancora incolore e severa, e così Girodelle, per la prima volta in vita sua, apprezzò il fatto che l’attendente del Colonnello Jarjayes fosse seduto al tavolo accanto a loro.
Sospirò.
“Madamigella Oscar, dovete perdonarmi  per questo mio arrivo così irrituale”, iniziò a mo’ di preambolo, “Ma non potevo davvero resistere sapendovi sola ed esposta a chi sa quale pericolo”.
“Io non sono né sola, né incapace di difendermi, Girodelle: e questo dovreste ben saperlo!”, rispose con stizza Oscar.
“Vi chiedo ancora la pazienza di ascoltarmi, Madamigella Oscar: saprete così che la mia non è una intrusione dovuta a una iniziativa presa a titolo personale”.
“Ah, no? Ebbene, allora spiegatevi meglio”,
“Ecco, il mattino successivo a quello in cui sua Maestà vi aveva affidato quell'incarico, - e notate, ancora non sapevo dove vi sareste diretta, né per quale motivo -, non vedendovi a Versailles, ho subito temuto che foste partita, per esporvi a qualche pericolo, sola e senza difese" - e a queste parole  gli occhi di Oscar dardeggiarono di sdegno, anche se Girodelle non diede l'impressione di essersene accorto - "E allora, dopo un giorno e una notte di dubbi e riflessioni angosciose, non ho più resistito, e ho chiesto udienza a Sua Maestà la Regina, implorandola di potervi seguire, e di proteggervi ovunque voi foste andata. E la nostra sovrana, nella sua infinita magnanimità, mi ha dato questo indirizzo, dove sono arrivato nel pomeriggio, con un salvacondotto regio, e la consegna per la servitù di non rivelare la mia presenza sino a quando non fossi stato io a palesarmi a voi".
  In quel frangente, si guardò bene dal rivelare, Victor Clément de Girodelle, la motivazione più autentica e più vera con la quale aveva ottenuto di poter seguire il Colonnello de Jarjayes a Lille: in realtà egli si era gettato ai piedi della sovrana, implorandola, in nome della fedeltà che le aveva sempre dimostrato, di mandarlo a sostegno della missione in cui era stata, evidentemente, inviata Madamigella Oscar, la donna di cui era perdutamente, silenziosamente, e, soprattutto, rispettosamente innamorato.
        E la Regina, sgranando i grandi occhi chiari da bambina, e felice per quella inedita rivelazione, capace di titillare il lato più infantile e più entusiasta del suo carattere ingenuo e sentimentale, aveva sorriso, chinandosi sul Visconte del Girodelle, prostrato ai suoi piedi, e toccandolo affettuosamente sulle spalle, perché si rialzasse, e aveva esclamato: "Oh, Maggiore Girodelle, sono così sorpresa e così lieta di questa notizia! E Madamigella Oscar sa dei vostri sentimenti?"
"No, Maestà", aveva scosso con dignitosa tristezza il capo lui, "e non voglio che lo sappia altri che dal suo cuore, quando, e se, i suoi sentimenti la porteranno a rendersi conto dei miei".
"Meraviglioso, Maggiore Girodelle, meraviglioso: trovo il vostro atteggiamento e le vostre decisioni così nobili! Sono molto felice di sapere che la mia buona amica Madamigella Oscar potrà contare sul vostro sostegno e sul vostro affetto! Vi conferisco immediatamente l'incarico di portarle sostegno! Quanto al comando della Guardia Reale, non  dovrete preoccuparvene: per quei pochi giorni della vostra assenza potrete essere sostituito dal Capitano Louis de Luxembourg".
 Ciò detto, la Regina fece un vezzoso gesto di invito a Girodelle, perché prendesse posto sulla poltrona a braccioli affiancata a quella su cui ella stessa sedeva, e si dispose a riferire a Girodelle i fondamentali dell'incarico che avrebbe dovuto svolgere, tacendo, naturalmente, al giovane ufficiale, il motivo di fondo per cui Oscar si era recata al Nord. Ma, ovviamente, tutto questo rimase serbato nel cuore di Victor Clément de Girodelle, che si sentiva come trapassato dallo sguardo affilato e severo del suo superiore.
"E per caso sapete anche quale missione mi sia stata affidata?", si informò Oscar, guardinga, dopo aver lanciato un'occhiata in tralice ad André, in piedi dietro le spalle di Girodelle.
"No, Madamigella Oscar, questo no: ma contavo di poter comparire alla vostra presenza domani mattina, dopo che ho chiesto e ottenuto dal vostro guardaportone di entrare,  e dalla vostra governante di passare la notte in incognito nella camera azzurra ... "
"E come avete ottenuto questo risultato?", chiese Oscar.
Girodelle si alzò e, con passo incerto, stringendosi al petto i lembi della veste da camera, andò verso il letto, e poi all'armadio, in cui era appesa la sua giacca da viaggio di un elegante panno inglese color blu scuro: dalla tasca interna tolse una busta, che porse a Oscar, la quale non la aprì; le bastò, infatti, vedere il sigillo reale per comprendere quale forza persuasiva avesse agito sul guardiaportone, sulla governante, e sul resto della servitù che doveva essere venuta a contatto con Girodelle. Un comportamento, che - pensò in un attimo di cinica lucidità, oltre l'ira che la obnubilava -,  in fondo non era stato diverso da quello di Monsieur de Vergeron, untuosamente prono ai desideri e alle curiosità di chi esibisse una lettera col sigillo reale, senza nemmeno chiedersi il suo contenuto.
Sospirò, Oscar, e cercò lo sguardo di André, improvvisamente velato.
"E poi, che cosa è successo?".
"Madamigella Oscar, voi non ci crederete, ma ... credo di aver visto un fantasma!"
"Davvero, Girodelle?". Lo sconcerto di Oscar era reale: fino a quel momento aveva potuto credere che il suo strano sogno fosse frutto di suggestione, della stanchezza e della tensione, e aveva valutato con il beneficio del dubbio tutto quel che aveva indirettamente saputo della casa dove si trovavano; ma ora, al contrario, si trovava di fronte a una persona, a lei ben nota, fededegna, e credibile, per nulla soggetta a distorcere la realtà a seconda dei suoi umori, che sosteneva, con piena coscienza, e, anzi, avendone ricavato uno spavento memorabile, di avere incontrato un fantasma!
        "Oh, sì! Madamigella Oscar, è stato terribile!", assicurò Girodelle; "Mi trovavo a letto, sotto le coperte, e, spenta la candela, cercavo di prendere sonno, lasciando oziosamente vagare il pensiero  (non disse, il povero Visconte, che nei suoi sogni a occhi aperti immaginava il giorno in cui avrebbe dichiarato il suo amore al suo Comandante, ricevendone in cambio un bacio appassionato ...), quando, nel buio ho visto una figuretta evanescente venire verso di me... poi questa figurina iniziò a tirare le mie coperte, e io realizzai che non si trattava di un essere umano, perché aveva una luminosità stranissima, e poi iniziò a tirarmi le coperte, e a sussurrare: "Vieni a giocare con me! Per sempre!".
Madamigella, credetemi, per quanto sperassi di svegliarmi da quell'incubo, tenendo gli occhi tenacemente chiusi, quella figura orribile non sembrava intenzionata ad andarsene, fino a quando non iniziai a urlare: allora sparì, e appariste voi!".
Oscar deglutì. Poi chiese: "E come era quella figura, Girodelle? Descrivetemela, per favore!"
"Oh, beh....vedete, nonostante fosse buio, e nonostante la sua strana luminescenza, o forse proprio in forza di quella, mi sembrava bruno...un bambino, bruno, con capelli ricci e folti ..."
"E gli occhi, Girodelle? Di che colore erano gli occhi!?"
"Non saprei ... io...."
"Ascoltate! È importante per me!  Sforzatevi di ricordare!"
"Nel buio ... con quella strana luce ...", nicchiò ancora quello.
"Sforzatevi!", ripeté, perentoria, Oscar.
."Io... io.,...blu, ecco; no azzurri; ecco: credo che fossero azzurri!", rispose Girodelle.
Un bambino bruno, con folti riccioli e gli occhi azzurri, che si aggira nottetempo nella dimora dove aveva vissuto, nei sogni e nel mondo reale: Oscar chiuse gli occhi, assalita da un sottile senso di vertigine.
 
 
 
Ed ecco dunque spiegato il perché della presenza di Girodelle a Lille! Ma, oltre a Maria Antonietta che si diverte a “fare i combini”, sono entrati in scena nuovi personaggi.
Per la fan art, davvero splendida, ringrazio tanto AlessandraDF3.


 

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Capitolo 12
*** 12 - Capitolo 11 - Di visite inaspettate, omaggi e inviti a pranzo ***


12 - Capitolo 11 - Di visite inaspettate, omaggi e inviti a pranzo.
 “Grazie, Girodelle”, rispose Oscar, dirigendosi a passi lenti e misurati fuori dalla stanza, l’espressione turbata. “Grazie davvero. E ora cercate di riposare un poco”.
André, dopo un breve cenno di saluto a Girodelle, che restava seduto silenzioso, con la confusione e la mestizia dipinte in volto, davanti al suo bicchiere vuoto, seguì, ugualmente silenzioso, Oscar che aveva già lasciato la camera di quell’ospite sgradito.
Lei non disse una sola parola, sino a quando non furono davanti alla porta della sua stanza, la “stanza della gabbia”, come l’aveva ormai mentalmente ribattezzata.
“Buonanotte, Oscar”, disse André, come esitante.
“A domani, André", rispose asciutta lei, chiudendosi la porta dietro le spalle, e lasciando decadere implicitamente il proposito di continuare in ulteriori esplorazioni della magione, almeno per quella notte.
        Al sorgere del sole, Oscar era già davanti portone, da sola, con addosso il suo mantello d'ordinanza azzurro.
Era intenzionata a fare una lunga passeggiata, per le vie sferzate dal vento freddo, il bavero rialzato, le braccia conserte con le mani affondate nelle pieghe della lana battuta azzurra, calda e un poco ruvida e pungente, e riflettere: su quella strana missione, che avrebbe preferito evitarsi, ma cui non si poteva sottrarre; sull'arrivo di Girodelle, e sul senso di stizza e fastidio che le aveva provocato quell'interruzione nella loro missione. Loro: sua e di André.
E, la mano protesa ad aprire il portone, si bloccò: "La NOSTRA missione?!", si chiese, sconcertata? Da quando pensava a lei e André come a un "noi"? La missione era la sua, era suo e solo suo l'incarico ricevuto dalla sua Regina: suoi il merito e l'onore e la gloria, se l'avesse portata a termine in modo soddisfacente; e suoi il demerito e il disonore e il biasimo, se avesse fallito: così era sempre stato, e così doveva essere; del resto, era un soldato, no? E i soldati rischiano sempre, in battaglia e non solo, in prima persona, responsabili sino all'ultimo delle loro azioni, essi soli, senza infingimenti, senza un "noi" dietro al quale nascondersi.
Strinse i pugni.
Ma era anche vero che André era sempre stato accanto a lei, da che aveva memoria: aveva condiviso tutte le sue imprese e tutti i pericoli che lei aveva corso, senza mai tirarsi indietro, condividendo tutto della sua vita e dei rischi cui era esposta; e tutto questo, senza mai nascondersi dietro alla giustificazione di essere solo un attendente, solo un servo.
Se c'era un "noi", chi mai poteva designare meglio di lei e André? Deglutì, sconvolta da quel subitaneo squarcio di luce aperto da una parola irriflessa, un aggettivo, un "nostro" sfuggitole mentre rifletteva fra sé e sé...e sentì in quel momento un tocco, un bussare leggero, al portone.
"Chi è?", chiese, grata per quella interrruzione in un giro di pensieri inedito e che intuiva molto, molto pericoloso.
"Io!", esclamò una vocina dall'altra parte del legno robusto.
"Io chi?", chiese di rimando Oscar, quasi divertita dall'ovvietà e dalla inconsistenza insieme della risposta.
"Io, Michel!". La vocina adesso aveva assunto una sfumatura stizzita, e Oscar, sorridendo, aprì il pesante portone.
 
 
        Si trovò così davanti al più grazioso monello che avesse mai visto, un autentico gamin, che non avrebbe sfigurato per i vicoli più popolosi e più turbolenti di Parigi: gli occhietti vispi nel viso olivastro, sotto la cascata di riccioli neri sovrastati da un berrettino rosso, le gambette nervose coperte da un paio di pantaloncini rattoppati, ma di pesante fustagno, e i piedini protetti contro il freddo invernale da calze ben spesse e riparati in un paio di scarpe robuste, anche se non di elegante foggia - e una bella giacca calda e pesante, a coprirlo e a difenderlo dall'inclemenza del clima. Una sciarpa di lana rossa pesante, lavorata ai ferri con cura da una mano gentile e sollecita, e con ancor maggiore sollecitudine stretta sotto il mento a proteggere la gola, completava la mise del piccolo sconosciuto.
Il bambino la fissò con gli occhi sgranati, certo attirato dalla chioma biondissima che riluceva sotto il freddo sole invernale, e, nondimeno, tendendole un involto.
"Prendete, Madamigella ... Oscar ... ma ... ma ... ma voi siete davvero una madamigella? Come quelle con la gonna lunga e il corsetto stretto?", chiese dubbioso e stranito il bambinetto.
        Era, quella, una domanda che Oscar detestava, e che aveva immancabilmente il potere di irritarla, dato che sempre vi coglieva il potenziale offensivo, di insinuazioni feroci e malevole di cui veniva caricata solitamente questa domanda dalle persone che la ponevano. Ma, sulle labbra di uno sconosciuto così piccolo e ingenuo, tanto grazioso e spontaneo, essa non suonava nemmeno minimamente irritante come poteva esserlo in bocca, per esempio, del Duca d'Orléans o del Duca de Guiche.  Per cui, Oscar si chinò verso il piccolo visitatore, e, le ginocchia flesse, e, con gli avambracci poggiati sulle cosce, in difficile bilico fra punte e talloni, e un poco ingombrata dalla mole dell'ampio mantello da ufficiale, aggirò l'imbarazzante quesito rispondendo a sua volta all'interrogativo con una domanda.
"Più o meno. E tu chi sei, piccolino?"
"Sono Michel, ve l’ho detto! E devo consegnarvi questo", ripeté il bambino, compreso nel suo ruolo, porgendo l'involto con grande degnazione a Oscar, che lo accolse fra le sue mani: era caldo, e profumava deliziosamente di pane appena sfornato e cioccolato.
"Ma da dove vieni, Michel?", insisté lei.
"Dalla bottega del fornaio Michaud, laggiù", rispose quello, volgendosi e indicando con il ditino un luogo imprecisato, nel dedalo di viuzze che sfociavano sulla piazza.
"È tuo padre, il fornaio Michaud?", chiese Oscar, perplessa.
"Oh, no, no! Il fornaio Michaud è morto tanto tempo fa, tanto tanto, e al forno, anche se tutti lo chiamano ancora così, c'è la vedova, la signora Claudine, insieme con la mia mamma, che lavora per loro da quando è piccolina come me, perché i Michaud non hanno avuto figli e l'hanno un po' adottata", spiegò con dovizia di dettagli il bambinetto, aggiungendo: "Così io e la mamma viviamo in una bella casa calda con la signora Michad, e io ogni tanto la chiamo nonna, e non ci mancano mai il pane fresco e i soldi per comprare la carne e le scarpe nuove. E io ogni tanto vado a fare qualche consegna per i signori che vogliono trovarsi il pane caldo e croccante alla mattina presto. È buono, sai?, il pane del forno Michaud!"
"Ho capito, Michel", disse con un sorriso Oscar. "Ma, di questo che mi dici?", chiese, indicando l'involto.
"Oh, questo è per voi, Madamigella Oscar!", e fece per andare via, ma Oscar lo trattenne, gentilmente, per una mano.
"Un momento, Michel: conosci il mio nome? Chi te l'ha detto? E, soprattutto, chi ti ha dato questo pacchetto per me?".
"Ma ... il signore! È stato il signore!", rispose con sicurezza Michel, quasi stupito che quella Madamigella tanto strana, che non portava gonne lunghe né corsetto, non conoscesse il "signore":
"Quale signore, Michel?", insisté Oscar.
"Quello sempre elegante, che viene tutti i giorni al forno, che riempie di complimenti maman, dicendole che è bellissima - perché la mia mamma è bellissima, davvero bellissima, anche se ha i capelli scuri e non biondi come i vostri! -, e che mi dà sempre un luigi d'oro quando faccio qualche commissione per lui di giorno, e due se è dopo il tramonto o dopo mezzanotte", spiegò Michel, sempre più sicuro a misura che gli venivano in mente nuovi dettagli da fornire. "Quello che quando arriva fa sempre tintinnare il suo spadino, uno spadino lucidissimo, e leggero, non come il vostro, e che porta sempre la parrucca bene incipriata, anche al mattino presto, o la sera tardi, e ... eccolo laggiù!", si illuminò Michel, indicando una figura vestita di un color celeste chiarissimo, indolentemente appoggiata all'ultima colonna del porticato che bordeggiava la piazza, proprio accanto all'ingresso della banca.
                Oscar alzò gli occhi, levandosi, e, dal capo opposto della vasta Place du Lion d'Or, il Visconte di Valmont levò la mano, con gesto lento e studiato, in un cenno di saluto.
        Nel frattempo, il piccolo Michel era sgusciato via, lasciando Oscar interdetta e stupita, fra le mani un involto dal profumo invitante, mentre il Visconte veniva nella sua direzione.  Quando fu a due passi da loro, arricciò le labbra in una smorfia capricciosa e soddisfatta, e, pur se a labbra chiuse, Oscar ebbe la certezza che si stava passando la lingua sui denti: sembrava in tutto e per tutto un gatto, un gatto adulto, astuto e viziato, che aveva ottenuto quanto desiderava; involontariamente, pensò ad Artemis, il gatto di sua madre, la Contessa Marguerite, un persiano indolente e dal pessimo carattere che, nelle lunghe assenze della padrona, perennemente impegnata a Corte come dama di compagnia della Regina, passava le giornate dormendo, fatti salvi gli attacchi repentini e dispetti con cui terrorizzava le cameriere di palazzo Jarjayes.
        "Solitamente, a una donna bella come voi, Madamigella Oscar, si dovrebbero inviare omaggi floreali; tuttavia, dal momento che oggi siete abbigliata di un colore più chiaro e sgargiante del nero che tanto vi dona"[1] - Oscar dovette assumere un'espressione alterata, pronta a uno scoppio d'ira - ho pensato che fosse più confacente un pensiero simpatico, per cominciare la vostra giornata  con ... le energie e il buonumore sufficienti per affrontare un incarico ingrato"-  Oscar si irrigidì, involontariamente, e Valmont continuò, divertito da come fosse semplice suscitare sdegno in quella giovane così strana, così tutta d'un pezzo, e così eterea e delicata, "e inconcludente".
"Non potete dirlo, non ancora, almeno, Visconte!". Ora lo sdegno di Oscar era vero, era reale, palpabile. Valmont si divertiva da morire a manovrare i sentimenti e le reazioni - così prevedibili! - di quella donna così rigorosa e algida, all'apparenza, e in realtà sensibile come un bocciolo di rosa sullo stelo, e che, come un bocciolo di rosa scosso da un alito di vento, bastava pochissimo a sconvolgere e privare della sua compostezza.
"E invece sì, Colonnello de Jarjayes: ma soltanto perché in questa casa non c'è assolutamente nulla di misterioso. Credete a me che vi ho soggiornato per alcuni giorni, dormendo i sonni più tranquilli e passando le nottate più appaganti della mia vita", affermò perentorio il Visconte, con quel suo tono che pareva sempre intriso di uno scherno sottile, e che impediva di prenderlo sul serio, le labbra sottili ora stirate e ora arricciate come quelle di un bambino capriccioso e forse anche malevolo.
Raramente Oscar si era sentita così a disagio: davanti a quel Visconte impudente, indolentemente strafottente; e forse anche un po' ridicola, mentre reggeva fra le mani un involto dal profumo invitante e dal contenuto probabilmente delizioso, che però, ormai, non aveva alcuna voglia di scartare.
"Avreste forse preferito un omaggio diverso, avreste davvero voluto un omaggio floreale, Colonnello?", insinuò, di nuovo, beffardo, Valmont; ma prima che Oscar rispondesse,  - come l'aveva vista pronta a scattare! -, una voce a lei ben nota, e familiare, e calda, disse pacatamente: "Buongiorno, Visconte. Vi porgo i miei omaggi".
Oscar, volgendosi, vide André, vestito di tutto punto. Forse anche lui intendeva fare una lunga passeggiata, per riordinare le idee?".
A ogni modo, confortata da quella presenza amica, Oscar fece un passo lateralmente, indicando il portone con una mano, e reggendo l'involto con l'altra.
"Volete onorarci della vostra presenza fermandovi per una tazza di cioccolatte, Visconte?", chiese con un sorriso appena forzato. "Così potremo onorare degnamente il vostro gentile pensiero", aggiunse, con una cortesia che sembrò stonata a lei stessa, mentre Valmont, mettendo un piede avanti l'altro con le sue lunghe gambe snelle, con quell'andatura dinoccolata che lo avrebbe fatto riconoscere da lontano fra mille, varcava il portone della casa di Place du Lion D'Or numero 6 con una espressione fra il titubante e il sottilmente vittorioso.
 
[1] Allusione all'abito nero indossato da Oscar al Casinò nella mia ff "Pourquoi est-ce qu'on se déguise?".

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Capitolo 13
*** 13- Capitolo 12. Pranzo a quattro, o della noia. ***


13 - Capitolo 12. Pranzo a quattro, o della noia.
        Come le era potuta venire in mente l'idea balzana di invitare Valmont a colazione?
        Alla grande tavola della sala da pranzo dove vennero serviti caffé, cioccolatte, panini imburrati, confetture, burro dolce e salato, e dove, in un vassoio d'argento, la governante aveva disposto gli squisiti panini caldi con gocce di cioccolato usciti dal forno Michaud, avevano dunque preso posto il Visconte, Oscar e André, e, arrivato poco dopo le sette e trenta, anche Girodelle, già perfettamente elegante nel suo giustacuore immacolato con ricami dorati, con un calcedonio della stessa sfumatura dei suoi occhi a chiudere lo jabot. Quel gentiluomo elegantissimo, senza un capello fuori posto, dai modi garbati e controllati non sembrava avere nulla in comune con il giovane terrorizzato e tremante che la sera prima Oscar e André avevano scoperto nella camera azzurra.
        E, quel che è peggio, Girodelle e Valmont avevano addirittura scoperto di intrattenere molte conoscenze comuni a Parigi - il che non doveva stupire, dato che entrambi erano nobili, giovani, ricchi, affascinanti e amanti della società e nella sfavillante capitale del regno: in fondo, per essere considerati edotti sulle ultime mode tutti i giovani più in vista dovevano per forza frequentare gli stessi luoghi di svago e di divertimento, entrare negli stessi salotti, vedere gli stessi spettacoli, apprezzare gli stessi cantanti dell'Opéra.
       
Come era stato, rifletteva Oscar, il gomito destro sul tavolo della sala da pranzo, la mano a reggersi il mento, che il Visconte di Valmont si era trattenuto anche per pranzo? Ma lui e Girodelle chiacchieravano così amabilmente che, dopo il cioccolatte e i panini al burro e al cioccolato si erano trasferiti nella sala del biliardo per un'interminabile partita, coinvolgendo, come spettatrice, anche Oscar, che era invece sprofondata in una poltrona, con un libro in mano e l'aria nobilmente malmostosa che sempre aveva durante i balli a corte, quando restava ostinatamente in disparte, ma non per questo meno in vista agli occhi dei molti suoi ammiratori alla Reggia, appoggiata a una colonna, con una coppa di champagne in mano.
E, peggio che mai, Oscar era sola, completamente sola: André si era eclissato chi sa dove (“Accidenti a te, André!”) senza dare spiegazioni, poco dopo la colazione, che il giovane aveva consumato, fra le occhiatacce malamente mascherate di Girodelle, allo stesso tavolo di Oscar e dei suoi ospiti. Poi, André si era alzato, con il suo fare elastico e disinvolto, e con un inchino, rivolto prima a Oscar - dopo tutto, non ne era l'attendente? - e poi ai due nobili commensali, aveva chiesto licenza per accommiatarsi: "Con permesso, Messieurs, il dovere ora mi chiama".
Già, ma quale dovere? Quale?!, pensava Oscar, stizzita e risentita, chiudendo, a intervalli regolari, il suo libro  - un’orazione di Cicerone di cui non stava capendo proprio nulla, mercé il malumore potente che l'aveva colta e che si era completamente impossessato di lei- o alzando gli occhi dal volume rilegato in pregiato marocchino verde verso la porta della sala del biliardo, nella speranza di vedere comparire nel vano André.
Quale, quale, quale accidenti di dovere poteva dover svolgere da solo? A Lille, poi?!
Il suo dovere era affiancarla in quella maledetta missione: vile chi l'abbandona, e viene meno! Accidenti ad André! Per colpa sua, ora era ridotta a una sorta di Misanthrope da commedia di quart'ordine, relegata in un angolo a digrignare i denti in presenza di due ospiti per diversi motivi sgraditi.
Poi, però, sentendosi terribilmente in colpa per quel venir meno allo stile della famiglia Jarjayes, da sempre all'insegna di una ospitalità signorile e insieme intima e fastosa, una volta terminata la partita a biliardo, inframmezzata di chiacchiere mondane, quando la pendola aveva suonato la mezza, Oscar non aveva potuto esimersi dall'invitare a trattenersi a pranzo il Visconte di Valmont.
        Una pessima mossa, doveva convenirne fra sé e sé. La presenza di André, rientrato poco dopo mezzogiorno e mezzo, e sedutosi a tavola, stranamente silenzioso, dopo che era stata già servita l'oca alla creta, annaffiata da un robusto Borgogna, non era stata sufficiente a sollevare il suo umore.  Valmont e Girodelle, da parte loro, continuavano con le loro amabili chiacchiere mondane, ciarlando ora di una vecchia contessa in disarmo che aveva svenduto un vigneto nel Beaujolais, ora delle perdite al gioco della baronessina de Bramberries, così amabile e vivace, e così costosa!, come aveva dovuto constatare anche il marito della giovane; per non parlare del confino forzato in campagna cui era costretta ormai da parecchi mesi Madame de Noilhac: forse perché una rispettabile giovane donna, vedova, sì, ma ancora nel pieno dei bollenti ardori della gioventù, doveva dare alla luce in segreto il frutto della colpa? Quanto al correo, Girodelle propendeva per il Conte de Brissac, mentre Valmont, sollecitato più volte dal suo interlocutore, alla fine si espresse, con un sorrisetto, e con grande vaghezza, a proposito di "un giovane cavaliere molto elegante" ammaliato dalla giovane vedova, cui le gramaglie donavano uno charme particolare. Quei due se la intendevano davvero a meraviglia!, constatò Oscar fra sé e sé con stizza, e intanto le sue indagini erano a un punto morto.
        Come Dio volle, anche il caffé venne servito, e il solo contributo di Oscar alla conversazione avrebbe potuto essere uno sbuffare annoiato e assai poco elegante, che si risparmiò non senza grande sforzo, senza però lesinare, un paio di volte, di levare gli occhi al soffitto con espressione fra il costernato e l’annoiato, quando i due ospiti chiacchieravano troppo fittamente per accorgersi di lei, e, soprattutto, quando riusciva a intercettare gli occhi di André, che sembrava completamente assorbito dal parlottio di Valmont e Girodelle.
        Quando Valmont prese, finalmente, congedo, Oscar lo accompagnò di persona al portone, intuendo, o, per meglio dire, sperando, che il Visconte avesse una qualche rivelazione, sia pur minima, da farle. Invece, con sua enorme sorpresa, Valmont prese congedo da lei abbracciandola lievemente, e stampandole due baci, leggeri, ma decisi, sulle guance.
Oscar era impietrita: nessuno si era mai preso una simile libertà, con lei, nessuno. E avrebbe forse dovuto prevedere, e prevenire, il gesto di Valmont, ma i movimenti del visconte erano improvvisi e fluidi, inaspettati come quelli di un gatto, e lei, il fiero Comandante delle Guardie Reali, non aveva potuto fare altro che restare immobile, con un lieve rossore a imporporarle le guance,  mentre davanti a lei, subito scostatosi a distanza di sicurezza (a distanza di schiaffo, pensò Oscar, fulminea, per poi correggersi: uno schiaffo! Perché? Perché mai? Non era stato offensivo, o volgare, o beffardo: o forse beffardo sì, almeno un poco?), Valmont la osservava, le mani lungo i fianchi, la testa leggermente inclinata verso sinistra, e quel suo sorrisetto appena abbozzato a labbra unite e appena arricciate. Persino il guardaportone, che aveva intercettato quel movimento insolito, e aveva notato la stranezza della scena, si era sporto dalla sua guardiola, e osservava, curioso come una servetta, nella sua elegante livrea rosso cupo, l’evolversi di quello strano congedo.
“Non vi sarete per caso risentito, Colonnello Jarjayes?”, buttò là con noncuranza il Visconte.
“Assolutamente no, Visconte. Perché mai avrei dovuto?”, rispose, ostentando pari noncuranza, l’erede del titolo de Jarjayes.
“Bene”, convenne Valmont, per poi aggiungere, un attimo dopo:
“Allora direi che voi potete accettare la mia ammirazione, e io accettare la vostra amicizia”.
E avrebbe voluto, Oscar, ribattere con una domanda (“Ma quale amicizia, Visconte, quale?!”), visto che di amicizia per il Visconte non riteneva di poterne sentire, ma i modi di fare di Valmont e la sua retorica, di grana più fine della sua, l’avevano presa in contropiede.
“E in nome di quest’amicizia, immagino di potere tornare domani, soprattutto per apprezzare la vostra piacevole e sobria conversazione (e qui Oscar si sentì avvampare di stizza), oltre che per approfondire l'altrettanto piacevole conoscenza del Visconte di Girodelle, col quale abbiamo scoperto di intrattenere varie amicizie e interessi comuni a Parigi, e che, se posso permettermi, non mi sembra accolto con particolare entusiasmo in questa dimora”.
E dopo aver proferito questa ennesima impertinenza, senza dare a Oscar il tempo di reagire, di cercare una risposta adeguata, si allontanò, oltre il portone.
Lo sconcerto di Oscar aumentò quando, rientrata in casa, trovò nella sala della musica André, in piedi, che strimpellava sui tasti di una vecchia spinetta: a differenza di Oscar, André non aveva mai preso lezioni di musica, riservate all’erede del casato, ma solo di danza.
Era piuttosto allegro, André, e non faceva nulla per nasconderlo. Di Girodelle, nessuna traccia.
“André, sai dov’è Girodelle?”, chiese Oscar.
“Oh, ha detto che aveva necessità di un poco di riposo per sopperire al ... sonno interrotto, ha detto proprio così, della notte, e si è ritirato nella camera che si è assegnato”.
“André, a volte sei di una perfidia che potrei definire....”, iniziò Oscar.
“Come?”, chiese lui, volgendosi, con un sorriso ironico e gli occhi sfavillanti.
“Ammirevole”, precisò Oscar.
“E ...”, e intanto André andava alla tavola, dove erano posati alcuni fogli, e, preso posto, faceva cenno a Oscar di sedersi di fronte a lui. “E molto solerte. Guarda qui”, le disse, porgendole le carte solcate dalla sua grafia elegante e regolare, dalle “g” profondamente incise e dagli svolazzi contenuti.
“Incredibile!”, mormorò Oscar. E poi, dubbiosa: “Ma come ... come ci sei riuscito? Monsieur de Vergeron ti ha ricevuto?”.
“Sì, mi ha ricevuto, ma, subito dopo aver appurato che si trattava solo dell’attendente del Colonnello de Jarjayes, e non dell’erede di uno dei titoli nobiliari più antichi di Francia, ha ben pensato di ricordarsi improvvisamente di un gravoso impegno che lo avrebbe completamente assorbito, e mi ha messo alla porta senza tante cerimonie. E senza offrirmi nemmeno una tazza di cioccolatte”, chiosò, ironico. Ma sembrava esserci più che ironia in quello sguardo sorridente e smeraldino, e Oscar se ne rese conto dall’inflessione sottilmente amara delle sue parole.
“Oh, André, mi spiace. Mi spiace veramente....”
“Ma non mi sono perso d’animo, e ho pensato allora di andare in un posto in cui, anche in tempi di oscurantismo come questi in cui viviamo (e qui fu Oscar a stirare impercettibilmente le labbra in una espressione che non indicava soltanto impazienza), l’ingresso è aperto a tutti”.
“Ma dove sei andato, André?”.
“In parrocchia”, sorrise lui. “O meglio: mi ero riproposto di fare il giro di tutti gli archivi parrocchiali, e a Lille ci sono undici parrocchie. Poi mi sono ricordato di quanto ci ha detto Monsieur de Vergeron: ossia, che il nostro fantomatico Monsieur Destouches centocinquant’anni fa aveva acquistato questa dimora proprio dall’istituto bancario di cui lui è oggi proprietario e direttore, e allora ho formulato un’ipotesi”.
“Ovvero?”, chiese, interessata, Oscar.
“Ovvero”, spiegò pazientemente André, che Monsieur Destouches forse era originario di questo quartiere della città, e come prima opzione, una volta raggrannellato un gruzzolo sufficiente per comprare una bella casa, avrebbe potuto desiderare di restare nel suo quartiere. Beh, devo ammettere che ho avuto decisamente fortuna! Nei dintorni ci sono due chiese: ho chiesto di consultare i registri parrocchiali, diciamo da 1570 in poi, e nella seconda, Santa Margherita, ho trovato l’atto di battesimo di Louis-Ferdinand Destouches, nato e battezzato il 22 novembre 1588”.
“Eccezionale, André!”, convenne Oscar.
“Ah, no davvero. Pura fortuna al servizio di un poco d’intuito”, si schermì lui, con un gesto della mano, quasi a scacciare una mosca davanti a sé. “Perché la mia ipotesi era plausibile e logica, ma Monsieur Destouches avrebbe anche potuto essere un forestiero venuto da chi sa dove, che ha acquistato una casa signorile dove ha trovato un’occasione”.
“Sì, ma l’hai trovato tu, sostenuto dalla tua fortuna, e dal tuo intuito”, ribadì lei, grata e quasi incredul, stringendo fra le mani i fogli.
“E poi, Oscar, pensa un po’: ho seguito le tracce di Monsieur Destouches attraverso la sua famiglia: guarda chi sposa la sua unica figlia, battezzata a Lille, nella stessa parrocchia del padre, il 27 settembre 1632: Madame La Bruyère-Servant, née Destouches, che a sua volta risulta essere la bisnonna, in quanto madre della nonna materna, anch’ella figlia unica, di una nostra vecchia conoscenza...:”
“André, sei stato ... fenomenale!”, esclamò Oscar, alzandosi bruscamente, e spingendo indietro la sedia con il movimento delle gambe. “Adesso dobbiamo andare subito da Girodelle, dicendogli che la nostra missione si sta per concludere e che non c’è alcuna necessità che si trattenga, così...”
E avrebbe voluto concludere: “Così ci libererà della sua sgradita presenza”, ma le parole le morirono in gola, quasi con timidezza, come se si fosse trattato di un’implicita ammissione di quanto, invece, avrebbe apprezzato trascorrere ancora del tempo sola con André. Ma, in ogni caso, le parole le sarebbero rimaste in gola, visto che André – caso rarissimo, in tutti gli anni passati insieme – la sovrastò con la sua voce, fissandola col suo strano sguardo penetrante: “No. Aspetta, Oscar! Potrebbe essere meglio non scoprire subito le nostre carte, non credi?”
Oscar gli restituì un lungo sguardo, di intelligenza e complicità.
“Hai ragione, André. Che cosa consigli, dunque?”
“Di lasciar passare questa nottata, e anche la prossima, e di attendere quello che ci prospetteranno gli avvenimenti!”, suggerì André.
“D’accordo”, accettò lei, pronta a immolarsi per almeno un paio di giornate a stretto contatto con Girodelle. Non che il suo secondo le fosse antipatico, tutt’altro: negli oltre dieci anni in cui avevano lavorato fianco a fianco, aveva sempre apprezzato la sua competenza e la sua precisione, il suo portare a termine con coscienziosa attenzione ogni genere di incarico, financo la sua pazienza con le reclute, e gliene era grata; per giunta, molte missioni, soprattutto nei primi tempi del suo incarico di comandante della Guardia Reale, quando portava ancora il titolo di capitano, erano state coronate dal successo grazie alla sua sollerzia e alle sue capacità ; ma sentiva anche, chiaramente, di non avere alcunché in comune con lui, e non solo di non poter convidividere nulla con Victor Clément de Girodelle, ma anche di non voler condividere più nulla, oltre alle ore che le toccava trascorrere gomito a gomito con lui al comando del reggimento della Guardia Reale.
 
 
 
 
P. S. L'esclamazione: "Accidenti a te, André", letta - sebbene in contesto diverso - nella long di Lella73, e che tanto mi aveva fatto sorridere e intenerire non poteva non finire nel mio racconto. Grazie, dunque, a Lella73, e a Galla, fedele lettrice che mi "becca" tutti gli errori e le sviste. E grazie a voi tutti che seguite questo racconto con curiosità e attenzione. Ciao e a presto!  

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Capitolo 14
*** 14 - Capitolo 13 - Notte agitata, notti tranquille ***


14 – Capitolo 13- Notte agitata, notti tranquille
1 -  La cena fu silenziosa, non meno noiosa del pranzo, ma, almeno, non costellata, come lo era stato il pasto precedente, dal fitto ciarlare di Girodelle col suo nuovo amico: quella sera, invece, ogni debole tentativo del Maggiore de Girodelle di intavolare un qualsiasi scambio di battute sugli argomenti più disparati – pittura, letteratura, novità e indiscrezioni nelle nomine agli alti gradi dell’Esercito francese – era stato gelato sul nascere, accolto da Oscar con un disattento, “Ah, sì”, che non lasciava spazio a ulteriori approfondimenti – men che meno quando Girodelle tentò di spostare la conversazione sui nuovi modelli di camicie con lo jabot bordato di pizzo macramé e non più di pizzo Valencienne.
Nemmeno quel villano ripulito di Grandier mi ha aiutato – annotò mentalmente, con stizza sconfinante nella rabbia, Girodelle – a intavolare una conversazione che rendesse meno gelido il clima a tavola: si è limitato  a rimpinzarsi senza decoro, e senza cercare di agevolare un gentiluomo che, in fondo, voleva solo rallegrare il pasto del suo comandante, nonché della padrona di Grandier, costretta a vegetare in questa città di provincia così noiosa, in compagnia soltanto del suo servitore!
 
 
 
 
2 - Giacché la conversazione con era decollata affatto, i tre si ritirarono presto.
Oscar,  nella sua stanza, non poteva trattenersi dal fissare con insistenza la gabbia, e non solo perché era proprio di fronte al suo letto; anche dopo che ebbe spento la candela, la sua sagoma minacciosa continuava a entrare nel suo campo visivo, e persino quando chiudeva gli occhi, da sotto le palpebre le sembrava che quell’immagine infausta la seguisse e non la lasciasse mai. Se poi si concentrava sul piacevole tepore che le coperte pesanti, di lana e casimiro, trasmettevano alle sue membra, immediatamente veniva punta dal pensiero, quasi vergognoso, del freddo che doveva aver patito l’Orfanello, esposto al gelo notturno in quella gabbia.
      “Sempre che sia mai esistito, l’Orfanello”: le sembrava di sentirsi rimbombare nelle orecchie le parole di André, il suo tono irritantemente saputo, morbido e ironico, il suo sorriso complice e gli occhi brillanti.
“Quante sciocchezze!”, sbuffò, rigirandosi nel letto: e non era chiaro se “sciocchezze” era l’epiteto con cui qualificare la storia dell’Orfanello, e il panico che creava soltanto l’evocarla, o tutte le elucubrazioni di André. Senza che la questione fosse risolta, nemmeno di fronte al tribunale della sua coscienza, Oscar venne così raggiunta dal sonno.
Ne venne svegliata da una serie di grida, urla disumane, che provenivano da sopra la sua testa.
 
 
“NO! NO! VATTENE! VATTENE! VIAAAAA!”.
3 - La voce femminile che le proferiva, deformata dal panico, era chiaramente di una donna fuori di sé. Oscar scattò a sedere sul letto e si infilò alla bell’e meglio sotto la camicia da notte calze, pantaloni e stivali, rimborsando la lunga veste di lino bianco dentro la cintura dei pantaloni, e coprendosi con la vestaglia pesante. Non aveva impiegato più di tre minuti per questa operazione, quando, mentre le urla continuavano a ripetersi sopra la sua testa, sentì bussare alla porta.
“Oscar! Oscar! Sono io, apri!”: la voce di André era allarmata come raramente Oscar l’aveva sentita. Lei attraversò la camera, al buio, di volata, orientandorsi con il lucore lunare che entrava dalla finestra, dalle tende aperte e di cui non aveva accostato né fatto accostare gli scuri, non senza aver lanciato un’occhiata veloce al comodino (sgombro, per fortuna, annotò mentalmente, senza la sagoma minacciosa di nessun pupazzo a turbare il suo risveglio!), e, una volta aperta la porta, si trovò di fronte ad André, che doveva essersi rivestito ugualmente di fretta, con la camicia da notte bianca semislacciata sul petto e rimboccata nei calzoni, i capelli sciolti sulle spalle[1] e gli stivali, che reggeva un doppiere e le indicava la scala che, dal fondo del corridoio, saliva verso il piano superiore, dove era alloggiata la servitù: “Vieni Oscar: le grida venivano dal piano di sopra”.
Una volta arrivati allo stretto corridoio che collegava le camere del personale di servizio, non fu davvero difficile capire da dove fossero venute quelle urla terrorizzate: la porta di una delle stanze era aperta, e sulla soglia si accalcavano le cameriere, lo stalliere, la governante. Dentro, una Madame Blondette tremante – proprio lei, che aveva ostentato con André una pragmatica superiorità rispetto alle superstizioni degli abitanti di Lille – tremava, piangendo, fra le braccia del guardaportone, che la stringeva, affettuoso e protettivo.
“Su, su ... è passato tutto, è tutto passato!”, non smetteva di mormorare quello.
“L’ho visto, l’ho visto!”, ripeteva Madame Blondette, senza riuscire a fermare il suo balbettio.


Oscar si fece strada tra la piccola folla, seguita da André, e si chinò leggermente sulla povera cuoca, sconvolta e tremebonda.
Madame Blondette, vi prego, cercate di rispondermi: che cosa avete visto?”
“Io l’ho visto! L’ho visto!”, ripeté ancora, mentre il guardaportone, che era poi il marito della povera donna, in camicia da notte, la teneva abbracciata, seduto sul letto, dal lato opposto a quello dove era Oscar.
“Chi?!”, la sollecitò Oscar.
“L’Orfanello! Io ne ridevo tanto, ero incredula ... e lui, o il Signore, mi ha punita!”, concluse la donna, affondando il viso nell’abbraccio del consorte.
        André, nel frattempo, con il suo fare più suadente e tranquillizzante, aveva chiesto al personale di servizio accalcato fuori dalla porta di tornare ciascuno nella propria stanza e poi si era spinto, senza mai lasciare il doppiere, accanto a Oscar, restando in piedi a fianco a lei, che aveva invece preso posto sulla semplice sedia impagliata posta accanto a letto della donna terrorizzata, e che si disponeva a interrogare la povera cuoca.
 
        4 - “Ora, Madame Blondette, è molto importante che voi facciate ordine nei vostri pensieri e che raccontiate nel dettaglio tutto quel che avete visto e che vi ha dato timore”, disse Oscar, tesa, ma cercando di assumere un tono tranquillizzante.
“Oh, Colonnello de Jarjayes, quanto sono stata sciocca a farmi beffe dell’Orfanello con Monsieur Grandier e con gli altri membri della servitù! Sciocca e malvagia!”. La voce della povera donna aveva assunto una sfumatura gravida di pianto e Oscar non poté trattenersi dallo sfiorare con una carezza leggera i capelli ingrigiti dall’età che le ricadevano sulla fronte.
Madame, non dite queste cose: pensiamo piuttosto a vedere chiaro in questi eventi: che cosa è accaduto di preciso? Anche vostro marito ha visto qualcosa?”.
“No, Colonnello de Jarjayes, purtroppo non posso esservi utile”, scosse la testa il guardaportone: “Di solito io e mia moglie dormiamo in stanze separate giacché i nostri orari sono troppo diversi, e anche in questa dimora abbiamo fatto la stessa cosa. Sono solo potuto accorrere dalla stanza accanto quando ho udito le sue grida disperate”.
“E che cosa avete visto? Madame, concentratevi: è molto importante! Ogni singolo particolare ha la sua rilevanza”, ripeté Oscar.
“Allora, una volta pulita la cucina e serrata la dispensa”, ricapitolò Madame Blondette, “Mi sono ritirata”,
“E che ora era?”, domandò André.
“Erano le dieci in punto”, rispose risoluta la cuoca.
“Ne siete sicura?”, intervenne André.
“Certissima”, rispose Madame Blondette, torcendosi le mani. “Perché la cena del Colonnello de Jarjayes insieme a voi e al Visconte di Girodelle era finita presto, e quindi, dopo che vi eravate ritirati, io e le ragazze abbiamo rigovernato velocemente, e, salendo le scale, ho sentito distintamente i dieci colpi della pendola nel corridoio al primo piano”.
“Sta bene: continuate”, la incoraggiò Oscar.
“C’è molto poco da dire, Colonnello de Jarjayes: mi sono preparata velocemente per andare a letto – credo di non avere impiegato più di qualche minuto, e, messami sotto le coperte, ho come sempre recitato le mie orazioni, quindi ho spento la candela. Non so dirvi quanto ci abbia messo ad addormentarmi, ma di solito non sono il tipo che soffre di insonnia. Poi, all’improvviso, mi sono sentita tirare per la manica della camicia da notte, sulla spalla, e ho aperto gli occhi, ancora intontita. E allora, l’ho visto”. E qui, la buona signora deglutì, mentre sul volto le si disegnava nuovamente quell’espressione sgomenta che aveva avuto poco prima, e che aveva perso solo per qualche minuto, quando l’aver potuto raccontare con ordine le esperienze della nottata le aveva infuso, da persona pratica quale era, una certa dose, ancorché provvisoria, di calma.
“Ho aperto gli occhi”, ripeté Madame Blondette, “E me lo sono trovato davanti! Bianco come la neve, quasi opalescente nel buio della stanza – dall’abbaino entrava il chiarore della luna e lo illuminava tutto – bianco bianco nella camiciola leggera che lo copriva, e bianco anche in viso, ed erano bianche persino le labbra ... e poi, e poi, due occhi azzurrissimi, come i vostri, Colonnello del Jarjayes e ... oh! Non me lo dimenticherò mai! Era sorridente, e mi diceva con quella sua vocina terribilmente sottile, che mi sembra ancora di sentire: “Vieni a giocare con me? Per sempre! Per sempre!”. Allora mi sono tappata le orecchie con le mani, ho chiuso gli occhi e ho cominciato a urlare! Poi mi sono sentita abbracciare, e, quando ho riaperto gli occhi, quel ... quel ... quell’essere era sparito, ma c’era accanto a me mio marito, che mi teneva stretta e cercava di rassicurarmi. E poi siete arrivati voi”. E qui, Madame Blondette chinò la testa, mortificata per il contrasto fra la se stessa così sicura e sprezzante di ogni ubbìa superstiziosa, quale aveva dichiarato di essere solo poco tempo prima, e la donna tremante e impaurita che ora si stringeva al marito.
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        5 - “André, non posso tollerare questo!”
Si erano allontanati dalle stanze della servitù e avevano riguadagnato il piano nobile, e ora sedevano, così, ancora ricomposti come quando si erano alzati in fretta e furia, in biblioteca. André aveva acceso i due candelieri posati sul grande tavolo da lettura, e, mentre si affaccendava con l’acciarino e gli stoppini, cercava di tranquillizzare Oscar, la quale, invece, seduta al piccolo sécrétaire sotto la finestra, si teneva la testa fra le mani, scoraggiata e innervosita.
“Che cosa non puoi tollerare, Oscar?”.
“Questo! Se noi ... già da oggi pomeriggio... quella povera donna non si sarebbe presa uno spavento che ricorderà per lungo tempo!”
“Hai ragione, ma non potevamo. Eravamo d’accordo, ricordi?”.
“Sì, è vero, André. Ma con lui per casa, poi...”.
"Oscar, senza prove torneremmo al punto di partenza, lo sai!", la ammonì André.
"E lui? Che cosa fa, lui? Perché non c'era, poco fa?".
"Ah, lui? Ecco, credo che sia immerso nel sonno più piombigno[2] che si possa immaginare. Ho sentito poco prima di cena che chiedeva dei tappi di cera alla governante ..."
"Tappi di cera?!". Oscar sgranò gli occhi, togliendo le mani dal volto, e poggiando gli avambracci sul rigiano del sécrétaire, i pugni stretti.
"Sì, Oscar. Credo che abbia molto a cuore un sonno continuativo e tranquillo, dopo lo spavento che ha preso la notte scorsa", concluse André, conciliante, una volta finita quella esasperante cerimonia di accensione delle candele.
"Ma ti rendi conto, André?!", sibilò quella, di rincalzo. "Noi stiamo cercando di risolvere un compito che ci è stato affidato (Ah, Oscar, Oscar, pensò André in un lampo, se sapessi che carezza è per il mio cuore sentirti parlare alla prima persona plurale!), e Girodelle, lui, per salvaguardare il suo sonno e la sua tranquillità, si mette i tappi di cera nelle orecchie!". E non disse, Oscar, che rimpiangeva, in fondo, la complicità con cui, nei primi tempi del suo incarico alla guida della Guardia Reale, Girodelle partecipava alle indagini sulle cospirazioni e le congiure che minacciavano la Delfina e il Delfino; mentre ora, al contrario, c'era come una spessa lastra di vetro trasparente fra lei e lui: non lo leggeva più come prima - come credeva di poterlo fare prima -, anzi, ogni tanto lo soprendeva a guardarla fisso, quando lei era assorta in riflessioni o impegnata a leggere e a scrivere dispacci, e  si sentiva osservata, e, alzando gli occhi all'improvviso dai documenti e dalle scartoffie, coglieva fuggevolmente lo sguardo di Girodelle, che quest’ultimo aveva la prontezza di distogliere subito.
“Non prendertela a male, Oscar”, la ammonì bonariamente André:
“André, adesso stai parlando troppo!”, scattò quella.
“Oscar, sei troppo nervosa. Posso fare qualcosa per te?”
“No! Non voglio nulla!”, rispose lei, brusca e ostinata come suo solito.
“Io ti consiglierei di bere qualcosa. Un brandy?", insisté, gentile come sempre, André, mentre, passato davanti allo stipo dei liquori, riempiva due bicchieri con abbondante liquore, e poi si dirigeva verso Oscar, con un bicchiere in ogni mano, e porgendogliene uno.
"Non ho voglia di bere, André; te l'ho già detto!".
“E fattelo, questo bicchiere di brandy"[3], disse quello, ponendole il bicchiere accanto, sul tavolino davanti al camino,
Vinta dal nervosismo, Oscar bevve, spazientita.
 
6 - André si sedette a fianco a lei, sorseggiando, a sua volta, il liquore ambrato, che scivolava in gola trasmettendogli una piacevole sensazione di calore.
Non c'era più molto da dire: restarono seduti, silenziosamente, l'uno accanto all'altra, fissando il fuoco. Poi, dopo mezz'ora, André si sgranchì le braccia, e, dopo un sonoro e quasi teatrale sbadiglio, annunciò: "Credo che tornerò a letto, Oscar. Domani sarà una giornata campale e dobbiamo essere pieni di energie".
E si avviò verso la sua stanza, questa volta seguito da Oscar, che aveva aggiunto soltanto: "Hai ragione, André: è meglio davvero se torniamo a dormire anche noi".
        La mattina successiva Madame Blondette, com'era prevedibile, si presentò a Oscar nella biblioteca per rassegnare le sue dimissioni immediate, seguita dal marito. Oscar e André convennero che non valeva la pena cercare altro personale di servizio, per i giorni successivi, comunque limitati, che avrebbero trascorso in quella dimora: per i pasti, e per il servizio di guardaportone, avrebbero supplito altri membri della servitù. In particolare, una delle cameriere aveva avuto pratica di cucina nei suoi precedenti incarichi e si rese disponibile a preparare i pasti, non senza un certo timore, visto che l'ospite arrivato a sorpresa, Monsieur le Vicomte de Girodelle, sembrava molto esigente per quanto riguardava il servizio di cucina.
"Non vi preoccupate, Martine", la rassicurò Oscar, sbrigativa, ma gentile, e come sempre molto corretta quando si parlava dei suoi collaboroatori e sottoposti, "Monsieur le Vicomte è anche un uomo d'arme, e gli uomini d'arme sanno adattarsi. E poi", aggiunse con un sorriso, "sono certa che sarete una cuoca abilissima".
Subito dopo, André si presentò davanti a Oscar e le chiese di firmare una lettera: poche righe, che quella scorse velocemente, e che contenevano una richiesta molto specifica.
"Tornerai dunque da Monsieur de Vergeron?", chiese Oscar.
"Sì", assentì André, "credo proprio che tornerò dal nostro vecchio amico. E sai", aggiunse, infilando con un sorriso malandrino nella tasca interna della marsina la richiesta scritta da lui, ma sottoscritta da Oscar, "credo che Monsieur de Vergeron accoglierà con un certo riguardo una richiesta avanzata nientemeno che dal Comandante delle Guardie Reali".
"Potrei esserti d'aiuto ...", ipotizzò lei, dubitabonda.
"Oh no, no": André aveva levato la mano, il palmo rivolto verso di lei. "Non sarà necessario, Oscar. Tu potrai dedicarti al nostro ospite con tutte le attenzioni al suo rango".
"Ma che ...": l'obiezione le morì in gola, appena guardò dritto in faccia André e vide la sua espressione ridente.
"Buona giornata, Oscar", la salutò André, uscendo di buona lena. "Oh, e qualora non dovessi tornare per pranzo" - aggiunse sporgendosi con il viso oltre il vano della porta, come se avesse improvvisamente ricordato un particolare importante, - "credo che mi scuserai, se non potrò apprezzare la tua scoppiettante conversazione". E subito dopo si dileguò, ricevendo come commiato uno: "STUPIDO!", correlato dal lancio di un pesante volume di Virgilio che colpì lo stipite.
 
7 - Il malumore del Colonnello Jarjayes durante quella mattinata rischiò di toccare l'acme, quando Girodelle si offrì di sorbire un the con "Madamigella Oscar".
"Mi dispiace molto, Girodelle, ma oggi avevo pensato di sbrigare un certo lavoro che mi sono portata da  Versailles", mentì spudoratamente lei, nel tentativo di scrollarsi di dosso quella presenza ingombrante e sgradita.
"Ma potrei aiutarvi sicuramente in questo, Madamigella", intervenne, volonteroso e molesto,  Girodelle. "Di che incombenza si tratta?".
"Ecco, no ... Girodelle, io ... io non voglio incomodarvi, dopo tutto quello che già avete fatto e tutto il disturbo che vi siete sobbarcato per causa mia", accampò Oscar, imbarazzata: mentire non era mai stato nelle sue corde, nemmeno diplomaticamente. E per prevenire nuove obiezioni del suo secondo, si ritirò nella propria stanza, nonostante la poco rassicurante presenza della gabbia.
Distesa sul letto, gli occhi socchiusi, le mani sotto la nuca, la gamba sinistra distesa, la destra piegata, con il piede calzato dallo stivale incurantemente posato sul copriletto, Oscar rifletteva, sulla richiesta, cortese eppure imperiosa, che aveva firmato per André, e sulla rivelazione del giorno prima. Caro André!, si soprese a pensare, se non ci fosse lui ...
Arrivò l'ora del pranzo, deliziosamente preparato da Martine - la quale, evidentemente, si era sforzata di dare prova di tutte le sue capacità -, pranzo che Oscar e Girodelle consumarono senza André, evidentemente trattenuto altrove, in un assordante rumore di posate. 
Durante il caffé, servito nel salottino, in verità, Girodelle, rammaricato con se stesso per le poco edificanti prove del suo valore date sino a quel momento, cercò di ravvivare la conversazione, portandola sull'argomento del trambusto notturno, che egli non aveva udito. "E di ciò vi chiedo perdono, Madamigella, ma spero che comprenderete le mie ragioni e la mia peculiare situazione".  Era rossore quello che affiorava timidamente sotto lo spesso strato di cipria di cui, come sempre, Girodelle si era abbondantemente cosparso il viso?
Oscar sorrise, e cercò una formula altrettanto diplomatica ed eufemisticamente elusiva per rispondere, oltre che per tagliare corto la faccenda, una volta per tutte. Ma in quel momento il valletto portò un biglietto da visita al Girodelle, che, leggendolo, si illuminò.
"Il Visconte di Valmont è qui", annunciò quasi trillando.
"E voi lo ricevete?", chiese lei, arcuando le sopracciglia.
"Sì. E anche voi", rispose, con un sorrisino beffardo Girodelle, quasi a vendicarsi dell'ostinato silenzio del suo Comandante durante il pranzo.
Valmont entrò: la sua eleganza era sempre raffinatissima, ai limiti dell'eccentricità: una marsina di velluto di seta blu notte con fittissimi ricami dorati e pantaloni grigi di seta, corredati da scarpe blu notte con fibbie dorate, e infine, a legare il codino della parrucca, un nastro sempre di velluto bu con ricami dorati.
I due gentiluomini si salutarono e complimentarono con reciproca simpatia, dati tutti i gusti, le preferenze e le conoscenze comuni che avevano rilevato nel corso della precedente conversazione. Da parte sua, Oscar si congedò da loro poco dopo, lasciandoli alla loro partita di faraone.  Riparò in biblioteca, lesse per un po', concentratissima, un volume di Montesquieu, "Le lettere persiane", che aveva visto fuggevolmente, settimane prima, fra le mani di André, e che, chissà come, faceva parte della ricca, ma sconclusionata e disorganizzata biblioteca della casa di Place du Lion D'Or, evidentemente cresciuta su se stessa per le iniziative e le dimenticanze degli inquilini che si erano succeduti negli anni. Il libro la conquistò, soprattutto nelle pagine in cui induceva a riflettere sulla libertà delle donne parigine a confronto con le donne persiane, e sulle conclusioni, assolutamente paradossali, cui arrivava l'autore. Così non sentì subito bussare alla porta, quattro colpi intervallati secondo il codice che da sempre aveva stabilito con André, tre ravvicinati e uno distanziato. André ripeté dunque la sequenza, picchiando con maggior forza.
"Ci sei, Oscar?".
"Sono qui, André".
André entrò con un'espressione soddisfatta e sorniona, e si dispose, in piedi davanti alla vetrata che dava sul via vai della piazza, riecheggiante di voci negli ultimi momenti di luce di quel pomeriggio invernale, a raccontare, accalorandosi via via, mentre riferiva a Oscar quel che aveva scoperto.
"Lo sapevo!", balzò in piedi lei, entusiasta. "E ora che lo sappiamo, André, noi ... "
"E ora che lo sappiamo con certezza, Oscar, noi non faremo proprio nulla, ma aspetteremo pazientemente che il nostro amico faccia la sua prossima mossa", la corresse André, per sedarne il bollente entusiasmo.
"Ma ... ".
"Credimi, Oscar: ci sarà da divertirsi!", sorrise lui.
"André, io... e va bene, ti credo", concluse lei, finalmente arresa ai suggerimenti di André.
"Ottimo. E ora pensiamo a come dovremo comportarci quando sarà il momento", concluse lui. E si immerse in un fitto conciliabolo con Oscar.
 
        8 - Durante la cena, consumata con Girodelle, il clima fu disteso, financo allegro: il Maggiore Girodelle, in particolare, era molto soddisfatto di come avesse saputo, finalmente, suscitare il buonumore di Madamigella Oscar con una serie di aneddoti, talvolta assai spiritosi, a proposito dei comandanti della Guardia Reale che l'avevano preceduta, circa la loro perizia con la spada o con la sciabola, a proposito dei loro sistemi e convinzioni in merito all'addestramento delle reclute; Girodelle non mancò nemmeno di soffermarsi sulla loro leggendaria severità, sulle loro idiosincrasie e piccole manie, e così via, non senza dimenticare  il lungo elenco delle onoreficenze di cui essi erano stati nei decenni gratificati da sua Maestà Luigi XIV, il Re Sole e dal suo successore, Re Luigi XV il Beneamato. Ma, quella sera, Oscar era troppo di buonumore, e pertanto avrebbe ascoltato con il sorriso sulle labbra Girodelle anche se le avesse narrato comportamenti e abitudini degli squamosi ospiti del reale rettilario.
Anche quella sera il terzetto si ritirò presto, ma la notte trascorse tranquilla, senza intoppi di sorta.
I due giorni successivi si svolsero all'insegna di quella che era ormai diventata la routine della casa: colazione, letture, pranzo, questa volta in compagnia di André, visita pomeridiana del Visconte di Valmont, partita a faraone,  corredata da abbondanti ciarle, con Girodelle.
E mentre André ostentava sempre una calma olimpica, Oscar iniziava non soltanto a essere snervata, ma a darlo anche a vedere.
Sino a che la terza notte, finalmente...
 
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Si ringrazia per la fan art Alessandra DF3, che ha voluto omaggiarmi e omaggiare tutti i lettori di questa storia con una immagine di Oscar e del nostro Visconte preferito (suvvia, Girodelle, Vi prego, non Vi alterate).
Aggiornamento abbastanza corposo, come avete visto, e che prelude a una bella scoperta. Quale? Un poco di pazienza.
Grazie a tutti voi per le letture e le recensioni, e per aver accettato di rabbrividire insieme a me con questa storia ambientata nel profondo Nord della Francia. A presto!
 
 
[1] Contente???!!!!

 
[2] L’aggettivo piaceva tanto a Camilleri per indicare il sonno di Montalbano ...
[3] Non so perché, ma me lo immagino detto con il tono con cui Jack Nicholson, nelle "Streghe di Eastwich", consiglia, sornione: "E mangiatela, quest'altra ciliegia...".

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Capitolo 15
*** 15 -Capitolo 14 - Scoperte ***


 
14 - Scoperte
Da poco erano risuonati, al campanile della vicina chiesa di Santa Margherita, i dodici rintocchi della mezzanotte.
        Oscar era ancora sveglia: quella notte non aveva nemmeno preso sonno; anzi, si era distesa sotto le coperte completamente vestita, come in attesa - quale effettivamente era - di importanti novità, che l'avrebbero fatta correre a perdifiato fuori dalla sua stanza. In verità non era nemmeno riuscita a concentrarsi sulla lettura. In quelle notti passate in Place du Lion D'Or aveva in effetti dormito pochissimo, ancora meno del solito. Chi sa, invece, come stava passando la notte André, si sorprese a pensare. Il suo sonno pesante era leggendario a Palazzo Jarjayes; eppure, questa era più la nomea che si era guadagnato nell'infanzia, che non un dato di fatto legato a ritardi o a mancanze, visto che, quando era necessario essere mattinieri, André era sempre puntualissimo e scrupoloso, e, in oltre dieci anni di viaggi quotidiani verso la Reggia allo spuntare del sole, mai una volta aveva mancato di essere presente ad attendere Oscar, in perfetto orario, ai piedi dello scalone d'onore per consumare una veloce colazione insieme a lei nella cucina, calda e intima, così piena dei loro ricordi d'infanzia, e per avviarsi subito dopo insieme a lei verso la caserma della Guardia Reale.
Sospirò. Quanto ancora doveva attendere? E André? Anche lui si era infilato sotto le coperte vestito?
Suonarono i dodici rintocchi dal campanile, e contemporaneamente l'orologio sulla mensola del camino ne batté altrettanti. Pochi istanti dopo, deflagrarono le grida, grida di una ragazza terrorizzata:
"VIAAAAA! VATTENE VIAAAAAA! AIUTO! AIUTO!"
Oscar scostò con violenza coperte e lenzuola e balzò giù dal letto. Si buttò sulle spalle la mantella e, afferrato il doppiere, si precipitò verso la porta della stanza, dietro la quale la voce di André già la chiamava: "Oscar! Ci siamo! Presto!".
Scesero di volata le scale, mentre le grida sopra la loro testa non accennavano a diminuire, e un rumore fitto di passi indicava che la servitù rimasta in servizio nella casa stava accorrendo in una delle camere del personale di servizio, quella da cui provenivano le urla che avevano squarciato la notte.
Guadagnarono l'androne, la porta d'ingresso, il cortile, e lì André, agilissimo nel buio, a grandi falcate, mentre Oscar gli teneva dietro quasi con fatica, si slanciò su una figuretta infagottata di panno scuro, bloccandone la corsa affannata sulle corte gambette infantili. La figurina si agitava, cercava di sfuggire, ma André lo teneva ben stretto e, con un ginocchio puntato a terra, lo immobilizzava fra le sue braccia forti e muscolose. Quando Oscar fu vicina, e protese il doppiere, André si abbassò il cappuccio che copriva il volto della figurina: "Oscar, permettimi di presentarti l'Orfanello!".
"Michel!!!! TU?!!!", esclamò Oscar, stranita.,
"Sì, io! Non mi fate del male, vi prego!", piangeva il bambino. Il cappuccio con mantello era ormai un cencio finito a terra, e il bimbo sfoggiava un completo bianco candido con perline fittissime, opalescenti nel buio, e aveva il viso coperto di biacca e i capelli incipriati, o meglio, abbondantemente infarinati, come del resto era fittissima polvere di farina quella che cadeva a terra mentre si dimenava.
"E ora"; disse André, prendendo in braccio il bambino e caricandoselo sulla spalla sinistra, dirigendosi verso il portone, che aprì, mentre Oscar gli faceva luce, con tre giri di chiave netti e decisi, "Ecco qui la vera mente dell'operazione!". E, una volta spalancato il portone, Oscar e André si trovarono di fronte il Visconte di Valmont.
V'è dei momenti in cui l'animo di un gentiluomo, per quanto imbarazzato, non può negare l'evidenza: e così, il Visconte, indolentemente appoggiato al muro accanto al portone, in un abito nero sobrio ed elegante, con un tricorno nero piumato, mentre controllava, in atteggiamento fra l'ozioso e il nervoso, il suo orologio da panciotto, che ciondolava fra le sue dita, appeso alla pesante catena d'oro baluginante nel buio, ebbe, com'è ovvio, un'espressione assai stupita, vedendosi comparire davanti agli occhi lo strano terzetto; ma, subito dopo, si riprese, e, ostentando la maggior tranquillità del mondo, si rivolse a Oscar e André con le sue maniere impeccabili.
"Colonnello de Jarjayes, è un piacere incontrarvi, per quanto a un orario e in un momento così inconsueto", disse, con un cenno del capo, aggiungendo subito dopo: "E lo stesso vale per voi, Monsieur Grandier".
"Anche noi siamo molto felici di vedervi, così da asseverare le nostre ipotesi", prese la parola André. "E per quanto riguarda l'Orfanello", disse, indicando con il mento il piccolo Michel che teneva fra le braccia, e che continuava a piangere, ora silenziosamente.
"credo che non sia particolarmente appropriato che un bambino così piccolo si aggiri tutto solo in piena notte in case straniere". E così dicendo, pose a terra il bambino, che, sempre fra le lacrime, si rivolse a Valmont: "Vi prego, vi prego, Visconte, credetemi: io ho fatto tutto quello che mi avete detto, a perfezione, ma non so come mi sono trovato il Comandante e il suo attendente ad aspettarmi nel cortile!".
"Suvvia, Michel", disse Valmont, in tono insolitamente comprensivo e carezzevole, chinandosi verso il bambino, "sono assolutamente certo che tu sei stato perfetto e preciso come sempre"-
"Davvero? Non siete adirato con me?", chiese quello, gli occhioni pieni di lacrime e di vergogna.
" Via! Ma che cosa dici mai! Come potrei?", rispose Valmont, e, per rassicurare il piccolo gli mise fra le mani cinque luccicanti monete d'oro. "Ora fila via, presto, e non guardare nulla che non sia la strada che ti conduce alla porta di casa, intesi?".
Michel sorrise, confortato, non solo dall'insperata elargizione, più del doppio di quanto il Visconte gli riservava come ricompensa in occasione di quell'insolito servigio notturno, ma anche dal sentire elogiato il suo impegno dalla voce di quel gentiluomo tanto elegante e misterioso.
I tre osservarono il bambino correre via, sicuro, traversare la piazza, tagliandola longitudinalmente, per poi sparire in una viuzza laterale.
"Non sarà imprudente lasciare percorrere a un bambino così piccolo strade tanto buie in piena notte?", chiese Oscar, quasi più a se stessa che non a Valmont.
"Via! Che dite, Colonnello de Jarjayes! Michel abita a pochi passi dalla piazza, e poi Lille non è certo Parigi, con i suoi rischi molteplici e terribili, ma una cittadina sonnolenta e tranquilla! Inoltre, Michel ha percorso la stessa strada innumerevoli volte, ed è sempre ritornato a casa sano e salvo!", sorrise il Visconte.
"E a proposito delle "innumerevoli volte" in cui Michel, dietro vostro incarico, ha svolto questi incarichi notturni", chiese Oscar, severa, "credo che ci dovreste delle spiegazioni". E così facendo, indicò a Valmont il portone aperto.
"Naturalmente", mormorò il Visconte, arcuando le sopracciglia, con una smorfia significativa, appena illuminata dal doppiere, mentre varcava la soglia del portone, seguito da Oscar e da André, che l'avrebbe anche richiuso a chiave, se non fosse stato che il cortile era affollato del personale di servizio, che stava, con tutta evidenza, lasciando la casa, con in mano borse e fagotti riempiti frettolosamente.
"Dove state andando?", chiese Oscar.
"Colonnello de Jarjayes", prese la parola Martine, timida, sconvolta, ma, insieme, agguerrita, "ci duole molto, ma dopo che l'Orfanello è comparso stanotte nella mia stanza, abbiamo deciso di lasciare la dimora e di rifugiarci sino a domani mattina alla locanda "Au cheval pâle" dove pernottavamo prima che arrivaste in città. E se vorrete servirvi ancora di noi, abbiamo pensato che potremmo lavorare di giorno in questa casa, ma la notte tornare alla locanda".
"È ... è comprensibile", mormorò Oscar, confusa, non sapendo quanto e che cosa dire, mentre il piccolo corteo di servitori si allontanava, seguito da Girodelle, imprevedibilmente in mantello nero, marziale ed efficiente come poche volte in vita sua Oscar l'aveva visto.
"Madamigella", disse Girodelle, con aria grave, gli occhi grigi sfavillanti sotto il tricorno, ravvolto in un mantello di casimiro nero, "Prendo l'iniziativa di accompagnare il personale di servizio alla locanda, dove potrà trovare riposo e tranquillità a seguito dei fatti di questa notte".
"Sta bene, Girodelle", annuì lei, procedendo verso l'ingresso, seguita da André. Valmont li attendeva, avendo già salito i tre gradini che portavano alla porta.
André aprì la porta, e i tre entrarono.
Percorsero le stanze deserte e silenziose, sino a quando non arrivarono alla biblioteca. Mentre Oscar e Valmont sedevano in poltrona, l'uno di fronte all'altra, André accendeva le candele e il fuoco.
Oscar era ancora avvolta nel suo mantello. Tutta la casa era gelida e silenziosa: si udiva soltanto il crepitìo della fiamma appena accesa, che spandeva il suo mite calore nella stanza vasta e fredda.
Anche André si accomodò, su una sedia dall'alta spalliera, dalla fodera rossa un poco sdrucita e polverosa, e, le braccia conserte, guardò Oscar, eloquentemente. Quella allora chiese. "E dunque, Visconte, vostra zia Madame de Rosemonde, sa che siete voi il proprietario di questa casa?":
"Certo che no, Colonnello", rispose Valmont, con una smorfia sprezzante delle labbra, e arricciando il naso. "Madame de Rosemonde è mia zia, anzi, è la mia prozia, da parte di padre, giacché è sorella del mio defunto nonno paterno, mentre questa casa mi è giunta in eredità dal ramo materno della mia famiglia, dal bisnonno della mia nonna materna, che con Madame de Rosemonde non aveva nulla a che vedere". Poi, dopo una breve pausa, si protese in avanti, e aggiunse, in tono curioso: "E voi, come siete arrivati a scoprirlo?".
"Vedete, Visconte", rispose Oscar, sorridendo, "è tutto merito di André. Credo che sia giusto che sia lui a spiegarvi come siamo venuti a capo di questo mistero".
"D’accordo. Sentiamo", accondiscese Valmont, accavallando pigramente le gambe e sostenendo il capo alla mano destra, il gomito appoggiato al bracciolo della sedia, con quella sua aria strafottente e insieme pigra come quella di un gatto.
 Che uomo era quello, pensava Oscar, che riusciva a mantenere la calma e la padronanza di sé, in un modo, francamente, anche piuttosto irritante, mentre si apprestava ad ascoltare come era stato sbugiardato?
"Ecco, Visconte di Valmont, in realtà è tutto molto semplice: quando siamo arrivati a Lille, abbiamo appreso che il proprietario di questa casa, ufficialmente, è dal 1630 Monsieur Louis Ferdinand Destouches, e che, curiosamente, il conto su cui vengono versate le pigioni non ha mai cambiato intestatario. Una circostanza molto strana, non trovate?", chiese André, con un sorriso.
Valmont, da parte sua, rispose con una smorfia, arricciando il naso e le labbra, e senza muoversi dalla sua posa indolente
"Poi", continuò André, senza dare mostra di avere notato il gesto di scherno e di impazienza del loro ospite forzato, "Una volta arrivati in casa, ho notato, come primo particolare, la boiserie scura e pesante che rivestiva tutte le stanze sino a metà parete. Mio padre era falegname e intarsiatore, e, per quanto fossi solo un bambino quando era morto, ricordo molto bene che, in un paio di occasioni, aveva realizzato, per le dimore di alcuni ricchi commercianti che vivevano nei dintorni del nostro villaggio, una boiserie che nascondeva delle porticine, le quali davano su un passaggio, una sorta di stretto corridoio che correva dietro le pareti, e che metteva in comunicazione fra di loro le stanze. Nulla a che vedere, s’intende, con le porte segrete che mettono in comunicazione le diverse stanze della Reggia, occultate da graziosi disegni e dalla tappezzeria fittamente decorata, ma quel ricordo infantile, risvegliato non appena siamo entrati in questa casa, mi ha dato subito da pensare..
        André fece una pausa, e guardò negli occhi Valmont: il suo sguardo era freddo come quello di un serpente e non dava segno di essere minimamente toccato dalle parole di André. Insieme, rivolse uno sguardo, velocissimo e in tralice, a Oscar: era ammirazione quella che aveva visto barbagliare negli occhi di lei? Si riscosse e riprese: "Ho pensato allora che potesse essere anche il caso di questa dimora. Controllando accuratamente nella mia stanza, e poi anche in altre, ho scoperto delle porticine, abilmente dissimulate fra le venature del legno scuro, negli angoli meno in evidenza delle stanze. Tuttavia, esse erano chiuse a chiave, e nessuna di quelle del mazzo che ci era stato consegnato in banca poteva aprirle. Allora formulai un'ipotesi, insospettito dal fatto che voi eravate stato estremamente perentorio nel negare ogni possibile apparizione dell'Orfanello, e che avevate escluso in modo del tutto perentorio che potessimo parlare con vostra zia. Questa vostra ostinazione era assolutamente sospetta. 
        Pensai che forse eravate imparentato con Monsieur Destouches, e, dato che il Direttore della banca qui di fronte, Monsieur de Vergeron, ci aveva detto che la casa era stata acquistata dalla banca stessa nel 1630, pensai che forse il compratore poteva essere un uomo maturo, in grado di disporre di una buona liquidità. Ho pensato dunque, come già avevo ipotizzato con ... il Colonnello Jarjayes, che Monsieur Destouches forse era originario di questo quartiere della città, e come prima opzione, una volta raggranellato un gruzzolo per comprare una bella casa, avrebbe potuto restare nel suo quartiere. Ho allora iniziato a consultare i registri di battesimo delle due chiese più vicine, a partire da 1570, e a Santa Margherita, ho trovato l’atto di battesimo di Louis-Ferdinand Destouches. E poi Monsieur Destouches ha fatto battezzare nella stessa parrocchia la sua unica figlia, che, è bastata una scrupolosa ricerca nei registri parrocchiali, risulta essere la vostra bisnonna, madre della vostra nonna materna, battezzata e sposata nella stessa chiesa, come vostra madre e voi stesso, Visconte".
Valmont si rialzò composto nella sua poltrona, e applaudì, piano, con ostentata lentezza, battendo fra loro le mani dalle dita lunghe e delicate e dal palmo bianco e liscio, per tre volte, "Siete stato estremamente perspicace, Monsieur Grandier, davvero molto abile", disse, con tono di profonda degnazione.
"Oh, no", si schermì André, "come dicevo a Oscar, ... al Colonnello Jarjayes, sono anche stato particolarmente fortunato", e poi riprese a spiegare: "Ora si trattava solo di scoprire se davvero la mia ipotesi sul passaggio che correva parallelo alle stanze della casa era corretta. Allora sono tornato alla banca di Monsieur de Vergeron, il quale, di fronte a una richiesta firmata nientemeno che dal Comandante delle Guardie Reali - e qui André fece un cenno, sorridendo, a Oscar - non ha potuto esimersi dall'indicarmi quale notaio avesse trattato, oltre un secolo fa, l'acquisto di questo palazzo. Avutone il nome, mi sono recato allo studio del pronipote, che aveva ereditato, generazione dopo generazione, come si usa fra notai, la professione dell’antenato. Lì ho effettivamente constatato che, nell’archivio dello studio, era conservata una copia del contratto d'acquisto, oltre a una planimetria completa della casa: tutti documenti che quel gentile notaio mi ha mostrato senza obiettare nulla, una volta appurato che si trattava di una indagine il cui incarico veniva nientemeno che da Sua Maestà la Regina Maria Antonietta.
E così, ho verificato che effettivamente, proprio come avevo sospettato, questa casa è costruita assai singolarmente, provvista com’è di una boiserie che riveste tutte le stanze, anche quelle della servitù, e che cela uno stretto passaggio, forse concepito per motivi di praticità di servizio, utile a transitare in ogni camera senza percorrere i più convenzionali corridoi e senza passare per le porte che si affacciano su di essi”.
“Molto perspicace”, disse Valmont, in tono piatto, e poi, rivoltosi verso Oscar: “Mi complimento con voi, Colonnello de Jarjayes, per avere saputo scegliervi un servitore così capace e acuto. La sua origine plebea e la professione di .... falegname, ,-  giusto, Monsieur Grandier? – chiese Valmont, girando la testa velocemente verso André, e ostentando un piccolo sorriso, come chi voglia essere confortato in un improvviso vuoto di memoria – qualche volta può in effetti risultare utile”.
C’era disprezzo nella voce del visconte? Certamente sì.
Ma, per quella volta, Oscar finse di ignorarlo.
“Ora, però, dovreste dirci il perché di questa farsa, Visconte”, disse Oscar, a sua volta, severa.
“Oh, Madamigella, vedete...”, iniziò Valmont, fingendo malamente una timida confusione che era ben lontano dal provare. Quanto odiava Oscar quei cortigiani che, quando faceva loro comodo, ostentavano imbarazzo nel parlare di fronte a lei di quelli che chiamavano, in maniera falsamente pudica, “i fatti della vita”! Come se lei fosse mai stata una educanda pudibonda, cresciuta nella penombra di un convento da suore che sussurravano a bassa voce quando dovevano toccare argomenti scabrosi! Quanto detestava chi la chiamava ora “Colonnello”, rendendole il dovuto omaggio, richiesto dal suo grado e dal suo stato, ora “Madamigella”, per farle pesare l’esclusione cui, nelle teste bacate, la doveva condannare in certi, in molti casi, l’appartenenza al sesso femminile. Ma, alzando gli occhi con stizza oltre la testa del Visconte, Oscar colse una espressione ugualmente sdegnata e offesa negli occhi di André, e in luogo del caldo soffocante dell’ira che le saliva alle guance in quei casi, avvertì una sensazione di dolce refrigerio nel petto.
Nel frattempo, Valmont sembrava avere trovato le parole giuste. “Ebbene, non posso negare, Madamigella, che prima di avere incontrato, in modo del tutto imprevisto, ma non per questo meno piacevole, lo strabiliante azzurro dei vostri occhi in questa grigia cittadina di provincia, mentre mi trattenevo presso la mia anziana prozia per confortare la sua vecchiaia (e qui André non poté trattenere un sorrisetto appena abbozzato, che per fortuna il visconte non vide,  dato che era notorio a Parigi come le frequenti visite di Valmont, sempre indebitato con sarti, gioiellieri e allibratori, a Madame de Rosemonde, fossero finalizzate unicamente a tentare di indurre la buona signora a modificare il suo testamento nominandolo suo erede universale), ”....mentre, dunque, soggiornavo nel piattume di questo inverno, che è così lungo, qui al Nord, il mio cuore venne riscaldato da una ... corrispondenza d’amorosi sensi con una giovane dama, appassionata come me di ... giardinaggio, ma, purtroppo, sposata a un uomo tetro e geloso, che non avrebbe mai potuto acconsentire a una amicizia fra me e la giovane moglie, basata su comuni e innocenti interessi”.
Una pausa, marcata da una pigra occhiata di Valmont all’orologio che aveva estratto dalla tasca del panciotto, e poi il visconte riprese il suo racconto.
“Pertanto, era importante mantenere una certa cautela, nonostante la Baronessa de Clairmont – oh, scusatemi, avrei dovuto essere più discreto, ma l’ora così tarda mi rende meno vigile! – mi avesse offerto piena disponibilità circa l’uso dei suoi giardini...”
“Certo, Visconte, sebbene, stando a quel che si dice, la Baronessa abbia tutti amici giardinieri....”.
La battuta mordace, improvvisa, e pronunciata da André con tono di pensosa pacatezza, aveva fatto volgere di scatto Valmont verso di lui, con occhi fattisi improvvisamente, da velati e annoiati quali simulavano di essere, di bragia, mentre Oscar non riusciva a trattenere una risatina, pur coprendosi la bocca con la mano e soffocando un singulto divertito. E André non poté fare a meno di scoccarle uno sguardo incantato, rivedendo in lei, i capelli dorati che barbagliavano nel buio, appena illuminati dalla luce delle candele, la ragazzina con cui, anni prima, cercando di soffocare le risate, leggeva clandestinamente, nella penombra della sua stanza, dopo la mezzanotte, le gesta di chi, nel Decameron, cercava di rimettere il diavolo all’inferno.
“Dicevo dunque, Colonnello de Jarjayes”, continuò Valmont, imperterrito, una volta ricompostosi, e rivolto soltanto a lei, come se André si fosse improvvisamente smaterializzato dalla stanza, “Che cercavo, come voi ben comprenderete, un modo tranquillo e sicuro per aggirare l’immotivata gelosia di Monsieur le Baron de Clairmont. Mi trovavo per puro caso in visita dalla mia cara zia, Madame de Rosemonde, quando venni a sapere, dalle sue parole costernate, della spiacevole vicenda in cui era incorsa la sua amica inglese, Lady Crowe. L’indirizzo della casa in cui l’amica della mia dolce zietta era venuta a soggiornare mi diceva qualcosa, e, dopo l’ennesima volta in cui la cara vegliarda mi ebbe raccontato i fatti, feci fra me e me, nottetempo, alcune considerazioni, in ordine all’albero genealogico della mia famiglia, e mi sovvenni del fatto che Monsieur Destouches, il primo proprietario di questa dimora, era un mio antenato. Quindi, come mi sincerai alla banca qui di fronte, di fatto, la pigione veniva pagata  ... a me”, concluse con una breve risatina.
“E quanto alla storia dell’Orfanello”, chiese Oscar, “Che cosa mi sapete dire?”
“Orfanello? Non so proprio di che cosa parliate, Colonnello! Ma, del resto, è normale che una casa, frequentemente disabitata e che cambia spesso affittuari, attiri su di sé, nel corso dei decenni, le dicerie più strambe”, rispose Valmont, stringendosi, molto eloquentemente, nelle spalle. “Quanto a me”, continuò, “la cosa che più mi interessava era controllare se corrispondesse a verità un ricordo che mi era sovvenuto, relativo a un fatto che la mia amatissima nonna mi raccontava: dovete sapere che quando ero bambino, e lei giaceva, rattrappita dall’artrite, su una poltrona, più volte, vedendomi saltare e correre con la vivacità di un grillo, mi diceva, con tono di accorato rimpianto, come ancora ricordava quanto fosse stata vivace lei stessa, alla mia età, e quanto la divertisse strisciare nei passaggi segreti della casa in cui era cresciuta a Lille, che le consentivano, agile e minuta come era, di passare da una stanza all’altra silenziosamente, procurando memorabili spaventi a parenti e servitù.
Allora pensai che quei passaggi, se davvero esistevano ancora, potevano essere un’ottima risorsa per poter passare da una stanza all’altra nottetempo, nella quiete più assoluta, per ... rinsaldare il vincolo dell’amicizia, basata su comuni interessi, che era nata con Madame de Clairmont. Tramite il mio fido staffiere Azolan, inviato a Parigi presso il mio amministratore, recuperai nell’archivio dei documenti della mia famiglia gli atti notarili che attestavano i passaggi di proprietà della casa, e poi, una volta ricevute queste notizie, qui a Lille, mi recai dagli eredi del notaio che aveva trattato la vendita di questo palazzo dalla banca al mio antenato. Una volta recuperate le planimetrie, e visionatele, fui lieto di scoprire che i ricordi della mia cara nonna corrispondevano a verità, e mi disposi a insediarmi in questa casa, invitando, per un piacevole soggiorno invernale, alcuni amici, fra i quali il Barone e la Baronessa de Clairmont....”
“... ma la vostra prozia, Madame de Rosemonde, vi anticipò, prendendo in affitto lei stessa la casa dalla banca, per sincerarsi che cosa fosse accaduto alla sua amica”, continuò Oscar, concludendo quella prima parte del racconto, mentre Valmont annuiva.
“Precisamente, Madamigella Oscar, precisamente. È molto confortante incontrare una donna che assommi al coraggio e all’indiscussa bellezza una così acuta intelligenza”, tentò di blandirla il visconte, senza però ottenere da lei un solo cenno di approvazione per quel complimento in effetti un poco frigido.
“E così, mi venne l’idea di dare corpo alla figura dell’Orfanello, che popolava la fantasia dei cittadini di Lille. Per pura casualità, un giorno, volevo fare un dolce omaggio a una giovane novizia, rinchiusa nella tetraggine del chiostro, in un monastero cittadino, poco lontano da qui. Mi imbattei dunque nel forno di Monsieur Michaud, e chiesi di consegnare un vassoio di meringhe e di petit – pain au chocolat alla povera reclusa del convento di Santa Monica, ma fui in quel momento folgorato dagli occhi della giovane commessa, oltre che, per altri motivi, dalla figuretta svelta del piccolo Michel. Non ci misi molto, a suon di consegne ben remunerate, a conquistare la fiducia di quella incantevole vedova e del suo simpatico figlioletto, così da poter avere la possibilità di affidare al piccolo anche qualche incarico notturno, non senza averlo provveduto di un abito di gala bianco, cosparso di perle, e non prima di averlo cosparso, nelle sue missioni notturne, di abbondante biacca sul viso e sulle mani, e di cipria e farina sui capelli e sul vestito”
“E come avete giustificato l’esigenza di servirvi di un bambino in piena notte, e questo strano abbigliamento?”, chiese Oscar.
“Colonnello de Jarjayes, forse il vostro attendente – in cui noto che riponete la massima fiducia – potrà assicurarvelo a sua volta: due luigi d’oro per pochi minuti di impegno, per certa gente sono un argomento talmente convincente che né Michel né la sua incantevole madre hanno mai sospettato che si trattasse di uno scherzo men che innocente”, rispose Valmont, sorridente, ma caustico.
“Poi”, riprese un attimo dopo il visconte, con l’aria più innocente e il tono più naturale del mondo, “dopo che anche mia zia lasciò la casa, arrivaste voi, e ancora una volta, non potei insediarmi nella dimora. Pensai di perseverare nella mia simpatica burla, - fra l’altro Michel  mi disse di aver visto dormire nella stanza della gabbia una principessa bionda tanto bella da intenerirlo, e così mi riferì di avervi messo accanto, sul comodino, l’orsacchiotto di pezza: che caro bambino! Così sensibile!
 La mia idea era dunque di allontanarvi prima e di far calmare le acque prima di insediarmi qui con un gruppo scelto di amici, fra i quali i Baroni de Clairmont – pagando, s’intende, la pigione a me stesso, senza rivelare la proprietà della casa, come se si trattasse di un mistero da risolvere in compagnia, di uno spericolato gioco di società – magari per animare il clima penitenziale della Quaresima, che è tanto noiosa a Parigi, figuriamoci in questa sperduta e gelida provincia! -, ma, come ben sapete, sono stato scoperto. E la storia è tutta qui”.
“Bene, Visconte”, affermò Oscar, alzandosi, e indicando la porta, “giacché siete stato sincero, e il vostro intento era, sebbene non del tutto innocente, certo non finalizzato a fare del male scientemente, credo che potremmo concludere qui le nostre indagini, senza fare esplicita menzione del vostro ruolo in questa vicenda. Non credi anche tu, André?”
Quello, alzandosi a sua volta, annuì silenziosamente.
“E ora”, concluse Oscar, uscendo dalla stanza, seguita dai due uomini “Credo che potremo dichiarare definitivamente chiusa la faccenda”.
Scesero nel cortile, oltre la porta d’ingresso, sino al pesante portone del palazzo. André lo aprì, e, mentre Valmont era sulla soglia, Oscar corrugò la fronte per un attimo, come se un pensiero subitaneo l’avesse trafitta, e disse. “Aspettate un attimo, Visconte di Valmont!”.
“Sì, Colonnello de Jarjayes?”, si volse Valmont, che aveva già un piede in strada, bloccandosi sulla soglia.
“Visconte, se non mi sbaglio, voi avete ammesso di avere usufruito dei servigi del piccolo Michel per interpretare l’Orfanello solo dopo che Madame de Rosemonde ha preso in affitto questa casa, giusto?”-.
“Esattamente, Colonnello de Jarjayes. Avete inteso bene”.
“Ma allora... “, continuò Oscar, fattasi improvvisamente incerta, “Chi interpretava l’Orfanello nelle notti in cui Lady Crowe e i suoi familiari soggiornarono qui?”.
“Ah., non ne no la più pallida idea, Colonnello”, rispose, serafico, Valmont. E poi, di fronte all’espressione sconcertata di Oscar, e di André, che poteva cogliere appena alla debole luce delle torce accese agli angoli del cortile per illuminarlo nelle ore notturne, aggiunse: “Ci sono più cose in cielo e in terra, Comandante de Jaryayes, di quante non ne sogni tutta la vostra filosofia”.
E detto questo, con un breve cenno di saluto con la mano, si allontanò, ombra nella notte.
“Che ne dici, Oscar”, ruppe il silenzio André, “Potremmo anche noi andare a passare la notte altrove? Magari proprio “Au cheval pâle”?
 “Ci sto, André. Ma nella stessa locanda di Girodelle, proprio no! Andiamo piuttosto a bere qualcosa da qualche parte, prima, e poi accertiamoci se al piano di sopra hanno stanze libere. Due stanze”, precisò lei, con tono che voleva essere severo, ma risultò solo sorridente.
“E va bene. In effetti, ho bisogno di farmi una gran dormita, senza interruzioni di sorta ... sai com’è, io non mi sono portato qui a Lille dei tappi di cera”, rise a sua volta André.

“Stupido!”, lo rimbrottò lei, radiosa, anche se lui poteva solo intravederla.
“E quanto al rapporto sulla vicenda dell’Orfanello, come pensi di regolarti, Oscar?”, chiese André, un passo solo a separarlo dal portone.
“Credo che parlerò di scricchiolii sinistri in una vecchia casa, di baluginii e riflessi negli specchi, e di suggestione”, sospirò lei, “sperando che Girodelle sia conciliante e non voglia approfondire la questione”.
“Il Visconte di Valmont non sarà nemmeno nominato, dunque?”, la incalzò André.
“Vedi”, spiegò Oscar, “Non vorrei che, se parlassi del Visconte di Valmont, fosse poi necessario far emergere il ruolo del piccolo Michel in questa storia. In fondo, non era consapevole di fare altro che non fosse prendere parte a uno scherzo, e mi addolorerebbe molto che la sua buona fede venisse punita, considerando che non ha alcuna colpa in questa faccenda”.
“Hai ragione, Oscar”, assentì André, pensoso, e subito dopo aggiunse: “Però, possiamo sempre festeggiare fra noi due la fine della missione con una buona bevuta, vero?”.
“Certo, André”, sorrise lei, mentre lui la precedeva varcando il portone, Poi, fu solo un attimo: Oscar, per una sorta di strano presentimento, si volse, e, a una delle finestre del piano nobile che dava sul cortile, lo vide: un bambino bellissimo, abbigliato di bianco con fasto che si sarebbe detto quasi principesco, dall’incarnato pallido e lunare, il volto dall’espressione malinconica contornato da bruni capelli ricci, che la guardava, con gli occhi sfavillanti, e levando lentamente la mano, le faceva un lento cenno di saluto, con un sorriso che appena increspava le labbra perfette, come perfetti erano i lineamenti di quel volto bellissimo e triste. E, mentre André le dava la schiena, anche Oscar, un attimo prima di imboccare il portone che dava sulla piazza, levò la mano destra e rispose al saluto.
 
 
E così abbiamo proprio finito: con questo capitolo termina “Giù al Nord”, che mi ha tenuta compagnia nel difficile trapasso dalla primavera all’estate, e poi durante questa lunghissima estate bollente e quell’autunno che sembrava non volersene andare mai.
Grazie di cuore, in particolare, a Galla e ad Alessandra, per le loro fan art, che hanno dato pregio e lustro alla mia storia, e per realizzare le quali mi hanno dispensato tempo ed energie.
Grazie a tutte le amiche che sono state prodighe di suggerimenti, o che hanno avuto l’occhio attento e allenato del correttore di bozze di lungo corso.
E poi, a tutti voi che avete letto, commentato, che mi avete fatto dono del vostro tempo cercando di arrivare al nocciolo del mistero dell’Orfanello, va il mio caloroso “grazie!”, soprattutto perché questa lunghezza non è nelle mie corde, e lo sapete bene.
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E adesso?, mi chiederete. Beh, adesso comincia l’Avvento, giusto? Con tutto quel che comporta.
E, non va dimenticato, in una delle infinite declinazioni dell’universo Rov i nostri protagonisti sono rimasti soli in casa (André, Oscar … e una caviglia rotta) ad Arras la notte di Natale. Vogliamo lasciarli a languire?
E c’è ancora da rispondere a una impertinente e provocatoria domanda in una calda nottata di settembre … ah, se ce ne sono ancora di cose da dire!
A presto, dunque!

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