Il cielo non muore mai

di innominetuo
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. Un nuovo inizio ***
Capitolo 2: *** II. Interludio ***
Capitolo 3: *** III Rivelazioni (di poco conto?) ***
Capitolo 4: *** IV. La mossa inutile dell'alfiere. ***
Capitolo 5: *** V. Quello che serve ***
Capitolo 6: *** VI. Profumo di donna ***
Capitolo 7: *** VII. Strane occasioni ***
Capitolo 8: *** VIII. No Regrets ***
Capitolo 9: *** IX. Preparativi ed aspettative ***
Capitolo 10: *** X. No, non muore mai la musica. ***
Capitolo 11: *** XI. Ricordare è vivere ***
Capitolo 12: *** XII. Fort comme la mort* ***
Capitolo 13: *** XIII. Άνάβασις ***
Capitolo 14: *** XIV. La chiave d'oro ***
Capitolo 15: *** XV. Ricominciare ***
Capitolo 16: *** XVI. Promesse ed intendimenti ***
Capitolo 17: *** XVII. Verdi pianure ***
Capitolo 18: *** XVIII. Nuove albe ***
Capitolo 19: *** XIX. La prima ora ***
Capitolo 20: *** XX. Catarsi. ***



Capitolo 1
*** I. Un nuovo inizio ***


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«Come sarebbe a dire, che non sai se il tuo ciclo sia regolare o meno?»

Meti fissò uno sguardo perplesso sulla figurina seduta sul lettino, di cui aveva appena auscultato il cuore e i polmoni. Gli occhioni verdi rotearono fin su al soffitto, espressione accompagnata da una smorfietta che resero il viso di Isabel Magnolia, buffo ma carino, se possibile ancora più a punta.

«Boh, e che ne posso sapere io?»

Il medico sospirò. «Adesso mettiti supina, così… apri un poco le gambe, in modo da poterti visitare. Tranquilla,» le sorrise, vedendola impallidire prima ed arrossire poi «non ti farò male, ma sentirai un po’ di fastidio. Però è importante per ogni ragazza farsi visitare, una volta ogni tanto, per controllare che sia tutto a posto».

Dopo aver visitato le pari intime della ragazzina, sospirò di nuovo, aiutando Isabel a scendere dal lettino per rimettersi in piedi, con gesti delicati e gentili, cosa cui la giovane paziente non era più molto avvezza, e da tempo immemore. Annotando la propria diagnosi, Meti ripensò a quanto detto da Isabel. Nulla di nuovo o di strano, del resto. Non era di certo la prima volta che una componente femminile del Corpo di Ricerca, tra rossori e timidezza, le confessava di non avere le mestruazioni tutti i mesi… se non addirittura quasi mai. Se poi la ragazza in questione, tra l’altro palesemente sottopeso, proveniva da un ambiente malsano come la Città Sotterranea, era già tanto che non avesse problemi di deambulazione, visti i numerosi casi di poliomielite cui erano soggetti gli abitanti di quel disgraziato posto.

Altro che ciclo mestruale.

Da tanto andava a bussare da Shadis, sempre più spesso, a rampognarlo perché si facesse sentire nella Capitale per approvvigionamenti alimentari più soddisfacenti: il mese precedente alcuni soldati avevano mostrato persino i sintomi dello scorbuto, vista la penuria di frutta e ortaggi freschi. La carne e il pesce erano un sogno proibito, soddisfatto dalle alte sfere per gentile concessione ai tapini dell’Armata Ricognitiva, perlopiù, durante qualche ricorrenza festiva: e comunque non si trattava di certo di prodotti di prima qualità, e neppure di seconda, se è per questo. Scatolame, legumi, un po’ di cereali e farinacei dal sapore stantio… e tanti saluti. Ecco cosa passava la mensa, tutti i santi giorni.

Non esitava neppure a rimproverare il Comandante per l’eccessiva durezza degli allenamenti fisici cui egli faceva sottoporre i soldati, reclute comprese, per molte ore al giorno, portandoli allo sfinimento: non di rado erano capitati svenimenti e collassi, cui gli ufficiali medici, tra cui Meti stessa, avevano dovuto porre rimedio con gli scarsi mezzi a loro disposizione.

«Quello che vorrei sapere è se perdi sangue per qualche giorno al mese…» riprese, poco prima di congedare la fanciulla.

La figurina nervosa si stiracchiò leggermente, prima di bofonchiare qualcosa di appena intelligibile, facendo spallucce. «Se capita che mi ferisco, il fratellone prima mi sgrida e poi mi medica. Altro non so.»

La donna annuì. Non avrebbe cavato un ragno da un buco, inutile insistere. La fanciulla era in condizioni generali di salute non proprio perfette, ma per il momento c’era poco da fare. Rifletté su quanto appena detto da Isabel. Per “fratellone”, la ragazzina dai capelli rossi intendeva il “simpaticissimo elemento” che, circa una mezzora prima, le aveva fatto venire i sudori freddi, rendendo la visita medica di ordinanza un’esperienza assolutamente spiacevole da espletare. Un incubo: altro che dovere.

Davvero una strana combriccola, quella che il Caposquadra Smith le aveva appioppato quella mattina per farle verificare le condizioni di salute.

Un giovane uomo di bassa statura ma dall’espressione poco raccomandabile, un ragazzo biondo dall’aria spaesata, ed una ragazzina nervosa come una scimmietta. E la giornata non era ancora finita: dopo il turno della pel di carota, le restava ancora il biondo stralunato da visitare. Per non parlare dei resoconti medico-sanitari da compilare e consegnare al Caposquadra.

Quello non era un periodo facile.

Il suo superiore, l’Ufficiale Medico Ron Hervert, era stato da poco colpito da un principio di infarto per il sovraccarico di lavoro, dato che la Legione Esplorativa non poteva di certo passare per un reparto militare burocratizzato e dai ritmi regolari, come invece lo era la Guarnigione e, a maggior ragione, la privilegiatissima Gendarmeria: l’anziano dottore stava cercando di rimettersi in sesto con un periodo di forzato riposo, dato che la convalescenza si stava rivelando assai più lunga del previsto. Meti si era quindi ritrovata pressoché da sola, aiutata da un pugno risicato di infermieri e di tirocinanti, a svolgere, per il momento, il duro compito di unico ufficiale medico.

In fondo, quello era stato un giorno abbastanza positivo. La prossima spedizione si sarebbe svolta tra quasi un mese: per alcune settimane, pertanto, la donna non avrebbe dovuto amputare arti, frenare emorragie, chiudere gli occhi. Quelli erano frangenti terribili, in cui ogni secondo era prezioso e non andava sprecato, per cercare di svolgere al meglio il compito di strappare alla morte quanti più soldati possibile. Ogni giovane che le moriva davanti, magari dopo aver mormorato “mamma…” era per Meti un regalo che le veniva indirizzato direttamente dall’Inferno. Il senso di colpa non finiva mai di torturarla, ogni volta che perdeva un paziente.

«Va bene, cara, abbiamo finito. Puoi rivestirti e uscire.» le disse, in tono materno.

«Non sono malata, vero? Beh, lo sapevo, sennò il fratellone me lo avrebbe detto!»

Meti sorrise. «Hai molta fiducia in tuo… fratello. La fiducia è una gran bella cosa, sei fortunata ad avere qualcuno di cui ti fidi.»

La rossina annuì. «Lui sa tutto di tutto. Ciao, ciao!» Non era uscita dallo studio medico da neppure un minuto, che Meti si rivide di nuovo davanti la ragazzina con un’espressione estatica in volto.

«Vedo che hai fatto amicizia con Princess.» Al che la giovane donna accarezzò la testolina della sua anziana micia d’angora, ora in braccio ad Isabel, e tutta intenta a fare le fusa alla sua nuova amica.

«Com’è morbida… è la cosa più morbida del mondo…» sospirò Isabel, abbracciando la candida gatta con maggior trasporto, e chiudendo gli occhi, rapita.

«Le piaci. Di solito è molto timida con gli sconosciuti. Se vuole fare amicizia con te è perché si vede che sei speciale, e lei, questo, lo sente». Una carezza leggera scompigliò appena la zazzera ramata.

«Davvero?»

Meti le accentuò il sorriso. «Beh, vedi…Isabel, gli animali non sbagliano, in queste cose. Mai.»

Gli occhioni verdi le rivolsero uno sguardo supplichevole: Meti intuì subito la muta richiesta della fanciulla: richiesta che non osava dirle espressamente.

«Certo. Certo che puoi venire a trovare Princess: nel tempo libero, si intende. Se fa piacere a lei, io non ho nulla in contrario».

****

Gli risultava sempre più arduo cercare di rabbonire l’ufficiale medico.

Le discussioni tra loro, oltre che sempre più frequenti, spesso erano sfociate in veri e propri litigi, solitamente sedati da Smith. Sapeva che Meti avesse ragione, soprattutto per quanto concerneva le scorte alimentari e di medicinali, ma lui non era oggettivamente in grado di garantire dei cambiamenti, né nel medio, né nel lungo termine.

Non sapeva più se ridere o piangere, quando si ritrovava a discutere con quello scricciolo di donna, che sapeva tenergli testa… a lui, sì, che era alto quasi due metri, mentre il medico era una cosetta minuta di media statura, tutta occhi e capelli, tra l’altro questi perennemente arruffati. Lei non faceva che rinfacciargli le condizioni “al limite della decenza” in cui erano tenuti i soldati dell’Armata Ricognitiva, “poco più che ragazzini”. Ma lui non poteva che abbozzare, alla fine. Nelle alte sfere era diventato sempre più difficile ottenere un’udienza: se poi la classe dirigente avesse avuto sentore di lamentele da parte degli ufficiali della Legione Esplorativa, ecco che i pesanti portoni riccamente intarsiati della Sala del Consiglio Reale se ne sarebbero rimasti tenacemente chiusi.

E tanti saluti.

Si sentiva stanco e rassegnato. Andava avanti nella missione che si era prefisso oramai da molti anni, quando era entrato nella Legione Esplorativa a soli diciotto anni. Keith Shadis portava sulle sue spalle un peso immenso: quello del senso di colpa, dovuto a tante, troppe morti di giovani soldati al di fuori delle Mura, nelle fauci dei mostri che oramai da tempo immemore tenevano in scacco l’umanità.

Le continue rimostranze del medico non facevano che mettere ulteriore sale sulle ferite del suo animo. Sospirando, chiuse a chiave uno stipetto della sua scrivania, ove teneva documenti ricoperti dal segreto militare. Un altro peso da portare da solo… Ancora per quanto tempo?

E, soprattutto…perché?

****

L’aria era fresca, con le prime luci dell’alba che, scherzose, creavano giochi di ombre che si rincorrevano sulle pareti dello studio medico, creando paesaggi fantastici.

Meti era solita alzarsi molto presto, per poter iniziare la giornata con la dovuta calma.

Amava organizzare il programma quotidiano in modo meticoloso e tranquillo: soprattutto se era agitata e nevosa, i piccoli riti mattutini, lenti e ripetitivi, cui era abituata le infondevano la predisposizione d’animo per poter affrontare la giornata con la giusta dose di equilibrio. Ricontrollava l’archivio dei medicinali, appuntando con cura i farmaci e i presidi medici vicini all’esaurimento o al deperimento. Metteva in ordine gli ultimi dispacci medici, catalogandoli nello schedario.

Proprio mentre era intenta a controllare lo stato dei bisturi, sentì un leggero bussare allo stipite della porta, lasciata aperta. Pur sapendo all’occorrenza essere silenzioso come Princess, Erwin non tralasciava mai le buone maniere. Né trascurava di fare spesso capolino da Meti, più che altro al mattino presto, quasi come se fosse un rito, per lui, per iniziare bene la giornata.

«Disturbo?»

Ad un gesto di diniego del medico, lo sguardo del Caposquadra si rivolse rapidamente ad una sedia accostata ad un tavolino, in un angolo della stanza. «Posso…?».

«Certamente. Ho già preparato del caffè, come vedi: fammi compagnia» decise Meti, per tutti e due.

Erwin sorrise. Il piglio conciso della donna era una delle cose che più apprezzava, in lei.

Offerta la tazza al biondo ufficiale, Meti si accomodò a sua volta su una poltroncina bassa, sospirando leggermente. «Ho letto i tuoi resoconti medici. Non mi lasciano stupito più di tanto, soprattutto quanto emerso sul conto di Levi. Ci avevo visto giusto.»

«Sostanzialmente le sue condizioni fisiche sono molto buone, e c’è da stupirsi, visto e considerato da dove proviene. Gli altri due ragazzi presentano invece qualche problematica di salute, la ragazzina soprattutto, come avrai potuto leggere. Non so se siano adatti a vivere qui.» concluse, mormorando.

Erwin finì di bere il suo caffè e posò la tazza con un gesto leggero sul tavolino di bosso. «Beh, se sono riusciti a sopravvivere, e più che discretamente, nella Città Sotterranea, non dovrebbero avere particolari problemi ad abituarsi a questa nuova vita. E, comunque, a me interessa solo Levi, a dir la verità. Gli altri due ragazzi mi sono necessari per poterlo tenere qui con noi. Altrimenti… in loro mancanza non mi sarebbe possibile tenerlo legato al Corpo, piuttosto si farebbe ammazzare, come un randagio che ringhia pur annusando la polpetta.»

Meti aggrottò le sopracciglia; alzandosi, si diresse alla scrivania, con fare nervoso, per riordinare alcune carte. «Cos’hai in mente? Pensi di poter ammaestrare un randagio, come tu stesso l’hai definito?» gli chiese, a schiena voltata. Erwin le si avvicinò, per appoggiarsi, a braccia conserte, al bordo della scrivania, ponendosi a lato della donna, e fissandola in viso, cercando un contatto visivo.

«Levi non ti piace, o sbaglio?»

Meti si voltò leggermente, e lo fissò a sua volta. Due diverse sfumature di azzurro si incontrarono, per un lungo istante: il limpido celeste degli occhi di Erwin si sposò con il cupo ardesia dello sguardo del medico.

«Quello che penso io non ha nessuna importanza. Non nego che la conoscenza di quell’uomo sia stata piuttosto sgradevole: non volendo essere visitato, quel tuo Levi mi ha fatto trascorrere un pessimo quarto d’ora. Se non fossi intervenuto tu, non sarei riuscita a fare il mio lavoro: lo sai, no? Ma, ribadisco, questo non è importante. Quello che vorrei sapere, sempre che tu voglia parlamene – eh, si intende – è cosa tu abbia in mente di fare con lui. Cosa ha a che vedere quell’uomo impossibile con te, con noi, con la nostra Armata? Perché darti tanta pena di andare a stanartelo in quel posto orrendo e trascinarlo qui, insieme ai suoi compari?»

Smith sorrise lievemente nelle belle labbra, sottili ma ben disegnate.

«Dici così perché non lo hai ancora visto in azione con il movimento tridimensionale. Non è un uomo comune»

«Intendi usarlo, quindi, nella Causa» concluse Meti, in tono secco.

«Può essere.» il sorriso del biondo ufficiale si accentuò.

****

Guardò con aria tra lo disgustato e il rassegnato la brandina e il comodino che gli avevano assegnato.

Aveva appena rimboccato le lenzuola con precisione meticolosa e disteso con le mani il copriletto, tendendolo bene: la biancheria da letto era, tutto sommato, fresca di bucato e non troppo lisa. Ma sotto la brandina faceva bella mostra di sé un discreto strato di polvere. Senza dire una parola, uscì dalla camerata per andare subito a procurarsi uno straccio, e magari pure un po’ di lisciva.

Aveva perso tutte le sue cose: la sua casa, piccola ma molto pulita e in ordine, il mobilio che si era procurato al mercato nero e che si era scelto di suo gusto.

Ci aveva guadagnato in aria pura, questo sì. Aria aperta, con la vista del cielo, del sole e delle stelle.

Ma tutto quello che conosceva sin da bambino ormai doveva lasciarselo alle spalle. E tutto questo per poter compiere la sua missione, per conto di Nicholas Lovof, e per guadagnarsi la sua fetta di paradiso alla luce del sole, insieme a Farlan e a baka (*).

Troppe incognite, però.

Levi non era di certo uno stupido. Ok: doveva uccidere un uomo, cosa che era benissimo in grado di fare, volendolo, anche se far fuori qualcuno a sangue freddo non è che fosse tanto nelle sue corde. Ma, come si diceva nella Città Sotterranea, “una volta che si accende il calderone della strega, il fuoco non si spegne mica più”.

Trovati uno straccio, uno spazzolone e un po’ di detersivo in una sorta di sgabuzzino, intendeva tornarsene di filato a pulire la sua nuova postazione da notte per come si deve, quando, nello svoltare a testa bassa in fondo al corridoio, andò ad urtare contro qualcosa, che gli si materializzò davanti come una figura sottile, piombata a terra con un tonfo sordo. Si ritrovò, masticando un’imprecazione tra sé e sé, ad aiutare a rimettersi in piedi quella rompiscatole del medico-donna del giorno prima, che lo aveva subissato di domande e che aveva cercato di auscultargli cuore, polmoni e chissà cos’altro, alla ricerca di malattie inesistenti. Scuotendosi via la polvere dal camice, Meti gli lanciò un’occhiataccia, restituitale da Levi con gli interessi. Quindi, ognuno si allontanò velocemente nella direzione opposta, in perfetto silenzio e con fare sdegnato.

«Dove sei stato, fratellone?», gli chiese Isabel, tutta giuliva, andandogli incontro.

A lei invece era piaciuta molto la camerata femminile, ove era stata assegnata da una soldatessa alta e carina, con un taglio di capelli corti e biondi che esaltavano i lineamenti fini del suo viso e i bellissimi occhi azzurri. Aveva già attaccato bottone con diverse ragazze, incuriosite dal suo buffo musetto, e dal suo strano accento, tipico della Città Sotterranea. Isabel Magnolia era una anomalia, in quel contesto militare, a tratti tetro: ma un’anomalia in senso positivo. La sua solarità, il suo entusiasmo, la sua aria da scimmietta curiosa le accattivavano le simpatie della maggior parte delle persone, soprattutto se di sesso femminile.

«Lascia perdere, mettiamoci a pulire questo porcilaio, piuttosto» bofonchiò lui.



Note (*): Baka vuol dire stupido/a, sciocco/a in giapponese: spesso fratellone-Levi così apostrofa amorevolmente Isabel Magnolia.

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Capitolo 2
*** II. Interludio ***


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Non era di certo la prima volta che lasciasse gli appartamenti reali con una sorta di cattivo sapore in bocca che gli rendeva la gola arida.

Niente da fare: la parte del tirapiedi proprio non gli riusciva, per quanto si sforzasse.

Per saper leccare il culo bisogna esserci portati, è una sorta di talento pure quello lì.

Ma a lui proprio non veniva.

Erano quarant’anni, ormai, che provava e riprovava la parte del nobile devoto “cui sta bene tutto”, che dice sempre sì a suoi pari, che approva ogni decisione del Gran Consiglio, che non si oppone mai a Daris Zackely, che sa che ordini fare avere alla Gendarmeria più vicina al trono e via dicendo.

Provava nausea e una sorta di invidia verso chi non era costretto a recitare in continuazione quella ridicola pantomima… specialmente se il sovrano che ti tocca incensare davanti e comandare dietro le quinte è lui stesso una pantomima vivente, una sorta di burattino i cui fili sono tirati dalle mani gentilizie di Mitras, di cui lui stesso, Goram Athiassy, faceva parte.

Spesso si ritrovava a rimpiangere gli anni della sua gioventù, quando aveva provato ad essere una persona diversa, fuori dagli schemi. In preda al sacro fuoco degli ideali di libertà e di giustizia, aveva cominciato a mettere tutto in discussione. La vita dorata di Mitras gli era andata stretta, ed era stato solito, da ragazzo, avventurarsi nelle mura più esterne del mondo, per conoscere le persone e le vite meno fortunate. Non aveva però osato calarsi nella Città Sotterranea: non era stato poi così coraggioso.

Più che altro, aveva visitato le Mura più lontane, quelle del Wall Maria, e quindi i villaggi più dispersi, anche tra le montagne. Aveva fatto quindi i conti con persone molto diverse dalla cerchia aristocratica. Ma anche da giovane gli era mancato il coraggio vero, alla fine, quello cioè di prendere una decisione definitiva e di rottura. Odiava le ingiustizie, il suo animo retto faticava a comprendere le differenze sociali, le disparità di trattamento tra esseri umani ed il fatto stesso che potere e ricchezza fossero di appannaggio di pochi. Odiava tutto questo… ma alla fine lo aveva accettato.

Come poi, diversi anni dopo, si era ritrovato ad accettare lo spirito ribelle della figlia, che aveva, lei sì, deciso diversamente della sua vita, e una volta per tutte.

Niente marito scelto per lei.

Niente ricevimenti e ricche libagioni.

Niente abiti di seta e niente gioielli.

Ma una vita dura e grama, a tratti pericolosa.

E un marito, peraltro ora sottoterra, che di certo non era stato quello che si potesse definire “un buon partito”.

Sospirando, si diresse alla propria lussuosa e confortevole dimora, che distava dalla Reggia giusto una manciata di minuti. Una volta rifugiatosi nel suo elegante studio, arredato con massicci mobili in rovere finemente intagliato, non ebbe però neppure il tempo di sospirare di sollievo. Si era appena seduto sulla sua poltrona preferita, quando si accorse di non essere solo. L’aria era ferma, tutta d’intorno, eppure si avvertiva un elemento di disturbo, capace di turbare l’immobilità di antiche suppellettili e di quadri preziosi.

«Basterebbe uno solo di questi gingilli, vecchio, per far campare per diversi mesi almeno una trentina di cenciosi dei Sotterranei.»

Ogni volta che gli toccava sentire quella voce gli pareva di morire. La lunga ombra si distaccò dai pesanti tendaggi del bovindo, per assumere le fattezze del killer.

«Kenny... cosa vuoi?» mormorò l’anziano gentiluomo.

«Chiacchierare. Mi garba parecchio parlare con i signori, mi pare quasi di diventare un signore pure io. Lo trovo divertente. Un modo come un altro di passare il tempo… tra un lavoretto e l’altro.»

Goram si alzò, rassegnato, per dirigersi allo stipetto di lacca rossa, ove teneva i liquori più pregiati della sua riserva personale.

Versò del liquido ambrato in due piccoli calici di cristallo, per poi porgerne uno al suo improvvisato ospite.

«Ti ho già detto tutto… tutto quello che so.» balbettò con un filo di voce.

Kenny fece spallucce, limitandosi ad ammirare contro luce le ricche sfumature dorate del nettare alcolico. L’intenso aroma sprigionato dal calicino gli accarezzava le narici, seducendolo. Dopodiché se lo gustò alla goccia, con fare voluttuoso.

«Hmmmm… che delizia… il paradiso in terra. Quasi come scopare. Pardon, come intrattenere una signora.» sorrise, soddisfatto. Al che andò a distendersi, senza troppe cerimonie, su un canapè di raso blu, che scricchiolò lamentosamente sotto il suo peso. «Credo che per un po’ me ne starò qui. Conto sulla tua gentile ospitalità, caro signore. Così, tra un pochino, quando ti sarai rimesso dalla fifa che non riesci proprio a nascondere, riprenderemo le nostre care, vecchie chiacchierate. Eh, che ne dici?»

Goram Athiassy sospirò di nuovo.

Sarebbe stata, quella, una lunga, lunga nottata.

****

Se ne era rimasta stupefatta, come una marmocchia alla festa del paese, di fronte a tremolanti piramidi di bigné alla crema.

Non avrebbe mai potuto immaginare una roba simile. Erwin la osservava di sottecchi, sorridendo con gli occhi prima ancora che con le labbra. A momenti le avrebbe tirato su il mento con un buffetto, dato che l’Ufficiale Medico se ne stava da diversi minuti a fissare a bocca aperta le acrobazie di Levi, durante un allenamento con il movimento tridimensionale. Le avevano detto che il piccoletto nervoso fosse piuttosto bravo, ma non così bravo. Pareva danzasse, come una sorta di strano colibrì.

Non era solo merito del movimento tridimensionale, o della costituzione minuta, ma del fatto che quello strano uomo pareva proprio non essere soggetto alle leggi della fisica e della gravità. Mulinava nell’aria, con suprema eleganza, senza peso. Con una precisione chirurgica e reggendo le spade in un modo inconsueto, all’indietro, cosa che gli era pure stata rimproverata da diversi capisquadra, tra cui Flagan, tranciava con una nettezza al millimetro la parte posteriore del collo dei giganteschi manichini.

Un simile spettacolo si sarebbe quasi guadagnato il biglietto di ingresso.

«Capisci ora, perché lui adesso deve stare qui, con noi?» le chiosò Erwin.

Meti si volse al commilitone, fissandolo, per poi fare spallucce, tornando ad osservare Levi, che adesso era tutto intento a controllare lo stato delle bombole del suo movimento, con fare compito.

«Non nego la sua bravura straordinaria: sarebbe impossibile, del resto. Ma continua a non convincermi. C’è qualcosa in lui che mi lascia perplessa. Anzi: c’è qualcosa in lui che mi fa paura» mormorò la donna.

«Anche a me, Meti. Anche a me. Ma credo che un soldato come lui potrebbe davvero fare la differenza, persino in una lotta impari come questa.»

Meti si volse, per tornarsene al suo ambulatorio.

«A che prezzo, Erwin?» mormorò, senza fermarsi.

Sulla via di ritorno, si imbatté in Hanji e Mike, che si stavano dirigendo anch’essi all’ambulatorio: sorrise nel vedere, al suo solito, la giovane scienziata impegnata in una conversazione piuttosto animata, parlando fitto fitto con il massiccio commilitone, che si limitava, ogni tanto ad annuire.

«Yuh-uh, doc, che fortuna incontrarti!»

Ci risiamo… pensò Meti, tra sé e sé, già rassegnata di fronte all’esuberanza di Zoe.

«Mi cercavi?» sospirò.

«Siamo passati dal tuo studiolo, senza trovarti. Ma eccoti qui! Sì sì, devo chiederti un favore, è importantissimo, sai!» le eruppe l'altra, tutto d’un fiato, con le mani giunte a mo’ di preghiera, inchinandosi leggermente, data la sua alta statura.

«Dimmi…» sospirò, nuovamente, mentre Mike, suo solito, si chinava per affondare il naso nei ricci corvini del medico, tirati su alla bell’e meglio. «Ma… accidenti, sempre ad annusarmi come una talpa che sbuca dal terreno, che modi!»

«Lavanda.» si limitò a bofonchiare lo spilungone, con fare compunto.

«Ma non ti puoi limitare ad annusare solo gli sconosciuti, come fai di solito? Perché con me fai un’eccezione, e mi annusi tutte le volte che ci incontriamo? Ma anche basta, dai!»

Il ragazzone biondo si strinse nelle spalle, senza dir nulla. Meti roteò gli occhi al cielo. Zoe, al termine del siparietto che si gustò con fare sornione, accentuò il sorriso da un orecchio all’altro.

Ohi, ecco che mi arriva la richiesta impossibile…-3, -2, -1…

Meti sorrise nervosamente, non potendo fare altrimenti. Stimava moltissimo la compagna d’armi, di cui ammirava il coraggio – al limite della temerarietà - e l’abnegazione. Le era pure sinceramente affezionata. Ma certe volte l’avrebbe strozzata volentieri.

«Ho assolutissimamente bisogno del tuo aiuto… ecco: io intendo catturare un gigantino tutto per me, per potermelo studiare per bene. Alla prossima ricognizione cercheremo di prenderne uno vivo… abbiamo già predisposto tutto alla perfezione, con anche un’area per tenerlo bloccato e fare esperimenti…»

«E…?»

«Mi servirebbe qualcosina… qualche bisturi, in modo da affettarlo in modo preciso…»

«Ti ho già detto che i bisturi a disposizione del mio reparto sono pochi. Come ti avrà già confermato anche Hervert, purtroppo non è che siamo messi un granché bene, con i dispositivi medici. Se adesso io ti dessi qualche bisturi, mi troverei in difficoltà, nei prossimi interventi. Cerca di capire.»

Nel vedere l’espressione delusa di Zoe, Meti sospirò.

«Facciamo così. Sto per far partire un dispaccio con una istanza per i sottosegretari del Generalissimo. Ho già stilato un elenco di dispositivi urgenti da richiedere: magari aumenterò il quantitativo richiesto per i bisturi del tipo 22 e 24 (*), quelli più adatti a dissezioni profonde… credo che per quei dannati mostri siano i più adatti, poi semmai mi dirai tu nel caso avessi bisogno di altro. Quando me li avranno fatti avere, ti avviserò, in modo che tu possa prelevarli: prima, però, ti spiegherò bene come vanno impugnati: possono essere molto pericolosi per te se maneggiati in modo improprio. Può andar bene, così?»

Mentre la rassicurava in tal senso, il mobile viso di Zoe mutava nell’arco di frazioni di secondo, passando da un’espressione abbattuta, allo stupore, al giubilo. Al che afferrò la mano sottile e delicata di Meti, stringendola nella sua ben più lunga e nervosa.

«Grazie, grazie, sei un angelo! Il primo gigantuccio lo chiamerò Meti, in tuo onore! Sei contenta?»

Da morire. D’improvviso l’espressione di Zoe si fece intensa e seria. Il suo viso, mobile ed espressivo, sapeva mutare rapidamente come il cielo di primavera.

«Cosa ne pensi del nostro nuovo acquisto? Lo hai visto in azione?» le chiese, con una nota di ansia nella voce. Zoe teneva in gran conto l’opinione di Meti, di cui riconosceva l’assennatezza. Meti rimase in silenzio per qualche istante, fissando negli occhi l’alta compagna d’armi: aveva bisogno di riordinare le idee.

«Immagino che tu ti riferisca a quel Levi della Città Sotterranea. Beh, di certo è un combattente straordinario, fuori dal comune. Me ne sono rimasta come una scema a guardarlo, di sotto in su, mentre lui pareva volare, movimento tridimensionale o no. Sembra essere senza peso: di certo la piccola statura lo avvantaggia, ma è anche molto vigoroso e forte, gli affondi delle sue lame sono formidabili, ha praticamente distrutto i manichini… eppure…»

«Eppure?» La incalzò Mike, a braccia conserte, rimasto in silenzio sino ad allora.

«Eppure… ha qualcosa, in quello sguardo di ghiaccio, che mi inquieta. Poi magari mi sbaglio, e lo sto giudicando male. Magari sono ingiusta e prevenuta. Però Erwin mi ha accennato ai suoi precedenti penali: ecco, io credo nel recupero di chi delinque, ci mancherebbe. Tutti abbiamo diritto ad una seconda possibilità. Ma credo anche che sarebbe meglio tenere gli occhi ben aperti e non perderlo d’occhio, Erwin soprattutto. Abbiamo già sin troppi problemi, non occorre aggiungerne di altri».

Zoe sorrise, di un sorriso dolce e disteso.

«Io penso invece che Levi ci stupirà… positivamente. Diamogli tempo.»

Il medico si limitò ad annuire, per poi congedarsi.

****


Note (*): sui bisturi: vi lascio il link da me consultato: https://it.wikipedia.org/wiki/Bisturi

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Capitolo 3
*** III Rivelazioni (di poco conto?) ***


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Qualche giorno dopo…

«Quindi… nulla di nuovo? Non sono arrivate le risposte che aspettavamo?»

Erwin rimase in attesa.

A volte per Shadis era difficile confrontarsi, dire la sua. Essendo un uomo schietto, abituato ad esprimersi più con le azioni che con le parole, occorreva avere molta pazienza e molto tatto, per poter interagire con lui.

Erwin, invece, con le parole non aveva problemi: pur non essendo un gran chiacchierone, era dotato di una discreta parlantina, dote naturale forse trasmessagli dal padre, che era stato un valido insegnante. Sapeva quasi sempre dire la cosa giusta al momento giusto, e convincere l’interlocutore alle sue tesi: questo sempre con modi garbati e misurati, pur essendo, all’occorrenza, un ufficiale severo e dagli ordini concisi.

Shadis, se possibile, si irrigidì ancora di più.

Si sentiva sempre sotto esame, anche quando non ve n’era ragione.

Pur essendo lui il Comandante, provava, suo malgrado, una sorta di soggezione nei confronti del giovane e brillante Caposquadra, che pareva sempre arrivare prima a capire le cose, e batterlo sul tempo. Questa cosa lo irritava oltre ogni dire. La sua dedizione alla causa, il suo coraggio, gli sforzi profusi per riuscire a riconquistare gli esterni delle tre Cerchie… parevano del tutto inutili. Soprattutto ad ogni maledetto ritorno dalle ricognizioni, con i cadaveri dei soldati –- o quel che ne restava… - trasportati sui carri.

«Nessun risultato.» sillabò, a fatica, come se per tirargli fuori le parole ci volessero delle tenaglie per cavar denti. Questa frase era diventata, oramai, il suo tragico mantra. Un silenzio spesso come una coltre scese sui due uomini, rinchiusi nello studio del Comandante. Sentirono bussare, con tocco leggero. Shadis dimostrò stupore prima e disappunto poi, una volta palesatosi il nuovo convenuto.

«Mi avete fatta chiamare?»

La stessa Meti non aveva idea del motivo per cui Smith avesse chiesto la sua presenza alla riunione, dato che il Comandante era solito convocare i Capisquadra, Erwin Smith, soprattutto. Quella era la prima volta.

«Sì, grazie. Accomodati pure.»

Smith le indicò una sedia al lungo tavolo delle riunioni, ove era seduto insieme a Keith. Il medico si sistemò in silenzio. Con un rapido sguardo, incrociò gli occhi gelidi ed infossati del Comandante. «Credo che sia necessario che tu partecipi a questa riunione.» esordì Smith, con tono tranquillo. «Sarebbe utile che tu incontrassi una persona, a Mitras. Abbiamo bisogno di risposte alle nostre richieste, quelle ufficiali, intendo. E di risposte anche alle nostre richieste… ufficiose

«Ma… perché proprio io?» mormorò Meti, cominciando però ad intuire le vere intenzioni di Smith.

Le vennero i sudori freddi, impallidendo visibilmente: tutti segnali prontamente colti dagli astanti: da Erwin, soprattutto. La donna cercava di bluffare, ma molto male. Erwin inarcò le sopracciglia con un segno di ironico disappunto.

«Secondo te?»

Al che, il Comandante balzò in piedi, in tutta la sua imponenza di quasi due metri di statura. Quei due non gliela raccontavano giusta, la femmina in particolar modo.

«Si può sapere che accidenti state borbottando, voi due? Smith,» si rivolse al Caposquadra «mi vuoi spiegare cosa c’entra la dottoressa, adesso?»

«Beh, se mi rivolgo all’Ufficiale Medico Meti Narses è una cosa… ma se, per ipotesi, mi rivolgessi invece a Lady Alphaiametis Athiassy, credo che farei la differenza. Non credi anche tu?» sganciò quindi la bomba, in tutta risposta, voltando il capo verso l’interpellata, che, se possibile, impallidì ancora di più, essendo già piuttosto chiara di carnagione di suo: non per nulla, da bimba la chiamavano “il fantasmino”.

Un silenzio glaciale parve quindi bloccare il respiro agli astanti, alla donna soprattutto.

«E così… lo hai scoperto.» sussurrò poi il medico, quando riuscì a riprendere l’uso della lingua, che le si era seccata.

All’improvviso si sentì stanca.

Da anni aveva deciso di cambiar vita, nome compreso, adottando il cognome del marito defunto e il proprio nome, sì, ma in forma accorpata. Per quanto la riguardava, il passato era passato e non c’era nulla di male nel voler vivere in un modo diverso rispetto alle proprie origini: era una questione di scelta, dopo tutto… oltre che una mezza bugia, circa la propria identità. Di questo però ne era consapevole.

«Meti… o anche Alphaiametis… per me non fa differenza alcuna. Non ho nulla da ridire su uno dei nostri ufficiali medici e credo che lo stesso sia per il Comandante. Così dovrebbe, o sbaglio?»

In realtà, per il Comandante la rivelazione non era stata affatto una bazzecola. Scuro in volto, si alzò per accostarsi alla finestra più lontana per guardare fuori, con ostentata indifferenza verso gli astanti. Era come se non volesse neppure mantenere il contatto visivo con gli altri due: con la donna, soprattutto.

«Me lo sentivo. Ho sempre saputo di non potermi fidare di lei. Ed eccone la prova.»

Meti si alzò in piedi, e con qualche falcata, furiosa, piombò sul Comandante, con tutte le unghie di fuori.

«Dimmi un po’: cos’hai contro di me? Cosa ti ho fatto? Non ho sempre fatto il mio dovere, come medico? E guardami in faccia!» urlò, tirandolo per il braccio in modo da farlo voltare per poi afferrarlo per il bavero della divisa, traendolo a sé con forza. Lo stesso Shadis rimase colpito dall’impeto violento di Meti, che, prima di allora, non aveva mai osato tanto, neppure nelle loro discussioni più accese. Né si sarebbe mai immaginato una forza simile in quella cosina tutta occhi e capelli.

Rimase talmente stupefatto da non avere il tempo di reagire. Lo fece Smith, per lui: si precipitò prontamente a strattonare la donna, afferrandola alla vita e strappandola via dal Comandante.

«Smettila, sei impazzita?»

A Meti parve che un cerchio di ferro la stritolasse alla vita.

La reazione del Comandante non si fece attendere. «Dieci giorni agli arresti. Da ora. E, naturalmente, farò rapporto di quanto accaduto. Di fronte alla Corte Marziale vedremo bene che contegno terrai, Ufficiale Medico» enunciò, glaciale, squadrando il medico dall’alto in basso, e quasi sputando fuori il grado di Meti.

«Sei pazzo? Vengo offesa e umiliata, e devo andare in consegna? Ma scherziamo?» sibilò Meti, oramai fuori controllo. Veniva convocata, sbugiardata ed ora pure punita. Ma anche no.

Smith pose fine alla spiacevole situazione, trascinandosi via la donna fuori dalla stanza. Non era affatto soddisfatto dell’esito della riunione, che aveva preso una piega assolutamente inaspettata, e non solo per colpa di Meti. A volte la rigidità, tutta militare, di Shadis rasentava la stupidità. Quella donna gli serviva, accidenti! E adesso avrebbero sprecato tanti giorni per un ottuso puntiglio del Comandante… come se di discussioni, tra quei due, e pure aspre, non ce ne fosse mai stata l’ombra, prima di allora!

Meti, furibonda, si incamminò a passo svelto, quando l’antica ferita all’anca la fece rallentare, suo malgrado. Si costrinse a camminare con passo più cadenzato, a parte la leggera zoppia che le prese il sopravvento, cosa per lei solita quando era particolarmente stanca, stressata e in piedi da troppe ore. Smith le si affiancò, osservandola preoccupato.

«Ti avevo convocato per una ragione precisa… ma pazienza, ora ti farai dei giorni in consegna. Ne riparleremo con calma, in un altro momento. Ovviamente, non ti porterò nella cella d’ordinanza: sarà sufficiente che tu te ne stia agli arresti domiciliari, presso le tue stanze. Cibo e qualsiasi cosa di necessità te li farò avere ogni giorno, non temere. A Shadis ci parlo io, per evitare conseguenze.» le spiegò, a voce bassa e tranquilla, nel tragitto sino agli alloggi degli ufficiali.

«Ma certo. Oramai il Comandante pende dalle tue labbra. Ne farai di strada, tu. Di acume hai tutto quello che manca a Keith, ragioni tu per tutti e due.» replicò Meti in tono acido, scostandosi dal biondo Caposquadra.

Svoltando un angolo, Smith afferrò Meti per un braccio, traendosela quasi addosso. «Ascoltami bene. Tu sei un militare. Anche se medico, sei un ufficiale, esattamente come me, come Shadis ed altri, qui. Ci sono delle regole ben precise. Le tue intemperanze hanno passato il segno. No, fammi finire,» le intimò, il viso vicinissimo a quello della donna, cercando questa di controbattere «So benissimo che Keith ha dei… grossi limiti. Ma è lui il Comandante… per ora. Anche se commette errori di valutazione, finché avrà in mano il comando, bisogna accettare e rispettare le sue decisioni.» il suo tono si raddolcì «Per favore, Meti: non mi mettere nella spiacevole condizione di costringermi a farmi da parte, e di lasciar provvedere Shadis nei tuoi confronti come vorrebbe fare, e sul serio. Tu non gli piaci, e non può essere altrimenti, perché non perdi occasione di fargli rilevare le sue pecche e i suoi errori. Ma questo giochino, alla lunga, non ti sarà di aiuto… anche se ti chiami Athiassy.» finì col sussurrare a bassa voce, fissandola negli occhi.

Il tempo parve sospendersi, per un istante infinito. In Meti prese il sopravvento un senso di strano disagio e abbassò il capo. Per il momento, non poteva fare altro.

«Va bene. Obbedisco. Ma voglio che tu sappia una cosa,» Al che rialzò la testa, sfidandolo col blu feroce dei suoi grandi occhi. «Le decisioni che ho preso nella mia vita non sono state facili, ma necessarie per la mia serenità. Per me, quel lignaggio non significa più nulla da molti anni. Ora sono e resto Meti Narses, e questa identità è la sola in cui mi riconosco. Spero che questo ti sia chiaro. E adesso rinchiudimi pure nelle mie stanze.»

Nel recarsi, in silenzio, sino all’alloggio di Meti, si imbatterono in Levi e Farlan, di ritorno dalle scuderie, ove si erano occupati dei cavalli loro assegnati, in vista della ormai imminente ricognizione esterna. Levi aveva provato una sorta di sollievo, nell’occuparsi del bel baio, docile e tranquillo. Gli animali gli piacevano molto, i cavalli soprattutto, pur non avendo mai avuto modo di averne uno, nei Sotterranei. Del resto, spesso è meglio godere della compagnia di un animale, che dei propri simili… soprattutto di certuni.

Farlan si mise prontamente sull’attenti, cercando di tenere un comportamento appropriato. Ovviamente, Levi non ritenne di seguirne l’esempio. Smith spianò il viso, e fece loro un cenno, in segno di saluto, mentre una Meti rannuvolata borbottò un "‘sera" appena intelligibile. Incontrò quindi lo sguardo di Levi, che non mutò espressione. Ad un certo punto, forse anche per indispettire Smith, che aveva così tanta premura di condurla agli arresti, il medico interpellò quei due.

«Scusatemi… vi chiedo di riferire a Isabel che domattina vorrei parlarle. Dopo la prima colazione, ditele di venire da me, per favore.»

«Certa… certamente.» bofonchiò Farlan rimettendosi sugli attenti con fare compito.

«Riposo, soldato. Grazie e buona notte.» Meti sorrise. Il ragazzo biondo si era comportato, sin da subito, con estrema buona educazione. Pur accompagnandosi a Levi, era molto diverso, per atteggiamento e modo di porsi.

Tsk, sibilò Levi, con fare stizzito. Quanti salamelecchi inutili. La rompiscatole in camice bianco cosa cavolo poteva mai volere dalla loro Isabel?

Come se potesse leggergli nel pensiero, Meti gli si rivolse in tono gentile: «Nulla di particolare, avrei solo bisogno di una piccola cortesia da parte della vostra amica. Grazie ancora, ragazzi.» Al che si allontanò, accompagnata da Smith. Rimasero in silenzio fin quando non arrivarono all’alloggio di Meti.

«Se solo tu ti scusassi… credo che Shadis revocherebbe la punizione.» suggerì il Caposquadra.

Nell’aprire la porta, la donna gli sorrise amaramente. Oramai non ci teneva neppure più a mascherare lo stato di sofferenza fisica: zoppicava vistosamente.

«Dovresti andare a letto… Stai lavorando troppo, ultimamente. Lo scorbuto che, di recente, ha colpito molti dei nostri soldati ti ha fatto triplicare i turni. E con Hervert in malattia hai avuto molte difficoltà…a gestire i malati» le disse l’uomo, in tono accorato.

Meti alzò le spalle, sospirando. Lo invitò ad entrare con un lieve cenno. Erwin si accomodò in silenzio su un piccolo canapè. La donna gli porse un piccolo calice con un cordiale all’angelica, per poi sederglisi accanto: nel tempo libero si dilettava a distillare liquori di erbe, cosa che aveva suscitato, in più occasioni, l’ilarità di Zoe (“… e bravo il nostro dottore, che si fa i cicchetti!”). Anche il profumo di lavanda che tanto piaceva a Mike Zacharias era opera sua.

Sospirando, Meti si gustò il rosolio alla goccia.

«Sai benissimo perché il Comandante mi detesta, e non è solo per le discussioni che ho avuto con lui. Posso anche scusarmi con Keith, perché forse ho davvero esagerato, stavolta. Non avrei dovuto mettergli le mani addosso. Ma a quell’uomo non vado a genio perché, come mi disse chiaramente una volta, io il grado “non me lo sono guadagnato sul campo, ma grazie al titolo di studio”. Il Comandante disprezza tutti coloro che non fanno attivamente parte della Ricognizione, li considera mediocri.»

«Nessuno può mettere in dubbio il tuo valore, Meti… La tua abnegazione e la tua dedizione sono fuori discussione. Io non potrei mai farlo…» le disse Erwin, fissandola intensamente. Posato il calice sul tavolino, appoggiò con delicatezza la mano sulla spalla della donna, cosa che la fece arrossire leggermente. Da quanto tempo non riceveva una simile attenzione, da parte di un uomo? Meti si alzò per ricomporsi, con la scusa di riporre la bottiglia di liquore.

«Ti ringrazio. Davvero. Ma la sostanza non cambia. E poi… in fondo è la verità. Sono entrata nell’Armata Ricognitiva solo una volta finita la Scuola di Medicina e di certo all’addestramento non ero già più una ragazzina, a differenza delle reclute, che ormai sono sempre più giovani. Non ho mai eccelso nel movimento tridimensionale, anche se il mio desiderio non era e non è quello di combattere i Giganti, ma di curare i feriti e i malati fra i soldati. Ho sempre voluto dare anch’io il mio contributo alla Lotta, anche se in un altro modo. E anche dopo questa», al che, si sfiorò l’anca destra.

Smith l’ascoltò in silenzio. Era la prima volta che Meti gli si apriva in questo modo. Fra di loro c’era sempre stato un certo cameratismo, come un senso di appartenenza e di spirito di corpo, anche se spesso il silenzio aveva fatto parte dei loro incontri, a parte le vicendevoli comunicazioni di direttive di ordine organizzativo e militare. Ma da qualche tempo i loro rapporti si stavano particolarmente rinsaldando.

«L’Umanità si è preso anche il tuo, di cuore. È inevitabile, quando ci si impegna in questa missione folle, feroce… ma meravigliosa. Adesso riposati… Parleremo, ancora. Quando avrai scontato la tua punizione, ti spiegherò l’idea che ho in mente.»

****

Levi, appoggiato alla parete, era intento ad affilare accuratamente i suoi coltelli, cosa che era solito fare quando era pensieroso o preoccupato.

Farlan aveva appena raccomandato Isabel di andare dalla Narses il mattino seguente, cosa che la ragazzina aveva accolto con gridolini di gioia.

«Chissà cosa vorrà da me… beh, non importa, vedrò Princess!!»

«E chi sarebbe questa Princess? le chiese Farlan, incuriosito.» mentre beveva un po’ d’acqua presa in refettorio. La serata era abbastanza calda, e si era premunito di una fiaschetta, per superare la notte senza l’assillo della sete.

Levi sollevò per un attimo lo sguardo, aggrottando la fronte, senza dir nulla.

«La dottoressa ha Princess, una gatta bellissima, bianca e morbida! Mi ha fatto le fusa, sapete! Non vedo l’ora di riprenderla in braccio e di coccolarla!»

Tutti e tre, nonostante l’ora tarda, se ne stavano nel retro di un capannone ad uso magazzino, per scambiarsi le impressioni del giorno.

«Vi ricordo che non siamo qui per spassarcela, ma che abbiamo una missione da compiere. Non dobbiamo familiarizzare troppo con questa gente: anzi, dobbiamo passare inosservati, restare ignorati. Se adesso tu fai amicizia con quel medico,» e qui Levi si rivolse direttamente a Isabel «poi ti sarà più difficile portare a termine quello che dobbiamo fare. Avete visto, no? Smith e la Narses, o come accidenti si chiama, sono amici o chissà cos’altro: quando faremo fuori il caposquadra, come pensate che reagirà quella tizia?»

Nel vedere gli occhioni verdi di Isabel che guardavano a terra, Levi sbuffò. Non ce la poteva fare, quando baka faceva così, accidenti a lei!

«Domani vai pure a sentire cosa cazzo vuole da te quella ficcanaso, per non farla insospettire, ma non darle confidenza! Resta sulle tue. Capito?»

«Sì, fratellone… ho capito.» mormorò la ragazzina.

«Ad ogni modo, la nostra permanenza qui finirà a breve. Tra un paio di settimane ci sarà una ricognizione esterna, per cercare i Giganti. Ne approfitterò della confusione per portare a termine la cosa, una volta per tutte. E finalmente potremo lasciare questo posto di merda e vivere nella capitale, come ci è stato promesso.»

Farlan sbuffò, contrariato.

«Ne abbiamo già parlato, Levi: noi verremo con te. Smettila di parlare in prima persona della missione esplorativa, perché non ci andrai da solo, ci saremo anche noi.

«Appunto: ne abbiamo già parlato. Voi due resterete qui. Non ha senso che rischiate pure voi, basto io, per quello che è necessario fare. Fine della discussione.» replicò secco l’altro, smettendo di affilare anche l’ultimo dei suoi coltelli, riponendoselo sotto il giacchetto, in una tasca interna cucita appositamente.

«Ma Levi…» cercò di controbattere Farlan.

L’interpellato voltò le spalle e si allontanò, in silenzio.

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Capitolo 4
*** IV. La mossa inutile dell'alfiere. ***


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Qualche giorno dopo…

Quella dannata mossa tardava ormai da molto.

Una partita a scacchi sapeva essere molto sfiancante, sia fisicamente che mentalmente, dato che costringeva i giocatori a stare fermi, e anche a lungo, a fissare la scacchiera.

Soprattutto se il tuo avversario non sapeva osare.

Athiassy era un discreto giocatore: conosceva molto bene alcuni schemi di gioco e non mancava di fantasia. Ma mancava di coraggio. Così come nella vita, anche nel gioco degli scacchi procedeva prudentemente e bene, una mossa alla volta.

Che noia.

Ogni volta si riprometteva di giocare a scacchi con altri gentiluomini, più stimolanti in fatto di strategia e di schemi di gioco, per poi ritrovarsi, una volta di più, con quell’inetto, forse più per abitudine che per altro.

Lo fissò in volto. Un viso gradevole, con tratti fini, quasi femminei. Non molto alto, ma dal fisico ancora ben tenuto ed in forma. Un’eleganza innata e molto gusto nel vestire. Da giovane lo ricordava come piuttosto belloccio, il classico damerino impomatato, anche se per un bel pezzo era sparito dalla capitale per andarsi a cacciare chissà dove. Lui invece era dotato di mascella massiccia e di tratti grevi, tipici dei Lovof. L’incipiente calvizie, poi, non lo valorizzava di certo.

Pazienza.

Le signore si conquistano con qualcosa di più concreto di una bella faccia… una collana di rubini, per esempio.

«Vuoi fare la tua mossa, Athiassy?» brontolò, seccato.

Era davvero tardi, e voleva congedarlo in fretta. L’altro sospirò. «Scusami, Nicholas.»

La sua mossa tardava ormai da parecchi minuti. Provò a contrastare l’ultima di Lovof muovendo, a sua volta, un alfiere: il duca gli bloccò la diagonale con una mossa di pedone, poi portò la torre in seconda traversa, minacciando lo scacco matto. Athiassy provò un senso di nausea, sentendo tutta la propria impotenza. Qualsiasi mossa avesse tentato sarebbe stata del tutto inutile: poteva ancora schivare gli attacchi del duca, ma le minacce che avrebbero portato al matto, alla cattura della regina o all’avanzamento di un pedone, erano ormai ben concrete. Gli vennero le vertigini, nel fissare la scacchiera. Non pensò neppure di capovolgerlo, il re.

«Abbandono» mormorò.

«Molto saggio. Beh,» aggiunse, con fare sussiegoso «dato che ho vinto, aspetto che mi regali quel porto straordinario che ho gustato l’ultima volta da te… e non credo di essere l’unico a gustare certi nettari… o sbaglio?» chiosò, socchiudendo gli occhi.

Goram impallidì.

Figurati se non lo avrebbe scoperto!

«Stai tranquillo, amico mio. Non sono affari miei i tuoi incontri con certi personaggi, anche se mi chiedo cosa potrà mai volere da te quel delinquente. Ma ognuno di noi ha i suoi piccoli segreti, giusto? Però ti do un consiglio…» disse, con un sorrisetto gelido.

Athiassy lo guardò. Si sentiva sotto esame come uno scolaretto, quando stava al cospetto del duca. Anche tra i nobili c’erano delle gerarchie ben precise, questo aveva dovuto impararlo molto bene, e a sue spese. La sua famiglia era ben più antica e prestigiosa a livello di lignaggio e di quarti di nobiltà di quella di Nicholas Lovof, che solo da una generazione era stata promossa al rango attuale… più precisamente, ben successivamente al tempo di Re Fritz. Un parvenu. Un po’ poco, oggettivamente, se vogliamo parlare di titolo.

Ma lui sapeva, invece, da quanto tempo esistessero gli Athiassy.

Nessuna dimenticanza.

Nessuna.

Nessun condizionamento psi.

Ma Lovof era potente e molto, molto ricco, non solo grazie alle tasse che consentivano a Mitras e ai pochissimi privilegiati della classe gentilizia di cui anche lui faceva parte, ma soprattutto grazie anche ai proventi della criminalità organizzata della Città Sotterranea, di cui era il padrone indiscusso, seppur invisibile e segreto. Ogni bordello, ogni bisca, ogni atto criminale, dal furto, alla rapina, al regolamento di conti, facevano capo a lui. A parte qualche cane sciolto, come era stato lo stesso Levi insieme a Farlan ed a Isabel Magnolia, non si muoveva in passo, là sotto, senza che lui lo dirigesse in anticipo.

«Ti do un consiglio…» continuò, dopo una pausa. «Fai attenzione a che certi tuoi piccoli segreti non arrivino all’anticamera del sovrano. Non tanto per lui, eh. Ma per gli Aristi. O per te sarà la fine. Anche se immagino il motivo per cui quel demonio di un Kenny ti ha fatto visita, dato che nessuno si muove per nulla, qui… ci capiamo, no?»

Un brivido di freddo percorse la schiena di Athiassy.

Pur essendo un aristocratico, degli Aristi, Gotha di Mitras, comunque, lui non poteva far parte, perché non era abbastanza potente e ricco: Lovof sì, e come lui pochissimi altri. Lo stesso Daris Zackely ambiva a farne parte, e così anche alcuni membri del Gran Consiglio, ancora esclusi da questa potente consorteria: presto o tardi, qualcuno di loro ci sarebbe riuscito, e magari anche a caro prezzo. Ma solo il meglio del meglio di Mitras poteva essere un Aristo: nulla poteva mai accadere nei tre Wall senza il loro zampino. Essere nella lista nera degli Aristi equivaleva ad una condanna a morte. Ufficiosa, sì, ma non meno inesorabile.

Athiassy chinò il capo, vinto una volta di più.

****

Levi si limitava a vivere.

Mangiava, beveva, si esercitava di continuo in addestramenti che avrebbero sfiancato uomini ben più robusti e massicci di lui, ascoltava con compunzione le direttive strategico-militari di Smith, cercava di schivare gli approcci di amicizia e di solidarietà espressi nei suoi confronti da parte di Hanji e Mike… e di altri ancora, come la dottoressa ficcanaso.

Non poteva fare altrimenti.

Non sapeva ancora di preciso cosa sentisse, dentro di sé.

Oltre ad una coltre di rabbia e di rimorso che si era ispessita nel suo animo, che non riusciva ad oltrepassare, non aveva idea se riuscisse a provare altro. Il dolore lo aveva come istupidito, reso atono.

Fidati di noi, Levi.

Fidati…


Questa richiesta gli rimbombava ancora nelle orecchie, un molesto sibilo che lo pungolava e che lo mandava in bestia, tutte le volte, e soprattutto di notte, nell’infida notte che nella sua pace fasulla ti porta l’inferno nel cuore.

Niente riposo, per Levi.

No. Non dovevo fidarmi.

Non dovevo.


Un idiota.

Io, insieme a voi.

Idiota, idiota, idiota.


Se si fosse rifiutato, se avesse detto loro di restare al campo, anche a costo di umiliarli, di offenderli senza pietà, di farli sentire incapaci, inadatti, non abbastanza forti, non abbastanza agili… proprio lui, che, alla bisogna e anche no, sapeva essere cattivo e velenoso con le parole, duro, cinico, sarcastico e saccente.

Ecco: al momento opportuno non ci era riuscito.

Si era fidato.

Era stato stupidamente buono ed accomodante.

Bel risultato, davvero. Niente più fratellone da parte di baka. Niente più prediche infinite da parte di Farlan.

Niente.

Come l’alfiere che sulla scacchiera è l’unico a muoversi pure in diagonale, lui, Levi, che nel movimento tridimensionale pareva essere senza peso e libero di muoversi in ogni direzione, aveva subìto lo scacco matto da quei mostri.

Sulla scacchiera gli erano rimasti solo pezzi squartati, senza più dignità, come su un banco di macelleria, esposti alla vista di tutti.

Carne senza nome.

Occhi vitrei che ti fissano, ma che non ti vedono più.

Intestini e umori che colano sul manto erboso.

Pezzi rotti.

I Sotterranei se n’erano andati per sempre, e pure il poco di buono che gli avevano regalato.

****

Era stato terribile.

Meti era molto provata.

Si vede che sto cominciando a invecchiare…

L’ultima missione era stata un fallimento su tutti i fronti: molti soldati erano morti atrocemente, e i pochi sopravvissuti, se anche non feriti gravemente, erano rimasti segnati psicologicamente dal trauma subito a causa dell’abominio perpetrato dai Titani oltre l Mura.

Levi: lui per primo. Una ricognizione inutile, che non aveva portato nessun risultato. Ancora e di nuovo.

Meti non aveva potuto curare le ferite di Isabel e di Farlan, perché non erano potuti tornare, in nessun modo. Neppure feriti in modo grave: ci avrebbe provato, lei, insieme ad Hervert, che nel frattempo era tornato in servizio, e insieme agli infermieri, a salvarli, a tentare il tutto e per tutto, anche a costo di lasciarli menomati o storpi.

Tagliando, amputando, ricucendo.

Ma vivi.

Neppure moribondi: almeno avrebbe tenuto loro la mano, avrebbe pianto nel vederli spegnersi. Nel perderli. Ma almeno non sarebbero stati soli, nel morire.

No. Niente di tutto questo.

Con immane strazio, vide gli occhi di Levi. Aveva un’espressione indescrivibile.

Accidenti a me e alla mia dannata empatia. Non mi aiuta di certo.


Levi soffriva, in modo atroce.

Muto e pallido, insozzato di sangue e bagnato fradicio da una pioggia incessante, lo stava urlando al mondo, il suo dolore, con tutto il suo essere.

Meti non riuscì a far finta di nulla.

Fino ad allora non erano riusciti a nascondersi la reciproca antipatia: avevano cercato di ignorarsi a vicenda e quando era capitato loro di imbattersi l’un l’altra, era stato un susseguirsi di labbra strette e di sguardi bassi. Levi aveva sbuffato nel vedere Isabel occuparsi di Princess, nei giorni in cui Meti era agli arresti domiciliari: era stato questo il favore che il medico aveva richiesto alla rossina, da quest’ultima esaudito con gioia.

Isabel Magnolia. Così minuta, ma così tosta e coraggiosa, dall’animo splendente.

Povera piccola.

Quando le raccontarono com’era andata, a quei due ragazzi e a molti altri, la dottoressa avrebbe voluto urlare. Invece rimase impietrita, troppo sconvolta anche per reagire. Niente da fare: ogni volta era come la prima volta. Non si sarebbe mai abituata. Non si sarebbe mai assuefatta all’orrore. L’abisso della rassegnazione non si decideva ad inghiottirla...

Niente cose facili, nel Corpo di Ricerca.

Ma solo strazio immane, ad ogni ritorno dall’Esterno.

Così, andò da lui.

Se Levi glielo avesse permesso, lo avrebbe anche abbracciato.

«Mi dispiace…sono…»

Il groppo in gola non le permise di finire la frase.

Mi dispiace…sono addolorata.

Non doveva finire così.

Non è giusto.

Non è mai giusto. Per nessuno.

Gli posò la mano, un po’ esitante, sulla spalla.

Levi non reagì neppure.

Non disse nulla. Non la guardò neppure. Levi non vedeva niente: solo con gli occhi poteva vedere, ma era diventato cieco dentro. Si limitò a scostarsi da Meti e lo fece in modo quasi garbato, per i suoi canoni. Si allontanò in silenzio, il capo infossato nella mantellina fradicia.

Aveva fatto una scelta, Levi.

Aveva deciso di fidarsi… di Erwin Smith, forse.

E forse senza rimpianti.

Ma domani. Solo da domani.

Oggi non voleva credere più in niente.

E voleva rimpiangere, ancora.

****

«Sì, esatto. Insieme ai suoi amici, era stato incaricato proprio da Lovof di farmi fuori, dopo avermi sottratto il rapporto che avevo stilato contro il duca stesso, che gli aveva promesso denaro, la cittadinanza a Mitras, ed altri benefici.»

Meti lo ascoltava a tratti, mentre redigeva il periodico inventario dei medicinali. Era molto stanca, i suoi gesti erano lenti. Erano stati giorni terribili. Adesso la caserma si era come rinchiusa in se stessa, come una vedova.

Dopo le esequie dei pochi resti che erano riusciti a riportare indietro e dopo gli sfiancanti turni di ospedale per salvare il salvabile dei sopravvissuti, aleggiava una calma spettrale. Keith Shadis se ne stava rintanato nel suo ufficio, delegando gran parte del lavoro ai vari capisquadra. Dopo la punizione subita, senza conseguenze grazie all’influenza di Erwin, Meti non lo aveva quasi più visto, né si era risolta ad andare a scusarsi per averlo aggredito.

Non ce la faceva.

Continuava ad avercela con lui, per l’ennesimo smacco che i mostri d’oltre Mura continuavano a regalare ai soldati.

«Capisco. Ma tu lo hai smascherato e convinto a restare. Hai fatto bene.»

Smith posò i suoi dispacci, per osservarla, con aria tra lo stupito e il divertito. Sorrise dolcemente.

«Strano che tu dica questo. Levi non ti piaceva, se non sbaglio. Non eri convinta che lui rimanesse qui… dicevi che nascondesse qualcosa, e i fatti ti hanno dato ragione. Cosa ti ha fatto cambiare idea?» le chiese, curioso.

Il dolore che lo ha quasi ucciso. Ecco, cosa mi ha fatto cambiare idea. Sono una stupida sentimentale, dovresti averlo capito, Caposquadra Smith.

Meti rinchiuse lo schedario.

Si appoggiò allo schienale della sedia per guardare fuori dalla finestra. Il cielo era terso e limpido, di un azzurro luminoso come un manto di seta, e del tutto indifferente alle sofferenze di chi ci vive al di sotto. Il cielo non cade e non muore. Cosa vuoi che gliene importi, al cielo, specialmente se azzurro e bellissimo, di Giganti, di Mura e di ragazzi sbranati vivi?

«Beh, alla fine, mica ti ha ucciso o ha cercato di farlo, no? A conti fatti, io credo che abbia scontato, e con gli interessi, il complotto di cui ha cercato di far parte. È un soldato eccezionale: mi hanno raccontato di come abbia ridotto letteralmente in briciole il gigante che ha sbranato Farlan ed Isabel» nel citarli, le tremò leggermente la voce «Non so quanto e se sarà devoto alla Causa: questo lo scopriremo solo col tempo. Ma credo che mai, mai più farà qualcosa contro di te o, comunque, contro il Corpo. Ne sono certa.»

«Intuito femminile?» chiese Erwin, con dolcezza.

«Forse.» sorrise lei, timidamente. «Ad ogni modo, mi dispiace di doverti disilludere, ma temo che nessun rapporto al mondo potrà mai far mandare a gambe all’aria il duca. Troverà il modo di far insabbiare ogni cosa: è molto potente e influente.»

Smith colse la palla al balzo: nessuno come lui sapeva approfittare delle occasioni.

«Esatto. Per questo avrei bisogno di riprendere, con te, un certo discorso, che è stato interrotto dal tuo… arresto prima e dalla spedizione poi. Ricordi?»

E chi se lo dimentica. Mica mi dimentico di come mi hai messa con le spalle al muro!

Smith si alzò e le si avvicinò. Torreggiava su di lei, ma la cosa la indispettì, invece di intimorirla: si rifiutò di sentirsi in soggezione di fronte a lui. I giochetti psicologici di Smith, certe volte, sapevano essere davvero stucchevoli. Si alzò in piedi a sua volta, incrociando le braccia.

Non passerai oltre.

«Cosa vuoi da me, Smith?» brontolò lei, sulla difensiva.

«Informazioni, solo questo. Al massimo, un incontro con una persona, e nulla di più. Non sei attrezzata per fare la spia, questo lo so bene. Emotiva come sei, ti faresti scoprire immediatamente e far fuori. Quindi, stai tranquilla: non ti chiederò di fare l’agente segreto o roba simile, non ne saresti in grado. Ti chiedo solo di permettermi di avere dei contatti utili.»

Meti lo scrutò, quasi come se lo vedesse per la prima volta.

Un uomo decisamente attraente. Alto e forte senza essere greve o massiccio. Serici capelli biondi e corti, sempre perfettamente in ordine, con la scriminatura nitida. Un viso dai tratti aristocratici, un naso un po’ forte che gli dava carattere. Labbra sottili ma ben disegnate. Grandi ed espressivi occhi di un’acqua trasparente. Bello, aitante ed impeccabile. A tratti anche un tantino freddo. Soldato inappuntabile, coraggioso e votato alla Causa anima e corpo. Ma, soprattutto, capace anche di essere spietato e di non voltarsi indietro.

Mai.

Smith sapeva promettere e mantenere: della sua parola ci si poteva fidare. Ma non avrebbe esitato a sacrificare il sacrificabile, se necessario. Del resto, aveva già sacrificato tutto se stesso, votandosi fino alla morte alla Lotta, rinunciando a fare carriera da militare privilegiato magari anche in Gendarmeria, in virtù delle sue indubbie competenze militari e strategiche: aveva così dato un calcio alla possibilità di poter trascorrere una vita più serena e sicura, con una mogliettina devota al fianco e un paio di graziosi marmocchi.

Smith la stava mettendo alla prova.

La stava saggiando.

Meti non aveva paura di Smith, non voleva averne. Erano anni che si conoscevano e che si stimavano a vicenda. Egli era sempre stato assolutamente corretto nei suoi confronti, e a volte anche molto gentile, un vero galantuomo. Eppure, sentiva di dover stare all’erta: ormai aveva imparato a conoscerlo e sapeva che non sempre egli facesse nulla per nulla. Lo sentiva ambizioso: di un’ambizione lecita e legittima, naturalmente. Aveva intuito che egli mirasse al grado di comando del Corpo, al posto di Keith. Ovviamente, lui questo non lo avrebbe mai espresso chiaramente.

Ma le parole non erano necessarie.

Era troppo bravo, troppo sveglio, troppo solerte per restare solo un Caposquadra. Ed ora egli aveva scoperto la sua vera identità, le sue origini da privilegiata. Non era di certo interessato a conoscere i motivi per cui avesse lasciato tutto, per scegliersi una vita pericolosa e, a tratti, pure ingrata. Lei gli era utile, a questo punto.

«Va bene. Ne parleremo: stasera, però. Adesso devo tornare in ambulatorio. Ti dirò quello che so.» disse, rassegnata.

Smith le avrebbe dato il tormento finché non avesse collaborato, magari, chi lo sa, pure alludendo, con nonchalance, alla sua intercessione presso Shadis… meglio dargli ciò che voleva e farla finita, così forse l’avrebbe lasciata in pace. I due si fronteggiavano, quasi in atteggiamento di sfida, finché non accadde.

Meti ci avrebbe pensato e ripensato, più disorientata che altro, nelle ore che ne seguirono.

Accadde infatti che Erwin si fosse avvicinato, guardandola negli occhi, che con un gesto lento e delicato della mano avesse sollevato il viso della donna e che, chinandosi, avesse posato un bacio leggero sulle labbra di una Meti stupita e assai confusa.

Accadde anche che, senza una parola, Erwin si fosse poi voltato per uscirsene dalla stanza.

****


Credits più che doverosi: “La Regina degli Scacchi” di Walter Tevis Ed. Mondadori, cui mi sono ispirata per questo scorcio di partita di scacchi, essendo io una somara in materia. Vi consiglio di leggere questo avvincente romanzo.

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Capitolo 5
*** V. Quello che serve ***


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Aveva cercato di non pensarci, a quel bacio: e cosa poteva esserci di meglio di passare del tempo con Hanji Zoe, per essere letteralmente travolta dal fiume di parole della scienziata?

«Ecco. Adesso ti ho spiegato come si usano i bisturi. Mi raccomando: resta sempre molto calma e concentrata e procedi lentamente. Mi auguro che quando sarete riusciti a catturare una di quelle orride creature la legherete come un salame, per renderla inoffensiva…dopo averla stordita per bene. Magari puntate su un esemplare piccolino, un Classe 3 o 4 metri al massimo, tanto per iniziare. Ma questo lo saprai meglio di me, immagino.»

Zoe era stata un’allieva modello: aveva ascoltato con estrema attenzione e aveva quasi subito appreso le tecniche chirurgiche più semplici che Meti le aveva mostrato. Il suo entusiasmo genuino, la sua esuberanza e la sua parlantina le ricordarono, seppur con tutte le dovute differenze, la piccola Isabel. La cosa le aveva spento lo sguardo, cosa che l’arguta scienziata notò subito, guardandola con attenzione.

Il ricordo di quella ragazzina le faceva ancora male, la maledetta rassegnazione non si decideva a prendere il sopravvento.

Forse era ancora troppo presto.

Ma non c’era nulla da fare: anche se avevano condiviso pochi giorni, Meti si era affezionata moltissimo ad Isabel. Si erano occupate insieme di Princess, che era stata affidata alla ragazzina mentre la sua padrona doveva restare in consegna presso il suo alloggio. L’anziana micia, considerata una sorta di mascotte, e in più bravissima a cacciar topi e scarafaggi, era abituata a girellare per tutta la caserma, attirandosi coccole e carezze da chiunque, soprattutto dalle soldatesse che la adoravano, ed era solita mangiare nel giardino vicino all’ambulatorio: Isabel si era quindi occupata di spazzolarle il pelo e di darle da mangiare e da bere. E di farla giocare, con pupazzetti e cordicelle, oltre che a nascondino, cosa che divertiva tantissimo sia la ragazzina che la gatta stessa. Tutto questo ovviamente nei ritagli di tempo di Isabel, dato che l’addestramento e le regole della caserma dovevano essere messi al primo posto delle sue priorità. La micia pareva quasi aspettarla, dopo i suoi infiniti pisolini. La sera, poi, Meti si vedeva spuntare Isabel con Princess in braccio, placida e soddisfatta come una regina; anche se Isabel aveva nel frattempo già cenato in refettorio insieme a Levi e Farlan, da Meti ad attenderla c’era sempre della frutta fresca, una fetta di torta, del latte caldo col miele e dei biscotti. La ragazzina era pelle ed ossa, e Meti si era messa in mente di farle prendere peso, a tutti i costi.

Avevano parlato… di tante cose.

Isabel le aveva descritto gli anni dei Sotterranei, buttando qua e là certi particolari che avevano stretto il cuore di Meti in una morsa.

«Tutto bene?» Zoe posò affettuosamente la mano sul braccio del medico.

Forse non erano propriamente amiche per la pelle, ma qualcosa di molto simile. Avevano condiviso molti momenti, si conoscevano ormai da tempo. Del resto, era stata proprio Hanji a salvare Meti, la prima ed unica volta che, come medico soccorritore, avesse partecipato ad una missione esplorativa, non appena entrata nel Corpo di Ricerca.

Mentre era intenta a bloccare un’emorragia alla gamba di una soldatessa, era stata calciata via da un Gigante, uno di quelli piccoli: troppo piccolo per sbranarsela, ma sufficientemente grosso per ucciderla con estrema facilità. Il mostro stava per ghermirla mentre era stesa esanime, quando sopraggiunse Zoe, che lo decapitò di netto con una sciabolata. La conseguenza del terribile calcio, che l’aveva fatta sbalzare di alcuni metri per poi rovinare a terra come un vaso di vetro, fu una brutta frattura all’anca, che la immobilizzò a letto per settimane e che non si rinsaldò mai perfettamente, lasciandole l’ossatura del bacino vulnerabile e una leggerissima forma di zoppia, che si accentuava quando era stanca… e che le aveva impedito, per il futuro, di partecipare alle ricognizioni. La fragilità del suo bacino le proibì, per tutta la vita, di cavalcare ancora e di utilizzare il movimento tridimensionale. Da allora, rimaneva ad attendere i feriti al rientro delle missioni, all’ospedale militare.

Non poteva fare altrimenti.

Se non era stata congedata dall’esercito lo doveva al suo titolo di medico, che la rendeva comunque molto utile, oltre alla intercessione del capo medico Ron Hervert. Anche per questo, da allora, Meti non era più stata convocata da Shadis nelle riunioni, dato che, per il Comandante, Meti non era più un vero militare, ma solo un medico.

«Sì… grazie. Tutto bene.»

Hanji la scrutava, ormai la conosceva troppo bene. Non che non si vedesse chiaramente che fosse turbata, ma aveva subito capito che ci fosse qualcosa sotto.

«Stavi pensando a quella ragazzina pel di carota… com’è che si chiamava? Aveva un bel nome…» borbottò la scienziata, massaggiandosi il mento.

«Isabel Magnolia.» precisò Meti, compunta.

«Ecco, sì, proprio lei. Le volevi bene. Ma io credo che ci sia dell’altro, oltre al dispiacere per quella poverina, vero?»

Meti aggrottò la fronte. «No, non c’è altro, Hanji. Davvero»

«Davvero un corno. Scommetto che c’entra Sopracciglia, eh?»

Meti arrossì violentemente, cosa che le impedì di negare l’innegabile.

Accidenti all’intuito di Hanji Zoe: come cavolo faceva a centrare sempre il punto? Rimase in un imbarazzato silenzio, cosa che fece scatenare Zoe.

«Ecco, lo sapevo, lo sapevo!» batté le mani, tutta giuliva. «D’altronde, è da un bel po’ che ti ronza intorno come fa un moscone sopra un bel vassoio di carne trita!»

Uh, che bella immagine, davvero poetica, un altro po’ e al posto della carne ci metteva del letame di mucca, magari!

«Non dirmi che non lo avevi capito! Che ti ha fatto, eh?»

«…Ma niente, non mi ha fatto proprio nulla… non ti immaginare chissà quali romanzi, suvvia! Dì la verità, che la tua vera ambizione è quella di fare la pronuba, nella vita, combinando matrimoni! E così ti immagini cose che non esistono, per assecondare la tua nascosta vena romantica, altro che missioni militari e dissezioni di Giganti!»

Ma il tentativo di Meti di buttarla sullo scherzo, per distogliere l’attenzione di Hanji Zoe, fallì miseramente.

«Pronu… che? A volte dici delle cose davvero strambe. Ma cosa vi insegnano alla Capitale?» Hanji fece spallucce, mentre Meti alzò gli occhi al cielo. «Guarda che mica me la bevo…Tzè, figurati! Quello ti ha baciata, o chissà cos’altro, dì la verità!»

Meti sobbalzò leggermente: oddio, ma li aveva visti, forse?

«Lo sapevo, lo sapevo!» ripeté, l’altra, esultante, battendo le mani.

«Ti prego non urlare, o qualcuno ti potrebbe sentire…» Meti avrebbe voluto sotterrarsi.

«E dimmi, dimmi: lui com’è?» continuò Zoe, imperterrita, con una luce birichina nello sguardo.

Meti ripose con cura i bisturi nel fodero doppiato, che poi arrotolò e allacciò, per porgerlo all’amica, che se lo posò a fianco sulla panca.

«Ecco… quasi non mi sono resa conto… mi ha dato un bacio leggero, a fior di labbra… poi ha girato i tacchi e se n’è andato…»

Zoe balzò in piedi, si rinforcò gli occhiali sul naso, con un sorriso a trentadue denti.

«Ti sta lavorando ai fianchi per benino! Tipico di Sopracciglia

«Oh smettila di chiamarlo così… va bene, le ha un po’ folte, ma non gli stanno male…»

«Un po’ folte! Non gli stanno male!» chiocciò, facendole il verso «Ahahahahaha, sei cotta come una pera!» Hanji si teneva la pancia dal gran ridere.

«Ma cosa dici, è che in generale non amo gli sfottò sulle caratteristiche fisiche di una persona, non è carino, dài. E finiscila di ridere!»

Hanji si ricompose, per poi guardare Meti con tenerezza.

Come medico sapeva essere brava e capace, pur non avendo ancora tutta l’esperienza trentennale di Hervert, ma riusciva a intervenire tempestivamente e con molto sangue freddo. Una volta aveva ricacciato a forza gli intestini dentro il corpo di un soldato, con il braccio affondato fino al gomito: il ragazzo, dopo una lunga convalescenza, era stato congedato, lesionato ma vivo, ed era ritornato a casa sua. Ma l’essere rimasta vedova in ancora giovane età l’aveva resa, nel corso degli anni, un po’ chiusa e introversa, specialmente con l’altro sesso. Non si accorgeva neppure di qualche fugace sguardo che qualcuno le rivolgesse, ammirato. Meti era molto graziosa e femminile: senza essere di una bellezza troppo appariscente, una volta notata la si guardava con piacere. Neppure l’andatura appena claudicante la penalizzava.

Certo: non era più una ragazzina, ed alla sua età le donne erano bell’e sposate e con una nidiata di marmocchi.

Non le aveva mai chiesto del defunto marito: persino l’esuberante Hanji Zoe sapeva autocensurarsi ed evitare domande troppo indelicate. La perdita di Basil Narses – una delle pochissime cose di sua conoscenza del primo amore dell’amica era, appunto, il suo nome – era una ferita ancora bruciante per Meti, glielo si poteva leggere in fondo agli occhi.

«Non potrai tenerlo a distanza a lungo. Prima o poi dovrai prendere una decisione e dirgli di o di no. Semplice. Come ho detto prima, io lo avevo capito eccome che interessi a Smith: no, no, tranquilla» Zoe sorrise, scuotendo il capo, nel vedere l’espressione imbarazzata e allarmata di Meti «nessun altro ci ha fatto caso, sono tutti concentrati su loro stessi qua, e sulla fifa del domani. Mica osservano gli altri, a meno che la cosa non sia conclamata e sbattuta in faccia, eh. Niente pettegolezzi da caserma… almeno per ora. Smith è molto discreto, è un drittone, quello là. Ma ho notato come ti guarda, anche se si tratta di frazioni di secondo. I suoi occhi diventano, se possibile, ancora più accesi. Diventa persino bello, toh»

Meti non disse nulla. Cosa avrebbe potuto dirle, del resto? Una volta perduto il suo Basil, il “capitolo uomini”, per lei, si era chiuso per sempre, vivendo in assoluta castità. Lo aveva amato con tutto il cuore e, con la sua morte, una parte di lei se n’era andata per sempre. Era capitato che suscitasse simpatia o interesse in qualcuno, nel corso degli anni, ma lei aveva fatto orecchi da mercante, per dedicarsi anima e corpo alla medicina e alla vita militare. Si era sforzata di diventare un soldato quanto meno dignitoso, pur non essendo particolarmente atletica o forte e pur non essendo più una ragazzina. Nella Scuola di Addestramento, ove aveva appreso, già adulta, prematuramente vedova e con il titolo di medico, le tecniche di lotta, le strategie militari e, soprattutto, il movimento tridimensionale, aveva conosciuto Hanji Zoe e Mike Zacharias, più giovani di lei, che non di rado l’avevano incoraggiata e supportata, essendo ben più portati di lei per quel genere di vita. Altri allievi l’avevano invece soprannominata, con malcelato disprezzo, “sacco di patate”, data la sua scarsa agilità.

Non era di certo rientrata nei primi dieci allievi, alla fine della scuola, e la Legione Esplorativa aveva costituito, per lei, l’unica possibilità di scelta, dato che, visti i suoi modesti risultati come soldato, non avrebbe potuto aspirare all’élite dell’Esercito. Poco male: lei era felice di poter aiutare, nei limiti delle sue possibilità, i soldati dalla vita ben più difficile e travagliata del Corpo di Ricerca. Il duro lavoro non la spaventava di certo, e il sentirsi utile rappresentava per lei il riscatto da una vita ormai passata di rampolla viziata e privilegiata.

«Adesso devo andare.» mormorò, congedandosi da Zoe.

«Va bene, però pensa a quello che ti ho detto» chiosò l’altra, sorridendole con dolcezza.

****

Bussò piano alla porta di Smith.

Voleva chiudere il discorso, una volta per tutte. Avrebbe risposto alle domande, se possibile e per ciò che gli potesse essere utile. Se poi Smith avesse tentato nuovamente un approccio romantico o roba simile, lo avrebbe rimesso al suo posto, ricordandogli che le relazioni sentimentali tra militari erano proibite da Codice Militare.

Fine della storia.

Se invece Smith se ne fosse rimasto sulle sue, avrebbe archiviato il bacio come uno strano sogno fatto ad occhi aperti, e nulla di concreto e reale. Il bacio se lo era solo immaginato, ecco.

«Avanti.»

Decisa e compunta, entrò nello studio del Comandante: Keith Shadis era via per una riunione nella Capitale, e aveva dato il permesso a Smith di utilizzare il suo studio, in caso di necessità. Lo sconcerto della donna fu palese, nel vedere che Erwin Smith non si trovasse da solo.

Un Levi dall’espressione vagamente annoiata se ne stava elegantemente seduto su un sofà.

Sempre perfettamente lindo e in ordine, con un candido foulard annodato al collo, il nuovo acquisto della Legione Esplorativa non mosse un solo muscolo, all’ingresso e ai saluti della dottoressa Narses, che si era prontamente ripresa dallo stupore.

«Prego, accomodati pure.»

In silenzio, Meti andò a sedersi sul sofà, al fianco di Levi, il quale ostentò indifferenza, senza muoversi di un millimetro.

Non sapeva se stupirsi o arrabbiarsi. Avrebbe dovuto parlare di argomenti piuttosto delicati e anche personali, e avrebbe preferito che non ci fosse nessun altro, a parte Smith. I pregiudizi che aveva nutrito verso Levi erano ormai roba vecchia, ma non riusciva a capire il motivo della sua presenza.

«Grazie per essere venuta. Ho chiesto a Levi di partecipare, perché credo nelle sue capacità, e credo che il suo apporto possa essere prezioso.»

Perché intendi farne uso, vorrai dire.

«Bene, ti ascoltiamo. Raccontaci quello che sai.»

Smith versò del tè sia a Meti che a Levi, per cercare di rendere l’atmosfera più rilassata, soprattutto vedendo quanto fosse tesa la donna.

Questa sospirò e dopo una lunga pausa cominciò.

«Sono nata a Mitras. Mio padre è il conte Goram Athiassy, mia madre era Nadine Cedris, ed è morta quando ero bambina. Sono figlia unica. Ho avuto un’infanzia serena, ma quando compii diciotto anni mio padre si mise in testa di farmi sposare il pupillo di un Aristo, un ragazzo detestabile.»

«Un Aristo?» chiese Smith, incuriosito.

«Sì. Vedete, i nobili non sono tutti uguali e di pari grado, niente affatto. Ce ne sono in posizione quasi subordinata, come mio padre, e in posizione più potente ed influente, come il duca Nicholas Lovof, per esempio» nel sentire il nome Levi sollevò un sopracciglio senza che nessun altro muscolo del viso o del corpo reagisse. «Gli Aristi sono un piccolo gruppo di nobili. Sono praticamente intoccabili: neppure se venissero colti in flagrante nel commettere un delitto potrebbero essere incriminati e puniti: i giudici questo lo sanno bene, e per quanto si possano indirizzare loro denunce e dispacci, essi finirebbero a bruciare nelle fiamme del caminetto più vicino… come sicuramente sarà stato per il tuo, di dispaccio, mi duole dirtelo.»

Al che si rivolse direttamente a Smith, che non mosse nessun muscolo del bel volto.

«Ma allora perché Lovof mi avrebbe ingaggiato per uccidere Smith e per sottrargli il dispaccio? Quello che dici non ha senso.» fece notare Levi, in tono incolore. In realtà, era parecchio curioso di sentire le storielle del medico, che ora scopriva essere pure una fottuta nobildonna.

«Non posso entrare nella testa di Lovof.» Meti si volse a Levi, il quale si ostinò a guardare davanti a sé. La donna batté le palpebre, un po’ perplessa, per poi continuare. «Ma io credo che il duca volesse semplicemente tagliare le gambe al Corpo di Ricerca, avendo individuato nel Caposquadra Smith qualcuno di potenzialmente molto fastidioso per i poteri forti di Mitras. Il dispaccio è un dettaglio, però non vi nascondo che invidie e rivalità ci sono anche tra gli Aristi: ragion per cui, magari, il duca voleva evitare un fastidio in più, nella malaugurata ipotesi in cui le accuse potessero venir strumentalizzate da altri nobili potenti contro di lui. A meno che…»

«A meno che?» la incalzò Levi, mentre Smith taceva.

«A meno che nel dispaccio di Erwin non vi fosse indicato qualcosa di più di una semplice denuncia dei maneggi e delle corruzioni di Nicholas Lovof… ma a questo mio dubbio solo tu, puoi risponderci, Caposquadra.» Meti inchiodò lo sguardo in quello di Smith, in attesa di risposta.

Smith si alzò per avvicinarsi ai suoi ospiti. Niente da dire sull’intuito di Meti: la dottoressa non era di certo una sciocca.

«Il Re… non è il Re.» dichiarò, in tono piano.

Levi strinse gli occhi a fessura: tutti quei discorsi astrusi cominciavano a irritarlo.

Ancora cazzate su quei maiali della capitale, e se ne sarebbe andato, fanculo!

Meti sobbalzò. Come accidenti lo aveva scoperto? Questo segreto il padre l’aveva scongiurata di non rivelarlo a nessuno, quando glielo aveva rivelato durante una delle loro ultime discussioni, diversi anni addietro.

«Come… come lo hai scoperto?» balbettò.

«Ho fatto eseguire delle ricerche investigative, con l’aiuto di Dot Pixis e dei suoi agenti segreti. Siamo venuti a scoprire che Lovof, insieme a pochi altri, mantiene sul trono un impostore. Il sovrano non appartiene a nessuna dinastia reale. Sono riusciti a mettere sul trono un semplice gentiluomo, facendolo passare per un discendente di Re Fritz. Grazie alla scarsa circolazione delle notizie provenienti dalla Capitale, il popolo ha ricevuto solo comunicazioni sporadiche sulla corte reale, e il sovrano non viene quasi mai mostrato, al massimo sempre da lontano e di sfuggita… così si accresce il suo mito, ed egli diventa una sorta di idolo lontano ed intoccabile.»

«E fasullo». finì col dire Levi, accigliato. «Fatemi capire: le persone vivono segregate come topi in gabbia, soprattutto nei Sotterranei, dove si crepa dalla fame e dalle malattie… si fanno leggi idiote da rispettare, come anche qui nell’esercito, dato che ci mandano all’esterno per rischiare la pelle, e tutto questo per un cazzo di re che non è neppure il re?» quasi urlò, balzando in piedi e fronteggiando Smith.

«Esatto.» Erwin non batté ciglio. «La cosa ti turba?»

Levi gli scoccò un’occhiataccia.

«A me non frega un cazzo di re, nobili, potenti: tutti ricchi maiali della capitale, buoni solo a calpestare la povera gente come si fa con gli scarafaggi! Ma quanti poveri stronzi si fanno ammazzare, per il Re e per la sua fottuta cricca?» al che si ributtò a sedere, sbuffando.

Smith si volse a fissare Meti «Te lo ha rivelato tuo padre, vero? Del resto, lui è uno dei burattinai di Corte che tira le fila del sovrano-marionetta.»

Meti sentì un colpo al cuore, a quelle dure parole.

«Sì… lo fece durante una delle nostre ultime discussioni, anni fa… ne rimasi talmente sconvolta che lasciai casa mia e mi iscrissi alla Scuola di Medicina. Da allora, non ho più rivisto mio padre…»

«Tsk, la contessina ribelle che abbandona il babbo ricco… ma per favore! Come cazzo hai fatto poi a mantenerti, eh? Una bamboccia viziata che lavora… figurati.» sibilò Levi, in tono sardonico. Tutta quella manfrina stava cominciando a nausearlo, pur non avendocela sul serio con lei.

Meti strinse le labbra, piccata. Cercava di essere indulgente e comprensiva con Levi, visti i suoi trascorsi. Ma lui non l’aiutava, accidenti! Non aveva ancora abbandonato del tutto l’atteggiamento indisponente e poco garbato dei primi tempi. Si impose di rispondergli con tutta la calma possibile. Respirò a fondo.

«Semplice. Impiegai la dote che mi aveva lasciato in eredità mia madre: invece di spenderla per un matrimonio prestigioso, la investii negli studi. Ho lavorato sodo, Levi. Studiavo notte e giorno. E non sono più tornata a casa. Mi sono costruita una vita solo mia, a prescindere dal nome e dal titolo.» cercò, invano, un contatto visivo con il giovane uomo. «Non ho nulla di cui vergognarmi.» L’interpellato non mosse un solo muscolo del viso. «Nessuno è colpevole delle proprie origini. Va giudicato solo come si decide di impiegare la propria vita.» concluse la donna, in tono piano.

Smith assistette, in silenzio e a braccia conserte, a tale schermaglia tra i suoi ospiti.

Non appena il clima si fu un attimo placato, riprese a parlare.

«Ho bisogno del vostro aiuto. Di tutti e due.»

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Capitolo 6
*** VI. Profumo di donna ***


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Quel giorno mobili e suppellettili ebbero a che fare con una Meti parecchio nervosa e intrattabile.

Il laboratorio medico fu silente testimone di imprecazioni irripetibili, gesti secchi e frettolosi, urti, ampolle di vetro frantumate.

Dovrai incontrarti con tuo padre, il conte Athiassy. Levi verrà con te.

Bella roba.

Ovviamente, di rimando, ad Erwin Smith venne espresso un bel rifiuto, in modo inequivocabile.

Ovviamente, altrettanto di rimando, un “pensaci con calma” fu pronunciato dal Caposquadra, in tono pacato, suo solito. Tutto questo sotto lo sguardo da Sfinge sfoggiato da Levi che, sotto sotto, se la stava godendo un mondo.

Come osa? Come si permette di chiedermi di andare a parlare con mio padre, con cui non ho più avuto contatti da anni? Non guarda in faccia a nessuno… l’ambizioso Caposquadra Smith! pensava Meti tra sé e sé, rischiando di mandare in frantumi altri preziosi dispositivi medici.

Un leggero bussare la fece sobbalzare.

«Posso?» la canuta testa di Ron Hervert fece capolino.

«Certa… certamente.» tartagliò la donna, cercando di recuperare un minimo di contegno. «Accomodati Ron… scusa per il disordine…» aggiunse, un po’ costernata.

«Sono passati i Giganti?» chiocciò l’anziano medico, ostentando un’aria stupita nel vedere il caos del laboratorio. Egli amava fare spesso dello spirito: pensava che i giovani prendessero tutto sempre tremendamente sul serio… Meti scoppiò a ridere, anche se in modo un po’ isterico: la tensione accumulata dalla sera precedente, che era sfociata in una notte insonne, cercava ora sfogo.

«Mi risulta che quegli esseri immondi se ne stiano ancora fuori da qui… maledetti loro. Diciamo che ho avuto giornate migliori. Ti va una tisana al tiglio?»

Mentre sorseggiavano, Ron se ne venne fuori con una novità.

«Shadis è sospeso dal servizio.»

Meti aggiunse figuraccia a figuraccia, sputando fuori quanto stesse bevendo. «Co... cosa?» bofonchiò.

L’anziano medico la fissò, sempre più sconcertato. «Oggi non è proprio giornata, davvero. Figlia mia, avresti bisogno di un po’ di riposo…» 

«Com’è accaduto?»

«Beh… a quanto ho avuto modo di capire, Daris Zackely e le alte sfere militari non sono troppo soddisfatti del rendimento di Keith come Comandante dell’Armata Ricognitiva. Troppe perdite tra i soldati, gli equipaggiamenti e i cavalli, e pochissimi risultati concreti sull’attività di scoperta e di contrasto nei confronti dei Giganti. Così, lo hanno appena sospeso dal servizio: fino alla nomina ufficiale del prossimo comandante, hanno temporaneamente nominato Smith al suo posto. Shadis è appena tornato da Mitras… ed è molto giù di corda. L’ho incontrato poco fa, gli ho prescritto un blando sonnifero per poter riposare un po’… è diventato l’ombra di se stesso… mi fa molta pena. Ha sempre fatto del suo meglio…»

Meti non disse nulla. Non sapeva cosa pensare. O meglio: ad essere sincera ed onesta con se stessa, non avrebbe potuto che allinearsi con il Generalissimo. Anche perché le lamentele delle alte sfere erano fondate.

Purtroppo.

Eppure, provava anche un sentimento vicino alla pietà. Sapeva di essere ben contraddittoria, soprattutto visti tutti i problemi di interazione con Shadis, dato che si tolleravano, e male, a vicenda: l’antipatia era reciproca, c’era poco da fare. Ma era altresì innegabile l’abnegazione da sempre dimostrata dal Comandante. Meti era molto confusa: si sentiva in colpa, non provava nessun piacere nell’apprendere del severo provvedimento assunto nei confronti di Shadis.

Bisognava fare qualcosa… ma cosa?

L’occhio le cadde su un suo vecchio libro di botanica.

«Scusami, Ron. Mi sono ricordata di dovermi incontrare con una persona.»

Uscì rapidamente dal laboratorio. Andò di filato da Hanji. La trovò mentre era tutta intenta, sgranocchiando delle gallette, a leggere un suo quaderno di appunti, senza giacca della divisa e la camicia sbottonata, bellamente seduta sul pavimento a gambe incrociate. Meti bussò leggermente allo stipite, nonostante la porta fosse aperta.

«Buongiorno Hanji. Dobbiamo catturare un fottuto Gigante. Subito.»

«Buongiorno, Meti.» chiocciò Hanji, tra l’esterrefatto e il divertito, posando il quaderno.

«Scusami se piombo da te, ma oggi va così. Ho un diavolo per capello.»

«Eh, allora avrai tutto un inferno in testa, amica mia» celiò Hanji, accennando alla chioma anarchica e arruffatissima del medico.

«Non tutti possono vantare capelli lisci e setosi come i tuoi. Bon: a parte tutte queste carinerie tra amiche, che ne dici di andare a prendere una di quelle bestiacce, là fuori? Ci vengo pure io.» enunciò, mettendosi a sedere sul bordo del letto di Zoe, senza neppure aspettare il suo invito. Ma tra loro le cerimonie non erano necessarie: Zoe non ci faceva di certo caso, e Meti solo con la scienziata riusciva ad essere più informale e rilassata, rispetto al suo solito.

«Ma… cosa diciamo al Comandante? Per il momento non sono previste esplorazioni autorizzate.»

Hanji era perplessa: la dottoressa si stava comportando in un modo alquanto insolito: lei, sempre così puntigliosa e attenta alle formalità, la stava praticamente incitando all’insubordinazione!

«Diciamo che so come convincere Smith… no, per favore,» la pregò, nel vederla sdraiarsi a terra tenendosi la pancia: Zoe stava ridendo fino alle lacrime! «non in quel senso… e smettila, dài! Sto parlando sul serio, accidenti! Allora: ti stavo dicendo: io convinco Erwin e la cosa si fa. Forse non lo sai: ma al momento siamo senza Comandante.»

Al che Hanji si ricompose, tirandosi su e si rinforcò le lenti sul naso, mettendo meglio a fuoco la sua astante. «Co-cosa?» tartagliò, confusa.

Meti sospirò. «Keith Shadis è stato sospeso dal servizio.»

«Occavolo» bofonchiò Hanji.

«Già. Siccome le sue spedizioni non vanno sempre bene in termini di perdite umane e comunque senza risultati concreti perlomeno sullo studio dei Giganti, le alte sfere dell’esercito lo hanno sospeso fino a nuova disposizione. Per questo motivo credo che se l’Armata Ricognitiva riuscisse a catturare una di quelle creature, forse potrebbero ricredersi…e riabilitare Shadis. Ho pensato pure come fare: avrei escogitato un piano abbastanza semplice ma efficace, che spiegherò a te e agli altri. Dobbiamo però uscire almeno in tre o in quattro, per essere rapidi e coordinati: tu, io, Mike… e Levi, che ha dimostrato di essere davvero straordinario, come combattente. Basterebbe catturare un esemplare piccolo e meno pericoloso: ne abbiamo già parlato, no? Così poi te lo studi per bene.»

Hanji Zoe era ammutolita. Fissava Meti imbambolata. Ma si riprese (sin troppo) presto: balzò in piedi, agitando le lunghe gambe e le braccia come in un bizzarro balletto.

Aiuto, pensò Meti.

«Quando?» riuscì infine l’altra ad articolare, ebbra di felicità.

****

Aveva appena parlato con Keith, il quale era molto provato. Lo aveva lasciato nei suoi alloggi, intento a redigere, con aria chiaramente affranta, dei report di passaggio di consegne ai vari Capisquadra, contenenti disposizioni a breve e medio termine, fino alla nomina ufficiale del nuovo Comandante. Si stava recando alla radura degli addestramenti, quando si imbatté in Meti.

«Scusami, ma avrei bisogno di parlarti.»

Erwin la guardò negli occhi, annuì e le fece strada.

«Andiamo nelle scuderie, a quest’ora i cavalli sono già stati rigovernati, e non dovrebbe esserci nessuno.»

Meti non fiatò. Una volta arrivati e constatato che non c’era nessuno, Smith andò ad accarezzare il suo cavallo, sussurrandogli parole dolci, poi si appoggiò, a braccia conserte, ad una cassa contenente attrezzi di vario genere e rimase in attesa delle parole di Meti, scrutandole le labbra.

La donna respirò a fondo.

«Ho deciso che incontrerò mio padre: concerteremo il modo e il momento più adatti, anche per non destare sospetti… e parlerò con lui. Non ho domande da fargli per me, che sia chiaro. Io non ho nulla di più da chiedere per la mia vita. Ma ci sono, a dir la verità, degli interrogativi, su questo paese, che vorrei avessero delle risposte, finalmente… Lui, mio padre intendo, mi aveva accennato, anni fa, alla questione del sovrano, ma sento che potrebbe esserci anche qualcosa di più» disse, abbassando istintivamente la voce, per paura che altri potessero origliare.

«Cosa vuoi in cambio, Meti?» le chiese Smith, in tono duro e con lo sguardo fosco, aggrottando la fronte.

Lei rimase un po’ perplessa: non le aveva mai rivolto la parola in questo modo, né i suoi occhi avevano mai assunto, con lei, quella luce così fredda. Si riprese alla svelta, dato che era solita reagire in tono di sfida, se provocata, per meglio celare la paura e l’imbarazzo.

«Una cosa sola: la tua autorizzazione per una spedizione notturna. Cattureremo una di quelle immonde creature.» gli enunciò, a mento alzato, fissandolo negli occhi.

«Non se ne parla.»

«O così, o io non ci vado, da mio padre. Prendere o lasciare. Pensaci bene.» profferì, in tono basso e piano. Si era già voltata per andarsene, quando Smith la afferrò per un braccio, in una presa salda. Non le fece male, ma non le diede la possibilità di divincolarsi.

La trasse a sé, guardandola fissamente, cupo.

«Pensi che questo sia un gioco, Meti? Pensi che io non stia vagliando ogni possibilità, ogni ipotesi? Non è facile per me, non è facile per nessuno. Ma bisogna pur fare una scelta, per quanto sia difficile… o doloroso.» le sussurrò, il suo viso vicinissimo a quello di lei.

«Guarda che questo lo so bene. Non è mai stato facile neppure per me… come quando ruppi con la mia famiglia, come quando persi il mio Basil, e come quando mi votai ai miei pazienti…Ma visto che quelli là pretendono dei risultati, allora diamoglieli! Anche un contentino come un mostro da far esaminare a Zoe può andar bene! Almeno per un po’ la smetteranno di darci il tormento, di farci sentire inutili e incapaci, di umiliare Shadis e tutto il Corpo di Ricerca!» Meti urlò, esasperata, cercando, invano, di divincolarsi da lui.

Si ritrovò, quindi, senza quasi rendersene conto, schiacciata al petto di Erwin.

L’uomo l’aveva praticamente incollata a sé, un braccio intorno alla vita e una mano a tenerle il viso sollevato, affondando le dita nei suoi capelli. La guardò intensamente, come a volersi dissetare del profondo blu degli occhi di lei, per poi imprigionarle le labbra in un lungo bacio, stavolta sensuale e intenso, ben diverso dal precedente. Ancora una volta, lui aveva saputo come spiazzarla, completamente. Le labbra di Erwin la cercarono, senza sosta. Il compassato, ascetico, devoto militare finì quindi col calare la maschera che aveva saputo assumere come una seconda pelle per tanti, per troppi anni.

Meti non riusciva quasi a connettere, se ne stava come sospesa, completamente persa.

Le mancò il respiro… finché non cedette: rispose al bacio di Erwin con tenera passione, appoggiando le mani sul suo petto e rannicchiandosi contro di lui, per sentirsi coccolata e protetta. Lui rallentò il ritmo della sua bocca, stringendola ancora di più a sé. Le labbra si lasciarono, alla fine, seppur a fatica. Rimasero per un lungo istante stremati, senza fiato, gli occhi chiusi, strettamente allacciati, cuore su cuore. Smith si riscosse per primo. Le prese una mano, chinandosi, per deporvi un lungo, devoto bacio: il dorso e il palmo della mano, poi il polso di Meti, conobbero il tocco delicato delle labbra di lui, come un marchio morbido, di velluto.

Erwin sollevò il capo fino ad interrogarla negli occhi, in un lungo momento di silenzio.

«Non chiedi più nulla, per la tua vita? Non ci credo. Non voglio crederci.» le sussurrò, infine.

La scostò delicatamente da sé, per afferrarle le spalle, in una presa salda ma gentile. Lo sguardo dell’uomo, da fosco qual era stato fino a poco prima, tornò ad essere limpido e puro. «Va bene, Meti» soggiunse, sospirando e tornando ad essere il Caposquadra Smith, mentre poco prima era solo il giovane Erwin che abbraccia e bacia una donna. «Ti autorizzo a fare la spedizione. Mi aspetto però un preciso piano militare sul mio tavolo entro stasera.»

Troppo scossa per reagire, e senza dir nulla, Meti si voltò e lasciò le scuderie, faticando a camminar dritta.

Era come ubriaca.

Una volta rifugiatasi nel laboratorio, cercò di ricomporsi, ma lacrime dispettose cominciarono a scorrerle sul viso. Se le asciugò strofinandosi le gote e gli occhi quasi brutalmente. Tirando su col naso, cercò di distrarsi e di concentrarsi sul suo libro di botanica, sfogliandone alcune pagine. Si mise a studiare per qualche ora. Riuscì finalmente a leggere qualcosa che potesse esserle utile… per poi ritornare, immancabilmente, a pensare a quanto accaduto nelle scuderie.

La verità era che si sentiva in colpa.

Le sembrava di tradire la memoria del marito, avendo risposto all’intenso bacio di Erwin. Aveva reagito alla passione di Smith con dolce languore, con puro desiderio: inutile negarlo a se stessa. Il suo ventre si era contratto, quasi con sofferenza, e aveva reclamato Erwin e tutto il suo corpo come un premio dovuto alla sua natura di donna. Ma lei aveva giurato a se stessa, anni addietro, di rimanere fedele alla memoria di Basil, avendolo amato moltissimo.

Ed ora si abbandonava nelle braccia del bel Caposquadra?

Quello poi non era di certo un buon periodo: bisognava concentrare energie e tempo alla lotta contro i Giganti, per poter liberare l’Umanità, altro che flirts e comportamenti da adolescenti in preda agli ormoni! Certo: Erwin Smith era un aitante, giovane uomo, e un momento di debolezza poteva pur starci.

Sempre se si trattasse solo di una “debolezza” … cosa di cui Meti cominciava a dubitare, suo malgrado.

Forse da tempo si stava ingannando sui suoi veri sentimenti per Erwin.

Ma era assolutamente necessario stabilire delle priorità ed attenervisi in modo ligio. Mentre era concentrata ad auto fustigarsi, in un monologo interiore in cui si dava della stupida e della traditrice, si vide piombare Levi senza salutare, suo solito, che, con aria visibilmente scocciata, le disse che la stavano aspettando in aula conferenze.

«Arrivo subito… grazie Levi»

L’uomo la guardò negli occhi, con una espressione indecifrabile.

«Non voglio ringraziamenti, specie se da una nobile.» Il tono, tagliente quanto i suoi occhi, la colpì duramente.

Meti si innervosì moltissimo.

Ora basta.

Finora aveva portato pazienza, soprattutto perché non aveva più voluto essere prevenuta nei suoi confronti, anche in virtù dei suoi dolorosi trascorsi.

«Senti un po’. Ti prego di piantarla con questo atteggiamento. Io non ti ho fatto nulla. E se anche odi i nobili, ti ricordo che non sono tutti uguali, e che, comunque sia, io non ne faccio più parte. Basta, capito? Mi sono rotta!» gli urlò, esasperata. «Vedi di maturare, anche perché non sei più un ragazzino!» Lo oltrepassò furibonda e se ne uscì, senza aspettarlo, affrettando il passo, per quanto a lei possibile.

«Tsk.» si limitò a dire Levi, seguendola senza fretta. Nervosetta la nobile, eh.

Nel tragitto, Levi notò che la donna si era un attimo soffermata a cogliere un fiore giallo da un alberello.

Donne, tsk, ripeté Levi, fra sé e sé.

In aula conferenze, i due trovarono ad attenderli Hanji, Mike e, naturalmente, Erwin: questi seduto un po’ in disparte, lo sguardo basso.

«Eccovi! Possiamo cominciare.» esordì Hanji.

Deliberatamente, Meti cercò di evitare lo sguardo di Smith: le labbra le bruciavano ancora.

Sospirò, sentendo su di sé quattro paia di occhi che la osservavano con attenzione.

«Come anticipato ai Capisquadra Smith e Zoe, avrei pensato ad un possibile piano per poter catturare un Gigante.»

Seguì un mormorio.

«Hanji,» interpellò l’unica altra donna presente «un giorno mi dicesti, anni fa che, alla fine di una ricognizione, notasti una cosa, e cioè che all’imbrunire i Giganti presenti in zona si fermarono all’improvviso, come caduti in trance. Giusto?»

«Esatto, proprio così, e questo bizzarro avvenimento l’ho notato anche in altre occasioni, dopo quella volta lì. Credo che al buio i bambini si fermino, come per dormire.»

I “bambini”
santo cielo… pensò Meti, alzando gli occhi al soffitto.

«Ma se è così, perché non fare le spedizioni di notte? Non sarebbe meno rischioso, porca miseria?» bofonchiò Levi.

Mike fece spallucce «Perché devono poterci veder partire in pompa magna… così è più “protocollare”»

La smorfia amara di Levi fu abbastanza eloquente.

«Nel corso della spedizione, si potrebbe operare in questo modo…» Meti riprese il filo del discorso, aggrottando la fronte; «i dettagli tattici e strategici li lascio a voi, perché non sono di mia competenza. In linea di massima, una volta arrivati in una zona con dei mostri in stato dormiente, si dovrebbero accendere delle torce fatte con le foglie di fiori come questo» al che lanciò su un tavolo il bel fiore giallo, a forma di campanula di medie dimensioni, che emanava un intenso profumo, e che aveva colto poco prima «è un fiore di datura, detto anche “pianta delle streghe”: le sue foglie, dicevo, hanno proprietà narcotiche e sedative. Naturalmente, noi dovemmo indossare delle maschere di cuoio per evitare di respirarne i vapori: non so se avete presente, parlo di quelle maschere che si usano comunemente nella capitale per evitare i danni delle esalazioni negli incendi. Potremmo procurarcene qualcuna. Finora, gli effetti di questa pianta sono noti sugli esseri umani e sugli animali: non possiamo prevederli sui Giganti. Tuttavia, useremmo le torce di datura solo a scopo preventivo, per mantenere dormienti i mostri, e poterne catturare uno. Ribadisco: alle tattiche militari ci penserete voi, io non ci capisco nulla. Ma credo che questo progetto potrebbe essere fattibile. Cosa ne pensate?»

Mentre Meti era intenta a spiegare il suo piano, senza mai volgere lo sguardo verso di lui, Smith, pur ascoltandola con attenzione, non riusciva a smettere di pensare al momento di qualche ora prima in cui l’aveva stretta a sé, baciandola con passione.

Meti era un’incognita.

Una meravigliosa incognita.

Quando, tempo prima, nell’intento di scoprire i piani dei nobili della capitale, per puro caso aveva scoperto l’identità di Meti Narses come nobildonna, sulle prime era rimasto un po’ perplesso, ma aveva subito voluto scacciare dalla mente anche solo l’ombra del sospetto e della diffidenza. Le scelte personali di Meti erano solo sue, e andavano rispettate, specialmente in virtù del fatto che la donna avesse dato già prova di assoluta abnegazione e dedizione alla Legione Esplorativa. Né poteva farle una colpa della sua nascita come aristocratica. Sapeva che era stata sposata con un certo Basil Narses, di cui non sapeva un granché, e verso cui provava una sorta di retroattiva gelosia. Ad ogni modo, lei era rimasta vedova ancora giovane, e avrebbe ben potuto risposarsi e fare una vita tranquilla, invece di donarsi ad un’esistenza dura, all’insegna delle privazioni, come medico militare: ma Meti aveva fatto, pure lei, una scelta. E lui in questo la sentiva affine a sé.

Adorava il suo viso dai lineamenti cesellati.

Lo avrebbe racchiuso tra le mani e contemplato per ore, se solo gli fosse stato possibile.

Adorava la sua figura delicata e femminile, le sue piccole, instancabili mani, i suoi capelli perennemente arruffati, tirati su alla bell’e meglio, a volte con l’aiuto di un bastoncino infilato nel groviglio dei lucidi ricci neri, in cui da sempre avrebbe voluto affondare il viso per aspirarne il profumo di lavanda. Meti era molto graziosa, ma non era solo il suo aspetto ad attrarlo, comunque.

In lei vedeva una luce speciale di empatia verso il prossimo, di bontà e generosità, e di profondità d’animo, che lo commuoveva e lo scuoteva fin nell’intimo.

Anni prima, Erwin aveva fatto una scelta di vita ben precisa.

Aveva consacrato se stesso alla ricerca della verità. Voleva, pretendeva il riscatto: come uomo, come figlio di suo padre e come cittadino. Voleva che le persone fossero davvero libere, e non più racchiuse tra le Mura. Ma tutto questo avrebbe dovuto comportare, per lui, delle serie, crudeli rinunce.

Aveva lasciato andare la sua dolcissima Marie, il suo primo amore. Aveva sofferto Marie, aveva pianto a lungo, povera ragazza, quando Smith l’aveva allontanata da sé. Ma poi lo aveva dimenticato, diventando una moglie e una madre felice, sposando Neil Doak, ora ufficiale del Corpo di Gendarmeria, suo antico compagno, all'epoca, del Corpo di Addestramento Reclute. Ma Marie, fanciulla coccolata e protetta dai genitori e abituata ad una vita tranquilla ed abitudinaria, non poteva far parte del suo credo, della sua missione e delle sue scelte.

Meti, invece, gli era vicina.

Viveva al castello dell’Armata Ricognitiva ed era avvezza a turni di lavoro massacranti e ai pericoli. In verità, Smith non sapeva bene cosa volesse, da lei. A volte si riteneva già pienamente soddisfatto di starle semplicemente accanto. Amava la sua compagnia, parlare con lei, predisporre insieme i dispacci. Anche se Keith Shadis non gradiva metterla a parte delle direttive militari, Smith non mancava mai di coinvolgerla. Meti possedeva una mente acuta, e spesso gli prospettava le cose sotto ottiche e punti di vista sempre diversi e interessanti, oltreché utili. Era stimolante, dal punto di vista intellettuale. Era una donna di vasta cultura, con lei si poteva parlare di molte cose. Spesso lo sorprendeva per l’acume e per la profondità di pensiero. Per lui, affamato di conoscenza e di verità, averla accanto era molto appagante. Aveva assaporato le sue labbra, e adesso voleva di più, da lei.

Era un uomo giovane, nel pieno delle forze. Il bisogno fisico di stare con una donna era forse ancora in grado di contenerlo e di sacrificarlo… ma lui non era fatto di ferro, alla fine. Quando l’aveva stretta tra le braccia, con molta fatica era riuscito a controllarsi, a non andare oltre, soprattutto quando Meti aveva cominciato, timidamente, a rispondere al suo bacio.

«…Cosa ne pensate?»

Smith si riscosse dai suoi pensieri. Il piano di Meti era azzardato, ma con qualche aggiustamento poteva essere realizzabile. Ma non disse nulla, preferì tacere e lasciare la parola agli altri.

«Forse è una cazzata, ma cazzata per cazzata, per come stiamo messi, tanto vale provare.»

Le parole di Levi lasciarono tutti sbigottiti, Meti per prima. Lui, che la detestava cordialmente, le stava ora dando man forte? Non ci posso credere.

«Ma sì, lavoriamoci su un attimo, e magari potrebbe funzionare! Mike, tu cosa ne dici?» Hanji lo scrutò, con una luce birichina negli occhi nocciola.

«Hum, non saprei» cominciò a dire Mike, pensieroso. «Come facciamo con le autorizzazioni? Di solito prima di partire per le ricognizioni mensili, bisogna spedire qualche giorno prima una istanza protocollata a Mitras. Ma questa sarà una missione segreta o roba del genere, visto che si farà di notte. Come potremo fare?»

«Non ci sono problemi, per questo. Saremo solo in cinque o al massimo in sei, e la missione sarà codificata di perlustrazione, come previsto dal paragrafo 5bis del Codice Militare. Ci limiteremo a spedire un report successivo, a missione espletata. Mike, ti consiglio di rispolverare il nostro codice, ogni tanto.» Smith si alzò in piedi, mentre il ragazzone incassò, grattandosi la testa.

Recatosi alla lavagna, Smith cominciò a tracciare disposizioni ed avanzamenti, in un ipotetico piano militare, che spiegò agli astanti. Insieme a un soldato-infermiere, avrebbe partecipato anche il medico, alla guida di un carro, per poter trasportare i dispositivi del movimento tridimensionale di riserva, robuste funi per legare il gigante da catturare, ed altre torce di datura in sovrannumero, da utilizzare alla bisogna, oltre, ovviamente, a lacci emostatici, bende e farmaci per eventuali ferite.

Dopo aver discusso a lungo, per concertare insieme tutti i dettagli della missione, il gruppetto si sciolse, ed ognuno ritornò ai propri alloggi.

Mentre Meti stava recandosi un momento in laboratorio, per andare a rileggere con calma alcuni suoi vecchi appunti di botanica sul fiore di datura, si imbatté in Levi: l’uomo l’aveva preceduta ed era ritornato indietro. Lei lo interrogò con lo sguardo. In tutta risposta, Levi le allungò qualcosa che si era appena estratto dalla tasca dei calzoni.

«Questo da parte di Isabel. Lo aveva preparato per il tuo gatto. Me ne ero dimenticato, ma sistemando le sue cose l’altro giorno è saltato fuori.»

Gli occhi di Meti si riempirono di lacrime. Isabel aveva intrecciato alcuni lacci di cuoio colorati per creare una graziosa cordicella, cui aveva cucito dei campanellini: erano stati i suoi piccoli tesori della Città Sotterranea, frutto dei suoi furtarelli al mercato. Ma ci aveva rinunciato per realizzare un giochino per Princess.

«Grazie, Levi.» mormorò, stringendo al petto la cordicella.

L’uomo si limitò ad annuire, e se ne andò.

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Capitolo 7
*** VII. Strane occasioni ***


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(This image is from a google search, no copyright infringement intended)
 

«E così… hai un’altra figlia?»

I due uomini passeggiavano tra i meleti, entrambi con aria rilassata.

Erano anni che non si incontravano. Purtroppo non avevano spesso modo di potersi vedere: troppo pericoloso. Ma non appena possibile, amavano condividere ricordi ed osare qualche progetto per il futuro.

«Sì…» rispose il più basso dei due, lo sguardo intenerito «è davvero molto carina, anche se non è bella come la mia Frieda… che è il mio orgoglio, però Historia è il mio ritratto. Pure io da piccolo ero biondo come questa bambina.»

«Hai avuto la benedizione di molti figli… con quest’ultima, sono sei: quattro maschi e due femmine. Sei un uomo fortunato, Rod» Goram staccò una mela da un ramo basso e, con aria pensierosa, cominciò a sgranocchiarla. L’altro sorrise: un sorriso mesto, il suo.

«Non è una figlia legittima… adesso sta crescendo in una delle mie fattorie, e non sa nulla di nulla»

«…Alma? È sua madre, intendo…?» domandò Goram, con esitazione.

«Esatto. La mia ex domestica, una donna dolcissima»

«Sì… me la ricordo, un gran bel faccino, in effetti. Ti posso capire.»

«E tu… dimmi: hai più rivisto Alphaia?»

Si sedettero su una panca, ad ammirare il mare d’oro dei campi. Il grano sapeva essere generoso, nelle annate giuste. Un momento di silenzio venne interrotto da un “no” mormorato e quasi inudibile. Goram gettò il torsolo a terra, che venne subito raggiunto da un pugno di moscerini.

«Mi dispiace. La tua unica figlia avrà anche fatto le sue scelte, ma almeno potrebbe venirti a trovare, di tanto in tanto.»

«Chissà… forse un giorno le cose cambieranno. Io l’aspetterò: quando sarà pronta, verrà da me.» il suo sguardo si raddolcì.

Rod annuì. Era dispiaciuto per il suo amico. Non aveva mai conosciuto sua figlia, ma sapeva che aveva lasciato la casa paterna quando era ragazza, per iscriversi alla Scuola di Medicina, dopo un terribile litigio con Goram, per poi arruolarsi come medico militare presso il Corpo di Ricerca.

«Ci sono novità… politiche, intendo?» chiese Rod, a bruciapelo.

«Nulla di saliente, a parte che Zackely stava monitorando l’Armata Ricognitiva, non essendo convinto dell’operato del suo comandante, che non cavava un ragno da un buco, tanto da averlo sollevato dalla carica. Stava pure valutando l’investitura di un nuovo ufficiale. Poi però è successa una cosa abbastanza straordinaria.»

«Del tipo?» Rod si incuriosì. In campagna non succedeva mai nulla di straordinario: lui e la sua famiglia vivevano come in una bolla, in una sorta di continua aspettativa di qualcosa… che avrebbe potuto avverarsi… oppure no.

«Praticamente, i soldati della Legione Esplorativa hanno catturato un Gigante.»

Rod balzò in piedi, allarmato. «Un Gigante… hanno catturato un Gigante, mi dici?» tartagliò.

«Esatto… ma calmati, Rod, alla fine non si è scoperto nulla di speciale. Dopo poco tempo dalla cattura, del mostro non è rimasto un granché, a parte qualche brandello. Non hanno scoperto nulla… nulla, capisci?»

Goram gli posò una mano sul braccio, per tranquillizzarlo. Rod riprese a respirare, e si sedette nuovamente accanto all’amico. Goram lo osservò di sottecchi, per poi riprendere il filo del racconto. «A questo punto Zackely, venendo a sapere che, comunque sia, erano riusciti a catturare un titano, voleva riabilitare Keith Shadis al comando: ma fu lo stesso Keith Shadis a dimettersi, chiedendo di essere trasferito al Corpo di Addestramento Reclute. Al suo posto, ora c’è Erwin Smith.»

Rod ascoltò con attenzione, per memorizzare tutte quelle informazioni. Ne avrebbe poi parlato con Uri… e con Kenny, ovviamente.

«A proposito, ultimamente ho avuto la visita di Kenny.» aggiunse Athiassy, ora in tono gelido.

Rod sobbalzò: l’amico gli aveva forse letto nel pensiero?

«Gradirei che tuo fratello gli dicesse di lasciarmi in pace. Io non vi ho mai traditi sinora, e non intendo farlo per il futuro. Non capisco perché di tanto in tanto io debba subire la visita di quello spregevole individuo che si accompagna ad Uri. Ho sempre fatto attenzione alla Reggia, misuro parole e gesti, sono praticamente il nobile più insignificante e invisibile.»

«Sei anche l’unico, oltre a noi e agli Ackerman, ad avere memoria, Goram…» sospirò Rod. «Mi dispiace davvero, ma cerca di capire… anche involontariamente potresti farti sfuggire qualcosa e Kenny si assicura che la verità, almeno per il momento, resti ben custodita. Non temere per la tua vita: in fondo, tramite Kenny Ackerman noi ti assicuriamo protezione e aiuto.»

Bella roba, ne farei volentieri a meno! pensò Athiassy, stringendo le labbra. Ah, figlia mia, sapessi come benedico il giorno in cui te ne andasti, sbattendo la porta! Almeno sei libera da tutta questa sozzura! Ti invidio, pure io vorrei fare lo stesso, andarmene e cambiar vita… ma anni fa non ebbi il tuo stesso coraggio!

****

Hanji Zoe non riusciva a darsi pace.

Da qualche giorno era intrattabile: proprio lei, che riusciva sempre a farsi scivolare tutto di dosso e a prendere le cose con filosofia, proprio non ce la faceva a superare la delusione. Passava dal pianto alla rabbia, in una frazione di secondo. Era semplicemente isterica. Levi la evitava accuratamente, trovandola in quei giorni particolarmente petulante e fastidiosa, sebbene Hanji ricercasse proprio la sua, di compagnia. Ma nessuno poteva capire il suo dispiacere. Lo aveva avuto tra le mani, era stato tutto suo. Lo aveva corteggiato, coccolato, blandito: sotto gli sguardi perplessi dei commilitoni, di Mike soprattutto, Hanji si era presa cura del titano, un piccolo classe quattro metri e mezzo che erano riusciti a catturare, come se fosse un cucciolo di cane o un micino.

La missione si era svolta velocemente e bene, molto meglio delle previsioni: nessuna perdita, nessun ferito e un interessante malloppo da portare al castello. La notizia della cattura aveva fatto scalpore, a Mitras erano tutti come galvanizzati. Il mostro era stato fatto coricare supino e ben legato, mentre Zoe gli aveva parlato dolcemente, addirittura cantandogli una ninna nanna. Aveva poi appena iniziato a sezionarlo, a bruciacchiarlo, a piantarvi chiodi: tutto questo mentre blaterava cose senza senso, di fronte ai commilitoni, sempre più perplessi.

«Da quel fatal giorno in cui fetidi pezzi di melma fuoriuscirono dalle acque ed urlarono alle fredde stelle: "io sono l'uomo", il nostro grande terrore è stato sempre la conoscenza della nostra mortalità, ma stanotte lanceremo il guanto della scienza contro lo spaventoso volto della morte stessa, stanotte noi ascenderemo nell'alto dei cieli, sfideremo il terremoto, comanderemo il tuono, e penetreremo fin nel grembo dell'impervia natura che ci circonda.»(*)

… Ma in fondo, le volevano tutti bene, ed erano anche felici di vederla così entusiasta ed amante della scienza.

Un bel mattino, però, Hanji Zoe ebbe un amaro risveglio.

Giunta sul luogo ove il mostro era tenuto prigioniero, si avvide che non vi era più nulla. Al posto del Gigante ora si trovavano le corde, mollemente adagiate al terreno, oltre a qualche brandello esalante mefitici vapori. Non faceva che parlarne, come di un amore perduto: era inconsolabile, come una sposina abbandonata all’altare.

«Era qui, con me… lo avevo chiamato Meti, come ti avevo promesso…»

Al che il medico cercò di reprimere una smorfia, atteggiando il viso a compunzione, porgendo all’amica una tazza di tisana al tiglio, per cercare di calmarle i nervi a pezzi.

«Il mio piccolino… lo stavo tagliuzzando un pezzettino alla volta, con amore e attenzione…» sospirava, scuotendo il capo. Meti temette che Hanji scoppiasse in lacrime… cosa che in effetti accadde. Le diede una pacca sulla spalla, per consolarla. Zoe era un fiume in piena.

«Nessuno mi può capire, nessuno! E adesso come farò con le mie ricerche? Come farò a scoprire la verità sui Giganti? Se scopro come sono fatti, sarà più facile per noi…e invece niente, lo abbiamo catturato per niente, sono un fallimento!» piagnucolò, affranta.

«Ma no, che non sei un fallimento, non è mica colpa tua, cara. Vedila così: capiterà di nuovo, ne cattureremo ancora e stavolta faremo molta più attenzione. Non ho idea di cosa sia accaduto, ma dovrà pur esserci una spiegazione… non si può sparire così, nel nulla. Adesso però calmati, non ti devi ammalare per questa cosa…»

«Ne cattureremo ancora?» tirò su l’altra con il naso, facendole gli occhioni da cerbiatta, finché Meti non le allungò il suo fazzoletto.

«Ma certo. Questo è solo l’inizio.»

«Sì sì, giusto, è solo l’inizio! Grazie, Meti, sei un angelo!»

La donna venne amorevolmente stritolata dall’alta scienziata, che tornò allegra e di buon umore come per magia. Ciangottando, Hanji se andò, lasciando Meti a dir poco allibita.

«La matta Quattrocchi se n’è andata?»

Meti annuì, sorridendo, aggiungendo nuova acqua alla sua tisaniera, per permettere a Levi di prepararsi il tè.

Levi aveva preso l’abitudine di recarsi spesso da Meti proprio per questo motivo. Anche se il medico, tutte le volte, voleva offrirgli la sua, di miscela, Levi accettava solo l’utilizzo della sua tisaniera, con cui il tè gli veniva meglio, più forte, proprio come piaceva a lui. Così, capitava che tutti e due se ne stessero insieme nella stanzetta adiacente all’ambulatorio a sorseggiare: Meti una tisana, Levi il suo tè, il tutto in perfetto silenzio. Dopo aver bevuto, Levi era solito andarsene, spesso senza neppure salutare o limitandosi a un cenno. Era il suo modo di farle capire che apprezzava la sua compagnia: cosa che Meti aveva accettato di buon grado.

I rapporti tra loro erano molto migliorati. Non erano diventati amiconi da pacche sulle spalle, ma almeno avevano imparato a rispettarsi a vicenda. Levi era un uomo molto intelligente, e aveva capito che Meti fosse una brava persona: non aveva, poi, dimenticato l’affetto sincero dimostrato dalla dottoressa ad Isabel: quest’ultima era stata solita parlare con entusiasmo della “mamma umana di Princess”.

Levi non amava essere compatito, ma capì che i gesti gentili di Meti nei suoi confronti erano per rispetto alla sua perdita, anche perché pure lei aveva sofferto per la morte dei suoi poveri amici. A sua volta, Meti aveva intuito le buone qualità di Levi e le sue grandi potenzialità. Egli era un sopravvissuto, e le asperità del suo carattere andavano comprese ed accettate.

«Vieni Princess, guarda chi c’è.»

Levi fece una smorfia che poteva essere presa per un sorriso, alla vista della bellissima micia bianca. I gatti gli piacevano, essendo animali molto puliti. Princess era sempre meticolosamente spazzolata dalla sua padrona e si presentava, quindi, come un delizioso batuffolo candido che attirava le carezze… comprese quelle di Levi, ai cui stivali la micia andò a strusciarsi.

«Cosa ne pensi?» alla fine lui se ne uscì fuori con questa domanda a bruciapelo, dopo molti minuti di perfetto silenzio.

«Cosa ne penso… a che proposito?» gli chiese Meti, trattenendo un sorriso. Levi era davvero unico, nel suo genere!

«Di Smith come comandante, ovviamente. So che Shadis non ti andava a genio, anche se hai avuto tu l’idea della cattura del gigante per farlo riabilitare.» Levi se ne stava seduto, con una mano reggeva elegantemente la tazza, con l’altra faceva i grattini sotto al mento di Princess, ora placidamente posata sul suo grembo e che socchiudeva gli occhi turchesi, tutta soddisfatta.

«Te lo ha detto Erwin, immagino.» sospirò, finendo la sua tisana, ormai quasi fredda. «Cosa vuoi che ti dica… credo che per ognuno di noi ci sia il posto giusto, a questo mondo. Per Shadis non era di certo il comando dell’Armata, mi duole dirlo. Non mi fraintendere: è un uomo di grande valore, coraggioso e devoto alla causa fino al sacrificio. Ma non ha una visione di insieme… come invece ce l’ha Smith. Ecco: io penso che come addestratore Keith sarà perfetto, e che saprà forgiare dei soldati straordinari. È severo e inesorabile, ma giusto. Se però ora il comando è affidato a Smith, di sicuro le cose cambieranno. Non credo che le ricognizioni si terranno più allo stesso modo, Smith è un innovatore, per natura. Una persona curiosa, dalle mille domande. Beh, questo è quello che io credo di aver capito di lui… sai, lo conosco da diverso tempo, ormai, e un’idea me la sono pur fatta.»

«Per questo te l’ho chiesto.» dichiarò Levi, asciutto, posando giù Princess con delicatezza.

«Ho soddisfatto le tue aspettative?» sorrise lei, in tono gentile.

«Forse.» al che posò la tazza e si alzò. Accingendosi ad andarsene, la soppesò con lo sguardo «Mi ha chiesto di dirti che stasera ci aspetta nel suo studio privato.»

****


NOTE DELL'AUTRICE:
(*) Doverosi credits a quel capolavoro indiscusso del film di Mel Brooks “Frankenstein Junior” (Usa 1974), nel pieno rispetto del copyright.

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Capitolo 8
*** VIII. No Regrets ***


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Alla fine era stato concertato il tutto.

Quella sera, nell’ufficio privato del Comandante, ora con le fattezze di Erwin Smith, venne progettato l’incontro di Meti con suo padre. Levi sarebbe andato con il medico, per evitare che le accadesse qualcosa. Non che la prospettiva di andare nella capitale e di frequentare i centri del potere arridesse molto a Levi, ma egli seppe fare buon viso a cattivo gioco. Si fidava di Smith, e comprendeva che per ottenere un qualche risultato fosse necessario pagare un po’ di prima persona. E poi in fondo era anche curioso di vederla, la tanto famosa capitale, di cui si favoleggiava nei Sotterranei come una sorta di paradiso terrestre, ove le fontane pareva che zampillassero vino invece di acqua, e che le strade fossero tappezzate di velluto rosso.

Tsk.

«Attenderemo quindi i festeggiamenti del compleanno del Re che si terranno esattamente fra tre settimane: per quell’occasione, solitamente non si organizzano ricognizioni. Nella confusione della parata militare diretta da Zackely, in cui sfilerà tutto l’Esercito alla presenza del sovrano, dei nobili e delle alte sfere militari, sarà più facile avvicinare tuo padre, il conte Athiassy. Credo che il momento più opportuno possa essere quando, a parata finita, la folla si disperderà per le vie centrali, per festeggiare nelle taverne e ai mercatini delle fiere. Sicuramente, Athiassy andrà al suo ristorante preferito, quello che mi hai suggerito tu».

Smith aveva esposto il suo piano con metodo e semplicità, mostrando su una piantina della Capitale tutto il percorso della parata ed il punto esatto del ristorante. Meti annuì, sorridendo mestamente, stringendo le mani tra loro.

«Sì… lui è sempre stato un abitudinario. Ricordo che adorava lo stufato di quel ristorante, mi ci portava spesso, quando ero bambina. Sempre che, negli anni, non abbia cambiato gusti in fatto di cibo.»

«Tu e Levi lo seguirete senza dare nell’occhio, e vi fingerete dei comuni avventori del ristorante… dopodiché, dubito che, vedendoti, tuo padre si rifiuti di parlare con te.» al che la fissò, serio, negli occhi, vedendola trasalire leggermente. «Non dentro il ristorante, ovviamente. La galleria sul retro del locale, che mi hai descritto, sarà perfetta per il vostro incontro, che però dovrà essere molto rapido, ci tengo a precisarlo.» concluse, in tono pacato. Raddolcì lo sguardo. «Naturalmente, spero per te che vi siano altre occasioni, più propizie, per poter stare con lui e riallacciare i rapporti… sempre che tu lo voglia, ovviamente. Ma stavolta dovrai attenerti al piano, anche per una questione di sicurezza»

Meti lo osservò, cercando di non fissarlo troppo a lungo.

Erwin le pareva ancora più alto e imponente.

Innegabilmente, la divisa di comandante gli donava molto: sembrava quasi che ci fosse nato dentro. Erwin emanava un’aura di autorevolezza, di serena consapevolezza del suo potere e del suo carisma. Alla fine, aveva ottenuto, quasi senza sforzo, e ad un’età ancora relativamente giovane, il grado di comandante dell’Armata Ricognitiva. Praticamente, lo stesso Keith Shadis aveva rinunciato alla sua carica, designando Smith come suo naturale successore.

Non avevano più avuto modo di incontrarsi da soli, dopo quella volta, nelle scuderie. Un po’ come di tacito accordo, tutti e due avevano quasi cercato di archiviare la cosa. Ma non era facile fingere di ignorarsi e di dimenticare quanto accaduto.

Il corpo sa avere una sua saggezza, al di là dei freni omaggiati dalla ragione e dal buon senso.

Pur cercando ambedue di tenere un contegno distaccato e professionale, nella stanza la tensione sessuale era palpabile, al punto tale che, ad un certo punto, Levi, palesemente seccato, si alzò, stringendo le labbra. Che quei due risolvessero da soli i loro problemi, lui non ci teneva a fare il reggi-moccolo, non era un idiota, lo aveva capito da un pezzo che ce n’era! Non li giudicava di certo, non erano affari suoi, solo non gradiva di essere messo in mezzo!

«Se questo è tutto, io mi ritirerei.» soggiunse, in tono secco.

Meti si alzò anch’essa prontamente. «Erwin, direi che abbiamo deciso tutto. Se non ti dispiace, mi ritirerei anch’io, avrei dei certificati medici da redigere…oggi ho visitato alcune reclute, e non ho ancora finito con gli incartamenti...»

«Nessun problema. Ti chiedo però ancora qualche minuto di colloquio, per cortesia. Levi, tu puoi anche andare, grazie. A domani.»

Meti si risiedette, stringendo le labbra. Il giovane uomo non si fece pregare e si volatilizzò.

Che quei due si arrangino!

Rimasero seduti per qualche minuto, in perfetto silenzio. Meti teneva gli occhi bassi, fissandosi le mani come se le vedesse per la prima volta. Si focalizzò sulla fede nuziale all’anulare sinistro, come per un tacito monito a se stessa.

«Cosa ci sta accadendo, Meti?»

Lei non rispose. Non sapeva cosa dire.

In silenzio, Erwin si alzò. Non intendeva lasciar cader la cosa. Non così, almeno. Andò ad appoggiarsi al bordo del tavolo, a braccia conserte, per stare vicino alla donna, rimasta seduta e desiderosa di scomparire, di sprofondare nel pavimento.

«Non va. Meti, così non va. Credo che ci meritiamo di meglio, di questa recita, non credi anche tu?»

Ancora silenzio.

La cosa lo esasperò. Erwin Smith, sempre pacato e misurato, capace di controllarsi e di dire e fare sempre la cosa più opportuna, quella volta perse la pazienza, a causa di una donna che sapeva sin troppo tacere, pur volendo la stessa, in realtà, urlare. Con lo sguardo cupo, la afferrò per le braccia e la sollevò, come se fosse un fuscello, rimettendola in piedi. La sedia si rovesciò a terra, con un tonfo sordo.

«Guardami.» le ingiunse, roco.

Lei sollevò lo sguardo, più stupita che impaurita.

«Cosa vuoi da me?» riuscì lei infine a dire, con il cuore che le stava esplodendo nel petto. «Sai benissimo che le relazioni tra commilitoni sono vietate. Cosa vuoi fare, gettare all’aria tutto per una infatuazione? Che cosa sarebbe delle tue ambizioni, se ora ti mettessi a folleggiare qui, in caserma, sotto gli occhi di tutti?»

L’uomo rimase interdetto, nel sentirla parlare con tale durezza, e allentò la presa.

«Ed io? Cosa dovrei fare io? Finora mi sono attenuta alle regole, lavorando duramente e vivendo nel ricordo… sì, nel ricordo. Ero una moglie, Erwin, la mia strada era tracciata. E lo sarebbe ancora, se il mio Basil fosse vivo!» si divincolò dalla stretta dell’uomo, rimanendo in piedi, ritta e fiera, a fronteggiarlo. Si studiarono a lungo, come due duellanti.

Erwin, vinto, racchiuse il viso di Meti nelle sue mani.

«Non è uno scherzo… non per me. Non è un’infatuazione, come dici tu. Sicuramente è uno sbaglio, ci sono delle regole da rispettare, in questo ti do ragione. E di certo abbiamo altre priorità, almeno per il momento. Ma non posso farci niente. Io ti voglio, Meti.» le sussurrò. «Ti ho sempre voluta, dal primo istante. Ricordo ancora il nostro primo incontro… tu non lo ricordi? Fu dopo una missione. Eri china a fare un massaggio cardiaco a una recluta. Eri sudata, ricoperta di sangue, con ricci dispettosi sfuggiti dalla cuffia, che ti incorniciavano il viso e il collo…in quel momento pensai di non aver mai visto nulla di più bello in vita mia… sollevasti il viso, sfinita, dopo aver rianimato quel ragazzo e mi guardasti. In silenzio, venisti da me, che avevo una leggera ferita al fianco, per medicarmi. Non mi dicesti nulla. Io mi lasciai guidare da te, dal tuo tocco gentile e delicato: non sentii nulla neppure quando mi ricucisti la ferita. Poi, sempre in silenzio, la tua attenzione venne rivolta ad un altro paziente, e ti allontanasti da me.»

«Erwin…» mormorò lei, affranta.

L’uomo appoggiò la fronte alla sua, chiudendo gli occhi.

«Ricordo che già dal giorno seguente al nostro primo incontro avrei voluto… sì, avrei voluto conoscerti meglio, parlarti, starti accanto...» al che si scostò leggermente e le sollevò la mano sinistra, guardandola, assorto. «Poi, però, vidi questo anello» sorrise amaramente, sfiorando la fede nuziale col pollice «e capii che per me non c’era speranza alcuna, anche dopo che venni a sapere della tua vedovanza. Ma il fatto che tu non abbia mai sfilato dal dito la tua fede, era significativo… e così ho dovuto recitare una parte, per tanto tempo. Ho deciso di reprimere gesti e parole, giorno per giorno.»

Le labbra di Erwin assunsero una piega amara.

Per contro, gli occhi di Meti si riempirono di lacrime.

«Tu… mi volevi bene già da allora?»

Erwin annuì.

Meti prese coraggio, pur temendo di essere indelicata. Ma doveva sapere.

«Dimmi, allora… perché adesso mi stai dicendo di voler stare con me, dopo essere stato in silenzio per così tanto tempo? Cos’è cambiato per te?»

Erwin la fissò intensamente negli occhi, per poi asciugarle in punta di dita le lacrime che le scorrevano, lente, sul viso.

«Perché il domani potrebbe non esserci. Lo vedi pure tu. Ma non voglio rimpianti. L’ho detto a Levi, per spronarlo a non lasciarsi andare al dolore, con la morte dei suoi poveri amici… ed ora lo dico anche a me stesso. Ti confesso una cosa. Pure io ho amato, in passato, e capisco quanto sia facile e comodo vivere nel ricordo, cullarsi in un’illusione che quanto già vissuto ci possa bastare... Meti… so che hai amato moltissimo tuo marito… io non pretendo di prendere il suo posto. Ma ti chiedo una possibilità, se anche tu provi qualcosa per me. Diamocela, una possibilità. Anche adesso, anche se la morte incombe su di noi. Niente rimpianti.»

Erwin strinse a sé la donna, con tenerezza.

Le ricoprì di baci lievi la fronte, le palpebre, le gote, bevendo le sue lacrime, per scendere piano fino alle labbra, che si schiusero al suo tocco come un fiore al bacio del sole.

Si assaporarono a vicenda, con pause e sfioramenti, con morsi leggeri.

Meti circondò il collo di Erwin con le braccia per poi accarezzargli i capelli, stringendosi a lui per sentire il calore del suo corpo. Si sentiva felice, si sentiva viva, dopo tanto tempo.

Dopo tanto freddo.

Dopo il freddo di notti eterne, in un letto rimasto troppo grande.

Dopo il freddo delle lacrime versate davanti ad una lapide.

Ma cercò, ancora una volta, di resistergli, come se un ultimo baluardo dovesse cercare di restare in piedi.

Meti si staccò da lui, chiudendo gli occhi, come per cercare di ricomporre i pensieri. Rimase un po’ a testa bassa.

«Erwin… non sono la donna per te. Sono più vecchia di te, sono una vedova… zoppico. Ci sono decine di giovani e belle ragazze con cui potresti farti una famiglia, avere dei figli… Non che io non possa più averne, ma non ho più vent’anni. Dovresti pensarle, queste cose, sono importanti. Forse adesso per te non contano, ma…»

Smith non le permise di continuare, le sollevò il viso e si riappropriò delle sue labbra, per un altro lungo bacio.

«Ti basta, come risposta? O vuoi continuare con le tue stupide obiezioni? Non sto scherzando, Meti, te lo ripeto.» le intimò poi, cupo.

Meti fu finalmente vinta. Rifugiò il viso sulla spalla di lui.

«Va bene, Erwin. Niente rimpianti» gli sussurrò.

In tutta risposta, Erwin la sollevò tra le braccia, per poterla portare nella sua camera, accanto al suo studio privato. Ma la donna si agitò, sgambettando e cercando di farsi mettere giù.

«No… voglio stare con te… ma non qui…» protestò, debolmente.

«Perché?» chiese lui, perplesso.

«Potrebbero sentirci» arrossì «qui accanto ci sono altri uffici, c’è anche l’archivio generale, e nel corridoio c’è un continuo passaggio…ci scoprirebbero subito.»

Erwin annuì, con un sorriso lieve.

«Avete ragione, Milady. Non qui.» celiò, mettendola giù con delicatezza.

«Sciocco…», disse lei, sorridendo a sua volta.

Uscirono in silenzio e si separarono, in tacito accordo. Raggiunsero le scuderie, provenendo, di proposito, da direzioni diverse.

Si cercarono e si ritrovarono, nel punto più interno, in cima ad una scala di legno, in un sottotetto ove veniva ammucchiato il fieno in sovrabbondanza.

Fu facile accogliersi.

Le mani si intrecciarono, la pelle si riscoprì, affamata.

Non poterono resistersi, l’un l’altra.

La musica più antica del mondo iniziò la sua sinfonia.

Furono lacrime di felicità, bevute da labbra insaziabili.

Furono sussurri e furono promesse.

Erwin fu vinto e reso supplice dalla pelle di luna di Meti, di cui aveva sognato la luce, tutte le notti.

Meti ammirò la forza plastica di Erwin, accarezzando, ebbra di lui, ogni centimetro del suo biondo corpo.

Spossati e felici fino alla sofferenza, si assopirono, stretti e ormai prigionieri.

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Capitolo 9
*** IX. Preparativi ed aspettative ***


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Nei giorni successivi tutta la caserma fu impegnata nella preparazione della parata ufficiale: i soldati, oltre ad essere impegnati nello studio di piani militari e nell’addestramento fisico, erano ora anche subissati da lezioni su rigide regole comportamentali, per poter imparare a sfilare per le vie della capitale in modo sincrono ed impeccabile. Il turno di marcia del Corpo di Ricerca era successivo a quello della Gendarmeria e a quello della Guarnigione: ma anche il reparto meno prestigioso dell’Esercito avrebbe avuto i suoi minuti di gloria e di celebrazione. Vennero quindi addestrati a marciare per ore ed ore, sotto qualsiasi condizione meteorologica, in modo da acquisire un atteggiamento il più possibile marziale.

Sarebbero state esibite le alte uniformi: tutti i soldati dovettero quindi occuparsi pure di fare il loro bucato, di inamidare colletti e spalline e di uno stiraggio impeccabile: un intero reparto della caserma venne quindi trasformato in una sorta di enorme lavanderia, ove i soldati più giovani non ci impiegarono molto a lasciarsi andare a frizzi e lazzi, rincorrendosi, scalzi, per tirarsi addosso a vicenda secchiate di acqua saponata e per altre simili amenità.

Nacquero così flirts e simpatie: l’atmosfera più distesa e l’aspettativa di grandi festeggiamenti allontanarono, almeno per qualche giorno, l’angoscia del domani, facendo vivere loro momenti di pura spensieratezza.

In questo clima festoso, Levi preferiva starsene per conto proprio, ora più che mai.

In quei giorni, oltre alle pulizie e al bucato, cui si dedicò con attenzione certosina, preferì impiegare ancora più tempo del solito in allenamenti sfiancanti, perfezionando l’uso del movimento tridimensionale sino a livelli inimmaginabili, quasi disumani. Quando la sera si ritirava in camerata era talmente stanco da faticare ad addormentarsi, sentendo dolore ovunque. Ma almeno si sentiva ripulito dai muscoli fino alle ossa.

Impiegando ogni secondo del suo tempo, facendo anche più del dovuto e senza mai concedersi neppure un minuto di riposo, Levi si voleva sentire ripulito del suo passato. Desiderava finalmente sentirsi utile per qualcosa di buono, oltre che per la semplice sopravvivenza. Ci teneva quindi a mettere quanta più distanza possibile, nella sua mente, tra sé e il suo passato: non per vergogna, dato che non rinnegava le sue origini, ma per tutto il carico di dolore che, da sempre, aveva investito la sua vita, e con cui non era mai sceso a patti.

Non voleva più sentirsi sporco.

Ma se la sua mente voleva fare pulizia, il suo cuore non era del medesimo avviso: il viso di sua madre e di quelli che per lui erano stati dei fratelli, Farlan ed Isabel, gli si erano ancorati dentro, tenacemente, come un baluardo inespugnabile. Del suo doloroso passato preferiva ricordare solo l’affetto per le poche persone meravigliose che avevano reso la sua vita un po’ meno odiosa e insopportabile. Erwin Smith rappresentava, per lui, una possibilità di riscatto, di sentirsi utile, di valere come essere umano. Lo stimava sinceramente, per l’impegno, la serietà, lo stoicismo che dimostrava in ogni occasione.

Come Hanji, anche Levi aveva intuito il sentimento di Smith per il medico, e questo sin dal primo istante: egli era un uomo molto intelligente e, in un modo tutto suo, anche sensibile. Certe sfumature nella voce, una luce speciale nello sguardo, seppur per un attimo fugace… tutte queste cose lui le aveva colte, quando aveva avuto modo di osservare Smith in presenza di Meti. Quest’ultima era una donna complessa, difficile da comprendere sino in fondo. Levi aveva però intuito che un uomo come Smith non avrebbe mai potuto volere, al suo fianco, una donna che non lo stimolasse pure sul piano intellettuale e mentale: la sola bellezza non sarebbe stata mai sufficiente per avvincere uno come il neo Comandante, dato che di donne belle potevano essercene molte, ed anche più di Meti, o anche semplicemente più giovani…ma poche dotate di una intelligenza feroce come la sua.

Quanto a lui, il pensiero dell’amore poteva anche averlo sfiorato, essendo un uomo giovane e con sentimenti, esattamente come tutti gli altri. Ma la vita ingrata che aveva dovuto affrontare, sin da bambino, lo aveva indurito precocemente. Nascondeva quindi, dietro un’aria scostante e dei modi bruschi, un animo ricco di luce e di bellezza.

****

«Allora…?»

«Allora… cosa

Hanji rispose con calma su uno sgabello i suoi occhiali, le cui lenti si erano appannate, per i vapori acquei, per poi fissare con dolce sguardo da miope la sua compagna di abluzioni. Lei e Meti si erano attardate nei bagni adibiti alle camerate femminili ed erano oramai rimaste da sole: l’ultima a congedarsi era stata Nanaba, che, sbadigliando, mormorò un “‘notte” per poi ritirarsi in camerata.

Meti finiva di districare, imprecando, la lunga chioma riccia, mentre la scienziata si osservava con occhio critico le unghie di mani e piedi, per poi fare spallucce.

«Vabbè, dai, mi hai capito. Qual era l’argomento della nostra ultima conversazione, qualche giorno fa? E non parlo della cattura del Gigante, eh, non ci provare.» brontolò, a braccia conserte.

Meti sorrise.

Hanji era davvero unica, nel suo genere. Si stava già innervosendo prima ancora di sentire il frutto delle loro confidenze. Si avvicinò all’amica e le si sedette accanto, prendendole una mano.

«Gli ho detto di sì.» le sussurrò vicino all’orecchio. «Che dici, ho fatto bene?»

Hanji spalancò occhi e bocca «Da-davvero? Ti sei messa con lui?» farfugliò.

Meti arrossì, continuando a sorridere. «Ho capito di volergli bene… lo so, è assurdo, ma…»

Hanji non la fece finire: la abbracciò stretta stretta. Quando la sciolse dall’abbraccio aveva gli occhi lucidi. Senza dire una parola, la accarezzò sulla guancia e se ne andò nello spogliatoio per rivestirsi, lasciando Meti stupita e commossa.

****

Stavano in silenzio, teneramente allacciati, guardandosi nel mattino con occhi ridenti.

Nel bel mezzo della confusione dell’imminente Celebrazione Reale, con quasi trecento soldati in perenne movimento per tutta la caserma, non era per niente facile riuscire a stare da soli, senza insospettire nessuno, o anche dare semplicemente nell’occhio. Si muovevano circospetti come ladri, per poter rubare momenti di oblio e di pura felicità da donarsi a vicenda… momenti che finivano sempre troppo presto, nel corso delle lunghe giornate. Ma le notti appartenevano loro, completamente. Adoravano stare insieme non solo per fare l’amore, ma anche semplicemente per stare insieme e condividere piccoli gesti quotidiani: cosa, del resto, che avevano sempre fatto. Il fatto di conoscersi da tempo rendeva tutto molto più semplice: avevano già consolidato, insieme, delle abitudini tutte loro. Da anni, infatti, erano soliti ritrovarsi di primo mattino nel laboratorio di Meti per pianificare la giornata; redigere dispacci per approvvigionamenti; assistere a sessioni di addestramento; scambiarsi impressioni e punti di vista su argomenti di vario genere. Amavano parlare di tutto, non solo di questioni militari, ma anche di piccole cose quotidiane… oltre che dei loro ricordi.

In fondo, pur conoscendosi ormai da tempo, era bello approfondire la reciproca conoscenza, anche a livello di piccole idiosincrasie, manie o fissazioni. Erwin rise nello scoprire che Meti era capace di urlare e di balzare sopra sgabelli e tavoli alla vista di ragni e scarafaggi; per contro, Meti adesso osava prendere apertamente in giro Erwin per il suo modo metodico di mangiare, dopo averlo osservato di sottecchi in refettorio ai pasti comuni, dato che l’uomo, assorto, masticava a lungo e lentamente, mentre Meti era solita mangiare in fretta e furia, magari mentre compilava un certificato medico o mentre controllava un referto, cosa che spesso le veniva rimbrottata da Hervert (“Figlia mia, mangia con calma! Poi non lamentarti dei gonfiori di stomaco, eh!”)

«Quando fai così, mi ricordi Hanji», era solito dirle di ritorno dal refettorio, bacchettandola.

«Si vede che è tipico di chi si occupa di scienza, che vuoi che ti dica?» gli ribatteva lei, ogni volta, facendo spallucce; di rimando, Erwin scuoteva il capo.

Dopo la loro prima volta nelle scuderie, avevano cominciato ad incontrarsi pressoché ogni sera, salvo reciproci impegni di lavoro, negli alloggi di Meti, collocati in un’ala della caserma meno battuta rispetto agli appartamenti degli ufficiali militari. Le due stanze, una adibita a studiolo e l’altra a camera da letto, erano piccole ma molto confortevoli e pulite, con tocchi femminili qua e là, che ingentilivano l’atmosfera sin troppo spartana e militare: una piccola arpa che Meti era solita pizzicare, da sola o in compagnia, mazzi di fiori e di erbe odorose, quadri all’acquerello e del vasellame colorato.

Princess era solita passare la notte acciambellata sul suo cuscino preferito, ed accoglieva di buon grado le carezze di Erwin sulla testolina serica, pur avendo ormai eletto Levi come suo preferito.

Meti gli aveva indicato una sorta di passaggio segreto, un corridoio interno che anticamente era stato progettato architettonicamente nell’ex castello per il passaggio della servitù, in modo che essa non battesse i corridoi principali riservati ai signori: in questo modo, Erwin poteva raggiungere la sua amata senza tema di essere scoperto.

A volte si presentava da lei senza indossare l’uniforme, ma in tenuta da civile, con una semplice blusa e un paio di calzoni, specialmente dopo che la donna ebbe brontolato sull’impiego di tempo non indifferente impiegato per togliergli di dosso tutta l’imbragatura di cuoio… ma per fare ciò, egli doveva attendere la notte fonda, quando, a parte i soldati posti di guardia, il resto dei soldati si era ormai ritirato nelle camerate. Secondo il Regolamento, tuttavia, dopo una certa ora non era più obbligatorio indossare la divisa, se non, ovviamente, durante le segnalazioni di allarme. Ma lui teneva in modo particolare alla forma, ed alla immagine da dare di sé ai suoi uomini.

Ad ogni modo, quello era davvero un periodo molto intenso per Meti.

Oltre a vivere questo nuovo sentimento insieme ad Erwin, la donna si preparava a incontrare suo padre, dopo tanti anni di separazione. Non sapeva più, a questo punto, se essere preoccupata e nervosa o, piuttosto, grata ad Erwin per averla quasi messa a spalle al muro, nel chiederle di incontrare l’anziano genitore, cui non aveva mai smesso, in fondo, di voler bene. Essa provava indulgenza verso la se stessa di diversi anni prima, molto giovane ed impulsiva, capace di scatti d’ira incontrollabili e di reazioni eccessive: una Meti che, in un colpo di spugna, aveva deciso di rinunciare alle sue origini, alla sua casa, alla sua famiglia. L’indignazione provata per l’immane bugia ordita nei confronti di tutto il popolo, avvezzo ormai ad accettare tutto, anche la favola di un sovrano impostore, l’aveva resa dura e intransigente, dinnanzi all’ignavia rassegnata del genitore. Fu colpa anche dell’amore, a dir la verità.

Al mercato del matrimonio della Capitale era stata una preda ambita la graziosa brunetta dagli occhi blu, di alto lignaggio e dalla dote più che decorosa. Peccato che non furono galanterie da cicisbei a condurla all’altare, ma la serietà, l’impegno… e i rimproveri mossile da un giovane ingegnere, al loro primo incontro.

Meti era stata innamorata, anni prima, di Basil Narses.

Il giovane bruno e serio dallo sguardo intenso, brillante ufficiale di guarnigione e ingegnere civile addetto alla protezione delle Sacre Mura, l’aveva colpita sin da subito per il contegno serio e stoico, ben diverso da quello tenuto dai viziati rampolli aristocratici incontrati ai balli e alle feste di Mitras. Lo aveva conosciuto per puro caso e avevano persino discusso, per un futile motivo che lei neppure riusciva più a ricordare bene… forse per un delicato strumento di calcolo che Meti aveva inavvertitamente rotto con il suo cavallo, passando al trotto vicino al cantiere ove Basil stava giusto mostrando un suo progetto agli operai per una nuova macchina da guerra.

Dopo un primo incontro all’insegna quasi di un litigio, ne erano venuti degli altri, via via sempre più piacevoli e distensivi. I due giovani avevano cominciato a provare interesse l’un l’altra, per poi scoprirsi follemente innamorati. Passavano serate intere a far l’amore e a progettare un futuro insieme: fu a Basil che Meti confidò la sua passione, sin da piccola, per l’arte medica e il suo desiderio di vivere al di fuori delle rigide regole del lignaggio nobile, che chiudevano le dame in una gabbia dorata.

Lei anelava alla libertà, allo studio, all’esercizio della medicina… e, soprattutto, al desiderio di vivere con l’uomo amato, e non scelto per lei dal padre. Fu così che, dopo un terribile alterco con il conte, Meti si ritrovò a riporre quattro vestiti e un po’ di biancheria nella sua bisaccia, a cacciarsi in tasca la lettera di credito per la riscossione della sua ingente dote materna, per così infilare, per sempre, la porta della sua prestigiosa magione. Gli anni di studio, con Basil al suo fianco in una casetta piccola ma graziosa, furono i più belli della sua vita.

Anni di amore, di progetti e di risa. Basil la rendeva partecipe di tutte le sue invenzioni: le mostrava i progetti delle nuove macchine da guerra, dei presidi delle Mura e, soprattutto, della versione sempre più perfezionata del movimento tridimensionale, già in uso dai militari da molti anni. Fu sua l’idea di utilizzare le bombole del gas di un materiale molto leggero in una lega di sua invenzione, e fu sua l’idea di forgiare le lame in modo tale da essere ancora più taglienti. Egli era infatti appassionato di leghe metalliche, essendo figlio di un fabbro: semplicemente, l’arte familiare l’aveva portata ad un livello superiore, grazie ai suoi studi di matematica ed ingegneria.

Meti era profondamente orgogliosa del suo intelligente e bellissimo marito: il giorno della sua laurea coincise con quello del loro matrimonio… fu il giorno più bello della sua vita.

Ma un terribile incidente sul lavoro, dopo pochi mesi di luna di miele, le strappò il suo Basil dalle braccia. Se ne rimase seduta ed inerte, per molti giorni, prostrata dal desiderio di morire.

Non fu facile per lei risalire l’amara china del dolore. Ma la giovane età fu più forte della voglia di annullarsi. Volle scuotersi, ricominciare. Il solo titolo di medico non le bastava più. Il tirocinio l’aveva portata a contatto non solo con dei civili, ma anche con dei soldati dell’Armata Ricognitiva: ammirando profondamente il loro coraggio e la loro dedizione, decise di contribuire alla loro missione, e si risolse, così, ad iscriversi al Corpo di Addestramento per divenire, a sua volta, un soldato.

Basil era solito accarezzarle, quelle Mura.

Le ammirava per la loro maestosità. Ma non le considerava affatto sacre, come invece facevano in molti, al punto tale da officiarle religiosamente. Non riusciva ad esaminarle in modo compiuto, c’era sempre qualcosa che gli sfuggiva.

Guarda Meti. Guarda queste Mura. Sono affascinanti ma non mi convincono. Non hanno nulla di conosciuto. Nessun materiale di riferimento. Le sto studiando da un po’… ma non farne parola con nessuno, va bene? Sarà il nostro segreto… insieme ad altri… vieni, Meti… lasciati baciare: sei così bella, amor mio...

Per anni le parole di Basil le sussurrarono alla mente. Il ricordo sa anche essere un gran bastardo, quando ti illude che chi hai perso sia ancora vicino a te, facile e tangibile… infatti pare quasi che puoi allungare una mano, per toccarlo… e invece no. Eppure, un sogno che si spegne alle luci dell’alba riesce a farti andare avanti, nonostante l’inganno. Fino ad ora.


*****

Smith voleva venirne a capo.

I maneggi di Lovof non erano che un pallido assaggio di un’immane macchina di cui poteva intuire gli ingranaggi, ma che sentiva essere molto complessa. A volte nutriva dei seri dubbi di riuscire a risolvere la questione. Un Re impostore, sì… ma al posto di chi? Chi avrebbe dovuto stare sul trono, in eredità della dinastia del Re Fritz, perso ormai nel ricordo della leggenda?

Erwin non sapeva più che fare.

Erano ore che, nel suo studio, leggeva e rileggeva documenti, contratti, estratti di vario genere. O meglio: in realtà sapeva benissimo che per poter andare fino in fondo non avrebbe dovuto guardare in faccia a nessuno. Il legame sempre più forte e intenso che stava costruendo con Meti lo stava rendendo, suo malgrado, più vulnerabile. Non solo per proteggere lei, ma anche per non compromettere tutto il paziente lavoro di indagine e di spionaggio che stava portando avanti insieme a Dot Pixis era necessario che la loro relazione rimanesse assolutamente segreta.

A volte si riprometteva di comportarsi in modo odioso e di lasciarla, soffocando dentro di sé ogni sentimento: ma proprio non ce la faceva a rinunciare a quei pochi momenti di pura felicità della sua vita. E poi non voleva venir meno alla parola data alla sua donna e fingersi falso e bugiardo.

Il suo piano di coinvolgere Meti poteva anche rivelarsi inutile o, peggio, pericoloso, specialmente per lei. Temeva di aver peccato di superficialità chiedendole di aiutarlo, facendola mettere in contatto con la nobiltà di Mitras… seppur in persona del suo stesso genitore.

Man mano che si avvicinava la data fatidica, cominciava a tentennare.

Nei momenti d’amore, appariva, a tratti, cupo e teso, stringendo la donna a sé con maggior forza, come se fosse l’ultima volta. Meti faticava a non urlare dal piacere, temendo di essere udita, quando Erwin la amava con tale sconvolgente passione.

Meti lo interrogava con gli occhi, senza dir nulla… Anche lei era preoccupata per quanto sarebbe potuto accadere, ma preferì affrontare la cosa con coraggio. Al destino bisogna pur andare incontro… qualunque volto ci voglia mostrare.

****

«E così… la figliola prodiga intende rivedere l’anziano padre… mi commuoverei, se non dovessi invece pensare a come risolvere il problema.»

L’anziano gentiluomo, che credeva di poter restare seduto su quel trono e di portare avanti la sua impostura fino alla fine dei suoi giorni, se ne stava ora tutto intento a completare, con un sottilissimo pennello intinto in una costosa pasta di lapislazzuli, un angolo della complessa miniatura. Era la sua passione, da molti anni. Amava quell’arte raffinata e antica, che rendeva preziosi ed unici i già pochi libri che circolavano in città.

Un paio di Aristi, elegantemente abbigliati e comodamente adagiati su morbidi canapè, erano invece intenti ad esaminare alcuni incartamenti. Certo che quel vecchio, avvolto come sempre in quella specie di sudario costituito da un’anonima e brutta tonaca, con le sue piccole manie e i suoi modi da finto cortese, sapeva essere proprio insopportabile.

Gli piaceva fingere la parte del rimbambito, della marionetta, dedito a cose futili come l’arte, la pittura… in realtà, egli era assolutamente lucido e volitivo, tanto da impartire ordini proprio alla consorteria a lui più vicina, oltre che potente.

Vecchiaccio arrogante.

«Vostra Grazia, il conte Athiassy saprà restare al suo posto, come ha sempre fatto. Quanto alla figlia, è una persona insignificante, un mediconzolo dell’esercito. In caso di necessità, semmai, la faremo sparire… ma non dimentichiamo che ora fa parte del Corpo di Ricerca.»

«E quindi?» bofonchiò il re, sollevando le palpebre pesanti, con aria annoiata.

«E quindi, è noto che quella soldataglia sia molto coesa. Se dovesse succedere qualcosa ad uno dei suoi ufficiali medici, il Comandante non se ne starebbe inerte. Già ci sta infestando con i suoi ridicoli dispacci… una cosa fastidiosa, specialmente per il nostro buon Lovof. A proposito: non è buona cosa che un fratello sia oggetto di denunce, questo ci porta disonore.»

Il Re fece spallucce.

«A Lovof ci penseremo… dopo. Quanto all’ufficiale impiccione, lo terremo d’occhio. Ma una cosa alla volta, però. E adesso, se volete scusarmi, vorrei finire in santa pace questo fregio, mi deconcentrate.»

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Capitolo 10
*** X. No, non muore mai la musica. ***


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Il popolo di Mitras si era tutto riversato per le strade della capitale, addobbata a festa.

Quell’anno i festeggiamenti erano stati organizzati con sfarzo e abbondanza, visto il settantesimo anno di età compiuto dal sovrano. Festoni di fiori profumati, nastri colorati, gonfaloni, pali della cuccagna, fiere, bancarelle, giocolieri per le strade, cantanti e mimi, prestigiatori e mangiafuoco: ecco che ogni via, ogni piazza, ogni vicolo offriva colori, profumi, prelibatezze da gustare e spettacoli cui assistere.

Intere famiglie riscoprivano il gusto del gioco e del divertimento, in attesa della più grande attrazione, che di lì a poco si sarebbe svolta: tutto era pronto per le parate militari, cui avrebbe assistito lo stesso sovrano, assiso su un trono marmoreo posto su un palco innalzato e addobbato con grande sfarzo, in modo da poter a sua volta essere visto, anche a distanza, e venerato dalla popolazione come un idolo.

Le caserme dei tre ordini dell’Esercito erano in fibrillazione.

Da prima dell’alba i soldati cominciavano già ad affluire nella capitale, nella loro alta uniforme.

Erwin Smith era davvero splendido nella sua lunga duchesse in tessuto doppiato verde oliva, con lo stemma delle Ali della Libertà ricamato con la tecnica a rondine, oltre alle mostrine contrassegnanti il suo grado militare di comandante: pareva, così, ancora più alto ed imponente.

La stessa Meti aveva abbandonato il consueto camice bianco, contrassegnato sul davanti da una mostrina raffigurante lo stemma del Corpo di Ricerca, e sulla spalla destra il ricamo di una piccola croce rossa, che era solita indossare sopra un completo costituito da calzoni e da una camicia, anch’essi candidi, con semplici stivali di cuoio: in quell’occasione, infatti, sfoggiava l’alta uniforme femminile dei medici militari, sobria ma molto elegante, costituita da una lunga redingote candida, con un magnifico stemma delle ali incrociate ricamato sulla schiena, sopra dei calzoni neri e stivali anch’essi neri, di pelle spazzolata.

Levi sembrava essere un gentiluomo: l’allure innata che lo contraddistingueva appariva ora magnificata dall’alta uniforme. Al vederlo, Hanji Zoe gli zufolò dietro, in segno di apprezzamento. «Sei uno schianto, piccoletto!»

«Lustrati quelle lenti, Quattrocchi, mi sa che ci vedi male!» bofonchiò lui, di rimando, un po’ imbarazzato. Non era abituato ai complimenti.

«Vai, vai da Smith… ad attenderti ci sono delle gran belle novità!» ridacchiò Hanji facendogli l’occhietto ed allontanandosi.

Levi la fissò interdetto, per poi recarsi, sbuffando, allo studio di Smith. Qui vi trovò il Comandante che stava mostrando a Meti dei documenti. Nonostante fossero ormai una coppia, Erwin e Meti sapevano custodire gelosamente il segreto della loro relazione e, soprattutto nei locali ad uso comune della caserma, riuscivano a mantenere un contegno assolutamente adeguato e discreto. Visti dall’esterno, non si sarebbe colto nulla di diverso in quello che avrebbe dovuto essere il consueto rapporto tra due ufficiali militari, così come era stato fra loro per molto tempo.

«Dovrai mostrargli questi documenti… ah, eccoti Levi, ti stavamo aspettando. Stavo dando a Meti questi documenti relativi all’albero genealogico della famiglia regnante, che ho reperito qualche tempo fa. Ma, come potrai vedere anche tu, ci sono molte falle, alcuni rami paiono come cancellati. Anche questi annali,» al che trasse fuori dei vecchi registri «risultano incompleti.» dichiarò, mostrando agli astanti le parti mancanti.

«Hm… mi chiedo come ti sia stato possibile riuscire a reperire questi documenti… dubito che la biblioteca di Mitras li metta a disposizione per il pubblico… Non mi sbaglio, vero?» chiese Levi, sbirciando i documenti, non troppo convinto.

«È stato Dot Pixis della Guarnigione, giusto?» a domanda aggiunse domanda Meti.

Erwin sorrise a tutti e due. «Sto affidando la missione alle persone giuste, vedo. E, comunque, vi preannuncio che non sarà più necessario incontrare Athiassy di nascosto.»

«Come sarebbe?» Meti era molto stupita. Lei e Levi si guardarono in faccia, perplessi.

«Sarebbe che gli ufficiali dell’Armata Ricognitiva sono stati invitati a un galà, la sera della Festa, alla Reggia. La Famiglia Reale ha invitato a palazzo tutti gli ufficiali dei tre Corpi dell’Esercito.»

«Allora io tolgo il disturbo, non sono un ufficiale e quindi non c’entro niente con questo invito.» Levi si girò sui tacchi, e stava per andarsene.

«Dove pensi di andare, Capitano Levi?»

Questi si voltò di scatto, fissandolo accigliato. Meti sorrise.

«Che cazzo hai detto?» brontolò.

Che scherzo era, quello?

In silenzio, Erwin Smith trasse fuori da un cassetto un documento. «Ecco qui il tuo grado. Ho fatto domanda per una tua promozione e me l’hanno accolta. Ovviamente, diventerai Capitano, ufficialmente intendo, solo oggi a conclusione delle parate, quando avranno luogo le promozioni dei soldati che si siano particolarmente distinti. Cosa che hai fatto tu, nelle ultime due ricognizioni. Le testimonianze del tuo valore come soldato rilasciate dai tuoi compagni d’arme hanno avvalorato la mia domanda che, come ti dicevo, è stata accolta».

«Non è passato un po’ troppo poco tempo, da quando sono qui, per farmi già promuovere?» bofonchiò Levi, malfidente.

Maledizione, cosa volevano da lui, ancora? Legarlo sempre di più?

Smith si risedette, sospirando leggermente. Accidenti, che osso duro questo piccoletto. «Questo non è un normale reparto dell’Esercito, dovresti averlo capito. Noi rischiamo la vita ogni minuto. Non abbiamo la possibilità di osservare i lenti tempi burocratici tipici di una normale vita militare. Nel Corpo di Ricerca le designazioni di capisquadra e capitani sono rapide, e predisposte per una risposta altrettanto rapida contro i Giganti. Come hai visto, per fare di me il Comandante, è stata sufficiente la parola di Keith Shadis, che mi ha designato come suo successore: se poi avesse ragione con questa sua decisione, beh… questo è un altro discorso. Quanto a te, senza ombra di dubbio, sei un militare fuori dall’ordinario: con te non è necessario attendere anni, per farti promuovere. Spero adesso di aver fugato i tuoi dubbi.»

Meti non disse nulla, non voleva apparire invadente nell’esprimere la sua opinione. Si limitò ad annuire alle parole di Erwin, persuasa che egli avesse preso una decisione giusta e ben ponderata, nei confronti di Levi. Quest’ultimo non si tolse dalla faccia un’espressione oltremodo scettica, ma almeno non discusse più, anche perché non sapeva cosa dire. Era troppo stupito anche per arrabbiarsi e protestare.

Una volta definiti gli ultimi piani, raggiunsero Hanji Zoe e Mike Zacharias, per recarsi insieme alla capitale in carrozza. Durante il tragitto, sia Levi che Meti stettero perlopiù in silenzio, a parte qualche sporadico intervento. Il primo rifletteva sugli ultimi accadimenti, mentre Meti non faceva che pensare all’anziano padre, che avrebbe rivisto quella sera stessa. Hanji Zoe era un fiume in piena, con Mike ed Erwin che cercavano invano di arginarne l’esuberanza, con risposte pacate e gentili, loro solite.

«Che ne dite? Eh? Potrei parlare dei Giganti, di quello che stavo esaminando… potrebbe interessare come argomento, no? E poi io avrei delle gran belle idee sul movimento tridimensionale, potrei parlare dei miei progetti per migliorarlo…»

«Alludi agli esplosivi che intendi utilizzare contro i Giganti, da integrare al movimento, giusto?» Mike si accarezzava il pizzetto biondo, nell’ascoltarla.

«Di sicuro saranno colpiti dalle tue idee…» concluse, diplomatico, il Comandante.

Mentre quei due parlottavano di armi e di Giganti, Smith guardò di fronte a sé gli altri due astanti. Levi se ne stava seduto composto e a braccia conserte, con una espressione indecifrabile sul volto. Di Meti vedeva il volto solo di profilo, dato che la donna guardava fuori dal finestrino, meditabonda. Non doveva essere facile, per lei, ritornare nella capitale, negli sfarzosi saloni della Reggia… e, soprattutto, rivedere l’anziano genitore dopo tanti anni.

Perdonami. Perdonami, amor mio. So di chiederti molto…

Erwin era stupito da se stesso. Chiamare “amore” una donna, un’altra dopo tanti anni, dopo Marie… nonostante egli avesse deciso, tanto tempo prima, di consacrarsi alla missione di liberare l’Umanità dai Giganti. L’aspirante martire si riscopriva uomo, e proprio come uomo desiderava essere felice: o, almeno, provare ad esserlo, a dispetto di tutto e di tutti.

Una volta giunti a destinazione, quasi non riuscivano a comunicare tra loro per il baccano, la musica, i fucili fatti sparare a salve dalla Gendarmeria. Erwin impartì le ultime disposizioni per le parate. Dopodiché si congedò, chiedendo discretamente a Meti di seguirlo. Ciangottando, Hanji si trascinò dietro Mike e Levi, il primo sorridente, il secondo palesemente scocciato, per andare a fare un brindisi in qualche taverna in onore della promozione di Levi.

Prima di quattro ore la parata non avrebbe avuto luogo: gli ordini erano stati impartiti in modo preciso ed inappuntabile per l’ultima volta la sera precedente, dopo un metodico addestramento durato per molti giorni. Tutto sarebbe stato perfetto: ora Erwin e Meti potevano ritagliarsi un po’ di tempo, da soli, in un contesto un po’ diverso e ben più romantico, come una sorta di piccola fuga d’amore tutta per loro, come se fossero un uomo e una donna comuni, e non due ufficiali del Corpo di Ricerca, resi ora un po’ più folli e spensierati grazie al sentimento che stavano vivendo l’uno per l’altra.

All’insaputa del medico, infatti, Smith aveva affittato un piccolo parco privato, reso chiuso ed impenetrabile non solo dall’alto muro di cinta, ma anche da un folto querceto.

Viottoli ben disegnati costeggiavano un magnifico giardino, molto curato, ove si trovavano giochi d’acqua, graziose statue di pietra, fiori magnifici, piante rigogliose e, per la suprema gioia di Meti, molte specie di erbe medicinali ed officinali, alcune molto rare. La donna era elettrizzata, rideva ed esprimeva ad alta voce la sua felicità: praticamente un’intera farmacia ambulante era lì, a sua completa disposizione, dato che nell’affitto versato da Smith era compresa anche la possibilità di raccogliere fiori ed erbe, ovviamente senza esagerare. Per questo l’uomo aveva portato con sé un paio di bisacce di cuoio, che avevano incuriosito Meti.

«Guarda, Erwin! Qui abbiamo della genziana e della enula, sono antipiretici fenomenali! Ma quello è un albero di neem: con le sue bacche posso curare molte malattie della pelle! C’è un fantastico antinfiammatorio, l’artiglio del diavolo! Radici di belladonna, perfette per meningiti e convulsioni… e radici di mandragora, con queste ci faccio un bel sedativo… uh, ma questa è una pitanga, una pianta rarissima, e molto costosa: sai quante malattie al cavo orale posso curarci? Questo posto è il paradiso, non vorrei andarmene più!»

Erwin non l’aveva mai vista così, la seguiva con sguardo rapito di cespuglio in cespuglio, di aiuola in aiuola, di albero in albero: le si formavano deliziose fossette sulle gote, segno che sorrideva e rideva apertamente, come una quindicenne ridente e spensierata. Non gli era mai apparsa così bella. Lei lo raggiunse e gli buttò le braccia al collo.

«Grazie… per essere così meraviglioso… Adesso però vieni…» gli mormorò, con una calda luce negli occhi.

«Cos’hai in mente, piccola strega?» le sussurrò lui, con un lieve sorriso, stringendola forte a sé. Lei si sciolse dall’abbraccio e, presolo per mano, lo condusse verso un angolo un po’ riparato, ove si dispiegava una folta distesa di botton d’oro, che riluceva nel cono d’ombra degli alberi. Meti si sentiva profondamente commossa. Seppur preso dalla sua missione e molto teso, Erwin aveva comunque pensato a lei, organizzandole una romantica sorpresa in quel piccolo eden.

Quel profumato mare dorato era davvero un posto meraviglioso, per potersi amare.

Cosa che fecero, mentre, in lontananza, qualcuno suonava un’antica ballata sulle note di un liuto.

No, non muore mai la musica (*).

Specialmente se si accompagna ad una carezza d’amore.

*****

La parata fu sensazionale.

L’aria di festa rendeva tutti euforici, come in preda ad una specie di fascinazione.

Mentre venivano fatti brillare, a salve, i cannoni della guarnigione, i soldati appartenenti ai tre reparti dell’Esercito sfilarono impettiti ed impeccabili nel ritmo sincopato della marcia, in perfetto sincrono, quasi come se fossero un unico corpo.

La nobiltà, seduta comodamente in posti riservati, osservava con aria sussiegosa i militari, come se si degnassero di assistere alla loro marcia per un puro atto di liberalità. Il Re assunse la sua solita maschera impassibile da marionetta, parte che ormai gli veniva facilissima da recitare. Athiassy, vestito sobriamente suo solito e quindi in contrasto con lo sfarzo e l’affettazione degli altri aristocratici, se ne stava seduto un po’ indietro e un po’ in disparte rispetto agli altri nobili.

Si sentiva stanco.

Riceveva larvate minacce un po’ da tutti i fronti: da Rod Reiss, amico solo di facciata; dagli Aristi, nemici dichiarati; da Kenny Ackerman, killer prezzolato… e, ovviamente, dal Re, finto pupazzo. Spesso agognava addormentarsi per sempre e raggiungere Nadine, la moglie amatissima, perduta molti anni prima.

Ma gli mancava terribilmente la sua Alphaia, la sua perla.

Sua figlia.

Quanti anni erano trascorsi? Pensava meditabondo. Poi i suoi occhi la individuarono: quello era infatti il turno della sfilata dei medici ed infermieri militari dei tre corpi dell’Esercito. Dopo i corpulenti ed altezzosi ufficiali medici della Gendarmeria, fu il turno dei medici della Guarnigione e poi di quelli del Corpo di Ricerca.

La sua ragazza stava marciando, al fianco di un anziano e distinto signore. Dietro di loro, marciavano dei giovani medici tirocinanti e alcuni infermieri.

Come si era fatta bella.

Anche più bella di quando era ancora acerba.

I capelli neri e lucidi come le penne di un corvo, di un riccio morbido, erano sempre folti come quando era bambina. Pelle candida e occhi d’ardesia, ereditati da sua madre, la ormai defunta da tempo contessa Oikia Vetis.

Un po’ troppo dimagrita, rispetto a un tempo; ma eccola, dritta e fiera, con un vago sorriso sulle labbra.

Gli occhi gli si riempirono di lacrime, soprattutto quando si accorse che essa zoppicava leggermente, e questo nonostante il suo dolce sorriso, tipico di chi non teme nulla.

Aveva trovato la propria strada, la sua Alphaia.

Avrebbero avuto un'altra possibilità, ancora e di nuovo, come padre e figlia?

*****

Dopo la parata dei tre ordini dell’Esercito, il Generalissimo Zackely si degnò, finalmente, di alzarsi dal suo scranno e di scendere sulla piazza, ove si sarebbe tenuta la cerimonia delle promozioni. Era un uomo anziano dal viso con tratti piacevoli, con una barba candida, di media statura e di corporatura robusta. Nella sua bella uniforme appariva autorevole e severo, un po’ come una sorta di padre putativo dei soldati. I soldati meritevoli di medaglie e promozioni, appartenenti ai tre Corpi, si disposero rigidamente sull’attenti, in una disposizione precisa al millimetro.

Levi aveva uno sguardo indecifrabile.

Guardava di fronte a sé, in un punto indefinito, pur senza farsi sfuggire nulla.

Non sapeva bene ancora cosa pensare.

Non era mai stato un uomo particolarmente ambizioso: quando viveva nei Sotterranei la sua massima aspirazione era stata quella di sopravvivere giorno per giorno, di mettere insieme il pranzo con la cena, di vivere in una casa tranquilla e pulita, e di non prendersi una coltellata di troppo.

Adesso si ritrovava ben incardinato in un sistema fatto di regole, direttive, norme comportamentali, ove addirittura egli stesso veniva apprezzato e messo in luce come forte soldato e uomo coraggioso.

Man mano che i soldati venivano onorificati, assumevano la posa del giuramento, con la mano destra stretta a pugno poco sopra il proprio cuore, per significare la dedizione assoluta e il senso del sacrificio estremo.

«Io ti faccio Capitano del Corpo di Ricerca, nel nome di Sua Maestà. Porta con onore il Tuo grado, Capitano Levi»

Dato lo scarso divario di statura tra i due, essendo Zackely poco più alto di Levi, poterono fissarsi negli occhi, a vicenda, con sguardi gelidi. Rigido, Levi scattò nella posa tipica del giuramento.

Gliela avrebbe fatta vedere lui, a quel vecchio infame, cosa avrebbe significato combattere con onore autentico, senza compromessi.

Questo spettacolo fu osservato con curiosità ed emozione, a qualche metro di distanza, da un paio di dolci occhi ambrati, così da meglio imprimerselo nel cuore.

*****

Non si sentirono molto a loro agio, a dir la verità, in quel perfetto galà: quello non era il loro ambiente, e tanta ostentazione di perfezione ed eleganza, se si è abituati alla vita semplice e quasi frugale della caserma, non poteva che intimidirli. Mike specialmente, che aspirava a pieni polmoni profumi raffinati esalati da corpi avvezzi a cosmetici di lusso e da vivande prelibate, si sentiva troppo grande e troppo goffo in mezzo a tutti quei gingilli.

Anche i militari della Guarnigione si sentivano un po’ a disagio, anche se cercavano di nasconderlo con un atteggiamento più disinvolto. Gli ufficiali della Gendarmeria, invece, quasi non si degnarono di salutare i colleghi degli altri reparti dell’Esercito, gareggiando in altezzosità con i nobili della Corte.

Hanji notava tutto questo e ne era sinceramente divertita: non la smetteva con le battute caustiche, che strapparono qualche sorriso a Smith e ad Hervert, arrivato quest’ultimo da poco: la caposquadra ne avrebbe avuti per un bel pezzo di aneddoti da raccontare su tutti quei pomposi ricconi dall’espressione antipatica!

Levi si guardava intorno, cercando di dominarsi.

Rabbia.

Una rabbia furiosa lo stava assalendo, fin quasi al parossismo. Ecco il prezzo di tante vite miserevoli, costrette a vivere nel buio dei Sotterranei. Era palpabile, giusto lì, quel prezzo maledetto.

Smith gli dette una leggera pacca, avendo intuito il malessere del suo Capitano. Levi si volse accigliato ed incontrò il luminoso sguardo di Smith.

“Ti capisco” gli disse con gli occhi.

Del resto, quel prezzo maledetto lo aveva pagato pure lui, anni addietro, con la vita di suo padre.

L’unica che pareva avere uno sguardo indifferente era solo Meti.

Non era cambiato nulla.

Sempre le stesse espressioni annoiate; le palpebre pesanti di chi dorme troppo, non avendo nulla da fare.

Corpi sani e ben pasciuti.

Scollature generose per far spazio a collane di diamanti.

Seta e velluto, broccati e damaschi. Colori e colori: un mal di testa di giallo, porpora, oro, rosso, indaco… parevano variopinti pappagalli in una voliera tutta d’oro.

Tutto questo immane palcoscenico si dispiegava agli astanti, mentre l’orchestra, un po’ sopraelevata rispetto alla sala, dava il meglio di sé con raffinate sinfonie, e i valletti servivano gli ospiti di ogni squisitezza immaginabile.

Meti sapeva anche quanta cattiveria riuscisse ad essere ben celata dai modi affettati e dal bon ton tanto ostentato. Per questo era fuggita. E sarebbe fuggita ancora.

Alla fine lo vide.

Se ne stava vicino ad un’ampia vetrata, incorniciata da pesanti tendaggi di velluto rosso.

Athiassy la scrutò con occhi tanto simili ai propri…

Meti si mosse lentamente per raggiungerlo.

Smith osservò la scena, provando emozione per la sua donna. Forse non era poi stata una cattiva idea: almeno lei poteva ancora recuperarlo, suo padre. Lui no.

Era felice per Meti, per questa nuova possibilità: lui avrebbe dato l’anima, per poter riavere suo padre… ancora una volta.


*****


Note (*): citazione di Arturo Toscanini.

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Capitolo 11
*** XI. Ricordare è vivere ***


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Si fissarono per qualche istante. Non era facile, per nessuno dei due.

«Alphaia.»

«Padre.»

«Come inizio non è male. Ma potremmo fare di meglio, non credi?» le sorrise con dolcezza.

Lei annuì. Si lasciò condurre ad una saletta laterale, tranquilla e silenziosa. Si sedettero su un divanetto. L’imbarazzo e la tensione erano palpabili, ma anche molta emozione. Timidamente, il vecchio conte posò la mano su quella della figlia, appoggiata sulla seduta del canapè, per stringergliela forte.

«Sono felice di vedere che stai bene, sono sempre stato in pensiero per te… mai una parola, figlia… mai …» lacrime silenziose gli rigarono il volto, appassito ma ancora bello.

Meti non riusciva a piangere: era come se le lacrime le si fossero congelate dentro. Ma non ritrasse la mano. Chinò il capo, sotto il peso della colpa. Quando finisce lo spirito di ribellione ed inizia l’ingratitudine?

«Mi dispiace.» mormorò. Non riuscì a dire altro. Si sentiva stringere il cuore in una morsa.

«Dobbiamo rivederci. Ma a casa nostra. Qui ci sono troppe orecchie. Sarà possibile per te avere una licenza?»

«Certo… da anni non ne chiedo una. Me la accorderanno di sicuro!»

Goram sorrise, sollevato. «Ne sono contento… così potremo stare un po’ insieme… Dimmi: sei… sei felice? So che anni fa sei rimasta vedova.»

«Come lo sai? Mi hai fatto spiare?» sbottò lei, ritrovando l’antico spirito ribelle dei suoi diciott’anni.

Il padre la guardò con infinita tenerezza: eccoli di nuovo a discutere, come diversi anni prima. «Esatto. Non ti ho mai persa di vista, figlia mia. Sono sempre riuscito ad avere qualche notizia, su di te.»

Lei lo scrutò, provando una fitta al cuore nel vederlo così dimagrito, invecchiato, incurvato. Un giorno l’ordine naturale delle cose glielo avrebbe portato via per sempre. La sua intransigenza giovanile l’aveva resa dura e cattiva verso un padre che aveva solo cercato di fare il meglio per lei, anche se secondo antiche e sorpassate convenzioni sociali. Dopo tutto, i matrimoni combinati erano la regola, nel ceto sociale degli aristocratici: suo padre aveva semplicemente osservato delle usanze ormai consolidate, credendo di fare la cosa giusta.

«Diciamo che sì… adesso sono di nuovo felice, dopo molto tempo. Anche se ho paura di perdere tutto, ancora una volta.» le tremò la voce.

Il conte annuì.

«È normale avere paura, quando si è felici. La condizione umana sa trascinarsi ogni giorno, incessantemente. Ma ecco che se all’orizzonte si profila la possibilità di beffare il destino, e di sentirsi in pace con il mondo, si teme di perdere questo stato di grazia, che non ci confà. E ora dimmi una cosa: durante la parata ho visto che zoppicavi un po’. Come mai, ti sei fatta male?» le chiese, preoccupato.

Meti sorrise, per cercare di non turbarlo troppo.

«Non è nulla di grave… vedi, anni fa, mentre stavo soccorrendo un soldato durante una missione, un gigante mi diede un calcio. Per il trauma il mio bacino non si è più rinsaldato in modo perfetto e così se sono stanca o in piedi da molte ore, oppure se cammino molto, mi capita di zoppicare un poco. Ma sto bene, non devi preoccuparti, posso lavorare tranquillamente. Solo che non posso più cavalcare, se non al massimo al trotto e all’amazzone, per non sforzare troppo l’ossatura dell’anca, che mi è rimasta delicata, con i movimenti del cavallo. Peccato, amavo cavalcare…»

Il padre, in silenzio, le accarezzò la gota, annuendo. «Alphaia mia, devi farmi una promessa.»

«Dimmi…»

«Non devi tornare a vivere a Mitras, mai più.»

Meti batté le palpebre, visibilmente perplessa. Di tutte le richieste possibili rivoltele dal padre, mai se ne sarebbe aspettata una del genere.

«Promettimelo.» quasi le intimò, fissandola negli occhi.

«Va bene… te lo prometto… papà.»

*****

«Comandante Smith. Ti trovo bene, nella tua fiammante uniforme nuova. Hai ottenuto quello che volevi?»

Con queste parole, Erwin si sentì apostrofare da Nicholas Lovof, intento a libare un corposo vino rosso. 

Il nobile era comodamente seduto su una bassa poltrona di velluto blu e fissava, da sotto in su, con chiara alterigia, l’alto militare biondo.

Erwin non si lasciò intimidire. In silenzio e senza batter ciglio, si limitò ad un impeccabile e dignitoso saluto militare all’indirizzo del duca, per poi voltarsi ed andarsene.

Nel frattempo, nel buio notturno dei cieli di Mitras esplodevano, nel fuoco, fiori colorati, che i buoni cittadini miravano, a coronamento di una giornata perfetta.

****

Qualche ora più tardi, raggomitolata tra le braccia di Erwin, Meti ripensava all’incontro con l’anziano genitore. Adesso si trovavano, tutti loro ufficiali, ospitati presso un’ala della Reggia. Meti era stata raggiunta dal suo uomo nella bella e lussuosa camera degli ospiti che dava su un delizioso e raccolto giardinetto.

Con immensa gioia di Hanji, la sua stanza era giusto a fianco di una piccola ma fornita biblioteca: praticamente, aveva trascorso tutta la notte leggendo quanti più testi scientifici possibili, anche a costo di farsi saltare le sinapsi.

Mike non si era ritirato a dormire in stanza: aveva preferito affrontare la calda notte estiva all’aperto, sotto un odoroso albero di cedro: dopo aver annusato l’aria, si era addormentato, più che soddisfatto.

Quanto a Levi, la camera assegnatagli era linda e in ordine, oltre che indubbiamente confortevole: nessun granello di polvere era rimasto attaccato alle sue dita, dopo il consueto test di pulizia. Faticò ad addormentarsi, ma è pur vero che non è affatto facile adattarsi ai comfort del lusso, dopo una vita in situazioni disagevoli.

Nel bel mezzo della notte, mentre una calma apparente avvolgeva il Palazzo Reale, si sentì un urlo, accompagnato da voci concitate.

«Il Duca!»

«Hanno assassinato il Duca!»

«Presto, fate presto!»

Nel giro di pochi minuti, i militari del Corpo di Gendarmeria si sparsero per tutta la Reggia, alla ricerca del colpevole, cui si aggiunsero gli ufficiali ospiti della Guarnigione e dell’Armata Ricognitiva. Meti andò a constatare lo stato di decesso del nobile. Proprio un lavoretto con i fiocchi: Lovof era stato sgozzato come un maiale. La carotide era stata tranciata di netto, con un colpo preciso e pulito: una mossa da sicario professionista. La raggiunse l’anziano padre, che impallidì.

«Nicholas…» mormorò.

A cosa ti sono serviti i tuoi maneggi, il tuo denaro, la tua alterigia?

In silenzio, Meti ricoprì il corpo del duca con un lenzuolo candido. «Vado a preparare il rapporto sul decesso. Padre…» al che trasse il conte un po’ in disparte, mentre gli astanti fissavano il sudario, ancora increduli, «credo che dovremo anticipare il nostro incontro, il prima possibile.» gli sussurrò.

****

Furono organizzati i funerali di Stato in onore del duca, e fu indetta un’inchiesta, per scoprire il responsabile del suo omicidio. Il ruolo di capro espiatorio venne ricoperto da un anziano affittuario agricolo del duca, cui doveva molto denaro, e che, poco tempo prima, aveva avuto la malaugurata idea di insultarlo pubblicamente, dandogli dell’uomo avido e dell’approfittatore, e di minacciarlo di morte, in uno sfogo personale comprensibile ed umano, ma assai imprudente. Essendo stato presente alla Reggia in occasione dei festeggiamenti per la consegna, alle cucine reali, dei suoi prodotti ortofrutticoli, fu molto semplice imprigionare quel povero disgraziato, torturarlo e fargli confessare un delitto mai commesso. La sua condanna a morte fu pressoché automatica, anche in forza delle testimonianze dei cittadini che, all’epoca dei fatti, avevano assistito alla sua aggressione verbale nei confronti del duca. Ma il poveretto non ci arrivò mai, al patibolo. La mattina dell’esecuzione, i guardiani della Gendarmeria che avrebbero dovuto portarlo sul palco dell’impiccagione, lo trovarono bell’e morto nella sua cella: un provvidenziale infarto lo aveva risparmiato dall’esecuzione e dal pubblico ludibrio.

****

«Ho bisogno di una licenza.»

Meti era nel suo laboratorio, con l’alta figura di Smith che la osservava, appoggiato allo stipite della porta. La donna era intenta a terminare il riordino dell’archivio dei medicinali.

«C’è bisogno di chiederla?» le sorrise. Adorava la sua espressione concentrata, la stessa che tanto lo aveva colpito al loro primo incontro, alcuni anni prima. Gli occhi di Meti diventavano, se possibile, di un blu ancora più scuro ed intenso, ai limiti del violaceo, quando la donna era assorta nel suo lavoro.

Meti si voltò a guardarlo. «Erwin… non dimentichiamo chi siamo»

Il tono era serio, impersonale, mentre riponeva lo schedario dei farmaci in un cassetto.

«Fuori dal letto siamo un comandante e un ufficiale medico. Non voglio assolutamente dei favoritismi. Se ritieni che io possa avere una breve licenza, bene. Sennò vorrà dire che farò diversamente, per poter incontrare di nuovo mio padre. Te ne avevo parlato, ricordi? Alla festa, mio padre ed io non abbiamo ritenuto di approfondire certi argomenti, per tema di essere spiati… poi, hai visto cos’è accaduto al duca, no? Dobbiamo essere molto prudenti e discreti. Forse Lovof si era messo di traverso con gli Aristi e con il sovrano… e forse i suoi maneggi lo avevano esposto sin troppo, tanto da portare i suoi stessi pari ad eliminarlo. Le nostre sono solo ipotesi, ma tant’è. Solo che non voglio che mio padre faccia la stessa fine. Per questo è necessario che io lo incontri in privato.»

Smith la scrutò, a braccia conserte. Sapeva essere ben volitiva, la sua dolce dottoressa.

«Meti… la tua licenza è più che accordata. Sai benissimo che abbiamo assoluta necessità di risposte, che solo tuo padre può darci. Lui sa che abbiamo bisogno del suo aiuto: gli avevo scritto proprio per questo, dato che Pixis ed io avevamo rivenuto il nome della vostra casata in stralci di antichi documenti, reperiti con molto lavoro e con molta fatica dall’intelligence della Guarnigione. Organizzati come preferisci e vai pure da tuo padre, insieme al Capitano.» le disse, pacato.

«Ti ringrazio: però solo a una condizione.» sospirò la donna.

«E sarebbe?» domandò lui, perplesso.

«Voglio andarci da sola. Niente Levi.»

«Non se ne parla» Erwin sciolse le braccia per andare a posare le mani sulle spalle di lei, traendola a sé.

Ma Meti fu irremovibile.

«Se fossi accompagnata da Levi o da chiunque altro, desterei dei sospetti. Preferisco incontrare mio padre non a Mitras ma nella sua tenuta di campagna, come semplice civile. Niente divisa e niente armi. Sarò una donna comune che va in visita al suo anziano genitore. Se adesso mi muovessi in uniforme e scortata dal Capitano Levi, capisci bene che daremmo troppo nell’occhio.»

«È troppo pericoloso…» mormorò Erwin, pur ammettendo a se stesso che la donna potesse avere ragione.

«Saprò cavarmela, so badare a me stessa. Per favore: non complichiamoci inutilmente le cose.» Sollevandosi sulle punte dei piedi, gli diede un lieve bacio a fior di labbra, e uscì dal laboratorio.

Smith si sentì in trappola nella rete da lui stesso ordita: aveva organizzato tutto affinché Athiassy rivelasse quanto sapesse alla figlia… ed ora si stava pentendo di tale scelta.

Niente rimpianti, Comandante Smith?

****

Lasciò la caserma il giorno seguente, di primo mattino.

Aveva dismesso il camice d’ordinanza e il consueto abbigliamento militare, per indossare un grazioso abito celeste con una leggera stampa a fiori ed uno scialle candido: pareva più giovane e vulnerabile, così spogliata della sua divisa. Era importante, per lei, poter finalmente parlare con il padre. Questa esigenza l’aveva tenuta nascosta, dentro di sé, per anni, mentendo a se stessa e soffocando la nostalgia che spesso sentiva assalirla. Ma dopo averlo rivisto, anche se per poco tempo, Meti si era sentita travolgere dal rimorso e dal senso di colpa. Non era solo per avere delle risposte ai molti interrogativi sulle tre cittadelle, sui nobili e sul sovrano, che Meti volesse rivedere il padre. Pur essendo consapevole che quasi vent’anni di separazione non avrebbero potuto essere colmati da un semplice incontro, sentiva il bisogno di riallacciare i rapporti, almeno in qualche modo. Da bambina, rimasta precocemente orfana di madre, si era molto attaccata al padre, che aveva letteralmente adorato. Da ragazza, però, aveva preso coscienza dell’ipocrisia e del falso perbenismo della classe aristocratica di Mitras, che aveva iniziato a frequentare una volta fatto il suo debutto in società come fanciulla nobile.

Non gradì che le venisse proposto, come sposo, l’insulso rampollo di una famiglia molto potente e nota per la prepotenza e l’arroganza verso i comuni cittadini. Quando poi il padre le ebbe rivelato che il sovrano era, in realtà, un impostore, Meti aveva preso la sua decisione.

Pensava a tutte queste cose, mentre si avviava, su un anonimo carretto, alla vecchia tenuta di campagna, ove era solita trascorrere l’estate quando viveva con il padre. Dopo un tragitto durato quasi tre giorni, durante i quali aveva pernottato lungo la via in locande periferiche, arrivò, stanca ed impolverata, all’antica magione.

Eccola.

Sembrava che il tempo si fosse fermato. Era ancora lì, la villa Athiassy di campagna, bianca e con i suoi graziosi tetti rossi, con il lato ovest ricoperto interamente dall’edera rampicante, con i suoi meleti e, soprattutto, con quelle belle rose che sua madre tanto aveva amato e curato di persona. Quasi come se il padre avesse previsto il suo arrivo, se lo ritrovò, ritto sulla soglia di casa, ad attenderla, insieme ad un paio di anziani servitori, commossi di rivedere la loro padroncina dopo tanti anni.

La commozione la travolse.

Non era riuscita ad abbracciarlo, la sera della festa.

La Reggia non era stata degna di vedere qualcosa di più di un loro incontro trattenuto e poco spontaneo. Ma nella vecchia casa delle loro estati del passato… era ben diverso. Si strinsero forte.

«Sarai stanca… ora vai a riposarti, magari dopo un bel bagno.» il vecchio conte le accarezzò il viso, come quando era bambina.

«Bentornata, contessina» l’anziana governante aveva gli occhi lucidi.

«La vostra stanza vi sta aspettando …. Non è cambiato nulla …»

«Grazie. Sono felice di rivedervi. Vi trovo bene» Meti sorrise all’alta governante e al distinto maggiordomo.

Dopo un bagno ristoratore profumato di olii essenziali, Meti si rifugiò nella sua stanza di ragazza. Era tutto così fermo a prima. Gli oggetti di uso quotidiano erano rimasti posati nello stesso modo di tanti anni addietro. La spazzola d’argento e bosso posta a sinistra del piumino da cipria, sulla toilette di betulla laccata. La poltroncina ricoperta da un foulard azzurro. L’ultimo libro letto riposto sul tavolino. Meti lo prese in mano: era un libro di poesie d’amore, letto con particolare trasporto, avendo da poco conosciuto Basil. Al suo ritorno a Mitras qualche settimana dopo, al palazzo padronale, avrebbe poi abbandonato tutto: aveva appena compiuto diciott’anni. Si sedette sul bordo del letto dal copriletto di candido merletto. Cosa era rimasto della ragazza viziata e coccolata, circondata solo da cose belle, da agi e da sorrisi? Poco o nulla.

Ma, a ripensarci bene, Meti non aveva rimpianti.

Se avesse potuto tornare indietro, l’unica scelta diversa che avrebbe preso sarebbe stata quella di mantenere i contatti con il padre. Ma non avrebbe rinunciato a Basil, né agli studi di medicina, né alla vita militare.

E neppure ad Erwin.

A nessun costo.

****

Erwin Smith si volse a scrutare i suoi capisquadra, con un luminoso sguardo dei grandi occhi azzurri.

In piedi, a fianco della lavagna, aveva appena spiegato come affrontare, per il futuro, le ricognizioni all’Esterno, dopo aver tracciato con un gessetto le disposizioni delle squadre ricognitive. Era necessario, in primo luogo, cercare per quanto possibile di ridurre al massimo le perdite. Le continue falcidie di giovani vite avevano reso impossibile la vita a Keith Shadis, al punto da indurlo alle dimissioni. Troppe morti, e senza “nessun risultato”.

Tutto questo doveva finire.

Per giorni e notti, Smith aveva studiato soluzioni e stratagemmi, per rendere più efficaci le missioni, col minimo dispendio di risorse ed energie e, possibilmente, nell’ottica di riportare i soldati sani e salvi al rientro dalle missioni. Aveva quindi escogitato l’uso di fumogeni di diverso colore da portare unitamente al movimento tridimensionale, a seconda dell’azione da compiere nel corso della missione: spiegò ai capisquadra quali razzi utilizzare e di quale colore, in modo da poter segnalare a distanza quanto necessario per poter agire tempestivamente e bene, come l’arrivo di un gigante, l’urgenza di una ritirata o la presenza di feriti da recuperare. All’epoca di Shadis, infatti, l’uso dei fumogeni, seppur già previsto, era limitato solo alla segnalazione di Giganti in arrivo: ma Smith comprese che tale stratagemma andasse ulteriormente perfezionato e reso più articolato.

Smith si era reso conto, altresì, che lo squadrone di ricognizione avrebbe dovuto essere, d’ora in poi, più dinamico e snodabile, suddiviso in vari fronti, in modo da potersi adattare in modo più elastico alle emergenze: il corpo unico fino ad allora adottato dalla Legione Esplorativa ed applicato pedissequamente da Keith Shadis non poteva più essere utilizzato, in quanto obsoleto, poco efficace e foriero di grandi perdite, in termini di uomini, cavalli ed attrezzature.

Come avanguardia, avrebbe avanzato in testa la squadra di prima linea, seguita dalle squadre di supporto; il comandante, coadiuvato da una piccola scorta, si sarebbe trovato proprio nel corpo centrale, ed avrebbe monitorato tutta la situazione, modificando al momento movimenti e strategie; dietro di lui si sarebbero mossi i soldati semplici e le nuove reclute, il cui compito sarebbe consistito nel sparare i fumogeni di diverso colore, per comunicare tra loro la presenza dei Giganti o le nuove traiettorie da seguire, secondo le direttive del comandante.

In retroguardia si sarebbero mossi i carri, dotati di efficaci sospensioni e trainati da due cavalli ciascuno, contenenti tutti i rifornimenti necessari per le spedizioni, quali cibo, armi, gas, lame, forniture mediche: essi avrebbero avuto la protezione di squadre ad hoc. Gli ufficiali pendevano letteralmente dalle labbra del loro nuovo Comandante.

Egli sapeva spiegare in modo semplice e convincente le sue teorie, in modo da esser ben compreso dai sottoposti. Rispondeva con assoluta pazienza ad ogni domanda, cercava di fugare i loro dubbi e di rendere partecipi i suoi uomini: egli non faceva “cadere dall’alto” le proprie disposizioni, ma voleva che ogni soldato si sentisse parte di una squadra coesa. Ognuno poteva dire la sua e dare suggerimenti. Era il capo che cercavano da tempo, da seguire e ammirare. Le doti oratorie di Smith erano inconfutabili: egli sapeva quindi rendere onore alla memoria del suo sventurato padre, un insegnante che aveva dato una spiegazione di troppo.

«Non escludiamo neppure l’opportunità di costituire delle squadre speciali per azioni mirate. Di questo magari ne potremo parlare successivamente. Cosa ne pensate?»

Noi” e mai “io”.

Questa era la chiave di volta del nuovo Comandante, Erwin Smith.



Avviso per i gentili Lettori: la prossima settimana sarò all'Estero, per cui il prossimo aggiornamento avverrà in data 7 ottobre. Grazie di esserci, la Vostra vicinanza mi è di sprone per continuare a scrivere! innominetuo

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Capitolo 12
*** XII. Fort comme la mort* ***


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Una volta terminata la riunione, Erwin venne raggiunto da Levi, rimasto da solo ad attenderlo, mentre gli altri ufficiali avevano lasciato l’aula per andarsene in refettorio, essendo ormai quasi ora di cena.

«Non vedo Meti in giro da un po’.» chiosò il Capitano, con aria compunta.

«Non la vedi perché ora non c’è.» disse Smith, tetro.

Levi lo fissò, in attesa di una spiegazione, senza dire altro. Smith si incamminò, per andare al proprio studio privato, seguito dal compagno d'arme, e costeggiando il piccolo querceto.

«Meti è andata da suo padre. È partita l’altro ieri.» aggiunse atono il biondo Comandante, sforzandosi di parlare in tono impersonale. L’uomo cercava di mascherare, a se stesso e all’altro, la sua preoccupazione… inutilmente.

«Mi pare una gran cazzata, scusami tanto. Non dovevo mica accompagnarcela io?» sbottò Levi, brusco. Lo sguardo di Erwin, suo malgrado, si incupì.

«Lo so… ma lei non ha voluto. E, in un certo senso, ha anche ragione. Il suo intento era quello di passare inosservata, cosa che sarebbe stata vanificata da una scorta.»

«La morte di Lovof non è stata di monito? Se hanno fatto fuori un cazzo di duca ricco e potente e attorniato da scagnozzi, cosa vuoi che ci mettano ad eliminare un semplice medico, una donna, poi?» brontolò Levi. Era preoccupato anche lui, a questo punto: quella rompiballe di dottoressa poteva davvero correre dei seri rischi! Cosa le era venuto in mente di andarsene a spasso da sola, in mezzo alle malvagie cospirazioni di Mitras?

Smith si irrigidì, stringendo i pugni al punto da rendere bianche le nocche. Si girò ed afferrò Levi per il bavero, i lineamenti contratti.

«Non credi che vorrei essere io stesso a proteggerla? Ma non posso… non posso! Sono giorni che non chiudo occhio! Devo restare qui… fermo, ad aspettare! Posso solo sperare e pregare, non so neppure io quale dio, che non le accada nulla!»

Levi gli staccò le mani con un gesto secco, senza replicare e senza alterarsi. Capiva che il Comandante era in ambasce, e che non dovesse prendersela per i suoi modi.

«Scusami… scusami, Levi. Sono mortificato.» l’altro crollò. «Non ce l’ho con te, ma con me stesso. È solo colpa mia. Io l’ho messa in questa situazione, chiedendole di andare a parlare con suo padre, nonostante avesse rotto i rapporti con lui da molti anni … ma non potevo immaginare che sarebbero stati capaci addirittura di uccidere Lovof… altrimenti non glielo avrei mai chiesto. Il mio è stato un errore di valutazione e, se dovesse succederle qualcosa, non me lo perdonerei mai...»

Si voltò, a spalle curve, appoggiandosi al tronco di una grossa quercia, prostrato. Levi lo osservò, battendo le palpebre.

«Beh… io credo che ci sarebbe andata comunque.» dichiarò, alla fine, appoggiandosi all’albero a braccia conserte, al fianco di Smith. «Alla festa era contenta di aver rivisto suo padre, glielo si leggeva in faccia. Mi sa che volesse riallacciare con lui. Tu le hai solo dato la motivazione giusta per farlo.» gli dette una rapida pacca, per incoraggiamento: in quel momento, Erwin non era il suo superiore, ma un amico desideroso di una parola di conforto. E Levi sapeva essere empatico e sensibile con il prossimo, nonostante i suoi soliti atteggiamenti scostanti. «È una donna intelligente, vedrai che se la saprà cavare. Tornerà qui, sana e salva, più rompiballe che mai e a fare da chioccia a tutti quanti, con le sue medicine e i suoi consigli di “mangiare questo e quello”: ne sono certo.»

A quelle parole, Smith sorrise tristemente.

«Che qualsiasi dio ti ascolti, Levi.»

****

L’anziano uomo remava, di buona lena.

Meravigliosa cosa è sentirsi rinvigoriti, e nuovamente giovani e forti: remare in compagnia della donna più importante della tua vita, sotto un meraviglioso cielo azzurro e sentendo frinire le cicale di fine estate, era, infatti, quanto di più vicino alla tua idea di paradiso ci possa essere.

Specialmente se tua figlia, vestita in verde e con un cappellone in paglia per proteggere dal sole la pelle candida e delicata, ti sorride, ed allora ti sembra quasi di ritrovare i vecchi tempi andati, di quando lei era solo una bimba e tu eri ancora tutto il suo mondo.

Era bello ritrovare i gesti, le parole e i sorrisi di tanti anni prima.

L’ufficiale medico era, ancora e di nuovo, la tua bambina adorata, con le treccine nere chiuse da fiocchi di seta rossa.

Quella era stata una bellissima giornata, in cui avevano mangiato del buon pesce fritto e della frutta fresca: una bellissima giornata da coronare con un giretto in barca nel lago.

Il giorno prima era stato ben diverso.

In una lingua antica, nota solo a lui come discendente di un’antichissima famiglia, ed insegnata alla rampolla, in segreto, sin da piccola, Goram aveva svelato a Meti molte cose.

Di chi fosse, in realtà, il trono di Mitras.

Di cosa fossero fatti i Giganti.

Di come Re Fritz avesse obnubilato la memoria, a tutto il suo popolo.

Da quando ci fossero le Mura.

Goram non poté, tuttavia, svelare a Meti ciò di cui non era al corrente, ovvero da dove provenissero di preciso i Giganti.

Ma già solo venire a scoprire la loro vera natura, ovvero quella di essere delle proiezioni fisiche di esseri umani, da essi ospitati nella porzione di corpo costituita dalla nuca… ecco: già solo questo fu sufficiente a sconvolgere Meti, per sempre. Come potevano degli esseri umani essere così crudeli e immondi nei confronti di altri esseri umani, al punto da sbranarseli vivi, da farli a pezzi, da giocare con i loro cadaveri?

Per non parlare, poi, della verità sulle Mura: il suo defunto marito le aveva più volte esposto i suoi dubbi su di esse, soprattutto sui loro materiali. Meti si ripromise, una volta tornata a casa, di andare a fondo in quella faccenda: “incidente sul lavoro” compreso, che, anni addietro, le aveva strappato il suo Basil dalle braccia.

Gli Athiassy non erano originari delle Tre Cittadelle, ma di mondi esterni. La maledizione di antichissime guerre perpetrate dagli antenati dei loro alleati aveva indotto Re Fritz, cento anni addietro, ad annullare ogni traccia di memoria del popolo conosciuto. Peccato, però, che né gli Ackerman, né i Reiss per ovvie ragioni … né gli Athiassy potessero, per i poteri mentali loro peculiari, subire il lavaggio del cervello da parte dell’antico Re. La loro mente era, infatti, troppo forte e salda, per subire questa sorte di condizionamento psi, sia pure con i poteri del Gigante Fondatore. Mentre gli Ackerman avevano deciso di percorrere la loro strada di volta in volta decidendo come muoversi, se da soli o in sincrono con il potere corrente, almeno fin quando non iniziarono le persecuzioni in loro danno, dato che non avevano saputo occultare la loro reminiscenza, cosa che poi li costrinse a non più trasmetterla alle nuove generazioni, Reiss e gli Athiassy avevano stretto tra loro un patto di sangue: un’alleanza sacra, da perpetrare per il futuro.

Almeno sino ad allora.

Meti aveva ascoltato tutto, sempre più sconvolta e turbata. Alla fine, alla sua domanda di capire cos’altro potesse ancora esserci, il padre rispose con un nome.

Grisha Jaeger.

«Trova quest’uomo, so che è un medico, proprio come te. È lui la chiave di volta di tutto questo intricato mistero. Una volta sfuggì a Rod Reiss questo nome… durante una nostra conversazione. Diceva di essere molto preoccupato a causa di costui, soprattutto per la sua figliola prediletta… anche se non ne so il motivo.»

Meti aggrottò la fronte. «Ma non ho mai incontrato in vita mia nessuno con questo nome… conosco un po’ tutti i medici di Mitras… dove potrà aver mai frequentato la Scuola di Medicina?»

«Non qui, figlia mia. Non qui.» le precisò Goram, in un sussurro.

Dove, allora?

Meti provava un forte senso di disorientamento.

Evidentemente l’orizzonte andava ben oltre quanto conosciuto sinora, fuori dalle Mura… con altri paesi, altri popoli?

Quanto fosse accaduto il giorno prima, tuttavia, ora pareva quasi essere lontano nel tempo, come un pallido ricordo. Padre e figlia scivolavano sul lago, a bordo della graziosa barchetta, sorridendosi. Volevano riappropriarsi l’uno dell’altra, credendo di poter vivere serenamente il loro momento insieme, come erano soliti fare un tempo.

Era tutto così perfetto…

Fin quando non accadde che il vecchio non fosse impallidito, portandosi la mano al cuore, accasciandosi in avanti. Meti, nell’alzarsi in piedi per andare in soccorso del padre, urlando, venne quindi trafitta al fianco, poco sotto il seno destro, da una piccola freccia. L’impatto del colpo, insieme al suo repentino alzarsi in piedi, fu tale da farle perdere l’equilibrio e da farla sbalzar fuori dalla barchetta: Meti cadde in acqua, nel punto più profondo del lago.

****

Mesi dopo…


Finalmente ce l’aveva fatta.

Aveva brillantemente superato ogni prova, ed era figurata tra i primi dieci del suo gruppo di Addestramento, con piena facoltà di scegliere a quale Corpo dedicare la sua vita.

Il padre l’aveva scongiurata di chiedere di essere ammessa alla Gendarmeria.

Ma il suo cuore aveva già scelto.

L’Armata Ricognitiva l’attendeva. Soprattutto dopo quel giorno, quando i suoi grandi occhi d’ambra avevano incrociato uno sguardo d’acciaio.

Petra Ral era una fanciulla, a detta di molti, decisamente carina e simpatica. Ma il suo faccino dolce celava un carattere forte ed una volontà incrollabile. Lo aveva visto prestare giuramento come Capitano, tempo addietro, alla festa del Re cui la sua famiglia, oltre a poche altre, era stata ammessa a Mitras dopo un bando, una gara cioè per consentire a pochi fortunati degli altri distretti di accedere, in via eccezionale e come premio, alla Capitale in occasione dei festeggiamenti.

Non era più riuscita a pensare ad altro.

Dandosi mentalmente della stupida, dato che, a conti fatti, si era infatuata di un uomo appena intravisto, ma che l’aveva colpita sin nel profondo per lo sguardo fiero e per l’innegabile aura di fascino che emanava, Petra non era più riuscita ad essere la stessa.

Originaria del distretto di Karanes del Wall Rose, dopo aver supplicato fino allo sfinimento il padre, era riuscita a convincerlo a lasciarla iscrivere al Corpo di Addestramento, per poter diventare, a sua volta, un soldato. Si presentò quindi, di prima mattina, al Centro Reclute. Era molto emozionata, ma si sforzava di darsi un contegno.

«Come ti chiami, soldato?» le chiese Nanaba, che quel giorno era di turno all’Ufficio Reclutamento.

«Petra… Petra Ral, Signora.», le rispose lei sull’attenti, porgendole il suo diploma di recluta dal Corpo di Addestramento.

La Team Leader Nanaba la scrutò, un leggero sorriso aleggiante sul suo bel volto di bionda. «Recati all’Ufficio Guardaroba: ti faranno avere la nostra divisa della tua taglia, il movimento tridimensionale e le attrezzature, oltre a dei ricambi ed alla biancheria. Hannah, accompagnala e falle fare un giro per mostrare il refettorio, le camerate femminili e i bagni, la palestra e il campo di allenamento. Ti saranno assegnati un cavallo d’ordinanza ed uno di scorta.»

Hannah, una ragazza bruna ed allampanata, annuì alle parole del suo superiore.

Petra si rimise sull’attenti, sentendosi, finalmente, come parte di qualcosa di grande.

«Benvenuta tra noi» Nanaba accentuò il sorriso gentile.

Mentre Hannah ciacolava allegramente, mostrando al nuovo acquisto quanto più possibile della grande Caserma, Petra intravvide, da lontano, il Capitano Levi che avanzava a grandi passi verso il campo di allenamento, con aria accigliata, suo solito.

Pareva non osservare nulla, intorno a sé.

La fanciulla se ne rimase imbambolata a guardarlo, rallentando l’andatura senza quasi accorgersene.

Ci pensò Hannah a strattonarla leggermente. «Muoviamoci, dài, o non riuscirò a mostrarti tutto: tra due ore ci aspetta l’allenamento e dobbiamo essere puntuali!»

«Ehm… il Capitano Levi sarà presente… intendo dire, alle lezioni di allenamento?»

«Chi? Levi? No, non credo: anche se adesso ci sta andando, va solo per dare disposizioni e direttive agli allenatori. Lui si sta occupando di formare una sua squadra speciale, è occupatissimo! Dubito che avremo modo di rivederlo, nel corso della giornata …»

Osservò la giovane recluta, i suoi grandi occhi ambrati.

«Beh, di solito gli ufficiali si possono incontrare in refettorio, durante i pasti: è consuetudine che i legami tra noi, capi e sottoposti, si rinsaldino proprio in refettorio. E adesso basta chiacchiere: devo mostrarti la tua brandina: sei fortunata, ti è stata assegnata una postazione vicina alla finestra! Pensa un po’!»


****

Note dell’Autrice: * romanzo di Guy de Maupassant (1889)

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Capitolo 13
*** XIII. Άνάβασις ***


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Princess aveva perso la sua consueta vivacità.

Nonostante le cure di Levi, che si era auto-assunto in via esclusiva l’obbligo di darle da mangiare, di coccolarla e di spazzolarle il pelo, sebbene Meti l’avesse affidata anche ad Hanji, l’anziana micia, in assenza di Meti, era come assente, mangiava poco, giocava ancora meno e stava dimagrendo a vista d’occhio.

«Eddai su… io faccio del mio meglio» le disse il Capitano, prendendosela in braccio e facendole i grattini sotto il mento, cosa che la gatta accettava di buon grado, socchiudendo gli occhi. «Ma pure tu devi fare la tua parte. La tua padrona tornerà, devi avere pazienza… tu, e pure quell’altro

Porca miseria, dove cazzo sarà andata a finire? Non so fin quando Smith reggerà alla preoccupazione. Anche se temo che ormai non ci sia più molto da sperare.

Più volte Hanji e Mike, palesemente preoccupati, si erano proposti di andare a cercarla, ma lo stesso Smith, seppur con la morte nel cuore, aveva negato loro il permesso, dato che quello era un momento delicato, dovendo essere messe a frutto, nella primavera seguente, le prime missioni improntate sulle sue nuove strategie. Nessun soldato doveva lasciare la caserma, ogni braccio andava risparmiato per un fine superiore.

Chiuso nel suo studio e sforzandosi di concentrarsi in vista della prossima ricognizione, predisponendo piani di attacco e formazioni sempre più dinamiche, Erwin era roso dall’angoscia, anche se cercava di non far trapelare nulla. Soltanto Levi lo sapeva sconvolto, non avendo più avuto notizie della dottoressa Narses. Oramai erano passati quasi sei mesi dalla partenza di Meti: si stava andando verso la primavera, dopo un inverno abbastanza mite.

Erwin non voleva lasciarsi andare alla disperazione, anche se sapeva benissimo, in cuor suo, che Meti potesse esser morta. Non faceva altro che colpevolizzarsi. Si macerava dal rimorso per aver preteso da Meti di ricercare la verità, a suo stesso rischio e pericolo, specialmente dopo quanto accaduto al duca.

Malediceva quel suo io interiore col braccio alzato, pieno di domande sulla verità. Ma la ricerca della fottuta verità poteva ora avergli portato via la sua donna, e per sempre.

Lasciò cadere la penna, sporcando il foglio di inchiostro. Si cacciò le unghie nei capelli conficcandosele nel cuoio capelluto, stringendo gli occhi per ricacciare indietro lacrime brucianti. L’amore per Meti, che sapeva essere la sua forza e la sua fonte di ispirazione, ora gli si rivelava anche come rovescio della medaglia, dato che gli stava succhiando via energia e voglia di combattere.

Dove sei? Indicami la via, per poterti raggiungere… ovunque tu sia...

****

Per molti giorni non era riuscita a muoversi dal letto: la sua profonda ferita aveva faticato parecchio a rimarginarsi e a guarire.

Le capacità curative di Phil Haggins non potevano di certo neppure avvicinarsi a quelle di un medico condotto: tuttavia, era già un risultato positivo il fatto che la ferita non le avesse fatto infezione, essendole stati applicati, perlopiù, dei cataplasmi casalinghi, fatti con erbe e muschi.

Meti era stata tratta in salvo e ospitata nella casa di un umile contadino, vedovo e padre di tre bambini: fortuna volle che, al momento giusto, Phil si fosse risolto ad andare a pescar rane, vicino al canneto, per portare a tavola una zuppa un po’ più sostanziosa del solito. Fu lì che si accorse della presenza di uno strano involto verde, rivelatosi, più dappresso, come un corpo che galleggiava.

Un corpo di donna.

Fu ben lieto di scoprire di poter posare quel corpo su un giaciglio e non dentro ad una cassa di legno: invece di dare degna sepoltura ad una sventurata, avrebbe così potuto cercare di salvare una donna ferita e mezza annegata.

Meti aveva riaperto gli occhi solo dopo un paio di giorni: la prima cosa che vide fu una bimba bionda e riccioluta che la fissava, la quale le sorrise per poi correre a chiamare i fratellini più grandi. Alle gentili domande del capofamiglia, ritornato dai campi dopo qualche ora, Meti non seppe dare risposte adeguate: si sentiva confusa, dai sensi impastati… senza ricordare nulla, neppure il proprio nome. Fu un momento terribile per lei, che la ridusse in lacrime.

«Non ti preoccupare: guarirai e ricorderai. Devi solo stare tranquilla ed avere pazienza.» le aveva detto il contadino in tono gentile, con una luce calda nei begli occhi nocciola.

Phil era rimasto colpito dall’avvenenza della sua ospite. Di certo, con quella pelle candida e le mani piccole e delicate non poteva essere un’umile contadina. Il vestito indossato il giorno del ritrovamento era di buona fattura, cucito con cura: sebbene di foggia semplice, non era sicuramente un abito da lavoro.

L’uomo intuì che dovesse trattarsi di una giovane signora di città, molto probabilmente di buona famiglia e sposata, vista la fede che portava al dito: con molta probabilità, doveva esser stata strappata ai suoi cari da qualche malvivente, data la freccia che egli stesso, e non senza fatica, era riuscito ad estrarle dal corpo.

Ospite della piccola e tranquilla casetta, circondata dalle premure di due maschietti di dieci ed otto anni e di una adorabile bambina di cinque, perfettamente capaci di distoglierla dalle sue tetre riflessioni, Meti cercava di ricostruire il filo interrotto della sua vita.

Ma un passo alla volta, come le suggeriva, gentilmente, lo stesso Phil.

****

«Non si può andare avanti così. Lo capisci anche tu.»

Levi stava sorseggiando il suo tè.

Si sentiva piuttosto stanco, non era affatto una passeggiata selezionare soldati sceltissimi e sottoporli ad un estenuante addestramento, per formare la sua squadra speciale. Non voleva soldati veterani, ma giovani leve da forgiare a modo suo e con i suoi sistemi. Le selezioni erano state svolte a ritmo serrato per diversi giorni, e stava cercando di stringere il più possibile la rosa dei prescelti.

Ma vedere il suo comandante trasformarsi nell’ombra di se stesso non era più accettabile.

Erwin era visibilmente dimagrito, e sebbene cercasse in tutti i modi di non far trapelare nulla e di svolgere al meglio le sue funzioni, appariva come spento. Una volta espletate le sue mansioni quotidiane con le consuete sue precisione e metodicità, si ritirava nei propri alloggi: non consumava più i pasti in refettorio, come invece faceva prima, insieme ai suoi soldati.

Preferiva isolarsi il più possibile.

Né era in vena di chiacchierare con gli altri del più e del meno. La verità era anche che vedere ormai vuoto il posto solitamente occupato da Meti, alla sinistra di Ron Hervert, al tavolo della mensa riservato ai medici ed agli infermieri, gli faceva troppo male.

Soprattutto… era rimasto vuoto il posto tra le sue braccia, cosa che lo stava facendo impazzire di dolore.

«A cosa alludi?» dichiarò in tono piatto, senza alzare gli occhi da alcuni incartamenti.

Levi posò la tazza sul tavolino alla sua destra, per fissarlo socchiudendo gli occhi.

«Per favore. Non prendermi per il culo. Lo sai benissimo a cosa alludo.» replicò il Capitano, sardonico.

Erwin sollevò lo sguardo per fissare, a sua volta, la figura elegantemente seduta sul sofà di fronte alla scrivania.

«Non posso sapere cosa ti passi per la testa, quindi parla chiaro oppure taci.» replicò, secco, riordinando i fogli.

Levi non batté ciglio. Si chinò in avanti, appoggiando i gomiti sulle ginocchia, per fissare Smith ancora più intensamente.

«Vado a cercarla. Domattina parto all’alba, con una recluta che ho già scelto per il viaggio. Quindi piantala di fare il finto tonto e dammi l’autorizzazione per lasciare la caserma, non voglio perdere tempo prezioso a stare qui ad osservare il tuo mento mentre si allunga sempre più.»

«Io non ti do nessun permesso, già Zoe e Zacharias mi hanno fatto la stessa richiesta e io ho detto loro di no. Non posso far uscire soldati in un momento come questo per un motivo che esuli dalle ricognizioni!» replicò secco Smith, alzandosi.

Levi si alzò a sua volta, palesemente scocciato.

«Stai tranquillo, saremo di ritorno in tempo per la tua prossima ricognizione, con o senza la dottoressa. Ma ti ricordo che Meti Narses è un ufficiale medico che tu stesso hai impegnato in una missione pericolosa, pur non essendo adatta allo scopo. Ha obbedito ai tuoi ordini. Potrebbe esserci morta, in quella cazzo di missione.»

Nell’udir ciò Smith impallidì, cosa che non sfuggi allo sguardo attento di Levi, che rincarò la dose.

«Oppure, potrebbe essere ancora viva, ma prigioniera, brutalizzata, in pericolo. Non possiamo lavarcene le mani. Non si abbandona un commilitone, quando le condizioni, in battaglia, lo consentono: non vedo perché abbandonarla in questo frangente… che facciamo? Ce ne restiamo qui, belli tranquilli, mentre magari è rinchiusa in qualche fottuto buco… magari stuprata, torturata? Sei sicuro di volere questo, Comandante Smith?»

L’altro sferrò un calcio alla sedia, che andò in pezzi. Levi lo osservò nel corpo rigido, nelle mani strette a pugno e nei lineamenti tirati.

Centro.

«Bene: a questo punto direi proprio che tu me l’abbia data, la tua autorizzazione… Mi ritiro per dormire: tra meno di cinque ore il soldato Ral ed io ci avvieremo alla tenuta di campagna di Athiassy. Prima di partire, Meti aveva parlato della sua destinazione con la Quattrocchi, che me l’ha riferita: ho esaminato le cartine, dovrei aver capito dove si trovi. Buonanotte.»

Dopo un brusco batti-tacco, si voltò per uscire dalla stanza, sentendosi mormorare, da dietro le spalle, un sommesso “…grazie Levi…”.

****

Quella notte, un paio di grandi occhi colore dell’ambra non riuscirono a chiudersi.

Petra Ral rimase sveglia a fissare il soffitto: il Capitano, sì, proprio lui, le aveva ordinato di partire con lui per svolgere una delicata missione. Si doveva andare alla ricerca dell’Ufficiale Medico Meti Narses, partita in missione mesi addietro e mai più ritornata alla base.

Si sentiva felice ed onorata che Levi avesse fatto ricadere su di lei la sua scelta come compagna di viaggio: invece di chiedere a soldati con molta più esperienza, aveva preferito una giovane recluta appena uscita dal Corpo di Addestramento. Continuava a girarsi e rigirarsi nel letto, emozionata e felice.

Farò del mio meglio, obbedirò, sarò rispettosa e piena di buona volontà… lo aiuterò a ritrovare il medico… fosse l’ultima cosa che faccio!

La scelta era ricaduta sulla giovane Ral perché Levi aveva intravisto in essa dedizione assoluta, serietà, impegno e capacità organizzative, oltre ad innegabili doti atletiche. Levi aveva anche notato in Petra delle ottime capacità di relazionarsi con gli altri: col tempo, avrebbe potuto fare carriera nell’esercito e diventare ufficiale. Se si fosse distinta nella missione, l’avrebbe considerata come candidata per la sua squadra speciale: il viaggio per ricercare Meti poteva quindi essere pure un banco di prova per Petra Ral.

Il battesimo di sangue finale, poi, sarebbe stato costituito dalla prossima ricognizione all’Esterno.

Le prime luci dell’alba videro quindi la partenza dei due soldati in groppa ai loro cavalli, equipaggiati in modo adeguato per il viaggio.

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Capitolo 14
*** XIV. La chiave d'oro ***


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Ogni tanto gli piaceva, a notte fonda, scendere in cantina, per riordinare gli archivi dei referti, catalogati paziente per paziente.

Estrarre i documenti, impilarli, toglierne le pieghe, lisciarli con le dita, e poi inserirli nuovamente nelle cartelle da riporre nei piccoli cassetti di legno massiccio.

Queste operazioni lo rilassavano, specialmente dopo una giornata di intenso lavoro.

Sapeva essere metodico e preciso, doti molto importanti per la sua professione di medico, che aveva avuto modo di poter ben esercitare in mezzo all’umile, onesta gente del distretto di Shinganshina, nel Wall Maria. Ma la cosa che più gli dava diletto era, ogni tanto, concedersi il lusso di aprire quel vano della scrivania, chiuso con una serratura segreta. Fissare lo sguardo in quello della giovane bionda immortalata dal dagherrotipo, ormai ingiallito dal tempo… ecco: per lui quello era un momento irrinunciabile.

Il ritratto di una moglie dolcissima, e mai dimenticata.

Del resto, non è possibile dimenticare il primo amore. Carla era per lui poco più di un ripiego, ma almeno lei lo aveva saputo rendere padre, di nuovo: di un bellissimo ragazzo dagli occhi di smeraldo. Il primogenito biondo, invece, era un chiodo piantato nel suo cuore.

Il ricordo lo faceva ancora soffrire.

Essere traditi dal sangue del tuo sangue… fa male, molto male.

Ma non poteva smettere di pensare a lui… chissà se lo avrebbe mai più rivisto, abbracciato…

Ma stavolta le cose sarebbero andate diversamente: Eren era ostinato e testardo, e ciò sin dalla culla, ma avrebbe obbedito sempre e solo a lui.

Una cosa alla volta, però.

Ci voleva gradualità, ci voleva pazienza… e lui, di pazienza, ne aveva molta.

Richiuse la cantina e si ripose la chiave in tasca.

****

«Che persona è… intendo dire, la dottoressa Narses?»

Finalmente un momento di riposo, dopo tante ore passate a cavallo.

Ormai non si sentiva più le natiche, da tanto che le facevano male…

Il Capitano aveva deciso di fermarsi per poter mangiare un boccone, più che altro consistente in gallette, carne di manzo salata, ed una manciata di frutta essiccata. Naturalmente, Levi si era preparato anche un po’ di tè, per completare il frugale pasto. Se ne stava meditabondo, reggendo la tazza in quel modo tutto suo, coprendola con la mano, quando la mocciosa se ne era uscita con quella domanda a bruciapelo. Si voltò a fissare di sbieco la sua sottoposta.

«Una ficcanaso. Proprio come te.»

Petra non si lasciò scoraggiare dalle parole poco gentili dell’ufficiale.

«Mi scusi… non è per curiosare. Ma se sapessi qualcosa di più sul conto della persona che stiamo cercando, potrei esserLe di maggior aiuto. Per esempio,» continuò, incoraggiata dal fatto che il Capitano pareva ascoltarla, seppur con aria vagamente infastidita; «potrei avere una sua descrizione fisica? Così La aiuterei ad individuarla, in mezzo alle altre persone.»

Levi posò la tazza, ormai vuota. «Un po’ più alta di te. Magra. Capelli neri e ricci. Occhi blu. Sulla trentina. A volte zoppica. Ti basta?»

Petra annuì, anche se in realtà era incuriosita sul conto di Meti. I commilitoni con cui aveva avuto modo di accennare sul conto della dottoressa, alla cui ricerca sarebbe partita in supporto del Capitano, le avevano espresso preoccupazione per la donna scomparsa. Chi aveva avuto modo di conoscere Meti, di solito, ne parlava bene.

«Dicono…» riprese la ragazza, dopo qualche minuto.

«Chi?» le chiese, un po’ sornione.

«Alcuni soldati, Capitano. Dicono che la dottoressa sia una brava persona, e di essere preoccupati per lei.»

Levi rimase un attimo in silenzio. Poi si alzò, per andare a controllare i cavalli, legati poco più in là.

«Ti ripeto: è una ficcanaso. Una che pensa sempre a farti da chioccia, anche se non sei più un moccioso. Ma di solito…  sì: chi si prodiga per gli altri è una brava persona. E noi la ritroveremo, la Narses… sempreché non sia morta e sepolta.» al che il suo sguardo venne velato da un’ombra. «Ed ora basta chiacchiere: rassetta tutto e vai a dormire. Domattina ci avviamo prima dell’alba: dovremmo arrivare a destinazione per il pomeriggio. Buonanotte.»

Petra obbedì, senza fiatare.

Sapeva già che avrebbe trascorso la notte nel dormiveglia, pensando e ripensando ad ogni singola parola, ad ogni singolo gesto del Capitano, in modo da poterseli meglio imprimere nel cuore…

Quei momenti insieme erano per lei particolarmente preziosi, irripetibili: dei ricordi da custodire gelosamente dentro di sé.

****

Era bello percorrere quella regione.

La campagna era stupenda. L’inverno era stato mite, e i fiori erano sbocciati in anticipo, grazie ad un’aria tiepida. Arrivati in fondo alla vallata, cominciarono ad apparire muretti e recinti, per segnalare una proprietà privata. In fondo ad un viale ombreggiato da cipressi, si stagliò la villa Athiassy. Per persone di umile estrazione sociale, quella poteva apparire come una magione di grande lusso, anche se, in realtà, per essere la dimora di campagna di un nobile era abbastanza semplice: per l’altezzoso Nicholas Lovof, per esempio, la villa di campagna di Goram Athiassy era stata considerata poco più di un casotto da caccia, nulla di paragonabile alle sue lussuose proprietà di villeggiatura. Di diverso avviso furono, però, Petra e Levi, che contemplarono l’elegante costruzione a bocca aperta.

Dopo un attimo di sconcerto, si decisero a avvicinarsi all’ingresso, un massiccio portone in palissandro, ornato dal blasone nobiliare, raffigurante un grifone rampante: bussarono picchiando con i battenti di ottone dorato.

Silenzio assoluto.

«Io faccio un giro d’intorno, sicuramente ci sono degli ingressi secondari. Tu prova ad andare nel parco, forse incontriamo qualcuno cui chiedere informazioni.»

Dopo circa una mezzora, Petra, con espressione tirata, ritornò allo spiazzo all’ingresso della villa in compagnia di una corpulenta e ciarliera contadina di mezza età. Levi passò lo sguardo interrogativo da una all’altra e fece cenno alla sottoposta di parlare.

«Ecco, Capitano… questa signora ha qualcosa da dirci…» disse la recluta, in tono triste.

La donna abbozzò un saluto a quello che appariva essere proprio un gran bell’ufficialetto.

«‘Vossia, buondì. Non troverà più nessuno, qui. Non dopo la disgrazia…»

«Quale disgrazia?» la interruppe Levi, brusco.

La contadina si mise a cincischiare, confusa, con un lembo del grembiule, per poi riprendere l’uso della favella.

«Mio figlio più piccolo, il Toni… era andato a pesca, e mentre aspettava le carpe, ecco… vide il padrone in barca con una giovane signora... erano allegri, ridevano, mi ha detto. Poi però…» al che la donna abbassò lo sguardo «vide il vecchio conte, che Dio lo abbia in gloria, accasciarsi… la donna giovane si alza in piedi per soccorrerlo, credo, ed ecco che viene colpita da qualcosa, una freccia, o roba simile, mi pare che mi abbia detto mio figlio… e la poverina cade in acqua. Purtroppo il Toni non sa nuotare e non ha potuto fare nulla… è corso subito a chiedere aiuto, però, ve lo assicuro. È un bravo ragazzo, il mio Toni, eh» al che Levi dette in un moto di impazienza. La brava donna ricominciò. «Il padrone lo hanno portato a riva: non c’era più nulla da fare, pover’uomo.» la donna congiunse le mani a mo’ di preghiera, chinando il capo, afflitta, «gli hanno fatto un signor funerale: il conte era una brava persona, tutto il villaggio è andato a rendergli l’ultimo saluto. Ma della giovane… non si è saputo più niente. Il suo corpo non è mai stato trovato, e lo hanno cercato a lungo nel lago, ve lo posso assicurare…»

Levi ascoltò in silenzio. «Grazie. Ho bisogno ora di parlare con tuo figlio. Dove si trova, ora?» Si limitò a chiedere, asciutto.

Nel vedere la donna titubante, estrasse una moneta dalla scarsella per porgerla alla contadina, la quale, dopo essersi prodigata in incessanti benedizioni al suo indirizzo, gli indicò i campi, dietro la collinetta, ove il ragazzo era andato a disossare il terreno.

Levi fece cenno a Petra di rimontare a cavallo.

****

Fu Petra, con i suoi modi gentili e rassicuranti, che riuscì a cavar di bocca dal ragazzotto un resoconto dei fatti il più accurato possibile. Troppo intimidito dallo sguardo truce dell’ufficiale, infatti, Toni si sarebbe dato volentieri alla fuga, piuttosto che aprir bocca. Le domande della graziosa soldatessa, poste in tono fermo ma garbato, riuscirono invece a metterlo a suo agio e a farlo parlare. Meti, dato che non poteva che trattarsi di lei, data la descrizione fatta da Toni della donna vista in barca insieme al vecchio padrone, era stata ferita a destra proprio poco sotto il petto da una piccola freccia ed era caduta in acqua. Praticamente, sotto gli occhi dello spaventatissimo contadinotto, si era svolto un duplice crimine. Toni aveva poi intravisto una figura maschile alzarsi e sgattaiolare via da dietro un mucchio di fascine: si accorse che l’assassino avesse con sé una piccola balestra. I due soldati dedussero quindi che padre e figlia erano inconsapevolmente diventati un bersaglio da centrare da parte di un sicario. Adesso la cosa di primaria importanza era quella di perlustrare la zona in modo capillare, anche a costo di andare a ispezionare casa per casa.

Due cose erano certe: e cioè che la ferita di Meti poteva non essere mortale e che poteva anche non essere annegata… in ragion del fatto che il suo corpo non era mai stato ritrovato. Occorreva quindi aggrapparsi al filo sottile della speranza.

Petra era inebriata dall’energia, dalla sicurezza e, soprattutto, dalla mancanza di arrendevolezza del Capitano: non avrebbe mai gettato la spugna, lui. Nell’osservare l’espressione intensa e concentrata di Levi che le trottava a fianco, Petra sentì in quel preciso istante una certezza che si stava facendo strada nel suo cuore: lei, il suo Capitano, lo avrebbe seguito ovunque.

Fino alla fine dei suoi giorni.

****

Si era sforzata di abituarsi a quella vita scandita da tanti piccoli riti, resi necessari per la gestione della casa, dei tre bambini e degli animali da fattoria.

Meti si era ripresa abbastanza bene, fisicamente parlando, ed era felice di rendersi utile, anche se Phil avrebbe preferito che si riposasse.

Si alzava all’alba, si occupava della preparazione della prima colazione per tutta la famiglia del contadino, senza tralasciare di organizzare un cestino per il capo famiglia e per il figlio più grandicello, contenente il pasto da portare nei campi da consumare a mezzogiorno. I due bimbi più piccoli le trotterellavano intorno, aiutandola nelle faccende domestiche, e così le ore passavano abbastanza in fretta. Poi, a sera, la famiglia Haggins e l’ospite si raccoglievano per la cena, e si confrontavano sulle impressioni della giornata appena trascorsa.

Ma quando si ritrovava da sola, raccolta nella piccola stanza da letto ove era ospitata, Meti smetteva di sorridere e di fingere che andasse tutto bene. In realtà, soffriva molto, a causa della sua amnesia. Ogni volta che si sforzava di ricordare, si sentiva solo molto confusa ed infelice.

Nulla da fare: per quanto si concentrasse di ricordare qualcosa, era come nella sua mente ci fosse una lavagna intatta, su cui ancora dover scrivere tutto. Non ricordava neppure il proprio nome. Spesso cadeva in preda allo scoramento ed alla disperazione, con lacrime amare che le scorrevano sul viso, senza che riuscisse a fermarle. Era terribile non avere coscienza di sé.

Interrogava il suo viso, scrutandolo in un vecchio e scheggiato specchio, ritrovato in casa: si studiava lineamento per lineamento, senza ritrovarsi, senza collegare quel suo volto a qualcosa di preciso, a pensieri, emozioni, ricordi. Le pareva di essere un involucro vuoto ed inutile. Cercava però di scuotersi, di mostrare ai suoi ospiti un viso sereno, soprattutto ai piccoli di casa.

Provava un’immensa gratitudine per tutto il bene che quella umile e brava gente le aveva dimostrato, salvandole la vita e prendendosi cura di lei e del suo benessere. I bambini la chiamavano “zia”, dato che, privi ormai di una figura materna, le si stavano affezionando moltissimo. Quanto a Phil, stava correndo il serio rischio di innamorarsi perdutamente della sua ospite. Un suo approccio più deciso era stato però inibito sul nascere dal fatto stesso che Meti portasse all’anulare sinistro la fede nuziale: forse, da qualche parte, poteva ben esserci un marito in ansia per lei. Aveva altresì intuito che fosse una guaritrice o roba simile, dato che, con gesti sicuri e precisi, un giorno lo aveva curato di una brutta ferita che con l’aratro si era accidentalmente procurato alla gamba: Meti gli aveva disinfettato con cura la ferita, applicato dei punti di sutura in modo impeccabile ed eseguito una fasciatura a regola d’arte.

Phil era rimasto vedovo da qualche anno, padre di tre bambini bisognosi di una madre. La dolcezza di Meti lo stava avvincendo sempre più… e sempre più paventava il momento in cui lei avrebbe potuto recuperare la memoria e volersene andare, per ritornare alla sua vita di prima… e dal proprio marito.

Meti non ritrovò la memoria: non ancora, almeno.

Ma furono Levi e Petra, piuttosto, a ritrovare lei.

Accadde che, un mattino, Meti si fosse recata nel frutteto a raccogliere delle mele per poter fare una torta, dato che era il compleanno della piccola Suzie. Vide avvicinarsi due persone a cavallo, cosa che per un momento la distolse dalla raccolta dei frutti dai rami più bassi. Dopo averli osservati per qualche istante, fece spallucce, riprendendo con calma il suo lavoro. Si interruppe di nuovo, però, quando si accorse di essere fissata da due paia di occhi dalla palese espressione meravigliata, soprattutto da parte dell’uomo, che dalla uniforme indossata pareva essere un ufficiale o roba simile. Le era capitato di vedere dei soldati giù al villaggio, in un giorno di commissioni: i bambini le avevano spiegato che erano “i soldati di città, che mettono i cattivi in prigione”.

Petra aveva capito subito, per l’aspetto della donna del frutteto e, soprattutto, per l’espressione del Capitano, che avevano ritrovato proprio la dottoressa Narses. I due sconosciuti la stavano fissando ormai da parecchi minuti.

Alla fine, l’uomo si decise a smontare da cavallo, subito imitato dalla ragazza al suo seguito.

«Meti.» disse l’uomo.

****

Non fu affatto facile.

Non fu facile vincere la diffidenza di Meti.

Non fu facile persuadere Phil Haggins.

E, soprattutto, non fu facile riuscire ad asciugare le lacrime dei bambini.

Solo una promessa di tornare ogni tanto a trovare la famiglia Haggins rese possibile il distacco di Meti da chi l’aveva salvata, curata e protetta. Promessa che tutta la famiglia Haggins sapeva già che non sarebbe mai stata mantenuta, e che era stata data solo per addolcire il distacco. La piccola Suzie era inconsolabile: con molta fatica si riuscì a metterla a letto. Si addormentò con le lacrime indugianti sulle ciglia.

Ma ora bisognava tornare.

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Capitolo 15
*** XV. Ricominciare ***


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«Era necessario arrivare a tanto?»

I due fratelli avevano appena controllato insieme alcuni registri contabili delle loro svariate proprietà, non essendo molto convinti dell’operato degli amministratori. Uri se lo sentiva, però, che quel giorno il fratello maggiore fosse particolarmente nervoso. Ma, conoscendolo, sapeva che prima o poi avrebbe sputato il rospo ed espresso il motivo del suo nervosismo. Chiuse quindi il registro con un colpo secco, e fissò il viso paffuto di Rod, cui non assomigliava per nulla, né per aspetto, né per carattere.

«A cosa ti riferisci?» chiese, in tono piatto.

Rod gli lanciò un’occhiataccia e si alzò per andare a prendere un altro paio di registri da consultare e confrontare con quelli dell’anno corrente, in modo da verificare la contezza dei bilanci.

«Indovina un po’, Uri? Secondo te, a cosa starei alludendo, se non a quel tuo orrido killer dei bassifondi che hai mandato ad ammazzare Goram e sua figlia?»

Uri sospirò, appoggiandosi allo schienale della bella poltrona finemente intagliata. «Non credere che la cosa mi abbia fatto piacere, ci ho dovuto riflettere a lungo… ma alla fine ho dovuto prendere la decisione giusta per la nostra famiglia.»

Rod non si arrese. «Era necessario, ti dico?» ripeté. Uri strinse le labbra.

Quando Rod faceva così diventava davvero insopportabile. Era però tenuto a portagli rispetto, essendo suo fratello maggiore e il capo famiglia dei Reiss.

«Rod… ti ripeto. Non è stato facile prendere questa decisione, ma era necessario. Goram sapeva troppo. E sicuramente avrebbe tramandato la conoscenza a sua figlia, la quale, a sua volta, poteva farlo con altri.» sibilò, spazientito.

«Goram ha da sempre conosciuto la verità… gli Athiassy la verità l’hanno sempre saputa e conservano memoria di tutto quanto! Gli Athiassy e i Reiss hanno stipulato da sempre un patto di mutua alleanza, Uri! Quello che hai fatto è un sacrilegio, hai infranto un patto sacro di amicizia con secoli di storia!» un pugno sferrato sulla superficie del lussuoso tavolo di ebano enfatizzò la rabbia di Rod Reiss.

Al che pure Uri alzò la voce: quando era troppo, era troppo! «Ma che vai blaterando, fratello? Il tuo caro amico Goram stava per tradirci, voleva svelare tutto a quelli della Guarnigione e del Corpo di Ricerca!» Alzatosi in piedi, in due falcate raggiunse un piccolo forziere da cui estrasse quello che pareva avere l’aspetto di un foglio di carta. Lo sventolò sotto il naso di Rod: «Ecco, leggi qua! Me l’ha portata Kenny! Leggi, leggi quanto ci fosse fedele il caro Goram: Erwin Smith del Corpo di Ricerca gli chiedeva un appuntamento per farsi dare da lui importanti rivelazioni! Leggi, leggi qui, a questo rigo: ce li hai gli occhi per vedere, no? Non ti basta quello che io ho fatto finora per la famiglia, le decisioni difficili che ho dovuto assumermi per far cessare la nostra maledizione!» gli urlò Uri, parecchio nervoso ed esagitato.

«Vedi di portarmi rispetto, capito? Sono il capofamiglia, questo tuo atteggiamento è inaccettabile!» gli urlò, di rimando, quell’altro, strappandogli la lettera con malgarbo. Odiava quando Uri gli rinfacciava il mostro che avesse assunto, dentro di sé ed il proprio corpo, per proteggere la famiglia. Dopodiché, lasciò la stanza, sbattendo la porta dietro di sé.

****

Il viaggio di ritorno si svolse in uno strano clima di imbarazzo e di parole sospese.

Meti non fece nessuna domanda: quanto i due soldati del Corpo di Ricerca le avessero già detto sul proprio conto, a casa di Phil Haggins, lo doveva ancora accettare e rielaborare. Meti Narses, figlia del conte Goram Athiassy, ufficiale medico dell’Armata Ricognitiva, trentaseienne, vedova dell’ingegnere Basil Narses. La sua leggera zoppia era dovuta al calcio ricevuto da un Gigante, fuori dalle Mura, nella prima ed unica ricognizione cui avesse preso parte, diversi anni prima.

La donna continuava a masticare, dentro di sé, tutte queste informazioni, quasi come se si trattasse di una pietanza dal sapore strano e complesso, difficile da mandar giù per l’esofago. Meditabonda, si ritrovava ora alla guida del carretto trainato da un asinello che Levi aveva acquistato al villaggio più vicino, dato che Meti non poteva cavalcare, se non all’amazzone e comunque solo per poche ore.

I due soldati procedevano uno in testa ed uno in coda al carretto. Ogni tanto Petra cercava di approcciare Meti con qualche abbozzo di conversazione, cui la dottoressa rispondeva perlopiù con monosillabi. Levi taceva e guidava il piccolo corteo che fece alzare più di una testa curiosa di contadini intenti al lavoro nei campi.

Dopo alcuni giorni di viaggio, che comportò un po’ di tempo in più rispetto al percorso di andata vista la lentezza del carretto, finalmente apparve il castello del Corpo di Ricerca.

I tre si guardarono a vicenda, senza dir nulla. Il silenzio venne, di lì a poco, interrotto, una volta varcata la soglia della caserma. Un rapido passaparola comportò l’avvicinarsi di un piccolo gruppo di persone, capeggiato da Ron Hervert, per accogliere gli arrivati. Espressioni sorridenti si accesero su diversi volti: Hanji Zoe, soprattutto, non perse tempo, ed andò a stritolare Meti in un lungo abbraccio. Rimase però interdetta quando si accorse non solo del fatto che l’amica non le restituisse l’abbraccio, ma anche a causa dell’espressione confusa che vide sul suo viso.

«Quattrocchi, dobbiamo parlare. E pure gli altri devono essere informati. Soldato Ral,» si rivolse Levi alla recluta «accompagna l’Ufficiale Narses ai suoi alloggi»

«Sissignore» rispose Petra, compita.

«Ecco il Comandante.» annunciò Mike, mettendosi sull’attenti, subito imitato dagli altri militari presenti.

«Riposo.» riuscì a pronunciare Smith, in tono fermo.

Ma era tutta apparenza: in realtà dentro di sé sentiva un terremoto di emozioni, che cercò in tutti i modi di tenere sotto controllo.

Non poteva prenderla fra le braccia e stringerla forte.

Non poteva sussurrarle la sua disperazione di prima e la sua felicità di adesso.

Non poteva essere un uomo comune, uno che ama la sua donna e che può ricordarglielo di fronte al mondo intero.

Il Comandante Erwin Smith poté solo congratularsi con il Capitano Levi per la buona riuscita della missione, con il recupero di un soldato oramai ritenuto disperso da mesi. Meti osservò questo nuovo sconosciuto che le stava rivolgendo cortesi frasi di circostanza.

«Sono lieto del tuo ritorno, Ufficiale Narses. Segui pure il soldato Ral, come ha già ordinato il Capitano Levi.» le disse, mentre i suoi occhi la scrutavano come se volesse dirle molto di più.

Meti annuì e, dopo aver salutato con un cenno del capo, si allontanò con Petra.

****

«Grazie per le informazioni, Capitano. Più tardi andrò a visitare Meti, per accertarmi delle sue condizioni fisiche. Riguardo all’amnesia di cui pare soffrire, non vi nascondo che è una condizione piuttosto complessa e difficile da comprendere e curare. Dovrò consultarmi con un collega esperto in materia, potrei invitarlo qui in caserma, per fargli visitare la dottoressa: sempre che il Comandante Smith non sia di diverso avviso, ovviamente.» Ron si rivolse a Smith, rimanendo in attesa.

L’interpellato si alzò, per andare a guardare fuori.

Una pioggia battente aveva cominciato a portare la sua freschezza tutto d’intorno, quasi come se pure il cielo volesse pulire ogni cosa, dubbi compresi.

«Tra dieci giorni ci sarà una ricognizione fuori dalle Mura. Dobbiamo concentrarci su questo e predisporre i piani sin nei minimi termini. Dott. Hervert,» si girò, rispondendo all’anziano medico «conto su di te e sugli infermieri per i soccorsi ai feriti: soprattutto in considerazione del fatto che la dottoressa Narses, molto probabilmente, non potrà svolgere, almeno per il momento, le sue mansioni. Sarà curata in modo adeguato, naturalmente. Ma adesso le nostre priorità sono altre.»

Gli astanti rimasero in silenzio. Levi aggrottò la fronte, indeciso se mantenere il controllo o adirarsi. Alla fine il senso del dovere prevalse e rimase in silenzio, a braccia conserte. Erano rimasti tutti alquanto scossi, in verità, dalle asettiche parole del Comandante. Per quanto, razionalmente parlando, Smith avesse pienamente ragione, non poterono non trovare un po’ aride le sue parole riguardanti Meti. Hanji soprattutto, rimase piuttosto delusa dalla freddezza di Smith, essendo da tempo consapevole del rapporto esistente tra loro. Strinse le labbra, per autoimporsi di tacere, o avrebbe detto qualcosa di spiacevole. Si ripromise in cuor suo che lei, invece, le avrebbe tentate tutte, per aiutare Meti a ricordare, invece di limitarsi alle ordinarie cure mediche.

Rivoleva la sua amica.

****

Nessun dubbio e nessuno scrupolo d’ordine professionale, per contro, vennero espressi nei confronti di Meti da ben altra creatura.

Un cuore di gatta non ebbe esitazione alcuna: non appena Princess vide entrare la sua padrona nella camera da letto, ove si era addormentata diverse ore prima, acciambellata su un vecchio foulard di lana dimenticato da Meti su una poltrona, si alzò, si stiracchiò ben bene e, con la coda tenuta ben alta in segno di benvenuto, andò subito a strusciarsi sulle gambe della donna. Meti, istintivamente, si chinò per prendere in braccio la candida micia, la quale si profuse in fusa sonore.

Mentre la stava accompagnando ai suoi alloggi, Petra l’aveva informata di Princess: cosa che le fece piacere di sapere, dato che alla fattoria di Haggins non aveva lesinato cure e coccole ad una famigliola di gatti.

Andò a sedersi sulla poltrona, dove fino a poco prima la micia aveva dormito e, per la prima volta dopo tanti giorni, Meti provò un momento di assoluta pace interiore, con in grembo una creatura pura, senza pregiudizi, che da lei non pretendeva nulla, a parte la sua presenza.

****

Nessuna pace interiore, invece, per Erwin Smith.

Nell’altra ala del castello, all’interno del suo alloggio privato, il Comandante era in preda a molti dubbi ed interrogativi. La sua Meti era tornata… senza essere, almeno per il momento, la stessa persona.

Levi era stato molto chiaro, al riguardo: Meti non aveva coscienza di sé, non ricordava nessuna cosa del suo passato e del suo presente. Lei non si riconosceva in nulla che le avessero raccontato sul suo conto, come se parlassero di un’altra persona a lei perfettamente estranea.

Meti non sapeva niente di lui, di loro, di quello che stavano costruendo giorno per giorno.

Quando qualche ora prima i loro sguardi si erano nuovamente incontrati, la donna lo aveva fissato con aria interrogativa e vagamente incuriosita.

Come fare, ora?

Andare da lei, dirle del loro rapporto, magari cercare di baciarla, di stringerla, di dirle quanto gli fosse mancata, di quanto invano la cercasse di notte, al suo fianco, sul lato del letto rimasto vuoto e freddo? No, questo non poteva farlo. Doveva aspettare che il tempo, magnanimo, gli restituisse la speranza.

Che gli restituisse la sua Meti, con i suoi ricordi.

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Capitolo 16
*** XVI. Promesse ed intendimenti ***


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Qualche giorno dopo, nell’ambulatorio medico…

«Sei sicura?»

Ron era perplesso. Indubbiamente, almeno a livello fisico, Meti stava bene: la ferita al fianco era guarita perfettamente. Lo stato di salute della donna era, complessivamente, molto buono: mangiava con appetito e dormiva regolarmente. Ma la sua memoria non si era ripristinata. A volte lei aveva come dei brevi e subitanei flash mentali, che le ricordavano qualche piccolo dettaglio del suo passato: una via, un volto, un oggetto.

Troppo poco, però, per avere piena coscienza di sé.

Quanto lei ora gli stesse chiedendo di fare, pertanto, lo considerava azzardato, almeno per il momento.

«Assolutamente, sì. Sento di potercela fare. Te l’ho detto, no? Quando Phil, il contadino che mi ha soccorso e ospitato di cui ti ho parlato, si è ferito, le mie mani… ecco: è assurdo, lo so, ma è come se si fossero mosse da sole... Ho disinfettato la ferita, l’ho cauterizzata, ho dato i punti e poi ho fatto la fasciatura. Ho medicato Phil in un modo, almeno credo, professionale. Quindi penso che potrei ricominciare a lavorare come medico, ovviamente sotto la tua supervisione. Chissà… forse il mio essere medico è ormai tanto connaturato in me, da poter lavorare anche in stato di amnesia».

Ron la guardò con tenerezza paterna.

«Meti… figlia mia. Abbiamo una grossa responsabilità, qui, con questi poveri soldati che rischiano la vita, appena mettono piede fuori dalle Mura. Proprio tra pochi giorni affronteranno l’ignoto, con una nuova ricognizione. Non possiamo compiere passi falsi, lo capisci questo?»


«Sì… lo capisco» sussurrò Meti, avvilita.

L’anziano medico sospirò.

«Facciamo così. Domani procederemo con delle semplici visite di routine e le faremo insieme: controllerò passo passo il tuo operato. Sarò un giudice molto severo e inappellabile: che questo ti sia chiaro. Al minimo errore, ti farò dichiarare inabile al servizio. Va bene?»

Meti sorrise, con gli occhi e con le labbra.

«Grazie. Farò del mio meglio, te lo prometto!» al che prese le mani del buon dottore, per stringergliele forte.

«Sei la figlia che non ho avuto… mi sarebbe piaciuto avere una piccola Hervert come te. Ma ora basta,» si interruppe bruscamente, non volendo tradire la commozione, «ho dei certificati da compilare. Allora: noi ci vediamo in ospedale domattina alle otto. Intesi?»

«Intesi!»

Una volta rimasta sola, Meti prese dei grossi tomi da un armadio a muro. Anatomia, patologia generale, frenologia, fisiologia, igiene, traumatologia, malattie infettive: uno dopo l’altro si mise a sfogliarli, un po’ intimorita… era come se stesse affrontando una sorta di solitario esame. Con suo sommo stupore e sconcerto, però, si accorse di non aver nessun problema a comprendere quanto stesse leggendo: mormorando a bassa voce, quasi ne anticipava i contenuti. Era come se la sua mente sapesse già tutto in anticipo. La memoria della sua vita passata se ne restava silente, in un angolo nascosto e remoto. Non sapeva nulla di sé, della sua casa di infanzia, dei volti dei suoi cari… ma nessun termine scientifico che ora ripercorreva per le righe di quei libri le era sconosciuto o incomprensibile. Sentì quindi come una strana euforia pervaderla tutta, come se l’amore per la sua professione fosse così forte e radicato da venirle in soccorso nonostante l’amnesia.

Sorrideva tra sé e sé, mentre lacrime di sollievo le scorrevano sul viso.

Poteva essere ancora utile a qualcosa, dare il proprio contributo: non sarebbe rimasta relegata in un cantuccio come una povera mentecatta da compatire. Si era infatti sentita molto a disagio, una volta che il Capitano Levi ed il Soldato Ral l’avevano portata in caserma: soldati ed ufficiali la guardavano con malcelata pietà, come se fosse una persona ormai inutile.

Un peso.

Non che non fossero tutti alquanto gentili e pazienti con lei, esprimendole indulgenza e cortesia. Ma Meti non voleva tutto questo. Non voleva essere compatita. Avrebbe mai recuperato la memoria? Difficile a dirsi. Ma non sarebbe rimasta ferma ed inerte. Lei non era una bambola rotta. Avrebbe affiancato Hervert e gli infermieri, per aiutare il più possibile quei coraggiosi, straordinari soldati. Più aveva modo di conoscerli, dato che era come se fosse, per l’appunto, la prima volta, e più provava ammirazione e rispetto per loro. Alcuni di loro, poi, erano tanto giovani ed entusiasti, con tutta la vita davanti… eppure, invece di dedicarsi ad un lavoro tranquillo ed esente da rischi e di pensare a metter su famiglia, avevano fatto una scelta molto difficile. La verità è che erano tutti dei potenziali martiri.

Sospirò.

Erano trascorse molte ore da quando si era messa a consultare tutti quei volumi, ed era oramai calata la sera, quando sentì un leggero bussare. Al suo “avanti” fece il suo ingresso il Comandante. In segno di rispetto, Meti si alzò in piedi.

«Non è necessario… resta pure seduta. Non sono qui in veste ufficiale, dottoressa Narses» disse, cercando di tener ferma la voce, mentre sentiva il cuore accelerare i battiti, suo malgrado.

Alla fine non ce l’aveva fatta.

Si era ripromesso di lasciarla in pace, di non andare da lei se non in qualità di suo superiore. Ma dopo giorni di interrogativi senza risposta, non aveva più voluto resistere al desiderio di stare un po’ con lei, anche solo per poter parlare del più e del meno. Già solo questo gli avrebbe dato serenità.

«Va bene. Allora possiamo anche mettere da parte i titoli, credo. Io sono Meti» gli offrì una sedia, sorridendo. «Un infuso di cicoria? Io ne sento proprio il bisogno: potresti farmi compagnia.»

Smith la contemplò in silenzio, mentre Meti versava l’infuso in due tazze.

Adorava il profilo delicato del suo volto, la curva dolce del collo quando era intenta nei più semplici gesti.

Quanto gli era mancata.

A fatica riuscì a trattenersi, evitando di alzarsi per stringerla fra le braccia. Vederla e non poterla toccare era quasi una tortura, per lui. Ma non voleva fare mosse azzardate, spaventarla o farla sentire a disagio. Doveva avere pazienza. Sempre che il destino gli volesse dare tempo sufficiente per amare la sua Meti.

Ancora una volta.

«Allora… raccontami della tua prossima missione.» le sue parole scossero Smith dall’incantesimo. «Ho sentito dire che hai apportato delle modifiche di tipo strategico, rispetto al precedente Comandante, un certo Vadis, o roba simile… così mi è stato detto.» Meti si risiedette, sorseggiando con calma la sua bevanda.

Smith sorrise amaramente.

Meti non si ricordava di Shadis, una persona con cui in passato aveva avuto molti contrasti personali!

«Shadis. Keith Shadis. Adesso si occupa dell’addestramento reclute. Sì, diciamo che le prossime missioni si svolgeranno in modo ben diverso.»

Con voce pacata le spiegò i nuovi schieramenti e l’utilizzo di fumogeni di vari colori. Meti lo ascoltò, rapita. Il Comandante aveva un modo ammaliante di raccontare. Sicuramente avrebbe reso interessante un discorso anche se vertente su cavoli e patate!

«Da chi hai preso questo dono?»

Smith la guardò con aria interrogativa. «Quale dono?»

«Hai un modo di raccontare… ti ascolterei per ore. Per questo parlo di “dono”.»

«Non saprei… sempre che si tratti, come dici tu, di chissà quale talento… ma credo di aver preso da mio padre.»

«Era un maestro o qualcosa di simile?»

L’uomo la fissò profondamente.

«Hai visto giusto, Meti. Sì: mio padre era un bravissimo insegnante.» il suo sguardo si raddolcì, perdendosi nel ricordo.

«Lo hai perduto, vero?» mormorò Meti. Al silenzio di Smith, emise un flebile sospiro. Si alzò in piedi per andare a posare la sua tazza. Nel passargli accanto, gli posò la mano sulla spalla, in segno di gentile solidarietà. Smith chiuse gli occhi, a quel contatto. Non resistette: le catturò la mano, e la strinse, cosa che stupì non poco la donna. Erwin riaprì gli occhi e alzò lo sguardo per incrociare quello di lei.

Ti ricordi di me, di noi? Ti aspetto, ti aspetto ancora…

Per qualche attimo fu come se il tempo si fermasse. Rimasero immobili a guardarsi, in silenzio.

«Forse… forse è meglio se andiamo a dormire… si è fatto piuttosto tardi. Domattina dovrò fare delle visite, insieme a Ron.» Meti si riscosse. Si sentiva a disagio, dopo quel fugace momento di intimità con il Comandante. Non riusciva ad interpretare la profondità dello sguardo di lui di poco prima.

Smith aggrottò la fronte, visibilmente perplesso. «Perdonami, ma… sei sicura di poter riprendere il tuo lavoro? Non ti sei ancora ripresa… non completamente.» abbozzò, cercando di essere il più delicato possibile.

Meti si rabbuiò, ma cercò di controllarsi.

Del resto, lei stessa non riusciva a spiegarsi come uno stato di grave amnesia come il suo potesse conciliarsi con la consapevolezza del suo essere un medico. I dubbi di Hervert e di Smith non potevano che essere sensati, dopo tutto.

«Capisco la tua perplessità. Ma ti do la mia parola che non farò nulla di azzardato e men che meno di dannoso per i soldati. Ron in persona verificherà la mia attitudine medica in modo scrupoloso. Sai… ho trascorso le ultime ore consultando diversi libri di medicina, e mi rendo conto che possa sembrare assurdo… ma ricordo tutto, tutto! Ogni singolo termine scientifico! Ogni tecnica chirurgica! Gli eccipienti dei farmaci! Non so che scherzo del destino possa essere tutto questo, ma è così: non so chi io sia, da dove vengo, chi fossero i miei genitori… ma ricordo il contenuto di ognuno di quei volumi!»

Eccola.

In tutta la sua testardaggine.

Neppure l’amnesia poteva annullare la sua forte personalità. Meti non era fatta per arrendersi. Non era mai stata un granché, come soldato, ma non avrebbe esitato un minuto ad aiutare il Corpo di Ricerca, seppur a modo suo. Smith annuì.

«Ti credo. Sei sempre stata un bravo medico, e penso che nonostante il tuo stato di amnesia la tua competenza sia ormai connaturata in te, al punto tale da venirti incontro, in qualche modo.» le sussurrò.

«Grazie… per la fiducia.» balbettò, lei, felice.

Smith non disse nulla.

Le prese una mano e se la portò alle labbra, per poi congedarsi, lasciando Meti confusa e in preda a molti interrogativi.

****

Era ormai tutto pronto per la prima ricognizione con le nuove strategie approntate da Smith, con la collaborazione dei capisquadra più brillanti.

Anche Hanji Zoe voleva dare il proprio contributo strategico, perfezionando il movimento tridimensionale, a suo tempo modificato e modernizzato dal defunto marito di Meti. Hanji si era consultata con i migliori fabbri del Wall Sina, i quali avevano confezionato un supporto delle lame e del gas in una lega metallica più sottile e leggera, ma al tempo stesso più resistente; dal canto suo, la scienziata stava elaborando anche un progetto per delle lance esplosive, traendo spunto dai fuochi d’artificio che aveva ammirato la sera dell’ultima Festa Nazionale. Il meccanismo andava ancora messo a punto, ed Hanji si era ripromessa di riuscirvi, per lo meno per le prossime missioni.

Mentre Meti era quindi impegnata nelle visite di controllo, per l’ammissione dei soldati idonei alla ricognizione e sotto la supervisione di Hervert, fervevano i preparativi, in tutti i gradi della Legione Esplorativa.

Con precisione certosina si verificava lo stato di salute dei cavalli, d’ordinanza e di riserva, e se ne controllavano i finimenti; i dispositivi del movimento tridimensionale venivano esaminati pezzo per pezzo, in modo da essere perfettamente idonei allo scopo.

Il Capitano Levi e i vari Capisquadra impartivano ordini e direttive in modo ancora più severo e preciso del solito.

La verità era che erano tutti molto tesi, dato che da diversi mesi non c’erano state ricognizioni, data la pausa invernale. E, soprattutto, ora bisognava fare i conti con l’ignoto, dato che si doveva combattere con tecniche strategiche fondamentalmente differenti rispetto a quelle precedentemente utilizzate da Keith Shadis.

Non più uno squadrone chiuso e compatto come una tragica testuggine che sfidava la morte al di fuori delle Mura, ma un piccolo esercito snodabile ed elastico di circa cento soldati riuniti in sottosquadre, che sapevano separarsi e riunirsi alla bisogna, e in grado di comunicare tra loro grazie all’uso dei fumogeni di colori diversi a seconda dell’esigenza e non più di un solo tipo, come ai tempi di Shadis: dall’arrivo dei Giganti, alla presenza di feriti da recuperare, alla necessità di una veloce ritirata.

Solo l’esperienza diretta avrebbe provato se le intuizioni tattiche di Smith potessero avere un senso oppure no: sulla carta pareva essere tutto facile e possibile. Combattere con la strategia di Shadis era equiparabile ad un martirio volontario e consapevole.

Il tempo, solo il tempo, avrebbe detto se il cambio nella sede del Comando del Corpo di Ricerca fosse stato provvidenziale… oppure no.

****

Se la vide piombare nel suo studiolo, mentre stava finendo di redigere i rapporti.

In linea di massima i soldati visitati erano risultati abbastanza idonei alla missione, a parte una decina che era stata messa in stato di malattia per qualche giorno.

«Meti. Ho bisogno del tuo aiuto.»

Negli ultimi giorni aveva memorizzato qualche nome, in modo da ricordare perlomeno i capisquadra e gli ufficiali: di sicuro, una persona come Hanji Zoe non passava inosservata e non si faticava a ricordarne il nome. Se poi l’amnesia avesse un bel giorno deciso di risolversi, sarebbe diventato possibile recuperare il rapporto di conoscenza con la compagna d’armi in tutta la sua autenticità.

Per ora, Meti doveva accontentarsi di associare un nome ad una faccia.

«Buongiorno Hanji. Gradisci della limonata?» chiosò Meti, con un sorrisetto.

Hanji sbuffò: quel giorno era molto su di giri, al punto da essere quasi al limite delle buone maniere.

«Sì, sì, buongiorno» bofonchiò, aggiustandosi le lenti sul naso. «Allora, passiamo alle cose concrete, invece che soffermarci su questioni di etichetta, tanto più che prima ci siamo già incrociate in refettorio… dunque, ti dicevo, ho bisogno, anzi abbiamo bisogno del tuo aiuto.»

«Dimmi.» Meti capì la necessità di non prendere la scienziata in contropiede.

«Devi partecipare alla missione, anche tu.» sbottò.

L’altra la guardò, perplessa. «Non ne capisco la ragione, sono più utile qui, insieme a Ron, ad aspettare i feriti. E poi… mi è stato spiegato che non posso più cavalcare, per via del mio bacino... Vi sarei di impaccio.»

Hanji la soppesò con lo sguardo. In realtà, credeva che fosse necessario per l’amica partecipare alla ricognizione non tanto per un motivo strategico, ma perché, avendo consultato per conto proprio alcuni libri sull’amnesia, si era convinta che un qualche grosso spavento, al limite del trauma, avrebbe potuto sbloccarle la memoria. Non aveva inteso chiedere consiglio ad Hervert sull’argomento, ma aveva ritenuto di affidarsi al proprio istinto, sicura del fatto che un’esistenza tranquilla e senza scossoni non avrebbe aiutato Meti a ricordare, lasciandola in una sorta di limbo e questo chissà per quanto tempo …mentre magari una situazione pericolosa ed adrenalinica, pure condita dalla presenta di un bel Gigante Classe 10, avrebbe procurato alla dottoressa uno shock utile per superare lo stato di amnesia.

«Beh, io credo che non sia affatto giusto che tu te ne resti qui, bella tranquilla, ad aspettare il nostro ritorno, eh, scusami se te lo dico. Sai quanti soldati muoiono dissanguati per mancanza di un tempestivo soccorso, che invece avrebbero potuto sopravvivere? E poi qui ci sono già Hervert e molti infermieri, mentre sul campo ci resta solo qualche tirocinante e nessun medico esperto. Per muoverti starai alla guida di uno dei carri della retroguardia: non ti devi preoccupare, i carri sono ben scortati da soldati esperti, non ti accadrà nulla.»

Hanji puntò sul senso del dovere dell’amica: provò genuino dispiacere, in cuor suo, per il ricatto morale esercitato su Meti, ma quello stratagemma, sebbene meschino, era necessario per farla cedere.

Ogni fine giustifica i mezzi… chi diavolo lo ha detto? rifletté Zoe.

Meti si rabbuiò.

Non poteva più sottrarsi, a questo punto. Si limitò ad annuire, senz’altro aggiungere.

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Capitolo 17
*** XVII. Verdi pianure ***


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Sapeva essere davvero bello, il mondo, fuori dalle Mura.

Persino l’aria pareva essere diversa: più pura e pulita, ossigenata da spazi aperti che si perdevano a vista d’occhio.

Alberi, torrenti, montagne.

Fiori di campo.

Animali che conducevano liberi la loro vita, ignari dell’essere umano e delle sue ambasce.

Ma c’erano altre Mura, di altro genere.

Di diverse dimensioni.

Mura viventi, con espressioni istupidite.

Mura che ti afferravano e che ti fagocitavano, un pezzo alla volta, stritolandoti in mascelle potenti, lacerandoti e triturandoti con denti aguzzi.

Meti era come diventata di pietra. Ormai erano alcune ore che non si muoveva e che non parlava. Veniva ricondotta all’interno delle Mura esanime nel carretto dei farmaci e dei presidi medici condotto da una giovane recluta, che ogni tanto si voltava, a fissarla con apprensione. Hanji Zoe, stanca e con qualche graffio, trottava al fianco di Smith, ed ogni tanto volgeva il capo, preoccupata, verso le retrovie, in direzione dei carri.

La prima ricognizione con Erwin come comandante era stata un successo completo: due Classe 10, tre Classe 8, e quindici Classe 5 se ne stavano scotennati a diffondere i loro mefitici vapori riversi in più punti del boschetto, oltre a molti altri esemplari più piccoli fatti letteralmente a pezzi nella radura. Nessuna vittima tra i soldati del Corpo di Ricerca. Solo qualche ferito e nemmeno grave: per le prime cure gli infermieri erano stati più che sufficienti.

Meti non aveva potuto fare nulla di sua competenza.

Non ne aveva avuto il tempo.

Mentre stava conducendo il carro, scortata da soldati esperti, un problema all’asse, che il falegname della caserma non aveva perfettamente riparato, peggiorò improvvisamente: il carro si sbilanciò e si ribaltò. Meti venne sbalzata via di diversi metri: fortunatamente, andò a ricadere in un folto cespuglio, che le attutì di molto l’urto che, altrimenti, sarebbe stato per lei fatale, viste le condizioni del suo bacino.

Un po’ dolorante, riuscì a rimettersi in piedi, per poi ritrovarsi ad assistere ad una scena raccapricciante.

Neppure nel peggiore degli incubi avrebbe potuto immaginare qualcosa del genere.

A distanza di qualche decina di metri, stavano due Giganti. Uno un po’ più grosso dell’altro, entrambi di fattezze maschili, che la fissavano con espressione istupidita. Uno di essi stava allungando il braccio per afferrarla, quando l’altro, come ingelositosi, lo aggredì mordendolo alla spalla, per poi cominciare a sbranarselo, un pezzo alla volta.

Urla orribili, demoniache, riecheggiarono tutto d’intorno.

Sopraggiunse un terzo mostro, un po’ più piccolo a dare man forte al primo, per pascersi anch’esso delle membra del Gigante ucciso.

Meti era inorridita, completamente impietrita ed incapace di reagire.

Improvvisamente, due figure saettanti, con magnifiche piroette ascendenti, piombarono sui due mostri come due rapaci sulle prede, scotennandoli in poche, rapide mosse. Stava però già giungendo un altro mostro, ma in aria venne sparato un fumogeno del segnale di “ritirata”.

Poco dopo, Meti si sentì afferrare.

«Vieni via, cazzo!»

Un forte braccio maschile, quello di Mike, la strattonò via, come se fosse una bambola di pezza, mentre la Team Leader Nanaba copriva loro le spalle. Mike si caricò la donna in spalla, per poter correre via più agevolmente. Recuperarono i cavalli e raggiunsero le postazioni della retroguardia.

Smontando da cavallo, ove Mike l’aveva sistemata di lato per maggior cautela, Meti cominciò a dibattersi. Prima debolmente, poi in modo sconnesso e disordinato, come un burattino disarticolato, nel tentativo, folle e inutile, di difendersi. Né le parole rassicuranti di Mike, né gli schiaffi che le diede per farla rinsavire servirono a qualcosa, se non a farle perdere i sensi.
L’uomo la posò, svenuta e inerme, in un carro, condotto da una giovane leva, cui diede pochi e secchi ordini per la ritirata. La missione era finita.

La strategia di Smith, almeno per questa sua prima volta come comandante all’Esterno, aveva pienamente funzionato.

Avrebbe funzionato anche quella di Zoe?

****

Qualche ora prima…

«E lei che cazzo ci fa, qui?» Levi abbaiò all’indirizzo di Meti, avendola scorta alla guida di un carro.

«Lascia fare, dài, è necessario che partecipi pure lei, abbiamo bisogno di un medico. Questa è la prima missione comandata da Smith, con le nuove tattiche. Non possiamo sapere come andrà a finire… con i feriti, intendo dire. Meti…»

«Stronzate.» Levi interruppe con un gesto secco l’alta compagna d’armi, palesemente scocciato. «Non può esserci di nessun aiuto. Non può cavalcare e non è detto che possa fare il medico, ora come ora. Che se ne ritorni in caserma! Subito!»

«E piantala di rompere! Meti deve partecipare, o rimarrà in quello stato ancora chissà per quanto!» Hanji perse la pazienza, alzando la voce.

Possibile che il nanetto non capisse un accidente? Lo faceva più acuto!

«Dico, ma ti sei rincoglionita pure tu? Che cazzo vai blaterando? Ma ti pare che Smith darebbe il suo benestare? Se la becca un Gigante è fottuta!»

Sbuffando, Hanji Zoe si sistemò meglio gli occhiali sul naso, fissando il Capitano con evidente disappunto.

«Ma ovviamente Sopracciglia non ne sa nulla. Mica direbbe di sì. Però penso che rivorrebbe la sua donna tutta intera, cervello compreso, non credi?» Sospirò, incrociando le braccia, avvilita. «Io non ce la faccio a lasciarla così. Sentimi un po’: io rivoglio la mia amica per com’era. E penso che un bello spavento potrebbe sbloccarla… Alcuni libri che ho letto affermano che lo stato di amnesia, provocato da un trauma, può essere risolto con un altro trauma. Hanno cercato di assassinarla, giusto? E, a quanto pare, in base al resoconto tuo e della Ral, hanno assassinato suo padre. Ecco: per questo dico che dobbiamo tentare…»

Levi la guardò, scuotendo il capo: la Quattrocchi era da rinchiudere!

«Tu sei pazza. L’unico risultato che otterrai sarà quello di farla masticare da un Gigante. Non intendo appoggiarti in questa minchiata di idea che hai avuto per quattro libri del cazzo che hai letto.» si incamminò, per poi fermarsi e voltarsi a fissare la Caposquadra con disappunto, se possibile, anche maggiore. Socchiuse gli occhi “Hai fatto leva sul suo senso del dovere, per convincerla a partecipare, giusto?»

Hanji si limitò a mordicchiarsi le labbra, nervosa.

Mentre stava recandosi da Smith a passo svelto per riferirgli dell’iniziativa presa a sua insaputa da quelle due matte, Levi cominciò, suo malgrado, a riflettere sulle parole di Hanji.

E se avesse avuto ragione lei?

Nonostante potesse sembrare il contrario, Levi stimava molto la Caposquadra Zoe, di cui riconosceva la genialità e l’indubbio acume. Ogni scelta, nella vita, poteva avere dei risvolti insperati. Ma i rimorsi potevano essere ben migliori dei rimpianti… Lo stesso Smith glielo aveva detto, no? Così, si risolse a montare a cavallo e di andare a posizionarsi in avanscoperta, insieme ad un gruppetto di soldati scelti da lui stesso, tra cui la giovane Ral.

****

«Che figura di merda… cazzo!» brontolò Auruo, guardandosi i calzoni, tutti macchiati all’altezza della patta. Altro che contegno marziale, il suo! Ma v’è da dire che ritrovarsi davanti, e per la prima volta, un gruppetto di Giganti alla carica non era stato piacevole. Cercò di ricomporsi, rassettando la corta chioma, rasata di fresco sui lati del capo e di assumere un aspetto signorile ed autorevole.

«Piantala vah, di atteggiarti e di fare il coglione. Tu e quell’altra scema vi siete pisciati addosso come due lattanti, cosa dirà il Capitano? Adesso magari non ci farà più entrare nella sua squadra speciale, perché il nostro gruppo non è poi così coraggioso! Grazie tante, dopo tutti gli addestramenti massacranti che abbiamo fatto per questa ricognizione!»

Se c’era una cosa che riuscisse a mandare in bestia Erd Yin era quella di aver sprecato tanto tempo inutilmente, nonostante uno scopo prefissato. Con pochi gesti secchi e nervosi aveva ripulito con uno straccio le lame delle sue sciabole dal sangue dei mostri uccisi, per poi inserirle nel cassone del movimento tridimensionale.

Seduto accanto a lui su una panchetta, Gunther si limitò a bere un po’ d’acqua da una fiaschetta, senza dire nulla, suo solito.

Petra cercava di nascondere con la mantella, per quanto possibile, i suoi, di calzoni. Ritornati alla base, si stavano scambiando in una piazzuola le impressioni della giornata appena trascorsa, prima di ritirarsi nelle camerate. Si sentiva morire dalla vergogna. Alla fin fine un Gigante piccolo, un Classe Quattro, era pur riuscita a scotennarlo… ma pure lei, proprio come Bossard, si era urinata addosso dalla paura. Un conto era sentir parlare di quei mostri, e addestrarsi con i manichini che ne riproducevano le fattezze. Un altro paio di maniche, invece, era vederne di persona, sentirne il lezzo mefitico, osservarne lo sguardo imbambolato, più terrificante ancora di qualsiasi espressione mostruosa o malvagia.

I Giganti ti spiazzavano soprattutto per questo.

Avevano per lo più espressioni allegre, dal sorriso fesso, e ti guardavano con grandi occhi dall’espressione dolce orlati da lunghe ciglia. Eppure… potevano afferrarti, seppur sorridendo. Potevano strapparti gli arti, macinarti nelle mascelle, triturarti con denti aguzzi. Se per somma fortuna sfuggivi loro o riuscivi persino ad ucciderli, il loro puzzo te lo sentivi ancora nelle narici, per giorni e giorni. La fanciulla sospirava, delusa da se stessa.

Il Capitano si era accorto eccome delle condizioni dell’uniforme sua e di quella di Auruo, tanto più che durante l’operazione era apparso quasi come per magia, mulinando in aria e incitandoli, dando loro direttive precise su come e dove attaccare, per ottimizzare le dinamiche del movimento tridimensionale.

Obbedendo ai suoi ordini, lei e gli altri tre avevano portato a termine l’uccisione di ben quattro mostri, mentre Levi aveva abbattuto da solo uno dei due Classe 10. Dopo aver assolto, e bene, ai propri compiti, Petra se n’era rimasta imbambolata ad ammirare le letali acrobazie del suo superiore, che, come in una danza affascinante, sapeva ipnotizzare chiunque lo osservasse all’opera.

Levi era semplicemente inarrivabile per chiunque.

Si librava nell’aria, verso il cielo, come un angelo vendicatore che sa riportare l’Uomo ad un gradino più alto rispetto all’Orrore.

Un’anomalia assoluta, nell’ordine di cose basse, tristi, scontate e senza via di scampo.

Molti altri soldati della Legione Esplorativa erano eroici e in gamba ed assolutamente micidiali: Mike Zacharias, per dirne uno.

Ma Levi era assolutamente unico.

Una folgore del cielo avrebbe provato invidia nei suoi confronti.

Dentro di sé ed una volta di più, Petra giurò a se stessa che il suo Capitano sarebbe stato la sua guida e il suo faro: per tutta la vita.

Anche a costo di morirci.

«Avete finito con queste cazzate? È mezzora che vi cerco, porca miseria!»

Nel sentire quella nota voce stizzita, i quattro ragazzi si misero immediatamente sull’attenti.

«Riposo, riposo.» brontolò. «Vi aspetto all’aula conferenze, tra meno di mezzora. Però prima andate a lavarvi e cambiarvi, voi due soprattutto» al che si rivolse, additandoli, a Petra ed Auruo, che chinarono il capo, imbarazzatissimi. Levi ci si stava divertendo un mondo e se la stava ridendo sotto i baffi, seppur ostentando il suo solito corruccio. «Non posso di certo parlare alla mia squadra con i calzoni tutti bagnati di piscio!»

«Capitano… ehm… vuol dire che… facciamo parte della squadra?» trasecolò Erd, incredulo.

Gli altri ragazzi non sapevano se poterci credere, era troppo bello! Il loro eroe li aveva scelti!

Levi si era già girato per andarsene, al che si voltò verso Erd, squadrandolo con occhio critico.

«Secondo te, mi sarei preso la briga di starvi dietro in tutte queste settimane per fare che? Non fatemi pentire della mia scelta! E adesso datevi una cazzo di mossa!»

«Signorsì, Signore!» esclamarono all’unisono, felici come non mai.

****

Qualche ora dopo…

«Te l’ho detto, Comandante. Volevo solo che Meti partecipasse alla ricognizione per aiutarla a superare lo stato di amnesia… non avrei mai potuto immaginare che poi sarebbe stata così male…»

Hanji Zoe sospirava, affranta, gli occhi lucidi. Non era angosciata tanto per la punizione che stava rischiando di subire per l’iniziativa presa, quanto per le condizioni di salute in cui ora versava l’amica. Al ritorno dalla missione, infatti, Meti era stata colta da una fortissima febbre cerebrale e adesso era in serio pericolo di vita. In mancanza di feriti gravi, Ron Hervert si era subito dedicato alle cure della collega, di cui non aveva nascosto le gravi condizioni.

Smith si era riunito con Zoe, Zacharias, Nanaba e, ovviamente, Levi. Per quanto la ricognizione avesse avuto un esito più che positivo, che sicuramente gli avrebbe guadagnato elogi e premiazioni da parte del Generalissimo, non riusciva proprio a goderselo, quel suo momento di gloria.

La sua donna stava seriamente rischiando di morire.

E questo perché convinta da Hanji Zoe a partecipare alla missione. Non sapeva cosa pensare, cosa fare. Adirarsi con la caposquadra sarebbe stato ovvio e comprensibile. Eppure sapeva benissimo che le intenzioni della scienziata erano state buone.

«Non posso passarci sopra. Questo lo capisci anche tu. Hai ritenuto di assumere un’iniziativa assolutamente sconsiderata senza consultarmi, ed hai messo in serio pericolo un commilitone inabile al servizio. Te ne assumerai la responsabilità, anche se so che le tue intenzioni erano buone. Ti farò stare in consegna per un mese. Ovviamente, nel rapporto a tuo carico ometterò alcuni dettagli, per far apparire la tua punizione come più che adeguata… e noi sappiamo che non lo è. Meriteresti la Corte Marziale, per quanto fatto.»

Hanji annuì, asciugandosi gli occhi al di sotto delle lenti.

Smith si alzò in piedi e, in un moto di pietà, andò a battere una leggera pacca sulla spalla della scienziata.

«Zacharias, accompagna il Caposquadra Zoe alla sua cella.» ordinò, atono.

Non intendeva infierire su Hanji, aveva bisogno di soldati valorosi come lei, e sapeva quanto bene volesse a Meti. Il suo era stato un errore di valutazione, assolutamente non previsto e non voluto. Ma lui doveva semplicemente far rispettare il codice militare e la disciplina: la sua stessa posizione di Comandante, purtroppo, non gli faceva sconti.

E poi… lui pure aveva commesso lo stesso errore, tempo prima, esponendo Meti al rischio di un assassinio da parte di un sicario.

La Corte Marziale se la meritava lui, invece, e molto più di Hanji Zoe. Questo lo sapeva benissimo. Per questo avrebbe redatto un rapporto non completamente attendibile.

Congedatosi dagli altri ufficiali, Smith si recò in ospedale.

Voleva rivederla.

Alcune ore prima aveva assistito, allibito, alla scena di Mike che avanzava per il piazzale della caserma con in braccio una Meti esanime. Fu un momento terribile, sulle prime l’aveva creduta morta, non capendo cosa ci facesse lì, all’ingresso del castello, mentre l’aveva saputa durante la missione con Ron e gli altri, al sicuro.

Fu una Zoe affranta a spiegargli quanto accaduto, per l’appunto. Levi aveva poi perorato l’azione di Hanji, dato che Meti era stata comunque adeguatamente protetta da soldati addestrati e portata in salvo da Mike. Lo stato catatonico in cui ora versava era dovuto probabilmente ad un grosso spavento, dato che era assolutamente illesa.

Adesso, però, era necessario che le scendesse la febbre altissima che le era sopraggiunta.

Fu terribile quanto vide, una volta giunto alla stanza ove Meti era ricoverata. La sua donna era in preda al delirio: si dibatteva, ad occhi chiusi, madida di sudore, piangendo, urlando come in preda all’angoscia e dicendo cose incomprensibili, in una strana lingua. Ron, da solo, stava cercando, invano, di farle bere una pozione antipiretica a base di belladonna, per farle abbassare la febbre: in quel momento gli infermieri erano impegnati a fasciare dei feriti e a redigere le bozze dei rapporti, che poi Hervert avrebbe controllato. A fatica l’anziano medico tentava di tenerla ferma e di farle trangugiare la medicina.

Erwin intervenne subito, per bloccarla fisicamente con le sue forti braccia: la tirò su e la tenne stretta sé, in modo che Ron potesse somministrarle il farmaco. Dopo pochi minuti, Meti si accasciò sulla spalla di Erwin, il quale, con estrema delicatezza, la fece distendere sul letto: la donna si placò e rimase immobile, come morta.

Quello che Erwin e Ron, sconvolti e provati da quanto appena visto, non potevano di certo immaginare, era che Meti stesse rivelando al mondo la verità.

Quella verità che era costata la vita al padre di Erwin, che avrebbe comportato morte e sofferenza per ancora migliaia di persone.

Quella verità che teneva in scacco l’Umanità intera.

La lingua adoperata dalla malata era quella conosciuta, in assoluto segreto, di generazione in generazione, dall’antichissima famiglia Athiassy: la stessa lingua in cui, mesi addietro, il conte Goram Athiassy, il giorno prima del suo assassinio, aveva rivelato tutto alla sua unica figlia. Il delirio della febbre le aveva fatto affiorare, dal subconscio, il terribile ricordo della rivelazione.

Distrutto, Erwin si lasciò ricadere su una sedia, tenendosi il capo tra le mani.

«Cerca di reagire… non dobbiamo arrenderci. Farò tutto quanto in mio potere per salvarla, te lo prometto.»

Il buon dottore cercava di confortarlo, con pacche affettuose sulle spalle. Ormai non poteva avere più dubbi sui sentimenti del Comandante per Meti.

Lacrime silenziose percorsero le gote di Erwin.

Da quanto tempo non si donava più il conforto delle lacrime?

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Capitolo 18
*** XVIII. Nuove albe ***


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Il giorno dopo…

«Non è giusto. Cazzo.»

Mike brontolava, chiaramente innervosito. Insieme a Nanaba era andato a trovare Hanji, che ora si trovava in cella.

La scienziata sorrise, suo solito: non era da lei lasciarsi abbattere dalle circostanze e dopo un iniziale momento di scoramento aveva deciso di prendere le cose con la giusta filosofia.

«No dài, non fa niente. Vorrà dire che mi riposerò e che penserò ancora a nuovi aggiustamenti del movimento tridimensionale. Grazie, Nanaba, per avermi portato i miei appunti, così sfrutterò ogni momento utile per studiare i miei ultimi accorgimenti!» allargò il sorriso da un orecchio all’altro, per poi mutar di espressione. «Lei… come sta? Avete avuto notizie?»

«Ha ancora la febbre alta. Hervert non ci ha dato il permesso di vederla, ci ha solo detto questo.» bofonchiò Mike, con aria preoccupata, grattandosi il mento.

Nanaba abbassò lo sguardo.

Non conosceva a fondo la Narses, ma si rendeva conto che quanto accaduto fosse di grande impatto per Hanji ed anche per Mike. Non era facile per lei riuscire a competere, in fatto di amicizia, con un rapporto nato tra tre persone sin dai tempi del Corpo di Addestramento: questo, sebbene ce la mettesse tutta a farsi apprezzare da Zoe come soldato, e… da Mike come donna.

Quando questi l’aveva scelta come Team Leader della sua Squadra aveva toccato il cielo con un dito, anche se le stava divenendo sempre più chiaro che l’uomo la vedesse in via esclusiva come valente combattente e compagna d’armi… e non anche come possibile compagna di vita. Si era innamorata di lui sin da subito, da quando lui le aveva annusato i capelli al loro primo incontro.

“Sai di buono”.

Queste parole l’avevano colpita profondamente anche perché accompagnate da uno sguardo gentile e da un sorriso simpatico. Poi il ragazzone se n’era andato a sovrintendere a degli esercizi di equitazione per le reclute, lasciandola di sasso.

Amore ed ammirazione per Mike si erano quindi insediati nel suo cuore, avendo avuto modo, nel corso del tempo, di apprezzarlo per il coraggio, l’ardimento e lo sprezzo del pericolo, oltre che per la bontà d’animo e la generosità. Senza contare che Mike Zacharias era pure un gran bell’uomo: con la zazzera bionda al vento, i suoi 196 centimetri di statura ed il fisico possente, non passava di certo inosservato.

Ovviamente cercava di non palesare a nessuno il suo stato d’animo e i sentimenti che provasse per Mike, ritenendo che per lei non vi fosse speranza alcuna di essere ricambiata. Le parole di Hanji la riscossero dai suoi pensieri.

«Ehi, bionda, sei sulle nuvole? Ti stavo chiedendo di farmi un altro favore…»

«Scusami, Hanji. Dimmi pure.»

Nanaba riuscì, seppur a fatica, a render ferma la voce e a non sottrarsi allo sguardo indagatore della scienziata. Mike non aveva mutato di espressione e se ne restava appoggiato alla parete di fronte alla cella d’ordinanza, a braccia conserte.

«Vorrei vedere Meti, anche se solo per pochi minuti. Tu e Mike potreste andare da Smith e chiedergli un piccolo permesso per me?»

I due amici annuirono, per poi voltarsi nell’udir dei passi giù per le scale.

«Allora, Quattrocchi, almeno qui sotto te ne stai tranquilla, o fai casini tuo solito?»

Seppur a modo suo, anche Levi ci teneva ad esprimere solidarietà alla compagna d’armi, punita sin troppo severamente da un inflessibile Smith. Hanji questo lo comprese, e lo accolse con un sorriso a trentadue denti.

«Oh sì, qui sotto me la sto spassando un mondo: mangio, dormo, leggo, penso ai miei Giganti… è una pacchia! Dovresti farlo pure tu: che ne pensi, eh? La cella qui accanto è libera: se vieni a stare qui pure tu potremmo fare un sacco di cose insieme... e magari pure di cosacce

«Tu sei tutta matta! Bisogna lasciarti qua e gettare via la chiave!»

Nanaba e Mike assistettero allibiti al siparietto dei due, per poi scoppiare a ridere: fu, quello, il primo momento di distensione dopo tante ore difficili.

****

«Complimenti, davvero… mi sa che dovrai restituirmi almeno parte del compenso! Sarebbe questa la tua devozione tanto professata a noi?»

L’uomo magro e minuto era furibondo.

Ticchettava nervosamente la punta delle dita sui braccioli della poltrona, guatando iroso di sotto in su il suo alto interlocutore. Era dell’idea che una volta presa la decisione di far piazza pulita degli Athiassy, e della loro dannata reminiscenza, anche contro il parere di Rod, non si potessero assolutamente fare passi falsi.

Per il vecchio le cose erano andate lisce come l’olio: Uri aveva saputo del suo funerale, al paesello di campagna. Ma la figlia non solo era sopravvissuta, come aveva appreso da fonti certe, ma aveva persino preso parte alla prima ricognizione di Erwin Smith, Comandante fresco fresco di carica: una missione, tra l’altro, assai ben riuscita, che si era guadagnata gli encomi ufficiali di Zackely in persona.

«Il mio è stato un errore… di valutazione. Non avrei dovuto mandare uno dei miei uomini a fare il lavoro, ma andarci io stesso. Ma intendo metterci una pezza… Non dubitare.»

Colto in fallo come uno scolaretto, Kenny si tolse il feltro, per grattarsi la testa.

Si sentiva in serio imbarazzo: quella era la prima volta che il lavoro non era stato portato a termine in modo perfetto. Si ripromise di far passare a quell’incapace del suo uomo un gran brutto quarto d’ora, una volta tornatosene alla base.

«Non ora. Non subito. O potremmo destare dei sospetti. Sicuramente alla caserma dell’Armata Ricognitiva se ne staranno all’erta, data la morte di Goram Athiassy. Tu per adesso te ne starai rintanato: per un po’ non voglio più sentir parlare di te, sono stato chiaro? Non farti più vedere, sino a nuovo ordine. Ed ora, ritornatene nei bassifondi!»

Senza dire una parola, Kenny si riscosse, sputò a terra la mistura di erbe e funghi che era solito masticare, per rimettersi il cappellaccio sgualcito in testa ed andarsene.

Sospirando, Uri si riappoggiò allo schienale della poltrona.

Si sentiva stanco, troppo stanco di portare, dentro di sé, oltre al rimorso per i delitti compiuti, anche il peso di un mostro immondo.

Era arrivato per lui il momento di passare ad altri il suo immane fardello… ed aveva anche deciso quale persona fosse la più adatta, nonostante la giovane età.

L’importante era finire.

****

Un terribile cerchio alla testa fu la prima cosa che avvertì, impiegando non poco ad aprire gli occhi e a mettere a fuoco.

Le tempie le pulsavano fortemente e, non senza fatica, riuscì, dopo qualche minuto, a sollevare le mani per premersele.

«Meti…»

Non era sola.

Battendo le palpebre vide un Erwin dall’aria stravolta alzarsi subito dalla sedia per avvicinarsi al suo capezzale e sedersi sul bordo del letto, il più possibile vicino a lei. Contrariamente a suo solito, non portava la corta chioma bionda perfettamente in ordine e con la scriminatura netta: era scarmigliato, con ciuffi più lunghi a coprirgli la fronte. Barba lunga e occhiaie profonde e violacee completavano il quadretto.

Fu allora che come una sorta di squarcio di luce le attraversò la mente.

Erwin.

«Erwin!» mormorò, sollevando una mano che prontamente fu racchiusa dalle mani di lui, e sfiorata dalle sue labbra.

L’uomo capì, dal tono di voce di Meti, che finalmente la donna si ricordava del loro rapporto.

«Sei tornata… sei tornata da me… Grazie…» mormorò.

Poco dopo, Meti venne visitata da Hervert e dichiarata fuori pericolo: la febbre era finalmente scesa ad una temperatura accettabile di poche linee. La donna era perfettamente vigile e cosciente, in grado di rispondere alle domande vaglianti il suo stato di lucidità mentale. Era però molto debole e bisognosa di tranquillità e di riposo.

Erwin stava quindi per essere congedato, per permettere alla paziente di dormire, quando, improvvisamente, Meti divenne, se possibile, ancora più pallida.

«Mio padre… hanno colpito mio padre…» riuscì, non senza fatica, ad articolare, mentre cercava di sollevarsi dal letto per alzarsi, tentativo subito vanificato da Smith, che la bloccò stringendola forte. «Devo andare da lui ha bisogno di me… è ferito! Lasciami, devo andare da lui!» si mise ad urlare.

Sia Erwin che l’anziano medico tentarono di tranquillizzarla e di farla ragionare, ma solo un ceffone di Smith la fece tornare in sé. La donna scoppiò in lacrime sulla sua spalla, vinta.

«Calmati… ora come ora non si può far molto… tra qualche giorno prenderemo informazioni sull’accaduto e vedremo cosa fare.» le sussurrò sui capelli, tenendola abbracciata.

Erwin non poté che mentirle, viste le sue condizioni di salute. Levi aveva chiaramente fatto rapporto sull’uccisione di Goram Athiassy, come testimoniatogli dai contadini conosciuti nelle tenute del conte. Ma era necessario prendere tempo ed aspettare che Meti fosse un po’ più forte, per poterle far apprendere la verità, con tutti i dettagli.

Stremata, Meti si assopì tra le braccia dell’uomo, che la cullava come se fosse una bambina.

****

Per Meti iniziò quindi la convalescenza.

Dopo un paio di giorni, una volta completamente sfebbrata, fu riaccompagnata nei suoi alloggi, ove ricevette la visita di Mike e di Levi. Mentre il primo si limitò ad annusarla, compiaciuto di sentire di nuovo il consueto profumo di lavanda, Levi, accomodatosi suo solito sul piccolo sofà dopo essersi stiracchiato languidamente, constatò filosoficamente che “neanche i Giganti ci possono fare niente quando si ha la testa dura come la sua”, con tanto di linguaccia di Meti, di rimando.

Un serio litigio, però, scoppiò di lì a poco con Erwin, ritrovatosi da solo con lei, com’essa venne a sapere dello stato di arresto di Zoe. Insistette con l’uomo per la commutazione, quantomeno, della punizione comminata all’amica in una più lieve.

«Un tempo questo favore lo facesti tu a me, e ti ricordo che la mia insubordinazione fu ben più grave di quella di Zoe, dato che aggredii fisicamente Keith Shadis: intercedesti per me, te lo ricordi? Stavolta le cose sono ben diverse, Hanji non ha nessuna colpa, ho accettato io di far parte della ricognizione, è stata una mia decisione, non sono una bambina, né una mentecatta. Se desideri tanto punire qualcuno, allora dovresti punire direttamente me!» brontolò, camminando avanti e indietro per la stanza, nonostante Hervert l’avesse raccomandata di restarsene a letto, o almeno seduta in poltrona, per poter riprendere le forze.

Erwin la bloccò nel suo nervoso andirivieni, fissandola negli occhi con cupa determinazione.

«Meti, ti ricordo che le ricognizioni sono progettate a tavolino: ogni dettaglio viene deciso dopo attente valutazioni. Non tutti i soldati in carica vengono scelti per una missione, dovresti saperlo! E tu, a parte l’episodio isolato dell’esplorazione notturna di cattura di un Titano di diversi mesi fa, meno pericolosa perché, per l’appunto, più circoscritta, sono anni che non prendi parte alle ricognizioni a causa della tua…» al che sospirò, chiaramente a disagio, «disabilità.»

Meti spalancò gli occhi, basita, ricacciando a fatica le lacrime che le stavano affiorando, dispettose.

Si stava sentendo umiliata.

Proprio da lui.

Erwin lo intuì. Le accarezzò le spalle, raddolcendo lo sguardo.

«Ti prego… smettila di pretendere da te l’impossibile. Sei un medico, un bravissimo medico e la nostra Armata ha bisogno di te in quanto tale. Molti qui ti sono sinceramente affezionati. Ma come aspirante mangime per Giganti ci sei perfettamente inutile.» dedusse, in tono asciutto.

Nell’udir ciò, Meti strinse le labbra, seccata, fissandolo negli occhi.

Erwin continuò. «Il Caposquadra Zoe si è assunta le sue responsabilità, decidendo di proporti di partecipare alla missione, senza consultarmi, stravolgendo i piani già concordati a tavolino. Non posso indulgere in simili comportamenti. Questo è un esercito, non una scolaresca. Ci sono delle regole: dure, inflessibili, detestabili, quello che vuoi. Ma tant’è. Se non intendi rispettarle, puoi sempre dimissionarti e ritirarti a vita privata. Io non ti trattengo…» al che la voce gli tremò, impercettibilmente. «Ma finché resterai qui dovrai obbedire agli ordini: e, almeno per ora, sono io che li impartisco. Come dicesti proprio tu tempo fa, fuori dal letto siamo due ufficiali ed io sono il tuo superiore. Anche se ti amo, non posso permetterti di mancarmi di rispetto, non tanto per me stesso, ma per la carica che ricopro, che costa dolore e sacrificio per tante persone… ed anche per me.» mormorò, alla fine.

Meti annuì e tacque, chinando il capo.

Stanca, si scostò dalla presa di Erwin e andò a sedersi su una poltrona.

Del discorso di Smith una cosa l’aveva colpita profondamente: l’uomo le aveva appena confessato di amarla, ma anche che, nonostante ciò, non le avrebbe fatto sconti. Il Comandante del Corpo di Ricerca non avrebbe mai ceduto il passo all’uomo innamorato.

«Va bene Erwin. Ho capito.» mormorò, sospirando.

Aveva anche ben inteso, in cuor suo, cosa fosse davvero accaduto al suo povero padre, senza che ancora nessuno si fosse deciso a dirle la verità.

Non era più necessario, ormai.

Adesso aveva bisogno di riflettere sul da farsi, di capire come muoversi, ora e per il futuro. Troppi interrogativi le si stavano affollando nella mente, anche a seguito delle rivelazioni che suo padre le aveva fatto, il giorno prima del suo assassinio. E questi interrogativi riguardavano, a questo punto, anche la prematura morte di Basil.

Si trattò davvero di un incidente sul lavoro? A questo punto, forse era il caso di investigare: cosa che, all’epoca dei fatti, troppo sconvolta ed addolorata, non era stata in grado di fare.

Un terribile sospetto aveva infatti cominciato a farsi strada nella sua mente. La guarigione dall’amnesia grazie al trauma subito alla vista dei Giganti le aveva restituito tutto il suo passato, la coscienza di sé… ed ora anche maggior conoscenza sui fatti delle Mura e dei Giganti stessi.

Doveva anche decidere cosa fare di tali scoperte: se e come renderle note ad Erwin. Voleva proteggerlo, temeva che tenerlo al corrente della verità, di tutta quanta la verità, potesse esporlo troppo, metterlo in pericolo, invece di avvantaggiarlo. Aveva quindi bisogno di riflettere bene, di capire cosa fosse meglio dirgli e cosa no, per il suo stesso bene. Se gli fosse accaduto qualcosa, non se lo sarebbe mai perdonato.

Senza quasi accorgersene, si portò le mani alle tempie, che le pulsavano dolorosamente, chiudendo gli occhi.

Erwin si allarmò, temette che le sue parole l’avessero ferita e che ora si sentisse male. Con tenera apprensione, le si accostò, posò un ginocchio a terra, per avvicinare il viso a quello di Meti, appoggiando le mani con delicata fermezza sulle spalle di lei.

«Meti… ti senti male? Vuoi che chiami Hervert?»

La donna spianò il viso e, guardandolo con dolcezza, si sforzò di sorridergli, per rassicurarlo.

«No… no, sto bene, ho un po’ di emicrania, tutto qui. Non ti preoccupare. Ho semplicemente bisogno di riposarmi. Scusami per prima. Non volevo mancarti di rispetto… sono solo dispiaciuta per Hanji.»

In tutta risposta, Erwin le prese il viso tra le mani e la baciò con tenerezza.

«Vorrebbe vederti. Ti farebbe piacere ricevere una sua visita?»

«E me lo domandi? Dopo che mi sono fatta annusare da Mike e sentirmi dire da Levi che con la testaccia dura che mi ritrovo c’è poco da preoccuparsi per me, pensi che mi possa far mancare quella svitata? Scherzo… lo sai che le voglio bene, lei è molto importante per me. Sapendola in cella per colpa mia mi fa sentire uno schifo.»

Smith la strinse a sé.

«Domani il Caposquadra Zoe verrà a vederti per un permesso premio per buona condotta. Dopodiché sarà accompagnata nei suoi alloggi, ove completerà lo stato di arresto. Va meglio, così, Milady

In tutta risposta, Meti gli baciò una mano, in segno di devozione.

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Capitolo 19
*** XIX. La prima ora ***


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Già dal giorno seguente Meti tornò al suo lavoro.

Non intendeva indulgere nello stato di riposo, nonostante le accorate raccomandazioni di Hervert in tal senso. In Caserma c’era molto da fare, non solo relativamente alle visite e alle cure dei soldati, ma anche a livello burocratico: c’erano sempre certificati, resoconti e dispacci periodici da redigere.

Lavorare era da sempre importante per lei, per farla sentire utile e per ribadire, soprattutto a se stessa, di avere un suo posto nel mondo, a dispetto di qualsiasi accadimento esterno.

Persino Hanji, che era andata a trovarla grazie ad un permesso di Erwin, era rimasta perplessa nel vederla in piedi, composta e tranquilla suo solito, e con già indosso il camice candido.

«Sei ancora più testarda di me, con il lavoro! Dovresti startene a riposo!»

«Sai come si dice, no? Se vai con lo zoppo…» chiosò Meti beffarda, ironizzando sulla sua stessa disabilità. Sorrise, poi, per tranquillizzarla.

Le due donne furono felici di ritrovare parole e modi resi unici dalla loro amicizia: la guarigione di Meti dallo stato di amnesia aveva reso possibile il ripristino del loro rapporto. Le cose con Erwin, invece, stavano vivendo un particolare momento di stallo… di “non detto”.

L’uomo le aveva chiesto la sera prima di potersi fermare da lei, per passare insieme la notte: non tanto per far l’amore, dato che Meti era ancora un po’ debole e bisognosa di riposo, ma giusto per poter ripristinare quella dolce intimità che, tempo addietro, si era creata tra loro e che era stata poi interrotta dalla scomparsa di lei, cosa che li aveva tenuti separati a lungo.

Scusami… ma mi sento molto stanca e preferirei restare da sola…

Smith non aveva insistito oltre e, dopo un ultimo bacio a fior di labbra, si era congedato, chiaramente avvilito.

Adesso era necessario riprendere pian piano i passi, per potersi ritrovare. In questo senso Erwin, che di suo era sostanzialmente un uomo d’azione, era desideroso di recuperare il tempo perduto, per quanto possibile: Meti gli era mancata terribilmente, non solo durante i mesi di lontananza, ma anche a causa dell’amnesia che poi l’aveva colpita, rendendo impossibile ogni contatto diretto con lei.

Meti, al contrario dell’uomo, era invece molto combattuta sul da farsi.

I suoi sentimenti per Erwin erano sinceri e profondi, sentiva anzi di amarlo anche più di prima.

Ma doveva decidere come gestire le rivelazioni fattele dal padre: rivelazioni che gli erano costate la vita, per mano di un sicario. Solo per pura fortuna lei non aveva fatto la stessa fine. Sapeva che il suo uomo attendesse delle informazioni, dato che essenzialmente le aveva chiesto di riallacciare con suo padre proprio per poter finalmente conoscere la verità. Anche se, per il momento, più che altro per delicatezza d’animo, non le aveva chiesto nulla, nei prossimi giorni di sicuro avrebbe cercato di affrontare con lei il discorso.

Per questo motivo Meti cercava, per quanto possibile, di tenersi impegnata e di procrastinare quel momento, tenendo l’uomo un po’ a distanza.

Aveva molta, molta paura.

Più rifletteva sulla cosa, e più si convinceva che raccontare ad Erwin quanto rivelatole dal padre lo avrebbe messo automaticamente in serio pericolo di vita.

Suo padre era stato assassinato.

E, ripensando al passato, cominciò seriamente a sospettare che anche la morte di Basil non fosse stata affatto accidentale: altro che “incidente sul lavoro”! Basil era sempre stato perplesso sul conto delle Mura. La sua morte improvvisa cominciava ad esserle sempre più sospetta.

Al tempo stesso, oltre alla paura, Meti sentiva crescere dentro di sé la rabbia e il desiderio di vendicarsi: suo padre e suo marito erano morti, e adesso anche Erwin rischiava di perdere la vita, come anche lei stessa, e tutto questo per colpa di chi? Cercava di ragionarci su. Posò la penna con cui stava redigendo un rapporto statistico su malattie infettive dell’ultimo periodo in caserma e si resse le tempie con ambo le mani.

Ragiona Meti, ragiona…

Il Re era un impostore.

I veri Reali erano i Reiss, famiglia antichissima, le cui origini si perdevano nella notte dei tempi, che tenevano a mantener tutto ben nascosto, tirando le fila da dietro e mantenendo sul trono un re-fantoccio. I Giganti erano, in realtà, proiezioni di esseri umani… e le Mura stessa li contenevano.

Meti sorrise amaramente, su quest’ultimo aspetto: non ignorava di certo il fanatismo religioso di chi venerava le Mura, pregando per la loro “intercessione” in favore dell’Umanità. Re Fritz, un secolo prima, aveva condizionato a livello psi tutto il popolo delle Tre Cerchie… per fargli dimenticare tutto.

Ogni cosa era finita nell’oblio.

La gente viveva tranquilla ed ignara all’interno delle Mura, accettando di non poter accedere all’Esterno per la presenza di quei dannati mostri. Peccato che gli Athiassy ed un’altra famiglia, quella degli Ackerman, avessero la mente troppo forte per subire tale condizionamento psi.

Chissà… forse sarebbe stato utile rintracciare qualcuno degli Ackerman… magari parlare con loro della situazione e cercare un modo per venirne fuori. Anche se l’unico Ackerman di conoscenza di suo padre era un losco figuro di nome Kenny, che era stato solito dargli il tormento con visite inopportune, atte a tenerlo obbligato verso i Reiss e ad obbedir loro.

Quando Goram glielo aveva confessato, Meti si era sentita stringere il cuore: il suo povero padre aveva dovuto affrontare, per anni, delle situazioni difficili e sgradevoli. Nonostante il censo e la posizione privilegiata, egli non aveva affatto vissuto da uomo libero, ma costretto a sopportare soprusi, minacce – più o meno velate – e comportamenti persecutori.

Il punto focale, alla fin fine, erano quindi i Reiss, inutile girarci intorno.

Maledetti, magari hanno pure dei sicari che fanno il lavoro sporco per loro… chissà.

Chi aveva quindi ucciso suo padre e, chissà, forse anche suo marito, non doveva restare impunito: non sarebbe stato giusto.

Del resto, lo stesso padre di Erwin era stato assassinato perché aveva osato confidargli, da bambino, che quanto scritto nei libri di scuola fosse un’immane falsità: essendo Erwin ancora un fanciullo, aveva ingenuamente rivelato a dei compagni di scuola quanto raccontatogli dal padre. Il risultato fu una lapide bianca davanti cui si ritrovò dopo pochi giorni, orfano e solo al mondo. Erwin lo aveva raccontato a Meti una sera di tempo addietro: lei lo aveva abbracciato, stringendolo forte a sé, mentre lacrime brucianti le avevano segnato il volto. Per Erwin quella perdita dolorosa ed ingiusta, che lo aveva privato, ancora bambino, dell’affetto e della guida di suo padre, era stata la principale motivazione per cui avesse abbracciato la Causa dell’Umanità.

Nessuno avrebbe più dovuto avere paura della Verità, anche a prezzo della propria vita: questo era l’intendimento cui Erwin aveva conformato tutta la sua vita.

Ma Meti non riusciva, non ancora, a pensarla allo stesso modo, per quanto si sforzasse.

«Messaggio per la dottoressa Narses».

Un messo ufficiale di Mitras si era affacciato alla porta dello studio di Meti, interrompendo così il flusso delle sue amare riflessioni. Ringraziò e, incuriosita, aprì la busta consegnatale, tenuta chiusa da un elegante sigillo di ceralacca, il cui simbolo impresso non le era affatto nuovo.

Messasi a sedere per poter leggere, si accorse che si trattava della convocazione del Notaio Demio Valeris presso il suo studio. Era uno stimato professionista della piccola nobiltà togata molto noto nella capitale, cui il suo stesso padre si era rivolto spesso, in passato, per transazioni e rogiti. Da bambina lo aveva visto spesso ospite a casa sua.

Probabilmente sarà per la successione… pensò Meti, tristemente.

Nulla di strano o di anomalo: lei era pur sempre l’unica erede di suo padre, il Conte Athiassy.

Adesso era tutto suo: denaro, gioielli, animali, titoli, il palazzo di Mitras, le diverse proprietà fondiarie, tra cui quella di campagna ove era andata a trovarlo l’ultima volta… e dove aveva quasi trovato la morte insieme a lui.

Lacrime brucianti le affiorarono tra le ciglia. Le ricacciò indietro, con forza. Non era più il momento di piangere, ma quello di agire.

Si alzò alla ricerca di Hervert: aveva bisogno di alcuni giorni di permesso, per poter andare a Mitras. Meglio non mettere Erwin al corrente, o avrebbe fatto molte, troppe domande. Per un permesso di pochi giorni non sarebbe stato necessario rivolgersi al Comandante: Ron Hervert era il suo diretto superiore e poteva accordarle direttamente la licenza nel pieno rispetto del Regolamento.

Quanto alla sua micia, l’avrebbe affidata alle cure di Petra Ral, che durante il viaggio di ritorno dalla campagna le aveva confessato di adorare i gatti sin da piccola.

****

«Allora, come andiamo?»

Gli versò un cordiale, mentre Erwin esaminava alcuni documenti sugli ultimi maneggi della Corte Reale.

Si trattava di incartamenti secretati, che gli agenti segreti di Pixis erano riusciti a trafugare.

Erwin esaminò i documenti, la fronte aggrottata, senza toccare il calice che l’amico gli avesse offerto.

Preferiva esaminare quei documenti a mente lucida, e i liquori che tanto piacevano a Dot erano troppo forti per i suoi gusti, lui si concedeva giusto un gotto di birra, una volta ogni tanto.

Si trattava di certificazioni di conformità di presidi di manutenzione delle Mura. Risaltava chiaramente che nonostante alcuni parametri fossero poco regolari, era stato comunque concesso il placet dalle autorità preposte. Dal mucchio estrasse un resoconto di infortuni e decessi dell’ultimo ventennio da parte di soldati della Guarnigione, artigiani, fabbri e manovali.

Una data ed un nome gli saltò agli occhi: Basil Narses, ufficiale di Guarnigione e ingegnere civile.

Decesso per infortunio sul lavoro.

Notò che soprattutto in prossimità di quella data erano morte diverse persone, insieme al primo marito di Meti.

Poi i decessi erano venuti a scemare, progressivamente… in concomitanza con la maggior diffusione del culto delle Mura. Erano aumentate le omelie e le investiture di sacerdoti che officiavano quel tipo di religione; sempre più persone, poi, ne apparivano sinceramente devote.

Alla domanda di Pixis, Erwin sospirò e posò i documenti, strizzandosi gli angoli degli occhi con pollice e indice.

«Cosa vuoi che ti dica… le cose vanno come al solito. Del resto, questi documenti lo testimoniano. Le Mura sono un mistero ancora poco chiaro, anche se forse ci stiamo avvicinando alla verità… un passo alla volta»

Dot annuì, stringendo le labbra, meditativo.

«E la tua dottoressa, te lo ha detto, alla fine, cosa le ha rivelato suo padre? In fondo, è per questo che ce l’avevi mandata, no? Da suo padre il conte, intendo.»

Erwin riordinò i fogli con un gesto secco delle mani, e si addossò allo schienale, sospirando.

«Si è appena ripresa dalla sua amnesia e dopo l’ultima ricognizione è stata gravemente malata. Non ho ancora avuto modo di parlarne con lei. Adesso è a Mitras, per sistemare le sue cose con un notaio. Hervert le ha dato una breve licenza: dovrebbe essere di ritorno la prossima settimana.»

Pixis lo soppesò con lo sguardo, sorridendo tra sé e sé.

Erwin si era confidato con lui, anche se era stato molto parco di parole: però gli aveva parlato di Meti e dei suoi sentimenti per lei. Dot all’epoca se ne era rallegrato, dato che nella vita di un uomo dev’esserci spazio anche per le cose belle, e non solo per il senso del dovere: lui di certo non si era mai fatto mancare le occasioni per sentirsi vivo… un manicaretto, un po’ di musica, un buon calice di vino… una bella donna a fargli compagnia. Non aveva rinunciato a nulla, lui, neppure per la carriera militare: infatti si era felicemente sposato ed era anche diventato padre.

Un giovane uomo innamorato come Smith, d’altro canto, può anche non essere più molto lucido, né abbastanza freddo e razionale: questo Pixis lo sapeva bene. Ma riconosceva che nonostante la relazione intessuta da Erwin Smith con Meti Narses, questa si era comunque prestata alla missione segreta, riallacciando i rapporti con il conte Athiassy per farsi dare ogni informazione utile. Per molti mesi era stata data per dispersa… per poi essere ritrovata affetta da amnesia.

Ma Pixis era un uomo che sapeva essere molto paziente, ed aspettare l’evolversi degli eventi.

«Te ne parlerà… ne sei sicuro?» gli chiese, in tono piano, sedendoglisi di fronte.

«Cosa intendi dire?» gli domandò Erwin a sua volta, perplesso e pure un po’ seccato.

«Ragazzo mio… quello che intendo dire è se la dottoressa Narses vorrà dirti tutto… tutto quello che può aver saputo da suo padre.»

Nel vedere la luce incupirsi negli occhi celesti del suo interlocutore, Pixis cercò di metterci una pezza: quello non era il momento di litigare con Smith per una donna, soprattutto se questa pareva essere tanto importante per lui.

«Non mi fraintendere. Anche se ancora non conosco Meti Narses di persona, so che gode di specchiata reputazione. E sono certo che farà le cose in perfetta buona fede. Ma vedi,» si alzò e andò a dargli una pacca amichevole «le donne vedono le cose in modo diverso da noi uomini: sanno essere protettive e feroci come orse non solo per i figli, ma anche per i loro compagni di vita e i loro amici. Se dovesse comprendere che la verità appresa dal padre potrebbe essere fonte di pericolo… magari per te e per i compagni d’arme, chissà… potrebbe tacere o anche decidersi a dirti solo parte di quanto appreso. Voglio semplicemente metterti in guardia. Questa eventualità capisci bene che va contemplata.»

Erwin si irrigidì. «Forse è come dici tu. Ma ti dico una cosa: se anche fosse, Meti avrebbe le sue valide ragioni. Non dimenticare che suo padre è stato assassinato e che anche lei è stata quasi uccisa, si è salvata per puro miracolo. Io non intendo farle pressioni, di nessun genere. Verrà da me… e mi dirà quanto potrà.»

Gettò un’ultima occhiata agli incartamenti, battendo le palpebre

«Credo che per quanto riguarda le Mura, ci stiamo avvicinando da soli, alla verità. Continuiamo in questo modo e stiamo a vedere.»

Quindi, con un cenno di saluto, Smith si alzò e si congedò.

****

«Siete sicura? Questa è una decisione non da poco…»

L’anziano notaio non sapeva davvero cosa pensare. Una simile donazione avrebbe minato, e non di poco, la consistenza, del patrimonio della neo-contessa.

«Sì. Ho deciso così. Quelle persone hanno assoluto bisogno di un ambulatorio per le prime cure, che riceveranno gratuitamente. Le farò avere nei prossimi un elenco di papabili medici che saranno direttamente remunerati dalle mie rendite. In seguito, vorrei anche far costruire un ospedale e un orfanotrofio. Ho bisogno di tempo, per poter progettare tutto al meglio… teniamoci in contatto. Vi chiedo solo una cosa: anonimato assoluto. Non mi interessa che si sappia nulla di me.»

L’uomo inforcò meglio gli occhialetti d’oro sul lungo naso. Il defunto conte era una persona morigerata e tranquilla, assolutamente incapace di colpi di testa e di decisioni tanto azzardate. Ogni operazione e transazione sinora tenute con il suo apporto professionale erano state atte, semmai, ad accrescerlo, il patrimonio di famiglia. Ma l’erede di Goram Athiassy aveva idee ben differenti. Addirittura pure un ospedale e un orfanotrofio… in quel posto abbandonato da Dio. Non era la prima volta che una signora benestante facesse della beneficienza, ma essa non era quasi mai rivolta ai Sotterranei, luoghi fetidi e frequentati dalla peggior feccia dell’Umanità.

Ogni famiglia ha le sue pecore nere…, bizzarrie da ricche signore annoiate, rifletté Valeris, facendo spallucce.

«Avrei anche un’altra richiesta da farvi. Dovreste custodire una cosa per me»

Meti estrasse un plico sigillato dalla sua bisaccia di cuoio. «Vorrei che teneste questo documento.»

«Immagino che sia il vostro testamento» enunciò il notaio, prendendo in mano la busta sigillata per poi andarla a riporre in uno stipo tenuto celato dietro una parete segreta, azionata con una leva nascosta nei pesanti tendaggi. Cambiò la combinazione della serratura e la memorizzò, masticandosela tra sé e sé. Dopodiché, con assoluta flemma, andò a risiedersi di fronte alla sua ospite, che aveva osservato con curiosità tutte queste manovre del suo interlocutore.

«Non proprio. O meglio: è una sorta di… testamento morale, ecco. Come sapete, sono ufficiale medico all’Armata Ricognitiva. Questi sono tempi pericolosi, per chiunque. Non posso prevedere il futuro… ragion per cui, Vi chiedo di fare una cosa per me. Nel caso dovesse accadermi qualcosa, Vi chiedo di contattare il Capitano Levi del Corpo di Ricerca e di chiedergli di recapitare senza indugio alcuno il plico che avete appena custodito all’Ufficiale Dot Pixis della Guarnigione. Lui saprà cosa farne. Vi prego di ricordare bene quanto vi ho appena detto: è molto, molto importante. Si tratta delle mie ultime volontà… in un certo senso. Solo che riguardano molte persone, non solo la mia situazione personale. Per questo è meglio che ne rendiate partecipi anche ben due ufficiali militari, che godono della mia stima assoluta. Così è più sicuro… per tutti. Comprendete?»

«Perfettamente. Eseguirò le Vostre volontà pedissequamente.» dichiarò in tono sussiegoso. «Anche se, naturalmente, mi auguro che non sia necessario doverlo fare… mi ricordo di Vostro padre e mi ricordo di Voi, sin da bambina… spero davvero che non Vi capiti mai nulla di spiacevole…» aggiunse, in tono sommesso.

«Grazie. Bene,» al che si alzò per congedarsi, subito imitata dal compito professionista. «Nei prossimi giorni Vi farò avere le prossime disposizioni per quella donazione e per la costruzione dell’ambulatorio. I miei rispetti, Notaio.»

****


AVVISO PER I LETTORI: LA SEGUENTE SCENA, PUR NON SCONFINANDO ANCORA NEL ROSSO, E’ UN PO’ FORTE, COME DA AVVISO “TEMATICHE DELICATE” NELLA PREFAZIONE.


Qualche sera dopo…

Lo stava aspettando.

Un po’ come quando aspetti l’ineluttabile.

Seduta nel suo salottino preferito, quello in cui da ragazzina era stata solita esercitarsi nello studio dell’arpa e dell’acquerello, se ne stava immobile su una graziosa dormeuse, cercando di fissare i pensieri dentro di sé. Era stato strano, per lei, varcare di nuovo la soglia del suo palazzo di Mitras, dopo tanti anni.

La servitù incredula aveva assistito al ritorno, ormai insperato, della figlia del conte, ormai padrona assoluta di tutto.

Adesso però Meti sapeva che avrebbe ricevuto una visita, cosa che, in effetti, avvenne.

Del resto, suo padre l’aveva messa bene in guardia, giù, alla tenuta.

A guardarlo, non era neppure sgradevole, come persona. Molto alto e slanciato, un viso a tratti non spiacevole, con quel sorrisetto sottile, a mezze labbra. In un certo senso, era anche elegante, come personaggio. Se abbigliato diversamente, avrebbe pure potuto passare per un gentiluomo.

Lui, il killer.

Le ricordava, a tratti, qualcuno… ma chi? Non riusciva a focalizzare.

Eppure… quella figura, quella allure innata, assolutamente non studiata… chi le ricordava, maledizione?

Non si mosse, rimase perfettamente ferma. Tanto, non avrebbe potuto sfuggirgli in nessun modo: con quelle sue lunghe gambe, Kenny l’avrebbe raggiunta ed agguantata in pochi secondi.

«Mi stavi aspettando, bellezza?» chiosò lui, beffardo ed indolente, avanzando lentamente, senza fretta, un passo alla volta, verso di lei, con le mani in tasca, come un predatore che si pregusta l’uccisione di un animaletto indifeso.

Meti si alzò in piedi, cercando di tenere fermo lo sguardo, anche se si sentiva liquefare dalla paura.

Non devo piangere, non devo svenire, o per me sarà la fine… Si andava ripetendo questo, come un mantra.

Sapeva di dover agire d’astuzia, di dover essere elusiva e scaltra: elusività ed astuzia, del resto, erano le uniche armi a disposizione di una donna indifesa com’era lei, specialmente se di fronte a un sicario prezzolato.

«Abbiamo un conto in sospeso, noi due. So che mio padre è stato ucciso per mano tua e che ora sei qui per finire il lavoro. Ma io non lo farei, se fossi in te.» gli ribatté sforzandosi di guardarlo negli occhi.

Se intuisce che me la sto facendo sotto, è la fine, per me. Erwin… voglio stare con te, per tutto il tempo che Dio ci vorrà concedere… dammi la forza...

«Ah no? E perché non dovrei fartelo, un bel ricamino alla carotide, tesoro?» bofonchiò, fermandosi a mezza strada, piantandosi a gambe larghe e braccia incrociate, come per studiarla meglio, quella curiosa donnina…

Kenny ci si stava divertendo un mondo.

Non gli era mai capitato nulla del genere, sinora. O provavano a scappare, o cercavano di impietosirlo, o tentavano di difendersi: e questo lo facevano anche maschi belli grossi. Ma mai che una bambolina di cera come quella lì, che a malapena gli arrivava alla spalla, si fosse mai peritata di sfidarlo in quel modo.

Una contessa, eh. La spocchia dei nobili non si smentisce mai. Stiamola a sentire, almeno mi fa divertire un po’. Gli svaghi sono diventati rari, di questi tempi…


Meti, con finta noncuranza, strinse le labbra e andò allo stipo di lacca rossa, ove suo padre era solito tenere i liquori più pregiati della sua riserva personale. Kenny inarcò le sopracciglia.

Un déjà-vu, per tutte le puttane di Mitras!

Meti si versò un liquore in un delicato calice di cristallo e se lo scolò tutto d’un fiato.

«Non me ne offri? Tuo padre lo faceva…»

«No.» se ne versò ancora, guardando Kenny con malcelato disappunto. «Sai com’è. Te l’ho detto. Io so la verità. Tutta quanta. E se mi succede qualcosa, sarà tutto svelato. I tuoi preziosi Reiss saranno scoperti e trovati, perseguitati. E non credo proprio che ne saranno felici... di questo tuo pessimo servizio. Il loro cane da guardia non sarà più tanto utile… non è vero, Kenny Ackerman?» gli esplicò, con tono freddo, socchiudendo gli occhi.

Meti stava giocando il tutto per tutto. Aveva una paura folle, ma stava cercando di bluffare alla grande.

Speriamo che se la beva, o sono fottuta.

«Cosa vai blaterando?»

«Tu, piuttosto, cosa credi di fare, eh? Ti ricordo chi sono. Gli Athiassy sono dei sopravvissuti ad altre ere… ad altri mondi. Noi siamo speciali, no? Noi ricordiamo tutto, sappiamo eccome come stanno le cose. Con noi Re Fritz non ha saputo farci nulla… alla nostra memoria, intendo, con i suoi condizionamenti psi. Con la differenza che noi Athiassy abbiamo saputo dissimulare e non ci siamo mai fatti scoprire. Voi Ackerman, invece, siete stati incapaci di fingere e siete stati perseguitati, fin quando poi non avete deciso di starvene zitti e di non far ricordare più nulla alle nuove generazioni, per essere lasciati in pace. Molto furbi. Adesso ti sei messo al servizio di Uri Reiss, giusto? E per suo conto, hai eliminato mio padre ed ora pensi di finire il lavoro con me. Ma non lo farai.» gli sibilò.

Al che gli si avvicinò, sfidandolo apertamente, con l’adrenalina a mille che la rendeva folle e temeraria.

O la va, o la spacca.

O la va, o la spacca, maledetto schifoso.


«Non lo farai, essere vile e abietto.» continuò Meti, a voce bassa e calma.

Fingi, fingi che sia una recita… una di quelle che facevi durante le feste di Corte, da ragazzina, insieme ad altri rampolli che si improvvisavano attori, per divertire la buona società.

«Non lo farai, perché se oserai anche solo torcermi un capello, gli Aristi saranno messi al corrente del tuo delitto, come anche dell’assassinio di mio padre. Ho dato disposizioni precise, cosa credi? Mi sono preparata tutto per bene, persone fidate sanno già cosa fare se tu dovessi uccidermi. Qui scoppierà un tale putiferio che neppure i Reiss potranno difenderti, né nasconderti. Nessun posto sarà abbastanza sicuro per te, neppure se riuscissi a trasformarti in uno scarafaggio potrai rintanarti in qualche fottuto buco. Lo capisci, questo, o sei un essere stupido, capace solo di usare il coltello e non il cervello?»

«Stai bluffando, puttana!» in un balzo, piombò su Meti e la afferrò per le braccia, sollevandola e scuotendola come una bambola di pezza.

«No. Non sto affatto bluffando, e questo lo stai capendo, alla fine. Vattene, Kenny.» lacrime dispettose le affiorarono tra le ciglia.

La tensione nervosa e la paura stavano per prendere il sopravvento. Non era poi così forte, alla fine.

«Hai paura, eh? Adesso sì che fai la femmina… cominciamo a ragionare…» le alitò sul viso, avvicinandosi troppo.

Meti strinse le labbra, per non sputargli in faccia. Respirò forte, e altrettanto forte lo spintonò forte da sé, per poi perdere l’equilibrio e rovinare a terra. Kenny le si buttò addosso, per tenerla ferma con tutto il suo peso. Meti non riusciva a muoversi, era completamente bloccata: l’uomo le teneva serrate le gambe con le proprie, molto lunghe e forti, e con una sola mano le teneva imprigionati entrambi i polsi sopra la testa. Ci si stava divertendo un mondo, nel vedere quella donnina che cercava di dibattersi come un pesciolino impigliato nella rete.

«Lasciami subito, bruto!» gli soffiava in faccia, terrorizzata e furiosa ad un tempo.

Quell’odore.

Lo aveva già sentito… Odorava di sapone, di colonia. Sapeva di pulito, Kenny, nonostante la sua vita fosse più sporca di una cloaca. Batté le palpebre nel guardargli, da vicino, quegli occhi grigi dal taglio così particolare. Gli occhi li aveva davvero belli, una cosa non indifferente in una sagoma, come la sua, che parlava di pura malvagità.

«Non sei mica male, proprio no… anche se mi piacciono di più le bionde. Sarebbe uno spreco farti fuori subito… Non sei di primo pelo, ma meglio così. Non mi interessano le ragazzine, preferisco le donne, io. Almeno sanno dove metterle, le mani…» le sussurrò, roco.

Con la mano libera le lacerò la leggera camicia di batista, e le afferrò un seno seminudo, palpandolo con lascivia. Con la lama del coltello recise i laccetti del corsetto di seta per poterle denudare il petto. Una volta riuscito nel suo intento, bofonchiò un greve apprezzamento.

Meti era terrorizzata, completamente incapace di muoversi. Lo fissava ad occhi sbarrati, con le lacrime che le scorrevano sulle gote.

Poi però notò un particolare.

Quegli occhi allungati, felini, dalle iridi color dell’acciaio, che la osservavano con le pupille dilatate dalla lussuria… Fu come un lampo nel buio.

«Se mi tocchi lo dirò a Levi, e lui mi vendicherà! Fa a pezzi da solo Giganti di oltre cinque metri, ti ucciderebbe in un secondo!» gli sputò di getto, tutto d’un fiato.

Nell’udir quel nome, Kenny spalancò gli occhi e mollò la presa.

Meti lo spintonò lontano da sé ed arretrò per allontanarsi dal suo contatto, coprendosi il seno con le braccia.

«Ho colpito nel segno, eh? Levi è tuo parente, ci avevo visto giusto. Ma lui non è sporco come te: è un uomo d’onore.» Si rialzò, anche se a fatica. «Vattene… vattene via…» mormorò, stremata, cercando di coprirsi il petto con i lembi della camicia stracciata.

Non ce la faceva più.

Con un sorrisetto, Kenny si rimise in piedi a sua volta. Afferrato il feltro, ne scosse della polvere immaginaria e se lo calcò in capo.

«E va bene, signora contessa. Diciamo che abbiamo fatto la reciproca conoscenza e che mi sono divertito un po’… sei un gran bel bocconcino. Hai pure del fegato, te lo riconosco. E io ammiro il coraggio, quando lo vedo. Per stavolta va bene così. Ma ti sia chiara una cosa,» al che le si avvicinò di nuovo e la afferrò per il collo come se fosse un pollo da sgozzare, premendo con il pollice sulla sua giugulare «finché terrai il becco chiuso sui Reiss non ti verrò più a far visita… ma se dovessi parlare di loro con qualcuno, tornerò a trovarti, e la cosa non ti piacerà: non sarò carino come stasera. Mi sono spiegato, bambolina

Meti annuì, socchiudendo gli occhi.

Non riusciva neppure più a parlare, completamente annichilita dal calo di adrenalina, sentendo ancora quella mano micidiale tenerla al collo. Sarebbe bastata una leggera pressione e l’avrebbe uccisa senza difficoltà. Né reagì quando Kenny le catturò le labbra in un bacio umido.

Dopodiché l’uomo mollò la presa e le diede una leggera spinta, per poi allontanarsi a passo lento, mentre Meti si accasciava a terra, distrutta.

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Capitolo 20
*** XX. Catarsi. ***


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(This image is from a google search, no copyright infringement intended)


 
Meti riuscì a tornare in caserma solo dopo qualche giorno: per poter giustificare la sua assenza protratta un po’ oltre la licenza accordatale da Hervert, pensò bene di procurarsi un certificato medico di malattia da un collega di Mitras, un tronfio medico che annoverava tra i suoi pazienti potenti aristocratici e ricchi borghesi.

La visita del dott. Duke Fernsby le costò una piccola fortuna, cosa che le fece storcere il naso.

Si era ripromessa che, nei limiti delle sue possibilità, anche le persone più povere e sfortunate dei Sotterranei avrebbero potuto veder garantite in loro favore le migliori cure del caso. La salute era un diritto di tutti, ricchi e poveri.

Lo doveva alla piccola Isabel Magnolia, mai dimenticata.

La sua assenza protratta era dovuta al fatto che l’incontro con Kenny l’avesse turbata parecchio e che non fosse stata subito in grado di riacquistare un minimo di equilibrio e di autocontrollo. Quell’uomo era stato lì lì per violentarla e solo grazie al suo disperato tentativo di spiazzarlo nominando Levi era riuscita a scongiurare tale pericolo. Se fosse tornata alla base il giorno dopo a quella disgraziata sera avrebbe sì rispettato i termini della licenza, ma non sarebbe stata capace di giustificare il suo pallore, le mani tremanti e gli occhi gonfi e rossi per le molte lacrime versate per la paura, la vergogna e l’umiliazione provate: già Hanji si sarebbe messa in allarme, nel vederla in tale stato, per non parlare di Hervert e, ovviamente, di Smith.

Ancora molto pallida ma composta, ed ostentando una sicurezza che era ben lungi dal provare, Meti ritornò quindi alla sede dell’Armata Ricognitiva in metà mattinata. Per sua fortuna, a quell’ora tutti i soldati erano occupati con lo studio delle strategie di ricognizione insieme ai Capisquadra, e con le sessioni di allenamento. Senza che quasi si incontrasse con anima viva, si rintanò senza indugio nei suoi alloggi, per disfare i bagagli e conservare alcuni documenti personali; dopodiché si recò da Ron Hervert per consegnargli il certificato medico.

«Hmmm… emicrania dell’arteria basilare ed atassia, eh?» Hervert lesse, compunto, la diagnosi della certificazione.

«Sì. Ho raccontato al dottor Fernsby il mio periodo di amnesia e la forte cefalea di cui soffro ormai da qualche giorno, dopo essere guarita dalla febbre cerebrale. È concorde con me sul fatto che tale stato di malessere sia normale e che perdurerà ancora per un po’ di tempo. Mi ha consigliato qualche giorno di riposo assoluto, per questo ho tardato un po’ a tornare. Spero che non ci siano problemi a livello di protocollo… anche se non posso farci nulla, per questo mio stato di malattia» concluse, in un tono un po’ troppo piccato.

Ron non rispose subito, limitandosi ad osservare perplesso la collega più giovane, di sotto in sopra le lenti degli occhiali.

Meti non gliela raccontava giusta.

Era molto tesa, sulla difensiva, dallo sguardo sfuggente. Per non parlare di quanto fosse pallida e sciupata, i capelli in disordine, gli occhi segnati da profonde occhiaie. Per il momento l’avrebbe tenuta d’occhio, sospettando che lo strano atteggiamento della donna fosse da attribuirsi a qualche problema di tipo psicologico… solo che, se davvero si fosse trattato di un male dell’anima e non del corpo, avrebbe potuto fare ben poco, senza la collaborazione di Meti stessa. Decise di darle fiducia e di attendere che la collega si decidesse ad aprirsi di sua volontà, senza forzature esterne.

Solo che… Erwin Smith sarebbe stato in grado di comportarsi in modo analogo, e di pazientare ancora?

I sentimenti del Comandante per Meti non erano più un mistero, per lui: da tempo aveva avuto sospetti sulla vera entità dei rapporti tra Smith e la giovane collega. Quando poi Meti era stata male a seguito dell’ultima ricognizione, ogni dubbio sulla natura della loro relazione era stato fugato: Ron non avrebbe mai immaginato che il compassato ed inappuntabile giovane ufficiale potesse rivelarsi tanto angosciato per Meti, se non in virtù di un sentimento che andasse ben oltre i rapporti di cameratismo tra commilitoni.

«No, non ci saranno problemi, figurati. Provvederò io stesso a regolarizzare la questione, non devi preoccuparti.»

«Ti ringrazio. Allora io vado in ambulatorio, oggi mi sento abbastanza bene. Ci sono delle visite da fare?»

«Sì, un paio di reclute ieri si sono leggermente ferite durante le sessioni di allenamento, ci sarebbe da controllare lo stato delle loro medicazioni. Poi una ragazza lamenta dei forti dolori di stomaco, ieri le ho prescritto un antispasmodico, ma preferirei che anche tu le dessi un’occhiata. Ecco… qui ci sono le loro cartelle mediche.»

Meti prese le cartelle, e si congedò con un lieve sorriso.

La prospettiva di poter passare la mattina visitando dei soldati la fece sentire bene, l’amore per il suo lavoro era sempre stato, per lei, l’unico balsamo capace di lenirle le ferite dell’anima… anche quelle più profonde.

****

Per tutta la giornata se ne era rimasta rintanata nell’ambulatorio, evitando persino di condividere i pasti in refettorio e limitandosi a mangiucchiare delle gallette, tra una tazza di tisana e l’altra.

Fu solo a tarda sera, quindi, che Meti si ritirò nelle sue stanze. Dopo aver coccolato Princess di ritorno dalle sue sessioni di caccia a topolini e lucertole, che durante la sua assenza era stata curata da Petra, si ripromise un lungo bagno caldo, prima di andarsene a dormire.

Aveva però dimenticato di fare i conti con qualcuno.

All’atto di aprire la porta per recarsi ai bagni femminili, infatti, andò a sbattere contro il torace di Erwin.

«Scusami…» farfugliò, apertamente a disagio.

Erwin aggrottò la fronte. La sua espressione non palesava nulla di buono. Senza attendere un cenno di invito da parte di Meti, la scostò delicatamente ma entrò con aria decisa nella stanza.

«Dobbiamo parlare. Ora.» enunciò, in tono calmo ma severo.

Meti sospirò. Senza dire nulla, andò a sedersi sul piccolo sofà del suo studiolo.

Erwin prese una sedia e la pose dinnanzi a Meti, per poi sedervisi a cavalcioni, appoggiando gli avambracci sullo schienale. Fissando la donna corrucciato, le fece intendere, e da subito, che non era in vena di scherzi… cosa che fece subito mettere Meti sulla difensiva.

«Stavo andando a fare il bagno…»

«Mi dispiace, ma le tue abluzioni dovranno attendere per un po’. Ho bisogno di capire cosa stia succedendo.»

«Ma nulla… non sta accadendo nulla…»

Erwin dette in un moto di stizza.

Non era la prima volta, da che la conosceva, che Meti si chiudesse a riccio, rendendo difficile interagire con lei. Solo che adesso cominciava a provare un senso di frustrazione non indifferente. Sentiva di meritarsi maggiore chiarezza e sincerità dalla sua donna.

«Nulla, mi dici: certo, come no. Sparisci per giorni senza degnarti di dirmi il motivo e senza nemmeno salutarmi. Ritorni e te ne stai per conto tuo: se non fosse stato per Hervert, che mi ha avvisato del tuo ritorno, spiegandomi il motivo della tua prolungata assenza e del fatto che non stai bene di salute, io ora sarei completamente all’oscuro di quello che combini. Appunto, dicevo: Hervert mi accenna che sei molto pallida e smunta. E adesso che ti osservo non posso che confermare la descrizione del tuo aspetto. Ma naturalmente non sono degno di sapere direttamente da Milady cosa le stia accadendo» concluse in tono ironicamente amaro, alzandosi, i lineamenti contratti e i pugni serrati, senza smettere di fissare la donna con sguardo cupo.

Meti si alzò a sua volta, angosciata. Si rese conto di rischiare di perdere Erwin, a causa del suo stupido comportamento.

Lo abbracciò, stringendolo a sé.

«Perdonami. Io… voglio cercare di spiegarti, se vuoi ascoltarmi…»

Scoppiò in lacrime. Il suo pianto da silenzioso divenne sempre più violento, sino ad esplodere in singhiozzi convulsi. Erwin temette che Meti stesse per avere un attacco isterico. La strinse a sé, cercando di calmarla con parole rassicuranti, come se fosse una bambina.

«Meti… ma cosa ti succede? Parla una buona volta, o non so come fare per aiutarti!»

«Scusami… ora mi calmo… sembro una sciocca…» mormorò lei, tra un singhiozzo e l’altro.

«Smettila di scusarti, e dimmi piuttosto cosa ti sta accadendo.»

Erwin scostò da sé la donna, prendendola per le spalle e cercando un contatto visivo con lei.

Meti annuì, tirando su con il naso.

Si sentiva una perfetta stupida, una ragazzina piagnucolosa. Altro che donna adulta e medico competente! Lei stessa non si sopportava per niente, in quel periodo. I suoi continui sbalzi di umore erano diventati assolutamente incontrollabili. Di sicuro l’aggressione di Kenny a fondo sessuale l’aveva turbata molto più di quello che cercasse di nascondere a se stessa.

Erwin la ricondusse al sofà e le si sedette accanto. Dopodiché rimase in silenzio, attendendo con pazienza. Finalmente Meti riuscì a ricomporsi. Timidamente, prese una mano dell’uomo e la racchiuse tra le sue.

«Mio padre è stato ucciso. So che è così, anche se mi state ancora sottacendo la verità. Del resto, io non sono morta per mano dello stesso sicario solo per pura fortuna. Ad ogni modo, lo hanno voluto eliminare per via delle rivelazioni che mi fece poco prima…» disse con voce arrochita.

Erwin si alzò per andare a versare un po’ d’acqua da una brocca in un bicchiere, per poi tornare a sedersi accanto alla sua donna.

«Mi dispiace per tuo padre. Credimi. Forse avrei dovuto contemplare questa evenienza… contavo sul fatto che essendo un nobile non sarebbero arrivati a tanto… ma l’omicidio di Lovof avrebbe dovuto essermi di monito.» le disse in tono raddolcito, circondandole le spalle ed accostandola a sé, mentre Meti beveva un sorso d’acqua dal bicchiere.

«Grazie…» mormorò lei.

Sospirò.

Alzò su Erwin uno sguardo spento, cosa che strinse il cuore di Erwin in una morsa feroce. La sua donna soffriva, e lui si sentiva impotente ad aiutarla.

«I Giganti… sai cosa sono quei mostri maledetti? Esseri umani. Come te e me» al che Meti bevve un altro sorso d’acqua.

Erwin balzò in piedi e andò su e giù per lo studiolo, con aria meditabonda, tormentandosi il mento. Meti lo seguì con lo sguardo. Quando l’uomo riuscì a recuperare il suo consueto aplomb e si risiedette accanto a lei, continuò.

«Non so come accada, mio padre questo non seppe spiegarmelo… ma mi precisò che i Giganti sono come delle… proiezioni fisiche di esseri umani, uomini e donne, che restano incapsulati all’altezza della nuca: ecco perché se con le spade li colpite in quel punto muoiono… è perché praticamente uccidete la persona “ospite” al loro interno che li manovra… un po’ come accade per i burattinai che tirano i fili delle marionette… capisci, ora?»

«Immaginavo qualcosa del genere, dato che assumono comunque delle fattezze umane… e dato che uccidono solo esseri umani… del resto, il peggior nemico dell’Umanità siamo noi stessi, no? Homo homini lupus

Sorrise tristemente. Guardò Meti negli occhi con aria perplessa.

«Ma perché tutto questo odio nei confronti del nostro popolo? E tuo padre come faceva a sapere di questo?»

In quel preciso istante Meti si odiò profondamente.

Ma intendeva proseguire per la strada della menzogna, che si era prefissata dopo lunghe riflessioni, per pura e semplice paura.

Kenny l’aveva pesantemente minacciata di morte e sapeva che, in ogni caso, sia il killer che i dannati Reiss avrebbero ben potuto decidere di uccidere non solo lei stessa, ma anche Erwin e chissà quante altre persone venute al corrente della verità.

Avrebbe rivelato al suo uomo solo parte dei fatti, in modo da fornirgli sì qualche informazione utile, ma senza andare a fondo e senza correre troppi rischi. Aveva capito a sue spese che con i Reiss ci fosse ben poco da scherzare. Trattenne un brivido di terrore e di disgusto, poi, ripensando alle pesanti mani di Kenny sul suo corpo e al suo sguardo lascivo.

«A queste domande che gli feci pure io, lui mi rispose con un nome: Grisha Jaeger. Mi ha detto che costui conosce tutta la verità sui Giganti: chi sono i loro “ospiti”, da dove provengono, perché ci vogliono morti… e così via. Stava poi per dirmi altro, ma… non ha fatto in tempo…» mormorò, odiandosi una volta di più per la bugia.

Erwin annuì, meditabondo.

«Ma come faremo a trovare questo tizio? Ti ha detto dove trovarlo?» le domandò poi, perplesso.

Meti chiuse gli occhi per un momento, come per raccogliere le idee.

«Ecco… mio padre mi disse che è un medico, proprio come me.» si scostò, impaziente, una ciocca dalla fronte, che la infastidiva “Ho già controllato l’albo dei medici di Mitras: non c’è nessun medico nella capitale con tale nome. Questo non mi stupisce, perché conosco, più o meno, e anche pur solo di nome, tutti i medici del Wall Sina, e non ricordavo nessuno con questo nome. Dobbiamo cercarlo negli altri distretti, anche in quelli più periferici…»

«Ne parlerò con Dot…» soggiunse Erwin.

Meti annuì, con un leggero sorriso

«Pixis ha degli agenti segreti molto in gamba… vedrai che lo troveranno…»

Erwin la guardò intensamente negli occhi. Poi, senza dire nulla, egli si alzò, prendendo in braccio Meti, la quale protestò debolmente.

«Erwin, io…»

«Ssst…»

I baci di Erwin le mozzarono in respiro.

«Adesso voglio prendermi cura di te.» le sussurrò, tra un bacio e l’altro.

La condusse a passo deciso in camera. La posò sul letto con estrema delicatezza, come se fosse fatta di cristallo, e cominciò a spogliarla, inframmezzando i suoi lenti gesti con baci e carezze.

«Meti… la mia Meti… mi sei mancata da morire…»

Meti lo accolse nelle sue braccia, grata di essere amata da un uomo che adesso sentiva di non meritare fino in fondo.

Il peso della menzogna sapeva che prima o poi l’avrebbe schiacciata: ma per il momento credeva di fare la cosa giusta, temendo le conseguenze di una rivelazione più completa, così come gliela aveva fatta suo padre.

Si abbandonò all’amore di Erwin, rispondendo alle sue carezze e ai suoi baci con tenero ardore.

Cercava costantemente un contatto visivo con i suoi occhi, come per chiedergli un silenzioso perdono. La verità è che non voleva perderlo: non voleva rimanere da sola, di nuovo. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per proteggerlo, nei limiti delle sue possibilità. Avrebbe fatto di tutto, anche fronteggiare nuovamente Kenny Ackerman, se fosse stato necessario, pur di non vedersi strappato dalle braccia anche il suo Erwin.

Questi, d’altro canto, aveva perfettamente intuito che Meti non gli avesse detto tutta la verità: ormai la conosceva abbastanza bene per sapere che non fosse molto brava a mentire.

Ma come aveva già fatto intendere a Dot Pixis, non voleva forzarla.

Capiva che Meti fosse addolorata per la morte del padre e che se ne sentisse in colpa.

Soprattutto, Erwin aveva sentito tutta la sua paura.

Meti era proprio terrorizzata, questo per lui era ben chiaro. Erwin era un militare addestrato, aveva imparato da tempo a decodificare il linguaggio del corpo e i segnali che le persone rilasciavano, anche senza accorgersene. E Meti era chiaramente sulla difensiva, molto rigida e tesa. La sua paura era palpabile, la si poteva annusare.

Del resto, la crisi di nervi di cui era stato testimone poco prima era sintomatica di una situazione di forte stress emotivo: cosa di cui egli doveva tener conto.

Ma non era affatto adirato o deluso.

Provava anzi compassione e comprensione per lei.

Meti aveva visto morire suo padre sotto i suoi occhi, lei stessa era stata gravemente ferita… e, chissà… magari era stata pure minacciata di morte. Per ora doveva farsi bastare quanto lei avesse deciso di rivelargli, che non era poi tanto poco: almeno, adesso si sapeva cosa fossero davvero i Giganti e quale pista seguire, con il tizio, Grisha Jaeger, da lei citato.

Pensava a queste cose, mentre la accarezzava con infinita tenerezza.

«Aspetta… lascia fare a me.» gli sussurrò lei.

Si puntellò sui gomiti per tirarsi su, da che era distesa, per mettersi a cavalcioni sull’uomo: guardandolo negli occhi e reggendolo come se fosse un bambino, lo fece lentamente distendere, per ricoprirlo di teneri baci.

Ecco la cicatrice più estesa, proprio all’altezza della spalla destra… Indugiò su di essa con le labbra, per poi discendere sul suo petto e poi più giù, per tutto il corpo del suo amato...

Erwin gemette di piacere, stupito dall’audacia sinora mai dimostrata dalla sua pudica amante.

Si amarono a lungo, come a voler supplicare la notte di non finire mai…



*Note dell'Autrice: Ovviamente nell’universo di Paradise dubitiamo tutti che si conoscesse il latino; semplicemente, ho voluto immaginare che esistesse un antico detto, magari in protoeldiano, con un significato simile. Prendetela come mia licenza poetica…

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