Ciao a tutte! Vi
avevo accennato che questa storia
partecipava a un contest su tumblr ed era una collaborazione con
un’artista del
fandom, beh se siete curiose questa è la fanart
che ha ispirato, creata dalla
talentuosissima nartista. Buona lettura!
CAPITOLO IV
Era una
piacevole sensazione quella di risvegliarsi
da donne libere dalla paura di finire sotto un ponte, sapere di avere
ancora di
che campare era come liberarsi da un macigno ingombrante che le premeva
sullo
stomaco. La sera precedente, quando era tornata a casa, ancor prima di
togliersi la parrucca e di liberarsi di quelle scarpe infernali, aveva
aperto
il cassetto della sua scrivania e aveva recuperato l’assegno
di Sango. L’aveva
guardato quasi con le lacrime agli occhi e ci aveva stampato sopra un
bacio.
Quel piccolo pezzo di carta insignificante era la sua scialuppa di
salvataggio,
sarebbe rimasta ancora per un po’ a galla.
Si
rotolò tra le lenzuola, stiracchiando le braccia
sopra la testa e un grosso gatto balzò sul letto, impastando con le piccole zampine la sua
pancia. “Buyo, potrò
ancora riempire la tua ciotola, tranquilla.”
Farfugliò con voce arrochita dal
sonno, accarezzando la testa del felino. Si voltò a guardare
la sveglia e
piagnucolò, spaventando il gatto: aveva solo
mezz’ora di tempo per prepararsi e
lasciare casa, altrimenti avrebbe perso la metro per
l’ufficio. Grazie a dio
era venerdì.
Si
lanciò di corsa in corridoio, cercando di non
inciampare in Buyo, che le stava dietro nella speranza che le desse da
mangiare. Vide suo fratello uscire dalla sua stanza in fondo al
corridoio e
scattò verso il bagno come una centometrista in vista del
traguardo,
chiudendosi la porta alle spalle. “Neechan!”
lo sentì urlare, ma si stava già disfacendo del
pigiama per buttarsi sotto la
doccia.
Quando scese
giù in cucina per afferrare qualcosa al
volo per colazione, suo fratello le lanciò
un’occhiataccia. “Ormai sei grande,
Sota. Credo tu sia capace di trattenerla per cinque minuti.”
E con quella frase
si guadagnò un bel dito medio.
“Smettetela
voi due. Il sole è appena spuntato e voi
già siete qui a beccarvi.” Sua madre non
sopportava i battibecchi, la
discordia o i contrasti familiari. Avrebbe
voluto che tutti riuscissero a
vedere il
mondo come lo vedeva lei, attraverso una lente rosa sfocata, dove
c’erano pace
e amore fra tutto e tutti. Peccato che fosse un’utopia.
“Kagome, mettiti a
sedere c’è la zuppa di miso.” Non appena
la posò sul tavolo, suo fratello si
tuffò con la testa nella scodella, alternando sorsi di zuppa
a bocconi di riso
e pesce essiccato.
“Mi
dispiace mamma, ma devo scappare. Non posso far
tardi di nuovo.” Afferrò
una fetta di
pane tostato, ci spalmò sopra della marmellata e se la
infilò tra i denti. “Mukotsu
mi sta con il fiato sul collo.” Riuscì a dire tra
un morso e l’altro, mentre
nel frattempo si versava del tè. Ingurgitò
l’ultimo pezzo di pane, mandandolo
giù con un sorso di tè, e quasi si
strozzò. La madre le batté una mano sulla
schiena e scosse la testa, abituata a quella scena pietosa. Lasciò la tazza
nel lavandino, scompigliò i
capelli di Sota, lasciò un leggero bacio sulla guancia della
mamma e si diresse
verso il genkan. Mentre si infilava
le scarpe, il nonno entrò dalla porta tenendo qualcosa tra
le mani. “Oh Kagome,
cercavo proprio te. Tieni, ecco.” Le depositò un
piccolo fagottino di stracci
tra le mani e guardò con ansia mentre lei lo srotolava.
All’intero c’era quella
che sembrava essere la zampa di un qualche anfibio, grigia e un
po’ rattrappita
e dall’odore penetrante. Guardò suo nonno con un
sopracciglio alzato e il
vecchio si illuminò. “È una zampa di
kappa, è un grande portafortuna. Voglio
dartela, per incanalare tutta la buona sorte su di te perché
tu abbia un
aumento.” Le diede una pacca sulla testa, come quando era
bambina, regalandole
un enorme sorriso. E se all’inizio aveva pensato di lasciare
quel regalo
nell’ingresso, sperando che Buyo
lo trovasse e lo facesse sparire come uno spuntino, decise che
l’avrebbe
portato con sé, non voleva dare un dispiacere a suo nonno.
Non capiva come la
zampa di qualche rospo morto chissà quanto tempo prima
potesse portarle fortuna
ma riavvolse stretto il piccolo involucro e se lo infilò in
borsa. “Spero porti
fortuna allora. Grazie, jii-san.”
Valeva la pena
portarsi dietro quel coso, se suo
nonno le sorrideva così.
Scese a rotta di
collo l’enorme scalinata del tempio
e frugò nella borsa per recuperare il cellulare che vibrava
insistentemente. Rispose
mentre correva verso la stazione, facendo lo slalom tra vecchietti e
studenti
che come lei si affrettavano nella stessa direzione. Non li invidiava,
gli anni
del liceo per lei erano stati un vero delirio.
“Moshi,
moshi.” Rispose col fiatone e il pensiero
che forse alla sua età avrebbe dovuto essere più
in forma le baluginò per un
breve istante in mente.
“Ohayo,
Kagome-chan!”- la voce cristallina di Sango
le carezzò l’orecchio- “Ti sei divertita
ieri sera?”
“Sei
fortunata ad essere la mia migliore amica, la
gente uccide per molto meno.” Tenne il cellulare tra la
spalla e l’orecchio,
pescando dalla tasca la tessera della metro e la passò sul
lettore ottico. Si
infilò nel tornello, incanalandosi nel flusso di persone che
si affettavano
verso le banchine.
“Era
così terribile? Di solito sono almeno belli da
guardare.” Sentì Sango sorseggiare qualcosa, di
sicuro il caffè più nero che
avesse potuto trovare, corretto con non meno di tre bustine di
zucchero. La sua
colazione tipo dai tempi dell’università. A nulla
erano valsi i suoi
ammonimenti sugli effetti negativi di quelle quantità di
caffeina che ingurgitava:
Sango non c’avrebbe mai rinunciato, se la sarebbe fatta
iniettare direttamente
in vena se ce ne fosse stato il bisogno.
“Era
il mio capo.” Le disse cercando di non urlare
nel frastuono composto del binario. Era già imbarazzante
così, se qualcuno
l’avesse sentita sarebbe sprofondata.
“Eeeh!
Toga
Taisho?”- esclamò incredula Sango, urlando
così forte che dovette allontanare
il cellulare dall’orecchio-
“Non pensavo
fosse ancora sulla piazza.”
“Non
lui, suo figlio. Il nuovo responsabile del
marketing,”- si portò una mano alla bocca,
sussurrando nel cellulare il nome
che l’aveva
perseguitata fino a casa
dopo il loro appuntamento e che non l’aveva lasciata riposare
nemmeno durante
la notte- “Inuyasha Taisho.”
Sango
ammutolì e le sembrò che avesse messo
giù. “Ops.”
“Già,
Sango. Un gran bel ops.” Ops non era
abbastanza per descrivere quella
situazione, ma doveva accontentarsi.
Era
in metro, stretta tra decine di persone, non si sarebbe lasciata andare
a parole
più esplicite.
“E?”
Poteva sentire la trepidante ansia di Sango
anche a distanza, da quell’appuntamento dipendevano troppe
cose non solo per
lei.
“E
cosa?”
“Ti
sei divertita?”
“Sango
ti ho appena detto che il mio - tuo-
appuntamento al buio era il mio nuovo
capo e tu mi chiedi se mi sono divertita?” Perché
l’amica metteva così a dura
prova la sua pazienza di prima mattina? Non aveva già
sofferto abbastanza la
sera prima?
“Ho
sentito dire che è molto attraente.”
“Il-mio-capo.”
Sillabò lentamente, cercando di non
urlare. Qualcuno dei pendolari le lanciò
un’occhiata incuriosita. “Quello che
mi paga lo stipendio e che se dovesse venire a sapere che
l’ho ingannato in
quel modo, spacciandomi per te, mi licenzierebbe senza pensarci su due
volte.”
Sospirò, svuotata dopo quell’affermazione, e la
paura che in qualche modo
Inuyasha avesse potuto scoprire la sua vera identità,
tornò a serrarle lo
stomaco. “È stato orribile.”
“Su,
su, Kagome-chan. È uno degli scapoli d’oro del
paese, dubito sia così male.”
“Avrei
preferito ingoiare carboni ardenti.” Proferì,
roteando gli occhi per il fastidio. Era da molto che una persona non le
dava
così noia, e l’ardore che le incendiava il petto
la colse di sorpresa.
“Stai
chiaramente esagera-”
“È scontroso,
impudente, manca delle più basilari buone
maniere,” -prese un respiro e
continuò -“solo perché è
attraente crede di poter trattare il prossimo con
sufficienza, per non parlare della sua totale mancanza di
umiltà! Mi ha
praticamente detto che chiunque lo sposerebbe solo per i suoi soldi.
Che
bastardo!” La sua voce, partita come un sussurro accorato,
finì per diventare
un’invettiva concitata. Gli altri passeggeri la fissarono
attoniti. L’interfono
del vagone annunciò la sua
fermata, interrompendo quell’immobilità
imbarazzante e stringendo forte le
labbra per non urlare, si affrettò verso l’uscita
con la speranza di lanciarsi
fuori dalla metro il prima possibile. Non appena il vagone si
fermò riuscì nel
suo intento, Sango continuava a sorseggiare il suo qualsiasi cosa fosse
dall’altra parte della linea e lei correva come
un’ossessa tra le strade
brulicanti, tenendo il cellulare attaccato all’orecchio con
una mano e reggendo
la sua borsa con l’altra.
“Quindi
è andato tutto bene da quello che sento. Hai
trovato comunque uno sfogo alla tua frustrazione e
l’appuntamento è andato
male. Entrambe ne
abbiamo ricavato
qualcosa. Chiamerò mio padre nel pomeriggio per dirgli che
lo scapolo numero
otto non faceva per me e lui, chiamando l’altra parte per
avere conferme si
sentirà dire che questo matrimonio proprio non è
fattibile. Tu incasserai
quell’assegno e io continuerò a vivere libera
ancora per un po’. Tutto bene
quel che finisce bene, giusto?”
“G-giusto.”
Farfugliò, avvicinandosi di corsa
all’entrata del suo ufficio: la Taisho Tower si stagliava
grigia e fredda, come
la lama di una katana, contro il cielo plumbeo di Ottobre. Non era del
tutto
d’accordo con Sango. Sì, l’appuntamento
era stato un disastro. Sì, lei avrebbe
incassato l’assegno e sì, un po’ della
sua frustrazione repressa aveva avuto
sfogo, ma a quale prezzo? La sua ansia si era quadruplicata nelle
ultime dodici
ore e il timore di essere scoperta le faceva attorcigliare le budella.
Forse
sarebbe andata in analisi. “Ma…”
cercò di mettere a parole le sue paure.
“Congratulazioni,
Kagome-chan. Cosa te ne farai
della tua bella ricompensa? Te la sei meritata.” La sua amica
la stoppò sul
nascere, portando i suoi pensieri su altri binari. In effetti ci aveva
già
pensato, la sera precedente prima di addormentarsi, aveva fantasticato
su cosa
potersi regalare dopo aver pagato le bollette del tempio.
“Potremmo andare a
fare shopping sabato, che ne pensi?”
“Aiuterò
il nonno a riorganizzare il deposito, mi
aspetta una favolosa giornata di racconti deliranti su presunte
reliquie
dell’epoca Sengoku.” Attraversò
l’atrio della Taisho Tower- il tap-tap-tap
dei suoi passi risuonava sul
pavimento di marmo lucido- affrettandosi
verso gli ascensori. “Sarà per la prossima
volta.”
“Peccato.”
Sentì qualcuno rivolgersi a Sango e
l’amica coprì il microfono del cellulare,
rispondendo in maniera formale. “Devo
andare, Kagome-chan. Ci vediamo al solito posto stasera?”
“A
stasera, Sango-chan.” Chiuse la chiamata e pigiò
il tasto per chiamare l’ascensore. Stranamente non
c’era nessuno in attesa di
salire ai piani, e si lasciò sfuggire un pesante sbuffo
mentre si passava una
mano tra i capelli. Quando sarebbe passata quella sensazione di panico
che
l’attanagliava? Si sarebbe mai liberata del terrore di
incontrare il suo capo
in ufficio e di essere scoperta per l’imbrogliona che era?
Dopotutto da quando
lavorava lì aveva visto Toga Taisho solo una volta, quante
possibilità c’erano di
incrociare Inuyasha lì negli uffici? Secondo la sua
personalissima teoria delle
probabilità, una su mille.
Il
ding dell’ascensore la
risvegliò dalle
sue elucubrazioni e si infilò dentro, schiacciò
il tasto del suo piano
meccanicamente, senza guardare, mentre scrollava la mail sul cellulare.
Era
così concentrata dal cancellare lo spam che non si accorse
della mano che si
infilava tra le porte che si chiudevano. Quando si rese conto che era
ancora
ferma al piano terra e alzò lo sguardo dallo schermo del
cellulare, il cuore le
saltò in gola.
La sua teoria
delle probabilità faceva acqua da
tutte le parti.
-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.
La
donna
nell’ascensore lo guardò come se fosse sul punto
di ucciderla: occhi sgranati,
cellulare stretto al petto e respiro rotto. Perché faceva
quell’effetto? Non
aveva la reputazione di essere una persona violenta. Possibile che le
voci
sulla sua irritabilità avessero varcato i confini del
reparto marketing? Cercò
di non sembrare spazientito. Ultimamente tutto gli dava sui nervi.
“Ohayoo
gozaimasu.” Mormorò, tenendo aperte le porte per
Miroku che gli
era corso dietro. La donna inchinò rigida il busto e non si
rialzò,
farfugliando un saluto con un filo di voce, rimanendo in quella scomoda
posizione anche quando l’ascensore cominciò a
salire. Miroku lo imitò e quando
si accorse che la donna rimaneva immobile, gli lanciò
un’occhiata
interrogativa.
Scrollò
le spalle - a quel punto non gli importava più di niente - e
inspirò profondamente per controllarsi. Un odore penetrante
gli colpì le
narici, un fetore di morte stagnante che gli fece arricciare il naso, misto al profumo di un
qualche detergente da
discount. Quell’odore proveniva dalla donna.
“O
lei è uno
zombie o qualcosa è deceduto nella sua borsa.” La
sua bocca fu più veloce del
suo autocontrollo e vide la donna sussultare. Un verso strozzato le
uscì dalle
labbra e si raddrizzò quasi del tutto, solo il volto rimase
nascosto dietro una
cortina di capelli scuri.
“M-mi
scusi?” squittì, come un topolino messo
all’angolo,
stringendosi ancora di più su sé stessa, come
volesse scomparire davanti ai
suoi occhi.
Miroku lo
fissò a bocca aperta, il suo sguardo si
muoveva tra lui e la donna come la pallina in una partita di ping pong.
“C’è
un odore terribile che proviene da lei.”
“T-taisho-sama.”
Cercò di ammonirlo Miroku.
“Spero
non sia il suo bento.”
Infilò le mani in tasca e diede uno sguardo al display
dell’ascensore, con i piani che scorrevano veloci.
“Le
assicuro che non proviene da me, Taisho-sama.” si affrettò a ribattere,
tenendo sempre il
volto rivolto verso il pavimento. La sua ansia aveva un odore acre,
come di
caffè bruciato. “Io-”
Poi
lei sembrò
ripensarci e frugò nella borsa, tirandone fuori degli
stracci, che srotolò in
fretta e ne cacciò quella che a prima vista sembrava la
zampa di un kappa.
“Credo provenga da qui il cattivo odore. È solo un
portafortuna, mio nonno…”
Non
la lasciò finire.
“La pregherei di non portare certi oggetti in ufficio,
rispetti i suoi colleghi
yokai. Il nostro olfatto è molto più sviluppato
di quello di voi umani.” Le
porte dell’ascensore si aprirono e lui mise un piede fuori,
seguito da Miroku.
“Buona giornata.”
Non le diede il
tempo di rispondere, nemmeno quello
di restituirgli il saluto. Era
già in
fondo al corridoio, con la mano sulla porta del suo ufficio, pronta ad
una
nuova giornata infernale.
Miroku lo
raggiunse con passo lento stavolta,
chiudendosi la porta alle spalle a lanciandogli
un’occhiataccia. “E poi ti
chiedi perché ti detestino così tanto. Anche per
te la scenetta di poco fa è
troppo, le hai praticamente detto che puzzava! Non mi meraviglierei se
la
poverina si licenziasse per la vergogna.”
“Mandale
un biglietto di scuse se ci tieni tanto.”
Prese posto dietro alla scrivania, sbottonando l’unico
bottone della giacca che
indossava. Accese
il portatile mentre
Miroku gli sciorinava gli impegni della giornata. Gli prestò
poca attenzione,
quel poco che bastava per individuare tra i vari impegni un eventuale
nuovo
appuntamento al buio. Quello della sera precedente era deflagrato come
un test
atomico nel bel mezzo dell’oceano Pacifico. Era stato rapido
ed indolore. Sango
Taijiya sembrava interessata al matrimonio tanto quanto lui, quindi non
aveva
dovuto cercare di sembrarle odioso. Era stato semplicemente se stesso.
“Prima
di cominciare, dovresti leggere questo.”
Miroku gli porse un giornale, uno di quelli pieni di gossip su
celebrità e
volti noti del jet set, già aperto su una pagina specifica.
La sua espressione
non prometteva nulla di buono.
Chi
vuole sposare Inuyasha Taisho?,
urlava a caratteri cubitali il titolo.
“Il
secondo in linea di successione dell’impero
aziendale dei Taisho è ufficialmente sul mercato e dalle
indiscrezioni di una
fonte anonima -molto vicina alla famiglia- sembra che lo scapolo
d’oro abbia in
programma di sposarsi entro la primavera. Chi sarà la
fortunata?” Ringhiò
l’ultima parola, con la rabbia che gli chiudeva la gola.
Richiuse il giornale
con un gesto secco e lo lanciò via. “Non posso
crederci.”
Miroku
lo
raccolse e lo aprì di nuovo sull’articolo
incriminato. “Chi sarebbe questa fonte
anonima?”
“È
mio padre,
chi altri? Il giornale è di Kagura.”Si
passò le mani sul volto, come se quel
gesto potesse cancellare la stanchezza che vi era impressa. Era sicuro che suo padre e
la moglie di suo
fratello stessero ridendo alle sue spalle in quel momento.
“Mi sta facendo
impazzire! Vecchio bastardo.” Si alzò e
cominciò a misurare a passi ampi la
pianta del suo ufficio. “È come se mi avesse masso
un cartello sulla testa che
grida in vendita.” Si
accostò al
mobile bar e fece per prendere la bottiglia di Macallan che il padre
gli aveva
regalato qualche tempo prima e che fino ad allora aveva sempre evitato
come la
peste. Poi ci ripensò. “Ho bisogno di un
caffè.”
“Forse
dovresti sederti, prima di tagliare la testa
a qualcuno con quelle.”
Si
fissò le mani e si accorse di come i suoi artigli
si fossero allungati. Il suo istinto di autoconservazione stava
prendendo il
sopravvento, preparandosi a dare battaglia ad un nemico che, a conti
fatti, non
esisteva. Non poteva macchiarsi di parricidio per così poco.
Eppure, il fugace
pensiero di fargliela pagare in qualche modo stuzzicò il suo
subconscio.
Pensare di poter vincere seguendo le regole di suo padre si era
rivelato un
piano fallace. Acconsentire a quegli appuntamenti non l’aveva
rabbonito come
aveva sperato, anzi, l’aveva reso ancora più
irrequieto. Toga Taisho stava
dando il peggio di sé in materia e ora,
quell’alleanza con Kagura, non faceva
altro che mettergli ancora più pressione sulle spalle. Se
non avesse trovato
una donna adatta per primavera sarebbe diventato lo zimbello
dell’alta società
e a quel punto nulla l’avrebbe salvato
dall’eremitaggio tra le foreste dello Shirakami-Sanchi.
Doveva
trovare un modo per toglierselo di dosso.
“Sono
sicuro che tra le donne su quella lista ce ne sarà almeno
una che
può piacerti, disposta a sposarti nonostante le
tue…peculiarità.” Miroku era
sempre positivo, a volte fin troppo: cercava di trovare uno spiraglio
di luce anche
nell’oscurità più totale, ma quella
situazione non era niente di meno che buio
siderale.
“Ne
dubito.” Si pizzicò l’apice del naso,
tenendo premuto pollice e
indice come per scacciare la pressione che gli si stava accumulando tra
gli
occhi. “Chi sarebbe la prossima?”
“Non
c’è ancora un appuntamento ufficiale ma si tratta
di Tendo Akane,
figlia del ministro delle finanze.”
“Prima
è, meglio è.”
“Perfetto,
prenoto l’aereo.” Il tap-tap
delle dita di Miroku sullo schermo del tablet cominciava ad
innervosirlo, “Tuo
padre ne sarà estasiat-”
“Come?”
Ringhiò e lo fissò come se anche a lui fossero
spuntate in testa
orecchie da cane.
“La
signorina Tendo studia in Svizzera.” Gli spiegò,
scrollando il
dossier della donna sul tablet. Myoga aveva inoltrato a Miroku tutta la
documentazione inerente a quelle donne, di sicuro informazioni
liberamente offerte
dalle loro famiglie. Erano -lui e quelle donne- in
tutto e per tutto prodotti in mostra su un
catalogo.
Un
ringhio di frustrazione
gli
uscì dalle labbra, mentre lanciava contro il muro la prima
cosa che gli era
capitata sotto mano. “Dovrà pur esserci un modo
per farlo desistere dai suoi
folli intenti.”
“Andiamo,
sarebbe folle da parte sua aspirare al dominio del mondo, ma
qui si parla solo del-”
“Totale
dominio sulla mia esistenza!” urlò fuori di
sé. Avrebbe voluto
lanciarsi fuori dalla finestra, correre all’infinito verso il
Monte Fuji e
gettarvisi dentro. “Se non avesse progettato di espandere la
dinastia a
dismisura mi avrebbe proposto di sposare quel bastardo di Koga pur di
avere un
partner aziendale alla nostra altezza.” Il solo pensiero lo
fece rabbrividire. Quel
lupo rognoso era l’essere più fastidioso che
conoscesse, un vanaglorioso sacco
di pulci maleodorante che sfortunatamente continuava ad incrociare sul
suo
cammino.
“Per
quanto possa essere ricco Koga è un imbecille vanesio e
chiassoso,
Toga-sama non avrebbe mai accettato. Anche lui ha i suoi
limiti.” Miroku
ridacchiava tra sé, lisciandosi la cravatta color melanzana.
Era
più che certo che l’amico fosse in possesso di un
quantitativo non
ben identificato di cravatte, fazzoletti da taschino e vari capi
d’abbigliamento di quella particolare sfumatura. Un colore
insolito, che dava
nell’occhio, quasi sfacciato nei suoi toni più
chiari.
Come
gli abiti eccentrici di Taijiya-san, gli suggerì il suo
inconscio.
Un completo di un viola glicine che sarebbe stato meglio nel videoclip
di
qualche idol che nella sala da tè dello Shikon.
Aveva
visto le teste di molti uomini girarsi al suo passaggio quando era
scappata in bagno e sarebbe stato ipocrita da parte sua negare di aver
lasciato
scivolare lo sguardo su quella striscia di pelle tonica e liscia che il
suo
completo lasciava intravedere all’altezza dello stomaco, di
aver percorso con
gli occhi la curva gentile della mascella per soffermarsi su quelle
labbra
-solo all’apparenza – dolci, capaci di sputare
veleno come una vipera. Era
indubbiamente attraente, di una bellezza aggressiva e poco conforme
alle norme
della società.
Un
piano cominciò a prendere forma nella sua mente. Dapprima
gli sembrò
solo un ammasso confuso di idee, poi pian piano cominciò a
palesarsi un
qualcosa di senso compiuto, il disegno geniale di un piano diabolico.
Avrebbe
fregato suo padre al suo stesso gioco.
Per quanto Sango
Taijiya gli fosse sembrata sopra le
righe, era stata l’unica a non essergli stata totalmente
indifferente. Non
l’aveva annoiato come le altre, né aveva cercato
in tutti i modi di attirare la
sua attenzione. Al contrario, gli era parso che avesse fatto di tutto
pur di
allontanarlo da sé, per indurlo a pensare male di lei. Tutto
di lei gridava non adatta, dal suo
abbigliamento alle
sue discutibili buone maniere, per non parlare delle sue non troppo
velate
allusioni sessuali. Proprio per quello era il soggetto perfetto per
mettere in
pratica il suo piano.
Il
vecchio voleva che si trovasse una moglie? Bene, ne avrebbe trovata
una, ma non quella che desiderava lui.
“Sposerò
Taijiya Sango.” Esordì e vide Miroku boccheggiare
come un pesce
fuor d’acqua, incapace di commentare
quell’affermazione così improvvisa. “Per
accontentare mio padre, ovviamente.”
“Da
quello che mi hai detto non mi sembra il tipo di
donna adatto a te, mi sembra un po’… esagerata,
capisci cosa intendo? Credo non
sia nemmeno il mio di tipo, il che è tutto
dire.”
“Proprio
per questo è perfetta.” Fece cenno
all’amico di sedersi sul divano e lui gli si
accomodò di fronte. “Ascolta,
sposerò Taijiya-san così mio padre
avrà quello che desidera. Oppure, quando gliela
presenterò, non ne sarà felice e
disapproverà la mia scelta, lasciandomi
finalmente libero.”
“Sposeresti
una donna come quella solo per far
dispetto a tuo padre? Ti rendi conto che diventerà tua moglie?”
“Sarò
anche un cane ma non sono territoriale, non le
piscerò addosso per marcare il territorio o cose simili.
Potrà continuare a
fare e a farsi chiunque
vorrà, così
che io possa concentrarmi sul mio lavoro. Tempo un anno e
chiederò il
divorzio.”
“È
folle.”
“È
geniale, oltre che essere una situazione vantaggiosa
per entrambe le parti. Sono sicuro che quella donna ha il mio stesso
tipo di
problema.” Perché Miroku non riusciva a vedere la
visione d’insieme?
“È
un matrimonio, c’è sempre un solo vincitore in
queste situazioni.” Cercò di farlo rinsavire il
suo amico.
Ma ormai lui era
già proiettato verso un futuro di
libertà, conquistata con inganni e sotterfugi. “E
quel vincitore sarò io.”
“Non
ci giurerei. Dopo il matrimonio tuo padre vorrà
dei nipoti, prove tangibili e vive di questo matrimonio. Per quanto
pensi di
poter fingere?”
“Per
tutto il tempo necessario.”
Non aveva
pensato a quell’evenienza. Ma d’altronde
il padre in quel campo non avrebbe potuto interferire: la natura e i
suoi ritmi
erano qualcosa di incontrollabile. Anche Sesshomaru e Kagura ci avevano
messo
tre anni prima di moltiplicarsi, perché suo padre avrebbe
dovuto mettergli
fretta? “Ci penseremo dopo, per il momento trovami il numero
di Taijiya-san, ho
una proposta da farle.”
Il buon umore,
che lo disertava da settimane, sembrò
tornargli tutto a un tratto. Non sapeva come sarebbe andata quella
telefonata
ma almeno aveva trovato un modo per raggirare suo padre. O almeno per
guadagnare tempo.
“Com’è
che si chiamava quella dipendente di prima?”
“Non
l’ha detto.” Miroku gli passò il
cellulare con
il numero già composto.
“Scoprilo
e mandale una scatola di cioccolatini.”
-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-.-
Era la quarta
volta in un’ora che un numero privato
provava a contattarla. Non poteva essere un centralino, avrebbero
desistito al
secondo tentativo vano. La sua ansia stava aumentando esponenzialmente
col
passare dei minuti: forse era l’ospedale, forse era capitato
qualcosa al nonno
o a Sota e lei come una sconsiderata non aveva risposto. Ma in entrambi
i casi
qualcuno l’avrebbe avvisata, giusto? Quando il cellulare
vibrò per la quinta
volta, rispose d’istinto.
Dall’altra
parte le rispose una voce che sperava non
avrebbe più sentito, “Taijiya-san?”
Il loro incontro
in ascensore era stato un crudele
scherzo del destino. Aveva riposto troppa speranza nella logica e nei
numeri
per prestare attenzione ad una sola ed unica verità: la sua
vita era la
versione estrema dell’assioma di Murphy. Pensava che non
avrebbe mai incontrato
il suo capo sul posto di lavoro perché raramente i manager
si mischiavano ai
dipendenti? BAM! Inuyasha Taisho si materializzava in ascensore accanto
a lei
in tutto il suo fastidioso splendore. Pensava che il loro finto
appuntamento
fosse andato così male da liberarsi di lui per sempre?
KABOOM! Inuyasha Taisho
della malora la chiamava sul suo cellulare personale.
Tutto quello che
poteva andare male, l’aveva fatto.
“Chi
le ha dato il mio numero?” cercò di controllare
il tremolio della voce.
“La
sua segretaria.”
“Quale
segretaria?”
“Hirashi
Haome, credo.” Ci fu una pausa, “Sa credo
debba mandarla a casa, continuava a tossire, non è bene
sfruttare così i
dipendenti, potrebbero ritorcersi contro.”
Evitò
di urlargli contro che nelle ultime due
settimane lei e i suoi colleghi avessero fatto gli straordinari per
preparare
un progetto inaffondabile da presentare agli Ookami, e che ogni loro
idea era
stata bombardata da critiche poco costruttive da parte sua, e che a
causa del
suo comportamento in ufficio c’era quasi stato un
ammutinamento.
“A
cosa devo questo piacere?” calcò la voce
sull’ultima parola, infondendo in quelle tre sillabe tutto il
suo astio.
“Vorrei
proporre un
matrimonio, Sango-san.”
“N-non
capisco.”
Jakotsu le lanciò uno sguardo incuriosito, inarcando un
perfetto sopracciglio
scuro sbirciando dall’alto del suo cubicolo,
“Perché tutto d’un tratto mi
chiama per nome?”
“Sarebbe
strano
chiamare la mia futura moglie per cognome, no?”
Il cuore le
saltò in
gola, se avesse tossito l’avrebbe di sicuro sputato di bocca.
“Continuo a non
capire.”
“Vuoi
sposarmi?”
“Cosa?”
urlò nel silenzio generale. Il
telefono quasi le cadde di mano, lo stupore le aveva bloccato le
funzioni motorie.
“Vuoi
sposarmi?” un respiro profondo, il suo
temperamento mandava scintille anche a distanza.
“È la terza volta che lo
ripeto. Sei per caso sorda, Sango-san?” Un gentleman, come
sempre.
C’erano
due grossi problemi con quella frase: di
sicuro non avrebbe sposato il suo capo e di certo lei non era Sango.
Pensava
d’aver portato
a termine la sua missione con successo, d’aver fatto un
enorme casino. Aveva
fatto di tutto per risultargli un piatto indigesto, aveva provato ad
interpretare una donna sfacciata e vorace, l’esatto opposto
di una probabile
buona mogliettina. Ci aveva provato con tutta se stessa, ma la sua
indole da
bisbetica aveva avuto la meglio e la sua parodia di Jessica Rabbit si
era
trasformata in un tributo a Lizzie Bennett. Poteva spuntare dalla sua
personale
lista di cose da fare prima di morire sia mettere
a posto arroganti ricconi che non
accettare le loro stronzate da ricconi.
Non di meno
sapeva che
il loro appuntamento avrebbe potuto essere annoverato nella top ten dei
peggiori appuntamenti della storia.
Allora
perché la stava
chiamando per chiederle di sposarlo?
Non poteva
negare d’aver
fatto un sogno alquanto esplicito su di lui la notte precedente, in un contesto molto
più piacevole rispetto
alla sala da tè dello Shikon. Ma pensare di poterlo sposare?
Mai! Quell’uomo
era un emissario del male, un demone che Jigoku aveva sputato fuori
solo per renderle
la vita difficile.
“I-io
davvero non
riesco a capire.” Si allontanò di corsa dalla sua
postazione, con la coda
dell’occhio vide Jakotsu sghignazzare appollaiato sulla sua
sedia ergonomica
–per la sua postura, diceva lui, quando tutti sapevano che
era per stare più
comodo durante i suoi pisolini di
bellezza.
Si
infilò nel bagno,
sbattendosi la porta alle spalle.
“Cosa
c’è di così
difficile da capire? Mi sembra una domanda molto semplice.”
“Non
capisco perché questa domanda così
improvvisa e sinceramente indesiderata.” Controllò
che non ci fosse
nessuno oltre lei negli altri bagni. Non avrebbe commesso lo stesso
errore due
volte. “Mi sembrava che il nostro appuntamento non fosse
andato molto bene.”
“Ho un
ricordo
differente.” Le stava chiedendo di sposarlo ma la sua voce
era piatta,
annoiata, come se quella cosa non lo riguardasse in prima persona.
“Le
rinfresco la
memoria, se vuole.” Cominciò a camminare come un
cane in gabbia nello spazio
stretto e lungo del bagno, stringendosi un braccio sotto al seno per
contenere
il suo cuore impazzito. “Abbiamo scambiato sì e no qualche frase e le buone
maniere non erano state invitate al nostro tavolo, da quello che
ricordo.”
“Devo
aver sbagliato
persona allora, perché io ricordo un vivace scambio di
opinioni.”
“Gentile
eufemismo per
descrivere gli insulti che ci siamo scambiati a vicenda.”
Fermò la sua marcia,
aveva già fatto avanti e indietro troppe volte.
“Cos’è, si è innamorato di me
a
prima vista?” le andava di giocare con lui, essere sfacciata
ed odiosa come lo
era stato lui con lei in ascensore.
Ci fu un rumore
sordo
dall’altro lato della linea, come di qualcosa che cadeva e
poi un verso
strozzato in lontananza. “Compiacersi così
è sintomo di un’autostima debole.”
“Lei
ne sa qualcosa,
Taisho-san, vero?”
Stavolta ne era
certa,
qualcuno dall’altro lato aveva riso.
“Mmph.”
Quel verso di
sufficienza la fece quasi ridere, dargli sui nervi era più
facile di quanto
avesse immaginato. “Quindi la sua risposta è un
no.”
“Con
assoluta
fermezza.”
“Vedremo.”
“Come
scusi?”
“Buona
giornata,
Sango-san.” e mise giù, lasciandola lì
ferma nel bel mezzo del bagno delle
donne con un’espressione da pesce lesso.
Che diamine era
appena
successo? Perché la sua vita cominciava a somigliare sempre
di più a un telefilm?
Perché il suo capo si era messo in testa di sposarla quando
chiaramente il loro
appuntamento era stato un disastro su tutti i fronti?
Continuò
a fissare il
cellulare ancora per un minuto, poi si convinse a salvare il numero ed
inserirlo tra quelli della sua lista nera. Non avrebbe più
risposto, nemmeno
sotto tortura.
Quando si decise
ad
uscire dal bagno, il cellulare squillò di nuovo.
“Merda.” Mormorò tra sé
quando
lesse il nome sul display.
“Moshi
mosh-” non
riuscì nemmeno a terminare.
“Kagome
che diavolo hai
combinato? Mio padre mi ha appena chiamata per dirmi che Toga Taisho
l’ha
contattato per scegliere una data per le nozze! Dovevi farti scaricare,
non
piacergli così tanto da farti sposare!” Sembrava
che Sango fosse nel bel mezzo
di una crisi di panico, il suo respiro le arrivava spezzato ed
affannato.
“Non
so cosa sia
successo! Posso assicurarti che l’appuntamento è
stato una catastrofe di
proporzioni bibliche.” Cercò di giustificarsi,
portò una mano davanti alla
bocca e sibilò nel cellulare, “Gli ho fatto
credere di essere interessata ai
vecchi e ai giochetti sessuali utili a farli capitolare ai miei piedi.
Dubito
siano cose che una perfetta futura moglie direbbe a un primo
appuntamento.”
“Tu
cosa?” la voce
dell’amica salì di un’ottava e
sembrò avesse smesso del tutto di respirare.
“Mi hai detto di usare qualsiasi
mezzo, e così ho
fatto. Sai che sono una perfezionista.”
“Chiaramente
non ha
funzionato. O questo Inuyasha è un feticista o ha qualche
rotella fuori posto.”
“Né
l’uno né l’altro,
credo. È solo un gran bastardo.” Sentiva di
poterlo affermare con sicurezza,
nonostante l’avesse visto solo due volte, non gli era
sembrato uno svitato ma
solo uno stronzo arrogante, qualcuno che pensava che tutto gli fosse
dovuto.
“Be’,
quel bastardo
vuole portarti all’altare.”
“Sango,
devi parlarci!
Non posso sposare il mio capo.”
“Ciò
implicherebbe
doverne parlare a mio padre e sai che non posso! Sai cosa accadrebbe se
venisse
a sapere del nostro giochetto?” la sua voce era diventata un
lamento confuso,
come quello di una bambina capricciosa. Quando parlava del padre Sango
regrediva ad uno stato larvale, quasi che quell’essere
assoggettata alla
volontà paterna la spogliasse di tutto quello che era:
smetteva di essere una
giovane donna in carriera, bella e ricca, per tornare ad essere una
bambina
spaventata e timorosa del giudizio di quell’uomo che, almeno
ad uno sguardo
esterno, non sembrava essere poi così cattivo.
“Tirami
fuori da questo
casino, Sango!” le sue parole suonarono dure anche alle sue
orecchie. Ma non si
sarebbe lasciata impietosire ancora una volta dall’amica, che
l’aveva lanciata
senza paracadute in quel guaio. Aveva fin troppo da perdere! Sango
forse se la
sarebbe cavata con una sgridata e la revoca della carta di credito, lei
invece
sarebbe stata licenziata di certo.
“Urgh!
D’accordo!” le
urlò frustrata, “Inventerò
qualcosa.”
“Sarà
meglio per
te.” Fece
per mettere giù, quando si
ricordò di una cosa. “Ah e Sango?”
“Sì?”
“Hirashi
Haome? Sul serio?”
Ci fu un momento
di silenzio. Beccata. “Non sono brava a
improvvisare, quella versata
nella recitazione sei tu.”
“Già
e vedi a cosa ci ha portate.” Si massaggiò la
tempia sinistra con la mano libera, sentiva vicino un attacco di
emicrania.
“Se
vuoi ho il contatto dell’agente di Aya Asahina,
chissà, potresti diventare la musa del prossimo
Kurosawa.” Sango era tornata ad
essere padrona di sé, riusciva di nuovo a scherzare e quello
era un buon segno.
“Ora
metto
giù.” Tossì per coprire la risata che
stava per sfuggirle, non voleva che Sango
pensasse che quella fosse una situazione da poco. “Chiama
solo quando avrai
buone notizie o scordati di avere un’amica.” E
attaccò.
Uscì
finalmente dal bagno e rientrando nel suo
ufficio sospirò abbattuta alla vista di quel pettegolo di
Jakotsu seduto alla
sua postazione che giocherellava con la calamita che suo fratello Sota
le aveva
portato da Kyoto. Il collega non le avrebbe dato via di scampo, avrebbe
voluto
sapere tutto e lei, in quei dieci passi che li separavano, avrebbe
dovuto
inventare una storia.
Non sarebbe
stato difficile.
D’altronde
mentire era diventato il suo nuovo
mestiere.
Nda:
questo capitolo è
gentilmente offerto dalla febbre che mi tiene a letto da cinque giorni
(sto
pagando a caro prezzo la notte di bagordi del Primo), se trovate errori
anche
quelli sono gentilmente offerti dalla suddetta. Ora che ho pubblicato
la storia
anche su Ao3 riprenderò a pubblicarla anche qui :) come
sempre grazie mille per il vostro supporto e le vostre
recensioni, sono praticamente il carburante che mi fa continuare a
ticchettare
sulla tastiera! Spero che l’attesa sia stata ripagata.
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