In between days

di Doux_Ange
(/viewuser.php?uid=5895)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Red lipstick ***
Capitolo 2: *** Cigarettes ***
Capitolo 3: *** Altare ***
Capitolo 4: *** Umbrella ***
Capitolo 5: *** Tarots ***
Capitolo 6: *** Photograph ***
Capitolo 7: *** Six strings ***
Capitolo 8: *** Cinnamon ***
Capitolo 9: *** Daisies ***
Capitolo 10: *** Carillon ***
Capitolo 11: *** Paper plane ***



Capitolo 1
*** Red lipstick ***


RED LIPSTICK
 
La mia infanzia è costellata di ricordi non proprio belli. Escludendo quelli strettamente legati a mia madre e al tempo che passavo con lei, quelli riguardanti mio padre hanno sempre portato una nota negativa. Da qualunque lato io cerchi di analizzarli, c’è sempre qualche dettaglio che si insinua e rovina anche momenti apparentemente scollegati.
 
A volte, questi istanti saltano alla mente senza motivi particolari, ma non mi migliorano la giornata, ecco.
Come adesso.
Sono in tribunale, in attesa di ricevere alcuni incartamenti di un processo, quando il mio sguardo si posa su una collega in tailleur scuro che sta discutendo animatamente al cellulare. Ma ciò che mi colpisce non è il suo tono furente, né il suo abbigliamento impeccabilmente curato.
I miei occhi vengono attirati immediatamente dal rossetto rosso che le colora le labbra.
Da bambino, il rossetto rosso era l’unico vezzo che mia madre si concedeva di tanto in tanto, quando capitava di uscire la sera. Quando ancora mio padre cercava di fare il padre. Mi piaceva tantissimo osservarla mentre se lo passava sulle labbra, con estrema attenzione, per poi rivolgermi uno sguardo divertito e cercare di lasciarmi un bacio sulla guancia, con me che scappavo dalle sue grinfie perché non volevo. Anche se sapevo che scherzava e il suo era affetto.
Era un bel momento, finché mio padre non decise di sporcarlo portando a casa camicie col colletto macchiato di rosso, sì, ma una tonalità di vermiglio che non era quella usata da mia madre.

E, da allora, ho sempre associato quel belletto a sensazioni negative. Come se ogni donna che lo indossa mi riportasse alle giornate in cui, nascosto dietro la porta, osservavo mamma piangere mentre strofinava le camicie di papà, cercando di lavare via il segno dei suoi tradimenti.
Col tempo, ho cercato di convincermi che fosse un’assurdità, e ho tentato di accettare che Federica mettesse praticamente solo quello ogni giorno. Inutile dire che i risvolti della nostra storia mi hanno fatto fare mille passi indietro.
Sospiro, ringraziando l’impiegato che finalmente mi consegna il fascio di documenti e mi avvio all’uscita del tribunale, cercando di sbrigarmi perché stasera io e Anna abbiamo un invito a cena e non possiamo fare tardi.

Salgo in macchina, allaccio la cintura e metto in moto, ma la mia mente torna sempre allo stesso argomento.
Con Anna il problema non si è mai posto, in verità. Lei non si trucca praticamente mai, e se lo fa si limita a qualcosa di leggero. Non che le starebbe male, un rossetto rosso, ma nella sua poco fornita trousse non ve n’è traccia.
Scuoto la testa, dopotutto il mio è un assurdo pregiudizio. Non devo certo fare di tutta l’erba un fascio. Però...
Però niente, mi rimprovera la mia coscienza. Ed è vero, perché io conosco Anna, e so quello che ci lega. Non sarebbe certo una cosa del genere a minare la purezza dei nostri sentimenti.
 
Quando arrivo a casa e apro la porta, di Anna pare non esserci traccia. La chiamo ma non ricevo risposta. Non mi preoccupo più di tanto, però, perché probabilmente deve ancora rientrare da lavoro, non sarebbe la prima volta che succede.
Mi avvio verso la camera da letto con l’intenzione di recuperare i vestiti prima di dirigermi in bagno. Mi serve decisamente una doccia prima di andare via, ma quando sollevo la mano per aprire la porta del wc, mi accorgo che non solo questa è già aperta, o meglio socchiusa, ma la luce al suo interno è accesa, e un piccolo fascio di luce illumina il pavimento all’esterno, attirandomi come una falena al lampione.

Mi avvicino silenziosamente, preoccupato di dover affrontare un qualche pericolo, o un ladro. Certo, di tutta la casa sarebbe il posto meno adatto dove cercare delle refurtiva, per cui mi dico che al massimo, avremo dimenticato di spegnere l’interruttore...
Quando raggiungo la porta, dalla fessura lasciata aperta vedo però una figura che conosco bene riflessa nello specchio appeso sopra il lavandino.
Quello che mi colpisce non è tanto l’insieme di quella figura, quanto le sue labbra. Tinte di un rosso fuoco che rievoca in me, ancora una volta oggi, ricordi che di positivo non hanno nulla.

Mi blocco. Osservo la donna controllare - con evidente orgoglio - sull’immagine del proprio riflesso la precisione con cui ha applicato il tocco finale del suo make-up.
Non avevo idea che, nella sua ridotta collezione di trucchi, fosse presente anche uno stick di rossetto rosso. Non lo avevo mai visto prima d’ora. E forse era previsto non dovessi mai vederlo. 
Al solo pensiero, per un momento la mia razionalità si blocca. Non può essere. Non anche lei. Soprattutto non lei.
Mi lascio sfuggire, inconsapevolmente, un respiro sorpreso per quanto appena visto e pensato. Sarebbe potuto passare inosservato a tutti, ma non a lei, che per la prima volta dal mio rientro a casa e quel mio ‘spiarla’, incrocia il mio sguardo tramite il riflesso nello specchio.
Sgrana gli occhi, sorpresa di trovarmi lì, a fissarla da dietro la porta.
Non so se per riflesso incondizionato o volutamente per occultare alla mia vista le sue labbra rosso fuoco, alza una mano a coprirsi la bocca.
«Marco…» sussurra, evidentemente spaesata. «Non è come pensi…»
Spalanco la porta, perché è inutile continuare a celarmi dietro di essa, come invece facevo da piccolo quando spiavo mia madre intenta a cancellare le tracce dei tradimenti di mio padre.

La osservo meglio, facendo scorrere il mio sguardo sulla sua figura minuta. È splendida nel suo vestito verde scuro, i capelli leggermente raccolti e i tacchi rossi. Non è un look da tutti i giorni per lei, so che non è mai pienamente a suo agio in questo tipo di panni, ma non sfigurerebbe affatto sulle copertine delle riviste patinate in mezzo a modelle di fama mondiale.
Il rossetto che indossa si intona perfettamente con gli accessori che vi ha abbinato. Oltre alle scarpe, noto i gioielli che indossa, adornati da pietre rosse e una pochette dello stesso colore appoggiata su una delle mensole accanto al lavandino.
«Perché, cosa dovrebbe sembrare?» le chiedo infine nel tono più neutro che mi riesce, ancora imbambolato ad ammirarla.
«Il rossetto… sì, insomma, non dovevi vederlo. Ma non per il motivo che sicuramente pensi tu…» mi dice lei, abbassando lo sguardo.
«Da quanto tempo lo tieni nascosto?» le domando però con cautela, interrompendola e  prendendo il tubetto dorato tra le dita.
«Da quando mi ha raccontato di tua madre e di cosa ha fatto tuo padre…» prende a dirmi, un’ombra di vaga colpevolezza nello sguardo. «Lo sai che non mi trucco quasi mai, anche se il rossetto rosso mi è sempre piaciuto molto, ma…» si ferma, sospirando e lanciandomi uno sguardo di sottecchi. 
«Ma rievoca in me brutti ricordi e non vuoi contribuire a far sì che ciò accada…» concludo io per lei.

«Quando mi hai raccontato della storia dei tuoi genitori non stavamo già più insieme e tra noi le cose non erano idilliache, ma… non so, dopo il nostro confronto sul pianerottolo di casa, quando mi hai detto che ero ‘la parte migliore di te’, qualcosa mi ha portato a nascondere quel rossetto anche alla mia, di vista, non solo alla tua…» mi spiega a bassa voce. Sento che è incerta, e che non le piace la piega che questa conversazione ha preso.
«Ora me lo levo. Mi spiace. Non volevo mi vedessi così…» conclude infine, dispiaciuta, mentre si gira verso lo specchio per accingersi a toglierselo, allungando una mano verso un dischetto di cotone bianco.
«No,» le dico però, bloccandola e incrociando il suo sguardo tramite il riflesso. «Non toglierlo. Sei bellissima…»  
Un’altra tonalità rosso si fa largo sul volto. Non pensavo si sarebbe imbarazzata così tanto al mio complimento, ma capisco perché non se lo aspettasse, così continuo, schiarendomi la voce.
«Una volta, una persona saggia mi ha detto che i ricordi brutti possono essere stemperati, come i colori, mischiandocene dei nuovi insieme…» mormoro, senza mai rompere il nostro intreccio di sguardi.
«Forse dovevo ritrovarmi a spiare da dietro a una porta la donna che amo mettersi del rossetto rosso, per riuscire anche io nell’impresa di superare i pregiudizi che avevo legato a un così piccolo dettaglio come due labbra rosse…».
Anna si apre a un sorriso commosso, prima di girarsi e darmi di slancio un bacio sulla guancia. Al contrario di come succedeva quando ero piccolo, stavolta non ci penso neanche, a scappare o ritrarmi. Anzi, attiro Anna tra le mie braccia, stringendola lievemente a me.
L’impronta rossa che mi rimane dal contatto delle sue labbra con la mia guancia, appena sopra la barba, si aggiunge al mio riflesso nello specchio.

Osservo questa inaspettata immagine di noi due insieme con un sorriso, e una ritrovata serenità.
E sono felice di ricredermi: il rossetto rosso non è poi così male, in fondo.
 

Ta-daaaaaaan! Questa non ve l'aspettavate, vero? Beh, a dire il vero nemmeno io e Marti. Sì, avete ragione, avevo messo la story con i prompt ma non avevo avuto tempo e modo di lavorarci su. Però vi anticipo che arriverà qualcos'altro del genere a breve, perché la mia Socia si è lasciata ispirare a sua volta. Mi spiego: queste storie sono una 'botta d'ispirazione' dell'una o dell'altra, e a turno comunque revisioniamo. Speriamo vi piacciano! 
A presto,

Mari e Marti

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Cigarettes ***


CIGARETTES
 
“Ti ha mai detto nessuno che fumare fa male alla salute?”
“Tutti quelli che mi hanno visto fumare almeno una volta. Benvenuto nella lista.”
Mi siedo accanto a lei, ridendo.
“Com’è, allora, che ti vedo fumare per la prima volta solo ora? Dopo tutti questi anni...” chiedo, curioso.
“Avevo bisogno di pensare… Come non accadeva da un bel po’ di anni,” risponde lei laconica.
Tu che non pensi per anni? Tu, che sei sempre dentro la tua testa?!” controbatto fingendomi scioccato, prendendola in giro.
“Smettila!” mi intima lei con un sorrisetto, dandomi una spallata bonaria. “Sono seria. Non è un pensare solito…”
“Ti va di condividere con me questi pensieri?” le chiedo allora, circondandole le spalle con un braccio, per scaldarla in un mezzo abbraccio.
Dopotutto è novembre. Da qualche giorno l’aria si è fatta più fresca a Spoleto, ancor più quando comincia a far buio. E Anna è seduta sulle scale, nel piccolo parco davanti casa, a proteggerla dall’aria pungente solo la giacca della divisa. 
Lei resta in silenzio per qualche secondo, soppesando la mia offerta e tenendo gli occhi sulla sigaretta ancora accesa. Poi scuote il capo. “No. Non ti piacerebbe, sapere quello che ho in testa…” risponde infine.
“Allora lascia stare la tua testa….” affermo, sfilandole lentamente la sigaretta dalle dita, “… e parlami del problema che ti ha spinto ad accenderla…” concludo, accennando a quel sottile strato di carta e tabacco che adesso tengo io.

Lei si lascia andare a una risata cupa voltandosi verso di me, con gli occhi luminosi per via della luce del lampione, ma spenti dal troppo pensare. “Credi davvero che io debba partire per la missione in Siria?” mi chiede, calma.
Se mi avessero chiesto tre anni fa che mi sarei ritrovato su queste scale a parlare con lei di questo argomento, avrei riso. Oppure mi sarei infuriato. Non mi aveva incluso nella sua scelta allora, e invece ora è turbata dal fatto che, apparentemente, io voglia che lei parta.
“Io credo solo che tu debba fare la scelta migliore per te…” rispondo sinceramente, limitandomi a fare spallucce.
Anche se la parte egoista in me avrebbe voluto rispondere con un secco ‘no’.
Non voglio che parta.
Ma stiamo parlando di Anna.
Lei ha sempre voluto partire, cogliere quell’occasione più unica che rara che, adesso, le si è inaspettatamente presentata una seconda volta, seppur in modo un po’ diverso.
Anche se ha deciso che vuole giocare con me per tutta la vita.
Osservo l’estremità ardente della sigaretta, il tizzone pronto a cadere da un momento all’altro, mentre lei soppesa le mie parole, ancora una volta, lo sguardo vacuo e fisso davanti a sé.

Accenna una risata, rivolgendomi un’occhiata obliquo. “L’ultima volta che ho fumato una sigaretta è stato al monastero, quando la storia con Giovanni è finita…” mi dice, lasciando fluire i pensieri.
“Aveva scelto Dio, lui. E io avevo scelto di lasciarlo andare, anche se mi faceva male. Perché non volevo essere egoista. Avevo lottato per fargli cambiare idea… ma non sarebbe stato giusto insistere.” Un sospiro interrompe per qualche istante il suo discorso, ma Anna riprende in un tono ancora più cupo di prima, che mi mette addosso una certa ansia. Non capisco dove voglia andare a parare, e non sono certo di volerlo scoprire. Ma non ho scelta, così attendo che continui. “E alla fine mi sono fermata a chiedermi se fosse veramente questione di egoismo. E soprattutto, mi sono finalmente posta la domanda più importante: se lo amassi veramente…” conclude scostandosi da me e chinando la testa. Evitando con ostinazione il mio sguardo.
“Dopo tutto quello che abbiamo vissuto, dopo tutto quello che ho fatto, stai veramente dubitando del mio amore?” le chiedo, non proprio offeso, ma stupito.
Lei alza lo sguardo, incontrando finalmente il mio. C’è stupore anche nei suoi occhi. Perché ho capito cosa la stava consumando dentro, come il fuoco sta consumando la sigaretta che tengo ancora in mano e le ho sottratto.

“Abbiamo mandato tutto all’aria perché non abbiamo parlato del Pakistan e tu non volevi che partissi… Ora invece mi dici che dovrei partire. Io… sono confusa… Cos’è cambiato da allora? Se è cambiato qualcosa,” ammette con tono sconfitto.

Essere confusa è un problema, per Anna.
Lo è sempre stato. Per questo pensa sempre. Soppesa tutti i pro e i contro. Anche quelli potenzialmente inesistenti.
“Io non ho mai pensato che tu non dovessi partire, all’epoca…” prendo a dirle, mentre lei mi fissa con i suoi occhi verdi, persa.
“Ero arrabbiato perché mi avevi escluso da una scelta che avrebbe condizionato la vita di entrambi. Ma non avrei mai posto resistenza alla tua partenza, se solo me lo avessi chiesto, me ne avessi parlato…” continuo poi. La vedo ritrarsi appena, così cerco di mantenere un tono calmo perché non voglio che si senta attaccata, o in colpa. “… e ora è uguale. Ne abbiamo parlato, discusso. È uno step importante per la tua carriera e credo tu debba considerare la possibilità di partire. Ma devi essere tu a scegliere. Per quanto possiamo affrontare il discorso, puoi decidere davvero solo tu,” le dico, prendendo la sua mano e intrecciando le nostre dita.
“Io ho scelto te. Ho già preso la mia decisione,” mi dice lei interdetta, ancora più confusa.
“Lo so. Ma se partissi per la Siria, la tua scelta non cambierebbe. Avresti comunque scelto me, e io sarei comunque qui per te, al tuo fianco anche se lontano fisicamente. Fiero di essere il futuro marito del Maggiore Anna Olivieri. Perché, alla fine della missione, sono certo, non saresti più un semplice Capitano…” dico sorridendo e stringendo più forte la sua mano.

“Perché mi spingi a partire? La verità. Non questa serie infinita di frasi fatte che mi stai propinando…” mi risponde lei, ora alterata. Ha capito anche lei che non sono stato sincero al cento per cento, così abbasso le difese anch’io.
“Perché so che se restassi, saresti più lontana da me che se fossi davvero in Siria,” rispondo guardandola dritta negli occhi.
“La felicità non dipende da una sola cosa o persona nella vita, Anna. Non è scegliendo me e restando qui che saresti felice. Non è nemmeno partendo e lasciandomi indietro che lo saresti. Sarai veramente felice solo quando accetterai l’idea che una cosa che ti rende felice non deve per forza escluderne un’altra che ti porta altrettanta gioia…” le dico. “Per questo ti sto spingendo a prendere in considerazione l’idea di partire se in te dimora anche quel desiderio… Io non scappo.” aggiungo, ridacchiando. Lei però mi rivolge uno sguardo che, inspiegabilmente, contiene una nota di delusione non troppo nascosta.

“Anche gli altri uomini che ho amato in vita mia avevano promesso di restare, e invece sono scappati alla prima prova. Perché questa volta dovrei essere sicura che non ricapiti? Anche tu sei scappato, in un certo senso, quando mi hai lasciata. Mi hai lasciata libera, ma tu te ne sei andato.”
“Perché sarei potuto andar via davvero duemila volte, invece sono ancora qui. Perché non sono andato via nemmeno quando mi hai cacciato. Perché nonostante ti abbia fatto male, come questa sigaretta fa male alla tua salute…” aggiungo, sollevando la sigaretta che lentamente si sta spegnendo, consumata, davanti ai suoi occhi, “…non hai smesso di volermi con te per quando pensare troppo diventa un peso insopportabile da sostenere da sola.”
Lei mi guarda con la bocca socchiusa, sorpresa dalle mie parole. “E poi perché anche io, dopo il tuo ‘funerale’, ho acceso una sigaretta e mi sono messo a pensare se dovevo continuare a combattere contro Sergio e se ti amassi veramente. Come hai fatto tu al monastero…”
“Che risposta ti sei dato?” mi chiede infine, sorridendo.
“Che le sigarette finiscono molto prima che tu abbia trovato una risposta ai dubbi per cui le hai accese…” replico sornione fissando un punto indefinito davanti a me, mentre con la coda dell’occhio la vedo abbassare lo sguardo sulle nostre mani congiunte perché non è la risposta che andava cercando, e di sicuro non quella che si aspettava.
“E che se non fossi veramente innamorato di te, non avrei commesso tre quarti delle caxxate che ho fatto per cercare di non perderti negli ultimi anni,” concludo, stringendo nuovamente più forte la sua mano.
“Mi ami?” chiede lei con un’espressione che vorrebbe essere seria, ma tradisce il sorrisetto che cerca di emergere.
“Hai ancora dei dubbi?” ribatto, ridendo.
“Non ho più sigarette a cui chiedere risposte,” controbatte, “quindi sei l’unica opzione disponibile, sai com’è...”
“Conosco un modo più salutare per trovare la risposta…” Sussurro mentre avvicino il suo volto al mio con la mano che prima stringeva la sua, “e spero sia più efficace delle sigarette a cui hai affidato finora i tuoi dubbi…”

Manca un soffio tra le nostre labbra, ma prima di unirle non posso non aggiungere un’ultima battuta.
“Ah, non crearti problemi a farti venire dubbi, in futuro. Sarò lieto di risolverli...” concludo, prima di zittire la sua risata con un bacio.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Altare ***


ALTARE
 
Dopo tutte le delusioni ricevute nella mia vita, ammetto che per un po' mi ero convinta che l'amore vero fosse solo un miraggio, l'invenzione di qualcuno che aveva ben pensato di indorare un'abitudine. O peggio, un obbligo di sopravvivenza. E stavo iniziando a credere che il mio personale altare, metaforicamente parlando, fosse votato non più all'aspirazione di una gioia perfetta, quanto alle delusioni dovute a quel sentimento ingannatore.

Ma oggi no, non più, perché qualcosa è cambiato.

Quell'altare, oggi, è colmo di fiori bianchi, a celebrare un amore che non sarà perfetto, ma vero sì.
Come le promesse che ci siamo scambiati. Come la vita che ci attende. 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Umbrella ***


Umbrella

Piove. È normale a novembre, dopotutto.

Ho sempre trovato interessante osservare il viaggio delle gocce che scivolano sui vetri delle finestre delle case, o sui finestrini delle auto in movimento. Quei rigagnoli che scendono per via della gravità e che cambiano direzione, improvvisamente, al più impercettibile degli ostacoli.
Che poi è quello che fa l’uomo. Cambia spesso la sua strada. Si adatta al contesto e dinnanzi agli ostacoli cerca il modo di superarli, o molto più spesso aggirarli correre avanti.

Sono uscita di casa senza ombrello questa mattina. Era nuvoloso, vero, ma niente lasciava presagire pioggia, nemmeno il meteo la prevedeva. La pioggia, tuttavia, è solo l’ultimo degli ostacoli che mi tocca affrontare oggi.
Perché se è vero che fuori imperversa un temporale, anche dentro l’aria è quella di tempesta. Senza fulmini e saette, una tempesta apparentemente calma, che però ieri ha dato ‘spettacolo’.
Perché io e Marco abbiamo litigato, di nuovo.

Sembra diventata prassi ultimamente. Litighiamo per ogni piccola minuzia. Il maresciallo ci prende in giro perché sembriamo una coppia sposata da anni, anche se mancano ancora mesi al gran giorno.
Ma la cosa peggiore di questi momenti, è che, ogni volta – poiché testardi entrambi - è difficile capire chi, per primo, tra i due cederà e ammetterà – vero o falso che sia – di avere torto.
E questo porta a momenti di stallo come oggi.
Siamo entrambi in caserma questo pomeriggio, ma non ci siamo nemmeno salutati quando ci siamo incrociati al suo arrivo. Il Maresciallo ha capito che abbiamo di nuovo litigato e ha provato per tutto il giorno a spronare entrambi a fare la prima mossa. Tuttavia, la nostra testardaggine non ha vacillato.
E la cosa mi fa stare male, perché in realtà so che è stupido il nostro comportamento. La lite è partita da una sciocchezza ed è degenerata in fretta, senza alcun valido motivo. Basterebbe fare il primo passo, porgere la mano all’altro e tutto si risolverebbe. Ma l’orgoglio sembra non voler cedere, anche se vorremmo con tutti noi stessi.

Quando a fine giornata, scendo verso il portone della caserma e cerco di capire come tornare a casa senza inzupparmi completamente dalla testa ai piedi fissando la pioggia appena oltre la soglia, ripenso al motivo futile per cui io e Marco abbiamo litigato.
E più lo faccio, più diventa stupido. Come può una cosa da niente diventare così grande?
Un tocco leggero al mio gomito sinistro mi riporta al presente. Di fianco a me, Marco, l’autore di quel gesto. «Se vuoi, ti posso dare un passaggio sotto al mio ombrello…» mi dice.
Osservo l’oggetto che tiene tra le mani, prima di alzare lo sguardo verso il suo volto.
La sua espressione è neutra, una maschera di cera. Non è una vera offerta di pace la sua, piuttosto una tregua. Come quella che l’ombrello stesso offrirà dalla pioggia che cade inesorabile, impedendoci di bagnarci.
Mi limito ad annuire in risposta, ma non aggiungo altro.

Solo quando siamo quasi arrivati a casa, mi lascio andare ad un sussurrato «grazie», che avrei dovuto rivolgergli fin dal momento in cui mi ha offerto riparo dalla pioggia.
«Sai qual è la cosa bella degli ombrelli?» mi chiede lui, dal nulla. Lo guardo perplessa, non capendo cosa sia potuto venirgli in mente per farmi una domanda del genere.
«Cosa?» mi ritrovo a chiedere, stranamente incuriosita.
«Quando lo abbassi, ti accorgi che alla fine non sta piovendo così forte come invece sembrava dal rumore che sentivi mentre ci camminavi sotto…» risponde lui.
Quando alzo lo sguardo verso Marco, incrocio un timido sorriso.
Come può una cosa da niente diventare così grande?
La pioggia effettivamente si sta calmando, eppure sotto l’ombrello un attimo fa sembrava piovesse ancora forte, come ha fatto il resto del giorno.
«Mi dispiace…» dice poco dopo.
Non c’è bisogno che si spieghi ulteriormente. Ho capito cosa intende, ma quella che dovrebbe scusarsi sono invece io.
Che, ieri, dal niente ho ingigantito tutto, come l’ombrello fa col rumore della pioggia.
Marco mi osserva in silenzio. So già che ha capito a cosa sto pensando. Lo fa sempre.
«L’altra cosa bella degli ombrelli è che poi a un certo punto li chiudi, e torna tutto come prima» continua, come se io non avessi detto nulla. «Non importa se la pioggia non si è ancora placata, lo chiudi e intorno a te tutto sembra già più tranquillo, senza bisogno che torni per forza il sole…» sussurra infine.
E mentre chiude l’ombrello, all’entrata dell’androne delle scale che riportano a casa, avvolgo le mie braccia attorno al suo torso, poggiando il capo sul suo petto.
Sento il suo cuore accelerare i battiti per la sorpresa iniziale, ma poi torna a al suo ritmo regolare, il più bello dei suoni. Uno di quelli che ti culla, come il rumore della pioggia che cade quando la osservi dalla finestra.
Trovo riparo tra le sue braccia, come prima l’ombrello mi forniva ristoro dall’acqua che scendeva.

Ha ragione, penso tra me.
Alcuni oggetti amplificano il rumore, come alcune parole fanno con le minuzie.
Ma quando cala il silenzio, successivamente, basta sussurrare quelle giuste di parole per porre rimedio alla tempesta.
«Scusa…» sussurro, la voce camuffata dalla mia guancia premuta contro il suo petto.
Lo sento sorridere mentre mi stringe più forte a sé.
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Tarots ***


TAROTS

“La Luna è sul suo cammino!”

Sono di ritorno da un allenamento di judo, il cielo è ormai buio e inizia a far fresco. E stavo camminando tranquilla - oddio, leggermente di fretta in realtà perché ho perso la cognizione del tempo in palestra, e quindi stranamente sono un pochino in ritardo per i miei standard - per gli affari miei, quando ho sentito una voce pronunciare quella strana frase.

Considerato che sono l’unica persona presente oltre la proprietaria della suddetta voce, mi volto.
“Dice a me?” chiedo, alzando un sopracciglio in direzione della donna. Osservo per un istante il suo abbigliamento: sembra una di quelle veggenti che si vedono nei film, con una sorta di velo sulla testa e diverse collane sottili fatte di perline colorate che riflettono la luce lieve dei lampioni. 
“A chi altro?” replica, come se le avessi posto una domanda assurda. “La Luna è sul suo cammino!”
Trattengo uno sbuffo. “Sì, in effetti stasera c’è la luna piena...” 

Faccio per andar via, ma le mi blocca sollevando una mano in modo teatrale, le perline che tintinnano. “Mai ignorare i segni dei Tarocchi! È un presagio!”

I Tarocchi. Certo.

“La Luna è il simbolo dell’istinto!” prosegue, ignorando la mia espressione infastidita. “E l’istinto va seguito! La Luna indica un tradimento... menzogne ti attendono!”
Spalanco gli occhi, sconcertata. Eh no, un altro tradimento no.

Scuoto la testa, ricordandomi chi ho davanti e che io a queste scemenze non ci credo.
“Ne terrò conto, grazie mille, arrivederci.” rispondo secca, impedendole di fermarmi di nuovo e procedendo a passo spedito verso la mia macchina.

Un presagio, come no. 
Tra tutta la gente che avrebbe potuto fermare, giusto giusto me. La razionalità fatta persona. Io, che detesto perfino quando mia sorella mi riempie con le scemenze degli oroscopi che si ostina a leggere. Come se quella roba non fosse scritta ad hoc per far credere alla gente che oh, parla proprio di me! Sicuro.

Però... tra le tante carte, perché proprio la Luna? Perché il tradimento?

Mi do di nuovo della stupida, così mi affretto a salire le scale di casa. Marco è già rientrato, ho visto la macchina parcheggiata al solito posto, ma non ho idea se abbia già preparato qualcosa o mi tocca mettermi ai fornelli dopo la doccia che, se è questo il caso, dovrà essere particolarmente breve.

Quando apro la porta di casa, però, mi accoglie un delizioso profumino.
“Ciao, amore!” 
E anche il mio fidanzato.
Mi toglie il borsone dalle mani e mi spinge verso il bagno, lasciandomi interdetta. 
“Tu vai a farti un bel bagno rilassante, alla cena ci penso io!”
“O-ok...” rispondo, senza che lui mi lasci il tempo di aggiungere altro perché mi ha praticamente chiusa in bagno - peraltro già con la luce accesa, l’acqua fumante nella vasca che emana un delicato profumo di gelsomino, e due candele la cui fiammella danza allegra appoggiate sulla ceramica bianca.

Ok, qui c’è qualcosa di strano.
E non per la cena o il bagno in sé, ma in generale. Cos’è tutta questa fretta?
Non è che davvero-
Davvero niente, mi rimprovero. È solo suggestione. 
Decido di non pensarci troppo e godermi questo inaspettato ma gradito cambio di programma. 
---
Quando mi sveglio, Marco non è a letto accanto a me, seppur le lenzuola sono ancora tiepide. Un rumore d’acqua mi indica la sua presenza in bagno. Approfitto di questi istanti per stiracchiarmi un po’.

Ieri sera è stata una bella serata. Non che Marco non mi vizi di suo, ma ieri mi ha proprio impedito di alzarmi e fare alcunché... in effetti, avevo avuto una giornata pesante al lavoro, Cecchini glielo avrà riferito e lui si è dato da fare.

Decido di alzarmi e cominciare a preparare la colazione in attesa che lui mi raggiunga, ma ho appena afferrato la maniglia del frigo quando una voce mi blocca.
“Anna!” 
Sussulto per il leggero spavento.
“Che-”
“Scusa... buongiorno!” mi saluta, un’espressione vagamente colpevole sul volto. Mi raggiunge in due falcate, e dopo un bacio veloce mi afferra per le spalle, spingendomi verso il tavolo.
“Faccio io... caffè e biscotti?”
Annuisco, sconcertata. “Sì, okay, ma-”
“Ottimo,” taglia corto, mettendosi ad armeggiare senza degnarmi di uno sguardo.

Una volta finito, insiste per sistemare tutto.
“Ma si può sapere che hai?” gli chiedo. Mi fa piacere, ma stiamo esagerando!
“Niente, che devo avere? Non posso fare io qualcosa per te, ogni tanto?” replica con semplicità disarmante, tanto che mi do di nuovo della scema perché la mia mente era corsa subito alla luna.
Lascio correre, anche perché questa strana colazione mi ha fatto accumulare ben cinque minuti di ritardo, e io devo correre in caserma.

Dopo una giornata infinita in cui ho dovuto saltare la pausa pranzo, finalmente arriva l’ora di tornare a casa.

Faccio la strada di ritorno quasi di corsa, pregustando già il rientro. So esattamente cosa fare una volta varcata la porta di casa.
In realtà volevo farlo già ieri, ma lo strano comportamento di Marco mi ha distratto e non ci ho più pensato.

Dopo aver chiuso la porta e appoggiato giacca e berretto sul divano, mi dirigo verso il frigo, pregustando già il piccolo capriccio che voglio concedermi.
Tiro la maniglia, ma prima che possa far altro, sento la porta di casa aprirsi, e Marco che, col fiatone, cerca di dirmi qualcosa.
“Asp-a-aspetta-”
Inarco un sopracciglio.
“Non è come pensi-”
Osservo la sua espressione colpevole. Spalanco gli occhi, prima di gettare finalmente un’occhiata in frigo.
Tradimento. Menzogna.
“MARCO!!!!” strillo. “L’ultima fetta di torta al cioccolato, te la sei fregato tu! Come hai osato?”
Lui solleva una mano in segno di scuse, prima di lasciarsi scappare un sorrisetto.
Mi accorgo solo ora che teneva l’altra mano nascosta dietro la schiena.
Posa la scatola di cartone decorato che mi aveva tenuto celata fino a qualche istante fa sul tavolo in mezzo a noi, e le mie narici vengono raggiunte da un delizioso odore di cioccolata.
“Ehm, scusa?” tenta.
Scuoto la testa per l’ennesima volta in queste ventiquattr’ore.

Quella ciarlatana ieri sera aveva fatto riaffiorare in me una paura irrazionale e fatto vedere cose che non esistevano affatto.
L’unico tradimento, se così possiamo definirlo, che è accaduto in questo arco di tempo è che il mio fidanzato ha deciso di papparsi ciò che restava della torta al cioccolato che ci aveva dato mia madre qualche giorno fa. La menzogna l’omissione di ‘colpa’.

Alzo gli occhi al cielo, prima di avvicinarmi a Marco, lasciandogli un piccolo bacio a fior di labbra.
“Scuse accettate... basta che non mi freghi anche l’ultima fetta di quella,” specifico, accennando alla scatola sul tavolo.
Lui accenna un sorrisetto sadico.
“Non te lo posso promettere.”

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Photograph ***


Photograph

C’è qualcosa di terapeutico nel fare le pulizie in casa. O almeno, per me è così.
Anzitutto, perché odio il disordine. Per una persona razionale come me, non può esserci caos in niente. Se attorno a me tutto è fuori posto, allora anche dentro di me non può esserci senso logico.
Credo nell’affermazione secondo cui l’ambiente che ti circonda è in certa misura lo specchio di chi sei.
Casa mia è quindi la perfetta rappresentazione di chi è Anna Olivieri.
Il punto focale però è che, con il tempo, Anna Olivieri è andata cambiando e, con lei, la sua casa.
Dal perfetto rifugio di una ragazza single, con il futuro davanti a sé spianato verso una carriera in crescendo nell’Arma dei Carabinieri, a nido d’amore di una storia in cui non sono più protagonista in solitaria.

Non è la prima volta che il mio appartamento assume questa seconda veste. Né è la prima volta che mi ritrovo a condividere questo spazio con qualcun altro.
Ma in qualcosa questa nuova tappa della mia vita differisce dal passato: non è più una fase intermedia, temporanea. No, questa volta, è una convivenza a tempo indeterminato. Lo spero, insomma.
Perché voglio giocare insieme alla persona con cui condivido questo spazio per il resto della mia vita. E sono certa lo voglia anche lui.
Lui che però è la reincarnazione umana del disordine. Come del resto il soggiorno di casa che ora sto ripulendo dimostra.
Un paio di scarpe abbandonato poco dopo l’ingresso di casa. Una maglietta da calcetto appesa alla sedia del tavolo da pranzo. Gli incartamenti del prossimo caso da discutere in tribunale sparpagliati sul tavolino da caffè davanti al divano. Il borsone da tennis appoggiato -“momentaneamente” a suo dire – su uno degli sgabelli dell’isola che divide il soggiorno dalla cucina.
Osservo il caos lasciato da mio marito, con le mani poggiate sui fianchi e sbuffando.
Sapevo che fosse l’uomo più impossibile che io avessi mai incontrato e che fosse disordinato, ma c’è un limite a tutto, penso.

Quando ci siamo messi insieme – fin dalla prima volta - ci siamo ripromessi di smussare i nostri angoli, abbiamo deciso insieme di fare dei passi uno nei confronti dell’altra, e viceversa.
Non ho mai preteso, ne pretendo ora, che cambi per me, ma mi sono sempre aspettata che lo facesse e faccia con me. Mi sta quindi bene non avere più l’ordine dei tempi in cui questa casa era praticamente vuota se non per la mia sola presenza, ma nemmeno va bene sia simile a una uscita da quei programmi americani dove vivono sommersi dal disordine più ingiustificato - checché dicano sempre sia dovuto alle loro precarie condizioni di vita.

Forse dovrei lasciare sia lui a ripulire questo caos, ma so anche che alla fine a lavori ultimati non troverei la casa pulita all’altezza di quello che mi aspetto.
E allora decido di lasciare che le pulizie distendano i miei nervi, mi ridonino quella pace dei sensi che provo quando la casa torna a brillare e osservo il frutto di quel - pur sempre – duro lavoro.
Dopo aver raccolto tutto da terra e riposto gli oggetti sparpagliati per casa al loro posto, mi accingo a riporre nella  sua ventiquattr’ore gli incartamenti che ha abbandonato sul tavolinetto ieri sera, stanco dopo l’ennesima giornata infernale in tribunale.
So che questo disordine è frutto anche di quello stress. Da settimane, in tribunale il lavoro sembra raddoppiato e ogni sera torna a casa sempre più stanco.
A ripensarci bene, forse, non dovrei essere arrabbiata per questo caos. Ognuno di questi oggetti è una scappatoia dal lavoro, un momento di pace che ricerca per distendere anche lui, come me oggi, i nervi.

Quando sollevo i fogli per metterli nella valigetta, noto che tra di essi c’è però anche una foto. L’immagine è rivolta verso il tavolinetto, per cui non so cosa ci sia ritratto. Riconosco però la grafia della persona che ha scritto data e “dedica” sul retro. La mia.
Raccolgo la foto, dopo aver riposto la ventiquattr’ore sul divano dietro di me. Mi siedo a terra, la schiena poggiata alla seduta dello stesso sofà.
Leggo cosa c’è scritto sulla carta: “04/03/23. We keep this love in a photograph. We made these memories for ourselves”.

Non ho bisogno di girare la foto per sapere cosa ritrae. L’istantanea di quel momento non è incisa solo su questa carta, ma anche nella mia mente. Come se fosse ieri. Mentre in realtà sono già passati mesi. Tre, per la precisione.
Stampata sulla mia pelle, come sulla sua, c’è invece la medesima data riportata su questa foto.
Non perché temiamo di dimenticarla, ma semplicemente perché siamo certi che segna l’inizio di qualcosa che sarà per sempre, come i tatuaggi.

Sto per ruotare la foto, quando sento scattare la serratura alle mie spalle. Non mi muovo. Lascio sia lui a trovarmi.
So che è lui. Semplicemente dal suo passo, inconfondibile, sul parquet dell’ingresso.
Lo sento posare la spesa sull’isola in cucina. E poi avvicinarsi al divano.
«Che fai lì per terra?» mi chiede, appoggiandosi allo schienale del sofà, senza salutarmi. Ci siamo visti poche ore fa, non serve.
«Riordino dopo che qualcuno ha lasciato tutto in giro…» prendo a dire con tono serio.
«Mi spiace….» risponde lui, aggirando il divano, per poi mettersi seduto. «Giuro, che avrei messo tutto a posto, non appena ne avrei avuto il tempo…» mi dice poi, strofinandosi un occhio, per rimuovere la stanchezza che sono certa lo stia consumando, e sbadigliando, per riflesso incondizionato della medesima azione.
Mi risistemo in modo da essere seduta tra le sue gambe, seppure sempre per terra. Lo sento riaggiustare la sua posizione, spingendosi avanti per vedere cosa stringo tra le mani, mentre io dico «Non ti preoccupare. Trovo terapeutico fare le pulizie. E so che sei disordinato di natura, ma non fino a questo punto…Sei stanco, lo capisco…».
Dalla sua posizione, posa un bacio sulla mia nuca, in segno di gratitudine.
«Anche tu lavori tutto il giorno e sei stanca, ma non per questo lasci in giro le cose come me… mi ripeto: mi dispiace veramente…» controbatte lui.
Mi volto, guardandolo dal basso verso l’alto vista la mia posizione. Noto le occhiaie sotto i suoi occhi e il sorriso spento dalla stanchezza. «Come mai avete tutto questo lavoro in tribunale ultimamente?» chiedo preoccupata.
«Lavoro arretrato per la mia assenza causa viaggio di nozze …» prende a dire, dandomi un altro bacio, questa volta sulla tempia «e mancanza di personale vario. Molti sono andai in vacanza già ora che non è ancora alta stagione, e molti si sono invece fatti trasferire. Nel mentre, siamo rimasti in pochi a fare il lavoro di tanti.» continua poi. «Aggiungici poi che Spoleto è la Caracas di Italia, a giudicare dalla frequenza di reati che i preti di turno scoprono, e ottieni la risposta alla tua domanda…» conclude poi reclinando si verso lo schienale, mentre io ridacchio alla sua ultima affermazione.

Mi alzo, per sedermi accoccolata al suo fianco sul divano. Lo sento rilassarsi in quel semi abbraccio.
«Cosa ci faceva questa foto in mezzo agli incartamenti che hai lasciato sparpagliati sul tavolino?» chiedo curiosa un paio di minuti dopo, interrompendo il silenzio che ci avvolge.
«Mi ricorda che nonostante le mie giornate ultimamente sembrino interminabili, c’è qualcuno a casa che mi attende…» dice lui, ruotando finalmente la foto dal lato in cui è stampata.
Incisi sulla pellicola ci siamo noi due, vestiti da sposi, nel giorno del nostro matrimonio, nella stessa posa e sotto lo stesso albero, in cui anni prima Chiara ci aveva immortalati durante una gita in campagna con lei, mamma e Cecchini, a poche settimane dal nostro matrimonio saltato.
È stata un’idea di Chiara quella di ricreare la foto, convinta che fosse il giusto modo per lasciarsi al passato il dolore che ci siamo arrecati e iniziare da capo, insieme.
Lo abbiamo trovato sensato, e così ci siamo lasciati immortalare in quella che è forse la più bella foto del book fotografico del nostro matrimonio.

Quando le istantanee di quel giorno sono arrivate a casa, alla radio – quasi fosse in segno del destino – passava ‘Photograph’ di Ed Sheeran.
Il testo di quella canzone si addice molto alla nostra storia. Per questo ne ho trascritto due frasi sul retro di questa foto.
«Mi ricorda che non sono solo, che per quanto siano dure le ore di lavoro che mi attendono ogni giorno, a casa ritroverò la pace di cui ho bisogno per andare avanti ed affrontare tutto quello che mi riserverà il giorno successivo» mi riporta alla realtà, Marco.
Scosto lo sguardo dalla foto, per incrociare il suo sguardo stanco.
Accarezzo il suo viso, come a ringraziarlo per la sua ennesima dichiarazione d’amore nei miei confronti.
Marco però non sembra aver finito il suo discorso, perché riprende a parlare. «È in mezzo agli incartamenti perché la porto sempre con me, come dice la canzone da cui ha preso le parole scritte dietro la stessa… pensavo lo sapessi, l’ho ‘rubata dall’album del matrimonio..» conclude imbarazzato.
Non me ne ero accorta, eppure sfoglio spesso l’album con mia madre, che forse incredula io mi sia sposata, lo vuole guardare almeno una volta alla settimana.
È molto romantico il suo gesto. Mi sento fortunata a sapere che sono così importante per qualcuno. A tal punto perfino da convincere questa stessa persona a portarmi, in qualche modo, sempre con sé.
Lo bacio, teneramente, come se fosse il nostro primo bacio, mentre è invece l’ultimo – per ora – di una lunga serie.
«Non sono brava a fare dichiarazioni come te ma… ti assicuro che ci sarò sempre, Marco, quando avrai bisogno di me» sussurro.
«Siamo Anna e Marco. Ci siamo sposati nel giorno del compleanno di Lucio Dalla. Siamo ‘per sempre’. Come l’amore immortalato in questa foto».

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Six strings ***


Six strings



Apro la porta di casa piano, perché Anna oggi non era di turno ma l’ho lasciata che lavorava su alcuni documenti quando sono uscito per andare al lavoro, e conoscendola non mi sorprenderebbe trovarla nello stesso punto, china sui fogli con una matita stretta tra le mani e l’aria concentrata.

Invece del silenzio che mi aspettavo, invece, mi accoglie un suono armonioso che non avevo certamente messo in conto.

Gli impegni di lavoro sono sempre molti, e anche Ines quando sta con noi richiede tempo, così come le varie interruzioni per questo o quel motivo da parte dei biscottini. Non che sia un peso, anzi, ci fa sempre piacere dedicare loro qualche ora, ma di conseguenza è tempo che sottraiamo a noi, sia come coppia che come singoli. Difficilmente riusciamo a ritagliarci più di qualche minuto, ultimamente.

Adesso però, nell’aria si diffonde caldo il suono di sei corde che vibrano al tocco delle dita di Anna, che non ha mani da chitarrista, ma possiede la sensibilità giusta per trasmettere, pur con le sue limitate conoscenze musicali, tutto ciò che il brano, o il suo animo, richiedono.

Sorrido alle parole che le sento sussurrare.

 
As long as I am loving you, you'll never be alone

As long as you keep wanting me around

But this is one trip you’re gonna have to take alone

When you come back, you'll find me here where I belong



È uno dei brani che preferisco, e non è difficile capire il perché. Sembra descriverci molto bene, quasi la cantante sapesse esattamente cosa ci stava succedendo.

Come io stesso, quando ho avuto paura di quell’amore che continuavo a provare per Anna, ho preferito fingere che non fosse davvero così, scappando invece di affrontare veramente la situazione.

Ma, come sta cantando lei, il percorso della consapevolezza va fatto da soli, esattamente come ha fatto lei stessa, ma diventa tutto più tollerabile quando sai che c’è qualcuno che continua ad amarti nonostante tutto, e che sarà sempre lì ad aspettarti perché il suo posto nel modo è insieme all’altro.

 
Soft like sand, sift through your hands

Memories we both agree are not reality



La paura di sottofondo c’è sempre. Quella che ti assale con mille dubbi al seguito, facendoti chiedere se stai facendo la cosa giusta, se stai seguendo il percorso corretto o invece hai perso la via e forse è troppo tardi per accorgersene. O quel terrore di cosa potrebbe succedere, di ripetere errori passati. Terrore di cose mai accaduti.

Memories we both agree are not reality, canta la voce melodiosa di Anna, mentre le sue dita si muovono agili sulle corde.

A volte il passato diventa una persecuzione, ed è facile convincersi di cose che in realtà non sono mai accadute nella realtà, ma sono solo incubi dell’inconscio. Come la paura di perderla. Che è stata reale, certo, ma non reale in fondo.

Chiudo gli occhi, ascoltando ancora.

 
As long as you are loving me, I know I'm not alone

Even if you’re nowherе to be found

Sometimes lifе takes you back to places you run from

I'll be right here if ever you come home

 

La canzone giunge al termine, e con essa il mio flusso di pensieri.

Perché è vero, fintantoché sono certo del suo amore - e sue questo non ho il minimo dubbio - so che non sarò mai solo, e che il peggior incubo non potrà mai diventare realtà. Perché non importa quanto gli eventi cerchino di mettere i bastoni tra le ruote e separare, se due persone sono destinate a stare insieme - anime gemelle - niente potrà davvero dividerle.

La vita ti riporta in quei luoghi da cui hai cercato di scappare, a volte.

Soprattutto se quei luoghi, nonostante la sofferenza, nonostante il dolore, sono sempre e comunque casa.

Perché casa ormai per me ha un unico significato: lei.



Il suono si interrompe con dolcezza, le ultime note che risuonano nell’aria accogliente del nostro appartamento. Mi avvicino ad Anna, circondandole le spalle con un braccio mentre lei si limita a sorridere perché, nonostante io abbia cercato di fare meno rumore possibile per non interromperla, mi ha sentito comunque rientrare.

La stringo con tutta la dolcezza che riesco a mettere insieme, cercando di trasmetterle quello che la sua voce insieme a quelle sei corde mi hanno fatto provare. Non sono bravo quanto lei, ma so che apprezzerà lo stesso se anch’io, pur senza la musica ad accompagnarmi, le canto a mezza voce un verso di quel brano che racconta di noi.

 
When you come back, you'll find me here where I belong

 

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Cinnamon ***


Cinnamon 

Sono seduto nella sala di attesa dal medico, dove sono venuto per un controllo, visto che da qualche giorno ho una bruttissima tosse che non mi dà pace.
La stanza è tutta decorata di rosso e oro, il Natale si sta avvicinando dopotutto, e in sottofondo, non a caso, risuona la voce di Micheal Bublé che canta 'Santa Claus is coming to town’.
La mia attenzione è però rivolto alla segreteria del dottore, che seduta alla sua scrivania, è intenta a mescolare una tazza di cioccolata calda con una stecca di cannella.
 
Non mi è mai piaciuta particolarmente la cannella. Tutt’altro.
Ogni volta che da piccolo incappavo nei biscotti creati da mia nonna con quella spezia, li scartavo, costringendo poi mia madre a mangiarne in grandi quantità per non sprecarne.
Non era un problema per lei, anzi.
In fondo, erano i suoi preferiti, fin da bambina.
Dopotutto, come accade in molte famiglie, anche nella nostra c’è sempre stata quella pietanza che inevitabilmente ricolleghi a un momento preciso dell’anno, a una festa. Per noi, quella pietanza, a Natale, erano i biscotti alla cannella.
Per mia mamma era letteralmente inconcepibile un Natale senza quei dolcetti.
Non mi sono mai stupito quindi nel vedere, anche dopo la scomparsa della nonna, mia madre prepararne sempre qualcuno in mezzo agli altri biscotti, giusto per mantenere la tradizione, visto che li mangiava solo più lei.

Di quei momenti, ricordo ancora il profumo inconfondibile della cannella nell’aria proveniente dalla cucina.
Quando però anche mamma Elena mi ha lasciato, per raggiungere la nonna, i biscotti alla cannella non li ha più fatti nessuno. E io ho iniziato a sentire la mancanza di quel profumo che inevitabilmente, ogni anno, annunciava l’inizio delle festività a casa.
È paradossale, pensandoci, visto che non mi piacevano quei dolcetti. Eppure, a dicembre di ogni anno, mi ritrovo a bramare di poter ancora sentire quel profumo e di ritrovare mia madre in cucina, quando torno a casa, mentre impasta quei biscotti come negli anni della mia infanzia.
E chissà, magari col tempo, avrei imparato ad apprezzarne anche il gusto.  Chi può dirlo.
Crescendo mi è capitato pure di aprire il suo quadernetto di ricette per cercare quella di quei biscotti, pensando di ricrearli. Ma ho sempre desistito, perché se da una parte avrebbero rievocato bei ricordicome la Madeleine di Proust, dall’altra che senso aveva farli, se poi io non ne avrei mangiato nemmeno uno. E quindi, il quadernino veniva richiuso dopo aver letto l’elenco degli ingredienti, con un sorriso amaro in volto.

Vengo riportato alla realtà dalla segretaria che mi invita ad entrare nello studio del medico per la mia visita. Mi alzo dalla sedia, diretto verso la mia destinazione, lasciandomi alle spalle i pensieri dolceamari che quella stecca che spunta dalla tazza davanti alla donna, ha evocato.
Dopo essere passato in farmacia a prendere lo sciroppo prescrittomi dal medico per la mia tosse, faccio ritorno a casa.
Quando apro la porta, vengo accolto da un gran vociare, e soprattutto da un profumo particolare proveniente dal forno della cucina.
Saluto i presenti – Anna, Ines e la signora Elisa -, intenti a mettere ordine dopo quello che assomiglia molto a un pomeriggio tra i fornelli.
Nella stanza, in mezzo al disordine lasciato dal gran lavoro, sull’isola-bancone noto un quadernetto a quadri.
Intorno ad esso, ci sono ancora tracce di farina sparsa e formine natalizie per biscotti.
«Ehi, se tornato. Cosa ti ha detto il medico?» accoglie il mio arrivo mia moglie.
«Niente che non si possa risolvere con del caro vecchio sciroppo per la tosse…» rispondo io, tenendo lo sguardo fisso sulla copertina a quadretti che ha attirato la mia attenzione appena arrivato.
Anna deve aver capito cosa sto fissando, perché interviene subito dopo «Ora lo rimetto a posto. Scusa se l’ho preso. Stavo cercando idee per fare i biscotti con Ines e mi sono ricordata di aver letto alcune ricette interessanti sul quaderno di tua mamma tempo fa…»
Alzo lo sguardo, incrocio i suoi occhi verdi. Sorrido. «Non devi scusarti. Dopotutto, da un po’ di mesi, ciò che è mio è anche tuo, o no?» dico divertito.
Anna si avvicina a me sorridendo. Mi dà un bacio, incurante del fatto che possa prendersi i miei malanni anche lei.
«Spero ti piacciano i biscotti alla cannella. Sia io – più che mai in questo periodo - che Ines ne andiamo matte, e quindi ne abbiamo fatti un vagonata…vero Ines?» chiede alla piccola, venuta a trascorrere qualche giorno con noi, mentre Sergio è fuori Spoleto per lavoro.
Lei annuisce vigorosamente, prima di rivolgere nuovamente lo sguardo verso il vetro del forno, impaziente di sfornare le sue creazioni, con Elisa affianco per assicurarsi non si bruci.

Quando mi rivolto verso la donna accoccolata al mio fianco, che mi osserva speranzosa di ricevere un parere positivo sui dolcetti che tra poco verranno sfornati, respiro profondamente, accogliendo il profumo di cannella che permea l’aria della nostra casa in questo istante.
Mentre sorrido alzando gli occhi verso il cielo, poggio la mano che non sto usando per stringere Anna a me sul suo ventre. Da un paio di mesi accoglie la crescita di una nuova generazione di Nardi. Credo quello di oggi sia un segno che arriva da lassù.
Forse è arrivato il momento di riprendere certe tradizioni di famiglia, anche se non ne vado pazzo.
Forse è arrivato il momento giusto di dare una nuova possibilità ai biscotti alla cannella. 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Daisies ***


Daisies

È un caldo pomeriggio di maggio. Ines ed io stiamo giocando con la palla nel giardinetto sotto casa mia e di Anna. Sergio è fuori città per lavoro e in canonica fervono i preparativi per la festa in onore di Don Matteo, che torna dalla sua missione in Africa - anche se solo per una veloce visita -, quindi la piccola è da noi nel mentre.
È il mio giorno libero, per cui dopo essere andato a prenderla a scuola e aver fatto i compiti, siamo scesi a giocare sotto casa.
«Ma hai piedi stortissimi!» mi urla la piccola al mio ennesimo passaggio sbagliato.
«Sono sempre stato bravo a guardarlo il calcio, non a giocarlo… Non infierire!» le rispondo ridendo.
È il suo momento di calciare, ma mentre lo fa, una voce mi distrae «Quando dicevi di essere una pippa non scherzavi affatto…».
«Non ti ci mettere anche tu…» le rispondo voltandomi, mentre la palla calciata dalla piccola mi supera senza che io possa stopparla.
Sento un crack poco dopo e vedo la faccia di Anna sbiancare, mentre la piccola si copre la faccia e afferma «Oh cavolo!».
Quando mi volto, noto un vaso di margherite gialle in frantumi e di fianco al medesimo l’ultima persona che avrei voluto vedesse la scena.
«Le mie margherite!» urla.
«Signora Serena, possiamo spiegarle tutto…» prende a dire Anna.
«E cosa c’è da spiegare? Avete rotto l’ennesimo vaso giocando con quella maledetta palla!» risponde lei.
«Ennesimo, ora non esageri…sarà il quarto in due anni…» rispondo io.
«Semmai in due mesi, caro mio…» ribatte lei, mentre Ines annuisce. Traditrice, da che parte sta!
«È colpa mia, signora...» prende a dire la bambina «Questa volta…» sottolinea poi. «Ma non l’ho fatto apposta, glielo giuro!» le si avvicina con le mani congiunte in segno di scusa, occhioni da cerbiatta e il faccino contorto nella sua migliore espressione dispiaciuta.
«Oh cara, non ti preoccupare. Può succedere. Non fare quella faccia…» le risponde Serena, mentre io ed Anna ci guardiamo stupiti e confusi al suo cambio repentino di umore.
«Non accadrà più, glielo giuro!» le dice ancora la piccola, lanciandosi in un abbraccio alla sua vita.
La nostra vicina sembra stupita quanto noi dalla scena, ma decide di accettare quella stretta, posando una mano sulla testa della bambina.
«Signora Serena, siamo veramente dispiaciuti. C’è qualcosa che possiamo fare per farci perdonare? Le ricompriamo un vaso di margherite, per sostituire questo,. Che ne dice?» Le dico io, non appena Ines scioglie l’abbraccio. La piccola annuisce alla mia proposta, ma la mia vicina non sembra della medesima idea.
«Oh non ce ne sarà bisogno. C’è un altro modo per riparare al danno…» dice sorniona.
«Sarebbe?» rispondo io, lanciando uno sguardo preoccupato verso Anna ed Ines.
 
 
«Lei è veramente scarso nel giardinaggio, sa? Non solo è una pippa a calcio quindi…» dice la signora Serena, mentre io ripongo il venticinquesimo vaso – trapiantato, curato e innaffiato oggi – sulla terrazza dell’appartamento della stessa.
«E Lei come fa a sapere che sono una pippa?» chiedo involontariamente confermando la mia scarsa propensione al calcio.
«Quattro vasi rotti in due mesi, dottore. Ricorda? E poi la vedo sempre in giardino a giocare con la bambina quando è qui…» risponde Serena.
«Comunque abbiamo finito, può considerare il debito del vaso di margherite rotto ripagato» continua poi.
«Dopo venticinque vasi ci manca ancora che non ho saldato il debito….» dico a bassa voce tra me e me.
«L’ho sentita sa?» dice lei. Ops. «Ma le farò la grazia di fare finta di nulla…».
Come è magnanima. «Se abbiamo finito, allora io andrei…» le dico togliendomi il grembiule e i guanti da giardinaggio, che non hanno comunque impedito io mi sporcarsi di terra dalla testa ai piedi.
«Alla prossima!» mi dice lei salutandomi.
«In che senso, scusi?» rispondo confuso.
«Beh sotto casa ci sono ancora quattro vasi di margherite, è solo questione di tempo prima che ne rompa un altro…» ribatte lei laconica.
La osservo che mi fissa, in attesa di una mia smentita. Resto in silenzio qualche secondo, poi portandomi le mani ai fianchi controbatto «Alla prossima…».
Con mia incredibile sorpresa, la signora Serena si lascia andare in una risata, di fronte alla mia ammissione che ci sarà una prossima volta.
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Carillon ***


Carillon
 
Quando ero piccola, spesso papà era fuori per lavoro.
 Stava via per settimane, a volte, e io contavo i minuti al suo rientro. Sempre lo stesso volo da Parigi, la sera tardi, quando io e Chiara eravamo già a letto.
Lei dormiva sempre, ma io no, lo aspettavo con gli occhi spalancati e le mani strette attorno al lenzuolo, gettando continuamente occhiate verso la porta chiusa, in attesa che una mano piena di tagli e calli ma capace di carezze e abbracci dolcissimi la aprisse, e un sorriso affettuoso facesse capolino per raggiungermi a letto.
Mi mancava sempre moltissimo, e da bambina quale ero, mi capitava di arrabbiarmi con lui per le sue continue assenze. Lui cercava di rimediare come poteva, portandoci spesso piccoli doni dalla ville Lumière, piccole cose che attiravano la sua attenzione ed era certo ci sarebbero piaciute.

Uno dei miei preferiti era un carillon dorato, appeso a un nastrino dello stesso colore, con minuscoli cavalli rosa che, girando la chiave per caricarlo, inondava l’aria di una musica dolce che mi faceva immaginare di essere con papà ogni volta che la ascoltavo. Parigi è famosa per le sue giostre sparse per la città, e quel piccolo carillon era la replica perfetta di quello che per me era un sogno che speravo di realizzare.
Sì, speravo di poter accompagnare papà a Parigi quando sarei stata abbastanza grande, e condividere con lui momenti speciali.

Inutile dire che quel sogno non si è mai avverato, che quell’assenza è diventata permanente e il carillon ha smesso di suonare.
L’ho rinchiuso in una scatola insieme a tutti gli altri doni che papà mi aveva portato nel corso degli anni, divenuti ricordi troppo dolorosi per poterli lasciare in giro.
Per molto tempo l’ho tenuta chiusa, portandola con me ad ogni trasloco, ma avendo cura di riporla in un punto accessibile solo intenzionalmente, in modo da non potermici imbattere per caso. Non avevo la forza di rivedere quei cavallini, di sentire quella musica e riportare a galla memorie che non ero pronta ad affrontare.

Oggi però le cose sono cambiate.

Ho fatto pace col mio passato e con il ricordo di mio padre. E ho trovato il coraggio di tirare fuori quella scatola e svuotarne il contenuto, perché quei piccoli tesori che avevo conservato adesso meritano di riavere il proprio posto nella mia vita.
Anzi, non solo nella mia.

Il nastrino dorato tiene sospeso il mio piccolo carillon sulla culla della mia bambina di pochi mesi, che osserva meravigliata i cavallini rosa girare in tondo mentre lo scampanellio della melodia si diffonde nell’aria.
Quella piccola giostra aveva sempre avuto troppo valore per non meritare una nuova storia. E quella che sta appena iniziando a scrivere è la più dolce che potessi immaginare di attribuirle.

Osservo la mia piccola chiudere gli occhi mentre il carillon continua a suonare, con Marco che mi circonda i fianchi avvolgendomi in un abbraccio silenzioso. Entrambi osserviamo senza dire niente la creatura che abbiamo messo al mondo, ancora increduli.

Lancio un ultimo sguardo al carillon, con un sorriso.
Quando sarà troppo grande per tenerlo appeso nella culla glielo conserverò, sperando che anche per lei, in futuro, possa portare con sé i ricordi di momenti felici. Magari non quelli che si era immaginata, ma la vita è così. Imprevedibile, meravigliosa, con tutti gli imprevisti che possono capitare.
Ma il finale della fiaba arriva sempre... e, a volte, è solo l’inizio di una storia ancora più bella.
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Paper plane ***


PAPER PLANE

Non è un segreto che io non sopporti la festa di San Valentino. La voglia incessante e spasmodica di circondarsi di fiori, bigliettini smielati, cuori e orsacchiotti a qualsiasi età, come se fosse necessario festeggiare l’amore per poter dire al mondo di amare ed essere amati.
Sono certa non sia il mio pragmatismo a farmelo pensare, bensì la consapevolezza che amare ed essere amati non è una banderuola da mostrare al mondo in una data prefissata dalla società, ma una condizione da vivere - e anche sognare – ogni giorno dell’anno e della propria vita.
Non è urlando al mondo “Buon San Valentino, Amore” che dimostri alla tua dolce metà che lo ami. Anzi.

Io ho imparato ad amare ed essere amata grazie a una persona che, come me, ritiene questo giorno di fronzoli sia una inutile perdita di tempo. Da una persona che, come me, ha sofferto e patito sulla propria pelle che cosa vuol dire non essere amati veramente per ciò che si è, perché qualcuno ti vuole diverso, perché la società ti vuole diverso, tutti i giorni. E allora per quello, a mio avviso, ti concedi a celebrare l’amore a San Valentino mostrando la tua dolce metà come se fosse un trofeo o un oggetto da esporre per non sentirti fallito.
Meglio soli, che male accompagnati.
Oppure meglio in compagnia di chi è come te e ti ama per ciò che sei. Tutti i giorni e non solo a San Valentino.  

E allora il 14 di febbraio non riceverai bigliettini o fiori inutili. Non ci saranno palloncini a forma di cuore e pupazzetti. Niente ciuppi ciuppi e biscottini.
Ma ci sarà solo un piccolo aeroplanino di carta, giunto sulla scrivania dal tavolo delle riunioni dell'ufficio mentre trascrivi degli appunti.
«Buon ‘prima volta che siamo stati d’accordo su qualcosa', amore» scritto su una delle ali. E un emoticon che ride sull’altra.
E quando alzi lo sguardo e incroci il suo, ti rendi conto che non serve dirgli davanti a tutti che è il tuo Valentino. Perché non lo è.
Lui è il mio Marco. Ed è perfetto anche quando non siamo d’accordo come è accaduto invece quel 14 febbraio che mi ha cambiato la vita.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=4040863