Il serpente nella neve

di _the_unforgiven_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prima parte ***
Capitolo 2: *** Seconda parte ***
Capitolo 3: *** Terza parte ***
Capitolo 4: *** Quarta parte ***
Capitolo 5: *** Quinta parte ***
Capitolo 6: *** Sesta parte ***
Capitolo 7: *** Settima parte ***
Capitolo 8: *** Ottava parte ***



Capitolo 1
*** Prima parte ***


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Il serpente nella neve | prima parte

 

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Un passo, e poi un altro, e poi un altro.

Un passo, e un altro passo, e non badare alle gambe fattesi di piombo, al dolore fisso come un chiodo nel mezzo della schiena.

Un passo, e poi un altro, poi un altro, in un freddo che brucia come fuoco, che gela le ciglia, che pesta le ossa, nel buio invaso dal fischio della bufera.
Non esiste nulla tranne quest'aria tagliente e il buio e un passo, e poi un altro, e poi un altro.

Un passo, e poi un altro, e poi un altro, e poi un improvviso tradimento della gravità - cadere - oh, non è forse come quella volta?
Ma adesso il vuoto fa mancare al cuore appena un battito prima di interrompersi in uno schianto contro il terreno gelato, un'esplosione di calore sullo zigomo il cui tepore squisito quasi annulla il dolore dell'urto, quasi, quasi...

"Che fai, vecchio mio? Non siamo ancora arrivati a Parigi!" 

E qualcuno lo rimette in piedi, lo rimette in moto come un pupazzo a molla: e Crowley ricomincia a camminare, senza badare dove, senza vedere nulla, un passo, e poi un altro, e poi un altro.

Questa è la ritirata della Grande Armée.
 

///


L'alba si alzò in un allucinato caleidoscopio di rosa e di azzurri, sulla distesa di neve che si apriva a perdita d'occhio in tutte le direzioni.

Crowley ne spiava l'arrivo fin dalla prima traccia di chiarore in fondo all'orizzonte.
I soldati dormivano tutto attorno al falò ormai spento, raggomitolati come cuccioli. Forse anche quel mattino qualcuno non si sarebbe rialzato.

Crowley estrasse dalla tasca una fiaschetta d'argento. Era vecchia, ammaccata e annerita; ma conteneva il miglior cognac mai distillato in Francia. Crowley l'aveva riempita alla partenza, e da allora non era mai più stata vuota. Gli aveva consentito di festeggiare degnamente le prime vittorie della campagna, e di trascorrere tutti i cupi giorni che erano seguiti in uno stato di svagato torpore.
Se qualcuno si era posto domande sull'inesauribilità della sua provvista d'alcool, non le aveva mai espresse ad alta voce; e lui non aveva mai mancato di passarla in giro per una sorsata consolatrice. 
Spesso, era tutto quel che c'era da mandar giù.
Nemmeno l'imperatore, però, nel suo accampamento in testa alla ritirata, aveva da bere un nettare pari a quello; e questa idea dava a Crowley qualcosa che somigliava a un piccolo vendicativo piacere, mentre guardava la rovina mangiarsi brano a brano tutto il sogno folle della Grande Armée.

Più di mezzo milione di uomini aveva lasciato la Francia per seguire quell'uomo fino qui, in capo al mondo. Lo facevano per la gloria, certo; per una buona paga; per fare carriera. Ma nessuno di loro si sarebbe mai spinto fin laggiù se non fosse stato colpito, forse ammaliato, da quel condottiero luminoso e infallibile.
In cambio, il disastro.

Con un ghigno di fiele, Crowley alzò lo sguardo verso la stella del mattino.
Sollevò la fiaschetta in un muto brindisi e bevve.

Bevve un sorso di cognac lungo e caldo come un giorno d'estate, e immaginò di trovarsi a mille miglia da lì. Lasciò che l'alcool gli appannasse i sensi e facesse affiorare ricordi: i riflessi rosei di una nebulosa, non diversi dai colori dell'aurora che già andavano disperdendosi in un chiarore diafano; un sole lontano che non aveva ancora conosciuto la pioggia; le parole di una canzone udita tanto tempo fa, in una città ormai cancellata dalle mappe.

"Sempre mattinieri come fringuelli, non è vero?" esclamò una voce gioviale, riportandolo bruscamente alla realtà. Non si era accorto di stare canticchiando a mezza voce.

"Viaggiando con il vostro passo, arriveremo a Parigi sulle spalle dei nostri nipoti!" ribatté Crowley, rauco. 

Il gruppo con cui viaggiava era uno sparuto manipolo di uomini, quel che restava di una compagnia di fanteria ormai decimata. Rallentati dai feriti e dai malati, erano stati lasciati indietro dall'esercito in marcia; e così avevano deciso di proseguire da soli il viaggio verso ovest, per cercare di tornare in Francia il più presto possibile.

Crowley si era aggregato a loro mosso dallo stesso intento.

A scuoterlo dalle sue fantasticherie era stato un soldato i cui occhi vivaci brillavano sotto folte sopracciglia, mentre lo guardava sorridendo sotto i baffi. Con i suoi trentacinque anni era il decano del gruppo, ed il più alto in grado. 
Non che questo significasse più molto, ora che si erano sbandati dal resto dell'armata; ma le abitudini militari erano dure a morire.

Ecco perché ora tutti i soldati si stavano alzando, nel biancore del mattino che pareva aver accerchiato il misero accampamento all'improvviso. 

"Oggi andrò in avanscoperta, miei cari." annunciò il soldato più anziano. "Il villaggio che abbiamo avvistato ieri. Scommetto che ha delle scorte."

"Figuriamoci. Non sarà rimasto neppure un rapanello." replicò Crowley, mentre si alzava faticosamente in piedi. "E se anche fosse, cosa ti fa pensare che lo darebbero a te, Toussaint?" 

"Basterà non chiederglielo!" rispose egli con una risata tonante.

"Vuoi attaccare..?" chiese un soldato dalle guance incavate.

"Non ce ne sarà bisogno, vedrete. Sono solo contadini."

"Contadini che hanno dato fuoco a tutto il loro grano pur di non lasciarne a noi."

"Pensi di arrivare fino a Parigi con la pancia vuota, Fournier?!" scattò un uomo con il braccio al collo e l'aria irascibile.

"Penso che non andremo proprio da nessuna parte, se ci facciamo infilzare dai cosacchi." rispose sommessamente l'altro.

"Via, lasciamo stare." intervenne un terzo. "Per quanto ne sappiamo, non c'è nulla da prendere. Mentre se acceleriamo il passo, magari riusciremo a raggiungere il resto dell'armata." 

"Se c'è gente, c'è anche cibo." tagliò corto Toussaint. "E se c'è cibo, noi andremo a prendercelo."

Sotto il suo tono spavaldo, Crowley avvertì serpeggiare l'ansia. 
Nascosto dietro le lenti scure degli occhiali, passò in rivista gli uomini.

I valorosi soldati partiti sotto l'insegna dell'aquila erano deperiti per la fatica, il freddo e la fame.
Smunti e pallidi, per difendersi dal gelo avevano finito per coprirsi con tutto ciò che avevano, compresi i ricchi abiti portati via nel saccheggio dei palazzi di Mosca. 

Le uniformi militari sparivano così sotto ricche sete macchiate dall'acqua, abiti di foggia cinese o mongola, sfarzose vesti femminili fradice di neve e di fango.

Quei colori sgargianti, quegli occhi ardenti di febbre sotto la luce implacabile di quel paesaggio vuoto e bianco sembravano il frutto di un incubo.

"...Si potrebbe fare un'incursione nottetempo." si ritrovò a dire Crowley, senza sapere bene da dove fossero uscite le parole.

Tutti gli occhi andarono a convergere istantaneamente su di lui.

"Per proteggere la compagnia. Questa notte potrebbero muoversi solo due o tre uomini. Si potrebbero ispezionare i magazzini, impadronirsi di un po' di scorte, e ritornare al campo senza essere visti."

Era un'idea idiota.
Era un'idea idiota e disperata, ma gli uomini si guardarono fra loro, e poi guardarono Crowley, e infine guardarono Toussaint.

"Potrebbe essere un compromesso." ammise egli infine, riluttante. "Potremmo perdere un giorno di marcia per nulla, è vero. Ma è certo che senza cibo non possiamo proseguire; ed è vero che sarebbe meglio non dare l'allarme." 
Tacque per qualche momento, facendo balzare lo sguardo da un viso all'altro. "...Va bene. Andremo dopo il tramonto, io e un volontario. Cercheremo i viveri e proveremo a portarli qui di nascosto." 

Il gruppo fu percorso da un mormorio di approvazione, e il ragazzo irruento di poco prima stava già per fare un passo avanti, quando Crowley parlò di nuovo, accidenti a lui.

"Verrò io."  

Toussaint gli lanciò un'occhiata in tralice. "Avrei preferito che uno di noi due rimanesse con la truppa, Crowley." disse a bassa voce. "Non è detto che torneremo indietro."

"Non l'ho proposto con l'idea di una missione suicida, Toussaint." replicò Crowley spingendosi gli occhiali più indietro sul naso. "E se le cose dovessero andare davvero di traverso, qualcuno che sappia parlare russo potrebbe esserti d'aiuto. Non credi?"

 

///

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 2
*** Seconda parte ***


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Il serpente nella neve | seconda parte

 

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Sopra la campagna innevata, la luce di novembre era così bianca da fare male agli occhi.
Piccole nuvole di vapore salivano dal respiro dei soldati e dalle froge dei cavalli intirizziti; rompeva il silenzio solo il rumore degli zoccoli sul suolo ghiacciato.
Anche gli uccelli tacevano; gli alberi spogli, neri contro il cielo pallido, sembravano disabitati. Soltanto gruppi di corvi si sollevavano qua e là, irresistibilmente attratti dalle carogne lungo il ciglio della strada.

Aziraphale si strinse nelle spalle, imbronciato.
Aveva perso un bottone dell'uniforme.
Da quando se ne era accorto, vestendosi quella mattina, non riusciva a smettere di tormentarsi il risvolto della giacca. Chissà dove gli era caduto.
Si voltò indietro, dove la strada si perdeva in un nero nastro fangoso all'orizzonte.
Tornò a girarsi ancora più corrucciato.

Le sue precedenti permanenze in Russia non lo avevano mai portato troppo lontano dal confortante calore di un samovar. Perfino nei giorni recenti, l'accoglienza dell'alta società di San Pietroburgo era stata impeccabile.

"Scriva un memoir dettagliato, monsieur Fell." gli si raccomandava con sussiego nei salotti. "Che in Inghilterra si sappia cosa sta succedendo qui."

Ma era bastato allontanarsi di poco dalla città per capire che era la stessa nobiltà russa a non avere idea dello stato in cui versavano le campagne e i villaggi.
La Grande Armée aveva seminato il panico sul proprio cammino, arrivando agli abissi di orrore della devastazione di Smolensk e, soprattutto, dell'incendio di Mosca.
E anche dove i francesi non avevano messo piede, gli stessi contadini avevano appiccato il fuoco ai granai e distrutto ogni scorta, facendo terra bruciata davanti all'invasore.

Ma ormai le sorti della guerra si erano volte in modo irreversibile.
L'inverno avanzava a grandi passi dal fondo della taiga, incalzando come un orso il nemico in ritirata.
La piccola divisione di cavalleria leggera che Aziraphale stava seguendo era ufficialmente in ricognizione; ma di fatto si trattava di una caccia agli innumerevoli gruppi di sbandati che si staccavano come foglie morte dal corpo dell'armata in disfacimento.

Napoleone tornava in Francia, con la coda fra le gambe e senza più un esercito.
Eppure, nel grande silenzio della campagna deserta, neppure quella vittoria gigantesca sembrava contare granché.

Le dita di Aziraphale tornarono a cercare il bottone nell'asola vuota.

"Se non ci sbrighiamo a trovare qualche francese, il nostro ospite avrà ben poco da raccontare nel suo libro!" rise allegramente uno dei cavalieri in testa al gruppo.

"Potrà scrivere che la Grande Armata si è dissolta più svelta della neve in aprile!" replicò il giovane ufficiale che guidava la spedizione. "E che ci siamo dovuti contendere i nemici da battere."
Era biondo e bello, ma con una certa algida fissità degli occhi azzurri che Aziraphale trovava indisponente.

"La più grande vittoria è quella che non richiede battaglia." si limitò a citare, ricordandosi solo a metà della frase di raffazzonare un sorriso di circostanza. L'ufficiale biondo, Michail Stepanovic, increspò appena le labbra in risposta.

Il villaggio verso cui erano diretti pareva in lontananza un animale appiattato nella steppa, squallido e nerastro nella luce lattea.
Quando lo raggiunsero, Aziraphale poté constatare che era poco più di un mucchio di baracche di legno allineate lungo la strada, e per metà disabitato; ma quando raggiunsero lo spiazzo di fronte alla chiesetta si resero conto che c'era trambusto.

Un ragazzetto dalle guance rosse corse loro incontro. "Vi manda il cielo, signori! Stiamo giudicando or ora il da farsi con due di quei diavoli invasori."

Quasi per un moto di preveggenza, Aziraphale seppe che si preparavano guai.
 

///


Aziraphale riconoscerebbe Crowley ovunque.
Lo riconoscerebbe anche senza vedere la fiammata dei capelli, i rivelatori occhiali scuri.

Lo riconosce immediatamente anche adesso.
La sua scompaginata eleganza spicca perfino qui, nero contro il cielo bianco come uno schizzo a china, una sciarpa di seta rosso sangue gettata negligentemente attorno al collo, un livido sotto lo zigomo sinistro delicatamente marezzato come un dipinto ad acquerello.

"...e quindi, buona gente, la decisione spetta solo a voi," arringa la folla raccolta intorno come un predicatore, anche se ha le mani legate dietro la schiena, anche se l'uomo immobilizzato al suo fianco ha il naso rotto e gli occhi sbarrati, "Potete giustiziarci subito, e nessuno vi potrebbe biasimare! Il giudizio è vostro, e vostro soltanto. Oppure, oppure -" la voce suadente riesce a farsi udire anche sopra l'improvviso tumulto dei presenti, li seduce di nuovo all'ascolto; " - oppure, potete riservarvi questa scelta per dopo; in vostro potere farlo quando vorrete..! Ma prima, potete scegliere di servire la patria e lo Zar, permettendoci di offrire i nostri servigi con importanti informazioni sullo stato dell'Armata, e sui piani di Napoleone, che altrimenti andrebbero perdute per sempre insieme alle nostre misere vite."

I contadini intorno si guardano sgomenti; il drappello di uomini a cavallo si avvicina lentamente, prestando ascolto.

Ma è adesso che Crowley alza lo sguardo, e dal modo in cui vacilla, Aziraphale comprende che l'ha riconosciuto; ma è solo un momento, il tempo di mandar giù la sorpresa e di riprendere a parlare, protendendo il collo da cui la sciarpa comincia a scivolare come un serpente cremisi. "Considerate cosa avreste da perdere, scegliendo di aspettare, e cosa invece potreste guadagnare. L'ultima parola è vostra; scegliete saggiamente!"

"Il diavolo parla con lingua d'argento!" esclama, in francese, Michail Stepanovic, avvicinandosi ai prigionieri.
Lo sguardo di Crowley e dell'uomo ferito al suo fianco saetta istantaneamente su di lui, mentre i contadini fanno ala al passaggio dei cavalli.

"Eppure non è certo il diavolo che vi porta qui, eccellenza." replica Crowley accennando un breve inchino. "Giungete in tempo per impedire un barbaro linciaggio."

 Michail Stepanovic sorride senza muovere gli occhi. "Fatemi indovinare, monsieur; vi siete fatti pescare a rubare in qualche pollaio."

Crowley esibisce un sorriso feroce. "Touchè!" risponde, scrollando le spalle. "Complimenti alla vostra perspicacia, è proprio così. Ma ciò non rende meno interessante quel che abbiamo da rivelare sull'Imperatore."

Un colpo di vento porta via la sciarpa color sangue, lascia scoperti il collo bianco e l'uniforme lacera , e nello stesso istante Aziraphale ha la certezza che si tratta di un bluff, e che se poteva forse riuscire davanti a dei contadini spaesati, è impossibile che tragga in inganno gli ufficiali.

Per un momento, nel silenzio bianco si ode solo lo scalpitio nervoso delle cavalcature.
Poi il sorriso tagliente di Michail Stepanovic si fa più largo, mentre porta il cavallo a fare un mezzo giro intorno ai due prigionieri, facendo mostra di osservarli come fossero curiosi animali. "Sono certo che sarà interessante davvero!" commenta beffardo.

Poi, in russo, si rivolge agli abitanti del villaggio: "Questi rubagalline vi prendono in giro: non sono altro che pezzenti e disertori, e per giunta ladri." annuncia, sollevando immediatamente un tempestoso vociare.  Crowley digrigna i denti, Aziraphale stringe convulsamente le briglie fra le dita guantate. La vita dei prigionieri è appesa a un filo. "...tuttavia, sarebbe sciocco passarli per le armi senza averli prima interrogati. Sono da adesso formalmente prigionieri dello Zar!" esclama con voce stentorea, così da essere udito sopra il brusio. "Rinchiudeteli: pranzeremo e poi, con più calma, risolveremo insieme la questione."

E nel tumulto che segue Aziraphale sente lo sguardo di Crowley trafiggerlo come un colpo di spada: resta impietrito, nel mattino bianco, a guardarlo trascinare via.

 

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Capitolo 3
*** Terza parte ***


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Il serpente nella neve | terza parte

 

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"Ha! Sembra che alla fine abbiamo trovato la roba da mangiare!" gracchiò, nel buio, la voce di Toussaint.

Crowley sogghignò, solo per constatare dall'improvviso dolore che doveva avere un labbro spaccato. "Ben svegliato." disse.

 

Nel minuscolo villaggio non esisteva molto che potesse fungere da cella; così, i prigionieri erano stati gettati in un quella che pareva una cantina, piena di barili e sacchi di patate.
Immobilizzati schiena contro schiena, se ne stavano a congelare da più di un'ora in un'oscurità rischiarata appena dalle lame di luce che filtravano dalla botola di accesso. 
Toussaint, in verità, era rimasto incosciente per la maggior parte del tempo: scalciando e gridando mentre venivano portati via dalla piazza, aveva rimediato un colpo in testa che lo aveva lasciato fuori combattimento. 

La confusione nella strada sopra le loro teste si era protratta per un pezzo, ma alla fine era andata lentamente scemando; doveva essere davvero arrivata l'ora di pranzo, perché i paesani sembravano essersi quasi tutti allontanati.
Senza più alcun indizio dall'esterno, giù nel buio del sotterraneo, Crowley era rimasto di nuovo con i propri pensieri.

L'oscurità e il gelo gli erano familiari, ormai: gli sembrava di esservi immerso fin da quando era cominciata la maledetta campagna di Russia. Ormai spesso gli capitava che la stanchezza lo precipitasse in una sorta di dormiveglia, come sperduto in un angolo sempre più piccolo e remoto della sua mente.
Anche ora, la sensazione delle gambe allungate sull'impiantito gelido, dei polsi e delle spalle doloranti per la posizione innaturale, si fece sempre più distante; lentamente scivolò alla deriva, come una scialuppa abbandonata alle correnti. 

Perché nascosto appena al di sotto l'umidità e la luce smorta di novembre, oltre la pelle sottile della realtà tangibile, si addensava come materia viscosa tutto il male che la guerra aveva risvegliato negli uomini.
La desolazione di una sconfitta dai contorni sempre più colossali, la disperazione dei soldati lasciati indietro, il gorgo di paura e rabbia dei contadini costretti alla fame, il logorio del freddo, del digiuno, della costante incertezza; come in un acquitrino, Crowley sentiva di sprofondarvi sempre più a fondo.

Era come se, a dispetto dei cieli bianchi di quella sterminata steppa senza forma, una scura coltre fosse calata sulla terra: una nevicata silenziosa di fuliggine impalpabile, una caduta di lapilli infuocati che si dissolvevano in cenere senza uno schianto, senza un grido, riducendo quella che era stata una gloriosa armata in una parata di fantasmi.

A volte, nel mezzo di una marcia, Crowley aveva sollevato il capo smarrito e si era sorpreso di non vedere, sulle spalle dei soldati, aureole spezzate e ali scheletrite.

Come una meteora gli attraversò la mente il pensiero che proprio adesso, a un passo, si trovava Aziraphale. Sopra di lui, il cielo riprendeva una parvenza di colore, o forse era solo il turchino della sua uniforme, la biondezza improbabile dei suoi capelli.

Buffo incontrarlo proprio lì, pensò Crowley, fra gli spettri ed i fantasmi. 
E ovvio trovarlo sul lato opposto della barricata, fra i vittoriosi e i vivi.

Crowley pensò alla compagnia di fanti senza aiuto nè guida, rimasta ad aspettare inutilmente il loro ritorno.
Si chiese se avrebbero saputo tenere duro e ritornare a casa, se qualcuno sarebbe riuscito, infine, a rimettere piede in Francia.

 

Toussaint ruppe nuovamente il silenzio con un attacco di tosse.

"Merda." borbottò, rauco. "Avevo sognato di morire in una cantina, ma non è così che me lo immaginavo."

"Non morirai qui, Toussaint" rispose meccanicamente Crowley.

"Hai ragione. Probabilmente stanno attrezzando una forca sopra le nostre teste proprio mentre parliamo." bofonchiò quello. E poi, sottovoce: "...Ho un coltello nascosto nello stivale. Se riesco a prenderlo, tagliamo queste corde, e..."

"Non serve." mormorò Crowley, e in quel momento i nodi si sciolsero da sè.
Toussaint balzò in piedi barcollando e gettò a Crowley una lunga occhiata di sotto in su;  ma non disse niente.

Crowley costrinse con fatica le giunture a obbedirgli una per una. "Ascolta bene, adesso, Toussaint." disse con voce stanca, quando fu finalmente in piedi. "Ora io creerò un diversivo; una cosa da nulla, non temere. Forse un crollo o un piccolo incendio. Tu di questo non ti devi preoccupare. Quello che devi fare,  appena l'attenzione sarà altrove, è di correre subito dalla truppa e ritornare in Francia difilato." 

"E perché tu rimani?" insorse il soldato. "E perché tu, e non io?" Toussaint fece una smorfia, massaggiandosi i polsi arrossati. "Sei una vecchia volpe, Crowley: di sicuro più furbo di me. E per avere una chance di tornare a casa, ai ragazzi servirà uno sveglio."

"Vero, e quel qualcuno non sono io." replicò Crowley asciutto. "In fondo, questa è stata una mia idea. No?" Accennò con il capo ai sacchi ammonticchiati contro la parete. "Non scordarti di portare via da mangiare. Senza, stasera sarete punto e a capo."

"Ma piantala di trattarmi come un bambino!" esplose Toussaint. "Perdio, Crowley, non fare l'eroe. Avevi detto che questa non era una missione suicida."

"E non lo è, nessuno ci rimetterà le penne, se fai come ti dico." sibilò Crowley. "Ma dobbiamo farlo adesso, prima che tornino tutti quanti qui."

"Come pensi di riuscire a farcela da solo?" Toussaint si fece sotto, rosso in viso, cercando lo sguardo di Crowley nascosto dietro le lenti nere. "Come pensi che possa tornare indietro sapendo di aver lasciato qui uno dei miei uomini?!"

"E quindi lasceresti andare in malora tutti gli altri?!" replicò Crowley con altrettanta foga. "Perché è questo che succederà, Toussaint, se non vai a riprenderli. Si disperderanno nella neve uno a uno, si aggrediranno alle spalle per l'ultimo tozzo di pane, si mangeranno vivi, se non li riporti a casa, Toussaint!"

"Li riporterò a casa, tutti quanti, e questo è un ordine, Crowley!" ruggì Toussaint afferrandolo per il bavero, e proprio quando Crowley stava per rispondere scoprendo denti innaturalmente lunghi, la botola sul tetto si aprì.

Entrambi ammutolirono, sbattendo le palpebre come gufi nel fiotto di accecante luce bianca.

"Uhm, perdonatemi." disse incerta una voce familiare. "Ho interrotto qualcosa, forse?"

Incorniciato nel quadrato della botola , Aziraphale appariva immacolato e incongruo, mentre dall'alto guardava giù come le immagini sulle cupole di certe chiese.

"E tu che diamine ci fai, qui?!" soffiò Crowley, questa volta dimenticando di occultare il sibilo della lingua forcuta. 

"Be', niente per cui innervosirsi così." si schermì lui, mentre si calava cautamente dentro la cantina.
Una volta che ebbe messo piede a terra rivolse un piccolo inchino a Toussaint e poi, tormentandosi il bavero della giacca, si rivolse a Crowley.  "Sono venuto a recuperarti."

 

 

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Capitolo 4
*** Quarta parte ***


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Il serpente nella neve | quarta parte

 

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Aziraphale si costrinse a lasciare in pace l'asola con il bottone mancante. Aprì le dita e cominciò invece a lisciare nervosamente il panno turchino della giacca.

Che il soldato barbuto lo scrutasse con stralunato stupore, quasi fosse un'apparizione, era in fondo comprensibile. 
A lasciarlo smarrito era proprio il comportamento del vecchio amico, che appariva pallido e contratto - e non particolarmente felice di vederlo.

"Ecco" disse, infilando la mano nel risvolto della giacca, per porgere speranzosamente a Crowley la sciarpa che il vento aveva portato via. "Era volata su una staccionata."

Crowley esitò per qualche istante; quando infine allungò la mano, le sue dita apparvero quasi scheletriche sul morbido tessuto rosso. "Devi andartene di qui, Aziraphale." mormorò, avvolgendosi lentamente nella sciarpa.
Non erano parole incoraggianti; ma il tepore sembrò sciogliere un poco della tensione nelle sue spalle, e Aziraphale proseguì.

"Fra non molto il gruppo degli ufficiali sarà qui." spiegò. "Le cose potrebbero farsi un po' spiacevoli. Non ero sicuro che ti fossi già allontanato, così sono venuto a verificare, e..."

Non aggiunse, per contraccambiare il favore di Parigi; non disse, stavo iniziando a preoccuparmi (stavo struggendomi d'ansia); e prima che potesse finire, Crowley lo guardò con una smorfia amara.
"È un po' tardi per evitare che le cose si facciano spiacevoli. Torna a Londra, Aziraphale, c'è la guerra qui."

Aziraphale aprì la bocca per replicare; ma prima che potesse dire qualcosa, il soldato barbuto diede di gomito a Crowley. "Non so se questo per te conti come diversivo," bisbigliò, concitato. "Ma io approfitterei della porta aperta." 

"Oh, non suggerisco di correre via così." replicò Aziraphale, in buon francese; se non altro, il piccolo incidente alla Bastiglia era servito a fargli recuperare i suoi studi di lingue.
"In strada non c'è quasi nessuno, al momento, ma non posso garantire che non ci siano guardie alle porte del villaggio. E sicuramente verreste raggiunti in caso di un inseguimento a cavallo."

"Ma tu chi diavolo sei?" borbottò il soldato, avvicinandosi per vederlo meglio in viso. "Una spia?"

"Sono qui nelle vesti di cronista, a dire la verità-" cominciò Aziraphale, allacciando le mani dietro la schiena, ma ancora una volta fu interrotto.

"Questo, amico mio, è il tuo angelo custode." annunciò Crowley dando una pacca sulla spalla al  soldato barbuto, che appariva sempre più confuso. "Ti garantisco che non avresti una scorta migliore neppure se viaggiassi con l'imperatore in persona. "

Ora anche Aziraphale si sentiva confuso.
Crowley gli rivolse un sorriso tirato, occhieggiando da sopra gli occhiali scuri. "...Ce ne stavamo appunto andando." disse. "Qui me la sbrigo io. Ma, Aziraphale, questo signore deve raggiungere un gruppo di soldati in ritirata, accampati a meno di un miglio da qui, direzione sud est. E gli farebbe davvero, davvero comodo un passaggio."

"...potrebbe mandarci addosso i cosacchi!" bisbigliò concitato il soldato francese, ma Crowley agitò una mano con impazienza. "Figuriamoci. Toussaint, credimi se ti dico che ti lascio in ottime mani. E adesso fuori di qui, gli incendi non si appiccano da soli."

"Non ci sarà nessun incendio e tu non rimani qui, Crowley." intervenne Aziraphale, senza pensare. I suoi interlocutori tacquero per un istante, spiazzati, ed egli ne approfittò per proseguire. "I contadini di tutte le Russie sono già persuasi che siate l'armata dell'anticristo. Non creiamo incidenti che possano rafforzare questa idea."

Lanciò un'occhiata di sottecchi a Toussaint, per poi rivolgersi di nuovo a Crowley. "E non crediate che i gentiluomini arrivati a cavallo siano di vedute più illuminate. Forse vi regaleranno un processo sommario, ma vi giustizieranno per furto, che scoprano l'esistenza del gruppo di sbandati oppure no."

"E quale sarebbe il tuo piano, Aziraphale?" replicò Crowley stancamente, stavolta in inglese, così che si intesero soltanto loro due.

"Ho un cavallo, può portare due persone. Se ci allontaniamo in fretta non dovremmo avere difficoltà. Per quanto mi riguarda, vorrei lasciare questo Paese il prima possibile."

"Due persone." ripeté Crowley. "Aziraphale, ho promesso a questo soldato che sarebbe tornato indietro."

"E va bene, prenderemo due cavalli - ma per favore, dovremmo davvero andare subito-"

"Verremmo raggiunti, e faremmo ammazzare il resto della truppa che si sta congelando ad aspettarci." replicò Crowley scuotendo la testa. "Il diversivo ci serve lo stesso."

"Sei peggio di un mulo!" esclamò Aziraphale, frustrato. "Bene, voi andate, resterò io qui ad assicurarmi che - che non vi seguano. Prendete il mio cavallo, è quello bianco legato qui fuori, si chiama Diderot - Non fare quella facciaCrowley, non ti morderà, è la creatura più mite di questo mondo-"

Aziraphale si arrestò mentre la smorfia di Crowley si trasformava in un sospiro di esasperata indulgenza. Si aspettava una replica; ma l'altro si limitò a scuotere la testa. "E il mulo sarei io." mormorò, con un'ombra di sorriso. 

Poi senza preavviso divamparono le fascine accatastate agli angoli della cantina, che in un istante si illuminò come una fornace.

"Fuori di qui!" ruggì Crowley indietreggiando fra le fiamme, che immediatamente gli strisciarono ai piedi come cani attorno al padrone. 

"Crowley!" gridò Aziraphale, accorgendosi a malapena che Toussaint il soldato aveva gridato con lui; furono costretti ad arretrare fino alla botola ancora aperta, verso cui le fiamme già iniziavano a protendersi, affamate d'aria. 

"Ritornate in Francia! Non vi sognate neppure di morire qui!" gridò Crowley, in francese. "Aziraphale, affido tutto a te."



E un attimo dopo l'incendio costringeva i fuggitivi ad arrampicarsi fuori dalla cantina, e già una colonna di fumo occupava il cielo mentre balzavano sul cavallo terrorizzato di Aziraphale e galoppavano via a briglia sciolta, lasciandosi alle spalle la campana a martello e il villaggio in tumulto.

Fu solo quando si trovarono abbastanza lontani da non udire più le grida di allarme che Aziraphale permise al cavallo di rallentare.

Tutto intorno, la campagna appariva senza colore nè contorni.
In qualche modo Toussaint, seduto in sella alle sue spalle, riuscì a indicargli una direzione sollevando il braccio.
La seguirono in silenzio per un po'.

"...Monsieur cronista." disse infine il soldato, cautamente. "Crowley non è... come me e lei, dico bene?"

Le dita di Aziraphale si contrassero intorno alla stoffa della giacca, nel punto in cui mancava il bottone d'oro. Fece fermare il cavallo. Smontò; accarezzò sul muso Diderot, bisbigliandogli all'orecchio parole di rassicurazione. Infine si decise a guardare il soldato in viso.

"...no." ammise, cercando di sorridere mentre gli porgeva le redini. "Non è come nessun altro."

Poi stese le mani sulla sella; sul muso del cavallo; aprì i palmi rivolgendoli al volto di Toussaint, alla direzione lontana verso cui si trovava Parigi. Non c'era benedizione più potente che gli fosse concesso di dare. "Andate a casa." disse infine, semplicemente, toccando il fianco di Diderot. "Troverete un carro di provviste abbandonato a due ore di cammino. Tenete duro ancora un po'."

Toussaint doveva essere definitivamente provato, perché non chiese nulla. Si limitò a prendere le redini e a sistemarsi più comodo in sella, mentre osservava Aziraphale con un distacco dettato dalla stanchezza. "E voi, monsieur, che cosa farete?"

"Oh." Aziraphale ridacchiò nervosamente, spolverandosi la giacca. "Tornerò a prenderlo, immagino."
 

 

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Capitolo 5
*** Quinta parte ***


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Il serpente nella neve | quinta parte

 

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Che cosa simultaneamente sciocca e provvidenziale, quell'entrata in scena di Aziraphale.

Crowley sogghigna alla notte buia, le mani ficcate in fondo alle tasche e la testa ficcata fra le spalle, affondata nella sciarpa che una sola ora nel cappotto di Aziraphale ha intriso di un intenso profumo di aranci.

E in fondo, poi.

Niente al mondo è ridicolmente improbabile tanto quanto l'esistenza stessa di un Aziraphale.

Di niente al mondo Crowley si sente altrettanto grato.

Toh, pensa con sorpresa, nella strada scura in fondo alla quale l'isba incendiata sta mandando gli ultimi bagliori.

Tutto a un tratto ha davvero una gran voglia di tornare a casa.

Affretta il passo, ansioso di raggiungere Toussaint e gli altri, di tornare a Parigi insieme ad Aziraphale; quando il buio scoppia in uno schianto improvviso; e poi, silenzio.

///

Quando Aziraphale arrivò al villaggio, la breve giornata invernale era finita da un pezzo; il cielo era disseminato di stelle aguzze come punte di spillo.

L'incendio si era estinto; soltanto la casa a cui Crowley aveva appiccato le fiamme era ormai un mucchietto di carboni spenti.

Per le strade non c'era più anima viva.

Aziraphale fece nervosamente il giro delle macerie per due volte, prima di convincersi che non c'era più traccia di Crowley.

L'odore di bruciato, che gli si era insinuato fino alla radice del naso, era così simile a quello di demone che chiunque altro avrebbe potuto confondersi; chiunque, ma non Aziraphale.

Crowley non era più lì.

Una folata di vento gelido arrivò dalla steppa, dissipando l'odore di fuliggine; Aziraphale rabbrividì, esitando per qualche momento nella strada vuota.

Si era sentito talmente certo che sarebbe bastato tornare sui propri passi per trovare Crowley, che ora non sapeva bene cosa fare.

Non era forse tornato indietro a prenderlo..?

Era arrivato con la supponenza del cavalier servente, senza pensare che Crowley potesse essersi già dileguato per conto proprio.

Se voleva tornare a Parigi, non gli era di certo necessario adeguarsi al passo del gruppo di sbandati di Toussaint.

E se aveva intenzione di cambiare aria, magari era diretto da tutt'altra parte, verso Praga, Berlino forse; magari era già in viaggio, lesto e indisturbato. 

In fondo, quel giorno non era parso particolarmente entusiasta di vedere Aziraphale.

Incerto sul da farsi, l'angelo si avviò tristemente lungo la strada principale, pensando a una scusa qualsiasi per congedarsi dai nobiluomini di Pietroburgo.
La sua disposizione a viaggiare con loro si era dileguata del tutto.

Mentre camminava, riprese senza accorgersene a cercare con le dita il bottone mancante.
Eppure, pensava. Eppure.

Aziraphale non era affatto persuaso che Crowley se ne fosse semplicemente andato.

Gli era sembrato che avesse addosso una strana irrequietezza, quel giorno; un'energia nervosa e aggressiva che Aziraphale non riconosceva. Aveva l'aria di cercare dei guai.

Aziraphale tormentava l'asola vuota e sentiva crescere l'ansia all'idea che l'assenza di Crowley potesse nascondere qualcosa di brutto.

Stava per tornare sui propri passi per esaminare di nuovo l'isba bruciata, quando tutto a un tratto una figura infagottata gli tagliò frettolosamente la strada, dileguandosi nel buio senza neppure averlo guardato. Solo dopo qualche istante Aziraphale comprese che si trattava del pope del villaggio, e che si stava affrettando in direzione della chiesa.

Aziraphale si precipitò a seguirlo.

///

Quando Crowley riprese conoscenza, la prima cosa a emergere dal buio fu il luccichio delle mostrine di un'uniforme.

"...Toussaint..?" biascicò; aveva la gola secca e un feroce mal di testa.
Probabilmente si era di nuovo addormentato sbronzo.
Meglio bere un sorso, un richiamino dalla fiaschetta, e poi, magari...

Huh. Aveva le mani legate.

Di nuovo.

"Questa giornata sta diventando monotona." borbottò fra sé. Poi sospirò, si sgranchì il collo da un lato, poi dall'altro, e infine si rassegnò a guardarsi intorno.

Aveva effettivamente le mani legate dietro la schiena - con una rinnovata, viva protesta delle sue vecchie spalle; ma se non altro non era più rinchiuso in una cantina.

Si trovava in quello che pareva lo studio di una rispettabile casa di campagna, dove il fucile da caccia stava appeso dietro lo scrittoio e dove gli acquerelli alle pareti erano chiaramente opera della padrona di casa.

Il buio era fiocamente rischiarato da una singola lampada; e seduto alla scrivania, a fissarlo in silenzio dietro un sorriso esangue, c'era l'uomo che aveva interrotto la sua arringa di quel pomeriggio nella piazza del villaggio.

"Ben svegliato, Monsieur Le Diable," lo salutò, parlando francese.

"Ho avuto risvegli migliori, francamente." replicò Crowley.

Gli occhiali neri gli erano un po' scivolati sul naso; ma fortunatamente erano ancora al loro posto. Quel Monsieur Le Diable non doveva essere altro che una battuta.

"Non me ne parlate," rispose l'uomo, spingendo indietro la sedia e allontanandosi dal cerchio di luce della lampada. "Da quando ho lasciato Pietroburgo non ho più trovato un letto degno di questo nome."

Aveva un viso dai lineamenti affilati, radi baffetti biondi, mani bianchissime e occhi azzurri troppo aperti e troppo fermi.

"Stanare voi francesi è come rincorrere un topolino in una cantina," proseguì col suo sorriso immobile. "...e un poco meno soddisfacente, temo. Ma cosa non si fa, mio caro amico, per questi benedetti gradi!"

Crowley se ne stette zitto, flettendo le dita intorpidite.
Un ufficiale arrivista, dunque. O almeno, uno la cui ambizione bastava appena ad abbandonare la città e il proprio cuscino di piume, per andarsene in giro a scroccare ospitalità (e cuscini) ai nobili di campagna. Lamentandosene, per giunta.

Crowley pensò alla barbaccia incolta di Toussaint e ai suoi gradi conquistati sul campo.

"...sono certo che scorrazzare per la campagna, inseguendo i brandelli di un esercito già in rotta, vi procurerà un lustro straordinario quando tornerete in città." commentò.

Le labbra dell'ufficiale si appiattirono in una linea sottile; ma egli non rispose. Si alzò in piedi per fare il giro dello scrittoio e si fermò di fronte a Crowley.

"Sapete," disse, senza particolare inflessione nella voce, "il vostro sarcasmo avrebbe una riuscita assai migliore, se proprio in questo momento la soldataglia francese non stesse gironzolando attorno ai nostri villaggi, come cani intorno a un immondezzaio."

Crowley si morse la lingua, domandandosi di nuovo fino a che punto le allusioni dell'ufficiale fossero casuali. Incitò mentalmente Toussaint e il suo gruppo di pelandroni a sbrigarsi. Sperò che Aziraphale li avrebbe scortati fino a Parigi.
Una piccola parte di lui piagnucolò che avrebbe voluto trovarsi con loro.

"Potete credermi se vi dico che nessuno ha più fretta di noi di lasciare questa ghiacciaia fangosa." rispose, sorridendo a denti stretti.

"Mmh. Stavate dicendo alcune cose molto interessanti, oggi, a tutta quella buona gente." disse l'ufficiale con un bagliore di ironia.

"Cose a cui voi non avete creduto neppure per un istante, nevvero, signor..?"

"Michail Stepanovic Ilin", rispose egli accennando un inchino. "Non siate così frettoloso nel giudicarmi, monsieur..?"

"Crowley," rispose egli asciutto. Ma non si trattenne dal rivolgere al gentiluomo un sorriso storto. "Stiamo dunque per discutere i piani dell'Imperatore?"

"Vi invito nuovamente, signor Crowley, a non giudicarmi in modo avventato." disse egli appoggiandosi con agio allo scrittoio. "Siamo qui per capire se mi potete essere utile. Ma per quanto sia un bel sogno immaginare di poter consegnare allo Stato Maggiore informazioni sulle prossime mosse di Napoleone, temo proprio che non sarete voi a offrirmele."

"Già." concordò laconicamente Crowley. Riuscì a mantenere il silenzio per un buon dieci secondi, prima di proseguire con un sorriso irto di denti, "Mentre voi siete estremamente acuto nel giudicare le persone; non è vero, Misha?"

Michail Stepanovic gli lanciò una breve occhiata in tralice, prima di ricomporre la propria maschera di amabile bonomia.
"Non ho questa presunzione," si schermì, con l'aria di pensare esattamente il contrario, "ma la vita di Pietroburgo costringe a farsi giudici precisi dell'indole altrui."

"Posso solo immaginarlo," rispose Crowley mellifluo. "Molte cose di cui preoccuparsi. Molti inviti; molto teatro; molte serate in società."

"Molti impegni a cui non è possibile sottrarsi." replicò il nobiluomo, guardando Crowley fissamente.

Crowley pensava ai soldati imberbi bianchi di gelo, assiderati nell'alba come uccelli sui rami; alla desolazione dei contadini fra le rovine dei villaggi, ai cavalli stramazzati nel fango.

"Lo credo, certo. Balli, raccomandazioni. Molte questioni, affari ed affarucci. Per non dire dei debiti di gioco."

Crowley pensava ai tesori di Mosca, ai palazzi sontuosi abbandonati da chi aveva potuto comprarsi facilmente la salvezza. Pensò alla cacciata di uomini e donne piangenti dalle loro case mentre l'inverno era alle porte, al pianto di una culla abbandonata in una capanna vuota.

"Non trovate di stare diventando indiscreto, adesso, monsieur le Français?"

"Ditemi un po', voi, piuttosto: pensate che ci sia qualcuno fra i vostri contadini che abbia mai pensato di tirarsi una pistolettata per aver perduto a carte l'intera eredità?"

Michail Stepanovic serrò la mascella sotto la maschera del sorriso. "Non capisco di cosa state parlando."

Crowley si leccò le labbra, sogghignando ferocemente dietro gli occhiali scuri. "No, no, certo che no. Questi semplicioni non conoscono altro che la zappa, mh? In tutto il villaggio non riescono a mettere da parte un rapanello d'avanzo, figurarsi accumulare capitali."

"I contadini sono contadini." replicò secco l'ufficiale russo. "Vivono con semplicità e nel timore di Dio. Solo perché la Francia ha lasciato che la feccia derubasse impunemente gli aristocratici di ogni cosa, non significa che il resto del mondo debba seguirla."

"Avete mai pensato, Michail Stepanovic," disse Crowley dolcemente, "che siano proprio gli aristocratici i ladri e i parassiti?"

"Monsieur," disse pallido il gentiluomo, "vedo che vi state impegnando molto per offendermi, ma rimanete un plebeo e un illuso. La vostra rivoluzione non è altro che sedizione e empietà, ed è destinata a fallire."

Una risata maligna gorgogliava in fondo alla gola di Crowley. La sentiva premere dietro i denti, saltargli sulla lingua divenuta forcuta. "Feccia; aristocratici; Francia," ripeté ghignando, "oh, povero il mio Misha."

Alzò lo sguardo sull'ufficiale, lasciando che gli occhi gialli baluginassero sopra le lenti nere. Lasciò che dall'ombra proiettata ai suoi piedi dalla lampada l'oscurità iniziasse a tracimare come acqua nera da un pozzo. Lasciò che rifluisse da dentro le sue costole il gorgo scuro e fangoso che vi si era rappreso in giorni e notti di orrore.

"Vi ascolto da molto prima che una qualsiasi di queste parole esistesse; vi guardo da quando non esisteva la prima corona, da prima che l'uomo schiacciasse l'uomo sotto il tallone." Nella semioscurità, la lampada pareva diventata piccolissima, mentre l'ombra di Crowley ballava nera fino a toccare il soffitto. Sollevò le labbra in un ghigno spaventoso. "Non sapete nemmeno di essere la parodia di un disastro molto più antico e molto più grande di voi."

Michail Stepanovic era un arrogante, ma non era uno stolto, e usò tutto il coraggio che riuscì a racimolare per riparare incespicando dietro la scrivania.

Poi si infilò una mano nel collo della camicia per stringere fra le dita un'immaginetta sacra. Crowley sibilò e quello quasi la lasciò cadere.

"Avevo notato in voi qualcosa che mi turbava," balbettò, stringendo la medaglietta fino a farsi sbiancare le nocche. "Ora vedo che non mi sbagliavo. Ho già mandato a chiamare il sacerdote; di certo sarà qui da un momento all'altro."

Crowley, immerso in un'oscurità così fitta da avvilupparlo quasi del tutto, scoppiò in una risata terribile.

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Capitolo 6
*** Sesta parte ***


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Il serpente nella neve | sesta parte

 

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"Uhm, Gabriel?"

"Che cosa c'è, Aziraphale."

"Questa lettera..."

"Considerala una reprimenda formale. Ne abbiamo parlato, e siamo giunti alla conclusione che fosse -"

"...chi ne ha parlato?"

"-che fosse, e gradirei che mi lasciassi finire; abbiamo convenuto che fosse opportuno dare un segnale netto. E ne abbiamo parlato io, Michael e Uriel, in sede di riunione operativa."

"Un segnale netto a chi?"

"...Aziraphale."

"Però... Però, Gabriel; converrai... voi sulla Terra non ci siete mai; forse non sapete-"

"Sappiamo abbastanza da poter fare una riflessione sul tuo sperpero di miracoli. Il mondo materiale non è luogo dove disperdere la grazia."

"...ma è lì che vivono gli esseri umani, Gabriel, e se non-"

"Non ti abbiamo chiesto di farne completamente a meno. Ti stiamo caldamente invitando a farne un uso più consono."

"...consono."

"Consono. Considerati avvisato, Aziraphale."

 

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Le punte delle dita di Aziraphale pizzicavano ancora mentre in tutta fretta si lasciava la chiesa alle spalle. Una sciocchezza, davvero, una cosa così piccola che non si sarebbe potuta definire un'occorrenza soprannaturale.

Una serratura bloccata, una porta chiusa.
Aveva già la risposta adatta pronta nella manica; se basta un fabbro a disfarlo, può davvero definirsi un miracolo?

Aziraphale si concentrò sul piccolo dolore dell'aria fredda dentro i polmoni, mentre correva verso la villa in cui aveva lasciato i gentiluomini di Pietroburgo soltanto quel pomeriggio.

"Mio buon Michail Stepanovic, permettete una parola?" si ripeté sottovoce. Avrebbe inventato una scusa, un pretesto qualsiasi. 

Il prete aveva parlato di interrogatorio.

"Michail Stepanovic, vorrei dirvi una parola, prego." riprovò Aziraphale, imboccando frettolosamente il viale di ingresso.

Anche se non aveva più un cavallo, aveva ancora la spada. 

"Michail Stepanovic..." con il piede urtò in una radice e quasi perdette l'equilibrio, perdette il filo della frase mentre il trasalimento gli riportava in bocca un sapore di bile.

Il prete aveva già tirato fuori i paramenti sacri, stava per indossare la stola.

"Michail Stepanovic, una parola." digrignò Aziraphale fra i denti, e finalmente la villa era in vista, accanto al portone ardeva una lanterna. 

"Chi va là?" chiamò incerta una voce dal buio.

Senza rallentare il passo, Aziraphale entrò nel cerchio di luce della lampada e mise la mano sulla maniglia, "Vi prego di lasciarmi entrare, ho una certa premura." borbottò senza neppure guardarsi attorno. 
Ma la porta non cedette, sbarrata dall'interno.

"Ma siete voi, signor cronista!" esclamò la voce.

Si fece avanti uno degli ufficiali di Pietroburgo, un ragazzone con una zazzera di capelli biondi. Aziraphale non ricordava il suo nome. "E noi che pensavamo aveste tagliato la corda," fece, sornione.

"Sbagliare è umano," replicò Aziraphale distrattamente, iniziando a bussare con urgenza. 

"Lo è davvero, mio buon amico; e sbagliate anche voi, se pensate di poter entrare."

"Mi scuso, ma ho davvero molta fretta-"

"In paese troverete senz'altro ospitalità per la notte, batjuška,"  disse l'ufficiale, facendosi avanti con un sorriso balordo. "Questo adesso è un presidio militare; non è posto per stranieri, specie se armati."

Aziraphale gli gettò in faccia un'occhiata impaziente, trattenendo fra i denti una replica velenosa. Poi sfoderò la spada e con un clangore metallico la lasciò cadere teatralmente a terra. 

Da dentro la casa l'odore di Crowley arrivava più penetrante di qualsiasi incendio.

"Ecco qua." disse, secco; poi con un gesto insofferente schioccò le dita verso la porta, che finalmente si schiuse con un cigolio. "E ora perdonate, ma ho davvero fretta."

In quel momento da dentro la casa si levò un urlo.
Aziraphale stava per gettarsi dentro quando una mano pesante come una vanga gli calò sulla spalla; l'uomo di guardia ringhiò un avvertimento che si perse nell'improvviso rumore di vetri infranti; e Aziraphale, Aziraphale non aveva il permesso di operare miracoli, e non aveva più denari, né un cavallo, né una spada; ma aveva davvero molta, molta fretta.

E aveva due pugni.

 

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La mischia è un'arte.
Aziraphale lo sapeva; o lo aveva saputo, un tempo, in anni più rudi e in certo modo più semplici. 

A Crowley piaceva ripetere che ci vogliono riflessi e rapidità e scioltezza, e una buona dose di dabbenaggine; lo diceva ogni volta che sedeva accanto a lui in qualche taverna, dopo aver fatto scoppiare una rissa ed esserne immediatamente sgusciato via per godersi lo spettacolo da dietro un bicchiere di vino.
Aziraphale, più abile con i sofismi che con i pugni, si divertiva ad ascoltare mentre Crowley gli illustrava le zuffe degli ubriachi come fossero le eroiche battaglie di un poema antico. "Non illuderti, angelo. Neppure Achille sarebbe apparso granché maestoso se gli avessero ficcato un'aringa affumicata in una narice."

Ma in un tempo ormai remoto, anche Aziraphale era stato un soldato.
E sapeva che in fin dei conti battersi poteva essere una cosa di una semplicità bovina, semplice e primaria come lo scornarsi degli animali nei campi.

Alla fine, vince chi si rifiuta di andare a terra.

Quindi il destro che arriva dal nulla a oscurargli la vista e fargli scricchiolare le ossa è la cosa migliore che in questo momento possa capitargli.

Come uno squillo di tromba mette a tacere tutto, fa scoppiare un coagulo di ansia e frustrazione e le butta fuori a fiotti insieme al sangue dal naso, mette in mano ad Aziraphale una rabbia contundente che non sa maneggiare, ma il cui peso liscio e sordo è curiosamente rassicurante, una lapide su qualsiasi residuo di preoccupazione.

Il colpo seguente gli spacca un labbro ma si porta dietro una reazione magnificamente animale, un pugno senza esitazione che connette le nocche di Aziraphale e la tempia del suo avversario in un gesto così lineare diretto e del tutto privo di ambiguità, così sincero, da essere quasi commovente.

Nell'ingresso è buio, non è possibile capire quante persone siano accorse, né quante in questo momento stiano cercando di intralciarlo, ma è stranamente irrilevante, perfino ridicolo, Aziraphale li sente abbattersi su di sé come acqua su uno scoglio e sa che non possono fermarlo.

Scoppia a ridere proprio malgrado.

 

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Per qualche momento, Aziraphale perdette la nozione di dove fosse e cosa fosse venuto a fare.

La zuffa occupava tutto lo spazio, accartocciava il buio come carta,  urtando contro le pareti e distruggendo mobili, calpestando mani, calciando facce, mentre ciò che era in piedi veniva scaraventato a terra e ciò che era a terra tentava di sollevarsi, in un vociare che si sovrapponeva alle grida indistinte provenienti dall'interno della casa.

Alla fine, però, anche il caos della zuffa venne a disperdersi; finché a un certo momento niente si muoveva più nella stanza buia.

Aziraphale si trovò finalmente di nuovo libero di muoversi, e passò dall'ingresso al corridoio con gli orecchi che martellavano e un vivo calore che gli scorreva in tutto il corpo.

Quel pomeriggio aveva visto la villa, prima di scapparsene in cerca di Crowley, e aveva una vaga nozione di dove cercare lui e Michail Stepanovic.
Ma l'intera casa sembrava sprofondata nell'oscurità e l'odore di Crowley, cenere e sangue, aveva a tal punto permeato l'ambiente che era impossibile capire da dove giungesse.

Aziraphale aveva mosso appena pochi passi nel corridoio quando dal buio sbucò una figura brancolante, che gli caracollò incontro con pallidi occhi sbarrati e sussurrando parole incomprensibili.
Ci volle un momento prima che, alla luce della luna, Aziraphale riconoscesse Michail Stepanovic.

I suoi capelli erano diventati quasi del tutto bianchi ed era scosso da tremiti incontrollabili. Si aggrappò al bavero di Aziraphale, senza avere l'aria di vederlo davvero, continuando  a balbettare a mezza voce.  Aziraphale dovette chinare il capo per sentire cose andava sussurrando. "Il grande drago, il serpente antico, colui che chiamiamo il diavolo e Satana, il seduttore di tutto il mondo, fu gettato giù e fu precipitato sulla terra."

Ciò detto, Michail Stepanovic perse i sensi, accasciandosi sul pavimento disseminato di vetri rotti.


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Capitolo 7
*** Settima parte ***


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Il serpente nella neve | settima parte

 

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La polvere rimase sospesa senza posarsi per un tempo incalcolabile.

L'aria non smise di vibrare finché, sgomenti, non compresero che ben più soverchiante del frastuono era il silenzio.

E nella desolazione immensa, ciechi e sordi e arsi di sete, vagarono.

Prima che esistessero terra e cielo e solitudine, compresero il deserto; nel nulla informe scoprirono l'angoscia dell'irreversibile.

Quando nel fioccare muto della cenere poterono distinguersi l'un l'altro, si guardarono.

Non dissero nulla.

Quella fu la Caduta.


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Si muove. 

Sotto di lui c'è la terra, c'è la gravità e la polvere - la polvere, che finalmente si è posata.

C'è la terra.

La sente sotto di sé; la sente perché ha pelle e nervi per sentirla; ha ossa e muscoli per muoversi, per strisciare in uno spazio che non è di Lei. 

Perché esistono un qui e un adesso in cui Lei non c'è. 

In questo nuovo spazio impara cosa siano la separazione, la distanza, e cosa significhi non poter tornare indietro; queste cose mai provate si fanno strada dentro di lui e fanno male; lo lacerano in due.

È straziato ma si muove, arrancando sul ventre; è in pezzi ma è tenuto insieme da una forma che non ha scelto; ha una prigione, adesso, un limite che non potrà mai più varcare; e un corpo per poter strisciare.


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A trascinarlo quasi alla follia fu capire che era stato tutto inutile.

Alla Caduta era seguito un lungo periodo di confusione, come una notte ininterrotta e priva di ricordi.
Imparare a esistere fuori dalla Grazia era stato come ricostruirsi con pezzi raccolti man mano dal bordo della strada. 

Eppure, per un lungo tempo non aveva compreso la reale portata della disfatta.

Per molto tempo, anche mentre cercava di ricordare e formarsi un nuovo concetto di sé, aveva  continuato a credere confusamente che la rivolta avesse avuto un senso.

Pur con la sconfitta di Lucifero e di chi lo aveva seguito, pur con tutte le tragiche conseguenze che ne erano venute, aveva creduto che quel gesto avesse cambiato qualche cosa; che fosse servito a lasciare un'impronta nell'universo.
E aveva creduto che, anche se anche il prezzo pagato non era bastato a cambiare le Sue leggi, almeno avrebbe lasciato dietro di sé una storia, sarebbe stato tramandato, e forse il loro fallimento di oggi sarebbe stato un seme di rinascita per il futuro.

Aveva immaginato nuovi cieli, nuovi mondi.

...fino a che, lentamente, non aveva capito che non solo la ribellione era fallita; che non soltanto la Grazia era perduta per sempre e che per sempre i ribelli erano banditi dalla Sua presenza;
ma che tutto ciò era accaduto, e nulla era cambiato in cielo e in terra.

Una damnatio memoriae: nessuna testimonianza poteva essere conservata della rivolta, né delle speranze di chi l'aveva mossa; nessuna memoria, nessun racconto. L'unica cosa di cui restava traccia era la condanna. Soltanto la Caduta, per sempre disgiunta da qualsiasi spiegazione, per sempre inutile e priva di significato. 

Era sopravvissuto alla perdita di Dio.

Rischiò di soccombere alla perdita di senso.


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Nel buio, dimentica quale forma debba avere.

Non potersi guardare aiuta.

Cammina come cammina un banco di nebbia; scivola fuori da qualsiasi catena, si fa beffe di ogni vincolo; il suolo disseminato di vetri rotti è appena un suggerimento, non un obbligo.

Il buio è familiare, il buio è casa.

Il buio inghiotte e nasconde. Nel buio sono tornati i soldati uccisi, nel buio i bambini morti in culla, nel buio gli innocenti massacrati; e se è vero che non esiste al mondo una sola vita del tutto innocente, significa che innocenti sono tutte.

E tutte si disperdono nella nebbia, tutte ritornano infine al buio e al silenzio.

Le invidia.

Al buio sono destinati tutti i Caduti: alla dissoluzione e alla dimenticanza. Svaniti come la neve lurida al bordo della strada.

Cammina come cammina un serpente, trascinandosi nella polvere e nella solitudine.
Attorno a sé ha solo il gorgo nero senza spiegazione. 
Si mescola alle tenebre come nebbia sospesa nell'aria, finché non sente più la terra e i vetri infranti sotto di sé, finché non è della stessa sostanza del buio.

Forse è il momento di sciogliersi in quell'oscurità accogliente come una tomba.


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Si alzò per uscire dalla stanza.

I limiti di un corpo umano erano tali solo se li si accettava; come tutte le regole, esistevano solo per chi sceglieva di rispettarle. 

Crowley non era che una maschera, una pelle di serpente che poteva abbandonare quando voleva.
Era scivolato fuori dai legacci che lo trattenevano alla sedia, nello studio annegato nelle tenebre.
Poteva scivolare fuori anche dai limiti di quel corpo.

La coltre di cupa disperazione che aleggiava su tutta la Russia, che si era andata lentamente addensando alta sopra la casa, aveva formato un lento gorgo che gli si rapprendeva addosso come bitume. 

Sgusciò fuori dalla porta e lo studio alle sue spalle esplose in un milione di schegge.
Non vedeva, ma non ne aveva bisogno. 

Il buon Michail Stepanovic Ilin se ne era già fuggito; dopo essere stato ingoiato dalle tenebre aveva finalmente smesso di starnazzare ed era scivolato via, pacificato e silenzioso.

Tutte le creature dentro la casa, che prima gridavano come uccelli chiusi in una gabbia, ora con lo spandersi del buio finalmente tacevano. 

Passò in un corridoio disegnato a scacchi dalla luna; si compiacque del gioco della luce fredda sul denso grumo di tenebre che lo avvolgeva, che davanti a lui procedeva come cosa solida, come una soffice coltre di muffa. Avanzava senza muoversi, come l'allungarsi di un'ombra.

Il mondo era vuoto, nero e gelido, ma se voleva poteva lasciarselo alle spalle; esplodere come una supernova consumando tutto attorno a sé prima di disperdersi, farsi di nulla, rifiutare l'antica irreversibile condanna sottraendovisi una volta per tutte.


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Ma ecco una cosa inaspettata, ecco un sasso gettato nello stagno d'ombra e silenzio, ecco una luce così sfolgorante da ferirgli gli occhi, bruciargli la pelle, calda e palpitante e intollerabile come brace fra le dita.

Brilla contro lo scialbo schermo della realtà come una lampada dietro una tenda, viva e guizzante come una fiamma e tagliente come un coltello, ed è come lui, eppure è tutta diversa da lui; e che cupidigia improvvisa, che brama di impossessarsene, inghiottirla nell'oscurità straripante e farla sparire come una torcia lanciata in un precipizio, come una lama che affonda in un costato. 

Che fame e che desiderio lacerante di sbrancarsi le costole per farla entrare, cancellare ogni limite e tornare a essere uno, essere insieme il rovo e la fiamma che lo divora.
 

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Capitolo 8
*** Ottava parte ***


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Il serpente nella neve | ottava parte

 

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Michail Stepanovic si era appena accasciato ai suoi piedi; Aziraphale aveva mosso solo qualche passo nel buio, quando d'un tratto sentì rizzarsi i peli sul collo.

Nel corridoio in cui tutte le lampade erano scoppiate rimaneva solo la luce della luna, riflessa sui vetri scheggiati come denti rotti. 

Aziraphale ebbe per un attimo la bizzarra impressione che i raggi di luce si ritraessero verso di lui, balzando da una scheggia all'altra come animaletti spaventati; ma un momento dopo si accorse che era il buio ad avvicinarsi lentamente.

Avanzava come un muro di soffice ombra, inghiottendo il corridoio centimetro dopo centimetro, e allungando verso di lui viticci invisibili come tentacoli di un'anemone marina; e dalle profondità della tenebra, un cupo magnetismo pulsava. 

Aziraphale cercò di sondare il buio con lo sguardo, si pose attentamente in ascolto; inutilmente. Così, col sangue ancora caldo di lotta e il cuore che batteva come un tamburo, fece un passo dentro l'oscurità.

Un gelo improvviso gli tagliò il fiato.

Come fosse appena sprofondato sotto la crosta di un lago ghiacciato, Aziraphale si ritrovò in una morsa gelata che bruciava come fuoco e che in un istante risucchiò tutto il calore delle sue membra.
Boccheggiò, incapace di prendere fiato; il gelo era così intenso da immobilizzarlo, oscurandogli la vista e cancellando il senso di gravità.

Gli parve di sprofondare in acque buie, come se il pavimento si fosse aperto sotto i suoi piedi per risucchiarlo in un lago sotterraneo, freddo e muto come lo spazio fra le stelle.
Tentò inutilmente di riempirsi i polmoni; cercò la voce per gridare e non la trovò.

E poi sentì il ghiaccio arrivare a lambirgli il cuore, come una mano gelata che si insinui a cercare calore sotto i vestiti; e allora lo riconobbe.

"Eccoti qui, finalmente." mormorò.
Poi radunò tutte le proprie forze e colpì.


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Il buio si ritrae come un animale, gli riempie le orecchie con il ruggito di cento cascate; d'istinto, Aziraphale lo incalza.  

Dentro la massa d'acqua nera abbranca la creatura che si dibatte furiosamente, tentando di sgusciare via; ma Aziraphale non molla.

La lotta può essere una cosa semplice e primaria.

Fallito il tentativo di fuga, il serpente ritorna all'attacco; si accanisce su Aziraphale con una forza che è acuminata e gelida come uno stiletto, perché la bestia che ha inghiottito Crowley colpisce per uccidere, si contorce e morde e lacera.

La risposta di Aziraphale, invece, è lenta, imprecisa e ottusa; può solo cercare di trattenere Crowley, e offrire il petto ad artigli resi affilati dalla paura.

Perché Crowley è il seme al centro di quel roveto di buia disperazione; Crowley che è quasi irraggiungibile, sepolto in fondo a una gora di miseria e solitudine; Crowley che non sa più tornare indietro.

Aziraphale serra le braccia. Esiste solo nello sforzo di cingere Crowley insieme alla nube in cui si è sperduto.

In una lotta, vince l'ultimo a cadere.

La Grazia che sente sgorgare come da una ferita aperta ha il calore e la liquida densità del sangue; si spande come le note di un pianoforte da una finestra spalancata, si disperde come vino da una brocca infranta; e per un breve istante il ricordo della meschina reprimenda di Gabriel gli suscita un guizzo di riso. 

La sua risata si rifrange come luce in un prisma, colora di rosa e oro la marea brillante che esce a fiotti e cresce, cresce, disgelo che lava via il fango, acqua e pioggia, aurora e pianto.

E con una semplicità quasi magica la densa oscurità comincia a sfaldarsi, si liquefa scorrendo in rivoli scuri, come la neve sudicia dell'anno prima bagnata dalla pioggia primaverile.


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E poi d'un tratto fu come riemergere. 

Aziraphale sentì l'aria tornare a riempirgli il petto, aprì gli occhi e trovò Crowley stretto fra le proprie braccia, ossa e nervi e muscoli contratti.
Inginocchiati a terra e madidi di sudore, stavano aggrappati l'uno all'altro come se un'onda potesse arrivare a trascinarli via. 

Aziraphale si sforzò di ritrovare il ritmo del respiro; poi, un lungo sospiro, lasciò andare Crowley e prese il suo viso fra mani tremanti. I suoi occhi spalancati erano grandi e febbrili, ma vigili, di un oro quasi verde nella luce del primo mattino. 

Moltissime cose si affacciarono tutte insieme alle labbra di Aziraphale, che però non ne disse neppure una. "Buongiorno," mormorò invece stupidamente, sorridendo proprio malgrado. La sua voce era rauca come se avesse gridato tutta la notte.

Crowley mosse una mano con gesto esitante; la sollevò fino a sfiorare il bavero di Aziraphale, senza davvero toccarlo. Volse lentamente attorno uno sguardo smarrito, mentre fuori l'alba si tingeva di azzurro. Quando finalmente tornò a guardare Aziraphale negli occhi, si aggrappò a un lembo della sua giacca come se temesse di smarrirsi. "Dimmi qualcosa di vero," bisbigliò.

Qualcosa come un dolore dolce pizzicò le corde del cuore di Aziraphale.
Si curvò avanti per sussurrare piano all'orecchio di Crowley; il primo raggio di sole li trovò così.


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Nella campagna bianca di luce, il cavallo Diderot trascinava diligentemente un carro il cui carico valeva più dei tesori di tutte le Russie.
Dentro il cassone, infatti, ballonzolavano allegramente barili di carne salata, ruote di formaggio, sacchi di patate e cipolle, intere casse di gallette; perfino qualche mela, avvizzita e dolcissima.

La gioia dei soldati, che lo avevano trovato sulla strada deserta appena un'ora prima, era tale che camminando cantavano a squarciagola; facevano ala al carro di provviste come se stessero scortando la Vittoria in trionfo. 

Solo Toussaint, che sedeva a cassetta, manteneva una certa compassata sobrietà; se ne stava silenzioso con le briglie in mano, talmente assorto nei propri pensieri che quando udì una voce nota alle proprie spalle, quasi cascò dal carro.

"Di' loro di berciare un po' più forte, Toussaint, che a Mosca non riescono ancora a sentirli."

"Putain..!" squittì il soldato, sobbalzando così scompostamente che Diderot lo rimproverò con uno sbuffo.

Crowley, che se ne stava stravaccato fra i sacchi di provviste,  sogghignò e diede un morso a una mela.
"Mh-hm", ammonì con la bocca piena, agitando un dito verso Toussaint che stava per farsi il segno della croce. "Non mi sembra il caso."

"Come - come diavolo -" balbettò il soldato; poi mollò le briglie, saltò dentro il carretto e agguantò Crowley per sommergerlo di cameratesche manifestazioni d'affetto. A nulla gli valse gracchiare ancora "non mi sembra il caso!", mentre Toussaint gli batteva sulla schiena manate che avrebbero atterrato un vitello.
"Perdio, me ne torno dai Russi," raspò Crowley, quando finalmente riuscì a sottrarsi all'esplosivo entusiasmo del soldato; ma ebbe il garbo di non commentare i suoi occhi lucidi. 

"Stavolta ci vai da solo, bello mio, perché noi si torna a Parigi!" ruggì Toussaint, muovendo il braccio con un gesto che pareva già abbracciare la veduta di Notre Dame.

Crowley sogghignò; per la prima volta, si sentiva assolutamente certo che ci sarebbero arrivati, a Parigi, e che misteriosamente nessuno li avrebbe disturbati fin davanti all'uscio di casa.

"Già." disse soltanto, alzandosi. "Io sono venuto a farvi un saluto."

"Cosa?!" fece Toussaint, balzando in piedi a propria volta e quasi mettendo il piede in una pentola di lardo. "Non vieni con noi?!"

"Nah, uhm-" cominciò Crowley, accennando alle proprie spalle; "-mi è rimasta da sistemare una cosa, una certa- una faccenda -"

Toussaint lo lasciò borbottare per qualche istante, fissandolo con una scintilla negli occhi; finché non esplose in una fragorosa risata. "Una certa faccenda terribilmente bionda, e rosea come un angelo!" sghignazzò, assestandogli un'altra vigorosa pacca su una spalla. "Io non so da dove vieni, amico mio, e credo che non lo saprò mai; ma sei un Parigino fino alla radice dei capelli."

Crowley gorgogliò qualcosa che poteva essere una risposta coerente, come no; poi infilò la mano in una tasca e tirò fuori l'inesauribile fiaschetta d'argento. La lanciò a Toussaint, che la afferrò al volo. "Non venderla prima che sia vuota," lo avvertì, saltando giù dal carretto. "E basta guerre!" gli gridò dietro.

"Basta guerre, solo vino e donne!" promise Toussaint alzando la fiasca. "Ti aspettiamo a Parigi!"

Crowley rimase sul ciglio della strada, mentre la carovana sfilava vociando nel sole, mentre i soldati lo salutavano stringendogli le mani, con sorrisi enormi stampati sui volti macilenti.
Solo quando la colonna fu sparita cantando all'orizzonte, Crowley tornò sui propri passi.

Aziraphale lo stava aspettando.

Avevano molto da fare, per rimediare ai pasticci della notte prima, per inventarsi qualche scusa che giustificasse ai rispettivi vertici gli eccessi di luce e ombra; ma non importava, qualcosa si sarebbero inventati, insieme.

E poi se ne sarebbero andati via. A Berlino, forse, oppure Praga.
O magari in qualche posticino più caldo, a Roma, magari.
Forse Istanbul.


"Sei tornato."

"Te l'ho detto. Sono venuto a prenderti."

"Ero finito in un posto dove tu non c'eri."

"Mi dispiace. Non succederà più."

"Lo prometti?"

"Lo prometto."


Crowley camminava nel sole, inspirando a pieni polmoni l'odore della neve, le mani cacciate in fondo alle tasche. Ora che non c'era più la fiaschetta, si accorse che nella fodera quasi scucita c'era qualcosa.

La tirò fuori: era un bottone d'oro che brillava alla luce.
 

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Fine

 

 

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Questa storia ha avuto un percorso un po' travagliato.

E' piena di buchi, perché l'ho scritta in momenti molto lontani fra loro; e alcune cose avrebbero meritato di essere sviluppate un po' di più.

E sì, se Aziraphale avesse davvero lottato contro Crowley, invece di opporre resistenza passiva, forse avrebbero rischiato di polverizzarsi a vicenda.
E sì, sicuramente avranno creato un sommovimento di forze eteree (e occulte) visibile dallo spazio; e ci saranno stati da fare un po' di salti mortali, dopo, per non farsi scoprire.

No, Toussaint non ha mai rivenduto la fiaschetta d'argento.
Sì, sono tornati tutti a casa.

No, Aziraphale non ha poi scritto una cronaca della guerra, ma qualche anno dopo ha spedito un po' di appunti a un suo giovane corrispondente, Lev Nikolàevič Tolstòj, che stava facendo ricerche d'archivio su quel periodo.

Sì, sento un po' la loro mancanza. Per fortuna ormai si respira aria di seconda stagione.

Grazie per avermi accompagnato fino a qui :) 
Alla prossima.

 

 

 

 

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