Il conte di Montecristo remake di Chri (/viewuser.php?uid=77913)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
CAPITOLO 1
“Tanti auguri a te, mio adorato Edmond ! che la donna che tu
ami e che stai per legare a te per sempre, ti dia tutta la
felicità del mondo!”.
In tal modo il vecchio Dantès alzò il calice
colmo di buon vino rosso per brindare al matrimonio di suo figlio
Edmond con Mercedes, la ragazza che tutti gli uomini al quartiere dei
catalani di Marsiglia desideravano avere al loro fianco. Lei era
infatti una donna stupenda, con dei magnifici capelli ricci che le
scendevano lucenti sino alle spalle, Il marinaio Edmond se ne era
innamorato sin dalla prima volta che i suoi occhi avevano visto colei
che era entrata nel suo cuore per non uscirne mai più.
Mercedes aveva molti pretendenti che avrebbero versato essi stessi una
dote pur di sposarla, ma lei aveva trovato nell’animo di
Edmond quel sentimento di amore puro che la spinse ad accettare senza
indugio e con immensa gioia la proposta di matrimonio del marinaio, da
poco diventato capitano della nave mercantile Faraon. Infatti,
l’armatore Morrel lo aveva nominato capitano soltanto 3
giorni prima, quando di ritorno da un lungo viaggio in oriente, il
vecchio capitano Leclère era morto in seguito a febbre
cerebrale. Dantès aveva fatto di tutto per tentare di
salvare la vita del suo capitano e amico; era persino sbarcato
sull’isola d’Elba ( dove era esiliato Napoleone
Bonaparte) per chiedere soccorso, ma tutto era stato vano. Giunto a
Marsiglia, tuttavia, il buon armatore lo premiò
assegnandogli il comando del Faraon. La vita, dunque, in breve tempo
aveva dato ad Edmond la felicità che ogni uomo su questa
terra avrebbe voluto e che in molti gli invidiavano.
Il giovane Dantès, tuttavia, non immaginava che presto tutta
quella felicità, quell’allegria, quella gioia
sarebbe diventata solo un ricordo da richiamare alla mente nei momenti
di solitudine.
Cera una gran festa in casa Dantès quel giorno di settembre
1815. Edmond e Mercedes, infatti, avevano organizzato un grande
banchetto per annunciare il loro matrimonio ed avevano invitato tutte
le persone a loro care: Edmond aveva invitato tutti i suoi compagni del
Faraon, tra cui i suoi amici più cari Fernando Montego e
Filippe Danglars, con i quali aveva condiviso mille avventure in
oriente durante i viaggi commerciali; Mercedes, invece, aveva invitato
solamente i familiari più stretti, poiché le sue
coetanee, invidiose della sua strepitosa bellezza, l’avevano
sempre emarginata. Tuttavia, a lei questa cosa poco importava, dal
momento che Edmond era diventato tutta la sua vita. Subito dopo il
brindisi del padre di Edmond, tutti iniziarono a degustare le
specialità di pesce preparate per il banchetto, quando, ad
un tratto, si udì un rumore di cavalli in avvicinamento.
Edmond pensò ad altri amici che stavano venendo a
condividere la sua felicità, cosi subito corse
giù in cortile ad accogliere gli ospiti. Ma appena le
persone a cavallo si portarono ad una distanza tale da poter essere
riconosciuti, Edmond capi che quella gente non era affatto amichevole:
erano gendarmi. Dantès senti il cuore fermarsi, la sua gioia
mutarsi in preoccupazione. Nel frattempo, anche gli invitati erano
scesi in cortile allarmati dall’arrivo delle guardie, le
quali si distribuirono allineandosi dinanzi al cancello, come per
impedire che qualcuno dei commensali tentasse la fuga, come se si
nascondesse un criminale in quella casa. Ad un tratto, un gendarme si
staccò dalla barriera e si avvicinò al gruppo di
ospiti stupiti e al povero Edmond, che aveva assistito alla scena
praticamente immobile:
” Chi di voi è Edmond
Dantès?”
“ Sono io” rispose Edmond come ridestato da un
sonno profondo.
Poi, con la tranquillità di chi sa di aver la coscienza
pulita disse:
“ è successo qualcosa? Cosa volete?”
“ Ho l’ordine di condurvi dal magistrato Villefort
immediatamente” disse la guardia e subito altri due gendarmi
si pararono davanti al giovane, scesero da cavallo e lo ammanettarono
stretto.
“Non c’è bisogno di stringere cosi
forte, verrò con voi senza opporre resistenza
poiché non ho niente da nascondere”
esclamò Edmond con voce seria e sicura, poi si rivolse ai
commensali “ Mercedes, padre mio, amici miei! Non temete
perché è senz’altro un equivoco! Adesso
parlerò col magistrato e tra poco sarò di
ritorno! Continuate a festeggiare, non preoccupatevi!”.
Detto ciò, uno dei gendarmi lo fece entrare nella carrozza
carceraria e subito marciarono alla volta del magistrato Villefort.
Spazio autore:
Ciao!! Sono alla mia prima fanfiction quindi non sono molto esperto!!
Per questo vi chiedo di lasciarmi un commento che mi aiuti a
migliorarmi e a correggere eventuali errori!! Spero che vi piaccia il
mio lavoro!! Chri
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
CAPITOLO 2
Mentre la vettura viaggiava, Edmond interrogò il gendarme
che, seduto accanto a lui con un fucile, controllava ogni suo minimo
gesto:
“Voi sapreste dirmi cosa vuole il magistrato da me? Sono una
persona onesta, che si guadagna il pane girando il mondo su di una
nave, per la maggior parte dell’anno lontano dalla Francia.
Non vedo cosa io possa aver fatto di male, dal momento che sono
rientrato a Marsiglia solo tre giorni fa dopo mesi in oriente. Parlate,
dunque, se sapete!” Ma la guardia, che sentiva nella voce del
giovane il timbro della sincerità, gli rispose:
“ Centinaia di malfattori, ladri e assassini si sono seduti
dove sedete voi, Dantès, e ognuno di loro mi ha rivolto
questa domanda, sebbene in cuor loro coscienti dei loro crimini.
Tuttavia, voi mi sembrate diverso dagli altri: avete un volto sincero.
Spero per voi, Dantès, che anche il vostro animo lo sia
altrettanto dinanzi al magistrato Villefort. Proprio perché
mi sembrate sincero, vi avverto che il magistrato è, parola
mia, un uomo scrupolosissimo nell’applicazione delle leggi e
che numerose sono le persone che ha mandato alla ghigliottina o
rinchiuse per sempre in qualche prigione. Ma se voi siete cosi sincero
e soprattutto cosi innocente come dite, egli se ne accorgerà
e fra meno di un’ora sarete di ritorno dalla vostra sposa.
Questo è tutto ciò che vi posso dire, in quanto
noi guardie eseguiamo solo gli ordini, senza osare chiedere
spiegazioni. Ad ogni modo, lo state per scoprire voi stessi,
Dantès: siamo arrivati”. Edmond, infatti, non ebbe
nemmeno il tempo di replicare che subito si aprì la porta
della carrozza e venne condotto all’interno del palazzo
incalzato dai gendarmi. L’ufficio del magistrato si trovava
all’ultimo piano dell’edificio, cosi il giovane
potè ammirare per intero il luogo in cui la giustizia si
rendeva concreta e viva sottoforma di condanna o assoluzione,
ghigliottina o prigione, morte o vita; quella stessa giustizia in cui
aveva sempre creduto, nella quale ora confidava, della quale ne
assaporerà la sete. Dopo ben quattro rampe di scale, Edmond
fece il suo ingresso nell’ufficio del magistrato, il quale
attendeva il giovane seduto comodamente sulla sua poltrona dietro la
scrivania. Il povero Edmond, invece, venne fatto sedere su di una dura
sedia di legno posta al centro della stanza, a debita distanza da colui
che in quel momento era, per legge, onnipotente come Dio. Non appena
ebbero depositato Edmond su quella sedia, i gendarmi si voltarono
e si sistemarono, armi sempre impugnate, dinanzi la porta,
dando cosi inizio al colloquio. Villefort, dopo aver guardato un
istante il ragazzo negli occhi, chiese:
“ Siete voi Edmond Dantès?”
“ Si, signore”.
“Ebbene voi siete accusato di alto tradimento, mio caro
Dantès. Vedete questo foglio? Questo è una
denuncia da parte di ignoti che vi accusa di aver accettato una lettera
da parte di Napoleone Bonaparte”. A queste parole, Edmond
sentì il peso del mondo intero schiacciargli la testa. Ma
subito rispose:
“ Si, è vero, ho accettato una lettera
di Napoleone che tutt’ora tengo qui in tasca, ma parlare di
alto tradimento mi sembra un’accusa infamante!”
“ Calmatevi, Dantès. Voi non capite: secondo la
normativa vigente costituisce un atto di tradimento avere contatti con
bonapartisti. È, dunque, per aver accettato quella lettera
che siete diventato traditore anche voi. Porgetemi la
lettera.” Subito Edmond si infilò la mano tremante
nella tasca interna della sua giacca, prese la lettera e la diede a un
gendarme che sotto ordine del magistrato si era avvicinato
all’imputato; dunque la consegnò a Villefort.
Immediatamente, l’uomo apr’ il documento e lesse ad
alta voce “ Sto progettando di fuggire dall’Elba.
Organizza i nostri uomini per il mio ritorno: marceremo su
Parigi.”. Quelle poche frasi furono un pugno allo stomaco per
Dantès. In un attimo gli vennero in mente le parole di
Napoleone, quando lo aveva avvicinato mentre i suoi medici tentavano di
salvare la vita del capitano Leclère:
“ Vi devo chiedere una cortesia, Dantès: dovete
consegnare questa lettera al signor Noirtier quando sarete
tornato a Marsiglia. Non dovete preoccuparvi di nulla,
poiché il contenuto della lettera è del tutto
innocente e sarà lo stesso destinatario a
trovarvi”. Edmond aveva sospettato che quella lettera poteva
essere pericolosa e cosi aveva tentato di rifiutare elegantemente
dicendo che a Marsiglia sarebbe arrivato solo mesi dopo, ma si vide
costretto ad accettare quando Bonaparte gli disse che quel favore che
gli stava chiedendo era, più precisamente, il prezzo per le
prestazioni del suo medico. Aveva dovuto, dunque, fidarsi di Napoleone
e rischiare, rischio che lo aveva condotto dritto dritto da Villefort.
Il magistrato, dopo aver terminato la lettura del documento, rimase in
silenzio ad osservare Edmond immerso in quei pensieri, in attesa di una
sua replica che non tardò:
“ Vi assicuro, signore, che io non sapevo niente del
contenuto di quella lettera. Guardatemi. Sono un uomo di mare, troppo
spesso lontano dalla Francia per conoscere le vostre leggi e per
occuparmi di politica. Ho accettato quella lettera per permettere al
medico di Bonaparte di prestare soccorso al mio capitano
Leclère, anche se tutto fu inutile. Se salvare la vita al
proprio capitano e amico è un reato e per di più
un tradimento, terminate qui questo colloquio e fatemi arrestare, ma
sappiate che carcerate un innocente”. Villefort rimase
sbalordito dall’animo di Edmond, cosi rispose:
“ Vi sapete difendere molto bene, Dantès. In
effetti, il fatto che avete accettato quella lettera non significa che
siete bonapartista e, come dite voi, lottare per salvare un compagno
non è un reato. Mi avete convinto, Dantès, potete
andare”. Udite quelle parole, Edmond ricominciò a
sorridere. Quel gendarme aveva ragione: la sincerità lo
aveva salvato. Subito una guardia gli si avvicinò e
finalmente gli tolse le manette; dopodiché si rivolse a
Villefort:
“ Vi ringrazio, signore. La mia fiducia nella giustizia oggi
ha avuto modo di accrescersi. Addio!”
“ Addio, Dantès!” rispose il magistrato.
Il giovane, dunque, si voltò e si diresse verso
l’uscita, ansioso di riabbracciare la sua Mercedes. Aveva
appena toccato la maniglia della porta, quando Villefort,
improvvisamente, gli chiese:
“Scusate, Dantès, una sola curiosità: a
chi dovevate consegnare la lettera? Questa cosa non è
scritta sulla busta.” Edmond si voltò garbatamente
verso il magistrato e con la stessa tranquillità rispose:
“ Al signor Noirtier. Egli stesso mi avrebbe dovuto cercare
qui a Marsiglia”. Ma d’un tratto, Villefort, da
uomo pacato e calmo che era stato, scattò in piedi e disse:
“Come avete detto? Noirtier?” Ed Edmond:
“ Si, signore. C’è qualche
problema?” Villefort rimase un minuto immobile, silenzioso.
Poi, con la stessa calma che aveva avuto per tutto il colloquio disse,
prendendo la lettera:
“ Niente, mio caro Dantès. Tuttavia, questi
documenti sono molto pericolosi. È meglio farli
sparire” e cosi fece, accartocciando la lettera e gettandola
nel camino acceso. Poi, dopo aver fatto uno strano segno a due
gendarmi, disse:
“ Ho deciso di scusarmi con voi per l’equivoco
facendovi tornare a casa con la mia carrozza scortato da queste due mie
guardie personali. Approfittatene dunque!” Il ragazzo non se
lo fece ripetere: strinse la mano a Villefort e subito usci
dall’ufficio, dirigendosi verso le scale con i due gendarmi
al seguito. Nella mente di Edmond c’era solo lo splendido
sorriso di Mercedes e l’affetto dei suoi amici che era
ansioso di raggiungere al banchetto, cosi scese quei gradini a passo
veloce e con la leggerezza dell’innocenza. Arrivato in
cortile, i due gendarmi lo condussero verso una bella carrozza
lussuosa, lo fecero entrare, chiusero a chiave la porta e montarono al
posto di guida. Dantès era perplesso sulla chiusura a chiave
della porta, ma non chiese nulla: era troppo felice e spesso la
felicità è sinonimo di cecità. La
carrozza partì a gran velocità, ma dopo aver
percorso qualche chilometro, Edmond si accorse che essa viaggiava verso
il porto, cioè dalla parte opposta rispetto alla sua
abitazione. Pensò che i gendarmi avevano sbagliato strada,
cosi si avvicinò alla finestrella che permetteva di parlare
ai conducenti e disse:
“ Signori, per tornare verso casa mia fate inversione
poiché per questa strada si arriva al porto”. Ma
uno dei gendarmi gli rispose:
“ Non temete, Dantès, non c’è
nessun errore: vi stiamo portando nella vostra nuova casa: la prigione
del castello d’If”.
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
CAPITOLO 3
“Che cosa?? Il magistrato Villefort ha detto che posso tornare a casa, perché dunque mi conducete li? Vi ordino di portarmi a casa!” urlò Edmond.
“Voi non ordinate proprio niente, Dantès.” Rispose la guardia “ questi sono gli ordini del magistrato e cosi sarà fatto. Mettetevi comodo e godetevi questi ultimi minuti di Marsiglia perché è l’ultima volta che la vedete” e cosi detto, chiuse la finestrella. Era tutto chiaro: i due gendarmi di scorta, la carrozza, la porta chiusa a chiave. Ma Edmond non si perse d’animo e subito mise a soqquadro la carrozza per cercare qualcosa utile a rompere la porta, ma tutto fu inutile poiché non trovò altro che cuscini. A quel punto non gli restò che tentare di sfondare la porta a spallate, cosi prese quel poco slancio che potè e si scagliò contro la porta con tutta la forza della disperazione, ma questo tentativo ebbe come risultato soltanto un grosso livido e un profondo dolore, derivante dai rinforzi in metallo della porta e dalla consapevolezza che quella carrozza era una fortezza inespugnabile. Non c’era stato bisogno nemmeno di una guardia che controllasse il prigioniero durante il viaggio, poiché il ferro di una carrozza era più che sufficiente, specie se si trattava di un ingenuo innocente come il giovane Edmond. Dopo questo fallimento, il ragazzo si sedette desolato accanto al piccolo finestrino dove solo pochi minuti prima specchiava il suo viso felice, viso che ora raffigurava una persona condannata non a morire, ma a sparire dagli occhi del mondo, a marcire in una squallida stanza buia della prigione che deteneva la gente di cui la Francia si vergognava: i traditori appunto. La vettura entrò nel porto e si li dove c’era una piccola imbarcazione con tre gendarmi a bordo. Le due guardie che avevano condotto Edmond sin li scesero dalla carrozza e, dopo ben due giri di chiave, aprirono la portiera e trovarono Edmond che ancora fissava il finestrino.
“Siete arrivato, Dantès. Queste tre guardie vi condurranno in mare al Castello d’If. Ora venite, vi devo ammanettare e non osate opporre resistenza poiché altrimenti, invece della prigione, vi aspetta un piombino in testa”. Dantès a malapena sentì quelle parole, ma si avvicinò alla guardia, scese e si fece ammanettare senza opporre resistenza. Sembrava un corpo senz’anima e, in effetti, la sua anima, la sua gioia, la sua voglia di vivere gli erano state strappate e restavano li a Marsiglia; con sé portava soltanto il ricordo del volto di Mercedes e la voglia e la volontà di morire. Intenzionato ad uccidersi appena giunto in prigione, Dantès salì su quella imbarcazione diretta verso la sua fine. I gendarmi iniziarono a remare prendendo il largo, mentre Edmond fissava la carrozza allontanarsi e tornare nel cuore di Marsiglia. L’imbarcazione si dirigeva, dunque, verso la più terribile prigione francese, poiché sorgeva su un’isola distante 10 miglia dalla costa e circondata soltanto da isolotti disabitati. Essa era un tempo il palazzo del signore If, uomo potente e ricchissimo del ‘600, che si era fatto costruire quell’imponente castello per andarsene via dal mondo, per starsene fuori da questioni di politica e vivere in pace solo con la sua ricchezza. Egli non ebbe figli e quindi eredi, cosi alla sua morte il castello rimase disabitato per decenni, finchè lo stato francese non decise di rilevarlo e farne un carcere di massima sicurezza già a partire dagli anni di Luigi XIV. Il corpo del signore If era stato ritrovato dagli stessi gendarmi che avevano assistito al suo duello con un signorotto locale, scontro dal quale il signore If era uscito con una spada piantata nel cuore. Ma se si avevano notizie del suo corpo, del tutto irrintracciabile fu il suo tesoro che dal 1650 giaceva chissà dove nel mondo. Luigi XIV, rilevando il palazzo, aveva fatto cercare ovunque quel tesoro nel castello, ma non trovò mai nulla, cosicché nel 1815 quelle ricchezze erano solo chiacchiere di vecchi signori nelle taverne di Marsiglia. Il castello di manifestò forte e imponente agli occhi di Edmond, che aspettava di arrivare solo per porre fine alla sua vita. Giunto nel piccolo porto dell’isola, si trovò dinanzi altri tre gendarmi e il direttore del carcere, Armando Orleàk, che era solito attendere l’arrivo dei prigionieri per condurli egli stesso in cella. Cosi, si mise alla testa del gruppo che dunque entrò nel portone principale del Castello d’If. Era questo un luogo buio, illuminato a tratti dalle torce che splendevano solo lungo i corridoi e le scale; per il resto, la luce del sole era interdetta dall’entrare in quel luogo, come se quella gente, oltre che il mondo e la vita, dovesse dimenticare anche il calore solare e quello di Dio. Il castello era formato da un piano centrale, uno superiore e uno inferiore posto sottoterra, lungo cui correva un corridoio centrale ai lati del quale erano distribuite le varie celle. Edmond venne condotto, scendendo una strtta strada vorticosa, nel piano inferiore; poi, dopo aver percorso parte del corridoio, gli venne aperto un portone recante il numero 34: da adesso “numero 34” era il suo nome, pronunciato solo dalle varie guardie, in quanto ogni cella era riservata ad un solo prigioniero, che, dunque, viveva in perpetua solitudine. Edmond vi venne depositato in un angolo e liberato dalle manette; poi Orleàk gli parlò dicendo:
“ Sono Armando Orleàk, direttore del Castello d’If. Questa è la vostra cella, luogo in cui mangerete, dormirete e, quando Dio vorrà, morirete. Come potete vedere, la vostra cella, come tutte le altre, non ha una finestra. La sola luce che può entrare è quella delle torce del corridoio attraverso la piccola finestrella del portone da dove riceverete il cibo una volta al giorno. Tuttavia, una volta al mese, vi verrà consegnata una candela che una guardia vi accenderà una sola volta, quindi badate di non farla spegnere poiché vi verrà riaccesa solo allo scadere del mese. Probabilmente, Dantès, vi rivedrò solo quando verrò a rimuovere il vostro cadavere, ma prima di salutarvi vi voglio dire una curiosità riguardo questa cella. Ebbene, il precedente detenuto è scomparso qui dentro molti anni fa e non è mai stato ritrovato, sebbene, come potete vedere, qui non ci siano altre uscite se non il portone d’accesso, che viene chiuso oggi e riaperto quando verrò a seppellirvi. Buona permanenza, Dantès. La vostra candela vi verrà consegnata il mese prossimo, il 14 ottobre. Meditate sulla vostra disgrazia in questo mese di buio. Addio!”. Detto questo, si voltò e, seguito dalle tre guardie, chiuse la porta, lasciando Edmond al buio seduto in un angolo, solo con sé stesso.
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Capitolo 4 *** Capitolo 4 ***
CAPITOLO 4
Si era da poco chiusa la porta dinanzi a sé ed Edmond
versava ancora a terra con le spalle al muro. Non aveva la forza per
fare nulla, nemmeno per urlare, prendere a pugni quel portone che lo
stava emarginando dal mondo e che rappresentava il limite invalicabile
della libertà. Oh, la libertà. Dantès
fissava nel buio il portone e si rese conto che fino a quel giorno non
si era mai chiesto cosa fosse la libertà, poiché
egli ne era immerso. Edmond ripensava, infatti, a tutti i suoi viaggi
sul Faraon, a tutte le meraviglie che aveva visto. Egli aveva messo
piede in Africa, in India, in Italia; aveva assistito a tramondi
stupendi su un’altura in Sud Africa, da dove aveva osservato
il sole morire nell’oceano che si colorava di arancione; in
oriente, aveva risalito a cavallo tutta l’India sino ad
arrivare all’immensa catena Himalayana; aveva conosciuto
migliaia di persone, si era confrontato con esse, aveva conosciuto le
loro svariate usanze e ora si trovava seppellito nel buio delle
profondità del castello d’If.Era arrivato li con
l’intenzione di togliersi la vita, perché
un’esistenza in quello stato il suo animo non riusciva a
tollerarlo. Egli era sempre stato di spirito forte, qualità
che aveva avuto il suo peso nell’indurre l’armatore
Morrel ad assegnargli il Faraon, ma quel tradimento da parte della
giustizia lo aveva distrutto nel profondo del cuore. Voleva morire
Edmond, perché una vita condotta nel buio non era vita;
perché una vita senza Mercedes non aveva senso. Tuttavia,
quel buio gli impediva allo stesso tempo anche di morire, almeno
finchè non gli veniva consegnata la candela il mese
successivo. Aveva, dunque, il privilegio di conoscer la data della sua
morte: 14 ottobre 1815. Durante quei 30 giorni, Edmond non fece altro
che starsene seduto sempre nel medesimo angolo, tranne in
quell’unica volta al giorno in cui una guardia si ricordava
della sua esistenza e veniva a portargli una schifosa brodaglia, fatta
con acqua e pane tritato che il giovane consumava nel lieve bagliore
che arrivava nella stanza attraverso la finestrella della porta. Venne
finalmente il trentesimo giorno e, come da regolamento, insieme al
pasto gli venne consegnata una candela. Edmond non si curò
minimamente del pasto, ma prese subito la candela e si mise ad
osservare per la prima volta la sua cella. Essa era una piccola stanza,
costituita interamente da blocchetti di pietra squadrati, incastrati
uno accanto all’altro. Non gli restava ora che scegliere il
modo in cui uccidersi, adesso che i suoi occhi erano tornati ad
osservare. Osservando meglio la cella, si accorse che in un angolo era
posta una piccola sedia e che due pareti erano unite da un asse di
ferro, forse un tempo utilizzato dal macellaio del signore
d’If per tenervi appese le varie parti del corpo di animali
appena uccisi; esso era abbastanza alto per appendervi una corda per
impiccarsi. Edmond non aveva con sé una corda, ma possedeva
ancora la sua divisa da capitano che aveva indossato la sera del suo
fidanzamento ufficiale con Mercedes e, dunque, al momento dl suo
arresto.
“Dio mio, mi hai fatto diventare capitano per farmi impiccare
con la divisa!!” esclamò Edmond. Poi,
fece un cappio con la camicia e sistemò il resto del vestito
in modo tale da formare una corda che legò
all’asse di ferro; dunque sistemò il cappio ad
un’ altezza tale che, entrandovi col collo, non avrebbe
toccato terra. Infine, pose la sedia sotto l’asse, vi
salì sopra e mise la tsta nel cappio. Tutto era pronto. Con
la mente che invocava l’immagine di Mercedes e le lacrime che
gli scendevano il viso, il capitano Dantès diede un calcio
alla sedia e di colpo sentì il cappio stringergli la gola
mente era sospeso in aria: era entrato in agonia.
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Capitolo 5 *** Capitolo 5 ***
CAPITOLO 5
Il volto di Edmond stava diventando viola, oramai prossimo alla morte,
quando, ad un tratto, l’asse a cui il giovane aveva appeso la
sua “fune” e le sue speranze si staccò
dal muro, facendo cadere Dantès a terra. Il ragazzo rimase a
terra, svenuto, per circa un’ora; poi si ridestò.
Riaprendo gli occhi, tuttavia, si accorse che non era accasciato sul
pavimento, bensì in una specie di fossa profonda circa mezzo
metro. Ancora un po’ intontito, si alzò in piedi e
allora tutto fu chiaro: cadendo violentemente per terra, i mattoni su
cui era atterrato erano precipitati in quella fossa insieme al suo
corpo, poiché essi erano semplicemente appoggiati
l’uno accanto all’altro, senza una base sotto.
Edmond rimase stupito del fatto che quei massi erano riusciti a
sostenere il peso di un uomo che, anche se raramente, vi aveva messo
piede sopra. Non riusciva, tuttavia, a capire lo scopo di quella fossa
che non conteneva niente. Poi, come un lampo, gli vennero in mente le
parole di Orleàk pronunciate poco prima di chiudere il
portone: “ il precedente detenuto è scomparso qui
dentro e non è stato mai trovato”. Immediatamente,
Edmond scese in quella fossa, intento a capire se quello potesse essere
l’inizio di un tunnel verso la libertà. Quella
speranza, quel lampo di luce nelle tenebre di quell’ultimo
mese, avevano fatto avvertire al giovane una sensazione che non
avvertiva più da quando era stato arrestato: quella di
sentirsi vivo. Cosi, con la candela in mano, esplorò quella
fossa e gli vennero le lacrime agli occhi per la gioia quando si
accorse che in un lato vi era un’apertura, un tunnel appunto.
Subito, Dantès vi si insinuò e iniziò
a strisciarvi all’interno rapidamente. La sua gioia
aumentò ancor di più quando ad un tratto
iniziò a sentire il rumore del mare. Sembrava un miracolo
per Edmond, che poco più di un’ora prima si stava
uccidendo e ora era felice di vivere e pieno di speranze. La sua
felicità, tuttavia, si interruppe quando si accorse che il
tunnel era senza uscita. Edmond, comunque, continuò ad
avvicinarsi alla fine del tunnel, quando, ad un tratto, la candela
illuminò il piede di un uomo, sdraiato supino e immobile.
Dantès sentì gelarsi il sangue nelle vene. Era
lui la persona scomparsa? Aveva scavato lui quel passaggio? Il giovane
si fece forza e si avvicinò al corpo ormai senza vita Lo
voltò, ma ormai di quell’uomo non restava che solo
lo scheletro vestito con una camicetta e un paio di pantaloni
strappati. Accanto allo scheletro, vi era una specie di paletta e un
foglio di carta. Edmond lo prese e, facendosi luce, lo lesse:
“ Sono l’abate Faria, rinchiuso nella cella numero
34 dal 1795. Ho iniziato a scavare questo tunnel poco dopo il mio
arresto con la forza della disperazione e la brama di
libertà, ma purtroppo in questo ultimo periodo sento
arrivare per me l’ora della morte. Per questo motivo scrivo
questa lettera, nella speranza che il povero disgraziato che
verrà qui rinchiuso dopo di me mi trovi e cerchi il tesoro
di cui solo io conosco il nascondiglio. Un mio avo, di nome Faria
anch’egli e anche lui monaco, fu colui che ascoltò
l’ultima confessione del signore If. Egli sentiva in cuor suo
che il duello che avrebbe disputato il giorno dopo gli sarebbe stato
fatale, cosi consegnò al suo confessore la mappa del suo
tesoro, credendo, con la sua generosissima offerta alla chiesa, di
guadagnarsi il paradiso promesso da Dio. Tuttavia, né il mio
avo né alcun suo successore riuscì a trovarlo.
Nel 1794 anch’io venni ordinato abate e anch’io
venni in possesso della mappa, ma dopo poco più pi un anno
lo stesso re francese mi convocò affinché gli
consegnassi la mappa, in quanto, secondo lui, quel tesoro apparteneva
alla corona di Francia. Io rifiutai, cosi venni rinchiuso qui fin
quando non mi fossi deciso a consegnare la mappa. Essa la consegno a
voi, chiunque voi siate, pregandovi di versare il 50 % al monastero di
Saint Germain di Bourdaux; la restante metà è
vostra. Potete trovarla nel taschino della mia camicia. Vi esorto,
infine, a continuare a scavare in questa direzione; ci vorranno forse
anni per arrivare alla luce, ma la ricompensa sarà
grande”. Subito, Edmond mise la mano nella tasca della
camicia e trovò un foglio, lo aprì e vide che in
effetti vi era scritta una mappa da seguire sull’isola di
Montecristo, poco distante dalle coste italiane. Quella lettera e
quella mappa potevano essere benissimo il frutto del delirio di un
vecchio, ma il rumore del mare non poteva essere falso. Cosi
Dantès, rinvigorito e vivo, prese la piccola pale e
iniziò a continuare il lavoro interrotto da Faria.
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Capitolo 6 *** Capitolo 6 ***
CAPITOLO 6
Era trascorsa già un’ora da quando Edmond aveva
iniziato a scavare verso la sua libertà, eppure il tunnel
era avanzato di un centimetro appena. Il ragazzo notò
infatti che il lavoro non era affatto facile, in quanto il terreno era
abbastanza roccioso e dunque difficile da scavare. Inoltre,
c’era un altro fattore avverso: la candela. Essa, infatti,
era lunga appena 20 centimetri e dunque si consumava con estrema
rapidità, tanto che era già quasi tutta bruciata.
Dantès decise, cosi, di tornare in superficie per continuare
il lavoro il mese successivo, quando gli sarebbe stata consegnata
un’altra candela. Dunque, il ragazzo percorse a ritroso il
passaggio ammirando l’opera di quell’abate che gli
aveva consegnato un immenso tesoro e tracciato la via per la
libertà. Risalito in superficie, rimise i mattoni al loro
posto e notò che chiunque non si sarebbe accorto del tunnel
per quanto quei mattoni riuscivano a sostenere il peso di un uomo che
vi passeggiava. Poi, dopo aver mangiato la brodaglia che non aveva
toccato nel pensiero del suicidio, decise di spegnere la candela
nonostante di essa ve ne erano ancora un paio di centimetri. Il
marinaio, infatti, aveva ben pensato di risparmiare di volta in volta
qualche centimetro, in modo da avere dopo alcuni mesi una candela
aggiuntiva. Tornato nelle tenebre, si sdraiò supino pensando
agli avvenimenti di quel giorno e, per la prima volta dopo un mese, al
suo futuro:
“Certo che è stato un vero miracolo questo tunnel,
peccato che debba scavare ancora chissà per quanto. Questa
dannata candela si consuma come neve al sole e non penso che
mi permetta di lavorare per più di 4 ore per mese. Di questo
passo ci vorranno veramente molti anni come ha detto Faria.
Chissà la mia Mercedes come starà; sono
già 30 giorni che sono stato arrestato..” ma un
sonno profondo fermò i pensieri del giovane Edmond che,
almeno nei sogni, poteva definirsi libero. Mentre Dantès
dormiva nel buio del castello d’If, a Marsiglia Mercedes usci
per andare a trovare, come tutti i giorni, il padre di Edmond. Egli,
infatti, la sera stessa dell’arresto del marinaio era andato
da Villefort a chiedere notizie di suo figlio, ma il procuratore gli
aveva risposto freddamente che Edmond era stato arrestato e condotto
lontano dalla Francia. Da quel giorno, si era chiuso in casa rifiutando
di mangiare, in uno stato di depressione che solo il ritorno di suo
figlio poteva rendere reversibile. Ogni pomeriggio, Mercedes andava a
fargli visita e lui la aspettava sul balcone, sempre speranzosa di
belle notizie che tuttavia non erano mai arrivate. Ma in questo
pomeriggio di metà ottobre, il vecchio non si fece trovare
al solito posto, bensì nel suo letto. Ormai, infatti, non
aveva più le forze ed era prossimo alla morte. Mercedes lo
trovò immobile sotto le coperte e subito si
precipitò al capezzale del letto per sincerarsi delle sue
condizioni, ma il vecchio le disse:
“ Oh Mercedes, non ho ormai più le forze di
alzarmi. Sono contento che tu sia qui ora perché devo dirti
una cosa importante: non mi rimane più tempo da vivere, ma
ho da chiederti qualcosa, forse un sacrificio.”
“ Ditemi, vi prego! Sapete che per me siete come un padre,
quindi chiedete ciò che volete che faccia e io ve lo
farò” lo interruppe Mercedes.
“ Vorrei che non andaste in sposa a nessuno. Voi siete una
stupenda ragazza e per Edmond eravate tutta la sua vita; io non so se
egli è vivo o morto, né se tornerà;
tuttavia vi chiedo di continuare a rispettare l’amore che
egli aveva per voi” e detto questo, il vecchio
Dantès spirò. Allora Mercedes piangendo e
stringendo il vecchio a sé:
“ Oh padre mio, non è un sacrificio quello che mi
chiedete, ma un motivo in più che mi spinge a fare una cosa
che già meditavo di fare”.
Il mattino successivo, vi fu il funerale del vecchio Dantès
e da quel giorno Mercedes sparì da Marsiglia.
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Capitolo 7 *** Capitolo 7 ***
CAPITOLO 7
Erano trascorsi 20 anni da quando Edmond aveva scoperto il tunnel di
Faria; una folta barba ricopriva il suo viso, mentre i capelli gli
giungevano fino a metà della sua altezza. Da 20 anni,
Dantès scavava 4 ore al mese verso la sua
libertà, rincuorato dal rumore delle onde del mare che
giungeva sempre più vicino.
Era la metà del mese di marzo 1835 e come ogni
mese la solita guardia veniva a consegnare una candela al marinaio,
invecchiato nel corpo ma non nella spirito. Non era di certo il misero
cibo che gli veniva dato che lo aveva mantenuto in vita in tutti quegli
anni, perché un uomo per vivere ha bisogno soprattutto di
pensare, progettare, programmare il proprio futuro e tutto questo il
castello d’If non poteva di certo offrirglielo in quanto
concepito per distruggere una persona dall’interno. Tutte le
persone rinchiuse li dentro desideravano la ghigliottina che avevano
visto in azione tante volte nelle piazze delle loro città e
che avevano considerato la punizione più orribile che
potesse essere inflitta ad un uomo; tutti loro si erano dovuti
ricredere dopo solo pochi giorni di permanenza al castello
d’If, constatando che esisteva un altro tipo di morte, assai
peggiore di quella fisica: quella dello spirito. Infatti, dopo un colpo
di ghigliottina cessava ogni tipo di sofferenza; la distruzione
dell’anima era invece una sofferenza che cresceva giorno dopo
giorno, un dolore che divorava il cuore pezzo dopo pezzo e che portava
alla morte tramite la tortuosa via della disperazione. Il nostro Edmond
era riuscito a sopravvivere grazie all’unica cura che
esisteva per questo lento abbandono: la speranza. Quel tunnel iniziato
a scavare da Faria lo aveva preservato da quella terribile sofferenza o
quanto meno la aveva lenita dandogli la forza di andare avanti.
Ricevuta la sua candela, subito Edmond scese nel tunnel e si mise a
lavoro con la sua piccola pala, ma dopo poco si accorse che la terra
veniva via con estrema facilità in quanto era assai bagnata.
Il marinaio giustificò il fatto pensando che aveva piovuto
da poco, ma ad un tratto iniziò a penetrare molta acqua
dalla direzione verso cui scavava. A quel punto, Dantès
iniziò a scavare rapidamente e con grande forza, spostando
una grande quantità di terra nonostante fosse appesantita
dall’acqua, finchè ad un tratto successe qualcosa
che aspettava da 20 lunghi anni: una forte luce lo accecò e
un getto d’acqua gli bagnò il viso. Parandosi un
poco il viso con la mano, Edmond vide ciò che attendeva da
quasi duecentomila ore: la luce del sole luccicare sul mare le cui onde
si infrangevano proprio dove il tunnel giungeva a finalmente a termine:
era l’immagine della sua libertà.
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Capitolo 8 *** Capitolo 8 ***
CAPITOLO 8
Sorrideva Edmond alla vista di quel paradiso, sognato
nell’isolamento della sua cella. Come una donna, la
libertà si era fatta desiderare e corteggiare, a volte
addirittura implorare; ed ora, finalmente, essa si faceva ammirare in
tutta la sua bellezza, il cui eco lo si poteva udire
nell’infrangersi delle onde sulle coste del castello
d’If e nel grido dei gabbiani. Ora, Dantès non
doveva far altro che cogliere la rosa di quella splendida donna,
facendola sua per sempre; cosi, spinse il suo sguardo
nell’orizzonte e si accorse che una delle piccole isole
disabitate intorno al castello era distante soltanto una lega
all’incirca. Edmond non aveva i mezzi per costruirsi una
piccola zattera, dunque poteva fuggire solo a nuoto e, comunque, di
notte per evitare di essere avvistato dalle vedette che,
dall’alto del castello, controllavano tutto lo specchio
d’acqua intorno all’isola. Siccome, confidando
nell’assoluta sicurezza delle celle, mai nessuna guardia
controllava i prigionieri, Edmond decise di attendere la notte
direttamente li, all’aria aperta e alla luce, piuttosto che
nel buio della sua prigione, che per troppo tempo lo aveva isolato dal
mondo e dalla vita; ma adesso era tempo di porre fine a
quell’ingiusta prigionia e far luce sul suo
perché, apparentemente illogico, ma che presto si sarebbe
rivelato addirittura disgustoso.
Giunse finalmente la sera e il mare non era mosso. Molto lentamente,
Edmond si immerse nelle fredde acque primaverili e iniziò a
nuotare nell’oscurità verso l’isolotto.
Il marinaio, tuttavia, dopo aver nuotato per diverse bracciate, venne
colto da una forte stanchezza dovuta a 20 anni di
inattività; provò ad insistere nella nuotata, ma
si dovette arrendere a un riposo forzato per evitare uno svenimento e,
quindi, l’annegamento. Per tutta la notte, Dantès
nuotò lentamente dando fondo a tutte le sue forze e,
finalmente, all’alba toccò terra. Dopo aver
avanzato per alcuni passi, Edmond si accasciò a terra senza
forze, sussurrando “ Sono libero”. Nello stremo
delle sue forze, tuttavia, il nostro marinaio non si era accorto che
l’isola non era deserta come credeva…
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Capitolo 9 *** Capitolo 9 ***
CAPITOLO 9
Il sole era alto nel cielo e con i suoi raggi illuminava il marinaio steso a terra, come se anch’esso volesse partecipare alla gioia di colui che non vedeva la sua luce da vent’anni. Riscaldato da quel calore, Edmond pian piano si ridestò dal sonno in cui era caduto; lentamente si alzò in piedi e vide il castello d’If ormai distante una lega da lui. Una grande felicità riempì il suo cuore e si stava per voltare per esprimere tutta quella gioia con una corsa a perdi fiato, urlando contro il cielo “libero!!”; questo stava per fare il nostro marinaio appena tornato a respirare l’aria del mare, ma dovette mettere da parte la gioia per far posto allo spavento quando una voce da dietro gli domandò “ Chi siete?”. Fu un fulmine a ciel sereno per Edmond, che credeva quell’isola disabitata, come tutti a Marsiglia d’altra parte. Si voltò lentamente e si trovò dinanzi un uomo della sua stessa altezza, con capelli lunghi neri e ricci, media corporatura, barba leggermente incolta, di accento italiano.
“Fino ad ora e per 20 anni mi chiamavo “numero 34”, ma da adesso torno a chiamarmi Edmond Dantès”. E quel tale, accennando ad un sorriso, disse:
“ Oh, bè, ci avrei scommesso! Coi vestiti strappati e il castello d’If a una lega da qui non potevate che essere un evaso, e anche molto intelligente per esservi riuscito, in quanto mai nessuno di quei disgraziati li rinchiusi ha più rivisto la luce del sole. Dunque non spaventatevi, Dantès, perché trovate in me un vostro simile, in quanto mi chiamo Luigi Vampa, contrabbandiere e ladro. Ma venite ad unirvi alla mia ciurma, avrete di sicuro fame”. Edmond, a quel punto, non poteva rifiutare poiché la sua saggezza gli suggeriva di non contraddire un uomo che aveva con sé un lungo coltello e una carabina, e poi, aveva fame davvero; dunque rispose:
“Ben volentieri, amico mio. Conducetemi al vostro accampamento” e i due si avviarono verso l’interno dell’isolotto, nella fitta vegetazione, sino ad arrivare in una radura dove circa 7 uomini erano disposti circolarmente intorno a un fuoco. Uno di loro, vedendo arrivare Edmond e Vampa, disse:
“Capo, abbiamo visite quest’oggi?” e Vampa giungendo presso di lui:
“Ebbene si, amici miei. Quest’uomo è un nostro compare, appena evaso dal castello d’If. Offritegli dunque un bel pezzo di pollo e del vino poiché è affamato” e Dantès, sedutosi presso il fuoco con gli altri, iniziò a mangiare e a raccontare la sua storia. Era la prima volta, dopo vent’anni, che il marinaio parlava con qualcuno, che provava il piacere della conversazione, dello scambio d’idee e la curiosità derivante dai racconti delle imprese avventurose quanto illegali, che ogni commensale a sua volta narrava. Edmond si sentiva a proprio agio tra quelle persone che, sebbene fossero contrabbandieri, ladri e assassini, lo trattavano con quel profondo rispetto che quegli uomini di mondo portavano verso i propri compari e verso chi aveva avuto la sventura di finire in carcere, per qualunque motivo fosse; tuttavia, nonostante ciò, Dantès saggiamente tacque riguardo il tesoro di Faria. Alla fine del pasto, Vampa prese la parola rivolgendosi ad Edmond:
“Amico mio, dai vostri racconti mi sembrate una persona alquanto utile nella nostra ciurma, in quanto abbiamo un grande bisogno di un ottimo marinaio per i nostri traffici e, in generale, di un uomo intelligente e furbo come voi. Vi chiedo, dunque, di unirvi a noi, anche perché, ora che avete scoperto il nostro nascondiglio, non potrei lasciarvi andare senza uccidervi”.
Edmond, pensò bene che la ciurma di Vampa lo avrebbe protetto dalle ricerche dei gendarmi che sarebbero seguite alla scoperta della sua evasione, cosi rispose:
“ Accetto molto volentieri, signor Vampa”.
“Ebbene sia”, rispose il capo, “partirete fra poco con noi verso Livorno, dove stanotte dobbiamo sbrigare un affare”. Cosi, dopo aver spento il fuoco, la ciurma scese verso il mare per il sentiero opposto rispetto a quello percorso da Dantès e Vampa e si imbarcò su un’imbarcazione di medie dimensioni. Proprio mentre la nave prendeva il largo, da una torre del castello d’If veniva emesso del fumo nero, a segnalare che un prigionieri era evaso; nel caso del castello, per la prima volta. |
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Capitolo 10 *** Capitolo 10 ***
CAPITOLO 10
La nave viaggiava verso sud-est mentre Edmond, posizionato a poppa,
vedeva il castello d’If allontanarsi gradualmente. A quella
vista, non potè che provare immenso piacere ammirando come
il suo passato svaniva pian piano all’orizzonte come un
brutto sogno, ora che Dio gli aveva concesso una nuova vita. Tuttavia,
gli bastò volgere lo sguardo verso nord, verso un piccolo
puntino luminoso, che un sentimento di dolore venne a guastargli
quell’immensa gioia. Quella luce in lontananza era la sua
Marsiglia e, rivedendola, seppur da lontano, la sua mente si rivolse
alla sua Mercedes e a suo padre di cui ignorava la morte. “Oh
Mercedes, resisti per un altro po’, io sono libero! Tra
qualche tempo tornerò a Marsiglia e fuggiremo lontano
lontano, dopo aver fatto luce sul mio arresto e punito chi ci ha divisi
per tutti questi anni” pensò tra se
Dantès che, pensando a quelle squallide persone che lo
avevano incastrato e di cui ignorava l’identità,
stava inconsciamente stringendo violentemente tra le mani la linghiera
su cui era appoggiato. Oh marinaio quanto altro veleno dovrai ingerire!
“Dantès, venite qui un momento che ho bisogno di
voi” esclamò ad un tratto Vampa.
“Eccomi signore, ditemi.” Rispose gentilmente
Edmond, ridestatosi da quei profondi pensieri.
“Ho deciso di affidarvi il comando della nave per questo
viaggio. Voglio, infatti, mettere alla prova le vostre doti di esperto
marinaio che ci avete conferito quest’oggi. Io
resterò qui ad osservarvi” e cosi dicendo, gli
mostrò gli altri membri dell’equipaggio verso cui
gli era appena stato conferito il potere di capitano. Col sorriso sul
viso, Edmond si mise al comando di quel bastimento che, grazie agli
accorgimenti del suo momentaneo capitano, si ritrovò al
largo delle coste livornesi con un’ora d’anticipo.
“A meraviglia,
Dantès!”-esclamò
Vampa-“sapevo che avrei fatto un affare a condurvi con me!
Ora entriamo in cabina, in modo da mangiare qualcosa e concludere
l’operazione a pancia piena.”. Dunque, tutti
scesero in cabina dove il cuoco della nave, Bertuccio, aveva cucinato
del buon pesce; solo un marinaio, incaricato delle vedetta, rimase sul
ponte. Il segnale che si attendeva era una luce lampeggiante e quando
quello si presentò, la vedetta avvisò Vampa e
tutti salirono sul ponte. Dopo pochi minuti, un bastimento si
accostò a quello di Vampa, il quale ordinò ai
suoi marinai di fare un ponte tra le due navi stendendo due tavole
l’uno accanto all’altra. Eseguito il lavoro, lo
stesso Vampa con due marinai salirono su quel bastimento che,
apparentemente, era come deserto. Dopo alcuni minuti, i tre uomini
ricomparvero con due grossi sacchi che si trascinavano dietro e quella
nave, dopo aver tolto il ponte, spari nella notte allontanandosi verso
sud. Edmond, che aveva assistito curiosamente a quella scena, si
avvicinò con gli altri marinai a quei sacchi trasportati
nella cabina, i quali furono aperti delicatamente e privati di un poco
del suo contenuto per controllarlo: era tabacco. Vampa, vedendo
Dantès cosi curioso, si era deciso ad andargli a fornire una
spiegazione su quell’operazione, ma il marinaio lo
anticipò dicendogli:
“ Bene bene, capitano! Questo tabacco venduto in Italia in
nero vi frutterà almeno centomila franchi”.
“Vedo che ve ne intendete, Dantès! Un nostro uomo
che lavora alla dogana ci permetterà come sempre di sbarcare
a Livorno evitando quei noiosi controlli. In questo mondo bisogna
saperci fare se si vuole campare, Dantès” gli
rispose Vampa, sempre più colpito da quell’evaso
che ben sapeva il fatto suo. Terminato il controllo, la nave riparti
verso Livorno dove, come aveva detto il capo, non vennero fatti i
controlli doganali. Ad attendere la ciurma e il suo prezioso carico vi
erano due carrozze, che trasportarono quegli uomini in una vecchia casa
nella campagna livornese. Il mattino seguente, alcuni di quei tali si
divisero tra loro il tabacco, uscirono e tornarono a sera con
centodiecimila franchi, che vennero posti su di un tavolo presso cui si
erano radunate tutte quelle persone, incluso il nostro Edmond; dunque,
si alzò Vampa che fece le divisioni del ricavato assegnando
ad ogni uomo 500 franchi. Ricevuta la sua paga, Edmond pensò
tra sé “Molto bene, ogni operazione mi
frutterà circa 500 franchi. Di questo passo, mi
basterà partecipare ad altre venti operazioni e
avrò il denaro per dare inizio allo spettacolo”.
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