Il conte di Montecristo remake

di Chri
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


CAPITOLO 1
“Tanti auguri a te, mio adorato Edmond ! che la donna che tu ami e che stai per legare a te per sempre, ti dia tutta la felicità del mondo!”.
In tal modo il vecchio Dantès alzò il calice colmo di buon vino rosso per brindare al matrimonio di suo figlio Edmond con Mercedes, la ragazza che tutti gli uomini al quartiere dei catalani di Marsiglia desideravano avere al loro fianco. Lei era infatti una donna stupenda, con dei magnifici capelli ricci che le scendevano lucenti sino alle spalle, Il marinaio Edmond se ne era innamorato sin dalla prima volta che i suoi occhi avevano visto colei che era entrata nel suo cuore per non uscirne mai più. Mercedes aveva molti pretendenti che avrebbero versato essi stessi una dote pur di sposarla, ma lei aveva trovato nell’animo di Edmond quel sentimento di amore puro che la spinse ad accettare senza indugio e con immensa gioia la proposta di matrimonio del marinaio, da poco diventato capitano della nave mercantile Faraon. Infatti, l’armatore Morrel lo aveva nominato capitano soltanto 3 giorni prima, quando di ritorno da un lungo viaggio in oriente, il vecchio capitano Leclère era morto in seguito a febbre cerebrale. Dantès aveva fatto di tutto per tentare di salvare la vita del suo capitano e amico; era persino sbarcato sull’isola d’Elba ( dove era esiliato Napoleone Bonaparte) per chiedere soccorso, ma tutto era stato vano. Giunto a Marsiglia, tuttavia, il buon armatore lo premiò assegnandogli il comando del Faraon. La vita, dunque, in breve tempo aveva dato ad Edmond la felicità che ogni uomo su questa terra avrebbe voluto e che in molti gli invidiavano.
Il giovane Dantès, tuttavia, non immaginava che presto tutta quella felicità, quell’allegria, quella gioia sarebbe diventata solo un ricordo da richiamare alla mente nei momenti di solitudine.
Cera una gran festa in casa Dantès quel giorno di settembre 1815. Edmond e Mercedes, infatti, avevano organizzato un grande banchetto per annunciare il loro matrimonio ed avevano invitato tutte le persone a loro care: Edmond aveva invitato tutti i suoi compagni del Faraon, tra cui i suoi amici più cari Fernando Montego e Filippe Danglars, con i quali aveva condiviso mille avventure in oriente durante i viaggi commerciali; Mercedes, invece, aveva invitato solamente i familiari più stretti, poiché le sue coetanee, invidiose della sua strepitosa bellezza, l’avevano sempre emarginata. Tuttavia, a lei questa cosa poco importava, dal momento che Edmond era diventato tutta la sua vita. Subito dopo il brindisi del padre di Edmond, tutti iniziarono a degustare le specialità di pesce preparate per il banchetto, quando, ad un tratto, si udì un rumore di cavalli in avvicinamento. Edmond pensò ad altri amici che stavano venendo a condividere la sua felicità, cosi subito corse giù in cortile ad accogliere gli ospiti. Ma appena le persone a cavallo si portarono ad una distanza tale da poter essere riconosciuti, Edmond capi che quella gente non era affatto amichevole: erano gendarmi. Dantès senti il cuore fermarsi, la sua gioia mutarsi in preoccupazione. Nel frattempo, anche gli invitati erano scesi in cortile allarmati dall’arrivo delle guardie, le quali si distribuirono allineandosi dinanzi al cancello, come per impedire che qualcuno dei commensali tentasse la fuga, come se si nascondesse un criminale in quella casa. Ad un tratto, un gendarme si staccò dalla barriera e si avvicinò al gruppo di ospiti stupiti e al povero Edmond, che aveva assistito alla scena praticamente immobile:
” Chi di voi è Edmond Dantès?”
“ Sono io” rispose Edmond come ridestato da un sonno profondo.
Poi, con la tranquillità di chi sa di aver la coscienza pulita disse:
“ è successo qualcosa? Cosa volete?”
“ Ho l’ordine di condurvi dal magistrato Villefort immediatamente” disse la guardia e subito altri due gendarmi si pararono davanti al giovane, scesero da cavallo e lo ammanettarono stretto.
“Non c’è bisogno di stringere cosi forte, verrò con voi senza opporre resistenza poiché non ho niente da nascondere” esclamò Edmond con voce seria e sicura, poi si rivolse ai commensali “ Mercedes, padre mio, amici miei! Non temete perché è senz’altro un equivoco! Adesso parlerò col magistrato e tra poco sarò di ritorno! Continuate a festeggiare, non preoccupatevi!”.
Detto ciò, uno dei gendarmi lo fece entrare nella carrozza carceraria e subito marciarono alla volta del magistrato Villefort.

Spazio autore:
Ciao!! Sono alla mia prima fanfiction quindi non sono molto esperto!! Per questo vi chiedo di lasciarmi un commento che mi aiuti a migliorarmi e a correggere eventuali errori!! Spero che vi piaccia il mio lavoro!! Chri

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


CAPITOLO 2
Mentre la vettura viaggiava, Edmond interrogò il gendarme che, seduto accanto a lui con un fucile, controllava ogni suo minimo gesto:
“Voi sapreste dirmi cosa vuole il magistrato da me? Sono una persona onesta, che si guadagna il pane girando il mondo su di una nave, per la maggior parte dell’anno lontano dalla Francia. Non vedo cosa io possa aver fatto di male, dal momento che sono rientrato a Marsiglia solo tre giorni fa dopo mesi in oriente. Parlate, dunque, se sapete!” Ma la guardia, che sentiva nella voce del giovane il timbro della sincerità, gli rispose:
“ Centinaia di malfattori, ladri e assassini si sono seduti dove sedete voi, Dantès, e ognuno di loro mi ha rivolto questa domanda, sebbene in cuor loro coscienti dei loro crimini. Tuttavia, voi mi sembrate diverso dagli altri: avete un volto sincero. Spero per voi, Dantès, che anche il vostro animo lo sia altrettanto dinanzi al magistrato Villefort. Proprio perché mi sembrate sincero, vi avverto che il magistrato è, parola mia, un uomo scrupolosissimo nell’applicazione delle leggi e che numerose sono le persone che ha mandato alla ghigliottina o rinchiuse per sempre in qualche prigione. Ma se voi siete cosi sincero e soprattutto cosi innocente come dite, egli se ne accorgerà e fra meno di un’ora sarete di ritorno dalla vostra sposa. Questo è tutto ciò che vi posso dire, in quanto noi guardie eseguiamo solo gli ordini, senza osare chiedere spiegazioni. Ad ogni modo, lo state per scoprire voi stessi, Dantès: siamo arrivati”. Edmond, infatti, non ebbe nemmeno il tempo di replicare che subito si aprì la porta della carrozza e venne condotto all’interno del palazzo incalzato dai gendarmi. L’ufficio del magistrato si trovava all’ultimo piano dell’edificio, cosi il giovane potè ammirare per intero il luogo in cui la giustizia si rendeva concreta e viva sottoforma di condanna o assoluzione, ghigliottina o prigione, morte o vita; quella stessa giustizia in cui aveva sempre creduto, nella quale ora confidava, della quale ne assaporerà la sete. Dopo ben quattro rampe di scale, Edmond fece il suo ingresso nell’ufficio del magistrato, il quale attendeva il giovane seduto comodamente sulla sua poltrona dietro la scrivania. Il povero Edmond, invece, venne fatto sedere su di una dura sedia di legno posta al centro della stanza, a debita distanza da colui che in quel momento era, per legge, onnipotente come Dio. Non appena ebbero depositato Edmond su quella sedia, i gendarmi si voltarono e  si sistemarono, armi sempre impugnate, dinanzi la porta, dando cosi inizio al colloquio. Villefort, dopo aver guardato un istante il ragazzo negli occhi, chiese:
“ Siete voi Edmond Dantès?”
“ Si, signore”.
“Ebbene voi siete accusato di alto tradimento, mio caro Dantès. Vedete questo foglio? Questo è una denuncia da parte di ignoti che vi accusa di aver accettato una lettera da parte di Napoleone Bonaparte”. A queste parole, Edmond sentì il peso del mondo intero schiacciargli la testa. Ma subito rispose:
 “ Si, è vero, ho accettato una lettera di Napoleone che tutt’ora tengo qui in tasca, ma parlare di alto tradimento mi sembra un’accusa infamante!”
“ Calmatevi, Dantès. Voi non capite: secondo la normativa vigente costituisce un atto di tradimento avere contatti con bonapartisti. È, dunque, per aver accettato quella lettera che siete diventato traditore anche voi. Porgetemi la lettera.” Subito Edmond si infilò la mano tremante nella tasca interna della sua giacca, prese la lettera e la diede a un gendarme che sotto ordine del magistrato si era avvicinato all’imputato; dunque la consegnò a Villefort. Immediatamente, l’uomo apr’ il documento e lesse ad alta voce “ Sto progettando di fuggire dall’Elba. Organizza i nostri uomini per il mio ritorno: marceremo su Parigi.”. Quelle poche frasi furono un pugno allo stomaco per Dantès. In un attimo gli vennero in mente le parole di Napoleone, quando lo aveva avvicinato mentre i suoi medici tentavano di salvare la vita del capitano Leclère:
“ Vi devo chiedere una cortesia, Dantès: dovete consegnare questa lettera al signor Noirtier  quando sarete tornato a Marsiglia. Non dovete preoccuparvi di nulla, poiché il contenuto della lettera è del tutto innocente e sarà lo stesso destinatario a trovarvi”. Edmond aveva sospettato che quella lettera poteva essere pericolosa e cosi aveva tentato di rifiutare elegantemente dicendo che a Marsiglia sarebbe arrivato solo mesi dopo, ma si vide costretto ad accettare quando Bonaparte gli disse che quel favore che gli stava chiedendo era, più precisamente, il prezzo per le prestazioni del suo medico. Aveva dovuto, dunque, fidarsi di Napoleone e rischiare, rischio che lo aveva condotto dritto dritto da Villefort. Il magistrato, dopo aver terminato la lettura del documento, rimase in silenzio ad osservare Edmond immerso in quei pensieri, in attesa di una sua replica che non tardò:
“ Vi assicuro, signore, che io non sapevo niente del contenuto di quella lettera. Guardatemi. Sono un uomo di mare, troppo spesso lontano dalla Francia per conoscere le vostre leggi e per occuparmi di politica. Ho accettato quella lettera per permettere al medico di Bonaparte di prestare soccorso al mio capitano Leclère, anche se tutto fu inutile. Se salvare la vita al proprio capitano e amico è un reato e per di più un tradimento, terminate qui questo colloquio e fatemi arrestare, ma sappiate che carcerate un innocente”. Villefort rimase sbalordito dall’animo di Edmond, cosi rispose:
“ Vi sapete difendere molto bene, Dantès. In effetti, il fatto che avete accettato quella lettera non significa che siete bonapartista e, come dite voi, lottare per salvare un compagno non è un reato. Mi avete convinto, Dantès, potete andare”. Udite quelle parole, Edmond ricominciò a sorridere. Quel gendarme aveva ragione: la sincerità lo aveva salvato. Subito una guardia gli si avvicinò e finalmente gli tolse le manette; dopodiché si rivolse a Villefort:
“ Vi ringrazio, signore. La mia fiducia nella giustizia oggi ha avuto modo di accrescersi. Addio!”
“ Addio, Dantès!” rispose il magistrato. Il giovane, dunque, si voltò e si diresse verso l’uscita, ansioso di riabbracciare la sua Mercedes. Aveva appena toccato la maniglia della porta, quando Villefort, improvvisamente, gli chiese:
“Scusate, Dantès, una sola curiosità: a chi dovevate consegnare la lettera? Questa cosa non è scritta sulla busta.” Edmond si voltò garbatamente verso il magistrato e con la stessa tranquillità rispose:
“ Al signor Noirtier. Egli stesso mi avrebbe dovuto cercare qui a Marsiglia”. Ma d’un tratto, Villefort, da uomo pacato e calmo che era stato, scattò in piedi e disse:
“Come avete detto? Noirtier?” Ed Edmond:
“ Si, signore. C’è qualche problema?” Villefort rimase un minuto immobile, silenzioso. Poi, con la stessa calma che aveva avuto per tutto il colloquio disse, prendendo la lettera:
“ Niente, mio caro Dantès. Tuttavia, questi documenti sono molto pericolosi. È meglio farli sparire” e cosi fece, accartocciando la lettera e gettandola nel camino acceso. Poi, dopo aver fatto uno strano segno a due gendarmi, disse:
“ Ho deciso di scusarmi con voi per l’equivoco facendovi tornare a casa con la mia carrozza scortato da queste due mie guardie personali. Approfittatene dunque!” Il ragazzo non se lo fece ripetere: strinse la mano a Villefort e subito usci dall’ufficio, dirigendosi verso le scale con i due gendarmi al seguito. Nella mente di Edmond c’era solo lo splendido sorriso di Mercedes e l’affetto dei suoi amici che era ansioso di raggiungere al banchetto, cosi scese quei gradini a passo veloce e con la leggerezza dell’innocenza. Arrivato in cortile, i due gendarmi lo condussero verso una bella carrozza lussuosa, lo fecero entrare, chiusero a chiave la porta e montarono al posto di guida. Dantès era perplesso sulla chiusura a chiave della porta, ma non chiese nulla: era troppo felice e spesso la felicità è sinonimo di cecità. La carrozza partì a gran velocità, ma dopo aver percorso qualche chilometro, Edmond si accorse che essa viaggiava verso il porto, cioè dalla parte opposta rispetto alla sua abitazione. Pensò che i gendarmi avevano sbagliato strada, cosi si avvicinò alla finestrella che permetteva di parlare ai conducenti e disse:
“ Signori, per tornare verso casa mia fate inversione poiché per questa strada si arriva al porto”. Ma uno dei gendarmi gli rispose:
“ Non temete, Dantès, non c’è nessun errore: vi stiamo portando nella vostra nuova casa: la prigione del castello d’If”.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


CAPITOLO 3 “Che cosa?? Il magistrato Villefort ha detto che posso tornare a casa, perché dunque mi conducete li? Vi ordino di portarmi a casa!” urlò Edmond. “Voi non ordinate proprio niente, Dantès.” Rispose la guardia “ questi sono gli ordini del magistrato e cosi sarà fatto. Mettetevi comodo e godetevi questi ultimi minuti di Marsiglia perché è l’ultima volta che la vedete” e cosi detto, chiuse la finestrella. Era tutto chiaro: i due gendarmi di scorta, la carrozza, la porta chiusa a chiave. Ma Edmond non si perse d’animo e subito mise a soqquadro la carrozza per cercare qualcosa utile a rompere la porta, ma tutto fu inutile poiché non trovò altro che cuscini. A quel punto non gli restò che tentare di sfondare la porta a spallate, cosi prese quel poco slancio che potè e si scagliò contro la porta con tutta la forza della disperazione, ma questo tentativo ebbe come risultato soltanto un grosso livido e un profondo dolore, derivante dai rinforzi in metallo della porta e dalla consapevolezza che quella carrozza era una fortezza inespugnabile. Non c’era stato bisogno nemmeno di una guardia che controllasse il prigioniero durante il viaggio, poiché il ferro di una carrozza era più che sufficiente, specie se si trattava di un ingenuo innocente come il giovane Edmond. Dopo questo fallimento, il ragazzo si sedette desolato accanto al piccolo finestrino dove solo pochi minuti prima specchiava il suo viso felice, viso che ora raffigurava una persona condannata non a morire, ma a sparire dagli occhi del mondo, a marcire in una squallida stanza buia della prigione che deteneva la gente di cui la Francia si vergognava: i traditori appunto. La vettura entrò nel porto e si li dove c’era una piccola imbarcazione con tre gendarmi a bordo. Le due guardie che avevano condotto Edmond sin li scesero dalla carrozza e, dopo ben due giri di chiave, aprirono la portiera e trovarono Edmond che ancora fissava il finestrino. “Siete arrivato, Dantès. Queste tre guardie vi condurranno in mare al Castello d’If. Ora venite, vi devo ammanettare e non osate opporre resistenza poiché altrimenti, invece della prigione, vi aspetta un piombino in testa”. Dantès a malapena sentì quelle parole, ma si avvicinò alla guardia, scese e si fece ammanettare senza opporre resistenza. Sembrava un corpo senz’anima e, in effetti, la sua anima, la sua gioia, la sua voglia di vivere gli erano state strappate e restavano li a Marsiglia; con sé portava soltanto il ricordo del volto di Mercedes e la voglia e la volontà di morire. Intenzionato ad uccidersi appena giunto in prigione, Dantès salì su quella imbarcazione diretta verso la sua fine. I gendarmi iniziarono a remare prendendo il largo, mentre Edmond fissava la carrozza allontanarsi e tornare nel cuore di Marsiglia. L’imbarcazione si dirigeva, dunque, verso la più terribile prigione francese, poiché sorgeva su un’isola distante 10 miglia dalla costa e circondata soltanto da isolotti disabitati. Essa era un tempo il palazzo del signore If, uomo potente e ricchissimo del ‘600, che si era fatto costruire quell’imponente castello per andarsene via dal mondo, per starsene fuori da questioni di politica e vivere in pace solo con la sua ricchezza. Egli non ebbe figli e quindi eredi, cosi alla sua morte il castello rimase disabitato per decenni, finchè lo stato francese non decise di rilevarlo e farne un carcere di massima sicurezza già a partire dagli anni di Luigi XIV. Il corpo del signore If era stato ritrovato dagli stessi gendarmi che avevano assistito al suo duello con un signorotto locale, scontro dal quale il signore If era uscito con una spada piantata nel cuore. Ma se si avevano notizie del suo corpo, del tutto irrintracciabile fu il suo tesoro che dal 1650 giaceva chissà dove nel mondo. Luigi XIV, rilevando il palazzo, aveva fatto cercare ovunque quel tesoro nel castello, ma non trovò mai nulla, cosicché nel 1815 quelle ricchezze erano solo chiacchiere di vecchi signori nelle taverne di Marsiglia. Il castello di manifestò forte e imponente agli occhi di Edmond, che aspettava di arrivare solo per porre fine alla sua vita. Giunto nel piccolo porto dell’isola, si trovò dinanzi altri tre gendarmi e il direttore del carcere, Armando Orleàk, che era solito attendere l’arrivo dei prigionieri per condurli egli stesso in cella. Cosi, si mise alla testa del gruppo che dunque entrò nel portone principale del Castello d’If. Era questo un luogo buio, illuminato a tratti dalle torce che splendevano solo lungo i corridoi e le scale; per il resto, la luce del sole era interdetta dall’entrare in quel luogo, come se quella gente, oltre che il mondo e la vita, dovesse dimenticare anche il calore solare e quello di Dio. Il castello era formato da un piano centrale, uno superiore e uno inferiore posto sottoterra, lungo cui correva un corridoio centrale ai lati del quale erano distribuite le varie celle. Edmond venne condotto, scendendo una strtta strada vorticosa, nel piano inferiore; poi, dopo aver percorso parte del corridoio, gli venne aperto un portone recante il numero 34: da adesso “numero 34” era il suo nome, pronunciato solo dalle varie guardie, in quanto ogni cella era riservata ad un solo prigioniero, che, dunque, viveva in perpetua solitudine. Edmond vi venne depositato in un angolo e liberato dalle manette; poi Orleàk gli parlò dicendo: “ Sono Armando Orleàk, direttore del Castello d’If. Questa è la vostra cella, luogo in cui mangerete, dormirete e, quando Dio vorrà, morirete. Come potete vedere, la vostra cella, come tutte le altre, non ha una finestra. La sola luce che può entrare è quella delle torce del corridoio attraverso la piccola finestrella del portone da dove riceverete il cibo una volta al giorno. Tuttavia, una volta al mese, vi verrà consegnata una candela che una guardia vi accenderà una sola volta, quindi badate di non farla spegnere poiché vi verrà riaccesa solo allo scadere del mese. Probabilmente, Dantès, vi rivedrò solo quando verrò a rimuovere il vostro cadavere, ma prima di salutarvi vi voglio dire una curiosità riguardo questa cella. Ebbene, il precedente detenuto è scomparso qui dentro molti anni fa e non è mai stato ritrovato, sebbene, come potete vedere, qui non ci siano altre uscite se non il portone d’accesso, che viene chiuso oggi e riaperto quando verrò a seppellirvi. Buona permanenza, Dantès. La vostra candela vi verrà consegnata il mese prossimo, il 14 ottobre. Meditate sulla vostra disgrazia in questo mese di buio. Addio!”. Detto questo, si voltò e, seguito dalle tre guardie, chiuse la porta, lasciando Edmond al buio seduto in un angolo, solo con sé stesso.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


CAPITOLO 4
Si era da poco chiusa la porta dinanzi a sé ed Edmond versava ancora a terra con le spalle al muro. Non aveva la forza per fare nulla, nemmeno per urlare, prendere a pugni quel portone che lo stava emarginando dal mondo e che rappresentava il limite invalicabile della libertà. Oh, la libertà. Dantès fissava nel buio il portone e si rese conto che fino a quel giorno non si era mai chiesto cosa fosse la libertà, poiché egli ne era immerso. Edmond ripensava, infatti, a tutti i suoi viaggi sul Faraon, a tutte le meraviglie che aveva visto. Egli aveva messo piede in Africa, in India, in Italia; aveva assistito a tramondi stupendi su un’altura in Sud Africa, da dove aveva osservato il sole morire nell’oceano che si colorava di arancione; in oriente, aveva risalito a cavallo tutta l’India sino ad arrivare all’immensa catena Himalayana; aveva conosciuto migliaia di persone, si era confrontato con esse, aveva conosciuto le loro svariate usanze e ora si trovava seppellito nel buio delle profondità del castello d’If.Era arrivato li con l’intenzione di togliersi la vita, perché un’esistenza in quello stato il suo animo non riusciva a tollerarlo. Egli era sempre stato di spirito forte, qualità che aveva avuto il suo peso nell’indurre l’armatore Morrel ad assegnargli il Faraon, ma quel tradimento da parte della giustizia lo aveva distrutto nel profondo del cuore. Voleva morire Edmond, perché una vita condotta nel buio non era vita; perché una vita senza Mercedes non aveva senso. Tuttavia, quel buio gli impediva allo stesso tempo anche di morire, almeno finchè non gli veniva consegnata la candela il mese successivo. Aveva, dunque, il privilegio di conoscer la data della sua morte: 14 ottobre 1815. Durante quei 30 giorni, Edmond non fece altro che starsene seduto sempre nel medesimo angolo, tranne in quell’unica volta al giorno in cui una guardia si ricordava della sua esistenza e veniva a portargli una schifosa brodaglia, fatta con acqua e pane tritato che il giovane consumava nel lieve bagliore che arrivava nella stanza attraverso la finestrella della porta. Venne finalmente il trentesimo giorno e, come da regolamento, insieme al pasto gli venne consegnata una candela. Edmond non si curò minimamente del pasto, ma prese subito la candela e si mise ad osservare per la prima volta la sua cella. Essa era una piccola stanza, costituita interamente da blocchetti di pietra squadrati, incastrati uno accanto all’altro. Non gli restava ora che scegliere il modo in cui uccidersi, adesso che i suoi occhi erano tornati ad osservare. Osservando meglio la cella, si accorse che in un angolo era posta una piccola sedia e che due pareti erano unite da un asse di ferro, forse un tempo utilizzato dal macellaio del signore d’If per tenervi appese le varie parti del corpo di animali appena uccisi; esso era abbastanza alto per appendervi una corda per impiccarsi. Edmond non aveva con sé una corda, ma possedeva ancora la sua divisa da capitano che aveva indossato la sera del suo fidanzamento ufficiale con Mercedes e, dunque, al momento dl suo arresto.
“Dio mio, mi hai fatto diventare capitano per farmi impiccare con la divisa!!” esclamò Edmond. Poi,  fece un cappio con la camicia e sistemò il resto del vestito in modo tale da formare una corda che legò all’asse di ferro; dunque sistemò il cappio ad un’ altezza tale che, entrandovi col collo, non avrebbe toccato terra. Infine, pose la sedia sotto l’asse, vi salì sopra e mise la tsta nel cappio. Tutto era pronto. Con la mente che invocava l’immagine di Mercedes e le lacrime che gli scendevano il viso, il capitano Dantès diede un calcio alla sedia e di colpo sentì il cappio stringergli la gola mente era sospeso in aria: era entrato in agonia.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


CAPITOLO 5
Il volto di Edmond stava diventando viola, oramai prossimo alla morte, quando, ad un tratto, l’asse a cui il giovane aveva appeso la sua “fune” e le sue speranze si staccò dal muro, facendo cadere Dantès a terra. Il ragazzo rimase a terra, svenuto, per circa un’ora; poi si ridestò. Riaprendo gli occhi, tuttavia, si accorse che non era accasciato sul pavimento, bensì in una specie di fossa profonda circa mezzo metro. Ancora un po’ intontito, si alzò in piedi e allora tutto fu chiaro: cadendo violentemente per terra, i mattoni su cui era atterrato erano precipitati in quella fossa insieme al suo corpo, poiché essi erano semplicemente appoggiati l’uno accanto all’altro, senza una base sotto. Edmond rimase stupito del fatto che quei massi erano riusciti a sostenere il peso di un uomo che, anche se raramente, vi aveva messo piede sopra. Non riusciva, tuttavia, a capire lo scopo di quella fossa che non conteneva niente. Poi, come un lampo, gli vennero in mente le parole di Orleàk pronunciate poco prima di chiudere il portone: “ il precedente detenuto è scomparso qui dentro e non è stato mai trovato”. Immediatamente, Edmond scese in quella fossa, intento a capire se quello potesse essere l’inizio di un tunnel verso la libertà. Quella speranza, quel lampo di luce nelle tenebre di quell’ultimo mese, avevano fatto avvertire al giovane una sensazione che non avvertiva più da quando era stato arrestato: quella di sentirsi vivo. Cosi, con la candela in mano, esplorò quella fossa e gli vennero le lacrime agli occhi per la gioia quando si accorse che in un lato vi era un’apertura, un tunnel appunto. Subito, Dantès vi si insinuò e iniziò a strisciarvi all’interno rapidamente. La sua gioia aumentò ancor di più quando ad un tratto iniziò a sentire il rumore del mare. Sembrava un miracolo per Edmond, che poco più di un’ora prima si stava uccidendo e ora era felice di vivere e pieno di speranze. La sua felicità, tuttavia, si interruppe quando si accorse che il tunnel era senza uscita. Edmond, comunque, continuò ad avvicinarsi alla fine del tunnel, quando, ad un tratto, la candela illuminò il piede di un uomo, sdraiato supino e immobile. Dantès sentì gelarsi il sangue nelle vene. Era lui la persona scomparsa? Aveva scavato lui quel passaggio? Il giovane si fece forza e si avvicinò al corpo ormai senza vita Lo voltò, ma ormai di quell’uomo non restava che solo lo scheletro vestito con una camicetta e un paio di pantaloni strappati. Accanto allo scheletro, vi era una specie di paletta e un foglio di carta. Edmond lo prese e, facendosi luce, lo lesse: “ Sono l’abate Faria, rinchiuso nella cella numero 34 dal 1795. Ho iniziato a scavare questo tunnel poco dopo il mio arresto con la forza della disperazione e la brama di libertà, ma purtroppo in questo ultimo periodo sento arrivare per me l’ora della morte. Per questo motivo scrivo questa lettera, nella speranza che il povero disgraziato che verrà qui rinchiuso dopo di me mi trovi e cerchi il tesoro di cui solo io conosco il nascondiglio. Un mio avo, di nome Faria anch’egli e anche lui monaco, fu colui che ascoltò l’ultima confessione del signore If. Egli sentiva in cuor suo che il duello che avrebbe disputato il giorno dopo gli sarebbe stato fatale, cosi consegnò al suo confessore la mappa del suo tesoro, credendo, con la sua generosissima offerta alla chiesa, di guadagnarsi il paradiso promesso da Dio. Tuttavia, né il mio avo né alcun suo successore riuscì a trovarlo. Nel 1794 anch’io venni ordinato abate e anch’io venni in possesso della mappa, ma dopo poco più pi un anno lo stesso re francese mi convocò affinché gli consegnassi la mappa, in quanto, secondo lui, quel tesoro apparteneva alla corona di Francia. Io rifiutai, cosi venni rinchiuso qui fin quando non mi fossi deciso a consegnare la mappa. Essa la consegno a voi, chiunque voi siate, pregandovi di versare il 50 % al monastero di Saint Germain di Bourdaux; la restante metà è vostra. Potete trovarla nel taschino della mia camicia. Vi esorto, infine, a continuare a scavare in questa direzione; ci vorranno forse anni per arrivare alla luce, ma la ricompensa sarà grande”. Subito, Edmond mise la mano nella tasca della camicia e trovò un foglio, lo aprì e vide che in effetti vi era scritta una mappa da seguire sull’isola di Montecristo, poco distante dalle coste italiane. Quella lettera e quella mappa potevano essere benissimo il frutto del delirio di un vecchio, ma il rumore del mare non poteva essere falso. Cosi Dantès, rinvigorito e vivo, prese la piccola pale e iniziò a continuare il lavoro interrotto da Faria.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


CAPITOLO 6
Era trascorsa già un’ora da quando Edmond aveva iniziato a scavare verso la sua libertà, eppure il tunnel era avanzato di un centimetro appena. Il ragazzo notò infatti che il lavoro non era affatto facile, in quanto il terreno era abbastanza roccioso e dunque difficile da scavare. Inoltre, c’era un altro fattore avverso: la candela. Essa, infatti, era lunga appena 20 centimetri e dunque si consumava con estrema rapidità, tanto che era già quasi tutta bruciata. Dantès decise, cosi, di tornare in superficie per continuare il lavoro il mese successivo, quando gli sarebbe stata consegnata un’altra candela. Dunque, il ragazzo percorse a ritroso il passaggio ammirando l’opera di quell’abate che gli aveva consegnato un immenso tesoro e tracciato la via per la libertà. Risalito in superficie, rimise i mattoni al loro posto e notò che chiunque non si sarebbe accorto del tunnel per quanto quei mattoni riuscivano a sostenere il peso di un uomo che vi passeggiava. Poi, dopo aver mangiato la brodaglia che non aveva toccato nel pensiero del suicidio, decise di spegnere la candela nonostante di essa ve ne erano ancora un paio di centimetri. Il marinaio, infatti, aveva ben pensato di risparmiare di volta in volta qualche centimetro, in modo da avere dopo alcuni mesi una candela aggiuntiva. Tornato nelle tenebre, si sdraiò supino pensando agli avvenimenti di quel giorno e, per la prima volta dopo un mese, al suo futuro:
“Certo che è stato un vero miracolo questo tunnel, peccato che debba scavare ancora chissà per quanto. Questa dannata candela si consuma  come neve al sole e non penso che mi permetta di lavorare per più di 4 ore per mese. Di questo passo ci vorranno veramente molti anni come ha detto Faria. Chissà la mia Mercedes come starà; sono già 30 giorni che sono stato arrestato..” ma un sonno profondo fermò i pensieri del giovane Edmond che, almeno nei sogni, poteva definirsi libero. Mentre Dantès dormiva nel buio del castello d’If, a Marsiglia Mercedes usci per andare a trovare, come tutti i giorni, il padre di Edmond. Egli, infatti, la sera stessa dell’arresto del marinaio era andato da Villefort a chiedere notizie di suo figlio, ma il procuratore gli aveva risposto freddamente che Edmond era stato arrestato e condotto lontano dalla Francia. Da quel giorno, si era chiuso in casa rifiutando di mangiare, in uno stato di depressione che solo il ritorno di suo figlio poteva rendere reversibile. Ogni pomeriggio, Mercedes andava a fargli visita e lui la aspettava sul balcone, sempre speranzosa di belle notizie che tuttavia non erano mai arrivate. Ma in questo pomeriggio di metà ottobre, il vecchio non si fece trovare al solito posto, bensì nel suo letto. Ormai, infatti, non aveva più le forze ed era prossimo alla morte. Mercedes lo trovò immobile sotto le coperte e subito si precipitò al capezzale del letto per sincerarsi delle sue condizioni, ma il vecchio le disse:
“ Oh Mercedes, non ho ormai più le forze di alzarmi. Sono contento che tu sia qui ora perché devo dirti una cosa importante: non mi rimane più tempo da vivere, ma ho da chiederti qualcosa, forse un sacrificio.”
“ Ditemi, vi prego! Sapete che per me siete come un padre, quindi chiedete ciò che volete che faccia e io ve lo farò” lo interruppe Mercedes.
“ Vorrei che non andaste in sposa a nessuno. Voi siete una stupenda ragazza e per Edmond eravate tutta la sua vita; io non so se egli è vivo o morto, né se tornerà; tuttavia vi chiedo di continuare a rispettare l’amore che egli aveva per voi” e detto questo, il vecchio Dantès spirò. Allora Mercedes piangendo e stringendo il vecchio a sé:
“ Oh padre mio, non è un sacrificio quello che mi chiedete, ma un motivo in più che mi spinge a fare una cosa che già meditavo di fare”.
Il mattino successivo, vi fu il funerale del vecchio Dantès e da quel giorno Mercedes sparì da Marsiglia.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


CAPITOLO 7
Erano trascorsi 20 anni da quando Edmond aveva scoperto il tunnel di Faria; una folta barba ricopriva il suo viso, mentre i capelli gli giungevano fino a metà della sua altezza. Da 20 anni, Dantès scavava 4 ore al mese verso la sua libertà, rincuorato dal rumore delle onde del mare che giungeva sempre più vicino.
 Era la metà del mese di marzo 1835 e come ogni mese la solita guardia veniva a consegnare una candela al marinaio, invecchiato nel corpo ma non nella spirito. Non era di certo il misero cibo che gli veniva dato che lo aveva mantenuto in vita in tutti quegli anni, perché un uomo per vivere ha bisogno soprattutto di pensare, progettare, programmare il proprio futuro e tutto questo il castello d’If non poteva di certo offrirglielo in quanto concepito per distruggere una persona dall’interno. Tutte le persone rinchiuse li dentro desideravano la ghigliottina che avevano visto in azione tante volte nelle piazze delle loro città e che avevano considerato la punizione più orribile che potesse essere inflitta ad un uomo; tutti loro si erano dovuti ricredere dopo solo pochi giorni di permanenza al castello d’If, constatando che esisteva un altro tipo di morte, assai peggiore di quella fisica: quella dello spirito. Infatti, dopo un colpo di ghigliottina cessava ogni tipo di sofferenza; la distruzione dell’anima era invece una sofferenza che cresceva giorno dopo giorno, un dolore che divorava il cuore pezzo dopo pezzo e che portava alla morte tramite la tortuosa via della disperazione. Il nostro Edmond era riuscito a sopravvivere grazie all’unica cura che esisteva per questo lento abbandono: la speranza. Quel tunnel iniziato a scavare da Faria lo aveva preservato da quella terribile sofferenza o quanto meno la aveva lenita dandogli la forza di andare avanti.
Ricevuta la sua candela, subito Edmond scese nel tunnel e si mise a lavoro con la sua piccola pala, ma dopo poco si accorse che la terra veniva via con estrema facilità in quanto era assai bagnata. Il marinaio giustificò il fatto pensando che aveva piovuto da poco, ma ad un tratto iniziò a penetrare molta acqua dalla direzione verso cui scavava. A quel punto, Dantès iniziò a scavare rapidamente e con grande forza, spostando una grande quantità di terra nonostante fosse appesantita dall’acqua, finchè ad un tratto successe qualcosa che aspettava da 20 lunghi anni: una forte luce lo accecò e un getto d’acqua gli bagnò il viso. Parandosi un poco il viso con la mano, Edmond vide ciò che attendeva da quasi duecentomila ore: la luce del sole luccicare sul mare le cui onde si infrangevano proprio dove il tunnel giungeva a finalmente a termine: era l’immagine della sua libertà.

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


CAPITOLO 8
Sorrideva Edmond alla vista di quel paradiso, sognato nell’isolamento della sua cella. Come una donna, la libertà si era fatta desiderare e corteggiare, a volte addirittura implorare; ed ora, finalmente, essa si faceva ammirare in tutta la sua bellezza, il cui eco lo si poteva udire nell’infrangersi delle onde sulle coste del castello d’If e nel grido dei gabbiani. Ora, Dantès non doveva far altro che cogliere la rosa di quella splendida donna, facendola sua per sempre; cosi, spinse il suo sguardo nell’orizzonte e si accorse che una delle piccole isole disabitate intorno al castello era distante soltanto una lega all’incirca. Edmond non aveva i mezzi per costruirsi una piccola zattera, dunque poteva fuggire solo a nuoto e, comunque, di notte per evitare di essere avvistato dalle vedette che, dall’alto del castello, controllavano tutto lo specchio d’acqua intorno all’isola. Siccome, confidando nell’assoluta sicurezza delle celle, mai nessuna guardia controllava i prigionieri, Edmond decise di attendere la notte direttamente li, all’aria aperta e alla luce, piuttosto che nel buio della sua prigione, che per troppo tempo lo aveva isolato dal mondo e dalla vita; ma adesso era tempo di porre fine a quell’ingiusta prigionia e far luce sul suo perché, apparentemente illogico, ma che presto si sarebbe rivelato addirittura disgustoso.
Giunse finalmente la sera e il mare non era mosso. Molto lentamente, Edmond si immerse nelle fredde acque primaverili e iniziò a nuotare nell’oscurità verso l’isolotto. Il marinaio, tuttavia, dopo aver nuotato per diverse bracciate, venne colto da una forte stanchezza dovuta a 20 anni di inattività; provò ad insistere nella nuotata, ma si dovette arrendere a un riposo forzato per evitare uno svenimento e, quindi, l’annegamento. Per tutta la notte, Dantès nuotò lentamente dando fondo a tutte le sue forze e, finalmente, all’alba toccò terra. Dopo aver avanzato per alcuni passi, Edmond si accasciò a terra senza forze, sussurrando “ Sono libero”. Nello stremo delle sue forze, tuttavia, il nostro marinaio non si era accorto che l’isola non era deserta come credeva…

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


CAPITOLO 9 Il sole era alto nel cielo e con i suoi raggi illuminava il marinaio steso a terra, come se anch’esso volesse partecipare alla gioia di colui che non vedeva la sua luce da vent’anni. Riscaldato da quel calore, Edmond pian piano si ridestò dal sonno in cui era caduto; lentamente si alzò in piedi e vide il castello d’If ormai distante una lega da lui. Una grande felicità riempì il suo cuore e si stava per voltare per esprimere tutta quella gioia con una corsa a perdi fiato, urlando contro il cielo “libero!!”; questo stava per fare il nostro marinaio appena tornato a respirare l’aria del mare, ma dovette mettere da parte la gioia per far posto allo spavento quando una voce da dietro gli domandò “ Chi siete?”. Fu un fulmine a ciel sereno per Edmond, che credeva quell’isola disabitata, come tutti a Marsiglia d’altra parte. Si voltò lentamente e si trovò dinanzi un uomo della sua stessa altezza, con capelli lunghi neri e ricci, media corporatura, barba leggermente incolta, di accento italiano. “Fino ad ora e per 20 anni mi chiamavo “numero 34”, ma da adesso torno a chiamarmi Edmond Dantès”. E quel tale, accennando ad un sorriso, disse: “ Oh, bè, ci avrei scommesso! Coi vestiti strappati e il castello d’If a una lega da qui non potevate che essere un evaso, e anche molto intelligente per esservi riuscito, in quanto mai nessuno di quei disgraziati li rinchiusi ha più rivisto la luce del sole. Dunque non spaventatevi, Dantès, perché trovate in me un vostro simile, in quanto mi chiamo Luigi Vampa, contrabbandiere e ladro. Ma venite ad unirvi alla mia ciurma, avrete di sicuro fame”. Edmond, a quel punto, non poteva rifiutare poiché la sua saggezza gli suggeriva di non contraddire un uomo che aveva con sé un lungo coltello e una carabina, e poi, aveva fame davvero; dunque rispose: “Ben volentieri, amico mio. Conducetemi al vostro accampamento” e i due si avviarono verso l’interno dell’isolotto, nella fitta vegetazione, sino ad arrivare in una radura dove circa 7 uomini erano disposti circolarmente intorno a un fuoco. Uno di loro, vedendo arrivare Edmond e Vampa, disse: “Capo, abbiamo visite quest’oggi?” e Vampa giungendo presso di lui: “Ebbene si, amici miei. Quest’uomo è un nostro compare, appena evaso dal castello d’If. Offritegli dunque un bel pezzo di pollo e del vino poiché è affamato” e Dantès, sedutosi presso il fuoco con gli altri, iniziò a mangiare e a raccontare la sua storia. Era la prima volta, dopo vent’anni, che il marinaio parlava con qualcuno, che provava il piacere della conversazione, dello scambio d’idee e la curiosità derivante dai racconti delle imprese avventurose quanto illegali, che ogni commensale a sua volta narrava. Edmond si sentiva a proprio agio tra quelle persone che, sebbene fossero contrabbandieri, ladri e assassini, lo trattavano con quel profondo rispetto che quegli uomini di mondo portavano verso i propri compari e verso chi aveva avuto la sventura di finire in carcere, per qualunque motivo fosse; tuttavia, nonostante ciò, Dantès saggiamente tacque riguardo il tesoro di Faria. Alla fine del pasto, Vampa prese la parola rivolgendosi ad Edmond: “Amico mio, dai vostri racconti mi sembrate una persona alquanto utile nella nostra ciurma, in quanto abbiamo un grande bisogno di un ottimo marinaio per i nostri traffici e, in generale, di un uomo intelligente e furbo come voi. Vi chiedo, dunque, di unirvi a noi, anche perché, ora che avete scoperto il nostro nascondiglio, non potrei lasciarvi andare senza uccidervi”. Edmond, pensò bene che la ciurma di Vampa lo avrebbe protetto dalle ricerche dei gendarmi che sarebbero seguite alla scoperta della sua evasione, cosi rispose: “ Accetto molto volentieri, signor Vampa”. “Ebbene sia”, rispose il capo, “partirete fra poco con noi verso Livorno, dove stanotte dobbiamo sbrigare un affare”. Cosi, dopo aver spento il fuoco, la ciurma scese verso il mare per il sentiero opposto rispetto a quello percorso da Dantès e Vampa e si imbarcò su un’imbarcazione di medie dimensioni. Proprio mentre la nave prendeva il largo, da una torre del castello d’If veniva emesso del fumo nero, a segnalare che un prigionieri era evaso; nel caso del castello, per la prima volta.

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


CAPITOLO 10
La nave viaggiava verso sud-est mentre Edmond, posizionato a poppa, vedeva il castello d’If allontanarsi gradualmente. A quella vista, non potè che provare immenso piacere ammirando come il suo passato svaniva pian piano all’orizzonte come un brutto sogno, ora che Dio gli aveva concesso una nuova vita. Tuttavia, gli bastò volgere lo sguardo verso nord, verso un piccolo puntino luminoso, che un sentimento di dolore venne a guastargli quell’immensa gioia. Quella luce in lontananza era la sua Marsiglia e, rivedendola, seppur da lontano, la sua mente si rivolse alla sua Mercedes e a suo padre di cui ignorava la morte. “Oh Mercedes, resisti per un altro po’, io sono libero! Tra qualche tempo tornerò a Marsiglia e fuggiremo lontano lontano, dopo aver fatto luce sul mio arresto e punito chi ci ha divisi per tutti questi anni” pensò tra se Dantès che, pensando a quelle squallide persone che lo avevano incastrato e di cui ignorava l’identità, stava inconsciamente stringendo violentemente tra le mani la linghiera su cui era appoggiato. Oh marinaio quanto altro veleno dovrai ingerire!
“Dantès, venite qui un momento che ho bisogno di voi” esclamò ad un tratto Vampa.
“Eccomi signore, ditemi.” Rispose gentilmente Edmond, ridestatosi da quei profondi pensieri.
“Ho deciso di affidarvi il comando della nave per questo viaggio. Voglio, infatti, mettere alla prova le vostre doti di esperto marinaio che ci avete conferito quest’oggi. Io resterò qui ad osservarvi” e cosi dicendo, gli mostrò gli altri membri dell’equipaggio verso cui gli era appena stato conferito il potere di capitano. Col sorriso sul viso, Edmond si mise al comando di quel bastimento che, grazie agli accorgimenti del suo momentaneo capitano, si ritrovò al largo delle coste livornesi con un’ora d’anticipo.
“A meraviglia, Dantès!”-esclamò Vampa-“sapevo che avrei fatto un affare a condurvi con me! Ora entriamo in cabina, in modo da mangiare qualcosa e concludere l’operazione a pancia piena.”. Dunque, tutti scesero in cabina dove il cuoco della nave, Bertuccio, aveva cucinato del buon pesce; solo un marinaio, incaricato delle vedetta, rimase sul ponte. Il segnale che si attendeva era una luce lampeggiante e quando quello si presentò, la vedetta avvisò Vampa e tutti salirono sul ponte. Dopo pochi minuti, un bastimento si accostò a quello di Vampa, il quale ordinò ai suoi marinai di fare un ponte tra le due navi stendendo due tavole l’uno accanto all’altra. Eseguito il lavoro, lo stesso Vampa con due marinai salirono su quel bastimento che, apparentemente, era come deserto. Dopo alcuni minuti, i tre uomini ricomparvero con due grossi sacchi che si trascinavano dietro e quella nave, dopo aver tolto il ponte, spari nella notte allontanandosi verso sud. Edmond, che aveva assistito curiosamente a quella scena, si avvicinò con gli altri marinai a quei sacchi trasportati nella cabina, i quali furono aperti delicatamente e privati di un poco del suo contenuto per controllarlo: era tabacco. Vampa, vedendo Dantès cosi curioso, si era deciso ad andargli a fornire una spiegazione su quell’operazione, ma il marinaio lo anticipò dicendogli:
“ Bene bene, capitano! Questo tabacco venduto in Italia in nero vi frutterà almeno centomila franchi”.
“Vedo che ve ne intendete, Dantès! Un nostro uomo che lavora alla dogana ci permetterà come sempre di sbarcare a Livorno evitando quei noiosi controlli. In questo mondo bisogna saperci fare se si vuole campare, Dantès” gli rispose Vampa, sempre più colpito da quell’evaso che ben sapeva il fatto suo. Terminato il controllo, la nave riparti verso Livorno dove, come aveva detto il capo, non vennero fatti i controlli doganali. Ad attendere la ciurma e il suo prezioso carico vi erano due carrozze, che trasportarono quegli uomini in una vecchia casa nella campagna livornese. Il mattino seguente, alcuni di quei tali si divisero tra loro il tabacco, uscirono e tornarono a sera con centodiecimila franchi, che vennero posti su di un tavolo presso cui si erano radunate tutte quelle persone, incluso il nostro Edmond; dunque, si alzò Vampa che fece le divisioni del ricavato assegnando ad ogni uomo 500 franchi. Ricevuta la sua paga, Edmond pensò tra sé “Molto bene, ogni operazione mi frutterà circa 500 franchi. Di questo passo, mi basterà partecipare ad altre venti operazioni e avrò il denaro per dare inizio allo spettacolo”.

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