Storie di Veglia

di Dira_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Le Andande, le processioni di morti ***
Capitolo 2: *** La Giöbia, la vecchia strega ***



Capitolo 1
*** Le Andande, le processioni di morti ***


1. LE ANDANDE


 
“Venerdì prossimo quella terribile processione di anime passerà vicino alla tua casa, e torneranno per riprendersi ciò che è loro. Fai bene attenzione ad avere con te un gatto mammone.”
Il venerdì seguente, di sera, la processione si avvicinò alla casa. La donna, col gatto ben stretto, si presentò all’uscio. Le anime, vedendo il gatto, dissero: “Ti va bene che hai il gatto mammone in grembo, sennò ti sistemavamo!”
-Racconto di veglia raccolto a Brucciano, tratto dal libro “Magia e Stregoneria in Garfagnana”, di Oscar Guidi.
 
Ci sono posti in Italia dove halloween è una festa priva di senso. 
Ci sono paesini in cui i vecchi ridono e dicono “Quella festa lì? Ma non si chiama mica così” e raccontano di rape intagliate, ossa fatte di zucchero e processioni notturne di santi e spiriti.
Malacena, borgo della profonda e boscosa provincia di Siena, appartiene alla seconda categoria.  
 
Il fuoco scoppia nel camino; la legna scricchiola sotto l’assalto del calore, lanciando scintille violacee contro il vetro temperato.
Roísín, quindici anni e un’adolescenza che monta come una marea, vorrebbe tirare un calcio al vetro. 
È un gesto stupido, ma la rabbia che le divampa nello stomaco non la rende razionale.
“Ho già detto a Silvia che sarei andata!”
“Mi hanno messo un turno all’ultimo tesoro. Cate non può rimanere da sola.”
“Non può stare con nonno?” 
“Dopo una giornata di lavoro è stanco … Lo devo chiedere a te. Lo posso chiedere a te?” 
Sua madre sembra sempre dia la possibilità di scegliere, ma non è così. C’è una sola strada che si può percorrere quando ti chiede di fare qualcosa … ed è quella dell’assenso.
“Avevo promesso a Silvia che sarei andata alla festa,” ripete Rosi.
Non dovrebbe essere così difficile andarsene da Malacena per una sera. 
E invece.
“Puoi invitare lei e Bia qui, no? State tra di voi e intanto badate a Cate.”
“Bella merda.”
“Fai come vuoi, ma stanotte mi servi qui.”
Sua madre, una volta finito di stendere i panni, la raggiunge sul divano e le passa una mano tra i corti capelli color delle fiamme.
Le stesse che bruciano nel camino. Come brucia quel grumo di sentimenti che Rosi non riesce mai a buttare fuori. Non come vorrebbe. Non definitivamente.
Marina le sorride. “Posso contare su di te?”
“Sì.”
“Grazie tesoro.” 
 
Silvia le ha detto che non fa niente se non verrà alla festa.
Una vera merda.
Una vera merda perché Silvia non ha neanche proposto di stare tra di loro; Rosi lo capisce, a quella festa c’è un ragazzo che piace all’amica, ma questo non la fa sentire meno abbandonata.
Seppellisce il viso nel cuscino mentre fuori una pioggerella fastidiosa schizza i vetri.
Vorrebbe solo dimenticare quell’occasione di socialità mancata, che la renderà ancora più strana agli occhi dei suoi compagni di classe.
Sente un ticchettio alla finestra e ci vuole qualche attimo perché si renda conto che sono dei sassolini lanciati contro il vetro.
In strada c’è una persona coperta da un grosso ombrello nero con due stecche spezzate. Rosi sorride perché la riconosce. “Ehi Nero, ma mandarmi un messaggino no?”
L’ombrello si inclina e mostra il volto pallido di Tobia Neri, il nipote del custode del cimitero e suo migliore amico. 
“Posso entrare?”
“La strada la conosci!”
 
Tobia si toglie le scarpe rimanendo in calzini, che fanno un rumore umidiccio mentre percorre la distanza dalla porta al letto. Si siede in punta di materasso. “Se non vai alla festa, non vado neanche io,” dichiara.
“Dai, non fare il misantropo…”
“Ma io sono misantropo,” e le rivolge uno dei suoi rari sorrisi, obliqui come un quarto di luna. 
Sono i più belli che Rosi abbia mai visto.
Non che glielo possa dire; ci sono cose, durante l’adolescenza, che non vanno dette perché il fraintendimento è dietro l’angolo. Lei e Tobia Neri sono migliori amici. E in quella parola c’è di più di un semplice legame dato dall’aver vissuto tutta la vita nello stesso paese. 
Lei e Tobia sono nati di Domenica. Come dicono i vecchi, sentono crescere l’erba …
“Ho un programma,” la distrae il ragazzo. “Maratona di horror, schifezze e usciamo quando arriva la mezzanotte. Questa è la notte di confine. Sarà divertente.”
“Non è permesso!” 
“Vuoi davvero perderti la processione?”
Rosi esita. Quella sera avrebbe dovuto scegliere la normalità: una festa di coetanei, qualche bicchiere di troppo, brutta musica …  Invece resterà a Malacena. 
Quindi, alla fine non sarebbe manco colpa sua.
“Se Cate si addormenta per tempo…” 
 
Per Caterina quella è una serata di puro sgarro senza freni. Si rimpinza di pizza surgelata e caramelle e guarda con occhi voraci una serie di horror che avrebbero fatto venire gli incubi ad una Rosi della stessa età.
Alla fine si addormenta stremata sul divano, la bocca sporca di zucchero e le manine appiccicose.
“Con tutto quello zucchero pensavo avrebbe tirato avanti fino all’alba…” borbotta Rosi spegnendo la televisione sui titoli di coda dell’ultimo film. Il salotto viene avvolto dalla luce rossastra del camino che sta andando a pieno regime.
“È quasi mezzanotte,” dice Tobia ed ha gli occhi accesi da una luce febbrile.
Il giorno in cui morti sono all’uscio.
Rosi intreccia le dita a quelle magre - e un po’ appiccicose di caramelle - dell’altro. “Vengo con te,” mormora. “Se mi prometti che non è tuo padre che cerchiamo.”
“Non credo sarà nella processione. C’è solo gente cattiva dentro.” 
“Ci sono anche quelli che hanno affari incompiuti.”
“Babbo non ne aveva.”
Ha te, pensa Rosi, ma non lo dice.
“Va bene, andiamo…” risponde invece alzandosi in piedi.  
 
Percorrono il paese silenzioso, grati che la pioggia abbia smesso di cadere ore prima. La nebbia che viene dal bosco li immerge in un’atmosfera lattiginosa.
Camminano rasente le mura che cingono il paese, sfiorandole con le dita gelate per non perdere la via, perché più salgono, più la nebbia si fa fitta. 
Arrivano alla porta di ovest: la processione entrerà da lì e percorrerà tutto il paese per uscire dalla porta sud.
“Togliamoci di mezzo, non ci devono vedere,” dice Rosi all’amico trascinandolo dietro una casa. Stanno per assistere ad un’andanda; la processione di fantasmi che una volta all’anno può bucare il velo tra il mondo dei vivi e quello dei morti. 
“Perchè sei così nervosa? Non ci siamo mai messi in pericolo.”
“Dovrei stare a casa con Cate.”
“Caterina dorme. È al sicuro.” 
Rosi non risponde, ma pensa che quella è l’unica notte in cui non si è sicuri di niente.
 
Dal bosco, buio come la pece, arrivano i primi bagliori.  
E poi le forme sfilacciate e traslucide di donne e uomini … persino qualche bambino. Il viso è nascosto da cappucci candidi e hanno in mano torce che sono fatte di pura luce. 
Nonostante l’apparente candore quei fantasmi fanno parte del turbolento passato di Malacena. Tra di loro ci sono morti ammazzati, suicidi, ma anche vittime della guerra. 
Non sono spiriti benevoli e non devono incrociare il tuo sguardo. Altrimenti,  sei perduto.
“Seguiamoli…” le mormora Tobia all’orecchio. 
Le finestre sopra le loro teste hanno gli scuri chiusi, ma in molte arde una luce. I compaesani intagliano una zucca, vi pongono una candela e la mettono alla finestra. La chiamano morte  secca.
Usano quel lume per salutare i morti, ma al tempo stesso ricordargli le regole: i vivi in casa, i morti all’uscio.
 
La processione arriva in piazza e la fila, prima compatta, si divide di colpo.  
Non dovrebbe dividersi.
Prima che Rosi possa chiedersi cosa stia succedendo, il cuore le sprofonda nello stomaco.
È per Caterina.
La sorellina è uscita. È sulla soglia di casa, incongrua nel suo pigiama rosso con gli orsetti e i piedi nudi.
Tu non eri lì ad impedirglielo, urla una voce dentro la testa di Rosi, non eri lì a evitare che si svegliasse e non trovasse nessuno.
La processione ha visto Caterina. Come un serpe devia verso la bambina. 
“Cate! Entra in casa!” urla e Tobia corre con lei, ma sono troppo distanti.
Cate, sentendo la voce della sorella intuisce che ha fatto una cosa sbagliata. Si spaventa e fa per obbedirle, ma l’andanda la circonda, chiudendosi attorno a lei.
“Cate!” urla Rosi disperata. “Lasciatela stare! ” grida inutilmente perché le anime sono sorde alla voce dei vivi.  
E poi un miagolio. 
Una serie di miagolii acuti riempiono la Piazza. Rosi non vede i gatti, ma nota delle ombre. Piccoli corpi saettano da tetto a tetto. Sono i gatti del paese, e sono tanti.
E l’andanda si ritira, come una grande mano che lascia la presa … e Cate è di nuovo visibile.
Le anime riprendono la loro processione e lasciano la piazza.
I miagolii cessano.
Rosi corre verso Caterina e la prende in braccio, sentendola fredda come il marmo. La bambina piagnucola e le stringe le braccia al collo, ma è viva e presto riprenderà calore. 
Tobia guarda verso i tetti. “Gatti mammoni,” mormora con un sorriso. “Che scemo, non ci avevo pensato. L’unico modo che hai per non farti prendere dall’andanda è avere un gatto mammone con te.”
“... sono stati i gatti?”
Tobia si stringe nelle spalle “ Nonno li chiama i custodi del paese. Forse non si limitano a custodire le case dai topi” Fa una pausa meditabonda. “Dovreste prendervi un gatto.”
“Non ci piacciono gli animali per casa.” 
“Mi sa che non avete scelta,” osserva Tobia indicando qualcosa che trotterella verso di loro bucando la nebbia. Un micetto caraccola fino ai loro piedi e poi si acciambella sullo zerbino. Come tutti gli altri gatti del è tigrato, con una vistosa “m” sulla testolina spelacchiata.
Caterina si rianima di colpo, divincolandosi come un furetto. “Micino!” cinguetta. “Bel micino!”
Tobia lo solleva con delicatezza e il gattino comincia a fare le fusa sotto le carezze della bambina. Rosi sospira: è un dono dal paese, non può opporsi. 
“La prossima volta lo portiamo con noi,” commenta divertito Tobia. “Per allora sarà abbastanza grande, no?” 
Rosi vorrebbe ribattere che non ci sarà una prossima volta, ma sa che non è vero, per chi danza in bilico tra la normalità e l’altrove.
Non nella notte di halloween.
 
***

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Capitolo 2
*** La Giöbia, la vecchia strega ***


La Giöbia.

 
Le stazioni dei treni sono non luoghi.
Non sono progettate per essere abitate; sono passaggi che ti portano da un luogo di partenza ad uno di arrivo. La stazione di Busto Arstizio non fa eccezione, deve servire ad uno scopo, non deve essere accogliente.
Soprattutto, non lo è quando cala il sole nell'ultimo, freddissimo giovedì di Gennaio.
“Il treno sta partendo!”
Passi concitati, lanciati in una corsa sfrenata mentre il fiato corto si materializza in una nube di condensa.
Chiara ha tredici anni e gli adulti la considerano una giovane donna coscienziosa, ma a lei sembra soltanto di essere costantemente fuori posto. Di certo lo è in quel momento, mentre tenta disperatamente di prendere un treno che partirà anche senza di lei.
“Dai, dai, dai!”
La schiena di suo fratello Riccardo le fa da bussola, mentre attraversano correndo Piazza Volontari della Libertà.
“Non ce la facciamo!” grida il comune amico Leandro con il fiatone di chi sta per arrendersi. “Lasciamo perdere!”
“Ce la facciamo se non rallenti!” lo incalza la ragazzina. “Ilyas è quasi arrivato, terrà le porte aperte!”
Devono prendere quel treno. È l’ultimo per il paese.
Chiara ha ancora nelle narici l’odore delle fiaccole e negli occhi lo spettacolo della giöbia data alle fiamme. Non vuole rimanere a Busto. Non quella notte.
 
“Quello stronzo di capotreno mi ha chiuso le porte in faccia!”
Ilyas si passa una mano tra i dreadlocks, scoccando agli amici uno sguardo di scuse. Sono arrivati alla banchina solo per vedere l’ultimo vagone allontanarsi nella leggera nebbia serale.
Riccardo impreca e rivolge il medio ai fanali di coda del treno.
“Quindi siamo bloccati qui,” borbotta Leandro. Si stringe nel cappotto scuro e aggiunge incattivito: “Ve l’avevo detto che non dovevamo fare tardi.”
“Io volevo il risotto!” protesta Riccardo. “C’era fila, che facevo?”
“Non mangiavi.”
“Ma anche no!”
“Smettetela,” li interrompe Chiara. La banchina è deserta, gli ultimi passeggeri sono scesi e l’illuminazione giallastra e artificiale illumina i volti ancora congestionati dalla corsa. “Abbiamo deciso tutti di rimanere. Non è colpa del Ricky. Ora troviamo una soluzione.”
“Secondo voi ci sono ancora gli autobus?” domanda Ilyas avvicinandosi al tabellone degli orari. “Perché il prossimo treno è alle sei.”
“Non passo la notte in stazione!" esclama Leandro. “Papà ha detto che è piena di tossici. E domani abbiamo scuola!”
Non è quello il punto.
Chiara inspira e guarda il fratello. Quando incrocia il suo sguardo questo le rivolge un’espressione interrogativa.
No, realizza Chiara, non ricorda la storia che nonno raccontava sulla giöbia.
La giöbia è bruciata nel falò più grande di Busto ore prima eppure Chiara ha ancora negli occhi il fantoccio… e la sua espressione vitrea mentre viene divorato dalle fiamme.
Sopra le loro teste i neon della stazione sfarfallano e Chiara sobbalza. “Non resteremo qui,” dice risoluta. “Chiamo il Giova e gli chiedo di venirci a prendere con la macchina.”
“No!” sbotta Riccardo. “Facciamo da soli!”
“Non possiamo, l’ultimo bus per il paese è già passato. Non gli diciamo che abbiamo fatto tardi per colpa tua, tranquillo.”
“Figurati se basta,” Riccardo fa una smorfia ma Ilyas lo distrae dal malumore coinvolgendolo in un’improvvisata partita di calcio con una lattina. Leandro invece si siede imbronciato su una panchina.
Chiara chiama. Dopo qualche momento però allontana il display dall’orecchio e sgrana gli occhi. “Non ho campo.”
“Chiama dal mio,” offre Ilyas sfilando il cellulare dalla tasca della tuta. Poi esita. “... o forse no. Niente rete.”
Leandro non offre il suo ma controlla e poi schiocca le labbra. “Che sta succedendo?”
Riccardo si stringe nelle spalle perché lui il telefono l’ha dimenticato a casa. “Spegni e riaccendi?”
“L’ho fatto, non funziona,” dice Chiara. Cerca di rimanere razionale, c’è una spiegazione e lei si è semplicemente suggestionata. Ovvio. Quindi si morde una pellicina del pollice e proclama: “Usciamo. Fuori prenderà.”
 
Fuori i cellulari non prendono.
E non è la cosa peggiore: fuori dalla stazione non c’è nessuno.
I lampioni illuminano la piazza vuota di una luce fredda e distante. Sembra il cuore della notte e non sono neppure passate le undici.
“Che si fa?” domanda Ilyas. Gli occhi scuri dardeggiano da un lato all’altro della piazza, come se cercassero qualcosa senza trovarlo.
Le persone. Le auto. I rumori. Dove sono?
Anche l’odore di legna nelle narici di Chiara è scomparso e questo spaventa la ragazzina più del silenzio. L’assenza di odori, completa e spiazzante.
“Torniamo in centro e cerchiamo un taxi, lo pago io,” propone Leandro.
“I taxi dovrebbero fermare anche in stazione…”
“Tu li vedi? Io no. Andiamo.”
Chiara manda comunque un messaggio al fratello maggiore, sperando che prima o poi venga recapitato. Poi intasca il cellulare e segue gli amici per le strade deserte.
 
Qualcosa li sta seguendo.
Stanno svoltando via Mameli e un’ombra alta e ricurva e scivola liquida e densa tra le decorazioni dei palazzi, inseguendoli. Il cuore di Chiara batte all’impazzata. È solo suggestione, ripete, solo quello. La storia del nonno non è vera.
“Dove sono finiti tutti?” domanda Ilyas dando voce al pensiero comune.
“Saranno tornati a casa.” Riccardo si stringe nelle spalle, continuando a tirare calci alla lattina che si è portato dalla stazione.
Inconsciamente accelerano il passo, perché pur senza parlarsi cercano tutti la stessa cosa: un segno che non c’è niente di anormale… ma il freddo è più pungente, gli odori e i suoni sono assenti. Ilyas impreca quando dopo l’ennesimo incrocio non trovano nessuno. La città sembra il mondo di un videogioco in cui hanno dimenticato di mettere le persone.
“La vedete anche voi?” mormora Leandro e non ha il solito tono antipatico. È spaventato. “La vedete l’ombra?”
Chiara a quel punto non può più fingere, si volta e la guarda, stavolta sul serio: mani ricurve come uncini, le gambe scheletriche lunghissime e storte in angoli innaturali. È aggrappata al cornicione di un palazzo come un grosso ragno fatto di ombre liquide … ma in tutto quel nero, spicca come un pugno il rosso sangue delle sue calze.
La giöbia, realizza Chiara terrorizzata, è la giöbia. Non hanno bruciato quella giusta.
 
“In piazza bruciano un fantoccio, nani, non quella vera. Bruciano quella sbagliata.
Spera di non incontrarla mai, o ti mangerà in un solo boccone.”
 
“Correte!” grida. Strattona Riccardo tirandoselo dietro e viene tallonata da Leandro. Ilyas li ha superati ma si volta e li incita.
Sono tutti in preda al terrore. L’ombra è veloce solo come può essere qualcosa di incorporeo.
La giöbia che mangia i bambini e può essere sconfitta solo con il fuoco. Qualcosa che non dovrebbe essere vero, ma che invece lo è perché li sta inseguendo.
Il fuoco.
Chiara sa che l’ombra li raggiungerà. È così che funziona nelle fiabe, ma sa che c’è anche una soluzione all’apparente ineluttabile. Fruga nella borsa, che ha preso alla madre, consapevole che vi troverà due cose: una confezione di lacca per capelli da viaggio e un accendino, perché la mamma vuole sempre avere i capelli in ordine e fuma come una ciminiera.
Chiara si volta, chiude gli occhi e fa valere la chimica: lacca per capelli di fronte ad una fiamma viva.
Un urlo le spacca un timpano. È la giöbia, ha avuto paura del suo lanciafiamme improvvisato.
Solo il fuoco la uccide.
“Chiara!”
Non si guarda indietro, le gambe le bruciano per lo sforzo mentre segue la voce degli amici. Una serie di svolte che sembra infinita e precipitano di nuovo in Piazzale dei Volontari.
È come emergere da sotto la superficie dell’acqua e la cacofonia di suoni è quasi assordante: auto che passano, un capannello di ragazzi che ciondola fuori dalla stazione, il lontano rumore di musica proveniente da un locale …
La macchina del Giova è parcheggiata nel posto disabili e vi si dirigono a passo veloce.
“Dove eravate finiti? Muovete il culo, non ho tutta la notte!” li apostrofa il ragazzo sporgendo la testa dal finestrino.
Riccardo e gli altri si stringono nei sedili dietro e Chiara si siede in quello davanti.
Che è successo?
Si è suggestionata, ecco cosa. Le ombre della sera, una città che si è svuotata dopo un evento importante…
Chiara guarda nello specchietto retrovisore, ma i tre compagni sembrano tranquilli: Ilyas si è tuffato nel suo telefono, ora funzionante, per seguire una partita di basket, Riccardo sbadiglia e si infila gli auricolari per ascoltare la musica. Quando però la ragazzina incrocia lo sguardo di Leandro, l’amico lo distoglie per incollarlo al finestrino. Si stringe nel cappotto ma non dice niente.
“Allora com’era il falò?” domanda il Giova. Dalla radio risuonano le note di Light my Fire dei Doors.
Chiara rabbridividisce. “Abbiamo fatto troppo tardi.”
***

Questo racconto, anche se con un titolo diverso, ha vinto il primo premio "Pagine Folk 2022" del festival Busto Folk- Festival Interceltico, con il tema "The fire - il fuoco".
Per maggiori informazioni sulla giöbia, qui.
I personaggi di questa storia non appartengono al ciclo di Malacena, ma sono i personaggi di, spero, un futuro racconto che scriverò, ambientato dalle parti che frequento abitualmente da quando mi sono trasferita a Milano. Qualcuno potrebbe dire: "ma che c'è di creepy nella Monza-Brianza moderna?"
Beh, fidatevi. Magari non ci sono boschi a perdita d'occhio e sentieri abbandonati ... ma anche il cemento può fare paura e il folklore spaventoso non muore mai. Esistono infinite porte per mondi altri ... e ogni tanto ci cadi dentro. ;)
 

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