Quando viene dicembre

di Glicemia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'ora dell'addio ***
Capitolo 2: *** Canto di Natale ***
Capitolo 3: *** L'ultimo Natale ***



Capitolo 1
*** L'ora dell'addio ***


L’ora dell’addio

 “Sono le scelte che facciamo che dimostrano quel che siamo veramente, molto più delle nostre capacità.” – J.K. ROWLING

Vigilia di Natale 1972

Persino le donne dal carattere forte e dalle lingue taglienti, se di stirpe purosangue, erano destinate a diventare remissive e obbedienti una volta sposate con uomini dal sangue altrettanto puro. Era ciò che ci si aspettava da una brava moglie in certi tipi di famiglie: che dimenticasse di avere sogni o opinioni e si mettesse a completa disposizione del marito.

Tuttavia, non era il caso della nuova signora Lestrange, che anche con l’anello al dito e il nuovo cognome non pareva affatto essere stata domata. Guardando Rodolphus pareva che per lui andasse più che bene, probabilmente per un uomo del genere una donna psicopatica come Bella al suo fianco era un sogno diventato realtà.

Erano due anime affini, parlavano delle Arti Oscure con la stessa profonda passione, con lo stesso inquietante luccichio negli occhi e non perdevano occasione per parlare male di chiunque non avesse il sangue puro e di chi ce lo aveva, ma si abbassava a mescolarsi con chiunque.

«Persino quei traditori dei Weasley predicano la tolleranza, ma sposano solo purosangue» rifletteva Drusilla Black, sua madre «Anche se il solo atto di incoraggiare le unioni tra purosangue e sanguesporco è assolutamente da condannare»

A quelle parole Andromeda portò in un gesto automatico la mano sul ventre. Le capitava spesso, da quando aveva scoperto di essere incinta. Mai come prima di allora si sentì tanto disgustata dai discorsi dei commensali.

Com’era possibile ostentare tutto quell’odio, a Natale per giunta? E come mai era ancora lì, in mezzo a quella gente che detestava?

L’incrocio con le uniche iridi azzurre tra quelle dei presenti, le ricordò perché continuava con quella farsa. Narcissa, l’unica persona in quella stupida famiglia a cui teneva davvero, per cui si era sempre preoccupata.

Se Bellatrix era crudele e Andromeda mansueta, Narcissa era stata a lungo molto timorosa e incapace di difendersi con le proprie forze. Una bambina purosangue non poteva permettersi di avere sempre paura, di piangere spesso e di non saper affrontare a testa alta gli attacchi, specialmente se come sorella maggiore aveva Bellatrix Black. Era stata la sorella di mezzo a proteggere Cissy per tutta la loro infanzia e le aveva anche insegnato come fronteggiare le sfide della vita. Cercava di essere sempre di supporto alla minore delle sorelle Black, nonostante fosse oramai più che capace di badare a se stessa, ma soprattutto le voleva bene e rimandava da tempo la fuga da quella casa e da quella vita perché sapeva bene che significava dire per sempre addio anche a Cissy.

Ted era stato schietto e l’aveva messa di fronte alla realtà: ognuno è responsabile per la propria vita e c’è sempre almeno un’alternativa, per cui, troncando i rapporti con lei, Narcissa avrebbe comunque fatto una scelta.

Andromeda, tuttavia, sapeva che non era facile uscire dagli schemi che da tutta la vita propinavano in famiglia, non era facile fuggire da un modo di vivere e di pensare a cui si veniva abituati sin dal primissimo vagito. Una come sua sorella minore non avrebbe mai avuto tanto coraggio da permettersi di pensarla diversamente dalla famiglia e infatti era ormai diventata una Black perfetta.

Lei, invece, aveva avuto in progetto di diventare la signora Tonks il 30 dicembre del 1973, a tre anni esatti dall’inizio della sua relazione segreta e di conseguenza spogliarsi per sempre dalle vesti di una Black, lasciandosi quella famiglia alle spalle.

Ma la vita aveva altri piani per lei, voleva proprio metterle fretta. Infatti, a giugno sarebbe diventata mamma, presto le sue condizioni sarebbero state evidenti e così lei e Ted avevano deciso di sposarsi con un anno di anticipo.

Dunque, non era solo la Vigilia di Natale, ma anche il suo ultimo giorno tra quelle mura, in mezzo a quelle persone. L’anno seguente sarebbe stata insieme a Ted e alla loro piccola creatura che già amavano entrambi immensamente.

Presto gli ospiti andarono via, Cygnus e Drusilla si addormentarono e nella casa regnò un assoluto silenzio.

Andromeda fece fluttuare il suo bagaglio e camminò a passo felpato, raggiungendo l’altra persona sveglia in casa, sdraiata sotto l’abete addobbato a fissare le lucine, rispettando una loro segretissima tradizione.

Si stese al suo fianco, ammirando lo spettacolo di luci e colori che era visibile da quella prospettiva, sentendosi un po’ malinconica al pensiero che quella sarebbe stata l’ultima volta che avrebbero onorato quel rito, iniziato quando erano solo bambine. Nessuno aveva mai scoperto che passavano lì tutta la notte tra il 24 e il 25 dicembre ogni anno, finché le tenebre rendevano piacevole lo spettacolo. Nemmeno Bella le aveva mai scoperte e forse per questo trovava ogni volta così speciale quel momento: era tutto per loro.

«Sei scesa più tardi del solito» notò la più piccola in un sussurro.

«Avevo delle cose da sistemare»

«Non potevi farlo domani?»

«Cissy…» sospirò, caricando in quel bisbiglio tutta la malinconia che provava nel doverle dire addio «Domani è troppo tardi»

Narcissa si spostò su un fianco, verso di lei, così da poterla osservare.

«Pensavo che alla fine non l’avresti fatto» confessò sua sorella «Ero certa che non ce l’avresti fatta ad abbandonarmi»

«Non ti sto abbandonando» replicò scontrosa Andromeda «Potremmo continuare a vederci, anche di nascosto se proprio ci tieni a non farti diseredare»

Narcissa chiuse gli occhi, inspirò profondamente per poi espirare e riaprire le palpebre.

«Rischierei di essere scoperta e non voglio che accada. Io non sono te, non voglio andare contro la famiglia»

«E allora non dire che ti sto abbandonando» precisò seccata la maggiore, cominciando ad alzarsi dalla posizione.

Narcissa la imitò e si ritrovarono faccia a faccia, fissandosi negli occhi e cercando di comunicarsi con lo sguardo ciò che non osavano dire a voce.

Non andare.

Non restare.

Ti voglio bene.

Mi mancherai.

«Immagino che sia ora di dirci addio» suppose la sorella più piccola, con una freddezza che non serviva a nascondere la sua commozione alla sorella. Andromeda, le accarezzò una guancia, rivolgendole un sorriso triste.

«Abbi cura di te, Cissy» le augurò.

L’aria fuori dalla casa era di un freddo pungente e le poche gocce di pioggia che sentiva Andromeda picchiettarle il capo divennero presto copiose. Nel dare un ultimo sguardo alla dimora di famiglia, la giovane donna non sapeva distinguere la pioggia e le lacrime sul suo volto bagnato.

Ebbe l’impressione che avesse cessato di piovere, ma poi si rese conto che qualcuno la stava riparando con un ombrello e quel qualcuno le avvolse la vita in un abbraccio.

«Va tutto bene, Dromeda» le sussurrò Ted all’orecchio, portandola con sé verso l’auto con cui l’aveva raggiunta «Non sei sola, ci sarò sempre io con te, anzi con voi» aggiunse, poggiando la sua mano sul ventre della donna.

Non rimpianse mai quell’addio, quella casa, quella fuga. Non rimpianse tutte le notti in cui era sgattaiolata via in passato per andare da Ted, non rimpianse la creatura che cresceva nel suo grembo, il suo nome bruciato dall’albero genealogico, la cerimonia intima che la rese ufficialmente moglie di Edward Tonks.

Qualche volta le capitò di pensare a Cissy, allora ne sentiva la mancanza e lasciava spazio ad alcuni istanti di nostalgia. Ma poi si ritrovava di nuovo felice, come da Black non era mai riuscita ad essere. Non poteva fare scelta migliore del seguire il proprio cuore, abbandonarsi alla potenza dell’amore che Ted le faceva sentire e che, unito a quello che lui provava nei suoi confronti e moltiplicato infinite volte, donavano insieme alla bambina che era nata dal loro profondo sentimento.

 

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Capitolo 2
*** Canto di Natale ***


CANTO DI NATALE

“Le azioni umane adombrano sempre un certo fine, che può diventare inevitabile, se in quelle ci si ostina. Ma se vengono a mutare, muterà anche il fine.” – Charles Dickens, Canto di Natale.

 

Fino a quel giorno di fine dicembre del 1976, James Potter associava la paura a quella scarica di adrenalina che provava quando violava il regolamento e rischiava di essere beccato. Tuttavia, da quel giorno, per il giovane la paura ebbe un sapore nuovo, e se avesse dovuto scegliere un aggettivo per descriverla, esso sarebbe stato paralizzante.

Era una contraddizione, ad essere onesti, dato che se si fosse davvero immobilizzato sarebbe morto insieme a Pivellus. Era stata la sua capacità di pensare ad essersi fermata, mentre cercava in tutti i modi di difendersi da un lupo mannaro, salvando se stesso e evitando al contempo di ucciderlo.

Aveva rischiato di lasciarci la pelle, aveva rischiato di abbattere uno dei suoi migliori amici, aveva rischiato che Remus avesse la sua morte e quella di Piton sulla coscienza e tutto questo per via dell’idea più idiota che Sirius avesse mai avuto.

Al solo pensiero, chiuse le mani a pugno e strinse finché le unghie non affondarono nella pelle dei palmi, per riuscire a controllare quell’enorme carico di energia che gli provocava la rabbia. Perché sì, Piton era un coglione e non c’era nessun altro al mondo che detestasse allo stesso modo. Era affascinato dalle Arti Oscure, aveva amicizie poco raccomandabili e probabilmente sarebbe presto diventato un Mangiamorte. Inoltre, aveva anche avuto la fortuna di essere amico intimo di Lily Evans ed era stato tanto imbecille da perderla e farla soffrire. Ma non importava quanto detestabile fosse Severus Piton, non importava quante persone innocenti avrebbe un giorno avuto sulla coscienza, Sirius non avrebbe dovuto farlo. Non soltanto aveva rischiato di mandare a morire un compagno di scuola, ma non aveva avuto nessuna considerazione per il povero Remus. Come si sarebbe sentito, se avesse provocato la morte di Pivellus? Sarebbe stato distrutto per il resto dei suoi giorni. E anche Silente sarebbe rimasto coinvolto, lo avrebbero condannato tutti per aver permesso ad un licantropo di frequentare la scuola.

James era furioso. Aveva dovuto salvare la vita alla sua nemesi, non aveva potuto trasformarsi per evitare guai e aveva rischiato di morire o diventare un licantropo e se Piton avesse rivelato il piccolo problema peloso di Remus, il loro amico sarebbe stato espulso.

Il rintocco del grande orologio del castello annunciò lo scoccare della mezzanotte e quando cessò nella stanza buia dell’Infermeria si sentiva soltanto il russare ritmato di Pivellus e il rumore del vento che batteva contro le finestre. Annoiato e incollerito, James si decise a prendere la pozione che Madama Chips gli aveva raccomandato di assumere prima di dormire e tentò di addormentarsi.

Era immerso in un sonno profondo, quando sentì qualcuno picchettare sulla sua spalla. Aprì gli occhi infastidito, immaginando che fosse già mattina e che Madama Chips lo destasse per rifilargli qualche altra disgustosa pozione curativa. Eppure, le tenebre suggerivano che fosse ancora piena notte, Piton dormiva tranquillo nella sua brandina e le lancette della sveglia sul comò segnavano l’una di notte. James, ancor più irritato, cercò di identificare la figura in penombra che lo aveva svegliato in piena notte e fu solo quando essa puntò verso il proprio volto una lanterna che riconobbe Fleamont Potter.

«Papà?» volle accertarsi in un sussurro e il volto di suo padre s’illuminò in uno dei suoi sorrisi che sapevano di casa e che cancellò all’istante il pessimo umore con cui si era svegliato il giovane.

«Vieni con me, Jaime» disse l’uomo, tendendogli la mano e sebbene fosse strano trovarselo lì, nel cuore della notte, a chiedergli di disobbedire all’ordine di Madama Chips di non alzarsi per nessuna ragione al mondo, la cieca fiducia che il ragazzo riponeva nel buon senso e nelle buone intenzioni di suo padre lo portarono ad afferrare quella mano senza incertezza. Appena si sfiorarono, James notò di non essere più nel castello. Si trovava in una stradina piena di ciottoli di carbone, dalla quale era possibile vedere un piccolo fiume dalle acque torbide e grandi ciminiere in lontananza. Avrebbe pensato ad una Smaterializzazione congiunta, se solo non avesse saputo che non era possibile smaterializzarsi nel perimetro della scuola.

«Papà, mi spieghi cosa succede?» chiese il ragazzo con un tono curioso, mentre corrugava la fronte, si passava una mano fra i riccioli corvini e studiava l’ambiente circostante, sentendosi molto confuso.

Fleamont, che alla luce dei lampioni pareva più giovane di come lo ricordava, mise una mano sulla spalla di suo figlio, lo guardò dritto in volto con grande apprensione e un mezzo sorriso.

«James, tu sei stato il nostro miracolo. Ti abbiamo desiderato così tanto, che quando abbiamo potuto stringerti fra le braccia, non abbiamo esitato ad esaudire ogni tuo desiderio» cominciò a spiegare «Ma non abbiamo saputo insegnarti che non tutti hanno avuto i vantaggi che hai avuto tu e di questo mi rammarico. Sono venuto a trovarti perché tu possa vederlo con i tuoi occhi»

Quelle parole insinuarono più dubbi, invece di risolvere quanti ne aveva già il ragazzo. Ma quando il Potter più vecchio si avviò verso la casa alla fine della stradina, il figlio non esitò a seguirlo.

Non appena varcarono la soglia, furono delle urla ad accoglierli. James si guardò attorno e comprese di essere in un angusto salotto spoglio, eccezion fatta per una poltrona e un divano logori e un vecchio lampadario impolverato.

Ai lati opposti della stanza un uomo e una donna adirati, continuavano a litigare alzando i toni e parevano non averli notati affatto.

Fleamont indicò una porta semiaperta dalla quale spuntava un bambino dai capelli lisci e neri, naso adunco, colorito giallognolo e occhi scurissimi molto tristi. James pensò che potesse essere la versione in miniatura di…

«Severus!» chiamò la donna e il bambino spalancò la porta, raggiungendo i due adulti nella stanza.

Che fosse un parente di Pivellus estremamente somigliante? Magari “Severus” era un nome ricorrente per i Piton. Oppure si trovavano in una specie di ricordo del suo compagno? Era plausibile, ma non avevano usato un Pensatoio.

«Mamma, mi hai chiamato?»

«Sì, Sev. È ora di andare a dormire» comunicò la donna, posando un lieve bacio sui capelli del bambino. Gli occhietti del piccolo Severus si riempirono di lacrime alla notizia.

«Ma è la vigilia di Natale!» protestò debolmente.

«E cosa dovremmo fare? Festeggiare, forse?» chiese sprezzante l’uomo che poco prima litigava con la madre del bambino «Ho perso la voglia di festeggiare quando ho scoperto che mia moglie è una strega, in tutti i sensi»

Delle lacrime rigarono le guance magre del bambino, che fece in fretta ad asciugarle e tirò su col naso.

«Buonanotte, mamma» disse alla donna, prima di scoccarle un bacio sulla guancia. Poi andò ad abbracciare le gambe dell’uomo «Buonanotte, papà»

Il volto del padre di quel bambino assunse una smorfia di puro disgusto, mentre si staccava di dosso il figlio con forza.

«Quante volte te lo devo dire, Severus? Non voglio che mi tocchi. Ora fila a letto»

James provò una gran pena nel vedere il piccolo Severus allontanarsi a rilento, lo sguardo fisso sul pavimento per nascondere gli occhi lucidi, sotto lo sguardo carico di disprezzo del padre e quello addolorato della madre.

Fleamont cinse le spalle del figlio e lo riportò fuori dalla casa, mentre James si sentiva disturbato dalla scena a cui aveva appena assistito.

«Non era mica… quel bambino, era lo stesso Severus che conosco io?» chiese il ragazzo, turbato.

Il vecchio Potter annuì, rivolgendogli uno sguardo intenso che lo mise a disagio.

«Ma cosa vuol dire? Non ha senso. Non abbiamo usato il Pensatoio e Pive… ehm Piton ha sedici anni e sta dormendo in Infermeria» ricordò il ragazzo, sempre più confuso.

«Non soffermarti su futili dettagli, James. Piuttosto rifletti su quanto deve aver sofferto il ragazzo che tanto disprezzi» disse suo padre, prima di riportarlo con un tocco nell’Infermeria del castello.

Confuso e sconvolto, il giovane controllò che il suo compagno fosse nella sua brandina e lì lo trovò, poi si voltò in cerca del padre, ma non c’era più traccia di lui.

Credette di aver fatto solo un sogno assurdo e si posizionò nuovamente nel suo letto, ma dato che ciò che aveva vissuto era stato tanto vivido da sembrargli reale, prima di tornare a dormire, diede un’ultima occhiata alla stanza.

«Cerca qualcuno, signor Potter?» sentì pronunciare dalla voce ormai nota del preside della scuola.

«Nessuno, professore» si affrettò a rispondere «Mi sono solo svegliato da un sogno stranissimo»

In tenuta da notte, con un portacandela in mano e i soliti occhiali a mezzaluna, Albus Silente apparve nella sua visuale.

«Curioso, davvero curioso» commentò, poi piegò un braccio e sporse il gomito verso James, come se lo stesse invitando a prenderlo a braccetto «Capisco che voglia riposare, signor Potter, ma la notte è ancora lunga»

Il ragazzo sbuffò, si passò una mano fra i capelli e afferrò il braccio del preside controvoglia.

Anche questa volta, l’ambiente cambiò. Bastò un’occhiata al giovane, per comprendere di essere nella Sala Comune dei Grifondoro. Regnava assoluta quiete nella stanza, nessuno occupava le varie poltrone e i divanetti e avrebbe detto che fosse deserta, se non avesse notato un’ombra nei pressi del caminetto.

Senza chiedere permesso al preside, James si avviò verso il camino e lì vide Lily Evans, seduta sul pavimento, rannicchiata con una pesante coperta ad avvolgerla e con le lacrime agli occhi.

Nel vederla così, conoscendola come una ragazza forte e combattiva, James sentì come una morsa al petto. Distolse lo sguardo, sapendo bene che Lily non si sarebbe mai mostrata consapevolmente a lui in quello stato. Vedere quel suo lato fragile era come spiare un momento intimo della ragazza e sebbene avesse compreso da tempo che avrebbe voluto conoscere ogni minima sfumatura della Evans, voleva che mostrare ogni parte di sé fosse una sua scelta, voleva conquistarsi ogni piccolo segreto custodito da quella ragazza dai capelli rossi che gli aveva rubato il cuore.

Silente spostò il volto del ragazzo verso Lily, costringendolo a guardare la scena.

La ragazza continuava ad asciugare il volto dalle lacrime, che scorrevano inarrestabili. I suoi occhi dalle iridi di quel meraviglioso verde intenso erano mesti e furenti al contempo.

«Lily?» chiamò una voce, che proveniva da Marlene McKinnon, ferma al primo gradino della scala che portava ai dormitori femminili. La ragazza raggiunse l’amica, si sedette al suo fianco e l’avvolse in un mezzo abbraccio «Che succede?»

James tese le orecchie, desideroso di sapere cosa facesse piangere quella ragazza.

«Mi hanno detto che Severus è in Infermeria, insieme a Potter. A quanto pare hanno rischiato grosso, quegli idioti»

James provò un dolore fisico che diventava profondo e gli scavava l’animo. Aveva nominato anche lui, ma l’aveva capito che quelle lacrime erano riservate solo al suo stupido amico. Quel briciolo di compassione che aveva provato nel vedere Piton da piccolo, si trasformò di colpo in una gelosia rovente.

«Lily, qualsiasi cosa sia successa dovresti starne fuori. Severus Piton non si è dimostrato un buon amico, ultimamente»

Il giovane Potter annuì, concordando con Marlene, provando quasi soddisfazione nel sapere che Piton aveva perso quel legame speciale con la ragazza. Ma quando vide il volto sofferente di Lily, pensò che in fondo avrebbe preferito vederla felice con Pivellus, che disperata come in quel momento. Di certo, lui non era mai stato in grado nemmeno di strapparle un sorriso.

«Lo so. E so che non è esattamente un martire, ma mi chiedo se magari le cose sarebbero andate diversamente, se Potter e la sua banda non lo avessero tormentato» rifletté la ragazza dai capelli rossi.

James sentì montare la rabbia, insieme ad un forte senso di incompiutezza. Quella ragazza era capace di attribuirgli persino le colpe per la sofferenza che era l’amico a provocarle e tutto questo era terribilmente scorretto.

 «Senti, sono sicura che Severus abbia sofferto molto a causa della prepotenza di James, ma non è che sia stato costretto a frequentare cattive amicizie, a trattarti con disprezzo o a chiamarti sanguesporco.» le ricordò la sua amica.

Il ragazzo sorrise compiaciuto, si sentì sollevato e si segnò mentalmente di dover fare un bel regalo alla McKinnon per aver quasi preso le sue difese.

«Non sto dicendo che non ha colpe, dico solo che è una brava persona che sta facendo delle scelte sbagliate. Potter, invece, è solo un pallone gonfiato che si comporta come se le sue azioni non avessero mai conseguenze. Non si rende nemmeno conto di quanto sia meschino. Io lo odio» disse Lily a denti stretti, con i pugni serrati e uno sguardo assassino rivolto al camino, enfatizzando l’ultima parola.

Fu come se Lily Evans gli avesse strappato il cuore dal suo petto, per poi calpestarlo per bene e ridurlo in mille brandelli. Sentì una sorta di voragine nello stomaco e le palpebre divennero pesanti, come se contenessero un fiume di lacrime, che però non voleva straripare.

Non ebbe il tempo di commentare, che si ritrovò nell’Infermeria. Era nuovamente solo, se non fosse stato per un Piton dormiente. Lo guardò in cagnesco, ma si sentì peggio. Non era mai stato tanto inerme in vita sua, si vedeva come un ragazzino insulso e minuscolo, completamente insoddisfatto.

«Ramoso» lo chiamò la voce di Remus. James espirò, esasperato, desideroso che quella specie di incubo patetico e senza fine giungesse al termine.

«Che vuoi?» disse brusco, voltandosi verso il suo amico. Ma quello che vide non era il Lunastorta che conosceva. L’altezza era la stessa, così come la corporatura, i lineamenti e il modo orribile di conciarsi, ma era decisamente invecchiato.

Nell’istante in cui la versione adulta di Remus lo sfiorò, l’Infermeria sparì e si ritrovarono nel cortile di una scuola babbana.

«Fammi indovinare. Sono stato nel passato con mio padre, nel presente con Silente e ora io e te siamo nel futuro» dedusse il ragazzo, osservando in giro e passandosi una mano fra i capelli.

«Siamo stati ragazzini stupidi James. Essere presi di mira da tipi come te e Felpato non è piacevole, siamo qui perché te ne renda conto tu stesso» gli spiegò il vecchio Lunastorta.

Dopo un fastidioso trillo di campana, il cortile divenne gremito di ragazzini. James curiosava a destra e a manca, chiedendosi cosa sarebbe accaduto. Presto scorse fra tutti un ragazzino mingherlino. Lo guardò per bene e notò che gli somigliava molto: stessa forma del viso, stessa bocca, stessa pettinatura ribelle, stesse sopracciglia e gli occhi… un momento, li avrebbe riconosciuti fra migliaia di paia d’occhi: erano tali e quali, nella forma e nel colore, a quelli di Lily Evans. Voleva forse dire che quel ragazzino esile, vestito con abiti troppo grandi per lui, era figlio suo e di Lily? Al solo pensiero un gran sorriso gli illuminò il volto e il cuore si fece più leggero. Avrebbe avuto un figlio con Lily Evans! Quello che fino ad un momento prima era parso un terribile incubo, ora invece era un sogno magnifico da cui non voleva svegliarsi. Ah, già, quasi dimenticava che fosse solo un sogno. Quantomeno aveva preso una bella piega.

Che poi, doveva essere per forza un sogno: non avrebbe mai mandato suo figlio in giro conciato in quella maniera!

Ma il sollievo e l’allegria, finirono presto, perché il ragazzino venne fermato da due coetanei, uno dei quali era il triplo di lui e aveva un’aria minacciosa.

«Tienilo fermo» disse il ragazzo più robusto al suo amico, che si affrettò a prendere di forza il suo futuro figlio per le braccia, portandole dietro la schiena e tenendo salda la presa. Il tipo grosso si divertì a picchiare il ragazzino esile, mentre l’altro lo teneva immobile.

Nemmeno protestava quel ragazzino, sembrava esserci abituato. Una folla li accerchiava e si godeva lo spettacolo: alcuni ridevano, altri tacevano, ma nessuno si azzardava ad aiutare quel poverino.

James si senti ribollire il sangue nelle vene e digrignò i denti per l’ira che sentiva crescere in sé. Quel ragazzone e il suo amichetto avrebbero meritato una bella lezione, tanto che d’istinto prese la bacchetta e pronunciò uno Schiantesimo, che anche se andò nella direzione giusta, non sortì alcun effetto.

«Brutti idioti, lasciatelo stare!» gridò con tutta la sua voce, stringendo i pugni e scaraventandosi contro il ragazzo robusto, che però trapassò come fosse stato un fantasma.

«Non c’è nulla che tu possa fare per aiutarlo, James. Ma non temere, Harry se la caverà» lo rassicurò Remus, prima di riportarlo nel buio dell’Infermeria.

Stavolta non rimase solo, Remus adulto restò e insieme a lui avevano fatto ritorno anche Silente e suo padre.

«A che pensi, figliolo?» chiese Fleamont.

A cosa pensava? Che non importava molto se fosse un sogno oppure no, perché se un giorno avesse davvero avuto un figlio, come avrebbe potuto guardarlo negli occhi, insegnargli come comportarsi, sapendo di essere stato un bullo crudele?

Pensava a Lily Evans, che non lo odiava solo negli incubi, ma anche nella realtà. Come poteva pensare di poter stare con lei? Credeva di poterla avere, perché le altre ragazze gli sbavavano dietro, ma Lily non era come le altre e lui una come lei non se la meritava.

Pensava anche a Pivellus, che di certo aveva commesso i suoi errori e che continuava a detestare, ma che spesso non aveva avuto la possibilità di difendersi dagli attacchi suoi e di Sirius.

Pensava di essere un disastro, una persona terribile e guardando il volto gentile di suo padre si sentiva in colpa per non essere il figlio che i suoi genitori avrebbero meritato.

Sentì una lacrima bagnargli il volto e l’asciugò presto con la manica del pigiama, scuotendo la tesa, come per rifiutare tutto ciò che era stato fino a quel momento.

«Mi dispiace. Pensavo di essere dalla parte dei buoni, invece sono solo un ragazzo egocentrico e superficiale» ammise James, chinando il capo e trattenendosi per non scoppiare in lacrime.

«Signor Potter, tutti gli esseri umani commettono degli errori. Non crederebbe a ciò che ho combinato io da ragazzo. Ahimè, non possiamo fare nulla per cancellare gli sbagli del passato, quello che possiamo fare è redimerci nel presente e migliorarci per non ripeterli in futuro» disse la voce del preside. James guardò quel trio strambo, che gli sorrideva incoraggiante e capì che il vecchio Silente, come sempre, aveva ragione.

«Signor Potter» pronunciò Remus con una voce decisa e femminile, lasciandolo perplesso «Si svegli! Potter, se vuole tornare a casa per le vacanze si svegli immediatamente!»

James aprì gli occhi e si alzò di scatto. Era nella brandina dell’Infermeria e una Madama Chips indaffarata gli chiedeva di sbrigarsi.

Non sapeva quali strani ingredienti ci fossero nella pozione che aveva preso la sera prima, ma di sicuro il suo sogno era stato illuminante.

Quando tornò dalle vacanze natalizie, James Potter era un ragazzo diverso. Continuava ad essere il solito tipo irriverente, un po’ vanitoso ed eccessivamente sarcastico, ma cominciò ad ignorare Piton e lasciarlo in pace, a rispettare un minimo le regole, divenne più responsabile e più sensibile nei confronti del prossimo. Si rivolgeva a Lily Evans con estrema cortesia: persino quando la ragazza lo trattava male, lui si comportava da perfetto gentiluomo.

Quella versione più matura di James piacque molto a Remus, mentre lasciò Sirius indignato per molti mesi, ma alla fine anche quest’ultimo si rassegnò e accettò la realtà: aveva perso il suo compagno di bravate, che aveva scelto di crescere.

James non raccontò mai a nessuno di quel sogno che gli aveva cambiato la vita in una notte da fine dicembre del 1976.

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Capitolo 3
*** L'ultimo Natale ***


L’ultimo Natale

Il cuor ci si stringe ogni volta che, anche di cose o persone indifferentissime per noi, noi pensiamo: questa è l'ultima volta: ciò non avrà luogo mai più: io non lo vedrò più mai: o vero: questo è passato per sempre” – Giacomo Leopardi, Zibaldone

Dicembre 1980

La tensione era palpabile tra i membri dell’Ordine della Fenice, come per qualsiasi convocazione d’urgenza di una riunione straordinaria. D’altronde si trattava sempre di pessime notizie, di pericoli da scongiurare, di enormi rischi da correre per sperare ancora di riuscire prima o poi a sconfiggere il mago oscuro più potente di tutti i tempi e la sua schiera di fedeli seguaci.

Guardò i Paciock arrivare di corsa, trafelati e in ritardo, ma senza portarsi dietro un infante, come aveva dovuto fare lei. A differenza del piccolo dei Paciock, nato il giorno prima di suo figlio, al suo Harry non erano rimasti nonni che potessero badare a lui in occasioni come quella, ma quando si era scusata con Silente, avvisandolo che sarebbe dovuta rimanere a casa col bambino, le aveva detto che la sua presenza era essenziale e che avrebbero potuto portarlo con loro.

Era per quello che suo marito era l’unico in piedi, oltre al vecchio preside, perché sapeva benissimo che se solo avesse pensato di sedersi o smettere di oscillare sul posto, il pianto di Harry avrebbe coperto qualsiasi altro suono.

Non appena gli ultimi arrivati si accomodarono, Silente cominciò a parlare del motivo che lo aveva spinto a convocarli.

Ascoltò il suo racconto dall’inizio alla fine, del perché aveva assegnato la cattedra di Divinazione proprio a quell’aspirante insegnante colloquiata alla Testa di Porco quasi un anno prima.

Albus Silente recitò loro una parte della profezia che aveva udito in quell’occasione, ma bastò la prima frase a farle pulsare il cuore in gola, a farle cercare lo sguardo di James, con le palpebre tese, la fronte contatta, le braccia ancorate più del solito al corpicino di Harry. Ma quando incrociò gli occhi della moglie, rilassò il volto e quasi le sembrò che stesse tentando di calmarla col solo contatto visivo, riuscendo in parte nell’intento.

«Lei è a conoscenza di questa profezia da un anno e ce ne parla solo ora?» si era subito indignato Sirius, parlando con tono aggressivo, alzandosi dalla sedia con furia, ignorando i tentativi di Remus di rimetterlo a posto.

«Non c’era motivo di allarmarvi. La professoressa Cooman non ricorda nulla ed ero certo che fossimo soli in quel momento» cominciò a spiegare Silente, con una calma encomiabile.

«E allora perché rivelarlo ora?» domandò Frank Paciock, sul cui volto poteva leggere la sua stessa apprensione.

Il vecchio preside chinò il capo e rivolse uno sguardo rammaricato al suo interlocutore.

«Mi sbagliavo. La parte della profezia che vi ho rivelato è quella che è arrivata alle orecchie di Lord Voldemort e pertanto è opportuno agire nell’immediatezza»

«Dovremo barricarci in casa, fare un Incanto Fidelio e sperare per non si sa quanto tempo che qualcuno riesca a sconfiggere Lei- Sa-Chi, non è così?» comprese Alice, esasperata all’idea di ciò che l’aspettava.

«Potrete comportavi come sempre, Alice» la rassicurò il preside e Lily si rincuorò credendo che avesse un piano specifico e che quel momento spaventoso sarebbe presto giunto al termine.

«Vuole che prendiamo parte ad una specie di strategia geniale?» ipotizzò anche James con un una nuova vivacità, accesa dall’adrenalina della sfida e dalla speranza ritrovata dopo un momento di panico.

«Temo che la mia strategia corrisponda a quella di Alice» si contraddisse subito il mago anziano, confondendo sempre più chi pendeva dalle sue labbra «I Paciock possono proseguire le loro vite consuete solo perché mi è stato riferito che Voldemort ha fatto la sua scelta e che essa corrisponde al piccolo Harry»

A quelle parole, la paura tornò ad impossessarsi di ogni piccola particella di Lily e fece un grande sforzo per non scoppiare a piangere nell’immediato, per evitare di strappare Harry dalle braccia di James e fuggire lontano, nonostante sapesse che Colui-Che-Non-Doveva-Essere-Nominato li avrebbe comunque trovati.

Silente si rifiutò di svelare come aveva avuto accesso a quelle informazioni, ma era talmente certo che fossero veritiere, da ritenere superfluo che la famiglia Paciock usasse le stesse strette precauzioni dei Potter, anche se si era detto disponibile ad accontentarli, qualora avessero desiderato proteggersi ugualmente.

Era dunque così, che si sarebbe sentita per chissà quanto tempo? Talmente tanto spaesata, triste, arrabbiata, terrorizzata come si sentiva in quel momento?

Fu chiesto a lei e James di fermarsi, Silente diede consigli e suggerimenti, ricordò loro di mantenere la calma, di avere fede nell’Ordine.

Lei si limitava ad annuire, senza capire bene le parole pronunciate dal preside e lasciando che fosse James a rispondergli o porre quesiti.

Fu solo quando rientrarono in casa che si permise di piangere, trovandosi subito confortata dalle braccia del marito. Pianse anche lui, ma non si fece vedere: teneva il mento sui capelli di Lily, ma lei sapeva che stava piangendo.

La casa addobbata in ogni singola parte le ricordava quanto era stata felice all’idea di festeggiare il primo Natale di Harry fino a quella mattina; invece, in quel momento si trovava costretta a considerare che potesse essere anche l’ultimo. Era così crudele dover essere spaventata per la vita di un bimbo tanto piccolo da non riuscire nemmeno a stare seduto senza il sostegno di braccia adulte, era così ingiusto dover vivere innumerevoli giorni, settimane, mesi o anni segregati in casa, senza poter esser parte attiva alla lotta per giungere all’unica eventualità che potesse liberarli: la sconfitta decisiva del cattivo della loro storia.

Restarono in un silenzio tombale per il resto della giornata, continuando a fissare Harry intrecciati in un abbraccio, ripercorrendo ogni piccolo particolare del bambino, ogni lineamento preso dall’uno o dall’altra, ogni microespressione, minuscolo movimento, adorabile vagito. Come si poteva guardare un essere così carino, così innocente, così perfetto ed essere tanto spietati da togliergli la vita?

Quel Natale furono raggiunti da Sirius e Remus, avevano invitato anche Peter, che però aveva deciso di trascorrerlo in famiglia. Fecero di tutto per alleggerire il peso dell’angoscia, della rabbia, della paura nei loro cuori. Lily pregò fra sé e sé, come facevano i Babbani credenti, con tutta la speranza che riusciva ad avere che quello non fosse l’ultimo Natale di nessuno di loro.

 Nonostante tutto, quella stessa sera, quando posò Harry nel lettone fra lei e suo marito e si strinsero tutti e tre in un grande abbraccio, non riuscì a non sentirsi grata per tutto quell’amore che era in grado di donare e ricevere ogni giorno.

 

NOTE:

Non sappiamo con esattezza quando sia stata pronunciata la profezia, o quando Voldemort abbia scelto Harry, nemmeno quando Piton abbia pregato Silente di mettere Lily al sicuro.

 Mi sono basata su un ragionamento preciso: la profezia deve essere stata pronunciata dopo il luglio del 1979 e prima di luglio 1980. Voldemort deve aver fatto la sua scelta dopo luglio, quindi dopo aver scoperto quale bambino potesse essere il suo antagonista secondo la profezia, ma nel capitolo dei ricordi di Piton del settimo libro, sembra che il confronto con Silente avvenga se non in inverno, in autunno inoltrato (Dal Capitolo 33 di Harry Potter e i doni della morte: “si ritrovò sulla sommità di una collina, fredda e desolata nell’oscurità, con il vento che soffiava attraverso i rami spogli dei pochi alberi”). Per queste ragioni ho trovato plausibile che la protezione dei Potter abbia avuto inizio intorno al dicembre del 1980.

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