Un piccolo imprevisto di Natale

di A_Typing_Heart
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte I - 23 dicembre ***
Capitolo 2: *** Parte 2 - 24 dicembre ***



Capitolo 1
*** Parte I - 23 dicembre ***


Il bell’ufficio in vetro scuro e metallo non veniva riscaldato granché dalle decorazioni natalizie, ma l’uomo che vi stava in piedi sembrava soddisfatto dell’atmosfera di quelle lucine rosse e verdi e delle ghirlande appese ai finestroni, tanto che canticchiava una carola a labbra chiuse in un sorriso sereno.

Manovrava il ferro da stiro portatile – che teneva in ufficio per le necessità – con la maestria di un uomo single che aveva lasciato casa da giovane e che aveva dovuto indossare camicie per lavoro molto spesso.

La giacca su cui si stava dando da fare era di un rosso brillante, un colore che nel suo guardaroba era riservato solo a un paio di t-shirt da palestra. Lo reputava troppo aggressivo per le riunioni di lavoro e troppo appariscente per le sue occasioni di svago, pertanto un colore di nicchia nel suo guardaroba.

«We wish you a merry Christmas, Alis? Sul serio?»

Riconobbe alla prima parola la voce maschile, profonda e sensuale. Smise di canticchiare e il suo sorriso si allargò mentre si voltava verso la porta dell’ufficio. Incrociò gli occhi di lui – di una sfumatura rossastra di marrone – per un attimo prima che li fissasse sulla giacca.

«Non è stata stirata? Vuoi che sbrani qualcuno della lavanderia?»

«Le commissioni personali non fanno parte delle tue mansioni, Beldain… non hai già abbastanza da fare con il tuo lavoro?»

«Come so intimidire io chi non presta un servizio impeccabile al presidente della Sirrah Biomedical, nessun altro… lo sai» commentò lui, con le belle labbra delineate tese in un sorriso malizioso. «Credo che sia il tuo sedere quello appoggiato sulla mia scrivania mentre chiamo per i reclami…»

«Oh, che cosa pensi che sia, un sadico? Mi siedo ad ascoltare la tua bella voce.»

«Ma naturalmente.»

Le scarpe nere di Beldain erano tanto lucide da riflettere lo scintillio delle lucine decorative mentre attraversava la stanza. Gli occhi grigi di Alis salirono in su lentamente, da quella camminata da gatto ai fianchi sotto i pantaloni aderenti e su per il torace dalle spalle larghe, celato da una camicia rosso sgargiante della taglia perfetta. Indugiò sul collo; adorava davvero che Beldain lasciasse scoperta quella zona di pelle lasciandosi il primo bottone sempre aperto e rinunciando quasi sempre alla cravatta.

Beldain aveva notato che lo stava guardando con il consueto desiderio, lo seppe osservando il modo in cui fece scorrere l'indice sotto la sottile catenina d'acciaio con la piccola ala d'angelo nera come pendente: lo faceva sempre quando si accorgeva che il suo principale lo studiava con interesse.

«Matching outfits?»

Si aspettava una battuta pungolante, una frecciata al sale sui suoi desideri sessuali inespressi com’era consuetudine, e fu spiazzato dalla domanda. Qualche attimo dopo collegò la giacca che stava stirando alla camicia di Beldain.

«Beh, non sarà una cosa esclusiva. Al party di Natale quasi tutti si vestono di bianco, verde e rosso.»

«Che fantasia» commentò lui, annoiato.

«O tu verrai in nero su nero, per spiccare di più?»

«Oh, credimi che mi alletta molto l’idea… ma devo dirti una cosa, a questo proposito.»

Il suo tono assunse una sfumatura appena percettibile da chi non lo conosceva bene, ma per Alis era un cambiamento vistoso. Abbandonò il ferro da stiro sul bordo della scrivania e lo guardò in viso. Aveva un'idea simile a una certezza di cosa voleva dirgli.

«No, Beldain.»

«Non ho ancora detto nulla, Alis.»

«Avanti, lo scorso Natale non sei venuto perché eri appena arrivato e hai detto che avevi altri impegni! Devi venirci questa volta, ti assicuro che è divertente!»

«Ne sono sicuro, ma si è presentato un imprevisto. Non posso partecipare.»

«Quale imprevisto?»

«Ran, non avevamo un certo patto sulla discrezione? Qualcosa come “non ti chiederò della tua vita a meno che non sia necessario”?»

La sua reticenza insospettiva Alis, ma al tempo stesso lo preoccupava.

«È una cosa grave?»

«Non è una cosa grave… solo, è inderogabile. Non posso venire alla festa di Natale.»

Diverse ipotesi passarono per la testa di Alis, dalla più fantasiosa alle più plausibili.

«Hai… hai fatto pace coi tuoi genitori? Vai da loro?»

Alla menzione dei suoi familiari Beldain fece un gesto involontario con la testa, come reagendo a una zaffata di fumo acre. Gli lanciò un’occhiata stizzita, ma la sua espressione rimase come accartocciata.

«Non abbiamo più contatti da anni. Non ci parlerei neanche se finissero in ospedale.»

Alis sapeva che calpestare lo spazio personale di Beldain poteva avere delle conseguenze molto pesanti per la loro relazione, ma non riusciva a rassegnarsi. La festa di Natale senza di lui non aveva più la stessa attrattiva di prima.

«Ti… vedi con qualcuno del club?»

«Non rinuncerei per questo. Posso vederli praticamente ogni giorno dell’anno.»

Gli credette senza esitazione. In primo luogo, poteva schioccare le dita e avere intorno a sé quasi tutti i membri del club in qualsiasi giorno, e in secondo luogo perché era certo che il socio con cui aveva i rapporti più stretti era con lui nell’ufficio in quel momento.

«Ti senti poco bene? È perché sei a disagio con qualcuno degli altri uffici?»

«Non molli quell’osso tanto facilmente, vero, Alis? Come un bravo cane…»

Bastò quell’ultima parola per riportare in superficie una serie di fantasie esplorate insieme che implicavano una grande gabbia di metallo, un collare borchiato, un guinzaglio rosso e una museruola. Chiudendo gli occhi per un attimo le ricacciò giù, consapevole che Beldain stava solo cercando di distrarlo dalla conversazione.

«Sono preoccupato per te. Non sembri il solito Bel.»

«Sei serio?»

Beldain infilò le mani nelle tasche con l’unico scopo di indirizzare la sua attenzione sui suoi fianchi, poi girò intorno alla scrivania con quel sorriso canzonatorio sul viso.

«Ti sembro malato? Guardami bene, su. Sembro malato? Sembro depresso?»

Si era avvicinato tanto che Alis sentiva il calore del suo fiato mentre parlava e l’odore inconfondibile di liquirizia dato da quelle sue piccole, nerissime e amarissime caramelle. Resistere ai ricordi del primo bacio riportati da quel profumo fu più difficile di respingere le allusioni ai giochi con la gabbia.

Si arrese, semplicemente: prese il suo viso con entrambe le mani e lo baciò con trasporto, ignorando il rischio che qualcuno potesse vederli attraverso la porta aperta. Quel gusto amaro di liquirizia portava via persino la paura.

Passò le dita tra i suoi capelli corti, color ebano screziati di castano più caldo sotto il sole – quante volte l’aveva paragonato a un gatto nero reso rossiccio dal sole? - e sfiorò la cicatrice rimarginata di un foro sul lobo dell’orecchio.

Beldain aveva tolto le mani dalle tasche per accarezzargli i fianchi. Senza preavviso gli assestò una pacca sul gluteo che lo fece sussultare, mentre la lingua si muoveva con la solita vitalità nella sua bocca.

Lo squillo del telefono sulla scrivania di Beldain giunse inatteso e sgradito come una secchiata di acqua gelata sulla testa.

«Non rispondere» lo pregò Alis, appena le loro labbra si staccarono.

«Devo rispondere.»

«Lascialo suonare.»

«Dimmi un po’, Alis… se non rispondo e non c’è il messaggio di attesa inserito, che cosa penseranno tutti del segretario della cui efficienza ti vanti fino allo sfinimento?»

Alis sbuffò, consapevole di essere infantile ma incapace di non provare frustrazione. Beldain uscì dall’ufficio e sollevò la cornetta, sedendosi sull’angolo della scrivania dove Alis poteva vederlo sorridergli con quell’aria compiaciuta.

«Ufficio del presidente. Ah, sei tu, Leticia. Dimmi tutto.»

Alis diede in una specie di ringhio e si armò di nuovo di ferro da stiro, sfogandosi sulla giacca. Avevano interrotto un bellissimo momento di trasporto come non ne vedevano da qualche settimana per rispondere a una delle ragazze dell’accettazione al pianterreno.

«No, aspetterà. L’appuntamento con il signor Lorige è tra diciassette minuti, quindi il presidente lo riceverà tra diciassette minuti» fece Beldain, nel suo tono cortese ma inamovibile. «Non importa che cosa il presidente stia facendo adesso. Potrebbe anche star contando i piccioni fuori dalla finestra, riceverà comunque il signor Lorige tra diciass-- sedici minuti. Non uno prima, non uno dopo, d’accordo? Se insiste fallo portare fuori dalla sicurezza.»

Alis aveva emesso un buffo verso alla menzione di Lorige: un nome che era la definizione stessa di spina nel fianco per il suo segretario. I Lorige – padre e figlio – erano a capo della Lorige & Vaussmann, con il monopolio totale in Europa, e abituati a comitati e aziende che si piegavano completamente al loro volere spostando appuntamenti, anticipando scadenze e rinviando riunioni con poco o nessun preavviso. Beldain, tuttavia, era talmente indisposto da quel modo di fare che si era incaponito fin dal primo giorno di lavoro a fare qualsiasi cosa per non andare incontro alle loro richieste: Alis si considerava fortunato ad avere un segretario dotato di pazienza, comunicativa, organizzazione e anche testardaggine.

«È incredibile. È surreale» commentò quando agganciò la cornetta. «Voleva un incontro mezz’ora prima. Gliel’ho negato per settimane e lui si presenta qui con venti minuti di anticipo! Certi uomini non sanno proprio perdere!»

«Nemmeno tu, mi pare.»

Beldain emise un sospiro, uno stanco tentativo di sfogare l’esasperazione. Se non altro la bassa manovra di Lorige aveva dato ad Alis qualcosa per cui tornare di buonumore: vedere nel suo efficientissimo collaboratore segni di debolezza gli metteva una gran voglia di stringerlo, punzecchiarlo un po’ e poi fare del suo meglio per risollevargli la giornata.

Beldain rientrò nell’ufficio, ma non accennò a riprendere da dove erano stati interrotti e prese a scartabellare nello schedario all’angolo. Alis pensò che valesse la pena di provare a convincerlo.

«Abbiamo quindici minuti, giusto?»

Lui alzò gli occhi dalle cartelline etichettate.

«Mh, hai un’irresistibile aria da birbante… come pensi di impiegarli?»

«Credo che tu lo sappia già.»

Alis gli andò incontro e gli prese il viso tra le mani come prima, lo baciò di nuovo, ma dopo una risposta con tiepido entusiasmo Beldain si sottrasse.

«Quindici minuti non bastano.»

«Proviamoci.»

«Ce ne vogliono venti per accenderti come si deve, e tutto il resto.»

Non aveva tutti i torti e ne era conscio. I loro incontri duravano diverse ore, perché partivano sempre dallo stuzzicarsi con il linguaggio del corpo e con velate allusioni nei discorsi per arrivare alle ovvie conclusioni passando attraverso giochi con complesse trame e interpretazione di ruoli degne di un laboratorio di teatro. Sfrondare tutto ciò lasciando solo un rapporto fisico di un quarto d’ora era snaturare il bello della loro relazione intima, ridurla a una soddisfazione meramente fisica che, Alis si rendeva conto, non era niente di interessante o di appagante per Beldain.

«E cosa più importante, sbaglio a supporre che non hai dato neanche un’occhiata veloce alla bozza di contratto con la Lorige & Vaussmann per l’anno prossimo?»

Come ogni volta che Beldain scopriva le sue mancanze emerse lei, quella subdola: l’espressione colpevole che gli lampeggiava in viso come un neon pubblicitario ancora prima che Alis potesse anche solo pensare di provare a dissimularla. Beldain tese un ghigno di trionfo e buttò la cartellina, che atterrò sul sottomano con un tonfo soffice.

«Questo, per inciso. Mi sono permesso di leggerlo e riassumerti le condizioni in una lista per punti esorcizzata da quella diavoleria chiamata “gergo legale”.»

«Ti amo.»

Alis si irrigidì leggermente per lo stupore quando sentì le sue labbra appoggiarsi sulla sua tempia per depositarvi un bacio delicato.

«Se non mi amassi saresti matto, signor Delmar.»

«È bello che la tua autostima sia smagliante come il tuo sorriso.»

«Finisco io la tua giacca mentre ti prepari per l’irresistibile signor Lorige?»

«Te ne sarei grato.»

Con un insolito sorriso privo di sfumature maliziose e sarcastiche Beldain prese la giacca e il ferro e trasferì tutto sulla propria scrivania, al di là delle porte in vetro. Lo guardò armeggiare con l’attrezzo e iniziare a stirare la manica con una certa goffaggine.

Alis prese la cartellina e diede immediatamente una scorsa alla lista per punti, confermando le sue aspettative: era concisa ma completa e chiara. Le tre C di Beldain sul lavoro, che qualche invidioso del piano di sotto aveva trasformato in Caffè, Copie e Chiamate scambiando le sue mansioni vitali per faccenduole da stagisti.

Lottò con la sua immaginazione, che provava a distrarlo da noiose clausole con visioni di come Beldain svolgesse questa o quella mansione domestica, almeno finché una palese violazione degli accordi presi con la Lorige & Vaussmann in precedenza non inserì la modalità affari in modo definitivo.

«Beldain!»

Il suo segretario sussultò appena, non abituato a essere apostrofato con quel tono brusco.

«Sì, Alis? Così è troppo inamidata per i tuoi gusti?»

«Il punto sette» fece lui, battendoci il dito sopra. «Sei sicuro che dicesse questo?»

«Ho controllato tre volte, e c’era con me anche Bryant dell’ufficio legale. Credo proprio che sia giusto.»

«Il 7% del fatturato? Sono impazziti?»

«In effetti anche io mi stavo chiedendo se fossi diventato scemo.»

Alis gli scoccò un’occhiata truce attraverso la stanza, alla quale Beldain rispose scrollando le spalle.

«Non ero mica presente alla riunione. Pensavo che ti fossi accordato per quella percentuale.»

«Grazie di reputarmi un imbecille, Beldain, ma ti informo che gli accordi erano per il 5,5% e non un decimale di più. E non faceva riferimento ad alcun tetto massimo.»

«Grazie a te, piuttosto… sono sollevato di non lavorare per un imbecille. Le aziende gestite dagli imbecilli falliscono e i dipendenti si trovano senza lavoro.»

Alis si passò la nocca dell’indice sul labbro, fissando i punti del contratto alterati. Resistette alla tentazione di segnarle con una penna rossa.

«Beldain, fammi una cortesia. Subito.»

«Dimmi.»

«Prepara il caffè, per favore.»

«Il caffè? Io?»

«Non è una specie di retrocessione. Solo, ho pensato che il signor Lorige gradirebbe una tazza di caffè… amaro e subdolo quanto lui.»

Negli occhi amaranto di Beldain passò una scintilla che Alis conosceva bene: quella scintilla infantile che si palesava quando emergeva la sua indole sadica. Il presidente era abituato ad associarla a momenti di grande intensità, alla realizzazione di fantasie di dominazione che non aveva mai neanche immaginato prima di conoscerlo.

Al signor Lorige, però, non sarebbe spettato il piacere di conoscerla nel suo stesso modo.

 

***

 

Mentre guidava diretto al locale prenotato per la festa della Sirrah Biomedics Alis gongolava, ricordando il sorriso storto di Silvan Lorige mentre sorseggiava quella brodaglia amara che gli aveva spacciato per caffè di qualità eccellente. Le qualità del tutto inventate che Beldain aveva snocciolato, poi, l’avevano costretto a pizzicarsi di nascosto per trattenere le risate. Quel quadretto era già un sufficiente regalo natalizio, ma l’aver spuntato addirittura un 5% nel loro accordo per i due anni seguenti era un trionfo.

Rallentò e si fermò, accodato a una fila di auto che aspettavano che qualcuno più avanti terminasse la sua goffa manovra per uscire da uno scomodo parcheggio. Girò lo sguardo per trovare il sacchetto di caramelle alla frutta che doveva aver messo nel cruscotto e così notò qualcosa che non avrebbe mai visto passando in velocità con gli occhi fissi sulla strada.

Da un negozio con le luci basse e la serranda mezza chiusa uscì un uomo incantevole avvolto in un cappotto nero, carico di pacchetti e sportine di colori natalizi. Beldain scambiò un saluto con un anziano che ricambiò con un cenno prima di chiudere il negozio.

Era quasi certo che fosse Beldain – e conoscendolo intimamente era insicuro solo perché non si spiegava la sua presenza lì – e lo seguì con gli occhi fino alla macchina sulla quale caricò i regali: era la sua auto. Lui salì senza notare di essere osservato, mise in moto e s’immise sulla strada.

La fila davanti ad Alis si stava sbloccando, e non ci pensò più di qualche attimo: fece manovra al primo accenno di spazio e invertì la direzione, tenendo gli occhi sull’auto nera un po’ più avanti. Quando svoltò a sinistra lo fece anche lui, incurante di stare allontanandosi dal luogo del party.

Se si accorge che lo seguo si arrabbierà un sacco.

Sapeva di stare facendo di peggio che pressare con le domande o spiare un’agenda e tentò di imbastire una scusa credibile nel caso fosse stato scoperto, senza però riuscirci. Prese quindi più distanza per non essere visto.

Lo seguì fuori dal centro, a diversi chilometri dalla sede di lavoro e da tutti i posti che frequentavano insieme. In quei quartieri di fascia bassa Alis temeva che la sua auto si notasse come un parrocchetto in un cesto di batuffoli di cotone.

Ma cosa ci fa qui?

Il posto era molto decadente. Parecchie serrande erano chiuse su negozi che parevano aver cessato l’attività da tempo, c’erano giornali stracciati e bottiglie di birra vuote sui marciapiedi, e finestre scrostate incastonate in facciate ridipinte alla buona per nascondere graffiti e incuria.

L’auto di Beldain sterzò bruscamente davanti a un ingresso con una rampa di scale laterale e lui ne scese in fretta, spalancò lo sportello posteriore per raccogliere i regali e salì i gradini di corsa precipitandosi dentro.

Con una punta di gelosia si domandò che genere di persona riuscisse a scomporlo in quel modo. Era un uomo o una donna? Era più giovane di lui o no? Era una persona a cui piaceva giocare, come facevano loro, o qualcuno di tradizionale a cui cercava di insegnare un nuovo modo di vivere, come aveva fatto con lui?

La curiosità prese il sopravvento su quell’ombra di gelosia. Scoprire qualcosa che convinceva Beldain a dirgli di no era come scoprire un suo punto debole, e lui adorava collezionare informazioni molto private su di lui. Gli davano la sensazione di essere il più intimo con lui, di essere il più vicino.

Sul sedile aveva una bottiglia molto pregiata, un omaggio che aveva deciso di sua iniziativa di fare all’impiegato dell’anno della Sirrah Biomedics. Era improbabile che l’impiegato vincitore sentisse la mancanza di un dono che non sapeva di dover ricevere, quindi Alis parcheggiò, prese la bottiglia e scese.

L’aria era pungente dopo l’abitacolo ben riscaldato dell’auto. Si strinse addosso il cappotto e trotterellò fino all’ingresso, ma si trovò a esitare prima di suonare il campanello. Non voleva urtare Beldain, né rovinare il suo appuntamento.

Sussultò quando la porta si aprì e si accorse che una signora di mezz’età stava uscendo. Sorrise quando i loro sguardi si incrociarono, la lasciò passare per prima e in quei pochi istanti decise: s’infilò nell’atrio prima che la porta si chiudesse e poi nell’angusto ascensore per salire al quarto piano, dove il campanello collocava il domicilio di Beldain. Era sconcertante che il suo segretario abitasse in un quartiere così degradato.

L’odore della moquette dell’ascensore era terribile, come la lettiera usata di un gatto. Fu un sollievo uscirne. Il pianerottolo invece era pulito e vi si affacciavano solo due porte. Controllò i nomi sui campanelli e bussò con un ultimo atto di coraggio. Il tempo sembrò dilatarsi nell’attesa che gli venisse aperto; peggio dell’attesa del voto dell’esame di laurea.

La porta si aprì. Il viso di Beldain apparve dalla fessura e mentre gli sorrideva lui espresse più che stupore: gli parve quasi che avesse paura.

«Alis… che cosa ci fai a casa mia?»

«Sei scappato via di fretta alla fine del turno… non ho potuto darti questa.»

Sollevò la bottiglia infiocchettata sfoggiando il suo miglior sorriso.

«Ho pensato che potesse essere adatto per la tua serata, o per la vigilia…»

Beldain guardò la bottiglia, tornò al suo viso e si lasciò scappare uno sbuffo di una risata repressa a malapena. Prese la bottiglia leggendone l’etichetta come se non l’avesse mai vista e tese un sorriso incerto, quasi malinconico.

«Quando me l’hai fatta comprare credevo volessi darla all’impiegato dell’anno, o a qualcuno che andava in pensione... non pensavo che fosse per me. Questa volta mi hai sorpreso.»

«Allora non resta che godervela per un brindisi, giusto?»

«Non credo che l’apriremo, ma grazie lo stesso per essere venuto fin qui a darmela.»

«Perché no?»

«Diciamo che non è adatta per il tipo di serata che io e Angie avevamo in programma.»

Angie. Questo nome non fece squillare alcun campanello nella sua testa, non gli ricordava nulla. Poteva essere una donna del club, dato che quasi tutti usavano soprannomi. Era curioso di vederla e scoprire se la riconosceva, e istintivamente provò a lanciare uno sguardo dentro casa, al di sopra della spalla di Beldain. Lui, ovviamente, se ne accorse.

«Beh… visto che sei venuto fin qui, perché non presentarvi?»

«Davvero?»

«Perché no? Avrei dovuto farlo, prima o poi. Entra.»

Si ritirò dentro l'appartamento lasciandogli la porta aperta e Alis lo seguì. Riguardo alla casa del suo segretario sapeva solo che era un posto piccolo, vecchio e malmesso; così tanto che diceva di vergognarsi a invitarlo, dato che la sua casa era invece grande, spaziosa, recentemente ristrutturata e arredata di lusso.

Non aveva tutti i torti. Quello che vide entrando era il piccolo spazio dedicato a cucina e soggiorno, che in realtà era un cucinotto addossato a una parete, un tavolo quadrato con due sedie divideva idealmente una zona dall’altra, un mobile con un televisore contro il muro e una larga poltrona posta di fronte. Beldain si affacciò sulla porta davanti all’ingresso e Ran poté vedervi le piastrelle bianco-grigie di un bagno.

«Angie? C’è un mio amico qui, vuoi venire a conoscerlo?»

Fu scioccante vedere Angie: altezza intorno a un metro, maglioncino con fiocchi di neve e pupazzi, cappellino da Babbo Natale sui capelli d’ebano e un paio di occhi vispi di una sfumatura di castano-verde che gli ricambiarono lo sguardo. Era un bambino, la copia miniaturizzata ma fedelissima di Beldain, eccezion fatta per il colore degli occhi. Alis non riuscì a trovare niente da dire.

«Su, Angie, saluta.»

«Ciao.»

«Un pochino più d’impegno, Angie?»

Il bambino guardò Beldain, poi di nuovo l’ospite strizzando un pupazzo a forma di volpe. Fissò il nuovo arrivato dalla punta dei capelli fissati dalla lacca fino alle scarpe in pelle verniciata bianca, corrugando sempre di più le sopracciglia sottili.

«Non assomiglia a Babbo Natale.»

«Co...?»

«Trovi di no?» fece Beldain, con un sorrisetto canzonatorio. «Eppure è vestito di rosso e porta un regalo. Dev’essere lui per forza.»

«Non è vecchio e non ha il pancione!»

«Ragionaci… se fosse davvero così vecchio e grasso come farebbe a calarsi dai caminetti e a scavalcare finestre?»

«E allora perché entra dalla porta?»

«Perché è il modo più comodo di entrare in una casa, no? E poi qui non c’è il camino.»

«Ecco perché volevo stare a casa con la mamma! Con te anche Babbo Natale è sbagliato!»

Il bambino corse verso una porta che Alis non aveva visto, nascosta alle spalle di quella d’ingresso, e la sbatté chiudendosi dentro. Era ancora frastornato quando Beldain sospirò, scompigliandosi i capelli con la punta delle dita per poi sistemarli di nuovo.

«Beh, ora conosci Angelus.»

«È… tuo…?»

«Mio figlio. Sì.»

Beldain scrollò le spalle come fosse cosa di poco conto e andò ad armeggiare con un bollitore dallo smalto rovinato. Il suo efficiente, pragmatico, affidabile segretario era irriconoscibile con quel nervosismo.

«È un bambino delizioso, è proprio uguale a te…»

Continuava a dargli le spalle e pensò che fosse il caso di intavolare subito il discorso più difficile.

«Non mi avevi mai detto che avevi un figlio.»

«Perché non c’era motivo per dirtelo. Non vive con me, non mi impedisce di fare gli straordinari o di uscire con te.»

«Ma non c’era neanche un motivo per non dirmelo… o sbaglio? Che cosa pensavi che avrei fatto se me ne avessi fatto parola?»

«Onestamente?»

«Parla, non tenere niente.»

«Pensavo che mi avresti compatito» rispose lui, prendendolo di sorpresa. «Volevi darmi dei bonus solo perché mi lamentavo della mia casa, che cosa avresti provato a darmi se avessi saputo che avevo un figlio piccolo?»

Alis sapeva che avrebbe provato a fargli accettare le agevolazioni e i bonus che poteva ragionevolmente offrirgli, e qualche regalo. Alis aveva sempre pensato di avere anche troppo per un uomo senza famiglia e senza figli.

«Bel… bastava dire che non le volevi, come hai fatto per gli altri bonus. Ho forse insistito, o provato a farteli avere senza il tuo consenso?»

Il suo segretario si chiuse in un silenzio cupo. Alis si avvicinò e passò la mano sulla sua schiena in una carezza senza secondi fini.

«Ci siamo già accordati su questo… se hai bisogno puoi chiedere sempre. Ora che so che hai un figlio non insisto, ma ti ripeto che la mia porta è sempre aperta… anche il mio conto, se ti servisse qualcosa.»

«Non voglio che pensi che ti frequento per i tuoi soldi. Non l’ho mai fatto.»

«Ma questo lo so. Ci conosciamo troppo bene per questi fraintendimenti.»

Con sua sorpresa quando cercò il suo collo per dargli un bacio lui si girò per baciarlo sulle labbra. Lo lasciò stranito quanto il bacio sulla testa di quella mattina; gesti di affezione spontanei erano più unici che rari.

«Grazie, Alis… ma farai tardi al party. È meglio se adesso vai.»

«Sì… ma… hai bisogno di una mano, per caso? Col bambino» puntualizzò, indicando la porta col pollice. «Mi sembra arrabbiato con te.»

«Non posso farci niente. Doveva stare con sua madre, sta sempre con lei e i suoi per tutte le feste. Non gli piace stare con me, detesta la mia casa.»

«E perché?»

«Perché Rose è di famiglia ricca… casa di campagna, addobbata come un villaggio di elfi, tv ultrapiatta, canali premium, la sua camera, i suoi giocattoli, i suoi amichetti, il cane… e il camino, per Babbo Natale. Avrai forse notato che qui è un po’ diverso.»

Percepiva una profonda amarezza sotto la sua sufficienza, il tono con cui di solito elencava una serie di fatti che trovava noiosi o irrilevanti. Se per lui quella brutta casa poteva anche andare, non era quello che suo figlio avrebbe voluto, né meritato.

«Che ne dici se ci parlo un momento?»

«Tu?»

«Lo dici sempre che sono un bambino troppo cresciuto! So come prenderli, davvero.»

Beldain lanciò uno sguardo alla porta chiusa e per un attimo gli sembrò di vedere una speranza illuminargli il viso. Scrollò le spalle e fece un gesto con la mano.

«Prego. Se vuole parlarti.»

Alis si avvicinò alla porta, che era scrostata sulla parte bassa come scorticata da zampette di gatto o di un piccolo cane. Bussò con le nocche e accostò l’orecchio per sentire qualche rumore: gli parve di percepire un singhiozzo sommesso.

«Angelus? Posso entrare a parlare con te un minuto?»

«No!»

La sua voce sottile era soffocata dal pianto, ne era sicuro.

«Per favore, Angelus, devo assolutamente compilare la lista di Babbo Natale, ho bisogno del tuo aiuto... puoi aiutarmi a farlo? Lui ne sarebbe molto contento.»

«Alis, ti prego, Babbo Natale non esiste.»

«Sta’ zitto, Bel, per cortesia. Non peggiorare le cose» lo zittì lui, e bussò di nuovo. «Angelus, posso? Parliamo un pochino solo io e te, senza tuo padre.»

Con un gesto interruppe il commento di Beldain prima che vi desse voce. Ascoltò il bambino tirare su col naso qualche volta e poi la porta si aprì cigolando. Alis esibì il suo miglior sorriso al piccolo.

«Grazie, Angelus... Angelus o Angie?»

«Solo papà mi chiama Angie. Non mi piace.»

Alis entrò nella stanzetta, che era stata ricavata con poco sforzo da uno sgabuzzino: era stretta e lunga, con una piccola finestrella quadrata sulla parete corta, un lettino a sinistra e sul lato opposto un mobile per metà chiuso come un armadio e per metà a scaffali pieni di contenitori di plastica accuratamente etichettati. Aveva lo stesso brio di una cella.

«Così questa è la tua stanza qui da papà?»

«No, è solo lo sgabuzzino.»

«Mh, in effetti lo sembra. Non ti piace, eh?»

«No.»

«È un po’ cupo, sì.»

Alis sedette sul lettino e capì che era una rete ripiegabile, molto leggera con un materasso di quelli arrotolabili. Come comfort era al livello di un dormitorio di leva.

«Com’è la tua stanza a casa della mamma?»

«Se eri Babbo Natale davvero la ricordavi» sbuffò lui, con un tono sarcastico che gli ricordava tantissimo Beldain.

«Non ho mai detto di essere Babbo Natale. Sono solo uno dei molti che lo aiutano» replicò lui facendogli l’occhiolino. «Fare la lista dei bambini buoni, leggere le letterine, fare le consegne… è troppo impegnativo per lui fare tutto da solo…»

«E perché sei qui? Devi vedere le case per dire a Babbo Natale da dove passare?» gli domandò con rinnovata curiosità. «Digli di non prendere l’ascensore, non ci passa con il sacco, mi sa.»

Alis rise. Angelus aveva preso molto di Beldain, anche se non ci viveva insieme per lunghi periodi: era sveglio, curioso e indagatore come lui.

«Glielo dirò, sì… ma pensavo che mi potessi aiutare a capire il tuo papà.»

«Porterà un regalo anche a lui?»

«Dipende. È un bambino buono o cattivo?»

«Con me è super cattivo.»

Il tono rancoroso del bambino spezzò il cuore di Alis. Voleva bene a Beldain dal profondo, erano amanti ma anche affezionati e vedeva tante qualità in lui: rendersi conto che era così perfetto come partner e così fallibile come padre lo mosse a compassione, sia verso l’uomo che il bambino.

Il suo sorriso era ridotto a una pallida smorfia. Allungò la mano per accarezzare la schiena di Angelus, che non si ritrasse a quella coccola. Istintivamente confortava il figlio come faceva con il padre.

«Ti va di dirmi come mai?»

«Non mi chiama mai quando sono a casa della mamma… quando ci vediamo non vuole guardare la tv con me, non andiamo al parco giochi, e non cucina mai niente di quello che mi piace!»

Alis lanciò un’occhiata contrariata alla porta, come se potesse vederci attraverso e fulminare Beldain. Per essere un uomo intelligente e un abile lettore dell’animo dell’uomo adulto era una schiappa assoluta con i bambini.

«Mh… e cosa ti piace mangiare?»

«Il panino con il pollo e la maionese! È il mio preferito!»

«Mh, delizioso! Con o senza il bacon?»

«Con!»

«Con il bacon è perfetto» convenne Alis. «Anche a me piace!»

«A papà no. Lui non lo mangia il pollo, e neanche la maionese. Non mangia niente a parte broccoli e altra roba con un brutto colore e un brutto sapore.»

«Ah, lo so, tuo padre è vegano… non mangia niente che provenga dagli animali…»

«È stupido, e non mi piace niente di quello che prepara lui. Ho sempre fame quando sto a casa di papà.»

Trattenne il sospiro affranto con molto sforzo. Se come adulto capiva e rispettava le convinzioni di Beldain, come uomo in età genitoriale poteva anche capire che per Angelus fosse incomprensibile e frustrante l’ostinazione del padre a imporgli le proprie scelte alimentari. Non voleva fargli una ramanzina dandogli l’impressione di essere troppo bambino per capire i grandi, quindi cercò qualche altro argomento per mediare tra i due. Senza un gran successo.

«È troppo tardi per la lettera?» fece Angelus, in una specie di pigolio.

«Uh? Quale lettera?»

«L’ho scritta con la mia tata, ma non l’ho fatta spedire alla mamma… lo so che lei le legge per sapere che cosa voglio ricevere.»

«Ah… e papà non te l’ha spedita, vero?»

Ebbe un istinto forte di andare a prenderlo per le orecchie quando vide il bambino annuire.

«Lui dice che non arriva in tempo. Ma tu sei qui, puoi fargliela avere oggi?»

«Ah… sì… però se hai chiesto qualcosa di speciale o di grande forse non ci sarà abbastanza tempo…»

«Fa lo stesso se il regalo non arriva dopodomani, ma se non arriva la lettera, dovrò aspettare fino al prossimo Natale, vero?» insistette agitato Angelus. «Nel film la bambina ottiene la nuova famiglia un po’ dopo il Natale, ma la lettera è arrivata in tempo!»

Alis era curioso di sapere che cosa desiderasse di tanto speciale da renderlo così agitato. Se aveva capito abbastanza di quel bambino, era certo che non fossero solo giocattoli.

«Puoi dargliela tu… oggi? Eh?»

«Ma certo che posso, sì. Ce l’hai qui?»

Angelus girò il suo peluche a forma di volpe e aprì la cerniera sulla sua schiena: ne caddero alcuni cioccolatini e un pacchetto di salatini al formaggio – le razioni d’emergenza di un bambino alle prese con un ostinato padre vegano – prima che ne estraesse una letterina stropicciata. Sulla busta c’era l’indirizzo di Babbo Natale al Polo Nord e un francobollo disegnato con molta perizia per essere l’opera di un bambino.

«C’è qualcos’altro che posso fare per te, Angelus?»

Il bambino rimise nel peluche le sue cibarie.

«Puoi portarmi un panino con il pollo? Anche più tardi, quando papà dorme. Resto sveglio ad aspettarti!»

«Vedrò che cosa posso fare, d’accordo? Ora vado a consegnare subito la tua lettera. È la cosa più importante, no?»

«Sì, grazie… ma tu, com’è che ti chiami?»

«Ho un nome un po’ particolare anche io, come te. Mi chiamo Oxalis, Oxalis Delmar.»

«Oxalis… è proprio strano! Che vuol dire?»

«Sono dei piccoli fiori. Crescono un po’ dappertutto, di certo li hai visti in giro. Una volta te li faccio vedere. Comunque, mi puoi chiamare Alis, come fa tuo papà.»

«Grazie per la lettera, Alis. È proprio importante che arrivi quest’anno.»

Alis sorrise e intascò la lettera nella giacca.

«Passa una bella serata con papà, Angelus… forse non è tanto bravo con i bambini, ma non credere che non ti voglia bene. Sono certo che ti ama molto, solo non lo sa mostrare.»

Il bambino non rispose, chiudendosi in una smorfia pensierosa. Alis passò la mano tra i suoi capelli simili a quelli di suo padre e lasciò la stanzetta. Fuori, Beldain l’aspettava appoggiato allo schienale della poltrona con una tazza di tisana in mano.

«Allora?»

«Allora sei un grosso stupido, Beldain. I bambini sono bambini, vogliono fare cose da bambini con i loro genitori. Non è tanto difficile da capire.»

«Tipo guardare cartoni animati per decerebrati? Farebbero diventare stupido anche Einstein. Non voglio che Angelus guardi quella robaccia.»

«Mettici un po’ di buona volontà, che diamine! Almeno potresti portarlo al parco giochi, o fargli guardare dei cartoni costruttivi. Insegnagli un gioco con le carte. Ingegnati un po’, quel bambino si sente in prigione.»

Beldain si limitò a scrollare le spalle.

«Ti va un goccio? È alla cannella.»

Alis acconsentì distrattamente mentre tirava fuori la letterina. Era il caso di darci uno sguardo subito e scoprire se quello che chiedeva era già nei pacchi che il padre aveva ammonticchiato in un angolo del soggiorno. La grafia era certamente di una persona adulta che simulava uno stampatello irregolare; doveva averla scritta la tata mentre Angelus dettava.

 

Caro Babbo Natale,

sono stato bravo quest’anno. Ho obbedito alla mamma e a Jim, e anche a papà, anche se mi dicevano di fare cose che non mi piacevano. Mi lavo sempre i denti prima di dormire, tutti i giovedì spazzolo Lola, rimetto sempre a posto i giocattoli e non litigo con i miei amici.

Ho tanti giocattoli e mamma mi compra quello che mi piace. Ho anche Lola, quindi non ho niente da chiedere per me. Vorrei che regalassi una casa nuova al mio papà. Ha una casa piccola, brutta e l’ascensore puzza un sacco. Non è tanto giusto perché papà è tanto grande, tanto bello e profuma sempre.”

Con un sorriso intenerito Alis girò il foglio.

Mi piaceva quando mi leggeva i libri, perché faceva le voci a tutti i personaggi, ma ora non lo fa più. Non mi porta mai a giocare, non guarda la tv con me, non disegnamo e non posso portare Lola a casa sua. Forse se ha una casa più bella sarà più felice e avrà voglia di fare più cose con me, potremmo giocare anche in casa e giocare con Lola. Puoi regalarne una bella a papà? Se non puoi basta che lo rendi un po’ più felice in un altro modo.

Spero tanto che lo farai.

 

ps. Se vuoi passare da noi, lascio lo stesso i biscotti anche se non porterai nessun pacco.”

 

Beldain allungò il collo per vedere cosa stesse leggendo, ma Alis piegò il foglio e l’intascò rapidamente.

«Lascia stare la tisana. Dobbiamo parlare, accompagnami di sotto.»

«Cosa?»

«Avanti, vieni.»

Beldain posò sul bracciolo della poltrona la tazza che gli aveva portato e lo seguì fuori, giù per le scale anziché in ascensore. Alis aspettò di arrivare al primo pianerottolo, fuori portata anche delle lunghe orecchie di bambini curiosi.

«Bel, tuo figlio si sente trascurato. Non gli dai abbastanza attenzioni.»

«Non lo vedo mai, non mi sorprende.»

«Puoi almeno chiamarlo per salutarlo e chiedergli com’è andata la giornata… come sta Lola, o qualsiasi altra cosa. Quando viene qui lo parcheggi in un ripostiglio triste come un sepolcro, santo cielo.»

«È un ripostiglio, Alis, che posso farci?»

«Non devi essere ricco per renderla accogliente, no? Tutto il pragmatismo e lo spirito d’iniziativa dove li lasci, in macchina o nel cassetto della scrivania? Dagli una mano di vernice colorata, mettigli un lettino vero, una coperta vivace… sgombera qualche scatola e fagli spazio per tenere dei giocattoli o dei colori…»

«Alis.»

«Non gli piace stare qui perché si sente un ospite indesiderato.»

«Ti ha detto così?»

«Con parole sue, ma sì. Ti sente freddo, e come tutti i bambini vuole sentirsi amato.»

«Una parete bianca invece che arancione vuol dire che non amo mio figlio?»

«Degli uomini adulti lo sanno questo, ma lui è un bambino, Bel. Misura il tuo amore con ciò che fai per lui, di materiale e non. Alle storie che gli leggi, alle cose carine che fai per lui.»

Il riferimento alle storie lo prese di sorpresa. Alis pensò che avrebbe incontrato meno resistenza se avesse capito che suo figlio era molto più acuto di quanto credesse, così gli porse la lettera.

«Leggi tu stesso. Forse puoi dare a tuo figlio quello che desidera per Natale.»

Con movimenti incerti, quasi goffi il suo segretario prese la busta e ne tirò fuori il foglio per cominciare a leggere. Man mano che scorreva la grafia sghemba si accigliava sempre di più, finché non girò il foglio e Alis notò gli occhi diventare lucidi e le labbra stringersi. Alla fine ripiegò la lettera, con il pomo d’Adamo che si mosse in modo inusuale.

Alis rimase teso, chiedendosi se non avrebbe visto Beldain piangere per la prima volta. Non accadde.

«Sarai contento, immagino… ti dà ragione su casa mia.»

«Oh, concordiamo anche su quanto tu sia bello e su quanto sia buono il profumo che ti ho regalato, ma non mi pare la cosa importante di questa lettera… posso farti una domanda molto seria, Bel?»

«Quale?»

«Non so nulla di come… beh, di come avete avuto Angelus, né della madre… ci tieni a tuo figlio, o sei solo obbligato a tenerlo ogni tanto?»

«Ma certo che ci tengo! Non mi sono mai, mai tirato indietro con lui. È stata Rose a portarlo via per crescerlo con l’aiuto dei suoi, ma io gli ho scelto il nome. Gli ho dato il mio cognome. Gli ho dato tutto quello che potevo.»

«No, questo non è vero… puoi fare di più. Sei un gran corteggiatore, no?»

«Cosa?»

«Corteggia tuo figlio, lo sai fare… capire che cosa piace alle persone e darglielo… incuriosirle, divertirle, farle sentire desiderate… è questo che devi fare» insistette Alis, sorridendogli per incoraggiarlo. «Se lasci passare troppo tempo lui ti ricorderà gelido… come tu ricordi tuo padre. Vuoi essere come lui?»

«Lo sai che non voglio. Ma mio padre non aveva nessun interesse per me.»

«Ma Angelus pensa la stessa cosa… non vuoi fare niente insieme a lui, o per lui. Quindi ora torna di sopra e corteggialo, hai capito? Le uniche cartucce da risparmiare sono quelle per soli adulti.»

«Oh, Alis, ti prego, per chi mi hai preso? A me piacciono più vecchi, dovresti saperlo.»

«Non ti licenzio per questo commento solo perché è Natale.»

«Così misericordioso, Presidente.»

Alis si fermò davanti alla porta dell’ingresso, sorridendo più convinto.

«Dalla tua faccia tosta direi che stai meglio… passate una bella serata tu e Angelus, d’accordo?»

«Sei… sicuro che vuoi andar via, Alis?»

«Devo andare al party, sono già in ritardo.»

«Ah… sì. Il party… sì, è vero… allora è meglio se vai. Divertiti, ma non guidare se bevi.»

«Non lo faccio mai, Bel.»

Alis si sporse per baciarlo e il suo segretario non si sottrasse, anzi lo trattenne afferrandogli il cappotto quando fece per uscire.

«Io… che programmi hai domani?»

Non ne aveva visto che aveva sperato di passare la notte con Bel, ma decise di non sbilanciarsi.

«Perché me lo chiedi?»

«Pensavo… se non avevi impegni, potevi… unirti a noi. Passare la vigilia con me e Angie.»

«La vigilia è tempo per la famiglia, Bel… e io non c’entro con voi due.»

«Ma tu sei il mio uomo, no? Che male c’è se conosci un po’ meglio mio figlio?»

«Beldain» l’interruppe in tono fermo. «È un po’ irritante che mi consideri il tuo uomo solo quando ti fa comodo e per il resto del tempo sono solo “il tuo preferito”.»

«Ma un marito non è, per significato, l’uomo preferito della moglie? È la stessa cosa.»

Beldain aveva un mezzo sorriso in faccia, ma sbatteva gli occhi un po’ troppo frequentemente. Era nervoso, ed era in assoluto la condizione più rara da vedersi. Alis gli accarezzò la guancia.

«Non mi sto tirando indietro. Voglio conoscere il tuo bellissimo figlio… ma prima deve sentirsi in famiglia con te, e dopo io, che sono la tua famiglia, posso far parte della sua. Andrà tutto liscio, Bel… tieni a mente quello che ti ho detto.»

Beldain lo strinse in un abbraccio serrato, quasi disperato, ma solo per pochi secondi.

«Grazie dell’aiuto, Alis.»

«Ho ripagato il debito di avermi portato la prima volta al club con te?»

«Dovrei fare qualche conto, ma potresti esserci riuscito.»

Alis gli diede un altro bacio, questa volta a stampo sulle labbra.

«Se hai bisogno di qualcosa chiamami… resterò sobrio per rispondere al telefono.»

«Credo che ce la caveremo.»

«Buonanotte, Bel.»

Sorrise al suo dipendente preferito e attese che fosse lui il primo a voltare le spalle per risalire le scale. Aprì la porta e uscì al freddo, con l’aria gelata che gli mordeva il viso. In realtà, conoscendo Beldain come lo conosceva, non era così sicuro che sapesse trattare Angelus da semplice – intelligente, ma semplice – bambino.

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Capitolo 2
*** Parte 2 - 24 dicembre ***


 

Beldain soffiò la sua irritazione dalle narici come un toro. Aveva quattro scaffali di libri e riviste in casa, ma niente che potesse andare bene per le orecchie o gli occhi di un bambino di sei anni. Scartato il piano lettura andò in cucina e passò in rassegna le credenze e il frigorifero: biscotti di frumento aperti da troppo tempo, vino, centrifugati pronti di mela e zenzero e un solitario pacco di farina suggerivano caldamente di ripiegare su qualcos’altro.

A livelli di disperazione già terribilmente alti, lanciò le mani tra i cuscini della poltrona e recuperò il telecomando. La televisione si accese con un singhiozzo e si ricordò come mai era nella sua lista dei prossimi acquisti: la preoccupante epidemia di pixel morti di un verde accecante.

La spense con un senso di sconfitta che non sarebbe stato peggiore se fosse stato al comando di un battaglione sgominato dai nemici. Sedette per terra davanti alla poltrona fissando il riflesso opaco sullo schermo spento, passò la mano tra i capelli di cui era così orgoglioso e sorrise con scherno a se stesso.

«Tutto qui? Tutto qui quello che riesci a fare?»

Aver saputo di dover tenere Angelus per le feste di Natale solo all’ultimo momento non era un’attenuante per la sua coscienza. La lettera di suo figlio a Babbo Natale l’aveva trapassato al cuore con un dolore che non ricordava di aver mai sentito, se non il giorno in cui Rose l’aveva messo in macchina e se l’era portato a duemila chilometri di distanza.

«Papà?»

Beldain girò la testa e tirò appena gli angoli della bocca quando Angelus si avvicinò a lui.

«Cosa fai seduto qui?»

«Pensavo.»

Angelus stropicciò la coda del suo peluche.

«Non fai neanche l’albero di Natale a casa?»

Il bambino lanciò uno sguardo ai pacchi regalo, ammonticchiati in un angolo spoglio. Beldain scrollò le spalle.

«Di solito ci sono solo io… non ne vale la pena…»

La delusione di suo figlio aveva raggiunto una fase che lo spaventò di più: una silenziosa rassegnazione. Non si aspettava più nulla di quello che aveva a casa dei nonni o della mamma, non da lui. Scrollando le spalle se ne tornò nella stanzetta senza dire una parola.

Passò la mano sugli occhi, per la prima volta svuotato di spirito d’iniziativa e di capacità di problem solving. Aveva sistemato situazioni critiche – per non dire impossibili – per Oxalis, senza esitare e senza perdersi d’animo, ma non gli riusciva di farlo con Angelus. Se solo Alis non fosse rimasto fuori tutta la sera per quel party aziendale…

Alzò la testa di scatto, folgorato da un’idea. Si fissò intensamente nel riflesso sul televisore mentre si pizzicava piano il labbro. Era un’idea azzardata, potenzialmente rischiosa… ma per la prima volta mise con coscienza la sua fiducia in una relazione.

«Angie! Ehi, Angie!»

Per poco non ribaltò la poltrona nella foga di rimettersi in piedi e Angelus, fermo sulla porta, lo fissò ammutolito.

«Angelus, senti, ti va se andiamo in un altro posto per questo Natale?»

«Tipo… una vacanza?»

«In un certo senso… senti un po’» insistette, e si accovacciò davanti a lui. «Ti andrebbe un posto con l’albero, le decorazioni, la tv grande il doppio della mia e un film di Natale?»

Si assomigliavano moltissimo, anche nel modo in cui cercavano di nascondere l’entusiasmo: Angelus strinse le labbra per non sorridere, ma gli occhi si erano accesi.

«Facciamo anche qualcosa di buono per cena, e i pop corn zuccherati. Che ne dici? Ti va?»

«Sì! Dov’è questo posto? È lontano?»

Beldain sorrise.

«Prendi il giubbotto, carichiamo i pacchi in macchina e andiamo!»

Angelus non indagò oltre: corse a prendere il giubbotto sulla sedia della cucina e si ficcò il berretto di lana a rovescio. Glielo sistemò e si caricò di nuovo i pacchi regalo tra le braccia. Prima di uscire arraffò le chiavi dell’auto, con un portachiavi a forma di cagnolino e una misteriosa chiave dalla gomma rossa.

 

***

 

«Ooh!»

Non erano neanche arrivati al vialetto che Angelus si era incollato al finestrino, abbagliato dalle vistose decorazioni di un intero quartiere in lotta per la gloria: c’erano Babbi Natale di ogni forma e dimensione, neon animati e luci che andavano dal bianco al blu ai classici rosso e verde, ghirlande, pupazzi di neve finta, slitte installate sui tetti e molte altre esagerazioni. Per Beldain erano sempre state sciocchezze, capricci quanto la posateria in argento o le molte tazze da tè di una vecchia signora, ma il suo bambino era felice come fosse a Disneyland.

«Papà, hai visto? Papà, guarda! C’è un trenino di Pandizenzero!»

«Sto guidando, Angelus» gli fece notare. «Non vuoi mica che investa una renna?»

Arrivarono a destinazione e Angelus corse su e giù ad ammirare la casa da fuori. Commentava le luci, gli adesivi sulle finestre, la ghirlanda sulla porta e le lanterne illuminate lungo il muretto dell’aiuola. Beldain fece due viaggi portando i pacchetti e dovette farne un terzo per riprendere Angelus, perso ad ammirare la renna luminosa nel giardino.

«Papà, è Rudolph!»

«Sì, è Rudolph… è la storia di Natale preferita da Alis. Su, vieni dentro, che c’è altro da vedere.»

«Evviva!»

Il bambino si scapicollò dentro e prese a girare, ridendo entusiasta di tutto quello che vedeva. Beldain dovette placcarlo col braccio e togliergli il giubbotto mentre si dimenava per continuare a correre per casa.

«È pieno di luci! C’è l’albero! C’è l’albero di Natale, papà!»

«Ti piace qui?»

«Sì! È bellissimo! Di chi è questa casa? È tua?»

«Lo sai che abito nell’altra casa… no, questa è di Alis. Lui adora il Natale, riempie tutto di gingilli…»

Lo sapeva eccome. Per la prima volta da quando era molto piccolo aveva allestito un albero di Natale e l’aveva fatto nel soggiorno di Alis. Forse era eccessivo prendersene il merito, visto che non aveva fatto altro che passargli palline, campanelle, bastoncini di zucchero e fiocchetti che lui sistemava con cura maniacale.

«È più bella della casa dei nonni! Davvero stiamo qui?»

Un’incertezza gli bloccò la voce. Data la natura della loro relazione non era del tutto certo che Alis sarebbe tornato a casa da solo dal party di Natale, ma questa volta decise di credere nella forza di quello che erano riusciti a creare.

«A lui non dispiacerà… allora, prepariamo qualcosa da mangiare?»

«Ti prego, non le lenticchie» lo supplicò il bambino.

Visto il tempo che passava a casa di Alis era certo di trovare abbondanti scorte per vegani oltre che per onnivori e golosi, categorie a cui apparteneva il suo presidente. Bastò aprire un paio di credenze per trovare caramelle, cioccolato, cereali, latte, pasta e preparati per ottenere più o meno tutto quello che un americano potesse desiderare di farsi per cena. All’apertura del frigorifero Angelus deglutì come se non mangiasse da settimane.

«Che ne dici se faccio il purè di patate? E le verdure dolci, a te piacciono quelle» osservò mentre spostava gli ingredienti per vedere meglio sui ripiani. «Poi… beh, scegli una cosa che ti va. Per oggi non mi lamento se vuoi mangiare le uova o la carne.»

«Davvero? Davvero davvero?»

Angelus saltellava sulla punta dei piedi: un’altra gioia e avrebbe spiccato il volo.

«In fondo, è una scelta che ho fatto io… se vorrai quando sarai più grande sceglierai la stessa cosa. Per adesso non insisto… allora, che vuoi per cena?»

«Queste! Posso mangiarle, papà?»

Istintivamente Beldain scosse la testa, ma prese il pacchetto di grasse salsicce senza un commento. Ci teneva che Angelus non mangiasse cibo malsano, ma per quei giorni di Natale preferiva vederlo felice che sapere di averlo rimpinzato di vitamine e minerali.

Spostò tutti gli ingredienti sullo spazioso ripiano della cucina e si mosse sicuro per trovare gli attrezzi necessari: conosceva bene la cucina, quasi quanto la camera da letto. Con il piede spinse fuori dall’angolo uno sgabello con le ruote e l’accostò al piano.

«Su, sali. Prepariamo la cena.»

«Anch’io?»

«Imparare a cucinare è molto importante per un uomo, sai? Non vorrai diventare grande e dover chiedere alla mamma di cucinarti qualcosa, o dover avere una fidanzata per non mangiare sempre al fast food!»

«La mamma non cucina sempre… a volte lo fa Jim» svelò Angelus, salendo sullo sgabello. «Lui torna a casa in tempo. La mamma però prepara sempre la colazione.»

Beldain abbozzò un sorriso. Da quel che ricordava Rose non era mai stata granché come casalinga, né una cuoca fantasiosa. Quanto a Jim l’aveva incontrato due o tre volte in occasioni così fugaci da poter raccontare di lui che aveva occhi chiari, vestiti scialbi e un atteggiamento cordiale.

«Di’ un po’… com’è Jim?»

Angelus aprì le braccia per lasciargli allacciare un grembiule troppo lungo per lui.

«È simpatico! Fa sempre scherzi e ridiamo tanto. Gli piacciono un sacco i cani e a Lola lui piace! Da un po’ mi sta insegnando a giocare a baseball.»

Mentre Beldain procedeva spedito con la preparazione della cena – e Angelus faceva qualche piccolo lavoro che gli dava l’impressione di aiutare – sentì dalla bocca del figlio che non aveva avuto un’impressione sbagliata di Jim: amante dei cani, ex giocatore di baseball e boyscout, ora organizzava gite in campeggio, allenava la squadra di softball e aveva un rispettabile impiego come manutentore del parco al liceo locale. Un classico bravo marito e bravo padre della classica famiglia americana, senza eccellenze né vistosi difetti.

Come uomo interessato soprattutto ad altri uomini Beldain avrebbe trovato terribilmente privo di interesse qualcuno come Jim, ma si sentì sereno all’idea che suo figlio venisse cresciuto da una figura come lui per la maggior parte del tempo. Avrebbe dato molto perché anche suo padre fosse stato il tipo di uomo che insegna a suo figlio a giocare a baseball o che cucina un piatto di stufato per la famiglia.

Le patate appena scolate fumavano nel lavabo e le salsicce sfrigolavano, controllate da Angelus che le pungolava con la paletta di legno continuamente. Beldain era così assorto che non si accorse del silenzio di suo figlio, né di come continuava a guardarlo.

«Papà… tu odi Jim?»

«Eh?» fece lui, distratto. «Odiare Jim? No, perché lo pensi?»

«Se lui non c’era potevi stare con la mamma…»

Si lasciò sfuggire un secco schiocco di labbra in disappunto.

«No, no. Jim non c’entra, sai, Angie? Io e la mamma… semplicemente abbiamo caratteri diversi. Troppo diversi. Litighiamo sempre su tutto, e lo facevamo anche quando tu non c’eri ancora. Anzi, è molto bello che ci sia Jim. Sono contento che faccia delle cose con te. Non voglio che resti solo com’è successo a me.»

«Il tuo papà non c’era?»

Schiacciare le patate era molto liberatorio. Riusciva almeno a parlare di lui senza ringhiare.

«Il mio papà viveva con me, ma non facevamo mai niente insieme. A lui non piaceva fare il papà. Ci sono anche delle persone così.»

Non voleva parlarne oltre. Non voleva che si facesse una cattiva idea dell’altro nonno, anche se per Beldain era stato il peggior genitore che si potesse diventare senza essere violenti, e non voleva che il suo pensiero inquinasse quel bel momento con Angelus. In verità il primo momento piacevole da due anni.

«Bene bene! Ora ti faccio vedere come si fa un purè delizioso. Senza le buste pronte, hai visto? Guarda bene, è una ricetta dell’altra nonna. Della mia mamma.»

Era pronto per un momento di gloria, ma la busta del formaggio – rigorosamente di origine vegetale – non ne voleva sapere di aprirsi. Grugnì anziché imprecare e cercò nei cassetti le forbici, senza riuscire a trovarle.

«Ma dove ha messo le forbici Alis? Porca miseria.»

Ripiegò su un coltello per tagliare la busta reticente.

«Papà?»

«Ho fatto, ho fatto. Allora, serve del burro, del formaggio e un po’ di noce moscata. È una spezia, sentirai com’è buono così! I vicini adoravano il purè della nonna così tanto che le chiedevano di prepararlo per le cene della parrocchia.»

Angelus diede solo un’occhiata distratta alla bottiglietta.

«Papà, Alis è il tuo Jim?»

All’improvviso ottenere un purè vellutato o sorvegliare le verdure non era più così importante per Beldain. Guardò gli occhi curiosi di suo figlio e poi vagò con lo sguardo per gli spazi della casa: rivide con la memoria le volte in cui avevano cucinato insieme proprio lì e la volta in cui avevano mangiato cereali glassati dopo una triste giornata al lavoro, il corridoio dove Alis – che non portava mai il cappello – a volte si divertiva a lanciare il suo sull’appendiabiti, e il divano scenario di innumerevoli momenti.

Spesso Alis si sedeva sul lato di destra e lo lasciava sdraiarsi con la testa sul suo grembo, e guardavano la televisione o parlavano di sciocchezze per ore. Una volta, proprio sistemati in quel modo, avevano parlato di com’era essere orfani… e Beldain gli aveva detto, in uno slancio di affettuosità senza precedenti, che preferiva considerare Alis la sua famiglia.

«In un certo senso» replicò lui, incerto.

In fondo, non aveva avuto il coraggio di parlargli di Angelus. Aveva ben poco a che fare con la retribuzione: in realtà aveva paura che sapendolo padre il loro legame perdesse la leggerezza che l’aveva sempre caratterizzato. Una relazione divertente, priva di impegni e di catene, uno stare insieme con slancio e tenerezza, ma senza vincoli…

Beldain guardò l’orologio. Il party era già iniziato da un po’, Alis doveva aver già fatto il suo giro per salutare tutti i dipendenti presenti dei quali ricordava facce, nomi e numero di figli. Probabilmente c’era musica alta e un fiume di alcol, che dubitava avrebbe evitato solo per potergli andare in soccorso. Ebbe un impulso egoistico, innaturale di chiamarlo. Lo trattenne gettandosi nella preparazione del purè.

Se l’avesse richiamato a casa strappandolo da una delle occasioni che aspettava per tutto l’anno soltanto per le sue incertezze con Angelus, avrebbe reso reale la sua paura. Avrebbe reso la sua paternità un problema.

 

***

 

I piatti vuoti erano ancora in cucina, una ciotola con i pop corn avanzati era abbandonata sul tavolino. Il grande schermo LCD di Alis era praticamente un cinema in confronto a quella scatoletta a casa di Beldain e Angelus era felicissimo di guardare Il Grinch attorniato da comodità e dolciumi, aggrappato al suo papà come un piccolo opossum. Quanto a Beldain, non ricordava un momento così intimo con Angelus da quando lo cullava per ore nelle notti in cui, neonato, soffriva di coliche.

Il rumore di un’auto potente si spense davanti alla casa e fece tendere le orecchie di Beldain. Lo sportello chiuso, passi sui gradini, tintinnio di chiavi. Beldain si districò da Angelus.

«Arrivo subito, Angie. Resta qui.»

Andò all’ingresso senza accendere alcuna luce, perché le molte decorazioni natalizie lampeggianti erano sufficienti per qualcuno che aveva familiarità con la posizione dei mobili di casa. Al di là della porta Alis fece più tentativi di infilare la chiave nella toppa.

Ha bevuto.

La porta alla fine si aprì. Nella luce dei lampioni esterni Beldain si accorse che nevicava. Alis accese la luce dell’ingresso ed ebbe un sussulto nel vederlo lì in piedi, ma gli sorrise. Il suo sguardo non sembrava affatto annebbiato; era accartocciato nella posa e spolverato di fiocchetti bianchi ma non aveva l’odore né la cera di uno che avesse dato fondo alla bottiglia.

«Bel, che sorpresa! Non pensavo di trovarti qui!»

Non si sentiva in colpa per aver pensato che Alis avrebbe bevuto molto, ma perché si era sentito deluso che non si fosse preoccupato della sua situazione con il figlio. Per cancellare quel biasimo di se stesso l’aiutò a sfilarsi la giacca.

«Come mai sei a casa così presto?»

«Sai, dopo una certa ora è divertente perché si è tutti alticci, ma è un po’ preoccupante essere l’unico sobrio. Sono rimasto a consegnare le gratifiche e poi ho pensato di tornare…»

Alis sorrideva con una tenerezza che aveva visto rare volte.

«Volevo cambiarmi e vedere se avevi bisogno di aiuto… Dov’è Angelus?»

«È di là… io… mi spiace se l’ho portato qui senza chiedertelo, Alis.»

«Ma di che parli? Ti ho dato le chiavi perché è anche casa tua, quando vuoi. Te l’ho detto cento volte» abbozzò lui, e sbirciò in cucina e in soggiorno. «Ah, eccoti, Angelus!»

«Ciao!»

«Oh, film di Natale, divano e pop corn? Questa è una festa che mi piace, posso partecipare?»

«Certo che puoi, è casa tua» commentò Beldain. «Faccio degli altri pop corn, questi sono freddi.»

«Ma vanno bene, non ti preoccupare!»

Alis si era già affondato nel divano e aveva arraffato la sua coperta preferita – blu con un raccapricciante effetto peloso – mentre si sfilava le scarpe. Beldain prese la ciotola.

«Siediti qui con noi, lascia stare!»

«Angelus, di’ ad Alis come si mangiano i pop corn zuccherati.»

«Caldi!»

«Sentito? Faccio in un attimo.»

Si spostò in cucina – avevano lasciato una baraonda di confezioni vuote, briciole e utensili usati – e cercò un altro pacco di mais quando sentì spegnersi l’audio del film.

«Aspettiamo papà!»

«Okay» concordò Alis. «Allora? Com’è andata fino adesso?»

«I miei amici dicono che Babbo Natale non li accontenta mai, e che bisogna chiedergli le cose tanto tempo prima… ma non è proprio vero! È un lampo!»

Beldain aprì il pacchetto facendo meno rumore possibile.

«Lo hai visto felice?»

«Sì! Gli piace questa casa» fece Angelus allegro. «È diventato subito più contento!»

«Angelus… sai, penso che un po’ ti sbagli.»

«Ah, sì?»

«Non è la casa… sei tu. Sei tu che lo rendi più felice. Poterti dare quello che ti piace… farti guardare il film, cucinare qualcosa, stare con te in un posto dove non ti senti triste… è per questo che papà è felice.»

Non sentì risposte da Angelus, ma forse fu colpa dei pop corn che scoppiettavano contro il coperchio della pentola. Accorgersi di aver dimenticato lo zucchero scatenò un minuto di delirio in cui combatté con chicchi di mais sparati come lapilli per aggiungerlo a metà preparazione.

«Uff» sbuffò quando rimise il coperchio.

Si bloccò quando vide Alis che lo guardava dalla porta, una risata silenziosa già in volto.

«Tu… non raccontarlo a nessuno.»

«Non ci contare!»

Le sue sibilanti minacce vennero del tutto ignorate con uno scoppio di risa allegre mentre Alis spegneva il fornello e rovesciava i pop corn caramellati – un po’ a macchia di leopardo – nella ciotola.

«Per stasera dormite nel mio letto, va bene?»

«Cosa? E tu dove te ne vai?»

«Starò sul divano… non fare quella faccia» l’anticipò lui. «Lo sai che mi piace quel divano. Quante volte mi hai trovato addormentato lì?»

Beldain istintivamente aprì bocca per ribattere, ma poi capì che era la migliore soluzione. Il divano sarebbe stato troppo piccolo per lui e Angelus, ed era impensabile mettersi a letto con il suo partner e lasciare Angelus in soggiorno.

Alis fu soddisfatto della sua arrendevolezza, questa volta.

«Domani mattina la cameriera viene a ripassare le stanze… le chiederò di mettere le lenzuola nella seconda camera.»

Con un boccone di pop corn caramellati si tagliò fuori da una discussione e tornò da Angelus, chiedendo di far largo alla “pentola della cuccagna”. Beldain provava ancora sentimenti contrastanti, diviso tra l’orgoglio ferito e il sollievo di essere aiutato da qualcuno.

Il commento di Alis era un sottinteso invito a restare entrambi a casa sua per la vigilia di Natale. Pregustare l’allegria di Angelus in quei giorni in cui avrebbe potuto giocare, divertirsi e mangiare senza il desiderio di ritornare dai nonni fece sentire Beldain fiero di essere un papà, come non si sentiva da molto tempo.

 

***

 

Se Beldain si rallegrava che il figlio gli assomigliasse era in un campo preciso: come lui, amava i libri. Non che sapesse leggerli da solo, puntualizzò con se stesso, ma era sicuro che appena finito il primo anno di elementari avrebbe iniziato a divorarli.

Lo guardò rimbalzare da uno scaffale all’altro, tirare fuori volumi per guardarne le copertine e leggere i titoli aggrottando le sopracciglia e scandendo le sillabe con le labbra. Se Angelus era più entusiasta per il reparto bambini e ragazzi della libreria che della corsia dei giocattoli era senza dubbio merito suo: Jim era un tipo sportivo e avventuroso che preferiva farlo giocare all’aria aperta e Rose era troppo occupata tra cosmetici e trattamenti di bellezza per impiegare il suo tempo libero nella lettura. Per sua stessa ammissione non aveva più aperto un libro da quando aveva finito il liceo.

Angelus andò da lui e gli consegnò il vincitore della lotteria di Natale di casa Withers. Era un volumetto dal dorso bianco con illustrazioni buffe, un libro consigliato fino ai sei anni.

«Voglio prendere questo!»

«Ma è molto corto… vedi com’è scritto grande? Lo finiremo subito.»

«Allora ne prendo un altro» tagliò corto lui. «Questo lo voglio! Mi fa ridere il titolo!»

Tornò a setacciare lo scaffale mentre Beldain scuoteva la testa divertito. Il libriccino si intitolava Il fantasma nel tinello. Si girò per commentarlo con Alis, ma non lo vide. Non riuscì a trovarlo in nessun reparto della libreria e scrollò le spalle.

Se si annoiava ad aspettarci poteva dirmelo che ci saremmo rivisti fuori...

Angelus fu di ritorno dopo poco, con due libri tra i quali non riusciva a scegliere. Beldain ne lesse il riassunto per praticità del suo bimbo, e allora lui optò per La collina delle volpi bianche.

«Ottima idea, penso che sia più bello dell’altro!»

Beldain si voltò verso Alis mentre tirava fuori il portafogli.

«Ah, eccoti. Dov’eri sparito?»

Lui gli si appoggiò alle spalle in modo a dir poco innaturale e lo sospinse verso la cassa. Dopo essersi assicurato che Angelus fosse distratto dai coloratissimi gadget in un espositore vicino gli accostò le labbra all’orecchio.

«Ho fatto qualche pensierino per la sera di Natale. Spero non ti dispiaccia se ho pensato un po’ anche a noi due.»

Ben lontano dal dispiacersi Bel tese un sorrisetto.

«Che cosa ti passa per quella testolina perversa, Alis? Abbiamo il bambino in casa.»

«Oh, non te ne preoccupare. Non farei niente che potrebbe turbarlo.»

L’aveva stuzzicato in un lato che negli ultimi giorni, con l’arrivo imminente e inatteso di Angelus, aveva messo a dormire. Non credeva che sarebbe mai stato possibile vivere entrambi i suoi ruoli nello stesso momento.

«Scusi, signore» lo riscosse il commesso. «Devo conteggiarlo, questo? L’ha preso il bambino.»

Si trattava di un segnalibro colorato, infilato nella copertina non tanto nel tentativo di rubarlo quanto di farlo pagare al padre senza che se ne accorgesse.

Angelus dondolò sui piedi da un lato all’altro, ricambiando la sua occhiata con un sorriso smagliante. Alis emise un risolino.

«È proprio uguale a te, santo cielo.»

«Perché l’hai preso, Angelus?»

«Per tenere la pagina, no?»

«Si può usare di tutto per tenere la pagina… persino lo scontrino.»

«Mi piace molto, papà.»

«Non sai neanche cosa c’è scritto, è in francese.»

«C’è una volpe!»

Beldain non aveva alcuna intenzione di fare le pulci per un segnalibro, quindi acconsentì ad aggiungerlo ai due volumi. In una prossima occasione glielo avrebbe letto, Il piccolo principe.

 

***

 

Angelus sgusciò tra due ragazze in precario equilibrio, ma se Beldain l’avesse seguito le avrebbe buttate a terra. Disegnò una curva ampia – con gran facilità – per passare alla loro sinistra e riacciuffò suo figlio per il cappuccio. Lui rise forte e gli si aggrappò al braccio.

«Sei veloce, giovanotto.»

«Me lo ricordo quando mi hai insegnato a pattinare» disse Angelus, con un sorriso da un orecchio all’altro. «Sullo stagno ghiacciato a casa! Mi tenevi le braccia per non farmi cadere, ma sei caduto anche tu.»

«Mi fa ancora male il sedere in quel punto, se mi siedo in un certo modo.»

«La mamma diceva di tornare e tu le dicevi sempre ‘altri cinque minuti’.»

Ricordava bene quell’inverno. Teneva Angelus con lui sul ghiaccio per poter passare un po’ di tempo senza essere monitorato da Rose e dai suoi genitori come un pedofilo. L’aver scoperto che aveva frequentato un uomo prima di lei l’aveva reso colpevole delle più orrende perversioni immaginabili, ai suoi occhi.

«Però non pattinavi così bene quando ti ho lasciato.»

«Ho detto a Jim di insegnarmi! Sono contento che sono riuscito a farti vedere quanto sono diventato bravo!»

Detto ciò lasciò il braccio e fece una piroetta. Alcune persone vicino a loro lo guardarono con meraviglia e lanciarono occhiate lusinghiere a Beldain, che fece loro un cenno con la testa.

«Ora sei più bravo di me. Non so che cos’altro posso insegnarti.»

«Tu che cosa hai fatto a scuola? Jim giocava a baseball, e tu?»

«Ah… no, io… per qualche anno ho giocato a pallavolo. Senza particolare ambizione, tanto per…»

Suo padre sedeva indifferente in poltrona, davanti alla televisione. Sua madre gridava per cercare una sua reazione su qualche problema, ottenendo solo lacrime e un feroce mal di testa. Ogni scusa era valida per restare fuori casa fino a sera e sottrarsi alla maggior parte di queste scene infelici.

«Tanto per fare un po’ di sport» concluse in un mormorio.

«Pallavolo! Insegnami a giocare a pallavolo!»

La scena del suo passato scomparve dalla sua mente, ma non le sensazioni che l’accompagnavano. In parte, almeno.

«Ti va davvero?»

«Forse mi piace di più del baseball!»

Beldain tese un angolo della bocca. A lui questo suonava come se il figlio cercasse altre somiglianze, altri punti di contatto con suo padre anziché con Jim. Non aveva mai sentito prima tanta vicinanza con lui.

«Ti insegnerò… ma quando sarà caldo. Adesso si gelano le dita e ci si fa male.»

L’incertezza raffreddò il sorriso del piccolo, che gli cercò la mano per stringerla tra i suoi guanti di lana.

«Promesso?»

«Certo… comprerò il pallone prima delle vacanze di primavera e chiederemo alla mamma di farti venire da me. Ti va?»

Angelus annuì più convinto. Uno dei molti elfi lungo il bordo della pista scampanellò, annunciando la fine del tempo per i numeri dieci, dodici, ventotto. Loro avevano il numero dieci attaccato ai pattini a nolo.

«Tempo scaduto, Angie… andiamo a prendere qualcosa di caldo, non mi sento più il naso.»

Si accodarono ai ragazzi col numero ventotto per lasciare la pista e si inginocchiò per sfilare i pattini ad Angelus. Il bambino si guardava intorno mentre gli massaggiava i piedi.

«Ma dov’è Alis?»

«Bella domanda. Non fa che scomparire» commentò lui, rimettendogli le scarpe. «Non so proprio cosa abbia in testa.»

Beldain aveva l’idea di chiamarlo per sapere dove fosse finito, ma appena il tempo di lasciare la pista e lui riapparve, con una sporta di carta e dei bicchieri da asporto fumanti.

«Ma dove sparisci di continuo?»

«Sono andato a prendere caffè per me, cioccolato per Angelus e tè alle spezie per te» fece lui, distribuendo i bicchieri. «E a prendere qualcosa di divertente!»

«Ancora?» fece Beldain, incapace di trattenersi.

Ma il genere di divertimento a cui alludeva stavolta era decisamente a misura di bambino: strappò un gridolino gioioso ad Angelus mettendogli sulla testa un buffo berretto di lana con orecchie e muso di volpe, e soddisfò il proprio bambino interiore indossandone uno col muso di un Akita inu. Con suo scorno Alis ne aveva anche per il terzo di loro.

«Dai, è Natale! Non vedi che un sacco di gente ha addosso la roba più pacchiana del mondo senza vergognarsene? A te, poi, sta bene tutto!»

Oliandolo in quel mondo lo convinse a mettere il berretto sui suoi curati capelli, un copricapo bianco da pupazzo di neve. Con il naso a carota sporgente sembrava un unicorno e Angelus, ridendo a crepapelle, non si fece problemi a dirglielo.

 

***

 

Dopo quello e un altro veloce giro, Alis insistette che tornassero a casa in tempo per preparare la cena con comodo. Come nulla fosse parlò di tacchino, di zuppa di pane e legumi, di piselli al burro e altre alternative di contorni mentre scaricavano i loro acquisti e rientravano in casa. Nonostante l’emozione del momento continuò a parlare di pandizenzero e meringhe, fingendo di non accorgersi che Beldain e Angelus erano fermi nell’ingresso, sbalorditi dai cambiamenti del soggiorno.

«Alis… cos’è?»

Una teca del soggiorno che conteneva la collezione di minerali di Alis era stata spostata per far spazio a una tenda verde scuro, simile a quelle indiane, adorna di lucine che lampeggiavano. L’aveva riempita di coperte e cuscini per renderla un giaciglio comodo e veniva sorvegliata da un enorme peluche di orso, grande quanto Angelus.

Il bambino si lanciò all’esplorazione subito, mentre Beldain guardò Alis senza riuscire a spiccicare una parola. Era riuscito a stupirlo persino di più della volta in cui si era fatto trovare chiuso nella gabbia per cani al piano di sopra.

«Non è il posto perfetto per leggere? Grande abbastanza per voi e un piatto di biscotti… almeno finché Angelus non crescerà. Ma potrà ancora usarla per leggere da solo, o starci sdraiato con il suo cane mentre tu leggi dal divano.»

«Ma quando… hai…?»

Ma prima di finire la domanda sorrise come chi aveva capito.

«Quando sei sparito alla pista di pattinaggio.»

«In realtà ho comprato tutto mentre eravate in libreria. Ho ordinato che mi consegnassero a casa e che mi chiamassero quando erano lì. Martha gli ha aperto con la copia della chiave e ho controllato che sistemassero tutto così com’è.»

«Io… sarò sincero, Alis, penso che ti stai spingendo troppo oltre. Non so che cosa ti aspetti in cambio, e…»

«Bel, di cosa parli? Voglio che sei felice con tuo figlio per tutto il tempo in cui starà qui. Vi voglio felici tutti e due. Io adoro queste storie di Natale, di famiglia, e tutto il resto. Lo sai!»

Posò la mano sulla spalla di Beldain e lui, sospirando, posò la sua sopra.

«Lo sai che non posso ricambiare con niente di… concreto?»

«Siete qui con me per Natale… un Natale che se no avrei passato da solo. Mi ritengo ripagato pienamente… soprattutto se adesso sorridi e mi dici ‘grazie, Alis, sei il migliore’.»

Beldain ridacchiò.

«Grazie, Alis. Sei il migliore.»

«Ora sono ripagato» sentenziò lui, e gli schioccò un bacio sul collo. «Che ne dite se inizio a cucinare mentre leggete qualcosa? Però ad alta voce che voglio sentire anch’io del fantasma nel tinello.»

Angelus si precipitò a prendere il libro e solo dopo pensò di togliersi il giubbotto, ma non il berretto. Mentre si installava nella tenda Beldain prese Alis per il colletto e gli rubò un bacio breve.

«A volte penso che ti adoro, signor Delmar.»

«Io penso quasi sempre che ti adoro, signor Withers.»

Alis lanciò un’occhiata ad Angelus solo per notare che li aveva visti bene. Tuttavia sorrideva in modo così spontaneo che non poteva pensare che trovasse qualche ragione per non volere suo padre insieme al fedele assistente di Babbo Natale.

 

***

 

Beldain posò Il fantasma nel tinello sul divano e si alzò senza far rumore. Prese il piattino degli omini di pandizenzero di Alis e mise il superstite nel piatto di Babbo Natale, lasciato davanti al caminetto elettrico. Angelus continuò a dormire, infilato a metà nella tenda, senza alzare un sopracciglio.

Era stata la più bella vigilia di Natale della sua vita, eppure non riusciva a non sentirsi il cuore pesante. Non riuscì a fingere un sorriso convincente neanche ad Alis, che smise di riordinare la cucina.

«Bel… che c’è? Come mai quella faccia?»

«Sono stanco…»

«No che non lo sei.»

«Porto a letto Angelus e ti aiuto con i piatti» replicò atono Beldain.

Alis lo trattenne stringendogli l’avambraccio, ma la sua presa divenne quasi subito una carezza.

«Che cosa c’è che non va, Bel?»

Vedere Angelus dormire nella tenda illuminata, stanco dopo una giornata fitta e tante belle esperienze, gli dava gioia e dolore mescolati. Si mordicchiò il labbro e quando prese una decisione strinse il pugno.

«È stata la più splendida giornata mai passata con lui. Vorrei che ne avessimo tante, tante altre.»

«E sarà di certo così» l’incoraggiò Alis.

Beldain però scosse la testa.

«Faccio… orari di lavoro troppo lunghi e la mia casa… hai visto com’è. Gli assistenti sociali me lo fanno tenere soltanto in caso di emergenza, quando sua madre e i nonni non possono. Ho diritto di vederlo, ma non di tenerlo a casa con me per le vacanze.»

«Perché lo lasceresti da solo in un ambiente non idoneo?»

Alis conosceva gli assistenti sociali anche troppo bene per non citarne quasi alla lettera le sentenze standard. Beldain chiuse gli occhi come se quelle parole l’avessero bruciato.

«Questo potrebbe non accadere più, Bel. Se solo tu lo desideri.»

«Come potrei? Alis, sai che io sono… un assistente. Non posso prendere la paga di un dirigente o di un ricercatore.»

«No… ma io ti ho dato le chiavi di questa casa. Perché tu la usassi come se fosse tua» insistette con tenerezza. «Pensi che, se vivessi qui, ti darebbero il permesso di tenerlo per le vacanze? Lo trovo un ambiente decisamente idoneo.»

Beldain lanciò uno sguardo pieno di speranza al berretto che nascondeva la testa di suo figlio, mentre il suo orgoglio ruggiva come una pantera ferita.

«Alis… se tu… se tu lo facessi, il nostro rapporto non sarebbe più quello di prima.»

«Cioè?»

«Vivendo nella tua casa, anche tu sarai parte dell’equazione. Anche il tuo modo di vivere influenzerà me e Angelus… e il nostro limiterà il tuo. Tra di noi non potrà più esserci quella libertà e quella leggerezza che abbiamo tanto cercato.»

«La leggerezza non sta nell’andare e venire da casa, Beldain. Evitare le scenate, non farci prendere dalla gelosia, lasciarci gli spazi necessari per essere individui prima che una coppia: erano questi i termini della nostra relazione, non è così? Siamo uomini intelligenti e credo che possiamo persino vivere insieme senza trasformarci nottetempo in una coppia di vecchi scorbutici sposati da quarant’anni.»

Turbato dalle sue parole quanto dalla reazione che gli suscitavano, Beldain si girò per guardarlo.

«Lo faresti veramente? Per me?»

«Per te, sì. Ma anche per Angelus, che è felice che tu abbia un posto migliore. E per me. Tu sei la famiglia che mi sono scelto, e se ti sta bene voglio scegliere anche Angelus. Fa lo stesso se non mi chiama papà, va benissimo zio. O fratellone

«Ma se sei più vecchio di me» commentò Bel, incapace di trattenersi.

«Non essere impertinente, giovanotto» ironizzò l’altro, sorridendo. «Andiamo… che hai da perdere? In pratica tu ci vivi davvero qui, c’è un armadio tuo di sopra, la tua roba nel bagno e hai una copia delle chiavi. So che ti spaventa la parola, ma si tratta solo di ufficializzare.»

Ebbe un fiacco sussulto, l’eco di un brivido a quella parola.

«Al di là di quello che diremo agli assistenti sociali, non vuol dire che dobbiamo smettere di uscire o di giocare e diventare vecchi e noiosi di colpo. Da parte mia, sarà tutto come è adesso, a parte quando il tuo piccolo imprevisto sarà qui da te.»

Il tremendo sollievo di sentirglielo dire con tanta semplicità sciolse le sue ultime paure e mise d’accordo il cuore con l’orgoglio. Lo strinse in un abbraccio lungo abbastanza da far depositare il polverone delle sue emozioni e riprendere il controllo e l’attitudine di sempre.

«Immagino che dobbiamo far sparire la gabbia per cani…»

«Andiamo a prendere un cane al canile. Andiamoci con Angelus prima che torni da sua madre.»

«Mh… casa, bambini, cane… manca la staccionata bianca.»

«A primavera la mettiamo.»

Beldain rise, ancora stretto a lui.

«Ti prego, non lo sopporterei.»

«Hai ragione… non si abbina alla casa, è troppo moderna. Pensavo a una cancellata di ferro battuto. Qualcosa di basso, sul semplice. Non voglio che sembri un cimitero gotico. O magari un muretto dipinto.»

Alis lo lasciò andare e riempì la lavastoviglie, continuando a parlare di migliorie come la vasca da bagno nei servizi più piccoli al piano di sopra – molto adatti a un bambino, riteneva – e le pareti ridipinte nella camera da letto degli ospiti. Ipotizzò addirittura di avviare quella ristrutturazione nella mansarda che aveva in mente da due anni.

«Alis… e per il club?»

Alis impostò il lavaggio prima di voltarsi. Aveva un’espressione molto seria.

«In realtà, io ho smesso di andarci da qualche mese» gli rivelò a sorpresa. «Ma non devi sentirti obbligato a chiudere. Stiamo insieme come abbiamo fatto tutto questo tempo… e chiuderai se e quando sentirai che non ha più niente da darti. Com’è successo a me. Prometto di non fare scenate quando ci vai.»

Sopraffatto dall’emozione, sul momento non replicò. Alis non sembrava aver bisogno di una risposta, perché si mise a coprire con cura il piatto degli avanzi con la pellicola. Beldain lanciò uno sguardo fuori dalla cucina, verso Angelus: dormiva ancora, ma si era girato sul fianco e aveva perso il berretto.

A sorpresa, sentì le braccia di Alis strizzarlo e un bacio giocoso dietro il suo collo.

«Buon Natale, Bel!»

Dopo aver girato la testa da un lato all’altro, confuso, si accorse che la lancetta aveva passato il dodici da qualche minuto. Era ormai il 25 dicembre, e la miglior mezzanotte di Natale che ricordasse.

«Metti a letto il bambino… voglio proprio darti il tuo regalo» gli sussurrò all’orecchio Alis. «Muoio dalla voglia… prometto che non resterai deluso…»

Era confuso, ma in modo piacevole. Due lati belli della sua vita complicata si stavano mescolando e contro ogni aspettativa sembravano anche combinarsi bene. Non trovò di meglio che fare un sorrisetto ad Alis prima di andare in salotto.

Angelus dormiva come un sasso. Lanciò il berretto di lana sul bracciolo del divano e spense le lucine della tenda mentre si immaginava una vita, da mattina a sera, accanto al suo partner e principale. Non vedeva molte differenze con la situazione fino al giorno precedente, eppure la guardava con entusiasmo e inquietudine, come un’avventura nuova.

Non si era sbagliato: la sua paternità aveva davvero ucciso la leggerezza della loro storia. Ma mentre prendeva in braccio Angelus, che sorrideva nel sonno, si accorse che nessuno dei due l’avrebbe rimpianta.

 

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