Il risveglio della mummia

di Orso Scrive
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo primo ***
Capitolo 2: *** Capitolo secondo ***
Capitolo 3: *** Capitolo terzo ***
Capitolo 4: *** Capitolo quarto ***
Capitolo 5: *** Capitolo quinto ***
Capitolo 6: *** Capitolo sesto ***



Capitolo 1
*** Capitolo primo ***


CAPITOLO PRIMO

 

 

Il dottor Henry Thompson non riusciva a credere ai propri occhi.

Eppure, il portale d’ingresso alla cripta, ormai libero dalla sabbia che lo aveva ostruito per oltre trenta secoli, era lì, dinnanzi ai suoi occhi, più vero e concreto che mai. D’altra parte, quando il curatore del British Museum lo aveva spedito in Egitto per saggiare il terreno in vista di una nuova stagione di scavi presso la necropoli di Tebe, nessuno si sarebbe mai potuto aspettare che lui stesso effettuasse una scoperta, per altro in così breve tempo e per un caso davvero fortuito, nonché a quasi cinquecento chilometri di distanza da quella che sarebbe dovuta essere la sua meta.

Osservò l’incisione in caratteri geroglifici sopra l’architrave della porta ancora murata dagli originari suggelli; l’antica scrittura s’era conservata perfettamente ed il dottore, reso abile da anni ed anni di studi, riuscì a decifrarla nel giro di una manciata di minuti solamente, dopo averla ripulita dalle ultime incrostazioni di sabbia. Quella frase lo lasciò un po’ sorpreso, poiché non ricordava di essersi mai imbattuto in qualcosa di simile da nessun’altra parte. Solitamente, sopra gli ingressi delle tombe, si leggevano frasi beneauguranti per l’anima del defunto, oppure inviti ai parenti a compiere i riti sacri affinché il Ba del morto potesse trovare la strada per la Duat, l’aldilà; al massimo, s’invocavano botte e pugnalate per i ladri che avessero cercato di profanare il sepolcro. Questa, invece, era di tutt’altro tenore; sebbene fosse certo di poterla naturalmente tradurre molto meglio dopo un’analisi maggiormente puntigliosa, era sicuro che la frase dicesse pressappoco queste parole, una vera e propria maledizione:

 

«Avete voluto spingere i vostri passi sino alla soglia della tomba del faraone!

Attenti, a dove indirizzate i vostri passi!

Pochi hanno osato varcare questa soglia e nessuno di loro è mai ritornato!

Osiride mi è testimone che siete stati messi in guardia!»

 

Davvero strano. Peraltro, non c’erano neppure dei cartigli che indicassero chi potesse essere, il faraone lì sepolto, come se qualcuno avesse preferito mantenerne celata l’identità.

Il dottor Thompson scrollò le spalle, consapevole che le risposte sarebbero arrivate tutte quante un po’ per volta, s’infilò in tasca il taccuino e, detergendosi con un fazzoletto il sudore che gli imperlava la fronte sotto il casco coloniale, volse le spalle all’ingresso del sepolcro e risalì la scala intagliata nella pietra che i suoi spalatori avevano riportato integralmente alla luce.

Nonostante le apparenze - non un solo muscolo del suo volto impassibile s’era mosso sin dal momento della scoperta - smaniava dalla voglia di aprire la porta per vedere che cosa si nascondesse all’interno dell’antica camera sepolcrale; tuttavia, nel suo telegramma a Londra, aveva fatto solenne promessa al curatore, il professor Summerlee, che non avrebbe proseguito oltre nello scavo fino al suo arrivo, che sarebbe avvenuto alcuni giorni più tardi.

Uscito all’aperto, sotto il caldissimo sole di mezzogiorno, che faceva riflettere la distesa di sabbia e di roccia circostante come uno specchio e rilucere di mille sfavillii le verdi acque del Nilo poco lontano, decise di rientrare nella propria tenda, approfittando della forzata inattività per stendere una relazione dettagliata della sua scoperta, da presentare a Summerlee non appena fosse giunto in Egitto.

Lanciò una rapida occhiata al campo base, un insieme di tende bianche ed impolverate erette tutt’attorno alla tomba, che in quel momento appariva deserto, poiché tutti, archeologi e lavoratori locali, si erano rintanati nelle proprie tende od in quella più grande per il pranzo, poi gettò uno sguardo al maestoso tempio, ancora incapace di credere che potesse essere tutto vero e non, invece, un sogno ad occhi aperti. Alla fine, raggiunse la fresca penombra del suo alloggio, dove poté finalmente togliersi il copricapo e rimboccarsi le maniche della camicia.

Si versò un bicchiere d’acqua da una brocca e si mise a sedere di fronte alla macchina da scrivere, cercando di fare mente locale sul modo in cui iniziare a scrivere. Pensò che, forse, avrebbe fatto meglio a rileggere i propri appunti sul diario che teneva quotidianamente, prima di cominciare a battere la relazione. Afferrò il quaderno dalla superficie polverosa del tavolo pieghevole e, sfogliandolo, ritornò al momento in cui aveva descritto il proprio arrivo ad Alessandria, alcuni giorni addietro. Saltando alcune parti, ritrovò il punto in cui con la sua grafia sottile e sbilenca descriveva il momento in cui s’era imbattuto nell’uomo che gli aveva spalancato le porte a quella straordinaria scoperta…

 

La calca, nel suq, rendeva quasi impossibile riuscire a muoversi.

Qua e là, si levavano i profumi delle spezie più disparate, mentre tintinnii di metallo si udivano provenire dalla bancarella dove una donna dal capo velato stava valutando la robustezza di alcuni tegami di rame che intendeva acquistare. Nei pressi di una fontana, una giovane era invece intenta ad attingere dell’acqua da portare a casa. Ogni rumore, però, veniva rapidamente sommerso dal vociare della folla e dalle urla dei venditori che reclamizzavano le proprie mercanzie.

Thompson si domandò che cosa diavolo lo avesse mai spinto, quel pomeriggio, a visitare il mercato; dopo aver parlato con il governatore ed aver ricevuto il permesso di condurre scavi a Tebe, avrebbe decisamente fatto meglio a rientrarsene in albergo in attesa che il professor Summerlee lo invitasse ad intraprendere lui stesso le prime ricerche oppure a fare rientro in Inghilterra. Il dottore doveva ammettere che, questa seconda ipotesi, lo stuzzicava parecchio. Era stato un abile egittologo, in gioventù, e si era appassionato parecchio alle ricerche lungo tutta la Valle del Nilo; inoltre, era pure uno stimato conoscitore della lingua e della letteratura dell’antico Egitto, nessuno poteva negarlo e lui stesso non ne aveva mai fatto segreto. Ma, oramai, doveva ammettere di avere fatto il suo tempo, per quanto riguardava il lavoro sul campo. Dopo la laurea, a ventidue anni, era partito quasi immediatamente per la terra egiziana e vi aveva in pratica trascorso i successivi trentacinque anni, sposandosi con una donna del luogo, dalla quale aveva avuto la sua unica figlia, Margaret; in compagnia delle due donne, aveva condotto scavi, ricerche e studi in quasi ogni angolo dell’antica terra dei faraoni. Infine, quasi prossimo al compimento dei sessant’anni, con i capelli ormai bianchi, le mani ricoperte di calli e la pelle cotta dal sole e dal vento, era rientrato definitivamente in Inghilterra per riassumere tutte le sue scoperte e le sue conoscenze nella monumentale Enciclopedia ragionata dell’antichità egizia, un’opera in dieci volumi, alla quale da ormai oltre quindici anni stava lavorando quasi ininterrottamente, fermandosi unicamente per quelle occasioni in cui era invitato presso le principali università europee a tenere conferenze. Ne aveva già pubblicati quattro, di quei tomi corposi, e si accingeva a terminare di scrivere il quinto quando il professor Summerlee lo aveva contattato, chiedendogli di andare in missione in Egitto per conto del British Museum.

Inizialmente, il dottor Thompson era apparso titubante, di fronte a quella richiesta; aveva passato da circa un biennio i settant’anni, oramai, e non sapeva in quale maniera il suo vecchio organismo avrebbe reagito nel tornare ad esporsi al caldo del clima africano. Ma l’idea di rivedere per un’ultima volta l’Egitto, dopo quindici anni di lontananza, alla fine aveva prevalso, facendo breccia nel suo cuore. D’altronde, si sarebbe trattato solamente di una breve visita, una semplice formalità presso il governatore, quindi sarebbe potuto rientrare nella sua ariosa casetta del Sussex, con la vista sulla scogliera, per tornare a dedicarsi ai suoi libri; allontanarsi per qualche tempo dall’Inghilterra, inoltre, lo avrebbe forse un po’ distratto dal dolore provocatogli dalla recente perdita della moglie, sebbene non fosse sicuro che rivedere i luoghi in cui aveva vissuto tanto a lungo in sua compagnia si sarebbe potuta rivelare la scelta migliore per non pensarla. Comunque, non sarebbe stato solo, poiché lo avrebbero accompagnato i giovani nipoti John e Rachel, i due figli di Margaret, anch’essi ardentemente desiderosi di divenire egittologi come il nonno. E, allora, quale occasione migliore per iniziare la loro formazione, se non una visita all’Egitto stesso? Margaret s’era raccomandata parecchio, preoccupata che potesse accadere qualche cosa ai due figli, ma il ragazzo e la ragazza sarebbero stati al sicuro, in compagnia del nonno e, inoltre, erano ormai abbastanza grandi per saper badare perfettamente a se stessi.

«Diamine!» aveva esclamato il dottore per calmare la figlia. «John ha vent’anni, Rachel quasi diciannove ed io non ne avevo molti di più, quando partii per la prima volta verso l’Egitto, tutto solo. Inoltre, tu ci sei nata e ci hai passato la gran parte della tua vita, laggiù, e non ti è mai accaduto nulla di grave! Stai tranquilla, andrà tutto bene, non so nemmeno perché mi prenda la briga di cercare di rassicurarti.»

Margaret aveva finito con l’accettare, ammettendo che, molto probabilmente, le sue preoccupazioni dovevano essere legate al fatto di aver da poco perduto sia la madre sia il marito, sir Richard Wilson, caduto in guerra e decorato con medaglia d’oro al valor militare. Il vecchio studioso, allora, l’aveva tranquillizzata su tutto e, prima di partire, le aveva raccomandato caldamente di darsi da fare per procedere nella correzione delle parti scritte fino a quel momento del quinto volume della sua enciclopedia, in maniera che, al suo rientro, fosse tutto pronto per poter riprendere il lavoro dal punto in cui lo aveva interrotto.

Oltre alla nostalgia, a spingerlo ad accettare di fare ritorno in Egitto era stato l’orgoglio.

Il professor Summerlee, infatti, gli aveva spiegato di non potersi recare personalmente presso il Cairo a causa di alcuni impegni inderogabili e che, quindi, l’unica altra persona veramente autorevole per compiere quella missione, fra le tante presenti in Inghilterra in quel momento, fosse proprio il dottor Thompson; il quale, pertanto, sentendosi compiaciuto di venire riconosciuto tale dal curatore del British Museum in persona, non aveva atteso poi troppo tempo prima di comunicargli che si sarebbe recato personalmente e volentieri all’appuntamento con il governatore.

E, effettivamente, non aveva compiuto un viaggio a vuoto; con i nipoti, era giunto in nave ad Alessandria tre giorni prima e, da lì, aveva proseguito verso il Cairo. Rivedere quelle terre era stato un colpo al cuore, tanto che non si era sorpreso più di tanto nel scoprirsi a versare qualche lacrima; ma il caldo gli aveva anche tolto il respiro, facendolo boccheggiare. Tuttavia, l’entusiasmo dimostrato dai due ragazzi nel venire a contatto con quella terra incantata, gli aveva permesso subito di scordare le difficoltà ed aveva approfittato dell’attesa d’incontrare il governatore per condurli con sé al Museo di antichità egizie e mostrar loro le ricchezze lì contenute, tra le quali vi erano molti oggetti che lui stesso, in compagnia di moglie e figlia, aveva raccolto durante le tante campagne di scavi degli anni passati. Il terzo giorno, infine, era stato ricevuto dal governatore e, dopo solamente un’ora di colloquio, durante la quale i due uomini avevano quasi esclusivamente rievocato i tempi della loro giovinezza, quando entrambi si occupavano di ricerche archeologiche, Thompson aveva lasciato l’ufficio con in tasca la concessione, firmata e timbrata, per altri cinque anni di scavi presso Tebe.

Dopodiché, gli era sorta quella strana idea di rivedere un mercato arabo e, ora, avvicinatosi alla fontana per rinfrescarsi le mani e la faccia accaldate, si domandò da dove mai gli fosse sbucata; sbuffando, ammise che il suo vecchio corpo, dopo quindici anni d’ininterrotto clima fresco e piovoso inglese, stava facendo davvero molta fatica a riabituarsi alle temperature egiziane.

Il caldo era soffocante ed il sole brillava alto, implacabile sfera di fuoco bollente; Thompson sfilò l’elmetto coloniale per passarsi una mano sui capelli radi e bianchi e, in quel preciso momento, ebbe un giramento di testa e si accasciò al suolo. Alcune persone, tutt’attorno, cominciarono ad agitarsi nel vederlo crollare a terra, poi all’anziano dottore parve di udire una voce tuonare: «Portatelo in casa mia!» e si sentì afferrare da braccia robuste che lo sollevarono e lo condussero via.

Mezzo intontito, chiuse gli occhi e perse i sensi.

 

Il dottore fece una pausa nella lettura, ripensando a quei brutti momenti ormai passati; eppure, era stato proprio quello sgradevole incidente a dare avvio ad ogni altra cosa. Se, quel giorno, non si fosse recato al mercato, in effetti, non avrebbe mai saputo nulla e, in questo preciso momento, sarebbe forse già stato seduto al suo scrittoio, in Inghilterra, a continuare la stesura dei suoi volumi, di certo non intento a preparare la relazione di una scoperta incredibile. Riabbassò gli occhi sul diario, facendoli scorrere sulle parole ma in realtà senza leggerle, rivivendo ogni emozione nella propria memoria.

Quando Thompson riprese conoscenza, si ritrovò disteso sopra un soffice divanetto verde, all’interno di una stanza semibuia, rischiarata solamente dalla poca luce che riusciva a filtrare attraverso le imposte serrate contro la calura pomeridiana. Ancora scombussolato, si guardò attorno e notò, poco discosto, un uomo dalla fluente barba seduto con aria pensierosa sopra una poltrona, intento a trarre lente boccate di fumo di tabacco aromatizzato da un narghilè, trattenendole a lungo in bocca prima di rilasciarle. Il dottore provò a sollevarsi, facendo scivolare la garzetta inumidita che gli era stata posata sopra la fronte ma, in questo modo, ebbe un altro capogiro che lo costrinse a rimettersi sdraiato.

L’uomo seduto se ne accorse e, lasciato il suo shisha, si alzò e lo raggiunse, prorompendo con il suo vocione da toro: «Rimani giù, vecchio pazzo!»

Thompson guardò lo sconosciuto e, all’improvviso, lo riconobbe. Sebbene fosse invecchiato e si fosse lasciato crescere una barba lunghissima, ormai ingrigita, quello era certamente Abdul, il suo energico cognato, il fratello minore della sua defunta moglie Fatma; mercante scaltro e furbo, aveva in alcune occasioni collaborato con Thompson e la sorella durante alcuni scavi archeologici, per lo più alla ricerca di qualche pezzo da poter rivendere ai collezionisti.

«Abdul…» mormorò il dottore, provando per la seconda a rialzarsi.

«Ti ho detto di stare giù!» mugghiò ancora l’omone, ponendogli una grossa mano sul petto per tenerlo bloccato. «Pazzo inglese, metterti a camminare sotto il sole del primo pomeriggio alla tua età e toglierti il cappello a quel modo! Ringrazia Allah che ti avevo visto passare e che ti stavo cercando di raggiungere, altrimenti saresti ancora là a cuocerti lentamente in mezzo alla piazza.»

«Ti sono debitore della vita, cognato» bisbigliò allora il dottor Thompson, con un filo di voce. «Se non fosse stato per il tuo intervento…»

«Se non fosse stato per me, adesso staresti già tenendo compagnia a mia sorella in paradiso» ruggì l’arabo, chinando poi il capo nel ricordo di Fatma. «Bah. Ecco, bevi questo, ti farà bene.»

Con una delle sue manone, afferrò da un tavolino una brocca che conteneva un decotto di erbe raffreddato e lo versò in un bicchiere, passandolo poi all’egittologo.

«Così» disse. «Piano, un sorso alla volta.»

Quando il cognato ebbe terminato di sorbire la tisana, Abdul domandò: «Che diamine ci facevi sotto il sole a quell’ora? Sei impazzito? Dopo tutti questi anni trascorsi nel freddo dell’Inghilterra, avresti potuto lasciarci la pelle.»

«Stavo venendo via dal palazzo del governatore» tentò di spiegare Thompson, ma l’altro l’interruppe, anticipandolo: «Questo lo so bene pure io, quando i miei figli ti hanno deposto sul divano ti è caduto di tasca questo foglio - mostrò in una mano la concessione di scavo - ma quello che vorrei sapere è perché tu sia andato al mercato, invece di rientrartene in albergo a riposare, come dovrebbero fare tutti i vecchi della tua età.»

«Non saprei» replicò l’archeologo. «Sai, ci andavo sempre, con la mia povera Fatma, ed è stato lì che ci siamo conosciuti. Ero in Egitto da un paio di mesi, dovevo acquistare le provviste per il campo base e vidi questa ragazzina che faticava a portare delle grosse ceste. Allora, mi offrii di aiutarla… forse, inconsciamente, volevo rivivere quei momenti.»

«L’unica cosa che hai rischiato di vivere è il tuo funerale» brontolò Abdul. «Dovevi proprio venirci tu, in Egitto, a farti dare i permessi, vecchio? Mi risulta che tu sia andato in pensione.»

«Ero l’unico che potesse e, poi, John e Rachel desideravano vedere queste terre, quindi li ho portati con me.»

L’omone sembrò illuminarsi e la barba gli fremette.

«I bambini di Margaret? E ora, dove sono? Avrei voglia di rivederli, quei piccoletti.»

«Erano bambini quando tu li vedesti nel tuo unico viaggio in Inghilterra» precisò il dottore. «Ormai, hanno entrambi quasi vent’anni. Si sono recati sulla piana di Giza ad ammirare le piramidi e la Sfinge. Vorrebbero ripercorrere i passi di loro nonno.»

«Speriamo che non diventino altrettanto pazzi!» mugghiò il prozio dei due aspiranti egittologi. «Comunque, sono felice di rivederti, vecchio. Pensa che volevo scriverti io stesso di venire a trovarmi in Egitto. Sai, ho trovato una cosa e tu sei l’unico a cui sarei disposto a mostrarla.»

Stuzzicato nella sua curiosità e rinfrancato dalla bevanda ingerita, Thompson, questa volta, riuscì a sollevarsi un poco e ad appoggiarsi ad un gomito.

«Di che cosa si tratta?» domandò.

«Adesso te la mostro» rispose l’altro, avvicinando una seggiola al divano e mettendosi a sedere. «Sai, non ho mai smesso di interessarmi alle antichità, dopo la partenza tua e di Fatma e, quindi, ho continuato a svolgere qualche piccola ricerca qua e là. Certo, ormai scavare non è più come una volta, ci vorranno permessi bollati anche solo per andare al gabinetto, di questo passo, ma qualche cosa sono riuscito a trovare egualmente. Nulla d’importante, s’intende; per la maggiore, specie al confine con la Palestina, ho rinvenuto numerosi scarabei di pietra. Solitamente, sono così rovinati che non so che farmene, dato che i turisti non li compererebbero mai, quindi li porto al Museo; per i viaggiatori, mi faccio costruire da un abile artigiano alcune belle riproduzioni.»

«Ci mancherebbe solo che ti mettessi a vendere antichità!» protestò Thompson, inorridendo al solo pensiero.

«Come se non lo avessi mai fatto» replicò Abdul senza alcun rimorso. «Non t’immagini neppure quanta roba sia riuscito a sgraffignarti da sotto il naso, quando scavavamo insieme.»

«Non voglio neppure provarci, ad immaginarmelo. Vai avanti.»

«Be’, negli ultimi anni non scavo più molto. L’età comincia a farsi sentire non solo per te, vecchio. Ma non sono ancora ridotto male come qualche relitto londinese e, di quando in quando, mi faccio ancora un viaggetto lungo il Nilo. Così, un paio di mesi or sono, mi sono imbattuto nella possibilità di dissotterrare l’ingresso di una sepoltura sconosciuta.»

«Una sepoltura!» esclamò il dottor Thompson.

«Una sepoltura intatta, molto probabilmente di un faraone» precisò il cognato.

A Thompson parve quasi di sentirsi nuovamente svenire e fu costretto a rimettersi sdraiato completamente. Una tumulazione faraonica mai violata prima sarebbe stata una scoperta enorme, poiché era risaputo che, le antiche tombe, erano solite contenere immense ricchezze, nella gran parte dei casi, purtroppo, già saccheggiate in tempi remoti; erano molto poche quelle che, nel corso dei secoli, erano riuscite a superare indenni le visite dei ladri. Tuttavia, doveva andarci con i piedi di piombo, poiché non ne sapeva nulla.

«Da che cosa lo deduci?» domandò ad Abdul. «Hai le prove di quanto mi stai dicendo? E dove l’avresti individuata?»

«Dove? Ad Abu Simbel. E le prove te le mostro subito.»

Thompson pensò che al cognato avesse dato di volta il cervello.

Lo guardò alzarsi e lasciare la stanza e, appena fu rientrato, disse: «Non ci sono tombe, ad Abu Simbel. Lì sorgono i templi fatti erigere da Ramses II; e non sono templi funerari. Da dove l’hai presa, questa congettura strampalata?»

«Non è una mia congettura e, soprattutto, non è strampalata: guarda qui» replicò Abdul, passandogli un delicato foglio di papiro.

Il dottore lo prese con cautela tra le mani, accorgendosi immediatamente che si trattava di un frammento antichissimo. Lo esanimò e si rese conto che era scritto in ieratico, una scrittura antica che, in qualche maniera, poteva essere considerata la versione corsiva dei geroglifici. Alla scarsa luce della stanza, tuttavia, non gli riuscì di decifrarlo.

«Di che cosa si tratta?» domandò, certo che Abdul gli avrebbe saputo fornire una risposta.

«L’ho avuto da un vecchio, il capo di una famiglia di tombaroli che, fino a non molti anni or sono, s’introducevano di nascosto nelle tombe per trafugarne qualche tesoro» spiegò l’arabo. «Questo frammento, che dovrebbe appartenere al Nuovo Regno, probabilmente al periodo della ventesima dinastia, proveniva da un luogo di cui il tombarolo s’è ben guardato di rivelarmi l’ubicazione, quasi sicuramente dall’archivio di qualche tempio, però. L’ho tradotto io stesso: come vedi, non ho dimenticato i tuoi insegnamenti, vecchio. Si tratta del pezzo di un rapporto giudiziario riguardante lo stato di conservazione di alcune tombe. È interessante soprattutto il fatto che si faccia riferimento alla tomba regale, rimasta del tutto intatta, presso il tempio di Per-Ramesses-Miamon. Ti dice nulla, questo nome?»

«È l’antico nome del tempio maggiore di Abu Simbel» rispose subito l’egittologo, senza celare il proprio tono dubbioso. «Ne sei certo?»

«Come del fatto che alla notte faccia sempre seguito il giorno. E, in ogni caso, se non ti fidi delle mie capacità di storico, puoi sempre tradurlo tu stesso» rispose Abdul.

«Va bene, va bene… poniamo che sia davvero come dici tu» ammise Thompson. «Che cosa ti farebbe pensare che la tomba sia ancora intatta? Sono trascorsi migliaia di anni da quando questo rapporto venne messo per iscritto.»

«Be’, non mi risulta che si abbiano mai avuto notizie di una tomba, sotto Abu Simbel. Inoltre, proprio ai tempi della ventesima dinastia, Abu Simbel cominciò ad uscire dall’influenza egizia, il che avrebbe potuto comportare la caduta nell’oblio di questa tomba. O mi sbaglio?»

Thompson scosse la testa.

«No, non ti sbagli. Ma da qui ad affermare che là sotto ci sia una sepoltura faraonica del tutto intatta… converrai con me che ce ne corre.»

«Al di là del fatto che possa essere o meno già stata svuotata dai ladri, non ti interesserebbe metterti all’opera su di essa? Sono sicuro che il governatore non avrebbe alcun problema a darti il permesso di fare una ricerca anche laggiù. Nessuno negherebbe un permesso proprio a te, neppure se dicessi di volerti mettere a scavare sulla luna alla ricerca di un obelisco.»

Thompson si vide costretto a dare mentalmente ragione al cognato, poiché era più che consapevole di aver sviluppato una grande fama, come egittologo; tuttavia, non avrebbe potuto iniziare una ricerca ad Abu Simbel sulla base di un solo frammento di papiro che, ad una più attenta analisi, si sarebbe anche potuto rivelare un falso: se non avesse trovato nulla, avrebbe rischiato di divenire lo zimbello di tutti gli altri studiosi. No, non sarebbe mai riuscito, alla sua età, a raccogliere sufficiente coraggio per correre il pericolo di infangare, con un’unica azione avventata, una chiara e solida reputazione accademica, faticosamente costruita in decenni di studi seri e fruttuosi.

«No, Abdul, mi dispiace» disse, quindi. «Non credo di poterlo fare. Peraltro, sono ormai troppo avanti con gli anni per rimettermi a scavare.»

«Bah, non ti riconosco proprio più, vecchio» borbottò l’arabo. «Un tempo ti saresti buttato a capofitto nell’avventura, senza neppure pensarci.»

«Quand’ero giovane, sapevo benissimo di avere dinnanzi a me tutta la vita, per poter rimediare ad un eventuale errore» spiegò lo studioso. «Ormai, invece, non mi restano davanti che pochi anni, senza nemmeno sapere se saranno sufficienti a finire di scrivere e di pubblicare i miei libri. Se facessi adesso una figuraccia, me la porterei fin nella tomba, senza alcuna possibilità di porvi rimedio.»

A quel punto, Abdul si alzò in piedi, facendo scricchiolare la sedia nel momento in cui la liberò dalla sua enorme massa.

«Forse hai ragione, vecchio relitto mummificato. Il sole ti fa molto male, lo abbiamo visto oggi. Credo che, prima te ne ritornerai in Inghilterra, meglio sarà. Adesso, cerca di dormire per un po’. Vedrai che, dopo un buon sonno ristoratore, ti sarai ripreso completamente.»

Il cognato fece un leggero inchino, quindi uscì dalla stanza avvolta dalla semioscurità.

 

Nella sua tenda, Thompson sollevò gli occhi dal diario, fissando la parete di cotone di fronte a sé, sorridendo sotto i baffi bianchi; ripensò al cognato ed al modo escogitato per riuscire ad incastrarlo senza possibilità di tornare indietro.

Dopo averlo lasciato a dormire, infatti, Abdul non s’era ritirato in un altro punto della casa, bensì era corso nel cortile e, messa in moto la propria motocicletta Triumph, un residuato bellico della recente Grande Guerra, era partito scoppiettando verso la piana di Giza, certo che vi avrebbe trovato i due nipoti John e Rachel. E, così, in effetti, era stato. I due ragazzi, pur non avendolo più visto da quando erano ancora piccoli, riconobbero immediatamente in quell’omone barbuto il fratello della loro nonna materna e gli prestarono molta attenzione quando raccontò loro della brutta disavventura accaduta al nonno; dopo averli pienamente rassicurati sulle condizioni di salute di Thompson, li aveva condotti all’interno della piramide di Chefren, mostrando loro, alla luce incerta di una candela, una grande scritta in caratteri latini sopra una delle pareti.

«Sapete che cosa ci sia scritto, su quel muro?» aveva domandato loro.

Era stata la ragazza la prima a rispondere. Rachel, infatti, aveva studiato molte lingue, a scuola.

«È una frase scritta in lingua italiana!» esclamò. «Scoperta da G. Belzoni, 2 marzo 1818.»

«E voi lo sapete chi mai fosse, questo signor Belzoni?» li aveva, allora, interrogati lo zio.

I due ragazzi avevano scosso la testa, quindi l’arabo aveva spiegato loro che si trattava di uno dei primi egittologi, un uomo di forza erculea che, grazie alla propria tenacia, aveva compiuto imprese da altri ritenute impossibili.

«Fra le altre cose, fu lui il primo ad entrare nel tempio maggiore di Abu Simbel, liberandone parte della facciata e l’ingresso dalla sabbia che li ostruiva da millenni. Avete presente, vero, a quale tempio io stia facendo riferimento?»

«Certo!» aveva risposto subito John. «Il grande tempio fatto costruire da Ramses II, durante il Nuovo Regno, per commemorare la battaglia di Qadesh, quello sulla cui facciata si trovano le sue colossali statue!»

«Esattamente. E cosa pensereste, se io vi raccontassi che…?»

A quel punto, Abdul aveva narrato loro di quanto appreso dalla decifrazione dell’antico papiro che già aveva mostrato a Thompson e della concreta possibilità d’imbattersi in una tomba nascosta proprio sotto il tempio in questione; i due ragazzi, ovviamente, si erano fatti immediatamente cogliere dall’entusiasmo e dalla smania di poter essere loro i primi a penetrare in quel mausoleo dimenticato, in quell’eterna dimora del sonno di un faraone, per carpirne gli antichi segreti.

Lo zio, pertanto, li aveva caricati sulla motocicletta e subito condotti nella propria casa del Cairo, facendoli entrare nella stanza in cui Thompson, proprio in quell’esatto momento, si stava risvegliando, ormai del tutto ristabilito. Ovviamente, l’anziano egittologo, posto di fronte alle insistenze dei due nipoti, aveva cercato di opporre qualche resistenza, ma in maniera così debole che, alla fine, aveva finito col cedere e l’accettare.

Da quel momento in avanti, quindi, era stato un susseguirsi di eventi rapidi e concatenati.

Inviato un telegramma a Londra, Thompson aveva ricevuto da un’entusiasta Summerlee un via libera ad iniziare le primi indagini, via libera che si era definitivamente concretizzato nel nuovo permesso firmato dal governatore; quindi, reclutati alcuni scavatori locali ed altri quattro egittologi, presenti in quel momento al Cairo e da subito rivelatisi profondamente attratti dalla possibilità di una scoperta, ossia il dottor Philippe Fournier del Louvre di Parigi, il professor Bernardo Libone del Museo Egizio di Torino, il dottor Jeremy Smith del Metropolitan Museum di New York ed il professor Mazen al-Farooq del Museo del Cairo, e noleggiata un’imbarcazione per fare rotta lungo il Nilo, con a bordo tutto l’occorrente per gli scavi e l’apprestamento del campo base, la spedizione era partita verso il sud, alla volta di Abu Simbel.

Individuare il punto esatto in cui scavare, per Thompson, non era stato difficile; anni ed anni di esperienza, uniti alla convinzione che, proprio lì, potesse esserci una tomba, lo avevano indirizzato verso un luogo esatto, a qualche decina di metri dalla facciata del tempio maggiore. E non si era sbagliato, infatti: i suoi scavatori, lavorando duramente sotto il sole cocente, erano riusciti in brevissimo tempo a liberare prima uno, poi due gradini, infine l’intera scalinata che conduceva all’ingresso ancora murato della tomba. Questo fatto, aveva donato a tutto il gruppo di archeologi grandi speranze sul poter entrare in una sepoltura mai profanata in precedenza; ma la trepidazione andava calmata, in attesa che tutti fossero presenti e pronto a mettersi all’opera.

Adesso, pertanto, non rimaneva altro da fare che pazientare, attendendo l’arrivo del professor Summerlee da Londra, prima di poter finalmente procedere tutti insieme all’apertura dell’antica e misteriosa tomba per rivelarne tutti gli enigmatici arcani. L’attesa sarebbe stata lunga e snervante, per quegli uomini, consapevoli di trovarsi in prossimità di una grandiosa scoperta; ma il dottor Thompson aveva dato al curatore del British Museum la propria parola e non se la sarebbe mai rimangiata.

 

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Capitolo 2
*** Capitolo secondo ***


CAPITOLO SECONDO

 

E, finalmente, il tanto atteso arrivo del professor Summerlee avvenne.

Il battello lo lasciò al porto e, da lì, venne condotto a dorso d’asino verso Abu Simbel; il grasso scienziato sudava copiosamente e sbuffava sotto il sole bollente, ma ancora più di lui sbuffava il povero animale che doveva sopportarne la mole non indifferente. Eppure, nonostante fosse visibilmente un pesce fuor d’acqua, in quei luoghi, essendo abituato a girovagare solo tra le stanze del suo museo, il professor Summerlee aveva un’aria euforica e sul viso paffuto era dipinta la medesima gioia che si sarebbe potuta scorgere sul volto di un bambino che avesse ricevuto in regalo un intero pacco di dolciumi.

Il dottor Thompson andò incontro allo studioso londinese, che indossava una sahariana verde i cui bottoni erano pericolosamente tesi sul ventre prominente ed aveva coperto il cranio lucido e completamente calvo con un fez di colore rosso. Osservò due egiziani faticare parecchio per aiutare l’immenso curatore a scendere di groppa dalla sua misera cavalcatura, quindi si fece avanti e strinse la mano al nuovo venuto.

«Professor Summerlee, sono molto felice d’incontrarla» salutò Thompson. «Attendevamo tutti quanti con ansia il suo arrivo per poter finalmente aprire la tomba.»

«Dottor Thompson, che piacere» replicò il curatore, ansando per la calura e per la fatica. «Ma, allora, è proprio tutto vero? La tomba esiste realmente?»

«Non le rimane che appurarlo con i suoi stessi occhi.»

«Incredibile. Quando ho ricevuto il suo primo telegramma… be’, se non avessi saputo che ad inviarmelo fosse stato lei, avrei pensato ad uno scherzo di cattivo gusto.»

Summerlee cominciò ad avanzare faticosamente verso il campo base, affondando ad ogni passo per parecchi centimetri nella sabbia morbida, con il dottor Thompson al suo fianco e, dietro, i due egiziani ed il somarello, che poté finalmente tirare un sospiro di sollievo.

«È stato piacevole, il viaggio?» domandò Thompson.

«Per nulla» si lamentò l’altro. «Ho attraversato la Manica in tempesta, il treno da Calais a Brindisi sembrava un macinino rotto, peraltro con i sedili più rigidi e scomodi su cui mi fosse mai capitato di sedere, ed il Mediterraneo era agitato come se tutti i dannati venti avessero deciso di spirare tutti insieme in quei giorni: per colpa del mal di mare, ho dovuto rinunciare all’alta cucina di bordo ed accontentarmi di brodini e riso in bianco. Ad Alessandria, poi, gli ispettori doganali non mi volevano far partire, all’inizio sospettavano che fossi un contrabbandiere! Io, il professor Summerlee, stimatissimo docente universitario, curatore del British Museum, insignito dell’Ordine dell’Impero Britannico da re Giorgio V in persona, un contrabbandiere! Ho dovuto rivolgermi al consolato inglese per farmi riconoscere!»

«Ma perché credevano questo, professore?» domandò l’egittologo con sorpresa.

«Sarà stato per il mio bagaglio» bofonchiò Summerlee, indicando alle proprie spalle le grosse sacche che venivano trasportate dai due egiziani.

Thompson udì un leggero tintinnare di vetri provenire da almeno due borse e capì che il professore non doveva avere ancora rinunciato alla sua propensione a bere molto, un fatto che lo aveva reso parecchio famoso tra gli accademici di Londra, che amavano scherzare sulla sua abitudine.

«Per fortuna, il viaggio lungo il Nilo è stato piacevole e calmo, ma ho ancora le ossa a pezzi e, in più, questo caldo insopportabile e quest’aria secca non mi danno tregua» continuò a lagnarsi l’inglese.

«Se vuole riposarsi, le mostrerò subito il suo alloggio…» propose Thompson.

«Riposarmi! Giammai! Mi fermerò nella tenda giusto il tempo di sistemare le mie cose e per darmi una rinfrescatina, poi voglio essere condotto immediatamente all’ingresso della tomba. Credo che chiunque stia dormendo lì dentro abbia atteso abbastanza. È ora di risvegliare i morti!»

Thompson rise a quella battuta, poi si fermò dinnanzi ad un’ampia tenda bianca, nei pressi della quale se ne trovava una seconda, più piccola, per i due servitori di Summerlee.

«La lascio, signore» disse l’anziano egittologo. «Non appena sarà pronto, mi troverà nella tenda principale del campo, quella laggiù in fondo, riunito con gli altri membri della spedizione.»

«Molto bene» borbottò Summerlee, piegando a fatica la sua mole ed entrando con qualche difficoltà nella tenda, subito seguito da uno dei suoi uomini con i bagagli, mentre l’altro provvedeva a portare il somarello nella piccola stalla che era stata eretta poco distante dal campo.

 

«Quello che non capisco» tuonò il dottor Smith, «è perché noi si debba rimanere qui fermi ad aspettare i comodi di quel grassone d’un inglese, quando potremmo esserci già messi all’opera da un pezzo senza bisogno che venga a farci da balia!»

«Esattamente!» precisò Fournier. «Credo di poter affermare che le nostre conoscenze e le nostre abilità siano più che sufficienti a poter procedere nello scavo senza per forza doverci attardare ad ossequiare quell’uomo come se fosse il padreterno in persona.»

I membri della spedizione erano tutti riuniti - ad eccezione dell’oggetto della conversazione, ancora alle prese con la sistemazione dei propri bagagli - nella grande tenda che serviva sia da sala riunioni che da stanza per il pranzo. L’egittologo americano passeggiava avanti ed indietro, misurando a grandi passi il pavimento, mentre gli altri sedevano attorno ad un tavolo, in attesa; John, che aveva portato con sé una macchina fotografica, si preparava a scattare le prime foto dell’apertura della tomba pulendo le lenti del suo obbiettivo con un panno morbido.

«Signori, per favore» li ammonì il dottor Thompson. «Voi tutti siete i rappresentanti dei maggiori musei egizi del mondo - quelli del Cairo, di Torino, di New York e di Parigi. Mancava, tuttavia, un rappresentante del British Museum, per cui potete ben vedere che l’attesa del professor Summerlee è stata necessaria.»

«Per il museo britannico poteva benissimo bastare lei, Thompson!» brontolò Libone. «Non vedo il motivo per cui gli inglesi debbano avere più delegati degli altri.»

«Le ho già spiegato, caro professore, che io, i miei nipoti e mio cognato non siamo qui in rappresentanza di nessun museo. Noi siamo semplicemente gli organizzatori della spedizione. Ho ritenuto opportuno, prima di partire, di coinvolgere tutti voi, sebbene nulla mi costringesse a farlo. Comprenderete, quindi, di come io mi sentissi in obbligo di avvisare anche il professor Summerlee, per conto del quale mi trovavo in Egitto.»

«E va bene, e va bene» borbottò l’italiano, ficcandosi in bocca una pipa e cominciando a sbuffare nuvolette di fumo.

«Resta il fatto che da giorni non facciamo altro che perdere tempo prezioso!» tornò all’attacco Smith. «Ce ne stiamo qui in panciolle, a rigirarci i pollici, mentre potremmo essere già da un bel po’ dentro quella vecchia tomba!»

Thompson stava per replicargli nuovamente ma, questa volta, ad intervenire fu il professor al-Farooq, il quale, solitamente, se ne rimaneva in silenzio.

«Attento, dottor Smith, e pure voi tutti, signori miei. Questi litigi, qui ed ora, sono completamente fuori luogo. Non dobbiamo in nessun modo mancare di rispetto alla sepoltura di questo antico sovrano. Dobbiamo tenere, alla sua presenza, un atteggiamento di umiltà, l’unico degno di un grande re.»

«E perché mai?» borbottò Smith, mettendosi finalmente a sedere. «Ormai, sarà ridotto ad un mucchietto di ossa e stracci polverosi.»

«Il dottor Thompson m’ha riferito di aver rinvenuto una maledizione, iscritta sull’architrave all’ingresso della camera sepolcrale» spiegò l’egiziano. «E posso assicurarle che, da questi luoghi, gli antichi dèi non se ne sono mai andati veramente. Non possiamo permetterci di sottovalutare la potenza dei tempi antichi, neppure dopo oltre tremila anni.»

«Una maledizione?» ripeté Rachel, con un brivido di spavento.

«Sì, una maledizione contro chiunque profanerà la tomba del faraone» spiegò al-Farooq.

«Solo chiacchiere per gli sciocchi!» sbuffò Smith, versandosi un bicchiere di vino da una bottiglia. «Mi sorprendo che uno studioso della sua fama, professore, possa prestare ascolto a queste ciance da vecchie bisbetiche.»

«I nostri lavoranti sono alquanto spaventati» intervenne Abdul che, come al solito, stava tirando leggere boccate dal suo narghilè. «Hanno saputo pure loro di questa storia e temono che, aprendo l’ingresso alla tomba, potrebbero risvegliare le ire del faraone defunto sepolto a pochi metri da noi.»

Rachel si volse rapidamente verso Thompson.

«È vero quello che dicono, nonno?» domandò, con un tremito nella voce.

Anche John alzò gli occhi su di lui, in attesa di una risposta.

«Signori, grazie» disse allora l’anziano studioso, facendo girare il suo sguardo tranquillo e conciliante su tutti i presenti. «Vi pregherei di smetterla, con queste storie. State spaventando mia nipote. Il dottor Smith ha ragione: la maledizione non è altro che un’antica iscrizione per tenere alla larga eventuali ladri, tutto qui. Allo stesso tempo, tuttavia, sono pienamente concorde anche col professor al-Farooq: non possiamo mancare di rispetto alla tomba, ma dobbiamo approcciarci ad essa con la medesima sacralità e la stessa pietà che mossero gli antichi sacerdoti che la sigillarono millenni or sono. Pertanto, signori miei, v’invito a rimanere tutti quanti calmi. So bene anch’io che il caldo si fa di giorno in giorno più insopportabile, ma ormai il professor Summerlee è arrivato e posso assicurarvi che, a breve, potremo riprendere con entusiasmo i nostri lavori: non sarà una manciata di minuti in più o in meno a fare la differenza.»

Fournier scattò in piedi.

«Lo spero bene!» ululò «È ora di muoversi! Sono stufo di aspettare i comodi di quella sottospecie di ippopotamo inglese che…!»

«Ben trovati a tutti, signori» disse una voce calma e pacata alle sua spalle.

Il francese, interdetto da quelle parole inaspettate, si volse rapidamente e vide l’enorme massa di Summerlee stagliarsi nettamente nel sole, oltre l’apertura della tenda. Sul suo faccione tondo e rubizzo s’era allargato un sorriso gioviale.

«Io…» borbottò Fournier, ma il professor Summerlee l’interruppe con un bonario gesto della mano: «Spero di non aver interrotto un’interessante dissertazione riguardante la comparazione della fauna nilotica a quella del Tamigi, con il mio sopraggiungere. In ogni caso, se lor signori fossero d’accordo, direi che sarebbe il caso di lasciare la zoologia per tornare ad occuparci di archeologia e quindi, con il consenso di voi tutti, passerei subito a visionare l’ingresso della sepoltura ed allo studio del modo meno impattante ed invasivo per poterlo aprire.»

Sul gruppo scese un silenzio imbarazzato, rotto quasi immediatamente dal dottor Thompson.

«Ma certo, professore!» esclamò. «Se vuole seguirmi, le farò strada.»

L’anziano dottore si alzò da tavola e, copertosi il capo con il suo inseparabile elmetto, raggiunse il curatore fuori dalla tenda, guidandolo poi verso lo scavo; Abdul e i due nipoti si unirono prontamente a loro e, infine, anche gli altri egittologi lasciarono la tenda e li seguirono.

Il caldo, quel giorno, si era fatto se possibile ancora più intenso; il sole, giallo e abbagliante, sfavillava alto nel cielo completamente terso, tinto di un intenso blu egiziano, ma nessuno, in quel gruppetto di persone, adesso sembrava soffrire per la calura insopportabile: le loro menti, infatti, erano tutte quante tese verso l’impresa che si apprestavano a compiere. Un’agitazione palpabile regnava in loro, una frenesia di mettersi al lavoro, un eccitamento senza pari, poiché nessuno, tra di loro, sebbene per la maggioranza avessero già lavorato a diversi scavi in tutto l’Egitto, si era mai trovato tanto vicino a compiere un’opera tanto eccezionale, a realizzare una così grande scoperta. Se tale era lo stato d’animo degli egittologi e di Abdul, già avvezzi ad avere a che fare con mirabolanti antichità, era quasi impossibile immaginare quale tipo di pensieri dovessero attraversare in quel frangente la mente dei due giovani John e Rachel i quali, da poco giunti in Egitto con l’intenzione di divenirne, in futuro, degli studiosi colti e preparati come loro nonno, si erano trovati inaspettatamente proiettati nel mezzo di quell’evento sbalorditivo.

Il drappello di studiosi, con Thompson in testa, Summerlee che gli arrancava sbuffando alle spalle e tutti gli altri appena un po’ indietro, attraversò rapidamente il campo base e sfilò dinnanzi al grande e solenne tempio come se stessero omaggiando per un’ultima volta il grande Ramses lì raffigurato dai quattro sontuosi e silenti colossi, muti e magnifici guardiani di quell’antichissimo luogo di devozione, per poi fermarsi innanzi alla scalinata di accesso alla tomba, che alcuni spalatori stavano terminando di ripulire dalla sabbia che una folata di vento caldo vi aveva nuovamente gettato.

Thompson discese un gradino alla volta, tallonato da vicino da Summerlee, per poi arrestarsi di fronte alla porta murata, ancora chiusa con i sigilli lì posti dai sacerdoti migliaia di anni addietro.

«Professor Summerlee» annunciò Thompson con aria ufficiale, «le presento il luogo dell’eterna sepoltura di un antico faraone ancora sconosciuto.»

Il curatore abbassò un poco la testa, con aria riverente, poi alzò lo sguardo alla scritta in geroglifici sull’architrave, notando l’assenza dei cartigli regali solitamente utilizzati per indicare il nome dei faraoni. Non conosceva l’antica lingua del popolo egizio, però dai suoi studi sapeva bene che la titolatura reale era facilmente riconoscibile, sui monumenti, per essere inscritta all’interno di un cartiglio.

«Che cosa significa, quell’iscrizione?» domandò, indicandola.

Thompson passò con estrema delicatezza il pollice sulle parole incise, facendone cadere un po’ di sabbia sfuggita alla sua precedente pulizia, giorni addietro.

«Si tratta di un avvertimento» spiegò l’egittologo, con aria assorta. «Vi è scritto che nessuno, che abbia mai osato varcare questa porta, sia poi tornato indietro per raccontarlo. In fede mia, è la prima volta che mi capiti d’imbattermi in qualche cosa di simile.»

«Interessante…» borbottò Summerlee, facendosi più vicino per osservare meglio i geroglifici.

In quel momento, dall’alto della scala, si udì la voce di John dire: «Signori, ora che ci siamo tutti, credo sia venuto il momento di scattare una foto del nostro gruppo al completo dinnanzi all’ingresso della tomba.»

«Ottima idea» approvò Summerlee, lasciando perdere l’antica scritta e cominciando a risalire con evidenti difficoltà i gradini; Thompson fu costretto a sorreggerlo per evitargli una caduta.

«D’accordo, facciamo anche questo» brontolò Libone, «ma poi muoviamoci, ad aprire quella porta.»

«L’apriremo con tutti i crismi e le attenzioni necessari, professore» gli rispose al-Farooq. «Non ci faremo cogliere dalla smania di compiere una scoperta dimenticandoci di essere studiosi e non cercatori di tesori.»

«Nessuno l’ha mai messo in dubbio» grugnì il dottor Smith con tono seccato.

John cominciò a montare il cavalletto della macchina fotografica, mentre gli altri si mettevano in posa. Furono fatte portare due sedie, su cui sedettero in primo piano il dottor Thompson ed il professor Summerlee, mentre gli altri si posizionarono in piedi alle loro spalle; John regolò la messa fuoco, quindi andò a piazzarsi a fianco della sorella, prendendone il braccio sotto il proprio.

«Sorridete e rimanete immobili!» ordinò, prima di premere il pulsante in cima al cavo di scatto.

Non appena il ritratto fu pronto, ognuno abbandonò la propria posizione e gli egittologi si accalcarono tutti quanti sulla scala della tomba, lasciando dietro di sé Abdul e Rachel ad osservarli, mentre John si dava da fare a scattare altre fotografie.

«Io suggerirei di rimuovere il sigillo con estrema attenzione, in maniera da non rischiare di danneggiarlo irreparabilmente» propose Thompson.

«Questo potrebbe farci perdere del tempo, però» rispose Smith. «Non sarebbe sufficiente fotografarlo e poi buttarlo giù con una martellata ben assestata, senza stare a pensarci troppo?»

«Per quanto io condivida la sua medesima ansia, illustre collega, trovo alquanto rudi e primitivi i suoi modi di procedere» replicò il dottor Fournier con tono brusco. «Possibile che, negli Stati Uniti, siate ancora fermi a tali livelli, negli studi archeologici?»

«Dovrei offendermi, signore?» disse con asprezza l’americano, gonfiando il petto con aria tronfia.

«Ovviamente no, dottore» intervenne Libone. «Tuttavia, ci tengo a ricordarle che, dai tempi di Belzoni, Caviglia, Burckhardt e degli altri illustri pionieri della nostra disciplina, sono ormai trascorsi un centinaio d’anni, durante i quali le tecniche egittologiche si sono enormemente affinate. Non possiamo assumerci a cuor leggero la decisione di agire d’impulso come avrebbero fatto i nostri pur sempre stimati predecessori.»

«Ovviamente» mugugnò Smith. «Ovviamente. Non ho mai messo in dubbio neppure questo. Prendiamoci pure tutto il tempo necessario a togliere il sigillo e perdiamo tutte le ore che ci vorranno a farlo, tanto di tempo ne abbiamo a bizzeffe.»

«Suvvia, dottor Smith, sa bene che non ci vorranno per nulla delle ore, ma solamente alcuni minuti scarsi di lavoro» s’intromise Thompson, cercando di calmare gli animi. «Me ne occuperò io stesso, se nessuno ha nulla da obiettare.»

«E cosa possono essere mai, pochi e miseri minuti, dinnanzi all’eternità del tempo?» aggiunse al-Farooq.

«Grazie, la filosofia orientale non m’interessa» ruggì Smith, andando a sedersi con aria scocciata in cima alle scale.

Il curatore del British Museum ed i quattro egittologi lo guardarono per qualche istante con aria contrita, dopodiché tornarono a volgersi verso l’ingresso della tomba.

Mentre passava una mano grassoccia sull’antico sigillo, Summerlee bisbigliò: «Ma dico, dottor Thompson, dove le è capitato di trovarlo, questo americano? Non è certo una buona anima, a mio parere.»

L’anziano egittologo scrollò le spalle, cominciando a disporre sul pavimento i minuti attrezzi di cui si sarebbe servito per il lavoro, che aveva portato con sé all’interno di un astuccio di pelle che teneva in tasca.

«Quando ho incontrato il dottor Fournier per chiedergli di unirsi a me, l’ho trovato già in compagnia del dottor Smith» spiegò a mezza voce, per non farsi udire dal diretto interessato. «Nel sentirci discutere della possibilità di una scoperta, ha insistito lui stesso per venire con noi e non ho potuto in alcuna maniera dirgli di no.»

«Un ciarlatano, a mio parere» aggiunse il francese, senza curarsi di tenere la voce troppo bassa. «Mi si è attaccato dietro al porto di Alessandria e non sono più riuscito a liberarmene. Ma le sue competenze sono davvero scadenti, per non dire nulle. Non mi stupirebbe scoprire che non sia veramente chi dice di essere.»

«Temo sia proprio un egittologo, invece» disse Libone, traendo una boccata di fumo dalla sua pipa. «Sei mesi or sono, tenne una conferenza a Leida, alla quale ebbi il discutibile privilegio d’assistere. In un paio d’ore scarse, quell’uomo proferì tante e tali castronerie da mettersi le mani nei capelli. Fui talmente sconcertato dalle sue assurdità che, più tardi, desiderai informarmi se fosse realmente uno studioso e non, piuttosto, un fanfarone. Per quanto impreparato, le sue carte risultarono in regola. Bah! Se le università ed i musei statunitensi non possono permettersi di mettere in campo studiosi di più alto livello rispetto a questo Smith… preferisco non esprimermi.»

Thompson, nel frattempo, terminato di preparare tutti i propri precisi strumenti, iniziò, con estrema delicatezza, la rimozione del sigillo. Tutti gli occhi si concentrarono, quindi, sulle sue mani anziane ma ancora esperte e sicure. In pochi minuti, ma in realtà dopo interi millenni, il sigillo venne rimosso e fu cautamente riposto in una cesta di vimini, subito affidata ad uno degli operai locali perché la deponesse nella tenda che fungeva da quartier generale.

«Ed ora, signori, il momento solenne» annunciò il dottor Thompson, con voce tremante, visibilmente emozionato. «Stiamo per svelare l’enigma di questa antica sepoltura priva di nome.»

Le sue mani si strinsero sulle maniglie a forma di pomello. Gli altri si fecero tutti più vicini. Anche Abdul, Rachel e John si avvicinarono. Da ultimo, vinto dalla curiosità, pure il dottor Smith fece capolino tra le altre teste che osservavano la scena. Prima di cominciare a tirare verso di sé le porte per spalancarle, tuttavia, un pensiero attraversò la mente di Thompson, che si volse all’indietro, verso il dottor al-Farooq.

«Signore, tra di noi lei è l’unico rappresentante di questa terra» gli disse. «Aspirerebbe, quindi, ad avere lei stesso l’onore di essere il primo ad aprire le porte della tomba? Credo che, dopotutto, le spetterebbe di diritto.»

Ma l’egiziano scosse il capo.

«La ringrazio infinitamente per questa opportunità che vorrebbe gentilmente offrirmi, ma si deve a lei solo, dottor Thompson, questa straordinaria scoperta, ed è quindi giusto che sia proprio lei il primo a goderne i frutti.»

«In verità, il merito non è tutto mio. Se non fosse stato per mio cognato…»

L’egittologo alzò gli occhi su Abdul che, però, agitò le grosse mani, facendo sussultare la lunga barba.

«Non pensarci neppure, vecchio» rispose. «Sei tu l’esperto di queste cose, non io. Me ne resto qua dietro con i bambini, io.»

«Bambini! Per amor di Dio, zio Abdul, ma ci hai visti?» si lagnò John.

«Per me resterete sempre i bambini della mia nipotina Margaret» rispose l’arabo con aria paterna.

A quel punto, Smith si spazientì nuovamente.

«Sì, sì, tutto molto commovente» ringhiò. «Abbiamo capito che il momento è solenne, grandioso e quant’altro, ma vogliamo darci una mossa, morte e dannazione? Se aspettiamo ancora un po’, ad aprirla, questa stramaledettissima vecchia tomba, faremo in tempo a finirci noi, in un cimitero, senza avere avuto nemmeno l’occasione per sbirciarci dentro!»

Thompson lo ignorò completamente, volgendo su tutti gli altri uno sguardo carico d’aspettative.

«Signori» disse, «io apro.»

Il portale era pesantissimo, ma l’egittologo ignorò i dolori alle articolazioni e continuò a tirare; dapprima, le porte non sembrarono affatto essere intenzionate a smuoversi. Infine, però, millimetro dopo millimetro, con estrema resistenza, cominciarono a cedere, dischiudendosi lentamente e rivelando, dopo oltre trentuno secoli, i propri segreti alla calda luce del sole egiziano.

 

 

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Capitolo 3
*** Capitolo terzo ***


CAPITOLO TERZO

 

L’interno del sepolcro era avvolto dall’oscurità più completa.

Nel momento dell’apertura, un’aria calda e rarefatta proveniente dalla camera investì in pieno il gruppo di studiosi che, nondimeno, non si lasciarono vincere dal ribrezzo e continuarono ad osservare con attenzione, cercando di penetrare con gli sguardi le tenebre che tenevano loro celati i misteri dell’antichissimo monumento sepolcrale.

Il dottor Thompson, afferrata una lampada elettrica che si era fatto portare, l’accese e la sollevò sopra la testa, infilandola nel tetro varco. Il fascio di luce si proiettò lungo il pavimento, dove il gruppo poté osservare un mazzo di antichissimi e fragili fiori ormai dissecati, posati senza dubbio poco prima della chiusura del sepolcro. Poi, poco alla volta, esso rivelò una grande ed alta sala, ornata da colonne papiriformi e con le pareti ricoperte di magnifiche pitture, raffiguranti scene di vita quotidiana e della mitologia egizia. Ovunque, magnifiche suppellettili, come divani, letti e cofani arricchivano la stanza, il cui ingresso era vigilato da due nere statue lignee raffiguranti gli antichi medjai, i soldati d’elite del tempo del Nuovo Regno. Ma, soprattutto, a destare stupore e meraviglia, era il luccichio brillante dell’oro, che sembrava fosse ovunque, sopra ogni oggetto ed ogni ornamento. Da ultimo, nel centro esatto della sala, la lampada illuminò un imponente sarcofago di quarzo rosa, un’opera che, da sola, sarebbe stata sufficiente a ripagare gli studiosi della loro pazienza.

Nessuno, ancora, s’era mosso dalla soglia, né aveva fiatato. Sui volti degli studiosi e dei loro accompagnatori si palesava lo sbalordimento per quanto stavano vedendo; ovunque si posasse la luce proiettata dalla lampada del dottor Thompson, si scorgevano ricchezze inimmaginabili, i resti palpabili di un’epoca tramontata eppure ancora così viva da riuscire a restituire emozioni impossibili da quantificare.

Pareva che ciascuno dei presenti avesse perduto definitivamente l’uso della parola; alla fine, tuttavia, fu il professor Summerlee a rompere per primo il silenzio.

«Dottor Thompson» disse, rivolgendosi con aria deferente al collega, afferrandogli la mano destra e stringendola calorosamente, «le porgo i miei più sinceri complimenti. Una scoperta meravigliosa, degna di uno studioso competente quale è lei.»

Thompson non seppe cosa replicare; rimase in silenzio anche mentre tutti gli altri egittologi, a turno, gli porgevano la mano, manifestandogli la propria gratitudine.

Per ultimo, gli si avvicinò il dottor Smith, che dichiarò, con leggero imbarazzo: «Esimio collega, vorrei scusarmi, con lei e con tutti gli altri, per essere stato decisamente troppo brusco nei miei atteggiamenti. Adesso, comprendo che la sua pazienza era necessaria, che avrei dovuto riporre fiducia in lei sin dal primo momento e che l’attesa che ci ha chiesto di sopportare è stata decisamente ben ricompensata. Pertanto, la supplico ancora una volta di scusarmi e la ringrazio infinitamente per avermi permesso di prendere parte a tale scoperta, di certo destinata a divenire immortale.»

L’anziano egittologo sorrise dinnanzi a tutti quegli apprezzamenti, che lo costrinsero, seppure a malincuore, a distogliere lo sguardo dalla tomba.

Osservò le figure di tutti i suoi compagni e balbettò, visibilmente commosso: «Signori, voi ringraziate me, ma io devo esprimere riconoscenza a tutti voi, dato che, senza il vostro aiuto, non sarei mai potuto giungere fin qui. Vi sono debitore, signori miei. E, soprattutto, devo benedire l’incontro casuale con mio cognato Abdul e le insistenze dei miei nipoti, dato che, senza di loro, non avrei mai intrapreso questo scavo. Ed ora, signori, mettiamoci all’opera. La tomba ci attende ed suoi segreti devono essere rivelati al mondo intero: questo compito spetterà a noi!»

Quindi, senza attendere risposta, Thompson si volse nuovamente all’indirizzo della tomba e mosse il primo passo verso di essa. Entrare in quel luogo sacrale gli diede come una scossa ed avvertì il peso dei secoli gravargli addosso mano a mano che si addentrava nell’oscurità del sepolcro, stemperata solo in parte, ed a fatica, dalla luce proveniente dall’esterno e dalle torce di cui ciascuno di loro s’era munito.

Da ogni angolo, da ogni pittura e da ogni singolo manufatto, sembrava trasmettersi una strana energia, una sorta di vibrazione indefinibile, come se l’antichità di quegli oggetti stesse avvertendo quegli uomini che nessun occhio umano s’era più posato sopra di essi da diversi millenni; l’aria rarefatta e la scarsità d’ossigeno, poi, creavano strane illusioni e non era difficile che, a qualcuno, paresse di scorgere strani movimenti negli angoli più bui della stanza.

Il dottor Thompson avanzò fino al grande sarcofago, come se fosse ipnotizzato da quel particolare prodotto dell’ingegno umano, per il momento senza prestare attenzione a null’altro di quanto lo circondasse; con muta riverenza, passò la mano sopra il pesante coperchio di quarzo rosa, quasi trasparente. Sembrava anche solo impossibile il pensiero che, nell’età del bronzo, ci fossero state persone in grado di lavorare una pietra tanto dura con una simile maestria e perfezione. Ammirato, accarezzò il coperchio, sognando di poterlo sollevare, per osservare con i propri occhi il sonno eterno del suo misterioso ospite.

Udì un passo pesante alle proprie spalle e, un attimo dopo, vide il professor Summerlee comparire al proprio fianco, seguito da Abdul, Rachel e John, tutti quanti con i visi trasmutati da una gioia incontenibile.

«Mio caro Henry…» iniziò il curatore, ma il dottor Thompson gli fece segno di non parlare, per non rovinare l’atmosfera enigmatica, sacrale e intangibile che, ancora, sembrava aleggiare su ogni cosa, lì dentro.

Dopo un poco, tuttavia, essa scomparve irrimediabilmente, quando al-Farooq e Libone, terminato di contemplare con ammirazione ogni oggetto capitasse loro sotto gli occhi e riacquistata coscienza del proprio ruolo, cominciarono ad impartire ordini secchi agli operai, ammassati all’ingresso, perché provvedessero al montaggio di fari per l’illuminazione ed al trasporto delle casse in cui sarebbero stati imballati i primi oggetti, dopo essere stati accuratamente fotografati e catalogati. Subito, tra i loro tipici canti, gli uomini iniziarono a darsi da fare rumorosamente.

Fournier e Smith, invece, sembrarono farsi prendere dalla febbre dell’oro e, chinatisi sopra un baldacchino che sorreggeva statuine, coppe, collane, cinture, pettorali ed altri preziosi gioielli in pietre, perle, faience e metalli pregiati, tra i quali spiccavano nettamente i colori blu, verde, rosso ed oro, si diedero ad emettere esclamazioni di giubilo, decantandone le raffinate qualità. Ormai, il sonno a cui millenni prima era stata destinata la veneranda mummia dell’ignoto faraone lì sepolto, sembrava veramente essere stato turbato ed interrotto per sempre.

Sebbene a malincuore, allora, Thompson fu costretto ad allontanarsi dal sarcofago per muoversi avanti ed indietro lungo tutta la tomba, recandosi là dove invocato dagli altri egittologi perché osservasse un particolare, desse un suo parere o semplicemente ammirasse qualche cosa di curioso.

Abdul, gongolante per la scoperta, la più ricca a cui avesse mai partecipato, riuscì con soddisfazione ad intascarsi, senza che nessuno se ne accorgesse, un piccolo monile d’oro e d’argento raffigurante l’occhio di Horo, un pugnale d’oro con il fodero dello stesso prezioso metallo ed uno scarabeo di turchese, mentre la giovane Rachel, afferrata da un tavolino rotondo una ricchissima collana in oro e pietre preziose, alla quale era attaccato un grosso pendente con incastonato un rubino, la sollevò verso la luce, con gli occhi pieni di ammirazione. Smith, accortosene, le si avvicinò, dicendo: «Lei ha davvero buon gusto, signorina. Non credo che alcun orafo, al giorno d’oggi, sarebbe in grado di replicare una simile magnificenza.»

La ragazza alzò lo sguardo sull’americano.

«Crede che mi starebbe bene, addosso?»

«Onorerebbe il suo collo alla perfezione, signorina Rachel» replicò l’egittologo.

«Tuttavia, ho il forte dubbio che lei o chiunque altro potrebbe permettersi di indossarla» osservò il professor Libone, avvicinandosi ai due. «Inoltre, nessuno dovrebbe toccare alcun oggetto, prima che ne sia stato compiuto l’inventario e la posizione originaria ne sia stata accuratamente fotografata ed annotata.»

«Il professore ha pienamente ragione, cara» disse Thompson, che lo aveva seguito. «Sarà meglio che tu impari in fretta a non farti cogliere dall’entusiasmo. So bene che non capiti tutti i giorni d’imbattersi in un insieme di tesori favolosi come questo, ma non si deve cedere alla bramosia né tantomeno alla fretta.»

Rachel, mortificata, chinò il capo, mormorando delle scuse. Ripose la collana al suo posto e disse che sarebbe uscita un momento all’esterno. Lo zio Abdul, più che appagato di quanto rubato e temendo che qualcuno potesse insospettirsi notando il rigonfiamento della tasca dei suoi pantaloni, s’affrettò a seguirla.

«Sua nipote dovrebbe prestare maggiore attenzione» disse Libone, non appena la ragazza fu scomparsa oltre la soglia. «Avrebbe potuto danneggiarla irreparabilmente.»

«Credo che la signorina sia stata redarguita già abbastanza senza che lei vada avanti con questa sua aria tronfia, signore» esclamò Smith, visibilmente irritato.

«Proprio a lei, mio caro dottore, vorrei inoltre far notare che non avrebbe dovuto incoraggiarla, bensì rimproverarla immediatamente, per il suo comportamento» aggiunse imperterrito l’italiano, fiammeggiando dagli occhi.

Thompson, come al solito, cercò di fare da paciere per mantenere gli animi calmi.

«Esimi colleghi, non vedo la ragione di discutere oltre riguardo questa faccenda. Mia nipote è stata ripresa e non commetterà altri errori, posso assicurarlo sul mio onore. Per fortuna, inoltre, la collana non ha subito alcun tipo di danno, quindi litigi in merito sono fuori luogo. Credo che possiamo considerare definitivamente chiusa la faccenda e tornare ad occuparci del nostro lavoro.»

«Certo, che la consideriamo chiusa» sentenziò Smith, allontanandosi a grandi passi, anche se non prima di aver lanciato un’ultima occhiata irosa a Libone, il quale sostenne il suo sguardo con aria di sfida.

Nel frattempo, con la sua macchina fotografica, John si stava dando un grande da fare; aveva avuto appena il tempo di ritrarre qualche panoramica dell’intero locale, poiché gli archeologi non facevano altro che chiamarlo di qua e di là per immortalare qualsiasi artefatto capitasse loro sotto gli occhi. Il più attivo di tutti, sembrava essere proprio il professor Summerlee che, nonostante la mole, si muoveva dappertutto con estrema agilità, senza mai correre il rischio di sfiorare per sbaglio qualche fragile oggetto. Con ordine e metodo, inoltre, era riuscito ad imballare già alcuni pregiati ushabti di terracotta e calcare, statuine la cui funzione sarebbe dovuta essere quella di svolgere lavori di fatica al posto del defunto nell’aldilà, all’interno di una cassa, che richiuse personalmente e che contrassegnò con la sigla identificativa G.5.88.C.V.M., prima di consegnarla ad alcuni operai perché la trasportassero fuori dalla tomba sotto la sorveglianza di Fournier.

Ma anche al-Farooq si stava dando da fare, sebbene il suo maggiore interesse, in quel momento, fosse tutto proiettato verso le raffigurazioni parietali, contornate da numerose scritte in caratteri geroglifici; ad incuriosirlo, fu l’immagine di alcuni uomini intenti ad entrare nottetempo in una tomba, dopo averne oltrepassato la sorveglianza delle guardie, addormentate, per poi fuoriuscirne trasportando con sé, oltre a diversi tesori, anche un sarcofago. Intrigato da tale dipinto, iniziò a decifrare i geroglifici che vi si trovavano tutt’attorno.

 

Per completare lo svuotamento della camera e trasportare all’esterno i preziosi manufatti imballati nelle casse di legno ripiene di paglia, furono necessarie parecchie ore di lavoro molto intenso; era ormai l’imbrunire quando, esausti ma contenti del lavoro svolto, gli egittologi, insieme a Rachel, John ed Abdul, si radunarono attorno al sarcofago, ansiosi di rivelarne i segreti.

«Signori, nonostante tutti i nostri sforzi, ancora non conosciamo chi dorma il proprio sonno eterno qui dentro» annunciò il dottor Thompson.

«Io sono convinto che il nostro amico nativo, invece, se ne sia fatto un’idea» replicò Smith, accennando con la testa al professor al-Farooq, l’unico fuori dal gruppo, essendo ancora alle prese con la sua traduzione. «Da quando siamo qui dentro, non ha fatto altro che ronzare attorno a quei vecchi segni. Non ci è stato di alcun aiuto, oggi.»

«Il professore è un ottimo decifratore di geroglifici» rispose Summerlee. «Credo che il suo vero apporto alla scoperta riguarderà proprio le pitture e le scritte parietali.»

«Esattamente» confermò Thompson. «Ora… a meno che qualcuno di voi non si senta stanco ed intenda rimandare a domani questo lavoro, proporrei di darci da fare per scoperchiare questa pesante cassa.»

Il gruppo di persone si scambiò rapidi sguardi, poi Fournier disse: «Dottor Thompson, presumo di parlare a nome di tutti nell’ammettere che nessuno di noi riuscirebbe a chiudere occhio un solo istante, questa notte, pensando all’imminenza della scoperchiatura del sarcofago, domattina. Pertanto, credo che sia inutile rimandare al futuro un lavoro che, in ogni caso, ci priverebbe del riposo.»

«Ben detto» s’inserì John. «Tanto più che ho ancora alcuni scatti disponibili, sulla pellicola. Se aprissimo il sarcofago adesso, potrei sviluppare le negative questa notte stessa e mostrarvi le fotografie entro poche ore.»

Thompson batté le mani.

«Molto bene! Qualcuno dica ai nostri lavoranti di venire giù con qualche lungo palanchino ed alcuni cunei per bloccare il coperchio, dopodiché provvederemo a montare l’argano per sollevarlo» ordinò.

Nel giro di una manciata di minuti solamente, tutto fu pronto.

Thompson, con un palanchino, volle provvedere personalmente al lavoro; a dargli man forte, l’altra sbarra d’acciaio venne afferrata dal cognato.

«È sicuro di quanto s’accinge a fare, dottore?» protestò Summerlee. «Quello non è certo un peso leggero, da sollevare.»

«Effettivamente, nonno, potresti dover compiere uno sforzo non indifferente» lo rimproverò John.

«Sì, ineccepibilmente, dottor Thompson: sta correndo un rischio molto grave» cercò di dissuaderlo Libone.

Ma l’anziano egittologo, sollevata una mano, li zittì tutti quanti.

«Vi prego di non preoccuparvi per me, amici. Ai miei tempi, infatti, in compagnia di questo energumeno, ho sollevato pesi assai più gravosi del presente.»

«Peccato solo, vecchio, che quei tempi siano ormai piuttosto remoti!» ruggì Abdul.

Tuttavia, nessuno aggiunse altro e, dopo un poco, ad un segnale convenuto, i due uomini iniziarono a darsi da fare spingendo sopra le robuste sbarre d’acciaio per utilizzarle come leve.

In quel medesimo momento, sudando copiosamente, il professor al-Farooq terminò la lettura e la traduzione dei geroglifici, rimanendone spiazzato. Udì il rumore dei lavori alle proprie spalle e ciò lo fece riscuotere dai suoi pensieri; solo allora, difatti, volgendosi all’indietro, parve accorgersi di quanto stessero per compiere il dottor Thompson e suo cognato.

Al professore parve di essere in un sogno. Vide il coperchio cedere a poco a poco sotto lo sforzo congiunto delle due leve e, in un ultimo e disperato tentativo di fermare i due uomini, sollevò il braccio e gridò, a pieni polmoni: «No! Non aprite quel sarcofago!»

Troppo tardi.

Sospinto dai palanchini, il pesante coperchio di quarzo rosa si sollevò di qualche centimetro, staccandosi dalla bara sottostante, alla quale sembrava essere stato saldato. Il gruppo di egittologi ebbe appena il tempo di dirigere i propri sguardi verso al-Farooq, per cercare di capire come mai stesse gridando, che la terra, emettendo un terribile rimbombo, cominciò a tremare sotto i loro piedi e le pareti della tomba ad ondeggiare violentemente.

I poveretti persero tutti l’equilibrio ed il coperchio, appena sollevato, tornò subito ad abbassarsi, ma la stanza continuò ad ondeggiare, facendo piovere polvere e calcinacci contro i miseri uomini che, adesso, cercavano angosciosamente di reggersi in piedi.

«Fuori di qui! Subito!» gridò Smith, cercando di correre verso l’ingresso della tomba.

Alcuni mattoni, piovendo dall’alto, lo sfiorarono paurosamente, prima che riuscisse ad infilare il vano delle scale, subito seguito da Libone e da Fournier.

«Rachel, dammi la mano!» urlò John, tirando a sé la sorella che barcollava come un’ubriaca e cercando, al contempo, di reggersi in piedi.

Una delle colonne papiriformi, dopo aver ondeggiato per un po’, rischiò di rovinare loro addosso, ma lo zio Abdul, fattosi sotto con le braccia sollevate, riuscì con la propria forza prodigiosa a tenerla bloccata quel tanto che fosse bastato ai due giovani per mettersi in salvo.

Ad essere in maggiori difficoltà, però, erano sicuramente Summerlee, Thompson ed al-Farooq. Quest’ultimo, infatti, intrappolato contro la parete di fondo, sembrava impossibilitato a muoversi, dato che, per mettersi in salvo, avrebbe dovuto percorrere di corsa un lungo tratto della tomba, correndo il rischio di venire investito da una valanga di pietra. Il professor Summerlee, invece, a causa della sua mole, non pareva affatto in grado di poter attraversare indenne la sala, mentre Thompson, abbandonato improvvisamente dalla propria solita vitalità e già messo a dura prova dagli sforzi della giornata, appariva di colpo invecchiato di almeno dieci anni.

In loro aiuto, comunque, arrivò ancora una volta Abdul che, accertatosi che i due nipoti fossero corsi all’esterno e lasciata definitivamente crollare la colonna che, come un novello ercole, aveva sostenuto con estremo vigore, s’affrettò a muovere loro incontro. Afferrato il cognato per il colletto, lo sollevò di peso e lo lanciò come una palla verso la scalinata, dove Libone e Smith, tornati da basso con alcuni operai, si affannarono rapidamente per recuperarlo e portarlo di fuori. In una maniera o nell’altra, intanto, al-Farooq s’era riuscito a trascinare fino al sarcofago.

«Signori miei, la situazione si sta facendo assai critica» disse con calma Summerlee, quando tutti e tre si furono riuniti e la terra, se possibile, sembrò tremare ancora più forte.

«Ne usciremo tutti quanti!» muggì Abdul.

Senza troppi riguardi, abbrancò l’egittologo del Museo del Cairo per il bavero e, come già fatto con il cognato, lo saettò verso la scalinata, dove Fournier ed un operaio lo aiutarono a rialzarsi e ad uscire dalla tomba pericolante.

«Rimaniamo solamente noi due, adesso» constatò il curatore, senza perdere la propria flemma affabile, come se, anziché in un’antica tomba che minacciava di divenire il suo eterno sepolcro, si fosse trovato dinnanzi ad una scolaresca a spiegare un reperto del proprio museo. «Suppongo, signor mio, che non pretenderà di tenere anche verso di me il medesimo atteggiamento avuto con i miei eccellenti colleghi.»

«Per quanto riguarda lei, in effetti, pensavo ad altro!» borbottò l’arabo.

Con uno sforzo incredibile, agguantò il professore e, ignorandone completamente i moti di protesta, ne sollevò la mastodontica mole, dando subito avvio ad una folle corsa attraverso la camera rovinante. Come facessero entrambi a schivare pietre e calcinacci pioventi dall’alto, fu un vero e proprio mistero; ma, finalmente, anche loro si trovarono al riparo sulla scalinata, dove gli operai li aiutarono ad affrettarsi a risalire al sicuro.

Fuori, dinnanzi al maestoso tempio tinto dalla calda e rossa luce vespertina, sembrava che non fosse accaduto nulla. Solamente gli egittologi, ansanti ed impolverati, bianchi come fantasmi per la polvere ed il pallore dello spavento, proni a riprendere faticosamente fiato sulla calda e ruvida sabbia, erano la testimonianza dell’avvenimento. Era come se, per qualche causa misteriosa, lo spaventoso terremoto si fosse verificato solamente all’interno della tomba.

 

 

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Capitolo 4
*** Capitolo quarto ***


CAPITOLO QUARTO

 

Per alcuni minuti, tutto tacque e l’unico rumore fu quello proveniente dal sotterraneo, il quale andò via via affievolendosi fino a scomparire del tutto. A quel punto, il silenzio, nella calda serata egiziana, si fece assoluto per alcuni istanti, fino a quando venne rotto da una risata isterica. Era Smith, che si rendeva conto di essere in qualche maniera sopravvissuto. John, tremante, seduto sopra una cassa, teneva stretta la sorella, scoppiata in lacrime, mentre Fournier, al-Farooq e Libone cominciavano a rimettersi in piedi sulle gambe incerte. Anche Summerlee, ansante, si sollevò con qualche fatica, lasciando seduto in terra Abdul, provato dall’enorme sforzo ma con il volto calmo sotto la fluente barba.

Solamente Thompson sembrava essere in catalessi; rimasto sdraiato sulla sabbia, faticava a respirare, né dava alcun segno di volersi rialzare.

All’improvviso, però, si riebbe e, con un filo di voce, mormorò: «Ma che cosa è accaduto?»

Per un paio di minuti, nessuno parve intenzionato a rispondergli, poi Fournier rispose: «Pare che ci siamo trovati in mezzo ad un terremoto.»

«Non è stato un terremoto, non può essere stato un terremoto» lo corresse Libone, rovesciando la sabbia che s’era infilata all’interno della sua pipa. «Tutto il tremore, infatti, è rimasto circoscritto alla tomba, fuori non s’avvertiva nulla, se non il rimbombo.»

«Molto probabilmente, allora, abbiamo involontariamente causato un crollo, che si è ripercosso a tutta la struttura» replicò il dottor Smith. «Fortunatamente, nessuno di noi si è fatto male e l’incidente è avvenuto quando, ormai, avevamo già portato all’esterno tutte le casse con i reperti.»

Abdul si rialzò e, facendosi aiutare da Summerlee, trasse in piedi il cognato, sorreggendolo per le braccia. Il vecchio egittologo doveva aver subito un trauma non indifferente, poiché pareva che avesse la febbre.

«Sarà meglio che tu te ne vada a letto, vecchio» lo consigliò l’arabo.

«Il signor Abdul ha ragione, dottor Thompson» aggiunse Summerlee. «Questo brutto incidente deve averla scossa parecchio.»

In quel momento, al-Farooq si fece avanti, con occhi spiritati, e disse: «Signori, voi continuate a parlare di incidente. Ma non è stato un incidente, quello che ci ha coinvolti.»

Tutti si volsero a guardarlo come se fosse impazzito, poi il dottor Smith, palesemente nervoso, lo aggredì verbalmente, sbraitando: «Non è stato un incidente? E lei come diavolo lo vorrebbe chiamare, quello che ci è capitato? Uno scherzetto, forse?»

Mantenendo un tono di voce calmissimo, al-Farooq rispose: «No… se mi seguirete nella tenda delle riunioni, v’illustrerò quanto da me appreso dalla decifrazione dei geroglifici ornanti la camera sepolcrale.»

«Sarà meglio» replicò Libone. «Così, ci potremo mettere un po’ seduti, finalmente.»

Il gruppo di studiosi si mise faticosamente in cammino, fino a raggiungere la grande tenda, dove si riunirono tutti attorno al tavolo, confortati da brocche d’acqua fresca servita loro da alcuni dei lavoratori del campo. Sedettero tutti, tranne al-Farooq, il quale rimase in piedi a capotavola, ma non con l’aspetto di un conferenziere intento ad illustrare una scoperta, bensì con quello di un sacerdote pronto ad iniziare alcuni adepti a dei culti misterici. Una strana espressione gli brillava negli occhi, un’espressione che tutti notarono e che, a molti, non piacque.

Smith sembrò quasi sul punto di proferire qualcosa d’ingiurioso ma, accortosene, per non agitare troppo le acque, Summerlee lo prevenne, dicendo: «Dunque, professore. Ci parlava di una sua scoperta all’interno della tomba. Vuole, quindi, renderci partecipi di siffatta rivelazione?»

L’egiziano tentennò un momento il capo, prima di iniziare a parlare.

«Ebbene, signori, credo sia doveroso principiare col dirvi che la mia traduzione mi ha permesso di individuare il nome dell’occupante della tomba: si tratta niente che del faraone usurpatore Amenmesse, della diciannovesima dinastia.»

«Amenmesse!» esclamò Thompson, ritrovando in un lampo la propria vivacità.

«Ma la sua tomba non si trova nella Valle dei Re, vicino a Tebe?» domandò Fournier, girando tutt’attorno lo sguardo, come per cercare una conferma od una smentita.

Il professor al-Farooq levò una mano per calmarli, quindi riprese la parola.

«Se avrete la pazienza di ascoltarmi senza interrompermi, signori, vi narrerò per filo e per segno la mia interessante scoperta. Come immagino tutti saprete, quando Seti II rimase unico faraone, attorno al 1199 avanti Cristo, ordinò una sorta di damnatio memoriae nei confronti di Amenmesse, un suo parente che aveva insidiato il suo trono e che, probabilmente, per un certo periodo fu a sua volta effettivamente faraone. Il nome di Amenmesse, quindi, venne cancellato dai monumenti e sostituito con quello di Seti II, le sue statue furono distrutte, le sue opere smantellate ed anche la sua stessa tomba venne profanata. Se non che, come ho scoperto quest’oggi, alcuni coraggiosi partigiani di Amenmesse, per sottrarlo anche all’ultima ingiuria, ne trafugarono il corpo e tutti i tesori dalla tomba originaria e, pur consapevoli di star sfidando l’autorità, mettendo a repentaglio le proprie vite, li traslarono qui, ad Abu Simbel, dove nessuno li avrebbe mai cercati. Non so in quale maniera, poi, la tomba, sebbene conosciuta, come ci dimostra il papiro utilizzato dal professor Thompson per rinvenirla, sia potuta sopravvivere; questo è un mistero che, forse, non troverà mai una risposta. Possiamo solo supporre che, nei tumultuosi periodi che videro l’avvicendarsi di innumerevoli sovrani tra la fine della diciannovesima dinastia e l’intera ventesima, il nome dell’occupante della tomba venne ben presto dimenticato, fino a quando l’esistenza dello stesso sepolcro non finì per essere del tutto scordata. Tuttavia, la parte molto più interessante arriva adesso. Durante il trasporto notturno lungo il Nilo, infatti, la mummia del faraone avrebbe parlato, gettando una maledizione contro chiunque, in futuro, avesse osato compiere ancora una volta gli empi atti di Seti II, profanandone la sepoltura. I fedeli uomini di Amenmesse, giunti presso Abu Simbel, scavarono in segreto la tomba nella roccia, riempiendola poi di tutti i ricchi tesori del faraone, dei quali, forse, noi abbiamo potuto ammirare solamente una piccola parte, dato che, in profondità, esisterebbe anche un’altra camera, molto più grande e contenente ricchezze inimmaginabili, nella quale, però, non riuscirono a trasportare il pesantissimo sarcofago di quarzo, vedendosi, di conseguenza, costretti a posizionarlo nell’anticamera. Essi, quindi, dopo aver deposto la salma del faraone nella sua arca ed aver terminato di illustrare tutta la storia sulle pareti del sepolcro, se ne andarono, sigillandone per sempre l’entrata. Ma non mancarono di immortalare sull’architrave della porta persino la maledizione che avrebbe colpito quanti si fossero avventurati nella profanazione della tomba.»

Quando l’egittologo ebbe terminato di raccontare, gli altri studiosi annuirono con approvazione.

«Una storia interessante, che mischia verità e leggenda. Un’ottima scoperta» disse Libone.

«Mi congratulo per la sua ottima decifrazione, professore» replicò Thompson, con un filo di voce. «Questo episodio, ci permetterà sicuramente di aggiungere un nuovo tassello alle tumultuose ed incerte vicende storiche seguite al lungo regno di Ramses il Grande.»

Tuttavia, al-Farooq non parve affatto contento di ricevere quegli apprezzamenti. Sul suo viso, si palesò uno sguardo furibondo, mentre diceva: «Ma come, non capite? Abbiamo scatenato contro di noi una maledizione, aprendo quel sarcofago! Dobbiamo porvi rimedio! Per fortuna, sulle pareti della tomba era anche spiegato in quale maniera si sarebbe potuta placare l’ira dello spirito del faraone…»

«Questa parte della storia ce la racconterà la prossima volta!» lo zittì bruscamente Smith. «Adesso, io proporrei di festeggiare, per aver compiuto questa grande scoperta e per essere riusciti a salvarci dal crollo della tomba!»

«Approvo!» fece Fournier. «Ordineremo che venga servita la cena e, questa volta, non ci faremo nemmeno mancare il vino!»

Thompson, dal canto suo, si alzò sulle gambe ancora deboli e malferme. Sorrise ai propri compagni, quindi disse: «Signori, una festa è più che lecita, questa sera. Ciò nonostante, spero che mi capirete e mi scuserete se non vorrò unirmi a voi. La stanchezza e l’emozione hanno avuto il sopravvento sul mio vecchio fisico e, come suggeriva poco fa mio cognato, credo che sia giunto per me il momento di ritirarmi a riposare. Prima di augurarvi la buonanotte, però, lasciate che io mi complimenti ancora una volta con ciascuno di voi per l’ottimo lavoro svolto quest’oggi: i nostri sforzi congiunti, infatti, ci hanno permesso di arrivare a questo grandioso ed inaspettato risultato. In uno dei vostri brindisi, ricordatevi di me.»

Tutti applaudirono a quelle parole, tranne il professor al-Farooq, rimasto in piedi ed immobile, basito che le sue parole fossero rimaste inascoltate. Vedendo che Libone stava per aprire bocca per ringraziare e salutare a propria volta il dottor Thompson, l’archeologo egiziano scattò, livido di collera: «Voi, tutti voi, non vi state rendendo conto di quello che avete fatto! La maledizione è su di noi e bisognerà spezzarla! Con o senza il vostro aiuto, lo farò!»

Ciò detto, al-Farooq si diresse verso l’uscita della tenda, scomparendo nella notte.

«Vecchio pazzo» commentò a mezza voce Smith.

Thompson scosse la testa.

«Non avrei mai creduto che un uomo di scienza come il professor al-Farooq, le cui pubblicazioni ho sempre letto con infinito interesse, potesse essere tanto superstizioso. Nondimeno, ognuno deve essere libero di credere in ciò che più desidera.»

Il professor Summerlee, che aveva fatto venire uno dei suoi due servitori per confabulargli qualche cosa nell’orecchio, si riunì alla conversazione, dicendo: «Molto probabilmente, il professore è rimasto più scosso di noi a causa del crollo e delle emozioni di questa giornata straordinaria. Sono certo che una buona notte di sonno contribuirà a rimettere in ordine anche le sue idee.»

«Be’, di sicuro il sonno rimetterà a posto anche me. Signori, buonanotte.»

Thompson fece un leggero inchino, quindi uscì dal padiglione, subito seguito dal servitore di Summerlee, il quale si diresse immediatamente verso la tenda del curatore del museo britannico, riemergendone quasi istantaneamente con la sacca di pelle da cui proveniva il tintinnare di diverse bottiglie che l’anziano egittologo aveva già notato in precedenza. Nascosto nell’ombra, osservò il servitore incamminarsi verso la stalla, dove depose il sacco, prima di allontanarsene e rientrare nel proprio alloggio. Thompson sorrise sotto i baffi: non era un mistero, tra gli accademici londinesi, che il professor Summerlee fosse avvezzo al vizio del bere, sebbene questo non avesse mai pregiudicato in alcuna maniera né la sua reputazione né i suoi brillanti risultati professionali. Era anche risaputo, inoltre, che al curatore fosse gradito bere da solo, senza offrire un sorso di liquore a nessuno, restandosene in disparte con i propri pensieri; evidentemente, allora, dopo la cena contava di ritirarsi di nascosto nella stalla per bersi un goccetto, od anche di più, in assoluta solitudine, senza correre il rischio che qualcuno arrivasse ad importunarlo. Guardandosi meglio attorno, nell’oscurità ormai montante e non ancora rischiarata dalla luna, che sarebbe sorta solamente di lì ad una mezz’ora, Thompson provò anche ad individuare dove potesse essere corso il professor al-Farooq, ma non ne vide traccia. Lasciando perdere, si rimise in cammino verso la propria tenda.

Nel frattempo, sotto il grande padiglione, il vino aveva già cominciato a scorrere, prima ancora che la cena fosse portata in tavola; molto presto, l’allegria prese completamente il posto degli ultimi residui dello spavento e gli egittologi, abbandonata ogni traccia di professionalità, cominciarono a ballare al suono di una chitarra che Fournier tirò fuori ed iniziò a strimpellare, senza troppa maestria ma con moltissima convinzione.

Tra le risate generali, nessuno fece caso a Summerlee che, dopo circa un’ora, sgusciò silenziosamente fuori dalla tenda per raggiungere, proprio come Thompson aveva sospettato, la stalla dell’accampamento. A tentoni, il curatore trovò la propria sacca sotto la paglia e, infilatavi una mano, ne tolse una bottiglia di pregiato whisky scozzese invecchiato diciotto anni. Con il tipico ed allegro suono dei tappi di sughero, la stappò e se la portò alla bocca, traendone un lungo sorso che lo fece sorridere di piacere.

Tuttavia, udendo un rumore provenire dal buio alla propria destra, s’affrettò a nascondere la bottiglia dietro l’ampia schiena ed a domandare, con voce impastata: «Chi c’è?»

Non ottenne alcuna risposta, ma udì chiaramente uno scalpiccio ed alcuni lenti passi avanzare verso di lui; con la mente alterata dal troppo alcol, dato che in compagnia degli altri aveva già dato fondo, da solo, a tre bottiglie dell’ottimo bordeaux portato da Fournier, gli parve che un pericolo lo stesse minacciando. E se fosse stato un qualche inviato del faraone a punire uno degli uomini che si erano attirati la sua maledizione?

Summerlee, adesso, era terrorizzato.

«Chiunque lei sia, signore, l’avverto che sono un peso massimo e che sono stato due volte campione di pugilato, quando ero al college» bofonchiò. Peccato solo che, dai tempi del college, fossero trascorsi almeno quarant’anni e che il suo peso, ormai, fosse in gran parte dovuto al grasso, non certo ai muscoli.

Inoltre, per darsi maggiore coraggio, aggiunse: «E sono risultato indiscusso vincitore di tre gare di tiro a piattello, ad inizio secolo!» Ovviamente, senza contare che fossero passati oltre vent’anni, da quei gloriosi momenti, avrebbe dovuto tenere presente di non avere con sé nemmeno un’arma da fuoco e che, molto probabilmente, non ve ne fosse l’ombra nel raggio di parecchi chilometri.

Tuttavia, ignorando completamente le celebrate capacità agonistiche del curatore, lo sconosciuto continuò ad avanzare senza alcuna paura, con un leggero ragliare. Uscito dall’ombra ed entrato nel cono di luce biancastra proiettato dalla luna, che nel frattempo si era levata nel cielo, il somarello che aveva condotto Summerlee dal porto all’accampamento gli si avvicinò, riconoscendo il suo pesante padrone.

«Ah» sbottò l’eminente studioso, nel distinguere la propria cavalcatura.

Si chinò ad accarezzarla, poi sedette in terra e riprese a bere con gusto, assaporando un goccio dopo l’altro e rivivendo, in ogni stilla di quel liquore, i fasti della propria gioventù e della propria magrezza ormai passata. Quando, ormai, solamente poche gocce riempivano ancora la bottiglia, Summerlee rivide il crollo della tomba e le mani gli sudarono per lo spavento. L’asinello gli si accomodò in parte ed il professore, passatogli fraternamente un braccio attorno alla groppa, cantilenò: «Allegro, amico mio! Ci è andata bene! Siamo fuori!» prima di trarre un ultimo sorso dalla bottiglia e di cadere profondamente addormentato.

 

Intanto, l’ebbrezza era giunta alle stelle.

Aperte le casse con i reperti, gli allegri compagnoni cominciarono ad ammirarne i più preziosi, gridando e cantando la propria ammirazione.

«Venga, signorina» mugugnò Smith ad un certo punto, facendo un gesto verso Rachel.

Quando la ragazza lo ebbe raggiunto, lui con le mani tremolanti le mise al collo la collana che, nel pomeriggio, era stata segno di tanta contesa con Libone. Il quale, tuttavia, questa volta non ebbe alcunché da ridire ma, alzato l’ennesimo calice colmo di vino, strepitò, biascicando le parole: «Un brindisi al più grande esploratore del mondo!», scoppiando subito dopo a ridere.

Fournier lo guardò di sottecchi, prima di dire: «Il più grande esploratore, eh? Ma se nemmeno è riuscito ad andare oltre l’anticamera della tomba!»

Libone lo guardò senza capire, mentre John, con la testa che girava a causa del troppo alcol, domandò: «Ma, allora, è proprio vero quello che ha detto al-Farooq? La storia del tesoro…»

«È vero, è tutto vero» borbottò Smith, sedendoglisi accanto e prendendosi Rachel sulle ginocchia. «Quei vecchi egiziani erano gente ricca, più ricca dei Rockfeller, degli Astor e di Ford messi insieme. Oro, gioielli, pietre preziose… ce ne sarebbe da viverci da nababbi fino al prossimo secolo. Se li trovassimo, diventeremmo ricchi, ma che dico ricchi, ricchissimi!»

Libone, adesso, comprese di che cosa stessero parlando Fournier e Smith.

«State dicendo che, quella da noi esplorata, sarebbe solo un’anticamera? Che ci sarebbe ben altro, là sotto?»

I due egittologi, come di comune accordo, annuirono entrambi, poi l’americano continuò, mentre le sue mani iniziavano ad accarezzare il corpo della ragazza che, inebetita dal vino e da quella storia, lo lasciò fare.

«Ben altro, sì. Ben altro che aspetta solo di essere preso.» Per sottolineare meglio il concetto, Smith allungò la mano a mezz’aria come ad afferrare un oggetto immaginario, per poi portarla al petto di Rachel.

Libone tentò di accendersi la pipa, ma la sua mente confusa dal troppo bere gli impedì persino di riuscire a caricarla di tabacco. Quindi, poggiatala sul tavolo, borbottò: «Domani mattina, allora, ne parleremo col dottor Thompson e…»

«Ma come!» esclamò Fournier. «Il più grande esploratore del mondo vorrebbe attendere l’indomani, per gettarsi a capofitto in una nuova e straordinaria avventura?»

«Io…» bofonchiò Libone, ma John l’interruppe: «Signori, se voi deciderete di scendere nella tomba, stanotte stessa, ebbene io sono pronto a seguirvi.»

Rachel tremò dallo spavento.

«Ma… e la maledizione?» domandò impaurita.

«Tutte sciocchezze. Vedrai che, se starai vicino a noi, nessuno oserà toccarti» la rassicurò Smith, con una mezza risata e stringendola con forza a sé. «Certo, sempre che il più grande esploratore del mondo non preferisca tirarsi indietro…»

Libone, a quelle parole, scattò in piedi, reggendosi a stento sulle gambe molli.

«Signori, non so che cosa ancora ci trattenga qui» disse con un’altezzosità che sarebbe risultata certamente più solenne se la sua mente non fosse stata ottenebrata dal vino. «La tomba ci attende. Chi vuole, mi segua.»

E, barcollando così forte che, per un momento, fu costretto a sorreggersi allo schienale di una sedia per non capitombolare, si mise in cammino, tallonato immediatamente da Fournier. Smith fece scendere dalle proprie ginocchia Rachel e, tenendola sottobraccio, la condusse con sé dietro agli altri due. John, per un istante, rimase indietro. In un ultimo scrupolo di coscienza, si voltò a cercare lo zio Abdul, ma ricordò che l’arabo s’era ritirato nella propria tenda già da parecchio. Quindi, si mise a sua volta sulle tracce degli egittologi e della sorella.

Mentre camminava, vide il profilo di Smith e di Rachel, due ombre nella notte rischiarata dalla luna e dalle stelle, discendere la scalinata della tomba, dove Fournier e Libone s’erano già inoltrati. Quando fu sul punto di raggiungerli, uno degli scavatori egiziani, uscito dall’ombra, lo afferrò per un braccio.

«Per carità, padrone, non andare! Ci sono spiriti maligni! Non varcare quella soglia, è sciagura per chi entra!» lo scongiurò il poveretto, cercando di trattenerlo.

«Finiscila!» gridò John. «Non sarà certo una vecchia storia a farmi paura. Piuttosto, vieni con me, avremo bisogno di chi ci aiuti a cercare la sala del tesoro. Avanti, entriamo!»

E, ignorando del tutto l’egiziano, che corse via impaurito, John si fiondò giù per le scale della tomba del faraone.

 

 

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Capitolo 5
*** Capitolo quinto ***


CAPITOLO QUINTO

 

Quando la luce dell’alba inondò con i propri raggi rossicci i maestosi templi di Abu Simbel e tutto l’accampamento, il dottor Thompson si ridestò dal proprio sonno, completamente lucido ed ormai dimentico dello choc provato il giorno precedente durante il crollo della tomba. Si stiracchiò e, avvertendo i morsi della fame - dopotutto, non aveva più toccato cibo da parecchie ore - si rivestì in fretta ed uscì dalla tenda per andare a mangiare qualche cosa.

Insolitamente, trovò il campo deserto, cosa del tutto strana, dato che i lavoranti erano soliti mettersi all’opera almeno un’ora abbondante prima dell’alba; ma immaginò che i suoi colleghi, dopo una notte di baldoria, stessero ancora riposando profondamente. Quando entrò nella tenda grande, tuttavia, fu colpito dal disordine che regnava ancora lì dentro: piatti sporchi, bicchieri sparpagliati, bottiglie rovesciate, tutto era rimasto tale e quale lo avevano lasciato gli egittologi la sera precedente. Un comportamento intollerabile, per un uomo pratico ed ordinato com’era sempre stato Thompson. Dovette riconoscere che, i giovani d’oggi, non sarebbero più stati gli uomini perfetti del secolo precedente. Lo aveva sempre pensato: la guerra che aveva sconvolto il mondo pochi anni prima aveva mutato profondamente anche le coscienze, facendo nascere generazioni che sarebbero state sempre più incuranti ed indolenti.

Tuttavia, ciò che colpì maggiormente l’anziano egittologo, fu la vista dolorosa delle casse aperte e dei reperti gettati qua e là, alla rinfusa, alcuni evidentemente rovinati; una vista amara, che lo fece dapprima soffrire, poi infuriare. Ma che quegli uomini non credessero di poterla scampare! Avrebbe scritto ai loro musei ed alle loro università affinché provvedessero a prendere urgenti provvedimenti disciplinari nei loro confronti. Immaginò che, al momento del deturpamento, Summerlee non fosse presente: innanzitutto, poiché sapeva bene che il curatore aveva la cosiddetta sbronza triste, quindi non si sarebbe mai e poi mai abbandonato a cotali orge, in secondo luogo perché il professore non avrebbe mai permesso che accadesse qualcosa di simile sotto i suoi occhi, neppure se fosse stato in preda ad una ubriacatura colossale. Neppure Abdul lo avrebbe consentito: poteva essere un ladruncolo, Thompson ne era fin troppo consapevole, ma il vecchio arabo rispettava profondamente la cultura antica del proprio paese, quindi un fatto del genere non si sarebbe mai potuto verificare in sua presenza. L’egittologo sperò solamente che i suoi nipoti, John e Rachel, non avessero avuto alcuna parte, attiva o passiva che fosse, in quel gesto sacrilego poiché, se così fosse stato, li avrebbe immantinente rispediti dalla loro madre, con l’ordine categorico di non far loro rimettere mai più piede in terra d’Egitto. Probabilmente, li avrebbe anche diseredati.

Completamente dimentico della fame, Thompson si volse e si recò a grandi passi verso la tenda che i due nipoti condividevano; li avrebbe buttati giù dal letto ed avrebbe preteso le loro spiegazioni. Tuttavia, trovò vuoto il loro alloggio. Uscitone con aria un po’ incerta, notò la possente figura di suo cognato Abdul che scompariva all’interno della grande tenda.

Non appena lo ebbe raggiunto, gli lesse lo sconcerto in faccia.

«Ma che cos’è, tutta questa baruffa?» domandò l’arabo, riferendosi al gran disordine che regnava sotto la tenda.

«Non ne ho idea» replicò Thompson, osservando con aria afflitta una statuina di calcare ormai distrutta, che ricordava benissimo di aver riposto egli stesso con estrema cura, ancora completamente intatta, il pomeriggio precedente. «Pare che i nostri amici abbiano un po’ esagerato con il bere, ieri sera. Sono appena andato a chiedere spiegazioni a John e Rachel, ma non sono nella loro tenda.»

«Neppure Smith c’è» rispose Abdul. «La sua tenda è accanto alla mia e, nel venire qui, ci ho buttato per caso dentro un’occhiata: vuota.»

Mentre Thompson, palesemente rattristato, riponeva alcuni reperti nuovamente dentro la loro cassa, l’arabo continuò: «Ieri sera sono andato a letto un po’ tardi. C’era allegria, si cantava e si ballava, qui dentro, ma nulla dava l’impressione che potesse scoppiare una baraonda del genere, vecchio.»

«Chi c’era, quando te ne sei andato?»

«Erano rimasti i bambini, Fournier, Smith e l’italiano, Libone. Gli inservienti erano già stati congedati.»

«Congedati proprio bene. In giro non se ne vedono più.»

«Già, l’ho notato pure io.»

«Summerlee? E al-Farooq?»

«No, il professor Summerlee si è ritirato un’ora abbondante prima di me, l’ho visto mentre sgattaiolava via con aria furtiva, mentre al-Farooq, fintanto che ci sono stato io, non si è più rifatto vivo.»

«D’accordo» borbottò Thompson.

Rimise un ultimo monile dentro una cassetta che richiuse con il coperchio, quindi aggiunse: «Be’, andiamo a svegliare Fournier e Libone. Almeno loro, ci dovranno pur dare una risposta, e che sia valida.»

L’egittologo era palesemente furente, tanto che Abdul cercò di calmarlo, dicendo: «Non perdere le staffe, vecchio, o ti coglierà un accidente.»

«L’accidente lo farò prendere io all’autore di tutto questo!» sbottò l’altro, incamminandosi in direzione della tenda di Fournier.

Ma i due uomini non riuscirono a trovare né il francese né, tantomeno, l’italiano. Uscendo dalla tenda vuota di quest’ultimo, Abdul sbottò: «Possibile che siano spariti tutti quanti?»

Thompson udì un sommesso russare provenire da lontano; si volse ed individuò la fonte del rumore, dalle parti della stalla.

«Almeno uno so dove poterlo trovare!» esclamò, facendo segno al cognato di seguirlo.

Raggiunsero in fretta la stalle e trovarono il professor Summerlee disteso sulla paglia, con la bottiglia vuota stretta in mano, tutto preso da un sogno che lo faceva russare della grossa. L’asinello mangiucchiava del fieno poco discosto.

«Professore, si svegli» gridò Thompson, tentando di scuoterlo, ma invano: il curatore del British Museum non sembrava intenzionato a lasciare le braccia di Morfeo. Neppure schiaffeggiandolo sulle guance l’egittologo riuscì ad ottenere qualche risultato.

«È inutile che tu faccia così, vecchio» lo fermò Abdul. «Questo qui è proprio partito e non si sveglierebbe nemmeno se sparassimo delle cannonate. Dovremmo buttargli addosso una secchiata d’acqua in faccia, per farlo tornare alla svelta tra di noi.»

«Non possiamo prendere a secchiate in faccia il curatore del British Museum» disapprovò Thompson.

«Curatore o no, io dico che…» cominciò Abdul, ma dovette interrompersi subito poiché, in quel momento, i loro occhi furono attratti da due uomini che si avvicinavano, montando dei cavalli bianchi.

Uno era certamente un arabo, mentre l’altro vestiva all’europea, con giacca a quadri e bombetta, e sfoggiava un paio di baffi castani. Thompson e Abdul mossero alla loro volta, senza poter fare a meno di notare che entrambi portavano pistole nella fondina e fucili a tracolla.

Non appena fu nel centro dell’accampamento, l’europeo smontò da cavallo e, tenendolo per le briglie, li raggiunse, tendendo loro la mano in segno di riverenza.

«Salve» salutò cordialmente.

«Buongiorno» rispose Thompson, squadrando le armi dell’individuo.

Il quale, per nulla turbato da quella specie di radiografia, domandò: «Ho l’onore di trovarmi presso il campo della spedizione Thompson?»

«Sì, esattamente. Il dottor Henry Thompson sono io. E lei sarebbe…?»

«Molto bene, perfetto! Sa, sarei giunto qui molto prima, ma ho vergogna di dover ammettere che io ed il mio accompagnatore abbiamo perduto più volte la strada. Mi chiamo Alan Knight, agente investigativo della polizia internazionale, l’Interpol. Il mio compagno di viaggio, invece, è il tenente Meziane della guarnigione militare del Cairo.»

«La polizia internazionale?» si stupì Thompson.

Era la prima volta che ne sentiva parlare: doveva essere qualche cosa di nuovo. Soprattutto, però, non comprendeva il motivo di un agente di polizia presso il campo della sua missione archeologica.

«Sì, esatto, signore, la polizia internazionale» confermò l’altro.

Thompson osservò Meziane scrutare l’accampamento con aria inquisitoria, quindi domandò: «E potrei sapere che cosa desiderino lor signori, da noi? Non mi pare di aver violato nessuna delle norme internazionali per lo studio delle antichità, con questo scavo archeologico, peraltro regolarmente autorizzato. Quale sarebbe, quindi, il motivo della vostra cortese visita?»

Anche Knight non faceva altro che guardarsi attorno, come se fosse alla ricerca di qualcosa o di qualcuno; senza rispondere, si fece guardingo nell’individuare qualcheduno che muoveva loro incontro, alle spalle di Thompson e di Abdul. L’egittologo si volse all’indietro e vide che Summerlee s’era svegliato e veniva verso di loro barcollando e sbadigliando.

«Il professor Summerlee, il curatore del British Museum» spiegò Thompson. «Oggi non si sente molto bene…»

«Lo vedo da me…» rispose l’altro.

«E, invece, signore, ha omesso di rispondere alla mia domanda.»

Knight tornò a fissare il capo della spedizione e, sorridendo amabilmente, disse: «Lo farò subito, signore. Prima, però, vorrei domandarle dove siano gli altri membri della vostra missione. Immagino, difatti, che non sarete solamente voi tre.»

Thompson stava per rispondere ma, in quel momento, Summerlee li raggiunse e, nel riconoscere il poliziotto, esclamò: «Per la miseria, Knight! Che cosa ci fa lei qui?»

«Buongiorno, professore» salutò il poliziotto, toccandosi il cappello.

Thompson, invece, parve cadere dalle nuvole.

«Voi vi conoscete?» esclamò con totale sorpresa.

«Direi proprio di sì» rispose Summerlee. «Un anno fa ci fu un furto, al museo, e Knight venne inviato ad indagare. È uno dei migliori, quando si tratta di rintracciare opere d’arte ed antichità oggetto di furto. Che cosa la porta qui, signore? Non crederà che noi possiamo essere dei tombaroli, vero?»

Knight sollevò le braccia, come a scacciare quell’accusa infamante.

«No di certo, signori, no» rispose. «Non voi, almeno. Purtroppo, però, devo comunicarvi che sono qui per arrestare due membri della vostra spedizione, rispondenti ai nomi di Philippe Fournier e di Jeremy Smith. Li conoscerete, suppongo.»

«Smith e Fournier! Perché diamine volete arrestarli? Che cosa hanno combinato?» gridò Thompson.

«Ve lo spiegherò dopo che li avrò acciuffati. Ditemi dove possa trovarli e procederò subito all’arresto!»

Thompson ed Abdul si scambiarono un’occhiata, senza rispondere.

«Be’?» sbottò Knight. «Signori, vi assicuro che il mio non è uno scherzo. Se volete vederlo, ho in tasca un mandato di cattura internazionale scritto e protocollato: i due illustri personaggi di cui ho fatto i nomi, difatti, sono attesi dinnanzi ai tribunali di mezza Europa.»

L’egittologo chinò il capo, prima di dire: «Devo darle una cattiva notizia, signor Knight. I due uomini che lei va cercando, insieme ad un terzo egittologo, ai miei due nipoti ed a tutti gli operai della spedizione, da questa notte sembrano essere spariti.»

«Spariti!» esclamò Knight. «Come?»

«Non lo sappiamo» rispose Thompson. «Quando, questa mattina, ci siamo svegliati all’alba, ci siamo trovati da soli. Non abbiamo alcuna idea di dove siano finiti gli altri. Sembra quasi che si siano volatilizzati.»

«Dannazione!» gridò Knight, tirando un calcio alla sabbia. «Altro che volatilizzati! Quelli mi sono sfuggiti di mano un’altra volta!»

Summerlee, scuotendo un poco la testa e massaggiandosi le tempie, si era schiarito le idee.

«Potremmo sapere che cosa intende dire, signor Knight?» domandò.

«Ormai… tanto vale che ve lo racconti. Innanzitutto, dovete sapere che, quello Smith, non è affatto un egittologo. Egli, infatti, è un abile truffatore, che ha audacemente assunto l’identità, ma soprattutto i titoli accademici, di un suo omonimo caduto in guerra.»

«Libone lo diceva giusto ieri che, da quel che aveva potuto sentire, il dottor Smith ne sapeva davvero molto poco, di antico Egitto» si ricordò Thompson. «Raccontava di averlo sentito parlare in una conferenza in Olanda e di essersi meravigliato delle tante fanfaronate che aveva messo in campo, al punto da voler indagare sui suoi titoli, senza però trovare nulla di illecito nel suo curriculum.»

Knight annuì, confermando la tesi dell’assente Libone.

«Ebbene, Smith ha cominciato ad utilizzare la sua nuova professione fasulla per riuscire a mettere a segno furti in diversi musei di tutta Europa. È riuscito a sottrarre antichi pezzi rari e pregiati in Gran Bretagna, in Francia, in Germania, in Italia, in Spagna, nei Paesi Bassi, in Grecia e solo Dio sa dove ancora. Quando, finalmente, ci siamo messi sulle sue tracce, abbiamo scoperto che, a lui, nella sua opera di saccheggio, s’era unito anche Fournier, un egittologo francese di chiara fama, questo sì, ma rimasto profondamente insoddisfatto e rabbioso dopo aver perso la propria cattedra all’Università della Sorbona. Con l’aiuto di Fournier, Smith si è unito a diversi scavi archeologici in Egitto e Vicino Oriente, trafugandone diverse opere per rivenderle ai collezionisti di Europa e Stati Uniti. Ed in questi anni, ha pure avuto la faccia tosta di tenere conferenze e lezioni ovunque, come uno studioso vero e proprio; ovviamente, questi suoi apparenti impegni accademici gli servivano solamente come copertura, per potersi aggirare liberamente dentro e fuori dai musei senza destare sospetti. Finalmente, però, le nostre indagini hanno dato un nome ed un volto ai nostri ladri, fino ad allora rimasti misteriosi, ed io sono stato inviato alla loro ricerca. Nulla di più facile, pensai inizialmente: arrestare due professori universitari non sarebbe certo stato un impegno così gravoso. Che errore di valutazione! Da quando sto loro alle costole, hanno impunemente depredato tre siti archeologici senza che io riuscissi ad intervenire per tempo. Quando seppi della loro presenza qui ad Abu Simbel, nonché del rallentamento dei lavori a causa dell’assenza di uno di voi, però, sperai di poterli finalmente prevenire, giungendo ad arrestarli prima ancora dell’apertura della tomba. Purtroppo, una serie di incidenti e di strade sbagliate hanno impedito a me ed al tenente di giungere in tempo.»

«Ecco spiegata, quindi, l’impazienza che quei due dimostravano quando dovevamo attendere Summerlee per iniziare i lavori!» constatò Thompson.

«Non mi è mai piaciuto, quell’uomo! Se mi dovesse capitare ancora una volta davanti, gli farò mangiare tutti quanti i denti a furia di pugni» ruggì Abdul, prendendo per la prima volta la parola dall’arrivo di Knight, il quale gli rivolse un’occhiata interrogativa.

«Mio cognato Abdul» presentò Thompson.

Alan Knigh scosse il capo.

«Purtroppo, temo che non li rivedrà mai più. A quest’ora, a mio parere, avranno già passato il confine con il Sudan e mi toccherà inseguirli ancora. Sarà meglio che io parta al più presto per rimettermi alla loro ricerca. Spero solamente di non doverli inseguire troppo a Sud, altrimenti finiremo coll’incontrare la savana e la giungla; ho sentito raccontare strane storie ultimamente, riguardo a quei luoghi, e non vorrei dover scoprire da me se siano vere o false.»

«Un momento» lo trattenne l’egittologo. «Se la loro assenza dal campo, come dice lei, è spiegabile con una fuga, altrettanto non può essere affermato riguardo a quella dei miei nipoti, del professor Libone e di tutti gli operai. Dubito fortemente, infatti, che essi abbiano deciso di seguirli oltre il confine, non ne avrebbero avuto alcun motivo.»

«Senza contare che, dei ladri, fuggirebbero con il bottino» aggiunse Abdul, «mentre, poco fa, nel rimettere a posto i reperti che erano stati sparpagliati in giro questa notte, ho visto benissimo che quasi tutti i monili e gli altri ornamenti di grande valore raccolti nella tomba non sono stati portati via. Mancava solamente una collana, se ho ben guardato: un po’ poco, direi, per essere considerata una refurtiva di valore.»

«È vero!» confermò Thompson. «Mio caro Knight, io credo che i suoi due briganti non siano ancora fuggiti verso il Sudan, ma si trovino ancora nei paraggi.»

«Ma se non sono andati da quella parte, allora dove sono finiti tutti?» intervenne Meziane che, sceso a sua volta da cavallo, ruppe per la prima volta il proprio silenzio.

«Questo è proprio un bel mistero» dichiarò Summerlee.

«Professore, lei questa notte ha dormito nella stalla» constatò Thompson.

Summerlee, a quella frase, avvampò per l’imbarazzo.

«Be’, sì… sa… sotto la tenda… faceva caldo… allora, io ho… pensato… che magari… sarei potuto stare… un po’ più… al fresco… per dormire meglio…» balbettò il poveretto, sudando copiosamente da tutti i pori della sua vasta figura.

L’anziano egittologo, tuttavia, minimizzò la faccenda con un gesto della mano, aggiungendo: «Sì, certo, professore, ma quello che io vorrei sapere è se lei, magari, dalla sua posizione, non abbia potuto vedere o sentire qualche cosa che possa aiutarci a risolvere questo mistero.»

Il grasso curatore si sfilò il fez e si passò nervosamente un fazzoletto sul cranio lucido di sudore, prima di rispondere.

«Purtroppo, caro Henry, ho dormito proprio della grossa e non ho davvero notato nulla di nulla. Mi dispiace veramente moltissimo di non poter essere di alcun aiuto.»

Knight, nel frattempo, aveva continuato a gettare sguardi tutto attorno, forse alla ricerca di qualche traccia. All’improvviso, alzò una mano, ad indicare in direzione del maestoso tempio per metà ancora ricoperto dalle sabbie.

«Non sarebbe possibile che siano entrati tutti in quel vecchio edificio?» domandò.

«Quello è il tempio maggiore di Abu Simbel, fatto scavare e scolpire nella pietra arenaria di questa zona della Nubia dal faraone Ramses il Grande a partire dal suo ventiseiesimo anno di regno, ed è antico, non vecchio» rispose Thompson, leggermente indispettito dalla mancanza di tatto del poliziotto nel discorrere delle vetuste antichità che avevano di fronte. «E, da che siamo qui, nessuno ha avuto ancora occasione di entrarci. Io ci sono stato in più occasioni, negli anni passati, e contavo di tornarvi un’ultima volta prima di lasciare il campo per ripartire verso il Nord. Cosa avrebbero dovuto entrarci a fare, di notte, tutti i nostri compagni?»

«Be’, non scordiamoci che avevano bevuto tutti parecchio, considerando il disordine che si sono lasciati dietro» borbottò Abdul. «Forse, in preda ai fumi dell’alcol, potrebbero aver deciso di penetrare nel tempio per chissà quale ragione.»

«Erano ubriachi, eh? Magari questo ci faciliterà le cose e li troveremo là dentro, ancora addormentati» dichiarò Knight, portandosi una mano alla fronte per schermarsela dal sole, ormai alto. «Dinnanzi all’ingresso del tempio, infatti, vedo delle orme nella sabbia, che entrano, ma non ne riescono. Là dentro c’è qualcuno.»

Fece un segno del capo a Meziane, invitandolo a seguirlo, e partì risoluto in direzione del maestoso complesso. Mentre camminava, si sfilò di spalla il fucile e lo imbracciò dopo aver controllato che fosse carico, subito imitato dal compagno. Abdul e Thompson tennero loro dietro rapidamente, mentre Summerlee, arrancando a fatica, si affrettò a seguirli con la massima velocità consentita dalla sua mole.

«Dottor Thompson, stia indietro» invitò il poliziotto. «Potrebbe essere una faccenda pericolosa.»

Ma l’egittologo non si fece spaventare, ribadendo: «La prego caldamente di non utilizzare quest’arma là dentro, signore. Potrebbe danneggiare irreparabilmente l’antico tempio di Ramses II, con qualche proiettile.»

«Senza contare, poi, che là dentro potrebbero esserci davvero i nostri nipoti» ruggì Abdul. «Non vorrà fare del male ai bambini, vero?»

«Signori, so quel che faccio, è il mio lavoro» cercò di rassicurarli Knight.

Nel frattempo, erano giunti nei pressi dell’entrata del tempio, il cui interno appariva completamente buio, rispetto alla forte luce solare del mattino. Il poliziotto, mantenendosi guardingo, si chinò ad osservare le impronte che si perdevano verso la porta.

«Una sola persona è passata di qui» dichiarò. «Queste orme appartengono ad un solo individuo.»

«Potrebbe essere una pista sbagliata» gli rispose Meziane.

«Ma potrebbe anche non esserlo. Occhi aperti.»

I due uomini ripresero il cammino e s’addentrarono lentamente nel tempio, con i fucili spianati di fronte a sé, tallonati da presso da Thompson, Abdul e Summerlee il quale, approfittando della loro sosta, era riuscito a raggiungerli, sebbene ansimante.

La penombra, dentro l’antico complesso, non riusciva a smorzare il grande caldo che lo pervadeva. I cinque uomini si ritrovarono in un’ampia sala, dal pavimento sommerso da uno strato di sabbia finissima e dall’alta volta sorretta da pilastri ricoperti da geroglifici, dinnanzi ai quali sorgevano otto imponenti statue in posizione stante, raffiguranti il grande faraone nelle vesti di Osiride, il dio dell’oltretomba. Su entrambi i lati dei pilastri, invece, le pareti immortalavano con spettacolari immagini le grandi imprese militari compiute da Ramses II nel corso del suo lunghissimo regno, durato sessantasette anni.

Seppure lo avesse già visitato numerose volte nel corso della sua vita e sebbene preoccupato per la sparizione di John e Rachel, Thompson non poté evitare di spalancare gli occhi, al colmo dell’ammirazione e della commozione, dinnanzi ad un tale prodigio dell’ingegnosità umana. D’altronde, tantissimi anni prima, era stata proprio l’osservazione delle litografie realizzate tra il 1838 ed il 1839 da David Roberts, pittore vedutista che aveva compiuto un lungo viaggio in Egitto e Vicino Oriente, traendone magnifiche tavole poi pubblicate in un volume, a fargli nascere dentro un amore ed una passione indicibili per tutto quanto concernesse l’Egitto antico, in particolar modo quello relativo al periodo del Nuovo Regno. E quell’amore, nonostante il trascorrere inesorabile dei decenni, non s’era ancora minimamente sopito, anzi era tornato ad ardergli dentro di una passione ancora più forte, da quando aveva deciso d’imbarcarsi nello scavo della tomba sconosciuta. Quindi, ogni volta che gli fosse capitato di posare i propri occhi sulle meraviglie scaturite dall’antico popolo egizio, egli non avrebbe potuto fare a meno di turbarsi fin quasi alle lacrime. Probabilmente, solamente l’amore per sua moglie Fatma era stato, in lui, più forte e profondo della passione per l’antichità; e, rivivendo per un momento nel proprio cuore quel felice giorno di mezzo secolo addietro, che purtroppo non sarebbe mai più tornato, in cui per la prima volta aveva posto piede nel tempio maggiore di Abu Simbel in compagnia della sua giovane amica, non ancora sposata ma già vivamente innamorata e ricambiata, l’anziano egittologo non riuscì a trattenere un leggero singhiozzo di rimpianto.

Udendolo, Knight si volse all’indietro, bisbigliando: «Che fa, Thompson? Piange?»

L’altro scosse la testa.

«Ma no, che dice… mi è entrato un bruscolino nell’occhio, sarà stata la sabbia» borbottò.

«Meglio così» replicò il poliziotto, tornando a voltarsi in direzione della grande sala. «Ed ora avanti, lentamente e con gli occhi bene spalancati. Quei due, sentendosi in trappola, potrebbero riservarci un comitato di benvenuto indesiderato. Nel caso udiate rimbombare uno sparo, non esitate a sparpagliarvi ed a cercarvi un riparo.»

Abdul, tuttavia, brontolò che, a suo dire, né Fournier né Smith avevano con sé delle armi.

«Il fatto che nessuno le abbia vedute non significa che non ci fossero» gli rammentò Meziane.

Con estrema prudenza, i cinque uomini avanzarono nel tempio; il rumore dei loro passi era attutito dalla sabbia, mentre il respiro si faceva affannoso a causa della calura intrappolata all’interno dell’edificio. Nella penombra, a malapena rischiarata dalla luce proveniente dall’esterno, il gruppetto notò che la serie delle impronte proseguiva verso la seconda sala.

Senza soffermarsi a guardarsi troppo attorno, Knight e Meziane proseguirono in quella direzione, con gli altri tre sempre alle calcagna. In breve, s’insinuarono nella seconda sala, una stanza decisamente più piccola della precedente, sorretta da pilastri su cui capeggiavano le immagini degli dèi. In fondo, all’interno del vero e proprio santuario, s’intravedevano le statue delle quattro divinità Ptah, Amon-Ra, Ramses II in forma divinizzata e Ra-Horakhte, il grande dio di Eliopoli. E, proprio ai piedi delle quattro antiche statue, essi scorsero un arabo rannicchiato su se stesso, addormentato.

«Qui c’è solo un vagabondo venuto a farsi un riposino» esclamò Knight, abbassando il fucile. «È inutile, sto solo perdendo tempo. Cerco qui dentro quegli uomini che, di sicuro, saranno già lontani.»

«Aspetti, quest’uomo non è un vagabondo» lo interruppe Thompson.

«È vero, è uno dei lavoranti del campo, ricordo di averlo assunto io stesso» aggiunse Abdul.

«Be’, allora, se è così, vediamo se potrebbe dirci qualche cosa d’interessante, almeno lui» replicò il poliziotto, chinandosi a scuotere l’uomo addormentato.

Costui, destatosi all’improvviso, si guardò attorno con meraviglia, prima di notare i cinque che lo sovrastavano; nel notare le armi che due di loro portavano, sul suo volto si palesò una maschera di terrore.

«Non avere paura, non vogliamo farti del male» lo rincuorò Thompson.

Nel riconoscere il capo della spedizione archeologica, l’egiziano gli si gettò ai piedi, scoppiando in lacrime e gridando, in un inglese stentato: «Ti prego, signore, tu perdona me. Io tentato di fermare il signorino John, ma lui non voluto dare ascolto me. Io detto lui che essere sciagura entrare dentro, ma lui non voluto ascoltare me ed andato con altri.»

«Ma di che accidenti stai parlando?» ruggì Knight.

«John è mio nipote» spiegò Thompson. «Ma mi prenda un accidente se riesco a capire che cosa costui intenda dire.»

Abdul s’inginocchiò accanto al proprio connazionale e, posatagli una mano sopra la spalla per tentare di calmarlo, gli parlò in arabo; alle sue parole, l’altro rispose con una lunga spiegazione, che fece scuotere la testa a Thompson.

In quanto a Knight, sbottò: «Qualcuno sarebbe così gentile da tradurre per chi non capisce?»

«Dice che, la notte scorsa, i tre egittologi, palesemente ubriachi, in compagnia della ragazza e del ragazzo, i nipoti del dottor Thompson, hanno fatto ritorno all’interno della tomba» gli spiegò con prontezza Meziane. «Pare che volessero cercare un tesoro. Lui ha tentato di fermarli, ma il giovane John glielo ha impedito. Poi…»

Si volse verso l’arabo, che aveva ripreso a parlare concitatamente, quindi tradusse nuovamente: «Dice anche che, dopo qualche ora, poco prima dell’alba, ha fatto ritorno la grande eminenza del Cairo, vestita come un antico faraone.»

«E chi diamine sarebbe, questa eminenza? Qualcuno lo sa?» domandò Knight.

«Immagino che intenda accennare al professor al-Farooq» spiegò Summerlee. «Ieri sera se ne è andato dal campo, fuori di sé per la rabbia, dato che nessuno voleva prestare fede al suo racconto sull’ira dell’antico faraone la cui sepoltura abbiamo scoperto, che avrebbe invocato una maledizione contro chiunque avesse osato profanare il suo sepolcro.»

«E perché era conciato da faraone? Che pagliacciata sarebbe?» borbottò il poliziotto.

Questa volta, a rispondere, fu Thompson, che era sbiancato in volto.

«Il nostro amico sostiene che al-Farooq sia arrivato in compagnia di altri fanatici, vestiti come lui da antichi egizi ed armati con lance e spade di bronzo. Pare che facciano parte di una confraternita segreta o qualche cosa del genere. Egli ha radunato tutti gli operai, spiegando loro la storia della maledizione ed aggiungendo che, per eliminarla, avrebbero dovuto seguire nella tomba i profanatori e catturarli, per compiere il rito purificatore di espiazione. Alcuni dei lavoratori, atterriti, sono fuggiti, e tra questi il nostro amico, che è corso a nascondersi nel tempio, dove lo abbiamo trovato vinto dal sonno, ma altri hanno deciso di unirsi a loro, entrando poi nella tomba. Ed il rito sarebbe… sarebbe…»

Le parole morirono in gola all’anziano egittologo, che abbassò la testa e non ebbe cuore di proseguire; al suo posto, concluse Abdul, a sua volta estremamente preoccupato.

«Il sacrificio di una vergine al dio Horo. E l’unica giovane che si trovi in quel gruppo è Rachel.»

«Cosa?» esclamò Summerlee, sbigottito. «Ma è inaudito! Che ignoranza è mai questa, da parte di al-Farooq? Gli antichi egizi non praticavano sacrifici umani, se non nel periodo più arcaico e remoto della loro storia millenaria!»

Knight volse lo sguardo su tutti i presenti e disse, con tono duro: «Ma questi non sono antichi egizi. Questi sono fanatici moderni. Signori, dobbiamo muoverci subito. Ormai, la nostra non è più una missione per catturare due ladri matricolati, bensì una corsa contro il tempo per strappare una povera innocente dalle mani di un pazzo furioso.»

Thompson risollevò la testa, fissò il poliziotto per un momento negli occhi e disse: «Mi segua, signor Knight. Le mostrerò la strada.»

 

 

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Capitolo 6
*** Capitolo sesto ***


CAPITOLO SESTO

 

John Wilson, liberatosi del fastidioso egiziano che lo aveva rallentato, discese in fretta e con impazienza la scalinata e rientrò nella tomba sconvolta dal rovinoso crollo avvenuto nel pomeriggio. Adesso, ogni rumore ed ogni scossa s’erano acquetati, ma ovunque regnava lo sconquasso più totale per quanto accaduto. Polvere e calcinacci avevano ricoperto il pavimento, i dipinti a tempera sulle pareti sembravano essere irreparabilmente danneggiati, le colonne papiriformi erano per buona parte crollate ed alcuni oggetti sfuggiti alla catalogazione degli egittologi erano ormai ridotti in frantumi. Ciò che colpì maggiormente il giovane, tuttavia, fu la vista del bellissimo sarcofago in quarzo rosa, attorniato da Smith, Fournier, Libone e Rachel, il quale appariva desolatamente spaccato in diversi frammenti, come se una mano gigantesca chiusa a pugno lo avesse percosso con rabbiosa forza.

Il ragazzo si avventurò con cautela nella tomba buia, rischiarata a malapena dalle torce che gli altri avevano acceso, e li raggiunse.

«Non riesco a comprendere che cosa possa averlo ridotto in questo stato deplorevole» disse Libone, al quale l’ubriacatura doveva essere passata. «Nessuna colonna gli è franata addosso ed i pochi calcinacci cadutigli sopra dal soffitto non avrebbero potuto danneggiarlo in questa maniera. Il quarzo è una tra le pietre più dure, avrebbe dovuto resistere facilmente.»

John si avvicinò alla sorella, la quale gli strinse una mano, sussurrando: «Guarda. Il sepolcro è vuoto, non c’è traccia della mummia del faraone.»

«E neppure del suo sarcofago, in legno o cartonnage che fosse» aggiunse Fournier, che le stava in parte.

«Evidentemente, gli uomini di Amenmesse trasportarono la sua salma in un altro punto, più nascosto, della tomba» disse Libone.

«Ma perché?» domandò John.

«È possibile che questa che abbiamo di fronte fosse una sorta di trappola» spiegò Libone. «Eventuali ladri, vedendo le ricchezze che circondavano questo sarcofago, si sarebbero abbandonati qui alla razzia, senza curarsi di scoprire se esistesse un’altra camera sepolcrale od un’altra sala del tesoro. Probabilmente, i partigiani di Amenmesse speravano che il coperchio di questo sarcofago di quarzo fosse abbastanza pesante da scoraggiare chiunque dal tentare di sollevarlo per sincerarsi che contenesse effettivamente la salma del re. In questo modo, i profanatori, appagati dalle ricchezze razziate, non avrebbero avuto bisogno di compiere indagini più scrupolose. Naturalmente, noi sappiamo che la sepoltura rimase inviolata fino al nostro arrivo, quindi gli accorgimenti furono del tutto inutili.»

«Ma, allora» disse John, «se tutti i tesori che abbiamo trovato qui dentro servivano solamente per ingannare dei razziatori, significa…»

«…significa che, da qualche parte qui vicino, si trova una sala segreta contenente più oro di quanto noi tutti insieme possiamo immaginare» concluse per lui Smith, puntando lo sguardo avido verso le profondità più buie della camera.

Tenendo la torcia sollevata sopra la propria testa, si avvicinò al muro da cui, quel pomeriggio, al-Farooq aveva letto e tradotto i geroglifici che riportavano la storia che, poi, aveva narrato loro. L’intera parete era affrescata con scene d’imbarcazioni in viaggio lungo il Nilo e del sovrano in atto di officiare i riti riservati agli dèi; una parte di essa, tuttavia, era delimitata da due statue lignee di guerrieri, che nel pomeriggio non erano state rimosse. Una delle due statue era ancora intatta, quantunque ricoperta di polvere, mentre l’altra, colpita da una pietra piovuta dal soffitto, aveva perduto la mano che reggeva la lancia.

«Guardate qui» disse Smith, illuminando le statue.

Gli altri lo raggiunsero e Libone, dopo averle osservate assorto per alcuni istanti, disse: «Medjai. I guardiani delle necropoli, i soldati del faraone.»

«C’erano due statue identiche a queste in parte all’ingresso della tomba» si ricordò improvvisamente Rachel.

Fournier annuì.

«Sì, e quelle, per fortuna, le abbiamo trasportate fuori prima del crollo.»

«E, se quelle due erano poste a guardie dell’ingresso della finta tomba, queste non potrebbero essere quelle lasciate a vegliare la vera porta?» domandò Smith, al colmo dell’eccitazione.

Senza rispondere, Libone si diede ad un’attenta osservazione della parete tra le due statue alla luce della sua torcia, annotandosi mentalmente i più minuti dettagli; al tremore delle lucerne, notò che l’intonaco, staccatosi in diversi punti, non rivelava un fondo di roccia, bensì alcuni mattoni. Alzando lo sguardo, notò anche un architrave nascosta.

«È vero» disse. «Qui dietro c’è una parete di mattoni. È possibile che essa nasconda un ingresso segreto.»

«Dovremo abbatterla per vedere dove conduca» rispose subito Fournier, tastando con le mani la parete celata dalle antiche pitture.

«Esimio collega, non possiamo assumerci da soli questa responsabilità» lo bloccò Libone che, finalmente, aveva recuperato completamente la propria ragione, essendo totalmente svaniti gli ultimi effluvi dell’alcol. «Insisto per attendere l’alba per parlarne al dottor Thompson.»

«Ma come, il più grande esploratore del mondo ha paura di farsi male alle mani, nel buttare giù qualche vecchio mattone di fango secco?» lo schernì Smith.

«Qui non si tratta di paura, bensì di buonsenso» replicò Libone. «Noi non possiamo…»

«Taci un po’, vecchio scemo!» lo interruppe Fournier all’improvviso. «Adesso tu butterai giù questa parete!»

«Signore, non le permetto di parlarmi così e… Ehi!»

Libone fece un balzo all’indietro nel momento in cui, contemporaneamente, sia Fournier sia Smith estrassero rapidamente dalle tasche delle loro giacche dei revolver e glieli puntarono contro. Rachel strillò e si riparò dietro il fratello, ma i due giovani non poterono muoversi poiché Smith, lasciando che fosse il suo compare a tenere sotto tiro l’egittologo, girò l’arma nella loro direzione, intimando di non fiatare.

«E adesso, caro Libone, con l’aiuto di questo rampollo d’alta società inglese, ti darai da fare per abbattere questa dannata parete» ordinò Fournier seccamente.

Smith, avvicinatosi a John e Rachel, spintonò il giovane verso Libone, prendendo poi Rachel per un braccio e strattonandola verso di sé.

«Giù le mani da mia sorella!» gridò John facendo segno di volersi gettare contro l’americano; si sarebbe certamente scagliato contro di lui se Libone, all’ultimo istante, non lo avesse trattenuto, tenendolo fermo per una spalla.

«Ottimo gesto, Libone» ridacchiò Smith.

Poi, piantò la canna della pistola nel fianco della giovane, che si fece terrea in viso, aggiungendo: «Ed ora, mio giovane amico, dai una mano a quel vecchietto ad aprire un varco verso il tesoro, se non vuoi che io ricami un forellino nel fegato della tua simpatica sorellina.»

John, impotente, mugugnò qualcosa d’incomprensibile, mentre Libone tuonò: «Non la passerete liscia, furfanti!»

«Poche storie e basta ciance» urlò Fournier, agitando verso di loro la rivoltella. «Mettetevi all’opera prima di farci perdere la pazienza, non abbiamo tutta la notte.»

I due uomini, costretti ad obbedire, raccolsero da terra due grosse pietre, non essendoci altri attrezzi in vista, ed iniziarono a battere contro la parete di mattoni. Ad ogni colpo, le antichissime pitture, già messe a dura prova dal crollo del pomeriggio, si deterioravano irreparabilmente. Per il professor Libone, dopo una vita intera trascorsa a studiare le vestigia dell’antico Egitto, compiere quello scempio sembrava il peggiore dei crimini, tanto che, ad ogni martellata, gli pareva di star conficcando una pugnalata nel proprio cuore.

Senza smettere di tenerli d’occhio, Fournier si avvicinò a Smith e gli sussurrò in un orecchio: «Dobbiamo fare in fretta. Quel dannato Knight potrebbe esserci addosso a momenti.»

«Lo so, maledizione, ma non intendo andarmene senza una congrua ricompensa. Vedrai che, prima che possa arrivare a metterci il sale sulla coda, saremo già immensamente ricchi e parecchio lontani» replicò l’altro, senza smettere di stringere forte il braccio di Rachel.

Ad un certo punto, però, all’ennesimo colpo, Libone gettò via la pietra e si volse all’indietro.

«No, basta!» disse, con voce ferma e risoluta. «È troppo. Preferisco essere ucciso, piuttosto che continuare a profanare in questo modo quest’antica sepoltura.»

«Rimettiti subito al lavoro, vecchio idiota, o ti sparerò!» minacciò Fournier.

«Sparami, assassino! Meglio morire che essere tuo complice in questo crimine» replicò Libone con coraggio e con determinazione.

Smith piantò ancora più forte la canna del revolver nel fianco di Rachel, che scoppiò a piangere a dirotto.

«Ritorna a colpire quel muro, imbecille, o prima di te uccideremo questa pollastrella!» urlò con estrema ferocia.

«No!» gridò la ragazza, in preda al terrore.

John, che aveva a sua volta smesso di martellare, si avvicinò a Libone e mormorò: «La prego, professore, la prego… Non permetta che facciano del male a mia sorella.»

A Libone tremarono le labbra e le mani, nel trovarsi di fronte ad una tale scelta. Che fare? Salvare un’antica pittura muraria egizia e lasciare morire una povera giovane, oppure mantenere in vita la ragazza sacrificando un pezzo importante della storia umana? Rifletté che, in ogni caso, una volta sparato a Rachel ed a lui, i due criminali avrebbero certamente ed egualmente compiuto da soli quella razzia, per cui lo spreco delle loro vite sarebbe risultato del tutto inutile.

E va bene» rispose, adesso con un filo di voce. «E va bene.»

Si chinò, riprese la pietra e, rialzatosi, l’abbatté con tutta la propria forza contro il volto della dea Iside, cancellandolo per sempre. Interiormente, si rivolse alla grande divinità domandandole perdono per il proprio atto empio e sacrilego. Al suo fianco, anche John riprese a lavorare alacremente.

«Bravi» commentò la voce sarcastica di Smith. «Avete conservato ancora un briciolo di ragionevolezza, vedo».

Nonostante tutti gli sforzi dei due uomini, comunque, dopo due ore abbondanti di lavoro la parete era ancora sostanzialmente intatta e solamente uno spiraglio s’era aperto a dimostrare l’esistenza di un vano nella parte posteriore. Con nervosismo, ormai stanco di tenere ferma Rachel, che pareva essersi rassegnata, Smith scambiò qualche parola con Fournier, prima di dire: «Basta, fermi.»

Sudati e sconvolti, ormai quasi privi di energie, John e Libone si volsero a guardarlo.

«Di questo passo, non otterremo proprio nulla» disse il falso egittologo. «Dobbiamo trovare un modo più rapido per passare.»

«Le statue» brontolò Fournier. «Sì, quelle andranno bene… D’accordo, ascoltate. Prendete una di queste due statue ed utilizzatela come un ariete per abbattere il muro.»

«Questo è troppo!» ringhiò Libone. «Non potete…»

«Noi possiamo fare quello che vogliamo!» urlò Smith. «Tu, piuttosto, pensa a questa povera fanciulla, che sarebbe privata della vita per colpa del tuo egoismo. Sei davvero così attaccato a qualche vecchia suppellettile tarlata da essere pronto a vedere una giovinetta morire dissanguata ai tuoi piedi?»

Senza replicare, Libone scagliò via la pietra ed afferrò rabbiosamente per la vita la pesante statua che aveva perduto il braccio, strattonandola per staccarla dal basamento; John gli si avvicinò e cominciò a dargli man forte. In pochi minuti, i due uomini riuscirono a rimuovere la scultura, deponendola sul pavimento. A questo punto, le si misero entrambi a fianco, Libone davanti e John dietro e, afferratala, la sollevarono, sebbene con qualche fatica a causa del peso e della stanchezza.

«Avanti, ora» ordinò Fournier. «Sbrigatevi.»

Senza una parola, John e Libone iniziarono a far ondeggiare avanti ed indietro la statua, imprimendole velocità, per poi abbatterla contro la parete; il rimbalzo provocato dal colpo li fece indietreggiare, ma Smith urlò implacabilmente di continuare senza pause. Al quarto colpo, la parete cominciò a cedere, ma anche la statua, ormai provata e già piuttosto fragile per il fatto di essere stata costruita oltre tremila anni addietro, andò in frantumi tra le mani dei due uomini. Libone, sconsolatamente, osservò i frammenti dell’antichissima e pregevole scultura di legno cadere senza ordine sul pavimento polveroso. Ma non ebbe neppure il tempo di contemplare quella deturpazione, poiché immediatamente Fournier ordinò di ripetere l’operazione utilizzando anche l’altra statua.

Nel staccarla dal basamento, Libone non poté trattenere le lacrime all’idea di ciò che stava combinando; eppure, proseguì nella propria opera devastatrice, compiendo gli esatti movimenti di poco prima e, questa volta, la parete franò completamente sotto il primo colpo, rivelando una scalinata piuttosto ripida che si perdeva nelle oscure profondità della terra.

«Finalmente» sibilò Smith. «La via dell’oro è stata aperta.»

«In piedi, voi due» ordinò Fournier, rivolgendosi a John e Libone che, esausti, s’erano messi a sedere in terra a fianco della statua, per riprendere fiato. Preoccupato che, se non avesse obbedito prontamente, i due criminali avrebbero potuto fare del male alla sorella, John si rialzò immediatamente, mentre Libone, come se non avesse neppure udito le parole del francese, non si mosse dal suo posto.

«Alzati, idiota!» sbraitò Smith. «Dobbiamo andare!»

Libone sollevò su di lui due occhi pieni d’odio e, senza neppure pensarci, mormorò, col poco fiato che ancora gli rimaneva: «Vattene al diavolo, se proprio ci tieni.»

«Ci andrai tu!» gridò l’americano, fuori di sé per la rabbia, staccando la canna della pistola dal fianco di Rachel e puntandola contro l’italiano. In un attimo, premette il grilletto e l’egittologo, ferito, s’abbatté sul pavimento.

Rachel scoppiò a piangere ed iniziò ad agitarsi, tentando di liberarsi dalla presa del suo aguzzino, mentre John, inorridito, si gettò a terra a fianco di Libone, per sincerarsi delle sue condizioni di salute.

«Fermi tutti e due, bambocci!» gridò Fournier. «Dobbiamo andare!»

Afferrato John per un braccio, lo costrinse a rimettersi in piedi e, conficcatagli l’arma nella schiena, lo obbligò a camminare in direzione della porta segreta. Dal canto suo, Smith ridusse rapidamente all’impotenza Rachel afferrandola per il collo e mozzandole il respiro.

«Forza, adesso!» ordinò. «Dentro.»

E, senza più badare al povero Libone, i quattro varcarono la soglia della tomba misteriosa.

 

La discesa non fu per nulla facile, poiché gli scalini, intagliati direttamente nella roccia dagli antichi operai egizi, erano piuttosto sconnessi ed irregolari. L’ambiente angusto, inoltre, consentiva il passaggio di una sola persona per volta. In apertura, quindi, procedeva John, tallonato da vicino da Fournier, alle cui spalle veniva Rachel, sempre minacciata dalla canna della pistola di Smith, che chiudeva la fila.

Dopo una discesa che, ai quattro, parve interminabile, si ritrovarono improvvisamente sopra una balconata, da cui poterono osservare un ampio stanzone, di cui, però, non riuscirono a intravedere il fondo, essendo la luce delle loro torce insufficiente ad illuminare quel vasto ambiente. Tuttavia, ovunque si dirigessero i fasci luminosi, poterono osservare il luccicare brillante dell’oro, che compariva ovunque, come in un sogno.

A quella vista, Fournier e Smith scoppiarono a ridere e pure John e Rachel, per quanto spaventati ed incerti della propria sorte, non poterono trattenere un grido di stupore.

«L’oro del faraone!» si spolmonò Smith. «È nostro!»

Con una spinta, i due criminali costrinsero John e Rachel a discendere gli scalini che, dalla balconata, conducevano alla sala del tesoro. Alla luce delle torce, i quattro osservarono arredi, monili ed ornamenti in oro massiccio, ammucchiati dappertutto e vegliati da un’imponente statua nera raffigurante un cobra, circondata da due altre alte raffigurazioni di divinità.

Presi dalla brama dell’oro, Smith e Fournier si dimenticarono dei nipoti di Thompson e, senza ritegno, si gettarono sul tesoro, gridando come ossessi. Rachel fece quasi per seguirli ma John, avvedutamente, le prese la mano e le mormorò all’orecchio: «Dobbiamo fuggire, adesso, mentre sono distratti. È la nostra unica possibilità di salvezza. Seguimi!»

Senza lasciarla e senza smettere di controllare i due uomini, entrambi tuttavia così presi dal loro tesoro da non sembrare più in grado di accorgersi di null’altro, John cominciò ad avanzare verso la scala da cui erano appena discesi. Appena furono giunti sotto il balcone, tuttavia, una visione lo bloccò, lasciandolo paralizzato dalla paura.

Dalla scalinata proveniente dall’alto, infatti, cominciarono a fuoriuscire numerosi uomini armati con lance, spade, archi e frecce ed abbigliati come antichi egizi. Ognuno di loro gridava frasi in una lingua sconosciuta, che attirarono l’attenzione di Smith e Fournier, i quali si volsero all’indietro per capire che cosa stesse accadendo. Subito, però, entrambi si trovarono stesi a terra, impotenti, sovrastati da quegli strani uomini che puntavano loro le lame alla gola, mentre altri li frugavano per togliergli tutte le armi. Anche John e Rachel furono spinti contro una parete e tenuti sotto minaccia da alcuni individui, mentre la maggior parte degli altri si sparpagliava lungo tutta l’ampia stanza, accendendo antichi bracieri che, un poco alla volta, illuminarono completamente la sala, rivelandone l’enorme vastità. Quando la luce fu abbagliante, dalla scalinata che portava all’anticamera discesero altri uomini, portando con sé Libone, sanguinante dalla spalla dove il proiettile di Smith lo aveva colpito di striscio ma, per il resto, in buona salute, se non fosse stato per le mani legate dietro la schiena.

Gli strani uomini costrinsero Libone a scendere dal balcone e lo portarono vicino a Smith e Fournier, che furono fatti rialzare e immobilizzati con delle corde; John fu separato con violenza dalla sorella e condotto verso di loro, dove ricevette il medesimo trattamento. I quattro uomini, infine, furono assicurati tra di loro con altre funi, in maniera che non potessero più muoversi in alcun modo. A quel punto, sul balcone fece la sua comparsa al-Farooq, abbigliato come un antico faraone, con tanto di corona bianca e rossa dell’Alto e del Basso Egitto posta sul capo e di scettro hekat stretto in mano.

L’egittologo urlò qualche cosa, indicando Rachel, che venne immediatamente prelevata da due uomini e trascinata al di sotto di un’imponente statua in forma di falco, raffigurante il dio Horo e che nessuno, prima, a causa dell’oscurità, aveva notato. Per quanto scalciasse e gridasse, la ragazza non fu in grado di liberarsi dalla salda presa dei suoi aggressori.

«Professor al-Farooq!» gridò John, con tono disperato. «Che cosa sta facendo?»

L’egittologo, evidentemente invasato e veramente convinto delle proprie azioni, lo ignorò completamente; egli, invece, deposto lo scettro, sollevò entrambe le braccia in atteggiamento di devozione, con i palmi delle mani rivolti verso l’alto, e cominciò a cantilenare: «O grande Horo, intercedi per noi presso tuo padre Osiride, il grande signore dell’Occidente, affinché egli plachi la giusta ira di Amenmesse il giustificato e lo induca a richiamare da noi le sciagure a cui ci condannò in punizione delle nostre empie azioni! Accogli pertanto l’immolazione di questa vergine sul fuoco purificatore della rinascita!»

Quindi, abbassate le mani, con un segno del dito indice ordinò ai suoi uomini di procedere.

Essi, con pochi e rapidi gesti, strapparono tutte le vesti di dosso a Rachel, che si dibatté inutilmente, urlando dal terrore, fino a quando l’ebbero lasciata completamente nuda, quindi iniziarono ad avvolgerla rapidamente in alcune bende di lino che trassero da un cofano dorato.

«Fermi, lasciate stare mia sorella!» gridò John a pieni polmoni, senza che, però, nessuno gli prestasse ascolto; al suo fianco, Libone, privo di energie, faticava anche solo a reggersi in piedi, mentre Smith e Fournier sembravano aver perso ogni capacità d’iniziativa. Impotente, quindi, John fu costretto ad osservare l’atroce spettacolo delle bende che ricoprivano completamente il corpo inerme della sorella, fino a che solamente il suo viso fu lasciato libero. Stretta dalle fasce ed impossibilitata a muoversi, Rachel venne deposta sopra una graticola che si trovava ai piedi della statua mentre, lentamente, due uomini, con il capo coperto da maschere a forma di testa di sciacallo e muniti di fiaccole, cominciarono ad avvicinarsi da due lati, proferendo orazioni sottovoce.

«No, no!» gridarono all’unisono i due fratelli, mentre al-Farooq, impassibile, osservava la scena dall’alto del balcone.

All’improvviso, tuttavia, egli fu spinto in avanti e precipitò oltre la balaustra, picchiando duramente la testa sul pavimento sottostante. Gli uomini dalle fiaccole si bloccarono di colpo e tutti si volsero verso il balcone, dove erano apparsi Knight e Meziane, armati di fucile, affiancati da Thompson e Abdul, che avevano impugnato le pistole consegnate loro dai due poliziotti. Alle loro spalle, compressa nello spazio ristretto della scala, si scorgeva la sagoma enorme di Summerlee.

«Fermi!» gridò Knight. «Che nessuno si muova!»

Il suo ordine, tuttavia, cadde nel vuoto. Come formiche impazzite per la distruzione del loro nido, gli uomini vestiti da antichi egizi cominciarono a correre nella loro direzione, scagliando le lance e tirando le frecce, che i nuovi venuti schivarono riparandosi dietro il parapetto del balcone. Immediatamente, una salva di proiettili cominciò a rovesciarsi contro i fanatici di al-Farooq.

Anche Summerlee, dal canto suo, sebbene disarmato, riuscì a rendersi utile; arrivato ansimando sull’orlo della balconata, mise un piede in fallo e, perso l’equilibrio, rotolò giù dalle scale, travolgendo e mettendo fuori combattimento alcuni nemici che, intanto, erano riusciti ad avvicinarsi pericolosamente ai loro assalitori.

«Ben fatto, professore!» si complimentò con lui Abdul, raggiungendolo con un balzo.

«Grazie» borbottò il curatore, cercando di rimettersi in piedi.

L’egiziano, ignorando il pericolo a cui andava esponendosi, cominciò a correre attraverso la stanza, abbattendo a colpi di pugni tutti quanti gli si parassero dinnanzi; in un lampo, fu vicino a Rachel, mezza svenuta dalla paura, ma prima che potesse afferrarla per portarla al sicuro, i due uomini mascherati gli si avventarono contro, mulinando le fiaccole come se fossero state delle spade.

Abdul si gettò di lato, evitando di essere colpito da una fiammata, ma non poté impedire che le scintille, cadendo, incendiassero il carbone al di sotto della graticola. Con un ruggito, senza più paura del fuoco, si buttò in avanti, spingendo via i suoi assalitori, per poi avvicinarsi alla nipote e farla rotolare giù dalla griglia prima che fosse troppo tardi.

Intanto, mentre i tre uomini in cima al balcone continuavano a sparare sugli altri per tenerli a bada, Summerlee riuscì a raggiungere il punto in cui John e gli altri si trovavano legati e, con un coltello d’oro raccolto dal tesoro, li liberò dei legacci.

Senza perdere tempo a ringraziarlo, John corse verso lo zio Abdul e Rachel, per aiutarli, mentre Summerlee si vide costretto a sorreggere Libone, che rischiò di cadere a terra, essendo quasi esausto a causa del sangue perduto.

«Presto, datemi una mano!» gridò a Fournier e Smith. «Il professor Libone è ferito e non ce la posso fare a portarlo da solo.»

Per tutta risposta, i due criminali si diedero alla fuga, dirigendosi verso il balcone da cui, nel frattempo, Knight, Meziane e Thompson erano discesi per andare in soccorso ai loro compagni in difficoltà. Il poliziotto li notò ed urlò: «Fermi, voi due!» ma inutilmente, dato che già i due uomini s’erano dileguati su per la scalinata.

«Dannazione!» borbottò, riprendendo a sparare contro gli avversari, che sembravano non finire mai.

Thompson, raggiunto Summerlee, lo aiutò a tenere in piedi Libone per condurlo vero l’uscita, ma, ben presto, si trovarono la via sbarrata da un gruppo di egiziani, per cui furono costretti a fare dietrofront.

Intanto, Abdul, tenendo Rachel sopra una spalla, stava ancora cercando di mettere fuori combattimento i due uomini indossanti la maschera di Anubi, ma si trovava in difficoltà; per sua fortuna, sopraggiunse John che, afferrata una spada caduta di mano ad un avversario ed utilizzandola come se fosse stata una scure, lo liberò in pochi istanti dai due avversari. Deposta a terra la nipote, che nel frattempo aveva recuperato i sensi, lo zio riprese a colpire con calci e pugni ogni nemico che venisse a trovarsi a tiro delle sue braccia; John, invece, si chinò e, celermente, liberò Rachel dalle bende, restituendole poi i suoi abiti perché si rivestisse in fretta.

Knight e Meziane, senza smettere di sparare, si avvicinarono a Summerlee, Thompson e Libone, imprecando in continuazione poiché, pur aprendo enormi vuoti tra le fila dei loro avversari, non sembravano sortire alcun effetto; inoltre, le loro munizioni cominciavano a scarseggiare.

«La vedo brutta» comunicò Knight.

«Effettivamente, questi pazzi fanatici sono davvero tanti» replicò Meziane, al suo fianco.

In quel momento, anche John, Rachel ed Abdul, facendosi largo tra i facinorosi, li raggiunsero, mentre il tiro delle frecce avversarie cominciava a farsi pericolosamente vicino.

«Ma perché non si arrendono?» urlò Summerlee. «Anche se siamo di meno, dovrebbero aver capito che li stiamo falciando a colpi di fucile.»

«È per via di al-Farooq. Non si arrenderanno finché sarà lui ad impartire gli ordini!» rispose Thompson. «È esattamente come negli antichi eserciti: finché il comandante viveva, i suoi guerrieri erano disposti a continuare a lottare ad oltranza. Morto il capo, la guarnigione andava in rotta.»

«Credevo che ci fossimo sbarazzati di lui, facendolo volare dal balcone!» rispose Meziane.

«No, eccolo là che distribuisce ordini come un ossesso!» urlò Knight.

L’egittologo, infatti, era seduto ai piedi della balconata, con una ferita alla testa e la gamba malconcia, ma con addosso ancora abbastanza vitalità da poter continuare ad urlare ai suoi uomini per incitarli a punire i profanatori. Il poliziotto, allora, decise di mettere alla prova le parole di Thompson: sollevato il fucile, prese la mira con attenzione e sparò, colpendo al-Farooq in pieno viso. L’uomo vestito da faraone s’accasciò, terminando immediatamente di gridare. Contemporaneamente, strepitando per lo scoramento, i suoi uomini abbandonarono la lotta e si diedero ad una fuga disordinata verso il balcone, per risalire in superficie.

Thompson ed i suoi compagni, nell’arco di pochi secondi, si ritrovarono completamente soli, avvolti da un silenzio tombale.

«Che mi prenda un colpo» bofonchiò Knight. «Ha funzionato veramente!»

«Siamo davvero salvi?» mormorò Libone.

John e Rachel corsero ad abbracciare il loro nonno, mentre Meziane rispose: «Per il momento, pare di sì. Ma non è detto che quei mattacchioni non intendano aspettarci al piano di sopra per vendicare il loro faraone.»

«È vero» disse Summerlee. «Pertanto, che cosa suggerite di fare, signori? Pensate che possa esserci un modo per uscire da qui senza dover risalire la scala?»

Tutti si volsero in direzione di Thompson, poiché se c’era un uomo in grado di dare una risposta a quella domanda, quello non poteva essere che lui. E l’anziano egittologo, quindi, liberatosi dolcemente dalla stretta dei nipoti, rispose: «Io credo che l’unico modo per scoprirlo sia quello di darci all’esplorazione di questa vasta sala. Tuttavia, osservando le dimensioni di taluni degli oggetti qui raccolti, mi sento di affermare che, quasi sicuramente, un altro passaggio debba esistere per davvero, altrimenti non sarebbe mai stato possibile ammassarli qui sotto.»

Effettivamente, come osservato da Thompson, nel tesoro erano raccolti non solo pezzi finissimi e piccoli, ma anche suppellettili molto grandi, che non sarebbero mai potute passare attraverso la scalinata che avevano percorso loro stessi; pertanto, gli otto componenti del gruppo si sparpagliarono in giro, alla ricerca di un passaggio.

«L’ingresso a questa stanza, però, era murato» spiegò John. «Se fosse lo stesso anche qui, ci vorrebbe un miracolo per riuscire a scovarlo.»

«Effettivamente, le pareti di questo salone sono davvero molto vaste e le luci dei bracieri cominciano ad affievolirsi. Non abbiamo molto tempo a nostra disposizione» brontolò Knight. «Sarà meglio sbrigarci.»

Si sparpagliarono in giro, quindi, ed ognuno iniziò a picchiettare con i pugni chiusi sopra le pareti, alla ricerca di un punto che suonasse differentemente dagli altri; dopo circa un quarto d’ora di indagini, quando le lucerne davano ormai l’impressione di volersi estinguere, Rachel chiamò presso di sé il nonno, verso il fondo della grande sala, per fargli sentire quello che aveva scoperto.

«Qui dietro suona vuoto» spiegò la ragazza, percuotendo con le dita un tratto di muro.

L’anziano egittologo accostò la mano alla parete, affrescata con finissimi rilievi, e si rese conto che, in quel punto, il fondo non era roccioso, ma di mattoni di fango essiccato.

«È vero, qui dietro c’è un passaggio segreto» confermò, prima di riunire attorno a sé anche gli altri.

Il gruppo si radunò attorno alla parete, dove si tenne un rapido consiglio per decidersi sul da farsi. Abbattere il muro avrebbe significato, come già successo al piano di sopra, dover distruggere una parte di pregiatissime ed antiche pitture murarie egizie; non abbatterlo, però, avrebbe voluto dire decidersi a risalire dall’ingresso da cui erano giunti, esponendosi al pericolo di incappare in una pericolosa trappola. Alla fine, seppur con qualche rimostranza da parte di Summerlee e Thompson - mentre Libone, completamente sfiancato, rimase tutto il tempo seduto in disparte, senza proferire verbo - prevalse la decisione di far crollare la parete senza indugiare troppo a lungo.

Furono Abdul, Knight e Meziane ad assumersene il compito, utilizzando delle scuri di bronzo recuperate in giro, con le quali, senza farsi cogliere da troppi rimorsi, distrussero per sempre quelle bellissime pitture, oltre le quali scoprirono un muro che, sbriciolato in pochi minuti di duro lavoro, rivelò effettivamente un altro passaggio segreto, scavato nella pietra.

Il corridoio, buio e non molto largo, si perdeva nelle viscere della terra ma, d’altra parte, l’alternativa era quella di tornare indietro; quindi, accese le proprie torce, il gruppo vi s’avviò risolutamente, deciso a trovare una nuova via. In testa si mise Thompson, mentre gli altri proseguirono in fila indiana dietro di lui, con Knight in chiusura.

Avanzarono per circa una mezz’ora nell’oscurità a stento scalfita dalle loro torce, in completo silenzio, procedendo attraverso quel budello, che per lunghi tratti proseguiva perfettamente diritto, prima di compiere, di quando in quando, una brusca svolta a novanta gradi, segno, certamente, che il cunicolo fosse opera dell’uomo, come del resto dimostravano anche le scritte in geroglifico ed in ieratico che, in talune occasioni, comparivano sulle pareti. All’improvviso, il dottor Thompson alzò un braccio per fermare gli altri.

«Che succede?» domandò Knight, incuneandosi in mezzo agli altri per riuscire a raggiungerlo, anche se non vi riuscì, poiché fu costretto a fermarsi, impossibilitato a procedere, quando giunse alle spalle di Summerlee, che riempiva completamente lo spazio.

«Mummie» rispose Thompson. «A centinaia. Guardate.»

E, sollevata la torcia, mostrò loro che, da quel punto in avanti, dove il corridoio iniziava ad allargarsi, lungo le pareti erano allineate un gran numero di antichi cadaveri imbalsamati. Rachel emise un gemito di ribrezzo, mentre Summerlee domandò, con il suo tono accademico: «Una necropoli?»

«Presumo di sì» rispose Thompson.

John, che si trovava alle spalle del nonno, si avvicinò per vedere meglio. All’improvviso, però, la lucerna che reggeva in mano venne scagliata verso l’alto e ricadde sul pavimento di pietra, infrangendosi, mentre il ragazzo emise un urlo di spavento e di stupore.

«Che succede?» gridò Knight.

«Perché l’hai fatto, John?» lo rimproverò il nonno.

Atterrito, il ragazzo volse lo sguardo sui presenti.

«Non sono stato io» balbettò. «È come… come se una forza invisibile mi avesse strappato la lanterna.»

«Una forza invisibile?» sbottò Meziane con scetticismo.

In quel momento, però, tutt’attorno a loro si levò un brusio indistinto, come se le antiche mummie avessero cominciato a sussurrare parole incomprensibili; gli occhi degli astanti, colmi di eccitazione, si volsero in ogni direzione alla ricerca della fonte di quegli strani suoni.

«Le mummie» mormorò Rachel. «Le mummie stanno parlando!»

Thompson le rivolse un’occhiata piena di angoscia, come se la nipote fosse impazzita.

«Ma che!» sbottò. «Le mummie non possono parlare! Questo che sentite è solamente il rumore del vento ed una corrente d’aria può significare solamente una cosa: l’uscita da questo posto non dev’essere lontana.»

Intanto, però, quell’apparente mormorio aumentava, fino a che, terrorizzati, John e Rachel iniziarono a correre, per fuggire il più lontano che fosse possibile; lo zio Abdul, subito imitato anche dagli altri, si gettò al loro inseguimento, urlando di calmarsi e di non lasciarsi prendere dal panico.

Corsero tutti quanti a perdifiato dietro ai due ragazzi, compreso Libone, sebbene questo gli comportasse uno sforzo incredibile, facendosi largo tra le antiche e polverose mummie ammonticchiate lungo le pareti, mandandole in mille pezzi ogniqualvolta che, inavvertitamente, ne sfioravano anche solo leggermente una, gridando loro di fermarsi e di non avere paura. All’improvviso, però, come attratti da un’oscura presenza i due giovani si bloccarono di colpo, tenendosi vicini, per cui a Thompson, Knight ed agli altri fu possibile raggiungerli.

Ansimando, Thompson aprì bocca, come per redarguirli, ma le parole gli morirono in gola non appena gli fu chiaro che cosa avesse fermato i due nipoti. Percorrendo il corridoio delle mummie, difatti, il gruppo era giunto in un’altra grande sala, con le pareti spoglie, questa volta, e che sarebbe stata completamente vuota, se non fosse stato per un trono, posto in cima ad una scalinata di pietra su cui erano abbandonati diversi scheletri. E, assisa sul trono, vi era un’antica mummia, rivestita degli abiti regali di un faraone, con la doppia corona posta sul capo e gli scettri del potere stretti tra le braccia incrociate sul petto.

Mentre tutti osservavano quella straordinaria scoperta, s’udì un fragore, come di tuono e, nel mezzo di misteriosi ed ipnotici fasci di luce a tratti verdi e ad altri azzurri, quasi accecanti, provenienti da chissà dove, una voce stentorea si levò da ogni lato, mentre la mummia, i cui occhi si tinsero d’un rosso fiammeggiante, si levò all’improvviso in piedi, sollevando le braccia in un gesto imperioso.

 

«Sacrileghi!

Avete scosso le fondamenta del tempio dell’ultimo faraone!

Ogni cosa scompare, nel fuoco purificatore di Seth!

Tutti gli equilibri si sono rotti e i morti non avranno più pace!

Maledetti voi siate!»

 

Improvvisa com’era venuta, la luce verde ed azzurra si dissolse e la mummia del faraone tornò a ricadere pesantemente sul trono, sollevando una nuvola di polvere grigiastra e rimanendo immobile ed inanimata.

Sui volti dei presenti, la costernazione si dipinse palese. Si sarebbero potuti aspettare di tutto, percorrendo quelle vie sotterranee e sconosciute, ma certamente non questo. Quello che avevano appena veduto andava oltre i limiti della comprensione umana, apparendo essere qualche cosa di assurdamente impossibile.

Thompson staccò a fatica gli occhi dal trono faraonico su cui la mummia, adesso, giaceva scompostamente, e si rivolse a Summerlee, che gli stava a fianco, talmente sorpreso che pure sul suo viso, solitamente rubizzo, s’era diffuso un pallore quasi mortale.

«Ma lo abbiamo veduto davvero?» balbettò l’anziano egittologo.

Il curatore lo guardò qualche secondo con aria stralunata, prima di scuotere la testa.

«È stata solamente un’allucinazione» bisbigliò, cercando di convincere innanzitutto se stesso. «È stata niente altro che una strana allucinazione. Qui sotto si respira male ed è risaputo di come la mancanza d’aria giochi strani scherzi al cervello.»

I due uomini rimasero muti e silenziosi, osservando l’antica mummia. Fu Knight, avvicinandosi, a riscuoterli dalla loro contemplazione.

«Signori, dobbiamo andarcene di qui.»

Il dottor Thompson sembrò sorpreso di vederlo al suo fianco, poi però si riprese e rispose: «Sì, andiamo. Sentite questa corrente d’aria? L’uscita da questo labirinto non è lontana.»

Si avviò, seguito da Libone, Summerlee, Knight, Meziane e Abdul che, adesso, sorreggeva i due nipoti.

 

L’uscita, alla fine, fu davanti a loro quando, risalita una scalinata intagliata nella roccia, raggiunsero una vasta caverna naturale aperta nel fianco di una delle montagne circostanti Abu Simbel. Una volta usciti all’aperto, poterono osservare i templi erigersi qualche decina di metri sotto di loro, verso destra, ed il campo base, che pareva essere deserto.

Mentre Thompson, Summerlee, Libone ed i due ragazzi restavano ad attenderli al riparo della grotta, Knight, Meziane ed Abdul raggiunsero cautamente l’accampamento, per scongiurare eventuali sorprese, ma non vi trovarono anima viva. Pensarono di entrare nella tomba per controllare che i fanatici capitanati da al-Farooq non vi si fossero nascosti dentro ma, quando raggiunsero la rampa, ebbero lo sconcerto di scoprire che l’ingresso all’anticamera era stato fatto crollare.

«Quei simpaticoni ci avrebbero voluti seppellire tutti là dentro» constatò Abdul, prima di iniziare a sventolare un fazzoletto, il segnale concordato con gli altri per indicare il via libera ed indurli a scendere dalla montagna.

Quando tutti furono riuniti, Libone venne steso nella propria tenda e rapidamente medicato e bendato; fortunatamente, la ferita non era nulla di grave e gli sarebbe stato sufficiente un periodo di riposo per riprendersi. Tutti si diedero da fare, ma nessuno sembrava intenzionato a parlare di quello che avevano vissuto e visto all’interno della tomba.

Infine, Knight prese per le briglie il proprio cavallo e raggiunse gli altri nel centro del campo.

«Ho rintracciato le orme di Smith e Fournier e, come temevo, si sono diretti oltre il confine con il Sudan. Dovrò riprendere il mio inseguimento.»

«Purtroppo, signor Knight, non potrò più seguirla» rispose Meziane. «Il mio compito finisce qui. Farò ritorno alla guarnigione del Cairo ed indirizzerò un rapporto ai suoi superiori per aggiornarli riguardo gli ultimi sviluppi. Le auguro buona fortuna per la sua caccia.»

«Anche io, a nome di tutta la missione archeologica, le auguro di acciuffare e di assicurare quanto prima alla giustizia quei manigoldi» disse Thompson, porgendogli la mano per salutarlo. «Inoltre, la ringrazio per l’aiuto che ci ha portato: senza di lei, non avremmo mai potuto liberare i miei nipoti dalle mani di quei pazzi.»

Knight, con un sorriso sghembo, si toccò la tesa della bombetta in segno di saluto, poi saltò agilmente in groppa al cavallo, spronandolo verso sud. Si volse all’indietro, sollevando la mano in un ultimo saluto, gridando: «Addio, amici miei, e grazie di tutto!», prima che scomparisse oltre una curva e non fosse più visibile.

Il gruppo rimase per un po’ a fissare la polvere sollevata dalla cavalcatura, poi Summerlee si rivolse a Thompson.

«E noi, caro Henry, che cosa faremo?»

L’egittologo si volse con nostalgia verso il grande tempio di Ramses II, prima di rispondere: «Il nostro compito, qui, è terminato. Raccoglieremo tutti i reperti che abbiamo già imballato, li caricheremo sul nostro battello e li condurremo al museo del Cairo. Per tutto il resto, credo sia meglio mantenere il più grande riserbo.»

«Non vuoi continuare gli scavi?» sbottò Abdul. «Nonostante tutto quello che abbiamo veduto là sotto?»

«Temo che abbiamo visto cose che esulino dal normale lavoro di un archeologo» gli ricordò il cognato. «Credo sia venuto il momento di lasciare davvero in pace i morti.»

«Ed il tesoro?» domandò John.

«Lasciamolo là dove si trova» rispose Thompson. «Quando verrà il momento, saranno altri ad occuparsene. Noi ci accontenteremo di quanto raccolto nell’anticamera.»

«E per quanto riguarda la storia di quei folli che si credevano antichi egizi?» domandò Meziane. «Crede che dovremmo parlarne con qualcuno?»

«Preferirei di no» rispose l’egittologo. «Il professor al-Farooq era un grande studioso, non voglio che la sua reputazione accademica venga macchiata da questo tragico epilogo. Se sarete tutti d’accordo, dunque, qualora ci chiedessero dove sia finito, riferiremo che non lo sappiamo e che, sebbene invitato, egli non si è mai unito alla nostra spedizione. La sua scomparsa, in questo modo, resterà per sempre un mistero impossibile da risolvere, un enigmatico rompicapo, l’ennesimo tra i tanti di questa terra straordinaria, ma, almeno, lo preserverà dall’immeritata derisione che gli deriverebbe se si venisse a conoscenza dei suoi ultimi atti.»

«D’accordo» rispose Meziane.

Summerlee rivolse uno sguardo a Rachel e John.

«E voi, giovanotti, desiderate ancora diventare egittologi come vostro nonno?»

I due ragazzi si guardarono negli occhi, poi sorrisero entrambi.

«Penso proprio di sì!» rispose John.

«Alla fine, ci siamo divertiti!» aggiunse Rachel con entusiasmo.

Il curatore scoppiò a ridere, sbottando: «Ah, la gioventù!»

Poi, poste le proprie manone sulle spalle di entrambi, li guidò verso la tenda principale, dicendo: «Bene, allora, tanto per cominciare, vi darete da fare trasportando le casse dei reperti sulla barca!»

Meziane li seguì, lasciando soli Thompson ed Abdul.

Il grosso arabo mise fraternamente una mano sulla spalla del cognato, dicendo, con tono commosso: «Allora, hai proprio deciso di andartene?»

«Sì, e questa volta per sempre.»

«Mi dispiacerà non vederti più, vecchio.»

«Anche a me dispiacerà molto. Mi mancherai.»

L’anziano egittologo fece scorrere lo sguardo malinconico sulla distesa della sabbia, sulla verde e tranquilla striscia del Nilo, sull’accampamento, sui templi maestosi, sulle rocce frastagliate e sul cielo terso color cobalto, dove splendeva il sole, una delle tante incarnazioni del grande dio Ra: «E mi mancherà anche tutto questo, immensamente» aggiunse, con una punta di tristezza nella voce. «Ma debbo tornare in Inghilterra, per finire di scrivere i miei libri o, almeno, per provarci. Inoltre, finché il tempo me lo concederà, voglio rimanere vicino a Margaret, poiché la sua vicinanza contribuisce a mantenere sempre vivido il ricordo della mia Fatma.»

L’evocazione della memoria di quella donna che era stata cara ad entrambi, fece luccicare gli occhi di ambedue gli uomini. Dopo quell’attimo di scoramento, tuttavia, Thompson aggiunse, con rinnovato impeto: «Ma tu non ti sentirai solo troppo a lungo, Abdul. Ho come l’impressione che ti troverai molto presto tra i piedi Rachel e John. Non avrai il tempo di riposare, perché dovrai corrergli dietro per evitare che si caccino nei guai.»

Nell’udire pronunciare il nome dei due ragazzi, Abdul sorrise, sotto la fluente barba.

Si volse ad osservarli, mentre si davano da fare, sotto l’occhio attento di Summerlee ed aiutati da Meziane, camminando avanti e indietro tra la tenda ed il fiume, trasportando pesanti casse, e rispose: «I bambini saranno sempre i benvenuti. Ed anche tu e Margaret, ovviamente, se un giorno deciderete di fare ritorno.»

I due uomini si strinsero la mano, con vigore nonostante la stanchezza e l’età ormai avanzata per entrambi, poi si diressero entrambi verso il battello, sotto il caldo sole egiziano che faceva rilucere da millenni le acque benefiche del Nilo, vigilate dai colossi austeri e sereni di Ramses il Grande.

 

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