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di Lettrice_fissata
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Aracne ***
Capitolo 3: *** Medusa ***
Capitolo 4: *** Pandora ***
Capitolo 5: *** Pandora ***
Capitolo 6: *** Scilla ***
Capitolo 7: *** Circe ***
Capitolo 8: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Quando sento raccontare la mia storia tutto sembra così semplice. Così chiaro. Così lineare. La voce degli eroi è così semplice da ascoltare. Racconta di un mondo in bianco e nero. Crederei a tutto quello che dicono. Se non fossi stato lì. Quella che udite è la voce degli sconfitti. Dei perdenti che sono automaticamente diventati i cattivi. I traditori. I superbi. Gli stupidi. Nelle storie è tutto così semplice. Ma la vita non è mai semplice.

Forse sono malvagio, ma nessuno mi ha chiesto il perché.

Forse sono superba, ma avrò avuto i miei motivi. Ho sfidato gli dei, è vero. E ho vinto. Ma nessuno si è congratulato con me. 

Forse sono una traditrice, ma non sapevo che la parte vincitrice erano i buoni e gli altri i cattivi. Ero stupida.

Ed è vero, non ho saputo resistere a me stessa. Ma ho fatto tutto quello che potevo. 

Non è stato l’impulso di un momento, ma un’azione ragionata. 

Forse ho mancato rispetto agli dei, ma ero disperata. 

Ho perso, è vero. Sono uno sconfitto. Questo sono io. E questa è la mia storia. Non ha un lieto fine. Se sei qui per un lieto fine, dovrai cercare da qualche altra parte. Ma alla fine, ho trovato la pace. Quanti sono gli eroi che possono dire questo? 

 

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Capitolo 2
*** Aracne ***


Ho sempre odiato il mio nome. È normale? Credo mi sia stato dato per via di una mia lontana antenata, che non avevo mai conosciuto. Odiavo il fatto che iniziasse con una lettera aperta e finisse con una più chiusa .Come se la mia vita-che già non era iniziata in modo spettacolare- dovesse finire ancora peggio. Per non parlare della C e della N. Messe vicine avevano un suono strano ed innaturale. Come lo schioccare di una mandibola. Detestavo quando lo pronunciavano. Una volta, da piccola, avevo chiesto a mio padre se si potesse cambiare nome, e lui mi aveva guardato come si guardano i bambini stupidi. Non sapevo leggere, ma mi piaceva immaginare come sarebbero state le parole disegnate. Le dividevo in suoni, e immaginavo anche quelli. Scomponevo tutto. Suoni, immagini. Dividevo le immagini in tanti fili, l’opposto di ciò che facevano le tessitrici. Ma sto divagando. Non è del mio nome che devo parlare, ma della mia vita. Il mio nome è fin troppo famoso, ma la mia storia è ignorata. Nacqui a Lidia, nella città di Colofone. La mia famiglia non era ricca, ma nemmeno in miseria. Eravamo solo io e mio padre, poveracci per i nobili nelle loro belle case e ricchi per i mendicanti e i senzatetto. Conoscevo la fame, ci ero abituata. Ero una bambina molto tranquilla, abituata a tacere e ad osservare. Tutti i giorni seguivo mio padre, un semplice tintore, al lavoro. In teoria avrei dovuto imparare quel mestiere, in modo da poterlo un giorno praticare, ma non mi affascinava quel rigirare stoffe in un ammasso puzzolente per colorarle. Non ho mai capito cosa fosse quell'ammasso, né perché le stoffe andassero rigirate. Mio padre aveva tentato di spiegarmelo, insieme al perché dovessi fare tale mestiere, ma io non ero brava ad ascoltare. Passavo quei lunghi minuti a scomporre parole, studiarle e ricomporle, in modo da poter rispettare il loro potere. Fu una rigida giornata di dicembre che feci una scoperta che mi cambiò la vita. Stavo studiando il muro della tintoria quando vidi una fessura. Attraverso di essa potevo vedere una stanza. La stanza delle tessitrici. Le vidi prendere del filo e farlo passare alternamente in alto e in basso, come un'onda, per poi tenerlo, raddrizarlo e sistemarlo con uno strano strumento che in seguito scoprì chiamarsi spola. Restai subito affascinata da quello spettacolo. Anche loro prendevano dei fili e li ricomponevano in qualcosa di infinitamente più potente. Allora decisi. Era quello il mio destino. Le osservavo tutti i giorni. Ma il mio momento preferito era quando iniziavano a lavorare agli arazzi. Erano cose da ricchi,da re.I fili colorati si intrecciavano, sinuosi come serpenti, leggeri come piume , sottili come un capello, colorati di tutti i colori più belli.Si alzavano e si abbassavano come le onde del mare,e si univano per sempre,stretti gli uni agli altri.E infine venivano tesi,ed ogni volta mi coglieva la paura che il filo si rompesse,che dal soffitto cadesse un sasso che avrebbe spezzato quel fragile equilibrio… Non successe mai.Ci volevano mesi per tessere un arazzo.Raramente qualcuno lo ordinava.Ma quando era finito,gli occhi mi si riempivano di lacrime per la commozione. All’età di circa sei anni,con dei legnetti mi ero costruita un piccolo telaio, minuscolo ed irregolare, grande più o meno quanto il mio torace, in modo da poterlo nascondere sotto la veste quando mio padre mi si avvicinava. Quando andavo in strada raccoglievo i sacchi lasciati a terra, gli indumenti così rovinati che non si potevano nemmeno più riciclare come bende o fasce per neonati. Durante la notte, o nel mio poco tempo libero, svolgevo i fili, uno per uno, con molta calma. Una notte, quando credevo di aver raccolto abbastanza filo, iniziai a tessere. Dopo anni passati a guardare le tessitrici,le mie piccole mani, abili e veloci, intrecciavano e tessevano quasi senza accorgersene. I movimenti mi venivano spontanei.Al posto della spola usavo le mie minuscole dita. Arrivò il mattino, ed io, quasi senza accorgermene avevo finito lo spazio. La tela era piccola, sgraziata,aveva un colore indefinito tra il marrone fango ed il bianco sporco, ma era una tela. Una grande felicità mi invase. Volevo farla vedere a mio padre. Forse avrebbe capito che era quello a cui io ero destinata. Rientrai nella nostra casa, una piccola, fatta di mattoni umili, che aveva come pavimento la terra battuta. Mio padre era lì, steso per terra come al solito.<> chiamai. Lui non mi rispose<> ripetei. Lo chiamai e lo scossi più volte, ma non si mosse. Il suo corpo era gelido. La notte doveva essere stata fredda e io non me n’ero accorta, certo, e lui dormiva solo molto profondamente. Cercai il battito del cuore. Mi rassicurai. C’era ancora un fievole battito. Che però diminuì. Sempre di più. Fino a diventare impercettibile. Fino a svanire. Accadde così. In una notte d’estate. Un uomo era vivo, e poi non lo era più. Niente di più epico. Niente spade né lance, niente onori da guerriero, niente nobili sacrifici. Solo un cuore che smette di battere. Non so ancora cosa accadde. Forse,aveva lavorato troppo. Forse era stata una una notte troppo fredda. Forse aveva mangiato troppo poco. Non so ancora perchè. Forse, quella era stata una punizione per qualcosa che avevo fatto, per qualcosa che avrei fatto. Quella notte, che era quasi giorno, lo seppellii nella nostra casa, ricoprii la buca e andai dove lavorava mio padre. Ma non mi diressi, come al solito, alla tintoria. Per la prima volta, andai alla porta delle tessitrici. Una di loro era morta, e ne cercavano un'altra. Il lavoro era duro, difficile e, secondo alcuni, monotono. La paga non era eccezionale, nonostante fosse molto più alta di quella di mio padre. C'era soltanto un'altra candidata,una ragazza molto più grande di me, di circa vent'anni. All'inizio non mi presero sul serio, ero solo una bambina, che non dimostrava nemmeno i suoi sei o sette anni. Ma, per correttezza, decisero di far provare anche me. Ad ognuna di noi venne consegnato un telaio e del filo, di scarsa qualità, ma pur sempre del vero filo. Dopo avermi avvisato di non rovinarlo, partimmo. La ragazza era brava, ma io avevo qualcosa nelle mani, forse il ricordo delle tessitrici, che mi rendeva, in quell’attività, veloce, forte, inarrestabile. Invincibile. Dopo qualche ora avevo finito. La ragazza, alla quale mancavano pochi centimetri, mi fissò con rabbia. Non ne avevo mai vista così tanta. Di solito la rabbia che mi veniva riservata era piccola, distratta. Invece nei suoi occhi ardeva il fuoco della rabbia, della delusione, dall'invidia. Dell'odio. Non credevo che tale fuoco potesse ardere negli occhi dei mortali. Pensavo che solo gli dei ne fossero capaci. Mi sbagliavo. La rabbia degli dei è molto più grande, ed io lo avrei scoperto presto. Credo ancora oggi ( ma nulla mi ha dato motivo per sospettarlo ) che, nonostante la mia vittoria, le tessitrici avrebbero preferito assumere la mia rivale. Ma erano donne d'onore, e, con una gentilezza ornata dal rimpianto, la fecero uscire di lì. Poi, con molta serietà, mi spiegarono ciò che dovevo sapere sul mestiere. Così scoprì che sapevo ascoltare, che bastava l'argomento giusto. Divenni subito molto brava. Tessere mi dava una gioia particolare. A volte mi attardavo, la sera, quando tutte erano ormai a casa. Ma tornavo ogni notte, sia pure per poche ore, alla tomba di mio padre. Avevo abbastanza soldi per pagare l’affitto, il cibo, e mi avanzava anche qualcosa, che tenevo da parte.Un giorno,di sera, arrivò l’ordine di un arazzo. Io non me ne accorsi, presa come sempre dal mio lavoro. Le altre decisero di iniziarlo l’indomani, e andarono tutte a casa. Io mi attardai, come sempre, per finire la mia tela. Dopo poco, la tolsi dal telaio, la misi a posto, mi stiracchiai e guardai il tavolo, dove stava appoggiato un pezzetto di pergamena. Avevo da poco imparato a leggere, e ci misi un po' a decifrarlo. Poi lo rilessi, per essere sicura di aver capito bene. Un arazzo, pensai, un vero arazzo come ho sempre sognato di fare! Perciò iniziai a scegliere i fili, a sistemarli e a tessere. Tessi tutta la notte. Alla mattina,con l’arrivo delle mie colleghe, con gran sorpresa di tutti, ma soprattutto mia, l'arazzo era finito. Ci volevano mesi, di solito, per farne uno, ma io, una bambina di otto o nove anni, ci avevo messo solo una notte. E in più l’arazzo era bellissimo, e sembrava vero. L'uomo rappresentato che con aria minacciosa puntava il dito, faceva quasi venir voglia di scappare. Il cliente voleva qualcosa che incutesse terrore, che mostrasse la sua potenza. Stremata,mi accasciai su una sedia.Quella notte non avevo sentito nè il sonno né la fame, tutta presa da quel capolavoro. Ma la stanchezza iniziava a farsi sentire, ed io scivolai tra le braccia di Morfeo,dio del sonno. Quel giorno iniziò la mia ascesa. Ero sempre stata una tessitrice di singolare talento, e le mie compagne, ogni tanto, me lo facevano notare. Ma, con quest' impresa, mi guadagnai il rispetto di tutta Colofone. A dieci o undici anni, tutta la regione mi conosceva. A dodici o tredici anni, ero un vanto per tutta la Lidia. A quattordici o quindici anni, anche i greci iniziarono a parlare di me, e arrivarono, da diverse parti, le richieste di matrimonio. Io le rifiutavo tutte. Preferivo essere libera. A sedici anni ero per tutti la migliore. A diciassette ero ormai una leggenda. Tutti chiedevano i miei arazzi. Ne regalai uno ad ogni tessitrice, con la quale vendita si sarebbero potute mantenere tutta la vita. Ma nonostante ciò, in strada, sentivo ancora dei commenti maligni. Ovunque andassi, c'era qualche voce nella folla che mormorava cattiverie. Io le ignoravo. Dopotutto, erano molte di più quelle che mi lodavano, che mi definivano la più brava. Io rispondevo che avevo ancora molto da imparare. Ma lo sapevo, dentro di me. Era vero. Io ero la migliore. Quella che sto per narrarvi è l'unica parte della mia storia che viene ricordata. Nessuno parla della morte di mio padre. Nessuno parla di come avessi imparato a tessere sbirciando da una fessura. Nessuno parla di quei commenti, che ignoravo, ma che mi facevano soffrire. Nessuno parla di come tessere fosse la mia vita il mio unico scopo. Una ragazza, vedendomi tessere mi elogiò <> Era un grande complimento. Avrei dovuto chinare la testa e ringraziare. Ma non era vero. Io avevo imparato a tessere da sola. Io, dopo la morte di mio padre, mi ero rialzata e avevo cercato un lavoro. Atena non aveva fatto niente. Forse era stata sull'Olimpo, a risolvere qualche dilemma filosofico, o a combattere una guerra. Di sicuro non mi aveva aiutato. 《 Atena non mi ha insegnato niente 》 inveii 《 Anzi 》aggiunsi, in un moto di rabbia 《 se proprio crede di essere tanto brava, venga qui, e vedremo 》 In seguito dissero che era superbia, hybris, la superbia di credersi maggiori agli dei. Non era vero. Il mio era solo desiderio di giustizia e verità. E sì, anche un po' d'orgoglio. Dopo una vita di umiltà potevo essere un po' vanitosa, no? Subito dopo aver detto quelle parole, mi spaventai. Se la dea mi avesse sentito? Se mi volesse punire? 《 Attenta, ragazza, non crederti superiore agli dei 》mi ammonii una vecchia. Io avevo i nervi a fior di pelle, e la zittì. A quel punto l'anziana signora mutò sotto il mio sguardo. I suoi occhi grigi e spenti si animarotono, ed i suoi capelli da bianchi divennero ( cerca colore capelli atena). La schiena curva riprese fierezza. 《Così ti credi superiore a me, stupida mortale? Sappi che quando viene fatto il mio nome, io rispondo. Vuoi sfidarmi? Ebbene eccomi. E vedremo chi sarà la vincitrice.》 Ero paralizzata dall'orrore, ma parlai. Chiamatela spavalderia, ma non avevo più nulla da perdere. 《Chi sceglierà il vincitore?Qualunque giudice favorirebbe te,se non altro per paura》 Era vero.Tutti sapevano cos’era successo al povero Re Mida,al quale erano cresciute due orecchie d’asino per aver dichiarato vincitore il satiro Marsia in un duello musicale tra lui e Apollo. 《Giudicherò io》disse lei 《e giurerò sul fiume Stige,la più sacra tra tutte le promesse,che sarò imparziale》 Doveva bastarmi come garanzia.Avevo il telaio lì vicino,e un disegno già in mente.Al gridò di partenza,iniziai a tessere. Sapevo che sarei morta. Non importava se vincevo o perdevo. Mi avrebbe ucciso comunque. Ma volevo andarmene a testa alta, con un'ondata di luce, in modo che la mia storia venisse ricordata, e che mio padre, che ora riposava in una vera tomba, fosse fiero di me. Il mio nome non sarebbe morto con me. La vita mi aveva posto tutti gli ostacoli possibili, ed io li avevo superati uno ad uno, fino a questo. Ma volevo deridere Atena un'ultima volta. Tessi un arazzo che ridicolizzava gli dei. Avevo parecchio materiale su cui scegliere. Molte scene parlavano di Zeus, suo padre, alcune di Poseidone, ed una proprio su di lei, che trasformava la povera Medusa in un mostro. Lei invece aveva rappresentato gli Olimpiadi nella loro maggiore gloria. Finimmo nello stesso istante. Osservò il suo dipinto soddisfatta. Poi guardò il mio e sbiancò, per quanto possa sbiancare una dea. 《La vincitrice è…》esitò. Sapevo cosa stava per dire. 《 Aracne》Ho già detto che odio il mio nome? Mi è sempre sembrato un nome fatto per essere pronunciato con disprezzo. Ma nelle labbra della dea sembrava ancora peggio. Ma non importava. Avevo vinto, non solo contro la dea ma contro il mondo. Sorridevo, ebbra di gioia e orgoglio. Sarei morta, certo. Tutti devono morire. Io sarei morta alle mie condizioni, salutando la morte come una vecchia amica. Il fuoco negli occhi della dea avvampò,tanto che i suoi occhi grigi sembrarono diventare rossi. 《La trovi divertente vero? La tua vittoria. Ma sappi che avrà un prezzo》 Ecco. Mi avrebbe ucciso. Lo sapevo sin da quando era comparsa. Non implorai. Non piansi. Non le diedi questa soddisfazione. Sperai che mi uccidesse in un modo rapido e indolore. Poi mi diedi della stupida per questa mia speranza. 《Diventerai un essere immondo, odiato da tutti, la tua tela verrà disprezzata e spezzata. Non avrai la consolazione della morte, e la tua vita sarà un tormento》 Non capivo. Poi vidi tutto intorno a me ingrandirsi. Dal mio corpo spuntarono zampe pelose. Mi stavo trasformando in qualcosa. Prima che la trasfigurazione fosse completa, fuggì nel bosco. Senza speranze. Senza uno scopo. Il giorno dopo feci una straordinaria scoperta. Dalle mie zampe usciva uno strano filo bianco. Provai a tessere, ma venne solo una specie di rete a maglie larghe. Troppo larghe. Mi addormentai sconsolata. Il giorno dopo, la mia tela era coperta di rugiada, ed il sole la attraversava. Era più bella di qualunque arazzo avessi mai tessuto. Un moscerino distratto ci si impigliò dentro, ed io, veloce, seguendo l'istinto, lo afferrai e succhiai il suo sangue. Questa tela splendida mi dava anche di che nutrirmi. Fu allora che iniziai a capire che la maledizione era in realtà un dono. Non so perché,ma mi ero trasformata in un ragno gravido; dopo pochi giorni,deposi numerose uova.Erano uguali a me,forse solo un po’ più piccoli. Quando crebbero si dispersero per il mondo. Io rimasi in quel bosco per la maggior parte del tempo, ma certi giorni tornavo a Colofone, e tessevo la mia tela sulla tomba di mio padre. Era il mio tributo per lui. 《Guardate》 dicevano tutti《C’è una ragnatela su questa tomba.Si vede che a nessuno importa più della persona qua sepolta》Nessuno ha mai capito che era l’esatto contrario. Ho sentito tante volte la mia storia. Ovviamente sono state omesse le parti principali, ed io ero accusata di hybris, superbia. Ormai, per tutti sono un ragno. Che brutto nome. L'ho odiato sin dalla prima volta che l'ho udito. Ma ormai l'ho accettato. Come il mio nome. Sempre pronunciato con disprezzo. Sempre detestato. Ma gli anni,i secoli, i millenni sono passati. Adesso ho capito che persino il mio nome può apparire bello. Basta dirlo nel modo giusto. È per questo che oggi posso affermare con orgoglio che il mio nome è Aracne.

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Capitolo 3
*** Medusa ***


Nessuno si è mai saputo spiegare perché noi fossimo… normali? Mortali? Esseri umani? Mio padre si chiamava Forco. Era un dio primordiale dei pericoli marini, dell'orrore nascosto negli abissi. Mia madre una ninfa marina. Vivevamo sulla costa della Lidia. Mio padre era sempre via a pescare. Mia madre non aveva mai tempo per me o per le mie sorelle, Steno ed Euriale. Era sempre chiusa nella sua stanza. A piangere. Quando mio padre arrivava, lei si asciugava gli occhi, imbastiva un sorriso e compiva i suoi doveri di sposa. Non che lui se ne accorgesse. Era sempre ubriaco. Un giorno mia madre mi svegliò presto, prima dell'alba. 《Dove andiamo?》le chiesi. Non mi rispose. 《Dove andiamo?》ripetei in tono urgente. 《Dove potrai essere libera》mi rispose. La sua voce era colma di una fredda determinazione. Rifiutò di rispondere ad altre domande. Mi fece indossare il mio abito più bello. Poi iniziammo a camminare. Camminammo per ore. Il sole sorse, e giunse al suo apice. Io pensavo a Steno ed Euriale, che ormai si erano svegliate e si chiedevano dove fossi. Loro erano le mie uniche amiche, le mie sole alleate. Mi chiesi se la strada sarebbe finita. Mi chiesi se mio padre si sarebbe accorto che non c'ero più. In fondo ero solo una delle sue figlie. Mi chiesi molte cose. Ma non dissi nulla. C'era qualcosa di diverso in mia madre. Era sempre stata sottomessa. Arrendevole. Ma ora una luce brillava nei suoi occhi. A tratti parevano freddi e determinati come il ghiaccio, a tratti ardevano come fuoco. Era quasi sera quando arrivammo ad un edificio che io non conoscevo. Sembrava una chiesa. Sembrava un monastero. Mia madre si rivolse alla guardiana. 《Questa è la mia primogenita》disse 《come stabilito, verrà tra voi e prenderà i voti di sacerdotessa di Atena》. Il suo tono era distante e freddo. 《Madre…》 dissi in tono supplichevole 《non posso… sarò prigioniera…》 《Sarai libera》disse lei《libera dagli uomini. Avrai la libertà che io non ho mai avuto》 Capì che per lei il mio destino era un sogno. Era tutto ciò che desiderava. Ma non ciò che volevo io. 《 Le mie sorelle…》mormorai. Non potevo abbandonarle così. Non potevo. Mia madre non mi ascolto. Mi prese il volto tra le mani. 《Medusa》mi disse, in tono ancora più lontano 《gli uomini sembrano forti, ma puoi controllarli. Devi usare tutti i mezzi a tua disposizione. La tua bellezza. I tuoi occhi. I tuoi capelli. Non sono quadri da ammirare, ma armi con cui combattere. 》Sospirò, passandomi una mano tra i capelli ramati. 《Da grande sarai bellissima》mormorò 《saresti una preda ambita per il matrimonio. Finiresti come me, schiava di un uomo. Qui invece sarai libera. Libera.》Assaporò l'ultima parola, come se fosse miele. Come se fosse lei a venir liberata. Poi mi guardò, un ultimo sguardo, profondo e penetrante. Come se volesse imprimersi il mio volto nella mente. Poi si voltò e se ne andò. Io non mi mossi. Non la seguì. Non mi ribellai. Lacrime silenziose mi solcavano il viso. Il mio ultimo ricordo di mia madre è la sua schiena, i suoi capelli rossi, che torna a casa rassegnata, ma con la speranza di avermi consegnato ad una vita migliore. La guardiana, una vecchia sacerdotessa, mi scosse e mi condusse in una stanza. Era piccola e umida. La definì "La stanza delle novizie" . Dentro c'erano una ventina di ragazze. In molte non mi notarlo nemmeno. Erano sedute per terra, lo sguardo perso nel vuoto. Altre avevano occhi che ricordavano del vetro rotto. Spezzati. Infine c'era un gruppetto, il più rumoroso e all'apparenza il più allegro. Era pieno di ragazze che ridevano e scherzavano. Più tardi avrei capito che erano quelle che avevano sofferto così tanto e così a lungo da dimenticare cosa volesse dire essere serene. Così avevano deciso di tentare di essere felici. Ridevano per non piangere. Scherzavano e tentavano di rendere divertente quel posto, per non vederlo com'era realmente. Dovevano starci tutta la vita, no? Allora meglio stare allegre. Trascorsi dieci anni in quel luogo. Da novizia divenni sacerdotessa. Gli anni trascorsero lenti, i giorni tutti uguali. C’era una grotta sacra, vicino al mare. Ogni giorno, una piccola goccia cadeva su una roccia, e pian piano la erodeva. Io mi sentivo come quella roccia. La mia speranza veniva distrutta, giorno dopo giorno. Riti interminabili. Inni da imparare a memoria. Ho giurato di non rivelare cosa accadde. Di non svelare i sacri riti. Ma quegli anni sono confusi nella mia mente, un’interminabile fila di giorni. Secondi come anni, anni, anni come secoli. Il mio corpo era nel fiore della bellzza. I miei bellissimi capelli ramati mi arrivavano alla vita, ed i miei occhi erano quelli di mia madre e delle mie sorelle. Ma nessuno poteva ammirarla. Doveva starsene quieta negli abiti sacerdotali. Avevo sentito dire che a volte gli dei rapivano le belle fanciulle. Offrivo i miei capelli a Borea, pregando che mi liberasse, e a Poseidone. L’acerrimo nemico della dea. Ma nessuno ascoltava le mie preghiere. Lacrime silenziose mi solcavano il volto. Dicono che la speranza sia l’ultima a morire. È vero. Quello che non dicono è che uno può apparire vivo anche quando dentro è morto. Io ero morta da anni. Il sottile filo di speranza che mi tratteneva legata alla realtà si era già staccato. Ma continuavo a respirare. Svolgevo i riti, pregavo, ridevo e scherzavo, ma dentro ero morta. Ero diventata come quel gruppo di ragazze. Ridevo e scherzavo anche con la morte dentro. Aspettavo solo di morire. Ogni giorno era un peso. Avrei potuto fuggire, ma non ne avevo la forza. Non so dove trovassi la forza di alzarmi di mattina. Non piangevo più come all’inizio. Le lacrime servono ad alleggerire dal dolore la speranza che tutto migliorerà. Io non avevo più nulla. Nemmeno più il dolore. Solo il vuoto. Dovettero passare dieci anni perché qualcosa cambiasse. Camminavo sulla spiaggia. Come tutti gli altri giorni, pregavo Poseidone perché mi rapisse. Perché mi portasse via con se. Ormai era più un rito che altro. Ma quel giorno successe qualcosa. Vidi un uomo emergere dalle onde. Sentì qualcosa nascere nel mio cuore, per la prima volta dopo tanto tempo. Ma non era amore, come pensavo. Era paura. Ma la paura scomparse. O meglio, la misi da parte. E poi non ci furono parole. Mi condusse nel tempio di Atena. Sapevo che era un sacrilegio? Sì Potevo farlo? No Ma lo feci. E sentì distintamente il mio cuore che rincominciava a battere. Vorrei trovare le parole per dirlo. Ero di nuovo viva. Come una farfalla che esca dalla crisalide. Vedevo i colori per la prima volta, e mi sembravano ricordi lontani secoli mia madre, le sacerdotesse, le mie sorelle. C’ero solo io. Io e il mare. Non mi importava del prezzo che avrei dovuto pagare. Per la prima volta da anni, mi addormentai serena e quieta. Mi svegliò un urlo. Un urlo di rabbia. Un urlo di orrore. Ancora mezza addormentata, alzai gli occhi. Una donna possente, con un'armatura dorata, m guardava. Avevo visto la sua immagine migliaia di volte. Era una dea. Era la dea. La dea che avrei dovuto servire. Atena. Capì che le conseguenze di ciò che avevo fatto stavano per riversarsi su di me. Il mio cuore batte così forte che mi chiesi se non stessi morendo. Ansimavo. Avrei voluto correre, ma ero paralizzata dal terrore. La dea iniziò a parlare. Ma non si rivolgeva a me. Parlava al dio del mare. 《Come hai osato, luridi porco? Nel MIO tempio! Sul MIO altare!》 《Cosa? Ma ti rendi conto di quello che stai dicendo? Ti sei presa Atene, ti sei presa Argo, potrò pur prendere qualcosa anch’io!》 《Ah, è una vendetta? Vuoi prenderti gioco di me? Ma sappi che può essere ritorta contro di te.》 Non si rivolsero a me. Mi ignorarono completamente. Mi ero illusa che tutto sarebbe stato cancellato. Ma dopo pochi secondi sentì la testa andarmi in fiamme. Gli occhi bruciare. Il dolore circondarmi. Non sentivo nient’altro, non vedevo nient’altro. Il dio del mare lanciò un urlo terrorizzato, e fuggì. Lasciandomi sola. Credo di essere svenuta, perché mi risvegliai. Non ero nel tempio. Ero in una grotta buia e umida. Passato il panico iniziale, decisi di fuggire. Di andare via. Ma prima volevo salutare le mie amiche del monastero. Forse le avrebbe convinte a fuggire anche loro. A tornare libere. Appena mi mossi, sentì il sibilo di un serpente. Mi immobilizzai. Poi, d’improvviso, era davanti alla mia faccia. Portai una mano alla testa per scacciarlo. Non era solo. Sembrava che tutti i serpenti della Grecia si fossero dati appuntamento su di me. Non mi morsero. Parevano sconvolti quanto me. Facevano parte di me. I miei capelli erano ora un groviglio di zanne, veleno e pelle di serpente. Iniziai a correre. Fuggivo. Non sapevo verso cosa. Fuggivo da me stessa, da mostro che ero diventata. Lungo la strada incontrai una donna. Feci per chiederle informazioni, ma l’orrore nel suo volto durò poco. Pochi istanti ed era una statua di pietra. Non ebbe nemmeno il tempo di urlare. Mi vidi riflessa nei suoi occhi. Al posto dei miei occhi verdi di fanciulla, avevo due cavità rosse. Capelli come serpenti. Occhi che uccidevano. Era la maledizione di Atena. Ed il mio cuore da poco risvegliato si ribellò. Non ascoltare il cuore. Non sa che darti consigli sbagliati. Continuavo a ripetermelo. Ma nulla poteva fermarlo. Fermare le parole con cui mi feriva. Assassina. Bestia. Hai distrutto una vita,e forse non era una grande vita, ma come tutte le altre era sacra. E tu l’hai distrutta. Non meriti di essere chiamata persona. Sei solo un mostro. Fallo tacere. Distruggilo. Fà in modo che non parli mai più. Rendilo muto e sordo. Strappatelo dal petto e gettalo tra i cadaveri. Ficcaci dentro lame accuminate. Costruiscigli intorno una corazza di ferro. Lo sguardo di quella donna mentre moriva. Te lo ricordi?I suoi occhi disperati. L'hai uccisa. Non importa se sei stato costretta. Non importa di chi è la colpa. Ignoralo. Ignoralo. Il cuore ha torto. I sensi di colpa sono inutili. Smettila di tormentarti. Il passato è passato. Il passato non è mai passato. Questo passato è il tuo futuro. Domani incontrerai qualcun’altro e ucciderai ancora. Ti ricordi la speranza nei suoi occhi che si spegneva? Ti ricordi come ti ha guardato? I suoi occhi che non hanno avuto il tempo di chiudersi? La sua bocca tentare di agitarsi in un ultimo lamento d’orrore? Ecco, questa è la tua vita. Ucciderai e ucciderai finché non verrai uccisa. Morirai e la tua morte sarà solo un bene per l’umanità. La sua voce non ha senso. A cosa serve tutto ciò? È stata Atena. Io non ho fatto nulla. Dai tutte le colpe a lei, ma tu l’hai guardata con quei tuoi occhi maledetti. No. Ha torto. Torto su tutto. Menzogne, menzogne. Mentì a tutti e menti a te stessa. La verità è che non vuoi assumerti le tue colpe. E sei piena di rimpianti. E sensi di colpa. E fai bene. Sei solo un’assassina. Hai perso la tua umanità. Hai perso te stessa. Non lo ascoltare. Se anche avesse ragione, cosa cambierebbe? Ormai il tuo destino è segnato. Ormai è tutto già deciso. Non importa cosa pensi. Non cambierà le cose. Non cambierà nulla. Devo smetterla di ascoltare il mio cuore. È solo un bugiardo. E io solo un'assassina. Finalmente lo ammetti. Sei solo un’assassina e non meriti di vivere. Ma non ti preoccupare, non vivrai a lungo. Smettila, smettila! Quello che pensi non importa. Ormai nulla importa. E smettila di piangere. Non lasciare che le lacrime si liberino. Trattienile. Fa in modo che si depositino sul cuore e che lo separino da te. Rendi la sua voce flebile. E tenta di essere forte. Non hai altro.Ed ignora il dolore. Il tempo guarirà tutto. O almeno lo allevierà in parte. Non lasciare che gli altri capiscano. E accetta il fatto che domani dovrai uccidere di nuovo. E anche dopodomani. E il giorno dopo ancora. E non ci sarà una fine se non la morte. Avevo paura di aprire gli occhi. Non volevo uccidere nessun altro. Corsi alla cieca. Non so se per minuti, ore o giorni. Correvo. Nei boschi, nelle città, sulla spiaggia. I bambini urlavano, tutti si ritiravano. Una lacrima solitaria mi solcava il volto. Alla fine arrivai ad un’altra grotta. Questa, però era situata nell’interno del bosco. Lì ritrovai le mie sorelle, dopo anni. Loro erano immuni al mio sguardo. Anche loro erano mostri, ma finalmente ci eravamo ritrovate. Passarono altri anni. Anni sereni, nel cuore del bosco. Molti erano venuti a cercare di uccidermi. Il bosco era disseminato di statue. Tutti con la stessa espressione di orrore. Non provavo pietà con loro. Io non gli avevo fatto niente. Mi ero solo difesa. Vivevo in pace con le mie sorelle. Sembrava potesse durare per sempre. Ma quello che sembrava un destino pacifico era solo una pausa. Un attimo per riprendere il fiato. E ancora una volta, a causare la svolta fu Atena. Protettrice di un eroe. Era raro che qualche mortale le toccasse il cuore. Ma lui sembrava potesse affascinare tutti. Le Graie, le ninfe dello Stige, Ermes. E lei. Gli serviva la mia testa per liberare la madre. Non capivo il suo accanimento. Mia madre mi aveva lasciato una sola eredità : ero un’arma. Tutto in me lo era. E se era vero quando ero ancora sacerdotessa di Atena, ora lo era ancora di più. Si chiamava Perseo. Lo attesi lunghi giorni, seduta all’ingresso della mia caverna. Non dormivo. Chiudevo gli occhi in attesa, come un predatore. Arrivò di notte. Lo sentì. Udì la voce della dea. Era sempre più vicino. Potevo sentire il suo respiro. Il suo cuore era calmo. Non aveva paura. Era decisamente uno stolto. Solo loro non hanno paura. Di scatto aprì gli occhi. Ma davanti a me non c’era il volto di un giovane spaventato. C’erano serpenti, occhi rossi ardenti come braci, una faccia sconvolta. C’era il mio riflesso. Era uno specchio. Non ebbi il tempo di voltarmi, gridare aiuta, alzarmi in piedi. La spada colpì subito e velocemente. Staccò la testa dal mio corpo con un movimento preciso. Sangue dappertutto. Le grida delle mie sorelle. Un cavallo alato che nasce dal mio sangue. Figlio mio e di Poseidone. Mi guarda negli occhi ormai spenti. Spicca il volo. Ma la mia storia non finisce qui. La mia testa fu usata centinaia di volte. Anche da morta, non avevo perso i miei poteri. E ora sono qui. Dimenticata da tutti. Nel corso dei secoli qualche scultore mi ha utilizzata. Opere di un realismo straordinario, dicevano. Ma ora nemmeno quello. Ho ucciso così tante persone. Distrutto innumerevoli famiglie. Sono un mostro, è vero. Ma non ho mai avuto scelta. L’unica scelta che ho mai fatto è stata quella di trasgredire. Di rinunciare ad un destino piatto. Poi tutto è venuto da solo. Quella che stai ascoltando è la storia di un'assassina, è vero. Ma non solo. È la storia di una sorella, di una donna disperata, di un mostro indesiderato. Questa sono io. E anche se lentamente divento polvere, resto comunque io. Non importa se sono un mostro, una donna, una testa senza corpo. Non importa se sono in un monastero, in un bosco, seppellita sotto un monte. Questa sono io. Medusa.

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Capitolo 4
*** Pandora ***


È lì. Davanti a me. Continua a tentarmi. Sono anni che resisto. Mi sta facendo impazzire. 《Perché io?》urlo. Non so a chi sia rivolta a questa domanda. Al vaso? Agli dei? Al Fato? A me stessa? O forse è solo un urlo disperato, che non ha il minimo senso. Mi sembra di sentire una voce. La voce dei miei sogni. Che mi invita ad aprirlo. Sto impazzendo. Era destino. Non ho via di scampo. Inizio a respirare affannosamente. Mi sento soffocare. La voce continua a dirmi di farlo. Dice che così finirà tutto. Tutti i miei problemi. Sono anni che mi tormenta. Chiudo gli occhi. Forse, se non lo vedo, non sarò tentata. Ma nel buio la voce è solo più forte. Più chiara. Stringo a me il vaso, come avevo fatto la prima volta che l’ho visto. Ma questa volta non mi ci aggrappo in cerca di salvezza. Lo stringo nella speranza che si rompa. Per liberarmene. Ma il ricordo di quel mio primo giorno mi fa venire in mente un’altra cosa. La voce che avevo nella testa. La ricordavo. Era la stessa che mi aveva detto di non aprire mai quel vaso, senza spiegarmi perché. Era la voce di Zeus. Era tutto così lampante. Gli dei volevano che lo aprissi. Era per questo che me lo avevano proibito. O forse mi stavano mettendo alla prova. Magari pensavano che avrei capito il loro intento e, solo per il gusto di disubbidire, non lo avrei aperto. Tutto era così pieno di confusione. Ordine, ho bisogno di ordine. Appoggio il vaso sul pavimento ed esco. Intorno a me nulla è cambiato. Vorrei solo fuggire da tutto. 《Perché?》ripeto. Ma questa volta non mi accontento del suono della mia voce. Voglio una risposta. So già che nessuno me la darà. Dovrò trovarla da sola. Ma so dove cercare: nel mio passato. Mi dissero che ero nata dal fango. Forgiata dagli dei. Non ci credo. Il fango è semplice. Non si tormenta, non pensa, si limita ad esistere. Il fango è chiaro e funzionale, io sono sfuggente e incomprensibile. Soprattutto a me stessa. Non ricordo di essere mai stata diversa da come sono ora. Sono nata adulta. Ricevetti tutto quello che potevo avere. Mi donarono bellezza, intelligenza, forza. Il mio nome significa letteralmente "tutti i doni". Ma tra tutti quei doni c'entra uno maledetto. La curiosità. Quel desiderio di conoscenza che mi avrebbe condannato. Un dono maledetto come lo sono anch’io. Avrei dovuto essere un dono all’umanità. Mi ricordo tutti gli dei nei loro troni. Mi fissavano cercando di capire cosa fare con me. Sembravano a disagio.. E poi quella voce. Che mi ha tormentato per anni. La voce di Zeus. Mi consegnarono il vaso. Mi dissero di non aprirlo. Mi dissero il mio nome. Poi un silenzio imbarazzato scese nella sala. Sapevano cosa stavano per fare. Provavano rimorso? Poi un lampo di luce calò dall’alto, e mi accecò. Ricordo di essere arrivata sulla terra. Non ricordo come. La prima cosa che vidi fu il cielo. Era lo stesso cielo che si vedeva dall’Olimpo. Ma il resto era diverso. Ero vicina ad un piccolo albero, che si piegava verso terra. Con mia sorpresa, scoprii di sapere il suo nome. Salice. Sotto di me c’era dell’erba. Come facevo a conoscere questi nomi? Non lo so. Forse quello fu un altro dono degli dei. O più probabilmente pensavano che con una conoscenza base del mondo sarei sopravvissuta. Mi aggrappai al vaso. Era l’unica cosa che avevo di familiare. Non lo odiavo ancora. Mi ci aggrappavo come i sopravvissuti ai terremoti si aggrappano ai pochi oggetti che gli sono rimasti, nel tentativo di capire il senso di ciò che è successo. Iniziai a camminare. Vagai per i boschi. Non c’era una meta al mio vagabondare. Semplicemente agivo. Mi sentivo guidata da una forza superiore, e mettevo i passi uno dopo l’altro, senza pensare al dopo. Mi sentivo insignita di una missione divina, cosa effettivamente vera, e sentivo che nulla avrebbe mai potuto fermarmi. Avrei desiderato vagare in eterno. Più mi inoltravo nel bosco più mi sentivo parte di quella terra. Ripetevo ossessivamente il nome che mi ero stato dato, nel tentativo di farlo mio. Ma come fai a fare una cosa tua se non sai chi sei? Tutt’ora non so chi sono. Allora ancora meno. Cercavo di adattarmi a quel nome. Non provavo alcun sentimento verso di esso. Non mi piaceva, non lo odiavo, non lo detestavo. Tentavo solo di adattarmi ad esso, come si modella il proprio corpo nel tentativo di indossare un abito. La cosa più logica sarebbe stata adattare esso a me, ma, come avevo detto, non sapevo nulla di me. Avevo poche ore. Quasi un giorno. E poi apparve. Quando lo vidi per la prima volta Afrodite era probabilmente nei paraggi. L’idea di creare una donna era stata sua, dopo tutto. Era sera, quell’attimo incerto tra il giorno e la notte dove il sole è già tramontato e le stelle non sono ancora apparse nel cielo. Lo osservai attentamente. Lo osservavo con curiosità. Era il primo uomo che vedevo. Mi fissò lentamente. Era alto e bruno, e aveva la bellezza delle cose semplici. Afrodite era lì. Ne sono sicura. Altrimenti non si spiega ciò che accadde. Il battito del mio cuore aumentò. Il mio corpo fremeva. Accaddero molte cose, quella notte. Parlammo. O meglio, lui parlava. Io, a parte il mio nome, non avevo nulla da offrire. Mi parlava ed io, lentamente, assorbivo informazioni. Si chiamava Epimeteo. Suo fratello aveva favorito l’umanità, ed era stato legato ad una rupe, condannato a venire smembrato tutti i giorni da un'aquila che gli divorava il fegato. La notte esso ricresceva, solo per prolungare il suo supplizio. Erano stati gli dei a fare ciò, e lui li odiava. Fu allora che nella mia mente si insinuò il dubbio. Forse gli dei non erano sempre giusti. Forse le loro indicazioni non andavano prese alla lettera. Forse se avessi aperto quel vaso non sarebbe successo niente. Quella notte, la mia prima notte, la voce mi fece visita per la prima volta. Non le avevo dato un nome per non conferirle più potere. Non le concedevo nemmeno una maiuscola. Per me era la voce. Ma per quanto tentassi di scacciarla era sempre lì. Tormentava i miei sogni e rovinava le mie giornate. Non mi concedeva un attimo di pace. Avevo pochi giorni e già l’ansia dentro di me. L’ansia che mi tormenterà per sempre. Intanto io ed Epimeteo vivevamo come marito e moglie. Non c’era stato nessun accordo tra noi. Effettivamente, ora che ci penso, tra di noi non c’è molto altro che Afrodite. Credevo di seguire il mio istinto vivendo con lui, ma stavo solo obbedendo a lei. Io sono una persona strana. Non mi comprendo, non riesco a decidere. Mi sento in colpa per ciò che potrei fare, mi tormento, cerco il centro delle cose, scavo, scavo, voglio il nucleo, il diamante sotto la roccia, e mi impegno. Ma, alle fine, per quanto scavi, ottengo solo il vuoto. Me ne resi conto una notte mentre cercavo di non dormire per non udire la voce. Il nostro rapporto era solo uno scherzo dell’amore. Lo amavo? Ne ero sicura? O era tutta una manipolazione di Afrodite? Capì che non c’era nulla di vero in quello che era stato. In quell’occasione capì un’altra cosa: non mi piaceva essere manipolata. E la voce mi manipolava, era ovvio. Quindi non dovevo ascoltarla. Mi sembrava di aver trovato la soluzione definitiva. Ma lei tornò. Tutte le notti mi sussurrava promesse, mi incitava ad aprire quel maledetto vaso. Lo avevo nascosto, ma dominava comunque la mia vita. Ero certa di impazzire, non avevo più niente a cui aggrapparmi. E anni sono passati. L’uomo con cui vivo come un marito è in verità un perfetto estraneo. Ed io sono un’estranea per lui. Lo sappiamo entrambi. Finirebbe tutto se lo aprissi? Il dolore, la solitudine? Anni di domande sondati in cerca di una risposte. Sono un essere di domande che cerca risposte. dentro di se. Ma come si trova un punto fermo in una marea di punti interrogativi? Ed è vero, c'è un punto fermo dentro ogni punto interrogativo. Ma non perché la risposta sia contenuta nella domanda. Ma perché solo per arrivare alla domanda giusta ci sono voluti centinaia di tormenti senza nome. Ed ora? Cosa devo fare? Mi hanno proibito di farlo e poi mi spingono nella direzione opposta. Pensano che io abbia capito e che non lo farò? Forse lì dentro c’è qualcosa di prezioso. Forse gli dei si divertono a vedermi con un dono mai aperto? Prima che possa pensarci ho già le mani intorno al coperchio. Le stacco e respiro profondamente. Deve essere una scelta mia. Non di altri. Solo mia. Deglutisco. Ho la gola secca. La voce non parla più. Sono sola. È una scelta solo e unicamente mia. Solo e unicamente mia. Devo ripeterlo più volte per calmarmi. A quel punto il mio cuore ha già deciso. Con grande cautela, tolgo il coperchio. All’inizio non vedo niente. Questo vaso è quindi così inutile? Mi sono dannata per anni solo per questo? Ma poi sento dei tuoni. Tuoni a ciel sereno. È Zeus che ride. Il vaso trema tra le mie braccia. E poi li vedo. Demoni, esseri orrendi, creati solo per dannare l’umanità. Un vortice che mi avvolge completamente. Cosa ho fatto? La disperazione era immensa. Anche ora che sono passati così tanti anni, mi tormenta ancora nei miei sogni. Non credevo di potercela fare. Ma un dono si era infilato a tradimento in quell'ammasso di orrori. All’inizio non l’avevo vista. Era uscita per ultima, quieta e lieve. Elpis si era diffusa nella stanza. Era la Speranza. La speranza che tutto sarebbe migliorato. Il desiderio di migliorare. L’unica forza che tiene in piedi noi mortali. Ciò che agli occhi degli dei ci rende forti e indistruttibili. Ciò che ci fa rialzare dopo le cadute. Un dono che vivrà finché esisteranno gli uomini. Quel vaso mi ha portato dolore, ma anche l’amore. Quando mi ha visto lì, inginocchiata di fronte a quell’abisso, mio marito mi ha visto. Ha finalmente provato a conoscermi. Ed io gli ho parlato davvero per la prima volta. Abbiamo parlato. Era poco. Bastava. Fino ad allora eravamo solo estranei colpiti da Afrodite, ma ora, finalmente, ci eravamo vicini. Non posso dire di sapere cosa sia l’amore, ma se non è questo ci è andato vicino. Ma gli anni sono passati. L’eredità che lascerò all’umanità sarà di sangue e di dolore. Ma anche la speranza. Speranza che vivrà oltre me. Come la bambina che stringo tra le braccia. Elpis.

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Capitolo 5
*** Pandora ***


È lì. Davanti a me. Continua a tentarmi. Sono anni che resisto. Mi sta facendo impazzire. 《Perché io?》urlo. Non so a chi sia rivolta a questa domanda. Al vaso? Agli dei? Al Fato? A me stessa? O forse è solo un urlo disperato, che non ha il minimo senso. Mi sembra di sentire una voce. La voce dei miei sogni. Che mi invita ad aprirlo. Sto impazzendo. Era destino. Non ho via di scampo. Inizio a respirare affannosamente. Mi sento soffocare. La voce continua a dirmi di farlo. Dice che così finirà tutto. Tutti i miei problemi. Sono anni che mi tormenta. Chiudo gli occhi. Forse, se non lo vedo, non sarò tentata. Ma nel buio la voce è solo più forte. Più chiara. Stringo a me il vaso, come avevo fatto la prima volta che l’ho visto. Ma questa volta non mi ci aggrappo in cerca di salvezza. Lo stringo nella speranza che si rompa. Per liberarmene. Ma il ricordo di quel mio primo giorno mi fa venire in mente un’altra cosa. La voce che avevo nella testa. La ricordavo. Era la stessa che mi aveva detto di non aprire mai quel vaso, senza spiegarmi perché. Era la voce di Zeus. Era tutto così lampante. Gli dei volevano che lo aprissi. Era per questo che me lo avevano proibito. O forse mi stavano mettendo alla prova. Magari pensavano che avrei capito il loro intento e, solo per il gusto di disubbidire, non lo avrei aperto. Tutto era così pieno di confusione. Ordine, ho bisogno di ordine. Appoggio il vaso sul pavimento ed esco. Intorno a me nulla è cambiato. Vorrei solo fuggire da tutto. 《Perché?》ripeto. Ma questa volta non mi accontento del suono della mia voce. Voglio una risposta. So già che nessuno me la darà. Dovrò trovarla da sola. Ma so dove cercare: nel mio passato. Mi dissero che ero nata dal fango. Forgiata dagli dei. Non ci credo. Il fango è semplice. Non si tormenta, non pensa, si limita ad esistere. Il fango è chiaro e funzionale, io sono sfuggente e incomprensibile. Soprattutto a me stessa. Non ricordo di essere mai stata diversa da come sono ora. Sono nata adulta. Ricevetti tutto quello che potevo avere. Mi donarono bellezza, intelligenza, forza. Il mio nome significa letteralmente "tutti i doni". Ma tra tutti quei doni c'entra uno maledetto. La curiosità. Quel desiderio di conoscenza che mi avrebbe condannato. Un dono maledetto come lo sono anch’io. Avrei dovuto essere un dono all’umanità. Mi ricordo tutti gli dei nei loro troni. Mi fissavano cercando di capire cosa fare con me. Sembravano a disagio.. E poi quella voce. Che mi ha tormentato per anni. La voce di Zeus. Mi consegnarono il vaso. Mi dissero di non aprirlo. Mi dissero il mio nome. Poi un silenzio imbarazzato scese nella sala. Sapevano cosa stavano per fare. Provavano rimorso? Poi un lampo di luce calò dall’alto, e mi accecò. Ricordo di essere arrivata sulla terra. Non ricordo come. La prima cosa che vidi fu il cielo. Era lo stesso cielo che si vedeva dall’Olimpo. Ma il resto era diverso. Ero vicina ad un piccolo albero, che si piegava verso terra. Con mia sorpresa, scoprii di sapere il suo nome. Salice. Sotto di me c’era dell’erba. Come facevo a conoscere questi nomi? Non lo so. Forse quello fu un altro dono degli dei. O più probabilmente pensavano che con una conoscenza base del mondo sarei sopravvissuta. Mi aggrappai al vaso. Era l’unica cosa che avevo di familiare. Non lo odiavo ancora. Mi ci aggrappavo come i sopravvissuti ai terremoti si aggrappano ai pochi oggetti che gli sono rimasti, nel tentativo di capire il senso di ciò che è successo. Iniziai a camminare. Vagai per i boschi. Non c’era una meta al mio vagabondare. Semplicemente agivo. Mi sentivo guidata da una forza superiore, e mettevo i passi uno dopo l’altro, senza pensare al dopo. Mi sentivo insignita di una missione divina, cosa effettivamente vera, e sentivo che nulla avrebbe mai potuto fermarmi. Avrei desiderato vagare in eterno. Più mi inoltravo nel bosco più mi sentivo parte di quella terra. Ripetevo ossessivamente il nome che mi ero stato dato, nel tentativo di farlo mio. Ma come fai a fare una cosa tua se non sai chi sei? Tutt’ora non so chi sono. Allora ancora meno. Cercavo di adattarmi a quel nome. Non provavo alcun sentimento verso di esso. Non mi piaceva, non lo odiavo, non lo detestavo. Tentavo solo di adattarmi ad esso, come si modella il proprio corpo nel tentativo di indossare un abito. La cosa più logica sarebbe stata adattare esso a me, ma, come avevo detto, non sapevo nulla di me. Avevo poche ore. Quasi un giorno. E poi apparve. Quando lo vidi per la prima volta Afrodite era probabilmente nei paraggi. L’idea di creare una donna era stata sua, dopo tutto. Era sera, quell’attimo incerto tra il giorno e la notte dove il sole è già tramontato e le stelle non sono ancora apparse nel cielo. Lo osservai attentamente. Lo osservavo con curiosità. Era il primo uomo che vedevo. Mi fissò lentamente. Era alto e bruno, e aveva la bellezza delle cose semplici. Afrodite era lì. Ne sono sicura. Altrimenti non si spiega ciò che accadde. Il battito del mio cuore aumentò. Il mio corpo fremeva. Accaddero molte cose, quella notte. Parlammo. O meglio, lui parlava. Io, a parte il mio nome, non avevo nulla da offrire. Mi parlava ed io, lentamente, assorbivo informazioni. Si chiamava Epimeteo. Suo fratello aveva favorito l’umanità, ed era stato legato ad una rupe, condannato a venire smembrato tutti i giorni da un'aquila che gli divorava il fegato. La notte esso ricresceva, solo per prolungare il suo supplizio. Erano stati gli dei a fare ciò, e lui li odiava. Fu allora che nella mia mente si insinuò il dubbio. Forse gli dei non erano sempre giusti. Forse le loro indicazioni non andavano prese alla lettera. Forse se avessi aperto quel vaso non sarebbe successo niente. Quella notte, la mia prima notte, la voce mi fece visita per la prima volta. Non le avevo dato un nome per non conferirle più potere. Non le concedevo nemmeno una maiuscola. Per me era la voce. Ma per quanto tentassi di scacciarla era sempre lì. Tormentava i miei sogni e rovinava le mie giornate. Non mi concedeva un attimo di pace. Avevo pochi giorni e già l’ansia dentro di me. L’ansia che mi tormenterà per sempre. Intanto io ed Epimeteo vivevamo come marito e moglie. Non c’era stato nessun accordo tra noi. Effettivamente, ora che ci penso, tra di noi non c’è molto altro che Afrodite. Credevo di seguire il mio istinto vivendo con lui, ma stavo solo obbedendo a lei. Io sono una persona strana. Non mi comprendo, non riesco a decidere. Mi sento in colpa per ciò che potrei fare, mi tormento, cerco il centro delle cose, scavo, scavo, voglio il nucleo, il diamante sotto la roccia, e mi impegno. Ma, alle fine, per quanto scavi, ottengo solo il vuoto. Me ne resi conto una notte mentre cercavo di non dormire per non udire la voce. Il nostro rapporto era solo uno scherzo dell’amore. Lo amavo? Ne ero sicura? O era tutta una manipolazione di Afrodite? Capì che non c’era nulla di vero in quello che era stato. In quell’occasione capì un’altra cosa: non mi piaceva essere manipolata. E la voce mi manipolava, era ovvio. Quindi non dovevo ascoltarla. Mi sembrava di aver trovato la soluzione definitiva. Ma lei tornò. Tutte le notti mi sussurrava promesse, mi incitava ad aprire quel maledetto vaso. Lo avevo nascosto, ma dominava comunque la mia vita. Ero certa di impazzire, non avevo più niente a cui aggrapparmi. E anni sono passati. L’uomo con cui vivo come un marito è in verità un perfetto estraneo. Ed io sono un’estranea per lui. Lo sappiamo entrambi. Finirebbe tutto se lo aprissi? Il dolore, la solitudine? Anni di domande sondati in cerca di una risposte. Sono un essere di domande che cerca risposte. dentro di se. Ma come si trova un punto fermo in una marea di punti interrogativi? Ed è vero, c'è un punto fermo dentro ogni punto interrogativo. Ma non perché la risposta sia contenuta nella domanda. Ma perché solo per arrivare alla domanda giusta ci sono voluti centinaia di tormenti senza nome. Ed ora? Cosa devo fare? Mi hanno proibito di farlo e poi mi spingono nella direzione opposta. Pensano che io abbia capito e che non lo farò? Forse lì dentro c’è qualcosa di prezioso. Forse gli dei si divertono a vedermi con un dono mai aperto? Prima che possa pensarci ho già le mani intorno al coperchio. Le stacco e respiro profondamente. Deve essere una scelta mia. Non di altri. Solo mia. Deglutisco. Ho la gola secca. La voce non parla più. Sono sola. È una scelta solo e unicamente mia. Solo e unicamente mia. Devo ripeterlo più volte per calmarmi. A quel punto il mio cuore ha già deciso. Con grande cautela, tolgo il coperchio. All’inizio non vedo niente. Questo vaso è quindi così inutile? Mi sono dannata per anni solo per questo? Ma poi sento dei tuoni. Tuoni a ciel sereno. È Zeus che ride. Il vaso trema tra le mie braccia. E poi li vedo. Demoni, esseri orrendi, creati solo per dannare l’umanità. Un vortice che mi avvolge completamente. Cosa ho fatto? La disperazione era immensa. Anche ora che sono passati così tanti anni, mi tormenta ancora nei miei sogni. Non credevo di potercela fare. Ma un dono si era infilato a tradimento in quell'ammasso di orrori. All’inizio non l’avevo vista. Era uscita per ultima, quieta e lieve. Elpis si era diffusa nella stanza. Era la Speranza. La speranza che tutto sarebbe migliorato. Il desiderio di migliorare. L’unica forza che tiene in piedi noi mortali. Ciò che agli occhi degli dei ci rende forti e indistruttibili. Ciò che ci fa rialzare dopo le cadute. Un dono che vivrà finché esisteranno gli uomini. Quel vaso mi ha portato dolore, ma anche l’amore. Quando mi ha visto lì, inginocchiata di fronte a quell’abisso, mio marito mi ha visto. Ha finalmente provato a conoscermi. Ed io gli ho parlato davvero per la prima volta. Abbiamo parlato. Era poco. Bastava. Fino ad allora eravamo solo estranei colpiti da Afrodite, ma ora, finalmente, ci eravamo vicini. Non posso dire di sapere cosa sia l’amore, ma se non è questo ci è andato vicino. Ma gli anni sono passati. L’eredità che lascerò all’umanità sarà di sangue e di dolore. Ma anche la speranza. Speranza che vivrà oltre me. Come la bambina che stringo tra le braccia. Elpis.

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Capitolo 6
*** Scilla ***


Sangue. Carne. Ne ho bisogno. Ormai da anni sono il mio unico scopo. Quando li ottengo c’è un attimo di pace. La calma che cerco mi raggiunge. Per qualche istante credo quasi che la vita sia bella. Ma poi non mi resta più nulla. Solo voglia. Solo desiderio. Solo follia. Da quanto tempo sono così? Quando ho perso me stessa per diventare questo? Mi dico che sono anni, ma la verità è che è passato molto più tempo. Ora tutto è cambiato in me. Il mio corpo si è trasformato. Il mio cuore si è indurito. La mia mente, i miei pensieri sono indirizzati in una sola direzione e non si perdono più nei loro sentieri. Io sono cambiata, ma il mondo no. Il mondo intorno a me è lo stesso, e mi vuole possedere. Quando ero giovane e bella, voleva possedermi come sposa, schiava nobilitata. Ora che sono un mostro vuole uccidermi per possedere la gloria che gli darò. Ormai l’ho capito. Se non li uccidi per prima, saranno loro a uccidere te. Banchetteranno sul tuo cadavere. Ma è solo una scusa. La verità è che mi piace uccidere. Mi fa sentire potente. Mi fa sentire viva, viva tra i morti. Solo nei sogni torna il ricordo di ciò che ero. La ragazza che amava correre. Che amava la libertà. Che aveva rifiutato tutte le proposte di matrimonio. Che aveva qualcosa per cui combattere. Ricordo ancora tutto con precisione. Anche se cerco di dimenticare. Quegli istanti sono fissi nella mia mente. Correvo. Correre mi dava sempre una gioia particolare. Mettevo i passi uno dopo l’altro, in continuazione. Sentivo il rumore dei miei passi, tamburo primordiale che scandiva la mia vita. Sentivo il battito del cuore accelerare. La mente svuotarsi. Amavo correre, in tutte le sue sfumature. Mi piaceva rallentare e osservare il paesaggio, il modo che mi passava vicino, e che eppure pareva così lontano da me e dal mio eterno moto. Mi piacevano gli scatti finali, quando il vento mi assaliva ed io, con la testa bassa, tentavo di superarmi. Mi piacevano le corse lente e regolari, dove nella mia mente i pensieri germogliavano come alberi. Ma il momento che più amavo era quando chiudevo gli occhi e acceleravo, sempre più veloce, sempre più forte, senza sapere se sarei andata a sbattere contro qualcosa, godendo della mia ignoranza e assaporando l’adrenalina e la paura. E se anche poi colpivo qualcosa, quel momento era valso tutto. Poi mi accasciavo a terra, ansimando. In ginocchio mi sentivo sempre morire. Le gambe mi tremavano e tutto il mio corpo implorava pietà. Ma ogni volta che mi rialzavo era come nascere di nuovo. Quando correvo non pensavo. Erano i pensieri a venire da me. Quando correvo mi sembrava di fuggire. Di non far più parte del mondo di ansie e di paure in cui vivevo. Quando correvo il mondo avrebbe potuto cadere, venir risucchiato ed implodere sotto il suo stesso peso. Io correvo. E la fine arrivava sempre troppo presto. Quando arrivò mi sdraiai per terra, ansimante. Guardavo il cielo e le nuvole e la vita. Mi sentivo viva. Un sorriso si allargò sul mio volto, involontario e inarrestabile. Mi sentivo in pace col mondo. Ma il sorriso e la serenità mi abbandonarono presto. La mia mente fu costretta a tornare alla realtà. Sapevo di avere poco tempo. Era la cosa che odiavo di più di me. Ero una nereide, una ninfa del mare, e dipendevo da lui. Potevo resistere solo poche ore senza immergermi in esso. E lo detestavo. Detestavo ogni forma di dipendenza. Dopo anni di allenamento riuscivo a resistere anche un giorno intero senza immergermi. Ma non potevo allontanarmi troppo dal mare. Se lo facevo il mio corpo si ribellava, molto di più di quando correvo per ore ininterrottamente sulla sabbia bollente. Era come se chiodi appuntiti si conficcassero sotto i miei piedi, e lame incandescenti sulle mie braccia. Le vette lontane mi invitavano, ma il dolore mi riportava sempre lì. Era sempre così. Anche quella sera sarei stata costretta a tornare a immergermi lì, ma non ci volevo pensare. Per questo correvo. I pensieri scomodi scomparivano. Ma la sera arrivò troppo in fretta. Arrivava sempre troppo presto. Passavo le notti in mare, tentando di dormire. E le giornate sulla terra, tentando di fuggire. Notti insonni, giorni di fuga. E nulla cambiava mai. Fino a quella sera. La giornata era stata uguale alle altre. Ero riuscita a raggiungere il bosco prima che il dolore mi costringesse a tornare. Tutti i giorni tentavo di andare sempre più lontano. Ma tutte le sere tornavo e mi immergevo nell’acqua salata, negando il sollievo che mi dava. Non volevo ammettere di dipendere dal mare. Desideravo essere libera. Desideravo correre. Desideravo riuscire a fuggire. E negavo ogni piacere per non sentirne la mancanza quando me ne sarei andata. E me ne sarei andata. Ne ero sicura. Ma quella sera fu la sera in cui cambiò tutto. I ricordi sono confusi. Mi ricordo l’acqua sul mio corpo. Mi ricordo l’odore del mare. Mi ricordo il sole che tramontava. Poi apparve. Era un uomo, o meglio, un tempo era stato un uomo. Ora era un dio. E mi voleva. Mi desiderava. Desiderava il mio corpo. Parlava di amore. Ma sapevo che voleva possedermi. Le sue parole mi risuonano ancora in testa. Io sono Glauco, dio del mare. Posso renderti immortale. Vivrai per sempre con me, nel fondo degli abissi. Io ti amo, e tu imparerai ad amarmi. Imparerai ad amare il mare a cui appartieni. Vieni. Ormai sei mia. Il mio volto era una maschera di pietra. Il mio cuore sembrava avesse smesso di battere. Sapevo cosa succedeva a chi rifiutava la richiesta di un dio. Sarei morta nell’istante del mio no oppure sarei morta lentamente, soffocata nel mare che odiavo, un’infinita eternità dannata, e avrei pregato per morire. Il mio corpo agì da solo. Non pensai. Non dissi nulla. Avevo spento il cuore e la mente. Anni di corsa mi diedero l’impulso. Correvo. Ignoravo le grida dietro di me. Ignoravo il dolore. Ignoravo il buio. Ignoravo tutto. La mia mente era libera e vuota. I miei piedi rimbombavano sul terreno. Rami appuntiti mi ferivano i piedi. Mi sembrava di morire. Sentivo il mio corpo cedere. Non mi ero spinta così lontano nemmeno nei miei sogni più remoti. Il bosco. Le radure. La montagna. Era sopra di me. Ero arrivata fino lì. Avevo corso tutta la notte. Il mio corpo implorava pietà. Mi accasciai una grotta. Era fredda e umida. Una lacrima silenziosa mi rigò il viso. Non era una lacrima di dolore. Non era rabbia. Era paura. Perché sapevo che avrei dovuto tornare. Che mi avrebbe aspettato. Sapevo cosa sarebbe successo. Non sarei stata la prima ninfa ad essere rapita. E nemmeno l’ultima. Ma appena sorse il sole iniziai a camminare. Vorrei dire di essermi sentita meglio, ma la verità era che più il dolore svaniva, più aumentava la paura. Sentivo già il peso di catene invisibili trattenermi a terra. Solo in seguito appresi cosa successe in quel tempo in cui io ero stata lontana, in un disperato tentativo di fuga. Io rifiutavo di essere posseduta, ma qualcuno lo desiderava. Qualcuna. Lui voleva delle catene per imprigionarmi a lui. Le aveva chiesto un filtro d’amore. Ma non sapeva che lei lo desiderava. Probabilmente non riuscì a resistere alla tentazione. Era così semplice dargli la pozione sbagliata. Così facile non rinunciare alle poche speranze che aveva. Si chiamava Circe, e distrusse tutto di me. Quando tornai, stremata, mi immersi nelle acque cristalline. Aspettavo di vederlo. Sapevo che in ogni caso sarebbe stato il mio ultimo giorno prima di una lenta discesa verso la follia, o una rapida morte. Mi godevo il dolore che la corsa mi aveva imposto. Sapevo che era l’ultima volta. Il sollievo si diffuse lentamente lungo tutto il mio corpo. Ma durò poco. Il dolore torno. Guardai verso il basso. Serpenti mi circondavano. No. Non mi circondavano. Spuntavano dalla mia vita. E le mie gambe erano state sostituite da quegli esseri maledetti. Chiusi gli occhi. Non sopportavo la vista del mio corpo ridotto così. Per la prima volta da anni nuotai. Mi nascosi in una cavità di uno scoglio. Riuscivo a vedere Cariddi, mostro che risucchiava le maree e le barche. La prima volta che una barca mi passò vicino la lasciai passare. La seconda volta uccisi per fame. E mi resi conto che mi piaceva. Quando uccidevo mi sentivo sempre meno umana. I sentimenti svanivano. Le emozioni si dissolvevano. La ragione annegava in quel mare che avevo sempre detestato. E detestavo che mi piacesse. Ma non potevo negarlo. Non potevo fuggire. Le mie gambe, la corsa, unica via di fuga, mi era stata tolta. Ed era un bene. Perdevo sempre più parti di me. Parti che odiavo. Ricordi che ferivano. Non volevo ricordare. E passarono gli anni. Ed ora sono qui. A rivangare il mio dolore. A sotterrarlo sempre più in profondità, e a scagliarlo sulle mie vittime. E non c’è speranza. Non c’è fine. C’è solo la morte. Solo il dolore e la sete di sangue. Passa un’altra barca. È il mio momento. Sento delle grida. Sento il nome Odisseo. L’amante di Circe. E non ci vedo più dalla rabbia. E so che ucciderò, che creerò vedove e orfani, e lo so da tempo, ma l’ho accettato. Non più pieta. Non ho più umanità. Le ho seppellite insieme al mio cuore, in una notte umida e silenziosa. Le ho seppellite insieme alla mia corsa. Insieme alla mia libertà. Insieme alla mia serenità. La mia vita è un cimitero sterminato, ed io sono il becchino, il morto e la lapide.

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Capitolo 7
*** Circe ***


Ho sempre custodito due anime dentro di me. La luce e il buio. Me li porto dietro sin da bambina. Uno mostra e l’altro nasconde. Eppure a volte la luce acceca ed il buio rivela. Per tutta la vita ho dovuto lottare contro questi miei aspetti, chiedendomi quale fosse il migliore. E ancora non lo so. Cerco le risposte dappertutto. Le cerco nella gioia, nell'odio, e nella rabbia. E in me. Sono figlia del Giorno e della Notte, almeno così dicono. Forse per questo le marre contrastanti del mio animo si scontrano di continuo. Il mio nome significa uccello. Evoca l’idea di una donna astuta e manipolatrice. Nel mio passato si nasconda la mia identità. Venni adottata da due sovrani, Eete e Ecate, dea della magia. Lei mi insegnò tutto quello che so. Il mio primo ricordo è un albero. Avrò avuto tre anni. Sedevo sotto quell’albero e pensavo. Mia madre mi aveva insegnato come creare la luce, ed io mi esercitavo. La magia mi scorreva nelle vene. Ma non era solo la magia della luce. C’era anche il buio. E a volte prendeva il controllo. O a volte la luce lo soffocava. Cercavo un equilibrio. E mi sentivo grande e adulta. Ma dicono che per essere adulti bisogna sopportare due esperienze. La morte e l’amore. Non so dire quale mi abbia fatto più male. Credo di aver sempre saputo che sarei morta. Che tutti noi saremmo morti. Che saremmo andati nel lato buio del mondo. Ero la figlia della notte. Non avevo bisogno che qualcuno me lo spiegasse. Ma nessuno mi aveva preparato al dolore. Al vuoto che lascia una persona quando muore. E non è il buio. È solo orrore. Quando mio padre morì mi rifiutai di vedere la sua tomba. Non partecipai al funerale. Rimasi chiusa nella mia stanza. Avevo nove anni e nessuna voglia di vivere. Passarono i mesi, e mi ripresi. Passarono gli anni e l’avevo sepolto in profondità dentro di me. A volte non ci pensavo neppure. Poi venne l’amore. Credevo fosse bellissimo, ma mi ferì più profondamente. Anche se non so perché. L’avevo visto solo da lontano. Era uno di quegli amori che non hanno senso, eppure esistono. Non l’avevo rivelato a nessuno, e continuavo a vivere la mia vita normale. Mia madre mi insegnava la magia ed i doveri di una futura principessa. Poi, nel mio letto, lo sognavo e non pensavo ad altro. Un giorno si presentò nel mio laboratorio, dove studiavo l’arte delle pozioni. Il mio cuore batteva all’impazzata. Credeva che fosse arrivato il momento. Ma il cuore è solo un illuso. Non sa niente. Può solo ingannarti. Mi chiese un filtro d’amore per una ninfa che lo rifiutava. Io non capivo come facesse. Avrei dato la mia vita per un giorno in cui mi amasse. Gli proposi di cambiare, di cercarsi qualcuno che lo amasse. Gli dissi che lo amavo. Gli aprì il mio cuore. E lui rise. Disse che non capivo. Ed il mio cuore si spezzò. Mi dissi che non era colpa sua. Ne sua ne di quella ninfa. Eppure la scelta era così difficile. Potevo rinunciare alle mie speranze oppure garantirmi uno spiraglio nel suo cuore. Sarebbe stato così facile dargli la boccetta sbagliata. Così semplice. Eppure qualcosa in me si ribellava. Una parte di me che feci subito tacere. Gli sorrisi col sorriso più falso che avevo e gli consegnai la pozione più pericolosa nella stanza, sicura che dopo di essa non l’avrebbe mai più amata. Feci attenzione a tutto. Gli dissi che poteva avere “effetti indesiderati”. Non mi presi nessuna responsabilità. Ma quando uscì dalla stanza, con un sorriso soddisfatto in volto, quella parte di me che avevo fatto tacere si ribellò. Ed iniziarono i sensi di colpa che mi tormentano tutt'oggi. Non dormì quella notte, e nemmeno quella successiva. Quando mi raccontarono del suo destino non salutai nessuno. Semplicemente me ne andai. Non lasciai biglietti. Non portai nulla con me. Semplicemente presi e me ne andai. Scelsi la prima isola che vidi. Mi sedetti e tentai di dimenticare. Gli anni passarono e nulla accadeva. A me andava bene così. Finché non accadde la terza cosa che mi segnò. E fu la più dolorosa. Mi tormenta ancora oggi nei miei sogni. Arrivò mentre dormivo. Prese il mio corpo. Prese l’unica cosa che mi ero portata con me. E mi sembrò di morire. Urlai nella notte. E lui rideva alle mie grida. Si impossesò di me. E vorrei dire quella parola, ma fa così male. E vorrei descriverlo, ma non ci riesco. MI sentivo violata. Mi sentivo sporca. Ero così sconvolta che non riuscì a difendermi all’inzio. Poi lo colpì con tutta la magia che avevo. Feci in modo che fosse il più doloroso possibile per lui. Il suo cadavere era irriconoscibile. Ma non mi aiutò. Il suo sangue non attenuò il dolore. Ne avevo sentito parlare. Sapevo che se non ti regalavi prima o poi venivi rubata. Allora era considerato normale. Anzi, secondo la legge sarei stata io nel torto, per aver perso la verginità prima del matrimonio. Ma nessuno mi aveva spiegato quanto fosse doloroso. Quanto ti violasse. Quanto smettesse di farti sentire una persona. Queste parole non rendono nemmeno l’idea di quello che successe. Ma le parole sono morte quella notte. Le hanno soffocate le mie grida. Qualcosa si spezzò in me. Forse la speranza che nel mondo ci fosse qualcosa di buono. Forse la speranza per l’umanità. Da allora ogni uomo mi ricorda quella notte. Ed iniziai ad odiarli tutti. Chiunque approdasse sulla mia isola perdeva la sua umanità, diventava un animale. Non sapevo se lo facessi per autodifesa o per vendetta. Ma era più forte di me. Ed odiavo gli uomini. Porci schifosi. Li trasformavo in ciò che erano davvero. E provavo una gioia perversa nel imporre a loro i tormenti che avevo dovuto subire. Trasformavo tutti. Finché non arrivò un mortale favorito dagli dei. Come tutti gli altri, attraccò sulla mia isola. Mandò degli uomini da me, in esplorazione. Gli offrì cibo e bevande. E come tutti gli altri, furono avvelenati e trasformati in maiali, come meritavano. Tutti tranne uno. Lui fuggì e raccontò tutto al suo padrone. Si chiamava Odisseo. E gli dei lo proteggevano. Quando si presentò alla mia porta gli offrì il mio calice avvelenato. Ma gli era stato fornito un antidoto. Mi ritrovai con un coltello alla gola. Ed ebbi paura. Paura che tutto si ripetesse. Paura che tutte le mie precauzioni non fossero servite a nulla. Così feci la cosa che più detestavo. La cosa che mi sembrava più innaturale in quell’istante. Tentai di sedurlo. Usai quello che avevo. Non volevo che accadesse di nuovo. Finsi di essere attratta da lui. Lentamente tolse la lama dalla mia gola. Mi ordinò di liberare i suoi compagni. Io eseguivo tutto. La mia energia era annegata nella paura. Mi dicevo che dovevo solo aspettare, e poi lo avrei ucciso. Perché non lo feci? Paura? Pietà? Il ricordo di quella notte di orrore che mi perseguitava. Li trasformai tutti. Poi iniziai a tornare a pensare. E richiamai tutto il mio potere. La luce e il buio. Lasciai che la tempesta dentro di me si riversasse all’esterno. Che il mio dolore diventasse rabbia. Li scagliai via dalla mia isola. Lì vicino c’era il mostro che io avevo creato. Sapevo che avrebbe tentato di uccidere chiunque pensasse mi stesse a cuore. 《Porta i saluti di Circe, tua amante!》urlai. Usai tutto il fiato che avevo. Le isole vicine avevano probabilmente udito tutto. La voce si sarebbe sparsa con la velocità di un incendio. Lei non avrebbe lasciato sopravvissuti. La magia mi circondava. Riuscivo a vedere il buio e la luce mescolarsi. A quel punto compì il mio più grande incantesimo. Cancellai l’isola. Nessuno l’avrebbe mai più vista. Nessuno mi avrebbe mai più raggiunta. Sarei vissuta da sola, con il giorno e la notte. Con le mie tempeste. Col mio mare mai calmo. Tentando di capire la mia vita. Tentando di capire cosa fosse bene e cosa fosse male. Ma ormai è passato tanto di quel tempo. Probabilmente la mia storia sarà diversissima. L’avranno mutata in tutti i suoi particolari. Il mondo ormai sarà così cambiato. Ma io ho trovato la mia verità. La verità era che non esiste un bene o un male. Chi ha creato il mondo non si è disturbato a delineare il confine. Le uniche cose che esistono sono le azioni. Azioni ed emozioni. Il resto è solo una creazione della mente dell’uomo. Il bene e il male sono solo convenzioni. Forse me lo dico per tutte le cose orribili che ho fatto. Ma se c’è qualcosa che so è che non dovrei mai giudicare. Mai ascoltare un solo parere. Ormai sono vecchia, e morirò sola. Morirò su un’isola deserta, con un sorriso sulle labbra e la luce negli occhi. Sono sempre più vicina al lato buio della vita. Tutta questa luce mi sta accecando. Aspettami, Notte. Sto arrivando.

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Capitolo 8
*** Epilogo ***


Ed ora sono qui. La mia vita è un ammasso di macerie e dolore. La mia vita è un insieme di piccole gioie. E non ho sempre fatto la cosa giusta. Ho sbagliato, più e più volte. Non chiedo di essere giustificata. Spero solo di farvi capire. Non mi giudicate dai racconti degli altri. Ormai sono solo una leggenda. Vivo solo nelle menti delle persone. Ma continuo a sperare. E nulla distruggerà la mia speranza, nemmeno io. La speranza di un mondo dove i mostri non debbano nascondersi. Dove potrei andare in giro a testa alta. È difficile dire addio alla mia storia. Ma l'oblio e la morte mi chiamano. Mi hanno concesso del tempo per narrare ciò che fui. Questa è la vera fine. Addio.

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