Mi amerai ancora?

di Challenger
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Mi amerai ancora? ***
Capitolo 3: *** Mi amerai ancora? - III parte ***
Capitolo 5: *** Mi amerai ancora? - Finale ***
Capitolo 6: *** Mi amerai ancora? - II parte ***



Capitolo 1
*** Mi amerai ancora? ***


Una mattina mi svegliai in un’anonima stanzetta d’albergo. Il rumore del traffico penetrava dalla finestra. Guardavo il soffitto bianco pensando a non so cosa, forse al fatto che quella non era casa mia. Un lieve respiro soffiò sulla mia spalla destra; mi voltai da quella parte, con la guancia premuta sul cuscino. C’era Matteo accanto a me. Dormiva su un fianco e sbuffava. Aveva il setto nasale deviato perciò respirava male. Mi disse che era colpa di un suo collega che gli era caduto addosso durante un’esercitazione nei boschi: era un maggiore dell’esercito, proprio come suo padre. Eravamo nudi in un letto di un triste albergo di provincia, la sera prima avevamo fatto l’amore tre volte, credo, forse di più, non ricordo, eravamo ebbri di piacere e alcool. Io non avevo una casa mia dove portarlo — ero tornato a vivere dai miei dopo che Giordano mi aveva cacciato dalla sua — e Matteo aveva una famiglia, una moglie e due figli, quindi da lui era escluso, dovevamo accontentarci di un qualsiasi hotel a buon mercato per poter stare insieme, per poterci amare nella segretezza più assoluta. Guardavo il suo viso sbarbato, le sue lunghe ciglia e le sue labbra che si schiudevano di tanto in tanto per fare uscire l’aria che non trovava sbocco dal naso storto. Mi spostai anch’io su un fianco per contemplarlo ancora un po’ prima che si svegliasse. Per stare con Matteo avevo tradito Giordano, l’unico uomo che abbia avuto il coraggio di amarmi alla luce del sole. L’unico ad aver rinunciato alla sua vita per me. Ed io l’avevo tradito. Matteo, però, era il mio destino. Sapevo fin da ragazzino che era lui l’uomo per me, ci siamo amati fin dal primo bacio che ci siamo scambiati a quattordici anni, circa sedici anni fa, poi lui è partito per l’accademia militare e la nostra storia è finita ancor prima di iniziare, come se non fosse mai esistita. Adesso è tornato, ha ottenuto il trasferimento, il destino ci ha fatti rincontrare e innamorare di nuovo. Non è stata una cosa programmata, non l’abbiamo voluto, è capitato e basta. Io e Matteo abbiamo colto l’occasione al volo, per troppo tempo siamo stati lontani l’uno dall’altro, dovevamo riappropriarci dell’amore che qualcuno ci aveva strappato molti anni prima. Tuttavia, cominciavo ad essere stufo di tutta questa segretezza. Era passato un anno, era giunta ora che Matteo facesse il passo successivo: parlare con sua moglie. Qualche giorno prima, avevo incontrato Giordano con il suo nuovo ragazzo, anzi, dovrei dire ragazzino, sì perché Thomás, questo il nome del bimbo, avrà all’incirca vent’anni o poco più, e di certo un tipetto alternativo come quello non era la persona giusta per Giordano. Giordano non sarebbe mai stato attratto da uno così, prima di tutto per la giovane età — Giordano compirà trentaquattro anni il prossimo novembre — e poi perché non hanno nulla in comune. So che è così perché ho dato una sbirciata ai loro profili su diversi social, e conoscendo Giordano posso dirvi che non sono per nulla compatibili, eppure la loro relazione sembra funzionare, in un modo o nell’altro. Un raggio di sole illuminò la stanza, e la trovai ancor più fredda e squallida. Mi mancava casa mia, casa nostra. Immaginavo Thomás sul divano, abbracciato a Giordano mentre vedevano un film, oppure seduto al tavolo della mia cucina a mangiare i manicaretti di Giordano, o ancora, a farsi la doccia nel mio bagno… o peggio, a fare l’amore con Giordano in quello che era stato il nostro letto. Mi veniva da vomitare al pensiero di quel ragazzino che toccava le mie cose, la mia casa, il mio Giordano. Lo immaginavo seduto accanto a Giordano sulla panca mentre suonava il pianoforte. Lo vedevo girare nudo per casa e sorridere maliziosamente in direzione di Giordano, vedevo Giordano che lo abbracciava e gli diceva che lo amava, li vedevo passeggiare insieme mano nella mano. Giordano mi aveva dimenticato, aveva voltato pagina, io ero un capitolo chiuso. Tornai a guardare Matteo che dormiva placidamente al mio fianco. Lo amavo, eppure, allo stesso tempo lo odiavo. Mi aveva giurato amore eterno, ma non aveva ancora fatto nulla per dimostrarmelo. Mi domandavo quando avrebbe detto la verità alla moglie, in questo modo non ci saremmo dovuti più nascondere, avremmo comprato una casa e vissuto felicemente, vissuto finalmente la nostra relazione senza più bugie. Mi avvicinai un po’ a Matteo, fece una smorfia di disappunto nel sentire il fruscio delle coperte che avevo generato spostandomi acconto a lui, ma durò un secondo, si rilassò immediatamente. Gli sussurrai «ti amo, Matteo», e ne approfittai per fargli una carezza sul viso, lui non era amante delle effusioni, che invece erano tanto care a Giordano. Una volta, per caso, lo vidi accarezzare con il pollice la guancia di Thomás; mani e dita che una volta accarezzavano me. Quei gesti di tenerezza che un tempo erano riservati soltanto a me, ora erano diventati proprietà di qualcun altro. Matteo aprì gli occhi all’improvviso, quasi avesse percepito i miei pensieri. «Buongiorno» mi disse con un sorriso sulla bocca. «Buongiorno a te» gli dissi, sorridendo a mia volta. Amavo i suoi grandi occhi azzurri. «Che ore sono?». «Le otto e trenta» risposi, guardandolo negli occhi, avevo controllato l’ora dieci minuti prima. Si sollevò svelto e urlò: «cazzo, è tardi!» e scese rapidamente dal letto. Lo guardai attonito, poi dissi: «calmati, abbiamo ancora tempo. Possiamo stare ancora un po’ insieme». «No» disse lui freddamente «devo tornare a casa, i bambini oggi hanno la recita scolastica». Rimasi male, speravo di passare un’altra mezz’oretta con lui prima di separarci e tornare a far finta di non conoscerci. «Possiamo almeno vederci oggi pomeriggio?» chiesi speranzoso. Per sbaglio aveva indossato le mie mutande, ma non glielo dissi, almeno una parte di me sarebbe andata via con lui. Infilò i pantaloni prima di rispondere: «non lo so» poi tirò su la lampo «ti faccio sapere». Era voltato di schiena, la cosa mi ferì profondamente. «D’accordo» sospirai rassegnato. Seduto sul letto, coperto solo dal lenzuolo di cotone, aspettavo che mi dicesse altro, magari qualche parolina dolce prima di sparire e dimenticarsi di me. Ma non accadde. Solo dopo aver indossato la camicia e le scarpe si degnò di voltarsi. Mi guardò, uno sguardo strano, forse arrabbiato o dispiaciuto, non saprei davvero dirlo. «Ti chiamo dopo, ok?» mi disse, forse per rassicurarmi. Annuii senza dire nulla, sinceramente non avevo voglia di parlare con lui. «Dico davvero, ti chiamo. Vedo se riesco a sganciarmi» sorrise. Salì sul materasso, mi diede un bacio sbrigativo e scivolò via. «Ma certo» sorrisi, ma avrei voluto mandarlo al diavolo. Si abbassò ai piedi del letto per raccogliere lo zaino con dentro l’uniforme, aprì la porta e la richiuse dietro di sé. Aveva appena sbattuto la porta in faccia alla sua vergogna.

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Capitolo 3
*** Mi amerai ancora? - III parte ***


Matteo si presentò a casa dei miei genitori una settimana dopo il mio compleanno. Lui non aveva richiamato e io non l’avevo cercato. La sua dimenticanza mi aveva ferito più di ogni altra cosa. Questa volta non se la sarebbe cavata con un sorriso e tante belle scuse, mi doveva di più, molto di più. Quando aprii la porta, e me lo ritrovai davanti, gli chiesi in modo scorbutico: «cosa ci fai qui?». Sorrise, un sorriso da seduttore. In mano aveva una bustina della gioielleria; me la mostrò: «per te». Non la presi. La agitò e disse: «volevo dire ‘per l’amore della mia vita’». Sorrise ancora. “Patetico”, avrei voluto gridargli in faccia, ma dal momento che ero una persona educata preferii rispondere: «grazie, ma non lo voglio. Sei in ritardo di una settimana». Matteo non si diede per vinto: mi baciò, ficcandomi tutta la lingua in bocca. Mi teneva stretto a sé per evitare che lo allontanassi. Il suo bacio mi aveva colto di sorpresa. Lo baciai avidamente e brutalmente, mordendo le sue labbra carnose. Lo volevo baciare perché, nonostante tutto, mi era mancato e volevo anche fargli capire, con quel bacio senza freni, quanto la sua lontananza mi avesse fatto male. Lo abbracciai e lo perdonai immediatamente. «Mi sei mancato tantissimo» dissi quasi piangendo. «Lo so. Mi dispiace» rispose tenendomi ancora stretto a sé. Lo feci accomodare in salotto, i miei non c’erano. «Perché non mi hai chiamato?» gli chiesi, prendendo la sua mano nella mia. «È stata una settimana impegnativa. Sai, l’ultima settimana di scuola è sempre un delirio». Aveva sempre una scusa per tutto, un vero talento naturale! Rimasi in silenzio, e scartai il regalo. Dentro un cofanetto trovai l’orologio della Citizen che, durante una passeggiata insieme, avevo notato il mese prima dal gioielliere: l’ultimo modello, con cinturino in pelle nera e cassa in titanio, prezzo di listino 475 euro. Quando lo vidi rimasi a bocca aperta. Lo rifiutai, e lo pregai di riprenderselo, non potevo accettare un regalo così costoso. «Voglio che tu lo tenga. L’ho comprato per te. Te lo meriti» disse con un sorriso. La sua risposta mi infastidì. Avevo meritato un regalo come quello perché non mi ero lamentato del fatto che lui continuasse a preferire la sua famiglia a me? Ovviamente non glielo dissi, non volevo litigare per l’ennesima volta sugli stessi argomenti. Lo ringraziai, accettando mal volentieri il “contentino”. Eravamo ancora seduti sul divano, lui con le gambe accavallate e le mani incrociate sul petto, io immobile con il suo regalo in grembo. Ci guardavamo, sembrava quasi fossimo tornati ad essere i due ragazzini di quattordici anni impacciati e imbarazzanti di un tempo. Gli sorrisi. Lui sorrise a me. «Potresti mettermelo?» dissi, porgendogli il cofanetto. Tirò fuori l’orologio, sollevo la manica della mia camicia e lo legò. Ma prima di lasciarmi, mi accarezzò il polso e baciò la mia mano. Gli sorrisi ancora, imbarazzato, e arrossii. «È ancora in fondo al corridoio la tua camera, no?» disse ammiccante. Facemmo l’amore, ed io scordai all’improvviso tutta la dolorosa settimana precedente. Essendo un libero professionista, chiusi lo studio le prime due settimane di agosto. Io e Matteo avevamo organizzato una piccola vacanza in Sicilia, in una località remota, per evitare qualsivoglia inconveniente. Una vacanza solo per noi ci voleva davvero, negli ultimi due mesi non avevamo fatto altro che litigare. Io insistevo nel dirgli che avrebbe dovuto parlare con la moglie il prima possibile, e lui mi chiedeva di avere ancora un po’ di pazienza, perché cercava il momento migliore per parlarle, ma questo momento non arrivava mai e io non ne potevo più. «Cosa vuol dire che non puoi più partire?» gli chiesi con voce strozzata quando mi chiamò tre giorni prima della partenza. «Mi dispiace, ma non posso. I bambini non stanno bene, e non posso lasciare mia moglie da sola». Feci una pausa, per poi rispondere: «me lo avevi promesso. Mi avevi promesso che saremmo andati in vacanza insieme, che sarebbero stati cinque giorni solo per noi». «Lo so, mi dispiace. Ma davvero non posso. Tu non sei padre, non puoi capire». L’ultima frase mi spezzò il cuore. Non era giusto usare i suoi figli per farmi sentire in colpa, in fondo, non chiedevo nulla di più della sincerità. Non volevo allontanarlo dai figli, ma semplicemente vivere la nostra relazione senza più doverci nascondere. Rassegnato, gli dissi: «hai ragione, io non posso capire, ma tu capirai benissimo che per me la nostra storia finisce qui. Non cercarmi mai più. Addio, Matteo». Attaccai la telefonata senza aspettare la sua risposta. Basta, non ne potevo più. Piansi disperatamente mentre scaraventavo il cellulare addosso all’armadio, aperto poco prima per preparare valigie ed indumenti. Decisi lo stesso di andare in Sicilia, ormai era già tutto pagato ed organizzato, tanto valeva andare e prendersi un periodo di pausa. Matteo non faceva altro che chiamare e mandare messaggi, quindi l’unica soluzione fu bloccarlo ovunque. Non volevo più sentire nessuna delle sue scuse, ne ascoltare la sua voce, gli avevo dato anche fin troppo tempo. In quello stesso periodo, Giordano era in tournée in Germania — era un pianista d’eccellenza — e insieme a lui c’era anche Thomás. Sembravano più felici che mai, almeno era questo che emergeva dalle foto fatte sotto la Porta di Brandeburgo o vicino al Palazzo del Reichstag. Thomás abbracciava la vita del suo "paparino" con entrambe le braccia e si schiacciava a lui, mentre Giordano, con il suo bel sorriso incorniciato da una folta barba castana, e la testa posata su quella di Thomás, allungava il braccio per scattare il selfie. “Bisogna ammetterlo, sono davvero graziosi”, pensai malinconico. Avrei tanto voluto anch’io un momento di tenerezza come quello, una foto ricordo mia e di Matteo, ma lui me lo aveva proibito. “Non dobbiamo avere nessuna prova che possa comprometterci”, diceva ogni volta che gli proponevo di farci una foto. Mi vietata perfino di taggarlo anche solo se mettevo scatti di un paesaggio o monumento visitato insieme. Io e lui insieme non esistevamo, potevamo esistere solo separatamente. Guardavo ancora i volti abbronzati e felici di Giordano e Thomás, quando presi una decisione che non mi sarei mai aspettato: con il pollice della mano destra, cliccai il pulsante del like. Il giorno che riaprii lo studio, trovai Matteo che mi aspettava davanti al portone del palazzo in cui lavoravo. Si concentrava nel mordicchiare nervosamente una pellicina sul pollice, quasi avesse dimenticato che fra le dita aveva una sigaretta accesa; sembrava piuttosto agitato. E trascurato, aveva la barba incolta, lui che era un militare esemplare. «Che ci fai qui?», non lo degnai nemmeno di uno sguardo. «Dobbiamo parlare» disse asciutto. «Ti avevo detto di non cercarmi più. È finita, lasciami in pace». Aprii il portone ed entrai nell’androne. Matteo mi afferrò un braccio, stringendolo molto forte. «Ascoltami, per favore» il suo sguardo era lo stesso di un drogato fuori controllo. Tutta la sua persona era in uno stato pietoso, ebbi compassione di lui e lo invitai a salire fin nel mio studio. Una volta dentro, lo incoraggiai a parlare. «Sono impazzito! Senza di te sono impazzito! Francesco, mi manchi. Non sapevo cosa fare senza di te» disse con occhi lacrimosi. «Potevi passare del tempo con i tuoi figli invece di pensare a me. Tanto io, per te, non sono nessuno. Perciò… non vedo dove sia il problema. Mi hai chiesto di aspettare, e io l’ho fatto. Mi hai chiesto di capire, e io l’ho fatto. Mi hai detto che eri pronto per dire tutto a tua moglie e vivere con me, e io ti ho creduto. Ora basta. Ho chiuso con te, ti ho dato anche troppo tempo. Io ho rinunciato alla mia vita, ad un uomo fantastico, per te, e tu mi ripaghi così? Facendomi sempre sentire uno sbaglio, qualcosa della quale ci si pente subito dopo averla fatta. Ho anche io la mia dignità da difendere» risposi. Tentò di baciarmi, ma non glielo permisi. Lo scansai, puzzava di alcool. «Francesco, te lo giuro, io amo solo te. Senza di te mi sento perso». «No, ti manca solo il burattino che ti permetteva di evadere dalla bugia che avevi costruito» dissi arrabbiato. «Stavo per dirglielo, ma poi è successa una cosa e…» abbassò lo sguardo in terra, poi lo risollevò su di me «adesso non posso proprio. Lei… lo shock potrebbe farle male». Lo guardai sbigottito. No, non poteva averlo fatto davvero. Lo spintonai e gli gridai: «l’hai messa incinta?! Come hai potuto farmi questo?! Io ho lasciato il mio fidanzato per te, e tu metti incinta tua moglie?!». Provò a toccarmi, ma lo scansai di nuovo. «Mi dispiace, ok? Non l’ho fatto di proposito, è capitato. Ti prometto che dopo il parto parlerò con lei, così potremo stare insieme» disse, il suo volto mi inquietò. Gli chiesi di andarsene, perché non lo avrei mai perdonato. Fu allora che mi aggredì. Mi spintonò fino alla parete e mi baciò forzatamente. Gli dicevo di smettere, mi faceva male, ma lui continuava a trattenere i miei polsi, mi afferrava la mascella in modo da non poter sfuggire ai suoi baci violenti. «Tu non puoi lasciarmi. Noi due ci apparteniamo, dobbiamo stare insieme!» mi gridava in faccia. Il suo alito era disgustoso, mi toglieva il fiato. «Io non ti amo più! Non voglio più stare con te!» urlai, e lo allontanai da me. Matteo barcollò, poi, ritrovato l’equilibrio, mi guardò furibondo. «Tu non mi lasci» sibilò. Si avvicinò e mi diede uno schiaffo che mi fece finire in terra. Solo l’arrivo di Marta mi salvò da un brutale pestaggio. Matteo, alla vista della ragazza, gridò verso di me: «non ti azzardare mai più a toccarmi, schifoso pervertito!». Fuggì via prima che la mia segretaria gli chiedesse spiegazioni. Quando Marta mi guardò, sbigottita e impaurita, provai un profondo senso di vergogna. Ero appena diventato il cattivo della situazione. Più tardi, venni a sapere che Matteo aveva accettato di partire volontario per una missione in Siria. Non seppi più nulla di lui, era sparito dalla mia vita.

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Capitolo 5
*** Mi amerai ancora? - Finale ***


Dopo lo scontro con Matteo, avevo preso l’abitudine di controllare ogni dieci minuti netti entrambi i profili social di Giordano e Thomás. Ne ero ossessionato, mi nutrivo dei loro post, soprattutto delle loro foto insieme. In un certo qual modo ero diventato anch’io parte della loro storia. La mia presenza nelle loro vite era costante, anche se loro non lo sapevano. Giordano e Thomás erano diventati la mia droga, non potevo più vivere senza di loro, erano l’unica cosa che ancora mi teneva in vita su questa terra. Studiavo le loro foto, fin nei minimi dettagli, facevo le ore piccole per spiare tutti i loro movimenti e parlavo in continuazione da solo mentre ripensavo a loro due seduti al bar a bere un caffè, Thomás che rideva fragorosamente e batteva una mano sul tavolo per il troppo ridere, Giordano che sorrideva per quell’atteggiamento infantile, probabilmente Thomás lo stava prendendo in giro, e lui stava allo scherzo. Mi piaceva guardarli, mi ricordavano la mia vita passata, la mia vita insieme a Giordano, la vita che mi mancava e che avevo distrutto solo per un capriccio passeggero. Un giorno, mentre da lontano osservavo il piercing di Thomás, mi domandavo se lui conoscesse il passato di Giordano. Gli aveva raccontato della madre morta a causa della droga? O del padre in carcere per omicidio? Provavo ad immaginare Giordano con il volto contrito mentre parlava a Thomás della casa famiglia in cui aveva vissuto per un lungo periodo, del responsabile della struttura che lo aveva privato della sua infanzia, della sua dignità di bambino. Vedevo Thomás tentare di consolarlo e Giordano scoppiare in un pianto infinito, intrappolato dentro un attacco d’ansia che non riusciva a controllare. Thomás, che succhiava il suo piercing, quasi fosse un biberon — era ancora troppo giovane per capire certe cose —, era a conoscenza del fatto che il suo "paparino", dopo essere fuggito dalla casa famiglia, per sopravvivere era stato costretto a spacciare droga e prostituirsi? Thomás “il bambino” sapeva che solo la testardaggine del poliziotto che lo aveva arrestato per furto aveva rimesso sulla strada giusta Giordano? Che lo aveva convinto che lui meritava di più, e che avrebbe dovuto abbandonare quello stile di vita malsano per non finire come i suoi genitori? Thomás sapeva tutto questo? I pensieri furono interrotti dal sorriso gentile di Giordano. Era stato proprio quel sorriso a farmi innamorare di lui. Avevo conosciuto Giordano ad uno dei suoi concerti: una coppia di carissimi amici mi aveva invitato una sera a teatro, ed è stato lì la prima volta che vidi quel sorriso triste e malinconico accompagnato dalla dolce sfumatura della gentilezza. Mi innamorai dal primo istante, mi aveva folgorato.    Mi piaceva ricordare i momenti in cui gli accarezzavo le labbra e gli dicevo che lo amavo, e lo sguardo innamorato di lui. Ora quello sguardo era solo per Thomás. Thomás aveva allungato la mano per intrecciare le sue dita con quelle di Giordano, gli sussurrava qualcosa di intimo, qualcosa che solo loro conoscevano. "Giordano, girati”, pensai mentre ero a pochi metri da loro. Ma lui non lo fece, era attratto dalla risata del suo "bimbo". All’improvviso, Thomás si alzò sulle punte, gli buttò le braccia al collo e lo fece barcollare per il gesto inaspettato; Giordano rise. Era la prima volta che lo sentivo ridere da quando c’eravamo lasciati. E a me mancava la sua risata modulata, la delicatezza dei suoi gesti, mi mancava lui. Dopo diversi mesi di spionaggio, presi una decisione drastica: non potendo più continuare a soffrire nel vederli insieme, decisi di lasciarli andare. Dovevo disintossicarmi dalla loro felicità. Una fredda sera di dicembre, mentre ritornavo a casa da lavoro, mi imbattei in un uomo alto vestito di nero. Sentivo i suoi passi dietro di me, avevo paura che mi aggredisse per rubarmi i pochi soldi che avevo nel portafogli, quindi tentai di intrufolarmi nel primo locale aperto, ma l’uomo mi afferrò saldamente un gomito prima che entrassi.  Stavo per gridare aiuto, se non fosse che nella figura massiccia di lui, riconobbi i lineamenti di Giordano. «Mi hai fatto prendere uno spavento!» lo rimbrottai. Il cuore andava a mille! Non parlavo con lui da quando aveva portato Thomás nel mio studio. «Volevo raggiungerti prima che mi sfuggissi» disse, impassibile. Respirai a fondo. Poi chiesi: «come mai da queste parti?». «Posso offrirti un caffè?». Acconsentii. Una volta accomodati nell’angolo più buio del bar, rimanemmo ancora un po’ in silenzio. Non sapevo cosa volesse da me, o del perché fosse venuto a cercarmi. Seduto immobile sulla sedia, lo guardavo. Lui scrocchiava le dita: stava per avere un attacco d’ansia, iniziava sempre così. "Cosa devo fare? Dovrei aiutarlo?”, mi domandavo, senza però rendermi conto che le mie mani e la mia bocca già lo stavano facendo. La mia mano abbracciava le sue, la mia bocca diceva “guardami. Concentrati, Giordano, fa’ respiri profondi”. Lo vidi riprendere un po’ di colore sul viso pallido. Mi rilassai anche io. Prese un sorso d’acqua e schiarì la voce. «Grazie» disse. Aspettò altri cinque minuti prima di parlare ancora. «Ho saputo che Matteo è in missione, e che ha lasciato qui la moglie incinta». Quelle parole mi colsero alla sprovvista; feci una smorfia di disgusto nel ripensare a quell’individuo. «Già, è proprio così». Mi fissò, poi disse: «tu stai bene?». Alzai le spalle: «sì». La cameriera servì due tazze di caffè nerissimo, la ringraziai. «Perché ti interessa?» chiesi, irritato. Scosse la testa: «volevo solo sapere come stessi. Tutto qua». «È successo mesi fa. Va tutto benissimo» risposi. Ancora non capivo il perché di tanta curiosità. Glielo chiesi e lui mi disse che era preoccupato, aveva pensato spesso di passare in studio per parlarne, ma non lo aveva mai fatto perché non sapeva se mi avrebbe fatto piacere o meno che si interessasse ancora a me. «E tu? Come va con Thomás?». «Ci siamo lasciati». Spalancai gli occhi; eppure erano così felici insieme! Gli chiesi spiegazioni. «Thomás voleva unirsi al gruppo degli ambientalisti e girare il mondo per protestare contro le petroliere che stanno avvelenando la Terra. Sai, è ancora molto giovane, e i giovani si fanno prendere facilmente dall’entusiasmo, così l’ho lasciato andare. Se è questo quello che vuole, chi sono io per impedirglielo, giusto?» sorrise forzatamente. Gli si leggeva in faccia che l’abbandono di Thomás lo aveva ferito. «Mi dispiace, davvero» dissi, prendendolo per mano. «È cambiato tutto da quel like che hai lasciato sotto la nostra foto insieme» disse, per poi spiegare meglio: «avevo intuito che le cose tra te e Matteo andavano male, e che volevi attirare la mia attenzione. Altrimenti non lo avresti mai messo». Sorrise. Ecco… ecco perché lo amavo, lui mi conosceva meglio di me stesso.  Continuò: «ci sei riuscito. Ho lasciato andare Thomás proprio per questo». Ci scambiammo uno sguardo penetrante. «Credevo amassi Thomás» dissi con voce strozzata. Scosse ancora la testa e sulla bocca spuntò un mezzo sorriso malizioso. «Io amo te, ho amato sempre e soltanto te. Anche quando mi hai tradito, ti ho amato. Ho scelto di stare con Thomás perché era la persona più diametralmente opposta a te. Non potevo stare con qualcuno che somigliasse anche solo un po’ a te, che mi ricordasse anche una sola cosa tua» confessò seriamente. Rimasi totalmente basito, non sapevo cosa rispondere. Balbettai qualche parola confusa prima di dire: «credevo foste felici insieme…». «Lo eravamo, ma era solo una relazione passeggiera, lo sapevamo entrambi. Ci siamo fatti compagnia per il tempo necessario». «Ma tu l’hai portato in tournée con te e…» non finii la frase, poiché mi interruppe.  «È vero, l’ho fatto, ma questo non significa niente». Mi guardava impassibile, non faceva trasparire nulla. «Non dirmi che quando eravate a casa tua, e suonavi per lui, anche quello non significa nulla, perché non ti crederei. La musica è la tua vita, e tu hai portato Thomás con te, non può non significare nulla. Non sono un ragazzino, non dirmi bugie per farmi stare meglio» dissi, alterato.  «Io non ho mai detto che suonavo per lui. Ho concesso a Thomás di venire ai miei concerti, ma non ho mai suonato per lui. Io suono solo per te, Francesco, dovresti saperlo. Suonare è il mio mestiere, ma la mia musica è solo per te» i suoi profondi occhi scuri mi avevano catturato e trasportato nella loro orbita, Giordano aveva sempre avuto il potere di affascinare chiunque, quindi proseguì: «e poi Thomás non è mai stato a casa mia. Quella è casa tua e di nessun altro. Né Thomás né altri hanno mai messo piede in casa nostra».  Mi mancava il respiro, ora ero io ad avere un attacco d’ansia. «Non ti credo» dissi quasi svenendo sul tavolino. Stavo per rovesciare i due caffè, che erano rimasti lì, ancora nelle tazze, ormai ghiacciati. «È la verità. Te l’ho detto: io ho sempre amato te, e nessuno avrebbe mai dovuto contaminare il tuo ricordo». «Giordano, io…». «Quello che avevo da dirti, l’ho detto, perciò è ora che me ne vada. Stammi bene, Francesco». Si alzò dalla sedia e buttò sul tavolino cinque euro. Prese il cappotto e andò via. Io ero rimasto seduto, come paralizzato. L’uomo di cui ero innamorato mi aveva appena detto che non aveva mai smesso di amarmi, ed io lo stavo lasciando andare, per la seconda volta.  Come se mi fossi appena risvegliato da un profondo coma, balzai in piedi e corsi fuori per andare a riprendermi l’uomo della mia vita. «Giordano!» gridai, lui non si voltò. Camminava con le spalle curve e la testa bassa. Con un veloce scatto, lo raggiunsi. Una volta di fronte a lui, esordii: «Giordano, ti amo». Non dissi “ti prego, perdonami” o “aspetta, riproviamoci” o “mi dispiace per ciò che ti ho fatto”, no, nulla di tutto ciò, non serviva, perché lui sapeva, Giordano sapeva cosa gli stavo dicendo. Mi baciò e fummo di nuovo una cosa sola.

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Capitolo 6
*** Mi amerai ancora? - II parte ***


Arrivai nel mio studio medico con dieci minuti di ritardo. Mi ero trattenuto ancora un po’ nella triste stanzetta d’albergo, perché avevo bisogno di sfogarmi. Dopo che Matteo mi aveva lasciato lì, e se n’era andato senza salutare, avevo pianto. Impiegai più di venti minuti per trovare il coraggio di alzarmi dal letto e andare al lavoro. Mi dicevo che i miei pazienti mi stavano aspettando, già solo l’idea di andare dal dentista generava ansia, specie in quelli più giovani, figuriamoci presentarsi in studio e dover prolungare l’agonia perché il dottore non c’è. Perciò mi feci forza ed andai a fare il mio dovere di medico. «Buongiorno, dottore» mi accolse la mia segretaria, Marta, una bella ragazza di venticinque anni dal sorriso smagliante. «Buongiorno, Marta, scusi il ritardo, sono stato trattenuto» le dissi in imbarazzo. «Si figuri, dottore. Il paziente è già dentro che l’aspetta, l’ho fatto accomodare in attesa del suo arrivo» disse, e mi passò una cartellina. «La ringrazio, Marta, lei è sempre molto efficiente». Mi sorrise ancora e tornò alla sua scrivania. Entrai nella stanza già pronta, salutai il paziente, scusandomi per il ritardo, e mi preparai. Ripresi in mano la cartellina e la sfogliai; mi avvicinai al ragazzo sdraito sulla poltrona per chiedergli informazioni su eventuali allergie. «No, nessuna allergia» rispose con voce squillante e allegra. Ebbi un fremito di sorpresa quando lo guardai meglio. Thomás. «Tutto bene, dottore? Sembra che lei abbia appena visto un fantasma» rise. Non avevo mai parlato con lui, mi ero limitato a spiarli da lontano. Schiarii la voce: «tutto bene. Leggo nella cartella che è venuto per una pulizia dei denti» dissi per distrarlo dal mio aspetto, che era diventato cereo. «Esatto! È stato il mio paparino a consigliarmi di venire qui, dice che lei è il migliore su piazza» rispose con un tono che trovai assolutamente sconveniente! «Mi fa piacere. Ringrazi il suo amico per l’ottima pubblicità». Preferii usare il termine “amico”, evitando di ripetere la parola “paparino”, mi sapeva troppo di “pappone”, lo trovavo di cattivo gusto. «Sarà fatto, capo!» e fece il saluto militare. Aggiustai la mascherina sul naso ed iniziai, raccomandandomi di alzare una mano nel caso in cui avesse sentito dolore o fastidio. Thomás aveva una buona dentatura, non dovetti faticare molto per togliere il tartaro, a quanto potevo vedere, teneva alla pulizia dei denti. Beh, pensai seccato, bisogna prendersi cura dell’igiene orale quando si ha un paparino da soddisfare. Intanto che ispezionavo l’interno con lo specchietto e invitavo il paziente a pulire spesso il foro sotto il labbro inferiore, nel quale era infilato un piercing, per evitare infezioni, non potei fare a meno di pensare a questo ragazzino inginocchiato davanti a Giordano mentre prendeva in bocca il suo sesso. Immaginavo Thomás con la bocca piena e occhi lascivi che fissavano il suo “paparino” in estasi. Chissà se a Giordano piaceva la sensazione del piercing trascinato avanti e indietro sul suo pene. Lo faceva venire più velocemente? L’irritazione che provavo nei confronti di Giordano — per avermi imposto la presenza di questo ragazzino nel mio studio, nel mio rifugio — e del mocciosetto su cui stavo lavorando mi fece perdere per un momento il senno. «Argh!!» gridò Thomás. Mi afferrò il polso e allontanò lo strumento di tortura dalla sua bocca. «Mi ha fatto male!». Mi guardava storto. In evidente imbarazzo, mi scusai. Effettivamente, avevo spinto troppo il pulitore elettrico incidendo la gengiva e facendogli uscire un rivolo di sangue. «Mi dispiace». Sciacquò la bocca nel lavandino e sputò saliva mista a sangue, poi, voltandosi verso di me, disse: «’mi dispiace’ un corno! Faccia più attenzione!». Aveva ragione, mi ero fatto prendere dal nervosismo e non ero stato professionale. Finii di pulire i denti nel modo più meticoloso e delicato possibile. Quando gli permisi di alzarsi dalla poltrona, mi scusai ancora. «Non si preoccupi. Poteva capitare a chiunque, solo che non me lo sarei aspettato dal “miglior dentista su piazza”. Giordano ha molta stima di lei» sorrise, più rilassato. Il momento di tensione era passato come un lampo durante la tempesta. Sentir uscire dalla sua bocca il nome di Giordano mi fece strano, era come se Thomás avesse rubato qualcosa di mio senza saperlo; non c’era compatibilità fra Giordano e le parole di quel ragazzo, insieme stonavano. Lo accompagnai fuori, Marta aveva già preparato la fattura, ma Thomás fu distratto da altro e lo lasciai andare. Nel frattempo, il mio cellulare squillò: Matteo. Alla fine era stato di parola, mi aveva chiamato, una novità assoluta. «Pronto?». «Ehi… ho approfittato della pausa per chiamarti…» sembrava agitato. Feci una pausa anch’io prima di rispondere: «quindi sei libero oggi pomeriggio?». Non rispose subito. Sospirò nel microfono. «Scusa, non ricordavo che oggi pranziamo dai miei suoceri, c’è anche la sorella di mia moglie, e non posso scappare, mi tengono a guinzaglio stretto» tentò di abbozzare una risata. Sentii un profondo senso di delusione mentre pensavo “non ti sei nemmeno ricordato che oggi è il mio compleanno, e che ho prenotato il ristorante per questa sera. Trent’anni si compiono una volta sola e tu non sarai con me per festeggiare”. Come sempre, la sua famiglia veniva prima di me. «Oh… d’accordo. Non c’è problema, ci vedremo un altro giorno» risposi senz’anima, poiché lui me l’aveva appena portata via. «Ok, perfetto. Allora ci sentiamo, ora devo scappare, la recita sta ricominciando». Agganciò senza nemmeno aspettare il mio “ciao” sussurrato. Quando rimisi il telefono in tasca, notai Thomás accanto ad un uomo. Lo guardava innamorato, pendeva dalle sue labbra, ascoltava con attenzione ciò che l’uomo diceva a proposito di una riproduzione del quadro 'Una domenica pomeriggio sull’isola della Grande-Jatte' del pittore francese Georges Suerat che avevo appeso nello studio. Thomás si aggrappava alla manica della camicia dell’uomo accanto a lui, si alzava sulle punte per vedere più da vicino i dettagli che l’uomo gli indicava, e sorrideva. L’uomo guardava intenerito Thomás; sarebbe stata una scena commovente se negli occhi di lui non avessi riconosciuto quelli scuri e profondi di Giordano. «Dottore, la signora Tibaldi è arrivata. La faccio accomodare in stanza?» la voce di Marta mi fece sobbalzare, riscuotendomi da pensieri malinconici. «Come? Ehm… sì, la ringrazio, Marta. Finisco io con Thomás» le sorrisi, e lei accompagnò la seconda paziente del giorno. Mi avvicinai a Thomás e Giordano. «All’artista sono occorsi due anni per realizzarlo» dissi appena gli fui vicino. Giordano si voltò lentamente verso di me: «sì», disse, «lo dicevo a Thomás proprio adesso» e sorrise impercettibilmente. L’enfasi che mise nel pronunciare la sillaba tonica del nome del suo ragazzo mi fece impazzire! Nella sua bocca il nome “Thomás” suonava così dolce e sensuale. «È un’opera che mi ha sempre comunicato serenità, per questo ne ho appesa una copia qui, affinché trasmettesse tranquillità ai pazienti più ansiosi. So quanto l’ansia possa danneggiare le persone più sensibili, infatti invito sempre i miei pazienti a sostare qui cinque minuti prima di entrare in stanza, così una volta seduti sulla poltrona saranno più rilassati» spiegai a Thomás, ma in realtà era a Giordano che mi rivolgevo. Soffriva di attacchi d’ansia fin da bambino, e spesso ero io a calmare le sue crisi, gli avevo insegnato alcune tecniche per tenerli a bada. «Già, è rilassante guardare questo quadro, si notano sempre nuovi dettagli. Riesci ad immergerti totalmente nella scena primaverile» disse allegro Thomás. Il ragazzo sfacciato aveva lasciato il posto ad un bambino curioso. Sembrava impossibile che Giordano fosse innamorato di un tipo volubile come lui. «Sì, e posso assicurarti che l’originale è ancor più emozionante» dissi guardando Thomás. «Soprattutto se lo condividi con qualcuno» continuò Giordano, guardandomi negli occhi. La luce della passione era ancora viva nei suoi profondi occhi scuri. Feci un segno d’assenso, e sorrisi senza nemmeno accorgermene. Tanti anni prima, io e Giordano avevamo visto quel quadro durante una vacanza. Desideravo profondamente vedere l’originale di Seurat, così lui mi propose di andare a Chicago e farlo, lo guardai divertito, pensando ad una presa in giro, invece lui mi mostrò due biglietti aerei. La ricordo come la miglior vacanza di sempre. «Ehi, paparino, però una cosa te la devo proprio dire! Non dovresti vantarti troppo dei tuoi amici». Giordano lo guardò senza capire, quindi spiegò: «mi ha tagliato la gengiva. Guarda» abbassò il labbro inferiore e gli fece vedere il piccolo graffio sulla gengiva. Trasalii. Giordano si sarebbe arrabbiato? Non l’avevo di certo fatto apposta! «Non è nulla, tranquillo. Passerà presto» gli disse, e accarezzò la sua guancia destra. Thomás gli sorrise, rassicurato da quel gesto paterno. In effetti, a vederli così, sembravano padre e figlio piuttosto che una coppia di amanti. «Per la pulizia sono settanta, giusto? Ricordo male?» mi chiese Giordano con il sorriso sulle labbra. Sfilò il portafogli dalla tasca posteriore, un vecchio modello tutto logorato, lo riconobbi subito: glielo avevo regalato io per il nostro primo Natale insieme. «È gratis» risposi senza riflettere. Thomás mi guardò sbalordito, ed eccitato esclamò: «grazie, doc!», e cercò di trascinare via Giordano, che rimase piantato lì dov’era. «Per favore, fammi pagare. Non voglio essere in debito con nessuno, soprattutto con te» mi disse. «No. La prima è sempre gratis». In realtà era una bugia, ma non volevo che fosse lui a pagare per quel ragazzino impertinente. E poi, avevo rischiato di fargli un danno permanente, perciò era meglio essere condiscendenti. «Ok, come vuoi. Grazie» poi si avviò verso l’uscita. Lo guardai andare via, sentii di averlo perso ancora una volta. Mi avvicinai alla scrivania di Marta e strappai la fattura di Thomás. Quando rialzai gli occhi dal cestino della spazzatura, mi ritrovai di fronte Giordano. «Hai dimenticato qualcosa?» chiesi con fare confuso. «Sì» mi fissò, poi «tanti auguri, Francesco». La sua faccia non si preoccupò di assumere alcuna espressione. Si era ricordato il mio compleanno. Lui l’aveva ricordato e Matteo invece l’aveva completamente dimenticato. «Grazie, Giordano». Se ne andò. E io mi resi conto che era la prima volta, dopo un anno, che pronunciavo il suo nome ad alta voce.

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