Gennaio

di lagertha95
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Schnapsidee ***
Capitolo 2: *** Mono no Aware ***
Capitolo 3: *** Torschlusspanik ***



Capitolo 1
*** Schnapsidee ***


Torno, sull'onda di uno stato d'animo oscillante, a scrivere e uso la Challenge delle parole quasi intraducibili come fonte d'ispirazione.
Non mi dilungo oltre, se non augurandomi che, a chi leggerà, questa raccolta piaccia.
Baci, L.





Schnapsidee: quel piano astruso e ridicolo che ti viene in mente quando sei ubriaco e che ti porta a combinare disastri irreparabili.


 
1° gennaio
 
(214) 
Capitava, nel bel mezzo della giornata, che pensieri strani la cogliessero, del tutto impreparata, riportandole alla mente scene sparse della sera precedente. Scene a cui rispondeva, risolutamente e ad alta voce, “No, decisamente no”. Salvo poi ripensarci, un attimo dopo, con una certa dose di nostalgia.
Nella mente un caos di immagini confuse e sprazzi di lucidità: gesti, parole, sguardi… Un pout-pourri di cose, imbarazzanti e dal sapore dolciastro, che la sprofondavano in un baratro di negazione.
Non era vomitando che avrebbe voluto terminare la serata, no: avrebbe voluto finirla in un letto, nuda e piacevolmente brilla, a stringere un corpo che non fosse il suo, a sentirsi – anche solo per un attimo – completa.
Ma le cose erano andate diversamente, anche se aveva dei ricordi di gesti dolci, di baci sui capelli e giacche posate sulle spalle: seduta su uno scalino, col capo chino tra le gambe divaricate, a vomitare quello che aveva in corpo e anche di più; e poi il freddo, lo stomaco che continuava a contrarsi, la vista doppia, il cattivo sapore in bocca
Alla fine della serata era tornata a casa, si era infilata nel letto – troppo grande per lei sola, quella sera – e aveva dormito, col phon puntato sullo stomaco e abbracciata a un cuscino.

2 gennaio

(144)
Che imbarazzo.
L’anno era iniziato all’insegna di quel mantra.
Ogni volta che ci pensava le guance le diventavano rosse e l’unica cosa che desiderava fare era sprofondare in una voragine che la inghiottisse.
Che imbarazzo vomitare, sbronza marcia, appena fuori dal locale.
Che imbarazzo non riuscire a fare neanche il brindisi di Capodanno, china su un lavandino da esterni, a metà tra il sonno e la veglia.
Che imbarazzo non avere memoria di alcuni pezzi della serata, come per esempio quello tra l’ultimo bacio e il primo conato.
Che imbarazzo le cose dette senza pensare, le cose fatte sull’onda dell’ebbrezza alcolica, della voglia di disfarsi di pensieri ingombranti che la trascinavano a centinaia di chilometri di distanza.
Che imbarazzo quei pensieri che le strisciavano nella mente: lo avresti usato per dimenticare; non è un oggetto; sarebbe servito solo per il tempo di una scopata…

 
3 gennaio
 
(179)
Daphne studiava. O meglio, tentava di farlo.
Di tanto intanto si coglieva, distratta, a guardare fuori dalla finestra.
Se continui così agli esami puoi anche non presentarti…
Ma come avrebbe dovuto continuare, se quel non fatto la tormentava, di giorno e di notte, come una buccia di pop-corn infilzata nella gengiva?
Guardandosi allo specchio con solo la maglietta rossa indosso e immaginandosi come Winnie The Pooh, Daphne digrignò i denti ringhiando un sommesso e frustrato Oh rabbia!
Era uscita a camminare: l’aria fredda che le congelava il naso, l’umidità che le arricciava – ancora di più, se possibile – i capelli.
Camminare, rabbiosa e borbottante, era il modo con cui spesso e volentieri finiva per risolvere il nervosismo. Chilometri e chilometri macinati a piedi, a ritmo costante, sbuffando come un drago e parlando tra sé e sé, tentando di trovare la via d’uscita da situazioni in cui, il più delle volte, si infilava in completa autonomia.
Ma quella volta nemmeno camminare aveva funzionato e Daphne si era infilata a letto con i muscoli tesi e la mente in azione.

 
4 gennaio

(171)
Parlarne era stata una pessima idea.
Avrebbero dovuto lasciare tutto lì, nell’aria frizzantina di Capodanno, e non parlarne mai più.
Così però ci sarebbe rimasto tutto qui aveva borbottato lui, con quella faccia da schiaffi, indicandosi con il dito un punto più o meno a metà gola.
Per quanto la riguardava, quello che avevano fatto era stato tirar fuori con la forza qualcosa che non aveva ancora deciso da che parte andare.
Era stata una pessima idea parlarne, ma peggio ancora era stato prendere la macchina, rifinire in una casa al momento sfitta e fare sesso.
Lì, distesa nuda, a pancia sotto, ancora umida tra le cosce, Daphne desiderava scomparire.
Non era il sesso casuale che la disturbava: era la meccanicità con cui la cosa era venuta, come se si trattasse di rimuovere una scheggia. Veloce, senza sentimenti, soddisfacente il giusto.
Lasciò ricadere i ricci intorno al viso, cortina di ebano che nessuno avrebbe potuto varcare, sentendosi protetta nonostante i suoi vestiti giacessero sparsi sul pavimento: davvero una pessima idea, Daphne.

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Capitolo 2
*** Mono no Aware ***


Mono no aware: la consapevolezza della precarietà delle cose, una sorta di nostalgia e sensibilità verso la natura transitoria della bellezza e della vita.


5 gennaio
 
(231)
Non aveva dormito quasi per nulla e il risultato era stato un risveglio pieno di nervosismo: a colazione, mentre sorseggiava il suo caffellatte, anche la gatta le era stata lontana, osservandola sospettosa da sotto la madia.
Aveva passato la notte a girarsi e rigirarsi tra le lenzuola, soffrendo a tratti il freddo, a tratti il caldo, con lo stomaco che le si contraeva come a Capodanno, costringendola a “dormire” rannicchiata.
Ma che cosa ti è venuto in mente di fare?
Ovviamente la tazza di caffellatte era rimasta muta e Daphne si era sentita, per l’ennesima volta, giudicata da quel silenzio.
Un tempo non ci avresti dato così tanto peso. Un tempo saresti uscita da quella casa, gli avresti dato un bacio sulla guancia, avresti sorriso e te ne saresti andata, leggera e serena. Cos’è cambiato?
Daphne sospirò: lei era cambiata; lei e il suo modo di fare; il suo modo di approcciarsi alle cose e alle persone.
È stato un buon sesso, sii serena, goditi il languore che ti ha lasciato. Fregatene di quello che sarà e assapora la dolcezza del momento: nulla di tutto questo tornerà. Tutto scorre, tutto va avanti, cambia. Immagina di essere al mare e di osservare la marea salire: puoi cambiare le cose? No. Puoi tornare indietro? No. E allora smettila, le cose cambiano, tu non potrai mai farci niente, arrenditi e lasciati cullare dalle onde.

 

6 gennaio
 
(250)
Befana l’aveva, in un certo senso, colta di sorpresa.
Troppo poco tempo la separava dal primo esame della sessione, troppa roba le restava ancora almeno da leggere.
Cazzo.
Che poi, quell’esclamazione urlata nella propria testa, era frustrazione o desiderio?
La sensazione di calore tra le cosce le sussurrò, in modo non propriamente sottile, che no, non era frustrazione.
Era nostalgia di sentire delle mani grandi e callose stringerle le cosce fino quasi a farle male. Era il dolorosamente dolce ricordo di labbra calde che si aprivano e chiudevano, succhiando, tra le cosce. Era voglia di sentirsi piena come la sera prima.
Non era lui il punto fondamentale: era la sensazione, la malinconia che la stava pian piano avvolgendo mentre immagini scorrevano veloci davanti ai suoi occhi.
Mani strette, lingua calda, pienezza, profumo maschile nelle narici, labbra secche, capelli tra le dita, spinte rapide e poco profonde, saliva mescolata a umori, l’orgasmo di lui, la morbidezza del proprio corpo in opposizione alla sua magrezza, il senso di vuoto che si riappropriava di lei, il freddo, la ruvidezza delle lenzuola, lo schiocco di una mano sul sedere, la ricerca a tastoni dei vestiti. Il sapore di tabacco, la conversazione stupida a riempire un silenzio che forse non sarebbe stato neanche imbarazzante, il viaggio in macchina, l’erba a riempire i polmoni. Il riflesso nello specchio, gli occhi lucidi di chi ha appena fatto sesso, la solitudine.
Nuovo anno, nuovo ciclo di delusioni, di sesso casuale, di breve incontro di corpi ed anime.
Cazzo.


7 gennaio
 
(226)
Rivederlo le aveva fatto un certo senso.
Di nuovo, nella mente, un alternarsi di immagini e pensieri.
Lui, nudo, sopra di lei. Imbarazzo. Sospiri e capelli stretti tra le mani. Ma perché? Unghie che a stento si trattenevano dal lasciare strie sanguigne sulla sua schiena. Testa riccioluta scossa con veemenza. Carezze e baci ad addolcire il tutto. Occhi nocciola incorniciati da nero kajal, improvvisamente abbassati.
Per i primi dieci minuti non aveva neanche avuto il coraggio di guardarlo in faccia.
Non che lui si comportasse diversamente: non si erano né guardati né salutati, come se l’altro non esistesse.
Che in realtà, agli occhi degli altri, il disagio della situazione non era, ovviamente, percepito: il caos era solo in lei. Lei che picchiettava il piede per terra, che si scrocchiava continuamente le dita in un riflesso nervoso; lei che sorseggiava, fintamente distratta, la sua birra, facendo finta di niente e, al tempo stesso, morendo dentro.
La serata, naturalmente e fortunatamente, aveva avuto termine. C’era stato qualche battibecco infantile, di quelli che si fanno nei gruppi di amici, e c’erano state alcune frecciatine lanciate dall’una all’altra parte del tavolo, ma nulla di più di quello.
Inaspettatamente un ultimo pensiero l’aveva colta prima di addormentarsi: le piaceva, più di quanto avesse pensato fosse possibile, e il sesso maldestro che avevano condiviso continuava a lasciarle in bocca un sapore dolceamaro.


8 gennaio
 
(245)
La domenica era stata un disastro.
L’ansia per gli esami la stava divorando mentre, impazzita, sfogliava le pagine di appunti nel tentativo di immagazzinare più informazioni possibili.
I messaggi sul gruppo non le davano tregua, tanto che a un certo punto aveva cliccato – senza alcuna esitazione – il silenzia le notifiche per sempre.
Non aveva la testa per pensare a niente che non fosse l’esame della mattina successiva, con tutti quei testi in antico siciliano toscanizzato dove nulla o quasi significava quello che pareva.
Ad un certo punto aveva chinato la testa e aveva urlato. Sua madre si era affacciata alla porta di camera, le aveva lanciato un’occhiata e se ne era andata: non era una novità che Daphne avesse una crisi di nervi la sera prima di un esame e dopo le prime volte in cui si erano effettivamente preoccupati, i suoi genitori ci avevano fatto il callo.
Era uscita, a corsetta, con i capelli raccolti in uno chignon indegno, a fumare una sigaretta. La nicotina le aveva dato un’effimera sensazione di tranquillità, nonostante la sigaretta stretta tra l’indice e il medio le tremasse come in preda a un terremoto.
Al bar c’era anche lui, che l’aveva guardata come fosse pazza, ma che si era alzato ed era andato a prenderle una bottiglietta d’acqua.
Grazie. Di niente. Non dovevi. Volevo. Grazie. Di niente.
La notte l’aveva cullata e l’alba l’aveva svegliata con la stessa dolcezza del gesto del giorno prima: effimera e disinteressata.

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Capitolo 3
*** Torschlusspanik ***


Torschlusspanik: paura di fallire, di non raggiungere i propri obiettivi.

9 gennaio
 
(204)
La sveglia era suonata alle cinque e quarantacinque, strappando Daphne ad un profondo sonno totalmente privo di sogni.
Era montata sul treno che era ancora buio, piena di ansie come sempre prima di un esame.
Tremava: stanca, ansiosa, stressata. Daphne sentiva che la propria sanità – fisica e mentale – era al momento attaccata ad un filo sottilissimo di istinto di sopravvivenza.
Gennaio sarebbe stato un mese pieno e lei, disorganizzata come era, si sentiva sempre più vicina ad essere sopraffatta dall’inaspettata serie di eventi che le si prospettava: gli ultimi esami, il nuovo lavoro, la vacanza…
Aspirò avida la nicotina dal drum stretto e voluttuosamente soffiò via il fumo in volute cineree ricalcanti il colore del cielo.
Andrà tutto bene, hai studiato, sei pronta, non farti spaventare da una cosa così stupida…
Daphne camminava e fumava e pensava, cercando di scacciare la folle paura che la attanagliava, mentre si dirigeva verso la facoltà.
Le vie, inaspettatamente piene nonostante fosse mattino presto, le sembravano vuote per quanto era concentrata su sé stessa.
Il portone di facoltà le apparve senza preavviso, come se i venti minuti di cammino non fossero esistiti.
Un ultimo, profondo, tiro di drum: Forza Daph, ce la farai anche questa volta.


10 gennaio
 
(258)
Il giorno prima la tranquillità dell’esame superato era durata solo qualche ora, il minimo indispensabile per riprendere fiato prima di tornare a studiare.
Avrebbe avuto un esame il giorno dopo e quel martedì lo avrebbe dedicato allo studio. O almeno era quello che aveva pensato al mattino, una volta ingerito il suo caffellatte.
Seduta alla scrivania, con le mani tra i capelli riccioluti e gli occhi chiusi, Daphne pareva sprofondata in una fervida preghiera.
Ventiquattro ore. Solo altre ventiquattro ore di tortura e poi sarai libera per almeno un paio di giorni. Ventiquattro, fottutissime, ore.
Sull’orlo di una crisi di nervi, con un drum stretto tra le dita tremanti, Daphne uscì sul terrazzo e, poggiata distrattamente al balcone, tirò una lunga boccata.
In un primo momento la nicotina le fece schizzare i battiti a mille, poi, lentamente, il cuore le si calmò, riacquisendo il normale ritmo di 58 battiti al minuto.
Respira…respira…respira…
Le informazioni le si accumulavano nella testa, caotiche, vorticanti come le carpe koi che una volta aveva sognato trascinarla giù a fondo in un laghetto oscuro.
Il telefono vibrò sonoramente sulla scrivania ingombra di fogli e penne.
“Ciao! Come stai? Senti, ma che valigia porterai in montagna?”
Cazzo. CAZZO.
Daphne si era completamente scordata dell’imminente partenza e tra tutte le persone, mai si sarebbe aspettata che le scrivesse proprio lui.
Il panico l’avvolse. Le carpe la trascinarono a fondo, strappandole via dai polmoni fino all’ultima goccia d’aria.
Respira, ci penserai domani.
“Ciao! Tutto bene, posso dirtelo domani, quando avrò fatto l’esame?”
Domani. Ci penserai domani, Daphne.

 

11 gennaio
 
(165)
L’esame era andato bene, fortunatamente.
Tornata a casa con qualche kilo meno, aveva cercato il borsone, preso le misure, inviato la risposta alle richieste del giorno prima, poi si era addormentata.
Si era svegliata che il sole era già calato, ma non era una sorpresa: a gennaio il sole tramontava decisamente presto.
La valigia.
Daphne si tirò su dal divano così velocemente che il movimento le provocò un capogiro così forte da farla rimettere seduta.
Calma Daph, calma…
Il telefono vibrò sulla scrivania: “Come sono andati gli esami?”
Bene. Erano andati bene, fortunatamente. Non avrebbe sopportato un altro fallimento.
“Bene, grazie. Ora ti cerco la valigia, tranquillo.”
“Non ti ho scritto per quello, ma grazie…”
Ah. E allora per cosa le aveva scritto?
Il telefono rimase in silenzio per il resto del pomeriggio: la valigia non l’aveva cercata, troppo stanca per accucciarsi in soffitta a rovistare.
E poi tutta quell’incertezza di intenti la stava divorando: Daphne non avrebbe sopportato un altro – l’ennesimo – fallimento.


12 gennaio 

(207)
La mattina la accolse soleggiata e calda: una mattina strana per gennaio.
I raggi le scaldavano il viso mentre faceva colazione, il caffellatte le scottava le labbra.
Un sorriso le piegò le labbra mentre la caffeina entrava in circolo.
Sola in casa, sveglia e rilassata, Daphne cercò la valigia, prese le misure, inviò i dati. Poi si dedicò a mettere a posto il caos che la sessione si era lasciata dietro, mentre la musica riempiva le stanze.
Un lieve scirocco entrava dalle finestre e dalle stesse usciva la voce dolce di Daphne che cantava.
Era, inaspettatamente, una bella giornata. Finite le faccende Daphne prese un libro, lo mise in borsa e uscì.
Il mare era calmo, di un azzurro pieno. Il sole aveva scaldato la sabbia e il cemento delle scale su cui Daphne era seduta.
Ad occhi chiusi dietro gli occhiali da sole, Daphne inspirò profondamente.
Poi una voce familiare la svegliò dal sogno che stava vivendo.
“Tesoro, ciao! Che sorpresa trovarti qui!”
Daphne aprì gli occhi, pregando che fosse tutto un incubo. E invece no, il suo più grande fallimento la guardava, sorridente e noncurante come sempre, torreggiando su di lei e oscurando il sole che l’aveva resa così felice di svegliarsi quella mattina.
Cazzo.

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