Noi saremo gli avi di nipoti che ridono

di Old Fashioned
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Gente mia,
ecco che torno a sfracellarvi le gonadi con una storia di guerra. Siamo sul fronte orientale, durante l’Operazione Barbarossa, chiaramente il mio punto di vista è quello tedesco.
Se qualcuno ha voglia di leggere o magari di commentare mi fa un gran piacere, se no grazie lo stesso e alla prossima!^^
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo 1
 
I colpi di mortaio si susseguivano ininterrotti: un lungo fischio stridulo, l’esplosione del proiettile e il rotolio cupo dei muri che crollavano. Seguiva qualche secondo di un silenzio irreale, quindi di nuovo un fischio, poi un'esplosione e altri muri si sbriciolavano sotto l'impatto.
Una vettura abbandonata scomparve in un geyser di fuoco, lasciando sul selciato un buco fumante; una  casa di legno con le finestre decorate fu abbattuta come da una poderosa manata e si disgregò in un mucchio di vecchie travi. Due figure, appena vaghe ombre nella caligine, se ne allontanarono di corsa.
Una facciata vetusta, con l’intonaco scrostato e una falce e martello che sostituiva vecchie insegne imperiali, colpita in pieno si coprì di crepe, parve gonfiarsi come una pagnotta nel forno, quindi deflagrò in una nube di polvere grigiastra, proiettando tutt’intorno pietre e calcinacci.
La gragnola si abbatté anche sullo spezzone di muro che dava un’approssimativa copertura a un plotone di Waffen-SS. Alcuni mattoni rotolarono a terra, raffiche di mitragliatrice pesante fecero schizzare via da altri rosate di frammenti.
I soldati, che sedevano o stavano accosciati con le armi in pugno, non si mossero nemmeno. Solo qualcuna delle reclute più giovani si limitò a ritirare appena la testa fra le spalle, ma venne subito redarguita dai più anziani.
“Fate attenzione, ragazzi,” brontolò il capitano Schultz, spazzolandosi via la polvere che gli imbiancava l’uniforme, “le schegge di pietra sono peggio dei proiettili. Vi entrano in corpo e si frantumano, e con l’apparecchio radiografico non si riescono nemmeno a vedere.”
Cercò di sporgersi appena dal riparo, ma un’altra raffica lo costrinse ad abbassare precipitosamente la testa. “Maledizione,” ringhiò. Consultò la mappa, si protese per quel che poteva a osservare la strada, quindi senza staccare gli occhi da essa chiamò: “Weber!”
Si fece avanti un tenente alto, dalle spalle larghe, che nonostante un'evidente giovane età aveva il petto coperto di decorazioni. “Signore?” chiese.
“Weber, prenda lei il comando della sezione. Mandi un portaordini al resto della compagnia: Lange, Plank e von Auberg porteranno qui i loro plotoni il più rapidamente possibile, evitando di impegnare il nemico.”
L’altro si limitò ad annuire calmo. “Sissignore,” rispose semplicemente. “E lei, signore?”
Di nuovo si udì un sibilo lacerante, seguito da un'esplosione. Il capitano fece un cenno della testa in quella direzione e disse: “Questi sono mortai leggeri, quindi non possono essere lontani. Ora io mi prendo un paio di squadre e un telemetro e vado a stanarli, poi trasmetteremo le coordinate all'artiglieria e ci penseranno loro.”
A quelle parole, una voce esclamò: “A rapporto, signor capitano.”
Schultz si voltò, incrociando lo sguardo chiaro di un sottufficiale giovanissimo, appena un po' più basso del tenente Weber, ma ugualmente robusto e col suo stesso numero di decorazioni sulla giubba. “Che c’è, sergente Hofmann?” gli chiese.
“Mi offro volontario, signor capitano.”
L'ufficiale sorrise e rispose: “Perfetto, prenda una squadra e andiamo.”
Il sergente rimase interdetto. “Ma, signore...”
Schultz lo fissò. “Sì?”
“Ecco… io intendevo al posto suo, signore.”
Il capitano scosse la testa in un teatrale diniego e replicò: “Ah no, Hofmann. Le vuole tutte lei le decorazioni del Reich? Qualcuna me la dovrò pur guadagnare anch’io, non le pare?”
Un nuovo colpo di mortaio, vicinissimo all’improvvisato rifugio, troncò il breve scambio. “È meglio che andiamo,” disse Schultz facendosi di nuovo serio. Si rivolse al tenente: “Weber, difenda la posizione e quando gli altri plotoni arriveranno, prenda il comando della compagnia in mia assenza.”
“Sissignore,” rispose il giovane ufficiale.
 
Il capitano Schultz si mise un MP40 ad armacollo, poi raccolse un tascapane e ci infilò dentro alcuni caricatori di ricambio e tutte le granate a mano che riuscì a farci stare. Infine con aria di ostentata solennità proclamò: “E ricordiamoci sempre che non sono i miti e i neutrali a fare la Storia, ma solo gli uomini che decidono di combattere.”
“Sissignore,” rispose Hofmann, che stava a sua volta preparandosi per la missione.
“Allora andiamo, sergente. Mi stia dietro.”
Tenendosi a ridosso dello spezzone di muro, il capitano prese ad avanzare cautamente. L'ennesimo sibilo lacerò l'aria, e subito dopo un'esplosione scagliò ovunque frammenti di pietra. L’ufficiale si immobilizzò e dal punto in cui si trovava osservò attento i dintorni: dalle macerie del palazzo entro cui lui e la squadra erano in copertura si vedeva quel che restava di una piccola piazza, con edifici diroccati sui quattro lati. Lente colonne di fumo si levavano laddove le bombe avevano innescato focolai di incendio e le fiamme baluginavano dietro le finestre sventrate, consumando ciò che era rimasto nelle case. Una strada era ostruita da un autocarro civile con le ruote all’aria, cadaveri di russi e tedeschi erano disseminati un po’ dappertutto.
In particolare Schultz osservò quello di un ufficiale che era lungo disteso sulla schiena e con le braccia aperte. La sua espressione appariva stupita, ma non spaventata né contratta dal dolore. Data la posizione della testa, gli occhi spenti erano rivolti verso il cielo. Aveva un unico foro di proiettile sul petto, proprio sopra la croce di ferro di prima classe; il poco sangue che ne era sgorgato faceva capire che l’uomo era arrivato a terra già morto.
Alle spalle del capitano, Hofmann considerò: “Non se n’è nemmeno accorto.”
Questi annuì grave. “Che cosa le suggerisce?” chiese poi.
La risposta fu immediata: “Cecchini.”
I due si scambiarono uno sguardo, poi Schultz ordinò: “Fumogeni.”
Un paio di soldati si sfilarono dal cinturone delle granate a manico contrassegnate da una striscia bianca, le decapsularono e le lanciarono al centro della piazza. I due ordigni esplosero con un rumore sordo e cominciarono a fumigare, creando in breve una fitta nebbia.
Ci furono un nuovo sibilo e uno schianto, l’angolo di un palazzo andò in frantumi, pezzi di intonaco e mattoni rotolarono fino ai loro piedi.
Il capitano si voltò verso il sergente e disse: “Questi hanno già fatto abbastanza danni, per i miei gusti. Andiamo.”
Senza attendere risposta si inoltrò risolutamente attraverso la densa cortina.
Le sagome scure di due edifici gli si pararono davanti, separate da quello che sembrava essere un vicolo angusto. Egli vi si diresse, ansioso di sottrarre sé e la squadra ai fucili dei tiratori scelti. Si appiattì contro un muro e attese che gli uomini lo raggiungessero.
Corrugò la fronte infastidito dal caldo torrido che rendeva l'aria ancora più irrespirabile.
 
Il caldo di metà luglio rende le strade di Altona soffocanti. Il selciato è rovente, l’aria è immobile e gravata dell’odore salmastro dei canali. È domenica, ma in giro non c’è nessuno. Sui marciapiedi ci sono solo due lunghe file di poliziotti silenziosi. Cominciano a farsi sentire clamori cupi, che si fanno via via più forti. Si odono grida, spezzoni di canti e l’incalzante calpestare di molti piedi.
Hermann Schultz, ventiduenne Scharführer delle SA, punta sul fondo della via lo sguardo chiaro e acuto. “Occhi aperti, camerati,” raccomanda a coloro che gli stanno intorno. Si gira fugacemente verso il suo uomo migliore, Franz Wolff, che sorregge il labaro della Sezione. Nello stesso momento, anche lui si volta a incontrare il suo sguardo e si scambiano un fugace sorriso.
Un istante dopo si scatena l’inferno: un ordigno esplode davanti al gruppo di SA in marcia, i comunisti dilagano nella strada, si ode qualche detonazione, il crepitare delle fiamme. Una macchina viene rovesciata, vetrine vanno in frantumi, il fumo denso degli incendi si diffonde ovunque, facendo lacrimare gli occhi e tossire. Volano manganellate e pugni.
Un comunista si avventa sulla bandiera, Wolff si fa indietro, lo allontana con una gomitata, ma altri due lo incalzano. Schultz accorre, prende per le spalle il più vicino di coloro che si assiepano intorno al labaro, lo strappa via e lo manda a rotolare sul selciato, allontana il successivo con un pugno, e poi gli altri, in una mischia sanguinosa fatta di urla e colpi, una calca frenetica nella quale riesce a distinguere i suoi solo dal colore dell’uniforme.
E poi, d’un tratto, echeggia un colpo di pistola. È vicinissimo, quasi gli fa fischiare l’orecchio.
Il labaro trema, si accascia lento come un abete tagliato. I comunisti, un attimo prima così ansiosi di conquistarlo, ora si fanno indietro con l’aria di non volerci avere più nulla a che fare. Si ode il clangore sordo di una pistola che rimbalza sul selciato, Schultz coglie le spalle magre di un uomo che si allontana rapido.
È quello che ha gettato l'arma, e forse con uno scatto potrebbe ancora prenderlo, ma un lamento lo trattiene: Franz Wolff è a terra, il petto coperto di sangue, un rivolo rosso che dall’angolo della bocca gli scorre lungo il mento.
Gli occhi socchiusi sono lucidi di dolore, il volto sta assumendo un pallore mortale.
Dimentico di qualsiasi cosa, Schultz si butta in ginocchio accanto a lui. “Franzl!” esclama angosciato. Pone una mano sulla ferita, da cui il sangue sgorga a fiotti. Prende quello che ha, il fazzoletto, un lembo della propria camicia bruna, nel vano tentativo di arrestare l’emorragia. “Franzl,” ripete. Deglutisce, cercando di mantenere ferma la voce. “Franzl, starai bene, non preoccuparti.”
Gli passa il braccio libero dietro le spalle, lo stringe a sé. “Starai bene,” ripete. Alza lo sguardo su un gendarme. “Qualcuno chiami un dottore!” invoca, ma l’uomo non si muove. “Un dottore!” ripete allora Schultz a voce più alta, poi si fa udire un gemito dell’amico. Egli si china su di lui. “Franzl,” dice piano. Cerca di premere più forte la medicazione di fortuna, ma il sangue gli scorre fra le dita come acqua.
Hermann...” mormora l’altro con voce flebile. “La bandiera… è salva?”
Schultz getta uno sguardo sul labaro, che giace ancora dov’è caduto, come se nessuno osasse avvicinarglisi. “È salva,” conferma.
Custodiscila tu.”
Tu la custodirai, Franzl,” risponde Schultz, stringendosi l’amico al petto, “non voglio nessun altro a portare il labaro della mia squadra. Tu guarirai e...” Deve interrompersi: il respiro stentato del camerata Wolff ha lasciato il posto a un gran silenzio.
Egli alza di nuovo la testa e tutt’intorno vede solo volti dall’espressione grave. Le SA salutano a braccio teso. Chi tra i comunisti ha il cappello se lo toglie con gesto solenne.
 
Una detonazione particolarmente vicina riportò il capitano alla realtà contingente. Volse lo sguardo al fondo del vicolo e vide al di là un edificio che svettava sugli altri. Fece qualche passo in quella direzione, cercando di raggiungere un punto di osservazione migliore: era un via di mezzo fra un campanile e una torre, dal pennone che si trovava sulla sua sommità pendeva un brandello rosso che avrebbe potuto appartenere sia alla bandiera del Reich che a quella sovietica. Tirò fuori la mappa e seguì col dito la strada che avevano percorso fino a quel momento, poi disse: “Ragazzi, quella è la torre del municipio. È al limite della linea del fronte, per cui non sappiamo se quando ci saliremo sopra troveremo ad aspettarci i nostri o i rossi.” Stava ancora parlando quando si udì un ululato cupo. Subito dopo un'esplosione mandò in frantumi la facciata di un edificio che si trovava dall'altra parte della piazza su cui sorgeva il municipio.
“Questo non era il solito mortaio,” disse uno dei soldati.
“Artiglieria pesante,” confermò Schultz. Un secondo ululato, poi il colpo impattò e l'esplosione sollevò una fontana di terra e detriti dal selciato. “E sta aggiustando il tiro.” Si voltò verso la squadra e soggiunse: “Non abbiamo molto tempo, prima che il nostro punto di osservazione finisca in briciole. Hofmann, mi copra le spalle.”
“Ma signore...” cominciò il sergente. Il tono era di nuovo costernato.
Schultz fece un breve sorriso e disse. “Io combattevo per le strade quando lei andava ancora in giro con i calzoni corti, Hofmann. Stia qui a tenere a bada i russi mentre io vado a dare un'occhiata.”
“Sissignore,” rispose il sergente.
Il capitano si limitò ad annuire, quindi si accertò che l'MP40 fosse carico e si gettò di corsa attraverso lo spiazzo. Appena dietro di lui, una raffica di mitragliatrice pesante fece schizzare dall'impiantito schegge di pietra, ma un istante dopo udì un rimbalzo metallico e un paio di secondi dopo il tipico scoppio di una granata tedesca. La mitragliatrice tacque.
Schultz raggiunse l'edificio, si appiattì contro un muro. Di nuovo si udì un ululato profondo, lugubre, che sembrava un cupo lamento d'animale. Istintivamente il capitano ritirò la testa fra le spalle e un attimo dopo il proiettile esplose contro un edificio, facendone crollare i piani più alti. Travi, mattoni e calcinacci rotolarono al suolo con un fragore da fine del mondo, si sollevò una nube di polvere acre, che gli bruciò la gola e gli fece lacrimare gli occhi.
L'ufficiale si spostò lungo il muro fino a che non raggiunse una breccia. Azzardò una cauta occhiata all'interno, ma vide solo macerie e qualche mobile sfondato. In un angolo c’era una scala di legno che portava verso l’alto.
Entrò cauto, ragionando fra sé e sé che i russi dovevano in ogni caso averlo abbandonato, dal momento che si trovava sotto il tiro della loro artiglieria pesante.
Come se l'avesse evocato con quel pensiero, un istante dopo giunse ululando un altro obice, che esplose contro un fianco del municipio, scuotendolo fino alle fondamenta. Dal soffitto piovve una grandinata di calcinacci, tutta la struttura scricchiolò e gemette.
“Merda,” imprecò fra i denti il capitano, quindi corse verso le scale, augurandosi che fossero ancora abbastanza solide da reggere il suo peso.
Un altro ululato, un altro colpo che fece vibrare ogni muro del vecchio palazzo. Sulle pareti comparvero crepe larghe un dito, intere porzioni d’intonaco si staccarono e si frantumarono al suolo.
Il primo piano era disseminato di quel che rimaneva dei mobili, qua e là c’erano cadaveri di russi e tedeschi, segno che si era combattuto per il possesso di quella torre.
Schultz valutò che i russi probabilmente avevano preferito distruggerla, piuttosto che rischiare di lasciare ai tedeschi un punto d’osservazione così importante.
Proseguì la sua salita con tutta la velocità che le gambe gli consentivano, facendo i gradini quattro per volta. Individuò una porticina che pendeva miseramente dai cardini, e dietro di essa la scala a chiocciola che portava alla torre. Vi si infilò rapido e riprese a salire più veloce che poteva. Nel frattempo stava arrivando l’ululato di un nuovo obice, che in quello spazio angusto si riverberava in migliaia di echi, coprendo addirittura il rumore pesante delle sue suole chiodate sui vecchi gradini di legno.
Di nuovo l’edificio tremò sotto il colpo, le travi secolari gemettero, i muri si fessurarono come sotto l’effetto di un colpo di maglio. Qualche gradino si staccò e precipitò in un abisso buio, del quale il capitano non riuscì a individuare il fondo.
Finalmente giunse alla terrazza panoramica. Non perse tempo a guardarsi intorno, sfilò dal tascapane il binocolo e individuò nel cielo caliginoso la traiettoria arcuata dei colpi di mortaio. La seguì con lo strumento e vide che i pezzi erano disposti in uno spiazzo erboso che aveva l'aria di essere un campo sportivo. Oltre quelli vi erano camion e uomini, segno che i russi stavano organizzando una controffensiva per riprendere possesso del centro abitato.
Tramite il telemetro stabilì la distanza dei pezzi d’artiglieria, segnò la posizione di ciò che stava vedendo sulla mappa, poi si girò per tornare dabbasso. In quel momento giunse il cupo lamento di un obice in arrivo.
Schultz si lanciò giù per le scale con tutta la velocità che le gambe gli consentivano, il proiettile si schiantò dove lui si era trovato solo pochi secondi prima, esplodendo con un lacerante boato.
 
In copertura con i suoi uomini, Hofmann teneva d'occhio con crescente apprensione ogni obice in arrivo.
Un proiettile si schiantò sul fianco del municipio, facendo crollare un'intera parete. La torre oscillò visibilmente, mentre polvere e calcinacci cadevano come se una mano enorme la stesse sbriciolando.
“Stanno aggiustando il tiro,” disse uno dei soldati. Un altro replicò: “Il prossimo la becca in pieno.”
Come se quelle parole l'avessero evocato, un obice si abbatté sulla sommità della torre, proiettando ovunque frammenti di legno e pietra.
Una trave che conservava ancora qualche residuo di decorazioni fiorate arrivò rimbalzando fino a loro, poi calò un silenzio sinistro, rotto solo dal cupo sottofondo di raffiche e detonazioni lontane della battaglia urbana.
Sergente e soldati si scambiarono un muto sguardo.
In quel momento si udì un urlo: “Hofmann!”
“È il capitano,” disse uno degli uomini, scattando in piedi e addossandosi a un muro per mantenere la copertura.
“Hofmann, si muova!” La voce, poderosa, aveva una decisa connotazione di urgenza.
“Andiamo!” esclamò il sergente, quindi scattò di corsa verso il rudere dell'edificio. Entrarono in quel che rimaneva dell'atrio e rimasero senza parole: tutto ciò che si trovava nella tromba delle scale era crollato. Rimaneva solo una mezza rampa penzolante, ad almeno cinque metri d'altezza, che ondeggiava emettendo sinistri scricchiolii. A quella precaria struttura era aggrappato il capitano Schultz.
“Ma signore!” esclamò costernato il sergente.
“Hofmann, si muova,” ripeté l'ufficiale per tutta risposta.
L'altro si guardò intorno come alla ricerca di ispirazione, ma nulla di ciò che giaceva disseminato sul pavimento poteva servire ad aiutare il capitano. Alzò lo sguardo a osservarlo, un altro obice cadde poco lontano, facendo fremere tutta la struttura. Sotto il suo sguardo inorridito, Schultz perse la presa.
Senza pensarci un attimo, Hofmann si lanciò in avanti.
 
Spolverandosi distrattamente la giubba, il capitano chiese: “Tutto bene, Hofmann?”
Il sergente si rialzò e si massaggiò la schiena, quindi rispose: “Con il dovuto rispetto, signore: per caso è fatto di ferro?”
“No, ma ho una certa dimestichezza col materiale: da civile ero addetto agli altoforni in un'acciaieria.” Si diede qualche altra pacca su spalle e braccia, sollevando nuvolette bianche, quindi disse: “La devo ringraziare, sergente. Senza di lei mi sarei sicuramente rotto qualche osso.”
“Dovere, signore,” rispose Hofmann. Alzò la testa, tese l'orecchio e aggrottò fugacemente le sopracciglia, quindi disse: “Però ora sarà meglio che andiamo, signore.”
Schultz tese l'orecchio a sua volta: stava arrivando qualcosa di grosso. L'ululato che emetteva, basso e possente, faceva sembrare flebili pigolii tutti quelli che l'avevano preceduto. “Fuori tutti!” urlò, e si lanciò di corsa all'esterno. Gli altri lo seguirono senza indugio e la squadra attraversò rapida lo spiazzo disseminato di detriti.
Un istante dopo, si udì una detonazione immane, e qualcosa come un gigantesco geyser di fiamme scaturì dal punto in cui un attimo prima sorgevano le rovine del municipio. Lo spostamento d'aria fu così violento che i tedeschi finirono a terra dal primo all'ultimo, la vampa rovente che promanò dal mostruoso cratere diede loro l'impressione di essere investiti da lingue di fuoco.
“Via!” urlò Schultz con le orecchie che gli fischiavano e la vista annebbiata. “Via di qui!”
Si infilarono nel vicolo dal quale erano passati poco prima, lo percorsero mentre un secondo lacerante ululato li incalzava.
Il proiettile si abbatté qualche decina di metri dietro di loro, l'ala di un palazzo crollò con un rombo cupo, lo stretto passaggio fu invaso da una polvere acre, che toglieva ogni visibilità e faceva bruciare occhi e gola.
Nonostante questo, il capitano allargò le braccia per impedire agli uomini di sopravanzarlo e tutti si fermarono un attimo prima di sbucare nella piazza. Oltre lo spazio lastricato si vedeva già l'edificio che accoglieva l'ormai completa compagnia. Naturalmente dall'esterno appariva vuoto, Weber non era così stupido da non tenere gli uomini in copertura.
Un colpo di mortaio passò fischiando, la detonazione parve poco più di un petardo da fiera, paragonata ai grossi calibri che stavano imperversando nella zona che avevano appena lasciato, tuttavia fece crollare un muro, che si abbatté in una nuova nuvola di polvere.
Un istante dopo, si udirono una detonazione secca e un lamento.
“Reiner!” urlò una voce angosciata.
Schultz si voltò in quella direzione: un soldato era a terra supino, un altro era chino su di lui e gli stava sbottonando la giubba già intrisa di sangue.
Si avvicinò, si chinò  sua volta e aggrottò le sopracciglia quando vide di cosa si trattava. “Tutti indietro!” abbaiò senza nemmeno alzare la testa. “Hofmann, mantenga la copertura, li faccia stare lontano dai buchi nel muro, se no i cecchini li abbattono come delle anatre!”
Tornò a dedicare la propria attenzione al soldato: un colpo di fucile l'aveva passato da parte a parte; il foro d'entrata sulla schiena aveva il diametro di un dito, ma quello d'uscita sul petto era un cratere largo come un pugno, rosso e gorgogliante, dal quale spuntavano schegge d'osso.
“Non muoverti,” gli ingiunse rapido, “ora ti sistemiamo un po' e poi te ne vai a fare una bella vacanza nelle retrovie.” Gli diede un leggero buffetto sulla guancia, poi, a voce più alta disse: “Serve qualcosa di impermeabile.” Si guardò intorno come alla ricerca di ispirazione, quindi chiese: “Qualcuno di voi ha dietro del grasso per armi?”
Ci fu qualche secondo di perplessità, poi uno dei soldati gli tese una scatoletta. Egli la prese, la aprì e rapidamente spalmò la sostanza sulle bende. “Non deve passare aria,” spiegò applicandole poi sul torace del ferito, “oppure morirà soffocato. Ora datemi un altro pacchetto di medicazione.”
Ne aggiunse altri tre prima che la fasciatura lo soddisfacesse. Quando ebbe finito, si prese un attimo per guardare in faccia il soldato, che nel frattempo aveva perso i sensi: Reiner Fuchs, diciottenne, arrivato alla compagnia da poco più di sei mesi. Alzò lo sguardo e incontrò quello carico di preoccupazione del soldato Kammerer, che nel plotone era il più grande amico di Fuchs. “Se la caverà,” gli disse.
Questi fissò il camerata e al centro della fronte gli comparve una ruga verticale.
“Se la caverà,” ripeté Schultz. “Non preoccuparti. È un bene che sia incosciente.”
Il più giovane lo fissò speranzoso. “Davvero?”
“Almeno non sentirà dolore per un po'.”
Il soldato deglutì. Dopo qualche secondo, senza staccare gli occhi dal camerata, osò chiedere: “Sentirà molto male, signor capitano?”
“Gli daranno la morfina,” si limitò a rispondere Schultz.
“Ma poi starà bene, signore?”
Il capitano alzò le spalle. “Meglio di te e di me, soldato, ma ora aiutami a sollevarlo. Dobbiamo raggiungere la compagnia prima possibile.”
 
Una volta che il soldato Fuchs, semicosciente e ancora sanguinante nonostante la medicazione, si trovò tra lui e il soldato Kammerer, Schultz scrutò critico lo spiazzo che avrebbero dovuto attraversare. “Hofmann,” chiamò.
Subito il sergente lo raggiunse. “Signor capitano?”
“Sergente, abbiamo bisogno di qualcuno che vada laggiù e avvisi il tenente Weber di scaricare l’inferno su questi palazzi infestati di cecchini.”
Il sottufficiale fece un sorrisetto. “Sono l’unico che può andare, signor capitano.” Gli rivolse uno sguardo che aveva un vago brillio di impertinenza. “Lei è impegnato.”
Schultz finse un’espressione contrariata in quello che alla fine era una specie di gioco fra di loro. In tono ostentatamente severo rispose: “Per questa volta passi, Hofmann.” Poi, a voce più alta: “Servono dei fumogeni.”
Un paio di soldati tirarono fuori granate con la striscia bianca, le decapsularono e le lanciarono nella piazza.
La nebbia cominciò ad addensarsi.
Hofmann si allontanò di corsa, si udì dapprima un colpo isolato, poi altri due in rapida successione. Poi seguì un silenzio che parve durare all’infinito, tanto che Schultz, con il soldato ferito ancora addosso, si pose il problema di come fare a recuperare anche il sergente Hofmann, sicuramente a sua volta riverso sul selciato, colpito da qualche cecchino russo.
Poi dal fondo dello spiazzo echeggiò un selvaggio grido di vittoria, che a Schultz ricordò quelli che dovevano aver lanciato gli uomini di Frundsberg trovandosi finalmente di fronte le porte di Roma spalancate.
“Direi che ce l’ha fatta,” considerò.
 
 
 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Inclito lettore,
ecco un altro po’ di mappazzone, sperabilmente per il sollazzo di chi legge.
Grazie a tutti coloro che sono passati da queste parti, hanno letto e magari hanno anche lasciato un commentino.
 
 
 
Capitolo 2
 
Il capitano Schultz sedette su una cassa rovesciata, tirò fuori dalla tasca un pacchetto di sigarette e se ne accese una.
Per un po’ rimase a fumare con aria assorta. Ormai era calata la sera e il cielo era diventato color cobalto, appena più chiaro lungo la linea dell’orizzonte. Dalle finestre degli edifici nei quali era stato installato il comando di battaglione palpitavano le lampade da campo.
Dopo i combattimenti del pomeriggio si era anche ristabilito il silenzio. Gli Stuka si erano occupati dell’artiglieria pesante che nelle ultime fasi dello scontro aveva preso a martellare la cittadina, il gruppo di mortai era stato messo fuori combattimento da un paio di 105.
Solo in lontananza, tendendo l’orecchio, si coglieva ancora il tuonare sordo dei grossi calibri. Più vicino c’erano solo i fiochi accordi di un’armonica a bocca e il chiacchiericcio sommesso degli uomini, che gavetta alla mano, seduti sull’erba o su spezzoni di muro, consumavano il rancio.
Sullo sfondo, nere e silenziose, si ergevano le rovine della cittadina.
Diede un altro tiro – l’ultimo – alla sigaretta, poi schiacciò la cicca sotto il tacco dello stivale e cercò di interrarla in modo che non si vedesse.
E poi si sentì sciocco, perché in una città semidistrutta dai bombardamenti, dove praticamente non c’era più un palazzo intero, si preoccupava di non lasciare in giro un mozzicone calpestato.
Abbandonò la cassa e si alzò in piedi stirandosi i muscoli della schiena, quindi si incamminò verso l'ospedale da campo.
Si imbatté dopo poco nel sergente Hofmann.
Si salutarono militarmente, ma subito la disciplina cedette il posto a un atteggiamento più informale. Schultz tirò fuori il pacchetto di sigarette e lo orientò verso il subalterno in un gesto di offerta.
Questi ne prese una. “Grazie, signore,” gli disse, se l'accese tenendo il fiammifero nel cavo della mano e poi avvicinò la fiammella alla sigaretta che nel frattempo il suo superiore aveva estratto per sé.
Questi se l’accese tenendola fra il pollice e l'indice, quindi abbassò la mano schermando la brace con le altre dita. Emise il fumo in un lungo sospiro. “Ci voleva,” disse.
Il sergente, che teneva la propria nello stesso modo, rispose: “Eh, già.”
“Stavo andando a vedere i ragazzi che sono stati feriti oggi pomeriggio,” disse Schultz.
Hofmann si strinse nelle spalle. “Saranno contenti, signore.” Poi, dopo una pausa: “Io credo che la stiano aspettando.”
“Voglio essere sicuro che siano sistemati bene,” disse Schultz per tutta risposta.
Per un po' i due camminarono in silenzio, poi il sergente si guardò significativamente intorno, lasciando scorrere lo sguardo sulle macerie che li circondavano. Infine disse: “Ma perché i rossi non si arrendono?”
Il capitano si strinse nelle spalle, e senza smettere di camminare rispose: “Nemmeno noi, al posto loro, cederemmo le armi. Non è d'accordo, Hofmann?”
“Forse ha ragione, signore,” si limitò a rispondere il sottufficiale, dopo qualche secondo di meditativo silenzio.
Schultz annuì come per confermare ulteriormente quelle parole, poi disse: “Questa è una guerra di Weltanschauung, sergente, e non si fermerà fino a che una non avrà prevalso sull’altra. Questa volta non saranno possibili i compromessi: o saremo noi ad arrivare a Mosca, o saranno loro a marciare su Berlino.”
Hofmann lo fisso stupito. Fece per parlare, ma poi si limitò a dare un lungo tiro alla sigaretta. Esalando il fumo abbassò la mano e nascose la brace con le dita chiuse.
Continuarono a camminare. Nella devastazione della cittadina distrutta dalle bombe, l’attività ordinatrice del battaglione non aveva mancato di dare segno di sé: le strade di interesse tattico erano sgombre di macerie, le finestre degli edifici designati a fungere da alloggi erano state oscurate, i mezzi erano ordinatamente parcheggiati in uno spiazzo sgombro di detriti, sotto una tenda si udivano i rumori di una squadra di meccanici al lavoro.
Le cucine da campo e l’ospedale funzionavano a pieno ritmo.
 
La sede del Partito è uno scantinato ampio, nel quale sono state sistemate delle panche e una specie di leggio in fondo.
Il compagno Schultz delle acciaierie Sauter, ventun anni, alto, il giaccone da operaio teso sulle spalle ampie, si alza in piedi e dice: “Posso esprimere un'opinione?”
Quelli che siedono intorno a lui si voltano a fissarlo stupiti, il caposezione risponde: “Ma certo, compagno. Parla pure liberamente.”
Schultz annuisce, dà una scorsa a un foglietto che ha tratto di tasca e comincia: “Io penso che il pensiero marxista sia uno strumento insufficiente per lo studio della complessità della moderna società borghese e capitalista.”
Il brusio di fondo cala bruscamente, a questo punto tutti si voltano a guardarlo. I compagni perlopiù lo fissano come se fosse un essere proveniente da un altro pianeta.
Imperterrito, Schultz prosegue: “Semplicemente non è più funzionale allo sviluppo di una matura autocoscienza sociale e culturale nel proletariato industriale, e in particolare nella classe operaia.”
Il caposezione abbandona sul leggio i fogli del discorso che stava per pronunciare, aggira il mobile e a grandi passi, nella sala fattasi ormai silenziosa come la navata di una chiesa, raggiunge il giovane operaio. “Cosa stai dicendo, compagno Schultz?” lo richiama all’ordine.
Questi stringe appena gli occhi e senza muoversi chiarisce: “Il marxismo non è scientifico come pretende di essere. La sua sostanza ideologica meccanicistica, contrattualistica e atomista lo rende il figlio prediletto della teoria societaria che si era sviluppata al tempo della borghesia liberale per giustificare le logiche di profitto del mercato capitalista.”
L’altro fa addirittura un passo indietro, quindi gli chiede: “Chi ti ha messo in testa queste idee, compagno?”
Ho studiato per conto mio. Mi sono informato.”
E dov’è che ti sei informato, di grazia, dai Nazionalsocialisti?”
Anche. E poi ho letto. Saint-Simon, Sorel, Binet. È necessario liberare il Socialismo dall’ipoteca marxista.”
Basta così,” lo interrompe l’altro. “Penso che tu non abbia più nulla da fare qui.”
 
Ancora immerso nel ricordo, il capitano scosse la testa quasi con indulgenza, poi disse: “La vuole sapere una cosa buffa, Hofmann? Una volta anch'io ero comunista.”
L’altro si voltò a fissarlo stupefatto. “Davvero, signore?”
“Ci siamo passati in tanti. E poi ho capito e sono entrato nelle SA.”
Procedettero un altro po’ in silenzio, ognuno assorto nei propri pensieri, quindi Schultz proseguì: “Lo sa perché stiamo combattendo? A questi qua non gli è ancora entrato in testa che lo stiamo facendo anche per loro.”
Hofmann aggrottò le sopracciglia. “In che senso, signore?”
Schultz sorrise come se si fosse aspettato la sua perplessità, poi disse: “Qui in Unione Sovietica non si sta certo realizzando una società socialista.” Alzò le spalle. “È solo una forma avanzata e schiavistica di capitalismo di stato, che per sopravvivere ha bisogno di espandersi a livello mondiale, e utilizza la formula di un internazionalismo proletario che dovrebbe affratellare i diseredati della terra a prescindere e in contrasto con le loro stesse radici nazionali, culturali ed etniche.” Fece una pausa, quindi soggiunse: “Questi poveri coglioni non l'hanno mica capito: il marxismo non ha nessuna intenzione di liberare Spartaco dalle sue catene: vuole solo forgiargliele con un metallo diverso.”
Hofmann scosse la testa e disse: “Dobbiamo proteggere l’Europa da tutto questo.”
“Vedo che ha compreso. Questo compito tocca alla Germania: soltanto lo Stato che per primo ha realizzato l’unità socialista del suo popolo potrà sperare di diventare il motore della nuova unità europea su base socialista.”
Raggiunsero l’ospedale, finirono le sigarette appena fuori dalla porta, quindi buttarono i mozziconi ed entrarono.
Nonostante fosse stato fatto ogni sforzo in senso contrario, l’atmosfera che vi aleggiava era pesante: la calura del pomeriggio non si era ancora dissipata; nell’aria c’era un odore greve, che assommava in sé disinfettante, sangue, sudore e qualcosa di più acre, addirittura ammoniacale, che faceva pensare a una via di mezzo fra urina e liscivia.
Per quanto medici e infermieri si prodigassero per alleviare le sofferenze dei feriti, si udivano lamenti e singhiozzi. Qualcuno stava urlando in modo orribile da qualche parte, ma nella sala principale giungeva solo l'eco di quelle grida.
I due si fecero indicare dove fossero i feriti della prima compagnia e si incamminarono per raggiungerli.
Mentre percorrevano un corridoio, Schultz ebbe la fugace visione di una sala operatoria schizzata di sangue, con una lampada chirurgica talmente luminosa da fare male agli occhi e il rumore penetrante di una sega che aggrediva un osso.
Allungò appena il passo e disse: “A questo non ci si abitua mai, non è vero?”
“Nossignore,” confermò Hofmann.
“La vittoria costerà parecchio,” considerò il capitano, “ma che importano braccia, gambe, anche la testa... purché l'Europa possa affrancarsi dalle catene del comunismo e del liberal-capitalismo.”
Il sergente annuì serio, quindi all'improvviso si fermò costringendo il capitano a fare altrettanto. Non c'era nessuno, anche i rumori prodotti dai chirurghi erano scomparsi e nell'aria c'era un silenzio sospeso. Gli rivolse uno sguardo grave, intenso. “Lei crede che vinceremo, signore?” gli chiese senza distogliere gli occhi dai suoi.
Schultz tacque a lungo prima di rispondere. Infine gonfiò il petto in un  sospiro che aveva il carattere della risoluzione estrema e disse: “Hofmann, io so soltanto una cosa: o vinceremo, o la civiltà europea come la conosciamo scomparirà per sempre.”
 

 
Il soldato Kammerer prese un panno, lo immerse in una bacinella d'acqua e lo strizzò con cura, quindi si avvicinò alla branda del suo camerata Fuchs. Si inginocchiò accanto a lui e gli passò la pezzuola fresca sulla fronte. “Come va, Reiner?” gli chiese a bassa voce. Gli aggiustò la coperta che gli era un po' scesa giù.
“Dieter...” si limitò a mormorare l'altro. Fece per muovere una mano verso di lui, ma una smorfia di dolore gli deformò i lineamenti.
Fu l'altro a prendergliela fra le proprie. “Reiner,” ripeté a bassa voce. “Sta' tranquillo, amico. Ci sono io qui con te.”
“Fa male,” esalò il ferito con voce debole, stringendo le dita sulle mani dell'altro fino a che le nocche non sbiancarono. “Fa molto male,” ripeté. Una lacrima gli scese lungo la tempia e scomparve fra i capelli biondi.
Kammerer attese che lo spasmo venisse meno, poi liberò una mano e si protese ad afferrare la bacinella d'acqua. Di nuovo vi risciacquò il panno, quindi lo passò sulla fronte e sul viso del camerata. “Non fa tanto male, dai,” gli disse piegandosi per parlargli all'orecchio. “Adesso ti manderanno a Brest-Litovsk, e da lì tornerai in Germania. Prometti che mi scriverai quando sarai a casa?”
“Tutti i giorni,” mormorò Fuchs. “Ma anche tu devi scrivermi, promettimelo.”
“Certo che ti scriverò,” rispose Kammerer, “ti racconterò tutto quello che facciamo. Sarai curioso di sapere quando nascerà il bambino di Berger, no? E naturalmente anche di sapere se Linde caricherà di nuovo il mortaio con le munizioni del PAK. Come avrà fatto, poi...”
Le labbra esangui di Fuchs si stirarono in un lieve sorriso. “Voglio sapere se Hofmann scoprirà chi è stato a mangiarsi le salsicce che Fischer aveva ricevuto da sua madre.”
Kammerer gli passò di nuovo il panno umido sul viso, poi gli fece scorrere la mano fra i capelli in una lenta carezza. “Ti fa ancora molto male, Reiner?” s'informò a bassa voce.
“Un po' meno,” rispose il ferito.
Il primo sorrise e accarezzandogli di nuovo i capelli disse: “Lo sapevo. Vedrai che presto starai ancora meglio.”
“Dieter, non dimenticare di scrivermi.”
“Ma se ti ho detto che lo farò tutti i giorni...”
“Ti prego. Se non lo farai, io mi sentirò solo.”
Kammerer fece una lieve risata e rispose: “Certo che sei buffo, Reiner: tu sei quello che torna a casa  in licenza mentre io me ne resto qui al fronte e chi dovrà preoccuparsi di non farti sentire solo sono io?”
La voce del ferito aveva un tono quasi angosciato: “Non vedrò più Fischer, Ladowski, Berger, Linde… e il sergente Hofmann e il signor capitano.”
“Non li rivedrai per un po’, Reiner. Poi tornerai qui da noi.”
“Non rivedrò più neanche te.” Fuchs ricominciò a piangere. “Scusa,” mormorò dopo qualche secondo, incapace tuttavia di frenare le lacrime, “scusami...”
“Dai, non fare così,” gli disse Kammerer, cercando di abbracciarlo senza toccare l’ampia medicazione che gli copriva la spalla. “Presto starai bene, tornerai da noi.”
“Scusami,” ripeté Fuchs, allungando il braccio sano a stringersi contro l’amico.
 
Appena fuori dalla porta, Schultz e Hofmann si scambiarono un’occhiata, poi il capitano tossicchiò per attirare l’attenzione dei due.
Kammerer si voltò e appena riconobbe l’ufficiale si raddrizzò e si mise sull’attenti.
“Comodo,” disse semplicemente Schultz, quindi lo raggiunse e a sua volta si chinò sul ferito. Fece finta di niente di fronte ai suoi occhi lucidi e alle ciglia ancora imperlate di lacrime, e in tono allegro gli chiese: “Allora come va, soldato?”
Fuchs non poté impedirsi di sorridere. “Bene, signor capitano,” rispose. Poi, dopo una pausa: “Grazie per oggi.”
“Dovere, ragazzo mio,” rispose Schultz alzando le spalle con noncuranza. “Tu avresti fatto lo stesso per me, non è vero? È così che funziona tra camerati.”
Stava per aggiungere altro quando una strana sensazione di allarme lo pervase. Alzò la testa e rimase per qualche istante in ascolto, cercando di ignorare tutti i rumori di fondo dell’ospedale da campo: c’era qualcosa nell’aria, come un rombo lontano. “Hofmann, andiamo,” disse asciutto, alzandosi bruscamente in piedi.
Quando giunsero all'esterno, il rombo si era fatto più forte e più cupo, tanto che addirittura il terreno sembrava percorso da una vibrazione sorda. L'oscuramento era pressoché totale, ma una volta abituati gli occhi al buio, alla flebile luce delle stelle percepirono sagome in frenetico movimento. Dappertutto si udiva il clangore metallico di armi e munizioni spostate. La voce chiara e forte di Weber stava già impartendo precisi comandi.
“Quel tenente vale tanto oro quanto pesa,” constatò Schultz, cercando di identificare la figura alta e atletica del giovane ufficiale.
Fu Weber a identificare lui, e nel trovarselo all'improvviso davanti, Schultz si chiese se per caso vedesse anche al buio come i gatti. “Signor capitano, attacco aereo!” annunciò marziale. “Ho già allertato la FLAK del campo.”
Schultz aprì la bocca per rispondere, ma in quel momento il rombo di motori in avvicinamento tacque bruscamente e nel silenzio si udì solo un diffuso fremito metallico.
“A terra!” urlò l'ufficiale.
Subito dopo una bomba esplose in un lampo giallo e arancione, sollevando una fontana di detriti. Nella vampa dello scoppio si vide la sagoma di un biplano che ridava motore e prendeva quota.
Altre bombe fecero seguito alla prima, un camion saltò per aria, ricadde e rotolò con uno sferragliare stridente, poi rimase ruote all’aria con una colonna di fumo che usciva dal cassone incendiato; un ordigno rimbalzò sulla corazzatura di un blindato ed esplose a mezz’aria, spargendo ovunque micidiali schegge. La contraerea entrò in azione vomitando piombo in un cielo che le improvvise luci a terra avevano reso piceo.
Scie di traccianti si susseguirono nell'oscurità. Colpito in pieno, uno degli aerei parve accartocciarsi come se un'enorme mano lo stesse stritolando, quindi precipitò in vite e dopo poco si levò dalla campagna il fungo rossastro di un'esplosione.
Poi l’attacco cessò com’era cominciato, e degli aerei rimase solo un rombare cupo che si perdeva nell’orizzonte oscuro.
Ancora a terra, il capitano fece girare lo sguardo tutt’intorno.
Qua e là c'erano focolai d'incendio, da qualche parte qualcuno stava urlando. Di nuovo si udì la voce del tenente Weber, calma come nel corso di un'esercitazione sulla piazza d'armi, che dava disposizioni.
“Quello potrebbe muovere da solo una divisione,” borbottò Schultz rialzandosi. Si guardò intorno, ma il buio gli impediva di farsi un’idea dei danni.
Sbatté gli occhi cercando di distoglierli dal bagliore delle fiamme, quindi si diresse a passi svelti verso gli alloggi della compagnia.
Fu a quel punto che il capitano cominciò a sentire un urlio confuso dappertutto. Non erano le grida di dolore dei feriti, ma un ululare gutturale e sinistro.
Un primo bengala si innalzò nel cielo, e a quella luce violacea la pianura antistante le linee difensive parve letteralmente ribollire di uniformi color terra.
Sembrava che il suolo stesso si fosse animato, conglomerandosi in centinaia di forme che avanzavano curve, emettendo roche grida.
Un secondo bengala si alzò, seguito a ruota da un terzo: le luci generavano ombre mobili, che facevano apparire ancora più sinistra quella massiccia compagine.
Dalle linee difensive approntate con sacchi di sabbia, una mitragliatrice pesante cominciò a crepitare, spazzando il campo da un lato all'altro. Nel lucore freddo del magnesio, Schultz vide degli uomini cadere, ma altri sopravanzarli senza nemmeno rallentare. Colse il bagliore di vanghe affilate e pugnali, ovunque pulsavano i lampi degli spari.
Una seconda mitragliatrice entrò in azione, due granate vennero lanciate con lunghe parabole nel mezzo della formazione nemica, ma i vuoti lasciati dalle esplosioni vennero in un attimo inghiottiti dalla marea che avanzava.
Da dietro la formazione russa, gruppi di mortai cominciarono a sparare.
Schultz raggiunse la prima linea.
“Signore, attaccano in massa!” lo accolse il tenente von Auberg, alzando la voce per coprire il frastuono di spari ed esplosioni.
“Fuoco di sbarramento!” rispose immediatamente il capitano, “Mitragliatrici pesanti dai settori uno e tre, caricare i mortai da trincea con munizioni a shrapnel. Tenga i suoi uomini pronti al contrattacco.”
Senza attendere risposta si guardò intorno alla ricerca di Plank e Lange: vide solo il primo e ripeté gli ordini anche a lui. Gli uomini nel frattempo stavano affluendo verso i posti di combattimento.
Arrivò un colpo di mortaio contro un ridotto, i sacchi di sabbia volarono in ogni direzione, qualcosa che si lasciava dietro una rutilante scia rossa fu scagliato lontano e scomparve nel buio.
Entrarono in azione i mortai da trincea tedeschi e le esplosioni degli shrapnel si sovrapposero alla cacofonia di detonazioni e grida che faceva vibrare l'aria.
I primi russi erano già a pochi metri dalle trincee più avanzate. Schultz vide arrivare il tenente Weber, di Lange ancora nessuna traccia. Intravide anche il sergente Hofmann che stava spingendo avanti gli uomini del plotone di Lange.
Un siberiano enorme gli balzò contro, il capitano riuscì ad arretrare quel tanto che mandò a vuoto l'affondo della sua vanga da trincea, si spostò di lato e nel movimento estrasse la pistola, quindi gli sparò sue colpi al torace. L'altro sussultò sotto l'impatto, poi continuò impassibile a muoversi verso di lui. Schultz sparò di nuovo e vide chiaramente un foro di proiettile aprirsi nel torace dell'uomo. Questi fece un altro paio di passi col sangue che gli ruscellava dalla bocca, e con un ultimo, inaspettato movimento gli balzò addosso, rovesciandolo all'indietro e tentando di strangolarlo con due mani talmente grandi che per circondargli il pur robusto collo ne sarebbe bastata tranquillamente una sola.
Il capitano tese i muscoli, tentò di svincolarsi mentre lottava contro la mancanza d'aria. Tutt'intorno infuriava una battaglia senza quartiere, più volte rischiò di essere calpestato assieme al suo avversario nelle mischie che costantemente si accendevano e si scioglievano ovunque. Puntò il ginocchio contro l'addome del russo mentre le dita ruvide di questi – dita da operaio, gli venne da pensare – continuavano pervicacemente a stringergli il collo come in una morsa. Si divincolò, si torse, spinse la canna della pistola contro il corpo del russo e fece fuoco due volte. L'uomo sussultò e finalmente si afflosciò.
Ansante, fradicio di sangue, Schultz si alzò barcollando. Altri due bengala schizzarono nel cielo e da lì presero a discendere lentamente, gettando la loro lugubre luce violacea sullo scontro.
Un altro colpo di mortaio si abbatté poco lontano. Nel bagliore aranciato della deflagrazione vide uno dei suoi torcersi nell'aria come una specie di trota presa all'amo, descrivere una parabola e abbattersi al suolo. Nel movimento colse la sua bocca spalancata in un grido muto, coperto dal frastuono che regnava ovunque.
L'urlio roco dei sovietici ebbe di colpo un climax che coprì addirittura il fragore delle esplosioni. Si girò verso la provenienza delle grida e si accorse che un cuneo di fanteria stava sfondando le linee tedesche proprio nella posizione a difesa dell'ospedale da campo. Notò che dalle finestre dell'edificio qualcuno stava già facendo fuoco sulla moltitudine, vide una granata rimbalzare sul muro e scoppiare in aria.
Identificò l'alta figura del tenente Weber, raggiunse l'ufficiale e gli batté sulla spalla per attirare la sua attenzione, poi gli indicò quanto stava accadendo.
Egli si limitò ad annuire, quindi fece un cenno ai suoi uomini e si mosse in quella direzione.
Schultz strinse appena gli occhi, infastidito dai fumi che ormai rendevano l'aria irrespirabile. La linea di difesa ormai si era sfrangiata in decine di scontri, nei quali gli uomini si affrontavano all'arma bianca.
Qualcuno lo spinse, egli barcollò e fece appena in tempo a farsi indietro per evitare il fendente di una vanga da trincea; subito dopo esplose uno shrapnel a distanza ravvicinata e le schegge roventi dilaniarono chi si trovava lì intorno. Il russo che aveva cercato di assalirlo crollò a terra crivellato, Schultz arretrò ancora, scivolò su qualcosa che gli parve un brandello di carne, fortunosamente recuperò l’equilibrio, poi si accorse che un altro reparto russo stava tentando uno sfondamento.
Sostituì il caricatore dell’MP40 e corse verso la mischia.
 
Il sergente Hofmann decapsulò una granata e la spedì fra i russi con un tiro a parabola di almeno trenta metri. Successivamente afferrò la pistola lanciarazzi e sparò in aria un altro bengala, che esplose in un lampo di luce biancastra e prese a scendere ondeggiando verso terra.
Si piegò per evitare una rosata di schegge. A poca distanza da lui, una granata cadde in mezzo a un gruppo di soldati ed egli fu investito da una sventagliata di sangue e brandelli di carne.
Scrutò ansante la pianura ormai costellata di cadaveri e vide che i russi stavano cominciando ad arretrare.
Un ufficiale, gli parve che fosse il capitano Schultz, stava guidando un contrattacco. Armati principalmente di armi bianche, i suoi uomini facevano il vuoto dove passavano.
Qualcosa esplose talmente vicino che lo spostamento d’aria lo fece barcollare e le orecchie presero a fischiargli. Sentì in bocca il sapore della terra e del sangue.
Qualcuno lo afferrò per una spalla. Si girò fulmineo, già pronto a difendersi, e si trovò faccia a faccia con il tenente Weber: Realizzò di essere finito lungo disteso da qualche parte. Il tenente gli disse qualcosa, ma la voce era coperta dalla cacofonia che rimbombava ovunque. Dal labiale gli parve che stesse chiedendo se stava bene e accennò di sì.
In quel momento, da dietro le linee entrò in azione un 105 e gli obici cominciarono a scoppiare tra i russi.
 
Quando il capitano Schultz riuscì finalmente a dare un’occhiata all’orologio, si accorse che dall’inizio dell’attacco  russo erano passati non più di quarantacinque minuti.
Fece girare lo sguardo tutt’intorno: il cielo era ancora piceo, le uniche fonti di luce erano i focolai d’incendio che crepitavano qua e là e i bengala che continuavano a essere sparati sul campo.
Il terreno davanti alla linea di difesa sembrava arato di fresco, i pochi alberi che l’avevano costellato erano ridotti a tronchi scheggiati. Finite le sparatorie, il silenzio che era calato sembrava quasi irreale.
Ovunque c’erano cadaveri, la maggior parte in uniforme color terra, ma anche Waffen-SS in grigioverde.
Vide i portaferiti chinarsi su ogni corpo, e perlopiù rialzarsi delusi. Solo dopo lunghe ricerche riuscirono a trovare qualcuno ancora vivo: era un russo, probabilmente un ufficiale a giudicare dalle mostrine, e si lamentava debolmente tenendosi le mani premute contro un fianco. Lo raccolsero con cura e lo portarono via.
Il capitano li seguì con lo sguardo fino a che non scomparvero nell’edificio adibito a ospedale, poi raggiunse la sua compagnia. Per quanto stanchi, i soldati erano impegnati a prestare i primi soccorsi ai feriti, alcuni aiutavano a trasportare le barelle di chi non riusciva a camminare. Da una parte, coperti dai teli individuali, erano allineati i caduti.
Chiamò a raccolta i suoi comandanti di plotone, ma ebbe l’amara sorpresa di scoprire che Lange era stato ucciso all’inizio dell’azione e von Auberg era stato portato all’ospedale da campo, non si sapeva quanto gravemente ferito.
Rimanevano solo Planck e Weber, il primo con un bendaggio di fortuna a un braccio, il secondo che  sembrava pronto per un’ispezione.
“Sarà meglio che vada a vedere come sono sistemati i feriti,” disse infine il capitano, “Weber, prenda lei il comando in mia assenza. Planck, rediga una nuova lista degli effettivi di ogni plotone. Sergente Hofmann, venga con me.”
Si incamminò serio, le mani allacciate dietro la schiena, le labbra serrate. Ogni tanto passavano barelle cariche di feriti, taluni ridotti in condizioni tali da mettere a dura prova anche la più solida fermezza d’animo.
Dopo un po’ il sergente Hofmann gli si affiancò e gli porse in silenzio una sigaretta già accesa. Schultz ringraziò con un cenno del capo, la prese come suo solito tra il pollice e l’indice, se la portò alle labbra e diede un lungo tiro.
Esalò il fumo con calma, quasi stesse espellendo con quello tutto l’orrore che lo stava tormentando, poi recitò: “Di fronte alle spade e di fronte alle bandiere il nostro riso si è spento./ Ma dopo tutto che importa! Noi saremo gli avi di nipoti che ridono.”[1]
 
 
 
 
 
 
 
 
[1] Il verso è di Walter Flex.
 
 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


Incliti lettori,
ecco un altro capitolo del mappazzone, sempre con la speranza che vi sia gradito. Ringrazio moltissimo tutti coloro che sono passato di qui e hanno dato un’occhiata. Ringrazio con particolare commozione chi mi ha anche lasciato un commento.
 




Capitolo 3
 
Schultz si alzò in piedi e inforcò il binocolo. Osservò a lungo i dintorni, cercando di compensare coi movimenti del corpo gli scossoni che la strada dissestata trasmetteva al semicingolato, quindi riabbassò lo strumento. Le colonne di fumo che salivano dall’orizzonte dovevano essere sopra a Minsk. Cercò di decifrare qualcuno dei cartelli che ogni tanto si incontravano lungo la strada, ma non aveva familiarità col cirillico e le indicazioni scorrevano via prima che fosse riuscito a dar loro un significato. “Weber, cosa dicono?” chiese senza girare lo sguardo.
“Quindici chilometri a Minsk, signor capitano.”
Schultz annuì. “Lo immaginavo. Stanno combattendo parecchio laggiù.”
“La terza armata sovietica è stata accerchiata,” dichiarò il tenente Weber, al solito ben informato.
Il capitano si limitò a battergli una mano sulla spalla. “Bravo ragazzo. Cosa farei se non avessi lei...”
“Grazie, signore.”
Al solito, il più vecchio rinunciò a capire se quella sobria risposta fosse seria, sottilmente ironica o solo infastidita. Il tenente Weber continuava a rappresentare per lui un mistero insondabile: perfetto in ogni situazione, ma non ricordava di averlo mai visto ridere.
Una moto si affiancò al veicolo distogliendolo da ulteriori elucubrazioni: un portaordini gli consegnò un foglietto ripiegato, poi diede gas e scomparve lungo la colonna di veicoli.
Schultz lesse la breve nota, poi se la infilò in tasca. Si voltò verso il tenente e disse: “Weber, avrò di nuovo bisogno della sua conoscenza del cirillico: la compagnia deve portarsi verso una località detta Shcho...” Imprecò fra i denti, tirò fuori di nuovo il biglietto, lo lesse aggrottando le sopracciglia e lentamente scandì: “Shchomys’litsa.”
“Sissignore,” si limitò a rispondere il giovane ufficiale, come se gli avesse chiesto di avvisarlo quando passavano il cartello per Berlino.
“Ci attesteremo là e ci uniremo al contingente che raggiungerà il centro di Minsk da sud. Ci sarà da combattere parecchio, i russi non ne vogliono sapere di mollare.”
Il tenente si limitò ad annuire.
Ancora una volta il capitano si guardò intorno. Il caldo di fine giugno arroventava le lamiere dei blindati, la polvere sollevata da cingoli e ruote rendeva l’atmosfera caliginosa. Stipati sui mezzi, gli uomini parlavano tra loro o semplicemente guardavano sfilare il monotono paesaggio russo. I più esperti erano impegnati in veementi partite di Skat, dalle quali provenivano esclamazioni che alle volte coprivano anche il rombo continuo dei motori.
Portaordini a bordo di motociclette facevano la spola su e giù lungo le colonne. Ogni tanto a lato della strada si trovava qualche mezzo che aveva avuto un’avaria, regolarmente con il cofano alzato e un paio di gambe che uscivano dal vano motore.
A un certo punto si imbatterono anche in un Panzer. In uniforme nera, allineati lungo la fiancata del veicolo alla vana ricerca di un lembo d’ombra, i membri dell’equipaggio sembravano merli su un filo della luce.
Assieme a una buona parte della colonna, svoltarono per quella che sulle prime parve poco più che una strada di campagna appena un po’ più larga del normale. Sul terreno battuto si vedevano sulle prime solo due solchi paralleli come per il passaggio dei carri e solo dopo, a ben guardare, si intravedeva sotto lo strato di terra un lastricato grigiastro e fessurato, che sembrava composto da lastre di cemento messe una accanto all’altra.
Da una parte e dall’altra della strada, le campagne si estendevano appena ondulate, perdendosi all’orizzonte tutte uguali. Solo qua e là qualche albero da frutto rompeva la monotonia del paesaggio.
Schultz alzò gli occhi sul cielo immobile, pensando che tutta quella calma non era normale.
 
Seduto al fianco del conduttore, il sergente Hofmann allungò le gambe davanti a sé cercando di stirarle. Era tutto il giorno che avanzavano e ormai gli pareva di avere al posto della schiena un blocco di cemento.
Si sporse in avanti: dopo ore di campagne tutte uguali, stavano raggiungendo le propaggini di un centro abitato. Erano comparse case ai lati della strada e più avanti si vedevano anche edifici a più piani.
I mezzi si inoltrarono in quello che probabilmente era stato fino a poco prima un grazioso sobborgo di Minsk: edifici di fine ottocento, lampioni di ghisa, un marciapiede alberato che correva lungo il fiume. Civili non ce n’erano, ovviamente, ma poteva immaginare la gente che nelle giornate di primavera passeggiava all’ombra.
Emise un sospiro pensando a prima della guerra, anche lui andava a passeggio nello stesso modo, magari sottobraccio con qualche ragazza. Notò distrattamente che proprio in mezzo alla strada c’era un tombino un po’ sollevato.
Poi il mondo esplose.
Ci furono un boato assordante, un lampo di luce gialla e poi lingue di fuoco dappertutto. La sua prospettiva si capovolse, vide buio, poi luce, poi buio di nuovo. Un dolore acutissimo lo trafisse al fianco, tanto che spalancò la bocca per urlare, ma non riuscì a emettere alcun suono. O forse semplicemente aveva urlato ma non riusciva a sentire nulla.
L’ultima sua percezione chiara fu quella di trovarsi con la faccia sul selciato e la bocca piena di sangue, poi tutto si confuse in una nebbia oscura che aveva il tanfo del gasolio bruciato.
 
“Copertura!” ordinò il capitano Schultz nell’udire l’esplosione. “Copertura, via dalla strada!”
Si girò e vide un autoblindo rovesciato, con lingue di fuoco che uscivano dal motore. Tutt’intorno c’erano soldati esanimi, mentre i feriti lievi, pur intontiti dallo scoppio, si stavano già trascinando lontano. Si accorse che tra i corpi immobili c’era anche quello del sergente Hofmann, intrappolato per metà nelle lamiere accartocciate.
In quel momento, dalle finestre raffiche di mitragliatrice cominciarono a spazzare la strada.
“Copertura!” ripeté il capitano, “Via di qui immediatamente, è un’imboscata!”
Saltò giù dal veicolo ancora in movimento, poi si girò e disse: “Tenente Weber, prenda il comando della compagnia fino al mio ritorno. Comunichi al comando che siamo stati attaccati!” Senza attendere risposta si lanciò di corsa attraverso la strada, evitò di stretta misura una sventagliata di proiettili e si appiattì contro un muro a poca distanza dal blindato in fiamme. “Hofmann!” urlò.
Gli rispose un gemito.
Si sporse a guardare: il sergente giaceva faccia in giù in una pozza di sangue, le fiamme gli si stavano pericolosamente avvicinando.
Tossì investito dal fumo dell’incendio, poi scattò in avanti approfittando di quella momentanea copertura, raggiunse il blindato e senza perdere tempo afferrò il sottufficiale per le braccia. Lo tirò a sé, ma non ottenne altro che di strappargli un gemito di dolore. Non riuscì a spostarlo da sotto il blindato.
Nonostante si trovasse a poca distanza dalle fiamme, Schultz sentì un brivido di freddo percorrerlo. Se non fosse riuscito a liberarlo, il sergente sarebbe bruciato vivo. Tirò di nuovo, con più forza, ma non successe nulla.
Le fiamme si stavano rinvigorendo di attimo in attimo, il capitano quasi non riusciva più ad avvicinarsi al veicolo. Cercò di ragionare più in fretta che poteva: cosa fare?
Il peso della pistola contro la coscia gli parve un sinistro monito: meglio una morte rapida e pietosa che...
Diede un ultimo strattone con tutte le sue forze: si udì il rumore di stoffa che si lacerava e finalmente Hofmann fu libero. Senza nemmeno accertarsi delle sue condizioni, augurandosi che il fumo fosse sufficiente a nascondere entrambi, Schultz lo trascinò via dalla strada, verso un palazzo semidiroccato, il cui androne offriva comunque copertura rispetto alle mitragliatrici che spazzavano l’esterno.
Quando fu dentro, si accorse che già altri superstiti vi avevano trovato rifugio. Li passò in rassegna con lo sguardo: alcuni erano leggermente feriti, tra o quattro apparivano illesi. Uno era sdraiato da una parte con una medicazione gli copriva metà testa, già macchiata di sangue in più punti.
“Vediamo di organizzarci,” disse asciutto. “Chi è il più alto in grado, qui?”
Si fece avanti un giovanotto che non poteva avere più di vent’anni, con la giacca sulle spalle e un braccio al collo. Aveva il nastrino della croce di ferro di seconda classe, la croce di ferro di prima classe e il distintivo di combattimento corpo a corpo in argento. “Caporale Altendorf, signore,” si presentò con voce ferma.
Schultz annuì, poi rapido ordinò: “Due uomini a recuperare le munizioni, la cassetta di medicazione e l’acqua potabile finché il fumo riesce a nasconderci. Altri due a ispezionare questo posto, voglio che sia organizzata il prima possibile la difesa.”
“Sissignore.”
L’ufficiale si chinò a quel punto sul sergente, che giaceva ancora immobile dove l’aveva trascinato.
“Hofmann,” lo chiamò a bassa voce. Il più giovane riuscì solo a sollevare lo sguardo annebbiato su di lui.
“Hofmann,” insisté Schultz, sbottonandogli rapidamente la giubba fradicia di sangue, “dove le fa male?”
 
Il sergente schiuse le labbra per rispondere. Avrebbe voluto dire “ovunque,” ma non riusciva a emettere un suono. Il volto del capitano chino su di lui era poco più di una macchia bianca, i rumori della battaglia arrivavano come attraverso l’acqua.
Percepì mani abili e rapide che gli applicavano addosso compresse di garza, gemette quando il tocco si fece più deciso. Sussultò ma non fu in grado di sottrarsi.
Sbatté un paio di volte le palpebre. La consapevolezza andava e veniva a ondate, insieme a fitte di dolore che gli mozzavano il respiro.
Percepì che Schultz gli stava dicendo qualcosa, ma la sua voce gli giungeva come un mormorio confuso, del quale coglieva solo il tono di premura.
A fatica articolò: “Sto...” Avrebbe voluto dire “bene,” invece balbettò: “Sto morendo…?”
Il capitano gli prese il viso fra le mani, si piegò su di lui. “Coraggio, ragazzo mio,” scandì adagio, “si riprenderà presto.”
Hofmann schiuse le labbra per rispondere, ma all’ultimo gliene mancarono le forze. Chiuse gli occhi e sprofondò nel buio.
 
Schultz lasciò delicatamente ricadere la testa del subalterno, quindi si raddrizzò e si voltò verso Altendorf, che stava entrando in quel momento con una cassetta di nastri da mitragliatrice nella mano sana. “Abbiamo recuperato il possibile, signore,” disse in tono neutro.
“Il resto della colonna?” chiese il capitano.
“Non è più in vista, signore.” Il caporale tacque per qualche secondo, quindi soggiunse: “La strada è sotto il tiro delle mitragliatrici pesanti, non potevano rimanere.”
A Schultz diede l’idea che stesse cercando di convincere se stesso prima di lui, comunque assentì e rispose: “Vedremo di arrangiarci per conto nostro. Che cosa è stato recuperato dall’autoblindo?”
L’elenco di Altendorf fu desolatamente breve.
Il capitano alzò lo sguardo verso una delle finestre: ormai stava calando la sera, fuori regnava un silenzio sinistro, interrotto qua e là da qualche scoppio lontano. Gli parve di veder balenare un fuoco da qualche parte, fra le rovine, e si chiese se fosse un gruppetto di civili che cercava di tenere lontana l’angoscia della notte.
Nella luce che andava scemando fece scorrere lo sguardo su quelle che per il momento erano diventate le sue truppe. Vide volti stanchi, alcuni rigati di sangue, ma nessuna espressione rassegnata.
“Per chi ancora non lo sapesse, io sono il vostro comandante di compagnia, capitano Hermann Schultz,” disse loro, approfittando di quel breve momento di calma, “in questo momento assumo il comando della squadra.” Strinse le labbra. Avrebbe voluto poter raccontare loro che qualcuno sarebbe andato a riprenderli, che tutto si sarebbe presto risolto, ma non era sua abitudine mentire. Meglio dire le cose come stavano senza mezzi termini.
“Non credo che entro stasera verranno a prenderci,” disse quindi. “Non so nemmeno se sanno che siamo ancora vivi, quindi sarà necessario che qualcuno trovi il comando di battaglione e lo riferisca a chi di dovere.” Fece una pausa, di nuovo squadrò uno per uno i volti che lo circondavano. “E anche in quel caso, non illudetevi che far sapere che qui c’è un contingente di superstiti sia sufficiente ad attivare un’operazione di salvataggio. Sapete bene anche voi che verrà ordinata unicamente se la situazione tattica lo consentirà, diversamente dovremo arrangiarci.”
Nessuno replicò e un silenzio consapevole calò sullo sparuto gruppo. Uno dei soldati, con una medicazione sommaria che gli circondava una coscia, volse lo sguardo verso i feriti gravi e poi lo sollevò con fare significativo verso di lui.
Schultz strinse le labbra. Come ufficiale comandante, in caso di necessità gli sarebbe toccato il compito ingrato di ordinare che fossero lasciati indietro. “Faremo quel che c’è da fare,” disse semplicemente. Poi, a voce più alta: “Altendorf!”
Il caporale si avvicinò. “Signore?”
“Altendorf, organizzi turni di guardia. Non è escluso che questa notte i russi vengano a farci visita.”
“Sissignore.”
Di nuovo, il capitano si girò verso i soldati. “Mi serve un volontario,” disse. “Qualcuno che sappia destreggiarsi al buio e in silenzio.”
Un ragazzetto magro alzò la mano. “Io, signore.”
Schultz lo squadrò attento: occhi vispi, movimenti sicuri. “Come ti chiami, soldato?” gli chiese.
“Hans Welke, signore.”
“Sai leggere le mappe, soldato?”
“Sissignore.”
Il capitano aprì una carta spiegazzata e strappata della città, indicò un punto col dito e disse: “Noi siamo qui.” Spostò l’indice fino a raggiungere una croce tracciata con la matita rossa. “E qui è dove teoricamente dovrebbe essere attestato il battaglione, se le cose sono andate come dovevano. Ti è chiaro?”
“Sissignore.”
“Sarà necessario raggiungere il comando e comunicare che la nostra sezione è bloccata qui con dei feriti gravi, naturalmente senza attirare l’attenzione dei russi. Pensi di potercela fare?”
Il ragazzo guardò fuori attraverso una finestra sventrata e per un po’ rimase a scrutare la strada con le sopracciglia aggrottate. Fece anche un passo avanti, e nel nuovo punto d’osservazione trascorse un paio di minuti. Infine si voltò di nuovo verso il capitano e rispose: “Penso di sì, signore.”
Il capitano tirò fuori di tasca un foglietto, vi scrisse una breve nota e glielo consegnò. “Allora aspetta il buio e poi cerca di raggiungere il comando di battaglione, soldato.”
“Sissignore.”
A quel punto, Schultz fece un giro delle postazioni difensive che erano state approntate. Era consapevole che alle sue spalle ci fossero i feriti gravi, e fra tutti Hofmann, che di certo era quello conciato peggio, ma si costrinse a ignorarli in favore delle priorità, ovvero la possibilità di dover respingere un eventuale attacco russo.
Passò di postazione in postazione, fermandosi a scambiare due parole con ognuna delle sentinelle. Distribuì le sigarette che aveva, controllò il puntamento delle mitragliatrici e le esigue scorte di munizioni.
Solo quando fu certo che le difese fossero per quanto possibile efficienti, tornò nell’androne.
 
Hofmann cominciava ad avere freddo. Ormai era calata la notte e non si vedeva quasi più nulla. Sempre più si faceva strada in lui l’impressione di essere completamente solo, abbandonato a se stesso, destinato a morire. Ogni volta che quel pensiero si presentava, faceva intervenire la sua parte razionale e lo scacciava, ma mantenere la lucidità stava diventando sempre più difficile.
Una giacca un po' tiepida gli si stese addosso. Dal buio provenne la voce del capitano Schultz: “Come va, ragazzo?”
Il sergente si limitò a piegare la testa verso di lui e un attimo dopo sentì la sua mano ruvida posarglisi sulla fronte. “Fa male, vero?” chiese l’ufficiale in tono pacato.
Hofmann aprì la bocca per rispondere, ma al solito non riuscì a emettere un suono.
La mano gli diede due colpetti affettuosi. “Lo so che fa male,” disse Schultz. Un’altra carezza. “Ma vedrà… vedrai che presto ne usciremo. Com’è che fai di nome, a proposito?”
“Friedrich,” esalò Hofmann a fatica.
“Ah, Friedrich.” La mano non smetteva di passargli sul viso, lenta, ipnotica. “Fritz, giusto? Coraggio, Fritz, lo so che fa un male del diavolo, ma non abbiamo nemmeno una fiala di morfina, è andato tutto distrutto col blindato. Non posso nemmeno cercare di stordirti con le chiacchiere, altrimenti scommetto che arrivano anche i russi ad ascoltare.”
Nel buio Hofmann stirò le labbra in un sorriso stentato e piegò ancora la testa verso quella mano calda e un po’ ruvida, come alla ricerca di un contatto maggiore. Schultz se ne accorse e gliela passò adagio fra i capelli, poi sistemò meglio la giacca che gli aveva steso addosso.
Egli cercò di rannicchiarsi per sfruttare maggiormente quel po’ di calore, ma il movimento gli strappò un gemito. Subito la mano gli batté un paio di pacche affettuose sulla guancia, come per dirgli di stare fermo, di non preoccuparsi.
Con un movimento dettato più che altro dall’istinto, di nuovo Hofmann cercò di inseguirla nei suoi lenti passaggi: era tranquillo quando se la sentiva addosso, ma appena si allontanava, ecco che un angosciante senso di vuoto lo pervadeva e lo spingeva a ricercare ansiosamente il suo contatto.
Un brivido di freddo lo fece sussultare. Subito dopo ebbe l’impressione che un artiglio enorme gli stritolasse il torace frantumando tutto quello che c’era dentro: dietro le palpebre serrate vide come un lampo bianco, si accorse di aver stretto i denti quando le mandibole serrate gli scricchiolarono come rami sul punto di spezzarsi.
“No, no,” sussurrò la voce calma del capitano. “Va tutto bene, figliolo. Non agitarti.”
Hofmann emise un sospiro. Nei rari sprazzi di razionalità sapeva che niente andava bene, che erano in territorio nemico e accerchiati dai russi, ma nel limbo di dolore e paura nel quale era immerso, e nel quale di razionale non c’era ormai quasi più nulla, quelle pacate rassicurazioni erano tutto ciò che gli impediva di lasciarsi affogare.
“Va tutto bene,” ripeté il capitano sottovoce, come se gli avesse letto nel pensiero. “Va tutto bene, ragazzo mio. Sta’ tranquillo.”
Hofmann chiuse gli occhi e in un attimo sprofondò nell’incoscienza.
 
Quando Schultz percepì un respiro approssimativamente regolare, anche se non si sarebbe certo potuto definire tranquillo, ritirò la mano e si rialzò.
Una volta in piedi volse lo sguardo verso il basso, cercando di cogliere la figura del suo subalterno, ma ormai era troppo buio e non riuscì a vederlo.
Hofmann non era per niente in buone condizioni. Soffriva molto e gli era anche venuta la febbre. Avrebbe avuto bisogno di cure adeguate, tanto per cominciare, di tranquillità e di un letto caldo. Di certo non gli faceva bene starsene sdraiato per terra, affamato, con addosso l’uniforme indurita dal sangue secco, ma d’altra parte non avevano nient’altro a disposizione. Si passò le mani sulle braccia per scaldarsi: per quanto di giorno facesse caldo, di notte la temperatura si faceva decisamente meno piacevole.
“Altendorf?” sussurrò.
Subito una voce gli rispose: “Sono qui, signore.”
“Molto bene,” approvò il capitano, “direi che possiamo fare un altro giro di ispezione alle postazioni difensive.”
“Sissignore.”
Si incamminarono cauti.
Le stelle emanavano un lieve lucore, che rendeva possibile distinguere almeno i contorni delle cose. Dappertutto c’erano palazzi distrutti, con finestre come orbite vuote. Tra le rovine non c’era una luce, regnava ovunque un silenzio spettrale, rotto solo da un lontano latrare di cani.
Era una tranquillità sinistra, naturalmente, che comunicava un tormentoso senso di attesa.
Fece cenno al caporale di seguirlo e tornò nell’androne. “Lei crede che i russi sappiano dove siamo?” gli chiese sottovoce.
L’altro rispose: “La domanda è: hanno voglia di rischiare uomini in un attacco notturno o pensano di venirci a prendere con calma domattina?”
“Non è che ai russi importi molto di rischiare uomini,” considerò Schultz con un’alzata di spalle.
“Già,” rispose Altendorf. A quel punto qualcuno si avvicinò. Istintivamente Schultz si irrigidì e portò la mano alla pistola, poi si accorse che era il soldato Welke.
“Sono pronto, signore,” disse il giovanotto.
Il capitano annuì, ma si rese conto che forse nel buio il suo gesto non era stato notato. “Va bene,” disse allora, “hai con te la mappa e il messaggio?”
Welke tirò fuori dalla tasca il foglietto, poi disse: “La mappa l’ho imparata a memoria, signore. Là fuori non potrei consultarla.”
“Vero anche questo,” considerò Schultz. Gli batté una mano sulla spalla e gli disse: “Ora va', soldato, e vedi di non farti scoprire.”
“Sissignore.”
Welke rimase per un po' a scrutare i dintorni, poi a un certo punto sgattaiolò via, con un rumore non più forte di quello che avrebbe prodotto un topo.
Un attimo dopo sembrava essersi letteralmente volatilizzato. A Schultz parve di intravedere un movimento qualche metro più avanti, ma a una seconda occhiata tutto era di nuovo perfettamente immobile.
Emise il fiato che aveva involontariamente trattenuto e rinculò fino a scomparire di nuovo nell'androne oscuro.
Per quanto quel soldato gli desse l'idea di essere un tipo sveglio, si impose di non fare troppo affidamento su di lui. Le variabili del resto erano infinite e perlopiù a sfavore della riuscita dell'operazione: Welke poteva finire ucciso o cadere in mano nemica, o semplicemente perdersi, visto che si muoveva in una città sconosciuta, quasi completamente distrutta, al buio e con il solo ausilio di una mappa mandata a memoria. Oppure il battaglione poteva non essere dove avrebbe dovuto trovarsi, poteva aver ricevuto l'ordine di procedere, poteva a sua volta essere sotto attacco...
Stabilì di non pensarci, non avrebbe risolto gran che tormentandosi con quei ragionamenti. Si aggirò quasi tentoni per l'androne ingombro di macerie, quindi raggiunse di nuovo la più avanzata delle postazioni difensive.
Si sedette in silenzio accanto al soldato di guardia e di nuovo scrutò i dintorni.
 
Nella notte senza luna la Vistola sembra un immobile nastro di ossidiana. Solo ogni tanto un'increspatura fa comparire sulle acque silenziose un rapido luccichio, come di un pesce che guizza per un attimo e poi scompare di nuovo nelle profondità.
Hermann Schultz, tenente delle Waffen-SS, scruta assorto le rovine di Stare Miasto. L'alta facciata di una chiesa gotica si staglia contro il cielo, palazzi distrutti ospitano qua e là tenui luci palpitanti e rendono la città oscurata simile alla distesa di lapidi di un cimitero. Da lontano giunge la vaga eco di colpi d'artiglieria.
D'un tratto, il tenente ode un passo leggero. Si gira in quella direzione e vede muoversi una luce. Una sottile voce femminile dice: “Kamerad!”
L'ufficiale aggrotta le sopracciglia e porta la mano alla pistola, ma già qualcuno alle sue spalle sta dicendo: “Una ragazza!”
Compare in effetti una ragazza, o forse una bambina, a giudicare dalla corporatura minuta. Porta in testa un fazzoletto dal quale spuntano due trecce bionde. In una mano ha una lanterna e nell'altra un paniere coperto da un telo bianco. “Kamerad, Kamerad,” ripete, rivolgendo ai soldati un sorriso timido.
Gli uomini si avvicinano. “Una ragazza, tenente!” dice qualcuno passando. Un altro suona con l'armonica a bocca 'In einem Polenstädtchen'[1]. Tutti sono di colpo molto allegri.
Schultz stringe gli occhi, fissa il panierino, che gli pare un po' troppo pesante per contenere solo cibarie. Il manico di vimini scricchiola a ogni movimento, il cesto ha troppa inerzia nei movimenti.
D'un tratto capisce. “Tutti indietro!” urla estraendo la pistola. “Indietro!”
Concentrati sulla bella ragazza, i soldati non scattano come dovrebbero. “Indietro!” urla di nuovo Schultz, ma nello stesso momento la nuova arrivata tira fuori dal contenitore una bomba a mano senza sicura e la lascia cadere al centro del gruppo di militari, poi si gira e comincia a correre, cercando di scomparire tra le rovine.
Il tenente si butta a terra, l'ordigno esplode. Nel lampo arancione l'ufficiale vede le pareti schizzarsi di sangue. Si guarda intorno: la ragazza si sta dileguando a tutta velocità lungo un vicolo oscuro, la sua gonna chiara nel buio sembra una medusa abissale.
Si rialza, comincia a inseguirla, ma si rende conto che non riuscirà a raggiungerla. Si ferma ansante, punta la pistola e preme il grilletto.
La detonazione secca della P38 squarcia il silenzio, la medusa abissale smette di ondeggiare e si affloscia al suolo.
Gelido, Schultz abbassa l'arma, la rinfodera e torna sui suoi passi.
 

 
Strisciando su gomiti e ginocchia, il soldato Welke procedeva tra le macerie. Sembravano disabitate, ma non lo erano affatto: c’erano delle pattuglie russe che giravano e gli pareva di avere visto anche dei civili rannicchiati in una casa sventrata. Ringraziò che non ci fossero cani, perché in quel caso sarebbe stato molto più difficile passare inosservato.
Udì il passo cadenzato di diverse paia di stivali militari e subito si immobilizzò a ridosso di un muro, avendo cura di occultarsi nell’ombra.
Una pattuglia russa si avvicinò. Gli uomini parlavano fra loro a bassa voce, sentì nell’aria l’odore del grasso degli stivali e del tabacco Machorka. Scrutando nel buio riusciva anche a intravedere la forma rotondeggiante degli elmetti.
Un mozzicone di sigaretta cadde, qualcuno disse qualcosa a cui un altro rispose con una lieve risata, poi gli uomini si allontanarono camminando con circospezione nella strada ingombra di detriti.
Welke aspettò qualche minuto, poi uscì cauto dal nascondiglio, solo per accorgersi che gli acquartieramenti dei russi erano a meno di dieci metri di distanza.
 
 
 
 
 
 
[1] “In una cittadina polacca”, è l’inizio di una canzone dell’epoca che parla di una ragazza che viveva in una cittadina della Polonia.
 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Carissimi lettori,
anche questa storia giunge alla sua conclusione.
Ringrazio tutti voi per avermi seguito e per aver reso viva questa vicenda con il vostro interesse e la vostra partecipazione.
Un ringraziamento speciale va ovviamente a chi è stato così gentile da lasciarmi anche un parere su quello che ha letto.
 
 
Capitolo 4
 
L’autoblindo è rovesciato con le ruote all’aria, dal serbatoio squarciato il carburante cola sull’asfalto e si allarga in una macchia che sotto il sole prende riflessi iridescenti. Per effetto del caldo torrido, da essa si levano vapori che fanno tremolare l’aria.
Con fatica Hofmann apre gli occhi e sbatte le palpebre per mettere a fuoco ciò che sta vedendo. Ci sono fumo, macerie, i pezzi contorti di un automezzo. Corpi riversi, alcuni dei quali immobili su lucide chiazza di sangue.
Si rende conto di una sensazione di bagnato, che gli appesantisce gli abiti e glieli fa aderire addosso. Prova a muoversi e percepisce la sensazione di qualcosa di vischioso.
Sangue, pensa dapprima con orrore. Non sente dolore da nessuna parte, ma non è certo un mistero che proprio le ferite più gravi conferiscano una sorta di anestesia. Lui stesso ha visto uomini perdere arti e accorgersene solo alla fine della battaglia.
Sono ferito?” prova ad articolare, ma quello che gli esce dalla gola è solo un mormorio roco.
A quel punto abbassa gli occhi sulla pozza di bagnato e si rende conto che è benzina: essa sta sgorgando a fiotti dal serbatoio e ruscella tutt’intorno a lui.
Cerca senza successo di spostarsi. Si gira e vede con orrore che la fiancata del blindato lo inchioda al suolo.
Chiama i suoi uomini, ma si accorge di non riuscire a emettere alcun suono. Li vede in lontananza, intenti a spostare i feriti o a raccogliere quanto è stato proiettato in giro dall’esplosione, ma nessuno sembra accorgersi di lui e dei suoi disperati tentativi di attirare la loro attenzione.
Poi uno dei soldati si accende una sigaretta e lascia cadere il fiammifero acceso.
Hofmann ne segue inorridito la parabola, lo vede rimbalzare a terra una volta, e poi atterrare sulla pozza di benzina.
Le fiamme si levano in un attimo, avide, feroci, di un giallo brillante. Il sergente se le vede venire incontro a spaventosa velocità, ne viene investito, le vede avventarglisi addosso. Un dolore urente comincia a dilaniarlo mentre lui si torce in preda agli spasimi.
Emette un lungo grido d’agonia.
 
L’urlo fece quasi sussultare il capitano Schultz. “Merda!” imprecò fra i denti l’ufficiale, quindi abbandonò il suo punto d’osservazione e tornò in fretta all’interno del palazzo diroccato.
Si avvicinò a Hofmann e si accorse che il giovane stava ansimando e tremando. Gli posò una mano sulla fronte e a bassa voce gli chiese: “Che c’è, Fritz?”
“Il fuoco,” boccheggiò Hofmann per tutta risposta. “Il fuoco… è dappertutto.”
“Ma no, non c’è nessun fuoco,” gli disse Schultz dandogli qualche buffetto il viso. “Era solo un incubo. Senti che freddo? Nessun fuoco.” Fece una pausa, poi soggiunse: “Magari ce ne fosse un po’.”
“Signor capitano...” ansò il sottufficiale. A fatica fece scivolare una mano fuori dalla giubba che Schultz gli aveva disteso addosso e cercò di toccarlo. Sembrava che volesse accertarsi che fosse proprio lui, che non se ne andasse.
“Sono qui,” rispose l’altro stringendogliela piano. “Sono qui, Fritz, sta’ tranquillo.” Gli posò la mano libera sulla fronte e si accorse che stava bruciando. Gli sollevò la nuca, poi a tentoni cercò la borraccia e gliela avvicinò alle labbra. “Bevi un po’, forza.”
Hofmann mando giù qualche sorso.
“Bravo ragazzo,” approvò Schultz. “Ora fa silenzio, però. Non vorrai far arrivare qui i russi.”
“Nossignore.”
“Bravo. Cerca di dormire un po’, se ci riesci.”
Si voltò in direzione di una finestra sventrata da uno scoppio. Fuori era ancora buio pesto, il cielo era di un nero uniforme, punteggiato qua e là di flebili stelle. Cercò di scrutare il suo orologio da polso, ma la fosforescenza delle cifre era troppo debole e non riuscì a ricavarne dati certi.
Con un sospiro di frustrazione tornò a rivolgere la propria attenzione al cielo notturno. Sentiva accanto a sé il respiro stentato di Hofmann: il ragazzo doveva avere parecchie costole rotte, e di certo il buco che aveva nel fianco non aiutava. Si chiese quante possibilità di sopravvivere avesse, considerato il niente che era riuscito a fare per curarlo.
“Fritz, tieni duro,” sussurrò.
Si alzò, fece ritorno alla postazione. Per quanto ne conoscesse a memoria la quantità, tastò nel buio i nastri di mitragliatrice e calcolò mentalmente quanti minuti di fuoco avrebbero consentito.
“Raffiche brevi,” raccomandò al soldato addetto all’arma.
“Pensa che arriveranno signore?” La voce suonò straordinariamente giovane, Schultz ragionò che doveva essere quella di un diciottenne.
“Arriveranno, sì,” rispose il capitano, “ma noi saremo pronti a riceverli.” Batté una mano sulla spalla del soldato.
 

 
Welke si rannicchiò contro un muro, avendo cura di mantenersi nella zona più buia. Ora che i suoi occhi erano perfettamente abituati all’oscurità, distingueva nel nero della notte innumerevoli sfumature. Il cielo, per esempio, era come percorso da screziature grigiastre, e a ben guardare si faceva leggermente più chiaro verso l’orizzonte.
Le pareti degli edifici erano a loro volta grigie, più che nere. Quelle che di giorno erano bianche sembravano addirittura emanare una debole luminescenza, paragonate alle altre.
Se teneva una mano davanti a sé ne percepiva vagamente i contorni, se fissava con attenzione gli spazi aperti era in grado di cogliere la presenza di ostacoli.
Cercò di richiamare alla mente la mappa della città. Tenuto conto delle deviazioni che aveva dovuto fare per evitare pattuglie nemiche, ormai avrebbe dovuto trovarsi nelle vicinanze delle linee tedesche.
Si guardò intorno attentamente, quasi augurandosi che le sue pupille potessero diventare succhielli in grado di penetrare l’oscurità, ma ciò che lo circondava era solo buio e silenzio. Mai come in quella zona Minsk sembrava morta, mai abitata da anima viva.
Sembrava che la guerra avesse avuto luogo secoli prima, e che quelle fossero rovine di un tempo ormai remoto.
Si alzò un refolo di vento, che sibilando tra le macerie parve un lamento desolato.
Il soldato fece per riprendere la marcia, ma in quel momento qualcosa gli si puntò brutalmente tra le scapole, strappandogli un gemito di sorpresa e dolore.
Si irrigidì e di colpo si sentì la bocca secca. Deglutì a vuoto e alzò adagio le mani.
Cercò di voltarsi, ma la pressione tra le scapole si fece più dura, quasi sbilanciandolo in avanti. Welke strinse i denti, e l’unica cosa che riusciva con angoscia a pensare era che avrebbe tradito la fiducia del capitano Schultz.
Fece mente locale: le linee tedesche non potevano essere lontane e con quel silenzio i suoni si propagavano con grande facilità. Anche se lo avessero ucciso, non l’avrebbero certo portato via, e aveva pur sempre addosso il messaggio del capitano, che avrebbe fatto capire perché era arrivato fin lì.
“Camerati!” urlò con quanto fiato aveva in gola.
Alle sue spalle qualcuno disse qualcosa che aveva il tono aspro di un’imprecazione. Il calcio di un fucile lo colpì talmente forte da riempirgli la testa di campane e il campo visivo di luci bianche, tuttavia gridò di nuovo: “Camerati, sono qui!”
Salirono dei bengala nel cielo buio, sentì degli spari. Una mitragliatrice crepitò.
Di nuovo qualcosa lo colpì, non avrebbe saputo dire se era una botta o un proiettile. Crollò in avanti e sentì l’impatto del selciato contro il viso. Percepì un tramestio confuso, voci che gli parvero tedesche, poi perse i sensi.
 

 
All’orizzonte era comparsa una linea lattiginosa, di un grigio-bluastro livido. Schultz rabbrividì e di nuovo si passò le mani sulle braccia per scaldarsi: tutta l’umidità della notte sembrava essersi concentrata in quel dannato posto.
Col passare delle ore, dal fiume era anche salita una specie di nebbia malsana e puzzolente di limo, che strisciava rasoterra coprendo ogni superficie di una patina fredda e appiccicaticcia.
Per l’ennesima volta abbandonò la postazione difensiva e tornò nell’androne. Con l’approssimarsi dell’alba non vi regnavano più tenebre picee: sul pavimento era possibile distinguere vaghe sagome riverse, di chi non era di guardia e di chi era ferito troppo gravemente per compiere qualsiasi servizio.
Fece di nuovo un giro per controllare le condizioni di ognuno. Il soldato con la testa fasciata sembrava stare meglio, era immerso nel sonno e respirava regolarmente. Gli altri più o meno avevano ferite da lievi e moderate, per cui si erano in qualche modo arrangiati e dormivano gli uni addosso agli altri per scaldarsi a vicenda.
L'unico che versava in condizioni critiche era il sergente Hofmann. Si trovava in uno stato di dolorosa veglia, Schultz lo capiva dal respiro irregolare e dai movimenti, che denotavano l'infruttuosa ricerca di una posizione in cui il dolore fosse meno intenso.
Si chinò su di lui: il più giovane non diede nemmeno mostra d'essersi accorto della sua presenza. Anche nel buio si coglieva il pallore del suo viso come una macchia lattea, e pur coperto tremava di freddo.
Il capitano gli posò una mano sulla fronte, rilevando che la febbre aveva ceduto il passo a una cute fredda e sudata. Strinse le labbra: quello non era assolutamente un bel segno. Insinuò la mano sotto la giubba che gli aveva steso addosso e con orrore si accorse che c'era qualcosa di umido: durante la notte le ferite dovevano essersi riaperte e avevano intriso i pacchetti di medicazione e l'uniforme del sergente.
“Fritz,” mormorò. Gli sollevò la testa, poi prese la borraccia e gliel'avvicinò alle labbra, ma Hofmann non bevve. Rimase inerte contro di lui, ansando appena, e quando lo rimise giù non diede nemmeno un lieve gemito.
“Coraggio, Fritz, tieni duro,” gli disse. “Tieni duro, ragazzo. Fallo per il tuo capitano.”
Non giunse risposta.
 
Schultz si raddrizzò e si volse per l'ennesima volta verso la finestra, che contro il cielo ormai non più nero appariva come un buco informe, con un'anta che pendeva da uno dei lati.
Strinse gli occhi, annusò pensoso l'aria: gli parve di sentire un vago odore di tabacco, quando era sicuro che le sigarette della sezione fossero da tempo finite.
Raggiunse Altendorf e trovò anche lui all'erta. “Arrivano,” si limitò a sussurrare, “dia l'allarme generale. In silenzio.”
“Sissignore.”
“Tutti coloro che sono in grado di reggere un'arma dovranno combattere, i feriti troppo gravi saranno spostati in una zona più protetta.”
“Sissignore,” ripeté Altendorf. Si scambiarono un'occhiata: era chiaro che per i feriti gravi non si poteva fare altro. Se avessero vinto, in breve essi avrebbero ricevuto le cure necessarie, ma se fossero stati sconfitti, probabilmente chi di dovere avrebbe provveduto a finirli, e anche se non l'avesse fatto, i loro camerati avevano davanti solo pochi giorni di sofferenza e poi sarebbero morti comunque.
Controllò personalmente le armi di ognuno, spedì gli uomini ai posti di combattimento. Lui stesso si mise ad armacollo un MP40 e si infilò in tasca un paio di caricatori di riserva. Rivolse un'ultima occhiata a Hofmann, che due soldati stavano cautamente sollevando per portarlo altrove, e una ruga verticale gli si disegnò sulla fronte. Non si faceva illusioni: non avrebbero resistito a lungo in caso di attacco. Avevano poche munizioni e ancora meno uomini validi. Non sapeva a quanto ammontassero gli effettivi dei russi, ma di sicuro doveva essere un consistente multiplo rispetto a una dozzina di feriti esausti e male armati.
Scivolò all'esterno, verso una delle postazioni, e da lì si diede a osservare i dintorni.
L'oscurità stava cedendo il posto a un crepuscolo grigio, nel quale si cominciavano a distinguere le cose. Notò un armadio sfasciato che conservava due belle ante a specchio, una delle quali addirittura intatta. Considerò che doveva essere stato un mobile di pregio, di cui probabilmente la sua padrona – di certo aveva contenuto abiti da donna – era andata molto fiera.
Mentre era immerso in quei pensieri, notò che sulla lastra si stava riflettendo un movimento. Fissò lo sguardo in quella direzione e si accorse che erano soldati russi. Qualcuno stava cercando di portare avanti un attacco a sorpresa.
Si chiese perché usare tanti sotterfugi, quando avrebbero potuto semplicemente inondarli di piombo da lontano, ma prima che potesse elaborare una risposta echeggiò la prima raffica di PPD.
Come se quello fosse stato un segnale, tutt'intorno all'edificio diroccato si scatenò un inferno di fuoco. Colpi di ogni genere, più abbondanti che precisi, si abbattevano sulla costruzione, facendone volare pietrisco e calcinacci.
Schultz soffocò un'imprecazione mentre in un attimo il senso della manovra gli diveniva chiaro: avevano sfruttato il buio per accerchiarli, forse pensando che fossero molti più di dodici.
“Ricorda che chi difende è sempre in vantaggio,” disse al mitragliere, quindi si diresse verso la successiva postazione.
Lì il mitragliere stava già sparando. Raffiche brevi, come lui stesso aveva raccomandato, il più possibile precise, ma anche risparmiando al massimo le munizioni, i nastri scorrevano con inquietante velocità. Trincerati tutt'intorno, i russi sparavano a loro volta.
Il capitano imbracciò un 98K, mise il colpo in canna e mirò con cura, quindi premette adagio il grilletto. Un russo fece una capriola all'indietro e rimase a terra immobile.
Schultz mirò di nuovo, e ancora una volta abbatté un nemico, poi dovette farsi precipitosamente indietro per evitare una sventagliata di proiettili.
Si fece di nuovo avanti per sparare, ma in quel momento il servente alla mitragliatrice cadde all'indietro con un lamento.
Il capitano fu lesto a recuperare il nastro e a inserirlo. Batté una pacca sulla spalla del tiratore per fargli capire che l'arma era pronta ed egli ricominciò a bersagliare i russi con raffiche brevi e precise.
Piovve una bomba a mano, finendo alle loro spalle con una lunga parabola. L'esplosione provocò la caduta di un angolo di muro, che franò in una nuvola di polvere.
Subito dopo ne giunse un'altra, più vicina, che crivellò di schegge i sacchi di sabbia della postazione.
“Via!” ordinò Schultz quando l'ultimo nastro fu terminato. Afferrò il soldato per il colletto e lo fece alzare, “Via, ripiegare!”
Arretrarono verso l'edificio. Un russo saltò la barriera per inseguirli, il capitano estrasse la pistola e lo freddò con un colpo, poi lui e il soldato arretrarono fin dentro l'androne, i cui accessi erano stati quanto possibile fortificati.
I due si misero in copertura dietro spezzoni di muro.
 
L'aria era ormai irrespirabile, le pallottole fischiavano, schegge di metallo e pietra volavano per ogni dove.
Dentro la stanza devastata il frastuono era assordante: detonazioni, spari e lamenti si sovrapponevano in una cacofonia demoniaca, che rintronava e disorientava. Il fumo e la scarsa luce rendevano difficile distinguere cosa stesse accadendo.
Il capitano inserì l'ultimo caricatore. Se all'inizio della battaglia si era posto il problema di cosa sarebbe successo un'ora dopo, ora le sue previsioni si erano ristrette a minuti e poi ai pochi secondi necessari a sparare una salva di due o tre colpi. Non aveva modo di fare previsioni più a lungo termine. Ormai sparava contro tutto ciò che aveva il color terra delle uniformi russe e la sua unica preoccupazione era che i sovietici non si avvicinassero ai feriti gravi.
Una preoccupazione stupida, lo riconosceva lui stesso nei rari attimi in cui riusciva a formulare un pensiero concreto, ma comunque per i suoi criteri una ragione più che valida per combattere fino all'ultimo uomo.
Raccolse l'ultima delle granate a manico, la decapsulò e la spedì in mezzo a un gruppo di russi che stava tentando di forzare una delle barricate. L'ordigno esplose con un lampo arancione, abbatté la maggior parte degli assalitori, ma creò una larga breccia laddove prima si era trovato l'ostacolo.
Il capitano lasciò cadere le armi ormai scariche e sfilò dalla cintura la vanga da trincea affilata che aveva avuto cura di raccogliere. La impugnò a due mani e sferrò un fendente al più avanzato dei russi, praticamente decapitandolo di netto.
Il corpo si abbatté al suolo lasciandosi dietro un rutilante spruzzo di sangue, si torse un paio di volte negli ultimi spasmi nervosi, poi giacque immobile. Chi veniva dietro di lui – un commissario politico, a giudicare dalle spalline – ringhiò qualcosa e gli puntò contro la pistola, Schultz si fece da una parte, poi di nuovo balzò in avanti, calando l'improvvisata arma dall'alto tra la spalla e il collo dell'avversario.
La lama si piantò quasi completamente, il capitano cercò senza successo di estrarla, puntò il piede sul torace del nemico che nel frattempo era caduto a terra e fece forza, ma un attimo dopo fu costretto ad abbandonarla per evitare l'assalto di un altro russo, rotolò a terra, fece per rialzarsi, qualcosa lo colpì facendogli calare un velo nero davanti agli occhi.
Stramazzò. In un lampo di lucidità vide Altendorf crollare sotto una raffica di mitra, cercò di rimettersi in piedi, qualcosa lo colpì al costato. Rotolò sulla schiena, vide un soldato fermo a gambe larghe, con un Mosin-Nagant imbracciato, che mirava contro di lui. Sbatté gli occhi e con una curiosa indifferenza fissò lo sguardo in quello del russo.
Ci fu un attimo di immobilità sospesa, nel quale anche il frastuono che regnava ovunque parve affievolirsi fino a scomparire, poi il soldato sussultò, rovesciò gli occhi e si accasciò al suolo.
 
Al suo posto comparve il tenente Weber, che si chinò a osservarlo e in tono tranquillo gli chiese: “È ferito da qualche parte, signor capitano?”
Schultz sbatté gli occhi e per qualche secondo fissò il subalterno incapace di articolare le parole. Non lo sapeva se era ferito da qualche parte, non sapeva nemmeno cosa stesse succedendo esattamente. Girò appena lo sguardo e vide due soldati della sanità chini sul caporale Altendorf. Uno di essi aveva in mano una siringa, l'altro stava svolgendo rotoli di garza.
“Hofmann,” articolò infine. “Il sergente Hofmann è ferito in modo grave, deve essere visto subito un medico.”
“C'è il dottor Meyer con lui.” Poi, dopo una pausa: “Lei sta bene, signor capitano?”
A quel punto, Schultz riuscì a fare mente locale: era sdraiato per terra, aveva la camicia strappata, era sporco di sangue. Non sentiva male da nessuna parte, aveva ancora tutti e quattro gli arti ed era in grado di muoverli. Si toccò la testa, ma per quanto si sentisse rintronato non vi trovò lesioni strane. “Direi che sto bene,” proferì alla fine, quindi puntò una mano sul pavimento e con una certa fatica si rialzò in piedi. “Sto bene,” ripeté deciso quando fu di nuovo sulle sue gambe.
Barcollò appena, si appoggiò con la mano a una parete butterata di segni di proiettile. Tutt'intorno c'erano soldati della sua compagnia, sullo sfondo vide passare anche il tenente Planck.
Weber gli rivolse un lieve sorriso, forse il primo da quando si conoscevano, e disse: “Quando il soldato Welke è arrivato al battaglione e ha riferito quello che era successo, tutti si sono offerti volontari per la spedizione di recupero. Persino von Auberg ha chiesto il permesso di lasciare l'ospedale da campo.” Fece una pausa, poi concluse: “Non gli è stato accordato, naturalmente.”
 

 
Hofmann riaprì gli occhi in un luogo tutto bianco: pareti bianche, letto bianco, una specie di camicia bianca addosso. C'era una finestra dalla quale si intravedeva un cielo sbiadito, che a sua volta sembrava quasi bianco.
L'unica nota di colore era il ritratto del Führer appeso alla parete di fronte al suo letto.
Girò lo sguardo di lato, verso il comodino, sul quale qualcuno aveva posato un bicchiere con dell'acqua.
Cercò di sollevare la mano per raggiungerlo, ma il braccio era talmente pesante che sembrava fatto di piombo.
Emise un sospiro di frustrazione.
In quel momento udì dei passi che si avvicinavano e una voce conosciuta disse: “Ha sete, giovanotto?”
Sul volto pallido del sergente si allargò un sorriso. “Signor capitano,” mormorò.
“Adesso non posso più chiamarla Fritz, ragazzo mio,” disse l'ufficiale sedendosi sul letto accanto a lui, “il regolamento, lei capisce. Ma quello che è successo non si cancella, giusto?”
Gli passò una mano dietro la nuca, quindi raccolse il bicchiere e glielo avvicinò alle labbra.
Hofmann bevve obbediente qualche sorso, poi rispose: “Nossignore, non si cancella.”
Il capitano posò il bicchiere. “Sta un po’ meglio, sergente?”
Il più giovane sorrise di nuovo. “Grazie a lei, signore.”
Schultz scosse la testa. “No, grazie alla morfina, direi. Il dottor Meyer gliene deve aver dato un secchio, con tutti i danni che aveva messo insieme.” Allungò una mano a dargli un buffetto sulla guancia.
Come era successo nel palazzo diroccato, Hofmann piegò la testa a intercettare la carezza, poi sollevò lo sguardo a incontrare il suo e in tono di serietà grave disse: “Un capitano come lei si segue fino all’inferno, signore.”
“E con sottufficiali come lei, sergente, conquisteremmo l’inferno e ne faremmo un Reichsgau.”
“Come l’Austria, signore?”
“Beh, no. Non così. Immagino che avere a che fare con i diavoli non sarebbe difficile come avere a che fare con gli austriaci.”
 Hofmann tentò una lieve risata, ma dovette interrompersi subito mentre una smorfia di dolore gli attraversava i lineamenti fino a quel momento distesi.
“Non pensi agli austriaci, ragazzo mio,” lo ammonì Schultz fingendo un cipiglio serio. “Come vede, fa male alla salute.”
Rimasero a fissarsi in silenzio per qualche secondo, poi il capitano si alzò risolutamente in piedi e disse: “Ora devo andare, sergente. Veda di riposarsi in licenza.”
Hofmann deglutì. “Sissignore.”
“E veda di ritornare qui in piena efficienza.”
Temendo di non riuscire a mantenere la voce ferma, il sergente si limitò ad annuire.
Schultz forse lo capì, in uno di quei momenti di delicatezza che nessuno avrebbe sospettato in un individuo così spiccio e rude, fatto sta che distolse lo sguardo e disse: “Ora vado, Hofmann. Devo controllare quel Weber, lei capisce, altrimenti è capace di arrivare a Mosca da solo e farci un Reichsprotektorat alla faccia di tutti i generali che comandano l’offensiva.”
Uscì senza attendere risposta.
Hofmann rimase in silenzio a guardare le sue spalle robuste che si allontanavano e quando riappoggiò il capo sul cuscino lo fece con una sensazione di pace e sicurezza che da giorni non provava.
Rievocò le parole che si erano scambiati tempo prima, noi saremo gli avi di nipoti che ridono, e si addormentò con un lieve sorriso sulle labbra.
 
 
 
 
 
 
 

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