Noi saremo gli avi di nipoti che ridono di Old Fashioned (/viewuser.php?uid=934147)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 1 *** Capitolo 1 ***
Gente
mia,
ecco
che torno a sfracellarvi le gonadi con una storia di guerra. Siamo sul
fronte
orientale, durante l’Operazione Barbarossa, chiaramente il mio punto di
vista è
quello tedesco.
Se
qualcuno ha voglia di leggere o magari di commentare mi fa un gran
piacere, se
no grazie lo stesso e alla prossima!^^
Capitolo
1
I
colpi di mortaio si susseguivano ininterrotti: un lungo fischio
stridulo,
l’esplosione del proiettile e il rotolio cupo dei muri che crollavano.
Seguiva
qualche secondo di un silenzio irreale, quindi di nuovo un fischio, poi
un'esplosione e altri muri si sbriciolavano sotto l'impatto.
Una
vettura abbandonata scomparve in un geyser di fuoco, lasciando sul
selciato un
buco fumante; una casa di legno con le
finestre decorate fu abbattuta come da una poderosa manata e si
disgregò in un
mucchio di vecchie travi. Due figure, appena vaghe ombre nella
caligine, se ne
allontanarono di corsa.
Una
facciata vetusta, con l’intonaco scrostato e una falce e martello che
sostituiva vecchie insegne imperiali, colpita in pieno si coprì di
crepe, parve
gonfiarsi come una pagnotta nel forno, quindi deflagrò in una nube di
polvere
grigiastra, proiettando tutt’intorno pietre e calcinacci.
La
gragnola si abbatté anche sullo spezzone di muro che dava
un’approssimativa
copertura a un plotone di Waffen-SS. Alcuni mattoni rotolarono a terra,
raffiche di mitragliatrice pesante fecero schizzare via da altri rosate
di
frammenti.
I
soldati, che sedevano o stavano accosciati con le armi in pugno, non si
mossero
nemmeno. Solo qualcuna delle reclute più giovani si limitò a ritirare
appena la
testa fra le spalle, ma venne subito redarguita dai più anziani.
“Fate
attenzione, ragazzi,” brontolò il capitano
Schultz, spazzolandosi via la polvere che gli imbiancava l’uniforme,
“le
schegge di pietra sono peggio dei proiettili. Vi entrano in corpo e si
frantumano, e con l’apparecchio radiografico non si riescono nemmeno a
vedere.”
Cercò
di sporgersi appena dal riparo, ma un’altra raffica lo costrinse ad
abbassare
precipitosamente la testa. “Maledizione,” ringhiò. Consultò la mappa,
si
protese per quel che poteva a osservare la strada, quindi senza
staccare gli
occhi da essa chiamò: “Weber!”
Si
fece avanti un tenente alto, dalle spalle larghe, che nonostante
un'evidente
giovane età aveva il petto coperto di decorazioni. “Signore?” chiese.
“Weber, prenda
lei il comando della sezione. Mandi un
portaordini al resto della compagnia: Lange, Plank e von Auberg
porteranno qui
i loro plotoni il più rapidamente possibile, evitando di impegnare il
nemico.”
L’altro
si limitò ad annuire calmo. “Sissignore,” rispose semplicemente. “E
lei,
signore?”
Di
nuovo si udì un sibilo lacerante, seguito da un'esplosione. Il capitano
fece un
cenno della testa in quella direzione e disse: “Questi sono mortai
leggeri, quindi
non possono essere lontani. Ora io mi prendo un paio di squadre e un
telemetro
e vado a stanarli, poi trasmetteremo le coordinate all'artiglieria e ci
penseranno loro.”
A
quelle parole, una voce esclamò: “A rapporto, signor capitano.”
Schultz
si voltò, incrociando lo sguardo chiaro di un sottufficiale
giovanissimo,
appena un po' più basso del tenente Weber, ma ugualmente robusto e col
suo
stesso numero di decorazioni sulla giubba. “Che c’è, sergente Hofmann?”
gli
chiese.
“Mi offro
volontario, signor capitano.”
L'ufficiale
sorrise e rispose: “Perfetto, prenda una squadra e andiamo.”
Il
sergente rimase interdetto. “Ma, signore...”
Schultz
lo fissò. “Sì?”
“Ecco… io
intendevo al posto suo, signore.”
Il
capitano scosse la testa in un teatrale diniego e replicò: “Ah no,
Hofmann. Le
vuole tutte lei le decorazioni del Reich? Qualcuna me la dovrò pur
guadagnare
anch’io, non le pare?”
Un
nuovo colpo di mortaio, vicinissimo all’improvvisato rifugio, troncò il
breve
scambio. “È meglio che andiamo,” disse Schultz facendosi di nuovo
serio. Si
rivolse al tenente: “Weber, difenda la posizione e quando gli altri
plotoni
arriveranno, prenda il comando della compagnia in mia assenza.”
“Sissignore,”
rispose il giovane ufficiale.
Il
capitano Schultz si mise un MP40 ad armacollo, poi raccolse un
tascapane e ci
infilò dentro alcuni caricatori di ricambio e tutte le granate a mano
che
riuscì a farci stare. Infine con aria di ostentata solennità proclamò:
“E
ricordiamoci sempre che non sono i miti e i neutrali a fare la Storia,
ma solo
gli uomini che decidono di combattere.”
“Sissignore,”
rispose Hofmann, che stava a sua volta
preparandosi per la missione.
“Allora
andiamo, sergente. Mi stia dietro.”
Tenendosi
a ridosso dello spezzone di muro, il capitano prese ad avanzare
cautamente.
L'ennesimo sibilo lacerò l'aria, e subito dopo un'esplosione scagliò
ovunque
frammenti di pietra. L’ufficiale si immobilizzò e dal punto in cui si
trovava
osservò attento i dintorni: dalle macerie del palazzo entro cui lui e
la
squadra erano in copertura si vedeva quel che restava di una piccola
piazza,
con edifici diroccati sui quattro lati. Lente colonne di fumo si
levavano
laddove le bombe avevano innescato focolai di incendio e le fiamme
baluginavano
dietro le finestre sventrate, consumando ciò che era rimasto nelle
case. Una
strada era ostruita da un autocarro civile con le ruote all’aria,
cadaveri di
russi e tedeschi erano disseminati un po’ dappertutto.
In
particolare Schultz osservò quello di un ufficiale che era lungo
disteso sulla
schiena e con le braccia aperte. La sua espressione appariva stupita,
ma non
spaventata né contratta dal dolore. Data la posizione della testa, gli
occhi
spenti erano rivolti verso il cielo. Aveva un unico foro di proiettile
sul
petto, proprio sopra la croce di ferro di prima classe; il poco sangue
che ne
era sgorgato faceva capire che l’uomo era arrivato a terra già morto.
Alle
spalle del capitano, Hofmann considerò: “Non se n’è nemmeno accorto.”
Questi
annuì grave. “Che cosa le suggerisce?” chiese poi.
La
risposta fu immediata: “Cecchini.”
I
due si scambiarono uno sguardo, poi Schultz ordinò: “Fumogeni.”
Un
paio di soldati si sfilarono dal cinturone delle granate a manico
contrassegnate da una striscia bianca, le decapsularono e le lanciarono
al
centro della piazza. I due ordigni esplosero con un rumore sordo e
cominciarono
a fumigare, creando in breve una fitta nebbia.
Ci
furono un nuovo sibilo e uno schianto, l’angolo di un palazzo andò in
frantumi,
pezzi di intonaco e mattoni rotolarono fino ai loro piedi.
Il
capitano si voltò verso il sergente e disse: “Questi hanno già fatto
abbastanza
danni, per i miei gusti. Andiamo.”
Senza
attendere risposta si inoltrò risolutamente attraverso la densa
cortina.
Le
sagome scure di due edifici gli si pararono davanti, separate da quello
che
sembrava essere un vicolo angusto. Egli vi si diresse, ansioso di
sottrarre sé
e la squadra ai fucili dei tiratori scelti. Si appiattì contro un muro
e attese
che gli uomini lo raggiungessero.
Corrugò
la fronte infastidito dal caldo torrido che rendeva l'aria ancora più
irrespirabile.
Il
caldo di metà luglio rende le strade di Altona soffocanti. Il selciato
è
rovente, l’aria è immobile e gravata dell’odore salmastro dei canali. È
domenica, ma in giro non c’è nessuno. Sui marciapiedi ci sono solo due
lunghe
file di poliziotti silenziosi. Cominciano a farsi sentire clamori cupi,
che si
fanno via via più forti. Si odono grida, spezzoni di canti e
l’incalzante
calpestare di molti piedi.
Hermann
Schultz, ventiduenne Scharführer delle SA, punta sul fondo della via lo
sguardo
chiaro e acuto. “Occhi aperti, camerati,” raccomanda a coloro che gli
stanno
intorno. Si gira fugacemente verso il suo uomo migliore, Franz Wolff,
che
sorregge il labaro della Sezione. Nello stesso momento, anche lui si
volta a incontrare
il suo sguardo e si scambiano un fugace sorriso.
Un
istante dopo si scatena l’inferno: un ordigno esplode davanti al gruppo
di SA
in marcia, i comunisti dilagano nella strada, si ode qualche
detonazione, il
crepitare delle fiamme. Una macchina viene rovesciata, vetrine vanno in
frantumi, il fumo denso degli incendi si diffonde ovunque, facendo
lacrimare
gli occhi e tossire. Volano manganellate e pugni.
Un
comunista si avventa sulla bandiera, Wolff si fa indietro, lo allontana
con una
gomitata, ma altri due lo incalzano. Schultz accorre, prende per le
spalle il
più vicino di coloro che si assiepano intorno al labaro, lo strappa via
e lo
manda a rotolare sul selciato, allontana il successivo con un pugno, e
poi gli
altri, in una mischia sanguinosa fatta di urla e colpi, una calca
frenetica
nella quale riesce a distinguere i suoi solo dal colore dell’uniforme.
E
poi, d’un tratto, echeggia un colpo di pistola. È vicinissimo, quasi
gli fa
fischiare l’orecchio.
Il
labaro trema, si accascia lento come un abete tagliato. I comunisti, un
attimo
prima così ansiosi di conquistarlo, ora si fanno indietro con l’aria di
non
volerci avere più nulla a che fare. Si ode il clangore sordo di una
pistola che
rimbalza sul selciato, Schultz coglie le spalle magre di un uomo che si
allontana rapido.
È
quello che ha gettato l'arma, e forse con uno scatto potrebbe ancora
prenderlo,
ma un lamento lo trattiene: Franz Wolff è a terra, il petto coperto di
sangue,
un rivolo rosso che dall’angolo della bocca gli scorre lungo il mento.
Gli
occhi socchiusi sono lucidi di dolore, il volto sta assumendo un
pallore
mortale.
Dimentico
di qualsiasi cosa, Schultz si butta in ginocchio accanto a lui.
“Franzl!”
esclama angosciato. Pone una mano sulla ferita, da cui il sangue sgorga
a
fiotti. Prende quello che ha, il fazzoletto, un lembo della propria
camicia
bruna, nel vano tentativo di arrestare l’emorragia. “Franzl,” ripete.
Deglutisce, cercando di mantenere ferma la voce. “Franzl, starai bene,
non
preoccuparti.”
Gli
passa il braccio libero dietro le spalle, lo stringe a sé. “Starai
bene,”
ripete. Alza lo sguardo su un gendarme. “Qualcuno chiami un dottore!”
invoca,
ma l’uomo non si muove. “Un dottore!” ripete allora Schultz a voce più
alta,
poi si fa udire un gemito dell’amico. Egli si china su di lui.
“Franzl,” dice
piano. Cerca di premere più forte la medicazione di fortuna, ma il
sangue gli
scorre fra le dita come acqua.
“Hermann...” mormora
l’altro con
voce flebile. “La bandiera… è salva?”
Schultz
getta uno sguardo sul labaro, che giace ancora dov’è caduto, come se
nessuno
osasse avvicinarglisi. “È salva,” conferma.
“Custodiscila tu.”
“Tu la custodirai,
Franzl,” risponde
Schultz, stringendosi l’amico al petto, “non voglio nessun altro a
portare il
labaro della mia squadra. Tu guarirai e...” Deve interrompersi: il
respiro
stentato del camerata Wolff ha lasciato il posto a un gran silenzio.
Egli
alza di nuovo la testa e tutt’intorno vede solo volti dall’espressione
grave.
Le SA salutano a braccio teso. Chi tra i comunisti ha il cappello se lo
toglie
con gesto solenne.
Una
detonazione particolarmente vicina riportò il capitano alla realtà
contingente.
Volse lo sguardo al fondo del vicolo e vide al di là un edificio che
svettava
sugli altri. Fece qualche passo in quella direzione, cercando di
raggiungere un
punto di osservazione migliore: era un via di mezzo fra un campanile e
una
torre, dal pennone che si trovava sulla sua sommità pendeva un
brandello rosso
che avrebbe potuto appartenere sia alla bandiera del Reich che a quella
sovietica. Tirò fuori la mappa e seguì col dito la strada che avevano
percorso
fino a quel momento, poi disse: “Ragazzi, quella è la torre del
municipio. È al
limite della linea del fronte, per cui non sappiamo se quando ci
saliremo sopra
troveremo ad aspettarci i nostri o i rossi.” Stava ancora parlando
quando si
udì un ululato cupo. Subito dopo un'esplosione mandò in frantumi la
facciata di
un edificio che si trovava dall'altra parte della piazza su cui sorgeva
il
municipio.
“Questo non era
il solito mortaio,” disse uno dei
soldati.
“Artiglieria
pesante,” confermò Schultz. Un secondo
ululato, poi il colpo impattò e l'esplosione sollevò una fontana di
terra e
detriti dal selciato. “E sta aggiustando il tiro.” Si voltò verso la
squadra e
soggiunse: “Non abbiamo molto tempo, prima che il nostro punto di
osservazione
finisca in briciole. Hofmann, mi copra le spalle.”
“Ma signore...”
cominciò il sergente. Il tono era di
nuovo costernato.
Schultz
fece un breve sorriso e disse. “Io combattevo per le strade quando lei
andava ancora
in giro con i calzoni corti, Hofmann. Stia qui a tenere a bada i russi
mentre
io vado a dare un'occhiata.”
“Sissignore,”
rispose il sergente.
Il
capitano si limitò ad annuire, quindi si accertò che l'MP40 fosse
carico e si
gettò di corsa attraverso lo spiazzo. Appena dietro di lui, una raffica
di
mitragliatrice pesante fece schizzare dall'impiantito schegge di
pietra, ma un
istante dopo udì un rimbalzo metallico e un paio di secondi dopo il
tipico
scoppio di una granata tedesca. La mitragliatrice tacque.
Schultz
raggiunse l'edificio, si appiattì contro un muro. Di nuovo si udì un
ululato
profondo, lugubre, che sembrava un cupo lamento d'animale.
Istintivamente il
capitano ritirò la testa fra le spalle e un attimo dopo il proiettile
esplose
contro un edificio, facendone crollare i piani più alti. Travi, mattoni
e
calcinacci rotolarono al suolo con un fragore da fine del mondo, si
sollevò una
nube di polvere acre, che gli bruciò la gola e gli fece lacrimare gli
occhi.
L'ufficiale
si spostò lungo il muro fino a che non raggiunse una breccia. Azzardò
una cauta
occhiata all'interno, ma vide solo macerie e qualche mobile sfondato.
In un
angolo c’era una scala di legno che portava verso l’alto.
Entrò
cauto, ragionando fra sé e sé che i russi dovevano in ogni caso averlo
abbandonato, dal momento che si trovava sotto il tiro della loro
artiglieria
pesante.
Come
se l'avesse evocato con quel pensiero, un istante dopo giunse ululando
un altro
obice, che esplose contro un fianco del municipio, scuotendolo fino
alle fondamenta.
Dal soffitto piovve una grandinata di calcinacci, tutta la struttura
scricchiolò e gemette.
“Merda,”
imprecò fra i denti il capitano, quindi corse
verso le scale, augurandosi che fossero ancora abbastanza solide da
reggere il
suo peso.
Un
altro ululato, un altro colpo che fece vibrare ogni muro del vecchio
palazzo.
Sulle pareti comparvero crepe larghe un dito, intere porzioni
d’intonaco si
staccarono e si frantumarono al suolo.
Il
primo piano era disseminato di quel che rimaneva dei mobili, qua e là
c’erano
cadaveri di russi e tedeschi, segno che si era combattuto per il
possesso di
quella torre.
Schultz
valutò che i russi probabilmente avevano preferito distruggerla,
piuttosto che
rischiare di lasciare ai tedeschi un punto d’osservazione così
importante.
Proseguì
la sua salita con tutta la velocità che le gambe gli consentivano,
facendo i
gradini quattro per volta. Individuò una porticina che pendeva
miseramente dai
cardini, e dietro di essa la scala a chiocciola che portava alla torre.
Vi si
infilò rapido e riprese a salire più veloce che poteva. Nel frattempo
stava
arrivando l’ululato di un nuovo obice, che in quello spazio angusto si
riverberava in migliaia di echi, coprendo addirittura il rumore pesante
delle
sue suole chiodate sui vecchi gradini di legno.
Di
nuovo l’edificio tremò sotto il colpo, le travi secolari gemettero, i
muri si
fessurarono come sotto l’effetto di un colpo di maglio. Qualche gradino
si
staccò e precipitò in un abisso buio, del quale il capitano non riuscì
a
individuare il fondo.
Finalmente
giunse alla terrazza panoramica. Non perse tempo a guardarsi intorno,
sfilò dal
tascapane il binocolo e individuò nel cielo caliginoso la traiettoria
arcuata
dei colpi di mortaio. La seguì con lo strumento e vide che i pezzi
erano disposti
in uno spiazzo erboso che aveva l'aria di essere un campo sportivo.
Oltre
quelli vi erano camion e uomini, segno che i russi stavano organizzando
una
controffensiva per riprendere possesso del centro abitato.
Tramite
il telemetro stabilì la distanza dei pezzi d’artiglieria, segnò la
posizione di
ciò che stava vedendo sulla mappa, poi si girò per tornare dabbasso. In
quel
momento giunse il cupo lamento di un obice in arrivo.
Schultz
si lanciò giù per le scale con tutta la velocità che le gambe gli
consentivano,
il proiettile si schiantò dove lui si era trovato solo pochi secondi
prima,
esplodendo con un lacerante boato.
In
copertura con i suoi uomini, Hofmann teneva d'occhio con crescente
apprensione
ogni obice in arrivo.
Un
proiettile si schiantò sul fianco del municipio, facendo crollare
un'intera
parete. La torre oscillò visibilmente, mentre polvere e calcinacci
cadevano
come se una mano enorme la stesse sbriciolando.
“Stanno
aggiustando il tiro,” disse uno dei soldati. Un
altro replicò: “Il prossimo la becca in pieno.”
Come
se quelle parole l'avessero evocato, un obice si abbatté sulla sommità
della
torre, proiettando ovunque frammenti di legno e pietra.
Una
trave che conservava ancora qualche residuo di decorazioni fiorate
arrivò
rimbalzando fino a loro, poi calò un silenzio sinistro, rotto solo dal
cupo
sottofondo di raffiche e detonazioni lontane della battaglia urbana.
Sergente
e soldati si scambiarono un muto sguardo.
In
quel momento si udì un urlo: “Hofmann!”
“È il
capitano,” disse uno degli uomini, scattando in
piedi e addossandosi a un muro per mantenere la copertura.
“Hofmann, si
muova!” La voce, poderosa, aveva una
decisa connotazione di urgenza.
“Andiamo!”
esclamò il sergente, quindi scattò di corsa
verso il rudere dell'edificio. Entrarono in quel che rimaneva
dell'atrio e
rimasero senza parole: tutto ciò che si trovava nella tromba delle
scale era
crollato. Rimaneva solo una mezza rampa penzolante, ad almeno cinque
metri
d'altezza, che ondeggiava emettendo sinistri scricchiolii. A quella
precaria
struttura era aggrappato il capitano Schultz.
“Ma signore!”
esclamò costernato il sergente.
“Hofmann, si
muova,” ripeté l'ufficiale per tutta
risposta.
L'altro
si guardò intorno come alla ricerca di ispirazione, ma nulla di ciò che
giaceva
disseminato sul pavimento poteva servire ad aiutare il capitano. Alzò
lo
sguardo a osservarlo, un altro obice cadde poco lontano, facendo
fremere tutta
la struttura. Sotto il suo sguardo inorridito, Schultz perse la presa.
Senza
pensarci un attimo, Hofmann si lanciò in avanti.
Spolverandosi
distrattamente la giubba, il capitano chiese: “Tutto bene, Hofmann?”
Il
sergente si rialzò e si massaggiò la schiena, quindi rispose: “Con il
dovuto
rispetto, signore: per caso è fatto di ferro?”
“No, ma ho una
certa dimestichezza col materiale: da
civile ero addetto agli altoforni in un'acciaieria.” Si diede qualche
altra
pacca su spalle e braccia, sollevando nuvolette bianche, quindi disse:
“La devo
ringraziare, sergente. Senza di lei mi sarei sicuramente rotto qualche
osso.”
“Dovere,
signore,” rispose Hofmann. Alzò la testa, tese
l'orecchio e aggrottò fugacemente le sopracciglia, quindi disse: “Però
ora sarà
meglio che andiamo, signore.”
Schultz
tese l'orecchio a sua volta: stava arrivando qualcosa di grosso.
L'ululato che
emetteva, basso e possente, faceva sembrare flebili pigolii tutti
quelli che
l'avevano preceduto. “Fuori tutti!” urlò, e si lanciò di corsa
all'esterno. Gli
altri lo seguirono senza indugio e la squadra attraversò rapida lo
spiazzo
disseminato di detriti.
Un
istante dopo, si udì una detonazione immane, e qualcosa come un
gigantesco
geyser di fiamme scaturì dal punto in cui un attimo prima sorgevano le
rovine
del municipio. Lo spostamento d'aria fu così violento che i tedeschi
finirono a
terra dal primo all'ultimo, la vampa rovente che promanò dal mostruoso
cratere
diede loro l'impressione di essere investiti da lingue di fuoco.
“Via!” urlò
Schultz con le orecchie che gli fischiavano
e la vista annebbiata. “Via di qui!”
Si
infilarono nel vicolo dal quale erano passati poco prima, lo percorsero
mentre
un secondo lacerante ululato li incalzava.
Il
proiettile si abbatté qualche decina di metri dietro di loro, l'ala di
un
palazzo crollò con un rombo cupo, lo stretto passaggio fu invaso da una
polvere
acre, che toglieva ogni visibilità e faceva bruciare occhi e gola.
Nonostante
questo, il capitano allargò le braccia per impedire agli uomini di
sopravanzarlo e tutti si fermarono un attimo prima di sbucare nella
piazza.
Oltre lo spazio lastricato si vedeva già l'edificio che accoglieva
l'ormai
completa compagnia. Naturalmente dall'esterno appariva vuoto, Weber non
era
così stupido da non tenere gli uomini in copertura.
Un
colpo di mortaio passò fischiando, la detonazione parve poco più di un
petardo
da fiera, paragonata ai grossi calibri che stavano imperversando nella
zona che
avevano appena lasciato, tuttavia fece crollare un muro, che si abbatté
in una
nuova nuvola di polvere.
Un
istante dopo, si udirono una detonazione secca e un lamento.
“Reiner!” urlò
una voce angosciata.
Schultz
si voltò in quella direzione: un soldato era a terra supino, un altro
era chino
su di lui e gli stava sbottonando la giubba già intrisa di sangue.
Si
avvicinò, si chinò sua volta e aggrottò
le sopracciglia quando vide di cosa si trattava. “Tutti indietro!”
abbaiò senza
nemmeno alzare la testa. “Hofmann, mantenga la copertura, li faccia
stare
lontano dai buchi nel muro, se no i cecchini li abbattono come delle
anatre!”
Tornò
a dedicare la propria attenzione al soldato: un colpo di fucile l'aveva
passato
da parte a parte; il foro d'entrata sulla schiena aveva il diametro di
un dito,
ma quello d'uscita sul petto era un cratere largo come un pugno, rosso
e
gorgogliante, dal quale spuntavano schegge d'osso.
“Non muoverti,”
gli ingiunse rapido, “ora ti sistemiamo
un po' e poi te ne vai a fare una bella vacanza nelle retrovie.” Gli
diede un
leggero buffetto sulla guancia, poi, a voce più alta disse: “Serve
qualcosa di
impermeabile.” Si guardò intorno come alla ricerca di ispirazione,
quindi
chiese: “Qualcuno di voi ha dietro del grasso per armi?”
Ci
fu qualche secondo di perplessità, poi uno dei soldati gli tese una
scatoletta.
Egli la prese, la aprì e rapidamente spalmò la sostanza sulle bende.
“Non deve
passare aria,” spiegò applicandole poi sul torace del ferito, “oppure
morirà
soffocato. Ora datemi un altro pacchetto di medicazione.”
Ne
aggiunse altri tre prima che la fasciatura lo soddisfacesse. Quando
ebbe
finito, si prese un attimo per guardare in faccia il soldato, che nel
frattempo
aveva perso i sensi: Reiner Fuchs, diciottenne, arrivato alla compagnia
da poco
più di sei mesi. Alzò lo sguardo e incontrò quello carico di
preoccupazione del
soldato Kammerer, che nel plotone era il più grande amico di Fuchs. “Se
la
caverà,” gli disse.
Questi
fissò il camerata e al centro della fronte gli comparve una ruga
verticale.
“Se la caverà,”
ripeté Schultz. “Non preoccuparti. È un
bene che sia incosciente.”
Il
più giovane lo fissò speranzoso. “Davvero?”
“Almeno non
sentirà dolore per un po'.”
Il
soldato deglutì. Dopo qualche secondo, senza staccare gli occhi dal
camerata,
osò chiedere: “Sentirà molto male, signor capitano?”
“Gli daranno la
morfina,” si limitò a rispondere
Schultz.
“Ma poi starà
bene, signore?”
Il
capitano alzò le spalle. “Meglio di te e di me, soldato, ma ora aiutami
a
sollevarlo. Dobbiamo raggiungere la compagnia prima possibile.”
Una
volta che il soldato Fuchs, semicosciente e ancora sanguinante
nonostante la
medicazione, si trovò tra lui e il soldato Kammerer, Schultz scrutò
critico lo
spiazzo che avrebbero dovuto attraversare. “Hofmann,” chiamò.
Subito
il sergente lo raggiunse. “Signor capitano?”
“Sergente,
abbiamo bisogno di qualcuno che vada laggiù
e avvisi il tenente Weber di scaricare l’inferno su questi palazzi
infestati di
cecchini.”
Il
sottufficiale fece un sorrisetto. “Sono l’unico che può andare, signor
capitano.” Gli rivolse uno sguardo che aveva un vago brillio di
impertinenza.
“Lei è impegnato.”
Schultz
finse un’espressione contrariata in quello che alla fine era una specie
di gioco
fra di loro. In tono ostentatamente severo rispose: “Per questa volta
passi,
Hofmann.” Poi, a voce più alta: “Servono dei fumogeni.”
Un
paio di soldati tirarono fuori granate con la striscia bianca, le
decapsularono
e le lanciarono nella piazza.
La
nebbia cominciò ad addensarsi.
Hofmann
si allontanò di corsa, si udì dapprima un colpo isolato, poi altri due
in
rapida successione. Poi seguì un silenzio che parve durare
all’infinito, tanto
che Schultz, con il soldato ferito ancora addosso, si pose il problema
di come
fare a recuperare anche il sergente Hofmann, sicuramente a sua volta
riverso
sul selciato, colpito da qualche cecchino russo.
Poi
dal fondo dello spiazzo echeggiò un selvaggio grido di vittoria, che a
Schultz
ricordò quelli che dovevano aver lanciato gli uomini di Frundsberg
trovandosi
finalmente di fronte le porte di Roma spalancate.
“Direi che ce
l’ha fatta,” considerò.
|
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Capitolo 2 *** Capitolo 2 ***
Inclito
lettore,
ecco un altro po’ di mappazzone, sperabilmente per il
sollazzo di chi legge.
Grazie a tutti coloro che sono passati da queste parti,
hanno letto e magari hanno anche lasciato un commentino.
Capitolo 2
Il
capitano Schultz sedette su una cassa rovesciata, tirò fuori dalla
tasca un
pacchetto di sigarette e se ne accese una.
Per
un po’ rimase a fumare con aria assorta. Ormai era calata la sera e il
cielo
era diventato color cobalto, appena più chiaro lungo la linea
dell’orizzonte.
Dalle finestre degli edifici nei quali era stato installato il comando
di
battaglione palpitavano le lampade da campo.
Dopo
i combattimenti del pomeriggio si era anche ristabilito il silenzio.
Gli Stuka
si erano occupati dell’artiglieria pesante che nelle ultime fasi dello
scontro
aveva preso a martellare la cittadina, il gruppo di mortai era stato
messo
fuori combattimento da un paio di 105.
Solo
in lontananza, tendendo l’orecchio, si coglieva ancora il tuonare sordo
dei
grossi calibri. Più vicino c’erano solo i fiochi accordi di un’armonica
a bocca
e il chiacchiericcio sommesso degli uomini, che gavetta alla mano,
seduti
sull’erba o su spezzoni di muro, consumavano il rancio.
Sullo
sfondo, nere e silenziose, si ergevano le rovine della cittadina.
Diede
un altro tiro – l’ultimo – alla sigaretta, poi schiacciò la cicca sotto
il
tacco dello stivale e cercò di interrarla in modo che non si vedesse.
E
poi si sentì sciocco, perché in una città semidistrutta dai
bombardamenti, dove
praticamente non c’era più un palazzo intero, si preoccupava di non
lasciare in
giro un mozzicone calpestato.
Abbandonò
la cassa e si alzò in piedi stirandosi i muscoli della schiena, quindi
si
incamminò verso l'ospedale da campo.
Si
imbatté dopo poco nel sergente Hofmann.
Si
salutarono militarmente, ma subito la disciplina cedette il posto a un
atteggiamento più informale. Schultz tirò fuori il pacchetto di
sigarette e lo
orientò verso il subalterno in un gesto di offerta.
Questi
ne prese una. “Grazie, signore,” gli disse, se l'accese tenendo il
fiammifero
nel cavo della mano e poi avvicinò la fiammella alla sigaretta che nel
frattempo il suo superiore aveva estratto per sé.
Questi
se l’accese tenendola fra il pollice e l'indice, quindi abbassò la mano
schermando la brace con le altre dita. Emise il fumo in un lungo
sospiro. “Ci
voleva,” disse.
Il
sergente, che teneva la propria nello stesso modo, rispose: “Eh, già.”
“Stavo andando a vedere i ragazzi che sono stati feriti
oggi pomeriggio,” disse Schultz.
Hofmann
si strinse nelle spalle. “Saranno contenti, signore.” Poi, dopo una
pausa: “Io
credo che la stiano aspettando.”
“Voglio essere sicuro che siano sistemati bene,” disse
Schultz per tutta risposta.
Per
un po' i due camminarono in silenzio, poi il sergente si guardò
significativamente intorno, lasciando scorrere lo sguardo sulle macerie
che li
circondavano. Infine disse: “Ma perché i rossi non si arrendono?”
Il
capitano si strinse nelle spalle, e senza smettere di camminare
rispose:
“Nemmeno noi, al posto loro, cederemmo le armi. Non è d'accordo,
Hofmann?”
“Forse ha ragione, signore,” si limitò a rispondere
il sottufficiale, dopo qualche secondo di meditativo silenzio.
Schultz
annuì come per confermare ulteriormente quelle parole, poi disse:
“Questa è una
guerra di Weltanschauung, sergente, e non si fermerà fino a che una non
avrà
prevalso sull’altra. Questa volta non saranno possibili i compromessi:
o saremo
noi ad arrivare a Mosca, o saranno loro a marciare su Berlino.”
Hofmann
lo fisso stupito. Fece per parlare, ma poi si limitò a dare un lungo
tiro alla
sigaretta. Esalando il fumo abbassò la mano e nascose la brace con le
dita
chiuse.
Continuarono
a camminare. Nella devastazione della cittadina distrutta dalle bombe,
l’attività ordinatrice del battaglione non aveva mancato di dare segno
di sé:
le strade di interesse tattico erano sgombre di macerie, le finestre
degli edifici
designati a fungere da alloggi erano state oscurate, i mezzi erano
ordinatamente parcheggiati in uno spiazzo sgombro di detriti, sotto una
tenda
si udivano i rumori di una squadra di meccanici al lavoro.
Le
cucine da campo e l’ospedale funzionavano a pieno ritmo.
La
sede del Partito è uno scantinato ampio, nel quale sono state sistemate
delle
panche e una specie di leggio in fondo.
Il
compagno Schultz delle acciaierie Sauter, ventun anni, alto, il
giaccone da
operaio teso sulle spalle ampie, si alza in piedi e dice: “Posso
esprimere
un'opinione?”
Quelli
che siedono intorno a lui si voltano a fissarlo stupiti, il caposezione
risponde: “Ma certo, compagno. Parla pure liberamente.”
Schultz
annuisce, dà una scorsa a un foglietto che ha tratto di tasca e
comincia: “Io
penso che il pensiero marxista sia uno strumento insufficiente per lo
studio
della complessità della moderna società borghese e capitalista.”
Il
brusio di fondo cala bruscamente, a questo punto tutti si voltano a
guardarlo.
I compagni perlopiù lo fissano come se fosse un essere proveniente da
un altro
pianeta.
Imperterrito,
Schultz prosegue: “Semplicemente non è più funzionale allo sviluppo di
una
matura autocoscienza sociale e culturale nel proletariato industriale,
e in
particolare nella classe operaia.”
Il
caposezione abbandona sul leggio i fogli del discorso che stava per
pronunciare, aggira il mobile e a grandi passi, nella sala fattasi
ormai
silenziosa come la navata di una chiesa, raggiunge il giovane operaio.
“Cosa
stai dicendo, compagno Schultz?” lo richiama all’ordine.
Questi
stringe appena gli occhi e senza muoversi chiarisce: “Il marxismo non è
scientifico come pretende di essere. La sua sostanza ideologica
meccanicistica,
contrattualistica e atomista lo rende il figlio prediletto della teoria
societaria che si era sviluppata al tempo della borghesia liberale per
giustificare le logiche di profitto del mercato capitalista.”
L’altro
fa addirittura un passo indietro, quindi gli chiede: “Chi ti ha messo
in testa
queste idee, compagno?”
“Ho studiato per conto mio. Mi sono
informato.”
“E dov’è che ti sei informato, di
grazia, dai Nazionalsocialisti?”
“Anche. E poi ho letto. Saint-Simon,
Sorel, Binet. È necessario liberare il Socialismo dall’ipoteca
marxista.”
“Basta così,” lo interrompe l’altro.
“Penso che tu non abbia più nulla da fare qui.”
Ancora
immerso nel ricordo, il capitano scosse la testa quasi con indulgenza,
poi
disse: “La vuole sapere una cosa buffa, Hofmann? Una volta anch'io ero
comunista.”
L’altro
si voltò a fissarlo stupefatto. “Davvero, signore?”
“Ci siamo passati in tanti. E poi ho capito e sono entrato
nelle SA.”
Procedettero
un altro po’ in silenzio, ognuno assorto nei propri pensieri, quindi
Schultz
proseguì: “Lo sa perché stiamo combattendo? A questi qua non gli è
ancora
entrato in testa che lo stiamo facendo anche per loro.”
Hofmann
aggrottò le sopracciglia. “In che senso, signore?”
Schultz
sorrise come se si fosse aspettato la sua perplessità, poi disse: “Qui
in
Unione Sovietica non si sta certo realizzando una società socialista.”
Alzò le
spalle. “È solo una forma avanzata e schiavistica di capitalismo di
stato, che
per sopravvivere ha bisogno di espandersi a livello mondiale, e
utilizza la
formula di un internazionalismo proletario che dovrebbe affratellare i
diseredati
della terra a prescindere e in contrasto con le loro stesse radici
nazionali,
culturali ed etniche.” Fece una pausa, quindi soggiunse: “Questi poveri
coglioni non l'hanno mica capito: il marxismo non ha nessuna intenzione
di
liberare Spartaco dalle sue catene: vuole solo forgiargliele con un
metallo
diverso.”
Hofmann
scosse la testa e disse: “Dobbiamo proteggere l’Europa da tutto questo.”
“Vedo che ha compreso. Questo compito tocca alla
Germania: soltanto lo Stato che per primo ha realizzato l’unità
socialista del
suo popolo potrà sperare di diventare il motore della nuova unità
europea su
base socialista.”
Raggiunsero
l’ospedale, finirono le sigarette appena fuori dalla porta, quindi
buttarono i
mozziconi ed entrarono.
Nonostante
fosse stato fatto ogni sforzo in senso contrario, l’atmosfera che vi
aleggiava
era pesante: la calura del pomeriggio non si era ancora dissipata;
nell’aria
c’era un odore greve, che assommava in sé disinfettante, sangue, sudore
e
qualcosa di più acre, addirittura ammoniacale, che faceva pensare a una
via di
mezzo fra urina e liscivia.
Per
quanto medici e infermieri si prodigassero per alleviare le sofferenze
dei
feriti, si udivano lamenti e singhiozzi. Qualcuno stava urlando in modo
orribile da qualche parte, ma nella sala principale giungeva solo l'eco
di
quelle grida.
I
due si fecero indicare dove fossero i feriti della prima compagnia e si
incamminarono per raggiungerli.
Mentre
percorrevano un corridoio, Schultz ebbe la fugace visione di una sala
operatoria schizzata di sangue, con una lampada chirurgica talmente
luminosa da
fare male agli occhi e il rumore penetrante di una sega che aggrediva
un osso.
Allungò
appena il passo e disse: “A questo non ci si abitua mai, non è vero?”
“Nossignore,” confermò Hofmann.
“La vittoria costerà parecchio,” considerò il capitano,
“ma che importano braccia, gambe, anche la testa... purché l'Europa
possa
affrancarsi dalle catene del comunismo e del liberal-capitalismo.”
Il
sergente annuì serio, quindi all'improvviso si fermò costringendo il
capitano a
fare altrettanto. Non c'era nessuno, anche i rumori prodotti dai
chirurghi
erano scomparsi e nell'aria c'era un silenzio sospeso. Gli rivolse uno
sguardo
grave, intenso. “Lei crede che vinceremo, signore?” gli chiese senza
distogliere gli occhi dai suoi.
Schultz
tacque a lungo prima di rispondere. Infine gonfiò il petto in un sospiro che aveva il carattere della
risoluzione estrema e disse: “Hofmann, io so soltanto una cosa: o
vinceremo, o
la civiltà europea come la conosciamo scomparirà per sempre.”
✠
Il
soldato Kammerer prese un panno, lo immerse in una bacinella d'acqua e
lo
strizzò con cura, quindi si avvicinò alla branda del suo camerata
Fuchs. Si
inginocchiò accanto a lui e gli passò la pezzuola fresca sulla fronte.
“Come
va, Reiner?” gli chiese a bassa voce. Gli aggiustò la coperta che gli
era un
po' scesa giù.
“Dieter...” si limitò a mormorare l'altro. Fece per
muovere una mano verso di lui, ma una smorfia di dolore gli deformò i
lineamenti.
Fu
l'altro a prendergliela fra le proprie. “Reiner,” ripeté a bassa voce.
“Sta'
tranquillo, amico. Ci sono io qui con te.”
“Fa male,” esalò il ferito con voce debole, stringendo
le dita sulle mani dell'altro fino a che le nocche non sbiancarono. “Fa
molto
male,” ripeté. Una lacrima gli scese lungo la tempia e scomparve fra i
capelli
biondi.
Kammerer
attese che lo spasmo venisse meno, poi liberò una mano e si protese ad
afferrare la bacinella d'acqua. Di nuovo vi risciacquò il panno, quindi
lo
passò sulla fronte e sul viso del camerata. “Non fa tanto male, dai,”
gli disse
piegandosi per parlargli all'orecchio. “Adesso ti manderanno a
Brest-Litovsk, e
da lì tornerai in Germania. Prometti che mi scriverai quando sarai a
casa?”
“Tutti i giorni,” mormorò Fuchs. “Ma anche tu devi
scrivermi, promettimelo.”
“Certo che ti scriverò,” rispose Kammerer, “ti
racconterò tutto quello che facciamo. Sarai curioso di sapere quando
nascerà il
bambino di Berger, no? E naturalmente anche di sapere se Linde
caricherà di
nuovo il mortaio con le munizioni del PAK. Come avrà fatto, poi...”
Le
labbra esangui di Fuchs si stirarono in un lieve sorriso. “Voglio
sapere se
Hofmann scoprirà chi è stato a mangiarsi le salsicce che Fischer aveva
ricevuto
da sua madre.”
Kammerer
gli passò di nuovo il panno umido sul viso, poi gli fece scorrere la
mano fra i
capelli in una lenta carezza. “Ti fa ancora molto male, Reiner?”
s'informò a
bassa voce.
“Un po' meno,” rispose il ferito.
Il
primo sorrise e accarezzandogli di nuovo i capelli disse: “Lo sapevo.
Vedrai
che presto starai ancora meglio.”
“Dieter, non dimenticare di scrivermi.”
“Ma se ti ho detto che lo farò tutti i giorni...”
“Ti prego. Se non lo farai, io mi sentirò solo.”
Kammerer
fece una lieve risata e rispose: “Certo che sei buffo, Reiner: tu sei
quello
che torna a casa in licenza mentre io me
ne resto qui al fronte e chi dovrà preoccuparsi di non farti sentire
solo sono
io?”
La
voce del ferito aveva un tono quasi angosciato: “Non vedrò più Fischer,
Ladowski, Berger, Linde… e il sergente Hofmann e il signor capitano.”
“Non li rivedrai per un po’, Reiner. Poi tornerai qui
da noi.”
“Non rivedrò più neanche te.” Fuchs ricominciò a
piangere. “Scusa,” mormorò dopo qualche secondo, incapace tuttavia di
frenare
le lacrime, “scusami...”
“Dai, non fare così,” gli disse Kammerer, cercando di
abbracciarlo senza toccare l’ampia medicazione che gli copriva la
spalla.
“Presto starai bene, tornerai da noi.”
“Scusami,” ripeté Fuchs, allungando il braccio sano a
stringersi contro l’amico.
Appena
fuori dalla porta, Schultz e Hofmann si scambiarono un’occhiata, poi il
capitano tossicchiò per attirare l’attenzione dei due.
Kammerer
si voltò e appena riconobbe l’ufficiale si raddrizzò e si mise
sull’attenti.
“Comodo,” disse semplicemente Schultz, quindi lo
raggiunse e a sua volta si chinò sul ferito. Fece finta di niente di
fronte ai
suoi occhi lucidi e alle ciglia ancora imperlate di lacrime, e in tono
allegro
gli chiese: “Allora come va, soldato?”
Fuchs
non poté impedirsi di sorridere. “Bene, signor capitano,” rispose. Poi,
dopo
una pausa: “Grazie per oggi.”
“Dovere, ragazzo mio,” rispose Schultz alzando le
spalle con noncuranza. “Tu avresti fatto lo stesso per me, non è vero?
È così
che funziona tra camerati.”
Stava
per aggiungere altro quando una strana sensazione di allarme lo
pervase. Alzò
la testa e rimase per qualche istante in ascolto, cercando di ignorare
tutti i
rumori di fondo dell’ospedale da campo: c’era qualcosa nell’aria, come
un rombo
lontano. “Hofmann, andiamo,” disse asciutto, alzandosi bruscamente in
piedi.
Quando
giunsero all'esterno, il rombo si era fatto più forte e più cupo, tanto
che
addirittura il terreno sembrava percorso da una vibrazione sorda.
L'oscuramento
era pressoché totale, ma una volta abituati gli occhi al buio, alla
flebile
luce delle stelle percepirono sagome in frenetico movimento.
Dappertutto si
udiva il clangore metallico di armi e munizioni spostate. La voce
chiara e
forte di Weber stava già impartendo precisi comandi.
“Quel tenente vale tanto oro quanto pesa,” constatò
Schultz, cercando di identificare la figura alta e atletica del giovane
ufficiale.
Fu
Weber a identificare lui, e nel trovarselo all'improvviso davanti,
Schultz si
chiese se per caso vedesse anche al buio come i gatti. “Signor
capitano,
attacco aereo!” annunciò marziale. “Ho già allertato la FLAK del campo.”
Schultz
aprì la bocca per rispondere, ma in quel momento il rombo di motori in
avvicinamento tacque bruscamente e nel silenzio si udì solo un diffuso
fremito
metallico.
“A terra!” urlò l'ufficiale.
Subito
dopo una bomba esplose in un lampo giallo e arancione, sollevando una
fontana
di detriti. Nella vampa dello scoppio si vide la sagoma di un biplano
che
ridava motore e prendeva quota.
Altre
bombe fecero seguito alla prima, un camion saltò per aria, ricadde e
rotolò con
uno sferragliare stridente, poi rimase ruote all’aria con una colonna
di fumo
che usciva dal cassone incendiato; un ordigno rimbalzò sulla
corazzatura di un
blindato ed esplose a mezz’aria, spargendo ovunque micidiali schegge.
La
contraerea entrò in azione vomitando piombo in un cielo che le
improvvise luci
a terra avevano reso piceo.
Scie
di traccianti si susseguirono nell'oscurità. Colpito in pieno, uno
degli aerei
parve accartocciarsi come se un'enorme mano lo stesse stritolando,
quindi
precipitò in vite e dopo poco si levò dalla campagna il fungo rossastro
di
un'esplosione.
Poi
l’attacco cessò com’era cominciato, e degli aerei rimase solo un
rombare cupo
che si perdeva nell’orizzonte oscuro.
Ancora
a terra, il capitano fece girare lo sguardo tutt’intorno.
Qua
e là c'erano focolai d'incendio, da qualche parte qualcuno stava
urlando. Di
nuovo si udì la voce del tenente Weber, calma come nel corso di
un'esercitazione sulla piazza d'armi, che dava disposizioni.
“Quello potrebbe muovere da solo una divisione,”
borbottò Schultz rialzandosi. Si guardò intorno, ma il buio gli
impediva di
farsi un’idea dei danni.
Sbatté
gli occhi cercando di distoglierli dal bagliore delle fiamme, quindi si
diresse
a passi svelti verso gli alloggi della compagnia.
Fu
a quel punto che il capitano cominciò a sentire un urlio confuso
dappertutto.
Non erano le grida di dolore dei feriti, ma un ululare gutturale e
sinistro.
Un
primo bengala si innalzò nel cielo, e a quella luce violacea la pianura
antistante le linee difensive parve letteralmente ribollire di uniformi
color
terra.
Sembrava
che il suolo stesso si fosse animato, conglomerandosi in centinaia di
forme che
avanzavano curve, emettendo roche grida.
Un
secondo bengala si alzò, seguito a ruota da un terzo: le luci
generavano ombre
mobili, che facevano apparire ancora più sinistra quella massiccia
compagine.
Dalle
linee difensive approntate con sacchi di sabbia, una mitragliatrice
pesante
cominciò a crepitare, spazzando il campo da un lato all'altro. Nel
lucore
freddo del magnesio, Schultz vide degli uomini cadere, ma altri
sopravanzarli
senza nemmeno rallentare. Colse il bagliore di vanghe affilate e
pugnali,
ovunque pulsavano i lampi degli spari.
Una
seconda mitragliatrice entrò in azione, due granate vennero lanciate
con lunghe
parabole nel mezzo della formazione nemica, ma i vuoti lasciati dalle
esplosioni vennero in un attimo inghiottiti dalla marea che avanzava.
Da
dietro la formazione russa, gruppi di mortai cominciarono a sparare.
Schultz
raggiunse la prima linea.
“Signore, attaccano in massa!” lo accolse il tenente
von Auberg, alzando la voce per coprire il frastuono di spari ed
esplosioni.
“Fuoco di sbarramento!” rispose immediatamente il
capitano, “Mitragliatrici pesanti dai settori uno e tre, caricare i
mortai da
trincea con munizioni a shrapnel. Tenga i suoi uomini pronti al
contrattacco.”
Senza
attendere risposta si guardò intorno alla ricerca di Plank e Lange:
vide solo
il primo e ripeté gli ordini anche a lui. Gli uomini nel frattempo
stavano
affluendo verso i posti di combattimento.
Arrivò
un colpo di mortaio contro un ridotto, i sacchi di sabbia volarono in
ogni
direzione, qualcosa che si lasciava dietro una rutilante scia rossa fu
scagliato lontano e scomparve nel buio.
Entrarono
in azione i mortai da trincea tedeschi e le esplosioni degli shrapnel
si
sovrapposero alla cacofonia di detonazioni e grida che faceva vibrare
l'aria.
I
primi russi erano già a pochi metri dalle trincee più avanzate. Schultz
vide
arrivare il tenente Weber, di Lange ancora nessuna traccia. Intravide
anche il
sergente Hofmann che stava spingendo avanti gli uomini del plotone di
Lange.
Un
siberiano enorme gli balzò contro, il capitano riuscì ad arretrare quel
tanto
che mandò a vuoto l'affondo della sua vanga da trincea, si spostò di
lato e nel
movimento estrasse la pistola, quindi gli sparò sue colpi al torace.
L'altro
sussultò sotto l'impatto, poi continuò impassibile a muoversi verso di
lui.
Schultz sparò di nuovo e vide chiaramente un foro di proiettile aprirsi
nel
torace dell'uomo. Questi fece un altro paio di passi col sangue che gli
ruscellava dalla bocca, e con un ultimo, inaspettato movimento gli
balzò
addosso, rovesciandolo all'indietro e tentando di strangolarlo con due
mani
talmente grandi che per circondargli il pur robusto collo ne sarebbe
bastata
tranquillamente una sola.
Il
capitano tese i muscoli, tentò di svincolarsi mentre lottava contro la
mancanza
d'aria. Tutt'intorno infuriava una battaglia senza quartiere, più volte
rischiò
di essere calpestato assieme al suo avversario nelle mischie che
costantemente
si accendevano e si scioglievano ovunque. Puntò il ginocchio contro
l'addome
del russo mentre le dita ruvide di questi – dita da operaio, gli venne
da
pensare – continuavano pervicacemente a stringergli il collo come in
una morsa.
Si divincolò, si torse, spinse la canna della pistola contro il corpo
del russo
e fece fuoco due volte. L'uomo sussultò e finalmente si afflosciò.
Ansante,
fradicio di sangue, Schultz si alzò barcollando. Altri due bengala
schizzarono
nel cielo e da lì presero a discendere lentamente, gettando la loro
lugubre
luce violacea sullo scontro.
Un
altro colpo di mortaio si abbatté poco lontano. Nel bagliore aranciato
della
deflagrazione vide uno dei suoi torcersi nell'aria come una specie di
trota
presa all'amo, descrivere una parabola e abbattersi al suolo. Nel
movimento
colse la sua bocca spalancata in un grido muto, coperto dal frastuono
che
regnava ovunque.
L'urlio
roco dei sovietici ebbe di colpo un climax che coprì addirittura il
fragore
delle esplosioni. Si girò verso la provenienza delle grida e si accorse
che un
cuneo di fanteria stava sfondando le linee tedesche proprio nella
posizione a
difesa dell'ospedale da campo. Notò che dalle finestre dell'edificio
qualcuno
stava già facendo fuoco sulla moltitudine, vide una granata rimbalzare
sul muro
e scoppiare in aria.
Identificò
l'alta figura del tenente Weber, raggiunse l'ufficiale e gli batté
sulla spalla
per attirare la sua attenzione, poi gli indicò quanto stava accadendo.
Egli
si limitò ad annuire, quindi fece un cenno ai suoi uomini e si mosse in
quella
direzione.
Schultz
strinse appena gli occhi, infastidito dai fumi che ormai rendevano
l'aria
irrespirabile. La linea di difesa ormai si era sfrangiata in decine di
scontri,
nei quali gli uomini si affrontavano all'arma bianca.
Qualcuno
lo spinse, egli barcollò e fece appena in tempo a farsi indietro per
evitare il
fendente di una vanga da trincea; subito dopo esplose uno shrapnel a
distanza
ravvicinata e le schegge roventi dilaniarono chi si trovava lì intorno.
Il
russo che aveva cercato di assalirlo crollò a terra crivellato, Schultz
arretrò
ancora, scivolò su qualcosa che gli parve un brandello di carne,
fortunosamente
recuperò l’equilibrio, poi si accorse che un altro reparto russo stava
tentando
uno sfondamento.
Sostituì
il caricatore dell’MP40 e corse verso la mischia.
Il
sergente Hofmann decapsulò una granata e la spedì fra i russi con un
tiro a
parabola di almeno trenta metri. Successivamente afferrò la pistola
lanciarazzi
e sparò in aria un altro bengala, che esplose in un lampo di luce
biancastra e
prese a scendere ondeggiando verso terra.
Si
piegò per evitare una rosata di schegge. A poca distanza da lui, una
granata
cadde in mezzo a un gruppo di soldati ed egli fu investito da una
sventagliata
di sangue e brandelli di carne.
Scrutò
ansante la pianura ormai costellata di cadaveri e vide che i russi
stavano
cominciando ad arretrare.
Un
ufficiale, gli parve che fosse il capitano Schultz, stava guidando un
contrattacco. Armati principalmente di armi bianche, i suoi uomini
facevano il
vuoto dove passavano.
Qualcosa
esplose talmente vicino che lo spostamento d’aria lo fece barcollare e
le
orecchie presero a fischiargli. Sentì in bocca il sapore della terra e
del
sangue.
Qualcuno
lo afferrò per una spalla. Si girò fulmineo, già pronto a difendersi, e
si
trovò faccia a faccia con il tenente Weber: Realizzò di essere finito
lungo
disteso da qualche parte. Il tenente gli disse qualcosa, ma la voce era
coperta
dalla cacofonia che rimbombava ovunque. Dal labiale gli parve che
stesse
chiedendo se stava bene e accennò di sì.
In
quel momento, da dietro le linee entrò in azione un 105 e gli obici
cominciarono a scoppiare tra i russi.
Quando
il capitano Schultz riuscì finalmente a dare un’occhiata all’orologio,
si
accorse che dall’inizio dell’attacco
russo erano passati non più di quarantacinque minuti.
Fece
girare lo sguardo tutt’intorno: il cielo era ancora piceo, le uniche
fonti di
luce erano i focolai d’incendio che crepitavano qua e là e i bengala
che
continuavano a essere sparati sul campo.
Il
terreno davanti alla linea di difesa sembrava arato di fresco, i pochi
alberi
che l’avevano costellato erano ridotti a tronchi scheggiati. Finite le
sparatorie, il silenzio che era calato sembrava quasi irreale.
Ovunque
c’erano cadaveri, la maggior parte in uniforme color terra, ma anche
Waffen-SS
in grigioverde.
Vide
i portaferiti chinarsi su ogni corpo, e perlopiù rialzarsi delusi. Solo
dopo
lunghe ricerche riuscirono a trovare qualcuno ancora vivo: era un
russo,
probabilmente un ufficiale a giudicare dalle mostrine, e si lamentava
debolmente tenendosi le mani premute contro un fianco. Lo raccolsero
con cura e
lo portarono via.
Il
capitano li seguì con lo sguardo fino a che non scomparvero
nell’edificio
adibito a ospedale, poi raggiunse la sua compagnia. Per quanto stanchi,
i
soldati erano impegnati a prestare i primi soccorsi ai feriti, alcuni
aiutavano
a trasportare le barelle di chi non riusciva a camminare. Da una parte,
coperti
dai teli individuali, erano allineati i caduti.
Chiamò
a raccolta i suoi comandanti di plotone, ma ebbe l’amara sorpresa di
scoprire
che Lange era stato ucciso all’inizio dell’azione e von Auberg era
stato
portato all’ospedale da campo, non si sapeva quanto gravemente ferito.
Rimanevano
solo Planck e Weber, il primo con un bendaggio di fortuna a un braccio,
il
secondo che sembrava pronto per
un’ispezione.
“Sarà meglio che vada a vedere come sono sistemati i
feriti,” disse infine il capitano, “Weber, prenda lei il comando in mia
assenza. Planck, rediga una nuova lista degli effettivi di ogni
plotone.
Sergente Hofmann, venga con me.”
Si
incamminò serio, le mani allacciate dietro la schiena, le labbra
serrate. Ogni
tanto passavano barelle cariche di feriti, taluni ridotti in condizioni
tali da
mettere a dura prova anche la più solida fermezza d’animo.
Dopo
un po’ il sergente Hofmann gli si affiancò e gli porse in silenzio una
sigaretta già accesa. Schultz ringraziò con un cenno del capo, la prese
come
suo solito tra il pollice e l’indice, se la portò alle labbra e diede
un lungo
tiro.
Esalò
il fumo con calma, quasi stesse espellendo con quello tutto l’orrore
che lo
stava tormentando, poi recitò: “Di fronte alle spade e di fronte
alle
bandiere il nostro riso si è spento./ Ma dopo tutto che importa! Noi
saremo gli
avi di nipoti che ridono.”[1]
[1]
Il verso è di Walter Flex.
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Capitolo 3 *** Capitolo 3 ***
Incliti
lettori,
ecco un altro capitolo del mappazzone,
sempre con la speranza che vi sia gradito. Ringrazio moltissimo tutti
coloro
che sono passato di qui e hanno dato un’occhiata. Ringrazio con
particolare
commozione chi mi ha anche lasciato un commento.
Capitolo 3
Schultz
si alzò in piedi e inforcò il binocolo. Osservò a lungo i dintorni,
cercando di
compensare coi movimenti del corpo gli scossoni che la strada
dissestata
trasmetteva al semicingolato, quindi riabbassò lo strumento. Le colonne
di fumo
che salivano dall’orizzonte dovevano essere sopra a Minsk. Cercò di
decifrare
qualcuno dei cartelli che ogni tanto si incontravano lungo la strada,
ma non
aveva familiarità col cirillico e le indicazioni scorrevano via prima
che fosse
riuscito a dar loro un significato. “Weber, cosa dicono?” chiese senza
girare
lo sguardo.
“Quindici chilometri a Minsk, signor capitano.”
Schultz
annuì. “Lo immaginavo. Stanno combattendo parecchio laggiù.”
“La terza armata sovietica è stata accerchiata,”
dichiarò il tenente Weber, al solito ben informato.
Il
capitano si limitò a battergli una mano sulla spalla. “Bravo ragazzo.
Cosa
farei se non avessi lei...”
“Grazie, signore.”
Al
solito, il più vecchio rinunciò a capire se quella sobria risposta
fosse seria,
sottilmente ironica o solo infastidita. Il tenente Weber continuava a
rappresentare per lui un mistero insondabile: perfetto in ogni
situazione, ma
non ricordava di averlo mai visto ridere.
Una
moto si affiancò al veicolo distogliendolo da ulteriori elucubrazioni:
un
portaordini gli consegnò un foglietto ripiegato, poi diede gas e
scomparve
lungo la colonna di veicoli.
Schultz
lesse la breve nota, poi se la infilò in tasca. Si voltò verso il
tenente e
disse: “Weber, avrò di nuovo bisogno della sua conoscenza del
cirillico: la
compagnia deve portarsi verso una località detta Shcho...” Imprecò fra
i denti,
tirò fuori di nuovo il biglietto, lo lesse aggrottando le sopracciglia
e
lentamente scandì: “Shchomys’litsa.”
“Sissignore,” si limitò a rispondere il giovane
ufficiale, come se gli avesse chiesto di avvisarlo quando passavano il
cartello
per Berlino.
“Ci attesteremo là e ci uniremo al contingente che
raggiungerà il centro di Minsk da sud. Ci sarà da combattere parecchio,
i russi
non ne vogliono sapere di mollare.”
Il
tenente si limitò ad annuire.
Ancora
una volta il capitano si guardò intorno. Il caldo di fine giugno
arroventava le
lamiere dei blindati, la polvere sollevata da cingoli e ruote rendeva
l’atmosfera caliginosa. Stipati sui mezzi, gli uomini parlavano tra
loro o
semplicemente guardavano sfilare il monotono paesaggio russo. I più
esperti
erano impegnati in veementi partite di Skat, dalle quali provenivano
esclamazioni che alle volte coprivano anche il rombo continuo dei
motori.
Portaordini
a bordo di motociclette facevano la spola su e giù lungo le colonne.
Ogni tanto
a lato della strada si trovava qualche mezzo che aveva avuto un’avaria,
regolarmente con il cofano alzato e un paio di gambe che uscivano dal
vano
motore.
A
un certo punto si imbatterono anche in un Panzer. In uniforme nera,
allineati
lungo la fiancata del veicolo alla vana ricerca di un lembo d’ombra, i
membri
dell’equipaggio sembravano merli su un filo della luce.
Assieme
a una buona parte della colonna, svoltarono per quella che sulle prime
parve
poco più che una strada di campagna appena un po’ più larga del
normale. Sul
terreno battuto si vedevano sulle prime solo due solchi paralleli come
per il
passaggio dei carri e solo dopo, a ben guardare, si intravedeva sotto
lo strato
di terra un lastricato grigiastro e fessurato, che sembrava composto da
lastre
di cemento messe una accanto all’altra.
Da
una parte e dall’altra della strada, le campagne si estendevano appena
ondulate, perdendosi all’orizzonte tutte uguali. Solo qua e là qualche
albero
da frutto rompeva la monotonia del paesaggio.
Schultz
alzò gli occhi sul cielo immobile, pensando che tutta quella calma non
era
normale.
Seduto
al fianco del conduttore, il sergente Hofmann allungò le gambe davanti
a sé
cercando di stirarle. Era tutto il giorno che avanzavano e ormai gli
pareva di
avere al posto della schiena un blocco di cemento.
Si
sporse in avanti: dopo ore di campagne tutte uguali, stavano
raggiungendo le
propaggini di un centro abitato. Erano comparse case ai lati della
strada e più
avanti si vedevano anche edifici a più piani.
I
mezzi si inoltrarono in quello che probabilmente era stato fino a poco
prima un
grazioso sobborgo di Minsk: edifici di fine ottocento, lampioni di
ghisa, un
marciapiede alberato che correva lungo il fiume. Civili non ce n’erano,
ovviamente, ma poteva immaginare la gente che nelle giornate di
primavera
passeggiava all’ombra.
Emise
un sospiro pensando a prima della guerra, anche lui andava a passeggio
nello
stesso modo, magari sottobraccio con qualche ragazza. Notò
distrattamente che
proprio in mezzo alla strada c’era un tombino un po’ sollevato.
Poi
il mondo esplose.
Ci
furono un boato assordante, un lampo di luce gialla e poi lingue di
fuoco
dappertutto. La sua prospettiva si capovolse, vide buio, poi luce, poi
buio di
nuovo. Un dolore acutissimo lo trafisse al fianco, tanto che spalancò
la bocca
per urlare, ma non riuscì a emettere alcun suono. O forse semplicemente
aveva
urlato ma non riusciva a sentire nulla.
L’ultima
sua percezione chiara fu quella di trovarsi con la faccia sul selciato
e la
bocca piena di sangue, poi tutto si confuse in una nebbia oscura che
aveva il
tanfo del gasolio bruciato.
“Copertura!” ordinò il capitano Schultz nell’udire
l’esplosione. “Copertura, via dalla strada!”
Si
girò e vide un autoblindo rovesciato, con lingue di fuoco che uscivano
dal
motore. Tutt’intorno c’erano soldati esanimi, mentre i feriti lievi,
pur
intontiti dallo scoppio, si stavano già trascinando lontano. Si accorse
che tra
i corpi immobili c’era anche quello del sergente Hofmann, intrappolato
per metà
nelle lamiere accartocciate.
In
quel momento, dalle finestre raffiche di mitragliatrice cominciarono a
spazzare
la strada.
“Copertura!” ripeté il capitano, “Via di qui immediatamente,
è un’imboscata!”
Saltò
giù dal veicolo ancora in movimento, poi si girò e disse: “Tenente
Weber,
prenda il comando della compagnia fino al mio ritorno. Comunichi al
comando che
siamo stati attaccati!” Senza attendere risposta si lanciò di corsa
attraverso
la strada, evitò di stretta misura una sventagliata di proiettili e si
appiattì
contro un muro a poca distanza dal blindato in fiamme. “Hofmann!” urlò.
Gli
rispose un gemito.
Si
sporse a guardare: il sergente giaceva faccia in giù in una pozza di
sangue, le
fiamme gli si stavano pericolosamente avvicinando.
Tossì
investito dal fumo dell’incendio, poi scattò in avanti approfittando di
quella
momentanea copertura, raggiunse il blindato e senza perdere tempo
afferrò il
sottufficiale per le braccia. Lo tirò a sé, ma non ottenne altro che di
strappargli un gemito di dolore. Non riuscì a spostarlo da sotto il
blindato.
Nonostante
si trovasse a poca distanza dalle fiamme, Schultz sentì un brivido di
freddo
percorrerlo. Se non fosse riuscito a liberarlo, il sergente sarebbe
bruciato
vivo. Tirò di nuovo, con più forza, ma non successe nulla.
Le
fiamme si stavano rinvigorendo di attimo in attimo, il capitano quasi
non
riusciva più ad avvicinarsi al veicolo. Cercò di ragionare più in
fretta che
poteva: cosa fare?
Il
peso della pistola contro la coscia gli parve un sinistro monito:
meglio una
morte rapida e pietosa che...
Diede
un ultimo strattone con tutte le sue forze: si udì il rumore di stoffa
che si
lacerava e finalmente Hofmann fu libero. Senza nemmeno accertarsi delle
sue
condizioni, augurandosi che il fumo fosse sufficiente a nascondere
entrambi,
Schultz lo trascinò via dalla strada, verso un palazzo semidiroccato,
il cui
androne offriva comunque copertura rispetto alle mitragliatrici che
spazzavano
l’esterno.
Quando
fu dentro, si accorse che già altri superstiti vi avevano trovato
rifugio. Li
passò in rassegna con lo sguardo: alcuni erano leggermente feriti, tra
o
quattro apparivano illesi. Uno era sdraiato da una parte con una
medicazione
gli copriva metà testa, già macchiata di sangue in più punti.
“Vediamo di organizzarci,” disse asciutto. “Chi è il
più alto in grado, qui?”
Si
fece avanti un giovanotto che non poteva avere più di vent’anni, con la
giacca
sulle spalle e un braccio al collo. Aveva il nastrino della croce di
ferro di
seconda classe, la croce di ferro di prima classe e il distintivo di
combattimento corpo a corpo in argento. “Caporale Altendorf, signore,”
si
presentò con voce ferma.
Schultz
annuì, poi rapido ordinò: “Due uomini a recuperare le munizioni, la
cassetta di
medicazione e l’acqua potabile finché il fumo riesce a nasconderci.
Altri due a
ispezionare questo posto, voglio che sia organizzata il prima possibile
la
difesa.”
“Sissignore.”
L’ufficiale
si chinò a quel punto sul sergente, che giaceva ancora immobile dove
l’aveva
trascinato.
“Hofmann,” lo chiamò a bassa voce. Il più giovane
riuscì solo a sollevare lo sguardo annebbiato su di lui.
“Hofmann,” insisté Schultz, sbottonandogli rapidamente
la giubba fradicia di sangue, “dove le fa male?”
Il
sergente schiuse le labbra per rispondere. Avrebbe voluto dire
“ovunque,” ma
non riusciva a emettere un suono. Il volto del capitano chino su di lui
era
poco più di una macchia bianca, i rumori della battaglia arrivavano
come
attraverso l’acqua.
Percepì
mani abili e rapide che gli applicavano addosso compresse di garza,
gemette
quando il tocco si fece più deciso. Sussultò ma non fu in grado di
sottrarsi.
Sbatté
un paio di volte le palpebre. La consapevolezza andava e veniva a
ondate,
insieme a fitte di dolore che gli mozzavano il respiro.
Percepì
che Schultz gli stava dicendo qualcosa, ma la sua voce gli giungeva
come un
mormorio confuso, del quale coglieva solo il tono di premura.
A
fatica articolò: “Sto...” Avrebbe voluto dire “bene,” invece balbettò:
“Sto
morendo…?”
Il
capitano gli prese il viso fra le mani, si piegò su di lui. “Coraggio,
ragazzo
mio,” scandì adagio, “si riprenderà presto.”
Hofmann
schiuse le labbra per rispondere, ma all’ultimo gliene mancarono le
forze.
Chiuse gli occhi e sprofondò nel buio.
Schultz
lasciò delicatamente ricadere la testa del subalterno, quindi si
raddrizzò e si
voltò verso Altendorf, che stava entrando in quel momento con una
cassetta di
nastri da mitragliatrice nella mano sana. “Abbiamo recuperato il
possibile,
signore,” disse in tono neutro.
“Il resto della colonna?” chiese il capitano.
“Non è più in vista, signore.” Il caporale tacque per
qualche secondo, quindi soggiunse: “La strada è sotto il tiro delle
mitragliatrici pesanti, non potevano rimanere.”
A
Schultz diede l’idea che stesse cercando di convincere se stesso prima
di lui,
comunque assentì e rispose: “Vedremo di arrangiarci per conto nostro.
Che cosa
è stato recuperato dall’autoblindo?”
L’elenco
di Altendorf fu desolatamente breve.
Il
capitano alzò lo sguardo verso una delle finestre: ormai stava calando
la sera,
fuori regnava un silenzio sinistro, interrotto qua e là da qualche
scoppio
lontano. Gli parve di veder balenare un fuoco da qualche parte, fra le
rovine,
e si chiese se fosse un gruppetto di civili che cercava di tenere
lontana
l’angoscia della notte.
Nella
luce che andava scemando fece scorrere lo sguardo su quelle che per il
momento
erano diventate le sue truppe. Vide volti stanchi, alcuni rigati di
sangue, ma
nessuna espressione rassegnata.
“Per chi ancora non lo sapesse, io sono il vostro comandante di
compagnia, capitano Hermann Schultz,” disse loro, approfittando di quel
breve
momento di calma, “in questo momento assumo il comando della squadra.”
Strinse
le labbra. Avrebbe voluto poter raccontare loro che qualcuno sarebbe
andato a
riprenderli, che tutto si sarebbe presto risolto, ma non era sua
abitudine
mentire. Meglio dire le cose come stavano senza mezzi termini.
“Non credo che entro stasera verranno a prenderci,”
disse quindi. “Non so nemmeno se sanno che siamo ancora vivi, quindi
sarà
necessario che qualcuno trovi il comando di battaglione e lo riferisca
a chi di
dovere.” Fece una pausa, di nuovo squadrò uno per uno i volti che lo
circondavano. “E anche in quel caso, non illudetevi che far sapere che
qui c’è
un contingente di superstiti sia sufficiente ad attivare un’operazione
di
salvataggio. Sapete bene anche voi che verrà ordinata unicamente se la
situazione tattica lo consentirà, diversamente dovremo arrangiarci.”
Nessuno
replicò e un silenzio consapevole calò sullo sparuto gruppo. Uno dei
soldati,
con una medicazione sommaria che gli circondava una coscia, volse lo
sguardo
verso i feriti gravi e poi lo sollevò con fare significativo verso di
lui.
Schultz
strinse le labbra. Come ufficiale comandante, in caso di necessità gli
sarebbe
toccato il compito ingrato di ordinare che fossero lasciati indietro.
“Faremo
quel che c’è da fare,” disse semplicemente. Poi, a voce più alta:
“Altendorf!”
Il
caporale si avvicinò. “Signore?”
“Altendorf, organizzi turni di guardia. Non è escluso
che questa notte i russi vengano a farci visita.”
“Sissignore.”
Di
nuovo, il capitano si girò verso i soldati. “Mi serve un volontario,”
disse.
“Qualcuno che sappia destreggiarsi al buio e in silenzio.”
Un
ragazzetto magro alzò la mano. “Io, signore.”
Schultz
lo squadrò attento: occhi vispi, movimenti sicuri. “Come ti chiami,
soldato?”
gli chiese.
“Hans Welke, signore.”
“Sai leggere le mappe, soldato?”
“Sissignore.”
Il
capitano aprì una carta spiegazzata e strappata della città, indicò un
punto
col dito e disse: “Noi siamo qui.” Spostò l’indice fino a raggiungere
una croce
tracciata con la matita rossa. “E qui è dove teoricamente dovrebbe
essere
attestato il battaglione, se le cose sono andate come dovevano. Ti è
chiaro?”
“Sissignore.”
“Sarà necessario raggiungere il comando e comunicare
che la nostra sezione è bloccata qui con dei feriti gravi, naturalmente
senza
attirare l’attenzione dei russi. Pensi di potercela fare?”
Il
ragazzo guardò fuori attraverso una finestra sventrata e per un po’
rimase a
scrutare la strada con le sopracciglia aggrottate. Fece anche un passo
avanti,
e nel nuovo punto d’osservazione trascorse un paio di minuti. Infine si
voltò
di nuovo verso il capitano e rispose: “Penso di sì, signore.”
Il
capitano tirò fuori di tasca un foglietto, vi scrisse una breve nota e
glielo
consegnò. “Allora aspetta il buio e poi cerca di raggiungere il comando
di
battaglione, soldato.”
“Sissignore.”
A
quel punto, Schultz fece un giro delle postazioni difensive che erano
state
approntate. Era consapevole che alle sue spalle ci fossero i feriti
gravi, e
fra tutti Hofmann, che di certo era quello conciato peggio, ma si
costrinse a
ignorarli in favore delle priorità, ovvero la possibilità di dover
respingere
un eventuale attacco russo.
Passò
di postazione in postazione, fermandosi a scambiare due parole con
ognuna delle
sentinelle. Distribuì le sigarette che aveva, controllò il puntamento
delle
mitragliatrici e le esigue scorte di munizioni.
Solo
quando fu certo che le difese fossero per quanto possibile efficienti,
tornò
nell’androne.
Hofmann
cominciava ad avere freddo. Ormai era calata la notte e non si vedeva
quasi più
nulla. Sempre più si faceva strada in lui l’impressione di essere
completamente
solo, abbandonato a se stesso, destinato a morire. Ogni volta che quel
pensiero
si presentava, faceva intervenire la sua parte razionale e lo
scacciava, ma
mantenere la lucidità stava diventando sempre più difficile.
Una
giacca un po' tiepida gli si stese addosso. Dal buio provenne la voce
del
capitano Schultz: “Come va, ragazzo?”
Il
sergente si limitò a piegare la testa verso di lui e un attimo dopo
sentì la
sua mano ruvida posarglisi sulla fronte. “Fa male, vero?” chiese
l’ufficiale in
tono pacato.
Hofmann
aprì la bocca per rispondere, ma al solito non riuscì a emettere un
suono.
La
mano gli diede due colpetti affettuosi. “Lo so che fa male,” disse
Schultz.
Un’altra carezza. “Ma vedrà… vedrai che presto ne usciremo. Com’è che
fai di
nome, a proposito?”
“Friedrich,” esalò Hofmann a fatica.
“Ah, Friedrich.” La
mano non smetteva di passargli sul viso, lenta, ipnotica. “Fritz,
giusto?
Coraggio, Fritz, lo so che fa un male del diavolo, ma non abbiamo
nemmeno una
fiala di morfina, è andato tutto distrutto col blindato. Non posso
nemmeno
cercare di stordirti con le chiacchiere, altrimenti scommetto che
arrivano
anche i russi ad ascoltare.”
Nel
buio Hofmann stirò le labbra in un sorriso stentato e piegò ancora la
testa
verso quella mano calda e un po’ ruvida, come alla ricerca di un
contatto
maggiore. Schultz se ne accorse e gliela passò adagio fra i capelli,
poi
sistemò meglio la giacca che gli aveva steso addosso.
Egli
cercò di rannicchiarsi per sfruttare maggiormente quel po’ di calore,
ma il
movimento gli strappò un gemito. Subito la mano gli batté un paio di
pacche
affettuose sulla guancia, come per dirgli di stare fermo, di non
preoccuparsi.
Con
un movimento dettato più che altro dall’istinto, di nuovo Hofmann cercò
di
inseguirla nei suoi lenti passaggi: era tranquillo quando se la sentiva
addosso, ma appena si allontanava, ecco che un angosciante senso di
vuoto lo
pervadeva e lo spingeva a ricercare ansiosamente il suo contatto.
Un
brivido di freddo lo fece sussultare. Subito dopo ebbe l’impressione
che un
artiglio enorme gli stritolasse il torace frantumando tutto quello che
c’era
dentro: dietro le palpebre serrate vide come un lampo bianco, si
accorse di
aver stretto i denti quando le mandibole serrate gli scricchiolarono
come rami
sul punto di spezzarsi.
“No, no,” sussurrò la voce calma del capitano. “Va
tutto bene, figliolo. Non agitarti.”
Hofmann
emise un sospiro. Nei rari sprazzi di razionalità sapeva che niente
andava
bene, che erano in territorio nemico e accerchiati dai russi, ma nel
limbo di
dolore e paura nel quale era immerso, e nel quale di razionale non
c’era ormai
quasi più nulla, quelle pacate rassicurazioni erano tutto ciò che gli
impediva
di lasciarsi affogare.
“Va tutto bene,” ripeté il capitano sottovoce, come se
gli avesse letto nel pensiero. “Va tutto bene, ragazzo mio. Sta’
tranquillo.”
Hofmann
chiuse gli occhi e in un attimo sprofondò nell’incoscienza.
Quando
Schultz percepì un respiro approssimativamente regolare, anche se non
si
sarebbe certo potuto definire tranquillo, ritirò la mano e si rialzò.
Una
volta in piedi volse lo sguardo verso il basso, cercando di cogliere la
figura
del suo subalterno, ma ormai era troppo buio e non riuscì a vederlo.
Hofmann
non era per niente in buone condizioni. Soffriva molto e gli era anche
venuta
la febbre. Avrebbe avuto bisogno di cure adeguate, tanto per
cominciare, di
tranquillità e di un letto caldo. Di certo non gli faceva bene starsene
sdraiato per terra, affamato, con addosso l’uniforme indurita dal
sangue secco,
ma d’altra parte non avevano nient’altro a disposizione. Si passò le
mani sulle
braccia per scaldarsi: per quanto di giorno facesse caldo, di notte la
temperatura si faceva decisamente meno piacevole.
“Altendorf?” sussurrò.
Subito
una voce gli rispose: “Sono qui, signore.”
“Molto bene,” approvò il capitano, “direi che possiamo
fare un altro giro di ispezione alle postazioni difensive.”
“Sissignore.”
Si
incamminarono cauti.
Le
stelle emanavano un lieve lucore, che rendeva possibile distinguere
almeno i
contorni delle cose. Dappertutto c’erano palazzi distrutti, con
finestre come
orbite vuote. Tra le rovine non c’era una luce, regnava ovunque un
silenzio
spettrale, rotto solo da un lontano latrare di cani.
Era
una tranquillità sinistra, naturalmente, che comunicava un tormentoso
senso di
attesa.
Fece
cenno al caporale di seguirlo e tornò nell’androne. “Lei crede che i
russi
sappiano dove siamo?” gli chiese sottovoce.
L’altro
rispose: “La domanda è: hanno voglia di rischiare uomini in un attacco
notturno
o pensano di venirci a prendere con calma domattina?”
“Non è che ai russi importi molto di rischiare uomini,”
considerò Schultz con un’alzata di spalle.
“Già,” rispose Altendorf. A quel punto qualcuno si
avvicinò. Istintivamente Schultz si irrigidì e portò la mano alla
pistola, poi
si accorse che era il soldato Welke.
“Sono pronto, signore,” disse il giovanotto.
Il
capitano annuì, ma si rese conto che forse nel buio il suo gesto non
era stato
notato. “Va bene,” disse allora, “hai con te la mappa e il messaggio?”
Welke
tirò fuori dalla tasca il foglietto, poi disse: “La mappa l’ho imparata
a
memoria, signore. Là fuori non potrei consultarla.”
“Vero anche questo,” considerò Schultz. Gli batté una
mano sulla spalla e gli disse: “Ora va', soldato, e vedi di non farti
scoprire.”
“Sissignore.”
Welke
rimase per un po' a scrutare i dintorni, poi a un certo punto
sgattaiolò via,
con un rumore non più forte di quello che avrebbe prodotto un topo.
Un
attimo dopo sembrava essersi letteralmente volatilizzato. A Schultz
parve di
intravedere un movimento qualche metro più avanti, ma a una seconda
occhiata
tutto era di nuovo perfettamente immobile.
Emise
il fiato che aveva involontariamente trattenuto e rinculò fino a
scomparire di
nuovo nell'androne oscuro.
Per
quanto quel soldato gli desse l'idea di essere un tipo sveglio, si
impose di
non fare troppo affidamento su di lui. Le variabili del resto erano
infinite e
perlopiù a sfavore della riuscita dell'operazione: Welke poteva finire
ucciso o
cadere in mano nemica, o semplicemente perdersi, visto che si muoveva
in una
città sconosciuta, quasi completamente distrutta, al buio e con il solo
ausilio
di una mappa mandata a memoria. Oppure il battaglione poteva non essere
dove
avrebbe dovuto trovarsi, poteva aver ricevuto l'ordine di procedere,
poteva a
sua volta essere sotto attacco...
Stabilì
di non pensarci, non avrebbe risolto gran che tormentandosi con quei
ragionamenti. Si aggirò quasi tentoni per l'androne ingombro di
macerie, quindi
raggiunse di nuovo la più avanzata delle postazioni difensive.
Si
sedette in silenzio accanto al soldato di guardia e di nuovo scrutò i
dintorni.
Nella
notte senza luna la Vistola sembra un immobile nastro di ossidiana.
Solo ogni
tanto un'increspatura fa comparire sulle acque silenziose un rapido
luccichio,
come di un pesce che guizza per un attimo e poi scompare di nuovo nelle
profondità.
Hermann
Schultz, tenente delle Waffen-SS, scruta assorto le rovine di Stare
Miasto.
L'alta facciata di una chiesa gotica si staglia contro il cielo,
palazzi
distrutti ospitano qua e là tenui luci palpitanti e rendono la città
oscurata
simile alla distesa di lapidi di un cimitero. Da lontano giunge la vaga
eco di
colpi d'artiglieria.
D'un
tratto, il tenente ode un passo leggero. Si gira in quella direzione e
vede
muoversi una luce. Una sottile voce femminile dice: “Kamerad!”
L'ufficiale
aggrotta le sopracciglia e porta la mano alla pistola, ma già qualcuno
alle sue
spalle sta dicendo: “Una ragazza!”
Compare
in effetti una ragazza, o forse una bambina, a giudicare dalla
corporatura
minuta. Porta in testa un fazzoletto dal quale spuntano due trecce
bionde. In
una mano ha una lanterna e nell'altra un paniere coperto da un telo
bianco.
“Kamerad, Kamerad,” ripete, rivolgendo ai soldati un sorriso timido.
Gli
uomini si avvicinano. “Una ragazza, tenente!” dice qualcuno passando.
Un altro
suona con l'armonica a bocca 'In einem Polenstädtchen'[1]. Tutti sono
di colpo
molto allegri.
Schultz
stringe gli occhi, fissa il panierino, che gli pare un po' troppo
pesante per
contenere solo cibarie. Il manico di vimini scricchiola a ogni
movimento, il
cesto ha troppa inerzia nei movimenti.
D'un
tratto capisce. “Tutti indietro!” urla estraendo la pistola. “Indietro!”
Concentrati
sulla bella ragazza, i soldati non scattano come dovrebbero.
“Indietro!” urla
di nuovo Schultz, ma nello stesso momento la nuova arrivata tira fuori
dal
contenitore una bomba a mano senza sicura e la lascia cadere al centro
del
gruppo di militari, poi si gira e comincia a correre, cercando di
scomparire
tra le rovine.
Il
tenente si butta a terra, l'ordigno esplode. Nel lampo arancione
l'ufficiale
vede le pareti schizzarsi di sangue. Si guarda intorno: la ragazza si
sta
dileguando a tutta velocità lungo un vicolo oscuro, la sua gonna chiara
nel
buio sembra una medusa abissale.
Si
rialza, comincia a inseguirla, ma si rende conto che non riuscirà a
raggiungerla. Si ferma ansante, punta la pistola e preme il grilletto.
La
detonazione secca della P38 squarcia il silenzio, la medusa abissale
smette di
ondeggiare e si affloscia al suolo.
Gelido,
Schultz abbassa l'arma, la rinfodera e torna sui suoi passi.
✠
Strisciando
su gomiti e ginocchia, il soldato Welke procedeva tra le macerie.
Sembravano
disabitate, ma non lo erano affatto: c’erano delle pattuglie russe che
giravano
e gli pareva di avere visto anche dei civili rannicchiati in una casa
sventrata. Ringraziò che non ci fossero cani, perché in quel caso
sarebbe stato
molto più difficile passare inosservato.
Udì
il passo cadenzato di diverse paia di stivali militari e subito si
immobilizzò
a ridosso di un muro, avendo cura di occultarsi nell’ombra.
Una
pattuglia russa si avvicinò. Gli uomini parlavano fra loro a bassa
voce, sentì
nell’aria l’odore del grasso degli stivali e del tabacco Machorka.
Scrutando
nel buio riusciva anche a intravedere la forma rotondeggiante degli
elmetti.
Un
mozzicone di sigaretta cadde, qualcuno disse qualcosa a cui un altro
rispose
con una lieve risata, poi gli uomini si allontanarono camminando con
circospezione nella strada ingombra di detriti.
Welke
aspettò qualche minuto, poi uscì cauto dal nascondiglio, solo per
accorgersi
che gli acquartieramenti dei russi erano a meno di dieci metri di
distanza.
[1]
“In una cittadina polacca”, è l’inizio di una canzone dell’epoca che
parla di
una ragazza che viveva in una cittadina della Polonia.
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Capitolo 4 *** Capitolo 4 ***
Carissimi
lettori,
anche questa storia giunge alla sua
conclusione.
Ringrazio tutti voi per avermi
seguito e per aver reso viva questa vicenda con il vostro interesse e
la vostra
partecipazione.
Un ringraziamento speciale va ovviamente
a chi è stato così gentile da lasciarmi anche un parere su quello che
ha letto.
Capitolo 4
L’autoblindo
è rovesciato con le ruote all’aria, dal serbatoio squarciato il
carburante cola
sull’asfalto e si allarga in una macchia che sotto il sole prende
riflessi
iridescenti. Per effetto del caldo torrido, da essa si levano vapori
che fanno
tremolare l’aria.
Con
fatica Hofmann apre gli occhi e sbatte le palpebre per mettere a fuoco
ciò che
sta vedendo. Ci sono fumo, macerie, i pezzi contorti di un automezzo.
Corpi
riversi, alcuni dei quali immobili su lucide chiazza di sangue.
Si
rende conto di una sensazione di bagnato, che gli appesantisce gli
abiti e
glieli fa aderire addosso. Prova a muoversi e percepisce la sensazione
di
qualcosa di vischioso.
Sangue,
pensa dapprima con orrore. Non sente dolore da nessuna parte, ma non è
certo un
mistero che proprio le ferite più gravi conferiscano una sorta di
anestesia.
Lui stesso ha visto uomini perdere arti e accorgersene solo alla fine
della
battaglia.
“Sono ferito?” prova ad articolare,
ma quello che gli esce dalla gola è solo un mormorio roco.
A
quel punto abbassa gli occhi sulla pozza di bagnato e si rende conto
che è
benzina: essa sta sgorgando a fiotti dal serbatoio e ruscella
tutt’intorno a
lui.
Cerca
senza successo di spostarsi. Si gira e vede con orrore che la fiancata
del
blindato lo inchioda al suolo.
Chiama
i suoi uomini, ma si accorge di non riuscire a emettere alcun suono. Li
vede in
lontananza, intenti a spostare i feriti o a raccogliere quanto è stato
proiettato in giro dall’esplosione, ma nessuno sembra accorgersi di lui
e dei
suoi disperati tentativi di attirare la loro attenzione.
Poi
uno dei soldati si accende una sigaretta e lascia cadere il fiammifero
acceso.
Hofmann
ne segue inorridito la parabola, lo vede rimbalzare a terra una volta,
e poi
atterrare sulla pozza di benzina.
Le
fiamme si levano in un attimo, avide, feroci, di un giallo brillante.
Il
sergente se le vede venire incontro a spaventosa velocità, ne viene
investito,
le vede avventarglisi addosso. Un dolore urente comincia a dilaniarlo
mentre
lui si torce in preda agli spasimi.
Emette
un lungo grido d’agonia.
L’urlo
fece quasi sussultare il capitano Schultz. “Merda!” imprecò fra i denti
l’ufficiale, quindi abbandonò il suo punto d’osservazione e tornò in
fretta
all’interno del palazzo diroccato.
Si
avvicinò a Hofmann e si accorse che il giovane stava ansimando e
tremando. Gli
posò una mano sulla fronte e a bassa voce gli chiese: “Che c’è, Fritz?”
“Il fuoco,” boccheggiò Hofmann per tutta risposta. “Il
fuoco… è dappertutto.”
“Ma no, non c’è nessun fuoco,” gli disse Schultz dandogli
qualche buffetto il viso. “Era solo un incubo. Senti che freddo? Nessun
fuoco.”
Fece una pausa, poi soggiunse: “Magari ce ne fosse un po’.”
“Signor capitano...” ansò il sottufficiale. A fatica
fece scivolare una mano fuori dalla giubba che Schultz gli aveva
disteso
addosso e cercò di toccarlo. Sembrava che volesse accertarsi che fosse
proprio
lui, che non se ne andasse.
“Sono qui,” rispose l’altro stringendogliela piano.
“Sono qui, Fritz, sta’ tranquillo.” Gli posò la mano libera sulla
fronte e si
accorse che stava bruciando. Gli sollevò la nuca, poi a tentoni cercò
la
borraccia e gliela avvicinò alle labbra. “Bevi un po’, forza.”
Hofmann
mando giù qualche sorso.
“Bravo ragazzo,” approvò Schultz. “Ora fa silenzio,
però. Non vorrai far arrivare qui i russi.”
“Nossignore.”
“Bravo. Cerca di dormire un po’, se ci riesci.”
Si
voltò in direzione di una finestra sventrata da uno scoppio. Fuori era
ancora
buio pesto, il cielo era di un nero uniforme, punteggiato qua e là di
flebili
stelle. Cercò di scrutare il suo orologio da polso, ma la fosforescenza
delle
cifre era troppo debole e non riuscì a ricavarne dati certi.
Con
un sospiro di frustrazione tornò a rivolgere la propria attenzione al
cielo
notturno. Sentiva accanto a sé il respiro stentato di Hofmann: il
ragazzo
doveva avere parecchie costole rotte, e di certo il buco che aveva nel
fianco
non aiutava. Si chiese quante possibilità di sopravvivere avesse,
considerato
il niente che era riuscito a fare per curarlo.
“Fritz, tieni duro,” sussurrò.
Si
alzò, fece ritorno alla postazione. Per quanto ne conoscesse a memoria
la
quantità, tastò nel buio i nastri di mitragliatrice e calcolò
mentalmente
quanti minuti di fuoco avrebbero consentito.
“Raffiche brevi,” raccomandò al soldato addetto
all’arma.
“Pensa che arriveranno signore?” La voce suonò
straordinariamente giovane, Schultz ragionò che doveva essere quella di
un
diciottenne.
“Arriveranno, sì,” rispose il capitano, “ma noi saremo
pronti a riceverli.” Batté una mano sulla spalla del soldato.
✠
Welke
si rannicchiò contro un muro, avendo cura di mantenersi nella zona più
buia.
Ora che i suoi occhi erano perfettamente abituati all’oscurità,
distingueva nel
nero della notte innumerevoli sfumature. Il cielo, per esempio, era
come
percorso da screziature grigiastre, e a ben guardare si faceva
leggermente più
chiaro verso l’orizzonte.
Le
pareti degli edifici erano a loro volta grigie, più che nere. Quelle
che di
giorno erano bianche sembravano addirittura emanare una debole
luminescenza,
paragonate alle altre.
Se
teneva una mano davanti a sé ne percepiva vagamente i contorni, se
fissava con
attenzione gli spazi aperti era in grado di cogliere la presenza di
ostacoli.
Cercò
di richiamare alla mente la mappa della città. Tenuto conto delle
deviazioni che
aveva dovuto fare per evitare pattuglie nemiche, ormai avrebbe dovuto
trovarsi
nelle vicinanze delle linee tedesche.
Si
guardò intorno attentamente, quasi augurandosi che le sue pupille
potessero
diventare succhielli in grado di penetrare l’oscurità, ma ciò che lo
circondava
era solo buio e silenzio. Mai come in quella zona Minsk sembrava morta,
mai
abitata da anima viva.
Sembrava
che la guerra avesse avuto luogo secoli prima, e che quelle fossero
rovine di
un tempo ormai remoto.
Si
alzò un refolo di vento, che sibilando tra le macerie parve un lamento
desolato.
Il
soldato fece per riprendere la marcia, ma in quel momento qualcosa gli
si puntò
brutalmente tra le scapole, strappandogli un gemito di sorpresa e
dolore.
Si
irrigidì e di colpo si sentì la bocca secca. Deglutì a vuoto e alzò
adagio le
mani.
Cercò
di voltarsi, ma la pressione tra le scapole si fece più dura, quasi
sbilanciandolo in avanti. Welke strinse i denti, e l’unica cosa che
riusciva
con angoscia a pensare era che avrebbe tradito la fiducia del capitano
Schultz.
Fece
mente locale: le linee tedesche non potevano essere lontane e con quel
silenzio
i suoni si propagavano con grande facilità. Anche se lo avessero
ucciso, non
l’avrebbero certo portato via, e aveva pur sempre addosso il messaggio
del
capitano, che avrebbe fatto capire perché era arrivato fin lì.
“Camerati!” urlò con quanto fiato aveva in gola.
Alle
sue spalle qualcuno disse qualcosa che aveva il tono aspro di
un’imprecazione.
Il calcio di un fucile lo colpì talmente forte da riempirgli la testa
di
campane e il campo visivo di luci bianche, tuttavia gridò di nuovo:
“Camerati,
sono qui!”
Salirono
dei bengala nel cielo buio, sentì degli spari. Una mitragliatrice
crepitò.
Di
nuovo qualcosa lo colpì, non avrebbe saputo dire se era una botta o un
proiettile. Crollò in avanti e sentì l’impatto del selciato contro il
viso.
Percepì un tramestio confuso, voci che gli parvero tedesche, poi perse
i sensi.
✠
All’orizzonte
era comparsa una linea lattiginosa, di un grigio-bluastro livido.
Schultz
rabbrividì e di nuovo si passò le mani sulle braccia per scaldarsi:
tutta
l’umidità della notte sembrava essersi concentrata in quel dannato
posto.
Col
passare delle ore, dal fiume era anche salita una specie di nebbia
malsana e
puzzolente di limo, che strisciava rasoterra coprendo ogni superficie
di una
patina fredda e appiccicaticcia.
Per
l’ennesima volta abbandonò la postazione difensiva e tornò
nell’androne. Con l’approssimarsi
dell’alba non vi regnavano più tenebre picee: sul pavimento era
possibile
distinguere vaghe sagome riverse, di chi non era di guardia e di chi
era ferito
troppo gravemente per compiere qualsiasi servizio.
Fece
di nuovo un giro per controllare le condizioni di ognuno. Il soldato
con la
testa fasciata sembrava stare meglio, era immerso nel sonno e respirava
regolarmente. Gli altri più o meno avevano ferite da lievi e moderate,
per cui
si erano in qualche modo arrangiati e dormivano gli uni addosso agli
altri per
scaldarsi a vicenda.
L'unico
che versava in condizioni critiche era il sergente Hofmann. Si trovava
in uno
stato di dolorosa veglia, Schultz lo capiva dal respiro irregolare e
dai
movimenti, che denotavano l'infruttuosa ricerca di una posizione in cui
il
dolore fosse meno intenso.
Si
chinò su di lui: il più giovane non diede nemmeno mostra d'essersi
accorto
della sua presenza. Anche nel buio si coglieva il pallore del suo viso
come una
macchia lattea, e pur coperto tremava di freddo.
Il
capitano gli posò una mano sulla fronte, rilevando che la febbre aveva
ceduto
il passo a una cute fredda e sudata. Strinse le labbra: quello non era
assolutamente un bel segno. Insinuò la mano sotto la giubba che gli
aveva steso
addosso e con orrore si accorse che c'era qualcosa di umido: durante la
notte
le ferite dovevano essersi riaperte e avevano intriso i pacchetti di
medicazione e l'uniforme del sergente.
“Fritz,”
mormorò. Gli sollevò la testa, poi prese la borraccia e gliel'avvicinò
alle
labbra, ma Hofmann non bevve. Rimase inerte contro di lui, ansando
appena, e
quando lo rimise giù non diede nemmeno un lieve gemito.
“Coraggio,
Fritz, tieni duro,” gli disse. “Tieni duro, ragazzo. Fallo per il tuo
capitano.”
Non
giunse risposta.
Schultz
si raddrizzò e si volse per l'ennesima volta verso la finestra, che
contro il
cielo ormai non più nero appariva come un buco informe, con un'anta che
pendeva
da uno dei lati.
Strinse
gli occhi, annusò pensoso l'aria: gli parve di sentire un vago odore di
tabacco, quando era sicuro che le sigarette della sezione fossero da
tempo
finite.
Raggiunse
Altendorf e trovò anche lui all'erta. “Arrivano,” si limitò a
sussurrare, “dia
l'allarme generale. In silenzio.”
“Sissignore.”
“Tutti
coloro che sono in grado di reggere un'arma dovranno combattere, i
feriti
troppo gravi saranno spostati in una zona più protetta.”
“Sissignore,”
ripeté Altendorf. Si scambiarono un'occhiata: era chiaro che per i
feriti gravi
non si poteva fare altro. Se avessero vinto, in breve essi avrebbero
ricevuto
le cure necessarie, ma se fossero stati sconfitti, probabilmente chi di
dovere
avrebbe provveduto a finirli, e anche se non l'avesse fatto, i loro
camerati
avevano davanti solo pochi giorni di sofferenza e poi sarebbero morti
comunque.
Controllò
personalmente le armi di ognuno, spedì gli uomini ai posti di
combattimento.
Lui stesso si mise ad armacollo un MP40 e si infilò in tasca un paio di
caricatori di riserva. Rivolse un'ultima occhiata a Hofmann, che due
soldati
stavano cautamente sollevando per portarlo altrove, e una ruga
verticale gli si
disegnò sulla fronte. Non si faceva illusioni: non avrebbero resistito
a lungo
in caso di attacco. Avevano poche munizioni e ancora meno uomini
validi. Non
sapeva a quanto ammontassero gli effettivi dei russi, ma di sicuro
doveva
essere un consistente multiplo rispetto a una dozzina di feriti esausti
e male
armati.
Scivolò
all'esterno, verso una delle postazioni, e da lì si diede a osservare i
dintorni.
L'oscurità
stava cedendo il posto a un crepuscolo grigio, nel quale si
cominciavano a
distinguere le cose. Notò un armadio sfasciato che conservava due belle
ante a
specchio, una delle quali addirittura intatta. Considerò che doveva
essere
stato un mobile di pregio, di cui probabilmente la sua padrona – di
certo aveva
contenuto abiti da donna – era andata molto fiera.
Mentre
era immerso in quei pensieri, notò che sulla lastra si stava
riflettendo un
movimento. Fissò lo sguardo in quella direzione e si accorse che erano
soldati
russi. Qualcuno stava cercando di portare avanti un attacco a sorpresa.
Si
chiese perché usare tanti sotterfugi, quando avrebbero potuto
semplicemente
inondarli di piombo da lontano, ma prima che potesse elaborare una
risposta
echeggiò la prima raffica di PPD.
Come
se quello fosse stato un segnale, tutt'intorno all'edificio diroccato
si
scatenò un inferno di fuoco. Colpi di ogni genere, più abbondanti che
precisi,
si abbattevano sulla costruzione, facendone volare pietrisco e
calcinacci.
Schultz
soffocò un'imprecazione mentre in un attimo il senso della manovra gli
diveniva
chiaro: avevano sfruttato il buio per accerchiarli, forse pensando che
fossero
molti più di dodici.
“Ricorda
che chi difende è sempre in vantaggio,” disse al mitragliere, quindi si
diresse
verso la successiva postazione.
Lì
il mitragliere stava già sparando. Raffiche brevi, come lui stesso
aveva
raccomandato, il più possibile precise, ma anche risparmiando al
massimo le
munizioni, i nastri scorrevano con inquietante velocità. Trincerati
tutt'intorno, i russi sparavano a loro volta.
Il
capitano imbracciò un 98K, mise il colpo in canna e mirò con cura,
quindi
premette adagio il grilletto. Un russo fece una capriola all'indietro e
rimase
a terra immobile.
Schultz
mirò di nuovo, e ancora una volta abbatté un nemico, poi dovette farsi
precipitosamente indietro per evitare una sventagliata di proiettili.
Si
fece di nuovo avanti per sparare, ma in quel momento il servente alla
mitragliatrice cadde all'indietro con un lamento.
Il
capitano fu lesto a recuperare il nastro e a inserirlo. Batté una pacca
sulla
spalla del tiratore per fargli capire che l'arma era pronta ed egli
ricominciò
a bersagliare i russi con raffiche brevi e precise.
Piovve
una bomba a mano, finendo alle loro spalle con una lunga parabola.
L'esplosione
provocò la caduta di un angolo di muro, che franò in una nuvola di
polvere.
Subito
dopo ne giunse un'altra, più vicina, che crivellò di schegge i sacchi
di sabbia
della postazione.
“Via!”
ordinò Schultz quando l'ultimo nastro fu terminato. Afferrò il soldato
per il
colletto e lo fece alzare, “Via, ripiegare!”
Arretrarono
verso l'edificio. Un russo saltò la barriera per inseguirli, il
capitano
estrasse la pistola e lo freddò con un colpo, poi lui e il soldato
arretrarono
fin dentro l'androne, i cui accessi erano stati quanto possibile
fortificati.
I
due si misero in copertura dietro spezzoni di muro.
L'aria
era ormai irrespirabile, le pallottole fischiavano, schegge di metallo
e pietra
volavano per ogni dove.
Dentro
la stanza devastata il frastuono era assordante: detonazioni, spari e
lamenti
si sovrapponevano in una cacofonia demoniaca, che rintronava e
disorientava. Il
fumo e la scarsa luce rendevano difficile distinguere cosa stesse
accadendo.
Il
capitano inserì l'ultimo caricatore. Se all'inizio della battaglia si
era posto
il problema di cosa sarebbe successo un'ora dopo, ora le sue previsioni
si
erano ristrette a minuti e poi ai pochi secondi necessari a sparare una
salva
di due o tre colpi. Non aveva modo di fare previsioni più a lungo
termine.
Ormai sparava contro tutto ciò che aveva il color terra delle uniformi
russe e
la sua unica preoccupazione era che i sovietici non si avvicinassero ai
feriti
gravi.
Una
preoccupazione stupida, lo riconosceva lui stesso nei rari attimi in
cui
riusciva a formulare un pensiero concreto, ma comunque per i suoi
criteri una
ragione più che valida per combattere fino all'ultimo uomo.
Raccolse
l'ultima delle granate a manico, la decapsulò e la spedì in mezzo a un
gruppo
di russi che stava tentando di forzare una delle barricate. L'ordigno
esplose
con un lampo arancione, abbatté la maggior parte degli assalitori, ma
creò una
larga breccia laddove prima si era trovato l'ostacolo.
Il
capitano lasciò cadere le armi ormai scariche e sfilò dalla cintura la
vanga da
trincea affilata che aveva avuto cura di raccogliere. La impugnò a due
mani e
sferrò un fendente al più avanzato dei russi, praticamente
decapitandolo di
netto.
Il
corpo si abbatté al suolo lasciandosi dietro un rutilante spruzzo di
sangue, si
torse un paio di volte negli ultimi spasmi nervosi, poi giacque
immobile. Chi
veniva dietro di lui – un commissario politico, a giudicare dalle
spalline –
ringhiò qualcosa e gli puntò contro la pistola, Schultz si fece da una
parte,
poi di nuovo balzò in avanti, calando l'improvvisata arma dall'alto tra
la
spalla e il collo dell'avversario.
La
lama si piantò quasi completamente, il capitano cercò senza successo di
estrarla, puntò il piede sul torace del nemico che nel frattempo era
caduto a
terra e fece forza, ma un attimo dopo fu costretto ad abbandonarla per
evitare
l'assalto di un altro russo, rotolò a terra, fece per rialzarsi,
qualcosa lo
colpì facendogli calare un velo nero davanti agli occhi.
Stramazzò.
In un lampo di lucidità vide Altendorf crollare sotto una raffica di
mitra, cercò
di rimettersi in piedi, qualcosa lo colpì al costato. Rotolò sulla
schiena,
vide un soldato fermo a gambe larghe, con un Mosin-Nagant imbracciato,
che
mirava contro di lui. Sbatté gli occhi e con una curiosa indifferenza
fissò lo
sguardo in quello del russo.
Ci
fu un attimo di immobilità sospesa, nel quale anche il frastuono che
regnava
ovunque parve affievolirsi fino a scomparire, poi il soldato sussultò,
rovesciò
gli occhi e si accasciò al suolo.
Al
suo posto comparve il tenente Weber, che si chinò a osservarlo e in
tono
tranquillo gli chiese: “È ferito da qualche parte, signor capitano?”
Schultz
sbatté gli occhi e per qualche secondo fissò il subalterno incapace di
articolare le parole. Non lo sapeva se era ferito da qualche parte, non
sapeva
nemmeno cosa stesse succedendo esattamente. Girò appena lo sguardo e
vide due
soldati della sanità chini sul caporale Altendorf. Uno di essi aveva in
mano
una siringa, l'altro stava svolgendo rotoli di garza.
“Hofmann,”
articolò infine. “Il sergente Hofmann è ferito in modo grave, deve
essere visto
subito un medico.”
“C'è
il dottor Meyer con lui.” Poi, dopo una pausa: “Lei sta bene, signor
capitano?”
A
quel punto, Schultz riuscì a fare mente locale: era sdraiato per terra,
aveva
la camicia strappata, era sporco di sangue. Non sentiva male da nessuna
parte,
aveva ancora tutti e quattro gli arti ed era in grado di muoverli. Si
toccò la
testa, ma per quanto si sentisse rintronato non vi trovò lesioni
strane. “Direi
che sto bene,” proferì alla fine, quindi puntò una mano sul pavimento e
con una
certa fatica si rialzò in piedi. “Sto bene,” ripeté deciso quando fu di
nuovo
sulle sue gambe.
Barcollò
appena, si appoggiò con la mano a una parete butterata di segni di
proiettile.
Tutt'intorno c'erano soldati della sua compagnia, sullo sfondo vide
passare
anche il tenente Planck.
Weber
gli rivolse un lieve sorriso, forse il primo da quando si conoscevano,
e disse:
“Quando il soldato Welke è arrivato al battaglione e ha riferito quello
che era
successo, tutti si sono offerti volontari per la spedizione di
recupero.
Persino von Auberg ha chiesto il permesso di lasciare l'ospedale da
campo.”
Fece una pausa, poi concluse: “Non gli è stato accordato, naturalmente.”
✠
Hofmann
riaprì gli occhi in un luogo tutto bianco: pareti bianche, letto
bianco, una
specie di camicia bianca addosso. C'era una finestra dalla quale si
intravedeva
un cielo sbiadito, che a sua volta sembrava quasi bianco.
L'unica
nota di colore era il ritratto del Führer appeso alla parete di fronte
al suo
letto.
Girò
lo sguardo di lato, verso il comodino, sul quale qualcuno aveva posato
un
bicchiere con dell'acqua.
Cercò
di sollevare la mano per raggiungerlo, ma il braccio era talmente
pesante che
sembrava fatto di piombo.
Emise
un sospiro di frustrazione.
In
quel momento udì dei passi che si avvicinavano e una voce conosciuta
disse: “Ha
sete, giovanotto?”
Sul
volto pallido del sergente si allargò un sorriso. “Signor capitano,”
mormorò.
“Adesso
non posso più chiamarla Fritz, ragazzo mio,” disse l'ufficiale
sedendosi sul
letto accanto a lui, “il regolamento, lei capisce. Ma quello che è
successo non
si cancella, giusto?”
Gli
passò una mano dietro la nuca, quindi raccolse il bicchiere e glielo
avvicinò
alle labbra.
Hofmann
bevve obbediente qualche sorso, poi rispose: “Nossignore, non si
cancella.”
Il
capitano posò il bicchiere. “Sta un po’ meglio, sergente?”
Il
più giovane sorrise di nuovo. “Grazie a lei, signore.”
Schultz
scosse la testa. “No, grazie alla morfina, direi. Il dottor Meyer
gliene deve
aver dato un secchio, con tutti i danni che aveva messo insieme.”
Allungò una
mano a dargli un buffetto sulla guancia.
Come
era successo nel palazzo diroccato, Hofmann piegò la testa a
intercettare la
carezza, poi sollevò lo sguardo a incontrare il suo e in tono di
serietà grave
disse: “Un capitano come lei si segue fino all’inferno, signore.”
“E
con sottufficiali come lei, sergente, conquisteremmo l’inferno e ne
faremmo un
Reichsgau.”
“Come
l’Austria, signore?”
“Beh,
no. Non così. Immagino che avere a che fare con i diavoli non sarebbe
difficile
come avere a che fare con gli austriaci.”
Hofmann tentò una lieve risata, ma dovette
interrompersi subito mentre una smorfia di dolore gli attraversava i
lineamenti
fino a quel momento distesi.
“Non
pensi agli austriaci, ragazzo mio,” lo ammonì Schultz fingendo un
cipiglio
serio. “Come vede, fa male alla salute.”
Rimasero
a fissarsi in silenzio per qualche secondo, poi il capitano si alzò
risolutamente in piedi e disse: “Ora devo andare, sergente. Veda di
riposarsi
in licenza.”
Hofmann
deglutì. “Sissignore.”
“E
veda di ritornare qui in piena efficienza.”
Temendo
di non riuscire a mantenere la voce ferma, il sergente si limitò ad
annuire.
Schultz
forse lo capì, in uno di quei momenti di delicatezza che nessuno
avrebbe
sospettato in un individuo così spiccio e rude, fatto sta che distolse
lo
sguardo e disse: “Ora vado, Hofmann. Devo controllare quel Weber, lei
capisce,
altrimenti è capace di arrivare a Mosca da solo e farci un
Reichsprotektorat
alla faccia di tutti i generali che comandano l’offensiva.”
Uscì
senza attendere risposta.
Hofmann
rimase in silenzio a guardare le sue spalle robuste che si
allontanavano e
quando riappoggiò il capo sul cuscino lo fece con una sensazione di
pace e
sicurezza che da giorni non provava.
Rievocò
le parole che si erano scambiati tempo prima, noi saremo gli avi di
nipoti
che ridono, e si addormentò con un lieve sorriso sulle labbra.
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