My Hero Academia: HG

di LaserGar
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** La città di ferro - Parte Prima: Yunix Braviery ***
Capitolo 3: *** La città di ferro - Parte Seconda: I villaggi della miseria ***
Capitolo 4: *** La città di ferro - Parte Terza: Heaven Hero ***
Capitolo 5: *** La città di ferro - Parte Quarta: Arkendel vs Ten Ken ***
Capitolo 6: *** La città di ferro - Parte Quinta: E' bello morire di primavera ***
Capitolo 7: *** Approfondimenti - I ***
Capitolo 8: *** H.G. - Parte Prima: Punto di partenza ***
Capitolo 9: *** H.G. - Parte Seconda: Veri Eroi ***
Capitolo 10: *** Un Vortice di Quirk - Parte Prima: Test d'Ingresso, stiamo arrivando! ***
Capitolo 11: *** Un Vortice di Quirk - Parte Seconda: Infection ***
Capitolo 12: *** Un Vortice di Quirk - Parte Terza: Stelle, Acqua e Foglie ***
Capitolo 13: *** Benvenuto tra gli Eroi - Parte Prima: L'intraprendenza di Asia Shiena'q ***
Capitolo 14: *** Benvenuto tra gli Eroi - Parte Seconda: Fiducia ***
Capitolo 15: *** Benvenuto tra gli Eroi - Parte Terza: La Parte Giusta degli Schieramenti ***
Capitolo 16: *** Soldato Numero 1831, Armday: Origins - Parte Prima ***
Capitolo 17: *** Soldato Numero 1831, Armday: Origins - Parte Seconda ***
Capitolo 18: *** Benvenuto tra gli Eroi - Parte Quarta: Catena gemella ***
Capitolo 19: *** Benvenuto tra gli Eroi - Parte Quinta: Finalmente liberi dal passato! ***
Capitolo 20: *** Il Commiato di un Generale - Parte Prima: Verde Sentenza ***
Capitolo 21: *** Il Commiato di un Generale - Parte Seconda: Vincolati dal sangue... e dalla vita ***
Capitolo 22: *** Il Commiato di un Generale - Parte Terza: La tracotanza di Coal Naive ***
Capitolo 23: *** Prendi una decisione, Yunix! ***
Capitolo 24: *** Una Strada per il Futuro - Parte Prima: Le angustie di Bakugo e il cimelio d'oro ***
Capitolo 25: *** Una Strada per il Futuro - Parte Seconda: Risentimento ***
Capitolo 26: *** Una Strada per il Futuro - Parte Terza: I colori di un demone ***
Capitolo 27: *** Una Strada per il Futuro - Parte Quarta: Oh vittoriosa! ***
Capitolo 28: *** Una Strada per il Futuro - Parte Quinta: What a Quirky class! ***
Capitolo 29: *** Una Strada per il Futuro - Parte Sesta: Il mistero di Hearts Galvan ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo


Era ormai l’alba. Lo si capiva non solo dalla luce soffusa, che filtrava dove il fogliame era meno fitto, ma anche dalla ricomparsa della nebbia fumosa, che si era dispersa durante la notte. Da qualche parte, si sentì il richiamo di un uccello esotico, ma era lontano. Gli animali giravano ormai a largo del cantiere e non c’era affatto da stupirsi di questo. Tre lunghi mesi di lavoro avevano creato un nuovo piccolo ecosistema nell’area verdeggiante, ancora intaccata per la maggior parte, ma ora colpita nel cuore da un dardo dei più letali: l’umanità. L’uomo col berretto rabbrividì. La sua patetica giacchetta non serviva quasi a nulla contro quell’atmosfera gelida e inospitale, ma non poteva permettersi una pausa. Chi l’avrebbe mai detto che sarebbe andato a congelarsi il culo in Amazzonia? Non si aspettava quel clima quando era arrivato in quella giungla, che di giorno faceva sudare ben più di sette camicie. Eppure, l’alba era sempre dominata da quell’umidità malvagia, che non lasciava scampo. Che ci provasse pure quanto voleva. Nulla lo avrebbe smosso contro la sua volontà: tendeva a fermarsi esclusivamente per riprendere fiato. Per il resto del tempo, era sempre al lavoro. La superficie che gli scavi avevano raggiunto era incredibile: più di quattro stadi, per certo. I problemi maggiori erano le rocce. A quelle dovevano pensare lui e gli altri con poteri simili. Finché non pioveva, non c’erano troppi problemi. Una settimana prima, avevano dovuto fermare i lavori per due interi giorni e sembrava che ogni progresso fatto fosse andato in fumo. Colpa di quell’acqua del cazzo. Il giovane dai capelli biondo-sporco si asciugò la fronte, come poteva. Sudare poteva essere fatale in quel momento della giornata o, se non altro, avrebbe potuto garantirgli un simpatico raffreddore di quelli che non se ne vanno mai. D’altra parte, la maggior parte dei suoi colleghi era in malattia in quel momento. Ma lui no. Lui voleva portare tutto alla luce... Da che mondo e mondo, Clayde non era certo una persona istruita e non aveva timore di ammetterlo. Avevano bisogno del suo potere, ecco tutto, e lo stesso riguardo riservavano ai suoi compagni. A lui andava bene, però. Per la prima volta nella sua vita si sentiva utile in qualche modo. Non era tanto disperato da fare il villain, né un patetico disoccupato. E ora persino la sua nuova umile mansione pareva a rischio. Dopo il ritrovamento del giorno precedente, gli scienziati sembravano pronti a smantellare tutto da un momento all’altro. Clayde ci aveva pensato, riverso sulla brandina, un’intera notte; non era d’accordo. E se ci fosse stata un’intera città sotto di loro? Chissà quali segreti avrebbero potuto svelare... Nelle sue idee, Clayde immaginava un popolo vivo. E perché no? Tutto poteva essere. Quanto ci sarebbe voluto non gli interessava. Lui non aveva chissà cosa da fare, in fondo. Una città sotterranea? Scommetteva che in un anno avrebbero potuto farle conoscere la luce, ammesso che tale città ci fosse stata ovviamente, ma Clayde questo lo dava per scontato. Non sapendo leggere, si accontentava delle immagini e quel disco di pietra rinvenuto... oh, se ne aveva di immagini o bassorilievi o come diavolo si diceva. Non faceva altro che pensarci... Aveva scoperto di amare i reperti, in quel cantiere. Ne aveva visto uno e lo aveva trovato affascinante, quindi doveva amarli per forza. Una sorpresa, sì... Ma non delle peggiori. Questo senza dubbio era un segno del destino. Forse, dopo tutto quello, si sarebbe dedicato alla sua istruzione e sarebbe diventato un ricercatore. “Ma non qui... Non in questa maledetta giungla.” Starnutì. Quel freddo lo stava facendo impazzire. La roccia che stava frantumando era un vero e proprio macigno, più duro di quelli incontrati finora. Persino il suo potere stava incontrando una certa difficoltà a farsi largo in esso. Se non altro lavorava all’aperto. Questo lo metteva in una posizione molto conveniente, in quanto si trovava nelle prossimità del laboratorio principale. Il disco era lì. Ora che non c’era nessuno a controllarlo, non avrebbe certo guastato un’altra occhiata... Interruppe il suo lavoro. Il suo Quirk, Winter Excavator, si disattivò con semplicità. Clayde soffiò sulle mani congelate, per poi assicurarsi che i paraorecchie coprissero bene quello che dovevano coprire. Una piccola pausa poteva anche permettersela. Il reperto era a pochi metri, in fondo. “Un’altra occhiata... Solo un’altra occhiata...” A Clayde di norma non piaceva esimersi dal lavoro. Non tanto perché gli importasse, ma più che altro per una disposizione naturale a darsi da fare. A Temigor aveva lavorato per un certo periodo nella miniera d’acciaio e non aveva mai saltato un giorno. Certo, se la sua dedizione era così grande, lo era anche l’intolleranza verso gli scansafatiche. Quando se l’era presa con la persona sbagliata era finito sul lastrico, con la schiena non lontana dall’essere spaccata. Che si fottesse quel dannato signorotto. I giorni bui della sua vita erano lontani per fortuna. Allontanò dalla fronte i capelli biondi che spuntavano dal berretto scarlatto, a ciuffi appuntiti. Anche un reietto come lui poteva avere dei sogni. Senza timore di farsi scoprire, si incamminò a grandi falcate verso il laboratorio inferiore, dove le scoperte migliori venivano radunate. Come al solito, la sua noncuranza aveva avuto la meglio. Se Clayde doveva essere colto sul fatto, avrebbe accettato a testa alta le conseguenze. Il cantiere sembrava ancora addormentato. I tendoni e le piccole abitazioni bianche sembravano quasi accoglienti, in quell’atmosfera mattutina. Erano non meno di venti complessi. Come si poteva pensare di abbandonare la missione, dopo tutta la fatica che avevano fatto per installare quella ‘città’ nel cratere che avevano creato? Il laboratorio inferiore era solo parzialmente all’aria aperta. Pannelli bianchi oscuravano la vista a tutti, ma se c’era qualcosa che piaceva al giovane lavoratore, era la fortuita mancanza delle misure top secret, che ci si sarebbe aspettati di trovare in un cantiere come quello. L’entrata era chiusa, certo, ma da stringhe di plastica e solo un timido muretto di cemento circondava la struttura contorta del laboratorio. La politica di Temigor era davvero bizzarra. Quell’operazione andava presa alla leggera o no? Di quello che aveva detto il sindaco, nell’unica apparizione che aveva fatto, Clayde ricordava solo qualche frase. Aveva nominato i Quirk, le potenzialità infinite... forse aveva accennato alla cultura e altre cazzate simili. Se avesse parlato lui, avrebbe certamente discusso della possibilità di scoprire una seconda Temigor, nel sottosuolo. Lo stato indipendente sarebbe passato da una sola città a ben due. Il possesso di quella terra ce l’avevano già, quindi non ci sarebbero stati problemi. A quel punto, non sarebbe stata impensabile una sua candidatura come sindaco del nuovo mondo. In ogni caso, la mancanza di controlli faceva proprio al caso suo. Scavalcò rigidamente il muretto e tagliò con audacia le stringhe, ma solo quelle inferiori, in modo da celare almeno superficialmente l’intrusione. A quel punto, fece passare la sua figura sciatta e scheletrica nell’apertura. Senza problemi, fu oltre i pannelli del laboratorio. La luce mattutina filtrava attraverso le fessure e a illuminare il resto erano rudimentali luci d’emergenza, che si adoperavano anche nelle miniere di Temigor. Notò con fastidio che il cibo era già stato preparato per quel giorno, accatastato alla parete come immondizia... E lo era in effetti. Clayde ne aveva piene le tasche del cibo sudamericano, confezionato per di più. Che si fottesse anche l’adeguarsi alla cultura del posto. Non vedeva l’ora di un bell’hamburger di quelli che aveva provato una volta nel distretto est... Gli bastò pensarlo per sentire un sottile brontolio e si ricordò di aver saltato la cena. Quando sarebbe tornato, ne avrebbe presi cento di hamburger. Doveva recuperare tutti i pasti saltati. Non era colpa sua, a dir la verità. Era capace di non mangiare per giorni, senza sentirne il minimo bisogno. Lo diceva sempre: se c’era qualcosa per cui sarebbe potuto eventualmente morire, sarebbe stata la fame. Superò l’ingresso, sorridendo al pensiero. Ogni tanto si sorprendeva della sua stessa sagacia. L’area all’interno era piuttosto incasinata. Era praticamente impossibile avanzare, senza urtare qualcosa nel percorso. C’erano più reperti di quanti immaginasse... Iscrizioni e bassorilievi a non finire, ma il suo bersaglio era il disco in fondo alla stanza. Diede un calcio a un vaso di coccio e a una bacinella piena di resti, sul percorso. “Perdono tempo su questa robaccia, quando lì potrebbero scrivere la storia. Se solo potessimo proseguire qualche altro giorno...” Ma ci sarebbero voluti ben altro che pochi giorni, per il progetto che non osava suggerire. I lavori erano già rallentati, per i progressivi ricoveri dei lavoratori. E nessuno si degnava di dargli notizie. Una richiesta avventata avrebbe potuto determinare il secondo licenziamento in tronco della sua stupida carriera. “Ma non saranno loro a fermarmi. Io continuerò a lavorare, giorno e notte.” Clayde soffocò uno sbadiglio e scostò la patetica tendina che nascondeva alla vista il disco. La visione lo animò di fierezza e orgoglio. Era bellissimo. Non sapeva cosa ci trovasse di così stupendo, ma l’idea che un popolo antico avesse battuto scalpelli su quella pietra, per darle una forma compiuta era inspiegabilmente affascinante. Con esitazione, posò una mano sul bassorilievo dipinto. Chissà come avevano fatto i colori a conservarsi per così tanto tempo... Non ci diede troppo peso. Non era mica un archeologo. L’opera era in gran parte rovinata, ma uno degli scienziati aveva accennato a una meticolosa attività di restauro, per fortuna. La polvere si sollevò al tocco e iniziò a volteggiare nell’atmosfera stentatamente illuminata, accarezzandogli il braccio, come un invito a proseguire. Fece correre la mano sul corpo della figura in alto a destra. Era difficile distinguerne i contorni, ma la sua statura ridotta lo portava a credere che fosse un ragazzo. Folti capelli verdi crescevano sulla sua nuca, ma gli altri dettagli del viso non erano meglio definiti. Una sfera luminosa levitava sulla sua mano. Dall’altra parte vi era una seconda figura, rovinata per metà dal tempo. Clayde riconobbe capelli biancastri. A differenza del primo individuo, permeato di una luce chiara, il secondo era come circondato da ombre, senza uno schema preciso. Era inutile provare a leggere le iscrizioni al di sotto. Una lingua sola lo metteva sufficientemente in difficoltà. Sembrava che le due figure si stessero confrontando per qualcosa, ma l’allampanato minatore non voleva perdere troppo tempo, essendo decisamente più interessato alle figure al di sotto, più piccole, come se lo scontro principale fosse già avvenuto. La storia vera e propria però si decideva senz’alcun dubbio lì. Prive di collocazioni simmetriche o apparentemente ragionate, numerosi individui, uomini e donne compievano azioni, che Clayde davvero avrebbe voluto analizzare per molto tempo. Appariva di nuovo il ragazzo dai capelli verdi e un paio di volte anche quello dai capelli bianchi., ma c’erano anche esseri mostruosi, giganteschi e minuscoli. Il disco era veramente troppo rovinato per capirci qualcosa. Ancora al di sotto... Gli occhi bianchi si illuminarono, attirati da un dettaglio particolare. «Oro... È davvero oro questo...» La sorpresa per Clayde fu spropositata, tanto che nemmeno si fermò ad ammirare l’immagine. Incastonato nella pietra, vi era un oggetto dorato di distinta grandezza... Era come un totem o una statuetta. Un rubino era incastonato a sua volta nell’oggetto, nel punto in cui si biforcava. Un desiderio profondo di impossessarsene colmò il giovane, ma non era solo avidità. C’era qualcosa di più primordiale che lo attraeva: qualcosa che non aveva mai avvertito prima. Era sempre stato lì quell’oggetto? No. Era impossibile. Quando avevano portato il disco al laboratorio avrebbe dovuto notarlo. Che diavolo era successo? Il suo cuore si stava riempiendo di sentimenti improbabili, sconosciuti. Mistico. Primordiale. Le parole rimbombavano nella mente di Clayde, senza che nemmeno le avesse pensate. Mistico. Primordiale. Il battito del suo cuore acquisiva musicalità. Mistico. Primordiale. Clayde si sentì fuori posto. Che ci faceva lì? Era come assistere a qualcosa di sacro, eppure la stessa sequenza si ripeteva ancora e ancora, solo per lui. Mistico. Primordiale. Percepiva il corpo protendersi in avanti, come se il tesoro dorato lo stesse risucchiando. Si sentiva febbricitante, manchevole, incompleto. Perché non si lasciava andare? Sarebbe bastato un tocco e si sarebbe colmato. Smise di trattenere il braccio irsuto, proteso verso il metallo. Ci fu un’ultima combattiva resistenza, come se il corpo dell’uomo si stesse dividendo in due, poi la mano raggiunse e afferrò la statuetta. Con un sussulto, Clayde sentì un profondo cambiamento dentro il suo corpo. Il suo Quirk... Che stava succedendo? La statuetta si legò immediatamente alla sua mano, come colla. Era un legame energico, più profondo di un qualunque vincolo concreto. Percepiva il potere della reliquia fin dentro le ossa e il calore che sprigionava e persino un secondo battito armonico. Sembrava che l’oggetto avesse volontà propria. Per un attimo, solo per un attimo, Clayde raggiunse un gradino superiore. Si sentì fluttuare, come non gli era mai accaduto prima. Il suo corpo perse di significato, la sua vita perse di significato. Solo il contatto con il cimelio contava. «Dove sono?» credette di dire. C’erano esseri che lo circondavano. Avevano bisogno di aiuto o era lui ad aver bisogno di loro? No. Erano ombre, nulla di più. Non avrebbe dovuto essere lì... «Tutto accadrà assieme allora.» disse con voce vaga. Ebbe un sussulto. Stava forse impazzendo? Era stato lui a parlare? Non poteva essere altro che così. L’istante sembrava non finire mai. Era un limbo, un limbo di penombra, come la transizione tra sogno e incubo. Non esistevano lo spazio, il tempo, lui come persona. «Ma non sei tu...» constatò Clayde, aprendo bocca contro la sua volontà. Sentiva di stare perdendo tutto. Ancora poco e sarebbe diventato un’ombra, svuotata della vita, del ricordo, dei pensieri. Rimaneva aggrappato al legame, ma stava già dimenticando chi era... Come tutto era iniziato, tutto finì. L’area sembrava più buia ora. Uno spiffero gelido fece rinsavire il giovane, spaesato, di fronte al disco. Sentiva una paura folle, primitiva, come quella che instilla il lupo nelle greggi, scemare lentamente. Invero, tutto era come prima. La statuetta era nelle sue mani, ma non emetteva calore. Era fredda come il ghiaccio. Clayde l’avvicinò agli occhi e la ispezionò. Non c’era nulla al di fuori dall’ordinario. Fischiò per il sollievo e un po’ di colore riaccese il suo viso. Un’allucinazione... Per quanto ne sapeva, potevano anche averlo drogato. A volte lo facevano con gli schiavi. Era un metodo per farli andare avanti, nonostante la fatica, poiché la loro produttività era l’unica cosa che interessava ai loro padroni. Glielo aveva accennato un malavitoso pochi mesi prima. Ci vollero alcuni secondi perché si riprendesse del tutto. Clayde non si era mai sentito così sollevato di essere un essere umano. Tutto quello che voleva fare ora era andarsene. Guardò la statuetta ancora una volta. Era innocua: un pezzo di metallo. Ma era pur sempre di valore e ce n’erano di modi per liberarsene, traendone profitto. Clayde si sforzava di non pensare. Quello che era accaduto... Voleva solo dimenticarlo. Scostò la tenda. Andarsene... Andarsene subito da lì. Quella era la priorità. Un unico lungo mormorio, improvviso, monotonale, gli fece accapponare la pelle. Clayde quasi svenne. Si mise terrorizzato una mano sulla bocca. Cos’era stato? Era un uomo... un animale? Sentì le proprie unghie scavare nella pelle. Non si mosse... Aspettò immobile che la voce si ripresentasse. Furono minuti interminabili, ma di una cosa era certo... Non era solo in quell’angusto laboratorio. La tensione crebbe in Clayde, che si accorse di stare tremando da capo a piedi. Era bloccato. Ma almeno era certo che nessuno avrebbe potuto avvicinarsi, senza che se ne accorgesse. «La morte arriva per tutti...» Accanto a lui?! Clayde saltò di lato, scaraventando per terra una quantità smisurata di reperti. Era una voce umana, profonda e sembrava così vicina... Non era tipo da urlare, ma dopo l’esperienza appena vissuta non aveva alcuna certezza su chi aveva di fronte. «Chi è là?» La sua voce si incrinò. Le luci di emergenza erano spente... Forse rotte? Clayde si accorse di essere terribilmente allo scoperto, lì in mezzo alla stanza. Anche la luce esterna aveva smesso di illuminare l’area. Il buio lo avvolgeva. «Chi cazzo sei? Fatti vedere!» Il panico lo stava colmando. Arretrò, girandosi a più riprese, ma la visuale limitata lo riempiva di paura. Strinse la statuetta nella mano. “Dov’è l’uscita? Ho bisogno dell’uscita...” «Morirai nell’oscurità. È il destino di chi sa troppe cose...» Clayde voleva piangere. Non riusciva a capire da dove venisse la voce. Continuava a far cadere oggetti. Quell’entità... Sapeva dove si trovava, in ogni momento. Doveva fare luce. Doveva uscire. Doveva... Doveva... Quel qualcosa brancolava nel buio. Poteva essere due metri alla sua destra, quattro alla sua sinistra. Sopra di lui. O alle sue spalle. Quand’è che avrebbe attaccato? Non c’era scampo. Non così. Perché? Non era giusto. Lui non aveva fatto niente... Clayde lanciò un grido disperato e sferrò un calcio di fronte a sé. Colpì qualcosa di duro. Il corpo solido si spostò. La speranza si manifestò come un raggio di luce solare, di intensità maggiore, ogni secondo che passava. Il disco... Con il calcio, aveva colpito il disco, che cadendo all’indietro aveva sfondato il tessuto plasticato. I frammenti del reperto erano sul pavimento, inservibili. Clayde si voltò... Dov’era? Dov’era quel dannato... Due falci di tenebre gli squarciarono il petto. Le ombre erano vere allora... Questo fu il suo primo pensiero, quando vide il sangue zampillare dalle due ferite. Cadde in ginocchio. La luce... Che ingenuo pensare che avrebbe potuto salvarlo. Uno più furbo avrebbe preso tempo, parlando. Guardò in avanti. Ormai non poteva più muoversi. Tra il caos che si era venuto a creare, avanzava con lentezza un essere. Strisciava, camminava... Non si capiva. A Clayde, sulla soglia dell’altro mondo, sembrò l’incrocio tra una lumaca e un mollusco. L’interezza del suo corpo era un deformarsi vorticoso di tentacoli, pinne melmose, colori che andavano dal nero al turchino. Non era mostruoso come se lo immaginava. Una serie di occhi guardinghi lo scrutavano da due specie di spesse antenne, orizzontali a quella che poteva definirsi la fronte. I contorni dell’essere divennero più definiti, poco alla volta. Clayde sentì il bisogno di parlare, per quanto gli costasse un’inverosimile fatica. «Figlio di puttana... Sì... Ti chiamo come mi pare...» Non voleva morire lì, in quello stupido laboratorio, ma non voleva nemmeno andarsene senza dire nulla... «Riesci a parlare? Non a caso ti hanno tenuto per ultimo.» La voce del demone era composta, ragionevole. Non si addiceva alla sua parvenza mostruosa. «Clayde Jockey... Conosci il mito di Dedalo e Minosse?» Clayde trovò la forza di ridergli in faccia. «Cosa potrebbe... fregarmi di una favoletta... del genere?» Pronunciare ogni parola era come una pugnalata al petto... Il dolore stava diventando insopportabile. Il mostro mutante non cambiò espressione. «Te la faccio breve, perché stai morendo, va bene? Io leggo molto. E ti assicuro che paragonarti a Dedalo, nonostante quello che sei, mi rode un po’, ma fidati di questo paragone.» La surrealtà del tutto e il disgusto che stava provando in quel momento lo trattenevano nel mondo dei vivi, ma non sarebbe durato a lungo. Ora, seppur sfocato, vedeva bene il suo carnefice. Le antenne erano tentacolate, quattro occhi gialli per lato. Era più grande di un essere umano, ma non molto più imponente in fondo. I tentacoli si erano raggruppati a formare gambe spesse e un corpo più o meno umanoide. I colori della sua pelle erano davvero affascinanti: verde acqua, turchese, zaffiro e punti bianchi qua e là. Non aveva braccia, ma pinne tentacolate al loro posto. Se Clayde l’avesse conosciuto in altre circostanze, probabilmente ne sarebbe rimasto ammaliato. Era ormai a pochi metri da lui. «Minosse era il re di Creta. Il minotauro, nato dall’unione insolita tra la moglie del re e un toro, era un essere mostruoso e aveva bisogno di una sede dove essere rinchiuso. Il re chiese quindi a Dedalo, rinomato costruttore, di costruire un labirinto da cui era impossibile uscire. Una volta che riuscì a edificarlo, il re imprigionò il costruttore in quelle pietre che lui stesso aveva progettato, in modo che non ne svelasse i segreti... Mi stai seguendo, per ora?» Clayde stava realizzando che sarebbe morto. Sarebbe davvero morto lì... Non riusciva a distogliere gli occhi dall’essere. Quella voce tranquilla, persino umana, era la cosa che lo irritava di più. «Ancora... non... capisco...» Sentire la voce così simile a un gorgoglio gli fece paura. «Tu sei Dedalo, proprio come i tuoi compagni. Il re di Temigor vi ha portati qui per portare alla luce quel disco e voi l’avete fatto, ma sapete troppo. Non vuole rischiare. È un uomo molto prudente il mio re. Dedalo era una persona importante, tu non proprio. Rinchiuderti non avrebbe per lui alcun valore. È stato meglio eliminarvi, uno per volta...» Sangue scarlatto, dello stesso colore del berretto, bagnava il pavimento impolverato. «Tu... Tu sei...» Un colpo di tosse lo trafisse come una lancia. L’essere si avvicinò ancora. Era difficile dirlo, ma sembrava che la sua sofferenza lo allietasse. I suoi occhi scintillavano, come oro. «Come dici? Faccio fatica a comprendere le tue parole.» Clayde si morse la lingua, ma non poteva esimersi dal parlare. «Sei un fottuto... Hero.» Vide gli occhi mostruosi accendersi. «E’ come dici... Sono il Pro-Hero, Ancient One, ma ormai tutti mi chiamano con il tiepido nome di Hunti. Cacciatore, formica... Pensami come ti pare. Ci dev’essere sempre qualcuno che fa il lavoro sporco, no?» Clayde stava cominciando a rantolare. «Bastardo... Tu...» Gli occhi si stavano annebbiando. Aveva ancora la statuetta in mano. Non l’avrebbe salvato, ma fino alla fine l’avrebbe tenuta stretta. Il mostro si divertiva a guardarlo, sull’orlo dell’oblio. Mascherava i suoi desideri oscuri con quella falsa freddezza e intelligenza. Il mondo era davvero un posto terribile. Ripensandoci, Clayde riconobbe che quella voce non aveva nulla di umano. Non era nemmeno una voce vera e propria. L’Hero non aveva nemmeno una bocca, quindi le parole che sentiva erano tutte nella sua testa. «Almeno... sei... in grado... di parlare... stupida melma...?» rantolò. Le antenne del mostro si dipanarono in una specie di orrendo sorriso, poi la vera voce mostruosa dell’essere si udì, come se provenisse dalle profondità del suo corpo. «Giudica da solo, Clayde... Io vivo per un’ideale, tu lavori come uno schiavo per tua stessa scelta... Dimmi, chi è lo stupido qui?» Era come ascoltare una trasmissione fuori fase: un agglomerato di voci messe assieme, canzonatorie e superbe. “Sei tu lo stupido...” pensò, con il petto ridotto a un colabrodo. “Ti credi superiore a noi, ma non sei meno schiavo di quanto lo sono io...” Avrebbe pagato per dirglielo in faccia, ma la paura di morire lo stava paralizzando. Hunti incombeva sopra di lui. Clayde voleva urlare, invocare pietà, ma non riusciva più a pronunciare una sola parola. Gli occhi gialli erano tutti fissi nei suoi. “Merda... Non voglio andarmene.” Il freddo stava finalmente scemando. L’alba era passata. Clayde forzò un sorriso di superiorità, sperando di ottenere un’ultima rivalsa, poi chinò il capo e il suo cuore smise di battere.

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Capitolo 2
*** La città di ferro - Parte Prima: Yunix Braviery ***


Premesse: Innanzitutto, vi do un caloroso benvenuto all'interno della mia fanfic. Questa è la mia prima esperienza di scrittura vera e propria e spero di soddisfarvi il più possibile, nonostante l'inesperienza. Se siete interessati a catapultarvi nel mio mondo vi invito a leggere il prologo, prima di iniziare i capitoli veri e propri, in modo da farvi un'idea di cosa andrò a trattare. Inizialmente i capitoli saranno molto introspettivi, ma non temete, l'azione non tarderà ad arrivare. Anche se la maggior parte dei personaggi saranno OC, ci saranno numerosi camei della serie principale, che si intreccia direttamente con la mia fanfic. Se volete darmi consigli, non vi resta che scrivere una recensione. Sarò felice di leggerle tutte, anche se critiche. Buona lettura e ricordate sempre: PLUS ULTRA!


                                                                                                  



La Città di Ferro - Parte Prima: Yunix Braviery


Un fischio acuto colmò l’aria. Da una galleria buia sorse un lungo mezzo d’acciaio. Il fischio diventò rapidamente uno stridio quando il veicolo iniziò la sua lenta frenata. La sua velocità diminuiva sempre di più. Le luci degli abitacoli illuminarono un cartello in cima alla galleria. La scritta citava: "Metropolitana centrale di Temigor".

All’interno del mezzo, su uno scomodo sedile, giaceva un ragazzo lacero e sporco. Aveva capelli anonimi, sospesi tra il grigio e il bianco, tirati rudemente all’indietro in una sorta di onda, ancora lontana dai tipici ciuffi. Era piuttosto basso, ma non così tanto da essere considerato una persona minuta. Il corpo era tutto fuorché curato, ma sembrava abbastanza muscoloso, di un colorito tendente al tenue. In generale, sembrava una persona anonima, molto normale, non fosse stato per gli occhi e la bocca. Quest’ultima aveva una lunga, ma sbiadita cicatrice che la passava da parte a parte, disegnando un segno indelebile sulle labbra sottili, ma tutto passava quasi in sordina, osservando gli occhi. Erano di grandezza media, ben aperti, grazie alle alte sopracciglia, ma all’interno era come se tanti grandi ingranaggi grigio chiaro nuotassero nel bianco del bulbo oculare, ruotando attorno alla pupilla, in un fare molto ipnotico. Non era difficile capire perché tutti rimanevano a debita distanza... Il ragazzo era impregnato di morte.

Alcune persone lo guardavano di sfuggita, curiose, ma questi aveva ben altro a cui pensare. Nelle mani stringeva ancora quella lettera rosata: l'ultimo lascito della sua memoria. L'aveva letta così tante volte che ormai quelle parole gli davano il voltastomaco. L'avrebbe buttata non appena fosse arrivato, o almeno è quello che sperava sarebbe riuscito a fare. Non aveva senso perdere altro tempo su di essa.

Ed ecco che per l'ennesima volta quei segni d'inchiostro scavavano nella sua anima. Non riusciva a liberarsene. Erano le sue uniche catene. Le uniche catene che aveva e le uniche che avrebbe desiderato non avere ai polsi.

«Caro sconosciuto,
Che cosa significa vivere? Se sai già la risposta, allora mi avrai già visto almeno una volta e non mancherà molto al giorno del giudizio, almeno spero. Se invece ti interroghi ancora sul perché della tua vita, ricorda questo: non cercare la pietà come se te la meritassi. In fondo, non puoi dire che ti spetta di diritto finché non saprai quello che hai fatto. Strade infinite si dipanano di fronte a te. Questo è importante che tu lo sappia. E anche se anche dovessi prendere una strada sbagliata, io sarò con te. Sempre e comunque, capito? Devi credermi su questo punto. Dato che so che questa corta lettera non soddisferà mai i tuoi quesiti, ti offro una possibilità. Se volessi, per qualche malaugurato caso, incontrarmi, ti basterà presentarti alla sorgente dei cinque fiumi infernali. Lì ti aspetterò. Non temere. Mantengo sempre la parola data.
Con affetto, Nightmare
»

Nightmare... Non sapeva chi fosse e non gli interessava. Una persona che, pur sapendo, lo aveva abbandonato non meritava alcuna attenzione. Dare un senso a quelle parole era quasi più difficile di dare un senso alla sua vita. Una cosa però lo tormentava. Cos'è che aveva fatto di tanto grave? Non lo sapeva, ma dal momento che aveva tutta l'intenzione di recuperare ciò che aveva perso, avrebbe dovuto fare i conti anche con quello. La sorgente dei fiumi infernali... Quello era un altro paio di maniche. Ma ormai aveva chiuso con quel fastidioso testo. L'odio che provava aumentava di giorno in giorno e litigare con una lettera non era molto remunerativo.

Sul display che avrebbe dovuto indicare le fermate, erano rappresentate in successione le più grandi vittorie di All-Might. Cercò di non guardarlo, ma la voce tonante si udiva comunque. "Ci sono qua io..." Quante volte sentì quella frase, ripetuta e ripetuta. Se solo fosse stato lì pure per lui...

Il mezzo si stava fermando del tutto. "Ancora un’altra fermata" pensò il ragazzo, guardando nel vuoto. Tre ragazzine salirono sul trabiccolo. Sembravano piuttosto chiassose. Appena la metro si rimise in funzione, le tre iniziarono a parlare ad alta voce dei loro Quirk.

Yunix Braviery, perché quello era il suo nome, si ritrasse un po’ cercando di non ascoltare, ma era piuttosto difficile, visti i piccoli spazi. Non sembrava che lo facessero apposta, ma erano ugualmente fastidiose. Sembravano allegre... Che fosse sabato? Aveva ormai perso la cognizione del tempo. Era tanto che sapesse che era primavera. Dovevano abitare a Temigor, vista la mancanza di bagagli. Se era così non c’era da stupirsi che avessero tutte e tre un Quirk. Da quanto ne sapeva, se nel resto del mondo la percentuale di Quirk delle persone era all’incirca 80%, a Temigor si sfiorava un incredibile 95%. Sostanzialmente, era quasi una rarità vedere un No-Quirk nella città di ferro. "Che nome strano... Eppure, la città è costruita con l’acciaio di Temigor, non con il ferro di Temigor. Forse è un altro sgarbo ai Giapponesi." Non scorreva buon sangue tra i due stati.

Il discorso delle ragazze stava vertendo su cosa avrebbero fatto nel pomeriggio. Yunix aveva chiuso il cuore da molto tempo, ma si sentì ugualmente un po’ male. Non avrebbe mai avuto una vita come la loro. Nel migliore dei casi, si sarebbe stabilito in qualche luogo sperduto nella periferia di Temigor. "Nel peggiore..." Il ragazzo non voleva nemmeno pensarci.

Tanto per far qualcosa stropicciò con un piede un frammento di giornale, sul terreno sudicio. Bagnato, sotto una coltre di liquame, era ancora visibile il titolo, in calce: "Tragedia nella colonia F. Dodici lavoratori rimasti uccisi nella scorribanda di un popolo tribale: Temigor chiede vendetta."

La voce metallica stava annunciando l’arrivo al centro di Temigor. Yunix era indeciso se rimanere e fare qualche altra fermata o scendere. L’idea migliore era sicuramente rimanere sul mezzo. Il centro della città era off limits per lui. Chi l’avrebbe accolto? Ma era pur vero che erano mesi che il ragazzo non si concedeva un giorno di riposo. L’occasione di visitare la grande città di ferro lo esaltava non poco, considerando che la metro che aveva preso era quella economica sotterranea e non la panoramica Silver Sliding Star, famosa in tutto il mondo. La torre centrale, l’arena di metallo, HG, Infection... C’era davvero tanto da vedere. Era davvero indeciso.

Le porte si aprirono. Le ragazze uscirono cinguettando. Yunix, che aveva quasi abbandonato l’idea di scendere si riscosse e scese a sua volta, camminando rapidamente. Mentre, lasciava il mezzo, fece scivolare la vecchia lettera nello zaino. Non appena allontanò le dita dalla carta percepì una strana sensazione di vacuità. Si arrestò un momento, poi riprese a camminare, come in trance. L’aria fresca lo risollevò un poco, ma il ragazzo era decisamente giù di morale. "Pensavo che finalmente, dopo essere arrivato a destinazione, mi sarei sentito bene e invece mi sento così vuoto... Ora che sono qui, mi sembra quasi che non abbia avuto senso compiere questo viaggio". Il ragazzo abbatté il braccio sulla scala mobile, frustrato. "Non pensarci neanche... Hai meditato per giorni se fosse o meno la cosa giusta da fare..." Non voleva che tutte quelle riflessioni, compiute nel freddo delle strade gelide venissero gettate al vento. Era arrivato. Quello contava. Il resto non aveva importanza.

Yunix emerse dalla metro e Temigor si parò dinnanzi a lui, in tutta la sua magnificenza. Torri e palazzi si lanciavano nel cielo. Erano di un colore azzurrino. Doveva essere il metallo della città. C’erano anche case normali qua e là, ma l’acciaio dominava l’ambiente. La metro panoramica aveva le sembianze di una lunghissima montagna russa che ruotava attorno ai palazzi e serpeggiava sopra le strade. C’erano meno persone di quanto pensasse, ma quello gli andava bene. Odiava il caos delle metropoli.

Il ragazzo prese a camminare sul marciapiede, senza staccare gli occhi dai riflessi argentei dei complessi. C’erano persone di ogni nazionalità e non erano turisti. Bevevano ai caffè, guidavano le auto, lavoravano negli uffici e anche all’aperto. "Un melting pot. Questo dovrebbe essere il nome specifico. Qui nessuno mi verrà a cercare." Se era vero che aveva commesso un crimine, andare in quella città indipendente era stata la scelta più saggia. Con un rombo, un vagone sfrecciò sul binario sopra di lui. "E se ci penso... Questo è solo uno dei tre distretti di Temigor. Quelli oltre alle montagne... Dovrebbero essere altrettanto belli. Forse persino più caratteristici..."

Yunix svoltò a destra. C’era una lunga strada ad attenderlo e alla sua fine, quasi opaca, si stagliava la gigantesca torre bluastra, dove la politica interna della città indipendente veniva discussa e dove risiedeva il sindaco di Temigor, la cui reputazione era quella di un uomo schivo e riservato. Pochi l’avevano conosciuto faccia a faccia.

Due ragazzini con le mani palmate superarono il ragazzo, in contemplazione, e iniziarono ad accarezzare un piccolo cane sdraiato su una panchina. Yunix li guardò e riprese a camminare. "A quanto ne so, a Temigor sono abbastanza larghi in termini di limitazioni per quanto riguarda i Quirk. Fintanto che le abilità vengono usate in piccole misure, senza infastidire gli altri, non occorre una licenza..." Un senzatetto suonava una chitarra usando le sue interiora al lato della strada. Yunix lo oltrepassò con rapidità. "Certo, non è una bella vista in molti casi..."

Si chiese se non fosse il caso di cambiare direzione per andare verso la periferia, ma una voce interruppe il suo flusso di pensieri. «Eccolo! È arrivato!» Tutti si voltarono solo per vedere una figura sfrecciare come un lampo oltre i loro occhi. "Cos’è stato?" Vi fu un fruscio di piume bianche. Yunix vide una figura stagliarsi sopra un appalto al lato della strada, con il sole direttamente alle spalle.

«Bonjour citoyens! Quest’oggi sarò di pattuglia in questo merveilleux quartier

Gli occhi delle persone vinsero l’abbagliante luce e iniziarono a cogliere i dettagli fisici della persona. La prima impressione di Yunix fu quella di vedere un angelo. Ali candide schermavano la luce dietro un corpo affusolato. Bracciali dorati luccicavano sugli arti, così come un abito a croci sul torace, che lasciava intravedere la pelle nuda tra di essi. Una corta toga bianca copriva la metà centrale del fisico e buona parte di quella superiore.

L’uomo che aveva gridato poco prima indicò la figura allampanata. «E’ l’eroe angelico, Swizzilan! Più di 87 casi mandati a monte. È incredibile vederlo in questa zona.»

L’eroe saltò giù dall’appalto, rivelando molti elementi tutt’altro che angelici. Una ciocca di capelli biondi e rosati nascondeva un occhio, mentre l’altro dorato e ovale era ben visibile. E non era l’unico dettaglio rosa. Ciuffi disparati e soffici di cotone fuxia coprivano le braccia, mentre una lunga fascia di una tonalità più tenue ondeggiava nel vento intrecciata tra i capelli. Non dimostrava più di 25 anni.


L’hero osservò la platea che si era venuta a creare. «Su su. Non spingete... Abbiamo tutto il giorno per conoscerci. Come sapete, la città di Temigor è strategicamente divisa in settori...» Swizzilan finse di usare una bacchetta su una lavagna immaginaria. «Doveva capitare prima o poi che mi fosse assegnata questa zona. E non temete. La luce brillerà d’ora innanzi sulle vostre teste, perché oggi vi siete avvicinati di un passo alla perfectión

Yunix lo guardò con sufficienza. “Ma perché si dà tante arie? A me sembrano delle gran parole al vento”. Il fan dell’Angel Hero si avvicinò di corsa all’idolo. «Non posso crederci! È un sogno che si avvera...»

L’hero lo scrutò, tranquillo. «Tale dedizione merita tutta la mia attenzione. Hai qualche domanda per me?» L’uomo, sulla quarantina, dotato di una barba ispida e corpulento, si inginocchiò di fronte a lui. «Se posso permettermi, Swizzilan, come fa Temigor a essere così sicura? Cos’ha di diverso dal resto del Giappone?»


Swizzilan esplose in una risata cristallina. «Mio caro fan, qui a Temigor abbiamo un sistema solido, come puoi ben vedere. Siamo dispiegati su tutti i distretti, equamente divisi tra noi, per far sì che nessun luogo abbia meno di un Hero a controllarlo. E se anche uno di noi dovesse cadere... I settori vicini saranno avvertiti immediatamént e in pochi secondi arriveranno i rinforzi.»

All’uomo brillavano gli occhi, mentre Yunix continuava a essere scettico. "E questo sarebbe un eroe? Secondo me non ha mai affrontato un villain in vita sua..." La voce dell’uomo era carica di ammirazione. «Lo immaginavo... Con eroi come voi, è impensabile che qualcosa vada storto. Posso stringerle la mano?»

Swizzilan aprì le ali. «Certamente, 
monsieur. Nel frattempo, le dico il secondo motivo per cui Temigor è così sicura...»

L’uomo sollevò la mano, mentre l’Hero abbassava la sua.


«Noi eroi sappiamo riconoscere un villain quando lo vediamo.»

Tutto accadde in pochi istanti. Le dita dell’uomo si tramutarono in una rivoltella, nello stupore comune, ma il braccio venne prontamente deviato da Swizzilan e lo sparo finì nel cielo. Con grande forza, sfruttando le ali, Swizzilan sollevò il villain e cominciò a farlo roteare in aria. Una volta accumulata abbastanza velocità, scagliò l’uomo verso il terreno.

«
Love Tornado!»

L’impatto contro il terreno fu abbastanza forte da metterlo fuori gioco.


Swizzilan si alzò in volo. «Pensavi davvero che non mi sarei accorto delle tue vere intenzioni? Nessuno riesce a vedermi, nella mia velocità massima. Eppure, tu hai annunciato la mia presenza. Sembrava proprio che non aspettassi altro. Qui a Temigor non si punta alla quantité, ma alla qualité. Fareste bene a pensarci due volte, prima di mettervi contro di noi. Noi siamo i figli dell’HG.»

Uno scroscio di applausi iniziò a risuonare nella strada. Yunix era a bocca aperta. Certo aveva visto eroi sconfiggere villain faccia a faccia, ma quello era diverso. Quello era un tentato omicidio. "Se non avesse capito le sue intenzioni fin da subito, sarebbe morto. L’ho sottovalutato. Al suo posto, io..." Ma tanto non sarebbe mai stato un eroe. Senza le sue memorie e senza conseguentemente un Quirk, non c’erano possibilità che sarebbe stato in una situazione simile.

"Che strano... È come se avessi dato per scontato che io fossi come lui." Il ragazzo scosse la testa, confuso. Che fosse una conseguenza della perdita di memoria?

Le persone in strada scattavano foto a Swizzilan, che stava parlando con un paio di agenti. Yunix pensò di avvicinarsi. Poteva essere interessante capire meglio come veniva condotta la sicurezza in quella città. E poi... Non gli sarebbe dispiaciuto chiedere a Swizzilan di parlargli un po’ dell’HG. Un’accademia così rinomata valeva sicuramente una visita.

Stava per fare il primo passo quando una voce lo colse impreparato.

«Qui non troverai quello che cerchi...»

Yunix si voltò di scatto. Non c’era nessuno, a parte il piccolo cagnolino di poco prima. "Cosa diavolo?" Sentiva il cuore battergli a mille. "Chi era? La voce era femminile. Ho come l’impressione di averla già sentita..."

La sua testa iniziava a far male. Era un evento consueto. Sapeva di sapere, ma non sapeva cosa. Se fossero state le prime volte che la testa gli doleva, si sarebbe infastidito, ma ormai riusciva quasi a convivere con la consapevolezza che non avrebbe riacquisito i ricordi da un giorno all’altro. Qualunque cosa fosse stato a sottrarglieli non era stato un banale incidente. Doveva esserci di più.

Gli occhi di Yunix brillarono di una luce fredda. Quella voce... Non aveva senso rimuginarci sopra. Come al solito, il ragazzo sarebbe rimasto senza risposte. C’era però della verità in quello che aveva detto. Stando in quella zona, non avrebbe di certo trovato una dimora stabile. Doveva andare nei quartieri malfamati meridionali e iniziare da lì la sua ‘ricerca’. Gettò un ultimo sguardo attorno a sé speranzoso, ma la calma era tornata sulla strada. "Vedremo per quanto tempo riuscirai a evitarmi, chiunque tu sia..."

Gli ingranaggi negli occhi di Yunix scintillarono, mentre il ragazzo si avviava in una strada laterale. «Ti aspetterò, fantasma del passato...»

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Capitolo 3
*** La città di ferro - Parte Seconda: I villaggi della miseria ***


La città di ferro - Parte Seconda: I villaggi della miseria


Era ormai giorno inoltrato quando Yunix Braviery raggiunse le prime catapecchie.

Lo stacco tra la città e quel panorama fangoso era grande, ma non esagerato, considerando che l’acciaio presente negli edifici si era ridotto al minimo, man mano che Yunix si allontanava dal centro. In ogni caso, era solo una stretta stradina a dividere la civiltà da qualcosa di ben diverso.

Gli abituri erano affiancati l’uno all’altro, in modo da formare una barriera di legno marcio, ferro arrugginito, cemento e mattoni. Il ragazzo inizialmente non capì il perché di una tale riservatezza. Una ringhiera bucherellata, poco rassicurante, rappresentava l’ingresso alla zona.

C’erano poche persone che gironzolavano attorno alla barricata dismessa. Yunix osservò una lastra, che doveva fungere da cartello. Sopra di essa, di una vernice nera, c’era quello che doveva essere il nome della ‘Città’: “Abones Village”. Tuttavia, la lettera “A” era stata cancellata da una croce rossastra. In quel modo, la scritta diventava “Bones Village”.

Yunix non era molto rassicurato. “Villaggio delle ossa? Davvero vivono così male, quaggiù?”

Si avvicinò all’entrata e sbirciò all’interno. Nella strada fangosa, avvistò solo un senzatetto. Rabbrividì. Sapeva bene com’era soffrire i morsi del freddo notturno. Aveva passato tante notti all’aria aperta, osservando mesto le finestre illuminate delle case. Poi aveva cominciato a viaggiare di notte e dormire di giorno. Anche ora, dopo diverse settimane, sentiva tutti gli acciacchi che aveva subito. Chissà se si sarebbe mai ripreso del tutto...

Due turisti si avvicinarono al cancello. Stavano scherzando amichevolmente tra loro. La donna si accorse per prima della direzione che avevano preso. «Ehi, ma dove mi hai portato? Non credere che entrerò lì dentro. Ho visto discariche in migliori condizioni...» La donna gettò uno sguardo sbieco ai presenti, Yunix compreso, che poteva benissimo passare per un senzatetto del luogo.

L’uomo accanto alla donna stava controllando la mappa. «Non c’è problema, possiamo arrivare al mare anche di là...» La donna lo prese per mano. «E allora guidami, capitano.» L’uomo sorrise alla battuta e cominciò ad allontanarsi, parlando ad alta voce con la donna. «Comunque, non preoccuparti. Quei mostri di fango avranno un bel da fare a seguirci. Probabilmente inciamperanno prima su sé stessi.»

La donna rispose annoiata. «Ma fammi il piacere... È incredibile che luoghi del genere siano ancora in piedi a Temigor. Se fosse per me, distruggerei tutto. Dove sono gli Hero quando servono?»

Yunix si sentì ribollire il sangue nelle vene. “Come se la gente scegliesse di vivere qui perché lo vuole... Non sempre c’è scelta.”

Senza indugiare oltre, il ragazzo entrò nel quartiere. Non aveva grandi aspettative, dopo quello che aveva visto e sentito da fuori, ma tanto non poteva tirarsi indietro. Avanzando nei viottoli, notò diversi messaggi minacciosi, intagliati sul legno o dipinti sui muri. Le persone che oltrepassava tenevano gli occhi bassi, agghindate come potevano, probabilmente in cerca di qualcosa da mangiare o immischiate in brutte faccende. Sopra le abitazioni erano visibili decorazioni bianche, probabilmente ossa. Non si soffermò a fissarle.

Mentre Yunix attraversava il Giappone, ricordava di aver letto qualcosa sui quartieri poveri di Temigor, situati per la maggior parte nelle zone meridionale e occidentale della città, ma non pensava di trovare una tale miseria. Nelle vie più grandi c’erano famiglie intere accampate per strada o intente a lavarsi nelle pozzanghere. Loschi uomini si passavano oggetti di mano in mano. C’erano persino persone accasciate a terra, forse morte, ma Yunix voleva credere il contrario. C’era chi urlava, chi piangeva, chi correva.

Accelerò il passo, sentendo l’amaro in bocca. “Ma perché non usano i loro Quirk? Pensavo che fosse permesso. Non possono essere No-Quirk... C’è qualcosa che non quadra... Dove sono gli eroi? Questo è molto peggio di un quartiere povero.”

Voleva aiutare quelle persone, capire come fosse possibile un tale degrado in una città come Temigor, ma non riusciva nemmeno a guardarle, dal gran che gli facevano pena. “Non posso finire come loro. Io, questo viaggio, no...” Il mal di testa stava tornando, più intenso che mai.

Per sua fortuna, il clima iniziò rapidamente a cambiare. Le catapecchie lasciarono il posto a capanne areate, ma di un legno più solido, con teli e tende rattoppate. La strada divenne un ciottolato. “Mi sto avvicinando alla costa forse?” Yunix avanzò con più calma, ma ancora sconvolto da quello che aveva visto.

Una vocina cercava di fare capolino nella sua testa. “Cosa ti aspettavi, Yunix? Una reggia? Questo è il meglio a cui puoi aspirare e lo sai bene...” Il ragazzo si strofinò gli occhi con le mani. Si sentiva stanco, sia fisicamente che mentalmente. Ma più di tutto era infastidito. “Vedere queste persone... Lo detesto. Mi sembra quasi di non avere il diritto di puntare più in alto di loro. Eppure, dall’altro lato voglio credere che questo lungo viaggio sia servito a qualcosa... Perché sono sempre indeciso? Se solo... Se solo ci fosse qualcuno che mi dicesse cosa fare...”

Incapace di proseguire, si sedette al lato della strada. Si sfilò lo zaino e bevve un po’ d’acqua. Si sentì leggermente meglio. «L’unico modo per andare avanti è non pensare a niente...» mormorò Yunix chiudendo gli occhi. «Lasciare che tutto scorra nel suo ritmo e proseguire sulla stessa strada...» Sollevò una mano e sentì l’aria che la sfiorava. “Non è quello che ho sempre fatto in fondo? Non pensare... Me lo ha insegnato il dimenticare. È così che sono riuscito ad arrivare fin qui?” Il suo corpo si stava rilassando. Da quanti giorni non dormiva?

Yunix, come in trance, aprì gli occhi. Di fianco a lui c’era una ragazza che lo fissava. Gli occhi dei due si incontrarono. Furono lunghi istanti di silenzio per Yunix, che, fedele alle sue parole, e in gran parte a causa della stanchezza, davvero non stava pensando a nulla. La ragazza lo squadrava con sospetto.

«Ehi! Sei vivo?» Il ragazzo era frastornato e un po’ infastidito. La ragazza gli diede un calcio. «Allora? Non mi va che un turista muoia quaggiù.»

Yunix si girò con un gemito, cercando di riacquisire un po’ di lucidità. «Turista? Chi ti ha detto che sono un turista...?» «Lo sei, no?» Yunix annuì, stanco. «Bene... Almeno sei una persona onesta.» La ragazza era abbastanza alta. Indossava una tunica marroncina sfatta con maniche corte, di un materiale molto sottile e dei guanti da lavoro in entrambe le mani, uno nero, l’altro marrone. Portava lunghi e spessi pantaloni neri con risvoltini ben evidenti, sulle caviglie. La sua struttura era molto affusolata. I capelli erano verdognoli, stile punk, ma si prolungavano fino al terreno, in un’unica lunga coda. Il resto del cranio vedeva capelli rasati quasi a zero.

I suoi occhi vitrei erano di nuovo fissi in quelli di Yunix. «Hai intenzione di stare lì seduto ancora a lungo?» Questi fu tentato di risponderle di sì, ma quasi senza ragionare si fece aiutare ad alzarsi. La ragazza era estremamente forte, a discapito dell’apparenza.

Yunix si schiarì le idee. «Tu chi sei? Sei qui per salvarmi?» La ragazza gli assestò un pugno nello stomaco. Yunix si piegò in due e vomitò quella poca sostanza che aveva ancora nel corpo, in gran parte acqua.

La ragazza non attese che si riprendesse. Afferrò con le mani il colletto della sua maglia e trascinò Yunix contro il muro, sollevandolo da terra di qualche centimetro.

«Sia ben chiaro, smettila di fare la vittima. Qui non c’è tempo per essere deboli. Qui si lavora per migliorare e lo si fa in silenzio. Se sei passato per Bones Village avrai sicuramente visto qual è il fondo del pozzo e grazie a Dio qui ne siamo ben lontani.» Yunix digrignò i denti. «Come vuoi, teppista.»

La ragazza lo lasciò andare. Notò immediatamente la rabbia cocente del ragazzo. «Guarda che lo faccio per te... Poco fa sembravi sulla soglia dell’altro mondo.» Yunix si mise a posto, come poteva. «Mi stavo solo riprendendo.» La ragazza lo ignorò. “Questa ragazza potrebbe farmi da guida, ma devo toccare i tasti giusti...”

«Siete sicuramente pratici in questa zona. Avrete lavorato duramente per ottenere un risultato del genere.» La ragazza lo guardò con sospetto. «E’ una presa in giro?» Yunix scosse la testa in fretta, temendo un altro pugno. «No, davvero; qui mi sembra che le cose vadano decisamente meglio. Sono solo curioso di sapere come sia possibile.»

Il viso pronunciato di lei si accese un poco. «È vero, abbiamo lavorato più di quanto tu possa immaginare. Ma non è sempre stato così. Gli abitanti del posto erano messi male... Io non ero ancora nata, eh... Proprio al pari degli abitanti degli altri ‘villaggi’. Alla mattina si svegliavano maledicendo la città e passavano la giornata a rovistare tra i rifiuti, a indebitarsi, a piangere... Però poi si sono resi conto di quello che stavano sbagliando. Stavano sopravvivendo, ma nulla di più. Non cercavano di migliorare. Rimanevano in un limbo di miseria stabile. E si accorsero di essere soli... Di non essere una comunità, ma solamente vittime della stessa tragedia...» Yunix sbuffò. «Non ci si accorge di qualcosa da un giorno all’altro.»

La ragazza diede un calcio a una lattina. «È vero... Ma va detto che furono gli unici a cogliere il messaggio...» «Il messaggio di chi?» domandò Yunix vagamente interessato. «Non ho idea di come si chiamasse, ma mi è sempre stato descritto come “Il venditore di sale”. Un giorno è sorto dal nulla e ha cominciato a predicare le verità che ti ho detto prima. Bisognava smettere di essere passivi e fare del nulla qualcosa di nuovo, qualcosa di vivo... Guarda! Guarda quanto siamo arrivati lontano in quella ventina d’anni...»

Yunix non guardò subito ciò che indicava, ma osservò lei. “E’ davvero orgogliosa di quello che sono riusciti a creare. Sentendola parlare, mi viene da pensare che si sia compiuto un vero e proprio miracolo...” «Abbiamo tutti delle sistemazioni solide e, lavorando sodo tutto il giorno, la mensa ci garantisce un pasto completo. C’è del gran lavoro da fare... Stiamo cercando di allargare il perimetro del nostro ‘villaggio’. Se riuscissimo a inglobare tutti i quartieri da qui fino alle ultime case a nord, riusciremmo a donare nuova vita a un’area data per persa da tutti. Insomma, abbiamo persino un Hero qui.»

Yunix, che si stava pentendo un po’ di aver dato della teppista a quella ragazza sfortunata, si riscosse all’informazione. «Un eroe? Chi è? E tu chi sei?» La ragazza sollevò le mani, fingendosi innervosita. «Basta, basta. Basta domande. Mi hai già fatto parlare troppo... Questo è tutto tempo portato via al lavoro.» La ragazza lanciò un’occhiata fugace al viso di Yunix, un po’ sconsolato. «Tuttavia, dato che sono sulla strada, ti porterò alla tenda principale, così potrai vedere l’Hero tu stesso...» Si incamminò subito verso destra.

Yunix si affrettò a seguirla, stringendosi ancora la pancia, tra le mani. Dopo qualche secondo di silenzio, Yunix tornò all’attacco. «Non mi hai detto come ti chiami...» La ragazza grugnì.

«Shigoto Andawa, ma tutti mi chiamano Shig. Si fa prima a pronunciare un nome corto.»

Yunix la raggiunse. «Conosci tutte le persone che abitano in questa zona?» Shig era colpita. «Cosa te lo fa pensare?» Yunix scrollò le spalle. «Hai capito subito che ero un turista... Sicuramente vi conoscete tutti in questa comunità, anche solo di faccia. Non è vero?» La ragazza annuì lentamente. «Sì beh, se non fosse per quello passeresti davvero per un abitante del luogo... Non mi era mai capitato di vedere un ragazzo estraneo ai quartieri così trasandato.

Yunix sorrise appena. “Dice di non voler parlare, ma secondo me ha un forte bisogno di confrontarsi con qualcuno della sua età... E poi...” «Shig, voi avete mai del tempo libero? Quali sono le attività che praticate, quando non lavorate?»

La ragazza lo guardò stranita. «Ma di che parli? Lavorare è il nostro tempo libero. Ogni momento che non passiamo a cercare di migliorarci è solo mendicanza, autocommiserazione. Piuttosto che fare la fine dei miei antenati, preferirei rompermi la schiena, cadendo da un’impalcatura...» Il ragazzo dai capelli grigi si fermò di colpo. «Non smettete mai di lavorare?» Shig era stupita per quelle domande.

«No. Lavoriamo tutto il giorno, eccetto durante i pasti e quando dormiamo. Anche ora... Sembrerà che io non stia lavorando, ma in realtà sto portando diversi messaggi al capo-villaggio. Proprio per questo faresti meglio a sbrigarti...»

«Ma avrai degli amici, no?»

La ragazza lo guardò dubbiosa. «Se intendi le persone con cui lavoro...» Yunix scosse la testa. «Veri amici... Persone con cui ti confidi. Che scherzano e ridono assieme a te. Che ti considerano importante.»

I due si guardarono. «Non proprio. Non c’è tempo per... Non c’è la necessità...» Yunix sentì un profondo senso di pietà farsi strada nel suo cuore. «Tu dici che avete imparato a vivere, ma questo non è vivere, tanto quanto non lo era prima. State dimenticando cosa c’è nel mondo oltre alla fatica e alla sofferenza.» Shig lo osservava con un certo distacco. «Non c’è niente che stiamo dimenticando, perché non c’è nient’altro nel nostro mondo. Noi stiamo combattendo per migliorare la nostra vita. La fatica è solo un valido mezzo per riuscire nei nostri scopi.»

Yunix le afferrò un braccio. «Ma al fine di cosa? Cosa farete una volta che avrete ottenuto ciò che volete così disperatamente? Cosa farai, Shig?»

La ragazza ci pensò, scostando rudemente il braccio di Yunix. Quest’ultimo tremava per la tensione. Era da troppo tempo che non parlava così apertamente a una persona. Si sentiva strano, ma non era una brutta sensazione. Anche a lui serviva un confronto con qualcuno della sua età, che avesse simili difficoltà alle sue. La ragazza sembrava in conflitto. «Shig...» ripeté Yunix, avvicinandosi.

Due ragazzi sulla ventina arrivarono di corsa sul percorso, superando i due, impalati nel mezzo. Shig li riconobbe. «Ehi, voi! Tornate ai vostri posti! Adesso porteranno il cemento, che vi serve.» Uno dei ragazzi si fermò e riprese fiato. «Scusa, Shig, ma questa è un’occasione che non possiamo proprio perdere. L’eroe numero 1 è qui...» Il ragazzo ricominciò a correre, scansando un giaciglio di stracci sul suo percorso.

«Cosa!? L’eroe numero 1? Che ci fa qui?» Gli urlò dietro la ragazza. Yunix era stupito. «All Might? È qui a Temigor?» La ragazza aggrottò le sopracciglia.

«All Might? Quello è l’eroe numero 1 del Giappone. Che ci verrebbe a fare qui?» «E allora chi è?» domandò il ragazzo. Shig riprese a camminare, leggermente preoccupata. «Per assurdo è uno degli eroi più stimati qui a Salt Village, dopo mio padre. Nessuno lo ha mai battuto, né ci è andato vicino. Si fa chiamare “Eroe del Paradiso”. Il nome che ha scelto è Ten Ken ed è il numero 1 di Temigor.»

La ragazza si morse un labbro. «Se è venuto fin qui, ci sono solo due possibilità. È successo qualcosa di grosso nei dintorni, oppure... Ten Ken vuole sfidare mio padre.»

Yunix notò il timore nella voce di Shig. «Tuo padre è l’Hero che risiede quaggiù?» La ragazza non si voltò per rispondergli, né gli fece un cenno, ma Yunix capì che non vi erano dubbi a proposito. Tuttavia, non capiva tutta quella preoccupazione. La sola presenza dell’eroe numero 1 avrebbe spaventato il villain del caso e, anche se Ten Ken avesse voluto combattere col padre di Shig, che problema ci sarebbe stato? Non conosceva l’uomo che stava dietro al nome di Ten Ken, ma essendo un eroe, dubitava che avrebbe messo a rischio un’altra persona in semplici scontri amichevoli.

Voleva esprimere i suoi pensieri alla ragazza, ma un dettaglio lo colpì. Per un attimo gli sembrò di poter vedere, attraverso la pelle della ragazza, lo sfondo dietro di lei, ma fu solo un istante. Sbatté le palpebre. Forse era stata solo una sua impressione. In fondo, non dormiva da giorni. Eppure...

«Ehi! Shig, tu hai un Quirk, non è vero...?» La ragazza si voltò e Yunix temette seriamente di aver toccato un tasto sbagliato. Era pallidissima. «Non dirmi che l’ho attivato di nuovo senza volerlo. Quando sono tesa, non riesco a evitarlo. Ti prego non dirlo a nessuno...»

«Ma non c’è problema. Il Quirk è parte di te. Nessuno ti vieta di...» La ragazza lo interruppe, gridando.

«E invece sì che è vietato! Non possiamo utilizzare il nostro Quirk, qua dentro. È l’unica regola fondamentale, che Temigor si è degnata di imporci. Se qualcuno sapesse... Si viene ripagati bene a denunciare una persona per uso illecito di unicità.»

Yunix rimase interdetto. “Questa è la libertà di Temigor? Ma è assurdo...” La ragazza si accorse delle sue intenzioni e lo fermò. «Senti... Davvero non fa niente. È sufficiente che dimentichi quello che hai visto. Sono certa che un giorno... Quando avremo dimostrato di essere abitanti validi della città... sono sicura che avremo di nuovo il diritto di usarli... Io... ne sono certa.»

Yunix si sforzò di sorridere. «Certo... Mi auguro che sia così. Muoviamoci. Voglio conoscere questo Ten Ken.» Shig deglutì e annuì, per poi ricominciare la marcia verso il tendone principale. Yunix la seguì. “Non puoi nascondere nulla a una persona che conosce la tua solitudine, bene come me... Sai che non cambierà nulla, anche se doveste raggiungere tutti i vostri scopi. Tu rimarrai sola... Senza un Quirk.... Senza uno scopo... Senza un amico... Se solo sapessi come si fa ti insegnerei a vivere, io stesso.” Prima che potesse evitarlo sentì gli occhi bruciare, ma nessuna lacrima si fece strada sulle sue guance.


Note d'autore:
Ecco il secondo capitolo... Spero vi piaccia. Quasi non sembra My Hero, eh? Però mi piaceva l'idea di approfondire un po' la società di Temigor. Nel prossimo, apparirà finalmente "The Greatest Hero", anche se non sarà un vero e proprio simbolo della pace. Alla prossima...

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Capitolo 4
*** La città di ferro - Parte Terza: Heaven Hero ***


La città di ferro - Parte Terza: Heaven Hero


Il tendone principale era piuttosto spazioso. L’ingresso consisteva in una specie di anticamera, divisa dal resto delle stanze da teli di colore marrone-rossastro fissati al terreno con diversi picchetti. I rettangoli di tessuto rattoppato del soffitto erano invece tenuti in piedi da pali di legno e alluminio, lunghi almeno quattro metri.

Yunix apprese con meraviglia dall’accompagnatrice che l’interno era accuratamente suddiviso in sei sezioni diverse, quattro ai lati, una grande al centro e un’ultima area di medie dimensioni in direzione del mare, a cui aveva dato un’occhiata prima di entrare.

Shig lo condusse attraverso il varco che portava a quella principale, che con sua immensa sorpresa era, almeno in quel momento, una gigantesca stanza all’aria aperta. Infatti, il tessuto che doveva ricoprire il tetto era stato smontato assieme a tutti i pali. Il materiale era stato ammucchiato in un angolo, dove Yunix notò un ragazzino affaccendarsi con delle corde. Il pavimento non era altro che terra battuta e non si vedeva neanche una crepa in esso.

«Come pensavo» sussurrò Shig, preoccupata.

La stanza era piena di gente. C’erano i ragazzi che li avevano superati prima, ma anche molti altri abitanti del villaggio. Yunix lo capì tanto dai loro abiti, che alla meglio potevano passare per i vestiti di un contadino, quanto dai loro volti e dalle loro mani, segnati dalle escoriazioni e incrostati di povere. Due figure, tuttavia, si distinguevano dalle altre: un uomo corpulento avvolto in una pelliccia stava passando la mano destra sul terreno, come se ne stesse valutando le proprietà. Superava in stazza tutte le altre persone presenti.

Yunix avvertì Shig trattenere il fiato. L’uomo doveva essere suo padre. In effetti, proprio come la figlia, aveva pochi capelli sulla nuca, eccezion fatta per una lunga criniera di color castano scuro che arrivava fino alle spalle. Per nascondere le calvizie, aveva collocato poco sopra le tempie due cerchi di pelle con rune disegnate all’interno di colore bluastro. Era certamente imponente. Ai fianchi aveva assicurati un coltellaccio e uno scalpello, ma non sembrava un uomo minaccioso.

Continuava a disegnare cerchi concentrici sulla terra, apparentemente senza uno schema vero e proprio. Alzò gli occhi, dopo un po’, e gettò un’occhiata ansiosa alle persone nella tenda. Quando avvistò Shig, si distese in un sorriso stanco e si alzò in piedi.
«Shig, vieni qui...»

La ragazza gli si fece incontro, silenziosa.

L’uomo le indicò il soffitto. «Non trovi sia più bello quando il cielo splende sopra di noi, figliola?» Shig annuì incerta. «Finché non piove... sì.»

L’Hero era intento a guardare il sole pomeridiano. «Padre, che sta succedendo? Che ci fa lui qui?» L’Hero si volse con un’espressione serena. «Non ti devi preoccupare di nulla, cara... Sai che gli piace combattere...»

Shig agitò nervosamente un piede. «Ma non sei più quello di una volta... Perché? Perché non ci lascia in pace?» L’uomo le prese il viso tra le mani. «Gli dobbiamo molto... È il minimo che possa fare per lui...» La ragazza non sembrava per nulla rassicurata. «Ehi... Shig... Ti fidi di tuo padre?» La ragazza annuì lentamente. «Allora non c’è nulla di cui preoccuparsi... Io rimango sempre un eroe, lo sai... Non posso semplicemente andare in pensione.»

La ragazza si morse un labbro. «Tu puoi fare quello che vuoi. Noi Andawa non siamo ubriachi di gloria. Noi facciamo quello che ci dice l’istinto... Vai da quello sbruffone e digli di andare a combattere con qualche eroe di basso rango. Digli che il nostro villaggio non vuole più vedere la sua brutta faccia, quaggiù...»

Shig ricevette uno schiaffo, così all’improvviso che Yunix corse in avanti a sorreggerla. Il sorriso dell’uomo si era pietrificato. «Non dirlo. Non dirlo neanche per scherzo! Noi siamo qui solo grazie a lui... Te l’ho detto un milione di volte. Non devi insultare Ten Ken! Non hai idea di cosa sia capace... Nel bene e soprattutto nel male...»

La figlia non aveva mutato espressione, ma la sua voce dura era ora incrinata un poco. «Se solo mi dicessi qualcosa ogni tanto, invece che rimanere sempre sul vago...»

Il padre si strinse una mano sul cuore. «Sai perché lo faccio... La mia è una promessa...»

Shig arretrò, infastidita, massaggiandosi la guancia. «E’ sempre la solita storia con te... Quell’uomo significa davvero così tanto? E allora, perché non viene qui più spesso? Sembra che vi conosciate a malapena...» Il padre aveva finito di parlare. «Come vuoi allora... Rimani pure attaccato ai tuoi codici morali. Come ci insegna il capo-villaggio, ogni relazione è una perdita di tempo.»

Il silenzio calò tra i due. «Che cosa?!» Si intromise Yunix sconvolto. «Di che stai parlando?» Shig lo guardò mestamente. «Immagino che abbia detto anche troppo. Buono scontro, padre... Ho dei messaggi da consegnare...» La ragazza si allontanò.

Yunix guardò l’Hero scuotere la testa e tornare al suo lavoro. La tenda era sempre più colma di persone. L’altra figura che aveva interessato poco prima lo sguardo di Yunix era nell’ombra, in attesa di qualcosa. Il ragazzo ebbe l’impressione che guardasse dalla sua parte, ma molto probabilmente la mancanza di sonno lo stava traendo in inganno ancora una volta.

Il padre di Shig continuava instancabile nella sua opera sconosciuta. Yunix pensò che non l’avesse notato, quindi fece qualche passo indietro. «Ehi, tu... Cerca di non fare parola con nessuno di quello che ho detto... o che ha detto... Va già abbastanza male tra noi, anche senza che qualcuno si metta a ficcare il naso nei nostri ‘problemi’...»

Yunix non sapeva come rispondere. L’uomo sollevò lo sguardo. «Non sei di qui, vero?»

«No» rispose Yunix laconico. L’uomo rispettò la sua riservatezza e riprese a muovere il coltello sul terreno. Con la punta tracciava segni appena visibili. Dopo poco, si fermò e guardò Yunix negli occhi. «Non è che non voglia dirle nulla. È che temo di farle male, nello stesso modo in cui le fa male vedermi combattere... Se potessi passare più tempo con lei, forse troverei il coraggio di parlarle meglio, di spiegarle perché non posso dire tutta la verità ma... Ho paura che non farei altro che peggiorare la nostra situazione...»

L’uomo sembrava davvero giù di morale, ma Yunix era troppo immerso nei suoi pensieri per prestargli veramente attenzione. Gli ingranaggi nei suoi occhi emettevano una luce fredda.

«È vero?» L’eroe possente si interruppe, confuso. «È vero cosa?» Yunix si rannicchiò accanto al lui. «È il capo-villaggio che vi insegna che le relazioni sono tempo tolto al lavoro?» domandò in un sussurro. L’uomo assentì.

Yunix fece un cenno di assenso e si alzò, gli occhi che tornavano del colore originale. «Qual è il tuo nome da eroe?» Nonostante tutto, quell’uomo sembrava una brava persona e Yunix non voleva mettersi in mezzo alla relazione che aveva con la figlia. Tanto valeva provare a motivarlo un po’.

Questi si sollevò dalla sua posizione e torreggiò sul ragazzo come un leggendario combattente, ormai alla fine dei suoi giorni gloriosi.

«Io sono l’eroe Runico Chiaro, prima cerchia della Vecchia Guardia del distretto Sankakkei, capitano dell’ordine di Cobalto. Il nome che ho scelto è Arkendel...»

Yunix fischiò appena. «Hai molte cariche...» Arkendel sorrise. «Avevo... Ora sono solo soprannomi.» Yunix incrociò le braccia. «Credi di potercela fare contro questo Ten Ken?» L’uomo inaspettatamente iniziò a ridere e continuò per un po’. «No, non c’è gara... Spero solo di resistere un paio di minuti...» Nonostante l’apparente disinvoltura il suo tono era aspro. Yunix si astenne dal fare altre domande.

Gli sembrava strano che questo tanto decantato Number 1 Hero si scomodasse per così poco, ma non voleva risultare invasivo, né tantomeno sconsiderato. Arkendel aveva sicuramente le sue ragioni per aver accettato quell’incontro e sicuramente anche Ten Ken...

Nonostante questo, non nascondeva una certa eccitazione per quello che stava per vedere: a quanto sembrava, sarebbe stato uno scontro in piena regola, come non ricordava di aver visto in passato. Era una buona occasione per concedersi una pausa dalla sua ricerca.

Un uomo dai capelli brizzolati e una tunica variopinta si fece avanti con un microfono in mano. «L’ora è giunta. Gli sfidanti sono pregati di disporsi ai lati dell’arena, hic, volevo dire della sala... Le regole sono semplici... Il primo che è a terra o si arrende perde...» L’uomo scoppiò in un risolino, poi riprese in mano il microfono. «Cinque minuti! Cinque minuti alla nostra alchimia preferita. Vai, Rekendal... Volevo dire Arkendel...»

Il padre di Shig fece cenno di aver capito. Yunix era stupito. «Chi è quello? Che significa alchimia?» Arkendel tranquillizzò il ragazzo con una mano. «E’ l’ubriacone del villaggio. Dato che non sappiamo che lavoro fargli fare, lasciamo che annunci gli orari dei pasti e le comunicazioni ufficiali... Quanto all’alchimia... Spero che tutto vada secondo i piani...»

Shig giunse a piccoli passi, senza degnare il padre di uno sguardo. «Ehi, già che ci siamo mi sono resa conto di non sapere il tuo nome...» Yunix le porse la mano, un po’ imbarazzato.

«Yunix Braviery... e volevo chiederti scusa per averti dato della teppista...» Guardò da un’altra parte, quasi si aspettasse un altro pugno, ma la ragazza non fece altro che allontanare la mano del ragazzo.

«Sul serio? Ti sei preoccupato per una cosa del genere? Sei davvero un ragazzo attento ai dettagli, Yunix. Andiamo a guardare lo scontro di Ten Ken, muoviti...»

Il ragazzo seguì Shig nel lato destro della sala, facendo un cenno di incoraggiamento ad Arkendel, che sembrava un po’ triste per la mancanza di attenzioni da parte della figlia. Yunix però voleva saperne di più. «Prima che arrivassimo qui, hai detto che nessuno nei villaggi può usare il proprio Quirk.... Immagino che questo non valga, per i due eroi, visto che hanno la licenza, giusto?» Shig annuì, con la solita aria annoiata, come se fosse incapace di comprendere dove Yunix volesse andare a parare.

«Non posso credere a tutto questo. Le unicità sono parte di noi...» Shig lo guardò in faccia. «Le unicità non ci definiscono, Yunix... Noi non siamo i nostri Quirk. Quella è solo un’altra delle nostre caratteristiche...»

Yunix fu colpito da quell’affermazione. In effetti, si poteva vivere anche senza, eppure... «E’ solo che mi sembra un limitare sé stessi. Come si può pensare di dare il massimo, senza poterlo effettivamente fare?» I due sfidanti si stavano mettendo in posizione.

«Si lavora...» rispose semplicemente Shig. «Si lavora sempre di più.»

L’uomo brizzolato era al centro dell’area di combattimento, che sembrava effettivamente un’arena. «Alla mia sinistra c’è lui... Sì proprio lui...» Parlava con una voce eccessivamente tragica per un duello amichevole, però ci metteva passione. «E’ con noi da tanto, hic, tanto tanto. L’Eroe Runico Chiaro, Arkendel!!!» Il padre di Shig era davvero imponente e molto determinato. Gli occhi brillavano nella luce solare. Shig si lasciò sfuggire un gemito, che prestò mutò in una smorfia di indifferenza.

L’ubriacone lasciò che passasse qualche istante poi si volse a destra, con decisamente troppa foga, tanto che barcollò sulle esili gambe. «E alla mia destra... Dopo tre mesi... È tornato a farci visita... Non lo accoglieremo con un applauso, no, no. Quello deve meritarselo. È l’Eroe del Paradiso, che di paradisiaco ha ben poco, Ten Ken, l’Hero numero 1 di Temigor!»

Con passi lenti la figura dell’Hero uscì dall’ombra.

«Santo cielo, non mi abituerò mai all’accoglienza del luogo...»

Yunix osservò attentamente l’uomo, che in effetti mostrava diversi particolari bizzarri e tra di essi alcuni decisamente grotteschi. Il suo costume era composto da una specie di mantello che lo avvolgeva completamente, decorato in un modo decisamente creativo. La parte inferiore mostrava uno stile gotico, in tutto e per tutto, con tanto di dettagli argentei e immagini di teschi ricamati sul tessuto. Qua e là svettavano anche piccoli squarci, certamente voluti dall’Hero, più che cicatrici di battaglia. Andando a salire il mantello acquisiva una tonalità ben diversa, diventando una specie di camice imbrattato di vernice e pieno di tasche, con ogni tipo di cancelleria all’interno. La parte superiore cambiava ancora. Lo stile questa volta era più difficile da evincere. A Yunix sembrava inizialmente stoffa intarsiata, ma a uno sguardo più attento notò che erano vere e proprie liane a essere ricamate assieme al tessuto di colore cremisi. Due coprispalle luminosi illuminavano bottoni sparsi su tutto il vestito.

A un prima occhiata, l’eroe poteva sembrare anche regale, ma la compresenza dei tre stili differenti rendevano il tutto decisamente fuori dall’ordinario. Eppure, erano le caratteristiche fisiche vere e proprie dell’Hero che intimorivano il ragazzo.

«Shig, avevi già visto Ten Ken prima di oggi?» «Certamente. L’ha detto anche Loshu. È venuto tre mesi fa... E si è fatto vedere diverse volte nel corso degli anni.»

Yunix provò un senso di nausea. Possibile che vedesse solo lui il macabro in quell’individuo? L’uomo non aveva una costituzione robusta, né tantomeno fragile. Le sue braccia e le sue gambe erano stranamente sproporzionate e sviluppate in una maniera strana, come se fossero state incollate al corpo con la colla. Era difficile da notare, ma le ossa tendevano a sporgere fuori dalla sua pelle, rendendola tutt’altro che liscia e uniforme.

Una persona qualunque non avrebbe fatto caso a tutto questo, ma Yunix, che era un eccellente osservatore, non poté fare a meno che accorgersi di ogni piccolo dettaglio. Pensò di esprimersi con Shig, ma realizzò che in fin dei conti, in una società di Quirk come quella in cui viveva, non doveva sembrare così strano vedere qualche imperfezione nel fisico. I Quirk mutanti erano qualcosa di ben più che accettato. Doveva proprio dormire un po’.

Si focalizzò sul viso, che sembrava scolpito nel marmo. Ten Ken aveva lunghi capelli raccolti in code disparate e riccioli, di colori che ondeggiavano tra il rosso, l’azzurro e il giallo; tuttavia, il colore dominante nella parte superiore della nuca era il verde. Lo stesso schema di colori si ritrovava anche sulla faccia, dove simboli di ogni tipo circondavano gli occhi rosso sangue dell’eroe, la bocca sottile e il naso aquilino, come una maschera tribale. Se Yunix l’avesse guardato senza sapere che eroe fosse, avrebbe optato per l’Eroe Arcobaleno, altro che Paradiso.

I due sfidanti si erano messi in posizione: da una parte un veterano ormai avanti negli anni, dall’altra un eccentrico giovane che in qualche modo era arrivato al vertice.

Ten Ken guardò Arkendel negli occhi. «Perché tutte queste formalità? È la seconda volta che combattiamo, Arky...» L’uomo era stranito. «Seconda? Sarà perlomeno la quinta...» Ten Ken ignorò la precisazione.

«Allora, hai allenato il tuo potere dall’anno scorso?» Il padre di Shig si aprì in un sorriso a trentadue denti. «A che sarebbe servito farlo? Conosco chi mi ha sfidato...» Ten Ken fece dondolare il paio di orecchini dorati che aveva alle orecchie.

«È vero. Lo conosci bene. Eppure, potresti fare molto più di così... Potresti arrivare molto più in alto di quello che sei ora... Perché non ci provi? Ne avrai di tempo libero, qui...» Arkendel strinse i pugni, evitando la domanda. «Ti consiglio di non sottovalutarmi, Ten Ken. Si dice che con l’età che avanza si diventi più forti...»

L’Hero dai capelli colorati ghignò. «E’ quello che volevo sentire. Ti ricordo solo che lo stesso vale anche per me. Io miglioro. Miglioro sempre, e lo faccio a una velocità inquantificabile... Mentre tu? Cos’avrai ottenuto dalla tua permanenza in questo luogo?»

I due si fissarono per un altro lungo istante.

Negli occhi di Ten Ken brillava una passione incredibile, quasi mistica, come se fosse in procinto di vivere un’esperienza agognata da lungo tempo. Arkendel era stupito. Quella era solo una rara ricorrenza in fondo.

«È strano, Number 1. Ti sento animato da un fuoco particolare... Sta per succedere qualcosa di importante?»

Ten Ken si scostò una ciocca di capelli dalla fronte. «Nulla di cui preoccuparsi... Sto per partire, vecchio amico. E non tornerò per un po’...» «Lasci la città?» domandò Arkendel, onestamente stupito.

«Sì. Siete i primi a saperlo, ma dato che conosco la portata dei vostri contatti con il mondo civilizzato, suppongo che Temigor saprà della mia, mmm, vacanza solo tra diversi giorni. Voglio vederli a cercarmi a quel punto...» Ten Ken prese a ridere di gusto, mentre l’Eroe Runico Chiaro accoglieva la notizia pensieroso. «Volevi combattere un’ultima volta, non è vero? Un’ultima volta prima di partire...»

Ten Ken squadrò gli spettatori. «E’ così. Voglio combattere. È l’unico modo per diventare più forti. Ma non riesco più ad accontentarmi dei soliti quattro patetici villain. Spero che saprai offrirmi qualcosa di meglio... confessore.»

Arkendel fece un passo indietro colto alla sprovvista. “Come mi ha chiamato? Confessore... Il Ten Ken che conosco non l’avrebbe fatto così alla leggera.”

Ai lati della tenda la bizzarra conversazione stava agitando gli spettatori. Non erano persone colte, ma lavoratori manuali. Volevano vedere la concretezza di un duello, non un’arringa.

Yunix era confuso “Confessore? Ma di che sta parlando?” Il ragazzo si ricordò delle parole di Arkendel: «Non è che non voglia dirle nulla. È che temo di farle male, nello stesso modo in cui le fa male vedermi combattere... Se potessi passare più tempo con lei, forse troverei il coraggio di parlarle meglio, di spiegarle perché non posso dire tutta la verità».

Tra i due uomini che si stavano osservando ora in quella giornata qualunque c’era qualcosa sotto, qualcosa di importante. “Confessore, promessa... Non dovrei ficcare il naso in questa faccenda, ma Shig... Lei merita di sapere la verità, no? Che dovrei fare?”

Ten Ken sembrava distante ora, come se lo scontro fosse passato in un secondo piano.

«Quello che trovo qui, Arkendel... È un mondo che mi piace... Sono contento che questa sia la mia ultima tappa, prima del viaggio. Per assurdo, stando qui, mi sento più integrato in questa società bizzarra... Tu che vivi qui... Non provi la stessa cosa, in fondo? Non può essere un caso se io e l’Ex Number 3 ci troviamo qui nello stesso istante...»

Arkendel s’incupì. “Non è la stessa persona che ha dialogato con me quel giorno... Sta parlando troppo apertamente... Perché vuoi partire? Qual è la tua meta?”

Yunix cercò Shig accanto a sé. «Tuo padre è l’Ex Number 3 di Temigor?» Shig digrignò i denti. «Non ne avevo la più pallida idea... Ma c’era da aspettarselo da un uomo che non mi dice nulla di lui da quando sono nata...» La notizia aveva creato un certo scalpore, che riscosse Ten Ken.

L’uomo sollevò le braccia, guardando davanti a sé con avida eccitazione.

«Allora, Arkendel, volgiamo dare inizio a questa battaglia? Facciamo vedere a queste persone dove potrebbero arrivare! Rendiamo il mio addio un’occasione per esultare!» L’eroe vestito di pellicce non mosse un muscolo. Ten Ken si scompose un attimo, poi sorrise.

«Hai già iniziato, vero, vecchio?»

Lo scontro ebbe inizio.


Note d'Autore:
Ecco la terza parte del primo macrocapitolo. L'idea era di trattare anche lo scontro, ma non volevo qualcosa di troppo lungo... Spero che il capitolo vi sia piaciuto ugualmente, come è piaciuto a me scriverlo. Se avete qualcosa da consigliarmi o errori da farmi notare non esitate a scrivere una recensione, in modo che possa migliorare. Alla prossima.

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Capitolo 5
*** La città di ferro - Parte Quarta: Arkendel vs Ten Ken ***


La città di ferro - Parte Quarta: Arkendel vs Ten Ken


Senza preavviso, il terreno si animò come una gigantesca onda. Ma non era il terreno in sé a muoversi. Era un blocco, un blocco di terra, grande quanto un barile.

Il proiettile emerse dal terreno proprio sotto i piedi di Ten Ken, che agitò zelantemente un braccio. Il blocco si divise in due, prima ancora che gli astanti si accorgessero dell’inizio dello scontro.

Ten Ken atterrò con un balzo qualche metro alle sue spalle, mentre terriccio smosso ricadeva inerme sulla terra battuta, che stranamente non aveva riportato alcun danno.

Arkendel sorrise all’avversario. «Sapevo che non sarebbe stato così facile. Però te ne aspettano molti altri.»

Ten Ken rise vivacemente. «Era quello che stavi facendo, poco fa? Li preparavi per lo scontro? Un tempo ti sarebbe bastato battere un piede sul terreno e avresti avuto le tue munizioni pronte. Se questo è il meglio che puoi fare ora... Temo di doverti dire che lo scontro è scritto fin dal principio.»

Arkendel socchiuse gli occhi. “Certo che è scritto, Ten Ken, ma non ti renderò la vita facile...”

«Quello che ha fatto...!» esclamò Yunix, protendendosi verso il perimetro dello scontro. «E’ l’alchimia di cui parlava prima, immagino...»

Shig aveva il cuore in gola, ma guardò impotente l’Hero prepararsi ad attaccare di nuovo. «Il Quirk di mio padre... È forte, molto forte, ma non dovrebbe abusarne. È un potere che richiede di concentrarsi su diversi elementi in un solo momento. Spero che sappia quello che sta facendo.»

Yunix guardò il padre di Shig. “Devo parlargli quando tutto questo sarà finito... Ho bisogno di risposte...”

L’uomo era pronto. Lo si vedeva dai muscoli tesi, dal portamento fiero, dall’espressione determinata. Ten Ken si lanciò in avanti, affamato di vittoria.

«Io ti rispetto, vecchio, ma non ci andrò piano per questo! Fatti sotto e mostrami la forza che non credi di avere!» Arkendel ruggì e unì le braccia, come in segno di preghiera.

Pro-Hero: Arkendel; Quirk: Earth Alchemy. Entrando in contatto con il terreno può spezzarlo e dividerlo in più punti anche diversi metri nel sottosuolo, creando zolle più piccole. Ai pezzi sufficientemente piccoli può applicare una forza di gravità particolare, che li dirige verso l’alto. Tali zolle possono passare attraverso la terra come se fosse acqua.

Un simbolo triangolare di colore verde, contornato da rune apparve sul terreno.

«Earth Alchemy, Camera 7, Runa Lucente!»

Zolle di terra apparvero tutto attorno all’Hero e Ten Ken si ritrovò costretto ad evitarle. Ma non tutti i massi avevano la stessa velocità. Dopo aver scansato i più rapidi, il Numero Uno si ritrovò ad affrontare giganteschi blocchi.

«Troppo debole! Ancora troppo debole!» La voce tonante dell’Eroe del Paradiso rombò come un tuono a ciel sereno.

Come poco prima, uno dopo l’altro, i proiettili vennero divisi a metà e sbriciolati con un semplice gesto. E la cosa più strana era che il livello in cui l’uomo combatteva si era alzato. Inizialmente, gli spettatori erano portati a credere che saltasse da una zolla all’altra, poi fu chiaro che Ten Ken non stava nemmeno sfiorando la terra. Veleggiava nell’aria agilmente, con l’eleganza di un guerriero. Le sue braccia si muovevano con tale velocità da rendere impossibile capire come le stesse adoperando.

Fatto sta, che di fronte a uno sbalordito Yunix, l’attacco apparentemente infallibile di Arkendel fu ridotto in polvere. Quest’ultimo sorrideva, sicuro di sé, ma il sudore colava già dalla sua fronte. Se Shig aveva detto il vero, il padre non avrebbe resistito a lungo.

Ten Ken si arrestò nell’aria, atterrando sul nulla come sempre. «Ti fermi già? Guarda che sono qui...» L’eroe vantava un portamento perfetto. Non aveva neppure il fiatone.

«Un pezzo di carta...» Yunix si accarezzò il mento, arricciando la bocca in un sorriso. Shig lo udì e lo guardò, stranita.

Un silenzio teso era calato sulla tenda. L’eroe a terra alzò un braccio, ma non sembrava sicuro di quello che stava facendo. Una ragazzina dai capelli sporchi al fianco di Yunix iniziò a saltellare sul posto. «Arkendel! Siamo qui per te!» Le parole, semplici, ma dette con passione, scossero il vecchio combattente. Altri abitanti si unirono al coro. «Il nostro Hero!» «Puoi farcela!» «Vogliamo la tua alchimia migliore!» Un boato si stava levando dalla folla.

Ten Ken si coprì il volto con una mano. «Che vergogna... Non c’è nessuno che vorrebbe tifare per me?»

Un uomo con il pizzetto si rivolse all’eroe, sospeso in aria. «E che gusto ci sarebbe!? Un eroe che si prende gioco dell’avversario come te... Perché non inizi a combattere sul serio? Non abbiamo bisogno della tua pietà...» L’Eroe del Paradiso si irrigidì.

«Come volete...» Alzò il braccio.

Shig urlò, poi una risata interruppe l’attacco dell’Hero. Era Arkendel.

«Sei sempre lo stesso, Number 1. Per cercare di andare verso l’alto, guardi verso il basso. Come ora... Ti senti superiore adesso? Te ne stai lì sospeso nell’aria, come fai sempre, come se non fossimo alla tua altezza, eppure hai sempre bisogno di scendere alla fine... Non avevi detto che ti sentivi integrato nella nostra società?» La domanda arrestò l’eroe nel mezzo della sua mossa.

«Come dici? Mi sentirei superiore? No... No, no, no. Io non oserei mai. Per me ogni avversario è tale e quale. Ogni persona è tale e quale... Ma per me e solo per me è così...» Ten Ken aprì il pungo della mano. Un paio di forbici scivolarono fuori dal palmo e caddero per terra con un rumore metallico.

Attorno ad Arkendel iniziarono a emergere zolle di ogni grandezza. Questi si pulì la bocca con un braccio. «Allora perché ci guardi dall’alto in basso, Number 1?»

Ten Ken guardò intensamente l’avversario, gli occhi rossastri che lampeggiavano di segreti, poi anche lui si mise a ridere. «Vuoi sapere il perché, mio caro amico? Sconfiggimi, allora... Sconfiggimi e ti dirò tutto! Dimostrami che hai la volontà per farlo!»

L’Eroe del Paradiso si preparò ad attaccare ancora una volta, ma ora non c’era indecisione nei suoi occhi.

«Lo ammazzerà...» lamentò Shig, le mani sulla bocca. Arkendel però anticipò la mossa.

«Earth Alchemy. Camera 4. Runa del Ritorno!» Le zolle saettarono in alto. Ten Ken sbuffò e si preparò ad evitare la nuova ondata. «Ti ho già detto che è inutile. Non basta. Non è sufficiente!» Schizzi neri si disegnarono sui massi che vennero fatti a pezzettini con pochi gesti della mano. «Non vedi che...»

Arkendel era immobile, la stessa espressione determinata sul volto. «Non era quello il mio attacco! Se avessi prestato attenzione alle mie parole, lo avresti capito. Non bisogna sempre guardare dall’alto in basso, ma anche dal basso verso l’alto.» Ten Ken sollevò gli occhi. Innumerevoli proiettili di terra erano in caduta sull’arena.

«Ma pensa te!» esclamò, ammirato saltando giù dalla sua posizione. «Me l’hai proprio fatta, Arkendel... Le tue zolle cadono sempre alla fine...» Con un ringhio, si girò verso il cielo, rendendo visibili le mani, prima coperte nel mantello. Stretta nel pungo destro c’era una matita.

Yunix schioccò le dita, studiando attentamente la scena. «Tutto torna... La matita, le forbici...» Il Number 1 Hero tracciò cerchi e linee nell’aria con più rapidità di uno scribacchino. Segni affilati di quella che non poteva essere altro che graffite spezzarono gli asteroidi di terra, ma questa volta il loro numero era davvero alto. Ten Ken, rivolse la matita verso terra e tracciò grossolanamente la sagoma di una spirale.

Come un gigantesco turbine, i segni colpirono il terreno e iniziarono a girare su sé stessi. Gli astanti sentirono lo spostamento d’aria, anche nelle zone più riparate. Arkendel inarcò i piedi nel terreno, tenendo a malapena la posizione. Come risucchiato verso l’alto, il paio di forbici tornò nella mano di Ten Ken, spinto dalle correnti d’aria.

«Non avrei mai pensato che le avrei usate di nuovo in questo scontro!» Urlò, mentre il vestito artistico sventolava a causa del turbine sotto di lui.

Tanto l’eroe, quanto i blocchi di terra, rimanevano sospesi nel vento, ma i contorni di graffite cominciavano a dissiparsi. Arkendel si stava proteggendo gli occhi con un braccio, ma non perse l’occasione di scagliare un masso contro Ten Ken. Il corpo solido fu smembrato dalla rotazione circolare delle folate.

«Tutta questa scena per due blocchi, Number 1? Non ero io quello che poteva arrivare molto più in là?» Le parole erano pronunciate con fermezza, ma l’ex Number 3 era stremato.

Shig stava dando segni di cedimento: Yunix la vide digrignare i denti, inferocita. Non poteva più sopportare di vedere il padre compiere quegli sforzi. Gli spettatori applaudivano attorno a loro, proteggendosi al contempo dalle ventate, che però diminuivano sempre più di intensità.

E nell’aria, come un angelo, c’era Ten Ken. Era difficile a dirsi, potendone vedere solo la schiena e non sentendo a causa del rumore ma sembrava che l’eroe stesse ridacchiando come un folle, il corpo sottoposto a convulsioni impercettibili. Poi, il vento si quietò.

L’Hero non perse tempo, mentre i blocchi e la sua persona cadevano. Aprì le braccia, la matita nella destra e le forbici nella sinistra.

«MY RED HEAVEN!»

Con uno sfuggente taglio di forbice, rivolto al cielo, creò un cartonato di giornali gigantesco rattoppato assieme. Con la matita disegnò quattro schizzi. Tre verso l’alto e uno verso il basso. I massi colpirono la sagoma di carta, che tuttavia riuscì a sostenerne il peso e anzi si avviluppò attorno ad essi, come una piovra. Tre squarci si disegnarono sulla materia raggruppata assieme, formando un fugace simbolo triangolare, per poi sminuzzarla in molteplici pezzi di carta e terra inoffensivi.

Ten Ken, nel frattempo, si era aggrappato al quarto schizzo, conficcato come un’asta sul terreno e lo aveva sfruttato per scendere a terra, senza subire alcun danno. Guardò fisso Arkendel, con un’espressione indecifrabile, mentre striscioline di carta e polvere si depositavano sul terreno, ormai ricoperto di detriti. I segni neri scomparvero nella luce pomeridiana e così fece anche la carta, come se non fosse mai esistita.

«Ma come ha fatto?!» Domandò Shig, appoggiata a un ceppo, irata e al contempo confusa. Yunix la guardò di sbieco, annoiato da quell’interruzione.

«Vuoi che te lo spieghi, o preferisci capirlo da sola?»

Se la ragazza prima era arrabbiata, ora lanciava lapilli da tutto il corpo. «Yunix Braviery... Mi hai forse preso per una scolaretta ignorante? Ti consiglio di rimangiarti subito quelle parole, prima che tu possa pentirtene...» La voce demoniaca mise in guardia il ragazzo, che capì di aver fatto un passo falso, senza nemmeno accorgersene. Nonostante avesse la vitalità di uno zombie, non voleva beccarsi un altro pungo.

«Carta...» disse sulla difensiva. Shig si interruppe. «Che stai biascicando?» Yunix si strofinò gli occhi. «Con le forbici squarcia l’aria e la trasforma in carta. Con la matita può disegnare elementi solidi, con diverse caratteristiche... E' così che riesce a correre nel cielo: crea piattaforme di carta, che scompaionono non appena i suoi piedi lasciano la superficie. Questo è quello che sono riuscito a capire, ma non so abbastanza per dirti tutto sul suo potere... Spero di essermi spiegato bene... Scusa se dico cose insensate. Sono sfinito.»

Shig si quietò vedendo Yunix tornare a guardare i due sfidanti. Gli apparve più fragile che mai.


“Questa sensazione... Sento in me qualcosa che mi dice che dovrei fare qualcosa per lui... È come mi ha detto prima? Com’è che era? Gli amici sono le persone che consideri importanti? Con cui ti puoi confidare? Ma se non fosse lo stesso per lui... E io... Lo ritengo importante davvero? Quali erano i tre punti dell’amicizia che ha detto...?” La ragazza cercò di ricordarsi, ma dovette rinunciare con un sospiro di resa. Non era capace di pensare così a fondo come Yunix.

Arkendel e Ten Ken si stavano fissando, ancora una volta. La differenza tra i due era netta. Il primo a malapena si reggeva in piedi. Il secondo, d’altra parte, sembrava solo leggermente affaticato, come se avesse compiuto una semplice corsetta mattutina e non quelle incredibili mosse acrobatiche, nel cielo.

«Puoi arrenderti, se vuoi...» disse mettendosi le mani in tasca. «Ma rinunceresti davvero alla mia nuova promessa?» Arkendel era così stanco, che non riusciva nemmeno a parlare.

Ten Ken lo guardò con sufficienza. «Certo che no. Non ti fermerai. Quando noi umani otteniamo una verità parziale, non facciamo che desiderarne ancora e ancora. Il puzzle della verità ha un numero illimitato di pezzi, Arkendel. Non smetteremo mai di collezionarli. Tutto quello che possiamo fare è unirne alcuni, chi in modo grossolano, chi provandoci sul serio, analizzando un pezzo dopo l’altro, per cercare la combinazione perfetta. Allora, voglio sentirlo dalle tue labbra... Vuoi combattere fino alla fine?!»

Shig aveva gli occhi sbarrati. Yunix era turbato. «Fino alla fine? Che significa?» La ragazza nascose il viso tra le mani.

«E’ la sua ultima chance. Mio padre ha il diritto di decidere che fare. Qualsiasi sarà la sua scelta, io l’accetterò. Per quanto non lo conosca come dovrei, credo nel suo giudizio...»

Il ragazzo dai capelli grigi soppesò quelle parole. «Hai cambiato atteggiamento...»

Shig lasciò che le braccia ricadessero inerti sul corpo affusolato. «L’ho detto prima... Noi Andawa ci facciamo guidare dal cuore. Se lui pensa che sia giusto andare avanti, non lo fermerò...»

Arkendel respirava sempre più regolarmente.

«La tua risposta?» Chiese Ten Ken, con aria disillusa.

L’Eroe Runico Chiaro si sollevò sulle gambe, con fierezza.

«Ti ringrazio per avermi fatto questa domanda... E per quanto voglia sapere la verità, più di ogni altra cosa, io non posso continuare... Ignorare la mia età e i problemi che mi causa questo Quirk è semplicemente scorretto, verso coloro che mi amano...» Arkendel si strappò il coltellaccio dal fianco.

«Io mi...»

Un urlo mise in guardia l’Hero, che sentì un forte spostamento d’aria, a pochi centimetri dalla sua testa.

Le persone trattennero il respiro. Arkendel guardò gli astanti. Shig e Yunix erano increduli. Si voltò e vide impresso sulla tenda squarciata alle sue spalle il segno ancora vivido della matita di Ten Ken.

L’Hero Number 1 stava tremando. Con il braccio sinistro stringeva il destro. I suoi occhi erano pieni di terrore e rabbia al contempo. Erano gli occhi di un assassino.

L’uomo batteva i denti, come se stesse lottando contro sé stesso. Si lasciò andare all’indietro e fece diversi passi incerti, non mollando la presa ferrea. «No... No... Non erano questi i patti...» Sembrava fuori di sé.

Arkendel ansimava. La morte l’aveva appena sfiorato. Come una furia, mosse gli occhi dagli abitanti confusi a Ten Ken, come per accertarsi che stesse vedendo bene quello che aveva davanti. Poi, non resse più. Un astio sconosciuto si impossessò di lui.

Come una bestia messa all’angolo, unì disperatamente le mani.

«Earth Alchemy. Camera 10. Hagalaz, Runa della Distruzione!»

Lunghe fessure si disegnarono sul terreno attorno a lui e attorno allo stesso Ten Ken, che caracollava senza una direzione precisa, i capelli simili a tentacoli insanguinati.

Proiettili interrati emersero con una rapidità incredibile. L’Eroe del Paradiso si riebbe all’ultimo e la forbice saettò rapida, formando un ripiano di carta sotto i suoi piedi, che sembrò fermare per qualche istante l’ondata.

Ma Arkendel non era intenzionato ad arrendersi. Sputando sangue, scagliò il coltello verso Ten Ken, che dovette gettarsi di lato dove un masso di terra, apparentemente a distanza di sicurezza, si frammentò come una granata, scagliando schegge a destra e a manca.

In qualche modo, forse in virtù di semplice fortuna, Ten Ken riuscì ad evitate tutti i colpi, se non per qualche squarcio del vestito.

«No... Non è così che doveva andare... Arkendel! Sei disposto a mettere a rischio il tuo villaggio?! Tu non sei un Villain!»

Yunix stava proteggendo Shig, che tuttavia lo scostò bruscamente. I frammenti di terra erano arrivati anche da loro, per fortuna in misura molto ridotta. Gli abitanti si erano gettati a terra. L’ubriacone aveva abbandonato il microfono e stava cercando una via di fuga.

“Ma che succede? È stato tutto così rapido... Non riesco a capire.”

«Yunix...»

Shig lo guardò, sorprendentemente tranquilla. «Non ti devi preoccupare... Quello è mio padre... Non ci metterebbe mai in pericolo di vita. Lui ha solo deciso... di andare avanti... di combattere fino alla fine.»

Le sue parole non avevano alcun senso. Quello scontro era diventato qualcosa di ben diverso. Yunix fece per correre in aiuto degli uomini vicini a loro, ma Shig lo trattenne ancora.

«Ci sta proteggendo. Mio padre ci sta proteggendo. Non ha perso la testa, devi credermi...» Yunix scuoteva la testa, ritmicamente, incapace di reagire, poi notò che erano stranamente in ombra. Guardò attorno a sé e aprì la bocca, meravigliato.

Barriere di terra si erano innalzate attorno agli spettatori, nascondendo alla vista l’arena. Li stava davvero proteggendo. Cosa voleva ottenere? «Shig, tuo padre vuole confrontarsi con Ten Ken da solo?»

All’interno del perimetro, Arkendel guardava con fredda determinazione il Number 1 Hero, che lottava con fatica contro i detriti che continuavano a levarsi contro di lui. «Devi deciderti, Ten Ken. Sei un Hero o sei un villain?»

Quest’ultimo tagliò in due un masso. «Io non...!»

Arkendel teneva le mani unite, senza perdersi d’animo. «Non conosco tutti i tuoi segreti, è vero... Ma con quell’attacco mi hai dimostrato che non sei affatto cambiato da quel giorno. Tu non stai crescendo Ten Ken... Stai rasentando il fondo del barile.»

L’Eroe del Paradiso accelerò nei movimenti, lanciando un grido di battaglia.

«Se quello che dici è vero, mi basta un salto, un semplice salto, per migliorare, anche se soltanto per un secondo.» Gli schizzi di graffite crescevano in frequenza e grandezza, non lasciando scampo alla scarica di terra.

«Almeno ti rendi conto di quello che hai fatto? Deviando quel colpo, hai rischiato di mettere in mezzo degli innocenti. Il Ten Ken che conosco avrebbe lasciato che fossi io a morire.» L’eroe numero 1 si slanciò verso il basso, cercando di avvicinarsi ad Arkendel.

«Forse è vero... Il Ten Ken che conosci ti avrebbe lasciato morire, ma in fondo non sono più lo stesso dell’ultima volta... Non lo sono mai.»

L’uomo a terra non accennava a desistere. Rivoli di sangue colavano lungo le sue braccia e dal respiro sembrava che i suoi polmoni si fossero frantumati. Eppure, le sue mani rimanevano unite. Ten Ken se ne accorse.

«Tu sei un pazzo, vecchio! Cosa speri di ottenere, così?»

Arkendel fece una smorfia. «Ma non è quello che volevi? Che superassi i miei limiti...»

Gli occhi rossi lampeggiarono.

«Moriresti qui?»

L’avversario non mosse un muscolo. «Ormai non mi manca molto in ogni caso.»

Ten Ken si bloccò. «Cosa!?» Un proiettile gli colpì il braccio. Riuscì a malapena a trattenere un grido, mentre l’arto si incrinava. Arkendel fece un passo avanti.

«Non mi hai permesso la resa, perciò non vedo perché dovrei fermarmi ora. Vincerò questo scontro, anche se dovesse costarmi la vita.» Ten Ken atterrò bruscamente su un giornale, appena generato dalle forbici. Con la mano sinistra si tastò le tempie, incerto.

«Ark...»

La voce dell’Hero si spense. L’uomo spostò il palmo della mano sugli occhi e si rimise eretto con semplicità, come se non sentisse più il dolore al braccio.

«Arkendel? Arkendel?» Chiamò con voce quasi giocosa. «Come puoi anche solo pensare di riuscire a battermi? Io sono l’eroe numero 1. Questa tua tracotanza mi sorprende. Ho sempre guardato con ammirazione al tuo senso critico.»

Arkendel fece un passo indietro, sorpreso. Anche il tono della voce era diverso. “Ha cambiato di nuovo atteggiamento. Non va bene...” Guardò in alto. I proiettili stavano finalmente tornando a terra. “No... Posso ancora farcela. La fortuna sembra essere dalla mia parte.” L’uomo si fece forza, nonostante le energie lo avessero completamente abbandonato.

«Credi nel destino, Number 1?»

Ten Ken teneva gli occhi coperti, sorridendo, come se stessero giocando a nascondino. «Ovvio che sì. Non è divertente pensare che tutta la nostra vita sia una commedia? O forse una tragedia? O magari uno spettacolo di burattini? Chi lo sa? Ma tu stai solo prendendo tempo, no?»

Arkendel sorrise, suo malgrado. «Forse è così, o forse la commedia sta per finire per te, oggi. Perché io vincerò proprio ora...» Si protese verso il basso spezzando i legami in anticipo.

«Nel nome di Salt Village, che mi ha donato una vita nuova, e per te, Ten Ken, che l’hai resa possibile... Earth Alchemy! Camera 24, Dagaz. Runa del futuro!»

Blocchi di ogni tipo sorsero dalla terra, ma anche il terriccio che si era depositato precedentemente si sollevò. E lo stessero fecero le barriere ai lati dell’arena. Al contempo, le zolle di terra che l’Hero aveva scagliato prima stavano tornando al mittente dal cielo.

«E non è tutto, con questo non avrai alcuna speranza. RAGNAROK!»

I blocchi di terra esplosero a mezzaria, come granate a frammentazione. Nel giro di un secondo, erano stati scagliati proiettili da ogni direzione, dritti verso Ten Ken. Quest’ultimo era ancora immobile, gli occhi celati, ma con un gesto impercettibile aveva sfilato qualcosa da una tasca.

«Hai combattuto bene...» Ten Ken disegnò un cerchio attorno a sé con il pungo chiuso.

«Paradise Lost!»

Un senso di vuoto si impossessò di tutti gli astanti. A Yunix sembrò di sentire gli organi interni tirati verso l’alto, come da una calamita, ma la sensazione fu tanto repentina ad arrivare, quanto a svanire. Era come se per un attimo il mondo fosse stato proiettato verso l’alto. I primi a riprendersi e a guardare l’area di combattimento si misero le mani sulla bocca, per la scena che avevano di fronte.

L’ondata di frammenti, diretta verso Ten Ken, era completamente scomparsa. L’uomo era atterrato di fronte ad Arkendel, indenne. Aveva un’espressione seria, quasi frustrata, non più irriverente.

Sollevò la matita, pronto a un eventuale attacco, ma l’avversario era immobile. I capelli variopinti dell’Eroe del Paradiso non sembravano più vividi e allegri, ma freddi, avvizziti. Il suo costume era squarciato in più punti. Era impossibile capire cosa stesse pensando.

Ora più che mai, Yunix ebbe paura di quell’uomo. Era quello il simbolo della pace di Temigor? Gli occhi rossi di lui erano fissi su Arkendel.

Il gigantesco guerriero era ancora in piedi, ma non dava segni di vita. Bisbigli iniziarono a diffondersi nella tenda, seguiti da timidi singhiozzi. Il cielo si era annuvolato negli ultimi minuti e il caldo pomeridiano sembrava ormai solo un lontano ricordo. Shig tremava accanto a Yunix, in uno stato a dir poco catatonico.

Poi, quasi lentamente, l’uomo cadde in avanti e collassò sul terreno. Non aveva subito neanche un attacco, ma era lui a essere a terra. Solo allora Shig si mosse.

«Padre!» Urlò, terrificata, correndo da lui. «Ti prego, dimmi che stai bene...» Calde lacrime caddero sul vestito di pellicce. Lo scosse più volte, cercando di percepire un segno di vita, ma un’atmosfera di morte si respirava nell’aria. Nessuno sapeva come reagire.

«Per favore... Non abbiamo nemmeno avuto il tempo di salutarci...»

Yunix aveva occhi di ghiaccio. Percepì un senso di vuoto, non dissimile da quello che aveva provato poco prima. Un passo dopo l’altro si avvicinò a Ten Ken, ancora in piedi, senza nemmeno sapere cosa avrebbe fatto. Per un attimo, gli sembrò che gli occhi dell’Hero tremolassero di blu, poi il rosso sangue tornò a lampeggiare attorno alla pupilla.

Come poteva un Hero compiere un atto simile? Come poteva pensare di rimanere in silenzio, dopo tutto quello che era successo?

Poi accadde qualcosa che colse il ragazzo alla sprovvista. Una mano... Una mano lo tratteneva per una caviglia.

«Yunix... Non ricordi quello che ti ho detto?» Il ragazzo guardò Shig. La ragazza aveva il volto rigato di lacrime, ma Yunix riconobbe la determinazione del padre nei suoi occhi.

«Lasciami andare!» La voce del ragazzo tremò, insicura. «Lo ha ucciso, Shig... Lo ha ucciso a sangue freddo!»

La ragazza scosse la testa, soffocando con difficoltà i singhiozzi. «Mio padre... Mio padre ha combattuto fino alla fine. Sapeva che sarebbe finita così... È per questo che non volevo che combattesse... Usare il suo Quirk lo corrode dall’interno. Ecco perché ha scelto di venire qui al villaggio: in modo che non venisse coinvolto negli scontri.» Yunix la guardò, cercando di sfuggire alla morsa.

«Ma questo non cambia nulla. Ten Ken... Lui lo ha costretto a combattere.»

Una voce roca e risoluta lo sorprese.

«Io non ho costretto nessuno, ragazzino...»

Ten Ken era arrivato alle sue spalle. Yunix si girò, con furia omicida verso l’uomo. Voleva colpirlo, ma non ci riusciva. Se non poteva ferirlo fisicamente, lo avrebbe fatto con le parole.

«Perché non mostri un po’ di umanità, Ten Ken?»

L’Hero fece una smorfia.

«Umanità? Che parola frivola... Se tutto si potesse ridurre a una sola parola, allora non avremmo bisogno di fare tanta fatica per ottenere quello che desideriamo. Io e Arkendel abbiamo giocato al gioco della verità e lui ha perso... Perché non riuscite ad accettarlo? È stata una scelta sua!»

Yunix allontanò il Number 1 Hero. «Lo hai attaccato, mentre si stava arrendendo. Non sei meglio di un villain!»

Il vociare era cresciuto di intensità attorno a loro, ma per Yunix c’erano solo Ten Ken, Shig e il corpo di Arkendel. Doveva proteggerlo, in qualche modo.

L’eroe numero 1 sembrava combattuto. «Non tutto è andato secondo i piani, te lo concedo...» Gli occhi rossi dell’uomo sembravano cavità sanguinolente da così vicino, ma accese di passione. «Ma io non avrei mai, mai, mai, fatto del male di proposito a lui.»

La decisione nella voce fece solo infuriare di più Yunix. Gli ingranaggi nei suoi occhi brillavano intensamente.

«Non cercare scuse!»

Si strinse la testa fra le mani. Il mal di testa stava tornando. “Ma anche io... Ho commesso qualcosa di simile, non è vero? Tutte le volte la stessa immagine mi torna alla mente. Due luci nella notte e un lago di sangue...” I contorni di Ten Ken iniziavano a sbiadire. “Se solo... Riuscissi a fare chiarezza nella mia testa...” «Fammi passare, ragazza!» sentì dire, mentre i suoi occhi si chiudevano e lui cadeva a terra.

Come in cerca di un appiglio, posò la mano su quella di Shig, ancora stretta attorno alla sua caviglia, poi sprofondò in un mondo in cui non c’era più nulla che potesse tormentarlo.



Note d'autore
Ce l'ho fatta. Questo ha richiesto del tempo, ma è stato soddisfacente portarlo a termine. Con il prossimo, spero di concludere "La città di ferro" con la sua ultima parte, per passare poi al "Capitolo" 2, che dovrebbe essere sensibilmente più corto (mai dire mai). Spero che la lettura vi sia piaciuta. Il destino dei protagonisti è ora incerto... Cosa farà Ten Ken? Cosa accadrà agli Andawa? E il capo-villaggio? Alla prossima. Se volete darmi consigli, le recensioni, anche se critiche sono apprezzatissime. 

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Capitolo 6
*** La città di ferro - Parte Quinta: E' bello morire di primavera ***


La città di ferro - Parte Quinta: E' bello morire di primavera

Quando Yunix aprì gli occhi, rimase immobile, cullato dal calore che sentiva in tutto il corpo. Era un’atmosfera così piacevole che gli sembrò di essere in paradiso. Muovere un solo muscolo avrebbe rovinato quel momento di pace totale nel quale nulla poteva sfiorarlo. Il torpore era al massimo e il ragazzo si preparò a riaffondare nei meandri dei sogni. Qualcosa però lo frenava. C’era qualcosa di importante in ballo. Non poteva lasciarsi andare così... Negli occhi, annebbiati e stanchi, si rifletteva una luce calda. Si sentiva bollente, ma non come se avesse la febbre, quanto più come se si stesse arrostendo di fronte a un falò. Perché la sua mente non lo lasciava dormire un altro po’? Era sdraiato sul fianco sinistro e, a dirla tutta, non si sarebbe spostato per nulla al mondo. Il massimo che si limitò a fare fu muovere gli occhi, disabituati alla luce e intorpiditi. Non aveva riposato a sufficienza: sentiva le occhiaie artigliare e tirare la pelle. Nonostante ciò, cominciò a intravedere il tessuto rosso della tenda. Una lampadina giallognola emetteva quella luce calma, che lo assuefaceva con delicatezza.

Ci mise un po’ a capire che c’era qualcuno al suo capezzale. Dalla sua posizione non vedeva altro che una mano, posata su un paio di jeans neri impolverati. Li riconobbe subito. Non potevano appartenere ad altri che Shig. Fu contento di vederla lì. Non gli era mai capitato, da che si ricordasse, che una persona si prendesse cura di lui.

Un pensiero orribile gli attraversò la mente e fu quello che lo fece rizzare seduto. Le coperte scivolarono dal suo petto, mentre il suo battito cardiaco accelerava. Perché Shig era lì con lui? Arkendel... Dov’era suo padre? Si guardò febbrilmente intorno, cercandolo. Più volte osservò l’apertura della tenda, come se si aspettasse di vedere il colossale combattente varcarne la soglia. Per tutto quel tempo, Shig rimase immobile, a guardarlo sorpresa.

Yunix si arrestò. Non avrebbe più avuto il coraggio di guardarla negli occhi. Si era presa cura di lui, quando suo padre... suo padre... Non riusciva ad accettarlo. Le immagini di ciò che era accaduto si rincorrevano vivide nella sua mente. Chiederle scusa? E per cosa? Ancora una volta gli occhi lo stavano tradendo. Sarebbe mai riuscito a piangere di nuovo?

Shig gli diede un colpetto sulla spalla. «Ehi... Che ti passa per la testa?» Aveva il suo solito tono innocente e rude.

Yunix strabuzzò gli occhi. «Ma come? Shig, tuo padre...»

La ragazza soffiò, come un gatto. «Non ha mica sempre bisogno di me. Può cavarsela da solo...»

Il ragazzo era pietrificato. «Come puoi dire così?»

Gli occhi di Shig si accesero di comprensione. Sorrise, schioccando le dita. «Ah... Ecco cosa ti passava per la testa. Ho capito. Effettivamente, non sai ancora niente. Non è morto, non è assolutamente morto. Mio padre è vivo. Ten Ken l’ha salvato. Non so che ha fatto... Ha tirato fuori una specie di aggeggio, con questa forma, più o meno... così?» La ragazza unì le mani in una forma semi-rettangolare.

Il ragazzo dai capelli grigi non ci sarebbe mai arrivato, senza aver visto la tipologia di armi usate da Ten Ken, ma grazie a quello era certo di poter dire che si trattasse di una squadra o un compasso. Non che avesse importanza in quel momento.

«Vivo!? Arkendel è vivo, dici? Ma come? Non si muoveva... Eri certa che fosse morto, no? Hai controllato il polso. Ho visto mentre lo facevi.»

Shig si scrollò nelle spalle. «Ti dico di che è vivo. Dopo poco, ha ripreso a respirare normalmente e si è pure alzato a un certo punto... Beh... Se non ci credi, lo vedrai tu stesso quando ti sarai ripreso.»

Gli ultimi residui di sonno stavano svanendo dal corpo del ragazzo, ma immaginava fosse solo una condizione momentanea. «Non ci posso credere... Ma allora Ten Ken non aveva cattive intenzioni. Dov’è? Dov’è ora?»

Shig sbadigliò. «Sta per partire. Non ha detto quando e se tornerà...»

Ci fu una pausa. La ragazza vide il ragazzo sussultare e tossire, come in preda a una malattia.

«Yunix! Che hai!?»

Il ragazzo sollevò il volto. Stava ridendo. Shig si quietò e scosse la testa. «Ma dove ti hanno insegnato a ridere?»

Il ragazzo si stava stringendo le costole, ma non riusciva a smettere. «Fa male! Fa male, ma non mi sono mai sentito così felice...» Aveva dimenticato l’ebrezza di quella sensazione. Era come se una pietra fosse finalmente stata smossa dalla sua schiena. Smise poco dopo, quando vide che Shig si stava innervosendo. Le ossa gli dolevano più che mai, ma Yunix non si pentì affatto di ciò che aveva fatto. Era stata una liberazione.

Il buon umore si accentuò quando si accorse di non puzzare più come un ratto di fogna. Anche i suoi vestiti erano stati cambiati. Doveva essere la prima volta che si puliva in almeno due settimane. L’ultima volta che era successo, era quando aveva fatto il bucato sulla sponda di un fiume, non lontano da Osaka.

Ma chi poteva...? Un rossore si dipinse sul suo viso, quando un secondo terribile pensiero gli attraversò la mente. “No... Non può essere stata lei, vero?” Ancora una volta, non riusciva più a guardarla in faccia, ma per ragioni ben diverse.

La ragazza sospirò esasperata. «Ma ce la fai o no a svegliarti?»

Yunix sentiva una vampata di calore farsi strada nelle sue membra. Non poteva essere stata lei... Non doveva avere pregiudizi perché una ragazza, ma aveva come l’impressione che quel maschiaccio non avesse poi tutta questa conoscenza in materia d’amore e pudore. «Ehm... Certo. Certo che ci riesco...» Incrociò lo sguardo con Shig, stoica e seriosa, e non poté fare a meno di avvampare ancora di più.

«Sicuro di stare bene?»

«Certo.»

«Ti piace proprio quella parola, eh?»

«Certo... Volevo dire è così...» Si asciugò la fronte, con un braccio, simulando un breve risolino. Lui non era uno che si lasciava andare alle emozioni. Che stava succedendo?

Shig alzò le mani arrendevole. «Immagino sia la stanchezza. Se vuoi ti lascio dormire un altro po’.»

Il ragazzo dalla corporatura esile cambiò espressione e si accarezzò i capelli, titubante.

«Mi volete davvero qui?»

Shig gli si rivolse con tono deciso. «Mio padre sarà fuori gioco per un po’ e lui ne faceva di lavori, quindi sarà meglio che qualcuno prenda il suo posto.»

L’immagine di Arkendel riaffiorò nella mente di Yunix. Come poteva sperare di lavorare quanto lui? Si rese conto che Shig era seria. Voleva davvero che restasse lì...

«Ehi, Yunix» disse lei risedendosi di fronte al suo letto. «C’è una cosa che mi tormenta da un po’.» Il ragazzo attese la domanda, sentendo che finalmente la tensione tra i due si stava spezzando. Shig sembrava incerta su che parole usare. «Prima... Tu prima hai parlato di amici e c’erano dei punti, vero? Tipo elementi necessari per cui un altro è identificabile come tuo amico...»

«Sì, ma non devi pensare così l’amicizia.»

«E come devo pensarla?»

«E’ una cosa che senti dentro, un sentimento profondo verso un’altra persona.» Realizzò che la sua affermazione non si associava unicamente all’amicizia. Shig aspettò, interessata, ulteriori spiegazioni, ma il ragazzo doveva fare i conti con una nuova ondata di emozioni. Quando si riprese, continuò.

«Un vero amico è colui che desideri sia sempre felice e per cui arriveresti a fare di tutto... Una persona a cui sai di poter affidare i tuoi segreti più profondi... Ci puoi litigare, ma farai sempre pace... Puoi mancargli di rispetto, ma lui ti perdonerà...» Fece una pausa. «E per quanto possa continuare ad enumerare caratteristiche, non si può semplicemente fondare questo legame su un elenco puntato. Lo capirai quando una persona sarà diventata tua amica, poiché è qualcosa di naturale, che non ha necessariamente bisogno di azioni particolari.»

Shig processò le parole, lo sguardo perso nel vuoto. «Ho una domanda...» affermò con riserbo. «Se per caso io considerassi qualcuno un amico, ma lui non mi considerasse tale, sarebbe lo stesso un’amicizia?»

Yunix rimase di stucco. Effettivamente, non ci aveva mai pensato. «Beh... In fondo conta quello che pensi. Se tu consideri una persona tua amica perché non dovrebbe esserlo? Col tempo, è facile che anche l’altro inizi a ricambiare il sentimento.» Sentì il sudore scorrere sulla sua fronte. Gli sembrava di stare fluttuando. Davvero, che gli succedeva? Era perché non discorreva con una persona da tanto tempo? I suoi desideri erano come assopiti. Tutto quello che voleva fare era rimanere lì ad ascoltare quella voce dura, ma sognante. Sentirla riverberare nella mente e nel petto. Non avendo mai provato una lascività simile, non poteva esserne certo, ma il feroce battito del suo cuore confermò i suoi sospetti.

Era possibile che si stesse innamorando...?

No. Non aveva alcun senso. Eppure, era stata Shig la prima persona a parlargli volontariamente da quando aveva perso i ricordi. Un intero mese senza che nessuno gli degnasse uno sguardo... Si era sentito invisibile e aveva nascosto quella sensazione di futilità nella fuga, ma ora...

A un certo punto, Shig mostrò a Yunix il braccio sinistro, dove la maglia smanicata non arrivava. Un’affilata onda energetica corse sulla pelle, che divenne trasparente, o almeno, apparentemente lo era. Il ragazzo trattenne il respiro per un attimo, poi capì che la ragazza lo stava invitando ad osservare bene. Facendo un po’ di attenzione, Yunix riusciva a vedere la sagoma del braccio, come se fosse...

«Camo-Skin o Pelle Camaleontica... Questo è il mio potere. Lo posso attivare quando voglio e se mi impegno posso applicare il Quirk anche sui miei vestiti. Quando è attivo su tutto il mio corpo raggiungo la stessa mimesi di un camaleonte. Lo uso solo quando sono da sola, ovviamente. Se qualcuno mi vedesse... Come ti ho già detto, gli infami sono pagati bene per una parola su di me.»

Yunix guardò Shig disattivare con mestizia il Quirk.

«E tu?» soggiunse.

Il ragazzo corrugò la fronte. «E io cosa?»

«Il tuo Quirk... Se non vuoi rivelarmelo significa che sarai un amico per me, ma io non sarò un’amica per te.»

Il significato di quella frase lo colpì come un petardo, stordendolo. “Vuole che io sia il suo primo amico?” Yunix arrossì ancora una volta. «Oh... certo. Mi sembra giusto... Il fatto è che io non...»

«Ha a che fare con i tuoi occhi? Il tuo potere, dico?»

Il ragazzo divenne subito vigile. «Cos’hanno i miei occhi?»

«Ma come? Non dirmi che non te ne sei mai accorto...» Shig teneva le braccia incrociate, ma era insolitamente aperta e briosa, persino loquace.

Non voleva rovinarle quel momento, ma Yunix aveva accettato da tempo di essere un no-quirk e ora lei... Cos’avevano i suoi occhi? La ragazza non sembrava intenzionata a dargli ulteriori spiegazioni. “Se non vuole dirmi altro, lo scoprirò da solo. Non voglio rendere i miei problemi questioni di stato. Mi basterà restare sul vago.” Rise nervosamente.

«Te lo sarai immaginata. Ti dico che non ho un Quirk. Se lo avessi sta certa che te lo avrei già rivelato...»

«Mhmm... Ok.» Shig scrollò le spalle e si alzò. «Allora siamo ufficialmente amici.»

Yunix annuì. Si sentì un po’ infido per averle nascosto del suo passato, ma in fondo avrebbe avuto molto tempo per parlarle nei giorni successivi.

Shig si avvicinò all’entrata. «Ti lascio dormire ora. Ci vediamo domani, suppongo, a meno che tu non voglia fare un salto stanotte. Nel caso, sono qui a fianco.»

Yunix avrebbe dovuto sentirsi in imbarazzo, ma il sonno gli impedì di cogliere la sfumatura intrinseca di quella frase. Pensò di dirle qualcosa, prima che se ne andasse, ma non sapeva realmente cosa. Le fece quindi un cenno di saluto, per poi riadagiarsi sul materasso. Sentì la cerniera dell’entrata posteriore sollevarsi e tornare al suo posto. Shig se n’era andata. Sperava che sarebbe rimasta con lui un altro po’, ma in fondo aveva ragione... Ci sarebbe stato tempo l’indomani e lui aveva bisogno di dormire. La morbidezza del cuscino lo stava già trascinando verso l’oblio. Era da così tanto che non dormiva su un letto vero... Almeno due mesi. Forse di più. Chissà chi era prima di aver perso la memoria... Non sapeva nemmeno il suo vero nome. Si scoprì di non avere nessuna voglia di conoscerlo in quel momento. Quelle cose gli sembravano quasi superflue, ora. Il suo passato non lo interessava più come prima.

“Forse ci sono riuscito... A lasciare tutto alle spalle...” Poteva davvero significare questo? Ce l’aveva forse fatta? Non osava neppure sperarlo. Eppure, era riuscito a stabilirsi in un luogo che nemmeno aveva osato fantasticare. Sarebbe rimasto con Shig, Arkendel, gli abitanti, e li avrebbe aiutati a cambiare mentalità. Non ci sarebbe stato solo lavoro... Cullato da questi pensieri e dal dolce calore, si assopì.

____________


Ten Ken osservava il mare. I tinteggi del tramonto erano una tela di colori caldi, in cui lo sguardo sembrava immergersi. Quando poi riemergeva, come una pennellata sfumata, era infuocato di nuove passioni, di nuovi sogni. I gabbiani volavano bassi e il mare era calmo, ma non immobile. I riflessi luccicanti danzavano e sfrecciavano da un’increspatura all’altra, come tanti piccoli pesci colorati. Era ormai ora di partire.

La città era già alle sue spalle. Senza di lui e senza il Number 2, non sapeva se sarebbe stata in grado di gestire i villain, ma la sua missione aveva la priorità. Anche se tutto fosse andato per il peggio... Anche se la fine fosse stata alle porte...

Temigor non aveva mai visto una guerra. Non aveva mai avuto difficoltà interne. Era una città che si proclamava forte... Ma era pur sempre giovane. Non aveva le radici culturali, politiche, economiche delle metropoli giapponesi e non era nemmeno chiaro in che modo mantenesse la sua indipendenza. Non c’erano dubbi... Ten Ken guardò in alto. Le pedine avevano iniziato a muoversi. Se avessero dovuto chiedere aiuto al Giappone, allora sarebbe stata la fine della loro autonomia, ma se fosse stato l’unico modo, forse persino l’ambizioso sindaco avrebbe piegato il ginocchio. E se non lo avesse fatto? In quel momento, Ten Ken sapeva che non si sarebbe trattenuto, ma chi diceva che avrebbe avuto il controllo in quell’eventuale occasione? Non stava a lui prendere le decisioni. Avrebbe fatto quello che poteva, ma il suo obbiettivo rimaneva uno.

Lenti passi zoppicanti lo misero in allerta, ma non era difficile capire a chi appartenessero.

Arkendel si stava avvicinando. L’uomo era pieno di cicatrici, il suo respiro era pesante, come lo erano anche le sue braccia, ma non sarebbe rimasto seduto un secondo di più del dovuto. Guardò Ten Ken, di spalle. Il suo vestito a sezioni ondeggiava nel vento.

«Stai per partire, Number 1?»

«Proprio ora» borbottò l’uomo rivolto verso il mare, senza emozioni.

Arkendel si arrestò a due metri da lui. «Mi hanno detto che sei stato tu a salvarmi.»

«È vero... Non avrei dovuto?»

Arkendel osservò le conchiglie sparse per tutta la riva. «Ero pronto...»

«Lo so.»

«Ma mi hai salvato.»

«Lo so.»

«Allora perché...»

«Perché gli altri non lo erano. Non erano pronti a fare a meno di te.» Ten Ken aveva stretto i pugni in un gesto risolutivo, ma era evidente che non fosse realmente convinto di ciò che aveva fatto. «Che Hero sarei se lasciassi che la gente muoia per mia stessa mano?»

Arkendel fece un altro passo. «Saresti un eroe che combatte per un bene superiore. È per questo che volevi uccidermi, non è vero?»

«Sapevo che ci saresti arrivato...» sbottò Ten Ken, facendo tremolare i lunghi capelli.

Arkendel annuì. «Sapevo troppo...»

«Sai troppo.»

«E allora cosa ti ha fatto cambiare idea?»

Il numero 1 raccolse un pugno di sabbia. «Te l’ho già detto...»

Arkendel non sarebbe stato raggirato da una giustificazione del genere. «Non è questo. O almeno... C’è una parte di te che non mi ha risparmiato per questo motivo.»

I due Hero erano fermi, ma la sabbia fuoriusciva dalla mano aperta di Ten Ken, come quella di una clessidra.

«Le tue azioni ti hanno tradito, Number 1. La verità è che sai che mi manca poco...»

Ten Ken sogghignò, cercando di sembrare sprezzante. «Non posso darti torto, in fondo. Quanto ti resteranno? Tre, quattro mesi? La tua fine è vicina... Perché sottrarti la possibilità di prepararli alla tua scomparsa?»

Arkendel sospirò, ma non disse nulla.

Ten Ken si stava irritando.

«Se non hai nient’altro da dirmi, io me ne vado. Ormai l’avrai capito... Non puoi arrivare alla verità.»

L’Eroe Runico Chiaro sputò per terra. «Sul serio? Credi che io vi rinuncerei? Quando mai ho rinunciato a qualcosa nella mia vita? Se sono qui, ancora qui, è per Shigoto Andawa, mia figlia. E prima di morire, voglio dirle tutta la verità. Non mi accontenterò di pochi pezzi. Il puzzle che le consegnerò sarà completo.»

Ten Ken sorrise malinconico. «Tu combatti sempre fino alla fine. Dovevo immaginarlo... Se solo avessi un briciolo della tua determinazione, sarei già giunto alla mia meta...» Fece una pausa. Pronunciare le parole successive gli risultava difficile, più del dovuto. «Non so se ci riuscirai, ma ti auguro tutta la fortuna del mondo... Addio, Arkendel.»

Con queste parole, gli ultimi granelli di sabbia nella mano di Ten Ken si dispersero nel vento dorato del tramonto. L’eroe eccentrico si incamminò lungo la riva.

La voce disincantata e affaticata dell’uomo alle sue spalle lo colse impreparato. «Non me lo dirai mai, vero? Perché mi hai fatto quella proposta...»

Ten Ken si volse per un istante e, per la prima volta quella sera, Arkendel riuscì a vederlo in faccia.

«Chissà... Il mondo è pieno di colpi di scena.» Quella voce cordiale e giocosa, quel cambio repentino di atteggiamento furono le ultime cose che Arkendel udì dalla bocca dell’Hero.

“Un altro pezzo...” si ritrovò a pensare. “La verità non è lontana”. Nella sua mente ancora splendevano le sfumature di quegli occhi.

_____________

 
Il secondo risveglio di Yunix fu ben diverso dal primo. L’atmosfera placida e luminosa che lo aveva accolto precedentemente era scomparsa. Con la luce spenta, il buio regnava sovrano. Era notte fonda. La gentile brezza che avvertiva all’interno della tenda non era nulla, rispetto a quello che aveva provato sui cigli delle strade, durante i temporali. A dir la verità, non sapeva nemmeno come fosse riuscito a sopravvivere a tutto quello... No. Non era stato il freddo a svegliarlo. Forse aveva dormito a sufficienza, ma cosa avrebbe fatto fino all’alba?

Guardò sonnolento al lato del letto e vide il suo zaino. Cibo... Aveva fame. Agguantò qualcosa all’interno della sacca. “Carne secca? Andrà più che bene.” Addentò un lembo di carne con voracità e iniziò a divorare il suo magro pasto. Si preoccupò unicamente di non fare troppo rumore. Non voleva svegliare nessuno... Quelle erano le sue ultime provviste, ma non sarebbe stato un problema anche se le avesse finite. Ormai non doveva più vivere come un vagabondo. Trangugiò il tutto e si lasciò cadere supino sul letto.

Doveva ricordarsi di ringraziare Arkendel per l’ospitalità. Non voleva abusare della benevolenza degli abitanti. L’indomani si sarebbe subito proposto per qualche lavoro, possibilmente assieme a Shig, ma non avrebbe insistito. Doveva fare una buona impressione, altrimenti si sarebbe scordato quella sistemazione. Sarebbe stato disponibile, ma non invasivo. Se il suo carisma fosse cresciuto, non ci sarebbe stata alcuna difficoltà ad avere Shig tutta per sé.

Si odiò immediatamente per quel pensiero. Quella ragazza non era un oggetto. Come aveva potuto pensarla in quel modo? E che prove aveva di essere innamorato veramente? Poteva essere stato un semplice sentimento di gratitudine per la ragazza che lo aveva trascinato fuori da quell’incubo... No, doveva stare calmo. Nei giorni seguenti, si sarebbe reso conto di cosa stesse realmente provando. Ormai gli risultava difficile distinguere i beni materiali da quelli spirituali. Se avesse capito di non amarla in quel modo, avrebbe fatto un passo indietro, senza alcun rimpianto. Anche questo era parte del patto che aveva fatto con sé stesso.

Un movimento a pochi metri da lui lo distrasse. Si voltò, curioso di sapere da dove provenisse. Ci fu un secondo movimento e le ante della tenda venero sollevate. Fu un uomo a fare la sua comparsa nella stanza. Cercava di non fare troppo rumore, ma non si muoveva come un ladro. Sembrava piuttosto che trattasse il posto come se fosse suo. Nella penombra, Yunix intravide capelli grigiastri e rughe incipienti sul viso.

La figura si accorse che era sveglio. «Bene... ALMENO mi sono risparmiato la fatica di svegliarti.» Il tono era freddo e carico di una strana rabbia repressa.

Non c’era molto che Yunix potesse dire o fare. Stupito per quella visita, si mise a sedere. «Mi scusi signore... Non so chi...?»

L’anziana figura si era avvicinata abbastanza da essere visibile un po’ meglio. Era stranamente composto ed eretto per l’età, come se si allenasse ogni giorno. Indossava un vestito semplice, al pari degli altri abitanti, forse tendente al nero. Le iridi rossastre gli comunicarono una forte presenza, tanto da metterlo in soggezione. Sembrava non avesse alcuna intenzione di accendere la lampada o qualche altra fonte di luce.

«Preparati, fa le valigie e vattene da qui...»

La voce imperiosa non ammetteva repliche. Yunix impallidì. «Che cosa!? Ma chi è lei?»

Lampi d’odio riverberarono nel vecchio. «Non urlare. Se svegli qualcuno, ti assicuro che farò in modo che tu non metta più piede qui. Mai più...»

Il ragazzo era scombussolato. Che voleva quella persona?

«Ti ho chiesto chi sei...»

L’uomo sbuffò. «Vieni qui a mettere strane idee tra la mia gente e pensi che tutto passi inosservato. Usa la testa, moccioso. Puoi capirlo anche da solo chi sono, dato che sei una persona tanto intelligente...»

Il ragazzo cercò di trattenersi, ma quelle parole aggressive lo stavano disturbando. «Sa... Ripensandoci non me ne frega niente di chi è lei. Shig mi ha detto che sostituirò Arkendel in qualità di...»

«Ma che autorità pensi che abbiano quei due? Ti rendi conto di quante stronzate stai raccontando? Sei un ragazzino. Come pensi di poter sostituire un eroe? Ti ho detto di usare quella testa di cazzo che ti ritrovi e pensare, moccioso di merda. Dopo che l’avrai fatto, fammi il piacere di LEVARTI DI TORNO!» La voce era di una violenza tale che Yunix si stupì provenisse da un vecchietto.

Vedendolo immobile, l’uomo afferrò lo zaino del ragazzo.

«Ehi! Cosa pensa di fare con quello?»

Il vecchio gli fece segno di stare in silenzio. «Un’altra parola e scateno l’inferno, ragazzino...»

Iniziò a rovistare all’interno. In realtà c’era poco e niente. Non fu soddisfatto fino a che non ispezionò tutto. «Eroi del cazzo! Sempre bravi quanto non devono...»

«Ma lei delira!» Gemette Yunix, alzandosi in piedi.

In un fugace momento, la luna illuminò un medaglione sul petto dell’anziano. Sulla materia argentea erano incise due parole:

“Katsuki Bakugou”

Era il suo nome o quello di un suo famigliare?

L’uomo se ne accorse e uno sguardo omicida si accese nelle orbite sagomate. «Sembri uno che si interessa tanto dei problemi altrui... Se non sei una spia allora chi cazzo sei?»

Yunix fece qualche passo indietro, scosso dal disgusto. «Io? Io non sono nessuno. Ma tu... Ho capito chi sei... sei il capo-villaggio.»

L’uomo schioccò le dita. «Geniale, l’hai finalmente capito, moccioso. Ora puoi andartene! Su, vattene!»

Ci fu una pausa. Yunix respirò a fondo, poi aprì la bocca, perentorio:

«No!»

L’uomo si sedette. «E invece lo farai. Te ne andrai e ti spiegherò anche perché...»

«Non me ne andrò» stabilì il ragazzo, scandendo le parole.

Il capo-villaggio sospirò, sicuro di sé. «Come vuoi... Ti dico solo questo, supponendo che tu non sia una sporca spia del potere centrale. Due persone. Due persone oggi sono venute da me. E sai di cosa mi hanno parlato?»

Yunix faceva fatica a rimanere calmo. «Non ne ho idea...»

«Cambiamento. Io detesto il cambiamento, come detesto molte altre cose... È difficile quando la tua famiglia è così lontana non detestare almeno qualcosa. Shigoto Andawa e Jutsuo Andawa per esempio: sono sempre loro che mi danno i problemi maggiori...»

Il ragazzo lo interruppe. «Loro hanno capito che la tua filosofia è errata. Il lavoro non è l’unica risposta.»

Il vecchio non si scompose minimamente. «Il lavoro è l’unica risposta, ORA, e non puoi affermare il contrario... Non puoi farlo perché non ci conosci. Pensi che sia una bella vita quella degli altri villaggi?»

«Perché continuate con questi paragoni? Voi vi state illudendo di vivere. Questa non è vita. È sopravvivenza.»

Il vecchio prese a picchiettare le dita sul medaglione. «Te lo ripeto. Tu non ci conosci. È quello che ho sempre odiato degli eroi... Hanno la presunzione di essere paladini della giustizia, quando dovrebbero limitarsi a salvare le persone. E invece giudicano, senza sapere. Giudicano per il gusto di farlo. Giudicano per sentirsi degni dell’ignobile nome che portano! Dimmi, moccioso... Che diritto hai di giudicarci, quali prove sostengono la tua tesi?»

Il ragazzo respirava intensamente. “Shig è la mia prova. Quella ragazza non conosce il significato di amore, di amicizia, di felicità. E lei è certamente l’abitante più istruita. Gli altri non avranno mai questa possibilità, non potranno mai ambire a nulla, perché non conosceranno nulla, a eccezione del lavoro.” Queste furono le parole che Yunix voleva pronunciare, ma non ci riuscì.

Sostenne lo sguardo penetrante del vecchio, senza muovere un muscolo, la cicatrice sulla bocca divenuta tesa e dolorante per il tanto parlare. “Chi sono io per giudicare, dice? Chi sono io, piuttosto?”

«Non c’è alcuna possibilità che io possa rimanere qui?»

Il vecchio strinse il medaglione nella mano. «No», decretò in un sussurro definitivo.

Il ragazzo annuì, gli ingranaggi che splendevano di luce fredda. Nei due uomini dimorava la stessa furia, lo stesso odio. Non era nemmeno chiaro se il sentimento avverso fosse per l’altro o per qualcosa di più profondo. “Non mi farò convincere. Non ho ancora detto a Shig la verità su di me.” Per ripicca pensò di urlare, di svegliare tutti, di attaccare il vecchio, di spiegargli una volta per tutte dove sbagliava, ma ancora una volta, come sempre accadeva, Yunix non sapeva cosa fare. Non sapeva scegliere.

Fece un passo e guadagnò coraggio. Il vecchio si preparò a combattere, un lieve ghigno che gli deformava il viso. Aspettava da tanto che accadesse.

Tuttavia, Yunix non lo attaccò, anzi lo oltrepassò, afferrò lo zaino e, senza nemmeno guardarsi indietro, varcò l’uscita. Solo quando sentì la confortevole brezza notturna si rese conto di essere all’aperto. Qualche fuocherello era visibile in lontananza e le onde del mare si infrangevano sugli scogli.

“Ma che ho fatto? Perché? Perché non sono rimasto?”

Si voltò e fece per rientrare, ma qualcosa lo tratteneva. La voce che aveva sentito la mattina stessa risuonò ancora nella sua mente.

«Qui non troverai quello che cerchi...»

Che fosse davvero così? Nemmeno lì? Nemmeno quello era il posto giusto? Ma non aveva sbagliato nulla. Quando sarebbe finito quell’incubo? Il silenzio della nottata lo abbracciava. Una cosa la sapeva. Ora come ora, non sarebbe rientrato in quella tenda per nulla al mondo: quando una decisione era presa, doveva smetterla di tornare indietro.

Yunix iniziò a correre. Le sue gambe si muovevano meccanicamente, senza uno scopo. Eppure, si sentì tranquillo. Non stava più pensando. Il flusso continuo di pensieri si era interrotto, come il treno di fronte a un binario chiuso. Quella constatazione lo spronava sempre più. Attraversò viuzze, così rapidamente che gli oggetti e le persone non erano altro che fantasmi evanescenti, dispersi nel vento.

Libertà. Era di nuovo libero. Era possibile che qualcosa che molti agognavano fosse per lui un peso così grande? Perché non era incatenato come tutti? Gli sarebbe piaciuto... Essere limitato da qualcosa. Essere vincolato, ma non sarebbe mai successo. In fondo, lo sapeva già. Lui non si meritava nulla, perché idealmente aveva tutto.

E man mano che si rendeva conto di queste cose, Yunix capì perché aveva fatto quel viaggio, perché non aveva mai smesso di correre, perché doveva fermarsi una volta per tutte, perché la libertà lo stava uccidendo. Senza uno scopo, la vita era insensata. Però uno scopo esisteva solo se si avevano desideri e il vuoto all’interno di Yunix non avrebbe permesso che essi esistessero. Correre verso l’ignoto non era che una transizione, non un vero e proprio obbiettivo. Lo aveva aiutato a non pensare, a non domandarsi cosa volesse fare, quando si era reso conto di non conoscere più sé stesso.

Ma ora che era giunto a Temigor, non poteva più illudersi di poter fuggire. Era il capolinea. Era la fine. Ecco perché si era aggrappato a Shig, all’illusione di quel luogo sicuro: per dare un senso alla sua vita, per colmare quel vuoto. La consapevolezza di tutto questo, lo riportò alla realtà.

Aveva fallito. Anche se avesse riprovato, non avrebbe avuto successo, perché aveva già dato tutto sé stesso. Non ne valeva la pena. “Correre, correre, correre. Non lo sopporto più. Voglio fermarmi, una volta per tutte...”

Yunix si accorse di essere uscito dalle barriere della zona dei villaggi. Da quant’è che correva? Il suo corpo gridava di dolore, ma lo ignorò. I suoi piedi stavano incontrando una lieve pendenza. Doveva essere in prossimità della zona settentrionale del distretto principale di Temigor, quella più vicina alle montagne. Alzò lo sguardo. A metà di una strada in salita, c’era una villa ottocentesca e un posto di osservazione, da cui si poteva osservare la città. Sorrise. Non aveva senso ricominciare da capo. C’era un solo modo... Un solo modo per mettere fine a quella corsa senza fine. Fece subito un passo in avanti, sentendosi quasi consolato. Ogni falcata era più semplice della precedente, come se la terra lo stesse aiutando in quel primo e ultimo desiderio. Arrancò il più rapidamente possibile e raggiunse il cerchio di cemento bianco, che si sporgeva nel vuoto.

Non c’era nessuno per strada. Di fronte a lui, si stagliava il classico binocolo panoramico e, oltre a quello, si estendeva la metropoli, nelle sue luci e nelle sue tenebre. Emozionato, si trascinò in avanti. I sogni non nascevano dalla libertà, ma dalla prigionia. Lo aveva capito.... E lui era tutto fuorché uno schiavo. Chissà... Forse avrebbe conosciuto il suo passato, una volta di là, ma anche se non fosse stato così... Afferrò la ringhiera di ferro, che circondava il basamento della zona d’osservazione e vi salì sopra. Sotto di lui, rocce mascherate di oscurità lo attendevano.

“Addio Temigor, addio Shig, addio Arkendel, addio signor Bakugou e addio Ten Ken... Mi ha fissato davvero, dall’ombra? Forse ha percepito il male, il mio dolore, o forse mi sto solo credendo più importante di quello che sono...” Sorridendo, Yunix fece un passo nel vuoto. “Una cosa è certa: il mondo sarà un posto migliore senza di me...” Stava perdendo l’equilibrio... Era alla fine della corsa.

Una scossa bluastra gli passò davanti agli occhi. Invece che reagire in qualche altro modo, Yunix saltò all’indietro, al sicuro. Scoprì di stare tremando. Controllò meglio il respiro e si rimise in piedi. Turbato, allungò un braccio oltre la ringhiera. Non accadde nulla.

«Bella vista, eh?» Yunix si voltò di scatto. Un uomo anziano e gobbo si trascinava in avanti. Aveva vestiti molto all’antica, a rombi marroni. Un cappello a cilindro nero nascondeva gran parte del viso e dei capelli. Lo aveva visto? Ne dubitava... Era tanto che riuscisse a camminare, probabilmente.

«Allora? Ti hanno mangiato la lingua?» La voce era indubbiamente roca, ma non strascicata.

Yunix sorrise, suo malgrado. «No, no. È molto bella, sì. Proprio una bella città, Temigor...»

Il vecchietto batté le mani, divertito. «Misericordia... Non dico la vista della città, ma delle bellezza che abbiamo alle spalle.»

Yunix si voltò a guardare. La villa ottocentesca? Oltre al cancello e le siepi, che si estendevano per un bel pezzo di strada, Yunix scorse un sentiero di rocce bianche e una fontana di marmo. Il giardino sembrava molto bello in effetti, con cespugli ben tenuti e piccole statue a fungere da decorazione aggiuntiva. Tuttavia, per quanto la visione complessiva fosse assai suggestiva, il ragazzo continuava a non comprendere.

Il vecchietto venne in suo aiuto. «Ma tu lo sai cos’è questo edificio?»

Yunix scosse la testa, poi si ricordò che l’uomo non poteva vederlo.

«No, francamente non lo so.»

Un’altra risatina colse il giovane alla sprovvista. «Voi giovani d’oggi... Non riconoscete più la maestosa HG?»

Yunix era sbalordito. «L’HG? L’accademia per eroi?»

«Proprio quella» disse l’uomo, compiaciuto.

Il ragazzo non si aspettava assolutamente un edificio del genere. «Ma pensavo fosse nata al massimo quarant’anni fa...»

Il vecchietto sospirò, sognante. «Non tutti conoscono i segreti di quest’abitazione. Li capirai col tempo, se sarai attento.» Yunix rimase doppiamente di stucco.

«Cosa intende dire con questo?»

L’uomo si avvicinò a lui e gli sfiorò una mano. «Voce stanca, mani sudate e affaticate, passo zoppicante... HG accoglie sempre chi è in difficoltà.» Il silenzio seguì quelle parole. «Ora devo andare... Non vorrei morire prima della fine di questa passeggiata.»

Con un sorrisetto ironico, diede le spalle al ragazzo e si avviò lungo la strada serpeggiante. Iniziò a canticchiare, aumentando poco per volta il volume della voce. Yunix lo osservò finché fu visibile, poi la schiena gobba sfuggì alla sua vista e il ragazzo rimase solo.

Un lampione illuminava l’area di fronte a lui. Ora che era più calmo, fu in grado di osservare meglio ciò che aveva intorno. Era senza dubbio nell’area settentrionale. Lo si capiva dal mare, presente, guardando oltre il binocolo, di fronte a lui, alla sua sinistra e alla sua destra, dove riusciva a vederlo meglio. Era a nord-ovest del distretto, dunque. Questo avrebbe potuto confermare le parole del vecchio, in quanto l’HG si trovava effettivamente vicino a lui. Stava ancora elaborando le ultime frasi che questi aveva pronunciato.

La provvidenzialità di quel dialogo lo aveva messo in allarme. Proprio quando aveva accettato di aver perso ogni speranza, era arrivato uno sconosciuto a dargli quella possibilità. Sembrava qualcosa di troppo bizzarro. Inoltre, cos’era che lo aveva trattenuto sull’orlo del baratro? Guardò la città a sinistra e l’imponente edificio a destra, indeciso. Da una parte la morte, dall'altra l'ignote... La villa era a due passi: perché non provare? L’abisso sarebbe rimasto lì ad aspettarlo, in ogni caso.

Attraversò la strada. Il cancello era molto fascinoso. Era più o meno quattro volte la sua altezza e svariate volte la sua larghezza. Le lettere “HG” erano di metallo corvino, inserite nel pattern pressoché inalterato del resto delle ante. Era impossibile scorgerle da lontano, senza sapere che c’erano anzitempo. Allora il vecchio diceva il vero... Yunix notò il campanello sulla colonna di destra, di uno splendido color rame intarsiato. Anche quello appariva rudimentale, ben più simile alla corda di una campana che a un campanello moderno.

“Che faccio? La tiro? E se non succede nulla?” Yunix si guardò alle spalle.

Non aveva timore, né paura... Che problema c’era? Se non fosse successo niente, avrebbe terminato quello che aveva iniziato. Quella strana filosofia gli ricordò una frase che aveva letto da qualche parte:

“E’ bello morire di primavera”

La mano scheletrica del ragazzo si strinse attorno alla corda, le vene pulsanti di vita all’interno. Un trillo rimbombò nella notte. Il ragazzo iniziò a contare mentalmente, senza provare alcuna emozione.

“1, 2, 3, 4...”

Nessuna risposta. Il rumore del mare era appena udibile da dove si trovava. Una melodia per il suo cuore spezzato.

“5, 6, 7, 8...”

Se anche non avesse risposto nessuno a lui non cambiava proprio nulla. Anzi sarebbe stato più facile.

“9, 10, 11, 12...”

Yunix sentì il battito del cuore accelerare. L’odore del muschio era un toccasana per il suo animo spento.

“13, 14, 15...”

La luna era piena quella sera. Giovava alla sua mente vuota. Gli sarebbe piaciuto guardarla assieme a Shig.

“16, 17, 18...”

Si sarebbe arreso così? Dov’era finita la sua brama di dissotterrare il suo passato? Il cancello era freddo al tatto.

“19, 20...”

La notte rimase silenziosa.

Yunix diede un calcio alle sbarre. «Non voglio morire...» Tutta la sua convinzione andò in fumo e cadde in ginocchio. Era solo. A nessuno sarebbe importato se fosse morto lì. «Aiuto... Qualcuno mi aiuti. Shig... Arkendel...» Sperò di piangere. Voleva davvero farlo, ma non ne aveva le capacità.

Singhiozzò a più riprese, a quattro zampe sull’erba. Non aveva nemmeno il coraggio di lasciarsi andare. Nemmeno quella decisione poteva essere sua.

«Segui il tuo cuore...» La voce di Shig lo risvegliò. «Noi Andawa ci facciamo guidare dal cuore.» Il suo cuore? C’era ancora un cuore dentro di lui?

«Ricorda, fratello del destino, si può sempre iniziare da capo, ma per farlo ti serve uno scopo... Uno scopo, piccolo o grande che sia, ti farà andare avanti. Avanti, trovane uno. Trovane uno. Trovalo, altrimenti tutto questo sarà inutile. So che puoi farlo.» Era un’altra voce questa. Lontana, remota, enigmatica. Era la stessa di quella mattina. I suoi ricordi. Finalmente... Un’immagine sbiadita si disegnò nella sua coscienza: una ragazza in un impermeabile giallo. «Uno scopo... Piccolo o grande che sia, so che lo troverai, perché i nostri sogni possono arrivare ovunque, persino dove le nostre azioni non possono arrivare... Non è bellissimo? Esseri umani... I migliori sono nati dai sogni. E da dove nascono i sogni? Da uno scopo. Trovalo, Randagio. Il coraggio non è in chi è capace di arrendersi, ma in chi combatte fino alla fine...»

Yunix digrignò i denti, mentre l’immagine si disintegrava di fronte a lui. Perché? Perché non poteva restare lì?

“Combattere fino alla fine? Come Arkendel? Io uno scopo non ce l’ho, ma posso averlo se lo desidero...? Anche se dovesse essere irrealizzabile?”

La strada era silenziosa.

“Se dovessi seguire la mia mente, direi che il mio scopo sarebbe lasciarmi andare, ma se dovessi seguire il mio cuore... cosa vorrei?” Yunix guardò le stelle.

“Se dovessi desiderare qualcosa, dal profondo del mio cuore, direi che sarebbe questa: io vorrei diventare il più grande tra gli eroi...

Una cometa sfrecciò di fronte ai suoi occhi, ma poteva essere un’altra illusione. «...Il più grande tra gli eroi?» Una terza voce lo colse alla sprovvista. Era dolce, musicale, triste e tuttavia Yunix capì che era reale. Il vecchio l’aveva detto... HG aiuta sempre chi ne ha davvero bisogno.

Lui... non era più solo.



Note d'autore:
E si conclude così il primo grande capitolo. Questo è stato il testo più lungo per ora. Ero indeciso se dividerlo, ma ho optato per rilasciarlo completo, per non spezzare la narrazione. Mi auguro che vi sia piaciuto. Ho anche rilasciato un prologo poco tempo fa, quindi chiunque se lo fosse perso, può andare tranquillamente a recuperarlo. Ora più che mai sono apprezzate le recensioni per capire dove potrei migliorare e mi piacerebbe sentire la vostra sulla storia fino ad ora. Grazie per avermi dedicato il vostro tempo e alla prossima con "HG".

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Capitolo 7
*** Approfondimenti - I ***


                                                                        Approfondimenti I
 
Premesse: Questo tipo di capitoli alternerà a volte quelli della storia in sé, per offrire informazioni in più sul mondo rappresentato e i personaggi originali, ma non solo. Saranno anche riassunte le caratteristiche fisiche e psichiche di tali personaggi, in modo che questi capitoli possano fungere da fondamenta per la fanfiction, in generale. Se non ricordate un personaggio o un dettaglio, sarà sempre possibile consultarlo negli approfondimenti, così come alcune piccole curiosità interessanti. In ogni caso, non spoilererò nulla sugli eventi futuri e per non rovinare la crescita di alcuni personaggi rimarrò sul vago anche nel descriverli. Se non volete spezzare la narrazione passate pure al prossimo capitolo. Ditemi se l’idea vi piace e buona lettura...

Le origini di Temigor
Temigor è una città indipendente di discrete dimensioni, divisa in tre distretti, nella zona a sud del Kyushu, in Giappone. La sua nascita coincide con una data non lontana dalla scoperta del primo Quirk. Inizialmente un semplice villaggio rurale, conobbe una crescita spaventosa grazie all’ambizioso Edwin Wealth, passato alla storia come “Il Mezzosangue Prodigioso” (era infatti per metà giapponese e per metà inglese). Non è chiaro come, ma riuscì a sottrarre al Giappone, con un intrico di promesse e accordi, la terra che ora è lo stato di Temigor. Incredibile a dirsi, il primo distretto a sorgere non fu quello più popolato, a sud, bensì quello ad est, dove si concentrano il maggior numero di miniere di Arkastro, antico nome dell’acciaio di Temigor.

Arkastro: Storia e Caratteristiche
L’estrazione del minerale rappresenta la vera esplosione economica di Temigor. Fu scoperto casualmente, ma è evidente che Edwin Wealth avesse compiuto degli studi in anticipo. Arkastro... Un minerale di incredibile bellezza. È possibile trovarlo in grandi vene, estese per dozzine di metri di roccia. L’incapacità della sua identificazione era e tutt’ora risiede nelle sue proprietà di mimesi. Senza apposite luci fredde, il minerale è completamente invisibile all’occhio umano, che percepisce solo roccia uniforme. La densità simile dei materiali, roccia e Arkastro, rendeva impossibile identificarla anche con meticolosi macchinari. Le luci azzurrognole, tuttavia, sono in grado di rivelare la vera natura dei giacimenti e il loro incantevole colore azzurrino; Edwin, ormai di diritto primo sindaco di Temigor, s’incaricò dell’estrazione di massa del minerale. Lo stupore crebbe quando ci si accorse che nel giro di settimane, il minerale si dilatava, esposto per lungo tempo a luci intense. Un tale successo fece eco in tutto il mondo. Persone di ogni nazionalità giunsero a fiotti nella terra del sindaco: ricercatori, avventurieri, scienziati, persone comuni... Fu così che si venne a creare la società multietnica che ancora oggi è preminente a Temigor.
 
Arkastro: Utilizzi
Il minerale, sostanzialmente inesauribile, grazie alle fabbriche di dilatazione, presenta proprietà molto singolari. È più modellabile e liscio della pietra, ma più volatile e resistente del ferro. I frammenti non sono mai seghettati: presentano anzi una superficie liscia, inoffensiva. Tutti questi elementi e l’abbondanza del minerale sul mercato resero il suo possesso un’occasione di sfoggio per i più ricchi, che lo utilizzavano per decorare e addirittura costruire le loro case, nonostante l’indubbia scomodità. C’è però da dire che la solidità dell’Arkastro lo rende in effetti un materiale molto indicato per le pareti e i soffitti, e in particolare per le fondamenta degli edifici, che proprio per questa conformazione necessitano raramente di manutenzione. I Giapponesi, gelosi di Edwin e della sua fortuna, iniziarono ben presto a chiamare Temigor con il nome di “Kotetsu” (Acciaio), come presa in giro. La parola non solo rinnega la multietnicità della città, ma banalizza anche l’entità del ritrovamento dell’Arkastro, riducendolo a un comune pezzo di ferraglia.

La società degli Heroes
A Temigor, la percentuale delle persone con un Quirk si aggira attorno al 92/93%, ma è sbagliato pensare che vi dimorino molti eroi. L’addestramento per diventare tali non è tanto difficile, per l’educazione che ricevono, quanto più per l’impegno necessario a dimostrarsi davvero degni del costume. Secondo le statistiche, da due classi dell’Accademia HG escono mediamente, come eroi, 3/4 studenti l’anno. Il resto è spesso destinato al fallimento. Nelle altre scuole è forse 1 persona su 100 a riuscire nell’intento prefissato di diventare un Hero di classe C. Il sistema eroico della città si basa infatti su un sistema piramidale di classi, che si ottengono per merito e intraprendenza. Gli eroi di classe C, i più bassi nella gerarchia, fungono spesso da assistenti per gli eroi di classe più elevata. In questa categoria, rientrano tutti gli eroi formatisi in un luogo diverso dall’HG, ma anche gli studenti dell’HG che si diplomano al limite dei tre anni. Gli eroi di classe B sono tendenzialmente affidabili, ma esenti dal cappeggiare le missioni più complesse. Un alunno che si distingue all’HG può entrare direttamente in questa categoria e persino eccederla, se si dimostra in grado di controllare un settore, completamente da solo. Gli eroi di classe A sono più conosciuti e forti. Il più delle volte hanno molta esperienza e sanno come controllare la situazione, tanto nella città, quanto su un campo di battaglia. Il rigore di questi eroi è tale che ha ricevuto l’apprezzamento dello stesso Endeavor, in una celebre dichiarazione, molto cara ai Temigoriani. Infine, la classe S è destinata ai migliori. Attualmente solo sette eroi sono in questa categoria, tra cui ovviamente spicca Ten Ken. Per scalare la classifica è possibile anche sfidare a duello un eroe di una classe superiore, che, se accetta, può mettere in palio la sua posizione, in uno scontro ad armi pari, sotto l’occhio attento del sindaco. Rifiutare un duello di questo tipo era generalmente malvisto, ma col tempo ci si rese conto che i Pro Heroes, già in numero ridotto, non potevano perdere tempo a combattersi tra loro.

La divisione in settori
La città di Temigor è divisa in settori da circa cento anni. 62 nel distretto principale, 21 nel distretto est e 35 nel distretto ovest. Normalmente, ogni giorno e ogni notte, a ciascun eroe (B, A o S) viene assegnato casualmente un settore da controllare, ma sono rilasciate anche piccole pattuglie nelle giornate più caotiche. Particolari dispositivi, “Scrik-Hs”, sono legati alle mani degli Heroes. Quando si registra un’alterazione nel battito cardiaco di uno di essi, tutti gli altri ne vengono allertati. A quel punto, è buona norma contattare l’Hero in questione per verificare il corretto perseguimento del lavoro di pattuglia. Gli eroi con più mobilità possono anche azzardarsi a controllare con i loro stessi occhi la situazione, ma non devono uscire dal settore assegnato loro per alcun altro motivo. Nel caso di problemi nella gestione della situazione, gli Heroes dei settori vicini a quello interessato hanno piena facoltà di agire. Il sistema funziona molto bene e non si registrano i classici “furti di scena” del resto del Giappone, dove vige la sfrenata ricerca di ricchezza e popolarità, da parte degli eroi.

Ricchezza e povertà dello stato
Non bisogna lasciarsi ingannare. Il costo della vita a Temigor è piuttosto elevato. Se non si è in grado di sopravvivere nella città vera e propria, allora si è destinati alla povertà e miseria dei quartieri periferici a ovest del distretto sud. Per dare una certa dignità a questi luoghi, la politica di Temigor li ha divisi in villaggi, ma non ha mai offerto un aiuto sensibile, per la loro sussistenza. Tra i vari villaggi, Salt Village è certamente il più avanzato: il capo-villaggio ha guidato con mano sicura gli abitanti per oltre vent’anni, caricandoli di lavoro incessante, ma creando anche un forte senso di comunità. Gli unici Heroes apertamente disposti a frequentare i villaggi sono Arkendel (Retrocesso da classe S a classe B) e Ten Ken (Classe S). Usare un Quirk nei villaggi è un crimine perseguibile con la prigionia o i lavori forzati (da sei a vent’anni), a seconda dell’età. Non c’è rispetto per i vivi e per i morti, inoltre l’istruzione è solo un lontano ricordo.

La missione nella giungla sud-americana
I diritti di Temigor su un appezzamento di terra in Amazzonia sono assai recenti e ottenuti con fatica e diverse tonnellate di Arkastro, proprio dal sindaco al potere. Egli ha inviato a lavorare su di esso molti ricercatori di fiducia ed esperti minatori. Le motivazioni di tale decisione sono ignote.

                                                                                        Personaggi

Angel Hero – Swizzilan (Classe A):

Età: 26 Anni
Altezza: 179 cm

Quirk: ??? – Swizzilan utilizza le ali per muoversi a una velocità incredibile e per darsi propulsione, ma potrebbero avere altre proprietà.

Aspetto:                                                                                                                         
È un uomo longilineo, con le braccia leggermente più lunghe del normale. Il colore della sua pelle tende a un rosa pallido. Sulla sua schiena svettano ali candide piuttosto lunghe, ma leggere. Ha un viso ovale, vivace, quasi infantile; profondi occhi dorati e un naso greco, perfettamente inquadrato; una ciocca di capelli biondi e rosati nasconde uno degli occhi. Il suo costume riprende per metà il vestiario classico greco e per metà uno stile francese più fru-fru: ha bracciali dorati sugli arti, un vestito a croci auree sul petto e una toga tagliuzzata a ricoprire parzialmente il resto del corpo. Diversi ciuffi di cotone fuxia rivestono invece le braccia, mentre una fascia di tonalità più chiara è intrecciata tra i capelli bicolore.

Carattere e curiosità:                                                                                            
Sebbene sembri un gran ciarlatano, è piuttosto zelante nel suo lavoro e attento a ogni dettaglio. Ha ottenuto la classe eroe A non solo in virtù della sua forza, ma anche della sua popolarità. Ottantotto sono i casi che ha portato a termine con successo.

Pro-Hero – Ancient One o Hunti (Classe B):

Età: ???
Altezza: 221 cm

Quirk: ??? – Sembra essere un Quirk mutante molto complesso, che offre all’eroe numerose abilità, a discapito dell’apparenza mostruosa, come la telepatia e la capacità di sferrare letali attacchi a media distanza.

Aspetto:                                                                                                                                       
Non ha nulla di umano, eccetto la mente. I suoi contorni possono essere definiti o più informi a seconda della situazione. Quando non ha una vera e propria forma è un semplice ammasso di melma color oceano. Quando invece è ben delineato, mostra un corpo vagamente riconducibile a un mollusco umanoide. Non ha una bocca, collo, orecchie né tantomeno un naso. Le sue braccia sono spesse pinne viscide dalle proprietà sconosciute. Non ha nemmeno delle gambe, per quanto possa crearle, quanto piuttosto un ammasso di tentacoli, che può unire e separare a piacimento. Ha otto occhi, che si dipanano su antenne tentacolate al vertice della creatura, quattro per lato, di grandezze differenti. Sono gli occhi gialli del predatore, punteggiati dal nero della pupilla. Sono anche l’unico modo per carpire le emozioni dell’eroe. I colori della pelle vanno dal nero al turchino, ma anche il bianco è presente, nella forma di piccoli puntini su di essa, unicamente quando ha forma solida. La statura della creatura supera di gran lunga quella media di un essere umano.

Carattere e Curiosità:                                                                                                                                   
Non ama farsi vedere in pubblico. Passa la maggior parte del tempo a leggere classici e studiare mitologia e la sua dedizione al potere centrale è grande. Tende a mantenere sempre la calma e il controllo. Nessuna sa come abbia fatto a guadagnarsi il titolo di eroe.

Jutsuo Andawa | Bright Runic Hero – Arkendel (Classe B):

Età: 44 Anni
Altezza: 185 cm

Quirk: Earth Alchemy – Entrando in contatto con la terra può spezzarla e dividerla in più punti anche diversi metri nel sottosuolo o a distanza, creando zolle più piccole. Ai pezzi sufficientemente piccoli può applicare una forza di gravità particolare, che li dirige verso l’alto o anche verso il basso. Tali zolle possono passare attraverso la terra come se fosse acqua. Sembra che usare il potere lo danneggi internamente.

Aspetto:                                                                                                                          
Ha una struttura imponente, temprata dalla fatica; un viso tirato, ossuto, con qualche ruga; occhi vitrei, determinati; radi capelli spioventi, simili a una corta criniera. Il suo costume ricorda una pelliccia d’animale, tenuta al modo dei vichinghi, ma presenta uno schema più futuristico nella fascia toracica, dove l’Arkastro è come incastonato in una cornice di metallo, non dissimile da una torre o da un Nexus. Tiene sempre uno scalpello e un coltellaccio ai fianchi e sulla fronte calva sono fissati due dischetti di pelle con rune incise all’interno. (Per l’aspetto di questo personaggio mi sono inspirato a Jet di Cowboy Bebop :))

Carattere e Curiosità:                                                                                                        
È un grande lavoratore, capace a conformarsi alle regole di un superiore, senza grandi discussioni. Ha qualche trascorso sconosciuto con Ten Ken, che lo spinge a una continua e incessante ricerca della verità. In generale, è di buon cuore e tiene alla salute della figliola.

Number 1 Pro-Hero, Heaven Hero – Ten Ken (Classe S)

Età: ???
Altezza: 182 cm

Quirk: ??? – Il suo potere è molto diversificato e complesso. Sembra sia capace di sfruttare oggetti di cancelleria per attacchi di ogni tipo, anche infrangendo le leggi della fisica.

Aspetto:                   
La sua costituzione e statura sono difficili da classificare, a causa della sproporzionalità degli arti, rispetto al resto del corpo. In generale è robusto, ma al contempo piuttosto snello. Le sue ossa tendono a sporgere leggermente in maniera innaturale fuori dalla pelle, dando un aspetto macabro all’Hero; ha occhi vispi rosso sangue, conquistati alle volte da altre fulminee sfumature. Ha un volto che sembra scolpito nel marmo, perfetto tanto per il naso, quanto per la bocca. I suoi capelli sono verdi, folti e fluenti, ma caratterizzati da ciocche ribelli e riccioli rossi, blu e gialli; simboli dei medesimi colori si districano per tutto il viso, come una maschera tribale. Il suo costume è un vestito completo, svolazzante, diviso in tre sezioni; quella inferiore di stile gotico, quella inferiore di stampo medico/artistico e quella superiore dai toni più naturali e bizzarri. Porta degli orecchini a forma di fiale di cristallo.                

Caratteristiche e Curiosità:                                                                                             
Ha una personalità piuttosto imprevedibile e misteriosa. Persegue una missione che deve assolutamente portare a termine.

Yunix Braviery

Età: 16 Anni
Altezza: 161 cm

Quirk: Sconosciuto

Aspetto:                                                                                                                          
È di statura minuta e scattante; il corpo è ben allenato, quasi nerboruto. Ha un volto affilato, leggermente incavato, stanco e inquieto il più delle volte, difficilmente animato di emozioni positive. Ha capelli ondulati, grigiastri, trascurati e scomposti, come se fossero appassiti. I suoi occhi sono grandi, grigi come la tempesta e manifestano all’interno un complesso sistema di ingranaggi, che tendono a brillare di luce fredda, quando il ragazzo perde il controllo. Ha un naso regolare e una bocca stretta, attraversata da una sbiadita cicatrice. I suoi abiti sono trasandati, al limite dell’utilizzabile.

Carattere e Curiosità:                                                                                                         
Riflessivo e malinconico, non riesce mai a prendere decisioni. È tormentato dal pensiero di non avere uno scopo per cui vivere.

Shigoto Andawa (Shig)

Età: 16 Anni
Altezza: 171 cm

Quirk: Camo-Skin – Può trasformare la pelle e i vestiti in una copertura mimetica cellulare, capace di celare la ragazza nell’ambiente, con la stessa meticolosità di un camaleonte.

Aspetto:                                                                                                                          
Ha la corporatura affusolata di una lucertola. È alta, magra, quasi scheletrica, ma piuttosto energica. I suoi capelli consistono in un’unica lunga coda, stile punk, che le arriva fino ai piedi, e capelli cortissimi sul resto del cranio. Ha una fronte alta, piuttosto dura; mani callose, dure come la pietra; occhi vitrei, pensosi e sfuggenti, che si dilatano spesso e volentieri. Ha un portamento fiero. Tende a indossare abiti semplici, smanicati, che facilitano il lavoro manuale.

Carattere e Curiosità:                                                                                                      
È laboriosa, rude e intraprendente. Ha avuto una modesta istruzione, grazie al padre, ma la ragazza è decisamente indietro, per quanto concerne la cultura e le relazioni interpersonali, tanto da essere di corte vedute e incapace di vedere i problemi della sua stessa società.

Clayde Jockey

Età: 23 Anni
Altezza: 173 cm

Quirk: Winter Excavator – In realtà, non si sa molto del suo potere. Sembra che serva a rompere le rocce con una complessa operazione, che comprende l’uso di ghiaccio allo stato puro.

Aspetto:                                                                                                                                        
È allampanato, ossuto e pallido. Ha occhi marrone chiaro; capelli spioventi appuntiti, di color biondo sporco, che ricordano vagamente una buccia di banana; il naso all’insu; una bocca sottile, con labbra perennemente screpolate. Tende and avere un’andatura ondeggiante. Indossa solitamente una giacchetta rossiccia piuttosto corta, con le lettere “JR” ricamate sopra, una camicia bianca sfatta e il suo berretto scarlatto, che nasconde la maggior parte dei capelli, eccetto i ciuffi appuntiti che ne fuoriescono.

Caratteristiche e Curiosità:                                                                                              
È piuttosto ignorante e borioso, ma non è malvagio nel vero senso del termine. È diventato appassionato di reperti, lavorando sul campo.

Il Capovillaggio – Nome sconosciuto

Età: 76 Anni
Altezza: 167 cm

Quirk: ???

Aspetto:                                                                                                                                
È di statura media e corporatura emaciata. Ha un portamento eretto, nonostante l’età. Ha un viso regolare, scavato dalle rughe; occhi piccoli, rossastri; capelli arruffati grigio chiaro, ricordo di un biondo ormai scemato. Indossa abiti scuri, che facilitano il movimento. Al collo tiene un medaglione d’argento, inciso con il nome “Katsuki Bakugou”.

Crede nel lavoro come unica soluzione alla povertà dei villaggi. Sembra che si arrabbi facilmente. Non sopporta il cambiamento, così come la tendenza degli Heroes di giudicare senza conoscere.

Nightmare

Mittente ignoto della lettera posseduta da Yunix, che la porta con sé fin da quando si è risvegliato senza ricordi. Sembra sapere qualcosa sul passato del ragazzo...

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Capitolo 8
*** H.G. - Parte Prima: Punto di partenza ***


H.G. - Parte Prima: Punto di partenza

Gocce di pioggia delle dimensioni di biglie di vetro picchiavano come una batteria sul tettuccio d’alluminio, ricoperto dalle foglie. Doveva essere uno degli ultimi acquazzoni primaverili. La ragazza nell’impermeabile giallo aveva lo sguardo perso nel vuoto. Da qualche parte, il clacson di una macchina che sbandava segnalava l’arrivo imminente dell’ora di punta.

Recentemente, Nightmare era nervosa. E a turbarla era quel ragazzo dai capelli grigi. Non sapeva nulla di lui, dall’ultima volta che l’aveva visto. Era un bene? Un male? Le condizioni atmosferiche rappresentavano perfettamente il suo umore nero. La sua era ancora un’attività troppo sperimentale: stava osando troppo. Il primo tentativo si era rivelato un disastro e non voleva ripetere gli stessi errori ancora una volta. Non se lo sarebbe mai perdonato. La lettera sarebbe bastata? Forse, ma solo se il ragazzo l’avesse tenuta. Era l’ultimo lascito della sua vita passata, quindi c’erano discrete probabilità. E poi c’era l’altro problema. Con l’avvicinarsi del giorno del giudizio, i ricordi di essa avrebbero cominciato a svanire. Non importava quanto il ragazzo pensava di conoscerne il contenuto. L’avrebbe dimenticata e se non l’avesse stretta tra le mani di nuovo, avrebbe continuato a essere una zona d’ombra della sua coscienza. Senza di essa, non avrebbe mai riacquisto del tutto i ricordi.

L’odore della polvere sollevata dall’acqua la stava inebriando. Le erano sempre piaciuti i temporali. Era durante uno di essi che lo aveva incontrato... Si strinse nelle spalle, colta da un brivido. Le sue parole erano state sufficienti? Impossibile. Avrebbe dovuto essere più esplicita. Spiegargli l’importanza di quel pezzo di carta... E ora poteva solo sperare. Non sapeva nemmeno se fosse vivo. Uno scopo... Lo aveva trovato uno scopo? Allungò un braccio per sentire lo scrosciare dell’acqua sul tessuto. Doveva assicurarsi che l’avesse, la sua lettera. In qualche modo doveva scoprirlo. Fischiò. Un piccione a macchie brune tubò, ascendendo verso la sua posizione.

«Oh, sei già qui, Tyr?» Bisbigliò la ragazza, accogliendolo tra le braccia. «Ti affido un compito, ok? Devi controllare Randagio per me. Se non ha la lettera riferiscimelo immediatamente...» 

Il volatile piegò il collo, in segno di comprensione. «Bravo animaletto. Non so come farò senza di te.» Strinse il piccione a sé e cominciò ad accarezzarlo. «Su, su, sopravviverò. Mi conosci bene. Io sono l’incubo che non finisce mai...»

Il piccione addentò l’impermeabile, in segno d’affetto, poi si sottrasse all’abbraccio e si innalzò nel cielo tempestoso, sbattendo le ali con forza, per vincere le correnti avverse.

Nightmare guardò una pozzanghera di fronte a lei. “Quella lettera... Non può averla persa. Non deve averla persa.” Il suo riflesso mostrava solo tenebre all’interno del cappuccio giallo.
 
Alla luce di una lampada, il capo-villaggio di Salt Village rifletteva, coricato su una seggiola. La notte porta consiglio, dicevano. Cazzate. La notte porta insoddisfazioni. Non gli andava giù. Proprio non gli andava giù. Era convinto che il ragazzo lo avrebbe attaccato e invece se n’era andato, proprio come lui gli aveva detto di fare. Stupido moccioso... E sentiva in cuor suo di aver perso. Di aver perso non solo una possibilità, ma anche una battaglia. E lui odiava perdere. Lo aveva sempre odiato. Anche nelle cose più infantili. Nelle vene dei Bakugou scorreva il sangue bollente dei vincitori. Lui non aveva perso. Aveva ottenuto quello che voleva o no? La risposta avrebbe dovuto essere scontata, ma l’uomo anziano non ne era poi così convinto.

Il medaglione d’argento era freddo sul suo torace. Doveva distrarsi. Spostò una mano e afferrò qualcosa dal letto che era stato di Yunix. Il moccioso non si era nemmeno accorto che l’aveva presa. Se era una spia, era davvero una gran spia del cazzo. Le dita toccarono la busta color fuxia, che aveva trovato ispezionando il suo zaino. Il braccio tremò stringendola, parzialmente illuminato dalla luce dei fotoni.

«Ma che bella letterina... Vediamo chi è il bambino e chi è Babbo Natale.»

Voleva suonare sdegnoso, ma non provò alcun piacere, anche scartandone il contenuto. Estraendola, vide la scrittura informale e si scoraggiò. La lesse, cercando qualcosa, qualunque cosa che potesse soddisfarlo e la sua delusione fu immisurabile. C’erano giusto un paio di cose che lo intrigavano. Il giorno del giudizio... La sorgente dei fiumi infernali... Quindi il ragazzo non era una spia. Se fosse stato più giovane avrebbe indagato lui stesso, ma non era più quello di una volta.

C’era una sola persona di cui si fidava. Forse, solo forse, poteva chiederglielo. Anche quella era una sconfitta, ma ne sarebbe valsa la pena, perché l’equilibrio di vittorie non sarebbe cambiato nella famiglia. Prese un pezzo di carta e pigramente sollevò una vecchia penna.

Per prima cosa il destinatario... Katsuki Bakugou, suo nipote. Scrivendo il nome, sentì rievocati i brevi momenti che aveva passato con lui. Avevano ereditato la stessa fame di vittoria, lo stesso temperamento. Solo i nomi differivano ed era questo che avrebbe cambiato tutto. Katsuki, colui che vince... Ushina, colui che perde... Non c’era bisogno di credere nei tarocchi per capire chi avrebbe avuto successo tra i due. Lo scribacchio della penna gli addolcì l’animo e Ushina si perse nei ricordi, la lettera di Nightmare ancora aperta sul bracciale della seggiola.
 


«...Il più grande tra gli eroi?»

Al suono della voce melodiosa, Yunix si rimise in piedi. Il suo sguardo tremolò un poco, poi si focalizzò sull’entrata della villa. C’era una ragazzina sulla soglia, o almeno così sembrava. Aveva una corporatura minuta, esile, come un alberello sostenuto appena da un supporto di legno. Sopra un viso inquieto, c’erano ispidi capelli biancastri, farinosi quasi, come neve. Gli occhi invece erano penetranti, violacei, leggermente accigliati. Le labbra carnose presentavano una leggera tonalità bluastra e si piegavano in una mesta parabola di sofferenza. La ragazzina era completamente avvolta in un passamontagna candido super-imbottito, ai piedi aveva scarpette rosa chiaro, con non meno di tre lacci a strappo.

Il ragazzo si rese conto delle parole che aveva pronunciato la ragazza, attimi prima. “Il più grande tra gli eroi? Ma l’ho solo pensato... Come ha fatto a capire che pensavo proprio a quello? Che sia una strana coincidenza?”

«...Coincidenza» sussurrò lei con voce eterea.

Yunix trasalì, ma non fece in tempo a chiedere spiegazioni, perché il cancello si stava già spalancando. La ragazza lo guardò inespressiva. «Posso entrare?»

«Entrare... Prego.»

Parlava in modo strano, davvero singolare. In ogni caso, Yunix capì che doveva sbrigarsi. Varcò la soglia del cancello. Il giardino si estendeva in lungo e in largo, e ogni cosa che vedeva riempiva il ragazzo di stupore. Le statue, i cespugli, le fontane... Sembrava un luogo perfetto da frequentare la sera. Era lì che gli studenti avevano il loro tempo libero? La ragazza continuò ad aspettarlo, stretta il più possibile nella lana bianca. Yunix avanzò verso di lei, guardando la facciata. L’edificio sembrava in tutto e per tutto una dimora d’altri tempi. Aveva tre piani e occupava una superficie piuttosto grande... almeno da quello che poteva vedere. Le finestre in marmo erano riccamente decorate, con motivi floreali, capitelli, mentre lesene massicce passavano tra di esse e sostenevano l’edificio, composto da vari e ricorrenti materiali: bronzo, legno, oro, granito e in misura minore Arkastro, la ricchezza di Temigor. Gargoyle spuntavano dal tetto, con sguardi terrificanti e sofferenti.

Yunix non ebbe il tempo di ammirare altro, dal momento che si trovava ormai in prossimità dei gradini che portavano alla porta vera e propria. La ragazza gli fece segno di entrare. Non sapeva ancora cosa volesse, ma il ragazzo non se lo fece ripetere due volte e si addentrò nella villa. Un’anticamera gigantesca si dispiegava di fronte a lui. Il pavimento era di legno chiaro, puttosto nuovo, a dir la verità. Sul fondo della sala c'era un gigantesco camino. Pensò di esplorarla, ma la ragazza lo prese per un braccio e cominciò a trascinarlo con sé. Era inaspettatamente forte. Yunix si lasciò condurre per un lungo corridoio, che poi svoltava a destra, attraverso una specie di aula, su per una scala, di nuovo giù, di fianco a una maestosa libreria, oltre una sala ricreativa.

Le stanze, scale, corridoi erano così intricati che Yunix perse in fretta l’orientamento. Era un labirinto, ma tutto era impregnato di una solennità, maestosità tali che si sarebbe volentieri perso in quelle stanze. Guardò colei che lo conduceva.

“Chissà chi è... Dove mi vuole portare? E come fa a leggermi nel pensiero?”

«...Leggermi nel pensiero» disse lei con tono vacuo. Lo aveva fatto di nuovo... Yunix fu scosso da un lampo. Un giornale... Lo aveva letto per caso, mentre viaggiava verso Temigor.

«Ora ricordo. Tu non sei una ragazza... Sei un’eroina. R-Eko-Eko. Hai sventato un attentato ai danni del sindaco, circa un mese fa. Quindi insegni qui...»

«Qui» affermò lei senza scomporsi.

«Ma allora...»

«Per favore... Ti posso chiedere di stare in silenzio?» Era la prima frase compiuta che aveva pronunciato.

Yunix capì che la richiesta era molto seria, ma non poteva semplicemente stare zitto, dopo aver scoperto chi aveva di fianco a sé. L’insegnante lo condusse in un’area piena di strumenti musicali.

«Wow, non ne avevo mai visti così tanti, tutti assieme.»

«...Tutti assieme.» ripeté l’eroina con voce esasperata. «Ti ho detto di fare silenzio... Per favore.»

Il ragazzo però era già immerso nel controllo degli strumenti e non la sentì. “È incredibile... C’è un’intera orchestra qui. Deve essere stupendo essere uno studente.”

«...Essere uno studente...» proferì la ragazza a bassa voce, un sorrisetto che si delineava sul volto.

Yunix si attardò un altro po’, poi tornò dall’insegnate, che lo prese di nuovo per un braccio e iniziò a condurlo nelle profondità dell’edificio. Mentre si stavano incamminando sulle scale, non resse più.

«Mi stai facendo vedere tutto questo, ma non sai nemmeno chi sono. Io non voglio essere un peso. È solo che qualcuno mi ha detto che qui all’HG...»

«All’HG...» rimarcò la ragazza, tentando di costruire un discorso. «All’HG accogliamo sempre chi è in difficoltà, non importa per quale motivo. Se quella porta si è aperta, significa che sei uno che ha davvero bisogno.»

La ragazza arrossì e il colorito risaltò il doppio sulla pelle pallida. Aveva parlato più ora che nei venti minuti precedenti. Yunix, forse per la stanchezza, forse perché svuotato da tutti gli eventi di quella giornata, era inspiegabilmente serafico. In virtù di ciò, sentiva il bisogno di parlare, in modo da allontanare la mente da altri pensieri.

«Qual è il tuo vero nome?» le chiese.

«...Vero nome? Io sono Ektel.»

Il ragazzo trasandato accelerò il passo e si pose di fronte a lei, in modo da guardarla negli occhi.

«Io sono Yunix Braviery...» Quasi istintivamente, l’insegnante si ritrasse, ma lui non si fece scoraggiare. «Il motivo per cui parli così... Per cui ti comporti in modo così riservato... È la tua unicità. Eco, giusto?»

«...Eco, giusto» convenne Ektel, avviluppandosi nel passamontagna.

Yunix si intristì a vederla così giù di morale. Per certi versi, vi si rispecchiò. «Ma è un Quirk fantastico. Puoi sapere sempre cosa pensano gli altri di te...»

La ragazza sembrò lottare contro sé stessa.

«Devo, è ben diverso da posso.»

Yunix si accigliò. «Cosa intendi dire?»

Ektel sembrava spossata, sebbene non stesse facendo nient’altro che camminare.

«Non c’è veramente modo per cui io possa evitare di ripetere le ultime parole e gli ultimi pensieri. Non c’è una valvola che posso chiudere. Un bottone che possa premere. È per questo che la considero la mia maledizione...»

«Maledizione?» Il ragazzo era interdetto.

«...Maledizione, sì.»

Yunix stava per replicare, ma qualcuno li interruppe.

«Hey, hey! Chi è che fa tutto questo chiasso a quest’ora? Sentiamo un po’, che ha da dire la nostra Ektel a riguardo?» Una voce orgogliosa e stentorea li colse entrambi di sorpresa.

In cima alle scale, c’era un ragazzo di circa vent’anni. Era d’aspetto e portamento impeccabili. Teneva le mani sui fianchi, bloccando il passaggio. Magro, ma ben proporzionato, indossava una divisa rossa, con ricami in oro e un cappello con visiera di egual colore. Una zazzera di cappelli viola era visibile al di sotto. Gli occhi neri, accentuati dalle sopracciglia ad arco netto, comunicavano l’ardore giovanile. Sorrideva. Yunix subito si inchinò.

«Mi scusi se le ho arrecato disturbo, signore... Immagino sia difficile dormire, con tutto quell’oro a distrarla. La prossima volta faremo in modo di aspettare che arrivi l’alba, prima di passarle vicino.»

Ektel lo guardò, trattenendo il fiato. Il ragazzo in divisa non sembrava particolarmente arrabbiato, intrigato più che altro.

«Hai una bella faccia tosta, ragazzino. Ti va bene che qui l’autorità più alta non sono io.»

«...Non sono io» ripeté Ektel, tra i denti.

Yunix arricciò le labbra. Se c’era un modo semplice per capire una persona era vedere come reagiva di fronte alle provocazioni. Dopo un fugace sguardo indagatore verso di lui, il ragazzo dalle chiome indaco posò gli occhi su Ektel.

«Una nuova matricola, donna? Sei sicura che sia all’altezza? A me pare piuttosto gracile...»

«...Gracile? Forse. Solo il tempo potrà dirlo.» Si rivolse a Yunix, rimasto un po’ sconcertato per quello scambio. «Lui è Hainard, un controllore. Chiamiamo così gli inservienti qui all’HG, perché oltre all’olio di gomito, possono offrire anche le loro... abilità.»

La ragazza sembrava sollevata di non essere più al centro del discorso. Yunix voleva scoprire di più sul suo potere, ma c’era qualcos’altro che lo aveva scosso. “Questi due... Discutono in modo strano. Perché mi parlano come se fossi... un allievo?”

«...Un allievo? Chi lo sa? Forse sei indicato... Conducilo agli alloggi, Hainard. Domani parlerà con il preside vicario» stabilì Ektel con voce enigmatica, limpida.

Hainard abbassò la visiera. «Lo ripeterò ancora una volta. Non mi sembra per niente indicato. In ogni caso, farò come mi hai chiesto, R-Eko.» Ci fu una pausa. Yunix guardò i due, così diversi, eppure così simili.

«...Farlo a pezzi?» Era stata Ektel a parlare.

Il ragazzo sobbalzò, convinto che le avesse letto di nuovo nel pensiero. Doveva smettere di vagare con la mente. Il ragazzo si accigliò. “Aspetta... Farlo a pezzi? Non ho pensato a nulla di simile.” Guardò l’insegnate, rivolta verso il controllore. Quest’ultimo sembrava vagamente innervosito.

«Lasciaci, donna. Ci penso io d’ora in avanti.»

Ektel gettò un fugace sguardo a Yunix, poi, in religioso silenzio, iniziò a scendere le scale, che portavano alle stanze inferiori. Appena si fu dileguata, Hainard si abbandonò con la schiena sulla parete, un sorriso caparbio sul volto.

«Dannato pappagallo! Meno la vedo, meglio è...» Si stiracchiò.

Sembrava aver perso ogni interesse per Yunix, che si sentiva un po’ a disagio. “Perché ha pensato “Farlo a pezzi”?”

«Ehm... Non dovrebbe portarmi agli alloggi? Sempre se non è un problema, ovviamente.»

Hainard si voltò verso di lui, annoiato. «Sì, sì. Non mettermi fretta. Quella donna... Non trovi anche tu che sia fastidiosa? Per fortuna che ho imparato ad aggirare il suo stupido potere.»

“Certo, non è che ti ha letto nel pensiero, un attimo fa...” Questo Yunix lo pensò, ma non lo disse.

Hainard incrociò le gambe.

«In ogni caso, sono Hainard Tower, piacere. Mi occupo delle mansioni tecniche e faccio parte del corpo di difesa dell’accademia. Ne sono a capo a dir la verità.» Enunciò il tutto con tono contenuto, disinteressato, ma Yunix colse la volontà di stupire, tra le parole.

Per dargli corda, decise di stare al gioco.

«Incredibile!»

Hainard, lo guardò incerto, ma abboccò. «Vero? Senza di me, vorrei vedere come andrebbe avanti questo posto.»

«Se ti occupi della difesa, significa che devi essere molto forte, in combattimento» proseguì Yunix, cercando di suonare il più naturale possibile.

«Non sono forte, ragazzino...» cominciò Hainard, aggiustandosi vanitosamente il cappello. «Sono il mi-glio-re.» Scandì ogni singola sillaba.

Yunix alzò gli occhi. «Immagino...»

L’uomo in divisa fiutò l’ironia. «Guarda che sei un libro aperto per me.» Aveva proprio il portamento di un giovane controllare, di quelli che si potevano incontrare sui treni secoli addietro. «Ma parliamo un po’ di te... Qual è il tuo Quirk?» Lo chiese con una tale autorità che Yunix si sentì in dovere di dirgli almeno qualcosa.

«Ecco, è un po’ complicato...» Hainard sollevò le sopracciglia. «Non c’è niente di complicato. O ce l’hai o non ce l’hai. Te l’avranno diagnosticato, no? La visita è per tutti, perciò dovresti già saperlo...»

Yunix sapeva che sarebbe finita così. Se doveva rivelare a qualcuno il suo segreto, non avrebbe certamente scelto Hainard, eppure ora che il discorso della diagnostica era saltato fuori non poteva semplicemente fare finta di nulla. «No, non ne ho avuto l’occasione, in realtà.» Il controllore arricciò il naso, ma non indagò oltre. Di questo il ragazzo gli fu grato, ma questi non aveva ancora finito.

«Va bene, non te lo hanno diagnosticato. E dunque? Hai mai manifestato un potere? Ce l’hai o no sto’ Quirk, secondo la tua esperienza?»

Yunix respirò a fondo prima di parlare. «Non ne ho idea. Tuttavia, se anche lo avessi sarebbe qualcosa di così semplice che nemmeno importerebbe, suppongo. Un minimal Quirk...»

Si tenne per sé il discorso degli occhi. C’era già abbastanza carne al fuoco. Hainard sospirò, imitando la posa di un cowboy.

«Non è detto.»

Si risollevò e invitò il ragazzo a salire. Con il cuore in gola, Yunix fece gli ultimi gradini.

«Che intende dire?»

Hainard ridacchiò, smanioso. «Non sempre i Quirk sono utili in ogni occasione. Ce ne sono alcuni molto, molto situazionali... Magari un Quirk forte ce l’hai, solo che non si sono mai verificate le condizioni perché si manifestasse.» Yunix ci pensò un po’.

«E quando si potrebbero verificare queste condizioni?»

Hainard fece spallucce. «Oggi, domani, tra un mese. Che differenza fa? Se non ci metti del tuo, non lo saprai mai, se ce l’hai o no, un potere...»

Il ragazzo dai capelli grigi guardò per terra, sorridendo amareggiato.

«Allora è facile. Non ho mai fatto niente di buono nella vita... Perché dovrei iniziare ora? E nemmeno provando di tutto avrò la certezza di scoprirlo. Tanto vale arrendersi, no?»

Uno schiaffo. Istantaneo. Spietato. L’impatto non fece nemmeno male, ma subito il bruciore divampò sulla guancia. Era successo di nuovo. Hainard incombeva su di lui, gli occhi ridotti a fessure.

«Qui all’HG non c’è tempo per la debolezza! Non siamo la scuola che fa differenze. Che tu lo voglia o meno ti conformerai alle nostre regole! Non importa se non sei uno studente.»

Ebbe un déjà-vu. Non era la prima volta che veniva colpito quel giorno... Anche Shig, anche lei lo aveva fatto... e per gli stessi motivi. Udì ancora quella voce risoluta:

«Sia ben chiaro, smettila di fare la vittima. Qui non c’è tempo per essere deboli. Qui si lavora per migliorare e lo si fa in silenzio.»

Le voci di lei e il controllore sembrarono quasi sovrapporsi.

«Proprio perché non hai fatto niente nella vita, allora puoi metterti in tutte le condizioni perché qualcosa accada.»
«Guarda che lo faccio per te... Poco fa sembravi sulla soglia dell’altro mondo.»

Yunix si massaggiò la guancia, senza emettere un fiato. “Hanno ragione... Se continuo così, non ho prospettive. Finirò come prima... Sull’orlo di un precipizio, ma non ci sarà nulla a trattenermi la prossima volta. Cosa dovrei fare?”

Hainard ansimava, infiammato di passione.

«Allora? Hai intenzione di startene lì fermo? COLPISCIMI! FORZA! Che ne sai che non risveglierai il tuo Quirk, qui ed ora?» Yunix alzò gli occhi incredulo. “Ora?” «Forza! Dimostrami che vuoi diventarlo, un eroe. L’ho capito, sai. L’ho capito da quella frase: "se vuoi possiamo aspettare l'alba" o giù di lì. Quello sprezzante atteggiamento era di un campione. Dov’è ora quel campione?»

Il ragazzo dai capelli grigi era ancora scombussolato, ma ringhiò, per infondersi coraggio.

Hainard sollevò le braccia, lo sguardo animato di un fuoco nero.

«Ektel ha visto il tuo potenziale. Altrimenti quella porta non si sarebbe aperta. E se ti parlo così ora è perché voglio vederti sfavillare... Come Ten Ken. Come ALLMIGHT! So che ne sei in grado.»

«Ma loro non sono come me... Loro sono... sono...»

Hainard si pose di fronte a lui, guardandolo negli occhi.

«E dove sarebbe il problema? Anche tu... Anche tu puoi diventare un eroe!» Quelle parole... Dette con schiettezza, certo... Eppure... Non gli erano mai state rivolte da nessuno. Davvero? Uno come lui? Persino uno come lui poteva diventare un eroe? La lucidità che era mancata per un po’ nel suo animo gli schiarì la mente. “Non è importante ora. Quello che so è che devo attaccarlo. Non ho altra scelta! Finalmente... Almeno questa volta. Questa volta non devo scegliere! La via è chiara!”

Scattò in avanti. Hainard lo aspettava, un ghigno sul viso.

«FORZA!»

Yunix sollevò un pugno. Lo sentì debole, inadeguato, ma non importava. Non poteva sottrarsi alla sua vita. I giorni da spettatore erano finiti. Quello era il suo punto di partenza. Era ora di iniziare a vivere davvero e smettere di sopravvivere, di correre, di scappare.

«Prendi questo!»

Usò tutta la forza che aveva, senza badare alla traiettoria. Era possibile che uno come lui avesse un potere? Si sforzò di sentirlo, nelle vene... Qualche brivido, qualche segnale che qualcosa si era risvegliato. Non poteva fermarsi ormai. Il colpo mirava al viso di Hainard. Non si sarebbe fermato. Mai. Per nessun motivo. Gridò, animato da una speranza per il futuro che nemmeno conosceva.

L'esito fu triste. Sbuffando, il controllore si spostò di lato e gli fece lo sgambetto. Yunix cadde a faccia in giù sul pavimento di legno, le gambe all’aria. Hainard si spolverò la manica della divisa, con fare sbarazzino.

«Questo sì che è stato anti-climatico... Beh, almeno ci hai provato...» Yunix si mise in ginocchio, il viso ammaccato.

«Ma è successo qualcosa, se non altro?»

«No», disse impassibile Hainard. Il ragazzo gemette. «Ehi, occhi strani, non ho mica detto che lo avresti scoperto ora al 100%. Ricorda, la pazienza è la virtù dei...» Il controllore sbadigliò e guardò l’orologio. Subito sobbalzò. «Cazzo! Ma possibile che sia quasi l’alba? Muoviti che ti accompagno a letto, che senno domani il preside mi fa la pelle...»

Non mosse un dito per aiutare Yunix, che dovette far forza sulle gambe, per alzarsi.

«Potevi anche evitare di essere così violento...»

Hainard non si prese nemmeno la briga di guardarlo. «Pff... Per un graffietto come quello.» Poi cambiò tono di voce. «Comunque, ricorda, ragazzino... Se hai un Quirk, allora lo risveglierai. Non so quando, se in un comune momento della giornata o quando ne avrai davvero bisogno, ma si manifesterà dentro di te. E allora, quando succederà, vieni da me.» Guardò Yunix con sincera convinzione. «Quando lo farai, ci sfideremo e... ti farò a pezzi!» Sorrideva, da sotto la visiera.

Il ragazzo deglutì e annuì, pulendosi la bocca con un braccio.

«Quel giorno verrò da te, puoi starne certo!»

Il giovane in divisa sembrò soddisfatto. Gli fece cenno di seguirlo e lo condusse nei meandri dell’HG. Il viaggio fu assai più breve di quello con Ektel. In breve, i due raggiunsero una stanza, che Hainard aprì. All’interno, c’erano un letto impolverato, un’amaca e un mucchio di ciarpame. Un lucernario proiettava il cielo stellato direttamente all’interno. Il controllore mise una mano sulla spalla di Yunix.

«Non è certo una reggia... E te la farai bastare! Domani fatti trovare pronto. Il preside Inai morirà dalla voglia di incontrare un trovatello come te».

Il ragazzo si volse verso l'accompagnatore, che sorrideva in modo stranamente rassicurante. Egli se ne accorse e cambiò espressione in un cipiglio adirato.

«Si fa per dire... Non è che il preside sia tutto questo vortice di emozioni.»

Yunix annuì e si avvicinò al letto, contemplando silenziosamente la notte al di fuori.

«Hainard... Grazie. Grazie infinite.» Il controllore sollevò un sopracciglio.

«E per cosa?»

Yunix si volse verso di lui. Sorrideva, grato. «Per quelle parole. A volte basta poco per far credere una persona nella bellezza della vita...»

Hainard alzò le spalle.

«Te l’ho detto, no? Che sono il mi-glio-re.»

Il sorriso del ragazzo sbiadì. “Se tutti gli eroi fossero come te, forse non ci sarebbero villain. A volte basterebbe davvero poco per salvare una persona dall’interno.” Il controllore gli rivolse un’ultima occhiata orgogliosa.

«Ehi, ragazzino... Ricorda le mie parole. Ti aspetterò.»

Abbassò nuovamente il cappello sulla fronte, mise le mani in tasca e a passi lenti, con portamento fiero, si allontanò.

Yunix si lasciò cadere sul letto. C’era così tanto nella sua testa. Era stata davvero una lunga giornata... Sentiva già il sonno prendere piede.

“Ho un nuovo scopo, capito persona misteriosa? Vivrò ancora per un po’. Chissà se anche quel qualcuno mi sta aspettando..." si girò verso la parete. "Questo è il mio punto di partenza e non lascerò che mi sia strappato di nuovo.”

Le catene che quell’edificio stava legando attorno ai suoi polsi erano la cosa più dolce che Yunix avesse mai provato. Non ne poteva più della libertà. Il silenzio gli concesse il sonno più profondo che potesse mai desiderare.



Note d'autore:
Prima parte del secondo "capitolo"! Non aspettate la prossima a breve, perché avrò un po' da fare in settimana. La lunga introduzione è quasi finita e, come ha ricordato Ten Ken, le pedine inizano a muoversi. Se non sapete della lettera di cui si parla nel capitolo, significa che non avete visto le modifiche che ho apportato al primo capitolo, quindi magari buttate un occhio :) Le recensioni sono come sempre apprezzatissime. Buona lettura!

P.S. Per i capitoli futuri mi servirebbero Hero e Villain "generici". Se qualcuno volesse vedere un personaggio originale da lui creato nella mia storia, è sufficiente che mi scriva, in privato o come recensione, più o meno dettagliatamente le caratteristiche di questo eroe/villain e soprattutto il suo Quirk. Ovviamente, il ruolo che ricoprirebbero questi personaggi sarebbe spesso marginale, ma mi farebbe davvero piacere e mi aiuterebbe a creare una società supereroistica più diversificata (In caso di poteri troppo forti, sarò costretto a modificarli un po'). L'invito è per tutti, quindi non trattenetevi.

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Capitolo 9
*** H.G. - Parte Seconda: Veri Eroi ***


H.G. - Parte Seconda: Veri Eroi


Erano già le 11:20 quando Yunix finalmente si svegliò. La luce del sole filtrava nella camera, attraverso il lucernario inzaccherato. Non fu il più piacevole dei risvegli. L’odore di vecchio e la polvere sparsa ovunque davano al locale un aspetto assai malmesso. Ora che ci vedeva bene, Yunix notò scatoloni pieni di paccottiglia molto variegata giacere immobili vicino alle pareti. Si andava da palloni sgonfi, a quaderni strappati, a costumi abbozzati, fino a lunghe mazze da baseball, che non si spiegava perché si trovassero in un luogo come quello. Oggetti che dovevano essersi accumulati anno dopo anno, un’annata di studenti dopo l’altra. Una volta messosi a sedere, pensò di curiosare un po’ tra il ciarpame. Da senza-dimora quale era stato, aveva imparato che tutto poteva tornare utile: persino l’immondizia.

Iniziò a rovistare un po’ a casaccio; non aveva timore di sporcarsi le mani. Scavando sotto imponenti tomi, trovò qualcosa di molto interessante. Un volume. Aveva una copertina grigiastra, con un marchio ufficiale al di sopra. Il titolo citava: “Classifica degli Heroes: Anno...” La data sembrava cancellata da una sbavatura giallognola raggrumata, che Yunix immaginò potesse essere unicamente vomito. Senza perdere altro tempo, diede una letta veloce al contenuto dell’agenda. Eroi di ogni tipo erano nominati e rappresentati, con brevissime didascalie. Le pagine ingiallite avevano perso molta della chiarezza, ma era ancora possibile distinguere la precisione adoperata nei dettagli. C’era un eroe numero uno, ma non era Ten Ken; perciò, il libro doveva avere almeno una decina d’anni, se quello che aveva detto Shig era vero. Un eroe in particolare catturò la sua attenzione. Quando lesse il nome, non riuscì veramente ad associarlo all’immagine.

«Bright Runic Hero: Arkendel (A --> S)» Con le dita sfiorò l’immagine. «È così giovane... Forse giovane quanto l'Angel Hero».

La breve didascalia riportava circa tre righe di informazioni: «L’alchimista ha conosciuto una scalata incredibile nell’ultimo anno. Le sue imprese parlano chiaro e Cre$t e Titanium sono d’accordo nell’affermare che sarà il prossimo numero 1. Sempre se riuscirà a spuntarla nell’acerrima rivalità con il Dark Runic Hero.»

Yunix aggrottò la fronte. “Dark Runic Hero? Quindi non ha avuto trascorsi solo con Ten Ken...” Ripensare all’uomo bruno gli risvegliò il ricordo di Salt Village, amaro certo, ma non così tanto come lo era stato nella notte appena trascorsa. “Chissà che avrà detto il capo-villaggio per giustificare la mia assenza... Scommetto che sarà lì, gongolante, con la sua bella versioncina dei fatti.” Già se lo immaginava a spiegare come Yunix li avesse lasciati senza remore, nonostante lui avesse tentato di trattenerlo nel villaggio con tutte le sue forze... O forse aveva proseguito con quella storia della spia... Quante menzogne erano già state raccontate su di lui? Quante volte era stato sfigurato agli occhi degli abitanti? Shig e Jutsuo sarebbero rimasti amareggiati, probabilmente, forse dubbiosi del vecchio, ma poi avrebbero creduto alle sue parole. “Ormai mi avranno bollato come un bugiardo...” Pensò a Shig. Erano appena diventati amici. Cosa avrebbe pensato ora di lui? Però forse era meglio così. Molto meglio che avessero una visione distorta di quello che era, piuttosto che la possibilità che sentissero la sua mancanza. Aveva le nocche bianche per lo stress. “Basta pensare al passato... Almeno per ora.”

Si mise in piedi, rasentando con la nuca l’amaca a rombi blu, vicina alla parete. Non c’era molto spazio per stare in piedi con quel tettuccio spiovente, pure mettendo in conto la sua piccola statura. Si accorse che la porta della camera era rimasta aperta. Scrollò le spalle e la varcò. Indossava ancora i vestiti che gli avevano fornito al villaggio. Quelli vecchi erano probabilmente andati perduti, a questo punto. Non che gli interessasse. Erano immondizia persino peggiore di quella che marciva nella camera... A lui bastava una cosa. E per fortuna che l’aveva.

Gli bastava avere... Avere... Si bloccò. Cos’è che era sufficiente che avesse? Stava dando i numeri? No. C’era qualcosa, qualcosa di concreto. Aveva come l’impressione di aver dimenticato qualcosa di importante... Beh, tutto sommato aveva dimenticato qualcosa di importante, ma questa volta era diverso. Gettò uno sguardo allo zaino. Era tutto in ordine. “Sono stanco di questa confusione. Se la mia testa tornerà mai a posto, sarà un giorno da festeggiare sul serio.”

Incapace di darsi una spiegazione, svoltò a destra. Una volta nel corridoio, si rese conto che non sapeva dove andare. Rimase fermo qualche istante, indeciso, poi ebbe un colpo di fortuna. Un controllore aveva girato l’angolo proprio in quell’istante. Il ragazzo in divisa, leggermente più giovane di Hainard, stava sbadigliando. Era così distratto che nemmeno vide il ragazzo dai capelli biancastri, vicino alla porta. Non aveva senso attirare la sua attenzione. Sarebbe bastato seguirlo. Senza fare rumore, Yunix iniziò a pedinarlo. Fu una camminata tranquilla. Le finestre di vetro erano così enormi, che era possibile ammirare completamente l’esterno, dal giardino alle poche case vicine. C’era anche una foresta da un lato dell’accademia. Lì perfino le siepi e i gruppi scultorei si interrompevano, per lasciare spazio a un campo di terra battuta, sicuramente usato per gli allenamenti.

Quando il controllore si addentrò negli interni dell’edificio, Yunix prese a domandarsi come fosse possibile che le finestre continuassero ad apparire, affisse alle pareti, nonostante fossero nelle profondità della villa. E non mostravano solamente panorami erbosi, ma anche quartieri di città esotiche, vulcani, mondi incantati. Lo stesso valeva per alcune porte aperte, che sembravano condurre in ambienti del tutto singolari. Quell’edificio non era normale, ma come poteva essere un’illusione? Stava ancora sognando? Ormai guardava ogni cosa con pragmatismo, ma non poté semplicemente ignorare le fantasticherie che gli apparivano attorno. C’era di mezzo un Quirk, questo era sicuro. Accelerò il passo, per stare dietro al controllore. Se si fosse perso, chissà dove sarebbe capitato. Finalmente, giunsero a destinazione, o almeno nel posto dove il giovane in divisa voleva arrivare.

Yunix si sorprese dello stile del locale in cui erano arrivati. Era un incrocio tra una cantina di raffineria, una fucina medievale e un saloon. Le pareti e il pavimento erano composti di ciottoli grigio scuro piuttosto larghi, riconducibili alle piazze del mondo occidentale, tanto che era difficile non inciampare, mentre si camminava. Un bancone di legno offriva una quantità esagerata di cibi e tutti di culture diverse, sebbene generalmente limitati alla tipologia della colazione. Una sola occhiata gli bastò per fargli venire la colina. C’erano salmone, zuppa di miso, curry in polvere, spiedini di formiche caramellate, pancakes, canditi, spaghetti al nero di seppia, riso allo zafferano, porridge, toast al prosciutto, torte di carne, torte gelato, yogurt di tutti i gusti, cocco spezzettato, fiocchi d’avena, macedonia, uova strapazzate, biscotti zuccherati, strudel, salsicce, salumi e formaggi, e un’esagerazione di altri cibi, alcuni invitanti, altri che Yunix avrebbe volentieri evitato in quell’ora del giorno. L’odore che si respirava nella stanza era un tripudio di spezie aromatiche e fragranze esotiche. Il controllore afferrò un toast e un po’ di uova e si sedette a un tavolo, senza alcuna percezione della presenza del ragazzo. Non erano i soli nella sala. Una donna in camice bianco smistava pietanze in vassoi e ceste alle spalle del bancone. Un uomo allampanato fumava la pipa di fronte a una macchina del caffè.

Nessuno lo guardava eccetto un ragazzo, con un libro sottobraccio. Aveva occhi bianchi rapaci di un falco e sopracciglia altrettanto affilate. I suoi capelli erano castano scuro, corti, con un taglio netto in cima la nuca, senza un solo capello fuori posto. L’ordine era visibile anche nell’incedere nella stanza e nel vestiario: un maglione, pantaloni corti a quadretti e scarpe strette, allacciate con doppio nodo. Sul viso portava occhiali di corno, scintillanti di Arkastro sulle aste. Guardandolo, si accorse che avevano a grandi linee la stessa statura, ma quel ragazzo sembrava di almeno un anno più vecchio di lui. Lo fissava con cipiglio severo. Gli si avvicinò, camminando con una compostezza d’altri tempi.

«Salve» iniziò freddo. «Tu devi essere Yunix Braviery.»

Il ragazzo dagli occhi simil-meccanici si stupì della velocità con cui le informazioni si erano diffuse. Annuì, cercando di simulare un’analoga compostezza.

L’interlocutore lo squadrò dalla testa ai piedi.

«Mmmm... 161cm. Le prospettive non sono invitanti. I tuoi vestiti... Fin troppo basici. Quinta S del New-Store di Prua’ del Santo. Potresti anche andare bene... Dipende da quanto sei preparato in materie scientifiche. Logaritmi? Funzioni? Statistica? Puoi farmi una breve illustrazione delle tue conoscenze? Secondo recenti studi, le qualità innate di una persona derivano innanzitutto dai quindici gradi di apprendimento del corridoio quantico di compressione.»

Lo guardò in faccia con rigore quasi geometrico. Gli occhi bianchi erano così accentuati e sottili da sembrare spaccature. Yunix sentì il sudore sulla fronte. Aveva capito meno della metà delle parole. “Ma che...? Cosa dovrei rispondere? Questo qui sembra fare sul serio... Devo fare finta di sapere tutto?”

Cercò di mantenere una parvenza di sicurezza. «Mi piacerebbe davvero redarguirti... con... ehm... discorsi di simil argomento, ma non mi sembra né il luogo, né il momento... se intendi bene le mie parole.» Aveva preso spunto dal discorso di un intellettuale che gli era capitato di ascoltare a nord del Giappone. “Ci cascherà?”

Il ragazzo con il libro sottobraccio continuò a osservarlo, senza battere ciglio. Yunix era lì, lì per tremare. Dopo secondi interminabili, l’occhialuto sollevò un braccio verso di lui con fare minaccioso. Quest’ultimo trattenne il respiro. Voleva attaccarlo? Ma chi era quello? Il dito svampito puntava dritto contro di lui. Persino la cuoca si era fermata a guardare la scena. Yunix fece un passo indietro, il corpo teso.

Poi, con semplicità, il ragazzo dai capelli castani indicò il bancone.

«Hai proprio ragione. Meglio parlare di fronte a un bel piatto di cibarie, piuttosto che qui in piedi.» La voce era sempre piuttosto formale, ma ora anche cordiale e sorprendentemente accogliente. Yunix fece un cenno di assenso e i due si avvicinarono alla donnetta. «Porridge per me. Per lui penso che le formiche caramellate andranno benissimo. Potenziano la mente.»

Alla luce delle lampade, Yunix non comprese se il ragazzo stesse scherzando o meno. Fatto sta che si ritrovò a un tavolo, faccia a faccia con quell’apoteosi di serietà e un piatto di insetti caramellati. Non osò nemmeno sfiorarli. Decise piuttosto di guardare il giovane di fronte a lui. Stava assaggiando compostamente il porridge, stando attento a non fare alcun rumore fastidioso. Era davvero educato. Dopo tre cucchiaiate, si pulì la bocca con uno straccetto e incrociò lo sguardo di Yunix.

«Occhi bizzarri, devo dire.»

Ancora... Cos’avevano i suoi occhi? Mascherò la curiosità con ostinazione e attese ulteriori parole. Il ragazzo castano iniziò a pulirsi gli occhiali.

«Ti starai certamente chiedendo chi sono, per quale motivo sei qui e il perché del discorso erudito di pochi minuti fa.» Non attese una risposta. «Primo: Io sono Kane Starfire, il bibliotecario dell’accademia e ciò implica che io trovi soddisfazione dal dialogo con le persone che dimorano qui. Inoltre, ho avuto la disposizione di darti qualche dritta su questo o quel dubbio.» Kane era estremamente metodico anche nello spiegare. «Secondo: Sei qui perché, come certamente saprai, avevi bisogno e quindi il cancello si è aperto. Ora come ora, hai tutto il diritto di vivere nell’istituto e accedere ai pasti. Ciò implica, in altre parole, che l’HG sia diventata la tua nuova casa, a tempo indeterminato.»

Yunix avrebbe voluto dire la sua, ma sapeva che il ragazzo non avrebbe gradito di essere interrotto.
Invece, Kane sembrava aspettare proprio un suo intervento.

«Questo come ti fa sentire?»

Yunix cercò le parole giuste, ma stranamente non ne sentì il bisogno. La prospettiva di vivere lì era qualcosa di incredibile, ma la sola idea di vedere gli studenti crescere accanto a lui, mentre la sua vita sarebbe rimasta un semplice film lo innervosiva un po’. Non si era messo in testa di volere smettere di vivere come uno spettatore?

«Non lo so. Per carità, è qualcosa di fantastico essere qui, ma... è come se sentissi che non potrei offrire sul serio me stesso e... Non mi va di vivere alle spese di nessuno...»

Kane prese in mano il cucchiaio e lo mise in bilico su un pollice sovrappensiero.

«Sì. Era facile da intuire... Ecco il perché del terzo punto.»

Yunix aggrottò la fronte.

«Era un test? Anche io ne faccio sempre. È un modo facile per capire cosa una persona sta pensando o provando.»

Kane non distolse nemmeno lo sguardo dal cucchiaio.

«Sbagliato. Questo era un test. Prima mi stavo solo divertendo.»

Il ragazzo più giovane reagì sconcertato. «In che senso?»

«Ragiona, ragiona...» sussurrò Kane, appassionato. «Dalla prima risposta ho capito che sei una persona che vuole fare una buona impressione, ma da queste parole ho capito che sei un ragazzo dalla grande voglia di parlare. Mi hai detto di tua spontanea volontà un’informazione che non mi interessava sapere. Inoltre, dai modi in cui l’hai fatto, sembra che sia viva in te una tendenza a dire la verità. Dimmi, ora. Qual è la cosa fondamentale da sapere? Che sei una persona onesta e loquace o che vuoi sembrare rispettabile?»

«La prima, suppongo» asserì Yunix cercando ancora di trovare il nesso.

Kane lo guardò di sbieco.
«Guarda che sono un ragazzo anche io. Non posso divertirmi neanche un po’?»

Yunix alzò le mani.
«Se quella è la tua idea di divertimento...»

Kane ghignò impercettibilmente.

«Pensavi davvero che esistessero i quindici gradi di apprendimento?»

«No!»

«Mhmm... Sicuro...»

«Hai detto che sono onesto. Perché dovrei mentire?»

«Ah... Non girarla in questo modo. Sei retto, sì, ma se escludessimo per natura la tua capacità di mentire, saresti paragonabile a un’anomalia nel sistema psicologico umano.»

«Sei un oratore ora? Non ne avevo idea...»

«Non usare l’ironia contro di me.»

«Guarda che se come dici sei un bibliotecario, non sei di tanto superiore a me.»

«Ah sì? Bene, allora. Non ti aspettare altre illustrazioni da parte mia.»

Yunix fece per rispondere a tono, poi notò un dettaglio. Un sorrisetto di puro coinvolgimento sul viso di Kane. “È chinato, ma riesco comunque a vederlo. Per uno come me, che ha passato gli ultimi mesi della sua vita a guardare gli altri non è affatto difficile cogliere i dettagli.” Quando il ragazzo con gli occhiali alzò gli occhi era di nuovo serio.

«Quindi è come pensavo. Tu vuoi diventare un eroe.» Non si prese la briga di aspettare la risposta. “Evidentemente, il mio desiderio è chiaro a tutti.”

«È perfettamente ragionevole, in realtà» proseguì Kane. «Non ti sentire interrogato. Semplicemente, ne so qualcosa. Quel sentimento di impotenza... Per un reietto, spesso la vita diventa una ricerca di ammenda verso sé stesso.» Kane si guardò i palmi delle mani, sovrappensiero. «È una fortuna che l’anno scolastico stia per iniziare.»

Yunix nemmeno si scompose. Sospirando, posò gli occhi sulle crepe del tavolo.
«Date tutti per scontato che voglia diventare un allievo qui. È vero, in parte. Tuttavia... Non penso di meritarmelo.»

«E perché?» chiese Kane, protendendosi in avanti.

«Io...» Yunix iniziò a torcersi le mani. Glielo doveva dire? Non lo conosceva per niente, però...

Kane sembrò inquietarsi leggermente.
«Aspetta. Hai ragione a non volermelo dire alla leggera. Immagino siano questioni molto private.»

Sembrò addirittura pentito di aver fatto la domanda, in primo luogo. Il ragazzo dai capelli color cenere era combattuto. Non l’aveva detto a nessuno. Del suo passato. Qualche volta gli era preso quel desiderio di far sapere... di cercare la pietà della gente, ma...

Ancora. C’era qualcosa che non tornava. Era lo stesso senso di vuoto che aveva provato quella mattina. “Continuo a pensare di essermi dimenticato qualcosa di importante, ma non capisco cosa...”

Inutile. Non riusciva a ricordare. Se voleva ripartire, doveva far riaffiorare quei ricordi, per porvi fine una volta per tutte. Presto o tardi non avrebbe avuto scelta, comunque. Non poteva semplicemente eludere quelle domande, che lo colpivano come lame affilate dritto al cuore. “Sto solo rimandando l’inevitabile... Lo devo dire a qualcuno... Ma di chi mi potrei fidare?”

Kane lo distolse dai suoi pensieri.
«Non lasciarmi annegare nel porridge, Yunix Braviery...» La sua voce era uno strascichio piuttosto strano per una frase per nulla seria.

Yunix sentì l’occorrenza di aprirsi, irruenta come un fiume in piena. E anche se tutta quella rigidità lo metteva a disagio, non avrebbe saputo chi scegliere. Forse Ektel, sempre che non l’avesse già capito col suo potere, ma lei non era lì, in quel momento. Kane era un ragazzo come lui. Lo aveva anche detto. E poi Yunix se n’era accorto. Era molto formale di primo acchito, ma probabilmente dopo un po’ di tempo sarebbe riuscito a trovare in lui lo spirito che aveva visto in Hainard e Shig. Quel sorriso... Quel sorriso era la chiave.

«Kane, posso parlarti con franchezza?»

Il ragazzo castano si raddrizzò, imperscrutabile.

«Calma... Ci hai riflettuto bene? Quando dici una cosa non puoi semplicemente rimangiarti le parole. Anche questa è parte della psiche umana.»

Yunix sorrise. «Smettila di essere sempre così filosofico e trattami come un amico.» Kane sbatté le palpebre, senza comprendere. «Non importa se ci conosciamo da pochi minuti, capisci? Mi hai parlato per primo. Mi hai offerto da mangiare. Se non avessi voluto fare amicizia con me, non mi avresti detto tutte queste cose, non ti saresti proposto come mia guida.»

Kane sorrise a sua volta. Fu un sorriso furtivo, fuggevole, ma fu un sorriso pieno e Yunix si convinse a proseguire.

«Io non merito la vostra accoglienza. Non merito nulla di quello che mi offrite e tantomeno merito di diventare un eroe...»

Kane rimase immobile, respirando appena.
«Se proprio vuoi dirmelo non ti fermerò.»

“Ora o mai più...”

«Sono un criminale, Kane. Non di questo paese, ma sono senz’ombra di dubbio un criminale. Ho fatto qualcosa di orribile e non so nemmeno cosa sia. Non sto parlano di un furto o cose del genere. Qualcosa di davvero orribile. Quale eroe si potrebbe definire tale, non riconoscendo nemmeno le cose orrende che ha compiuto? Non accettandone la responsabilità?»

La luce apparve più gelida che mai, dopo quelle parole.

Kane invece mantenne la sua austerità e si accarezzò il mento.
«Non sai cosa sia, perché non ne hai memoria?»

«È così» sentenziò Yunix, sentendosi liberato da un peso. Non era stato per nulla chiaro, ma aveva detto ciò che lo turbava da mesi e tanto era bastato per farlo sentire meglio.

Kane rimase in silenzio per un po’.

«Se hai perso la memoria, è implicito il fatto che tu non abbia alcuna prova di aver commesso quel crimine...»

Yunix guardò la sala.

«Fidati. Lo so.» Non riuscì a dire altro.

Il ragazzo occhialuto osservò il ragazzo. Pendeva dalle sue labbra.

«Sogni di diventare un eroe, ma non pensi di meritartelo. Che bell’enigma...»

Le persone nella stanza cominciavano ad andarsene. Era ormai mezzogiorno. Yunix tirò su col naso.

«Non ho mai pensato a quell’idea prima di ieri... Ciò che non merito, non merita nemmeno di essere sognato, ma il mio cuore mi gridava qualcos’altro. E con le parole di quel controllore quel sogno mi è sembrato quasi raggiungibile...»

Kane si allertò.

«Quale controllore? Di chi stai parlando?»

«Hainard Tower...» rispose Yunix.

Si allarmò, alla reazione furente di Kane al nome.
«C’è qualcosa che non va tra te e lui?»

«No, no. C’è qualcosa che non va in lui!» disse questi, picchiettando le dita sul tavolo.

«Ma perché?»

«Sono la tua guida, giusto? Allora è mio dovere metterti in guardia.» Kane fece un respiro profondo. «Hainard non è una persona di cui puoi fidarti. Anzi, non è affidabile, punto. Hai mai letto “Spiriti Sordi”?»

Yunix alzò un sopracciglio.

«Ovviamente no!» esclamò Kane, mettendosi una mano tra i capelli. «Beh, non è importante. Ti basti sapere che Hainard ha messo nei guai l’istituto innumerevoli volte. È un Hero. Non so se te l’ha detto. Di classe C, ma è un Hero.»

«Hainard? Un Hero?»

«Sì!» Kane era piuttosto agitato. «Si unisce alle missioni degli Heroes di grado superiore, infrange il sistema a settori e non si ferma finché i villain non sono distrutti. Buon Dio... Non svolge neanche le mansioni che gli assegniamo.»

«Ed è così grave?»

«Efficit insignem nimia indulgentia furem.»

Yunix, se possibile, alzò ancor di più le sopracciglia.
«Sul serio?»

Kane sembrò annoiato.

«La troppa indulgenza fa l’uomo ladro. È così difficile? Devi capire che tutto ciò che quella bestia fa, ricade sull’istituto. Sono anni che ci prendiamo la responsabilità per i “crimini” che commette. E non lo possiamo cacciare, perché è nipote di uno dei professori, povera creaturina.»

Yunix sollevò uno spiedino, pensoso.
«Anche se fosse un irresponsabile, non vedo perché non dovrei parlarci.»

La rabbia di Kane sembrò lasciare il posto a una cupa freddezza.

«Perché è andato ben oltre...»

«Che intendi?» chiese Yunix, rigido sul posto.

«Gli è sempre piaciuto testare la sua forza. Non importa chi fosse il nemico. Andavano bene i villain e andavano bene gli studenti.»

“Come Ten Ken...” pensò Yunix, cercando di capire dove il racconto voleva andare a parare.
Lo sguardò di Kane non lasciava presagire nulla di buono.

«Non ha mai avuto il senso della misura. Ha scelto un ragazzo una volta, circa due anni fa e l’ha fatto diventare suo discepolo. Era un discreto insegnate, nonostante tutto. Insegnò al ragazzo a usare la forza, meglio di tutti i suoi compagni. Ma in una persona come Hainard, si risvegliò presto un sentimento di delusione. Nonostante le esercitazioni sempre più ardue, il ragazzo aveva smesso di migliorare. Non è finita bene. In un allenamento, il controllore ha iniziato ad attaccarlo a ripetizione, cercando di portarlo oltre il limite e, senza nemmeno rendersene conto, lo ha ucciso.»

Yunix inorridì.

«Che cosa?!»

«Hai sentito bene, Yunix Braviery. Lo ha ammazzato, senza alcun riguardo.» Kane aveva un viso cadaverico.

Il ragazzo ricordò le parole del controllore: «Comunque, ricorda, ragazzino... Se hai un Quirk, allora lo risveglierai. Non so quando, se in un comune momento della giornata o quando ne avrai davvero bisogno, ma lo sentirai dentro di te. E allora, quando succederà, vieni da me.»

“Vuole che diventi il suo prossimo discepolo?”

Kane sembrava schifato dalle sue stesse parole.

«E forse ora ti chiederai, come ha potuto scamparla? Come è possibile che non sia stato punito?» Yunix attese, immobile. «Io. Io l’ho coperto. Ho fatto in modo che l’incidente sembrasse causa di un villain. Io, da semplice ragazzo quale ero, ho permesso che rimanesse in libertà, che non passasse la sua inutile vita in carcere.» Kane tremava per la tensione.

Il ragazzo dai capelli grigi sentiva qualcosa ribollirgli all’interno. Un senso di oppressione. Quell’uomo aveva fatto questo? Lo stesso individuo che lo aveva spinto a ripartire...
«Non può essere...»

«Non è stato un lavoro semplice, sai? Nascondere le prove schiaccianti. E il calmare lui. L’operazione implicò l’uso di tutto il mio ingegno. Mai avrei pensato che avrei usato le mie doti così male...»

Yunix lasciò cadere il bastoncino che aveva in mano.
«Ma perché? Perché l’hai coperto?»

Kane si aprì in un sorriso deformato.

«Perché ero convinto che sarebbe cambiato. Perché in quel tempo vedevo ancora il buono nelle persone. Dopo quell’evento...» Kane si morse la mano. «Dopo quell’evento tornò l’arrogante che era stato in principio e io mi pentii. Era tardi. Se avessi provato a far venire tutto alla luce, sarei stato etichettato a mia volta come colpevole di avere mascherato le prove. Che stupido...»

Yunix non credeva alle sue orecchie.

«La tua paura è che stia facendo lo stesso con me?»

«Non è la mia paura. È la tua ed è un fatto. Non posso aiutarti. Stagli alla larga, ecco tutto. Questo è tutto quello che ti consiglio di fare. Io rimarrò nell’ombra, come sempre.» Kane si alzò in piedi e voltò le spalle a Yunix. «Ho detto quello che dovevo. Addio, Yunix.» Il tono era tornato freddo e formale. Gli occhiali scintillarono di Arkastro, mentre si allontanava.

Un faro si era appena spento nel ragazzo. Non che avesse paura di morire, ma l’idea di avere a cha fare con un omicida... Non era giusto. Non era per niente giusto nei confronti di quel ragazzo ucciso, prima di tutto. Le parole di Hainard però erano ancora ardenti nel suo cuore: «E dove sarebbe il problema? Anche tu... Anche tu puoi diventare un eroe!»

Yunix strinse i pugni e si alzò a sua volta.

«Kane!»

Il ragazzo si voltò. La fermezza sul viso di Yunix era così evidente, che aprì gli occhi, stupito.

«Non mi arrenderò con Hainard! Lui mi ha saputo offrire uno spiraglio in un mondo di tenebre. È stato l’unico a parlarmi con franchezza e darmi quel brandello di speranza che mi ha permesso di andare avanti. Forse non ho un Quirk, è vero, perciò non dovrei temere di rinunciare alla mia vita, perché essa rimarrebbe vuota. Se invece dovessi averlo, allora sarà Hainard e nessun altro la ragione per cui l’avrò scoperto. E allora accetterò di combattere con lui, dato che è quello il suo scopo, e gli offrirò uno scontro che non dimenticherà mai.» Yunix digrignò i denti. «Se per caso dovessi trionfare, gli dimostrerò che è grazie a lui se sono arrivato così in alto. Lo cambierò, Kane. Il tuo sforzo non sarà vanificato. Sarò il suo faro come lui lo è stato per me. Mi vedrà sfavillare, proprio come All Might.»

Il ricordo della ragazza nell’impermeabile era ancora in lui.
“Ce l’ho fatta, chiunque tu sia. Ho uno scopo ora. Almeno per un po’, avrò un obbiettivo per cui vale la pena continuare a vivere.”

Kane lasciò cadere per terra il libro, un’espressione indecifrabile sul viso. Poi, si illuminò.

«Ecco perché! Ecco perché la porta si è aperta!» Kane iniziò a saltellare, entusiasta, come uno scienziato che ha appena scoperto dell’esistenza di una nuova forma di vita. «Finalmente! Ne ho la prova definitiva. Non si è aperta perché avevi bisogno, ma perché davvero hai le qualità di un eroe.»

Yunix era stupito.
«E succede spesso?»

«No. No! Questo è il punto. Non succede mai! Tu devi diventare uno studente!»

A Kane brillavano gli occhi, ma Yunix non ci vide un incoraggiamento. Quello era lo sguardo scientifico di un’intellettuale. Non la furia ardente di Hainard.

«Rimane il fatto che io non me lo merito...»

Kane si aggiustò gli occhiali, l’entusiasmo scemato.
«Non lasciarti ingannare, Yunix. Non potrai salvare Hainard con questo atteggiamento. Il tuo sogno non potrà avverarsi, così.»

«E che dovrei fare, oratore?»

Kane iniziò a camminare avanti e indietro, nella sala ormai vuota.

«Un eroe deve saper sognare per andare avanti. Un vero eroe, se non altro. Tu sogni una vita che ti sorrida, ma ritieni di non meritartela. Ed è proprio questo che ti differenzia da un Villain.»

«In che senso?» domandò Yunix.

Kane lo indicò. «Saresti un Hero perfetto per un semplice motivo. Non imporresti mai il tuo sogno su quello degli altri. Con la tua semplice concezione di merito, hai mostrato di tenere ai sogni di individui che nemmeno ricordi.»

Yunix brancolava nel buio.

«E quindi? È giusto che non lo diventi se significa... ciò che hai detto...»

Kane scosse la testa con presunzione.

«Ma è qui che c’è la contraddizione, non capisci? Rinunciando all’idea di diventare Hero, per rispetto delle persone che hai danneggiato, rinunci alla possibilità di salvarne altre.»

Yunix rimase in silenzio. “Dice il vero, ma io...” Swizzilan, Ten Ken, Hainard. Nessuno di loro sembrava l’idea di Hero descritta da Kane. La sua era un’utopia, costruita su fondamenta di carta.

Il ragazzo occhialuto strinse i denti.

«Lo so. Lo so, che gli eroi non sono così! Non ti ho appena raccontato quello che un cosiddetto eroe è arrivato a fare?» Sembrava quasi che gli avesse letto nel pensiero. «Ed è per questo che dovresti diventarlo. Per cambiarli. Diventa un eroe, un vero eroe! Non un servo corrotto dello stato, non un imprudente affamato di gloria.» Gli mise una mano sulla spalla. «Diventa un eroe che sia intenzionato a salvare la gente!»

Yunix rimase in silenzio, incapace di guardare Kane negli occhi. Lo sentì toglierli la mano dalla spalla. La sala era ormai vuota.

«Ho sentito abbastanza...» Una voce distorta e intermittente fece rizzare i peli sulla pelle di Yunix, che si girò freneticamente attorno, cercando l’origine. Dalla colonna di ciottoli neri, in mezzo alla sala, si materializzò una figura inizialmente bluastra, poi verdognola. Fu come vedere un ologramma prendere vita. Inizialmente stratificati di verde e nero, arti translucidi acquisirono forma umana. Lo stesso accadde al resto del corpo. Il cranio, dalla forma di un calamaro, passò a una più normale testa capelluta. Le molteplici ciocche sembravano cristalli perlacei, diamantini. La pelle, man mano che si veniva a formare, appariva ricoperta da una patina evanescente, pallidissima, come se l’uomo fosse destinato a volare via al primo soffio di vento. Era agghindato con vestiti chiari, abbinati alla perfezione al viso cereo. Le gambe, tremolanti toccarono terra con leggerezza. A Yunix sembrò l’antagonista di qualche vecchio videogioco inglese fuori produzione. Forse ci aveva giocato una volta. Gli occhi arguti erano già fissi su di lui, ancora immobilizzato di fronte a quell’apparizione improvvisa.

Kane eseguì un rapido inchino di fronte all’uomo, oltre la quarantina per certo.

«Signor preside, buongiorno» disse ossequioso.

Con la reazione delle corde di un violino all’arco, il preside si volse verso Kane e aprì la bocca.
«Buona giornata.»

La voce non era più elettronica come prima. Aveva mantenuto a malapena una sembianza di meccanicità. A Yunix l’interno della bocca apparve come uno di quegli scanner dei supermercati. Sembrava che Kane aspettasse istruzioni dal superiore, ma questi rimaneva immobile. Il ragazzo dai capelli grigi si inchinò frettolosamente a sua volta, ricordando le regole della cortesia.

«Buongiorno, spero di non esserle stato indisponente in nessun modo...»

«...»

Yunix si interruppe. Gli era sembrato che...

«Ha detto qualcosa?» Sia il preside che Kane lo guardavano inespressivi. «Ehm... siete ancora lì...?» Mosse un po’ una mano di fronte a Kane, che gli afferrò il polso.

«Guarda che non puoi comportanti così di fronte a...»

«...»

Kane tacque. Era successo di nuovo, una specie di bisbiglio. Yunix guardò il preside. Il suo sguardo era perso. Le pupille, sempre che le avesse, erano immerse nell’azzurrino delle due orbite.

«C’è qualche problema...?» domandò, incerto.

Kane era lievemente accigliato. Guardò Yunix, poi il preside e poi di nuovo Yunix.

«Sembra che il signor preside Inai abbia qualche difficoltà a scannerizzarti. Questo è insolito...»

Ci furono altri secondi di pausa, poi l’uomo sembrò ridestarsi. Le sue pupille lampeggiarono come fanali.
«Yunix Braviery... Mi segua nel mio ufficio.»

Non disse altro, non emise neanche un fiato. Stava già camminando verso la porta.

«Ma che gli prende?» sussurrò Yunix a Kane.

Questi gli si avvicinò e gli parlò all’orecchio.
«Seguilo... Non si dilungherà. Detesta parlare più del dovuto. Muoviti!»

Yunix fu spinto in avanti e si affrettò sulle orme del preside, ancora un po’ scombussolato.

«Ma... ma... ha sentito tutto quello che ti ho detto?»

«Vai!» esclamò Kane.

Yunix si affrettò.

«Ehi...» Kane lo stava richiamando. Si girò, senza smettere di camminare. Il ragazzo lo guardava attraverso gli occhiali con un’espressione indecifrabile. «Il test d’ingresso è fra tre giorni. Fai in modo di esserci...» Yunix abbassò gli occhi, poi annuì.

«E ricorda le mie parole, a proposito... a proposito di quel controllore...» aggiunse Kane vago, come se temesse che il preside fosse ancora a portata di orecchio. Il ragazzo castano scomparve ben presto alla vista, gli occhi rapaci che ancora lo seguivano.
 

 
“Finalmente! Finalmente! Finalmente!”
Non riusciva a contenersi dal gran che era entusiasta. La foga era tale che non riusciva a chiudere occhio. Meglio. Non si faceva altro che dormire, lì dentro. In guerra si era soliti dire: “Difendere la posizione anche dopo essere stati uccisi!” E lui era un morto che tornava in vita, cazzo.

Perseveranza. Dovere. Coraggio. Valori in cui aveva creduto. I villain non avevano poi tutti i torti. Quella società era davvero uno schifo. Fanculo! Era libero ormai. Tre giorni... Mancavano tre cazzo di giorni! La sua capigliatura garriva di ardore.

Un lieve colpo di tosse interruppe il suo sogno ad occhi aperti. Si ricordò di essere anche ancora nel carcere con i suoi cari confratelli di crimini. Idioti. Non li sopportava. Si mise sedere. Nessuno nel penitenziario era più allegro di lui. L’aveva reso ben chiaro che era felice. E se il capo era felice, tutti dovevano esserlo. Con sprezzo, afferrò le sbarre della sua cella e mise la testa fuori.

«Ehi! Avete sentito, bastardi? Tre giorni al grande giorno, cazzo! Voglio canti e risate! Nemmeno in caserma c’è una tale fiacchezza!»

Da una delle celle superiori, una voce monotona rispose alla provocazione.

«E allora? Cazzo! Andiamo a prendere mazzate da dei mocciosi dell’asilo!»

«E tutto per due mesi di sconto!» lamentò qualcuno alla sua destra.

Altre voci annoiate o piagnucolanti si unirono al coro. L’ex-soldato rise con forza, sgolandosi per superare gli altri strilli.
«E allora... E allora lo dico io, bastardi! Tre giorni e tanti saluti a questo posto di merda!»

Gli altri prigionieri si zittirono. Diversi richiami al silenzio arrivarono alle sue orecchie.

«Ma vi siete tutti rammolliti? È l’ora del cambio della guardia...» Insicuro delle sue stesse parole, smise di parlare. Il silenzio della notte sembrò dargli ragione. Ripreso coraggio, rise ancora.

«Lunedì si scappa! Ma non vi chiederò di seguirmi, state tranquilli. I miei giorni da generale sono finiti e non ho bisogno di pesi morti sulle mie spalle! Congedati!»

Si gettò all’indietro sulla brandina, ridendo sguaiatamente. Gli avevano strappato gli onori, le riconoscenze, l’uniforme, ma un soldato era un soldato per tutta la vita. “Continuerò a combattere fino alla mia morte, cazzo!” Non sarebbe rimasto in quella prigione. La libertà lo chiamava ormai da troppo tempo.

«Nessuno è mai scappato, durante il test d’ingresso...»
Una voce cantilenante destò l’ex generale dai suoi pensieri. Era molto vicina; probabilmente proveniva dalla cella a fianco. Non fu difficile capire chi era stato.

«Proprio tu parli, Morfeo? Ma se ci hai provato l’anno scorso, come una di quelle reclute che credono di salire subito di grado, appena entrati nell’esercito!»

«Io un giorno scapperò, voi no» rispose l’altro detenuto, seccato dal vociare tonante.

Un prigioniero sopra di lui venne in aiuto al generale. Era della sua squadra. «E invece scapperemo. Il nostro piano non ha falle...» Non disse altro. Era sempre calmo Ahrima, ma quando doveva parlare si faceva valere. Pochi gli rispondevano e altrettanti pochi sopravvivevano per pagarne le conseguenze. Evidentemente, quello che tutti chiamavano Morfeo non ne era convinto, perché si mise a ridacchiare.

«Voi, miei cari, sottovalutate Infection e le sue insidie... Ma prego, continuate pure. Non avrete più successo di me...»

Quattro colpi secchi di manganello segnalarono l’arrivo della guardia di turno. Il silenzio calò sulle celle.

«Molto bene, allora» borbottò il generale, cercando invano di sottrarsi alla morsa delle manette anti-quirk, che a lungo andare gli avevano stritolato i polsi. «Riusciremo dove tu hai fallito, figlio di puttana». In cuor suo, non aveva dubbi. Era l'unico a sapere a cosa andavano davvero incontro.
 


Kane camminava in un corridoio vuoto. I riflessi degli occhiali erano mutevoli a causa delle luci provenienti dalle finestre, tanto che gli occhi che nascondevano erano praticamente invisibili. Sembrava quasi un robot, mentre metteva un passo dietro l’altro. Il ragazzo proseguì per un po’, poi si fermò di fronte a un finestrone, per guardare il tramonto. Le ultime macchine tornavano a casa da lavoro, sfrecciando sull'asfalto, come se fosse ghiaccio. Anche gli uccelli facevano ritorno ai loro nidi. Temigor stava andando a riposare.

Kane appoggiò un mano sul vetro. Era caldo al tatto, per la luce solare probabilmente. La sua bocca si arricciò in un sorriso inspiegabile.

«Un criminale, eh? Non vedo l’ora di scoprire chi sei, Yunix Braviery.»

Nonostante la statura minuta, l’ombra di Kane, accentuata dalla luce del tramonto, si stagliò sul muro come quella di un gigante.



Note d'autore
Ecco la seconda e ultima parte del secondo capitolo. Gli impegni mi hanno rallentato molto, ma ce l'ho fatta. In compenso, penso che il prossimo uscirà tra non molto, ma non farò previsioni pericolose. In ogni caso, ci siamo. Il test d'ingresso è alle porte e nessuno ha intenzione di perdersi l'occasione di avere un posto all'HG. Forse però c'è qualcosa di più in ballo. Si vedrà tutto nei prossimi capitoli. Come sempre, le recensioni sono apprezzatissime. Alla prossima :)

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Capitolo 10
*** Un Vortice di Quirk - Parte Prima: Test d'Ingresso, stiamo arrivando! ***


Un Vortice di Quirk - Parte Prima: Test d'Ingresso, stiamo arrivando!

Era una giornata soleggiata, con neanche l’ombra di una nuvola. Inai ne sarebbe stato contento. Forse contento era una parola grossa. Soddisfatto. Soddisfatto era la parola giusta. Yunix sentì il legno scricchiolare sotto i suoi piedi, come se fosse partecipe del suo nervosismo. E a quanto pare non era l’unico irrequieto. Attorno a lui nessuno muoveva un muscolo. La tensione era così elevata che sembrava fossero la band di un musical. Beh... L’ambiente ricordava quello di un concerto. Erano su un palco, in fondo, anche se Hainard aveva spergiurato che era solo per farsi vedere da tutti. L’idea era stata sua. Ovvio che volesse sostenerla. Ovvio che alla fine se n’era pentito.

Il controllore era a pochi metri da lui, impeccabile come al solito, neanche l’avesse scalpellato uno scultore. Teneva le braccia dietro la schiena, ostentando sicurezza, ma si vedeva che era inquieto. Lo stesso valeva per Kane, un po’ più indietro. Grave e autorevole, serbava le mani lungo i fianchi, lo sguardo perso nel cielo. Dimostrava il doppio dei suoi anni, quando faceva così. Ektel, nell’immancabile passamontagna, scrutava il terreno erboso di fronte al palco, con gli occhi violacei fuggenti, che non si capiva mai cosa cercassero. Era piuttosto lontana dai tre, ma d’altra parte era un’insegnate: era normale che avesse una posizione di rilievo. Altri professori, educatori e controllori erano disseminati sul piano legnoso. C’era una donna, in una tuta gialla da strada, con capelli rossi appuntiti, forse l’unica sciolta. Più misterioso era un uomo sottile, appoggiato alla colonna destra del palco. Era vestito di verde come un elfo natalizio, ma il cappello gli oscurava anche gli occhi, da cui scorrevano fittizi, ma macabri rigagnoli di sangue. Era completamente immobile, al pari di un manichino. C’era poi l’insegnate al centro. Era un uomo tarchiato in abito militare. Si aggirava nervoso attorno all’unico microfono. Aveva una macchia violacea sull’occhio destro, del colore del vino e una tenuta color erba. I capelli neri si dipingevano di viola alle estremità.

«Ce ne mettono, di tempo!» esclamò a gran voce, spezzando la serenità della mattinata. Nessuno sembrava intenzionato a rispondergli.

Ancora più inquieto, gettò uno sguardo truce alla donna a fianco e riprese a camminare avanti e indietro, borbottando fra sé e sé. A Yunix parve di sentire le parole “incompetenza” e “giovinastri” tra un’imprecazione silenziosa e l’altra. L’unica presenza importante che mancava era Inai, ma probabilmente il preside vicario era nascosto in qualche parete, aspettando di fare un’entrata ad effetto. Infantile? Forse, ma tutto ci si poteva aspettare da quell’uomo. Questo Yunix l’aveva capito. I minuti correvano e il militare era sempre più teso. Così teso, che gli altri professori iniziarono ad indietreggiare, come se temessero che li attaccasse all’improvviso.

Per fortuna, l’attesa finalmente finì. Un rombo scosse il terreno. Il cancello, visibile in lontananza si aprì cigolando. Era l’entrata occidentale, dove Yunix aveva scoperto trovarsi l’immenso campo battuto, che aveva visto attraverso le finestre più e più volte, nei tre giorni che aveva passato all’accademia. Una marea di persone iniziò a riversarsi nel campo, riempiendone tutta la superficie.

«Vedi, Tennerian? Non c’era nulla di cui preoccuparsi». Inai era arrivato, o, per meglio dire, era apparso.

Il militare si volse verso il preside, senza perdere la sua compostezza.
«Non ne avevo dubbi, signore, ma non mi piacciono i ritardatari».

Un altro insegnante, affilato come una matita, si grattò la fronte.
«Intravedo già diversi ragazzi promettenti. Guardate quell’armatura nera...»

Era difficile comprendere di chi parlasse, guardando la folla, ma in effetti il ragazzo in questione risaltava parecchio. Era in tutto e per tutto un’armatura, piena di punte, di un corvino cenere, ma dai bracciali e gambali non fuoriuscivano arti, bensì fumo biancastro, spettrale.

«Ti fermi all’apparenza, Peter... Cerca la determinazione, non la forza...» sussurrò Ektel, schietta.

«Personalmente adoro quella ragazza... Che capelli, che presenza, che eleganza!» La donna nella tuta gialla, si strinse la testa tra le mani, sognante.

Il suo sguardo era apparentemente stato catturato da una ragazza altissima, tra le file più vicine a loro. I suoi capelli viola erano così lunghi da coprirle gli occhi ed arrivarle alle caviglie. Era difficile dire se fosse avvenente o meno, ma certamente si faceva notare. E c’erano infiniti altri studenti da esaminare. In preda all’entusiasmo, Yunix cominciò a far sfrecciare gli occhi da una persona all’altra, assetato di unicità tanto quanto gli insegnanti. Come immagini fuggevoli i suoi occhi catturarono un ragazzo con gli occhi squamati, una ragazza con ossa intrecciate tra le chiome, due gemelli con lacci per capelli simmetrici, un ragazzo con otto braccia, una bambina con una sfera di cristallo, uno con la testa di una locomotiva, un altro in una tuta di astronauta, un’altra ancora che sembrava fatta di marzapane o di cioccolato. E poi c’erano i più bizzarri. Un agglomerato di elementi, un ragazzo tentacolato, un’iguana lunga diversi metri, un altro ragazzo con tre teste e... Due persone in mongolfiera? Centinaia di ragazzi continuavano ad arrivare. Camminavano, chi scontrosamente, chi allegramente, chi impaurito, chi tranquillo, chi determinato, chi silenzioso, chi chiacchierando, ma camminavano. Tutti quanti... Erano lì per trionfare.

“Questi... Alcuni di questi, se non altro... Saranno gli eroi del futuro. Non vedo l’ora di vederli in azione...”

Un sibilo furtivo giunse dalle sue spalle, dove si trovava Kane. Il ragazzo occhialuto si sforzò di tenere il tono della voce basso, nonostante il frastuono. «Allora... Hai deciso cosa fare?»

«Lo saprò stasera, Kane» rispose secco Yunix, con lo stesso tono del ragazzo castano.

Quest’ultimo sembrò soddisfatto, perché rimase in silenzio. Yunix osservò il block-notes che aveva tra le mani. L’aveva accettato con riserbo, ma perché non approfittare di quell’occasione? Con il vortice di Quirk che avrebbe potuto ammirare a Infection, non appena vi fossero arrivati, era assai stuzzicato. Il preside era stato molto chiaro, seppur considerando il breve incontro. Aveva iniziato subito a dargli del tu. Yunix aveva capito immediatamente quanto odiasse parlare...

 

Tre giorni prima...

«Accomodati...» Inai aggirò la scrivania.

L’ufficio era una sala molto semplice, anche se cozzava parecchio con lo stile romantico del resto dell’edificio. Due sedie. La scrivania. Un acquario. Un paio di scaffali. Un orologio. A questo si limitava l’arredamento. Yunix non aveva idea di cosa il preside gli avrebbe detto. Aspettò muto che si sedesse. Questi si prese il suo tempo, i pesciolini che si scagliavano vivaci contro la parete di vetro. La lancetta schioccava un tic dopo l’altro, provocando sonnolenza.

Nulla a che vedere con l’ansia di Yunix. Un problema assillava la sua mente sempre agitata. Un problema grosso, quella volta. Tutta la fatica che aveva fatto per sfuggire al suo crimine poteva finire sprecata, con una sola semplice frase di quell’uomo pallido. La cicatrice sul labbro di Yunix si riaccese, come se la ferita fosse appena stata inferta. Se per caso il preside fosse stato presente nel momento in cui aveva confessato a Kane di essere un criminale... Il suo misfatto, intercontinentale o meno che fosse, sarebbe ricaduto sulle sue spalle con la forza di un’incudine. Non gli restava che sperare.

Nella penombra, teneva le mani giunte, un po’ traballanti. Si pentì di non aver mangiato niente a colazione. Il suo stomaco vuoto, le sue ossa doloranti... Non poteva continuare a saltare i pasti. Era quello a impedirgli di restare lucido? Era per quello che ancora si illudeva...? Ma che pensava? Era ovvio che il preside avesse ascoltato la confessione. Probabilmente lo aveva tallonato per tutta la mattina. Era stato incauto a rivelare il suo segreto e ora, come aveva detto Kane, non poteva tornare indietro. Il preside indicò la sedia, invitando il ragazzo a sedersi. Yunix annuì, mansueto, e fece come richiesto.

«Se ho capito bene, non pensi di meritarti un posto in questa scuola...»

Ecco. La cruda verità. Anche l’ultima illusione crollò. Non rispose al preside. A questo punto era meglio rimanere in silenzio.

«Il test è tra tre giorni. Mi chiedevo se volessi partecipare...»

Yunix rimase a bocca aperta. «Sta scherzando?»

Inai lo guardò, senza il cenno di un sorriso. Sembrava uno spettro, dal gran che la sua pelle era sfumata.

Yunix deglutì. «Io...»

«...» Ancora quel suono... Quella specie di bisbiglio, che aveva sentito altre due volte la mattina stessa.

«Signore?»

Inai appoggiò il mento su una mano.

«Molto curioso, Braviery». Non disse altro.

«Ehm... Cossa sarebbe curioso, se posso permettermi...?» Nessuna risposta. Yunix aspettò un po’, poi si spazientì. «Se ha sentito ciò che ha sentito... Come può permettere che rimanga in libertà?»

Inai ancora una volta non rispose. Meditava, in assoluto silenzio. “Non lascerò che mi inganni con false speranze. Per nessun motivo.”

«Parteciperesti al test d’ingresso?» chiese il preside, con voce distante.

“Mi prende in giro? Ha eluso la mia domanda...” «Sa già che io penso di non meritarmelo...» L’unico responso fu quello dei pesci nell’acquario. L’orologio continuava imperterrito a ticchettare. Yunix stava davvero perdendo la pazienza. Era evidente che quell’uomo non avesse alcun interesse nel vederlo lì. Bastava guardare com’era appoggiato.

«Ha sentito ciò che ho fatto...» Silenzio. Il ragazzo strinse i pugni. «A che gioco sta giocando, signor preside?» L’uomo raddrizzò lentamente la testa, impassibile a quel cambio tonale. E ancora, nonostante tutto, rimase zitto.

Yunix emise un gemito.

«Mi vuole rispondere, UNA BUONA VOLTA?» Non si accorse nemmeno di aver gridato.

Inai finalmente parlò. «Vuoi partecipare al test d’ingresso? Sappi che non te lo richiederò».

Yunix sentì il fiato corto. Pensò di rispondere a tono, ma capì che l’uomo non stava affatto scherzando. Un sì o un no sarebbero stati definitivi. “Userò lo stesso metodo. Vediamo se ti piace quando ti rispondono a una domanda con una domanda.”

«Perché dovrei partecipare come uno studente, quando non ne ho alcun diritto?»

Inai si grattò l’orecchio. «E chi ha detto che devi partecipare come uno studente?» Yunix corrugò le sopracciglia. Il preside appoggiò entrambe le braccia sul tavolo. «Yunix Braviery... È il tuo vero nome?»

Il ragazzo guardò oltre la finestra dell’ufficio, la collera che lentamente diminuiva. C’era un bambino che ravvivava un fuocherello di un senzatetto.

«Forse non sarà il mio vero nome, ma è il nome che ho scelto... È quello che ho e tanto mi basta». Le parole si formarono naturali sulla sua bocca, come se non avesse atteso altro che pronunciarle.

Inai afferrò il braccio di Yunix, con flemma.
«Mi piacerebbe poterti aiutare, ragazzo... Ma temo di aver fallito». La voce meccanica era venata di un’appena percepibile tristezza.

«Che intende dire?»

La pelle dell’uomo era fredda al tatto. «Prendi...»

Yunix si ritrovò nella mano una tessera. C’era la sua foto sopra.

«Ti ho scannerizzato per ben tre volte, eppure... Nulla... Nulla... Persino il mio Quirk, così indicato per problemi di questo tipo, è inutile... Oltre alla tua immagine, non riesce a ottenere altre informazioni». Inai non riuscì a dire altro.

Preside vicario dell’HG: Inai Kado; Quirk: Scanner. Può spostarsi lungo le pareti solide come un ologramma. E non è tutto. È capace di scannerizzare le persone, per ottenerne tutte le informazioni biografiche del caso.

Yunix passò le dita sulla tessera. Lettere incomprensibili erano impresse sul rettangolo plastificato. Non c’era bisogno di altre parole. Aveva capito. E l’amarezza per quell’inspiegabile malfunzionamento lo fece sprofondare sottoterra. “Quest’uomo... Perché? Perché la sua unicità ha fallito? Avrei potuto risolvere tutto, qui ed ora...”

Catatonico, si volse con occhi di ghiaccio verso il preside, che stavolta sostenne a fatica il suo sguardo.

«Lei ha fallito. Uno come lei... Ha davvero fallito!» esclamò fuori di sé.

Provò un piacere folle nel vomitare quelle parole di fronte a lui. “No. Questo non sono io...” Yunix premette le proprie dita sulle tempie, cercando di riprendersi. Inai attese, senza emettere un singolo suono. Con fatica, la perversa sensazione scomparve e il ragazzo si sentì orribilmente a disagio.

«Mi scusi, come vede non ho nemmeno il controllo su me stesso...» Le ultime tracce dello sfogo scomparvero e Yunix si sentì meglio. «È evidente che qualunque cosa mi abbia sottratto la memoria, non possa essere disinnescato così facilmente...» “Non importa cosa pensino Hainard, Kane, o chiunque altro. Non merito di diventare un eroe.”

Inai lo guardò taciturno. Non sembrava spaventato o infuriato. Con una mano tirò una cordicella e una lampada si accese al lato della scrivania. La luce fioca illuminò un foglio di carta. C’era un’infinita lista di nomi al di sopra.

«Quindi intendi sbloccare da solo la tua amnesia...»

«Sì, sembra essere l’unico modo...» Confermò con tono sfiduciato.

«Non ti denuncerò a nessuno, ragazzo. Non ci guadagnerei nulla».

Yunix annuì, incerto se essere giovato o meno dalla notizia.

Inai sospirò. «Ho parlato anche troppo...» Spinse il foglio in direzione del ragazzo. Innumerevoli firme si accavallavano l’una all’altra. «So che pensi di non meritarti un posto qui e non voglio convincerti del contrario. È giusto che tu prenda le tue decisioni in privata sede, con la tua testa». Yunix annuì di nuovo, rassegnato.

Inai valutò le prossime parole e si schiarì la gola in un tramestio metallico.
«Ti chiedo solo questo... Aspetta la sera fra tre giorni per darmi una risposta. A mente fredda, rischieresti di pentirti della tua scelta».

Il ragazzo sbuffò. «Come se cambiasse qualcosa... Non posso partecipare al test, se è questo che mi vuole proporre. Non ho un Quirk e non ho la memoria. Una bella accoppiata non crede?»

Inai non rise, ma pose una penna di fronte al ragazzo.

«E qui arriva la controproposta... Conosci Infection?»

«La città di Copy&Paste» rispose Yunix, diligente.

«Quella... Il test fra tre giorni è rivolto a quelli della tua età. Ti piacerebbe parteciparvi come esaminatore? Alla fine, vedremo se avrai cambiato idea...»

Il ragazzo vide il proprio riflesso sulla penna a sfera e seppe cosa fare.

 
 
Il sole brillava intenso nella luce mattutina. Yunix strinse il block-notes tra le mani. “Non hanno bisogno di uno come me per il test. Con tutte le telecamere, non c’è verso che una mia relazione cambi qualcosa...” Guardò Inai, in un vistoso, ma al contempo sobrio abito nero. Stava ascoltando le parole dell’insegnante che doveva chiamarsi Tennerian. “Chissà che cos’ha in mente...”

«Quando vuole, signore, posso iniziare. Diamo una bella scossa a questi bambinetti». Inai diede un’occhiata alla folla.

«Inizia» ordinò, conciso.

Gli occhi acquosi di Tennerian ammiccarono e il soldato afferrò il microfono.

Ektel lo guardò, dubbiosa. «Cerca di non spaventarli troppo...»

Tennerian replicò distrattamente di tranquillizzarsi, poi sollevò il microfono e lo portò alla bocca.

«Benvenuti!» Un boato partì dalle casse sonore, facendo tremare il palco. Il rumore fu così forte, che Yunix pensò di essere diventato sordo.

«Qualcuno ha provato quel coso?» gemette Hainard, le mani sulle orecchie.

«Non penso sia...» provò a dire Kane, ma la sua voce fu sommersa dalle parole successive di Tennerian, che sembrava insensibile al rumore.

«L’HG. Guardatela. È qui davanti a voi!» I ragazzi esultarono. «Non così in fretta... Cari miei».

Tennerian aveva un cipiglio feroce.
«Noi non siamo la U.A. Qui il posto bisogna meritarselo sul serio! Ora sarete circa trecento, ma vi posso assicurare che neanche un sesto di voi riuscirà a passare... Ma se siete qui e non in quel mortorio di scuola, allora siete già con due passi sui gradini. Lo volete fare questo salto?»

Alcune urla di giubilo si levarono dalla folla.

«VI HO FATTO UNA DOMANDA!»

Il frastuono fu tale che Yunix sentì le orecchie sanguinare. Ektel batteva i denti, sconvolta. Con mano ferma strappò il microfono al collega. Yunix sentì Kane avvicinarsi a lui. Per capire qualcosa dovette aspettare che questi gli parlasse direttamente all’orecchio.

«Quel professore... Sai chi è?» Yunix fece no con la testa, guardando Ektel e il soldato che si contendevano il microfono. Kane si aggiustò gli occhiali. «Tennerian Gymark. È lui lo zio di Hainard. Sono simili non trovi? C’è però una sostanziale differenza tra i due. Riusciresti a dirmi qual è?»

La donna dalla tuta gialla intervenne per prendere il microfono. Yunix guardò il controllore, che cercava di testare la sua percezione ai rumori, schioccando le dita. Non lontano c’era poi il soldato, meno affascinante di Hainard, forse più robusto, ma...

«Da quello che ho visto, quell’insegnante non ha mai riso, neanche una singola volta. Al contrario il nipote sembra trovare tutto divertente...» Yunix soppesò le sue stesse parole.

«Proprio così» affermò Kane. «Il professore non prova gioia a mostrare la sua forza, solo un autentico senso di necessità. Hainard invece si diverte a infliggere dolore gratuito. Non ricordi quando ti ha fatto lo sgambetto?»

Yunix rabbrividì. “Come fa a sapere che mi ha fatto lo sgambetto? Non era nemmeno lì...” Si volse verso Kane e negli occhi bianchi scorse qualcosa di strano. Qualcosa che lo scoraggiò a parlare amichevolmente.

«Cerchi di aizzarmi contro di lui, Kane? Ti ho detto che non smetterò di frequentarlo».

Il ragazzo lo squadrò per qualche istante, senza mostrare emozioni. «Non sai quanto ti sbagli... Io ti sto solo dicendo di fare attenzione. Non si può mai dire cosa potrebbe arrivare a farti quell’essere».

Il bibliotecario fece dietro-front e tornò alla sua posizione. La donna dai capelli rossi alzò la mano trionfante, con il microfono in mano. Tirò in basso la levetta del volume e passò l’arnese a Tennerian.

«Assumiti le responsabilità per questo disguido, ok, Napoleone?»

Il soldato grugnì e accettò l’oggetto. Si schiarì la gola e portò il microfono alla bocca con uno sguardo di fuoco. Molti dei presenti di fronte al palco fecero un passo indietro, intimoriti. L’insegnante digrignò i denti. E improvvisamente la platea trattenne il fiato.

«Sta piangendo!» urlò un ragazzino con delle antenne elettriche in testa.

Era vero. Yunix non poté crederci, ma non stava sognando. Lacrime rigavano il viso sagomato dell’insegnate. Cadevano a terra con piccoli plick, senza che volasse una mosca. I colleghi del professore erano increduli. Ektel era livida. La donna dai capelli rossi disgustata. Inai invece attese, impassibile.

Il soldato aprì la bocca.

«Scusate... immensamente!» La voce fu comunque altissima. «Come vedete anche noi che siamo alla sommità possiamo cadere in basso! Ed è giusto che mi mostri nella mia più totale fragilità! È giusto che mostri tutta la mia vergogna. Ho disonorato la mia vita e il mio orgoglio...»

Ektel roteò gli occhi.

«Il vecchio non ce la fa a non esagerare...» borbottò Hainard, a pochi metri da Yunix.

Il soldato non aveva finito. Sembrava sputare le parole, dal gran che ne era appassionato.

«Provvederò a pagare per i miei errori, statene certi!» La platea era completamente stregata. «Non scherzo, quando dico che pagherò. In assenza del preside, a maggior ragione, dobbiamo far brillare questa scuola! E non sarò io a fare tramontare la sua gloria, dovessi morire piuttosto! Sì! MORIREI PER QUESTA ACCADEMIA! E se vorrete entrarvi, dovrete farlo anche voi! Questo è credere nei propri ideali! Questo è avere la costanza di un eroe! Questo è ciò che ha in più l’HG. Ricordate... Non è la forza a fare l’eroe! È la fede che ha nelle sue capacità! Ve lo chiedo con tutta la mia convinzione, il mio onore messo a nudo. VOLETE DIVENTARE DEGLI EROI!?»

Un coro di voci esultanti si levò dalla folla. Furono innumerevoli le braccia sollevate. Con un ultimo lamento virile, Tennerian sollevò a sua volta le braccia.

«Bene! Perché se riuscirete a varcare queste porte, ve la dovrete vedere con me, Uppermouth!» Il professore si gonfiò come un gallo e concluse l’arringa alzando il pugno.

«...Uppermouth!» Ringhiò Ektel, le orecchie tappate.

Il professore sembrava soddisfatto. I ragazzi iniziarono ad acclamare l’uomo e parlare vivacemente tra loro. Una ragazza dai capelli castano-rosati e un viso pronunciato brillava di ammirazione. Era in prima fila, abbastanza vicina a Yunix perché lui riuscisse a sentirla.

«La sua determinazione è straordinaria! Proprio un’ottima scelta, Shiena’q» disse, senza essere chiaro a chi si stesse rivolgendo.

Un ragazzo di fianco a lei, con orecchie da pipistrello e un ciuffo davanti agli occhi tirò su col naso.
«Non m-m-mi aspettavo così tanta partecipazione...»

Un’altra ragazzina con occhiali di ottone si aprì in un sorriso ferino.
«Non importa quanti sono! Cadranno come mosche...»

Yunix si tirò indietro, sperando che nessuno lo notasse. La ragazza che aveva parlato per prima sembrò guardarlo, dubbiosa, come se si fosse accorta che li stava ascoltando. Aveva uno sguardo carico di vitalità, come la primavera in fiore.
“Detesto essere al centro dell’attenzione. Perché non potevo aspettare direttamente a Infection?” pensò, spezzando il contatto visivo.

Guardò il centro del palco, sperando di non essere arrossito. La donna dai capelli vermigli stava sollevando il microfono. Era il suo turno di parlare. Tuttavia, se gli insegnanti speravano in un tono di voce più basso, si sbagliavano di grosso.

«Buongiorno miei cari rampolli! Che bello vedervi tutti pronti per questo magnifico evento! Allora! Consultiamo assieme il programma, che ne dite?» Sorrise, tirando la lingua fuori, come se stesse parlando a dei bambini di tre anni. Non aiutava vedere Tennerian, austero e inflessibile di fianco a lei. La donna sembrava aspettare una risposta, ma rimase delusa. «Bene!» continuò, impacciata. «Io sono Milia Warder... E... e vi spiegherò come funzionerà il test...» Iniziò a trafficare con un paio di fogli che teneva in mano. Yunix si sentì in pena per lei. Al suo posto, non immaginava che avrebbe fatto. «Dopodiché... Ehm... Il mio collega Peter vi spiegherà rapidamente alcuni fondamenti della nostra accademia... E... E a quel punto saremo pronti!»

I ragazzi continuarono a rimanere in silenzio. Milia fece un sospiro profondo per calmarsi.

«Ok! Dunque... Il test. Verrete tutti quanti distribuiti sulla città di Infection». Sul display comparve una miniatura del luogo. «Come penso sappiate, Copy&Paste si è impegnato molto per rendere il suo regno piuttosto incasinato... ecco. State attenti alle varie gravità e antigravità, ok?»

«Cosa dovremo fare?» saltò su un ragazzo dalle guance allungate.

Milia sembrò apprezzare l’intervento, perché si affrettò a rispondere.
«È presto detto, cari amici! Nella città verranno disseminati finti feriti e persone in difficoltà. Dovrete salvarle, si intende».

«Tutto qua?» esclamò un altro. «Pensavo che avremmo distrutto dei robot!»

Milia non si lasciò scoraggiare.

«Il nostro test d’ammissione non è il famoso test della U.A., che a dirla tutta è oggettivamente impreciso, sapete? Perché basarsi solo sulla forza e sul coraggio? Gli eroi non sono solo questo. Gli eroi sono determinazione, costanza, capacità di pensare in fretta nelle situazioni critiche e soprattutto l’essere pronti a salvare il massimo numero di vite umane, sempre e comunque». Alcune lamentele giunsero alle orecchie di Yunix.

«In ogni caso...» Proseguì Milia, alzando la voce. «I villain non mancheranno». Un ruggito seguì le sue parole. «Calma! Calma!» esclamò la donna, cercando di sovrastare il rumore. «Non sto parlando di eroi che interpreteranno i cattivoni, ma di Villains veri e propri...» La notizia non sembrò quietare in alcun modo la marea di ragazzi.

“Che cosa? Villains?” Yunix si voltò verso Kane, turbato. Questi alzò le spalle, aspettando che il boato si quietasse, prima di parlare.

«Non è niente di nuovo... Si è sempre fatto tutti gli anni».

Yunix si girò con lentezza, per vedere una Milia sorridente che cercava di ripristinare l’attenzione.
«I Villains in questione sono prigionieri del penitenziario di Aster, in un programma per la riabilitazione nella società. Se assolveranno al loro compito riceveranno uno sconto di pena. E non temete... Sappiamo bene come bloccare qualsiasi atto non conforme alla prova».

Gli studenti parlavano così animatamente, che nessuno sembrava avere sentito le sue ultime parole.

Milia sbuffò, crucciata. «Non mi vogliono ascoltare...» Gli occhi le si riempirono di lacrime.

Ektel le assestò un calcio, senza farsi notare. «Non ti azzardare a imitarlo».

Yunix stava ancora riflettendo sulle parole della donna. Era piuttosto scettico. “Come possono essere certi che nessun Villain si scatenerà? Avranno preso misure sufficienti? Ne dubito...” Guardò Inai. L’uomo aveva lo sguardo perso tra le nuvole. Piccole particelle digitali si staccavano dai capelli cristallizzati, per poi disperdersi nell’aria. “Hai tutto sotto controllo, vero?”

Finalmente, il brio iniziò a scemare e Milia riprese la parola.

«Abbattere Villain e salvare feriti vi farà guadagnare punti, anche se ovviamente sarà valutata anche la vostra capacità di agire soli e in gruppo, il vostro eroismo e la vostra duttilità». Milia guardò la platea, non potendo fare a meno di arrossire. «È proprio un peccato che non passerete tutti quanti! Vi prego! Date il meglio di voi, piccolini!» La massa fu di nuovo di sasso.

«...Piccolini?» ripeté Ektel, nauseata.

«Come facciamo a trovare i feriti in una città così grande?» piagnucolò un ragazzo dai capelli bluastri ondulati, spezzando il silenzio.

Milia arrossì e si affrettò a rispondere.
«Abbiamo pensato a tutto! Dieci di voi fortunati saranno dotati di gadget molto particolari, che vi serviranno proprio per questo. Ecco che arrivano!» esclamò infervorata, indicando il cielo.

I ragazzi guardarono in alto, dove dieci differenti pacchetti luminosi caddero a modesta velocità sulla folla. Per alcuni ci fu una lotta intestina, per altri i ragazzi lasciarono che il fortunato si tenesse il premio. Yunix alzò le sopracciglia, vedendo i pacchetti venire sbrindellati dalle mani dei giovani. Quando il parapiglia finì, Milia indicò il display.

«Ecco i 10 favoriti!»

Le immagini dei vincitori apparvero sullo schermo. Tutti quanti i dieci tenevano in mano una specie di bracciale. Tutti sembravano soddisfatti, eccetto un ragazzo con una stella affissa sulla nuca, dai capelli color zenzero, tenuti in una coda, che sembrava aver ottenuto il gadget per puro caso.

«Questi oggetti saranno vitali nel corso della prova, perché indicano le posizioni di ogni ferito! Se potete, cercate di fare squadra con questi ragazzi. Il mio è solo un consiglio, comunque!» Sorrise, tirando fuori la lingua. «Il test inizierà alle 15:30 e si protrarrà fino alle 17:30. Date il meglio di voi!»

Mentre Milia passava il microfono a Peter, Tennerian si incamminò deciso verso Yunix. Il ragazzo aspettò, sorpreso, credendo di starsi sbagliando, ma non c’erano dubbi. Il professore veniva proprio per lui. Senza dire nulla, gli fece un cenno piuttosto significativo, che lo invitava ad andare con lui. Yunix lasciò esitante la sua posizione per seguire la massa di muscoli.

«Fallo arrivare vivo al pomeriggio, vecchio» bisbigliò Hainard abbastanza forte, perché Yunix sentisse.

«Immagina parlare di vita e di morte, Hainard» mormorò Kane in risposta, senza battere ciglio.

Il ragazzo dai capelli grigi scese dal palco, ignorando i due che avevano preso a guardarsi in cagnesco. Provò un leggero straniamento, mentre seguiva Tennerian in uno stanzino sul retro della costruzione legnosa. La sua scelta di tre giorni prima gli sembrò piuttosto sciocca. Guardare tutti quei ragazzi trionfare sarebbe stato un altro duro colpo. Una scelta che avrebbe comportato una scelta. Per l’ennesima volta aveva optato di non scegliere. Sovrappensiero, andò a sbattere contro la schiena allenata dell’insegnate.  

«Mi scusi. Ero perso nei mei pensieri...» Imbarazzato, si aspettò un rimprovero, ma anche il professore sembrava distratto.

Lo aveva portato in una specie di spogliatoio rudimentale. Le ragnatele avevano già cominciato a dominare l’ambiente, dopo soli due giorni da che la struttura era stata costruita. Tennerian s’inginocchiò e iniziò a rovistare in una cassa. Dopo poco emerse con un ammasso rosso e bianco in mano.

«La tua divisa... Allo U.A usano il blu. Qui usiamo il rosso». Il tono del professore era stranamente incolore, non passionale, come poco prima. Questi dovette accorgersene, perché si affrettò a continuare. «Non mi piace l’idea di coinvolgere dei Villains... Anche con Lui non riesco a sentirmi tranquillo...»

Yunix annuì, domandandosi chi fosse questo fantomatico lui.

«Mi raccomando, occhi vispi e orecchie aperte, là fuori. Non sottovalutare il peso delle tue parole. Ti assicuro che tutto ciò che scriverai sarà preso in considerazione» sbottò il professore.

Yunix afferrò la divisa e la strinse tra le braccia.
«Dice? Con tutte le telecamere, il mio lavoro è praticamente una formalità...»

Uppermouth si infiammò subito, le orbite acquose che si coloravano di nero.

«Ti sembro uno che mette in discussione le decisioni del preside!?»

Il ragazzo deglutì. «Nono, assolutamente... Non metterei mai in dubbio la sua lealtà...» L’uomo sembrò non bersela e si avvicinò minaccioso. «Grazie ancora per tutto! Addio!» disse Yunix il più velocemente possibile, per poi scomparire fuori, con la divisa tra le braccia.

Il soldato si fermò sull’uscio dello spogliatoio, guardando Yunix che correva. “Dopo soli tre giorni, sembra essersi ripreso alla grande. Non è un più un cadavere che cammina, anzi... Ha capacità piuttosto elevate, per essere un ragazzo senza addestramento. Se solo accettasse... No. Pazienza, Uppermouth... Il preside sa quello che fa.”
 


Milia camminava spensierata nell’aria rarefatta di Infection. Sentiva i passi leggeri sull’asfalto arkastrizzato. Ogni anno, la città era più amena, più splendida. Un paradiso ai suoi occhi. Quando da bambina vi era stata la prima volta, non era riuscita a staccare gli occhi un secondo da quella dimensione dalle regole sballate, cristallizzata in un bozzolo che l’avrebbe preservata per tutta l’eternità. Vedere il tramonto, rifratto e infranto nella doppia gravità del sistema, era stato lo spettacolo più bello che avesse mai ammirato in vita sua. Come avevano potuto denominarla Infection? Era tutto fuorché un’infezione. Copy&Paste, l’eroe con il potere più incredibile nella storia dei Quirk, nonché una delle tre leggende di Temigor, era diventato il suo idolo e chi avrebbe potuto biasimarla, se avesse visto a quella tenera età i sogni prendere vita? La fantasia, nella sua mancanza di limiti, nella sua irrealizzabilità, era stata conquistata da un uomo come gli altri, arrivato dove nessuno era arrivato prima. Quanto avrebbe dato per vivere nella sua epoca... Un’epoca in cui non vi erano le limitazioni imposte dalla società. Anche un anarchico come Copy&Paste avrebbe dovuto chinare il capo al sistema decadente degli Heroes attuale, che, nonostante tutto, lei, Explode-Ram, doveva proteggere...

Continuò a camminare, senza guardarsi attorno.

Una volta all’anno, poteva far riaffiorare i ricordi della sua infanzia. Non era la stessa sensazione della prima volta, ma le emozioni che provava erano quelle generate dall’incontro con un vecchio amico, per cui si è sempre stati innamorati, ma per cui non si ha mai avuto il coraggio di dichiararsi. Questo era per lei Infection... Una casa che non avrebbe mai potuto accoglierla veramente. Ma andava bene così. Quel luogo era destinato a rimanere vuoto. A essere un monumento per ciò che era il mondo prima degli Heroes, quando i veri difensori dei deboli erano i Vigilantes. La solitudine di quella città, che una volta all’anno prendeva vita, faceva sentire sola pure lei, che era sempre socievole e in compagnia. Villain, civili, eroi, ragazzi promettenti... avrebbero brulicato in quelle stanze vuote, in quelle abitazioni fossilizzate, in quel ghiaccio apparente, per conquistare una vittoria temporanea, di cui, cento anni dopo, solo quella città avrebbe preservato il ricordo. Era questo che il suo eroe aveva desiderato? Creare un mondo che sopravvivesse all'impietosità del tempo? Se quello era stato il suo scopo, la donna doveva riconoscere che c'era riuscito.

Milia si strinse nella tuta gialla attillata, che accentuava il suo seno e ciò che aveva in fondo alla schiena. Estrasse un pennino dalla tasca anteriore sinistra della sua tuta, agganciata al bordo a quadretti bianchi e neri. Andare incontro ai Villains vestita in quel modo provocatorio sarebbe stato umiliante, ma Milia si era sforzata di abituarsi alle battutine e ai fischi. Non poteva permettere che una sua azione impulsiva compromettesse il futuro della scuola. E allo stesso tempo non poteva lasciare che la sua libertà venisse ostacolata dai giudizi degli altri. Quella tuta, ricordo delle gare automobilistiche che piacevano tanto al padre, era il suo costume da eroe e lo sarebbe rimasto per sempre.

«Tredici» disse, nostalgica, tracciando un segno sul muro alla sua sinistra.

Era la tredicesima volta che tornava a Infection. Si era prefissata di tracciare un segno sulle pareti ogni volta che aveva il permesso di andarci, ossia annualmente, quando la scuola lo richiedeva. L’Arkastro tendeva a lasciare che le punte acuminate lo trapassassero, ma solamente se veniva usata una certa dolcezza. Milia lo aveva sempre trovato romantico. Ogni segno era una parte di sé stessa, una parte di sé che voleva lasciare al regno misterioso, in modo che la custodisse, per sempre.

La sua tranquillità non durò a lungo. Dagli schiamazzi in fondo alla via, capì che era arrivata presso l’obbiettivo. Si tirò su la cerniera fino al mento. Sollevò la cintura a quadretti bianchi e neri, motivo che si ripeteva per tutto il costume e infilò le mani nelle tasche dietro la schiena. Doveva mostrarsi sicura di sé, schietta e concisa, anche se non era per niente nelle sue corde. Fulminò con gli occhi i Villains, preparandosi a scatenare il proprio Quirk all’evenienza. “Lui mi proteggerà... Tranquilla, Milia. Se non riesci ad affrontarli tu, i ragazzi che faranno?”

Erano circa una settantina... Maschi soprattutto, ma anche una decina di donne ingrossava le fila della combriccola. Vide brutti ceffi ovunque, ma anche qualche viso più mite o impaurito, di persone che evidentemente volevano davvero cambiare, che forse erano finite in prigione per puro caso, un errore, un debito, una rissa... Non si avevano tutte le informazioni su di loro. Questo la preoccupava, ma non si poteva fare altrimenti. Il penitenziario Aster aveva reso ben chiaro che non poteva direttamente divulgare informazioni sui Quirk o sul passato di quegli individui, senza la loro approvazione. Con alcuni era stato facile ottenerla in cambio di privilegi o cose simili. Altri avevano sostenuto con grinta i loro diritti, dimostrando un ardore non indifferente, per uomini condannati a sprecare le loro giornate in carcere. Per farsi vedere da tutti, salì su una roccia cristallizzata.

Si munì dello sguardo più freddo che conoscesse e parlò con voce sicura.

«Sapete perché siete qui... Il test inizierà alle 15:30 e per quell’ora vi voglio vedere nelle vostre posizioni. Potete eventualmente girare un po’ per Infection, ma fate in modo di non allontanarvi troppo dal settore assegnato. È vietato, per quanto vi riguarda, attraversare l’antigravità e andare dalla città inferiore a quella superiore o viceversa, particolarmente nel corso del test».

Un uomo alzò la mano. Era robusto, con gambe simili a tronchi d’albero. Aveva un volto pieno di cicatrici, capelli biondi spenti levati a mo’ di sperone. Attorno ad essi era attorcigliato filo spinato, come una corona. Indossava una divisa bluastra con diversi tappi colorati al di sopra, forse a ricordare delle medaglie. Un soprabito nero, spillato al colletto, lo avvolgeva parzialmente. I pantaloni erano mimetici e gli scarponi neri ferrati sotto la suola. Milia capì subito chi era... Non conosceva il suo nome. Nessuno lo conosceva, ma come Villain, nella sua unica apparizione, si era definito in modo piuttosto esemplare... La donna lo ricordava ancora, mentre parlava in tribunale.

«Segni Armday, signor giudice... Armday, perché il D-Day è stato il climax del conflitto più glorioso a storia d’uomo e presto si ripeterà nei nostri giorni e vincerà chi sarà disposto a giocare sporco». L’imputato aveva riso in modo sguaiato alle sue stesse parole. «Non lo sente anche lei? L’arrivo della guerra? Temigor cadrà, se non sarete pronti a farci combattere... Noi Villains... Se mi lasciasse andare potrei portare al sindaco Pisciabraghe un esercito addestrato... Con i pochi Heroes che avete non potete aspettarvi di sconfiggere il Giappone, senza di noi. Questo lo sa bene, eccellenza...»

Milia tornò alla realtà.
«Prego, Armday» concesse, guardinga.

L’uomo sbuffò.

«Vede, signorina... Io non ho molta voglia di correre dietro a dei ragazzini». Parlava con tono ironico, lusinghiero. «Non so come dirlo, cioè... Lei mi sembra una donna dagli attributi» disse facendo un gesto sinuoso con le mani, piuttosto esplicativo. Attorno a lui diversi Villains lanciarono risate stridule. Armday proseguì nella sua vocina acuta. «Nel senso... Se vuole divertirsi un po’ con noi... io non direi di no. In ogni caso...»

L’ex-generale fu interrotto.

«Sì, vieni qui, bella rossa. Ti farò passare un bel pomeriggio, te l’assicuro». Un uomo dai denti storti si fece avanti, le mani che invitavano la donna ad avvicinarsi.

Questa si ritrasse, disgustata.

«Con quale coraggio vi definite umani, voi...»

Il villain ridacchiò e fece per lanciarsi verso di lei. Milia era pronta a difendersi, ma non ce ne fu bisogno.

Armday brancò il villain alla vita e lo spintonò all’indietro. Poi gli mollò un pugno con tutta la forza che aveva. La faccia del villain s’incrinò colpita dal destro dell’uomo. Diversi denti volarono fuori dalla sua bocca, mentre volava all’indietro, svenuto. Per sicurezza, il villain gli sferrò anche un calcio.

«Finché si scherza, va bene, coglione... Ma qui non siamo in un night club, controlla i tuoi cazzo di istinti!»

Milia era frastornata. Il villain si risollevò e la guardò, così come le altre facce. Nessuno parlava. Era chiaro che Armday fosse relativamente rispettato.

«Tornando a noi, signorina... Volevo proporle di unirsi a noi e aiutarci a scappare, ma capisco che vedere tanto degrado sia piuttosto scoraggiante... Prosegua pure. Non vorrei che tardasse per il test...»

La donna lo guardò, cercando di valutarlo.
«Molto bene. In realtà, non ho nulla da dirvi che non sapete già, se non questo. Un villain che condurrà la sua attività di ostacolo passivo con rigore sarà ricompensato. E non solo con un paio di mesi di sconto, ma con buone parole per l’opinione pubblica. Se doveste mostrare un’affinità all’eroismo, potremmo persino pensare a una nuova carriera per voi. Che ne dite? Vi piacerebbe smettere di essere reietti e vivere per la giustizia? Se siete villain, sapete come si combatte. I numeri li avete». Squadrò ogni faccia, cercando di cogliere un barlume di interesse. «È a voi la scelta su come migliorare o peggiorare la vostra vita... Perciò... Non prendiamoci in giro. So che alcuni vorrebbero approfittare dell’occasione per scappare». Armday grugnì. «Ma non ce la farete. Nessuno è mai scappato da Infection e un motivo c’è... Buon test a tutti...» concluse, fredda.

Ci fu un momento di silenzio, in cui i villain guardarono la donna. Questa si morse un labbro, turbata. Lottò contro sé stessa, ma non resistette.

«Per favore, non fate i cattivi, ok? Non voglio stare in pensiero per i miei piccoli... Date il meglio di voi! So che siete tutti brave persone, sotto sotto! Godiamoci Infection tutti assieme!»

La marmaglia fu pietrificata da quello sfogo inaspettato di energia positiva. La donna sorrise scherzosa, poi girò i tacchi e si allontanò. I villain cominciarono a disperdersi.

Armday approfittò della confusione per afferrare per i vestiti due individui, vicini a lui.

«Siete pronti, soldati?»

Quello più smilzo si girò, sorridendo stupidamente.
«Ma che vuoi fare ora? L’ha detto anche la rossa. Se nessuno è mai scappato, non scappiamo neanche noi...»

Il secondo individuo gli diede una botta in testa, facendo rintoccare l’elmetto sudicio del villain. «E allora? Speravamo proprio che la situazione sarebbe rimasta questa...»

Lo smilzo si grattò ciò che era scoperto della testa. «Sì, sì, è vero. Se c’è Lui, scappiamo. E Lui c’è. Ci basterà usare i nostri Quirk monopruso...»

«Monouso...» gli ricordò Armday. «Cerca di usare il cervellino, ogni tanto. Ricordate che senza di voi il piano non potrà attuarsi. Mi affido totalmente al vostro giudizio... Ahrima, ti sei procurato la foto?»

Il villain più silenzioso sollevò il mantello nero, rivelando alla luce l’immagine sbiadita.
«Ovvio che ce l’ho, generale. La domanda è se possiamo fidarci di te...» I due villain guardarono intensamente Armday.

«Il D-Day sta per iniziare, ragazzi. E vi prometto che verrò a prendervi il prima possibile... Sarò spietato, disonesto, violento quanto vuoi, Ahrima, ma i miei soldati sono i miei fratelli e non c’è verso che io li abbandoni. Tornerò da voi, più forte che mai, e scapperemo tutti. Allora...» disse, guardandoli con fermezza. «Siete con me?»

Ahrima e il villain smilzo portarono la mano alla fronte, in segno di saluto.

«Sì, signore!»

Armday si lasciò andare a un ghigno. Era tornato sul campo di battaglia.
 


Note d'autore
Eccoci alla prima parte di "Un Vortice di Quirk". Spero davvero che il test d'ingresso vi piacerà, perchè sarà il fulcro dei prossimi capitoli, ricchi di azione. Ditemi cosa ne pensate della storia fino ad ora e buona lettura.

P.S. Per i capitoli futuri mi servirebbero Hero e Villain "generici". Se qualcuno volesse vedere un personaggio originale da lui creato nella mia storia, è sufficiente che mi scriva, in privato o come recensione, più o meno dettagliatamente le caratteristiche di questo eroe/villain e soprattutto il suo Quirk. Ovviamente, il ruolo che ricoprirebbero questi personaggi sarebbe spesso marginale, ma mi farebbe davvero piacere e mi aiuterebbe a creare una società supereroistica più diversificata (In caso di poteri troppo forti, sarò costretto a modificarli un po'). L'invito è per tutti, quindi non trattenetevi.

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Capitolo 11
*** Un Vortice di Quirk - Parte Seconda: Infection ***


Un Vortice di Quirk - Parte Seconda: Infection


«L’ascensione... È ciò che sperimenterete tra pochi minuti. Siete pregati di indossare i gadget che vi abbiamo fornito. Se non lo farete, non saremo ritenuti responsabili di ciò che vi succederà».

Yunix si allacciò la cintura metallica attorno al corpo, senza incrociare lo sguardo con nessuno dei ragazzi vicini.

«È sicura questa “ascensione”? Non stiamo andando incontro a morte certa, giusto?» domandò il ragazzo dai capelli cerulei ondulati, che quella mattina aveva fatto una domanda a Milia.

Yunix lo guardò di sottecchi. Era piccolo di statura, la schiena leggermente incurvata. Aveva la divisa rossa come gli altri, forse un po’ più vissuta. La sua pelle chiara era ricoperta di strane rughe, alcune delle quali a spirale. Forse era il suo Quirk? Difficile dirlo. Gli occhi color anice erano appena visibili sotto i rigagnoli di capelli. A guardarli bene, il ragazzo non sembrava particolarmente spaventato, stralunato più che altro.

«Non correrete alcun rischio... Infection sarà di fronte ai vostri occhi prima che ve ne accorgiate» rassicurò la voce metallica che proveniva dal computer.

Il ragazzo si morse un labbro screpolato, ma non disse nulla. Quando anche gli ultimi si allacciarono le cinture, la sala si sigillò completamente. Ci fu un leggero ronzio, poi le cinture brillarono di verde. Yunix avvertì il suo corpo più leggero. Era come se una bolla d’aria si stesse gonfiando nel suo stomaco e nelle sue gambe. Si sentì proiettato verso l’alto. Ogni singola vertebra sembrava attratta dal soffitto del cubo di ferro. Un’attrazione quasi magnetica, ma non troppo forte da risultare fastidiosa. Anzi, col senno di poi, era piuttosto piacevole.

«L’acciaio di Temigor lavorato ha proprietà simili a quando è ancora grezzo. È per questo che Infection appare invisibile, nonostante sia sospesa sopra la città di Temigor. Dopo cento anni, l’Arkastro non è solo cresciuto di volume, ma ha iniziato a rifrangere la luce solare, rendendo Infection stessa trasparente» proseguì la voce metallica, mentre i venti passeggeri sperimentavano quella che doveva essere l’ascensione. «Per arrivare a destinazione, dovremo affidarci a un trasporto dello stesso creatore. Non ci sono altri modi sicuri per arrivare a Infection ed è anche il motivo per cui i voli non passano mai direttamente sopra la città di Temigor. Le probabilità di incidente sono del 43,32%».

Yunix si avvicinò a una parete, crogiolandosi della sensazione di leggerezza. Era questo che provavano gli astronauti? No, probabilmente la loro era un’esperienza ben diversa. D’altra parte, loro non stavano fluttuando.

«Siete pregati di non aprire la porta, prima di essere arrivati. Se lo farete, sarete risucchiati nel vuoto».

Una leggera turbolenza sembrò colpire il cubo, tanto da far perdere l’equilibrio a un paio di persone. A un certo punto, le cinture si aprirono e si staccarono automaticamente dai fianchi di ogni persona. La sensazione di leggerezza finì, improvvisamente. Yunix si sentì come se dei pesi lo stessero schiacciando contro il suolo, ma non c’era nulla del genere. Non si era mai accorto di quanto i suoi piedi fossero pesanti, prima di allora. “Sono dei blocchi di cemento... Non riesco nemmeno a muoverli.”

«Buona permanenza!» cinguettò la voce, prima di rimanere in silenzio.

Yunix guardò i compagni. Sembravano scombussolati, proprio come lui. “Siamo arrivati? Non riesco a capire...” Un ragazzo più giovane lo guardò, impaurito. Yunix non sapeva se tranquillizzarlo o meno.

«E ora che facciamo?» domandò una ragazza, con tono brusco.

Fece ondeggiare gli occhi provocatori da un compagno all’altro.

Un ragazzo dalla maschera volpina si avvicinò al computer, in fondo alla stanza.

«Volete che provi ad hackerare questo aggeggio?»

«No», obbiettò qualcuno in fondo al trasporto. Yunix si voltò. Era la ragazza dai capelli rosati, che aveva sentito parlare di fronte al palco. «Apriamo la porta... La voce ha detto “buona permanenza”. Significa che siamo già arrivati».

Fece per andare alla porta.

«E se fosse un test, carina?» chiese un ragazzo muscoloso. Scostò bruscamente un vicino, per avvicinarsi a lei. «Non ci avevi pensato, eh?»

La ragazza lo squadrò dalla testa ai piedi, con sufficienza.

«Ma guarda chi abbiamo qui... Un duro... Sei sicuro di voler partecipare? Non so se c’è posto per quelli come te dove io ho intenzione di diventare un Hero».

Il ragazzo ringhiò e fece per agguantarla, ma lei fece due passi indietro sbadigliando e afferrò la maniglia della porta. Il ragazzo subito si arrestò e coloro che si trovavano alle sue spalle ammutolirono.

«Dimmi una cosa, giusto per capirci bene... Tu temi che questo sia un test, o hai paura che aprendo questa porta potresti essere risucchiato nel vuoto?»

«Vuoi ucciderci, tutti!» bofonchiò incredulo lui, non sapendo come agire.

La ragazza sghignazzò.
«No... Io preferisco gli scontri faccia a faccia. Lascio i trucchetti a chi di dovere».

Sollevò la maniglia.

«Ferma!» gridò il ragazzo lanciandosi in avanti.

La porta si aprì e un riverbero di luce accecò i più vicini alla porta. Il ragazzo che si era gettato in avanti rovinò a terra. Iniziò a respirare affannosamente, le mani a contatto con un piano solido. Aprendo gli occhi, si accorse di essere sopra un pavimento di cristallo.

«Ehi! Terra! Siamo arrivati!»
Iniziò a baciare il terreno, senza pudore.

La ragazza uscì a sua volta, senza degnarlo di uno sguardo e dopo di lei, varcarono la porta tutti gli altri. Yunix fu tra gli ultimi. Grida di sorpresa e stupore dei ragazzi davanti a lui lo colsero alla sprovvista.

“Che hanno da urlare? In fondo, non è altro che una città un po’ particolare”.

Quando uscì a sua volta capì il perché di tanta sorpresa. Pensava di essere pronto a Infection, ma non era così. La vista mozzafiato lo rapì completamente, trasportandolo in un’altra dimensione. Se non fosse stato sicuro di essere lì sul serio, avrebbe tranquillamente creduto di trovarsi in una città di ghiaccio di quelle dei film. Grattacieli congelati nell’acciaio bluastro di Temigor si disperdevano in lungo e in largo attorno a loro. E lo stesso valeva per le strade, che erano simili a fiumi su cui sembrava si potesse pattinare, gli alberi, con le foglie ancora visibili sotto il minerale, i lampioni, le macchine, le case; erano tutti racchiusi in involucri diamantini, splendenti nel chiarore pomeridiano. Palazzi di ghiaccio coronavano le viuzze, tra un complesso e l’altro, e una leggerissima bruma dava all’ambiente un aspetto veramente nordico, ma il vero spettacolo era in alto.

Alzando gli occhi, non si rifletteva in essi la purezza del cielo, bensì un’altra città, e allo stesso tempo la stessa città che vedevano attorno a loro. Era la copia di quella in cui si trovavano, ma ribaltata. O forse loro erano sulla copia. C’era davvero differenza? Le due torri più alte, una in basso ed una in alto, si affiancavano simmetricamente e, benché altissime, non erano per niente vicine. In mezzo a quei due pianeti circolari e lisci, specchi l’uno dell’altro, c’era ciò che veniva definito antigravità, anche se era più giusto parlare di gravità zero, miracolo scientifico di Copy&Paste, stando alle parole del libretto in dotazione. Detriti e altri oggetti di ogni tipo erano sospesi tra le due città: macchine, ponti, asteroidi d’Arkastro, rocce e pezzi di edifici e strade veleggiavano alla luce del sole. Anzi, dei due soli. Forse un’illusione, forse no, ai lati delle città, dove si vedevano nuvole biancastre, c’erano le gigantesche sfere ardenti. Erano speculari e l’intensità della luce era uguale, ma d’altra parte si sa, avrebbe detto Kane, che simil potere non implica simil composizione.

Yunix rimase immobile a contemplare tutto quello, in estasi. Davvero Infection era un miracolo. I compagni con cui era arrivato erano a loro volta immobili, senza parole. Persino la ragazza dai capelli rosa era estasiata. Teneva la faccia, simile al muso di un furetto, fissa nel cielo. Fu lei la prima a spiccicare parola.

«Sapete che ore sono?»

«Se il sole non mi inganna, sono quasi le tre e mezza di pomeriggio» rispose il ragazzo con la maschera da volpe.

Dopo quello scambio, uno dopo l’altro i ragazzi distolsero lo sguardo da quella dimensione magica per guardarsi negli occhi, alla ricerca di qualche segno di cedimento. Il test stava per iniziare e la paura di non farcela iniziò a circolare tra i ragazzi. Il cubo era scomparso, senza che nessuno lo avesse notato. Non fosse stato per le voci di altre persone, dietro gli edifici, i venti lì presenti avrebbero potuto credere di essere i soli su quel pianeta. Passò qualche altro minuto, in cui l’attesa divenne estenuante, per tutti, fuorché Yunix, che non aveva nulla da temere. “Non sono mai stato così tranquillo da quando sono arrivato all’HG... Forse è stata davvero una buona idea accettare questo ruolo...”

Improvvisamente, una voce riverberò in tutta la città, facendo tremare i palazzi arkastrizzati. Era la voce di Milia.

«Che il test abbia inizio!»

Tre fuochi artificiali rossi esplosero nel cielo.

Grida di incoraggiamento, strepiti e rumore di passi scossero la strada. Prima che Yunix se ne rendesse conto, il suo gruppo si era già sfaldato. Ragazzi correvano da ogni parte, schiamazzando, chiamandosi l’un l’altro, rischiando perfino di travolgerlo. Era una corsa ai punti, che il ragazzo avrebbe dovuto prevedere. Si lanciò di lato, evitando un ragazzo che sfrecciava su ruote incastonate nelle caviglie, trattenendo a malapena per le dita il block-notes. Nel fragore, si levò marcata e chiara la voce della ragazza di poco prima.

«Come dovremmo fare a raggiungere l’altro versante?»

Nessuno sembrava intenzionato a risponderle. Yunix si sentì in dovere di parlare. Si schiarì la voce, evitando un altro ragazzo.

«Ehm... Non so.... La mia è solo una supposizione, ma la gravità dovrebbe tipo... diminuire... salendo. Magari... già saltando dalla sommità di quel palazzo si può raggiungere l’antigravità di cui ha parlato l’insegnante...»

La ragazza, coprendosi dal sole con una mano, guardò il fabbricato a cui Yunix si riferiva, sorridendo incuriosita.

«Tanto vale provare, Shiena’q».

Con quelle parole, si lanciò come una scheggia verso l’edificio. Saltò in corsa sulla finestra più bassa e con l’agilità di un gatto prese ad inerpicarsi sul muro. Tendeva le lunghe braccia verso pioli e balaustre, per spingersi più in alto. Incredibilmente, l’Arkastro non le era d’intralcio, anzi l’aiutava a trovare appigli solidi. Alcuni ragazzi, tra cui ovviamente Yunix, si fermarono ad osservarla.

“Ha una tecnica molto efficacie... Spostando tutto il peso da una parte e dall’altra, riesce a muovere l'interezza del corpo all’unisono... Inoltre, si arrampica stando in punta di piedi, per stare in allerta costante” disse a sé stesso, mentre la ragazza dai capelli corti e le gambe asciutte saltava su un balcone più esposto degli altri. “Ma non ce la farebbe, senza quell’agilità. Già... Non ci sono dubbi. Lei è una di quelle che si sono allenate per anni, prima di venire qui. Nessuno riuscirebbe a eseguire quelle mosse in così poco tempo, senza un Quirk adeguato.”

Il palazzo era alto più di cento metri. Nondimeno, bastarono tre minuti alla ragazza per raggiungere il tetto, senza che una sola volta accennasse a cadere. Molti astanti avevano iniziato a incitarla. Qualcuno aveva preso il suo esempio e faticava a compiere i primi salti. Yunix, dal canto suo, si era rannicchiato in un angolo, per scribacchiare qualcosa sulla ragazza. Questa abbassò gli occhi, con un sorriso d’incoraggiamento verso i coraggiosi arrampicatori più in basso.

«Buona fortuna! E grazie per l’idea, chiunque sia stato...»

Detto ciò, guardò in alto, dove fluttuavano i detriti nell’antigravità. Una roccia era a pochissimi metri. La ragazza estrasse un bastoncino dalla tasca della divisa scarlatta e lo gettò in alto. Inizialmente, la stecca di legno s’innalzò con rapidità, poi la sua velocità si arrestò quasi completamente e non cadde da dove si trovava. La ragazza sbuffò soddisfatta. C’era una cassa di legno abbandonata, riversa sul tetto. L’acciaio di Temigor l’aveva parzialmente cristallizzata, ma per fortuna era rimasta separata dal tetto.

«Questa andrà bene» disse, prendendola e lanciandola a sua volta verso l’alto.

“Un ponte...” riflettè Yunix. “Così arriverà alla roccia”.

La ragazza respirò lentamente, pronta a scattare, e prese la rincorsa dalla parte opposta di dove si trovava la pietra. Le grida d’incitamento crebbero d’intensità, mentre la ragazza saltava sulla superficie esposta di un camino, per darsi propulsione e lanciarsi all’indietro, dove c’era la cassa, sospesa nel vuoto. Il piede destro atterrò con un’impercettibile esitazione sul solido e si staccò immediatamente. La cassa fu sospinta verso il basso, ma la ragazza no. Ormai nella gravità zero, iniziò a scivolare verso l’alto, in direzione della roccia. Agitò convulsamente le braccia, ma si adattò in fretta alla mancanza di gravità e arrivò al traguardo finale. Fu sufficiente un tocco per allontanarla dal masso. Yunix trattenne il respiro, mentre quel prodigio di ginnastica eseguiva una capriola a mezz’aria e si spingeva ancora più in alto. Ormai, aveva capito come muoversi. Lesta come una lepre, saltellò da una meteora all’altra, fino a scomparire dietro un’ambulanza cristallizzata.

«SONO PASSATI DIECI MINUTI!»

La voce registrata scosse l’Arkastro, sotto i piedi di Yunix. “Devo muovermi... Anche se non servirà a nulla, devo compiere il mio dovere di esaminatore... L’ho promesso.” Guardando in basso, vide casualmente il suo riflesso. “Ma chi?” Si inginocchiò, toccando la sua effigie in movimento. Occhi riposati, capelli acconciati, come non li vedeva da tempo immemore.

«Wow... Sembro un'altra persona».

Il blocco note gli cadde di mano, finendo sull’asfalto. Yunix spostò torpidamente lo sguardo. “Questo compito... Forse mi aiuterà a crescere. Anche se non dovessi cambiare idea, capisco perché mi abbia dato questa opportunità. E forse... Se la fortuna è dalla mia parte... No. Concentrati su ciò che puoi controllare.” Mostrò i denti al suo corrispettivo e si rialzò con impeto.

«Farò del mio meglio!»

Col blocco note tra le mani, iniziò a correre. Non fu la corsa disperata di quella terribile notte, ma uno scatto di speranza. I primi scontri erano già in corso.

«Fuori dai piedi, piccoletti!»
Un villain dalle fattezze robotiche puntò una mini-gun contro due ragazze, che si guardarono e annuirono.

Una raffica di viti si riversò sulle due che non tardarono a muoversi. La più robusta, dai capelli bianchi e il viso butterato, piegò le ginocchia e un cerchio grigio di energia si disegno attorno alla sua posizione. La seconda saltò sopra le spalle della compagna e unì le braccia.

«Anti.Aerial.Christmas!»

In un brilluccichio di rosso e bianco, le viti si disintegrarono in volo. Yunix filò oltre le spalle del Villain, giusto in tempo per vederlo collassare colpito da un manrovescio della ragazzona. Senza fermarsi, tracciò due righe di testo sulla carta. Non conoscendo i nomi dei ragazzi, doveva per forza ripiegare sui dettagli fisici.

Svoltando ancora, notò che diversi avevano raggiunto la zona di gravità zero. Come tante piccole cavallette, saltellavano tra i detriti, la maggior parte con meno sicurezza della ragazza castana. Ancora una volta, scribacchiò qualcosa. La corsa proseguì. Evitò un lampione che cadeva, per il ritorno di fiamma di un Quirk. Scintille, lampi colorati e grida esplodevano ovunque, oltre agli edifici fuori dalla portata del ragazzo, che muoveva gli occhi, come un cannone a 360° cercando di non perdersi niente.

A un certo punto, si imbatté in una “vecchia” conoscenza. La ragazza altissima dai capelli viola su cui Milia aveva richiamato l’attenzione al discorso pre-test lo oltrepassò, senza dare segni di averlo notato.

«Di qua! Stabiliamo l’area medica vicino al confine orientale di Infection. Chi non ha un ferito sulle spalle sparga la notizia!»

La ragazza aveva un seguito piuttosto grande. Yunix si lasciò superare e annotò le caratteristiche di qualche ragazzo con i feriti in braccio. Si girò a destra con troppa irruenza e urtò uno dei corridori. Entrambi ruzzolarono a terra. Piccole sfere di acciaio rotolarono sull’asfalto ghiacciato. Alcune rimbalzarono un po’ più del dovuto e finirono in crepe ghiacciate. Appartenevano al ragazzo; non c’erano dubbi.

«Scusa! Scusa! Non volevo...» piagnucolò Yunix, mortificato.

«Non è niente» rispose l’altro, rialzandosi. «L’importante è che entrambi diventiamo eroi...»

Gli porse una mano e lo aiutò ad alzarsi.

Yunix si grattò la fronte, sorridendo imbarazzato.
«Grazie...»

Ci mise un po’ a capire le parole che gli aveva rivolto. Non appena capì ciò che intendeva, si affrettò a puntualizzare.

«No, no... Sono solo un esaminatore... Non diventerò un eroe...»

Il ragazzo si accigliò, ma non commentò e anzi gli strinse la mano.

«Ah beh, allora va bene. Fai un buon lavoro, mi raccomando».
Gli sorrise amabilmente, forse impietosito e, raccolte la maggior parte delle sferette in un sacco di cuoio, si allontanò.

“Che gentilezza... Non sembrava innervosito neanche un po’...” Yunix ricordò che aveva un compito e riprese a correre.

Continuò così. Ogni volta che vedeva un gruppo, controllava la loro situazione, per capire se avessero già combattuto un villain o meno. Tracciava un paio di annotazioni e proseguiva. Non si concedeva nemmeno il tempo per riprendere fiato. Quella missione era una sua scelta. E come sua scelta, avrebbe fatto di tutto per portarla a termine, col massimo dell’impegno. Passarono i minuti.

Tra una conversazione frammentata e l’altra, Yunix si stava dipingendo un quadro abbastanza chiaro di come stesse proseguendo il test. A quanto sembrava, stando a quello che aveva detto, tutto trafelato, il ragazzo dalle rughe a spirale, uno dei partecipanti «con il destino dalla sua parte! Dico sul serio...» stava sconfiggendo da solo tutti i villain della zona settentrionale di Temigor inferiore. La ragazza bassissima con gli occhiali di ottone aveva fatto capire, mentre cercava di estrarre un ferito dalle macerie, assieme a un ragazzo pallidissimo dai capelli disseminati di spilli, che la maggior della gente stava andando nella zona superiore, dove c’erano più villain e «là la carneficina si fa viva, ahahah!»

Inoltre, a dirla tutta, la zona medica si era spostata nella zona superiore, sebbene sempre a est. “Auguri a capire dov’è l’est... Hanno dato a tutti una bussola, tranne che a me”. In ogni caso, la ragazzina aveva ragione. Yunix incontrava sempre meno persone e il silenzio stava diventando quasi opprimente. Evidentemente, il sud era stato sguarnito. Ma c’era un problema. C’era sì una zona dedicata al passaggio più semplice da un versante all’altro della città, ma lui ne ignorava totalmente la posizione. Non c’era verso che sarebbe riuscito a saltare nella gravità zero, come aveva fatto la prima ragazza. Anche vagabondando a caso, non era detto che avrebbe trovato la meta, prima della fine del test. Però non poteva fare altro.

Girò l’angolo, ritrovandosi in un quartiere residenziale in costruzione, con gru, ruspe e macchine per lavori, ovviamente sepolte nell’Arkastro. “Pioniera dell’arrampicata, quella tipa. Eppure, a darle l’idea sono stato io...” Abbandonò il pensiero. Se non avesse trovato un escamotage per arrivare nella città ribaltata, sarebbe rimasto a languire lì per il resto del test e il suo lavoro da esaminatore... Beh... Tanti saluti a quel punto. L’idea non gli andava a genio. Non aveva scritto abbastanza e per quanto avesse dubbi sull’utilità di quella missione, si era ripromesso di metterci anima e corpo.

Proseguì, camminando più lentamente. Yunix non si sbagliava. Ormai regnava davvero il silenzio. Aveva un che di piacevole camminare da solo su quel terreno scintillante. I bracci meccanici, le travi, le impalcature, ricoperti d’Arkastro sembravano mostri di tempo immemore, congelati per essere osservati dai visitatori di quel mondo glaciale. Un museo di storia. La storia di un mondo che non sarebbe stato più lo stesso. Non c’erano dubbi. Copy&Paste aveva fatto un ottimo lavoro per farsi ricordare.

Un baluginio attirò la sua attenzione. Con la coda dell’occhio avvistò un arto fasciato tendersi verso di lui...
 


«E a quel punto? Cos’è successo, poi?»

Il bagliore freddo ed accecante lo colse alla sprovvista. Emise un rantolo agghiacciante.

«Le ho chiesto espressamente di non interrompermi per nessun motivo».

Nella sua visuale, il muro bianco, nient’altro. L’individuo che lo aveva interrotto sembrò sorpreso.

«Le porgo le mie scuse, ma io non ricordo che lei abbia mai reagito così, in tutta la sessione. E men che meno ricordo una richiesta di tal genere. È sicuro di ciò che sta dicendo?»

Ora che era stato ridestato, continuò a guardare il muro. Non poteva fare altro, comunque. La saliva impastata nella sua bocca rimestava rabbiosa, in cerca di una vendetta irraggiungibile.

«Non lo so se sono sicuro... Sento il futuro, il presente, il passato, ma non so distinguerli... È una miscela, che non ha direzione, verso e tantomeno un moto. Non posso giurare sull’attendibilità di quello che dico».

Udì il picchiettio di una matita su un tavolo, chiaro come se stesse venendo esercito nel cuore del suo orecchio. La persona che lo produceva sorrideva. Ne era certo.

«Ma almeno si rende conto di cos’è che la sta ostacolando?»

Domande. Domande. Ancora domande.

«Oltre a lei e ai suoi, no.... Non ne ho idea».

L’interlocutore si prese il suo tempo prima di parlare.

«La prego di continuar...»

«Lei ha mai provato il desiderio di suicidarsi?»

Un silenzio ostinato seguì quelle parole.

«No».

“Certo che no”. Dal momento in cui si era svegliato conosceva meglio i pensieri di quell’uomo che i suoi stessi.

«Non ne dubitavo. Ma ora immagini che questo sia sempre stato il suo desiderio da quando è arrivato qui...»

La figura alle sue spalle agitò le gambe, a disagio.
«Non è tenuto a darci queste informazioni. La prego di continuare».

«È lei che mi ha interrotto».

L’uomo sembrò accennare a un risolino, ma si trattenne.

«Dice? Pensavo fossimo d’accordo sul fatto che è stato ostacolato da qualcun altro».

Parlare con il muro sarebbe stato più remunerativo.

«Allora mi dica quel nome...»

«Non sono tenuto a rivelarglielo».

«Come pensavo...»

Fissò il muro bianco, in silenzio, cercando una crepa, uno squarcio, una via di fuga, anche se piccola, come la tana di un topo, ma quella parete era perfetta nel vero senso del termine. Rimanere zitto era proprio una soddisfazione. Sentiva la brama dell’essere fin sotto i piedi. Voleva che parlasse. Che parlasse ancora e lui glielo stava negando. Chi dei due avrebbe desistito prima? Non lui, che guardava il muro, non finché avesse avuto gli occhi per osservarlo. D’altra parte, era meglio che pensare.

Sentì l’uomo ribollire alle sue spalle. I suoi pensieri ora? Non voglio parlargli. Certo che non voleva... Avrebbe perso la sua posizione di vantaggio, la sua credibilità. E sarebbe stato costretto a dire ciò che il suo paziente tanto desiderava sapere. Gli venne da ridere.

“Grazie mille, God Complex”.

«Ma insomma... Sono i suoi ricordi quelli che deve far tornare alla luce!»

Il paziente sorrise al muro, il più pienamente possibile.

«Ma è serio, signore? Pensavo di essere io quello che diceva infondatezze e invece ora i ruoli si sono ribaltati. Questa... Questa che le racconto non è la mia vita. È la felice vita di Yunix Braviery...»

Non aveva bisogno di vedere l’uomo per capire cosa stesse facendo. Stava arricciando il naso, con freddezza.

«Felice? Ma non ha nulla di felice la sua vita...»

«Dice?» domandò, imitando l’uomo alle sue spalle. «Eppure, mi sembra che la felicità non sia qualcosa di catalogabile così facilmente, o mi sbaglio? O mi sbaglio? O mi sbaglio?»

L’uomo era stanco. Lo capì dalla fermezza con cui le sue dita premevano sul legno, lo sentiva dallo sbattere ripetuto delle ciglia, dal veemente respiro, che sembrava ardere sul suo collo. Era stanco e la cosa non avrebbe potuto rendere lui, che guardava la parete, più contento.

«Allora? Mi vuole dare una risposta?»

L’uomo sbatté le palpebre tre volte di seguito, poi parlò.
«Copy&Paste... È lui che ti ostacola. Evidentemente, parlare della sua città, ne ha risvegliato lo spirito. Non mi chiedere perché o come...»

Il destinatario di quelle parole così affaticate non fu nemmeno sorpreso.

«Era tanto difficile da dire?»

Nessuna risposta. Non se ne aspettava una. Riprese la sua contemplazione del muro. Ormai si stava abituando alla luce stressante. Capì che l’uomo stava per tornare all’attacco e non si sbagliò.

«La prego di proseguire...»

Sapeva che gli avrebbe chiesto quello e non tardò ad accontentarlo. “Sì meglio che prosegua...”

«Va bene. Io vado avanti... Vediamo un po’... Che succede dopo? Ah... Sì...» Era difficile avventurarsi in quell’oceano sconosciuto, ma per morire avrebbe dovuto dirgli tutto e poi chissà... Un’immagine solitaria brillò nelle sinapsi. «C’è un ragazzo. Un ragazzo con una stella in testa... Dovrebbe essere importante...»

«Importante?» La voce dell’uomo apparve deformata, tanto da farlo ammutolire. Non sentiva più la sua presenza dietro di sé. «Ma importante per chi esattamente? Sei sicuro... Che tutto questo stia davvero accadendo?»

Un turbinio di ali nere sfondò il muro bianco, gettando tutto quanto nelle tenebre.



Note d'Autore:
Capitolo corto, stavolta. Relativamente. La sezione finale? Tutto a tempo debito. Settimana prossima: ultima parte di "Un Vortice di Quirk". Le recensioni sono sempre apprezzate ^^ ARRIVEDERCI!

P.S. Per i capitoli futuri mi servirebbero Hero e Villain "generici". Se qualcuno volesse vedere un personaggio originale da lui creato nella mia storia, è sufficiente che mi scriva, in privato o come recensione, più o meno dettagliatamente le caratteristiche di questo eroe/villain e soprattutto il suo Quirk. Ovviamente, il ruolo che ricoprirebbero questi personaggi sarebbe spesso marginale, ma mi farebbe davvero piacere e mi aiuterebbe a creare una società supereroistica più diversificata (In caso di poteri troppo forti, sarò costretto a modificarli un po'). L'invito è per tutti, quindi non trattenetevi.

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Capitolo 12
*** Un Vortice di Quirk - Parte Terza: Stelle, Acqua e Foglie ***


Un vortice di Quirk - Parte Terza: Stelle, Acqua e Foglie



Ore 16:35 – Infection, zona meridionale superiore...

«Ahrima? Sei pronto?»

«Ancora un po’. Non dobbiamo dare troppo nell’occhio. Aspetterò che Lui sia vicino...»

«Ah okay okkay, ma... Armday non si è ancora fatto vedere... Sei proprio certo che agiscerà al momento giusto?»

«È un problema suo, se non dovesse agire al momento giusto, testa di rapa... Almeno hai sentito le istruzioni che ci ha dato?»

«Meglio di te, senza dubbio».

Ahrima guardò il viso del compagno, sperando di aver sentito male.

«Ma lo sai che potrei ucciderti in qualunque momento?»

Il villain sorrise come un ebete. «Dopo il tuo desiderio non si avvera, se lo fai».

«Hai proprio una bella faccia da schiaffi, Kurd... Oltre che il lessico di un ornitorinco... Lo sai cos’è questa?» Sollevò l’immagine che aveva ottenuto con grande fatica. Come si aspettava, il villain gli saltò praticamente in braccio per vederla, come un bambino impaziente di scartare i regali di Natale. Represse un’ondata di repulsione per il contatto con quell’essere e continuò. «Lui è il nostro obbiettivo. Ficcatelo in quel coso che osi chiamare cervello...»

L’immagine era una foto sbiadita di uno strano spirito fatuo, con corna d’ariete e vispi occhi verdi... La foto era mossa, ma sarebbe stata più che sufficiente.

«Chi è?» domandò Kurd, incuriosito. «Perché lo chiamano tutti Lui?»

«Costui, carissimo compagno... è Fen Yang, 64 anni. Non si vogliono far circolare le sue informazioni, per ovvi motivi, ma io non sono mica stato un detective per caso... Cerca, cerca, ho scoperto il suo nome, il suo potere e soprattutto ho ottenuto questa foto, unica al mondo, di cui quasi nessuno è a conoscenza...»

Kurd sghignazzò, strofinandosi le mani. «Bravo, bravo, Ahrima!»

Questi si lasciò andare a un lievissimo sorriso. «In questo momento non è vicino, ma appena lo sarà lo saprò e saremo pronti ad agire...»

«Ehi!» lo interruppe il villain. «Non mi hai spiegato nulla del suo potere...»

Ahrima posizionò l’immagine sulla sommità della maschera che aveva in cima alla testa, cercando di non scompigliare i corti capelli celesti.

«Ti basti sapere che è la ragione per cui nessuno è mai scappato e nessuno si è mai fatto del male, nei test d’ingresso... Senza di lui, questo posto è fottutamente privo di protezione e Armday lo sa bene».

Kurd si sfregò nuovamente le mani. «Se parli così mi esulti. Dimmi di più, dai!»

«Mi esalti» lo corresse Ahrima, rabbonito dai complimenti che gli erano stati rivolti. «Bando alle ciance, testa di rapa. È quasi ora».

Una nuvola oscurò momentaneamente uno dei due soli e Ahrima si coprì le spalle con il mantello. Aria di guerra. La preferita di Armday. Riponeva la sua fiducia in quell’uomo. Se non fosse venuto a prenderli, era pronto. Non sarebbe stata la prima volta che uccideva. Conosceva bene il rampognare mortale e a lungo andare ne era diventato immune. Si rivolse a Kurd, cercando di mantenere il tono il più neutro possibile.

«Ti dico solo questo, compagno. Io e Armday saremo anche i pilastri del piano, ma senza di te tutta questa preparazione sarà inutile. Non farò giri di parole. Non sei esattamente la persona più affidabile che conosca, ma hai il Quirk perfetto per garantirci la vittoria». Mise una mano sulla spalla di Kurd, che sembrava intimidito dai suoi occhi ottenebrati. «Non deludermi, ok?»

Il villain con il casco metallico guardò l’altro versante di Infection e alzò una mano, come se volesse afferrare le case tra le dita squarciate.

«Sono in prigione da più tempo di entrambi voi. Pensi che fallirei in un giorno così importante?»

I due si guardarono con intensità. Nella zona buia del vicolo in cui erano rintanati, sembravano loro stessi due ombre, pronte a svanire al primo raggio di sole. Soldati di una guerra che non importava a nessuno. Soldati destinati a un futuro tenebroso. Soldati isolati, uniti da un unico obbiettivo. Kurd porse la mano ad Ahrima che la strinse con forza.

«Andiamo!»

 

Ore 16:35 – Infection, zona occidentale inferiore...

Yunix Braviery raccolse un mucchio di ghiaia da terra. Era friabile al tocco, come se fosse stata smussata e levigata da cercatori d’oro di tempi dimenticati. Sicuramente la causa di quelle caratteristiche era il minerale blu. L’Arkastro aveva tramutato i sassolini in tante gemme preziose, che certo non erano una fortuna, ma a occhio e croce avrebbero potuto valere perlomeno qualche centinaio di yen, grazie alla proprietà estensiva del minerale.

Il solo vedere le dita tremare sotto i sassolini lo riportava alla realtà. No. Pensare ad altro non lo aiutava. Non c’era nulla che potesse scogliere il groppo che sentiva in gola. Mancavano a malapena cinquanta minuti alla fine del test e non c’era modo che potesse arrivare dall’altro lato della città, prima del segnale di arresto. Aveva perso ogni speranza di raggiungerlo in tempo.
Si sedette su una roccia. Era al centro di una zona di scavi di circa quaranta metri quadrati. C’era ancora la terra in quel luogo, come se l’operazione di lavoro fosse stata eseguita in tempi più recenti. Questo avrebbe spiegato il perché dei rimorchi colmi d’Arkastro dei camion poco sopra il cantiere.

“Se fossi il sindaco porterei qui centinaia di minatori a distruggere tutto. Con tutto l’Arkastro che potrebbero ricavare, non ci sarebbe più la povertà che ho trovato in quei villaggi condannati...” Guardò per terra e scosse la testa. “No... Che pensiero stupido... Come se l’Arkastro lavorato possa essere estratto con facilità...”

Yunix l’aveva notato, osservando uno scontro, non molto tempo addietro. Un ragazzo aveva colpito con un pugno devastante un muro. L’acciaio di Temigor non si era semplicemente frammentato: si era letteralmente sbriciolato e da esso era sorta una nebbiolina fumosa, che era subito evaporata nel giogo dell’aria. Da quello aveva compreso che l’Arkastro pronto alla vendita, sebbene con caratteristiche simili a quello grezzo, non era protetto dall’atmosfera cupa delle cave. In particolare, quello attorno attorno a lui era vetro vecchio centinaia di anni, esposto alla costante luce del sole. La stessa proprietà di estensione doveva comportare un aumento della fragilità e inconsistenza delle componenti interne di quelle vene preziose. O se non altro era la sua idea. Nulla veniva dato per niente. Uno scambio equivalente...

Un vociare intenso lo strappò dal suo raccoglimento spirituale. Yunix si fece subito da parte, mentre cinque o sei persone si gettavano a spron battuto nella conca che formava l’area di scavi. Alla testa del gruppo, con l’aria di volere semplicemente lasciarsi cadere a terra per lo sfinimento, c’era il ragazzo con la stella di stoffa in testa che aveva vinto il bracciale, all’inizio del test. Era il più alto della combriccola. Grandi occhi verdi coronavano un viso lentigginoso e madido di sudore. Il ragazzo aveva spesse sopracciglia castano-zenzero e dello stesso colore erano i capelli, tenuti in una coda da un elastico viola. Aveva la stazza di un calciatore molto allenato, ma sembrava tutto fuorché in forma.
Yunix fece un cenno di saluto, a cuor leggero, ma nessuno gli prestò la benché minima attenzione. Sembravano diretti verso un punto ben preciso della depressione, il centro.

«Una mappa, Chooki! Non sai leggere una mappa! Ma pensa un po’ questo! Ma lo sai che stai rischiando di farci fallire tutti quanti!? ALMENO TE NE RENDI CONTO?»

A strillare al ragazzo dagli occhi verdi era una ragazzetta poco più alta di Yunix, il quale ne fu colpito per il colore dei capelli, di un blu oceano vivissimo. Era leggermente più abbronzata dei compagni, come se fosse solita stare al sole spesso. Aveva guance arrossate, dagli zigomi pronunciati e una spessa fronte imperlata di sudore. Tre perle azzurre erano accodate sulla sua sommità a fungere da linea divisoria per i capelli corti intrecciati, simili a filamenti d’alghe. Era piccola, impacciata nei movimenti, ma decisa nell’incedere. Faceva dardeggiare gli occhi del colore della cioccolata calda in tutte le direzioni, animata di una tenacia rabbiosa, che Yunix aveva visto solo sul viso di Arkendel. Ma ora la sua attenzione era concentrata sul ragazzo della stella.

«Scusate, scusate davvero, io... Sono un disastro... Vi avevo detto di non seguirmi... Ma ti assicuro, Marin, che questo è il posto giusto...»

La voce del ragazzo era così straziante che Yunix si sentì davvero in pena per lui. Evidentemente, non fu lo stesso per la ragazzina, che afferrò la divisa del ragazzo che doveva essere Chooki.

«Ti conviene che sia così, per il tuo bene! Io non sono sciacquetta-girl di “Meryll e il pappagallo” e non dimentico!» La voce era imperiosa e aspra, priva di ogni vena di pietà.

«Dici che i feriti sono qui? In questo cantiere?» domandò un altro ragazzo, guardandosi attorno.

Yunix lo riconobbe come uno dei due ragazzi con i vestiti simmetrici che aveva avvistato all’entrata dell’Accademia, tra i vari partecipanti. Dovevano essere gemelli, probabilmente. Lo aveva dedotto dalla loro fervida somiglianza. C’era anche l’altro in effetti. A quanto pareva, sprezzanti delle regole, avevano mantenuto i loro vestiti, che ricordavano uniformi da combattimento ninja ampiamente modificate, in modo da lasciare scoperta buona parte degli arti e del viso. Sul petto c’erano frasi in lingua cinese, intagliate nel cuoio, incomprensibili a Yunix, che conosceva solo qualche parola. Entrambi tenevano due stretti lacci per capelli vermigli in testa, di poco sopra gli occhi, forse nel tentativo di dominare le affilate chiome di capelli neri. In quello che aveva parlato, il tessuto tendeva verso l’occhio sinistro, lasciando libero il destro. Nell’altro era il contrario. Tra i due non c’era che una lievissima differenza in altezza... di un centimetro, a dir tanto.

Chooki sospirò, tra le lacrime. «Vi assicuro di sì... Tre feriti. Non uno di più, non uno di meno...»

Marin batté il piede sul terreno, come uno stallone.

«Tre non bastano... Non abbiamo ancora fatto niente. Non so se è chiaro... E indovina di chi è la colpa!»

Chooki si lasciò a cadere a terra, nella polvere.

«Scusatemi davvero. Non avrei mai voluto...»

«Basta così» ordinò il gemello più alto, con voce ferma.

Il quinto della compagnia, munito di vistosi capelli brillanti, notò Yunix.

«Ehi! E se chiedessimo a quello se ha visto qualcuno?»

Preso in causa, il ragazzo deglutì e si fece avanti. Non gli piaceva quando troppe persone lo guardavano.

«Ma cosa vuoi che abbia visto?» intervenne Marin, guardandolo scocciata. «Non mi sembra molto sveglio».

«Ehm... in realtà sono solo un esaminatore...»

Marin passò dal dubbio allo scetticismo, come dalla bassa marea all’alta marea. «Tu? Ma mi prendi in giro? Con quella faccia da ebete e gli occhietti da intellettualone? Non penso proprio che abbiano bisogno di esaminatori... quelli dell’HG...»

Yunix fu quasi per darle ragione, quando il gemello più loquace, l’unico che aveva parlato finora riportò l’attenzione dei ragazzi sul test.

«Non ha importanza ora... Dobbiamo ottenere punti e al più presto. Ispezionate la zona. Sekiro, seguimi».

L’altro gemello, taciturno come una poiana, scoccò uno sguardo tetro a Yunix, poi seguì il fratello verso un lato del cantiere. Il ragazzo dai capelli fosforescenti e Marin si allontanarono, ognuno per la sua strada, quest’ultima non senza un’imprecazione tale che avrebbe potuto far accorrere l’interezza del comitato parrocchiale di Temigor per tapparle la bocca, presumibilmente. Yunix rimase fermo con Chooki, a terra, che guardava in basso, senza muoversi. La stella di stoffa sembrava afflosciata sulla fronte, come se sentisse l’infelicità del suo portatore.

Si asciugò gli occhi con un braccio e guardò Yunix. «Sai com’è che mi chiamavano nel mio paese?» La sua voce era stranamente profonda ora che parlava con tono ovattato.
Il ragazzo dai capelli grigi si sedette di fianco a lui e scosse la testa.

Il miserevole giovane dagli occhi verdi si circondò le ginocchia con le mani. «Tahti... Era un continuo. Tahti, Tahti! Vieni a giocare, Tahti! Tu sei Tahti. Non smetti mai di brillare». Chooki sorrise, triste. «C’era freddo nel mio paese. La notte veniva presto e presto sorgeva il sole. Non potevamo far altro che guardare le stelle, di notte. C’era poco inquinamento là. Kylla. Si vedevano bene le stelle. Ironicamente, non le chiamavamo Tähteä, la loro corretta denominazione. Quello era un nome riservato a me, perché ero sempre fortunato, sempre primo in ogni sport, in ogni gara, in ogni cosa. Io ero la stella lucente, la stella guida, ykkönen, il numero uno».

Yunix guardò l’Arkastro degli edifici sopra di loro. Chissà che reazione avevano alla luce delle stelle.

«Ormai nessuno mi chiama più Tahti. Ed è giusto... È giusto che tutto, anche le cose belle abbiano una fine».
Chooki guardò il ragazzo a fianco, in cerca di un conforto.

Yunix tracciò la sagoma di una stella sulla polvere.

«Sai, Tahti... Qualcuno una volta mi ha detto di non cercare la pietà nelle persone. Sai com’è... Non puoi mai sapere con certezza che non abbiano problemi persino peggiori dei tuoi...» Yunix sentì la lieve brezza di Infection accarezzargli il viso. Sperò con tutto il cuore che si portasse via anche lui.

Chooki era smarrito. Fece per parlare, ma Yunix lo anticipò. Non voleva accennare alla sua situazione in un momento simile.

«Per fortuna, questa volta hai chiesto aiuto alla persona giusta, con la vita felice» mentì, con un sorrisetto. «Non ti abbattere per non essere più quello che eri un tempo... Se solo...»

«Potrebbe essere qui!» Un sesto ragazzo dalle braccia cascanti, che Yunix prima non aveva notato, richiamò l’attenzione dei compagni.

Chooki si rizzò in piedi, con la velocità di accensione di un motore a scoppio e si affrettò verso gli altri. Yunix lo seguì a malincuore, chiedendosi se avesse capito ciò che voleva dirgli. Ma in fondo, non erano problemi suoi. Il gruppo si era radunato di fronte a un anfratto. Colui che lo aveva trovato indicò l’apertura.

«Non si vede niente, ma se Chooki dice il vero, i feriti non possono essere che qui».

I gemelli annuirono, quasi sincronicamente. Yunix notò solo ora un aspetto macabro che gli era sfuggito, a una prima occhiata. Ambedue, quello più alto nel braccio destro, l’altro in quello sinistro, avevano letteralmente fuse al corpo catene color dell’ebano, arrotolate attorno al corpo, con alla sommità delle punte di falce, acuminate come il più affilato dei pugnali. Era il loro Quirk? Sì, questa volta non c’erano dubbi. Il gemello più alto guardò la combriccola.

«Samuel ha ragione. I feriti non possono essere che qui... Dovremo farci largo al buio, a questo punto».

Nessuno sembrava allettato a quell’idea.

«O forse no...» mormorò Chooki, una leggera incurvatura sulle labbra.

«Cosa pensi di fare?» Chiese Yunix, senza lasciar trapelare alcuna emozione.

Marin gli mollò un ceffone. «Se sei un esaminatore, fai il tuo lavoro di bassa manovalanza e prendi quegli appunti. Non che abbia fiducia in Chooki, comunque».

Il ragazzo con la stella in testa non replicò, ma si avvicinò silenziosamente a un tubo di ferro con la sommità incastonata nella roccia. Sekiro, il gemello più basso, toccò i margini della cavità.

«L’apertura è di 84 cm di larghezza e almeno due metri di altezza. Possono passare solo due persone alla volta. E sappiamo tutti che nessuno vuole andare per primo, perciò...» La sua voce era sommessa, persino più bassa di quella del fratello. «Sakuro, è rimasta solo una cosa da fare...» L’ansia crebbe negli spettatori. Persino Marin sembrava turbata dalle parole del giovane. Questi estrasse dalla tasca qualcosa e la sollevò, tenendola chiusa tra le mani. «Dovremo... Tirare a sorte».

Sekiro aprì la mano, rivelando cinque stecche di diversa lunghezza. Lo aveva detto col tono più serio che Yunix avesse mai sentito. Marin si mise le mani di fronte la bocca e cercò di soffocare una risata, ma infine non resistette e scoppiò. Il gemello la guardò senza capire, poi fece spallucce e chiuse il pugno. Uno alla volta, tutti tranne Chooki pescarono un bastoncino. Marin riuscì a malapena a trattenere il riso, prendendo il suo, dal ragazzo stoico. Fu la più fortunata, per altro. Aveva pescato quello più lungo. I due gemelli avevano preso due stecche di lunghezza media, mentre erano stati gli altri due ragazzi gli sfortunati.

«Molto bene...» Il ragazzo dai capelli luminescenti era contrariato. «Ciò non toglie che non abbiamo la luce...»

«N-, n-. Sì che ce l’avete».

Chooki teneva stretto tra le dita il tubo di ferro esposto, che aveva cominciato a brillare di una luce tenue, man mano sempre più intensa.

«Wow!» si lasciò scappare Marin.

«Ottimo lavoro, Chooki» disse Sakuro, le braccia incrociate. Aveva uno sguardo torvo, ma anche incoraggiante. «Sbrighiamoci. Non manca molto alla fine del test...»

Yunix notò lo sconforto dei presenti a quelle parole. Quei ragazzi non avevano ancora fatto un punto. Certo, non erano gli unici, ma per conquistare un posto avrebbero dovuto fare scintille negli ultimi quarantacinque minuti del test d’ingresso. E non sarebbe stato facile. Chooki si fece da parte, mostrando l’anfratto illuminarsi pian piano, come le lucciole in una serata estiva.

«Questo è il mio Quirk. Kylla. “Illumination”».

Chooki Mason; Quirk: Illuminazione. Toccando un oggetto o una persona può farla brillare di luce propria. Mantenendo il contatto, la luce acquisisce energia, fino a diventare quasi insostenibile.

«Mmm» Marin guardò a sinistra e a destra, come in cerca di qualche inspirazione. «Mettiamola così, Chooki. Alle volte potresti essere anche utile. Rimaniamo a un livello basso comunque. Tipo tra Corbeth di “Scuola-Lancia” e Tristan di “Il Tramonto delle Carte”. Anzi no, dai... Almeno Corbeth sa ricamare. Tu probabilmente ti annoderesti le mani da solo. Per alzare un po’ il rant dovrai impegnarti un attimo di più. Dammi qualche secondo per pensare...»

Solo Chooki e Yunix stavano ascoltando la ragazza. Poco più avanti, la missione di salvataggio era iniziata.

«Mi raccomando. Fate attenzione...» disse Sakuro, aiutando i due a entrare nel varco. «Se qualcosa va storto...»

«Tranquillo. Con questa luce, non c’è nulla di cui aver timore» ribatté il ragazzo dalle braccia cascanti, sicuro di sé.

«Come si chiamano le armi che portate?» Stava chiedendo Marin a Sekiro.

«Kurisagama» rispose lui, accarezzando la catena. «Un’arma letale a media distanza... Mi alleno con questa bellezza da quando avevo due anni».

«Che allegria» esclamò la ragazza, sarcastica.

Yunix sorrise, chino sul block-notes.
“Illuminazione. Un Quirk trascurato. Perfetto in situazioni di questo tipo. Un Hero di supporto come Chooki sarebbe utilissimo. Ha un potenziale esplosivo e se coltivassero le sue abilità, non dubito che arriverebbe in alto...”

«Ehi tu...» lo apostrofò Marin. «Ti va di dirmi il tuo nome o devo chiamarti esaminatore per il resto della giornata?»  La ragazza era imbronciata e contrita, atteggiamento che sembrava avere spesso.

«Io? Mi chiamo Yunix...»

La ragazza sbuffò. «Yunix, che nome artificioso...»

«“Con te?”» domandò Chooki, a fatica, senza staccare le mani dal tubo.

Yunix si volse verso di lui, stupito.

«Conosci il significato del mio nome?»

«Sì», disse il ragazzo dai capelli color zenzero. «Ho studiato un po’ di cinese a scuola... Nel mio paese è una lingua molto di moda».

Il chiacchiericcio fu interrotto dal richiamo di uno dei due ragazzi, che avevano varcato la cavità.

«Sakuro! Credo di aver visto qualcuno...»
«Sì, ci sono dei feriti».

Chooki lanciò un'occhiata raggiante ai gemelli, che annuirono, soddisfatti.

Marin diede un pugno al tubo di ferro, scontrosa.

«Prova a chiedere se hanno bisogno d’aiuto, idiota».

Nella luce, ancora soffusa, sagome a terra gemevano lamentose. Ma fu qualcos’altro a mettere sull’attenti i ragazzi. Una delle figure era in piedi, semi-nascosta dalle pareti della fenditura. Il ragazzo dai capelli luminescenti deglutì e fece un passo indietro.

«Quanti dovevano essere i feriti, secondo il display?» La vena di paura nella voce era distintamente percepibile.

«Tre» disse Sekiro con voce piatta.

«Allora abbiamo un problema» sussurrò quello con le braccia cascanti.

«Per la gloria di Atlantide!» strepitò Marin. «Uscite da lì, subito».

«Q... Qual è il problema?» domandò Chooki, che faceva sempre più fatica a tenere la mano sul tubo. Il suo viso sollevato era diventato una maschera di preoccupazione.

«Ma non lo capisci, Capitan Finlandia? C’è un villain lì dentro...» lo rimbrottò la ragazza, tirandosi giù le maniche.

I due ragazzi all’interno fecero un paio di passi indietro. La figura oscura uscì allo scoperto, muggendo di furore.

«Eroi nella prima posizione! È tempo mio di battere!» Il villain aveva una maschera bianca con fori per respirare, che rendeva impossibile vedere la sua faccia.

«Chooki, fammi passare!» urlò Sakuro, l’agitazione nella voce.

«Non posso. Se lascio andare la presa su questo tubo, piomberanno entrambi nell’oscurità».

I due ragazzi si arrestarono, mentre il Villain faceva un passo dopo l’altro, facendo strusciare le spalle contro la parete.

«Ma in fondo, è solo un villain. Se ci coordiniamo, possiamo abbatterlo».

Il ragazzo dai capelli fosforescenti annuì. «Subito! Usiamo l’effetto sorpresa... Vai!»

I due si lanciarono in avanti, abbandonata ogni precauzione.

«Fermi! Ma che cazzo fate?!» gridò Marin, ancora all’esterno.

«Un attacco preventivo. Non certo un problema per grande battitore!»

Il villain evocò una mazza da baseball eterea e affrontò gli avversari, che avevano difficoltà a colpire in quello spazio stretto. Fu una fine anti-climatica. Yunix guardò senza espressione la mazza colpire il ragazzo dai capelli luminosi e mandarlo a sbattere contro il muro. Lo stesso accadde a quello dalle braccia cascanti, che venne colpito al ventre e giacque a terra, svenuto. E la cosa peggiore era che l’arma sembrava più vivida ora, come se fosse accresciuta in potenza. Il villain era ormai a pochi metri da Chooki. Yunix e Marin vennero bruscamente allontanati da Sekiro, mentre il gemello più alto si sforzava di convincere il ragazzo aggrappato al tubo di ferro a mollare la presa.

«Forza. Dobbiamo allontanarci... Quei due hanno perso, ormai».

Chooki lo guardò, senza battere ciglio. «E quindi? Vuoi perdere anche tu? Se non facciamo punti ora, possiamo scordarci l’ammissione... E non ho intenzione di farlo!»

«Ma dobbiamo affrontarlo fuori! Qui dentro è in vantaggio... Molla la presa!»

Il ragazzo con la stella non stava più solo stringendo il tubo. Con tutta la forza che aveva, sembrava che stesse cercando di estrarlo dalla terra smossa. Sakuro guardò le mani di Chooki.

«Ma tu... Tu...»

Yunix strinse i denti. Non poteva fare nulla. Solo annotare...

Il ragazzo dai capelli color zenzero sorrideva, stringendo i denti.

«Se pensi che mollare la presa sia la scelta migliore, allora lo farò senza pensarci due volte... Kylla, ma sono pur sempre il vostro leader, no?»

Il gemello vide la determinazione sul suo volto e sembrò indeciso. «Ma le tue mani...»

Chooki fece segno di fare silenzio.

«Cosa importa di più? Un paio di scottature? O il nostro futuro in quella scuola? Vi prego. Fornitemi un po’ di tempo... Fatelo e non vi deluderò! Se non faremo come dico, il Villain non uscirà mai da lì sotto...»

Sakuro chiuse gli occhi e li riaprì, assumendo il cipiglio deciso di un falco.

«Sekiro... Blocchiamo l’entrata!»

Il villain aveva preso a divorare gli ultimi metri della galleria. Chooki si fece da parte il tanto che bastava, mentre i gemelli si posizionavano a destra e a sinistra dell’entrata.

«È una pazzia! Lasciate che lo sconfigga qui ed ora!» esclamò Marin, esasperata.

Yunix rimase in silenzio, godendosi la scena. Il battitore era a un passo dal varco. Non voleva uscire. Solo colpire chi era a portata e tornare nel suo covo. “In questo modo... Finché starà dentro quell’anfratto... Non potranno vincere! Un’ottima strategia. Quel villain è tutto fuorché uno stupido.”

«Ora!»
I due gemelli lanciarono i Kurisagama ai due lati del varco, conficcando le falci nella terra smossa. L’entrata era ora bloccata dalle due catene. Il villain vi finì contro e per qualche miracolo le falci rimasero infisse nelle pareti. La carica dell’uomo era stata interrotta.

«Tattiche difensive? Ma non c’è alcuna palla da prendere al volo! In altre parole, non c’è cambio! Mia mazza diventa più forte man mano che mette a segno i colpi...»

Chooki non la smetteva di strattonare il tubo, gemendo per lo sforzo. Yunix lo osservò ammirato. “Forse ho capito cosa ha in mente, tuttavia...” Il villain mulinò la mazza verso la barriera di catene, spazzandola via. Sekiro venne sbalzato lontano, a causa dello spostamento d’aria. Sakuro riuscì in qualche modo a mantenere la posizione e afferrò Chooki per un braccio. In un impeto di collaborazione fraterna fra sconosciuti, i due si misero a tirare all’unisono il tubo.
Il villain rise, varcando l’uscita.

«Giovani eroi... Non imparerete mai!» gongolò, sollevando la mazza, per colpire i due. Era rimasto al riparo, a due passi dalla sua tana.

Marin si lanciò in avanti, disperata.

«Non potete perdere stupidi! Sennò perderò anch’io!»

Chooki smosse il terriccio con il piede, dando un ultimo decisivo strattone. Il tubo venne estratto nella sua completezza. Fu una vera e propria esplosione di luce quella che riempì il cantiere. Era di una tale potenza, che persino Yunix, il più lontano, sentì la retina bruciare. Altro che raggi ultravioletti... Lo spettro dei colori si era completamente mischiato dipingendo il mondo di bianco. Ma i suoni... Quelli c’erano ancora.

Sekiro e Sakuro riuscirono in qualche modo a schermarsi, dietro il corpo di Chooki, mentre Marin, il Villain e lo stesso utilizzatore di Illumination furono investiti in pieno. Quest’ultimo però sembrò soddisfatto.

«Prova a colpirmi ora, Villain!»

La luce si disperse, permettendo ai gemelli, non accecati, di gettarsi ai lati, lontano dalla portata dell’arma eterea.

«Chooki... Lo sai che può sentirti vero?» ringhiò Marin, barcollando.

«Infatti è così... Strike per te, tizio luminoso».

Il villain menò un colpo alla ceca, verso dove si trovava la voce del ragazzo. Un suono sordo risuonò nell’avvallamento.

«Colpito! Ed è fuori gioco!»

«Sì, hai colpito il tubo di ferro...» replicò Chooki, a pochi metri dal villain.

Questi aprì gli occhi e lo stesso fece Yunix. Il ragazzo dalla stella in testa ansimava, in piedi di fronte all’avversario. Tra i due c’era il tubo di ferro, la cui luce si stava affievolendo.

«Nonostante le mie precauzioni, mi hai quasi mandato al tappeto...» continuò il ragazzo, guardando il battitore.

Questi sollevò la mazza e sorrise. «Non male, ragazzo! Hai evitato me una volta, ma ora...»

«...ora sei un topo, fuori dal nascondiglio!» ribatté Chooki.

Era sfinito, ma trionfante. Il Villain si guardò attorno.

«No!» gridò, mettendosi le mani tra i capelli.

Yunix comprese subito cosa lo aveva fatto agghiacciare. L’uomo non era per nulla vicino all’anfratto, dove era al sicuro. Si era spostato di diversi metri a destra. Ed era circondato. Sakuro e Sekiro avevano bloccato nuovamente l’entrata del cunicolo, ma questa volta avevano il pieno controllo. E Marin si stava già scrocchiando il collo, neanche avesse già vinto. Era di fronte al Villain, a impedirgli un'eventuale fuga verso il centro del cantiere.

“Come pensavo... Chooki non voleva accecarlo per sconfiggerlo. La sua illuminazione è più efficace sulle superfici che non tocca direttamente; perciò, ha puntato su una grande esplosione di fotoni per vedere se il Villain si sarebbe lasciato ingannare dal suo stesso ego e avrebbe inconsciamente lasciato la sua zona franca per colpirlo... Geniale. È davvero un ottimo leader... Ora resta da vedere come faranno a fermarlo”.

Il villain sogghignò gioviale ai quattro ragazzi.

«Bella prova, tutti quanti. Urge cambio, sì! Ma prima... Porterò a termine il lavoro!»

Con uno scatto improvviso si lanciò verso Chooki, che era il più vicino.

Il tempo sembrò rallentare per il ragazzo. Non urlò, non si mosse, non accennò nemmeno a farlo. Doveva pensare prima, ragionare, altrimenti non avrebbe ottenuto alcunché. “Quando siamo nella nostra mente” rifletté, guardando il Villain sgomitare per raggiungerlo al più presto. “Non c’è un tempo prefissato, non c’è uno scorrere che valga per tutti. Per i più fortunati, il tempo potrebbe protrarsi quasi all’infinito nella coscienza”. Mentre attendeva pacato la risposta a quel rompicapo impossibile, colse i movimenti dei compagni, a rallentatore. Erano gesti così lenti, tardivi, che Chooki sentì la volontà di ridere, ma ovviamente non poteva farlo. Avrebbe rotto la magia di quell’istante, più lungo di un minuto di orologio. Non avrebbe fatto in tempo a incurvare un minimo le labbra, che il nemico sarebbe stato su di lui. E neanche i suoi compagni avrebbero fatto in tempo a salvarlo. Era ovvio. Bastava guardare quanto erano distanti rispetto al Villain. Lui invece era a pochissimi passi dal suo bersaglio.

“Se mi colpisce ora, se cado a terra... nonostante tutto, non riuscirò a varcare quella porta. E non dimostrerò mai che sono ancora... Ancora...” I movimenti del battitore stavano accelerando. I suoi braccioni da giocatore di baseball sembravano quasi slogarsi, per ogni passo che faceva, per poi tornare indietro a ricongiungersi con le spalle un momento dopo. Chooki riusciva a vedere persino le gocce di sudore staccarsi dalla pelle dell’uomo. “Ma certo... Lui ha fatto qualcosa che non mi aspettavo e mi ha messo in difficoltà... L’unico modo per controbattere è fare la stessa cosa”.
Ormai il tempo era scaduto. “Lo bloccherò”. Con foga, incurvò le scarpe da ginnastica in avanti e si spinse verso l’avversario. Era un ragazzo sportivo. Viveva per muoversi con quella destrezza. Vide lo stupore negli occhi del Villain, mentre avanzava imperterrito, verso di lui. “Si deciderà tutto ora... Proprio ora!”
Il ragazzo strinse le mani attorno al tubo di ferro, abbandonato in terra e lo sollevò. Non sentiva i suoni, la fatica, il bruciore sulle mani. Scorse la mazza eterea mulinare contro di lui, con velocità disarmante. Urlò, stremato, e alzò il tubo in protezione del suo corpo.

Un clangore dilaniante seguì l’impatto delle due armi e il tempo rallentato ebbe fine. Il ragazzo sentì l’impeto del colpo fin sotto i denti e fu spinto lontano, ma era ancora in piedi. Il battitore abbandonò la mazza e ruggì, abbandonando ogni cautela.

«Non scapperai da me!»

Un nuovo scatto. Voleva a tutti costi metterlo al tappeto.

«Marin!» gemette Chooki impacciato, ben sapendo di aver usato ogni energia che gli rimaneva.

La ragazza si stava versando addosso dell’acqua da una bottiglietta.

«Sta a guardare, pivello!» disse, lanciando un’occhiata di puro capriccio a Yunix.

Con una velocità disarmante, scattò verso il Villain, che si era gettato su Chooki senza badare a niente e nessuno.

«Mar...» Yunix ammutolì.

La ragazza apparve fin troppo diversa agli occhi grigiastri. Era come se i suoi contorni lampeggiassero di qualche colore marino. Le gambe, le braccia, le mani stesse lievitavano quasi, per poi rimpicciolirsi subito. Guardandole, Yunix notò un particolare: le gocce d’acqua della bottiglia si muovevano in modo strano sul corpo della ragazza. Non colavano verso le estremità delle dita, roteavano secondo uno schema ben preciso, solcando come migliaia di insetti la pelle nuda, accarezzando come un velo i pigmenti.

«Assaggia il mio potere, promessa del baseball... WATER BUFF!»

La ragazza era così veloce che riuscì a frapporsi tra Chooki e il Villain, in corsa. Lo intercettò e lo colpì con un pugno ben assestato dritto allo stomaco. Un’energia vitale sembrò riversarsi contro l’uomo che correva. Non era il pugno di una ragazzina, ma la forza di un’onda anomala.

Marin Cecilyn; Quirk: Water Buff. L’acqua è attratta dalla sua pelle. Una volta a contatto con essa, rafforza il corpo e lo velocizza, rendendola una temibile macchina da guerra del corpo a corpo.

Il battitore fu scagliato all’indietro, con la stessa forza che avrebbe manifestato un piccolo uragano. Fu sufficiente a distanziare lui e i ragazzi di diversi metri, anche se il colpo non lo mise KO.

«Oggi piogge burrascose, sui Tropici, eh?» gongolò la ragazzina, alzando i palmi delle mani.

I suoi occhi erano solcati dalle gocce d’acqua, che li definivano come una doppia ripassata di eyeliner. Era una dea... Una terribile dea del mare.

Il villain caracollò all’indietro, ma riuscì a risollevarsi, sputando per terra.
«E dire che dovevo essere tra i nemici più forti. Colpito da ragazza... Proprio invecchiato».

Sakuro si pose alle spalle del Villain, tracciando una linea di terra con il piede.

«Arrenditi! Oramai hai perso. Che senso ha continuare?»

«No!» la voce energica di Marin sorprese tutti. La ragazza sollevò una mano, invitando il villain a farsi avanti. «Se ti arrendi ora, come sapremo chi merita davvero di trionfare!? Quando si sente il segnale d’inizio dello scontro, non ci si ferma! Non ci si deve fermare mai, fino a che l’avversario non può più muoversi! Non arrendersi mai! Questo è il segreto per la vittoria!»

Il villain la guardò, mentre la ragazza si poneva di fronte a lui, senza il minimo segno di sprezzo o presa in giro nella voce. Persino Yunix era stupito.
“Rispetta chi non si arrende... Ora è tutto più chiaro...”
Guardò Chooki e si perse fra i pensieri.

La ragazza si stava divertendo un mondo.

«Che ne dici? Rendiamo o no questo scontro leggendario?»

Il villain sorrise facendo apparire la mazza tra le mani. «Non potrò darti lo scontro leggendario che tanto vuoi, ragazza, ma sta pur certa di una cosa... Non mi arrenderò MAI!»

«MAI!» ruggì lei, al colmo dell’esaltazione.

I due si scaraventarono l’uno contro l’altro.

«Marin, le basi della strategia. Ha un’arma, mentre tu hai i pugni...» urlò Sakuro, cercando di sovrastare le grida dei due contendenti.

«Pensi che non ci abbia pensato!? Chooki!»

Il ragazzo sollevò il tubo, che brillava già intensamente. Yunix sbatté le palpebre.
“Aveva già attivato Illumination? Incredibile...”
I due gemelli si prepararono ad attaccare e saltarono a loro volta verso il villain.

«Non ve lo lascerò fare!» L’uomo colpì il terreno alle sue spalle con la mazza sovraccaricata, sbalzando via i gemelli. «E ora...» si girò, per sistemare Marin, che era ormai a un soffio dall’obbiettivo.

«Luce!» gridò lei e deviò a destra. Senza la sagoma del corpo a fare da schermo, il chiarore del tubo si riversò contro il Villain che rimase accecato.

«Atlas Fury!» Marin roteò su sé stessa e colpì il Villain in faccia con un solo pugno ben piazzato. «E cali il sipario sulla splendida regina degli abissi!» concluse, coprendosi gli occhi con le dita.

Il battitore caracollò all’indietro con un muggito e cadde nella polvere, che lui stesso aveva sollevato, privo di sensi. Marin ansimò e lasciò che le gocce d’acqua cadessero a terra. Si raddrizzò bagnata come un pulcino, ma con un sorriso vittorioso stampato in faccia.

Chooki soffiò, incredulo, l’adrenalina che finalmente scemava. «Ce l’abbiamo fatta...»

Marin spense subito il suo entusiasmo.

«Non è ancora finita, stellina. Dobbiamo portare i feriti in una zona sicura... E anche in fretta, visto tutto il tempo che abbiamo perso a girare a vuoto». La sua voce era implacabile e non ammetteva repliche.

Sakuro si avvicinò e mise una mano sulla spalla del ragazzo mogio.

«Ha ragione. Mettiamoci all’opera... Se facciamo tutti qualcosa, non avremo problemi a diventare studenti».

Marin e i gemelli avanzarono verso la fenditura, dove i gemiti dei ‘feriti’ si erano fatti più insistenti. Yunix invece si accostò a Chooki. Il ragazzo sembrava essere stato privato di tutte le gioie. Aveva lo sguardo perso nel vuoto. Gli mise una mano sulla spalla, forzando un sorriso di approvazione.

«Non essere severo con te stesso. Sei stato la stella lucente che desideravi essere... Quel villain è a terra soprattutto grazie a te».

La stella di stoffa sembrò quasi appassire quando il ragazzo pose gli occhi sui suoi. Yunix si rese immediatamente conto di avere provocato l’effetto contrario a quanto voleva ottenere. Le orbite di Chooki erano coronate di nero. La sua bocca si contorse in una smorfia stomacata.

«Le tue parole sono gentili, ma non voglio la pietà di nessuno. Chi lo sa che non ci sia qualcuno qui intorno con dei veri problemi?» Lo disse con tono innervosito e anche un po’ contrariato. Era chiaro che stesse fraintendendo le parole che gli aveva rivolto poco prima. “Allora davvero non ha capito...” «Col tempo che abbiamo perso, non ce la faremo a cavarcela...» proseguì, incrociando le braccia al modo dei gemelli.

«Ehi, ricorda che sono un esaminatore. I giudizi si piegheranno al mio volere» gli bisbigliò Yunix scherzoso, cercando di tirarlo su di morale.

Chooki gli diede le spalle. «Un esaminatore farebbe notare come sono stato un pessimo leader che ha condotto tutta la sua squadra in una situazione spinosa. Non vedi come Marin continua a ripeterlo? Fai il tuo lavoro e lasciami in pace».

Yunix sentì gli occhi brillare lievemente di blu.
“Pensa davvero che i suoi stupidi complessi siano una cosa seria? Ma lo capisce con chi sta parlando?”

Un guizzo fuori dalla sua visuale lo mise in guardia. Si voltò di scatto. Percorse con gli occhi il quartiere residenziale, ma non trovò ciò che cercava. Niente, neanche un soffio di vento. “Mi era sembrato di aver visto...” Fuori dal cantiere, laddove gli era sembrato di aver avvistato il movimento, c’era un condominio in costruzione, destinato a non essere mai completato, probabilmente. La curiosità fece leva sulla sua psiche e vinse la cautela. Doveva andare a controllare.

«Näkemiin, Yunix...»

Il ragazzo si voltò a quella strana formula e si accorse che Chooki si stava allontanando. Si strinse nelle spalle, guardandolo ciondolare mesto verso gli altri.

“Ho un brutto presentimento su tutta questa faccenda dell’essere il primo... La sua autostima è in frantumi come una statuetta di vetro... Ma è chiaro che non voglia aiuti da me. In fondo, i miei problemi mi bastano e avanzano... Che risolva i suoi da solo a questo punto”. Non era pienamente convinto di quel pensiero, ma ora qualcos’altro aveva la precedenza.
A corti passi, si appressò al margine dell’area scavi.

«Ehi, Yunix! Pensi di andartene così alla leggera?»

Il ragazzo si girò e vide il viso imbronciato di Marin lanciargli fulmini fin dall’altra estremità del cantiere. Sembrava una bambina, con le guance gonfie e gli occhi arrabbiati. Teneva sulle spalle il ragazzo dai capelli fosforescenti, apparentemente senza grandi difficoltà.

«Cosa c’è, principessa corallo?» domandò più rigido di quanto volesse apparire.

«ANNOTAMI SUL TUO LIBRETTO, PER L’AMOR DI DIO! Se non passo il test, giuro che verrò a cercarti. Noi andiamo sull’altro versante, dove c’è una sorta di ospedale, secondo quello che dice Sekiro. Non fare quella faccia da pupazzo senza pezze, annota, SUBITO!»

Yunix annuì, senza alcuna sollecitazione ad appuntare qualcosa sul blocco di carta. La cosa fece infuriare Marin, che gli lanciò uno sguardo acido, prima di incamminarsi assieme ai compagni verso ovest.

“Dovrei seguirli, ma non posso far finta di non aver visto nulla...”

L’edificio in costruzione era di fronte a lui. Più che in corso d’opera, sembrava parzialmente distrutto. Ma perché poi? Cosa poteva essere stato a sventrare il cemento arkastrizzato fin dalle fondamenta? E chi c’era lì dentro? Yunix sogghignò. Era bello vivere di domande.
Varcò la porta spalancata ed entrò nello splendore di cristallo. Era pronto a tutto. Se ci fosse stato un villain, acquattato tra le macerie del fabbricato, esaminatore o no, quel bastardo lo avrebbe attaccato senza pensarci due volte, non appena fosse passato di fronte al nascondiglio. È quello che aveva fatto il battitore, d’altra parte. Doveva essere pronto a difendersi come poteva. Anche coi pugni se necessario.
Per quello che riguardava il piano terra, tutto nella norma. Iniziò a salire le scale. Le rampe si susseguivano tutte uguali, ma attraverso le aperture Yunix poteva osservare Infection da prospettive sempre più elevate. Non c’era nulla al di fuori di quelle pareti che lo interessasse, in quel preciso momento. Guardava principalmente il pavimento. Man mano che scalava i gradini era sempre più tranquillo. Quasi non si stupì quando udì una voce alle sue spalle.

«Ottimo senso di osservazione... Non pensavo che mi avessi visto».

Yunix fece ruotare la testa. Su un pianerottolo, di spalle, affacciato su un’apertura più grande delle altre, c’era un ragazzo. Aveva la divisa rossa e bianca, come tutti gli studenti, ma non solo. Dalla sua schiena pendeva un’innaturale e strano mantello verde. Forse era un po’ esagerato, ma il manto gli sembrò quasi vivo. Forse per come si arrotolava anche in mancanza di vento, forse per le strane venature che lo permeavano.

«Di solito non si accorge nessuno della mia presenza» proseguì il ragazzo, senza accennare a voltarsi.

«Io non sono come gli altri» gli si rivolse Yunix, ancora impressionato dalla strana aura che il ragazzo emanava. Lo poteva già dire. Chiunque fosse quel tipo, come i gemelli, come la ragazza alta dell’antigravità, si era allenato a dismisura prima di presentarsi al test. Avvolto, nella cappa, non disse nulla. Attendeva qualcosa, immobile, concentrato, misterioso, come ben poche persone potevano essere di fronte a un panorama così grandioso.

«Chi sei?» gli chiese infine Yunix.

«Un ragazzo, solo un ragazzo... Anzi, non proprio. Sono un ragazzo particolare, come te».

«Come pensi di fare punti da quassù?» domandò Yunix, onestamente interessato.

«Non ho bisogno di altri punti per guadagnarmi l’ammissione. E voglio ambire al minimo indispensabile».

«Sei straordinario, senza dubbio» constatò il ragazzo dai capelli grigi, sbalordito da quella risposta.

Lo strano individuo fece un passo in avanti. La luce lo colpì sulla nuca, rivelando il colore esangue dei suoi capelli corti, lo stesso del mantello.

«Non è una cosa essenziale? Essere originali, in qualche modo? Io cerco sempre di essere originale... Questo è il mio stile di vita».

«Ma come hai fatto? Come hai fatto a fare quei punti?» chiese Yunix.

Era chiaro che il ragazzo dai capelli verdi si aspettasse una domanda del genere. Estrasse qualcosa dal comparto sulla schiena... Un arco, dello stesso materiale della cappa, a quanto pareva.

«Un solo colpo a segno e i miei nemici cadono a terra, rimpiangendo di non avermi visto per tempo... Non ne vado fiero, ma è quello che ho».

Yunix reagì sorpreso.
“Non ci vuole molto a fare due più due... Prima, là nel cantiere, avrebbe potuto colpire il Villain che gli altri hanno sconfitto con tanta fatica. Ci saranno state mille occasioni. L’avrà potuto trafiggere quando voleva... Sì. Ma perché? Perché non l’ha fatto?”
Fece due passi in avanti, cercando di non fare rumore.
“Chissà... Magari ha preso di mira qualcun altro”.

«Posso immaginare ciò che ti frulla nella testa» proferì improvvisamente il ragazzo, con tono controllato. «Ti chiedi perché non abbia colpito il villain con la mazza da baseball... Ma mi pare di avertelo già spiegato».

«Sì...» Yunix aveva già intuito il motivo, ma non riusciva a crederci. «Pur di non sottrarre punti a qualcuno, sei disposto a rischiare il tuo posto?»

Il ragazzo dai capelli verdi non accennò a muoversi. «Non essere riduttivo e tantomeno fatalista... Non sono un ladro. Quei punti loro se li sono meritati... E so già che quelli che ho ottenuto finora basteranno. Sarò fedele alla mia linea di pensiero e passerò il resto del test...»

«...a non fare nulla» concluse Yunix, mordendosi la lingua e sollevando il taccuino, colto dall’ispirazione.

«Lex Zeero...»

«Eh?» domandò Yunix, alzando gli occhi e puntandoli sulla schiena del ragazzo.

«Se proprio vuoi scrivere di me in quel quadernino, scrivi Lex Zeero... È quello il mio nome».

“Che sesto senso! O forse è l’udito... Eppure, mi era sembrato di muovermi piano...”

Iniziò ad annotare, non solo di Lex, ma anche di Marin e Chooki, provando una leggera stretta allo stomaco per quest’ultimo.

Il ragazzo dai capelli verdi sospirò.

«Non dovrebbe mancare molto alla fine del test... Poco più di mezz’ora».

Yunix iniziò a fare più attenzione all’ambiente circostante. Erano in un appartamento parzialmente all’aria aperta. Un ascensore rotto era incasellato nelle braccia del minerale, che lo avvolgeva amorevolmente come una madre inquieta. Piccole piante appassite marcivano in vasi di coccio, ai lati delle scale. Delle pareti non rimanevano che sottili pezzi di cemento cristallizzati, a fungere da protezione dal vento, probabilmente. Regnava il silenzio.

«E cosa intendi fare fino ad allora, Lex?»

Il ragazzo teneva le mani sui fianchi, scrutando il nulla all’esterno.

«Quello che faccio sempre... Contemplo».

Yunix annuì. Si mise anche lui a guardare Infection, nel così dolce silenzio di quel condominio.
“Questo test sta per concludersi... E stasera devo compiere quell’ultima scelta. Ma ancora non capisco... Cos’ha voluto ottenere il preside, dandomi questo incarico?” Pensò a tutti i ragazzi che aveva visto lottare nel corso del test d’ingresso. “Tutti loro... Mi hanno solamente mostrato quanto effettivamente meritino quel posto, mentre io scalpito nella mia insicurezza. Non c’è niente che mi renda migliore di loro e questa è la triste verità”. Yunix chiuse gli occhi, cercando di placarsi. “L’importante è che sia qui, vivo. Non devo pretendere più di questo... Non ancora. La vera vittoria è che ho smesso di correre, per la prima volta, da quando ho perso la memoria. Finalmente sono diventato un ragazzo incatenato, come lo sono tutti. Non importa se non diventerò mai un eroe... Uno scopo, un sogno... Non deve per forza essere realizzabile per esistere”.
Si accorse di star battendo i denti. Era una strana sensazione. Un misto di panico, rassegnazione e... qualcos’altro, che il ragazzo non riusciva a identificare.

«Che ti succede...? Perché stai tremando?» Lex finalmente si voltò.

Yunix si aspettava occhi malevoli, o se non altro freddi, una bocca scheggiata, una faccia spietata, invece Lex aveva un viso mansueto, docile. Sopracciglia basse, occhi profondi acrilici, un piccolo naso. I capelli presentavano una frangia frontale, appena accennata. In uno slancio artistico sublime, Lex aveva, intarsiate fra i capelli, cinque foglie, di colori diversi, che probabilmente mostravano la transizione fra estate e autunno. La sua espressione era tranquilla, pura, ma si coglieva l’acume che emanava, al di sotto. Si mise l’arco a tracolla, senza mai smettere di guardarlo.

Yunix storse il naso.

«Non è niente... Solo un pensiero vagabondo».

Lex non se la bevve e socchiuse gli occhi, alla ricerca di una breccia. Yunix si mise una mano tra i capelli e arrossì brevemente.

«Ok... Mi hai scoperto. Dato che abbiamo tempo ti dirò qualcosa su di me... Recentemente, lo faccio spesso».

Lex dava le spalle all’apertura, senza togliere le mani dai fianchi. A Yunix la cosa non piacque. Fu quasi tentato di dirgli di spostarsi, ma poi si rese conto che non c’era nulla da temere, considerata l’altezza del luogo in cui si trovavano. Doveva piuttosto pensare a cosa dire. Cercò le parole arricciando la lingua, poi arrivò alla conclusione che sarebbe stato meglio parlare, di getto.

«Vedi Lex... Io...»

Fu un attimo. Qualcosa di gigantesco balenò fuori dall’apertura, oscurando il sole occidentale.

«ATTEN...!» cercò di gridare a Lex, ma era già tardi.

In un’esplosione gigantesca, Yunix si sentì sollevato di forza e gettato chissà dove. Un rumore sordo di calcinacci, l’infrangersi di cristalli e un boato riempirono lo spazio attorno a lui, che piombò a capofitto contro una superficie solida. Scivolò oltre, sentendo piccole schegge infierire sulla carne. Rotolò contro qualcosa e cadde di un altro paio di metri, sentendo la polvere riempirgli occhi, naso e bocca. Se avesse allungato un braccio probabilmente se lo sarebbe rotto. Mostruosi rumori di edifici che collassavano si ripetevano a iosa, mentre Yunix veniva sballottato di qua e di là, comprendendo il vero significato di inferno.




Note d'autore:
E si conclude anche il terzo macrocapitolo... Innanzitutto, Buon Natale e grazie per essere, anche nel silenzio, la mia prima fonte d'inspirazione. Siamo nel cuore del test e Armday sembra pronto a fare la sua mossa. Sto introducendo poco alla volta molti personaggi, che contriubuiranno alla creazione di un main cast gigantesco. Spero di farcela... Come sempre, le recensioni sono apprezzatissime e l'invito a esporre le vostre critiche è più caldo ad ogni capitolo^^. Grazie ancora e ci si vede il prossimo anno, con altri capitoli, ancora più lunghi e variegati. 

 

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Capitolo 13
*** Benvenuto tra gli Eroi - Parte Prima: L'intraprendenza di Asia Shiena'q ***


Benvenuto tra gli Eroi - Parte Prima: L'Intraprendenza di Asia Shiena'q


Ore 16:47 – Quartieri di Infection Meridionali, Zona Superiore


«Asia!»

Un ragazzo dai capelli corvini tempestati di spilli si lanciò in avanti e prese al volo la ragazza. Scivolò sul pavimento di cristallo, proprio sotto gli occhi dell'uomo dai capelli celesti, cercando di mantenere l’equilibrio, come un pattinatore russo sopra un lago ghiacciato. Appena riuscì a mantenere la stabilità, strinse forte tra le braccia la ragazza e non osò fermarsi. Guardandolo dal suo riparo, l'uomo grugnì. Chi avesse visto da lontano quel ragazzino avrebbe detto che stava eseguendo una coreografia, non una fuga spericolata su un mondo parallelo.

"Ne ha di fegato, però".

Il ragazzo percorse la strada in tutta la sua lunghezza, gettando di quando in quando un’occhiata alle spalle, senza nemmeno sfiorare con gli occhi la posizione in cui lui si nascondeva. Discese lungo una scalinata, per poi mantenere appena il controllo, atterrando sull’asfalto pianeggiante. Solo allora si concesse una pausa. Non c'erano dubbi. Era profondamente intimorito da qualcosa. Iniziò a gettare aria fuori dalla bocca, in modo irregolare. Somigliava a un mastice difettoso... non certo da biasimare, con quel corpicino esile da topo di biblioteca. L’uomo dai capelli celesti capì che era il momento e s’incamminò silenzioso verso nord, gettando un ultimo sguardo al ragazzo ansante.


La ragazza che il corridore teneva in braccio sbatté le palpebre. Non ci mise molto a fare chiarezza su ciò che la circondava. Fissò il viso apprensivo sopra di lei, senza compiere mosse avventate, temendo il giochetto di un villain. E invece riconobbe il suo salvatore. Riuscì a stento a trattenere la sorpresa.

«Tu sei... Vartimor?»

«Shhh... Hai combattuto alla grande. Ora però ritiriamoci, ok?».

Asia si riebbe e si divincolò dalla presa del ragazzo mingherlino, spingendolo contro la vetrata di un negozio, per poi scivolare a terra, con un gemito.

«Giù le mani... Non ti ho dato il permesso di toccarmi» gli intimò.

La sua voce non ammetteva repliche. Si mise a quattro zampe, controllando che il ragazzo non compiesse mosse brusche. Aveva un’espressione ferita, ma non si sarebbe fatta intenerire. Gattonò lentamente verso l’asta di bambo che usava come arma, non staccando un solo secondo gli occhi dal principe azzurro. Sapeva come andavano a finire quelle scenette da quattro soldi. La minima disattenzione e ZAM... Fregata.

«Bravo... Così già va meglio» gli concesse Asia, rialzandosi con la canna arborea in mano. Sentiva qualche dolore all’anca destra. Per il resto tutto a posto.
«Allora... Da quant’è che mi segui, mio dolce vicino?»

A favore del ragazzo c’era da dire che non mentiva spesso. Ed era una cosa che lei amava.

«Metà prova, più o meno... Asia Shiena’q».

La ragazza prese a guardarsi intorno, guardinga. La sua preda non doveva essersi allontanata molto. Probabilmente era lì vicina, pronta a fare la sua mossa. Doveva prendere tempo.

«Non sei il tipo da test... Finite le matite? Fan sotto casa, forse? O magari problemi di copyright? So che ne beccano molti di questi tempi... a copiare inconsciamente opere di stranieri che non si è mai filato nessuno».

«Solo un’imprevista predisposizione all’eroismo» rispose Vart, con voce incerta, come se non fosse convinto di ciò che aveva detto.

“Da quant’è che non lo guardo in faccia?” rifletté Asia, ponendosi alla sua destra. “Saranno almeno due anni. Forse pure tre...”

Un fugace scambio di sguardi e il suo autocontrollo vacillò. L’artista che di nome faceva Vartimor Khan era tutto quello che si poteva desiderare da un ragazzo della sua età. Occhi profondi, neri, con lievi contorni lattei ai lati, in cui lo sguardo si poteva immergere; labbra carnose, ma delicate, perfette per baci a stampo sotto le stelle; capelli d’agrifoglio, imbevuti delle acque nere del fiume stigio, sempre rivolti verso il cielo e verso le immensità ancora oltre, dove né lui, né lei erano mai riusciti ad arrivare.
Quando erano piccoli, Vart si appostava sempre su qualche albero o tetto e iniziava a disegnare. Che fossero gatti randagi, tramonti, alberi infuocati, mostri immaginari, oceani di sabbia o di sale, lui li rappresentava con una passione intramontabile. Lei si affacciava alla finestra e lo guardava. Si saziava dei suoi movimenti, delle sue brevi canzoncine, del rumore appena udibile del pennello sulla tela. E ogni sera sperava che guardasse dalla sua parte. Che si ricordasse che lei esisteva. Che le facesse anche solo un cenno, o un sorrisetto, ma aveva dovuto attendere molto tempo perché accadesse. E dipingeva bene già allora. Un portento dell’arte. Un mago dei colori. Un prodigio di un quartiere dimenticato.
Solo una volta gli aveva chiesto qualcosa per lei... In quei giorni estivi di cinque anni prima si erano avvicinati molto, come persone, come amici. E lei proprio non aveva resistito. Guardando quella mano olivastra dare vita ai sogni, aveva voluto che desse vita anche a lei, che pure odiava tutte quelle morali distruttive, non in linea con il codice che le avevano insegnato a ricordare. Segretamente, conservava ancora il ritratto che lui le aveva regalato, ma non si fermava più a contemplarlo. Era passato troppo tempo.
E non riusciva a guardare il suo artefice ora, vestito in modo così blando; lui che l’aveva portata in giro per il mondo, con sempre a tracolla tavolozze, pennelli, cornici e chi ne ha più ne metta; lui che un giorno, sdraiato sulle sue ginocchia, le aveva detto che trovava anche in lei la creatività che imprimeva in ogni gesto del pennello; lui che un giorno era scomparso, senza lasciare traccia, per poi fare ritorno come uno sconosciuto, che nemmeno dava segni di riconoscerla. Non riusciva più a guardarlo con gli stessi occhi. Ed era meglio così. Ciò che era passato, doveva rimanere tale.

Tornò a scrutare i dintorni. Anche Vartimor sembrava prudente. Lanciava occhiate vigili alle strade attorno a loro. Asia si sforzò di rimanere a suo agio. Non sarebbe stato quel tipo a farle perdere la concentrazione. Sbuffò per togliere dagli occhi i capelli castano-rosati che le limitavano la visibilità. “Stare in silenzio però è pure peggio”.

«Perché mi hai sottratto a quello scontro?» gli domandò, curiosa. Scorse il ragazzo esibirsi in una strana espressione. Non le rispose. Stringeva i pugni, come se fremesse dal parlare, ma temesse qualcosa.
«Non so perché tu mi abbia salvato, ma non dovevi disturbarti. Me la so cavare bene anche da sola...»

«Lo so» riuscì a dire lui. «Certo che lo so... Ma le cose sono cambiate dall’ultima volta che ci siamo parlati. Ho viaggiato a lungo e ho realizzato che c’è qualcosa di tremendamente sbagliato in questa società. Non te ne posso parlare ora, ma è qualcosa che ci riguarda tutti. Ti ho seguito a lungo per pura curiosità, ma non potevo lasciare che tu o quel villain vi faceste del male a vicenda...»

Smise di guardarsi attorno e tenne gli occhi puntati su di lei, che non seppe come reagire.

“Perché deve essere così difficile? Io che non ho paura di nessuno... tremo di fronte a questo sconosciuto?” Respirò a fondo per calmarsi. “Pensa ai tuoi insegnamenti, Shiena’q. Non lasciare mai che le emozioni ti dominino. Dominale tu e usale a tuo vantaggio”.

Vartimor strinse ancora più forte i pugni, poi le porse una mano.

«Ritiriamoci, Myraw... Hai ottenuto abbastanza punti. Che ragione c’è di combattere più del necessario?»

Asia sussultò. Quelle parole furono come veleno sulla sua pelle.

«Non osare! Non osare chiamarmi Myraw!» Sentì le dita scosse da un tremito impercettibile. «Forse non capisci... Per me vali meno dello sporco che ho sotto le scarpe! E sai che sto dicendo la verità!»

Vart continuò a osservarla, senza mostrare alcun segno di rabbia o risentimento, solo un muto rimpianto.

«Certo che lo so».

In quei globi in cui Asia aveva scorto un primordiale incanto creativo, ora c’era un vuoto mortale. “Non lo capisce! Che dirgli queste cose fa più male a me che a lui...”

«Asia...»

Il ragazzo fece un passo in avanti, congiungendo le mani in preghiera.

«Indietro!» gli gridò, non riuscendo a capacitarsi del perché fosse così intimorita.

Vartimor fece un altro passo.
«Per favore... Ritirati. Non farlo per me. Fallo per un mondo migliore...»

Asia scosse la testa, lanciando la canna di bambo per terra. Una cosa del genere... Da un presuntuoso come lui.
“Cosa ti hanno fatto? Cosa ti hanno fatto, mio incredibile Vart?”

Ricacciò indietro le lacrime e diede un pugno al ragazzo, cercando di fargli più male che poteva.

«Non farmi incazzare più di così! Vattene e fai in modo di fallire questo test, perché dovunque io finisca, non voglio vederti vicino a me!»

Vart accusò il colpo, guardandola con la stessa espressione da animaletto abbandonato di poco prima.

«Ok» disse poi in fretta, come se lo aiutasse a scaricarsi. «Solo... Prendi questo. È il vero motivo per cui sono qui».

Asia voleva solo sbraitargli di lasciarla in pace, ma non ci riuscì. Sentiva gli occhi bruciare, ma non voleva piangere. Non aveva fatto tutta quella strada per mettersi a frignare di fronte all’ombra di un vecchio attaccamento. Vart s’inginocchiò di fronte a lei, porgendole qualcosa.

«È tuo, ora».

Asia sussultò di nuovo, vedendo l’oggetto. Un rumore di passi risuonò alla loro destra e i due si ricomposero in fretta. Senza dare nell’occhio, la ragazza chiuse le dita di Vart attorno all’oggetto. Bastò un cenno per rassicurarlo sulle sue intenzioni.
Circa una ventina di ragazzi svoltarono l’angolo, in fretta e furia. Come se non bastasse, un’altra decina irruppe dall’altro lato della strada.

«Anche voi, qui! Siete la seconda squadra che incontriamo» sbottò il capobanda della seconda combriccola.
Era pelato, muscoloso e ricoperto di rune.

Asia quietò i sensi e si affrettò a correre incontro al ragazzo in prima fila dell’altra squadra. Era un giovane dall’aria tronfia e capelli sospesi tra un verdino spento e un nero seppia. Aveva la sua solita espressione annoiata e superba, come se si sentisse superiore a tutto e tutti. Asia non provava alcuna simpatia per quel bambino tutto fronzoli ed equazioni, ma aveva avuto modo di conoscere il potere devastante che possedeva. Gli pose una mano sulla spalla, cercando di essere più accondiscendente possibile.

«Jimmer! C’è un villain qui vicino. Mi ha colto alla sprovvista, ma col tuo potere mentale non dovrebbe essere un problema sopraffarlo».

Il ragazzo riccioluto con cui aveva parlato sorrise canzonatorio e si voltò verso i suoi.

«Udite, udite! L’arrampicatrice gravitazionale mi chiede aiuto. E mi dà un’informazione assolutamente indispensabile! Chissà cos’eravamo venuti qua a fare...»

I ragazzi vicini risero, chi con convinzione, chi tanto per fare bella figura. Jimmer spostò gli occhietti da serpe su Vart, che si massaggiava il petto dove Asia lo aveva colpito, un attimo prima.
«Te le ha date di santa ragione, eh?» lo schernì. «Chissà come hai fatto a farla irritare... Non ci sono riuscito io».

«Taci, Jimmer» impose lei. «Un villain è qui. Ed è segnato sul tuo bracciale, a quanto sembra, perciò dev’essere un Villain pericoloso».

«Anche sul mio!» intervenne il ragazzo nerboruto, sollevando un’ascia da combattimento. Il suo bracciale era tenuto assieme al manico da lacci di cuoio.

«Due sensori che indicano lo stesso obbiettivo? Che scherzo è mai questo?» domandò Jimmer, per la prima volta confuso. «Ho controllato bene il regolamento e non dovrebbe accadere qualcosa del genere».

«Tre sensori, vorrai dire...»

Tutti si voltarono. Dalla scalinata stavano scendendo una dozzina di ragazzi, alla cui testa c’era un ragazzone con uno strano visore digitale in viso e il bracciale sul polso sinistro. Asia era sempre più incredula. Stavano succedendo troppe cose fuori dagli schemi, per i suoi gusti.

Un ragazzino al seguito del nuovo arrivato si aggrappò al suo braccione.

«Tekken! Digli di più. Facciamo gioco di squadra!»

Il ragazzo col bracciale sospirò, come se quegli strilli non fossero i primi che ascoltava quella giornata, poi si schiarì la voce, arrossendo leggermente.

«Sì... mmm... Allora. Abbiamo a che fare con un certo... Rupert Green: ha guance scavate, da cui sorgono vene e arterie... che... mmm... Può sfruttare... per... per lanciare attacchi, ovviamente e...»

«Entro stanotte, Tekken...» lo interruppe Jimmer, che sembrava quantomai insofferente per quelle continue interruzioni.

Asia piegò la testa all’indietro, divertita. Tutto ciò che faceva irritare quello spocchioso bambinetto era di suo gradimento. Il ragazzo con lo schermo bluastro sulle tempie era indeciso se riprendere a parlare o meno.
Invece, Mister Muscolo con l’ascia tra le mani aveva le idee più chiare.

«Non ce ne frega un cazzo di chi è... Troviamolo e tagliamogli la testa!»
Alcuni dei suoi compagni approvarono.

«Come vi pare... Basta che ci muoviamo. Ho un test da vincere» decretò Jimmer, tamburellando le secche dita sui gomiti.

Ebbe inizio una caotica discussione, con occasionali insulti da tutte e tre le parti. Una marmaglia del genere non sarebbe mai stata in grado di collaborare in modo efficace. “Idioti... E se la situazione sfugge di mano, toccherà a me risolvere tutto. Questo accade con tanti Quirk messi assieme”.
Dopo un sospiro rassegnato, posò lo sguardo su Vartimor e sobbalzò, spalancando gli occhi. Il ragazzo sembrava terrorizzato. La pelle era persino più pallida del solito, tesa e pronta a sgretolarsi al primo tocco. Mormorava qualcosa sotto i denti, come un folle. Non si capiva se fossero formule, maledizioni, o che altro, ma la saliva schiumosa che gli usciva dalla bocca non lasciava presagire nulla di buono.
Asia respirò a fondo.

“Concentrazione... Ricorda, Shiena’q. Concentrazione”.

Nascose alla vista i ragazzi che urlavano e si focalizzò su Vart. Si avvicinò un poco, senza che nessuno le prestasse particolari attenzioni. Il ragazzo però piegò la testa, come se la vedesse distintamente. Gli occhi erano vortici d’ombra.

«M... Myraw! Te ne prego. Dimmi che sono nella realtà».

Questa volta sentire il nomignolo non la irritò: non vedendo ciò che il ragazzo stava passando.

«Siamo nella realtà. Te lo giuro, sul mio onore». Mantenne fermo il timbro di voce. Non doveva mostrarsi turbata.

Aveva usato una vecchia formula, che era sempre frequente nelle loro conversazioni quando erano ragazzini. Se uno dei due diceva: “Te lo giuro, sul mio onore”, allora significava che l’altro doveva fidarsi ciecamente delle parole precedenti, senza discussioni e senza dubbi. Spesso non era usato in occasioni serie, ma Asia non aveva altre opzioni.

“Se lo ricorderà? Se lo deve ricordare!”

Il ragazzo sembrava al limite. Asia trattenne il respiro, guardandolo chinare il capo.

«Vart...»

Il ragazzo rabbrividì per poi sollevarsi e toccarle una guancia. Nonostante, il ribrezzo che provava per quel nuovo Vartimor, non fece nulla per allontanarlo.
«Sul tuo onore, io mi fido, Asia» disse, con la stessa sicurezza di quando lo diceva da bambino.

Aveva ancora una brutta cera, ma sembrava di nuovo in sé. La ragazza gli toccò il petto.

«Fai dei respiri profondi. Non ti sforzare...»
Vart acquisì un colorito rossiccio, ma fece come aveva consigliato e iniziò ad inspirare ed espirare a ripetizione, finché non sembrò tornare a uno stato di serenità. Solo a quel punto, Asia tolse le dita dal torace del ragazzo per stringergli una mano.
«E ora, voglio delle risposte. Cosa diavolo ti sta succedendo?»

Vart trasalì in un primo momento, ma annuì immediatamente dopo.

«Non è che non voglia dirtelo, Myr... Asia. È che il motivo per cui pensavo di essere in un altro mondo è quello...»

Indicò con il braccio che tremava un punto alle spalle della ragazza.

«Dove c’è il vicolo? Ma non c’è nulla. L’ho controllato un attimo...»

Asia si voltò, non aspettandosi di vedere alcunché. Invece... Sobbalzò per l’ennesima volta, guardandosi alle spalle e questa volta per un buon motivo.

«Ma che cazzo!?»

Vart tirò un sospiro.
«È un sollievo che lo veda anche tu... Pensavo di essere pazzo».

Asia lo prese per la gola.

«Ti sembra il momento di scherzare? Da quant’è che è lì!? RISPONDIMI!»

Il ragazzo le afferrò un braccio.

«Du... Due minuti al massimo».

«Tu non sei un semplice pazzo. Sei malato, Vart».

«C’è qualche problema tra voi due o devo comprare nuovi occhiali?» domandò la voce sibilante di Jimmer.

Asia lasciò andare il ragazzo e diede un calcio al muro.

«Cazzo! Merda!»

“Pace interiore, Asia... Domina le emozioni. Sai che puoi farcela”.

Prese a morsicarsi un’unghia e si guardò febbrilmente attorno. Tutti avevano gli occhi puntati su di lei.

«Non ha senso tenerlo nascosto... Lo capisci, vero?» Era Vart a parlare.

Asia gli gettò un’occhiata spaventata.
“Come fa a essere così tranquillo ora che sa che è tutto reale? Cos’ha che non va? Però ha ragione. Non importa se scatenerò una bufera. È giusto che tutti sappiano”.

«Venite a guardare... Ecco il vostro Villain» disse Asia, al colmo della confusione.

Jimmer aggrottò la fronte e si fece avanti. Lo stesso fece Tekken, che a lunghi passi si appressò al vicolo. All’uomo con l’ascia bastò spostarsi un po' a destra per avere la visuale sulla viuzza. Le reazioni dei ragazzi furono delle più varie. Alcuni si misero una mano sulla bocca. Altri si immobilizzarono, il sangue gelato nelle vene. Molti trasalirono e diverse grida si levarono verso il cielo.

«Non è possibile...» esclamò Jimmer, tremando.

«Rupert Green...» esalò Tekken, trattenendo un conato.

Il temibile villain che doveva trovarsi in quella zona secondo i bracciali era a mezz’aria nel vicolo, impalato sulla ringhiera acuminata di un balcone. Sangue fresco colava dalle molteplici ferite del corpo. La faccia sorpresa, tradita, smorta del villain era rivolta verso di loro. E non c’erano dubbi. Era proprio Rupert Green. Le vene e le arterie fuoriuscivano flosce dalle guance. Le gambe erano ritorte e penzolavano come festoni insanguinati. La giacca di pelle era imbrattata di polvere e sangue. Era chiaramente morto o se non altro morente. E non sembrava fosse passato molto tempo da quando era successo.

«Ma vogliamo scherzare!» Jimmer si voltò verso i ragazzi. Aveva iniziato a grattarsi, come una grossa serpe che fa la muta. «No! Dev’essere un trucco. Una prova di cui non siamo a conoscenza!»

Una ragazza con occhialoni di ottone, al suo seguito, scosse la testa.
«No, no. Riconosco vero sangue quando lo vedo da vicino. Non è una farsa, ah ha, no no!»

Tekken guardò Asia.
«Maledizione! E ora...? Non è che può... che so... essere stato un incidente?»

«Ne dubito» ribatté Vart, a braccia incrociate. «Quella non è l’espressione di un suicida, né tantomeno lascia presagire una caduta accidentale. Il villain è stato senza dubbio spinto, anche osservando come ha centrato con precisione gli spuntoni».

I ragazzi non si muovevano. Il test era passato totalmente in secondo piano.

“Calmati... Devi calmarti. Tu puoi guidarli, Asia. Ti sei allenata per essere la migliore.” Fece un respiro profondo e svuotò la mente. “Allora... Ricapitoliamo. Vart dice che il corpo è lì da circa due minuti. Ed era lo stesso tizio che mi ha messo in difficoltà cinque o sei minuti fa. A quel punto, Vartimor mi ha salvato e mi ha portato sotto questa zona urbana di parcheggio per tram in riparazione. A quel punto abbiamo perlustrato la zona attorno a noi e io sono certa di aver visto il vicolo vuoto. Considerando che il villain è apparso sul display di almeno tre persone diverse, significa che probabilmente Rupert Green è stato posto lì come un’esca volta ad attirarci. Per quale motivo... non ne ho idea. E deve per forza essere stato spinto nei due minuti in cui ho parlato con Vart e siamo stati raggiunti dagli altri gruppi. Perciò, ipotizzando che il villain sia davvero un’esca, sono circa quattro minuti che almeno un altro criminale, quello che lo ha ammazzato, ci osserva. Ma se ci sta osservando, dovrei essere in grado di vederlo.”

Sollevò con cautela lo sguardo, mentre attorno a lei tutti avevano ripreso a discutere spaventati.

“Lentamente, però... Non deve capire che lo sto cercando. Sì, così. Mantieni la calma...” Sopra i ragazzi c’erano i comignoli cristallizzati dei tetti, man mano sempre più alti, seguendo il corso della scalinata. “Dove ti nasconderesti tu, Asia? Pensa... Pensa all’addestramento.” La strada vuota era piena di possibili nascondigli. Dietro una finestra, al riparo di un muro... Dove poteva essere? Alzò ancora di più la testa. “Strano... Perché proprio qui? Perché hanno scelto proprio questa zona? Forse...” Una strana intelaiatura in acciaio faceva da schermo a tutta la via. C’erano buone probabilità che sostenesse una tensostruttura, in origine. “Se ci fosse una zona in cui l’intelaiatura è completamente ricoperta da Arkastro, sarebbe lì che io mi metterei.”

La percorse con gli occhi in tutte le sue diramazioni, poi la vide. Una specie di giaciglio, venutosi a formare tra il tetto di un edificio, l’acciaio di Temigor e l’intelaiatura. Sembrava un nido d’aquila più grande del normale, composto di puro cristallo, in cui chiunque avrebbe potuto guardare in basso, senza farsi vedere da nessuno. Non era facile notarlo, con l’insegna di un bar che gli stava di fronte, ma era proprio questo a persuaderla che fosse il nascondiglio dell’assassino.
Per un fugace istante, Asia scorse qualcosa muoversi sopra il minerale. Forse solo un riflesso, ma tanto bastava per confermare la sua teoria.

“Trovato, cazzo! Fosse l’ultima cosa che faccio ti tiro giù da lì, codardo omicida che non sei altro.”

Chiuse gli occhi, preparandosi alla prossima mossa. Tra i ragazzi c’era solo uno dei poteri che conosceva che poteva metterli in una condizione di vantaggio. Doveva solo far capire a chi lo usava di attaccare, senza perdere tempo prezioso. Riaprì le palpebre e si diresse verso Jimmer.
“Quante sono le probabilità che il villain si sia accorto che l’ho individuato? Basse, ma meglio considerare anche questa evenienza...”

Gonfiò le guance e diede inizio alla commedia.
«Dove potrebbe essere? Merda! Non può che essere qui, no?»

Usò un tono sufficientemente alto perché il Villain la sentisse. Non era un asso negli inganni, ma qui ne andava della vita dei suoi compagni. I ragazzi più vicini si voltarono verso di lei, aggrottando la fronte. Anche Jimmer lo fece. Socchiuse gli occhi, come una vecchia tartaruga. Forse aveva fiutato qualcosa fuori dal normale, nella sua voce. Tanto meglio.
Asia imprecò, per poi mettersi alle spalle del ragazzo, facendo finta di sfogare la sua frustrazione contro il muro e iniziò a sussurrargli qualcosa.

«Non mostrare una reazione sorpresa e non girarti. So dove si trova il nostro assassino. Dietro di te, sopra una piccola piattaforma d’arkastro, dietro all’insegna “Coffe Bean Love”. Un colpo sicuro del tuo Quirk e li abbiamo in pugno. Agisci appena ti senti pronto».
Per continuare il bluff gettò le braccia al collo al ragazzo.
«Che cazzo facciamo ora? Ti prego... Escogita qualcosa!»

“Ah... Puzza di cavolfiore andato a male”. La voce del ragazzo risuonò furtiva nelle sue orecchie.

«Dovrei mettere a repentaglio la vita di tutti noi, per un piano campato per aria... da te?»

Asia sorrise.
«Pensa a quanti punti daranno a chi catturerà un vero criminale! Sarai senza dubbio primo in classifica».

Trattenne il respiro, separandosi dall’abbraccio. Jimmer taceva, con le mani abbandonate lungo i fianchi. Non dava cenno di essere teso, ma i capelli danzavano in modo strano sulla sua fronte, come se la mente del ragazzo fosse colma di pensieri agitati.
“Una cosa l’ho capita, in queste lunghe ore. Jimmer sarà pure un terribile essere umano, convinto di avere una conoscenza superiore a noi comuni mortali; lascerà sempre che gli altri facciano il lavoro sporco per poi prendersi il merito, ma non rinuncerà mai a dimostrare di essere il migliore, quando si presenteranno situazioni così favorevoli a dimostrarlo come questa”.

Il ragazzo sogghignò.

«Fottuta bastarda...»
Poi si girò di scatto. I capelli si sollevarono, come tentacoli di piovra e il ragazzo registrò il bersaglio in un solo semplice istante. «»

Un’onda verde di pensieri concentrati si riversò fuori dal cranio di Jimmer, diretta con precisione verso l’insegna. Il colpo la disintegrò e passò oltre, facendo a pezzi il giaciglio d’arkastro che nascondeva. Come un fumogeno, il minerale si alterò in una nube bluastra.
Asia esultò e iniziò a fomentare gli altri ragazzi, che si erano ritratti contro le pareti, per lo spavento.

«Non temete! Io e Jimmer abbiamo capito dove si trova l’assassino di Green! E ora...»

«E ora proprio un cazzo!» Urlò una voce dalle vicinanze della nube. Con agilità, un uomo scese da una finestra all’altra per atterrare di fronte al gruppo di ragazzi. Non sembrava aver riportato alcuna ferita, ma era chiaramente incazzato. «Mi sembrava che mi avessi notato, donzella. Dovevo seguire il mio istinto...»

Si appoggiò ansimante alla vetrina del caffè e li passò in rassegna uno dopo l’altro. Asia deglutì e si fece avanti.

«Che significa tutto questo?»

L’uomo incurvò appena le labbra, guardandola con irriverenza.
Portava una strana maschera sulla fronte, simile a un diadema. Era nera come l’ossidiana sicuramente di recente produzione, congegnata a strati, tra cui sembrava si potessero infilare oggetti di modesto spessore, come la foto sfocata che si ergeva in cima all’intelaiatura. Sulla sommità a cuneo non meno di dieci rombi d’argento accoglievano le ciocche celesti del villain. Diversi pulsanti erano situati ai lati del copricapo, che luccicava nella luce del tramonto imminente. L’uomo indossava un vestito stracciato e una corta mantellina che non dava nell’occhio.

«Significa che il piano non sta funzionando a dovere, per cause di forza maggiore» le rispose con assoluta ovvietà.

Jimmer non sembrava più così bramoso di farsi valere.
«Tipa delle canne... Che si fa ora?»

Asia digrignò i denti.
«Vediamo che ha da dire, poi lo teniamo prigioniero, fino a che non arriveranno i professori e a quel punto sarà arrestato e processato per omicidio».

Non fece in tempo a dirlo che un debole e roco piagnucolio li soprese dall’alto. Un secondo uomo si stava calando lungo le finestre. “Erano due!”

«Bene Kurd... Se ora quel bastardo non si presenta, non so proprio che dire!»

Il villain a terra allungò una mano al nuovo arrivato che la strinse. Aveva un casco di ferro in testa, ricoperto polvere. Il braccio destro mostrava uno sconnesso squarcio, da cui colava sangue a fiotti. Sembrava uscito dall’inferno stesso, ma in qualche modo riuscì a rimanere in piedi, una volta raggiunto il terreno.

«Mocciosetti...» chiocciò, tra le lacrime. «Li voglio morti!»

L’uomo col mantello lo tranquillizzò.
«Calma, compagno. Questo è solo il prezzo da pagare per la libertà. E sai cosa farò se non dovesse essere così».

Asia si strofinò gli occhi con le mani. Non sapeva cosa avrebbe dato per un minuto di riposo... Ma non poteva lasciarsi andare ora. Si guardò alle spalle. Jimmer aveva ripreso a grattarsi. Non era nelle condizioni di attaccare ancora. Tekken stava consolando una ragazza che si era messa a piangere, gettando di quando in quando perplesse occhiate ai due villain. Vartimor aveva riacquisito un po’ di colore. Si rivolse ai villain con coraggio.

«Non capisco... Dovreste essere qui per testarci!»

Kurd lo fulminò con gli occhi.

«Oh, oh... Sì. E questo sarà un test che non dimenticherete certo». Rise di gusto, ma si fermò quando una nuova ondata di sangue zampillò fuori dalla ferita sul braccio.

Per qualche secondo regno il silenzio. Ciò che rimaneva dell’insegna si scollegò dai fili e cadde a terra, sprigionando migliaia di scintille, che i villain non accennarono nemmeno a schivare. Erano entrambi impregnati di una risolutezza decisiva, che spaventò Asia.
“Che cosa vogliono? E soprattutto... Cosa sono disposti a fare per perseguire questo loro piano?”
Fece un passo avanti.

«Basta temporeggiare. O vi arrendete con le buone o ve la farò pagare. Non guardatemi dall’alto al basso. Sono abbastanza forte da catturarvi entrambi».

Nessuno dei due diede segno di averla sentita. Rimasero a fissarla con odio, come se aspettassero qualcosa.

«Che cosa state...?»

Il villain alto con il mantello si raddrizzò all’improvviso.

«Ci siamo. È ora!»

Asia vide allarmata la maschera nera irradiarsi di viola.

«Guardate!» La voce del bruto con l’ascia riscosse i presenti, che si guardarono alle spalle.

Asia strabuzzò gli occhi. Il corpo di Rupert Green si stava sollevando in aria, le ferite e gli occhi che baluginavano di azzurro. Si coprì il viso con le mani, mentre diversi ragazzi venivano sollevati dalla stessa energia sfolgorante e allontanati dall’area del coffe shop.

Suo malgrado, la ragazza sorrise. “Qualcuno è venuto a salvarci... Sì!”

La gioia le morì in gola quando sentì una voce dietro di sé: «Ahrima! Portalo da me!»

Asia si guardò di nuovo alle spalle, dove Kurd stringeva con una mano il braccio ferito e un lampo nero si era levato in aria.

“Merda! Il suo potere”.

Guardò in cielo, dove il raggio che conteneva il villain con il mantello lo portava a zig-zag verso una posizione ben precisa. Tutti udirono distintamente la voce di Ahrima.

«Puoi salvare i ragazzi, il villain, il caro regno che difendi, ma non puoi salvare te stesso!»

Una figura perlacea apparve ai ragazzi, sospesa in cielo a pochi metri dal tetto di un edificio. Aveva corna d’ariete, occhi verdi smeraldo e gambe avvolte in bracciali d’arkastro.
“Un fantasma? No... Un Quirk mutante. Deve essere il guardiano di Infection! Ed è a lui che il villain punta”.

E in effetti il raggio nero, pur cambiando continuamente direzione si dirigeva alla velocità del suono verso l’essere opalescente. Questi alzò le mani, come aspettandosi di ottenere qualche risultato, ma nulla accadde. Una risata distorta infranse i vetri degli edifici.

«Una volta che il mio Counter punta a un bersaglio, non c’è potere che possa fermarlo!»

Asia sentì una presenza stringergli una mano. Fece per difendersi, ma si accorse che si trattava di Vart.

«Dobbiamo fare qualcosa!»

Asia annuì, impaurita.

«Jimmer! Colpisci Ahrima, finché siamo in tempo!» Nulla accadde. «Jimmer!»

Si voltò a guardarlo. Il ragazzo minuto era impietrito e non accennava a muoversi.
Nel cielo, il fantasma aveva preso a scappare, veleggiando a sostenuta velocità nella gravità zero, ma Ahrima era dietro di lui. Una cometa nera, che superava di gran lunga la sua velocità. Sembrava una sessione di flipper fuori programma, con una posta in gioco altissima, posta in gioco che sarebbero stati loro a terra a pagare.
Asia scosse per le spalle Jimmer, senza staccare gli occhi dal cielo.
Il guardiano era intelligente. Compieva cambi di rotta, rotazioni, deviazioni, ma Ahrima gli stava dietro. L’inseguimento stava per giungere al termine. Con un’ultima sorprendente virata, la figura eterea si scagliò a strapiombo verso il basso.

«Sono stanco di giocare, Fen Yang! È stato un piacere, ma dobbiamo fare la nostra parte in questo piano. Spero che tu possa capire! Counterplane of the Repentance!»

Il lampo di energia puntò verso il basso e con velocità devastante si gettò a capofitto sul guardiano. Asia capì che era finita. Spinse via il ragazzo dai capelli color seppia ed estrasse una piccola stecca di legno dal taschino della tuta.

“Non importa come... Devo fermarlo!» Vart le afferrò le braccia e la trascinò indietro, mentre Ahirma piombava ad avvoltoio su Fen.

«Preso!» urlò, mentre il raggio si disperdeva e il villain emergeva trionfante con la preda tra le grinfie.

«No!» Asia cercò di divincolarsi, ma la presa del ragazzo era ferrea. «Cazzo!»

Ahrima si diresse verso terra, faticando per reprimere la furia del guardiano.

«Sei diventato vecchio, lento e prevedibile!»

Asia diede una testata a Vart e riuscì a divincolarsi.
“Ora che l’ha preso, cosa... Aspetta...”
Si ricordò delle parole dell’altro villain: «Ahrima... Portalo da me!»

Un terribile presentimento la fece voltare. Kurd sorrideva, mentre con le mani creava uno strano apparecchio d’acciaio.

«Fermo!» esclamò gettandosi verso di lui, ma era tardi.

Ahrima scagliò il fantasma verso il compagno, che guaì di gioia liberando la sua creazione.

«Ecco a voi il mio Electric Pinch!»

Era una tenaglia d’acciaio da cui piccoli conduttori rilasciavano ripetute scariche elettriche. Circondò con precisione la figura perlacea e le si strinse attorno, iniziando subito a fulminarla.
Fen Yang, sottoposto a interminabili convulsioni, cadde con la leggerezza di una piuma e si depositò ai piedi di Kurd. Ahrima atterrò al suo fianco e salutò il complice con un cenno.

«Ho fatto bene?»

«Sei stato impeccabile, caro compagno!»

I due guardarono Asia, che ringhiava, a pochi metri da loro, come una tigre del Bengala.

«Lasciatelo subito andare! Counter, le tue pinze... Quirk situazionali, che non vi serviranno a nulla contro i nostri!»

Ahrima non si scompose.

«Sarà anche vero. Perderemo certamente, ma questa tenaglia non si staccherà così facilmente dal vostro protettore, a meno che non vogliate ucciderlo, ovviamente! E poi... Non siamo noi quelli che devono evadere oggi».

Kurd le fece una pernacchia. «Infatti. Dite ciao al nostro generale, mocciosetti del cazzo!»

Asia fece un passo indietro.

«Di cosa...?»

Ahrima sollevò verso il cielo una pistola a razzo che teneva nascosta sotto il mantello.

«Chiama rinforzi!» urlò Tekken iniziando ad arretrare.

L’arma rilasciò il suo contenuto e un razzo di segnalazione si sollevò fino a raggiungere la gravità zero e lì, come un fuoco d’artificio, esplose, illuminando per un’istante tutto di rosso.

«Iniziate a scappare» bisbigliò il villain, tirando un calcio a Fen. «Forse fate ancora in tempo».

Bastarono queste parole a scatenare il panico. Jimmer sputò per terra.

«Ne ho abbastanza di tutto questo! Io faccio come dice... Se ci pensi, nessuno mi aveva detto che avrei affrontato dei pazzi omicidi».

Cercava di mascherare la paura, ma il tono di voce lo tradiva. Si mise a correre su per la scalinata. Molti lo seguirono.

Asia si affrettò a richiamarli, la fronte imperlata di sudore. «Fermi! Magari è solo un bluff!»

«Un bluff? Che motivo avrebbe di essere un bluff?» si intromise una voce mascolina.

La ragazza si girò ancora. Rupert Green era in ginocchio sulla strada, le ferite completamente risanate.

«In prigione, quando le guardie non c’erano, li sentivo sempre parlare di questo. Di come sarebbero scappati tutti quanti! Ahrima, Kurd e Armday». Il villain alzò le braccia scure. «Non pensavo che sarebbero arrivati a usare pure me... Bastardi».

Tekken gli si avvicinò.

«Stai dicendo che sono tre i tizi con cui abbiamo a che fare...?»

Rupert Green avvolse le arterie e le vene delle guance attorno alle braccia, inspirando col naso.

«Sì e non avete idea di quanto Armday sia forte!»

Un rintrono sotto i loro piedi seguì quelle parole. I ragazzi si guardarono l’un l’altro. Quello con l’ascia la sbatté per terra infuriato.

«Chiunque sia stato, lo trovo e lo uccido, mi seppellisse una valanga!»

Asia scoccò un’occhiataccia ai villain impassibili, appoggiati alla vetrina. Si avvicinò loro, mentre gli altri cercavano la fonte del rumore.

«Perché il vostro amico non sta scappando e sta venendo qui?»

Kurd era pallido. Molto del suo sangue era per terra, ma continuava a sorridere.

«Lo vuole fare un tentativo... Un tentativo per salvarci subito». Ahrima annuì, silenzioso, invitando il compagno a proseguire. «Se... Se scapperemo... Potremo iniziare una nuova vita. Non chiedo niente di più».

Kurd gemette, lottando contro il progressivo dissanguamento del braccio.

Asia sbuffò.
“Forse pensano che mi impietosisca...”

«Non me ne frega niente se avrete buone o cattive intenzioni, una volta usciti. Resta il fatto che siete persone che meritano di marcire in quelle celle. E dopo oggi, mi sento di poter dire che non le lascerete mai».

«Ma in fondo che ne sai te!» ruggì irato Ahrima. «Non ci conosci. Non sai perché siamo nella posizione in cui siamo».

Asia sollevò il mento di Ahrima con un dito, consapevole di avere un atteggiamento oltremodo provocatorio.

«Sai perché posso giudicarvi per quello che siete? Perché io, onore o no, guardo a ciò che vedo. E vedo due cazzo di assassini!»

Ahrima le sferrò una ginocchiata. Lei non aspettava altro. Piegò le gambe a destra evitando l’attacco e calciò il villain contro la vetrina, mandandola in frantumi. Kurd fece per gettarsi su di lei, ma lo anticipò, ficcando le proprie dita nella ferita del braccio. Il villain urlò come un dannato, cercando invano di sottrarsi alla morsa.

«In condizioni normali...» dichiarò Asia eccitata, stringendo la presa sulla piaga. «...sarei anche contro questi scontri disonorevoli, ma sai... La pianta malata si taglia con quello che si ha!» Il Villain ululava, distrutto dal dolore, mentre lei gli spremeva il braccio come un limone. «Chissà quanto tempo ci metterai a svenire! Non è entusiasmante sapere che potresti non svegliarti più?»

Un braccio le si avvolse attorno al collo, tirandola via dall’uomo col casco, che cadde a quattro zampe a terra, incapace di reagire.

«MOLLAMI! Non ho ancora finito con lui!»

Il braccio spigoloso le bloccava il respiro. Asia cercò di calciare chi l’aveva brancata, ma non riuscì a raggiungerlo.

«Ferma! Ferma! Ma lo senti quello che dici?» Era la voce spossata di Tekken.

«Ehi, Myraw!» “No, lui no...” Vart si pose di fronte a lei, guardandola negli occhi. «Smettila con questo stupido desiderio di fare del male!»

La ragazza voleva mettersi a piangere.
“Fatemi andare da loro! Devo... Devo lasciarli a terra, senza forze, in modo che non possano più fare del male”.

«Concentrati su di me, Myraw. Tu non sei così, ok? Tu sei una ragazza che ha sempre il controllo sulle emozioni. Che non compie del male gratuito...»

Asia cercò di divincolarsi, con la forza di un animale in gabbia, ma la presa di Tekken era irremovibile.

«Pensi che non abbia il controllo, eh? Ma ti posso assicurare che sono pienamente consapevole di tutto ciò che mi circonda. Non voglio mica ucciderli... Solo assicurarmi che non possano aiutare Armday non appena arriverà. Usate la testa e datemi una mano, prima che sia troppo tardi!».

«Tu non sei così, Myr-»

«Ah sì!? E sai chi altro non è così come dovrebbe essere? Tu, Vartimor. Tu! Sei tu che non ti comporti come eri un tempo. Se avessi messo da parte le tue manie di persecuzione quando era il momento, avremmo trovato i Villain minuti fa, ben prima che Fen venisse catturato. La colpa è prima di tutto tua».

“E la cosa peggiore e che pensano che io sia davvero fuori di me! E invece...”

Scorse qualcosa che si muoveva alle spalle di Vart. Era Ahrima. Brandiva una scheggia di vetro tra le mani. “Vuole ucciderlo! Merda!”

«Dietro di te!»

Gli edifici attorno a loro esplosero, in un fragore d’Arkastro. Asia si sentì sollevata in aria, Tekken che la lasciava andare. Una frana di roccia e Arkastro si riversò su tutti quanti. La nebbia del minerale si diffuse ovunque, ma la ragazza avvertì qualcosa attorno al braccio. La mano di Vart. Subito dopo, sentì come un’altra superficie, che disegnava qualcosa sull’avambraccio.
“No... Non può essere. Il suo...”
Fece per urlare, ma le corde vocali divennero di cartapesta e la ragazza fu trasportata come una bambola di pezza chissà dove, mentre attorno a sé grida e urli rimbalzavano da una finestra all’altra. Nel caos, si erse una voce definita, forte e fragorosa. Doveva essere Armday.

«Finalmente si torna in azione. Ora sì che il vero test ha inizio!»



Note d'autore:
Buon anno! (Con la speranza che riservi più gioie che dolori). Non ho molto da dire. Se volete potere recensire la storia, dandomi consigli su come migliorare. Alla prossima!

 

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Capitolo 14
*** Benvenuto tra gli Eroi - Parte Seconda: Fiducia ***


Benvenuto tra gli Eroi - Seconda Parte: Fiducia

Ore 17:02 - Infection, zona occidentale inferiore

 
Una nube bianca rifluiva silenziosa tra le macerie. Si infiltrava nelle crepe, nelle fessure del terreno e sotto i vetri infranti che tappezzavano la strada. Bussava ad ogni porta e non attendeva il permesso per entrare. Imprimeva nel cielo e sulla terra ghiacciata il suo marchio. Era così densa che impediva di vedere a un palmo e avvolgeva tutto e tutti. Cullata dal silenzio solenne di Infection, continuava a espandersi, senza accennare minimamente a disperdersi, come se volesse ridurre l’intero mondo in suo potere.
Creature fumose si assemblavano nella nebbia: chimere multiformi che non facevano in tempo a comparire che già evaporavano, assorbite dall’avanzata della nube. Era un bestiario in movimento, spaventoso a guardarsi, ma anche straordinario.
Fu tra questo lento fluire che un uomo gigantesco si rialzò, sbuffando forte. Nei suoi capelli era attorcigliata una lunga sezione di filo spinato che inchiodava le ciocche bionde ben rasate. Aveva una brutta cera, ma rimaneva ritto sulle gambe mimetiche. Con un occhio chiuso e uno aperto iniziò a perlustrare i dintorni, nonostante la nebbia inconsistente. Nel suo viso una cruda amarezza...

“Non è andata come doveva andare... Neanche un po’... Dannati ragazzini! Mocciosi dell’asilo, sì certo... Non ho potuto far altro che ritirarmi, per quanto erano agguerriti. E lo rifarei, senza dubbio. Quella ragazza poi... Un turbine che non sta né in cielo né in terra. Magari avessi avuto reclute del genere quando mi servivano. No, no. Questa è l’ultima volta che sottovaluto quelle pesti. E ora? Beh... A questo punto, non mi resta che adeguarmi al piano originale”.

Scrocchiò le braccia muscolose e si raddrizzò la cintura. A dirla tutta, non era poi così irritato o inasprito, né tantomeno sprovvisto di ottimismo. Per un soldato era essenziale adattarsi a ogni situazione. E lui lo aveva imparato alla prima esercitazione, quando aveva salvato un commilitone dalla trappola mortale che erano gli stagni di fango in cui erano immersi fino alla mandibola, nel corso dell’addestramento.
'Una prova di resistenza, priva di rischi'. Così avevano detto gli ufficiali. Ma questo perché non ci avevano messo le gambe loro in quella melma. ‘Nulla procede mai esattamente come previsto’: questo era il primo insegnamento che aveva dovuto digerire laggiù. Iniziò a marciare nel miasma biancastro, sfiatando sbuffi contro l’aria densa, cercando di aprirsi la strada verso un’area con maggiore visibilità. Di quando in quando, agitava una mano, quando non riusciva a vedere proprio niente e subito la nebbia si disfaceva di fronte ai suoi occhi. Poco alla volta, il generale scomparve nella foschia, non lasciando traccia alcuna, se non un paio di tappi colorati, che erano scivolati tintinnando sull’asfalto, senza che il portatore ne avesse avuto alcuna percezione.
 


 Yunix aprì gli occhi. Sentiva un dolore lancinante alla testa. Quasi meccanicamente cercò di muovere la mano destra. Ci riuscì e la portò alla nuca, dove sentiva male.

“Niente sangue... Bene.”

Fece mente locale. Dov’era? Cos’era successo? Aveva solo vaghi ricordi di ciò che era accaduto, così inverosimili che il ragazzo temeva il peggio.

“Ti prego... Dimmi che non ho perso di nuovo la memoria!” Ma subito si rese conto che se si ricordava che aveva perso i ricordi, non poteva averli persi una seconda volta. Doveva essere per forza così. “Se non parzialmente...”

Mentre divagava tra i pensieri, ogni secondo che passava la posizione in cui si trovava gli appariva più scomoda. Aveva la guancia destra schiacciata al suolo. Non osava sollevarla, per non peggiorare eventuali ferite di cui non era a conoscenza. Sentiva una superficie appuntita sotto il costato, ma non era abbastanza acuminata da penetrare la carne... E per fortuna. Il suo corpo era ritorto e indolenzito, come se fosse stato sballottato di qua e di là, per una decina di minuti. Le braccia erano ricoperte di escoriazioni ardenti, che lo tenevano sugli spini come una tripla razione di caffeina. Le gambe... Non riusciva a muoverle. Doveva averne perso la sensibilità.

“Non sarà mica che mi è caduta addosso una parete... No. Ora ricordo. L’edificio intero in cui mi trovavo è crollato e sono caduto almeno ad un piano inferiore di quello in cui ero...”

Yunix sentì lacrime gocciolare sull’Arkastro bluastro. Non si fece illusioni. Non erano le sue... Le gocce d’acqua che si schiantavano sul pavimento appartenevano a una rete idrica sepolta tra le macerie, distrutta da quell’evento impossibile da prevedere.

“Non ho scelta... Devo sollevare la testa, per capirci qualcosa”. Si preparò al peggio. “Se ho perso le gambe... Io...”
Si sollevò su un gomito e guardò il resto del corpo. “Ci sono! Le gambe ci sono...” Un macigno le bloccava, ma non era nemmeno troppo grande. Forse aveva qualche possibilità.

“Se solo non fossi piegato in questo modo, forse potrei...” La dura realtà lo colpì con violenza. “Ma che dico? Qui serve ben più della forza di un ragazzino per smuovere quel blocco di cemento”.

L’interezza del suo corpo era bianca di polvere, in un miscuglio di cemento e arkastro. Vederlo bastò per accorgersi che quella roba ce l’aveva anche in bocca. Un sapore di segatura e gesso si risvegliò nella sua gola. Gli venne da vomitare, ma si trattenne. Iniziò piuttosto a tossire come un dannato, dimenandosi e cercando di buttare fuori più polveri possibili. E non riusciva a smettere. Agitarsi in quel modo non fece altro che accrescere il dolore dei tagli, che sfregavano sul minerale sbeccato. Con fatica immane, riuscì a mettersi a pancia in su, dove dopo un ultimo sussulto, smise di strafogarsi.
Si pulì gli occhi come poteva e si guardò attorno. Era ancora nel luogo del disastro. Dell’edificio non era rimasto che lo scheletro. I vasi erano ormai cocci, dispersi chissà dove. L’ascensore si era staccato dagli agganci e non si vedeva più. Le scale erano accidentate, ricoperte di calcinacci e frammenti di vetro. Auguri a scendere ora... Metà della parete sinistra del suo piano era andata in fumo, mentre quella destra presentava una serie di buchi, tanto che sembrava una fetta di groviera. I piani superiori erano anche peggio. Uno scenario più adatto a una guerra, che ad una città di ghiaccio. Il crollo si era concentrato proprio lassù.

Se Yunix si fosse trovato lì non c’erano dubbi che sarebbe stato spiaccicato. Forse la sorte aveva iniziato a sorridergli. Poi, come il rintocco di una campana, nella sua testa risuonò un altro pensiero che gli sarebbe dovuto venire in mente ben prima. Non era solo, lì sopra, quando tutto era franato.

“Dov’è... Dov’è Lex?”

Si girò, infischiandosene dello sforzo doloroso che era costretto a fare. E lo vide. Vide il verde del mantello e il rosso della divisa.

“Al piano superiore!” Era ritto in piedi e boccheggiava. Yunix allargò gli occhi per lo stupore. “Wow... Come ha fatto a...?”

Ma poi, allineando lo sguardo traballante, vide che c’era qualcosa di profondamente sbagliato. Il ragazzo tratteneva un grido sotto i denti. Le ossa del viso erano pronunciate come quelle di uno scheletro. Il petto si alzava e si abbassava con rapidità, e ad ogni respiro Lex sembrava più sofferente. Yunix non ci mise molto a capire perché. Lunghi supporti per edificio arrugginiti avevano trafitto il ragazzo in tre punti diversi del torace, trattenendolo sul pianerottolo, dove il ragazzo dissanguava lentamente.

«Lex! Cosa? Come!?»

Cercò di muoversi, ma le gambe erano bloccate. Il ragazzo dai capelli verdi abbassò lo sguardo, oltre le spranghe di ferro e lo vide.

«Yunix?» La voce controllata era ora screziata di una sottile urgenza e di un folle dolore. «Queste? Tsk... Non sono nulla... Io m... me la caverò. Devi fare una cosa per me... capito?» 

Yunix tentò ancora una volta di scrollarsi di dosso la roccia, senza risultato.

«Ma che dici? Hai bisogno di urgenti cure! E io non posso muovermi!»

Lex sbatté le palpebre, come in uno sforzo di rimanere cosciente. «No! Sto dicendo la verità... Credo di poterlo sopportare. Tu, piuttosto... Sei pallido da far schifo e hai un bernoccolo in testa, ma quanto alle gambe... Ci penserò io».

Yunix era in preda al panico, ma guardò Lex negli occhi e cercò una certezza in quei riflessi ovali. Una rassicurazione. Qualsiasi cosa che lo accertasse sulle sue condizioni.

“Quando si è in queste situazioni, non si fa altro che mentire... A fin di bene il più delle volte”. Non ricordava quali film avesse visto nella sua vita, ma era certo di averne visti parecchi. “Quando dicono quelle cavolate del tipo ‘posso sopportarlo’ o ‘me la caverò’ di norma non ci sono dubbi che moriranno, però questa volta... Vuoi che questa volta... Qui nel mondo reale... Lex non stia mentendo? In fondo, non ho idea di quale sia il suo potere... Se solo ne avessi la certezza: la certezza che ha tutto sotto controllo, potrei...”

Lex richiamò la sua attenzione e lo fissò con una determinazione mortale, permettendo che accedesse alla sua mente, che varcasse le soglie delle sue palpebre. E quella certezza vi fu. Una scintilla accese quegli occhi profondi e lo convinse del tutto.
“Mi salverà. E salverà sé stesso, anche se non so ancora come”.
E così si fidò ciecamente, perché quei piccoli globi luminosi erano lo specchio dell’anima: l’anima di un vero eroe.

«Cosa vuoi che faccia, ammesso che tu riesca a liberarmi?»

Lex tossì penosamente e si allungò verso una sporgenza. In una situazione simile, Yunix si sarebbe preoccupato per il pericolo in cui il ragazzo stava mettendo il suo corpo, ma in quel momento avvertiva la sua intensa necessità di liberarsi, pur non comprendendone il motivo. Il ragazzo faticava come un cane a muoversi, ma non si arrendeva.

«Normalmente...» vociò, «aspetterei i soccorsi. Sarebbe la scelta più saggia... pure dal mio punto di vista... Però...»

Il ragazzo aveva il respiro mozzato, ma non accennava a desistere dal movimento. Yunix sentì le proprie unghie graffiare i suoi stessi palmi. Il suo corpo gridava di farlo smettere, ma doveva seguire il suo cuore, solo esso e nient’altro, come aveva fatto prima di entrare all’HG. Quella era la strada che doveva prendere. Sentì anche le lacrime, questa volta non di dolore, ma di fulgida ansia per quel ragazzo che conosceva da così poco, ma a cui teneva già tanto. Lacrime che non sarebbero mai sgorgate, per una maledizione del destino. Non ci badò. Il suo corpo non lo controllava. Doveva avere fiducia in quel ragazzo. Lex era a pochi centimetri dalla meta. Ormai non tratteneva più i lamenti, ma li buttava fuori per farsi forza.

«Mentre... mentre il palazzo crollava... Ho visto un villain...»

“Un villain?” Yunix guardò all’esterno e capì. “Ma certo... L’ho visto anch’io. Quella figura che si avvicinava... Allora era un villain. È lui che ha distrutto tutto”.

Guardò Lex, allo stremo delle forze.

«Vuoi dire che uno dei criminali è sfuggito al controllo dell’accademia!?» “Lo sapevo... Lo sapevo che sarebbe accaduto!”

«Proprio il mio pensiero...» bisbigliò il ragazzo con il mantello verde. Il sangue sgorgava dalle ferite con più veemenza.

Yunix si morse una mano. “No... Devo lasciarlo fare”.
Ma non riuscì a trattenersi.

«Rischi di peggiorare la situazione. Con quelle ferite non otterrai nulla. Smetti di muoverti».

Ma non c’era convinzione nella sua voce. Era un piagnisteo remissivo, che Yunix avrebbe preferito non pronunciare. Lex strinse i denti, non accennando ad arrestarsi.

«Non posso farlo. E un po’ di dolore va bene... Se l’uomo allontana da sé il dolore... non potrà vedere il vero sè stesso... E poi... Non capisci? Se non lo fermiamo... Potrebbe fare del male a un civile. Tu lo permetteresti?»
Il ragazzo dai capelli grigi distolse lo sguardo e non disse nulla. Lex se ne accorse.
«Passi i Villains, passi gli studenti, ma lì fuori ci sono civili che si sono proposti per il ruolo di finti feriti. E se dovesse... e se dovesse... incrociarne uno sulla sua strada?»
Yunix guardò con ostinazione le gambe bloccate. Il ragazzo con il mantello ansimava, ma non demordeva.
«Forse mi sbagliavo su di te... Forse non sei così diverso da tutti gli altri... ma comunque non importa... Non importa. Se non andrai tu... Lo farò io».
Si protese con tutte le forze che aveva, verso la protuberanza di pietra.
«Se... se c’è anche solo una possibilità su cento che quel villain faccia del male a una persona innocente...»
Il ragazzo tossì sangue dalla bocca.
«Stai certo che io... darò tutto me stesso per impedirlo!»

A quelle parole, Yunix covò uno strano senso di divergenza dentro di sé. Da una parte il cuore batteva per quell’eroismo, dall’altra una fredda morsa gelida lo tratteneva.

“Troppo sangue... Per nessun motivo...” Si sollevò sulle braccia, senza spezzare il contatto visivo. “Perché rischiare la morte per un 1% di possibilità? Essere eroi non deve coincidere con essere sciocchi! E lo dovrebbe sapere!”

Non capì perché i suoi pensieri erano così bugiardi nei confronti del suo cuore. Non se lo chiese nemmeno. Era ormai chiaro che non poteva volere due cose allo stesso tempo.

«Sei davvero unico tra tutti gli altri, Lex, originale, sì, ma sei anche un’irresponsabile. Perché vorresti buttare così la tua vita?» La sua voce raschiante, ma potente lo sconcertò. Emise un singhiozzo sorpreso, poi quasi contro la propria volontà riprese a parlare. «Nelle tue condizioni forse tirerai fuori dal mantello uno stratagemma per sopravvivere... Ma non c’è verso che tu riesca a combattere, non appena sarai di nuovo sulle tue gambe. Non c’è tempo. E tu lo sai bene. In fondo, è per questo che hai chiesto aiuto a me».

Una strana sensazione di biasimo verso quel ragazzo lo pervase. “Anche chi ha una vita promettente è pronto a buttarla, alla prima occasione. Ma lo sanno quanto è preziosa, in confronto alla mia?” Squadrò il ragazzo con occhi di ghiaccio. Questi si immobilizzò, turbato, ancora nell’atto di liberarsi.

«Che hai agli occhi?» domandò, con l’icore vermiglio che colava lungo le brache.

Yunix piegò la testa, fingendo di non averlo sentito.

«Pensi che io sia un codardo, vero? Sai quanto me ne importa... In verità, sono solo stranito nel vedere un desiderio di morte così forte da una persona che da quello che ho potuto vedere non ha niente da invidiare alla vita degli altri. Perché sei così disposto a salvare persone che nemmeno conosci?»

Lex incurvò la bocca in una smorfia e indicò la città di Infection.

«Tsk... Non mi aspetto che tu lo capisca... Ma... Per quanto possa sembrarti riduttivo... questo è il mondo a cui voglio appartenere... il mondo degli eroi». Il ragazzo sorrise a quelle parole, come se avesse rievocato una gioia lontana.

Yunix sospirò, scuotendo la testa.

«Allora sta tranquillo. Farò volentieri il possibile per fermare quel villain, giusto per vedere se oggi è il mio giorno fortunato, ma non farti illusioni... La scelta più saggia sarebbe aspettare qui i rinforzi». Si stupì ancora una volta delle sue stesse parole. Sembravano pronunciate dalla bocca di un altro.

«Perché?» si limitò a chiedere Lex, la bocca impastata di sangue.

Yunix accennò a un sorriso, la tonalità degli occhi che tornava normale.

«Mi fido di te. Per oggi, mi fiderò profondamente di tutto ciò che mi hai detto. Sono Yunix Braviery e per quanto sia solo un esaminatore, farò come dici. Andrò a fermare quel villain o fallirò provandoci. In fondo, non ho nulla da perdere».

Lex aggrottò la fronte, mentre un rigagnolo di sangue gli solcava il labbro.

«Non hai niente da...?»

Yunix lo zittì con un dito.

«Non abbiamo tempo e tu lo sai... Se vuoi fidarti di me come io mi fido di te, mi dovrai liberare... Come levo questo blocco?»

Lex abbandonò la testa sulle spalle, come per soffocare il dolore e mise una mano dietro il mantello, pulendosi con l’altra le labbra scarlatte. Non sapeva cosa stesse accadendo al ragazzo di fronte a lui, ma nonostante fosse confuso per quei continui cambi di atteggiamento, doveva sbrigarsi.
“Se il villain si allontanerà troppo, non lo prenderemo più. Anche se questo Yunix decidesse di scappare non farei in tempo a raggiungerlo, comunque. Questo qui... è la mia unica possibilità”.

Yunix si massaggiò il polso e si accorse con sorpresa che tremava.
“E questo? Non avrò per caso paura per la mia vita? Perché dovrei?”

«Prendi!» gli ordinò Lex.

Yunix si riscosse e afferrò l’oggetto che il ragazzo gli aveva lanciato. Rischiò di farlo scivolare tra le dita impolverate, ma lo tenne ben saldo un attimo dopo. Era una strana scheggia verde, ricoperta di striature. Il ragazzo provò a tastarla con un’unghia. Era dura come il titanio.

«Che ci dovrei fare con questa?» Guardò Lex e vide che le pupille dei suoi occhi piroettavano in modo strano nel candore del cristallino, come se il ragazzo fosse lì, lì, per addormentarsi. «Ehi! Non lasciarmi ora! Mi hai promesso che te la saresti cavata!»

Il ragazzo con il mantello sorrise, ormai arrivato a un livello critico di perdita di sangue. Aveva la vista annebbiata, ma rimaneva eretto sulle ginocchia. Il mantello dietro di lui tremolava come scosso da raffiche di vento, ma alle sue spalle l’aria era immobile.

«Ho solo bisogno... di un po’ di riposo... Fidati di tutto ciò che ho detto finora... Te ne prego... Per quanto riguarda quella...” La scheggia nelle mani di Yunix brillò di energia. “È solo un semplice... gioco di leve...» sussurrò Lex, prima di chiudere gli occhi.

Il mantello pendette floscio sulla sua schiena. Yunix strinse i denti e iniziò a sussultare. Si strinse le mani sulle costole. Stava accadendo di nuovo. Una necessità improvvisa di ridere. Una risata di speranze distrutte. Una risata di puro caos. Una risata isterica che sorgeva fin dalle profondità del suo corpo. La lasciò uscire. Lasciò che si scatenasse oltre la barriera dei denti. E nell’aria delicata di Infection risuonò il suo riso miserabile.

“Dovrei fidarmi... che sia ancora vivo? Questo è ciò che voleva dire? Bene. Mi fiderò. Tanto non so più cosa pensare”.

Si asciugò il sudore dalla fronte e respirò a fondo. Sentì un dolore acuto al ginocchio.

“Ma che?” La scheggia verde che il ragazzo gli aveva lanciato era caduta sulla sua pelle, disegnando un taglio sottile sul ginocchio. “Ma guarda... Quant’è affilata!”

Una lampadina si accese nella sua testa. “Aspetta... Ha parlato di un ‘gioco di leve’, no?”

Osservò il blocco di pietra che teneva ancorate le gambe al suolo. C’era abbastanza spazio per infilarvi qualcosa di sottile.

“Fisicamente parlando, sarebbe impossibile sollevare la roccia, usando una leva del genere, ma in questo mondo di follia ogni regola è solo una convenzione, in fondo... o almeno spero”. Con mano tremante pose la scheggia verde sotto la roccia.

“Non so per chi è che sto facendo tutto questo. Se per Lex, me stesso, o chissà chi altro... Ma farò di tutto per fermare quel villain, anche se dovessi morire, nel tentativo. Che male ci sarebbe nel soccombere alla maniera di un eroe?”

Strinse la mano sul frammento verde, sorto da chissà dove, e tirò verso l’alto, senza la minima esitazione, sapendo che in qualche modo sarebbe riuscito a venirne fuori.
 


Il suono dell’Arkastro che s’infrangeva sotto le suole ferrate dell’ex generale era musica per le sue orecchie. La sua era un’avanzata trionfale e vittoriosa, degna di un re e a ragion veduta: stava compiendo qualcosa di mai riuscito prima. Alzò gli occhi al cielo.

“Fumo nero, in comignoli di ghiaccio”.

Un segnale... Il segnale che gli uomini assoldati da Ahrima avevano ingaggiato gli Heroes.

“Già all’opera vedo... Rapidi come ci si aspetta da loro”.

Anche con tutte le telecamere, dopo la ‘triste’ sconfitta di Fen Yang, l’ascensione era diventata impraticabile. Con il guardiano a terra, era rimasto un solo modo per arrivare a Infection e trovarlo. Per raggiungerlo prima che scappasse avrebbero dovuto compiere un salto nel vuoto, quasi letteralmente. Una via scomoda e decisamente poco pratica, ma anche l’unica rimasta. Sì. Gli eroi avrebbero dovuto raggiungere Infection via aerea, nonostante i rischi. E l’avrebbero fatto, di nuovo nonostante il pericolo, perché gli innocenti venivano prima di tutto per quei dannati damerini colorati. E probabilmente sarebbero anche arrivati vicini a raggiungerlo, ma lui avrebbe avuto comunque il tempo di sparire nel nulla. Aveva organizzato tutto nei minimi dettagli, piani e contropiani. L’ostacolo più grande era già un lontano ricordo. Non era un caso se si era messo a marciare invece che a correre. La fuga l’aveva già in tasca: tanto valeva preservare le forze per eventuali imprevisti.

“Sarò il primo a fuggire durante il test d’ingresso, nella storia di quest’accademia. Un duro colpo per un sistema che sembrava di ferro di nome e di fatto. Quasi quasi mi piacerebbe restare per vederlo. L’ho sempre saputo, cazzo. Ho sempre saputo che avrei riscritto la storia a mia preferenza. E una volta fuori, sarà la fine per questo stato ingrato. Forse la società supereroistica del Giappone avrà paura di sporcarsi le mani, ma con me alla guida delle loro forze, la primitiva rivalità dei due stati, Temigor e Giappone, si risolverà in una sola grande guerra. E io sarò in prima fila, quando accadrà, avvolto nel sole rosso in campo bianco che indossavano i mitici samurai. E non vedo l’ora di conoscere l’esito di questo dissapore che si tramanda di generazione in generazione. Chissà... Vincerà uno stato antico di millenni con storie e tradizioni dietro di sé, o un prodigio dell’urbanistica quale è la città di ferro? Un piccolo borgo che ha osato sfidare il mondo intero contro una terra d’onore, coltivata sotto un cielo cristallino. Questa è la mia ragione di vita: combattere in quella guerra e morire, se necessario. Non importa per quale delle due parti”.

Armday sorrise come se fosse il giorno di Natale e continuò a sfilare a testa alta lungo il viale alberato scintillante. Il minerale che circondava ogni cosa assomigliava quasi a un’orda di fotografi che lo riprendevano, nella sua avanzata su un tappeto rosso di pura luce: “la strada verso la mia libertà”.

Continuò a camminare, fino a che il suo sesto senso non lo mise in allerta. Il generale avvertì qualcosa: un suono insolito, che per qualche ragione impiegò alcuni secondi a razionalizzare... Era un miagolio. Pensò di aver sentito male e invece il richiamo si ripresentò da qualche parte alle sue spalle. Si voltò, un po’ intontito. E non credette ai suoi occhi. C’era proprio un gattino sul selciato. Avanzava leggiadro sull’Arkastro, come se ne conoscesse bene le proprietà. Aveva una bellissima colorazione bianco-latte con qualche macchietta nera sul musetto. I suoi baffi erano vibranti di vita e gli occhi verdi lo guardavano senza paura, con un giocoso interesse. Gli si avvicinò facendo le fusa. Armday svelto saltellò all’indietro.

«Eh... Ehi... Che fai!? Cioè... via...» Fece un timido gesto della mano, come per allontanarlo. Il gatto lo prese come un gesto di d‘incoraggiamento e si fece avanti. «Ma ehi... Va via!»

“Ci mancava questa” pensò, mentre il gatto gli gironzolava attorno alle gambe. “Non ho una singola fottuta esperienza con queste palle di pelo...” Si grattò la testa. “La capirà la mia lingua?” S’inginocchiò e iniziò ad accarezzarlo.

«Non lo vedi, gattino? Io sono un villain. Se stai vicino a me, gli Heroes verranno a farti la pelle, puoi starne certo». L’esserino gli saltò sulle spalle. «Ma che?»

Armday lo sentì scavare nella divisa blu scura per farsi un giaciglio. L’ex generale arricciò il naso.

«Temo che tu non abbia capito... Io sono un bastardo. Un lerciume d’umano. Non uno per cui avere pietà... Ah... Ma va là... Tu vuoi solo coccole e cibo, immagino». Armday notò che i colori del cielo erano ormai arancioni. Si rivolse al gatto, iniziando a sogghignare. «Ehi, chiunque tu sia... è impossibile che tu riesca a vivere in questa città da solo. Ti ha portato su qualcuna di quelle pesti, vero? Il tuo padroncino, eh?»

Il gatto miagolò in risposta alla voce ironicamente smielata e saltò tra i capelli a sperone e il filo spinato. Subito, Armday trasalì.

«No! Lì è pericoloso. Scendi subito...»

Il villain si paralizzò, così su due piedi.

“Aspetta... Mi sto seriamente preoccupando per la vita di questo gatto?”

Si grattò un orecchio, sovrappensiero, mentre un dubbio gli zampettava nella testa.

“E se fosse un ragazzo trasformato in gatto? E se fosse un’esca? E se mi stesse controllando? No... è troppo pericoloso... per me! Dev’essere per questo che IO sono preoccupato per lui”.

Il gattino si accoccolò sul nido capelluto, continuando imperterrito a fare le fusa. Il generale valutò il da farsi.

“Non posso perdere troppo tempo. Se vuole venire con me, che lo faccia pure. Dubito sia qualche tipo di Quirk di mutazione e anche se fosse, lo sistemerò a tempo debito... Non diventerò paranoico per un gatto appiccicoso che alla buona sarà... beh... un gatto”.

E con un cambio di posizione degno di un apprezzamento, si rimise sul centro della carreggiata e riprese a marciare. Il passeggero non si curò più di tanto della novità e si arrotolò su sé stesso, pronto a un sonnellino.

“Ma guarda questo... Per chi mi ha preso? Ah, vattelapesca’. Farà poi quello che vuole. Riposo, soldato. Hai una missione da compiere”.

Il viale proseguiva per un po’, ma la sua fine era nascosta dietro una statua nera, ghiacciata nell’acciaio di Temigor. Un ultimo ostacolo di fronte alla sua strada di vittoria.

“E che ironia...” pensò astioso quando riconobbe a chi apparteneva.

La sua furia non fece che crescere man mano che si avvicinava.

«Guarda attentamente, gattino... Quello sì che è un poco di buono».

L’effigie dell’uomo era di quasi quattro metri, corrosa dal tempo, ma era impossibile non distinguere i particolari del volto e in particolare il simbolo dell’infinito sulla sua fronte, che aveva fatto tremare tutti quelli che l’avevano visto dal vivo. Copy&Paste: un egocentrico ribelle... Un eroe per i più, ma allo stesso tempo un malfattore con più crimini di ogni altro villain del tempo, come la creazione della stessa Infection. Un essere con un Quirk così temibile e insensato da aver interessato la comunità scientifica mondiale per secoli. Un vero demone.

“Però alla fine è morto anche lui. E per fortuna...”

Armday si era interessato alla storia dei grandi di Temigor, ma nessuno lo aveva colpito come quel vigilante. Ed era arrivato a una sola semplice conclusione: persone come Copy&Paste non dovevano e non potevano avere una vita lunga. In un solo anno erano in grado di dare vita a ciò che un’intera civiltà avrebbe impiegato secoli a creare. Oppure, potevano riuscire a distruggere un popolo, ancora prima che questo imbracciasse le armi. E tali abilità nelle mani di un solo uomo, avevano ben più probabilità di portare alla decimazione di una popolazione, piuttosto che al suo benestare.

«Capisci, gatto?» sussurrò guardando il viso contrito di Copy&Paste. «La radice va estirpata sul nascere... Che significato ha una guerra in cui i soldati non hanno valore? E la cosa peggiore è che molto presto questa condizione si allargherà alla totalità delle generazioni future. E io, a malincuore, devo proprio dire che non voglio essere lì per vederlo».

Armday aveva sentito ampiamente parlare degli studi scientifici sui Quirk. Il principio del punto di singolarità era valido, anche se lo studio condotto a Infection in proposito gli sembrava più legittimo, sul lungo termine. Eppure, entrambe le teorie concordavano su una cosa: il mondo avrebbe avuto una vita assai breve se persone con poteri sempre più forti avrebbero continuato a essere lasciate libere di fare ciò che volevano.

L’ex generale emise un basso ringhio e in un attimo sollevò la mano.

«Ma non sei l’unico a possedere un Quirk degno di essere ricordato. Scompari dalla mia vista!»

Il braccio guarnito di borchie ribollì come una superficie magmatica e si ingigantì fino a raggiungere le dimensioni di un camper. Con un movimento sferzante, la statua venne sradicata dal suo piedistallo e volò contro una macchina, per poi finire in pezzi contro il muro. La testa di pietra nera rimbalzò contro il ramo di un albero e finì a terra, dove rotolò per qualche metro, fermandosi a pochi passi da un tombino cristallizzato.

Armday notò con stizza che uno degli occhi vuoti sembrava guardarlo. Non se ne curò. Credere in quel tipo di cose era da fanciulli effeminati, non da militari come lui. Fece tornare il braccio alla grandezza originale e lo guardò, compiaciuto.
“Un gioco da ragazzi...”

Un paio di sassolini ruzzolarono contro il suo scarpone e gli fecero abbassare lo sguardo. Sbarrò gli occhi. Nel piedistallo della statua, c’erano fessure molto strane, non naturali, e da una di esse scorse l’occhio terrorizzato di un bambino. L’uomo afferrò il piedistallo e lo ribaltò rivelando un piccolo giaciglio, in cui il piccolo, di forse dieci anni, era rannicchiato, con un visino preoccupato e sporco.  Il gatto bianco sopra la sua testa lanciò un miagolio affamato. Quasi istintivamente Armday, lo accarezzò, guardando il piccolo umano, senza espressione.

«Sono... Sono ferito. M-mi dovresti aiutare...» piagnucolò il ragazzo, chiaramente recitando una parte, anche se non con troppa sicurezza.

“Ah! È uno del test. Uno di quelli che deve essere salvato.” Armday si sfregò le mani, al settimo cielo. “Che colpo di fortuna... Mancava giusto questa risorsa per rendere la mia evasione assicurata!”

Sfoggiò uno dei sorrisi più stiracchiati che conoscesse.

«Proprio così! Sono qui per portarti in salvo... Forza, dammi la mano!»

Il ragazzino lo osservò dubbioso, ma la vista del gattino che si strusciava contro lo sperone di capelli del soldato lo rassicurò e gli porse la mano. Aveva occhi neri e capelli simili a petali di rose di colore blu notte, ma il fisico piuttosto emaciato per un ragazzo della sua età. Sarebbe stato perfetto per ciò che Armday aveva in mente.

«Pensavo... Pensavo che sarebbe stato un ragazzo a salvarmi» bisbigliò lui con voce limpida.

Armday ridacchiò, sardonico.

«Nel posto in cui eri, è tanto che ti abbia trovato io. Tranquillo. Il test è finito da un pezzo». Strinse forte la manina fredda. «Andiamo a casa, che ne dici?»

Cominciò a trascinarlo con sé. Il ragazzino lo seguì per qualche metro, grattandosi il mento.

«Mmmm... Ma se... Ma se... sono rimasto senza salvatore... mi avevano detto che sarebbe venuta la donna dai capelli rossi... Mi avevano detto così».

Armday scrollò le spalle.

«Dicono tante cose, di sti’ tempi. Non sai mai a cosa credere. Dico bene? Guarda, facciamo così... Ti porto dritto dalla donna dai capelli rossi, così le tiriamo un calcio per aver dimenticato di venirti a prendere. Che ne dici? Un bel calcio negli stinchi...»
Il ragazzino rise, coinvolto e allungò una mano verso il viso dell’uomo, che non seppe come reagire.
«Cosa...»

Poi sentì le zampe del gattino sul braccio e capì che era lui che il ragazzo volveva accarezzare. Per accontentarlo, calò la bestiolina sulle braccia, per metterlo alla sua portata. Questi lo accarezzò, continuando a ridacchiare.

«Bellissimo! Come si chiama?»

Armday sussultò. Non aveva pensato a un nome. Cercò nelle mente il primo titolo che gli venisse in mente. E infine rimase con un solo nome possibile.

«Elmer... Si chiama Elmer».

Il solo pronunciare quelle parole gli instillò nel cuore un’intensa e smaniosa malinconia.

«È un maschio allora!»

Ma al generale non poteva fregare di meno se quel gattino fosse un maschio o una femmina. La sua mente era altrove, persa in ricordi felici ormai dimenticati. Il ragazzino se ne accorse e tacque, continuando a coccolare il gatto. Oltre le due città ribaltate, in lontananza, esplose uno sbuffo di fumo.

“Merda! Ho perso anche troppo tempo. Basta giochetti.”

Strinse forte la manina del bambino e riprese a camminare. Questi non si ribellò. Il gatto soprannominato Elmer si aggrappò al soprabito e si arrampicò nella vecchia postazione, mentre il ragazzino arrancava a fatica dietro di lui. Non poteva concedersi altri ritardi sulla tabella di marcia. Non voleva giocare sporco con un ostaggio, ma l’avrebbe fatto senza remore, se necessario.

“La mia guerra è più importante di ogni altra cosa. Non lascerò che un gatto e un ragazzino mi impediscano di portarla a compimento. Il d-day è ormai a un passo! È il motivo per cui ho sempre combattuto e non lascerò che nessuno mi distolga da quell’obbiettivo, nemmeno...”

Avvertì come una brezza ghiacciata sulle braccia che gli fece venire la pelle d’oca: una sensazione che non provava da quella notte tremenda, ancora prima che venisse internato ad Aster. Ricordava ancora il rimareggiare delle onde, che udiva sfrigolare contro le marmitte delle corazzate, ancorate al porto. Ricordava la fredda pioggia incessante che scavava nelle ossa e il sangue che scivolava nelle fogne, mentre la città addormentata non poteva vedere quale essere brancolasse per le strade in quella serata di sacrifici. Non poteva rendersi conto del terrore di guardare negli occhi il male assoluto. Una voce gelida, raspante, ma salda gli vibrò nelle orecchie.

«Fermo dove sei!» L’ex generale s’immobilizzò. Benché ancora frastornato, sapeva come reagire prontamente a ogni situazione. La voce riprese. «Non lascerò che a quel bambino venga fatto alcun male! Quindi... Ti conviene fare come dico». 

“E questo..? Sarà un Hero? No... Ha la voce troppo acuta. È un ragazzo. Un ragazzo che è rimasto nella metà inferiore. Pensavo che non ne avrei incontrati, ma ora che è qui... in realtà non cambia nulla”.

Aveva una voglia matta di voltarsi ed affrontarlo, ma non poteva sottovalutare nessuno... Men che meno uno tanto intraprendente da essersi iscritto a quel test malato. Meglio fargli credere che avesse il controllo... per ora. Sentì Elmer soffiare verso il nuovo arrivato. Aveva tirato fuori le unghie e le aveva affondate nei capelli biondi, neanche avesse di fronte un demone.

“Santi numi! Mi vuoi davvero così bene, gattaccio?”

Il ragazzino più piccolo si aggrappò al braccio del generale, guardando da una parte e dall’altra, ogni momento che passava più apprensivo, più dubbioso.

«Che sta dicendo, signore? Perché... Perché ha paura che tu possa farmi del male?»

Armday guardò il visino, stringendo le labbra. Non ancora. Non è ancora il momento di voltarmi verso il mio avversario.

«Perché ha paura? Ha paura perché pensa di conoscere il mio schieramento. Ti spiego: in guerra, le uniformi dicono tutto di una persona. Chi è, per chi combatte, quanti meriti ha ricevuto, persino il suo gusto per il design... ma nella vita? Oh no, no... Nella vita, il colore non ce l’abbiamo nei vestiti, ma qui dentro!» esclamò battendo un pugno sul petto. Aveva alzato il tono di voce di proposito. «E quando crediamo di conoscere la bandiera di un altro dovremmo chiederci il modo in cui siamo giunti a questa conclusione!»

Con questa foga in corpo, l’ex generale si voltò. Non sapeva chi aspettasse di trovarsi davanti; non sapeva nemmeno chi sperasse di trovarsi davanti, ma qualunque fosse il nemico prefigurato dalla sua immaginazione, rimase deluso.
A metà della careggiata si ergeva un giovane di sedici anni. Aveva capelli grigiastri, scompigliati, laccati qualche giorno addietro a quanto pareva. La fronte affilata era coperta da un sottile lembo di tessuto marrone, a tamponare un po’ del sangue che aveva perso. Sfoggiava una cicatrice sulla bocca, accesa di bianco, come la pelle di un basilisco. I suoi vestiti erano ridotti male, stracciati e ricoperti di polvere, e lo stesso valeva per i corti arti. Sembrava un randagio, dal gran che era trasandato, eppure lo guardava dall’alto al basso con occhi grigi disumani, con centinaia di ingranaggi che si muovevano senza uno schema all’interno dei bulbi oculari.
Qualcosa in quel ragazzo lo turbò interiormente, ma non comprese l’origine di quel disagio: non aveva nulla di minaccioso e lui che era stato in guerra capiva ad uno sguardo se un nemico era degno dell’attenzione che riceveva.
Il ragazzo parlò di nuovo, muovendo appena le labbra. Aveva un’espressione forzatamente decisa, ma tremava da capo a piedi.

«Non mi importa della tua uniforme o dello schieramento a cui appartieni. Sono qui per farti una semplice proposta: lascia quel bambino e vattene senza fare del male a nessuno. Se lo farai, non muoverò un dito per fermare il tuo tentativo di evasione. Pensaci. Potremmo vincere tutti!»

Armday sentì i secondi ticchettare, con immisurabile lentezza.

“Se continua a blaterare... Il bambino ‘capelli di rose’ capirà velocemente chi è il cattivo”. Guardò di fronte a sé il viso tirato del ragazzo e prese una decisione. “Non volevo farlo, ma alla fine sarò solo quello che tutti vogliono che sia...” Il braccio destro riprese a ribollire. “Un villain”.

Le vene pulsarono con forza, mentre il sangue veniva pompato a una velocità superiore a quella di ogni altro essere umano.

L’ex generale sorrise, finalmente a suo agio. “Il mio Quirk non ha una storia degna di essere ricordata...” Con un impeto pulsante l’arto s’ingrossò di botto. “Non è niente di originale ed è facilmente prevedibile, fragile, poco versatile e persino ingombrante...” Aprì le dita giganti con gusto e le scagliò verso il basso, oltre il suo busto. “Ma cazzo se l’ho padroneggiato!”

Uno spostamento d’aria e il generale ruggì vittorioso. Aveva fatto la prima mossa. Strinse il bambino nel pugno della mano e lo sollevò in aria. Questo si mise subito a urlare, le lacrime agli occhi.

«Basta con gli scherzi!» ringhiò Armday al ragazzo in fondo alla strada. «Pensi di potere darmi ordini così alla leggera? Forse è vero che vinceremmo tutti e due, se solo lo lasciassi andare, ma un ostaggio è pur sempre un ostaggio, e non avrò problemi a lasciarti nella polvere in men che non si dica, se dovessi essere così ardimentoso da attaccarmi... portandomi dietro il bambino, ovviamente. In altre parole, mio caro, levati di torno. Il mio è solo un consiglio, comunque».

Il suo avversario non batté ciglio.

«Non lo farò. Oggi forse riuscirai a essere libero, ma se torcerai un solo capello a quel bambino, cosa pensi che succederà?» Teneva le braccia alzate, pronto a combattere in ogni momento. «Molto presto ti riprenderanno. Non penso che gradirai una condanna a vita!»

Armday rise fragorosamente, superando in volume le grida del bambino.

«Non ci sarà alcuno stato che mi potrà catturare, nessun sistema che potrà giudicarmi se le cose andranno come dico io... Inoltre, anche se non lo faranno, non ci sarà nessun mortale capace di condurmi in quella cella di cui parlo, perché sarò in una prigione assai più fredda e buia di quanto tu possa immaginare. Ma non sarò dimenticato, anzi sarò glorificato come un grande guerriero al pari delle leggende del paese di fuoco che si erge oltre le colline sotto di noi».

Il ragazzo dai capelli grigi non accennò a muoversi. Continuò a guardarlo, imperturbabile.

Il generale ammiccò.

«Ci pensi, ragazzino? Siamo in cima al mondo ora! Immagina di sfruttare questa città come una tribuna colossale: un palco da cui vedere la mia guerra. Immagina il sangue dei Giapponesi e i Temigoriani scorrere sotto di noi, così insignificante, che i corpi ci apparirebbero come un’informe marea rossa! Riesci a immaginare qualcosa di più maestoso, di più tragico!? E se ci fossi anche io tra quei corpi, sento che sarei soddisfatto di ogni scelta che ho compiuto fin da quando una santa donna mi ha trascinato in questo mondo».

Elmer era guardingo, ma non accennava a spostarsi dai suoi capelli aguzzi. Il bambino che stringeva nel pugno aveva sostituito gli urli con il pianto. Armday si godette il silenzio, seguito alle sue parole. Guardò il ragazzo dai capelli grigi, che aveva abbassato le braccia e lo guardava senza espressione.

“Ah, ma cosa penso di aver ottenuto? Chissà che ha capito di ciò che ho detto! Per l’ultima volta... Agli occhi di quelle pesti siamo tutti uguali, noi villains”.

Il ragazzo sospirò.

«Anche tu, eh? Anche tu saresti pronto a dare la vita per il tuo ideale... Sembra quasi che sia io quello fuori di testa».

Armday fece un passo indietro, colto alla sprovvista.

«Ma che!? Pensi che non ne sia capace? Ho il diritto di decidere come morire, no?»

Il ragazzo agitò la mano, in segno di diniego.

«No, no... Mi hai frainteso. A dir la verità, noto in te un movente piuttosto valido per tutto ciò che fai. Solo...» Il ragazzo cambiò espressione. «Sono schifato dalla leggerezza con cui trattate questa occasione che avete. Davvero Heroes e Villains sono solo degli idioti che non aspettano altro che il giorno della loro morte!?»

Armday si irritò all’inverosimile.

“Ma chi si crede di essere! Non permetterò a questo poppante di venire qui a gettare spazzatura sul mio pensiero.”

Emise un basso ringhio.

«Non ti devi permettere di chiamarmi così! Non uccido per divertirmi, ma se devo uccidere uccido! E tu stai oltrepassando una soglia molto pericolosa...»

E con sua incredibile sorpresa, il giovane scrollò le spalle, senza smettere di fremere. Aveva abbassato lo sguardo.

«Ora forse mi vedi tremare, come se avessi paura di te, di morire, dell’ignoto, ma non è così. Credo, anzi sono sicuro che questo...» dichiarò mostrando la mano colta dai brividi. «...sia un semplice e inconscio istinto di sopravvivenza, perché in realtà, ti dirò, accetterei volentieri di morire in ogni istante della mia vita. Così poco. Così poco vale questa esistenza!»

La voce del ragazzo era cambiata. Non era più semplicemente ruvida, ma addirittura spigolosa, sferzante, impetuosa, tanto che Armday ne avvertì il peso nel petto. E con un terribile gorgoglio avvertì di nuovo quella sensazione terribile. Questa volta fu accompagnata da una forte stretta allo stomaco, come se qualcosa di mostruoso si stesse arrampicando sul suo intestino, per dargli il colpo di grazia dritto al cuore. E l’ex generale, per la prima volta in oltre un anno, ebbe paura.

«Chi sei? Come hai fatto a trovarmi? Guardami in faccia!» La sua voce esasperata si ruppe, mentre il ragazzo continuava a studiare l’asfalto. “In nome di Dio! La sola sua presenza... La sola sua presenza è un potere! Non posso essere solo io ad avvertirla...”

E sentì il gattino sui suoi capelli rifugiarsi dietro il suo collo. Persino lui ne aveva la percezione. Sentiva qualcosa di tremendamente sbagliato.

Il ragazzo continuò:
«Davvero non aspetto altro che qualcuno ci riesca. Che qualcuno riesca a uccidermi! E questo solo perché per qualche ragione non riesco a farlo da solo!» Il ragazzo strappò qualcosa dalla tasca. «E voi: Heroes, Villains, lottate solo per morire a vostra volta!?»

Con un gesto leggiadro lanciò qualcosa di fronte a sé. Tappi colorati, che tintinnando si depositarono a terra. Armday portò subito lo sguardo al soprabito. “7, 8, 9... Merda! Non mi sono nemmeno accorto di averli persi! È così che mi ha trovato?”

«Ecco cosa valgono i tuoi onori, villain!» gridò il ragazzo. «Anche in prigione, pensavi di poter ricostruire ciò che avevi perso, suppongo! Ti svelo un segreto: in questa vita non si può tornare indietro! Ed è per questo che voglio lasciarla! Ma a differenza vostra io non posso andare avanti. Non finché non saprò... Non finché non saprò chi sono!»

Il bambino stretto nel pugno aveva smesso di piangere e ora ascoltava stregato le parole del ragazzo dai vestiti laceri. Il tremendo presentimento di Armday si accentuava ad ogni parola, ma non voleva crederci. Non poteva essere vero! Non in un giorno così importante! Si fece avanti.

«MOSTRAMI IL TUO VOLTO!»

Un ghigno sofferente apparve sul viso seminascosto, persino peggiore della freddezza di poco prima.

«So che non dovrei pretendere la pietà da nessuno, ma non poter nemmeno piangere, nemmeno versare una goccia di pianto, non lo auguro a nessuno. Le lacrime purificano, lavano via tutto e danno quel minimo di liberazione che io non avrò mai». la vena di amarezza nella voce si fece più acuta. «Ma Nightmare, voglio davvero provarci. Voglio davvero provare ad avere uno scopo!»

Armday non aveva idea di come reagire. Il ragazzo sembrava davvero preda di uno sfogo di coscienza.
“Se lo attaccassi ora?”
Osservò il ragazzo, che fissava il minerale sotto i suoi piedi, senza nemmeno vederlo.
“E se fosse un bluff? Se per caso se lo stesse aspettando?”
Fece un passo indietro.
“No... Non è solo questo. È il mio corpo quello che mi sta allontanando da lui. Ha una paura paranormale. Non può essere davvero...”

«Non m’interessano i tuoi problemi» sussurrò terrificato. «Ma alza lo sguardo o ti giuro che riduco in poltiglia questo bambino. Alza quella maledetta faccia, in modo che possa vederti!»

Il ragazzo fece una smorfia e riprese a parlare.

«Se fosse per me... Solo per me, allora lascerei che mi uccidessi, ma non posso. Ho fatto una promessa a più persone di quante ne potresti contare sulla punta delle dita di una mano. Arkendel, Shig, Kane, Hainard, Inai, Lex... tutti loro, in qualche modo, mi hanno portato fin qui. E mi voglio fidare, fino all’ultimo, di tutti loro. Che siano tutti testimoni della MIA promessa!» Con estrema lentezza sollevò lo sguardo e lo incrociò con quello del generale. «Se torcerai un solo capello a quel bambino, giuro che ti ucciderò!»

Armday esalò un rantolo con la stessa velocità, mentre sentiva la cupa realizzazione dentro di sé; mentre si rendeva che il suo presentimento era fondato: che in quelle orbite si celava proprio chi pensava. Il suo corpo tremò di puro terrore, in ogni vertebra e in ogni muscolo. Era bastato uno sguardo per riconoscere quegli ingranaggi luminosi di azzurro, animati di un desiderio di morte. Tornò indietro di due anni, quando in quella notte di oblio, in cui il sangue aveva bagnato le strade di mezza città, aveva conosciuto la vera disperazione e si era ritrovato a fissare nell’anima un demone dagli occhi di ghiaccio...



Note d'autore:
E dopo una lunga pausa, eccomi di ritorno. La frequenza dei capitoli dovrebbe tornare a essere semi-normale d'ora in poi. Grazie mille a tutti coloro che leggono la mia storia. Come sempre, invito caldamente voi lettori a dare un'opinione sui capitoli fino a d'ora usciti. Vi aspetto numerosi per il prossimo capitolo, dove potremmo vedere Yunix finalmente in azione. Chissà...

 

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Capitolo 15
*** Benvenuto tra gli Eroi - Parte Terza: La Parte Giusta degli Schieramenti ***


Benvenuto tra gli eroi - Parte Terza: La Parte Giusta degli Schieramenti


Mentre il sole calava inesorabilmente, Infection rimaneva immobile, nella sua spettacolarità, nella sua indefinitezza, e persino i due contendenti si erano fermati, benché non per ammirare lo spettacolo della città fluttuante.

Il ragazzo dai capelli grigi osservava il generale, non capendo il perché di quello strano comportamento melodrammatico. Non aveva mai visto qualcuno comportarsi in quel modo. L’uomo barcollava in uno stato catatonico, stringendo il bambino, che peraltro aveva ripreso a piangere, nella mano pulsante. A quella visione, non poté che sbattere le palpebre, stupito, come se stesse cercando di svegliarsi da un brutto sogno. Non sapeva come, ma era indubbio che avesse risvegliato nel villain incubi peggiori di quanti avesse mai potuto immaginare. Se ciò stava davvero accadendo, allora si trovava in una situazione piuttosto vantaggiosa.
“Non sarà onorevole, ma almeno... ora dovrò solo pensare a come...”
Con uno scatto improvviso, fulmineo, istantaneo, il generale si scagliò su Yunix. Questi in un primo momento controbatté alzando le braccia, ma subito si ricordò che non poteva fare nulla... di quanto fosse impreparato di fronte a un simile attacco.
“Non ho un Quirk. Allora... perché ho alzato le braccia?”
Rimase stralunato ad aspettare la sua fine, senza un’idea, senza un pensiero. Invece, negli occhi dell’uomo che si era lanciato su di lui c’era un terrore devastante, mischiato a un’inevitabilità disperata.

«Tu... non sei affatto un ragazzino! Sei un demone... un demone dagli occhi di ghiaccio, MA ORA TORNERAI NELL’ABISSO A CUI APPARTIENI!»

Il braccio sinistro dell’uomo muscoloso s’irradiò di una luce rossa, mentre le vene all’interno divenivano striature magnifiche e s’ingigantivano oltre ogni misura. E lo stesso fece la pelle, che si gonfiò come una camera d'aria. La sua crescita fu esorbitante. In un solo istante, non c’era più un braccio umano di fronte a lui, ma un arto dalle fattezze mostruose, con i muscoli che esplodevano e si ricongiungevano sotto l’epidermide, più grande dello scheletro di un autobus di linea. E Yunix capì che per quanto avesse provato a evitarlo, per quanto avesse potuto provare a schivarlo, il colpo lo avrebbe preso in pieno e ucciso.
Ma subito sentì, potente come un megafono, l’urlo d’incitamento di Hainard: «FORZA!»
Gli sembrò di vedere il controllore accanto a lui, ma era sicuramente solo un’impressione.
“Non voglio morire ora... L’ho promesso!” Urlò a sua volta ed estrasse la scheggia verdognola che lo aveva liberato dal masso. “Io mi voglio fidare di tutti loro!”
Scaraventò l’oggetto per terra, di fronte a lui. Il frammento verde impattò sull’arkastro, distruggendolo. Allo stesso tempo l’aria si squarciò con un rumore straziante. Yunix si sentì spinto all’indietro, con i capelli che turbinavano, mentre lo spostamento d’aria colpiva egualmente entrambi i combattenti. Armday finì contro la barriera d’aria, ma non si arrese. Con la mano destra, facendo cadere il bambino per terra, si strinse a una protuberanza del minerale. Nessun tornado lo avrebbe smosso fintantoché fosse rimasto aggrappato, ma non si limitò a questo. Con il braccio sinistro, ancora gigantesco, tirò una spazzata, vincendo con estrema difficoltà l’onda d’urto sprigionata dalla scheggia.
Yunix atterrò in piedi, ma subito sentì le gambe dolenti per l’affaticamento delle articolazioni, disabituate a subire bruschi urti come quello. Non ebbe il tempo di riprendere fiato, perché un edificio alla sua sinistra esplose, distrutto dal pugno che lo aveva sventrato. Il ragazzo si gettò a terra, evitando a malapena un lampione, volato verso la sua direzione. Il generale sforzò il colpo, ma mancò Yunix di un soffio e, nella foga del momento, fece un balzo all’indietro. Il braccio venne ritirato e tornò alla grandezza normale. Il ragazzo, spossato, respirò affannosamente, mentre la pietra preziosa si dissolveva in nebbia. Alzò appena lo sguardo. Anche il villain ansimava. Evidentemente, quei colpi consumavano molta della sua stamina.
“Nonostante questo... come faccio a vincere senza un Quirk? No... Non c’è modo. Non posso vincere... non da solo. Una volta che mi sarò rialzato, so bene come andrà a finire, ma in fondo... questo lo sapevo già da prima”.
Un luccichio attrasse la sua attenzione. La scheggia era infissa nella roccia. “Se solo riuscissi...” Mosse un braccio in avanti e cominciò a strisciare. Subito, anche l’uomo prese ad avvicinarsi cautamente.
“Ecco... Sono spacciato. Trenta passi. È a trenta passi da me. Ventinove... ventotto... ventisette. È il conto alla rovescia per il mio trapasso?”
Sentiva che se si fosse alzato, sarebbe stato freddato, in un secondo. Quanto poteva essere rapida la velocità di reazione di un veterano? Meglio evitare di scoprirlo in quel modo. Se non altro, si ritrovò a pensare, l’arkastro che aveva sotto il corpo era quasi piacevole al tatto: quasi come se volesse assorbirlo.
Il generale era vicino. Aveva preso a canticchiare, prima mormorando, poi con un tono un po’ più alto, ma timidamente e in modo convulso.

«Non sai che gioia mi dà rincontrarti oggi. Sì, inizialmente mi hai colto alla sprovvista, ma avrei sempre desiderato un altro confronto con te...»

Yunix sbatté le palpebre, guardando gli stivali che si avvicinavano, un passo dopo l’altro.
“Mi conosce? Com’è possibile che mi conosca? No! Non posso morire ora... lui potrebbe essere la chiave. Lo Scanner di Inai avrà anche fallito, ma se riuscissi a farmi dire come mi ha conosciuto, forse finalmente potrei iniziare a ricordare. Qualcosa... qualunque cosa... prima di morire”.
Il generale continuava ad avvicinarsi. Alle sue spalle, oltre gli stivali, Yunix vide il bambino allontanarsi. “Bravo, così! Scappa... almeno così... sarò riuscito in qualcosa e inoltre... non deluderò Lex un’altra volta”.

Il villain fece un gesto di minaccia con la mano.
«Non fare scherzi! Ti giuro che se muovi un dito, ti faccio diventare cibo per vermi!»

Dopo l’intimidazione, più simile a uno strepito che a un avvertimento, accorciò ulteriormente le distanze.
Yunix socchiuse gli occhi, acceso di una nuova speranza.
“Ha paura di me! Non è andata via... la paura è ancora lì. Quest’uomo si sta solo chiedendo perché non sia come il ragazzo... o il demone, che dir si voglia... che dimora nei suoi ricordi. Se sfrutto tutto questo a mio vantaggio...” Il generale metteva un passo davanti all’altro, guardingo, ma risoluto.

«In questo momento non sembri lo stesso di quella volta, lo stesso di poco fa. Eppure...» l’uomo alzò il braccio, mostrando i peli rizzati su di esso «la sensazione non accenna a scomparire. E non ho dubbi che sia tu quell’essere!»

Yunix taceva, elaborando instancabilmente nel proprio cervello.

Il generale dischiuse le labbra.
«E pensi che io sia il villain, probabilmente... Beh, un villain è una cosa. Un mostro è un’altra. E non posso scappare, senza averti prima eliminato! Le persone con poteri forti, tanto forti da poter annientare una civiltà vanno estirpati sul nascere. Sì... proprio come le erbacce...»

Il ragazzo non credette a ciò che aveva appena udito.
“Ma di che sta parlando... basta con le farneticazioni. Io? Un potere del genere?” Yunix non sentiva il passato così a portata da moltissimo tempo. “Se solo... se solo...”

E la voce di Hainard tornò: «Se solo...? Se solo!? Basta con queste stronzate! Non chiedere le cose che desideri alle altre persone... Prendile! Gli eroi non pretendono nulla dai villain e non lo farai neanche tu. Dimostrami che vuoi diventarlo, che vuoi diventare un eroe!»

“Io non voglio diventare un semplice eroe...” Yunix strinse i denti al proprio riflesso. “Io voglio diventare il più grande fra gli eroi!”

Fu la volta la voce di Kane: «Ma vuoi anche gettare luce sul tuo passato, no? Ciò implica che hai ben più scopi di quanto credi... Quindi... Smetti di piangerti addosso e rialzati, o non otterrai mai ciò che vorrai».
Erano parole che non gli avevano mai rivolto, ma sentiva che avrebbero potuto farlo, che era destino che le sentisse da loro.

«Randagio, non importa quanto gli scopi siano irraggiungibili. Ti permettono di andare avanti. Ti permettono di fare qualcosa che anche tu molto tempo addietro sapevi tuo: vivere». La ragazza nell’impermeabile giallo sembrò fissarlo. «Alzati, dolce Randagio».


Infection ormai brillava nella luce del tramonto e Armday era ormai a pochi passi dall’obbiettivo.
“Non ho idea di che sia successo a questo qui in questi due anni, ma una cosa la so... Non posso lasciarlo a piede libero, anche se la sola idea di toccarlo mi spaventa! No... Un colpo pulito e non sarà più un problema per nessuno. I lupi più agguerriti non scappano dalle pecore e nemmeno dai cani che le proteggono”.

Sentiva ancora gli occhi ghiacciati su di sé, ma non avrebbe smesso di camminare. Non per quello. Fece un altro passo, poi s’interruppe. Il ragazzo sdraiato a faccia in giù aveva preso a rabbrividire.
“Ma che sta...?”
Poi la sentì. Una risata grave, stomachevole, terrorizzante. Gli fece accapponare la pelle e anche Elmer, tra i suoi capelli, si fece piccolo come un topo di fronte a quella risata di puro caos. Il ragazzo s’issò sui gomiti, senza smettere di ridere.

«Ti avevo avvertito!» ruggì Armday «Fine dei giochi!»

«Sì... Fine  dei giochi, per te!» esclamò il ragazzo, guardandolo con la massima calma.

Armday aveva la pelle d’oca.
«Ma di che stai parlando... demone?»

Il ragazzo si coprì un occhio con la mano.

«Ma dai! Non dirmi che non te ne sei accorto. Tu che parli sempre di guerra, non vedi la minaccia, non vedi il potere che ho già scatenato!?»

L’uomo sentì il sapore del sangue nella propria bocca.
“C’è assoluta sicurezza in quegli occhi e in quel sorriso”. Gettò un rapido sguardo alle sue spalle. “Sei forse tornato in vita, Copy&Paste?”

Yunix continuò a ridacchiare, appoggiando l’altra mano sul fianco, come un giocatore di bowling che ha appena fatto uno strike impeccabile.

«Ah, piccolo, il mio generale, dolce, il mio generale. Non ricordi cos’è successo, allora?»

«Certo che lo ricordo. Non si può dimenticare una cosa del genere. E pensare che dai a me del villain, che dai a me del criminale, dopo quello che hai fatto!» Il generale strinse un sasso nel pugno fino a sgretolarlo. «Come puoi avere deciso di partecipare a questo test!? Tu non hai il diritto di diventare un Hero!»

Il ragazzo piegò la testa di lato, annoiato.
«Oh... Si tratta di diritti. E che diritti hai tu di provocare dolore in ragazzini come quello di poco fa? Che diritti hai di spegnere il cuore a ragazzi che combattono per un mondo governato dalla giustizia? Che diritti abbiamo per vivere, tu ed io?»

Il soldato sospirò.
«Allora le nostre uniformi sono davvero diverse...» Poi, colto da un dubbio, lanciò al ragazzo un’occhiata penetrante. «Qual è il tuo nome?»

Questo s’irrigidì, ma dopo un attimo d’esitazione rispose.

«Yunix Braviery. Non importa cosa sia successo quel giorno perché oggi sono qui per finire il lavoro, mio dolce generale».

Armday guardò in alto e sorrise, come uno squalo. Tornando a fissarlo, fece schioccare le borchie sulle mani.

«Quel giorno...? Quel giorno?» calpestò la scheggia verdastra. «Mi sembrava che ci fosse qualcosa che non tornava. Quel giorno non successe proprio niente. Hai commesso l’ultimo passo falso, Yunix Braviery».

Il ragazzo aveva perso il riso e anche il sorriso. E il generale poteva ben dirlo: gli occhi grigi, non ghiacciati, lo avevano tradito questa volta.

«Non sei lo stesso di quella notte ed è per questo che morirai...»

Yunix deglutì e sollevò le braccia.
«Ch- chi sei tu per me, villain?»

Ma Armday sapeva quando era tempo di smettere di parlare e quando iniziare ad agire.
“Se lo uccido ora, potrei fare ancora in tempo a scappare”.
Mise le mani per terra, dietro di sé e iniziò a sentire il sangue espandersi nelle arterie e nelle vene.
“Devo impedire l’ascesa di un secondo...” guardò la testa di pietra nera alle sue spalle. “...un secondo Copy&Paste”.

Come delle ruspe le unghie iniziarono a scavare nell’arkastro e nella pietra al di sotto, mentre muoveva le braccia in avanti. Il ragazzo si affrettò ad arretrare, ma sarebbe stato inutile. Armday diede fondo alle sue energie, colmo di un cupo senso di necessità.


«Artiglieria Leggera -1- Cielo Plumbeo»

Yunix non ebbe nemmeno il tempo di pensare questa volta. La strada venne divelta dal suolo e un’innumerevole onda di detriti si abbatté contro di lui.
“Quindi è così che finisce...” pensò osservando gli acuminati pezzi di asfalto volare verso di lui. “È stato bello fare l’eroe, anche se per poco. Però mi sarebbe piaciuto... ricordarmi chi sono, prima di...”

Udì un sibilo e un’altra voce nell’orecchio.
«Te lo dicevo di fidarti, Yunix... Sono qui».

Yunix accennò un sorrisetto, chiudendo gli occhi.
“Sono già nell’aldilà, Lex?”
Eppure, ciò che sentiva era reale. Una tempesta d’aria si sollevò attorno a lui. La brezza rasserenante divenne in fretta prorompente, tanto da mandarlo a sbattere contro una parete. Un frastuono di vetri infranti risuonò alla luce del sole morente. Urla indistinte lo convinsero ad aprire gli occhi. Alla sua sinistra, dove poco prima c’erano una serie di negozietti, ora si ergevano macerie fumanti di polvere biancastra.

Armday ringhiava, scuotendo il braccio arso da una strana energia.

«In nome di Dio! Perché non lasci che lo uccida!?»

Yunix notò che guardava alla sua sinistra. Portò lo sguardo nella stessa posizione e lo vide. Trattenne un gemito di gioia, mentre il dolore delle ammaccature spariva.

«Tsk... domanda scontata, villain! Sono qui per salvare il maggior numero di vite possibili!»

Lex Zeero, con i capelli verdi ricoperti dalle ragnatele, riprendeva fiato all’ombra di un larice sul lato destro della strada. Aveva ripreso colore, e anche il sangue sui vestiti si era rinsecchito.

«Lex, ma le tue ferite... Com’è possibile!?»

Il ragazzo lo squadrò dall’alto in basso, con un ghigno compiaciuto sul volto, che non gli si addiceva per niente.

«Mi aspettavo di meglio da te, esaminatore. Lascia che me ne occupi io d’ora in avanti».

Gli fece segno di stare tranquillo e prese ad avanzare, strusciando la spalla contro le pareti degli edifici. Il villain li scrutava entrambi, minaccioso, senza accennare a muoversi.
“Sta valutando la situazione. Non è uno stupido ed è anche parecchio rapido nei movimenti. Un attimo fa Lex deve aver lanciato una delle sue schegge a destra della strada...”
Il ragazzo continuava a farsi avanti. Non mostrava segni di debolezza, nonostante la strana andatura.
“I detriti saranno stati deviati a destra, appena prima che impattassero contro di noi. Quel materiale di cui sono fatte le schegge... È possibile che sia capace di controllare l’aria?”

Lex diede un’occhiata all’uomo a cui si stava accostando.

«Perché mettersi contro Temigor?»

Il generale rispose con un grugnito.
«Perché voler morire per il tuo amico?»

«Altra domanda scontata».

«E perché cammini in quel modo?» ruggì il generale, infastidito.

Lex ammiccò, saccente.
«Beh... La norma sarebbe camminare al centro della strada, no? Ma non c’è motivo di fare la stessa cosa che fanno tutti. Tutti sempre a copiarci l’un l’altro. Io invece ho scelto così. Ho scelto di combattere sempre con una parete alla mia destra».

Il generale strinse i pugni.

«E se la parete non c’è?»

«Allora non starò più combattendo...» rispose il ragazzo, affondando le mani dietro la schiena.

Yunix capì.
“Il suo mantello... È sbrindellato. E se fosse da lì che strappa quelle schegge?”

Le mani di Lex si mossero con esperienza e staccarono due brandelli di tessuto dalla cappa. In men che non si dica si pietrificarono, così come gli eroi tanto arditi da aver guardato negli occhi Medusa.

“E se ci fosse di più... Se il mantello fosse davvero vivo? È quello il suo Quirk?”

Lex strinse i pezzi solidificati del mantello, come pugnali.
«Sei pronto a danzare?»

Il generale si raddrizzò la cresta, dove il gatto bianco aveva ripreso a soffiare. Se quel villain non fosse stato così ossessionato dal desiderio di ucciderlo, Yunix immaginò che avrebbe potuto essere quasi divertito dall’idea di combattere.

«Farò di tutto per uccidere quel ragazzo dai capelli grigi. Se proprio vuoi proteggerlo, mi auguro che tu abbia fatto le tue preghiere a Dio, ragazzo, perché ti assicuro che sono anni che sono pronto a danzare» disse, senza un accenno di falsità.

Yunix tremò, non sapendo bene come poter essere d’aiuto al ragazzo.
“Battilo, Lex. Battilo e riavrò i ricordi a cui tanto ambisco.”

I due contendenti si guardarono di sfuggita, pronti a combattere. C’era il clima di un duello western. Dalla strada distrutta, diversi tubi gocciolavano acqua sporca, divendo visibili man mano che la nebbia del minerale si disperdeva.

Fu il generale a fare la prima mossa. Allargò le braccia e si scagliò in avanti, verso Yunix. Il ragazzo inorridì.
“Non ha mai avuto intenzione di combattere. Vuole solo uccidermi, per poi scappare”.

Il generale aveva le orbite iniettate di sangue.

«MUORI!!!!»

Ma Lex gli fu addosso, intercettandolo a metà strada. Si aggrappò alle cinghie della gamba, facendo scivolare le schegge acuminate, sotto l’uniforme. Il generale cercò di respingerlo, ingigantendo la mano sinistra, ma Lex alzò con veemenza i due coltelli, dilaniando la carne. Il generale gridò e perse il controllo, deviando la direzione della carica. I due andarono a impattare tra le macerie di un negozio di porcellane, alla sinistra di Yunix. Pezzi d’intonaco rovinarono sul pavimento, mentre le figure si rotolavano nel disordine. Lex si rialzò di scatto e frettolosamente si pose alla sinistra di una colonna; Armday rimase in ginocchio.

«Stai solo gettando carta sul fuoco della sua speranza, ragazzo del vento. Uno di noi morirà qui, prima che arrivino gli Heroes...»

Lex guardò il pezzo di soffitto ancora in piedi.
«Tsk! Basto io, come eroe, per metterti fuori gioco».

I due combattenti erano in stanze comunicanti e attendevano la mossa dell’altro, ma era chiaro pure a Yunix che, nonostante fosse il villain quello attualmente ferito, era Lex quello ad essere ancora in svantaggio.
“Non importa quanto si sia allenato. Quell’uomo è stato sicuramente nell’esercito. Sa bene come vincere gli scontri.”

Lex gettava rapidi scorci a tutti gli angoli. Sembrava cercare qualcosa. A un certo punto annuì e molleggiò le dita. Un mucchio di polvere rovinò sul pavimento, mentre il generale si risollevava.

«Ti do un’ultima...»

Il ragazzo dai capelli verdi si lanciò di lato, scagliando con precisione una scheggia contro l’angolo del negozio sotto la vetrina, in modo da farla arrivare nella stanza del villain. Il colpo generò l’ennesimo turbine di vento, che sollevò i detriti di diversi centimetri. Lex allungò le gambe e sfruttò il turbine per evadere dell’edificio. All’interno, il colpo non si fermò. La scheggia rimbalzò verso la stanza dove c’era Armday.

«E Zac!» sbottò Lex.

La pressione dell’aria s’intensificò esponenzialmente, spingendo persino il muscoloso corpo del generale contro la parete, ma il ragazzo mirava a ben altro. Infatti, con uno scoraggiante scricchiolio, il soffitto si piegò su sé stesso cadendo sulla testa dell’uomo, che scomparve al di sotto, con un rauco gemito.

«Flowing with The Wind...» sussurrò Lex, arrestandosi alla sinistra di un larice, per godersi la scena.

L’intero edificio, o almeno, ciò che ne restava, crollò a sua volta, dopo la caduta del soffitto. Non vi era più traccia del villain. Yunix respirò affannosamente, non sapendo se era il momento di esultare. Lex invece estrasse l’arco, cauto.

«Se sei ancora in piedi, ti consiglio di non...»

Un pezzo di comignolo apparve dalla nuvola di polvere. Roteava e schizzò in direzione della voce. Non ci fu nulla da fare. Il ragazzo con l’arco si buttò di lato, ma venne ugualmente colpito di striscio al braccio e proruppe in un grido di dolore. L’enorme mano del villain, di nuovo ingigantita, dissipò la nebbia.

«Sto cominciando a capire» disse il soldato, uscendo indenne dalle macerie. Quelle schegge che usi... tagliano l’aria come un coltello da burro. E...» Il villain osservò Lex guardarlo in cagnesco, la mano stretta attorno al braccio tagliato. «Forse addirittura la respingono. Altrimenti, non mi spiegherei una tale pressione del vento. È proprio come se i colpi spingessero via tutta l’aria, lontano dalla propria traiettoria, ma tale capacità diminuisse con la diminuzione della velocità delle schegge. Dico bene, oppure ho preso un granchio?»

Yunix deglutì, facendosi piccolo, piccolo, a diversi metri dai due.
“Ha analizzato alla perfezione quegli attacchi. È davvero spaventoso...”

Lex sollevò l’arco e si voltò verso il ragazzo dai capelli biancastri.
«Che ci fai ancora lì? Scappa!»

Il ragazzo sussultò.
“Non voglio abbandonarlo di nuovo...”
Squadrò il generale scrollarsi di dosso la polvere.
“Però non ha senso sprecare il tempo che mi sta facendo guadagnare”.
Mise un passo dietro l’altro e fece per voltarsi, ma si bloccò sull’atto di scappare. Che stava facendo? Un ragazzo stava morendo per lui. Doveva aiutarlo come poteva. Strinse il lembo strappato della divisa scarlatta e s’incamminò verso Lex. Si bloccò di nuovo.
“Lui vorrebbe che mi ritirassi, però. Forse dovrei semplicemente fidarmi di lui”.

Batté il pugno su una coscia, incredulo per la sua demenziale insicurezza. “Non di nuovo. Non posso essere di nuovo indeciso!” Era diviso a metà, tra un Yunix che voleva fuggire e uno che voleva combattere. Prima che se ne rendesse conto crollò in ginocchio.

 

Lex incoccò un dardo improvvisato.

Il generale batté entrambe le mani sui fianchi ferrati.
«Allora, ho analizzato bene il tuo potere?» Il ragazzo non batté ciglio, ma anzi prese la mira, con l’arma. «Come abbiamo fatto ad arrivare a questo?» continuò il generale, facendo avvampare le braccia di luce.

Sorrideva nonostante tutto, con pura gioia battagliera. Lex fermò il respiro e si preparò a colpire. Il generale brancò un idrante. I due attaccarono all’unisono. L’uno, staccando l’idrante dal terreno, l’altro scoccando la freccia verde.

Armday piegò il corpo di lato e Lex fece lo stesso, ma i vicendevoli colpi centrarono i bersagli. L’idrante colpì il ragazzo al costato di nuovo di striscio, mozzandogli il respiro e poi proseguendo contro la parete di un edificio ancora in piedi, provocando sul giovane una cascata di scatoloni. Dall’altro lato della strada, la scheggia disegnò un taglio profondo sotto l’ascella di Armday e manifestò una tormenta d’aria, che lo spinse in direzione di un albero, mezzo-sradicato dal suolo, ma il generale era pronto e usò il braccio gigantesco per deviare l’impeto e riportarsi sul centro della strada.

«Artiglieria Leggera -2- Cielo Tempestoso»

Con una spazzata, Armday devastò un secondo edificio, questa volta alla destra della strada. Ma i frammenti sollevati, come una vera scarica di proiettili finirono nel cielo e piovvero sulla posizione in cui si trovava Lex, sommerso sotto gli scatoloni.

«E con questo...» sussurrò Armday, alzando il coltello, ma non fece in tempo a dirlo, perché, come una foglia in mezzo alla tempesta, il ragazzo vestito di rosso dai tratti addirittura sfumati per la velocità, emerse in uno slancio leonino dal mucchio di cartone, dritto verso di lui. I detriti cadevano sulla sua scia, mentre il ragazzo, con una tenacia senza pari, correva piegato in due, per acquisire slancio. La sua era una dinamicità quasi demoniaca.
Armday alzò il coltello, ma l’avversario fu più rapido e con una mossa destabilizzante, una scheggia apparsa quasi magicamente nel suo pugno, squarciò il soprabito del generale in due, dal basso verso alto, disseminando a terra i tappi colorati e non appena fece questa manovra, non diede cenno di volersi fermare. Con audacia e abilità, spiccò un salto e andò per un attacco dall’alto con il frammento verde sporco del suo stesso sangue. Per quanto il villain si sarebbe potuto tirare indietro, non sarebbe stato in grado di evitarlo.

Il grido di guerra del ragazzo risuonò nel rossore.

«AAAAHHH!»

Ma poi un baluginio bianco si frappose tra i due combattenti e si avventò su Lex. Elmer era passato all’attacco. Il gatto affondò le unghie nel viso del ragazzo, lacerando la pelle sotto gli artigli, soffiando e miagolando minacciato. Le grida di dolore del ragazzo tinsero il tramonto di una nuova luce e Armday fece un passo indietro, non sapendo come agire. Le tinte rosse e violacee del cielo sembrarono riavvolgersi nel tempo. In men che non si dica, il sole pomeridiano tornò a brillare.

Solo il villain sapeva cosa stesse succedendo. A Infection, il sole tramontava due volte. Quello a cui avevano assistito era il primo tramonto, quindi dovevano essere le 17:30: la fine del test. Armday comprese scioccato la triste verità: quella non era solo la fine del test, ma anche quella del combattimento e al contempo delle sue possibilità di scappare.

Il ragazzo dai capelli verdi, intanto, lottava per la sua vita, cercando di staccare la bestia dal viso, ma la sua presa felina era quella di una tigre siberiana e a ragion veduta Lex temeva di perdere gli occhi. Con un ultimo singulto, il ragazzo si trascinò sotto l’acqua sporca, rilasciata dall’idrante che il villain gli aveva lanciato contro. A contatto con l’acqua, il gatto soffiò ancora, facendo vibrare intensamente i baffi e si staccò dal viso squarciato.
A quel punto, il giovane con il mantello s’inginocchio ad occhi chiusi, mentre l’acqua fangosa lo inzuppava da capo a piedi. Sul suo corpo c’erano non meno di cinque ferite, tutte quante gravi. Quelle più vecchie erano state tamponate da brandelli di tessuto solidificati, ma da quelle recenti scaturiva sangue, con la stessa velocità con cui l’acqua cadeva al suolo. Il generale squadrò il ragazzo, con un certo rispetto.

«Penso sia opportuno fare le presentazioni prima che tutto questo abbia fine...»

Il nuovo pomeriggio ardeva gioioso attorno a loro, ma non c’era nessun rumore, che non fosse il delicato scorrere dell’acqua tra le crepe della strada. Il soldato fece un passo avanti, in modo che potesse guardare il ragazzo col mantello negli occhi.

«Inizio io, allora... Sono l’araldo della guerra, Armday. Così è come voglio che tutti mi chiamino».

Lex sorrise, suo malgrado, mentre le gocce scivolavano lungo il mento.

«Un nome... è solo una parola al vento. Solo un’etichetta da attaccare sul viso. Un’altra richiesta scontata, generale Armday?»

Il generale sbuffò.
«Dio mio, proprio tu che parli di originalità sei contro i nomi?»

Lex indicò i tappi colorati per terra. Era fradicio e zuppo di sangue, ma si reggeva in piedi.

«Tsk... Guarda quei tuoi tappi che tenevi attaccati alla divisa... Sono distintivi ai tuoi occhi? Una cosa che pensi ti appartenga di diritto? Se è così, non dovrebbe valere lo stesso per i nomi? Anche i nomi, infatti, sono distintivi, se ci pensi. Se sono dati a noi da altri, li prendiamo per come sono, senza obiezioni. Se siamo noi a deciderli, allora non daremo mai un limite alla nostra creatività solo... solo perché desideriamo di essere elogiati da chi ci circonda». Fece una pausa, per riprendere fiato, scostando l'acqua dalla fronte.  
«Ed è vero che essere così creativi ci rende necessariamente anche originali, ma agli occhi degli altri saremo uguali a centinaia di altre persone che non hanno fatto altro che darsi un nome figo e si sono pavoneggiati dietro di esso, come se fossero chissà quali meriti di guerra... Scegliere un nome da eroe sembra originale, ma è quello che fanno tutti. Quello che fanno in pochi è non sceglierlo...»

Armday porse il braccio ad Elmer, che vi saltò sopra.

«Stai dicendo che andresti avanti col tuo nome reale? Non c’è poi così originalità a usare un nome che è stato dato a tutti».

Lex ammiccò da oltre la barriera d’acqua.

«E chi ha detto che userò il mio nome originale ancora a lungo: Lex... tsk... Null’altro che un cartellino... Io aspiro a essere l’Eroe senza nome, in modo che ognuno...» tossì, stringendo una mano al petto «... che ognuno nella sua originalità, possa chiamarmi come vuole. Questo è essere unici!»

Armday si mise a sogghignare.
«E così è questo che pensi davvero, Eroe senza nome! Sei un vero soldato, per tutti i diavoli degli inferi. I miei più fottuti complimenti per avermi tenuto testa». Il ragazzo non diede segno di voler parlare. Armday sollevò le falangi, guardandolo in tralice. «Ma ce la farai a sopravvivermi?»

Lex accennò a un sorriso e prese a brillare. Una ramificazione simile a quella di un albero si delineò sotto la sua pelle, fino a risaltare anche sotto la divisa rossa.

«Il mio Quirk: Leaf Cape... Non è un potere che si possa spiegare in un paio di frasi. Opzioni infinite, sempre nuove, sempre originali, si spianano di fronte a me. Sono come i rami di un albero o le venature di una foglia: continuano a diramarsi, quasi all’infinito ed è per questo che non perderò contro di te!»

Lex era rabbuiato, ma anche risoluto, quasi distorto, sotto la fontana d’acqua melmosa che cominciava ad affievolirsi. Scattò, ancora più velocemente dell’ultima volta, estraendo una scheggia più lunga delle altre, una vera e propria spada. Nelle sue membra risiedeva una resistenza al dolore tale da reggere il peso di una montagna, ma il generale inaspettatamente non accennò a un movimento. Guardava in basso, verso i suoi stivali. Lex urlò, fradicio fino al midollo.

«Non esiterò, Armday!»

L’uomo alzò gli occhi e il ragazzo in corsa notò un sincero sconforto nei suoi occhi.

«Lo so... ed è questo che ti farà ammazzare».

Il ragazzo sentì le proprie forze venire meno, ormai a pochi passi dagli scarponi del generale. Arrancò per un altro metro, poi barcollò e si accasciò sulla terra smossa. Scariche di energia infierivano sui di lui, come una tempesta, e con angoscia, il ragazzo capì che era stato il suo stesso potere ad averlo tradito.

«Al riparo, tutti quanti al riparo... uomo ferito» mormorò Armday, perso nei suoi pensieri.

Lex ringhiò cercando di risollevarsi, ma gli arti non rispondevano ai comandi.
“Che mi succede? Pensavo che l’acqua mi avrebbe...”
Il dolore delle ferite ricomparve, lancinante come se le stessero infierendo una seconda volta.
“No... Quella non è acqua... È il residuo di secoli di esistenza della città...”

Armday pose uno stivale sulla sua schiena.
«Una miscela di fango, arkastro, cemento, e acqua. Non poteva che danneggiarti. Volevo indurti dentro di essa fin da quando ho capito che quella mantellina era parte di te...» Parlava con inaspettata stima. «Mi hai sfidato troppo presto e persino nella tua immensa cautela, hai sottovalutato un veterano di guerra...»

Lex cercò di muoversi con tale veemenza, che le sue dita si slogarono.

Il generale se ne accorse.

«La tua tenacia è quella di un carro armato, amico mio... fattelo dire. Non sono mai stato così dispiaciuto di uccidere una persona in vita mia, ma ehi, io ti avevo avvertito...» Premette la calzatura ferrata sul mantello. «Il mio potere non mi permette solo di ingigantire le braccia» sottolineò Armday, «ma anche le gambe». La gamba s’irradiò di energia e sangue. «Addio, eroe senza nome! Se avessi un fucile, scaricherei un colpo in cielo, in segno di saluto, ma d’altra parte questa è una realtà crudele...» Il piede s’ingigantì e la scarpa adattabile fece lo stesso.

«Sunday Bloody Sunday»

Proprio mentre si apprestava a colpire l’avversario, Armday comprese che non vi era motivo di ucciderlo. La sua sete di sangue lo aveva accecato, ma non c'era alcuna motivazione valida per porre fine alla vita di quel ragazzo.

“Non è lui la mia preda... È quell’altro”.

Con un tonfo, lo stivale affondò nella terra, sollevano una nuvola di polvere. Armday si lasciò andare a un respiro affaticato.
“E ora penserò al lui... Il demone. Così codardo da essere scappato con la coda fra le gambe, lasciando in prima linea il vero eroe”.
La terra sollevata si disperse nel vento. Armday scostò il piede, di nuovo a grandezza naturale.
“Ha combattuto bene...” Si arrampicò sulla strada. “Secondo i miei calcoli, dovrebbe sopravvivere, ma non potevo permettere che m’intralciasse...”

Un colpo di tosse irretito lo colse alla sprovvista e, svelto, il generale fece un salto indietro fuori dalla piccola buca che aveva creato. Il ragazzo dai capelli verdi, prono, ricoperto di polvere, si stagliò sorridente in mezzo al disastro. Al posto del mantello, sulla sua schiena vi era una grande lastra verde solidificata. Solo qualche brandello svettava ancora morbido sulla schiena. Il ragazzo tossì, mettendosi in ginocchio.

«Non appena ho sentito una parete alla mia destra, ho compreso... tsk... che stavo ancora... combattendo».

Il generale sentiva le ginocchia tremare per la rabbia.
«Come hai fatto a evitare quella mossa?»

Il ragazzo lo guardò, sollevando la lastra.

«Spezzando le mie possibilità di vittoria... Guarda. Questa è la mia risorsa di armi... Ora l’ho persa, solidificandola completamente... ma se non l’avessi fatto... il tuo stivale ferrato, mi avrebbe spappolato. Avrebbe spappolato chiunque a dirla tutta, ma il mio mantello, respingendo l’aria, ha creato la difesa perfetta...»

Armday sollevò un sopracciglio e al contempo estrasse due coltelli da lancio.

«E cosa otterrai ora che non hai più il tuo caro mantello, in nome di Dio?»

Il combattente senza nome si chinò, sollevano la lastra a protezione del suo corpo.

«Tsk... Confiderò nella provvidenza!»

Armday sentì una sirena accendersi a pochi metri di distanza.
“Per Dio... Sbirri? No... no... Questa è...” Si voltò alla sua destra. Il veicolo da soccorso era diretto a una quarantina di chilometri orari verso di lui. “Un’ambulanza!?”

Il portellone destro si aprì e un ragazzo si sporse fuori stringendo un pezzo di vetro nella mano.

«Dovresti tenere gli occhi aperti, generale! In fondo, sono io il tuo demone dagli occhi di ghiaccio!»

Armday ringhiò e scagliò i due coltelli da lancio contro l’autocarro. I finestrini s’infransero in una cascata di vetri e l’altra lama costrinse il ragazzo ad abbandonare il mezzo, ma non fermò la sua carica.

«Merda! Devo... Giant Arms!!!» Le braccia s’irradiarono della consueta energia, ma lo stesso veterano di guerra poteva ben dire che era tardi. «Fottuto... Demone!»

Saltò e si appiattì per quanto poteva, rotolando sulla sommità del tetto.
“Per poco... Questa poteva essere la mia...”

Quando pensò di avere evitato il pericolo, accadde qualcosa di strano. Dove avrebbe dovuto vedere la città, oltre all’abitacolo, c’era una seconda ambulanza indirizzata contro di lui alla stessa velocità di quella che aveva appena schivato. Ma non poteva essere. Non aveva alcun senso.
“I vetri sono rotti nello stesso modo... Non è un altro veicolo. È l’esatta copia di quello che ho appena schivato”.
Contemporaneamente, l’altra ambulanza sembrò dissolversi. Il generale cadde sul freddo asfalto e questa volta sapeva che non c’era alcun modo per evitarne una seconda. Conscio della dura verità, salvaguardò con un ultimo ruggito la propria persona e il gattino aggrappato a unghie spianate al suo collo. Le mani si allargarono solo di un poco, mentre si rimetteva eretto.

“Come un toro... Prendilo come se fosse un toro!”

Strinse le mani attorno al corpo del veicolo e usò tutta l’energia che possedeva per spezzare le giunture che gli capitavano a tiro. Con un clamore di metallo spezzato, distrusse i montanti e rallentò l’avanzata della bestia di colore bianco e rosso, sollevandola di diversi centimetri. Nonostante questo, l’ambulanza riuscì a prenderlo in pieno. L’impatto fu talmente forte, da spezzargli qualche costola e rompergli due denti. Le ferite già riportate si riaprirono, mentre l’uomo scivolava al di sotto del veicolo, per poi lasciarsi cadere a terra, prima che quest’ultimo si schiantasse tra le macerie di un edificio. Il motore sibilò danneggiato, non promettendo nulla di buono. Il generale si rizzò in piedi.

«Merda!»

L’esplosione arrivò pochi secondi dopo, dipingendo il sole pomeridiano di un colore ancor più sfolgorante di quello che presentava.

 

A pochi passi dal disastro, Yunix accorse presso la buca.

«Ho vinto contro me stesso, Lex! Ho vinto! Ho seguito il mio cuore!»

Aveva le lacrime agli occhi per la gioia. Aiutò il ragazzo dal viso sfregiato a tornare sulla strada distrutta e lo guardò negli occhi, in cerca di una pietà di cui nemmeno aveva bisogno. E invece, Lex fece un’espressione sonnolenta, come se fosse appena svegliato da un brutto sogno.

«Dimmi che è finita o ti giuro che inizierò a dubitare di voler diventare un eroe...»

Yunix lo adagiò tra le proprie braccia, guardandolo al settimo cielo.

«Scusa... Scusa se ci ho messo tanto. È solo che non sono nato meccanico... O almeno, non lo so. E proprio perché non lo sapevo, sentivo di potercela fare. So che sto parlando in modo un po’ strano, ma non ho battuto la testa».

Il ragazzo dai capelli verdi lo zittì con un dito, quasi con ferocia.

«Dovevi scappare. Pensavo che l’avresti fatto. Tu non sei lo stesso Yunix che c’era in quell’edificio. Com’è possibile?»

«Te l’ho detto, no? Io non sono come gli altri» rispose Yunix, facendo un sorrisetto, che lasciò il ragazzo visibilmente di stucco.
Sentiva uno strano godimento dentro di sé: uno spazio che non aveva mai sentito nella propria coscienza, come se tutti i pensieri negativi avessero fatto i bagagli, almeno per un po’.
«Sai, ho solo pensato: se devo morire oggi, almeno voglio morire felice, quindi... d’ora in poi non ti abbandonerò più. Te lo prometto. Ora sei tu che devi fidarti di me».

Lex rispose alzando gli occhi al cielo e scosse la testa, per poi mettersi in ginocchio sulle sue gambe.
«Mi fido».

Non sembrava avere molta stabilità nelle ginocchia, perché oscillò pericolosamente e cadde in avanti sostenendosi con le proprie mani.

«Oh... Attento!» intimò Yunix, preoccupato.

Con un grugnito, Lex si fece forza e risollevò il mento.

«Non abbiamo tempo per questo. Dobbiamo andarcene... Chiamare i rinforzi, prima che sia troppo tardi!»

Yunix piegò la bocca in una strana smorfia.
«Troppo tardi, per cosa?»

Il ragazzo ferito abbassò il capo, esasperato.

«Per cosa!? Per cosa? Il villain, no?»

Il ragazzo dai capelli grigi sorrise.

«Ah... Il nostro nemico... Guarda là».

Indicò a Lex il fondo della strada. In mezzo ai frammenti di arkastro che si dissolvevano, c’era l'uomo in uniforme, coperto di sangue e vetri. Il cadavere dell’ambulanza ardeva scoppiettante a pochi metri dall’uomo coricato. Il soldato non si muoveva. Non vi era traccia del gatto bianco. E non c’era nulla che indicasse segni di vita.

Lex gemette e allungò un braccio verso il corpo.
«Ehi...! Armday... Non possiamo permettere che muoia! Dobbiamo aiutarlo... Forza, dammi una mano!»

Cercò l’aiuto di Yunix, che l’osservò con tanto d’occhi.

«E perché? È un villain, no? Ha avuto quello che si meritava».

Il ragazzo ferito si congelò.

«Eh? Lo lasceresti dov’è?»

Yunix si mise le mani sui fianchi, per niente toccato da quella situazione.

«Ehm... Sì. Lo lascerei dov’è. Ha cercato di ucciderti, Lex, non so se te ne sei accorto! È un villain e tu lo sai!»

«Armday... Il suo nome è Armday» bisbigliò il ragazzo a terra, il volto atterrito.

«Villain» ripeté Yunix. «Null’altro che un villain!»

Non comprendeva come il ragazzo non riuscisse a capirlo.

«Villain!? Sarei io il villain?» la voce di Armday, scossa e rauca sorprese entrambi. Con una fatica immane, l’uomo in uniforme, si mise in ginocchio. Teneva entrambe le mani strette a coprire lo stomaco.

«Ti viene da vomitare per il mal d’auto, villain?» lo prese in giro Yunix. «Ma guarda... mi sembrava pure di aver portato un’ambulanza. Non l’avrai mica fatta esplodere, vero?»

Il generale si rimise in piedi. Era ricoperto di fuliggine e le schegge di vetro erano piantate in diverse zone del corpo.

«Patetici...» sussurrò. «Tutti e tre».

Yunix fece per riaprire la bocca, ma Lex lo trattenne.

«No! Smettila...»

Cercò di afferrare anche la mano del compare in piedi. Era pallido, ma la sua presa sui vestiti era forte, come quella di un pitone.

«Non siamo migliori di lui se ci comportiamo in questo modo».

Yunix si divincolò e parlò all’uomo.
«Tre? Mi dispiace, ma temo che tu ci veda doppio, perché qui siamo solo in due».

Il generale sembrava aver perso ogni barlume di ardimento o di sicurezza, ma riusciva a stare in piedi.

«No, no... Siete tre... Copy&Paste... è venuto a proteggere il suo successore». Fece un passo avanti, senza togliere le mani dal ventre. «Patetici... Patetici. Non sapete nemmeno a cosa andate incontro. Dico bene, CP?»

«Ma di che sta parlando?» domandò Yunix fiaccamente. «Non è che è completamente impazzito?»

Lex si aggrappò con rinnovato vigore ai suoi vestiti, dardeggiando con lo sguardo a destra e a manca.

«No... Temo di no. Sta dicendo... che non siamo soli in questa battaglia...»

Manteneva il tono della voce basso, come al solito, ma il sentore di pericolo delle sue parole era estremamente accentuato.

Yunix sbuffò, scettico.
«Certo... e ora dirà che l’abbiamo combattuto nel giorno sbagliato, che si è lasciato sconfiggere apposta, che...»

«No, ti dico! Guarda la tua mano!» esclamò Lex, con la voce roca, per i colpi subiti.

Yunix osservò il dorso della propria mano e non trattenne un sussulto. A caratteri celesti, dolci e minuziosi, delle iniziali erano impresse sulla carne: C&P.
«Che...? Che significa?»

«Conosco quel marchio» mormorò Lex, con tono tenebroso. «È il marchio di Copy&Paste, che è poi il nome del suo Quirk. Mai un eroe di Temigor è stato più leggendario di lui... mai un eroe si è spinto dove lui si è spinto».

«Mai una persona dovrebbe farlo» dichiarò Armday, cercando invano di scrollarsi di dosso le schegge di vetro.

«Qual era il suo potere?» chiese Yunix impaurito.
Sentiva la mano fredda come il ghiaccio, ma in un certo senso era quasi come se il segno la stesse purificando, consolidando, valutando.

«Come dice il nome e come dicono le storie, può creare copie di intere città...» rispose Lex, guardando le iniziali con riverenza.

«Mantenendo lo stato di moto che avevano gli oggetti originari e persino... accelerandoli» aggiunse Armday, gettando un’occhiata all’ambulanza distrutta. «E se lo desidera, può far scomparire tanto le copie, quanto... gli oggetti originali. Capisci, novellino Eroe senza nome? Se credi in un dio, capirai che non vorresti vedere un uomo che ne rivaleggia la potenza sulla terra. Non posso lasciare che questo demone viva. Sarebbe peggio che portare in guerra un’intera nazione...»

Lex non replicò.
Yunix dal canto suo sentiva sia lo sguardo del ragazzo, sia lo sguardo del villain penetrare in lui, ma per una volta non se ne curò.
“Copy&Paste? L’Infinity Hero... Davvero ho il suo potere? O almeno, ho il suo aiuto?”
Sorrise, contemplando la propria mano. Notò di sfuggita il ragazzo dai capelli verdi issarsi sui gomiti, infuriato.

«Che prove abbiamo che sia davvero...?»

Si ritrovò il braccio di Yunix davanti alla faccia.

«Lascia a fare a me, ora» gli comandò, senza degnarlo di un’occhiata. «Ti prego, fidati...»

Fece tre passi avanti, assumendo un cipiglio coraggioso e rivolgendosi al villain.

«Sembra che anche gli Heroes del passato si siano schierati dalla mia parte, generale. Non vedo perché dobbiamo ancora girarci intorno. Sono io quello dalla parte giusta degli schieramenti, mentre tu hai perso la possibilità di scappare e sei anche ferito. Non c’è bisogno che tu muoia. Renderesti tutto più facile se aspettassi gli eroi lì dove sei».

«Cosa ti fa pensare che quella belva ti aiuterà di nuovo? Io vedo solo un ragazzo spaventato che spera di bluffarmi una seconda volta...» Armday ondeggiava pericolosamente, ma teneva fissi gli occhi nei suoi. «...e vedo anche quel demone assopito, che inconsciamente pensi di avere scacciato dalla tua coscienza, ma ti assicuro che è ancora lì... l’unica differenza è che ha capito come infondersi nell’altro te. Per Dio, tu sei solo un demone dalla doppia faccia».

Yunix fece una smorfia.

«Non c’è nessun doppio... Sono solo uno, ora. Lo sono sempre stato. E ora che l’ho capito, sono finalmente in pace. Perseguirò i miei obbiettivi e farò di tutto per raggiungerli. Questo è il significato della parola vivere».

Sorrise ancora, stupendosi di quanto stupido fosse stato e di quanto stupidi fossero quei due.
“Eppure tutto è così dannatamente chiaro...”

«Te lo ripeto, villain» riprese, sicuro di sé. «Stai fermo e ti risparmierò. Ormai non puoi più evadere! Chissà, magari riuscirai a scampare la condanna a vita, visto che non hai ucciso nessuno».

Il generale, sorprendentemente, abbassò lo sguardo e iniziò tremare. Le cinghie d’acciaio tintinnarono sulle sue brache mimetiche, mentre l’uomo rabbrividiva per emozioni così fortemente negative, che sembrarono arrivare fino a Yunix. Poi, lo fissò con spietata brutalità.

«Io ormai non ho alcuna intenzione di evadere! Non ce l’ho avuta, dal momento in cui ti ho rivisto nei miei ricordi. Il fatto stesso che tu abbia riportato qui Copy&Paste dal regno dei morti, nella sua città, non è altro che la dimostrazione che siete entrambi demoni mostruosi. Non sarei mai dovuto venire qui! MAI! Mentre mi accusavi di essere un villain, di essere malvagio, ridevi delle mie condizioni e saresti stato contento di vedermi morto! Chi è il villain, DEMONE. DIMMI CHI E’?»

Aprì le braccia rivelando il gattino bianco indenne.
Yunix aprì gli occhi. “Gli ha fatto da scudo?”

«Mentre tu correvi da quel ragazzo... Lex, per ricevere un biscottino, io ho protetto col mio corpo e con la mia anima questo animale, che conoscevo da a malapena un giorno, mettendo a rischio tutti i miei propositi! E quando forse temevi che stessi infierendo il colpo di grazia a quello stesso ragazzo che ti ha salvato la vita, ho usato volutamente poca forza. Intendevo solo metterlo fuori gioco. SE AVESSI VOLUTO DAVVERO UCCIDERLO, SAREBBE GIA’ MORTO!»

Yunix arretrò prima di un passo, poi di un altro.
«No... Non è così. Sei tu il villain!»

Armday strinse i pugni fino a far sanguinare i palmi.

«L’unico che ha l’intento omicida nel sangue tra noi due sei tu e quel falso eroe che tutti venerate. Proprio come in quella dannata notte, in cui hai mostrato tutta la tua natura distruttiva. Se pensi davvero che mettere te stesso davanti agli altri sia vivere, allora forse non sai cosa si prova davvero a farlo!»

Yunix arretrò ancora e si mise le mani sugli occhi.
«No... io... certo che l’ho capito... Uno scopo... uno scopo è sufficiente per vivere...»

«Uno scopo basta per sopravvivere, demone, ma per vivere davvero dovrai guardare il mondo con altri occhi».

Yunix cadde a terra.

«No... Non è così... Io ho solo... seguito il mio cuore».

«Patetici, patetici...» continuò a inveire Armday, mentre gli occhi del ragazzo si arrossavano di sangue.
Tutta la sicurezza che aveva era stata risucchiata in un secondo.  

“Cos’ho sbagliato? Perché sento che tutto ciò che dice sia vero...”
Cercò un appiglio nella sua mente, come un alpinista su un ghiacciaio, travolto dai venti, ma la bufera di pensieri contrastanti non glielo permetteva. Poi, arrivò alla marmorea realtà di come stavano davvero le cose e lo fece nel peggiore dei modi.

Si ricordò cosa aveva gli aveva detto Kane, col suo tono freddo ed eclettico: «Un eroe deve saper sognare per andare avanti. Un vero eroe, se non altro. Tu sogni una vita che ti sorrida, ma ritieni di non meritartela. Ed è proprio questo che ti differenzia da un Villain... Saresti un Hero perfetto per un semplice motivo. Non imporresti mai il tuo sogno su quello degli altri. Con la tua semplice concezione di merito, hai mostrato di tenere ai sogni di individui che nemmeno ricordi». 

Yunix gemette, travolto dall’impotenza.
“Cosa...?  Qualcuno ha detto questo di me?” si guardò le mani, vedendo con la coda dell’occhio il generale che si avvicinava. “Nella mia foga di perseguire i miei sogni, ho accolto l’idea di distruggere quelli di altre persone non conosco. Lex, Armday, Chooki... Tutti loro. Ero pronto a sacrificarli per i miei scopi. Davvero non sono meglio di quel villain... No. Non merito proprio niente... non perché sia una persona malvagia, ma perché ho già tutto quello che mi serve per vivere... Shig, Hainard, Kane. Non devo perseguire molti scopi. Me ne basta uno. Mi piacerebbe vederli ancora una volta...”

Digrignò i denti.

“E ora alzati, stupido bambino...”

Si rimise in piedi e incontrò lo sguardo del generale.

«Non ti posso far fare un altro passo, avversario del mio destino... In fondo, non ho scelta se voglio tornare da loro» dichiarò con fervido coraggio.

Il villain, grondante sangue, trovò la forza di sorridere. I muscoli erano così tirati che parevano fasce elastiche. Era più muscoloso di Arkendel, ma allo stesso tempo meno voluminoso. Risultava chiaro che la prigione non gli avesse cambiato i connotati, né tantomeno gli ideali.
Fece roteare il coltello tra le dita e lo appose al petto lacerato.

«Ora hai capito... Sono le persone con cui stringiamo legami che ci permettono di vivere, i nostri commilitoni».
Staccò due granate vecchio stile dall’uniforme, in qualche modo ancora intatte.
«Ma io sono il villain Armday e non appena quelle persone sono cadute per causa mia, mi sono rimasti solo due propositi in questa vita: uno è il mio, lo stupido ideale di risolvere il conflitto tra il Giappone e Temigor, una volta per tutte, non importa in quale schieramento combattere. L’altro è l’obbiettivo dell’uomo che vorrei avere qui a fianco a me ora, che per un mio sciocco tranello è deceduto tra le mie braccia».

Alzò la fronte verso la città superiore di Infection, come cercando le parole da un cielo remoto.

«Non sono un poeta... né un filosofo... ma questo pensiero ha stretto una tenaglia attorno al mio cuore, fin da quel giorno. Laddove né un eroe, né un villain s’impegneranno a fermare l’ascesa di un demone... io, qui di fronte al mio Dio lo giuro, farò tutto ciò che è in mio potere per proteggere il mondo dalla sua ombra!»

Le micce delle granate si accesero all’unisono e Yunix seppe che quell’uomo non si sarebbe fermato, fino a che lui non sarebbe stato ucciso.



Note d'autore:
Di ritorno dopo innumerevoli giorni, ecco il più lungo capitolo che abbia scritto finora. La storia è ancora lunga e ho intenzione di portarla a termine. Armday e Yunix sembrano sull'orlo di un precipizio. Come si risolverà lo scontro? Ci sarà un vincitore? Quando i confini di cosa è giusto e cosa è sbagliato sfumano, quando scompare la distinzione fra eroi e villains, esiste davvero una parte giusta degli schieramenti? Alla prossima :)

 

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Capitolo 16
*** Soldato Numero 1831, Armday: Origins - Parte Prima ***


Soldato Numero 1831, Armday: Origins - Parte Prima



Armday scagliò le armi letali verso il ragazzo con la consapevolezza che non avrebbe avuto altre possibilità. Riusciva a malapena a reggersi in piedi. Le schegge di vetro infierivano sul suo corpo ammaccato, dissanguandolo. Perdeva più sangue di un animale scotennato. Per di più, vedeva male da un occhio e sentiva ancora le ripercussioni delle ferite riportate dalle schegge verdastre. L’urto e la successiva esplosione avevano fatto il resto. Combatteva quasi per inerzia, ormai, ma non sarebbe andata avanti a lungo se non avesse chiuso i giochi ora. Le granate rimbalzarono minacciose sul disastro che era la strada, dove il ragazzo-demone arrancava verso di lui, ancora allucinato.

“È il mio ultimo colpo... Se non lo prendo, posso anche iniziare a pregare Iddio...”
Le boccette esplosive si arrestarono ai piedi del ragazzo, che si accorse solo in quel momento del pericolo.
“Dai! Dai, ferro vecchio... 3, 2...”

Ma in qualche modo già sapeva che non ce l’avrebbe fatta. Preannunciata da una zaffata d’aria, la lastra verde, che era stata il mantello di Lex apparve roteando oltre il ragazzo dai capelli grigi.

«Non mi importa cosa passi per la testa di Yunix. Io non abbandono nessuno al suo destino!» esclamò il promesso Eroe senza nome, gettandosi in avanti.

Armday si scurì in volto, preso dallo sconforto.
“Perché mocciosetto? Perché continui a combattere per lui?”
Non aveva la forza nemmeno per sollevare un braccio. Figurarsi se poteva sostenere la veemenza del vento di pura forza centrifuga, che stava per generarsi. La lastra roteò tra i due schieramenti e spaccò l’etere, generando una pressione così forte da sollevare tutti quanti sulla strada.

Armday si sentì spinto all’indietro e vide le granate, più leggere, saettare dietro di lui. Mentre esplodevano alle sue spalle, il generale sentì il miagolio terrorizzato del gatto, che ormai gli aveva bucherellato con le unghie la schiena. Sorrise, sentendo il botto degli arnesi.

“Ah, Elmer... Quanto sono patetici, rispetto a te... patetici, tutti quanti... patetico pure io”. Il suo corpo veleggiò nel fumo e nel vento, come se fosse stato privato del suo peso. “Non vedevo l’ora di rimediare al mio errore e ora ti deludo ancora... Tu sei sempre stato migliore di me in tutto... Era per quello che facevo sempre in modo di fare l’opposto di ciò che dicevi... sempre in modo di... di essere in contrasto... sempre nella parte di schieramento che non sceglievi tu”.



 


Deserti siriani - 13 anni prima del test d’ingresso

Il vento portava la sabbia. La sabbia portava il dolore. Il dolore portava i ricordi. Dove non pioveva mai, solo le lacrime bagnavano le valli. Anche quelle, però, erano ormai secche, in una landa di vite sprecate e ossa scarnite. Un falcone, avvoltoio nei modi e negli intenti, aveva già preso a fare lenti giri sopra l’accampamento, sempre più bassi, sempre più prossimi. Non vedeva l’ora di gettarsi in picchiata e fare dei loro corpi un lauto banchetto. Un banchetto che potesse sfamarlo per oltre una stagione. Nella tenda, però, non tutti si erano arresi.

«Numero 1830, numero 1831. Prego, presentate il vostro armamento».

Un rumore sbatacchiante scandì i movimenti dinamici dei soldati. Non erano le armi, no. A causarlo erano le ultime ripercussioni della tempesta di sabbia sul cellophane, che aveva imperversato tutta la mattinata. Era stata impossibile da prevedere; altrettanto difficile da eludere. Ogni giorno decimava le loro provviste e le loro possibilità di ritrovare il campo base. Ed era dannosa anche durante la marcia. I granelli erano come innumerevoli minuscoli proiettili, che penetravano, a lungo andare, anche nella più solida delle corazze, anche nella più robusta delle carni. Solo i rarissimi piccoli criceti dorati resistevano al clima frantumante e sferzante della landa incommensurabile, ma erano ormai estinti e si poteva ben dire che il reparto d’avanguardia bloccato in quel luogo avrebbe fatto la stessa fine.
I rumori metallici delle armi che venivano scomposte erano accompagnati dal baccano soffocato dei militari fuori dall’armeria. Non si capiva se stessero festeggiando o inveendo verso il cielo. Qualunque fosse la cagione, aveva un ché di confortante ricordare che c’erano ancora persone vive tra loro; non solo scheletri danzanti.
I due soldati non emettevano un fiato, mentre appoggiavano un pezzo dopo l’altro sul ripiano sollevato. Non fu un processo che durò a lungo. Il rigore e l’obbedienza erano gli unici valori a cui potevano aggrapparsi, ormai. Nonostante ciò, colei che avevano di fronte non fu soddisfatta.

«Numero 1831, tutto l’armamento».

La donna messa a presiedere all’armeria era molto esile, ma non si esimeva mai dallo sguinzagliare la voce imperiosa e intransigente, perfetta per svegliare i soldati assorti dal caldo o dall’afflizione. Aveva la loro stessa divisa, ma con una serie di bande nere flessibili sulle spalle, segno di autorità. I suoi occhi erano sporchi e trascurati, incrostati per la mancanza d’acqua e la sabbia che s’insidiava sotto le ciglia. Lo stesso valeva per i corti capelli color seppia, scompigliati sotto l’elmetto in dotazione a tutta la truppa.
Eppure, non aveva perso la speranza, anche dopo tutto quello che era successo in quelle lande desolate. La rispettavano per quello e per i suoi bei codini, ma persino un cieco si sarebbe accorto della loro situazione disperata.

«Il coltello. Si sbrighi!» insisté la soldatessa, inviperita.

Il soldato numero 1831 sospirò e sganciò il comodo coltellino dal petto, non senza un forte moto di repulsione.

«Ecco qua, capitano...»

La donnetta lo beffeggiò con gli occhi e si fece avanti. Con un gesto quasi scenico, strinse le dita esili attorno al manico del coltello e avvicinò a sé la lama. Il movimento innervosì il soldato, che trattenne l’impulso di strappargliela dalle mani. Che diritto aveva di toccarla?

La donna accarezzò la parte tagliante della piccola arma.
«Taglio encomiabile, non c’è che dire... L’affila ogni giorno, 1831?»

«Sa bene come voglio essere chiamato».

La donna gli diede un’occhiata piuttosto significativa, infilzando la lama nel ripiano.

«Solo perché non vuole rivelare il suo vero nome non creda che useremo i suoi nomignoli frivoli: Armday... Il giorno del braccio? Era tutto ciò che le è venuto in mente, quando ha pensato a come presentarsi al mondo? Se lo faccia dire, 1831, lei sta indubbiamente meglio con un numero, piuttosto che con un titolo del genere...» Fece una pausa e socchiuse le labbra, segno che non aveva ancora finito con lui. «Saluto, soldato...»

Amareggiato, l’uomo fece come la donna aveva ordinato.

«Sempre gloria al Sol Levante» enunciò lei, a tradimento.

«Sempre gloria a Sol Levante...» ripeté il soldato, affrettandosi a rispondere alla vecchia formula.

La donna abbandonò subito lo sguardo irriverente e si rimise comoda sulla sedia di legno grezzo.

«Lei non vuole proprio adeguarsi, eh? Per oggi può bastare: uscite. Non tollererò un'altra parola da voi». Incrociò le gambe, guardando tediata i due uomini, che erano rimasti impalati di fronte al tavolo. «Che state aspettando? Siete congedati...» insisté, scacciandoli con la mano.

Incrociò le gambe e afferrò con mano lesta un jack agganciato a un paio di auricolari. Il soldato 1830, che era rimasto zitto fin dall’inizio della revisione, fece un breve inchino e s’incamminò verso l’uscita. Sull’uscio però esitò e si voltò.

«Non vieni, Armday?»

Il commmilitone, che era rimasto all’interno, strinse i pugni. La sua vista ondeggiava, mentre guardava il capitano Joanne. Non era mai un buon segno. Voleva dire che aveva sete di sangue. La donna, tuttavia, aveva perso ogni interesse per entrambi e muoveva leggermente la testa a ritmo di musica, con i cavi attaccati alle piccole orecchie, simili a sottili bisce rivestite d’ebano.
Armday si costrinse a voltarsi e uscì a sua volta dalla tenda. La luce del sole morente lo accecò, nelle sue pennellate più vivide. Una volta che ebbero ripreso a vedere normalmente, i due soldati presero la via degli alloggi, senza spiccicare parola. Armday rimuginava pensieri reconditi, schiacciando la sabbia fine sotto gli stivali.
A un certo punto il soldato di fronte a lui fece qualche passo indietro e gli indicò l’orizzonte.

«Guarda, guarda che tramonto! È ancora più bello senza tutti quegli uccellacci di ferro dell’altro giorno. Non vuoi perdertelo, te lo assicuro».

Aveva una voce gaia, rasserenata. Armday era certo che se fossero morti in quel momento, quella asticciola di soldato lo avrebbe fatto in modo sereno. Nulla poteva turbare la sua pacatezza, eccetto lui ovviamente ed era una cosa di cui andava stranamente fiero.

«Fanculo, Elmer. Vado a bermi un goccio! Il tramonto ce l’ho davanti agli occhi tutti i cazzo di giorni, l’alcol solo se mi affretto a depredare Pony e Gurunto!»

Lo oltrepassò, strascicando i piedi sulla sabbia. Era come camminare sul fondo dell’oceano, ma il soldato sapeva bene come vincere l’attrito. Gli bastava allargare di volta in volta la pianta del piede e il terreno sabbioso si faceva da parte per lui. Elmer, incredibilmente, riusciva a stargli dietro, nonostante il vantaggio dell’uso di Giant Arms.

Tornò ben presto all’attacco.
«Seh, certo, certo. Ti voglio vedere con Gurunto. Ha sbandierato ai quattro venti che nessuno avrebbe toccato la sua gallina, neanche Pony, pena una vita da handicappato». Elmer ridacchiò, sereno. «Salta fuori che l’ha comprato all’ultimo villaggio per un soldo. Pensi che rinuncerebbe davvero, ma davvero davvero a dell’alcol?» Non attese una risposta. Si comportava come un piccolo fastidioso angelo custode. «Piuttosto... ho notato che batti la fiacca, in questi giorni, 1831».

Armday non perse nemmeno tempo a girarsi.

«Ti ho detto di andartene a fanculo... Ieri sono passati quattro batti sabbia. Abbiamo fatto qualcosa per fermarli? Col cazzo!»

«Tu ti saresti buttato sulla loro strada, non è vero? Sarebbe stata una bella bella scena vederti fatto su come una bistecca. Un avvincente modo per concludere questa spedizione».

Elmer aveva il fiato corto, ma restava al passo. Armday si voltò verso di lui, desideroso di litigare. Questa volta però sentiva la ragione dalla sua.

«Mi dà solo fastidio, Elmer, vedere quella donnetta che non fa un cazzo, il generale che non fa un cazzo, tu che non fai un cazzo. Cioè, ci attacchino almeno, per Dio! Almeno avrei una ragione in più per dire la solita fottuta frase ancora e ancora...»

Elmer scrollò le spalle, poi gli si avvicinò.

«Pfff... Non importa. Non importa cosa pensi tu. Continua a ripeterla, ogni volta che la richiedono... Sempre gloria al Sol Levante. Sempre gloria al Sol Levante. Faremo in modo che questa gloria ci sia davvero, ok?»

Armday scosse la testa e diede le spalle al soldato.

«Tutte le volte che vuoi, Elmer. Fammi un fischio e salto sull’M-93 e ammazzo fottutamente tutti... Io aspetto solo che me lo dica tu».

«Sul serio?» domandò Elmer, sorpreso.

«No, coglione. Se ho voglia di sventrare quella troia a suon di proiettili lo faccio. Ti assicuro che non manca molto perché accada...»

Sentì il soldato alle sue spalle farfugliare qualcosa, ma lui aveva già ripreso ad avanzare.
“Cosa me ne frega se non abbiamo comunicazioni, se abbiamo poche vettovaglie, se un beduino con un cecchino s’è appostato sopra una duna di qui a poche leghe? Da solo farei meglio di tutti loro...”
«...e in tutto ciò lei ascolta la musica in una tenda fatta di sterco!» concluse ad alta voce, in modo che Elmer sentisse.

Non si aspettava una risposta. Spesso e volentieri, Elmer Grayne tendeva a riconoscere quando le sue parole non avrebbero avuto voce in capitolo. Lasciava che si sbollisse un po’ prima di ricominciare a parlare e diventava muto come un pesce, così silenzioso da sembrare un’ombra.
Armday non lo guardava spesso in faccia. Non lo conosceva neanche molto bene a dirla tutta. Non erano null’altro che due numeri in sequenza ed era per quello che avevano in un certo modo legato, ma erano ben più le volte in cui non lo sopportava, rispetto a quelle in cui lo considerava un compagno. Fare il soldato non gli aveva fatto cambiare idea su tutto quello. Per niente. I commilitoni erano solo un peso. Da soli, si faceva tutto in modo migliore. La solitudine andava di pari passo con l’autonomia. L’autonomia conduceva alla sicurezza. E la sicurezza era duttilità, era certezza, era vittoria.

Quel giorno, però, Elmer parlò e non con il consueto tono rilassato e colorito. Sembrava tutt’un tratto intristito.

«Guardami...» sussurrò.

Armday si voltò, senza particolari aspettative.

«Che c’è?» domandò scontroso, guardando la sabbia ai piedi del soldato.

«In faccia, Armday, in faccia, per una volta».

Il soldato 1831 sbuffo, ma alzò lo sguardo pian, piano.
Elmer era un soldato spilungone, tutto pelle ed ossa, con accenni di vitalità solo negli occhi, neri come il petrolio. Aveva capelli biondi come i suoi, punteggiati di granelli di sabbia dorata e disposti come una piana di rovi su un deserto. La bocca era incrostata di pus raggrumato, a causa di una rara malattia. Inoltre, la pelle era reduce di una scabbia accanita, che persisteva sottoforma di piaghe disseminate ovunque sull’epidermide, ma Elmer era tutt’altro che un vaso di porcellana, per quanto riguardava la tenacia e il coraggio.
La notte del loro primo incarico, si era distinto così tanto che Armday aveva dovuto schiaffeggiarsi più volte, per assicurarsi che non stesse sognando. Quell’uomo color della sabbia era capace di saltare più in alto di una rana e di strisciare più sinuosamente di un pitone. Poteva camminare e correre, a seconda della situazione furtivo come una pantera o dirompente come un ariete.
Aveva condotto l’intera squadra, nella notte più nera, postazione dopo l’altra e, senza colpo ferire, aveva messo in sicurezza cinque avamposti. Non uno aveva dubitato di quel soldato, che sembrava infermabile. Nessuno riusciva a capire quale fosse il suo Quirk.
Quella stessa notte, Armday era andato da lui, per chiedergli da dove avesse tratto tutta quella forza, non senza un certo moto di gelosia.

La sua risposta lo aveva pietrificato: «Non capisco cosa tu voglia sentirti dire da una carogna come me... Ho solo... ho solo realizzato che questo mondo è sopravvalutato, 1831, sopravvalutato, come lo è tutto ciò che ci circonda... se per te hanno senso queste parole...»

Sopravvalutato? Che voleva dire? Per giorni se l’era domandato, così raccolto in sé stesso da far preoccupare la truppa, abituata alle sue intimidazioni e dimostrazioni di violenza. Ancora oggi, non aveva capito il perché di quelle parole, ma anche Elmer era cambiato e non c’erano dubbi che la loro distanza sia in termini di ideali, sia in termini di atteggiamenti era aumentata. In ogni caso, il commilitone non aveva nominato più quello che gli aveva detto, come se fosse stato un pensiero passeggero, forse nemmeno suo.
Lì, nei deserti della Siria, sembrava più che mai un’altra persona, come se avesse finalmente raggiunto l’illuminazione. Lo guardò bene, cercando di non sbattere le palpebre, ma era piuttosto difficile, con quel soldato dal cuore d’oro e di pietra, al contempo.

«Il capitano Joanne... Pensi davvero che stesse ascoltando la musica, quando ce ne siamo andati?»

Gli occhi di Armday rotearono.
«Beh, a meno che non sia pazza, direi proprio di sì».

«Ma è proprio questo il punto» disse amaramente Elmer, con le lunghe braccia scosse da un tremito. Poi, quasi in maniera anormale si quietò. I suoi occhi si svuotarono di ogni intento minaccioso e il soldato appoggiò ambo le mani sui fianchi. «L’hai detto tu stesso... Non abbiamo nessuna comunicazione. Neanche le radioline vanno, Armday. Nemmeno quel coso della Heikel funzionerà. Pensaci, pensaci almeno un po’...»

Armday scosse la testa e riprese la via dell’accampamento centrale.

«Non farmi ridere, Elmer. Vuoi dire che fa finta di ascoltare la musica col jack?»

«Na...» disse Elmer, a voce bassa, «si sta illudendo di poterlo fare, amico mio».

Il soldato, di spalle, sbuffò irato
«Che senso potrebbe mai avere un comportamento del genere!?»  

La voce tranquilla e saggia di Elmer si riversò su di lui un’ultima volta.
«Sai bene perché ci hanno mandati qui, 1831... Nessuno, proprio nessuno... auspica un nostro ritorno...»

Armday non si fermò. Non avrebbe dato a quel soldato alcuna soddisfazione. Aveva anche lui il sentore che qualcosa in quell’impresa non andava, ma perdere tempo prezioso a pensarci non avrebbe risolto nulla. Posò gli occhi ovali sopra le tende dell’accampamento. Un fuocherello danzava di lì a poche iarde. C’erano ombre che danzavano a loro volta, senza fermarsi mai, ma gli apparvero quasi minacciose. Erano forse già tutti scheletri? Quand’è che erano morti? Quand'è che era accaduto? Bah... Forse non aveva importanza. Il loro destino era segnato a prescindere, fin da quando avevano intrapreso quella missione, solo che ancora non lo avevano accettato.

“Siamo tutti sulla stessa barca, eh? Allora farò in modo di non colare a picco, caro compagno...”

 

Quattro giorni dopo, deserti siriani
 
«Ehi, Armday» borbottò Elmer. «Non è che ti è rimasto un po’ di alcol? Temo di non poter resistere un altro giorno senza».

All’ombra della palma, il soldato possente sogghignò. «Quando ti ho detto che l’avrei preso, mi hai dato dell’idiota. Ora stai pure a boccasciutta, caro compare...»

Elmer fece spallucce e si tirò indietro, fino ad essere schiena contro schiena con lui.

«A bocca asciutta semmai, compagno».

Il generale sbuffò, cercando di scacciare il mal di testa.

«Sei sicuro che non ci sia nient’altro da prendere a quel fottuto villaggio, Elmer? Quanto vuoi che se facessimo un’altra piccola irruzione troveremmo robette nascoste. Magari potremmo andarci ora... Che ne dici, femminuccia? Hai forse paura di un paio di contadinelli infuriati?»

Al soldato allampanato non piacquero quelle parole. Si rigirò sulla sabbia, cercando di guardarlo in volto.

«Vuoi tornare indietro a sterminarli già che ci sei, 1831...?» fu interrotto da diversi colpi di tosse.

La sua voce si era già fatta roca. Se non avessero trovato acqua presto, Elmer sarebbe stato uno dei primi a cadere, ben presto seguito da tutti gli altri: Joanne, il generale Strawberry, Pony, Gurunto, Shima, Pugno di Mosche, il Banditore, Jumochi Star, gli indigeni e tutte le altre reclute. Non c’era niente da fare, ormai. Sarebbero morti nel più stupido dei modi. Com’era possibile che si fossero persi in quel deserto? Com’era possibile che le comunicazioni fossero ancora out? Non erano nella Seconda Guerra Mondiale, per tutti i diavoli. Eppure, non c’era mezzo-Quirk che potessero sfruttare. Non c’era una carovana che passasse e pure i tanto decantati batti sabbia erano scomparsi. Le riserve erano vuote. Gli ultimi residui d’acqua erano sul fondo delle borracce e non c’era nulla da bere, oltre al sudore e un po’ di whisky avanzato da un raid di qualche mese prima. Come se non bastasse, l’ultima tempesta di sabbia aveva alterato per l’ennesima volta la conformazione del territorio. La civiltà sembrava più lontana che mai e ora contare i secondi era il passatempo preferito di tutti.

Stare fermi, secondo Joanne, avrebbe permesso ai soccorritori di localizzarli più facilmente, ma chi le assicurava che il Sol Levante li stesse davvero cercando? Erano la feccia: mezzi-giapponesi, mezzi-temigoriani. Se non fossero sopravvissuti, nessuno avrebbe battuto ciglio. Anzi... Se il sinistro presagio di Elmer aveva qualche fondamento di verità, quei bastardi li volevano morti.
“Se solo andassero ste cazzo di radioline, per Dio!”

Avrebbero risolto tutto? Forse. Sparava sette Ave Maria e nove Padre Nostro al giorno, oltre che un paio di proiettili alle dune, solo per il gusto di vedere la sabbia sfrigolare e scomparire, ma nessuna delle due azioni sembrava avere effetto sulle comunicazioni in défaillance; guardava il cielo, attendendo il passaggio di un elicottero, ma la luce era così intensa che non sapeva più distinguere le nuvole dal cielo azzurro; dormiva a stomaco vuoto, sognando piatti imbanditi e alzandosi di volta in volta, illuso di poter scacciare la fame, facendo due passi, ma era stufo di non fare niente, stufo marcio. Fece per bere un altro goccio.

«Armday, Armday, c’è un bambino!»

Il grido di Elmer era così roco da sembrare un gracidio. Che aveva da urlare a quel modo? Il soldato strizzò debolmente gli occhi, avvicinando il beccuccio della borraccia alle labbra.

«Non m’interessa, cazzo...»

«Non sto scherzando! Guarda...»

Armday gettò la borraccia di lato, scoprendo i denti.
«Vuoi proprio rompere...» Poi le parole del compagno acquisirono un senso. «Che cazzo dici!? Un bambino?»

Mise una mano sulla morbida rena, per rialzarsi. Una volta ingrandito l’arto, si sarebbe rialzato senza fatica, ma non trovava le forze nemmeno per il suo Quirk. Si sentiva debole come una statuetta di latta, ma non avrebbe chiesto aiuto a nessuno. Emise un ringhio infastidito e imprecò, pronto a riprovare e fallire di nuovo. Elmer gli afferrò svelto l’estremità della divisa.

«Voltati, dai...»

Contrariato, Armday rotolò sulla schiena e finì ai piedi di Elmer, che a sua volta faticava per stare in ginocchio. Si distanziò in fretta dal soldato scabbioso e puntò gli occhi dove lui guardava.
Giù dalla cunetta, appoggiato a un muretto, c’era un ragazzino dalla pelle mulatta, con uno sguardo feroce, bestiale. I suoi capelli erano viticci neri, strigliati e lucidi, poco più lunghi di quelli di Armday ed Elmer messi assieme. Aveva un viso stranamente pingue per un vagabondo del deserto, mentre il corpo era più esile, come se a ricevere nutrimento fosse solo la testa. Era vestito di brutti e svolazzanti stracci neri, con qualche corda bianca legata alle gambe e alle braccia, forse per evitare che il vestito prendesse il volo alla prima tempesta di sabbia. Ai polsi aveva strani bracciali di metallo; impossibile capire se fossero d’acciaio, d’argento o addirittura di zinco. I piedi scalzi invece erano ricoperti di piaghe, come se il ragazzo stesse camminando da giorni e probabilmente ciò non si allontanava molto dalla verità.

Armday guardò inespressivo il ragazzino, poi fece un respiro profondo. Sentiva già il corpo tremare. Si affrettò a mettersi una mano davanti alla bocca, l’altra sulla spalla del soldato a fianco a sé e con le lacrime agli occhi scoppiò a ridere.
Elmer non credette alle sue orecchie. Quando constatò che il compare faceva sul serio lo fulminò con somma disapprovazione. Si schiarì la gola per quanto poteva, ma non ottenne grandi risultati.

«Cos’è che ti fa ridere, sentiamo, sentiamo...»

Con la voce strozzata d’avvoltoio che aveva, Armday non fece altro che premere con più insistenza la mano sulla bocca, quasi soffocandosi per il forte dolore alla gola e alla testa. Con la sinistra indicò il ragazzino.

«Ma guardalo!» esclamò tra una risata e l’altra. «È patetico... patetico...! Quello lì non dura un giorno, te lo dico io».

Si pulì gli occhi e continuò imperterrito a ridere.
Elmer scosse la testa.

«Hai proprio un pessimo senso dell’umorismo, lo sa...?»

Armday solcò un nuovo eccesso di ilarità, tale da zittire il soldato sull’atto di rimproverarlo.

«Per favore... non parlare» sussurrò per l’euforia. «sennò qui non finisce più...»

Ed egli non disse più nulla, ma agì. Con una mossa lapidaria, si strappò il fucile dalla schiena e lo lanciò ai piedi di Armday.

«Hehe! Che fai, ora? Tanto non puoi nemmeno...» Il soldato si tolse gli scarponi, respirando affannosamente e rimase a piedi scalzi, sulla spiaggia rovente. Un attimo prima non riusciva a muoversi: ora sembrava in grado di fare quaranta flessioni sotto quel terribile sole ardente; in grado di scalare l’Everest a mani nude. «Non vorrai...»

Elmer si fece forza, usando il compagno come sostegno e si alzò in piedi senza emettere un gemito. Non appena si resse sulle gambe, si mise ad arrancare verso il bambino. Era una marcia incredibilmente rapida, per un soldato che stava morendo di sete e piuttosto ingiustificata.

«Lascialo lì. Ehi! Mi stai ascoltando?»

Il ragazzino indemoniato aveva gli occhi fissi nel vuoto. Pareva fossilizzato, con gli insettini del deserto che gli insidiavano le zone più esposte, incurante ed estraneo rispetto a tutto ciò che lo circondava. Era un enigma in tutto e per tutto. Nonostante ciò, Elmer si buttava in avanti, sempre più disperato, con tale indifferenza per le sue condizioni che sembrava immerso in una missione estrema di salvataggio. Si arrestò di fronte al moribondo e cadde in ginocchio.
Armday, che non voleva perdersi una battuta, cominciò a strisciare imprecando verso di lui. Due, quattro, sei metri. Quando pensò di essere abbastanza vicino si fermò a osservarli. Elmer stava pulendo il viso del ragazzino con la manica.

«Da dove vieni, carne tenera? Come sei arrivato qui?» Nessuna risposta. «Sei solo...? O ci sono altri?» domandò il soldato, guardandosi attorno. Nessuna risposta. «Riesci a parlare? Forse... forse hai fame, o sete; anzi, sicuramente hai sete. Non parli per via della gola secca?». Nessuna risposta o movimento.

«Patetici... patetici tutti e due» bisbigliò Armday, al riparo di una piccola palma.

Cos’era quel moto di fraternità per uno sconosciuto? Elmer voleva sempre fare il piccolo angelo custode, anche se avesse dovuto comportare conseguenze più pesanti di quelle che poteva sopportare. Mentre inorridiva alla scena rivoltante, le sue iridi catturarono un’immagine celestiale. Due grosse taniche, dietro le spalle del ragazzino, piene di...

«Acqua! Oh, cazzo sì! Sia glorificato il cielo! Elmer, molla quella bestiaccia... abbiamo del lavoro da fare!» Dimentiche della stanchezza, si mise in piedi e si protese felice verso le brocche di nettare divino. «Ah... Non ci credo! Proprio non riesco a crederci... Con queste.... potremo durare almeno altri tre giorni! Ti ho detto di lasciarlo stare! Morirà comunque, Elmer...»

Il soldato non lo degnò nemmeno di uno sguardo, ma continuò con voce rauca ma dolce a confortare il ragazzino ombroso. Armday sospirò lautamente e si caricò una tanica sulle spalle.
“Potrei nasconderla e tenerla per me... Chi sene frega di tutti gli altri! Se morissero ora, non batterei ciglio”. Studiò Elmer che cercava il responso del bambino, senza grandi successi. “Ma oramai mi avrà sentito... tanto vale beccarsi degli elogi a sto’ punto. Potrò avanzare comunque più pretese di quell’idiota di Star”.

S’incamminò con svogliatezza verso l’accampamento. A metà strada, Elmer gli fece un fischio.

«Ehi, Armday! Ho bisogno di te!»

Il soldato gemette. “Non mi volterò. Col cazzo!”
E invece si volse non appena il richiamo morì.

«Muoviti!» ruggì la voce roca del compagno.

Armday sbuffò. Imprecò. Imprecò ancora una volta. Poi, mollò la tanica per terra e tornò malvolentieri dai due.

«Che cosa c’è, in nome di Dio?» Elmer fece un gesto significativo con la mano, segno che voleva parlargli all’orecchio. Ancora più maldisposto, fece come chiedeva e s’inginocchiò, rimpiangendo di non aver bevuto neanche un sorso d’acqua. Sentì il calmo respiro di Elmer nell’orecchio.

«Ha un Quirk... Comunichiamo coi segni...»

Armday fece segno di aver capito e iniziò a gesticolare. Con il linguaggio dei segni aveva un rapporto d’amore e odio. Lo aveva imparato per necessità, ma non gli era tornato mai granché utile, perciò era difficile ricordarselo, senza fare mai esercizio. Era comunque piuttosto bravo, ma non meglio di Elmer. Per quanto concerneva l’aspetto comunicativo, batteva il soldato solo nel codice morse e anche lì non poi con grande distacco, benché non avrebbe ammesso nulla del genere ad alta voce.
Elmer lo squadrava attentamente, ottenendo l’effetto di spronarlo a impegnarsi anche più del dovuto.

«E-che-problema-c’è

«Ha-camminato-nel-deserto-portando-due-taniche-non-è-normale».

«Perché-questo-ling-...uaggio?»
Armday scivolò sulla lettera “u”, che non si ricordava molto bene.
“Ecco... L’ennesima prova che non sono fatto per ste’ cazzate”.

Elmer però non rispose subito. Iniziò a comporre una lettera, ma cambiò idea. Quando riprese a flettere le dita, aveva smesso di guardarlo negli occhi.

«Non-voglio-che-si-senta-diverso».

Armday sollevò le sopracciglia, ma non replicò e tornò sull’argomento a cui era leggermente più interessato.

«Come-fai-a-dire-che-ha-un-Quirk?»

«Toccandolo-ho-preso-la-scossa-non-ho-idea-di-cosa-centri-con-la-sua-resistenza».


Armday recepì l’informazione vagamente intrigato.
“Un Quirk elettrico... Forse fornisce sia energia interna che esterna... altrimenti... altrimenti non si spiega un così lungo avviottolamento con quelle due taniche sulle spalle”.

Si avvicinò alla seconda tanica e bevve sgraziatamente un litro d’acqua. Stette comunque attento a non versarne neppure una goccia. Era un bastardo, ma non uno sprecone... Si sentì subito rinvigorito. Diede d’istino una spallata al commilitone. 

«Bevi dell’acqua anche tu e togliti quella voce da settantenne suonato, poi parliamo a viso aperto!»

Questi prese riluttante la tanica e bevve non più di tre sorsi, pur rendendo evidente che aveva sete. Armday non se ne curò. Che facesse l’eroe quanto voleva. In quella situazione ci voleva anche il poliziotto cattivo. Si rivolse con uno sguardo di fuoco al marmocchio.

«Ehi, straccetto! Dimmi un po’! Sei uno dei tipi mandati a cercarci?»
Nessuna risposta.

«Un soccorritore, intendi?» chiese Elmer.

«Sì, sì, come dice lui» puntualizzò Armday, scontroso.

«Pff... Auguri a sperare che ti risponda, compare... Non gli ho cavato parola di bocca... ed è un po’ che ci provo».

I soldati guardarono scoraggiati quel cadavere che respirava.
“Basta... non ha senso stare qui a perdere tempo...”

Armday fece per esprimere a parole i suoi pensieri, ma stranamente e all’improvviso il ragazzino girò il capo verso di lui e annuì.

«Ehi, ehi! Come hai fatto?» domandò subito Elmer, ma il soldato dallo sperone biondo ne sapeva quanto lui.

«Non ho fatto nulla: ho solo chiesto se era un fottuto soccorritore, per Dio!»

Rimasero qualche secondo a osservare stupiti il ragazzino stracciato. Armday s’inginocchiò di fronte a lui e sollevò il pollice all’altezza delle labbra. Sapeva bene di essere minaccioso e rimase sorpreso quando il ragazzino lo guardò senza battere ciglio con quelle orbite dilatate e spente.

«Allora, piccola carogna, sei un soccorritore? Ci hai portato tu queste benedette taniche?» Il ragazzo annuì di nuovo. «E come hai fatto, con quelle braccine, ad attraversare i deserti della Siria?»
Nessuna risposta, di nuovo.

Il soldato perse la pazienza e lo prese per le vesti sfilacciate.

«ARMDAY, NO!»

«Pensi che io sia qui per te ragazzino? Nossignore! Voglio tornarmene a casa il prima possibile e m’interesserà di te fintantoché mi sarai utile per questo fine... Ci siamo capiti!?»

Il ragazzino allungò la mano abbronzata e sfiorò la sua pelle nuda del soldato, tesa nello sforzo che stava compiendo. Un’intensa energia gli rizzò tutti i peli del braccio e penetrò in profondità fino a fargli fremere le articolazioni. Fu costretto a lasciarlo andare: non si poteva mai sapere con i Quirk sconosciuti. Nondimeno, la mossa del ragazzino lo fece anche sorridere.

«Ecco qua, molto meglio... Ora parliamoci faccia a faccia!» Il viso paffuto abbassò di nuovo gli occhi. Armday sentì la mano di Elmer sulla spalla. «Cosa c’è ora!?» domandò, infastidito per la mancanza di rispetto di quel marmocchio.

«Armday...»

«Sì, che c’è ti ho detto!»

«Sta sorridendo...»

«Cosa..? Come dici?» domandò Armday, interdetto.

Confuso, guardò il ragazzino. Aveva le manine strette attorno al muretto a cui era appoggiato. I viticci neri gli coprivano la fronte corrugata, ma era chiaro come il sole... Sorrideva... sorrideva in modo strano al terreno.
Armday rimase qualche attimo a fissarlo, ma la confusione sparì in fretta.

«Ahh... Ah, ah... Nulla di così bizzarro, compare... Il sole gli avrà fritto il cervello, ecco tutto...» Diede un’occhiata alle taniche. «Che peccato! A questo punto possiamo prenderci tutta l’acqua, eh?»

«Non dire idiozie!» esclamò Elmer. «Dobbiamo aiutarlo».

«Non ha bisogno di niente, salvatore dei miei stivali. Ha il suo Quirk...!»

«Quirk!» Entrambi i soldati si voltarono nello stesso momento. «Quirk!» «Quirk!» Il ragazzino li guardava sorridente.

«Ma che cazzo ti è preso, Dio santo! Sei andato proprio del tutto, eh?»

Elmer lo afferrò per un braccio, con la solita calma angelica.

«No... Non è questo... Lui vuole... vuole che gli insegniamo a usarlo! A usare il suo Quirk»

«Ehhhhh...?» fece Armday perplesso. «E come... come l’avresti capito, per Dio!?»

Elmer gli fece l’occhiolino.
«I desideri umani sono sopravvalutati, se ci rifletti...»

Armday sobbalzò. “Sopravvalutati... Ancora quella parola... ma era un sacco che non la usava”.

Il soldato allampanato si chinò in direzione del bambino.

«È come dico? È come dico, eh? Vuoi scoprire di più sul tuo potere?»

Il ragazzino annuì continuando a sorridere, in modo abbastanza inquietante. Ora il suo viso era chiaramente visibile a entrambi. Aveva occhi torbidi, accesi di una luce bluastra, denti cariati e il collo segnato da una corda che vi era legata attorno. Sembrava quasi uno schiavo abbandonato. Sollevò il palmo della mano e lo mostrò ad Elmer. Per un attimo non successe nulla, poi una luce blu emerse sul suo palmo. Prese in fretta una forma: una cupola di piccole scariche azzurre., ma non si allargò molto. Non si espanse nemmeno oltre le dita. Mentre riaffondava nella carne abbronzata, il ragazzino ripeté ancora una volta quella parola.

«Quirk».

Aveva la voce raschiante e roca, neanche lontanamente paragonabile a quella che aveva mantenuto Elmer minuti orsono.

«Non vorrai che gli facciamo da balia, spero!» ringhiò Armday, senza un minimo di sensibilità.

Elmer non s’infuriò. Aveva riacquistato quello stato di quiete per cui era famoso.

«Na... tutto ciò che m’importa... è che lasci qualcosa a questo mondo sovrastimato...»

Armday scosse la testa, incredulo.

«Non sarò parte di questo, Elmer!»

Il soldato scabbioso gli diede un colpetto alla spalla.

«Lo so... tu continua pure a cercare quella vittoria personale... Rimaniamo sempre soldati, no? Anche se tutti ci vogliono morti, dobbiamo continuare a ripeterlo. Non c’è nulla di male nel farlo: Sempre gloria al Sol Levante!»
 

Nel Presente...

“Già, Elmer... quando tutti ci vogliono morti... non c’è bisogno di continuare a credere in qualcuno... E io ho sempre creduto solo in una persona... ho sempre creduto... solo in te!” Mentre volava nel cielo d’Infection, Armday attinse a tutta la forza che gli rimaneva. “Se devo morire oggi, mio caro Elmer, farò in modo che non sia invano...”

«Manovra d’Atterraggio -- Disperazione: Love and War!»

Tutti e quattro gli arti di Armday s’ingigantirono a dismisura, mentre il soldato cadeva, mirando a un solo obbiettivo.

“Elmer... Tredici anni, vent’anni, cento anni... Non importa quanto tempo sarà passato. Non mi perdonerò mai per ciò che ho fatto!”


 

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Capitolo 17
*** Soldato Numero 1831, Armday: Origins - Parte Seconda ***


Soldato Numero 1831, Armday: Origins - Parte Seconda


Deserti siriani - 13 anni prima del test d’ingresso
 
Armday bevve un sorso d’acqua, all’ombra della tenda. Era seduto su una cassa vuota, in cui erano stati aperti dei fori, per permettere all’aria di filtrarvi all’interno, neanche ci vivesse una qualche insolita creatura esotica. Alle pareti del piccolo abitacolo erano accantonati vecchi fucili da caccia, coperte di flanella e un paio di vivaci copricapi tribali, bottino dei blitz nel Congo centrale. Piuttosto macabri se qualcuno glielo avesse chiesto, ma ormai vi aveva fatto l’abitudine; in qualche modo, gli facevano compagnia e a maggior ragione in un periodo come quello. Per di più, l’aria si era fatta pesante, ma lamentarsene non era più remunerativo che tirare pugni all’aria; perciò, aveva fatto l’abitudine pure a quello.
Ciò non toglieva che si sentiva stanco e, anche con la sua congeniale struttura fisica, fragile come un vecchietto. Tirò un forte sbuffo, immaginandosi di stringere un sigaro tra i denti sporchi. Gli mancava fumare, ma anche per quello avrebbe dovuto attendere chissà quando...

Aveva gli occhi iniettati di luce, riparati dietro un paio di occhialoni scuri, tenuti insieme da bende sporche e chiodi arrugginiti. Non commetteva un movimento che fosse uno. Non ce n’era bisogno. Avrebbe solo rischiato di interrompere il contatto con la sfera infuocata, accesa sopra di lui, così lontana da sembrare quasi piccola. Quando era in quello stato, nessuno gli rivolgeva la parola. Forse avevano paura che li facesse a pezzi, così su due piedi, come una tigre dai denti a sciabola. Forse credevano che volesse stare da solo. Forse erano contenti di una quiete così insolita, per un feroce assassino. Quale che fosse il motivo, Armday non era mai veramente sicuro del perché passasse momenti con lo sguardo perso nel sole. Chissà... Gli piaceva esserne accecato, probabilmente: sentire gli occhi perdersi in un pianeta di fuoco, che non poteva raggiungere, ma che lo attraeva sempre più vicino. Un tempo, lo ricordava, lo faceva senza gli occhiali... solo per vedere dove riusciva ad arrivare, prima di distogliere lo sguardo, arso di dolenti fiamme. Chissà... chissà se c’era un Quirk da qualche parte che potesse, in un modo o nell’altro, arrivare al sole.

Il soldato si passò una mano tra i capelli ed ebbe un lieve spasimo, senza nemmeno sapere il perché. Non c’era davvero nessun motivo per essere giù di corda, a dirla tutta. Anzi, c’era ragione per essere felici. Erano passati sei giorni da quando il marmocchio aveva portato la salvezza nel loro accampamento. Era un piccolo Mosè, dicevano alcuni, e Armday, che suo malgrado sapeva la storia, riteneva un po’ ostentato vedere in quella piccola belva uno dei grandi del cristianesimo. Comunque fosse... le sue taniche avevano innalzato il morale delle truppe. Non c’era da discutere su questo: l’acqua del bambino era stata una vera e propria manna dal cielo. Li aveva salvati, nel corpo e nell’anima. La sua venuta era stata interpreta come il segnale... il segnale che c’era qualcosa o qualcuno che voleva farli sopravvivere.

Tra l’altro, per ordine del capitano Joanne (alla quale Armday era finalmente riuscito a mettere una pulce nell’orecchio, grazie a Dio), i soldati avevano allestito due piccoli drappelli di cinque uomini l’uno. Erano partiti lo stesso giorno del ritrovamento, ormai quasi una settimana prima. Armday non era mai stato così contento, sin dall’inizio di quella dannata spedizione. L’idea che finalmente le cose avessero ripreso a muoversi lo aveva riempito di un forte desiderio di darsi da fare lui stesso. E per i primi giorni era stato così. Aveva dato una mano a tutti, affinché si tenessero in allenamento e pronti a marciare. Aveva razionato le provviste d’acqua, nel modo più obiettivo che gli fosse venuto in mente. Aveva, per la prima volta, abbracciato l’idea che sarebbero riusciti realmente a tornare vivi in madrepatria e lui... lui non era un tipo ottimista, facile ad adattarsi, ma non certo ottimista. Eppure, aveva dato il meglio di sé.
Di lì a un paio di giornate, il primo gruppetto era pure tornato. Con sé si erano portati tutto il ben di Dio che si potesse auspicare di avere in un deserto e anche di più: acqua fresca, datteri, carne ovina, riso, vari tipi di frutta secca, tè. A giudicare dal loro carico si sarebbe detto che venivano da un fiorente paradiso, nascosto agli occhi dei mortali, ma la verità era che avevano raggiunto un’oasi, abbastanza grande da riempirli di vettovaglie per oltre un mese.

La speranza dilagava... ma era da oltre un giorno che Armday non si sentiva più investito in quella difficile e gratificante lotta per la sopravvivenza.
Non era stato qualcosa d’improvviso. Aveva percepito una strana debolezza, già una settimana orsono. Non si trattava di qualcosa di fisico, ma una spossatezza mentale, che Armday non aveva potuto far altro che ricondurre a una sottospecie di fottuta malinconia.
Ma per che cosa, poi? Lui... lui non era uno che pensava al passato, anzi, a dirla tutta cercava di pensare il meno possibile. E allora, da quand’è che la tristezza aveva invaso la sua vita? E ancor più importante... per quale cazzo di ragione non era andato col secondo gruppo che era partito in cerca di soccorsi? Non aspettava altro... Non aspettava altro che andarsene da quel posto. E allora... perché era rimasto? Lo aveva convinto il generale Strawbarry? Nossignore... quell’idiota era l’ultimo che avrebbe potuto convincerlo a fare come diceva.

Armday strizzò gli occhi, infastiditi dai raggi ultravioletti. Cercò la risposta in quel pianeta... un pianeta che doveva averle tutte le verità, o no? Ci doveva essere qualcuno in quel mondo folle che avesse il suo potere... Armday bevve ancora. Non aveva nemmeno l’alcol a consolarlo, ormai. Tutto gli sembrava così lontano da sé... così insignificante... così... sopravvalutato. Quella dannata parola lo fece andare su di giri.

«Elmer, è sempre colpa sua... non riesco a distaccarmene. Lo so... non sono un ingenuo bambinetto, cazzo. È lui il problema. Lui e quel... quel... quello stupido... Ho guadagnato onori su onori, ben prima che quel ragazzino arrivasse da noi come un piccolo, ignobile salvatore... Lo so... lo so bene cos’è che mi trattiene qui!»

Quasi in risposta, voci confuse si avvicinarono alla sua tenda. Sembravano intente in un dialogo allegro, fin troppo per i suoi gusti. Poco dopo, il soldato iniziò ad udirne distintamente le parole.

«Ben fatto, prima. Sembra che il calore dia un buon, buon impulso al tuo potere... anche se non penso che la giacca servirà a lungo una volta che avrai imparato a catalizzare la temperatura corporea e ambientale...»

«Ancora! Voglio ancora... provare ancora!» rispose la voce raschiante di un ragazzino.

Armday non rimase seduto un secondo di più. Varcò la soglia della tenda e confrontò i due che chiacchieravano. Sapeva che se lo sarebbe trovato di fronte, ma non per questo fu meno traumatico vedere quel sorriso serafico.

«ELMER!! Ti ho detto di stare lontano dagli accampamenti quando mandi avanti il tuo stupido corso per eroi da quattro soldi!»

Il soldato aveva riacquisito un certo colore grazie alle vettovaglie, ma la sua rifioritura non era nemmeno paragonabile a quella del bambino, accanto a lui, che aveva riacquisito il peso forma e vantava un sorriso scaltro da furfante. Vestiva una piccola divisa nera e bianca, così soffice e lanosa, che Armday avrebbe temuto d’indossarla anche in una piana innevata, figurarsi in un deserto. I capelli erano chiusi in una coda a dir poco improvvisata, grazie a un vago fermacapelli di plastica. Era rimasto pingue sul viso, ma ora il divario con il resto del corpo si notava di meno.
Tuttavia, c’era sempre qualcosa che lo turbava in quelle orbite scure e in quei tralci capelluti.

Elmer fece un passo avanti e rispose alla predica con un sorrisetto.

«Eddai... che sarà mai, 1831? Non diamo mica fastidio».

«Non vi voglio vedere quaggiù! Con tutto il posto che c’è, per Dio! Non dirmi che non potete andare da un’altra parte!»

Armday spostò gli occhi dall’uno all’altro, trattenendo la furia, ma quei sorrisetti lo mandavano in bestia.

«Na... qua il sole batte un po’ di più che là... voglio vedere se il calore ha i massim-...» incominciò Elmer, sereno, ma non fece i conti con la pazienza del suo interlocutore.

«Non farmi incazzare, Grayne!» ruggì infatti Armday, per niente in vena di scherzi.

Il soldato fece il saluto.
«Agli ordini, generale!»

Ma lo aveva preso nel giorno sbagliato e nel momento sbagliato.

«VIA DA QUI!!» urlò il possente soldato, con tale ferocia da far paura.

Il sorriso del compagno lasciò il posto a una smorfia di freddezza. Sembrava estremamente deluso. Strinse forte il fucile tra le mani e lo sistemò sulle spalle.

«Non temere, 1831. Stai pure qui, solo, a rodere quanto vuoi... e dire che alle volte mi sembri anche una persona con cui si può discutere civilmente...»

Gli diede le spalle e s’incamminò verso il deserto con il ragazzo al seguito, che tuttavia continuò a guardare l’altro soldato con una strana espressione, mentre si allontanava.
Questi osservò i due farsi piccoli, piccoli, e deformarsi nelle illusioni del sole, poi si tolse gli occhiali e scosse la testa. No. C’era qualcosa di estremamente sbagliato in lui.

«Ma che cazzo mi succede? Se voglio scatenare la mia guerra... non posso certo lasciarmi andare a questi capricci, cazzo! È tutta colpa sua se mi sento così... sua, sua, sua!» Si mise la testa fra le mani. «Sia maledetto il giorno in cui ti ho incontrato, Elmer Grayne».

 

Non parlò con il soldato per due giorni. Da parte sua, non ci furono certo passi di avvicinamento. Non c’era dubbio che avrebbe chiesto scusa. Non sapeva nemmeno da che parte iniziare e non era una cosa che gli si addiceva.

Per tirarsi su di morale, iniziò, anche nelle ore più calde della giornata, a disegnare nella sabbia mappe tattiche, giusto per il gusto di vedere gli schieramenti immaginari prendere quasi vita. Si rimise anche ad allenarsi con Giant Arms e si stupì della forza che riusciva a imprimere negli arti, levigati dalle fatiche. E per uno strano colpo di fortuna, sembrò pian piano riacquisire il ritmo di vita indipendente che ben conosceva. Fu una gioia riassaporare la bellezza del sentirsi sfinito dopo una giornata di fatiche.
Alle volte, veniva raggiunto dagli altri soldati, vogliosi di mettere in mostra le loro abilità. Il più appariscente di tutti era Gurunto, con i suoi quattro metri di pura forza bruta e i riflessi bui dei gomiti frastagliati. Non era una cima, ma sapeva come si combatteva all’arma bianca meglio di chiunque altro nella truppa. Anche Shibuya Nomo, detto “Pony”, non era da prendere sottogamba. Con i suoi larghi occhioni pacchiani sapeva proiettare immense quantità di fumo roseo, che si disperdeva in fretta sì, ma riempiva i polmoni dei soldati di un acre e mieloso odore di zucchero filato.

Quando non pensava ad Elmer, Armday si sentiva quello di sempre. Ed era così che voleva essere. Tenersi impegnato però non poteva durare in eterno. Lo sapeva e se avesse aspettato una parola da Elmer, poteva pure mettersi il cuore in pace, perché avrebbe aspettato in eterno. Quando quel soldato martoriato dalla scabbia riteneva di essere nel giusto, diveniva peggio di un toro. Nossignore. Era lui a dover fare il primo passo, anche se non avrebbe mai chiesto assoluzioni di sorta.

Perciò, la seconda sera dopo il diverbio, si avvicinò malvolentieri alla tenda del compagno. Si aspettava di vedere il bambino con lui. Lo seguiva sempre, come un anatroccolo dietro la madre. Invece, Elmer, uditi i passi del soldato, uscì solo. Aveva un sorriso stanco, che si distese quando vide il visitatore.

«Buffo. Buffo vederti qui, Armday».

I due commilitoni si squadrarono con una certa complicità. In fondo, erano nello stesso squadrone da anni. 

«Vieni, figlio di puttana, beviamo qualcosa...» disse Armday, porgendo al soldato una bottiglia.

Erano le scorte d’emergenza, ma a quel punto tanto valeva scolarsele assieme all’angioletto, visto l’andazzo della spedizione. Si sedettero su una cunetta, a guardare il tramonto. Elmer bevve più del solito. Aveva ombre scure sotto gli occhi e un’aria malaticcia. Probabilmente non dormiva da un po’.

«Dov’è il nostro salvatore?» la buttò lì Armday, senza troppe pretese.

L’allusione al ragazzo fece irrigidire il commilitone. Scosso da un brivido, incrociò le gambe.

«Ha detto che voleva allenarsi un po’ da solo... ha imparato in fretta la nostra lingua. Forse un po’ troppo in fretta per essere normale. Lo stesso vale per quel suo potere. Non ho mai visto una crescita così zam-zam nelle abilità di qualcuno».

Armday fece un suono con la bocca, per far intendere che aveva capito, ma non disse nulla. Vi fu un certo silenzio nel minuto successivo.
“Un ragazzo prodigio, eh? N’sarebbe male vedere come andrà avanti. Sono anni che nessuno mi mette in difficoltà... e per di più... se dovessi prenderlo sotto la mia ala, Elmer ne uscirà livido.”

Il soldato spilungone gli diete un colpetto e gli passò il vino annacquato, poi fece un lungo respiro.
«Scusa... scusa se non ti sono stato vicino in questa settimana... Probabilmente ti sarai pentito di non essere partito con la squadra di “salvataggio”».

Al soldato possente quasi cadde di mano la bottiglia.
“Scusa!? Mi chiede scusa?”

Lo guardò di sottecchi, ma Elmer sembrava non voler aggiungere altro.

«Per Dio, non farmi ridere... Te lo dico sempre che sto bene da solo, compagno. E poi... chi ti ha messo in testa che sono rimasto qui per te? Forse ti sei fatto un’idea sbagliata su di noi... ho altri interessi, non so se mi capisci... gusti un po' più femminei».

«Non parlavo di quello...»
Elmer sospirò e guardò Armday, che distolse lo sguardo. Era dannatamente faticoso guardare qualcuno negli occhi, peggio ancora uno come lui, che ti scrutava dritto nell’anima.
«Io intendo stare vicino a chi è più fragile... non fraintendermi... non voglio dire che sei debole, te lo assicuro, solo è un periodo duro per tutti e, proprio per questo, non posso dedicarmi solo ad uno... ci sono tanti che non sanno dove mandare a parare la loro vita. Penso che con qualcuno al fianco sia più facile... vivere».

Nell’accampamento, erano iniziati i richiami per le razioni di cibo. Gli alimenti erano distesi su un tavolo improvvisato, appena visibile dalla loro posizione sulla collinetta. La tovaglia era composta da un paio di mantelli cuciti assieme, pratici, anche se non molto igienici. Ma a chi importava poi dell’igiene? L’importante era mangiare e sembrava che ce ne fosse della roba su quel piccolo tavolo. Una modesta fila si era già formata dietro di esso; e questo voleva dire molti. Erano rimasti in diciannove nell’accampamento, senza i cinque del secondo gruppo. Dodici neo-Temigoriani, quattro neo-Giapponesi, tre indigeni arruolati nel centro dell’Africa nera. E in più c’era quel dannato ragazzino, che non avevano ancora capito da dove venisse. Lui non rientrava nel conto della truppa. Non ancora, perlomeno.
Anche il generale Strawbarry era uscito dalla sua tenda. Significava che il cibo era abbondante, quel giorno.

“Meglio muoversi, se vogliamo mettere qualcosa sotto i denti...” si ritrovò a ragionare Armday.

Eppure, gli occhi attenti di Elmer erano ancora sulla sua nuca. Lo infastidivano quasi come se gli stessero puntando una torcia elettrica negli occhi, ma per riallacciare i rapporti non poteva urlargli di guardare da un’altra parte, anche se ne era molto tentato. Merda, quanto gli piaceva urlare contro le persone... Forse era per quello che non riusciva ad andare d’accordo con nessuno.

Per sua fortuna, il soldato dai capelli crespi gli risparmiò la fatica. «Sai, Armday... c’è un mistero, un enigma, che tutt’oggi non sono riuscito a risolvere...» il soldato si acquattò nella sabbia, scrutando il cielo magmatico. «Come fanno due come noi a dipendere l’uno dall’altro?»

«Ma fottiti! Io non dipendo da nessuno, Elmer. Passami dell’acqua va’, che non vorrei affogare nelle troppe cazzate...» ridacchiò il soldato, sperando di infastidire il compagno. Neanche a dirlo, non ottenne l’effetto sperato.

«Nel senso... questo legame, com’è che c’è se a ogni fottuta scelta prendiamo vie.... vie... vie biforcate..?» domandò l’uomo dalle labbra incrostate, con evidente turbamento.

«Biforcate? Ma quand’è che ti sei messo a rosicchiare dizionari, vecchio mio?»

Elmer sorrise.
«È meglio farsi un po’ di bagaglio culturale, non credi? Sai... quando sei un soldato, non c’è certezza sul domani, no?»

«Grazie a Dio, non ho sti’ problemi...»

«Beh, tu non moriresti facilmente, lo so... Hai qualcosa che io non ho ormai da un sacco di tempo».

«E che cosa? Si può sapere?» chiese Armday, simulando un tono sarcastico.

«Fede nella vita...» replicò Elmer.

Non vi fu tempo per chiedere spiegazioni. La voce imperiosa di Joanne li colse entrambi alla sprovvista.

«Ancora voi due! Pelandroni che non siete altro... Almeno la decenza di presentarvi alle adunate, cazzo! Se non vi muovete di lì immediatamente salterete i prossimi pasti e io adoro moltiplicare per tre! Muoversi, muoversi!»

I due soldati si alzarono in piedi, brontolando tra i denti. La donna, per loro incommensurabile sfortuna, li udì.

«SALUTO!»

I due si misero in posizione, prima ancora che il capitano finisse di parlare.
Questa incrociò le braccia, insoddisfatta.

«Sempre Gloria al Sol Levante!» esclamarono.

«Già meglio...» proferì Joanne e si allontanò.

«È una tosta...» sussurrò Elmer, scoprendo l’acqua calda.

«Beh, io la cena non me la perdo, culturman» ribatté Armday. A pace fatta, i due s’incamminarono verso il tavolo del rancio.

Se solo allora fossi rimasto zitto, se non avessi fatto niente... forse ci sarebbe stata una possibilità che nulla sarebbe accaduto. Non c’è modo di saperlo, lo so... questo pensiero mi tormenterà per sempre... d’altronde, ogni soldato crea da sé i suoi demoni...

«Ehi, Elmer. Che sta facendo il tuo ragazzo prodigio? N’è che sta correndo un po’ troppo, senza di te?»

Armday, ormai a pochi metri dal cibo, si era schermato dal sole con il braccio ricoperto di ferraglia e, nel farlo, un bagliore blu si era riflesso dapprima sulle piastrine e poi sui suoi occhi. Non ci voleva un genio per capire cosa lo avesse causato. Però, così forte e dal nulla...

Elmer si volse preoccupato.
«Che stai dicendo, ora?»

Il soldato però aveva già cambiato direzione.
“Un prodigio, un prodigio, un miracolo... È di questo che ho bisogno, Dio santo! Di confrontarmi con qualcosa fuori dal mondo!”

Seguì il suo istinto, relativamente affidabile. Il bambino non poteva essere che alle spalle della grossa duna a nord-est. Lì avrebbe avuto tutto lo spazio e tutta l’intimità che desiderava per allenarsi, alla sua maniera. Armday aveva intravisto, tra un’attività e l’altra, quei due che si esercitavano, ma un conto, come ben sapeva, era lavorare all’ombra di un istruttore, un conto era avere totale campo libero.

«Piccolo ribelle, che stai combinando?» chiese con un ghigno, senza rivolgersi a nessuno in particolare.

La cena era ormai un bisogno secondario. Tutto era diventato secondario, fin da quando aveva cullato l’idea di sottrarre a Elmer quel piccolo demone. Con un salto atterrò ai piedi del rialzamento. Iniziò ad aggirare la duna, fremendo dall’impazienza. Ogni passo sembrava più lento, più carico di attesa, più significativo, ma Armday si crogiolava in quel clima di sofferente struggimento. Ed ecco che cominciò a sentire un forte ronzio propagarsi nell’aria morta e poi una voce ferrosa, frastagliata, latrare per lo sforzo. Sembrava l’incrocio tra un lamento e una lenta litania.
Il soldato iniziò a correre.

«Muoviti, muoviti, Giant Arms!»

Con le gambe ingrandite la sua rapidità crebbe.
“Non me lo perderò, per nulla al mondo!”
Era più veloce di un velociraptor, eppure gli sembrò di impiegare centinaia di minuti per raggiungere il ragazzino. La scena che gli si parò davanti però fu di godimento puro e ripagò tutti gli sforzi.

Al centro della piana, c’era il piccolo Mosè. I capelli erano tornati alla vecchia capigliatura selvaggia, sciolti, simili a viticci avvizziti. Gli occhi erano spiritati, mentre il ragazzo teneva la mano sollevata verso il cielo.
«Erpa is onrefni ‘ lled atrop al! Erpa is onrefni ‘ lled atrop al! Erpa is onrefni ‘ lled atrop al!»

Le parole incomprensibili uscivano dalla bocca screpolata e distorta come maledizioni demoniache. Il campo elettrico, che il ragazzo aveva manifestato anche il primo giorno, era di una grandezza almeno dieci volte maggiore e non smetteva di crescere. Scariche color del vetro vibravano nella cupola per poi spezzarsi e ricollegarsi in maniera del tutto casuale e disordinata. Laddove colpivano la sabbia creavano vortici momentanei e persino piccoli crateri!

Armday non si trattenne e iniziò a ridere.

«Sì! Proprio di questo parlavo! Un potere divino, in grado di vincerli tutti! Sarai la carta vincente della mia guerra!»
Il ragazzino si accorse della sua presenza e perse la concentrazione. La cupola iniziò a sfarfallare, come un ologramma difettoso, rimpicciolendosi poco a poco.
«No! No... devi continuare! Fammi vedere di più!»
Armday ridacchiò ed iniziò a girare attorno al ragazzo, a debita distanza dalla sfera luminosa.
«Mantieni il controllo, non ho alcuna intenzione di fermarti. Di questo puoi pure starne certo».

Non mentiva e il ragazzino lo capì. La sfera di energia riacquisì colore e vigore, riprendendo ad espandersi.

«Erpa is onrefni ‘ lled atrop al! Erpa is onrefni ‘ lled atrop al! Erpa is onrefni ‘ lled atrop al!» riprese la lugubre, sepolcrale cantilena.

L’occhio sinistro di Armday s’inarcò.
“Ma che è sto’ mortorio? Il suo Quirk non c’entra un cazzo con sta’ roba... Sarà una specie di rituale. Bah... finché gli permette di andare avanti a me sta più che bene”.

Per scongiurare ogni possibile ripercussione delle maledizioni sulla sua persona, Armday si fece un fugace segno della croce. Non si poteva mai dire con quei riti tribali. Si divertì ancora per un poco a gironzolare attorno al ragazzo, in profonda estasi, ma si stufò presto nel vedere che la cupola rimaneva pressoché delle stesse modeste dimensioni.

«No, no, no, caro mio! Non ci siamo!» Il ragazzino si voltò verso di lui, senza smettere di condurre energia. Il soldato diede sfoggio del braccio muscoloso. «Ora ti svelo un segreto: il limite del tuo potere non combacia con i limiti del tuo corpo, piccoletto...» Fece esplodere le articolazioni dentro il suo braccio, ingrandendolo fino al massimo che gli consentisse la pelle. «Ecco... ora sono come te... al massimo. Non è così?»

Il ragazzino lo guardava con tanto d’occhi.

Armday strinse i denti. «No, certo che no! Io posso fare di più. Io, anzi noi, possiamo usare lo spirito!»

Con una fatica straordinaria, l’uomo ingrossò il braccio ancora di più. I muscoli si contrassero, come smeraldi sotto il fuoco rovente e spezzarono la pelle. Le articolazioni si accumularono lungo i punti focali e iniziarono a costruire una catena. Piccole bolle apparvero e scoppiarono sull’arto gigantesco, esplodendo in spruzzi di pus e sangue. Armday soffocò un gemito e sentì il sangue fin sotto i denti.

«Proprio come insegnano in quella scuoletta per raccomandati... lo U.A.!» ringhiò, cercando di mantenere un certo convincimento. «Plus ultra! I confini del nostro corpo, anzi, i limiti in generale sono fatti per essere superati! Tu ti stai RISPARMIANDO!»

Il bambino inveì, liberando con lunghi respiri l’anidride carbonica in eccesso. Aveva gli occhi iniettati di nero.

«Iuq è Anatas! Iuq è Anatas! ANATAS!»

La cupola riprese ad espandersi.

Pensavo di poterlo controllare... uno stupido soldato di ventiquattro anni che credeva di conoscere il potere del male assoluto... e mentre gli davo gli strumenti per superare sé stesso, non facevo altro che compiacermi di me stesso, della mia abilità, della mia brama cieca di guerre, di scontri, di vittorie...

La sfera di luce ora cresceva a una rapidità spaventosa. Armday, il braccio dolente, sapeva bene che non avrebbe potuto sfuggirle e infatti pochi attimi dopo la sentì oltrepassarlo, racchiuderlo all’interno. I peli si rizzarono sulla pelle, i capelli fecero altrettanto, mentre le cariche elettriche si riversavano su di lui. Ben presto giunse il calore. Sentiva gli arti, il petto, la testa, riscaldarsi, come all’interno di un forno a microonde. Qualcosa lo metteva in allerta, ma non poteva fermare quel prodigio proprio allora.

«Di più, sempre più in là!»

Non capì se il ragazzo lo avesse udito, ma di certo non stava contemplando l’idea di fermarsi. I suoi vestiti, di nuovo stracci neri, si sollevavano nell’impeto delle onde magnetiche.

«Iuq è Anatas! Iuq è Anatas!»

La voce ronzava, come la cupola, pari all’affaccendarsi delle api in un alveare. A un certo punto, Armday avvertì qualcosa di singolare: un senso di oppressione al petto, implacabile. S’inginocchiò. Improvvisamente rimanere in piedi era diventato faticoso. Vibrava. Il suo corpo vibrava, o forse era solo una sua impressione. Si sentì mancare il respiro.

«Il mio cuore, ma certo... Lo sta mandando in fibrillazione!»

Aveva visto gli effetti dell’elettricità sul cuore umano... poteva spegnere e accendere vite con una semplice scarica. Con un campo elettrico, però, era diverso. Un’operazione lenta, mortale certo, ma lenta. Se avesse indugiato lì ancora un po’ avrebbe rischiato l’arresto cardiaco. Eppure, una parte di lui ancora voleva vedere di più.

«È tutto qui...?» rantolò con una mano sul cuore. «Puoi fare di più di così!»

«No, invece! Basta!» gridò una voce ferma.

Armday si orientò verso il richiamo, sentendo il battito accelerare a dismisura, per effetto del campo. All’interno della cupola, con il fucile sulle spalle e i capelli vorticanti sulla fronte, c’era Elmer Grayne. Torreggiava sui due, a metà della duna. Ansimava, ma aveva uno sguardo risoluto.

«Tutto questo è follia, Armday! Ragazzo, ascolta me! Ritira il tuo potere... stai oltrepassando limiti che nessun umano dovrebbe!»

«Lascia stare Viticcio!» abbaiò il soldato 1831 ad Elmer, dando il primo nome che gli venne in mente a quel suo nuovo protetto. «Ha tutto il diritto di usare il suo potere!»

Il magro soldato era più incollerito che mai.

«FERMA QUESTA FOLLIA!»

Teneva una mano sul petto. Anche lui stava andando in fibrillazione?
Il ragazzino si volse verso il maestro.

«E perché dovrei?»

La voce raschiante e acida non aveva alcunché di umano, e gli occhi erano buchi neri.
Elmer fece un passo avanti e si apprestò a farne un altro, un occhio chiuso e uno aperto. Però, non vi riuscì. La caviglia era stretta nella morsa della mano di Armday.

«Lo vuoi tradire? Dopo tutto quello che gli hai insegnato, per Dio? Non sei meglio di Giuda, compagno! N’è così?»

Non aveva mai visto Elmer così adirato.

«Cos’è? Ora lo vuoi come discepolo... ora che ha mostrato la sua vera natura!?»

“Certo, Elmer, e a maggior ragione se tu non vorrai, perché io farò sempre ciò che non farai tu!”

Con un barrito, il soldato possente si rimise in ginocchio.
«Sarà la chiave della mia guerra, il mio cavallo di battaglia! Dling, Dling, Elmer, è il suono dei bossoli che cadono inerti... chi ne ha più bisogno di quei colpi già utilizzati?»

Entrambi respiravano corto.

«Na, 1831, non mi impedirai di fermarlo... perché io la fede nella vita non ce l’ho!»

Imbracciò il fucile e mirò al ragazzino.

«Giant Arms -1- Full body!»

Tutti e quattro gli arti di Armday s’ingigantirono ed Elmer si ritrovò ribaltato all’indietro. Un colpo venne sparato a vuoto. Come in risposta, un demone sembrò sorgere dall’elettricità. Un fulmine li mancò di pochi piedi.

«Se vuoi combattere, Elmer...» minacciò Armday, dall’alto della sua mostruosità. «Allora facciamolo in un’arena seria!»

Con un calcio della gamba muscolosa ed immane, colpì l’uomo nel petto e lo mandò a volare oltre la duna, saltandovi poi lui stesso. Uscire dal campo, però, fu così rinfrescante e imprevisto che il soldato perse l’equilibrio e rotolò giù assieme al compagno. Imprecando, rovinarono sulla piana dell’accampamento, ad almeno cinquanta metri dalle prime tende.
Il primo di alzarsi fu Armday, che era ancora provato dalla dimostrazione fatta col braccio sinistro al ragazzino. Si scrollò la sabbia di dosso, come un cane emerso da un lago.

«Ma lo sai che in realtà aspettavo questo momento da tanto, compare?»

Elmer si issò sulle braccia, ma il colpo che gli aveva sferrato poco prima gli aveva come minimo intaccato la gabbia toracica.

«Certo... certo... a te piace solo combattere!» Il soldato allampanato aveva i radi capelli ricoperti di sabbia, e la bocca sporca di sangue e saliva. «Però non pensavo... servo di Dio... che volessi distruggere il nostro mondo!»

Armday saltò addosso al soldato, preparando un pugno che lo avrebbe steso una volta per tutte.

«Tu non mi hai mai conosciuto! Peraltro, te l’ho detto... io dipendo solo da me stesso!»

Elmer chiuse gli occhi e aprì la bocca.

«Angel Protector!»

Armday, sospeso sul compagno, pronto a colpire, spalancò gli occhi, sbalordito.

«Che stai...?»

Un dolore acuto, dalla spalla fino alla costola destra, lo colse alla sprovvista. Uno spruzzo rosso gli annebbiò la vista.
“Sangue? Mio? Io... sto sanguinando?”

Armday perse la concentrazione e ruzzolò nella sabbia, sentendo un forte bruciore nel luogo dove aveva sentito qualcosa di acuminato trafiggerlo. Le braccia tornarono alla grandezza originale e il soldato le adoperò subito per rimettersi in ginocchio.
“Il mio campo visivo... devo difendere la posizione! Ma cosa diavolo è stato...?”

«Merda! Aaagh...! Elmer! Non fermarlo, in nome di Dio!» Si rimise in ginocchio col respiro frammentato. «Soldato! Non si lasciano le cose a metà, lo dovresti sapere!» ruggì, tergendosi il viso con la divisa borchiata.
Quando aprì gli occhi, vide la sagoma snella di un soldato allontanarsi da lui. “È diretto alla duna... vuole fermarlo... Non capisce che sono io il suo avversario!?” Si rialzò in piedi, rilevando a malapena l’ampia ferita sul torace.

«Graaaugh! Non fuggire da me!» Batté una volta le mani, per darsi la forza necessaria.
«Artiglieria Leggera -1- Cielo Plumbeo!»

Piegò le braccia verso i piedi e diede il consueto impulso alle articolazioni. Come una ruspa, raccolse una montagna di sabbia e la scagliò verso Elmer. Era una vera e propria tempesta, così concentrata da poter abbattere un bisonte. Il soldato a cui era diretta contro si voltò, con il viso contratto dalla furia.

«Illuso... fanatico! Angel Protector!»

Armday aguzzò la vista.
“Non me lo perderò questa volta...”

La nube di sabbia venne divisa in due da un luminoso colpo di spada. Mentre i granelli si disperdevano, una figura angelica lucente si stagliò di fronte a lui. Era una creatura di pura luce. Non si trattava della luce dei fotoni, ma dell’indescrivibile essenza delle divinità. Aveva due ali, una spada lunga ottanta centimetri, leggermente curva sulla sommità e una specie di sottoveste, dalla silhouette di cristalli aurei: arrivava fino ai suoi piedi.
Era stata quell’arma, quella spada curva, a colpirlo, Armday lo sapeva. Per fortuna, lo aveva preso di striscio... Nessun altro particolare era visibile a causa della luce intensa che l’essere emanava, nemmeno gli occhi.

«Ahah! Quindi è questo il tuo Quirk, Elmer Grayne! Non male davvero! Ci credo che quella notte hai fatto faville, per Dio!»
Mostrò i denti al compagno, che lo guardava, da dietro la figura angelica.

«Sei solo un ragazzino, 1831, ricordatelo sempre!» replicò lui, senza muoversi. Fece poi un cenno all’angelo che attaccò il soldato.

«Pensi che possa toccarmi... Anche io conosco qualche trucchetto!» La creatura si muoveva fluttuando, a grande velocità, ma i suoi movimenti erano prevedibili. «Ancora un poco...» la spada mulinò verso di lui, che mise una mano dietro la schiena. «Ecco qua!»

Si gettò all’indietro, quasi a peso morto, sentendo la lama sfiorare l’aria sopra di lui.
“Mi basta un dito...” Ingigantì il medio prima di toccare il suolo. Bam... La sabbia si sollevò, mentre la grandezza di quell’unico pezzetto di carne, sprofondato nella sabbia, non solo fermò la caduta del soldato, ma lo direzionò in alto.

«AHHHHH! Vediamo quanto resiste il tuo guerriero di luce!»

Armday fece pressione sul dito e lo usò come trampolino. Quando fu in aria, con le orecchie che fischiavano, vide chiaramente la creatura angelica sotto di sé e il viso rabbuiato di Elmer poco più avanti.

«Eh! eh! E ora rido io!» Piegò il ginocchio destro, preparandosi ad atterrare.
«Sunday Bloody Sunday!»

Lo scarpone da marcia di Armday assunse dimensioni colossali, fino a esplodere, rivelando il piede nudo, grande come una Cinquecento. Lo schiacciò sull’angelo, che aveva fortuitamente una consistenza e, dopo aver tremolato appena, esplose in un clangore di mille arpe infrante.

«Sembra che gli angeli possano cadere dopotutto!» esclamò Armday con un sorriso da guancia a guancia.
Si voltò a guardare Elmer, ma non lesse sconcerto sul suo volto, né paura. Ancora una volta vi vide la delusione. Perché? Perché quell’espressione? Non aveva visto cosa aveva appena fatto? S’infuriò.
«Smettila di guardarmi come se avessi tradito la tua fiducia!» Gli mostrò il pugno. «Tra noi due non c’è niente, fattene una ragione... Io voglio solo la mia guerra e l’avrò, una volta tornato a casa... e lo farò con quel bambino assieme a me! Non vi saranno più Giapponesi e Temigoriani, solo o gli uni o gli altri!»
Elmer fece qualche passo verso di lui, poi cambiò idea e riprese a camminare verso sinistra, verso la duna.

«Non farlo, Elmer!» gli gridò Armday, pieno di commiserazione. «Non voglio doverti ammazzare!»

«Puoi pure provarci» rispose Elmer perentorio, senza degnarlo di una sola occhiata. «D’altronde... non avrai le morti gloriose che tanto desideri sulla tua coscienza, altrimenti. Ma ora che hai fede nella vita, vivi, vivi più che mai...»

“La sua voce non è arrabbiata, né rancorosa. Perché riesce sempre a calmarsi? Faccio sempre di tutto per fargli perdere le staffe e lui continua a trovare la pace. Cos’è che ha che io non ho!?”

Il soldato aveva preso a scalare la duna.

«Non mi lasci altra scelta! Giant Arms!» Armday ingrossò le gambe fino a torreggiare sulle tende. «Frana!»

Saltò verso la duna e sferrò un calcio alla sua sommità. Una cascata di sabbia e pietre rovinò verso il basso, verso il soldato scabbioso. Armday approfittò del disastro per gettarsi a sua volta su di lui e caddero di nuovo assieme, nel marasma. Fu una caduta ancora peggiore della precedente, ma Armday aveva un solo obbiettivo: fermare il compagno.
Si alzarono immediatamente entrambi, cercandosi l’un l’altro. Si scorsero nel medesimo istante, quando ancora la sabbia non si era posata sul terreno. “Sono abbastanza vicino per colpire duro corpo a corpo!”

«Nuclear Barrage!» colpì col sinistro e il destro all’unisono, più e più volte, ma Elmer, fulmineo, si gettò sotto, celandosi alla vista nella sabbia.

«Eh no! Mangia un po’ di sana polvere, compare!» urlò Armday e colpì il suolo con il pugno sinistro.

La sabbia si diradò seduta stante, ma non vi era traccia di Elmer.
“Dov’è?”

«Angel Protector!»

Una spada di luce emerse tra dalla sabbia, costringendo Armday a saltare all’indietro di diversi metri.
“Da sottoterra?”

Un boato gli colmò le orecchie, poi sentì una fitta fortissima, che lo fece imbestialire. Si strinse la mano al fianco.
“Il suono di uno sparo? Pensavo che avesse perso l’arma quando gli ho sferrato quel calcio...”

«Perderai, Armday...» Elmer emerse da sotto la sabbia. Aveva un vecchio tre-colpi scomponibile tra le mani.

«C-...c-come...?» Il soldato possente sentì le forze venire meno. «ELMER!!!» ringhiò e fece due passi verso di lui, ma era finita. Zuppo di sangue, cadde di faccia sulla rena.
“No... Non posso essere già al limite...”

Ma lo era. Lo sapeva.

«Quando hai provocato quella frana, non stavi davvero prestando attenzione a ciò che ti accadeva attorno, non è vero?» chiese Elmer, sollevandosi dal giaciglio. «Per prima cosa, ho spedito il mio Angel Protector sotto la sabbia. Può permeare senza fatica gli oggetti solidi, ma solidi, solidi, sai? È lui che mi ha scavato quella tana. Poi l’ho visto... questo».

Indicò l’arma che aveva in mano e Armday la riconobbe.
«Ma è il mio... il mio fucile...» un attacco di tosse lo colpì. Si rigirò con un grugnito affaticato e si abbandonò sul terreno scosceso, pancia all’aria.. «Co-come... come hai fatto a...?»

Elmer si avvicinò a lui.
«Dal tuo fianco. Sì... pendeva dal tuo fianco. Appena l’ho visto, anche se era in pezzi, ho deciso di saltare e soffiartelo. Facevamo sempre revisione insieme... so come è fabbricato meglio di chiunque altro. Ripararlo è stato uno scherzetto».  

Il soldato a terra singhiozzò una specie di risata.
«Per Dio... sempre un passo avanti... a tutti».

Elmer si avvicinò a lui.

«Non sei mai stato preoccupato per quello stupido coltello, non è vero? Volevi solo, solo distogliere l’attenzione da questo oggetto...»

Armday sentì due mani, fredde e candide toccargli le spalle, metterlo seduto. Era Angel Protector. Tutto a un tratto aveva voglia di piangere.

“È solo un’altra dozzinale reliquia... di quella chiesa infame...”

Elmer lo stava osservando. Cercava un responso, ma Armday non aveva più nulla da dare, né da dire. O forse... non voleva. Anche se avesse potuto, probabilmente non si sarebbe alzato. Era stato sconfitto su tutta la linea.
Il soldato in piedi incrociò le braccia, pensieroso.

«Noi non ci conosciamo per niente. Proprio per niente...»

«Beh, io so che a volte ripeti le parole due volte...» scherzò Armday, senza più voglia di combattere.

«Le tue ferite non sono mortali, neanche gravi, neanche lontanamente gravi... dov’è finita la tua ferocia combattiva, il tuo Plus Ultra?» chiese il giovane dal corpo martoriato.

Armday guardò il sole, sorridendo alle parole del compagno.

«Avevi ragione, Elmer... io non voglio l’annientamento di una civiltà. Non l’ho mai voluto. Io voglio solo... annegare nel sangue il mio desiderio di vivere... Voglio che questa faccia da culo che mi ritrovo veda così tanta morte da stancarsi di questo mondo... come posso dire? Di questo mondo...»

«Sopravvalutato? Lo è, in effetti...Vale lo stesso per me... lo sai? Ma non possiamo morire. Dobbiamo difendere coloro che vogliono realizzare sé stessi, in questa dimensione, 1831! Fermiamo quel demone!»

Armday annuì, coprendo le generalità incise sul calcio del tre-colpi, sperando in qualche modo che Elmer non le avesse notate.

«Già. Eheh! Quel patetico figlio di Satana!»

Si fece fasciare in modo sbrigativo le ferite, cercando di non dare soddisfazione al soldato accanto a lui, sfinito, ma pressoché illeso. Nel frattanto, squadrò le tende e il loro campo di battaglia improvvisato, macchiato qua e là di sangue. Notò qualcosa che lo angustiò appena e indicò inespressivo l’accampamento al compagno.
«Guarda, arrivano rinforzi».

Probabilmente allarmati dal casino di poco prima, i loro commilitoni stavano marciando verso la duna, con passo frettoloso. Joanne aveva un diavolo per capello. Lo si capiva anche a quella distanza.

«Meglio muoversi, prima che ci giustizi entrambi. E inoltre... io vorrei anche la cena...» disse Armday, stranamente pacato.

«Già! Non perdiamo tempo! Non sappiamo a quali mete potrebbe raggiungere il suo Shocking Demons!»

«Shocking Demons!? Dimmi che scherzi, per Dio!»

Si affrettò dietro al soldato, che a passo di marcia si inerpicava per la salita semi-verticale.
Sentiva una strana sensazione. Una sorta di compiutezza, una pienezza che non riusciva a spiegarsi.
“Forse è vero, compare... forse dipendo davvero da te...”

«Si sta per sollevare una tempesta di sabbia! Mettici un po’ del tuo, su! Con quelle lievi ferite, dovresti essere già in cima!» lo redarguì la sagoma, dinnanzi.

“Lievi? Ma mi hai aperto un foro nel fianco... e che cazzo!” Si coprì gli occhi con l’avambraccio e fece per rispondere, ma una voce famigliare li raggiunse.

«Atnuig è enif al! Atnuig è enif al! Atnuig è enif al!»

«Non mi piace, non mi piace per niente!» fece Elmer, «questa è una lingua satanica!»

In effetti, le parole sembravano ora cariche di un’energia oscura. La voce del bambino era appena riconoscibile, nell’eco di mille venature d’odio e disperazione.
Armday non se ne intendeva di quei culti neri e rossi, però non aveva bisogno d’infarinature, per ricordare le pagine proibite, nei manuali della chiesa in cui era cresciuto. Erano il lasciapassare per un excursus nel mondo delle tenebre, ma per qualche ragione il soldato non ne era mai stato attratto.
Lui era sempre stato affascinato dal sole, irremovibile, immutabile, misterioso, e negli inferi, per il sole non c’era posto.

«Già» rimarcò laconico, la mente altrove. Poi, lanciò un’occhiataccia alla cima, di fronte a sé. Là dietro c’era quel piccolo demone. Non sapeva più cosa pensare, ma era giunto a una conclusione semplice. Quella volta, solo quella volta, avrebbe seguito Elmer come un compagno, non come un avversario.

«Ehi, Viticcio! Preparati a una bella sculacciata, mocciosetto! Quando avrò finito, ti inculcherai in quella testolina...» Armday sogghignò ed elevò il tono di voce, «...che i limiti li supera chi darsi dei limiti sa!»

«Filosofico» sussurrò Elmer, gemendo per lo sforzo.

«Ma fammi il piacere, angioletto. Chiunque abbia detto ste’ cazzate, ti assicuro che non meritava le attenzioni che ha avuto. Quando ero a Tokyo...»

Armday si bloccò. La sabbia si era sollevata di diversi centimetri. Nel silenzio, interrotto solo dalla cantilena, il soldato si rese conto che non c’era nessuno che sapesse davvero qualcosa su di lui, sulla sua vita precedente all’accademia militare. Non aveva mai dato peso a quel pensiero. Ma in quel momento, con i granelli che infierivano su di lui e sull’uomo fuori fuoco che aveva di fronte, iniziò davvero ad avvertire quanto fantomatico fosse il suo passato, quanta incomunicabilità ci fosse tra gli uomini, quanto effettivamente non conoscesse quel soldato, con cui combatteva, mangiava, beveva, da oltre due anni. Non sapeva nemmeno da dove proveniva ed egli, a sua volta, non conosceva i natali di lui.
Un moto d’intraprendenza e compassione lo avvolse. Con una manata, immaginò di respingere la sabbia che li divideva, non solo la terra nel vento, ma tutte le conversazioni mai avvenute fra di loro, tutte le occasioni perse per conoscersi.
Erano quasi in cima.

«Elmer...»

Poi, avvertì qualcos’altro. Disgusto, di un’indicibilità spaventosa e subito dopo... una sensazione di pericolo imminente. Non capì da dove provenisse, pensò di averla sentita solo lui, ma anche Elmer, giunto ormai sulla sommità si volse verso di lui. Un terrore autentico, in quegli occhi dolci e puri, riversò su di lui lo stesso sentimento e gli venne da vomitare.

«Armday!?!»
Il soldato dai capelli radi tese un braccio verso di lui, tutt’un brivido.

“Afferragliela... Ha bisogno di te, stupido bestione... Per Dio, afferragliela...”

Ma era completamente perso e non solo per quel timore primordiale, ma anche per ciò che era avvenuto prima. Nessun rapporto. Nessuna comunicazione. Tutto era grigio. Prima che potesse rendersene conto, andò in trance. Percepì appena una barriera che li urtava. Era blu, eterea e frizzante. Aveva già provato qualcosa di simile. Sì... Certo che sì. Con la mente alla deriva, sentì i sensi offuscarsi.
“Monsignor Bane, spero che almeno lei... avrà trovato qualcuno con cui condividere il grigio ambaradan di tutti i giorni”.

La guerra, la guerra, la guerra distruggeva gli uomini... o forse erano gli uomini a farsi distruggere dalla guerra? Sprofondava, sempre di più nel grigio fango, nel grigio vortice della nullità, nel cemento sopravvalutato che era il mondo.

«Armday!»

Chi osava urlare quel nome? Chi osava turbare la quiete del veterano che dorme?

«Armday!»

“No... Non sono io... quello è solo... il riflesso di un desiderio di sangue... di un figlio di Dio che ha perso la strada.”

«Straylight!»

Un ululato, nel cielo notturno, o forse nel deserto sabbioso?
“Straylight? No... Nessuno sa se quello sia il mio... cognome... Nessuno sa chi sono davvero!”

«Straylight!»

Gli occhi del soldato si aprirono di fronte a un viso madido di sudore.

«Rispondimi, figlio di puttana! Figlio di...»

«Non c’è bisogno... sempre di ripetere tutto due volte!» brontolò Armday tra i denti, mettendo a fuoco la faccia di Elmer. «Ehi, per l’amor di Dio...» Il cuore gli batteva all’impazzata. «Elmer...»

Poi, si ricordò. Fu come se lo avessero investito di una scarica elettrica.

«VITICCIO! Dov’è quel bambino di merda!?»

Elmer si allontanò. Teneva stretta una mano al cuore.

«La fibrillazione... è più intensa di prima».

Il soldato si accorse di essere sdraiato a terra. Si tirò su in fretta e per poco il suo cuore non si fermò.

«Merda! Fa sul serio... Non dirmi che siamo di nuovo dentro quella bolla del cazzo!»

Ma i bagliori bluastri nella sabbia e il forte ronzio non offrivano possibilità di errore. Il soldato guardò in alto e ancora una volta rischiò l’infarto.

«Ma questo non è normale, per Dio» imprecò, terrorizzato. «Questo è...»

«Shocking Demons!» concluse Elmer, col fiato corto.

La cupola aveva raggiunto dimensioni esagerate. Un raggio... no. Un diametro di oltre duecento metri, perlomeno in larghezza. E fra le scariche vorticose, come i dannati lussuriosi dell’Inferno dantesco, migliaia di figure eteree demoniache veleggiavano, turbinavano, infestavano l’aria. Erano un tornado di voci e maledizioni senza fine. Per ora, vorticavano senza meta, ma probabilmente avrebbero attaccato chiunque avrebbe osato avvicinarsi al loro evocatore. Quale Quirk... Quale Quirk poteva creare qualcosa del genere?
Armday capì quanto la loro situazione fosse contorta.

«Merda! Molto presto... moriremo di arresto cardiaco!» Si premette un pugno sull’occhio, frustrato. «MERDA! MERDA! Dobbiamo uscire dall’area d’influenza, cazzo...» cominciò a sudare, come il compagno.

Portò lo sguardo alle tende e gli mancò il respiro. Tutti i soldati della truppa erano nella loro stessa situazione. Rannicchiati, strisciando o a gattoni, arrancavano verso l’esterno, ma erano troppo deboli.

«Ma che cazzo di potere!? I Quirk non dovrebbero essere alterazioni genetiche? Questo è... un potere che nessuno, che nessuno dovrebbe possedere!»

Armday ebbe un sussulto.
“Ma è quello che ho sempre voluto... Vedere un potere così insensatamente forte... da poter rivaleggiare con quello del sole!”

Il sé stesso del passato... se avesse potuto farlo gli avrebbe sputato in un occhio, per la sua inettitudine.

«Non riusciremo a scappare» dichiarò Elmer, lapidario. «Due passi e saremo a terra col fiato mozzato...» si interruppe, il respiro strascicato.

Armday cercò disperato qualcosa nelle tasche, qualunque cosa che li potesse aiutare, ma il campo elettrico gli stava intorpidendo anche il cervello.

«Ma tu sei un prodigio, no? Tirerai fuori un piano e ci salveremo! Quella notte sei stato fenomenale, per Dio! Non può finire così...»

Elmer arrossì, illuminato dal blu della sfera, poi le ginocchia non lo sostennero ed egli crollò a sedere.

«Ehi! Che ti prende, bastardo!?»

«Tranquillo...» bisbigliò lui. «Nulla è perso, finché avremo fede...»

Armday si fece avanti e rovinò sulla sabbia, a pochi centimetri da lui, il cuore che batteva all’impazzata. Il compagno alzò una mano.

«Na... Stai lì... penso di poter resistere. Il fatto è che... se lo c-colpissimo sarebbe anche fatta, ma...» Elmer smorzò il tono di voce. «Con la tempesta... non riesco a vederlo. E il mio Angel... non può colpire a vuoto, inoltre... a trenta, quaranta metri massimo... sv-sva-svanisce» si strinse la mano sul cuore, sempre più sovraccaricato. «Non avrei mai dovuto... allenarlo, nossignore».

Erano sul ciglio della duna, ma ci erano arrivati troppo tardi. Eppure, per assurdo, il soldato sembrava più calmo che mai.

“È sempre così con te, Elmer... Prima ti incazzi, ti spaventi, ti sorprendi, come tutti gli altri, ma poi... scatta qualcosa. È in quei momenti... che mi sembri diverso da noi... quasi come... quasi come se avessi raggiunto una verità superiore, che a noi sfugge”.

Ma non gli disse questo. Armday strinse i pugni e lo guardò.

«Lo possiamo fermare, Elmer! Noi due assieme... io lo so... io lo so che saremmo imbattibili!»

Elmer sorrise a trentadue denti.
«Eh sì... perché si sa, gli opposti si attraggono... e si completano».

Il respiro corto di entrambi parve armonizzarsi.
“E quando finirà tutto questo, potrò iniziare a conoscerti... veramente”.

Il soldato dal viso angelico tirò un lungo sospiro spezzato. Armday lo prese come un segno d’intesa.

«Battiamolo, Elmer! Devo rimediare al pericolo a cui...» si strinse un mano al petto, che correva in iperattività, «al pericolo a cui ho sottoposto tutti quanti».

Il soldato di fronte a lui si piegò su sé stesso e produsse una bassa, stridente, ma in qualche modo rassicurante risata. Poi, alzò il capo e con una mano afferrò i capelli rizzati di Armday, ridendo ancora più forte.

«Tu sei il mistero della mia vita... Il mondo è davvero sopravvalutato, ma tu... tu sei l’unico. Sei l’unico che mi sorprende davvero!» I contorni del viso del compagno, normalmente così tenui, erano distorti in un’espressione isterica.

«Ehi? Sei imapazzit..!»

«Questo è il motivo per cui...» lo interruppe Elmer, con voce follemente disperata. «Angel Protector!» Una lama fendette la sabbia e i demoni. Due ali lucenti si dispiegarono nell’aria ormai notturna, seguiti da un corpo angelico.

«Portalo fuori...» gemette Elmer, stringendo i denti. «Terrò duro... finché non si fermerà!»

Armday non stava capendo. Sentì la mano del compagno lasciargli i capelli e due mani più lievi, fredde, ma delicate, sfiorargli le spalle.

«Ma che vuoi... ALT! EHI!» Si sentì sollevato dal suolo per le ascelle, a un’imprevedibile velocità. «Eh no! Eh no, cazzo! ELMER! METTIMI SUBITO GIU’!»

Si divincolò, ma era come lottare contro la morsa di una pinza di ottone. Il viso del soldato sulla sabbia era puntato su di lui, poi la sabbia e i demoni bluastri lo celarono alla vista. Sentì le scariche danzargli attorno, mentre il battito accusava sempre di più energia arcana e lui volava in alto, nel silenzio di una notte demoniaca. Le figure di anime elettrificate sfrecciavano dappertutto, senza una voce, ma allo stesso tempo cariche di mille sentimenti e ricordi.
Smise di pensare. D’altronde, non poteva... non poteva farlo. Altrimenti, la dura realtà lo avrebbe devastato. Nemmeno si accorse che stavano oltrepassando il tetto della cupola. Nemmeno avvertì l’aria fresca accarezzargli la pelle scossa dai brividi dell’elettricità. Nemmeno notò che la luna piena risplendeva, oltre le coltri di sabbia. La tempesta stava giungendo al termine, ma il temporale dentro il soldato sospeso a mezz’aria era appena iniziato. Stretto tra le forti braccia dell’angelo di luce, austero e immobile, come una statua, Armday era convinto di star vivendo un’esperienza mai provata prima. Le immagini dei giorni precedenti, delle parole di Elmer, delle sue parole, si accavallavano l’una all’altra, come un nugolo di moscerini in un canneto. Lui, un uomo pragmatico, sognatore certo, ma pragmatico, non aveva mai fatto esperienza di una devastazione interiore come quella.

Quello fu il momento peggiore. Non lo scontro con Elmer, non la disperazione dentro la bolla del bambino... non i giorni che seguirono. No. La tortura infernale furono quei minuti di pura tensione e pace apparente. Non riuscivo a sopportare quella quiete insensata, mentre sotto di me soldati morivano... morivano per colpa mia... Non so quanto avrei dato perché l’angelo mi lasciasse cadere... ci provai in ogni modo. Con le mani sanguinanti, tirai pugni a vuoto, strappai, la mia stessa carne dalle ossa, pur di poter sprofondare in quell’inferno che sapevo di meritare... un inferno che ingiustamente mi veniva privato... Perché Elmer? Perché non hai salvato te stesso...? Lo capii dopo... ma allora vedevo solo la notte nera, imbandita di stelle e i miei ricordi: gli anni grigi della mia vita si dispiegavano di fronte ai miei occhi come un ammuffito rotolo di pergamena... Cristo... Mi apparvero simili a bastimenti, convogli, ma non di quelli che mi capitava di vedere in accademia, nossignore... si trattava di mucchi senza fine di occasioni sprecate... di opportunità perdute, stracciate e gettate nella spazzatura. Perché dopo tanto spreco, dopo tanto grigiume, qualcuno si penò intensamente perché sopravvivessi? Un dio, qualsiasi dio che mi avesse visto... non avrebbe forse fatto in modo che cadessi, che morissi, che venissi maciullato dalle scariche di quel demone? Ma non esistevano dei... solo angeli e demoni... e io, un demone, venivo salvato da un angelo... Non ricordo quanto rimasi a lottare contro quel vuoto disperato... so solo che fu la prima grande notte della mia vita... questa mi mostrò il grigio della mia vita, l’altra il nero di quella degli altri, ma poco ho imparato se ancora oggi... rivedo la sua faccia.

Per lunghi minuti, Armday continuò a gridare, rampognare, inveire, poi anche la sua bocca si stancò di menare la lingua a vuoto. Il silenzio fu persino peggiore. Nel sibilo del vento notturno, il soldato percepiva ancora la barriera elettrica sotto di sé. Frustrato all’inverosimile, ancora aveva fede... Quella cupola, per quanto inspiegabile... non poteva durare in eterno e di certo, dato che Angel Protector lo tratteneva, Elmer doveva essere vivo.
Contò i secondi che passavano, più lentamente degli archi disegnati da un pendolo di Foucault. Ogni secondo, ogni istante, poteva celare il momento in cui il cuore di Elmer avrebbe smesso di battere. Si convinse di poterlo avvertire, nel caso in cui sarebbe successo. D’altra parte, era chiaro che una perdita del genere avrebbe sconvolto il moto del meccanismo inesorabile dell’universo.
Eppure, sperò, sperò fino alla fine... sperò di scendere e vedere il soldato stare bene. Sperò di essere accolto da quel sorriso angelico e dolce, come un veterano che rincontra un commilitone a una celebrazione solenne. Invece, attese e attese ancora.

I minuti gli sembrarono ore e l’urgenza terribile lo consumava. Perché quella dannata barriera non esplodeva in mille pezzi? Ma ecco che un’altra sensazione, più acuta e pungente di un ago, incominciò a farsi strada nelle sue viscere, nere per la bile. Un acuto desiderio di... di... perdono...? Lui... stava provando quello che definivano... senso di colpa? Se mai avesse saputo quanto faceva male, si sarebbe ben guardato... dal fare qualcosa di simile. Non era solo un male fisico, ma una specie di groppo alla gola, che Armday ricollegò a un boccone andato di traverso.

“No... non è colpa mia... non... sapevo...” Ma certo che sapeva; era quello che voleva, no? Vedere coi suoi occhi un potere che potesse rivaleggiare col sole. Ora però... voleva solo tornare giù. Lo desiderava così intensamente che pensò di essere, almeno in quel momento, la persona più tormentata al mondo, ma anche quella, in fondo lo sapeva, era una bugia.

Dopo quella che gli parve un’eternità, dal limbo in cui era stato trattenuto a forza, percepì la cupola tremare. Crepe apparvero su di essa, ben diverse dallo sfarfallare della prima volta. Un lamento terribile, malevolo, demoniaco, lo costrinse a tapparsi le orecchie. Sembrava quello di un pipistrello gigante, ferito, o piuttosto infuriato. Ed ecco che la barriera diede un ultimo fugace singulto, poi s’infranse. Figure perlacee vorticarono verso l’alto e scomparvero alla vista, oscurando per pochi attimi l’interezza della luna. Armday rise, istericamente.

«Alla buon’ora, figlio di puttana! Spero che un cazzo di demone ti sia andato di traverso! Ma anche se non fosse, aspetta lì! Aspetta che scenda e vedrai il bravo soldatino!» stava urlando così forte da sentir male alla gola, ma non gli importava, non gli importava un fico secco. «INIZA A SCAPPARE SATANASSO! NON AVRO’ PIETA’, PER UN MOSTRO COME TE!»

Nel frattempo, si accorse che l’angelo, fioco, aveva preso a calarlo verso il basso. Il soldato tacque e per la prima volta nella sua vita ebbe davvero paura. Per quanto avesse desiderato tornare a terra al più presto, si rese conto che non era preparato a qualunque scena lo avrebbe accolto.
“Farai meglio a star bene, Elmer, o altrimenti...” Piccoli rigagnoli d’acqua salata gli bagnavano le labbra. “Basta... non mi piace... sentirmi così”.
Si mise a pregare, a pregare davvero, non per convenzione, ma per pura disperazione. Si sentì come un eremita, un Antonio d’Egitto, un Buddha venuto da terre lontane, ma anche come uno di quei demoni, che erano appena scomparsi. Per certi versi, rimpianse di non essersi unito a loro prima del tempo.

Ed ecco che tra le mani nitide dell’angelo, vide la sabbia avvicinarsi. Voleva chiudere gli occhi, ma non poteva, non era un codardo. Cadaveri. Ai piedi della duna, oltre quindici soldati erano immobili, fritti dalla corrente, sbranati dai demoni, o morti d’infarto, ormai era difficile da dire.
Gurunto, nella sua corazza coriacea era uno di questi. Le scaglie erano in parte staccate dal corpo diamantino riverso nella sabbia, gli occhi gemmati guardavano verso destra, verso la notte più nera, ma erano vuoti, spenti.
Jumochi Star era incorso in una sorte pure peggiore. Un fulmine doveva averlo centrato in pieno, perché il cadavere era quasi irriconoscibile, se non per la gemma d’ametista tra i suoi capelli, che il soldato aveva raccontato essere destinata alla sua figlioletta dai boccoli d’argento, figlia che non avrebbe più visto.

Armday atterrò fra loro, mentre l’angelo si dissolveva. Il soldato, quasi inconsciamente, si prostrò a terra.

«Grazie, Angel Protector».

La figura luminosa, che non aveva mostrato alcuna emozione o espressione fino ad allora, sembrò quasi sorridere, ma certamente era un inganno della luce evanescente. Quando scomparve del tutto, Armday si ritrovò da solo, in mezzo alla morte che lo circondava. Erano i suoi commilitoni, ma non provò nulla per loro, anche se erano morti per colpa sua. D’altronde, nemmeno li conosceva. Non erano che ombre grigie, senza significato, in quella vita sopravvalutata.

“Addio, Pony, Gurunto, Strawbarry, Star sono sicuro... che alla fine pagherò in un modo o nell’altro, per ciò che ho fatto”.

Senza un cenno di compassione, distolse lo sguardo e lo portò verso la duna di fronte a lui, dove un soldato solo lo attendeva, ma più importante di tutti gli altri messi assieme.

«Arm... arm... Armday! Ah!»

Una mano gelata si strinse attorno alla sua caviglia nuda del piede che aveva usato per schiacciare Angel Protector. Senza impellenza o riguardo, il soldato volse il viso inespressivo verso la debole voce femminile. La giovane Joanne era tragicamente abbandonata sulla sabbia. Aveva perso il berretto, nonché la delicata acconciatura dei boccoli di capelli. Protendeva il braccio scheletrico verso di lui, mentre nello stomaco un buco di almeno cinque centimetri eruttava sangue bollente. Una scarica, un demone, o chissà quale altra diavoleria doveva averla trafitta, spezzandole in due la spina dorsale, ma in qualche modo doveva aver mancato gli organi vitali.
Ciò non toglieva che la donna era spacciata.

In maniera quasi macabra, teneva sollevata la faccia, tirata per il dolore, spaventata come una bambina appena nata ed emetteva suoni impossibili da raccontare. Tra questi, qualche parola di senso compiuto giungeva ad Armday.

«A... Aiu... aiut...»

Aveva paura, paura di morire, persino una come lei non poteva nulla contro l’istinto di sopravvivenza degli umani. Il soldato sbuffò, seccato, per poi divincolare il piede dalla presa. La donna singhiozzò e strafogò un grido.

«Non posso fare niente per te, donna... Spetta a te scegliere come morire. Ricorda, ricorda sempre: Sempre Gloria al Sol Levante».

La lasciò lì, senza un cenno di rimorso, non perché la odiasse, ma perché alla fine era solo un’altra esistenza grigia, senza significato. I gemiti e il pianto terribile lo accompagnarono per un po’, nel suo tragitto, poi si sentì un colpo sordo, che risuonò in tutto il deserto, seguito dal silenzio. Armday sussultò appena.

“Un’altra anima sulla mia coscienza...”

Riprese l’avanzata. Fu più una corsa, in realtà. Si sentiva come Lucifero, pronto a incontrarsi con Dio, prima della caduta. Arrancò, cercando in ogni modo di non darsi false speranze.

“Non pensare... non pensare, per Dio!”

Le lesioni al petto e al fianco ripresero a bagnarlo di sangue, ma al soldato non sarebbe potuto fregare di meno. Quando arrivò, spalancò gli occhi. Accanto al tre-colpi, Elmer sorrideva.

«Mio generale...» Armday si gettò in avanti e lo strinse tra le sue braccia. Non aveva mai abbracciato nessuno prima di allora, ma capì subito che qualcosa non tornava. «Scusa... ricambierei, ma...». Il soldato aveva una voce affaticata e affettata. «Mi fa un po’ male il petto...»

Armday si divise dall’abbraccio, non trattenendo nemmeno le lacrime.
«Il tuo cuore... da quanto... Cristo... da quanto!?»

«Non importa... Dovevo... resistere. Tutto il tempo che serviva...» rispose Elmer, sorridendo come un cherubino. «Ehi... non ti disperare, non ti disperare, generale... ora hai capito perché persone come noi devono vivere».

«Potevamo batterlo assieme cazzo! Potevamo farcela!»

Armday fece sdraiare Elmer, asciugandosi gli occhi.

«Na... te lo dico... che non ci saremmo riusciti... Però è vero. Insieme, siamo quasi imbattibili, ma tu da solo, so che lo sarai anche di più».

Armday batté un pugno per terra, incapace di trattenere il pianto.
«Cazzate! Ho sempre... ho sempre fatto affidamento su di te! Ma solo... perché eri il più brillante, il più forte... per quello ti rendevo sempre il mio nemico... solo per provare a far collassare... la tua perfezione. Perché... in nome di Dio, hai salvato me?».

Elmer aveva ombre scure sotto gli occhi. Si stava spegnendo.

«Noi vediamo in modo singolare questo mondo...»
Il suo sguardo era fisso nelle stelle. «Una realtà grigia, sopravvalutata, insensata, ma questo non vale per tutti... dico bene? Coloro... coloro che vogliono realizzarsi in questa esistenza. Io ho sempre provato il desiderio... di proteggerli».

Armday scosse la testa.
«Ma perché!? Tu lo faresti infinite volte meglio di me...»

«Forse, ma non posso andare molto avanti, in una vita... che non sento mia...» Il soldato allungò una mano incerta. «Non essere un eroe, 1831, solo una persona che sogna può essere un eroe... la tua vita non sarà mai... mai piena... ma d’altra parte siamo soldati...»

Il respiro di Elmer divenne flebile. Armday sentiva il cuore diviso in due. “Mi servirebbe... mi servirebbe dell’elettricità”.

«Il fatto è... il fatto è... che tu, nei tuoi distorti ideali di guerra... mi hai sempre dato l’idea di un disilluso che vuole illudersi. Tu hai davvero una forte, incrollabile fede per questa vita grama».

Armday capiva metà delle parole, ma il succo era chiaro.

«Io... fede nella vita?»

«Inspiegabile? Sicuramente... ma è questo il più grande mistero per me...» mormorò Elmer, toccando le piastrine sul petto stracciato del soldato chino su di lui. «Hai fede nel mondo, pur sapendo che è sopravvalutato... dev’essere un desiderio innato, che vuoi spegnere con la tua guerra... ma... fino ad allora... sarai colui che proteggerà le vite di tutti dai demoni della nostra società malata. E so... che saprai farlo meglio di me...»

Elmer sorrise, chiudendo gli occhi neri.

«Ehi! Ehi! NO! NON TE LO PERMETTO! SOLDATO! Non puoi... lasciarmi! Noi... nemmeno ci conosciamo abbastanza!»

Smise di trattenere le lacrime e lasciò che sgorgassero, con più forza di uno tsunami.
La mano di Elmer gli accarezzò la guancia.

«Alan Straylight... ti ringrazio. In questi mesi, accanto a te, ho provato per la prima volta la dolcezza di vivere... anche in un mondo così sopravvalutato!»

Il soldato dalle labbra incrostate, piegate a formare un ancestrale sorriso, fece un ultimo cenno d’intesa, poi piegò la testa. Un raggio di luna sembrò fendere l’aria silenziosa... forse accoglieva l’anima di quel leale soldato, per portarla in nuovi mondi più colorati, mondi degni di lui.

Guardando il corpo pallido, Armday non ebbe alcun dubbio: Elmer Grayne era morto e qualcosa in lui si era spezzato per sempre, qualcosa che nulla avrebbe saputo rappezzare.

Tutt’oggi non ricordo cosa accadde dopo. Forse passai la notte a compiangere il mio compagno caduto... forse lo seppellii... forse crollai, sfiancato da quella tempesta di emozioni. Ma una cosa è certa: mi resi conto subito che con lui era morta una parte di me... e allo stesso tempo in me... si era reincarnata una parte di lui. Gli opposti si attraggono e si completano. Me lo dissi tu, Elmer. Ma mi sono chiesto ancora e ancora quale Dio avesse permesso che un angelo come te perisse e un demone come me vivesse. Chissà, forse Dio esiste davvero... e per punirmi ha fatto in modo che soffrissi in questa realtà. Ma alla fine... non importa... per me tu fosti un dio migliore di tutti gli altri, possibili e immaginabili. Hai compreso immediatamente che un angelo non avrebbe mai potuto macchiarsi del sangue di tutti coloro che hanno il potere di distruggerci. Quello è un lavoro di un demone pari loro... E oggi, stento a crederlo, è arrivato il momento di ripagarti, compagno, di distruggere uno di quei mostri. In fondo, sono stati loro a rendermi quello che sono. Non mi sono scelto questa esistenza, ma fino a che non avrò la mia guerra, stai pur certo che farò di tutto... di tutto per proteggere il nostro mondo da chi vuole ridurlo in polvere. Io sono e sarò sempre un soldato... e anche un villain... forse al tuo fianco avrei potuto essere il vero me, che crede nella vita, Alan Straylight, ma nel mio cammino solitario... rimarrò sempre ciò che odio di più della mia vita, ossia il me stesso da me creato, ma va bene. Va bene, perché non sarò mai davvero solo. E sembra stupido da dire... ma mi mancano davvero quei due anni nell’esercito con te... non potrò mai ringraziarti abbastanza per essere stato ed essere tutt’ora il mio angelo custode, Elmer Grayne. Forse un giorno... potrò avere il piacere... di rivederti.
 


Infection

Armday era diretto a terra, forte della sua nuova mossa. Non sentiva più il dolore o la fatica, perchè ora si stava cibando dello spirito e cazzo se il suo spirito era infiammato.

“Sto arrivando, demone dagli occhi di ghiaccio. Ho molti più motivi di te per cui vincere questo scontro. Ora non è più una questione di villains, di soldati o schieramenti. Io sono il volere di 19 soldati caduti in azione a causa mia. Io sono lo spietato giustiziere. Io sono the Last Man Standing! Io sono il demone che uccide gli altri demoni e soprattutto... io sono e sempre sarò il soldato numero 1831, Armday!”



Note d'Autore:
Sono qui... dopo un mese, incapace di resistere al richiamo della penna (si fa per dire). Non vedevo l'ora di concludere questo capitolo, che, sicuramente impregnato di errori, è stato il più lungo, ma anche il più divertente da scrivere. Cercherò ora, impegni permettendo, di riacquisire un ritmo stabile di pubblicazione. Nel frattempo, questa è la conlusione della backstory del prode Armday e del suo angelo custode; spero che vi sia piaciuta. Nel prossimo capitolo, Yunix dovrà vedersela con una vera e propria macchina di morte. Giustificata? Chi lo sa... Grazie per l'attenzione e alla prossima! :)

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Capitolo 18
*** Benvenuto tra gli Eroi - Parte Quarta: Catena gemella ***


Benvenuto tra gli Eroi - Parte Quarta: Catena gemella


Ore 17:47 - Infection, zona inferiore
 
Yunix si grattò la mano marchiata, ma le unghie affilate sembravano scivolare sulla pelle.

«Ma pensa, C&P, ti piace così tanto la mia carne?»

Nulla da fare. La scritta sembrava intoccabile. Sperò solo che non dovesse rimanergli tutta la vita. Altrimenti, si figurava già i passanti che lo indicavano a destra e a manca, neanche fosse un souvenir vecchio tre secoli.
Stava correndo assieme a Lex lungo la via alberata, facendo rintoccare il terreno di cristallo, come i tasti di uno xilofono. Sarebbe anche stata una bella melodia, se solo il passo del ragazzo dai capelli verdi non fosse stato zoppicante per le ferite. E nonostante questo, era in testa quell'arcierucolo.

«Muoviti, gli Heroes sono ancora lontani!» gridò Lex, affannato.

Yunix sbuffò, visibilmente contrariato. Non era fatto per le corse campestri. O invece magari... Uno strano pensiero si fece strada nel suo cervello.
“Ehi... pensa se fossi stato un maratoneta in passato. Non ci sarebbe limite al disonore che sto portando al mio vecchio me”. Yunix sorrise, poi si schiaffeggiò con entrambe le mani. “Non pensarci, diavolo! Incrocia le dita e stringi i denti, polmone bucato. Ne manca di tempo prima che io possa avere un quadro completo su di me”.

«E... e... cosa li ha trattenuti? Gli Heroes, intendo» chiese schiettamente, cercando di non sprecare fiato prezioso.

«Tsk. Se dovessi tirare a indovinare... gli altri villain. Non solo quelli assoldati da Armday, ma anche i restanti prigionieri del penitenziario portati quassù... alcuni perlomeno». Lex accelerò il passo, sfoderando la lastra, assicurata al braccio. «Pecore che seguono la massa. Mi disgustano!»

Il ragazzo, sprovvisto del mantello fatto a brandelli, era malconcio, ma la sua sopportazione al dolore era a dir poco incredibile.

«Quel villain si spezzerà le gambe cadendo, a meno che non sia finito nell’antigravità. Non vedo alcun bisogno di correre» affermò Yunix, accusando un leggero mal di testa.
“L’unico da cui devo guardarmi bene sono io. In fondo, ho provocato abbastanza problemi per un solo giorno”.

Lex tutto a un tratto si voltò e gli diede un calcio negli stinchi, mandandolo a scivolare sull’arkastro.

«Agh- Lex!»
Sentì la schiena accusare tutta la durezza del minerale. «Questa non te la...»

«Arriva!» ribatté agitato il ragazzo, sollevando la lastra.

Un corpo di mole enorme impattò sulla strada, innalzando una folata d’aria e polvere abbastanza forte da scompigliare a entrambi capelli e vestiti. Yunix si mise un braccio di fronte alla bocca, per ripararsi dai granelli più piccoli.

«Calma... nessuno può uscire indenne da una caduta del genere».

«Vogliamo scommettere, Yunix?» Il gigantesco e mostruoso sembiante fece la sua comparsa, ricoperto di sangue, ma sorridente. «È stato semplice, in realtà. Tac-tac. Un agevole scambio fra articolazioni e muscoli ha permesso alle mie gambe di diventare perfetti tronchi di carne privi di sensibilità. È un trucchetto che solo il mio Quirk può vantare...»

Lex divaricò le gambe e si mise di fronte a Yunix, che, esitante, si rimise in piedi.

«Altolà, generale! Avrai anche una spiccata capacità di uscire dalle situazioni critiche, ma devi accettare la realtà: sei senza sangue e senza energie» esclamò il ragazzo armato di scudo, senza osare abbassare la guardia.

Armday schioccò le dita.
«Non hai tutti i torti, tuttavia...» Un rigonfiamento apparve dietro al collo del generale, come se un’animale fosse rimasto rintanato dietro al soprabito blu da diversi minuti. Il gattino biancastro si arrampicò sulla testa del soldato. Era arruffato, ma incolume. Si doveva essere raggomitolato dentro l’uniforme.
«Eheheh! Eccoti qui, bellezza...» Il gattino fece le fusa. «Mi piacerebbe accarezzarti, accattone che non sei altro... ma ora... sono un tantino a secco, Elmer.»

“Gli ha dato un nome?” Yunix fece un passo indietro. “Non mi interessa se questo villain scappa, fintantoché io e Lex riusciremo a scappare a nostra volta”.

Non c’era margine d’errore. Stavolta era chiaro come il sole: il generale non era una minaccia. Ogni centimetro del suo corpo era ricoperto di escoriazioni o contusioni. Sfuggirgli sarebbe stato uno scherzetto.

«Lex, io... non so... tipo, hai presente...» arrossì, «voglio dire... non sarà una cosa molto coraggiosa... però...»

Lex alzò gli occhi al cielo.
«Deciditi. In battaglia non c’è tempo per l’incertezza...»

Armday grugnì e, alzando un braccio, lo indicò.

«Ma non lo vedi? Quel demone sta pensando solo a scappare! È un codardo, Eroe senza nome! Un fottuto codardo, che non ha idea di cosa covi davvero dentro di sé. Io voglio solo salvarti da lui, per Dio!»

«Non mi metterò a discutere con un villain!» dichiarò Lex, voltandosi verso il soldato.

Questi lo guardò, costernato.
«Io... non sono un villain! Non lo sono mai stato... D’altronde, nemmeno esistono i villain come li conoscete. Quella è solo una storiella, che serve a dipingere il mondo con solo il bianco e il nero. E invece tutto attorno a noi è puro e semplice grigio. Noi viviamo in un mondo insensato, pieno di angeli e demoni!»

Yunix represse un moto d’odio e si distese in un sorriso radioso, mettendosi una mano fra i capelli.

«Generale...  Non scappo mica perché ho paura di te. È solo che vorrei evitare di doverti uccidere!»

Questa volta la sua scenetta era perfetta e lo avrebbe ingannato, ma sotto la superficie Yunix stava calcolando tutte le possibili variabili.
“Non posso. Non posso farmi fregare di nuovo. Io... devo tornare dai miei compagni”.
Ridacchiò sicuro di sé, tanto che pure Lex apparve turbato.

Il soldato grugnì e sollevò un braccio.
«So di non avere forze per vincere una battaglia contro il discepolo di Copy&Paste, però non mi arrenderò, perché la mia fede nella vita non è in mio potere e deciderà da sola se e dove morirò!»

Ed improvvisamente, il corpo dell’uomo iniziò a brillare di bianco. Aspetta... No. Non era lui. Era il gatto che stava emettendo la luce.

«Ma che diavolo!?» esclamò Yunix.

Lex era sorpreso quanto lui. Dalle unghie del felino, come un piccolo faretto da giardino, si protendevano raggi chiari di luce bianca, che si avvolsero come onde concentriche attorno al generale. Solcarono con rapidità gli arti, le piastrine, il petto irsuto e fecero raddrizzare il soldato, colto dalla stessa sorpresa loro.
Non era semplice luce: Armday stava indubbiamente acquisendo una tonalità più salutare, come se nuovo sangue stesse venendo pompato nelle sue vene. Un’energia inspiegabile lo stava rinvigorendo e fu abbastanza accecante da celarlo alla vista.

«Un gatto... con un Quirk?» domandò Yunix, scuotendo la testa, incapace di schiarirsi le idee.

Lex, invece, più cauto, sollevò prontamente la lastra in protezione di entrambi, appena in tempo, prima che un gigantesco pugno li colpisse. Per quanto previdente, Lex non poté competere con quel colpo, che, complice l’aria innalzata dal mantello, gli fece perdere la posizione. Venne letteralmente scagliato fuori dalla strada, fin dentro un edificio, da cui piovve una nuova cascata di detriti.
La lastra, spinta via dall’aria che aveva essa stessa sollevato, scomparve oltre una polisportiva ghiacciata, roteò e si schiantò a terra con un fracasso. Yunix sobbalzò ad ogni colpo stridente del materiale che impattava sull’Arkastro, consapevole che ora la situazione si era complicata parecchio.

La luce bianca si affievolì, mentre il generale l’assorbiva dentro di sé.
«Gragghh! Nuovo... potere! Sì. Sembra che non sarò più solo in questa battaglia, demone. Ora Elmer è con me.. e non hai idea di quanto sarà facile schiacciarti».

Yunix impallidì e arretrò, cercando qualcosa che potesse salvarlo, qualunque cosa. Nelle tasche aveva il taccuino, la penna, basta. Anzi... c’era anche una sferetta. Una sferetta di ferro. Come c’era finita lì?
Si ricordò del ragazzo contro cui si era scontrato quel pomeriggio: sbattendogli contro, aveva ribaltato la sua sacca di biglie. Una doveva essergli finita in tasca, ma a che gli sarebbe servita contro quell’uomo, che pareva pieno di risorse e deciso ad ammazzarlo? Doveva scappare... via da quel posto!
Il generale fece qualche passo avanti e si preparò a colpire.

«Niente rancore, ragazzo, ma non posso lasciare uno come te a piede libero. Se stai fermo, in nome di Dio, ti giuro che sarò rapido...»

Yunix dardeggiò in direzione della mano, in cui la firma di Copy&Paste svettava vivida. Questa volta aveva le idee ben chiare.
“Basta scappare... Con il suo aiuto, nuova energia o no, posso tranquillamente batterlo!”

«Hai fatto il passo più lungo della gamba generale, spero che riporterai i tuoi ideali in carcere. Magari avrai più successo questa volta!»

Armday corrugò la fronte, ma non si perse d’animo. «Tu... non hai alcun interesse a diventare un eroe!»

Il ragazzo sbuffò, scuro in volto.
«Forse è vero, ma ciò non toglie che sarò io il più grande tra gli eroi!»

Si lasciò guidare dall’istinto e usò i palmi delle mani per raffigurare un abbozzo di ponte, indirizzato a canalizzare il potere. Distese le braccia.
“Non so nemmeno cosa sto facendo, ma se c’è qualcuno di così forte in questo mondo, così stupido da aver scelto me, saprà cosa fare, no? In fondo, non ho altre opzioni”. Yunix inquadrò con ferocia il generale. “Hanno detto che C&P è capace di copiare gli oggetti, accelerandone moto e chissà cos’altro... Forse, se copiassi solo la sua testa, o un suo braccio... e subito li facessi cozzare insieme, potrei fermarlo. Non mi resta che provare!”

Risoluto, cercò un potere innato dentro di sé.

«Sei un pazzo se pensi di poter controllare quel potere...» disse Armday, per nulla preoccupato. «Dio sa... quanto quegli insidiosi Quirk sono la morte della civiltà e lo so anche io».

Yunix sogghignò.
«Mi sottovaluti!»

Il generale scrollò le spalle e fece un passo avanti dopo l’altro.

“Bene... è il momento di...” Diede una scossa alle braccia. Non accadde nulla. Il soldato era a quattro metri. “Dai...”
Tre metri.

«C&P, sono pronto!» urlò al cielo fittizio d’Infection.
Due metri.
Il generale non aveva per niente l’aria di essere spaventato da lui.
Yunix diede un’altra scossa, poi sbarrò gli occhi, impaurito.
Un metro.
“Non mi lascerai mica morire, vero?”

«NUCLEAR...»

Tutto rallentò. Yunix si divise dal corpo e divenne aria, divenne il terreno, divenne gli alberi. Vide sé stesso, smarrito, in procinto di essere ucciso da una raffica di colpi a massima potenza.
Poi, vide altre cose. C’era Kane, che nel nido accogliente dell’accademia, sfogliava leggiadro le pagine di un libro. C’era Hainard che colpiva un sacco da box, con guantoni di gomma. C’era Shig che coordinava la costruzione di una torre d’avvistamento. C’era anche Ten Ken. Lo vide sulla prua di un impensabile battello, diretto verso chissà quale avventura.
Yunix assorbì tutte quelle calorose immagini, probabilmente neanche reali, ma le sue membra rimasero fredde.

“Lo so che mi sto comportando da codardo... ma è così sbagliato non volere morire? È così sbagliato voler tornare da loro, sano e salvo?”

Visi immersi nell’oblio lo guardarono, cercando d’insinuarsi sotto la sua pelle.

“NO... Non è sbagliato. Però... sarebbe sufficiente che avessero un ricordo di me che sia degno! Se io non posso ricordarmi di me stesso, vorrei che lo facessero almeno loro... e perché sono morto da eroe, non da vigliacco. Un’occasione è tutto ciò che chiedo!”

Yunix gridò, nel vuoto bianco della sua coscienza. Spazzò via i volti, spazzò via i timori, spazzò via i pensieri negativi e quelli positivi, con un impeto tale da ubriacarlo momentaneamente di potere, ma la vera battaglia iniziava ora. Yunix aprì gli occhi e tornò in sé.

«... BARRA-...»

«Copia infinita... 14° Legione!»

Gli occhi del generale si sollevarono verso l’alto, diventando vitrei. Come un eco sempre fievole, quattordici immagini gradualmente più sbiadite del suo corpo si proiettarono dietro all’uomo, in procinto di colpire.

«Scompari, fantasma e torna nell’oblio da cui sei sorto...» sussurrò Yunix implacabile, pronto a concludere il lavoro.

Ma subito spalancò le palpebre. Armday stava rompendo lo schema. La sua copia più prossima tese una mano e lo afferrò.

«Non sono un fantasma!» gridò, imbevuto di adrenalina. «Sono solo un demone che uccide gli altri demoni e tu hai appena dimostrato...» l’altro braccio di Armday si allargò a dimensioni folli, le dimensioni di un grattacielo, «di essere il più pericoloso demone di tutta la terra!»

Il ragazzo era completamente destabilizzato.

«Com’è... com’è possibile che tu abbia sgominato questa mossa!?»

C’era una sola spiegazione plausibile. Nel momento in cui il Quirk era entrato in contatto con Armday, egli aveva rinunciato ad attaccare. In quanto mossa difensiva, 14° Legione avrebbe agito a piena potenza solo contro un bersaglio in atto di attaccare. Non si chiese come faceva a saperlo, né si chiese come il generale lo avesse compreso. Si preoccupò solo di portare a termine il lavoro. Fece brillare gli ingranaggi nei propri occhi di un vivido azzurro-ghiaccio.

«Ma a questo punto... ti aspetta il dominio eterno!»

«Con chi sto parlando, Yunix o Copy&Paste!?» esclamò Armday, attaccando con il braccio.

“Non lo so... e francamente... non mi importa. Io voglio solo...”

Un flash nero.

Yunix avvertì una fitta alla testa.
Si trovava su una strada notturna, sconvolta dalla pioggia. Attorno a lui c’erano non meno di quattro persone riverse sul terreno, in pozze di sangue diluito dall’acqua. Tre uomini e una donna. Di fronte a lui, oltre le strisce pedonali smacchiate, c’era un altro uomo seduto, che lo guardava con assoluto disprezzo, ma anche delirante paura. Sembrava muscoloso. I capelli biondi erano sciolti dalla pioggia, al pari di gelatina. Cicatrici di guerra gli solcavano il viso e un tre-colpi vecchio stile giaceva sul suo grembo, abbandonato a sé stesso.
Era Armday.
Lo derise con gli occhi, un assurdo senso di prevaricazione che lo avvolgeva.

«Prova a uccidermi, ti prego... Forse tu, forse tu ne potresti essere capace!»

La propria voce era completamente sadica e fuori controllo. La pioggia batteva silenziosa sui cofani delle macchine spente, i battelli del porto ondeggiavano sulle onde burrascose.

Yunix fu riportato alla realtà da una mano, che lo strappò alla presa di Armday, dal colletto. Era una sagoma abbozzata, emersa dal nero di un vicolo, come un’ombra. Gli sussurrò qualcosa all’orecchio.

«Nel sottomondo...»

Venne strappato a forza dal soldato e una catena gli si avvolse al braccio. Ma non venne trascinato in alto o a destra, oppure a sinistra, bensì verso il basso. Prima che potesse prendere una boccata d’aria, si ritrovò immerso nell’asfalto. L’impressione fu quella di essere sprofondato all’interno di una vasca di schiuma nera e rossa. Si guardò attorno e vide solo terra sanguinolenta e truce. Era certo che se avesse provato a respirare, le narici si sarebbero riempite di terriccio bruciato e sarebbe morto, sepolto in quella città monumentale. Uno scheletro nel mausoleo di Copy&Paste. La catena lo trascinava ancora e a gran velocità. Le si aggrappò anche con l’altra mano, deciso a non aprire naso o bocca.
Nuotò e contemporaneamente mantenne vispi gli occhi, con i quali scorgeva di tanto in tanto una strana visione rossastra di edifici d’ossidiana ribaltati. Se avesse dovuto tirare a indovinare, avrebbe detto che era la città d’Infection, a venti metri sopra di lui.

«Questo è il sottomondo. Respira pure. Non morirai. Presto saremo su».

Una voce famigliare, ma soffocata e repressa, come se provenisse dalle profondità dell’oceano risuonò tutto attorno alla sua posizione. Non gli restò altro da fare che dargli ascolto e già pronto a biasimare la sua stupidità, inalò la terra nera. Fu decisamente meno peggio di quanto si aspettava. Era semplice aria, forse un po’ viziata, forse un po’ abbrustolita. Gli ricordò l’odore di una fucina. Non fece in tempo a farvi l’abitudine, perché la catena lo trascinò in alto.

Yunix emerse dalla terra con la stessa rapidità con cui vi era piombato. Era in una viuzza stretta, in mezzo all’acciaio di Temigor. Incespicò ed inciampò su sé stesso, incapace di rimanere al passo con quella forza che lo trascinava. La figura di prima lo agguantò all’improvviso, prevenendo la sua caduta. Yunix aprì gli occhi, sbalordito. Riconobbe le scritte in cinese sul cuoio lucido e la fascia rossa tra i capelli.

«Sakuro?»

Pensò subito al gemello più loquace, che aveva assunto il ruolo di comando nei momenti più salienti al cantiere, ma il ragazzo che lo aveva salvato aveva la catena avvinta al braccio sinistro.

«No... Tu sei... Sekiro».

Il gemello silenzioso, che lo aveva guardato torvo per tutto il tempo da quando si erano incontrati, fece un breve cenno d’assenso, mentre piroettava con grande destrezza da un vicolo all’altro.

«Ma come...?»

La voce tonante di Armday scosse il terreno.
«NON LO PORTERAI VIA DA ME!»

Sekiro sbuffò appena e si affrettò a premere il palmo della mano sulla nuca di Yunix.

«Abbassati, ora».

Il ragazzo si appiattì per quanto poté, lasciando che il ragazzo vestito da guerriero facesse il resto. Non fu preparato al tremendo frastuono e disastro che seguì. Gli edifici cristallizzati attorno a loro tremarono e furono abbattuti con una forza disarmante. Yunix si tappò le orecchie ed avvertì la catena tendersi, poi un braccio di mole gigantesca gli passò di fronte alla retina e il ragazzo si sentì strappato dal suolo. In mezzo a una montagna di detriti, vide Sekiro a circa dieci metri, agganciato a lui tramite la catena, separarsi dall’arto colossale e abbandonarsi nell’aria, schermandosi il viso come poteva. Lo imitò immediatamente, ma non per questo riuscì ad evitare che piccoli frammenti di cemento gli scheggiassero braccia e gambe.

“Non possiamo batterlo... Non possiamo. E Sekiro sicuramente è una spanna sopra a Lex, che già di base era molto forte”.
Insieme, volarono nel cielo, evitando a malapena i tetti e i comignoli dei complessi residenziali.
“In fin dei conti, siamo solo ragazzi”.

Non ci fu tempo di pensare a qualche via di salvezza, perché una larga strada, vicina a quello che doveva essere il centro d’Infection, si dipanò di fronte a loro.

«Merda... Sto... sto per...»

La catena si avvolse attorno a un lampione incastonato nell’arkastro e si tese così tenacemente, che Yunix avvertì il proprio braccio sinistro rompersi. Gemendo, rovinò a terra, rischiando di tagliarsi in due il collo con la temibile falce sulla sommità dell’arma. Sekiro aveva subito la stessa sorte e si teneva il braccio con una mano, ansimando forte per non gridare.
Yunix si sottrasse alla morsa della catena e sentì le ossa del braccio piegarsi orribilmente. La nebbia informe del minerale si diffuse tutto attorno a loro. Armday doveva avere abbattuto più di quindici edifici. Questo li avrebbe celati alla vista, almeno per un po’.

«Perché vuole ucciderti?»

«Non lo so, ma ha a che fare col mio passato». Sekiro annuì gravemente e tirò a sé la falce come l’ancora di una nave pronta a salpare. «Possiamo fare qualcosa, Sekiro? Per sopravvivere?» domandò Yunix, teso.

Il ragazzo piegò la testa, come se fosse stato interrogato da una specie di scimmia, poi lo guardò ostile e strinse la sommità dell’arma con la mano destra, nonostante emergesse dal braccio sinistro rotto.

«L’arma non ti ha ferito» constatò Sekiro.

Se Lex era taciturno, il gemello mancava poco che fosse muto dal gran che era conciso.
Yunix si guardò attorno. Nubi azzurrine si trasfiguravano in mostri di ogni genere tutto attorno a loro, ma molto presto... sarebbero stati visibili.

«Dobbiamo muoverci se vogliamo scappare» ritentò Yunix, stringendo i denti per il dolore.

Sekiro gli fece segno di stare in silenzio e il ragazzo eseguì, riluttante. Il combattente si rimise in piedi, facendo roteare silenziosamente la falce con la mano destra.

«È già qui...»

Yunix spalancò gli occhi.
«Ma come... come fa a sapere dove sono?» chiese, abbassando la voce.

Sekiro indicò la sua mano. La scritta C&P riluceva ghiacciata sul dorso.
“Che gli altri la vedano più luminosa? In effetti, quando Armday stava per attaccarmi, mi è sembrato che i suoi occhi si riempissero di vetro, ma forse... forse era solo la luce accecante della firma”.

Doveva proprio ringraziare il suo senso di osservazione. Tuttavia... No... Per quanto luccicante, come faceva quella scritta a vedersi oltre la nebbia? Il lieve rumore di un ciottolo che rotolava gli giunse all’orecchio da qualche parte a nord della strada.

Subito, fece un salto indietro e si girò, scrutando spaventato la foschia.
Sekiro lo fiancheggiò, senza alcuna reazione significativa.

«Shhh... hai qualche proiettile?» gli sussurrò all’orecchio. Yunix iniziò a scuotere lentamente la testa, incapace di distogliere lo sguardo dall’aria fumosa e misteriosa che li circondava. «Se non hai nulla, corri il più lontano possibile da qui».

Il ragazzo dai capelli neri avanzò, continuando a far mulinare con perizia il temibile arnese. Doveva fare una fatica estrema con quel braccio fratturato.

Yunix si batté una mano sulla fronte.
“Aspetta, ma io ho qualcosa da lanciare”.

Strinse la sferetta nella sua tasca tra le dita della mano destra.
«Sekiro...»

BAM!

Una Toyota arrugginita colpì l’edificio alle sue spalle ed esplose con un botto. Ciò contro cui era impattata non era nient'altro che una banca sostenuta da colonne cristallizzate, salvaguardata dal deterioramento del tempo, ma non poté reggere quell’attacco a piena potenza, anche perché... 

“L’arkastro... potrebbe aver indebolito...” Yunix ripiegò sulla strada, guardando i pilastri crollare. “... il cemento”.

Sekiro lo brancò e lo trasse in salvo, prima che i detriti gli rovinassero addosso.
«Non conosce la nostra posizione precisa» disse in un sussurro.

«Ho notato, mister ombrosità» rispose il ragazzo tra i denti, rimettendosi in piedi. «Non trattarmi come una principessa in difficoltà. Io ho la benedizione di Copy&Paste. Non ho bisogno del tuo sottomondo».

«Ma è quella benedizione il problema...» ribatté Sekiro sibillino, proiettando appariscente odio dall’occhio sinistro.
Chissà perché era così mal disposto nei suoi confronti.

Yunix scosse la testa, nascondendo il marchio alla vista.
«Non può vederlo attraverso la polvere del minerale. O mi sbaglio?»

Non ebbe risposta.
“Non sto dando i numeri... Non adesso, almeno. Se solo questo tipo fosse più chiaro, le rare volte che parla”. Tornò ad osservare il marchio. “Se non è la luce... pensa... pensaci!”
L’arkastro dissolto era più fitto che mai e rendeva opaco pure il guerriero ninja alla vista, che aveva ripreso a far roteare la sua falce.

“La nube! La nube è il problema”. Yunix alzò la mano marchiata. “Se il potere di C&P è creare copie di oggetti, non è forse possibile... che io stia inconsciamente duplicando tutte le particelle di Arkastro attorno a noi?”

Sekiro confermò la sua teoria con la solita schiettezza.
«È a pochi metri. Avrà faticato a trovare il flusso più intenso».

Il braccio rotto di Yunix pulsava orribilmente. Come faceva Sekiro a mantenere quella compostezza, nella sua stessa situazione? Non era un ragazzo anche lui? Perché stava rischiando la vita per un vile egoista?

«Se non hai oggetti da lanciare... Siamo morti» dichiarò questi, rassegnato.

«EHILA’, DEMONE! Passato l’istinto omicida!?»
Armday fece la sua comparsa in mezzo allo stradone, calciando via i detriti sul percorso. «Gli Heroes saranno presto qui! Spero potrai comprendere che non posso più essere misericordioso con coloro che ti proteggono! Artiglieria pesante -4- Fuoco Improvviso!»

Il generale strinse due Cadillac fra i pugni enormi e si preparò a scagliarle.
Yunix provò un senso di panico.

“No... Non morire per me! Non ne vale la pena!”

Agì d’impulso.

«Sekiro, prendi!»

Lanciò la sferetta.
Il ragazzo nemmeno si voltò.

«Potevi anche darmela prima...»

Tuttavia, sorrise e si rizzò in piedi. Lasciò che il proiettile lo oltrepassasse e con precisione millimetrica la colpì con la falce, che vorticava alla massima velocità. La pietruzza si diresse contro il generale.
Yunix sollevò le braccia. Aveva capito il meccanismo. Doveva abbandonare il suo corpo e C&P avrebbe fatto il resto.

«Just a little print!»

Yunix riacquisì il controllo in un battito di ciglia.
“Che nome stupido... Dovevi proprio essere un goduto bastardo, Copy&Paste”.

La sferetta si moltiplicò, una, due, tre, dieci, venti volte e il suo moto si accelerò fino a quello che a Yunix parve l’infinito.
Armday ringhiò e usò le macchine come scudo. Come una scarica di martellate, le sferette spazzarono via lo scudo improvvisato, spingendo il villain all’indietro, senza colpirlo alla massima potenza, ma esercitando comunque una forza devastante.

«Non è evidente!?» fece eco il generale, nell’impeto del colpo. «AGGH! Il tuo potere... è quello di un demone e dovrebbe rimanere sepolto!»

«È la nostra occasione, andiamo!» gridò Sekiro e corse verso Yunix.

“Eh? Non vorrà mica...?”
Il ragazzo sudò freddo e cercò di trovare una scusa valida.

«Tranquillo non c’è bisogno che...»

«Nel sottomondo».

Lo prese per il collo, soffocandolo e lo trasse sottoterra. Il marrone-rossastro lo avvolse come acqua oceanica. Aveva il sospetto che Sekiro stesse stringendo con un po’ troppa forza... non che potesse farci molto, comunque.

Nella rinnovata tranquillità dei rumori attutiti, Yunix si fece due domande sul comportamento del villain. Voleva farlo fuori. Questo era evidente, ma perché con tale fervore? C’entrava col suo ricordo? Quella strada nera come la pece, viscida per la pioggia. Sì, quella notte era successo qualcosa di tremendo. Come lo aveva chiamato? Demone... Demone dagli occhi di ghiaccio. In quei giorni, diverse persone avevano fatto riferimento alla stranezza dei suoi occhi, ma allo specchio, Yunix aveva visto semplici occhi grigiastri, banali, normali, come del resto tutta la sua persona.

Eppure, forse anche quelli apparivano diversi agli altri sguardi, proprio come il marchio.
C&P... Pensare al simbolo sulla sua mano, gli fece ricordare tutte le parole di Lex e Armday.

«Tu... Non sei un ragazzino! Sei un demone... Un demone dagli occhi di ghiaccio...»

Perché? Cos’è che aveva fatto per meritarsi un titolo del genere?

«L’unico che ha l’intento omicida nel sangue tra noi due sei tu e quel falso eroe che tutti venerate. Proprio come in quella dannata notte, in cui hai mostrato tutta la tua natura distruttiva. Se pensi davvero che mettere te stesso davanti agli altri sia vivere, allora forse non sai cosa si prova davvero a farlo!»

È per questo che doveva tornare a tutti i costi dai suoi compagni. O almeno... fare in modo di far rivivere in loro il suo ricordo.
E Copy&Paste? Perché? Perché lo aveva scelto?

«No, no... Siete tre... Copy&Paste... è venuto a proteggere il suo successore».

La voce di Lex seguì quella di Armday: «È il marchio di Copy&Paste, che è poi il nome del suo Quirk. Mai un eroe di Temigor è stato più leggendario di lui... mai un eroe si è spinto dove lui si è spinto».

«
Il tuo potere... è quello di un demone e dovrebbe rimanere sepolto!»

Yunix aprì gli occhi, osservando il vuoto rossiccio della terra.
“Non è il mio potere. Non so nulla di Copy&Paste e non potrebbe fregarmene di meno di quale sia il suo obbiettivo... ma su una cosa a ragione quel generale... usando il suo potere, non sono meglio di lui”.

La voce di Armday risuonò un’ultima volta nella sua mente.

«Laddove né un eroe, né un villain s’impegneranno a fermare l’ascesa di un demone... io, qui di fronte al mio Dio lo giuro, farò tutto ciò che è in mio potere per proteggere il mondo dalla sua ombra!»

Si sentì trascinato verso l’alto. Stavano tornando in superficie. L’odore di terriccio sepolcrale si faceva già meno intenso.

“Forse è vero che non ci sono schieramenti chiari, generale. Forse ho sbagliato a pensare che tu fossi solo un villain qualunque. Forse hai davvero delle buone ragioni per volermi eliminare”.
Yunix sorrise. Finalmente i suoi pensieri erano chiari.

“Però, caro Armday, questa è una lotta per la sopravvivenza... e io non ho alcuna intenzione... alcuna intenzione di morire, prima che il mio passato sarà svelato, prima che i miei amici possano intravedere un’immagine migliore di me, prima che io possa diventare il più grande tra gli eroi!”.

Emersero dalla terra, come due tuffatori olimpionici. Sekiro lo lasciò sull’asfalto e atterrò in piedi. La foschia era scomparsa.

«Ok, dovremmo aver messo almeno un kilometro tra noi e lui».

Fece appena in tempo a finire la frase che una possente mano piena di cicatrici lo agguantò e lo tirò su per il bavero.
Yunix, prono sull’arkastro, trattenne il respiro.

Armday giganteggiava su di loro, stringendo forte Sekiro, che senza un lamento cercava di liberarsi.

«È un bel potere il tuo, Catenella... Ma una volta che i trucchi sono svelati non c’è dio che ti possa proteggere».

Il ragazzo cercò di far scivolare la catena lungo il braccio fratturato, ma Armday se ne accorse e afferrò la falce fra le dita, stando attento a non ferire nessuno dei due.

Yunix si mise in piedi.
«Come hai fatto a seguirci?»

«L’ombra, piccolo demone. Anche con voi al sicuro la sotto, la vostra ombra è rimasta ben visibile sulla superficie. Forse pensava che sarei cascato nello stesso trucchetto due volte, eheh!»

Yunix deglutì, afferrando una scheggia affilata di minerale.
“È incredibilmente percettivo. Tutto ciò che gli viene scagliato contro... tutto ciò che vede e sente, tutti i Quirk che incontra... Li subisce la prima volta, a piena potenza, ma poi riesce a contrastarli la seconda. È proprio... Riesce sempre a...”

«Tattica e duttilità, Yunix Braviery. Il segreto per essere un buon generale, assieme alla strategia. Il mio Quirk non sarà il temibile potere di Copy&Paste, ma si adatta al mio stile... lo stile di un veterano».

Il generale sorrideva, come uno squalo dai denti seghettati.

«Idiota» bisbigliò Sekiro, appeso per il colletto a trenta centimetri dal suolo, con la voce rotta dallo sforzo. «Pensi che combatterei mai così a lungo senza mio fratello?»

Un vorticoso movimento dietro una macchina. Una piroetta acrobatica. Una figura snella apparve alle spalle di Armday, inconsapevole di tutto.

«Shiraaaajjjj!!» gridò Sakuro spiccando un salto folle.

Roteò nell’aria, come un campione di arti marziali, e sferrò un calcio alla guancia destra di Armday, che si stava girando proprio in quel momento. Il colpo fu così mirato che Yunix credette di vedere la mandibola del generale deformarsi sotto la pelle. La stangata lo fece vacillare e Sakuro ne approfittò per arrampicarsi sulla sua nuca. Con una mossa acrobatica sottrasse il fratello alla presa del generale e usò quest’ultimo per proiettarsi in avanti.

Yunix si sentì stretto nelle robuste braccia del gemello "più solare", che lo trascinò assieme a Sekiro a debita distanza dal generale. Li teneva come due sacchi di patate e a ragion veduta Yunix si sentì un po’ a disagio, però la meraviglia per la manovra che il ragazzo aveva appena effettuato prevalse.
Con una leggiadra giravolta, questi si volse a guardare il villain, lasciando i due ragazzi dietro di sé.

«Wow» sussurrò Yunix. «Sei proprio un... one man army!»

Il gemello dalla falce destra ammiccò fieramente, senza azzardare che un sorrisetto.

«Forse è un’ipotesi campata per aria, ma ho ragione di credere che mi alleni da più tempo di tutti gli altri partecipanti a questo test, incluso mio fratello. Certo, ho ancora molto da imparare e il mio Quirk è mediocre, però... mi ritengo un discreto combattente».

Yunix non poté far altro che pensare a quanto fosse figo. Il secondo tramonto d’Infection stava facendo la sua comparsa. Erano quasi le 18:00, allora. Perché gli Heroes ci stavano mettendo così tanto?

Dall’altra parte della strada, Armday si riassestò il viso con uno sguardo feroce. Gocciole di sangue gli colavano lungo le labbra. Inoltre, il suo intero corpo era martoriato da far schifo. Come faceva a reggersi in piedi?

«Eheh... Anche tu. Tutti gli sgherri del demone accorrono in sua protezione... Dunque, è qui la festa! Ma nemmeno io combatto da solo, nossignore».

Dai capelli dell’uomo emerse il musetto baffuto di un gatto.

Yunix sussultò.
«Ecco dov’era...»

Nonostante il filo spinato, il felino dai poteri inspiegabili si era trovato un alloggio pressoché comodo.

«Che ci fa lì un gatto?» chiese Sakuro.

«È un problema» rispose Yunix. «È grazie a quell’animale che è riuscito a recuperare tutte le forze. Non ho idea di come faccia ad avere un Quirk, ma è capace... di rimettere il villain in sesto. Completamente. Se non gli sottraiamo il gatto, potrebbe essere impossibile fermarlo».

Subito dopo, infatti, il gatto s’illuminò di bianco. Questa volta però il processo acquisì nuovi inaspettati risultati. Le fattezze dell’animale si alterarono rozzamente. Il corpo s’inarcò verso l’alto, come un ponte. Le quattro zampe s’irrobustirono e culminarono in artigli di luce lattea. Una serie di cristalli, simili a scaglie si manifestarono sulla sua schiena ricurva, come quelle di uno stegodonte. Il viso si appiattì e la macchia nera uniforme attorno all’occhio divenne una sezione di pelle maculata sotto il collo inspessito.

Miagolò e il verso dell’animale si amplificò oltre ogni previsione, come il do diesis di un organo.

«Non mi sembra che sia andata allo stesso modo, ragazzino...» bisbigliò Sekiro a voce bassissima, con aria di biasimo.

Yunix non seppe cosa dire.

Armday sorrise di nuovo, stringendo i pugni fino a farli sanguinare.
Col viso illuminato dal fulgore fatiscente, la bocca grondante sangue, gli occhi esasperati, incorniciati di rosso, il portamento ingobbito, le spalle incurvate in avanti, il villain sembrava un vero e proprio mostro. Yunix non aveva dubbi che il passato di quel soldato stesse tornando a galla, tutto in una volta. Poteva appellarsi a Dio quanto voleva, ma sicuramente conviveva con ben più di un fantasma nell’armadio. Anche lui, in fondo, era un demone. Lo aveva pure ammesso. Il suo passato se lo portava addietro in un carico invisibile, senza dubbio, ma anche opprimente.
“Però almeno lui il passato ce l’ha!”.

Il generale ammiccò.

«Tutto vero, ma io che ho avvertito l’energia di questa bestiola sulla mia pellaccia, sapevo bene che il suo potere non finiva lì. Non avete modo di battermi, non importa quanti altri accorreranno. Non lo vedete!?» chiese indicando la creatura semi-prestorica, che ruggiva accanto a lui. «Lui è un angelo sceso dal Paradiso di nome Elmer Grayne. Assieme a lui, Yunix Braviery, sono senza tanti giri di parole infermabile».

Yunix strinse forte la scheggia di pietra tra le dita.
“Possiamo resistere fino all’arrivo degli Heroes?”

Sakuro, ben saldo sulle gambe, sembrava fresco e pronto a combattere, ma Sekiro era conciato male anche se non lo dava a vedere.
“Col braccio rotto, non è granché utile e io sono l’ultimo su cui contare. Forse in tre potremmo pure contenere Armday, ma il gatto mannaro o quello che è ci squarcerà la gola, ancor prima di avvicinarci. No. Non abbiamo idea di cosa sia capace quella creatura”.

Sentì il battito del proprio cuore accelerare.

"A questo punto, non ha senso girarci attorno. Se io muoio, i gemelli potrebbero sopravvivere... Però..." 
Il sudore colava sui suoi vestiti stracciati e sulle sue mani impolverate.

“Coraggio. Coraggio... Ho accettato la possibilità di morire mesi fa”. Si mise in ginocchio, incapace di guardare altrove che per terra. “Shigoto Andawa, Kane Starfire, Hainard Tower. Voglio lasciarvi la parte migliore di me”.

Yunix barcollò sentendo le gambe cedevoli sotto la pressione.
“Già. Il mio ricordo sarà inoffensivo ed eroico... come io non sarò mai. I gemelli si assicureranno di tramandarlo, ne sono certo”.

Si morse il labbro, corrugò le sopracciglia, strinse i pugni e dischiuse le labbra.

«Arm-...»

«“Oh mio dio, che faremo ora?” “Non abbiamo possibilità di vincere!” “Ci rimetteremo la pelle, per certo!”»
Sakuro iniziò a parlare con la consueta voce tetra, in un qualche modo rassicurante. «È pronunciare queste frasi ciò che le fa avverare».

Il guerriero si stagliava di fronte ai ragazzi con la falce pronta a colpire. L’occhio destro, il più visibile, era acuto come quello di un falco, rosso cremisi. «Dando voce ai nostri timori, li rendiamo più reali. I pensieri sono vivi. Si trasmettono lungo gli anelli delle catene che ci tengono uniti, catene nere come questa. Nere per i nostri pensieri impuri».

Sakuro tese la catena color dell’ebano di fronte ad Armday, che ascoltava, rapito.
«Ma proprio perché sono vivi, devono rimanere in catene, a meno che non si voglia liberarli. Se ora dicessi che non ho possibilità di battervi, credete davvero che avrei anche l’1 per cento di probabilità di farlo?»

Il guerriero fece no col dito, schioccando a tempo la lingua.

«NAY! Al contrario, se dicessi che ho tutte le carte in regola per sconfiggervi, forse uno scenario in cui vinco si aprirà di fronte a me. Dico bene, Capelli grigi?» Si rivolse a Yunix che si ritrovò a guardare un occhio pieno di genuina fede in lui. «Non dirmi che non l’hai compreso, magico osservatore. Chooki... Pensi forse che abbia battuto il villain del baseball, per un colpo di fortuna? NAY! L’ha fatto perché sapeva di avere perlomeno l’1 per cento di possibilità di vincere».

Al ragazzo dai capelli grigi brillarono gli occhi.
“L’1%?”

«Non gettare via la tua vita se non sei certo che non ci sia altra scelta. Noi saremo eroi, caro esaminatore. E le basse probabilità di successo saranno il nostro pane quotidiano!»

Armday s’intromise sghignazzando.
«Morire sarà il vostro pane quotidiano, semmai; una via senza uscita verso una morte grigia, sopravvalutata...»

«Non sarà sopravvalutata, se sarà servita a ritardare la morte di un altro essere umano». Sakuro iniziò a far mulinare la falce, con autorevole fierezza. «In un modo o nell’altro, noi rimarremo qui a combattere, fino allo stremo. Perché è questo che fanno gli eroi. Salvano indiscriminatamente».

Yunix era estasiato. Sekiro annuì e si mise a fianco del fratello, respirando affannosamente.

«Sempre con te... fratello».

“Salvare tutti... senza preferenze o discriminazioni. Sono questi gli Heroes?”

I due guerrieri si stagliavano di fronte a lui.
Gli sembrò di udire la voce di Inai in lontananza: «Benvenuto, giovane rampollo. Benvenuto fra gli eroi!»

E senza rendersene conto, si schierò a fianco dei gemelli, la scheggia nella mano destra. «Non serve dire altro. Per una volta, voglio essere coraggioso pure io».

Armday alzò le braccia e contrasse i muscoli, mentre il misterioso gatto Elmer si rizzava sulle gambe in posizione d’attacco.

«Ora non me la prenderò più comoda, per l’amor di Dio! Sono un soldato, un generale e un demone. Userò ogni mia singola mossa, pur di ucciderlo e in questo modo... solo in questo modo, il mondo sarà salvo!»

Sakuro abbandonò l’espressione seria, per un gioviale sorrisetto.

«Okay, dunque». La velocità di rotazione della falce divenne quasi supersonica. «Mi sa che dovranno imbandire un bel banchetto per quando finirà il test, cari fratelli miei, perché sembra che dovrò davvero essere il vostro “one man army”. Preparatevi... a essere carriati hard!»



Note d'autore:
A voi il nuovo capitolo. Il test d'ingresso è ormai concluso, ma finché Armday non sarà sconfitto la speranza di un futuro non sarà garantita per i nostri giovani eroi. E quale sarà il vero obiettivo di Copy&Paste? Il generale ha forse visto più lontano di tutti? Non resta che attendere il prossimo capitolo per risposte e nuove domande. Spero che il capitolo vi sia piaciuto e arrivederci!

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Capitolo 19
*** Benvenuto tra gli Eroi - Parte Quinta: Finalmente liberi dal passato! ***


Benvenuto tra gli Eroi - Parte Quinta: Finalmente liberi dal passato!


Fasci di luce scarlatta. Attacchi così rapidi da far spavento. Vortici, gemiti, catene che cozzavano con l’arkastro. Una schermaglia, anzi una battaglia campale. Da una parte, i gemelli tentavano la sorte contro il generale; dall’altra, Yunix se la stava vedendo con il suo temibile alleato felino, sfolgorante per i cristalli sul suo dorso.
Sakuro e Sekiro combattevano come se non avessero fatto altro fin da quando erano nati. Giocavano di agilità, ma soprattutto di aggressività. Armday, che menava colpi a destra e a manca, doveva continuare a girare su sé stesso per tenere il passo con i due guerrieri. Tendevano a darsi il cambio, con Sakuro che attaccava con la forza bruta, Sekiro con funzione di sola distrazione. Dopo ogni assalto, sempre a debita distanza, con le estremità dei kurisagama, si scambiavano di posto e ruotavano, saltando dalle sporgenze, creando un cerchio attorno al villain. Il gemello dalla falce destra aveva già la fronte imperlata di sudore.

“Contro un avversario normale, la tecnica del calderone nero, frutto della combinazione delle nostre forze, dovrebbe avere un vantaggio. Continuando a girare, costringeremmo il nemico a concentrarsi solo sulla difesa e conseguentemente lo batteremmo in una guerra d’attrito, ma non è solo quell’energia felina che lo impregna a essere un tranello bello e buono. Nay! Il cosa più problematica è la sua capacità di tenere gli occhi su entrambi e imparare un pattern che nemmeno esiste”.

Saltò usando la catena, per evitare un gigantesco pugno. Ciò nonostante, avvertì ugualmente la mostruosa potenza del colpo. Sekiro tentò un colpo alle gambe, ma il generale inspessiva la pelle, rendendo gli squarci molto meno profondi dello sperato.

“Ma non è questo il problema principale. È il suo stile di combattimento. Non abbiamo alcun modo per indebolirlo. Anche se avvolgessimo le nostre catene attorno a lui, se le scrollerebbe di dosso”.

Sekiro riuscì a malapena a evitare un pestone. Sakuro scattò a sinistra e attaccò dall’alto.

“Non è che siamo noi quelli che stanno vendendo sfiniti, diamine?” Il suo colpo fu deviato con un semplice gesto della mano allargata. “Devo trovare quell’un per cento... Quell’un per cento in cui vinciamo!”

Sakuro si scambiò rapidamente col gemello ed attaccò di nuovo.

“Non resta che proseguire in questo modo, anche se temo fortemente che le nostre chance stiano colando a picco a una velocità vertiginosa. Speriamo che Yunix faccia la sua parte”.

 

Tuttavia, il ragazzo armato del coltello di pietra non si stava preoccupando di attaccare più di tanto, né tantomeno di difendersi, quanto piuttosto di non finire sbranato. Era una scena piuttosto imbarazzante. Con i soffi rabbiosi del gatto elevati di undici ottave e gli urletti da soap opera di Yunix, ogni volta che sentiva il fetore a pochi centimetri da lui, quello scontro si stava trasformando in una specie di numero da circo, una corrida per fenomeni da baraccone. Ma non poteva farci niente. Si era ripromesso di non usare più quel potere che non gli apparteneva. Non poteva cedere a C&P...
Per qualche scherzo della sorte, era ancora più o meno illeso.

“Sono agguati rapidi e grezzi... questo animale non ha esperienza nel combattimento, come neanche io del resto”.
Poteva prendere tempo quanto voleva, spostandosi di lato all’ultimo secondo, prima che quell’Elmer gli piombasse addosso, ma al minimo errore sarebbe morto. “Non c’è niente da fare. Devo avvicinarmi a quei due...!”

Si schiarì la voce.
«Ehi, cane rognoso, ho affrontato centinaia di randagi peggiori di te!» Si pentì subito della provocazione. L’essere brillò e caricò in avanti, come un ariete. «Ehi... Scherzavo...» la sua risata nervosa era venata di panico. «Amici come prima!?»

Yunix strinse la scheggia con entrambe le mani, tremando da capo a piedi.
“Lo ucciderò, tornerò a casa, lo ucciderò, tornerò a casa...” Il motivetto nella sua testa fu annientato dalla pura irruenza dell’animale. “No, non lo ucciderò, manco a piangere!”

La testa del gatto si schiantò sul suo petto, spostando indietro tutti gli organi che il ragazzo aveva accumulato nel corso degli anni.

«Auggh...» Il sapore dei suoi succhi gastrici lo allarmò e lo disgustò.
“Ma io mi chiedo... No... ma chi fa sta’ roba per divertimento!?”  
«A...aaa... S- Sakuro... augh... Sakuro Senpai!»

Le braccia del gemello lo accolsero. Il ragazzo s’illuminò. Sakuro... Era davvero venuto a salvarlo?

“Non posso crederci... È come un sogno... ora mi dirà: ‘Non temere, sarò sempre con te, Yunix-chan!’”

Aprì gli occhi e i suoi sogni reconditi vennero infranti.

«Sekiro...?»

Il gemello gli scoccò un’occhiataccia così lancinante che fece più male della testata del gattaccio.

«Io detesto le zavorre» sussurrò.

Pugnalata.

«Non siamo nelle favole».

Altra pugnalata.

«Inizia a fare un po’ sul serio, non meriti mio fratello».

Notte dei mille coltelli.

Sakuro atterrò di fronte al gatto mannaro.
«Non ammazzarmi il ragazzo, fratello! Pensa piuttosto al generale».

Yunix deglutì, avvertendo la catena di Sekiro avvolgersi attorno alle sue braccia.

Sakuro tese la propria.
«Vieni qua, palla di pelo. Non ti farò alcun male tranquillo».

Ma il piccolo dinosauro di luce non fu minimamente interessato a lui e andò a spron battuto contro Yunix.

«Ma perché tutti quanti vogliono uccidere me!?» gridò a metà strada fra l’irato e il terrorizzato, aggrappandosi all’abito rosso e nero del gemello. Passi pesanti lo allertarono. Solo una persona poteva peggiorare le cose in quel momento. «Armday!»

L’uomo ridacchiò.
«Che fai, non usi il potere del tuo adorato Copy&Paste!? Artiglieria Pesante -1- Linea di Fuoco Fissa!»

Tese il braccio in avanti, pronto probabilmente ad allungarlo a dismisura. Erano tutti e tre sulla stessa linea di fuoco e con il braccio rotto di Sekiro, non potevano sperare di scamparla tutti quanti. Inoltre, anche la feroce belva si stava gettando su di loro ad artigli spianati.

“Non ho scelta... Però non voglio usarlo. Non voglio!” Yunix rinunciò ed incredibilmente la creatura di nome Elmer si arrestò. “Che..?”

«Nel sottomondo!»

Sekiro e Yunix sprofondarono sottoterra, appena prima che il braccio di Armday si distendesse lungo l’intero stradone. Il ragazzo si preparò a respirare l’aria fuligginosa, ma questa volta Sekiro emerse subito. Erano alle spalle del generale. L’uomo era ancora girato. Non poteva sapere...

“Posso colpirlo. È a portata! È finalmente a portata!” Cercò di sottrarsi alla presa del gemello, che tuttavia sembrava restio ad attaccare. “Peggio per lui. Alla fine, a salvare tutti sarò io!”

«Idiota! Se lo aspetta! Avrà visto di certo la nostra...»

Yunix si sentì tratto indietro, appena prima che finisse spazzato via da un calcio posteriore. Così facendo, tuttavia, fu il gemello a finire a portata. Il generale si voltò.

«Perché sacrificarsi per un demone!?»

Sekiro non rispose e attaccò per quanto poteva ritirando in fretta la falce.

«Naikammmmm!!!»

Il generale sorrise.
«Addio...!»

Un esplosione di sangue. Il gancio destro di Armday, inspessito dal Quirk, aveva preso in pieno il giovane.

 

«FRATELLO!»

Sakuro era arrivato tardi. Rimase sospeso a mezz’aria, il tempo e lo spazio senza più alcun significato. Gli occhi assetati di sangue di Armday s’incrociarono coi suoi. Il sangue del gemello lo bagnava da capo a piedi. Il cadavere giaceva succube dell’edificio. Sakuro vedeva quelle immagini distorte alternarsi l’una all’altra.

“Non perdere le staffe... L’1% è ancora lì!” Sentì il sangue affluire al cervello. “Non dovremmo ferire seriamente nessuno con queste falci. Non finché non sapremo che sarà sicuro farlo! Però...”

Si strinse una mano sul cuore, assumendo la croce di sangue, filosofia tramandata dalla sua antica dinastia. Un altro modo con cui chiamare l’ibernazione di ogni intento vendicativo, fino a quando necessario. Non pensava che ne avrebbe mai avuto bisogno.

«Ho una domanda... Tu cosa faresti se avessi ucciso il tuo angelo?» domandò piombando su una macchina di fronte al generale, parlando con assoluta impassibilità.

Armday fece scivolare il sangue dal pugno, ora a grandezza naturale.

«Dio... Che domande... Ovviamente...» incurvò le labbra, assumendo un’espressione di vorace isteria. «Ovviamente ti ucciderei senza la minima pietà, perché avresti annientato la mia ragione di vita!»

Sakuro annuì, chinando appena il capo e rilassando le braccia.
«Per l’appunto...»

Vi furono alcuni secondi di pausa. Armday cercò di capire cosa il ragazzo stesse pensando. Con gli occhi bassi, era impossibile comprendere il suo umore.

“Beh, non è andata esattamente come previsto. Ma non percepisco alcun intento omicida in...”
Un rumore sferzante di lame spezzate lo assordò, mentre di fronte a lui il gemello saltava all’indietro, menando l’ingegnosa arma con tale velocità da rompere il muro del suono. Ali di sangue si disegnarono sulle sue scapole.

«SEMINA DEL SANGUE – FALCE MIETITRICE!»

Una sagoma rossa gli si gettò contro e lo colpì a una costola, aprendo la carne, poi scomparve. Un’altra la seguì e gli squarciò l’avanbraccio. Poi vennero la terza e la quarta, a una velocità inquantificabile. Ad ogni colpo, nuove ferite riaprivano anche quelle vecchie e il generale sentiva i piedi trascinarsi indietro.

“Ehi! Non scherzava quando si proclamava one man army, cazzo! Eheh! Di questo passo energia o no, morirò!” Mise le braccia a protezione del corpo, continuando imperterrito a sogghignare.
“Tuttavia... ho già compreso l’essenza dell’attacco. Sarò anche un matto bastardo, ma dalla mia ho l’analisi della situazione, propria di un generale come me. Mi basterà tracciare il quadro generale, la visione d’insieme e troverò una soluzione anche a questo”.

Le immagini rossastre che lo colpivano avevano la sagoma di Sakuro e la stessa arma, erano fatti di sangue. Iniziò a contrattaccare. I simulacri coagulati esplodevano sotto i pugni dell’uomo, ma non tardavano a essere sostituiti da nuove proiezioni.

“Il gemellastro è qui di fronte... Ipotizzando che stia facendo emergere i suoi cloni dal suo corpo, significa che rientra nella portata dei miei attacchi”. Una falce gli disegnò un taglio sulla guancia, che gli diede l’impulso che serviva. “Mi vorrà dare il colpo di grazia lui stesso, probabilmente... bizzarro vedere gente che dà così importanza a vite così grigie!”

Il gemello era sempre più vicino e urlava all’impazzata, generando cloni ogni secondo.

“Porca troia! Sembra che dovrò usarla contro di te... la mia mossa più forte!”

Era un colabrodo di sangue, ma ormai assuefatto al potere di Elmer Jr., non sentiva più alcuna sofferenza.

«FATTI SOTTO!! NON POSSO SALVARE CHI NON VUOLE ESSERE SALVATO!!!»

Sakuro scaraventò la lama verso il basso.

«Uccideresti un ragazzino per salvarmi!? Il sacrificio non è nel mio vocabolario!!»

“Non vuole colpire me!?” si chiese Armday, annientando l’ennesimo guerriero di sangue. Sakuro sfruttò il colpo per elevarsi nel cielo e fece una, due, tre capriole a mezz’aria, portandosi la catena dietro di sé. “Un attacco rotante dall’alto! Ucciderebbe chiunque a quella velocità... Anche se lo colpissi con un braccio, è più facile che me lo taglierebbe in due!”

Armday si strappò il soprabito e afferrò una flash bang.
«L’hai voluto tu!»

Sakuro comprese il pericolo verso cui andava incontro, ma non poteva fermarsi.

«SHIRAAJJJ!!»

“Morirà, proprio allo stesso modo del fratello...” Armday sollevò il gancio che avrebbe posto fine allo scontro. “Scusa, Elmer... Alla fine, non ho potuto proteggerli tutti! Un angelo come te non sarebbe caduto così in basso”.

La granata accecante roteò nel cielo, di fronte al ragazzo, nell’atto di attaccare. Un sibilo acuto squarciò i timpani del generale, mentre la strada veniva illuminata a giorno.

“Ho acquisito la sua posizione... Non resta che...” Senza starci troppo a pensare, assestò il pugno con tutta la forza che aveva, ingrandendolo abbastanza da non lasciare vie di fuga. Incredibilmente, colpì solo aria. “Eh...? Forse non ho sensibilità sulle nocche?”

La copertura smagliante della granata si dissolse rivelando la via distrutta in tutto il suo panorama infernale. Tuttavia... il gemello era scomparso. Il generale grugnì e si gettò un’occhiata alle spalle, senza che riuscisse a far tornare i conti.

“Forse l’ho colpito così forte che si è disintegrato. Ma dov’è allora il fottuto sangue, per Dio!?” Fu distratto da un’ombra in movimento sul terreno. Ma... Non c’era nulla che la stava generando. “No, non può essere. Sono sicuro di averlo ucciso!”

Un mormorio di acqua che bolle, come un vulcano subacqueo, riverberò attorno a lui.

«Dal sottomondo!»

L’asfalto divenne molle e dalla calce emersero due guerrieri, praticamente identici, uno alle spalle di Armday, l’altro davanti.

«L’un per cento è questo, generale!» gridò Sakuro, con ostentato autocontrollo.

«Occhio per occhio!» ruggì Sekiro, con una voce così bassa da mettere i brividi.

I gemelli sferrarono due fendenti precisi con le falci, gli occhi tetri imbevuti di nero. Armday reagì con prontezza inaudita e saltò il più in alto possibile, sfruttando il Giant Arms e l’attacco a tenaglia andò a vuoto. I due gemelli alzarono gli occhi, sorpresi.
Nonostante questo, il più livido e smunto dei tre era proprio Armday. Il gemello dalla falce sinistra tremolò di fronte ai suoi occhi.

“Come fa a essere vivo!? Il suo corpo è proprio là!”
Ma non serviva un gran ragionamento per capire cos’era successo.

Gli occhi di Armday si accesero di una luce viola. “Bene, bene... So perfettamente cosa è accaduto. Copy&Paste o Yunix, tanto non cambia nulla... devono averlo sostituito con una copia prima che lo annientassi! Hanno creato una copia di un organismo vivente. Un potere del genere...” Ormai la sua risolutezza era diventata definitiva. “Non è ammissibile in questo mondo!

I due ragazzi con le falci si stavano allontanando.

“Mmm... Nossignore! Non farete in tempo, giovani reclute... Ho in serbo per voi la mia mossa risolutiva!” Allargò la distanza tra tutti gli arti, immaginando di sentire delle braccia angeliche sorreggerlo.

«Purificherò questo mondo dai demoni più temibili che lo abitano! MUTUAL DES-»
 
 
Deserto del Sahara – quattordici anni prima del test d’ingresso
 
«Mutual Destruction?»

«È la mossa che ho progettato. Non farti tutti sti’ problemi a cercare di capirla, vecchia tartaruga».

Elmer si strinse nelle spalle.
«Per sommi capi?»

«Conosci il progetto Manhattan?»

«A mena dito, a mena dito, Armday...»

Il soldato possente sogghignò e incrociò le braccia, con fare provocatorio.

«Immagina... il potere di una bomba nucleare nelle mani di un uomo!»

«Sarebbe terribile» constatò Elmer, senza un accenno di ilarità.

Erano uno di fronte all’altro.

«Già» ridacchiò Armday, «dove sarebbe il gusto nel distruggere una civiltà con un dito schiacciato sopra un grosso pulsante rosso?»

Elmer valutò l’espressione di Armday, con un certo scetticismo, poi fece un passo avanti e iniziò a marciare.

«Ehi... che stai...?»

«Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sto contando, non vedi? Sette, otto...» andò avanti fino a venti, poi si fermò e tirò un calcio alla sabbia, con le gambe martoriate, probabilmente per creare un segno.

Armday arricciò il naso.

«Vuoi rendermi partecipe di... qualunque cosa tu stia facendo, Dio mio?»

«Fino a qui» dichiarò Elmer, serafico. «Non permetterò che la tua mossa superi i venti metri di raggio».

«Eh? Ma ti sei bevuto il cervello? Così non sarà meglio di un v2...»

Elmer si grattò la testa.
«E perché non dovrebbe bastare... considera che tutto ciò che colpirai amplierà ulteriormente la portata della tua mossa. Inoltre, darsi un limite ti aiuterà ad avere un obbiettivo più chiaro del tuo stupido: “Ahaha, creerò una mossa forte come una bomba nucleare! Guardate come sono figo!”»

«Io non parlo così! E non dico cose del genere!» ringhiò Armday, pronto a fare a botte.

Elmer lo quietò con una mano, avvicinandosi di nuovo al soldato.
«Va bene, va bene, come vuoi. Però pensi che non mi sia accorto che l’hai chiamata “Mutual Destruction”? Mutual... Una mossa che colpisce tutto e tutti, pure te stesso, dico bene? O no, dico bene?»

Armday grugnì e ringalluzzì la cresta.

«Che lagna, angioletto! Siamo in guerra! I danni collaterali sono all’ordine del giorno!» Si stiracchiò. «Ah beh... visto che ci tieni tanto, farò come dici. Non vorrei perdere il sonno, perché mi strilli ogni tre per due che sono un irresponsabile o roba così. Capisci?»

Elmer annuì, sorridendo.
«Sono sicuro che padroneggerai quella mossa, compagno. C’è da aspettarselo da uno che non fa altro che sorprendermi».
 


Armday trattenne il respiro. “Venti metri di raggio, quaranta di diametro. Ho perfezionato le misure di giorno in giorno, fino a che non hanno raggiunto l’esatta ampiezza che mi hai suggerito. Avevi ragione. La potenza ridotta è compensata da un minore ritorno dei danni. E anche così... nessuno, nessuno può sfuggirvi. Mi piacerebbe che fossi qui a vederlo, compagno...” Guardando i gemelli scattare fulminei, ebbe un leggero sussulto. Li avrebbe massacrati. Non avrebbero avuto scampo, non stavolta. Ne valeva davvero la pena? “Due vite per centinaia...” Il generale ingoiò ogni esitazione e ogni vertebra del suo corpo si tese.

«Mutual Destruc-!»

«Non ti facevo un’idealista così convinto, Armday!» lo interruppe una voce sforzata.

“Yunix?” il generale volse appena il capo. “Vuole distrarmi, per far scappare i suoi compagni. Di fatto, senza loro due a parargli il culo non può che aggrapparsi alla sottana di Copy&Paste e sperare che lo salvi”.

Scoprì i denti in un ghigno.
«Vuoi forse chiamare il tuo piccolo eroe per ammazzarmi, poppante!?» Tornò immediatamente serio. «Guarda che questi due li hai uccisi con le tue mani!»

Inspessì i muscoli, sganciando e riagganciando le articolazioni, fino a creare una rete mobile straordinaria.
“Se C&P intervenisse ancora, c’è la possibilità che riuscirebbe a prevenire la mia mossa... a meno che...”

«YUNIX! Già pronto a ucciderci tutti!?» ottenne la sua attenzione, atterrando a terra. “Sono ancora entro la mia portata...” «Pensi davvero che potrai scoprire qualcosa sul tuo passato se li salverai!? Il potere del tuo eroe sarà la tua...» la sua voce si strozzò.

Il mondo gli cadde addosso.
“La sua... La sua mano”.

In catalessi, non poté far altro che strofinarsi gli occhi, come per destarsi da un brutto sogno. Ma non c’erano dubbi. Yunix Braviery si ergeva in piedi, più determinato che mai, la mano destra perforata da una spessa scheggia pietrosa. Il sangue sgocciolava a terra, senza che il ragazzo vi desse alcun peso. Del marchio neanche traccia.

«Tu hai... Tu hai...»

«Benedizione o no... non lascerò il mio corpo venga controllato da un erouccio vissuto trecento anni fa. Io sono il padrone di me stesso... Io e solo io diventerò il più grande tra gli eroi!»

Armday scosse la testa, incapace di capacitarsi di quel risvolto.
«Tu non l’avresti mai fatto. Tu, codardo, ti aggrapperesti a chiunque pur di salvarti».

I gemelli approfittarono della situazione per sottrarsi al raggio d’azione del villain.

«Lo pensi davvero?» domandò Yunix, con aria di superiorità.

«Se c’è una cosa che detesto è essere un pedone nelle mani di qualcuno che si crede più furbo di me. Capisci che intendo, vero Armday? Avrai di certo combattuto anche tu battaglie di altri, in passato, battaglie di cui non poteva fregartene meno». Gli ingranaggi negli occhi del ragazzo bruciavano di convinzione. «Quando C&P ha salvato Sekiro, prendendo il mio posto, ho capito che non mi considerava niente più che un catalizzatore di potere... E allora... con tutta la naturalezza del mondo, ho fatto in modo che tornasse alla sua amata città».

Sollevò la mano trafitta, mostrando il palmo impiastricciato di sangue.
«Questo ti sia testimone, generale... Io non ho interesse a diventare un demone, perché i demoni tremeranno quando io sarò al vertice!»

Armday sbatteva le palpebre a ripetizione, ancora restio a credere ai suoi sensi e a quelle parole. Sentì una presenza al suo fianco. Spostò lo sguardo spiritato e vide la creatura misteriosa di nome Elmer involvere nel dolce gattino, che era stato quando l’aveva trovato.

“Questo gatto... i mocciosi non l’hanno capito, ma c’è un motivo se ha evitato il gemello più alto invece di attaccarlo. Selezione. Una selezione ben pianificata. Attacca solo le persone con un serio istinto omicida... cosa che fino ad ora quel demone ha dimostrato di avere. Vuoi che... sia davvero...?” Lo osservò, il suo eterno nemico. Respirava a fatica, ma con audacia continuava a mantenere il contatto visivo. Sorrideva appena, gli occhi sporgenti, la cicatrice sulle labbra, nitida come la pelle di uno squalo. “Forse... Forse dice il vero. D’altronde, è stato lui ad affrontarmi per primo. È scappato, ma poi è tornato per salvare l’Eroe Senza Nome. Si è pugnalato la mano destra, fregandosene del dolore, rinunciando al potere del demone che avrebbe potuto salvarlo”.

Armday strinse i pugni.

«Yunix...» incominciò. Le parole facevano fatica a uscirgli dalla bocca. «Davvero. Davvero non sei...?»

Fu un attimo. Gli ingranaggi in quei globi luminosi scattarono, come lancette di un orologio. Un odio antichissimo si risvegliò in Armday. Come un’interferenza radio visiva, le immagini di quelle due notti terrificanti si affollarono di fronte a lui. Fulmini nella notte.

«Questo non è normale... questo è... Shocking Demons!» Si sentì di nuovo sollevato dalla sabbia, mentre Elmer soccombeva. «Hai fede nel mondo, pur sapendo che è sopravvalutato... dev’essere un desiderio innato, che vuoi spegnere con la tua guerra... ma... fino ad allora... sarai colui che proteggerà le vite di tutti dai demoni della nostra società malata. E so... che saprai farlo meglio di me...»

Il viso del soldato si trasfigurò in quello di Yunix. Il demone dagli occhi di ghiaccio incombeva su di lui, bagnato dalla pioggia. Armday sentì il gelo che emanava fin dentro il petto.

«Dove siete andati tutti? Non c’è... Non c’è proprio nessuno che riesca a uccidermi!?». Allungò le mani bagnate di sangue verso di lui. «Tu... Non guardarmi così. Voglio solo... che tu mi uccida!»

Armday scosse la testa.
“Non posso. Per Dio... Non posso vivere nel passato... Però è anche vero che non posso vivere in un futuro in cui esisti anche tu!” Non sentì più alcun rumore. Tornò a essere un soldato senz’anima, senza prospettive. Spiccò un salto. I visi dei tre ragazzi impallidirono. “Non posso fermarmi! Non più!”
Elmer Jr era aggrappato a lui. “Non ti voglio coinvolgere in tutto questo. Lui ha rinunciato a C&P. Io rinuncerò a te”.

Lanciò il gatto dietro di sé.

«VATTENE!»

Non si voltò a guardare. Non avrebbe mai concluso quell’attacco altrimenti. Incombeva su di loro, ma per lui esistevano solo quei due occhi grigi, annebbiati alla ricerca di una soluzione, di un nuovo piano.

«MUTUAL DESTRUCTION!»

La morte si abbatté sulla città di Infection.
 

 
“Alcune persone credono di conoscere i traumi. Parlano di lingue congelate. Occhi persi nel vuoto. Mente spazzata via. Ma per me la mente c’è... Solo... non riuscirà mai a processare tutto come prima”.

Yunix non riusciva a muoversi. Un solo gesto e sarebbe diventato cenere, proprio come quella che turbinava attorno a lui. Non ne era sicuro, ma d’altra parte non era sicuro più di niente. Sakuro gli posò due mani sulle guance.

«Parlami. Parlami, Yunix. Non pensare più. Non riflettere. Non ragionare. Siamo vivi anche grazie al tuo gesto masochista. Parlami, ti prego». Le sue dite erano calde. Temprate dal ferro e dal fuoco, ma in compenso amiche e confortanti. «Parlami. Fammi delle domande. Qualunque cosa».

La voce tetra era ulteriormente attutita dalla fascia di lino nera, atta a proteggere il guerriero dalla polvere, tuttavia le sue parole erano chiare, se qualcosa si poteva definire chiaro in quella situazione.

«Comprensibile» sussurrò Sekiro, con tono parimenti sommesso. «Ha paura di morire».

Sakuro guardò il fratello.

«E tu?»

Il gemello più basso alzò le spalle.
Sakuro si tirò giù la maschera.

«Nay... Non moriremo. Non moriremo, se è vero che c’è anche una sola chance di sopravvivenza. Io credo in Yunix. E credo anche in tutti gli altri partecipanti del test. Soprattutto lei».

Illuso. Come potevano sopravvivere? Quando la nebbia si fosse diradata, sarebbero stati scovati e macellati come capretti.

«Yunix... io voglio che tu ci creda. Come puoi anche solo sperare di vincere in quello stato!? Parlami».

Uno sfrigolio di fiamme era l’unico altro suono in quel marasma di rossa foschia. Yunix, Sekiro e Sakuro erano riparati dietro il cadavere di un tir. Non erano nelle condizioni di poter scappare. Sekiro aveva il braccio rotto. Sakuro la schiena tempestata di schegge e lui... Lui non ricordava nemmeno come si facesse a muoversi. No. Stavano prolungando un’agonia insensata.

«Almeno non può trovarci per ora...» disse Sekiro, alludendo probabilmente alla mancanza del marchio che li aveva fatti scoprire poco prima.

Ma quello, del resto, non significava nulla. Ogni secondo che passava, Yunix temeva sempre più di vedere una delle braccia sanguinanti di Armday sorgere dalla foschia per strangolarlo una volta per tutte. Li avrebbe colti così impreparati che non sarebbero nemmeno riusciti a gridare. Non poteva reggere a tutto quello stress. Non poteva. Non dopo quell’esplosione.
“Fa’ che finisca. Che finisca subito”.

«Yunix... La devi smettere di pensare. La devi piantare subito! Io credo ciecamente in te. Quel discorso che hai fatto al villain. La sconsideratezza per esserti piantato un coltello nel palmo della mano. Non sono cose avrebbero fatto in molti. Lo capisci?»
Gli occhi del ragazzo erano annebbiati. Sakuro restrinse l'iride, per poi battere entrambe le mani sulle ginocchia. Con suo stupore, si alzò e gli diede le spalle. «Ma che dico? Tu non vuoi sentirti dire ancora che sei diverso da noi, immagino».

Il ragazzo strappò un lembo di tessuto dalle proprie maniche già tagliuzzate.
«Vedi questa?» Yunix non reagì, ma spostò gli occhi sulla striscia dell’abito. «È una semplice fibra di seta» spiegò Sakuro, per poi stringere tra le mani il braccio del fratello. «E questa... è carne». Indicò il suo braccio. «Pure questa è carne». Si avvicinò a Yunix e gli prese i polsi con delicatezza. «Ancora carne. Secondo te noi lottiamo per questi sacchi di carne e seta?»

Yunix si ritrovò a fissare Sakuro nell’unico occhio scoperto che aveva.

“No, certo che no... Wow. Che rivelazione! Lottiamo per le cose che ci sono dentro, ovviamente. Ma tanto... quell’uomo ed io assieme abbiamo spento tutto ciò che c’era dentro di me, in primo luogo”.

Sakuro lesse la sua risposta come se fosse stata scritta in calce sulla sua fronte.

«Ti sbagli, Yunix. È proprio qui che ti sbagli. Noi lottiamo sempre per questi sacchi di carne, sangue e seta. Non siamo mica esseri celestiali... né demoni. Siamo umani. Abbiamo un corpo e un’anima. Senza corpo non c’è anima e senza anima non c’è corpo. Il mio corpo, quello di mio fratello, il tuo sono tutti uguali, ma ci permettono di far scorrere l’anima al loro interno. È solo questo che li rende diversi. Come possiamo conservare l’acqua senza un recipiente? Tu hai solo paura Yunix. Hai paura... e questo ti rende un umano fino al midollo».

Sakuro strinse la fascia attorno al braccio rotto di Yunix e con la massima precisione l’assicurò in modo che fosse bloccato. Sekiro si fece avanti e s’inginocchiò accanto al fratello. Non aveva alcuna espressione particolare. Gli sussurrò qualcosa all’orecchio, poi si ritrasse. Era proprio un tipo ermetico, poco da dire. Sakuro tuttavia ne fu turbato. Toccò la ferita sulla mano destra di Yunix e si bagnò le dita di sangue.

«Il trauma che stai vivendo in cuor tuo l’hai già sconfitto. Hai solo timore di aver preso un’altra via sbagliata, ma questo... beh... questo si scoprirà solo col tempo».

«Voi avete paura?» sussurrò Yunix, stupendo pure sé stesso.

«Certo che abbiamo paura. Ma che differenza fa? Io continuerò a fare slalom tra quelle vie, fino a che non sarò arrivato a quell’1%... A quell’1% che mi farà vincere»

Sakuro armeggiava ancora con la fascia.

«Ma qual è l’1%, qui? E perché avete paura se quell’uomo vuole uccidere solo me?» domandò Yunix, parlando a malapena.

Sakuro si bloccò. Il suo occhio destro si allargò e si fiondò verso il terreno, incapace di guardarlo in viso.

«Abbiamo paura... per nostro fratello».

Yunix s’irrigidì. Osservò la fasciatura e sentì una scossa percorrergli il braccio. A caratteri sbilenchi, c’era una scritta composta da Sakuro col suo stesso sangue: la stessa delle due placche di cuoio sui petti dei ragazzi.

«C-cosa dice?» chiese in un tremolio.

Fu Sekiro a parlare, guardandolo con la solita espressione indignata.

«“Proteggi sempre i fratelli che incontri nel tuo cammino. Bagnati del loro sangue e difendi la loro anima”».

“Io?”

Yunix si rimise in piedi, seduta stante. Prese la maglietta lacera e sotto gli occhi dei gemelli strappò via coi denti un pezzo abbastanza grande da riempirgli il pugno.

«La tua schiena, Sakuro. Dobbiamo medicarla immediatamente!»

Il diretto interessato lanciò uno sguardo piuttosto allusivo al fratello. Erano due alla mano. Yunix lo aveva capito fin da quando li aveva visti all’opera al cantiere. Sakuro si mise di spalle, spogliandosi della tunica.

«Abbiamo approssimativamente tre o quattro minuti prima che l’enorme mole di Arkastro evaporato si depositi sul terreno» stabilì Sekiro, con aria di sfida. «Pensi di poterlo mettere in sesto in questo breve lasso di tempo?»

Yunix non rispose. Era arrivato il loro momento di stare a guardare. La sua ricerca di un luogo al sicuro non era stata un’Odissea priva d’insegnamenti. C’era stato un evento degno di nota, qualche settimana dopo la misteriosa perdita di memoria. Un evento che aveva gettato le basi per la sua diffidenza futura fino all’arrivo a Temigor, ma che gli avrebbe permesso di salvare sé stesso e i suoi nuovi fratelli da una fine ingloriosa, o almeno... così sperava.
 


Periferia di Boston - Due mesi prima del test d'ingresso

Il cielo grigio fuori dalle finestrelle a forma di piccoli oblò era gonfio di pioggia.

«Ragazzo, passami il bisturi».

Yunix intravedeva le girandole sui balconi roteare a folle velocità, per il vento. Forse, una di quelle case era stata la sua.

«Ragazzo!» Stralunato, cedette l’oggetto. «Che mi venisse un colpo! Sei il primo... oh! Il primo così ingrato! Ricorda che la paga va guadagnata, ragazzo».

“Perché? Mi paghi? Sul serio?”
Yunix si pulì le mani sul camice lercio.

«Allora gradirei un acconto. Che poi... in fondo quel gatto è morto».

Il vecchietto fece una risata stridula, abbandonando la lama sul tavolo.
«Oh, oh, oh, sì! Certo che è morto. Ma come è morto, irrispettoso bambinetto, me lo dici tu?»

Il ragazzo ignorò l’istigazione e si avvicinò al cadavere del gatto. Era un persiano. Sembrava una piccola mummia, stretta nell’abbraccio della morte. Ma le ferite... Le ferite erano strane.

«Sarà stata... un’esplosione?»

Il vecchio torse il busto, punto sul vivo.
«Oh... Chi te l’ha detto? Uno come te non potrebbe arrivare a queste conclusioni così velocemente...»

Il ragazzo alzò gli occhi al cielo, senza farsi notare.

«L’ho capito da solo».

«Mmmm...» Non gli credeva. Quell’ignobile gnomo non credeva a una sola parola che pronunciava. «E che ci fa un gatto sventrato da un’esplosione qui a Boston?»

Yunix tentennò. Glielo aveva chiesto per ripicca, non c'era dubbio. 

«Non... non ne ho idea».

Il vecchio proprietario del North Gru-Grover gli diede una forte pacca sul fianco (solo perché alla schiena non poteva arrivare).

«Ebbene, questo è l’ordine del giorno. Fai il tuo lavoro da veterinario sul cadavere e portami risultati. Voglio vedere il corpo perfettamente curato. Oh... e se fallirai... riproverai domani daccapo, con uno vivo però». Il vecchio si lustrò i baffi e scrocchiò il collo. «Molto bene, ora vado a lavorare in esterna. Vedi di fare un bel lavoretto, ragazzo. Costi».

Lavorare? Arthur Stanbert era uno scansafatiche, maniaco, sadico, depravato; sarebbe andato a spassarsela con delle giovani signorine anche quella sera, a quanto pareva.

“E io marcisco quaggiù, a fare un lavoro inutile. Non dovrei lamentarmi? Solo perché posso vivere qui in questa topaia? Ma chi si crede di essere?”

«A cosa serve sto’ lavoro, con tutto il rispetto?»

Il vecchietto, alto quanto un soldo di cacio, si arrestò con la mano sul pomello.

«Vedi di lavorare». Prese il cappello dalla mensola e fece un sorriso sordido, diretto proprio a lui. «Oh darly me... Domande da uno come te... criminale che non sei altro».

La sagoma scura dell’uomo fu illuminata da un lampo, che si riflesse sulle lenti degli occhiali. Fece una smorfia divertita, sapendo di aver fatto centro. Yunix infatti era diventato pallido come un cadavere.

«Tu sai...»

«Lavora, per il tuo bene».

Yunix sentì l’anta sbattere con forza e il chiavistello girare. L’aveva chiuso dentro. Passarono alcuni minuti. Minuti in cui Yunix pensò a migliaia di soluzioni diverse. Ma non c’era nulla da fare. Quel piccolo ominide gli aveva dato scacco.
Ben presto, s’immerse nel suo compito ignobile. Le schegge emergevano dalla pelle color sabbia, come tanti piccoli scarabei traslucidi.

«Prova e sbaglia, criminale Yunix. Tanto avrà da ridire comunque quella serpe».

Lavorò nella penombra per oltre tre ore. Perseguitato dalla minaccia del vecchio, cercò di non tralasciare nessun dettaglio. Sapeva che il bastardo avrebbe verificato che le schegge fossero state estratte con la maggior precisione possibile.

“Non mi caccerà. Mi tiene in ostaggio. Mi tiene in ostaggio con la sola cognizione di ciò che ho commesso. Questo lavoro non ha un senso, ma nella sua sinistra perversione, il signor Stanbert vuole essere certo che io peni dietro tutto questo. Solo e solamente per il suo divertimento”. Estrasse con mani tremanti l’ultima scheggia. “E domani arriverà con una cavia ferita a morte... Tanto lo so già che è stato lui a uccidere questo animale”.

Yunix lo aveva capito fin da quando la bestiola gli era stata presentata. Sì... Gli Heroes pensavano di essere tanto utili, ma non mettevano mai il becco nelle case della gente. Quanti atti criminali? Quante violenze? Quanto dolore? Più eroi indossavano il mantello, più erano gli uomini che diventavano preda dei loro difetti. Lussuriosi, oppressivi, infidi, malevoli, disperati, avidi... La vera essenza degli umani non poteva cambiare. Nemmeno All-Might aveva questo potere.

«Altrimenti..!» strillò Yunix, abbracciando il corpo insanguinato del gatto. «Altrimenti saprei già la verità!»
 


Ore 18:09 Infection – Zona inferiore Centrale
 
«Sekiro, passami l’acqua e l’aceto!»

Il ragazzo tenebroso alzò le sopracciglia.
«Li hai visti? Bleah... sei sicuro di non avere uno strano attaccamento per chi ti salva?»

Yunix si giustificò, già in tensione per ciò che stava per fare.
«È stato un secondo, quando mi hai salvato da Armday l’ultima volta. Hai sollevato le gambe. Attaccate al fianco, sotto la tunica... ho visto due fiaschette di ceramica. Fanno sicuramente parte del vostro equipaggiamento, no?»

Sakuro aspettava, inginocchiato.

«Dagliele, fratello. Queste schegge iniziano a fare male...»

Il gemello ebbe un attimo di esitazione, poi estrasse i due contenitori.

«Bene, perfetto» disse Yunix, impavido.

Si aggiustò i capelli, in modo che non gli oscurassero la visuale e si chinò sul giovane combattente. Era stato colpito in non meno di cinque punti diversi.

«Sei sicuro di sapere come...» iniziò Sakuro.

Yunix non gli diede il tempo di finire la frase. Stappò la fiaschetta dell’acqua con un morso e versò il contenuto sulla schiena.
“Prima pulire, poi disinfettare e solo allora...”

«Tre min-!»

Sekiro s’interruppe e lo guardò con tanto d’occhi. Yunix stava usando il vestito per massaggiare e strofinare la pelle con l’acqua, evitando di premere sulle schegge.

«Ehi... questa finezza...»

«Te lo dicevo fratello. Questo qui ha talento. Non quanto quella là, ma vedrai... che ci condurrà all’1% che cerchiamo!»

La sua voce era un po’ trattenuta e stridula, sia per il dolore che per l’acqua gelida, ma il ragazzo non muoveva un muscolo.

“Si fida ciecamente di me... Anche se potrei porre fine alla sua vita in ogni momento”.

«Sei un bravo paziente, Sakuro Senpai!» azzardò Yunix, scacciando via ogni preoccupazione.

Adoperò l’aceto per disinfettare le ferite. Qui Sakuro dovette sforzarsi per non regalare la loro posizione al nemico.

«Perché poi portate in giro l’aceto?» domandò ad alta voce, per coprire il lamentoso grido trattenuto di Sakuro.

«Ah beh... si tratta del nostro antenato, Wushier Bingfang» rispose Sekiro a braccia incrociate. «Ne “Le Prescrizioni per Cinquantadue Malattie”, spiega tutte le proprietà benefiche dell’aceto. Solo un folle preferirebbe i moderni rimedi, non credi?»

La voce antagonistica del ragazzo instillò in Yunix il dubbio che lo odiasse a morte. Però... No. Non adesso. Ora doveva concentrarsi. Per il bene dei suoi fratelli e in onore di quei quattro gatti, morti per la sua inefficienza e per l’intrattenimento di quell’essere repellente.

“Sai, Armday... quell’uomo avrebbe molto da imparare da te su come si trattano gli esseri viventi. Forse un giorno caccerai anche quel demone, proprio come stai facendo con me”.

Gettò da parte l’aceto, rimpiangendo un po’ la mancanza di seri mezzi di primo soccorso. Vecchi rimedi? Magari avesse avuto un po’ di sana acqua ossigenata per trattare quelle ferite.

«Due minuti. Non estrarrai cinque schegge in due minuti».

«Sì, invece» ribatté Yunix, sorridendo determinato. «È solo un gioco di leve» aggiunse, ricordando le parole di Lex. Si massaggiò il polso, preparandolo ad agire. «Le sue ferite non sono preoccupanti. Ce la posso fare. Solo per vedere se io, Yunix Braviery, merito qualcosa in questa vita».

Sekiro srotolò la catena dell’arma.
«Dammi il tuo straccio» ordinò, schiettamente.

«Che vuoi farci?» domandò Yunix, porgendoglielo.

«Automedicazione. Non sono mica nato ieri, idio- fratello».

Gli costò molto pronunciare quelle parole. Era evidente. Gli diede le spalle, forse per non farsi vedere in volto. Intanto, Sakuro, raccolto a terra, non demordeva, nonostante l’infernale bruciore.

«Avanti! Devo essere in forma se volete che vi conduca hard, dritti verso la vittoria!»

Yunix annuì e alleviò il peso sulle ginocchia. Lavorare con un braccio solo era difficile. Per di più, quando gli avevano rimosso in malo modo la scheggia dalla mano destra, aveva faticato a muoverla per un paio di minuti, dopo l’esplosione, e ancora adesso non riusciva a piegarla granché bene, ma ce l’avrebbe fatta, a tutti i costi. Il campo visivo dei ragazzi si stava ampliando, segno che la polvere rossastra per il tramonto aveva già iniziato a disperdersi.

«Sakuro. Sentirai molto dolore! Cerca di resistere, ok? Sarà finita in un lampo!»

Il gemello grugnì.
«Non ho paura. Sono nelle mani di mio fratello, no?»

Yunix trattenne il respiro e mosse le dita pallide verso la prima protuberanza di pietra.
“Vinciamo assieme! Vinciamo quell’1%!”

Iniziò a tirare. Sakuro emise un basso latrato, che s’intensificò, a poco a poco.

«A chi ti riferivi prima, quando hai nominato una lei?»

La prima scheggia giacque per terra, inerte.

«T- Ti sembra il... ARGH... il momento di farmi parlare!?»

«Parlare... Tu mi hai chiesto di parlare un attimo fa, quando non davo segni di vita».

Sakuro sbuffò, ritrovando un po’ di compostezza.
«Una ragazza... dai capelli rosa e marroni. È una come noi. Si allena da moltissimo tempo... Aghh, merda!»

Yunix, super concentrato, stava facendo una bazzecola della seconda scheggia.

«Penso di averla vista. È stata la prima ad arrivare all’antigravità di Infection».

«Sì, lei... L’abbiamo...» il ragazzo respirò affannosamente, mentre il corpo veniva estratto. «L’abbiamo incontrata, dopo aver portato i feriti del cantiere al campo medico, però...»

Tutt’orecchi, Yunix si avventò sulla terza placca, stavolta di metallo, producendo un rabbioso gemito nel gemello.

«PERÒ... stava combattendo in mezzo alle macerie contro un paio di farabutti dall’aria dannatamente cupa. Qualcosa... Ahghghhh... non andava. Nay! Non andava, affatto».

«Era l’unica ancora in piedi, senza neanche un graffio, a combattere contro Armday e i suoi scagnozzi» intervenne Sekiro, tetramente.

Il suo braccio sinistro era stato correttamente fasciato. Con la catena già disfatta, faceva strisciare minacciosamente la falce sull’arkastro. Avrebbe combattuto con la destra, presumibilmente.

«Terza andata!» ruggì Yunix, trionfante.

“Un solo errore e tutto andrà in malora, ma come con l’ambulanza, so che l’operazione andrà esattamente come deve andare”.

Una delle schegge puntava dritta in profondità. Era così piccola che le sue dita non l’avrebbero neanche sfiorata.

«Sakuro, tu hai usato la falce per ferirti poco fa, giusto? Suppongo sia quello ciò che ti permette di rimanere cosciente, nonostante il dolore. D’altro canto... non vedo come una persona normale potrebbe avere una tale tenacia».
“A parte forse Lex, ma quel ragazzo... è costruito in maniera diversa. Molto diversa”.

Il guerriero dalla schiena forata scambiò un’occhiata astuta con il gemello, che sembrava stizzito.

«Ne sa una più del diavolo...» brontolò infatti Sekiro tra i denti.

«Bah... Dici il vero, Yunix» lo zittì il gemello. «Anche se me ne vergogno, sto usando il mio Quirk come un antidolorifico. Perché... hai bisogno di qualcosa?»

La polvere illuminata dal sole era quasi completamente dissipata. Yunix si bagnò di sangue la fronte.

«Voglio usare quell’arma come una pinza, assieme... assieme a questa penna» sussurrò, estraendo la penna dalla tasca.

«Sei un pazzo!» reagì bruscamente Sekiro. «Così rischi di mandarlo KO una volta per tutte...»

«Non se il potere della falce è reale».

Sakuro capì che il verdetto spettava a lui.
«Sono nelle tue mani, no? Solo... non abusare del potere di Falce Destra».

Yunix annuì convinto e strinse il manico della kurisagama con tutte le falangi delle dita.

«Allora, vado!»
“Mi bagnerò del tuo sangue, Sakuro... proprio come proferisce il vostro mantra. È giusto che mi guadagni il mio posto in questa famiglia che si sta allargando”.

Nel torpore della sera ormai prossima, Yunix abbassò il ritmo del respiro e con una sola proverbiale mossa affondò le lame difformi nel dorso scoperto del combattente.
 

Armday setacciava il centro città raso al suolo, mentre gli edifici ancora in piedi traballavano e crollavano al suo seguito. Mai il soldato aveva creato tanta distruzione. E quella distruzione... nemmeno poteva vederla. Il dannato infido minerale oscurava la vista del suo più grande successo: la distruzione del regno del demone più temibile di tutti i tempi.
Il soldato ricordava bene il suono delle città che bruciavano. Non passava un giorno, senza che sentisse quelle urla chiamarlo, stringergli i capelli, le ginocchia, il torace. Intendevano trascinarlo fra di loro... fargli provare un frammento del dolore che avevano subito, ma cascavano male: Armday aveva imparato che l’ultima cosa da temere in quella vita era la morte.
Dov’erano ora quelle rabbiose grida? Un mortorio silenzioso lo circondava. Non era così che si era immaginato la demolizione d’Infection. La sua avrebbe dovuto essere una marcia trionfale. Le trombe avrebbero dovuto suonare. I tamburi percuotere la terra. Le bandiere innalzarsi verso il sole. Si rivolse all’unica entità che sapeva lo stesse osservando anche in quel momento.

«Namibia, Congo, Nigeria, Egitto, Siria... Nessun luogo meritava un mostro come me... Ma la tua gioia, il tuo più impeccabile capolavoro, Infection... questa sì che mi sono divertito a distruggerla, per Dio! Che dici... che dici ora Copy&Paste?»

Di fronte ai suoi occhi c’erano solo vetri rotti, frammenti di cemento e lampioni, fuocherelli divampati qua e là. L’arkastro, pregio più grande della città volante era stato dilaniato, infranto oltre ogni misura e presto si sarebbe dissolto nella luce morente.

«Infection Rupture, eheh...! La tua reggia intramontabile sta cadendo, figlio di puttana e la tua progenie di fortuna... farà una fine ancora peggiore».

Si aspettava quasi una risposta. Un segno che gli indicasse che l’Infinity Hero lo aveva udito. Che voleva vendetta. Che avrebbe ottenuto quella vendetta. Un soffio di vento inusuale lo fece voltare di scatto. Strinse un segnale stradale nella mano e lo sradicò dal terreno.

«Nossignore... nessuno mi prenderà alla sprovvista in questo regno in rovina!»

Mulinò l’arma come una mazza ferrata e fendette la foschia rossa. Lo aveva colpito? Percepì dei passi incerti, poi sangue rosso schizzò per terra.

«Preso, preso cazzo!» Si lanciò in avanti, sghignazzando come una belva. La sagoma della persona che aveva colpito si fece vivida, per poi finalmente rivelarsi. Il viso del generale s’indurì di botto. «No... Non esiste!».

Il suo compagno di mille avventure, Elmer Grayne si accasciò di fronte a lui. Il fendente gli aveva squarciato l’addome di netto. Non c’era possibilità di errore. Non con quegli occhi melmosi, intrisi di vita.

«Non di nuovo! NON DI NUOVO! NON PER COLPA MIA!»

Fece per soccorrerlo, ma l’uomo alzò una mano.
«Na... Un demone come te... non crederebbe davvero, davvero, davvero che i morti possono tornare in vita».

Armday lo ignorò e cercò di agguantarlo con la mano. Niente. Non c’era nessuno lì. Eppure... Il soldato lo guardava con aria angelica. Sentì un groppo alla gola. Un conto era ricordarlo. Un conto era rivederlo morire davanti agli occhi. Sorrise, le lacrime agli occhi, non sapendo come comportarsi di fronte a quell’apparizione.

«Cosa sei venuto qui a fare, angioletto, dai meandri più bui della mia capoccia?»

«Desideravi che fossi con te, no? Dopo tanto tempo, hai espresso il desiderio di rivedermi, perciò... eccomi qua».

«N'è possibile... non ce li avete i trasmettitori, su in cielo? Amico mio, quello lo desidero da più tempo di quanto immagini».

I due commilitoni si squadrarono a lungo, anche se Armday sapeva che stava solo guardando un’immagine creata dalla sua testa.
Il soldato dai capelli color sabbia infine si distese e assunse un cipiglio infuriato, nonostante il pallore mortale.

«Ora basta! Chi vuoi prendere per il culo, generale? Smettila di fingere di essere compiaciuto per la tua piccola impresa. Questo non è... non è, non è ciò che hai sempre voluto, non è così?»

«Che intendi dire?»

Il soldato scabbioso ammiccò.

«Tu odi la guerra, compagno, più di quanto l’avessi mai odiata io. Odi la distruzione. Odi vedere la morte senza distinzione, la violenza gratuita e tutto ciò che si porta dietro».

Il battito del cuore del soldato accelerò.
“Beh, ovviamente... Figurati se non devo passare per un buon cristiano del cazzo!”
Nondimeno sentiva della verità in quell'affermazione. Soppesò le parole con cura.

«Maddai!» Roteò su sé stesso, usando il cartello per tagliare il pulviscolo e rivelare l’area attorno a loro. «Questa devastazione è opera mia. Il tragico oblio del nostro reggimento è opera mia. La tua morte è opera mia. Il mio desiderio più grande è una guerra che...»

«Una guerra che spenga il tuo desiderio di vivere!»

Lo conosceva meglio di sé stesso. Armday sollevò le braccia sanguinolente e le osservò.

«Da quando sono nato, non ho fatto altro che versare sangue... Ora vuoi che usi questi arnesi demoniaci per cercare di rimediarvi?»

Elmer tossì e allungò una mano verso di lui.
«Na... Non puoi cambiare ciò che è accaduto. Io vorrei solo che tu usassi la tua vita grigia per dipingere di colori la vita di tutti gli altri! Non manca molto alla fine di questo scontro... decidi tu se vincerlo o perderlo. Io confido in te, Alan Straylight!»

La polvere era scomparsa. Elmer si dissolse assieme a lei.
«Dling, dling. I bossoli cadono per terra, eppure altri sono pronti a sostituirli!» Armday si asciugò di occhi e si stiracchiò con la massima noncuranza. «Cosa importa cosa accadrà ora!? L’importante è non lasciarsi assorbire dal passato, dico bene, Yunix Braviery?»

Il ragazzo era dietro di lui, arroccato su uno scuolabus mezzo-sfondato. Sorridevano allo stesso modo.

«Generale, io ho le idee chiare e non potrei essere più determinato di così a vincere!»

Armday si voltò tenendo il segnale stradale sotto l’ascella come un giavellotto.

«Non prendere tutto come un gioco, bamboccio! Non vorrei che ti pentissi di queste parole, perché anche io ho deciso di vincere!»

In quel preciso istante, i due combattenti si stavano capendo alla perfezione. Quello che fino ad ora era stato un tremulo conflitto ideali, ora si sarebbe tramutato in una guerra aperta. Il combattimento si accingeva alle battute finali. Ed entrambi lo sapevano.

«Tu non hai un Quirk...»

«E tu non hai alleati...»

«Che Dio ti benedica, allora, demone dagli occhi di ghiaccio!»

«E benedica la città di Temigor!»
 


Fatica: Zero. Dolore: Zero. Paura: Zero. Nessuno sarebbe stato in grado di fermarla, in quel momento.
“Finalmente li hai individuati, Shiena’q” disse a sé stessa la ragazza. Strinse l’asta di bambo con entrambe le mani e si proiettò in avanti con l’adrenalina alle stelle. Per la prima volta, nel corso del test, era certa di voler usare il suo Quirk.

“Infection è stata colpita dritta al cuore, ma non è ancora caduta. Resistete ancora un minutino, ragazzi. È il momento di passare al contrattacco, come è vero che mi chiamo Asia Shiena’q”.



Note d’autore:
La fine di “Benvenuto tra gli eroi”, il macrocapitolo più lungo fino ad ora mi dà una certa soddisfazione. Anche “Infection Rupture”, il primo arco narrativo, è quasi al termine. Grazie alle vacanze, spero di avere molto più tempo da dedicare alla fanfiction, perciò aspettatevi capitoli un po’ più frequenti, almeno per un po’. Grazie ancora a chiunque stia leggendo la storia e se volete darmi consigli sono sempre bene accetti. Alla prossima!

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Capitolo 20
*** Il Commiato di un Generale - Parte Prima: Verde Sentenza ***


Il Commiato di un Generale - Parte Prima: Verde Sentenza

Il terreno tremava sotto la forza dei colpi. Spaccature più disparate s’incavavano nell’asfalto vecchio cent’anni, mentre miliardi di scintille scaturivano dalle falci che andavano a vuoto. I giganteschi pugni dell’ex generale sollevavano folate di vento, abbastanza impetuose da ribaltare le auto reduci dell’esplosione. Respiri affettati accompagnavano gli attacchi dei gemelli, che ce la stavano mettendo tutta per non farlo avanzare.
Al contrario, Armday era tutto una voce. Urlando a pieni polmoni, dispiegava l’interminabile gamma di mosse che possedeva. Tutte le artiglierie leggere e pesanti. Tutti i motti di guerra che la sua vecchia squadra aveva condiviso con lui, la serata dell’iniziazione. Tutto ciò che il suo repertorio offriva.
Yunix, però, non si perdeva d’animo. Non aveva armi o poteri per competere contro il generale, certo. Però aveva i suoi fratelli. Erano loro le sue armi, quel giorno. Con Lex, si era limitato a farsi proteggere. Ora invece attaccava, usando le kurisagama come se fossero sue.
“Sakuro è la mia mano destra, Sekiro la mia mano sinistra. Non devo pensare a nient’altro e aspettare l’apertura
".

«Destra, sinistra, destra, ancora destra!»

Arretravano, passo dopo passo, ma non demordevano. Le catene rappresentavano una minaccia solo fintantoché avessero continuato a incalzarlo. E il generale... Il generale era sull’offensiva tanto quanto loro. Sempre più spesso, il ragazzo dai capelli grigiastri vedeva le nocche dell’uomo sfiorargli il viso. Ogni gancio destro o sinistro, era un attacco mortale. Ogni secondo rischiava la morte, perché se quell’uomo avesse messo a segno un pugno, sarebbe stata la fine.
Il generale arretrava all’ultimo, per evitare le falci affilate come rasoi, che prontamente venivano gettate dai gemelli in avanti, in sua protezione, facendogli tirare un misero respiro di sollievo. Ed ecco che il soldato ritentava, con quadrupla ferocia. Yunix saltellava all’indietro, attendendo... attendendo il momento, eppure sorrideva. Quell’uomo... non voleva rimetterci la pelle, anche con tutto lo sparlare della vita con cui li aveva tediati. Questo giocava a loro vantaggio. E non solo quello, in realtà. Mutual Destruction aveva lasciato il segno sull’utilizzatore di Giant Arms. Le sue braccia erano più piccole, meno muscolose, proporzionalmente più lente, sebbene non ancora agevolmente prevedibili. Anche Cielo Plumbeo non sollevava che pochi detriti, rispetto a quanta desolazione aveva causato quel pomeriggio.

Potevano sfinirlo? Solo guardandolo, realizzò che no: non potevano fargli esaurire le forze. Era una belva a caccia della vittoria. Negli occhi, non vi era traccia di esitazione o ripensamento, esultanza o rabbia. Muoveva gli arti con una naturalezza spaventosa, parando e colpendo all’unisono, con le sfumature dorate del tramonto che s’intersecavano tra le placche d’acciaio e i rivoli di sudore misto sangue. Le pupille d’ambra seguivano l’azione di ognuno di loro, senza dare nulla per scontato, senza permettersi una sola variabile che lo avrebbe portato alla sconfitta. Armday era il più forte uomo ad Infection, quel fatidico giorno. Ora era chiaro a tutti loro. Maggiore la fatica, maggiore la sua determinazione. Maggiore il numero di ferite, maggiore la sua padronanza delle tecniche. Maggiore il rischio, maggiore la sua ambizione di rovesciare il tavolo a suo favore. A Yunix venne quasi da ridere.
“Sembra un eroe molto più di noi”. Fece un salto all’indietro, allungando appena il divario che li separava. “Molto di più”.

Quasi contemporaneamente, una strana emozione converse in lui. Un forte risentimento. Il sangue gli affluì al cervello.
“Se solo riuscissero a vedere chi sei veramente, Armday... forse non saresti così spregiudicato verso te stesso”.

Il veterano di guerra scattò in avanti. Sekiro si lanciò di lato con la kurisagama. Sakuro fece lo stesso. Armday aveva gli occhi fissi in quelli di Yunix. Sarebbe arretrato, come le altre volte. Erano così vicini che il ragazzo poteva udire il battito del suo cuore, il suo respiro ostinato, le gocce di sudore che cadevano a terra.

Pam! Pam! Pam! Quanto vigore in quel suono tambureggiante. Troppo vigore. Troppo per essere il battito di un cuore. Un tavolo da biliardo si disegnò davanti ai suoi occhi. Intelaiato di verde, pieno di macchie consunte, il ripiano da gioco era circondato da persone. Risate sguaiate. Musica jazz. Una figura ammantata con fianchi adorni di maschere. Ma il suono più calpestante... erano le bocce da biliardo che finivano una contro l’altra. Pam! Pam! Una serata umida, in un locale che puzzava di vecchio.
“Un ricordo? Ancora...?”

Yunix si sforzò di tornare in sé. Armday era di fronte a lui, bloccato in quell’istante di lunghezza eterna. Aveva un’espressione indecifrabile e non si fermava.
“Arretra! Diavolo! Diavolo... perché non ti allontani!?”

Sentì altri suoni, così allarmanti da fargli stringere il cuore. Sentì le ossa dell’uomo che voleva ucciderlo scricchiolare, il sangue pompare sempre più piano nel suo cuore, l’assolo di un corpo che aveva raggiunto il limite. Voleva urlargli con tutta la forza che doveva fermarsi. Che doveva piantarla. Che non ne valeva la pena, per uno come lui. Come faceva a continuare a combattere, anche se aveva raggiunto il limite? Ma da quell’essere senza pace, non ottenne che una vuota determinazione. La determinazione di un eroe di guerra, che voleva salvare il suo paese. O piuttosto... il mondo intero.

«ATTENTO!!!» urlò, dimentiche di tutto il resto.

Il generale sorrise a trentadue denti e sollevò le mani come se stesse benedicendo un lebbroso, appena in tempo, prima che lo colpissero le due armi. Sekiro e Sakuro impallidirono. Yunix spalancò gli occhi e la bocca. Le aveva afferrate entrambe. Le teneva strette per il manico, nei pugni delle mani insanguinate.

«Eheh. Mica te l’aspettavi, eh?» Il soldato socchiuse gli occhi. «Grazie, Yunix... ora ne ho la certezza. Tu non vuoi vedermi morire» Armday appoggiò un ginocchio a terra, continuando a sorridere, nella luce gloriosa del tramonto. «Forse quella notte ho mal interpretato la tua vera natura, ma ormai è tardi. Non ha alcuna importanza! Abbiamo deciso entrambi di lasciarci il passato alle spalle, dico bene?» L’uomo sembrava investito di un bagliore divino. Nei suoi occhi un’empatia concreta. «A me non interessa più se siamo nello stesso schieramento, se sei un angelo o un demone, se serviamo lo stesso dio. Non voglio combattere con un fantasma del mio passato che ha perso la memoria di chi era...»
Armday ghignò alla sua faccia sbalordita. «Sì, l’ho capito, sai? Immagino sia stato il primo a venirne a capo da solo, per Dio! Ma a me non importa nemmeno questo! So solo che se voglio continuare a difendere l’umanità da quelli come lui, devo dare il mio massimo per ammazzare te, Yunix Braviery; te che hai avuto l’ardire di sputare in faccia a Copy&Paste! Non è che l’istinto del sopravvissuto... andare oltre i propri limiti, difendere la posizione anche dopo essere caduti in battaglia, dire no alla morte!»

Il generale si stava inchinando, di fronte a lui? I gemelli, le armi incapacitate dalla presa ferrea dell’uomo, erano meravigliati come due persone che non avevano mai visto il mare in vita loro. L’uomo si alzò, con ben poco riguardo per il suo corpo martoriato.

«Comunque vada, io ti ricorderò, Yunix, come il demone che si ribella ai demoni! Ora combatti e manda a farsi fottere qualunque sia il sovrano di questo mondo sopravvalutato. Io non ho intenzione di fermarmi, anche se dovesse significare superare ogni limite... PLUS ULTRA!»

Yunix raddrizzò la schiena e sospirò. I muscoli indolenziti si fecero d’un tratto più leggeri.

«Non c’era bisogno di dire tutto questo, generale. In fondo, lo si capiva solo guardandoti che eri un montato con davvero troppa considerazione di sé stesso!»

Il generale soffocò una risata, che gli fece sgorgare altro sangue dalla bocca.
«Bastardo...»

«Non temere, vecchio soldato. Passato, presente, futuro che sia... per me non fa differenza! Ciò che conta è questo istante!»
Yunix cercò i suoi alleati con lo sguardo.
«Sakuro, Sekiro... bloccategli le mani!»

«Hm!» acconsentirono i due, toccando le catene con quattro dita della mano opposta a quella vincolata. «Serpenti di rubino!»

Le estremità delle kurisagama si sottrassero alla morsa di Armday e iniziarono ad attorcigliarsi attorno alle due braccia.

«Sekiro, ora!» esplose Yunix, preparandosi ad agire.

Il gemello storse il naso, ma fece ciò che gli aveva comandato. Ghermì il braccio del fratello, con il braccio rotto ed assunse il colore del terriccio. «Nel sottomondo!»

I due sprofondarono nell’asfalto. Le catene si tesero, iniziando a trascinare inesorabilmente il soldato verso il luogo dove si erano immersi. Verso il mondo di sotto.

Il soldato digrignò i denti, come una manticora.
«Patetico! Pensate che un piano di così bassa lega possa fottere un veterano come me!?»

«Certo che no!» Yunix si era buttato in avanti, cogliendo il generale alla sprovvista. «Ma puoi fermare una minaccia che non consideri tale!?» gridò, alzando la voce.

Spiccò un salto, la scheggia di pietra pronta a colpire.
“Anche Lex lo ha attaccato nello stesso modo. Se lo aspetta, forse... Ma con le mani impegnate...”
Armday smise improvvisamente di resistere alla forza che lo traeva e si lasciò trascinare verso la terra, azzerando le distanze tra lui e Yunix. “Vuole... colpirmi!?” Il generale sollevò il cranio, come per prendere una boccata d’aria, poi lo abbatté su di lui. “Una testata... devo... tirargliela anche io!”

Sapeva bene che le testate potevano ribaltare una situazione in difficoltà come uno schiocco di dita e altrettanto bene che l’unico modo per contrastarle era contrattaccare nella giusta maniera, con il giusto tempismo. Anche se era già tardi, rispose al colpo, cercando di prepararsi all’immenso treno di dolore che stava per investirlo.
Nonostante questo, l’impatto fu pure peggiore di ciò che aveva immaginato. La sua fronte s’incrinò come una noce di cocco colpita da una martellata, trasmettendo una sofferenza indicibile ai nervi. In più... il filo spinato attorcigliato ai capelli dell’uomo tagliuzzò la sua pelle, come semplice polistirolo e si conficcò a fondo, tenendolo affisso alla sua nuca. Yunix emise un rauco ruggito e respinse il colpo. Il generale era il doppio di lui e lo teneva sollevato da terra, con la sola forza della sua testa. Yunix sentì il suo fetore ferroso dritto in faccia.

«Verme... se questo è necessario... per colpirti... ben venga!»

Non seppe mai se era riuscito davvero a parlare con la testa che pulsava all’inverosimile e i sensi che andavano e venivano, ma Yunix aveva ancora le mani libere. Tentò un affondo con la destra, ma il generale bloccò la scheggia tra i denti, sfregiandosi le labbra come un folle.

Sputò l’arma e sorrise, completamente ammattito per la sete di sangue.
«Tutto qua, demone!?»

Yunix trovò la forza per sollevare anche l’arto sinistro fratturato in cui teneva la famigerata penna a sfera che gli aveva dato il preside Inai.

«Se solo fossi un vero eroe...» sussurrò a nessuno in particolare e colpì la guancia sinistra del soldato con precisione millimetrica. L’uomo gridò, assordandolo.
«MALEDETTO! LA PAGHERAI!»

Le catene si allentarono. I gemelli erano sorti dall’asfalto.
“Sì... Riusciranno a finirlo ora. Mi basta tenermi agganciato a lui qualche altro...”
Le sue braccia caddero inerti. Il dolore stava diventando insopportabile. Aveva già dato tutto ciò che poteva dare. Perché? Perché non poteva finire una volta per tutte? Il corpo del generale invece, come una macchina di titanio, era di nuovo in movimento. I gemelli fecero per liberarlo dalle catene, ma lui le strinse a sé.

«Nossignore, bambocci! Siamo legati da un vincolo indissolubile ora! Azione Sperimentale – Furia Omicida!»

Yunix inorridì. “Un... Un’altra!?”
Il piede sinistro del soldato si caricò di materia e diventò grande quanto un carrello della spesa.

«Le catene... staccatele... ora».

Ma l’ordine del ragazzo cadde a vuoto. Armday saltò. Saltò in alto fino a un passo dall’antigravità. Yunix rimase a fissarne il viso ricoperto di sangue... I loro occhi erano incrociati. Vide mille battaglie in quei riflessi ambrati. Soldati morti per niente, per sogni grigi e fumosi. Un mondo senza eroi, ma solo demoni e un solo angelo.

“Fermati” avrebbe voluto dirgli. Non per loro, ma per lui... Inutile. Inutile. Quegli occhi incandescenti puntavano dritti al sole. Poi il generale lanciò un richiamo potente. Roteò su sé stesso, convogliando nei muscoli la pura forza d’animo. Sekiro, Sakuro e Yunix furono scagliati via, ad almeno venti metri da terra. E non c’erano appigli. Armday aveva distrutto il centro d’Infection...

“Quindi è così che finisce?” il viso di Yunix si distese. “No... non mi lascerebbero ancora morire.... non su una nota così positiva! I demoni sopravvivono sempre”.

Anche con questa delirante consapevolezza, Yunix restò di stucco nel vedere solide aste verdognole allungarsi attorno a lui, come una serie di travi puntellate verso l’aria. Una di esse gli perforò la manica della maglietta stracciata. Bambù. Un’intera foresta di bambù stava crescendo orizzontalmente al terreno, sparpagliata, ma ovunque nel cielo. Quelle aste... potevano fermare la sua caduta, sempre che non lo infilzassero come uno spiedino. Si rigirò su sé stesso e cercò una barra abbastanza robusta da poterlo reggere. Soffriva ancora per la testata, però, e per di più, non era mai stato un grande atleta. Le sue pessime doti andavano messe sul giornale, da quanto facevano schifo, diavolo. Ne sfondò diverse, mentre cadeva, poi rimbalzò su una canna abbastanza flessibile, che lo spedì malamente contro il terreno crepato di una corsia in manutenzione. Si mise a quattro zampe, maledicendo l’erboristeria. Sakuro scivolò giù, silenzioso come un’ombra, usando le aste come appigli.

«Ecco quello che volevo fare...» lamentò Yunix, facendosi aiutare ad alzarsi. «Ma chi è stato? Sono arrivati gli Heroes?»

Sakuro guardava nella direzione da cui erano stati scagliati. Sorrideva come una Pasqua.
«Nay, fratello... quella è l’astro nascente dell’HG e ci aiuterà a sconfiggere Armday una volta per tutte. L’1% è solo un lontano ricordo!»

Le canne vegetali ribollirono, come in preda a una febbre improvvisa, poi esplosero in una pioggia di fibre verdine. Gli occhi di Yunix scorsero una figura atletica vorticare nell’aria, un’asta stretta tra le mani.

«Non avete una bella cera, ragazzi! È proprio una fortuna che vi abbia trovati!»

La ragazza dai capelli corti castano-rosati che aveva raggiunto per prima l’antigravità atterrò di fronte a loro, le ciocche mosse dalla brezza. Si voltò a guardarli, con aria intraprendente. Era alta, persino più di Sakuro e altrettanto slanciata. Gli occhi erano gigli bianco-nocciola con perlacee macchie fuxia attorno alle pupille, un po’ a mandorla con ciglia dolci ben inquadrate nella fronte sottile. Il viso era parecchio pronunciato, simile a quello di un furetto, ma comunque attraente. Indossava la tuta rossa e bianca, a differenza dei gemelli che erano entrati con il loro completo ibrido-ninja. Teneva l’asta di bambo dietro la schiena, tra le braccia allenate e flessibili. Infine, sulla sua caviglia sinistra era disegnato un rozzo cuore bluastro. Chissà chi era stato a imprimerlo: era di gran lunga troppo stilizzato per essere un tatuaggio...

La ragazza rivolse a entrambi un sorriso cordiale.
«Su, al mio fianco. Non vorrei sembrare la classica tipa che se la tira, tanto per» ordinò, volgendosi verso il nemico. «Non vi guarderò dall’alto in basso, perché ognuno ha il suo valore. Posso mostrarvi il sentiero, ma non posso percorrerlo per voi. Questo è ciò che mi hanno insegnato».

«Filosofie orientali?» Sakuro fece qualche passo e fu al suo fianco, un po’ rintronato, ma determinato a combattere.

«Parliamone dopo, shinobi rinnegato» si limitò a rispondere la ragazza, misteriosa.

Yunix invece era teso. Si guardò attorno.

«Ehm, dov’è Sekiro?»

Il gemello torvo non si vedeva da nessuna parte. Il ragazzo di fronte a lui ebbe un leggero brivido.

«Se la caverà» sussurrò poi. «Confidiamo in mio fratello assieme, Yunix».

“Eh? Ma che sta dicendo? Potrebbe aver bisogno di aiuto...” Osservò confuso il viso del gemello di spalle, che aveva preso a far roteare il kurisagama come al solito. “Questo suo atteggiamento... è insolito. Forse ha visto... qualcosa che io non ho visto? Ma come potrebbe... Però, non sembra che stia agendo in malafede.  Pensa...”
«Questo è il sottomondo. Respira pure. Non morirai. Presto saremo su».

Per un attimo, Yunix ricordò l’esperienza sottoterra.
“Forse è troppo ferito per poter uscire? Però cosa succederebbe se rimanesse nella terra più del dovuto?”
Il flusso di pensieri si interruppe quando gli stivali ferrati del generale si abbatterono di fronte al trio. Armday era su di giri, la pelle che fumava, per l’uso eccessivo del Quirk. Non si capiva se fosse ben disposto o meno per quel nuovo arrivo, e questo lo rendeva ancora più minaccioso. Comunque fosse, la sua attuale condizione fisica mise in moto gli ingranaggi nella testa e nelle palpebre di Yunix, un’ipotesi in via di produzione.

«Ragazza! Dio mio, pensavo di averti lasciato ai miei scagnozzi! Ancora in cerca di gloria, eh?» domandò esuberante l’uomo.

La teenager presa in causa batté due dita sull’arma, estraendola alla velocità della luce.
«Un test è sempre un test, villain, non importa quante interferenze esterne lo turbino. E come sai, io punto al primo posto. Detto ciò, abbiamo un conto in sospeso, generale dei miei stivali! I tuoi sgherretti non sono stati che un antipasto... io punto in alto, sempre più in alto!» La ragazza socchiuse le palpebre, come se si stesse connettendo con l’ambiente. «Per di più... te la farò pagare per ciò che hai fatto alle nostre speranze».

Yunix rabbrividì. «Ehi, senti... calma! Dobbiamo solo guadagnare tempo. Non c’è bisogno di lanciare minacce a vuoto».

La ragazza lo guardò con stizza.
«Minacce a vuoto? Ma se l’avete ridotto a un budino rosso...»

«Tecnicamente, non avevo previsto che l’ambulanza sarebbe esplosa» ribatté Yunix, cercando di elevarsi alla sua altezza, ma a differenza di Marin, quella promessa eroina non sembrava molto investita nei battibecchi.

«Senti, come ti pare. Sul mio onore, sto solo cercando di mettere tutti al sicuro, sconfiggendolo». Ruotò la canna di bambù a 180° e prese la mira, pronunciando formule in antichi lemmi. «E non mettermi il muso perché sto ricorrendo ai miei insegnamenti, per favore!» gli intimò notando il suo viso scettico. «Pensi che mi affiderei a qualcuno che non sia me medesima, in questo istante? A qualche divinità ancestrale? A qualche filosofia mastra? L’oriente non è questo. L’oriente sono secoli di storia, secoli di eroi! Eroi, esattamente, ancora prima che esistessero i Quirk...»

Armday caricò in avanti.
«Non ho tempo per la tua lezioncina di storia, piccola ronin! Né per pensare alla tua vita! Artiglieria Pesante -1- Linea di Fuoco Fissa!»

La ragazza lasciò che il pugno alla massima velocità fosse di fronte a lei, poi sollevò l’asta per fermarne la propulsione, protendendosi al contempo all’indietro.
“Non funzionerà! Ma lo vede chi ha di fronte?”
La canna di bambù si ruppe al solo sfiorare i bicipiti sanguinolenti e parve davvero la fine. Poi, dal terreno, come centinaia di centipedi, un’ondata di bambù si scontrò con il braccio levato del generale, sollevandolo in aria.
“Quello è... il suo...”

«Vorrai scherzare!» ruggì Armday, scostando il braccio fumante dalla fitta vegetazione, concentrata in cielo.

«Ci puoi giurare che voglio scherzare! E non solo. Voglio anche ridere, piangere, crescere accanto ai miei compagni di classe! Prima di farlo, però, mi ritrovo costretta, e ripeto costretta, a mandarti al fresco!» La ragazza digrignò i denti, così forte da farli scricchiolare. «O forse hai dimenticato ciò che ho fatto ai tuoi sottoposti?»
Saltò a pie’ pari in mezzo alla torre di bambù. «Voi due, nell’antigravità, ORA!»

«Ma...»

«Ora, ho detto!»

Ci furono alcuni istanti di silenzio.

«Appena hai guadagnato un po’ di tempo, devi seguirci, però. Non accetterò un no come risposta, sono stato chiaro?» l’ammonì il gemello, con ombre scure sotto gli occhi.

«Certo, non sono mica qui per rimetterci la pelle, compagni di prova» li rassicurò lei, facendogli ok con la mano. «Ti assicuro che ho tutto sotto controllo, valente shinobi. Sai cosa sono in grado di fare...»  

Sakuro e Yunix si scambiarono uno sguardo a metà fra il sollevato e l’incredulo, poi si aggrapparono alla pianta ed iniziarono a scalare. Quest’ultimo però ebbe un attimo di ripensamento.

«Sono Yunix Braviery, nel caso te lo fossi chiesto» cercò di apparire un po’ malandrino, ma fece chiaramente solo la figura dello sfigato.

La ragazza però ammiccò.
«Asia Shiena’q, lieta di essere al tuo fianco!»

Sembrava la personificazione della primavera. La primavera giapponese.

“No, non è Shig...” pensò Yunix a malincuore o forse rassicurato, poi distolse lo sguardo e abbandonò la ragazza al suo fatidico duello.

 

Asia guardò i due farsi strada verso l’alto. Sbuffò forte.

«Di questo passo, ci metteranno vent’anni». Piegò il volto guardingo verso il generale, immobile. «Non stai attaccando. A cosa devo tutta questa premura?»

Armday spostò lo sguardo verso i due soli roventi, ormai quasi sepolti dietro la città riflessa.
«Siamo simili, noi due, non trovi?»

Asia agghiacciò. Ogni cellula del suo corpo era sgomenta. Era pronta a tutto, ma non a quello.
“Calma Shiena’q. Ricorda sempre...” Ma ora doveva fare i conti anche col pensiero di Vartimor: la sua metà più nera. Non era mai stato così difficile mantenere il controllo.

«Simili? Me l’avesse detto un rospo ci avrei creduto di più» rispose con sfacciataggine.

Il generale accennò un sorriso, poi tornò a concentrarsi su di lei. La stava deridendo? Non pareva. Era uno sguardo... quasi... quasi paterno? Impossibile. Non riusciva più a leggere quel volto come nella zona superiore. Che era successo in quell’ora fuori programma?

«Sai cosa intendo, ragazzina. Il nostro spirito combattivo. La nostra capacità di adattamento. E soprattutto» gli occhi del generale erano irradiati di energia solare. «un Quirk mediocre, già portato al massimo».

La ragazza sentì la testa pesante.
“No! Il tuo potenziale è illimitato, Asia! Non ti farai prendere per il culo da un villain...”

«Se sei così convinto che sia un potere mediocre, perché non attacchi!?»

«Variabili, ragazza» controbatté questi «non ho paura di te, ma di ciò che non riesco a vedere, oh sì... oh sì che di quello ho paura».

Ciò che non riusciva a vedere? Per qualche ragione, quell’espressione la intimorì. Ricordò un dipinto di Vart che l’aveva sempre messa a disagio. Era un’immagine dell’oceano, al tramonto. Gabbiani. Navi al largo, probabilmente di ritorno dalle avventure che lui e lei sognavano di affrontare assieme. Tonalità confortanti. Pennellate posate. Tutto ciò che si poteva desiderare da uno scenario romantico; una cornice da appendere sopra al camino. Eppure, c’era qualcosa di disturbante, che non comprendeva in quell’immagine. Quella sera, dopo aver dato il bacio della buonanotte al ragazzo, era rimasta in piedi, decisa a capire dov’era la falla, dov’era l’origine della sua tensione. Per quanto aveva osservato il quadro da tutte le angolazioni possibili, per quanto era rimasta a gironzolare attorno al cavalletto, per quanto si era sforzata di scacciare la paura, il senso di disagio era lì. Quella notte non aveva chiuso occhio.

“È qualcosa d’importante. Lo sento fin dentro le ossa” Non era il momento, però. Ci avrebbe riflettuto in un posto più tranquillo. “Concentrati, Shiena’q. Sta solo aspettando il momento giusto”.

Si maledì, notando la sua incertezza già solamente nel modo in cui imbracciava l’arma. Due frasi ed era stata messa in difficoltà. No. Non era ancora pronta ad essere un Hero. Armday, però, non accennava a passare all’offensiva.

«Ma pensa un po’. Sai che gli eroi arriveranno presto, eppure rimani lì ad aspettare di essere arrestato».

Il soldato scrollò le spalle.
«Se questo è il mio destino, ben venga. Mi sono rotto le palle di pensare alle conseguenze delle mie azioni. L’ho visto morire abbastanza oggi, quel dannato angioletto». Occhieggiò all’asfalto, levando un mezzo sorriso. «Sembra che la mia pazienza sia stata ripagata, gemello della terra. Puoi pure uscire ora».

Asia trattenne il respiro, nel vedere il terreno ribollire e sputare fuori un ragazzo simile all’altro con la catena, solo leggermente più basso e ferito al braccio, oltre che apparentemente ricoperto di fuliggine.

«Tutto quel tempo... se ti fossi mosso... avremmo vinto» lo informò ansimando lo shinobi rinnegato. «Pensavo... fossi... una testa... vuota» il ragazzo cadde in avanti.

«No!» l’urlo del gemello arrivò fino a lei.

“Muoviti, Asia” Armday aveva fatto un passo verso il corpo stramazzato del giovane. “Se non attacchi tu, lo ucciderà”.

La ragazza era una combattente difensiva. Giocava parecchio sul contrattacco. Dover assalire a tutto spiano un avversario più esperto significava solo... morte.
“Vai!”
Asia sentì le folate frantumarsi contro il suo corpo strattonato in avanti, sprezzante del pericolo. Spezzò un ramoscello che teneva sotto i polpastrelli da un po’. Una raffica concentrata di bambù si diresse verso il villain, che rispose all’attacco con un colpo dello stivale. Le aste si fletterono e si spezzarono, costringendo Asia a fare una capriola in avanti. Chiuse il palmo attorno alla tunica del ragazzo e lo sistemò sulle proprie spalle, al sicuro.

“Evvai!” Fu di nuovo in piedi, lesta come una donnola. “E ora...” Fece una piroetta e lanciò il corpo in aria, per fortuna piuttosto leggero.

«Prendetelo!»

Non rimase a guardare. Il generale era troppo vicino. Non si perse d’animo e attaccò frontalmente, con la canna di bambù nella destra, a mo’ di lancia.
“Vediamo che sai fare, criminale!”

Sferrò una stoccata, deviata abilmente dal palmo ingrandito dell’uomo, che puntò al viso con la sinistra. Asia torse il collo, come una tortora e sentì il colpo sfiorargli il mento. Mantenne la posizione, spostando il peso sui piedi a L. Sentì l’uomo afferrargli il braccio destro, ma riuscì a spezzare l’asta con la sola forza delle dita, generando una nuova piantagione a pochi centimetri da lui. Fu costretto a lasciarla andare, ma Asia sapeva di avere a malapena dato inizio alle danze.
Attaccò con un doppio calcio. L’uomo non reagì.

«Bastardo!» Gancio sinistro, poi destro. «Perché!? PERCHE’ non volete pagare per i vostri crimini!?»

Nuovi lividi apparvero sulla pelle dell’uomo, che schiumava di rabbia e fatica, ma continuava a incassare. Asia spalancò le braccia, spezzando due aste dalla raggiera che aveva creato ed andò di nuovo all’assalto, senza darsi il tempo di respirare. Percosse ogni centimetro del suo corpo.

«Il mio! Quirk! Non! È! Mediocre!»

L’uomo emise un raspante brontolio, mantenendo la posizione.
«È tutto qua, ragazzina!?»

La ragazza menava bastonate con il rancore che strabordava fuori dalla sua anima. Sempre meno controllata. Sempre meno attenta e fu questo, in ultimis, il suo errore.
Armday si spostò di profilo ed eseguì un placcaggio improvviso. Asia si ritrovò stretta tra le braccia madide e andò nel panico.
“Merda!”

«Giant Arms – Full Body!»

Le aste ancora intatte attorno a lei si piegarono come gomma contro il corpo ingigantito del generale, che stava modificando orribilmente la mole di tutti e quattro i suoi arti. Asia ruppe entrambe le armi nelle sue mani, consapevole di essere a un passo dall’oblio.
“Centoventi gradi? Fa' che basti!”

Il terreno fece scaturire il bambù con intensità doppia rispetto a prima.
Il generale iniziò a urlare cercando di chiuderla in un abbraccio mortale, premendo sulla vastità di piante flessibili, con i muscoli disumani. Asia sentì il bambù che la proteggeva premere su di lei, cercare di penetrare nella sua carne. Si divincolò cercando di emergere, dimenandosi come un’animale feroce.

«M-mostro! SEI un mostro!»

La morte. Eccola. Bussava alla sua porta, come aveva bussato alla porta di tutti i grandi eroi che aveva idolatrato. Kusunoki, trafitto dalla sua stessa spada in un tramonto di sangue. Uesugi, strappato alla terra da un fato crudele, prima del suo scontro più importante. Una di loro. Sarebbe stata un’eroina, una martire.
Campane. La violenta battaglia si distorse in uno scenario quieto. Vide il suo funerale, così vivido, che pensò di esservi presente. Un pastore leggeva da un foglietto abbellito di piccole perle la cronaca della sua breve vita. Lacrime sugli occhi di tutti. Fiori nelle loro mani. Viole, tulipani, tigli lunari, azalee, margherite, ramoscelli di glicine, orchidee, ognuno più colorato e variopinto del precedente. C’erano volti mai visti, volti conosciuti e persino i tre ragazzi che erano stati con lei a Infection, in quella guerra impossibile.

Erano lì per lei. Per lei e lei sola. La cosa avrebbe dovuto renderla felice, eppure... L’immagine si stava offuscando. Stava per morire sul serio? Un uomo piangeva più degli altri. Chino su sé stesso, recitava una sorta di cantilena. Pregava.
«Serva del signore, ha difeso il suo gregge. Tre anime del creato sono qui tra noi, oggi, grazie al suo sacrificio. Accoglila, ti prego, dove potrà essere lieta, per sempre».

“Dove potrò essere lieta?”

Asia si sentì stranamente vuota. C’era qualcosa di così sconfortante, in tutta quella folla nera come la pece. In quelle parole finte, commemorazione di una ragazza, ormai polvere.

«Ehi, voi!» Asia si girò di scatto, certa che qualcuno l’avesse notata, ma no... che sciocchezza. Non era nemmeno lì. Tuttavia, non appena mise a fuoco l’immagine della persona che era intervenuta, sentì il calore diffondersi, come cioccolata calda nelle sue vene. Il cuore le sprofondò nel petto. «Vi prego di piantarla. Questo è un funerale laico, ve lo ricordo. Né Myraw, né io abbiamo mai ambito a cose noiose e sciocche come l’immortalità. Arte, musica, filosofie di vita... sono tutto ciò che ci serve per trarre il meglio l’uno dall’altro. Lei è morta, ora. Perché siamo qui? Perché la piangiamo se noi stessi saremo al suo posto, un giorno? Viviamo, io dico. Viviamo. Viviamo a più non posso!»

Vartimor sorrise, la voce insicura, ma paradossalmente decisa che lei amava. Tutti i presenti avevano perso la voce e lo guardavano come un evaso da manicomio. Il ragazzo iniziò a farneticare fra sé e sé, o almeno era quello che udivano loro, ma Asia sentiva distintamente le parole.

«Io lo so che eri destinata a qualcosa di più, a molto di più di questo. Anche tu la sapevi. Ne sono sicuro, sul mio onore».

La chioma d’agrifoglio nera argentata, la carnagione pallida, la bocca carnosa, il ritratto in carne ed ossa del suo unico vero eroe.
"Sul tuo onore, io mi fido. Non ti amerò mai più, Vart. Non tornerò sui miei passi, però non posso deludere le tue aspettative su di me. Né le mie di aspettative. Io sono destinata a essere di più! Non voglio annegare in quell’oceano misterioso, non senza aver prima capito cosa c’è sul fondo che tanto mi mette ansia! Viviamo! Viviamo entrambi, anche se cammineremo lungo diversi sentieri. Per nulla al mondo. Per nulla al mondo, voglio smettere di vedere te, i tuoi disegni, i tuoi cuori di pastello...” Asia sussultò, tornando al mondo dei viventi, assaporando il sangue nella sua bocca. “Cuori di pastello... ma certo!”

La morsa del bambù, la brutalità del generale, il suo stesso corpo stritolato, tutto tornò a lei. Selvaggiamente, scosse la caviglia fino a che il piccolo tatuaggio a forma di cuore non urtò una canna di bambù.
“Vivrai un altro giorno, Asia Shiena’q!”
Il segno blu si illuminò appena e diffuse l’energia a tutto il corpo. La pelle di Asia divenne molle cartapesta, gli occhi diamanti, i capelli strisce di coriandoli. Il dolore scomparve. Divenne insensibile, indistruttibile.

Un Quirk degno della tua attenzione, villain?

La sua voce sembrò un richiamo abissale, ma il generale la sentì e notò le sue fattezze argillose, color pastello.

«Dio, quante ve ne inventate, voi marmocchi! È la stessa cosa strana di lassù, non è vero? Quella che ti ha permesso di uscire indenne quando sono irrotto sulla stradina!»

Armday, ancora orripilante, con il corpo centrale di normale grandezza e gli arti giganteschi, ripiegò nella sua forma umana. Asia, proprio come una bambola non poteva muoversi.

“Vediamo, Vart, quanto in là si spingerà il tuo Quirk”.

Si aspettò di vedere il generale iniziare a tentare di penetrare le sue difese. Invece, il villain si limitò a fare piazza pulita del bambù rimasto e guardare verso l’alto.

«Rimani qui, in nome di Dio... So di essere un mostro, ma la tua vita forse sarà un pizzico migliore se riuscirò a fare fuori lui».

La gola di Asia era sempre più secca. Non poteva replicare, né compiere un singolo movimento. Con una sorprendente amorevolezza, il soldato la depose a terra e saltò, ingrandendo appena i piedi. Puntava all’antigravità, dove li avrebbe annientati in tempo zero, senza di lei. Com’era potuto accadere? No. Non doveva andare così. Il suo scudo era diventato per la seconda volta la sua prigione? No. Poteva farcela. Aveva passato di tutto. Quello era solo un altro gradino.
“Non trattarmi come un personaggio secondario!” Asia lottò contro il vincolo che lei stessa aveva realizzato.  “Il potere di Vart è forte, ma non è più forte di me! Sono sempre stata io la più forte, nella nostra unione. Sempre io. Non è un vanto, ma un fatto. Chi avrebbe potuto proteggere la tua creativa sensibilità, altrimenti? Se sei cambiato, diciamocelo in faccia, è solo colpa mia”. Doveva vincere contro una paralisi completa e farlo in meno di pochi secondi. “Hanno bisogno di te, Asia!” Una crepa apparve sulla pelle. Le strisce capellute si fecero più setose. “Hanno bisogno di te!” Il guscio che la proteggeva s’incrinò. Stava lentamente tornando a sentire il sangue nelle membra di legno. “DI TE!”

Asia urlò. L’energia accumulata dal bozzolo si sprigionò in un istante, scagliandola lontano. La pura forza propulsiva la fece volare lungo la strada. “0° gradi rispetto al terreno. Non avrò migliori occasioni di questa!”

Asia Shiena’q – Quirk: bambù. Generando forza di rottura, può far emergere canne di bambù dal terreno perpendicolarmente al suo corpo, fino a creare una raggera di colpi dai molteplici utilizzi. Nelle giornate piovose, il suo quirk potrebbe generare un’intera foresta.

Asia spezzò un ramoscello avanzato dal test e sotto di lei si generarono le piante bislunghe. La colpirono in alcuni punti del fisico, con meditata precisione, e la portarono in alto.

“Non pensare che resterò a guardare mentre mandi avanti i tuoi ideali contorti. C’è un motivo, villain, se i criminali stanno in cella. Per me, questo è il miglior test che potesse presentarsi!



Note d'autore:
Enormi scuse per la lunga attesa fra i capitoli, ma tra tutti gli esami è difficile mantenere una routine stabile. Mi auguro che presto avrò un po' di meritato riposo, per scrivere con maggiore frequenza. Nel frattempo, spero che questo corto scorcio possa essere sufficiente. Mancano davvero pochissimi capitoli alla fine dello scontro, con il generale e gli amici di Yunix pressochè allo stremo. Solo un ultimo altro combattente si unirà allo scontro, il prossimo capitolo, per scaldare l'atmosfera antigravitazionale della città specchio, ma per ora la battaglia non volge a favore di nessuno, perciò tutto può ancora accadere. A presto con il prossimo capitolo di HG!

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Capitolo 21
*** Il Commiato di un Generale - Parte Seconda: Vincolati dal sangue... e dalla vita ***


Il Commiato di un Generale - Parte Seconda: Vincolati dal sangue... e dalla vita


L’antigravità. Per un momento, Yunix si dimenticò del dolore al braccio, così come dell’esistenza del villain alle sue calcagna. Una reazione naturale di fronte allo spettacolo di quella dimensione senza regole, in cui i corpi dei tre iniziarono a fluttuare. Quella sosta nell’antigravità era per certo un’esperienza irripetibile, anche dopo che aveva assistito alla gloria d’Infection.

«Wow... è meravigliosa!»

La sua voce si perse nel silenzio quieto del marasma nerastro. La luce del tramonto lì non aveva alcuna presa. Nessuna luce l’aveva, in quel luogo. Non era mai stato nello spazio, di questo era abbastanza sicuro, ma quell’area di transizione non poteva che esserne un riflesso. Un nero misterioso, più profondo dell’essenza dell’universo, che li attorniava e fra i suoi flutti immobili c’erano auto, alberi, conglomerati di edifici, ripiani rocciosi, tutti quanti incastonati in blocchi di arkastro; pianeti, asteroidi in miniatura che vagavano senza meta con un moto appena percettibile. Pezzi più piccoli tappezzavano come stelle lontane il cosmo immaginario. Un planetario creato da Copy&Paste per ricordare l’insensatezza e lo splendore smagliante del suo potere. La ferita alla mano bruciò, facendogli soffocare un gemito.
“Ancora mi perseguiti, Infinty Hero? Ti ho già spiegato che non sarò un’arma nelle tue mani. Resta nell’ombra demone, resta in questo mausoleo. Restaci in eterno!”

Si mise in piedi sulla pianta di bambù verticale e la usò come trampolino per spingersi in alto.

«Yunix, dove pensi di andare?» domandò Sakuro, apparentemente insensibile a tutta quella magnificenza.

C’era da dire però che l’aveva già visitata quando era andato su con gli altri e peraltro suo fratello giaceva esanime sulle sue spalle. Non poteva biasimarlo per i suoi timori, ma... ma in realtà non c’era più bisogno di preoccuparsi.

«Non temere... Lo sconfiggeremo qui, Sakuro. La sua stamina sembra inesauribile, lo so, ma dal momento in cui ha rinunciato al potere di quel gatto di cristallo, sta perdendo sempre più terreno... Capisci che intendo? Il posto giusto per sfinirlo è qui...» Yunix fece una capovolta e osservò il gemello, aprendo le braccia. «Qui è dove Armday cadrà una volta per tutte».

«Ah sì!? Vorrei vedervi provare!»

Era arrivato. Ben prima di quanto avrebbe mai potuto prevedere. Yunix raggelò e andò nel panico, accorgendosi di essere in una posizione molto vulnerabile. Il generale apparve come un gigante ammantato d’ombra. Iniziò a farsi largo, come un predatore, fra una piattaforma e l’altra. “Ci serve mobilità. Senza mobilità siamo alla sua mercé”. Il villain frantumò un asteroide con un pugno e ci passò attraverso. Era rallentato dalla gravità zero, ma non quanto loro. Sakuro tagliò di netto la torre di bambù e sparse le aste in giro con un calcio. Alcune finirono entro la sua portata. Tuttavia... Troppo leggere. Sarebbe stato impossibile usarle come strumenti di movimento. Anche la kurisagama era inutilizzabile, fintantoché Sekiro non avesse ripreso i sensi.

«Dobbiamo guardare la realtà dei fatti, f- fratello» rimuginò Yunix ad alta voce, «è finita!»
Si abbandonò a un frenetico tremore, cercando di allontanarsi dalla belva che faceva piazza pulita del cosmo d’arkastro. Aveva bisogno di aiuto. Come sempre. Non era che un perso morto. Anche Sekiro lo aveva detto, ma questa volta nessun aiuto sarebbe arrivato.
«Finita... davvero finita!»

«In un mondo in cui tutti abbiamo caratteristiche innaturali, pensi che non sia possibile l’impossibile?» lo provocò il gemello, indicando i frammenti di bambù «come pensi che si siano formati quegli ammassi di ciarpame ghiacciati?»

Di fronte agli occhi grigi, Yunix vide le fibre verdastre accostarsi, ammassarsi l’una all’altra. Non perse tempo a pensare e nuotò verso di esse.

«A ME!» Armday spiccò un saltò da un camino fluttuante e mirò a lui. Il sudore sulla fronte del ragazzo formava goccioline così come il suo sangue. Troppo lontano. Le aste formarono un piano compatto, pronto per lui, ma non ci sarebbe arrivato in tempo. Guardò il villain a pochi metri da lui, e incurvò le labbra. Restava solo una soluzione. Con un sorriso da casanova, si volse verso Armday.

«Ti piace, eh generale, prendertela con un ragazzo senza poteri!?»
“L’orgoglio lo fermerà... devo puntare tutto su-...”

Ma aveva fatto male i calcoli. Non aveva compreso quanto... quanto era determinato. Non ebbe subito percezione del pugno che gli venne assestato in pieno corpo. Un ruggito compiaciuto coronò l’atto finale dello scontro. Yunix strabuzzò gli occhi, sangue eruttò dalle sue labbra e il rgagazzo smise bruscamente di avere percezione delle sue facoltà.

«Bluagh-!» Ancora incapace di comprendere ciò che era successo Yunix finì contro la piattaforma di bambù che si ruppe e andò oltre, roteando fino a perdere il senso dell’orientamento.

«Yunix!», il grido di Sekiro gli perforò i timpani.

Il mondo aveva preso a girare. Colpito. Lo aveva colpito. Non si era fermato ad ascoltare neanche un secondo.
Il generale s’inerpicò sopra il tronco di una betulla incasellata nel minerale.

«Potere!? A cosa ti serve un potere? I Quirk che abbiamo non sono altro che caratteristiche fisiche... come l’altezza, il colore dei capelli. Semplice genetica. Un Hero non dovrebbe fare affidamento sul suo potere, Yunix, ma solo su ciò che è e sull’aiuto che gli altri possono dargli».

Non riusciva a respirare. Se ne accorse in ritardo, per il dolore terribile al petto, ma ogni tentativo che faceva di inalare aria era un’agonia. “Ecco... ora sono davvero... un astronauta perso nello spazio”.

La gravità lo aveva salvato dal fare la fine del clone del gemello che il generale aveva liquefatto, ma non dall’essere messo fuori gioco. La mano, la fronte, il colpo precedentemente accusato al petto. Tutto contribuiva a un tormento fisico e psichico fin troppo pesante per uno come lui, appena al limite della denutrizione. Cerchi di sangue turbinavano in cerchio attorno al suo capezzale immaginario. Rimase così, scomposto nell’aria stagnante, a osservare le finte stelle farsi sempre più fioche e baluginanti. Ma doveva dirglielo. Doveva dire ai suoi amici dello stupido piano che aveva in mente.

 
 
Sakuro guardò colpevole il corpo del ragazzo, fracassato dal colpo.
“Scusami, Yunix. Avrei potuto anche difenderti da quel colpo, ma mio fratello minore viene prima di tutti gli altri. Per favore... perdonami”. Il generale aveva spostato lo sguardo su di loro. Il ragazzo attese la sua sentenza col cuore in gola. “Se non possiamo sconfiggerlo, allora tanto vale dargli ciò che vuole”. Si pentì di quei pensieri così antieroici, ma non ci poteva fare nulla. “Diamine, fratello... che hai fatto a questo tizio?”

«Ma guarda un po’, per Dio!» sbraitò il generale, detergendosi il volto con la manica lurida. «Il primo a farsi vedere per ciò che è sei proprio tu, mezzasega di sangue!»

L’insulto lo fece avvampare, ma il ragazzo assunse la croce degli antenati e mantenne il cuore immobile.

«Hai avuto ciò che vuoi. Vattene! Risparmia me e mio fratello!»

Bum! La mano del generale si strinse attorno al suo collo a una velocità totalmente eccezionale.

«Lo dai già per spacciato, figlio di puttana!? Io invece vedo in una condizione più critica te, one man army».

«Forse perché è quello che sono» rampognò il gemello, mostrando i denti al soldato. «Io sono il carry dei miei compagni, generale... ma che ci guadagno a farmi condannare a vita solo per far fuori uno come te. Chooki, Marin, Yunix, Asia... Li ho aiutati, ma l’hai sentita la donzella,» il generale piegò il viso, riflessivo, «ha detto che può mostrarci la strada, ma non la percorrerà per noi! Io sono il beta tester, io sono quello che batte i sentieri prima degli altri, prima ancora di mio fratello minore. Sono sempre in testa, così avanti che non riescono nemmeno a vedermi!»

Le sue scapole si contrassero in un fremito, mentre lunghe ali di sangue si aprivano sulla sua schiena, dove c’era ancora il corpo svenuto di Sekiro. Armday impallidì e in fretta fu a distanza di sicurezza. Lo squadrava con aria analitica, come per valutare quanto nel profondo andasse il suo potere.

“Non so se posso batterlo. Non ancora, probabilmente. Ha contrastato falce mietitrice con relativa semplicità. Forse... Nay! Rimane il più forte, oggi”.

Il soldato parve arrivare alla stessa conclusione. Grugnì e si accarezzò il mento con una mano, ispirato da qualche strano pensiero.

«Grigio o cremisi, bel dilemma del cazzo!»

Sakuro abbandonò il ghigno ripugnate che aveva sul viso, d’un tratto scombussolato.
«Che vuoi dire?»

«Eh? Il mondo ha solo due colori, il rosso e il grigio. Mi stavo chiedendo quale fosse il migliore» sussurrò il generale guardando a nord, verso il Giappone.

Sakuro ricordò le parole della strana ragazza che aveva soccorso nella zona superiore, dopo il crollo che il mostro aveva causato: una ragazza mulatta, con boccoli color del cioccolato: «È... laggiù... Ambasciatore di guerra. Porta... porterà sventura su tutti noi! Sul paese del Sol Levante!»

Sakuro era bravo a capire il non detto che non c’era tra una frase e l’altra. I pensieri erano vivi e visibili anche sotto le scorze più dure. Quell’uomo voleva portare guerra, portare guerra al mondo, dipingerlo di rosso. Non perse altro tempo.

«Il Giappone è la nostra patria! Non brucerà mai! Io dico nero, come la tua morte!»

Attaccò il generale con un taglio orizzontale. Il soldato reagì prontamente e saltò, calciando frontalmente. Sakuro era pronto a resistere al colpo, ma fu spinto via da mani allenate, che lo misero fuori pericolo, per il rotto della cuffia.

«Tu...»

Asia Shiena’q era arrivata. Aveva uno sguardo truce.

«Come ha potuto!? COME!?»

Spezzò il gambo della pianta che teneva fra le mani e raffiche di bambù si riversarono contro il villain da tutti gli asteroidi in loro prossimità. Alche, il generale rispose afferrando un intera casa e lanciandola verso i tre. Sakuro, con l’occhio iniettato di sangue diede una rapida occhiata alla zona, avvolse la catena attorno a un distributore di benzina e vi si ancorò. Col fratello al sicuro sulle spalle, si proiettò fuori pericolo. Era salvo. Erano salvi. Non era stato poi così difficile.

Un grido femmineo lo fece girare di scatto. Asia, stringendo i denti, ostacolava l’edificio, protetta da uno scheletro di piante.
“Poteva schivarla... perché...” sobbalzò, acquattandosi sul minerale, “voleva salvare lui?”

Il corpo di Yunix, sospeso nel vuoto era sulla traiettoria dell’abitazione. Tra di essi, Asia ruggiva come una leonessa. C’era quasi riuscita, aveva praticamente fermato il pianeta che le era stato gettato contro.
Sakuro gemette. Armday era apparso al lato dell’edificio.

«Te l’avevo detto, ragazza, di rimanere giù...» La ragazza si morse il labbro, incapace di reagire. «Infernale Registro di Guerra – Shocking Demons!»

Le mani del generale s’ingrandirono diventando giganteschi palmi artigliati, pronti a ghermirla. Asia chiuse gli occhi. Le mani erano su di lei. Yunix mormorò qualcosa, ma non poteva fare nulla. Sakuro sentì la voce della ragazza rimbombare dentro di lui: «Non vi guarderò dall’alto in basso, perché ognuno ha il suo valore... ti assicuro che ho tutto sotto controllo, valente shinobi».

Le unghie di Armday si chiusero a vuoto. Asia sentì lo spostamento d’aria scarmigliarle i capelli e la tuta, e spalancò gli occhi, più sbalordita che mai. Una catena nera come l’ossidiana era avvolta attorno alla sua caviglia. Il ragazzo dai capelli neri le fece segno che andava tutto bene e la strattonò verso di sé fino a che non furono tutti quanti al sicuro sul piccolo poliedrico piedistallo.

«Male male, ragazza. Inizia a sfatare il mito secondo cui i buoni più forti muoiono per primi» le disse a mo’ di rimprovero.

La ragazza aveva altro per la testa. Si morse forte il labbro fino a lasciare uscire il sangue.
«Merda! Merda! Non ci credo!»

Vedendola a tal punto fuori di sé, il gemello fu costretta a lasciarla andare, estremamente piccato.

«Ehi, ma che ti prende? Non vedi che abbiamo le carte in regola per quell’1 per cento!?»

Asia tirò su col naso, le lacrime agli occhi.
«Ha ciò che vuole, già ora... glielo abbiamo lasciato a portata di mano, letteralmente!»

Sakuro comprese che intendeva. Si voltarono in sincronia. Armday rideva. Rideva, trionfante, con Yunix stretto nel pugno della mano, le braccia che pendevano fuori, quella sinistra contortamente spezzata. La fasciatura era rimasta appesa grazie a pochi sfilacciati filamenti di seta. Gli occhi erano spenti e smorti. La bocca semiaperta era profusa in rantolii incespicanti.

«Ho fatto ciò che potevo» ruppe infine il silenzio Sakuro, distogliendo lo sguardo.

«Ti correggo, guerriero!» esclamò il generale strampalato, con un sorriso spaventoso. «Eri quello che poteva fare di più, per Dio! E stando così le cose, eheh... sei stato comunque quello che ha fatto di meno! Abbi almeno la decenza di provare vergogna!»

Asia socchiuse le labbra, in ascolto, e non disse nulla, rendendosi conto che una parola sbagliata poteva essere la fine per il ragazzo... o forse fiutando la verità nel discorso del soldato. Sakuro evitò il contatto visivo e cercò un compromesso che potesse funzionare, ma si rese conto... che era solo una stupida arrampicata sugli specchi da bambino di due anni.

«Anche se fosse, io non voglio il male di nessuno di loro. Non è colpa mia se tengo alla mia famiglia e al mio sangue, più che agli altri. Non posso andare in giro e uccidere solo per uno sconosciuto che ho a malapena...», il suo sguardo cadde sulla pettorina con il motto di famiglia sfavillante su di esso:
Proteggi sempre i fratelli che incontri nel tuo cammino. Bagnati del loro sangue e difendi la loro anima.
 


Quartiere Konketsu – Otto anni prima del test d’ingresso
 
«Sakuro...»

«Sì, obaachan?»

Il rumore dell’acqua che scorreva dolcemente li accompagnò ancora per un po’ nella consueta scampagnata pomeridiana, almeno finché non arrivarono alla cinta muraria, dove il nihon teien lasciava il posto alla foresta selvaggia, che, come ripetevano gli ojiisan, pullulava di brutti spiriti tentatori.

«Sei grande, ormai, Sakuro-kun, grande abbastanza» proseguì la nonnina, coprendo con le mani gli occhi del giovane, che verso di lei nutriva la più completa fiducia, non avendo mai conosciuto sua madre. «Sei forte, agile, scaltro, dolce, carismatico. Inoltre, hai completamente padroneggiato la croce di sangue. Sono virtù di cui andare fiero, nella nostra famiglia».

Il ragazzo strinse vivacemente le catene che si portava addietro dalla nascita con orgoglio, mentre un lieve rossore gli invadeva le gote. Le mani rugose della donna sui suoi occhi scottavano, ma per nessuna ragione al mondo avrebbe voluto che le togliesse. Profumavano d'erba medica e legno di quercia, ancora forti, ancora capaci di sollevarlo da terra se qualcuno glielo avesse comandato.

«La dinastia cresce forte in te, Sakuro» continuò lei, dandogli una lieve spintarella, affinché continuasse a camminare.

Il ragazzino fece due pericolanti passettini avanti, poi prese un bel respiro e parlò.
«Nay... ho ancora tanto da imparare se voglio proteggere mio fratello e tutti gli altri discendenti».

Nella residenza famigliare, non era più un segreto oramai che sarebbe stato lui a imbracciare lo scettro del comando, che avrebbe dovuto lui garantire che l’ie rimanesse saldo per altri... per molti altri anni.

«Fai i capricci adesso, senshi? Tu sei già a un livello superiore di tutti i tuoi predecessori a partire dal periodo Taishō, il tuo dono è uno dei più sensazionali che abbia mai avuto modo di vedere. Non è questo che mi preoccupa...»

Sakuro si piantò sul sentiero e aggrottò le sopracciglia.

«E allora cos’è che ti preoccupa, obaachan?»

La donna si fermò a sua volta. Pure bendato, il ragazzo percepiva la sua esitazione.

«Tu hai un solo difetto, Sakuro. Un difetto che nessuno aveva mai avuto fra di noi, non a memoria d’uomo».

«E sarebbe?» chiese il ragazzo, giocosamente.

La donna ritirò le mani. La luce del sole lo accecò e lo fece ridacchiare. Nessuno si unì al suo riso. Il ragazzo si voltò verso la nonna, perplesso. Il viso rugoso gli mostrava un grande sorriso. Nessuno avrebbe potuto sentirsi solo, immerso in quell’amore materno.

«A differenza di tutte le altre famiglie, noi non valutiamo con grande stima il nostro sangue. Non importa quale origine i membri della nostra famiglia abbiano. Non importa quante unioni infelici abbiamo perpetuato, in quante branche il nostro albero genealogico è andato a parare e soprattutto quanto i cognomi dei nostri fondatori si siano persi nella storia». Lacrime cominciarono a solcare le sopracciglia sinuose, ma la donna rifiutava di smettere di sorridere. «Dovremmo forse rifiutare i bambini che riceviamo qui? Tutti gli sfortunati rimasti senza un padre e una madre? Io ho paura Sakuro...» disse la donna, abbracciandolo, «che tu non riesca mai a vedere i bambini che abitano qui come tuoi fratelli».

Il ragazzo sentì la seta rosa accarezzargli il viso, ma non provò alcuna consolazione nell’aroma floreale della nonna. Era terreo. Non voleva vederla piangere. Una donna come lei non avrebbe mai dovuto piangere. Avrebbe fatto qualunque cosa per farla smettere, ma non sapeva nemmeno da dove iniziare. Perciò rimase fermo immobile, a guardare le montagne che racchiudevano la valle, crogiolandosi nel calore effimero della stretta. Lasciò che si sfogasse, che non avesse più acqua da versare, poi si districò lentamente dall’abbraccio. La donna, seppur vecchia, manteneva ancora una bellezza da mozzare il fiato.

«Il sangue è forte in lei» dicevano i compagni mentre si allenavano, ma ora la donna sembrava vecchia cent’anni.

«Scusami... scusami... so che farai del tuo meglio... ecco, volevo lasciare che te lo assegnassero alla cerimonia, ma... non fa niente... prendi. Prendi, è tuo». La donna si asciugò gli occhi e sorrise ancora, tirando fuori dal kimono una strana insegna di legno. «Presto, non facciamoci vedere da Yukishi».

Sakuro annuì, servizievole, gettando una rapida occhiata alla sommità del dojo, dove scorse la sentinella vestita di blu sovrastare l’intero giardino. Dicevano che avesse una vista spaventosa, persino più acuta di quella di un falco. La nonna, per fortuna, si era messa furbescamente di spalle, in modo che non potesse capire ciò che stavano facendo. Allungò l’oggetto a Sakuro, che lo prese senza fare movimenti compromettenti. Era una piastra sottile, con quattro legacci di cuoio che partivano dagli angoli e una scritta incisa sulla sommità.

«Sarebbe... il nostro...» cominciò, imbarazzato, temendo di vedere la nonna scoppiare in lacrime da un momento all’altro. Tuttavia, ella aveva ormai scacciato il tremolio nella voce.

«Un mantra, il mantra della nostra famiglia. È così che abbiamo continuato a crescere e crescere, senza mai fermarci. Capisci, senshi? I tuoi fratelli non sono solo quelli con cui condividi il sangue, ma tutti coloro che incroci lungo la strada, coloro che sono pronti ad assumersi la responsabilità di essere nella tua famiglia».

Il ragazzo annuì veemente, non realmente convinto, ma ben lungi dal voler riassistere alla crisi di poco prima.
La donna anziana si tolse un’ultima lacrima dall’occhio, sorridendo come una geisha.

«Dimentica il mio comportamento di un attimo fa, Sakuro-kun. Io prima di tutti dovrei aver fiducia in te...» gli accarezzò i capelli con mano delicata. «Lo vedo già... ora che mi manca poco... La tua stirpe si estenderà come le stelle in cielo e nessuno, mai nessuno, oserà far del male ai tuoi fratelli, perché tu sarai lì a proteggerli, non è vero, mio piccolo Hīrō?»
 


Sakuro vide i riflessi bluastri dell’arkastro balenare sulla kurisagama. Sua nonna era morta da due anni. Quando era arrivata la notizia, Sekiro aveva pianto. Non ricordava per quante ore, ma aveva certamente pianto. Lui invece no. Non poteva. Era credenza che le anime degli antenati continuassero a vivere, nel seme che si tramandava da un discendente all’altro, ma solo se il capofamiglia fosse stato abbastanza forte da sopportarne il peso. Per questo non aveva versato neanche una lacrima. Solo quando era più giù ricordava che la nonna non aveva nemmeno il loro stesso sangue, quindi il sheisen per lei molto probabilmente non valeva. E quella oiran, nonostante tutto, non se n’era mai curata. Mai, mai in tutta la sua vita. Non voleva forse dire che doveva fare lo stesso?

«La tua stirpe di estenderà come le stelle in cielo e nessuno, mai nessuno, oserà fare del male ai tuoi fratelli, perché tu sarai lì a proteggerli, non è vero, mio piccolo Hīrō?»

Sakuro sentì una collera mai provata farsi strada in lui.
«Nessuno farà del male ai miei fratelli, Asia. Cosa stiamo aspettando a salvarlo!?» La sua voce era un torrente d’odio. «La pagherà! La pagherà!» “La pagherà, obaasan!”

Asia lo studiò leggermente confusa, ma annuì.

«Mi sembra ovvio... ma siamo già al capolinea. Non abbiamo modo di soccorrerlo».

Sakuro si sollevò sui piedi e guardò minaccioso il generale. Quest’ultimo stringeva Yunix senza tanti complimenti, pronto a stritolarlo, ma era verso di loro che concentrava la sua attenzione.

«Stai a pezzi, ragazzo! Se pensi che me lo lascerò sfuggire fra le dita, beh... stai proprio a pezzi, fattelo dire».

«Stolto!» lo zittì, implacabile. «Mi pare di avertelo già detto: io li carrierò tutti verso la vittoria! Konketsu Sekiro, SVEGLIATI! TE LO ORDINA IL CAPOFAMIGLIA!»

La voce adirata fu talmente forte da echeggiare in tutto lo spazio. Il gemello sulle sue clavicole aprì gli occhi. Non fece domande. Non emise un singolo respiro, ma si spostò sulle spalle del gemello, aiutato dall'antigravità. Era taciturno, ma dal suo solo respiro Sakuro capì che voleva il via libera.

«Vai, fratello. Riprendiamoci la nostra famiglia!»

L’occhio di Sekiro divenne un pozzo di sangue.
Armday era allibito.
«Siete scemi!? Un solo movimento e lo faccio a pez-»

Non fece in tempo a finire la frase che le ferite riportate a causa della sua Falce Mietitrice si aprirono e riversarono fuori un liquido maculato.

“Tutta questa è una prova, immagino. Una prova per me da parte dei miei antenati... Vogliono vedere se anteporrò il sangue famigliare all’anima di un fratello che ho appena trovato. Vogliono vedere se proteggerò tutta la mia famiglia. Non mi riesce naturale... ma per stavolta...”

Il generale ruggì, spazientito, e fece per dare il colpo di grazia a Yunix.
«Sei irrimediabilmente congedato!»

Il corpo fece un sussulto e fu di botto paralizzato. Le gambe erano congelate in un fremito. La bocca si contraeva incontenibile, ma non riusciva a proferire una singola parola.

Sakuro fece un cenno ai due, capendo dalle espressioni intimidite che non doveva avere una bella cera, in quel momento. Poi, saltò. Non si aspettò un sostegno da parte dei compagni. Aveva dato prova di una natura molto diversa da quella a cui erano avvezzi. Però non fu lasciato solo. Vennero con lui, determinati a salvare quell’innocente ragazzo dai capelli grigi che nemmeno conoscevano come si deve.
“Mi ha medicato, ha combattuto con noi. Famiglia o no, non esiterò mai più a mettermi in gioco per lui!” Senitiva che in cuor loro i compagni avevano motivazioni simili.

«Siete con me, ragazzi?»

«Ovvio».

«Sempre con te, fratello».

Si concentrò sul parkour che doveva affrontare. Un particolare, però, attrasse la sua attenzione. Nel braccio fremente dell’uomo Yunix era parzialmente cosciente e con il braccio destro stava indicando qualcosa. Era il loro motto, il loro mantra. No, anzi, indicava una parola precisa. Aguzzò la vista come un’aquila.

“‘Sempre’? Perché sta indicando quella parola? Nemmeno dovrebbe conoscere la lingua... vuoi che... abbia tirato a indovinare? Ma perché poi...?”

I tre si spinsero da un asteroide all’altro, fissando il generale, simile alla statua di un conquistatore a cui avevano tirato addosso secchiate di vernice vermiglia. Gli occhi del ragazzo, appena sopra al gigantesco pollice erano di un blu ghiacciato.

“Un piano... deve avere un piano per sconfiggerlo. ‘Sempre’... è una parola vaga. Qualcosa che c’entri col tempo... Yunix aveva già accennato alla possibilità di sfinirlo...” Si accese una lampadina. “Una guerra di attrito... di logoramento, ma abbiamo già constatato che la sua resistenza è superiore, dunque...” Per quanto cercava di spremersi le meningi, avanzando nella gravità fuori controllo, non riusciva a venirne a capo. “Niente... ci tocca scoprirlo da lui, da lui e stop!”

Asia raggiunse una canna di bambù, sospesa nel buio.
«Pronti all’assalto?»

La spezzò con un calcio ben piazzato. Una raffica molto rada di bambù sorse dai conglomerati alle sue spalle e colpì i tre, strattonandoli in avanti. In tempo zero, arrivarono al generale, che li guardava con fiero sdegno. Le sue facoltà di movimento stavano riprendendo piede. La mano, in particolare, aveva ricominciato ad applicare una crescente pressione sul fragile corpo di Yunix.

«Dobbiamo allentare la presa e prenderlo!» stabilì Sekiro, discendendo verso il ragazzo.

«Non se mozziamo il braccio alla belva» esclamò Sakuro, facendo mulinare la falce.

«No!» ribatté Sekiro, schiettamente. «Conosci il mio potere».

Il gemello strinse i denti. «Già, è per quello che sei stato tutto quel tempo nel sottomondo, per prolungarne l’efficacia. Lungimirante, fratello».

Gli sorrise fraterno e si mise ad aiutarlo. Asia, invece, si arrestò di fronte al viso del villain.

«Ti faremo tornare in quell’abisso, credimi! E non avrai ottenuto niente, niente».
La ragazza sussurrò le ultime parole con meschinità.

Armday, per tutta risposta, sorrise compiaciuto.

«Qual è il piano?» chiese poi ai gemelli, storcendo il naso.

«Prendiamo Yunix» mormorò il fratello maggiore, facendo forza sulle dita smaccate, «e ce ne andiamo il più veloce che possiamo».

«Fuggire, fuggire, ancora fuggire. Chiudiamo i conti ora» replicò lei, sollevando un’asta i bambù appena procurata, per abbatterla sulla testa malmenata.

«Non colpirlo» intimò Sekiro, «altrimenti la paralisi finirà...»

«...e le prospettive di salvare tutti andranno allo 0%» concluse il gemello.

La ragazza si arrestò all’ultimo, facendo una faccia rattristata.
«Merda...»

«Aiutaci, non abbiamo che mezzo minuto!»

Asia non se lo fece ripetere due volte e si calò a rilento sul pugno chiuso. Era grande come un grosso calderone, striato di bianche cicatrici, grosse come strisce zebrate.

«Nessun progresso, eh?» domandò, notando i gemelli faticare a vuoto con le dita salsicciose.

«Un altro gioco... di leve» parlò a fatica Yunix, gli occhi torbidi.

La ragazza si guardò attorno accompagnata dai gemiti dei gemelli.
«Da bravi, usiamo quella!»

Indicò la piccola asse di uno steccato sospesa tra due blocchi d’arkastro. Fece un piccolo balzo, la prese e tornò dai due. Il corpo di Armday era sempre più agitato. L’incantesimo di Sekiro si stava sfaldando. La ragazza conficcò l’asse nell’apertura e iniziò a tirare, usando tutta la sua forza. I gemelli compresero alla perfezione e si misero a fianco a lei. Tutti e tre congiuntamente stavano dando ragione degli interminabili allenamenti che li avevano accompagnati nel corso della loro vita. Diversi sentieri che li avevano condotti a quel momento, a quella precisa situazione.

«Siamo in endgame, ormai» gemette Sakuro, le vene visibili sotto le braccia pallide.

«Siamo ciò che resta dei samurai, ciò che resta degli shinobi, ciò che resta degli eroi che hanno costruito il nostro Giappone! Che hanno unificato la Cina! Non saremo ancora alla loro altezza, ragazzi...» affermò Asia, chiudendo un occhio e infossando le guance, impuntandosi coi piedi sulla carne per tirarlo fuori, «però lo saremo! Prima o poi lo saremo e inizierà tutto da qui».

«Cioè quando salveremo questo ragazzo dal destino infausto che lo ha condotto qui!» urlò Sekiro, alzando la voce per la prima volta.

Spiccò un salto all’indietro e con sicurezza attorcigliò la catena attorno al pezzo di legno cristallizzato, ultimo baluardo della salvezza. Il braccio dell’arma rotto non era che un lieve impedimento, o almeno era ciò che sembrava, vedendolo tendere la catena e stringerla tra i denti. Aiutandosi con la destra, dava il suo contributo agli altri tiratori, facendo probabilmente più di tutti e due messi assieme.

Yunix non poteva credere ai suoi occhi. Stavano giocando le carte migliori che avevano per salvare una persona inutile come lui? Quanti al mondo si sarebbero spinti così in là?
«Non ne...» boccheggiò, «non ne vale la pena».

La morsa era sempre meno stretta. Il generale iniziò a grugnire, poi a ringhiare. I muscoli erano così contratti, che sembrava fosse pronto a esplodere, seduta stante. Non avrebbero avuto molto tempo per scappare. I tre urlarono più forte che mai, forzando la leva con una forza superiore a quella di un elefante ed infine... quando Yunix iniziava a credere che sarebbero morti tutti (e male peraltro), ci riuscirono. Il suo corpo fu libero.

Poi, accaddero molte cose rapidamente. Sekiro si liberò dell’asse di legno e avvolse la catena attorno a lui, sottraendolo alle dita prima che si richiudessero. Asia si scaraventò contro il generale, spingendolo via dalla piattaforma, come una lottatrice sul ring. Armday si risvegliò come un gigante di pietra, sicuramente già certo di come muoversi, già certo di cosa fare, già sicuro di avere la risposta pronta a qualsiasi tipo di mossa, ma non riuscì materialmente ad anticipare Sakuro, che con un’agilità e una precisione mai viste aveva lanciato in linea d’aria la falce, alla maniera non di una lama ricurva appunto, ma di una mazza ferrata.

Gli arti del generale non fecero nemmeno in tempo a gonfiarsi che un sonoro tonfo annunciò che la protuberanza legnosa della falce aveva preso in testa il generale, mandandolo a finire nel vuoto dello spazio, lontano da qualunque possibile piattaforma.

“Ma anche così è più pericoloso di tutti noi!”
«Andiamo...» riuscì a dire, con la testa che girava, sentendo il corpo tirare le ultime.
“Riuscirò... riuscirò a spiegare...”

I tre, ancora in posizione di combattimento, si scambiarono occhiate soddisfatte e accompagnati dall’ululato rabbioso del generale, schizzarono via, per ripararsi in una specie di isola, protetta da speroni di roccia.

Yunix fu depositato a terra e per una ventina di secondi gli unici rumori furono il respiro ansimante dei ragazzi e le grida lontane del generale, che si era lasciato sfuggire la preda a un soffio dalla vittoria. Il ragazzo però sapeva che era rimasto cosciente fino ad allora solo in virtù della sua missione e ormai dubitava di poter anche solo parlare. Era come avere lo stomaco completamente sfracassato da un’incudine. Trovava difficile respirare, muoversi, anche spostare lo sguardo da un salvatore all’altro.

“Ringraziali, idiota. Ringraziali almeno”.

Cercò di convincersi che poteva trovare le forze, ma non era un ragazzo addestrato, come lo erano loro, né tantomeno aveva la facoltà di evocare sciami di bambù, o scendere sottoterra, o allievare il dolore con... Sollevò la testa verso il ragazzo, con la falce incastonata nella mano destra. Questi già lo guardava, meditabondo. Asia fu la prima a parlare, non prima di essersi passata le mani sul viso, per assicurarsi che non fosse tutto un sogno.

«Una svista... se prima già fossi rimasta calma, avremmo già vinto. L’ho sottovalutato, pur sapendo che era più forte di me...» Aveva un colorito tenue, o forse era solo la vista di Yunix che faceva le bizze.

«Non abbiamo tempo per questo... quello che vi chiedo ora è uno sforzo che va ben oltre il semplice combattere per sopravvivere. Voi... siete pronti a cedere il vostro corpo?»
Sakuro incrociò le braccia, senza il minimo desiderio di ritrattare ciò che aveva appena sentenziato, spostando gli occhi acuti dal fratello ad Asia.

«Fermi tutti» disse lei, corrugando la fronte, «di che stai parlando, esattamente?»

«Yunix ha un piano. Qualcosa di semplice, forse. Un salto nel vuoto, magari. Però ha un piano».

Il ragazzo dei capelli grigi era paonazzo.
“Sì, ho un piano. E penso che tu sia già arrivato alla stessa conclusione... cioè che...”

«Ci serve la mia Falce Destra del Sangue per farlo rinsavire».

«Falce destra di che, scusa?» fece Asia, scuotendo la testa, confusa.

«Il mio Quirk. Ha molti poteri, alcuni dei quali sono ancora off limits per ovvie ragioni, ma tramite essa... possiamo rimettere in sesto mio fratello Yunix».

Yunix cercò di mettersi a quattro zampe, ma era infattibile.
“Già... come quando l’ho medicato, però... Che significa... cedere il corpo?” Tese un braccio verso i tre. “Non lo posso... permettere”.

Asia diede voce ai suoi dubbi.
«Cosa intendi con...?»

Sakuro strinse i denti.

«Beh... quello è il contratto. La mia arma non serve solo ad allievare il dolore». Sekiro, il gemello silenzioso, fece un gesto impercettibile con la mano, come se stesse rievocando un brutto incubo. Yunix fu il solo a notarlo. Anche in quelle condizioni,  il suo incredibile spirito d’osservazione non fece cilecca. «Può anche guarire al bisogno» continuò l’altro gemello. I due in piedi lo ascoltavano, in solenne attesa. Il ragazzo si leccò le labbra. «Tutto in questo mondo arriva con un prezzo. Non si guarisce con un puff magico, lo sapete bene. Ci vuole un patto, un patto di sangue in questo caso. Falce Destra non fa scomparire le ferite... può solamente trasferirle».

Yunix impallidì.
“No! Non c’è alcun dubbio che...! Se solo potessi...”

Asia era attonita.
Il ragazzo dai capelli neri abbassò gli occhi.

«Lo so... Non è un potere di cui vado fiero. È per quello che lo uso il meno possibile. È normale che non vogliate farlo... io stesso probabilmente non lo farei nella vostra situazione, ma cercate di capire...» Si voltò verso di lui che si sforzava di fare no con la testa. «Mi ha guarito con una dedicazione incredibile... è parte della mia famiglia. E se ha... se ha anche solo un’idea di come fare per sconfiggere quell’assassino, io m’immolerò!» Yunix guardò il ragazzo coprirsi il viso con la mano. «Scusate. Voi... ecco, fate come se non avessi detto niente. Prendete Yunix con voi e io lo tratterrò. Non abbiamo molto tempo».

Sekiro e Asia, si guardarono sotto gli occhi supplicanti di Yunix, e si scambiarono un cenno d’assenso.

«Che stai aspettando, mostraci cosa fare» ordinò Asia, con urgenza.

Sakuro, che si stava girando, si bloccò e li studiò come se si aspettasse che uno dei due saltasse su dicendo “Pesce d’Aprile!”, ma i due ragazzi erano seri e risoluti.

«Ne siete sicuri? Farà male».

«È anche mio fratello» chiuse il discorso Sekiro, sollevando il braccio e indicando la piastra sul petto del gemello. «Bagnati del loro sangue e difendi la loro anima; questo intendo fare».

Sakuro picchiettò le dita sulla falce, incerto.
Yunix cercò di parlare, di convincerli a tornare ai loro passi, ma tutto ciò che uscì dalla sua bocca furono rochi colpi di tosse. Il resto del rituale passò di fronte ai suoi occhi come un film dell’orrore. Sakuro lo rigirò steso sul dorso, in modo che guardasse il cielo “stellato” e gli edifici ribaltati che si scorgevano in lontananza.

«Passate la mano sulla falce» disse inespressivo.

Asia deglutì, ma non si scoraggiò e adagiò il palmo sulla lama affilata. Sekiro la imitò e con un flebile sospiro i due si tagliarono con il filo dell’arma. Il loro sangue bagnò l’acciaio lucente e straordinariamente venne prosciugato da esso.

«Ultima chance...» dichiarò Sakuro, con il viso scuro. La sua voce tetra era tinta di una tensione trattenuta.

«Muoviti!» esclamò Asia, «Il generale risalirà alla nostra posizione in men che non si dica».

«Beh, io vi ho avvertito». Il ragazzo sollevò la falce come una scure. Yunix vide la sua punta incombere esattamente su di lui, come se fosse una vittima sacrificale. «A te, Falce Destra!»

Il ragazzo assestò un colpo sicuro al suo addome. Yunix sobbalzò, ma non sentì alcun dolore, come se non avesse sensibilità in quella parte del corpo, come se la falce non lo stesse nemmeno perforando. Tuttavia, essa s’irradiò di rosso e parte di quella strana essenza scarlatta che la permeava risalì lungo la catene, immergendosi nel braccio destro di Sakuro, che cadde seduto, da inginocchiato che era, con appena un accenno di dolore sul volto. Gli stessi sigilli rossi apparvero come tatuaggi sgargianti sulla pelle di Asia e Sekiro. La ragazza emise un verso strozzato, afferrandosi il collo. Il gemello in piedi grugnì e fece diversi passi indietro, toccandosi a più riprese il torace, come se stesse venendo riempito di piombo. Il ragazzo dai capelli grigi invece sentì le costole o qualunque cosa si fosse rotta riassemblarsi parzialmente, la luce rossa unire le giunture, rimettere in sesto i tessuti danneggiati. Riuscì di nuovo a respirare decentemente e lo stacco fu così netto che gli parve di stare venendo imbottito di ossigeno da una bombola stracolma, di quelle che davano negli aerei. Anche il braccio rotto fu d’un tratto più leggero, benché paradossalmente più dolorante.

Guardò, con gli occhi arrossati, i ragazzi fare i conti con una parte del suo dolore. Probabilmente stavano provando almeno la metà di ciò che aveva sperimentato lui quando era stato colpito dal generale. Asia respirava affannosamente con le lacrime agli occhi, cercando di trattenere il pianto. Sekiro si era abbandonato contro una roccia, smunto come un manichino. Sakuro invece non muoveva un muscolo, gli occhi fissi verso la sua arma, conficcata nella pelle. I nervi sul suo viso erano contratti dalla sofferenza. Ombre nere e rosse si alternavano sulla sua fronte. Poi, i sigilli scomparvero e i ragazzi caddero a terra, sfiniti.

«Come state?» chiese subito Sakuro, estraendo l’arma senza alcuna reazione positiva o negativa.

La lama sembrava sazia, forse un po’ più scura, ma poteva benissimo essere un gioco di luce. Asia avvicinò una mano tremante al petto, respirando faticosamente.

«Non... non importa. Il piano. Dobbiamo pensare al piano».

Tutti si voltarono verso Yunix. Il ragazzo si tirò su, nascondendo l’imbarazzo come poteva.
«Cosa... cosa gli hai fatto? Si reggono a malapena in piedi!»

«No, ti prego... ti prego... sto bene» si affrettò a dire Asia, che però era una maschera di dolore.

Yunix era mortificato. Sakuro aveva equilibrato le loro ferite. Le gabbie toraciche dei tre dovevano essere malmesse quanto la sua, ora, sulla soglia di frantumarsi. Dal modo in cui Sekiro muoveva il braccio destro, dedusse che anche le altre sue lesioni erano state condivise. Sentì gli occhi avvampare come azoto liquido.

«Ma ti rendi conto di quello che hai fatto!? Non lo merito! Non avresti dovuto! NON AVRE-»

«Nay, nay, NAY! Yunix, ascoltami, ok? Ci serve il tuo piano. Se vuoi provare a ripagarli perché hanno messo la loro vita nelle tue mani, forse è il momento di farlo, non trovi?» Il suo idolo ombroso gli scoccò uno sguardo irremovibile. «Se la pensi allo stesso modo allora parla!»

Yunix deglutì. “Ora che gli dico..? No. So cosa dirgli... non scusarti, non elogiarli... dai loro la soluzione”.

«Armday può essere innegabilmente lasciato senza forze!»

Sekiro torse lievemente il busto, per controllare la sua mobilità e si alzò.
«Come? Le sue mosse non lo stancano. Non lo stancano e basta».

«Non tutte. Ha cercato di nasconderlo... ma è chiaro che se fosse stato in completa forma ci avrebbe già annientato. Lui ora è in totale risparmio energetico».

«Anche così ci batterebbe» obbiettò Asia, «è troppo esperto e ha troppa forza d’animo! Persino più di quella che abbiamo noi... cioè è più la sua volontà di ucciderti che tu di evitare che lo faccia. Semplicemente senza senso. Un nemico del genere mette i brividi».

“Beh, forse ha un buon motivo per farlo” pensò il ragazzo, incapace di guardare i suoi salvatori in faccia.

Sakuro era rimasto in silenzio tutto il tempo da quando gli aveva fatto la ramanzina. Non era da lui. Non era un comportamento da leader, leader che lui era: anche al cantiere aveva più volte preso il comando. Cos’era ciò che lo imbambolava? Yunix trasse le ginocchia a sé.

«Gli faremo usare l’unico attacco che gli prosciugherà le forze: Mutual Destruction!»

Asia fece una faccia insofferente.
«Come prego?»

Yunix fece un mezzo sorriso.

«La mossa che ha distrutto mezza città! Dopo averla usata, i suoi colpi si sono fatti sensibilmente più lenti e meno dannosi: non potrà usarla di nuovo senza rimanere a corto di forze. Quando ha dovuto deviare la tua raffica di bambù ho notato di sfuggita i suoi arti fumare e di nuovo quando si è messo a fare gli straordinari per arrivare da me prima di Sakuro».

La quiete imperava, tutto attorno a loro.
«Se ci sei arrivato tu, ci sarà già arrivato anche lui» continuò a ribattere Sekiro.

«Già» lo sostenne Asia, «quel tipo è fin troppo eccezionale per essere un villain. Non conterà a nulla, fattelo dire. Possiamo pure lanciarci in una corsa disperata, a questo punto».

Sakuro sbuffò e tutti si zittirono. Udirono distintamente il generale fare a pezzi conglomerati l’uno dopo l’altro per trovarli. Era intenzionato a concludere la faccenda, ora o mai più. Non si sarebbe fermato a parlare un’altra volta. Il capofamiglia valutò attentamente il viso di Yunix, che si sforzò di apparire sicuro di sé. Tutto dipendeva da quelle parole. Senza il supporto del carismatico Sakuro, c’era ben poco da fare e tutto il rituale per salvarlo sarebbe caduto nel vuoto.

«No. Non userà quella mossa. Non c’è verso che lo farà» determinò il gemello più grande. Yunix abbassò gli occhi. «A meno che... non gli rimanga altra scelta».

Cadde il silenzio. I tre guardarono Sakuro, stupiti.
“Mi ha... mi ha dato corda?” La speranza sembrò risvegliarsi in Yunix.

«Precisamente» rimarcò, illuminandosi.

Il gemello incrociò di nuovo le braccia.
«Allora, spiega il tuo piano in questa manciata di secondi che ti restano».

Asia alzò le spalle e calciò un mucchio di sassolini.

«Maschi... sempre pronti a fare comunella! Bah... basta che sia una battaglia onorevole».

Sekiro aggrottò la fronte, poi fece un passo avanti.

«Ci sto. La mia famiglia è la mia famiglia».
Fulminò con gli occhi Yunix come a dire: “perciò sarà meglio che sopravviveremo”.

«Tranquilli tutti quanti» li rassicurò lui, «Infection sarà il luogo dove quel generale sarà congedato per sempre!»
 


Non c’era bisogno di immaginarsi i propri nemici... li percepiva, sapeva che erano lì alle sue spalle, per deriderlo, per denudarlo di ogni valore, vedendo con quanto struggimento si scagliava contro una “stella” dopo l’altra per trovare i fuggitivi. Non si rendevano conto. Come avrebbero potuto, d’altronde? La loro visuale sulle cose poteva contare fino a mezzogiorno, ma dal fottuto pomeriggio alla sera vedevano solo un generale impazzito ripudiare tutto il suo passato, mentre Armday era ben certo di essere in completo controllo delle sue funzioni e delle sue emozioni. Bella consolazione. Aveva permesso che gli fottessero Yunix a un soffio dal successo; si era quasi pisciato addosso di fronte a un ragazzino con un paio di ali voluminose; aveva pure esitato a finirli quando ne aveva avuto l’occasione. Davvero incredibile. La sua umanità stava giocando brutti scherzi.

Inoltre, tra il pensiero della guerra con il Giappone, la missione di Elmer e il puro desiderio di vedere se il ragazzo sarebbe sopravvissuto, nonostante tutti i suoi sforzi, si sentiva vagamente estraniato da sé, ma in senso buono, perché se avesse iniziato a soffermare i suoi pensieri sulla sua condizione fisica sarebbe crollato una volta per tutte. Si era spinto così in là, che non si sarebbe nemmeno accorto della sua morte... per Dio, forse avrebbe continuato a combattere pure dopo essere stato ucciso. Era quello che ripetevano sempre nella caserma.

“Però tocca battere il ferro finché è caldo. Questa è la mia ultima chance prima che arrivino quei divi del cazzo degli Heroes... Siamo all’ultima fermata ed è tempo di far scendere tutti!”

«Ehi, villain!» L’uomo possente ridirezionò la faccia butterata verso l’alto. La ragazza dai capelli strambi era sdraiata nel cielo, come una sirena. «Sei pronto a espiare i tuoi peccati!?»

«È tutta la vita che lo sto facendo, troietta...» Oscurò il proprio campo visivo con il pugno chiuso, pronto a fare a pezzi la ragazza.

«Forse la batteresti, se fosse da sola... ma puoi battere due one man army?»

Sakuro fece capolino oltre un muretto di mattoni, iniziando già a passarsi la falce da una mano all’altra, come un danzatore di spade fin troppo megalomane.

«Non vi starete mica montando troppo la testa, vero? Non siete che insetti alla mia presenza...»

«Allora forse dovremmo provare in tre» s’intromise la voce bassa e tetra di Sekiro.

Era così furtivo che Armday ci mise qualche secondo a visualizzare la sua posizione, all’ombra di una lavanderia cristallizzata.
“Mi attaccheranno tutti assieme? È il massimo che siete riusciti a pensare, in nome di Dio?”

Gli ultimi attimi prima della battaglia furono una gara di sguardi. Armday, Asia, Sakuro e Sekiro presero coscienza delle loro possibilità. Analizzarono l’ambiente, dal primo all’ultimo frammento di arkastro; infatti, nulla poteva essere lasciato al caso. Un errore sarebbe stato fatale, per ognuno di loro. Ancora una volta, il generale li vinse sul tempo e con un rabbioso latrato li attaccò per primo. Aveva mirato alla ragazza, sapendo bene che era la meno pericolosa e al contempo la più versatile. Il pugno si ingigantì, man mano che avanzava, allungandosi come un braccio meccanico.

Asia si proiettò in avanti, come se volesse caricare il colpo a testa bassa, ma i gemelli corsero nella direzione opposta. Il villain sollevò le sopracciglia. Tutt’un tratto la ragazza si traslò appena oltre la portata del pugno, verso il gemello più giovane facendo mangiare la polvere ad Armday, che comprese l’inganno, mentre traeva a sé il pugno.

«Siete legati da un filo!? Eheh, ne sapete una più del diavolo!»

Armday tirò una spazzata a destra, confermando la sua teoria. Il legame invisibile tra Asia e Sekiro si spezzò, rivelando il filo sottilissimo che li teneva uniti. I due non cambiarono espressione e presero a disporre una nuova serie di attacchi a distanza. Sakuro, alla sua sinistra, non perse tempo e generò le ali vermiglie sul suo dorso, incominciando parallelamente a scaricare cloni di sangue a mitraglia contro il soldato. Ma era una mossa già vista. Il generale agguantò le figure e le schiacciò sotto le suole ferrate.

«Li sta usando come piattaforme!» urlò Sakuro, osservando Armday balzare a grande velocità verso di lui, usando le creature che gli venivano lanciate contro per darsi la spinta.

Per vincere, l'uomo doveva chiudere le distanze, a tutti i costi. Asia spezzò tre bastoncini con un calcio volante e da un cartellone pubblicitario emersero piante di bambù così fitte da coprire il cielo. Il soldato mosse appena il busto ed estrasse dai capelli il filo spinato, lasciando che i capelli riprendessero un motivo selvaggio.

«Questo fil di ferro... è stato così tanto a contatto col mio corpo che ora è parte di me! Artiglieria Pesante -6- Trincee fangose!»

Usò il filo spinato come una gigantesca frusta metallica, che si districò a un livello esagerato, acquisendo massa ed estensione. Il suo effetto fu catastrofico. Il fascio di bambù venne spazzato via, sminuzzato come un mucchio di asparagi. Asia subì una ferita profonda all’inguine e traballando, si spinse in avanti, usando i frammenti di bambù che si stavano radunando, formando blocchi di piante cave. Sekiro riuscì a trincerarsi dietro la lavanderia, che si aprì in tre a causa delle sfuriate del ferro, mandando in fumo tutto l’arkastro.
Non ci fu tempo per gioire per Armday, che si ritrovò Sakuro addosso.

«Mai perdere di vista il tuo nemico, generale!»

Lo colpì al petto con un calcio, prima che potesse rigirare l’assalto verso di lui. Senza fiato nei polmoni, questi lasciò andare il filo spinato, ma il ragazzo non aveva fatto i conti con il braccio sinistro, che il villain usò per spedirlo via, purtroppo non potendo sfruttare Giant Arms, così di seguito.

Il ragazzo si aggrappò alle dite, sbattendo le ali per rimanere vicino al generale. Tre cloni di sangue apparvero di fianco allo shinobi, che li mandò a sfracellarsi contro il corpo messo a dura prova del generale. Nuove ferite si aggiunsero alla sua collezione, ma la follia negli occhi dell’uomo era di un livello sempre crescente. A Sakuro sembrò di incombere sopra un drago mutaforma, con gli occhi ambrati che scintillavano e la bocca imbrattata di sangue che rilasciava spire di fumo.

Si tirò indietro subito prima che lo colpisse con un nuovo gancio mortale e rispose al sorriso verace del villain con una raggelante occhiata. Il generale si girò su sé stesso e tentò un calcio da destra, con lo stivale nero grosso quanto un ombrellone da spiaggia. Il ragazzo dai capelli neri lo evitò usando la falce come trampolino e corse sopra la gamba, sfocata per la velocità, per accostarsi a lui. Il generale accentuò il ghigno, dandogli conferma che se lo aspettava, ma nonostante questo Sakuro non esitò a ritirare la catena per avvinghiarla attorno al corpo del villain.

Fu una fortuna che l’avesse fatto, perché un coltello lucente apparve nella sua mano cicatrizzata e affondò verso la sua fronte, costringendolo a parare con l’estremità della kurisagama, appena richiamata a sé. Un ciuffetto di capelli gli si mozzò, nella brutalità del colpo. Urlò cercando di reggere l’impatto delle superfici metalliche, che sfrigolavano a contatto fra loro. La lama oscillò pericolosamente verso i capelli sciolti dell’immortale veterano, poi tutto finì quando nuovamente il suo braccio sinistro allontanò Sakuro nell’antigravità, facendolo boccheggiare. Una costola s’incrinò, ma non era nulla. Niente in tutto, se significava batterlo.

Un battito d’ala e gli fu di nuovo addosso, costringendolo a scuotersi come un dannato, per scrollarselo di dosso. Le braccia di Armday iniziarono a rafforzarsi, ma la catena del fratello sopraggiunse in extremis e serrò la gamba sinistra, legandola indissolubilmente. Nello stesso istante, sopraggiunse Asia che conficcò la metà spezzata del bambù nel suo braccio destro, usando tale ferocia da penetrare nel fianco esposto. Sakuro calò sull’uomo con la falce, costringendolo a difendersi con l’ultimo braccio rimasto, impugnando il coltello con la mano meno abile.

Pur in tutta quell’oppressione di attacchi, Armday analizzava la situazione nella più totale consapevolezza dei suoi limiti. In quel confronto a uno a uno con il gemello più grande, in cui urla dilanianti spezzavano la zona spaziale d’Infection, comprese che quei tre erano aveva riportato gravi ferite, ferite simili, anzi pressoché identiche... le stesse che aveva inferto a quell’arguto demone dagli occhi di ghiaccio.

Sakuro lanciò il consueto richiamo: «Shirajjj!»

Stava dando il tutto per tutto, per cercare di vincere sul suo campo: il campo della forza bruta, il campo del pura prestanza fisica.

«Naikammm!» fece eco il fratello, schizzando in aria, presumibilmente per disarmarlo del coltello.

La ragazza iniziò a tempestarlo di nuovi colpi, sempre più precisi ed efficaci. Lo stavano sopraffacendo. Lo stavano completamente soverchiando. O meglio... era quello che credevano di star facendo. Avevano commesso due errori madornali: la sua gamba destra era ancora libera. Con essa da sola sarebbe probabilmente riuscito a scagliarli via tutti, ma ancora meglio a quel punto era... era usarla di nuovo!

Armday iniziò a fare a pezzi le giunture delle articolazioni provate, dei muscoli indolenziti per la mossa decisiva, quella che avrebbe chiuso i giochi, una volta per sempre. I nemici divennero formiche ai suoi occhi, gli attacchi a segno solletico, i movimenti miscugli di colore. Si erano avvicinati troppo: quello era stato il secondo gigantesco errore. Peggiore di qualunque errore occorso nella sua lunga carriera da soldato, eccezion fatta forse per la sua terribile minchiata: la mancanza di giudizio con Viticcio, che aveva causato una catastrofe.

Come avevano potuto commettere un errore così balzano e ovvio? E avevano visto il disastro della città, i palazzi che cadevano, la loro fine prevenuta all’ultimo. Gli occhi rosati e i due occhi rossi erano ancora sicuri, fiduciosi nella vittoria. Non restava che agire. Al rimorso avrebbe pensato poi. Mancavano solo loro e Yunix... Loro e Yunix... loro e YUNIX.

«MUTUAL...» Le braccia esplosero di botto arrivando alla grandezza di piccoli capannoni e sbalzando via i tre, presto seguite dalle gambe, dal volume di due torri d’avvistamento. Il generale sentì già il cuore mancare un colpo e non aveva che sfiorato il principio della mossa definitiva. Sorrise come uno squalo, i capelli divenuti alghe bionde nell’antigravità. I tre ragazzi erano alla deriva, tanto letteralmente quanto mentalmente. “Fine dei giochi!” «Destructi-!»

Un pensiero inquietante si fece strada in lui.
“Le ferite sui loro corpi uguali a quelle di Yunix... il fatto che si avvicinassero di proposito... non è che per caso... lo hanno rimesso in sesto e quel bastardo... ha rivelato un piano... un piano appositamente creato per la mia Mutual? Ma... ma... ma non possono evitarla! Anche con il Quirk che li fa sprofondare... non ci sono superfici in cui farlo... In nome di Dio, che hanno in mente?”

Guardando meglio notò che i tre erano stranamente in riga, seppur distanziati, come se fossero legati. L’uomo impallidì. “Per Dio! Sono legati!” La catena color ebano di Sakuro si era avvolta come un serpente alle sei cosce.

La ragazza snella sogghignò alla sua tarda rivelazione e si voltò, come un’equilibrista su un filo, dandogli le spalle e spezzando un bastoncino. Dal corpo del generale, ormai impossibile da frenare scaturirono canne di bambù abbastanza lunghe da poter essere le travi di un ponte.

«ALT! No! Nossignore! NON VORRETE MICA...»

Ormai fermare Mutual Destruction era impossibile. Gli impulsi erano stati dati. Lui era... lui era stato...

«Faremo i complimenti a Yunix da parte sua più tardi, generale! Mandi presto sue notizie...» esclamò Sakuro, mentre il fratello pronunciava le parole fatidiche: «Nel sottomondo!»

Prima che il braccio enorme potesse tranciarli come sacchi di carne, Sekiro, Asia e Sakuro sprofondarono dentro le aste di bambù. La mano del fratello maggiore, l’ultima a scomparire levò un segno di saluto.

Il generale iniziò a gridare, sovrastando il silenzio vuoto del buio informe che lo attorniava. Scatenò tutti gli arti, deciso ad andare avanti fino a che non fossero riemersi. La lavanderia, le piattaforme, le aste di bambù e tutti i pianeti nelle vicinanze furono macinati dalla incommensurabile potenza delle braccia e delle gambe utilizzate come i tentacoli di un kraken. Da qualche parte, a debita distanza, sicuramente lo osservava Yunix, orgoglioso per il successo di quello stupido inganno a sue spese.

“Come ha fatto, con così poca esperienza, a fottere un veterano come me? No... non è un caso. Non c’è alcun dubbio: sarà davvero un demone forte quanto Copy&Paste!”

Pianeti su pianeti, nell’antigravità da tempo immemore, cadevano come mosche, distrutti dai pugni e dai calci letali di Armday, ma del ragazzo dai capelli grigi o dei suoi amici neanche l’ombra. Ogni attacco era più legnoso e pesante, ogni nuova mossa più logorante. Quando infine l’inferno di attacchi rallentò e s’interruppe, Armday fu certo di essere a zero. Non era rimasto un singolo appiglio di lì a centinaia di metri. Non che sarebbe servito... era out.

Voleva urlare, gridare, stornellare al mondo la sua disperazione, ma fu con tono pacato che ridacchiò.

«Dio mio, sono stato battuto. Eccome... battuto da quel cazzo di demone. Va là... chi l’avrebbe mai detto che il mio destino sarebbe stato questo? Eheh... Elmer, forse tu...» sussurrò sollevando un braccio, «forse tu lo sapevi già».
La calma lo pervase, assieme a un bisogno irreprimibile di chiudere gli occhi, forse per sempre.

«Sei degno di questa vita, a quanto sembra, Yunix Braviery... forse non sei nemmeno più quello di quella notte! Bah, tanto saranno loro a pagarne le conseguenze, sai!? Senza di me, senza quelli come me: i demoni che uccidono i demoni... nessuno potrà colorare le loro vite, le vite dei membri della tua famiglia, le vite di tutti gli abitanti di questo grigio pianeta». Il discorso di commiato del generale si concluse con una nota dolente. «Già... un soldato che non ubbidisce agli ordini di un superiore... non è che insubordinazione. E tu per me eri un superiore Elmer... no, neanche, ma che dico? Eri superiore e basta... Non avresti mai dovuto affidare il tuo sogno a me... io voglio solo crepare nel peggiore dei modi, smettere di essere intrappolato in questo schifo che chiamano mondo».

Le stelle fittizie gli parvero le stesse di tredici anni prima. Il suo lungo mandato era agli sgoccioli, così come la sua volontà di andare avanti. Ma lo era davvero? Era quello che il generale non capiva.

“Smetti d’illuderti, tu sei solo un villain, il villain Armday... e mai, mai potresti rendere questa vita migliore a chicchessia... smettila”.

Non c’era dubbio: era di nuovo quella notte, la prima notte in cui aveva pianto. Era quello scenario che era destinato a vedere ancora una volta. Perché mai? Non valeva nemmeno la pena di continuare a provare, che senso aveva andare contro Dio a tutti i costi?

«Hai fede nel mondo, pur sapendo che è sopravvalutato... dev’essere un desiderio innato, che vuoi spegnere con la tua guerra... ma... fino ad allora... sarai colui che proteggerà le vite di tutti dai demoni della nostra società malata. E so... che saprai farlo meglio di me...»

Armday balbettò qualcosa, la pelle fumante scossa da un brivido. Quelle parole... era di nuovo lui? Fece tre mezzi giri su sé stesso, guardando i dintorni a 360 gradi, ma del soldato scabbioso neanche traccia. Sospirò con flemma.

«Meglio di te, meglio di te? Ma quante cazzate spari, Elmer Grayne!? Non sono riuscito a concludere nulla, non vedi? Sono un perdente, un perdente del cazzo! Non lo vedi che ho perso?»

Sconfitta... una parola così semplice da pronunciare, ma così difficile da accettare, o perlomeno questo era quello che si pensava. Per uno come lui, invece, che aveva costruito tutta la sua vita su una sconfitta, era rasserenante arrivare infine ad accoglierla.

“Non posso proteggerli, compagno, non posso..! Sono allo stremo, ho perso e devo accettarlo”.

Eppure, non riusciva a togliersi dalla testa le immagini dei soldati massacrati nella sabbia immobile, i cadaveri spazzolati via dall’acqua nella strada buia vicino al porto, il suono della cantilena di Viticcio in mezzo al deserto, gli occhi ghiacciati di Yunix che gli ammiccavano con aria demoniaca.

“Ho perso, fattene una ragione, Elmer. Ormai sono libero dal mio passato”.

Il ragazzo imbrattato di sangue della sua memoria non distoglieva lo sguardo. Aspetta. No. Non era affatto vero. Lui non aveva ancora perso. Non ancora. Non finché avesse avuto quell’impulso recondito, quel desiderio latente. Un fondo di vernice era rimasto nel secchio, vernice grigia e rossa come il non senso e il sangue, la vita e la morte.

«No, certo che no! Io non ho ancora perso! Non ancora! Posso ancora proteggerli, perché anche io posso combattere senza un Quirk!»

Il generale sollevò le braccia e sfoderò i muscoli, attingendo al pozzo profondo dentro la coscienza di ognuno, un luogo in cui nessuno si sarebbe avventurato, senza essere pronto a mettere repentaglio l’essenza stessa della sua anima. Aveva perso completamente la sensibilità, ma il suo corpo continuava a rispondere ai comandi, come un vecchio robot arrugginito, invaso da un’energia sconosciuta.

Emersero dall’ombra. Tre. Tre guerrieri ancora giovani, ancora figli dell’estate, e ancora ignari di quanto grigiume li attendeva. Lo attaccarono senza esitazione, senza una parola, senza un fiato alcuno. Il generale smise di pensare e rispose ai colpi con la medesima concentrazione. I capelli allo strato brado gli passavano davanti agli occhi, nella concitazione del combattimento. Le catene limitavano i suoi movimenti e ogni volta che un braccio o una gamba finivano nella loro morsa, Armday credeva di non riuscire più a liberarsene, poi era la volta dei bambù, che lo ingabbiavano in una serie di travi rigogliose, poi degli attacchi corpo a corpo dei ragazzi, che infliggevano seri danni alla sua pellaccia macellata. Lui controbatteva con la sola forza delle braccia e delle gambe, come se ne andasse della vita in tutto l’universo.

«Arrenditi!» «Arrenditi!» «Arrenditi!»

Quella parola, pronunciata in mille salse, non riusciva ad accettarla. Non poteva accettarla.

«Arrenditi!» «Arrenditi!»

Armday fece un sorriso deforme, resistendo tenace alla vomitevole quantità di attacchi.

«Voi do-vrete... UCCIDERMI!»

Pochi secondi e tutto sarebbe finito. Pochi secondi e si sarebbe recato all’inferno che lo aspettava. L’unico rimpianto: non poter più vedere lui... neanche una volta. Neanche una volta. Armday provò una rabbia bruciante.
“Perché... perché... non sono anche io un angelo!?”

Asia, Sakuro e Sekiro si alternavano in quella danza mortale di fendenti e mazzate, tanto che ormai il generale vedeva solo il rosso del suo sangue.

“No, non è vero... il mio unico rimpianto... non è quello... e nemmeno di non aver protetto nessuno da quei demoni... quella vita è di un altro. Non è quello che mi tormenta, Dio santo. La verità... la verità fottuta è che non riesco a smettere di voler continuare a vivere”.

Gli occhi del generale tornarono a vedere il mondo attorno a lui. Quale generale si sarebbe ritirato dalla sua posizione prima della guerra più grande a storia d’uomo?

«Sopravviverò, Elmer!»
 

Sakuro notò d’istinto qualcosa di diverso nell’uomo di fronte a sé. Proprio quando sembrava che lo avessero sopraffatto e che lui lo avesse accettato, la sua bocca si mosse a formare delle parole e luci nuove danzarono sulla sua faccia. Il mostro di sangue ebbe una specie di convulsione, come se stesse chiamando a sé le ultime risorse per un gesto disperato.

«Asia, fratello... via!» Sekiro, si fermò a metà di un attacco, obbedendo senza discussioni al richiamo del gemello. La ragazza invece non si arrestò e menò una bastonata devastante alla testa del generale, che non aveva alcun modo di evitarla. Eppure, di fronte ai loro occhi, il villain balzò via alla velocità del suono, allungando la distanza fra di loro di oltre cinquanta metri. Asia gemette e si mise le mani fra i capelli, scossa da un fremito.

«Come ha fatto!? Che superficie ha usato, adesso?»

Il ragazzo accusò solo in quel momento l’enorme mole di fatica e dolore dovuti tanto alle ferite di Yunix, quanto al fatto che nessuno di loro aveva fatto una singola pausa da quando avevano attaccato il generale.

«Lì... giace la tua risposta».

Asia sbarrò gli occhi. Sotto di loro, soffiando profusamente, c’era Elmer Jr., la bestia che aveva rinvigorito Armday di energia, quando l’aveva completamente esaurita. Il piccolo stegodonte serrava e apriva i canini, come se li stesse deridendo tutti. Non aveva mia smesso di seguirlo.

«E quello? Non mi dite che è il suo animaletto?»

«Inseguiamolo...» sussurrò Sekiro, allo stremo. «Avendolo usato come appoggio per saltare, l’energia che gli ha condiviso dev’essere stata poca».

La carcassa sanguinolenta che era Armday si era appostata su una roccia e si era messa ad osservarli. Era conciato così male da far dubitare che fosse ancora un essere umano. La testa era un conglomerato appiccicoso di carne e sangue, i capelli erano striati di poltiglia colante. Il corpo era ritto in maniera scomposta e innaturale. Del vestito non restavano che brandelli macchiati e fasci squarciati. Solo gli occhi d’ambra sembravano umani e fu con quelli che il generale li zittì tutti. Era semplicemente troppo difficile non notare la forza intrinseca che li animava. Sakuro, per qualche oscura ragione, percepì una grandissima pietà per lui. L’uomo sollevò e chiuse i pugni, ridendo per quello che poteva.

«Soldati, è ora di dirsi addio! Spero che l’addestramento vi sia piaciuto! Ho cercato di renderlo il più colorato possibile... però non sempre le cose vanno come dovrebbero. Spero che parteciperete tutti alla prossima guerra... forse quel fatidico giorno... forse quel giorno... spero che saremo dalla stessa parte degli schieramenti!» La voce ispiratrice era così infusa di speranza che Sakuro non riusciva a non crederci. «Lasciatemi, ora! Lasciatemi provare a fare del bene! Lasciate che corra per la mia strada!»

Il generale fece dietro front e scomparve, un leggero riverbero bluastro che lo percorreva.

«Ha ricevuto un po’ di energia! Mettiamoci alle sue calcagna!»
Asia represse la fatica e usò il gatto, ora mansueto, per spingersi verso la zona dove il generale stava fuggendo. Vedendo che non era seguita, si voltò verso i gemelli.

Sakuro si preparò a parlare, la voce tremula.
«Forse dovemmo lasciarlo andare... non so come dirlo...»

Asia era incollerita.

«Cosa? Dopo tutto quello che ha fatto!?»

«Non m’interessa» disse Sakuro, irremovibile. «Non vedi come l’abbiamo ridotto? Ti sembra un comportamento da... Non voglio più avere a che fare con questa storia... vieni, fratello. Andiamo incontro agli Heroes!»

La ragazza gli sbarrò la strada, le gambe che tremavano.
«Oh, nonono! Non puoi andartene ora... non dopo quello che abbiamo fatto per batterlo! Mi porto quelle ferite addietro perché so che sono il prezzo da pagare perché venga sbattuto in cella!»

«Nay! Non metterò a rischio le nostre vite per nulla!»

Sekiro fischiò a qualche metro da loro, per silenziarli, come l'arbitro di una partita di football.

«Mi sembra che non riusciate a vedere il nocciolo della questione».

Il ragazzo sospeso nell’aere era più serio che mai, pur essendo il più sfinito dei tre.

«Questo tuo atteggiamento...» incominciarono allo stesso modo i due, come se stessero sgridando un bambino. La cosa li irritò alquanto. Sekiro non attese che finissero di guardarsi in cagnesco.

«Nel senso... c’è forse qualcosa che ha detto che vi abbia fatto pensare che abbia smesso di dare la caccia a Yunix? Ha solo detto che vuole “Fare del bene”. Uccidere Yunix non farebbe forse parte di questo bene di cui parla?»

Asia e Sakuro rimasero senza parole. Le supposizioni del ragazzo taciturno non facevano una piega ed era per quello che apparvero così terrificanti.

 
Armday si faceva largo nell’antigravità, come uno squalo a caccia di cibo. La sua mostruosità non lo toccava granchè. Cazzo... semplicemente ora ciò che aveva dentro risaltava anche fuori e gli andava bene così. Tutti dovevano vedere quanto fosse facile passare da umano a demone e da demone a umano in quel mondo sopravvalutato.

“Bene, bene, questo è l’ultimo atto! Ora o mai più! Mi basterà pensare con la mente di quel bambino per capire dove si è nascosto, poi potrò avere il mio periodo di congedo”.

Si doveva essere nascosto dietro qualche grande pezzo di arkastro, presumibilmente a est, ossia da dove i tre ragazzi lo avevano sorpreso con il loro piano. Era di vitale importanza chiudere la questione nei prossimi minuti, altrimenti avrebbe perso definitivamente. Non fece in tempo a pensarlo che avvistò il ragazzo scombussolato, probabilmente per la sua presenza, su una roccia a un centinaio di metri dinnanzi a lui. Digrignando i denti, fece un salto in avanti, per raggiungerlo in un attimo.

I “pianeti” sfrecciavano così veloci di fronte ai suoi occhi gocciolanti sangue, che gli sembrò di correre in un vortice di roccia, poi qualcosa di nuovo entrò nel suo campo visivo, qualcosa di estremamente fastidioso: un ragazzo basso, probabilmente del test, che sorrideva nella sua direzione, come se stesse aspettando un taxista che lo portasse alla sua abitazione. Era in piedi su una bellissima macchina violacea, in posa come un rockstar. Armday scosse la testa, non rallentando di un pizzico.

“È pieno di montati all’HG, comunque... chissà che eroi che verranno fuori da quest’annata!”

Il ragazzo però non rimase con le mani in mano, ma evocò due fiammelle di colori diversi sui palmi delle mani.

«YO, Villain! Io mi fermerei, se fossi in te! Lo dico per il tuo bene!»

“Ma che fa, mi prende in giro? Ringrazi che non lo ammazzo” meditò il generale, facendo per oltrepassarlo.

«Fuori dai piedi, poppante!»

«Hmm... Fattelo dire, sei proprio arrogante... troppo arrogante... sembra che qualcuno debba metterti al tuo posto! Non avertene a male, se ti sentirai un po’ indietro rispetto a me... è normale le prime volte». 

Armday arricciò il naso.
“Ma dorme o piglia pesci? Non è che un ragazzino... cosa potrebbe mai...”

Il ragazzo fece un sorrisetto e un’ondata incredibile di fiamme si riversò fuori dal suo corpo. Illuminarono il villain a giorno e si distesero per centinaia di piedi, arrivando a toccare pianeti fuori dalla visuale del generale. Sembrava avessero invaso l'intero cosmo. In mezzo si stagliava il ragazzo, che gli fece un occhiolino significativo con dei profondi ed esoterici occhi viola.

«Salve, io sono Coal, Coal Naive! Piacere di fare la tua conoscenza, villaaaain!»




Note d'autore:
Altro capitolo parecchio lungo. Col prossimo, lo scontro con Armday avrà finalmente fine, ma chissà... forse il generale ha ancora carte da giocare. Nel frattempo, questo è quanto. Se volete capitoli più corti, ma più frquenti fatemelo sapere in una recensione. Ho riflettuto riguardo allo spezzare questo in due, ma non mi andava di allungare ancora il brodo. Spero che il capitolo vi sia piaciuto e alla prossima, non mancate :) 

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Capitolo 22
*** Il Commiato di un Generale - Parte Terza: La tracotanza di Coal Naive ***


Il Commiato di un Generale - Parte Terza: La tracotanza di Coal Naive


«Dunque, dunque, dunque... vedo che alla fine ti sei fermato. Il tuo corpo ha detto “no, di qui non si passa”. Saggia decisione. Certo, mi hai costretto a usare le maniere forti, ma un po’ di rodaggio non fa mai male a queste simpatiche fiammelle. Allora? Non sento la tua voce chiedere pietà... cos’è, ti hanno tagliato la lingua?»
“Qualcuno gli metta una pietra in bocca, per Dio!” Armday era sconvolto. “Non esiste...  Un tale potere... questo ragazzo non sarà mica più forte di Endeavor!”
Era come ritrovarsi immerso nella luce di un migliaio di riflettori, come se una folla di persone con delle fiaccole fra le mani attendesse la sua performance, ma in realtà l’unica presenza umana era lì davanti a lui e lo osservava. Faceva appena contrasto nel mare di fiamme viola che aveva occupato completamente la sua visuale. Per il rotto della cuffia, era riuscito a rintanarsi sopra il rudere di un ponte di ferro e scampare a quelle lingue fiammeggianti, ma ora cos’altro poteva fare?
«Non è possibile...» bisbigliò, crollando sulle ginocchia.
Con il corpo forzatamente fermo, tutto il dolore fisico che era riuscito a reprimere nella sua innaturale trance agonistica, era tornato più penetrante che mai. Non sarebbe rimasto cosciente a lungo.
«Alza le mani, villain... lo dico per il tuo bene. Sai com’è: non vorrei che mi facessi prendere dalla foga del momento. Alzale, alzale bene in vista. Andiamo, andiamo! Non farmelo ripetere».
Il tono di voce era fastidioso, ma anche molto misurato, come se il ragazzo non stesse semplicemente giocando con lui. Il generale non riusciva a vedere la sua faccia, ma la immaginava ritorta in una smorfiosa espressione di superbia.
«Col cazzo che le alzo, bamboccio
Il fuoco che attorniava il giovane si diradò di un poco e divenne bianco argenteo.
«Non sono un bamboccio, villain: non più di quanto non lo sia tu». Con il pollice s’indicò il volto. «Sono Coal, Coal Naive e in questo momento rappresento la legge... se la legge ti condanna a morte, allora sarà mio dovere giustiziarti...»
Si passò un dito sulla gola, facendogli l’occhiolino.

Ora lo vedeva con chiarezza. Era effettivamente solo un ragazzino; di sedici anni verosimilmente, sebbene non ne dimostrasse più di tredici. Sfiorava a malapena il metro e mezzo di altezza, non era particolarmente ossuto, ma neanche mingherlino. Il petto era scoperto, aveva lacerato la divisa della scuola per formare una specie di cappa sulla sua schiena, neanche fosse la pelle di un giaguaro. I suoi pettorali erano appena definiti e presentavano striature nerastre orizzontali su tutta la loro superficie. Le mani erano grandi, ma composite; il viso tondo e sudaticcio, probabilmente a causa del calore delle fiamme. Piccoli nei e lentiggini punteggiavano le tempie e il naso lievemente adunco, lasciando invece perdere le guance annerite. La pelle era di un colore pressoché uguale a quello della cotica del maiale arroventata. Gli occhi invece erano minuscole gemme violacee dall’aria esotica, capaci di dire tutto e niente su quali avventure avessero già intrapreso. Quello che però risaltava più di tutto il resto erano i capelli. Neri come il carbone, erano disposti come tanti artigli attorno alla nuca, quasi a formare le braccia di un grande braciere. Sicuramente l’intento era quello, perché fra i vari ciuffi sagomati, danzava allegra una fiamma solitaria: il soldato faticava a identificarne il colore, perché continuava imperterrita a tramutarsi in arancione, bianco, viola e rosso, senza una vera e propria transizione tra una tonalità e l’altra. Quando si era imbattuto nel ragazzo poco prima, gli era totalmente sfuggita: la perdita di sangue stava cominciando a indebolire tutte le sue funzioni, non c’era dubbio.
“Forse è la fonte del suo potere...”

«Cosa rispondi dei tuoi crimini, mio dolce e caro villain?» lo canzonò Coal.
Armday trattenne un’imprecazione, osservando quel viso infantile e sagace etichettarlo subito come un brutto scarafaggio. D’altronde, era ciò che facevano tutti...
«Cosa ti dà il diritto per giudicarmi, mostriciattolo?» ringhiò, incespicando sulle parole.
«Lo stesso diritto che hai tu di essere qui a fare brutto e cattivo tempo, senza che nessuno te lo abbia permesso. Insomma... se qualcuno di lassù avesse qualcosa da ridire e me lo venisse a dire, io sbaraccherei banda e burattini seduta stante. Ma siamo uomini, siamo ambiziosi e meschini. Aspiriamo tutti a essere versioni perfette e complete di noi stessi, ma sfiliamo sempre sopra un tappeto deforme e serpeggiante, che fatica a essere liscio e setoso come vorremmo. Questo... amico... è il serraglio entro cui ci dimeniamo».
«Parla per te, figlio del demonio! N’penserai davvero che sia qui per parlare di filosofia con un sedicenne ancora pieno di latte...» scattò all’indietro prima che il giovane potesse reagire, «Nossignore, ho altre mire! Cazzo, se ne ho!»
Con un moto di repulsione per il suo corpo mostruoso, che gli faceva cenni dall’arkastro illuminato dalle fiamme, riuscì a raggiungere il bordo del ponte.
“Il suo fuoco è... largo, ma basta uno sguardo per capire che il bimbetto è un pezzo di legno. Se lo semino, passando sotto di lui, potrò raggiungere Yunix in me che non si dica”.
Fooosh!
Fu sufficiente sporgersi per un istante, perché realizzasse che era stato completamente tagliato fuori: fiamme viola a forma di arpioni avevano fatto tutto il giro del ponte e si stagliavano come una barriera di rovi sotto tutta la piattaforma di ferro battuto. Mise un piede in fallo e rischiò di cadere nel fuoco colorato. Mantenne il controllo solo in virtù dei grandi gomiti che conficcò su delle trapunte per tenersi su, mugghiando per il nuovo intenso dolore.
«Ehi, guarda che non ero lì a parlare a vuoto, caro mio... mentre ti illustravo un paio di facezie del mestiere, ho condotto le fiamme fin sotto di te, così magari ci avresti pensato due volte prima di ricominciare a corricchiare su e giù per questo planetario in miniatura. E ora...»
Armday si girò, in tempo per vedere Coal che schioccava le dita rilassato. Immediatamente alcune delle fiamme viola sotto il ponte si ersero come grandi teste draconiche, torreggiando sopra il generale dall’alto.
«Ora sei in gabbia, mio caro bandito... e stai pur certo che sarai solo il primo di tanti ad essere preso in custodia dal grande e inimitabile Coal Naive. Non c’è più scampo, villaaaain».

«Chi diamine è quello?» chiese lugubre Sekiro, saltando da un pianeta all’altro il più veloce che poteva.
Lo spettacolo di fuoco violetto era come un faro nella notte.
«Oh beh... lui è Coal Naive... è stato con me per buona parte del test. C’è da dire che... sì, così a occhio, la sua potenza sembra quasi inarrivabile».
Sakuro percepì la tensione nella sua voce.
«“Sembra?”»
La ragazza non disse altro, ma strinse i denti e raddoppiò i suoi sforzi per raggiungere il villain.

«Come vedi, caro il mio generale, sono lo sceriffo di questa regione e tu sei finito nella lista nera, quindi ti prego di non avertene a male se ora mi prenderò la libertà di consegnarti alle forze superiori».
“Sei un clown, altroché!”
Coal aveva creato una stella e un cappello western modellando le fiamme e ora entrambe facevano la loro pacchiana figura rispettivamente sul suo petto e sulla sua nuca.
“Però n’ha tutti i torti...” Armday respirava male e stava pure peggio, era già con un piede nella tomba e la cosa si faceva più evidente ogni secondo che passava. “Quel breve contatto con Elmer Jr non mi porterà da nessuna parte”.
Coal balzò audacemente in avanti, un microfono scoppiettante di scintille nella destra.
«Ma vorrei anche sentire le opinioni dei miei colleghi prima. Un bell’applauso per i grandi dell’HG!»
Armday ebbe un mancamento e si girò di scatto, aspettandosi di vedere gli Heroes. Invece, dall’oblio in cui li aveva abbandonati erano giunti Asia, Sakuro e Sekiro, che si arrestarono su tre blocchi diversi di cemento: il gemello più alto a malapena si reggeva in piedi.
«Che stai facendo!?» domandò Asia inviperita, alludendo ai serpenti fiammeggianti che si attorcigliavano sul rudere sopra cui lui si trovava. Coal scrocchiò il collo e sollevò con maestria il polso per mostraglielo. Uno dei dieci radar forniti a inizio test ai ragazzi lo cingeva.
«È stato assai difficile capire la vostra posizione a causa dell’antigravità, ma alla fine ci sono saltato fuori... una bella impresa, considerando che ho anche catturato il Sergente Carcassa, non credete? Comunque, state tranquilli, non necessito i vostri elogi». Il ragazzo li passò in rassegna uno ad uno, poi soffoco uno sbadiglio. «Senza contare... che probabilmente sarò il primo classificato della prova d’ammissione, una volta che questa impresa mi sarà riconosciuta».
«Che arroganza» sibilò Sakuro, già provato a sufficienza dall’umorismo penetrante del generale.
«E non hai conosciuto Jimmer...» disse Asia mettendosi subito le mani alla bocca per farsi udire meglio. «Coal, lasciamo a dopo queste... cavolate! Immobilizziamo il villain e chiudiamo la faccenda!»
Il ragazzo dai capelli a braciere non fu elettrizzato dalla proposta. Piegò la testa di lato, appoggiandosi sul gomito, anche se in realtà non c’era alcuna superficie su cui sostenersi. Le fiamme si spostarono con lui di qualche centimetro, ma non cambiarono colore. Armday fu certo di vederlo barcollare per un istante, quando il fuoco sfiorò l’auto d’epoca su cui stava in piedi. Forse era stata una coincidenza, ma raramente le cose accadevano per caso in un mondo in cui tutti erano unici... tanto più che quel veicolo sembrava completamente insensibile al calore stesso. Come una fabbrica appena inaugurata, la sua mente riprese a lavorare e il generale comprese che non tutto era perduto. Coal, d’altra parte, non si prese nemmeno la briga di guardare i compagni in faccia.
«Hmm... sul serio? Proprio ora che iniziavo a conoscerlo meglio? E tanto per dire... se poi sarete voi a prendervi il merito per averlo preso? Ti dirò, non mi va molto a genio come cosa».
«Non è un gioco, Coal».

Il ragazzo si costrinse a guardare Asia negli occhi. Lo scambio durò meno di un secondo. Tra i due sembrava esserci una certa intesa. Coal schioccò le dita e parte delle fiamme si diradò per lasciare spazio ai tre ragazzi. Aveva un viso rassegnato.
«Avanti, dunque... a te l’onore, Leggenda Verde... Solo... no, niente, andate pure».
Il ragazzo voleva visibilmente continuare a strigliare il generale un altro po’ e questo andava tutto a suo vantaggio.
«Ma come!? Chini il capo così facile, facile? Chi sei veramente? Un ragazzo ambizioso o un servile piccolo idiota?»
Asia si bloccò.
«Coal...» ammonì.
Il ragazzo non aveva un’aria molto accondiscendente. Stracciato e sporco di cenere, fiamme dorate sgargianti sbocciavano sul corpo, come ardenti bolle laviche.
«Sentite un po’, ho cambiato idea» affermò con un sorrisetto. «Vi prometto che lo avrete presto, ok? Ma ora... l’ho fermato io e decido io cosa farci».
Per avvalorare la dichiarazione sbarrò la strada ai ragazzi appena arrivati con onde di fuoco variopinto. La luce illuminava a giorno la pelle screziata dei tre giovani, che furono costretti a fermarsi. La ragazza si rivolse ai gemelli, incerti su come agire. Forse fu il timore di mettersi contro quel ragazzino o la volontà di non complicare ulteriormente le cose, o forse ancora le ferite che i tre avevano riportato da qualsiasi rituale li avesse coinvolti. Fatto sta che Asia sospirò e si arrese.
«Fa’ come vuoi, Coal, ma fallo in fretta. Armday o come diavolo si chiama non è una persona con cui prendersela comoda».
Il soldato grugnì, aggradato. La sua testa pulsava orribilmente, ma riusciva ancora a ragionare anche se in maniera un po’ grossolana.
“Grazie mille, bambina. Vedrai, non te ne pentirai... nessuno di voi se ne pentirà”.
Tornò a concentrarsi sul ragazzetto, che si era messo a ridacchiare.
«Ehi, pezzo di merda. Cosa intendi con “decido io cosa farci”? N’vorrai mica...?»
«Oh, proprio niente, villaaaain, a meno che tu non mi lasci altra scelta. Allora... cosa scegli di fare? Ti arrendi oppure vuoi che forzi un pochetto la mano. Ti lascio tutti i secondi che vuoi, ma non più di un minuto. Lo sai, no? Il tempo è denaro!»

Il generale non chiedeva di meglio. Finse di guardare quel giullare di corte con timore reverenziale, ma in realtà i suoi occhi erano oltre, alla ricerca di un altro bersaglio, decisamente più succulento. Era certo che lo stesse sorvegliando da un po’. Voleva sicuramente essere presente quando e se avesse perso. D’altronde, pur con riserbo, Armday non poteva negare che era stato il piano di quel fottuto bambino dagli occhi ghiacciati a ridurlo in quello stato critico. Come pronosticato, lo avvistò, seminascosto in mezzo ad una cunetta, indifeso. Solo quella breve distanza separava Armday dal trionfo. Un incendio divorante si riaccese in lui, persino più intenso di quello che lo circondava.

«Vi proteggerò tutti! Proteggerò l’umanità! L’ultimo baluardo del mondo sono io!»
Sentì le braccia tremare sotto il peso della responsabilità, ma era un peso piacevole, che in qualche modo sopperiva al lacerante inferno che stava passando. Strinse i pugni, investito da quella missione evangelica.
Coal gli fece l’occhiolino.
«Non è una risposta, generale... ti arrendi o no? Sii sincero, mi raccomando... perché, lo sai, se non ti arrendessi per me sarebbe in assoluto il best ending!»
Armday focalizzò la sua attenzione su di lui.
“Ormai le tue fiamme non mi spaventano. Non più, se ho capito il loro gioco... non sei che un sassolino in mezzo alla ghiaia... ma per me è sufficiente questo... non c’è nulla di male nell’essere grigi”.
Non si lasciò sfuggire un gemito, mentre fletteva il tronco della gamba e abbatteva il ginocchio sull’asfalto, malconcio come un animale scotennato, mantenendo però i sensi all’erta.
«Già, non prolunghiamo oltre questa farsa...»
Coal protese l’orecchio per sentire meglio: pendeva dalle sue labbra.
«Come dici? Hai per caso...»
Proprio quello che voleva sentirsi dire.
«Sì, non farmelo ripetere, per Dio! Ho... ho perso».
Il ragazzo fece un cenno ai tre come per dire «ve l’avevo detto», poi scrollò le spalle ed evoco addirittura una spada di fuoco.
«Hmm, se è così che stanno le cose, il mio animo misericordioso non può che accogliere la tua resa! Non torturerò un nemico che si arreso al mio cospetto, né gli verrà fatto alcun male... questa è la legge!»
Coal sollevò la spada e con solennità la sollevò in direzione del villain.
«Nel nome dell’HG e di tutta la città di Temigor...» Armday grattò il terreno con le dita, sempre più grandi, senza nemmeno più prestare attenzione alle parole del giovane. Lo stesso valeva per il ragazzo, che nella sua tracotanza pensava di averlo già messo nel sacco. «...io, Coal Naive delle terre di Northshire, ti condanno ufficialmente per tutti quanti i crimini che gravano sulle tue... spalle o su ciò che ne rimane...» il villain si tirò su con lentezza, confidando che le fiamme colorate lo celassero almeno parzialmente alla vista. Cascate di terriccio, ciottoli e sassolini piovvero sul terreno, senza che Coal avesse il minimo sentore che qualcosa non andava. «Al tuo ritorno in libertà so che sarai una persona nuova, temprata dal risentimento verso...»

«COAL! ATTENTO!»
La ronin wannabe lo aveva colto sul fatto, ma comunque...
“Prima la destra, poi la sinistra... cela l’attacco dentro l’attacco: deve essere una cazzo di matriosca!”
Le mani gigantesche di Armday erano già in azione: come grossi onagri scaraventarono una miriade di detriti contro Coal, ancora impegnato nel suo sermone. La sua prontezza di riflessi però fu sorprendente. Al richiamo d’allarme, la mano del ragazzo dagli occhi viola si era già levata eruttando un vortice ardente, che fuse completamente i proiettili lanciati dal generale, rallentati dalla gravità. Il putiferio che ne seguì fece passare inosservati i detriti che il generale, pur con minor forza, aveva lanciato più in alto. Quando il fuoco si disperse ad attendere Armday c’era il viso furibondo di Coal.
«Assolutamente imperdonabile... A- assolutamente!»
I suoi occhi si rimpicciolirono, mentre il ragazzo distendeva l’avambraccio. Persino le fiamme sembrarono oltraggiate, come se partecipassero all’ira del loro evocatore. Asia lo fermò, ormai così tesa da sembrare sull’orlo di una crisi di nervi.
«Basta così! Facci passare. Giuro che se te lo lasci scappare io...»
«Ho tutto sotto controllo proprio come prima, o forse hai bisogno di un paio di occhiali, milady? No, perché se vuoi posso anche procurarteli!»
«Pensa a tenerlo lì. Se scappa...»
«Non scapperà!»
«MA IO NON VOGLIO SCAPPARE!»
Il grido di Armday tappò la bocca a tutti quanti. Asia dovette riconoscere che aveva davvero una voce da generale: ruggente, autoritaria, intrepida; la migliore qualità dei condottieri era proprio quella, in fin dei conti.
«L’unico mio obbiettivo... è proteggervi!»
Coal trovò il coraggio di ridere.
«Sì, beh, tieniti queste storielle per quando sarai in aula, che ne dici?» Il piccoletto pensava ancora di avere il controllo, che illuso.
«Eheh... certo che lo farò, ma ora mi scuserai...»
Armday fece per saltare verso il ragazzo, che sbatté le palpebre incredulo.
«Ma dove credi di andare, Carcassa? Guarda che la campanella non è ancora suonata!»
«N’perderò altro tempo con una persona che ho già battuto...» dichiarò Armday, spegnendo il sorrisetto in un baleno.
«Ma di che stai..?»

Il ragazzo si arrestò. Un lungo taglio gli luccicava sul braccio. Il suo sguardo si spostò sulle gocce di sangue che cadevano a terra, il suo sangue.
«Che questo ti serva da lezione: mai dare un villain per sconfitto finché non è in cella!»
Una raffica di pietre e frammenti si riversò sul giovane a una velocità assurda, tale che c’era ben poco da fare per evitarli. Coal cercò di coprirsi la nuca, con le braccia, ma in men che non si dica era pieno di graffi, che lo fecero gridare di dolore, mentre le fiamme svanivano in uno sbuffo di fumo. Un pezzo di trave colpì la macchina, ribaltandola. Armday saltò su ciò che ne restava e andò oltre.
«Bella mossa, b- bastardo!» sentì affermare Coal, gli occhi macchiati di icore rosso, con un sorriso stampato in faccia.
“Però... ha capito cos’ho fatto in meno di pochi secondi... e non se la prende nemmeno quando perde...”

«BAMBU’ CAGE!»

Il generale scorse di sfuggita le canne di bambo sfiorarlo, ma proseguì oltre, senza mai fermarsi. Era l’ultima occasione: l’ultima delle ultime! Raggiunse il punto dove si trovava Yunix, in preda a un ceca ossessione, ma il bersaglio non era più lì.
«DOVE SEI? DOVE TI SEI CACCIATO!?»
Si precipitò verso il basso, guardandosi di qua e di là, nel tentativo di scorgere un dettaglio famigliare, un braccio o persino un’ombra. Dietro di sé, gli inseguitori si stavano riorganizzando: Sekiro si era gettato in soccorso del povero Coal, zuppo di sangue a causa delle innumerevoli lievi lesioni, e ora lo teneva tra le braccia esanime, Sakuro, il gemello dalle ali di sangue, si stava districando fra le piante di bambù che lo ostacolavano, smunto come un cencio: senz’ombra di dubbio era il più ferito tra di loro, anche se non lo dava così tanto a vedere. Asia era la più lanciata e prossima, ma non poteva competere con la sua velocità, anche se era mezzo morto. Neanche l’incredibile abilità e convinzione di quella ragazza potevano fare i conti con la sua forza d’animo. Nossignore, nessuna minaccia all’orizzonte, ma il generale sentiva il puzzo della sconfitta farsi pungente sotto il suo naso. Senza le fiamme di Coal, la strana area antigravitazionale era tornata buia come un buco nero e le probabilità di trovare Yunix...

“Dove può essere andato in così poco tempo? Ha capito che Coal non mi avrebbe fermato prima ancora che facessi la mia mossa?”
L’ansia lo stava divorando assieme al sentore che le forze lo avrebbero abbandonato da un momento all’altro. Non poteva rinunciare, non dopo tutti gli sforzi fatti e fu proprio allora che lo avvistò. Fu un colpo di fortuna. Per celarsi alla vista, il ragazzo si era nascosto in un’insenatura di fortuna, fra due muretti di mattoni, ma nel momento in cui aveva spiccato un salto per una piattaforma sottostante, mentre lui era di spalle, il generale aveva notato un movimento brusco nel riflesso dell’arkastro che aveva di fronte. Non perse nemmeno tempo a valutare le distanze e piombò su di lui come un drago.
«Yunix Braviery, me l’avevi quasi fatta!» Il ragazzo sussultò, colto sul fatto, e continuò a discendere, di piedistallo in piedistallo. «Non puoi più sfuggirmi, per Dio!»
Trenta metri, venti metri, dieci metri... Il mondo intero sembrò trattenere il respiro. Yunix si buttò disperato su un pezzo di strada di cemento e rimase immobile a guardarlo, tremando come una foglia. Armday si aggrappò a un comignolo, per evitare di saltargli addosso immediatamente.
«Yunix..! Finalmente... sei all’angolo». Il suo fiato puzzava di sangue. «Bene... non aspetterò che qualcun altro venga a tirarti fuori dai guai di nuovo. Spero che nella tua prossima vita...»
«No!» Il ragazzo deglutì, terrorizzato, i capelli più scompigliati di un’erbaccia. Si sollevò sulle gambe, sconquassando via la polvere. Quando ebbe fatto, fece un bel respiro e lo guardò dritto negli occhi, d’un tratto sufficientemente posato. «Prima... volevo chiederti una cosa... una cosa che mi stavo chiedendo da un po’... chi è per te Elmer?»

Quelle parole furono come una doccia fredda: il generale rabbrividì, sicuro di aver sentito male.
«N... non sai nemmeno chi...» minacciò, agitando aggressivamente le braccia.
«Lo hai nominato... diverse volte. Una volta lo hai addirittura chiamato angelo sceso dal Paradiso... Anch’io penso di avere... di avere persone che tengono a me da qualche parte... lui... era importante per te, dico bene?»

Armday si soffocò la bocca con una mano lorda di sangue.
«Massé... se fosse stato importante per me... forse non avrei fatto tutte quelle stronzate che ho fatto».
Yunix annuì, sorridendo.
«Lo ha ucciso un demone, non è vero? È per questo che dai loro la caccia...»
Armday scosse la testa, incantato.
«Due demoni, due demoni l’hanno ammazzato, uno dei quali ben più idiota dell’altro... ma no, non è il motivo per cui voglio sterminarli tutti, non il motivo principale».
Rocce scarnificate li circondavano. Migliaia di riflessi... migliaia di uomini insicuri in quei riflessi, migliaia di individui grigi e rossi, migliaia di ragazzi senza un passato.
«Già... tu sei un Hero, in fondo. Non mi stupisce affatto che tu voglia salvarli tutti» spezzò il silenzio Yunix, incrociando lo sguardo con lui.
Armday non riuscì a credere alle sue orecchie.
«In nome di Dio, chi eri quella notte?» chiese, «Perché ora sembri così diverso?»
Non ricevette risposta. Quella voce debole e raschiante sembrò bagnata come le sponde del Nilo, ma il ragazzo non piangeva.
«Hai vinto... non so come, ma hai vinto tu... e a chi vince spetta il premio. Evidentemente... non era destino che imparassi a vivere».
Yunix aprì le braccia e sbatté le palpebre. Riprese a tremare, anche se ora con una compostezza maggiore.

«Proteggi questo...» le parole gli morirono in gola, «questo mondo anche per me».
Armday era allibito.
“Dopo tutto quel combattere... si arrende così?”
«Non manca molto alla fine di questo scontro... decidi tu se vincerlo o perderlo. Io confido in te, Alan Straylight!»
“Ma non posso! Non posso più decidere... Se solo non avessi visto di cosa è stato capace quella notte... potrei semplicemente girare la testa dall’altra parte e dimenticare. Dimenticare, lasciare che tutto vada come deve andare, magari potessi! E invece... mi devo sporcare le mani con il sangue dell’unica persona che ha capito perché faccio quello che faccio”.
Armday si asciugò le lacrime e strinse il pugno destro.
«Ora o mai più!»

Per un’ultima volta, caricò il braccio di energia, lasciò che le articolazioni si diramassero e s’ingrossassero, che l’ossatura s’ispessisse e la pelle si gonfiasse.
“Davvero un Quirk da demone!” si ritrovò a pensare, ridendo per non piangere.
Inghiottì il dolore, le speranze, la riluttanza, tutto ciò che poteva fargli mancare il coraggio all’ultimo momento. Yunix l’osservò con timore e rispetto. Non una lacrima solcava il suo viso scolpito nella pietra.
«Ti ammazzerò con un solo colpo... non ho intenzione di fallirti, almeno in questo». Il ragazzo annuì. “Non c’è nessuno attorno a me... non c’è nessuno che possa intervenire. Che il destino davvero voglia questo? Non so nemmeno più perché lo stia facendo... so solo che devo farlo, che se fallisco ora fallirò sempre...”
Era solito gridare le sue mosse, ma non questa volta. Stavolta solo il silenzio poteva accompagnare quell’esecuzione. Invece, col cuore spezzato trovò delle parole farsi avanti sopra la sua lingua.

«Addio, Yunix Braviery, a te e al demone che ti porti ingiustamente appresso!»
Il generale si capovolse appoggiando i piedi sul comignolo per darsi la spinta, poi attaccò con tutta la forza che gli rimaneva. Fino all’ultimo, osservò quegli occhi... quegli occhi grigi, così innocenti e fieri... quegli occhi... ghiacciati!?  
Il ragazzo si raddrizzò, scostandosi di lato, evitando per un soffio il colpo mortale del generale che polverizzò completamente la roccia, man mano che la perforava. Il generale, ruggendo, precipitò oltre. Si sentiva tradito, ingannato, raggirato.
«TU!»
Yunix caracollò in avanti e cadde a gattoni, affacciandosi oltre la roccia a guardarlo.
«Mi dispiace... ma non ho alcuna intenzione di morire, generale! Te l’ho detto! Il vero Hero sei tu!» dichiarò il ragazzo, con voce abbastanza stridula da far capire che non era stato per nulla certo di riuscire a schivare quella mossa.
«Pensi forse di avermi evitato!?» ribatté Armday ridendo in preda alla collera, già pronto ad attaccare una seconda volta, ma si rese conto che il colore del cielo attorno a lui stava cambiando e che il volto teso, terreo, che il ragazzo portava su di sé si stava rimpicciolendo sempre più.
“Ma cosa? Non sono più nell’antigravità!? Quindi... era il suo piano fin dal principio? Farmi precipitare nella parte inferiore d’Infection!?”
Si rigirò, cercando invano di frenare la caduta, sbatacchiando le braccia e le gambe, come una gallina che cerca d’imparare a volare.
«YUNIX!!!»
“Giant Arms non può reggere una simile botta... non di nuovo... nel migliore dei casi morirò spiaccicato... nel peggiore, sopravviverò come un inguardabile spaventapasseri da tenere nel penitenziario come monito! E tutto per colpa di quel... di quel...”
I suoi occhi gonfi catturarono un’immagine che gli mozzò il fiato, lì, in mezzo alle macerie di Infection. L’altro demone... non quello che stava cercando di uccidere da ore... non il ragazzo incappucciato in quella strada annaffiata da una pioggia di sangue... NO.
Lui era...
«Shocking... Demons!»
Gridò così intensamente che la città tremò!

Yunix tenne il fiato sospeso per tutto il tempo della caduta. Gli ultimi minuti erano stati una montagna russa di emozioni. Prima c’era stato Armday che in qualche modo era scampato a Sakuro e aveva mandato all’aria tutto il suo piano (cosa che ancora doveva spiegarsi), poi l’inaspettato ma ben accetto intervento di Coal. Neanche a dirlo, non era bastato. Yunix era stato l’unico ad accorgersi che qualcosa non andava, quando il generale si era “arreso”: lo strano comportamento e la stessa scelta delle parole avevano acceso in lui un campanello d’allarme ben prima che la superbia del ragazzo venisse punita. Aguzzando lo sguardo, aveva notato anche le mani dell’uomo ricolme di ciarpame prossimo al lancio. La sua voce non era neanche lontanamente elevata al punto da poterli avvertire; perciò, il ragazzo aveva scelto l’unica alternativa possibile: giocare a nascondino con il minotauro. Mentre si trascinava lungo il tragitto di asteroidi, aveva assistito al triste epilogo della storia di Coal, che in cuor suo poteva anche aver avuto buone intenzioni, ma era evidente che avesse lasciato troppo al caso. Il vortice di fiamme aveva sì liquefatto il ghiaino scagliato direttamente contro di lui, ma aveva anche oscurato la modesta quantità di materiale che il villain aveva volutamente tirato un po’ più in alto. Proprio come quest’ultimo, Yunix aveva notato che quando a un certo punto la macchina su cui il ragazzo aveva dato spettacolo aveva sfiorato le fiamme, il piromante aveva perso la stabilità, quasi come se in quel fuoco la gravità non avesse le stesse regole (perché poi l’automobile d’epoca o anche gli stessi detriti non si fossero nemmeno vagamente danneggiati per il fuoco, non l’aveva compreso).
Facendo tesoro di quel casuale incidente, Armday aveva lasciato che i proiettili lanciati verso l’alto andassero a toccare il mare fiammeggiante e pirotecnico che si stagliava attorno a Coal, per poi cadere immediatamente su di lui dopo il primo contatto. Detto questo, il generale aveva avuto fortuna, perché se il ragazzo fosse “sopravvissuto” a quella raffica, il suo fuoco lo avrebbe arso vivo e ridotto a un tizzone, ma d’altra parte non era stato l’unico a fare scommesse con la propria vita. Lo stesso Yunix aveva dovuto attingere al più profondo auto-controllo di cui disponeva per mantenere i nervi saldi di fronte al villain, quando lo aveva avuto a un metro di distanza. Quell’uomo era una macchina di morte, ma ciò non voleva dire che non lo avesse capito: un reietto, più morto che vivo, dai desideri in conflitto e dal passato irremovibile. In quella società non c’era posto per quelli come loro, era chiaro, ma Yunix aveva ben più possibilità di recuperare; anche questo era quanto più assodato.
Ingannarlo a quella maniera era stato il massimo della bassezza morale che aveva raggiunto quel giorno, ma si era ritrovato le mani legate contro quell’istinto di sopravvivenza che si era risvegliato in lui durante l’esame di ammissione. Schiacciato a terra, pronto a ricevere il colpo, non aveva neanche per un secondo immaginato che il suo piano sarebbe andato a buon fine. Si era posizionato sull’ultima roccia sospesa, immaginando che lì terminasse l’antigravità, ma la variabile Armday poteva anche usare meno irruenza e non spostarsi dalla sua posizione, oppure adoperare una forza sufficiente a ridurlo in poltiglia prima che si spostasse, non a caso era una scommessa.
Non si vergognò di aver provato un’euforia immensa quando aveva visto il generale piombare verso il basso, non tanto per il risultato ottenuto, ma per il semplice fatto che respirava ancora. Ciononostante, si era stretto alla roccia, osservando con complice rassegnazione il villain cadere verso il basso.
“Meritava di vincere molto più di me...”

Il grido disumano però lo colse alla sprovvista.
Fu un lamento gutturale, carico di sentimenti sfumati, in principio simile a un barrito di elefante, poi a un raglio equino ed infine ad un ruggito, che non lasciava presagire nulla di buono. Yunix si tirò su frettolosamente, le mani a tappare le orecchie.
«Ma che diavolo!?»
Quando guardò in basso gemette: Armday! L’uomo aveva allargato il braccio con una rapidità sorprendente. In terra, in mezzo alle macerie della città, c’era il piccolo ragazzino che lui e Lex avevano provato a salvare dalla furia del generale. Guardava in alto, in assoluto shock. Perché lo voleva attaccare? Perché? Non aveva alcun senso. Armday era un uomo razionale, in fondo e oltretutto non uccideva gratuitamente. L’unico movente che avrebbe potuto spingerlo a compiere quell’atto scellerato “no, non sta vedendo quel bambino! La sua mente deve aver riesumato un fantasma del suo passato e averlo messo al suo posto, ecco il perché di quel grido! Non vuole uccidere un innocente, ma un demone....” Yunix scoppiò in un singhiozzo senza lacrime, incapace di distogliere lo sguardo. “Perché... la sorte è così crudele con gli uomini!?”
Il generale caricò il colpo a mezz’aria ed attaccò.
“Si sfracelleranno entrambi... e io... ancora una volta... non potrò fare nulla!”
Il pugno del generale saettò, spaccando il muro del suono.
CLANG!
Un rumore stridente preannunciò che non tutto era andato a buon fine. Yunix spalancò la bocca: a ergersi in difesa del bambino, saldo su due esili gambe, c’era Lex Zeero. Sosteneva tutta l’energia del colpo con la lastra verdastra, che sottoposta a quell’energia cinetica, rispose con una calotta, con uno scudo d’aria circolare, che non solo riusciva a tenere in scacco l’attacco del generale, ma teneva l’uomo sospeso a mezz'aria.
A venti piedi da terra, questi non sembrava nemmeno essersene accorto, perché, completamente fuori di senno, continuava ad accrescere la massa del pugno e rilasciare boati ruggenti.
«MUORI, VITICCIO!»
Yunix aveva fatto centro, ma ormai non c’era modo di riportare il villain alla realtà: vedeva ciò che voleva vedere, nulla di più, nulla di meno. Accarezzò quasi l’idea che Lex avrebbe potuto fermarlo, ma a giudicare dalle sue condizioni, non era che un’ultima resistenza di fronte a un nemico più forte, molto più forte.
“Lex... il tuo altruismo...”
Armday iniziava a percepire la forza che gli si opponeva. I suoi ringhi si facevano più acrimoniosi e spazientiti, mentre la sua rabbia cresceva.

«Non puoi evitarmi, Figlio di Satana! HO aspettato così tanto, TANTO per poterti rincontrare! Questa.. è tutta per te! Registri di Guerra Infernali -5-...»
Yunix rabbrividì, avvertendo l’intento omicida travolgerlo. Il braccio di Armday ribollì come magma, poi agglomerati di carne sgorgarono da esso. Alcuni, più numerosi, scesero lungo l’arto disteso e si conficcarono a forza nel materiale impenetrabile. Altri risalirono. Lunghi cavi carnosi si dipartirono in tutte le direzioni abbattendo le costruzioni ancora in piedi, affiggendosi sulle superfici più solide. «...Testamento di Elmer: Demon Slayer!»
Con un colpo di frusta, le corde si tesero, propellendo il generale verso lo scudo d’aria. Le estremità appuntite del pugno penetrarono nella lastra, su cui apparvero lunghissime crepe.
«Tsk... non è possibile... merda!» sussurrò Lex, mantenendo la posizione con fatica crescente.

Yunix digrignò i denti per la frustrazione.
“Restare qui a guardare senza poter fare nulla... e solo... perché i miei piani vengono rovinati da stupide variabili...” gettò un’occhiata costernata al generale. “Dici che posso fermarti anche senza un Quirk, eh? Che non ne ho alcun bisogno... facile a dirsi da uno che ne ha avuto uno fin dalla nascita...”
Il ruggito leonino di Armday risorse, mentre l’uomo coglieva alla sprovvista Lex con il secondo pugno. Il ragazzo perse terreno, finendo assieme al ragazzino piangente contro un muro di pietra, osteggiato da una forza mai vista che riusciva a sconfiggere la prepotenza di un ciclone. Yunix scoppiò in un riso isterico, quasi discendendo nella follia. Iniziò a malmenarsi senza un ritegno.
“Stanno morendo, per colpa mia! E non posso... nemmeno... provare... a risolvere... perché... sono nato... senza... un beneamato... Quirk!”
«PERCHE’!?» gridò, tirando un calcio a una roccia.
«Comunque, ricorda, ragazzino... Se hai un Quirk, allora lo risveglierai. Non so quando, se in un comune momento della giornata o quando ne avrai davvero bisogno, ma lo sentirai dentro di te. E allora, quando succederà, vieni da me».
Yunix ricordò all’improvviso le parole di Hainard, il controllore.
“Ma sì... in fondo che ho da perdere? Non devo confondere la prudenza con la codardia! Armday deve essere sconfitto da me... o perde lui o muoio io, nulla di più semplice...”
Non indugiò che pochi istanti. Di punto in bianco, prese la rincorsa con ancora i pensieri confusi e saltò.

Il tempo sembrò rallentare. I suoi occhi da vagabondo vedevano bene tutto... la devastazione d’Infection, nella luce del tramonto pressoché finito, torri crollate, case sventrate, nubi d’arkastro evaporato e, lontano, lontano, anche del movimento. Gli Heroes erano finalmente arrivati, ma non avrebbero fatto in tempo. In basso, c’erano i due ragazzi, Lex e il bambino dai capelli a forma di petali. Si concentrò sul generale, sentendo l’aria arruffargli i capelli, gli abiti laceri fremere, la gravità tornare la stessa del loro mondo. Sollevò un braccio.
“E se non accadesse nulla?” Yunix sorrise, infervorato. “Beh, non vivrò per rimpiangere i miei fallimenti!” Guardò la propria mano, le dita formicolanti. “Però sarebbe proprio bello... fare qualcosa di buono... una volta tanto!”
Spalancò gli occhi. Gli sembrò di vedere qualcosa accanto a lui: un impermeabile giallo canarino, delle mani rosee, ricolme d’acqua eterea.
«Esseri umani... I migliori sono nati dai sogni. E da dove nascono i sogni? Da uno scopo. Trovalo, Randagio. Il coraggio non è in chi è capace di arrendersi, ma in chi combatte fino alla fine...»
Yunix incrociò lo sguardo.
Accadde qualcosa di insolito. Gli sembrò, nel fugace attimo lungo un millennio, di essere di fronte a una carrellata di immagini. In un'altra occasione le avrebbe esaminate, spulciate, per cercare in esse il suo passato sconosciuto, ma non c'era tempo. “I bambini vanno ad istinto, dico bene? Loro scieglierebbero la più comoda fra le vie, l'immagine più facile da prendere, quindi essenzialmente la più vicina. Beh... farò lo stesso. Come direbbe Kane... facta non verba!”. Tese la mano e non indagò oltre. Ci sarebbe stato tempo per quello nell'aldilà, nel futuro o nel nulla. Non era più schiavo del suo passato!

«Io vincerò, Armday! Perché è destino che sia così!» La terra si avvicinava sempre più. «Passato, presente, futuro, non ha alcuna importanza: quello che conta è questo momento, il momento in cui riuscirò ad essere un eroe!»

Gli occhi si accesero di blu, mentre le braccia di rosso. Incredulo, tese maldestramente il braccio verso il generale. L’energia non fuoriuscì dalla mano, né tantomeno dalle braccia, ma fu da esse che centinaia di raggi laser color ciliegia presero il volo, per schiantarsi sull’asfalto come una raffica d’artiglieria. Armday fu colpito, più e più volte, prima negli arti, poi nel petto, poi negli stinchi. Voragini fumanti si aprirono sulla sua carne. Questa volta il corpo già butterato non resse. Le braccia del generale tornarono a grandezza naturale, mentre lui piombava giù. La tempesta dei colpi però non si arrestò e per evitare che colpisse Lex, Yunix scaricò i colpi dappertutto, abbattendo costruzioni secolari, fino a che l'energia rossastra non si insidiò nuovamente dentro di lui.

Yunix però stava ancora cadendo.
“Morirò ora... proprio ora che ho scoperto di avere un potere? Proprio ora che ho salvato qualcuno...” Scoprì di non avere paura. “E perché no dopotutto? Almeno morirò da eroe...”
I suoi pensieri svanirono. Un bagliore azzurrino, lo stesso che gli era balenato di fronte agli occhi la notte in cui aveva tentato il suicidio. Come una macchina, piegò le gambe e compì uno strano gesto.
“Non voglio! Non sono io”. Lo combatté. “Se devo morire morirò, morirò e basta!”
L’asfalto era a pochi metri.
Un turbine d’aria lo innalzò nel cielo.

«Bambù Cage!»

Yunix sentì due lunghe travi passargli sotto le ascelle, seguite da un centinaio di altre piante. Precipitò su di esse a ridotta velocità e ruzzolò a terra con la testa che girava. “Sono salvo?” Vide qualcosa: un mostruoso essere incombere su di lui.
“Armday!?” Si protesse goffamente con le mani, mentre il mostro era lì, lì per dargli il colpo di grazia.
«Oh, nonono! Non lo farei se fossi in te, villain!» La visuale di Yunix fu invasa da fiamme multicolori. «Hmm... ecco, lo vedi che sei in grado di alzarle quelle manine?»
Il tono da sapientone di Coal era inconfondibile.
Yunix si trascinò indietro osservando in tralice l'ombra chiusa nel bozzolo di fuoco. 

«Quindi sei davvero un demone» sentì dire Armday, prima che stramazzasse al suolo.
Ce l'aveva fatta. Ce l'avevano fatta. Lo avevano sconfitto. 
Yunix si stese supino, respirando affannosamente. Sentiva le braccia punteggiate di piccoli fori, come se i suoi peli fossero stati bruciacchiati da una candela. Asia stava scendendo lungo sottili canne di bambù zigzaganti, con mosse acrobatiche degne di una danzatrice del vento. Dietro di lei c’erano Sekiro e Coal. Quest’ultimo stava venendo scarrozzato come un nobile dal gemello silenzioso e pur ricoperto di sangue sorrideva.
«Abbiamo vinto, signore e signori, la magia trionfa sempre!»
Anche Lex, zoppicando, si accodò a loro.
«Ciao... spero siate più e meno illesi» disse timidamente.
«Bella prova là sotto!» lo incoraggiò Asia dandogli una pacca sulla spalla. «Immagino sarai uno dei primi...»
«Scontato... a me basta aver fatto di tutto per salvare tutti e averlo fatto in maniera originale».
Dopo tale dichiarazione, si cucì la bocca e iniziò a tendere alle proprie ferite. E tutti loro ne avevano riportate. Asia era di un pallore via via crescente e anche se cercava di nasconderlo, era completamente esausta e prosciugata.
Yunix la osservò prendersi cura di tutti loro. Quando Coal scese a terra non fu rassicurata sulle sue condizioni, finché il ragazzo non sbottò che si sarebbe ammazzato da solo se avesse continuato. Sakuro li raggiunse poco dopo. Il gemello più grande, che era stato l’artefice del rituale che aveva salvato Yunix, si accasciò tra le macerie non appena toccò il suolo e non si mosse più. Erano tutti sfiniti, tutti sfiniti per un solo villain. Certo, erano tutti studenti, ma Lex, Asia, Sekiro e Sakuro si allenavano con i loro poteri già da diversi anni. Quanto a Coal, la scorrettezza del suo potere diceva chiaro e tondo che Armday era veramente un prodigio, per essere quasi riuscito a sconfiggerli tutti.

Yunix si adagiò sulle macerie, respirando grato e portò lo sguardo sul corpo circondato dalle fiamme vicino a lui. Armday era eretto sulla schiena. Nel palpitare del fuoco sgargiante, i suoi occhi sembravano caleidoscopi, voragini draconiche che non smettevano di fissarlo, ma il ragazzo non era di così facile inganno: il generale non era più lì con loro. Il suo ultimo atto era stato cercare di concludere la sua missione, lo aveva fatto con la sola forza di volontà. Anzi, già da molto tempo Armday stava combattendo tenuto in piedi unicamente dalla forza d’animo, una dedizione tale da essere osannata. Yunix non poté che sperare che fosse ancora vivo e lo sperò con tutto il cuore. Mentre gli altri festeggiavano per essere sopravvissuti, lui ebbe fede che anche quell’uomo in fin di vita ce l’avrebbe fatta, perché altrimenti di motivi per darsi alla pazza gioia ce ne sarebbero stati ben pochi. Le voci dei ragazzi erano stranamente echeggianti ora, un eco lontano, in una grande grotta. Senza accorgersene, abbracciato dallo scoppiettio delle fiamme, si abbandonò all’abbraccio di Morfeo, quasi sperando che non si risvegliasse più.

I suoi sogni furono rocambolesche fughe, lunghe sequenze di combattimento, in un prisma d’arkastro sfaccettato, in cui su ogni singola superficie c’era la faccia evanescente di Copy&Paste, furibondo perché la sua gloria più grande, Infection, era stata distrutta. E la cosa più strana e che a combattere fianco a fianco a lui c’era Armday. Era risorto ancora una volta, per combattere assieme a lui un esercito di demoni!



Note d'autore: 
Salve, dopo quasi due mesi, rieccomi di ritorno dalle vacanze. Ho intenzione di riprendere una frequenza di pubblicazione più cadenzata d'ora in poi. Basta promesse a vuoto! Più scrittura! E soprattutto meno distrazioni estive che sono come il formaggio nelle trappole per topi... Ditemi se il capitolo vi è piaciuto e magari fatemi sapere se è più leggibile questo format di font o quello degli altri capitoli con degli spazi fra una frase e l'altra. Nel frattempo, ringrazio tutti i lettori silenziosi e vi aspetto per il prossimo capitolo che conluderà ufficialmente il primo arco narrativo: "Infection Rupture!" o "Devastazione di Infection!" per chi preferisce la nostra bellissima lingua. Alla prossima :)

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Capitolo 23
*** Prendi una decisione, Yunix! ***


Prendi una decisione, Yunix! 


Il brusco risveglio non fu affatto piacevole per il ragazzo dagli occhi di ghiaccio, ancora immerso in lugubri sogni di cristallo. Venne scosso rudemente da mani callose, abbastanza grandi da poter benissimo appartenere a un gigante, fino a quando non si decise a parlare.
«Non sono morto! Non sono morto...» guaì con la voce roca e assonnata.
«...»
Un suono simile a quello di una stampante preannunciò un lievissimo bruciore sulla sua schiena, come se lo stessero sottoponendo a una raffica di raggi x ad alta intensità. Non poteva che essere opera dello Scanner del preside Inai.
«Squisito, Tennerian. Si direbbe che per grazia sono tutti fuori pericolo».
Le mani smisero di strattonarlo e con uno scalpiccio di passi, Yunix capì che l’uomo che lo aveva scrollato si era allontanato in fretta e furia. Aprì gli occhi e fu accolto dalla miriade di piccoli dati che componevano il corpo opalescente del preside vicario. L’uomo aveva un’espressione impassibile.
«Signore! Io...»
«Shh... è finita. Per parlare... più tardi».
Il preside gli indicò l’orologio che teneva al polso, piuttosto antiquato su di lui considerando che l’insegnante era una specie di ologramma allo stato solido. “Sono le 18:58... il test doveva finire un’ora e mezza fa... cosa diranno gli altri? Cosa succederà quando si scoprirà cosa è avvenuto? Cosa succederà quando l’attacco del villain finirà sulla prima pagina dei quotidiani?”
«Lo so» bisbigliò Inai, decifrando in un lampo i suoi pensieri «ma risolveremo».

Dopo quelle parole criptiche, si dileguò, usando il suo Quirk per spostarsi lungo il pavimento. Yunix scosse la testa, confuso, e si guardò attorno.
Le luci declinavano sempre più sulla città di Infection. La battaglia aveva lasciato un segno indelebile, se non altro nella zona inferiore, dove a rimanere in piedi, attorno a loro, non erano che poche muraglie, scampate al cataclisma che si era abbattuto sul glorioso mausoleo. A terra, c’erano alberi sradicati, frammenti più o meno ciclopici di Arkastro, gremiti di crepe che qua e là penetravano anche in profondità nel cemento. Automobili ribaltate ed esplose si alternavano ad altre ancora preservate nel minerale, crateri erano disseminati un po’ ovunque, persino nelle case sventrate, dove pezzi di edificio erano piombati giù come macigni. In ogni riverbero, Yunix temeva di scorgere l’Infinity Hero C&P, pronto a condannarli tutti per aver impunemente usurpato quel luogo sacro di sua creazione.
Proprio come la città, anche il ragazzo era a pezzi: la sua mano destra era praticamente andata e il suo braccio sinistro aveva ricominciato a urlare pietà. Inoltre, la frattura alla cassa toracica, anche dopo l’intervento del gemello, continuava a bruciare.

Mentre faceva queste considerazioni, una mezza dozzina di paramedici continuava a correre da una parte all’altra, portando arnesi dall’aspetto lugubre ai capezzali dei suoi amici. Parlottavano fra loro febbrilmente, senza alzare il tono della voce, ma non osavano rivolgere la parola a nessuno di loro. Yunix lasciò che lo sistemassero come potevano, senza emettere un fiato, ma non vedeva l’ora di sbarazzarsene per poter essere lasciato in pace. Aveva bisogno di pensare, di riflettere. Prima avessero finito, meglio sarebbe stato. Ma non era quello messo peggio, a dirla tutta. Sakuro era ancora privo di sensi ed era stato soccorso da ben tre persone. Gli altri non stavano un granché meglio: Coal continuava a vaneggiare che si sentiva da favola, almeno finché non riuscì più a trattenersi e vomitò sulla barella che doveva portarlo via. Dopo quello, rimase in silenzio, soffocando di quando in quando improvvisi conati. La sua pelle era stata ripulita dal sangue, ma tagli lo ricoprivano così fittamente, che si poteva benissimo supporre che fosse caduto in un cespuglio di rovi. Sekiro e Asia furono più obbedienti e remissivi verso le donne che li stavano assistendo, ma tutti e due lanciavano occhiate irrequiete alla loro destra, dove stava andando avanti una discussione molto concitata.

Il professor Tennerian, nella sua divisa militare verde spento, gli occhi torbidi che mandavano lampi, stava intrattenendo un discorso acceso con un uomo in un completo sfatto dai capelli bianchi, con Inai e un altro insegnante che tentavano invano di mediare fra le parti. L’ex soldato si era pitturato la faccia, in vista della festicciola di quella sera, ma sembrava tutto fuorché in clima da festeggiamento. Inizialmente, Yunix fece fatica a capire di cosa parlassero, ma quando i toni si scaldarono, tutti poterono udire le loro parole.
«...sai che c’è damerino? Non ti permetterò di diffondere idiozie sulla nostra scuola! Non sarà una stronzata del genere a mandare tutto all’aria!»
«Toglimi le mani di dosso! E soprattutto non farmi ridere, soldatino circense... hanno solo sedici anni. Se anche uno solo di loro avesse perso la vita, sareste accanto a quel villain! Ogni anno... ogni anno ci assicurate che questa esercitazione è sicura. ME LO SENTIVO! Me lo sentivo che qualcosa sarebbe andato storto presto o tardi. E ora giù quelle mani o sarò costretto a prendere provvedimenti».
L’uomo si divincolò dalla presa del militare e lo spinse via.
«Voi... non potete!» esclamò Tennerian, tirandosi su le maniche.
«Woah! Woah! Questa è follia!» intervenne l’uomo accanto a Inai, facendo cenni a due ragazzi vicini a loro.
Indossavano un'uniforme rossa, la stessa che portava anche Hainard. I due controllori si affrettarono a trattenere l’uomo sulla trentina, affinché non saltasse addosso al tizio in abiti vissuti, visibilmente oltraggiato.
«Non facciamoci prendere dal panico, gentiluomini. La situazioni è lungi dall’essere irrisolvibile, dico bene signor preside?» proseguì l’uomo assicurandosi che Tennerian fosse stato sottomesso.

Yunix ricordò di averlo già visto. Non fra gli altri docenti sul palco, no, bensì in un quadro che lo ritraeva, appeso sul portale d'ingresso per la sala grande affiancato da tutti gli altri professori. Era arrivato a pensare che fosse un docente licenziato, o addirittura deceduto, ma in fondo non era l'unico di quelli nei dipinti a non essersi mostrato in pubblico quella giornata.
Era alto, melodrammatico nella posa e ben piazzato. I suoi abiti erano un ammasso di lunghi e spessi drappi ammucchiati gli uni sopra gli altri parecchio superiori alla sua taglia, di un colore beige con fasce arancioni sopra le scapole, attorno alle maniche, alle caviglie e via andare. I suoi capelli erano rossastri piuttosto folti, tenuti a bada da due occhialoni di bronzo, stile steampunk, tema che si ripeteva anche nei suoi tatuaggi a forma d’ingranaggio sulle guance e nella chiave inglese che risiedeva sopra il suo orecchio destro. Aveva un viso pacioccone e generoso, di un colorito albicocca e occhi altrettanto allegri e vigorosi.

«Non è forse così, signore?» Inai annuì brevemente, invitandolo a proseguire.
«Vi va bene che non faccio parte del dipartimento di polizia centrale, né tantomeno dell’ordine di Cobalto, altrimenti...»
«Signor Nemikawa, la sua è una posizione difficile, guardi che lo capisco, ma se tutto ciò che è stato non fosse mai accaduto? Se potessimo semplicemente tornare al punto d’inizio? Lei s’intende di questi trucchi».

L’uomo in uniforme fremette, ostile, poi squadrò il preside, pizzicandosi la peluria sul mento, pensoso. Yunix non poté evitare di pensare che sembrasse pericoloso. I suoi capelli a spazzola bianchi erano punteggiati da chiazze di nero. La sua stessa bocca era circondata da una verniciatura spenta e i suoi denti erano seghettati come quelli di un’orca.

«Vuoi mettere tutto a tacere, auguri, Inai».
«Lei non entrerà nei casini e nemmeno noi! È... come si dice? Una win win situation!» insisté l’uomo negli abiti extra large, con un piccolo risolino, stringendo le mani dietro la schiena.
Inai fece segno di abbassare i toni e, eccezion fatta per Tennerian ancora stizzito e i due controllori che lo bloccavano, gli altri si misero a confabulare animatamente, rendendo la conversazione impossibile da seguire, se non per qualche raro gesto significativo.

«Tu ci staresti?»
Una voce dietro il suo collo fece schizzare Yunix a un metro da dove si trovava.
«Ma che ti passa per la testa?» chiese al ragazzo dai capelli verdi, una mano stretta forte sul cuore.
Lex aveva le gambe fasciate e steccate, ma sembrava si stesse riprendendo in fretta. Era stato così silenzioso che nemmeno lo aveva notato. Gli fece cenno di accostarsi a lui e attese che Yunix si accomodasse al suo fianco, poi si mise carponi e appoggiò il viso sulla sua spalla, rifacendogli la stessa domanda, sussurrata nell’orecchio.
«Tu ci staresti? A tacere tutto?»
«M- Ma di che parli? Che c’entriamo noi in tutto questo?»
Lex sospirò, abbastanza veementemente da solleticargli il collo.
«Beh, parecchio, considerato tutto... Il loro piano... si basa su di noi che non possiamo essere ingannati. Io, la ragazza dai capelli color ciliegio, i due gemelli dalle armi esotiche, il ragazzo arrogante col fuoco, il bambino che hai salvato. Agli altri potrebbero dire che faceva tutto parte di un evento programmato, un modo per rendere il test più verosimile eccetera, eccetera... ma noi che abbiamo riportato queste ferite, i villain stessi che erano a conoscenza del fatto non saranno così facili da ingannare. Certo... i criminali sono facilmente corruttibili: un bello sconto di pena e ognun per sé, ma noi... tu ci staresti? A mentire per questa scuola?»
Yunix deglutì e si guardò le mani, una delle quali ingessata, quella sulla quale poche ore prima era stata intessuta la firma di Copy&Paste. “Cosa dovrei rispondere? È vero che abbiamo rischiato la vita, ma è vero anche che se la notizia si spargesse l’HG verrebbe probabilmente chiusa... Non lo so. Non ne ho idea... sono troppo confuso per pensare adeguatamente. Cosa dovrei...” Sentiva l’ansimante fiato di Lex sul collo. “Beh, sicuramente lui si aspetta che io li assecondi”.
«Sì, immagino che... starei al gioco... credo» borbottò insicuro, aspettandosi che perlomeno l’arciere gli desse ragione, ma rimase deluso.
«Tsk... io non penso proprio che lo farò... non importa il come o il perché, ma hanno messo in pericolo vite umane e questo è inaccettabile. Se siamo tutti vivi è solo un miracolo, una tantum che non si ripeterà. Pensavo fossi della stessa idea anche tu».
La freddezza nella voce diceva chiaro e tondo che non sarebbe stato facile fargli cambiare idea e a dirla tutta Yunix, almeno dopo quelle parole, protendeva di più per la fermezza di Lex che per il teatrino che volevano profilargli i professori.
«Forse hai ragione, però non so se ne valga la pena. Se la scuola chiudesse dovreste rinunciare ai vostri sogni... è davvero opportuno? Io...» Yunix strinse i denti, abbassando la testa. «Ancora una volta... sto pensando a me stesso, non è vero?»
Lex si ritrasse, battendogli una mano sulla spalla.
«Tu mi hai salvato la vita, Yunix. Non lo dimenticherò. Fai ciò che ritieni giusto, ma preparati... sei quello che il generale voleva uccidere... ti faranno un sacco di domande».
Il ragazzo mingherlino girò il capo, guardando Lex negli occhi acrilici.
«Cosa dovrei dire?»
«La verità» sentenziò il ragazzo, implacabile.

Passarono i minuti. Una controllora affannata dalla bocca larga venne ad annunciare al preside che tutti i ragazzi erano stati raggruppati nel cortile, dove apparentemente si stava già mormorando. In fondo, da quello che aveva detto Sakuro, i villain che avevano aiutato Armday erano entrati in contatto anche con altri studenti. Più i secondi passavano, più Yunix stentava a credere che qualcuno avrebbe davvero creduto alla storiella che i professori intendevano rifilare loro. Insomma, non erano mica idioti. Ma ora si profilavano problemi ben più imminenti: come previsto da Lex, non ci volle molto perché venisse approcciato da un componente dell’HG per essere interrogato. Ben più inaspettato fu vedere proprio l’uomo dagli occhialoni d’ottone avvicinarsi baldanzoso, come in visita a un luna park.

«Allora, piacere di conoscerti, Yunix» esclamò radioso porgendogli la mano appena affiorata fra le vesti di lino rinforzato.
«Il piacere è mio...» replicò ansiosamente il ragazzo dai capelli grigi, porgendogli la mano medicata.
Temeva il proseguo. L’uomo però lo mise a suo agio con una stretta solidale e s’inginocchiò accanto a lui.
«Farò una premessa, giovane apprendista. Non voglio estorcerti informazioni che vuoi tenere per te, non è nel mio interesse e non mi provocherebbe alcuna gioia, però potrebbe essere necessario scavare un po’ nel tuo passato, mi spiego? Non è per farci gli affari tuoi, ma dobbiamo capire il perché di questa evenienza, se vogliamo cercare di aiutarti. Riesci a comprenderlo?»
Il professore sorrise incoraggiante, ma Yunix tremava di paura. Gettò un’occhiata a Lex, a qualche metro da lui, che si limitò a stringersi nelle spalle.

«Beh... sì...» disse lentamente.
«Allora, se non hai niente in contrario, possiamo iniziare...» attaccò il professore un po’ troppo frettolosamente per i suoi gusti.
Era chiaro che i docenti avevano le ore contate.
«Vediamo un po’, da quello che ci hanno riferito i due compagneros che abbiamo catturato, tutto questo putiferio doveva essere solo un tentativo di evasione, giusto? Però sembrerebbe, almeno secondo le nostre telecamere, che non sia andata esattamente così, esatto?»
Yunix annuì.
«Molto peculiare... sai... non capita spesso che un villain rinunci alla possibilità di scappare per... non saprei, regolare i conti suppongo, ma confido che mi verrai incontro in questo».
«Il preside le avrà parlato di me... saprà che non ricordo nulla» lo interruppe lapidario.
L’uomo sbatté le palpebre perplesso.
«Come prego?»
Yunix rimase di stucco. “Non gli ha detto nulla? Neanche in questa occasione?” Simulò in fretta un sorriso, che all’insegnate dovette sembrare strano, perché subito mutò il viso in un’espressione preoccupata.
«Ti senti bene, apprendista? devo chiamare...?»
«No, no, non ce n’è bisogno. Quello che intendevo... è che a quanto pare ho battuto un po’ forte la testa contro il selciato e ora ho la memoria un tantino... farlocca».

«Oh, non ne sapevo niente» rispose l’uomo grattandosi il collo, imbarazzato, poi parve rendersi conto di qualcosa d’importante. «Per diamine, che modi... nemmeno mi sono presentato, sono Prometeus Hopespark... trentasei anni, insegnate di robotica e gestione attrezzatura, nonché responsabile della difesa della scuola. Magnifico... ne combino una all’ora, si direbbe. Ti prego di scusarmi se non ci so fare un granché con le persone, sono abituato a macchinari, prototipi e altra roba più nelle mie corde».
Guardò Yunix, come se si fosse dimenticato del motivo per cui gli stava parlando.
«Uhm... ma lo sai che potrei benissimo avere sbattuto la testa pure io, spiegherebbe molte cose» continuò esalando una risata tremula.
Il ragazzo iniziò a sospettare di averlo grandemente sopravvalutato. Quell’uomo pareva un perdigiorno, sprovveduto e pure facile da raggirare, ma venne smentito alla velocità della luce, perché egli si distese gradualmente in un sorriso scaltro.
«Non cambiamo argomento però... non mi sembri in condizioni così critiche da non poter ricordare nemmeno qualcosina». Si grattò la guancia con fare divertito. «Non dimenticando che sei anche quello più in salute fra i tuoi amici».

Yunix capì che il professore poteva pure essere gentile e paziente, ma non si sarebbe schiodato da lì senza aver ottenuto un risultato. D’altra parte, se era un insegnate di robotica e magari pure un inventore doveva essere in costante ricerca di risultati.
«Ehm, certo... qualcosina me la ricordo» confessò nervosamente.
«Magnifico!» dichiarò Hopespark, battendo le mani. «Davvero magnifico! Sono tutt’orecchi!»

Yunix fu avido di particolari quanto poté e per prendere tempo raccontò, oltre a ciò che era effettivamente accaduto (con occasionali lacune), unicamente alcune delle frasi che il villain gli aveva rivolto. Non dire tutta la verità non era certo mentire e già che c’era finse di essere un pizzico sconvolto da tutta la faccenda: sembrare fragile non poteva che giocare a suo vantaggio, nel grande schema delle cose. Tacque anche il fatto che era stato quel giorno che aveva risvegliato il suo potere, non sapeva quali ripercussioni avrebbe avuto se non lo avesse tenuto per sé... almeno per ora. Incredibilmente, l’uomo non lo interruppe una sola volta per chiedere spiegazioni. Picchiettava le unghia sulla chiave inglese, senza smettere di fargli cenni d’incoraggiamento. Si sentì estremamente in colpa, ma aveva già commesso l’errore di rivelare a Hainard e Kane il suo passato. Errore? Beh, se n’era pentito. In fondo, il primo era apparentemente un assassino, e il secondo sapeva più di quanto dava a vedere. Non poteva rischiare ancora, non con l’ennesimo sconosciuto. Quando ebbe finito, rimase a fissare il vuoto davanti a sé.

Il professore iniziò a ticchettare con l’unghia le lenti degli occhialoni da aviatore.
«Armday... da come lo dipingi tu non sembra che serbi verso di lui un qualche tipo di rancore, è esatto?»
Yunix si strinse mestamente nelle spalle.
«A me pare solo una vittima di questa società».
“Come me” pensò, stringendo i pugni.

«Però ti riteneva un demone da debellare: sai, questo è curioso. Laddove né un uomo, né un villain s’impegneranno a fermare l’ascesa di un demone io, qui di fronte al mio Dio lo giuro, farò tutto ciò che è in mio potere per proteggere il mondo dalla sua ombra. Se questa frase ti è restata in testa così bene, significa che ha colpito nel segno. Forse non lo sai, ma Armday è stato rinchiuso per un crimine assai minore, una piccolezza. Era un’uggiosa giornata di ottobre, io ero chiuso nella mia stanza con i miei martelli, le mie viti e le mie lenti, ma in città una dichiarazione di guerra al Giappone veniva declamata a gran voce di fronte alla Wealth Legacy Tower. Un uomo, dicevano, più grande di un lottatore di wrestling e più alto di un giocatore di basket. Più volte invitato a fermarsi, continuava imperterrito la sua arringa verso il Sol Levante. Naturalmente, non potevano assegnargli che un paio di notti, per un crimine così trascurabile, per quanto azzardato esso fosse. Eppure, si arrivò a un processo, da lui stesso richiesto e lì, in aula, quell’uomo confessò di aver causato la morte di diciannove suoi commilitoni, l’intera squadra di spedizione scomparsa in Siria, sparizione che tutti ritenevano un clamoroso incidente. Quell’uomo ha segnato il suo destino di sua spontanea volontà, come se si stesse togliendo un sassolino dalla scarpa. Un ergastolo solo per, come dice qualcuno, “farsi un giretto nel prestigioso penitenziario di Aster”. E ora, da quello che dici, è evaso solo per cercare te?»

«Oh no» rispose Yunix, quasi sorridendo, «lui voleva ancora quella guerra, lui voleva davvero evadere, almeno finché non mi ha visto... poi si è ricordato di una vecchia promessa».
«Quale promessa?» chiese il professore, tradendo la curiosità con un fremito della mano.
«Questo lo chiederete a lui. Io non comprendo la mente contorta dei villain» mentì Yunix incrociando le braccia.
Il professore annuì, deluso, ma gentilmente gli diede un colpetto sulla testa.
«Per me è sufficiente, uhm... non so perché ti conoscesse, ma è chiaro che se anche lo sai non hai intenzione di dirmelo, quindi mi accontenterò di tirare a indovinare. Non te ne faccio una colpa, ciò che abbiamo dentro è ciò di più prezioso che abbiamo e le macchine migliori sono quelle con il libero arbitrio, comunque» concluse, facendogli l’occhiolino.

Sembrava che ora avesse una gran fretta di concludere i conti. Evidentemente, faticava a intrattenere lunghe conversazioni con le persone.
«Molto bene... e ora immagino che Inai vi voglia fare una domanda importante».
Yunix capì subito dove voleva andare a parare e fece un cenno significativo a Lex, cercando di fargli capire che ci aveva visto giusto. Scorse il ragazzo sorridere appena, mentre faceva finta di essere per le sue.
«Non c’è problema» disse Yunix, sollevato, all’uomo dai capelli fulvi.
Il professore lo premiò con un altro paio di buffetti, poi si allontanò a cuor leggero, più vivacemente di un ragazzino, benché avesse non meno di quarant’anni. Dopo tre metri però si voltò, un po’ incerto.

«I tuoi occhi sono parecchio particolari, lo sai... però apprezzo lo stile. Nulla di meglio di un po’ di ingranaggi, nella vita. Fanno scorrere meglio tutto quanto!»
Yunix, suo malgrado, arrossì.
«Sul... sul serio? Pensavo fossero inquietanti da come me ne parlavano tutti».
L’uomo strizzò gli occhi, agitando burlescamente la mano.
«Ma tu guarda! Chissà dove ce gli hanno gli occhi questi “tutti” di cui parli! No, caro mio, quegli opali nuvolosi che ti porti appresso sono un’opera d’arte, fattelo dire da uno che di congegni se ne intende».

Il suo sguardo cadde su Lex, che stava tendendo le dita verso i brandelli di mantello che gli erano rimasti sulle scapole. Il gesto doveva costargli molta applicazione e impegno, perché a malapena riusciva a trattenere i gemiti.
«Oh, ehm... ecco, a proposito! Prendete questi, voi due fortunati mascalzoni!»
Sul palmo calloso dell’uomo apparvero due sfere di ottone, grandi come mele. Yunix prese al volo la sua riluttante. Lex non dovette nemmeno spostare lo sguardo per afferrarla: quel ragazzo percepiva gli spostamenti d’aria come se fossero stati frecce rosse lampeggianti.
«Grazie, suppongo... cosa...?»
«Una piccola invenzione, possibile solo a me e al mio Red Core temo. Mettetela sul palmo e pigiate sulla pietra rossa. Mi raccomando, tenetela ben salda. Un errore potrebbe impedire un nuovo utilizzo per lustri e lustri a venire».

Yunix maneggiò il prototipo con cura. Pareva frutto di un complesso sistema a incastro, con coperture cerchiate sulla sommità e minuscoli dentelli nelle fessure. Rigirandola fra le mani, notò la pietra che vi era stata infilata.
«Riscriverà il vostro corpo. In altre parole... dovrebbe garantire una cura super-accelerata, ma voglio essere onesto con voi» l’uomo si grattò il capo, «siete più cavie che altro... anche se sto sfornando un arsenale abbastanza copioso da poter essere usufruito da tutto il reparto degli Heroes. Cioè, l’ho già testato, a modo mio, ma insomma... mai dire mai. Ah, tra l’altro, una volta applicato non è possibile sortirne gli effetti di guarigione una seconda volta. In primo luogo, è un limite che devo ancora superare e in secondo, ho paura degli effetti collaterali che un abuso potrebbe causare. Ve la sentite? Alla fine, ho una modesta fiducia nelle mie capacità... e nel mio nucleo».
Cercò il loro sostegno.

«Tsk! Non mi fido della medicina new age» borbottò Lex.
Yunix lo sentì e gli venne un’idea.
«Però... che fortuna! I primi a sperimentare qualcosa del genere. Ci credi, Lex? Potrebbe essere qualcosa di molto originale».
Il ragazzo aguzzò le orecchie, come un elfo.
«Dici? In effetti, sarebbe gradevole avere le ossa sistemante un minimo».

Yunix premette il pollice sulla pietra e la sfera si scompose in molteplici frammenti che si avvolsero attorno al polso, al palmo, alle estremità delle dita.
“Wow, è come un guanto”.
Mosse un po’ la mano e si sentì all’interno di un videogioco futuristico. Chissà se in passato ne aveva provati alcuni. Di botto, una luce arancione si diffuse su tutto il suo corpo e Yunix percepì una sensazione stranissima. Era come se un mattarello da impasto gli stesse correndo lungo il braccio, comprimendolo e appiattendolo. Lo sentì di punto in bianco indolenzito. In principio, fece una smorfia di dolore, poi, man mano che il resto del corpo subiva la stessa sorte, quasi involontariamente iniziò a ridacchiare, piegato in due come suo solito.
«Eccolo lì... ti sta riportando alla base, alla matrice, magnifico!» dichiarò Hopespark, sedendosi a gambe incrociate davanti a lui.
Yunix continuò a ridere di gusto, senza sapere bene il perché.
«Ehi! È normale che si stia comportando così?» chiese Lex preoccupato.
Il professore sbuffò interrogativo, poi, vedendo che non smetteva, prese a ridere assieme a lui, prima solo accennatamene, poi fragorosamente. Per la sorpresa, Yunix alzò lo sguardo, per capire se il professore stesse facendo sul serio ed era proprio così. L’uomo aveva le lacrime agli occhi: non era spaventato dal suo atteggiamento, ma volenteroso di accompagnarlo. “Quest’uomo qui... non è così male. Mi sento incredibilmente a mio agio... come se fossi con un famigliare, o qualcosa del genere. Mi dà le stesse vibrazioni di Shig, ma più sul lato spensierato del termine”. La magia della sfera stava ispezionando tutta la sua fisionomia, anche in profondità, lo irradiava di luce, lo rivoltava come un calzino, ma allo stesso tempo lo guariva. “Ma più che altro, perché rido? Non sarà perché semplicemente sono vivo, vero? Se fino all’altro giorno speravo di morire, perché ora sono così esaltato all’idea di essere qui?”

«Hai proprio ragione, Yunix, perché restarcene qui con questi musi lunghi? Non è morto nessuno! Festeggiamo la vittoria, finché è oggi. Il tempo per piangere ci sarà in futuro, ma per ridere... per ridere ci sono solo poche occasioni! E voi, ragazzi, avete fatto un lavoro eccezionale» soggiunse il professore, con l’aria di uno che se la stava spassando.
“Sì, è così” pensò Yunix, mentre il macchinario gli stirava anche le punta delle dita della mano sinistra. Una risata cristallina si aggiunse alle loro. Yunix ammutolì nel vedere Asia Shiena’q sghignazzare al loro stesso modo, stringendosi il petto ferito.
«Sei tu che hai dato il colpo finale, Yunix, davvero fantastico. Non sapevo avessi...» la ragazza fece una smorfia e si mise a gattoni, per avvicinarsi a loro, provocando un grido di terrore nella donna che la stava assistendo «non sapevo avessi un Quirk».

Hopespark, per caso o per fortuna, non diede segni di averla ascoltata fino in fondo, ma si erse di scatto in piedi.
«Giusto, che idiota, anche a voi servono...» altre sfere comparvero fra le sue mani. «Dovete essere in forze se volete partecipare alla cerimonia di stasera!»
Asia prese la sua coi denti, in maniera piuttosto abile e subito l’azionò.
«Come le ha chiamate, signor Hopespark?» domandò Yunix, sentendosi avvolto in un bozzolo di carne cattiva. «Uff... mi lusinghi, Yunix. Dare il nome a una cosuccia del genere... non sono mica Archimede».
«Io però scommetto che un nome gliel’ha dato a queste bellezze, o no?» domandò Coal, acchiappando la sua dalla barella macchiata di vomito.
«Mi hai scoperto!» esclamò il professore, ridacchiando e indicandolo con fare paterno. «Ma un inventore ha i suoi segreti, proprio come ogni uomo ha i propri» insisté, passandone un’altra a Sekiro, poco distante.
Ne diede un’altra ancora alla pallida infermiera che seguiva Asia, raccomandandole di consegnarla a Sakuro, una volta che si fosse ripreso, poi aprì le braccia con un gesto teatrale.

«Magnifico, performance davvero impeccabile. Sono... anzi siamo fierissimi di tutti voi. Il vostro tributo a questa scuola non svanirà nel nulla, ve lo posso assicurare. Per quanto riguarda i globi d’ottone, vi sentirete come se aveste fatto una giornata di palestra a massima intensità, ma sarete ok. Non temete, se c’è una cosa che non sbaglio sono calcoli e limature». Lex sbuffò, mentre la luce arancione lo pervadeva. «E tu, giovane apprendista, spero ti passi questa piccola fase di memoria instabile. Hasta la vista!» si congedò facendo a Yunix l’occhiolino.

Il ragazzo lo osservò allontanarsi, dubbioso se avesse per caso fiutato qualcosa in merito alle sue menzogne. Asia si tastò il ventre, soddisfatta.
«Però, mica male le cure moderne... per quanto l’aceto...»
«sarà sempre meglio» concluse Sekiro cupamente, annuendo alla cruda verità.

«Ragazzi» incominciò Yunix, così intorpidito da far fatica a muovere le labbra. Tutti si girarono al suo tono grave. «Non voglio rovinare l’atmosfera, ma temo che ora abbiamo una scelta importante da fare...»
«Evviva, adoro le scelte, ancora di più se sono importanti!» esclamò Coal, sarcastico.
“Beh, siamo in due” avrebbe voluto dire Yunix, ma se lo tenne per sé.
«E in cosa consisterebbe questa decisione, hm?» chiese il ragazzo ammiccando.
“Bella domanda... come dovrei impostarla questa cosa? Devo assicurarmi di toccare i tasti giusti”.

Ma non ne ebbe la possibilità perché a rispondere fu qualcun altro.
«Fedeltà all’HG che ci ha messo in pericolo, o senso di giustizia. Io, metto le mani avanti, non basterà una cura istantanea a cui non potrò più ricorrere per corrompermi» sbottò Lex, inacidito dalla sensazione sgradevole provocata dalla sfera.
«Accidenti, che chiarezza... così chiaro che potrei morire. AHI!» Il ragazzo dal vestito stracciato coi capelli a bracere aveva attivato la propria. «Ehi! Non mi avevate detto che faceva così male!»
«A casa mia si chiama karma...» obbiettò Asia, mettendosi seduta con uno sforzo encomiabile.
Il ragazzo le lanciò un’occhiata infuocata.
«Non ti ho chiesto cosa ne pensi tu, donzella».
«E io non ti ho chiesto di lamentarti come un bambino».
«Spiegatevi meglio» tagliò corto Sekiro, squadrando con attenzione e un certo disgusto Yunix.
La ragazza si girò verso di loro.
«Già, cosa intendete per scelta?»
«Ha forse a che vedere con chi si prenderà il merito?» Coal si aggiustò le chiome affilate. «No, perché su quello sono certo che..» ad un nuovo conato soffocò la testa in un secchio, portato ad hoc per l’occasione.

Yunix approfittò del silenzio per prendere la parola: «Non ho idea del come, non so cosa escogiteranno, né se andrà a buon fine a prescindere, ma è chiaro che l’HG vorrà mettere tutto a tacere, l’avete sentita la discussione con quel tizio».
Asia annuì.
«Penso che sia della polizia segreta, o qualcosa del genere».
«Uhh! Il mistero s’infittisce...» disse Coal sogghignando, appena riemerso dal bacile.
«Il punto è» riprese Yunix, «che avranno bisogno della nostra parola, perché tutto rimanga segreto».

Asia aggrottò la fronte, cingendosi le ginocchia addormentate.
«Sì... certo... c’ero arrivata anche io, ma mentre eravamo di sopra tutti hanno avuto modo di conoscere la brutalità di quei villains. Per poco non ci rimettevamo la pelle! Nessuno crederà al preside dopo quello».
Yunix osservò i ragazzi uno ad uno. “Se avesse ragione? Se il problema non sorgesse neanche? Forse la scuola è già spacciata”.
«Hm, potresti pure avere ragione, dolce Bambù-Girl, ma ho ragione di credere che, eccezion fatta per noi sette, la questione sia bella che risolta» disse Coal, facendo una smorfia per il dolore.
Tutti lo guardarono.
«Se questo è un altro dei tuoi atti di vanità, Coal, sono disposta a colpirti anche con le braccia in queste condizioni!» ringhiò Asia, a sua volta esasperata per la situazione del suo corpo.
«Ma no! Rifletteteci un attimo. Se non avessero un piano, quale sarebbe il punto di complottare in questa misura per alterare eventi ormai avvenuti. A parte Armday, che non so che fine abbia fatto, dobbiamo considerare che gli altri villains collaboreranno con la scuola. Non avranno scelta, non gli lasceranno scelta!» dichiarò il ragazzo, battendo il pugno sulla mano.
«E i ragazzi?» Sekiro si era coperto il viso con il foulard, perciò la sua voce risultò decisamente attutita.
«Infatti... quelli che erano sopra con noi, diamine?» lo assecondò Asia.
Coal fece una risata da cattivo della Disney, manco avesse i diritti d’autore per Biancaneve.
«Avete presente il tizio spettrale, con le corna, foosh-foosh che è stato zappato dai villain?»
Asia si morse il labbro.
«Certo, credo si chiami Fen Yang... il villain con la visiera lo ha atterrato e lo ha immobilizzato grazie al Quirk del suo compagno. Dopo che li abbiamo sconfitti, non c’è stato verso di liberarlo. Eri lì anche tu... se avessimo usato la forza avremmo rischiato di ucciderlo e questo lo sai bene».
Coal annuì febbrilmente, come se avesse fretta di proseguire.
«Non è quello il discorso, Shiena’q. La sua funzione era proteggerci, no?»
Yunix guardò Lex, dubbioso, ma non ottenne che l’ennesima serie di spallucce.
«È così e allora? I villains chiaramente l’hanno messo in condizioni di non poter agire apposta» disse Asia, ingegnandosi per comprendere il punto del discorso.
«Ma un potere così grande da poter ostacolare quel generale... perché non ha mai fatto il giro del mondo? Perché non è conosciuto da nessuno? Di questo Fen Yang non si è mai sentito nulla prima d’ora. Un fantasma sulla terra e in tutti i mari».
Coal li studiava uno ad uno, rapendo la loro attenzione con la semplice convinzione insita nella sua voce. «Per segretezza? Senza dubbio, ma ragionate: è decisamente più probabile che la sua forza sia una minaccia solo qui, solo a Infection!»
«Quindi? Vai al punto!» disse Sekiro, trattenendosi appena.
«Cos’è che Infection ha che le altre città non hanno?» chiese il ragazzo, la fiamma sulla nuca che diventava blu.
Yunix si guardò attorno. La polvere candida non si era ancora dissolta del tutto, ma levitava come neve farinosa sulle macerie dei negozi, sulle bancarelle, sui marciapiedi incrinati.
«L’arkastro» suggerì. «L’arkastro è la vera magia di questa città».
Coal annuì, contento.
«Un minerale che vince il tempo, che prolifera come un’infestazione d’edera, che si moltiplica come una colonia di batteri. Il potere di Fen Yang è legato ad esso, ne sono certo!»
«Ha riportato in vita il villain, Rupert Green!» esclamò Asia, colta da una rivelazione. «Chissà che altro potrebbe fare? Magari riscrivere la memoria a tutti quanti, o...»
«Hm... no, non potrebbe arrivare a tanto, però... secondo i miti più antichi, sui minerali viaggiavano i suoni. Era così che molti spiegavano l’effetto dell’eco. Se l’uomo ha agito in maniera furba, una volta riottenuto un pizzico di potere, avrà inviato un messaggio ai villains che l’avevano catturato, un messaggio del tipo “state al gioco o nel caso non doveste scappare passerete le pene dell’inferno”».
Sekiro tentò invano di alzarsi in piedi, minacciando Coal con la sua arma.
«Come fai a sapere tutto questo?»
Coal fischiò, per niente intimidito.
«Magia!» rispose con gusto. «Seguita da un brandello di conversazione del preside, e per concludere» proseguì schioccando le dita, «ho immaginato una situazione che si è già verificata, condizioni valide per tutti, Heroes e Villains, o come direbbe il professoruccio delle sfere del drago una win win situation! I villains non ci rimetterebbero un dito e vivrebbero lo sfortunato incidente come un ottimo atto di recitazione, senza alcun tipo di aggravante, mentre la scuola prospererebbe in virtù della sua mentalità rivolta al futuro. Immaginate i ragazzi che tornano a casa e raccontano di un test, in cui è stata inscenata una vera e propria situazione da eroi vs villains al suo stadio più reale: il prestigio dell’accademia crescerebbe all’infinito. Dubitate forse che il fantasma formaggino e i tre villains là sopra non riusciranno a mettere in scena una performance attoriale da urlo? Beh, io assolutamente no, considerando che ne va della loro vita futura, a maggior ragione ora che il Sergente Carcassa è stato catturato! Ditemi signori e signore, pensate davvero che il futuro di questa scuola non sia nelle nostre stupefacenti manine?»

Coal ridacchiò alla loro espressione confusa.
«Un secondo, potrebbe anche quadrare, ma perché Fen Yang dovrebbe avere poteri telepatici?» chiese Lex, penetrandolo con lo sguardo.
«Ahimè, di questo non posso che esserne certo. Vedete, ha parlato pure con me, nella mia testa».
«Cosa!?» esclamò Asia, sputacchiando sangue, sicura di aver capito male.
«Assolutamente, sì ragazza... voi eravate partiti da un pezzo, mentre io ero lì a fare compagnia agli scagnozzi del diavolo e ho sentito una voce dentro di me... una voce che mi incitava a sbrigarmi per venire a cercarvi usando il radar che tenevo al polso, così ho gettato un’occhiata alle mie spalle e ho notato il tizio ancora chiuso in quella tenaglia fissarmi intensamente come ora sta facendo Legolas qui davanti a me!»
«Tu... e perché?» chiese Lex, con una lievissima nota di disprezzo nella voce calma.
«Perché su quella strada ero il più forte e avevate bisogno di me, e lui sapeva entrambe le cose» si limitò a rispondere Coal, senza un singolo accenno di sarcasmo.

Era a gambe incrociate sulla barella, un meschino piccolo folletto malefico, ma le sue parole, in un modo o nell’altro, avevano senso. Per qualche secondo tutti rimasero in silenzio, sprofondati nella quiete dei loro pensieri torbidi. Fu Yunix a porre la fatidica domanda.
«Ehm... ma se per caso è andata davvero così, cosa sceglieremo di fare?»
“Se stessimo al gioco... questa non sarà l'unica decisione che prenderò oggi: dovrò dare una risposta a Inai... se entrare o meno nell’HG”.
Cercò un confronto con quei quattro sopravvissuti: con suo grande rammarico, solo visi inquieti e stanchi risposero ai suoi dubbi.
 
Ore 21:54 - Piazzale Esterno dell’HG
 
La calca di persone premeva contro le branche del palco, sciabordava come un mare spumeggiante nel piazzale, colorata al pari di un aquilone e altrettanto movimentata. Yunix si torceva le mani dietro le quinte, sbuffando fuori nuvolette anche se era già primavera inoltrata. Non poteva porvi rimedio. La carne cattiva si stava cominciando ad ammorbidire, anche se solo la salita lungo le scale laterali aveva messo a prova le sue gambe in via di guarigione, ma il gelo pungente misto all’ansia lo stavano facendo sudare freddo. “Avrò fatto la scelta giusta?” si domandò, nell’escalation di emozioni che lo avvolsero sbirciando oltre le tende. Quante persone. Quanti ragazzi. Eppure...

«Ciao, Yunix».
Ormai era così abituato alla gente che lo sorprendeva alle spalle che nemmeno sobbalzò e riconosciuta la voce, si voltò con un certo fatalismo.
«Kane...» rimbrottò con tono accusatorio, «pensavo ti fossi dissolto nell’aria. Dove sei stato tutto questo tempo? Mentre noi stavano morendo?»
Il ragazzo castano era con le gambe penzoloni su una cassa sigillata, il volto nascosto nella penombra.
«Che aggressività... ti è bastato poco per montarti la testa, eh?» chiese con voce fredda. «Ma da che mondo è mondo si sa che un’esperienza vita-morte può mandare fuori strada chiunque, anche con la scopertà di nuovi poteri».
Yunix ebbe un sussulto. “Perché sembra sempre che sappia di più di quello che dà a vedere?”
«Scusa» disse comunque, tornando sui suoi passi, «tutta la faccenda... è stata stressante e non penso... non penso di averla ancora superata».
Gli occhiali di Kane scintillarono.
«È evidente, ma anche normale, nessuno te ne fa una colpa».
Poi, tacque e continuò a osservarlo dall’alto della sua posizione. Yunix si sentiva tremendamente a disagio. Giochicchiò ossessivamente con le estremità delle shorts per qualche secondo, poi fissò quegli occhi ombrosi con impazienza.
«Perché c’è meno gente?»
«Ah, immagino abbia a che vedere con il tentativo di fuga. Il preside e il signor Yang hanno fatto il possibile per convincere tutti, ma anche con la complicità dei villains, la puzza sotto il naso è rimasta a diversi» Kane fece un mezzo sorriso. «Senza testimonianze su quello che davvero è accaduto, siamo fuori pericolo. Così gentile da parte vostra non fornirne alcuna».
Yunix strinse i pugni. “Infatti...” Alla fine il loro era stato un sì unanime a quella farsa da guitti, ma non certo grazie a lui. Anche in quell’occasione la sua decisione l’avevano presa gli altri. E per fortuna, a questo punto. Quando si era discusso di cosa fare, solo l’intervento di Sakuro, tornato dal mondo dell’incoscienza, aveva assicurato che Lex e coloro che stava convincendo stessero al gioco dei professori. Le sue parole gli ronzavano ancora nelle orecchie, così come la sua micidiale espressione.
«Nay! Non possiamo permettere che ciò che abbiamo passato oggi offuschi il nostro animo razionale. Lex, tu dici che hanno permesso che accadesse qualcosa d’imperdonabile ed è innegabile, ma voglio sperare e anzi credere che d’ora in avanti una cosa del genere non si ripeta mai più, che i sistemi d’emergenza vengano quadruplicati, che la scuola riesca a garantire una prova assolutamente priva di pericoli e che qualora non dovesse riuscire in questo sia esposta a tutto il mondo per ciò che è. Tutti meritano una seconda possibilità e vista la nostra fortuna nell’essere ancora tutti vivi, visto l’1% che abbiamo raggiunto insieme, sono più che contento di offrirgliela, ma se ancora sei convinto del contrario, allora tieniti stretto questo segreto e usalo come arma, qualora l’HG ti deluda di nuovo. Lex, se mai dovesse farlo di nuovo, sarò pronto a schierarmi dalla tua parte, ma oggi terrò chiusa la bocca, non solo per me, non solo per la mia famiglia, ma anche per tutti i ragazzi che vogliono davvero un posto lì dentro, per tutti quelli che hanno combattuto da quando erano in fasce per essere degli eletti, per essere Heroes!»

Yunix guardò il pubblico parlottare, così distante da lui. Al momento della verità, Lex non aveva preteso scuse, né rassicurazioni, ma aveva accettato di falsificare il vero, contro ogni previsione. Gli altri avevano fatto lo stesso, seppur con qualche riserva.
«Ogni piano ha delle falle, Yunix, è la loro natura» spiegò Kane, con voce atona. «Il piano dei villains è stato fallimentare, per ragioni ancora oscure...» fece una pausa significativa. “Non mi tirerai fuori niente, Kane” meditò guardandolo senza battere ciglio. «e parimenti il nostro piano di seppellire tutta la verità ha delle falle evidenti e presto o tardi cadrà, come è caduto C&P, come cadrà All Might. Le condizioni della città, tanto per dire, sono di gran lunga ardue da giustificare. Un guizzo di fantasia volto a rendere il test più interessante che prevede la distruzione di un pezzo di storia della nostra città? Un po’ inverosimile, non credi? Non prendiamoci in giro, Yunix, per quanto il preside e Fen Yang siano in gamba, qua hanno commesso un grosso errore e vedremo come cresceranno i semi che hanno così incautamente piantato».
Yunix fu stupito. Strano che Kane non fosse sulla stessa linea d’onda dei professori. Quasi sospetto.
«Cosa stai cercando di dirmi, Kane?» chiese sulla difensiva.
Il ragazzo fece dondolare le gambe, con boria o forse agitazione.
«Stai covando del risentimento verso di me, Yunix, lo percepisco e non sai quanto tu ti stia sbagliando. Sto solo cercando di farti capire che ogni scelta, ogni decisione, ogni azione avrà qualcosa di negativo in sé. Lo stesso agire implica degli errori, che implicano a loro volta problematiche, ma nulla è irrisolvibile, nulla è insuperabile, nulla è...» per la prima volta, da quando l’aveva conosciuto, al ragazzo occhialuto mancarono le parole.

A guardarlo, rannicchiato sulla cassa, rattrappito come un frutto andato a male, a Yunix vennero in mente le notti interminabili nelle strade battute dalle intemperie, le strida degli uccelli cittadini e i fischi dei treni in partenza. La sua solitudine non era diversa da quella di Kane. Nei tre giorni all’accademia aveva parlato solo con lui. Stava tutto il giorno in biblioteca. Leggeva, puliva, sistemava, leggeva di nuovo e nient’altro. Forse era addirittura più solo di lui.
«Non volevo offenderti...».
«Lo so» lo tranquillizzò Kane, «piuttosto, hai deciso se entrare o meno nell’HG?»
Yunix sentì il fiato corto.
«Ci ho pensato in queste due ore. Non ho praticamente pensato ad altro. Sono andato nell’ufficio di Inai, ma non c’era così gli ho recapitato una lettera. L’avrà letta, ormai».
«E, se posso permettermi, cosa c’era scritto?» chiese Kane, con un inusuale tatto. «Sempre se...»
Yunix strinse i pugni ancora più forte.

PHEEEWW!

Un'esplosione rossa illuminò le nuvole scure sopra la platea. Milia Warder avanzò a passi austeri sul palco, fino ad arrivare di fronte ai promessi studenti.
«Avete combattuto, avete lottato allo stremo delle vostre capacità, avete reagito con prontezza alle avversità e agli ostacoli, avete salvato più di duecento ostaggi e sconfitto non meno di cento villains, ma solo una porzione circoscritta di voi potrà ambire a un posto d’onore in questa scuola».
Il silenzio era assoluto. Il fervido fervore della mattinata si era sciolto, per lasciare spazio a un’angosciosa tensione. Anche l’insegnate sembrava diversa. La frivolezza del suo primo intervento su quel palco era scomparsa e a sostituirla c’era ora un’incontestabile decisione. Il suo viso proiettato sopra le loro teste era privo della luce violenta ed entusiasta. Era truccata, per nascondere quelli che Yunix vedeva chiaramente come postumi di un pianto. In fondo, come un controllore gli aveva accennato, la donna era molto legata a Copy&Paste e alla sua città.
Sentì l’impellenza di coprirsi la mano ora in gran parte risistemata, anche se vermiglia dove il ragazzo aveva inferto il colpo con la scheggia di pietra. Chissà cosa avrebbero pensato i professori se avesse raccontato loro l’assurda storia di quella scritta e dei poteri che ne erano derivati. Mentre la donna spiegava il programma della serata, Yunix si avvicinò a Kane.

«Inai è già intervenuto? Ha già giustificato il perché di quei villains così realistici, non è così?» domandò al ragazzo alle sue spalle.
«Non poteva fare altrimenti» confermò lui, «non si presenta mai di sera tardi; ha parlato non appena voi avete iniziato la vostra discesa. Mi hanno detto che non riuscivate nemmeno a muovervi».
«Beh, è così» disse Yunix, massaggiandosi i polsi, «inizialmente sembrava solo appesantimento dei muscoli, poi la pelle ha smesso di rispondere ai comandi».
Kane sollevò le sopracciglia.
«No, no, tranquillo. Il professor Hopespark ci ha confermato che era il risultato che si aspettava e infatti dopo siamo tornati alla, ehm, normalità».
Il ragazzo batté ripetutamente le mani, in modo fiacco.
«Hurrah per il professor Hopespark!»
Yunix avvampò.
«Non dirmi che odi pure lui!»
«No, mi hai frainteso. Mi sorprende solo che sia arrivato a questo livello di confidenza. Di solito non esce nemmeno dalla sua stanza per mangiare. Non che non sia loquace per definizione, ma è davvero insolito riuscire a beccarlo nei corridoi o nelle classi. Raramente, molto raramente, l’ho udito lanciarsi in descrizioni del suo lavoro, ma a malapena riuscivo a stare al passo con quei discorsi complessi e non l’ho mai visto parlare con gente della nostra età».
Yunix rimase interdetto. In effetti, il professore aveva detto qualcosa a proposito: Ti prego di scusarmi se non ci so fare un granché con le persone, sono abituato a macchinari, prototipi e altra roba più nelle mie corde. Eppure, non aveva avuto questa percezione, ascoltandolo. Altroché, gli era pure sembrato comprensivo e disinvolto, perfettamente a suo agio, forse solo un po’ goffo. Per non parlare del fatto che aveva risolto la diatriba fra Tennerian e il tizio nevrotico della polizia segreta.
«Non ne ho idea, Kane. Magari è cambiato».
«Le persone non cambiano facilmente, Yunix» ribatté il ragazzo con disillusione, «Hainard ne è la prova vivente».

Dopo quello scambio, entrambi tornarono a fissare Milia, che sembrava aver ritrovato un po’ di energia. Era chiaro che fosse una persona che non riusciva a tenere il broncio a lungo, non di fronte a tanti “amorevoli piccini”. Le sue ciocche scarlatte erano rivolte al cielo, come tante zanne di basilisco, mentre il costume da eroe stile Formula 1 era stato abbinato a un drappo arcobaleno brillantinato sicuramente originale, anche se poco in sintonia con tutto il resto.
«Allora, siete pronti a scoprire la classifica!?» Grida di giubilo accompagnarono la sua voce frizzante. «Ottimo, bambini, brio, brio!»
«Come ti dicevo...» intervenne Kane, parlandogli a bassa voce, «sono solo la metà di quelli che erano stamattina. Forse sanno già che non passeranno, forse sono solo stanchi della lunga attesa, o forse hanno fiutato qualcosa che non andava. D’altra parte, sapere che a un villain è stata data libertà d’azione farebbe scappare chiunque...»
«Ti sbagli» dichiarò Yunix, sorridendo. «Quelli che sanno, quelli che hanno affrontato il villain sono tutti lì!»

Asia Shiena’q scherzava assieme ad altri aspiranti, nuovamente in prima fila. Coal Naive fissava spavaldo una fiamma verde sbocciare sulla sua mano. Sekiro e Sakuro erano spalla a spalla, pronti al verdetto finale. Lex Zeero, il mantello ricresciuto fino alle scapole, era un po’ in disparte, ma non si perdeva un movimento. Vide anche Marin, la piccola ardimentosa ragazza dai capelli color del mare, Chooki con la sua stella di pezza sulla fronte, i due ragazzi mandati al tappeto dal villain con la mazza da baseball e la ragazza dai lunghi capelli fuxia che aveva gli occhi coperti dalla frangia, e moltissimi altri, tra cui il giovane dal fisico slanciato che aveva urtato malamente all’inizio del test, facendogli cadere tutte le sferette d’acciaio.
“Una di esse mi era finita in tasca. Se non l’avessi avuta a disposizione... non avrei avuto nulla da passare a Sekiro per attaccare il generale. Chissà... forse quel contatto mi ha salvato. Dovrò ricordarmi di ringraziare quel ragazzo, un giorno”.

Non ebbe il tempo di rimuginarci più del dovuto. Milia alzò la voce per superare quella della platea.
«La vostra posizione è stata determinata da più fattori di quanti immaginiate, perché come già detto l’Hero è una figura più stratificata di quello che si possa pensare. Oh yeah! Noi cerchiamo il meglio e il meglio non significa il più forte, o il più capace, o il più altruista, o il più ambizioso, ma capire questo concetto è assai prematuro per dei piccoli e adorabili bambini quali siete, per cui, dato che se vado avanti ancora viene l’alba, o voi mi prendete a sassate, una delle due, penso che il momento sia arrivato. Solo i primi trentanove, badate bene, saranno accolti nella nostra scuola. Gli altri non devono in alcun modo scoraggiarsi: ci saranno altre opportunità, altre possibilità. Desidero che ne siate tutti consapevoli, non è l’istituto a fare l’eroe, è il cuore di ciascuno!»
La sua voce si smorzò sotto scroscio di applausi.

«Allora, siete pronti!?»

Un brusio si diffuse nel marasma. Asia si mise una mano sul cuore.
«Hai fatto quello che hai potuto, vero Shiena’q?»
Un ragazzo accanto a lei vagamente curvo, coi capelli ricci cascanti e rughe a spirale disseminate lungo il corpo gemette. «Non riesco, non ce la faccio, troppa, troppa ansia!»
Una ragazza con i polsi cinti da braccialetti d’osso lo zittì. «Silenzio! Qui si decide il mio destino!»
«Ah... non parlarmi di destino» piagnucolò lui.

Un altro, con la mano che si pizzicava il mento, sbuffò sarcasticamente.
«Che c’è da ridere?» chiese una ragazza contrariata e sconfortata dalla pelle color cioccolato.
«Trentanove».
«Come?» fece uno a fianco a lui.
«Trentanove, davvero insolito» ripeté, ridacchiando senza dare nell’occhio.

Yunix da dietro gli spalti percepiva la loro ansia come se fosse la sua. “Devo stare calmo, la mia scelta l’ho già fatta” meditò strizzando più volte gli occhi assonnati.

«Cinque, quattro, TRE, DUE, UNO...»

L’intero mondo sembrò trattenere il respiro, poi lampeggianti, come le luci della ribalta, sugli schermi giganteschi sopra la donna apparve una lista di nomi, classificati dal primo al cinquecentonovantasettesimo posto. Tutti i presenti, come una mandria di mucche affamate liberate su un pianale d’erba, si gettarono nella febbrile ricerca del loro nominativo, sperando, puntando tutto sull’essere in quei primi trentanove nomi, in quelle prime posizioni, che avrebbero aperto loro una porta per il futuro. Si poteva quasi udire il loro sguardo scivolare dal primo, al secondo, al terzo, al quarto posto, neanche fossero delle biglie a rotolare sul display.

«Asia, Asia, dove sei?» sussurrò la ragazza, che era partita dal fondo.
Coal, persa tutta la considerazione di sé che aveva, muoveva gli occhi così rapidamente da sembrare strabico. «Non posso non...»
La ragazza dai bracciali, ancora a metà della contemplazione dello schermò, notò che il nervoso ragazzo dagli occhi color anice era raggomitolato a terra, lo sguardo lontano da tutto.
«Ma vorrai scherzare! Cerca il tuo fottuto nome, che voglio sapere subito se una mezza calzetta come te diventerà un eroe!»
«Ehi... non è che ho paura, è che sono pessimista e basta, ok?»

Dietro le quinte, Kane sbuffò in maniera enigmatica.
«Guarda un po’! Sembra che i tuoi amici ninjutsu ce l’abbiano fatta». Yunix osservò i gemelli scambiarsi un cinque. «Nono e ottavo, davvero encomiabile, anche se faccio fatica a distinguerli».
«Sakuro, Sakuro ha fatto il punteggio migliore!» C’era da prevederlo, tuttavia... “Meritavano di più. Quelle ali di sangue... è probabile che gli abbiano abbassato il punteggio, altrimenti sarebbero stati fra i primi. Probabilmente era per non far sorgere domande sul come hanno fatto a ottenere quei punti”. Poi, spostò lo sguardo.
«Anche Coal ce l’ha fatta, e Asia! Wow... lei è...»

«Seconda! Non ci credo! Con tutto il tempo perso e gli errori, io...!»
La ragazza si guardò attorno, cercando l’entusiasmo di altre persone, ma i più erano ancora in alto mare, persi alla ricerca delle loro inziali su quella tavola del destino. Coal invece era al settimo cielo e le fiamme sulla sua testa brillavano di giallo.
«Quarto posto, quarto posto! Come previsto!» Assunse una espressione smorfiosa. «A un soffio dal podio... hm, vedo che sono stati piuttosto misurati con questa prima selezione, ma tra non molto ci sarà certamente occasione per consolidare il mio primato. Per le star il tempo non è che una scala, a conti fatti».
Il ragazzo era così assorbito in sé stesso che le sue orecchie parevano insensibili al mormorio in crescita attorno a lui.
Lì vicino, Lex sospirò stancamente.
«Troppo alto per me... dodicesimo quando non ho fatto altro che farmi colpire. Non ci siamo proprio, HG». Eppure, non riusciva a impedirsi di sorridere.

Yunix fischiò, sentendo la tensione scemare. “Sono passati, tutti e cinque. E anche Marin...” La ragazza dai capelli blu era ben identificabile anche a quella distanza, dominata da una furia animale. “e pure Chooki!”

«Trentacinquesima!? Che prestazione da chiodi! E immagina di chi è la colpa...» sibilò guardando alla sua sinistra, dove il giovane lentigginoso con la stella sulla fronte si disperava.
«Avevo pure un radar... solo quello avrebbe dovuto garantirmi l’ammissione e anche così... sono arrivato trentasettesimo. Sono una frana».

«Ehi, basta! Se non voglio guardarlo, non voglio, capito?»
La ragazza dagli abiti sciamanici alzò gli occhi al cielo, cercando di sollevare il ragazzo coricato a terra.
«Ma per favore, Nimble, è solo una stupida classifica!»
«E va bene, va bene» sussurrò lui, preparato al peggio. Il suo sguardo mise a fuoco la classifica. «Tu guarda, 29: Nimble Rimaric» disse con tono inespressivo, «questo è...»
«Cosa? Fantastico? Inaspettato?» domandò la ragazza al limite della sopportazione.
«Nono, solo l’inizio di un percorso infinito e dissanguante» fece lui, sconsolato.
La ragazza si mise una mano fra i capelli, incredula. «Lasciamo perdere».

«Primo posto: Arc Nighter; Secondo posto: Asia Shiena’q; Terzo posto: Ennenissa Flelfling...» stava elencando un ragazzo in abiti da cerimonia lì vicino, lo stesso che aveva notato il numero insolito delle persone accettate.
«Che fai, amigos? Cerchi l’introvabile?» Un ragazzo più basso gli gettò un braccio al collo all’improvviso. Aveva lunghi capelli verde-neri simili a serpenti.
«Ehi guarda lì», sussurrò indicando la classifica. «sì, esatto, sesta posizione, Jimmer Aruanà, sai chi è quello? Incredibile, sì, proprio io... ma ti dirò, mio caro. Se per caso volessi ritentare, potrei far capitombolare una parolina nelle orecchie di uno di quei brutti ceffi dei professori che non ti hanno voluto, che ne dici?» Diede una scossa ai capelli fluenti, cercando lo sguardo del ragazzo, che però guardava fisso in avanti. «Allora?»
«Sssss... sibila il serpente nella notte quieta, senza sapere dove va, senza sapere chi incontrerà» cantilenò il ragazzo sfuggendo con grazia alla presa del ragazzo più piccolo che si ritrasse, disorientato, «cosa porta, cosa lamenta se non un canto velenoso di falsità» concluse girandosi. Le dita secche di Jimmer ebbero un fremito.
«Ehi... non dirmi che sei...»
«Passato, oh ssssì. Avevi dedotto il contrario per il fatto che non stavo esultando, magari? Le mie scuse, non sapevo che le mie reazioni fossero affar tuo». La sua voce tranquilla e melodiosa era intessuta di disprezzo. «Trentanovesimo, caspita, un risultato su cui poter lavorare, ma certamente una sufficienza. Sei d’accordo con me?»
Jimmer sbatté le palpebre sotto pressione, poi assentì con un lieve cenno del capo. Senza dire altro, l’altro ragazzo tornò a fissare la classifica, con un sorriso stampato in viso.

Intanto, dalla folla iniziavano a provenire suoni di disapprovazione, lunghi sospiri delusi, imprecazioni e quant’altro.
«Vedi, Yunix? La loro vera natura che emerge» disse Kane, mettendosi a gambe incrociate. «Presto saranno a dir poco incontenibili e voglio proprio vedere cosa s’inventerà Milia per calmarli».
Ma la donna sembrava assolutamente estranea a quell’onda di ribellione, perché con voce tonante convocò sul palco i primi cinque classificati.

«Cari rampolli» li accolse con benevolenza, «voi cinque avete brillato più di tutti gli altri e vi siete distinti per... Eliminazione dei Villains» iniziò passando avanti al primo classificato, «autorità e carisma», diede ad un’emozionatissima Asia una carezza, «supporto e salvataggio feriti», ad arrivare terza era stata la ragazza alta due metri e mezzo dai capelli fluenti, che ricevette una stretta alla spalla dall’insegnante, «spettacolarità e tattica», Coal annuì beato con gli occhi chiusi, «e... un perfetto equilibrio fra tutti questi ambiti» continuò Milia, arruffando i capelli al quinto classificato, il più esile tra i presenti.
«Se è vero che costoro hanno dato prova delle loro capacità in maniera impeccabile, ciò non significa certo che siano meglio di voi! Tutti quanti, davvero tutti avete dato il massimo e non potervi accogliere a braccia aperte ci riempie di una tristezza infinita!» Lanciò un’occhiata turbata alla platea in subbuglio, ma fece finta di niente. «Ma fino allo scoccare della mezzanotte rimanete! Cibo, luci e con un piccolo strappo alla regola un’esigua riserva d’alcol leggero, tenuto giusto per questa occasione, proprio per voi piccini» ma era ormai impossibile per la donna continuare a ignorare il fitto brusio che si levava come una spirale dal pubblico. Lo scalpiccio di pochi divenne una fiumana, mentre la maggior parte dei presenti alzava i tacchi per andarsene.
«Ehilà!? Yuhuuu!? Aspettate... per favore! Potreste imparare tanto da chi è stato scelto, no, dico davvero, la festa è per tutti!»
Milia non ottenne che fischi e maledizioni.
«Io me ne torno a casa...»
«La prossima volta fate meno esperimenti e guardate ai fatti!»
«Fanculo, HG!»
L’eroina si strinse una mano attorno al collo, mostrando i primi segni di cedimento.
«Ohi... non comportatevi così... vi prego... La festa è per tutti! Per... tutti!»
«Ma chi ci vuole andare!?» ruggì qualcuno nel tramestio turbolento.
«Non siamo venuti qui per farci prendere in giro!» lo seguì un altro.
«Che ci resto a fare qua se non mi avete cagato di striscio!?» aggiunse un terzo.
Milia era sul punto di scoppiare in lacrime. Nessun aiuto arrivava dai pochi ragazzi che rimanevano, l’entusiasmo di essere passati tramutato in polvere.

«FINIAMOLA!» Una voce esplosiva rimbombò come un tuono su tutto il cortile, così cavernosa ed echeggiante che sembrava provenire dal cielo bruno.
«VI SENTITE EROI, ORA!? REAGITE COSI’ SOLO PERCHE’ AVETE PERSO A UNO STUPIDO TEST!?» esclamò una figura imponente, atterrando dall’alto del ballatoio sul ripiano legnoso. Con una mano protettiva spinse delicatamente dietro di sé la professoressa dai capelli rossi, la quale era stupita tanto quanto i presenti.
«VERGOGNA! Io vedo solo pecore smarrite, lige al dovere quando c’è il rancio e in rotta quando c’è il lupo! Questo è ciò che l’HG respinge! Questo è il motivo per cui non siete ben accetti dietro queste mura e lo sapete meglio di me!» Il professor Tennerian gridò le ultime parole con stizza, sul margine del palco, senza bisogno di microfono, senza bisogno di un copione, senza una sola idea di dove volesse andare a parare, le braccia muscolose illuminate dalle luci di scena, contratte nello sfogo. «ABBIATE ALMENO IL CORAGGIO DI GUARDARMI IN FACCIA!» ruggì con un timbro quasi disumano, come di fronte a una schiera di soldati.
Quasi timidamente, la marea di ragazzi si arrestò, prima di arrivare al cancello.

L’uomo, una volta catturata l’attenzione di tutti gli astanti, indicò i cinque ragazzi mortificati sul palco.
«Li vedete!? Questa è la sera più importante della loro vita e voi, con la vostra egoistica sete di gloria, gliela state rovinando!? Potrebbe un aspirante eroe cadere così in basso!?» L’uomo si batté il pugno sul petto una singola volta, facendo scatenare la voce stentorea: «NON PRETENDO CHE CAPIATE QUANTO SIGNIFICA PER NOI QUESTA SCUOLA, ma provateci almeno... provate a mettervi nei panni di questi trentanove fortunati... provate a mettere da parte il vostro ego almeno per un fottuto secondo! Non mi sembra che siate stati insultati da Mil, o da chiunque altro. L’opportunità di conoscere questi ragazzi vittoriosi vi dovrebbe riempire d’orgoglio, perché un giorno la vostra vita potrebbe essere nelle loro mani e se voglio essere onesto, ne sono sicuro, perché molti di loro hanno dimostrato di avere delle palle d’acciaio!»
Yunix non poté esserne sicuro, ma gli parve che il suo sguardo avesse per un millisecondo dardeggiato verso di lui.
«Che abbiate l’ardire di insinuare che non siamo stati imparziali è semplicemente VOMITEVOLE, INFANTILE E IDIOTA!»
Un’ombra d’imbarazzo calò sulla marmaglia di ragazzi, che con passi esitanti si avvicinarono di nuovo al palco.

L’insegnante tacque, respirando affannosamente, poi sembrò rendersi conto di come aveva parlato e abbassò leggermente il capo.
«Scusate se ho oltrepassato il limite» disse a Milia e ai ragazzi lì sul palco. Senza aggiungere altro fece dietro front e scese lungo le scale imprecando a bassa voce, senza che nessuno osasse intervenire per fermarlo.
Milia fece un lungo sospiro, poi sollevò il microfono.
«Ehm... direi che possiamo... riprendere..? Ebbene, questo è quanto! Ora possiamo passare alla celebrazione».

Yunix si mise le mani in tasca, scacciando i rimasugli di tensione e indecisione che gli si erano depositati nel petto.
«Ok, a questo punto direi che non resta che ritirarmi, Kane. Domani vorrei discutere della mia sistemazione... e ci sarebbe una lettera che vorrei...»
«Un momento, signorina Milia!»
La donna fece un breve inchino, rincuorata dall’arrivo del preside vicario, arrivo che tuttavia congelò Yunix nell’atto di calarsi lungo l’impalcatura laterale. “Oddio, fatemi il piacere! Perché? Non dovrebbe essere qui!”
«Certo, signor preside. Prego...»
L’insegnante si affrettò a concedere il microfono al preside, che scrutò la platea con i suoi occhi analitici.
«...»
I ragazzi attendevano, come facevano anche i professori ai lati della scena. Nessuno aveva idea di cosa il preside volesse annunciare, eccetto forse Yunix, il cui intuito non faceva presagire nulla di buono.
«Complimenti ai classificati» proclamò secco, «e anche tutti gli altri che ci degneranno rimarranno per la serata. Sono qui per informarvi che ho ricevuto una lettera non molti minuti fa, l’ho spulciata fino a che il suo contenuto non mi è rimasto ben impresso in testa, ma dato che preferisco parlare il meno possibile lascerò che sia il suo artefice a spendere un paio di parole in merito ad essa. A lei, signor Braviery».

“Cosa!?” le budella di Yunix si attorcigliarono come vermi oblunghi, mentre il ragazzo sentiva il mondo piombargli addosso. “Ma perché? Questo colpo basso...”
«Quindi, Yunix, sembra che il messaggio sia arrivato a destinazione... che farai ora?» sussurrò Kane, enigmatico.

“Già, che faccio adesso?” Inai muoveva la bocca con una lentezza disarmante. “Oltre trecento ragazzi... non posso. Cosa vuole ottenere? Perché?” Pensò di scappare, senza voltarsi indietro. Con un po’ di fortuna, Kane non l’avrebbe tradito e sarebbe riuscito a dileguarsi nella notte. Non era lontano dalle montagne. Forse poteva trovare rifugio nelle foreste vicine alle cascate Ogawa e raggiungere il distretto nord-ovest di Temigor in un paio di giorni. Per poi cercare un luogo in cui passare un'altra piccola parte della sua misera esistenza. Continuare a muoversi, senza mai fermarsi. Correre, ancora correre. No, non poteva più farlo.
«Basta! Sono stanco morto di essere un ramingo» borbottò rabbiosamente non riconoscendo nemmeno la sua voce.
Kane si aggiustò gli occhiali.
«Allora resta... se pensi che il preside ti abbia posto di fronte a una situazione senza uscita ti sbagli. Il solo fatto che tu non sia stato gettato a forza davanti a quella platea implica che hai ancora il libero arbitrio e che puoi fare ciò che vuoi».
«Ma loro si aspettano... quei ragazzi non hanno niente a che vedere con me! Perché devo tornare su una scelta che ho già compiuto?»

Kane saltò giù dalla cassa, mettendolo spalle al muro.
«Perché è chiaro come il sole che tu non ne sia convinto, Yunix Braviery! Tu puoi fare quello che vuoi».

«Segui il tuo cuore, Randagio»

Yunix gettò un’occhiata a Inai, impassibile ai mormorii della folla.
“Vecchio pezzente, dovrei lasciarti lì a languire nel tuo brodo di presunzione”.
Kane gli diede una spintarella.
«Da qui in poi sei solo... agisci come meglio credi e fallo non tormentandoti più per le opzioni che hai lasciato indietro!»

Fu sul palco.
Sin da piccolo, Yunix aveva provato un timore reverenziale all’idea di trovarsi al centro dell’attenzione. Non aveva bisogno della memoria per esserne certo: gli erano bastate le traversate infernali sui mezzi di fortuna che era riuscito a reperire nel corso del viaggio, con le persone che lo tenevano d’occhio, che magari temevano che le avrebbe importunate se non fossero rimaste in guardia, chiedendo l’elemosina o un pasto, o che le avrebbe derubate direttamente. Uno sguardo era un piccolo stuzzicadenti, un po’ fastidioso, ma sopportabile. Tanti tutti assieme, coltelli seghettati, che lo passavano da parte a parte come un prosciutto insaccato. Non fu diverso quella volta e le lame erano molte di più di quante ne avesse mai affrontate da quando si era risvegliato in quella strada battuta dal sole. Un passo dopo l’altro, con l’impressione che fossero interminabili. Un altro e poi un altro, nel sangue dei coltelli invisibili, sangue che lo bagnava da capo a piedi. Un altro e ancora un altro.
“E' questo il mio test, non è vero? Una lettera non era sufficiente?”

Yunix osservò i primi cinque classificati osservarlo a loro volta. Il primo, vestito come un punk non lo degnò di grande attenzione, mentre Asia, al suo fianco, gli faceva cenni incoraggianti. La ragazza di nome Ennenissa, da come riportava la scritta sulla sua giacchetta di jeans, era indecifrabile, mentre Coal semplicemente intrigato. Per ultimi i suoi occhi si posarono su quelli del quinto, che fin da quando era salito sul palco non aveva smesso di sorridere.
Non sentiva più i suoni, solo un ronzio acuto. Ma furono istanti, istanti persi nel turbine di emozioni che lo avvolgeva: una coperta soffocante e al contempo gelida. Raggiunse il microfono, il suo destino. Ora aveva gli astanti davanti a sé, ma non li vedeva veramente, perché il suo petto si sollevava e si abbassava ai ventimila all’ora e solo provare a mettere a fuoco qualcuno gli faceva venire il voltastomaco. Con il cuore in gola, completamente svuotato di ogni intento e pensiero, parlò:

«Sono... Yunix Braviery. Un ragazzo come voi... della vostra età e del vostro tempo», sentiva le viscere sciogliersi sotto il peso della pressione, ma in qualche modo parlare lo faceva stare leggermente meglio. «I- io...» trattenne un singulto, «ho le stesse vostre abitudini, le stesse speranze... non i vostri sogni magari, non le vostre ambizioni e certamente nemmeno un potere come il vostro».
Un mormorio si diffuse fra i presenti. Un no-quirk era cosa rara nel mondo, ancor di più a Temigor.
«Però» singhiozzò Yunix, senza essere capace di versare una singola lacrima, «ho vissuto nella consapevolezza, ben conscio di essere una minoranza, mentre... beh... attorno a me vedevo persone di ogni tipo che usavano i loro poteri a spron battuto, non per goliardia, no, né per farmi un dispetto, almeno spero, ma... ecco... loro li usavano come se avessero fatto qualcosa per meritarseli. O almeno... questa era la mia percezione. Quanto a me... alcuni mi avranno conosciuto durante il test».
Coal schioccò la lingua in segno d’assenso.
«Ero lì a osservare come vi sareste comportati, a cercare di capire se fosse stato per il meglio che voi aveste ricevuto un Quirk, mentre io no. “Magari chiunque governi questo universo assegna questi doni solo alle persone meritevoli” pensavo tra me e me giorni fa, sorbendomi una lezione impartita da un fantasma del mio passato. Credevo di non meritare la pietà di nessuno, perché ero certo che fosse stato per il meglio che io fossi piombato su questa terra, spremuto e prosciugato di ogni magia». Il pubblico era stranamente in silenzio. «E quando vi ho visti combattere quei villains... ne ero certo! Che foste stati giustamente premiati... che non c’era nessun dubbio che fossi veramente io a essere quello sbagliato, a essere una conseguenza di un volere contorto e maligno, ancora sconosciuto, o semplicemente che la mia volontà di essere come voi non rivaleggiasse nemmeno con la vostra forza d’animo. O se non altro... è quello che avrei pensato una settimana fa, ma, come posso dire... due persone mi hanno aperto gli occhi sulla vera natura delle nostre unicità!»
Yunix sorrise, pensando a quanto diversi fossero fra loro quei due.

«Le unicità non ci definiscono, Yunix... Noi non siamo i nostri Quirk. Quella è solo un’altra delle nostre caratteristiche»

«Potere!? A cosa ti serve un potere? I Quirk che abbiamo non sono altro che tratti fisici... come l’altezza, il colore dei capelli. Semplice genetica. Un Hero non dovrebbe fare affidamento sul suo potere, Yunix, ma solo su ciò che è e sull’aiuto che gli altri possono dargli».

Le frasi sovrapposte di Shig e Armday avevano un sapore agrodolce. Si chiese se di quando in quando la ragazza innocente avesse un pensiero per lui, anche se solo per scaricargli addosso maledizioni. Si domandò se il generale dai mille volti fosse stato raggiunto in tempo e salvato, magari da una di quelle sfere, in modo che potesse rivedere l’alba di un nuovo giorno come gli spettava di diritto.

«Accettare di vivere senza un quirk dovrebbe avvenire nel momento stesso in cui si scopre di non possederlo. Se fossimo definiti da queste abilità o peculiarità non saremmo esseri umani, in fondo, ma robot di ferraglia dipinta. Pensate di essere speciali per i vostri raggi luccicanti, per i vostri superpoteri? Non è così! Voi siete speciali e unici, perché respirate l’aria di questo mondo, perché siete liberi di scegliere, perché oggi siete qui, perché volete diventare Heroes! I quirk sono solo l’ultimo dettaglio, la spennellata finale, la conseguenza stessa della nostra evoluzione come umani e non c’è nulla di male se alcuni di noi rimangono allo stato grezzo, privi di quel ritocco!»
Yunix sentì lo stress, l’ansia, le preoccupazioni farsi da parte. Parlare a viso aperto, senza menzogne, senza dover nascondere qualcosa era dieci volte meglio che raccontare frottole a destra e a manca, ma non era solo quello: un aspetto nuovo che non aveva mai contemplato prima lo sospingeva a continuare, come faceva la bora incessante che soffiava sulle sponde del settentrione.
«E infatti non è stata la mancanza di un quirk a spingermi a tirarmi indietro dalla possibilità di diventare uno studente, ma la semplice constatazione che io sono una pessima forma di vita, egoista, semplicistica, malinconica, indecisa, priva di un solo briciolo di eroismo invece presente in tutti voi». Percepì Asia ribattere a bassa voce che non era vero, ma Yunix non poteva più fermarsi. Ormai c’era dentro fino al midollo.

«Ero lì sopra come un esaminatore, ma il vero obiettivo era quello di spingermi a infrangere le regole e iscrivermi all’HG senza la necessità di un test!»

«Che cosa?»
«Starai scherzando, spero!»
Le voci furono in fretta quietate da un gesto del preside, che pur nella sua crisi di mezz’età doveva sembrare piuttosto autorevole.

«È così! È esattamente così: da quando sono arrivato qui, per ragioni che non potete comprendere, sono stato spinto più e più volte ad accettare la proposta, ma se pensate che ciò mi abbia spinto a cambiare idea vi sbagliate. Fino alla fine del test, ero certo di non essere nemmeno degno di esser preso in considerazione per l’albo d’oro di questa scuola, e più volte mi sono sentito un peso, una zavorra. Se non avessi scoperto di avere un Quirk, proprio all’ultimo, allora non mi sarei nemmeno preso la briga di scrivere quella lettera».
«Assurdo!» ruggì qualcuno.
«Le unicità si scoprono ben prima di quest’età! Ci sono esami medici apposta!» intervenne un ragazzo.
«È solo un giro di parole, mongoloide! Stanno cercando di giustificare l’ammissione di un tipetto che ha pagato per farsi ammettere direttamente senza passare dal via!»
«Dillo, forza, dillo!» si aggiunse un altro.
«Eddai, ammettilo! Sei un venduto!» urlò una ragazza.
Yunix gelò con lo sguardo quelli che avevano parlato e non volò più una mosca.

«Ciò nonostante» dichiarò, alzando la voce, «sono rimasto della stessa idea. Non ho il diritto di entrare in questa scuola, né senza un Quirk, né tantomeno con... ed è questo che ho scritto in quella dannata lettera!»
Con mano svelta mise mano al biglietto nella mano di Inai e lo sollevò in cielo, per poi lanciarlo in mezzo alla folla.
«Ho chiesto di non essere ammesso per alcun motivo, perché non credo che un quirk faccia di me una persona più adatta ad essere un eroe. Ho solo voluto essere tale per un momento e quel momento mi sarebbe bastato per sempre!»

“Concludi, lasciali di sasso. Dì che terrai fede a quelle parole! Fallo, Yunix. Tieni fede a quelle parole! La decisione l’hai già presa”. Guardò Kane, allibito quanto tutti gli altri.

«Puoi fare quello che vuoi!»

«Mi ero ripromesso di non cambiare di nuovo idea, di non tornare più sui miei passi, ed è quello che intendo fare da adesso in avanti, ma non posso ignorare il potenziale di questo potere che mi è ancora largamente sconosciuto» affermò, stringendo i pugni. «Non merito di essere uno studente, ma forse potrei essere un’arma nelle mani dell’HG, quindi chiedo al preside e a tutti quanti voi di poter entrare nell’istituto come tale, non venendo annoverato tra gli studenti dell’HG, non finché non avremo stabilito se questa maledizione rossa che mi porto dietro possa essere utile in qualche modo o meno. E se avete ancora dubbi sulla veridicità di queste parole allora chiedetevi perché io e il preside stiamo affrontando la situazione a viso aperto invece che agire in tranquillità lontano dagli occhi di tutti. Ma l’HG è questo, verità, merito e coltivare sé stessi dal seme alla pianta. Vi prometto che non mi considererò uno studente fino a che non avrò dato prova di esserlo e fino ad allora farò in modo che nessuno provi a considerarmi tale, professori o compagni che siano. Se il preside acconsentirà a questo compromesso, a questa via di mezzo, sarò al servizio della scuola, nulla di più, nulla di meno! Presente, passato, futuro... non ha alcuna importanza per me ora: questa è la mia decisione definitiva e non mi tirerò indietro di fronte a calunnie, crimini, Villains o Heroes. Se non vi va bene, se avete ancora qualcosa da ridire, vi attenderò più tardi al banchetto, ma sappiate che non riuscirete ad infrangere i miei sogni, perché un giorno io lo sarò: sarò il più grande fra gli eroi!»

Yunix smise di parlare e lasciò il microfono al preside, facendo un breve inchino. “Ce l’ho fatta... ma questa volta ho promesso. Questa mia decisione sarà definitiva, niente più arrovellamenti, niente più dubbi! Non so cosa mi riserverà il futuro, ma continuerò a guardare in faccia la realtà. Questa è solo la prima vittoria... devo fare ancora i conti con il mio passato e con me stesso, con il mio presente e con i miei cari, con il mio futuro e con i miei sogni e lo farò con le mie stesse mani. Sarò il demone che metterà in riga tutti gli altri demoni!”

Inai fece un cenno a Milia, che saltellando si affrettò a riprendere il microfono. L’uomo le sussurrò qualcosa nell’orecchio che la fece sorridere. La donna guardò la platea e poi Yunix.

«Ebbene... Yunix Braviery, sei...» Yunix sentiva la gola secca, ma non mosse un muscolo. «Ammesso! Il preside ci tiene a precisare che fino a che non riterrai opportuno diventare uno studente sarai un ripetente fatto e finito». Aspettò che il ragazzo annuisse prima di continuare. «Quaranta studenti sono stati ammessi! Per loro e tutti gli altri, il momento è giunto... diamo il via al banchetto!»

I capelli appuntiti della donna si caricarono di energia e una ventina di fuochi artificiali furono sbalzati nel cielo, dove deflagrarono in maree di immagini rosse, una più pirotecnica dell’altra, immagini che illuminarono il prato notturno, i visi di tutti, l’intera città di Temigor e forse la totalità del mondo conosciuto. Nulla poteva sfuggire alla luce dell’HG, nemmeno il male che giaceva sopito, eppure la luce non raggiunse mai uno dei presenti nelle retrovie, che già dava il dorso al palcoscenico.

Nelle grida di giubilo e i movimenti frenetici dei controllori che portavano tavoli e panche, nessuno si accorse di quel singolo individuo, che si allontanava mesto verso i cancelli, covando nel cuore un tradimento imperdonabile.



Infection Rupture Arc – ENDED
 

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Capitolo 24
*** Una Strada per il Futuro - Parte Prima: Le angustie di Bakugo e il cimelio d'oro ***


Una Strada per il Futuro - Parte Prima: Le angustie di Bakugo e il cimelio d'oro




«Katsuki! Katsuki! Se non ti sbrighi a scendere, ti caccio giù dalle scale a suon di calci!»

«Dammi un secondo, ma’! Pensi che i miei denti si lavino da soli!? E che cazzo!»

Il ragazzo dai capelli color biondo cenere sbatté l’asciugamano sul lavabo, gli occhi che mandavano fiamme. Guardandosi allo specchio, osservò le gocce d’acqua gocciolare lungo i bicipiti allenati, per poi cadere a terra formando un laghetto attorno ai suoi piedi scalzi. Molto bene. Ora doveva pure asciugare o la vecchia megera gli avrebbe rotto le palle tutto il giorno.

«Muoviti, ho detto! C’è una lettera per te!»
«LETTERA!? E di chi? Siamo nel fottuto Duecento per mandare ancora delle lettere, ma’?»

La voce indiavolata della madre lo raggiunse dal piano inferiore con forza inaudita.
«LO SAI BENISSIMO DI CHI È! Scendi o salterai la colazione, dato che ti piace fare sempre il sacco di merda!»
«Che palle! Che palle! Che palle!» Bakugo si sfogò sulla spalliera del bagno fino a piegarla sotto la forza dei colpi, poi si ritenne soddisfatto. Avrebbe dovuto ripararla, ma tanto cosa importava? In quella casa prendeva su in ogni caso, quindi tanto valeva essere cazziati per motivi seri. «Arrivo, cazzo!»
Il ragazzo si passò due dita sotto le occhiaie.
«Voi donne avete tutte un palo nel culo h24... fanculo» sussurrò a bassa voce, aprendo la porta con un calcio e scendendo la rampa con passo irritato.

«Oh, eccolo! Ce ne hai messo di tempo» lo accolse la madre, una ciotola fra le braccia robuste.
«Meno di quello che ci hai messo tu per rompermi i coglioni!»
«KATSUKI!»
«Sì, sì, va bene...» Il ragazzo si sedette scontrosamente al tavolo, cercando di guardare ovunque meno che verso la donna. «Dunque, questa lettera? È del vecchiaccio, sono pronto a scommetterci».

Vi furono istanti di silenzio, che Bakugo decise di adoperare per sorseggiare la tazza di tè il più rumorosamente che poteva. Non ottenne il risultato sperato. Sua madre iniziò a sbattere le uova con una frusta d’alluminio, facendo se possibile il quadruplo del casino che stava facendo lui.

Mitsuki, ancora nel fiore dei suoi anni grazie al Quirk che si portava dietro, parlò con voce insolitamente calma: 
«Tuo nonno... è di un altro paese, lo sai, no?»
«Oh, certo, come si chiama quel posto di merda? Kotetsu, forse?»
La madre digrignò selvaggiamente i denti.
«Temigor, brutto idiota! Una città che vale quanto tutto il Giappone messo assieme!»
«Come no! E anche se fosse..?» Bakugo scaricò tutto il peso sullo schienale, simulando disinteresse. «Mio nonno è solo un vecchio che non vuole morire. Cosa cazzo vuole da me?»
«A quanto pare sei il suo preferito e francamente mi chiedo il perché» infierì Mitsuki, sbattendo la frusta con maggior forza del necessario. «un isterico come te non dovrebbe essere incoraggiato a...»
«Non mi hai risposto!» la interruppe lui, rabbioso.
«Ah sì? Leggi quella lettera e scoprilo da solo cosa vuole, pelandrone!»

Bakugo imprecò a gran voce, poi si portò una mano alle tempie e visualizzò il pezzo di carta sulla tovaglia. Era una lettera squallida. La carta era delle peggiori che avesse mai visto nella sua vita, sudicia e consunta, per non parlare della ceralacca sbavata. Doveva viveva il vecchio, nella giungla? Ruppe il sigillo e scartò il contenuto, contrariato, non prestando un pizzico d’attenzione alle grida della madre, che lo rimproverava per la sua lingua lunga. Grafia simile alla sua. Stessa acidità. Stesso temperamento. Sì, era di suo nonno. Diede una letta veloce e non ci capì un cazzo, perciò dovette ricominciare da capo. Sua madre si avvicinò a lui, per leggere a sua volta. A Bakugo la cosa non diede fastidio, o almeno non gli diede fastidio che leggesse le farneticazioni di suo suocero. Quanto alla sua presenza accanto a lui, la cosa gli dava parecchio da fare. Ciò nonostante, rimase concentrato e passò in rassegna le frasi scritte a mano sulla carta straccia, sempre più corrucciato.

«Che sfacciataggine! Ma lo sa che frequenterai lo UA tra meno di un mese!?»

«Non lo so. Non me ne frega» rispose Bakugo, appallottolando la missiva e gettandola con precisione nel cestino.

Mitsuki non batté ciglio, ma anzi continuò a inveire contro il parente, agitando i pugni che se stesse affrontando un grizzly.
«Ma che gli salta in testa! Non hai tempo da perdere con queste minchiate!»

Bakugo iniziò a dondolare sulla sedia, sovrappensiero.
«Già» disse senza convinzione. 

«Non avrai intenzione di fare come dice, spero! Sta raccontando un mucchio di puttanate e tu non c’entri niente con questo presunto tizio di nome Yunix».

«Però...» ribatté il ragazzo, facendo un sorrisone, «è una bella sfida. E tirarmi indietro...»
«sarebbe la cosa più saggia!» concluse Mitsuki, scuotendo la testa, sbalordita.
«Ma non una cosa che farebbe un Bakugo!»
La madre lo zittì, pizzicandogli le guance. La cosa lo fece imbestialire. Emise un gemito furibondo e le strinse il polso.

«Non smetterò mica di perseguire il mio obbiettivo, vecchia matta! Sarà solo una missione secondaria che porterò avanti in segreto, per scoprire il mistero di questa sorgente dei fiumi infernali di cui tanto si parla... batterò sul tempo il ragazzo e... che c’è!?» saltò su a un’occhiata penetrante della madre. «Guarda che il vecchio non ha tutti i torti. Dice che quel giovane ha degli occhi demoniaci e se uno come lui dice così, allora c’è veramente da preoccuparsi!»

«Ti prego! Non far finta che ti stia a cuore il benestare di un paio di sconosciuti, è disgustoso! È questo che la UA deve cambiare di te, non te ne rendi conto!?»

Bakugo allontanò la madre, con un una mano.
«Stammi su di dosso, dai! Non ho mica detto che scappo di casa, e che cazzo!»

La madre tornò all’attacco con la lingua più biforcuta di quella di un pitone.
«EHI KATSUKI! Guardami bene negli occhi, quando ti parlo! Io rispetto il fatto che tu vuoi darti da fare per tuo nonno, ma se perseguirai questa strada non troverai altro che amare delusioni! Pensavo volessi diventare un eroe coi controcazzi, mi sbagliavo!?»

Quella donna aveva un modo tutto suo per fargli capire che ci teneva a lui.

«Ohi, ohi, ohi!» Il ragazzo sbatté un pugno sul tavolo, facendo tremolare tutta la tavola. «Che fai, mi prendi in giro, ma’? Pensi che rinuncerei alla possibilità di diventare un Hero per questo!?»

Il soggiorno era diventato cupo, come una cripta. Se l’orologio esagonale sulla mensola non avesse indicato che era mattina, Bakugo avrebbe detto che erano perlomeno le sei del pomeriggio. Nessun suono rombante di auto, nessuno schiamazzo da sabato del mercato, né un accenno di cinguettio vicino alle imposte. Cos'era quell'atmosfera da funerale tutto d'un tratto? C’era pure nuvolo fuori: presto avrebbe piovuto a catinelle. Che schifo, mai una volta che potesse godersi il week-end nel chilling.

«Qual è il vero motivo per cui vuoi dargli ascolto?» domandò la donna dai fianchi alti a tradimento, strappandogli via la tazza di tè dalla mano, probabilmente prima che la rompesse come suo solito. Il ragazzo non ci fece neanche caso. Stava masticando quella domanda inaspettata fra le mandibole e il sapore non gli piaceva affatto. “Perché lo faccio? Cazzo te ne frega, donna?”
I suoi occhi rossi belluini s’infiammarono di nero.

«Kacchan, non potevo restarmene lì a guardarti morire!» 

La voce squillante e disperata di quel pazzo... non l’avrebbe mai dimenticata. Bakugo si mise la testa fra le mani, sentendola di nuovo avvolta in quella disgustosa gelatina verdognola. Era passato un po’ di tempo, ormai, da quando era stato preso in ostaggio dall'orrido Sludge Villain. Gli elogi che gli avevano fatto valevano meno di niente. Che vittoria era stata vedere quel ragazzino dai capelli verdi buttarsi avanti per salvarlo!? Una nullità senza poteri. Lui era il migliore, doveva esserlo. Allora perché in quella situazione era stato impotente, mentre il ridicolo no-quirk no? Non aveva senso. Non aveva alcun senso.

«Per me esiste solo la vittoria, madre!» ruggì, trovando un compromesso. Si costrinse a scacciare via il pensiero di quel bambino snervante. «Solo la vittoria e mio nonno questo lo sa!»

Bakugo si alzò e varcò la porta, per poi sbatterla con veemenza alle sue spalle. Uscendo all’aria aperta, vide le nuvole pesanti di pioggia, distribuite come un gregge di montoni sulle loro teste.

“Vedrai, Deku, pezzo di merda... non accadrà mai più che l’ordine delle cose vanga sovvertito, non lo permetterò”. Il ragazzo dagli occhi rossi diede un pugno a un palo della luce. “Non so neanche chi tu sia, Yunix, e in realtà non me ne frega un cazzo... ma minaccia o no per quel villaggio, ti vedrò cadere ai miei piedi, perché hai disonorato il nome della mia famiglia e conseguentemente il mio di nome, un nome che risponde a una sola traduzione: vittoria!”
 


Wealth Legacy Tower – Area di scolo

I riverberi di due torce solitarie brillavano nell’oscurità. La luna era piena quella sera, anche se solo qualche piccolo scorcio trovava la strada fra le sbarre marmoree.

«Vuoi sostituire la calotta superiore?»

Due uomini in abiti da lavoro ispezionavano le grate sotto cui fluiva il canale sotterraneo. Uno era chinato.

«Ma che dici? Ci manca solo. Tre per uno è più che sufficiente, bello mio. Andrà tutto liscio come l’olio, fidati».

Il lavoratore si rialzò, asciugandosi la fronte madida di sudore e la lucida nuca calva. Aveva un giornale sottobraccio, e prese a sfogliarlo, tenendo la luce fra i denti. L’altro, meno tozzo, mento prominente e basette nere, aveva gli occhi ben puntati sul terreno viscido che la sua torcia elettrica non mancava di mettere in primo piano. Il sudiciume illuminato dai coni di luce dava tutt’un altro aspetto all’edificio splendente alle loro spalle.

Il collega parve trovare la notizia che cercava.
«Senti questa, Crane: Ten Ken prende il largo! Nessuna dichiarazione da parte dell’eroe più forte di Temigor. Ahaha. Ma in che mondo viviamo!? Il Number One Hero che se la dà a gambe via mare! Un classico... non solo siamo un paese minuscolo, ma perdiamo gli eroi migliori che abbiamo da un giorno all’altro. Molte volte penso che sia un peccato che siamo ancora indipendenti dal Giappone».

Parlare ad alta voce di fronte a quel lugubre scrosciare? No, Saber Crane non l’avrebbe fatto. Non erano lontani dal perimetro del poligono, ok, ma chi gli assicurava che le sentinelle fossero di guardia? Nella loro direzione, solo buio, buio informe. Quella notte non era la solita notte. Si aggrappò con la mente a ciò che poteva vedere. Due lunghe pareti di calcestruzzo, che percorrevano in via contraria il corso della fogna, la quale sorgeva all’aria aperta solo per metà. Senza il Quirk anti-odore di Phil, sarebbe stata sigillata, ma stava di fatto che era un bel modo di risparmiare sull’edilizia, e la città di racimolare un po’ di denaro ne aveva un gran bisogno. Quelle due muraglie poderose s’intersecavano alle loro spalle, dove il cielo stellato illuminava a modo suo quel cimitero paludoso, con tombe arrugginite in ogni dove. Sopra il terrapieno c’era la torre sindacale, mentre nei pressi delle tubature imperavano il quadrante destinato ai quartieri militari e alle residenze degli ufficiali, che si distendevano silenziose e solenni leggermente più a ovest. I ricchi aristocratici, che avevano costruito la loro fortuna nientemeno che sull’arkastro avevano trovato carta bianca e lusso sull’altro argine del fiume di ferraglia. Dove si trovavano loro, invece, li asfissiava un alto tetto a pilastri discontinui, sempre più vicini l’uno dall’altro man mano che si proseguiva, di solida calce. Volta che si estendeva per oltre una cinquantina di metri in larghezza e un numero incalcolabile degli stessi in lunghezza. E l’atrio oscuro cresceva in ampiezza passo dopo passo, come se stessero impunemente entrando nell’antro di un drago assopito. Era un’area grande quanto un’arena, probabilmente una delle fogne più imponenti mai realizzate da mano umana. Tutti i liquidi di scarto della zona, se non altro quelli del distretto centrale, convogliavano lì.

Il collega imperturbabile sbadigliò girando pagina. Avevano ripreso a camminare da circa un minuto.
«Ten Ken! Va là che se la gode quel tipo...»
«Alt, un attimo. Quindi ora sia il Number 1 che il Number 2 sono fuori città» lo interruppe Crane, incapace di restare in silenzio un momento di più.
«Strano a dirsi, ma è così» fece Phil, facendosi luce sul periodico, invece che sul terreno a piastrelle su cui si arrancava a fatica. «Non capisco proprio. Che politica sta adottando il nostro sindaco? Cosa serviva quell’appezzamento in Perù se non per un paio di scavi archeologici?» proseguì, ingoiando una caramella che teneva nel taschino.
«Perù? Pensavo fosse in Colombia...» fece Crane, rabbrividendo nella sua tuta. Il viso dell’uomo fece capolino oltre il settimanale, esasperato.
«Cambia qualcosa?»

I due tacquero. Il rumore dei passi sopra il ferro ossidato rimbombava come non mai. Se qualcuno voleva farli fuori, tra la luce delle loro torce e il rumore, non poteva localizzarli con più facilità di così. Questo lo fece sorridere, ma un ambiguo senso di straniamento lo stava colmando. E dire che venivano lì tutte le sere. Sentiva le gambe molli, come se si stessero rifiutando di proseguire. Era come se fisiologicamente stesse rispondendo agli ordini di qualcos’altro. Non era un buon segno, né una cosa normale. Cercò di simulare una calma che non aveva.

«Oh, so solo che volevano fare un grande e grosso buco» disse, col batticuore.

«Sì, un buco nell’acqua... sono morte dodici persone, bello. E potevamo benissimo essere noi».

Su quello non c’era dubbio: poteva benissimo essere fra quei cadaveri, in quel momento. Il volantino era arrivato anche sul suo comò. A dirla tutta, l’unico motivo per cui non si era immatricolato per quella missione in Sud America era perché in quei giorni di febbraio sua figlia stava dando battaglia a un feroce batterio, unico nel suo genere. Crane non voleva ammetterlo, ma poco c’era mancato perché ella venisse divorata da quel germe. Si era autoimposto con fermezza di rimanere con lei per un po’, almeno fino a che non si fosse ristabilita completamente. Glielo doveva, considerato che gli aveva passato lui quel Quirk bastardo che si era portato via gli anni migliori della sua vita.

Intanto, la perlustrazione proseguiva e ora anche Phil si guardava bene dallo scherzare amichevolmente con lui. Crane sentiva prurito, e non sulla carne, ma dentro. Muovere le dita provocava strani effetti, le sentiva gocciolare. I piedi erano di punto in bianco troppo grandi per le sue scarpe su misura. I vestiti gli si incollavano addosso, ma non stava sudando. Qualcosa di grosso era in agguato e il meglio che poteva sperare era che ignorandolo, esso li lasciasse in pace, ma era una mera speranza. Le piastrelle su cui poggiavano i piedi divennero scale senza principio e senza fine. C’era da dubitare che fossero nelle loro fogne ormai, tanto era diversa la percezione delle cose rispetto al solito, come se inconsciamente si stessero inerpicando entro una dimensione di pura ombra.

La luce delle due torce tremolò e si spense. Erano rimaste fulminate nello stesso istante.

I due operatori si guardarono vicendevolmente. Riconoscevano le stesse paure sul volto dell’altro. Crane iniziò a dare colpetti affannati alla torcia fuori uso, sbuffando.
“Una coincidenza... per forza!”

Phil gli fece segno di stare in silenzio, poi, gettata un’occhiata attorno a sé, parlò:

«Ancient One, sei tu?»

Una forte interferenza vibrò nella mente di Crane, come se i suoi pensieri stessero venendo convogliati in una regione precisa del cervello, per lasciare spazio a un’altra entità.
«Mastro Filippo Nieva e mastro Saber Crane... ricordate il mio nome».

Non era una voce, o almeno... non apparteneva a un umano ed era dentro la loro testa. Girarsi intorno non avrebbe portato a nulla, perché non c’era nulla da vedere e nulla si poteva vedere. Crane questo l’aveva capito, perciò lasciò la situazione nelle mani dell’amico, sperando che sapesse il fatto suo, mentre con occhi impauriti faceva mente locale.
“Ancient One? Mo’ questo chi è?”
Phil però si distese in un sorriso, facendo un breve inchino sollevato.

«Mi sembrava che il mio corpo si stesse comportando in modo strano. Era opera tua, Hunti?»

Il nuovo nome fu decisamente più evocativo, ma non per questo confortante.
“Hunti: lo Slug Hero... avevo sentito che era andato in Amazzonia per ordine del sindaco, ma a parte questo non so niente di lui. Parla così dunque”.

La voce atona tornò.
«Niente può ostacolare il lavoro dei miei microrganismi. Niente può frenare la loro diffusione. Niente può insidiarsi con tale facilità nel mondo circostante. Nel brodo primordiale tutto era un miscuglio di vita, ed è questo che sono io».

Crane fece un lungo sospiro e si accovacciò sul terreno. Lasciò che le dita accarezzassero la grate areate. Non si riuscì a fare un’idea precisa di dove fosse, ma l’essere era seriamente lì, accanto a loro. “Ha oscurato tutto. Non è solo la nostra posizione. Non c’è luce neanche da dove siamo venuti. Questo è buio artificiale e non mi piace”.
Si fece in piedi, livido. Non ci poteva fare nulla. La diffidenza era l’arma a doppio taglio dei Crane.

«Se sei tu, HERO, fatti vedere! Perché sei qui da noi a quest’ora? Non so cosa sia accaduto in Amazzonia, ma so che tutti i minatori che ci sono andati non hanno fatto ritorno. Oh, e so anche un’altra cosa... che tu eri lì!»

Phil cercò di fermarlo, mettendosi davanti a lui.
«Ehi, bello, calma». Voleva evitare il confronto, ma non era il momento di metterlo in discussione. Gli tirò una gomitata e lo spedì carponi sopra le grate, facendo rotolare la torcia per oltre venti gradini. «Ma che cazzo fai, Crane!?»

Il lavoratore respirava affannosamente sentendosi soffocare da qualcosa.
“Sei un Hero, Hunti...” pensò, “allora perché non hai salvato nessuno là, in quella giungla? Aspetta... ne ho una migliore, hai mai salvato una persona da quando sei diventato un eroe?” Sentiva la testa colma di piombo, ma sapeva bene che erano i “figlioletti” di quel mostro, che lo stavano occupando.

«Crane... hai la stoffa di un eroe, lo sai? Non mi è nuovo che nessuno di voi mi rispetti come tale, ma... questa potrebbe essere definita discriminazione... verso di me... verso i giovani baccelli procarioti che ti stanno popolando».

Crane sentì gli occhi lacrimare. C’era qualcosa che li stava perforando dall’interno.

«Rispondi... sol-o alla mia domanda!» Non sapeva nemmeno a chi rivolgersi.

«Pertanto che lo chiedi, lo farò. Sono qui... perché ho bisogno che portiate questo direttamente dal sindaco... non devono vedermi e per precauzione lascerò giusto un paio di amici in voi... in modo da sapere se rimarrete fedeli al patto. Mastro Nieva, alzati ora».

L’uomo a terrà scoccò un’occhiataccia a Crane e si levò lentamente in piedi, ma non si accorse che l’amico era in una situazione piuttosto critica. Quest’ultimo sbatté a fatica le palpebre, poi rovinò in avanti, liberando un grido che teneva tra i denti da un po’. Phil subito cambiò espressione. «Ehi... che ti succede?»

Crane iniziò a tremare. Perdeva liquidi: dagli occhi, dalla bocca, dal naso, dalle parti intime.

«Hai fatto infuriare i miei cari mostriciattoli. Ti conviene fare ammenda al più presto. Io non ho modo di fermarli».

Crane si strascicò in avanti, i polmoni ricolmi di melma senziente. Phil lo soccorse.
«Basta... ti prego, lascialo stare!»
Ma Crane si erse di nuovo, perdendo gocce su gocce di materia. Gorgogliò qualcosa e si sorprese di sentire la sua voce così roca e inconsistente. Ma non per questo avrebbe mollato. Scrutò nel fulcro dell’oscurità.
«Se sei un... Hero... come dici... allora salvami! Dimostrami... che lo sei davvero...»
Ricadde in avanti, dimenandosi nel putiferio di esseri che lo stava colmando.

«Come dici? Perché ti aspetti che io...?»
“Non è forse questo che fanno gli eroi? Salvare le persone...”

«Salvare...?»

I suoi pensieri erano come parole per quell'essere.
Crane si rigirò su un fianco, guardando il buio nero come la pece.

“So che sei nella mia testa, lo so bene. Voglio tornare a casa, stasera, da mia figlia e lo farò anche senza il tuo aiuto...”

«Io... aspetta... cosa stai facendo? Perché stanno morendo?»
«Perché’?», tossì penosamente, «Hah... perché... perché hanno scelto la persona sbagliata da colonizzare, Hunti. Io vivo da sempre con un mostro dentro di me...» borbottò con voce strozzata. Percepì gli artigli uncinati di un falco dilaniargli le spalle. "Vai... fai quello che devi". Si aspettò che l’essere sorgesse dall’oscurità per dargli il colpo di grazia, ma non accadde nulla.

«Portatelo a lui... vi scongiuro... ne va della sua...» la cassa cranica di Crane vibrava come un ventilatore. Si strinse due dita sulle tempie, urlando.

Phil lo aiutò a mettersi in ginocchio.
«Ci sei, bello? Va tutto bene?»
«Per ora...» rispose Crane, fradicio, il viso incavato e gli occhi lacrimanti.

Ansimando, si rimise in piedi e vide di nuovo la luna fare capolino fra le sbarre.
«Se n’è... andato» affermò con certezza. «Hah...» tossì di nuovo, «cosa... ti ha lasciato?»

Phil aveva il viso in ombra.
«Andiamocene da qui, forza» fece lui prendendolo per il braccio.
«Qual è la reliquia che dobbiamo portare al sindaco?» tentò ancora il tecnico idraulico, ma il collega eluse la domanda.
«Tanto di cappello, Crane, ci hai quasi fatto ammazzare» bofonchiò dopo qualche istante.
L’uomo che aveva guardato la morte in faccia non trovò nulla da obbiettare: se l’era cercata.

L’uscita da quella caverna putrida era vicina e i loro passi pesanti più spediti che mai. Solo quando furono alla luce del cielo, Phil cantò vittoria.

«Fatta! Fiuu... mai più, bello, mai più. Consultami la prossima volta che vuoi agire di testa tua».
Aveva ombre scure sotto gli occhi e la pelata era macchiata di rosso dove l’uomo aveva battuto la testa quando gli aveva mollato una gomitata. Crane si grattò il collo, lievemente in colpa.
«Se ci voleva ridurre al silenzio, lo poteva fare sin dal primo istante, Filippo. Non poteva ucciderci, non entrambi!»
«Esatto, cazzo!» ribatté Phil con un grugnito. «Uno di noi era sacrificabile!»

Se avesse potuto si sarebbe strappato i capelli. Crane, da parte sua, fece un sospiro infranto. Guardò in alto: la luna era quella di sempre. La questione non poteva aspettare ancora. Con un gesto flemmatico, si mise di fronte al collega e gli mise le mani sulle spalle.
«Sono ancora dentro di te, immagino».
«Cosa, amico? Cosa?»
«Non fare il deficiente! Le sue cellule!» L’uomo scurì in volto. Non voleva nemmeno pensarci, era evidente. «Phil... lui vorrà assicurarsi che facciamo come dice».
Non vedeva uscita. Si adagiò contro il compagno, riflettendo intensamente.
«E se ci uccidesse dopo che abbiamo portato la... la...» incominciò Phil.

“Giusto”. Crane riaprì gli occhi, e osservò la mano destra dell’uomo impugnare una specie di statuetta d’oro bipartita.
«Che diavoleria è quella?»
«Non ne ho idea... e scommetto quanto vuoi che è l’unico motivo per cui siamo ancora in vita».
«No, no, no, non abbattiamoci così. Non può assassinarci così su due piedi! Non è un film, cazzo. Nella vita reale un omicidio del genere avrà ripercussioni! Ci basterà chiedere aiuto a un Hero e sarà...»
«Ma anche lui è un Hero! Tutto ciò è assurdo, bello! Non è normale...»
«E allora come sapevi che era lui quando le nostre torce sono andate in corto? Cos’è, tu e il tizio telepatico cenate assieme tutte le sere?»

Phil deglutì, aggravando i sospetti di Crane, stanco di non capire cosa stava accadendo.
«Cosa sai che non so?»
L’uomo si sfregò nervosamente le mani.
«Io... ero... stato preavvisato».
«Che cosa!?» Lo scorrere dell’acqua sembrò farsi più lento sotto di loro. «Tu sapevi!?» gridò Crane, fuori di sé.

Phil fece un passo indietro.
«Sapevo solo che sarebbe venuto da me... per questa commissione... non sapevo quando, né perché, né cos’è successo in Brasile!»
«Avevi anche detto che non sapevi dov’era il sito degli scavi!»
«Beh, ho mentito!» esclamò Phil, tenendogli testa.

«Non mi sorprende» confessò Crane, calmando i nervi a fior di pelle.

Prese a camminare avanti e indietro sulle grate. Il suono ovattato delle falcate sul ferro vecchio lo aiutava a pensare.
«Forse possiamo... no, non ha senso». Si passò una mano fra i capelli neri, osservando il cielo stellato. «Forse...»

«So io cosa faremo, bello mio». La voce terrea di Phil lo bloccò.

«Alt, come dici?» Si trovò all’improvviso un cacciavite alla gola. «Hah... ma che stai..?»

«Noi porteremo questa cosa direttamente al sindaco Nydal e ci rimetteremo alla sua misericordia, promettendo una sola cosa: acqua in bocca».

«Ma sei matto! Magari risparmierebbero te, ma a uno come me... lo sai che fine hanno fatto quei ricercatori in Amazzonia? Io l’ho capito». Gettò uno sguardo alla galleria buia, sentendo la punta acuminata pungergli il mento. «Hunti, Ancient One, o come si chiama, io lo so che è stato lui a spedirli all’altro mondo!»

L’uomo che lo teneva sotto torchio spalancò gli occhi, gli occhi di un bambino.
«E se lo ha fatto» sussurrò indicando il giornale lì per terra. Sulla pagina insudiciata c’erano le immagini di alcune delle vittime: Sayako Kono, Alastor Mustafà, Clayde Jockey. Sembravano felici in quelle istantanee in bianco e nero, ma non avrebbero sorriso mai più. «Se lo ha fatto, come dici, perché non ti ha finito là dentro?»

Crane non lo sapeva. Quella formica cacciatrice... lo aveva davvero risparmiato? E perché? Certo, non lo aveva salvato. A quello aveva dovuto pensare il suo stupido Quirk, però...

«Che ne so... so soltanto che qua rischiamo grosso, Phil».

Fece per afferrargli il polso, sottovalutando la disperazione con cui lo minacciava.

«Non provarci!» Premette l’arnese più a fondo. «Non costringermi!»

Ma intrepido, Crane non desistette. Il suo cuore ardeva di coraggio.
«Lasciala! Ne verremo fuori in qualche modo!»
Ma Phil era al limite.
«Se sei così tanto pronto a morire, bello» abbaiò con voce stridula «ti posso anche dare una mano!»

«BLASTATELO!»

Un proiettile azzurrognolo lampeggiò minaccioso. Phil venne preso in pieno e scaraventato sul ferro a quindici metri di distanza. La statuetta avrebbe subito la stessa sorte se Crane non l’avesse sfilata con prontezza dalla presa del collega. Non c'era tempo per esaminarla. L'uomo mulinò gli occhi in direzione della voce.
Luci accecanti ovunque! Fiori maestosi in un prato d’ombra... C’erano soldati, un sacco di soldati. Li avevano uditi discutere? Allora perché erano così tanti? Uno di essi imbracciava un bastone fumante. Un altro similmente armato si fece avanti.

«Anche l’altro!» ordinò la stessa voce mascolina.

«No! Aspettate!» esclamò Crane, alzando le mani.

«Ha l’idolo, caporale!» fece notare qualcuno.

«E con ciò?» ribatté la voce. «Blastatelo! Ora!»

Il soldato in prima fila prese la mira. Crane era sommerso di paura. Si mise la mano libera sul cuore.
«Alt! Alt! Chi siete? Cosa volete da noi?»

«Caporale! Non ha fatto nulla di male!» dichiarò uno dei presenti.
«Questo non starà a te stabilirlo!»
Il soldato che lo teneva sotto tiro abbassò l’artefatto.
«Io prendo ordini dal colonnello. Non sparerò a un civile disarmato senza una ragione».

“Insubordinazione... non poteva andarmi meglio!” pensò Crane, approfittando del momento di confusione, per buttare un occhio dietro di sé.
Oltre il corpo del collega, c’erano al massimo dieci metri prima di arrivare alla salvezza del suo lurido regno. Poteva farcela!

Senza pensarci due volte, si sottrasse al fascio di luce e si dileguò nell’oscurità.

«STA SCAPPANDO! Usate i fari!»

“Corri, corri, cazzo! Questa statua... non so perché la vogliano tutti, ma finché la tengo stretta, sono a cavallo”.
Proiettili al plasma fischiarono attorno a lui, ma il cielo era così nero, che senza le luci era come giocare a mosca ceca per loro. Crane, dal canto suo, conosceva l’area di scolo meglio del palmo della sua mano e pure nei suoi quarant’anni suonati, poteva vantare un’ottima composizione corporea. Sentiva rumore di passi alle sue spalle. Due, tre, quattro, almeno sei soldati erano al suo inseguimento. Si calò lungo un viadotto di sua sola conoscenza e si aggrappò a una trave piegata. Stringeva spasmodicamente la statuetta tra i denti come un mastino col suo adorato osso. “Non mi avranno! Non l’avranno...”

Qualcosa cozzò con la trave.

«Xingyun de ni’1! Le regole sono regole e sono regole tali e quali in ogni battaglione!» lo colse di sorpresa una voce squillante.

Crane sentì la trave incrinarsi di botto e perse la presa, cadendo per otto metri. Finì in un pantano formato dal liquame delle stesse fogne che si era impegnato così faticosamente per mantenere pulite.
Niente di rotto, osservò con sollievo. Però... cos’è che lo aveva fatto cadere? Qualcuno era atterrato sulla trave? Gli era sembrato di scorgere due stivali piombare su di essa, ma era impossibile che l’avessero piegata con la sola forza dei muscoli. E poi... da dove poteva essere passato chiunque fosse?
Ma l’odore del lerciume ancora non c’era e questo poteva significare una sola cosa: Phil era vivo... lo avevano solo tramortito.

«Xingyun de ni’! Fuoco e foglie d’eucalipto fanno luce nelle tenebre».

Crane sguazzò nel fango, cercando di allontanarsi in fretta e furia dal suono echeggiante, nuovamente a pochi centimetri.
«Hah... no! Vattene!»

«Non c’è evasione per chi non scappa col mio benestare; non c’è!» Due gambe affilate come sciabole gli tagliarono l’ultima via di fuga, gettandolo di nuovo in mezzo alla pozzanghera, dove prese a tossire a più non posso. «Quante lune hai già sulle tue persistenti spalle, Temigoriano?»

Crane si tirò su in uno spasimo di sofferenza e rimase immobile, le braccia incrociate a tenerlo caldo. Con il suo infausto potere, sarebbe bastato un raffreddore a determinare la sua definitiva dipartita. Gli unici rumori erano lo sciabordare dell’acqua e richiami concitati sopra di lui. Non vedeva a un palmo dal suo naso, ma ancora una volta la presenza di un umano accanto a lui era indiscutibile. Si sentì improvvisamente infermo sulle gambe e si abbandonò nell’acqua melmosa, stringendo salda la statua.
«Lune sulle mie cosa? Non credo di...»

Un disco di luce lo illuminò, accecandolo.

«È là!»
«Guarda, Tao Sakan l’ha preso!»

Crane sbatté le palpebre ed ebbe l’opportunità di osservare la figura illuminata, appoggiata di profilo a un pilastro arrugginito. Mancò poco che perdesse la facoltà di parlare.
Sgargiante, regale, altera, era una delle donne più imponenti e maestose che avesse mai visto, come se una dea ritagliata fuori dai libri di mitologia fosse scesa sulla terra per incontrarlo, ma non ci fu il tempo nemmeno per ammirare quella regina violacea.
Soldati rivestiti di cobalto presero a scendere lungo le impalcature, per raggiungerli.

Senza bisogno di ulteriori prove, Crane comprese che la sua unica opzione era scendere a patti con quell’ambigua combattente, armata dalla testa ai piedi come se fosse pronta per imbarcarsi sul Jolly Roger da un momento all’altro. Si prostrò ai suoi piedi, cercando di acquisire un minimo di eloquio. «Dolce signora, non c’è tempo... vogliono questa...» piagnucolò sollevando la statua. «Devo salvaguardarla... lo sento. Non so che fare».

«Appena siete a tiro, blastatelo!»
«Aye!» rispose almeno una mezza-dozzina di voci.

Saber Crane si trascinò nella direzione della donna.
«La prego. Non lo permetta... non permetta che lo facciano».
«Quante le lune? Quante mai saranno, Temigoriano?» cinguettò allegramente lei, senza la minima fretta. Crane si sforzò di fare un calcolo, sperando di aver inteso cosa chiedeva. «Quattrocentottanta... cinque, hah... non più... non meno» disse ansimando.

La donna puntò i due incredibili occhi color tormalina sul suo viso sordido. Non aveva un’espressione facilmente sondabile. Le labbra viola erano dischiuse, in un’impercettibile, ma presente indecisione. Poi, la donna batté una volta le mani, ridendo melodiosamente come una cornamusa.

«Xingyun de ni’! Un mostro nei panni di un eroe l’ha consegnato a te; e un ordine più audace lo preleverà da te; pacificamente!»

I soldati si fermarono dove si trovavano.
«Spariamo, colonnello Sakan!?»

«Negativo; nada; nine! Costui non è un pericolo; in controsenso è solo la corrente; lui ne è trascinato; come il loto» rispose l’ufficiale con accento fortemente cinese, lasciando lunghe pause fra una sentenza e l’altra.

«Mi permetto di dissentire, colonnello!» proferì l’uomo che aveva ordinato di blastare Filippo Nieva, appollaiato su una trave, come un trapezista in attesa del segnale. «Lo hanno ricevuto dallo sgherro marino il pacchetto. È un altro scagnozzo col cuore macchiato, dobbiamo sigillarli nell'Ade profondo, prima che si moltiplichino».

«No, alt! Alt! Avete frainteso... io non ero in combutta con quell’eroe» gemette Crane, respirando a fatica.
Le parole dell’uomo erano astruse, ma il succo era chiaro.
«Le prove?» chiese il caporale, piombando su di lui e prendendolo per i capelli con una mano guantata.
Aveva un casco ottagonale sugli occhi, ma sotto s’intravedeva un’acconciatura barbara, biondo-germanica. Il suo viso era contrassegnato da una pittura di guerra a croce marrone, che mal s’intonava con quegli occhialoni futuristici, disseminati di forellini luminescenti. Anche i modi erano a un tempo rudi e millimetrici, come se quell’uomo fosse un razziatore del mondo antico, preso e ficcato a forza in una navicella spaziale, senza che potesse uscirne per una ventina d’anni.

«Akilles! Il Temigoriano non mente. Non è a conoscenza del valore di quell’ouxiang; è stato ricattato; ovvero non ha colpe».
La donna non li degnava di uno sguardo, ma si lisciava con garbo uno dei lunghi drappi smeraldini che l’abbigliavano, fregiato di motivi floreali, calcati in un vivido viola spento.

«Sia quel che sia... ha ancora l’idolo, punto primo e non lo lasciamo a piede libero, punto secondo. Mi rammarica ripeterglielo, colonnello, ma il wanax è stato oltre misura chiaro».
Crane aveva più di venti aste puntate verso di lui. Non c’era possibilità di fuga.

«Se è così che stanno le cose, mi premurerò di ospitare il Temigoriano e la sua famiglia nella mia residenza; a tempo indeterminato».
I suoi occhi abbacinanti si spostarono su quelli di Crane.

«Che cosa!» esclamarono assieme Crane e il caporale, il quale lo tratteneva ancora per lo scalpo. «Non capita tutti i giorni di incontrare due anime gemelle; in un solo recipiente...» si giustificò lei, misteriosa. Parlava lentamente, ma il suo tono era d’inesorabile intensità.
«Allora prendigli il cimelio. Che arrivi a destinazione entro l’alba e non se ne parli più!» fece l’uomo, lasciando spietatamente cadere Crane nel liquame con uno spruzzo.

Quest’ultimo si mise subito sulla difensiva, quasi meccanicamente. “Devo proteggere...” Ma le sue mani erano vuote.

«Xingyun de ni’, Temigoriano. Il vento soffia forte dalla tua parte; nelle segrete, nulla ti avrebbe protetto da quello spirito solitario; dall’aspetto mostruoso».
La donna faceva rotare la statuetta sopra la punta del dito. “Alt, un secondo... ma quando mai me l’ha presa!? Che mi sia caduta un attimo fa? Eppure, lei non guardava nemmeno da questa parte! Che le sia arrivata fra le mani per caso?”

«Entro lo scoccare della nona ora, sarai pronto qui con la tua famiglia; e tutti i tuoi averi. Se non ci sarai... assumeremo che il mostro ti abbia preso. Usa bene il tempo che hai a disposizione; è quasi l’ora delle streghe, da queste parti; da parte mia mi ritrovo una vereconda consegna da portare a compimento». La donna diede una scrollata alle turbinanti ciocche bianche come la neve che piovevano dalla sua chioma violetta. Era di una bellezza sconvolgente. «Che la fortuna sia con te, da oggi e per sempre...» disse sorridendogli, «così come accompagna sempre me».
Poi, prese la rincorsa e balzò da una trave all’altra, fino a scomparire alla vista.

I soldati iniziarono a risalire i condotti idraulici, lasciando Crane lì, in quella pozza di putridume, a languire nell’incredulità. Poi, però, il lavoratore ebbe un sussulto.

«Alt! Dove porterete quella statua? È al sicuro nelle vostre mani?»
Solo il caporale dall’aspetto contraddittorio si degnò di voltarsi.
«Orsù! Ti impegni a comprendere cose fuori dalla tua portata, civile? Ti basti sapere che è nelle mani migliori. Smamma, e fallo in fretta, prima che decida di prendere alla lettera la parola del mio wanax. Pensare al fatto che dormirai con lei sotto il suo tetto è già un’onta sufficientemente grave!»

Crane arrossì dalla testa ai piedi, punto sul vivo.
«M- ma che modi! Io sono un uomo sposato! Anche se non vedo mia moglie da un anno...»

Crane ebbe appena la percezione di un'energia scoppiettante che lo sfiorava alla velocità del suono. Guardò immobile l’acqua che sfrigolava, accanto a lui.
«Ora basta! Mi prendi per un pervertito? Se vuoi farti il colonnello o meno a me non cambia di una virgola» disse il caporale, con un barlume di assennatezza nella voce, «ma non ti rendi ancora conto di quanto ha da offrirti. Lo sai perché vi abbiamo trovati? Perché siamo capitati lì, mentre eravate più vulnerabili e non c’era nessuno a proteggervi? Non è stata farina del vostro sacco, inutili piccoli lavoratori... no. È lei... tutto attorno a lei va per il verso giusto. Tutto va sempre secondo i piani. Tutto è perfetto attorno a lei, perché è colma di un elisir inestimabile e inestinguibile, che supera quello di ogni divinità e uomo della nostra storia. Per le prime settimane con lei, ti sentirai come un dio».

Crane si sollevò sui gomiti, sbigottito. “Un dio?” Anche l’accento dell’uomo era insolito, straniero, ma non si capiva di quale paese.
«Hah... mi sembra un po’esagerato...» ma comprese subito che l’uomo non stava affatto scherzando. «Ma allora... se è così speciale... non dovrebbe essere... un bene che sia dalla nostra parte?» continuò, sentendosi a disagio, sotto lo sguardo invisibile dell’uomo mascherato.

Era totalmente immobile sopra il condotto e la sua espressione non comunicava nulla.
Aprì la bocca: «Nel grande schema delle cose sì, è un bene, ma per un qualsiasi umano che l’affianchi o per lei stessa... no: la buona sorte rende ebbri, non importa quanto si pensi di essere nel giusto». L’uomo fece cadere un sassolino nella pozza. «Si cade, sempre più in basso ed è impossibile risalire. Te ne accorgerai col tempo, temo... Sakan dice di averti salvato, ma non è un sentiero tutto rosa e fiori quello che ti propone. La fortuna è il più forte dei liquori e va bene solo se bevuto a dosi, altrimenti diventa presunzione, poi indifferenza, poi caos. Ora ti invidio, ma presto ringrazierò gli spiriti ancestrali per avermi sottratto al tuo fato impervio».

L’uomo si tolse gli occhialoni e lo guardò con due occhi di raccapricciante bellezza, idilliaci. I suoi lineamenti sembravano cesellati nel marmo: il suo era il fascino di una statua, austera, ma anche capace di suscitare emozioni fuori da ogni scala. Non era meno sensazionale di Sakan. Quella cerchia di uomini discendeva da una stirpe antica: la stirpe che aveva fondato Temigor.

«Ordunque, cos’è che attendi? Vuoi che il blob melmoso di tagli la gola? Muoviti! Prendi tutto e raggiungila! È o non è l’ora delle streghe?»



Note d'autore:
Ehilà! Eccomi di ritorno. Morto un arco se ne fa un altro. Bakugo ha una missione, ma la strada per Temigor è tutt'altro che agevole. Quantomeno, non è l'unico ad avere una bella gatta da pelare, perché ora che il mistico idolo è giunto in città, nessuno è più al sicuro. In quali e quanti mani cadrà ancora, prima che qualcuno lo reclami per sé? Chi è questo fantomatico sindaco che non appare mai in pubblico? Qual è il potere del colonnello Tao Sakan? E Yunix? Chi saranno i suoi compagni all'HG? Per le risposte, non resta che attendere il prossimo capitolo, che uscirà il prima possibile :)

 

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Capitolo 25
*** Una Strada per il Futuro - Parte Seconda: Risentimento ***


Una Strada per il Futuro - Parte Seconda: Risentimento


Coal era completamente rapito dalla vista che aveva di fronte. Altro che rave party e street disco, altro che Las Vegas. Nonono! Centomila volte meglio lì. Lì si respirava il divino e il conviviale, lì si assaporava nettare e ambrosia. Lì c’era un simposio, anzi, ancor meglio, un banchetto di satiri e ninfe, occasione d’oro per il palato.
«Guarda che munificenza! Pietanze in ogni dove, tutte per noi!» esclamò, con la bava alla bocca per la vista estasiante.
Raramente le descrizioni degli almanacchi si erano avvicinate così tanto alla realtà. “Da immortalare, da tramandare in eterno. Farò foto, su foto, su foto e quando avrò la memoria piena, chiederò a una bella fanciulla di prestarmi il suo smartphone. A quel punto, già che ci sono, ne approfitterò per chiederle l'istagram. Non potrà rifiutarsi di fronte al mio rango, hihihi. Due piccioni con una fava... hmm, forse dovrei iniziare subito”.
«Keep calm, dolce biscottino, non vorrai farti venire un’erezione» s’intromise una voce svenevole sopra la sua nuca, che fece andare Coal leggermente su di giri. Quasi temette di aver pronunciato i suoi pensieri ad alta voce, ma no... la sua lingua era un’arma e scattava solo quando glielo richiedeva: questo era il bello di essere lui. Ciò detto, chi...
La ragazza alta dagli interminabili capelli viola lo superò, facendogli un sorriso meschino. Camminava leggiadra e incisiva come una modella, con la chioma che strusciava lungo il manto erboso, come se fosse un velo da sposa. Il ragazzo sorrise a sua volta, grattandosi il collo.
«Beh, beh, che ci posso fare? Cascano tutte ai miei piedi...» disse innocente all’aria notturna, per poi scrollare le spalle e avventarsi smanioso sul buffet.

Yunix si sporse, muto, dalla posizione sopraelevata in cui si trovava un secondo prima il giovane. Lo stava pedinando da un po’, incerto se interagire o meno.
“Fatti coraggio, è solo un ragazzo come te... e ti ha salvato”.
Seguì la lingua di fiamme bluastra con lo sguardo, fino a che non si perse in mezzo alle centinaia di figure che ridevano e scherzavano allegramente. Non avevano idea di cosa avessero passato lassù a Infection, ma in fondo era acqua passata, o almeno... era meglio che lo diventasse al più presto, per il bene della sua salute mentale e per il bene di tutti.

Discese lungo il pendio, fra i cespugli di azalee e cotogni rosso fuoco. Ben presto s’imbatté nelle prime luci artificiali. Erano fiammelle, annidate in graziose lanterne di carta, davvero splendide. Ognuna di esse rappresentava un diverso animale del mondo, dalla zebra al canguro, e, appese a fili di cuoio tesi in una rete, sembravano ondeggiare nel venticello proveniente dal Mar Cinese Orientale, più ancorato al terreno rispetto che in quella mattina assolata.
Si stava da Dio: non c’era né troppo caldo, né troppo freddo e per di più le dense nuvole scure sembravano trattenere insistentemente il pianto, per permettere ai quaranta fortunati di godersi una serata di gozzoviglio sfrenato (così gentile da parte loro, dopo due giorni di pioggia). Lo stuolo di tavoli era poco più in basso della villa, lontano dal trambusto di Temigor, in una radura dove s’insinuava pian pianino un’atmosfera brumosa e sonnacchiosa, come se un mago avesse disperso nelle foreste prospicenti una polvere sonnifera. Della musica se ne occupavano gli abitanti della radura: i grilli, le mantidi, le cavallette, i coleotteri smeraldini, che Yunix aveva incontrato in gran numero da quando era giunto sulle sponde dell’isola, anche se non ne conosceva ancora il nome. Il ragazzo quasi non riusciva a credere che era stato a tanto così da togliersi la vita nelle vicinanze di un tale paradiso giusto tre giorni prima, sarebbe stato quasi un sacrilegio (verso chi ancora non lo sapeva).
Rabbrividì al ricordo e si affrettò più in basso, dove il baccano incominciava a sfiorare il cielo stellato. I tavoli erano stati disposti su otto file parallele, con una dozzina di panche, lunghe venti o più braccia su ogni lato, in modo che ci fosse posto per oltre un migliaio di persone (anche se Yunix ne contava al massimo duecento sparpagliate in giro). Al ragazzo, i cui occhi erano infallibili, non passarono certo inosservati gli insegnanti, che a passo lento e giudizioso, disegnavano lunghi cerchi attorno al limitare degli alberi. Per sicurezza o per altre mire? Non c’era modo di dirlo, non con i ragazzi che davano di matto attorno alle pietanze e al bere. Si erano già dimenticati di lui, poteva scommetterci. E dire che mentre era sul parco gli avevano urlato contro fino allo sfinimento. Quantomeno, più tardi nella serata avrebbe potuto sgattaiolare via senza essere notato. Sul palco si era sentito coraggioso, ma col senno di poi sfidare un’intera platea di ragazzi inferociti con lui non era stata una genialata. Aveva ancora il cuore in subbuglio per quel discorso interminabile. Parlare così fomentatamene, così a lungo, dopo così tanto tempo, non era stato semplice, ma gratificante... wow se lo era stato. Ci aveva messo tutto sé stesso in quelle parole, e anche conoscenze grammaticali che non pensava di avere. Se solo esse fossero state sufficienti a non farlo passare come l’approfittatore della situazione, sarebbe stato pure meglio.

Furtivamente si diresse verso le pietanze, al riparo di una roccia e senza farsi vedere afferrò una manciata di mandorle. Aveva una fame nera. Non fece in tempo a mandarle giù che un latrato ferino gliele fece andare di traverso. Figurarsi se non c’erano i lupi, fu il suo primo pensiero, poi si rese conto che non era un lupo a fare quei versi, né un altro animale. Era un ragazzo... se così si poteva definire. Con delle lunghe braccia muscolose e irsute stava facendo a pezzi un tacchino. Aveva il viso nascosto nel piatto, da cui provenivano truculenti rumori di carne staccata e trangugiata, sminuzzata con denti affilati. Era insudiciato di sugo, dalla sommità dei capelli color aranciata, fino alle bizzarre pantofole in pelle che indossava, provviste di zanne d’avorio. I versi che emetteva non erano certo umani, quanto più che altro stonati, striduli e a tratti quasi acuti, ferini. Non vide Yunix dall’altra parte del tavolo. Come avrebbe potuto? Eppure, il ragazzo era sicuro che ne avvertisse la presenza, solo che non gl’importava. Continuò a fare selvaggiamente a brandelli il povero volatile anche quando si avvicinò un altro ragazzo, attirato dagli strepiti.
Yunix si fece subito indietro, nella sicurezza della sua roccia. Chi poteva dire se quei due erano passati al test o meno? Di essere confrontato per il discorso che aveva incautamente pronunciato aveva zero voglia. In fondo, era sua la decisione, cosa c’entravano loro? Era stato anche troppo crudele verso sé stesso. Uno più furbo si sarebbe fatto ammettere, punto. Lui invece l’accesso avrebbe dovuto guadagnarselo con fatica e olio di gomito.

“Mentre loro non l’avranno mai...” lo provocò una voce nella sua testa. “Sta zitto. Ho fatto la mia scelta”.

Il ragazzo che si era avvicinato lo aveva già visto. Era nella strana scatola che li aveva portati su ad Infection. Guardandolo meglio, continuò a pensare che avesse la stessa pessima cera di quella mattina. Che non fosse passato? Le rughe a spirale che lo avvolgevano erano nascoste nella luce serale, ma le occhiaie risaltavano vivide sotto quella delle candele. Anche la sua forma fisica lasciava a desiderare. Il collo taurino del giovane era segnato da lunghe striature emaciate, di chissà quale origine e la schiena inarcata si fece più evidente, mentre il ragazzo appoggiava le mani esili sul tavolo, quasi come se non riuscisse a stare in piedi da solo. Lungi dal voler giudicare qualcuno, ma Yunix lo trovò totalmente fuori età e tremendamente spossato. Gli fece un po’ pena. Inoltre, la sua espressione era di uno sconforto infinito, ma spesso l’apparenza ingannava, perché parlò con voce piuttosto dolce e delicata, pur se vagamente malaticcia.
«Ehm, ehm... hai per caso scambiato questa per la nostra ultima cena?»

Il ragazzo bestiale sollevò il piatto dal tavolo e spazzolò gli ultimi rimasugli con feroce ingordigia, non curandosi di far cadere a terra dei brandelli di carne. Prima ruttò, poi palesò il voltò insozzato al ragazzo, che dovette trattenere un conato. Era un putiferio di sugo e schizzi di unto, che gli avevano macchiato tutto il colletto.
«Qualcosa da ridire? Nihihaa!» fece una risata sguaiata, così assordante da far paura.
«N- no! Speravo che... sai... io stessi sognando e che l’incubo si sarebbe chiuso con una congiura ai nostri danni. Io vorrei solo farmi assassinare in questo momento, non so se rendo l'idea».
«Uh?» fece la belva.
Yunix non poté biasimarlo.

Svelto, il ragazzo si giustificò.
«Sì, cioè... di questo passo il fatto che diventerò un eroe sarà assodato ed è una cosa che non avevo preventivato quando mi sono iscritto al test». L’altro fece una faccia intontita, segno che non aveva capito nulla. «Nel senso... pensavo che avrei fatto schifo. Non ho mai pensato al dopo».

«Uh?»

Il ragazzo dinoccolato arrivò alla conclusione che l’altro non avrebbe mai capito e ne prese atto.
«Lascia stare. Ti lascio alle tue leccornie» lo tranquillizzò, facendo un pigro sorriso.
Yunix sbatté le palpebre. Quello si era iscritto al test e ora sperava che averlo passato fosse solo un incubo? Una seconda risata sguaiata penetrò la dolce calma del pianale.

«Ti faccio paura, dì la verità! Provi disgusto per me! Sei inorridito! È chiaro! È così! Ne sono certo!»
«No, ti dico... cioè in parte, cioè sì e no».
«ECCO! Lo sapevo!» Altra risata.
«Sì, ma non è per te... è che sono debole di stomaco capisci, inoltre sono allergico a... a...» il ragazzo ricurvo starnutì, «alle pellicce» concluse passandosi le dita sotto al naso.

Yunix scosse la testa. “Via da questa gabbia di matti...” Mentre si allontanava sentì continuare lo scambio.
«Beh, peggio per te!» ruggì il selvaggio, senza un minimo di sensibilità.
«Non c’è bisogno che tu lo dica, me n’ero reso conto del fatto che sono un reietto» piagnucolò il ragazzino.
Ennesima risata.

Se erano tutti così all’HG, c’era ben poco da sentirsi tranquilli. Di soppiatto, oltrepassò un ragazzo e una ragazza che facevano la corte a Ennenissa, la terza classificata, i cui capelli viola lunghissimi si erano riempiti di fiori e foglie nel giro di pochi minuti. Si fece strada verso un tavolo vuoto, già meditando se ritirarsi nell’edificio. Voleva, in particolare, tentare di manifestare ancora il suo quirk. Quei raggi opalescenti che aveva scatenato su Infection potevano significare tutto o niente, sempre se fosse riuscito a emetterli ancora. Aveva notato, tra l’altro, che molti dei peli del suo braccio erano rimasti strinati, ma per qualche motivo in maniera estremamente regolare, con un pattern definito. Forse i raggi laser non erano sorti dal nulla come pensava.

Continuò a muoversi nell’ombra.
«Da chi ti nascondi, Yunix?»
Lex Zeero era a braccia incrociate in un anfratto. Tra le mani, una lattina di Pepsi quasi vuota. Figurarsi se non era lui che lo beccava.

«Io?» rispose con finta naturalezza. «Che dici? Nascondermi? Sto solo facendo due passi vicino alla boscaglia».

Il viso innocente di Lex si colorava di tempera fredda, sotto le sagome dei rami spogli.
«Non me la racconti giusta. Dovresti essere lì a festeggiare. Hai vinto, oggi».
«Senti chi parla. Tu ti sei aggiudicato un’ottima posizione. Che ci fai qui, solo soletto?» ribatté Yunix, con aria di sfida.
Il ragazzo dal mantello sbrindellato alzò le spalle.
«Mi piace stare in disparte e contemplare ciò che vedo. Te l’ho detto quando ci siamo conosciuti, circa sei o sette ore fa».
Tacque.

“È passato così poco?”
Yunix si perse nei suoi pensieri, guardando Lex, così mansueto, innocuo, eppure così forte e coraggioso. Le foglie che teneva intarsiate alla frangetta verde erano state spazzate via, nella furia dello scontro. Chissà quanto tempo ci avrebbe messo a ritrovarne altre cinque che figurassero bene come quelle precedenti, in una stagione come la primavera, in cui tutto rifioriva.

«Inizialmente sei stato l’unico a non voler schierarsi con la scuola per insabbiare l’accaduto. Uno solo in un banco di stupide sardine». «Tsk, e questo farebbe di me una persona originale?»
Non sembrò una domanda retorica, voleva davvero sapere la sua opinione in proposito.
Yunix ammiccò.
«Forse».

Lex alzò lo sguardo. Nel cielo, da qualche parte, invisibile a occhio umano, c’era Infection, ricoperta d’arkastro, dove quello stesso pomeriggio quel ragazzo aveva quasi gettato via la sua vita. Sopracciglia sempre corrugate, eppure occhi gentili e premurosi, di chi aveva viaggiato ovunque, ma non aveva mai trovato ciò che cercava.
«Non è una sciocca mania la mia... se tutti andassimo dalla stessa parte, se non ci fosse una voce avversa, se nessuno camminasse controcorrente, ci sarebbe solo una volontà in questo mondo. La volontà del primo che ci è arrivato». Il ragazzo tracannò il liquido. «Oggi abbiamo combattuto fianco a fianco, domani saremo compagni...»
«È vero».
«Ma non farti illusioni. Non siamo amici e non lo saremo mai». Lo bloccò prima che potesse aprir bocca. «Non ne ho mai avuti e non voglio averne, ok?»

Yunix sentì una stretta allo stomaco. Non si aspettava una dichiarazione simile. Pensò di provare a controbattere, ma le parole dell’arciere erano definitive e stavolta niente e nessuno gli avrebbe fatto cambiare idea. Allora, provò qualcos’altro.
«Solo perché non mi consideri un amico, non significa che io pensi la stessa cosa».
«Che vuoi dire?» chiese Lex con prudenza.

Yunix raccolse un ramo appuntito dal terreno e lo usò per intagliare la corteccia di un albero. Tracciò rozzamente il profilo di due persone. Con una freccia curva che partiva da uno collegò anche l’altro.
«Vedi? Basta una sola freccia per unire insieme due elementi».
Lex lo scrutò con attenzione. «Grazie, Sherlock, non c’ero arrivato da solo».
Yunix fece un mezzo sorriso. «Però il fatto rimane...»
«Non riesco a seguirti».
«Vabbè, neanche Shig ci riusciva se è per questo, ma ha insegnato tanto a me, e io ho insegnato tanto a lei. È questo il bello di parlare con gli amici, no? Si guarda il mondo da altre prospettive».
«Tsk... non siamo amici, te l’ho già detto». Il tono di Lex divenne più duro della pietra. «Lo vuoi capire o no?»
«E se io ti considerassi tale? Se la freccia partisse da me e ti toccasse» chiese Yunix, «potresti forse impedirmelo?»

Il ragazzo sgranò gli occhi.
«Cosa otterresti?»

«Niente, però saprei di avere un amico, anche se il sentimento non è ricambiato».

Lex si girò di spalle, proprio nella stessa posizione di quando si erano incontrati su quel condominio.
«Sei un ragazzo strano, Yunix Braviery, e ho l’impressione che ci siano lati di te ancora inesplorati, come se ti mancasse qualcosa...» Yunix iniziò a sudare freddo. Era così evidente che fosse senza ricordi? «Bah, magari sono io che mi arrovello più del dovuto. Su, va’ a divertirti, stasera. Ne hai bisogno. E se vuoi considerarmi un amico, fa pure. Non che mi cambi qualcosa, comunque». Si tirò su la cerniera della felpa grigiastra e calò il cappuccio sulla sua testa. «Io andrò dritto per la mia strada, come faccio sempre».

Si diresse lentamente verso l’ombra delle conifere, in un sentiero improbabile e sconveniente. Anche quello era essere originali? No... forse era semplicemente l’abitudine, ma tanto a chi sarebbe mai importato?

«Su, va’ a divertirti...» Facile a dirsi.

Yunix tornò al banchetto, con il cuore più pesante di prima, ma bastò poco per risollevare il suo umore.
«Ehilà! Ecco la vera star della serata! Dove ti eri cacciato, Brache di tela?»
Coal, sprizzante di gioia, i segni della baldoria sul suo volto, era diretto verso di lui.

Al suo seguito niente po’ po’ di meno che Asia Shiena’q, anch’essa vagamente brilla. Scostò bruscamente il ragazzo dai capelli a braciere di lato, per afferrargli la mano.
«Ma ciao! Dove ti eri cacciato? Ti ho cercato per non menoooo di sette tavoli!» esclamò, tracciando un arco con la mano destra. «Yunix, giusto?»
«Sì», rispose il ragazzo, colpito da tutta quell’esuberanza.
La ragazza grugnì levando esultante il pugno. «Brava, Asia. Sapevo che te lo saresti ricordata!» Poi cinse la testa di Yunix con le braccia e lo strinse forte a sé. Il ragazzo si trovò il naso schiacciato contro la sua spalla, completamente stralunato. «Complimenti! Là su quel palco sei stato strepitoso. Insomma... potevi dire solo due parole... invece hai sorpreso tutti! Tutti, dico e non scherzo!»

Coal la spinse di lato, con ben più fatica di quanto aveva fatto lei con lui, facendola finire sotto un tavolo.
«E lascialo respirare, Leggenda Verde! Ha tutto il diritto di essere lasciato in pace, non credi?»
Poi spostò i forestieri occhi violacei su di lui e gli porse la mano. Sull’avambraccio, Yunix notò una lunga crepa nera, ma non indugiò a osservarla e ricambiò la stretta.
«Non ci siamo ancora presentati ufficialmente» fece con aria pomposa, «mi chiamo Coal, Coal Naive. La mia famiglia dirige l’agenzia bancaria di Temigor da generazioni. Vale sempre la pena una visita ai nostri quartieri, in Arren Square. Le imposte sono alte, ma il vitto buono». Si fece avanti, iniziando a sussurrare. «E poi passano delle milf pazzesche in limousine che nemmeno immagini! Almeno due al giorno!»
Yunix sorrise, non sapendo come rispondere ed ecco che si ritrovò in mano un cellulare con la griglia dei numeri aperta sul display.
«Normalmente non chiedo il numero al primo che passa, ma considerato che mi hai servito nella lotta contro il villain, ti concederò questo onore».
«Ma io veramente...»
«E non è tutto! Ora ci rallegrerai la serata, parlandoci un po’ di quel villain, dato che sembra che lo conoscessi bene. Sai com’è... voglio capire chi è stato l’assai portentoso criminale infame a mettere in difficoltà un mago come me».

“E questo sarebbe essere lasciati in pace?” pensò Yunix, facendo una risatina nervosa.

«Insomma!» insorse Asia, riemergendo da sotto un tavolo. «Non dobbiamo parlare di Armday! Ricordi? È un segreto! È un segreto!» La parlata sbilenca la diceva lunga sul livello d’alcolemia del suo sangue.
Coal scrollò le spalle.
«Pfff... se non racconto tutta la storia, non capiranno nulla, carina, e poi nessuno farà la spia, perché altrimenti li arrostirò! Capisci? Fuoco e fiamme!»

Yunix si schiarì la gola.
«Sì, ehm... è stato bello lavorare con voi... suppongo».
«Oh, sicuro che lo è stato» disse Coal, schioccando le dita, «e anche se stiamo ingurgitando tonnellate di birra per dimenticarla, questa esperienza ha messo bene in chiaro con chi abbiamo a che fare: mostri nel corpo di uomini!»

Concluse ridendo animatamente, sollevando un corno di liquido dorato. Yunix sentì una forte oppressione al petto, dove il villain l’aveva colpito. Quell’uomo aveva confessato di aver ucciso di diciannove soldati, tutta la sua compagnia. E per poco non era finito nella lista delle sue vittime, eppure, anche solo sentire che veniva bollato come un mostro lo mandava su tutte le furie. Non espresse la sua disapprovazione. Lex, Asia e Coal erano pur sempre ragazzi senza una tragedia alle spalle come la sua. Non poteva biasimarli se avevano in odio quel combattente demoniaco. E non poteva recriminargli nemmeno quell’osceno passatempo da taverna. Era evidente che dovessero bere, altrimenti il peso della giornata sarebbe stato insostenibile.
Per lui valeva più o meno lo stesso. Realizzò in quell’istante che mentre ci si trovava sull’orlo del dirupo, la paura di morire diveniva adrenalina. Era nei momenti morti, quando il pensiero ricadeva sugli eventi passati, che il mostro si risvegliava e non ti lasciava scampo. Non sarebbe stato facile riprendersi, per niente. Se non si fosse messo a bere qualcosa pure lui, stanotte non avrebbe chiuso occhio.

“Perdipiù domani iniziano le lezioni, devo essere sveglio e attento in classe”.

«Su, metti quel numero, ragazzo silenzioso».
Yunix si accorse di aver ancora in mano lo smartphone di Coal. «Io... non ho un cellulare».
«Cosa!? Stai scherzando, spero. Non c’è abitante della città che non ce l’abbia. Mi rifiuto di credere che tu sia la pecora nera del gruppo!»

Questo era troppo. Andava bene avere la propria visione dei villains, ma dire che tutti gli abitanti di Temigor potevano permettersi un telefono era pura ottusità. La rabbia montò come un tornado.
«Ah sì? Ogni abitante? E nelle baraccopoli sulla costa, chi pensi che ci viva? I topi?»
Coal sollevò una palpebra, abbandonando il viso giocoso, ma solo per un attimo, perché poi scoppiò di nuovo a ridere.
«Hahaha, per un attimo ho pensato dicessi sul serio! Lo sanno tutti che quelle putride favelas non fanno parte della città!»
«Scusa..?» bisbigliò Yunix, le dita che tremavano.

«Aspetta... non dovrebbero comunque essere sotto la giurisdizione di Temigor?» intervenne Asia, sbadigliando.
Coal piegò la testa di lato, annoiato.
«Sì, no, che differenza fa? Non abbiamo niente a che vedere con loro».

Yunix chinò il capo, lottando per controllarsi.

«Piuttosto...» continuò il ragazzo cambiando argomento, «voi vi siete chiesti perché gli insegnanti volteggiano come avvoltoi attorno alla festicciola? Perché io sì, sapete? Sembra di essere nell’Overlook Hotel, dal gran che ci osservano».

«Un attimo, Coaaal» lo interruppe Asia, aggrappandosi a lui, non del tutto lucida, «che... hic, che... cit. sono queste?»
«Non puoi capire, gusti antichi, libri e film di ottima fattura, ma troppo lontani perché voi possiate averne memoria».
Yunix storse scetticamente il naso. «Immagino. Come ne hai avuto accesso, tu?»
A Coal brillarono gli occhi, come ametiste fiammeggianti. In un attimo la fiamme fra i capelli a guglia divenne ocra.

«La biblioteca di Qhual Ved’! Il luogo dove la magia prende vita, dove l’occulto diventa sublime tecnica e dove i più grandi sapienti dei tempi andati ci strizzano l’occhiolino. Cataste e cataste di libri, tomi impolverati pieni di graffiante ragione, e spumeggiante irrazionalità. Oggigiorno solo io e mia sorella possiamo frequentarla, ma un giorno... un giorno la riporterò al suo antico splendore!»

Yunix sentì il tepore di quelle parole sincere raggiungerlo.
Asia fece un risolino.
«Aspetta! E delle ultime uscite? Hic. Che ci dici, insomma, insomma, del panorama mediatico del presente, vista la tua... oho! perizia in materia?»
Il sogno ad occhi aperti di Coal si sfaldò in mezzo secondo. Le sue mani si afflosciarono lungo i fianchi brillantinati. Se voleva dare nell’occhio il ragazzo aveva scelto l’abito giusto. Indossava pantaloni extra large. Lustrini simili a squame che racchiudevano la luce delle stelle.
«La produzione culturale di oggi, intendi?» sbottò. «Robaccia! Da mettere al rogo».
Non era sarcastico, non ce n’era nemmeno un accenno di scherzo nelle sue parole, bensì un’incommensurabile avversione.

«Minchia! Immagina spalare merda sugli show che ci hanno portato qui oggi. Senza di loro, puah, te lo dico io! Te lo dico, guarda, saremmo ancora circondati da vigilanti senza macchia e senza paura. E mi caschi addosso una meteora se dovessimo tornare a una società del genere!»

I tre si voltarono.

Marin, con i capelli blu oceano e la pelle liscia, in un semplice completo bianco e nero, era in ginocchio sul manto erboso, in una posa di puro sdegno, con le labbra unite e le palpebre mezze abbassate. Era come trovarsi davanti a un riccio di mare. Potevi anche toccarlo se volevi, ma te ne saresti pentito amaramente.
«Ciao, Marin. Complimenti per essere passata» la salutò Yunix, sorridendo. La ragazza gli scoccò un’occhiata titubante, come se non si fidasse delle sue buone intenzioni. Non contraccambiò il saluto, ma anzi si mise a braccia incrociate, guardando male Coal, la cui fiamma caporale era diventata rossa, segno, provò a indovinare Yunix, che era stizzito.

«Hmm, scommetto, anzi sono quasi sicuro, che sei una di quelle che passa il suo tempo sul Singolarity Channel giorno e notte, principessa... con quei programmi degradanti a farti compagnia mentre stringi il tuo pupazzetto di Taguya, o Ten Ken, o All-Might. Come biasimarti? È facile cadere in tentazione quando la propria mente non ha mai toccato un vero capolavoro, uno Shakespeare o un Dante, tanto per nominarne un paio». Coal non si risparmiò. «Certo, però, che per guardare quelle, hmm, rappresentazioni audiovisive per più di un minuto ci vuol del coraggio da vendere! Le mie più sentite congratulazioni, per questo e per il tuo posto all’HG».

Marin emise un basso ringhio, poi fece un passo avanti.

«Ahimè, che disgrazia! Sai cosa? Non avrò avuto la possibilità di istruirmi nella magicissimissima “Qhual quel che cazzo è”, ma so esattamente com’è che non siamo sprofondati nel caos dopo la scoperta dei nostri poteri: grazie al Singolarity Channel, grazie alle fondamenta che ha gettato. La Compagnia Esse l’ha fondata per una sola ragione: portare il mondo a una mentalità supereroistica, senza la quale, ahimè, non avremmo fatto altro che ammazzarci a vicenda per vedere chi ha il quirk più grosso. Cosa è servita la cultura dei... boh, gli storici o i tizi che scrivono, quando siamo stati sulla soglia della guerra, sapientone? E per la cronaca, ci sto solo di notte a guardare quel canale e mi ha insegnato tanto. Perciò smetti di criticare senza sapere!»

«So quanto basta. E c’era una società anche prima dei Quirk, una società migliore, una società con veri valori!»

«Beh, se ti piace così tanto, potresti anche tornare nella tua cameretta a leggere i libricini della mamma. Magari col tempo dimenticherai che sei una persona di questo presente e ci sazierai con la tua assenza».

«Hm, almeno io mi acculturo, mentre tu cosa fai tutto il giorno? Ripeti a pappagallo le norme comportamentali degli Heroes, come la pecorella che sei?»

«Oh, non immagini quanto!»

«Ora basta» disse Asia, mettendosi fra i due.

Yunix fu sorpreso. La ragazza sembrava aver perso ogni accenno d’intontimento, ma non era umanamente possibile. Non poteva essersi ripresa così in fretta.
«Facciamo in modo che non scorra cattivo sangue fin dalla prima sera, va bene? Se doveste essere nella stessa classe dovremo guardarvi litigare giorno e notte? Avete idee diverse, ma ciò non significa che non potete andare d’accordo. Da bravi, fate la pace e iniziate a maturare. Insomma, non accetterò degli Heroes che battibeccano continuamente nel mio corso e non lo faranno nemmeno i professori».

Asia tacque, lasciando che i due si sbollissero e recuperassero fiato. Marin aveva le guance screziate di rosso papavero, Coal fiammelle veraci che gli danzavano sulle spalle. Lei era più alta di lui di perlomeno dieci centimetri, ma non si poteva dire chi fosse il più temibile in quell’istante.
Fu il fuochista a rompere il silenzio.
«Vero, vero, vero!» dichiarò, sgranchendosi la schiena. «Siamo partiti col piede sbagliato. Hm, sono Coal Naive, quarto classificato». Protese la mano come un artefatto di massima fattura.

La ragazza grugnì un “grazie tante” e piegò il volto delicato di lato, impenetrabile come una roccia. Coal lanciò un’occhiata esplicativa ad Asia, come per dirle che molto palesemente non era lui il problema. Yunix osservò che il ragazzo non era riuscito a trattenere il desiderio di esprimere il suo posizionamento e in effetti presentarsi in quel modo a una che aveva fatto una trentina di posizioni in meno di lui non poteva che essere una frecciatina.
Asia però emise un verso minaccioso che convinse Marin a farsi sentire.

«Marin Cecylin se per caso ti interessa, trentacinquesima», il ragazzo fece un sorriso, ma la ragazza glielo spense subito, «e prima che tu possa dire altro, ricorda che avevi il radar tu, eh. Tutti son buoni con le cose giuste fra le mani, mentre noi altri abbiamo dovuto farci in quattro per dei buoni risultati, come lei, che è arrivata seconda senza». Indicò Asia, che si ammorbidì seduta stante. «Poi considera che ero con quell’idiota di Capitan America, laggiù», disse piegando il capo in direzione di Chooki. Il finlandese lentigginoso era a quattro tavoli di distanza, a testa bassa, solo. «Puah! Sono riuscita a fare più punti di lui, pensa un po’ te. E mi auguro che tu abbia consegnato quel block notes del piffero, prima di aver elaborato la buzzurra idea di entrare nella scuola con noi!» abbaiò a Yunix, che fu stupito di essere chiamato in causa.

«Oh... beh... ovvio che l’ho consegnato, ero lì per quello, poi... ecco... le cose hanno preso una piega un po’...» Asia e Coal lo fulminarono con gli occhi, ma Marin era troppo impegnata a guardare acida tutti i presenti che avevano l’ardire di passare vicini al loro piccolo capannello, per accorgersene. Yunix si passò una mano fra i capelli, rimuginando sulle sue parole. «Tra l’altro, mi hanno detto che Chooki è...»
«Non importa, non mi interessa» fece la ragazzina, gli occhi bassi.

Cadde il silenzio.

«Piacere, allora, Marin. Sono Asia e spero potremo diventare buone amiche».
Con un sorriso, la prese a braccetto. Questa ebbe un sussulto e dopo una piccola resistenza non poté che abbandonarsi alla mercé della ragazza, che preso un bicchiere dal tavolo le offrì un drink. «Prendi. Ti aiuterà a scongelarti un pochino».

La ragazza si scansò come un animale in trappola.
«Cosa vuoi ottenere?» chiese stringendosi le braccia al petto, come se stesse morendo di freddo.
Asia parve ferita da quel gesto, ma non si scoraggiò e spezzò un ramoscello che teneva fra le dita. Yunix e Coal trasalirono.
«Ehi, Asia! È pericoloso!»
Yunix vedeva già un’onda di piante di bambù emergere sotto i loro piedi, ribaltando i tavoli e le lanterne, come le tessere di un domino; invece, fu un’esile stelo a spuntare dal terreno. La ragazza lo sradicò con un agile calcio e lo sminuzzò a colpi di karate in quattro piccoli pezzi. Divennero letteralmente cannucce. “Wow, è skillata! Non solo può già controllare alla perfezione il suo potere: quelle mosse sono di stili diversi, kung fu, karate e forse altri”

«Questo è il mio Quirk, non mi va di tenervelo segreto, anche se qui all’HG sarebbe buona norma conservarlo per mantenere un certo vantaggio sui compagni».
«Vantaggio? A che serve il vantaggio?» chiese Yunix, aggrottando la fronte.
«Uhh, allora non sai come funziona quaggiù!» gongolò Coal, sfregandosi le mani.
«Che intendi dire?»
«Hmm, ecco... non saremo esattamente compagni, noi prescelti, o perlomeno non come in passato con la primaria e medie, quanto piuttosto rivali. I risultati all’HG si ottengono distinguendosi dagli altri e dimostrando di essere i migliori. È per questo che spesso e volentieri non sono che pochi eroi a essere sfornati da questo istituto. Questo piccolo contest che ci ha portato qui non è che una prima scrematura: ci aspettano test, ultimatum, perfino espulsioni e tanto altro ancora... ahhhh, vedrai che meraviglia. Ogni giorno rischieremo di venire spediti a calci alle nostre cuccette per non farci vedere mai più».

Marin sfoggiò un sorrisetto. Le perle diamantine sulla sua crocchia erano più opache che mai e i capelli quasi verdastri, alla luce della fiamma di Coal. Sembrava una giovane sirena esiliata da una terra di soli oceani.
«Se è così, spero proprio di non essere nella tua stessa classe, sapientone. Non vorrei che mi contagiassi con la tua presunta cultura».
Coal non rise.
«Se, e dico se, ci si potesse contagiare con la cultura, allora non sarei qui a educarti, principessa del mio cuore».
Marin fece una smorfia sarcastica.
«Beh, almeno io non sono qui a tirarmela dalla mattina alla sera».
Coal annuì, chiudendo gli occhi, pacifico. «Su questo non posso darti torto».

La ragazza velò la sorpresa per quella risposta, sollevando un calice in cui nascose celermente il viso. Non riuscì a mascherare però il sorrisetto che venne dopo. Coal non aspettava altro.

«E devo ammettere, Ariel, che hai sollevato una questione interessante. Oh, a proposito, hai la manica della veste in fiamme».

E in effetti, non diceva il falso. Marin si guardò il braccio che teneva il calice e gridò, affrettandosi a strapparsi parte dell’abito a scacchi, prima che il fuoco  si propagasse. Coal si piegò all’indietro, ridendo beato.
Asia gli diede un ceffone.
«Non è carino!»
«Eddai, lasciami in pace, sto cercando di costruire un rapporto».
«Vedo».
«Di che parli? Sta andando alla grande».

Yunix osservò le fiamme dissolversi, con la stessa velocità con cui erano apparse. Il danno era fatto, però. La lunga manica vellutata era ridotta a brandelli. Marin ringhiò, imbronciata, ma Coal la fermò prima che potesse aprir bocca.
«Dunque, ora magari penserete che sia uno sbruffone solo buono a parlare e in parte avreste ragione... tuttavia, sto anche tendendo le orecchie, per capire cosa se ne faranno gli insegnanti di questa serata».

I tre rimasero di stucco.
«Ehm... cosa?» chiese Asia dando voce ai dubbi di tutti.
«Oddio» rispose lui, chiaramente seccato, «non mi sembra di parlare arabo. Intendo dire che guardandoci, stanno decidendo in che classe inserirci. Oramai, non sarebbe neanche improponibile fare qualche ipotesi fondata».

Marin si sedette sul tavolo, livida.
«Sì, ciao. Stai dicendo che sai già come ci disporranno? Sei ridicolo. Dieci a uno che le tue previsioni saranno errate».
«Dieci a uno che saranno giuste» ribatté Coal.
«Bene, allora, fammi cinque sneak peek, Nostradamus».

«Come vuoi. Tanto ride bene chi ride ultimo». Il ragazzo si spaparanzò fra la sedia e il tavolo, a fianco a Marin. «Niente, rancore, vero?» «Cos’è ti vuoi già tirare indietro?» saltò su la ragazza.
«Nono, è solo che non vorrei che ci rimanessi male quando avrò ragione su tutto».
«Preoccupati di fare le tue hot takes, subito!»
«Bene, allora. Vedi quei due laggiù? Sì, i due gemelli. Loro saranno nella stessa classe».
«Grazie tante, è ovvio che non li separeranno».
«E una è fatta».
«Ancora, dai! I gemelli tanto sono finiti».
«I primi cinque classificati staranno assieme».
«Cosa te lo fa dire?»
«E siamo a due».
«Rispondimi».
«Non... sono legalmente obbligato a farlo, o sbaglio?»
«Procedi allora!»
«Io e te... non ci divideranno».
«Che bella notizia. Se devi sbagliarne una sola, sbaglia questa».
«Non ci sperare».
«Sì, sì, continua a fare il ganzo. Ne mancano due».
«Hmm, vediamo... ho ragione di credere che il ragazzo dai capelli arruffati con la fascia sulla fronte e la ragazza vestita da sciamano saranno in classi opposte».
«Pfff, non una chance che le azzeccherai tutte».
«Infine...»
«Sì?»
«Infine... hmm, sai che...»
«Dai! Sbrigati!»
«Ok, ok, miss impazienza! Vediamo...» Coal si guardò frettolosamente attorno. «Il tizio in armatura... lui sarà con Yunix e... i gemelli no».

Marin sollevò un sopracciglio. Si potevano quasi sentire le rotelle che giravano nella sua testolina.
«Bene!» Afferrò Coal per la mise e lo tirò a sé, guardandolo dritto negli occhi. Si picchiettò ossessivamente la nuca con un dito. «Sappi che è tutto qui! Tutto qui dentro e sarò io ad averla vinta! Capito? Niente dita incrociate dietro la schiena, eh? Eh? Vedi questa faccia: non accetterà delle scuse».
«Uh, che paura! Hai la mia parola, cara».
«Ok, allora, sapientone. Cosa scommettiamo?»
«Un favore. Gli umani sono prevedibili, ma un favore è informe e può trasfigurarsi quando ci pare e piace. Al momento che riterremo, potremo chiedere un favore a cui l’altro non potrà sottrarsi e dico sul serio quando dico che non potrà dire no. Sarà un patto d’acciaio. Accetti?»
Marin annuì con forza, certa di avere la vittoria in tasca, sfoderando un’espressione trionfante.
«Accetto! Accetto! Certo che accetto! Tanto non ce la farai!»

Il volto di Coal, che a sua volta si era acceso per il diverbio, si rilassò poco alla volta e il ragazzo si le braccia dietro la testa. Marin tornò corrucciata in men che non si dica.

«E ora che fai?»
«In che senso, principessa? Mi godo la serata, non è evidente? Cos’è? Ritieni che dovrei rimanere in pensiero per la nostra scommessuccia? Bah.. e a che scopo? Tanto ora siamo nelle mani dei professori».

Il ragazzo sollevò il drink di qualche centimetro. I cristalli di zucchero sul fondo sembravano grumi d’arkastro.
Yunix non si era accorto di aver cominciato a odiare quel metallo blu. Meno lo avesse visto nei giorni futuri, meglio sarebbe stato. Non poteva nemmeno biasimare i Giapponesi per continuare imperterriti a denigrarlo come un ferro di bassa lega: era solo un altro metro di paragone per il proprio status sociale, che nella città di Temigor poteva facilmente significare passare il resto dell’esistenza nel “Bones Village” o in un altro fatiscente ammasso di fango e degrado, dove anche il proprio quirk era soffocato con mano ferma. Per di più, in ogni singola faccia di quei cristalli vedeva ancora quegli occhi mutaforma, le orbite luminescenti di Copy&Paste, furore eterno bidimensionale. Dopo che aveva scacciato dal suo corpo la sua benedizione, era certo che gli avesse dichiarato apertamente guerra e come si faceva guerra a un morto? Non aveva risposte e le domande erano così strampalate da sembrare paro paro di un pazzo. Eppure, il solo pensare all’Infinity Hero gli lacerava il palmo medicato, come se non fosse in grado di uscire da un loop, in cui veniva ripetutamente colpito da quella scheggia di pietra. Anche quella era fantasia? Probabile, ma una fantasia fervida e di certo poco gradevole.

Coal, intanto, continuava a maneggiare il calice tra le dita, mormorando una melodia antica. Muoveva appena le labbra, ma i suoi occhi erano aperti e attenti. Erano puntati sul vetro. Poi, quasi dal nulla, sorse la sua voce, bassa e diffidente.

«Problemi in arrivo, ragazzi».

Yunix si voltò e sentì subito le gambe molli.

Un ragazzo in vestito da gala, con smoking e pantaloni di velluto, si faceva strada fra i tavoli. Non era solo. Al suo seguito, almeno una decina di ragazzi. Se li era trascinati dietro o lo stavano seguendo per pura curiosità? Difficile a dirsi. Sebbene, non ne potesse avere la certezza assoluta, Yunix poteva puntare duecentomila yen che quell’allegra combriccola veniva per loro, o meglio... per lui.

«Sera a voi, buoni signori, vi siete già premurati di mettervi comodi?»

Marin borbottò qualcosa con la bocca chiusa, mentre Coal si mise composto, il volto impenetrabile.
Solo Asia si fece avanti per salutare il giovane in tiro.
«Asia Shie-...» ma il nuovo arrivato mise un dito affusolato sulle labbra, chiedendo il silenzio.

A Yunix incuteva timore solo guardarlo. Magro, alto, con gambe e braccia rigide come pezzi di marmo, elegante come un direttore d’orchestra, nell’incedere simile a un presentatore televisivo, disinvolto al pari di un assassino sotto copertura con un coltello pronto dietro la schiena. I suoi occhi erano grandi, strani, fari nella notte, gialli come quelli di un animale notturno, con pupille ovali che trasmettevano un inquietante senso d’impotenza. Un naso alla francese, una bocca carnosa, orecchie grandi e lievemente arricciate, come quelle di un pipistrello. Ed infine, capelli color orzo, medio-lunghi, crespi, con circa sette o otto ciocche sparute, che, come floride spighe di grano, svettavano sul retro del suo collo.
Mai, da quando si era trovato di fronte Armday e in un certa misura C&P, aveva pensato di provare di nuovo un senso di minaccia così opprimente da togliergli il fiato. Forse era persino peggio. Si sentiva sopra una sottilissima lastra di pietra, in un tempio avvolto nell’oscurità. Un passo falso e sarebbe caduto in una voragine tenebrosa senza via di scampo.
Il ragazzo si godette le espressioni guardinghe dei tre per qualche secondo poi puntò gli occhi selvaggi su Yunix, che rabbrividì dalla punta delle dita a quella dei capelli grigi.
Dopo un agghiacciante, taciturno esame, il ragazzo gli si rivolse con una voce cantilenante.

«Gira e rigira, finalmente ho trovato il piatto forte del buffet. Sentiamo che ha da raccontarci, il nostro umile ladro. Ce l’ha detto lui, che era disponibile per quattro chiacchiere».

Yunix sentì la gola arida. La cosa più spaventosa non era il suo aspetto, ma le sue maniere eleganti, cortesi, il suo tono cordiale e genuino, eppure così profondamente terrorizzante.

«Sono qui, infatti» disse Yunix, con tutto il coraggio che riuscì a racimolare, «non... non ho problemi a...»
«Che meraviglia! Allora sei davvero pronto a sostenere a spada tratta la tua decisione, benché la decisione di un ladro effettivamente la tua sia». Il ragazzo, le labbra incurvate in una smorfia sprezzante, calcò sulla parola ladro con ancor più decisione. «Delucidaci! Qui ci sono tanti che vorrebbero sapere cosa si prova a rubare un posto all’HG, tra tutte le scuole! Com’è stato? Da favola, suppongo... così gratificante che non sei nemmeno riuscito a trattenere la lingua per la lezione di domani, pensa un po’ te... già da stasera dovevi essere al centro dell’attenzione, a mostrare quanto sei furbo!»

Yunix lo sentì a pochi centimetri da lui. Ecco che gli sollevava il mento per guardarlo, faccia a faccia. Odorava di papavero e naftalina.

«Caspita, proprio un bel discorso su quel palco, non sei d’accordo? E adesso... non hai nemmeno il coraggio di difendere le tue posizioni? Hai forse bisogno di una sedia? Vuoi che ci facciamo una tazza di tè a tu per tu, così che tu possa sentirti a tuo agio? Oppure sei in grado di farti valere qui e ora?» Si ritrovò a specchiarsi in quelle tinozze sciabordanti che erano i suoi occhi rapaci. «Non tenere tutti sulle spine. Non lo vedi? Siamo qui in buona fede». Yunix chiuse gli occhi, incapace di guardare i suoi un attimo di più. «Ehilà... hai già perso la lingua? Non ti va di aprirti con noi?»

«Buona fede?» Il mormorio di Yunix fu così smorzato che nessuno lo udì.

«Oh... perché non ripeti ad alta voce qualunque cosa tu abbia detto? Dai, che siamo tutti curiosi».

«Buona fede?» ripeté Yunix con frustrazione. «Questa sarebbe buona fede? Hai iniziato ad attaccarmi ed insinuare dal momento stesso in cui hai aperto bocca. Hai portato delle persone qui solo per il tuo gusto personale di farmi sentire un approfittatore, un bastardo che ha distrutto i vostri sogni. Quando io... non ho rubato NIENTE!»

Asia si morse il labbro e separò i due.
«Insomma! Ma che avete da comportarvi così?»

Il ragazzo elegante si volse verso di lei e parve accorgersi ora che era lì.
«Le mie più sentite scuse, milady, non era mia intenzione provocare il tuo compagno». La ragazza piegò la testa, interrogativa, poi divenne paonazza, realizzando cosa implicava. «Il mio... compagno?» La risata soffocata di Marin le fece da eco, mentre lei scuoteva la testa. «No... non è...»

«Oh, non siete...? Accipicchia, errore mio» si scusò il ragazzo, facendo una risata delicata e musicale «il fatto è che è abbastanza usuale per me dare per scontate le cose, sono fatto così. Forse è per questo che non riesco a vedere l’atto di Yunix come una scelta dettata dal cuore e dalla necessità. Ma se volesse spiegarmi meglio cosa c’è dietro le quinte della sua decisione, forse potremmo mettere subito una pezza a tutta la faccenda. Mi piacerebbe sentire da lui la verità, tutto qui, senza secondi fini e senza rancore, si intende».

La sua voce era così onesta da far venire il vomito. Tornò a guardarlo con quell’espressione morbida e questa volta Yunix ebbe la certezza che fosse odio a traboccare da tutti i suoi pori.
“Non importa cosa gli dirò. La sua idea se l’è fatta. È qui per avere una conferma, e l’avrà in un modo o nell’altro”.

Asia distese le sopracciglia.
«Sono sicura che troverete un terreno comune, non è vero Yunix?» gli mollò una piccola gomitata.
Il ragazzo elegante si portò una mano ai capelli, inarcando la schiena.
«Non aspetto altro».

Yunix sentì le vene pulsare e palpitare, per un furore represso. Sapeva a cosa andava incontro. Sapeva che quella carineria era un tranello bello e buono. Sapeva che a guardarlo erano non meno di venti ragazzi, ma non poteva semplicemente dargliela vinta così.
«Ladro?» incominciò Yunix, con voce raschiante. «Ladro solo perché ho avuto il diritto di essere un ripetente in questo posto? E cos’avrei rubato esattamente? Non ho tolto l’occasione a nessuno, altrimenti mi sarei volentieri tirato indietro. Io ho solo preso un posto vacante, un posto aggiuntivo, e l’ho fatto solo e solamente per mettermi al servizio della società. Non sono un ladro e non intendo diventarlo mai».

Il ragazzo in smoking trattenne una risata, gli occhi spalancati.
«Ma come? Non dirmi che non te ne sei accorto? Trentanove... trentanove soli erano i posti. Non i soliti quaranta. Fai il finto tonto, adesso, o speravi davvero che nessuno sarebbe caduto sulla sua spada per farti entrare? Quel quarantesimo posto lo hanno riservato per te, fin dall’inizio. Prova a negarlo».

Yunix rimase di sasso. No, non poteva essere. Lui... lui che era sempre attento ai dettagli non era riuscito a fare due più due? Il ragazzo dai capelli simili al fieno lesse l’incredulità sul suo viso come se vi fosse dipinta con la vernice.
«Bontà divina... quindi eri all’oscuro di tutto davvero? Allora non solo sei un ladro, ma anche un inetto. Il tuo libero arbitrio vale così poco che avevano già deciso per te» si mise a ridere.
Yunix era in stato catatonico.

«Tu puoi fare quello che vuoi».

«Era tutta una messa in scena? Per darmi l’impressione che potevo scegliere? È questo che stai dicendo?»

Il tempo sembrò fermarsi. Un gelo profondo sorse dal terreno. Avvolgente e travolgente.
“Non oserebbero... non oserebbero farlo!”

Yunix si sentì estraniato da sé stesso. Asia, Coal, Marin, divennero spettri. Solo quel ragazzo in smoking era ancora lì. Rideva, rideva di lui. “Solo i primi trentanove sarebbero entrati. Gran bella battuta. Che numero insensato. E dire che lo sapevo che erano sempre stati quaranta. La missione come esaminatore, la lettera di diniego, il mio discorso, non valevano niente!?” Sentì le dita intorpidite, così desiderose di morte, che sfuggivano al suo controllo. “Non possono decidere per me! NON HANNO IL PERMESSO DI FARLO!”

Proprio quando pensava di aver sconfitto la sua insicurezza, ecco che veniva a galla la verità: avevano scelto per lui, ancora una volta, senza pensare a quello davvero desiderava. Era ovvio che se avesse detto che non voleva partecipare lo avrebbero ficcato dentro con qualche sotterfugio. Inai non si sarebbe lasciato sfuggire uno come lui. Ormai era chiaro come le stelle nel cielo ed essere stato così ingenuo lo riempiva di spregio, per sé stesso e per coloro che c’erano arrivati prima di lui. L’unico che aveva avuto la decenza di dire le cose come stavano ce l’aveva davanti. Tutti quei professori invece, ora lo realizzava, non erano altro che erbacce, parassiti, pronti a spremere il suo essere, pronti a usarlo come lui stesso si era detto disposto a diventare in quel dannato discorso: un’arma.

La mano cicatrizzata scattò, come se risvegliata da un lungo sonno. Smaniava per la loro gola. Voleva graffiare, dilaniare, strozzare. Non avrebbero dovuto farlo, non avevano il permesso. L’erba appassì nel giro di un attimo, migliaia di cadaveri già pronti al fuoco degli inferi. Yunix guardò in direzione della foresta, ormai visione bianca spettrale, dove c’erano gli insegnanti, che ignari, continuavano a smistarli in questa e quest’altra classe.

“La morte sarà un sollievo, per voi che mi avete sottratto la libertà di scegliere”.

Stava già alzando le braccia. Correnti torbide ululavano nella notte, spegnevano le luci nelle lanterne. Cessava il fiato mortale, iniziava l’era del male. Dei tavoli non c’era più neanche l’ombra. Solo quei giudici senza cuore erano lì, all’ombra delle conifere. Non avevano elementi connotativi di riferimento, erano solo bersagli, nella linea di tiro. Li avrebbe spazzati via, senza se e senza ma, come aveva fatto quel pomeriggio con il generale. Ne era in grado, sapeva di esserne in grado. Già vedeva i lampi rossi annientarli come una pioggia acida, i loro arti sparpagliati nel cielo, tributo di guerra, tributo divino. Sangue che avrebbe pagato il prezzo della sua libertà rubata, sangue per un mondo nuovo.

«Sei solo un demone dagli occhi di ghiaccio».

“Armday!”

Yunix riemerse boccheggiando dall’abisso, le mani tutto un tremito. Il suo viso era in ombra, per fortuna. Il suo cuore batteva, come gli zoccoli di una mandria di puledri impazziti. I primi pensieri andarono ai suoi nuovi amici. Ma erano lì, erano ancora lì, così come il banchetto, le pietanze succulente, i tavoli imbanditi, le lanterne-origami. Dovevano essere passati solo pochi secondi, perché l’attaccabrighe non aveva ancora finito di ridere. Lo lasciò continuare, cercando di rimettere in ordine i pensieri.

“Cos’ho che non va?” Sentiva sbiadire i ricordi... la ragazza in impermeabile si faceva più indistinta che mai. “Basta! Cos’è che sto dimenticando? Cos’è che sono?”

Ma era lì ora... era quello l’importante. Il presente, il passato, il futuro: non poteva ancora separarli, forse si sarebbero fatti ancora più confusi, ma ora... aveva una vita da vivere.

«Non hai tutti i torti, lo sai?» rispose al tipo in smoking, recuperando sorridendo la compostezza. Rivoli di sudore gli colavano sulle palpebre, ma era più piacevole che mai sentire la propria voce solcare le proprie labbra. «Il preside ha fatto sì che fossi ammesso. E cos’hai intenzione di fare a questo proposito? Vuoi metterti contro al sistema? Fatti avanti e vedi cosa riesci a ottenere, però sappi che c’è una fila molto lunga ad attenderti». Dintorno, i ragazzi smisero di bisbigliare. Mentire era facile come tagliare il burro con un coltello. «Volevate ulteriori motivazioni per odiarmi? Beh, eccomi qui. Sono io il bastardo che ha voluto rovinarvi la vita. Fremevo dal desiderio di sedermi in quei banchi, sapendo che non avrei dovuto fare il minimo sforzo per ottenerli; ne sono così felice che potrei mettermi a cantare! È stato un game on, un fuori campo coi fiocchi, a cui nessuno aveva pensato prima. Ho vinto su tutta la linea e non c’è nulla che possiate fare che mi metterà alle strette. Non ci credete? Forza, allora. Fate i vostri reclami, vi auguro tutta la fortuna dell’universo, invidiosi bambinetti».

Si rese a malapena conto del turbine di risentimento che aveva scatenato. Sollevò i pollici a Marin, pensando di averla risolta con facilità, ma il suo viso disse tutto il contrario.

«Tutto quel parlare e ci stavi ingannando dal principio!?»
«Non ti vergogni manco un minimo, sfigato?»
«Aspetta che lo vengano a sapere mio padre!»
«Non ce ne sarà bisogno, amico. La ‘solveremo a botte qui e ora!»
«Non dire altro!»

In un battere di ciglio, Yunix vide i ragazzi scavalcare i tavoli per gettarsi su di lui. Atterrito si gettò contro il ragazzo elegante, che era rimasto composto a godersi la scena.

«Ehi! Fermali! Non intendevo farmi ammazzare!»

«Oh... ma loro non sono con me. Mi hanno solo seguito, perché inspiro fiducia, ecco tutto».

«Tu? Inspirare fiducia, ma sei fuori?
»

«È un tuo problema, Yunix. A me bastano queste parole di confessione».

«Ma non sono vere!»

Il ragazzo si accarezzò i capelli e Yunix capì che se non si fosse scostato immediatamente avrebbe dovuto fare i conti con un nemico ben peggiore di tutta quella folla.

«Certamente, tesoro, certamente. Però io fossi in te mi guarderei le spalle».

Yunix vide la sagoma di una persona dietro di lui. Fece un verso spaventato e scansò un pugno per un misero millimetro.
«Scherzavo! Stavo scherzando! Che c’è, non lo avete capito? Haha, ci siete cascati!»
Una ragazza bionda gli sbarrò la strada con le falci di una mantide religiosa al posto delle braccia. «Guardate! Ora si prende gioco di noi! Addosso!»

Yunix si gettò indietro, dove lo aspettavano altri due rissosi combattenti.
«Facciamolo a pezzi come si deve!» esclamò uno con la pelle simile a corteccia. «In trentanove pezzi così raddoppieremo la probabilità di entrare il prossimo anno» lo sostenne l’altro, aggiustandosi gli occhiali sopra un naso gigantesco.
«Ma che razza di logica è!?» strillò Yunix, messo all’angolo.
I ragazzi si chiusero su di lui, serrati come una testuggine.

«Caspita... non è colpa mia, Yunix. Probabilmente è solo la verità che fa male». La voce melodica del ragazzo biondo-castano gli giunse da dietro la massa di braccia alzate, in cui era impossibile aprirsi un varco.

Quando i primi colpi arrivarono, Yunix comprese due cose: la prima era che probabilmente se l’era meritato con tutto quel ciarlare a vanvera, la seconda, assai più preoccupante, era che quei ragazzi non stavano affatto scherzando.

«Alza di nuovo la cresta, adesso!» ruggì il ragazzo dai capelli fosforescenti che era nella banda di Chooki al cantiere, sferrandogli un calcio in pieno petto. «Non ti riconosceranno neanche dopo stasera!»

“I professori!? Non dovrebbero essere qui ad aiutarmi? A meno che...” Yunix sentiva il dolore dilagare. “Forse... vogliono vedermi di nuovo all’opera?”

Le grida entusiaste si sostituirono all’improvviso in urla di terrore. Qualcosa... qualcosa aveva interrotto quel massacro? I ragazzi si allontanarono dalla sua posizione, esitando a tornare all’attacco. Presto, il motivo fu evidente: in un movimento circolare un getto di fuoco verde vorticava a mezz’aria di fronte a lui. Zombie di luce ardente emergevano come piccole fiamme dalla ruota infernale, grande quanto mezzo tavolo.

«Yo! Qui quelli che hanno alzato troppo la cresta siete voi, cari miei!» Coal Naive, un ghigno da imbroglione dipinto in volto, teneva le mani aperte di fronte al suo corpo malmesso. «Prima di tutto, sfogarvi su un minchione che ha preso un singolo posto dei quaranta che c’erano non vi concederà l’accesso in questa maestosa scuola e poi, signore e signori, state rovinando una festa... e se c’è una cosa che mi dà fastidio sono proprio i guastafeste a tempo perso!» Quando alzò la voce, le fiamme s’innalzarono, lambendo i tavoli vicini con lingue verdastre. «Ultimo ma non meno importante...» dichiarò, mostrando il cellulare con un gesto teatrale, «mandria di bufali senza vergogna, avete spaccato la pellicola protettiva del mio migliore amico! Inammissibile, totalmente inammissibile!»
Spirali di fiamme fuoriuscirono dagli occhi inferociti, costringendo i presenti a farsi ancora più indietro.

«Forse Yunix avrà davvero sottratto la possibilità a uno di voi!» intervenne Asia, rossa in volto, «ma si merita appieno il posto che gli spetta: è riuscito dove tutti noi abbiamo fallito!» Lo guardò protettiva. «Sì, merita di diventare un eroe».

«E perché mai, si può sapere, zuccherino?» Dalla folla intimorita emerse illeso e zelante il ragazzo in tiro, la cui sola vista mandò Yunix in defibrillazione. «Da quanto ne so, il vostro piccolo Yunix era solo un esaminatore, non un aspirante. C’è forse qualcosa che non so?»

Il ragazzo dai capelli biancastri si sollevò lentamente, facendo cenno ad Asia che aveva tutto sotto controllo.
“Dobbiamo mentire. Non possiamo dire tutta la verità, anche se questo mi costerà grane a non finire”.

Per fortuna, Coal aveva agito in fretta. A parte qualche articolazione indolenzita e un paio di lividi, Yunix era stato risparmiato da un pestaggio in piena regola. Il suo rispetto per quel folletto malefico iniziava a crescere: forse c’era davvero qualcosa dentro quel cuore tronfio; però non sarebbe bastato a farli uscire da quella situazione. Doveva sistemare le cose lui.

«Qualcosa che non sai? Nulla di tuo interesse» rispose poi, cercando di tenere a freno la lingua. «So benissimo però che se anche avessi salvato il mondo in quel paese dei balocchi, mi considerereste comunque un ladro, quindi perché dovrei sforzarmi per darvi ragioni che ho già espresso durante la cerimonia?»

Il ragazzo dagli occhi bronzei si accarezzò il mento, sorridendo.
«Interessante! Non hai tutti i torti, ladro. Le mie conferme le ho già avute, dunque posso ritenermi soddisfatto». Il ragazzo puntò quegli occhi melliflui su Asia, poi su Marin, poi su Coal. «Voi quattro nascondete qualcosa, qualcosa di scottante, ma tranquilli, scoprirò da per me di che si tratta. Concentratevi sul non essere espulsi il primo giorno: ai professori piace sempre instillare un po’ di paura nelle matricole. Bye, bye...»
Strizzò loro gli occhi e salutò con mano cortese.

Diede loro le spalle e iniziò ad allontanarsi con andatura disinvolta. Passando accanto alla piccola folla che si era radunata, si fermò un istante.

«Non date ulteriori fastidi ai miei futuri compagni. Anche se mi auguro con tutto il cuore che quel ladruncolo non sia nella mia stessa classe, su una cosa hanno ragione: non sareste stati comunque accettati. Il quarantesimo non è mica fra voi».

Altro che le fiamme di Coal: a una sola occhiata di quel ragazzo educato, la maggior parte dei presenti si ritrasse fischiettando.

«Avete capito, mezze calzette? Smammare, andale, andale!» incalzò Coal, elevando la fiamma alla temperatura di fusione.

Yunix rimase sconsolato al suo posto, incerto sul da farsi, poi sentì un forza magnetica spingerlo a muoversi. Non poté respingerla. Era importante. Rincorse il ragazzo vestito di nero e trovò il coraggio di richiamare la sua attenzione, seppur inciampando fra le parole.
«Il... il tuo nome! Come... com’è che ti chiami?»
Sperò che non si volgesse, che lo ignorasse, che facesse finta di non averlo sentito.
Il ragazzo rallentò, ma non smise di camminare.
«Meh... e perché mai dovrei dirtelo?»
Yunix deglutì, stringendo i pugni. Parlare fu più difficile che affrontare a viso aperto quel generale, ma non si sarebbe più tirato indietro.
«Come... come faccio a pregare che non ci mettano nella stessa classe se non conosco nemmeno il tuo nome?»
Le spighe di capelli dietro al collo del ragazzo sembrarono quasi levitare.

«Herneist Aghikumura è come mi chiamo, prendere o lasciare. Ti conisglio di non sfidarmi, Yunix Braviery: non ne usciresti bene. Per il resto, dormi pure sonni tranquilli... pregherò anch’io perché il destino ci ponga in classi opposte».
Riprese il passo sostenuto.
«Tieni solo a mente» cantò la voce soffice, «che quel quarantesimo a cui hai strappato il posto tornerà. Non dimenticherà l’offesa ricevuta, come non lo farebbe il pescatore che ha perso la preda in mare. Quel giorno dirò a gran voce “te l’avevo detto” e allora saprai cosa si prova a essere derubati di tutto, a vedersi scivolare fra le mani la vista stessa. Sarà un piacevole scambio di opinioni e sappi che quando accadrà non muoverò un dito per aiutarti, non il pollice, non il mignolo. Tienilo a mente, tienilo a mente per favore e forse capirai perché sono così...».
Herneist scomparve alla vista, in mezzo al chiasso, in mezzo al rumore, intoccabile, impossibile da associare a quel marasma. In un modo o nell’altro, Yunix seppe che aveva ragione, che un giorno si sarebbe pentito di aver sottratto a quella persona sconosciuta il posto che le spettava di diritto.

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Capitolo 26
*** Una Strada per il Futuro - Parte Terza: I colori di un demone ***


Una Strada per il Futuro - Parte Terza: I colori di un demone


Yunix fece ritorno dagli altri, gli occhi che si chiudevano ad ogni passo, per poi spalancarsi nel timore che inciampasse nella gamba di un tavolo o ancor peggio in quella di una persona. Era sfinito, ma doveva stare all’occhio. Ci mancava solo che lo pestassero una seconda volta la stessa serata (e si era visto quanto i professori lo avevano aiutato la prima volta).
Non era un'impresa facile. Le parole di Herneist erano a tal punto vivide nella sua testa che sembrava le avesse tracciate sul suo midollo spinale con l’indelebile. A peggiorar le cose, poi, Coal stava parlando come suo solito, da chiedersi dove trovasse la forza per farlo.

«Bla, bla, bla... ladro qui, ladro là! Aspetta solo che lo riveda con quel sorrisetto da Edgy Boy, giuro che lo faccio allo spiedo. Ehi, na na na, cazzo ridi? Non istigarmi, principessa dei flutti, o ci sarà più varietà di carne di quanto pensi sul...».
Yunix gli afferrò la spalla, non riuscendo nemmeno a stare in piedi.
«Potresti... farmi un favore?»
«Hmm... cos’è che vuoi?» chiese lui distratto, squadrando Marin con ostilità apparente.

«Stai bene?» intervenne invece Asia, preoccupata di fronte al viso stremato che sicuramente aveva dipinto in faccia.
Non ne aveva colpe, ma il fatto che lo guardava come se fosse un cane bastonato lo faceva imbestialire, anche se in fondo era quello che era: un randagio, nulla di più, nulla di meno. Le rispose egualmente, anche se non si avvicinò nemmeno lontanamente alla verità su come si sentiva: «Sì... sto a posto».
“Ho quasi commesso un pluriomicidio. Come vuoi che mi senta?”
Si rivolse al ragazzo dagli occhi viola, usandolo come appoggio senza esercitare troppa pressione.
«Ti prego... dimmi che... dimmi che hai... altre previsioni per domani, Coal. Riguardo a me e quel tipo. Non saremo assieme in classe, vero?»
Con sua somma delusione, lo vide scuotere la testa.

«Affatto, amico, nessuna previsione stavolta. Potrebbe essere nella tua classe come non esserlo, però non mi farei grandi speranze. Se le cose hanno tutte le ragioni per andare male, andranno male, parlo per esperienza».
“Come pensavo...”
«Sei un dilettante a offrire conforto... lo... sai...» bofonchiò Yunix, iniziando a barcollare.
Asia gli prese la mano.
«Ehi, non sembri molto in forma. Vuoi che chiami un professore?»
Yunix scosse la testa.
«Ho chiuso con i bugiardi, per oggi».

Si voltò per trascinare una panca dove si trovavano loro. Sapeva che alle sue spalle si stavano scambiando degli sguardi preoccupati, o forse solo straniti, ma qualunque fosse la loro reazione, a lui non poteva fregar di meno. Non vedeva l’ora di affondare il viso nel cuscino e contemporaneamente temeva quel momento con tutto il cuore. Sarebbe stato in quell’istante che i fantasmi della sua coscienza avrebbero lanciato il loro grido di battaglia e gli si sarebbero insinuati in testa, come un’infestazione di pidocchi. Come li guardò, i ragazzi misero su facce di bronzo, anche se un secondo prima era stato abbastanza sicuro di sentire Coal bisbigliare qualcosa di non troppo carino rivolto a lui.
“Tipico”. Si sedette.

«In ogni caso» borbottò Marin, corrucciata, «io ora me ne vado a letto. Sono stanca».

Non aggiunse altro. Le labbra di Asia fremettero, mentre la ragazzina si alzava per andarsene.
«Non vuoi restare un altro po’? Non hai bevuto niente».
Marin alzò le spalle, con quel suo solito modo brusco di trattare con le persone, come se non fossero in grado di comprenderla.
«Grazie per l’offerta, ma no...» s’interruppe, appoggiando sul tavolo una viola raccolta chissà dove. «A domani, sfigati. Se vedete una donna con un acquario grande più o meno così, rivolgetevi a me in men che non si dica. Non ho alcuna voglia di vedere i miei piranha fare amicizia con qualcuno che non sono io».
Fece una pernacchia a Coal e si allontanò, strascicando i piedi sull’erba. Il vestito da maid-caffè anni Venti bruciacchiato non le donava granché. Chissà se l’aveva messo di sua spontanea volontà.

Il ragazzo dai capelli danzanti inclinò il capo, stiracchiato.
«Uhhh, che bello sapere di essere rientrati nella lista nera di Marin. Ci speravo con tutto il cuore».
«Non è lei che mi preoccupa» sospirò Yunix, cogliendo il fiore dal tavolo e spogliandolo dello stelo. «Herneist farà di tutto per rendermi la vita un inferno se saremo nella stessa classe».
Il ragazzo avvertì una gentile stretta sulla spalla e sollevò il viso verso Asia. Si era avvicinata a lui senza provocare un singolo rumore: una ninja fino al midollo, ora ne ebbe la certezza.
«Ehi... devi stare tranquillo. Noi sappiamo che il posto te lo sei meritato».
«Eccome, amico» la sostenne Coal, con voce singhiozzante, «se verrai gangbangato n’altra volta, stai pur certo *hic* che diremo le cose come stanno e poi... se quello si chiama davvero Herneist, è arrivato a malapena trentanovesimo, quindi ha poco da fare il figo».

Quelle parole non significavano molto, ma lo rincuorarono.
«Grazie» disse, incurvando leggermente le labbra. «Significa molto per me».

Coal incrociò le gambe, sbadigliando.
«Quando vuoi, pezzo di ghiaccio» si rivolse ad Asia, «fammi un altro cicchetto, señorita. Non mi sento brillo a sufficienza».
«Scusa? Fattelo da solo, idiota, che sei anche più vicino di me alla brocca!»
«Oh... tu guarda è vero» ridacchiò Coal, simulando sorpresa nel vedere il liquido ambrato accanto al braccio disteso sul tavolo.
«Hm, secondo te come giustificheranno la consegna di alcol a dei minori?» chiese scuotendo la pinta, assorto.

Asia strabuzzò gli occhi.
«Sul serio? Hanno appena giustificato la distruzione di un patrimonio dell’umanità come Infection. L’alcol in confronto è una bazzecola e poi questa roba è super soft».

«D’accordo, d’accordo, però stai comunque alzando un po’ troppo il gomito, per i miei gusti, futura rappresentante».
«Futura rappresentante? Insomma... che ne sai che non sono una delinquentella? Già, una di quelle che becchi ai lati della strada? Cosa ti fa dire che sia una perfettina?»
«Beh, innanzitutto il fatto che usi il termine delinquentella e perfettina, manco fossimo in Harry Potter e poi scusami tanto, ma con quell’atteggiamento non ti puoi aspettare che la gente ti prenda come una combinaguai. Sprizzi decoro da tutti i pori, sì sì!»

La ragazza si mise a gambe incrociate, osservando con attenzione il viso di Coal, che tracannò un sorso di birra dalla brocca.
«L’abito non fa il monaco».
«Però è di grande aiuto per farlo entrare nella parte» replicò Coal, dandole un pizzicotto al naso.
«No, guarda Coal... sei fuori strada stavolta. Io, ecco, non so abbastanza cose sul mondo, come potrei rappresentare una classe?».
«Oh, quello si coltiva a scuola».
«Ecco, parlami della scuola... non ho mai potuto frequentarla».

Coal si strozzò con la bibita.

«Oh mio Dio! Coff... coff...» Il ragazzo si mise composto, battendosi dei colpetti sul petto. «Hmm... questa sì che... bleah... è una sorpresa. Sul serio non hai mai frequentato..?»

«È così... dopo l’asilo, mio padre... lui preferiva tenermi al dojo tutto il giorno, in modo che apprendessi da lui l’arte del kendo e del karate, e del tai-chi... e così... beh... la mia formazione è passata in secondo piano».

«Ohilà! Proprio un background da delinquentella, allora. Sai... la scuola non è poi così particolare... si guarda un po’ la lavagna, si scrivono due robe sul quaderno e per il resto è tutto cazzeggio con gli amici e roba simile, però s’impara tanto, anche dagli altri. Puoi osservare così tante vite lì dentro che la tua routine quotidiana inizierà a riempirsi di dubbi e di modifiche, di crocette sul calendario ed esperimenti einsteiniani da far accapponare la pelle, fino a che la tua stessa visione dello stadio adolescenziale in cui sei e quello infantile in cui sei stata non si ritorcerà contro di te, facendoti crescere, spingendoti in quella galleria soffocante, caduca e affascinante chiamata vita: questa, cara mia, è la scuola».

«Uhm... aspetta, aspetta. Faccio fatica a seguirti se spari queste sentenze a mitraglia. Da bravo, rispiega da capo... e non la tua visione, io voglio sapere com’è oggettivamente. I compiti, i voti... per me è tutta roba nuova».
«Oh, quelli li adorerai, fidati».
«Beh, parlamene, allora, anche se ti sembra banale».

Yunix abbassò lo sguardo e li ascoltò parlare. Gli piaceva sentire il suono delle loro voci: quella di lui arguta e teatrale, l’altra delicata, paziente e affamata di sapere. Si stava accorgendo che non pretendeva molto di più e la cosa lo incuriosiva, perché non era come ascoltare degli sconosciuti farsi brutto al lato della strada, quello era qualcosa d'immensamente diverso, anche se non sapeva spiegare bene in che modo. Forse stava assaporando cosa significasse vivere per i propri compagni, sperimentando cosa intendesse il generale parlando di scopo: un alveare in cui ogni ape viveva in armonia con l’altra, faticando e operando, eppure gioendo per ogni scambio, per ogni successo, una società ideale, un’utopia.
Certo, Armday non ne era mai stato parte, ma aveva sentito quel calore, in passato: Elmer Grayne, quello era il nome che dava al suo angelo, solo un altro uomo rigettato, tenuto lontano da quel mondo collaborativo, qualcuno con cui in qualche modo il villain aveva legato, qualcuno che poi aveva ucciso. Yunix non era così, lui puntava troppo più in alto, anche se non sapeva ancora a cosa. Per ora, però, sentiva di accontentarsi di quel poco, di quelle poche parole. Gli bastava solo che quei due ragazzi lo tollerassero in quel rozzo triangolo di persone che non conosceva ancora pienamente, ma che già sentiva inestimabili. Gli bastava la carezza di una voce amica, anche se non rivolta a lui. Per quella giornata infernale, si sarebbe accontentato di quello; il giorno dopo avrebbe pensato agli altri sogni che aleggiavano nel suo cuore, il giorno dopo avrebbe chiuso i conti con il suo potere, il giorno dopo... il giorno dopo lui... senza neanche accorgersene, scivolò in un sonno senza sogni.

 

A svegliarlo fu una voce squillante ed energica: «AAARRRRC! Ti prego! Voglio solo sapere come hai fatto, eddai, ti prego, ti pregooooo! Dai, dai, dai, dai, dai!»
Yunix sbatté ripetutamente le palpebre. Aveva un mal di testa assurdo. Si strofinò gli occhi e si mise subito a sedere. “Dove?” Si sentiva tutto ammaccato: doveva aver dormito in una posizione super scomoda. Come in trance, si guardò attorno e lo colpì un pezzo di carta, abbandonato a sé stesso sotto un paio di bicchieri vuoti. Lo agguantò, ancora assonnato, e cercò di mettere in ordine le lettere che c’erano sopra.
 
Scusa se ti abbiamo lasciato lì, ma dormivi così profondamente che non me la sono sentita di svegliarti. Insomma, è stata una giornata lunga per tutti. Noi siamo andati a dormire, ci si becca domani a lezione se ci hanno messo nella stessa classe. Io lo spero: vorrei tanto conoscerti meglio, Yunix.
 
P.S.: Attento, Coal ha voluto a tutti i costi farti un piccolo scherzo.
Non sono riuscita a stopparlo sob sob :/

                                                                                                                                                                                                                        Asia
 
Yunix aggrottò la fronte: “scherzo?”
Fece per accartocciare il biglietto, quando si accorse che la carta stava andando a fuoco. E non era una flebile fiamma, ma un uragano giallastro quello che divorava il messaggio, con la stessa rapidità di un trita documenti. Soffocò un’imprecazione e gettò a terra il pezzo di carta, calpestandolo per soffocare il getto color dente di leone. “Ma è un idiota o cosa!?”
Quando il pericolo fu scampato e spirali di fumo presero ad attorcigliarsi attorno alle sue gambe, il ragazzo allungò una mano ad asciugarsi la fronte. «Pheew... guarda questo...» Doveva ricordarsi di fargliela pagare. Ora l’avrebbe fatta LUI la lista nera, cavolo.

«AAARC! Dai! Dai! Dai! Voglio saperlo! Voglio saperlo!»

La voce insistente era ancora più vicina.
Ora che era sveglio, Yunix tese orecchie e occhi verso quella direzione.

«Ma quanto sei appiccicoso? T’ho detto di farti gli affaracci tuoi!»
«Ti chiedo solo un miniminiminifavore! Eddai! Cosa ti costa dirmelo?»
Un ragazzo dai capelli rosso vermiglio, con una fascia a motivi trapezoidali attorno alla fronte, tratteneva per la giacca di marca tenuta a mo’ di mantello un ragazzo ben più alto, muscoloso, snello, con borchie di metallo ai polsi, occhi grigi come la cenere e capelli spettinati, blu e neri. Aveva un viso cattivo, che sorrideva poco e si distendeva ancor meno spesso, o almeno questo era quello che traspariva. Yunix lo riconobbe come il primo classificato al test, Arc Nighter, che a quanto gli aveva riferito un ragazzo durante la prova, aveva sconfitto metà dei villains della zona inferiore, nella prima ora di tempo.
«Cosa mi costa? Niente. Cosa ci guadagno: esatto, niente!»

Si trascinava dietro il ragazzino, neanche fosse un pupazzo, decisamente irritato. Yunix decise in un lampo di unirsi alla disputa, anche se era a un tavolo di distanza. Non aveva motivo d’immischiarsi nei loro affari, ma tantomeno aveva motivo di non farlo. Non gli era sfuggito che quel buffone di Coal lo aveva chiamato “pezzo di ghiaccio”, poco prima che piombasse nelle braccia del sonno. Non poteva continuare a osservare senza agire. Era ora che si facesse valere, che fosse presente nella propria vita, che ne fosse il protagonista.
“Proprio come Armday” pensò addolcendosi al pensiero del villain, quasi come se fosse un vecchio amico. Non sarebbe diventato un estroverso tutto d’un tratto, ma interagire per sua scelta con qualcuno poteva essere un inizio, anche se non sapeva come fare, e chi meglio del sedicenne che aveva battuto circa un intero settore carcerario di Aster tutto da solo? Pure Milia l’aveva detto, no? “Potreste imparare tanto da chi è stato scelto... già, forse potrei evitare di farmi ammazzare il day one, tanto per dirne una”.

Senza attendere un secondo di più, balzò oltre la tavolata, ormai arida di vivande, per piantarsi irremovibile di fronte ai due ragazzi. Pensò alla prima cosa che gli venne in mente.
«Sono Yunix Braviery, dichiarate le vostre intenzioni, o andatevene!»
La sua convinzione s’incrinò di fronte all’occhiata che il primo classificato gli riservò. Il volto imbruttito di Arc mutò, infatti, in pochi attimi, dalla sorpresa all’ira.
«Ah, vedo! Ti sei già fatto degli amici, eh, pellerossa del cazzo? Ma non importa quanti ne arriveranno, non mi farai sputare una singola parola. Fuori dalla mia strada, pezzente!» lo avvertì mettendogli una mano sul petto.
«Io...» Lo spostò di lato, premendo forte sulla sua cassa toracica.

Yunix rimase senza fiato, sbalordito da tale forza. Ne era certo: quelle dita avrebbero potuto cavargli gli occhi senza alcuna difficoltà, anzi, a dirla tutta, avrebbero potuto sradicare un albero alto quanto un minimarket e spesso quanto una canna fumaria.
“Lex, Asia, Sakuro, Sekiro, questo Arc... sono abbastanza forti per essere Heroes così come sono. Cosa ci fanno qui? Non possono chiedere direttamente la licenza?”
“Non a Temigor, caro mio” gli suggerì una voce, dentro la sua testa “hai letto quel quotidiano: si dice che l’eroe medio di Temigor sia nettamente superiore al Pro-Hero medio di un’altra nazione e che il loro numero sia esiguo quanto le spighe di grano in un campo di barbabietole”.

Se le cose stavano davvero così, che speranze aveva lui di diventare un Hero? Oramai, la sua dichiarazione sul palco non gli sembrava più solamente un’inutile spreco di tempo, ma anche un atto vanesio. Per quanto avesse sconfitto Armday, anche uno solo di quei ragazzi allenati poteva metterlo al tappeto con le mani legate dietro la schiena. Che servizio poteva offrire a quella società?
“Già capito, mi farò usare come punching-ball da quelli come lui per un paio di settimane, prima che anche quel falso di Inai si renda conto che non gli sono di alcuna utilità e perciò mi butti fuori, e tanti saluti anche all’opzione di meritarsi il titolo di studente”.

Il ragazzo vestito da indiano però non si arrendeva.
«No! Dai! Non so manco chi sia! Andiamo, Arc! Voglio solo che mi racconti come hai fatto! Sono solo... curioso!» S’impuntò sul terreno, ma anche così Arc lo trascinava con relativa facilità. «Dai! Dai! Dai!» Il ragazzo si fermò di colpo, lasciando sorpreso pure il pellerossa che mollò la presa, fiducioso. «Quindi lo farai..? Per favore...».
Arc si voltò e lo squadrò con freddezza.

«Sarò franco, Furry: se anche ti dicessi qual è il mio Quirk e come ho preso quelle taglie, non ne ricaverei alcun vantaggio. Per di più, sei fin troppo fastidioso e petulante. Pensi che le persone diventeranno ben disposte verso di te se ti metterai ad abbaiare non-stop nelle loro orecchie? L’unica cosa buona di te è che sei onesto, ma questo non è un pro sufficiente a convincermi a parlare. Sono stato abbastanza chiaro?»
Si trovò davanti un viso sbavante. «P-però...»
«Evidentemente no. Sparisci dalla mia vista, o proverai sulla tua pelle cosa mi ha portato così in alto. Ti garantisco che il gioco non vale la candela».
Prima che potesse riacciuffarlo, si diresse a passi rapidi verso la foresta, riponendo entrambe le mani in tasca.

Il ragazzo piumato avvistò una prelibatezza orientale sul tavolo, una delle poche reduci dell’abbuffata.
«Aspetta! Arc, ti posso pagare! Ho un piatto di chili piccante, non vedi?» esclamò, sollevando il vassoio.
La promessa del pasto non sembrò sortire granché effetto sul misterioso primo classificato. Yunix corse accanto al ragazzino e gli sussurrò all’orecchio un piccolo consiglio. Lui subito si rianimò. Anche i fregi piumati nella sua alce sembrarono raddrizzarsi come in preda all’entusiasmo.
«Bella idea...» si alzò e richiamò il vandalo con aria di sfida, «eddai, Arc, che hai da prendertela così? Forse non hai le palle per affrontarmi senza che io abbia indizi sul tuo potere?»
Yunix rise, tenendosi a debita distanza.
“E ora lo farà a pezzi” pensò, desideroso di vedere come avrebbero reagito gli insegnanti.
Se si fossero mossi per salvarlo, dopo aver ignorato lui, avrebbe avuto la prova schiacciante della loro immensa ipocrisia. Ne erano rimasti solo un paio a girare attorno al limitare degli alberi sempreverdi, ma l’esperimento sociale poteva funzionare comunque, cento per cento. Inoltre, anche la maggior parte dei ragazzi era andata a casa, mentre lui dormiva, oppure si era diretta ai giacigli allestiti per loro nella magica HG, sempre che fossero riusciti a rientrare nei primi trentanove in classifica, come Asia, Marin e Coal. Ad ogni modo, tutti quegli elementi assicuravano che nessuno, eccezion fatta per gli insegnanti, fosse nei paraggi per salvare l’incauto Furry.

«Ta da’, ti ho messo nei pasticci, adesso? Non puoi più ignorarmi, Arc, ththth. Su, su, vediamo che t’inventi ora!»
Yunix rise di nuovo. Quel pollo si stava scavando la fossa da solo. Aspettò che Arc si voltasse, con trepidazione, ma quel momento non arrivò mai.
«Ché? Perché non si gira?» Furry cercava risposte da lui. «Perché, dimmelo? Perché?»
“Arc ha ragione, questo non molla l’osso”.
Yunix sbuffò. «E chennesò? Avrà qualche rotella fuori posto».

Furry non la prese bene e prima che gli potesse dire altro, prese la rincorsa e spiccò un salto piuttosto alto, il vassoio di chili ancora assiso abilmente sopra il suo poso sinistro, non verso di lui, ma verso Arc.

«Sei mio!»

Cercò di acchiappargli di nuovo la giacca con la destra. Yunix osservò attentamente il pugno chiudersi. No, non c’era modo che non lo prendesse. Non si era nemmeno voltato, era scoperto su tutti i punti. Eppure, il pugno si chiuse a vuoto. Furry aveva mancato il vestito scollacciato.
Gli occhi spumeggianti di Arc saettarono sul ragazzino rovinato a terra.

«Ahi, uhi... ma come...»

«Lento, lento. Eppure, lo sai bene che se sono arrivato primo, un motivo c’è» sibilò sprezzante, senza distogliere lo sguardo.

Yunix aveva i brividi. Non si era mosso, lo aveva osservato con attenzione millimetrica, degna di un microscopio, non si era mosso, e nondimeno aveva evitato di farsi afferrare.

Ed ecco che per pura casualità i suoi occhi si scontrarono con quelli del bulletto e qualcosa scattò nelle pupille meccaniche.

Zac!

Un rumore di sciabola.

Un fendente verde salmastro, giada.

Vide il filo della lama a pochi centimetri dal volto, era intarsiata di motivi orientali, una katana imperiale, mossa per uccidere. Per uccidere lui. Era questione di istanti... non poteva fuggire. Morto, su tutta la linea.

Prima che i suoi occhi schizzassero via dalle orbite, il contatto si ruppe, lasciandolo boccheggiante, come un pesce fuor d’acqua, quasi come se l’attacco lo avesse colpito nell’anima.
Cos’era quello? Un altro scorcio sul suo passato? Fissò Arc intimorito e ritrovò nei suoi occhi malevoli un inequivocabile e contenuto stupore, come di un pastore che vede una pecorella spaventata, fra tante altre a loro agio. Aveva avuto la stessa esperienza? Apparteneva a lui quella spada? Aveva cercato di farlo fuori? Quando? Perché? Yunix era spaesato. Aveva paura, paura di ciò che non sapeva.

Il ragazzo dai capelli blu e neri si passò una mano fra i capelli, tutta l’attenzione ora su di lui.
«Tu sei il ragazzino di prima... quello che ha fatto tutta quella tiritera per farsi metter dentro». Non era una domanda. «Cosa ti è preso all’improvviso?» chiese con voce vagamente turbata.
Yunix gesticolò animatamente con le mani.
«Nonono, niente, ho solo avuto un piccolo capogiro... deve essere stato uno di sti' drink... ahah».

La frottola non sembrò convincerlo. Lo vide stringere i pugni con tale forza, da far sanguinare le nocche.
«Tu...» ma fu interrotto, perché con rapidità impressionante, Furry, ancora steso a terra, guizzò supino, e sollevandosi sulle mani, sferrò un calcio poderoso verso il viso di Arc.

«Hop!»

Il ragazzo non fece in tempo a spostarsi, ma incassò il colpo. Un rivolo di sangue denso colò giù dal viso affilato.

«Oplà! Non conviene che abbassi la guardia, thth. Anche un rookie come me può metterti alle strette» lo canzonò Furry, l’indice sotto le narici, fiero della sua performance.
Si accovacciò subito a pochi metri dal primo classificato, preparato a schivare o colpire a seconda della sua reazione. Il vassoio era ancora in equilibrio, questa volta sopra il suo braccio destro. La sua agilità non era uno scherzo, non aveva nemmeno il fiatone.
«Ora dimmi il tuo segreto, per favore» tentò ancora, senza perdersi d’animo.

Arc sollevò distrattamente due dita e si tastò il mento. Subito dopo, le portò di fronte agli occhi, bagnate poeticamente di rosso. Non aveva un’espressione lucida.

«Yunix Braviery» esordì, «è così che hai detto di chiamarti?»

Il ragazzo dai capelli grigiastri, anche volendo, non poté rispondere, perché con un ringhio, una figura pelosa, grande almeno quanto due mastini, si gettò a capofitto su Furry, che giustamente gemette di sorpresa e terrore, mentre la creatura lo bloccava a terra senza fatica. Grumi d’erba e terriccio vennero sollevati dall’impeto. Nel marasma provocato dai due corpi sovrapposti, Yunix riuscì a riconoscere il ragazzo che aveva fatto a pezzi il fagiano, evidentemente a caccia del piatto di chili.

«DAMMELO! Non c’è nient’altro! ME LO MERITO! Mio! Mio!» Con un verso stridulo, tentò di agguantare il piatto.

«Neanche per sogno! È la mia merce di scambio, razza di rimbambito! Prendiiiii questo!»
Furry gli tirò una testata, ma il ragazzo selvaggio, che indossava una specie di maschera rituale contornata d’avorio e pellame, accusò il colpo ridendo. «Mi fai il solletico!»
Tornò all’attacco, lottando per assicurarsi il cibo messicano, ma Furry lesto lo teneva stretto, cercando al contempo di respingere la belva.

Yunix fu l’unico ad accorgersi che Arc se n’era andato. Non c’era più traccia di lui, neanche in prossimità degli alberi. Quel ragazzo era arrivato primo per un motivo, non c’erano dubbi a riguardo. Fece qualche passo esitante verso i due litiganti, ma non ebbe bisogno d’intervenire, perché una figura apparve al suo fianco.
Era Milia Warder, nella sua gialla tuta stradale, nonché costume da Hero.

«Ehi, ehi, ehi! Che succede qua?» Si avvicinò ai ragazzi che s’azzuffavano nella polvere, ma essi non diedero cenno di volersi separare. «Allora!? C’è nessuno in casa? Ehi, vi sembra un comportamento da Heroes?» Ancora una volta, nessuna reazione che non fossero ringhi e strilli.

Le mani della donna brillarono.

«Uno!» uno schiaffo impercettibile stese il ragazzo sudicio dai capelli arancioni, come se gli avesse somministrato una dose di sonniferi istantanei. Furry ebbe giusto il tempo di toglierselo di dosso, che una seconda manata lo mandò al tappeto. «E uno due!»

Yunix non poté che essere impressionato, guardandola strofinarsi le mani cariche di particelle.

Pro-Hero: Explode Ram; Quirk: Fireworks. Come dice il nome, può scagliare fuochi d’artificio, principalmente dai capelli ritti e c’è di più. Se diffonde l’energia pirotecnica agli arti può usarli per tramortire chi colpisce con sufficiente slancio.

«Se i bambini pestiferi decidono di fare di testa loro, sarà mio dovere mettergli un po’ di sano sale in zucca». Si voltò verso Yunix. «Oh, lo so cosa ti frulla per la testa, piccoletto. Pensi che prima ti abbiamo lasciato alla mercé di quei ragazzi invidiosi, ma non è così. In ogni momento, eravamo pronti a intervenire, in ogni singolo istante, credimi».
Il ragazzo annuì frastornato. “Non è questo che mi passa per la testa ora, o forse sì. Ho così tante cose su cui riflettere che potrei scriverci un’enciclopedia”.

«Certo. Ora però... penso che andrò...»
La rossa batté le mani, fin troppo fomentata.

«Ma ovvio! Domani vi vogliamo pimpanti per la prima lezione!»
«Mm» il ragazzo aveva esaurito ogni energia «ok, professoressa».
«Sogni d’oro, piccoletto».

Raccolse i due ragazzi svenuti come se fossero fatti di cartapesta e se li mise in spalla.
«A titolo puramente confidenziale, se vuoi... ti consiglierei di... potresti, ecco... prendere l’extra-urbana sul lato ovest del bosco e arrivare dentro dall’entrata principale... giusto... per buttare un occhio sulla città». L’insegnante batté nervosamente il tallone sul tavolo su cui era saltata. «A titolo confidenziale, eh!»

Yunix corrugò le sopracciglia, ma la donna si era già allontanata e presto sarebbe stata fuori portata d’orecchio.
“Prendere l’extra-urbana? Perché dovrei allungarmi la strada per arrivare alla mia camera? È totalmente illogico. C’è sotto qualcosa”.

Un po’ titubante, seguì il consiglio non molto velato dell’eroina.
Durante la breve scampagnata nei boschi, temette seriamente di svenire, ma resistette. Chi l’avrebbe più trovato in mezzo a quei tronchi nodosi? Per fortuna, il tratto di bosco era di estensione misera.
In un battibaleno, fu sulla T17, la stessa strada dove per poco non si era tolto la vita. Bei ricordi! A parte qualche colpo di clacson perché andava contromano, non s’imbatté in chissà quali fastidi. C’era un po’ freddino, ma niente che il suo corpo temprato non potesse sopportare.
Sui guardrail, mangiati dal tempo, erano attorcigliate piante avviluppanti, edera per lo più, che davano un tocco naturalistico, all’altrimenti spoglio percorso collinare. Sulla sinistra si stagliava una parete di terra friabile, trattenuta da un sistema di reti, volte ad evitare frane. Le corde erano consunte, alcune addirittura rotte, afflosciate come il sartiame di una nave affondata. Sulla destra, invece, una serie di tornanti senza capo né coda zigzagava per miglia e miglia. La strada si apriva su una vista splendida della costa occidentale, con tanto di residenze boschive piuttosto appariscenti. Temigor davvero non aveva confini. Un po’ più avanti, quartieri abitativi seguivano la linea del fondovalle e si abbarbicavano anche ai più orizzontali ripiani rocciosi, e più in alto, su tutto, dominava HG, l’accademia per eroi, simile ad un’enorme villa.
La muraglia soggiogata dall’uomo si abbassò sempre più, fino a che Yunix non raggiunse lo sbocco del diavolo. Tenendo la sinistra, solo pochi metri lo separavano dalla piccola postazione d’osservazione, da cui era stato sul punto di lasciarsi cadere, mentre a destra... a destra... 

Impallidì.

In un’area di sosta improvvisata, circondati da quattro volanti a sirene spente, c’erano sei uomini, cinque in uniforme blu, mentre il più imponente, bardato di verde nerastro, era quello in mezzo. Mani imprigionate in manette blu-azzurro, spalle larghe, fisico pronunciato, capelli biondi sporchi di sangue marcio, guance sagomate, uniforme sgualcita, di fronte a lui, c’era il generale demoniaco, che era stato a tanto così dall’ucciderlo, che aveva sconfitto uno per uno tutti i suoi amici. Di fronte a lui, ignaro della sua presenza, c’era Armday!

Sfoderava un sorriso da squalo, il viso sfigurato che mangiava la faccia dei presenti senza neanche bisogno che li guardasse.

«Le cose stanno così, agente? Manco la decenza di un processo?»
«Non fare il furbo con me, verme! Il sindaco ha già dato la sua approvazione formale: verrai rispedito ad Aster senza appello, e ci resterai fino al giorno della tua morte».
Il villain rise rocamente.
«Sissignore, ci torno con piacere. Tanto non avrete la soddisfazione di vedermi invecchiare, balordi che non siete altro! La fine è vicina, che sia una nazione o un demone a portarla, non è più un mio problema. Temigor cadrà e il nome dei Wealth sarà sepolto nelle sue sacre ceneri. In nome di Dio, la smetta di scribacchiare su quel trabiccolo luminoso e mi porti alla mia cella, forse sono in tempo per il rancio».

L’agente con in mano il tablet tremò di rabbia.
«Non provi nemmeno un briciolo di rimorso? Per quei ragazzi? Per i tuoi commilitoni?»

Armday lo fissò con quegli occhi d’ambra, così valorosi e al contempo così induriti dal tempo.

«E perché dovrei, per Dio? Cambierebbe qualcosa ai vostri occhi se io indossassi gli abiti del lutto? No, voi mi vedreste allo stesso modo, come un omicida, come un serial killer, come un invasato che odia gli esseri umani. Semmai... semmai rimpiango di non aver avuto la forza. Di non essere stato il demone che sono per quel singolo istante, in cui avrei potuto porre fine a tutto». Quasi per caso, forse un soffio di vento, o una vocazione ancestrale, Armday sollevò il capo e vide lui, lì, impietrito, a metà della strada buia. Il suo tono di voce non mutò. «Ma potevo vincere? Potevo davvero? Nossignore... come può pensare Lucifero di sconfiggere Dio?»

L’agente, evidentemente stufo di sentire le sue fanfare, fece un cenno ai suoi, che lo presero per le braccia. Il soldato, al contrario, guardò lui e gli sorrise. Non c’era bisogno che parlasse. Tutto ciò che voleva dirgli era in quel gesto: ho rinunciato a ucciderti, Yunix. A quanto pare non è questa la strada giusta per me. Ho combattuto e ho perso. Se verrai ucciso, non sarà per mano mia.
Solo in quel momento realizzò con stupore che sue ferite erano completamente guarite e solo una cosa poteva averle curate con quella rapidità:

«Una piccola invenzione, possibile solo a me e al mio Red Core temo. Mettetela sul palmo e pigiate sulla pietra rossa. Mi raccomando, tenetela ben salda. Un errore potrebbe impedire un nuovo utilizzo per lustri e lustri a venire...»

«Armday... da come lo dipingi tu non sembra che serbi verso di lui un qualche tipo di rancore, è esatto?»

L’inventore stravagante lo aveva salvato. Aveva risposto all’appello del suo cuore. “Grazie, professore. Forse in quel covo di fandonie, c’è una voce onesta, dopotutto”. Prometheus Hopespark, quel nome non l’avrebbe dimenticato, neanche se gli avessero cancellato la memoria altre venti volte. Era il minimo che potesse fare per ringraziarlo.

E intanto, mentre tutto tornava nella sua testa, Armday continuava a squadrarlo, mentre in tre lo sospingevano verso il veicolo con le portiere aperte. Che situazione surreale! Nessuno dei due riusciva a distogliere lo sguardo. Cos’era quello strano scambio non verbale? Perché in quel mondo dai toni tragici, la vittima e il carnefice erano gli unici che si capissero davvero, in mezzo a migliaia di creduloni? Chi dei due era la vittima? Chi dei due era il carnefice? Punti in sospeso, che se svelati avrebbero perso il loro fascino, come il mistero di Shangri-La, la città d’oro. Di questo Yunix era più che certo.
Però, non poteva semplicemente rimanere in silenzio, a discapito dei rischi che avrebbe comportato. Così riempì i polmoni e fece un passo in avanti, mettendosi sull’attenti.

«Armday!»

Il suo grido fu così potente da rimbalzare lungo i terrazzamenti più in basso, che quando aveva percorso nelle sua corsa disperata tre giorni prima, erano sembrati nient’altro che pochi gradini. Tutti i poliziotti si girarono a guardare, le pistole fuori dal fodero. Se le trovò puntate contro.

«ALTOLA’!»
«Non ti muovere!»
Era a portata di tiro e non c’era alcun tipo di copertura su quella svolta.

«Sei un suo complice? Cos’è, sei venuto a prendertelo, dopo che il suo piano è fallito?» minacciò l’ufficiale, con le mani salde sul calcio dell’arma.

Ma nessuno era rimasto a controllare Armday, che senza perdere tempo, abbatté le pesanti manette sulla nuca dell’ufficiale di carica più alta mandandolo al tappeto. Il vetro del tablet s'infranse allertando gli altri agenti. Uno di essi si voltò e sparò un colpo a bruciapelo, colpendo la ruota del veicolo rinforzato. Prima ancora che iniziasse a sgonfiarsi Armday era scattato in avanti travolgendo l’uomo che aveva sparato e un altro che era lì di fianco, con una spallata.
Prima che gli altri lo riempissero di buchi, prese il corpo tramortito dell’agente che aveva sparato e iniziò a strangolarlo con le manette. Lo stava usando come scudo.

«Se sparate, lui è un uomo morto!»

Uno degli uomini ancora in piedi sbraitò, impacciato, la presa sempre più spasmodica. L’altro tentò di mediare, abbassando cautamente la pistola.
«Non puoi allontanarti con quelle manette, Armday! Esploderanno... esploderanno automaticamente a trenta metri dal dispositivo, e lo stesso accadrà se vengono forzate! Mettilo giù e rinuncia... non puoi scappare».
Gli occhi del generale si strinsero.
«Quale? Quale dispositivo? Dove si trova? N’fa scherzi, che potrei fare follie, cazzo!»

Yunix ne approfittò per sgusciare alle loro spalle. Per fortuna, a causa della poca illuminazione, non l’avevano riconosciuto, nonostante fossero tra quelli della scorta che aveva portato lui e i suoi compagni giù da Infection.
“Sono dei servizi segreti, come quell’uomo sgradevole, dall’uniforme stracciata. Questo significa che contano solo su sé stessi e non sulle altre istituzioni, eppure questi sembrano alle prime armi. Forse il signor Nemikawa li ha scelti perché facessero un po’ di esperienza nei panni di carabinieri civili. Se così fosse... potrei persino...”

Muovendosi come una pantera, afferrò un pezzo d’asfalto sufficientemente grosso e lo sollevò con entrambe le mani.

«Devi startene buono, Armday. Vuoi aggravare la situazione?»
La cosa fece divertire alquanto il generale decaduto.

«Come se fosse possibile... Cosa c’è di peggiore di quel penitenziario, per Dio? Datemi il dispositivo, ora!» ruggì all’uomo brizzolato, che era teso come una corda di violino.
«Noi... nhHHH... vuoi farci morire tutti, eh? Non ti fermi mai, pezzo di merda!»
L’agente più giovane aveva perso il controllo, ma il collega lo quietò con un tocco sul braccio.
«Tieni salda la mira, Mirou, c’è di peggio di Aster. Tartarus... ti dice qualcosa questo nome? Sei sulla buona strada per...»

Un tonfo annunciò la mazzata di Yunix sulla testa dell’uomo.
«Aghhh..!» gorgogliando, il poveretto cadde riverso sulla strada.

«EHI, EHI! EHI! COSA..?» ruggì l’altro, voltandosi allarmato.
Armday ringhiò e gli scaraventò contro il corpo esamine dell’agente che teneva in ostaggio.
«Sogni d’oro, coglione!»
La testa del giovane urtò il margine della carreggiata e giacque immobile accanto agli altri.

«Ottimo lavoro» disse Armday, spazzolandosi via la polvere.

Yunix s’inginocchiò e raccolse istintivamente una pistola scivolata a terra. Il generale sogghignò e fece un passo avanti. Anche lui impugnava una pistola, strappata dal fodero dell’uomo che li cappeggiava. Se la puntarono contro.

«Sai che potrei ucciderti ora?» fece lui, ghignando.

Yunix avanzò, spiritato. «Lo so bene, ma tu faresti la stessa fine».

«E che problema ci sarebbe? Io mi sono preparato a morire fin da quando ho conosciuto quel satanico nanerottolo» esplose la voce pastosa.
«Lo so bene» disse ancora Yunix, spingendo la canna dell’arma contro la sua carotide «ma non per questo desisterò dall’agire. Sono il protagonista della mia vita, in fondo!»
Il generale non era minimamente turbato.
«Sai almeno come si usa quell’arma?»
Il ragazzo caricò il colpo con un fugace gesto della mano.
«Possiamo scoprirlo. Che ne dici?»
Armday lo osservò sorridere e spinse la sua pistola contro il suo petto. Yunix sentì il freddo dell’acciaio contro l’addome, anche sotto lo strato di maglia.
«Sai che non ti sparerò e io so che non mi sparerai, questa sì che è bella, per Dio!»
Il ragazzo si specchiò negli occhi ambrati, carichi di aspettativa, ma anche di una sorda, nefanda rassegnazione.
«Non a parole, magari, ma tu mi hai detto tutto, generale...»

«Già... sono un libro aperto per te» confessò lui, ammiccandogli, «non solo c’ho dato a mucchio col farti fuori, ma... cazzo... continuo ad essere un assassino che vuole smettere di vivere, e al contempo, nel profondo, continuare a vivere. Quanto male mi tocca fare prima che il rosso del sangue riempia il grigio della mia esistenza e il mio cuore arrivi a constatare che sono superfluo a questa esistenza? Dio mio! Che lo cancelli, grigio maledetto, perché mi tiene qui... a colorare... a colorare la vita di tutti... e ancora non vedo che rosso e grigio, grigio e rosso, non sono che quelli i miei colori... dimmi, satanasso, quale penoso artista usa una tavolozza con due tinte in croce?».

Yunix appoggiò le braccia giunte su quelle di lui: ancora stringevano i manici delle armi da fuoco, quasi necessarie al continuo di quella conversazione, altrimenti, poteva puntarci giusto un paio di scarpe, nessuno dei due avrebbe spiccicato parola, troppo il non detto che li divideva, troppo fresco l'icore omicida che li aveva avvolti in quel santuario congelato.

«Siamo così vicini alla morte e non abbiamo paura» sussurrò Yunix.

«È questo che ti stupisce, bastardo?» lo canzonò il generale, «n’ti sembra un poco strano che tu stia mostrando compassione per un villain di questo genere?»

«Per nulla» sogghignò Yunix, mostrando i denti, «mi sto solo godendo la vittoria per oggi. Ti ho proprio raggirato, eh?»
«Un trucchetto da principianti... su, vattene via. Io devo ancora fare i conti con questa stupida carcassa. Porta al tizio del fuoco e a quella delle piante le mie scuse semi-ufficiali».
«Per cosa? Li hai aiutati a crescere, no?» obbiettò Yunix, non potendo credere di essere nuovamente faccia a faccia con chi aveva tentato di ucciderlo.

«N’farmi ridere, discepolo di C&P. Li conosci a malapena, scommetto. E se non ti sbrighi ti ritroverai con un pugno di mosche in mano, in questa scuola schifosa. Il mondo è fatto così... c’è chi sprofonda e chi usa gli altri come scale per stare a galla».
«Tu non sei così».
Armday rise.
«Già. Chi mi dice che non sono uno che è già su fondo?» L’uomo sollevò di un poco l’arma, come se cercasse la via per il suo cuore, facendolo rabbrividire per il freddo del metallo. «Non ho mai conosciuto davvero chi mi stava attorno, non hanno mai significato niente per me. Ero lì, ero lì accanto a loro, ma un grigio baratro ci separava, me da loro e tra di loro altri baratri ancora. Eravamo già bossoli, tutti quanti, ma non ce ne rendevamo conto... Bah... quando sono finito in servizio, anni neri neri, non sapevano mai come trattarmi quei montati dei nostri superiori, eppure io in qualcosa ero davvero bravo, riesci a crederci?»

Yunix si sollevò sulle punte, per guardarlo meglio. Aveva un volto spaventoso, segnato da più cicatrici, abrasioni ed escoriazioni di un cadavere fatto a pezzi e ricucito insieme, ferite che nemmeno le sfere di ottone erano riuscite a cancellarle e anche così non gli provocava il benché minimo senso di disgusto.
«Tu... bravo in qualcosa? Illuminami» scherzò, iniziando a chiedersi se tutto quello non fosse frutto di uno strano sogno psichedelico.
Armday fece una roca risata.

«Insegnavo il messale a quelli della mia truppa... a modo mio ovviamente, però era un fottuto divertimento ogni volta. Persino a Elmer strappavo più di un sorriso... e lui rideva poco».
I suoi occhi si fecero lucidi, pensando al commilitone deceduto.
«Li hai davvero uccisi? Tutti i tuoi compagni? È per questo che sei finito in prigione?» chiese Yunix, dando voce a un dubbio che lo assillava da qualche ora a quella parte.

«Il mio plotone, intendi?» Armday sostenne il suo sguardo, anche se sapeva di aver toccato un tasto dolente. «Chissà... non direttamente, no. Forse li ho condannati io, forse era inevitabile, forse addirittura sono ancora qui per poterli vendicare... tengo sempre stretto il ricordo di quel viso malvagio, nel caso dovessi rincontrarlo... ricordo le mosche che gli ronzavano sul viso, ricordo quei viticci oleosi, simili al petrolio raffermo. Se lo rivedessi non esiterei: lui è il demone che più di tutti mi ha fatto soffrire. Sissignore... non esiterei più, lo attaccherei come ho fatto con quel bambino, sto’ pomeriggio a Infection, che stupidamente ho scambiato per lui». Armday strinse la pistola con forza. La sua presa era malferma, la sua faccia una smorfia di dolore. «Quando mi sei apparso, ormai anni orsono, e hai... e hai...» l’uomo sospirò, «quella notte ho pensato che era arrivata l’ora di pagare il conto. Invece, niente. Sono rimasto lì, a guardare il demone negli occhi, senza poter agire. E di nuovo, oggi, ho pensato di potermi redimere! Non con una guerra, ma con una promessa rispettata, invece sono ancora qui... non ho ottenuto niente, niente dico. Gesù! Se premessi il grilletto adesso, forse sarei ancora in tempo, ma non ce la faccio, nossignore».
La sua voce s’incrinava di più a ogni sillaba.
«Sarebbe così facile, basterebbe un click! Ma niente! Non ne vogliono sapere le mie dita di premere, non riescono ad andare a fondo! Non riescono a vendicare tutta la mia squadra, perché sanno che non la vendicherei davvero. E anche con ciò.... se sono nato per questo, se sono nato con l’amore per il mondo come diceva Elmer, perché non riesco a colorare la vita di nessuno, in nome di Dio? Perché le mie mani tremano quando impugnano il pennello!?»

Yunix sentì il sangue ribollirgli nelle vene.
«Non è così... non è affatto vero. Tu hai colorato la mia vita di verde, Armday». L’uomo sussultò. Migliaia di anni sembrarono scemare via dai suoi lineamenti vissuti. «Il verde di una pace duratura, che intravedi nella tua morte» continuò Yunix, incapace di tacere. «E di giallo, il giallo del sole, che tu guardi con occhi eroici», ce li aveva davanti ora ed erano più belli che mai, erano gli occhi di un dio, «e di bianco, nel modo in cui ripensi a un passato di angeli, e di arancione, perché hai affrontato le fiamme dell’inferno e ne sei uscito vincitore, e di blu, blu del cielo, dato che con i tuoi modi scurrili e schietti d’impartire insegnamenti, mi hai mostrato più mondi di quelli che avrebbe potuto mostrarmi un atlante, e di molti altri colori, perché mi hai mostrato cosa vuol dire combattere per un sogno, cos’è davvero la vita e cosa essere disposti a sacrificare per proteggerla».

Yunix sentì gli occhi gonfi, ma ancora una volta, le lacrime non vennero, ma vennero quelle di Armday, contenute, dolci. Sentì le due armi cadere a terra, quasi all’unisono. Sentì due braccia vigorose stringerlo, un odore di sangue misto a polvere, così acre da essere quasi inebriante. Rimase lì, sbalordito, ascoltando il delicato ritmo del suo respiro.

Il tutto finì in meno di qualche secondo, eppure parvero giorni. C’era da dubitare che fosse successo davvero. Nessuno dei due avrebbe saputo qual era la verità, perché una verità così assurda non poteva esistere in quel mondo, per Yunix crudele, per Armday sopravvalutato. Dovettero passare alcuni minuti, prima che i due fossero abbastanza in pace con loro stessi per parlare ancora, e anche così, un groppo in gola, un grumo di mille sensi di colpa, aleggiava dentro di loro.

«Verrò a trovarti, te lo giuro, ho bisogno di sapere... di sapere del mio passato... di sapere perché, perché sono un demone...»
Yunix aveva la voce rotta. Non aveva mai fatto così fatica a parlare.
Armday sospirò.
«Vorrei che fosse possibile, cazzo».
Il ragazzo impallidì.
«Cosa... intendi? Non vorrai...»
«No, io no, secondo te... ma, Dio non me ne voglia, ho fatto una promessa ai miei compagni di corridoio... e uno ha reso ben chiaro cosa sarebbe successo se avessi fallito. Non parlo di un paio di scaramucce... quella è gente stronza che le cose se lega al dito, e poi passa a legare qualcos’altro».
Il tono di voce era pieno di rammarico.

«Ma chissenefrega?» lo riportò alla realtà Yunix, «Ehi! Guardami! Scappa! Ora che sono tutti fuori combattimento...»
«Yunix»
«basta che trovi il fottuto dispositivo... dico... ce l’avranno in tasca... ecco... basta che lo trov-... oppure... oppure stava mentendo. Sì! Quel poliziotto prendeva solo tempo. Sì, dev’essere così».
«Yunix»
Il ragazzo non voleva ascoltare. «Perché no? Dimmelo! DIMMELO!»

Dopo lo sparo, le luci si erano riaccese nelle case buie. Già piccole porte, giù dal pendio si aprivano e donne in vestaglia si affacciavano ingrugnite alle finestre. Anche qualche uomo in canottiera faceva capolino sotto gli usci.
«Perché non andrei lontano, demone. Come non esiste alcun’esplosione, non esiste alcun dispositivo».
Yunix si aggrappò alla sua divisa.
«Come fai a dirlo?»
Il villain storse il naso, accennando un sorriso sdentato.
«Dio mio, è semplice... sono fottute manette d’arkastro... arkastro... a contatto con la polvere da sparo... puff , niente più minerale. E poi... sono anti-quirk, e per di più non hanno alcun meccanismo che consenta d’aprirle se ci prova il tipo che le ha addosso. Fidati, ci ho provato...»
«Te le apro io allora!» Si avventò sulle manette, ma appena le sfiorò l’uomo lo scansò con una gomitata, abbastanza forte da mandarlo carponi.
«Nossignore, caro demone... tu ora smammi il più in fretta possibile. Se ti beccano qui... se scoprono che hai cercato di farmi scappare, te lo dico io che non la passi liscia».
«Perché no? Perché non lasci che ti aiuti?»

L’uomo sbuffò forte, gli occhi levati al cielo. Non lo aveva mai visto così.
«Sono un villain... se mi liberi ora... non diventerai mai un Hero».
Yunix si trascinò ai piedi dell’uomo.

«Eroi, villain, che importanza ha!? Anche se appartenessimo a due schieramenti opposti, pensi che non ti libererei? Io scelgo per me».

Armday rise.
«Quanta sconsideratezza! E dire... che hai fatto tutta questa strada per scappare da ciò che hai fatto. Vattene, Yunix. Se Dio lo vorrà sopravviverò, altrimenti sarò ben felice di seguire il mio angelo custode. D’altronde, sono un soldato... e un soldato calca le orme di chi lo ha guidato».
«Sul serio? In qualunque recesso maligno sia piombato?»
«In qualunque, esatto. Qualunque cosa succeda, n’accetterò mai che sia tu a liberarmi. Non accetterò mai che un demone salvi un demone».
“Perché ora mente? Perché..? Ma non c’è verso... non lo farò desistere, non è uno che si arrende”.

Yunix annuì e si sollevò sulle gambe, senza lasciar trapelare alcuna emozione.
«Tra una settimana, una settimana e non di più, verrò a trovarti. Fai in modo di non crepare, capito?»
Incendiò i suoi occhi, sperando d’intimidirlo, ma lui rise ancora.

«Ormai i tuoi occhi non mi fanno più paura. So distinguere bene quando sei tu, e quando invece alberga in te il demone dagli occhi di ghiaccio».

«Intendi C&P?» domandò Yunix, mostrandogli il dorso della mano doveva aveva piantato la scheggia di pietra.

Armday alzò le spalle, avvicinandosi alla volante. Lo fece lentamente, senza dare l’idea di star veramente soffrendo. Uno degli agenti stesi a terra si stava riprendendo. Armday lo scavalcò istintivamente e salì sul sedile, gli occhi fieri.

«Per Dio, chi lo sa...»

 

Un gran numero di persone si stava precipitando sulla scena dalla strada sottostante.
L’uomo in uniforme grugnì, dolorante e alzò la pistola.
«Dove..?»
«Sono qui, fancazzista!» Armday era comodamente seduto sullo schienale, il soffitto quasi non lo conteneva. Rivolse un sorriso all’agente confuso. «Allora... volete accompagnarmi alla mia cella o no?»

Dopodiché adagiò la nuca sull’imbottitura, appagato. Smise di udire ogni suono al di fuori dell’abitacolo. “Che bel risvolto che ha assunto sta’ giornata. Mi sembra di essere invecchiato e ringiovanito di trent’anni, Dio mio! Eppure, siamo sempre daccapo... morirò o non morirò? Porterò guerra o pace? Sarò un angelo o un diavolo? La roulette russa decisiva... e non potrei essere più impaziente di partecipare. Come potrei non esserlo, ora che so di essere uscito da un mondo grigio e rosso?”
Il ragazzo dai capelli color caligine si era già congedato, quella piccola peste... nulla da fare... i più grandi erano così, non si arrendevano mai. Se doveva rimanere vivo per un motivo, era anche per quello. Voleva proprio vederlo trionfare... e poi cadere, come succedeva a tutti gli angeli... e a tutti i demoni.
 


Quando Yunix posò le dita sopra le sbarre del cancello a lance acuminate, si stupì di non percepire se fossero calde o fredde. Per logica, avrebbero dovuto essere gelide al tocco, ma era veramente stremato e probabilmente pure intorpidito. Non che gli cambiasse molto. In quel momento aveva altro per la testa e per di più odiava il pensiero di quello che sarebbe accaduto ad Armday di lì a pochi giorni. No! Non appena avesse ottenuto il permesso, sarebbe andato ad Aster e lì vi avrebbe trovato il veterano incolume. Non avrebbe passato la vita a dissezionare i pezzi del suo passato con un bisturi. Lui avrebbe avuto la verità, tutta in un colpo. Un Jackpot di memorie, sì!
I battenti si aprirono con un grave cigolio, quasi cogliendolo di sorpresa. Kane aveva ipotizzato che tre lune prima avesse ricevuto aiuto perché aveva la stoffa per essere un Hero. Non ne era ancora convinto, ma indiscutibilmente la porta non aveva cambiato idea. Non ancora, se non altro.

“Forse non sarò mai l’eroe che si aspetta che sia, ma ora in questa prigione ci sono dentro fino al collo, non per una mia vera scelta, ma comunque...” Yunix si mise a ridacchiare, come un matto in una camicia di forza, iniziando a percorre il sentiero lastricato, che conduceva al portone di legno tirato a lucido. “Ma in fondo non è quello che ho sempre voluto? Essere incatenato? Sognare mondi liberi? È un bene che mi sottraggano la libertà... è un bene che rimanga uno strumento, ancora per un po’, così che quando avrò l’opportunità di essere libero per davvero... potrò evitare di distruggere questo mondo”.

Sentì il movimento dei suoi piedi arrestarsi, quasi come se un astro avesse alterato la gravità terrestre. Però non si sentì fuori strada. Era sul sentiero giusto.

“Distruggere il mondo? Che pensiero divertente... solo che io non sono te, C&P... io sono un demone che guarda avanti, verso il presente, il passato e il futuro”.
Prese a oscillare a destra e a manca come se avesse ingurgitato litri e litri di birra. Chissà come aveva fatto Asia a tornare sobria in pochi istanti. Doveva ricordarsi di chiederglielo. Era una tecnica che avrebbe fatto comodo.
“Cavolo, Armday è veramente un personaggio comunque... non gli ho nemmeno chiesto se è cristiano, se ha raggiunto i cinquanta o...” seppe che stava per addormentarsi dove si trovava.
Incredibile. Non avrebbe nemmeno raggiunto l’ingresso? I suoi pensieri erano sempre più rocamboleschi.
“Wow, certo che sono proprio a metà... uno studente a metà... chissà che divisa mi daranno per differenziarmi dagli altri... metà e metà... magari”.
Assaporando quel pensiero zuccherato, si sdraiò sul terreno per un lungo e sostanzioso riposo, guardando un bel paio di calendule che si scambiavano occhiate amiche. Sempre più in fondo, sempre più in fondo...

«Prenderai uno di quei geloni che van via a fine ottobre in questa maniera, disperato che non sei altro!»
Yunix alzò gli occhi a fatica.

«Lasciami dormire, Hainard, anzi... ancora più bello, portami dentro in spalla».
Il controllore indossava un borsalino grigio e una tenuta arancio. Veniva direttamente da una festa tra i suoi dell’avanguardia, ci poteva scommettere la mano firmata dall’Infinity Hero.
«Scherzi, vero? Se sono qui, c’è un solo motivo» reagì lui, arcigno.
Iniziò a muovere compulsivamente il polso, aspettando che ricordasse qualcosa e Yunix in effetti ricordò. Ricordò il vero significato delle parole di quel controllore, quelle che lo avevano spinto a buttarsi dal cielo d’Infection come una stella cadente per tentare di salvare il bambino: «Se hai un Quirk, allora lo risveglierai. Non so quando, se in un comune momento della giornata o quando ne avrai davvero bisogno, ma lo sentirai dentro di te. E allora, quando succederà, vieni da me».

“L’ho risvegliato e ora...” Si rizzò in piedi.
«Cominciamo stasera?»

«Ben detto! Stasera comincia la mia redenzione, condita con una salsa forte di sforzi e fatiche, che tu metterai in campo ovviamente. Non ti chiederò se sei pronto, perché tanto delle tue scuse potrei a malapena farci su un libro e non ne varrebbe la pena, tu che dici? Quindi o segui me, l’orgoglio dell’HG, con le buone ORA, o dovrò ricorrere alle cattive PRIMA di quanto immagini, do you understand?»
Yunix fece un sospiro, messo all’angolo. In fondo, se l’era un po’ cercata.
«Fai strada, capo» soggiunse a malincuore, sperando che per la mattina dopo avrebbe avuto integri almeno un paio di arti.

Eh, sì... era arrivato alla rivoltante conclusione che quella giornata demoniaca non sarebbe finita mai.

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Capitolo 27
*** Una Strada per il Futuro - Parte Quarta: Oh vittoriosa! ***


Una Strada per il Futuro - Parte Quarta: Oh Vittoriosa! 


Chiazze rosse tappezzavano il viso terreo del villain, più propenso al dialogo ormai, piuttosto che a sprecare tempo a fare il gradasso. La cosa non le fece né caldo, né freddo. Se fosse stato in lui, avrebbe fatto lo stesso.
«Tchhh... c- c-... che cazzo di male, augh... non... non scherziamo, donzella! Con quale coraggio ti definisci una Hero, sporca...» tacque, annichilito dal suo sguardo, cosciente del pericolo.
Il suo respiro era inquieto, irregolare, qualcosa gli ostruiva la carotide. Rivoli di capelli celesti gli coprivano gli occhi, visibili tra le fessure di ciò che rimaneva della sua maschera. Si reggeva in piedi a fatica e tracce di sangue macchiavano le scarpe di camoscio, rubate con tutte le probabilità. Avrebbero fatto un figurone sulla mensola dei trofei di papà. Poteva recapitarglieli, sempre se avesse mai considerato l’idea di riaprire i ponti con lui... già, era più probabile l’annessione del Giappone e con un bel margine.
Intanto, seppur in quelle condizioni pietose, il villain aveva il coraggio di affrontarla a viso aperto, folle. Non che avrebbe preferito il contrario. Insomma, la faccenda così si profilava il doppio più interessante e lei aveva tutto il giorno libero.

Nell'immediato circondario, indipendentemente dalle loro azioni, la polvere bianca si levava sempre più, li costringeva al confronto, spandeva per la via immergendo tutti nella coltre sanguinaria, in cui si poteva essere solo predatori o prede. Il rumore dello scontro attorno a loro era un coro guerrafondaio, la caricava, la faceva sentire forte, potente, inarrestabile. Vide sé stessa negli occhi ansiosi del nemico, le mani chiuse attorno all’asta di bambù, serrate come se impugnassero uno spadone lungo sei metri. Non era sazia, neanche un po’. Tutt’al più contava sul fatto quell’uomo fosse solo l’antipasto e che il piatto principale si sarebbe presentato presto. Sentiva i muggiti del generale, che si faceva strada tra gli altri partecipanti per arrivare al suo compare di cella, ma nell’ipotetico caso in cui fosse riuscito a raggiungerla in tempo, avrebbe impartito pure a lui una lezione. No, non c’era motivo di rendergli la vita difficile, questione di secondi o minuti, il generale aveva le ore contate. Optò per farlo penare però: la morte doveva guadagnarsela.

«Avanti! Non permettetegli di arrivare al Coffe Bean Love! Non intende ucciderci, perciò abbiamo un vantaggio! Io mi occupo del furfante pusillanime che tiene in ostaggio il professore, voi fate la vostra parte!» Sentì i passi dei ragazzi che la oltrepassavano. Andavano a combattere per lei. Sollevò l’arma in segno di minaccia, spazzando via ogni illusione di salvezza che il povero disgraziato poteva essersi creato nella sua testolina. Tutta la sua spavalderia aveva lasciato il posto a un angustiato, vile, sguardo, che non la sottovalutava più, e a ragion veduta. «Il vostro piano procede a gonfie vele, eh?»
«Stai zitta. Non sminuire il genio manifesto di Armday, donzella».
«Oh, non mi permetterei mai, semmai il contrario. Colgo solo qualche falla qua e là, come, tanto per dirne una, la sciocca presunzione che ci saremmo fatti da parte e vi avremmo steso il tappeto rosso sotto i piedi. Criminali fa rima con animali, Ahrima, e io non tremo di paura di fronte a quattro lupacchiotti spelacchiati che si atteggiano da duri, men che meno se ho i mezzi per riportarli allo zoo a cui appartengono. Insomma, assassino, cosa si prova ad essere nei panni delle tue vittime, una volta tanto?» lo beffeggiò, accorciando la distanza che li separava, a poco a poco, cibandosi della sua rinnovata paura. «Pensavi che ci saremmo pisciati addosso dalla paura? Che non avremmo alzato un dito su di te o sul tuo amichetto Kurd perché siete dei senpai?  Ah, povera creatura. Sbagliato, sbagliato, sbagliato!» Piegò la testa all’indietro, per scacciare i capelli dalla fronte, incurvando le labbra, come se avesse raggiunto l’illuminazione. «Profondamente sbagliato!»

Senza neanche guardarlo, gli occhi rivolti all’intelaiatura di ferro, sferrò un colpo di rovescio così improvviso che Ahrima non riuscì a difendersi. Lo fece tentennare, tremare di dolore, ma con un grugnito astioso il villain restò saldo in piedi. Un segno rosso gli copriva entrambe le braccia: nel giro di qualche ora sarebbero diventati lividi e la ragazza era solo all’inizio. «Ferirmi non ha alcun tipo di senso, puttanella. Non vedi che sono disarmato?» tentò lui, mantenendo una parvenza di sfida nel timbro delle parole.
Asia gli assestò un pugno sul viso.
«È questo che dicevano le tue vittime prima che spegnessi via il fuoco che le animava?»
L’uomo bestemmiò irato, la voce quieta messa a dura prova, poi tentò di colpirla, ma lei schivò.
«Dannata HG, l’avevo detto ad Armday che non fuggire subito mi avrebbe portato solo guai...»
Lei lo ignorò e lo incalzò ancora con l’asta, inflessibile, aprendogli una ferita sulla guancia.
«Hai provato ad attaccare Vartimor alle spalle, mentre Tekken mi tratteneva, lo neghi forse? Tu non intendi cambiare, una volta che sarai uscito. Fai la parte dell’ergastolano riformato solo per convenienza, sii sincero con me e ammettilo, oppure... preferisci negare?» la calma con cui lo mise alla prova rasentava l’equilibrio totale di tutti i suoi sensi, ma nelle sue vene scorreva sangue nero. Sangue che chiedeva a gran voce vendetta.
Abbatté il bastone sul suo naso, facendolo grugnire di dolore.
«Sei piuttosto resistente, per essere uno scarto della società, ma sono fiduciosa che riuscirò a ripagarti per le malefatte registrate sulla tua ignominiosa schedina». L’uomo teneva a freno la lingua ora, ma continuava a tenerle testa, che ingenuo. «Da bravo, fatti estirpare come si conviene a uno della tua razza!» esclamò menando un sferzata devastante sulle costole, dato che ora con le braccia si schermava il viso.

Un’esperta conoscitrice dello Shaolin poteva colpire in ogni punto scoperto del corpo dell’avversario, senza perdere secondi preziosi a scegliere dove far arrivare l’attacco, questo era il bello dei lunghi bastoni kun, che compensavano il basso potenziale offensivo con una considerevole versatilità. “Con il bambù non è la stessa cosa, ma... sono convinta che riuscirai a ridurlo a una chiazza di sangue anche così, Shiena’q”.
Continuò a incalzarlo, diminuendo il tempo tra una mazzata e l’altra.
«Non importa tunk cosa copri, tunk ci sarà sempre tunk un frammento di pelle indifeso tunk su cui scaricare tunk tutta la mia furia!» L’uomo sputò sangue, le braccia levate per proteggersi. «Ahrima! Lo senti il peso delle tue vittime riempirti i polmoni adesso? Non sfuggirai mai a questa violenza! Sei scaduto da tempo in quella cella, sei più rancido del latte andato a male!»

Le mosse a segno iniziarono a fare effetto. Il villain fu accecato prima a un occhio, poi cadde in ginocchio, poi rialzandosi barcollò pericolosamente all’indietro, ma un colpo alla tempia gli ruppe la guardia, permettendole di calciarlo contro la parete del bar, e lei ancora non gli diede tregua, anzi approfittò del momento per trascinarlo in un vortice di furia omicida. Una tromba d’aria di colpi, che lo fecero guaire come un molosso alle frustate dei padroni.
«Sei solo... una...»
La ragazza concluse la sfuriata con un attacco pesante, che spezzò in due il diadema nero sulla sua fronte e lo fece ululare di dolore. L’uomo avvenente arretrò fino a che non fu spalle al muro, il respiro spezzato. La ragazza avanzò con una giravolta, sfoderando un sorriso trionfante.
«Dillo! Vai fino in fondo e scoprirò se la feccia perisce allo stesso modo delle persone normali! Dillo! Ne vuoi ancora!?»

Gli occhi sporchi dell’uomo luccicarono.
«La vera domanda...» rivoli di saliva misto sangue sgorgavano dalla sua bocca, «è se tu sei ne vuoi ancora, piccolo mostro...»
La ragazza gli mise il bastone alla gola, festante.
«Boss! Ma se speri di conquistarti la salvezza con l’adulazione, allora ti conviene cambiare approccio, in men che non si dica».
«Non puoi più nasconderlo, donzella...» Il villain sembrava al limite, il volto simile a quello di uno scheletro. «A te piace... a te piace colpirmi... guardati, dimmi se non ho ragione, cazzo!»
Asia vide il suo viso farsi smunto e al contempo tramutarsi in una smorfia divertita.
«Taci! Non è così!» L’uomo inarcò le sopracciglia, reggendosi a malapena in piedi.
«Sei una sadica... una come te non potrebbe mai professarsi eroina... non diventerai mai...»
«Taci!»
Il suo autocontrollo veniva meno, lo sentiva scemare nel vento di guerra.
«Sadica... matta da legare!»
«TACI!»
La canna di bambù sembrò reagire al furore. Roteò fra i suoi pugni contratti come l’ago di una bussola.
«Non vedi l’ora di farlo... fallo allora, fallo!» gridò Ahrima, terrorizzato.

Asia ringhiò come una tigre, sentendo la canna di bambù spezzarsi tra le dita.
«Non sai quello che chiedi!» I suoi occhi erano colmi di brace, vulcani in eruzione.
«Lo faresti comunque, sadica, pazza, sporca puttana!»
Il villain si mosse per saltarle addosso, spinto dalla forza della disperazione.
«Ora mi aggredisci? Pessima idea! Pessima, pessima, pessima, PESSIMA! Ti rendi conto che così non mi lasci scelta!?»
Il villain inciampò sui suoi passi, e Asia capì che non stava affatto cercando di attaccarla, lui era spaventato da lei, lui stava correndo da Armday. Lo acciuffò, per il mantello.
«Ehi, ehi, ehi, ehi! Dove credi di andare con questo cosplay da quattro soldi?» Non riuscì a reprimere un sorriso. «Non sapevo fossi un polletto!»
Lo sbatté contro il muro, ponendogli l’arma di nuovo alla gola.

«Per favore...» sputò sangue lui, il fiato mozzato. «Cazzo... Siamo pari adesso... io... il tuo professore... capisci che era solo questione di affari? È solo stordito! Si riprenderà, sì... Merito forse la morte?»

La mente della ragazza era lucida, come la prima volta che aveva varcato le porte del dojo. La sua risposta fu quieta e ponderata come la bonaccia. Immacolata, perfetta, concisa. La pronunciò con il sorriso sulle labbra.

«Sì, la meriti».

Agì. Non pensò a nulla. Agì e basta. Una repentina serie di stoccate, colpi così forti da aprire buchi nel torace, nella pancia, sul bel viso.
«ORA FAMMI IL FAVORE DI CHIUDERE QUELLA FOGNA DI BOCCA!»
L’uomo sussultava, preda inerme della scarica di attacchi frontali, letali come i proiettili di una mini-gun.
“Ti ha provocato lui! È come se si fosse ammazzato da solo! Non è vero, Asia? Non hai colpe per questo, no, certo che no. Lui e la sua boccaccia...”
S’interruppe per prendere fiato, e per contemplare la sua opera, ma un movimento imprevisto nella mano guantata dell’uomo la costrinse a cambiare i suoi piani.
«Cosa credi di fare?» ridirezionò l’asta e gli bacchettò forte le dita, al modo di un’intransigente insegnante del Novecento, gliele spezzò e il contenuto rotolò ai suoi piedi.
«A-ha!»

La realtà dei fatti spense la smorfia che aveva stampata in faccia. Un pennello mezzo intinto. Il colore era della vernice era blu, ma l’asticella era sporca di sangue.
“Vart” Alzò gli occhi, e si tappò la bocca, costernata. “Cos’ho fatto? Cos’ho fatto? Non posso essere stata io!”

«Myr-a-w...» il viso impiastricciato del villain si era trasfigurato in quello di un ragazzo molto più giovane, dagli occhi neri, dal sorriso cangiante, o era sempre stato lui?

«Perché non c’eri? Quando avevo bisogno di te... non c’eri, tu non c’eri!»

No, lui no. Perché la perseguitava? Perché era costretta a guardare quei capelli color della grafite punteggiati di spilli, simili a frutti di bosco? Perché?
«Non è affatto vero... non è vero... sei tu... sei tu che sei scappato. Sei tu che mi hai lasciato... me lo ricordo... nel tuo studio... con solo i tuoi quadri a farmi compagnia! Insomma... io non avrei mai... sul mio onore... io...»

Ma gli occhi del ragazzo erano diventati lattiginosi. Una melodia estenuante la tormentava.

Tutto solo soletto, piccolo, inetto, cavalier perfetto, trallalà. Ha perso la volontà di vivere, senza di te. Tutto solo soletto, piccolo, inetto, cavalier perfetto, trallalà. Trovò la morte senza di te...

Le mani cadaveriche di Vart le ghermirono il viso.
«No... io...».
«L’ultima opera era una natura morta, colori acrilici, forte chiaroscuro, passione astratta resa concreta, effige stessa del nostro gemellaggio. Ti piaceva così... così tanto... non puoi averla scordata, Myraw, io so che te la ricordi... sul mio onore» parlava veloce ora, come se il suo tempo fosse agli sgoccioli.

“Lo sai bene che l’hai lasciato tu. Perché riscrivi la storia a tuo piacimento? Non sai quanto tremendo è stato il suo destino dopo la tua ignobile scenata?”

La ragazza pianse guardando negli occhi il suo antico amore, il suo primo amore, il suo unico amore.
«Non avere paura... viviamo assieme ancora, Shiena’q» balbettò lui, la bocca traboccante sangue.
Cercò di allontanarlo con il bambù, ma l’arma affondava nella carne incorporea senza opporre resistenza.
«Sei vivo... tu sei vivo! Non sei un cadavere! Vivi, vivi lontano da me!»

Un respiro tremulo soffiò delicatamente, sollevando le ciocche dei suoi capelli castano-rosati.
«Se è... questo... che vuoi...»
«Aspetta... no!»
Vart distese le sopracciglia sottili, come ad augurarle buon viaggio, sorrise gentile, le asciugò le lacrime con le mani gelide e la lasciò andare.
«Sono il tuo più grande fallimento» la frase non proveniva da lui, non solo da lui, perlomeno.

Tutti i ragazzi, anche il generale erano voltati verso di lei. I loro occhi erano inquietanti, indagatori, ma la voce, pure irriconoscibile, altisonante, era quella di Vartimor Khan.
Lo vide allontanarsi, rimpicciolire nella vetrata del negozio. Quadri, quadri riempivano gli scaffali e le mensole, ma erano grigi, non c’era nulla di raffigurato sopra. Incompiuto! Incompiuto! Parole tormentose gli fischiavano nelle orecchie. Asia si soffocò il viso nel braccio, per non dover guardare, ma subito l’arto si gonfiò all’improvviso, ingolfandola. Carne contro carne. “Giant Arms!”
Sentì la carne pressata sulla sua pelle. Impossibile muoversi o parlare, impossibile respirare.
«Ma in fondo che ne sai te! Non ci conosci. Non sai perché siamo nella posizione in cui siamo». “Ahrima...”
«Smettila con questo stupido desiderio di fare del male!» “Vart, io... cos’è che ti ha cambiato così tanto? Perché non ero lì a proteggerti?”
Sentì la raspante risata di Armday. «Siamo simili, noi due, non trovi? Sai cosa intendo, ragazzina. Il nostro spirito combattivo. La nostra capacità di adattamento. E soprattutto un Quirk mediocre, già portato al massimo». “Ignoranza, mediocre, fare del male...” la sua testa scoppiava. “Ignoranza... mediocre... fare del male...” C’era una sagoma dal profilo arancione vicino ai suoi piedi. “Riesco a vedere?” Un triangolo? “Fallimento? Falli-” Le persone implosero dall’interno, in una bufera di tendini, budella e sangue, la sua stessa pelle le riempì la trachea, affogandola, in un requiem di organi e violini fatti d’ossa umane.
Asia si svegliò di soprassalto.


Per i primi istanti si limitò a battere i denti, tenendosi le ginocchia al petto, dondolandosi avanti e indietro, per scacciare i residui del sonno travagliato.
«Merda» il suo sussurro si perse nel silenzio della stanza. Fredde gocce di sudore avevano creato un alone sul cuscino e anche le coperte spiegazzate erano fradice. Si tirò su le maniche attaccaticce, poi tenne le braccia incrociate, prendendo boccate d’aria man mano più profonde. Che freddo! Aveva timore di muovere i piedi, di sbattere le palpebre. “Che ore sono? Sembra ancora notte a giudicare dalle tapparelle...”
Di tornare a dormire non se ne parlava. Sbuffò, tremante, allungando le mani verso il cuscino, che si strinse al seno. Le sagome degli oggetti nella sua stanza divenivano più visibili, mentre i suoi occhi si abituavano al buio, ma per un po’ non riuscì a distogliere lo sguardo da alcuno di essi. Erano troppo veri... troppo reali... come anche il suo incubo lo era stato.
«Fanculo... che notte di merda...»
Non avrebbe mai immaginato che il suo primo giorno di scuola sarebbe iniziato in quel modo.
Una vibrazione forte vicino a lei le mandò in tilt il cervello per qualche secondo. Temette di essere stata catapultata indietro nell’incubo. Ma era solo il suo cellulare. Lo afferrò meccanicamente e la luce blu le abbagliò il viso.
Lo lesse con la voce dell’otome che l’aveva scritta, sentendo una forte nostalgia stringerle il petto.

– Arigato Asia. Arigato. siamo felici della buona nuova. Pure Memè sorseggia il sakè, e lei odia oriente. A casa bene. Porta avanti l’onore Shie’q... chiama tuo padre appena riesci ;) –

Quando arrivò alla parola padre, tutta l’emozione s’incenerì, come un foglio di giornale in un braciere e tornò la paura, e tornò il rigetto. “Neanche morta... neanche...” Si mise una mano davanti alla bocca. Un conato? Si piegò subito a destra del letto e lasciò che il suo corpo espellesse le mal digerite leccornie della sera prima, anche se aveva a malapena toccato cibo. Ansante, rimase aggrappata al bordo del materasso, senza sapere dove posare lo sguardo.
“Così... ripugnante...” e non sapeva se si riferiva al rigurgito o al messaggio.
Avvolta in una paura fottuta, si pulì le labbra con un lembo del pigiama, poi si rigirò nel letto, seppellendo il telefonino sotto di lei, indecisa se presentarsi in quelle condizioni a lezione.
“Calma, Asia... i tuoi insegnamenti antepongono il benessere spirituale a tutto il resto... continua a fare dei bei respiri e tutto andrà per il verso giusto. Non è successo niente, niente che tu non possa sconfiggere... hai un posto qui... sei arrivata seconda e non hai fatto del male a nessuno, a nessuno. Ripetilo, da brava. A nessuno. A nessuno”.

Iniziò a mormorare quelle parole, anche se non serviva a nulla e pian pianino il suo respiro rallentò. Lasciò che il tempo scorresse, senza tenerne traccia, poi quando finalmente le prime luci filtrarono attraverso le persiane, si sedette sul bordo del letto e scavalcando la pozza di vomito, si precipitò ad aprirle.
La luce del giorno fu come un sorso di cioccolata calda. Il suo cuore si mise a rintoccare di gioia e i richiami degli uccelli furono come deliziose campane nel giorno di Qin, l’imperatore divino.
“Ormai è mattina: nessun incubo o spirito penetrerà le mie difese, finché le stelle dormiranno”.

Quasi danzando, fece un salto al bagno, dove si dette una dovuta strigliata e si pettinò persino i capelli, cosa che tendeva a non fare spesso per non infastidire il Golag Minore, più burbero che mai quando uno dei devoti accennava alle facezie del corpo, al takeaway o anche all’inoffensivo trading pre-black friday.
Si munì di phon, straccio e scopa e tornò al letto per dare una bella ripulita.

Ci mancava solo che lasciasse sporco un appartamento in cui avrebbe dormito una sola notte.
Come poi quaranta e più appartamenti potessero coesistere in una villa come quella, beh, riguardo a quello Asia non poteva che fare congetture, ma aveva già capito che nella logica il diavoletto della Tasmania di nome Coal era più versato di lei. Insomma, lui ce l’aveva avuta un’istruzione istituzionale. Cercò con gli occhi il telefono, caduto nelle pieghe della coperta sfatta e scosse la testa. “Neanche per idea, papi... ne passerà di acqua sotto i ponti prima che tu abbia mie notizie. Ora che sono fuori dalla tue grinfie, sboccerò a modo mio, non come le tue sgualcite orchidee”.

Cercò in tutti i modi di non ricadere con la mente sul brutto sogno, ma come avrebbe potuto scacciarlo via del tutto, considerando che di lì a poche ore, con un buon 50% di probabilità avrebbe rivisto Vartimor Khan? Non le era sfuggito il suo inaspettato posizionamento al test, addirittura quattordicesimo. Era stato il primo nome che aveva cercato dopo il proprio. Non l’avesse mai fatto. Come minimo era stato quello a impensierirla prima di chiudere gli occhi e così le sue preoccupazioni avevano alimentato quella crudele visione ai suoi danni. “Mi ha abbandonato lui, me lo ricordo come se fosse ieri”.
Ora si stava pentendo amaramente di aver sospirato di sollievo quando aveva visto che era risultato tra i vincenti: con uno così attorno, i sogni non sarebbero certo mutati e non poteva neanche concepire l’idea di passare un’altra notte in quello stato barbarico. Quell’idiota.... non ci aveva nemmeno provato a farsi ammettere, eppure, con qualche espediente da artista di strada quale era, era riuscito non solo ad accaparrarsi un buon risultato sul filo del rasoio, ma anche la sua commiserazione.
Verosimilmente, seppur detestasse l’idea con tutta l’anima, c’era riuscito perché aveva salvato lei dal finire fuori combattimento, all’arrivo dirompente di Armday nella stazione dei tram. Quanti punti poteva valere un’azione disperata di eroismo verso la ragazza dei bambù letali che si era piazzata al secondo posto? Certe volte avrebbe davvero voluto essere meno di successo, così magari gente come Vart non l’avrebbe usata come trampolino. Non importa se era qualcosa di premeditato o meno: lei avrebbe dovuto comunque convivere nella sua stessa scuola, e mangiare allo stesso desco, sotto lo stesso tetto.
Ecco, stava pensando di nuovo a lui. “Sono il tuo più grande fallimento...”

Asia si morse il labbro.
«Smettila, Shiena’q, ricorda perché ti trovi qui».
S’inginocchiò sul tappeto, perlustrando le zone che con la scopa d’ebano, tantopiù con lo straccio, non aveva potuto raggiungere e sospinse fuori la polvere. La potenza del suo soffio era incredibile, forse è per quello che era così brava a suonare la fisarmonica. Lin era solita dire che era un talento di famiglia, ma Asia non aveva mai visto suo padre cantare, figurarsi suonare strumento. No, semmai era il suo Quirk vegetale a dargli quel talento da quattro soldi.
Intascò i suoi dodici fukusasa, uno per ognuna delle otome di suo padre, che aveva disseminato per il pavimento prima di buttarsi a letto. Era stato lui a inculcarle nella testa che bisognava tenere quei rami di bambù dorati a guardia del beddomaza tutte le notti perché contrastassero le cattive influenze dei quirk elementali. Lei però non lo faceva per quello, non era mica una fanatica: a esser sinceri, le piaceva pensare che in quel modo, anche quelle povere dodici anime venissero con lei, che si liberassero dalle catene invisibili del padrone del dojo e avessero la chance di una vita nuova. E nella sua cultura una chance era il dono più prezioso che la legge del karma poteva offrire.
«Statemi accanto, come avete sempre fatto» mormorò stringendone una nel palmo. Era ruvida, ma per qualche ragione si lisciava sempre più, stava diventando una superficie liscia, come l’elsa di una spada.
«Sadica!»
La ragazza si afferrò il polso, presa dalla rabbia.
«No... non faccio del male per divertimento, è contrario alla mia etica».

Prima che potesse muoversi per indossare le calzette fuxia sferruzzate nel primo Ferragosto dalla madre, notò la porta del bagno aperta.
Che strano. Di solito la chiudeva sempre.

Divenne subito guardinga, ma non osò muoversi, e chiunque si celasse dietro quella parete di piastrelle la imitò, perché non un singolo suono giunse alle sue orecchie acute. Il lavandino non era stato chiuso bene, gocciolava. Goccia dietro l’altra, il ciocco che faceva era sempre più forte, era insopportabile. Faceva fatica a tenere gli occhi aperti, ma non avrebbe osato sbattere le palpebre, né ora, né mai. Quell’angolo di 110 gradi formato dalla porta rimaneva lì sul margine della sua cornea, ed era più terrificante di qualunque nemico dei suoi incubi, ma di un terrificante quieto, maledettamente personale.

Ricordò all’improvviso le parole di Armday: «Variabili, ragazza. Non ho paura di te, ma di ciò che non riesco a vedere, oh sì... oh sì che di quello ho paura».

La ragazza ebbe un attimo di esitazione poi digrignò i denti, fino a sentire le gengive sanguinare.
«Giammai, non sarai vittima della paranoia, Shiena’q! Datti una svegliata, non c’è nessuno lì!»

Fu così persuasa delle sue stesse parole che quando una voce spensierata le rispose da dietro la porta, rimase totalmente spiazzata.

«Oh, ragazza, ti stupiresti del contrario». Il tono sdolcinato si caricò di beffarda supponenza. «Come posso dire? Vengo a farmi un tour delle suite femminili e trovo subito una reduce di ptsd in stato aggravato. E hai anche avvertito la mia presenza! Nope, salute cara, non voglio avere a che fare con quelle come te, non finché non mi arrivano gli assegni quaresimali, nupe nap».
Asia schizzò in bagno con non una, ma ben tre stecche pronte tra le dita, ringhiando a ogni angolo, dalla doccia al gabinetto, ma non c’era nessuno.
«Come sarebbe a dire tour!? Fatti vedere, chiunque tu sia!»
«No, spiacente, preferisco attendere il secondo anno per mostrarmi agli allievi, una misura di sicurezza in più non fa mai male, nope, nope».
La voce proveniva dallo specchio, ma quando lei vi si affacciò con grinta vide solo il suo viso ingrugnito.
«Chi sei? Dove ti nascondi? Hai almeno...»
«Normalmente» le parlò sopra il misterioso essere con la medesima voce spocchiosa da capogiro, «eviterei anche di parlare ai primini, ma tu hai catturato il mio interesse, quindi, per un fiore all’occhiello come te, la mia voce è a tua completa disposizione, sempre che tu lo voglia».
Asia sentì un picchiettio insistente alla nuca, vicino al collo e con mano lesta afferrò ciò che lo stava provocando.
«Pessima idea provare a...» ma girandosi rimase di sasso. Il suo spazzolino da denti? Ma non c’era nessuno a impugnarlo. «Cos’è, sei invisibile?» interrogò Asia, iniziando a tastare l’aria con le dita. «Ti diverti a prenderti gioco di me?»
«Un pochino, sì...»
La ragazza strinse i pugni, irritata. Questa volta la presenza parlante e fastidiosa era intorno all’intonaco del soffitto.

«Scus. Scus» si giustificò lui, «non lo faccio apposta eeeee... non sono invisibile se ancora avessi in testa questa malsana idea. A proposito, bei riflessi, madame, e sappi che stimo molto la tua progenie. Anch’io mi definisco giapponese fino al midollo».
«Io non sono...»
«Giapponese? Oh, sì che lo sei, sì che lo sei. Altrimenti come spiegare tutti quei bei portafortuna dal sapore orientale?»
Nel beauty case che aveva a tracolla il peso dei fukusasa si alleggerì all’improvviso come se un magnete li stesse trascinando fuori. Infilò una mano nella sacca per assicurarsi che ci fossero ancora tutti e dodici.
«Da quand’è che mi stai osservando?»
«Te l’ho detto, son' appena arrivato, ma ho tanti occhi, e so cosa alberga nella mente delle personcine che mi abitano, o se non altro posso farmene un'idea».

Nella testa di Asia si accese una lampadina.
«So chi sei. L’uomo più longevo del mondo... quello che ha fuso sé stesso con una stamberga».
Il soffitto tremolò.
«In persona, o forse dovrei dire in carne ed ossa. Aspetta! Nah, non corrisponderebbe al vero. Diciamo che sono là... e là... e anche laggiù, però sono anche qui con te».
«Quindi è qui che hai trovato rifugio perenne...»
«Sì e no, stramba ragazza. Cioè, io ci metto il mio per tenerlo segreto, ma dai... è così scontato. Sembra di guardare un episodio di Sherlock, anche se sono largamente più affascinante». «Non divagare! Ti ricordo che mi stai tutt’ora spiando e non terrò la bocca chiusa su...!»
Uno spruzzò d’acqua s’innalzò come un gayser dalla tavoletta del water.
«Ehhh, che esagerazione, mamma mia, “spiando” è un parolone mica da ridere... bom, bom, te lo dico se prometterai di tacere questa presunta “invasione di campo”. La stamberga di cui parla il mito su di me è in effetti l’HG, e ormai è un bel po’ di tempo che la abito, tipo una vita intera... nope, fai anche due vite intere. Quindi sì... in un certo senso è qui che ho trovato rifugio, però di fatto sono io il rifugio, sono io HG. Io sono il fondatore di questa accademia per Heroes!»

La voce fece una pausa più lunga del normale.
Asia non batté ciglio.
«E...?»
Una forte vibrazione scosse tutti quanti i soprammobili.
«“E”? “E”? Cosa “e”, vezzosa rincitrullita? Ti ho appena detto che sono...»
«Il fondatore dell’HG, bla, bla, bla. E allora?»
La voce perse tutta la rilassatezza che aveva mantenuto fino ad adesso.
«Nessuna reazione sorpresa? Davvero? Ma lo sai che ai miei tempi questa sarebbe definita mancanza di rispetto, carina?»
«Risparmiami le frasi da boomer che cerca di stare al passo coi tempi. Lo sai? Francamente mi sorprende che tu ti sorprenda che io non sia sorpresa... cioè... insomma hai capito. Nel senso, ok, bravo, sei fuso a questo edificio in particolare e allora? Probabilmente lo sa mezza Temigor e prega solo che non giunga alle orecchie di mio padre».

La ragazza posò il palmo sul lavabo, gli occhi bassi.
«Se ti dicessi che lui ti sta dando la caccia?»
La stanza subì un altro scossone.
«Ullallà, che novità. Più o meno metà del Giappone mi sta perseguitando e la Cina pure, ma almeno quei geni verdastri lo fanno con stile. Che c’è piccola? Nutri forse cattive intenzioni verso un vecchietto come me? Nessuno può scalfirmi in ogni caso: è per questo che non mi presento mai in forma umana agli studenti del primo anno. Non si sa mai chi si potrebbe nascondere tra le fila delle mie eroiche pecorelle».
Asia si morse il labbro.
«Non nutro rancore verso di te, non sono mio padre».
«E questo è un bene. Ti ho detto che stimo la tua progenie, ma a esser sinceri tuo padre non è esattamente compreso nella mia visione d’insieme. Com’è che si dice? Oh, sì, ecco lui la considero la pecora nera della famiglia se la cosa non ti offende».
Asia scosse lentamente il capo. «No, neanche un brividino».

«Appost allora! È stato un piacere conoscerti, madame, tanto se anche provassi a farmi fare bye bye io mi limiterei a sigillarti in una stanza a -30° per il resto del trimestre. Boomer o no, resto impenetrabile, non puoi uccidere una villa, nada de nada. Oh, e non dilungarti a parlare del nostro colloquio. Non è una cosa frequente, per non dire che non accade mai. Se si sapesse del nostro abbocco tu per tu, temo fortemente che ci rimarrebbe male qualcuno e lungi da me voler spezzare il cuore a delle fanciulle del secondo e terzo anno, che hanno avuto l’onore e l’onere di stringermi la mano».
La stanza fu attraversata da una specie di riverbero. Tutti gli oggetti si sollevarono e tornarono al loro posto.

«Solo un attimo, signor...»
«HG andrà bene, yep, sputa il rospo, vai vai» ribatté la voce pedissequa precisamente nelle sue orecchie, chiaramente desiderosa di andarsene.
Asia misurò il proprio tono, cercando di essere il più diretta possibile.
«Come fa a sapere che nessuno del secondo anno la tradirà? E... perché si è fermato a parlare con una come me?»
Lo sportello di fianco allo specchio si spalancò facendo rovinare sul pavimento un ammasso di bastoncini ovattati e cotton fioc, assieme a insolite gemme di topazio. Insolite in un bagno almeno. “Significa che è innervosito dalla domanda? O forse da me?”
La ragazza era sicura che prima lo scaffale fosse vuoto.

«Tsk tsk tsk. No... così no eh. Dammi del tu, ragazza, come hai fatto poco fa: non sono ancora un vostro professore. Siamo complici, fratelli d’arme, se ti va, yup, yep. Mi chiedi come faccio a fidarmi? È semplice: non mi aspetto di avere più di tre ragazzi per classe al secondo anno, quindi il rischio è calcolato».
«Tutto qui?»
La voce accennò una risatina.
«Sì e no. Qui partoriamo eroi, Asia Shiena’q, non Heroes, e-ro-i. Riflettici su», fece un’altra pausa «oh vittoriosa».

Fu così che si congedò, lasciandola attonita ancora mezza svestita. Sbuffò stringendosi le braccia al petto. Sulla superficie dello specchio c’erano nitide impronte di dita, forse aveva ancora un corpo quell’uomo straordinario. Certo, le aspettative che si era fatta di lui erano colate a picco dopo averlo incontrato, ma rimaneva un soggetto formidabile, braccato in centinaia di stati per le sue presunte malefatte.
“Ironico che viaggi nelle pareti di una scuola per eroi. Chi verrebbe a cercarlo qui?”
Si morse un labbro, guardando la sua espressione stanca nello specchio ovale.
«Pervertito».

«Boooh, ti ho sentito!»

«Fuori dalla mia stanza, professore» sbottò alla doccia. «Non mi interessa un fico secco se sei un docente, puoi pure andartene al diavolo!».
Ma era già sparito. Una carrellata di camere l’attendevano, per il suo fantomatico tour.
Piuttosto, si domandava se era in grado di ascoltare tutte le conversazioni che avvenivano nella villa senza dare di matto. Insomma, erano pur sempre un centinaio in quell’edificio, forse meno, stando a quante persone venivano cacciate dall’istituto, ma comunque, se l’uomo era onnipresente in ogni parete, le sue “orecchie” dovevano essere stracolme di sciocchezze, che, si sapeva, erano sempre sulla bocca dei ragazzi di quell’età, anche se aspiranti Heroes, soprattutto se aspiranti Heroes. Ebbene, ora che sapeva che sarebbe stata osservata giorno e notte da quella presenza irritante, sicuramente si sarebbe sentita più a suo agio. “Almeno non ho perso il senso dell’umorismo”.

Si vestì, anche se era ancora piuttosto presto, e accese uno stock d’incenso, risparmiato dalla scorsa cerimonia, per coprire l’odore pungente di vomito e sudore, che sperò fosse solo frutto della sua immaginazione. Ci teneva a lasciare immacolate le cose che non erano sue, a maggior ragione se date gratuitamente. Anche quello era parte della sua etica.
Scelse una linea di vestiario basilare. Un paio di jeans, un dolcevita rosa e dei fermacapelli a forma di gabbiette in legno di ciliegio. Voleva fare una bella impressione, non oscurare gli altri. Anche se il format del percorso scolastico sarebbe stato una competizione senza esclusione di colpi, voleva che i suoi compagni potessero contare su di lei e che lei potesse contare su di loro: altrimenti che senso avrebbe avuto chiamarli tali. “Per fortuna la divisa è opzionale”.

Uscì con tutte le sue cose, che depositò amabilmente nel solarium su cui si affacciava il piccolo appartamento munito di bagno, cucina e gabinetto, che avevano disposto per lei. A quell’ora non si aspettava d’incontrare nessuno. Le lezioni sarebbero iniziate entro quattro ore di lì a quella parte e tutti avevano bisogno di dormire per recuperare le forze, in particolare quelli che avevano fronteggiato il soldato pazzo. Per ingannare il tempo, Asia si mise a esplorare la magione, il cui stile singhiozzava nel tentativo di uniformarsi a una sola epoca storica, raccontando invece secoli e secoli di storia e fantasia. Se avessero incaricato un geometra di disegnare la planimetria dell’edificio, probabilmente sarebbe andato in crisi, cercando di evidenziare la sfilza di scale a chiocciola che portavano nel nulla cosmico, tentando di rappresentare in scala delle stanze che in qualche modo schizzavano da un cubito per lato (letteralmente tane per topi troppo cresciuti) a poter contenere intere arene da combattimento, o colossali portaerei per quanto erano spaziose.
Alcuni prodigiosi anche se rari cartelli indicavano la via per quelle sale che Asia presumeva rimanessero fisse e non fossero giocattoli di sfogo per HG (perché era chiaro che era lui ad aver il potere di alterare la realtà di quella villa a piacimento), come la cucina, le classi, la presidenza, gli alloggi dei professori, il laboratorio, la mensa, la cantina, e poche altre che però la misero piuttosto a disagio come la cosiddetta “Sala massacri”, “Neon Discovery” o ancora “Elflandia” e (per qualche ragione la più preoccupante) “Il posatoio del cucciolo di Hearth: possibile redazione di testamento precauzionale all’ingresso”.

Per cercare di orientarsi, lasciava qua e là dei segni con un pennarello, così minuscoli che poteva notarli solo lei, ma anche così aveva il non così vago sospetto che per dispetto HG li cancellasse non appena girato l’angolo, giusto per mandarla in confusione e asserire che, sì, nessuno poteva sconfiggere quella scuola formidabile, impenetrabile all’esterno e incomprensibile all’interno.
Nessuno, se non lei, perché dall’alba al tramonto, per anni e anni, suo padre l’aveva sguinzagliata contro nemici imbattibili e per ogni centinaio di volte in cui era collassata, c’era sempre stato quel singolo trionfo, che era valso più di tutti i fallimenti. Fighting Past: il Quirk di suo padre era stato temprato in una fucina celeste e lei ne aveva pagato il prezzo, e anche se ora a riscuotere le tasse poteva indiscutibilmente essere lei, usuraia di spiriti, il destino se l’era scelto da sola, quella scuola se l’era scelta da sola. “Ho perso così tanto, che ora che ho cambiato rotta non accetterò che il timone ruoti a proprio piacimento. Lo intaglierò con la mia storia, mia e solo mia, e non perderò mai più. In altre parole, ritieniti fortunato, HG, perché se solo lo volessi sfascerei questa scuola come una casa delle bambole. È una vera fortuna che sia dalla parte dei buoni”.

E ancora una volta l’immagine di Vart gli sfolgorò in testa, come un fulmine a ciel sereno.
«Ritiriamoci, Myraw... Hai ottenuto abbastanza punti. Che ragione c’è di combattere più del necessario?»
Non era così, non era mai stato così. In passato, lui, a differenza di lei, non perdeva mai, non era mai afflitto o sovrappensiero. Tutte le sere, quando tornava malmenata ed esausta nella sua casa abbandonata da Dio, in cui persino suo padre rifiutava di mettere piede, lui era lì, assiso su quell’elegante davanzale illuminato, simile a un bardo. E gli acquerelli imbrattavano la tela dando vita a picchi illuminati dagli astri, a pinete incendiate di fuochi vespertini, donne misteriose dalle fattezze abominevoli, seppur splendide.
Mentre lei si leccava le ferite, dominando le emozioni nel buio del disordine che aveva in testa, lui le imprimeva su quel quadrato di stoffa, lui le incideva come fossero rune su armi magiche, la stessa rabbiosa furia che lei aveva in corpo, lui sapeva imbrigliarla e accantonarla per esprimere ciò che c’era in profondità, che i marosi, le onde più calme tenevano relegate nel suo spirito. Così Asia viveva la disfatta di giorno e il successo di notte, in un avvicendarsi crudele, che non faceva che offuscarle la mente, fino a che Vartimor Khan non se n'era andato una volta e per sempre, convincendola che forse era sempre stata un semplice disegno e niente di più.
Stava divagando ancora, quello che contava era la meta.

Girò un angolo e s’imbatté nell’ultima persona che avrebbe pensato d’incontrare, girando a zonzo: Yunix Braviery.
«Ciao, anche tu sei un tipo mattiniero?» Il ragazzo dai capelli grigi era accovacciato. Con una mano teneva stretta una biro, con l’altra si grattava ossessivamente un orecchio. Non sembrò fare caso a lei, né parve che si fosse accorto della sua presenza. «Ehm... tutto bene, Yunix?»

“Mi sa che la nottata non è stata brutta solo per te, Asia”.
Il ragazzo era stranamente distante, in maniera diversa dal silenzio sofferente della sera prima. Era come se... Il ragazzo volse lentamente il viso verso di lei, guardandola con diffidenza.
«Ciao... com’è che sai il mio nome?» domandò a bassa voce, come temendo di disturbare qualcuno.
La ragazza rimase paralizzata.
«Sono... Asia. Sai... quella del test».
Il ragazzo cliccò due o tre volte sul tappo della penna prima di reagire.
«Oh... già, il test».
In stato confusionale, si tirò su in piedi e si appuntò qualcosa sul braccio. Fu rapido, ma non abbastanza rapido. Asia non esitò e scoprì la manica della maglietta, rivelando un assurda infestazione di frasi, scritte l’una sull’altra.

«Oh mamma, tu hai bisogno di aiuto. Cosa sarebbe tutto questo?»
Yunix sottrasse il braccio alla sua presa, ridacchiando innocente.
«Ma è chiaro, no? Una erm... lista. L’ho chiamata la lista di Yunix».
Asia non seppe come rispondere. Ora si stava comportando come un bambino, nel vero senso del termine.

“Ieri ha risvegliato il suo Quirk. Quanto vuoi che gli ha incasinato la mente? Devo farlo tornare in sé con le buone o con le cattive, se necessario”.
Ma gli era sfuggito da sotto al naso. Dov’era? Cercò il piccoletto con lo sguardo e lo ritrovò a curiosare in una porta, ammirato da chissà quale visione.

«Yunix!» lo richiamò autorevole, «spiegami per filo e per segno ciò che ricordi di ieri».
Il ragazzo si voltò, esitò, strinse i pugni.
Vedeva i suoi occhi strani ingegnarsi, gli ingranaggi grigi in funzione nella pupilla. Cercava di combattere qualcosa, un nemico invisibile. Asia premette l'incisivo sinistro sul labbro, chiedendosi se stava facendo la cosa giusta.

Le sue opinioni su quel ragazzo erano contrastanti. Per quanto fosse stato il suo piano a dare scacco matto al villain, per tutta la durata dell’esame, gli era sembrato un po’ un codardo e solo il discorso finale l’aveva riscattato interamente, in sua opinione. No, non si era pentita di aver offerto il suo sangue per rimetterlo in sesto, ma aveva la terribile sensazione che ci fosse qualcosa di eccentrico in quel corpicino striminzito, segnato da ferite indelebili. Il suo passato era avvolto nell’ombra e il suo comportamento altalenava in un’imprevedibilità caotica che le incuteva timore. Detto ciò, era solo un ragazzo, e non voleva che soffrisse per qualcosa che non poteva esternare.

«Per favore, Yunix. Insomma, noi due abbiamo combattuto fianco a fianco».
Il ragazzo si sforzava di ricordare.
«Da-davvero..?»
«Sì... non ricordi..? Coal, Sakuro, il generale».
Il ragazzo sussultò.
«Armday!»
«Sì... l’abbiamo affrontato, l’abbiamo abbattuto, che diamine!»
“Merda, se è messo così male non so se salvarlo è in mio potere”.

Il ragazzo spaesato cercò risposte che non trovava. Si frugò nelle tasche, si guardò il braccio. Borbottava parole senza pronunciarle, lo sguardo fisso in quell’intricata ragnatela d’inchiostro.
«Sì... sì.. come ho fatto a dimenticare?» esalò in un respiro tremulo. La guardò e finalmente la vide davvero. «Asia... io, io non so che mi sia preso».
La ragazza accennò un sorriso.
«Meno male, mi hai fatto venire un colpo».
«Io... suppongo che mi sia perso per strada. Non... non so... è come se avessi dimenticato qualcosa di fondamentale!»

Asia notò un piccione svolazzare di fronte alla vetrata, aveva piume brune e due occhi intelligenti, e un piccolo bijou legato alla zampa.
«Un altro trucco di HG?»
“No cara” s’immaginò la risposta dell’insegnante, “gli esseri viventi non rientrano esattamente nel concetto di edificio, non sei della stessa idea?”
Yunix la guardò interrogativa, ma Asia gli fece cenno di lasciar perdere. C’era già abbastanza carne al fuoco senza che tirasse fuori il discorso dell’entità immutabile che governava una scuola per ragazzi dai poteri speciali in cui bocciavano più del 90% dei partecipanti senza farli passare dal via, solo il primo anno. Ora che lo ripeteva nella sua testa, faticava a credere che fosse reale.
«Quindi apposto?» verificò la ragazza, tirando un pugno amichevole a Yunix.
«Ahia! Ma che hai al posto delle mani, sanpietrini?» fece lui, massaggiandosi il braccio, «sì, comunque. Apposto... cioè non ricordo ancora tutto, ma... sono ottimista... di fare progressi entro l’ora di pranzo».
«Pranzo?» lo fermò Asia, «Abbiamo lezione oggi, te lo ricordi, vero?»
Il ragazzo si passò una mano fra i capelli ondulati, nervoso.
«Certo, ovvio, come potrei averlo rimosso! Mi ripeti... giusto... l’ora?»
«Dieci in punto» sospirò lei esasperata. «La professoressa Warder ci consegnerà le divise e ci riferirà... pheew... in quali classi siamo stati smistati».
Colse il ragazzo sul fatto mentre nascondeva un sorriso.
«Che c’è?»
«Niente, è solo che quando parli di qualcosa inerente alla scuola ti agiti e inizi a balbettare e la cosa mi ha... fatto sorridere».
Asia si strinse nelle spalle.
«Oh, ecco, insomma... è solo...» ma ora che poté squadrarlo bene in viso notò delle lunghe ombre sul suo volto, orbite quasi incavate.
Se si fosse presentato così a lezione sarebbe stato lo zimbello di tutti.
«Sei sicuro di aver chiuso occhio stanotte? Sembra che tu abbia ficcato la testa in una ciminiera».
Yunix fece un altro sorriso colpevole.
«Ehm... schiaccerò un pisolino... tanto mancano ancora due o tre ore alla lezione».
«Qui in mezzo al corridoio?» obbiettò lei.
«E perché no?» le rispose sbadigliando, «c’è un così bel clima qui... quasi come se fossimo in...» I suoi occhi tornarono vacui. «in... com’è che si chiamava quel posto? Quello in cui andavo in villeggiatura con..?»

Il ragazzo ebbe una specie di raptus e schizzò contro il vetro.
«Un momento! Aspetta, aspetta, aspetta! Un altro!» Si teneva una mano sulla fronte. «Un altro... devo..!»
Fece per appuntarsi qualcosa sul braccio martoriato, ma Asia lo fermò, quasi istintivamente. Sentì il polso freddo tra le dita, gelido come un blocco di ghiaccio.
«Insomma, Yunix... è la tua pelle, non è carta!»
Ma le sue parole entrarono in un orecchio e uscirono dall’altro.
L’aggredì, come se lo stesse pugnalando al petto. «Che stai facendo, maledizione!? Mollami! La spada verde, la donna gialla, ricordo tutto!» I suoi occhi scintillarono minacciosamente di blu. «Non hai un briciolo di buon senso per capire quanto sia importante?»

Non poteva vederlo così, non dopo l’appello accorato alla premiazione.
«Scusami» il ragazzo cercò di scansarla, ma lei era più tenace «scusami, ma non sei più in te».
Il ragazzo fece un verso sommesso da animale in gabbia, ma prima che potesse tentare qualcosa lo abbatté con un rapido colpo di karate sotto l’attaccatura del collo. Andò ko in un colpo solo, d’altra parte era un punto focale quello che aveva bersagliato.

Prima che cadesse lo prese tra le braccia e lo adagiò contro la parete.
«Dormi un po’, da bravo. Sono sicura che la tua amnesia... sia solo dovuta alla stanchezza».
Appurò che fosse solo svenuto e poi gli rimboccò amorevolmente le maniche. “Sei sconvolto, come lo sono io, ma ne usciremo fuori, vedremo ancora le stelle, Yunix. Siamo nati per questo, siamo nati per essere eroi”.
In quel corridoio, con HG che si beveva un’aranciata nelle pareti, non correva pericolo di fare male a nessuno, però temeva per la sua incolumità. Se si fosse di nuovo avventato su sé stesso? Le sue tendenze autolesioniste erano già andate troppo oltre. E dire che era così inerme a guardarlo ora, come un cucciolo di animale.

Un’idea azzardata fece capolino nella sua testa.

Odiandosi già, si chinò.
«Con Vart ha sempre funzionato, Cristo Santo». La ragazza represse un brivido, guardando il docile corpo del ragazzo. “Sei sicura di volerlo fare, Asia? Sai a cosa vai incontro”.
Appoggiò il mento sul petto, sorda ai propri dubbi.
«Mi senti, HG? Da quant’è che osservi la scena?»
La parete si srotolò come un arazzo, formando una specie di bocca.
«Quante lagne, non è che mi faccio sempre gli affari degli altri. Ho tutta una sfilza di cose da fare, lo sai?».
«Bugiardo».
«E va bene, mi diletto a curiosare e fare gossip quasi sempre, lucky me, ho pure un giornalino, yep, però gradirei non essere interpellato da primini come te. Dunque, per la seconda e bada bene ultima volta, dì la tua, vittoriosa, e chiudiamo la faccenda in fretta» cascate di segatura cadevano dalla bocca inquietante, mentre parlava.
Asia corrugò la fronte, senza farsi notare.
Era la seconda volta che la chiamava così.

«Ho bisogno di un consiglio e di una promessa».
«Seee. E poi? Vuoi anche che ti porti il caffè, che ti corregga i compiti, che ti porti le snicker della Detnerat in saldo, che magari ti lustri quel visino da puzzola?»
«Silenzio!» tuonò Asia, iniziando a detestare l’idea che aveva in mente. «Vado dritta al punto. Il mio potere, Bambù, non seve solo a far crescere il nutrimento preferito dei panda. Posso... assorbire sostanze presenti nell’aria con un sistema di piccoli fori vegetali che ho sugli avambracci, e al bisogno.... buttare fuori ciò che assorbo sulla falsa riga dello sfiato di una balena». Il muro era silente. «Ehi! Mi stai...»
«Uff, sono annoiato».
“È ovvio, ormai non c’è nulla che lo intrattiene davvero alla sua età, inoltre potendo essere ovunque avrà visto letteralmente scene di tutti i colori. Chi sono io se non un infinitesimale trafiletto sulla sua stupida rivista?”

«Ok, mettiamola così allora: per me usare questa abilità equivale a...» storse il naso. “No, non lo sto davvero confessando a uno come lui”. «Insomma, io lo...»
Capì che HG stava sogghignando.
«Yup, capito alla perfezione. Tieni la morfina, che poi non si dica che sono un uomo irrispettoso. E per... vediamo... due minuti, tre, volterò le spalle, metaforicamente s’intende, e ti lascerò alla tua mmm, “visita medica”».
Asia imprecò in maniera colorita, quando una boccetta medicinale rovinò dal soffitto, rischiando d’infrangersi a terra. Per fortuna ebbe i riflessi pronti e la afferrò con la punta delle dita. “Come pensavo. Era l’unica persona in tutto sto’ edificio che avrebbe considerato l’idea di trafficare un narcotico”.
«Potevi anche evitare la scena alla Mission Impossible, mister H».
“Però è incredibile, ha capito ciò che volevo chiedergli prima che gli dessi una singola informazione. Sa leggere nel pensiero?”
«Perdi tempo, ragazza. Non fasciarti la testa per cercare di scoprire i miei segreti. Ho dati sui vostri Quirk, più approfonditi di quelli delle diagnosi del governo, credimi quando lo dico!» Asia grugnì, scettica.

Diede qualche scossa alla boccetta e l’aprì, sprigionando un odore quasi inconsistente. Strofinò la boccuccia sulle braccia e aspirò il contenuto con i piccoli fori, facendo un bel respiro. La consueta sensazione d’ottundimento euforico la vinse, tuttavia era ancora abbastanza lucida da comporre la sua personale soluzione.
«Mischio la morfina all’ectoplasma per ottenere qualcosa di scientificamente impossibile: l’ho chiamato vita subalterna. E olé. Non c’è modo di separare il vero ectoplasma dal corpo; insomma quello che i medium fanno non è che raggirare i creduloni, ma io posso usufruirne per combinarlo e lo farò proprio adesso, per lui».

Si ricordò che HG le aveva dato tre minuti di privacy, dunque non era lì ad ascoltarla. Perfetto. Quello che stava compiendo era un rituale che aveva condiviso solo con Vart e così doveva rimanere. Intimo. Suo.
Inebriata dalla stessa soluzione bollente che aveva partorito, la ragazza si aggrappò a Yunix e con un gemito, strinse il viso sopito tra le proprie mani.
«E’ più imbarazzante per me che per te» mormorò, inginocchiata contro il muro, il suo corpo sopra quello di lui.
Che bei capelli! Pensò, esaminando il placido ragazzo indifeso. Così impotente! “Controllati”. Qualcosa nella testa le gridava che doveva completare la trasfusione, che non aveva tutto il giorno, eppure... Si rivolse a Yunix.
«Ma insomma... Sei tutto fuori posto, da bravo, fammi...» gli coprì gli occhi con le dita. «Ecco... distendi le palpebre, su, sono qui».
Il ragazzo gemette nel sonno, ma lei lo tranquillizzò.
«Shhh... va tutto alla grande».
Gli sembrò naturale occuparsi di lui. Un gesto di bontà, niente di più. Doveva pur sdebitarsi per averlo mandato al tappeto. Era naturale. Sorrise beata. Gli sistemò il labbro graffiato con unghia, ma non si fermò lì. Sentiva che doveva andare più a fondo. “Con la bocca aperta, filtrerà più essenza nel suo corpo... è a fine pratico”.
Il pollice trovò la sua strada per la bocca e schiuse la cavità ricolma di saliva. Pelle contro pelle. Tanto freddo e tanto caldo, ghiaccio e fuoco assieme. Le orecchie di lui tangevano i capelli di lei. Una pulsione nell’area dell’inguine le alzava la temperatura, la spronava a fare buon uso delle mani che torceva in conflitto con sé stessa, non riusciva a stare ferma. “Controllati”. Così inerme! Alitò forte diffondendo in lui la medesima carica che era in lei. Così mio! Senza un ripensamento, strusciò il naso contro il suo, e avvertì il suo respiro, lo sentì respirare il suo stesso fiato caldo.
Uno per uno i tubicini di bambù emersero tra i ricami del dolcevita rilasciando il gas ectoplasmatico. Per tutta risposta lei avvinghiò le braccia ancora più strette. Nemmeno si accorse di avere la bocca in quella di lui, finché non provò l’impulso di morderlo, di strappargli quelle labbra pallide, di farlo sanguinare. Anche il suo fiato era sostanza. Quale modo migliore di trasferirlo che un bacio? Un bacio, niente più che un bacio, era naturale, naturale. La stretta era tenace, stritolante. «Yunix!» cantò, riempiendolo del suo elisir. Sul vertice della sua passione, la magia si spezzò.
Come acquedotti romani in tempi di siccità, i bambù esaurirono la merce inestimabile e quando Asia lo percepì, recuperò il senno e con esso la consapevolezza di ciò di cui si era macchiata, e una vergogna colpevole si sostituì al battito incalzante del cuore.
«Merda...» Un rivolo di saliva collegava ancora le due bocche affannate. «Merda... come temevo!»

Come una bambina di fronte a una malefatta di cui era causa, Asia provò il primordiale impulso di nascondere la mano, di incolpare qualcuno o qualcosa, ma quale capro espiatorio poteva caricarsi di un delitto tanto irrimediabile. Disgustata dal suo corpo, si ritrasse dal corpo di Yunix e si adagiò contro il muro al suo fianco, le lacrime agli occhi.
«Merda... Non m’importava nulla di lui» si sentì bene nel dirlo, così continuò, «ero io che volevo distrarmi... che volevo fingere di stare ancora con Vart. Non pensavo... che sarei arrivata a tanto».
Come agire ora? Poteva far finta di nulla? La cosa più brutta era che si sentiva ancora arrapata.

«HG... torna da me, per favore» pregò, serrando le nocche fino a farle sanguinare. Tirò sul col naso, incapace di guardare la persona accanto a lui. «Non sono riuscita a controllarmi, il mi-mio potere ha fatto di testa sua. P-pensavo che con un altro sarebbe stato diverso. Ho sottovalutato le mie condizioni, sto da cani, sto da cani e non me n’ero nemmeno accorta» singhiozzò rumorosamente, appoggiata alla parete silenziosa. «Qual è la pena? Sono disposta a qualunque cosa, anche l’espulsione...» la sua voce tremò mentre lo disse.
“Ho imparato a combattere sul campo di battaglia, ma nessuno mi ha mai insegnato come combattere nella vita di tutti i giorni. Io e te, Vart, eravamo spiriti liberi. Che ti è successo? Cosa diamine ti è successo?”
Un filo di vento le scompigliò i capelli raccolti in una crocchia. Era vento gelido, con... fiocchi di neve turbinanti?

«Che bel pasticcio! L’Alaska nella stanza sette non è stata la migliore delle idee!» annunciò la voce rilassata ed eccheggiante di HG. Asia non rispose. Un groppo alla gola le impediva di respirare bene. «Allora, espulsione. Vediamo, vediamo un attimo. Ho qui tra le mani il regolamento, redatto da me, ovviamente. Vediamo... mm... molto discutibile... che altro? No, queste sono per i sicari sotto copertura... Oh, questa è la mia preferita... “in caso vengano liberati polli nell’ufficio del preside, il colpevole friggerà le chicken wings per tutti e... udite, udite non ne avrà neanche una per sé, accipicchia!”»
Asia accennò un sorrisetto. HG esplose in una risata.
«Eccola, lì, l’invincibile seconda classificata! Parliamoci chiaro, milady, ne ho fatte anch’io delle stronzate da ragazzo... però... arrivare a buttare via una carriera da sogno per un microscopico piccolo...»
«Non è una scusa valida» ribatté la ragazza, «non è una cosa che farebbe un Hero» “Non è una cosa che farebbe Vart”.
HG rise, facendo tremare il soffitto.
«Oh, questa è fantastica! Heroes, paladini della giustizia. È così che li immagini?»

Asia si asciugò gli occhi. «Non faccio d’ogni erba un fascio, non credo che tutti siano come All-Might, però... è l’Hero che voglio essere».
«Comunque imperfetto».
Asia sbraitò irata, non sapendo nemmeno con chi prendersela.
«Allora Ten Ken, C&P, Modus!»
«Imperfetti, tutti quanti! Fonte: trust me, bro».

Imperfetti? Se loro lo erano, cos'era lei? Una sadica stralunata depravata? "Ma c'è tempo per cambiare, già, non sono in questa scuola per diventare forte, per quello ho avuto tutta la mia vita a disposizione. Se ho scelto questa professione, è perché so di avere in mano le staffe che mi condurranno al cielo, gli schinieri bronzei della campionessa perfetta, la lancia perforante di una dea!" Se tutti loro erano imperfetti, aveva una ragione in più per saltare su quel carro della vittoria. Qualcosa si demolì nel suo cuore, ma non era amore, né gioia, erano rimasugli di dubbi, che da tempo la tenevano ancorata al fondale, come cirripedi infestanti. 

«Allora sarò la prima!»

Le sue parole erano definitive e la parete parlante lo capì.
«Sbagli cercando la perfezione, vittoriosa, ohhhh, non sai quanto! Le contraddizioni ci rendono eroi, problematizzano la nostra condotta, in modo che possiamo stare al passo coi tempi, in modo che possiamo evolverci, ma rispetterò la tua scelta».
«Come ti pare»“Hai detto bene! Io sono la vittoriosa!” «Prima ti sei riferito a noi come complici. Farai finta di non aver visto niente, HG?»
L’essere sogghignò.
«Sono lusingato dalla tua fiducia in me! Ho promesso che ti avrei dato la tua decantata privacy e l’ho fatto. Anche volendo, non potrei recriminarti niente. Io non so davvero cosa tu abbia fatto nei minimi dettagli, ebbene sì, ho tenuto le orecchie e gli occhi foderati di groviera tutto il tempo!»

Asia si alzò in piedi.
«Meglio, d’ora in poi niente più vacillamento, niente più false partenze! Quanto a Yunix...» l’espressione afflitta della ragazza tornò a fare capolino, senza che potesse farci niente a riguardo. «Prometto che non abuserò più della sua situazione, anzi, m’impegnerò a essere la migliore amica che abbia mai incontrato. Glielo devo, dal momento che l’ho usato come “distrazione”. So che non mi perdonerei una seconda volta».
La bocca sulla parete si arricciò in un sorriso.
«Bye, bye, allora. Non provare a convocarmi ancora, non sono al tuo servizio, okkay?» il tono si fece ammonitorio, «E guai a te, non peccare di ubris, Asia, anche se ho oltrepassato la linea per te una volta, non intendo farlo di nuovo; quindi, vedi di non fare altre cazzate, o capirai perché più di mezzo continente è sulle mie tracce, donna avvisata, mezza salvata».

Asia annuì. Anche potendo, non avrebbe più chiesto il suo aiuto.
La ragazza vide il piccione di prima appollaiato su un ramo. Ancora li fissava. Peluria folta gli cresceva sulle zampette squamose, e una brutta ferita all’ala destra era stata rammendata con pezzi di cartone sfasciati, raccolti in chissà quale discarica.
Titubante, porse le dita nella sua direzione, anche se c’era il vetro a separarli. L’uccello aprì il becco, poi lo richiuse. Forse fu la sua impressione, ma la creatura gli parve insolitamente conscia di ciò che era successo, tosto che avesse le conoscenze per capirlo.
«Ehi...» Il pennuto si arruffò le piume col becco e prima che i suoi occhi potessero percepirlo spiccò il volo e ad ali spiegate raggiunse il cielo. Era un piccione viaggiatore, come aveva fatto a non capirlo, con quel gioiello che teneva alla zampa? Forse aveva sbagliato rotta, però ora volteggiava di nuovo, verso luoghi più elevati, scendendo in picchiata, planando su sobborghi segreti, per cui nessun mortale avrebbe intrapreso un viaggio.
Incurvò le labbra, fiduciosa, quasi vedendo una scia di piume candide diretta alle nuvole.
“Tu sarai la prima, Myraw”.

«Sul mio onore, Vart, sarò vittoriosa».
 
 
«Affrettati, Yunix, oh mamma, il sole è già alto!»

Il ragazzo si arrestò di fronte alla docente, le gambe dolenti.
Colombe stormivano fuori dalle finestre e il corridoio era in subbuglio.
«Professoressa Milia! La divisa, la prego!»
La donna spalancò la bocca.
«Wow, sei in forma smagliante! E hai un sorriso che va da un orecchio all’altro. Che hai mangiato a colazione, adrenalina in polvere?»

Il ragazzo chinò il capo, imbarazzato.
«Hehe... in realtà non ho fatto in tempo. Però ha ragione, mi sento bene».
«Bene? Bene è una minimizzazione, se ne conosco una! Cioè... nel senso... risplendi di luce tua!»
Il ragazzo si grattò la testa.

«Boh... credo... non so... è come se mi fosse capitato qualcosa di stupendo, che non riesca a ricordare: ho le traveggole, le budella attorcigliate, non so se mi spiego e... e poi in bocca ho un sapore dolcissimo, zuccherato».

Milia Warder fece lampeggiare gli occhi segnaletici, pimpante di gioia.
«Ma questo è amore, vero amore. Ne sono felice, piccolino! Vai e spacca tutto! Ah, ahhh come mi piacerebbe poter tornare indietro e fare lo stesso percorso, abbracciarmi stretta, stretta col mio dolce Luffy... tieni prima che mi scordi, classe 1°A».
«1°A, capito...» rispose Yunix, prendendo la sua uniforme. «Ma... ma...»
«Nera e rossa, metà e metà, come volevi tu, stellina!»
Milia gli fece cenno di aprire l’involucro, così il ragazzo lo strappò e l’abito nuovo fiammante si dispiegò alla luce.
«Io, io, grazie... non penso di meritarmela, però grazie».
«Beh, noi te la diamo, tanto basta uno snap perché ti venga ritirata». Gli pose un dito sul petto. «Il tuo solo compito è tenerla stretta. Capito, Yunix, conto su di te!»
Il ragazzo sentì le dita scorrere sulla stoffa. Il colletto elegante, il cravattino, la fibbia d’argento, i bottoni color ocra e gesso, non aveva mai indossato un vestito del genere nella sua seconda vita.

«Non speri l’impossibile, professoressa. Ciò che le posso promettere è che sarò dalla vostra parte, che la mia lealtà non vacillerà facilmente. Nonostante mi abbiate stretto catene ai polsi, nonostante abbiate sminuito il mio libero arbitrio... io scelgo questa parte dello schieramento, giusta o sbagliata che sia».
La donna sbatté le palpebre.
«Che... che intendi..?»

Yunix la ignorò e s’incamminò verso la classe che l’attendeva, la cricca di gente pazza con cui avrebbe condiviso gioie e dolori.
“10:12. Solo uno come me arriverebbe in ritardo alla prima lezione, anche se non è tutta colpa mia”. Sentiva una strana leggerezza in testa, gli parve quasi uno spreco usarla per pensare. Si cavò di dosso i vestiti che gli aveva procurato Shig e li ripiegò dolcemente. “Come stai, instancabile lavoratrice? Hai mandato a quel paese quella vecchia scoreggia del capovillaggio?”

Dalla parte opposta dalla porta di frassino c’erano venti bacili dorati allineati in file ondulate da quattro, sopra una specie di albero della fede, diciannove delle quali già piene, o della divisa, per i più, o dei vestiti comuni. A quanto pareva, mettersi l’uniforme non era necessario. “Io però la metto, sia mai che mi dicano qualcosa”.
Depositò i vecchi vestiti nella bacinella vuota e indossò febbrilmente la divisa nera e rossa. Una specie d’incrocio tra quella degli studenti e quella dei controllori. Sarebbe stata un pugno in un occhio a confronto di quella degli altri, ma se era un bersaglio quello che intendevano mettergli addosso, allora Yunix sarebbe diventato più immortale di Rasputin, più immortale di un dio della morte.
La sua mano toccò la maniglia.

“Chi saranno i miei compagni... o dovrei dire avversari? Quale sentiero mi aspetta, quale porta seguirà questa, e quale la prossima?”
Yunix fermò il tremore della mano e fece scattare la serratura. “Passato, presente, futuro, non ha alcuna importanza: io intendo ricostruire la mia vita da zero!”

La porta si aprì. Neanche il tempo di gettare uno sguardo dentro che un panorama sensazionale gli si parò davanti. Stelle, galassie, pianeti, una notte infinita!

Uno stuolo di ragazzi lo aspettava al varco, prima tra tutti una “vecchia” conoscenza.
«Ecco l’ultimo, non mi sorprende sia tu, Yunix, forse era scritto nella pietra, o... restando in tema, negli asteroidi» Asia gli ammiccò con entusiasmo.
«Speriamo sia all’altezza» lo accolse altezzosa la ragazza dai lunghi capelli ametista che era arrivata in terza posizione, dandogli le spalle.
Un ragazzone con tutta un’apparecchiatura installata sopra l’uniforme nera si massaggiò timidamente il polso. «Fermi tutti! Non è... non è il... il ragazzo del discorso?»
«Sì, no, che differenza fa?» rimbrottò deplorevolmente il ragazzo ricoperto di rughe a spirale, come se fosse finito lì per puro caso. I suoi occhi color anice erano venati d’apprensione.
«Si vede lontano un miglio che è lui, cercate di fare poca caciara!» abbaiò Marin, dall’alto di una sedia, un’agenda tra le mani.
«Tsk, sul serio, non è mica arrivato il presidente degli Stati Uniti». Yunix notò di sfuggita Lex, fuori dal cono di persone, appoggiato al muro a braccia incrociate.
«Istinto parla e istinto legge paura! Istinto legge tensione!» gridò famelica una ragazzina con un colbacco in pelle di procione e una cascata ingarbugliata di capelli arancioni, alzando un dito.
«Kylla, non è certo una sorpresa, lo stiamo guardando tutti». Yunix riconobbe la voce di Chooki, tenue, che passava quasi in sordina. Il ragazzo con la stella di stoffa sul capo gli rivolse un mesto sguardo complice. «C-ciao, “con te”».

Il ragazzo capì che era il suo turno di parlare. In un attimo, la tensione era scomparsa, sostituita da una trepidazione incontenibile.

«Già, sono io l’ultimo di questa classe e in questa vita...» “È così che ci si sente felici?”

«In questa vita mi chiamo Yunix Braviery!»

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Capitolo 28
*** Una Strada per il Futuro - Parte Quinta: What a Quirky class! ***


Una Strada per il Futuro - Parte Quinta: What a Quirky class!


Riprese fiato.
Dopo le sue parole di presentazione, era calato il silenzio sulla classe. Non gli serviva una laurea per capire che ciò che aveva detto non era esattamente il modus operandi (come avrebbe detto Kane) per introdursi a dei perfetti sconosciuti, però c’era fin troppa ostilità per i suoi gusti. “Sarà per il discorso? Ho detto cose così sgradevoli su quel palco?”

Non volava una mosca, anche il chiacchiericcio di sottofondo si era spento. L’aria stessa si era fatta pesante.
Yunix sfoggiò un timido sorrisetto, che probabilmente venne recepito come una presa in giro, dal momento che i ragazzi davanti a lui parevano sempre più interdetti, come se avesse dichiarato di sostenere una qualche forma di dittatura spietata.

«Frenah il tuo scodinzolare. Che significa “in questa vita”? Quante vite pensi che viviamo, scimmiettah?» lo interpellò senza preavviso la ragazza longilinea, che quasi toccava il soffitto con i ciuffi viola della chioma smisurata. Aspirava alcune "a" finali, caricandole di superbia.

«Erm... quello, beh quello...» lo sguardo di Yunix cadde sulle pareti della stanza, e la sua incredulità crebbe del triplo. «Ma dove..?»

Una ragazza dalla coda di cavallo azzurra che faceva da contraltare alla “finestra” fece un sorriso a trentadue denti. Un prototipo nero protendeva cinghie attorno alla sua nuca, le celava gli occhi dietro una specie di visore.
«Wahh, ora s’è accorto, ora!» scoppiò subito a ridere in maniera infantile, tenendosi le braccia sulla pancia.

«Che ci facciamo in una navicella spaziale?» domandò a denti stretti Yunix, evitando di prendere le burla della ragazza sul personale.

Difatti, al posto delle pareti di cartongesso tipiche di una normale aula, c’erano muri plastificati bianchi, intersecati da pannelli pieni di lucine e cavi aggettanti dall’uso sconosciuto, con una riproduzione fedele di un tapis roulant, incollato ermeticamente al soffitto, forse utilizzabile se ci fosse stata la gravità zero nell’abitacolo, cosa a cui l’ambient designer aveva dimenticato di provvedere.
Giunture (tirando a indovinare) di rame tenevano insieme sezioni striminzite incavate nelle pareti e si collegavano a un impianto d’illuminazione ipertecnologico, che gettava l’intera stanza in un vivido alone bianco, diffuso equamente in ogni angolo. Non mancavano pannelli fotovoltaici. Anzi, un sistema a manopole idrauliche presumeva che potessero essere fatti ruotare verso l’esterno, se non da mano umana, tramite dei pistoni.
Sul fronte della cabina? c’erano in successione tre affusolati oblò, da cui si scorgeva lo spazio aperto, e un pianeta striato dalle sfumature granitiche, che in maniera abbastanza stravagante e allarmante si muoveva nella loro direzione o erano loro a spostarsi?

Fu un ragazzo pacato dagli occhi nero-sfavillante e una carnagione da vampiro in pensione a rispondere ai suoi interrogativi. Aveva un set completo di pennarelli colorati infilati nella cintura, a mo’ di pallottole per un fucile a pompa, ma la mitezza dei suoi modi lasciava pensare a uno stile di vita tutt’altro che incentrato sulla violenza.
«Cerco di spiegare. In parole povere, ci troviamo un’illusione o qualcosa di simile... avrai visto le altre stanze. Insomma, non siamo davvero nello spazio, non c’è neanche bisogno che te lo dica, probabilmente».
Yunix aggrottò la fronte. “Ma certo, sono un’idiota, e dire che sono quattro giorni che vivo qui”.

Non fece in tempo a ringraziarlo per il chiarimento che una ragazza per metà marrone, per metà bianco latte, gli apparve dietro al collo. Ogni volta che ruotava il capo lei si muoveva di conseguenza, riuscendo per quanto tentasse d’inquadrarla, a restare fuori dal suo campo visivo.

«Magia... magi-magi-magia!»

Yunix rimase stordito a osservarla crollare addormentata sopra uno dei... sedili? Sì, c’erano proprio sedili comodi con schienale di velluto di color blu scuro, in luogo delle sedie, e tavoli da lavoro in sostituzione dei banchi.
“Beh... chiunque abbia arredato ha pensato proprio a tutto”.

L’attenzione su di lui era finalmente calata e il ragazzo poté fare qualche passo avanti, ammirando estasiato la ora chiaramente distinguibile cabina di pilotaggio, compresa di lavagna elettronica, passerella sopraelevata e pannelli di controllo.
«Hop! Ragazzo di ieri?»
Il ragazzo vestito da indiano della sera prima balzò davanti a lui, come un ranocchio.
«Oh, tu ti chiami Furry, sbaglio?»
«Augh, amico!» lo salutò alzando una mano. «Mi chiedevo dove ti eri cacciato, dopo tutta la gnaffata del dì che è andato» gli si fece vicino, come se volesse rivelargli un impronunciabile segreto, «allora, se ti senti sopraffatto è normale, io non riesco a decidere con chi chiacchierare per primo, è tutto così... boom! E le persone sono così... dai... hai capito! E anche la stanza... è da pazzi, non puoi fare a meno di sentirti...» il ragazzo fece una serie di gesti con le mani, preso dall’entusiasmo, senza riuscire a spiccicare parola per qualche momento. «Sì, insomma... è da pazzi! Ci credi!? Chi avrebbe mai pensato che saremmo stati qui un giorno!? Cioè a parte me! Io ne ero certo, anche se tutti al villaggio dicevano ‘no, destino tribù è non stanziarsi mai’, io gli prendevo il braccio e gli mostravo le nuvole e dicevo ‘state all’occhio mentre fate le vostre migrazioni sia mai che cadessero dal cielo dei bisonti”» gli allungò una gomitata trattenendo il riso, «cioè come se ci fossero bisonti in Giappone, ththth... riesci a immaginarteli quei burberi vecchietti che alzano gli occhi al cielo e poi li ripuntano su di me, tipo Gulliver con i lillipuziani? Ecco, più o meno così».
Yunix ridacchiò nervosamente.
«Wow... sì... da pazzi!»

Si guardò attorno.
“Quindi Asia, Marin, Lex, Chooki, Furry... sono tutti nella mia classe. Oltre a loro, c’è la ragazza alta irritante che tocca il soffitto con i capelli, quello che sembra un’artista, il tipo pieno di rughe sempre in ansia, la nanerottola dai denti aguzzi, quella dal sonno facile che sembra un incrocio tra due crostate, la ragazza che mi ha preso in giro con gli occhi coperti dal casco, il tizio in uniforme con l’apparecchiatura su tutto l’esoscheletro, e poi... altri sette”.
Non scorse da nessuna parte i due gemelli shinobi. La cosa lo rattristò, perché non solo si erano battuti per lui, ma il loro sangue scorreva nelle sue vene, e Sakuro lo aveva accolto nella sua famiglia, anche se solo formalmente.
A sollevargli l’umore fu invece la vista di Coal, spaparazzato contro il vetro sopra la passerella, uno stuzzicadenti tra il molare e l’incisivo.

«Yo, Yunix! Niente rancore vero per quello scherzetto con la lettera? D’altronde, la meschinità è la mia seconda lama».
«E la prima qual è?» lo interrogò Yunix, felice di vederlo.
«Lo scoprirai quando ti trafiggerà» rispose il ragazzo dai capelli a braciere, battendo le mani. «Detto fra noi, un prestigiatore non rivela mai i suoi segreti».  

“A parte i gemelli, sono tutti qui. È fantastico”.
Ma una voce inequivocabile spezzò in due la sua allegria.

«Sssss... scivolando, come una piccola serpe, si appresta a calcare le orme di tutti gli altri, sa bene che se c’erano trappole le abbiam già fatte scattar noi. Inoltre, come il ladruncolo che è, non si esime certo da crearsi attorno la sua cerchia fidata di delinquenti».
«È evidente che le nostre preghiere non siano state ascoltate, non è vero, Aghikumura Herneist?» ribatté a tono Yunix.
Il ragazzo dagli occhi bronzei predatori si era sistemato, appoggiato su un gomito, sopra uno dei tavoli e faceva schioccare la lingua, entusiasta.
«Accipicchia, no. Non si direbbe proprio». Rigirò una matita fra le dita, l’attenzione rivolta a lui. «Altro però mi ronza nel cervello: mi chiedo con qual buon vento sei giunto qui, nuove monellerie da confessare, tanto per dire».

La situazione si stava subito infervorando, ma fortunatamente Marin si mise in mezzo.
«Stop al chitchatting, sfigati! Ieri sera ero un po’ sottotono, ma se non vi metterete in buoni termini d’ora in avanti, vi mostrerò i sorci verdi! A tutti e due!»
Herneist accentuò il suo sorriso affascinante, sfoderano la voce carismatica che lo contraddistingueva.
«Interessante! Va bene, Marin Cecilyn, dato che ti sei presa l’impegno di essere la voce della ragione fra noi sono più che disposto a indire una tregua, sempre se ci delizierai con l’assegnazione dei posti, caspita qualcuno dovrà pur farlo».

La ragazzina iraconda dalle perline incastonate sulla fronte che era alta solo poco più di Yunix divenne paonazza.
«Io?» esclamò. «Con tutti quelli che...»

«È un atto di fiducia» la interruppe Herneist, balzandole accanto e mettendole un braccio al collo. «Non considero di valore individui che non valorizzano sé stessi, né considero di valore le loro parole».

Molti si erano girati dalla loro parte. Yunix tremò di rabbia. Herneist aveva avuto l’accortezza di far sembrare il tutto un amichevole abbraccio, quando in realtà avrebbe potuto spezzare il collo della ragazzina con un semplice movimento del gomito.
«Che lagna, li assegnerò io» formulò con la bocca lei, sotto torchio, solo vagamente turbata. Forse non si stava nemmeno rendendo conto del pericolo in cui si trovava, nelle mani di quel bastardo.

Le pupille di Herneist scintillarono.
«Più forte, fair lady».
«Io assegnerò i posti, avete sentito?» abbaiò senza convinzione Marin, sottraendosi alla presa dello spilungone. «Qualche obiezione?» continuò con più sicurezza.

Yunix si avvicinò al ricattatore, che evitava in maniera curiosa il suo sguardo. Gli arrivò alle spalle, come aveva fatto con le reclute dei servizi segreti e gli parlò in modo che nessun altro potesse sentirlo.
«Non farlo più».
«Fare cosa? Suvvia, Yunix, le ho dato solo una spintarella» bisbigliò il ragazzo, per niente intimidito.
Voltandosi, palesò la stessa espressione cordiale e onesta del giorno precedente al buffet. Era quasi impossibile vedervi attraverso. Quasi.
“Quel quasi che fa tutta la differenza”.
Yunix fece una risata inespressiva.

«L’hai costretta a imporsi su tutti fin dal primo giorno e per di più, dato che è lei a designare chi avremo di fianco per il resto del percorso, s’inimicherà un bel po’ di gente. Nessuno vorrebbe avere la persona sbagliata a fianco e questi matti faranno ben presto ad accorgersene».
Fu la volta di Herneist di ridere.
«Ma dai! Sono solo posti, senti, so che potrei passare per il bulletto di turno, tutto manipolazione e violenza, però se è così che ragiona la tua mente, fattelo dire, ladro, ti stai facendo un’idea sbagliata della mia persona. Ho a cuore i miei compagni tanto quanto te, se non altro quelli legittimi e una volta conosciuti meglio saranno persone che mi copriranno le spalle».
“See, certo, come no. Immagino sia io quello illegittimo”.

Il ragazzo dai capelli color grano maturo fiutò il suo scetticismo e gli mise una mano sulla spalla: era decisamente più alto di lui e nella sua divisa nera, sembrava una specie di capobanda.

«Mi appello al tuo buon senso, se il cervello è troppo astruso per capire in che guaio vuoi cacciare la tua personcina. Ieri sera ti ho caldamente suggerito di non gettarmi il guanto di sfida. Oggi ti ripropongo lo stesso invito, vedi, non ne trarresti alcun vantaggio ad avermi come nemico, finiresti col farti male, molto male e diresti addio a questa esperienza socio-formativa che, tra parentesi, nemmeno ti spetta, è il mio ultimo appello, Yunix, vedi di farti due domande e darti due risposte». Herneist gli afferrò il colletto dell’uniforme bicolore. «Bel costumino, impressionante capo d’abbigliamento per contrassegnare un pesce fuor d’acqua».

Lo lasciò andare in malo modo, attendendo la sua reazione. Stavolta se non altro aveva parlato con franchezza. In fondo, nemmeno stava sorridendo. Quando era serio sembrava più spaventoso, tuttavia... in una certa via contorta... persino più... umano. Solo quel fatto lo convinse a non girare ulteriormente il dito nella piaga, almeno per il momento.

«Come vuoi, Herneist» gli porse la mano, senza accennare l’ombra di un sorriso.
«Che meraviglia! Non credo a ciò che vedo!» esclamò il ragazzo stringendogliela. «Allora ti darò un piccolo bonus, già che ci sono».

Yunix soffocò l’istinto di gemere e squadrò quegli occhi ramati dilatarsi, mentre quel saccente e pericoloso bamboccio imbottito di profumo sorrideva di nuovo.
«Che genere di bonus, attaccabrighe che non sei altro?»
Lo studente modello si voltò, tenendo le mani giunte dietro la schiena.
«Una cosa che tu stenti a far uscire dalla bocca: la verità. In poche parole, Yunix, tu non mi piaci, per niente. Per me vale più di tutto la prima impressione e posso contare sulle dita di queste mani sante le volte in cui ho avuto una peggiore prima impressione su una persona, e ne ho conosciute, puoi giurarci che ne ho conosciute».

Dandogli le spalle, lasciando i suoi punti deboli scoperti, voleva mostrare quanto indegno lo considerasse come avversario. Per lui non era che un incapace insetto. Se ne sarebbe pentito amaramente.
Il ragazzo dal passato ambiguo abbassò e sollevò il mento a fatica, più infuriato di un toro in calore.
«Guarda, vale lo stesso per me» mentì, «ora sparisci dalla mia vista» la sua voce s’incrinò, ma in qualche modo riuscì a evitare di alzare il tono a livelli irreparabili.
«Huh...?» Herneist fece per tornare a guardarlo, ma una terza voce catturò l’attenzione di entrambi.

«Bene, bene, bene! Signori e signore, ho il piacere di annunciarvi che la nostra Marin esporrà ora la disposizione dei nostri culetti su quei bellissimi lussuosi sedili di ultima generazione».
Coal aveva un modo tutto suo per richiamare a sé gli sguardi.
«Ultima generazione? Next gen, vorrai dire, neeext gen, everybody!!!»
La ragazza dai capelli azzurri, abiti retro anni Sessanta ricchi di riferimenti hipstar, sembrava immersa nel suo mondo, forse dietro il visore nero che portava sugli occhi.
«Sì... come dice lei» ammise Coal, irritato per essere stato interrotto nel mezzo della sua arringa.

«Tappati la bocca, fiammella, non ho bisogno di un segretario!» lo zittì Marin armeggiando con un foglio, che doveva sicuramente contenere l’elenco dei nomi degli alunni. «Quindi sta bene a tutti?» domandò incerta, con gli occhi che facevano capolino oltre il documento.
I presenti erano di nuovo rinchiusi in quel silenzio ermetico, eccezion fatta per Asia che le sorrise amichevolmente.
«Non penso che nessuno ce l’avrà con te per una cosa del genere, hai campo libero Marin».
«Già, diamoci una mossa prima che arrivi il professore, Ariel, sempre se la cosa non è troppo d’inghippo per una testolina che sa fare a malapena due più due» dichiarò Coal, sogghignando, beccandosi un pugno dalla diretta interessata, «ahio!»

Marin si schiarì la voce, emergendo rossa come un peperone dal foglio.

«Da sinistra verso destra, nella prima fila, ci saranno Coal Naive, Asia Shiena’q, Nimble Rimaric, Vartimor Khan e Furry Condell».

La fiamma di Coal mutò in un verde scremato.
«Mi hai messo in prima fila!»
«Ben ti sta» fu la pronta risposta di Marin che chiaramente non attendeva altro.
Contemporaneamente, il piccoletto con l’alce in testa alzò la mano.
«Solo un appunto: si pronuncia F-i-urri, non Furri non voglio avere niente a che fare con quella robaccia pelosa che si trova su internet».

Yunix non aveva idea di cosa stesse parlando, ma la visione di un Coal fumante era più che sufficiente a convincerlo a non dare troppo peso alla questione.
Asia accettò con grazia il posto riservato e si abbandonò sul secondo sedile a partire dalla porta. Il ragazzo dai capelli grigiastri notò in lei una leggera incertezza nei lineamenti, quando lo studente pallido dai capelli seghettati simili ad agrifoglio di nome Vartimor si sedette a due posti da lei. In mezzo a loro, al centro della prima fila si accomodò il ragazzo ricurvo dagli occhi color anice, che apparentemente si chiamava Nimble.
«Tu guarda... tanto spreco di tempo. Oh dei, come potevo prevederlo? E adesso..? Boh, ora che ci sono cosa costa tentare di starci un altro po’?» borbottò il ragazzo cagionevole dalle voglie a spirale, presumibilmente a sé stesso.

Marin capì che più avesse fatto in fretta, meno lamentele ci sarebbero state così spinse via Coal, ancora furibondo, e fece vibrare le tonanti corde vocali.
«Per quanto riguarda la seconda fila, ho messo a fianco, A.C. Daney, Yunix Braviery, Herneist Aghikumura, Gϋr Kakaito e Siria Magystic. Nella terza, Lex Zeero, io, Nikotos Genda, Chooki Mason e Arc Nighter. Infine, nell’ultima ci saranno Hazel Deem, Tekken Hardstep, Ennenissa Flelfling, Darsy Zweber e Rain Grace, e con questo siamo a venti». La ragazza sbuffò, contrita, ma decisa. «Su, che aspettate? Mettetevi al vostro posto!»

Non senza qualche brontolio, i ragazzi iniziarono a cercare la postazione loro assegnata. Non fu una sorpresa vedere due o tre studenti, tra cui Chooki e la ragazza alta dai modi ruffiani recarsi da Marin per lamentarsi, e fanalino di coda, con un pochetto di vergogna, c’era pure lui.

«Niente storie, la decisione è definitiva! Dovevate pensarci prima!» chiuse il discorso lei, senza venire incontro a nessuno.

Yunix si diresse a malincuore verso il suo posto, non senza rifilare un’occhiataccia a Marin. Capiva in che posizione l’aveva messa quel damerino, però un affronto del genere lui che l’aveva elogiata nel taccuino proprio non se lo meritava.
E parlando del diavolo, Herneist si era già sistemato meticolosamente al suo “banco”, se non altro, notò, con la stessa espressione risentita che aveva lui, per il fatto che sarebbero stati compagni di banco per il resto dell’anno, bel segno del destino.

Passò oltre un indignato Coal che imprecava contro la ragazza addormentata sul suo schienale e s’introdusse nel caotico via vai dei suoi compagni di classe. Ebbe la chance di osservare i pochi che non si erano presentati alla porta per accoglierlo, tra cui il selvaggio paciugone mascherato bello pasciuto che la sera prima si era azzuffato con Furry, una ragazza dalla pelle color nocciola chiaro che si guardava attorno smarrita, e la strana armatura ferrata nera ricolma di fumante sostanza biancastra, che aveva attirato l’attenzione dei professori al momento dell’entrata ai cancelli.
Ovvio che fosse passato, chissà che Quirk aveva quella presenza enigmatica e nebulosa. Dalle feritoie degli occhi brillavano, forse assorti, due occhi rossi come rubino. Non toccava terra, né dava segni di aver compreso le parole di Marin, ma doveva trovarsi al posto prefissato, dato che nessuno si azzardava a importunarlo.

Lo sguardo perso nei gorghi formati dalla sua essenza, Yunix andò a sbattere contro un ragazzo decisamente più robusto di lui, che quasi lo buttò a terra.
«Che modi sono questi?» reagì Yunix, senza pensare, nonostante la colpa fosse anche sua.
Vedendo chi aveva di fronte, rimpianse amaramente di aver pronunciato quelle parole di sfida.

«Perché dovrebbe importarmi di un moscerino come te, lurido bugiardo?» Arc Nighter, primo classificato, si era degnato di indossare l’uniforme a differenza di parecchi altri, cosa che lo sorprese, considerando l’atteggiamento da punk dimostrato al banchetto. «Sto parlando con te» disse sollevandolo per i capelli. «Che occasione d’oro per regolare i conti: volevo giusto trovare tempo e voglia per concludere la nostra chiacchierata».

Yunix non sapeva cosa dire, e aveva paura a farlo irritare più di quanto non lo era di suo. Sul mento aveva ancora la ferita inflitta da Furry ai suoi danni e per di più il suo viso da così vicino pareva quasi grottesco, con delle occhiaie preoccupanti sotto le ciglia, piercing sul labbro inferiore e all’altezza dell’orecchio, e una pelle segnata da dubbie cicatrici violacee, simili a saette. Sembravano marchi impartiti con stampi incandescenti, di un colore tutt’altro che naturale. Per ultimo, i suoi occhi fin troppo abituati a essere microscopi si fissarono sull’attaccatura dei capelli mossi, dove un ematoma nero come la pece si stendeva lungo il profilo del viso del primo classificato fin quasi al padiglione dell’orecchio sinistro.

«Non ho niente da dirti» sussurrò Yunix, sperando che il timbro della sua voce non giocasse brutti scherzi.
Il ragazzo dalle capacità sensazionali si passò una mano fra i rigogliosi capelli alterni di ciocche nere e blu elettrico.
«Menti, non fai altro che mentire».
«A che pro?» replicò Yunix.
«Già, questo è il vero mistero» Arc gli tirò i capelli, come se volesse strapparglieli, poi però lo lasciò andare. «Detesto chi si nasconde dietro le bugie senza un valido motivo, ma lascerò correre, solo per questa volta, ti sta bene moscerino?»
Yunix non lo degnò di una risposta, si lasciò cadere sul sedile la testa fra le mani, stava perdendo il controllo. “Lasciami in pace, lasciami in pace!”

«Fuuuh! Allora? Hai sentito o no le mie parole, darkettone? A sedere prima che arrivi il professore, e che cavolo!» intervenne Marin, sollevandolo dall’incarico di rispondere alla domanda di Arc.

Quest’ultimo si limitò a guardare male la ragazzina che, Yunix lo notò solo ora, portava dei microscopici occhiali da vista con una catenella di corallo avvolta intorno: sicuramente il giorno prima non li aveva. La ragazza sostenne ferma lo sguardo di Arc, fino a che egli stesso non scrollò le spalle e s’inserì fra la seconda e terza fila, per raggiungere la postazione a lui assegnata, per fortuna dal lato opposto in cui si trovavano Yunix e i suoi compagni di banco.

«Cucù, se n’è andato ora» infierì a sproposito Herneist, che Yunix trovò appoggiato sul bracciale proteso nella sua direzione.
«Hai origliato tutto quanto?»
«Puoi giurarci, e devo dire che non ci hai messo molto a far scorrere cattivo sangue, i miei complimenti. Posso sapere...?»
«Neanche per idea» sbottò Yunix.
«Come sospettavo» disse lui. 

Procedette a stiracchiarsi, poi si allungò e bussò un paio di volte contro lo schienale davanti a lui, «pardon, monsignor capelli ciano? Due parole da scambiare?»
Il sedile girevole ruotò, per mostrare il diffidente viso di Nimble, un’espressione così affranta da spezzare il cuore.
«Cosa volete?»
«Intanto, su con la vita, Rimaric, non vorrei ritrovarmi a chiacchierare con dei morti viventi in questa classe, i ladri bastano e avanzano».
Lo studente dagli occhi color anice sorrise per la prima volta.
«Perbacco, nono, vi siete fatti un’idea sbagliata... sto molto, molto bene. Non ho ancora ben chiare tutte le dinamiche della cosa; perciò, non so ancora come potrebbe peggiorare questa questione; perciò, materialmente non posso ancora essere sfiduciato di fronte al futuro» si strofinò in modo tenero le spirali incavate sulle gote con due dita, «non ancora, non ancora» ripeteva fra sé e sé.

Yunix era a tanto così da dire a Herneist di lasciar perdere, qualunque cosa volesse ottenere, ma poi si ricordò che si odiavano, così tacque per vedere come proseguiva il confronto.
«Ne sono sollevato» rispose educatamente il ragazzo che odorava più che mai di naftalina, «ci siamo incontrati su a Infection, eri uno dei membri del gruppo di Arc».
Il ragazzo annuì. «È così».
Herneist gli sorrise, afferrando il tavolo con una presa più salda, quasi bramosa, che non sfuggì a Yunix.
«Non è che per caso... insomma tra una scampagnata e l’altra, lui ha pensato bene di...»
«Usare il suo quirk?» completò la domanda Nimble.

Herneist annuì, pendendo dalle sue labbra senza darlo troppo a vedere.
Il ragazzo ricurvo chinò il capo.
«Magari, santo cielo, magari... ancora non capisco come riusciva a staccarci con la sola forza delle gambe, continuavamo a rimanere indietro, sempre più indietro, e ci toccavano i pochi rimasugli che lui ci lasciava, tuttavia... no, non una volta l’ho visto usare il suo potere, mi spiace, ragazzi».

Solo Yunix colse la delusione nell’espressione di Herneist, la sorpresa invase invece la sua. Si rivolse al compagno, che sembrava sorpreso di essere interpellato con tale foga fin dal primo giorno.
«Wow... intendi dire che è riuscito a piazzarsi al primo posto senza usare il suo Quirk? È assurdo».
Il sospiro esasperato di Herneist gli fece ribollire il sangue nelle vene.
«Buonanotte, fiorellino. Se pensi davvero che abbia potuto abbattere tutti quei criminali a mani nude solo in virtù del suo allenamento, sei da ricovero. Non c’è Hero che combatta così bene senza quirk, non uno in tutto il Giappone, figurarsi un giovane appena uscito dalle medie». Il ragazzo fece una risatina. «Anzi, caspita, se ti devo dire la mia l’unica altra persona su cui ho dubbi che possa aver ottenuto un così buon risultato senza l’uso di poteri, oltre a me ovviamente, è il quinto classificato, che si è distinto equamente in ogni singola categoria, un vero coup d’etat al mio impegno, e la cosa peggiore è che non gli daresti due lire a prima vista».

Yunix dimenticò il riserbo nei confronti compagno e volse il capo.
“Il quinto classificato, quello che ha sorriso tutto il tempo in cui è stato sopra il palco?”
Lo avvistò, nell’angolo destro in fondo alla classe, l’ultimo posto assegnato da Marin, capelli gialli come il sole nascente, braccia che sembravano fuscelli, una corporatura talmente esile da farlo sembrare più gracile di Nimble, per quanto lo superasse sia in altezza che in costituzione.
“Anche lui nella nostra classe? Asia, Coal, Arc e la ragazza arrivata terza... tutti i primi cinque classificati nella stessa classe? Parli di equilibrio eh? Aspetta...” Incrociò lo sguardo di Coal, che proprio in quel momento, un banco davanti a lui, si era girato verso Asia con un sorriso machiavellico. “Esattamente come aveva previsto lui, Marin non sarà contenta considerando quello che ha scommesso”.

Prima che avesse il tempo di constatare la sua reazione, la porta si aprì con un cigolio e il chiacchiericcio scemò in un attimo. Yunix mandò giù un boccone di saliva. A fianco a lui, persino la ragazzina dal colbacco aveva smesso di rosicchiare il righello come poteva fare solo un fottuto roditore. Tutti si erano resi conto che il vero corso estremo per eroi stava per cominciare, che la loro stessa esistenza stava per stravolgersi, rivoltarsi come un calzino. Il fresco battaglione che entrava nel mondo degli eroi di Temigor sapeva bene a quale unica imperativa condizione avrebbero avuto accesso all’Eldorado dei più grandi: una parola che iniziava con la “e” e terminava con la “a”, ovverosia ECCELLENZA, parola che da sempre era indicativa di un’élite e Yunix aveva già adocchiato il problema alla radice di tutto.

“Con gente come Arc in giro, come potremo noi comuni mortali fare parte di quel gruppo?”

Lesse negli occhi di tutti, perfino Herneist, lo stesso dilemma.




Note d'autore:
Capitolo più breve per palati più lievi. Mi sono divertito a scriverlo: la levitas è un balsamo per l'anima. Spero vi sia di gradimento, so che sono tanti personaggi, ma volevo mantenere una certa regolarità con la serie, e comunque ho progetti per ciascuno di essi. Non che d'ora in poi tratterò solo il ripetitivo e millemila volte riproposto scenario della scuola teen, s'intende! Semmai, occuperà qualche capitolo di questo arco, benché il focus della storia sarà ben altro. Insomma, presto si aprirà il sipario sulla vera innovazione che voglio introdurre in merito ai Quirk. Critiche e recensioni sono sempre ben accette :)

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Capitolo 29
*** Una Strada per il Futuro - Parte Sesta: Il mistero di Hearts Galvan ***


Una Strada per il Futuro - Parte Sesta: il mistero di Hearts Galvan


A varcare la porta, simile a uno di quegli usci con manovella girevole che infestano i sottomarini, fu un uomo sulla quarantina, pipa in bocca, capelli castani dalle punte biondastre, un viso vissuto, segnato dal tempo, e degli occhi parecchio, ma parecchio sgranati.

«Ah... In nome del cielo, perché ci portiamo ancora addietro le manie di Hearth?» borbottò a bocca piena, frugando negli scomparti della giacca rattoppata alla ricerca di qualcosa.

«Buongiorno professore!» lo salutarono all’unisono tutti i ragazzi della 1A, alzandosi in piedi in contemporanea, quasi come delle marionette. Il motivo era evidente. Volevano fare una buona impressione e Yunix, una volta tanto, non esitò a unirsi al saluto generale.

Di contro, l’uomo vestito all’antica non li degnò della minima attenzione. Sospirando, depose la valigia che portava a mano sulla cattedra di alluminio.
«Fa sempre così con le matricole, quel buono a nulla». Continuava a comportarsi come se fosse in completa solitudine. Tirò via la pipa dalla bocca e iniziò a versare il contenuto in un portacenere. «Un’astronave..? Letteralmente un inficio al mio stile vintage, guarda te che invidioso».
Aveva una voce stanca, energica il minimo sufficiente perché potessero udirla, non che si stesse rivolgendo a loro, comunque.

Il primo a perdere la pazienza fu Coal, che però era abbastanza accorto da non voler rischiare l’espulsione per un volgare capriccio. Ripiegò piuttosto a una soluzione diversa: attirare l’attenzione di Furry, che era in prima fila, in fondo all’ala sinistra. Dopo che il piccolo pellerossa ebbe porto orecchio nella sua direzione, il piromante iniziò a battere ritmicamente il pugno sul palmo, i nervi contratti sul volto per la concentrazione.
«Codice morse...» sussurrò Herneist, «che classe piena di sorprese, nemmeno io potrei decifrarlo senza un abbecedario specifico».
Yunix dovette assentire con un impercettibile cenno del capo. Furry però parve decifrarlo alla perfezione, perché sollevò il pollice in segno di ok e alzò una mano.
«Professore, Furry Condell qui! A nome della classe, siamo tanto tanto tanto felici di poter imparare da un uomo lindo e svampito come lei, attendiamo ardentemente d’iniziare a menare le mani, pam, pam!» concluse eseguendo due rapidi pugni per l’emozione, come se fosse un boxer.

Oltre alla prevedibile miriade di occhiatacce da parte dei compagni, anche l’arcigno professore indirizzò il cranio verso la fonte del rumore inatteso, riservando al malcapitato un cipiglio sinistro. La sua faccia raggrinzì come un pomo marcio. Furry perse coraggio e comprese di aver messo un piede in fallo.
«Ma che gli hai detto di dire..?» fece Asia a Coal, coprendosi la bocca con la mano, per evitare di essere beccata. Il ragazzo aveva un sorriso perfido stampato in faccia, che si affrettò a scacciare all’occhiata micidiale della esperta di arti marziali.
«Frena, frena. Niente di così estremo, è colpa mia se prende le cose alla lettera, non ho capito?» rispose con un filo di voce.

L’insegnante pareva costernato.
«Credo... credo di aver sentito male» balbettò, scuotendo leggermente il capo, gli occhi sbarrati, grandi come scodelle. «Scusa tanto, ma chi ti crediti di essere esattamente, signorino? Vuoi essere il primo a essere espulso, l’exemplum per un intero corso?»
Yunix non avrebbe mai voluto trovarsi al posto del ragazzo dalla pelle indiana in quel momento.
«A-aspetti, c-aahhh... non... intendevo.. non... ththt- deve aver frainteso... io...»

L’uomo si elevò in tutta la sua grandezza, sovrastando con la sua ombra persino la luce dei fotoni.
«Io avrei frainteso!? Entro una settimana, ci saranno solo tre paia di studenti a farmi la corte, posso già intravedere chi saranno» i suoi occhi severi si fermarono qua e là, su Asia, su qualcun altro alle spalle di Yunix, sul ragazzo accanto a Yunix, definitivamente non su Yunix. “E te pareva...” «Chi pensa che dopo quella bazzecola del test il peggio sia passato, si è a malapena fermato al sesto capoverso della prima pagina della Bibbia, all’incipit degli incipit».
«Che drammatico» ironizzò Coal a voce bassissima.
Furry non sapeva che pesci pigliare, il suo viso era quello di una moffetta impaurita, tremava, poveretto.
«E tu... Non osare neanche fiatare, se ti becco a singhiozzare ti giuro che ti mando a casa assieme al tuo compagno di banco, lo giuro sul nome dei padri fondatori, tu e il giovanotto arzillo affianco a te».

Il ragazzo quieto dai capelli tempestati di spilli corrugò la fronte, preso in causa.
«Mi perdoni, cosa c’entro io..?»

L’uomo lanciò un urlo assordante, facendoli quasi sorridere, ma lasciarlo intuire fu un grosso errore.
Gli occhi dell’uomo s’iniettarono di sangue.

«Non un’altra parola, non un singolo singulto, vi voglio con le bocche tappate, come se foste in una, perdonate la scurrilità, cavolo di caserma per superuomini, che a conti fatti è esattamente la meta che questa scuola si prefigge di farvi raggiungere, ci siamo capiti?» alzò le dita come un direttore d’orchestra, aspettandosi una risposta corale.

«Sì, signor professore» risposero d’istinto i ragazzi, Furry quasi mugolando.
L’uomo in giacca e cravatta abbassò il mento.
«Hm... può anche andare, ora se permettete...» si avvicinò con le stesse ampie falcate con cui era entrato al banco di Furry.
«No, la prego».
«ZITTO!» Allungò una mano raggrinzita verso il suo viso lentigginoso. Gli occhietti infantili erano pieni di paura, il piccoletto era a tanto così dall’avere un infarto in piena regola.
Yunix si pentì di averlo usato come cavia la sera prima, e plausibilmente lo stesso stava vorticando anche nella testa di Coal, perché lo vide grattarsi debolmente la tempia, rapito dalla scena che aveva di fronte.
«Lo lasci stare!» gridò Asia, abbandonando ogni cautela. «Non osserverò un mio compagno...»
L’uomo usò l’altra mano per schioccare tre volte le dita.
«Al prossimo che parla strappo le orecchie e le appendo su una gruccia, ora signor Condell...» la mano incombeva sul suo viso atterrito. «Ho deciso di...» tutti trattennero il respiro, Furry iniziò a piagnucolare.

«Oh, insomma, come faccio a mantenere la farsa se mi impietosisci con i tuoi vagiti da neonato in fasce» esclamò il professore colpendolo dolcemente sulla fronte.
Nel silenzio di tomba che seguì, l’uomo scoppiò in una risata fragorosa. «Fregati anche questa primavera! Non posso credere che ci riesca tutte le volte, forse ho davvero sbagliato carriera, oltre che epoca, misericordia. Magari fossi un satiro, coi suoi zoccoli di capra, sempre a ritmo con le note...» Si allontanò dal banco, danzando in cerchi via via più ampi. «Baccanti! Me ne vado a raggiungere le baccanti, sui pendii di Citerone, mi unirò alle loro danze».
Perfezionava i passi in un turbinio, con l’abito a rombi scuri che svolazzava attorno alle ginocchia, le mani tenevano il ritmo. Persino Herneist ne era sconcertato e prima che uno qualunque degli alunni potesse processare tutta quell’insensatezza, l’uomo aveva tranciato di netto il corso della melodia.

Solo la ragazza dal pelo azzurro continuò a canticchiare lo stesso motivo, persa da qualche parte dietro quella specie di apparecchio elettronico che le celava parte del volto trascurato.

«Tornando seri, ora...» esordì il professore, saltando a gambe incrociate dietro la cattedra, dove si sedette davanti a una platea pietrificata. «Mettiamo in chiaro un paio di cose: non siamo in un carcere, io non sono il sergente maggiore Hartman e di sicuro non voglio che si rimanga in quattro gatti. Se la scuola ha la reputazione di sfornare solo pochi eroi all’anno è perché semplicemente si tratta di un’educazione rigorosa, che bilancia ottime prospettive con un percorso arduo, lungo e difficile, per aspera ad astra, questo è il mio motto. Un percorso che in un modo o nell’altro vi metterà a nudo per ciò che siete, senza infiorettature, senza maschere o secondi fini».
Il professore studiò attentamente i ragazzi negli ultimi banchi.
«Stando così le cose, se non avete in voi un indomabile cuore eroico potete pure fare i bagagli, perché sarete espulsi entro la fine del primo semestre, senza se e senza ma. - Su quali basi lo misurate il nostro cuore? - Vi starete domandando questo, ho indovinato?»

Lex tossicchiò alle spalle di Yunix. «Cuore eroico, cuore eroico e intanto però dobbiamo coprire i vostri disastri, renditi conto».

L’uomo non lo udì.
«Con le azioni, cari aspiranti, con i gesti, con il vostro modo di vivere, benché, mi duole dirlo, il vero scoglio per la prosecuzione del vostro percorso sarà la professoressa Ektel in persona, la quale avrà accesso illimitato a ciò che gironzola nel vostro conscio e subconscio. Se siete qui per fama, soldi, vendetta, o altre ragioni, senza un accenno di crudo eroismo nella bisaccia dello spirito, lo capirà nel giro di qualche settimana o pochi mesi al massimo, e provvederemo al vostro allontanamento con decorrenza immediata, ci sono domande fin qua?»

La classe era silenziosa. Yunix non riusciva a capire come una persona potesse passare dall’essere un intransigente insegnante, a un nostalgico ballerino e viceversa con tale fluidità, però riusciva a comprendere bene la minaccia che la donna di nome Ektel portava con sé. “La sua maledizione, come la chiama”.

«Herneist, la professoressa che ha nominato, l’ho conosciuta... Ha un potere singolare, Eco si chiama, le permette di leggerci nel pensiero praticamente».

Gli sembrò importante condividere l’informazione con qualcuno, nonostante quella persona fosse la peggiore con cui confidarsi, dal momento che, purché infima, era a tutti gli effetti la più vicina. Il ragazzo dai codini a raggiera fece intendere che aveva recepito il messaggio.
“Se solo venisse cacciato a causa di quell’eroina col passamontagna, diavolo sarebbe fantastico...” rimuginò Yunix, pentendosi subito dopo di quei pensieri impuri.
Che strano, però: non riusciva in alcun modo a riportare alla mente l’immagine di quella ragazza che gli aveva dato asilo all’ingresso della villa, come se fosse scomparsa dalla sua mente. Anche quell’uomo... aveva la netta impressione di averlo già incontrato, ma dove? E perché si sentiva la testa così leggera? Un formicolio ai peli del braccio destro gli diceva chiaro e tondo che qualcosa non tornava, ma ora non era il momento. Avrebbe avuto tempo più tardi. Ora non perdersi informazioni importanti sulla scuola era la priorità. Partiva svantaggiato rispetto agli altri. Poteva dirlo senza bisogno di prove.

Presso la cattedra, l’insegnante li passava in rassegna uno ad uno, cercando inesistenti mani alzate. Dopo la scenata con Furry, tutti sembravano meno propensi che mai a dire la loro. Come biasimarli? Dopotutto conoscevano quella figura ambigua da pochi minuti, non potevano certo prendere le sue parole rassicuranti come oro colato.
Nonostante questo, il suo sospiro affranto non stupì nessuno.

«Povero me, il silenzio è dei cinici e dei codardi, spero mi proverete diversamente, strada facendo» tirò fuori un minuscolo panno dalla valigia e iniziò a passarselo sulla fronte, come un’anima in pena. «Se poi mi tocca smantellare la classe come i due anni passati, che figura ci faccio, misericordia?» continuò, parlando fra sé e sé.

Yunix e più o meno metà dei compagni orripilarono.

«Smantellare? Due anni?» ripeté congestionato il ragazzone in fondo alla classe, che Yunix notò ora avere una singola, solitaria impomatata ciocca di capelli simile a un punteruolo svettare sulla rasatura militare di capelli neri.
«Pfff, vuole solo intimidirci, è così palese» lo schernì Marin, sbadigliando.
L’armatura nera posseduta, a fianco a lei, cigolò appena, come se volesse darle ragione.

«A me gli occhi» richiamò l’attenzione di tutti il professore, ottenendo di nuovo il silenzio. «Ora. Mi pare assodato che...»

«Professore..?» Il ragazzo con la stella sulla fronte aveva la mano alzata.
Schiacciato tra le figure tenebrose e grottesche di Arc e del sinistro involucro nero, Chooki saltava ben poco all’occhio. Per di più, era stato il più taciturno fino a quel momento, letteralmente muto come un pesce. Yunix si era quasi scordato della sua presenza e dire che era tra i pochi che conosceva fin dal test.

L’uomo diede rispettosamente la parola al giovane.
«Prego, signor...»

«Chooki Mason, passato per miracolo praticamente. Signore, c’è una cosa che non comprendo. Se devo essere onesto, non riesco a capire perché i primi cinque classificati si trovino nella stessa classe. Non sarebbe stato più sensato dividerli?»
Il ragazzo tacque. Evitò di proseguire con “e che ci faccio io nella loro stessa stanza?”, parole che aleggiarono nell’aria come tanfo putrescente.

«Nessun disturbo. Hai sollevato una questione interessante. È tradizione, o meglio abitudine inserire i primi cinque del test nella stessa sezione, bada bene, non per una volontà di privilegiarne una, in sfavore dell’altra, quanto più per dimostrare una semplice verità: voi non siete posizioni, voi siete potenzialità, e da tempo immemore la media degli studenti che arriva alla vetta, al diploma, è la stessa per entrambe le classi, sia quella coi primi cinque in graduatoria, che quella che ne è sprovvista».

Marin ebbe una specie di crisi di nervi e Yunix, direttamente davanti al suo tavolo, capì cosa l’aveva provocata. «Quindi tu lo sapevi, lurido piccolo verme». Non poté alzare la voce come avrebbe voluto, ma il diretto interessato sentì alla perfezione. «Uhuhu, Marin e non sai ancora cos’ho in serbo per te...» la stuzzicò Coal, «sono proprio un fortune teller di prima categoria, fammelo dire».
«Sapere già le cose non conta come predirle!» esclamò Marin, la voce ovattata.

Il maestro richiese di nuovo il silenzio.

«Allora, ho risposto alla tua domanda?»
«Sì...» replicò Chooki, gli occhi lucidi, sprofondando di nuovo nel sedile.
«Ha lasciato la voglia di vivere nell’altra giacca, quest’altro» mormorò Herneist prima di alzare a sua volta la mano. «Mi permetta, signore, temo che la mia compagna qua a fianco abbia fatto le ore piccole stanotte».

La ragazza simile a un dolce natalizio due gusti ronfava beatamente al sicuro nella beata copertura dei sedili fantascientifici.
«Povero me, qualcuno la svegli, forza. Tu, con la maschera».
Il ragazzo dai modi belluini a fianco a Herneist emise un ringhio, che irritò alquanto il professore. «Sempre se non sto disturbando qualcosa» insisté, la minaccia che incombeva in quella voce così flemmatica.

«Spioneee, mezza cartucciaaa...! Io faccio quello che mi pare e piace, capito occhi strani?» ruggì in direzione di Herneist che cercava di riportarlo alla ragione.
«My, my, caspita qui ci vuole ben più di un corso sulle buone maniere. Non si preoccupi professore, è un problema che va al di là di una mancanza di rispetto verso di lei. Se permette...»

L’uomo fece un cenno d’assenso.
«Hai carta bianca, mi avevano informato di alcuni soggetti peculiari».

Yunix vide il compagno di banco compiere un gesto strano. Appoggiò la mano fra i capelli ispidi color albicocca del ragazzo, protendendosi verso di lui come un cobra.
«Canta, mio gallo, annuncia l’aurora. Sveglia la ragazza, Gur Kakaito, scoprirai quanti vantaggi ricaverai dall’avermi fatto un favore». Avvicinò il braccio ossuto al foro della bocca, sotto la maschera. «Lo potrai masticare tanto quanto vorrai, in cambio chiedo solo un po’ di reciproca, perenne fedeltà» pronunciò tutto quel discorso in un sussurro, che giunse flebile alle orecchie di Yunix.

Quirk, persuasione o ipnosi che fosse, il piano di Herneist funzionò, perché dietro gli strati d’avorio un grugnito appagato diede risposta alla voce ammaliante.
Il professore sbuffò, le mani in tasca.

«Tanti saluti alla nostra credibilità» gemette Asia, ma non fece in tempo a finire che una risata stridula la fece sobbalzare sul sedile.

«Sveglia, sveglia, pezzo di cioccolato nyahahah!»
Gur aveva urlato a pieni polmoni nelle orecchie della bella addormentata, la quale opportunamente si svegliò di soprassalto un po’ inacidita, anche se decisamente meno di quanto sarebbe stata una persona normale.
«Mi scusi dolce signore... yawn... mi devo essere appisolata, non accadrà più...»

«Non importa» liquidò la faccenda lui, gettando occhiate inquiete alla finestra, dove tre asteroidi entravano in collisione con un satellite di dimensioni massicce. «Siamo già fuori tempo massimo, per cui accelererò il ritmo, non vorrei condannare una scolaresca all’oblio per una mia disattenzione, miseria».
«Tsk... non farmi ridere, non l’avrà mica capito dai pianeti, spero» commentò Lex, misurando il tono.

Ignaro, il professore schioccò le dita tre volte e un proiettore calò dal soffitto per riprodurre tre immagini sulla parete dietro la cattedra: una scuola, un hangar e una scena di salvataggio da parte di Heroes professionisti.

«Bene, dunque, come procederà il vostro percorso scolastico? È molto semplice, sarà una permanenza a settimane alterne, dedicate a uno di questi tre parimenti importanti fondamenti per diventare eroi, nonché rispettabili Temigoriani: Teoria» sollevò un dito e la scuola s’illuminò di giallo. «Allenamento intensivo» sollevò il secondo e toccò all’hangar. «Ultimate Test» un terzo dito si aggiunse agli altri due e fu la scena di salvataggio a diventare chiara.

«Che eleganza, potrebbe essere l’uomo della mia vita» bisbigliò la ragazza dai capelli viola fluenti, tali da coprirle anche gli occhi.

«Teoria sta per apprendimento terra terra, di nozioni, logica, educazione civica, attitudine all’eroismo, non dimenticando le materie a cui siete già abituati: matematica, inglese, arte, storia, scienze della terra e in aggiunta inedita economia domestica ed educazione alle culture del mondo. Dal secondo anno in poi potrete specializzarvi in altre facoltà: chimica, superstizione, economia, saggistica, scrittura, psicologia, eccetera, eccetera». L’uomo fece un sorrisetto. «Non vi sto a dire che un risultato inferiore all’eccellenza sarà un campanello d’allarme sul fatto che siete in dirittura di espulsione».
«Scherza vero?» domandò Furry cercando conferme attorno a lui.

«L’allenamento intensivo occuperà la settimana ventura: si costituirà di un addestramento pressoché ininterrotto dalla prima lux fino ai vespri, che temprerà il di voi fisico e forza d’animo. Mens sana in corpore sano».  

«Morituri te salutant, più che altro» brontolò Coal, beccandosi un secondo pugno, questa volta da Asia.

«Come ogni corso che si rispetti, non è nostra intenzione privarvi del tempo libero, per cui la terza e quarta settimana di ogni mese saranno, almeno per il primo trimestre, lasciati alla vostra mente creativa» la voce appassionata dell’uomo troncò il sospiro di sollievo sul nascere, «se non ché in cinque di queste date si svolgeranno gli Ultimate Test, occasioni in cui metteremo a esame il vostro potere e come siete in grado di controllarlo, la vostra forza e come la mettete a disposizione del prossimo, le capacità cognitive di tattica e strategia, e ultimo ma non meno importante... no, non mi va di rovinarvi la sorpresa, non a voi che potreste evolvervi fino a trasformarvi in super uomini».
Li guardò con orgoglio e Yunix, per la prima volta in assoluto, scorse dell’affetto dietro quel viso così provato.
«Tenente a mente che sarà, nel modo più assoluto, un cammino strettamente individuale, in cui nome, costume e licenza da eroe, saranno acquisiti in personal measure tramite i progressi che farete singolarmente».

La ragazza a nord-est nell’ultima fila con la coda di cavallo prese a saltellare sul sedile. Per qualche motivo si era pure allacciata la cintura.
«Yum! Just come salire di livello, guadagniamo items e diventiamo più forti! Una roadmap con check points e ricompense: Yahoo!»

«Aye! Non avrei usato le stesse parole, ma altroché se hai ragione» la sostenne in maniera adorabile lo studente accanto a lei, il quinto classificato, che da quando era entrato in classe non si era mai tolto il sorriso dal volto. «Sarà come...» sollevò un dito a media altezza, colto dall’illuminazione, «un king of the hill sulla cresta dell’onda!»
Come la prossemica, anche la sua voce era dolce come il miele, accattivante, piena di alta considerazione di sé e degli altri, acnche se Yunix, ben lungi dal voler giudicare senza sapere, si ritrovò a mimare meccanicamente con le labbra una frase pungente: "non è tutto oro quel che luccica", che chiaramente si tenne per sé. 

Ben diverso fu l’intervento seguente ad opera dell’angolo nord-ovest della classe. La ragazza dalla carnagione olivastra che non aveva ancora detto una parola ad alta voce parlò dal suo anfiteatro di capelli ricci simili a spirali capovolte. Era molto magra.
«Oltre a ciò che già sappiamo, qual è la  novità che tanto agogna di disvelarci?»

Il tono criptico non tediò l’insegnante a quanto pareva, anzi lo fece sorridere.
«Ciò che nessuno racconta del nostro istituto è l’oggettività con cui scegliamo chi trionfa e chi decade, mia cara pupilla, o perlomeno abbiamo metri ben precisi, volti a non farci saltare a conclusioni affrettate come spesso accade tra persone che in virtù della loro posizione potrebbero fare quello che vogliono: questi».
L’immagine tripartita lasciò il posto a una tabella a venti colonne con, per ciascuna delle quali, la figura del dato studente.
«Quei quadretti che ora sono bianchi, sotto ognuna delle vostre foto, sono, come vedete quindici a sinistra e cinque a destra. Distinguetevi negli Ultimate Test, prendendo in mano la situazione, giocandovela in maniera più destra degli altri, oppure semplicemente dando il meglio di voi e un quadretto a sinistra della vostra colonna si dipingerà di verde. Al contrario, se la vostra performance lascerà a desiderare, se la vostra incompetenza e/o inefficienza sarà determinante per la sconfitta propria o dell’eventuale squadra, o se anche solo non riuscirete ad avvalervi di opportunità che vi vorrebbero alle redini dell’azione, se insomma fallirete le aspettative che abbiamo e avete su di voi, allora sarà un quadretto a destra a dipingersi... del rosso del fallimento».
Mostrò una mano aperta alla platea in ascolto.
«Cinque fallimenti porteranno all’espulsione, quindici successi al vostro meritato e atteso trionfo: alla maturità, alla graduazione accademica, al titolo di Heroes!»

La ragazza in fondo alla classe parve ancora più infelice di prima.
«E se... non dovessimo raggiungere la completezza di nessuna delle due colonne in tre anni?»
Il silenzio cadde sulla classe.

«Allora saranno tre anni persi» dichiarò l’uomo, con la massima sincerità, «dovrete abbandonare questo edificio, per sempre».

Un’ombra di sconforto calò sulla classe, non risparmiando nessuno. Yunix capiva bene cosa provavano i compagni. Di fronte a loro, lui compreso, non c’era una linea retta in cui poter avanzare in semplice equilibrio. A cosa sarebbe contato stare lì a sorbirsi addestramenti militari, ore e ore di spiegazioni complesse, se poi alla fine sarebbero stati schiacciati dalla necessità di quei quindici quadretti? Non c’era possibilità di lasciarsi scivolare addosso quei tre anni, in maniera passiva, attendendo un boccone gratuito dalle mani dei docenti: forse avrebbe funzionato all’inizio, ma quando il tempo sarebbe stato agli sgoccioli si sarebbero ritrovati con un pugno di mosche in mano, avrebbero dovuto dire addio a ogni sogno, a ogni prospettiva, a ogni speranza. Al test d’ingresso si poteva passare per un colpo di fortuna, per alcuni, per molti era stato così, ma ora che nel sistema c’erano dentro, quello squilibrio tra gli infiniti scalini che dovevano salire, e i pochi passi falsi che potevano fare prima di precipitare nel baratro, gridava a gran voce che erano spacciati, che solo uno su tanti poteva arrivare in fondo a quel tunnel, mantenendo la sua integrità.
L’unico modo era impegnarsi, mettersi davanti agli altri e conquistarsi quei successi, perché erano soli, soli in una competizione nuda e cruda, dove gli stessi compagni non erano che ostacoli, insignificanti avversari da sconfiggere e cinque minuscoli errori potevano significare la fine dei giochi, errori che sarebbero stati costretti a rischiare di prendere se volevano ambire a quei successi. Non c’era via di fuga, sia l’indifferenza, sia l’impegno grezzo, li avrebbero condotti al disastro, l’unica salvezza era il dimostrarsi impeccabili, capaci di imprese eroiche, mostrarsi come semidei, come macchine da guerra, come esseri superiori, conquistare per sé stessi e solo per sé stessi la vetta. Tanta pressione pesava sui loro cuori, carichi di una missione più grande di loro, una missione che li avrebbe condotti alla gloria eterna, o alle porte dell’averno, senza una via di mezzo, che evitasse loro un bivio così infausto e implacabile.

Il professore, anche se aveva detto di avere fretta, li lasciò ai loro pensieri. Dopo aver assistito all’immatricolazione e alla crescita di centinaia e centinaia di giovani, comprendeva meglio di chiunque altro quanta forza di volontà servisse per cambiare in quella misura le proprie prospettive, per mettere in palio tutta la propria vita, per imbarcarsi in quel mondo combattivo, quasi capitalista. "Dovranno lottare con le unghie e con i denti" pensò, quasi invidiandoli.

“Ma cosa sarà mai, in confronto a cercarsi il cibo nella spazzatura? Cosa sarà mai in confronto a combattere un generale decaduto che non ha più nulla da perdere? Cosa sarà mai in confronto ha ciò che ho già dovuto passare?” questi e altri quesiti affioravano nella mente di Yunix, mentre dalle grate si diffondevano sbuffi d'aria condizionata. Per la prima volta, il ragazzo dai capelli grigi credette fermamente di avere un primato in quella classe: non c’era nessuno tra quei visi multiformi che avesse meno da perdere di lui, non poteva essere altrimenti. Questo lo rincuorò.

«Un ultimatum... come ovvio che sia...» mormorò Nimble, in mezzo alla prima fila, il viso di un colorito pallido.

«È naturale» approvò Asia, «Solo così potremo mostrare di volere veramente quel mantello, di non essere fan sfegatati senza un briciolo di merito!»

«Precisamente, signorina Shiena’q» la elogiò il professore.
La ragazza aprì la bocca, perplessa.
«Pensavo che non sapesse i nostri...»
«E che razza di professore sarei se non conoscessi la mia scolaresca?»
«Ehm... professore, mi sa che... ATTENTI!» Un meteorite particolarmente grosso stava per impattare contro la finestra: Furry schizzò via, come un gatto buttato in mezzo a uno stagno, andando a rifugiarsi fra le braccia dell’asiatico dalla cinta piena di pastelli e pennelli. «AAHHH!»

Ma la superficie rocciosa non collise mai con la parete dell’abitacolo.

«L’avevo detto che era un’illusione» borbottò l’artista cercando di staccarsi di dosso un Furry alquanto terrorizzato, che ancora lo abbracciava.

«Non sei completamente in errore, Vartimor Khan, anche se ci sono più elementi di realtà tangibile di quanto sicuramente ti aspetti» rise l’insegnante dando dei colpetti alla parete finché il proiettore non si spense. «Togliamoci subito il dente, dunque. Per chi ne fosse all’oscuro, l’HG, l’accademia per eroi in cui ci troviamo, è un edificio ben più astruso di come viene descritto su Wikipedia. Vedete, l’esistenza di questa proprietà è garantita da una sola persona, che ne è il cuore, proprietario e sovrintendente. Il suo nome è Hearts Galvan, da cui le iniziali H.G., nome dell’istituto. Egli possiede un Quirk molto particolare, su cui vengono attualmente compiute ricerche da milioni e milioni di yen. Tirando le somme, è legato indissolubilmente alla struttura, ne manipola la realtà, ha controllo a grandi linee su ogni stanza, e non sappiamo realmente se abbia costruito lui l’edificio o sia lui l’edificio. Poco importa. La sua sola presenza rende l’accademia inattaccabile dall’esterno, grazie alle capacità sensazionali di cui dispone. Per questo, i controllori, ossia gli inservienti in tenuta rossa che pattugliano i corridoi, sono istruiti in modo tale da adempiere alle sue necessità. Data la sua natura schiva, e ai suoi precedenti, nel corso della vostra immediata permanenza, non avrete modo di conoscerlo, vederlo, o anche solo parlarvi, dimodoché... Che piacere, un’altra mano!» s’interruppe il professore dal viso asciutto, provocando uno spostamento degli sguardi tutti alle loro spalle, alla ricerca del coraggioso che aveva osato interrompere la spiegazione un’altra volta.

Yunix gemette.
Era Arc Nighter. La sua mano alzata sfiorava il tapis roulant appeso al soffitto. Il compagno aveva una presenza così oscura che quasi si confondeva con lo spazio aperto oltre le lunghe finestre.
«Che genere di precedenti, si può sapere?» la sua voce era quantomai piatta, probabilmente nemmeno gli importava della risposta.

L’insegnante accavallò una gamba sulla cattedra e appoggiò il mento sul proprio ginocchio, con una flessibilità semplicemente fuori di testa per un uomo adulto come lui. Il suo viso era pacato, quasi intrigato dall’intervento del ragazzo. Minuscoli micromovimenti della sua mimica facciale invece, difficili da estrapolare persino da parte dello studente dagli occhi tempestosi, evidenziavano una riluttanza, che sfociava qua e là in pinnacoli di incertezza. L’insegnante aveva una patata bollente per le mani e pianificava come farla esplodere in sicurezza? O magari, ma qui Yunix poteva solo campare ipotesi per aria, stava considerando di vuotare il sacco su un argomento palesemente scottante...

«Si è...» l’uomo sbuffò divertito, un attimo di esitazione, «si è discusso molto in merito a quali provvedimenti si sarebbero dovuti prendere verso un presunto fuggitivo. Regimi più imponenti e scellerati scelsero la damnatio memoriae per chi dello stato aveva fatto circo. Con noi andò diversamente, forse perché Temigor non era il Giappone, forse perché un loro grande nemico poteva essere il nostro più grande alleato». Una nota lugubre caricò la sua voce di presagi non espressi. «L’uomo HG, come molti lo conoscono, è una leggenda che sfocia nel mito. A cavallo fra due secoli, avrebbe assistito alla fondazione di Temigor, alla tratta dell’arkastro, alla prima riunione dell’Ordine della Giada, di cui lui stesso sarebbe stato membro per un periodo di tempo ahimè sconosciuto. Tre volte primo ministro Giapponese, eletto a pieni voti dalla Dieta riunitasi a Deika, avrebbe persino avuto un ruolo di rilievo nella battaglia di Nuova-Hiroshima e combattuto faccia a faccia contro villains di minaccia globale, tra i quali, tenetevi forte, lo stesso All For One, uscendone pressappoco indenne. - Da lui ha ricevuto il potere di non morire mai - con queste parole, gli estremisti della fazione opposta alla sua, alimentavano con numeri dall’intento innegabilmente parodico e scandalistico l’astio nei suoi confronti, perché, ve lo anticipo, è così che funzionano i governi. Ciò che andò storto è elemento di discussione anche fra noi, perché a causa di un patto, col senno di poi svantaggioso, non avremo mai altre verità dalle sue labbra. Le teorie più fondate sono state accantonate, in virtù del cool factor e in mezzo a questo malloppo di frivole storielle, abbiamo solo una versione dei fatti abbastanza verosimile, esito deludente di un lavoro amatoriale condotto a spizzichi e bocconi» sebbene usasse un tono neutro, l’uomo non sembrava farsi problemi a dire com’è che la pensava davvero, «Pare, e qui mi appello alle poche fonti affidabili in nostro possesso, che la sua condotta politica diplomatica di carattere democratico fosse vista di malocchio e che, accecato dalla rabbia per essere stato abbandonato dall’amante conosciuta in Cina ai tempi d’oro, il nostro uomo si fosse trovato a intavolare una controversia dalle tinte drammatiche con niente meno che la figlia dell’imperatore, colpevole, per gelosia o odio, di aver raccontato frottole su frottole proprio al suo più grande amore. Di fronte a una confusione simile nella sua vita privata, quegli oppositori maligni colsero l’occasione per incastrarlo in un intrallazzo tutto convoluto che lo voleva incriminato: nessuno sa dire che tipo di misfatto... un buco nell’acqua, a tutti gli effetti, solo un paio di scoop vagamente compromettenti che tentavano di metterlo in cattiva luce, con scarsi risultati se bisogna dirla tutta, sufficienti però a convincerlo a darsi alla macchia, fornendo potenzialmente la prova che c’era del vero in quelle accuse ignobili a lui scagliate, o forse era stata l’onta sulla sua immagine ad averlo spinto a una vita da reietto, lontano dal giardino di successi che aveva coltivato con tanta dedizione».

Nell’astronave, munita di apparecchi acustici d’atmosfera, nessuno fiatava, l’uomo era bravo ad arricchire di emozioni quel racconto. Era come assistere alla recitazione drammatica di un poliziesco. Anzi, era come se la fantascienza avesse d’un tratto incontrato il giallo e il Yunix del passato era stato sicuramente un cinefilo appassionato di entrambi i generi, perché ascoltando quel racconto nello spazio, aveva la bocca aperta.

«Sta di fatto che, dopo la sua ultima candidatura, di lui si persero le tracce. Si vociferava, ovvio... gente fuori di sé ululava di edifici che si tramutavano in palazzi dell’orrore. Un vecchio bracconiere in pensione portò nella commissione del suo paesello un ciuffo di capelli insanguinati, appartenuti alla moglie, lui diceva, prova inconfutabile che HG era un mostro. Ben attenti!» ammonì il professore alzando un dito, il viso sempre adagiato sul ginocchio, «lui diceva così, ma i risultati sul DNA del sangue raccontavano ben altro: oltre a ricollegarsi alla presunta vittima, davano risultati alquanto ambigui, gente che nemmeno risultava negli archivi, forse i veri assassini della donna, purtroppo anche quel caso è per noi nebbia in un’ampolla gettata nell’abisso...»
L’uomo dai capelli brizzolati si accarezzò il pizzetto appena accennato, incrociando le braccia.
«Già lontano. Già lontano dalle loro coste, HG si era rifugiato dove il Giappone non avrebbe osato cercarlo, e in egual misura non ci sarebbe riuscita neanche la Cina, dove le ingiurie d’incerta attendibilità contro la moglie da parte dell’ex primo ministro avevano sollevato non poco scalpore».

Yunix sussultò.
“Si è  rifugiato dove non era un ricercato. Come me... esattamente come...”

«È pur vero che sul radar delle multinazionali è rimasta la mano furtiva di questo essere immortale, ombra che ha ravvivato le voci sul suo passato fosco e nebuloso, rendendolo sempre più preoccupante anche sul panorama dell’opinione pubblica globale. Un All For One redivivo, un titolo da affibbiare a quel coraggioso funzionario, una frase sulla bocca di tutti, venne dichiarato nemico pubblico numero uno del Giappone nella primavera dei papaveri, e fu annoverato tra i villain di livello catastrofico in Cina, non molti mesi dopo. Anche Temigor era in procinto di adottare una politica pressoché identica in merito, poi quasi provvidenzialmente entrò in scena Fen Yang, un agente segreto, neofita ai tempi, che forse avrete conosciuto a Infection, come artefice, protagonista assoluto di quello splendido cortometraggio di cattura che voleva voi partecipi dell’azione. Ecco, lui è stato per noi ciò che il nostro preside Modus è per il mondo in questi tempi dominati dalla tensione: un intermediario fidato. Un ponte tra noi e HG stesso, rifugiatosi in questa dimora, forse fondata da lui. Criminale? No. Dio? No, certo. Eroe? Neanche. Un uomo che vuole crescere una nuova generazione di campioni, questo è tutto ciò che rimane dell’uomo connotato solo e soltanto dal suo passato, orsù, vi chiedo di accettare la mia parola, la parola di tutta Temigor. In questo stato Hearts Galvan è un uomo libero, a lui è dovuta la reputazione formidabile con cui vengono affibbiati i nostri eroi: lui ha creato lo step successivo di una società già esistente in altre nazioni con mille falle e problemi: una società degli Heroes più giusta, dove solo i veri eroi possono ambire a tale virtuoso titolo. Dove in Cina e Giappone ha trovato forze repulsive, qui a Temigor ha conosciuto il nostro spirito indomabile, multiculturale, rivolto al futuro. Gode della mia invacillabile lealtà ed è la persona più meritevole che conosca, costui è HG» concluse con un inchino, non rivolto a loro, bensì alla stanza futuristica, dove a quanto pareva era annidata un’entità secolare, che li ascoltava in quel preciso momento, senza intervenire, senza apparire alla loro vista.

Arc Nighter chinò il capo. «Non potevo ricevere risposta più esauriente, la ringrazio, professore». Il suo tono mutò all’improvviso, come un fulmine a ciel sereno. «E lei, qual è il suo nome?»

L’uomo ridacchiò sotto i baffi.
«Mi sembra corretto, aspettavo proprio che uno di voi se ne uscisse fuori con questa domandina. Io sono il vostro coordinatore, Jack Anderson e vi condurrò armati di tutto punto al vertice della società, a patto che sarete abbastanza svelti da tendere la mano e cogliere il kairos che vi offriamo, discenti».
Uno ad uno i ragazzi annuirono.

Il primo a parlare fu Arc.
«Ci può giurare» la smorfia beffarda svettava sul suo volto.
«Ovvio che sì» lo seguì a ruota Asia, tutta impettita.
«Daremo il nostro massimo!» esclamò Furry, ripreso coraggio.
«Ed elimineremo la concorrenza» aggiunse Coal, facendo schioccare la lingua.
«Senza sconti, ognuno a modo suo» affermò Lex, le sopracciglia più orizzontali di un gufo.
«Pfff... sarà un gioco da ragazze» continuò Marin, cavalcando l’onda delle voci.
«Che meraviglia! Mi unirò anch’io al coro allegro e festante, solo per stavolta». Herneist diede una gomitata al bestione mascherato, sogghignando.
«Aye, sir!» cantò l’eterno sorriso del quinto classificato.
«Siamo qui per questo, in fondo!» concluse Yunix, senza nemmeno rendersi conto di aver aperto bocca. Quando con lo sguardo incrociò altrettante paia di occhi fiduciosi, si disse contento di aver parlato. “E così svelerò le cortine cineree del mio passato” pensò, ispirato come mai prima di allora.

«Ultimate Test» una voce spiritata, che sembrava provenire dalle profondità dell’abisso fece rabbrividire la classe.

Con un cigolio l’armatura nera si sollevò dal sedile, era nel centro assoluto della classe, il fulcro del rettangolo di tavoli.

«O-g-g-i?»

Il professore, superato lo shock iniziale, sorrise.

«Certo che sì, Nikotos Genda! Oggi ci sarà il primo Ultimate Test. Chi ha voglia di una partita a dodgeball?»



Note d'autore:
In stallo per un po', ma ecco qui, a voi... mi sto concentrando su altri progetti, perciò la frequenza dei capitoli diminuirà drasticamente nei prossimi mesi ma mai dire mai, sono un ragazzo imprevedibile e cambio idea in fretta. In ogni caso, continuerò a dare voce all'HG perché è questo che fanno gli eroi. Grazie a tutti e alla prossima! :)

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