The World Of Demons II - L'Erede Delle Tenebre

di Zikiki98
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** INTRODUZIONE ***
Capitolo 2: *** 1. Home ***
Capitolo 3: *** 2. Guilty For Love ***
Capitolo 4: *** 3. Punishment ***
Capitolo 5: *** 4. Ready To Die ***
Capitolo 6: *** 5. Savior ***
Capitolo 7: *** 6. Herondale ***
Capitolo 8: *** 7. Freedom ***



Capitolo 1
*** INTRODUZIONE ***


THE WORLD OF DEMONS
L'EREDE DELLE TENEBRE

 

INTRODUZIONE
 
[Vi consiglio di leggere la prima parte: “The World Of Demons – Il Portale Dei Demoni”, che potete trovare sul mio profilo]
 
La missione di salvataggio mirata a recuperare Edward si è trasformata in un totale fallimento. Isabella e i Cullen sono ufficialmente prigionieri del Conclave, rinchiusi nelle più profonde e invalicabili segrete di Alicante. La vita della Cacciatrice comincia a riempirsi di ossimori, perdendosi nel limbo di chi non riesce più a riconoscersi: verità e bugie, amore e odio, vita e morte.
Come se non bastasse, eventi inspiegabili e terrificanti sono in continuo aumento. Diversi Nascosti e Cacciatori spariscono, improvvisamente e senza lasciare tracce, fino a che non vengono ritrovati morti ai piedi di qualche albero lungo i sentieri delle foreste o nei cassonetti delle grandi città, in tutto il mondo. Queste morti e queste sparizioni sono causate dai demoni, più forti che mai e pilotati da qualcuno di molto furbo e intelligente, ma chi? E soprattutto, perché?
Davanti a questa emergenza globale, shadowhunters, vampiri, stregoni, licantropi e fate, riusciranno a collaborare, uniti, superando le loro divergenze, per il bene e la sopravvivenza di tutti?
Non solo, la famiglia Durwood si impegnerà per salvare la vita di Isabella dalle mani ipocrite del Conclave? Emmett scoprirà la verità su sua figlia? Ma soprattutto, Edward e Bella, saranno abbastanza forti da lottare, contro tutto e tutti, per la loro storia e vivere l’amore che provano, liberamente, alla luce del sole?
 
[In questa seconda parte ho inserito alcuni dei personaggi principali della saga di Shadowhunters]
 
 
 
PREFAZIONE
 
“A un cuore in pezzi
Nessuno s’avvicini
Senza l’alto privilegio
Di aver sofferto altrettanto”.
- Emily Dickinson       


 
Zikiki98
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Capitolo 2
*** 1. Home ***


 THE WORLD OF DEMONS
L'EREDE DELLE TENEBRE

 
 
*Rating ROSSO: vi avviso che in questo capitolo sono presenti descrizioni di maltrattamento, lotta, violenza sessuale e linguaggio forte. Se siete sensibili, non leggete.*


 
1. Home "Sweet" Home
 
Se qualche mese fa mi avessero chiesto di immaginare la parola “casa” e dire le prime definizioni che me la ricordavano, non avrei esitato un secondo a rispondere. “Casa” significava tutto ciò che per me contava di più: famiglia, amore, fratellanza, fedeltà, protezione…
Fu così, finché non mi innamorai di un vampiro e capii che le persone con cui ero cresciuta, per tutti quegli anni, mi avevano nascosto più segreti di quanto pensassi, riguardo le mie vere origini. Fino a quel momento, non avrei mai immaginato che sarei stata costretta a cambiare idea, così brutalmente e violentemente. Vivevo nella mia tranquilla ignoranza, all’oscuro di ogni verità. Per un po’ rimasi fermamente convinta che sarebbe stato meglio non sapere, ma restare nell’inconsapevolezza, per quanto potesse essere vista come una forma di auto-protezione, a lungo andare ero certa che mi avrebbe deteriorato. Quindi, tutto sommato, ero grata che la verità fosse venuta a galla, ma non mi sentivo ancora totalmente pronta a realizzarla, ad accettarla.
Ora però mi sentivo sperduta. Avevo avuto due “case” nella mia vita, due famiglie, ed entrambe mi erano state portate via. Quella originaria, dove ero nata e avevo vissuto per i primi sei anni della mia vita, e quella adottiva, dove ero cresciuta e mi erano state insegnate le basi per sopravvivere in questo mondo. Pensandoci bene però, forse c’era una terza “casa” per me, una terza famiglia, che non avevo potuto sperimentare: quella con i miei veri genitori, Emmett e Renée.
Ancora stentavo a crederci, sembrava impossibile. Eppure, le foto di Emmett parlavano chiaro e quando misi alle strette Jonathan e Mary non poterono far altro che dirmi parte della verità. Per cui, qualcosa di vero doveva pur esserci.
Negli ultimi due giorni trascorsi in cella di isolamento, in quelle quattro mura di cemento armato stregato, con le pareti fredde e scure, con una sola finestrella che non potevo raggiungere perché situata troppo in alto, avevo avuto modo di riflettere, parecchio. Capii che cosa volevo davvero nella vita: amare e essere amata, avere questa libertà incondizionata di poter scegliere. Ma nella realtà dove vivevo non era possibile. Non c’era tempo, non c’era spazio, né per l’amore né per i propri desideri, a meno che tutto ciò non fosse in linea con gli ideali del Conclave e, allora sì, in quel caso potevi avere possibilità di “scelta”, se così si poteva definire. E se “casa”, adesso, per me, significava costringermi a essere qualcuno che non ero, piuttosto che aderire al sistema, avrei preferito essere una vagabonda per il resto della mia vita.
Dei passi lontani e pesanti, accompagnati da un tintinnio di chiavi, mi ridestarono dai miei pensieri. Ad un certo punto, la figura di un uomo si fermò, proprio davanti alla mia porta blindata, e sentii la serratura scattare per aprirsi. La luce che entrò quasi mi accecò alla vista e, non feci neanche in tempo a mettermi in piedi, che un getto gelido di acqua mi arrivò addosso, facendomi ricadere a terra.
Cominciai ad ansimare e a tossire, tremando per il freddo. Indossavo solamente la mia tenuta da combattimento, ormai da giorni, e le celle della prigione di Alicante non erano certamente famose per tenere al caldo i loro detenuti, come nessuna prigione al mondo, immaginai.
Quando lo guardai meglio, lo riconobbi. Era Carl, uno dei Cacciatori che si occupavano della gestione della prigione, e si stava avvicinando a me, ridacchiando. Ero sicura che quel sadico si divertisse a svolgere quel lavoro, sicuramente aveva modo di sfogare tutte le sue frustrazioni personali.
Riuscii a sedermi prima che si accovacciasse davanti a me, in modo tale che potessi guardarlo negli occhi. Era alto e di costituzione massiccia, pelato e con la pelle del viso visibilmente rovinata, probabilmente dovuto da tutti i combattimenti a cui aveva preso parte. Aveva degli occhi talmente azzurri da mettere inquietudine, un grosso naso ingobbito e delle labbra sottili nascoste da una considerevole barba rossa. Indossava anche lui una tenuta da combattimento, ben rifornita di armi sicuramente, ma più consumata della mia e odorava di sangue e putrefazione.
Nonostante mi stesse palesemente sfidando con lo sguardo, non abbassai il mio. Il comportamento che avevo, era decisamente insolente, ma per due giorni interi non mi avevano sfamato, per cui ero parecchio nervosa. Altrimenti, stavo solamente cominciando a perdere lucidità.
- Lo riconosco – disse, con una voce profonda e rauca – Sei una ragazzina coraggiosa. A livelli decisamente stupidi, ma coraggiosa -.
Non gli risposi. Continuai a restare immobile, studiando ogni sua singola mossa, per essere il più pronta possibile.
Dopodiché, fece uno strano sorriso, che mi provocò i brividi – È da molto tempo che non si vedono ragazze qua sotto… così carine come te poi… -.
Non capendo bene che cosa stesse insinuando, cominciai a strisciare lentamente indietro, lontano da lui, ma la sua mano acciuffò immediatamente la mia caviglia, tirandomi nuovamente verso di sé, anzi, più vicino.
Sussultai, mentre lui rise di nuovo – Dove pensi di andare – e poi aggiunse – Se ti comporti bene ti porto qualcosa da mangiare dopo, promesso -.
Intuendo le sue intenzioni, mi guardai intorno, in cerca di qualcosa per difendermi. La porta blindata della mia cella di isolamento era ancora aperta, probabilmente si era dimenticato di chiuderla e, guardando la sua divisa consunta, riuscii a notare che sul petto aveva almeno quattro fodere per i pugnali.
- Lasciami andare – sussurrai, ma con un tono di voce fermo e deciso.
Lui in tutta risposta mi accarezzò la guancia. Quel contatto fu talmente viscido che, nonostante non avessi avuto nulla nello stomaco, mi venne la nausea.
- Non posso lasciarti andare adesso – disse Carl, con finto rammarico – Non abbiamo ancora cominciato a divertirci -.
Dopodiché, mi spinse con la schiena a terra, mettendosi sopra di me. Presa alla sprovvista dalla sua velocità, istintivamente cominciai ad urlare e dimenarmi sotto di lui, mentre sentivo le sue dita cercare di sbottonarmi i pantaloni. L’altra mano libera finì per coprirmi la bocca e il naso, con una foga che, ad un tratto, pensai che mi avesse rotto il setto nasale.
- Stai ferma! – urlò, cercando di contenere la furia che ero diventata – Stai zitta! -.
In tutta risposta, gli morsi la mano, con talmente tanta forza da sentire la ferita aprirsi sotto i miei denti, mentre lui cacciò un urlo, più per la sorpresa che per il dolore, ma fu abbastanza per distrarlo. Quando lasciai la presa dalla sua mano, lui se la portò al petto, piagnucolando. Prima che Carl potesse riprendere il controllo della situazione, approfittai del suo momento di distrazione e sfoderai un pugnale da una delle tasche posizionate sul suo addome. Non se ne accorse.
Un secondo dopo mi guardò negli occhi, con disprezzo, e urlò – Puttana! Te la fai con degli schifosi nascosti, ma fai tante storie con quelli della tua stessa specie! Te la faccio vedere io, adesso! -.
Con il dorso della mano, e le dita adornate da dei grossi e preziosi anelli, mi diede uno schiaffo talmente forte che sentii il mio labbro spaccarsi, facendomi sbattere violentemente la testa contro il pavimento. Per un paio di secondi non sentii più nulla, ma quando si riposizionò meglio sopra di me e mi prese per il braccio per girarmi verso di lui, senza neanche effettivamente guardarlo, con la mano che nascondeva il coltello, lo pugnalai all’addome. Urlò agonizzante, prima di cadere a terra proprio accanto a me. Senza perdere tempo, con le gambe che tremavano e le braccia che mi tenevano a stento per l’agitazione, cominciai a gattonare verso l’uscita della cella, sempre con in sottofondo le urla di Carl. Quando finalmente riuscii ad arrivare nel corridoio della prigione, cercai di tirarmi su, aiutandomi con i muri incrostati. Solo dopo mi accorsi di averli sporcati di sangue, lasciando l’impronta della mia mano. Comunque non era il mio sangue, vero? O sì?
Il cuore mi rimbombava nelle orecchie e respirare sembrava essere diventata la cosa più difficile al mondo. Avrei voluto gridare aiuto, ma non riuscivo. Non riuscivo più a fare niente.
Le gambe non mi reggevano e mi girava la testa. Così, invece che scappare, mi appoggiai con la schiena contro quel muro freddo e grigio e, piano piano, mi lasciai scivolare a terra.
Carl continuava ad urlare. Che peccato, speravo di averlo preso in un punto mortale. Invece, stava ancora respirando e, dovevo dire, anche molto bene per poter gridare in quel modo, a pieni polmoni.
Sentii dei passi lontani avvicinarsi sempre di più. Erano veloci, frenetici. Stavano correndo.
Quando arrivarono, capii che erano in due. Uno si fermò da me e l’altro entrò in cella, a soccorrere Carl.
- Mi ha aggredito! – urlò lui, in preda al panico.
La guardia, accanto a me, mi studiò attentamente, ma io non lo guardai. Era come se mi trovassi in uno stato catatonico.
- È andata così? – chiese.
Quando parlò mi resi conto che era una donna. Mi sarei dovuta sentire più a mio agio a parlare di quello che era successo, eppure sapevo che qua non avevo amici. Non potevo permettermi di dire la verità, perché sarebbe comunque stata la mia parola contro quella di Carl. Io ero una prigioniera, una traditrice, e lui era una guardia approvata dal Conclave. Ero già indagata per diversi capi d’accusa da scontare, non volevo aggiungerne altri.
Perciò, decisi di non risponderle e continuai a fissare il vuoto davanti a me.
Ad un certo punto, non sentii più Carl urlare, probabilmente, l’altra guardia lo stava curando con le rune.
Dopo qualche secondo, la guardia che era accanto a me, si alzò in piedi. Probabilmente, il suo collega doveva essere uscito dalla cella.
- Vado a raccontare al Console questa nuova bravata – disse una voce maschile, in tono sprezzante – Così saprà come punirla -.
- Aspetta! – disse la ragazza, fermandolo – Secondo me, non è andata come dice lui – sussurrò, per non farsi sentire.
L’altro ridacchiò scettico – E come pensi che sia andata? Lei è totalmente illesa, mentre lui è ferito -.
Lei sbuffò, incredula – Davvero ti sembra illesa? Guardala bene! – le tremava la voce per lo sgomento – È ferita in volto, ha i pantaloni slacciati e si trova in stato di shock! Non è lei che ha causato l’aggressione, lei si stava difendendo! -.
- Stai davvero proteggendo una prigioniera che è stata messa in isolamento per alto tradimento? -.
- Io non la sto proteggendo – ribatté lei, con forza – Io ti sto dicendo come sono andate visibilmente le cose, che se solo anche tu avessi un occhio critico libero dal pregiudizio, riusciresti a vedere! -.
- Carl ha detto che lei lo ha aggredito – rispose il ragazzo, che si stava innervosendo – Lei non ha detto nulla per difendersi -.
- Forse perché lei è sotto shock e lui no?! – perse la pazienza la ragazza, cominciando ad alzare il tono di voce – Chi è la vera vittima in questo caso? Lui che non ci ha pensato due secondi a parlare per pararsi il culo o lei che non riesce neanche a respirare da quanto è sconvolta? – fece una breve pausa – Inoltre, cosa ci faceva Carl nella sua cella? Non aveva alcun motivo di entrare e, soprattutto, non ha avvisato nessuno che lo avrebbe fatto -.
- Anche se tu avessi ragione, Clary – sbottò il ragazzo – Chi le crederebbe? È una condannata a morte comunque e nessuno verserà una lacrima per lei -.
- Non la voglio più tenere nelle celle d’isolamento, non è al sicuro! – disse Clary, ignorando il commendo del collega.
- Dove la vuoi spostare? -.
- Nelle celle normali, dove ci sono anche gli altri detenuti, in modo tale che ci possano essere più persone a controllarla – Clary era risoluta e non ammetteva nessun no come risposta – Dove ci possano essere dei testimoni, nel caso dovesse succedere qualcosa -.
- Non devi parlarne con me, lo sai – rispose lui, lavandosene le mani.
- Tu portala in infermeria, io penso al resto – ordinò Clary, per poi voltarsi di nuovo verso di me.
Si abbassò e mi sussurrò all’orecchio – Ti aiuto io -.
Ma non risposi, il mio sguardo continuava ad essere perso nel vuoto. Dopodiché, si alzò in piedi e riprese il suo cammino, finché non sentii i suoi passi farsi sempre più lontani, in quel lungo corridoio. Ero nuovamente abbandonata a me stessa.
_
 
Stremata, mi lasciavo trascinare da due guardie brune non troppo alte, ma massicce, in un’altra area della prigione. Mi ammanettarono i polsi dietro la schiena, per questa “gita”, essendo che ero catalogata come una prigioniera “estremamente pericolosa”. Clary aveva insistito con il Console per spostarmi in un’area più sicura rispetto alle celle di isolamento, anche se, teoricamente, non esisteva zona più protetta di quella. Ma probabilmente, per loro, era meglio che stessi in zone più affollate, con dei testimoni, in modo da evitare quello che mi era successo poche ore prima.
Mi sentivo talmente umiliata, da non voler guardare nessuno in volto. Non riuscivo a scacciare dalla testa le sue mani sporche e pesanti che mi toccavano, che tentavano di violarmi. Se mi avessero davvero dato la pena di morte, speravo con tutto il cuore che a Carl toccasse addirittura una sorte peggiore della mia, anche se, inconsciamente, sapevo che non sarebbe stato così. Lo avrebbero sospeso per qualche mese e poi sarebbe tornato a fare il suo lavoro.
Adesso, sentire altre due paia di mani sconosciute addosso, talmente forti e strette che, ero sicura, mi avrebbero lasciato i lividi, non faceva altro che aumentare il mio malessere. Se solo avessi avuto qualcosa nello stomaco, ero sicura che avrei vomitato.
Si fermarono davanti ad un cancello in ferro battuto, che conduceva in un corridoio molto lungo e parecchio rumoroso. Possibile che tutto quel casino potesse provenire da altri prigionieri?
La guardia alla mia sinistra mise la chiave nella serratura, sbloccando il sistema e consentendo così l’accesso in quell’area. 
Mi trascinarono all’interno malamente, come se fossi un animale al macello e, solo a quel punto, alzai lo sguardo, per poter verificare dove mi avrebbero lasciata di lì a poco. A differenza di dove ero prima, quelle celle erano enormi. Non c’era alcun muro a dividerle, ma solo delle sbarre, sulle quali erano sicuramente state disegnate delle rune specifiche per rendere impossibile l’evasione. In ogni cella non si trovavano più di quattro o cinque ospiti, ma la cosa che mi aveva colpito era che non si trattava di altri Cacciatori come me, no. C’erano fate, stregoni, vampiri, licantropi, rinchiusi in quelle prigioni e chissà da quanto tempo. Mi avevano condotto nei sotterranei dedicati ai Nascosti.
Continuarono a trascinarmi in avanti, percorrendo quel corridoio, mentre io avevo cominciato a fare resistenza in modo tale da poter osservare meglio chi abitava le celle, per cercare loro.
- Su muoviti! – mi spintonò una delle due guardie – Ti stiamo portando dai Nascosti che ti piacciono tanto! -.
Non gli risposi, anzi, lo ignorai. Continuai a guardarmi intorno, convulsivamente, finché ad un certo punto non notai in lontananza la sagoma di Emmett dietro le sbarre. Era in piedi e stava osservando rabbioso la scena, mentre Carlisle, Jasper e Edward erano seduti a terra, pensierosi.
- Edward – sussurrai e il vampiro dai capelli rossicci, che era riuscito a sentirmi, si voltò verso di me, a metà fra il sorpreso e lo stravolto.
Ci guardammo per pochi millesimi di secondo, nei quali mi dovetti controllare dallo scoppiare a piangere per l’emozione di vederlo di nuovo con i miei stessi occhi, dopo tutto quello che era successo. Non riuscivo quasi a crederci, sembrava un sogno irraggiungibile nell’incubo più spaventoso della mia vita.
Non riuscii più a trattenermi. Con una forza che non sapevo di avere dopo quello che era successo poche ore prima, probabilmente scossa dall’adrenalina, mi scrollai di dosso le mani delle guardie e cominciai a correre verso di loro, verso di lui. Non sapevo nemmeno come le gambe riuscissero a sostenermi, eppure lo fecero. Sentii i passi pesanti delle guardie seguirmi, ma tanto non sarei scappata da nessuna parte, volevo solamente avvicinarmi al mio Amore.
Mi fermai davanti alla loro cella, mentre Edward in mezzo secondo si avvicinò alle sbarre per vedermi da più vicino. Era affamato e estremamente addolorato.
- Edward – scoppiai a piangere – Sei vivo -.
- Mi sei mancata – nonostante tutto, nonostante le bugie che gli avevo raccontato e il dolore che gli avevo procurato, i suoi occhi traboccavano d’amore e di preoccupazione.
- Mi dispiace – singhiozzai incontrollatamente, con le guance rigate dalle lacrime – M-Mi dispiace t-tantissimo, p-per tutto! -.
- Bella… - disse dolcemente, come se mi avesse già perdonata e, sicuramente, non mi meritavo quel privilegio.
Probabilmente Carlisle gli aveva raccontato tutto, ma la sua espressione cambiò quando i suoi occhi si concentrarono sul mio volto, studiandolo attentamente.
– Cosa ti hanno fatto? -.
- Niente – risposi velocemente, per non farlo preoccupare – Niente, non è successo niente -.
Proprio in quel momento le guardie mi riacciuffarono, cercando di allontanarmi da lui. Tentai di dimenami dalla loro presa con tutta la forza che avevo, ma adesso erano pronti e non mi avrebbero più permesso di fare quella bravata.
- Lasciatela andare! -.
Quella era la voce di Esme. Mi voltai seguendo quel suono, che risultava dolce, nonostante stesse cercando di essere imponente per difendermi. Ero talmente presa da Edward che non mi ero nemmeno accorta che, nella cella alle mie spalle, si trovavano Esme, insieme a Alice e Rosalie.
- È solo una ragazzina, è esausta e ferita! – continuò lei arrabbiata – Pensate davvero che abbia le forze per farvi del male? -.
Una delle guardie rise, mentre circondò le sue grosse braccia intorno al corpo per immobilizzarmi, e l’altra invece mi guardò, dall’alto verso il basso, sogghignando, uscendosene con una frase davvero infelice, che mi fece perdere il controllo – Talmente indifesa che, qualche ora fa, ha pugnalato quasi a morte un nostro collega per fuggire -.
Improvvisamente, tutto il rimorso, l’inquietudine e il ribrezzo che provavo, si trasformarono in furia cieca. Avevo le braccia ammanettate dietro la schiena, ma le gambe erano libere, quindi non ci pensai ulteriormente e, dato che si trovava esattamente davanti a me, gli tirai un calcio nelle parti intime. Gemette dal dolore e cadde in ginocchio, dandomi la possibilità di tirargli un altro calcio, ma stavolta in faccia. Si lasciò andare inerme a terra, mentre biascicava parole confuse.
L’altro, invece, che mi stava ancora tenendo saldamente per le braccia, a quel punto mi sollevò da terra e, sotto le urla dei Cullen, mi fece sbattere contro le sbarre della cella. In quei pochi secondi di contatto, non sentii dolore, ma era come se il mio intero corpo si fosse paralizzato totalmente, come se non avessi più alcun tipo di controllo. Cominciai ad avere delle convulsioni, dovute all’elettricità ad alta intensità che mi scorreva in corpo, trasmessa dalle sbarre di ferro delle celle. Caddi a terra. Non percepivo niente, se non il mio corpo tremare incontrollatamente. Non udivo niente, se non degli ultrasuoni insopportabili. Il mio cervello non pensava a niente, se non quanto fosse doloroso tornare a “casa”. Pochi secondi dopo, l’oscurità mi avvolse.
 

 
Salve! Come state? Spero bene.
Eccoci qua con questo nuovo capitolo.
Se vi è piaciuto, lasciate una stellina e un commento.
Mi interessa tantissimo avere i vostri pareri.
Besos :-*
 
Zikiki98
 
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Capitolo 3
*** 2. Guilty For Love ***


 THE WORLD OF DEMONS
L'EREDE DELLE TENEBRE


2. Guilty For Love
 

Ripresi lentamente conoscenza. Sentivo il mio corpo come se fosse in una dimensione a sé. Capivo che potevo cautamente ricominciare a prenderne il controllo, ma allo stesso tempo sentivo di non averne, non totalmente. Era come se il mio cervello trasmettesse in ritardo, ai muscoli, i movimenti che pensavo di fare. Riuscii a muovere di un millimetro l’indice della mano destra, che era appoggiata al pavimento freddo della cella, ma appena lo feci, una scossa elettrica mi pervase nuovamente il corpo. Probabilmente, la scarica di energia emanata dalle sbarre era talmente potente, che il mio corpo ne era ancora pervaso, oppure era semplicemente sotto shock.
- Si sta svegliando – sentii Edward sussurrare, ma io non ero ancora pronta per aprire gli occhi.
Ero sdraiata a pancia in giù, con la mano sinistra sotto il viso e il braccio destro disteso per lungo. Ero parecchio scomoda, chissà per quante ore ero rimasta in quella posizione senza muovermi, ma l’idea di spostarmi mi faceva stare peggio. Se muovere un dito mi aveva procurato tutto quel dolore, chissà quanto poteva farmi male muovermi per intero.
Avevo le palpebre davvero pensanti, come se da un momento all’altro mi potessi riaddormentare. Sentivo gli angoli della bocca bagnati, probabilmente perché, mentre ero incosciente, dovevo aver perso della saliva. Inoltre, percepivo prurito alla cute, sicuramente perché ormai non lavavo i capelli da giorni. Insomma, ero proprio un bello spettacolo in quel momento.
- Bella? – quella era la voce preoccupata di Emmett – Bella, mi riesci a sentire? -.
- So che deve essere difficile cercare di aprire gli occhi – continuò Carlisle, in modo pacato e professionale – Ma se riuscissi a darci un segno per farci capire che ci puoi sentire, sarebbe un aiuto -.
Le loro voci, nonostante la situazione in cui eravamo e il dolore che provavo, mi tranquillizzarono. Era assurdo e un sentimento decisamente fuori luogo, eppure era così. Perciò decisi di provare. Mi concentrai sulle mie palpebre, che mi sembravano incollate, come se sopra di esse ci fosse appoggiato un macigno. Insistendo, lentamente, riuscii ad aprire gli occhi, anche se dovetti immediatamente richiuderli a causa della luce improvvisa, che mi accecò. Non ero più abituata a tutta quella luminosità, persino la via vecchia cella era più buia di questa, ma mi sforzai e pian piano riuscii a mettere a fuoco ciò che avevo davanti.
Il primo che notai fu Edward, che si trovava in mezzo a Emmett e Carlisle, tutti e tre inginocchiati davanti alle sbarre, talmente vicini che, se solo le avessero sfiorate per sbaglio, sarebbero stati folgorati come era successo a me. Avevano il viso stravolto, le occhiaie marcate e gli occhi scuri. I loro vestiti non erano più ordinati e profumati come qualche giorno prima, eppure ai miei occhi risultavano comunque bellissimi. Chissà invece come dovevo sembrargli io.
Ma ne mancava uno.
- Jasper – sussurrai, con una voce che non potei subito riconoscere come mia.
La gola mi grattava, ogni tentativo di dire anche una sola parola, mi sembrava di avere degli aghi al posto delle corde vocali. Nonostante avessi cercato di far risultare la mia voce chiara e forte, era uscito un flebile suono, basso e a stento comprensibile.
Notando il mio sguardo confuso, Carlisle mi rassicurò immediatamente – Non temere, è solamente questione di qualche ora e poi la tua voce tornerà come nuova – fece una pausa, per poi aggiungere – Jasper sta bene… Ha solo qualche difficoltà a gestire la sete in questo momento -.
Feci roteare gli occhi sul resto della superfice della loro cella e, finalmente lo vidi, rannicchiato, tutto da solo, nell’angolo più remoto disponibile. Aveva le gambe al petto e nascondeva la testa sotto le braccia incrociate, appoggiate alle ginocchia. Vederlo in quello stato, mi spezzava il cuore. Anche gli altri sicuramente stavano soffrendo la sete, ma considerando la vita che aveva dovuto condurre prima di incontrare i Cullen, per Jasper era molto più difficile.
Annuii impercettibilmente, per poi concentrarmi sullo sguardo innamorato di Edward. Nonostante tutto, quello non era cambiato. Non me lo meritavo.
- Come stai? – chiese con voce roca – Senti dolore da qualche parte? -.
- No – risposi, cercando di sgranchire la voce ma senza grossi risultati – Mi sento intorpidita, ma sto bene -.
- Riesci a muoverti? – domandò Emmett, apprensivo.
Evitai di guardarlo dritto negli occhi, perché sapevo che sarei stata colta dall’imbarazzo e non volevo che ciò accadesse. Guardarlo, sentire la sua voce, con quello sguardo disperato e il tono supplicante di chi elemosinava la verità, mi faceva sentire tremendamente in colpa e non era il caso di dovermi preoccupare anche di quello adesso.
Feci cenno di sì con la testa, per rispondere alla domanda e poi, concentrandomi su Carlisle dissi – Faccio fatica, ma riesco -.
- È una buona cosa – rispose lui, mentre Emmett si allontanava rassegnato per avvicinarsi a Jasper – Vedrai che recuperai le forze alla svelta -.
Mi scappò una risata inquietante – Sempre se non mi uccidono prima -.
Avevo tutti gli occhi dei Cullen addosso, anche quelli di Alice, Esme e Rosalie, nonostante io non le potessi vedere. Sentivo che mi guardavano, esausti, eppure nessuno disse niente. Forse perché obiettivamente, cosa si poteva dire ad una condannata a morte?
- Non dirlo neanche per scherzo! – ruppe il silenzio la voce cristallina di Alice, dopo diversi considerevoli secondi – Non siamo arrivati fino a qui per morire! -.
In quel momento, volevo solamente riuscire ad alzarmi, o almeno mettermi seduta, per poter guardare in volto le persone con cui stavo parlando. Riuscii a spostare le mani sotto le spalle e con tutta la forza che avevo, cercai di sollevarmi, ma ricaddi a terra un secondo dopo averci provato, scatenando una serie di fitte in tutto il corpo. Ero ancora troppo debole.
- Fai attenzione, per favore – disse Edward preoccupato, ma soprattutto, mortificato per non potermi dare una mano.
Così, mi venne un’altra idea. Provai a trascinarmi fino alla parete di cemento armato, l’unica che c’era. Finalmente, dopo diverse pause la raggiunsi. Riuscii ad aggrapparmi ad una delle maniglie di metallo incastonate nel muro, utilizzate solitamente per attaccare alle catene i detenuti, e mi tirai su come meglio potei, riuscendo così a mettermi seduta. Avevo il fiatone, non ero comoda, ma sicuramente era meglio di prima.
Finalmente riuscivo a vedere anche i volti delle donne che alloggiavano nella cella davanti alla mia. Alice, nonostante tutta la situazione, sembrava essere l’unica pimpante che cercava di mantenere la positività del gruppo. Esme era seduta in un angolo, non riuscendo a nascondere la preoccupazione e la paura che la assillavano da giorni. Rosalie, beh… lei era straordinariamente incantevole, come sempre, ma anche visibilmente incazzata. Non potevo darle torto naturalmente, anzi, ero sicura che giustamente mi incolpasse per aver trascinato lei, l’amore della sua vita e tutta la sua famiglia, in contro a morte certa.
- A parte il fatto che non siamo arrivati qui di nostra spontanea volontà – corressi Alice, dopo diversi minuti di silenzio – Siamo qui perché ci hanno catturati. E imprigionati -.
- Sì, è vero – rispose, ma senza darsi per vinta – Ma dovevamo comunque raggiungere Idris in qualche modo e ce l’abbiamo fatta! -.
- Non era così che doveva proseguire il piano, Alice – intervenne Rosalie, palesemente scocciata dalla sorella, camminando avanti e indietro per la cella sui suoi tacchi a spillo ancora integri.
- Siamo in prigione – le ricordai, affaticata, cercando di essere gentile – Non c’è più niente che possiamo fare. È finita -.
Ma Alice era ostinata – No, non è vero. Siamo ancora tutti vivi, quindi una speranza per noi ci deve essere -.
- Hai avuto delle visioni a riguardo? – chiese Emmett, incrociando le braccia risoluto.
Ci fu qualche minuto di silenzio, come se il vampiro avesse toccato un tasto dolente per la veggente, tant’è che Esme guardò suo figlio con aria di rimprovero, ma lui la ignorò.
- Rispondi Alice – insistette.
- No – mormorò abbattuta – Questo posto blocca le mie visioni. Funzionano ad intermittenza e non sono comprensibili -.
- Anche io faccio davvero fatica a leggere nel pensiero – sussurrò Edward, sconsolato.
- Allora, fai un favore a tutti e non illuderci – si alterò Emmett, stringendo i pugni, lasciando tutti senza parole – C’è già abbastanza sofferenza in queste mura senza che peggiori la situazione -.
Edward si alzò in piedi e si avvicinò al fratello, come per calmarlo.
- Non c’è bisogno di reagire così, Emm – cercò di intermediare il rosso, per stemperare la situazione.
Carlisle intervenne immediatamente – Se discutiamo fra di noi, non ci resterà più niente. Siamo una famiglia, comportiamoci come tale -.
Di nuovo silenzio. Mi sentivo quasi a disagio. Avevano risolto in pochi passaggi e con poche parole, quello che poteva essere davvero un brutto litigio famigliare. Alice percepiva tutto il nostro nervosismo, anche lei sicuramente lo provava, eppure era l’unica a voler cercare di trasformarlo in speranza. Certamente, la speranza era una lama a doppio taglio, o ti salva o ti uccide, ma effettivamente, eravamo comunque bloccati in quella prigione. L’idea di avere una possibilità per evitare di crogiolarsi nel dolore e nella disperazione, tutto sommato, non era così male.
Emmett sospirò, passandosi le mani nei capelli corti e ricci – Mi dispiace, sorellina – fece qualche passo per avvicinarsi a lei, nonostante le sbarre li dividessero – Non volevo essere cattivo. Intendevo solamente dire che, purtroppo, conosco questi luoghi e conosco queste persone. Non c’è via di fuga, a meno che non siano loro a dartela e neanche in quel caso c’è da fidarsi totalmente -.
- Ha ragione – confermai, guardando la poca gioia rimasta il lei sgretolarsi.
Se fosse stata umana, ero sicura, sarebbe diventata rossa dalla rabbia. Non riusciva a smettere di crederci, nonostante tutti noi le stessimo consigliando di arrendersi, di non illudersi, lei non voleva mollare.
Un silenzio assordante fu nuovamente protagonista fra di noi. Si sentiva solamente il fracasso procurato dagli altri prigionieri.
Nessuno aveva la men che minima idea di quello che ci avrebbe riservato il futuro, sempre se potevamo considerare di averne ancora uno. Onestamente, non avevo paura né di morire né di provare dolore. Essendo una Cacciatrice, avevo già tenuto conto da un bel pezzo che c’erano alte possibilità che morissi prima di compiere i trent’anni. Nessuno Shadowhunters raggiungeva mai un’età considerevolmente alta, a meno che non facessero parte del Consiglio del Conclave, ma arrivavano comunque al massimo fino ai cinquant’anni. Quindi sì, potevo dire tranquillamente, di non aver mai visto una persona anziana, finché non avevo messo piede a Forks, nel mondo dei mondani.
Ad un certo punto, sentii un tintinnio di chiavi che attirò la mia attenzione. Istintivamente il mio cuore cominciò a battere più forte. Dopo quello che era successo giorno precedente, il mio corpo non riconosceva una bella esperienza a quel suono. Probabilmente, i Cullen sentirono il mio cuore accelerare, perché riuscivo a percepire i loro sguardi su di me. Dei passi leggeri cominciarono ad avvicinarsi nel corridoio della prigione, che mi fecero tranquillizzare. Una camminata del genere non poteva appartenere ad un uomo.
Dopo pochi secondi, si rivelò la forma di una ragazza, che mi sembrava di aver già visto. Non era molto alta, anzi, probabilmente era persino più bassa di me. Aveva una lunga chioma di capelli rossi e riccioluti, le sopracciglia lunghe che incorniciavano perfettamente i suoi occhi verdi, il naso piccolo e leggermente a punta, il tutto adornato da delle belle labbra carnose e un mento delicato. La sua pelle era bianchissima e abbellita da diverse lentiggini. Indossava la solita tenuta nera da combattimento che usavamo tutti e, tra le mani, aveva un vassoio con una ciotola fumante, un pezzo di pane e un grosso bicchiere di acqua. Era molto carina e minuta, anche dal viso sembrava molto dolce, per questo non riuscivo a capire come potesse lavorare qui.
- Ciao Isabella – mi sorrise cordialmente, facendo rivelare due fossette ai lati delle guance – Ti ho potato qualcosa di caldo da mangiare, immagino tu sia molto affamata. Posso entrare? -.
Riconobbi la voce. Era Clary, la ragazza che aveva permesso il mio trasferimento dalle celle di isolamento e l’unica che aveva tentato di aiutarmi dopo che quella guardia aveva provato a farmi del male.
- Certo – le risposi.
I Cullen erano sempre più confusi, ma non dissero niente. Restarono in silenzio ad osservare la scena, come se fossero degli spettatori.
Clary tentò di fare l’equilibrista, poggiando il vassoio su una mano sola, mentre con la mano momentaneamente libera, tentava di trovare la chiave giusta per aprire la porta della cella. Quando ci riuscì, entrò, lasciando la cella socchiusa, per poi avvicinarsi. Mi posò il vassoio a terra, vicino a me, in modo tale che mi potessi servire da sola senza fare troppa fatica.
Sul vassoio c’erano appunto un grosso bicchiere d’acqua, una ciotola bella piena di zuppa color marrone e un pezzo di pane, che probabilmente aveva già qualche giorno. Non sembrava invitante, anzi, non lo era per niente, eppure appena sentii il profumo della zuppa il mio stomaco brontolò. Non poteva andare diversamente, d’altro canto, erano giorni che non mangiavo e non bevevo nulla.
Con le mani che tremavano, mi avventai sulla ciotola, la portai alla bocca e, senza aggiungere altro, trangugiai il tutto in pochi secondi, nonostante il contenuto fosse bollente. Dopo poco, finii anche il bicchiere di acqua e il pezzo di pane duro che c’era sul vassoio.
In tutto quel tempo, la ragazza era rimasta lì in piedi, a guardarmi timidamente mentre mangiavo, aspettando tranquilla che finissi, anche se non ci volle molto tempo. Una volta terminato tutto, mi sentivo un po’ meglio e, onestamente, riuscivo a percepire il mio corpo leggermente più forte. Nonostante Clary non avesse abbandonato il suo sorriso cordiale, potevo notare che sul suo volto c’era una nota di tristezza che stonava, anche se si vedeva quanto si stesse sforzando per non mostrarlo.
Mi guardò per qualche secondo di sottecchi, mentre riprendeva da terra il vassoio con le stoviglie vuote che mi aveva portato. Sembrava incerta, come se volesse dirmi una cosa, ma non era sicura di farlo.
– Non dovrei dirtelo, perciò mantieni il segreto – sussurrò alla fine, mentre la sua bocca prese una piega preoccupata – Domani verrà eseguito il tuo processo -.
Non era certamente una buona notizia, eppure una piccola, anzi, piccolissima, parte di me, si sentì sollevata da quelle parole. Almeno potevo affrontare la realtà della situazione, invece di essere rinchiusa per chissà quanti altri giorni in una cella, senza sapere niente.
- Sarà aperto al pubblico? – chiesi istintivamente.
- Sì – rispose.
Ciò poteva significare che la mia “famiglia” avrebbe potuto esserci. I miei fratelli. Mi mancavano tutti tantissimo, ma soprattutto, sentivo la mancanza di Sebastian. Chissà cosa stava facendo, se pensava a me, se era preoccupato o se gli mancavo. Se solo gli avessi dato più retta, se solo gli fossi stata più vicino…
- Quali sono le accuse esattamente? -.
Clary sospirando, rispose, un po’ intimidita dalla silenziosa presenza dei Cullen nella conversazione – Il primo, più importante, è Tradimento – rivelò, quasi imbarazzata – Ma ce ne sono altri. Fuga. Resistenza. Aver tentato di entrare in patria senza permesso… -.
Annuii. Effettivamente non erano accuse infondate. Quelle cose le avevo fatte davvero. Dura Lex, Sed Lex. La legge è dura, ma è la legge.
- Come mai mi stai aiutando, Clary? – riflettei ad alta voce, guardandola negli occhi per verificare che non mi avrebbe detto una bugia.
Non c’erano tante possibilità per le quali lei fosse così gentile con me. O aveva veramente a cuore la mia situazione, soprattutto dopo lo “spiacevole inconveniente” che avevo avuto il giorno prima. Oppure, stava recitando una parte, sotto direttiva del Conclave, e tutta la sua gentilezza, in realtà, era una messa alla prova con l’obiettivo di fregarmi.
Lei, presa alla sprovvista, sembrava in difficoltà. Non che prima sembrasse sicura di sé, assolutamente. Però era tranquilla. Con quella domanda, potevo leggere nei suoi occhi chiari, ‘d’un tratto diventati lucidi, di quanto potesse essere scomoda per lei.
- Perché so cosa vuol dire essere discriminati per aver amato qualcuno che non dovevi amare – rivelò, con la voce piegata dalle emozioni che provava – Quando qualche mese fa ci hanno spedito in mezzo ai mondani, ho conosciuto un ragazzo, un essere umano. Ci siamo innamorati e, per la prima volta in tutta la mia vita, non sono riuscita a reprimere i miei sentimenti in favore della patria. Non riuscivo più a essere il soldatino programmato dal Conclave – fece una pausa, deglutendo a fatica – Mi sono lasciata andare. L’amore per lui, mi aveva fatto conoscere sentimenti che credevo non avrei mai provato nella mia vita, eppure sul lato da Cacciatrice mi aveva indebolito molto – sospirò – E i miei genitori se ne sono accorti. Così un giorno mi hanno seguita e mi hanno trovata insieme a lui, mentre io gli avevo detto che andavo in ricognizione. Ci hanno scoperti – a quel punto non riuscì più a trattenere le lacrime - Io però ho avuto la fortuna, se così si può chiamare, di essere stata beccata prima che potessi dire tutta la verità su chi sono a Simon, il ragazzo che amavo… che amo. In più, non è un Nascosto, ma un Mondano, quindi in automatico la sentenza è più bassa. In questo posto, lavorando, devo scontare tre anni, questa è la mia pena -.
Mi morsi il labbro, tentando disperatamente, in tutti i modi, di trattenermi per non impietosirmi a mia volta – Mi dispiace – riuscii a dire solamente – A Simon invece cosa è successo? -.
- Gli hanno cancellato la memoria – mormorò, mesta, con una smorfia di pieno risentimento – Per lui non sono mai esistita. Ho chiesto loro se potevano cancellarla anche a me, ma me l’hanno negato. Io devo vivere nel dolore e nel rimorso, in modo tale che mi serva da lezione per non ricadere mai più in un errore del genere – si asciugò le lacrime velocemente – Questo è quello che mi hanno detto -.
Non riuscii ad aggiungere altro, anche se comunque non esistevano parole sufficienti per consolare una cosa del genere.
- La tua situazione è decisamente più “grave” della mia – disse spostando l’attenzione su di me, cercando di scegliere le parole giuste – Siamo entrambe colpevoli di aver amato. Per questo voglio aiutarti, nel mio piccolo, come meglio riesco. Non posso cambiare i risultati del processo, ma posso portarti del cibo e riservarti qualche informazione, di nascosto ovviamente, o cambiarti di cella nel caso dovessi avere qualche… “problema” con qualcuno – a quelle parole vidi lo sguardo di Edward guizzare fra me e lei, confuso e allarmato – A patto che tu non dica niente a nessuno, altrimenti finisco in guai seri -.
- Manterrò il segreto, promesso – la rassicurai velocemente, infinitamente grata per il suo sostegno, ma terrorizzata dall’idea che Edward fosse riuscito a scorgere qualcosa nei suoi pensieri.
Lei in tutta risposta, tentò di sorridermi, ma con scarsi risultati. Tutto sommato il Conclave era stato clemente con lei. Le aveva permesso di sopravvivere, nonostante non avesse rispettato le leggi. Eppure, potevo leggere nei suoi occhi, quanto fosse difficile da sopportare la sentenza stipulata. Passare i prossimi anni nelle prigioni, occupandosi dei detenuti, senza poter mai uscire per incontrare le persone che ami… Se fosse stata una sentenza che sarebbe durata tutta la vita, forse io avrei scelto di morire, facendo un confronto.
Si voltò e, a grandi passi, uscì dalla mia cella, chiudendo la cancellata a chiave.
- Cerca di riposare – disse – Domani sarà una giornata molto difficile -.
_
 
Era notte fonda ed ero sdraiata sul pavimento gelido della mia cella, senza riuscire a prendere sonno, nonostante i mille tentativi di Edward per farmi addormentare mentre, sottovoce, mi canticchiava una ninna nanna che non conoscevo. Si era sdraiato a terra anche lui per farmi compagnia. Era esattamente nella mia stessa posizione, rivolto verso di me, ma dall’altra parte delle sbarre, ed eravamo talmente vicini da rischiare quasi di sfiorarle.
Quanto avrei voluto poterlo toccare. Eppure, non era possibile.
- Posso cantarti tutte le ninna nanne del mondo – disse ad un certo punto Edward, riportandomi alla realtà – Ma dovresti almeno provare a chiudere gli occhi per riuscire ad addormentarti -.
Gli altri, nel frattempo, stavano parlando di qualcosa, ma a voce bassa, quindi non riuscivo a sentirli.
- Non riesco, non ho sonno -.
- Devi essere al massimo delle tue possibilità domani – bisbigliò cercando di infondermi coraggio – Devi saperti difendere e per farlo devi essere lucida e riposata -.
Sogghignai, con un lieve sarcasmo – C’è poco da sapersi difendere nella mia situazione. Ho commesso tutti i reati per i quali sono stata accusata. Non si sono sbagliati -.
Edward restò per qualche secondo in silenzio, cercando di non perdere quel poco di buon umore che gli era rimasto, per me. Io, sicuramente, non gli rendevo la vita facile.
- Domani dovrai lottare per la tua vita – disse, cercando di farmi ragionare – Perché ho come l’impressione che tu ti consideri già morta?! -.
- Perché lo sono -.
- No, non lo sei! – esclamò Edward – Non voglio che ti arrendi. Voglio che prendi tutte le emozioni che provi e le usi nel processo di domani, per salvarti la vita! -.
- È questo il problema, Edward – sussurrai, senza alcuna emozione nella voce – In questo momento non provo niente. Sono troppo esausta, anche emotivamente -.
Restò in silenzio, soppesando il valore delle mie parole e per capire, probabilmente, se stare rinchiusa in quelle quattro mura mi aveva fatta uscire di senno, cosa molto probabile. Ma era la verità. Nei confronti dell’incertezza del mio imminente futuro, ero totalmente asettica. Era come se sapessi già come sarebbe andata, ne avessi preso atto e lo avessi accettato. Così sarebbe andata, perché così doveva essere.
- Non hai paura? – chiese ad un certo punto lui, il ragazzo che amavo, ma ancora non lo sapeva.
La paura effettivamente poteva essere una buona scarica di energia che mi avrebbe potuta aiutare.
Sospirai – Vuoi la verità? -.
- Sempre -.
- No, non ho paura – ammisi, sostenendo il suo sguardo color ossidiana – Non ho paura di provare dolore. Non ho paura di morire. Non provo agitazione al pensiero di dover affrontare il processo domani… L’unico pensiero che, ad essere onesta, mi inquieta un po’, è l’idea di non poterti più vedere, toccare… e baciare -.
Non ero molto abituata alle smancerie, ma non era decisamente il momento di essere timidi a riguardo. Sapevo che il resto della sua famiglia poteva tranquillamente ascoltare la nostra conversazione, ma non mi importava. Non ero sicura che l’indomani, dopo il processo, sarei riuscita a rivederlo. Potevano essere le ultime ore che avevo a disposizione per parlargli, annusare il suo profumo e memorizzare la sua immagine nella mia mente. Non avevo intenzione di sprecare neanche un secondo.
A Edward scappò un sorriso, a metà tra lo sprezzante e l’indignato – Non doveva finire così. Non volevo che ti succedesse niente di tutto questo. Non te lo meriti -.
Sollevai leggermente gli angoli della bocca, regalandogli un mezzo sorriso – Già. Neanche voi -.
 
 

 
Salve! Come state? Spero bene.
Eccoci qua con questo nuovo capitolo.
Se vi è piaciuto, lasciate una stellina e un commento.
Mi interessa tantissimo avere i vostri pareri.
Scusate immensamente per la lunga attesa, ma purtroppo ho avuto dei problemi con Word. Il simpaticone mi ha cancellato il capitolo e dopo si è disinstallato da solo : ) Chissà come, non ho perso la pazienza.
Besos :-*
 
Zikiki98
 
Instagram: _.sunnyellow._

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Capitolo 4
*** 3. Punishment ***


THE WORLD OF DEMONS
L'EREDE DELLE TENEBRE

3: Punishment
 
Per un po’, provai davvero a cercare di dormire. Tenevo chiusi gli occhi, immaginando di essere fra le braccia di Edward mentre canticchiava di nuovo quella dolce melodia a me sconosciuta. Tentai di immaginare di riabbracciare mio fratello, parlargli, sapere come stesse dopo la discussione che c’era stata e gli altarini che erano saltati fuori sulle mie origini. Da quando eravamo Parabatai, anche se il nostro rapporto non era migliorato più di tanto a causa della sua gelosia e possessione che, nonostante fossimo ancor più legati nella vita grazie al giuramento fatto, era come se a lui non bastasse mai. Nonostante ciò, sentivo molto di più la sua mancanza. Lo sentivo lontano, distante, ed era una strana sensazione di vuoto che non riuscivo a colmare. Forse, uno dei pensieri che mi tenevano sveglia, era proprio la possibilità di rivederlo domani. Non mi andava di farmi vedere in quelle condizioni dalla mia “famiglia”, soprattutto davanti ai miei fratelli, ma al tempo stesso volevo solamente poterli incontrare, per l’ultima volta. Anche se probabilmente non sarebbe stato possibile.
Ad un certo punto, Edward smise di canticchiare. Non sapevo quanto tempo fosse passato esattamente ma, dalla finestrella in cima al muro, potevo notare che all’orizzonte cominciava a schiarirsi il cielo, segno che ormai l’alba era vicina. Aprii gli occhi e vidi che sembrava incerto, come se fosse un pensiero che lo disturbava, ma non sapeva come esporlo. Sospirò, guardandomi attentamente negli occhi.
- Ho letto qualcosa oggi nei pensieri di Clary – ammise lui a bruciapelo, facendomi seccare la gola – Perché ti hanno tolto dalle celle di isolamento? -.
Io, in tutta risposta, da codarda quale ero, spostai lo sguardo da tutt’altra parte – Perché ho discusso con una guardia -.
Risposta semplice, senza troppe incomprensioni e, soprattutto, non era una vera e propria bugia.
- E? -.
- E basta – risposti semplicemente, cercando di estirpare il discorso alla radice.
Non mi andava di parlare di quello che era successo. Per niente. Ricordare quelle sensazioni schifose che mi aveva fatto provare quel mostro. Non volevo, nonostante fossi riuscita a difendermi egregiamente e non mi pentivo assolutamente di averlo accoltellato. Anzi, se lo meritava. E mi sento di aggiungere, che ero molto fiera di essere riuscita a ferirlo. Solamente, non ero pronta a parlarne.
- Sento che non mi stai dicendo tutta la verità – insistette lui.
- Dipende da quello che hai visto nei suoi pensieri -.
- Non sono riuscito a vedere bene, questo posto crea delle serie interferenze a tutti i nostri poteri – rispose, iniziando ad innervosirsi – Per questo vorrei sapere da te cosa è successo. Ieri le guardie avevano accennato al fatto che avevi pugnalato qualcuno. È così? -.
- Sì – confermai, senza aggiungere altro.
- Cosa ti ha spinto a farlo? – cercava in tutti i modi di togliermi le parole di bocca.
- Niente -.
- Non ci credo, non puoi aver attaccato un uomo per nulla – mi fece ragionare Edward, incredulo.
Con tutta questa insistenza, alla fine scoppiai, mettendomi seduta e diventando rossa in viso - Ha tentato di mettere le mani dove non poteva metterle, ti basta? -.
Naturalmente, attirai l’attenzione anche degli altri membri del clan Cullen, non che avessero di meglio da fare che ascoltare la nostra conversazione, in silenzio.
- No, non mi basta – disse, sedendosi a sua volta per mantenere il contatto visivo.
Sbuffai, con le lacrime agli occhi, passandomi una mano nervosamente fra i capelli annodati – Ero in cella di isolamento e ad un certo punto ho sentito un tintinnio di chiavi arrivare da lontano – sussurrai, cominciando a raccontare la mia versione dei fatti – Alla fine, è entrato una guardia, un uomo alto e robusto. Mi ha detto che se non avessi fatto resistenza, mi avrebbe dato qualcosa da mangiare. Mi ha detto che sono molto carina e che di ragazze, qua sotto, non se ne vedevano da un po’ – mi scappò un singhiozz0 e mi sentii estremamente in imbarazzo, soprattutto perché Edward non era l’unico ad ascoltare e non era un argomento che avevo voglia di diffondere – Per farla breve, ha cominciato a mettermi le mani addosso, puoi immaginare che cosa volesse, anche evitando di entrare nei dettagli. Fortunatamente, sono riuscita a difendermi, mentre era sopra di me, gli ho rubato un pugnale da una delle fodere della tenuta e l’ho accoltellato. Grazie a Clary che ha capito la situazione, è riuscita a far ragionare il Conclave, spiegandogli che non ero io ad aver cominciato l’aggressione, ma Carl. Così. Per la mia incolumità fino al processo, mi hanno spostato qui, in modo tale che ci fossero dei testimoni, nel caso fosse successo di nuovo qualcosa -.
Edward aveva gli occhi di un assassino in quel momento, ma non disse niente. Forse perché l’avevo talmente sconvolto da non riuscire a proferire parola.
- Ti ha ferita, cara? – sentii nel buio della cella, davanti alla mia, provenire la voce dolce di Esme, apprensiva come non mai.
- Gli ho fatto molto più male io – affermai, cercando di essere sfrontata per rassicurare tutti i presenti e chiudere il più in fretta possibile il discorso – L’unico rimorso che ho e di non essere riuscita a conficcare il pugnale più a fondo. Adesso sarebbe morto -.
- Hai fatto bene – intervenne improvvisamente una voce, con una punta d’orgoglio, che non mi aspettavo di sentire – Sicuramente ci penserà due volte la prossima volta che gli viene in mente una cosa del genere -.
Era stata Rosalie. Era la prima volta da quando mi conosceva che sembrava fare un apprezzamento nei miei confronti. Il mio cuore quasi perse un battito.
- E dove si trova adesso questo Carl? – chiese Emmett, con un tono di voce basso, quasi gutturale e decisamente tranquillo, troppo tranquillo.
- Non ne ho idea – dissi – So solo che lo hanno sospeso, per un po’ -.
Edward non spiaccicò ancora alcuna parola. Stavo cominciando a preoccuparmi, sinceramente. Sembrava dispiaciuto.
- Edward – sussurrai, senza sapere esattamente che cosa gli avrei detto.
Rassicurazioni e promesse sicuramente non sarebbero bastate. Era visibilmente scosso e non potevo biasimarlo. Nonostante fossi riuscita in qualche modo a gestire la situazione, non riuscivo a non pormi certe domande. Se non fossi stata in grado di difendermi? Se nessuno fosse corso in mio aiuto?
L’idea di quello che sarebbe potuto succedere mi angosciava parecchio, ma fortunatamente era andata diversamente ed ero riuscita a cavarmela, anche se nessuno dovrebbe mai permettersi di fare una cosa del genere. Nessuno.
Il ragazzo rossiccio voltò lo sguardo verso di me, con un’espressione avvolta nel dolore, che peggiorò quando sentimmo le guardie aprire la cancellata che conduceva al corridoio delle prigioni. Tutti ci alzammo in piedi, istintivamente, come se fossimo in protezione, come se questo potesse cambiare la sorte degli eventi. I loro passi pesanti si avvicinarono sempre di più, finché non si palesarono davanti alla mia cella. Erano le stesse guardie che mi avevano condotto lì qualche giorno prima.
Nessuno dei due Cacciatori disse nulla, inserirono le chiavi nella serratura e aprirono la mia cella per entrare. Con i loro soliti modi bruschi che li contraddistinguevano, si avvicinarono a me, mi fecero piegare le braccia dietro la schiena e mi ammanettarono.
Negli ultimi secondi che mi rimanevano, guardai negli occhi, uno per uno, i Cullen. Alice e Esme erano straziate. Rosalie invece era indecifrabile, impossibile da comprendere. Jasper era ancora immobile, sofferente, bloccato nella stessa posizione e nello stesso dolore da giorni. Carlisle era estremamente dispiaciuto. Lasciai appositamente per ultimi Emmett e Edward, in modo tale da imprimermi definitivamente nella memoria i loro guardi. Emmett sembrava che stesse cercando di trattenersi, aveva i muscoli più tesi di una corda di violino. Edward, invece, mi guardava sconsolato, in fase di resa.
D’altro canto, cos’altro potevamo provare? Niente era più sotto il nostro controllo. Era letteralmente impossibile cercare di trovare una soluzione, una via di fuga, una possibilità per tutti di uscirne vivi. La verità era che eravamo tutti lì, fermi, ad aspettare la nostra condanna a morte. Sinceramente, non avevo altro modo di vederla. Nonostante a parole tentassimo di negarlo, incoraggiandoci a lottare, ognuno di noi, dentro, lo sapeva benissimo.
Non mi ero resa conto, mentre il mio sguardo era ancora fisso sul mio pseudo fidanzato e sul mio presunto padre, che stavo facendo resistenza finché una delle guardie non mi spinse in avanti.
- Muoviti – ordinò bruscamente.
Mentre mi conducevano fuori di lì, passando davanti a tutti gli altri prigionieri, mi tenevano ben salda per le braccia. Ero sicura che lo facessero per impedire qualsiasi altra bravata delle mie.
Quelli che sembravano solamente venti metri si trasformarono in un kilometro. Non sapevo se per l’ansia per quello che mi sarebbe aspetto o per la paura dell’ignoto, quel corridoio sembrava non finire mai.
Quando arrivammo davanti alla cancellata d’ingresso, tentai di voltarmi per vedere i Cullen un’ultima volta, ma ovviamente le guardie non me lo permisero.
- Lotta per il tuo onore! – urlò Emmett, prima che mi sbattessero fuori.
Feci un leggero sorriso a quelle parole. Dentro di me, sperai con tutto il cuore, che i loro poteri non funzionassero, in modo tale che non potessero ascoltare nulla di quello che sarebbe successo. Avrei tanto voluto proteggerli, almeno da questo.
_
 
Mi trascinarono con forza all’interno della sala del Consiglio. La prima cosa che mi colpì come uno schiaffo fu la forte luce che veniva dalle finestre, ampie e alte. Centinaia di banchi in legno scuro erano posizionati ordinatamente, ma diciamo che il pavimento di marmo era diventato il mio diversivo preferito da guardare, dopo che avevo effettivamente notato quanti Cacciatori erano lì, a presenziare per il mio processo. Tutti quegli sguardi, che emanavano soltanto vendetta e giustizia, e che erano pronti a vedermi morire per questo.
Quando entrai in quella grande sala, dal primo momento, cominciarono a mormorare. Purtroppo o per fortuna, non li potevo sentire, ma sicuramente non ci voleva un indovino per sapere che cosa stessero dicendo.
La strada dalla porta d’ingresso al palchetto dove il processo avrebbe avuto inizio, sembrava un percorso ad ostacoli, eppure si trattava solamente di una cinquantina di metri, non di più. Ma in quel momento, mi sembrava che tutto intorno a me si muovesse a rallentatore.
Ad un certo punto il marmo era finito e, le guardie, mi fecero salire un paio di gradini di legno e si fermarono poco dopo. Decisi che forse, era arrivato il momento di alzare lo sguardo, trovandomi davanti tutti i membri del Consiglio, seduti dietro il loro banco, sulle loro sedie preziose. L’unica in piedi, davanti a tutti gli altri, era quella che riconobbi come Imogen Herondale, l’Inquisitrice, la carica più alta dei rappresentanti del Conclave.
Appena il mio sguardo venne ricambiato dal suo, freddo e distaccato, mi sentii mancare la saliva in bocca. Avrà avuto una sessantina di anni, i suoi capelli erano biondi pallidi, quasi incolori, e i suoi occhi grigi, la rendevano ancora più asettica. I capelli erano racconti in uno chignon molto stretto e indossava un abito scuro lungo abbinato ad un mantello nero che aveva l’aria di essere molto antico. Accanto a lei, ad attendermi, c’era anche la Spada Mortale, chiamata anche Maellartach, custodita in una teca di vetro, sicuramente protetta da qualche runa.
Le guardie mi lasciarono lì, davanti all’Inquisitrice e alla massiccia platea di persone che non avevano smesso di bisbigliare. A Imogene bastò lanciare uno sguardo freddo al suo pubblico, che subito si ammutolì, e fece segno alle guardie, prima che se ne andassero, di togliermi le manette.
Quando mi liberarono i polsi non potei fare a meso di rotearli per scioglierli, ma improvvisamente me li sentii ghiacciare, insieme al resto del mio corpo, quando l’Inquisitrice si avvicinò a me, con il suo terrificante sguardo algido. Il cuore mi esplodeva nel petto e cominciai a sudare freddo. Era come se il mio corpo avesse realizzato solo in quel momento di essere sotto processo.
- Isabella Durwood – disse, con un tono di voce rugoso e calcolato – Oggi siamo tutti qui per esercitare il tuo processo. Sei stata accusata di diversi crimini, ma quello più grave è Alto Tradimento -.
Dopodiché, l’Inquisitrice si voltò, cominciando ad allontanarsi, a passo lento ed elegante. Nel frattempo, diedi un altro sguardo alla folla e mi venne quasi un mancamento quando notai che fra la terza e la quarta fila, erano seduti Mary con Will, George e Stephan. I loro sguardi erano terrorizzati da quello che sarebbe potuto succedere da lì nell’arco di un’ora, se non meno.
Mi soffermai di più su quelli che, per tutta la mia vita, avevo considerato dei fratelli e gli mimai con le labbra un “vi voglio bene”. L’ultima cosa che volevo era farli soffrire o creare disonore al loro nome di famiglia. Se avessi potuto tornare indietro avrei agito diversamente, anche e soprattutto per salvaguardare loro. Sperai anche di riuscire a scorgere il viso di Sebastian fra tutte quelle persone, ma non lo trovai. Questo mi dispiacque più di quanto immaginassi anche se, dopo tutto quello che era successo e la sofferenza che stava già affrontando, era meglio così.
Imogene, ritornò da me in tutta la sua eleganza e professionalità e, fra le mani, aveva la copia originale dei Libro Grigio. La copertina antica verde era rilegata a mano, un tomo che emanava potere e saggezza da tutte le sue pagine.
- Giura sul tuo nome, su quello della tua casata e della tua famiglia, sul loro onore e sulle tue origini, sull’Angelo Raziel e sul Libro Grigio, di dire solo ed esclusivamente la verità per lo svolgimento di questo processo -.
Sapevo cosa dovevo fare anche senza averlo mai fatto. Alzai la mano destra e la appoggiai delicatamente sulla copertina verde di quel libro estremamente importante, evitando appositamente lo guardo diretto con l’Inquisitrice.
- Io, Isabella Durwood, appartenente alla casata Durwood… - ma la donna mi interruppe.
- Devi dire il tuo nome completo – mi spiegò – Quello con cui sei segnata all’anagrafe -.
E improvvisamente l’idea che i Cullen, o meglio, che Emmett, mi potesse sentire mentre pronunciavo il mio nome completo, mi faceva più paura del processo stesso.
Sperai con tutto il cuore che nessuno di loro stesse riuscendo ad ascoltare. Non sapevo quanto effettivamente fosse distante la sede del Conclave dalle prigioni. C’erano troppi cunicoli e passaggi segreti per capirlo con certezza. Ma di una cosa ero sicura, non avrei mai voluto che ricevesse la conferma ai suoi dubbi in quel modo. Purtroppo, non avevo altra scelta.
Più preoccupata per le conseguenze di quello che mi sarei trovata una volta tornata in cella, che dall’esito del processo che già sapevo come sarebbe andato a finire, pronunciai il mio giuramento, con la gola secca, gli occhi lucidi e il cuore che mi rimbombava nelle orecchie.
- Io, Isabella Marie Durwood Swan, appartenente alla casata Durwood, figlia dei defunti Charlie e Renée Swan, giuro sul mio nome, sull’onore, sulle mie origini, sull’Angelo Raziel e sul Libro Grigio, di dire solo ed esclusivamente la verità per lo svolgimento di questo processo – riuscii a dire, ma non senza che la voce tremasse verso la fine.
Questo giuramento era solo una formalità per identificarsi al pubblico di Shadowhunters che mi stava guardando. L’unica in grando di estorcere la verità da qualcuno era la Spada Mortale che, giusto in quel momento, un fratello Silente stava estraendo delicatamente dalla teca, per porgermela fra le mani.
- Fratello Geremia – annunciò, rispettosamente l’Inquisitrice, invitandolo a proseguire.
Quando fu abbastanza vicino per porgermi la Spada, deglutii a fatica. Non per il suo aspetto. Mi ero abituata sin da piccola a vedere i segni delle mutilazioni sui loro corpi, la bocca cucita, la loro altezza impressionante e la tunica sgualcita che li copriva da capo a piedi.
“Sei pronta?”
Domandò fratello Geremia nella mia mente. Annuii impercettibilmente, sempre più a bocca asciutta. Era la Spada a preoccuparmi. L’avevo sempre e solo potuta ammirare dalla teca in cui era protetta, non avevo mai avuto il consenso sfiorarla, per quanto mi attraesse l’idea. Ed ora eccomi qui, come conseguenza delle mie miserabili azioni, davanti a questa Spada che mi avrebbe estorto dolorosamente ogni briciolo di verità risieduta nella mia coscienza. Non che comunque avessi intenzione di mentire ulteriormente, con o senza Spada.
Fratello Geremia mi porse la reliquia fra le mani, con la delicatezza, attraverso le sue lunghe dita affusolate e scheletriche, dalle strane sfumature grigiastre. Si assicurò che fosse ben salda fra le mie mani, dopodiché si allontanò lentamente, posizionandosi sotto un arco di marmo antico del Consiglio. Accanto a lui c’era Clary, che cercava di non tradire alcuna emozione.
Il peso del potere della Spada mi penetrava nella pelle, quasi come se fosse un’energia incandescente ma non troppo dolorosa. Per adesso.
Sentivo gli occhi di tutti, della platea e del Consiglio, addosso, ma per ultimo lasciai quello dell’Inquisitrice, che mi studiò a fondo, con i suoi freddi occhi grigi.
- Cominciamo – ordinò, dando così l’inizio ufficiale al mio processo.
_
 
POV EMMETT
 
“Io, Isabella Marie Durwood Swan, appartenente alla casata Durwood, figlia dei defunti Charlie e Renée Swan, giuro sul mio nome, sull’onore, sulle mie origini, sull’Angelo Raziel e sul Libro Grigio, di dire solo ed esclusivamente la verità per lo svolgimento di questo processo”.
 
Mi aveva mentito. Io mi ero aperto con Lei, dicendole la verità, e lei mi aveva respinto, rifiutato, negando il suo vero nome.
Isabella Marie Durwood Swan.
Che poi, “vero nome”. Avrebbe dovuto portare il mio nome di famiglia, il mio cognome, non quello della sua famiglia adottiva e, in aggiunta a quello, dato per convenienza, dal marito di sua madre. Il MIO cognome, quello sì che sarebbe stato il SUO vero nome.
Ero talmente arrabbiato, anzi no, sarebbe stato riduttivo. Ero furioso, amareggiato, deluso, tanto che non ci vedevo più talmente stavo cercando di soffocare queste emozioni. Non vedevo più le sbarre e le grige mura della cella, non vedevo più il pavimento impolverato e sudicio, non vedevo più la mia famiglia, nonostante potessi sentire le loro voci.
- Emmett – era Edward a parlare – So che è un momento difficile, ma cerca di controllarti -.
Riuscii a sentire la sua mano sfiorare la mia spalla, ma continuavo a non vedere niente.
Era incredibile a pensarci: nonostante facessimo fatica a sentire il processo, a causa delle interferenze di Idris, quella parte, dove Isabella ripeteva il giuramento, si era sentita benissimo, forte e chiaro.
Un incredibile scherzo del destino.
- Figliolo – sussurrò Carlisle – Non sappiamo perché si è comportata così. Sicuramente avrà avuto una buona ragione. Ma adesso ti puoi mettere finalmente l’anima in pace, è tua figlia -.
Sì, era mia figlia. La mia prima e unica figlia. Eppure, nel momento in cui avevo aperto il mio cuore, lei lo aveva schiacciato senza neanche darmi il beneficio del dubbio, senza darmi nemmeno una possibilità. Per lei non ero suo padre, non lo sarei mai stato e questo non sarebbe mai cambiato. Potevo comprendere lo sconcerto iniziale la settimana scorsa, quando era fuggita vita dalla stanza degli ospiti, prima di litigare con Edward. Ma i giorni seguenti, con che coraggio era riuscita a guardarmi in faccia senza lasciarsi sfuggire nulla? E in quel momento capii perché tutte le volte aveva evitato di incontrare il mio guardo o di avere una conversazione troppo lunga con me. Non voleva che io scoprissi che lei aveva finalmente capito parte delle sue origini. Era troppo imbarazzante avere un vampiro come padre? Per un Cacciatore sicuramente era inaccettabile, ma considerando la sua relazione con Edward, credevo che lei fosse diversa, o perlomeno ci speravo.
- Amore mio, guardami – sapeva bene di essere l’unica voce a potermi calmare in quel momento – Guardami – ripeté, alzandola di un’ottava, risoluta.
Immediatamente, mi voltai verso di lei, avvicinandomi alle sbarre della cella, per guardarla meglio, bisognoso delle sue cure. Anche Rose si era avvicinata all’altra estremità della cella, cercando di ridurre del minimo possibile le distanze. Avevo ripreso a vedere e, osservare la sua disarmante bellezza e la sua forza, mi abbagliava, sempre. Accanto a lei, Esme e Alice mi guardavano preoccupate, sconvolte e ammutolite.
- Io ti capisco, Emm – raccontò, cercando di immedesimarsi in me, con lo sguardo ricco di emozione – Io c’ero quando, una volta diventato neonato, ti accompagnavo al confine di Alicante per far sì che tu potessi continuare a vedere tua figlia, senza farle del male. C’ero quando Renée ce la lasciava per dei pomeriggi interi, in modo tale che potessi costruire dei ricordi con lei, facendo delle passeggiate nei boschi e portandole la merenda. C’ero quando credevi che fosse morta, insieme a sua madre, e, distrutto dal dolore, quanto ti sentivi impotente e inutile. Un padre orribile per non essere riuscito a salvarla quando, obiettivamente, non c’era nulla che avresti potuto fare in quella situazione – se avesse potuto piangere, sicuramente adesso la mia Rose avrebbe le guance colme di lacrime – In quegli anni, l’ho considerata la figlia che non ho mai potuto avere e non ringrazierò mai Renée abbastanza per essersi fidata e avermi fatto questo regalo, per avermi permesso di viverla per parte dei primi anni della sua vita – respirò profondamente – Adesso è qui, Emmett. La tua bambina è qui e, finché siamo ancora tutti vivi, si può risolvere tutto! -.
- Non so cosa farei senza di te, Rose – mormorai, con estrema sincerità.
Ed era vero.
Renée l’avevo amata tantissimo, sarebbe per sempre rimasta nel mio cuore. Era stata una relazione difficile, fra amanti, dolorosa e contro le regole. Ma era stata il mio primo amore e, anche se non potevo urlarlo al mondo, mi aveva donato una figlia che, purtroppo, non avevo potuto veder crescere. Ma quello che c’era fra me e Rose era stato fin da subito facile, naturale, come se dovesse essere così e non si potesse fare altrimenti. Non era stato un crescendo, mi aveva colpito come un fulmine e nel corso degli anni, quell’amore, quel fuoco, non si era mai affievolito. Anzi, era esploso.
Ero ancora nervoso, ma grazie a lei ero riuscito a calmarmi, ma questa sensazione di calma apparente durò ben poco. Se il nostro cuore fosse stato vivo, avrebbe smesso di battere, proprio nel momento in cui sentimmo l’Inquisitrice pronunciare la sentenza finale.
“Isabella Marie Durwood Swan, per i tuoi crimini, in quanto Traditrice, ti dichiaro colpevole. La tua pena, sarà la morte”.
E fu così, che il mio mondo si fermò di nuovo, nel momento esatto in cui capii che l’avrei persa per la seconda volta. Per sempre.
 
 

 
Salve! Come state? Spero bene.
Eccoci qua con questo nuovo capitolo.
Se vi è piaciuto, lasciate una stellina e un commento.
L’introduzione di come si svolge il processo dei Cacciatori, l’ho rivisitata a modo mio. Perciò, non aspettatevi che rispetti le note originali della saga.
Mi interessa tantissimo avere i vostri pareri.
Besos :-*
 
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Capitolo 5
*** 4. Ready To Die ***


THE WORLD OF DEMONS
L'EREDE DELLE TENEBRE

4. Ready To Die
 
*ROSSO: ATTENZIONE, SONO PRESENTI SCENE DI VIOLENZA*
 
POV ISABELLA


Nonostante fossi già a conoscenza della fine che mi sarebbe aspettata, sentirlo dire dall’Inquisitrice mi aveva procurato un effetto peggiore di quanto avessi immaginato. Mi si era creato un macigno sul cuore che non accennava a svanire. Davanti alla folla, la testa mi girava incontrollata e le mie orecchie erano tramortite dalle urla.
Non mi ero creata false illusioni. Quando i Cullen mi dicevano di avere fede, io non avevo mai cambiato pensiero, ero sempre rimasta ferma sulle mie convinzioni. Eppure, forse, una piccola, anzi, piccolissima, parte di me, ci sperava. Ci sperava in una giustizia che ascoltasse. Ci sperava in una giustizia più comprensiva. Ci sperava in una giustizia che non amasse spargere sangue per mantenere il controllo della sua gente.
Ecco, in sostanza, ci speravo, ma sapevo bene che sarebbe andata come doveva andare.
Il pubblico presente al consiglio esultò all’esito del processo, facendomi sentire inadeguata, insignificante, senza valore. Oppure, dandomi la conferma che la mia vita non significava nulla per quelle persone. L’Inquisitrice, per quanto potesse essere giusto o sbagliato, faceva il suo lavoro, ma non gioiva nel condannare a morte dei Cacciatori, soprattutto così giovani.
Prima che le guardie mi potassero via da lì, mentre mi ammanettavano, guardai per l’ultima volta Will, George e Stephan. Probabilmente, erano le uniche persone in quella sala a star soffrendo alla notizia, forse anche più di me.
Con la solita delicatezza che li contraddistingueva, le guardie mi strattonarono verso l’uscita della sala del Conclave. Passammo davanti a Clary, che mi guardava sconsolata, e fratello Geremia che, in tutta risposta, fece un leggero inchino con la testa, che interpretai come una forma di rispetto. Non avevo idea di dove mi avrebbero portata in quel momento, se di nuovo in cella oppure o se mi avrebbero tolto la vita subito, ma qualsiasi cosa sarebbe stato meglio che passare un secondo in più lì dentro, in quella giungla di persone che si esaltava per la condanna a morte di una ragazzina che aveva commesso l’imperdonabile errore di innamorarsi di un vampiro.
Le guardie continuavano a camminare, a scendere negli abissi delle prigioni, mentre gli infiniti e stretti corridoi diventavano sempre più tetri e scuri.
Non potevo essere certa da quanto tempo effettivamente mi stessero trascinando, ma sicuramente non era stato un trasferimento di dieci minuti, quando finalmente si fermarono davanti ad una porta enorme, in ferro battuto, con delle gigantesche rune d’oro ricamate sopra. Rimasi quasi incantata dalla bellezza di quella porta, finché questa non venne spalancata, rivelando cosa nascondeva.
Una stanza asettica, neanche molto grande, con muri composti di mattoni e cemento rinforzato. Non c’era neanche una finestra, per questo l’aria all’interno risultava molto pesante, ma non era quello che mi preoccupava. C’era un odore acre all’interno, come se qualcosa fosse andato a male.
Quello che mi spaventò furono due persone, che si trovavano proprio al centro della stanza, presumibilmente due uomini, entrambi molto alti, vestiti con delle lunghe tuniche nere e con il viso coperto da un velo, sempre nero. Tra le mani, velate da un paio di guanti in pelle nera, tenevano delle fruste.
Nel momento in cui le guardie mi spinsero per entrare all’interno, io automaticamente feci resistenza, reazione che li fece arrabbiare, naturalmente.
- Muoviti – si alterò, quello alla mia sinistra.
- Sono già stata condannata a morte, ho detto la verità – dissi, con le palpitazioni – Non c’è bisogno di torturarmi! -.
- Questo non lo stabilisci tu! – esclamò l’altra guardia, spingendomi bruscamente all’interno, facendomi cadere a terra, sbattendo la testa. Mi lasciarono lì, inerme, senza alcuna possibilità di alzarmi, avendo ancora entrambe le braccia bloccate dietro la schiena a causa delle manette.
Dalla mia bocca uscì spontaneo un lamento, un misto di dolore e paura, soprattutto quest’ultima, che aumentò nel momento esatto in cui sentii che mi liberarono i polsi e chiusero la porta dietro di sé, lasciandomi da sola con quei due uomini incappucciati e le loro fruste.
Mi sedetti di scatto, strisciando il più possibile via da loro, anche se sapevo sarebbe stato tutto inutile, anche se sapevo che non avrebbe fatto altro che peggiorare la situazione.
I due uomini si avvicinarono a me e quando lo fecero, vidi un particolare delle loro fruste che non avevo potuto notare prima. Ogni quindici o venti centimetri circa, erano posizionate delle pietre lungo la corda di pelle. Chissà se erano già color rame o se lo erano diventate nel corso degli anni, prendendo il colore dalle sanguinanti ferite delle proprie vittime.
- Alzati in piedi – dissero all’unisono, con una voce talmente profonda e potente da non sembrare neanche umana.
Singhiozzai, incontrollatamente, lasciando le lacrime scorrere lungo le mie guance. Ormai era inutile fingere o trattenersi, la mia sanità mentale non stava solo vacillando, ma stava letteralmente andando in pezzi. La mia psiche si stava sgretolando e non riuscivo a fare niente per evitarlo. Non erano serviti tutti gli addestramenti che mi avevano fatto svolgere fin dalla tenera età, non davanti a tutta questa violenza, esercitata dalla mia gente, la stessa gente che mi aveva addestrata per lottare. In questo caso, questi trattamenti prendevano tutto un altro significato.
Come un automa, con le gambe che tremavano, mi alzai in piedi, inevitabilmente terrorizzata.
- Vai al centro della stanza – dissero.
Molto lentamente, con le ginocchia che mi cedevano, la vista offuscata dalle lacrime e la gola dolorante dai singhiozzi, mi posizionai dove volevano loro.
- Spogliati – continuarono.
Involontariamente, mi portai i palmi delle mani sugli occhi, come per autoconvincermi che stavo vivendo un incubo, dal quale mi sarei svegliata a breve. Tutta quella sofferenza, tutte quelle crudeltà, non potevano essere reali. Non c’era modo che potessero esserlo.
- Spogliati – ripeterono, con più enfasi.
E lo feci. Lentamente, mi tolsi prima gli indumenti superiori, per poi passare agli stivali e ai pantaloni. Restai solamente con l’intimo, che sperai fino all’ultimo che non mi avrebbero costretto a toglierlo e, infatti, non lo fecero.
- Fai qualche passo più avanti e resta con la faccia rivolta verso il muro -.
Con scarso equilibrio, a causa dei continui tremori di cui il mio corpo era scosso, mi avvicinai alla parete davanti a me, talmente tanto da poterci appoggiare la fronte.
Quando sentii lo schiocco delle fruste, il mio corpo venne colto da un forte spasmo di paura. In automatico, avvolsi le braccia intorno al busto, come per infondermi coraggio, mentre piangevo su me stessa.
Quando la tortura cominciò però, e la prima frustata venne a contatto con la mia pelle, il dolore fu talmente forte, come una stilettata, che mi si tolse tutta l’aria che avevo nei polmoni e, con quelle successive, non avevo nemmeno più le lacrime per piangere.
_
 
POV EDWARD
 
Ormai ero abituato al lento scorrere del tempo. I secondi sembravano minuti, i minuti sembravano ore, le ore sembravano giorni… Avevo avuto più di un secolo di esistenza per imparare a gestirlo. Ma in quella prigione, c’era una percezione totalmente diversa. Sembrava che il tempo fosse bloccato. Il mondo si era fermato.
Eravamo tutti in attesa che qualcuno la riportasse nella sua cella, accanto a noi. Avevamo seguito il processo, per quanto eravamo riusciti, a tratti, cogliendo comunque le parti più salienti dell’interrogatorio. L’esito finale ci aveva distrutti e da quel momento, nessuno di noi era più riuscito ad ascoltare nessuna conversazione che la riguardasse. Era come se fosse sparita e non riuscivamo più a trovarla, nonostante gli sforzi di tutti.
Ero estremamente preoccupato. La parte più profonda e oscura di me aveva anche cominciato a pensare che l’avessero già uccisa, ma Emmett che, dopo la conferma di essere suo padre e l’ennesima scomparsa della figlia aveva un po’ perso la testa, aveva detto che sicuramente avrebbero svolto la sua esecuzione davanti ai Cacciatori, che quindi sarebbe stata aperta al pubblico.
Perciò, secondo questa teoria disperata di Emmett, doveva essere ancora viva, da qualche parte. La cosa che mi procurava più dolore, era che avrei ucciso se qualcuno le avesse fatto del male. Lo avrei fatto senza scrupoli. D’altra parte, in passato, ero stato un temuto assassino e per lei avrei letteralmente fatto qualsiasi cosa. Anche uccidere. Ma qui dentro, in quella cella, senza alcuna via di fuga, non potevo fare nulla. Ero totalmente inutile. Lei, da sola, in balia del suo stesso triste destino, provocato anche dalla mia influenza. Se solo non fossi stato così debole da innamorarmi, se solo fossi stato abbastanza forte per mettere la giusta distanza fra di noi, per far sì che nulla di tutto questo accadesse, adesso la sua vita non sarebbe precaria.
Sarebbe circondata dall’amore dei suoi fratelli, ad allenarsi e combattere demoni, a vivere la vita per la quale era stata destinata. Ma probabilmente, doveva andare così. Isabella e io ci dovevamo innamorare. Emmett doveva ritrovare la sua piccola e dolce bambina. E Isabella, infine, doveva scoprire che tutto ciò che conosceva sulle sue origini erano menzogne, inventate per farle vivere un’infanzia piena e felice, per quanto la vita di una piccola Cacciatrice potesse essere ritenuta normale.
Ripeto, forse doveva andare così. Forse sarebbe stato troppo bello arrivare a tutti questi traguardi per poi avere la possibilità di goderceli e vivere, recuperando il tempo perduto. Un fato ingrato mi aveva da sempre perseguitato e questa volta non sarebbe andata diversamente.
Il mio guardo cadde su Emmett, seduto in terra con la schiena appoggiata al muro, pensieroso e senza forze. Potevo capire a cosa stesse pensando senza neanche sforzarmi di leggergli nella mente. Bastava guardarlo negli occhi. Un padre combattuto, che rischiava di perdere sua figlia per la seconda volta nello stesso istante in cui l’aveva appena ritrovata, senza che il suo cervello facesse a tempo a metabolizzare almeno una delle due vicende. L’impotenza, perché per l’ennesima volta sapeva bene che non avrebbe potuto fare nulla per salvarla. E infine, l’indignazione, del perché tutto questo doveva succedere proprio a lui. Cosa aveva fatto di così terribile per meritarsi tutto questo?
Improvvisamente, un cigolio ormai noto a tutti, ci fece scattare sull’attenti. Il cancello delle prigioni era stato aperto. Io, Emmett e Carlisle ci avvicinammo alle sbarre che davano sul corridoio e lo stesso fecero Esme, Rose e Alice. Jasper non si mosse.
Una folata di profumo dolce e inebriante mi colpì subito al naso, rassicurandomi. Era lei. Finalmente. Potei leggere lo stesso sollievo nei pensieri della mia famiglia, soprattutto in quelli di Emmett, ma quel briciolo di speranza si attenuò nel momento in cui un secondo aroma, più forte del precedente, ci colpì come uno schiaffo in faccia, risvegliando l’istinto primordiale della sete. Era ferita e stava perdendo parecchio sangue, presumibilmente.
Il mostro si stava svegliando dentro di me e, istintivamente, feci qualche passo indietro, come per tentare di domarlo. Anche le vampire nell’altra cella probabilmente fecero le stesse considerazioni, perché anche loro arretrarono, mentre Carlisle e Emmett rimasero lì dov’erano. Di nostro padre non mi stupii, aveva sviluppato nel corso dei secoli un elevato autocontrollo riguardo il sangue umano, ma mio fratello mi sorprese. Probabilmente, la nuova consapevolezza di avere una nuova occasione per fare il padre, lo aveva reso più forte sotto quel punto di vita, perlomeno nei confronti di sua figlia.
Quando comparvero nel nostro campo visivo, la scena che vidi fu talmente straziante, da procurarmi una rabbia, una furia cieca, tanto forte, da riuscire a sovrastare l’istinto indomabile della sete.
Due figure maschili, incappucciate e vestite totalmente di nero, la stavano trascinando, tenendola solo per le braccia, verso la sua cella. Lei era totalmente incosciente. La testa ciondolava da una parte all’altra, seguendo i movimenti bruschi dei due boia, mentre le gambe, inermi, strisciavano contro il pavimento, escoriandole la pelle.
Bella, la mia bellissima ed incantevole Bella, non era nemmeno riconoscibile. Aveva indosso una tunica logora tendente al giallo, che sembrava fatta dello stesso materiale dei sacchi di patate. La cosa che mi fece preoccupare e imbestialire, erano le macchie rossastre che continuavano ad espandersi su di essa. I suoi capelli erano un groviglio di nodi. La sua pelle, quella del viso, delle braccia e delle gambe, era sporca sia di sangue sia di polvere nera. Inoltre, dal naso e dalla bocca, usciva del sangue. Parecchio.
- Mio Dio… - singhiozzò Esme, addolorata.
Percepii Jasper alzare il capo, per la prima volta in tutti quei giorni. Ma nessuno gli diede troppo peso. Era troppo debole per fare qualsiasi cosa.
Eravamo rimasti tutti senza fiato e senza parole, finché i due uomini incappucciati non aprirono la sua cella e la lanciarono all’interno come se fosse un sacco. E mi distrusse vedere lei cadere a terra a peso morto e non sentir proferire alcun lamento o mugolio di dolore. Male, significava che era grave. Molto grave. Mi avvicinai il più possibile a lei, nonostante le sbarre, seguito a ruota da Carlisle. Respirava a fatica. Il suo cuore batteva a stento.
“Sta morendo, ha urgentemente bisogno di aiuto” pensò Carlisle, sconsolato, sapendo bene che in questa gabbia eravamo totalmente inutili.
Ma Emmett davanti a quella scena reagì in modo totalmente differente.
- BASTARDI – urlò – COSA LE AVETE FATTO?! -.
I due non gli diedero attenzione. Si voltarono e fecero per andarsene.
Istintivamente, Emmett cominciò a prendere a pugni le sbarre. Vidi perfettamente la forte scarica elettrica attraversargli il corpo, ma era talmente furioso in quel momento, da aver avuto davvero poco effetto su di lui.
- Jasper! – sentii urlare Alice, mentre guardava suo marito sconvolta.
Immediatamente mi voltai e non potei non notare il suo guardo famelico e i canini scoperti. Aveva fame, come tutti noi, ma la sua vita lo aveva reso molto più sensibile a riguardo e, davanti a tutto quel sangue, sicuramente non sarebbe riuscito a controllarsi. Ero in difficoltà io, figuriamoci lui.
“Emmett ha toccato le sbarre e non gli è successo niente” pensò “Posso sfondarle e nutrirmi”.
Ecco perché Alice era così sconvolta. Doveva essergli venuta una visione, inaspettatamente, dove aveva visto Jasper cercare di attaccare Bella.
Nello stesso istante in cui mi misi davanti a lui per occultargli al vista, lui reagì, e mi si scaraventò addosso, con una forza quasi incontrastabile. Il suo sguardo era totalmente indemoniato e, in quel momento, pensai, che non ci fosse alcuna traccia di Jasper. C’era solo il mostro che abitava dentro di lui.
- Jazz! – lo richiamai a gran voce, tenendolo ben saldo per le spalle per far sì che non mi sfuggisse – Controllati! -.
Persino Carlisle si posizionò accanto a me, per aiutarmi a contrastarlo – Ricordati chi sei, figliolo! -.
Jasper in quel momento, era talmente forte, che da soli, io e Carlisle, facevamo fatica a contenerlo.
- AFFRONTATEMI! – continuò Emmett contro quei boia, senza prestare minimamente attenzione a quello che accadeva intorno a lui – DOVE CREDETE DI ANDARE?! CODARDI, SCHIFOSI ASSASSINI! -.
- Emmett! – lo richiamò Rosalie, disperata.
Lei era l’unica che poteva riportarlo con l’attenzione su di noi, ma non servì a nulla.
Non feci in tempo a voltarmi per capire quello che stava succedendo che, uno dei due boia si era avvicinato alla nostra cella.
Alzò una mano in direzione di Emmett, che accolse in pieno la sfida, dicendogli – Forza, apri sta dannata cella! È stato facile prendersela in due con una ragazzina disarmata! Adesso, vediamo chi è il più forte! -.
Rosalie sussultò per la reazione che avrebbe potuto avere il boia a quelle parole, ma non rispose, non direttamente per lo meno. Non aprì neanche la cella. Restò lì, immobile, con la mano ferma in direzione di Emm.
- ALLORA?! – lo sfidò – Cosa stai aspettando?! -.
Ma l’uomo disse solo una parola – Somnum -.
In quello stesso istante, Emmett si accasciò a terra. Nessuno ebbe tempo di reagire, che la mano dell’uomo si girò verso Jasper, che stava ancora lottando di liberarsi da me e da nostro padre.
- Somnum – ripeté, e anche Jasper cadde a terra, immobile, accompagnato dalle urla di Alice.
Carlisle si rivolse verso di lui, incredulo, non riuscendo a capire cosa stesse facendo ai suoi figli – Fermati, non c’è bisogno di… -.
Ma il boia non gli fece completare la frase, che la direzione della mano si voltò verso di lui – Somnum -.
E anche Carlisle si accasciò a terra, seguito dai singhiozzi incontrollati di Esme. Mi inginocchiai, prendendolo fra le braccia, per cercare di svegliarlo. Se volevamo salvare Bella e aiutare Emmett e Jasper, ci serviva lui, le sue conoscenze e la sua esperienza. Non potevamo cavarcela senza.
Ma sentii per l’ennesima volta uscire dalla bocca del boia la parola – Somnum – e quella volta toccò a me, addentrarmi nell’oscurità.
_
 
Quando ripresi conoscenza, notai che Emmett e Carlisle erano già svegli, seduti l’uno accanto all’altro, con la schiena appoggiata verso il muro. Stavano guardando nella cella accanto, quella che apparteneva ad Isabella, con una profonda tristezza sui loro volti.
Jasper, fortunatamente, era ancora addormentato e così anche Esme e le mie sorelle.
- Quanto tempo è passato? – chiesi agli unici due svegli, alzandomi in piedi, per andare verso di loro.
- Non saprei – rispose Carlisle – Ma le sue condizioni si stanno aggravando sempre di più. Anche da qui, riesco a percepire che ha la febbre molto alta e le sue ferite devono essere molto profonde. Inoltre, sento che fa fatica a respirare, per cui deduco che abbia anche qualche costola incrinata – e poi pensò “Se non addirittura rotta”.
Cercò di spiegarmi, per come poteva in quella situazione, senza neanche che potesse avvicinarsi per visitarla. La situazione era decisamente critica e non mi serviva la mia laurea in medicina per capirlo. Purtroppo, anche un occhio inesperto ci sarebbe arrivato.
- Carlisle ha detto che se non riceve cure immediatamente, potrebbe morire prima che il sole tramonti stasera – disse mio fratello, esausto, con un tono di voce talmente flebile che non gli apparteneva – E che, anche se qualcuno le prestasse soccorso adesso, le probabilità di morire sarebbero comunque molto alte -.
Che punizione terribile, stare qui, immobili, bloccati, a guardare la persona che si ama mentre sta morendo, lentamente e dolorosamente, senza poter fare nulla. Era straziante, guardarla, mentre faceva fatica a respirare, ridotta in quello stato. Ormai, la rabbia non serviva più a nulla.
All’improvviso, dei passi veloci e leggeri attirarono la nostra attenzione. Emmett, allarmato, si mise in guardia subito, alzandosi in piedi, ma dai pensieri riuscii a capire chi era.
Mi alzai in piedi a mia volta, seguito da Carlisle, e li rassicurai dicendo – È Clary -.
Qualche secondo dopo, come previsto, comparve sull’uscio della cella di Bella, con il fiato corto e qualche barattolo misterioso fra le mani. Aprì la serratura ed entrò.
Non sembro rimanere troppo sorpresa dalla scena che gli si parò davanti, né per Bella, né per i vampiri accasciati a terra. Sapeva già tutto, le voci probabilmente giravano in fretta.
- Cosa stai facendo? – chiese Emmett, apprensivo, mentre Clary posizionava alcuni strani intrugli accanto al corpo torturato della mia piccola Bella.
Lessi nella sua mente e capii che erano delle erbe magiche particolari, che dovevano essere spalmate sulle ferite con una certa tecnica. Ma non l’avrebbe fatto lei, serviva una mano più esperta.
- Sto preparando tutto ciò che serve per quando arriveranno i rinforzi -.
Dopodiché, dal suo stivale, estrasse quello che sembrava una penna che, una volta che venne a contatto con la pelle del braccio di Bella, si illuminò, rilasciando del fumo. La stava marchiando.
- Le stai facendo un Iratze? È troppo tardi, non funzionerà – constatò Emmett.
- I rinforzi? – domandò subito dopo Carlisle, che si limitò a guardare me.
Proprio in quel momento, cogliendoci alla sprovvista, perché nessuno di noi udì alcun rumore di passi per poterlo prevedere, fece il suo ingresso una figura che a primo acchito pensai fosse un fantasma. Vestito da una lunga tunica grigiastra, aveva il cappuccio che gli oscurava metà volto, ma si riusciva perfettamente a vedere che aveva la bocca cucita ed era senza occhi.
- Fratello Geremia – sussurrò Emmett, in un mix fra il sorpreso e il sollevato.
“Emmett, è un piacere vederti vivo” rispose nelle nostre teste, e la sensazione fu decisamente strana.
“Sono passati tanti anni” aggiunse ed Emmett annuì.
Ma sia a me sia ad Emmett, in quel momento, interessavano poco i convenevoli.
- Mi prometti che se la caverà? – mi permisi di chiedergli, sotto lo sguardo di mio fratello, preoccupato.
Fratello Geremia, che si accovacciò al fianco di Clary per darle una mano, accarezzò il volto della povera Bella.
“Ti prometto che farò del mio meglio” rispose solamente, per evitare che ci creassimo troppe aspettative. Dopodiché, si mise al lavoro.
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POV ISABELLA
 
Brividi. Dolore. Bruciore. Sapore di sangue. Confusione. Voci, voci familiari. Calore. Muovere la gamba. No. Muovere la mano. No. Non capisco. Rosso. Rosso sangue. Caldo, tanto caldo. Sudore. Bruciore, insopportabile. Bloccata. Mi sento. Bloccata. I denti formicolano. Manca aria. Stanchezza, troppo stanca. Dolore, dolore atroce, ovunque. Sapore di sangue, sulla lingua. Sete, vorrei acqua. No, troppo stanca. Troppo debole. Condanna a morte. Morte. Emmett, la verità. Devo dirgli, la verità. Edward, lui non sa. Lo amo, ma lui non sa. Fitta. Dolore. Non respiro. No movimenti, troppo male. Sangue, bevo sangue. Schiena, immobile. Ferite, le sento. Aperte, ancora sangue. Profumo di erbe. Mani, mi toccano. Male, troppo male. Occhi chiusi, non si aprono. Non riesco. Seb, mio Seb, addio. Muovo le dita. Forse, non lo so. Occhi tristi, i miei fratelli. Pelle contro pelle.
Vedo nero. Sono morta? Troppo male per essere morta.
 
 

 
Salve! Come state? Spero bene.
Eccoci qua con questo nuovo capitolo.
Scusate per l’ennesimo ritardo!
Se vi è piaciuto, lasciate una stellina e un commento.
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Capitolo 6
*** 5. Savior ***


THE WOLRD OF DEMONS
L'EREDE DELLE TENEBRE


5. Savior
 
Probabilmente, in tutta la mia vita, non avevo mai provato un dolore fisico così forte come questo. E il fatto che io stessi ricominciando a sentire consciamente questa sofferenza, poteva significare solo una cosa: mi stavo riprendendo. Immediatamente, quel pensiero, mi fece deprimere.
Dopo tutta la violenza subita, l’ultima cosa che volevo era di uscirne nuovamente viva, per poi comunque dover morire fra meno di ventiquattro ore. Ero stanca, stremata e avevo definitivamente esaurito le energie per lottare. Ormai la mia mente, in fase di esaurimento, aspettava solamente che arrivasse il grande giorno dell’esecuzione per riposare in pace, per sempre.
Sentii una mano tiepida passarmi delicatamente tra i capelli folti e annodati, inducendomi ad aprire gli occhi.
Quando finalmente li aprii, lentamente, fui sorpresa di trovarmi davanti il viso preoccupato di Clary. Aveva posizionato la mia testa sulle sue gambe, per far sì che potessi riposare più comodamente. Rispetto ai giorni precedenti, dove mi ero appisolata sul pavimento di pietra freddo e duro della cella, questo era un gran cambiamento.
Clary mi sorrise – Come stai? – dopodiché mi posizionò la stessa mano che era fra i miei capelli, sulla fronte – Non mi sembri più così febbricitante. Finalmente la febbre deve essere scesa di qualche linea -.
Cercai di tirarmi su seduta, ma la ragazza mi ammonì immediatamente, con un’espressione in viso che non ammetteva repliche – Fai con calma, ci sono andati giù pesante questa volta… -.
Sicuramente si stava riferendo alle mie ferite e al fatto che avessero quasi rischiato di ammazzarmi talmente era la forza che avevano usato per frustarmi. Comunque, ero talmente dolorante, che neanche volendo mi sarei potuta muovere troppo velocemente. La verità era che anche soltanto per mettermi seduta avevo avuto bisogno dell’aiuto di Clary: ogni singolo movimento mi toglieva direttamente l’aria dai polmoni, come una stilettata.
- Avrebbero fatto meglio ad uccidermi subito – mormorai, con una voce talmente bassa e roca da non sembrare la mia, senza alcuna esitazione mentre, grazie alla rossa, riuscivo ad appoggiare la schiena contro il muro.
Lei, in cambio, mi restò vicina e mi passò un suo braccio intorno alle spalle per far sì che potessi appoggiare la mia testa, che sembrava pesare una tonnellata, su qualcosa di più morbido e avvolgente di un muro.
- Non dirlo neanche per scherzo – rispose Emmett, nervoso, mentre mi guardava dall’altra parte delle sbarre, ma sempre abbastanza vicino per tenermi d’occhio, per quanto potesse.
Sbuffai. Come ogni volta che mi portavano in cella, gli sguardi dei Cullen erano puntati su di me, come se da un momento all’altro potessi perdere la vita o scoppiare in una crisi nervosa.
Apprezzavo le loro preoccupazioni, ma odiavo il fatto che in queste ultime settimane si sentissero in dovere di prendersi cura di me e allo stesso tempo in colpa perché, fisicamente, non lo potevano fare. Lo leggevo nei loro sguardi: non mi potevano curare, non mi potevano proteggere. Potevano solo guardarmi, aspettare e sperare, con le mani in mano.
Se mi sentivo impotente io, chissà come potevano sentirsi loro, dei forti vampiri chiusi in una gabbia con il dono dell’eternità, che avevano sconfitto la morte già una volta.
- Non lo dico per scherzare – gracchiai stizzita, ammutolendo tutti – Lo dico perché lo penso davvero. Sono stanca… - ammisi con lacrime amare e il sapore del sangue ancora in bocca, mentre le ferite del mio povero corpo torturato bruciavano ad ogni piccolo respiro che facevo – di tutto questo! A sto punto, che mi lascino morire e basta… -.
- Bella – la voce di Edward era straziata, mentre si inginocchiava davanti a me, stremato – Non dire così, Clary e Fratello Geremia sono riusciti a salvarti, non è ancora finita… -.
- Cosa devo dire? La mia gente mi vuole morta, ma questo va persino oltre! – mormorai agitandomi, mentre Clary mi stringeva a sé, per confortarmi – Sono una Cacciatrice, mi hanno insegnato cos’è la violenza. Io stessa l’ho esercitata in diverse occasioni e mi ha dato soddisfazione. Ma una brutalità del genere… è anche peggio della morte. Anche se sopravvivessi, non mi fiderei più della mia gente. In quella sala c’erano vicini di casa, vecchi amici di famiglia, persone che mi hanno vista crescere e hanno comunque esultato davanti a quel verdetto. Se sono davvero così odiata, che senso ha? Nessuno piangerà la mia morte quando mi taglieranno la gola davanti a tutte quelle persone -.
Nessuno sapeva cosa rispondere. D’altro canto, cosa avrebbero mai potuto dirmi? Il mio cuore era irrimediabilmente spezzato e nessuno avrebbe potuto aggiustarlo dopo un’esperienza del genere, anche se si fosse trovata una misteriosa soluzione per salvarmi la vita.
Rigettata come spazzatura dalla mia stessa famiglia e dal mio stesso popolo, maltrattata e picchiata senza sosta e senza pietà, in uno scontro svantaggioso solo per me. Mai ad armi pari.
- Ma tu hai anche un’altra famiglia – disse Carlisle guardando Emmett e poi tutti gli altri membri del suo Clan – Sappiamo che sei figlia di Emmett, ma anche se non lo fossi stata, anche se tra te e Edward non fosse scoccato l’amore, ci siamo noi. Non sei da sola e anche se non possiamo piangere, il fatto che qualcuno possa spezzare la tua vita, ci addolora terribilmente -.
Guardai Carlisle senza sapere che cosa dire. Ero commossa, perché finalmente qualcuno aveva compreso l’entità del mio tormento, aprendosi con me invece di negare quello che stava succedendo. Il Dottore aveva capito e accolto il mio patimento, che non si basava sulla pena di morte, ma sul non essere ricordata, o peggio, sull’essere ricordata, ma con odio.
Tirai su con il naso mentre, con la coda dell’occhio, guardai Clary che, in tutto ciò, non aveva ancora smesso di accarezzarmi le punte, ormai rovinate, dei capelli.
- Cosa ci fai ancora qui, tu? – le chiesi allarmata – Ti nascondi troppo da queste parti, se non ti fai più furba, ti metterai nei guai -.
Mi sorrise teneramente, ma non si mosse di un centimetro – Io non vado da nessuna parte, ho già fatto la mia scelta -.
- Non ce n’è bisogno, Clary – risposi apprensiva – Hai già fatto abbastanza per me, so bene da che parte stai. Vai e prenditi cura di te. Non hai bisogno di farti ammazzare per questo -.
- Te lo ripeto, non vado da nessuna parte Bella – sussurrò, con un tono di voce talmente calmo, ma convincente, da lasciarmi spiazzata – Starò qui finché lo riterrò necessario -.
Sapevo che era un modo come un altro per farmi capire, fra le righe, che nonostante tutto, si era affezionata a me. Come potevo biasimarla? Non sapevo quanto effettivamente si potesse sentire sola a lavorare in quelle prigioni, mentre scontava la sua pena. Probabilmente, non le era nemmeno mai capitato di trovare qualcuno a cui fosse successa più o meno la vicenda, tanto da immedesimarcisi. Sentivo davvero molta gratitudine nei suoi confronti e avrei voluto sapere come ricambiare tutta quella bontà un giorno, se solo avessi avuto più tempo a disposizione su questa terra.
Inevitabilmente, mi voltai verso Emmett, quel vampiro muscoloso, giocherellone e arrogante che avevo scoperto di recente essere mio padre, anche se ancora non riuscivo a visualizzarlo come tale. Forse, per la prima volta dopo diversi giorni da quando ero a conoscenza di questo fatto, riuscivo a vedere qualche somiglianza fra di noi. I capelli, sia nella tipologia che nel colore, il taglio degli occhi, le labbra carnose. Riguardo il carattere, avevo notato che l’arroganza, la testardaggine e l’iperprotettività verso le persone amate era una cosa che ci accomunava parecchio. Mi sarebbe piaciuto vederlo combattere come un Cacciatore… magari gli somigliavo anche nelle movenze.
Continuai a fissarlo mentre, con fare triste, teneva gli occhi puntati sul pavimento e le mani nelle tasche dei pantaloni, finché finalmente non li rivolse verso di me. Rimase sorpreso nel notare che lo stavo osservando e soprattutto, che non avevo distolto lo sguardo in seguito. Cercai di giustificare quel momento, ponendogli una domanda, la prima che mi venne in mente.
– Quindi hai sentito? Adesso sai la verità? – chiesi a fatica, con rammarico.
Annuì, emettendo un lungo sospiro che sicuramente nascondeva parecchie emozioni controverse – Sì, ma avrei preferito averne la conferma in modo diverso -.
- Mi dispiace -.
Rise con amarezza, mentre l’attenzione di tutti era rivolta su di noi – Penso che tu sia l’ultima persona in questa storia a doversi scusare di qualcosa -.
- Ti devo delle scuse per aver negato con assolutezza quel giorno, senza neanche darti il beneficio del dubbio, quando me ne hai parlato – mi spiegai meglio e presi fiato – Mi sono pentita di averlo fatto, successivamente, ma ero stata talmente colta alla sprovvista che non riuscivo a crederci – mormorai dolorante, facendo una piccola pausa – Sono stata cresciuta da delle persone di cui mi fidavo ciecamente, per le quali avrei dato la vita e, per molto tempo, ho creduto che avrebbero fatto lo stesso per me, sentendo sempre e solo un’unica versione della stessa storia, la loro. In realtà, anche tutt’ora, mi risulta difficile pensare che quello che mi hai confessato sia la verità… - e la sua espressione tornò sofferente, preparandosi ad incassare il colpo, ma quello che avrei detto da lì a poco non se lo aspettava – Dai, riflettici bene, sono troppo bassa e minuta per essere davvero tua figlia! -.
Quando capì che stavo scherzando, scoppiò a ridere fragorosamente, come non faceva da giorni, seguito dagli altri vampiri e da Clary. Edward mi guardò dolcemente, rincuorato per aver regalato alla sua famiglia questo piccolo attimo di ilarità, anche se quest’ultima era destinata a durare non più del tempo di un battito di ciglia.
__
 
Passò qualche ora e si fece buio. Clary aveva deciso di andarsene per evitare che facessero troppe domande sulla sua assenza prolungata. Sicuramente, l’avrei rivista la mattina successiva.
Ero sdraiata a terra, con gli occhi chiusi e davo le spalle ai Cullen. Il mio era un tentativo disperato di riuscire ad addormentarmi, ma ora ero ufficialmente una condannata a morte e poco dopo l’alba del giorno seguente, sarei dovuta salire sul patibolo. Sarebbe stato difficile per chiunque riuscire a riposare con un tale fardello sullo stomaco da gestire. Inoltre, le ferite mi facevano ancora soffrire parecchio e, ogni respiro che facevo, era una coltellata diretta ai polmoni.
Cercavo comunque di muovermi il meno possibile, non volevo che i Cullen pensassero che fossi sveglia. Non volevo dargli il tempo di prepararmi discorsi strappalacrime. Sinceramente, non volevo pensare che quella sarebbe stata l’ultima notte che trascorrevo con loro. Preferivo sforzarmi e negare l’evidenza, non volevo pensare a niente, ma per loro ovviamente era differente. Non potevano chiudere gli occhi e provare ad addormentarsi: uno degli svantaggi di poter vivere in eterno.
- Come ho fatto a non riconoscerla… - sentii dire da Rosalie ad un certo punto.
Emmett trattenne una risata – Tranquilla Rose, non è stato facile neanche per me -.
- Lo so – rispose lei, con frustrazione – È inaccettabile averla appena ritrovata e doverci già preparare all’idea di perderla, senza che possiamo fare nulla per intervenire, di nuovo -.
- Sono due tipologie di dolore totalmente differenti – controbatté lui – La prima volta fu un dolore inaspettato e sconvolgente: non riuscivo ad immaginare che la mia piccola bambina, di soli sei anni, indifesa… - si fermò per diversi secondi prima di procedere - Non riesco a parlarne neanche adesso! – continuò, con voce sommessa – Ora, invece, da una parte sono estremamente grato che sia ancora viva e sia sopravvissuta a quel dannato giorno dell’Invasione. Dall’altra parte, sono furioso, con me stesso e con il destino, a cui probabilmente piace prendersi gioco di me, che me l’ha fatta ritrovare solo per vederla morire, solo per perderla, di nuovo – le parole gli morirono in gola, piene di rabbia e delusione – Mi sento come se non avessi fatto abbastanza -.
Avrei voluto uscire allo scoperto e dirgli che non aveva colpe. Ero sicura che lui avesse tentato di fare del suo meglio all’epoca. Non lo potevo sapere, ovviamente, ero troppo piccola per poterlo ricordare, ma dentro di me, ne ero certa. Si capiva dai suoi occhi, dal modo in cui mi aveva parlato quella sera a casa sua e da come era felice di avermi ritrovata cinque giorni dopo la mia fuga nei boschi. Avevo una forte sensazione dentro di me, una verità nascosta, secondo la quale lui aveva fatto tutto quello che era in potere di fare considerando le difficoltà che aveva all’epoca.
- Non è vero, figlio mio – intervenne Esme, dolcemente – Io ancora non ti conoscevo bene in quel periodo, ma sono sicura che hai fatto tutto quello che potevi fare e, questa emozione che provi, non fa altro che confermare quello che penso – la immaginai avvicinarsi alle sue figlie adottive, Rosalie e Alice, per abbracciarle – Un genitore che ama alla follia i propri figli non smetterà mai di chiedersi se avrebbe potuto fare di più in determinate situazioni, è totalmente naturale, anzi, sarebbe insolito il contrario -.
L’aria, a causa di quell’argomento spiacevole, si percepiva più pesante, ma Alice ebbe una buona idea per stemperare la tensione.
- Raccontaci com’era da piccola, Emmett – consigliò lei, con una punta di entusiasmo, anche se palesemente forzata.
Lui ci mise qualche secondo per rispondere – Non saprei… -.
- Può essere una buona idea, invece – disse Edward, incoraggiando il fratello.
- Siamo tutti curiosi di sapere se c’è qualche aneddoto divertente che la rende più simile a te – continuò Carlisle, strappando una leggera risata a tutti.
- Va bene, fatemi pensare – acconsentì Emmett – Una volta, quando aveva cinque anni, Renée l’aveva lasciata a me e a Rosalie per la giornata. Ormai ero già un vampiro da due anni e, con la supervisione attenta di quella che ora è mia moglie, la mamma di Bella si fidava molto a lasciarcela. Adesso, non starò qui a spiegare in che modo riuscivamo a creare un varco nelle protezioni di Idris, non mi sembra il luogo adatto, fatto sta che sapevamo bene come fare per riuscire ad aprire il confine, d’altro canto, ce lo aveva insegnato il Conclave per eseguire i suoi “lavori sporchi”. Quindi, eravamo nei boschi, vicini ai confini del paese, e le stavamo leggendo un libro sulle donne Cacciatrici più forti della storia e, ogni volta che facevo un nome, lei con la sua vocina piccola e acuta, mi rispondeva sempre che nessuna eroina avrebbe mai potuto battere la sua mamma e Rosalie -.
- Me lo ricordo – intervenne sua moglie, dolcemente.
Emmett ridacchiò, per poi continuare – Oppure, mi ricordo perfettamente il giorno in cui ha imparato a correre prima ancora di saper camminare… Probabilmente pensava che più velocemente si fosse mossa, prendendo un bello slancio, meno possibilità aveva di cadere in terra -.
- Sembra proprio da lei – intervenne Edward, divertito.
Mi sentivo imbarazzata, ma allo stesso tempo anche intenerita da quei racconti. Emmett possedeva uno scrigno prezioso di ricordi, molti dei quali io non ero a conoscenza, o perché ero troppo piccola o perché rimossi con il tempo. Era strano ritrovarsi davanti una persona che, teoricamente, conoscevi da una vita intera, ma non riuscire a ricordarsi di averla mai incontrata. Lui conosceva cose di me che non sapeva nessun altro. Io non potevo dire lo stesso e questo mi aveva fatto venire un’irrefrenabile voglia di conoscere di più Emmett. Allo stesso tempo, mentre ascoltavo i loro discorsi, l’idea di non avere la possibilità di farlo, fece sprofondare le mie emozioni nel baratro.
__
 
Per l’ennesima volta in quei giorni di prigionia, sentimmo chiaramente il cancello dei sotterranei aprirsi, segnando la conferma dell’alba di un nuovo giorno, che per me sarebbe stato pure l’ultimo. L’ultima alba, gli ultimi respiri che potevo esalare, gli ultimi saluti. Il mio ultimo giorno sulla terra.
Sentendo le guardie avvicinarsi, non mi alzai, non ci riuscivo. Le ferite me lo impedivano. Perciò, restai a terra, sdraiata ed immobile, con lo sguardo rivolto verso i Cullen e stavolta li guardai davvero, come per imprimere i loro volti nella mia memoria, in modo tale che, una volta arrivato il momento di chiudere gli occhi, non avrei pensato alla folla davanti a me, mentre osservava il boia con la spada in mano pronto a decapitarmi, ma avrei visualizzato loro e, così, sarebbero stati le ultime persone che avrei visto prima di morire. Edward, angosciato, seduto davanti a me, il più vicino possibile alle sbarre, ma senza sfiorarle. Emmett, pensieroso, in piedi esattamente dietro al primo, con le spalle appoggiate al muro. Carlisle, preoccupato, accanto al corpo di Jasper che ancora non si era svegliato e, da una parte, era meglio così: probabilmente l’assenza di nutrimento lo rendeva troppo debole per riuscire a riprendersi. Esme che, nonostante fosse completamente distrutta dalla situazione, cercava lo stesso di consolare la piccola Alice. E infine Rosalie che, nonostante tutto quello che stava succedendo, riusciva comunque a mantenere un controllo emotivo non indifferente.
- Mi dispiace di avervi trascinato in questa situazione – mormorai colpevole, mentre i passi delle guardie si avvicinavano sempre di più – Non mi resta molto tempo, ma volevo solamente dirvi che non avrei mai voluto che finisse così -.
- Bella… - sussurrò Edward, distrutto, senza sapere più cosa dire – Io… -.
- Isabella – intervenne Carlisle con voce sicura – Tu non hai alcuna colpa -.
- Se avessi fatto scelte diverse non sareste qui adesso – continuai, con un forte rimorso che mi chiudeva la gola.
- Non cominciamo a fare questo “giochetto” – disse risoluto Emmett – Perché potremmo parteciparvi tutti qui dentro e non si riuscirebbe comunque a proclamare un vincitore. Anche io, se avessi preso scelte diverse, probabilmente sarei riuscito ad essere presente nella tua vita. Eppure, non è stato così -.
Mi sentii ghiacciare a quelle parole. Avrei tanto voluto sapere tutta la sua versione della storia, cos’era successo. Perché mia madre aveva tradito quell’uomo che avevo sempre conosciuto come mio padre, con Emmett? Mi avevano desiderata? Perché era stato trasformato in un vampiro? Com’era successo? In quanti conoscevano la mia storia, anzi, la nostra storia? E se, in qualche modo, questa storia segreta venisse allo scoperto, che ripercussioni ci sarebbero state da parte del Conclave?
La verità era che non avrei mai potuto scoprirlo e, purtroppo, adesso non c’era più tempo. Le guardie erano esattamente davanti alla mia cella, pronte a prelevarmi con la forza. Inserirono le chiavi nella serratura e in pochi secondi furono dentro.
- Alzati in piedi – ordinò duramente una di loro.
Sapevo che ero troppo debole per riuscire ad alzarmi da sola, ma non volevo dargli altri pretesti per essere violenti nei miei confronti, così decisi almeno di dimostrargli che ci stavo provando.
Con estrema difficoltà, cercai di aiutarmi con le braccia e il muro alle mie spalle, nel tentativo disperato di riuscire a tirarmi su, ma il mio corpo fu preso da dei violenti spasmi, la pelle delle ferite si tese, facendomi soffrire e tremare come una foglia. Così fui di nuovo a terra, senza forze e con il fiato corto. Le guardie si spazientirono e decisero di non perdere ulteriore tempo.
Si avvicinarono velocemente a me e, senza neanche sforzarsi di essere delicati, mi presero sotto le braccia e mi tirarono su di colpo, costringendomi a trattenere un gridolino di dolore, che si trasformò in un gemito represso.
- Dì pure i tuoi addii – mi disse l’altro, posizionato alla mia sinistra, sorprendendomi.
Non mi aspettavo che mi lasciassero la possibilità di fare i miei ultimi saluti a quelle splendide persone che avevo davanti, ma non sprecai questa possibilità.
Li guardai tutti, di nuovo, per l’ennesima in pochi minuti, pronta a dargli il saluto per eccellenza, quello definitivo. Stavolta sarebbe stata davvero l’ultima. Non potei fare a meno di pensare quante cose mi ero persa e quante avrei potuto recuperarne, quante cose ancora avrei dovuto scoprire, se solo non avessero avuto in programma di uccidermi. Se solo il tempo fosse stato dalla mia parte.
Cercai di trovare la voce per parlare più volte, senza sapere come cominciare esattamente, finché, con gli occhi lucidi e la gola seccai, riuscii a elaborare una frase tanto semplice quanto inutile – Allora, questo è un addio -.
- No, non lo è, mia cara – rispose subito Esme, con sicurezza nello sguardo.
- È solo un arrivederci – cercò di sorridermi con malinconia Carlisle – Ci rivedremo -.
E quell’arrivederci fu il più dolce e amaro, il più intenso e importante, che io avessi mai sentito. Avevo studiato innumerevoli culture, soprattutto concentrandomi sulle loro leggende e religioni, ma nessun credo mi aveva mai convinta a pensare che ci fosse qualcosa dopo la morte. Eppure, un uomo come Carlisle, saggio e sapiente, con secoli di vita alle spalle, ci credeva o, forse, ci sperava e basta.
Detto questo, Rosalie si alzò in piedi e mi disse – Credevo che molti anni fa il nostro fosse stato un addio, che non ti avrei più potuta riabbracciare, coccolare o sentire il tuo profumo. E invece, era solo un arrivederci – fece una piccola pausa – Confido che anche questa volta possa essere così -.
Quasi mi emozionai. Naturalmente, io ero troppo piccola per avere dei ricordi a riguardo, ma percepivo da parte sua un cambiamento nei miei confronti da quando era uscita allo scoperto la verità, in questi ultimi giorni.                                                                                                                                                     
- Arrivederci Bella – mi salutò Alice, sforzando un sorriso e dando man forte alla sorella.
- Arrivederci Alice -.
Mi voltai verso Emmett, con un dolore tremendo alla gola per quanto stavo cercando di trattenere le mie emozioni, riuscendo solamente a sussurrare un lieve – Stai attento -.
Non mi guardò, probabilmente non ci riusciva. Era immobile, con lo sguardo ancorato al pavimento, indecifrabile: sembrava una statua.
- Qualsiasi cosa succeda, non ti arrendere – mormorò, in lotta con sé stesso.
Dopodiché passai oltre e il mio sguardo si posò sul ragazzo, su quel vampiro, per il quale tutto quel casino era cominciato. Quando il mio sguardo incrociò il suo, che era amareggiato e sofferente, con quelle iridi nere come la pece, non riuscii più a trattenere le lacrime. Immaginavo una storia diversa tra noi e non riuscivo ad accettare che stesse davvero finendo in quel modo, nonostante dentro di me, la parte più razionale, sapeva che non avevamo mai avuto una vera e propria possibilità.
- Edward… – singhiozzai.
- Ti amo – disse di punto in bianco, disperatamente, lasciandomi totalmente spiazzata – Non so se avrò altre occasioni per dirtelo, ma volevo che tu lo sapessi -.
Il mio cuore esplose, esplose di gioia, ma allo stesso tempo, lo sentii scavarsi una voragine per sprofondarcisi dentro. Quello che poteva essere considerato un gesto romantico, era diventato un ultimo tentativo disperato, per non lasciarmi mai andare totalmente.
Avrei potuto dargli tante, tantissime, innumerevoli risposte, ma la verità era che ero troppo sopraffatta dagli eventi e in quel momento non riuscii a dire o fare nulla. Ero incapace ad elaborare un pensiero di senso compiuto. Come poteva Edward provare questo sentimento per me, dopo la pena di morte che incombeva sulle nostre teste, aver scoperto che Emmett era biologicamente mio padre e nel nostro mondo, una relazione fra noi era illegale. Come poteva avermi scelta, nonostante stessi per morire. Come poteva avermi scelta dopo aver commesso così tanti errori ed avergli mentito. Come poteva aver scelto di amare me, quando poteva avere una vita più semplice con una persona diversa, magari con una donna della sua stessa specie.
- Io… -.
- Non c’è bisogno che tu dica nulla – continuò intensamente, con una sicurezza ritrovata che in quei ultimi giorni aveva un po’ perso – Avevo bisogno di dirtelo. Volevo che tu lo sapessi. Qualsiasi cosa accada, questo non cambierà -.
Sempre più angosciata, innamorata e disperata, cercai di trattenere i singhiozzi mentre le lacrime mi inondavano incontrollatamente le guance. Il mio cuore non poteva sopportare altro. Decisi di non aggiungere ulteriore carne al fuoco. Se per caso fossero sopravvissuti a tutto questo, anche se non lo credevo possibile, non volevo che Edward rimanesse con il rimorso di sapere che, nonostante anche io lo amassi, non era riuscito a salvarmi. Anzi, non eravamo riusciti a salvarci, a salvare il nostro amore.
Avevo già causato abbastanza danni.
- È ora di andare – mi informò, asettico, la guardia alla mia sinistra e, senza aspettare un mio qualsiasi cenno d’assenso, cominciarono ad incamminarsi all’esterno della cella, trascinandomi con loro.
Lasciai i Cullen alle mie spalle, con i loro occhi puntati sulla mia schiena, e nonostante stessi per abbracciare la mia fine, non riuscivo a smettere di pensare al fatto che Emmett e Edward non meritavano di vedere la rispettiva figlia e ragazza amata essere portata via di peso, per essere giustiziata. E forse, tutto sommato, nemmeno i meritavo questa condanna a morte.
__
 
Mentre le guardie mi conducevano in mezzo alla folla, la gente era in delirio. C’erano urla, esaltati che non vedevano l’ora che venisse sparso un po’ di sangue e sete di giustizia. Una giustizia che ormai mi stava stretta e non riuscivo più a comprendere.
Ci trovavamo nella piazza principale di Alicante e per l’occasione, esattamente al suo centro, avevano allestito un palchetto, con tanto di boia in nero, con il viso coperto, pronto ad attendermi con la spada in mano. Accanto a lui, in abiti altrettanto scuri, l’inquisitrice Imogene Herondale era pronta a eseguire e dare il via alla sentenza. Rabbrividii a quella vista.  
Quando mi portarono sul patibolo, le guardie mi posizionarono tra l’Inquisitrice e il boia, ma senza lasciarmi andare. Ero ammanettata e debole, ferita sia fisicamente che nell’orgoglio, non avevo più le forze di difendermi o reagire. Chissà cosa pensavano che potessi combinare.
Quando diedi uno sguardo al pubblico esaltato davanti a me, intimorita, scorsi dei volti familiari che mi fecero pregare che tutto finisse in fretta. Marie, William, George e Stefan erano presenti, con il viso contrito dai senti di colpa e dall’impotenza. Dall’esperienza di quei giorni di reclusione, ne sapevo qualcosa.
A gran voce, l’Inquisitrice Herondale, spense l’entusiasmo della folla – Silenzio! – disse, per poi annunciare - Siamo tutti qui, riuniti oggi, per giustiziare Isabella Mary Durwood Swan, condannata per Alto Tradimento e per aver tentato di fuggire, senza consegnarsi subito al Conclave – fece una pausa d’effetto per poi aggiungere, rivolta verso il boia e le sue guardie – Procediamo -.
Senza ulteriori indugi, le guardie mi fecero inginocchiare con forza davanti a quello che sembrava un piccolo altare scavato nella pietra. Senza aspettare che mi venisse ordinato, abbassai la testa e appoggiai una guancia sulla superfice gelida della roccia, pensando inevitabilmente che a breve sarei diventata anche io fredda e avrei assunto un colore molto simile al grigio, ma cercai di convincermi silenziosamente che sarebbe tutto finito in poco, pochissimo tempo.
Vidi l’ombra del boia avvicinarsi con una lentezza disarmante alla mia esile e debole figura. I giochi di luce che creava la spada al sole mentre veniva sferzata in alto, mi fece mancare la salivazione. Sudavo freddo e il cuore mi martellava nelle orecchie. Improvvisamente, il panico prese il sopravvento, totalmente in balia di quello che sarebbe successo da lì a pochi secondi. Secondi che sembravano durare un’eternità. Secondi che mi facevano soffrire più dell’idea della morte stessa.
Chiusi gli occhi e, anche se il mio istinto di sopravvivenza stava gridando per farmi reagire, decisi di concentrarmi sui volti delle persone che amavo e mi erano state vicine, come mi ero ripromessa: Sebastian, Stefan, William, George, Edward, Emmett, Esme, Alice…
Un lieve spostamento d’aria sopra il mio capo mi deconcentrò, riportandomi alla realtà, con il cuore in gola. Immaginai che lo avesse causato la spada nella discesa sempre più veloce e repentina verso il mio collo, ma mi sbagliavo. Un urlo, che non proveniva da me, mi fece sobbalzare, insieme al suono della spada che cadeva a terra inerme, senza più alcun padrone pronto a colpire la sua vittima.
Alzai di colpo la testa e, nello sgomento generale, notai che era stato il boia ad urlare, dopo essere stato ferito poco sotto la spalla, quasi vicino al cuore, da una freccia.
Una tipologia di freccia che avevo già visto e utilizzato diverse volte.
Una freccia che aveva un proprietario.
Un proprietario che siglava, una ad una, tutte le sue armi con le iniziali del suo nome: SS.
- Provate a farle ancora del male e siete tutti morti -.
Abbandonai l’immagine del boia ferito e mi volta, alla ricerca della voce, quella di cui avevo sentito più la mancanza in quei giorni di abbandono, degrado e reclusione.
Un piccolo esercito composto da uno stregone e una ventina di Cacciatori armati fino ai denti erano pronti ad intervenire, con poteri e armi mai viste prima, per salvarmi.
E a dirigere quelle persone c’era proprio lui, il ragazzo che aveva promesso nel giuramento Parabatai di proteggermi e dare la sua vita per la mia: mio fratello, Sebastian Durwood Swan in persona.
 
 

 
Salve! Come state? Spero bene.
Eccoci qua con questo nuovo capitolo.
Scusate per l’ennesimo ritardo!
Non voglio che diventi un’abitudine aggiornare così di rado, ma allo stesso tempo, il lavoro prosciuga tutte le mie energie.
Se vi è piaciuto, lasciate una stellina e un commento.
Mi interessa tantissimo avere i vostri pareri.
Besos :-*
 
Zikiki98
 
Instagram: _.sunnyellow._

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Capitolo 7
*** 6. Herondale ***


THE WORLD OF DEMONS
L'EREDE DELLE TENEBRE


6. Herondale

 

- Sebastian... - mormorai con sgomento.

Non potevo crederci. Qualcuno stava tentando il tutto per tutto per salvarmi e, quel qualcuno, era proprio mio fratello, che mi sembrava di non vedere da mesi e invece erano passate solamente due settimane, circa.

Imogene si parò davanti a me e si rivolse al ragazzo con irruenza - Sebastian Durwood Swan, a cosa devo questa visita? Come avete fatto ad entrare nel paese senza permesso? -.

- Il motivo mi sembra alquanto ovvio e ritengo superfluo specificarlo - rispose con risolutezza, puntando arco e freccia verso la donna - Siamo riusciti ad accedere grazie a questo Nascosto accanto a me - continuò, indicando, anche se con disprezzo, l'uomo al suo fianco.

La persona in questione non si fece scalfire, anzi, non ci fece neppure caso e esaltò le sue stesse lodi - Non è stato affatto semplice, ma sono lo Stregone più potente del mondo, non c'è quasi niente che io non possa fare -.

Ma lei non sembrò né colpita né si fece intimidire da quel gesto e da quella conversazione - E cosa ci fai in compagnia dello Stregone più potente del mondo? -.

Lo Stregone sorrise con malizia e, anche da lontano, si potevano notare i suoi occhi dorati e affilati come quelli di un gatto. Era indubbiamente un uomo affascinante, dai tratti orientali, alto e non eccessivamente muscoloso. Era vestito in modo elegante, ma rigorosamente di nero.

- Mia Signora - rispose lui, facendole un inchino che, per quanto potesse appartenere alle buone maniere, in realtà sembrava un modo come un altro per mancarle di rispetto - Sono Magnus Bane e, se la mia fama mi precede, sapete bene che non faccio nulla che non sia anche nei miei interessi -.

- Hai creato un esercito, Sebastian - disse l'inquisitrice, ignorando volutamente la frase dello stregone - E siete in netta minoranza. Stai rischiando di essere accusato per tradimento e per aver creato un esercito, non autorizzato, dall'istituzione del Conclave, contro la tua stessa madre patria - cercò di intimidirlo, ma lo sguardo di mio fratello era fiero e risoluto, niente avrebbe potuto fargli cambiare idea - Pensa bene alle conseguenze delle tue azioni, Sebastian -.

- Non esistono conseguenze per un fratello che vuole salvare sua sorella - rispose a tono, non abbassando l'arco, mentre i Cacciatori intorno a lui sfoderavano spade, pugnali e fruste - E giusto per precisare, non ho creato un esercito, il mio obiettivo non è combattere e iniziare una guerra -.

- Ah no? - domandò stizzita la donna - Allora, spiegami, qual è? -.

- Io voglio solamente uccidere tutti quelli che oseranno anche solo sfiorare Isabella -.

La gente era pietrificata. Nessuno parlava più, forse perché si aspettavano che la Cacciatrice Herondale desse l'ordine alle sue guardie di reagire a quell'imboscata. A vedere l'espressione che aveva nel volto, ero sicura che stesse soppesando ogni possibilità, il rischio di un passo falso avrebbe potuto scatenare l'ennesima tragedia di massa per la nostra specie. Nonostante fosse una donna forte e che a tratti pareva indistruttibile, inarrivabile, ero certa che non sarebbe mai voluta giungere ad una conclusione del genere.

- A meno che... - cominciò Magnus Bane, avvicinandosi sensualmente all'Inquisitrice.

- A meno che? - continuò lei.

- A meno che non ti vada di ascoltare -.

Sul volto della donna davanti a me, vidi passare una quantità di emozioni contrastanti che sembravano infinite. Stava ragionando per bene cosa fosse meglio fare. Era una situazione decisamente fuori dal normale, essere al suo posto non doveva essere semplice. Sapevo che molti invidiavano la sua posizione, credevano che fosse solo gloria, potere e comando. Secondo me, non era così e non sentivo di invidiarla, per nulla. Doveva prendere decisioni di un'importanza inquantificabile, gestire i malcontenti e trovare una soluzione a tutte le problematiche che il suo popolo doveva fronteggiare. Senza dubbio, nonostante mi avesse condannata a morte, c'erano delle qualità in lei che non riuscivo a non ammirare, come ad esempio la sua forza, la sua risolutezza, il suo senso di giustizia e la sua determinazione. Sotto questo punto di vista, preferivo di gran lunga essere un semplice soldato come tutti gli altri.

Di risposta, l'Inquisitrice, fece segno con le dita alle sue guardie di abbassare le armi, davanti allo sgomento del pubblico presente, che stava ancora aspettando di vedere la mia testa rotolare senza meta giù dal patibolo.

- Parla, Stregone - lo invitò lei, severamente.

Magnus Bane fece qualche passo avanti, schiarendosi la voce. Dallo sguardo si poteva ben capire che prendesse quella situazione quasi quanto un gioco, a differenza dei cacciatori armati, compreso mio fratello, che si trovavano dietro di lui.

- Imogene Cara, posso chiamarti così? -.

- Parla - ordinò gelida la donna, stringendo i pugni lungo i fianchi.

Lo sguardo di Magnus Bane si posò fisso su di me, con i suoi occhi da gatto, che sembravano scavarmi nel profondo. Si avvicinò, mentre ero ancora inginocchiata, con i polsi legati dietro alla schiena, davanti a quel masso che avrebbe dovuto essere il mio cuscino di morte entro sera. Avvicinandosi a me, inevitabilmente si avvicinò anche all'Inquisitrice, che non aspettò un secondo di più prima di minacciarlo.

- Se osi fare un altro passo avanti, ti faccio sgozzare dai miei mastini più feroci, e non sto parlando dei cani - lo intimò, incenerendolo con lo sguardo, mentre le guardie più terribili del Conclave erano pronte ad intervenire.

Lo Stregone sorrise - Fortunatamente, mi so difendere molto bene, ho diversi secoli di esperienza alle spalle -.

- I tuoi incantesimi fasulli qui non funzionano -.

- E chi ha parlato di magia? -.

Successivamente, l'attenzione del Nascosto, ritornò su di me. Per un secondo, il suo sguardo sembrò diventare compassionevole - Senti tanto dolore? -.

- No - mentii.

- Non ti ho dato il permesso di rivolgerti a lei - intervenne l'Inquisitrice, al limite della pazienza.

- Non mi serve il tuo permesso per rivolgermi ad una ragazza innocente - rispose a sua volta lo Stregone, dedicando il suo sguardo, più tagliente dei miei stessi pugnali, alla donna.

L'altra, sbuffò - Non è innocente, è colpevole -.

E fu così che, inaspettatamente, Magnus Bane scoppiò nella risata più libera e assordante che io abbia mai sentito. Percepii l'umore dell'Inquisitrice farsi sempre più tetro e l'esercito con cui il Nascosto era arrivato, agitarsi. Sebastian sembrava quasi odiarlo.

- Cosa c'è da ridere?! - lo rimproverò Imogene, cercando di controllarsi.

- Se dobbiamo cercare i veri colpevoli che hanno portato a tutto questo, dobbiamo andare indietro nel tempo a circa un secolo fa, a quando gli abitanti di Idris hanno chiuso fuori dalle barriere migliaia di Cacciatori, abbandonati a loro stessi e alle cattiverie del mondo -.

- Non esistevo nemmeno quando è accaduto -.

- Vero, ma i tuoi antenati sì. Non riconosci nessuno all'interno dell'esercito alle mie spalle? - la sfidò.

Imogene indagò con lo sguardo ogni singolo Cacciatore intruso che c'era davanti a lei, alle spalle dello stregone. Con occhi confusi e palesemente colmi d'ira, studiò ogni faccia e apparentemente nessuno gli risultò familiare, finché il suo sguardo non si fermò su un ragazzo alto, con i capelli biondi lunghi fino alle spalle e dal fisico asciutto. A quella distanza, anche se non riuscivo a vedere bene, sembrava avere gli occhi chiari. Il viso, nonostante dimostrasse che non potesse avere troppi anni in più di me, era duro, vissuto. I suoi occhi si alternavano tra me e l'inquisitrice, con un misto di interesse e sfida.

- Quel ragazzaccio biondo con l'aria da sbruffone - confermò i miei dubbi Magnus - Non ti ricorda nessuno? -.

Ma Imogene restò in un silenzio rigoroso, con i pugni, sempre più stretti da diventare bianchi, lungo i fianchi. Dalla mia postazione non riuscivo a vederla bene in volto, ma potevo immaginare che l'espressione che aveva assunto, sicuramente rappresentava lo specchio dei suoi pensieri e, questo, non avrebbe portato a niente di buono.

- Mi chiamo Jonathan Christopher Herondale, ma tutti mi chiamano Jace - parlò finalmente il ragazzo, con voce alta e profonda, facendo sussultare tutti i presenti per lo stupore - E, per qualche assurdo scherzo del destino, sono tuo nipote -.

In quello spazio aperto, nessuno fiatò più. Eravamo tutti in questo religioso e assordante silenzio che, persino gli uccellini che cinguettavano, sembravano disturbare quell'attimo di quiete prima della tempesta. L'inquisitrice, che colta da degli spasmi per quanto si stesse cercando di contenere dal tremare in modo incontrollato, sembrava poter svenire da un momento all'altro.

- No, non è possibile - sussurrò, cercando di trattenersi dal cedere al panico - Mio figlio è morto vent'anni fa -.

- No, ti sbagli - rispose a tono il ragazzo - Era semplicemente stanco di essere il burattino del tuo amato Conclave, così, appena ne ha avuto l'occasione, è scappato, insieme a mia madre, aggirando le protezioni - fece qualche passo in avanti, abbassando le armi - Poi sono nato io e per diverso tempo siamo riusciti ad avere una vita normale, ecco, per quanto possa essere considerata normale la vita di due Cacciatori che vivevano in un Istituto, finché non sono morti una decina di anni fa e io sono stato affidato alla famiglia Lightwood -.

E in quel momento, probabilmente, per Imogene fu troppo da sopportare, nonostante fosse la donna più forte che io avessi mai conosciuto, e fu colta da un mancamento. Le guardie la acciuffarono subito, in modo da non farla cadere, e in pochi secondi, si riprese.

Nonostante tutto, mi sentivo così in pena per lei. Era come se avesse vissuto due lutti: il primo quando credeva che suo figlio fosse morto, invece era solo fuggito, in qualche modo ancora sconosciuto, dal paese; il secondo, era il lutto vero, lo schiaffo in pieno volto di aver pianto un figlio per anni, quando invece era ancora vivo e, nel momento in cui cominciò ad imparare a sopravvivere, avere delle conferme che non si era nemmeno immaginata di ricevere in quel momento.

- Se siete venuti fin qui per distruggere la mia psiche... - mormorò affranta la donna, con voce gracchiante, riunendo in sé le ultime forze che le erano rimaste - State perdendo tempo -.

Lo stregone scoppiò a ridere, come se in tutta quella situazione, ci fosse davvero qualcosa di divertente - No cara, non è assolutamente per questo che siamo qui -.

- Allora?! Cosa volete ancora?! -.

Magnus Bane fece di nuovo qualche passo avanti, con le mani in alto, ma le guardie reagirono e puntarono l'Adamas delle loro spade a pochi millimetri di distanza dal suo torace. Nonostante ciò, non perse il sorriso e cominciò a spiegare le sue ragioni.

- Siamo venuti qui per dimostrarti, anzi, per dimostrarvi - rivolgendosi anche al consiglio e alla platea presente - che il mondo fuori di qui è andato avanti. Probabilmente credevate di essere rimasti gli unici Shadowhunters sopravvissuti su questa terra, ma come potete notare - aggiunse facendo un cenno alle sue spalle per indicare i suoi accompagnatori - Non è affatto così. I Cacciatori che sono stati chiusi al di fuori delle protezioni, un secolo fa, dai vostri antenati, non sono morti... mi correggo, non subito almeno - raccontò facendo una pausa d'effetto - Prima di morire, per cause naturali o contro un demone o chicchessia, si sono innamorati, hanno creato delle famiglie, sia con gli stessi Cacciatori, ma alcuni con dei Nascosti addirittura! - enfatizzò apposta l'ultima frase, aspettandosi le urla scontrose e gli insulti del pubblico che, una volta lo fece finito di sfogarsi, lo sguardo dello stregone si rivolse di nuovo su di me - E se vuoi uccidere questa povera ragazza innocente, colpevole solamente di amare incondizionatamente un altro essere viventi che non appartiene alla sua stessa specie, sappi che là fuori ci sono altre migliaia di Cacciatori, famiglie e bambini alla quale dovrebbe spettare la stessa sorte, da generazioni... Sed Lex, Dura Lex. No? Voi dite così, giusto? - si guardò intorno, con tono accusatorio - Ma non penso che desideri davvero una fine del genere, vero Imogene? -.

L'Inquisitrice, davanti a tutte quelle inaspettate verità, si voltò di scatto verso di me, con gli occhi pieni di lacrime. In tutti quegli anni, non l'avevo mai vista in quello stato. Sembrava distrutta. Senza neanche prima consultarsi con il Consiglio, si avvicinò a grandi passi nella mia direzione. Istintivamente cercai di scivolare all'indietro, ma ovviamente non ottenni chissà quali risultati.

- Datemi una spada - ordinò, con tono grave.

Di nuovo la paura prese il sopravvento, mentre lei mi costrinse ad appoggiarmi contro il masso di pietra davanti a me, schiacciando la mia guancia contro la superficie di gelida. Qualche lacrima di disperazione sfuggì dal mio controllo, finché non sentii la lama della spada sferzare l'aria e dividere in due le catene che mi univano i polsi dietro la schiena.

Questo improvviso cambio di programma mi destabilizzò più della condanna a morte, ma non mi mossi comunque, per il timore che fosse una trappola.

Dopodiché, la donna si schiarì la voce e proclamò - Isabella Marie Durwood Swan, sei libera -.

 
...

Salve! Come state? Spero bene.

Eccoci qua con questo nuovo capitolo.
Se vi è piaciuto, lasciate una stellina e un commento.

Mi interessa tantissimo avere i vostri pareri.

Besos :-*

Zikiki98

Instagram: _.sunnyellow._

 

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Capitolo 8
*** 7. Freedom ***


THE WORLD OF DEMONS
L'EREDE DELLE TENEBRE

7. Freedom
 
Quello che arrivò subito dopo fu la confusione più totale. Quando sentii le catene spezzarsi dietro la mia schiena mi portai, tremanti, i polsi davanti agli occhi. Le dita, arrossate e sporche, anche di sangue, sembravano prese da degli spasmi, non riuscivo a tenerle ferme. Come dei bracciali, nella parte più sottile delle mie braccia, pendevano le manette che prima erano unite da degli anelli che, ora, essendo stati frantumati, dondolavano verso il basso.
Alzai lo sguardo verso l’Inquisitrice, in modo interrogativo. Ero davvero libera? O era una trappola? Mi stavano mettendo alla prova?
La donna, ancora visibilmente sconvolta, si abbassò e prendendomi bruscamente per un gomito, mi costrinse ad alzarmi in piedi, anche se le mie ginocchia non sembravano reggermi molto bene.
- Vai via da qui – mi intimò, quasi spingendomi giù dal patibolo.
Meccanicamente e anche in modo abbastanza scoordinato, eseguii gli ordini. Improvvisamente, il mio istinto di sopravvivenza si risvegliò dal suo stato di dormiveglia. Nonostante provassi dolore in tutto il corpo, tanto da faticare a pensare, il mio cervello sembrò funzionare comunque, come se fosse disposto di un generatore d’emergenza. Avevo due possibilità, nel caos che si stava innalzando intorno a me a causa di quella situazione.
Guardai in mezzo alla folla, dove si trovavano Mary e i miei fratelli adottivi, che cercavano in tutti i modi di farsi avanti, sgomitando fra le persone, per cercare di raggiungermi. Poi, guardai alla mia destra, dove c’era Sebastian che, probabilmente guardando la mia espressione visibilmente sperduta e torturata, abbassò arco e frecce, in un modo talmente lento da essere quasi rassicurante, senza mai perdere il mio contatto visivo.
Il mio corpo, ferito ed umiliato, scelse per me. Mi trascinai ancora per qualche metro, superando lo sguardo attento e curioso di Magnus Bane e, mentre gli altri Cacciatori che erano arrivati con mio fratello ci circondarono, non sapevo se per lasciarci un po’ di privacy o per proteggerci, mi ritrovai davanti a Sebastian e improvvisamente mi bloccai, come se non sapessi esattamente cosa fare.
Il petto di Seb si alzava e abbassava velocemente e i suoi occhi erano sbarrati, lasciando intendere il dolce mix delle sue emozioni attuali: rabbia, orrore, ma l’apoteosi di quello che vi lessi fu l’amore. Lui non mosse un dito, probabilmente per non rischiare di agire in modo troppo brusco da spaventarmi, essendo visibilmente traumatizzata, sia fisicamente, ma soprattutto mentalmente.
L’amore che provava per me, lo aveva spinto a rischiare tutto e sacrificare la sua vita, come sempre. La realizzazione di quel pensiero per me fu devastante. Anche se aveva sempre dimostrato che io occupavo il primo posto nelle sue priorità, nella sua mente e nel suo cuore, quella situazione, questa missione di salvataggio che aveva intrapreso, così estrema, difficile e suicida, solo per la sottoscritta, quando gli altri miei famigliari si erano limitati, per forza di cose e non gliene facevo una colpa, ad assistere, come per starmi vicino, fu un pugno allo stomaco. Mai più avrei sottovalutato o scavalcato l’amore di mio fratello. Mai più lo avrei fatto sentire abbandonato a sé stesso o secondo. Mai più lo avrei preferito a qualcun altro. In quell’esatto momento, rimirando i suoi meravigliosi occhi smeraldini, lo specchio perfetto di quelli di nostra madre, feci un voto. Sebastian, mio fratello, Parabatai e compagno, sarebbe stato la mia priorità.
Raggiunta questa consapevolezza, presi in mano la situazione percorrendo gli ultimi passi che ci tenevano distanti, con lo stesso equilibrio di un pulcino spennacchiato appena venuto alla luce, e caddi letteralmente fra le sue braccia, che risposero subito al contatto con il mio corpo, stringendomi forte a sé. La mia anima, sentendosi finalmente al sicuro, si lasciò andare in un pianto senza lacrime, contro il suo petto, dove potevo tranquillamente sentire il suo cuore battere all’impazzata.
Un braccio mi circondava le spalle, come per sorreggermi, mentre l’altro mi avvolgeva la testa, accarezzandomi i capelli annodati, come per farmi da scudo, anzi, farci da scudo, perché subito dopo il suo viso si abbassò e si nascose nell’incavo del mio collo.
- Ci sono io ora – sussurrò con serietà e convinzione – Nessuno ti toccherà più -.
- S-Seb – mormorai, in preda ai singhiozzi – M-Mi dispiace -.
- Devi scusarti solamente di aver rischiato di lasciarmi per sempre – rispose in tono sommesso – Non hai nessuna colpa, nessuna… Sei tutta la mia vita – dichiarò, stringendomi ancora più forte al suo petto, se possibile.
Mi abbandonai totalmente al suo tocco, al suo calore, al suo amore. Mi sentivo finalmente al sicuro, e anche nel caos che gravitava intorno a me, intorno a noi, potevo dire con certezza di essere salva.
Il popolo che ci circondava, che palesemente non aveva gradito l’esito inaspettato di quel processo, urlava scontento per non avermi tagliato la testa. Sentivo l’Inquisitrice tentare di tenere sotto controllo la situazione, con l’aiuto delle guardie e di Magnus Bane che, nel frattempo, cercava di ottenere un colloquio privato con Imogene.
Cominciai a percepire l’adrenalina, che mi aveva tenuta in piedi fino a quel momento, scemare e le ultime energie che possedevo, scivolarmi via dalle mani.
- Allontaniamoci da qui – fu l’ultima cosa che riuscii a sentire, prima di perdere i sensi e abbandonarmi alle braccia del mio salvatore.
_
- Ha perso conoscenza da sei ore – disse qualcuno di cui inizialmente non riconobbi la voce.
No, non svegliatemi, pensai. Questo sogno è troppo bello, lasciatemi dormire.
Sebastian mi stava salvando la vita ed ero fra le sue braccia. Ormai, sono al sicuro, non svegliatemi.
Mi sussurrava parole dolci e sincere, piene di amore, mi rassicurava. Non svegliatemi.
“Si sveglierà” rispose una voce autorevole, quasi metallica “Il suo corpo ha dovuto sopportare tanto, la sua mente ha bisogno di riposo”.
No, non voglio. Lasciatemi stare. Non toccatemi.
- E se non dovesse riuscirci? – chiese, terribilmente in pena, una voce femminile stavolta.
Bisogna essere pazienti” rispose in modo atono, l’altro.
Capii di trovarmi su un letto, riflessione decisamente poco scontata considerando la location degli ultimi giorni. Il materasso doveva essere vecchio e strausato, ma le lenzuola che lo ricoprivano e mi avvolgevano erano pulite e di buona qualità: si percepiva dal profumo di fiori che emanavano e la freschezza che sentivo sotto le mani che le impugnavano. Avevo comunque fatto un salto di qualità.
Sentii il materasso piegarsi alla mia sinistra, sotto il peso di qualcuno che non ero io. Delle dita molto delicate mi sfiorarono il viso, la spalla, lungo il braccio fino a raggiungere la mia mano, per liberarla dalle lenzuola e stringersela a sé.
A quel punto, decisi che non avrei più avuto modo di sognare. Con calma, aprii le palpebre e decisi di affrontare la realtà.
Alla mia destra, su un comodino, la luce delle candele attirò la mia attenzione e il fatto che fuori dalle finestre, ormai, ci fosse quasi buio, mi fece capire che il sole a Idris era già tramontato da un po’. Era inverno inoltrato, perciò mi risultò abbastanza normale. Il soffitto, alto e possente, dello stanzone enorme in cui mi trovavo era decorato da immagini celestiali di angeli bellissimi e paffutelli, dagli occhi chiari e i capelli dorati come corone preziose. Quegli affreschi erano estremamente antichi, ma tenuti decisamente in buono stato. Un sacco di letti uguali al mio riempivano la stanza, ma fortunatamente la maggior parte erano vuoti. Così, mi resi conto, di essere in infermeria. Nell’infermeria della prigione, certo, ma non ero morta e tantomeno ritornata dietro le sbarre. Ciò significava solamente una cosa: quello che credevo fosse stato un sogno, in realtà, non lo era. Era successo realmente. Quindi… ero salva.
Le persone attorno a me, una volta che videro le mie palpebre aperte, mi diedero il tempo di adattarmi alla situazione, senza asfissiarmi o mettermi pressione, come se aspettassero di sentirmi pronunciare qualche parola prima di inondarmi di domande.
Il primo che notai fu Stephan, seduto accanto a me. Era lui che aveva accolto la mia mano fra le sue. Il suo sguardo era indecifrabile, una maschera di mille emozioni che non sapevano in che ordine mostrarsi. Esattamente dietro di lui, con apprensione, si trovavano Will e George mentre Mary era posizionata ai piedi del letto, con le mani che le coprivano un viso dilaniato dal dolore. Anche fratello Geremia era lì, alla mia destra, e probabilmente, a modo suo, si era occupato di me tutto il tempo.
Prima di parlare, passai nuovamente lo sguardo su tutti loro, con un’intensità e allo stesso tempo una stanchezza che sembravano impossibili da conciliare.
- Dov’è mio fratello? – sussurrai piano, cercando di non sforzare troppo la voce.
Mi resi conto che quella domanda, posta in quel modo, avrebbe potuto essere mal interpretata. Forse, l’avevo proprio studiata in quel modo di proposito, anche se non ci avevo pensato troppo. Però era stato inevitabile. Molte cose erano cambiate da quel giorno e non sarebbero più tornate quelle di prima.
Stephan decise di smascherare la sua prima emozione, il dolore. Lo lessi nei suoi occhi, come se avessi appena preso uno stiletto e glielo avessi piantato nel cuore, girandolo e rigirandoglielo nel petto senza sosta. Abbassò lo sguardo, si alzò dal letto, ritirando le sue mani dalla mia e si allontanò, posizionandosi accanto a Will e George che lo guardarono pieni di confusione.
Fu Mary a rispondermi, senza accorgersi realmente della scenetta che le era appena capitata sotto gli occhi.
- Sebastian, insieme a Magnus Bane, sta avendo un colloquio a porte chiuse insieme all’Inquisitrice Herondale – singhiozzò lei, tirando fuori dalla tasca della giacca che indossava un fazzoletto di stoffa per soffiarcisi il naso, cercando di calmarsi – Non ho capito molto bene, ma c’è una questione di guerra molto importante di cui discutere -.
- Di guerra? – domandai io, sgranando gli occhi, muovendomi irrequieta nel letto.
La mano di fratello Geremia si appoggiò sulla mia spalla, come ad intimarmi di non muovermi troppo e di fare attenzione.
“Non preoccupiamoci di questo adesso” mi parlò con una calma quasi snervante nella mente “Pensa a riprenderti”.
Improvvisamente, come se mi avessero dato uno schiaffo in faccia, mi tornò in mente un pensiero. Loro, dov’erano?
Immediatamente, mi sentii in colpa. Tutta la situazione che si era innescata, banalmente, me ne fece dimenticare al mio risveglio. Chissà come stavano. Erano ancora imprigionati?
Andai visibilmente nel panico, come se avessi scordato una candela accesa in un fienile, sotto gli occhi confusi e preoccupati dei presenti, ma solo fratello Geremia sembrò centrare il segno dei miei pensieri.
“Stanno bene” mi riferì e, a giudicare dagli sguardi confusi intorno a me, probabilmente mi stava parlando in privato di nuovo “Sono stati liberati, dopo quello che è successo. Prima di essere stati rimandati a casa hanno avuto un incontro con l’Inquisitrice. Volevano vederti, ma sono stati costretti a lasciare Idris”.
Me lo disse come se non ci fossero state difficoltà o intralci nel mezzo, ma dubitavo che ai Cullen andasse bene una simile imposizione, soprattutto ad Edward e ad Emmett. Ormai, avevo imparato a conoscerli, almeno un pochino. Ma sapevano bene, come lo sapevo io, che non avevano avuto altra scelta che eseguire gli ordini.
Avrei tanto voluto abbracciarli, tutti. Condividere un’esperienza del genere con delle persone ti rende inevitabilmente ancora più legato ad esse. Il fatto che mi fosse stata tolta questa possibilità mi fece soffrire, ma cercai di non darla a vedere, soprattutto davanti ai miei famigliari… o ex famigliari. Non avevo ancora capito come pormi con loro. Di una cosa ero assolutamente certa: Jonathan non era presente e questo significava che non era assolutamente pentito delle sue azioni.
Probabilmente, Mary, William, George e Stephan avevano disubbidito ad un suo ordine per entrare a Idris e essere presenti al mio processo. Questo lo apprezzavo, nonostante non avrei mai voluto che si sottoponessero ad uno stress del genere, però, in qualche modo, significava che mi amavano davvero.
Eppure, cominciai a pensare. Una volta che avrei avuto anche io il permesso di lasciare Idris in totale sicurezza e autonomia, dove sarei andata? Dove avrei vissuto?
Per quanto le persone qui presenti volessero amarmi e proteggermi come avevano sempre fatto, non potevo permettermi di tornare in quella casa insieme a Jonathan. Era fuori discussione.
Pensai che, probabilmente, anche Sebastian era nella stessa situazione e che forse saremmo riusciti a trovare una soluzione insieme. Ci sperai davvero, con tutto il mio cuore. Sempre che il Conclave avesse acconsentito a mantenere la mia missione di ruolo a Forks, nonostante tutto.
- Devono essere stati giorni terribili per te – constatò Mary, con gli occhi lucidi.
Sospirai, facendo fatica a vederla con quello sguardo così sofferente. Ero certa che stesse morendo dentro dai sensi di colpa e, la parte più razionale di me sapeva che lei era una vittima tanto quanto i suoi figli e, di conseguenza non aveva colpe. D’altra parte, l’atteggiamento di Jonathan doveva essere fermato e mi rifiutavo di pensare che in questi anni lei non si fosse accorta di nulla, anche per la sicurezza dei suoi stessi figli. Inoltre, mi sentivo ancora presa in giro da lei. Sapeva che non ero figlia di Charlie Swan, l’uomo che per anni avevo creduto mio padre, l’uomo del quale avevo pianto la scomparsa, l’uomo del quale avevo sentito la mancanza, l’uomo di cui portavo un cognome che non mi apparteneva, sentendomi parte di qualcosa che non mi riguardava. Ero cresciuta con un’identità falsa credendola mia e ora, io, chi diavolo ero?!
Ero sicura di poterle perdonare tantissime cose, soprattutto quelle legate all’influenza opprimente di Jonathan, ma non questa. Una cosa simile non l’avrei potuta perdonare a nessuno.
- Sì, beh… Ne ho avuti di migliori come ne ho avuti di peggiori – risposi vagamente, mettendomi con calma seduta sul letto.
Sul comodino alla mia destra, oltre alle candele, notai un bicchiere di vetro pieno di liquido trasparente, che pensai fosse acqua, accanto ad una ciotola fumante di un brodo non identificato, che emanava un ottimo profumo. O forse, stavo solamente morendo di fame.
- In questi giorni, in tua assenza – cominciò a parlare Will – Le persone a Forks facevano domande. Tu ed i Cullen eravate spariti nel nulla. Abbiamo dovuto cercare di mantenere il più possibile la normalità, più che altro, per i Mondani che ci circondano. Perciò, spesso, per sicurezza ho accompagnato Stephan a scuola. Vorrei solamente avvisarti però che c’è una ragazza, Angela, che è parecchio arrabbiata con te – ammise, con un sorriso tenero, come per tentare di spostare il discorso su argomenti più tranquilli – Anzi, nel caso ti avessi vista, mi ha detto di dirti di essere letteralmente furiosa nei tuoi riguardi e che dovrai farti perdonare con delle scuse plateali – gli scappò una risata – Inoltre, penso che mi trovi molto bello! -.
- Oh, smettila di fare l’idiota – alzò gli occhi al cielo George, già stufo di starlo a sentire mentre si vantava di aver fatto colpo su una Mondana.
- Come sta lei? Cosa le avete detto su di me? -.
Stavolta, Stephan decise di parlare – Sta bene, a scuola la sua… “situazione”, sembra andare meglio, anche se non ci sei tu a proteggerla. Le abbiamo detto che saresti mancata qualche settimana a causa di alcuni documenti mancanti dal tuo trasferimento dall’Europa all’America, come se ci fosse stato qualche disguido. Sono passate circa due settimane dall’inizio di questo casino… - mormorò, sovrappensiero – Quindi siamo nei tempi e si può dire che se la siano bevuta tutti. Poi è sparita l’intera famiglia Cullen in massa e diciamo che questo ha attirato di più l’attenzione degli studenti in generale -.
Faticavo a credere che fossero passate davvero solamente due settimane da quell’inferno. Per me, era impensabile. Mi sembrava di essere in quella situazione da almeno un mese e invece non era così. Lo scorrere del tempo era una cosa che mi aveva sempre affascinata e spaventata allo stesso tempo. Scorreva veloce e delicato nei momenti di gioia, invece lento e dannato nei periodi di dolore. Eppure, secondi, minuti e ore erano scanditi sempre allo stesso modo.
- Potrei restare da solo con mia sorella? – la voce improvvisa e sicura di Sebastian interruppe il corso dei miei pensieri.
Era appena entrato in infermeria, bello come il sole, con lo sguardo fiero e la postura dritta, mentre ancora indossava la tenuta da combattimento, probabilmente perché qui non possedeva altro.
Mary e gli altri miei fratelli lo guardarono per qualche secondo prima di annuire, salutarmi con diverse carezze e uscire da quell’enorme stanza, seguiti da fratello Geremia.
Seb si avvicinò lentamente al mio letto mentre il mio cuore esplodeva nel petto ad ogni suo passo nella mia direzione. Una volta che fu abbastanza vicino, gli feci spazio come per invitarlo ad accomodarsi accanto a me. Senza rifletterci troppo, accolse il mio invito: mi passò un braccio muscoloso intorno alle spalle e fece in modo che appoggiassi il viso sul suo petto, come per ascoltare la musica che creava il battito del suo cuore. Le sue gambe erano incrociate sul letto e, nonostante indossasse ancora gli stivali, decisi di non farglielo notare. Erano successe troppe cose in quei giorni per soffermarsi su banalità simili. Volevo solamente godermi quel momento, godermi lui.
Come se avesse percepito la mia richiesta silenziosa, mi persi nelle sue coccole e attenzioni. Non avevo più intenzione di lasciarlo andare.
- Mi sei mancato – sussurrai, con tono sommesso – Tu non ne hai idea, per L’Angelo Raziel, di quanto mi sei mancato -.
- Lo so molto bene, invece – mi assicurò, posandomi le labbra morbide, ma leggermente screpolate, sulla fronte – Perché sono stato vittima della tua stessa agonia, aggiunta al terrore di non riuscire a trovare un modo per raggiungerti e salvarti in tempo -.
- Ci sei riuscito – lo rassicurai, stringendolo più forte a me – Ci riesci sempre -.
- È la mia missione prioritaria in questo mondo, quella che prendo con più serietà -.
Lo sapevo benissimo, ma quella frase mi scosse talmente tanto da farmi commuovere.
Per diverso tempo restammo in compagnia del nostro silenzio, accoccolati l’uno nelle braccia dell’altro. Avevo molto domande da fargli, ma quello che mi importava di più in quel momento era completare il vuoto insopportabile che avevo sentito dentro per tutti quei giorni.
Mi rilassai totalmente al tocco delle sue mani e ai respiri cadenzati che gli facevano abbassare e alzare il torace in modo lento e rilassante. Finalmente, potevo dire di essere nel posto più sicuro per me, con le sue braccia a farmi da scudo dai pericoli del mondo. Ero serena come non ero mai stata, dopo la tempesta di quegli ultimi giorni, tant’è che percepii i miei occhi appesantirsi e tentare di chiudersi. Finché, ad un certo punto, sentii la sua irrequietezza che mi fece ridestare: aveva infilato la mano in tasca, come se stesse cercando qualcosa.
- Ho visto i vampiri con cui hai fatto “amicizia” – mi informò cercando di trattenere una smorfia - Qualche ora fa, prima che venissero cacciati nel portale -.
Rischiai di tirarmi su dal letto di scatto, se la sua mano non fosse stata più veloce nel prendermi per il polso e rimettermi giù, accanto a lui.
Li aveva visti.
- Come stanno? – chiesi freneticamente, pretendendo più informazioni possibili a riguardo – C’erano tutti? Sono vivi? Gli hanno fatto del male? -.
- Calmati, stanno tutti bene – mi rassicurò, ma senza preoccuparsi di nascondermi la punta di fastidio che provava – Sono immortali, cosa vuoi che gli succeda? -.
- Immortali non significa invincibili – ribattei con sicurezza.
Lo vidi alzare gli occhi al cielo con noncuranza, finché finalmente non estrasse quello che aveva nascosto nella tasca. Era il ciondolo di famiglia che Mary mi aveva regalato e che avevo perduto durante lo scontro con i licantropi.
- Dove lo hai trovato? – gli chiesi, sfiorando la pietra bluastra, gelida e liscia della collana.
- Me lo ha restituito uno di loro – rispose pensieroso – Il vampiro alto con i capelli rossicci -.
- Edward… - sospirai con dolcezza, senza riuscire a trattenermi, neanche davanti a mio fratello.
Sebastian si irrigidì, ma non sembrava arrabbiato. Probabilmente, dopo tutto quello che era successo, faticava a comprendere a pieno la situazione. Dopo il modo in cui eravamo stati addestrati e quello che ci era stato insegnato, certamente non poteva cambiare il suo modo di pensare in così poco tempo. Potevo forse biasimarlo?
- Inoltre, credo di aver capito chi è – confessò a voce bassa, per evitare che qualcuno ci sentisse, ma senza ulteriori giri di parole – L’ho riconosciuto. Ricordo perfettamente di averlo visto diverse volte da bambino… anche se ora, naturalmente, esteticamente è un po’ diverso -.
- Di chi parli? – domandai stupidamente, forse perché non ero ancora riuscita ad entrare nell’ottica delle mie origini.
Entrambi avevamo fisso lo sguardo sulla pietra blu fra le nostre mani, come se avessimo paura di guardarci direttamente negli occhi. Oggettivamente, quello che stavamo intraprendendo era un argomento scomodo, più che per me, per Sebastian. Io con il tempo avrei anche potuto accettarlo, o perlomeno provare a capire cos’era accaduto, ma lui? Non era tenuto a fare niente di tutto ciò, non quanto me.
- Di tuo… padre – sputò con difficoltà quella parola dalla bocca – Insomma, vi somigliate -.
Avrei potuto rispondere qualsiasi cosa alla sua affermazione, eppure, non sapevo cosa dire. Il fatto che Sebastian, avesse dei ricordi di lui, quando io non ne avevo nessuno, mi destabilizzava. In più, come se ciò non bastasse, aveva notato una certa somiglianza fra me ed Emmett. Ovviamente, se tutto ciò corrispondeva alla verità, e probabilmente era così, era altrettanto inevitabile che io ed Emmett ci assomigliassimo. Solamente, non avrei mai pensato che mio fratello se la sentisse di parlarne così apertamente con me.
Stavo cercando delle parole, le più adatte che mi venissero in mente, per rispondergli, quando ad un certo punto, sentii dei passi avvicinarsi dal corridoio dell’infermeria. Sull’ingresso di palesarono due guardie del Conclave. Non appena le riconobbi, con il groppo in gola, mi aggrappai più forte che potei al corpo di mio fratello, che in tutta risposta, mi strinse protettivo a sé.
Ma le guardie non si avvicinarono, anzi, restarono a debita distanza.
- Isabella Marie Durwood, sei pregata di raggiungere la sala principale del Consiglio – parlò uno dei due – L’Inquisitrice Herondale la vuole incontrare per un colloquio privato -.
 
 

 
Salve! Come state? Spero bene.
Eccoci qua con questo nuovo capitolo.
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Mi interessa tantissimo avere i vostri pareri.
Besos :-*
 
Zikiki98
 
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