24/7 e altre storie di disagio

di Milly_Sunshine
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 24/7 = Torta al caffè ***
Capitolo 2: *** Sono un sognatore ***
Capitolo 3: *** La punta dell'iceberg ***
Capitolo 4: *** Non era colpa sua ***



Capitolo 1
*** 24/7 = Torta al caffè ***


24/7 = TORTA AL CAFFÈ

Mi guardo allo specchio e penso che l'abito che indosso sia perfetto per stasera. Me l'ha passato mia cugina, perché non le entra più. È scuro, ha una fascia sotto al seno e poi si allarga, scendendo fino alle ginocchia. Indossare l'abito giusto non salva la vita, ma la facilita, ed è curioso proprio come il vestito di un'altra sembri perfetto per il mio corpo.
Nasconde i chili persi in nome della carriera, quindi non dovrò sorbirmi prediche del tipo "dovresti smetterla di inseguire il mondo della moda, che offre corpi che non esistono nella realtà". Avrei due osservazioni: prima di tutto i corpi che la moda propone nella realtà esistono, semplicemente non sono sani, e sentirsi dire "non sei sana" è molto meglio che sentirsi dire "non esisti", poi, in secondo luogo, non ne so niente della moda. Salto i pasti perché quasi ogni giorno i miei colleghi del gruppo con cui svolgo i progetti universitari saltano il pranzo. La più saccente di tutti mi ha detto che si fanno pause solo se le fanno tutti gli altri e che chi non si allinea non è degno di una laurea in international business. Forse è proprio così, ma la laurea in international business è la mia unica possibilità: dopo quasi cinque anni di studi, non posso dire alla mia famiglia che quello che faccio mi fa schifo, posso solo prendere la laurea, poi cercarmi un posto come commessa o come segretaria. Meglio come segretaria: le commesse devono sorridere ai clienti e a me non piace sorridere... e non mi piace farlo specie quando il telefono squilla a tradimento.
Rispondo, è Pietro.
"Sei libera adesso?"
"Mhm... non proprio."
"Ti rubo solo dieci minuti. Sono sotto casa tua. Appena puoi, scendi. Ti devo fare vedere una cosa."
"Non puoi salire tu?"
"No, devo portarti in un posto... ma ti assicuro che facciamo presto."
Sospiro, poi mi arrendo.
"Va bene, scendo."
"Grande, Anna, sapevo che non avresti detto di no! Sei una vera amica!"

Cinque minuti più tardi scendo le scale, con ancora l'abito smesso di mia cugina e un paio di scarpe eleganti, quelle che vorrei mettere per la cena di stasera. Così, se qualcuno dovesse notare che sembro uno stecco, osserverei che la colpa è delle scarpe, che hanno i tacchi troppo alti e mi fanno apparire troppo slanciata.
Salgo sulla vecchia Punto di Pietro.
"Allora?" gli chiedo.
"Allora se hai pazienza, ti porto dove ti devo portare."
Non so se esserne delusa o meno. Non si è nemmeno ricordato di farmi gli auguri. È il mio compleanno, oggi, l'ultimo compleanno da studentessa universitaria, se tutto va bene. Se ne è dimenticato, ma pazienza. Un tempo credevo fosse il ragazzo perfetto per me, ma chiaramente non lo è. Mi sforzavo di crederlo, solo perché avevo maturato l'assurda convinzione che da qualche parte dovesse esserci un partner ideale e che il nostro dovere fosse quello di rintracciarlo e di costruirvi una vita insieme. Non riesco a credere di essermi convinta di una simile assurdità.
Mentre ci penso, Pietro mi porta di fronte a casa di Luciana.
"Perché siamo qui?"
"Perché Luciana mi ha chiesto se potevo portarti a casa sua oggi a quest'ora."
"Poteva chiamarmi e chiedermelo."
"Era convinta che mi avresti detto di no. Dice che io sono l'unico che ascolti davvero."
Mi mordo la lingua per non ribattere. Accidenti a me quando, a vent'anni, ho confidato a Luciana che Pietro mi piaceva. Si è messa in testa che quello status duri vita natural durante. Visto il suo discutibile senso dell'eleganza, non oso immaginare quali film si farà quando vedrà come mi sono vestita "per il suo invito". Ricomincerà con le sue assurde fantasie... e il peggio, in tutto questo, è che, in un modo o nell'altro, me la sono cercata.
Sospiro.
Pazienza, me la caverò anche stavolta, ho affrontato sfide peggiori nella vita, anche se al momento non me ne viene in mente nemmeno una.
Scendiamo dalla macchina. Sono io a suonare il campanello e non sono per niente felice di come gli eventi abbiano iniziato a condizionarmi contro la mia volontà.

Sono dentro casa da meno di un minuto e già un dubbio esistenziale mi assilla: quanto è scorretto da uno a dieci scappare a gambe levate dal luogo in cui è stata organizzata la mia festa di compleanno a mia insaputa? Direi più o meno uno e mezzo, ma solo perché dovrei tornare a casa a piedi sui tacchi, passando accanto a tante siepi che, come ogni mese di maggio, riversano sulle strade l'odore troppo forte dei loro fiori.
Luciana sorride.
"Siccome ti piacciono le sorprese, abbiamo deciso di fare qualcosa che ti sarebbe piaciuto senz'altro."
No, non mi piacciono le sorprese. Com'è possibile che i miei amici non sappiano niente di me?
Faccio uno sforzo per non insultare nessuno. In fondo sono stati gentili.
"Grazie, ma i tuoi dove sono?"
"Sono andati al mare, questo weekend."
"Oh."
"Stai tranquilla, non disturbiamo nessuno."
Disturbiamo me, ma non ha importanza, non c'è bisogno di affermarlo davanti a una persona felice come non mai di quello che ha fatto per me.
Per me.
Per me.
Voglio sbattere la testa contro al muro, ma non posso: tra me e il muro ci sono Francesca e sua sorella Sabrina.
Francesca mi guarda con aria critica.
Poi, alla fine, mi pone la domanda che ho cercato di evitare come la peste.
"Sei dimagrita, per caso?"
"Mhm... no."
"Secondo me dovresti rivolgerti a un nutrizionista."
"Non sono dimagrita, stai tranquilla."
"Cos'hai mangiato per pranzo?"
Siamo seri?! Francesca vuole controllare cos'ho mangiato per pranzo?
Per fortuna Sabrina interviene in mio aiuto. Si ricorda dell'esistenza di un'altra persona, che a quanto pare oggi non c'è.
"Hai sentito Mirella, di recente?"
"Sì, ogni tanto."
"È vero che lei e suo marito si sono lasciati?"
"Penso di sì."
Francesca interviene: "Dopo solo due anni di matrimonio e con un bambino di un anno... ho sempre saputo che anche questo grande amore sarebbe fallito. A proposito, tu che la senti più spesso, sai perché si sono lasciati? Ho sentito dire che suo marito si è già messo insieme a un'altra donna."
Trovo paradossale che sia stata organizzata una festa di compleanno a mia insaputa solo per estorcermi informazioni sulla vita coniugale di una nostra comune amica, ma mi limito ad affermare di non provare un morboso interesse per la vita privata di Mirella. Dopotutto è vero.

Giovanna è arrivata puntuale oggi, deve essere un'occasione speciale, dato che di solito è in ritardo di ore.
Viene verso di me e mi chiede subito di Vincenzo e Vanessa.
"Chi sono quei due? Non li ho mai visti."
Vorrei dirle che, se si fosse presentata puntuale, qualche volta, di tanto in tanto, forse li avrebbe incontrati. Di solito andavano a casa prima del suo arrivo, perché Giovanna ama fare la star e farsi attendere.
Le dico che sono due amici di Luciana, che vedo di tanto in tanto.
"Ma sono fidanzati?" vuole sapere Giovanna.
"Penso di sì."
"Secondo me non fanno una bella coppia insieme. Vanessa è troppo bassa, in confronto a lui. Non so se..."
"Shhhh" le intimo.
Vincenzo sta arrivando alle sue spalle. Non so cosa voglia da lei, ma mi accorgo con orrore che vuole qualcosa da me.
"Dimmi una cosa, Anna, secondo te posso fumare qui in casa?"
"È casa di Luciana" replico. "Penso che dovresti chiedere a lei."
"Ma sei tu la festeggiata..."
"Non mi sembra comunque il caso di decidere se tu puoi fumare a casa d'altri, ti pare? Comunque puoi andare in cortile, nessuno ti dirà niente."
Vincenzo va verso il cortile.
L'unica persona che non ho ancora visto è Vanessa.
Vado verso il soggiorno, non ci sono ancora entrata.
C'è un tavolo pieno di cibo spazzatura che gradirei evitare.
Mi verso un bicchiere di Coca Cola e finalmente degno Vanessa di un minimo di attenzione. È in piedi accanto a Pietro, i due parlano voltando le spalle al televisore che trasmette il gran premio di Montecarlo.
"Io e Vincenzo ci abbiamo messo quattro ore per preparare la torta" sta dicendo Vanessa. "Avevo detto a Vincenzo che doveva conservarla in frigo, ma si è dimenticato. Spero che non abbia fatto nulla."
Pietro annuisce. Qualcosa mi suggerisce che stia solo facendo finta di ascoltarla e, per questa ragione, provo per lui la massima stima.

Rimango in soggiorno, mentre Vanessa mi prende da parte per farmi domande personali non richieste.
Si è fissata che Vincenzo si sia preso una cotta per me e vuole accertarsi che non sia a sua disposizione.
"Ma... davvero non sei fidanzata?"
"No."
"Francesca mi ha detto che ti conosce fino dalle superiori e che non le hai mai presentato un tuo ragazzo."
"È così."
"Ma sarai pure stata a letto con qualcuno in tutti questi anni."
"Sì" mento.
È più facile che spiegare che non sono mai stata a letto con nessuno perché non sono mai riuscita a sopportare nessuno dei miei ex per più di una settimana, nel corso della quale ci vedevamo una volta, al massimo due.
"E adesso frequenti qualcuno?" vuole sapere Vanessa. "In quel modo, intendo..."
Pietro mi salva la vita, venendo a raggiungermi per indicarmi le immagini sulla TV, di due vetture incidentate sotto al tunnel.
"Vuoi qualcosa da mangiare?" mi chiede.
Mi dirigo verso il tavolo, anche se non c'è niente che mi attiri, solo per levarmi di torno Vanessa.
Che pomeriggio paradossale.
Da un altro lato, tuttavia, comprendo come mai mi fossi presa una cotta per Pietro, qualche anno fa. Per quanto lo veda solo come un amico, quasi come un fratello, al giorno d'oggi, è l'unico che si comporta in modo quasi normale.
Quasi.
Portarmi alla festa a mia insaputa è stato un colpo basso anche da parte sua, ma non fa niente, ci sono cose peggiori nella vita, tipo il fatto che prima o poi mi verrà servita una fetta di torta e, se non dovesse piacermi, mi sorbirò una predica sull'alimentazione.
Infatti, come sospettavo, quando la torta arriva è la fine.

Fin da bambina temevo questo momento, alle feste, perché non ho mai amato i dolci. A volte, se andava bene, c'era qualcosa che trovavo gradevole, ma inizio a sospettare che non accadrà oggi.
"Vanessa e Vincenzo hanno fatto la torta" mi informa Francesca. "Mi hanno chiesto un consiglio, dato che non sapevano che cosa ti piacesse."
"E...?"
"E siamo arrivati tutti insieme a una conclusione. Abbiamo pensato a che cosa piace a tutti..."
"E cosa piace a tutti?"
"Il caffè. Hanno preparato una torta al caffè."
Il caffè piace a tutti, dopotutto.
Piace a tutti, tranne che a me, eppure non ho modo per scamparla. Potrei fingere di sentirmi male, ma poi mi chiederebbero se dopo i pasti vado in bagno a vomitare, cosa che voglio evitare a tutti i costi.
Poi, all'improvviso, mi viene l'idea.
Quando Liliana distribuisce i piattini con la torta, me ne faccio dare uno.
Pensano che mi piacciano le sorprese, che conosca i fatti privati altrui, che abbia una vita sessuale attiva e tanto altro. Mentre sono in soggiorno, li sento, a turno, mentre sparlano davanti a me delle attività che mi piacciono.
Non sanno niente di me.
Non fanno caso a me.
Tengo la mia torta in mano e attendo, guardando chi la divora con maggiore avidità. Francesca sembra detenere questo prezioso record, che mi verrà molto utile.
Non appena le sette persone che condividono con me il soggiorno si diradano un po', mi fermo lì.
Afferro un piattino vuoto, lasciato da qualcuno sul tavolo e tengo nell'altra meno il piattino pieno, con la torta che non ho toccato.
Raggiungo Francesca e, davanti agli altri, glielo porgo.
"Vuoi una seconda fetta?"
Annuisce.
"Ne volete anche voi?" chiedo agli altri. "Ve la porto."
Tengo alto il piattino vuoto come se fosse un trofeo.
Pensano tutti che abbia mangiato la torta, che sia diventata finalmente "come loro".
Non solo: nei prossimi giorni il mio metabolismo verrà molto elogiato, quando i miei amici mi contatteranno per chiedermi come ho trascorso la sera del mio compleanno.
"Sono stata a una cena con i miei parenti. Non è andata male."
"La torta non ti ha dato fastidio, quindi?"
"No."
"Vanessa e Vincenzo ne saranno contenti. Hanno tentato di avvelenarci tutti, a quanto pare. Sei l'unica che non ha fatto indigestione."
Pensavo di avere vissuto ventiquattro anni per andare verso il nulla, invece in tutto questo tempo sono riuscita comunque a fare qualcosa di sensato: ho scoperto che a volte è un bene evitare le torte al caffè.

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Capitolo 2
*** Sono un sognatore ***


SONO UN SOGNATORE

Ho scelto proprio lei per due ragioni: la prima che rientra a pieno nei miei standard in fatto di estetica, la seconda che l'ho vista sbadigliare e non ho potuto fare a meno di chiedermene il motivo. Sono arrivato a una conclusione facile: probabile che per lei non fosse un giorno di riposo, oggi, ma che abbia lavorato, magari fino a tardi. Mi sono detto "è perfetta per me", anch'io, come lei, non ho intenzione di fare le ore piccole, stasera.
Quando mi sono avvicinato stava tenendo d'occhio l'orologio e si guardava intorno con aria impaziente. Ora che sto parlando con lei, ho già intuito il motivo, ma è meglio fingere di non avere fatto congetture.
"Sei qui da sola?" le chiedo, ad alta voce, per farmi sentire.
"No" risponde. "Sono con delle amiche."
Fingo di non avere sentito.
"Come hai detto?"
Sorride.
"Hai ragione, la musica è troppo alta." Scandisce meglio le parole, come se ce ne fosse bisogno. "Sono con delle amiche." Porta di nuovo lo sguardo verso il polso. "Non so dove siano andate a finire. Mi avevano detto che a quest'ora saremmo andate a casa."
Più la fisso e più mi sembra la mia donna ideale, vorrei tanto chiederle se posso darle un passaggio, ma è ancora troppo presto.
"Io sono solo" la informo, "E stavo per andare a casa, ma dato che devi aspettare le tue amiche, posso farti un po' di compagnia. Ti va di bere qualcosa?"
Scuote la testa.
"Sono astemia."
"Se ti può consolare, non bevo mai alcolici quando devo guidare" la informo, con aria da secchione. Non che stia mentendo, non adesso, almeno: non sono l'uomo perfetto che mi dipingo, ma ci tengo abbastanza sia alla mia patente sia alla mia vita. "Possiamo prendere una bibita, oppure un caffè."
Sorride di nuovo.
"Vada per il caffè."
Mi fanno impazzire le ragazze che sorridono e con lei passerei tutta la notte, se solo potessi.

Andiamo verso il bar, ordiniamo i caffè e, nell'attesa, osservo: "Sono proprio un maleducato. Non mi sono ancora presentato."
Rimediamo subito.
Ci presentiamo.
Si chiama Melissa e ha trentasei anni, due in più di me.
"Ti porti molto bene gli anni che hai."
Mi strizza un occhio.
"Vuoi dire che in realtà sono vecchia?"
Rido di gusto.
"No, figurati. Poi mi sento un po' vecchio anch'io. Non sarei mai dovuto venire in questo posto. Non sono un tipo da vita notturna. O meglio, in un'altra vita avrei anche potuto esserlo, ma la mattina inizio a lavorare presto e il weekend non è tanto diverso."
Melissa annuisce.
"Ti capisco."
Ci comprendiamo a pieno e mi bastano dieci minuti per valutare le sue intenzioni. Sono esattamente come le mie, quindi è arrivato il momento di passare oltre. Quello che succede dopo è un copione già scritto: Melissa scrive un messaggio alle amiche, informandole di avere trovato un accompagnatore disposto a scarrozzarla fino a casa. Non le ho ancora chiesto dove abita... spero non troppo lontano, perché - me lo ripeto, perché a volte mentire a sé stessi illude che tutto sia reale - domani mattina devo alzarmi presto per andare a lavorare.
Ne parleremo strada facendo, dopotutto bisogna essere disposti a prendersi qualche rischio, quando avviene per una giusta causa. Melissa legge i messaggi di risposta delle amiche, che sembrano felici di potere prolungare la loro nottata.

Meno di quindici minuti di strada, Melissa abita in una bella palazzina di periferia. Accosto, aspettando che scenda dalla macchina.
Non scende.
Penso che il meglio debba ancora venire, ma una brutta notizia mi attende.
"Ti farei salire in casa, per offrirti qualcosa da bere..."
Sorrido.
"Ma...?"
"Ma non saremmo soli."
Cerco di non sospirare troppo forte, per non apparire sgradevole.
"Pazienza. Potremmo rimandare la 'bevuta' a un'altra volta"... un'altra volta che purtroppo non ci sarà.
Mi dispiace. Mi dispiace davvero tanto, perché Melissa mi piace davvero, anche se non potrà esserci un futuro tra di noi. Inizia a piacermi ancora di più quando mi fa un'allettante proposta.
"In casa mia c'è mia sorella che dorme, ma se hai sete ho qualcosa da offrirti in cantina."
Sono certo che, se avessi uno specchio davanti, in questo momento potrei vedere i miei occhi brillare.
Mi fanno impazzire le cantine. Non me lo faccio ripetere due volte: scendo dall'auto e le apro perfino la portiera.
La seguo all'interno dello stabile, pronto a consumare la nostra 'bevuta' e penso che sono stato un uomo fortunato. Non capita tutti i giorni, o tutte le sere, di conoscere la donna giusta e sono sempre più sicuro che Melissa lo sia. Consumiamo la nostra passione nella cantina, senza pensare al tempo che scorre, senza pensare che si stia facendo tardi, senza pensare a quello che verrà dopo.
Poi, quando arriva il dopo, le lascio tra le mani un biglietto da visita. La faccio sorridere: si aspettava qualcosa di diverso, forse uno scambio di contatti sui social network.
"Chiamami" le raccomando, prima di andarmene.
"Certo" risponde Melissa, "Ti chiamerò."
La saluto con un sorriso.
"È stata una bella serata. Peccato che mi tocchi scappare. Il lavoro mi aspetta, domani mattina."

L'avventura notturna con Melissa è un pensiero che mi accompagna mentre torno a casa, facendomi riflettere su quello che sono e su quello che avrei potuto essere. La vorrei davvero un'altra vita, un'esistenza libera da ogni costrizione, un'esistenza da passare accanto a una come Melissa, oppure accanto a una Melissa diversa ogni notte.
Entro in cortile, lascio lì l'auto, è troppo tardi per perdere tempo a metterla nel garage: sono quasi le due di notte e ho ancora qualcosa di importante da fare.
Prendo fuori il cellulare, fantasticando per un attimo di trovare un messaggio da parte di Melissa, anche se so che non è possibile. Sul biglietto da visita che le ho lasciato c'era il falso nome con cui mi sono presentato accompagnato da un numero di telefono inesistente, quello che, nelle mie rare serata come questa, rifilo alle partner che mi intrigano al punto tale da sentirmi in colpa, se dovessi rivelare loro la verità. Non tutte potrebbero capire, quando nemmeno io riesco a comprendere me stesso.
Cerco qualche articolo, ne leggo due o tre. Poi vado a cercare anche un video, la finale di Champions League in meno di cinque minuti. È stata una partita monotona, mi bastano gli highlight per sentirmi come se l'avessi vista davvero.
È un pensiero che mi dà conforto mentre scendo finalmente dall'auto, pronto per entrare a casa. Apro la tasca della giacca, prendo fuori la fede e me la rimetto al dito, poi giro piano la chiave nella toppa, perché i bambini dormono. Spero che dorma anche mia moglie, perché so che mi crederebbe, se le riferissi che la ragione per cui sono rientrato così tardi è che ho perso la cognizione del tempo, quindi sono rimasto al bar fino a quest'ora con i miei amici nonostante la partita che abbiamo visto insieme fosse finita da un pezzo. Meglio che continui a dormire, del tutto ignara dell'ora del mio ritorno.
Sono di nuovo fortunato, non mi sente nemmeno mentre mi infilo a letto accanto a lei, accennando ancora a lasciarmi andare alle fantasie su una vita nella quale non ho una famiglia, su una vita nella quale sono libero come vorrei. Domani mattina mi sveglierò, come le altre volte, senza sapere se sono un sognatore o se sono solo uno stronzo.

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Capitolo 3
*** La punta dell'iceberg ***


LA PUNTA DELL'ICEBERG

Margherita aveva la nausea, ma non ci faceva caso, perché di solito aveva sempre la nausea. Era un tipo di nausea che nulla aveva il potere di cancellare, quella nei confronti di una vita che in altri momenti glorificava. La vita era, a conti fatti, il regalo migliore che le era stato fatto. Che il merito fosse dei suoi genitori, della natura o di un'entità superiore non importava, di fronte alla sua inettitudine nel far fruttare quel dono così bello.
Era un pomeriggio caldo, ma il caldo non le dava fastidio. Non c'era nulla che le desse più fastidio del senso di nausea che aveva dentro.
Si sfilò le scarpe, le gettò nel mezzo del soggiorno e incrociò le gambe sulla poltrona. Si tolse gli occhiali, li pulì sulla t-shirt, poi tornò a indossarli.
Stava guardando alla televisione la finale di un importante torneo di tennis. Qualche ora prima le era sembrata una buona ragione per rifiutare l'invito di suo fratello ad andare al mare insieme a lui.
Le piaceva il tennis, o meglio, le piaceva guardarlo. Le piaceva uno dei due finalisti, perché non aveva mai avuto la reputazione del vincente. Quel tale, uno svedese di trentadue anni, era il perfetto rappresentante per quelli come lei.
Non le dava troppe soddisfazioni.
Gliene aveva date accedendo alla finale, ma il bonus di soddisfazioni si stava già esaurendo.
Margherita guardò sullo smartphone le notifiche dei suoi profili social. Guardò la bacheca di Facebook, quella di Twitter e quella di Instagram. Gente in piscina, gente al mare, gente che si lamentava di dovere lavorare nel weekend, gente che minacciava di tagliarsi le vene perché le Glitter Lipstick si erano sciolte alla vigilia del loro tour internazionale.
"Stupida routine" borbottò Margherita, desiderando vivere un'altra vita.
Le sarebbe piaciuto essere in piscina, al mare, al lavoro o disperata perché una girlband si era sciolta.
Mise via il cellulare, tornò a concentrarsi sul televisore e incitò il suo favorito.
"Avanti, Lars, non deludermi anche tu."
Si sentì stupida a chiamare per nome un perfetto sconosciuto, si sentì stupida in generale nel fare il tifo per un evento sportivo davanti alla TV, ma soprattutto si sentì stupida nell'avere scelto di sottoporsi allo strazio di un'ennesima delusione.
Si alzò e andò a prendere un gelato nel freezer.
La partita di tennis era soltanto la punta di un iceberg, ma Margherita in quel momento si sentiva come le fan delle Glitter Lipstick. Anche loro, ne era certa, potevano capirla. Anche loro avevano l'abitudine di fingere che la colpa del loro disagio interiore fosse tutta da ricercarsi in qualcosa di insignificante. Commettevano atti di autolesionismo perché dentro di loro c'era qualcosa che le faceva stare male, ma rifiutavano di vedere che cosa le facesse stare davvero male, aggrappandosi alla scusa della loro band preferita. Margherita si sforzava di astenersi da azioni che talvolta erano andate oltre al suo controllo, ma reagiva allo stesso modo: raccontava a se stessa di essere emotivamente distrutta dal fatto che Lars Olson stesse perdendo la finale di un importante torneo.
Lo negava a se stessa, ma conosceva la realtà, anche se l'avrebbe sempre negata, allo stesso modo in cui le fan delle Glitter Lipstick negavano che anche lei potesse avere dei problemi.
"Tu sei troppo vecchia per queste cose" le dicevano. "Alla tua età, dovresti avere superato certi problemi, oppure essere già morta."
Maledette fan delle Glitter Lipstick...
Morso dopo morso, il gelato svanì.
Lacrima dopo lacrima, anche qualcosa di più immateriale svanì.
Morso dopo morso, le lacrime di Margherita smisero di fare male.
Tutto andava leggermente meglio, anche se aveva ancora la nausea, che si mescolava alla sensazione di stordimento. Di solito faticava a mangiare, mentre quel pomeriggio si stava ingozzando di cibo ipercalorico per sfogare le proprie frustrazioni.
Nulla aveva senso.
Finì il gelato e andò in bagno a lavarsi i denti. Il sapore di fluoro dentro la sua bocca le diede un attimo di pace, che svanì quando Margherita ricambiò lo sguardo della sconosciuta che la guardava da dentro lo specchio.
Tornò in soggiorno.
Lo strazio era finito.
"Complimenti, Lars" mormorò Margherita. "Grazie per avermi ricordato che non esistono storie a lieto fine."
Spense la TV pensando che i figli suoi e di Lars, in un altro universo, avrebbero potuto essere bellissimi. Chissà se avrebbero ereditato i suoi capelli color tiziano o quelli corvini del padre.
Chissà se Margherita avrebbe mai avuto dei figli. Chissà se li avrebbe mai avuti con un uomo affascinante la metà di Lars Olson.
Aveva standard troppo elevati in fatto di uomini, decretò. Doveva essere quella la ragione per cui aveva ventisette anni ed era ancora vergine.

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Capitolo 4
*** Non era colpa sua ***


NON ERA COLPA SUA

Nel parco faceva caldo, nonostante l'ombra dei grandi alberi.
Gli uccelli cantavano, come avevano consuetudine di fare fin dalle prime ore del mattino.
Nell'atmosfera calda del parco, ci guardavamo negli occhi ed ero certa che vedesse nei miei lo stesso vuoto che io vedevo in quelli di lui.
Stavamo in silenzio. Era la nostra routine, capitava ogni volta e, come ogni volta, speravo che si decidesse a dirmi quello che pensava.
Non lo fece.
Non lo faceva mai.
Nemmeno io lo facevo, cercavo di resistere e cercavo di farlo da mesi. Avevo già deluso me stessa abbastanza per potermi permettere di deludere anche lui.
Erano quelli i pensieri che mi trattenevano ogni volta, era che non sapevo come sarebbe andata a finire, se fossi riuscita a togliermi quella maschera che fino a quel momento mi aveva protetta da ulteriori delusioni ma mi aveva condannata all'infelicità.
Ruppi il silenzio e lo feci in modo diretto, senza giri di parole.
"Non sono sicura che abbia più molto senso continuare a stare insieme."
Mi guardò con aria stralunata per un attimo, poi osservò: "Un po' lo sospettavo."
"Ah, sì?"
"Ultimamente facevi tanti discorsi strani. Ho capito che era un modo per dirmi che non mi amavi più come una volta."
Non lo amavo più come una volta.
Sì, forse era così.
O forse non avevo idea di che cosa fosse l'amore e non lo cercavo nemmeno.
"Perché non mi hai detto niente?" gli domandai. "Avresti potuto chiedermi spiegazioni, se pensavi che fosse cambiato qualcosa."
"Beh, ora mi stai dando spiegazioni" ribatté. "O forse me ne darai. Cos'ho fatto?"
"Niente."
"Non è vero. È colpa di quella stronza che lavora con me, vero? Sei convinta che mi piaccia, ma..."
Lo interruppi: "Non mi ricordo nemmeno chi lavora con te. Non mi parli mai del tuo lavoro."
"Nemmeno tu mi parli del tuo" replicò.
Aveva ragione.
Non gli parlavo del mio lavoro, non gli parlavo delle mie aspirazioni, non gli parlavo delle mie sensazioni... non gli parlavo di nulla e lui faceva lo stesso. Era così da molto tempo. Forse era sempre stato così.
Ci vedevamo.
Andavamo a passeggiare al parco.
Andavamo insieme al pub.
Ogni tanto condividevamo lo stesso letto.
Ogni tanto gli diceva che gli sarebbe piaciuto conoscere i miei genitori, ma si era sempre tenuto lontano da casa loro.
Diceva che un giorno mi avrebbe presentato la sua famiglia, ma non ne sapevo nemmeno la composizione.
Eravamo due estranei che fingevano di amarsi e lo eravamo sempre stati.
A lui bastava.
Anche a me sarebbe bastato, se fossi riuscita a non sentirmi sempre più a disagio giorno dopo giorno, tanto da decidere di mettere una pietra sopra alla nostra relazione.
"Non parliamo" confermai. "Non pensi che ci sia qualcosa che non va?"
"Evidentemente sono io che ho qualcosa che non va" rispose lui, piccato. "Non sono io che ho deciso di lasciarti. A me, a quanto pare, è sempre andato bene. Anche a te andava bene una volta. Non avevi mai avuto un uomo prima di me e dicevi che volevi che fossi il primo e l'ultimo."
"Ti ricordo che potresti ancora essere l'ultimo."
Ci guardammo negli occhi.
A quel punto scoppiò a ridere.
"Non dire cazzate. So che mi stai lasciando perché ti sei innamorata di un altro. Non avresti altri motivi per volerla chiudere qui."
In quel momento mi sentii più leggera.
"Invece di motivi ne ho tanti" puntualizzai. "Il fatto di non essere felice, per esempio. Il fatto di sentirmi a disagio quando sono con te. Il fatto di stare insieme a te solo per abitudine. Ora, però, me ne hai appena sbattuto in faccia un altro: non ha senso, per me, frequentare uno che non concepisce nemmeno l'idea che io possa esistere anche da sola."
Furono le ultime parole che pronunciammo quel giorno e forse furono le più significative, tra quelle che ebbi mai occasione di rivolgergli.
Purtroppo non erano destinate ad andare a segno. A parte la totale assenza di empatia nei miei confronti, il mio ormai ex fidanzato non aveva proprio nulla che non andava, ma era destinato a vivere con quella certezza. La mia serenità e la mia chance di non sprofondare di nuovo all'interno di un vortice di infelicità era il nulla, per lui. Si sarebbe sentito molto più a posto sapendo che l'avevo lasciato per un partner più affascinante o più ricco, piuttosto che per una ragione che non avrebbe mai potuto comprendere.
Non era colpa sua.
Però non era nemmeno colpa mia.

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