La rivalsa di un cuore vagabondo

di Traumerin_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Un segreto malcelato ***
Capitolo 2: *** Ad un passo dalla verità ***
Capitolo 3: *** Il valore delle parole ***



Capitolo 1
*** Un segreto malcelato ***


 

Ci fu un attimo, un istante, una frazione di secondo in cui il tempo sembrò fermarsi, congelarsi, smettere di scorrere.
Un momento che si dissociava con forza dalla linea temporale in cui era collocato, spaccando i cardini che lo tenevano attaccato agli altri eventi e proiettandosi in una realtà proibita e utopica, bellissima ed inammissibile, che se ne infischiava delle circostanze e si crogiolava in un’esistenza consapevole della propria caducità.
Era una scena racchiusa in un battito di ciglia: era lui che eliminava ogni barriera fisica tra i loro corpi e assecondava quel vortice di impetuosa passione e inarrestabile desiderio, succube di un’irrazionale libidine che sottometteva crudele tutte le sue vittime, privandole di ogni via di fuga e annientando qualsiasi tentativo di evasione.
Soggiogato dalla sorpresa del momento chimerico, Alec si trovava prigioniero di mani vessatorie e labbra fameliche, privato della capacità di ribellione.
Erano sprofondati in un universo di piacere comune e volontà contrastanti: perché se uno si stava abbandonando alla più peccaminosa voluttà, l’altro non era pronto a fingersi sordo alle motivazioni che avrebbero dovuto esercitare un potere deterrente su quella vecchia e ineluttabile attrazione.
«Torna da me.»
Una frase talmente amorevole da stonare tra le note della lite che ancora vibrava tra i loro corpi. Un’implicita preghiera a mettere da parte quei pensieri così sbagliati – seppur così giusti – e a concentrarsi su di lui, su di loro, su quel momento che entrambi avevano immaginato e che mai avrebbero pensato si sarebbe realizzato. Mai avrebbero creduto di poter provare emozioni così forti, capaci d’insediarsi sottopelle e minacciare con tanta spietatezza la loro razionalità, trasformandoli in burattini nella presa di un ardore totalizzante.
Quello che nessuno dei due poteva sapere, era che la fiamma della passione avesse creato un gioco d’ombre illusionistico sulle loro percezioni, che quella bolla ovattata in cui s’erano nascosti non era invisibile, né irraggiungibile.
Non potevano sapere che la loro imprudenza sarebbe stata la loro condanna.
 
 
 

 
Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi.
 

CAPITOLO UNO
Un segreto malcelato 

 
Una leggera pioggia scese silenziosa nel tepore dell’alba, sospinta da una brezza che pareva voler mitigare la calura abbattutasi su tutta New York con l’arrivo della stagione estiva.
Rufoli d’aria fresca oltrepassarono le finestre spalancate del grande attico sulla Fifth Avenue, raffreddando la stanza immersa nella penombra e portando Alec a rannicchiarsi su se stesso. Con gli occhi ancora chiusi e la mente in balia del sonno, il ragazzo accettò di buon grado il corpo caldo che andò a stringersi al proprio, accoccolandosi in braccia che ormai avevano imparato ad accoglierlo.
Avvertì la mano di Ralf, cui corpo temprato non si lasciava scalfire da qualche grado centigrado in meno, strofinare la sua schiena nuda per infondergli ulteriore calore.
Alec adorava quei momenti, quando ogni cosa sembrava sospesa, cristallizzata nella sua forma più bella – più autentica.
Microscopici granelli di polvere e polline danzavano lenti nell’aria, apparendo e scomparendo nel gioco d’ombre creato dai flebili raggi del sole che si accingeva a spuntare sotto il cielo plumbeo di Manhattan. Tutto gli appariva pervaso da una serenità che gli regalava il più alto stato di pienezza dell’anima – e forse Alec aveva uno spirito antico, ma credeva che non vi fosse niente di più poetico di poter ammirare il risveglio di un nuovo giorno.
Sentì il naso di Ralf affondare tra i suoi capelli, inspirando quella fragranza che aveva dichiarato d’amare ma di cui non riusciva a riconoscere gli odori: il flacone dello shampoo non riportava alcuna etichetta ed Alec era estremamente divertito dai suoi tentativi d’indovinare quale fosse l’elemento alla base del suo profumo. Avrebbe potuto rivelargli che si trattasse di legno di sandalo, ma non vedeva perché privarsi dell’opportunità di avere il volto di Ralf costantemente attaccato al proprio.
Alec fece scorrere le nocche sull’addome dell’uomo accanto a sé, in una carezza distratta che fu sufficiente per avvertire Ralf del suo imminente risveglio. Sorrise quando sentì le labbra dell’altro lasciare un umido bacio sulla sua fronte, ma rimandò l’incontro con il suo sguardo ancora per qualche minuto, rifugiandosi nell’incavo del suo collo e portandogli un braccio attorno al busto, regalandogli una dose d’affetto che sapeva lo avrebbe rallegrato. 
È che quello – quel momento poetico – era l’unico della giornata in cui Alec non aveva ancora innalzato dei muri, in cui le difese erano basse e si concedeva un po’ di quel calore umano che, quando era vigile, continuava a metterlo tremendamente a disagio. Solo nella quiete mattutina, tra le braccia di chi accettava quella sua ritrosia sentimentale, Alec si sentiva libero di mostrare la sua parte più vulnerabile – più autentica.
Persino con Ralf, nonostante fossero impegnati in una relazione stabile, c’erano giorni in cui faceva difficoltà ad ignorare la sua avversione per qualsiasi forma di romanticismo, ritrovandosi a compiere una serie di gesti dettati più dalla necessità di tranquillizzare il suo compagno sulla veridicità dei suoi sentimenti che dalla voglia di soddisfare un bisogno di tenerezza. Ultimamente, poi, oppresso da un crescente turbamento per ciò che continuava a tacergli, si sentiva in dovere di dimostrargli il suo amore.
«Caffè» fu la prima parola che lasciò le labbra di Alec, seguita da un bacio alla mascella di Ralf.
Il maggiore gli accarezzò i capelli scuri, portandogli poi un dito sotto il mento per spronarlo ad alzare la testa «Buongiorno anche a te» mugugnò con voce ancora assonnata.
Il ragazzo bofonchiò quello che sembrava essere un saluto, sbadigliando sonoramente prima di ribadire «Caffè», sottintendendo un implicito comando.
Ralf inarcò un sopracciglio e Alec sapeva che a momenti avrebbe iniziato a farsi beffe della sua dipendenza da caffeina. Ma Ralf, contrariamente alle sue previsioni, non parlò: rimase in silenzio, con il ciuffo castano tratteggiato da riflessi brizzolati a cadergli disordinatamente sulla fronte e le iridi di un verde quasi trasparente a scrutarlo con attenzione.
Alec era consapevole delle intenzioni del suo fidanzato, del tentativo di penetrare quella patina oltre cui aveva nascosto il proprio turbamento, ma gli occhi blu di Alec erano abituati a rendersi indecifrabili quando avevano un segreto da tenere al sicuro.
Mosso dalla consapevolezza di doversi rassegnare ai suoi dubbi o dalla fiducia nel fatto che il suo ragazzo non gli avrebbe mai mentito, i lineamenti duri del volto di Ralf iniziarono lentamente a distendersi, fino ad aprirsi in un sorriso che riuscì a far rilassare persino Alec.
«Come faccio a dirti che abbiamo finito il caffè senza che ti venga una crisi?» domandò, fingendosi pensieroso «Però abbiamo il tè.»
Alec contrasse i suoi muscoli facciali in una smorfia disgustata «Bevilo tu il tè, vecchio
«Avere qualche anno in più di te non mi rende vecchio, Alec» chiarì, indispettito «E per la cronaca, un sacco di persone bevono tè, non soltanto gli anziani.»
«Sei sulla soglia dei quaranta» gli ricordò, inarcando un sopracciglio per sottolineare la differenza d’età «E poi lo sai che il caffè è l’unica cosa che mi aiuta a lasciare questo letto.»
«Magari farti lasciare questo letto non è nei miei piani.»
«Mi credi una preda così facile?»
Ralf si sollevò quel poco che bastava per raggiungere le labbra del ragazzo, calandosi per lasciarvi una serie di baci lenti e languidi. Alec non oppose alcuna resistenza al tentativo di seduzione dell’altro, al contrario: accoglieva sempre con entusiasmo l’intraprendenza di Ralf. E fu solo quando lo sentì ridacchiare – dopo esserselo tirato addosso ed aver approfondito quel contatto – che capì di avergli appena dato prova di aver ragione: la sua sola presenza era sufficiente per tenerlo inchiodato tra quelle lenzuola.
«Dicevi?» lo punzecchiò Ralf, divertito.
Alec gli morse dispettosamente il labbro «È solo perché abbiamo finito il caffè e mi serve altro con cui svegliarmi» lo ammonì, sollevando lo sguardo per incontrare le iridi chiare dell’uomo, talmente vicine da non essere messe chiaramente a fuoco.
«Mi darai mai la soddisfazione di vincere?» chiese, sbuffando la propria esasperazione.
Il giovane avvocato sorrise apertamente e per Ralf, che ormai vantava una discreta conoscenza del suo compagno, quella fu una risposta sufficiente.
 
 
 
Alec fissava con malcontento il panorama al di là della finestra. La piacevole pioggerellina di quella mattina si era trasformata in un acquazzone che sembrava non avere alcuna intenzione di acquietarsi, costringendoli a restare in casa e rinunciare al giro turistico della città che avevano programmato la sera prima.
«I meteorologi di New York sono pessimi» sbuffò, stretto in una maglietta scolorita ed un paio di pantaloncini di tuta, osservando gli alberi di Central Park piegarsi sotto un vento inarrestabile.
Ralf, sdraiato sul lungo divano in pelle nera e coperto soltanto da un boxer, spostò lo sguardo in direzione dell’altro «Già» confermò, stiracchiandosi pigramente «Cos’è, non vedi l’ora di evadere?» chiese con sarcasmo, mal celando la sua reale preoccupazione: Alec era riuscito a distrarlo con la straordinaria sessione di sesso mattutino, ma Ralf sembrava non aver messo da parte il sospetto che gli stesse nascondendo qualcosa.
Il moro roteò gli occhi, sedendosi sul tappeto in finta pelliccia ai piedi del divano «Sì, è proprio una tortura stare qui con te» ironizzò, mentre il Presidente Miao – un gatto di piccola statura dal morbido pelo striato – andò ad accoccolarsi sulle sue gambe, in cerca di carezze «Max potrebbe seriamente odiarmi se dovesse svegliarsi nel pieno di un temporale senza di me» aggiunse poi, tornando a fissare con ostilità le goccioline che sporcavano il vetro e continuando a grattare il gatto dietro le orecchie.
«Alec» lo ammonì dolcemente l’altro, abbassando appena il volume della televisione «Tu e Max vivete in simbiosi, smettila di sentirti in colpa per aver passato una serata lontano da lui.»
Alec non era solito andare a dormire da Ralf senza suo figlio – non era solito muovere un passo senza coinvolgere Max, in verità – e sebbene il suo risveglio fosse stato incredibilmente piacevole, non poteva che sentire la mancanza del calore che soltanto l’abbraccio del suo bambino era in grado di donargli.
Alec aprì la bocca per rispondere, ma si rese conto di non poter ribattere: Ralf non aveva figli, non poteva capire quale effetto la lontananza da Max suscitasse in lui. Scosse la testa e si alzò «Colazione?» chiese, lasciandosi il salone alle spalle con il Presidente Miao che gli correva dispettosamente tra le gambe.
I colori scuri e le linee limpide ed essenziali si riproponevano in tutta la casa, rispecchiando l’eleganza e il gusto minimale rintracciabili nelle preferenze di Ralf. La cucina, disposta nel tradizionale taglio americano, ospitava un’ampia isola laccata di nero costeggiata da alti sgabelli in legno di noce, in un netto richiamo ai pannelli decorativi della sala pranzo adiacente.
Il piccolo profumatore posto sulla composizione di mensole all’ingresso inondava l’ambiente di una fragranza dolciastra, coprendo l’odore sgradevole proveniente dal pacco delle patatine al formaggio che Ralf dimenticava costantemente aperto sul ripiano dell’isola.
Alec si affrettò a chiudere la principale fonte di nutrimento del suo ragazzo, spostandosi poi verso l’anta della dispensa «Cosa ti va di mangiare?» domandò, quando sentì Ralf raggiungerlo.
L’uomo si poggiò con una spalla allo stipite della porta scorrevole, un ghigno divertito dipinto sul volto «Hai intenzione di cucinare tu?» chiese, incrociando le braccia al petto.
«Io so cucinare» chiarì Alec in tono saccente «È il tuo forno a far schifo.»
Ralf scosse la testa in un gesto di palese esasperazione «Chissà perché Doris non se n’è mai lamentata.»
«Dov’è oggi, a proposito?»
«È andata a trovare il figlio in Connecticut, starà fuori tutta la settimana.»
Alec sgranò gli occhi «Cosa?» domandò, stupito «Perché non lo sapevo? Vuol dire che mangeremo solo patatine al formaggio?»
Il maggiore tra i due si diede una piccola spinta in avanti, percorrendo a passo lento il parquet fino al bancone a cui era poggiato Alec, posando le mani ai lati del suo corpo ed intrappolandolo tra le proprie braccia.
«Non sapevo di doverti avvisare delle ferie del mio personale domestico, Alec» soffiò a qualche centimetro dalle sue labbra, in un flirt che nascondeva una verità più profonda – la consapevolezza che Alec ormai fosse di casa, tra quelle mura «E comunque, io so cucinare davvero
Il giovane avvocato, stordito dalla vicinanza con il fisico scolpito di Ralf quanto dalla libido che aveva reso i suoi occhi più scuri, ignorò la provocazione del suo ragazzo e si avventò sulla sua bocca, facendo scontrare i loro corpi e coinvolgendolo in un bacio passionale.
Alec si domandò se avesse agito perché raramente avevano la possibilità di godersi una mattinata di relax o perché era più facile soffocare il senso di colpa tra le coperte, ma decise di non rimuginarvi a lungo.
Quando Ralf lo fece sedere sul bancone e s’infilò tra le sue gambe, Alec fu certo che avrebbero utilizzato la cucina per uno scopo ben diverso da quello programmato, ma proprio mentre la sua maglietta volava sul pavimento e le labbra di Ralf scendevano a lambirgli il collo, il telefono di quest’ultimo prese a squillare.
Il padrone di casa non diede segno di volersi allontanare, ma Alec sapeva che quel cellulare non avrebbe smesso di dar loro il tormento finché non avesse accettato la chiamata. Difatti, nonostante l’ostinazione di Ralf, la suoneria riprese a coprire il suono dei loro baci.
«Sarà meglio per loro che qualcuno stia morendo» ringhiò l’uomo, allontanandosi dal corpo dell’altro con uno scatto nervoso. 
La conversazione si protrasse per qualche minuto e ad Alec bastò vedere l’espressione infuriata di Ralf per capire come sarebbe andata a finire: essere il direttore della Praetor Lupus – una delle più importanti aziende nel mercato globale dell’industria tessile – implicava l’essere costantemente reperibile, a qualsiasi ora, che si trattasse di un giorno festivo o feriale.
Malgrado quel sabato Ralf avesse raccomandato ai suoi collaboratori di non disturbarlo, sapeva di non potersi aspettare di non essere contattato: dopotutto, aveva delle responsabilità a cui non poteva sottrarsi.
«Mi dispiace» sospirò, lasciando cadere malamente il telefono sul tavolo e tornando verso Alec, allungando una mano per accarezzargli la guancia liscia «Devo proprio andare.»
Il moro annuì, circondandogli i fianchi con le proprie gambe «Tranquillo» rispose, lasciandogli un leggero bacio sulle labbra «Credo ne approfitterò per passare un po’ di tempo a casa. Sono settimane che mia madre si lamenta di non vedere abbastanza suo nipote, ieri mi ha dovuto minacciare per lasciarlo a dormire lì.»
Ralf si lasciò sfuggire una risata ilare «Sarà meglio non farla arrabbiare, allora. Tua madre riesce a mettere in soggezione persino me.»
«Non hai motivo di temerla finché mi rendi felice… anche se in effetti senza Doris non sono molto felice» mormorò tra sé e sé, gettando un’occhiata ostile al forno che solo la cuoca sembrava essere capace di far funzionare.
«Lo sai che sei un viziato?» domandò Ralf, mordendogli dispettosamente la mascella «E poi si presuppone che uno a venticinque anni sappia cucinare almeno l’essenziale.»
«Tu mi hai viziato» gli rinfacciò, imbronciandosi «Nell’ultimo anno non mi hai mai dato modo di sperimentare in cucina, mi hai sempre portato a cena fuori.»
«Dovrei chiederti scusa per questo?»
«In effetti dovresti trovare un modo per farti perdonare.»
Ralf ridacchiò, scuotendo la testa «Sai cosa? Penso tu abbia ragione» ammiccò, tirandosi indietro e porgendo una mano ad Alec.
Il ragazzo scese dal bancone con un saltello e sorrise «Non abbiamo già fatto un po’ troppa attività per un uomo della tua età?»
«Non puoi fare a meno di provocarmi, mh?» domandò Ralf, incamminandosi all’indietro verso l’uscita della cucina «Eppure non mi pare tu abbia qualcosa di cui lamentarti.»
«Assolutamente no.»
 
 
 
Una mezz’ora più tardi, con l’irritazione appicciata addosso come i vestiti bagnati dalla pioggia ormai fitta, Alec giunse all’entrata del proprio palazzo. Rivolse un saluto al signor Bernard, il portinaio panciuto dall’aria cordiale che occupava quella scrivania dacché Alec ne avesse memoria, e sgattaiolò verso l’ascensore prima che potesse trattenerlo con le sue domande indiscrete.
Il sollievo per aver scampato la vena pettegola di Bernard – principale fonte di gossip dell’intero Upper West Side – durò solamente il tempo d’arrivare alla propria abitazione: ad un passo dalle porte dell’ascensore, con le braccia incrociate al petto ed il sopracciglio inarcato in un’accusa, Maryse lo accolse in tutta la sua austerità.
Alec l’aveva sempre definita spigolosa, un aggettivo che sembrava addirsi sia ai lineamenti taglienti che alla personalità dura e inflessibile. Indossava un sobrio abito bordeaux lungo fino al ginocchio e portava i capelli neri in una coda bassa, restituendogli un’immagine immutata nel tempo – da bambino, Alec credeva che sua madre non avesse espressioni all’infuori di quella.
I suoi occhi, quei grandi occhi blu che Alec aveva ereditato, gli indirizzarono un’occhiata ammonitrice «Grazie al cielo sei qui. Sto raggiungendo tuo padre a Boston per un convegno e tua sorella ha invitato i vostri amici, assicurati che non diano fuoco alla casa» si raccomandò.
A Maryse erano sempre servite poche parole per farsi obbedire, specialmente se accompagnate da occhiate capaci di far tremare persino il più stoico dei soldati.
Forse perché, rifletteva Alec mentre faceva uscire il Presidente Miao dal trasportino, Maryse somigliava più ad un generale che ad una madre, e casa Lightwood era stata trasformata in un’accademia militare dove ad ogni trasgressione corrispondeva una punizione.
Si chiese se rientrare a mezzogiorno, completamente fradicio, si potesse considerare una violazione delle regole e si rese conto che, a quasi ventisei anni, non era accettabile sentirsi ancora come un quindicenne rincasato dopo il coprifuoco – doveva assolutamente cercare un posto tutto suo.
Poi, però, quelle spalle irrigidite s’ammorbidirono e il suo sguardo lasciò trapelare un affetto che aveva imparato a mostrare solo negli ultimi anni «Max sta ancora dormendo, ieri sera abbiamo giocato sino a tarda ora» disse, accennando un sorriso «E ora fila di sopra a darti una ripulita.»
Alec annuì e corse in bagno prima di darle modo di impartirgli un altro ordine.
Lasciò all’acqua calda della doccia il compito di sciogliergli i nervi, allontanando i pensieri scomodi e concentrandosi sulla felicità che gli trasmetteva l’idea di passare un’intera giornata con la sua famiglia: era sempre più raro che si trovassero tutti sotto lo stesso tetto, e il suo Max sembrava soffrire quel distacco più di chiunque altro. 
Uscì dal bagno che condivideva con Jace per entrare nella propria camera, o il “tugurio”, come era solita definirla Isabelle dall’alto della sua laurea in architettura. Difatti, contrariamente ai suoi fratelli, Alec non aveva mai avvertito la necessità di riarredare la propria stanza secondo la fase evolutiva che stava vivendo, limitandosi a sostituire il lettino ad una piazza con uno matrimoniale che adesso giaceva imponente a ridosso di una parete.
Nonostante le offese di Isabelle e le sue occhiate sdegnate quando notava l’ennesima macchia sul legno bianco della scrivania o un graffio inciso nel navy della cabina-armadio, Alec si sentiva pienamente soddisfatto della propria camera: tutto quel blu aveva sempre esercitato un effetto calmate sul suo animo irrequieto, offrendogli un rifugio confortante in cui nascondersi quando il mondo esterno diventava impossibile d’abitare.
Appollaiato sul tappeto che un tempo aveva vantato una tonalità azzurra decisamente più vivace, il Presidente Miao giocava con i raggi di un sole appena visibile provenienti dalla finestra che s’affacciava sull’Hudson e da cui si potevano scorgere le rive vicine del New Jersey, emettendo dei miagolii che Alec riconobbe essere di pura gioia: adorava tornare a casa dopo una lunga permanenza da Ralf.
Rasserenato, dopo essersi asciugato e aver indossato una semplice tuta estiva, uscì dalla propria camera per controllare Max. Lo trovò ancora addormentato nel suo lettino, circondato da una miriade di peluche e con i riccioli neri sparpagliati sul cuscino.
Alec avrebbe potuto osservare suo figlio per ore, interrogandosi per l’ennesima volta su come fosse possibile che quel bambino così perfetto fosse suo – la parte migliore della sua vita – ed affascinato dal modo in cui la sua sola presenza riuscisse a cancellare qualsiasi pensiero.
Si sedette accanto a lui, passandogli dolcemente una mano tra i capelli.
«Ehi, dormiglione» sussurrò, baciandogli una tempia.
Max emise dei versetti contrariati, girando il volto dall’altro lato e mugugnando una serie di parole sconnesse “Buio, nanna, notte”.
Alec ridacchiò, continuando ad accarezzargli la schiena «Vuol dire che i biscotti al cioccolato li daremo al Presidente Miao» farfugliò tra sé e sé, facendo leva sulla dipendenza da cacao di suo figlio.
Difatti, la testolina di Max scattò verso l’alto «Miei!» esclamò, girandosi per poter guardare suo padre «I biscotti al cioccolato sono miei» ribadì, corrugando il volto ancora segnato dalle pieghe del cuscino «A Miao no cioccolato, gli fa la bua il pancino.»
«Giusto! Menomale che me lo hai ricordato» disse Alec, portandosi una mano sulla testa per evidenziare la sua sbadataggine.
Max annuì soddisfatto, togliendosi un paio di peluche da dosso e saltando tra le braccia del padre senza alcun preavviso. Alec gli aveva detto innumerevoli volte che quella fosse una pessima abitudine, ma nessun rimprovero era servito a far desistere il piccolo dal gettarsi sul suo papà all’improvviso, certo che niente al mondo avrebbe impedito ad Alec di afferrarlo.
«’Giorno» sbadigliò Max, affondando il volto nel petto di Alec.
Il giovane adulto lo strinse a sé, perdendosi nella consapevolezza che quello fosse il suo buongiorno preferito.
«Ciao, piccolo mio» lo salutò, baciandogli rumorosamente la guancia paffuta «Andiamo a fare colazione anche se è quasi ora di pranzo?»
Max rise, aggrappandosi ad Alec mentre questi si sollevava per uscire dalla stanza «Colazione per pranzo!» esclamò, allegro.
Alec si avviò verso il piano inferiore, chiedendosi dove fossero i suoi fratelli e senza dover percorrere molti gradini prima di avere una risposta: avvinghiati in una morsa contorta e stretti al punto da non poter riconoscere dove finisse uno ed iniziasse l’altra, Jace e Clary, entrambi in pigiama, si baciavano frenetici e scomposti contro la vetrata che percorreva tutta la scalinata, talmente presi dal loro scambio passionale da non rendersi conto d’essere in uno dei passaggi più frequentati della casa.
«Vi ricordate che in questa casa abita un bambino?» li rimproverò Alec, mettendo una mano sugli occhi di Max.
Jace, preso alla sopravvista, lasciò la presa sulla ragazza e si voltò verso suo fratello. I capelli biondi, solitamente in perfetto ordine, erano stati arruffati dalle mani sottili di Clary; gli occhi dorati lo osservavano con un luccichio colpevole, e la porzione di petto visibile riportava i segni di una notte passata a recuperare settimane di lontananza.
Fu proprio dopo aver notato un succhiotto particolarmente scuro alla base del collo del fratello, che Alec spostò lo sguardo sull’amica, intenta a sistemare alcune ciocche rosse sfuggite dallo chignon.
Gli occhi verdi della ragazza si assottigliarono «Non ci siamo visti per settimane» si giustificò, consapevole dell’accusa nascosta dietro l’occhiata divertita del primogenito dei Lightwood, portando le mani sui fianchi magri in una mossa più autoritaria.
Il maggiore roteò gli occhi, ma fu Max, abbassando la mano del padre, a prendere parola «Zio Jace e zia Clary si danno i baciiini» ridacchiò.
Clary sorrise «Si danno i bacini perché si vogliono tanto bene» spiegò, solleticandogli il fianco prima di afferrare la mano di Jace «E ora se ne vanno» aggiunse, correndo lungo la scalinata.
Alec, scuotendo la testa in un moto di rassegnazione, si affrettò a scendere le scale, constatando che sua sorella avesse nuovamente stravolto l’arredamento dell’ampio salone: adesso ospitava colori freddi e angoli spogli, creando un ambiente nettamente contrapposto a quello precedente, che era stato caratterizzato da tinte accoglienti e da un’abbondanza di decorazioni d’ogni forma e colore – sul lungo divano in pelle bianca giaceva Church, il vecchio gatto persiano dal pelo grigio che pareva odiare chiunque osasse incrociare il suo cammino.
«Hai già cambiato tutto?» domandò Alec entrando in cucina – anch’essa in linea con il nuovo stile – e adagiando Max su uno sgabello, accendendogli la tv già sintonizzata sul canale dei cartoni.
Isabelle, poggiata contro il mobile della dispensa e intenta a leggere qualcosa dal tablet, portò le iridi nere sul fratello, continuando a mescolare con distrazione una zuppa dall’aspetto poco invitante. I lunghi capelli scuri erano ordinatamente raccolti in una coda alta e il fisico allenato era nascosto sotto una maglietta con la stampa di Pacman che le arrivava sin sopra il ginocchio – e che Alec era certo appartenesse a Simon, il suo ragazzo.
«Mamma credeva che lo shabby chic fosse grezzo» spiegò la ragazza, mostrando la sua completa disapprovazione «Questo è scandinavo, elegante ma dannatamente freddo» commentò, avvicinandosi a Max per lasciargli un bacio tra i capelli.
«A me piace» intervenne una terza voce, richiamando l’attenzione di Alec.
Maia, in un paio di pantaloncini neri strappati ed un misero top bianco che metteva in evidenza la carnagione scura, se ne stava seduta sul davanzale della finestra, la schiena contro uno stipite e i piedi – coperti dal solito paio di anfibi – sull’altro; i capelli ricci, portati in un taglio sbarazzino, erano mossi da un vento caldo e gli occhi scuri seguivano il diradarsi delle nuvole.
«Tu che ci fai qui?» domandò Alec, sistemando i biscotti al cioccolato davanti a Max.
«I tuoi sono andati a Boston per un convegno e Izzy ha ben pensato di organizzare un pranzo con la sua compagnia inappropriata» rispose, ricalcando il termine con cui, anni prima, Maryse era solita riferirsi a quei loro amici provenienti da un diverso ambiente sociale.
Il ragazzo rivolse un’occhiata divertita ad Isabelle, che ricambiò con un sorriso fugace.
«Tu, piuttosto» continuò Maia, saltando già dal davanzale «Come mai sei sceso dall’Olimpo per venire tra noi comuni mortali?»
«Ralf è stato chiamato a lavorare» rispose, stringendosi nelle spalle «Stai cucinando tu, Iz?»
«Qualcosa in contrario?»
L’incapacità culinaria era un fattore che accomunava tutti i Lightwood e che trovava massima espressione in Isabelle: sua sorella non soltanto era negata per la cucina, ma diventava persino un pericolo quando si metteva ad armeggiare vicino ai fornelli – Alec era certo che la scelta di mettere una cucina ad induzione non fosse stata propriamente casuale.
«Già quei due infami di Jace e Clary si sono dileguati dicendo che si sarebbero nutriti di altro» disse Isabelle, puntandogli il mestolo contro «Non ti permetterò il disprezzare il mio impegno!»
«Zio Jace e zia Clary si danno i bacini» commentò distrattamente Max, con gli occhi incollati alla tv.
Alec lanciò uno sguardo incerto in direzione di Maia, che gli rispose con un occhiolino complice, segno che avesse già ordinato del cibo commestibile da qualche locale nelle vicinanze. 
«Hai ragione. Sono proprio scostumati» rispose dunque Alec, utilizzando un altro termine tra i preferiti di Maryse.
«Lascia che si divertano!» lo rimproverò Maia, dandogli un leggero schiaffo sulla spalla «Non possono mica avere tutti una vita noiosa come la tua!»
«Ehi! La sua vita non è noiosa!» si oppose Isabelle, tirandole dispettosamente una ciocca di capelli «È l’avvocato più promettente della Penhallow Fell, ha un figlio meraviglioso e un fidanzato bellissimo che lo soddisfa pienamente!»
Alec, inizialmente intenerito dal senso di protezione che la sorella mostrava nei suoi confronti, si ritrovò a tossire quando Isabelle nominò la sua vita sessuale, facendogli andare il biscotto di traverso e costringendolo a recuperare dell’acqua dal frigo. Rischiò di strozzarsi anche con quella, poi, quando Maia affermò «Ralf deve essere proprio bravo a letto, considerando che Alec ormai non lo vediamo più.»
«Scusate!» sbottò, richiamando l’attenzione di entrambe «Potreste smetterla di sparlare della mia vita privata?» domandò, indicando Max.
«Oh, Alec, ma è naturale che voi facciate...che vi diate i bacini!» ammiccò l’amica con l’intento di metterlo in ulteriore imbarazzo, facendogli rimpiangere i tempi in cui faticava a dargli confidenza e pentendosi di aver introdotto Lily nel gruppo, certo che avesse avuto una pessima influenza su Maia.
Alec le lanciò la bottiglietta d’acqua contro, ma Maia riuscì a scansarsi in tempo, afferrandola al volo e dichiarando che fosse arrivato il momento di svegliare Simon, uscendo dalla cucina canticchiando.
«Mamma lo sa che Simon ha dormito qui?» domandò Alec, controllando distrattamente i messaggi sul proprio telefono: Lily aveva appena scritto sul gruppo di aver comprato il pranzo per tutti – Alec sperò vivamente che Isabelle non lo leggesse.
«No» rispose l’altra, voltandosi verso di lui ed incrociando le braccia al petto, squadrandolo con attenzione.
Alec, sentendosi osservato, le indirizzò uno sguardo vacuo «Cosa?» domandò, stranito dal disappunto dipinto sul volto della sorella.
La mora inarcò un sopracciglio prima di domandare – con una smorfia tremendamente simile a quella di sua madre «Come vanno le cose con Ralf?»
«Bene» si mise immediatamente sulla difensiva il maggiore.
«E dov’è?»
«Al lavoro, te l’ho detto.»
Isabelle scosse la testa, contrariata «Alec, sono settimane che-»
«Izzy, non devi intrometterti» affermò, con meno sicurezza di quanta avrebbe voluto mostrarne.
«Non mi piace quando mi nascondi la verità.»
Alec strinse i pugni e indurì lo sguardo «Restane fuori» le ordinò, perentorio, abbassando la voce affinché Max non si insospettisse.
La minore sospirò, ben consapevole dell’impossibilità di scalfire la testardaggine di suo fratello, ma ostinata a non arrendersi: avanzò verso Alec e lo chiuse in un abbraccio, lasciando che lui trovasse conforto nelle braccia di chi, da sempre, aveva rappresentato un porto sicuro.
«Voglio solo che tu stia bene, Alec» sussurrò, accarezzandogli la schiena «Ma» continuò, senza dargli possibilità di ribattere «La scelta è tua. Noi siamo qui in ogni caso.»
Alec alzò il capo, rispecchiandosi negli occhi della sorella – diverso colore ma medesima essenza – e si sentì soffocare dall’angoscia.
«Grazie» rispose, accennando un sorriso e sperando che Isabelle non lo conoscesse così bene da capire cosa si celasse dietro il suo comportamento.
Con la mano della sorella ed accarezzargli una guancia, Alec si convinse a non cedere: non era ancora pronto a dirle la verità.
 
 
 
Il bagliore delle lampade che pendevano dal soffitto illuminava scarsamente l’ampia sala del Downworld, l’odore di alcol era appena percepibile sotto i profumi dei clienti che occupavano l’ambiente ed il vociare era pressoché inaudibile tra le note di una canzone pop che si diffondeva a tutto volume.
Le scie colorate dei faretti si riflettevano ipnotiche negli occhi spenti di Alec e si proiettavano in una danza disordinata di luci ed ombre tra le pieghe della camicia blu scelta per l’occasione. Era completamente assorto, dissociato dal mondo circostante, incapace di avvertire la presenza della testa di una Lily quasi incosciente poggiata sulla sua spalla o di identificare le figure che si muovevano freneticamente dinnanzi a lui.
Come d’abitudine, a seguito della cena formale organizzata dalla Penhallow Fell – lo studio legale più prestigioso della città, gli ricordava la voce di sua madre nella sua testa –, Alec aveva lasciato un Max ormai dormiente nelle braccia di suo padre e tutti si erano riversati nel bar di Maia, dove avevano dismesso i panni di ricchi viziati per calarsi in quelli di ragazzi ordinari.
Il Downworld era nato da poco più di un anno, figlio dell’impegno e della determinazione della sua proprietaria: quello che era un magazzino abbandonato nella periferia di Brooklyn era stato trasformato in un locale dallo stile industriale, con un lungo bancone in metallo ad occupare un’intera parete di mattoncini bianchi e una fornita esposizione di alcolici alle sue spalle; tavoli squadrati in legno scuro erano disposti ordinatamente sul pavimento vinilico, mentre nella zona più appartata erano sparsi dei divanetti in pelle leggermente consumata. Nel fondo del locale vi era un palchetto che ogni sera ospitava qualche band esordiente, attirando così una clientela più vasta e giovanile.
Il palchetto, quella volta, era occupato da Simon. Il ragazzo aveva un paio di enormi cuffie gialle che stonavano sui capelli castani, corti e disordinati, la maglietta nera con la scritta “DJ SIMON” fluorescente che i suoi amici gli avevano regalato lo scorso Natale a mettere in evidenza il fisco allenato, i lineamenti marcati del viso deformati da un sorriso euforico e gli occhi color cioccolato velati da una patina di ebbrezza.
Probabilmente, rifletteva Alec dalla sua postazione periferica, era quella palese ubriachezza il motivo per il quale non si era accorto degli individui che ronzavano attorno alla sua ragazza, intenta a saltellare e cantare a squarciagola al centro dell’improvvisata pista da ballo.
Alec avrebbe voluto spostarsi per avere una migliore visuale su Isabelle – non che sua sorella avesse bisogno di protezione, giusto per placare quell’apprensione da fratello maggiore che non lo abbandonava mai – ma il peso sulla sua spalla non glielo permetteva.
Lily aveva barcollato verso di lui una mezz’ora prima ed Alec l’aveva aiutata ad accomodarsi al suo fianco, sorridendo al “Mi sa che ho esagerato” della sua amica e lasciando che si mettesse comoda contro di lui.
La ragazza era crollata qualche minuto dopo, incurante di aver assunto una posizione non propriamente elegante – era completamente stravaccata sul divanetto, aveva scalciato via le scarpe e la bocca aperta la faceva apparire in uno stato semicomatoso. Se quella non fosse stata Lily, la sua sfacciata, impertinente e svergognata Lily, si sarebbe premurato di svegliarla per farle assumere una postura meno scomposta, ma conosceva la sua amica e sapeva che sarebbe stata capace di ucciderlo se l’avesse disturbata per una tale idiozia.
Tornando alla realtà con un cambio improvviso di canzone – delle note rock iniziarono a risuonargli martellanti ed assordanti nella testa – si guardò attorno, cercando di individuare con lo sguardo i restanti componenti del suo gruppo.
La verità era che Alec stesse inutilmente tentando di propinarsi una serie di bugie poco convincenti che gli impedissero di lasciare quell’angolo buio ed appartato ed entrare in contatto con gli altri. Se le circostanze fossero state diverse, si sarebbe lasciato convincere dai suoi amici a ballare e sorseggiare un drink, accantonando la sua avversione alle feste in favore del divertimento che il suo gruppo riusciva sempre a procurargli.
Ma le circostanze non erano diverse e Alec non poteva assolutamente permettersi di perdere il controllo: Dio solo sapeva cosa sarebbe stato capace di fare, se la sua razionalità fosse stata appannata dall’alcol – l’avrebbe cercato all’istante, ne era certo.
Prima che potesse elaborare l’ennesima scusante per incoraggiarsi a non allontanarsi da quel divanetto, però, vide Clary dirigersi verso di lui. I capelli rossi ricadevano in morbidi boccoli su un elegante vestito azzurro e gli occhi stanchi fissavano avidi la poltrona rimasta libera.
«Credo che potrei lanciare i tacchi nel fuoco» disse, spostando poi lo sguardo su Lily «Ha di nuovo esagerato?»
Alec si strinse nelle spalle «La conosci, le piace bere.»
«Com’è giusto che sia!» esclamò Isabelle, balzando leggiadra alle spalle dell’amica.
Isabelle, che quella sera aveva deciso d’indossare un aderente abito rosso e tacchi vertiginosamente alti, si ravvivò i lunghi capelli scuri con una mano e si lasciò cadere sul bracciolo accanto ad Alec, circondandogli le spalle con un braccio e rivolgendogli un sorriso rassicurante – le iridi a trasmettergli il muto supporto per quel segreto che non conosceva, ma che sapeva lo stesse logorando.
Alec si voltò per rivolgerle uno sguardo di gratitudine, ma si fermò quando sentì Isabelle rafforzare la presa attorno al suo corpo, proprio mentre Jace correva verso di loro.
Suo fratello gli rivolse soltanto un’occhiata fugace prima di abbassarsi per sussurrare qualcosa all’orecchio di Isabelle, facendola irrigidire ulteriormente ed alzare di scatto.
«Dobbiamo andarcene» disse, afferrandogli un braccio per spronarlo a seguirla.
Alec si corrucciò «Che sta succedendo?» domandò allarmato, ignorando le proteste di Lily per aver perso il suo cuscino.
Isabelle continuava a far vagare gli occhi alle spalle di Alec, alla ricerca di un obiettivo a lui invisibile. Jace sembrava altrettanto impegnato ad ispezionare l’ambiente, il volto contratto in una smorfia d’ansia.
«Isabelle» la richiamò, portandole le mani sulle spalle «Che succede?»
La sorella alzò lo sguardo e Alec si agitò nel rendersi conto che stesse trattenendo le lacrime con forza. Intuendo il motivo di quel drastico cambiamento d’umore, le accarezzò una guancia, incoraggiandola a parlare.
«Mi dispiace» sussurrò Isabelle «Mi dispiace, me lo avevano detto ma non ho voluto crederci. Avrei dovuto dirtelo prima, avrei…» tirò su col naso e lanciò un’altra occhiata nervosa alle spalle di Alec «È tornato, Alec. Magnus è tornato.»
Alec sospirò. Se non ne fosse già stato a conoscenza, la notizia lo avrebbe sicuramente fatto cadere in uno stato di shock. Ma Alec non solo sapeva che Magnus fosse tornato in città, aveva persino avuto modo di parlargli – più o meno.
Aveva subìto un tracollo emotivo e stava ancora realizzando ciò che era accaduto, ma aveva sorpassato la fase di stupore iniziale.
«Aspetta» disse Isabelle, quando non ottenne alcuna reazione dal fratello «Tu lo sapevi già!»
Alec annuì «L’ho visto» rispose, omettendo di raccontarle del loro incontro «Era qui da prima di noi.»
«Vuoi andar via?»
«Sì.»
«Avviso-»
«No, tu resti qui. Sai di essere l’unica a poter gestire un Simon ubriaco.»
«Vado io con lui» s’intromise Jace, in un tono che non ammetteva repliche.
Isabelle si lanciò sul corpo del fratello, stringendolo in un abbraccio soffocante «Ti voglio bene. Io ci sono, lo sai, vero?»
Alec sforzò un sorriso «Ti voglio bene anch’io» sussurrò, lasciandole un bacio sulla testa.
Jace si scambiò uno sguardo significativo con Isabelle e mise una mano sulla schiena di Alec, spingendolo verso l’uscita.
Mentre cercava di farsi spazio tra la calca di persone, gli occhi di Alec vennero prepotentemente richiamati dall’individuo che da settimane torturava il suo senno. Era appoggiato contro il bancone, circondato dagli amici di sempre – amici che erano stati anche suoi –, con un drink in una mano e il cellullare nell’altra. Le gambe lunghe erano messe in risalto da un aderente pantalone scuro, il profondo scollo della camicia a fantasia astratta lasciava intravedere le linee definite del suo corpo e la pelle ambrata risaltava sotto l’innumerevole quantità di collanine scintillanti poggiate sul suo petto.
Il viso sottile dai lineamenti orientali mostrava un’espressione serena e ad Alec venne da ridere perché anche a metri di distanza, anche dopo anni di lontananza, riusciva a cogliere la sfumatura di quel sorriso e a riconoscervi una palese stanchezza – sembrava esausto.
Richiamato da un inarrestabile magnetismo, lo sguardo di Magnus si spostò in direzione di Alec e il sorriso prese una piega incerta, dolce e furiosa allo stesso tempo. Parve improvvisamente ignaro d’essere circondato da altre persone e mosse un passo verso di lui, ma il suo intento venne ostacolato su più fronti: Ragnor gli afferrò un braccio, Maia si sporse oltre il bancone per posargli una mano sulla spalla, Isabelle gli si parò dinnanzi e Jace si frappose tra lui e Alec.
Nessuno lì dentro voleva dargli modo di raggiungerlo. Nessuno, realizzò Alec, avrebbe concesso a Magnus di avvicinarsi nuovamente a lui, non dopo averlo mandato in pezzi.
Ma tu ci sei già ricascato, gli ricordò meschina una voce nella sua testa. 
Amareggiato e deluso, confuso, si destò con l’intenzione di andarsene – non importava dove, voleva solamente uscire di lì – ma si ritrovò bloccato, inchiodato sul posto dagli occhi supplicati di Magnus. Fu allora che venne percorso dal brivido più feroce, dal terrore che Magnus avesse ancora potere su di lui.
Guardò Jace, a cui fu sufficiente scorgere quella scintilla di panico nello sguardo del fratello per capire cosa fare: lo trascinò via dal bar e lo portò in un vicoletto buio. Al sicuro tra mura anonime, tra le braccia di chi aveva sempre rappresentato uno scudo dal mondo intero, Alec si sentì libero di crollare – e crollò.







Note dell’autrice

Salve gente!
Innanzitutto, se siete arrivati a leggere sin qui, vi ringrazio di cuore. È la prima volta che scrivo in questo fandom, ed è anche la mia prima long... spero di non combinare disastri per la via!
Questa storia ha iniziato a ronzarmi nella testa circa un annetto fa e, dato che proprio non voleva andare via, ho deciso di buttarla giù e di pubblicarla. Seppur nella mia testa sia già completa (dettagliata in un modo che dubito mi sarà concesso riportare, perché altrimenti risulterebbe infinita) la sto ancora scrivendo e sono in piena sessione, per cui gli aggiornamenti saranno certamente lenti – i primi sei capitoli sono già pronti, però, hanno solo bisogno d’essere revisionati!
Comunque, in questo primo capitolo abbiamo già incontrato i personaggi che ci accompagneranno per tutta la storia e se non avete capito molto di quello che è successo state tranquilli, perché nel prossimo sarà tutto più chiaro!
So che leggere di Alec con una persona che non sia Magnus potrebbe essere difficile, ma in questa AU la separazione è stata necessaria, non me ne vogliate!
Alla prossima,
Traumerin 

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Capitolo 2
*** Ad un passo dalla verità ***


Tutti i nodi vengono al pettine.
 
CAPITOLO DUE
Ad un passo dalla verità
 
«Questa mi è nuova.»
Che Clary entrasse proprio nell’istante in cui Alec e Jace avevano deciso di gettarsi in un’infantile lotta mattutina, nessuno dei due avrebbe mai potuto prevederlo – di trovarli a rotolarsi mezzi nudi sul letto, non avrebbe mai potuto immaginarlo lei.
«Amore!» esclamò Jace, balzando giù dal materasso «Vedi, posso spiegarti, io e Alec…» farfugliò, portandosi una mano tra i capelli «Non posso più nascondertelo, Clarissa, noi ci amiamo!»
Alec, ancora steso sul letto, si aprì in una risata sguaiata e lanciò un cuscino sulla schiena del fratello, mentre Clary si limitava a roteare gli occhi e rivolgere uno sguardo esasperato al ragazzo.
«Ora si spiegano molte cose» concordò lei, reggendogli il gioco.
Alec ricordava che, in quel periodo adolescenziale in cui aveva creduto d’avere una cotta per Jace, Clary fosse diventata inconsapevole vittima di tutto il suo biasimo, colpevole d’aver calamitato la totale attenzione di suo fratello.
Crescendo, aveva capito d’aver fatto una grande confusione su tutti i rapporti che aveva allacciato con le persone attorno a sé, riuscendo a distinguere chiaramente l’affetto che lo legava a Jace dalla tremenda sbandata che s’era preso per quello stilista stravagante.
Dove un tempo vedeva un’acerrima nemica, adesso c’era soltanto una delle migliori amiche che avesse mai avuto. La gelosia che provava nei suoi confronti s’era trasformata in bene fraterno, avvicinandola a quanto di più simile esistesse ad una sorella per scelta.
«Sapevo che avresti capito, sei la migliore» ammiccò Jace, infilandosi una maglietta.
Gli occhi verdi di Clary si posarono sulla figura di Alec «Insomma, guardalo» disse, portandosi teatralmente una mano sul cuore «Come potrei mai competere con un tale ben di Dio?»
Il biondo perse immediatamente il sorriso «Ehi» l’ammonì, puntandole un dito contro.
La ragazza si lasciò andare da una risatina divertita «Noi stiamo uscendo, vi ho lasciato la colazione in cucina.»
«Clary, lo sai che non devi sentirti in obbligo di cucinare solo perché dormi qui.»
«Jace, da quando tu puoi dirmi cosa devo o non devo fare?»
Jace mise su una smorfia indispettita «So preparare una colazione senza mandare a fuoco la cucina.»
«Sì, come i tuoi fratelli» lo sbeffeggiò Clary «Datevi una mossa, è già mezzogiorno» li rimbrottò, lasciandoli soli.
«Ventiquattro anni e si fa preparare la colazione dalla fidanzatina» lo derise Alec, alzandosi e rubando una tuta dal suo armadio.
Il fratello gli lasciò uno scappellotto sul capo mentre uscivano dalla stanza di Jace e percorrevano la scalinata.
In soggiorno, con il corpo stretto in un abito chiaro e i capelli scuri lasciati lisci sulle spalle, sua madre era impegnata nel solito frettoloso controllo della borsa.
«Mamma» richiamò la sua attenzione «Esci anche tu?»
«Isabelle ha organizzato una giornata per sole donne» rispose, cercando di abbassargli quei capelli proprio indisciplinati «So che tuo padre ha insistito per portare Max allo spettacolo di burattini al parco. Da quando è diventato nonno non lo riconosco più» ridacchiò, divertita dal drastico cambiamento del marito.
Alec scosse la testa, consapevole che passare del tempo a casa significasse anche vedere suo figlio venire conteso tra i suoi familiari in una gara per conquistarsi il titolo di nonno o zio preferito – in un compiacimento di vizi e capricci che poi spettava a lui ridimensionare.
«Ci abbandonate, quindi?» ironizzò, sottraendosi gentilmente al suo tocco – e ringraziando mentalmente sua sorella, certo che avesse architettato tutto per lasciargli il giusto spazio.
Maryse incrociò le braccia al petto «Non eravate voi a lamentarvi di non essere trattati come adulti?»
«Tranquilla, mamma» intervenne Jace «Ce la caveremo.»
Lo sguardo di Maryse si riempì di adulazione nel posarsi su Jace, il figlio che non aveva partorito ma che aveva sempre ritenuto tale.
Quando i genitori di Jace avevano perso la vita in un incidente, i coniugi Lightwood non avevano esitato nel firmare le carte per l’adozione di quel bambino rimasto orfano, già considerato parte del loro nucleo grazie alla profonda amicizia che aveva sempre unito le due famiglie.
«Non fatemi pentire di avervi dato fiducia» sospirò Maryse, rassegnata alla complicità dei fratelli.
«Com’è che con Jace sei un tesoro e con me no?» la punzecchiò Alec, volendo evitare ulteriori domande su come avessero trascorso la serata.
«Alec» lo ammonì la donna, fulminandolo con i suoi occhi blu «Quante volte devo ripeterti che una madre non può avere preferenze?»
«Anche papà dice di non avere preferenze, ma intanto Izzy non si becca neanche la metà delle punizioni che ha dato a me e Jace.»
«Perché Izzy è l’unica femmina. E, difatti, si vede che è una gran viziata.»
Alec, che negli anni aveva avuto modo di osservare da vicino il legame conflittuale tra madre e figlia – appianatosi solo di recente – si chiedeva se sua sorella non si fosse legata al padre in reazione al rapporto turbolento con l’altro genitore o se fosse vera l’esistenza di quel fantomatico legame tra padri e figlie – di certo Izzy sapeva come sfruttarlo, perché davvero le bastava soltanto fare gli occhioni per ottenere qualsiasi cosa.
«Andiamo, Maryse?» chiese Clary, raggiungendoli «Isabelle ci aspetta giù.»
L’altra donna annuì «Ci vediamo a cena?» domandò, premurandosi di baciare le guance di entrambi «Alec, mi piacerebbe tanto passare del tempo anche con te» ribadì prima di uscire «Può venire anche Ralf, ovviamente, lo sai che io e tuo padre siamo sempre felici di vederlo.»
Tutto l’impegno di Jace per rallegrare Alec fu spazzato via da quella singola frase, a cui il diretto interessato riuscì a rispondere solo con un cenno del capo prima di trascinarsi in cucina e lasciarsi cadere sulla sedia con uno sbuffo.
Jace prese posto di fronte a lui e gli allungò un muffin, offrendogli un sorriso comprensivo e la certezza del suo totale supporto – qualsiasi cosa avesse combinato.
Alec non aveva idea di quanto Jace avesse intuito, né se avesse cercato indizi altrove, ma sapeva di non potersi più sottrarre a quel confronto. Settimane prima, suo fratello era corso da lui perché colto da una strana sensazione – dettata dal fatto Alec non gli avesse risposto al solito messaggio di buongiorno – e lo aveva trovato preda di un attacco di panico degno del suo periodo più buio. 
Alec, nel venire avvolto dall’abbraccio protettivo di Jace, aveva persino valutato l’idea di rivelargli ogni cosa, ma la condizione di smarrimento in cui riversava non gli aveva reso possibile articolare un discorso sensato. Suo fratello, d’altro canto, non lo aveva forzato ad aprirsi, certo che l’altro gli avrebbe raccontato tutta la verità appena fosse stato pronto.
Adesso Alec sentiva il bisogno di sfogarsi e lasciare che Jace si prendesse cura di lui come aveva fatto sin dall’infanzia: come guida, confidente o migliore amico, lui c’era sempre stato, condividendo i suoi momenti migliori e peggiori, accompagnandolo nella crescita con i suoi consigli e i suoi “Sono a un passo da te, Alec”, promesse di un legame che mai aveva vacillato.
«È successo un casino» ammise, versandosi una generosa quantità di latte.
«Avevo qualche sospetto» lo sbeffeggiò bonariamente il biondo.
«Penserai che sono una persona orribile» sospirò, rivelando parte delle sue paure.
Lui e Jace si erano spronati a vicenda, avevano cacciato fuori la parte migliore dell’altro: non sopportava l’idea di deluderlo, di perdere la stima di una delle persone più importanti della sua vita.
«Alec, sono io, non c’è niente che possa mai indurmi a pensare che tu sia una persona orribile» gli assicurò, scoccandogli un’occhiata sincera «Lo sai che sono pronto anche a seppellire un cadavere per te.»
Alec rispose con un sorriso grato – invaso dal calore di un affetto radicato sin dentro le ossa – ed inspirò «Ho incontrato Magnus un paio di settimane fa» espirò «E mi ha baciato.»
Quando provava a mettere a fuoco i dettagli di quella notte, Alec riusciva soltanto a visualizzare linee sfocate e contorni nebulosi. Le parole che s’erano scambiati restavano suoni indistinti nel frastuono della musica e in lui riecheggiava soltanto la memoria di una rabbia urlata a pieni polmoni e di accuse più taglienti di una lama.
Era un viluppo di confusione, risentimento, collera e attrazione – e tutte insieme, infide e ammaliatrici, avevano soggiogato la ragione e caldeggiato l’irrazionale fascino del male, esponendo Alec alla mercé dei suoi desideri più reconditi.
La sua bussola morale aveva puntato a sud e il Peccato l’aveva raggiunto ancor prima che imboccasse la strada lastricata di tentazioni. Le fauci del suo inferno l’avevano azzannato e Alec s’era arreso al gusto familiare della distruzione, abbandonandosi in un atto sadico alle labbra che gli avrebbero iniettato il più letale dei veleni.
Privo di cognizione, non avrebbe potuto prevedere gli effetti di quel morso fatale. Non poteva sapere, mentre il passato divorava ferocemente anni di sforzi, che il senso di colpa si sarebbe legato come un cappio attorno al suo collo e ogni giorno si sarebbe stretto sempre un po’ di più, sino a fargli mancare il respiro e desiderare la fine di quell’agonia. Non poteva immaginare, con il sapore di un altro a riempirgli la bocca, che avrebbe provato ribrezzo e repulsione verso se stesso, che strofinarsi i denti fino a farsi sanguinare le gengive non avrebbe cancellato le tracce del tradimento, che l’onta avrebbe marchiato il suo animo come i tatuaggi sulla sua pelle.
Era caduto nell’errore peggiore che potesse commettere: aveva danneggiato l’unica persona che fosse riuscita ad amare dopo che il suo cuore era andato in frantumi – l’unica per cui aveva deciso che valesse la pena correre il rischio di farsi male.
Sentendosi degno del migliore dei masochisti e del peggiore degli uomini, si accasciò sul tavolo e aspettò pazientemente una reazione da parte di Jace.
«Cazzo» lo sentì mormorare dopo un tempo che gli parve infinito, mentre sbatteva ripetutamente le palpebre e boccheggiava in cerca di altre parole, ma «Cazzo» finì per ripetere, ancora preda dello shock.
Alec sospirò, consapevole di dovergli dare tempo per realizzare quanto accaduto «Già, cazzo
«Ralf lo sa?» chiese Jace «Aspetta, è per questo che sei stato così male due settimane fa?» domandò, senza dargli tempo di rispondere «Ah!» esclamò poi, puntandogli un dito contro «Ecco perché ieri non hai dato di matto alla notizia del ritorno di Magnus!»
Alec annuì «Sì, è per quello e no, Ralf non lo sa, ma ha capito che c’è qualcosa che non va.»
«Se n’è accorto chiunque, Alec. Hai passato intere giornate chiuso in te stesso» sottolineò, in un tono accondiscendente «Ma cosa è successo?»
«Sai che sono solito andare a casa – nella casa di Brooklyn – per fare il profumo, no? Sono salito e l’ho trovato lì, credo sia stato uno shock per entrambi. Mi ha detto di essere appena tornato da Parigi e che aveva intenzione di contattarmi per parlare… e sai cosa ho scoperto? Che ha deciso di trasferirsi a New York perché ha capito che non può più vivere lontano da Max. Se n’è reso conto dopo tre anni! Normale, no?» chiese con una risata amara.
«E quindi cosa vuole? L’affidamento congiunto?»
Alec si strinse nelle spalle «Non ne ho idea, tutto il rancore che provo per lui è tornato a galla e abbiamo iniziato a litigare. Sinceramente, ero convinto ci saremmo presi a pugni, non so dirti come ci siamo ritrovati a baciarci» sospirò «Lui ha baciato me» specificò immediatamente «E io potrei essermi fatto trasportare più di quanto non dovessi» ammise in uno sbuffo «Non basta che torni per incasinare la vita di Max, deve anche incasinare la mia relazione!»
Jace annuì «Lo dirai a Ralf?»
Alec aveva avuto modo di riflettere su cosa era accaduto e su tutte le possibili conseguenze. Una parte di sé, la più egoista nonché unica detentrice di uno spirito di conservazione, avrebbe voluto semplicemente ignorare l’insignificante errore di pochi attimi di confusione, adducendo la colpa a qualche scusante poco credibile; l’altra parte, quella che soccombeva ogni volta che Ralf gli sorrideva o esprimeva il suo amore, voleva semplicemente liberarsi di quel peso che lo stava opprimendo.
Alec sapeva di poter semplicemente scaricare tutta la colpa su Magnus – dopotutto, era stato lui a baciarlo. Ma – ma Alec aveva ricambiato e non si era scansato, non subito, almeno.
In verità, seppur tentato dall’amor proprio, non aveva davvero titubato sulla decisione che avrebbe preso: era profondamente innamorato di Ralf e non avrebbe sopportato l’idea di vivere una relazione basata sulla menzogna.
«Gli dirai la verità» dedusse Jace «Siamo Lightwood, spacchiamo nasi…»
«E ne accettiamo le conseguenze» finì Alec, certo che avrebbe capito.
Il biondo gli regalò un sorriso fugace e spalmò la marmellata su un biscotto, masticandolo lentamente con aria pensosa.
Alec lo conosceva talmente bene da sapere che stesse elaborando quanto appreso, collegando tutte le informazioni che aveva in possesso per cercare la spiegazione più logica a ciò che era successo. Poteva vedere gli ingranaggi della sua mente ripercorrere la storia tra lui e Magnus, l’arrivo di Max, il periodo oscuro che aveva vissuto, il ritrovamento di un equilibrio e la speranza di un nuovo amore, l’arrivo di Ralf e l’autentica felicità – e poi ripercorrerli al contrario, analizzando quei passaggi alla ricerca di un punto che gli spiegasse l’unica domanda a cui non riusciva a trovare risposta.
«Ma perché?» sbottò infatti, innervosito più con se stesso che con Alec «Perché hai permesso che ti baciasse dopo tutto quello che ti ha fatto?» domandò, centrando il punto principale dei tormenti del fratello.
Alec scosse la testa «Non ne ho idea.»
Jace lo scrutò con aria circospetta «E Magnus?»
«Magnus cosa?»
«Dopo il bacio, pensi di… insomma tu-»
«Vuoi sapere se provo ancora qualcosa per Magnus?» chiese, corrugando la fronte.
Il biondo si trovò ad annuire, le spalle contratte da un nervosismo prevedibile.
«Solo odio, Jace» lo tranquillizzò, con un sorriso tirato.
Jace sollevò le sopracciglia «E non lo hai più sentito?»
«Ieri è stata la prima volta che l’ho rivisto.»
«E sei crollato, Alec» gli fece presente, come a metterlo in guardia dalla superficialità con cui affrontava la questione.
«Sono crollato perché vederlo mi ha ricordato di aver tradito Ralf. È Ralf che ho paura di perdere, Jace. Di Magnus non m’importerebbe niente, se non fosse il padre di mio figlio.»
Jace annuì ma l’occhiata che gli indirizzò parlava chiaramente: bugiardo, diceva, e Alec non poteva darvi torto.
 
 
 
Un vento fresco soffiò sulle coste dell’East River, raffreddando l’immensa distesa d’acqua e portando Alec a rabbrividire nella sua felpa sbracciata. Poggiato contro la ringhiera arrugginita, osservava il sole nascondersi dietro i grattacieli dell’isola di Manhattan, perso nella speranza di poter far tramontare anche il suo tormento.
Aveva passato l’intera giornata con Max, lasciandosi distrarre dalla sua iperattività, facendosi coinvolgere in qualsiasi gioco il figlio gli proponesse, grato che fosse lì a non farlo sprofondare nella sua stessa inquietudine, a ricordargli quale fosse la ragione della sua esistenza.
Max riusciva sempre a risollevare il suo umore, talvolta anche la sua sola vicinanza era sufficiente per alleviare un dolore – Alec avrebbe affrontato l’inferno per vedere quel sorriso capace di illuminargli il cuore.
Riscosso dalla brezza che gli sferzò il viso, dedicò un ultimo veloce sguardo all’incantevole panorama prima d’alzarsi il cappuccio sulla testa e riprendere la sua corsa, riflettendo sulle parole giuste da usare prima di affrontare Ralf. 
Avrebbe voluto seguire la scia più ottimista di pensieri, credere che Ralf avrebbe compreso la situazione e che non ci sarebbero state grandi ripercussioni nel loro rapporto, ma Alec non era mai stato un sostenitore del lato positivo – piuttosto, un fedele seguace della legge secondo cui se c’era la possibilità che qualcosa andasse male, allora certamente sarebbe andata male.
La sempre più vivida realizzazione che quella sera avrebbe potuto perdere tutto – il suo compagno, quella che considerava ormai una seconda casa, la stima dei suoi genitori, una figura di riferimento per Max – riuscì a farlo tremare al punto da costringerlo a fermarsi e rimettere in un’aiuola, cacciando l’ansia che da settimane continuava ad attanagliargli lo stomaco.
In quanto capo di una delle aziende più importanti di New York, Ralf avrebbe potuto interferire nella sua carriera e strappare il contratto da miliardi di dollari tra la Praetor Lupus e la Penhallow Fell, danneggiando così l’intero studio legale.
Lo sconforto fu seguito da un altro conato e poi da un altro ancora, finché dentro non rimase nulla – niente, se non disgusto per se stesso.
Ma Ralf meritava di conoscere la verità, glielo doveva.
Varcò la soglia di casa animato dalla certezza che quella sera, dopo aver messo Max a letto, nessun malessere avrebbe potuto fermarlo dal parlare con Ralf, ma dovette bloccarsi quando, ad un passo dall’ascensore, due braccia sottili gli avvolsero il busto.
«Alec!»
La voce squillante di Isabelle lo colse di sorpresa.
«Ehi» la salutò, confuso.
«Non dare di matto» lo avvertì frettolosamente «Mamma ha invitato Ralf a cena.»
Alec sgranò gli occhi e si precipitò nel soggiorno per verificare le parole della sorella.
Ralf era seduto sul divano e, dal completo formale che indossava, Alec dedusse che fosse stato costretto a recarsi a lavoro anche quella domenica. La giacca era stata abbandonata sulla poltrona e la cravatta era stata allentata, ma mostrava una compostezza che lasciava trasparire il suo reale disagio.
Teneva un joystick tra le mani e la lingua stretta tra i denti, in quell’espressione concentrata che assumeva ogniqualvolta veniva sfidato dal piccolo Max alla playstation – non che battere un bambino di quasi quattro anni fosse un’azione poi così difficile.
Il piccolo al suo fianco, seppur mostrasse una postura più rilassata, era assorto dalla partita almeno quanto l’adulto: gli occhioni azzurri erano incollati allo schermo e le labbra sottili distese nel sorrisetto di chi sapeva già di avere la vittoria in pugno – inconsapevole di non aver ancora capito il reale funzionamento del joystick.
Alec non era abituato a vederli interagire pacificamente: per quanto Ralf tentasse d’approcciarsi a Max per instaurare un legame più profondo, il bambino continuava ad innalzare muri, dimostrandosi disinteressato a creare un rapporto che andasse oltre una mera tolleranza.
Quando s’accorse del suo arrivo, Ralf sollevò lo sguardo dalla televisione e gli rivolse il più caloroso dei sorrisi, un bentornato che era sempre capace di sciogliergli il cuore.
L’attimo dopo, per una fortunata coincidenza, il giocatore di Max segnò il punto finale e Ralf si ritrovò a sbuffare un’innocua imprecazione che fece ridere il bambino.
«Mi hai distratto» lo accusò, assottigliando gli occhi.
Alec inarcò un sopracciglio ma si trattenne dal commentare. I suoi piani erano appena andati in fumo: non avrebbe mai potuto affrontare quella conversazione in casa sua, con Max e la sua famiglia presenti.
Ralf, mal interpretando la titubanza del ragazzo, mise su un sorrisetto soddisfatto «Mi devi un bacio, adesso» dichiarò, facendogli segno d’avvicinarsi con un dito.
Il moro gettò un’occhiata a Isabelle, che era tornata ad aiutare sua madre in cucina, e a Max, impegnato a godersi la musichetta della vittoria. Baciare Ralf davanti alla sua famiglia gli creava un certo imbarazzo, ma il suo compagno aveva sempre riso di quella sua incertezza – “L’amore non prova vergogna, Alec. E io ti amo così tanto da poterti baciare ovunque e davanti a chiunque”.
Mise una mano sullo schienale del divano e si chinò per incontrare le labbra di Ralf in un bacio a stampo, sorridendo quando l’uomo gli sussurrò “Ciao, piccolo” e ritraendosi quando sentì Max sbuffare la sua disapprovazione.
Alec roteò affettuosamente gli occhi, passandogli una mano tra i riccioli scuri «Ti stai divertendo?»
Il bambino si strinse indifferentemente nelle spalle «Giochi tu con me?»
Alec sorrise «Vado a farmi una doccia e sono dei vostri» disse, sfuggendo allo sguardo innamorato di Ralf.
Raggiunta la propria camera, Alec si lasciò cadere sul letto, stremato dal peso di quel segreto che ancora era costretto a mantenere. Aveva la sensazione che più tempo passava, più le conseguenze sarebbero state dolorose.
Per questo non poté che sorprendersi quando Ralf, raggiungendolo in stanza, si affrettò a chiudere la porta e correre verso di lui, stringendolo tra le braccia.
«Tua madre mi ha incastrato» sospirò, fraintendendo il suo umore «Ho capito che c’era qualcosa che non andava.»
Alec annuì «Non è questo, sai di essere libero di venire qui quando vuoi.»
«D’accordo» acconsentì Ralf «Allora qualsiasi cosa sia, può aspettare domani.»
Alec aprì la bocca per ribattere, ma lo sguardo deciso dell’uomo lo fece desistere dall’insistere.
«Questa cosa può aspettare ancora un giorno, mh?» sussurrò, baciandogli la fronte «Fatti la doccia, ti aspetto di là.»
Alec rimaste stordito, incerto sulle implicazioni di quella frase: Ralf voleva un’ultima sera di normalità perché il giorno dopo si sarebbero lasciati? O, al contrario, non aveva idea di cosa lo stesse tormentando e credeva di dover affrontare l’ennesimo ostacolo che avrebbero risolto con una semplice chiacchierata?
Il dubbio non riuscì a dargli tregua, portandolo a crogiolarsi in una lenta tortura che si prolungò per tutta la serata. Non poteva fare a meno di chiedersi, mentre Isabelle gli raccontava dei suoi drammi lavorativi e Max cercava di fargli cadere il peperoncino sulla pizza, se quella sarebbe stata l’ultima volta in cui avrebbe avuto la possibilità di vedere Ralf in un contesto così familiare.
Credette persino di impazzire quando, seduti sul divano a guardare un film, Ralf allungò un braccio oltre il corpicino semiaddormentato di Max e prese a carezzargli distrattamente i capelli, in un gesto che Alec aveva dichiarato d’amare.
La giornata si concluse a casa di Ralf con certezza che, pur trovandosi sullo stesso pianeta, i loro cuori girassero su orbite completamente diverse.
 
 
 
Quella mattina di fine giugno a ridestare Alec dal sonno fu un insolito dolore al braccio sinistro. Aprì lentamente gli occhi, cercando di abituarsi alla luce che inondava la stanza, e abbassò la testa per capire cosa gli stesse provocando quel fastidio.
Emise un verso a metà tra una risata ed un lamento quando notò Max, con addosso ancora il suo pigiamino di Spiderman, sostare a quattro zampe ai piedi del letto e mordergli la pelle oltre la striscia sottile del bracciale che non toglieva mai. 
«Potresti mollare la presa, Maxibau?» mormorò, voltandosi verso suo figlio.
Max scosse la testa, continuando a tenere i suoi dentini conficcati nel polso di Alec.
Il ragazzo sospirò, allungando l’altro braccio per solleticare il fianco del bambino e fuggire dalla sua morsa. Consapevole dell’attacco che sarebbe arrivato, rotolò dall’altro lato del letto, guadagnando un piccolo vantaggio su Max ed inchiodandolo con una sola mano al materasso.
«Fregato» lo sbeffeggiò, attento ad evitare i suoi calci.
Max continuò a ribellarsi finché non sbuffò e si arrese «Ralf ha detto sveglia papà.»
«Sai, non c’era bisogno di entrare in modalità canina per farlo» lo canzonò, senza nascondere il proprio divertimento.
Il bambino si lasciò andare ad una risata allegra prima di saltargli al collo e farsi stringere nell’immancabile abbraccio del buongiorno, un rituale di cui Alec non avrebbe mai potuto privarsi.
«Ultimo che arriva in cucina è pollo!» urlò poi Max, sgusciando fuori dalla sua presa e correndo lungo il corridoio.
Alec lo inseguì all’istante, ma, quando raggiunse la cucina, si pentì amaramente d’aver lasciato il letto senza prima controllare in che condizioni fosse.
Compostamente seduta su uno sgabello, in un aderente tailleur lilla, Camille Belcourt sorseggiava lentamente il suo caffè. Il caschetto biondo le ricadeva sulle spalle esili e gli occhi verdi percorrevano senza esitazione ogni centimetro del corpo di Alec, in quel momento coperto da un paio di boxer.
Le labbra sottili s’alzarono in un sorrisetto compiaciuto «Buongiorno a te, bocconcino.»
Alec roteò gli occhi «Camille» ricambiò, privo di qualsiasi entusiasmo «Che ci fai qui?»
«Sono venuta a portare dei documenti a Ralf» rispose, stringendosi nelle spalle.
Alec lanciò un’occhiata a Max, in bilico su una sedia mentre tentava di raggiungere i biscotti sulla mensola più alta. Scattò in sua direzione, afferrandolo per i fianchi l’attimo prima che cadesse all’indietro.
«Biscotti!» ordinò, indicandoli.
«Come si dice?» domandò Alec, mentre Ralf entrava in cucina già vestito per andare al lavoro.
«Che noia!» esclamò il bambino, suscitando l’ilarità della donna «Papà, pe’ favore, mi dai i biscotti?»
Il moro lo accontentò, rimettendolo a terra e lasciando che scappasse fuori dalla cucina con il pacco stretto tra le braccia, diretto verso la tv del soggiorno dove Ralf gli aveva già preparato la solita tazza di latte al cioccolato.
«Camille, smettila di ridere» la rimproverò Ralf, avvicinandosi ad Alec ed afferrandogli il braccio «E già che ci sei, sforzati di mostrarti un po’ meno interessata al mio compagno» sbuffò, sfiorando con le dita i segni attorno al polso di Alec.
«Un regalo di Max» spiegò il ragazzo, sottraendosi alla presa quando Ralf provò a scostare il bracciale.
Ralf annuì, allungandosi per lasciargli un bacio sulle labbra «Vado a finire di prepararmi» disse, prima di allontanarsi «Camille, non lo molestare.»
«Non posso promettertelo» rispose la bionda, con un ghigno malizioso.
Alec ignorò la provocazione della donna e si spostò verso la macchinetta del caffè, cacciando il necessario per prepararsi la colazione.
«Ma guardati, tutto a tuo agio nella casa di mio marito.»
«Ex-marito» la corresse Alec, senza voltarsi a guardarla.
«Ex, certo» lo accontentò «Non posso biasimarlo, dopotutto. Quale pazzo non vorrebbe sfoggiare un ragazzino attraente al proprio fianco? Sei il suo trofeo più importante, il più invidiato, lo sai?»
«Non sono un trofeo.»
Camille ridacchiò «E cosa pensi di essere?»
Alec si trattenne dal riversarle addosso la sua frustrazione, consapevole che farlo crollare fosse l’unico obiettivo di Camille. Non aveva capito perché traesse così tanta soddisfazione dal provocarlo, né se sotto quelli attacchi si nascondesse un odio profondo o una risentita gelosia. Qualsiasi fosse la motivazione, la trovava insensata: Camille aveva già rotto con Magnus quando loro s’erano conosciuti e, allo stesso modo, aveva già divorziato da Ralf quando si erano incontrati. Alec era sempre arrivato dopo, non vedeva quale ragione avesse la donna per essere così infastidita dalla sua presenza – a rigor di logica, avrebbe dovuto essere il contrario.
Non poteva neppure trattarsi di una questione lavorativa, tantomeno di prestigio: Camille aveva un ruolo importante nella Praetor Lupus, una funzione che le permetteva d’essere invitata a tutti gli eventi di spessore e mantenere i rapporti con i personaggi più celebri del mondo della moda.
«Sei proprio ingenuo, bocconcino» sospirò, scuotendo la testa «Quando capirai come stanno davvero le cose, sarà troppo tardi.»
Alec era pronto a ribattere che non gliele importava nulla di quel suo mondo, che lui e Ralf non sottostavano alla finzione dell’universo dell’apparire da cui tutti sembravano ossessionati, ma accolse la suoneria del suo telefono come un segno del destino – lascia perdere, Alec, non ne vale neanche la pena.
Corrugò la fronte quando vide il nome della Penhallow Fell sullo schermo, certo di non doversi presentare in studio prima di un paio d’ore. Pensò persino di non rispondere, ma sapeva di non avere alternative: lavorare nello studio legale più prestigioso di New York implicava fare dei sacrifici, soprattutto quando si era gli ultimi arrivati e si voleva dimostrare di non essere stati in alcun modo raccomandati.
«Pronto?» rispose, recandosi in soggiorno per allontanarsi dalle orecchie indiscrete di Camille e passando distrattamente una mano tra i ricci di Max, intento a consumare la sua colazione dinnanzi ad un cartone – e sparpagliando le briciole dei biscotti su tutto il tappeto.
«Alec! Oh, Alec, menomale che hai risposto! So che stamattina non devi lavorare, ma c’è assolutamente bisogno di te qui.»
La voce di Vivienne, la giovane segretaria che gestiva i casi affidati allo studio, era marcata da un evidente dispiacere – e dal solito caotico fervore.
«Quanto è urgente?» domandò Alec, lasciandosi cadere sul divano.
«Molto, molto urgente! Urgentissimo, direi.»
Alec sospirò, portandosi due dita a stringere la radice del naso «Va bene» acconsentì – come se potesse fare diversamente «Dammi una mezz’ora e arrivo.»
«Grazie, grazie, grazie!»
Senza lasciarsi abbattere dallo sconforto di non poter passare più tempo con Max, Alec saltò in piedi e corse verso il bagno della camera da letto per una doccia veloce. Dopodiché si recò nella cabina in cui Ralf gli aveva fatto un po’ di spazio per mettere i suoi vestiti, afferrando il primo completo su cui le sue mani si andarono a posare.
Il vantaggio d’essere il compagno del direttore della Praetor Lupus era certamente il non doversi preoccupare del suo abbigliamento: Ralf, consapevole della sua avversione alla moda e stufo di vedergli addosso camicie bianche, aveva insistito per fargli confezionare una serie di completi che Alec doveva solo compiere lo sforzo di indossare.
«Pensavo non dovessi lavorare prima delle dieci» disse Ralf, entrando in camera e raggiungendolo dinnanzi allo specchio, facendo combaciare il suo petto con la schiena di Alec.
«Lo pensavo anch’io» sospirò il minore, aggiustandosi la cravatta «L’arpia se n’è andata?»
«Non ancora, mi sta aspettando» ridacchiò «Ti ha dato fastidio?»
Alec accennò un sorriso «Non più del solito.»
Ralf gli lasciò un bacio tra i capelli «Stasera ordiniamo cinese e parliamo?»
Alec s’irrigidì «Sì» rispose con un filo di voce.
«Non c’è niente che non si possa risolvere, capito?» domandò, stringendolo un po’ più forte.
Il ragazzo si voltò, abbracciandolo e sprofondando la testa nell’incavo del suo collo.
«Ti amo» sussurrò Ralf, baciandogli una spalla.
Alec deglutì a fatica «Ti amo anch’io.»
 
 
 
La sede dello studio legale si trovava agli ultimi piani di un grattacielo tra la Sesta e la Cinquantaseiesima, a Midtown Manhattan. Vi si accedeva da una porta girevole – la stessa in cui Max passava ore a giocare – che dava su un enorme openspace riservato al centro informazioni circa le diverse aziende presenti nell’edificio.
Alec non perse tempo a salutare gli impiegati al di là del bancone e s’avviò verso la guardia di turno che, controllato il suo tesserino, gli permise di prendere l’ascensore e raggiungere i piani della Penhallow Fell.
Quando vi arrivò, venne accolto dalla solita melodia rilassante che riecheggiava nella maggior parte degli ambienti, un invito alla calma sia dei clienti che aspettavano il loro appuntamento nella sala d’attesa, sia degli avvocati che tendevano a farsi prendere dalla frenesia giornaliera.
Rivolse un saluto educato a Hetty – la receptionist che occupava uno sgabello oltre l’imponente scrivania di legno noce posta nell’atrio – ed un sorriso di circostanza ai clienti seduti sui divanetti in pelle bianca, incamminandosi poi lungo il corridoio che lo avrebbe condotto alla zona riservata agli uffici. Questa era preceduta da un androne in cui spiccava una massiccia scrivania oltre cui sedeva Vivienne, la neoassunta segretaria a cui spettava il compito di svolgere determinate pratiche amministrative ed incastrare in una scaletta ben oleata gli appuntamenti giratole dai soci per la gestione degli ambienti comuni.
Alec si avvicinò alla giovane donna dai capelli biondo fragola e grandi occhioni castani, capaci di esprimere una dolcezza tale da evitarle i rimproveri che tutti gli avvocati avrebbero voluto indirizzarle per il perenne disordine che regnava attorno alla sua figura e che si proiettava di riflesso su tutti loro – gli occhioni, e l’essere la nipote di due soci della Penhallow Fell.
«Per te» disse, poggiando sul bancone un bicchiere di camomilla preso al chioschetto all’angolo della strada «Ti ho sentita molto agitata al telefono, devi aver avuto una mattinata terribile.»
Nonostante la mancanza di un’adeguata formazione per il ruolo che ricopriva e il costante ritardo con cui arrivavano le sue e-mail, Alec pensava che stesse svolgendo un lavoro discretamente buono: non era facile restare a galla in quel tipo d’ambiente, dove tutto era scandito in tempi rigidi e non era ammesso margine d’errore. Persino lui, che in mezzo a quel trambusto organizzato ci era cresciuto, aveva avuto qualche difficoltà ad abituarsi alla vita d’ufficio e ai suoi ritmi deliranti.
Gli occhi della giovane donna lasciarono il computer per sollevarsi su Alec e indirizzargli uno sguardo incredulo «Ma sei reale?» domandò, prendendo immediatamente un sorso «Mi dispiace così tanto di averti disturbato, ma Fell mi ha praticamente costretto a chiamarti.»
Alec s’irrigidì «Ha detto per cosa?»
«No, mi dispiace» rispose «Fell ti aspetta nel suo ufficio.»
Alec le rivolse un sorriso di cortesia e s’incamminò verso l’ufficio di uno dei due fondatori dello studio. Decise di passare prima dalla propria postazione – ovvero uno dei cinquanta cubicoli che si trovavano nell’openspace a pochi passi dalla scrivania di Vivienne – e lasciò cadere distrattamente la propria borsa sulla sedia in pelle bianca. Sistemò già il proprio portatile sulla scrivania in vetro laccato e regolò il colore delle ampie vetrate alle sue spalle per evitare d’essere infastidito dall’accecante luminosità proveniente dall’esterno.
Alec adorava la sua postazione: le linee eleganti e le tinte tenui erano le stesse che si riproponevano per tutto lo studio, ma si era assicurato di rendere quello spazio meno freddo degli altri, disponendo fotografie su ogni superficie disponibile e sistemando nella piccola libreria sulla destra la sua collezione di classici preferita. Inoltre, Isabelle vi faceva spesso irruzione, sistemando una pianta d’arredo in un angolo o lasciandovi oggettini decorativi per dargli un tocco di vivacità – senza escludere i giocattoli di Max che, di tanto in tanto, sbucavano da dentro i cassetti. 
Gli uffici dei soci erano di tutt’altro spessore, ma tutti accomunati da grandi vetrate – a Jia e Ragnor era sempre piaciuta la politica della trasparenza – per cui Alec riuscì a scorgere il vero motivo di quell’incontro anche prima di entrare nell’ufficio di Fell.
Un impulso prepotente si insidiò tra i suoi pensieri e gli suggerì di assecondare la necessità di picchiare Magnus per tutti i problemi che gli aveva provocato sino a quel momento, ma la sua mente gli ripropose in fretta il risultato dell’ultima volta che aveva ascoltato la sua parte più emotiva e lo scoraggiò dal farlo.
Alec strinse i pugni e serrò la mascella mentre avanzava all’interno dell’ufficio. Magnus era seduto al posto di Fell, indossava completo eccentrico sui toni del verde e aveva sistemato i capelli in una cresta cosparsa di glitter.     
Quando furono uno di fronte all’altro, Alec ebbe l’opportunità di osservare il verde-dorato dei suoi occhi, macchiati da un turbamento talmente profondo che persino uno sconosciuto avrebbe potuto riconoscere – e occhiaie così evidenti che neppure il trucco era capace di coprire.
«Te ne devi andare» disse, cercando di mantenersi calmo «Qualsiasi cosa tu voglia dirmi, non mi interessa.»
Magnus sospirò, passandosi una mano sul volto prima di poggiare i gomiti sul tavolo «Dobbiamo parlare e non me ne andrò finché non l’avremo fatto.»
Se c’era una cosa che Alec aveva sempre apprezzato di Magnus, era l’incapacità di perdersi in giri di parole. In quel momento, però, realizzò che avrebbe desiderato un avvertimento prima di venir scaraventato nella prospettiva di dover affrontare una conversazione a cui aveva anche solo evitato di pensare per settimane.
Una parte di sé, inoltre, non poteva che irritarsi per il modo in cui Magnus s’era espresso, quella supponenza che aveva mostrato nell’andare lì a impartire ordini come se avesse ancora qualche diritto su di lui.
«Io non ho alcuna intenzione di parlare con te» chiarì, irrigidendosi «Hai coinvolto Ragnor in questa faccenda? Mi hai fatto chiamare con urgenza! Ho dovuto lasciare Max da Isabelle di corsa!» e stavolta non si preoccupò di tenere il tono basso.
Il maggiore roteò gli occhi «Ma è proprio di Max che voglio parlare! Sapevo che questo era l’unico modo per beccarti da solo» rispose, incrociando le braccia al petto «Ti ho dato tempo per elaborare la notizia del mio ritorno, non ti ho messo pressioni, ma sono qui e voglio vedere mio figlio.»
Alec si aprì in una risata sarcastica «Ah, ora vuoi parlare di tuo figlio?» domandò sprezzante «Bene, parliamo di come te ne sei fottuto della sua esistenza e hai preferito il tuo lavoro volandotene a Parigi!»
Il dolore macchiò repentinamente lo sguardo di Magnus, ma venne subito scacciato da un’emozione più forte: la rabbia «Abbiamo già affrontato questo discorso, Alec! Non puoi accusarmi di avervi abbandonato quando ti avevo supplicato di venire con me. In quel momento dovevo fare quella scelta, lo sai.»
«La scelta di preferire il tuo lavoro alla tua famiglia» ribadì l’altro, serrando la mascella.
Magnus scosse la testa «Va bene, incolpami, non mi interessa.»
«Ti sto incolpando perché è colpa tua! Sei tu che sei andato via invece di cercare un compromesso!» sbottò, incredulo.
«L’unico compromesso che eri disposto ad accettare era la mia infelicità!» controbatté «E tanto per la cronaca, io ci ho provato molto più di te a farla funzionare, tu hai deciso che fosse finita nel momento in cui ho preso il primo aereo.»
«Sì, si è visto come ci hai provato, smettendo di tornare a casa scusa dopo scusa» ironizzò Alec «Sinceramente, Magnus, potresti almeno essere sincero con te stesso.»
«E tu potresti ammettere di essere stato un cazzo di egoista.»
«Egoista?!» proruppe, sbattendo le mani sulla scrivania «Le ho provate tutte per farti restare, ho accontentato tutti i tuoi capricci! Ma ad un certo punto ho dovuto pensare al bene di nostro figlio!»
«Sei un fottuto ipocrita» sibilò tra i denti «È per il bene di Max che hai deciso di farlo crescere a più di cinquemila chilometri da suo padre?»
«Nessuno ti ha costretto ad andartene, Magnus!» esclamò, infuriandosi «Tu hai deciso di far crescere tuo figlio senza un padre!» sbraitò, alzandosi dalla sedia con uno scatto nervoso.
Magnus lo seguì repentino «Vuoi prendetela con me perché me ne sono andato? Va bene, fai pure, ma sappiamo entrambi che se tra di noi non ha funzionato è stata per colpa tua.»
«Per colpa mia?» domandò con un filo di voce «Sai che ti dico? Non ha più importanza di chi sia la colpa. I fatti, però, parlano chiaro: tu sei andato via e io ho dovuto crescere Max da solo. Possiamo dimenticare il passato e andare avanti con le nostre vite?»
«Sì, come se potessimo» commentò, roteando gli occhi.
Alec prese un respiro profondo e cercò di regolare il proprio tono «Che cosa vuoi?»
Magnus deglutì a fatica «Voglio Max.»
«No.»
«Mi spieghi qual è il tuo fottuto problema?» domandò, avvicinandosi a grandi passi per spintonarlo «Se me ne vado non va bene, se torno non va bene lo stesso. Cosa vuoi che faccia?!»
«Il mio problema è che sei inaffidabile, Magnus!» urlò, colpendolo a sua volta sulle spalle «Non me ne frega un cazzo che adesso sei tornato, non posso permettere che Max soffra di nuovo per colpa tua! Sei qui da due settimane e già hai rovinato tutto!» lo accusò, rendendo chiaro il riferimento a quel bacio che mai avrebbero dovuto scambiarsi.
«Smettila di addossarmi tutta la colpa! Non ti ho puntato un coltello alla gola, non ti ho costretto a fare niente. Anzi, hai iniziato tu!»
«Tu mi hai baciato per primo!» scoppiò Alec, avvicinandosi minaccioso, spintonandolo fino a farlo trovare con le spalle al muro.
Magnus emise un respiro strozzato, sia per il colpo improvviso, sia per il volto di Alec incredibilmente vicino al proprio «Oh, certo, tu non ti sei affatto avvicinato fino a respirarmi sulla bocca, vero?» domandò in un bisbiglio.
Alec, con le mani premute sul muro ai lati del volto di Magnus per impedirsi d’alzarle su di lui, si trovò ad osservare le sfumature più impercettibili di quelle iridi verdi-dorate. Lì, sotto il velo della rabbia, s’agitava la scintilla che già una volta era riuscita a destabilizzarlo, a scuotere un’attrazione che pensava estinta e invece stava solo aspettando, sopita, d’essere risvegliata.
Il profumo di Magnus gli invase le narici, richiamando alla memoria ricordi lontani e spingendolo a compiere quel piccolo, quasi impercettibile movimento con la testa per captare meglio la fragranza.
Quando Magnus se n’era andato, Alec aveva continuato a produrlo da solo, ma non era mai riuscito a replicarlo alla perfezione. Adesso – come due settimane prima – era quel profumo ad invitarlo a farsi più vicino, ad inspirare l’odore che per mesi aveva rincorso su vestiti e cuscini e che alla fine aveva semplicemente smesso di cercare, accontentandosi della sua replica sbiadita.
Fu il respiro di Magnus a catturare poi la sua attenzione, a portare i suoi occhi alla fonte di quegli sbuffi d’aria calda. Si ritrovò ad osservare le labbra schiuse di Magnus, lucide per il trucco o per il morso a cui le aveva costrette fino a poco prima.
«Porca miseria» sbottò, posando la testa sul pugno chiuso, continuando a tenere il corpo di Magnus intrappolato sotto il proprio, cercando di combattere il prepotente magnetismo che gli impediva d’allontanarsi.
Il maggiore sospirò e il soffio del suo respiro andò a scontrarsi sul collo di Alec, facendolo tremare «Alexander» lo richiamò, spronandolo a guardarlo.
Obbediente a un’educazione inculcata nel tempo, il corpo di Alec reagì d’istinto e la sua testa scattò verso l’alto.
«Mi dispiace» sussurrò Magnus «Mi dispiace per tutto, ma non hai il diritto di togliermi Max.»
Il moro chiuse gli occhi, prese un respiro profondo e fece un passo indietro, staccandosi con decisione dal polo che lo calamitava nel verso opposto.
«Vattene via, Magnus.»
L’uomo esitò qualche secondo prima di avviarsi verso l’uscita, bloccandosi di nuovo ad un passo dalla porta.
«Non lo ripeterò, Magnus: vattene
Rimasto solo, Alec calciò la poltroncina e la fece ribaltare. Non era pronto ad accogliere Magnus nella sua vita, non era pronto a perdonarlo e, certamente, non era pronto a vedere Max legarsi ad un padre che, già una volta, lo aveva messo al secondo posto. Non poteva permettergli di rovinare l’equilibrio che aveva costruito così faticosamente negli ultimi tre anni – non poteva credere di essersi fatto baciare.
Si sentì nuovamente abbattuto da un’ondata di vergogna per il suo comportamento sconsiderato e per non aver ancora affrontato la questione con Ralf.
Doveva assolutamente risolvere quella faccenda il prima possibile – possibilmente smettendo di pensare alla tonalità del lucidalabbra di Magnus.
«Lightwood!»
Perso nei suoi pensieri, Alec non si era accorto dell’arrivo di Lily: con i lunghi capelli corvini legati in due codini bassi ed un paio di scarpette sotto il tailleur, dava l’impressione di un’eterna bambina pronta a vedere il lato più gioioso di qualsiasi situazione.
Forse era quella sua sproporzionata positività il motivo per cui Alec adorava lavorare con lei: riusciva ad equilibrare la propria rigida obiettività con il suo inesauribile entusiasmo, a fargli osservare le cose da una prospettiva più luminosa, evitandogli così di cadere in quegli scenari catastrofici che la sua mente era in grado di riproporgli.
«Oh-oh, qualcuno ti ha fatto arrabbiare?» domandò, affinando lo sguardo e rendendo i suoi occhi a mandorla quasi invisibili «Forse quell’adone contro cui stavi sbraitando qualche minuto fa? Che poi, a proposito, potevi evitare di renderlo così nervoso: volevo chiedergli una foto ma è corso via prima che potessi avvicinarmi. Lo so che tu sei abituato alla sua presenza, ma avresti potuto chiamarmi prima di litigarci! Insomma, è Magnus Bane!»
Alec si maledisse per quel pomeriggio in cui aveva raccontato la verità a Lily: la sua nuova amica, senza neppure l’intenzione di strappargli quell’informazione, era riuscita a guadagnarsi quello che aveva definito “lo scoop più succulento del secolo”.
Si era trattato di un momento di pausa tra una pratica e l’altra: Lily stava scorrendo i post su Instagram e dinnanzi ad una foto in cui Magnus sponsorizzava un paio di box firmati Louis Vuitton aveva mormorato un “Secondo me uno così deve essere proprio bravo a letto” e Alec, sovrappensiero, aveva mugugnato un “Infatti è così” che lo aveva portato a subire un interrogatorio alla fine del quale aveva dovuto ammettere, sconfitto, di aver avuto una storia con lui – un figlio, con lui.
«Mi puoi accompagnare in un posto senza fare domande?» domandò, controllando l’orologio sul polso.
«Di che si tratta?» chiese d’istinto, saltellando dalla curiosità «Ah, giusto niente domande. Posso dirlo a Maia?»
«Fallo e ti licenzio.»
«Non hai questo potere.»
«Fallo e ti costringo a fare le fotocopie da sola» rilanciò, consapevole dell’assurda fobia della sua amica di restare sola nella stanza delle fotocopiatrici.
Lily s’imbronciò «Cattivissimo» lo ammonì «Va bene, andiamo, cercherò di non fare domande. Quelle retoriche valgono?»
«Sì.»
«Le supposizioni ad alta voce?»
«Sì.»
«E se le canticchiassi?»
Alec roteò gli occhi, ma il suo sorriso rendeva impossibile fraintendere la gratitudine che provava nell’avere Lily al suo fianco: la sua perenne allegria era l’unica fonte di energia di cui aveva bisogno per arrivare alla fine di quella giornata.
 
 
 
 
 
Note dell’autrice
 
Rieccomi!
Ho trovato del tempo per revisionare il capitolo ed ho aggiornato prima di quanto pensassi!
Il primo incontro tra Magnus e Alec (beh, il primo dopo quel bacio) non poteva che essere turbolento e ancora carico della rabbia che da anni continuano a provare. La loro discussione mostra solo sprazzi di ciò che è successo nel passato, ma le intenzioni di Magnus sono chiare: vuole passare del tempo con suo figlio e farà di tutto pur di riuscirci – non è detto che Alec glielo permetta, però.
Ringrazio tutte le persone che hanno inserito la storia nelle seguite e nelle preferite e anche tutte coloro che hanno deciso di leggere queste pagine a cui tengo veramente molto!
A presto,
Traumerin

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Capitolo 3
*** Il valore delle parole ***


Una bugia ha bisogno di sette bugie.
 
CAPITOLO TRE
Il valore delle parole
 
Alec non ricordava come fosse nata l’abitudine di ordinare cibo cinese ogni volta che dovevano affrontare una discussione, né perché il fattorino fosse diventato consapevole di quella tradizione, ma dovette prenderne atto quando il ragazzo gli consegnò il suo ordine e una battuta incoraggiante.
Forse si era fatto sfuggire qualche lamentela di troppo – un errore inaccettabile per chi era cresciuto imparando a schivare le domande inopportune del signor Bernard – o forse gli occhioni ambrati del rider erano riusciti ad estorcergli più informazioni di quante avesse immaginato – e qui Alec non poteva che accusare il suo debole per i ragazzi asiatici.
«Temevo che aveste cambiato ristorante» ridacchiò il ragazzo mentre prendeva il sacchetto dallo zaino incastrato sulla bicicletta.
«Il vostro non è forse il miglior ristorante cinese di Manhattan?» domandò Alec, poggiandosi con una spalla alla colonna nell’atrio, realizzando che fosse passato più di un mese dall’ultima volta che lui e Ralf avevano discusso.
Il ragazzo – Tian – si strinse nelle spalle «Ha una buona concorrenza.»
«Sarebbe?»
Il castano corrugò la fronte per qualche istante, in un’espressione pensierosa che Alec non riuscì a non trovare tenera: Tian era appena oltre la soglia dell’adolescenza, ma l’età non era mai stata un deterrente agli impacciati tentativi di flirt.
Alec, che a venticinque anni aveva raggiunto piena consapevolezza del proprio aspetto e dell’effetto che aveva sulle persone – complice l’essere stato costretto ai riflettori per la sua relazione con Ralf – non poteva che sorridere delle attenzioni di Tian, lasciandosi la libertà di stuzzicare il ragazzino con provocazioni che sfumavano veloci nell’aria.
«Non posso dirtelo, altrimenti cambieresti ristorante e non ti vedrei più» rispose, compiaciuto dal suo stesso ragionamento.
Alec si lasciò andare ad una risata ilare «Tu sì che sai come ottenere quello che vuoi» commentò ironicamente, avvicinandosi per lasciargli una mancia generosa «Però magari non avrei cambiato ristorante lo stesso» aggiunse in tono più basso, indirizzandogli un occhiolino fugace.
Era pronto a fare retromarcia e lasciarsi quello sprazzo di divertimento alle spalle, quando avvertì la mano del ragazzo posarsi gentile sul suo braccio per richiamare la sua attenzione.
Alec gli rivolse uno sguardo interrogativo e Tian si grattò la nuca in imbarazzo, come se stesse cercando le parole giuste per chiedergli qualcosa.
«Avevo sperato che non ci steste più chiamando perché vi eravate lasciati» ammise, arrossendo appena «Troppo diretto?» chiese l’attimo dopo, notando lo stupore di Alec.
Il maggiore, ignorando la fitta al cuore, gli rivolse un’occhiata divertita «Un po’. E poi, se ci lasciamo, tu perdi un cliente.»
«Ma ci guadagno un ragazzo!» ribatté immediatamente, come se avesse avuto quella battuta pronta da un pezzo.
Alec scosse la testa in un moto di rassegnazione «Il tuo capo lo sa che vai in giro ad abbordare i clienti?»
«Solo i più belli» ammiccò sfacciatamente.
Il moro annuì, lasciandosi sfuggire un ghigno «D’accordo, ragazzino, ora vai a trovare qualcun altro da importunare» si congedò «E fai attenzione per strada.»
Soddisfatto della piega che aveva preso la conversazione, Tian s’aggiustò il casco sulla testa e lo salutò con un gran sorriso, riuscendo a trasmettergli un buonumore tale da fargli momentaneamente dimenticare che, ad una decina di piani più sopra, lo aspettasse una discussione che avrebbe potuto sconvolgergli la vita.
L’allegria sfumò nell’esatto istante in cui si trovò dinnanzi a Ralf, occupato a disporre tovaglioli e bicchieri sul tavolino del soggiorno, dove erano soliti consumare la loro ordinazione.
Contrariamente ad Alec, l’uomo indossava ancora gli abiti con cui si era recato al lavoro quella mattina, talmente abituato ad essere fasciato da pantaloni e camicia da non avvertirne neppure la scomodità mentre si sedeva a gambe incrociate sul tappeto.
«Tian ci ha provato ancora?» gli domandò, prendendo la busta e posando le scatole sul ripiano.
Alec gli rivolse un sorriso esasperato ed annuì, la gola improvvisamente secca ed incapace di emettere altri suoni.
«Alec, possiamo mangiare prima di parlare o hai lo stomaco chiuso?»
Accedeva puntualmente che si trovassero a mangiare cibo freddo: Alec era troppo nervoso prima di una discussione e l’unica volta in cui avevano provato a posticipare la litigata dopo la cena, aveva finito per vomitare. Ralf, al contrario, riusciva a gestire le sue emozioni così bene da non cedere mai alla sua parte più irrazionale, mantenendosi ponderato e obiettivo persino nei confronti più feroci.
Alec aveva avuto modo di notare che, con lui, Ralf non perdeva mai la calma. Lo aveva visto urlare maledizioni e gridare la sua rabbia in più occasioni, ma mai la sua ira si era abbattuta sul suo ragazzo con veemenza, al contrario. Alec aveva quasi desiderato che l’altro uscisse dal suo perenne stato di pacatezza, che non gli facesse fare la parte del ragazzino preda degli istinti incapace di controllarsi, ma il massimo che Ralf era riuscito a indirizzargli era stato un “vaffanculo” di cui si era scusato l’istante successivo.
Alec non aveva idea di come Ralf avrebbe reagito quando avrebbe saputo del tradimento, se sarebbe stato capace di sottostare al proprio autocontrollo o se, al contrario, avrebbe scatenato su di lui tutta la sua furia.
Quando l’uomo gli posò la mano sulla coscia, realizzò di non avergli risposto.
«Ralf…» sospirò, sfuggendo al suo sguardo.
Ralf gli accarezzò con insistenza la gamba «Alec, non c’è niente che tu non possa dirmi.»
Il ragazzo si sforzò di trovare il coraggio di guardarlo negli occhi, fidandosi delle iridi verdi a cui aveva affidato il suo cuore, consapevole di non poter più mantenere quel segreto.
«È successa una cosa che non avrei mai voluto accadesse» sussurrò, prima ancora di rendersene conto «Il mio ex mi ha baciato.»
Il volto di Ralf non si trasformò nella maschera di durezza che s’era aspettato, né il suo sguardo divenne glaciale al punto da fargli desiderare di disintegrarsi, tantomeno le sue mani s’allontanarono schifate dal suo corpo.
Ralf restò impassibile, come se Alec non avesse ancora parlato.
«Mh?» domandò dopo qualche minuto di silenzio.
Solo nel vedere la confusione nei suoi occhi, Alec realizzò di aver frainteso ogni segnale che gli era stato inviato: Ralf non aveva mai sospettato un tradimento.
«Alec, non ho capito. Che significa che il tuo ex ti ha baciato? In che senso?» domandò l’uomo, slacciandosi la cravatta e gettandola sul divano alle sue spalle «Lo hai allontanato?»
Alec prese un respiro profondo, cercando di regolarizzare il proprio battito. Aveva immaginato un’infinità di volte lo sguardo deluso di Ralf, aveva ripetuto le scuse che gli avrebbe rivolto, aveva persino messo in conto di dover gestire una reazione violenta, ma nessuna sua proiezione poteva competere con la realtà.
Lì davanti a lui, con gli occhi lucidi dalla rabbia e la bocca spalancata dalla sorpresa, c’era un uomo che si stava sgretolando sotto il peso di un suo errore.
Alec non poteva credere d’essere la causa di quel dolore, di essere diventato l’aguzzino della persona che amava: lo aveva condannato a diffidare di un passato indubitabile e a mettere in discussione quel futuro in cui si erano sempre ritratti insieme.
«Se è uno scherzo non è divertente» lo ammonì Ralf, alzandosi in piedi con uno scatto.
Alec sospirò, sollevandosi lentamente da terra e dandogli il tempo di metabolizzare le sue parole, certo che Ralf avesse capito che non si trattasse affatto di uno scherzo.
«Alec, rispondimi!» urlò, mettendogli le mani sulle braccia e scuotendolo «Che cazzo significa che il tuo ex ti ha baciato? Lo hai fermato?»
Il terremoto emotivo che attraversò Alec non fu minimamente paragonabile allo scossone a cui Ralf lo sottopose: il senso di colpa lo schiaffeggiò con una violenza tale da costringerlo a trattenere lacrime.
«Sì» sussurrò, con voce debole «Ma non subito.»
L’uomo gonfiò il petto e prese a camminare nervosamente per il soggiorno, reggendosi la testa tra le mani.
«Perché? Quando? Ma che cazzo- Perché lo ha fatto?» domandò, colto da una disperazione che l’altro non avrebbe mai potuto immaginare potesse affliggerlo.
«Ralf-» Alec fece un passo in sua direzione, ma dovette arrestarsi quando l’uomo gli indirizzò uno sguardo irato «Ti giuro che non ha significato niente
Ralf si irrigidì immediatamente, stringendo le braccia al petto come a voler tenere insieme tutti i pezzi di sé «Quando?»
«Un paio di settimane fa.»
«E non mi hai detto niente per tutto questo tempo?» sbottò.
Alec scosse la testa «Ci ho provato, davvero. Non ho mai voluto nascondertelo, non è mai stata mia intenzione» rivelò, frustrato «Io credevo – mi era parso di capire che tu avessi intuito qualcosa.»
Ralf sollevò entrambe le sopracciglia «Come cazzo potevo intuire questo?» domandò, esterrefatto «Avevo capito ci fosse qualcosa che non andava, ma pensavo avessi trovato l’anello e stessi pensando a come – Dio, Alec, come potevi pensare che avessi intuito che il tuo ex ti avesse baciato e starmene zitto e buono?»
Il minore corrugò la fronte «Che anello?»
«L’anello per – sai cosa?» si interruppe, scuotendo la testa «Non conta. Dimmi cosa è successo.»
«Ralf, credo che dovresti prima calmarti e-»
«Non me ne frega un cazzo di quello che credi tu, Alec! Sono a tanto così dal perdere completamente il controllo di me stesso: parla o giuro che vado a spaccargli la faccia adesso
Alec sapeva di cosa fosse capace Ralf, lo aveva visto perdere le staffe un’infinità di volte, ma adesso rimpiangeva tutte quelle in cui aveva desiderato che si mostrasse più coinvolto nella loro relazione – seppur una parte di sé, la più illogica e masochista, sperava in una reazione che pareggiasse i conti e allentasse quel laccio attorno al collo.
Erano poche le cose che non aveva condiviso con Ralf nel corso della loro storia: erano dettagli della sua vita passata che custodiva gelosamente, spazi in cui a nessuno era permesso l’accesso, abitudini radicate nel suo essere di cui era impossibile sbarazzarsi.
Erano piccolezze, ma Alec non aveva mai voluto rivelarle a Ralf, né aveva intenzione di farlo adesso. E non di certo perché non lo amasse abbastanza da raccontargli ogni suo segreto, ma perché aveva promesso a se stesso di non permettere a quella parte della sua vita di rovinare il suo futuro – perché nessuno avrebbe mai dato una possibilità ad Alec se avesse saputo di non poterlo mai avere completamente, che un frammento di lui sarebbe sempre rimasto in quell’appartamento di Brooklyn, vittima di un incantesimo di imprigionamento irrevocabile.
«Ho incontrato Magnus al Downworld. È stato inaspettato, abbiamo iniziato subito a discutere per Max e poi lui mi ha baciato. Mi ha colto di sorpresa.»
Alec sapeva di non poter pretendere il perdono senza la verità, ma non poteva raccontare a Ralf di aver incontrato Magnus nel suo appartamento – in cui aveva continuato ad andare negli ultimi tre anni – né di aver prolungato quel bacio, perché la notizia gli avrebbe inflitto un dolore da cui Alec voleva proteggerlo.
«Per quanto tempo?» chiese Ralf «Per quanto tempo vi siete baciati?»
Il minore si strofinò la fronte «Trenta secondi? Dieci? Un minuto? Non lo so, Ralf. Quando ho realizzato cosa stesse accadendo, l’ho allontanato.»
«Sapevo che Magnus fosse tornato, si vocifera che voglia aprire il suo marchio e Camille gli ha già messo gli occhi addosso ma, Dio, non pensavo di dovermi preoccupare del tuo ex!»
«Non devi!» esclamò Alec «Non so perché l’ha fatto, ma te lo giuro, Ralf, te lo giuro: io amo te. Quello che è successo è inammissibile anche per me e mi dispiace aver ricambiato il bacio, ma sono pronto ad accettare tutte le conseguenze» ammise, guardandolo dritto negli occhi «Ma se ho anche solo una piccola possibilità di essere perdonato per la mia parte di colpa, allora ti giuro che combatterò fino alla fine dei miei giorni per dimostrarti che non esiste nessuno all’infuori di te.»
Alec percepì all’istante il cambiamento d’umore di Ralf: la patina di collera abbandonò i suoi occhi, permettendo alla solita pacifica indulgenza di venire a galla.
L’uomo continuò a fare su e giù nel soggiorno, dopodiché si lasciò cadere sul divano e respirò profondamente, portandosi le mani tra i capelli.
«Ti credo, Alec» affermò, con un sospiro pesante «Ho già vissuto una relazione in cui mi sono fatto guidare dagli sbagli, non permetterò che accada con te» disse, con una determinazione che riuscì a destabilizzare l’altro «Se tu mi assicuri che ha significato davvero niente, allora va bene. Dopotutto, è stato lui a baciare te.»
Alec restò immobile.
Se nei giorni che avevano preceduto quella conversazione era iniziato a scivolare lentamente verso un sentiero in cui prima di quel tradimento non aveva creduto possibile poter ricadere, quella sera vi precipitò senza possibilità di scampo. Un varco angusto e a tratti invalicabile della sua stessa anima, un tragitto labirintico in cui erano posti gli inganni più insidiosi: le sue paure, quelle incertezze che aveva combattuto sino allo sfinimento.
Alec si ritrovò in questo squarcio di se stesso, costretto ad affrontare un viaggio che aveva già tracciato, passivo spettatore del film della propria esistenza: sfocate reminiscenze di quando era un ragazzino che non aveva il coraggio d’ammettere la propria omosessualità, il terrore di non valere abbastanza, la convinzione di essere niente che si era radicata dentro di lui dopo essere stato abbandonato.
Alec era uscito da quel groviglio di timori anni prima, ci aveva messo tempo a districarli tutti, ad assicurarsi di non restare più impigliato nella loro rete fallace, ma adesso, adesso che Ralf sembrava pronto a perdonargli il male peggiore che avesse mai potuto infliggergli, Alec non poteva che lasciarsi adescare dal richiamo suadente delle sue insicurezze.
Le parole di Camille tornarono a vorticargli assillanti nella testa: sei il suo trofeo più importante.
Alec rifiutava di credere che i sentimenti di Ralf fossero così superficiali da permettergli di oltrepassare incolume un tradimento. Eppure, era proprio lì davanti a lui, pronto a lasciarsi alle spalle un dolore evidentemente trascurabile, come se Alec gli avesse detto di aver dimenticato di innaffiare le piante e non di aver baciato un altro.
Era così insignificante?
Alec realizzò d’aver sperato in una reazione più impetuosa, una risposta che scacciasse una volta per tutte la sensazione che Ralf non lo considerasse abbastanza. Ma non lo aveva fatto, e ad Alec non restava che chiedersi se a Ralf veramente non interessasse soltanto tenerlo buono e lasciare che recitasse la parte del bravo fidanzato da mostrare con fierezza agli eventi dell’alta società newyorkese.
«Alec…»
Si rese conto di star trattenendo un pianto solo quando avvertì il pollice di Ralf raccogliere una lacrima dalla sua guancia.
«Dimmi che è stato solo un errore» lo pregò, chiudendo gli occhi e posando la fronte contro quella del suo compagno.
Alec non sapeva se stesse realizzando di aver ceduto troppo in fretta alle sue paure o se, per la prima volta, stesse prendendo consapevolezza di una verità che aveva sempre ignorato, ma gli fu subito chiaro di non aver intenzione di scoprirlo quella sera.
«È stato un errore» confermò, la voce priva di incertezze «Mi dispiace.»
Ralf si concesse un sospiro di sollievo ed un bacio alle labbra di Alec, tirandosi poi indietro con un piccolo sorriso ad increspargli le labbra.
«Ti perdono.»
Quella che avrebbe dovuto essere una liberazione, pesò come un macigno sul cuore di Alec.
Era sull’orlo di una crisi quando il suo telefono iniziò a squillare – lo afferrò come un’ancora di salvezza.
«Izzy?» rispose, confuso.
«Alec, è successo un casino!» urlò sua sorella con voce allarmata «Devi venire qui! Anzi, no, devi cercare Jace!»
«Jace? Che ha fatto Jace? Dove sei? Che è successo?»
«Sono al Downworld. Eravamo tutti qui, ci stavamo divertendo, poi è arrivato Magnus e Jace lo ho picchiato. Dio, Alec, lo ha massacrato. Siamo intervenuti tutti, Jace è scappato via, non risponde neanche a Clary.»
Alec registrò velocemente le informazioni: Jace, Magnus, massacro.
«So dove si trova» disse «Vado a prenderlo e ci vediamo a casa.»
«Riportalo da noi» fu la supplica che gli rivolse prima di chiudere la chiamata.
Alec prese un respiro profondo e si voltò verso Ralf.
«Devo andare. Jace è nei casini.»
«Che casini? Vuoi che venga con te?»
«No, ha bisogno di me» rispose, più duramente di quanto si aspettasse «Dormo a casa, l’ho promesso a Max. Mi dispiace per la cena.»
«Non fa niente» lo tranquillizzò Ralf, alzandosi e raggiungendolo «Mi mandi un messaggio per assicurarmi che sia tutto okay?»
Alec annuì, irrigidendosi quando Ralf gli posò un bacio sulle labbra e gli rivolse un sorriso sincero.
Assurdo – insignificante?
 
 
 
Alec aveva sempre odiato i cimiteri. Erano luoghi capaci di infondergli sensazioni spiacevoli e di evocare ricordi altrettanto infausti. Non aveva mai sentito il bisogno di recarsi sulla lapide di una persona cara per piangerne la morte, animato dalla certezza che lì vi fosse sepolto un corpo ormai privo di valore. Preferiva alzare la testa verso il cielo che abbassarla verso la terra, contemplando la possibilità di un aldilà invisibile in cui le anime di quelli che aveva amato continuavano a vivere, piuttosto che arrendersi all’idea che la loro esistenza si fosse interrotta solo perché congedati dal mondo materiale.
Una visione forse infantile della morte, in netto contrasto con lo scetticismo tipico della sua personalità, eppure era l’unica speranza a cui aggrapparsi per accettare la prematura scomparsa del suo fratellino – quella perdita che aveva lasciato un vuoto incolmabile nel suo cuore.
Erano pensieri che raramente occupavano la sua mente, perché la razionalità che lo aveva sempre dominato evidenziava l’inutilità d’interrogarsi su enigmi irrisolvibili, ma erano riflessioni che sorgevano involontariamente quando varcava la soglia del cimitero dove giacevano i corpi esanimi delle uniche persone che avesse mai perso.
Alec era un accanito sostenitore della legge, le aveva giurato fedeltà e rispetto, ma era prim’ancora un fratello e non c’era decreto che potesse competere con la lealtà verso Jace. Per questo si trovò a commettere un’infrazione in uno degli ultimi posti in cui avrebbe voluto trovarsi di notte. Tuttavia, il buio non rappresentò un ostacolo per il suo obiettivo e, scavalcato il muretto, percorse a passo spedito il sentiero che lo avrebbe condotto alla sua meta.
Alec sapeva che suo fratello lo stesse aspettando, ma si assicurò di fare rumore prima di affiancarlo per non coglierlo di sorpresa.
Jace era seduto sul terreno dinnanzi ad una cappella, il volto abbassato e le mani impegnate a strappare con rabbia i fili d’erba. Sollevò la testa quando avvertì una presenza al suo fianco e lasciò che il braccio di Alec scivolasse sulle sue spalle.
Il moro non fiatò quando Jace gli si raggomitolò contro e rimase in silenzio anche nel notare le sue nocche arrossate. Il suo pensiero non poté che volare a Magnus e al modo in cui doveva essere ridotto, venendo immediatamente pervaso da un forte senso di colpa: se non avesse messo tempestivamente Jace al corrente di quanto successo quella mattina, forse avrebbe potuto evitare che suo fratello arrivasse a scagliarsi fisicamente sul suo ex.
Era certo che Jace, nonostante l’odio che nutriva nei confronti di Magnus, fosse pentito del suo comportamento.
Alec ci aveva messo diverso tempo a capire il motivo per il quale, quando era turbato, Jace scappasse di casa per andare alla tomba dei suoi genitori. All’inizio credeva si trattasse del bisogno di sentirsi vicino alla sua famiglia di nascita, di ricordare la sua vita prima che venisse irrimediabilmente squarciata da quel dolore atroce. Alec lo aveva sempre seguito in silenzio – anche quando avevano appena finito di litigare, anche se l’unica cosa che avrebbe voluto fare era prenderlo a pugni – e sedevano lì, spalla contro spalla finché Jace non mormorava una battuta per alleggerire l’atmosfera.
Quando erano diventati fratelli, quando il dolore della perdita li aveva accomunati e Jace si era fidato di lui al punto da non volergli nascondere nessuna parte di sé, gli aveva fatto comprendere la verità sulla necessità di trovarsi in quel luogo: Jace sentiva il dovere di scusarsi, perché s’era ripromesso, nell’istante in cui aveva detto addio ai suoi genitori, che avrebbe fatto del suo meglio per non deluderli.
Mantenersi fedele a se stesso era uno dei cardini della vita di Jace ed era impossibile, per lui, non correre da Stephen e Celine a chiedere perdono quando sentiva d’essere venuto meno al suo impegno – e a Max, a cui aveva promesso di prendersi cura di tutta la famiglia.
Chiunque conoscesse Jace non avrebbe mai potuto indovinare che sotto quella maschera da duro e l’ironia pungente si nascondesse una tale fragilità – e ad Alec, in fondo, piaceva essere l’unico custode di quella parte così intima di suo fratello.
«Quando Magnus ti ha lasciato…» sussurrò Jace, spezzando la quiete notturna.
Alec venne colto da un brivido e suo fratello gli strinse una mano.
«Ho avuto paura di perderti» continuò il biondo, con la testa ancora poggiata sul petto del fratello «Dopo i miei genitori, dopo Max…» sospirò e serrò gli occhi «Sei stato così male quando Magnus se n’è andato che ho temuto di poter perdere anche te» disse, rivelando per la prima volta una paura che Alec gli aveva sempre letto nello sguardo «Ma ti sei ripreso. Ce l’abbiamo fatta, ce l’hai fatta. E ora lui torna e tu mi crolli davanti come se questi anni non ci fossero mai stati e io… io non posso permettere che ti faccia stare male di nuovo. Non potrei mai perdonarmelo se dovesse accaderti qualcosa. A te, o al piccolo Max.»
Alec lo strinse più forte a sé, chiedendosi quando fosse stata l’ultima volta che Jace gli aveva aperto il cuore in quel modo così diretto. Erano soliti esserci l’uno per l’altro e confidarsi ogni segreto, ma mettere a nudo i propri sentimenti era un’azione che si concedevano quando erano sull’orlo di una crisi o di una sbronza.
Nell’adolescenza non avevano neanche mai provato ad andare oltre un “Ti guardo le spalle”, in parte perché entrambi convinti d’essere troppo virili per manifestare le proprie emozioni, in parte perché Alec sembrava provare una vera e propria repulsione verso le parole. Aveva sempre ritenuto che i gesti avessero un peso maggiore, che restassero impressi nella mente più a lungo, che il loro effetto potesse sentirsi anche nel tempo. Un gesto implicava concretezza ma al contempo racchiudeva l’intenzione e sottintendeva l’affetto. Un gesto era tangibile, una parola sarebbe rimasta sempre sul piano astratto, irreale, effimero.
Di essere spaventato dalle parole, Alec l’aveva capito solo quando aveva conosciuto Magnus.
Magnus non si limitava ad usarle: ci giocava, si divertiva, le faceva proprie e vi dava sfumature nuove. Con Alec, Magnus aveva caricato le parole di una potenza distruttiva e le aveva scagliate su di lui come se fossero granate pronte a far esplodere tutte le sue certezze. Gli aveva fatto scoprire la forza persuasiva di una semplice sillaba e il fascino dell’arte oratoria. Lo aveva spinto a rivalutare la labilità di una frase e comprendere l’autorevolezza che poteva avere persino un sussurro – gli aveva mostrato l’eternità di un’eco.
Gli aveva insegnato che parlare servisse a dar forma ai pensieri, a razionalizzare le paure, ad entrare in possesso delle proprie emozioni. Gli aveva fatto comprendere l’importanza del dialogo e quale fosse il ruolo delle parole nella vita di ciascuno, la loro abilità nel costruire legami e distruggere un amore.
Ma soprattutto, Magnus gli aveva svelato che il vero potere delle parole stesse nella capacità di lasciare un segno indelebile nel cuore di chi le ascoltava, sovvertendo irrimediabilmente la convinzione della loro irrisolvibile inconsistenza.
Magnus aveva stravolto ogni prospettiva che Alec aveva della vita, aveva rivoluzionato il suo essere e gli aveva fatto scoprire un mondo che prima di allora aveva sempre visto e mai osservato. Era anche riuscito a farlo scomparire, quel mondo, a rendere insignificante l’aria stessa, ma a distanza di anni Alec era capace di scindere il dolore della perdita dalla gioia intensa che aveva caratterizzato la loro relazione. Poteva anche odiarlo per averlo ferito, ma era consapevole di essergli debitore di un’esistenza che altrimenti sarebbe stata terribilmente silenziosa.
«Non accadrà» disse con voce ferma «Non permetterò più a nessuno di ridurmi in quello stato.»
Un tempo Alec avrebbe pronunciato quelle parole soltanto per rassicurare Jace, adesso, invece, le pensava seriamente. Il vantaggio di toccare il fondo era la certezza di una risalita: conosceva i gradini per l’abisso e poteva fare del suo meglio per evitarli – baciare Magnus lo aveva fatto ruzzolare giù dall’intera scalinata, ma si era ripreso in fretta e avrebbe fatto attenzione a non commettere nuovamente lo stesso sbaglio.
Neppure la paura di non essere amato da Ralf come sperava avrebbe potuto ridurlo in quello stato pietoso di anni prima: non aveva più quella paura totalizzante di andare in frantumi – come si poteva rompere un’anima già spezzata?
«Ho parlato con Ralf» ammise, portandosi le gambe al petto quando suo fratello si raddrizzò per osservarlo «Gli ho detto di Magnus e lui ha capito.»
Jace annuì «Come ti senti?»
«Grato, confuso» mugugnò, passandosi una mano tra i capelli «È così facile perdonare il fatto che il tuo ragazzo baci un altro?»
«Ehi» lo ammonì immediatamente il biondo, dandogli una leggera pacca sulla schiena «Non sei stato tu a baciare lui. È colpa di Magnus, è sempre colpa sua.»
Alec sospirò «Vorrei davvero poter scaricare la colpa su di lui, Jace, ma tra i due sono io quello impegnato in una relazione e sono anche io ad aver fatto sì che quel bacio accadesse. Magnus potrà anche essere il fattore che scatena la mia irrazionalità, ma sono io che ho deciso di assecondarla.»
«Perché l’hai assecondato se sapevi fosse la scelta sbagliata?»
Alec scosse la testa, affatto intenzionato a cercare una risposta. Aveva sempre creduto nella possibilità di un’alternativa, non era mai stato un sostenitore del “non ho altra scelta”, eppure, quando si era ritrovato con Magnus, si era sentito esattamente così: prigioniero di una sola volontà.
«Non lo sopporto proprio» sbuffò Jace.
«Non è vero.»
«Non sopporto che riesca a stravolgerti la vita!»
«Questo è vero, sì» confermò Alec «Sai che sembri Max quando ti imbronci così?» ridacchiò, sperando di scacciare la tristezza di suo fratello.
Il biondo esplose in una risata chiassosa che si disperse per tutto il piccolo cimitero, attirando l’attenzione del custode e costringendoli a scappare per non essere acciuffati. Scavalcarono il muretto e corsero sui marciapiedi ancora affollati di una New York ormai immersa nella notte, rallentando il passo solo quando furono sicuri di essersi mescolati tra la folla.
Con il respiro affannato e un sorriso complice, s’avviarono verso la pasticceria preferita di Isabelle, certi che sarebbero stati accolti da una sfuriata che soltanto un cornetto alla crema avrebbe potuto addolcire.
Fortunatamente il signor Bernard non era di turno quella sera e i loro genitori erano già andati a dormire, riducendo il numero delle minacce che i due giovani dovevano affrontare alla sorella – e al Presidente Miao, offeso con Alec per essere stato abbandonato un’intera giornata.
Il gatto aveva un modo tutto suo d’esprimersi ma Alec, presente dal suo ritrovamento in quel cassonetto in Greenpoint Avenue e negli ultimi sei anni, sapeva interpretare alla perfezione i suoi miagolii e i suoi atteggiamenti. Per questo motivo, nonostante Isabelle si fosse fatta trovare nel soggiorno con le mani sui fianchi ed il cipiglio arrabbiato in attesa di una spiegazione, Alec non poté che riversare la sua completa attenzione sul Presidente Miao, che giaceva composto sul bracciolo del divano e gli rivolgeva il più astioso degli sguardi.
«Oh, Presidente, scusami» sospirò, lanciando la busta con il cornetto nelle mani di Jace e correndo verso l’animale che, nonostante l’aria diffidente, non oppose alcuna resistenza «Ho avuto giorni terribili» spiegò, stringendolo tra le proprie braccia e accarezzandogli il dorso.
«Per tutti i santi!» sbottò Isabelle, rubando il sacchetto dalle mani di Jace e sedendosi sul divano accanto ad Alec «Sei diventato un gattaro inquietante. Smettila di parlargli come se ti capisse!»
«Lui mi capisce!» ribatté il maggiore, coprendo le orecchie del gatto «Izzy è solo arrabbiata, non la ascoltare» sussurrò poi al Presidente, acciambellato tra le sue braccia e troppo occupato a godersi le carezze del suo padrone per curarsi d’altro «Max?»
«Dormiva già quando sono arrivata, ha detto che lo hai fatto stremare al parco questo pomeriggio. Ora voglio una spiegazione» proruppe la ragazza, con la bocca già piena «Basta bugie. Voglio sapere che cavolo è successo tra te e Magnus e se devo picchiarlo anche io.»
«Nessuno picchierà Magnus» chiarì Alec, gettandole un’occhiata obliqua mentre Jace tornava dalla cucina con un bicchiere d’acqua per la sorella e si sedeva sul pavimento di fronte a loro.
Alec si sistemò meglio sul divano e prese un respiro profondo. Se a Jace aveva potuto risparmiare i dettagli del suo incontro con Magnus, sapeva che Isabelle non si sarebbe lasciata sfuggire neanche il più piccolo particolare, addentrandosi in domande indiscrete a cui Alec, alla fine, avrebbe risposto per sfinimento.
Isabelle, l’unica a riuscire a tirargli fuori più di due parole prima dell’arrivo di Magnus, adorava il nuovo Alec e il poter avere conversazioni con suo fratello senza arrivare a litigare per la sua insistenza.
Alec aveva passato anni a tenere i suoi fratelli lontano dai suoi problemi, certo che il suo compito fosse proteggerli e non addossare loro ulteriori pesi ma, dopo essere crollato e aver lasciato loro il compito di rimettere insieme i pezzi, aveva capito che condividere ciò che gli passava per la testa giovasse ad entrambe le parti: a se stesso, alleggerendo così il carico che portava sulle sue spalle; e a Isabelle e Jace, rassicurati dalla certezza che Alec sapesse di poter sempre contare su di loro.
Perciò, non esitò nell’accontentare Isabelle quando gli chiese i dettagli di quella notte, immergendosi poi nell’accurata narrazione degli eventi di quella giornata, dalla visita di Magnus, alle ricerche con Lily, alla conversazione con Ralf e la sua reazione.
Quando finì di raccontare, si ritrovò a doversi proteggere dagli schiaffi di Isabelle.
«Brutto idiota» lo apostrofò, colpendolo sulla testa e scansando gli artigli del Presidente Miao, intervenuto in sua difesa «Hai il cervello bacato, tu!» continuò, pizzicandogli una gamba «Lasciare che Magnus ti baciasse!» urlò sottovoce, incredula.
«Ahia» si lamentò Alec, massaggiandosi la parte colpita e stringendo il gatto con più forza per evitare che si scagliasse su sua sorella – seppur tentato di lasciarsi vendicare «Non c’è bisogno di farmelo notare, so di essermi comportato come un coglione.»
«Invece te lo faccio notare eccome, Alec!» sbottò, scuotendo la testa «Non posso credere che tu abbia fatto una cosa del genere a Ralf… e ti aveva anche comprato un anello!»
«Non credo fosse quell’anello. Sarebbe troppo presto.»
«Tu hai davvero dei problemi. Quell’uomo ti ama da impazzire, cos’altro deve fare per farti capire che vuole passare tutta la sua vita con te? Dio, Alec, pensavo che avessimo superato la fase in cui Magnus ti fa perdere la testa! Sono così-»
«Iz, ora basta» la interruppe Jace «Alec sa di aver sbagliato, non c’è bisogno che tu lo faccia sentire una merda.»
«No, sei tu che sbagli a coccolarlo» lo ammonì, rivolgendosi poi nuovamente ad Alec «Io sono tua sorella e sarò sempre dalla tua parte, ma devi renderti conto di aver fatto una cazzata. Quello che hai fatto è grave, Alec, Ralf avrebbe potuto lasciarti! Perché cazzo non ti stai disperando?»
«Perché so di meritarlo, Isabelle!»
«Ma perché sei così tranquillo?» proruppe la sorella, frustrata.
Alec sospirò, lasciandosi sprofondare nel divano «Cosa vuoi sentirti dire?» domandò, consapevole delle paure che Isabelle continuava a tacere.
«Che il pensiero del ritorno di Magnus non ti distrae al punto da mettere il futuro della tua relazione in secondo piano» affermò senza alcuna esitazione.
Il fratello le rivolse un’occhiata diffidente «Non è così.»
«Sii più convincente.»
«Non è così!» esclamò Alec, esasperato.
Isabelle lo fissò impassibile prima di voltarsi verso Jace e indirizzandogli uno sguardo angosciato. Il biondo rispose con un cipiglio preoccupato, ma Alec, troppo stanco per decriptare la conversazione silenziosa in atto tra i due, decise di non ribattere – qualsiasi cosa avesse detto sarebbe suonata come una bugia.
«Zia?»
La vocina di Max richiamò l’attenzione dei tre fratelli. Il bambino avanzò nel salone, i piedi scalzi e il viso segnato dalle pieghe del cuscino. Una mano trascinava Berry, l’orsetto di pezza che aveva con sé da quando lo avevano trovato – ormai quasi quattro anni prima – mentre con l’altra si stropicciava un occhio.
«Zia Izzy, hai detto bapak?»
Isabelle, non sapendo come gestire la situazione, lanciò uno sguardo allarmato ad Alec, il quale scosse impercettibilmente la testa e le fece segno di non rispondere.
Max si accasciò sulle gambe di Jace, che lo chiuse immediatamente in un abbraccio protettivo e gli lasciò un bacio tra i ricci.
«Bapak ha chiamato per dire che gli manchi tanto, ma stavi dormendo e non volevo svegliarti» mentì Alec.
Gli occhioni blu di Max si spalancarono «Mi svegliavi!» lo rimproverò, rimettendosi in piedi «Chiama! Chiama bapak!» insisté, arrampicandosi sul padre e scacciando malamente il povero Presidente.
«Max, è tardi» provò a dissuaderlo, mentre il bambino tastava le tasche del suo pantalone alla ricerca del telefono «Forse bapak dorme.»
«No, è mattina da bapak» rispose semplicemente, inconsapevole che il padre non si trovasse più su un fuso orario diverso «Dai, papà» lo pregò «…pe’ favore» aggiunse dopo un po’, ricorrendo alla parolina magica.
«Ruffiano» lo ammonì Alec, facendo scontrare il proprio naso con quello del piccolo, portando Max a ridere divertito.
Alec cercò il numero di Magnus in rubrica ed avviò la videochiamata, mentre Max si sedeva comodamente su di lui e afferrava il telefono tra le sue manine.
Come d’abitudine, Magnus non lasciò squillare il telefono neppure tre volte prima di accettare la chiamata.
«Bapak!» trillò Max non appena il volto del padre comparve sullo schermo.
Magnus era appena visibile nella penombra di quella che sembrava la sua camera da letto, ma Alec – che quel viso avrebbe saputo disegnarlo ad occhi chiusi – riuscì subito ad individuare lo zigomo tumefatto ed il sangue raggrumito vicino al labbro, ritrovandosi a trattenersi dall’urlare imprecazioni contro suo fratello.
«Mirtillino mio!» rispose l’uomo con altrettanto entusiasmo «Che ci fai ancora sveglio?»
«Gli ho detto che avevi appena chiamato per dirgli quanto ti mancasse e ti ha voluto richiamare» intervenne Alec, mentre Max annuiva con convinzione.
Magnus non esitò un secondo nell’assecondarlo «Max, mi potevi anche richiamare domattina» ridacchiò affettuosamente.
«Ma perché buio?» domandò il bambino, muovendo ingenuamente il telefono per cercare di scorgere più dettagli sulla stanza dove si trovava il padre «Quando qui notte, è mattina a Parigi.»
«Non è proprio così» rispose Alec, quando si accorse che Magnus fosse in difficoltà «La mattina deve ancora arrivare a Parigi adesso.»
«Ma qui è buio!» si oppose Max, appellandosi all’unica informazione che i suoi genitori gli avevano dato per fargli comprendere il fuso orario: era troppo piccolo per imbarcarsi in discorsi più complessi su meridiani e paralleli.
«Non ho ancora alzato le tapparelle» inventò Magnus, in una scusa che sembrò placare lo scetticismo del figlio.
«Quando vieni da me, bapak?»
Un sorriso addolcito spuntò sul volto di Magnus «Prestissimo, tesoro mio, te lo prometto.»
«Tra poco è la mia festa» sottolineò Max «Faccio così» disse, mostrando quattro dita e perdendo la presa sul telefono «Ops» ridacchiò, riprendendolo.
«So bene che fai quattro anni, mocciosello mio. E non mi perderei la tua festa per niente al mondo.»
«Mi porti il regalo?»
«Te ne porto mille.»
Alec roteò gli occhi, ma si astenne dal commentare.
«Però prometti. Non ci vediamo dai coniglietti» s’imbronciò Max, che detestava dover passare interi mesi lontano dall’altro genitore.
«Te lo prometto. E ti prometto anche che non passeremo più così tanto tempo lontani.»
Max squittì di gioia e Alec si irrigidì: che Magnus promettesse il mondo a Max e poi non glielo portasse impacchettato in una scatola d’oro era esattamente ciò Alec voleva evitare accadesse – se Magnus avesse osato giocare con i sentimenti di suo figlio, lo avrebbe ridotto in cenere.
Max sbadigliò sonoramente e si poggiò al petto di Alec «Mi dici la favola per la nanna, bapak?»
Alec sapeva che Magnus non si sarebbe mai sottratto a quella richiesta, per cui afferrò il proprio telefono e si sistemò meglio sul divano, permettendo a Max di assumere una posizione confortevole sul suo petto.
Nella quiete della notte, mentre il sopraggiungere del sonno dissipava le tensioni del giorno, i presenti si lasciarono trasportare dalla voce armoniosa di Magnus in terre lontane e battaglie fantasiose – e se Alec sperò che anche il loro conflitto potesse essere risolto con un braccialetto dell’amicizia e la promessa di regni alleati, restò un pensiero intrappolato tra le increspature dei suoi sogni.
 
 
 
 
 
Note dell’autrice
Rieccomi con il terzo capitolo!
Questo è stato un po’ tosto da scrivere, perché Alec si trova a vivere delle emozioni davvero forti e contrastanti, ma spero di essere riuscita a trasmettere i timori circa la sua relazione con Ralf e la confusione per tutto ciò che ruota attorno alla figura di Magnus.
È un capitolo ancora di “assestamento”, si chiarisce ulteriormente l’impatto di Magnus nella vita di Alec e si inizia a scorgere quanto effettivamente Magnus e Max siano legati – nonostante la distanza.
Mi dispiace avervi fatto aspettare a lungo, ma soltanto le vacanze di Pasqua mi hanno permesso di avere un po’ di tempo per revisionarlo e pubblicarlo. Ne approfitto anche per rassicurare chi mi chiede se Magnus inizierà ad essere più presente nella storia: sì, Magnus è protagonista tanto quanto Alec, già dal prossimo capitolo lo vedremo sulla scena con costanza. Inoltre, la storia prenderà un sacco di svolte, quindi dopo questi capitoli introduttivi entreremo subito nel vivo della vicenda.
Grazie di cuore a chiunque abbia recensito, letto e seguito la storia nonostante i miei tempi lunghissimi!
A presto,
Traumerin

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