Due Anelli

di Kanako91
(/viewuser.php?uid=2553)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Parte I. Il tenente - Capitolo 1. Impero in frantumi ***
Capitolo 2: *** Parte I. Il tenente - Capitolo 2. Il prezzo da pagare ***
Capitolo 3: *** Parte I. Il tenente - Capitolo 3. Timori e verità ***
Capitolo 4: *** Parte I. Il tenente - Capitolo 4. Frutto avariato ***
Capitolo 5: *** Parte I. Il tenente - Capitolo 5. Un nuovo potere ***
Capitolo 6: *** Parte I. Il tenente - Capitolo 6. Sulle proprie gambe ***
Capitolo 7: *** Parte II. Il capitano - Capitolo 1. L'eredità dei padri ***
Capitolo 8: *** Parte II. Il capitano - Capitolo 2. Desideri inconfessabili ***
Capitolo 9: *** Parte II. Il capitano - Capitolo 3. Per un pugno di lapislazzuli ***
Capitolo 10: *** Parte II. Il capitano - Capitolo 4. L’ombra del tempo ***
Capitolo 11: *** Parte II. Il capitano - Capitolo 5. Qualcuno che ricordi ***
Capitolo 12: *** Parte II. Il capitano - Capitolo 6. L’ultimo passo nella notte ***
Capitolo 13: *** Epilogo. Gli Spettri dell’Anello ***



Capitolo 1
*** Parte I. Il tenente - Capitolo 1. Impero in frantumi ***


Parte I. Il tenente - Capitolo 1. Impero in frantumi


Prima di iniziare...

Ho questa storia in lavorazione dal 2016 (tanto che ho pubblicato pure “Ostriche e marinai”, nata dal plotting che avevo fatto) e l’ho scritta nel 2019, nonostante si faccia riferimento ad alcune vicende narrate (soprattutto quelle di Khamûl) in altre mie storie.

Quindi, qualsiasi punto di contatto con la serie tv in corso è puramente casuale. Sono tranquilla che non dovrebbero esserci per la parte di Khamûl, perché mi sembra che nessuno si stia interessando all’Est e all’Harad, ma Númenor è un’incognita, perciò ho preferito specificare.

Per facilitare la lettura, vista la presenza di molti personaggi che passano un po’ al volo ma sono utili per il disegno generale, all’inizio di ogni capitolo ci sarà uno specchietto con i personaggi e i luoghi nominati.

Buona lettura!




Due anelli


Parte I. Il tenente




Nomi utili:

Khamûl: futuro tenente dei Nazgûl (unico con un nome canonico)
Hurren: zia di Khamûl
Badem: secondo marito della zia di Khamûl
Gente del Sole: gli Esterling
Gente del Serpente: gli Haradrim
Uomini della Morte: i Númenóreani




Capitolo 1. Impero in frantumi




Una grossa nuvola nera coprì il cielo sopra il villaggio di Khamûl: oscurò il sole ma alleviò anche l’arsura, con temporali e piogge torrenziali che alimentarono piccole oasi secche da anni. All’apparenza una benedizione, che diede da bere al bestiame e placò le paure di chi si chiedeva cosa sarebbe successo se la siccità si fosse protratta e gli uomini fossero rimasti lontano, in guerra per il loro signore.

Quegli uomini tornarono pochi mesi dopo e avrebbe potuto sembrare un’altra benedizione. Ma i superstiti delle guerre a Ovest portarono con sé storie spaventose: alti uomini del mare su grosse navi dalle vele nere avevano distrutto le imbarcazioni del Doragmalik, e demoni pallidi avevano falciato via ogni resistenza da parte delle truppe di terra.

Gli uomini erano tornati sì, ma feriti, mutilati e terrorizzati.

Le notizie del crollo del Doragmalik e dello sfaldamento dell’impero si susseguirono rapide a causa degli attacchi e delle razzie da parte delle tribù vicine, determinate ad avere la meglio sulle altre attaccandole per prime. Anni di pace e collaborazione disintegrati dal ricordo di vecchie faide e inimicizie che il Doragmalik aveva soppresso, ma non curato.

Attacchi simili per Khamûl erano stati solo racconti degli anziani, che ne avevano avuto vaghi ricordi di quando erano stati bambini e il Signore aveva appena iniziato la conquista delle terre del Sole e a dominarne i capitribù.

Così come erano diventati racconti quei capitribù tra la Gente del Sole e quella del Serpente che avevano servito per primi il Doragmalik e da lui avevano avuto in dono un enorme potere. Figure mitologiche, i cui nomi erano annoverati tra quelli degli spiriti dei deserti a cui far voto prima di avventurarsi tra le dune cangianti.

A cui chiedere protezione quando giungevano da Ovest notizie degli arrivi degli Uomini della Morte sulle loro grandi navi dalle vele nere.

Ma ora quelle navi avevano arrecato ancora una volta danno alla Gente del Sole: avevano sconfitto il loro signore e le tribù erano di nuovo divise e in lotta tra loro.

Khamûl faticava a ricordare i racconti degli anziani, perché nuovi racconti, nuovi ricordi, si formavano davanti ai suoi stessi occhi. Di guerrieri su bighe rosse che attraversavano la via principale del villaggio, scoccando frecce contro chiunque capitasse a tiro, per terrorizzare gli abitanti finché qualcuno non si fosse fatto avanti a offrire quel che cercavano: i loro pochi beni, donne, ma spesso solo cibo.

Una di quelle volte, Khamûl si ritrovò a spingere sua madre via dalla strada centrale, tra le catapecchie di cui era composto il loro villaggio, per metterla al sicuro finché non fosse passata l’ondata di morte e violenza della tribù vicina. Non gli rimanevano altri parenti se non sua madre e sua zia. Avrebbe fatto di tutto per proteggerle.

A dispetto delle sue intenzioni, la zia uscì dalla catapecchia che chiamavano casa proprio mentre gli invasori del giorno galoppavano per il loro villaggio tra le urla degli abitanti.

«Hurren!» la chiamò sua madre e la seguì fuori, forse nella speranza di riacciuffarla e tirarla dentro.

Khamûl le seguì. «Baba, non uscire anche tu».

Essere l’unico uomo di casa voleva dire anche quello, nonostante avesse solo dodici anni e la paura gli avesse stretto il suo pugno intorno allo stomaco.

Sua zia, però, non sembrava toccata dalla paura. Avanzava a testa alta, sciogliendo il velo con cui copriva la testa per il lutto, fino a rivelare al sole i capelli scuri, che scendevano in onde morbide e corpose oltre le sue spalle.

Khamûl ricordava sempre sua madre come una bella donna, anche se negli ultimi anni era dimagrita per le preoccupazioni, eppure in quel momento vide in sua zia la bellezza della speranza.

Una biga tagliò la strada alla zia, che si fermò con le mani sui fianchi. Invece di attaccarla subito, i due uomini saltarono a terra davanti a lei.

«Ho bisogno di un marito» annunciò la zia a gran voce.

Uno dei due uomini ghignò. «Perché dovremmo starti a sentire? Potremmo prenderti qua stesso, in mezzo alla strada, e tu non potresti far nulla per fermarci, né accampare alcuna pretesa di onestà. A maggior ragione quando ci sei venuta incontro di tua volontà e a capo scoperto».

Ma la zia proseguì senza dar segno di averlo sentito. «Mio marito è morto in guerra, combattendo probabilmente al vostro fianco. Avreste potuto essere voi al suo posto e invece siete qui, ancora vivi, e con abbastanza tempo e risorse a disposizione da andare nei villaggi vicini a far danni».

Baba rimase dov’era, le mani premute al petto, e Khamûl le avvolse un braccio intorno alle spalle. Nel farlo, si accorse per la prima volta di quanto fosse cresciuto.

«È uscita di senno» mormorò sua madre.

Khamûl non aveva idea di cosa lui avrebbe fatto se l’avessero assalita. Avrebbe voluto giurare che si sarebbe lanciato in sua difesa, ma non era armato né addestrato come loro, e soprattutto aveva anche sua madre da proteggere.

Poteva solo confidare nella zia e pregare il Signore di Tutto che quel confronto volgesse per il meglio.

«Non siamo qui perché non abbiamo altro da fare. Dobbiamo portare il cibo in tavola anche noi» disse sempre lo stesso uomo.

Ma il secondo scrutava zia come se stesse valutando qualcosa.

«Allora siamo in due» disse zia, fuori dai denti. «Queste razzie non ci stanno lasciando un bel niente e sono stanca di dover contare su mio nipote, che non è ancora uomo, per la sicurezza della nostra casa».

Gli occhi dei due uomini saettarono verso Khamûl e, a giudicare dalla velocità con cui li distolsero, non lo trovarono una minaccia maggiore di sua zia.

Come farlo sentire meglio!

«Ma tua sorella ha avuto un figlio, tu no. Quindi come puoi dimostrare che saresti una buona moglie?» disse il primo uomo.

«È mia cognata e sono stata sposata una sola settimana prima che la guerra mi togliesse mio marito» disse zia. «Vorrei vedere se voi avreste il tempo di dimostrare di essere buoni mariti nello stesso lasso di tempo».

Il primo uomo aprì la bocca per rispondere, ma il secondo gli posò una mano sulla spalla e con l’altra sfilò l’elmo. Aveva tratti affilati e ruvidi, i capelli folti e ondulati che gli cadevano intorno al collo, fino a sfiorare gli spallacci. Se avesse mangiato di più e vissuto una vita più agiata, sarebbe stato un bell’uomo.

«Basta così, Sahim» disse quello. «Ho perso mia moglie mentre ero via in guerra e, ora che siamo in pace, l’idea di poter costruire una famiglia non mi dispiace».

Superò l’altro uomo in direzione della zia e le offrì una mano.

«Posso essere tuo marito, se così ti aggrada».

La zia fece una gran scena di studiarlo dalla testa ai piedi. Gli girò intorno con aria critica e gli toccò le braccia, il petto, gli controllò i denti e arrivò persino a fargli scivolare una mano sotto il gonnellino, per ritirarla con un sorriso malizioso che fu riflesso da quello dell’uomo.

«Potresti andare bene» gli disse, con disinteresse simulato.

E così, quel giorno, si celebrò uno dei primi matrimoni tra le tribù allo sbando.

L’inizio di una nuova, fragile pace.


* * *


Badem e la zia si dimostrarono una coppia parecchio –come dire– produttiva, con tre figli e un quarto in arrivo.

Khamûl si ritrovò con cugini inaspettati che guardavano a lui come un mito nonostante non avesse fatto granché per meritarsi una simile adorazione.

Allo stesso tempo, Badem era diventato per lui il padre che non aveva avuto e forse anche lui si chiedeva come si fosse conquistato l’ammirazione di un ragazzino che stava diventando uomo.

Un giorno, Khamûl era fuori dal villaggio con Badem, a caccia di serpenti per foderare il manico degli archi, quando all’orizzonte si levò una nube che prometteva una tempesta di sabbia.

O almeno così riferì Khamûl a Badem, che però si fece scuro in volto.

«Una tempesta di sabbia sarebbe più misericordiosa» disse lui. «Torna al villaggio e avvisa che saremo presto sotto attacco».

Khamûl non se lo fece ripetere due volte, girò i tacchi e corse verso il villaggio. Non ebbe bisogno di chiedere perché Badem fosse rimasto indietro. C’erano sempre pastori nei dintorni e Badem doveva richiamare anche loro: erano le uniche altre braccia armate a disposizione.

Giunto al villaggio, Khamûl urlò «Attacco!» mentre correva fino al grande tamburo nella piazza centrale, per poi mettersi a suonarlo a ritmo dell’allarme.

In quattro anni di pace quasi completa, i villaggi nati dall’incontro tra tribù diverse potevano non essersi arricchiti a dismisura da diventare vere cittadine, ma avevano molto più da perdere in termini di vite. I ragazzi che non erano stati in grado di prendere le armi alla caduta del Doragmalik ora erano adulti, ma erano anche aumentati a dismisura i bambini e quindi le teste da proteggere.

Khamûl lasciò il tamburo a una donna accorsa a dargli il cambio e rientrò in casa per armarsi.

Poco dopo rientrò anche Badem, con gli occhi sgranati, e lo prese per le braccia.

«Non sono fratelli di altre tribù» disse. «Sono gli Uomini della Morte. Sono arrivati fin qui».

Khamûl corrugò la fronte. «Come–?»

«Ho sentito notizie di loro razzie nell’entroterra, ma in genere non si spingono così all’interno, non nel deserto».

«Possiamo combatterli, no?»

Badem si affrettò a infilare la corazza, i bracciali e l’elmo, senza dare davvero una risposta.

La zia entrò in quel momento.

«Ho sentito l’allarme» disse e raggiunse il marito per assicurargli meglio le cinghie dell’armatura, come se questo potesse cambiare qualcosa.

Khamûl non aveva una corazza, ma aveva delle armi, rimasugli di altre razzie e soldati morti. Non era abbastanza per affrontare un attacco, ma per difendere la sua famiglia sì.

Lasciò la zia e Badem, per andare a trovare sua madre nell’ingresso della casa, i figli della zia intorno a lei.

«Conviene nascondervi nella cantina» disse loro e li guidò verso la botola nascosta da un tappeto vecchio e impolverato che cercava di dare un’aria confortevole e accogliente all’ingresso.

Sua madre annuì e indirizzò i bambini come pecorelle verso la cantina. Scese lei per prima e Khamûl le passò i bambini, uno ad uno, finché non sentì la presenza della zia alle sue spalle.

Il ventre era tondo come Khamûl riconosceva essere alla metà della gravidanza. Era sempre stata agile ma questa volta c’era una pesantezza diversa nei suoi movimenti. Le diede una mano a scendere dalla scaletta e richiuse la botola, coprendola di nuovo col tappeto.

Badem lo guardava dalla porta della casa, il volto segnato da nuove linee che non c’erano state prima.

«Proteggi la casa per me» gli disse.

Khamûl gli andò incontro, le braccia tese, e Badem non si fece pregare. Lo abbracciò, posandogli un bacio sulla testa e mormorando quello che suonava come “Figlio mio”.

La gola chiusa da un nodo, Khamûl si tirò indietro.

«Ci vediamo più tardi» disse.

Badem annuì e uscì.


* * *


Così come erano arrivati in una nube di polvere, così gli Uomini della Morte se ne andarono. A Khamûl non restò che gettare fuori casa i cadaveri dei due uomini con cui si era battuto e uscire in strada alla ricerca di Badem.

Non avrebbe aperto la botola finché non avesse saputo cosa ne era stato del marito della zia.

Per le strade, i superstiti si aggiravano a controllare i danni subiti e altri –come Khamûl– erano alla ricerca dei propri cari tra i corpi per strada.

La disparità numerica tra i caduti dei locali e quelli degli invasori era agghiacciante. C’erano persino alcune donne del villaggio, di quelle poche che non si erano nascoste e che non erano state catturate come schiave. Succedeva anche con i ragazzini, aveva scoperto Khamûl in quegli anni, e si riteneva fortunato di aver scampato una simile sorte.

Quel che gli aveva fatto torcere lo stomaco più di tutto era stato scoprire che a volte erano le tribù stesse a consegnare prigionieri agli Uomini della Morte, come tributo per aver salva la vita.

Peccato che in questo modo condannassero i loro stessi fratelli.

Khamûl arrivò fino all’ingresso del villaggio dove, a giudicare dai segni rimasti a terra, c’era stato il primo impatto tra le due forze. Lì si trovava il grosso dei morti e dei feriti. Il fetore di liquami e sangue sovrastava tutto e i gemiti che si levavano tra i corpi erano lievi.

«Badem!» chiamò Khamûl, aggirandosi tra i corpi, la camicia premuta su naso e bocca per filtrare gli odori, altrimenti avrebbe rimesso e non sarebbe riuscito ad andare avanti.

E lui era determinato a trovare Badem.

Tra i corpi, intravide Khoran, gli occhi rivolti al cielo, la bocca spalancata. Era bello anche nella morte, nonostante l’espressione sul suo viso fosse di dolore e disperazione, non di piacere come Khamûl l’aveva vista l’ultima volta.

Gli si chinò di fianco per calargli le palpebre e sollevargli la mascella, un gesto inutile se qualcuno non si fosse occupato del suo corpo, perché presto sarebbero arrivati avvoltoi e sciacalli a banchettare.

Doveva trovare Badem.

Lo doveva alla zia, ai suoi cugini e a sé stesso.

Si raddrizzò e chiamò ancora il suo nome.

Gli rispose un gemito e Khamûl si mosse in quella direzione. Superò un uomo del villaggio senza gambe e un altro col ventre aperto all’aria mentre il petto si alzava e abbassava piano, quasi stesse dormendo.

Tra altri cadaveri, ecco Badem.

«Sei vivo!»

Gli si inginocchiò di fianco e lui abbozzò un sorriso nel rivolgergli lo sguardo.

«Non posso dire lo stesso per gli altri. Né posso prometterti che lo sarò a lungo».

Khamûl si accertò che avesse tutti gli arti al loro posto –ognuno dove doveva essere– e che nessuna delle ferite sembrasse troppo grave. Ma bastò che lui gli sollevasse un braccio per alzarlo da terra perché a Badem sfuggisse un sibilo di dolore.

«Le costole, temo» gli disse. «Quando sono caduto, un cavallo mi è passato sopra».

«Ti porto dalla zia. Lei saprà cosa fare».

Badem abbozzò un altro sorriso, ma il suo viso era troppo stanco.


* * *


«Khamûl!» lo chiamò la zia. «Vieni. Ti vuole parlare».

Lui lasciò la porta che stava assemblando e fece segno al più grande dei cugini di tenere d’occhio gli attrezzi –perché i due più piccoli ne stessero alla larga– e raggiunse la zia nella camera che condivideva col marito.

«Come sta?» le chiese.

La zia distolse lo sguardo, per la prima volta con aria sconfitta. Non era da lei.

«Khamûl».

Dal letto, la voce di Badem era poco più di un rantolo.

Lui lo raggiunse e gli si sedette al fianco, mentre la zia spariva oltre la porta.

«Non vorrai lasciarci?» disse, cercando di prenderlo in giro, ma la sua non sembrava una battuta. «Il bambino che nascerà, non vuoi vederlo?»

Badem sospirò, con un gorgoglio.

«Non durerò per i mesi che mancano» gli disse. «Respirare è così faticoso».

Khamûl gli prese la mano abbandonata sul lenzuolo grezzo e la strinse tra le sue.

«Allora risparmia il fiato».

Badem tirò le labbra in un sorriso. «Devo chiederti un favore».

Khamûl si chinò verso di lui.

«Lo so che sei giovane e vuoi vivere la tua vita, ma promettimi che ti prenderai cura di loro. Proteggili in mia assenza. Fai quel che ritieni necessario, ma assicurati che non cadano vittima di un’altra razzia».

Badem ansimò dopo tutte quelle parole. Si stava sforzando troppo.

«Non parlare più del dovuto» gli disse Khamûl.

«Devo, è l’ultima volta». Badem prese boccate d’aria poco profonde. «So già che tua zia si metterà in testa di trovare un altro marito e permettile di farlo, se lo vorrà. Ma se non se la sente davvero, ricordale che ci sei tu a occuparti di lei, i nostri figli, e tua madre. Non sei più il bambino che Hurren ha cercato di proteggere anni fa, anche se tende a dimenticarlo».

Khamûl si ritrovò a sorridere. «Tu no».

«No, e non solo perché ho visto come ti piace passare il tempo».

Le guance di Khamûl si scaldarono al tono divertito di Badem.

«Promettimi che lo farai».

«Avresti potuto risparmiare il fiato, Badem. Lo avrei fatto comunque».

Badem gli abbozzò un sorriso, le palpebre a mezz’asta.

«Mandami qui Hurren».

Quella fu l’ultima volta che Khamûl vide Badem vivo.


* * *


Quando il quarto figlio della zia nacque –un altro maschio–, lei non esitò un attimo nel decretare: «Badem. Si chiamerà Badem, come suo padre».

Khamûl annuì e andò a riferirlo ai cugini, mentre sua madre si occupava del neonato e della zia.

Da quando Badem era morto, un piano era andato formandosi nella sua testa. Ma aveva dovuto attendere il parto della zia per poter definire una data precisa per la sua partenza.

Così, a un paio di settimane dalla nascita del piccolo Badem, Khamûl raccolse sua madre e sua zia intorno al fuoco e disse loro: «Andremo a Doragzûl».

Il silenzio che seguì gli diede coraggio.

«Aspetteremo qualche mese perché il piccolo sia abbastanza grande per viaggiare, e ce ne andiamo da qui».

«Non possiamo viaggiare da soli» disse la zia.

«Lo so, infatti volevo approfittare del passaggio di Windor da queste parti. Sarà un Sempregiovane, ma viaggia armato. La sua carovana è il modo migliore per raggiungere la vecchia capitale senza correre rischi inutili».

Sua madre fece uno scongiuro. «Non mi piacciono i Sempregiovani. Sono parenti dei demoni pallidi che hanno causato tutto questo».

Tra le braccia della zia, il piccolo Badem protestò.

«In questo caso ci servono» disse Khamûl. «Questo Sempregiovane in particolare ha sempre avuto tutto l’interesse perché le tribù fossero in pace». Era stato grazie a lui se quel villaggio era diventato abbastanza fiorente da attirare gli Uomini della Morte. Ma non era il caso di sottolinearlo.

Sua madre pareva ancora poco convinta, ma la zia scoprì un seno per allattare il piccolo Badem e sollevò lo sguardo verso di lui.

«Una volta alla capitale cosa vuoi fare?»

Khamûl si mise in piedi.

«Arruolarmi».






Nota dell'autrice


Finalmente riesco a dare alla luce questa storia!

Chi ha letto “Caccia Grossa nell’Est” ha visto nominare i tempi di Khamûl (aka il Nazgûl che cerca “Baggins” nella Contea) ed è quando scrivevo quella storia che avevo già un po’ di idee, ma per riuscire a trovare una forma al tutto ho avuto bisogno di definire Númenor e poi il famoso Re Stregone di Angmar prima che fosse un Nazgûl.

Mi sembra superfluo sottolineare che questa storia (in entrambe le parti) vuole mostrare ciò che non si vede dietro la narrativa ufficiale rappresentata da Il Signore degli Anelli e Il Silmarillion (narrativa dal punto di vista di Elfi e Uomini, e Hobbit che hanno conosciuto le loro versioni della storia), ma lo ribadisco perché non si sa mai ;)

Ci saranno altri 5 capitoli su Khamûl (uno alla settimana), poi una pausetta a novembre e passiamo al bad boy che solo un non-uomo poteva ammazzare!

Qualche nota specifica sul capitolo:

  • “Uomini della Morte” per riferirsi ai Númenórëani così come la descrizione delle loro navi sono ispirate al racconto incompleto “Tal-Elmar” presente nel volume XII della HoME. È forse l’unico racconto in cui si intravede il punto di vista degli Uomini della Terra di Mezzo durante la Seconda Era, quando Númenor era una potenza navale (e coloniale) che si stava facendo largo ovunque il mare la portasse. C’è un certo bias per cui Tal-Elmar è meglio perché mezzo-Númenórëano ma lo ignoriamo perché non ci piacciono i bias. La gente della Terra di Mezzo è degna di rispetto quanto gli altri benedetti dai Valar.
  • I nomi con cui il pov Esterling indica il suo stesso popolo e gli Haradrim sono (ovviamente) opera mia, perché “Orientali” e “Sudroni” usati nel resto dei testi sono chiaramente denominazioni dal pov Occidentale e, anche qui, a noi piace il relativismo culturale.
  • Per chi non avesse letto CGnE, quando si parla di “Signore di Tutto” nell’Est e nel Sud post-dominio di Sauron non si parla di Eru ;)
  • Doragzûl è presente sempre in CGnE ed è una città inventata da me per ricoprire un ruolo in una vicenda della “mitologia” degli Uomini. Quale vicenda non è rilevante per questa storia, ma lo è per CGnE, quindi non elaboro oltre :D
  • Doragmalik sta sostanzialmente per "Gran Re". Che inizi per "dorag" come Doragzûl è una sorta di slittamento di significato avvenuto col tempo e nemmeno troppo casualmente...
  • Il nome di Badem me l’ha involontariamente ispirato Melianar, la signora dei nomi. Il resto dei tentativi di dar nomi coerenti a quello di Khamûl (circa) è frutto del mio pigiare tasti sulla tastiera finché non ottenevo suoni adatti ahahah! Scherzo… o forse no?

Grazie a chi ha letto fin qui e alla prossima settimana,

Kan


Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Parte I. Il tenente - Capitolo 2. Il prezzo da pagare ***


Parte I. Il tenente - Capitolo 2. Il prezzo da pagare


Nomi utili:

Khamûl: futuro tenente dei Nazgûl (unico con un nome canonico)
Hurren: zia di Khamûl
Badem: secondo marito della zia di Khamûl
Gente del Sole: gli Esterling
Gente del Serpente: gli Haradrim
Uomini della Morte: i Númenóreani




Capitolo 2. Il prezzo da pagare




Nella saletta della taverna si levava il vapore degli hookah e il vino speziato scorreva a fiumi. Fu probabilmente per quello che Khamûl si ritrovò a parlare con la lingua più sciolta del solito.

«Per quanto credete che resisterà ancora questo esercito? Il Governatore non verserà i suoi fondi ancora per molto, anche se continuano ad arrivare notizie di invasioni degli Uomini della Morte» disse e mandò giù quel che rimaneva nella coppa.

Al suo fianco, Oshmar premette la gamba contro la sua, in una carezza di pelle contro pelle.

«Ma cosa dovremmo fare?» disse un altro uomo della compagnia. «Non abbiamo soldi nostri. Molti di noi sono qui perché è l’unico lavoro che sappiamo fare».

«Unico lavoro che sta perdendo valore da quando è caduto il Doragmalik» disse un secondo uomo.

«Ecco!» disse Khamûl.

Oshmar gli versò altro vino, forse capendo che non si sarebbe abbandonato contro il suo braccio sullo schienale del divanetto, e poi riprese ad aspirare dall’hookah.

«Quello è il problema e quella sarà la soluzione» continuò Khamûl, rigirando il vino nella coppa. «Ci vuole un nuovo Doragmalik. Le tribù devono tornare unite sotto una sola guida. Abbiamo ancora a Doragzûl quel che resta del vecchio esercito, e dobbiamo darci una mossa a consolidarlo prima che la Gente del Serpente decida che non c’è altro da fare qui e torni nel Sud».

«E come proponi di farlo? Il Governatore non ha la stoffa del Doragmalik» disse un altro uomo.

«Khamûl ne ha a sufficienza» mormorò Oshmar, con tono abbastanza basso che solo lui riuscì a sentirlo.

Gli gettò un’occhiata oltre la spalla, in una silenziosa promessa di retribuzione per quell’adulazione provocatoria.

«Bisogna trovare qualcuno che abbia il carisma necessario per comandare un simile esercito, che riesca a parlare con tutti i capitribù e abbia anche un canale di comunicazione con il Sud» disse Khamûl.

Uno degli altri uomini lasciò andare una risata incredula. «Fai prima a dire che dobbiamo far rinascere il Doragmalik».

«Sarebbe più semplice di trovare qualcuno del genere ora» disse un altro. «Gli eserciti sono allo sbando da sette anni ormai».

«Non è ancora troppo tardi per recuperarli» giunse da una voce nuova. «Come dice il giovanotto qui, noi del Serpente siamo ancora in giro».

Khamûl si voltò verso la voce, per incontrare un uomo tra i quaranta e i cinquant’anni, con folti baffi striati di bianco e una barba pettinata a punta che gli arrivava a metà petto, intrecciata con decorazioni dorate.

Se non fossero bastati gli spallacci ornati e il braccio destro con il serpente tatuato, qualcuno lo identificò con tono rispettoso: «Generale Rahamadi».

Il generale del Sud passò il rassegna i presenti e si fece largo nello spazio tra i divanetti e i cuscini.

«Lasciateci soli» ordinò e nessuno osò contraddirlo.

Oshmar esitò prima di mettersi in piedi e, con uno sguardo a Khamûl, si allontanò.

Il generale Rahamadi prese posto sul divanetto opposto a quello di Khamûl, che posò sul tavolino tra loro la sua coppa di vino. Avrebbe preferito averne bevuto di meno, ma non si sarebbe mai sognato un simile incontro.

Né in quel momento aveva idea di cosa avesse in mente l’uomo davanti a lui.

Poteva essere tutta una scusa per catturarlo e portarlo davanti alla corte marziale per alto tradimento.

Il generale posò al suo fianco l’elmo che teneva sotto braccio e puntellò i gomiti sulle cosce, per guardare Khamûl in faccia.

«Ti chiami?»

«Khamûl».

«Ho sentito i tuoi discorsi, Khamûl. Dici cose pericolose, per un soldato di questo esercito, per quanto allo sbando».

Come volevasi dimostrare. Poteva andargli bene qualcosa per una volta, e invece no!

Khamûl strinse la testa nelle spalle, le mani sollevate in segno di resa.

«Erano discorsi dettati dal vino–»

«Anche se fosse questo il caso, si tratta di verità indiscutibili».

Khamûl lo scrutò, ma il generale non aveva l’aria di scherzare.

«Hai anche le idee chiare su cosa sia necessario. E gran parte di quello che hai elencato c’è. Manca solo una figura carismatica alla guida di tutto».

«Potresti esserlo tu» disse Khamûl, dopotutto aveva visto come avevano reagito gli uomini a lui.

Il generale rise.

«Per quanto tempo? Non ho più tutta la vita davanti» disse lui. «Ci vuole qualcuno di molto più giovane, che però stia già dimostrando non solo carisma, ma anche una visione».

Lo sguardo del generale su di lui non gli faceva sperare in nulla di buono.

«Hai indovinato» gli disse, infatti.

Khamûl si passò una mano sul viso. «Non credo di esserne in grado».

«Hai bisogno di una dose quotidiana di vino per attirare l’attenzione della gente come ti ho visto fare qui?» disse il generale. «Non erano solo i tuoi amici ad ascoltarti. Un po’ tutta la taverna era attenta alle tue parole. È stato per questo che mi sono avvicinato».

Khamûl non sapeva dove guardare. Era una situazione imbarazzante. Non tanto perché non gli faceva piacere aver attirato tanta attenzione, ma perché non era stata la sua intenzione. In quegli anni aveva badato a tenere un profilo basso per non finire nei guai: non poteva correre il rischio di perdere l’unica fonte di sostentamento per sua madre, sua zia e i suoi quattro cugini.

Dipendevano tutti da lui.

«Ti ho già visto nei campi di addestramento» continuò il generale. «Ho potuto osservare come, anche quando non fai discorsi sovversivi, i tuoi compagni ti ascoltano. Non è solo perché sei un bel ragazzo dai modi piacevoli e quelli come te non riescono a resisterti, ma perché hai quel carisma che ci vuole per riunificare tutte le tribù. Come aveva fatto il Doragmalik».

«Lo hai mai conosciuto?»

Il generale annuì e si accarezzò la barba.

«Quando sono diventato ufficiale sono andato a giurare davanti a lui» disse. «Il Doragmalik non aveva solo carisma, ma anche un fascino particolare. E un modo di parlarti che ti faceva sentire come se lui fosse la soluzione di tutti i problemi. Per molto tempo lo è stato. Ma come tutte le cose belle, era destinato a finire.

«Per fortuna è durato a lungo, al di là di una vita comune. Basta vedere la situazione in cui ci troviamo ora per far sperare che la sua vita innaturale significhi un ritorno dai morti».

Khamûl si guardò le mani, assorbendo quel che gli era appena stato raccontato.

Nessuno del suo villaggio aveva avuto quella fortuna, ma giravano molte leggende sul Doragmalik. La più quotata era che fosse il sacerdote di una divinità misericordiosa che aveva visto la sofferenza dei popoli delle terre del Sole e aveva mandato un emissario a liberarli dal caos in cui erano sprofondati dalla rovina della vecchia Doragzûl. Un’altra leggenda sosteneva che non ci fosse stato molto di umano in lui, ma che fosse stato uno stregone talmente potente da raggiungere la divinità.

«Perché proprio io? Sono certo che esistano uomini più giusti di me per questo ruolo. Non mi sento adatto» disse Khamûl.

«O forse temi di avere davanti una fregatura?»

Già, soprattutto quello.

Khamûl si limitò a guardarlo e sembrò essere una risposta sufficiente, a giudicare dal sorriso che gli rivolse il generale.

«Quel che ti offro sono i miei contatti e la mia autorità, mentre tu metti la tua persona al servizio di un nuovo regno unito. Non sarà un processo breve –anche se abbiamo ancora qualche possibilità di recuperare il vecchio impero– perciò ti devi rendere conto che l’impegno che stai prendendo sarà per la vita.

«Non si tratterà solo di riunire le tribù, ma anche di mantenerle unite per i prossimi anni e assicurarti che alla tua morte rimangano tali».

Sembrava un’occasione troppo ghiotta per resistere, ma Khamûl aveva imparato a essere diffidente.

«Cosa vuoi in cambio?»

Il generale si raddrizzò, per scrutarlo da capo a piedi.

«Vuoi dei territori? Qualche ruolo di governo?»

Il generale curvò un angolo della bocca e il baffo si sollevò.

«Che senso ha riunire un regno per prendermene una parte?» disse lui. «Quel che voglio è molto più strutturale: ho una figlia, ti chiedo di sposarla e generare con lei gli eredi di ciò che costruiremo».

Khamûl si chiedeva cosa ne pensasse la figlia. Se aveva il caratterino di sua zia, sarebbe stata una bella gatta da pelare.

Il generale dovette vedere qualcosa sul volto di Khamûl, perché si affrettò ad aggiungere: «Lo so che le tue preferenze vanno in un’altra direzione, ma credo tu possa trovare un modo per fare il tuo dovere quelle poche volte in cui ti sarà richiesto».

Khamûl si passò una mano sul viso per nascondere una risata.

«Penso di potercela fare, anche se ti ringrazio per la tua premura».

Il generale strinse la testa nelle spalle. «Non so quanto sia adatto ringraziarmi per un matrimonio».

«Stai cercando di farmi sposare tua figlia, non dovresti essere più convincente?»

«Be’, giovanotto, ricordo come la pensavo alla tua età sul matrimonio e mettiamoci pure che a me le donne piacevano, e molto».

Non c’era niente da fare per nasconderlo. Khamûl scoppiò a ridere e quello parve rilassare il generale.

«Sposerò tua figlia, e avremo gli eredi necessari per assicurare la durata del regno oltre la mia vita».

Il generale si alzò dal divanetto e gli porse una mano. Khamûl gliela strinse, con abbastanza forza da fargli sentire quanto era convinto, ma non così tanta da sembrare un disperato tentativo di affermare la propria superiorità. Non aveva bisogno di simili giochetti.

«Ti ricontatterò appena avrò raccolto le adesioni degli altri ufficiali» disse il generale.

«Penso tu sappia dove trovarmi, generale».

«Certo» disse. «Ma d’ora in poi chiamami Rahamadi».

* * *


Una settimana dopo quell’incontro, Rahamadi cercò Khamûl per fissare una riunione con gli altri ufficiali del Sud, ma anche delle terre del Sole, e da lì tutto il progetto prese velocità.

Khamûl ebbe a malapena il tempo di parlare con la sua famiglia.

«Vai» disse sua madre. «Fai quello che devi fare. Ti ho sentito parlare di questi piani per troppo tempo perché ti fermi ora».

«Non preoccuparti per noi. Non campiamo solo della tua paga dell’esercito» disse la zia.

Khamûl non seppe bene cosa dire.

«È ora che vivi la tua vita» disse ancora sua madre. «Hai vissuto troppo a lungo in funzione di quel che avrebbe protetto noi. Qui a Doragzûl non è come nel villaggio, staremo bene».

«Se andrà tutto per il meglio, vi porterò a vivere con me, ovunque stabilirò la nuova capitale».

E così si era buttato a capofitto nella riunificazione dell’impero.

La prima vittima fu il Governatore di Doragzûl. In quel modo riuscirono ad accedere subito alle risorse per pagare non solo l’esercito in carica, ma anche per radunare i soldati che erano tornati alle loro case dopo la sconfitta del Doragmalik e che ancora non avevano trovato un’occupazione.

In seguito, si scontrarono con quelle tribù che non avevano intenzione di stringere alcuna alleanza con chiunque non fosse il Doragmalik, per poi muoversi contro le colonie degli Uomini della Morte e chi aveva collaborato con loro.

Non fu veloce, né privo di sofferenza.

Sua madre morì mentre lui era lontano miglia da casa, nel Sud dove si stava tentando di ritrovare un Gran Re. Gli arrivò la notizia con le truppe fresche da Doragzûl, una pugnalata al petto del tutto inaspettata, che gli tolse il fiato per qualche giorno e gli fece rivalutare quel che stava facendo. Dopotutto, si era lanciato in quell’impresa per dare una vita migliore anche a lei, ma sua madre non avrebbe vissuto nemmeno un giorno nel nuovo regno.

Finì per ritrovare se stesso e la motivazione perduta parlandone con Rahamadi, che non avrebbe mai sostituito Badem come figura paterna, ma era diventato una sorta di zio e mentore durante la lunga campagna.

In quegli anni, Rahamadi gli insegnò più del mero combattimento. Se Khamûl aveva scoperto da sé di avere del fiuto innato per cogliere le correnti di potere e tensione in chi lo circondava, con Rahamadi affinò quel fiuto e imparò a cogliere tutte le trame della politica per sfruttare al meglio quel che le persone intorno a lui avevano da offrirgli.

Il che gli fu molto utile nell’assoggettare in maniera definitiva il Sud, facendosi acclamare re dei Regni del Sole –il nuovo Doragmalik–, e a decidere di stanziarsi a Vaharabadi, la capitale del Sud, la casa del Gran Re. Perché se il Nord era fedele a lui in quanto sua patria e grossa parte dell’esercito proveniva dalle sue terre, nel Sud la situazione richiedeva la sua presenza costante perché la popolazione si rendesse conto che il Sole del Nord era parte del Serpente del Sud, e che il Serpente altro non era che il Sole che nasceva per illuminare tutte le loro terre.

C’era però un ultimo passo per suggellare l’unione tra le terre del Nord e del Sud: il matrimonio con la figlia di Rahamadi.


* * *


Dopo la cerimonia nuziale pubblica, Khamûl entrò nella tenda predisposta alla notte di nozze e vi trovò la sua sposa seduta a uno scranno, una coppa di vino in mano e l’aria di chi non era affatto disposta a continuare con i festeggiamenti.

«Soddisfatto?» gli chiese Harshani. «Hai sposato la tua fattrice, che starà a casa a occuparsi dei tuoi marmocchi mentre tu sarai in giro a sfoggiare la tua possanza ammazzando i figli degli altri».

Khamûl inspirò. Durante la cerimonia e il banchetto che era seguito era stata così placida e sorridente che aveva quasi temuto di aver sposato qualcuno di troppo buono per la vita che avrebbe dovuto fare con lui.

Per fortuna si era sbagliato, eh?

Raggiunse il tavolino dove c’era un’altra coppa di fianco alla brocca e si versò del vino.

«In realtà, speravo di poter contare sulla tua compagnia, mentre vado in giro a sfoggiare la mia possanza».

Harshani lo adocchiò sospettosa.

«È stato mio padre a convincerti? Chissà cosa ti ha raccontato di me».

Khamûl sedette all’altro scranno. «In realtà, non è stato molto convincente. Sembrava credere di avermi affibbiato una patata bollente e di essersene pentito un attimo dopo».

«AH! Dopotutto, non è mai stato abbastanza a casa da poter dire di aver vissuto il matrimonio con mia madre».

«Indicativo del terrore con cui mi ha messo in guardia sul matrimonio» disse Khamûl e incontrò lo sguardo di Harshani, per la prima volta interessato a quel che lui le stava dicendo.

«Sono riuscita a illuderti di aver fatto un buon matrimonio?»

Khamûl portò la coppa alle labbra e, prima di prendere un sorso, le disse: «A dire il vero, durante i festeggiamenti ho temuto di aver commesso un grave errore. Ma mi sto ricredendo».

Harshani emise un verso nasale.

«Adulatore».

«Dico la verità».

«E quante donne ti sei portato a letto dicendo la verità?»

Khamûl inarcò un sopracciglio. «Nessuna, tu sarai la prima».

Quella risposta dovette sembrarle una barzelletta, perché Harshani scoppiò a ridere così di gusto che dimenticò di coprirsi la bocca per tenersi invece la pancia.

«Oh, per favore, raccontami una barzelletta migliore».

«Sono serio. Uomini a volontà, ma tu sarai la prima donna».

Harshani si fece cupa. «Aaah, sei uno di quelli. Allora perché hai accettato di sposarmi? Per gratitudine verso mio padre?»

«Gliel’ho promesso prima ancora di sapere se fossi sopravvissuto ai nostri piani e se avessi avuto davvero motivo di essergli grato» disse Khamûl. «Ma l’ho fatto perché ha senso: tanta fatica per riunire le tribù del Nord e il Sud, per poi perdere tutto alla mia morte? È bastata una caduta del Doragmalik».

Lei strinse gli occhi, ora seduta sulla punta della sedia.

«Cosa cerchi da questo matrimonio, quindi?» gli chiese.

«Un’alleata prima di tutto. Poi degli eredi».

Harshani mandò giù quel che rimaneva nella coppa. «Penso di poter fare entrambe le cose. Certo, dipende da cosa intendi con alleata».

Khamûl sollevò un angolo della bocca.

«Continua a dirmi quel che ti passa per la testa quando siamo solo noi due, ma fuori di qui sembra meno di quello che sei. Proprio come hai fatto oggi».

«Adoro farmi sottovalutare» disse lei, con una vena sarcastica. «Ma credi di poter sopportare la mia lingua biforcuta quando siamo soli?»

Khamûl posò la coppa per terra e le prese il mento tra pollice e indice.

«Penso di sì. Soprattutto quando ti avrò insegnato un paio di modi per metterla a buon uso».

Harshani aprì la bocca per ribattere, le guance scurite dall’oltraggio, ma prima che potesse farlo Khamûl premette le labbra sulle sue. E per quella sera, quella linguaccia biforcuta fu altrimenti occupata.






Nota dell'autrice


Dimenticavo il bello delle long: il primo capitolo è una scocciatura da postare, quelli successivi molto meno.

Non ho nessuna nota in particolare da fare, se non che chi ha letto "Caccia Grossa nell'Est" ritroverà menzionate cose familiari (l'ho detto che mi piace collegare tutte le mie storie? No? Allora lo dico!)

Grazie a chi sta seguendo la storia e alla prossima settimana,

Kan


Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Parte I. Il tenente - Capitolo 3. Timori e verità ***


Parte I. Il tenente - 3. Timori e verità


Nomi utili:

Khamûl: futuro tenente dei Nazgûl (unico con un nome canonico)
Hurren: zia di Khamûl
Badem: secondo marito della zia di Khamûl
Rahamadi: generale haradrim, suocero di Khamûl
Harshani: moglie di Khamûl, figlia di Rahamadi
Gente del Sole: gli Esterling
Gente del Serpente: gli Haradrim
Doragzûl: grande città a Est della Terra di Mezzo
Vaharabadi: capitale dell’Harad e poi dei Regni del Sole
Uomini della Morte: i Númenóreani
Doragmalik: titolo per "Gran Re"
Sempregiovani: gli elfi che hanno rinunciato alla chiamata dei Valar e sono rimasti a Est della Terra di Mezzo (Avari)
Demoni pallidi: gli elfi partiti per l'Ovest e che abitano l'Ovest della Terra di Mezzo (Eldar o Amanyar)




3. Timori e verità




Alla fine, l’idea di far restare Harshani in silenzio in presenza di altri si rivelò sciocca e inutile. Era molto più pratico lasciarle giocare un ruolo complementare al suo quando erano entrambi presenti alle udienze o alle sedute di concilio con i suoi ufficiali e governatori.

Insieme ottenevano più di quanto Khamûl avrebbe ottenuto da solo.

Anche se i figli, la ragione per cui si erano sposati, non arrivarono subito. Dopo un anno senza alcun segno, Harshani era diventata impaziente e ansiosa, come se davvero il suo ruolo si limitasse a quello di fattrice. Per quanto avesse ironizzato a proposito la prima notte, quella era la più grande paura che la agitava.

«Perché continui a voler venire a letto con me? Non serve a niente» disse Harshani, una sera.

«Potrei essere io» le disse, stendendosi al suo fianco. «Non ho di certo alcuna prova di poter concepire».

Lei lo guardò oltre la spalla, cauta.

«L’unica prova che serve arriva sempre quando ci accoppiamo, di cos’altro c’è bisogno?»

Khamûl scrollò le spalle. «E tu, una volta ogni luna, dimostri a tua volta che sei in grado di concepire».

Harshani tornò a dargli le spalle, avvolta nella vestaglia di seta rossa, i capelli che ricadevano sul materasso, seguendo la linea della schiena come un fiume nero e lucido.

Lui si sistemò dietro di lei e le avvolse un braccio intorno alla vita. Con un gesto esitante, Harshani gli coprì la mano con la sua.

«Se il tuo ventre rimane vuoto, non hai meno valore per me» le disse, strofinando le labbra contro il suo collo. «Credo possa vedere anche tu che il tuo ruolo in questo regno non si limita a quello di fattrice».

«Ma tutto quello che hai costruito avrà bisogno di eredi, non può finire con te» disse lei e chiuse gli occhi. «Forse dovresti iniziare a considerare una seconda moglie».

Khamûl si ritrovò a ridacchiare. «Donna, me ne basta una di moglie».

Lei rimase immobile e lui si sollevò su un braccio, per guardarla meglio in viso.

«E mi basti tu».

Le palpebre di lei fremettero per la voglia di aprirsi, ma fu prova della sua forza di volontà se rimasero chiuse.

«Dico davvero, Harshani».

Al che lei si girò per guardarlo in faccia.

«Anche se mi manca qualcosa tra le gambe?»

Khamûl soffocò una risata. «A chi importa cosa abbiamo tra le gambe? A me non di certo». Le prese il mento tra pollice e indice. «Conta qualcosa solo quando si tratta di far figli e non sono molto interessato all’argomento, mi pare di averti fatto capire».

E procedette a dimostrarle a cosa fosse interessato davvero.


* * *


Quasi per beffarsi delle rassicurazioni di Khamûl ad Harshani, in quel periodo, spuntò un giovane che sosteneva di essere il figlio del Doragmalik.

Peccato che a nessuno risultasse che il suo predecessore avesse avuto mogli e generato figli. E, se si fosse trattato di un bastardo, era impossibile provarne l’ascendenza visto che il Doragmalik non lo aveva riconosciuto.

Nonostante ciò, c’era gente che –forse in un moto di nostalgia– ci credeva e presto si diffusero voci sulle capacità incredibili di questo giovane, al punto che Khamûl lo invitò a Vaharabadi per assicurarsi che non ci fosse davvero qualche fondamento in quelle dicerie.

Il giovane però non accettò il suo invito, né andò mai a trovarlo a palazzo, il che lasciò a Khamûl ampio spazio per delegittimarlo definitivamente con le stesse dicerie che lo avevano innalzato da fastidio a minaccia.

Dopotutto, se era davvero il figlio del precedente Doragmalik, perché non si era presentato a sostenere il suo diritto a regnare?

Entro poche settimane il giovane sparì dalle cronache e, quando i suoi uomini gli portarono il cadavere, Khamûl vide nient’altro se non un ragazzino dell’Estremo Est come tanti altri.

«Era così giovane. Poteva essere mio figlio» disse Khamul ad Harshani, quella sera.

Lei gli posò le mani sulle spalle. «A dimostrazione ulteriore che non poteva essere figlio del Doragmalik».

«Qualcuno l’ha usato contro di me. E contro di te».

Harshani abbassò lo sguardo e le sue mani scivolarono via, ma Khamul le afferrò prima che lei potesse ritrarsi.

«Troveremo chi ha osato tanto». Premette le labbra contro le sue nocche, gli occhi nei suoi, e lei annuì.

«Insieme».


* * *


Una sera, durante un viaggio verso Nord, il sonno lo eludeva e Khamûl andò a sedersi fuori dalla tenda mentre Harshani riposava serena. Nonostante l’aria della notte fosse fredda, non aveva sentito la necessità di indossare altro al di fuori del perizoma che si era avvolto alla vita.

Tutto taceva nel campo, fatto salvo lo scricchiolio ogni tanto delle armature dei soldati di guardia, ma c’era un’aria strana che non lo faceva rilassare. Un formicolio tra le scapole, come se qualcuno lo stesse osservando non visto.

Un’ombra si mosse alla sua sinistra e Khamûl si tese, pronto a chiamare aiuto e mettersi tra l’intruso e l’ingresso della tenda.

Ma l’ombra non diede segni di ostilità. Anzi, abbassò il cappuccio per mostrare un viso dagli angoli affilati, la pelle dorata come gli occhi e i capelli, lunghi e lisci che si perdevano dentro il mantello nero in cui era avvolto.

«Ho sentito parlare di te, Doragmalik Khamûl» disse quello che era un uomo, a giudicare dalla voce profonda, ma di una bellezza tale e così diversa da quella di qualsiasi uomo Khamûl avesse mai visto, che stentava a crederlo umano.

Non somigliava neppure ai Sempregiovani che lui aveva imparato a conoscere. Khamûl non aveva esperienza con i demoni pallidi per far paragoni, forse perché l’uomo non sembrava adatto a fare paragoni con qualsiasi altra creatura di quel mondo.

«Mi auguro cose buone» gli disse, scrutandolo.

L’uomo incurvò le labbra in un sorriso appena accennato.

«Ammirevoli, oserei dire». Mosse un passo verso Khamûl. «Un lavoro migliore di quello fatto da chi ti ha preceduto».

A giudicare dal suo aspetto, Khamûl non avrebbe dato all’uomo tanti più anni di quelli che ne aveva lui. Ma a guardare meglio era difficile dargli un’età: il suo aspetto era giovane sì, ma c’era un’antichità nei suoi occhi che parlava di ben altre esperienze di vita. Forse non era un demone pallido, ma qualcosa di ugualmente antico sì.

«Un gran complimento, visto che il mio obiettivo è ricostruire quel che era caduto».

«Intento apprezzabile e molto apprezzato» disse l’uomo. «Un’impresa di questa mole, però, richiede una tempra sovrumana. Pensi di averla?»

Khamûl lo scrutò. «Non sono solo, per fortuna».

«Ma arriva sempre il tramonto e allora credi che avrai ancora la compagnia che hai adesso? A tutti piace cantare al sole nascente, ma quando le nubi lo offuscano ci vuole un attimo per voltargli le spalle e accelerarne il tramonto».

Khamûl strinse i pugni. «Se sei venuto a farmi fare un bagno di umiltà, non ne ho bisogno, grazie. Mi rendo conto che tutto questo non durerà per sempre. Ciò non vuol dire che non farò del mio meglio perché resti in piedi per tutta la durata della mia vita».

Lo straniero inclinò il capo, come a riconoscere l’errore e accettare il rimbrotto.

«Non ti auguri che ti sopravviva, però?»

«Certo che sì. Mi auguro che i miei successori possano ereditare questo regno e farlo prosperare ancora a lungo».

«Ma una volta che tu te ne sarai andato, credi davvero che tutto questo reggerà? Che i tuoi figli saranno all’altezza del ruolo per cui sono nati?»

Khamûl aveva evitato di proposito l’argomento, ma si vide costretto a rispondergli: «Li crescerò perché lo siano».

Lo stranierò arricciò un angolo della bocca. «I figli spesso sfuggono al controllo dei genitori: hanno aspirazioni proprie che possono essere diametralmente opposte a quelle che noi vorremmo».

Khamûl lo scrutò. Parlava da padre? Faticava a vedere quell’uomo come il padre di qualcuno. Che tipo di figli poteva aver avuto? E che strada potevano aver intrapreso così diversa dalla sua?

«Me ne preoccuperò quando sarà tempo» disse Khamûl.

«Sempre che rimanga il tempo per preoccuparsene» disse lo straniero. «Dopotutto, la vita dei mortali è così breve che quella dei loro regni spesso non supera la loro scomparsa».

Lo straniero risollevò il cappuccio e mosse un passo indietro.

«Dove stai andando?» disse Khamûl e gli andò incontro.

«Non è un discorso che sei pronto a sentire, il mio. Ci rivedremo quando lo sarai».

E come era emerso dalla notte, così sparì.

Khamûl rimase a guardare, incerto di cosa avesse appena vissuto. La strana sensazione che aveva annunciato l’arrivo di quello straniero era svanita con lui. E tutta la conversazione sembrava più un sogno, che qualcosa che era avvenuto davvero.

Scrollò le spalle, quasi per sbarazzarsi di quel ricordo, e rientrò nella tenda, dalla sua Harshani.


* * *


Mesi dopo, Harshani prese Khamûl in disparte da una riunione del consiglio per premergli la mano contro il suo ventre, il viso raggiante.

Non ci fu bisogno di parole.

Con una risata, Khamûl la prese in braccio e la fece roteare in aria, mentre lei rideva così forte che si accasciò sulla sua spalla. La fece tornare con i piedi a terra solo per riempirle il viso di baci.

La scoperta gli fece più piacere di quanto avrebbe mai immaginato. Poteva essere stato convinto della minore importanza di un figlio rispetto al rapporto che aveva con sua moglie, ma ciò non escludeva il sincero desiderio di poter stringere –un giorno– il frutto della loro unione.

«Vedi che funziona tutto bene?» le disse. «Non c’è nulla di sbagliato in te».

«E nemmeno in te» disse lei e gli tirò il viso verso il suo, per baciarlo con una tale foga che Khamûl rimpianse di doverla lasciare per tornare al consiglio.

Avrebbe voluto festeggiare più a lungo.

Quando nella riunione gli presentarono gli scontenti di una provincia colpita da recenti piogge torrenziali, Khamûl stanziò abbondanti aiuti e mandò l’esercito ad assistere la popolazione senza pensarci due volte.

Forse non era il modo più lungimirante di regnare, ma contava qualcosa di fronte alla gioia che provava in quel momento?

Non gli importava che fosse maschio o femmina, era felice della sola idea di avere un figlio.

Ed era certo che la vita avrebbe avuto grandi cose in serbo per lui.


* * *


Il suo primogenito, il suo erede, nacque dopo un lungo travaglio che lasciò Harshani spossata e le dita di Khamûl doloranti dove lei gliele aveva stritolate per il dolore e la fatica. Per ore l’aveva retta sullo sgabello da parto, cercando di non essere d’intralcio alla levatrice e a sua zia, tutto pur di restarle al fianco in quel momento.

Alla fine, gli misero tra le braccia un fagotto rugoso e urlante e Khamûl lo portò ad Harshani che riposava sul letto, i capelli sudati appiccicati alla fronte e le guance scure.

Decisero di chiamarlo Samir.

Senza altre cerimonie, Harshani scoprì un seno e assistette loro figlio che cercava la mammella con la piccola bocca aperta e affamata. Quando finalmente Samir trovò quel che desiderava, si rilassò contro di lei, e Harshani prese a intonare una canzone a mezza voce.

Non era stata una canzone familiare per Khamûl, prima di sentirgliela cantare. Era in una delle lingue del Sud, una canzone dell’infanzia di sua moglie. Lui non ne ricordava nessuna e non sapeva come condividere parte della sua infanzia con quel bambino, ma non gli andava di chiederne qualcuna alla zia.

Doveva venire da lui e da lui non emergeva alcuna canzone.

Eppure, Khamûl rimase incantato davanti a quel quadretto, per un attimo senza fiato. Poteva aver ricostruito un regno andato in frantumi con una guerra, riunito popoli che si erano sempre combattuti, ma davanti a quella visione di sua moglie e del suo primogenito si ritrovò di fronte alla vera dimensione di quel che stava facendo.

Un mondo in cui la sua famiglia e la sua discendenza potessero vivere in pace.

In cui Harshani sarebbe stata al sicuro e altre bambine, al contrario di lei, non avrebbero dovuto crescere col padre lontano e che a malapena aveva tempo per loro.

Un mondo in cui si poteva amare senza paura di perdere la persona amata per uno scherzo del destino.

Harshani sollevò lo sguardo verso di lui e gli sorrise.

Un mondo in cui lui poteva amare qualcuno senza rischiare di perderlo il giorno dopo.

Samir monopolizzò la loro vita in fretta, soprattutto quella di Harshani che doveva spesso mollare tutto per sfamarlo. E Khamûl dovette imparare a mettersi in secondo piano di fronte a quelle esigenze che potevano svegliarli nel mezzo della notte e rendergli difficile riaddormentarsi.

«Ha il caratteraccio adatto a regnare» disse Harshani una volta, crollando spossata di fianco a Khamûl nel letto.

Lui le avvolse un braccio intorno alle spalle e la tirò a sé, per permetterle di accoccolarsi contro di lui.

«Non credo lo abbia ereditato da me. Mia madre non ha mai detto una volta alla zia che ero stato un neonato impossibile».

«Nemmeno mia madre ha fatto commenti simili, quindi da me non può aver preso» gli disse, pungolandolo con un gomito nella pancia.

«Allora staremo a vedere a chi somiglierà crescendo» le disse, per poi mettersi a massaggiarle una spalla tesa, finché dai massaggi non passarono a tutt’altra tecnica di rilassamento, piano e in silenzio per non svegliare il mostriciattolo urlante che non aveva dato loro un attimo di tregua.

Di fronte alla nascita di una nuova vita Khamûl aveva scoperto di essere incapace di far qualcosa per ridurre le sofferenze di sua moglie e la cosa lo meravigliava ancora, a distanza di mesi dall’evento.

Un bel ridimensionamento, visto quanto si stava dimostrando bravo nel togliere quelle stesse vite che richiedevano tante difficoltà per venire al mondo.

Nel guardare Samir sorridergli quando lo riconosceva, Khamûl si chiedeva come avesse reagito suo padre nel vederlo così piccolo, rotondo e tutto sommato indifeso. Si chiedeva anche se avesse senso usare le armi per imporre la pace. Gli sembrava sempre più un controsenso e quello influenzò molte sue decisioni.

Con un erede e la prospettiva di altri in arrivo, nessuno sembrava trovare quel cambio di tattica un’assurdità. Le province e le tribù su cui regnava apprezzarono più la carezza della sua mano, che la durezza del suo pugno.

La pace che si stabilì in quel periodo gli lasciò così tanto tempo da passare con Harshani, che iniziò anche a porsi domande che non aveva mai avuto il tempo e il modo di porsi. Né aveva saputo formulare.






Nota dell'autrice


Anche qui abbiamo uno straniero, ma direi che non ci sono dubbi su chi si tratta ;)

Nello specchietto in alto, ho aggiunto un po' di altri termini ricorrenti in questa parte di storia che non avevo pensato di aggiungere prima. Temo sempre di trattare lǝ lettorǝ da stupidǝ a mettere troppe note su roba che si evince già dalla storia, però allo stesso tempo mi rendo conto che, con tutta la terminologia non-canonica che ho usato, potrebbe servire un aiuto a chi (per sua fortuna) non sta nella mia testa. Spero, quindi, che siano utili!

Grazie a chi sta seguendo la storia e alla prossima settimana,

Kan


Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Parte I. Il tenente - Capitolo 4. Frutto avariato ***


Parte I. Il tenente - 4. Frutto avariato


Nomi utili:

Khamûl: futuro tenente dei Nazgûl (unico con un nome canonico)
Hurren: zia di Khamûl
Badem: secondo marito della zia di Khamûl
Rahamadi: generale haradrim, suocero di Khamûl
Harshani: moglie di Khamûl, figlia di Rahamadi
Samir: primogenito di Khamûl e Harshani
Gente del Sole: gli Esterling
Gente del Serpente: gli Haradrim
Doragzûl: grande città a Est della Terra di Mezzo
Vaharabadi: capitale dell’Harad e poi dei Regni del Sole
Uomini della Morte: i Númenóreani
Doragmalik: titolo per "Gran Re"
Sempregiovani: gli elfi che hanno rinunciato alla chiamata dei Valar e sono rimasti a Est della Terra di Mezzo (Avari)
Demoni pallidi: gli elfi partiti per l'Ovest e che abitano l'Ovest della Terra di Mezzo (Eldar o Amanyar)




4. Frutto avariato




I figli si susseguirono nel giro di pochi anni: dopo Samir venne un altro maschio, Ramaj, a cui succedette Urri, la prima femmina; poi Hamed e infine Farah. Il tempo di battere ciglio e Khamûl se li ritrovò cresciuti e adulti.

In quel periodo, giunse anche l’ora che Rahamadi lasciasse il suo fianco.

«Sono quasi sette decenni, ho vissuto molto a lungo rispetto a tanti miei coetanei» gli disse, costretto a letto dall’ultimo malanno che lo aveva colpito.

Khamul se lo era aspettato. Forse era stato per quello che l’aveva presa meglio della perdita di Badem, o di sua madre.

Harshani non aveva versato una lacrima finché non si era tenuto il funerale, ma Khamûl non avrebbe saputo dire se quel pianto fosse stato a beneficio delle usanze funerarie o sincero. Di certo, lui non l’aveva mai vista piangere, nemmeno durante il parto di Samir.

Nel raddrizzare la casacca di Ramaj, Khamûl si rese conto per la prima volta di quanto il tempo fosse scivolato tra le sue dita, come sabbia del deserto. Si avvicinava sempre più ai cinquant’anni e, nonostante i primi fili bianchi tra i capelli, non si sentiva un giorno più vecchio di quando era diventato Doragmalik.

«Sai cosa devi fare» disse Khamûl con una pacca alle spalle del suo secondogenito.

Ramaj sollevò gli occhi al cielo. «Non ti rispondo come vorrei, solo perché sono anche io padre di famiglia e posso immaginare cosa stai provando».

Come dimenticare che ora aveva anche dei nipoti! Piccoli, ma aveva due femmine da Samir e da Ramaj altri tre –due maschi e una femmina. Le sue Urri e Farah non erano ancora sposate e Khamûl era tentato di tenerle così finché non fossero state loro a scalpitare per trovare marito.

Anche se Urri aveva già accennato alla questione e lui aveva fatto finta di non sentire.

Sua figlia sapeva con chi aveva a che fare e non aveva insistito, ma prima o poi sarebbe tornata alla carica e allora Khamûl avrebbe dovuto accettare anche quel fatto della vita: le sue principesse sarebbero andate da un altro uomo.

«Non preoccuparti per me» gli disse Ramaj, stringendogli un braccio. «Non è la prima volta che vado in battaglia».

«Ma è la prima che ci vai senza di me».

«E non sarà l’ultima, vedrai».

Khamûl gli sorrise, il cuore pieno di orgoglio, e lo strinse a sé per un ultimo abbraccio, prima di spedirlo verso il cavallo e le sue truppe in attesa.

Lo guardò partire sul viale di Vaharabadi dal portone della corte, per poi rientrare nel palazzo, un sorriso ancora sulle labbra.

Poteva essere solo il suo secondogenito, ma Ramaj era speciale per lui. Era certo che fosse stato concepito la notte in cui aveva finalmente confessato ad Harshani di amarla, in cui lei aveva detto di saperlo e di ricambiare.

Era stata una notte che aveva segnato la svolta definitiva nel loro rapporto e Ramaj ne era la prova: il suo secondogenito era tutto quello che Khamûl sarebbe stato se non fosse nato in tempo di guerra, senza un padre e in un villaggio povero e vulnerabile.

Nutriva grandi speranze per Ramaj, anche se non era il suo erede.

«Padre».

Parlando di eredi, Samir lo affiancò, scrutandolo guardingo da sotto le ciglia scure.

«Ramaj è partito a spingere indietro l’avanzata degli Uomini della Morte dalle nostre coste, qualcosa che di solito hai fatto tu» disse Samir. «Ho pensato che potrei trovare un posto nel tuo consiglio e darti una mano. Non sarò un guerriero, ma penso di poter fare qualcosa sul campo di battaglia politico».

Khamûl si fermò a guardare Samir in volto, ma suo figlio non ricambiò lo sguardo. Lo teneva nella direzione generale del suo viso, ma non nei suoi occhi.

Quasi si vergognasse a incontrarli.

Quasi avesse qualcosa da nascondere.

«Non è necessario» disse Khamûl. «Occupati delle tue figlie. E cerca di darci un erede. Per ora non c’è bisogno che ti occupi di altro».

Samir parve ridimensionarsi davanti ai suoi occhi. A conferma che non era pronto ad affiancarlo.

Per tutte le urla a perdifiato che aveva lanciato da bambino quando aveva avuto fame o qualcosa non gli andava a genio, Samir era cresciuto sempre più chiuso e taciturno. E la differenza si era fatta ancora più accentuata con Ramaj che, nato a un anno di distanza, sembrava più grande di lui, era più intraprendente e precoce.

Ramaj era il figlio che Khamûl si sarebbe aspettato come primogenito.

E ora, nonostante avesse provato a chiedergli un suo spazio, Samir non insistette quando Khamûl glielo negò. Non cercò di convincerlo della sua utilità, o della saggezza di coinvolgerlo nel governo del regno.

Non fece nulla di tutto ciò.

Accettò la decisione di Khamûl con un cenno del capo, poi si voltò e se ne andò nel corridoio da cui era arrivato.


* * *


Quella notte, Khamûl ebbe appena il tempo di infilarsi a letto e gettare un braccio intorno alla vita di Harshani, che lei gli lanciò uno sguardo oltre la spalla con il sopracciglio del giudizio sollevato.

Così Khamûl sospirò e disse: «Che c’è?»

«Tuo figlio ti ha chiesto qualcosa oggi».

«Quale figlio? Abbiamo tre maschi e due femmine, e fanno parecchie richieste durante il giorno, nemmeno fossi il re e loro i miei sudditi».

«Be’, sei il loro re. Prima ancora di essere loro padre».

«Perché non vengono a te con certe richieste, me lo ricordi?»

«Vengono e io li rimando a te. E poi devo sentirmi dire che non gli hai risposto o li hai mandati a stendere, la loro moglie e con l’intento di procreare».

Khamûl si lasciò andare sulla schiena e grugnì, infastidito.

«Corre subito dalla mamma a lamentarsi» disse. «Certo che poi non riesce a fare il suo dovere a letto».

Harshani si girò verso di lui, sollevata su un gomito.

«Quali problemi ti crea Samir?» gli chiese. «Perché devi pretendere da lui cose su cui nemmeno tu hai il controllo?»

«Noi abbiamo avuto subito due figli maschi».

«Per pura fortuna, Khamûl. Non per qualche tua capacità sovrannaturale a letto».

Khamûl la guardò con un sopracciglio inarcato. «Ah, quindi ora mi dici che non ti lascio soddisfatta».

Harshani sbuffò con tutta l’esasperazione che aveva in corpo.

«Quando fai questi commenti provocatori solo per sviare il discorso da dove fa male, vorrei strozzarti».

«Potresti provare, non ho nulla in contrario».

Al che si beccò una manata sul petto, con uno schiocco di pelle contro pelle, e ridacchiò.

«Non vedo il fascino della cosa e vorrei che finissimo di parlare di Samir, prima che tu ponga rimedio a tutte queste battute fuori luogo».

Khamûl sospirò e si passò le mani sul viso, prima di intrecciarle sullo stomaco.

«D’accordo, sono tutto orecchi» disse.

«Vedi di essere anche tutto parole e fatti» disse Harshani. «Perché non inserisci Samir nel tuo consiglio? È abbastanza riflessivo da ascoltare e imparare senza aprire bocca, finché non è sicuro di avere chiara la situazione. Non ti nuocerà. Lo abbiamo fatto istruire perché ti succeda, non può iniziare a fare pratica già da ora?»

Khamûl aprì la bocca per rispondere, ma Harshani gli posò due dita sulle labbra.

«Hai mandato Ramaj a fare qualcosa che un tempo avresti fatto tu, e persino Hamed inizia a supervisionare per te i lavori in giro per il regno. Samir è pur sempre il primogenito, devi dargli qualcosa con cui tenersi occupato. Non vorrei che si ritrovasse a regnare senza aver fatto abbastanza esperienza sotto la tua guida».

«Ma se la mia guida fosse così comoda che non si impegna da solo?» disse Khamûl. «Non sarebbe neppure la prima volta. Per ogni singola decisione cerca la mia conferma e il mio aiuto e l’unica cosa per cui non ha potuto chiedermeli sono stati i doveri coniugali, e lì non ha dato grandi soddisfazioni».

«Hai parlato con sua moglie, per caso?»

«Non mi sembra il ritratto della gioia matrimoniale. Con te ho sempre visto la differenza».

«Potrebbero esserci mille motivi per cui lei non sprizza gioia da tutti i pori. Per esempio, anche lei è riservata come Samir, è per questo che li ho trovati perfetti appena li ho visti insieme».

«Ramaj e sua moglie mi ricordano me e te» le disse, con un sorriso.

Harshani sorrise a sua volta. «Perché sono diversi tra loro e sono anche diversi da noi. Non illuderti che ci somiglino, perché quando inizieranno a differenziarsi anche ai tuoi occhi, potresti rimanere molto deluso dai loro comportamenti».

«Sissignora».

Harshani gli tracciò una linea dal centro della fronte, lungo il naso, le labbra, fino alla punta del mento.

«Samir ti chiede consiglio perché ti stima più di chiunque altro. Non vuole deluderti, o commettere errori che potrebbero distruggere tutto il lavoro che hai fatto tu. Prova a dare più fiducia anche a Samir».

«Lo dici solo perché sei sua madre».

Harshani lo guardò con le sopracciglia inarcate. «Ti sembro una che fa favoritismi?»

«Certo, altrimenti non mi avresti graziato con questa conversazione e mi avresti direttamente tirato le orecchie e fustigato sulla pubblica piazza».

Lei sospirò, esasperata, ma con un sorriso sulle labbra.

«Ci proverò, ma vedrai che ho ragione io» le disse e prima che lei potesse continuare il discorso, la rovesciò sul letto e si distese tra le sue gambe. «Ora basta parlare dei nostri figli, che dobbiamo averci a che fare già durante tutto il giorno».

«Caro mio, ti piace tanto farli, ma poi seguirli neanche a parlarne».

«Solo quando sono bravi».

Harshani roteò gli occhi. «Sono tuoi figli, come ti aspetti che non piantino grane a ogni angolo?»

«Ah, ora sono miei figli» le disse. «Meno male che io ti piaccio, o avrei paura che li metteresti alla porta, con tutto questo affetto materno».

«Scusa se mi riesce difficile essere materna, quando ho la tua lancia premuta tra le gambe».

Le lanciò un’occhiata di finto rimprovero e le lasciò il tempo di ridere, prima di calare la bocca sulla sua e concludere definitivamente i discorsi di figli ed educazione.

Almeno per quella notte.


* * *


Gli Uomini della Morte non attaccavano solo dove Ramaj li stava respingendo, ma avevano circumnavigato il Sud –dove avevano comunque lasciato segni del loro passaggio– per spuntare dal mare a Est. Erano per lo più esploratori, ma ciò non voleva dire che non fossero una minaccia.

Il grosso problema si presentò quando giunse finalmente notizia che nell’Estremo Sud avevano fondato una colonia e la popolazione locale stava reagendo da sola, nei modi più disparati, come se non facessero parte di un solo regno. Ma coordinarsi era complicato: far arrivare i messaggi attraverso la giungla richiedeva troppo tempo e la costa, con gli attacchi degli Uomini della Morte, era poco praticabile.

Era giunta l’ora di collegare a dovere la parte più a sud del suo regno e lì emersero altre difficoltà. Nessuno voleva lavorarci. C’erano voci su spiriti della giungla che attaccavano chiunque tentasse di attraversarla o si spingesse troppo a fondo. Erano secoli che nessuno della Gente del Serpente vi si addentrava e le leggende non facevano che dissuadere chiunque dal provarci, anche per sbaglio.

Khamûl decise che, come primo passo, avrebbe costruito una strada nell’area meno fitta della giungla.

«Devo andarci di persona e dimostrare che non c’è niente da temere» disse Khamûl, quando nessuno si fece avanti per guidare i lavori.

«Non mi sembra il caso, rimani qui e trova qualcuno di fidato da mandare» gli suggerì Harshani. «Qualcuno di sacrificabile».

«C’è una ragione per cui nessuno ci va più e non vorrei che fossi proprio tu, padre, a provare che le leggende hanno fondamento» disse Urri, che aveva decisamente preso il piglio della madre nel dispensare consigli senza chiedere permesso a nessuno.

Khamûl non era sorpreso da quelle credenze, dopotutto era nato tra gente piena di superstizioni e lui stesso ne aveva, ma la giungla era un nemico da abbattere per lui, un’oasi di disordine nel suo regno ordinato.

«Nemmeno il Doragmalik ha mai osato estendere il suo dominio nella giungla» disse Samir a cena, dopo il consiglio riguardo alla strada.

Era da un paio di anni che gli permetteva di partecipare, da quando si era creata una lotta intestina tra i suoi consiglieri storici per riempire il seggio lasciato vuoto da Rahamadi,

«Come, non mi inviti ad andare così ti lascio governare in mia vece?» gli chiese Khamûl.

Samir serrò la mascella e distolse lo sguardo. «Mi consideri così opportunista?»

«Non fai che chiedermi maggior potere: i miei dubbi sembrano legittimi».

Al suo fianco, Harshani sbuffò per fargli capire quanto non fosse d’accordo con lui.

Però tutta la cautela consigliata da sua moglie e sua figlia, e anche buona parte del consiglio, servì a qualcosa: Khamûl decise di non andare subito, ma di selezionare operai e manodopera dal Nord, dove potevano essere all’oscuro delle superstizioni dei locali e avrebbero avuto una barriera linguistica a proteggerli il tempo necessario per avviare i lavori e dimostrare che le dicerie erano infondate.

Con architetti e governatori delle regioni limitrofe alla giungla, Khamûl pianificò la costruzione della strada attraverso una zona meno fitta così da non urtare troppo le sensibilità dei locali, ma senza sacrificare il suo obiettivo principale.

Tutte le persone coinvolte sembrarono convinte dal piano e dalle parole di incoraggiamento di Khamûl, eppure dopo sei mesi un messo giunse ad avvisarlo che i lavori erano stati resi impossibili dai demoni della giungla, che sabotavano di notte il cantiere, e dagli alberi stessi, che sembravano ribellarsi a loro volta all’invasione degli operai.

Khamûl inviò altre guardie per difendere il cantiere di notte, e non servì a nulla.

Mandò sacerdoti, sciamani, stregoni che si fecero avanti per sconfiggere la giungla, ma nessuna delle loro preghiere e magie servì a qualcosa.

Intanto, l’Estremo Sud era sempre più fuori controllo, e gli Uomini della Morte razziavano dove il potere del Doragmalik non arrivava.

Così, alla fine, Khamûl partì alla volta della giungla e lasciò la reggenza non a Samir, ma ad Harshani.

«So di lasciarla in mani capaci» le disse. «Ti scriverò appena arrivo alla giungla e ti terrò aggiornata».

Lei scosse il capo. «Sei un testone».

«Non sarei qui altrimenti».

Harshani non rispose con uno sbuffo divertito al ghigno che le rivolse, ma strinse gli occhi in un rimprovero che gli bruciò più del dovuto.






Nota dell'autrice


Sarebbe una mia storia senza rapporti genitori-figli conflittuali e mogli che danno in testa ai mariti? Claro che no.

Ci avviciniamo alla fine della storia di Khamûl e c'è un grande assente...
Ma non per molto ;)

Grazie a chi sta seguendo la storia e ci rivediamo la prossima settimana,

Kan


Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Parte I. Il tenente - Capitolo 5. Un nuovo potere ***


Parte I. Il tenente - Capitolo 5. Un nuovo potere


Nomi utili:

Khamûl: futuro tenente dei Nazgûl (unico con un nome canonico)
Hurren: zia di Khamûl
Badem: secondo marito della zia di Khamûl
Rahamadi: generale haradrim, suocero di Khamûl
Harshani: moglie di Khamûl, figlia di Rahamadi
Samir: primogenito di Khamûl e Harshani
Ramaj: secondogenito di Khamûl e Harshani
Urri: terzogenita di Khamûl e Harshani
Hamed: quartogenito di Khamûl e Harshani
Farah: quintogenita di Khamûl e Harshani (da cui discende Khamûl IV in “Caccia Grossa nell’Est”)
Gente del Sole: gli Esterling
Gente del Serpente: gli Haradrim
Doragzûl: grande città a Est della Terra di Mezzo
Vaharabadi: capitale dell’Harad e poi dei Regni del Sole
Uomini della Morte: i Númenóreani
Doragmalik: titolo per "Gran Re"
Sempregiovani: gli elfi che hanno rinunciato alla chiamata dei Valar e sono rimasti a Est della Terra di Mezzo (Avari)
Demoni pallidi: gli elfi partiti per l'Ovest e che abitano l'Ovest della Terra di Mezzo (Eldar o Amanyar)




5. Un nuovo potere




La giungla non emanava alcuna aura maligna, come tutte le dicerie e le disavventure di quei mesi gli avevano lasciato intendere, e lungo il perimetro era ben praticabile. Peccato che nessuna delle guide locali osò oltrepassare la prima linea di alberi.

«Oltre disturbiamo i demoni della giungla» osò giustificarsi una di loro.

«Immagino come il cantiere potrebbe disturbarli, questi vostri demoni immaginari».

Le guide rimasero in un silenzio sospetto. Khamûl non aveva idea se fossero loro a distruggere il cantiere ogni notte. I soldati che aveva mandato a protezione gli avevano raccontato di sparizioni e manomissioni che non sembravano opera di esseri umani, ma la paura faceva tirare fuori alle persone capacità sorprendenti.

Restava il fatto che le guide non erano di alcun aiuto e, finché non avesse fugato i suoi sospetti, era meglio non addentrarsi nella giungla in compagnia di nessuna di loro. Per quanto ne sapeva, potevano pure essere in combutta con questi demoni di cui parlavano tanto.

Così, lanciata un’occhiata di monito alle sue guardie perché tenessero d’occhio le guide locali. Khamûl avanzò da solo in cima all’olifante.

Oltrepassò i primi alberi e procedette, le orecchie tese a cogliere qualsiasi rumore fuori dall’ordinario. Se il pericolo fosse stato a terra, sopra all’olifante sarebbe stato al sicuro. Se fosse venuto dal cielo, aveva una visione privilegiata che a piedi non avrebbe mai avuto.

Inoltre l’olifante era nativo proprio di quella giungla. Se non la temeva lui, perché doveva temerla Khamûl sul suo dorso?

Andarono avanti per qualche centinaio di cubiti tra i grossi alberi nodosi, su cui si arrampicavano piante dalle foglie lucide e carnose e fiori con i petali sgargianti, disposti in un modo che gli ricordava la vista tra le gambe di Harshani. Allungò la mano per coglierne uno, le labbra incurvate in un sorriso. Avrebbe trovato un modo per portare una di quelle piante da lei. Per il momento, però, avrebbe pressato un fiore e glielo avrebbe mandato nella prossima lettera.

Mandò avanti l’olifante, finché la bestia non si bloccò di sua sponte sulla riva di un torrente. Non era così ampio da impedirgli di procedere, eppure qualcosa lo aveva fermato lo stesso.

Khamûl si sporse a vedere oltre la spalla della bestia e, quando si raddrizzò, notò qualcosa tra i rami di uno degli alberi di fronte.

Due occhi grigioscuro ricambiarono il suo sguardo tra il fogliame.

Khamûl sbatté le palpebre, incerto di quel che aveva visto, e portò una mano al pugnale infilato nella fusciacca. Era coperto dall’armatura a placche e aveva una spada al fianco, ma il pugnale lo avrebbe comunque aiutato a distanza.

Chiunque ci fosse tra i rami non parve intenzionato ad attaccarlo.

«Chi sei?» chiese Khamûl, nell’unica lingua del Sud che conosceva bene, quella di Harshani.

Gli occhi tra i rami si mossero e una mano dalla pelle bruna, come quella dei locali, spostò delle foglie.

Sul ramo emerse una donna, a giudicare dalle modeste curve disegnate dalla tunica morbida sul petto e sui fianchi. Per il resto aveva tratti spigolosi, il corpo esile e flessuoso come un giunco, e persino le orecchie non erano del tutto tondeggianti.

I capelli lunghi e scuri erano raccolti in trecce che scendevano lungo il collo e sul petto.

Non gli parlò, ma saltò sulla testa dell’olifante.

«Sei uno dei demoni di cui parlano tutti là fuori?» le chiese, nella speranza che almeno su quella domanda potesse ottenere una risposta.

La donna inarcò le sopracciglia folte e scure.

«Demoni, no» disse, con tono di scherno e rise piano. «Mortali sciocchi».

Khamûl si ritrovò a sorridere, entusiasta per la scoperta. C’erano dei Sempregiovani in quella giungla. Con loro poteva ragionare.

«Sono qui per costruire una strada al limitare della giungla, che colleghi le diverse provincie del mio regno».

La donna Sempregiovane scrollò le spalle.

«Oltre fiume, nostra casa» disse, indicando il fiume. «Se superate, noi–» e si passò un dito di traverso sulla gola.

Khamûl annuì. «Grazie».

La donna gli rivolse un cenno del capo e saltò via dalla testa dell’olifante per sparire di nuovo tra i rami.


* * *


Non importarono le rassicurazioni della Sempregiovane, perché era la giungla stessa a opporsi a loro. A ogni colpo di ascia, a ogni movimento delle grandi seghe, gli alberi si lamentavano e una volta Khamûl aveva visto con i suoi occhi una liana afferrare un operaio e scaraventarlo contro un tronco. Il rumore di schiena spezzata gli riecheggiò nelle orecchie per tutto il giorno.

Qualsiasi accordo avesse preso con quella Sempregiovane, non era stato comunicato al resto della giungla.

O forse quella Sempregiovane non aveva mai avuto l’autorità per parlare a nome di altri se non sé stessa, e quindi nessun altro era mai stato parte di quell’accordo, soprattutto gli alberi. Sempre ammesso che la giungla fosse un’entità a sé, cosa che Khamûl non credeva proprio. Doveva essere qualche strana magia dei Sempregiovani: aveva sentito che alcuni vivevano così in comunione con le loro abitazioni da dargli vita.

Quale che fosse la verità, i lavori erano bloccati. Di nuovo.

Proprio allora lo straniero si ripresentò.

«Hai una propensione a presentarti nella notte. Potrei arrivare a crederti un incubo».

Lo straniero gli rivolse quel suo mezzo sorriso, per una volta genuinamente divertito e per gli stessi motivi che poteva aspettarsi Khamûl.

«Oppure un sogno» disse lo straniero. «Ma suppongo l’associazione con gli incubi sia dovuta al tuo umore».

«Che ne sai del mio umore?»

«Diciamo che sono bravo a leggere la gente».

Khamûl inarcò le sopracciglia e tornò a guardare la notte davanti a sé.

Quasi prendendolo come un invito, con un fruscio di vesti lo straniero gli si sedette di fianco sul baule.

«Nonostante tu stia rispettando le loro richieste, gli abitanti della foresta ti stanno dando fastidi, non è così?»

Khamûl grugnì la sua risposta. Quello era un modo di vederla.

«Tipico degli immortali» disse lo straniero.

Al che Khamûl si girò verso di lui. «Cosa ne sai di loro?»

Lo straniero assunse un’aria pensosa, lo sguardo rivolto alla giungla.

«Quelli con cui hai a che fare sono lontani parenti di quelli che hanno sconfitto il Doragmalik» disse lui. «Più selvaggi e pericolosi, meno raffinati nelle arti e nel modo di vivere, ma non meno letali. Hanno in antipatia qualsiasi novità, non a caso si sono rifugiati dove niente di nuovo possa raggiungerli e stanno osteggiando il tuo encomiabile progetto. Un progetto che neppure il precedente Doragmalik ha mai osato immaginare».

Khamûl avrebbe preferito meno adulazione, ma era abbastanza abile dal girare intorno alle parole inutili per andare al cuore di quel che lo straniero gli stava dicendo.

«Ci hai avuto a che fare».

«Più volte, in tempi diversi. Non sono mai cambiati».

Khamûl lo scrutò. «Più volte nell’arco di molti anni. Più di quanto potrei viverne io».

Lo straniero gli lanciò un’occhiata e un sorrisetto gli tirò le labbra.

«Sei molto acuto».

«E tu lasci indizi molto vistosi».

Lo straniero rise piano. «Suppongo che risulti così per una mente fine come la tua».

Khamûl sbuffò. Ancora con quell’adulazione. Avrebbe preferito che la lasciasse da parte una buona volta.

«Ho vissuto per molte ere, sì» gli disse lo straniero. «Ma sbagli quando dici che ho vissuto più di quanto potresti tu: se lo volessi, avresti la stessa possibilità. Come il Doragmalik che ti ha preceduto».

«Se il precedente Doragmalik è vissuto tanto a lungo, è stato perché lui era davvero qualcosa al di là dell’umana comprensione».

«L’ho conosciuto e ti assicuro di no».

Khamûl guardò lo straniero, in attesa che elaborasse.

«Era diventato uno stregone così potente da poter combattere la morte» proseguì quello e sollevò la mano destra. «Il tutto con l’aiuto di un oggetto così piccolo».

L’anello dorato al suo indice scintillò come di luce propria.

«Suppongo sia quello che mi stai mostrando» disse Khamûl, incapace di reprimere un sorriso. Le sue tattiche drammatiche lo divertivano sempre di più.

Lo straniero ricambiò il sorriso e abbassò la mano, per infilarla nell’altra manica.

«Sembra nulla, ma non ti farebbe comodo avere più tempo per stabilire meglio il tuo dominio su queste terre? Dopotutto il periodo senza il Doragmalik ha fatto rialzare teste molto in fretta. Ci vorranno anni perché si abituino al nuovo re che li governa e a te non resta molto, o sbaglio?»

Ovvio che non sbagliava, lo sapevano entrambi. Lo straniero era informato, ma Khamûl non poteva sorprendersi più di tanto. C’era qualcosa di poco umano in quelle conoscenze. Forse venivano con quell’anello.

«Mi permetterebbe di comparire dalle ombre come ti piace tanto fare?»

Lo straniero scoppiò a ridere e la sua risata era così ricca di suoni, che Khamûl li sentiva ma non riusciva a distinguerli tutti.

«Ti dirò di più: ti permetterà di camminare tra le ombre, dove nessun mortale può andare» disse. «Ma per il signore dei Regni del Sole, le ombre sono servitori che non esisterebbero senza la sua luce».

Khamûl mugugnò.

«E dimmi, cosa dovrei darti in cambio per questo dono così generoso e magnanimo?»

«Un dono non richiede nulla in cambio» notò lo straniero, con un sorrisetto che diceva l’esatto contrario. «Ma se proprio vuoi darmi qualcosa in cambio, ti chiedo solo una preghiera».

Khamûl inarcò le sopracciglia.

«A chi?»

«A chi avete sempre venerato: il Signore di Tutto».

«Quindi saresti uno dei suoi misteriosi sacerdoti?»

Lo straniero strinse la testa nelle spalle. «In un certo senso, sono il solo nel mio genere. L’unico che può farti questa offerta».

Khamûl lo scrutò meglio. Il volto era sereno e poteva essere la serenità di chi non aveva nulla da nascondere, di chi aveva imparato così bene a dissimulare i segreti che proteggeva che non doveva nemmeno impegnarsi.

Non aveva idea di chi avesse davvero davanti.

Non aveva nemmeno idea se questo anello che lo straniero gli offriva avesse davvero le capacità di cui parlava lui. Poteva essere della paccottiglia che funzionava solo se era quello che si voleva vedere o solo se, come doveva aver fatto il sacerdote, avevi studiato le arti magiche per farlo funzionare.

Khamûl non era un mago, non lo era mai stato. Né credeva di avere l’inclinazione per diventarlo. Ma ricordava le voci che giravano sul Doragmalik e i poteri inspiegabili che aveva avuto. La stessa nube che ne aveva annunciato la caduta era stata un segno degli strani poteri che lo avevano circondato, come se –quando era morto– i suoi incantesimi avessero perso la forza che li reggeva.

Se il Doragmalik aveva davvero usato un anello come quello dello straniero, quando Khamûl avrebbe iniziato a manifestare quegli stessi poteri, nessuno avrebbe più messo in discussione il suo diritto a reggere i Regni del Sole.

Al che avrebbe passato l’anello ai suoi figli, perché anche loro potessero avere la sua forza a disposizione e nessuno avrebbe potuto opporsi.

Era qualcosa da provare.

Dopotutto che male poteva fargli? Doveva solo continuare a pregare il Signore di Tutto, come faceva già e come tutti facevano. Magari avrebbe avuto davvero qualche decennio in più davanti per assicurarsi di lasciare la sua eredità in buone mani.

«Se quell’anello funziona davvero, non mi limiterò a darti una preghiera in cambio. Ti costruirò un grande tempio a Vaharabadi e ristrutturerò quello di Doragzûl».

Lo straniero sorrise, luminoso.

«Non vedo l’ora di vedere il segno che lascerai nella storia del mondo» gli disse e si sfilò l’anello.

Lo offrì a Khamûl, sul palmo della mano dalle dita affusolate.

Sembrava inerte e non sfolgorante come quando lo straniero lo aveva indossato. Ma lo chiamava e Khamûl si sentiva pronto a rispondere.

Avrebbe costruito quella strada attraverso la giungla. Avrebbe riappacificato le ribellioni. Avrebbe opposto resistenza agli Uomini della Morte. Avrebbe tenuto insieme il regno per il suo degno erede.

E avrebbe dimostrato di essere l’unico Doragmalik che avrebbe potuto succedere al precedente. La sua stirpe avrebbe segnato la storia delle Terre del Sole e del Serpente.

Khamûl lanciò un’ultima occhiata sottecchi allo straniero, che non sembrava molto interessato al suo indugiare. Come se non gli importasse se lui avesse accettato l’anello o meno.

Così Khamûl allungò la mano e lo prese.

Se lo rigirò tra le dita, lo sollevò contro lo sfondo del cielo stellato.

Lo infilò.

E il mondo cambiò aspetto.

La notte era ancora cupa e scura, ma c’era una luce nuova alla sua sinistra.

Quando si voltò verso lo straniero, non era più lo stesso che aveva avuto davanti. Al suo posto c’era una creatura di fuoco, che irradiava luce dalla pelle dorata, gli occhi che non si limitavano a luccicare come braci, ma ardevano. I capelli stessi erano fatti di fiamme e bruciavano intorno alla testa e lungo le spalle.

«Cosa sei?»

Lo straniero si alzò dal baule.

«Una leggenda» disse lui. «Quel che diventerai anche tu d’ora in avanti».

E Khamûl vide come faceva lo straniero a sparire nelle tenebre.

Semplicemente… svaniva.

Se qualcuno glielo avesse raccontato, non ci avrebbe mai creduto. Ma lo aveva visto succedere con i suoi stessi occhi.

Ora vedeva molte cose in modo diverso.

Avanzò verso la giungla, a piedi, noncurante di non essere armato. Voleva vedere cosa sarebbe successo se vi si fosse addentrato con l’anello al dito.

Raggiunse il cantiere e proseguì tra gli alberi, finché non giunse al fiume. Lì, posò la mano su un tronco, non desiderando altro se non la sua distruzione.

Un alone nero si espanse dal punto di contatto e su, fino ai rami che si allungavano verso il cielo. L’albero avvizzì, le foglie rinsecchirono e caddero come una pioggia di cenere. E poco a poco anche l’albero si ridusse in polvere, sotto i suoi stessi occhi.

Dall’altra parte del fiume vide brillare –fioche– delle forme umane. Ma non aveva dubbio di chi fossero.

I Sempregiovani che abitavano la giungla.

Erano lì, a guardarlo.

Bene.

«Avete finito di ostacolare i miei piani!» urlò nella loro direzione. «Voi e questa giungla maledetta!»

Non ottenne alcuna risposta.

I Sempregiovani si ritrassero tra gli alberi da cui erano emersi, fioche fiammelle nella notte.

E da allora, per tutta la durata dei lavori, nella giungla regnò solo il silenzio.


* * *


Una nube di polvere annunciò l’arrivo di un gran numero di uomini a cavallo. Le guardie alle porte però non portarono a Khamûl notizie sugli Uomini della Morte.

«Il principe Ramaj!» annunciò un messaggero.

Dopo anni a combattere lungo le provincie costiere e nel profondo Sud, ecco di ritorno il suo secondogenito. Khamûl era tentato di accorrere all’ingresso della città, ma rimase nella corte ad attendere che la truppa di suo figlio lo raggiungesse, e non era da solo. Con lui c’erano anche Harshani, e i loro figli, con la moglie e i bambini di Ramaj.

Erano tutti pronti a riaccoglierlo a casa.

Ma, mentre i soldati si avvicinavano al palazzo, quelle che gli erano sembrate urla di gioia della gente di Vaharabadi si trasformarono in urla di dolore.

Allora Khamûl corse verso la porta, giusto in tempo per vedere le bandiere –bianche con la serpe rossa che si mordeva la coda– a mezz’asta mentre i soldati di Ramaj entravano nella corte del palazzo e si allargavano a mezzaluna, a eccezione di due di loro, che portavano tra i cavalli una barella di fortuna coperta da un drappo nero .

Khamûl incontrò lo sguardo di Harshani, che aveva le mani premute al ventre, il volto pietrificato. E si affrettò verso la barella.

«Doragmalik» disse uno dei soldati, saltando giù dalla sella. «Dobbiamo portarti un grande dolore».

Khamûl si chinò sulla barella e allontanò il drappo da quella che sembrava una testa.

Ramaj.

Al di sotto del drappo c’era il suo secondogenito, il volto esangue –eccetto per un angolo della bocca macchiato di marrone rossiccio–, i capelli a ciocche sporche di sangue raggrumato. Bastò abbassare ancora un po’ il drappo per vedere la ferita aperta alla gola.

Al suo fianco, Harshani emise un verso strozzato.

Quella visione e quel suono rubarono la forza alle ginocchia di Khamûl. Si ritrovò a crollare sul selciato, il drappo nero stretto tra le mani, incapace di emettere suono.

Poco male, perché Harshani emise il lamento a cui lui non riusciva a dar voce. Qualcosa gli serrava la gola e la mano corse alla catena che reggeva l’anello.

Forse avrebbe potuto fare qualcosa con i suoi poteri, forse–

Lo infilò e il mondo si fece opaco e ovattato, le persone intorno a lui sbiadite ma presenti, mentre suo figlio... non c’era. Khamûl allungò le mani dove ricordava di averlo visto, steso su quella barella e lo sentì, ne percepì il corpo freddo col tatto, ma non lo vedeva con chiarezza.

Sul suo indice destro, l’anello brillava come in fiamme.

Ma nulla poteva contro la morte.

Era il signore di tutto, ma non aveva alcuna possibilità contro la morte di suo figlio.

Khamûl sfilò l’anello e i suoni assaltarono prepotenti le sue orecchie. Ai lamenti funebri di Harshani, interrotti da singhiozzi, si erano uniti i pianti della moglie di Ramaj, mentre i figli guardavano confusi il loro padre immobile e insanguinato, senza sapere bene cosa fare.

Samir avvolse le braccia intorno alle spalle dei due più grandi e mormorò loro qualcosa, per poi prendere la più piccola in braccio. I bambini andarono con lui, dopo aver gettato un ultimo sguardo incredulo a Ramaj.

Ma Khamûl non riusciva a distogliere lo sguardo da suo primogenito.

Non era toccato da quella morte!

Forse era addirittura sollevato che fosse sparito un rivale molto più bravo di lui. Qualcuno che valeva di più, qualcuno che a ruoli invertiti sarebbe stato lì a disperarsi con i suoi fratelli, e non avrebbe portato via i bambini dal loro padre.

Khamûl si alzò, determinato a raggiungere Samir, togliergli i bambini di Ramaj e riportarli davanti al corpo del padre, ma le braccia di Harshani gli si strinsero intorno alla vita. Lei gli premette il viso contro il petto e le sue lacrime gli bagnarono la camicia, i singhiozzi gli scossero l’anima.

La rabbia che lo aveva posseduto fino a un attimo prima evaporò e Khamûl si ritrovò a stringere la moglie a sé, per poi affondare il viso nei suoi capelli e far sue quelle lacrime e quei singhiozzi.

Tutto ciò che lui non era in grado di tirare fuori.


* * *


La rabbia per la morte di Ramaj poteva aver risparmiato Samir, ma aveva bisogno di uno sfogo e Khamûl lo trovò molto presto.

Radunò le truppe che gli avevano riportato il suo secondogenito e raggiunse quelle rimaste indietro a tenere il territori sotto attacco degli Uomini della Morte. Non sentì quasi le condoglianze che offrirono gli altri ufficiali. Voleva solo tutte le informazioni possibili sul nemico, dove si trovasse, quali fossero stati gli ultimi movimenti.

Poche settimane dopo, la rabbia bruciava con più intensità di prima, ma era diventata un’amica e un’amante, l’anello all’anulare il modo in cui lo accarezzava e lo rassicurava.

Avrebbe vendicato il suo Ramaj.

Avrebbe reso impossibile per gli Uomini della Morte di dimenticare il suo nome.

Non avrebbero più dormito la notte, sapendo che se avessero messo piede nelle sue terre avrebbero ottenuto solo perdite e sofferenza.

Trovarono gli Uomini della Morte in un’insenatura a Nord-Ovest delle Terre del Serpente. Erano venuti con molte navi, donne e bambini, e avevano già stabilito un grande accampamento che aveva tanto il sapore di città in embrione.

Non sarebbe sorta alcuna città in quel territorio.

«Attaccheremo domani, prima dell’alba» annunciò Khamûl agli ufficiali, dopo aver esposto i suoi piani.

C’era un dettaglio, però, che aveva tenuto per sé.

Il mattino successivo, mentre le stelle sbiadivano poco a poco, Khamûl sollevò la mano destra al cielo e parlò in una lingua che non aveva mai saputo di conoscere, ma che era un sussurro costante nella sua testa quando indossava l’anello.

Il deserto rispose.

E avvolse lui e i suoi soldati in una nube. Come narravano le storie del precedente Doragmalik.

Gli Uomini della Morte non li videro nemmeno arrivare.






Nota dell'autrice


Sono felicissima di aver avuto l’occasione, in questa storia, di presentare un’altra delle tribù degli Avari: i Kindi! Avevo accennato a loro in "Caccia Grossa nell’Est" e finalmente ho potuto scriverli (secondo la mia visione), per quanto due ere prima e in tutt’altra fase della loro storia.
Penso sia facile immaginare che lo scherzetto giocato da Khamûl non sia stato propriamente d’aiuto a questa tribù di elfi.

Quanto al resto, è tornato Sauron, visto? Sempre una gioia rivedere il suo bel faccino, in qualsiasi forma si presenti, eh eh eh.

Per l'anello, ho provato ad allinearmi il più possibile a quel che si intravede dal pov di Frodo nel capitolo "Un coltello nel buio" (qualche influenza filmica ci sarà stata perché sarebbe impossibile non averne), ma tenendo a mente che questo è un anello degli Uomini e che, secondo me, chi lo indossa influisce sulla visione che ha dell'Invisibile (e non solo).
È complicato. Ho provato a fare qualcosa di sensato per le scarse info canoniche, per il personaggio e per la mia visione.

Grazie a chi sta seguendo la storia e ci vediamo la prossima settimana per l'ultimo capitolo di Khamûl,

Kan


Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Parte I. Il tenente - Capitolo 6. Sulle proprie gambe ***


Parte I. Il tenente - Capitolo 6. Sulle proprie gambe


Nomi utili:

Khamûl: futuro tenente dei Nazgûl (unico con un nome canonico)
Hurren: zia di Khamûl
Badem: secondo marito della zia di Khamûl
Rahamadi: generale haradrim, suocero di Khamûl
Harshani: moglie di Khamûl, figlia di Rahamadi
Samir: primogenito di Khamûl e Harshani
Ramaj: secondogenito di Khamûl e Harshani
Urri: terzogenita di Khamûl e Harshani
Hamed: quartogenito di Khamûl e Harshani
Farah: quintogenita di Khamûl e Harshani (da cui discende Khamûl IV in “Caccia Grossa nell’Est”)
Kusem: terzogenito di Samir
Gente del Sole: gli Esterling
Gente del Serpente: gli Haradrim
Doragzûl: grande città a Est della Terra di Mezzo
Vaharabadi: capitale dell’Harad e poi dei Regni del Sole
Uomini della Morte: i Númenóreani
Doragmalik: titolo per "Gran Re"
Regni del Sole: il grande regno nato dall'unione delle tribù di Rhûn e Harad
Sempregiovani: gli elfi che hanno rinunciato alla chiamata dei Valar e sono rimasti a Est della Terra di Mezzo (Avari)
Demoni pallidi: gli elfi partiti per l'Ovest e che abitano l'Ovest della Terra di Mezzo (Eldar o Amanyar)




6. Sulle proprie gambe




La morte di Harshani fu il primo segnale che per Khamûl il tempo non stava passando.

Fino a quel momento, i segni sul viso e sul corpo di lei non erano stati altro che abbellimenti per una donna che non gli era stata preziosa per la bellezza fuori da ogni canone. Però, dopo essersi ritrovato a stringerle la mano e baciarle le dita mentre pian piano la vita si spegneva nei suoi occhi, Khamûl si era guardato allo specchio per la prima volta in tanti anni: a parte un lieve dimagrimento, che aveva reso i tratti del suo viso più affilati e le solite ciocche bianche, non portava altra traccia del tempo.

Avrebbe potuto essere morto, anzi, avrebbe dovuto esserlo, visto che aveva superato l’età in cui era morto Rahamadi e che Harshani era più giovane di lui di quasi un decennio.

Eppure Khamûl sembrava persino più giovane dei suoi figli.

Non era certo che la cosa gli dispiacesse. Gli sguardi ammirati dei sudditi erano una soddisfazione troppo grande perché Khamûl potesse risentirsi del suo aspetto.

La giovinezza che si aggrappava a lui era la prova per tutti che Khamûl era il Doragmalik. Quasi fosse la carica stessa a conferire l’eterna giovinezza e i poteri che aveva dimostrato più volte.

Quando infine Samir morì di vecchiaia, Khamûl tirò un sospiro di sollievo. Si sarebbe risparmiato l’imbarazzo di lasciare il regno in mano sua.

Per fortuna, aveva badato a crescere suo nipote –il figlio maschio di Samir– come aveva reputato adatto al ruolo che gli sarebbe spettato. Il risultato, tutto sommato, lo soddisfaceva: Kusem aveva avuto già degli eredi, sapeva combattere, riusciva a tener testa ai suoi interlocutori nei consigli, e aveva una moglie con del sale in zucca.

Quei due non si sarebbero nascosti negli angoli per evitare di stare troppo al centro dell’attenzione. Non avrebbero avuto paura della loro stessa ombra. Sarebbero stati dei degni successori di Khamûl e Harshani.

Harshani che gli mancava, immensamente, e nessuno poteva lenirne la mancanza.

Nemmeno uno dei prigionieri che aveva preso come schiavo personale durante uno degli attacchi agli Uomini della Morte.

Poteva tenerlo con sé e sentirsi in pace con qualcuno che non invecchiava come chi circondava Khamûl, ma non c’era amore tra loro. Non c’erano scambi di consigli e riflessioni, per quanto lo schiavo ogni tanto osasse fare uso di quella sua lingua arrogante. Né c’era il rapporto sereno e affettuoso che aveva avuto con gli amanti della sua gioventù.

Era solo una lotta per il potere, in cui Khamûl aveva sempre la meglio.

Così come doveva essere.

Avere uno schiavo appartenente alla stirpe degli Uomini della Morte era un ricordo di come i Regni del Sole fossero più forti degli invasori dal mare.

Era una dichiarazione politica.

Ma quando Hamed si ammalò e morì per le complicazioni della malattia, Khamûl smise di trovare piacevole il tempo che non passava.

Si rese conto appieno che i suoi figli lo avrebbero lasciato. Che anche i suoi nipoti sarebbero venuti a mancare. E che lui sarebbe rimasto lì, a guardarli morire uno ad uno, mai sfiorato dagli anni che passavano, come il tempio al Signore di Tutto a cui inviava i loro corpi ad ardere per restituirli a chi li aveva creati.

Una sera, mentre Urri si agitava sul divanetto, su cui era stesa senza trovare una posizione comoda, le disse:

«Pensi che dovrei farmi da parte e lasciare che Kusem sieda sul trono al mio posto?»

Lei si fermò e lo guardò come se avesse detto un’ovvietà tale che non meritava risposta. Gli ricordava tanto Harshani, in quel momento,

Proprio come con Harshani, Khamûl non si fece intimorire e proseguì: «Ho paura che gli succeda qualcosa e che tutto il lavoro che ho fatto per prepararlo si riveli vano».

«Hai preso pure in carica i suoi figli, padre. Direi che tutto il lavoro di educazione che stai facendo andrà perduto solo se si verificherà una catastrofe che cancellerà la nostra intera famiglia in un sol colpo».

«Non dirlo neanche per scherzo».

Urri roteò gli occhi, proprio come aveva imparato da sua madre.

«Dopo aver perso il mio erede e non averlo neppure preparato a dovere, mi preoccupo. Mi sembra legittimo».

«Padre, Samir era pronto. Sei stato tu che non gli hai voluto cedere il posto. Non so cosa tu abbia fatto per restare così giovane –perché alle dicerie io non credo affatto, sei pur sempre mio padre– ma non ha aiutato Samir a dimostrarti un bel niente. Hai continuato a essere in forze, tanto che chiederti di farti da parte sembrava un insulto, e uno che non avresti preso bene».

Khamûl corrugò la fronte.

«Perché dovrei farmi da parte se ci sono ancora cose che posso fare? Se non reputo necessario delegare? Dopotutto siete miei figli, so di cosa ognuno di voi è in grado».

Urri inarcò un sopracciglio. Altra cosa imparata da sua madre.

«Samir non mi ha mai dimostrato di essere pronto. Ramaj, invece… se non fosse morto così presto, se fosse stato Samir a morire contro gli Uomini della Morte, avresti visto come mi sarei messo da parte per farlo regnare. Ma purtroppo non scegliamo i figli, né quelli che sopravvivono».

Urri aggrottò la fronte. «Non scegliamo neppure i genitori. E Samir non meritava quel che gli hai fatto. Hai soffocato qualsiasi sua ambizione dicendogli in modi diversi che non ce l’avrebbe mai fatta, che avrebbe dovuto misurarsi con te e che non sarebbe mai stato all’altezza.

«E non essere tanto convinto che, a ruoli invertiti, tu avresti ceduto il trono a Ramaj più volentieri. Tu rimani sul trono perché credi che questo renda il regno più forte e lo hai reso più forte. Sei una leggenda vivente. Ma allo stesso tempo il regno non reggerà a lungo quando deciderai di farti da parte, perché non ha imparato a fare a meno di te».

«Il regno non può fare a meno del suo Doragmalik».

«No, il regno non può fare a meno di te, padre. Non in quanto Doragmalik, ma in quanto Khamûl».

Dopo quella conversazione, Khamûl andò a letto ma come succedeva sempre da qualche anno a questa parte, il sonno gli sfuggiva del tutto e non ne sentiva nemmeno la mancanza.

Chiamò il suo schiavo, che arrivò davanti al suo letto e si inginocchiò per terra davanti a lui.

«Dimmi, nella tua terra natia, dove tutti avete una vita così lunga, come si avvicendano i re? Aspettate che uno muoia perché l’altro gli succeda?» gli chiese, girandogli intorno con le mani dietro la schiena.

Lo schiavo lo seguì con lo sguardo finché poté, poi emise un verso nasale.

«I nostri re lasciano lo Scettro all’Erede ben prima di morire. Arriva un momento in cui ritengono sia maturo un cambio di regno e si ritirano a vita privata, mentre il loro erede muove i suoi primi passi da re. Può essere utile per permettere alle diverse generazioni di consultarsi e guidarsi, e dimostra anche come si tenga più al regno che al proprio potere».

Khamûl gli raccolse i capelli in un pugno dietro la nuca e gli piegò la testa indietro, per guardarlo in viso.

«Mi stai dicendo che sono troppo attaccato al mio potere?» gli chiese.

«Stavo rispondendo alla tua domanda».

Quell’arroganza degli Uomini della Morte non falliva mai nel fargli ribollire il sangue nelle vene. Qualcosa che ormai poche cose riuscivano a fare. Al punto che teneva lo schiavo con sé perché era certo che avrebbe detto qualcosa di provocatorio che avrebbe fatto tornare a funzionare l’appendice troppo spesso inerte che aveva tra le gambe.

Ma quello era un segreto che non condivideva con nessuno. Neppure lo schiavo lo sapeva. Gli lasciava credere che le sue provocazioni gli causassero quella rabbia che sfogava imponendosi su di lui, ma la verità era che solo quel gioco –di cui solo Khamûl era consapevole– sembrava smuoverlo.

Così, alla fine, pensò e ripensò alle parole di Urri e a quello che lo schiavo gli aveva raccontato sulla sua terra natia. Al punto che un giorno chiamò a sé Kusem e gli pose la domanda delle domande:

«Ti senti pronto per regnare?»

Kusem deglutì, nei suoi occhi due risposte in conflitto: doveva dirgli di sì e dargli il dispiacere di farlo sentire di troppo, oppure dirgli di no e dargli l’impressione di essere uno sfaticato?

L’atteggiamento di Khamûl con Samir lo aveva segnato più di quanto avesse creduto. Era proprio vero che i bambini vedevano e capivano più di quanto fosse dato loro atto.

Alla fine, una sera, Khamûl si ritrovò a guardare Vaharabadi dal balcone della sua camera, la brezza che gli scarmigliava i capelli, e indossò l’anello.

Il vento smise di soffiare, le luci si attutirono, mentre per le strade e alle finestre intravedeva solo ombre pallide.

A pochi cubiti di distanza, la cupola del tempio bruciava più nera della notte.

Anche il primo Doragmalik si era posto simili problemi? Si era chiesto se lasciare il potere a qualcun altro e ritirarsi… a fare cosa?

Considerando la mancanza di eredi, il Doragmalik probabilmente non aveva nemmeno avuto la possibilità di porsi simili problemi.

Con cinque figli, che a loro volta ne avevano avuti almeno due a testa, e i suoi nipoti che stavano dando vita a nuove famiglie –con cui però non aveva forti i legami–, Khamûl era in una situazione ben diversa.

Stava perdendo il contatto con la realtà anche rimanendo al suo posto.

Forse… forse avrebbe dovuto fare come i re degli Uomini della Morte e ritirarsi a vita privata. Per quanto potesse essere privata la sua vita lontano dal trono: si era premurato che tutti riconoscessero la sua faccia, l’aveva fatta stampare sulle monete, aveva commissionato affreschi e tessuti con il suo volto. Era ovunque e non poteva aspettarsi di non essere riconosciuto e poter vivere il resto dei suoi giorni in tranquillità.

Il resto dei suoi giorni.

Dovresti lasciare l’anello per vedere la fine dei tuoi giorni, gli sussurrò una voce flebile nella sua mente.

Ma Khamûl non aveva intenzione di farlo. Kusem avrebbe regnato da solo, come Khamûl aveva fatto nel primo periodo. Dopotutto, lui aveva preso l’anello dallo straniero solo perché non aveva visto alcun futuro davanti a sé senza un qualche aiuto.

Kusem avrebbe ereditato i Regni del Sole stabili e sicuri, che aveva accettato l’unificazione e la guida di un nuovo Doragmalik, invece di troppi capitribù e signorotti locali.

Sarebbe stata quella la sua eredità per Kusem.

L’anello no.

L’anello era suo.

E con Khamûl se ne sarebbe andato.


* * *


Un giorno, Khamûl sparì dal palazzo.

Dapprima, le sue figlie –uniche superstiti– trovarono lo schiavo sgozzato sul tappeto della camera del Doragmalik, ma nessuna traccia del padre.

Poi giunse una tempesta di sabbia su Vaharabadi e non ebbero dubbi che si trattasse di un segno.

Dopotutto, Khamûl aveva raccontato loro degli eventi che avevano segnato la caduta del precedente Doragmalik. Se questa volta non era stato sconfitto in battaglia, poteva bastare una semplice tempesta di sabbia come segno dell’avvicendamento sul trono dei Regni del Sole.

Kusem prese il titolo che era stato di suo nonno e iniziò il suo regno come Doragmalik, per quanto a un’età piuttosto avanzata. Soprattutto paragonandolo a come era stato giovane il nonno quando aveva iniziato la conquista delle tribù divise.

Forse fu questo a far tornare gli Uomini della Morte sulle coste dei Regni del Sole: avevano fiutato la caduta del loro grande nemico ed erano tornati a esplorare e poi a colonizzare. Ma rimanevano sulle coste, non si addentravano troppo nell’entroterra e, di sicuro, non misero mai più piede nel deserto nelle Terra del Sole.

Mentre il nuovo Doragmalik si districava tra le lotte fratricide dei suoi parenti e gli attacchi dall’esterno, tra le Genti del Sole e del Serpente fiorirono numerose leggende sulla sparizione di Khamûl.

Alcuni dicevano che la tempesta di sabbia lo avesse condotto dal Signore di Tutto, che lo aveva preso a sé, e che ora Khamûl era parte dell’unico dio e da lì vegliava sulle sue Genti.

Secondo altri, si era dissolto nel deserto da cui era emerso per tornare quando ci fosse stato di nuovo bisogno di lui nei secoli a venire.

C’era anche chi riteneva che Khamûl fosse stato una divinità sin dall’inizio e che, a missione compiuta, si fosse semplicemente ricongiunto alla parte più grande di se stesso. La sua eredità erano quei figli quasi divini, che sarebbero rimasti alla guida dei Regni finché il sole non fosse tramontato per sempre a ovest.

Le leggende sulla fine di Khamûl erano innumerevoli, ma nessuna si avvicinò mai alla realtà.






Nota dell'autrice


E così, siamo arrivatǝ alla fine di Khamûl. Mi dispiace un po’ lasciarlo, ma dall’altro canto non vedo l’ora di condividere il mio scimmione di Angmar ♥️

Lo schiavo di Khamûl non mente sulle usanze númenóreane, peccato sia un po’ poco aggiornato, visto che proprio mentre Khamûl regnava nei Regni del Sole, Tar-Telperien tiene lo Scettro fino quasi alla morte e da lei in poi l’usanza dei Re di Númenor di lasciare lo Scettro prima della morte va sempre più scemando.
Gli ultimi Re a lasciare lo Scettro prima di morire sono Tar-Minastir e Tar-Ciryatan… ed è proprio loro che andiamo a trovare nella seconda parte di questa storia ;)

Grazie a chi ha seguito fin qui! Spero che la storia di Khamûl vi sia piaciuta e di ritrovarvi a dicembre con l’origin story del Re Stregone di Angmar!

Kan


Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Parte II. Il capitano - Capitolo 1. L'eredità dei padri ***


Parte II. Il capitano - Capitolo 1. L'eredità dei padri


Parte II. Il capitano




Nomi utili:

Ciryandil: secondogenito di Tar-Ciryatan
Ciryatan: dodicesimo Re di Númenor, marito di Nenilde, padre di Atanamir (canon) e Ciryandil
Nenilde: moglie di Ciryatan, madre di Atanamir e Ciryandil. Scrive componimenti poetici erotici sotto lo pseudonimo "Ciryanilde"
Tar-Minastir: undicesimo Re di Númenor, padre di Ciryatan, figlio di Isilmo fratello di Telperien (canon)
Hallariën: moglie di Minastir, madre di Ciryatan
Tar-Telperien: decima Regina di Númenor, zia di Minastir (canon)
Atanamir: tredicesimo Re di Númenor (canon), fratello maggiore di Ciryandil, figlio di Ciryatan e Nenilde




1. L’eredità dei padri




Il porto di Rómenna brulicava di gente, tutta radunata lì per salutare non solo la partenza dell’Erede del Re, ma anche il primo viaggio nella Terra di Mezzo del suo secondogenito.

Ciryandil aveva poca attenzione da prestare alla folla e molta da dedicare alle grandi navi ormeggiate al molo, quelle per la navigazione in mare aperto. Tutto pur di ignorare i suoi genitori che tubavano come se fosse la prima volta che si salutavano.

Un braccio gli avvolse le spalle, segno dell’arrivo di Atanamir al suo fianco.

«Nervoso?» gli chiese suo fratello.

Ciryandil arricciò il naso. «Curioso, più che altro. Viaggerò con papà, non ho di che essere nervoso».

«Mmmh, sempre che lui si decida a partire» disse Atanamir e gettò un’occhiata oltre la spalla. «Piantatela, voi due! Non è bastato sentirvi dagli appartamenti reali per tutta la notte?»

Da Nenilde provenne una risatina che non aveva nulla di imbarazzato.

«Non essere così arido, Atanamir» disse loro padre, Ciryatan. «O troverai solo fiche aride per te».

Ciryandil scoppiò a ridere, mentre Atanamir sbuffava divertito.

«Poi si chiedono perché voi due non abbiate la dignità dei principi di Númenórë» giunse la voce del nonno, a poca distanza da Ciryandil.

Tar-Minastir camminava sul molo con incedere lento e posato, a proposito di dignità. Nulla in lui sembrava fuori posto per un Re di Númenórë.

«Non replicare i comportamenti di tuo padre, Ciryandil» disse nel fermarsi al suo fianco. «So che stravedi per lui e che pensi sia un buon esempio da seguire, ma osserva cosa combina nella Terra di Mezzo per fare l’esatto contrario».

«L’ideale sarebbe che non partissi proprio» disse Atanamir, con quel tono che sembrava dar ragione al nonno, ma che Ciryandil riconosceva per la presa in giro che era.

Atanamir aveva questa tendenza a ripetere i rimproveri che loro ricevevano come se li trovasse sensati, ma c’era sempre qualcosa nei suoi occhi e nella sua voce che smentiva quella prima impressione. Era il genere di meccanismo che aveva aiutato Ciryandil a non prendere affatto sul serio non solo le indicazioni che gli dava Tar-Minastir, ma spesso anche quelle dei suoi stessi genitori.

Sapeva rendersi conto da solo di cosa andava emulato, e cosa no.

Per esempio, il nonno poteva avere da ridire sui viaggi di Ciryatan, ma erano quei viaggi che portavano ricchezze mai viste a Númenórë e che avevano esteso le conoscenze della Terra di Mezzo in direzioni che non erano state esplorate prima.

Il nonno poteva storcere il naso per il rapporto tra suo figlio e Nenilde, ma per Ciryandil quella era un’aspirazione. Voleva anche lui una donna che lo lasciava libero di viaggiare, che conosceva e rispettava quel suo bisogno, e che lo aspettava sempre al ritorno, impaziente come se fosse la prima separazione. E che lo salutava con la stessa foga.

Era il genere di rapporto che per Ciryandil era l’unica buona ragione a favore del matrimonio. La gelida cortesia tra Minastir e Hallariën, per quanto fosse giustificata dall’età di entrambi, non era affatto qualcosa per cui Ciryandil smaniava.

Non riusciva a guardare i suoi genitori abbracciati che si scambiavano baci, carezze e battutine fino all’ultimo perché ne era invidioso, non perché fossero una visione rivoltante.

In compenso, Atanamir li trovava insopportabilmente melensi e, da quando era stato abbastanza adulto per capire cosa c’era tra loro due, non faceva che prenderli in giro e punzecchiarli a ogni occasione.

E loro ne offrivano a volontà.

«Mio balenottero, vieni da mamma».

Seguito da una risatina di Atanamir, Ciryandil la accontentò. Raggiunse i suoi genitori, mentre suo padre muoveva un passo indietro con un sorriso orgoglioso, e sua madre allargava le braccia.

Voleva abbracciarlo. Come se avesse ancora dieci anni.

Ciryandil aprì la bocca per protestare, ma incrociò lo sguardo di suo padre e nel sorriso c’era un che di minaccioso.

Del tipo: fai felice la mamma, o ti faccio infelice durante tutto il viaggio.

Ecco, se anche lui si fosse ridotto così per una donna, si augurava che qualcuno gli tirasse colpi in testa finché non si fosse reso conto di essere imbarazzante.

Con un sospiro, Ciryandil lasciò che sua madre lo abbracciasse e gli scompigliasse i capelli, nonostante ora fosse troppo alto per permetterglielo agevolmente. Ma anche per quello c’era una soluzione: piegare le ginocchia e lasciarle arruffare la zazzera già scarmigliata dal vento del mattino.

«Pronto per la Terra di Mezzo?» gli chiese, terminato il rituale.

Ciryandil sospirò. «Sì, madre. Ho sentito abbastanza racconti a riguardo, non vedo l’ora di trovarmi lì».

«Assapora questa impazienza, perché forgia il carattere» gli disse suo padre, stringendogli una mano intorno alla spalla.

Ormai superata la maggiore età, Ciryandil era persino più alto del padre. I suoi genitori avevano teorie fantasiose e irripetibili in pubblico su quale caratteristica di Ciryatan avesse reso il secondo figlio così alto e grosso. Minastir invece ci teneva a ricordare che Ciryandil aveva preso tutto da sua zia Telperien, dall’altezza al colorito chiaro di pelle e capelli.

Dal suo canto, Ciryandil ancora non aveva avuto modo di godere dei vantaggi che dava torreggiare così tanto su tutti gli uomini più maturi di lui nella sua famiglia. Trovavano sempre il modo per ridimensionarlo.

«Su una cosa ci troviamo d’accordo» disse il nonno, avvicinandosi.

Atanamir rimase all’inizio del molo, impegnato a salutare la folla e– stava forse lanciando baci ad alcune fanciulle? Ciryandil mosse un passo nella sua direzione, per punzecchiarlo a riguardo, ma la presa ferrea di suo padre intorno al braccio lo trattenne.

«Se solo tuo padre applicasse tutte le lezioni che cerca di impartirvi, i suoi insegnamenti sarebbero più efficaci» continuò il nonno, posando una mano sull’altra spalla di Ciryandil.

Era di fatto bloccato tra i due maschi anziani di casa.

«Sono in grado di cogliere le lezioni anche dalla non applicazione delle regole che mi vengono imposte» disse Ciryandil, dando un colpo al cerchio e uno alla botte pur di scrollarseli di dosso.

«Per fortuna ho due figli svegli che sanno pensare con la loro testa, invece di aspettare di sentire cosa esce dalla mia» disse suo padre e gli tirò un’ultima pacca alla spalla prima di liberarlo.

«Staremo a vedere» disse il nonno. «Ora inginocchiatevi per la benedizione, o non partirete più».

Ciryandil fu il primo a piegare un ginocchio a terra davanti a Tar-Minastir e lasciare che lui ponesse le mani sulla sua testa. Quando fu il turno di Ciryatan, Hallariën portò l’oiolairë e glielo porse, con un augurio di buona navigazione.

E così, iniziò il primo viaggio nella Terra di Mezzo di Ciryandil, secondogenito di Ciryatan.


* * *


Ciryandil si trovò per la prima volta circondato da una distesa di blu senza fine. Alcune mattine, cielo e mare sembravano addirittura fondersi e, quando Anar calava, l’acqua si tingeva di colori magnifici –sfumature del rosso e dell’arancio o, quando c’erano nubi, di rosa acceso e blu– che gli facevano venir voglia di decantare il momento con grandi parole e virtuosismi retorici.

Nel caso avesse bisogno di ricordarsi che in lui scorreva anche il sangue di Nenilde.

Il giorno in cui si fosse messo a scrivere componimenti erotici con metafore di dubbio gusto si sarebbe preoccupato sul serio.

Anche perché nessuno se lo sarebbe aspettato da lui. Era Atanamir quello noto per le parole, soprattutto per le sue argomentazioni brillanti e argute. Ciryandil, anche a causa della sua stazza, si era fatto valere nella lotta corpo a corpo e altre discipline fisiche, più gradite dal popolo e meno dalla vecchia nobiltà númenóreana.

Ma gli importava?

Al momento nemmeno un po’, perché aveva ancora freschi i ricordi della nottata passata a Rómenna prima della partenza: come avevano brillato gli occhi della sua compagna della notte quando lui era uscito vincitore dalla partita di arpasto e quanto era stato divertente iniziare la serata facendosi lavare dalla sabbia del campo.

Una mano sulla spalla gli annunciò la presenza di suo padre.

«Cos’è quel sorriso ebete?» gli chiese, con un ghigno, ma appena Ciryandil aprì la bocca per rispondere, agitò una mano. «Non devi rispondere. Quel che fa un giovane può rimanere tra lui e la compagnia che ha scelto».

Lui sospirò e scosse la testa con un sorriso.

«Tra due giorni, inizierai a scorgere la Terra di Mezzo all’orizzonte. Guarda verso Nord» gli disse Ciryatan. «Ci fermeremo alle vecchie colonie, così avrai modo di fare un giro storico per iniziare».

Ciryandil grugnì. «Saltiamo la storia e passiamo direttamente alle cose interessanti, che dici?»

Suo padre rise.

«Te lo scordi, figlio mio. La storia ti serve a capire da dove veniamo, che percorso ha fatto la nostra presenza nella Terra di Mezzo e quale direzione dobbiamo prendere in futuro.

«Senza storia, non siamo nessuno, Ciryandil. Se nessuno ricorda il passato, è come se non fosse esistito e le persone che lo hanno popolato e le loro azioni non avrebbero avuto alcuna importanza. Saremmo destinati a ripetere sempre gli stessi errori e non andremmo mai avanti».

Tre giorni dopo giunsero nella Terra di Mezzo, a Vinyalondë, dove il porto e gli edifici portavano i segni di epoche passate, e non dell’architettura a cui Ciryandil era abituato da tutta la vita. Non si trattava neanche quello stile senza tempo della Casa del Re, erano proprio le linee sobrie e la geometria che aveva segnato le epoche di Aldarion, Ancalimë e Anárion.

C’erano degli appartamenti reali anche a Vinyalondë, come in tutti i porti númenóreani che avrebbero visitato –come ci tenne a precisare Ciryatan– e fu lì che si fermarono alcuni giorni.

«Il panorama fuori dal balcone è così diverso da Númenórë» disse Ciryandil al padre, una mattina. «Queste foreste hanno alberi diversi dai nostri. Credo siano buoni per fare navi, ma forse non grosse come le nostre».

«C’erano anche quelli, piantati da Aldarion prima e poi ripiantati da Anárion, ma durante l’ultima guerra li abbiamo utilizzati per riparare le nostre navi».

«La guerra durante il regno di Tar-Telperien».

«Tuo nonno ci ha partecipato, come Ammiraglio, e la si considera una sua vittoria alla fine» disse suo padre. «Ma, bada bene, è stata una vittoria di tutta Númenórë. Il nemico che abbiamo combattuto era un tenente del Signore Oscuro che i nostri avi hanno sconfitto nel Beleriand ora sommerso».

«Il male lascia sempre strascichi».

Ciryatan incurvò un angolo della bocca. «Purtroppo sì. Ha dominato per secoli le terre che andremo a visitare e vedrai che ha lasciato segni anche lì, non ultimo nella gratitudine di quella gente per il suo dominio».

«Perché gli sono grati? Cosa ha fatto per loro?»

«L’Est e il Sud della Terra di Mezzo, lasciati a loro stessi, tendono a vivere nel caos» disse Ciryatan. «Faticano ad accettare l’ordine che viene da una civiltà come la nostra, per questo hanno resistito a lungo alle colonie di Aldarion e resistono tutt’ora alle nostre».

«Allora come ha fatto il nemico a imporgli il suo dominio? L’ordine è un modo per dominare».

«Sì, ma solo un modo. Lui ha adottato il metodo che loro preferiscono: ha riunito le tribù sotto la sua guida, ma senza obbligarle a seguire regole civili, anzi premiando la sopraffazione del più debole che regna nei rapporti tribali. Ciò non vuol dire che faccia loro bene».

«Bisogna cambiare il loro modo di pensare» disse Ciryandil.

Ciryatan sorrise, orgoglioso: «Giusto. Purtroppo è un lavoro lungo, visto che non si rendono conto dell’errore dei loro modi e sono restii al cambiamento. Ecco perché per ora mi sto limitando a studiarli e capire quali metodi sarebbero più efficaci, ma spero di poter lasciare un giorno a te l’onore di portare loro la civiltà e la vera pace di Númenórë».

Ciryandil si ritrovò a sorridere, felice che suo padre avesse un ruolo per lui nel futuro del regno. Se per Atanamir la strada era stata segnata dalla nascita, Ciryandil non aveva mai avuto ben chiaro cosa sarebbe toccato a lui. Era l’erede di riserva, ma Atanamir non aveva intenzione di andare per mare né andare in guerra da nessuna parte e questo gli avrebbe garantito una vita abbastanza lunga, come per altri Eredi del Re prima di lui.

Inoltre, Atanamir non aveva niente in contrario a ereditare lo Scettro. Anzi, sembrava esserne particolarmente portato: aveva un’aria di comando calmo e irresistibile, non aveva bisogno di alzare la voce per farsi obbedire, e con le sue argomentazioni faceva ricredere chiunque.

In questo quadro, Ciryandil si era ritrovato spesso a guardare al mare, nella speranza che al di là della distesa d’acqua ci fossero terre in cui anche lui avrebbe potuto esercitare l’istinto al comando che sentiva dentro di sé. Voleva la possibilità di mettersi alla prova e dimostrare che, pur non essendo erede di nulla, anche lui aveva la stoffa per essere qualcuno.

E ora suo padre gli aveva mostrato che ruolo avrebbe avuto per lui nel futuro di Númenórë e delle sue colonie oltremare.

«Sarebbe un onore per me, padre» disse Ciryandil.

«Non ne dubito, così come non ho dubbi che dopo questo viaggio la vedrai come me su ciò che meritano queste popolazioni.

«Vanno guidati e istruiti, affinché correggano questa loro tendenza a scegliere il male come unica via per ottenere una vita migliore. L’altra via sarà più faticosa da percorrere per loro, ma i frutti che coglieranno alla fine della strada saranno molto più dolci».

«E se questo male fosse innato in loro?»

Ciryatan sorrise e gli accarezzò la nuca.

«Un quesito degno di Atanamir» disse. «Se qualcuno dovesse dirti che non sei brillante come lui, ricordati questo».

Ciryandil si ritrovò a sorridere ancora, come un ebete. Il modo ideale per confutare le parole di suo padre, ma era pieno di sentimenti che non sapeva decifrare.

Ciryatan era sempre stato una figura mitologica, con i suoi viaggi per mare che lo tenevano spesso lontano. Quando tornava, buona parte del tempo a Númenórë la dedicava a Nenilde, ma non per questo era stato una figura meno importante per Ciryandil: quelle poche volte che ci aveva avuto a che fare direttamente avevano consolidato in lui la convinzione che, da grande, avrebbe dovuto diventare come suo padre.

Non importava quel che diceva Tar-Minastir sui viaggi per mare del figlio: era meglio quell’impegno nelle colonie, che stare nella madrepatria a gozzovigliare come faceva una parte dei rampolli nobili.

«Il male è innato in tutti noi, Ciryandil» disse suo padre. «Ma sta a noi estirparlo. Combattere con il vecchio nemico è stato un dono dei nostri avi per liberarci da quel male che ci portiamo dentro dal nostro risveglio. Per questo ci è stato fatto dono di Númenórë, per questo la chiamiamo anche Yôzâyan. Un simile dono ci dà il dovere di portare quel che abbiamo imparato a quelle popolazioni che sono ancora prigioniere del male».

Ciryandil annuì, con la sensazione di avere finalmente dei tasselli che gli mancavano.

«Se sei pronto a questo, il nostro viaggio sarà fruttuoso. Potrai fare tuoi tutti gli insegnamenti a cui sono arrivato da solo ed essere pronto per il giorno in cui prenderò lo Scettro e avrò bisogno di te per portare il potere di Númenórë nella Terra di Mezzo».

«Lo sono, padre. Lo sarò anche se prendessi lo Scettro al nostro ritorno dal viaggio».

Ciryatan gli rivolse un sorriso enigmatico.

«Sarebbe il caso, vero? Dopotutto tuo nonno ha già fatto la sua parte nella storia di Númenórë. È tempo che faccia affrontare questa nuova epoca a me che sono attrezzato per farlo».

Poi rivolse lo sguardo al panorama davanti a loro.

«Ma tuo nonno non ha la saggezza di Tar-Meneldur: non è in grado di riconoscere che il suo regno si è concluso ormai da un pezzo».






Nota dell'autrice


E rieccomi con la seconda parte e qualche nota!

Nel canon, a parte che fosse un Numenoreano (Nero, per di più), non conosciamo l'identità del Re Stregone di Angmar “in vita”, quindi mi sono divertita a ragionarci su basandomi su

  1. data della sconfitta di Sauron nella Guerra con gli Elfi (ossia, quella successiva alla creazione degli Anelli);
  2. data della prima apparizione dei Nazgûl;
  3. evoluzione dell’allontanamento di Númenor dall’influenza dei Valar.

Così sono finita nel regno di Tar-Atanamir, ossia il primo ad aver fatto il segno dell’ombrello ai Valar in maniera ufficiale e a rifiutare di smollare lo Scettro prima della morte. Una sorta di punto di svolta nella caduta di Numenor dalla grazia.
Siccome amo la simmetria, perché non creare un fratello di Atanamir e renderlo proprio il futuro Angmar? Voilà Ciryandil, il mio scimmione pallido!
(In parte responsabile di questa immagine di lui sono le fan art di Phobs, che non linko perché alla fine il mio Angmar è andato per una strada diversa e non voglio influenzarne la visione con illustrazioni che non lo riguardano).

Per il resto, sono molto felice di tornare a Númenor in un periodo che non ho mostrato molto, se non in “Ostriche e marinai”… da cui tornano Ciryatan e Nenilde, con le loro effusioni che imbarazzano tutti intorno a loro, tranne loro due. Sono così cringe, li adoro ♥️

Grazie a chi ha letto fin qui e alla prossima settimana,

Kan


Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Parte II. Il capitano - Capitolo 2. Desideri inconfessabili ***


Parte II. Il capitano - Capitolo 2. Desideri inconfessabili




Nomi utili:

Ciryandil: secondogenito di Tar-Ciryatan
Ciryatan: dodicesimo Re di Númenor, marito di Nenilde, padre di Atanamir (canon) e Ciryandil
Nenilde: moglie di Ciryatan, madre di Atanamir e Ciryandil. Scrive componimenti poetici erotici sotto lo pseudonimo "Ciryanilde"
Tar-Minastir: undicesimo Re di Númenor, padre di Ciryatan, figlio di Isilmo fratello di Telperien (canon)
Hallariën: moglie di Minastir, madre di Ciryatan
Tar-Telperien: decima Regina di Númenor, zia di Minastir (canon)
Atanamir: tredicesimo Re di Númenor (canon), fratello maggiore di Ciryandil, figlio di Ciryatan e Nenilde
Aldarian: nobildonna númenóreana, amante di Ciryandil




2. Desideri inconfessabili




Le navi númenóreane si addentrarono nel piccolo porto fluviale nel cuore della notte, scivolando sull’acqua con le vele gonfiate dal vento di mare.

Con la popolazione di quel villaggio si erano salutati proprio un paio di giorni prima, dopo aver ricevuto doni, scambiato oggetti e aver fatto ricognizione nel territorio circostante fino a una decina di miglia nell’entroterra.

Era il suo primo viaggio in solitaria e Ciryandil era determinato a dare il meglio, a qualsiasi costo. Aveva un piano, i suoi uomini lo supportavano appieno, e finalmente avrebbe messo in atto quelle idee che aveva sviluppato durante le visite nella Terra di Mezzo con suo padre.

Ciryandil diede ordine di ammainare le vele col sistema di specchi che usavano per comunicare di notte. Le navi avevano preso abbastanza velocità, dovevano lasciarle rallentare dalla corrente del fiume.

Buona parte della navigazione era lasciarsi guidare dagli elementi, sfruttarne la forza, e aspettare che tutto andasse al proprio posto, dopo aver fatto calcoli su calcoli per accertarsi che così fosse.

Un’attività troppo contemplativa per Ciryandil, che marciava avanti e indietro tra i ponti, per assicurarsi che tutto fosse pronto, e distribuendo gli ultimi compiti dopo che un’intuizione gli aveva fatto vedere una strada migliore della precedente.

Tutto sommato, era un esercizio di pazienza prima di mettere in moto la macchina del suo corpo. Sapeva bene quanti danni poteva fare e come la sua mente facesse un passo indietro quando era il potere delle braccia e delle gambe a prendere il sopravvento. Perciò preparare prima quel che avrebbe dovuto –in teoria– fare mentre combatteva, era il giusto equilibrio per lui.

Scoprirlo durante i viaggi con suo padre gli aveva portato un senso di liberazione che non aveva mai trovato a Númenórë. Là, dove il potere del pensiero era meglio visto della mera forza bruta, dove i sovrani ricordati meglio erano quelli che avevano esercitato il loro potere con la mente, che avevano lasciato un’impronta nella cultura dell’isola, uno come lui non poteva aspirare a granché.

Ciryandil non sarebbe stato mai re, così come non sarebbe mai stato più della forza che animava il suo corpo.

Ma avrebbe lasciato il segno anche così.


* * *


Ciryandil rientrò a Rómenna con le navi cariche di preziosi e qualche prigioniero dalla Terra di Mezzo. Era ogni volta un’esperienza memorabile, che gli diceva: “È per questo che esisti, che hai quelle capacità, che viaggi per anni”.

Quel giorno fu Atanamir da solo ad accoglierlo a braccia aperte appena Ciryandil saltò giù dalla passerella della nave. Non era una sorpresa. Da quando suo padre aveva preso lo Scettro appartenuto a Minastir, era così impegnato che ormai non partiva più per mare come un tempo.

Ma c’era Ciryandil per quello e Tar-Ciryatan si assicurava di esserci sempre alla partenza, non importava quali altri impegni avesse.

«Il mio fratello preferito» disse Atanamir, stringendolo in un abbraccio stretto.

Ciryandil trattenne una risata. «Sono il tuo unico fratello».

«Potrei sempre dire che io sono il mio fratello preferito» disse Atanamir, con una pacca dietro la schiena. «Prendi il complimento e taci».

Scuotendo la testa, Ciryandil sciolse l’abbraccio.

«I nostri genitori?»

Atanamir scrollò le spalle. «Atto è intrappolato in una riunione del Consiglio».

«E ammî è lì che si torce le mani per la preoccupazione?»

Atanamir emise un verso nasale. «Più per l’attesa che lo liberino. Nella sua testa, nessun consigliere potrebbe mai dargli rogne».

Si diressero ai cavalli che li aspettavano alla fine del molo, prima della cintura di Guardie del Re che tenevano lontana la folla. Ciryandil salutò con un cenno chiunque lo chiamasse e portò una mano al petto per ogni benedizione, ma prima di montare a cavallo fece segno ai suoi uomini di procedere con quanto concordato prima di partire.

Così, quando Ciryandil fu in groppa al suo cavallo e si addentrò tra due ali di folla nella piazza del porto di Rómenna, lo seguirono lanci di monete e piccoli preziosi della parte di bottino che aveva riservato proprio per quello scopo.

Atanamir osservò la scena con le palpebre a mezz’asta e un lieve sorriso sulle labbra.

«Fratello, di questo passo sarai acclamato Erede del Re a furor di popolo».


* * *


«Figlio mio, ti vedo bene» disse Tar-Ciryatan appena entrato nel salottino privato degli appartamenti reali.

Gli andò incontro e Ciryandil lo raggiunse a metà strada. Piegò un ginocchio per baciargli una mano, ma il padre lo afferrò prima che fosse del tutto a terra e lo strinse in un abbraccio.

La porta si richiuse e si unì a loro anche Nenilde.

«Mio balenottero» disse lei e si avvicinò con un sorriso enorme.

Ciryatan lasciò il padre per afferrare la madre per la vita e permetterle di abbracciarlo alla sua stessa altezza. Poteva trovargli soprannomi imbarazzanti, ma era sempre la donna che era più felice di vedere in assoluto.

Lei gli baciò entrambe le guance e gli pettinò i capelli indietro.

«Hai messo un po’ di colore, sono contenta» gli disse.

Un po’ di colore era un eufemismo. I giorni in mare, sotto il sole cocente nelle ore più calde, avevano dorato la sua pelle in un modo che contrastava in maniera lampante con quella dei suoi genitori e figurarsi suo fratello. Atanamir era quello che stava all’aria aperta il meno possibile e il colore lattescente della sua pelle lo rivendicava a gran voce.

«Tu resti sempre uguale, devi spiegarmi come fai».

La risatina di sua madre fece scuotere la testa a Tar-Ciryatan, e anche Ciryandil si ritrovò a ridere mentre la posava a terra.

«Siediti e raccontaci un po’ com’era andato il viaggio» disse sua madre. «Se tu non avessi in antipatia le lettere, sapremmo meglio cosa combini».

«Ho imparato dal migliore, in questo» disse Ciryandil, mettendosi a sedere su una poltrona, mentre i suoi genitori prendevano posto fianco a fianco su un sofà.

«Dei messaggi a mio padre li inviavo, di tanto in tanto» disse Ciryatan. «Tu non fai neanche quello».

Ciryandil scrollò le spalle. «Se dovesse succedermi qualcosa, ci sarà sempre chi riuscirà a tornare indietro ad avvisare qualcuno».

«Non dire queste cose come se nulla fosse, balenottero».

Ciryandil sorrise a sua madre. «Non ti preoccupare. Ho la situazione nella Terra di Mezzo sotto controllo».

«Dalle casse di metalli e preziosi che stanno ancora arrivando qui, non stento a crederlo» disse Tar-Ciryatan. «Ma ci sono altre cose che voglio sapere. In particolare, i Regni del Sole sopravvivono?»

Ciryandil storse la bocca. «C’è stato da poco un cambio ai vertici: il figlio di Kusem ha preso il trono e i suoi stessi cugini sono poco felici del nuovo Gran Re. Uno di loro ha cercato di mettersi in contatto con noi».

«E cosa voleva?»

«Usarci contro il cugino. Gli ho dato una lezione sui legami familiari».

Impossibile dimenticare lo sguardo di Hatun, quando Ciryandil gli aveva spezzato il polso della mano offerta per siglare l’accordo, e la comprensione sorgere sul viso bruno al levarsi delle urla dei suoi uomini fuori dalla tenda.

«Forse voi selvaggi non lo sapete, ma a Númenórë noi diamo gran valore ai legami di sangue. Un tradimento come il tuo va lavato con la vita» gli aveva detto, prima di premerselo contro il petto e serrargli il braccio intorno al collo.

Lo aveva sentito agitarsi nel tentativo vano di prendere aria, finché non aveva esalato l’ultimo respiro e perso tutte le forze, come una marionetta a cui avevano tagliato i fili.

«Sei sicuro che non potesse esserci utile?» disse suo padre. «Dopotutto i Regni del Sole sono il nostro principale nemico e mettono non pochi ostacoli allo sviluppo delle colonie nel Sud della Terra di Mezzo».

«Perché distruggere un re per metterne un altro? Meglio eliminare proprio quel ruolo».

Tar-Ciryatan si massaggiò il mento liscio. «Se però mettessi lì un re che si trova sul trono grazie al tuo aiuto, puoi aspettarti rapporti più favorevoli per noi. Potresti offrire il tuo supporto in cambio di terre in cui stabilire le nostre colonie».

Ciryandil abbassò lo sguardo sulle proprie mani, abbandonate tra le cosce. Capiva il senso di quello che diceva suo padre ma... non voleva trattare con quella gente.

«Come posso essere certo che manterranno la parola data?» disse lui. «Così come hanno tradito un familiare, tradirebbero anche me».

«Allora gli mostreresti tutta la potenza della furia di Númenórë. Perché sia una lezione da ricordare per generazioni».


* * *


Le feste per il rientro dei principi dal mare non avvenivano mai il giorno dopo l’arrivo, ma lasciavano il tempo a tutta la nobiltà e ai notabili di Númenórë di arrivare ad Armenelos e procurarsi gli abiti per presenziarvi.

Così, appena Ciryandil seppe del rientro della sua amante nella capitale, andò a trovare Aldarian, impaziente di rivederla dopo gli anni di lontananza.

L’aveva conosciuta a corte durante i festeggiamenti per la presa dello Scettro da parte di suo padre, ma non avevano iniziato subito a vedersi in privato. Anche perché, all’inizio, Ciryandil era stato convinto che lei fosse interessata a suo fratello e che lo avesse avvicinato con quel fine.

Però, nonostante continuasse a guardare Atanamir con uno sguardo particolare e non fosse molto interessata ai suoi racconti di viaggio, Aldarian gli aveva dimostrato più e più volte di volere lui, Ciryandil il marinaio, in maniera che metteva d’accordo entrambi.

La governante della famiglia di Aldarian gli aprì e sussultò nel vederlo sulla soglia.

«Principe!» disse la donna, muovendo un passo indietro per lasciargli lo spazio per entrare. «La signorina sarà subito da te».

«La posso raggiungere io e risparmiarti la corsa» le disse, con un sorriso che voleva imitare quelli affascinanti che Atanamir distribuiva in giro.

Non era certo che avesse funzionato. La governante arrossì, probabilmente perché capiva cosa sarebbe avvenuto tra la sua signora e Ciryandil, quando lui l’avesse raggiunta.

E capiva bene. Visto l’orario, Aldarian doveva essere ancora a letto.

«Le chiedo se è pronta a riceverti» disse la governante, abbassando lo sguardo. Non che fosse difficile non guardarlo in volto, visto quanto torreggiava su di lei.

«D’accordo, attenderò».

Ciryandil passeggiò nell’atrio, mentre la governante sgambettava su per la scalinata in tutta fretta. Se nessun altro era uscito a controllare chi fosse arrivato e, soprattutto, se il maggiordomo non era ancora spuntato guardarlo con rimprovero, allora i genitori di Aldarian non dovevano essere arrivati ad Armenelos con lei.

Il personale sembrava ridotto e c’era un silenzio che pareva confermare la sua impressione.

Che avesse anticipato i suoi genitori… per lui?

«Altezza, puoi salire» giunse la voce della governante dalla balaustra del piano di sopra.

Ciryandil prese i gradini due alla volta e incontrò la governante in cima alla scalinata.

«Seguimi» disse lei.

«Risparmiati la fatica: conosco la strada». La superò, diretto alle stanze di Aldarian.

Richiusa la porta alle spalle, si addentrò nel salottino privato, fino alla soglia della camera che si apriva proprio sul letto sfatto.

Con i capelli dorati in disordine dalla notte e le lenzuola attorcigliate ad arte intorno al corpo, Aldarian sollevò un angolo della bocca, semidistesa con un gomito puntellato tra i cuscini.

«Cosa mi ha portato la marea questa volta?» disse lei, la voce ancora arrochita dal sonno.

Abbandonati mantello e sacca per terra, Ciryandil si tolse i sandali e si arrampicò sul letto, per raggiungerla a gattoni.

«Un polpo gigante e molto affamato».

Lei scoppiò a ridere, gettando la testa indietro, e gli avvolse le braccia intorno mentre lui si chinava a baciarle la gola scoperta.

«Usi le stesse metafore pessime di Ciryanilde» gli disse, accarezzandogli la schiena. «Sicuro di non essere tu sotto falso nome?»

«Sicurissimo».

Númenórë non sapeva ancora che era sua madre l’autrice dei componimenti erotici che giravano tra nobiltà e popolo, e di certo non sarebbe stato lui a rivelarlo.

«Peccato, o ti avrei chiesto di dedicarmi qualcosa» disse lei.

«Ti posso dedicare tutta la giornata, può andare come inizio?»

Aldarian gli tracciò il labbro inferiore con l’indice e gli sorrise.

«Direi di sì. Avevo proprio voglia di… polpo alla marinara».


* * *


Appena la cameriera lasciò le stanze di Aldarian con le indicazioni per il pranzo, Ciryandil scivolò giù dal letto per recuperare la sacca e tornarle al fianco, mentre lei stava distesa tra le lenzuola ancora più sfatte di prima, senza nemmeno uno straccio di camicia da notte addosso.

In compenso, i capelli dorati le scendevano intorno alle spalle e sul petto, incorniciando i seni orgogliosi in una visione molto più incantevole di quella con cui gli aveva dato il benvenuto.

Ciryandil abbandonò la sacca tra loro e allentò i lacci.

«Ho raccolto delle cose per te, mentre ero nella Terra di Mezzo».

Aldarian inarcò un sopracciglio e lo guardò con aria indolente.

«Non altre conchiglie, ti prego» gli disse, portando il dorso della mano alla fronte.

Le conchiglie che le aveva portato la volta precedente erano state parte della sua collezione e per lui erano qualcosa di incantevole. Ma non avevano destato altrettanto interesse in Aldarian e lui se le era riportate a casa, insieme ai racconti di dove le aveva raccolte.

Il dono che le aveva portato questa volta le sarebbe piaciuto di più, poteva scommetterci.

«Non temere, imparo in fretta» le disse e tirò fuori dalla sacca un portagioie con intarsi finissimi di vari tipi di legno.

«Gli intarsi rappresentano il panorama della cittadina in cui l’ho acquistato» le disse. «Molto stilizzato, come puoi intuire, ma ho pensato che potesse incuriosirti».

Aldarian si mise a sedere, tese una mano per farsi passare il portagioie e se lo rigirò in mano.

«Molto stilizzato davvero, non avrei detto che fossero paesaggi, quanto più forme geometriche a caso» disse lei. «Sicuro non ti abbiano raccontato balle?»

«Certo che no», anche perché non lo aveva pagato la cifra assurda che gli aveva proposto il venditore, ma aveva contrattato anche con metodi poco… diplomatici.

«C’è qualcosa dentro?»

Ciryandil le rivolse un ghigno. «Dovrai aprire per scoprirlo».

Con un sospiro, Aldarian si rigirò ancora il portagioie in mano, con un gran sbatacchiare dei suoi contenuti. Ma l’apertura non era visibile, almeno non subito.

Doveva scoprire da sola come aprirlo.

«Ci sarà il segno di un coperchio da qualche parte» bofonchiò lei, sollevando il portagioie all’altezza degli occhi.

«Devi solo trovare come farlo comparire».

Aldarian sollevò le sopracciglia e gli restituì il portagioie. «Veditela tu con questo marchingegno».

Ciryandil aveva pensato che la sfida mentale potesse piacerle, o che ci avrebbe provato un po’ di più prima di arrendersi e lasciargli il compito di aprire il portagioie.

Ma aveva sbagliato.

D’accordo, lo avrebbe tenuto a mente per il futuro.

Si mise all’opera, consapevole dello sguardo di Aldarian su ogni movimento delle sue dita che facevano scorrere i pannelli nascosti tra gli intarsi per sbloccare il coperchio.

Quando lo aprì, le porse il portagioie perché lei potesse guardare il suo contenuto. C’erano collane piuttosto rustiche in oro e altre pietre preziose, ma anche piccole opere d’arte di oreficeria che avevano indossato gli Haradrim che erano andati a contrattare con lui per fermare la sua avanzata.

«Sono magnifici» disse, prendendo proprio quelli. «Non credevo potessero fare cose simili, quei selvaggi».

«Gli Haradrim sono meno selvaggi di quel che sembra, soprattutto quelli che vivono più nell’entroterra» disse Ciryandil. «I villaggi sulla costa non si sono messi al passo con le tribù centrali–».

«Ehi, non importa» gli disse Aldarian, lanciandogli un’occhiata di sbieco.

Ciryandil sollevò le mani alle spalle in segno di resa e tornò disteso tra i cuscini, godendosi la vista di lei, nuda, che tirava fuori una ad una le gioie che le aveva portato. Avrebbe potuto raccontarle la storia di ognuna di loro, ma non avrebbe sortito l’effetto sperato. L’interesse di Aldarian per la Terra di Mezzo non andava oltre la visione di terre da conquistare e da cui potevano arrivare preziosi di cui Númenórë era affamata.

Quando Aldarian finì di tirare fuori i gioielli dal portagioie, tornò a guardarlo.

«Dovrò fare ogni volta tutte quelle manovre per aprire il portagioie?» disse lei.

«Puoi metterci qualcosa di prezioso e che vuoi proteggere da eventuali ladri».

Aldarian abbozzò un sorriso. «Non ricorderò mai come si apre, conviene che te lo tenga tu. Regalalo a tuo fratello, magari. Sarà di sicuro più abile di me ad aprirlo».

Gli restituì il portagioie, vuoto e col coperchio fuori posto, e Ciryandil si mise a sedere.

«Lo terrò io, ma voglio custodirci qualcosa di prezioso» disse e prese una ciocca dei capelli dorati di lei.

Aldarian rise piano nel capire cosa intendesse. «Fai pure. Immagino dirai così a tutte le tue altre amanti».

Ciryandil recuperò l’eket dalla cintura abbandonata per terra e attorcigliò la ciocca in una treccia strettissima.

«Ci sei solo tu, Rianië».

Recise la treccia e la posò sul fondo del portagioie, per poi richiuderlo. Sollevò lo sguardo per incontrare quello di Aldarian.

«Per ora» disse lei. «Per ora».






Nota dell'autrice


Salti temporali ancora più lunghi con questa storia, ma abbiamo a che fare con gente che vive tra i 200 e i 400 anni, è complicato :°D Spero sia possibile orientarsi tramite le indicazioni nel testo…

I metodi di Ciryandil sono direttamente ispirati al racconto “Tal-Elmar”, in cui si racconta proprio che i Númenóreani arrivavano a commerciare e poi col favore della notte attaccavano i villaggi e prendevano schiavi.
I Númenóreani sono un popolo affascinante, ma non è nemmeno giusto dimenticare che hanno colonizzato la Terra di Mezzo e schiavizzato gli Uomini che abitavano lì (le navi di Pharazôn avevano schiavi ai remi, in un passaggio dell’“Akallabêth”, al fondo del Silmarillion).

Grazie a chi ha letto fin qui e alla prossima settimana,

Kan


Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Parte II. Il capitano - Capitolo 3. Per un pugno di lapislazzuli ***


Parte II. Il capitano - Capitolo 3. Per un pugno di lapislazzuli




Nomi utili:

Ciryandil: secondogenito di Tar-Ciryatan
Ciryatan: dodicesimo Re di Númenor, marito di Nenilde, padre di Atanamir (canon) e Ciryandil
Nenilde: moglie di Ciryatan, madre di Atanamir e Ciryandil. Scrive componimenti poetici erotici sotto lo pseudonimo "Ciryanilde"
Tar-Minastir: undicesimo Re di Númenor, padre di Ciryatan, figlio di Isilmo fratello di Telperien (canon)
Hallariën: moglie di Minastir, madre di Ciryatan
Tar-Telperien: decima Regina di Númenor, zia di Minastir (canon)
Atanamir: tredicesimo Re di Númenor (canon), fratello maggiore di Ciryandil, figlio di Ciryatan e Nenilde
Aldarian: nobildonna númenóreana, amante di Ciryandil




3. Per un pugno di lapislazzuli




La prima volta che Ciryandil la vide, lei canticchiava mentre era intenta a raccogliere frutta e bacche selvatiche, una cesta che teneva appena sopra la curva generosa di un fianco.

L’unica parola che avrebbe potuto descriverla appieno era proprio quella: curva. Quella dei fianchi, la vita che rientrava e risaliva verso il seno prosperoso; quella delle guance marroni, che scivolava dalla fronte alla punta del naso, morbida sul mento e sulla mascella. Gli stessi capelli neri erano pieni di curve, che ricadevano lungo la schiena fino al sedere e oscillavano come un mantello a ogni movimento.

Era una figlia di terra e cielo notturno, neppure la prima che vedeva, neppure così notevole rispetto alle donne della sua terra.

Ma Ciryandil rimase a guardarla dai cespugli dietro cui si era appostato, seguendo con gli occhi il suo ancheggiare inconsapevole mentre la donna si muoveva come un’ape di fiore in fiore. Finché lei non riempì il cesto e se ne andò, reggendolo in testa, i fianchi che ondeggiavano a ogni passo.

Il giorno dopo, lei era di nuovo lì e Ciryandil non si perse nemmeno un attimo di quel rituale. E iniziò a notare quei dettagli a cui avrebbe dovuto far caso prima, non fosse stato troppo concentrato sul desiderio che lei appiccava tra le sue gambe.

C’erano gemme alle orecchie della donna. Di un blu pieno, non cristallino, che finora aveva visto solo di sfuggita. Sapeva come li chiamavano e che l’unico posto in cui avrebbe potuto trovarli era proprio l’Harad, ma non sapeva di preciso dove.

Lapislazzuli.

Doveva esserci una miniera nei dintorni, se pendevano alle orecchie di una semplice serva.

A meno che non fosse al servizio della famiglia che possedeva la miniera, o addirittura l’amante del padrone. Non sarebbe stato sorprendente.

Il terzo giorno, Ciryandil fece caso agli abiti azzurri, una tonalità rara in questi territori lontani dal mare da cui pescare i molluschi necessari, o dalle montagne su cui crescevano le piante per i pigmenti giusti.

Quando quella sera Ciryandil tornò al campo, aveva la testa piena di lapislazzuli, fianchi e seni marroni che oscillavano sopra di lui, mentre il vento scostava appena le tende azzurre.

«Abbiamo un nuovo obiettivo» disse Ciryandil ai suoi capitani.

Si sarebbe occupato lui di ottenere le informazioni utili all’attacco e si sarebbe avvicinato ai nativi.

O almeno, a una nativa in particolare.


* * *


Ciryandil sapeva dove aspettarla.

La lasciò canticchiare nel raccogliere i primi frutti, poi scivolò fuori dai cespugli e si poggiò con una spalla al tronco di un albero, lo sguardo su di lei finché non si fosse accorta di essere osservata o non si fosse voltata.

Quando la donna si girò verso di lui, lo avrebbe dovuto vedere e invece continuò a canticchiare tra sé, mentre frugava tra i cespugli per controllare la maturazione di alcuni frutti.

Ciryandil rimase immobile. L’espressione divertita con cui l’avrebbe voluta accogliere scivolò via e lui strinse gli occhi.

Lei gli si avvicinò senza interrompere un attimo il suo lavoro, finché non rimase un soffio tra loro.

Solo allora la donna sollevò la testa e un sopracciglio.

Pronunciò una parola, o meglio un verso interrogativo.

Non aveva idea di cosa volesse dirgli, né di come potesse essere così tranquilla nel sapere che lui era lì in agguato con intenti fin troppo chiari. Altre donne prima di lei avevano urlato ed erano fuggite da lui, il grande e grosso bestione pallido.

Questa donna piccola e nera, invece, gli stava davanti come a chiedergli cosa volesse. O forse se aveva intenzione di muoversi, a giudicare dall’aria paziente con cui lo guardava.

A Ciryandil, alla fine, non importava un bel niente.

La afferrò per la vita e la sollevò per guardarla dritta negli occhi.

Le labbra carnose incurvate in un sorriso, lei gli avvolse le gambe intorno ai fianchi, premendosi contro il suo ventre e sfiorando la punta dell’erezione che premeva sotto le vesti.

Incapace di trattenere un sorriso, Ciryandil si voltò per spingerla con la schiena contro il tronco dell’albero e il cesto di frutta rotolò a terra con tutti i suoi contenuti.

Ma non importava più nemmeno a lei.

Gli slacciò i pantaloni prima ancora che lui le sollevasse la gonna.


* * *


Comunicare con la donna era complicato.

La lingua che parlava gli suonava del tutto aliena, e l’accento gli rendeva incomprensibili –a un primo ascolto– anche quelle poche parole che erano comuni con gli abitanti poco più a nord.

Quando erano insieme, lui le parlava come gli veniva e spesso lei si divertiva a ripetere le sue parole, trasformando il Sindarin in un idioma a parte. Con l’Adûnaic sembrava uno strano sogno fatto di sussurri e toni gutturali che rischiavano di distrarlo del tutto dal suo obiettivo.

«Lecca il dolce miele dal mio alveare» le disse un pomeriggio. Era solo una delle frasi che si divertiva a pronunciare per sentirgliele ripetere.

Quando lei ripeté, distesa per terra, l’abito azzurro sciolto sotto di lei e i capelli aperti in onde intorno al viso, Ciryandil non poté che accontentarla fino a sentirla gridare nella sua lingua aliena.

Preghiere senza dubbio.

Lui sapeva essere un dio magnanimo, se soddisfatto della devozione dei suoi fedeli.


* * *


Una sera, la donna lo prese per mano e lo portò con sé fuori dal bosco, fino al villaggio di case di terra e paglia che lui aveva intravisto il primo giorno. Solo le stelle rischiaravano il cielo e, lungo la via principale, tutte le abitazioni erano buie.

Non ebbe modo di vedere molto altro, perché la donna gli fece fare il giro del villaggio dall’esterno fino a una casetta isolata dalle altre e molto piccola.

Se quella era la sua casa, l’ipotesi che fosse l’amante di qualcuno diventava all’improvviso meno credibile. In quelle terre, chi viveva fuori dai villaggi non era ben visto.

Quando entrò nella casetta, scoprì che era composta da una sola stanza con lo spazio per un focolare al centro –in corrispondenza di un foro nel tetto di paglia– e, sulla parete opposta all’ingresso, un giaciglio in un angolo e una cassapanca in un altro. Alle pareti erano appese erbe a essiccare e vasi di varie dimensioni.

Non proprio quel che aveva sperato.

Ma se una donna costretta al limitare del villaggio aveva simili gioielli –pagamenti, forse?–, come gli orecchini che le aveva visto addosso una volta o la catenina per i fianchi che aveva sfoggiato durante uno dei loro incontri, chissà cosa dovevano avere gli altri.

Non riuscire a parlarle era una gran seccatura. Durante un momento di torpore dopo il sesso, avrebbe potuto almeno chiederle dove fosse la miniera e invece era costretto a trarre conclusioni in base all’osservazione e basta.

La donna andò al focolare e si accovacciò per accenderlo.

Non faceva abbastanza freddo per quello, forse voleva preparargli del cibo?

Il cibo nativo non gli piaceva. Le donne poteva tollerarle, dopotutto i corpi caldi e accoglienti erano uguali una volta che vi era dentro, ma gli strani intrugli di spezie e le carni dalla provenienza incerta non erano lo stesso per il suo palato.

Aveva un cuoco númenóreano per quello.

Ciryandil avvolse le mani della donna nelle sue, con un sorriso malizioso le tolse la pietra focaia e la portò al giaciglio.

Al risveglio, lei avrebbe avuto troppa fame per prendersela per la sua sparizione.


* * *


La luna nuova offrì loro il momento propizio per l’attacco. I Númenóreani non avevano problemi a muoversi alla sola luce delle stelle, vedevano quasi come di giorno, al contrario dei comuni abitanti della Terra di Mezzo.

Ciryandil e i suoi uomini si addentrarono nel villaggio, coperti da mantelli blu per evitare qualsiasi luccichio del metallo che portavano addosso, incedendo a passo sicuro verso quelle case notabili che lui aveva notato durante una ricognizione di ritorno dalla casetta della donna. Si trovavano proprio al centro del villaggio, intorno a un tempio circolare e scuro, con il tetto a cupola che sembrava assorbire la luce delle stelle.

Con un segno della mano, Ciryandil indicò ai suoi uomini di procedere, mentre lui si soffermava a guardare quello strano tempio. Non vi era entrato durante la ricognizione, perché si aspettava di trovarvi un qualche stregone o sacerdote ancora sveglio e capace di dare l’allarme, ma ora poteva essere utile.

Così, si piegò e passò sotto lo stipite.

L’interno era nero come l’esterno e la puzza di bruciato impregnava tutto. Al centro dell’atrio circolare c’era una fossa scavata nella terra che custodiva braci e un piccolo fuoco.

Lì davanti c’era una persona di spalle, quasi un guardiano.

Ciryandil gli si fermò di fianco, la mano sull’elsa della spada sotto il mantello.

La persona non sembrava del posto. La pelle era molto più chiara di quella della gente del villaggio e, quando gli parlò, anche l’accento era diverso.

Ciryandil estrasse la spada e allora l’uomo urlò.

Non gli diede il tempo di gridare oltre, perché lo colpì al collo con la lama appena affilata. Gli tranciò la testa di netto e quella gli rotolò in grembo e giù nella fossa del fuoco.

Le fiamme divamparono intorno alla testa e con un calcio Ciryandil vi gettò dentro anche il corpo. Poi prese un ciocco dalla legna impilata contro la parete e lo affondò nel fuoco finché non si incendiò.

Con la torcia appena accesa, uscì dal tempio, per sentire le urla degli abitanti del villaggio, che gridavano, tentavano di lottare e scappavano, tutti agghindati con i loro gioielli poveri di metalli ma ricchi di lapislazzuli. C’erano alcune baracche già in fiamme e Ciryandil diede il suo contributo con la torcia, solo dopo aver visto i suoi uomini con le sacche in spalla piene di bottino.

Tra le urla e la gente che correva, i suoi uomini che falciavano i fuggitivi che si trovavano davanti, Ciryandil fece un giro tra le vie, per spargere ancora morte e distruzione. Con la luce del sole, sarebbero tornati al villaggio raso al suolo per vedere se c’erano tracce dell’origine delle pietre di lapislazzuli.

Ora dovevano prendere tutto quello che il villaggio aveva da offrire e anche qualche prigioniero da riportare a Númenórë, dove gli schiavi dalla Terra di Mezzo stavano diventando un bene di lusso tra la nobiltà e anche comoda manodopera gratuita tra gli artigiani più facoltosi.

Lo sguardo di Ciryandil fu attirato da un uomo agghindato come se fosse un re, perché era l’unico a muoversi tra le capanne con cautela e guardandosi bene intorno.

Ma non abbastanza bene, perché non vide Ciryandil finché non appiccò fuoco ai tetti di paglia delle case alle sue spalle, tracciando una linea di fuoco fino a lui.

Prima che il capovillaggio potesse reagire, Ciryandil lo afferrò per il mantello corto che gli copriva le spalle e lo mandò a sbattere contro una casa non ancora in fiamme.

L’uomo aveva gioielli di lapislazzuli intorno al collo e Ciryandil li indicò.

«Dove si trovano?» disse in Adûnaic.

L’uomo sgranò gli occhi e scosse la testa.

Ciryandil gli piazzò la torcia davanti al viso e l’uomo, con un urlo, tentò di tirare la testa indietro.

«Non temere... fuoco» disse l’uomo, in quello che sembrava Adûnaic, molto stentato e da uno strano accento.

«Dovresti» disse Ciryandil e abbassò la torcia, per mettergliela tra le gambe.

L’uomo diede un urlo disumano in risposta, gli occhi si girarono indietro mostrando solo il bianco, e crollò a terra. Ciryandil infilò la torcia nel tetto della casa e si chinò per sollevare l’uomo dal mantello. Lo agitò.

«Dove si trovano?»

Tutto ciò che riuscì a tirar fuori dall’uomo fu un gorgoglio incomprensibile. Gli sputò in faccia e si rialzò, senza nemmeno tagliargli la gola per mettere fine al supplizio del fuoco.

«Meno male che non lo temevi».

Quella parte del villaggio era deserta, così si voltò per tornare dagli altri.

Ma proprio allora, tra le fiamme che si stava lasciando alle spalle, vide una figura familiare.

Piccola e nera, con una criniera di capelli riccissimi. I suoi abiti erano anneriti, non rimaneva nulla dei gioielli che le aveva visto indossare, ma aveva la schiena così dritta, negli occhi una strana ferocia, che Ciryandil si fermò ad ammirarla.

Non capiva se si sentisse tradita da quel che vedeva o se fosse soddisfazione quella che illuminava il suo viso.

Tutto quell’odore di bruciato gli faceva credere che dovesse importargli qualcosa di quel che la donna pensava delle sue azioni.

Nulla di più sbagliato.

Quello che lei pensava non aveva alcun valore perché, che fosse morta nel rogo o fosse stata uccisa dai suoi uomini, Ciryandil non l’avrebbe vista mai più.

Si voltò.

Le fiamme gli giocavano brutti scherzi.






Nota dell'autrice


In questo capitolo ci sono i resti delle prime scene che ho scritto di questa storia, nell’estate del 2017, quando stavo definendo meglio la scaletta delle due parti.

Se su Khamûl avevo idee vaghe già da quando scrivevo Caccia Grossa nell'Est, Ciryandil è venuto prima di tutto in relazione alla Donna. La sua figura ha preso nitidezza tale mentre plottavo, che ho dovuto scrivere una scenetta (la seconda, di preciso) e provare a continuare. Non sono riuscita ad andare troppo oltre, ma avevo fissato alcuni punti fondamentali della Donna e da lì non mi sono scostata più di tanto.

Quanto al resto… no comment.

Grazie a chi ha letto fin qui e ci vediamo dopo le feste!

Kan


Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Parte II. Il capitano - Capitolo 4. L’ombra del tempo ***


Parte II. Il capitano - Capitolo 4. L’ombra del tempo




Nomi utili:

Ciryandil: secondogenito di Tar-Ciryatan
Ciryatan: dodicesimo Re di Númenor, marito di Nenilde, padre di Atanamir (canon) e Ciryandil
Nenilde: moglie di Ciryatan, madre di Atanamir e Ciryandil. Scrive componimenti poetici erotici sotto lo pseudonimo "Ciryanilde"
Tar-Minastir: undicesimo Re di Númenor, padre di Ciryatan, figlio di Isilmo fratello di Telperien (canon)
Hallariën: moglie di Minastir, madre di Ciryatan
Tar-Telperien: decima Regina di Númenor, zia di Minastir (canon)
Atanamir: tredicesimo Re di Númenor (canon), fratello maggiore di Ciryandil, figlio di Ciryatan e Nenilde, padre di Ancalimon e Loténië
Aldarian: nobildonna númenóreana, amante di Ciryandil
Lotérian: moglie di Atanamir, madre di Ancalimon e Loténië
Ancalimon: quattordicesimo Re di Númenor (canon)
Loténië: secondogenita di Atanamir e Lotérian, sorella minore di Ancalimon




4. L’ombra del tempo




Quando il messaggero númenóreano raggiunse Ciryandil, lui temette per il peggio.

Si era impegnato ad aggiornare i suoi genitori sui suoi spostamenti, ma il terrore di poter ricevere messaggi troppo tristi o gravi per la distanza che lo avrebbe separato dalla madrepatria gli aveva fatto rivalutare quella decisione.

Se i primi messaggi erano stati più sul matrimonio di suo fratello –data fissata, richiesta la sua presenza– e sulla nascita dei suoi due nipoti, quel messaggio era stato scritto dal pugno di suo padre.


Figlio mio,

Non so se sei di ritorno o se questa lettera ti troverà ancora in viaggio, ma ho preso la decisione di lasciare lo Scettro.

Nel giro di sei mesi da queste parole, potresti trovare lo Scettro in mano a Tar-Atanamir.

Portagli dalla Terra di Mezzo qualcosa di degno del nuovo regno.

Con tutto l’amore che ti porto,

Tuo padre


Ciryandil sollevò lo sguardo sul messaggero, come se potesse dirgli qualcosa di più, ma sapeva che era inutile.

Erano passati più di sei mesi dalla data della lettera. Suo padre non era più Re di Númenórë.

Ma soprattutto, suo padre si considerava così vecchio da dover lasciare lo Scettro ad Atanamir.

Quella era la cosa più difficile da accettare. Suo padre non era vecchio, o almeno non lo era stato quando Ciryandil lo aveva lasciato. Per lui, suo padre non poteva davvero invecchiare. Dopotutto erano secoli che aveva avuto sempre lo stesso aspetto, sempre la stessa prontezza fisica e mentale, la sola idea che di colpo tutto quello fosse venuto meno era... sconfortante.

E impossibile da immaginare.

Ciryandil stesso non si era visto cambiare molto una volta raggiunta la maggiore età ed era passato così tanto tempo da allora, erano successe così tante cose in mezzo, che era un ricordo sbiadito.

La vecchiaia era un male per la gente che abitava la Terra di Mezzo. Per coloro che non erano stati benedetti dalle gesta dei propri avi.

La morte prematura era una sciagura che poteva capitare se si andava all’avventura nella Terra di Mezzo, ma a Númenórë?

Eppure...

Ciryandil ricordava il Noirinan alle pendici del Meneltarma, quella città silenziosa che ospitava i corpi dei Re e delle Regine di Númenórë, e intorno le loro famiglie.

Il posto in cui anche lui avrebbe riposato un giorno.

Ma era una possibilità così remota nella sua testa, che non aveva mai perso tempo ad andare a visitare le tombe, per quanto Atanamir gli avesse spesso raccontato cosa ci era andato a fare e cosa aveva visto. Molti erano stati racconti dell’orrore mirati a farlo spaventare, quando era stato ancora un bambino, e più avanti erano state provocazioni per il semplice gusto di punzecchiarlo su un fianco che Ciryandil non si era mai accorto di avere scoperto.

Poteva restare ancora lì a rimuginare sulla lettera di suo padre, ma Ciryandil era un uomo di azione sempre e comunque.

Così diede ordine di tornare indietro, nella madrepatria, lo Yôzâyan dei loro avi, dove gli antenati di tutti loro riposavano.

Quando tutto fu pronto per la partenza, si imbarcarono per sfruttare la brezza di terra per prendere il largo. Spinto da uno strano impulso, Ciryandil si voltò verso il porticciolo nell’insenatura abbandonata.

Tra le rocce e le onde del mare, gli parve di vedere una figura piccola e scura che li guardava allontanarsi.

Con un brivido tornò a rivolgersi al mare aperto ma, quando poco dopo gettò un altro sguardo a riva, la figura non c’era più.

La mente gli giocava brutti scherzi.


* * *


Atanamir –no, Tar-Atanamir– gli diede il benvenuto con i gioielli reali ad adornargli collo, braccia e perfino le caviglie. In parte erano il bottino dei viaggi di Ciryandil e suo padre, in parte erano l’eredità dei precedenti sovrani e dei matrimoni reali, che avevano portato gioielli di origine elfica nel tesoro di Armenelos.

Al fianco di suo fratello, c’era il figlio Ancalimon, ormai adulto, che sembrava una versione più giovane e meno ingioiellata del padre.

Da dietro Atanamir spuntò la secondogenita, Loténië, con un sorriso che ricordava quello di Ciryatan quando tornava dalla Terra di Mezzo. Quel sorriso di qualcuno che sapeva un segreto che lo divertiva molto.

Atanamir le prese la mano e si scambiò un sorriso con lei, come se fosse la luce dei suoi occhi in formato giovane donna.

«Non mi aspettavo di trovare entrambi i miei nipoti a darmi il bentornato».

Ancalimon abbozzò un sorriso che aveva tanto di suo padre, nonostante fosse troppo giovane per avere la stessa aria annoiata di Atanamir.

Loténië, invece, sorrise mostrandogli tutti i denti e le fossette sulle guance. Non era una sorpresa che il padre la adorasse se era quello il modo in cui reagiva alle attenzioni altrui. Atanamir amava chi gli mostrava la stessa attenzione che lui sentiva di meritare.

«Per compensare una certa assenza» disse Atanamir e gli andò incontro a braccia aperte, come se fossero stati ancora i ragazzi del suo primo viaggio nella Terra di Mezzo.

Nonostante tutto, Ciryandil gli andò incontro e gli avvolse le braccia intorno, per poi sollevarlo da terra. Atanamir sopportò il gesto con l’entusiasmo di un gatto, le gambe e le braccia irrigidite finché non tornò con i piedi per terra.

«Non vedo l’ora che tu sia così vecchio da avere problemi di schiena».

Probabilmente a quel punto Atanamir sarebbe stato ancora più vecchio, se non proprio lontano dal mondo. Ma Ciryandil non diede voce a quel pensiero, perché era bastata la sua fugace comparsa nella mente per incupirgli l’umore.

Come se il sottinteso nell’assenza di Ciryatan non fosse stato sufficiente.

«Come sta nostro padre? La decisione di lasciare lo Scettro è stata piuttosto improvvisa, mi sembra».

«Così come lo è stata la perdita di forze» disse Atanamir, con aria grave, le mani dietro la schiena.

Ripresero a camminare, superando Ancalimon e Loténië che parlottavano tra loro, per incamminarsi verso i cavalli al fondo del molo.

«Cosa gli è successo?»

«Un giorno, dopo una seduta del Consiglio, ha avuto un mancamento appena messo piede fuori dalla sala. Puoi immaginare nostra madre come l’ha presa».

Poteva. Ed era preoccupato il doppio.

Se fosse successo qualcosa a Ciryatan, Nenilde ne avrebbe fatto una malattia e non sarebbe stato strano dover celebrare due funerali in poco tempo.

Infatti, Atanamir gli confermò che la madre stava già preparandosi a dire addio a quel mondo.

«Si sono ritirati a Nindamos e stanno facendo entrambi i malati. Passeggiano in riva al mare al mattino, finché è fresco, ma poi passano il tempo in casa, semidistesi, con servitori che fanno loro massaggi per dolori articolari più o meno immaginari.

«Nostro padre è invecchiato a tutti gli effetti, ma nostra madre si sta rammollendo per la melancolia, non per altro».

«Non possiamo farci niente, per lei».

«Lo so. È solo che potrebbe vivere almeno una ventina di anni più di lui, visto com’era in salute prima del malore di nostro padre, ma è determinata a restare al suo fianco in tutti i sensi. Mi sembra uno spreco di tempo.

«Già è assurdo che, dopo quello che abbiamo fatto ben due volte per la Terra di Mezzo, dobbiamo ancora combattere con qualcosa come la vecchiaia e la morte. Questa seconda volta non ci sarebbe stato neppure bisogno del nostro intervento!»

«Se Tar-Telperien ha ritenuto necessario che intervenissimo–».

«Oh, lo ha fatto per motivi personali, e per levarsi dai piedi nostro nonno. Non c’era alcuna ragione per intervenire, fidati, ho letto le corrispondenze private dell’epoca e anche il parere di alcuni storici, e tutto mi dà ragione».

Che tutti dessero ragione ad Atanamir era come dire che il sole sorgeva a Est. Ma Ciryandil non era così d’accordo. Dopotutto se il nemico avesse spazzato via tutti gli altri abitanti della Terra di Mezzo, per Númenórë sarebbe stato un problema stabilire le proprie colonie.

Le divisioni che regnavano oltremare erano perfette per accrescere il loro potere. E quello interessava a Ciryandil.

Raggiunti i cavalli, montarono in sella. Erano finalmente abbastanza vicini alla folla che si radunava ad ogni partenza e arrivo, che Ciryandil dovette interrompere la chiacchierata col fratello per salutare e ringraziare per le benedizioni.

Quando si lasciarono alle spalle la piazza del porto, tornò la calma sufficiente per scambiarsi ancora qualche parola.

«Vorrei andare a trovarli» disse Ciryandil. Non era necessario specificare chi.

«Vai, magari ridarai loro un po’ di spirito» disse Atanamir. «Sono lì, nel loro mondo peggio di prima, e nemmeno la vista dei loro nipoti sembra entusiasmarli. Spero che rivedere il tuo brutto muso li rianimerà abbastanza da dargli una svegliata».

Ciryandil non ci contava molto.


* * *


Ci volle un po’ più di quanto si aspettasse per ricevere il permesso dei suoi genitori di andare a visitarli. Ma quando li raggiunse nella villa sul mare fuori Nindamos, Ciryandil comprese appieno quanto Atanamir avesse cercato di limitare il catastrofismo.

Ciryatan sedeva su una poltrona con le ruote, i capelli ormai del tutto bianchi e la pelle macchiata dagli effetti del sole che aveva preso navigando. Si era trasformato soprattutto il volto, segnato da linee profonde agli angoli degli occhi e intorno alla bocca, come se stesse pagando ora il conto delle risate che si era fatto. Pur non avendo mai visto il nonno prima della morte, Ciryandil poteva immaginare che lui avesse avuto sul viso i segni della piega severa della bocca e della fronte sempre corrugata.

E lui? Quali segni avrebbe portato?

La sola idea gli faceva venire la nausea. Forse perché era davanti a suo padre in quello stato e vederlo così debole e fragile gli ricordava che poteva viaggiare e conquistare tutte le terre che voleva, ma un giorno tutto sarebbe finito. Il suo stesso corpo lo avrebbe tradito e sarebbe giunta la tenebra eterna.

Perché non potevano fargli credere che sarebbe andato chissà dove, fuori dalle cerchie di questo mondo, e che sarebbe stato meglio di quel che avevano. Altrimenti gli Elfi sarebbero stati direttamente là.

E invece, prima di perdere tutto per sempre, dovevano passare dall’umiliazione della vecchiaia. A meno che non si facesse ammazzare in battaglia.

Ma Ciryandil non aveva alcuna intenzione di morire tanto presto.

Un servo posizionò la poltrona mobile di Ciryatan sulla veranda che dava sul mare e poco dietro arrivò Nenilde, reggendosi a un bastone con la testa a forma di conchiglia di nautilus, su cui stringeva la mano, come se allentando un po’ la presa sarebbe finita a terra.

«Figlio mio» disse Ciryatan, con un sorriso che increspò ancora di più la superficie del suo viso.

Nenilde prese posto sul sofà di fianco al marito e una serva accorse a sistemarle un poggiapiedi sotto i talloni e rassettarle la veste sulle gambe.

«Stai sempre bene, vedo» disse sua madre. «Mi fa piacere».

Non posso dire lo stesso di voi.

Lasciò aleggiare quella risposta, senza trovare il coraggio di pronunciarla ad alta voce.

Ma non per molto. Chiese loro cosa facevano, come passavano il tempo, evitando sempre la domanda sul loro stato di salute. Non voleva obbligarli a rispondere e, forse, non voleva obbligarsi a sentire risposte che non gli sarebbero piaciute. Chiunque avesse occhi per vedere sapeva darsi una risposta.

«Hai visto come sono cresciuti bene i tuoi nipoti?» disse Nenilde. «Penso che Loténië troverà presto marito».

«Non è un po’ giovane?» Si stava avvicinando ai cinquant’anni, sì, ma Atanamir si era sposato molto in là con l’età. E Lóterian stessa lo aveva sposato che era stata una donna adulta.

«Molte sue coetanee stanno già iniziando a finalizzare contratti matrimoniali» disse Nenilde.

«Essere una principessa dovrebbe permetterle di aspettare più a lungo, a meno che non sia lei a desiderare già il matrimonio».

«A quel proposito–» iniziò Ciryatan.

«A questo proposito, sì: tu quando hai intenzione di sposarti?»

Intendi farlo finché siamo ancora vivi?

Intendi darci dei nipoti finché riusciamo a vederli?

Altre parole non dette, ma di cui tutti e tre sentivano la presenza silenziosa. Quel cambio di argomento non era stato granché. Forse sarebbe stato meglio indagare sulla volontà di Loténië di sposarsi.

Perché quella giungeva come una sorpresa. Faticava a vedere la cocca di Atanamir con un altro uomo, si sarebbe aspettato che lei rimanesse al suo fianco il più possibile. Ed era curioso di sapere chi avesse distolto l’attenzione di sua nipote dal padre che adorava.

Già solo per quello doveva essere qualcuno di straordinario.

«Non c’era quella giovane con cui ti accompagnavi sempre? La figlia dei signori di Orneros?» disse Nenilde, le sopracciglia inarcate.

Sua madre non si era mai molto interessata della politica di corte, men che meno dei pettegolezzi di cui quella politica si alimentava. Se lo avesse fatto, avrebbe saputo già che Aldarian era sposata, con un signore dell’Orrostar che, per quanto Ciryandil ne sapeva, era più semplice da gestire mentre lei faceva di fatto la Signora di Orneros, in assenza di un parente maschio abbastanza adulto da poter prendere la carica.

Faceva sedere al consiglio il marito, ma era lei a comandare, gli era chiaro.

«Non ha mai accettato una mia proposta, madre» le disse, nonostante gliene avesse fatte tre, tra un viaggio e l’altro.

Aldarian aveva dato a tutte la stessa risposta:

«Me lo stai chiedendo solo perché sei abituato a me. Non mi vuoi davvero in moglie: ti delude da morire che io non condivida il tuo entusiasmo per i tuoi viaggi e prima o poi te ne risentirai. Trovati una donna più giusta per te, Ciryandil. Non ti manca nulla per averla».

Aldarian aveva avuto ragione: lui voleva una donna che capiva la vita che faceva e lo apprezzava per questo. Lei non corrispondeva a queste caratteristiche né faceva nulla per sembrare adatta al ruolo, nonostante essere la moglie di un principe del sangue fosse molto desiderabile.

L’aveva apprezzata per quella sincerità, era la ragione per cui era sempre tornato da lei, nonostante altre nobildonne col gusto per il rude marinaio spuntassero ogni tanto e gli facessero sapere che erano interessate. E sapeva che Aldarian anche lo apprezzava perché poteva esserci tutta quella schiettezza tra loro, senza il rischio che l’ego di uno dei due rimanesse ferito.

Avevano chiaro cosa erano e cosa si aspettavano l’uno dall’altra e quello bastava.

Anzi, col tempo Ciryandil aveva pensato che quella potesse essere una solida base per un matrimonio: lui le avrebbe dato tutta l’influenza e la ricchezza che veniva dal suo ruolo di principe e Signore dei Porti, e lei gli avrebbe prestato il suo grembo un paio di volte per avere la discendenza che ci si aspettava da lui. Per il resto, sarebbero stati liberi e schietti come lo erano sempre stati.

Ma Aldarian non lo aveva trovato abbastanza. E neppure Ciryandil, se si fermava a pensare per un attimo, lo trovava abbastanza.

Mettere i suoi genitori a parte di tutto questo ragionamento? Non era il caso.

«Che peccato» disse sua madre. «Eravate sempre insieme».

Quando ero a Númenórë, sì.

Ma anche quello non era necessario dirlo. Dopotutto stava parlando con una donna che aveva sempre avuto un rapporto intensissimo col marito nonostante lui fosse spesso per mare.

Dal suo punto di vista, probabilmente, il rapporto tra lui e Aldarian era simile a quello tra lei e Ciryatan.

Avrebbe dovuto essere nella loro camera da letto per sapere la verità, ma per fortuna non era successo né sarebbe mai capitato.

«Non ti preoccupare, troverò qualcuno prima o poi».

Nenilde abbozzò un sorriso. Non sarebbe stato abbastanza in fretta per esaudire il loro desiderio. Non sarebbe stato abbastanza neppure se, tornato ad Armenelos, avesse sposato la prima donna nubile che gli fosse capitata davanti e si fosse impegnato a ingravidarla.

Ciryatan guardava il mare e non era del tutto chiaro se stesse seguendo i loro discorsi o meno.

Forse no, forse sì. Fatto stava che si rivolse a lui durante il primo momento di silenzio, fissandolo con gli occhi azzurri più luminosi del solito.

«Dimmi, figlio, cosa stai trovando nella Terra di Mezzo?»

Erano usciti dalle sabbie mobili.

Ciryandil sorrise e iniziò a raccontare.


* * *


Il Noirinan era silenzioso mentre quattro servitori portavano a spalle la cassa in cui riposava Ciryatan. A poca distanza, seguiva quella di Nenilde, che aveva aspettato solo un giorno prima di seguire il marito nel sonno eterno.

«Hanno un sarcofago largo il doppio, per starci entrambi» gli aveva spiegato Atanamir, dopo avergli dato la notizia della morte della madre. «Forse è meglio che sia andata così».

Erano stati entrambi alla casa sulla costa di Nindamos, chiamati lì da Nenilde pochi giorni prima della morte di Ciryatan con un messaggio semplice, scritto con mano tremula:


È ora.


Così Ciryandil ed Atanamir li avevano raggiunti, per passare gli ultimi giorni al loro fianco. C’era stato Ciryandil al capezzale di suo padre quando aveva tirato l’ultimo respiro.

Non era stata un’esperienza che avrebbe voluto ripetere. Suo padre si era fatto sempre più debole, le parole sempre più stentate, e la luce nei suoi occhi si era affievolita poco a poco.

Gli odori e gli umori che accompagnavano la morte non gli erano estranei, dopo quanta ne aveva seminata, ma provenienti da suo padre... avevano scosso le stesse fondamenta su cui aveva sempre camminato.

Aveva perso la sua guida, che era rimasta importante nonostante da decenni avesse affidato a lui i viaggi nella Terra di Mezzo e la colonizzazione delle sue coste. Quando Ciryandil aveva dubbi, pensava sempre: cosa farebbe Tar-Ciryatan?

E ora?

Ciryandil non era stato a Númenórë quando Minastir era morto, perciò non aveva idea di come fossero andate le cose all’epoca. Ma il rapporto tra suo padre e suo nonno non era mai stato nemmeno lontanamente come quello tra lui e Ciryatan. Poteva non sapere tutto del loro passato, ma la tensione tra Minastir e il suo erede era stata ovvia persino da bambino.

Perciò, come poteva piangere un padre che era stato tanto per lui?

Non aveva ancora trovato una risposta a quella domanda, mentre Atanamir era rimasto al fianco della madre che si affrettava a seguire il marito con un sorriso sulle labbra, dopo tanto tempo.

Da quando era tornato per trovarli invecchiati e indeboliti, Ciryandil non aveva più visto il sorriso che sua madre aveva quando guardava o pensava a Ciryatan.

Lo confortava vedere almeno lei serena.

Perché le ultime parole di Ciryatan non lo erano state. E avevano derubato anche lui della serenità.

«Vado nella tenebra eterna, dove le vicende umane non sono altro che sabbia nel mare del tempo».

«Ti ricorderò io, padre» gli aveva detto.

«E chi si ricorderà di te, figlio mio? Io almeno sono registrato negli Annali».

Quelle parole pesavano sulla sua mente anche mentre osservava la cassa di suo padre che veniva calata nel sarcofago. Nella camera mortuaria della famiglia c’era solo Atanamir con lui. Ancalimon era fuori a tenere la presenza della Casa di Elros per loro.

«È uno spreco farsi seppellire con tutti quei tesori» disse Atanamir, mentre i primi servitori si spostavano per permettere agli altri di calare anche la cassa di Nenilde. «Sarebbero più utili al regno».

«Ci sono problemi?» chiese Ciryandil. Non aveva mai notato difficoltà nella gestione del regno, non dal punto di vista monetario. Le strade erano in ottimo stato, gli edifici pubblici in manutenzione periodica, il porto sempre pronto ad accogliere le navi e a ripararle.

«Non ci saranno mai abbastanza tesori per questo regno, fratello» disse Atanamir. «Per mantenere questa ricchezza dipendiamo dalle colonie. Il lavoro che stai facendo è fondamentale, ma credo che dovrò mandare anche mio figlio a stabilire un dominio più strutturato nei territori che stai conquistando».

Ciryandil annuì.

«Posso dirti quali sono più utili dal punto di vista strategico e per le risorse».

«Proprio quello che ti avrei chiesto».

«Posso accompagnare io Ancalimon nel suo primo viaggio». Gli sarebbe piaciuto avere il ruolo che Ciryatan aveva avuto per lui, almeno col nipote, visto che non aveva figli con cui fare lo stesso.

«Non è ancora pronto a partire, mentre ho bisogno che tu torni in mare al più presto».

Ne aveva bisogno anche lui. Erano ormai sei anni che era rimasto a terra e Númenórë iniziava a stargli di nuovo stretta. Soprattutto ora che erano mancate le uniche ragioni che lo avevano tenuto lì.

«Ti farò avere una lista».

Atanamir gli strinse una mano sulla spalla, nonostante fosse troppo in alto persino per lui. «Ti ringrazio».

Ciryandil abbozzò un sorriso e rimase nella camera mortuaria mentre i servitori ultimavano la sepoltura. Atanamir invece si affrettò a uscire all’aria aperta, come se non potesse sopportare un secondo di più là dentro.

Lo poteva capire.

Anche lui voleva fuggire. Ma aveva bisogno di qualche attimo da solo, prima di tornare in mezzo alla gente radunata per piangere i suoi genitori.

Il resto della giornata trascorse tra condoglianze e banchetti per i morti, con canti e musica in loro onore. Qualcuno recitò anche dei componimenti di Ciryanilde più delicati e struggenti, quelli degli ultimi anni, dopo che aveva rivelato la sua identità, e che Ciryandil non aveva mai letto perché gli sembravano troppo intimi.

Non si era sbagliato. Ascoltarne uno fu abbastanza.

Si ritirò nelle sue stanze, si spogliò e si infilò a letto, il materasso un abbraccio benvenuto dopo quella lunga giornata –quelle lunghe giornate. Era dalla notte prima della morte di suo padre che non dormiva davvero.

Forse fu per quello che nei suoi sogni comparve la donna.

Silenziosa, come l’ultima volta in cui l’aveva vista, tra le fiamme del villaggio, e con lo stesso sguardo intenso.

Non ti ho dimenticato, straniero, sembrava dirgli.

Dita di sogno gli accarezzarono il viso, delicate come ali di farfalla.

Il tuo posto non è nell’Isola del Dono, straniero nella tua stessa casa, gli sussurrava, i capelli ricci di lei che gli sfioravano il petto, gli mozzavano il fiato. Il tuo posto è nella Terra di Mezzo.

La tua tomba è l’acqua che domini come se ne fossi il signore.

Ciryandil si mise a sedere e si passò una mano sul viso, scostando i capelli appiccicati sulla fronte.

Erano lunghi come li aveva portati solo fino al suo primo viaggio. Aveva abbandonato il taglio da marinaio in quegli anni, aveva lasciato che i capelli biondo pallido scivolassero lungo la schiena, come usava suo fratello e buona parte dei nobili di corte.

Scese dal letto e andò al catino, dove nello specchio tondo lo aspettava il suo riflesso pallido, gli occhi circondati da ombre violacee.

Prese l’eket abbandonato sulla sedia lì vicino, strinse i capelli in un pugno dietro la nuca e iniziò a tagliare.

Ciocca dopo ciocca, caddero a terra e nel catino, fili pallidi come platino, ma di gran lunga meno preziosi. Lasciò cadere l’eket sulla sedia, senza rinfoderarlo, e tornò a guardarsi allo specchio.

Non era un bel taglio, il suo valletto avrebbe avuto un mancamento, ma con i capelli che gli ricadevano intorno al viso, lunghi fino al mento davanti e dietro che sfioravano appena alla cima del collo, si riconosceva di nuovo.

Era di nuovo Ciryandil.

Ed era pronto a tornare nella Terra di Mezzo.






Nota dell'autrice


Riemergo dalla mia pausa fisiologica vacanziera, prolungata dal coviddi, con il capitolo più lungo di questa strana raccolta.

Il rapporto dei Númenórëani con la morte è affascinante per come si evolve ed è la ragione per cui ho scelto questa fase storica per ambientare l’origin story di Angmar.
Ho avuto anche modo di mostrare un po’ di parti della cultura númenórëana che ho sviluppato scrivendo roba molto più lunga e complessa (e che prima o poi revisionerò? Chissà, sono presa dalle storie originali al momento).

Siamo a quota -2 capitoli per la chiusura dell’arco di Angmar. Sento già chi freme *occhiolino a Los* per la comparsa di un certo qualcuno, e io posso solo fare una risata malefica e andarmene in un’esplosione di glitter.

Grazie per aver letto fin qui e alla prossima settimana!

Kan


Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Parte II. Il capitano - Capitolo 5. Qualcuno che ricordi ***


Parte II. Il capitano - Capitolo 5. Qualcuno che ricordi




Nomi utili:

Ciryandil: secondogenito di Tar-Ciryatan, in Adûnaic "Balkuzîr"
Ciryatan: dodicesimo Re di Númenor, marito di Nenilde, padre di Atanamir (canon) e Ciryandil
Nenilde: moglie di Ciryatan, madre di Atanamir e Ciryandil. Scrive componimenti poetici erotici sotto lo pseudonimo "Ciryanilde"
Tar-Minastir: undicesimo Re di Númenor, padre di Ciryatan, figlio di Isilmo fratello di Telperien (canon)
Hallariën: moglie di Minastir, madre di Ciryatan
Tar-Telperien: decima Regina di Númenor, zia di Minastir (canon)
Atanamir: tredicesimo Re di Númenor (canon), fratello maggiore di Ciryandil, figlio di Ciryatan e Nenilde, padre di Ancalimon e Loténië
Aldarian: nobildonna númenóreana, amante di Ciryandil
Lotérian: moglie di Atanamir, madre di Ancalimon e Loténië
Ancalimon: quattordicesimo Re di Númenor (canon)
Loténië: secondogenita di Atanamir e Lotérian, sorella minore di Ancalimon




5. Qualcuno che ricordi




Tornarono nella Terra di Mezzo nella stessa regione da cui erano partiti anni prima. Nessuno dei nativi sembrò rendersi conto del loro ritorno, ma erano più guardinghi quando si avvicinavano i mercanti stranieri ai loro villaggi.

Ciryandil quella volta non si mise in prima fila, non andò lui in esplorazione, e si chiese se in realtà fosse qualcosa a tenerlo indietro.

Forse sì.

Non voleva mettersi in mezzo finché non ci fosse stato da uccidere.

Si sentiva pericolosamente amico della morte e per nulla propenso ad avere a che fare con la vita, se non finché non si fosse trattato di reciderla.

Così quando ebbero individuato i villaggi da colpire, Ciryandil ebbe l’occasione di sfoderare la sua spada a due mani e tornare se stesso nel sangue dei suoi nemici.

Quando finalmente il primo villaggio fu saccheggiato, i tesori accantonati e i prigionieri portati fuori, si fermò a guardare l’opera sua e dei suoi uomini. La pioggia torrenziale spegneva gli incendi che avevano appiccato per tirar fuori la gente dalle proprie case, e cercava persino di pulirlo dal sangue che gli era schizzato addosso.

Ciryandil sollevò il viso al cielo, inspirando a pieni polmoni l’aria umida e odorosa di terra che copriva il puzzo di fumo e morte.

Una presenza familiare lo disturbò e non si trattava di uno dei suoi uomini. Li sentiva indaffarati a organizzare il bottino per condurlo alle navi. Sapevano muoversi senza che lui indicasse loro ogni passo da fare.

Così Ciryandil aprì gli occhi e si voltò.

La donna era lì.

I capelli ricci appesantiti dall’acqua, ma sempre gonfi e selvaggi intorno alla testa e alle spalle, come un mantello di tenebra.

«Cosa vuoi?» Non si chiese neppure se fosse un sogno o se lei fosse davvero lì.

In qualsiasi caso, non gli importava.

Era l’ultima persona che avrebbe voluto vedere. L’avrebbe pure dimenticata, se non fosse stato per quel sogno prima di partire e per il modo in cui sembrava ripresentarsi sempre davanti ai suoi occhi, come una punizione.

Lei disse qualcosa e lui non capì una parola.

Il che bastò a confermargli che non era un sogno: in quelli lei parlava la sua lingua.

«Va’ via» le disse e le diede le spalle, in attesa che lei capisse e obbedisse.

Una mano gli toccò il braccio e Ciryandil lo scostò, per gettarle uno sguardo oltre la spalla.

C’era qualcosa in quegli occhi. Sembrava compassione, ma era probabilmente un’illusione. Non poteva provare pena per lui: aveva bruciato il suo villaggio e ucciso la sua gente.

No, voleva qualcosa da Ciryandil. Quella era tutta scena, per ottenere qualcosa in cambio per il suo atteggiamento gentile e pietoso.

La scrutò, seguendo con gli occhi le linee dei fianchi, più morbidi di prima, e quella morbidezza si estendeva anche ai seni, al collo, al viso. Il segno degli anni era così chiaro su di lei da fargli venire la nausea.

«Se vuoi attribuirmi la paternità di qualche bastardo, puoi scordartelo» le disse e mosse un passo lontano da lei.

La donna corrugò la fronte, come se stesse tentando di decifrare le sue parole, e strinse la mano che lo aveva toccato con l’altra, per abbassarle davanti al ventre nascosto dalle vesti larghe.

Non era certo di aver intuito correttamente. Non sapeva neppure perché le stava dicendo quelle cose quando lei non capiva mezza parola.

Non aveva senso prendersela con la donna.

Era solo una perdita di tempo.

Schioccò la lingua contro il palato, si voltò e se ne andò, senza lanciarle un altro sguardo.

Ma sapeva che, se lo avesse fatto, lei sarebbe stata lì a guardarlo allontanarsi.


* * *


«Cosa facciamo con la donna, capitano?»

Ciryandil si massaggiò la radice del naso, gli occhi chiusi. Poteva averla mollata sotto la pioggia in quel villaggio, ma la donna aveva deciso di seguire la sua gente, sempre qualche passo più indietro, sempre celere nel nascondersi quando qualcuno si voltava a guardarla, ma non perdeva mai un passo che loro facevano.

Non gli era chiaro cosa volesse da lui.

Era sola, senza alcun bambino moccoloso dietro. E non mostrava alcun segno di desiderare vendetta.

Sembrava un cane che continuava a seguire il padrone, anche se questi gli aveva detto di stare al suo posto. C’era la stessa determinazione cocciuta, mista a una fiducia cieca, come se lei sapesse cose di Ciryandil che la autorizzavano a credere in lui.

Cosa pensava di sapere? Non le era bastato vederlo uccidere la gente del suo villaggio con pochi fendenti della sua spada? O bruciare il capovillaggio con una torcia tra le gambe?

Cosa diamine voleva?

«Possiamo catturarla e tenerla con le altre donne che seguono il campo» gli propose il suo tenente.

Ma quelle donne interessavano ad alcuni di loro. Lui non aveva alcun interesse per la donna. Lo aveva avuto finché gli era servita per ottenere informazioni sul villaggio da razziare, ma dopo? Cosa doveva importargli di lei?

«Oppure, se desidera tanto un uccello númenóreano da seguirci con una tale disperazione, possiamo dargliene un po’ finché non cambia idea» disse un altro dei suoi uomini e sghignazzò.

Quello fece sollevare la testa a Ciryandil e passare in rassegna chi gli stava intorno, con gli occhi stretti.

«Non ci provate nemmeno» disse, la voce dal fondo del petto come un ringhio. «Se è davvero quello che vuole, la stareste accontentando ed è proprio quello che sto cercando di non fare».

Alcuni dei suoi uomini si scambiarono occhiate, qualcuno inarcò le sopracciglia, altri convennero con lui, con un cenno del capo.

Ciryandil si alzò dallo sgabello, torreggiando su tutti gli uomini raccolti intorno al fuoco.

«Lasciate che ci segua» disse infine. «Prima o poi si stancherà di farlo».

E con quelle parole, si ritirò nella sua tenda per la notte.


* * *


Come si era illuso.

La Donna li seguì per mesi mentre si aggiravano nell’entroterra, al punto che Ciryandil considerò di tornare alle navi e muoversi lungo la costa per seminarla.

Ma non poteva cambiare i suoi piani per una donna cocciuta. Aveva un progetto iniziato anni fa, per queste terre, e intendeva portarlo a termine prima di tornare alle navi.

C’erano lapislazzuli da trovare.

In quei mesi, gli giunsero notizie da Númenórë: Loténië alla fine si era sposata, con l’erede del Signore di Andúnië, il che gli faceva porre qualche domanda sulla natura di quel matrimonio. Era stata davvero lei a volerlo o Atanamir aveva ceduto alla ragion di Stato e le aveva fatto sposare il nobile più influente di Númenórë per averlo sotto controllo?

Pensare alla politica della sua madrepatria serviva a poco quando ciò che lui stava facendo nella Terra di Mezzo non la riguardava direttamente. Non stava ancora stabilendo colonie, e Atanamir gli aveva fatto sapere che avrebbe voluto che fosse suo figlio a farlo.

Ciryandil sarebbe stato l’ariete che avrebbe sfondato le mura della città assediata. Gli andava bene quel ruolo. Dopotutto non aveva l’eleganza e la leggiadria di suo fratello e suo nipote.

Così continuò a farsi largo nell’entroterra e la Donna a seguire il suo gruppo.

Una volta, non vedendola, andò a cercarla.

La trovò intenta a lavare i capelli in un torrente, i vestiti bagnati appiccicati al corpo, mentre con le dita districava le ciocche ricce e crespe. Era ancora viva e in forma, il che gli bastava. Infatti si voltò per mollarla lì alle sue abluzioni, ma lei lo notò e si raddrizzò.

La Donna emise un verso che lui intuiva essere un invito ad aspettare, se non proprio il nome che lei gli aveva affibbiato.

Qualcosa lo fece fermare e guardare oltre la spalla, per vederla affrettarsi fuori dal ruscello e raggiungerlo.

Gli prese il braccio e gesticolò furiosamente, ma Ciryandil era troppo distratto dalla sua espressione animata e da come la stoffa e i capelli si erano appiccicati alla sua pelle per concentrarsi sui segni che lei faceva.

Si riscosse solo quando lei tacque, quasi aspettandosi una risposta.

Lui le mise le mani sulle spalle e la girò verso il ruscello.

«Torna pure a lavarti, che ti fa bene» le disse e se ne andò.

Questa volta non si fermò neppure quando lei riprese a chiamarlo.

Solo troppo tardi si rese conto che la Donna aveva cercato di dirgli qualcosa di importante. E si ricordò perché la tattica che lui stava adottando non era mai stata usata per un ottimo motivo: se i nativi sapevano che eri ancora in giro e ti stavi allontanando dal mare, si organizzavano.

Così, quando con il cielo coperto da nuvoloni neri entrarono in un villaggio deserto, non si accorsero subito di essere in trappola.

Credettero piuttosto che la gente fosse scappata per evitarli.

Ah! Illusi.

Non furono solo gli abitanti di quel villaggio a circondarli, ma probabilmente anche quelli dei villaggi vicini, uomini piccoli, magri e scuri, ma in numero sufficiente da mettere due dozzine di Númenóreani in difficoltà.

Il thangail resse poco agli attacchi, perché frenato in una parte fondamentale del suo utilizzo: erano bloccati in mezzo al villaggio, qualsiasi manovra preclusa.

Così Ciryandil diede ordine agli uomini al centro di uscire dai ranghi e attaccare le prime linee di selvaggi e lui uscì con loro, perché voleva dar da bere alla sua spada e per farlo non poteva restare dentro il thangail.

Uscì dal recinto di scudi e la sua vista bastò a congelare per un attimo i selvaggi intorno a lui. Era sempre stato il suo vantaggio, per quanto la sua stazza non lo rendesse il più agile.

Così calò la spada sulla prima fila, squarciando il ventre di tre uomini –e mezzo– prima che gli altri si risvegliassero, riscossi dalle urla.

Un fulmine squarciò il cielo e la pioggia si unì all’attacco.

Da lì, non fu semplice mattanza perché i numeri erano troppo a sfavore di Ciryandil e i suoi uomini, ma il thangail resse ancora poco, prima che tutti gli altri soldati si gettassero nella mischia.

Ciryandil non si rendeva conto di cosa faceva il suo corpo. Sentiva il rumore umido di carne squarciata e di ossa rotte, ma non vedeva quel che aveva davanti agli occhi.

Una mezza dozzina di volte sentì dolore, ma non prese nota nemmeno di quello, finché qualcuno non gli affondò una lancia nel fianco dalle spalle.

Quella la sentì, eccome.

Con un urlo si voltò, afferrando la lancia conficcata ancora nella sua carne e la spezzò, prima di tirare un fendente verso chi lo aveva attaccato. Non gli colpì il collo, ma la testa –con poca grazia e molta forza–, spaccandogli la parte superiore del cranio.

Il selvaggio crollò a terra senza vita, ma gli altri non stettero a guardare a lungo e ripresero ad attaccare Ciryandil, come se servisse mettersi tutti insieme contro di lui.

In effetti, non era del tutto sbagliato. Supponeva che dessero la caccia alle grandi bestie dell’Estremo Sud con quella stessa tecnica.

Erano fastidiosi, tanto che riuscirono a farlo imbestialire come mai prima, finché non si trovò davanti a un guerriero più alto degli altri –alto quanto Ciryandil–, armato come un ufficiale dei Regni del Sole e una lunga alabarda in mano.

«Ho sentito parlare di te» gli disse, in una lingua che non gli era chiaro se fosse Adûnaic, Sindarin oppure Quenya.

Ma lo capiva.

Fu quello a sconvolgerlo di più.

Chi era? Come faceva a farsi capire?

«Non posso dire lo stesso» disse Ciryandil, rigirandosi l’elsa bagnata tra le mani. «Chi saresti?»

Il guerriero rinserrò la presa sull’alabarda e gli allungò un affondo che Ciryandil ebbe tutto il tempo di schivare.

Faceva sul serio?

«Non importa chi sono io. Ti basti sapere che sono qualcuno, mentre tu devi invadere queste terre per esserlo».

Ciryandil strinse i denti e calò la spada sul suo avversario. Questo volteggiò via dal suo fendente e scattò in avanti, così rapido che lui sentì solo il dolore al fianco, dove c’era già la ferita di lancia.

Con un ruggito, Ciryandil si ritrovò in ginocchio. Un piede gli premette sulla spalla, spingendolo giù, la faccia contro la melma mista a sangue e pioggia.

«Questo è il tuo posto» disse il guerriero. «Sconfitto, tra i cadaveri che ti sei lasciato alle spalle. Dimenticato da tutti, perché non sopravviverà nessuno che si ricordi di te».

No.

Già aveva sentito qualcosa di simile da suo padre, ma c’era stata pena e dolore nella sua voce. Ciryatan non voleva che suo figlio andasse dimenticato.

Questo guerriero ne avrebbe goduto.

Ciryandil gli afferrò la caviglia e la torse, fino a far finire il guerriero nel fango con lui. Con uno slancio, gli si stese sopra e premette un braccio sulla sua gola, con l’altro gli bloccò la mano che teneva ancora l’alabarda.

«O forse sarai tu quello che verrà dimenticato» disse Ciryandil. «Dopotutto, quando avremo fatto di queste terre le nostre colonie, puoi star certo che almeno una città porterà il mio nome. Magari ne farò sorgere una proprio qui, dove te la sei fatta addosso contro di me».

Il guerriero rantolò e si contorse sotto Ciryandil finché non si afflosciò.

Solo dopo aver portato la spada sotto l’apertura del naso dell’elmo del guerriero, e aver verificato che il metallo non si appannava, Ciryandil si lasciò andare disteso al suo fianco.

Gli lanciò uno sguardo e gli venne da ridere: sembrava che avessero finito di far sesso e che stessero distesi fianco a fianco per riprendere fiato. Ma uno di loro due non lo avrebbe mai ripreso.

E, a giudicare dal dolore che lo assaliva in tutto il corpo, Ciryandil altrettanto.

La mano inerte del guerriero aveva qualcosa che luccicava all’indice. Ciryandil gliela prese e notò un anello d’oro, una semplice fascia lucida, molto ben fatta, che brillava anche nello sporco e nel sangue.

Un magnifico ricordo di quel combattimento.

Ciryandil gli sfilò l’anello dal dito, se lo rigirò davanti agli occhi e lo infilò all’indice.

I suoni intorno a lui si attutirono, i dolori svanirono, la pioggia cessò.

Uno strano senso di giustezza lo pervase.

Bene. Era così che doveva andare.

Con un sospiro, chiuse gli occhi.


* * *


Qualcosa gli bruciò contro il fianco e, con un sibilo tra i denti, Ciryandil aprì gli occhi. Una mano gli trattenne la spalla per terra e parole in una lingua incomprensibile giunsero da una voce che riconosceva troppo bene.

Aveva smesso di piovere. La Donna era inginocchiata vicino a lui, intenta ad applicargli strani intrugli al fianco, mentre con tono di voce rassicurante e calmo gli diceva qualcosa.

Per le tette di Uinen, se capiva cosa.

Era come quando sua madre gli parlava se lui si svegliava da un incubo, nel pieno della notte, e piangeva disperato. Solo che non si era risvegliato da un incubo: a giudicare dal dolore che sentiva lungo tutto il corpo, gli sembrava di essersi risvegliato dalla morte.

Tutte quelle ferite che non aveva minimamente percepito mentre lottava, ora si facevano sentire, eccome! Quelle peggiori erano sul fianco, dove la Donna stava applicando un cataplasma.

Con le palpebre a mezz’asta, la guardò mentre lei era tutta presa a schiacciare altre erbe e semi su una pietra, con un sasso, i capelli raccolti in una striscia di stoffa, qualche ricciolo ribelle che le ricadeva sulla fronte e lungo il collo.

Poteva essere invecchiata rispetto a quando l’aveva conosciuta, ma cos’erano stati? Sei, sette anni? Non era un vero invecchiamento. Era solo maturata, si era fatta se possibile ancora più donna.

Il suo viso concentrato fu l’ultima cosa che vide prima di scivolare di nuovo in un sonno senza sogni.


* * *


Quando Ciryandil si risvegliò, non era più nella fanghiglia in mezzo al villaggio in cui avevano subito l’attacco, ma in una tenda.

La sua tenda, a giudicare dagli arredi.

Qualcuno lo aveva riportato al campo e dubitava fosse stata la Donna. Piccola com’era, poteva averci messo tutta la forza che aveva in corpo, ma non sarebbe riuscita a muoverlo.

Si sollevò su un braccio e strinse i denti nel sentir tirare al fianco.

«Fai piano» giunse una voce da un angolo della tenda.

Ciryandil vi trovò uno dei suoi ufficiali, seduto su uno sgabello, le braccia incrociate sul petto.

«Eri conciato davvero male, Balkuzîr» gli disse l’uomo. «Per fortuna per quella donna che ci segue da mesi, o non ti avremmo trovato in tempo. E con te, tutti gli altri».

«Quanti erano feriti?»

«Dovresti chiedere quanti sono morti, perché tutti erano più o meno feriti».

Ciryandil gli fece cenno col capo di rispondere alla domanda non posta.

«Abbiamo perso nove uomini» gli disse il tenente. «Tu saresti stato il decimo».

«La Donna mi ha curato».

«Non solo». Il tenente si alzò dallo sgabello. «Quando siete partiti, vi ha seguiti, ma poco dopo è tornata indietro e ha cercato di parlare con qualcuno al comando. Con il trattamento che le hai riservato, tra coloro rimasti al campo nessuno la voleva prendere sul serio.

«Ma c’era qualcosa nel modo in cui si agitava che mi ha insospettito e sono riuscito a farmi spiegare quello che voleva dirmi. Lei aveva visto strani movimenti, sentito messaggi passati da un villaggio all’altro e seguendovi ha capito che era quello il giorno dell’attacco che stavano organizzando contro di noi.

«Così ci siamo armati e siamo arrivati in tempo per evitare che moriste tutti. Ci è voluto un po’ per scacciare gli ultimi selvaggi, ma ero tranquillo lasciandoti nelle mani di quella donna. Dopotutto ha dimostrato di avere il nostro –e il tuo– bene a cuore».

Ciryandil si lasciò andare indietro sul letto e si passò una mano sul viso, sentendo la presenza fredda dell’anello contro la pelle. Era mortificato e confuso. Si rendeva conto ora che quel giorno al fiume lei aveva cercato di avvisarlo e lui l’aveva ignorata. E trattata in malo modo.

Perché poi? Perché non la reputava degna di sé?

Era ridicolo. L’aveva reputata abbastanza degna per il suo uccello mentre cercava di ottenere informazioni sul suo villaggio e sui lapislazzuli.

Ma allora era stata un mezzo per un fine. Un oggetto con cui trastullarsi mentre cercava di raggiungere un obiettivo, e da gettare via appena quell’obiettivo era stato raggiunto.

Non provava pena per lei. Né voleva riprenderla con sé per compassione, perché non provava nemmeno quello.

Gratitudine? Era un sentimento troppo limpido per quel che si agitava nella sua testa in quel momento.

Si riaddormentò, come se fosse stato solo nella tenda, e quando si risvegliò lo era davvero. Si era fatta di nuovo notte e fuori si sentivano solo i versi degli animali notturni, il campo addormentato, salvo per le sentinelle.

Ciryandil si tirò a sedere e lasciò la brandina. Indossava solo un perizoma di lino, il resto del corpo coperto da bende che tenevano al posto cataplasmi e coprivano le suture. Si sentiva meglio di quello che appariva e di sicuro meglio rispetto al precedente risveglio.

Avventurò qualche passo nella tenda finché non tornò di nuovo padrone del suo corpo. Così uscì, percorse la strada principale dell’accampamento e, una volta fuori, fece un cenno di saluto alle guardie e si guardò intorno.

Era certo che lei fosse lì in giro.

Chissà dove dormiva.

Una rapida perlustrazione tra gli alberi gliela fece trovare su un ramo, cavalcioni contro il tronco, le braccia incrociate sullo stomaco. Era una posizione strana in cui dormire, ma ne capiva il senso.

Si avvicinò e tese le braccia sotto il ramo.

«Ehi, Donna» la chiamò piano, per non spaventarla e farla cadere. Era pronto a prenderla, ma non era sicurissimo della presa che avrebbe avuto nel suo stato.

Lei si riscosse e socchiuse gli occhi, per poi spalancarli nel riconoscerlo. Si raddrizzò e Ciryandil sentì un sorriso tirare sulle sue labbra.

La Donna indicò il suo fianco e disse qualcosa.

«Sta meglio, grazie» rispose a quella che supponeva fosse la sua domanda. «Vieni con me».

Mosse un passo indietro e, quando non la vide muoversi, le fece segno con la testa verso l’accampamento.

Lei sbatté le palpebre.

Ciryandil temette di doversi ripetere, ma lei balzò giù dal ramo e lo raggiunse con passo sicuro.

Si incamminarono verso l’accampamento, fianco a fianco, senza nemmeno sfiorarsi.






Nota dell'autrice


E siamo al penultimo capitolo ed è spuntato un certo qualcosa che ci è familiare, o sbaglio? ;)

Forse si capisce meglio perché ho definito Ciryandil lo scimmione di Angmar. Mettermi nei suoi panni, in capitoli come questo, mi fa sentire decisamente quanto sia uno scimmione.

Passando alle note serie, il thangail è una formazione númenórëana corrispondente alla testudo romana ed è quella che viene usata durante l’attacco a Isildur quando viene attaccato vicino all’Anduin (e perde l’anello). Mi piace un sacco avere questi dettagli dal canon ♥️

Grazie a chi ha letto fin qui e alla prossima settimana con l’ultimo capitolo di Angmar, ma non l’ultimo della raccolta!

Kan


Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Parte II. Il capitano - Capitolo 6. L’ultimo passo nella notte ***


Parte II. Il capitano - Capitolo 6. L’ultimo passo nella notte




Nomi utili:

Ciryandil: secondogenito di Tar-Ciryatan, in Adûnaic "Balkuzîr"
Ciryatan: dodicesimo Re di Númenor, marito di Nenilde, padre di Atanamir (canon) e Ciryandil
Nenilde: moglie di Ciryatan, madre di Atanamir e Ciryandil. Scrive componimenti poetici erotici sotto lo pseudonimo "Ciryanilde"
Tar-Minastir: undicesimo Re di Númenor, padre di Ciryatan, figlio di Isilmo fratello di Telperien (canon)
Hallariën: moglie di Minastir, madre di Ciryatan
Tar-Telperien: decima Regina di Númenor, zia di Minastir (canon)
Atanamir: tredicesimo Re di Númenor (canon), fratello maggiore di Ciryandil, figlio di Ciryatan e Nenilde, padre di Ancalimon e Loténië
Aldarian: nobildonna númenóreana, amante di Ciryandil
Lotérian: moglie di Atanamir, madre di Ancalimon e Loténië
Ancalimon: quattordicesimo Re di Númenor (canon)
Loténië: secondogenita di Atanamir e Lotérian, sorella minore di Ancalimon
Amatthâni: Aman/Valinor in Adûnaic
Nimruzîr: gli Elfi in Adûnaic
Azrubêl: il nome di Eärendil in Adûnaic




6. L’ultimo passo nella notte




Ciryandil e i suoi uomini ebbero il tempo di risalire tutta la costa est della Terra di Mezzo e tornare indietro, prima di ricevere notizia della partenza imminente di Ancalimon da Númenórë diretto alle colonie.

Ma ormai, Ancalimon era giunto in porto a Vinyalondë con un nutrito seguito di navi di civili.

«Zio, ti vedo in forma» gli disse, andandogli incontro a braccia aperte e un sorriso radioso mentre Ciryandil lo aspettava sul molo.

«Anche tu. Il mare sembra donarti molto».

Ancalimon somigliava ad Atanamir, ma i giorni in mare avevano scurito la sua pelle e lasciato segni dorati sulle ciocche scure dei suoi capelli. Per una volta, gli sembrava di avere davvero suo nipote davanti e non uno sconosciuto che aveva una certa somiglianza con suo fratello.

Si abbracciarono e Ciryandil lo invitò nella casa del Re arroccata su una delle alture che circondavano Vinyalondë.

«Mi piacerebbe fare un giro della città per vedere cosa ha fatto il nonno in questo porto, ma intendo ripartire al più presto. Devo stabilire abbastanza colonie da soddisfare le necessità dell’isola».

E di suo padre, supponeva Ciryandil.

«Dimmi quanti giorni sarai qui e mi organizzerò di conseguenza».

«Uno, al massimo due».

Ciryandil annuì, per quanto l’idea non gli paresse granché.

«Come sta tuo padre?» gli chiese, piuttosto che dar voce ai suoi pensieri.

«Bene, come sempre. Ha avuto da ridire con gli Elfi da Tol-Eressea, durante la loro ultima visita».

Ciryandil inarcò le sopracciglia. Non aveva mai avuto l’occasione di incontrare gli Elfi, nemmeno Ciryatan se era per quello, ma ricordava che erano spesso in visita nell’Andustar durante il regno di Tar-Minastir e, dai racconti, durante quello di Tar-Telperien. Sul rapporto tra la regina e gli Elfi circolavano una serie di voci che suo nonno non aveva mai fatto molto per silenziare e alcune opere di Nenilde avevano trasformato in favole romantiche.

«Cosa di preciso?» chiese ad Ancalimon.

«Diciamo che non hanno molto gradito che mio padre parlasse in Adûnaic in loro presenza. Ma, come ci ha tenuto a precisare, la popolazione non conosce la loro lingua e non è corretto che venga tenuta fuori dai loro incontri».

«Non capisco a cosa servano le visite degli Elfi, a dire il vero».

«Nemmeno io» disse Ancalimon, rigirandosi la coppa di vino in mano. «Non possono portarci nulla dalle Terre Immortali che non possiamo ottenere dalla Terra di Mezzo».

Ancalimon sorseggiò il vino e guardò Ciryandil. «Be’, tranne una cosa. Ma i tentativi di mio padre di infiltrare qualcuno sulla loro nave non sono serviti a molto».

«Quindi non c’è stata solo la questione della lingua a far andare male l’incontro».

Ancalimon strinse la testa nelle spalle, uno sguardo furbo che gli ricordava tanto quello di Atanamir. Lo sguardo di chi era un po’ troppo sveglio per il suo stesso bene.

Ciryandil non aveva mai avuto problemi simili, ma sapeva riconoscere qualcuno la cui mente era superiore alla sua. Non bastava avere un fratello simile, aveva anche un nipote con lo stesso difetto.

Le cose si stavano mettendo davvero molto bene per il regno.


* * *


Ancalimon tenne fede alla sua parola e, dopo appena due giorni a Vinyalondë, ripartì forte delle indicazioni che gli aveva dato Ciryandil.

Sul molo, prima di partire, Ancalimon lo aveva ringraziato e lo aveva preso in disparte.

«Ho sentito parlare di una donna locale che vive con te» gli aveva detto. «Un suggerimento? Non affezionartici troppo, zio. Se la nostra vita è breve per le imprese che abbiamo in mente, figurarsi quella di un abitante della Terra di Mezzo».

Ciryandil gli aveva tirato una pacca sulla schiena.

«Senti un po’ il nipote che dà consigli di cuore allo zio». Gli aveva avvolto un braccio intorno al collo, per stringerlo a sé. L’anello sul suo indice destro aveva scintillato alla luce di Anar tramontante. «Non temere di chi mi affeziono io, piccolo. E ascolta un consiglio di chi ha fatto già i giri che tu stai per fare: assaggia l’offerta locale ovunque tu vada. Poi ne riparliamo».

Appena Ciryandil lo aveva lasciato andare, Ancalimon si era raddrizzato, riassestando la casacca, le guance in fiamme. Il piccolino non era ancora del tutto a suo agio a parlare di sesso? Ecco perché faceva tanto la voce grossa.

Così, Ciryandil era rimasto a guardare le navi allontanarsi, prima di tornare al palazzo e nelle sue stanze dove la Donna era intenta a intrecciare strisce di cuoio seduta sulla soglia del balcone.

Potevano essere ormai cinque anni da quando l’aveva presa con sé a tutti gli effetti, ma lei continuava a restargli al fianco, come se non volesse altro dalla vita.

Si era aspettato che avesse trovato marito mentre lui era stato via, e invece era rimasta sola ad aspettarlo. E negli anni insieme, mai aveva dato segno di essere incinta. In realtà, non sanguinava mai, neppure con i ritmi più stagionali delle donne di Númenórë.

Non era stato necessario consultare un medico per intuire che le gravidanze non venivano perché non venivano i sanguinamenti.

Ma Ciryandil non era mai riuscito a chiederle se la cosa le dispiacesse. Non voleva chiederglielo, e non solo perché non si era mai disturbato di imparare la sua lingua, né lei gli parlava in Adûnaic –nonostante lui l’avesse sentita parlare con la servitù senza problemi–, ma perché non voleva indagare sui suoi sentimenti a riguardo.

Quel che gli aveva detto suo nipote non era del tutto sbagliato. I fili grigi che erano comparsi tra le ciocche corvine erano un monito sufficiente a non affezionarsi troppo alla Donna.

Ciryandil si avvicinò a lei, si inginocchiò alle sue spalle e le avvolse le braccia intorno alla vita. Era così piccola rispetto a lui che doveva incurvarsi su di lei per abbracciarla, i seni pesanti che si posavano sui suoi avambracci.

La Donna sollevò la testa e gli sorrise.

Gli chiese qualcosa. Forse se suo nipote fosse partito, e Ciryandil annuì.

Lei gli accarezzò il viso, per tornare a intrecciare il cuoio in quello che appariva proprio un bracciale di armatura.

«Domani ripartiamo» le disse in Sindarin. «Sono stanco di restare qui, voglio tornare a esplorare il Sud».

Vinyalondë era di solito una tappa prima di rientrare Númenórë. Ma era l’ultimo posto in cui Ciryandil voleva trovarsi in quel momento.

La Donna annuì, e lui non era sicuro che avesse capito del tutto. Aveva usato il Sindarin con quello scopo.

Si ostinavano a mettere barriere per comunicare tra loro, come se fosse uno scherzo privato, ma la verità era che Ciryandil non voleva parlarle in maniera di essere certo che lei capisse e, allo stesso tempo, lei non gli andava incontro né si impegnava a farsi capire.

Alla fine, qual era l’utilità di usare la stessa lingua?

Per quel che contava, si capivano lo stesso.

Ciryandil le scostò i capelli dal viso con la punta del naso e le premette le labbra sulla guancia, per poi scendere lungo il collo verso la spalla. Lei mise da parte il lavoro e lasciò andare la testa indietro, contro il suo petto.

«Vuoi tornare dalla tua famiglia?» le chiese, sempre in Sindarin.

Lei non gli rispose. Forse fare una simile domanda perché lei non la capisse voleva dire che Ciryandil non voleva davvero una risposta.

La Donna gli prese una mano e gliela portò attraverso lo spacco della veste fin nello spazio tra le sue cosce. Lì, gliela premette contro il pube.

Quella era decisamente una risposta.


* * *


Ancalimon aveva ormai fatto parecchi viaggi nella Terra di Mezzo per stabilire e mantenere le colonie, quando da Númenórë giunsero notizie che avevano del preoccupante. A portarle furono proprio i mercanti che suo fratello aveva autorizzato ad attraversare il Belegaer per commerciare con le colonie lungo la costa ovest dell’Harad.

«Dei messi dei Valar hanno chiesto udienza al Re?» ripeté Ciryandil, incapace di credere alle sue orecchie.

«Sì, e gli hanno chiesto di desistere da altri tentativi di inviare navi a Ovest».

Ciryandil era stato all’oscuro di simili azioni da parte di suo fratello. Era rimasto al tentativo di infilare uno dei suoi uomini su una nave degli Elfi, ma non aveva mai immaginato che potesse osare altro.

Se la nostra vita è breve per le imprese che abbiamo in mente, figurarsi quella di un abitante della Terra di Mezzo.

Le parole di suo nipote gli tornarono in mente e solo allora Ciryandil notò qualcosa a cui non aveva dato peso: l’eco di suo fratello in quel pensiero.

Ciryandil ricordava come era stato quando aveva avuto la sventura di passare vicino a una porta aperta del soggiorno privato di Atanamir: quante disquisizioni sulla mortalità durante i banchetti con gli amici interessati a quel genere di studi del proprio ombelico! Chissà Ancalimon quante volte aveva sentito le stesse discussioni.

Erano troppi anni che non tornava nella sua madrepatria, ma dubitava che fosse cambiato qualcosa.

«Cosa ha risposto ai messi dei Valar?»

Il mercante fece una smorfia. «Preferisco non ripeterlo, Balkuzîr, è stato troppo blasfemo per i miei gusti».

Come un cane che ha puntato l’osso, Ciryandil continuò a far domande in giro finché non trovò un uomo disposto a dirgli qualcosa di più.

Era un marinaio col volto segnato dagli anni e dal mare che non sembrava avere molto di sacro e inviolabile, al contrario dei mercanti con cui Ciryandil aveva avuto a che fare.

«Il Re? Il Re ha detto bene» disse il marinaio. «Ha ricordato a quei bellimbusti dell’Ovest che è il discendente di Azrubêl e Azrubêl è ancora vivo e giovane mentre percorre ogni giorno il cielo».

«Chi erano i messi?»

«Ah, quei bellocci di Amatthâni. I Nimruzîr, tutti biondi e luminosi, come se bastasse questo a farci cambiare idea. Il Re ha detto bene».

«E tu eri lì, quando il re ha parlato con i messi degli Avalôim?»

«No, ma mio figlio era lì per il permesso di partire e quindi ha assistito a tutta la scena. E che scena, Balkuzîr! Avresti dovuto essere lì».

Quando Ciryandil rientrò a casa, andò al letto dove sedeva la Donna, la coperta a coprirle le gambe, i cuscini dietro la schiena, il volto smunto.

I capelli erano molto diradati e quei pochi che rimanevano erano grigi, come la luce che emanava la sua pelle sbiadita. La vecchiaia e la malattia l’avevano fatta impallidire al tal punto che Ciryandil voleva andare a dormire, solo per riaprire gli occhi sulla Donna con la pelle più nera della notte, anche se tra le sue braccia il contrasto tra loro sarebbe stato ancora più netto.

Le portò una ciotola di cibo e lei tese le mani perché lui gliela porgesse e la lasciasse mangiare da sola. Ci teneva molto a poterlo fare, anche quando stava peggio di come sembrava quel giorno.

Ciryandil non sedette sul letto, per paura di sbilanciarlo col suo peso, ma si accovacciò al suo fianco e la osservò mangiare.

«Mio fratello ha deciso di mettersi contro i Signori dell’Ovest, a quanto pare» le disse, rigirandosi l’anello intorno all’indice. «Vorrei saperne di più, ma tutti sono restii a parlarne».

La Donna sollevò lo sguardo dalla ciotola, tutta la sua attenzione su di lui, come se stesse aspettando che dalla sua bocca uscissero determinate parole.

Immaginava quali.

Perché ci aveva pensato da quando il primo mercante gli aveva accennato alle azioni di Atanamir.

Erano davvero troppi anni che non rimetteva piede a Númenórë.

Ma si limitò a raccontarle quel che gli aveva detto il marinaio e la lasciò mangiare in silenzio. Quando lei fu pronta per dormire, le sistemò la coperta sulle spalle e uscì per fare una passeggiata nella notte.

Aveva sempre meno sonno e la luce del giorno non era più piacevole come un tempo. La notte invece era l’unico momento in cui sentiva di nuovo la pace che aveva provato quando aveva passato le giornate sulla nave sotto il sole cocente e ad attaccare i villaggi del Sud.

Aveva smesso di farlo da qualche anno, non per la Donna, ma perché non aveva trovato più le stesse soddisfazioni di una volta. E dall’isola erano giunti nuovi, giovani condottieri che avevano portato novità a cui lui non aveva pensato.

Nemmeno quello gli aveva fatto venire voglia di tornare a Númenórë.

I suoi piedi lo condussero al molo sul fiume della cittadina in cui viveva come Balkuzîr, unico superstite del gruppo di marinai con cui aveva saccheggiato le coste, ormai sparsi per la Terra di Mezzo o tornati in madrepatria.

L’acqua scorreva placida verso il mare, senza la forza della piena che la animava durante le stagioni piovose e la notte era silenziosa, a parte per le rane che gracidavano lungo la riva. Era uno di quei momenti in cui tutto il mondo sembrava dormire.

Tranne Ciryandil.

Guardando l’acqua scorrere, provò solo nausea. Non trovò in sé il minimo desiderio di imbarcarsi e viaggiare per settimane per mare, per tornare a Númenórë.

Cosa c’era per lui a Númenórë ormai?

Doveva andare a vedere il regno e la famiglia di suo fratello prosperare? No, gli bastavano le nuove che lo raggiungevano con i mercanti. Non sentiva neppure il bisogno di scrivergli o di ricevere lettere da parte sua.

Quella notizia lo aveva scosso, sì, ma perché non si sarebbe mai aspettato che suo fratello combinasse qualcosa con tutte le chiacchiere da salotto. E perché quell’argomentazione aveva senso, era quel che lo faceva svegliare senza fiato dallo sconforto, sempre più spesso da quando la Donna era caduta preda della sua misteriosa malattia.

Gli mancava la Donna di un paio di anni prima.

Potevano ancora parlarsi in lingue diverse, fare di tutto per non capirsi, ma si capivano. Lei veniva sempre con lui ovunque lui decidesse di andare e, nel letto, non avevano perso neppure una notte insieme finché non era stata troppo male perché Ciryandil se la sentisse di strapazzarla per i suoi bisogni.

Se fosse partito ora, al suo ritorno lei avrebbe potuto non esserci più.

Forse sarebbe stata la scelta migliore. Si sarebbe evitato una seconda lunga agonia e avrebbe conservato di lei più ricordi positivi che quelli brutti della malattia, che ora si accumulavano davanti ai suoi occhi.

Avrebbe potuto partire e tornare dopo qualche anno, e dimenticare tutto quello che si era lasciato alle spalle in quel villaggio, iniziare una nuova vita altrove, magari sulla costa Est.

Doveva solo salire su una nave appena fosse sorto il sole e raggiungere il primo grande porto númenóreano delle colonie e da lì dirigersi verso Númenórë.

Ciryandil si accovacciò sul molo, la testa tra le mani, lo stomaco annodato.

La sola idea gli faceva risalire la bile in bocca.

Voleva rivedere Númenórë, sì, ma non così tanto da mettere piede su una barca.

Da lasciare tutto indietro.

Da ricominciare di nuovo.

Non affezionartici troppo, zio.

Non si era affezionato, nulla di tutto ciò. Era solo che si trovava di nuovo intrappolato al capezzale di un moribondo e non sapeva come fuggirne.

Non si era affezionato alla Donna.

Avrebbe solo mandato qualcuno dei suoi vecchi contatti a Númenórë a vedere se c’era bisogno di lui. E avrebbe sperato che non ce ne fosse.


* * *


Ormai la Donna tossiva sangue ed era l’ombra di quel che era stata. Ciryandil era steso al suo fianco, incapace di chiudere occhio, nonostante il respiro rantolante di lei in un’altra epoca lo avrebbe cullato.

Non più.

Ormai neppure il cibo aveva sapore, il vento non gli portava sollievo, l’odore della sporcizia in cui vivevano lui e la Donna non gli pizzicavano il naso.

Lei stava morendo, sempre più sbiadita, e Ciryandil stava sbiadendo altrettanto. Non era neppure tempo perché lui, un Númenóreano, abbandonasse il mondo. Il suo corpo era ancora in forze, se doveva dire il vero. Ma non riusciva a usarlo, non quando la Donna era costretta a letto, la vecchiaia che la divorava insieme alla malattia.

Non poteva più vederla così.

Doveva fare qualcosa, un’azione delle sue. Era l’unica certezza che aveva.

Si mise a sedere e la guardò.

Lei incontrò il suo sguardo, corrugò la fronte mentre lui le accarezzava una guancia svuotata.

Ciryandil si chinò sul suo viso, le baciò le labbra che avevano perso tutta la polpa che le aveva rese morbide e perfette da baciare. Se avesse chiuso gli occhi, l’avrebbe vista ancora come era stata un tempo.

Era per questo che aveva indugiato così a lungo. Gli bastava chiudere gli occhi appena pensava a come ridarle finalmente la libertà e si perdeva d’animo.

Ma non sarebbe stato così questa volta.

«Non andare dove non posso seguirti» mormorò lei, la voce tremula in Adûnaic, mentre una lacrima scendeva dall’angolo di un occhio.

Sentirla parlare in modo da farsi capire, per la prima volta in tanti anni, lo fece tremare. Ma non era il momento per esitare. Aveva già tremato abbastanza.

Ciryandil prese il suo cuscino.

«Sarai sempre con me, zirân».

Lei lo guardò e Ciryandil vide sorgere nei suoi occhi la comprensione. Era sempre stata troppo intelligente per lui, che non sapeva risolvere nulla senza usare il suo corpo. Quella volta, però, il suo corpo sarebbe stato utile.

La Donna chiuse gli occhi.

Come era sempre stato, non ci fu bisogno di parlare.

Ciryandil posò il cuscino sul suo viso, sentì le mani di lei posarsi tremolanti sulle sue e premette.

E premette.

Premette ancora, senza mai cedere anche mentre il corpo di lei si agitava, rianimato dagli ultimi sprazzi di vita, e le unghie di lei gli artigliavano il dorso delle mani.

Tenne premuto il cuscino finché la Donna non smise di agitarsi e la sua pallida luce si spense del tutto. Era tornata nera come la notte. Quasi non la vedeva nell’oscurità della casa.

Le prese una mano, prima che scivolasse sul materasso insieme all’altra, e si chinò a baciarne le dita, mentre dal petto gli risaliva un verso che non aveva mai sentito.

Sembrava un singhiozzo, ma non ne era certo.

I suoi occhi erano asciutti.

Ciryandil non aveva idea di quanto rimase seduto sul letto di fianco a lei.

Qualcuno comparve sulla porta –come una fiammella tremolante– e fuggì urlando.

Forse fu quello a riscuoterlo.

Si alzò dal letto, smosse le ceneri per cercare del fuoco e, come chiamato dai suoi movimenti, una scintilla attirò il suo sguardo. Un carbone acceso ancora ardeva sotto la coltre di ceneri.

Ciryandil infilò un ciocco di legno nel cuore ancora bruciante e poi diede fuoco al letto: fece divampare il materasso di paglia e passò, con un’ultima carezza di fuoco, al resto del mobilio infiammabile.

Ossia tutto.

Lanciò quel che restava del ciocco verso il letto e uscì dalla casa.

Era la migliore sepoltura che potesse darle.

Se quella fiamma avesse raso al suolo l’intero villaggio, non gli sarebbe importato.

Perché, si rendeva conto ora, quel gioco che lui e la Donna avevano portato avanti negli anni lo aveva privato di una cosa preziosissima.

Il suo nome.






Nota dell'autrice


Così si chiude la parte di Angmar e non me la sento di dire granché, se non che 1) gli accenni a Tar-Telperien sono riferiti a miei headcanon, 2) c'è una citazione in particolare ed è voluta, 3) zirân vuol dire "amatə" in Adûnaic.

Grazie a chi ha letto fin qui e ci vediamo la prossima settimana con l’epilogo,

Kan


Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Epilogo. Gli Spettri dell’Anello ***


Epilogo. Gli Spettri dell’Anello


Nomi utili:

Khamûl: tenente dei Nazgûl (unico con un nome canonico)
Doragmalik: titolo per "Gran Re"


Epilogo.




Gli Spettri dell’Anello




«Va’, portami il mio ultimo servitore» gli aveva detto il Signore, una voce nella sua testa, che Khamûl non poteva scacciare in alcun modo.

«Vai a chiamare il tuo capitano».

In groppa a un elegante cavallo nero del deserto, e con al seguito un altro cavallo nero, grosso il doppio, Khamûl partì nella notte, diretto verso la costa a cui non si avvicinava da anni senza sentirsi rivoltare dalla nausea.

Ma il Signore aveva dato l’ordine, Khamûl non aveva altra scelta se non rispondere.

Il corpo lo aveva finalmente abbandonato proprio mentre il suo stesso nipote moriva, per lasciare il regno a un erede che aveva contribuito alla caduta dei Regni del Sole.

Era stato quel disastro a fargli scoprire che lo straniero, con cui si era confidato in quelle notti nel deserto, altri non era stato se non il suo nuovo padrone. Lo stesso Signore che, prima ancora, era stato il Doragmalik, e che ora aveva preso dalle mani dei suoi discendenti il regno che Khamûl aveva rimesso insieme.

Per cui lui aveva sacrificato se stesso, e per cui il suo spirito era ora intrappolato in queste terre, insieme ad altri sette.

Otto, a giudicare dal compito che il Signore gli aveva appena affidato.

Per Khamûl che era stato il Gran Re, il signore dei Regni del Sole, stare al servizio di colui che aveva succeduto –e che ora si era ripreso il regno perso in guerra– aveva una certa amara ironia.

Quel che lo infastidiva di più, però, era la mancanza di scelta.

Dopo aver comandato eserciti e la natura stessa, si trovava in una condizione in cui non poteva ribellarsi a nessun ordine. Le parole che il Signore gli rivolgeva potevano indispettirlo e contrariarlo, ma l’anello che gli aveva donato lo costringeva a obbedirgli e la sola idea di toglierlo era rivoltante più dell’avvicinarsi alle acque.

Perciò Khamûl assecondava i suoi ordini. Si dimostrava sempre il migliore e teneva la sua posizione di tenente, il grado più alto a disposizione tra le schiere di cui faceva parte. E aveva messo gli occhi su un altro anello.

Quello che brillava all’indice del Signore.

L’anello che li comandava tutti.

Se avesse continuato a obbedire abbastanza a lungo e meglio degli altri, gli sarebbe stato permesso di stare ancora più vicino al Signore, e sarebbe giunto il giorno in cui Khamûl gli avrebbe sottratto l’Unico per indossarlo al posto di quello che aveva ricevuto da lui.

Doveva solo essere paziente e solerte.

Non sarebbe stato difficile: aveva tutta l’eternità davanti.

Anche se ora, il Signore lo aveva mandato a prendere un capitano. Qualcuno con un grado superiore al suo, e che nessun altro vantava. Qualcuno che rischiava di mettersi tra lui e il suo obiettivo.

Nonostante tutto, però, Khamûl avrebbe obbedito.

Così, nel cuore della notte successiva, giunse alla sua destinazione: l’altura sopra il porto che gli Uomini della Morte avevano fortificato anni prima, trasformando un porticciolo per le loro incursioni in una città fiorente, con una cinta muraria che non bastava più a contenere tutta la popolazione.

Su una roccia su quell’altura, era seduta una figura enorme, i capelli pallidi che li cadevano sulle spalle. Uno spadone a due mani era conficcato nella terra al suo fianco, come se la lama non avesse alcun valore e potesse pure perdere il filo senza che il suo proprietario ne traesse alcuno svantaggio.

Khamûl scese da cavallo e si avvicinò all’uomo seduto, fermandosi dal lato opposto alla spada.

«Il Signore ordina la tua presenza».

L’uomo si voltò a guardarlo e, sul volto lungo e scarno, gli occhi brillavano come fiamme pronte a divorare qualsiasi cosa su cui si posassero.

«Non aspettavo altro» disse quello e balzò in piedi, confermando l’idea che si era fatto sulla sua stazza.

Era un gigante.

Che sfilò lo spadone da terra e lo rinfoderò nella cintura che gli cingeva i fianchi.

«C’è un cavallo anche per me?»

«Sì» rispose Khamûl.

«Sì, capitano» precisò il gigante.

Khamûl sollevò il viso verso di lui, stringendo gli occhi. Chi era stato prima, da permettersi ora di parlare in quel modo? Di avere certe pretese? Non erano forse tutti sciocchi allo stesso modo, caduti nella trappola del Signore e strappati alle loro vite mortali, per esistenze immortali da schiavi?

«Uh, che sguardo cattivo» lo prese in giro il capitano. «Pensi davvero di spaventarmi?»

Con una risata secca e priva di gioia, il capitano si incamminò verso i cavalli, i passi pesanti che non lasciavano alcuna traccia sul terreno. Eppure l’aria stessa che lo circondava sembrava incresparsi e tremare al suo passaggio.

Chi era stato… prima?

Khamûl non aveva sentito di nessun uomo di quella stazza e con una simile presenza. Forse non c’entrava neppure chi fosse stato. Forse si permetteva di dargli ordini perché non era solo uno sciocco ingannato dal Signore, forse non era stato proprio ingannato.

Aveva un che di disumano che lui non aveva visto in nessuno degli altri spettri suoi compagni.

Quasi fosse nato così, e quella fosse solo la sua forma reale.

Ma erano tutte suggestioni. Nessun capitano, per quanto grande, grosso e arrogante, si sarebbe frapposto tra lui e il suo obiettivo.

A Khamûl non restava nient’altro, se non il desiderio dell’Unico.

«Dovrei spaventarmi io, piuttosto?» Khamûl lo raggiunse e montò a cavallo. «Non vedo perché tu dovresti essere il capitano, quando io ero il Gran Re».

Il capitano rise ancora e la sua risata sembrava fatta del suono dei terremoti.

«Pure mio fratello era un re. Spero che anche tu venga ricordato ancora da tutti, perché a me non è rimasto altro che questo titolo.

«Capitano».

Pronunciata quell’ultima parola, il capitano colpì i fianchi del massiccio cavallo nero e partì verso Nord.

A Khamûl non restò che stargli dietro.

Come fece per tutti gli anni a seguire.






Nota dell'autrice


Finisce così la mia avventura con Angmar e Khamûl!

Il resto lo lascio ai non-detti di Tolkien e a quel che si conosce delle epoche più tarde. Mi mancheranno entrambi, ma non ho finito col lato númenóreano: ho due OS in arrivo, decisamente piccanti ;)

Come di consueto, i ringraziamenti alle mie compagne di viaggio:

Grazie a Chià che si è letta la primissima (caotica) bozza e la seconda (più ordinata), nonostante Ciryandil la inquietasse da matti :P

Grazie Mel per aver letto la prima bozza e averci capito comunque qualcosa, oltre all’assistenza con i nomi dei personaggi originali númenóreani quando stavo iniziando a progettare questa storia :°)

Grazie a Los per aver letto tutto e commentato! Vuol dire tanto che tu abbia dedicato del tuo tempo a seguire questa storia nonostante sia fuori dall’ambito in cui leggi di solito ♥️

Infine, grazie a chi ha letto in silenzio per avermi dato la sensazione, sempre piacevole, di parlare da sola e con le mie amiche. Se volessi fare solo due chiacchiere con loro, potrei sempre limitarmi a condividergli le storie in privato ;)

E grazie in anticipo a chi è arrivato qui a storia conclusa!

Alla prossima,

Kan


Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=4032856