Le confessioni di Delphini Mathildis Black

di Wymagalt
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. ***
Capitolo 2: *** II. ***
Capitolo 3: *** III ***
Capitolo 4: *** IV ***
Capitolo 5: *** V. ***
Capitolo 6: *** VI. ***
Capitolo 7: *** VII ***
Capitolo 8: *** VIII ***
Capitolo 9: *** IX. ***
Capitolo 10: *** X. ***
Capitolo 11: *** XI. ***



Capitolo 1
*** I. ***


Parte prima.

I.

Prima di iniziare a confidarmi con te, di cui non conosco il volto, ho bisogno di attestare che dietro queste pagine c’è una persona, che quella persona sono io e che la verità che leggerai è la mia. Vorrei che alla fine di queste pagine, potessimo incontrarci da pari. E ti chiedo, per questo breve tempo che trascorreremo assieme, di ascoltare la mia storia senza pregiudizio. Data la mia posizione, è una richiesta grande da fare quanto chiedere a un centauro di vietarsi la lettura del cielo. Ma ti chiedo di tentare.
Il mio nome è Delphini Black e sono la figlia del Signore Oscuro, Lord Voldemort e della sua più fedele seguace, Bellatrix Black in Lestrange.
Il giorno in cui sono nata, nevicava. Era il 9 febbraio del 1976 e so che vicino a mia madre c’erano mia zia, Narcissa e mia nonna Druella. La camera di una partoriente diventa una stanza sacra del femminile, per cui i più sono spaventati dalla potenza del momento in cui viene al mondo una nuova vita. Anche zio Rodolphus, il marito di mamma, lo era e da quello che so, assieme a suo fratello maggiore Rabastan, aspettava dietro la porta della camera, cercando di rintracciare mio padre. Mio padre, l’irraggiungibile.
Ci trovavamo in Irlanda, nella contea di Clare, nella dimora invernale della famiglia Lestrange. I miei zii avevano fatto in modo che mia madre potesse godere della sua privacy durante gli ultimi mesi di gravidanza, ovvero erano andati in contro al desiderio, quanto mai reso chiaro, di tenere la mia nascita un segreto.
Così, alle 20.00 del 9 febbraio 1976, nacqui dopo un lungo travaglio mentre le scogliere di Moher iniziavano a ghiacciarsi.  Mia nonna fu la prima a prendermi in braccio e constatò che ero una bambina – straordinariamente sana per essere il prodotto di un uomo che trovava terrificante.
“Fammela vedere, madre. Fammela vedere!”
Mia madre è sempre stata una donna appassionata, sebbene la maternità non le si addica. La immagino sempre, però, con la stessa fierezza di una lupa che tiene per sé il suo cucciolo, nel momento in cui chiese a mia nonna di prendere il posto nella famiglia che un tempo era stato suo. In questo passaggio di testimone, la famiglia Black accoglieva una nuova strega nelle sue file.
“Oh”, disse mia madre “Ha i suoi occhi!”
Mia madre, l’entusiasta.
Se uno sguardo potesse uccidere, credo che mia nonna avrebbe tappato per sempre la bocca sconsiderata di mia madre in quello stesso istante.
“Come la chiamerai, Bella?” zia Cissa, la sorella pratica.
Mia madre mi teneva tra le braccia, forse per la prima volta con un accenno di tenerezza, ora che aveva visto che gli appartenevo.
“Non abbiamo ancora deciso… ma credo che Delphini… Delphini potrebbe andare…”
 Dopodiché, in un modo che mi sarebbe diventato familiare, mi passò un polpastrello delicato sulla fronte, spostandomi un sottile ciuffo di capelli neri.
“Ciao, piccola Delphini”
E, mentre mi teneva stretta al petto, le lacrime di fatica e qualcos’altro, tornarono a scorrerle dagli occhi scuri agli zigomi ancora arrossati dallo sforzo.
Mio padre, l’irraggiungibile.

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Capitolo 2
*** II. ***


II.

Mio padre ci raggiunse il giorno dopo, mentre mia madre dormiva. Forse l’ha fatto perché fosse un momento solo nostro, ma conoscendolo, probabilmente aveva paura di farsi vedere quando le sue ombre sarebbero tornate a galla. Lo conosco, so quando succede. E la mia nascita per lui doveva essere uno di quei momenti. Dicono che quando nasce un figlio, il bambino interiore scalci un po’ più forte del solito. Credo che gli abbia fatto male. Ma mio padre è abituato alla sofferenza e così, in questo modo un po’ clandestino di incontrarci, mi comunicava che sarebbe stato così anche per me. Non so se mi abbia detto qualcosa, magari in quella lingua che solo noi conosciamo, perché non mi ha mai raccontato nulla a riguardo. Ma so che quando mia madre si è svegliata, oltre al profumo del vento, non era rimasto niente di lui oltre a una rosa nera appoggiata sul suo comodino per mia madre e una collana con un pendente di onice, contro ogni male. Il secondo regalo di mio padre per me, oltre alla sua fugace apparizione. 

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Capitolo 3
*** III ***


III.

Quando si diventa genitori, mi hanno detto, ci si confronta con gli specchi che la vita ci ha dato, le figure che ci hanno cresciuto, con la loro presenza o con la loro assenza. Specchiarsi doveva essere terribile per mio padre e mi sento in colpa per il dolore che gli ho causato. I figli non dovrebbero sentirsi in colpa per i loro genitori ma so che è così, e visto che abbiamo convenuto – tu ed io – che ti avrei detto la verità, eccola. Penso che per questo abbia deciso che, per non perpetrare vecchi retaggi di negligenza paterna, avrebbe dovuto sforzarsi, ora che ero nata, di essere il miglior padre che poteva essere. All’inizio non è stato facile capire cosa significasse essere padre, quando persino il mio serpentese era fatto di qualche gorgoglio sconclusionato. Il mio era ancora un linguaggio fatto di contatto fisico, pianto e qualche sorriso sconnesso. Lui che si era staccato da tutto ciò che è umano (anche se credo che qualcosa l’abbia preservato, tra cui mia madre) si trovava a fare i conti con un esserino che aveva fame, freddo, sonno, paura. La sua presenza, durante il primo anno della mia vita, è stata quantomeno discontinua. Non ho ricordo di ciò, se non una reminiscenza di una voragine al centro del mio stomaco, una fame difficile da estinguere, per quella figura che compariva la sera e spariva al mattino. Ma la notte era il nostro momento, perché tra le sue braccia – bambina irrequieta già dalle prime settimane di vita – mi tranquillizzavo immediatamente. Doveva essere l’incantesimo dei suoi occhi rossi, brucianti, ad abbattere la stanchezza sui miei. La sera mi addormentavo tra le braccia di mio padre, cullata tra i sibili di quella lingua antica e un po’ imparavo già il mio posto nel mondo. In una di queste occasioni, confidò a mia madre il desiderio – che divenne quindi comando – di aggiungere un secondo nome al mio: Mathildis. Per quanto, infatti, accettasse e rispettasse la tradizione dei Black di dare un nome di stelle ai propri eredi, voleva darmi qualcosa che mi collegasse davvero a mia madre, Bellatrix, la guerriera (e considerata la faccenda del cognome, credo in qualche modo anche lui). Così, divenni Delphini Mathildis Black. Mathildis, forte in battaglia. Mio padre ha sempre avuto un’ossessione per i nomi. Io ho imparato a vederli per quello che sono: parole.

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Capitolo 4
*** IV ***


IV.

Ho passato tutta la mia vita a rincorrerlo, mio padre. La prima volta che ho camminato, ho messo un piccolo passo incerto dietro l’altro, in diagonale, dalle braccia di mia madre verso di lui, aggrappandomi alla fine ai suoi pantaloni, le lunghe gambe che scendevano dal divano di casa Lestrange. Credo che mia madre abbia riempito quel momento di tutto il simbolismo possibile. Non so cosa abbia pensato mio padre.
La prima volta che l’ho chiamato “papà” credo di aver rischiato di uccidere il mago oscuro più potente di tutti i tempi. Ero nel mio box di legno bianco – un’atrocità regalatami da zia Cissa e Lucius, credo che mio padre non glielo abbia mai perdonato – e lui mi aveva appena poggiato tra i cuscini e peluche:
“Non ho mai visto una bambina più viziata” aveva commentato, guardando di traverso mia madre.
“Mio Signore…” aveva iniziato lei “La bambina sta con sua nonna la maggior parte della giornata, ha bisogno di qualcosa che la possa divertire un po’” aveva sorriso, complice. Ha sempre saputo come raggiungere mio padre. Infatti, lui si lasciò sfuggire uno sbuffo divertito.
“Forse non dovrei lamentarmi a vederla così ben curata, non è vero? Tu cosa dici, Delphini? Ti stanno viziando troppo tua nonna e i tuoi zii?”
Devo aver risposto con qualche lallazione incomprensibile, per farmi riprendere in braccio.
“Sembrerebbe di no…” aveva commentato mio padre, prima di girarsi verso la porta. Nello sforzo di richiamarlo a me, mi misi a piangere.
“No, Del, non devi fare così!” aveva sbuffato mia mamma, avvicinandosi per prendermi in braccio. Povera inconsolabile Delphini. È così però che dissi per la prima volta “papà!”. Segretamente, mia madre mi stava allenando da qualche settimana, consapevole che se non l’avesse fatto lei, quel momento avrebbe potuto essere sostituito a quando sarei stata abbastanza grande da articolare le parole “Mio” e “Signore”. Mia madre non voleva questo per me. Forse, non voleva questo per lui.
Non ricordo l’espressione sul volto di mio padre, ma dev’essere stata esilarante. È per queste piccole libertà, che ho sempre avuto la possibilità di prendermi, che, alla fine, non si è più lamentato quando zio Rabastan mi chiamava “Principessa” o per i doni che mi facevano.
Zio Rab aveva fatto la scuola con lui, è una verità che penso di aver sempre saputo… si vedeva dal modo in cui si comportavano l’uno con l’altro. Ho sempre saputo che mio padre era temuto, da mia nonna, da zia Cissa e Lucius, da chiunque fosse alla sua presenza. Anche mia madre lo temeva, ma in un modo diverso dagli altri e molto più simile al mio: era il timore che si ha per un dio di cui si teme il giudizio, non per un predatore di cui si teme il morso. Zio Rabastan non lo temeva, lo rispettava. Era un rispetto fatto di quell’affetto fraterno, e probabilmente non richiesto, di cui la vita benedice gli amici. Mio padre avrebbe potuto torturarlo e Rabastan avrebbe continuato a vedere loro due, ragazzi, in una rissa. Credo che a zio Rab io sia piaciuta da subito, perché c’è tanto di quel ragazzo in me e che mio padre fa finta di non vedere. Io sono una Black e non c’era macchia in me. Sarà perché il nero nasconde i contorni.

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Capitolo 5
*** V. ***


V.

Ricordo bene gli anni della mia infanzia, per quanto breve. Mia madre e i miei zii costruirono una specie di fortezza attorno a me e io ne ero la principessa. “Principessa”, così mi chiamava zio Rabastan quando giocavamo alla guerra e lui era il mio scudiero. Dietro quella fortezza, però, erano ammessi pochi e io credevo che il mondo fosse composto solo di noi e delle nostre misteriose dinamiche.  
La guerra. Sapevo che imperversava dietro quel portone incantato, che separava il mio mondo di fiabe dal mondo in cui gli adulti poi sparivano. La loro assenza mi gettava in incredibili accessi di pianto. I peggiori, quando mia madre andava con loro. Ma mia madre era una guerriera, mi diceva zio Rodolphus. Così, io giocavo alla guerra anche quando ero sola e lasciata alle cure di nonna Druella. Immaginavo di poter essere lì con loro e di essere acclamata per le mie mirabolanti imprese. Perché presto imparai anche che sarei stata destinata a essere una strega potente.
“Ah!” disse un giorno mia madre quando, con un gesto della mia manina, l’indice teso come una bacchetta, giocavo a fare incantesimi “Presa!” e cadde a terra con la grazia di una bambola a cui erano stati spezzati i fili, reclina sul pavimento.
“Ho vinto! Ho vinto!”  dissi ridendo e correndo attorno a lei.
Lei però rimase così, stesa, senza aprire gli occhi né abbracciarmi per la mia bravura.
“Mamma!” gridai allora, gettandomi verso di lei. Un terribile presentimento mi si era arrampicato sulla spina dorsale, come un presagio lontano. Ero terrorizzata.
“Del!” rispose allora lei ridendo “Oh, Del, scusami, stavo solo scherzando! Piccola mia, sono qua…”
“Non farlo più mamma!” la sgridai “Io ho paura perché tu te ne vai sempre!”
Questa affermazione credo che le abbia fatto male.
“Non è vero che me ne vado sempre!” disse offesa.
“Sì, invece! Mi lasci sola…”
“Non essere ridicola Delphini!” ovviamente non avevo idea di cosa volesse dire “ridicola” ma mi fece male comunque “Hai tutto ciò che una bambina potrebbe desiderare! Cosa credi che dovrei fare? Vorresti che i Babbani vincessero?”
Ecco no, quello non lo volevo proprio. Mi avevano parlato dei Babbani, di come ci avevano perseguitato negli anni passati e io, per quanto non avrei mai potuto ammetterlo, avevo paura di loro, perché ancora non sapevo fare magie e avevo paura che mi potessero rapire. Mi misi a piangere ancora più forte.
Fu allora che entrò zio Rodolphus in camera, i suoi capelli fulvi fecero capolino da dietro la porta:
“Tutto bene?”
“Sì, Delphini sta facendo la difficile”
“Del…” disse zio Rod avvicinandosi a me, in ginocchio “Che succede?”
Non potrò mai ringraziare abbastanza mio zio per essere com’è. Non tutti avrebbero accettato la mia nascita come ha fatto lui. Sarei sempre stata la figlia di un altro, quando Rod era nato per essere un padre.
“Mamma… io … non voglio… non voglio stare sola”
“Oh… Del” disse Rod abbracciandomi “Non sei sola, hai capito?”
“Ma voi ve ne andate!”
“Andiamo ad aiutare tuo padre, sai? Tuo padre sta costruendo un bellissimo regno per la sua principessa, lo sai? E vuole che sia perfetto per quando sarai grande. Non vuoi che lo aiutiamo?”
“Mmh… un regno?”
“Sì, bambina mia. Un regno pieno di magia!”
Mia madre allora si lasciò sfuggire una risatina sarcastica.
“Ma… ci sono i Babbani che mi portano via”
“Non dire assurdità, Del” disse mia madre, alzandosi in piedi e sistemandosi l’abito “Nessuno alzerà mai un dito su di te, mia cara. Sei la figlia del Signore Oscuro, ricordatelo sempre”.
Io feci del mio meglio per non scordarmelo. Ma il mondo fece la sua parte per sottolinearmelo il più spesso possibile, come un promemoria in orbita attorno al sole.
Mia madre non era un tipo materno, ma quando il nostro essere bambine non si scontrava vicendevolmente, era un vero spasso. Mi faceva scendere nelle segrete di casa Lestrange, tra calderoni e alambicchi. E la guardavo mentre preparava pozioni e piano piano mi iniziò a far usare qualche utensile. Mi faceva pesare le polveri e schiacciare le bacche. Ovviamente, con me faceva soltanto pozioni innocue. E ricordo che un giorno, mio padre rimase appoggiato alla porta a guardarci preparare i nostri filtri senza dire una parola. Entrambe facemmo finta di niente, godendoci la sua silenziosa presenza.
Quando compii due anni e mezzo, mio padre iniziò a permettermi di andare a casa sua, in quel regno misterioso che scricchiolava di magia antica e proibito. Il finesettimana divenne il mio momento avventuroso, dove scoprire chi fosse mio padre, da sola.

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Capitolo 6
*** VI. ***


 

VI.

Immagino che la sola idea di una bambina da sola con Lord Voldemort ti abbia terrorizzato. È per questo che parlo tanto di mio padre: non solo perché rimane una delle figure più importanti della mia vita – e quindi sarebbe abbastanza superficiale non parlarne in queste pagine a cui sto affidando la mia autentica biografia – ma anche perché vorrei che fosse per un po’ solo mio padre e non il Signore Oscuro. Per rassicurarti nei tuoi pregiudizi, però, posso dire che a casa di mio padre c’era sempre freddo.  
Mentre mia madre era entusiasta della piega che stavano prendendo le cose, mia nonna non avrebbe potuto essere più infastidita. Quando si avvicinava il finesettimana, diventava sempre scontrosa e sembrava come se avesse la bocca piena di cose da dire ma le tenesse per sé. La fronte, sotto i suoi capelli biondi tenuti ordinatamente in uno chignon, rimaneva aggrottata e pensierosa. All’epoca non avrei potuto capire l’entità del suo dispiacere, ma a posteriori mi rendo conto che c’erano tante cose a cui si era dovuta rassegnare. In uno di questi momenti mi disse qualcosa che non avrei più dimenticato:
“Lo sai che tuo padre ha da fare, perché lo vai a importunare?”
Io non sapevo cosa volesse dire “importunare”, così quel pomeriggio lo chiesi a mio padre: mio padre ha sempre saputo spiegarmi molto bene le cose.
“Importunare, Delphini, significa dare fastidio. Se mi dessi fastidio, però, sicuramente non ti farei stare con me tutto questo tempo, non credi?” io annuii guardandomi la punta degli stivaletti neri nuovi che zia Cissa mi aveva regalato. Era una fredda giornata autunnale e stavamo passeggiando nel bosco che circondava la sua casa, nascosta da tutto e tutti, un po’ come lui. “Tua nonna è solo indispettita perché ha paura di perdere il controllo su di te” continuò mio padre, senza voltarsi a guardare se lo seguivo, nascosto nel suo mantello nero.
Cosa vuol dire, papà?” chiesi in serpentese. Facevo sempre così quando lo volevo più vicino   
Mio padre sbuffò, girandosi a guardarmi, finalmente. Il suo volto diventava sempre più cereo negli anni, gli occhi arrossati come se avesse guardato il sole per troppo tempo, le labbra sottili, tese. Però, attorno agli zigomi magri e taglienti, spuntavano ancora i suoi capelli neri, radi e sottili. A chiunque sarebbe potuto apparire come un’illustrazione di Nosferatu. Per me, era mio padre, solo un po’ infastidito.
“Quando devi fare qualcosa, tu a chi chiedi il permesso?”
Facile: “A te, papa!”
Finalmente si rabbonì un pochino, spostando il peso sulla gamba mentre mi sorrideva indulgente.
“E poi?”
Io mi concentrai approfonditamente, con tutte le energie che una bambina di tre anni può avere.  
“Beh, a mamma e a nonna!”
“Ecco, tua nonna ha paura che imparerai a chiedere soltanto a me”
Perché?”
“Perché cosa, Delphini?”
“Perché ha paura?”
Perché è debole
Lo guardai perplessa e allora si inginocchiò davanti a me per guardarmi direttamente negli occhi: nero sul rosso.
“Tua nonna ha paura che io ti porti via da lei, Del. È umano: le persone rubano quello che possono nella vita per non sentirsi soli. Lei vorrebbe rubarti a me per paura che io ti rubi a lei. Ma tu sei mia figlia e devi passare tempo con me, non trovi? I figli devono passare tempo con i propri genitori, giusto?”
Certo, papà
“E sei più mia che sua perché sei mia figlia, non sua”
Certo, papà
“E a lei non piace e quindi non le piaccio io”
Io rimasi sconvolta:
“Ma lei ha già due figlie!” 
E mio padre rise, era una cosa talmente rara che mi colpì particolarmente. Accarezzandomi il volto con una mano gelida disse:
“Forse non sei neanche solo mia, Del… sei un tipo tutto tuo, tu, non è vero?” disse ancora ridendo sommessamente, rialzandosi.
Beh, direi che si vedrà col tempo” disse allora, pensieroso, seguendo con lo sguardo le fronde ingiallite degli alberi. A volte sembrava che mio padre potesse vedere invisibili cose nel vento, come se ci fosse un’energia sempre con lui, qualcosa di antico e terribile. “Forza, andiamo a raccogliere la malva per il tuo decotto di stasera. Bisogna pur iniziare dalle piccole cose, si dice”.
Le nostre scampagnate diventarono un’abitudine. Imparai presto che mio padre preferiva stare all’aria aperta il più possibile e, in qualche modo, capii che odiava quella casa scricchiolante sulla collina. Non sapevo perché, ma sentivo anche io che in quelle stanze doveva essere capitato qualcosa di terribile. A volte, quando dormivo lì, mi venivano gli incubi: sognavo volti urlanti, traslucidi, come fantasmi nella notte. Allora mi svegliavo, madida di sudore e desideravo tanto che nonna Druella fosse con me in quel momento. La camera in cui dormivo era grande e il letto molto comodo, ma non aveva niente di familiare, sembrava così impersonale, così vecchia, così ostile. Tutto di quella casa sembrava impregnato di una malinconia deprimente. Così, uscire da sotto le coperte diventava ancora più spaventoso che rimanere rattrappita là sotto, avvertendo la sensazione inquietante che qualcosa si muovesse fuori dal mio campo visivo. Ma prendevo coraggio e, coi piedi nudi, correvo sul pavimento freddo per andare alla camera di mio padre, proprio davanti alla mia, il più veloce possibile perché il buio non mi afferrasse.
“Papà!”
Nove volte su dieci, mio padre era ancora sveglio, la luce ancora accesa. Una volta su dieci lo trovavo addormentato sulla sedia. Un giorno, si girò a guardarmi a labbra strette.
“Delphini, un altro incubo?”
Sì, papà
Sospirando, posò la penna sul foglio.
“Devo iniziare a pensare che non ti piace stare con me?” disse, massaggiandosi la fronte con le sue lunghe dita pallide.
“No! No, papà!” dissi, arrampicandomi sulle sue gambe per essere presa in braccio.
“E allora, perché tutti questi incubi, mmh?”
Ci sono i fantasmi
Rimase sorpreso da questa frase.
“Che fantasmi, Delphini?”
“Una donna e due uomini, papà. Sono molto tristi…”
Per un po’, non fui più accettata a casa sua e questo mi fece pensare che lo avessi fatto arrabbiare. Fu una settimana molto brutta quella in cui non mi volle a casa con sé e mia madre non sapeva darmi spiegazione di quel cambiamento così repentino. Un giorno, doveva essere il giovedì della settimana successiva, la sentii parlare con zio Rabastan e mia nonna:
“Credi che la bambina gli abbia dato noia, in qualche modo? È colpa nostra?”
“Ma no, Bella… lo sai com’è fatto. Non è la prima volta che si ritira…”
“Sì, ma è sua figlia!” sbottò mia nonna, da un angolo della cucina, l’antro dei complotti. Se c’era qualcosa da sapere, sarebbe stato detto in cucina, quando l’Elfa, Daisy, era distante a svolgere le faccende.
“Qualsiasi cosa possa aver detto o fatto, non può scomparire in questo modo!”
“Bada a come parli, madre!” s’infiammò mia madre “Delphini è abbastanza intelligente da poter imparare il suo posto al mondo. Non c’è bisogno di tutelarla come se fosse fatta di porcellana. È bene che impari chi è suo padre, se vuole far parte di famiglia!”
Allora la scena mi fu coperta dalla gonna di mia nonna, che si era portata verso la porta, privandomi della possibilità di sbirciare.
“È solo una bambina!”
Mia madre la sferzò con una risata secca, sardonica: “E quando credi sia meglio educarla? O sarebbe meglio aspettare che cresca come una selvaggia per rimpiangerla dopo? Io non farò lo stesso errore che hai fatto tu, madre! Non con sua figlia”
L’aria si fece pesante e io sentii un nodo stringersi nello stomaco.
“Come osi!” la voce di mia nonna era rotta “Ti credi grande, vero Bella? Ma ci sono tante cose che hai ancora da imparare e che neanche il tuo Signore potrà mai insegnarti!”
Detto questo, mia nonna fece per uscire e io feci appena in tempo a nascondermi tra i cappotti appesi nell’andito per non essere notata. Poco dopo, fu mia madre ad allontanarsi. Infine, zio Rab uscì dalla cucina, chiudendo delicatamente la porta. Stava per imboccare anche lui il corridoio quando, improvvisamente, si fermò nel mezzo.
“Delphini…”
Silenzio.
Sospirando, allora si avvicinò al mio nascondiglio e chinandosi mi scoprì il volto dai pesanti cappotti che sapevano di pioggia.
“Eccoti qua!”
“Zio Rab! Io non ho fatto niente! Perché papà è arrabbiato con me?” dissi con le lacrime agli occhi “io non voglio che mamma e nonna litighino…” continuai, iniziando a singhiozzare.
“Principessa! Io non credo affatto che tuo padre sia arrabbiato con te. Sono tua madre e tua nonna che dovrebbero smetterla di pensare che tutto giri attorno a te, piccolo sole. Neanche tu puoi raddrizzare quell’uomo – sorrise – e forse va bene così!”
“Cosa vuol dire zio Rab?”
“Che a volte tuo padre si comporta in maniera incomprensibile e non bisogna cercare di capirlo per forza. Non è una tua responsabilità e tua madre dovrebbe rilassarsi un po’. Lo conosco da trent’anni e ancora non c’ho capito un cavolo di lui!” disse Rab, mettendosi a ridere come un ragazzino, col suo forte accento irlandese
– un regalo di sua madre, mi aveva detto. La sua barba rossiccia si muoveva assieme alle sue guance squadrate “Hai capito, principessa? Ora esci da lì e andiamo a mangiare qualcosa di buono”.
La sapienza di mio zio ci avrebbe salvato da un bel paio di guai, se lo avessimo ascoltato di più. Forse, tra tutti, è quello che ha davvero capito come sopravvivere quando si vuole bene a una persona come mio padre.
Infatti, quello stesso sabato mattina, mio padre comparve dal nulla sulla soglia di casa Lestrange. Era cupo, ma non arrabbiato. Pareva un animale della foresta che era stato ferito e solo dopo che era riuscito a curarsi aveva potuto trovare la strada verso la sua tana.
“Del, sei pronta?”
Sarebbe difficile per me spiegarti come mi sentii in quel momento: un misto di confusione, gioia estrema e risentimento, credo. Mentre mia madre mi aiutava a fare i bagagli, ovvero ordinava all’Elfa Daisy cosa mettere nel baule, notai che anche lei doveva sentirsi come me.
Quando raggiunsi casa di mio padre, però, tutto si fece più chiaro: la mia camera era stata completamente trasformata! C’era una lampada a gas in ogni muro, a forma di fiammella; il pavimento era ricoperto di tappeti persiani dai colori caldi, sovrapposti gli uni agli altri; la stanza era stata riempita di colorati libri di bambini e fiori. C’era anche un cavalluccio a dondolo che non avevo mai visto prima. Il letto era decorato da una trapunta verde brillante e il vecchio baldacchino era sparito. Le finestre erano state ricoperte con tende chiare, così che la notte non potessero distorcersi in terribili spiriti oscuri. La camera ora sembrava molto più piccola, ma non c’era più l’impressione che qualcosa aleggiasse in attesa dietro gli angoli bui di quei vecchi mobili. Era tutto nuovo, come se mio padre avesse deciso di sfrattare dei vecchi e insofferenti inquilini. Ad oggi mi chiedo dove abbia trovato l’ispirazione per una tale restaurazione.
“OOOH!” esclamai per la sorpresa, lasciando cadere la mia valigetta.
Che ne dici?” chiese mio padre nella nostra lingua, appoggiato allo stipite della porta, le braccia incrociate al petto, mentre mi avvicinavo al centro della stanza, guardandomi attorno e sfamandomi lo sguardo di tutta quella novità.
È tutto mio?”
Mio padre ridacchiò.
“Non ho altre figlie, Del”
Io lo guardai perplessa: ero troppo piccola per capire l’ironia ma questo non frenava mio padre dal divertirsi alle mie spalle. Crede in un approccio vygotskijano, mio padre, per quanto concerne l’educazione.
“Avvisami se vedi qualche altro fantasma… devo ancora aggiungere la carta da parati”.

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Capitolo 7
*** VII ***


VII.

Ti ho detto che pochi erano ammessi dietro al grande portone di casa Lestrange e questo è vero. Ma ancora non ti ho parlato dei nostri più assidui ospiti. Oltre a zia Narcissa, mia madrina, e zio Lucius, che venivano a trovarci sporadicamente, avevamo spesso la compagnia di un caro amico di infanzia di mio padre e Rabastan: Theodore Nott. Ed essendo una bambina affamata di famiglia, anche lui era per me uno zio, adorato come gli altri (sebbene zio Rabastan sarebbe portato ad argomentare che lui sia il mio preferito).
Zio Theodore è sposato con una strega americana, conosciuta negli anni in cui mio padre aveva deciso di continuare le sue ricerche all’estero. Lydia Howthorne è una strega purosangue dello stato di New York, che zio ha conosciuto durante uno dei viaggi di lei in Europa. Rimasti amici per molti anni, finalmente decisero di convolare a giuste nozze poco prima che mio padre rientrasse dall’Albania. Così, Lydia fu introdotta nel circolo stretto di maghi che conversavano assiduamente con mio padre. Circolo che scoprii col tempo essere molto stretto. Non so se fosse qualcosa che desiderava – e a volte credo che Lydia e zia Cissa abbiano molte cose in comune – ma Lydia è una donna stoica, di poche ma precise parole e ricoprì il suo ruolo con grazia. 
Nessuno dei due, comunque, era stato ammesso al gruppo di guerrieri e strateghi che lavoravano per la Causa. Devo infatti precisare, perché probabilmente sarà una novità per te, che i Mangiamorte nella loro totalità non erano a conoscenza della mia esistenza e che i membri della mia famiglia non erano necessariamente parte di questo gruppo. Io, nella mia mente di bambina, sapevo che la Causa era quella cosa per cui mia madre e mio padre stavano lottando e che serviva a evitare che i Babbani ci rubassero le persone care. Ma sapevo che non dovevo chiedere né parlare della Causa, soprattutto quando c’erano altre persone a casa. Così, avvertivo come se ci fossero due facce della mia vita, come i due lati della luna, e che uno mi rimaneva oscuro e nascosto. In qualche modo, so che gli adulti che mi circondavano – o almeno i più sensibili – erano a conoscenza di questa realtà e a volte notavo nei loro sguardi una specie di pietà che mi imbarazzava. Era il caso di Lydia e zio Theodore, ma col tempo imparai a fare i conti con la loro percezione delle cose. In fondo, anche loro avevano accolto da poco un figlio, Theodore Jr., che posso descrivere come una sorella descriverebbe un fratello: una spina nel fianco.
Theo Jr. veniva sempre con i suoi genitori ed era una delle – se non l’unica – compagnie della mia età che mi era stata concessa, prima che nascesse il mio cuginetto, Draco. Ma per quello, avrei dovuto attendere qualche anno. E l’anno successivo, avrei perso tutto. Per cui, ricordo con più piacere gli anni con Theo che i primi anni con Draco.
Theo ha i capelli ricci come il padre e i suoi occhi azzurri, ma è leggermente più chiaro e ha le lentiggini. Da bambino, sembrava una creaturina della foresta, col suo naso all’insù e per questo mi faceva simpatia. Non mi sarei mai potuta arrendere a fare amicizia con qualcuno per il solo fatto di essere sola – mio padre non poté rendermi la questione più chiara.
Theo, come me, era figlio unico ma a differenza mia era un fifone. Io amavo avventurarmi tra gli alberi e gli arbusti. Nel giardino di casa Lestrange, infatti, c’era un labirinto che mio zio Rabastan detestava. Così restava incurato e selvaggio, come piaceva a me. Il mio gioco preferito era andare lì con Theo. Ed essendo così piccoli, tutto sembrava gigantesco, un regno ostile in cui combattere le mie grandi battaglie.
“Delphini non mi lasciare indietro!”
“Theo, guarda! Un dissennatore!”
“No, Delphini, smettila che non fai ridere nessuno, hai capito?” mi diceva Theo, tremando come una foglia ma sgridandomi con il suo sguardo scanzonato “Sei sempre la solita scema!”
“Io non sono scema!”
“Invece sì”
“No”
“Sì”
E allora gli pizzicavo il braccio.
Sebbene siamo cresciuti, questo è più o meno il tenore delle nostre conversazioni.
Theo era ovviamente terrorizzato dai miei passatempi, più di tutto era terrorizzato, però, da mio padre. Così, mi divertivo a trascinarlo davanti a lui per recitare qualche poesia. Povero Theo… ovviamente, non potevo capire perché fosse così spaventato: ciò che mi spaventava di più di mio padre era la sua disapprovazione, per cui non mi potevo accorgere del resto. Non potevo pensare che i suoi occhi rossi non fossero naturali e che la freddezza nel suo sguardo fosse l’eccezione e non la regola nel mondo degli adulti. Non potevo pensare che l’energia oscura attorno a lui fosse terrificante e non rassicurante. Così, credevo che la sua fosse timidezza e io mi sentivo molto brava a non essere timida come lui con gli adulti.
Un po’, inoltre – ora lo posso ammettere – ero invidiosa di Theo. Lo invidiavo perché suo padre era un uomo affettuoso e non gli parlava mai con irritazione nella voce. Lo invidiavo perché sua madre stava sempre con lui e mi raccontava che la notte i suoi genitori dormivano nella stessa camera e stavano sempre nella stessa casa. E poi, lo invidiavo per i dolci.
Mio padre, infatti, aveva stabilito che la mia merenda sarebbe stata composta da frutta di stagione. Prima di tutto, perché non dovevo rovinarmi i denti, che sono cresciuti dritti e bianchi. Secondariamente, perché i dolci – come tutte le cose buone della vita, evidentemente – dovevano essere un lusso e non un’abitudine. Ovviamente, zio Rab ignorava amabilmente gli ordini quando si trattava di me e lo stesso mia nonna, ma mio padre non avrebbe mai dovuto saperlo. Così, mentre facevamo merenda, Theo mangiava pane e cioccolato e io mangiavo quella stupida mela. Il legame di mio padre con la mia alimentazione, comunque, si sarebbe fatto più stretto negli anni successivi. Infatti, la sua attenzione era per me un segno di affetto, così fare i vizi a tavola diventava un modo per richiamare il suo sguardo e mangiare ciò che desiderava era un modo per ricevere un sorriso. Questo, ha portato diversi guai successivamente, ma non posso dire di non aver avuto un’alimentazione varia durante la mia infanzia.
È per questo, comunque, che un po’ esageravo la mia intraprendenza davanti a Theo: per non essere l’unica a invidiare, ma attirare un po’ di invidia per me.

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Capitolo 8
*** VIII ***


VIII.

“Mamma?”
“Sì, tesoro mio?”
Eravamo sdraiate al caldo, nel suo lettone. Mia mamma dormiva sempre da sola, perché Rodolphus aveva una camera tutta sua e mio padre, seppi poi, se arrivava da quelle parti non me lo faceva di certo sapere. Dopo aver saputo che i genitori di Theo dormivano assieme, avevo provato a chiedere a mamma come mai non fosse così per lei e mio padre, ma non ottenni risposta oltre a un irritato: “Delphini, che domande che mi fai!”. Gli adulti erano proprio strani.
Comunque, le sere durante la settimana, era mamma a mettermi a letto e a leggermi la storia della buonanotte. Qualche volta, Rod si univa a noi e dividevano tra loro i personaggi da interpretare: era come un piccolo momento di svago tutto per noi e io mi divertivo tanto. Mamma sceglieva sempre libri avventurosi: la storia di Brigida la Sanguinaria, Giovanna D’arco, Dracula, Erzsébet Báthory. Non mancavano ovviamente anche le Storie di Beda il Bardo e la versione per bambini della Storia della Magia. Insomma, all’età di quattro anni sapevo già un bel po’ di aneddoti terrificanti sulla storia dell’umanità. Ma anche che c’è un immenso potere nell’essere umano e che i più fortunati lo esprimono in magia.
Quella notte, però, eravamo solo io e lei e i suoi lunghi capelli neri mi solleticavano il volto, mentre con una manina me li arrotolavo attorno alle dita in un movimento che mi accompagnava lentamente a dormire. Mamma ha sempre avuto un buonissimo profumo di gelsomino.
“Papà mi vuole bene?”
Mamma rimase in silenzio per un po’ e chiuse il libro che teneva tra le mani:
“Certo che ti vuole bene, tesoro mio, che domande sono?”
“Papà non me lo dice mai che mi vuole bene”
Lei sospirò e scivolò più giù tra le coperte, arrivando a guardarmi direttamente in faccia, le braccia incrociate al petto mentre mi scrutava con fare scherzoso gli occhi. Mamma ha sempre avuto dei bellissimi occhi neri e profondi e quando non era di mal umore mi ricordavano il cioccolato fondente. Quella sera, erano un po’ tristi.
“Gli incantesimi più potenti, Del, non hanno bisogno di essere pronunciati”
“Però tu me lo dici che mi vuoi bene. E anche Rab e Rod. Anche nonna”
Mia madre sospirò.
“A tuo padre non piace dirle certe cose, Del”
“Perché?”
“Non lo so perché, Del” mi rispose spazientita, allontanando lo sguardo dal mio. Poi, come se avesse ritrovato la strada dopo un piccolo momento di smarrimento disse “Però so questo: se qualcuno provasse a portarti via da lui, gli staccherebbe la testa di netto. Se qualcuno provasse a ferirti o a rattristarti, lo priverebbe per sempre della possibilità di parlare. Se qualcuno pensasse qualsiasi di queste cose, non arriverebbe a realizzarle. Hai capito, Del?”
No, ovviamente non avevo capito. Però, sembrava che mia madre mi avesse appena detto che mio padre mi amava enormemente e che ero al sicuro in questo piccolo mondo.

 

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Capitolo 9
*** IX. ***


IX.

Mio cugino Draco è nato il 5 giugno del 1980, in una splendida giornata estiva: una delle rarissime occasioni in cui mi fu permesso di andare a Villa Malfoy con mia madre. Era un’occasione speciale e gran parte della mia famiglia - anche volti che non avevo mai visto prima - si era riunita a festeggiare con Narcissa e Lucius; i quali non credo furono del tutto contenti di veder arrivare mia madre con la sua piccola figlia illegittima a rubare la scena. Ma in quei mesi sembrava che tutti si fossero rilassati un poco e avvertivo come se quella nuvola nera, che era stata la guerra, stava giungendo alla fine. Forse era per questo che mi era finalmente concesso di presentarmi a una cerchia più ampia di persone, mano nella mano guantata di mia madre. Quando arrivammo, il primo volto che riconobbi fu quello di mia nonna, gli occhi azzurri luminosi di un bagliore allegro e sollevato. Era circondata da un nugolo di signore ben vestite, tra cui una zia di mia madre, Walburga Black, che mi fece subito una gran paura: appena varcammo la soglia, i suoi occhi affilati furono su di me, squadrandomi dalla piccola testa alla punta delle mie ballerine. L’avevo incontrata in un’altra occasione, da quello che mi hanno raccontato, ovvero il giorno del mio battesimo, una delle poche aggiunte all’ormai ben conosciuta e sparuta cerchia di persone che mi hanno allevato. Ma ovviamente, io non posso ricordarlo. Così, la mia prima impressione di lei fu questa: un rapace che vede una lepre. E non essendo abituata a sentirmi trattare da lepre, aggrottai le sopracciglia, offesa:
“Ma che bambina arrabbiata che ti porti dietro, Bellatrix!” mi canzonò Walburga.
“Ha solo un buon istinto” mi difese mia madre, con un sorriso al vetriolo. Walburga alzò un sopracciglio, arcuato e corvino, divertita.
“Suvvia, mia cara, non cominciamo col piede sbagliato… in fondo, è una bella bambina”
“Sì, la nostra cara Delphini sta crescendo tanto in fretta!” si sbrigò a intromettersi mia nonna “Non è vero, Delphini? Fai vedere a zia Walburga come sei brava” disse poi rivolgendosi a me. Probabilmente, voleva fare bella figura con la cognata e i suoi occhi dicevano “comportati bene” ma mi raggiunsero più come una supplica che come un comando. Così, rimasi dov’ero, soppesando Walburga in una perfetta imitazione dello sguardo altero di mia madre. Walburga rise di gusto, una risata corposa che non mi sarei aspettata da lei:
“Oh, suvvia mia cara! Non fare così altrimenti dovrò stendermi a terra e invocare pietà. È un trucco che ha appreso da te, Bella?”
L’allusione a mio padre era serpentina e pericolosa: non era saggio riferirsi alla sua paternità davanti agli altri. D'altra parte, Walburga era andata a scuola con lui, per cui non so se fosse una forma di possesso quello che aveva nei miei confronti. In tanti si arrogavano il diritto di considerarsi amici o confidenti di mio padre, così la frase della signora Black, probabilmente, voleva rimarcare la vicinanza alla famiglia o semplicemente sventolare il potere che aveva conquistato nel momento in cui era entrata a conoscenza di come stavano le cose. Infatti, avevamo ottenuto l’attenzione del gruppo di uomini, che rifletteva la sua controparte femminile all’angolo del grande salone: Evan Rosier, un cugino di mamma da parte di mia nonna; poi, riconobbi anche Abraxas, il nonno di Draco e padre di Lucius, il quale aveva stretto la mascella al primo presentimento di tempesta. C’è questa diceria, infatti, tra le famiglie purosangue, che noi Black abbiamo un temperamento che si trasmette di generazione in generazione. Io non ho intenzione né di negare né di confermare questo pettegolezzo, ovviamente.
“Buon sangue non mente” rispose mia madre, amabile e mi prese in braccio “Allora, come sta la mia povera sorellina? Posso vederla?”.
Zia Cissa, a differenza di mia madre, aveva desiderato tanto un figlio ma il suo corpo aveva rigettato due creaturine prima di avere Draco. È anche per questo che non la biasimo per il modo in cui l’ha viziato. Il secondo motivo, è che quando vidi per la prima volta il volto roseo di mio cugino decisi che non ci sarebbe stata persona al mondo che avrei amato di più. Era evidente fin da subito che Draco avrebbe avuto l’aspetto di suo padre, che al tempo non mi faceva particolare simpatia con il suo modo di fare austero e petulante. Però non mi importava. Era il cuginetto più bello che una bambina potesse desiderare e volevo essere una buona cugina più grande per lui. Gli avrei cantato tante canzoni e l’avrei coccolato tanto lo stesso.

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Capitolo 10
*** X. ***


X.

Papà, guarda!”
Era il 25 dicembre del 1980 e, con enorme sorpresa per tutti, era il quarto Natale che mio padre passava con noi. Ovviamente, arrivò come sempre dopo la cena della Veglia e, ovviamente, dopo avermi visto scartare i regali, facemmo la nostra passeggiata da soli. Credo che odiasse con tutto il cuore queste occasioni per cui, essendo lì sostanzialmente per non darmi l’occasione di dire che era stato assente durante i miei Natali, non trovava ragionevole scaricare la sua – veramente precaria – batteria sociale in una stanza addobbata a festa e piena di gente, sebbene due fossero suoi vecchi compagni di scuola e una la madre di sua figlia.
“Delphini, attenta!” esclamò, allarmato, vedendomi arrampicare su un albero innevato, e arrivando alle mie spalle per aiutarmi a salire. Era un albero che avevo scoperto solo da poco, perché ero cresciuta abbastanza da salirci ed era fatto in modo da avere, al centro, un vuoto nel tronco abbastanza grande da farmici accovacciare dentro. Come vide cosa stavo facendo, piegando la testa di lato, sorrise contro la sua volontà, decidendo che mi avrebbe lasciato fare:
“Ah! Ecco un bel gufetto”
Imitai il verso del gufo e lui rispose alzando un sopracciglio, divertito:
“E questa nuova trovata, da quando l’abbiamo imparata?”
“Me l’ha insegnato zio Rab”
Ovviamente” sibilò nella nostra lingua.
Poi, accomodandomi un po’ di più, toccai qualcosa di morbido e appiccicoso. Ritirando la mano, mi trovai tra le mani il cadavere di una lucertolina:
“Oh no!” esclamai.
Del, ma perché devi fare queste cose?”
Mio padre si avvicinò per togliermi dalle mani il cadaverino della povera creatura col naso appuntito arricciato:
“Ma papà, credi che l’abbia uccisa io?”
“No, questa cosa era morta da un pezzo…”
“Come fai a saperlo?”
Mio padre, prima di buttare a terra la lucertola, mi guardo con la testa reclinata, per un attimo interessato. Poi, come se avesse riflettuto sulle alternative, aggrotto le sopracciglia tra sé e mi mostrò la lucertolina nel suo grande palmo bianco:
“Vedi? Ha il ventre tutto gonfio”
“Ah”,
“Questo significa che il suo corpo si sta consumando dall’interno e adesso sta arrivando a consumarsi all’esterno. Poi, degli insettini la mangeranno e tornerà a far parte del ciclo della natura”
Io guardai la lucertolina con gli occhi sgranati:
“Ma è una cosa bruttissima!”
Mio padre ridacchiò ancora, lasciando cadere il cadaverino come se niente fosse e lanciandoci sopra un po’ di neve con lo stivale:
“Già”
“Perché succede, papà?”
“Perché gli esseri che vivono sono anche esseri deboli”
Mio padre amava molto la parola “forte” e odiava molto la parola “debole”. L’avevo imparato osservando le sue espressioni e ovviamente le mimavo.
“Tutti?!” chiesi spaventata.
“Sì, Delphini, tutti gli esseri viventi muoiono. Non hanno scelta, per questo sono deboli. Quando si è deboli, si vive su di un filo: combatti per non cadere, ma perdere l’equilibrio è inevitabile, per stanchezza. Si è deboli quando non si ha scelta” poi, guardando la mia faccia spaventata, lo vidi sospirare e nei suoi occhi rossi vidi qualcosa che non c’era mai stata: compassione. Si avvicinò un po’ e mi prese da sotto le braccia, tirandomi fuori dal mio nido e prendendomi in braccio “Però, tu non devi temere, mio piccolo gufetto
“No, papà?”
“No. Perché sei una strega. La magia rende potenti. Essere potenti significa poter scegliere della vita e della morte. È questo che fa la magia, hai capito, Del? Quando sarai grande ti insegnerò ad essere potente. Adesso non devi pensarci”
“Perché?”
“Quanti perché che hai in quella testolina!” sbuffò “Perché ci sono io, ovviamente, stupidina!”
“E tu sei un mago potente, vero papà?”
Sollevando le sopracciglia, sorpreso, nascose un sorriso tenendo gli angoli della bocca piegati verso il basso, come voler a nascondere il suo compiacimento. Era un’espressione che faceva spesso con me, ma il sorriso in qualche modo raggiungeva i suoi occhi arrossati comunque.
“Sì, direi di sì”.

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Capitolo 11
*** XI. ***


XI.

Samhain, conosciuto ai più come Halloween, era la festa preferita di mio padre e di mia madre. Ma non me la sento di parlarne. Non ora. L’ultimo Samhain in cui vidi mio padre è stato il 31 ottobre 1981. Mi disse che sarebbe tornato dopo la mezzanotte, quell’anno. Che sarebbe arrivato, però, a prendermi, per i festeggiamenti. Sembrava che ci sarebbe stato molto da festeggiare. Ma non tornò.
Il grido di dolore di mia madre quando realizzò che il marchio sul suo braccio – segno del legame dei Mangiamorte con mio padre – si stava sbiadendo rapidamente, è il punto fermo messo alla fine della mia infanzia.
E mentre parte del mondo magico si preparava a festeggiare il Bambino-che-è-sopravvissuto, io venivo trascinata a casa di mia nonna, la bocca piena di domande e di perché a cui mio padre non avrebbe più potuto rispondere. Dovevo essere allontanata da casa Lestrange ora che la caccia sarebbe cominciata. Senza mio padre a proteggerci, eravamo smarriti.

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Ciao e bentornat*! La nostra Delphini è arrivata ad uno dei momenti cardine della sua storia. Che dire: sicuramente da qui la trama prenderà sfumature più oscure e inquietanti. Per questo, colgo l'occasione per avvisare che i prossimi capitoli tratteranno di alcune tematiche delicate, tra cui difficoltà alimentari, disturbi del linguaggio, lutto, abbandono, depressione. Ci tengo a fare questa premessa, nel caso in cui alcun* lettor* trovassero queste tematiche disturbanti. E se tu avrai ancora desiderio di accompagnarmi in questa storia, ti ringrazio e ti saluto sino al prossimo capitolo! 
Matilde.
 

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