La nostra buona stella

di Longview
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Uno. ***
Capitolo 2: *** Due. ***
Capitolo 3: *** Tre. ***



Capitolo 1
*** Uno. ***


Uno.








Shoto era stato il primo a fargli notare che nel suo look, a partire dai capelli fino ad arrivare alle magliette che spesso indossava e al suo costume da eroe che lo accompagnava quasi invariato dall'inizio del liceo, il verde era la sola costante. Sembrava una buffa casualità, ma quel colore che lo definiva così bene esteriormente rispecchiava alla perfezione anche il suo animo: era sinonimo di natura, freschezza, armonia, speranza. Era la rassicurazione, in ogni suo significato, e Izuku aveva sorriso soddisfatto in faccia alla certezza di incarnare l'idea di Simbolo della Pace nella cromia stessa che la genetica gli aveva donato, quasi fosse stato un segno del destino. 
Quelle parole gli avevano dato una strana scarica di adrenalina e gli erano rimaste in testa per giorni. Lui poteva fare grandi cose, aveva quella certezza ormai da molto tempo, ma esisteva davvero la predestinazione? Forse, più semplicemente, era solo una combinazione fortuita.
La sorte non poteva essere inevitabile come la descrivevano nei libri. Izuku non credeva nel fato, nella divina provvidenza o nel karma: la sua vita, ne era certo, si era costruita fino a quel momento solo grazie a una serie di scelte nate dal suo libero arbitrio. Avrebbe potuto compiere altre azioni, comportarsi diversamente, avvicinare a sé persone completamente differenti, e l'universo attorno a lui lo avrebbe indirizzato piano piano verso una realtà simile o diametralmente opposta a quella che stava sperimentando in quel momento.
La teoria a cui si sentiva più affine era forse quella degli universi paralleli. Magari se non fosse stato bullizzato alle medie, non avrebbe mai sviluppato quella sua voglia di rivalsa sociale; oppure se fosse nato con i capelli castani, Shoto non avrebbe mai fatto quella riflessione sul suo aspetto fisico. Le possibilità erano tante, alcune più rilevanti di altre.
La vita, in fondo, è come una versione ingigantita del gioco "Preferiresti se...?", solo che spesso le opzioni a disposizione sono decine e lasciano un senso di vuoto nel petto anziché la spensieratezza di una risata. 
Izuku si fece tornare in mente tutta quella faccenda nella frazione di secondo in cui mosse il primo passo all'inseguimento di un ladro: pochi minuti prima aveva ricevuto una chiamata dal centralino per le emergenza dell'agenzia in cui lavorava; infatti, in un bar del centro era in corso una rapina. Era normale routine per un eroe professionista, ma, per un novellino come lui, correre dietro a un villain in fuga era sempre un momento di grande tensione. L'asfalto sotto ai suoi piedi prese a sfrigolare mentre un baluginio verde avvolse tutto il suo corpo, sprigionando una piccola parte del suo quirk; prese a correre leggero in mezzo ai palazzi schivando persone e macchine, lasciando nei passanti la sola perplessità del sibilo veloce che lasciava al suo passaggio.
Il cuore batteva forte e preciso nella cassa toracica, era un tam tam incessante che gli squassava i sensi: all'improvviso, l'unico suono che potè percepire fu quello del suo respiro affannato che, con incredibile lucidità, entrava dal naso e usciva dalla bocca socchiusa così come gli era stato insegnato durante gli allenamenti in accademia.
Inspirava ed espirava. Le tempie gli pulsavano e il sangue scorreva liquido nelle sue vene. Le gambe si muovevano frenetiche al punto di sentire i muscoli bruciare sotto pelle. 
Quel ladro, avvolto in una logora felpa marroncina e con un cappello di lana calato sulla testa, si lasciò atterrare senza opporre troppe resistenze. Si divincolò appena nella stretta ferrea dell'eroe, nel tentativo di liberare le mani bloccate dietro la schiena. 
Chiaramente, non era la prima volta che Izuku effettuava un arresto: era abile e veloce, pertanto il suo capo lasciava spesso nelle sue mani quei casi minori; era abituato a sbrigarsela da solo. La Yuuei gli aveva insegnato a gestire qualsiasi genere di emergenza e, a dirla tutta, ne aveva affrontate diverse dentro e fuori le mura dei dormitori; quelli erano stati anni di crescita personale oltre che di formazione. 
Con il palmo lievemente sudato, si scostò qualche ciocca smeraldina dagli occhi: forse era arrivato il momento di dare un'accorciata a quei suoi capelli ingestibili. 
In quell'istante di distrazione, il ladro -che pareva un ragazzo poco più che ventenne- si rivoltò con un colpo di reni, mollandogli una ginocchiata ben assestata dritta nello stomaco; Izuku si ritrovò subito a boccheggiare dal dolore. Un conato di vomito gli salì lungo l'esofago, ma lo deglutì indietro; sapeva distintamente del pranzo consumato un paio di ore prima -pollo al curry, tante grazie al gentile ristoratore che glielo aveva offerto con gli omaggi della casa. Doveva restare al suo posto almeno finché il suo apparato digerente non avesse deciso di fare il proprio corso.
Per quanto tentasse di sfuggirgli, Izuku non mollava la presa ora ancorata alla sua caviglia. Quel ragazzo poteva imprecare quanto voleva, lanciare calci, aggredirlo fisicamente: lui lo avrebbe sempre superato in termini di forza bruta, merito degli anni di allenamento e del suo quirk.
A ragionarci attentamente, forse fu proprio quello a far perdere la concentrazione al giovane eroe: quel ragazzo continuava a combattere, ma non attivava alcun potere. Rimaneva lì a subire, cosciente di non poter niente contro il One for All, ma senza mai perdere quell'insensata tenacia che lo faceva dimenare come un pesce fuor d'acqua. 
Forse quel ragazzo non possedeva un quirk. Era come lui o, per meglio dire, come lui era nato. Gli anni da senza-quirk erano passati da un pezzo, tutto merito del suo mentore All Might; quasi non ricordava più cosa si provasse-- 
No. Ad essere sincero, ricordava chiaramente una serie di emozioni spiacevoli e le prese in giro dei suoi compagni. E la tristezza, tanta, tantissima tristezza. La disperazione negli occhi di sua madre, i suoi sensi di colpa avvolti stretti in quelle lacrime pesanti che versava senza vergogna. La voglia di riscatto e la delusione di non poter fare niente. 
E poi, anche dopo aver ricevuto il suo tanto desiderato quirk, era rimasto un miserabile ancora a lungo. Quelle sensazioni amare e dure, dense, cupe, fastidiose e gracchianti gli scivolavano contro le ossa con una tale vividità che gli parve di provarle anche in quel momento; il dolore fisico, morale e mentale della sua totale incapacità di agire, il suo corpo debole e in balia di un potere troppo grande per essere anche solo immaginato; poi, la strana febbrile felicità dei primi successi, quasi fossero arrivati per una piacevole casualità -ma, no, la casualità non esisteva nel suo stile di vita. 
Quei ricordi gli formicolavano nella testa e gli sembrava -impossibile, davvero insensato- di starli rivivendo in quel preciso istante. Se ne accorse non appena sentì, in uno sprazzo di lucidità, che quel ladruncolo stava lentamente scivolando sotto le sue dita ormai paralizzate, molli, così come il resto del suo corpo. Una piccolissima parte della sua coscienza gli gridava di svegliarsi, di alzarsi e rincorrerlo, ma il resto del suo cervello era avvolto da una nube densa fatta di consistenti flashback del suo passato; era come in un sogno, anche se era perfettamente consapevole del suo corpo reale e di ciò che stava accadendo nell’ambiente attorno a lui.
I ricordi continuarono a vorticare per quella che parve un’eternità: All Might che gli consegnava il One for All, l’esame per entrare in accademia, il primo giorno alla Yuuei, le ossa rotte, i test falliti, i litigi con Kacchan, l’amicizia con Shoto, i tirocini, gli eroi, le prove, i problemi, le punizioni condivise, le difficoltà, Ochako. E poi, il diploma e tutto l’anno che aveva vissuto da quel momento fino ad ora, la realtà -a volte dura- del mondo lavorativo e le sue sfide, i traguardi raggiunti ma anche i lati peggiori -e, se proprio doveva dire la verità, da qualche mese a quella parte ne stava sperimentando gli effetti. Era la sensazione peggiore che avesse mai sperimentato, forse perché non lo riguardava; era causata da qualcosa che... era all'infuori del suo controllo.
Quel fiume in piena di ricordi rimase bloccato in un loop su quegli ultimi avvenimenti, sui problemi, sui suoi sensi di colpa per non aver fatto abbastanza, e per un attimo Izuku credette di star morendo. In fondo, si dice sempre che, prima della morte, la vita scorre davanti agli occhi come in un film. E ci credette, ci credette sul serio in quell'istante.
Il suo corpo rigido cadde a terra, immobile ma cosciente, per essere soccorso dopo poco da una serie di passanti allarmati.
Izuku era vivo, sì, ma quello che gli era appena successo aveva dell’inspiegabile. Forse aveva ragionato superficialmente credendo quel ragazzo un senza-quirk; quando aveva incrociato il suo sguardo spalancato e terrorizzato, a tratti infastidito, aveva percepito come un fremito nel petto. Poi, la sua testa si era riempita fino quasi a scoppiare: gli faceva male il cervello, anche se dubitava fosse una cosa possibile. Dei piccoli spilli si erano conficcati nella sua scatola cranica colpendolo nelle aree adibite alla regolazione degli stimoli visivi, tattili, alla percezione del dolore fisico ed emotivo, alla distinzione della realtà dall'immaginazione. 
Aveva appena vissuto un'esperienza pre-morte oppure-- no, non aveva altre idee su ciò che poteva essere successo. Sbatté le palpebre un paio di volte nel tentativo di riprendere possesso del suo corpo; mise a fuoco un paio di facce preoccupate piegate su di lui, percepì l'asfalto caldo di inizio giugno premergli contro la schiena e delle voci ovattate che gli carezzarono le orecchie. Sembravano tutti molto agitati, e se solo fosse riuscito a parlare avrebbe detto a tutti di stare bene.
Peccato che sarebbe stata una bella bugia; sì, il malessere generale che lo percorreva dalle viscere fino alla punta dei capelli era a dir poco debilitante. Credeva che, se solo avesse mosso un muscolo, si sarebbe dissolto per effetto dei suoi stessi succhi gastrici in subbuglio. 
-Stai bene?- alla fine, riuscì a comprendere quelli che fino a poco prima erano solo flebili versi sconclusionati. Voleva rassicurare quella voce dolce, un po' materna, che lo stava chiamando concitata; sentì una mano posarsi incerta tra i suoi capelli, e un'altra sul polso sinistro: delle dita premettero appena tra i tendini, sulle vene principali, alla ricerca del battito. Era un po' veloce ma regolare, niente di cui allarmarsi. 
La testa di Izuku fece su e giù un paio di volte, molto lentamente. La sua bocca si storse in un'espressione di dolore; la persone attorno a lui si tirarono indietro come scottate, lasciandogli spazio per respirare.
Il giovane eroe si mise a sedere con fatica, senza riuscire a trattenere un mugugno stanco; la sua vista non era ancora totalmente focalizzata su ciò che aveva davanti, ma a poco a poco le immagini del suo passato stavano svanendo, come evaporate nell'aria afosa. Quelle allucinazioni erano finite. 
Inspirò. I suoi polmoni si riempirono piano ma con smania, quasi fosse appena riemerso dall'acqua dopo una lunga sessione di apnea. Gli sembrava di non star respirando da giorni.
Forse era davvero morto. Insomma, non che ora fosse uno spirito che osservava il suo corpo inerme e senza vita gettato sull'asfalto, ma magari per un minuto o due era andato all'altro mondo. Sapeva fosse una cosa possibile per quanto strana; soprattutto per un ragazzo giovane e sano come lui. Non aveva problemi di salute, non ricordava neanche più quando fosse stata l'ultima volta che aveva preso l'influenza. Certamente non poteva essergli preso un infarto o un ictus improvviso.
Si passò entrambi le mani in viso, cercando di riprendersi. Anche se il malessere fisico era quasi scomparso, quello emotivo era ancora presente e gli fece venire ancora qualche capogiro. 
Quei ricordi erano tutti così cupi. Che fine avevano fatto i momenti belli? Gli ultimi anni della sua vita si potevano riassumere con tutta quella sequela di situazioni spiacevoli?
Izuku avrebbe tanto voluto chiedere a quel ragazzo che razza di quirk avesse appena utilizzato su di lui, ma purtroppo era già scappato lontano con la refurtiva.
Si era lasciato sfuggire un villain. Quella realizzazione lo aveva colpito in faccia come uno schiaffo.
Forse complice quella sua improvvisa tristezza, si vergognò molto di se stesso. Lui, proprio lui, che voleva diventare il prossimo Simbolo della Pace, l'erede di All Might, colui che stava già facendo del suo meglio per accaparrarsi il posto di Number One Hero... aveva fatto scappare un ladruncolo di quartiere. Era parecchio imbarazzante.
Doveva fare rapporto, per quanto gli scocciasse dover ammettere pubblicamente di aver fallito. Pensò a Kacchan, e a quanto quei pensieri fossero molto da lui; sorrise amaramente, desiderando un po' egoisticamente che apparisse in mezzo a quella piccola folla a suon di spintoni e lo accusasse di essere un pappamolle. Sì, non avrebbe mai usato quei termini: lui era molto più acido di così. Ma gli voleva bene lo stesso, o forse proprio per quel motivo.
Si torturò attorno a quell'idea per tutto il viaggio di ritorno, che intraprese con lo sguardo basso e il passo pesante. 
Non capiva.
Proprio non comprendeva.
Non riusciva a darsi pace, e non solo per il suo fallimento; era la prima volta che non riusciva a sgarbugliare l'incognita di un quirk. Non aveva il ben che minimo senso nel suo cervello; lui era un esperto in questo ambito, e invece si era lasciato fregare. 
Che stupido.
Contro ogni sua aspettativa, in agenzia nessuno gli fece pesare ciò che era successo. Le ansie erano tutte nella sua testa, gli sbagli potevano capitare. 
Era umano anche lui, per quanto non riuscisse a scendere a patti con ciò.
Perché voleva sempre essere meglio di tutti? Nessuno lo obbligava a flagellarsi con quelle paranoie, nessuno lo costringeva ad essere sempre la versione migliore di se stesso -no, a chi la dava a bere, voleva essere sempre perfetto. E, ragionandoci a sangue freddo, sapeva che la perfezione non esisteva. Se qualcuno gli avesse confidato quelle stesse paure in cui ristagnava da anni, probabilmente lo avrebbe rassicurato, gli avrebbe detto che ogni azione positiva era un piccolo passo in avanti; che non doveva avere fretta. Tuttavia, quando parlava a se stesso era molto più severo, quell'Izuku gentile e comprensivo svaniva nel nulla lasciando spazio a un Izuku più cattivo e prepotente. 
Perché? Era semplice: lui aveva un compito -o, almeno, questo era ciò di cui si era convinto da solo. Lui doveva aiutare tutti, doveva essere sempre pronto a sacrificarsi, doveva intervenire in ogni situazione perché sapeva di potercela fare. Aveva sbagliato troppe volte nella sua vita per permettersi nuovamente il lusso di riposarsi.
Ecco perché. Quello era il motivo per cui stava così male.
Finito il suo turno, andò diretto a casa. Fece tintinnare le chiave contro la serratura della porta d'ingresso del suo piccolo appartamento; piccolo, minuscolo. Si tolse gli stivali e saggiò con un sospiro il pavimento fresco sotto ai suoi piedi, per poi dirigersi stanco verso il bagno: si levò la divisa, aprì l'acqua tiepida e si infilò in doccia. Rimase immobile appoggiato alla parete, rilassandosi finalmente dopo quella giornata difficile. Per un attimo pensò di sedersi a terra, sulla ceramica, e chiudere un po' gli occhi, ma sapeva che se lo avesse fatto non avrebbe più trovato le forze per alzarsi. 
Dopo qualche minuto passato così, a fissare le piastrelle bianche ormai completamente bagnate, afferrò la boccetta di shampoo e iniziò a lavarsi i capelli; come sempre, fece scorrere le dita un po' rozzamente tra le ciocche, ma ben presto dovette fermarsi in un sibilo: passò ancora i polpastrelli vicino alla nuca, nella parte molle tra la fine della spina dorsale e la scatola cranica, quasi a volersi assicurare di ciò che aveva appena provato, e sentì distintamente una stilettata di dolore sotto pelle. Era come un livido, ma più in profondità.
Magari aveva sbattuto la testa a terra quando era stato colpito da quello strano quirk. Non ci diede troppo peso, principalmente perché voleva scordarsi il più in fretta possibile di quel brutto incidente. 
Non appena finì di farsi la doccia, si vestì con degli abiti puliti prelevati dall'armadio e si mise ai fornelli; non si asciugò nemmeno i capelli, faceva troppo caldo e aveva troppa fame per poterci pensare in quel momento.
Le sue capacità culinarie erano decisamente sotto la media, e non aveva mai provato ad impegnarsi per imparare: se una cosa non gli interessava, era difficile che si ricordasse persino della sua esistenza. Non ci pensava, e poi quando arrivava l'ora di pranzo o cena e il suo stomaco iniziava ad attorcigliarsi dalla fame capiva di essersi dimenticato ancora una volta dei suoi bisogni fisiologici. Erano più le volte in cui ordinava cibo d'asporto di quelle in cui mangiava qualcosa di caldo e fatto in casa. 
Anche quella sera, preso dallo sconforto ulteriore che andava ad accodarsi al resto di quella giornata deprimente, non volle prendersi la briga di spadellare e tirò fuori dalla dispensa l'ultima confezione di ramen istantaneo. Lo preparò in pochi minuti e se lo spazzolò in tempi record, troppo affamato per ragionare su quanto fosse poco sano quel suo comportamento. Sua madre glielo diceva sempre: doveva trattare meglio il suo corpo, doveva mangiare meglio, doveva prendersi cura di se stesso.
Gli mancavano i manicaretti di sua madre, era forse ciò che più rimpiangeva da quando era andato a vivere da solo. Anche se era contento di avere la sua indipendenza e di non dover dare conto a nessuno dei suoi orari, tornava spesso a farle visita per un pranzo assieme o semplicemente per chiacchierare. 
Buttò via la confezione e ripulì il tavolo; ora che si era lavato via il sudore e aveva la pancia piena, il sonno aveva preso a pesargli addosso come un macigno. Le palpebre si chiudevano da sole sui suoi occhi smeraldo e, senza pensarci due volte, si infilò il pigiama e andò a letto: quella giornata era stata indubbiamente faticosa e non vedeva l'ora di metterci una pietra sopra; tuttavia, con un sospiro agitato si ricordò che il giorno seguente sarebbe stato ugualmente -o forse più- complesso per i suoi poveri nervi tesi. 
Era felice, sì, ma anche molto preoccupato: mentre il mattino lo avrebbe passato al lavoro, il pomeriggio sarebbe stato dedicato interamente ai preparativi per la serata che gli si prospettava davanti; infatti, dopo anni a rincorrerla e a dissimulare i suoi sentimenti, aveva trovato il coraggio di chiedere un appuntamento a Ochako.
Aveva sognato quel momento così a lungo che non credeva si stesse davvero per avverare.
Avevano trascorso tutti gli anni in accademia a concentrarsi sugli allenamenti, sugli esami, sulle prove e, ultimo ma non meno importante, sul loro futuro; spesso Izuku si era fermato a guardarla, e si era chiesto se sarebbe mai diventato determinato quanto lei. La ammirava dal primo momento in cui l'aveva conosciuta, il giorno del loro esame d'ingresso.
E si era innamorato piano, dolcemente man mano che imparava a conoscerla. 
Aveva sempre cercato di nascondere ciò che provava, ma gli ultimi avvenimenti della sua vita lo avevano portato a pensare che non poteva più rimandare qualcosa di così importante; se gli fosse successo qualcosa, voleva almeno dire addio a quel mondo senza avere rimpianti.
E quindi le aveva chiesto di uscire; Ochako aveva accettato di buon grado, e lui si era sciolto come burro.
Gli sfarfallavano le budella solo al pensiero.
Con un po' di fatica, il sonno sopraggiunse sui suoi sensi. 
 
Il mattino dopo, Izuku riaprì gli occhi piano, abbastanza riposato ma già perplesso -e, forse, un po' infastidito- dalla luce che vedeva filtrare tra le tende spesse della camera; per essere le sei del mattino, fuori c'era decisamente troppo sole. Percepì qualcosa di insolito nell'aria ma, complice quel dolce risveglio, non comprese all'istante che quell'elettricità proveniva direttamente dal retro della sua mente; stava cercando di avvertirlo, se solo le avesse dato ascolto. 
Per metà ancora nel mondo dei sogni, si rigirò tra le coperte fino a buttare uno sguardo verso l'orologio posato sul suo comodino: segnava le otto e trenta.
Era in ritardo.
In un ritardo mostruoso.
Come punto da uno spillo, saltò giù dal letto a tutta velocità e si chiuse in bagno: la serie di imprecazioni che gli scivolarono dalle labbra superarono di numero tutte quelle che aveva mai pronunciato nel corso della sua intera vita. Non se ne accorse nemmeno, era troppo agitato; fortuna che non c'era nessuno a sentirlo.
Allungò una mano rapido verso lo spazzolino, ma si bloccò a mezz'aria: "Che strano", pensò, "Non ricordavo di averne due". Forse sbadatamente si era scordato di buttare quello vecchio. Non ci diede troppo peso, e gettò quello incriminato nella pattumiera. 
Proseguì poi pettinandosi i capelli e lavandosi la faccia; doveva scrollarsi di dosso i residui di sonno il più presto possibile, e già non voleva immaginare il rimprovero che gli avrebbe rifilato il suo capo. Se il giorno prima aveva lasciato correre quel suo errore, quella mattina gliene avrebbe certamente dette quattro. E se le meritava tutte, insomma, si era scordato di puntare la sveglia. Dove aveva il cervello ultimamente?
Infine, in tutta fretta, tornò verso la camera per recuperare la divisa da eroe dall'armadio. La sera prima l'aveva riposta ordinatamente dentro alla sua custodia in tessuto rivestito, per non farle prendere polvere.
La sua piccola corsa si interruppe di colpo non appena si trovò oltre lo stipite della porta, fermo e rigido quasi fosse stato paralizzato da un attacco di Kaminari; se solo avesse potuto sparire, dissolversi nel nulla e mischiarsi alle particelle diventando aria, lo avrebbe già fatto.
Il suo sguardo era puntato al letto, le pupille ridotte a capocchie di spillo e le palpebre che non accennavano a chiudersi; i suoi occhi erano completamente rossi e increduli, terrorizzati, mentre sulle sue guance iniziava a spuntare un lieve rossore che risaltava ancora di più se messo a confronto all'incredibile pallore del resto del viso. Persino le lentiggini sparivano in mezzo a quell'imbarazzo.
Izuku si accorse di star trattenendo il respiro e di aver serrato la mascella in una smorfia di paura. Si morse un labbro, domandandosi se ciò che stava vedendo fosse un'altra allucinazione: dopo ciò che era successo il giorno prima, non si sarebbe stupito più di nulla. E, in fondo, sperava seriamente di essere diventato pazzo.
Perché la scena che aveva di fronte non aveva senso di esistere.
Le coperte si mossero spostate da delle piccole mani chiare, lasciando intravedere una testa castana e tutta scompigliata; quella si voltò piano nella sua direzione e gli rivolse uno sguardo a metà tra il confuso e l'addormentato.
Riconobbe all'istante quei capelli corti, il viso paffuto, la fronte corrucciata e le labbra a cuore; li aveva osservati infinite volte, e li avrebbe riconosciuti anche in mezzo a un milione di persone. 
Ochako, avvolta in una t-shirt azzurrina, si era appena messa a sedere sul suo letto, ancora avvolta dalle coperte leggere di fine primavera. Lei era lì, tranquilla e a suo agio, quasi fosse abituata a quel tipo di routine assieme a Izuku.
La ragazza inclinò il capo di lato, guardandolo perplessa.
-Izu, che fai? Oggi non lavori, giusto?-

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Capitolo 2
*** Due. ***



 
Due.






Caldo.
Izuku sentiva molto, troppo caldo. E non credeva fosse la temperatura nella stanza a farlo avvampare con tale violenza; no, dopotutto c'erano le finestre aperte e una lieve brezza fresca gli faceva drizzare i peli sulle braccia scoperte. Eppure il suo viso stava letteralmente andando a fuoco.
Se solo avesse potuto guardarsi allo specchio, si sarebbe scoperto rosso come un pomodoro fino all'attaccatura dei capelli, ancora immobile appena oltre la porta della sua camera da letto. Ochako non era un'illusione creata dal suo cervello sull'orlo dell'esaurimento nervoso, lei era davvero lì sotto le coperte, vestita di una leggera t-shirt e un paio di pantaloncini morbidi, adatti a quel clima mite. 
La ragazza si stropicciò gli occhi, mandando al diavolo i suoi propositi di dormire qualche ora in più. Si passò le dita tra i capelli nel tentativo di ricomporli un minimo e, con un po' di fatica, si mise a sedere. 
-Izu? Ti senti bene?-
Lo sguardo spaventato che quello le riservò -lo vide senza dubbio rabbrividire alle sue parole- fu la risposta evidente che, no, il verdino non stava bene. 
Che poi, se proprio doveva essere sincero, Izuku non sapeva come sentirsi. Insomma, era scioccato -sconvolto, incredibilmente stranito, il suo cervello era rimasto bloccato nel preciso istante in cui aveva varcato la soglia della sua stessa stanza- e, dato che quella realtà che stava vivendo gli sembrava davvero poco reale, non potè far altro che fermarsi, bloccarsi senza neanche ragionare e fissarla con un rumore statico di sottofondo nel suo cranio.
Non pensava a niente. 
La sua testa era una scatola vuota in cui qualche grillo imbarazzato suonava una strana e triste canzone stonata. 
Lo strano nodo alla gola che gli mozzava il fiato e gli stava causando un conato di vomito strozzato lo portò a comprendere di non star vivendo in un sogno. La nausea era reale, il petto che gli esplodeva sotto il battito impazzito del suo cuore era tremendamente reale, le sue guance bollenti lo erano. E anche Ochako, che ora lo osservava con una punta di preoccupazione in quegli occhi nocciola, era reale -realmente incomprensibile e spiazzante.
In un moto di imbarazzo, abbassò lo sguardo, alla vana ricerca di una via di fuga da quella situazione: si guardò intorno, dall'armadio fino alla finestra sulla parete opposta, e persino fino a quella piccola scrivania color betulla posta appena sotto di essa, che non aveva mai visto prima di allora. La fissò per alcuni lunghi e intensi attimi, quasi stesse avendo delle allucinazioni; poteva mai essere così esaurito da essersi dimenticato di essere andato a un negozio d'arredamento, aver scelto e acquistato un mobile, averlo portato a casa e poi montato? Era possibile? E se anche tutti quei passaggi li avesse fatti sua madre per fargli una qualche sorta di favore, beh, di certo non si era intrufolata in casa sua durante la notte e l'aveva piazzata là, come se nulla fosse. 
Era tutto molto strano.
Certo, forse Izuku stava solo girando attorno al problema, evitando il punto principale, quello più ingombrante, il cosiddetto elefante nella stanza: ancora non si era davvero domandato il motivo per cui Ochako Uraraka, la ragazza per cui aveva una cotta da tempi immemori, era dentro casa sua-- o, per meglio dire, dentro il suo letto. L'idea di conoscere la risposta lo spaventava troppo, e poi magari, ignorando il fatto, prima o poi sarebbe sparito da solo.
No?
No, era il panico che parlava al posto suo. 
Fece un piccolo balzo spaventato non appena la vide posare i piedi a terra e alzarsi, diretta proprio verso di lui: dopotutto, Izuku si stava comportando come un pazzo in preda a una crisi paranoide, quindi la preoccupazione della ragazza era più che motivata. Il verdino rimase pietrificato, nella sua testa quel ronzio simile allo statico della televisione iniziava ad espandersi fino a coprire qualsiasi altro suono.
Forse stava per svenire. Forse era morto nel sonno. In quel preciso momento, non aveva le capacità cognitive necessarie per ipotizzare altre possibilità; solo la presenza sempre più vicina e incomprensibilmente minacciosa di Ochako gli fece distogliere lo sguardo dalla parete color crema di fronte a sé: lo puntò dritto sulla ragazza che, con ferma risolutezza, fece scattare il braccio verso l'alto, il palmo aperto e rivolto verso di lui.
Izuku lo schivò con incredibile maestria, quasi si trattasse dell'attacco a sorpresa di un villain e non -con ogni probabilità- del tentativo mancato di sentirgli la febbre. Era rimasta con la mano a mezz'aria proprio all'altezza della sua fronte, e infatti il verdino provò subito un certo imbarazzo. 
Era un vero sciocco. Tutte quella vergogna per un banale contatto fisico con Ochako? La ragazza di cui era cotto? Che era appena scivolata fuori dal suo letto con un pigiama cortissimo, che lasciava davvero poco all'immaginazione? Da sotto la t-shirt spingevano timidamente i capezzoli, come due bottoncini cuciti in cima ai seni prosperosi. 
Distolse lo sguardo il più in fretta possibile, nella speranza di non essere stato visto, e arrossì fino alla punta del naso. 
-Cosa c'è? Stai male? C'è qualcosa di brutto che devi dirmi?- sbottò lievemente stizzita la morettina, puntellandosi le mani sui fianchi.
Lui strabuzzò gli occhi: no, non voleva farla indispettire. Cercò velocemente un modo per tirarsi fuori dai guai, e buttò lì la prima cosa che gli venne in mente: -Uhm, no! Va tutto benissimo!-, tirando a forza il sorriso più finto che avesse mai fatto, proseguì, -Sai dirmi che giorno è oggi?-
Ochako inclinò appena la testa, confusa, ma gli rispose lo stesso: era giovedì.
Izuku sentì un lieve tuffo al cuore, come un piccolo ingranaggio che smetteva di funzionare: la sera prima, quando si era addormentato da solo nel suo letto dentro il suo piccolo appartamento, era domenica.
Non poteva aver dormito per quattro giorni e, anche se fosse stato, in quei quattro giorni di misterioso coma profondo non poteva essersi materializzata una scrivania e Ochako Uraraka dentro alla sua camera. 
Non capiva. Davvero non capiva. Sembrava che il suo cervello sempre attivo si fosse preso un giorno di vacanza.
Cosa poteva fare in una situazione simile, per svignarsela senza destare troppi sospetti? 
-Izu?- 
A quel punto, tornò finalmente alla realtà. Diede uno sguardo veloce oltre le spalle di Ochako, verso il comodino posto sulla sinistra del letto: sì, il suo cellulare era al suo posto. Almeno quello.
-Scusami, non ho più sonno. Penso andrò a farmi una passeggiata-
La fronte appena corrucciata di lei lasciò trasparire un certo disagio. Sembrava triste, confusa, un po' delusa; ma non disse nulla, anzi, forzò un piccolo sorriso e posando entrambe le mani sulle sue spalle, si mise in punta di piedi: erano quasi alla stessa altezza ora, e il suo viso era pericolosamente vicino a quello di Izuku. Era chiaramente intenzionata a posargli un bacio sulle labbra e, beh, in quel momento il corpo del verdino si mosse d'istinto, inclinando la testa e allungandosi a sua volta per lasciargliene uno sulla guancia. La tensione lo aveva portato ad affondare i polpastrelli nei fianchi della ragazza, facendola sobbalzare. Erano così morbidi.
Si preparò in fretta e furia, ignorando completamente Ochako che, con un'espressione sconsolata, si rimise a letto, voltandogli le spalle. Afferrò cellulare e portafoglio, e infine uscì di casa.
Si chiuse la porta alle spalle in un sospiro -di sollievo?-, e si prese qualche istante per ragionare.
Cos'era appena successo? Sì, era arrivato il momento di analizzare la mezzora appena trascorsa, dal momento in cui si era svegliato a quando era scappato con il cervello in tilt.
Quella mattina aveva aperto gli occhi alle otto e trenta, la sveglia non era suonata e lui avrebbe dovuto iniziare a lavorare alle otto spaccate, se fosse stato davvero lunedì mattina. Invece, no, era giovedì.
Primo fatto strano, ma in fondo era molto stressato nell'ultimo periodo e forse stava andando in burnout -non che ci fosse da festeggiare, dato che come ipotesi era alquanto preoccupante.
Si era alzato di corsa, era andato in bagno e si era lavato faccia e denti. Era tutto filato liscio, tranne--
Il secondo spazzolino nel bicchiere. Non era suo, e ora che ci ragionava era rosa: mise in ordine tutte quelle informazioni e gli parve chiaro che quello fosse il primo segno della presenza di un'altra persona in casa sua.
Aveva buttato lo spazzolino di Ochako nel cestino.
Tornato in camera per prendere la divisa, si era accorto di lei. Era sempre stata lì fin dal primo istante in cui aveva aperto gli occhi, ma Izuku non l'aveva notata. Ochako sembrava tranquilla, nei suoi occhi non c'era nemmeno un velo di imbarazzo, quasi fosse abituata a quella routine e a svegliarsi al suo fianco.
Questo era certamente il dettaglio più strano e sconcertante. Loro due erano sempre stati amici, ma non avevano mai espresso il loro affetto con abbracci o altre esternazioni fisiche, figurarsi se potevano dormire insieme. Inoltre, quel tentativo di bacio prima che il verdino se la svignasse non lasciava molto spazio alla fantasia: per Ochako, loro stavano insieme. E, per qualche motivo, gli sembrava che l'ipotesi più plausibile fosse di aver perso la memoria, e non che lei fosse improvvisamente impazzita.
Istintivamente, portò lo sguardo alle sue stesse mani. Erano callose e pallide, come sempre, ma notò subito alcune cicatrici che, ne era certo, non aveva mai visto.
Prese il cellulare dalla tasca posteriore dei pantaloni e, per fugare qualsiasi dubbio, guardò la data che apparve sullo schermo ancora bloccato: era il 5 giugno, sì, ma l'anno segnato era completamente sbagliato. Sbatté le palpebre più volte, si diede un sonoro schiaffo in faccia nel caso il sonno avesse deciso di rimanere ancora attaccato al suo corpo e fargli vedere cose che non esistevano.
Però, no, era il 5 giugno di due anni dopo. Due anni passati dalla sera precedente e nessuna giustificazione sensata.
Il cuore stava scavando un tunnel nel suo petto per finire direttamente nello stomaco e farsi vomitare fuori; i palmi sudati gli fecero scivolare via il telefono, che si schiantò sulle piastrelle del pianerottolo in un suono sordo -senza rompersi, fortunatamente. 
"Niente panico", pensò, "Magari il mio telefono ha qualche bug, un problema di sincronizzazione...". Onestamente, non ci capiva nulla di quelle cose, ma sperò di avere ragione.
Trovò il coraggio di muoversi e scese in strada, intenzionato a trovare l'edicola più vicina e ricorrere al metodo più vecchio del mondo: affidarsi alla buon vecchia carta stampata. 
Camminò circa per un isolato, quando vide un chioschetto: afferrò il primo giornale che gli capitò sotto tiro, pagò e si mise immediatamente a scandagliare la prima pagina, finché non trovò in alto a destra la conferma che cercava -e che tanto lo spaventava.
Era davvero il 5 giugno, erano davvero passati due anni.
Come diavolo era possibile? Quale arcano mistero si nascondeva dietro quella incomprensibile incongruenza tra la tua testa e la realtà? Aveva problemi di memoria o si trattava di una dannatissima magia?
Ma, soprattutto, cosa era successo in quei due anni di vuoto più totale?
-Deku?-
Una voce sconosciuta prese a chiamarlo alle sue spalle, e Izuku non se ne accorse subito: era troppo assorto, troppo sconvolto. Troppo confuso.
-Deku, sei davvero tu?- 
Il ragazzo si voltò, trovandosi di fronte una ragazzina di circa 15 o 16 anni che lo guardava con gli occhi nocciola che le brillavano. Non l'aveva mai vista in vita sua, ma per non risultare scortese le sorrise e le chiese con calma se si conoscessero.
-Uh, no!-, sembrava agitata, e fece una mezza risata imbarazzata, -Sono una tua grande fan! Possiamo farci una foto?-
Izuku corrugò la fronte, perplesso, ma alla fine acconsentì a quella richiesta: era molto inusuale che qualcuno lo riconoscesse per strada, però non poté negare che fu una sensazione molto piacevole. Quel piccolo scambio catturò l'attenzione di altre quattro o cinque persone che puntarono lo sguardo su di lui e si illuminarono: subito lo accerchiarono chiedendo chi una foto e chi un autografo; un ragazzo gli chiese semplicemente un abbraccio, e lui ancora frastornato lo accontentò senza fare domande.
Si sentiva stranamente bene. La gente lo conosceva, il che significava che forse in quei due anni si era distinto come eroe. Un vero e proprio sogno che diventava realtà.
Si rifugiò nel primo cafè che individuò con una veloce occhiata lungo la strada, alla ricerca di un po' di privacy e indirizzato da una certa fame: dopotutto, non aveva ancora fatto colazione.
Ordinò un caffè -lungo- e dei pancake e, dopo aver smangiucchiato qua e là il suo pasto quel che bastava per ristabilire i livelli di zucchero nel suo sangue, tirò fuori il suo cellulare e prese a scorrere tra le chat: era certo che lì avrebbe trovato le risposte alle sue domande, o quantomeno avrebbe fatto un po' di chiarezza nella sua testa dannatamente confusa.
Notò subito una serie di nomi familiari, e in qualche modo si tranquillizzò: Shoto, Ochako, Iida, Tsuyu, persino Kacchan era tra i contatti recenti. Chissà come stavano tutti, ora che era trascorso tutto quel tempo.
Puntato in alto c'era il nome di Shoto, e scorrendo tra i messaggi vide che parlavano spesso di lavoro usando frasi brevi e coincise. Pareva fossero colleghi, anche se chiaramente non ricordava il momento in cui quel fatto fosse accaduto. Un brivido di contentezza lo attraversò, non c'era niente di meglio che andare in pattuglia e combattere fianco a fianco con un amico -e Shoto era probabilmente uno dei suoi migliori amici.
Passò oltre.
Subito sotto, sempre fissato, c'era il nome di Ochako: era salvato con un cuoricino accanto. L'ultimo messaggio era della sera prima e Izuku le aveva chiesto cosa volesse per cena, dato che stava tornando a casa.
Era una domanda dolce, premurosa -classico comportamento di due persone che si amano e vivono sotto lo stesso tetto.
Sospirò. Onestamente, non gli sarebbe dispiaciuto ricordarsi dei -indubbi- bei momenti passati con lei fino a quel momento; chissà come era iniziata tra loro. 
All'improvviso, Izuku spalancò gli occhi colto da un'assurda realizzazione. In mezzo a quel trambusto, si era completamente dimenticato di un dettaglio: quando era andato a dormire la sera prima -o meglio, da quanto aveva capito, due anni prima- era felice e agitato, tanto che si era convinto che non avrebbe mai chiuso occhio. 
Magari non si fosse mai addormentato.
Se avesse passato l'intera notte in bianco, la sera dopo si sarebbe potuto godere il suo tanto agognato primo appuntamento con Ochako.
Ovvio, no? Era così stupido da non aver compreso fino a quel momento come dovevano essere andate le cose. Quell'appuntamento che -dannazione- non aveva potuto vivere per qualche strana assurdità che ancora doveva processare era andato a buon fine. Ottimo fine, visto che a distanza di due anni stavano ancora insieme.
Sorrise. Prima poco, le labbra appena piegate all'insù e le guance imporporate, poi pian piano sempre di più, fino a esibire i denti bianchi e ordinati in una simpatica smorfia di contentezza. Un paio di persone lo fissarono stranite, ma lui non ci fece caso. Era troppo perso nel suo mondo incantato; le farfalle nel suo stomaco sembravano uno sciame impazzito, e il che era inspiegabile visto che non aveva mai realmente baciato Ochako. O, almeno, non ne aveva ricordi. L'aveva persino rifiutata quella mattina: si era comportato in maniera pessima con lei, anche se era comprensibile data la situazione in cui si era visto catapultato.
Però lei non poteva immaginarlo. Era come se Ochako avesse vissuto in una linea temporale diversa dalla sua fino a quel momento, e loro due, appartenenti a due mondi completamente diversi, si fossero incontrati quel 5 giugno per la prima volta.
D'un tratto Izuku ragionò sul pensiero che aveva appena formulato. 
Linee temporali. Universi paralleli. 
Il giorno precedente, mentre cercava di trattenere quel ladruncolo da strapazzo ed estremamente sfuggevole, si era sentito molto strano. Come se la sua intera vita gli stesse passando davanti agli occhi ma senza un senso di continuità, senza un ordine, in preda a dei balzi impazziti e sconclusionati avanti e indietro nel tempo. 
C'erano i giorni felici, ma soprattutto quelli tristi, i peggiori, quelli che più lo avevano segnato e gli avevano permesso, in un certo senso, di trasformarsi nella persona che era diventato.
I punti chiave della sua esistenza.
Non poteva, no, anzi, non doveva essere tutto un caso. Izuku era fermamente convinto che ci fosse una motivazione dietro a tutto quello che stava vivendo: iniziava a credere che non si trattasse semplicemente di un vuoto di memoria lungo due anni. Quel ragazzo lo aveva manipolato in qualche assurdo modo, e davvero non comprendeva quale fosse il funzionamento alla base di quel quirk, lui che di poteri e stranezze ne sapeva a bizzeffe.
Quello spaventoso timore di essere impazzito stava lentamente svanendo; non poteva essere malato o esageratamente stressato, almeno non in maniera così grave e improvvisa: la paura era giustificata, ma a un certo punto era necessario ragionare lucidamente.
La notte precedente era successo qualcosa che aveva incrinato il suo spazio-tempo e lo aveva sputato direttamente in quel momento della sua vita, per quanto assurdo potesse sembrare.
Sì, insomma, non poteva averne la certezza. Tuttavia, era l'unica opzione sensata a cui riusciva a pensare, e in quel momento voleva aggrapparsi con tutte le forze alla minima cosa che avesse una vaga parvenza di certezza.
In quella situazione c'erano più domande che risposte. Cosa stava succedendo? Sarebbe mai più tornato al suo tempo? Avrebbe dovuto abituarsi a vivere così?
Non poteva saperlo, e onestamente meno ci pensava e meglio era per la sua salute mentale già gravemente compromessa da tutta quella faccenda. L'unica cosa che poteva fare era analizzare il tutto man mano che si svolgeva: non era un modus operandi particolarmente comodo, ma era l'unico che aveva a disposizione.
Ora, c'era un'unica, vera grande domanda a cui voleva trovare una soluzione: al prossimo risveglio, dove si sarebbe trovato?

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Capitolo 3
*** Tre. ***


Tre.








Per quanto tutta quella faccenda si fosse rivelata più complessa e contorta del previsto, Izuku era certo di avere ancora un paio di certezza nella testa: la prima, più a lungo termine, era che in un modo o nell'altro sarebbe venuto a capo di quel mistero. Voleva tornare alla sua vita di sempre, alle sue abitudini e a tutto ciò che lo faceva sentire tranquillo e a suo agio; non era tipo da riuscire a gestire i cambiamenti repentini. 
La seconda certezza riguardava il momento presente e la giornata assurda che stava vivendo, ovvero il fatto che non sarebbe tornato a casa sua quella sera. Lo spaventava l'idea di trovarsi faccia a faccia con Ochako, quasi si trattasse del boss finale di un videogioco; non l'avrebbe affrontata, non di nuovo e non nel breve periodo. 
Sì, non poteva negare di sentirsi un po' un verme. Lei non gli aveva fatto niente di male, anzi, era sembrata sinceramente preoccupata quella stessa mattina vedendolo così agitato ed elusivo; ma lui era davvero terrorizzato da ciò che gli stava accadendo e, finché non avesse compreso il come e il perché di tutto quanto, avrebbe cercato di evitarla in ogni modo. Lui, il timido e ansioso Izuku Midoriya, non sarebbe mai stato capace di fingere, vestendo i panni della versione futura di se stesso. Forse così facendo avrebbe avuto qualche cosa in più da spiegare non appena tutto sarebbe tornato alla normalità, ma era un piccolo prezzo che era disposto a pagare pur di non vedersi costretto a infilarsi nuovamente a letto in compagnia di Ochako: se lo avesse fatto quella sera, sarebbe morto di infarto.
Pertanto, qual era la scappatoia migliore se non chiedere asilo all'unica persona che non lo avrebbe mai rifiutato? 
Sperando che non avrebbe fatto troppe domande, il ragazzo chiese a sua madre di ospitarlo per la notte. Le domande, tuttavia, arrivarono, e anche piuttosto preoccupate: aveva forse litigato con Ochako? Era successo qualcosa di grave? Lei stava bene? Insomma, per qualche ragione -forse spinta da un'incredibile simpatia che provava nei confronti della giovane eroina- credette che il figlio avesse combinato un guaio rovinando per sempre la loro bella relazione. In un certo senso, quella sua paura aveva un fondo di verità, ma questo Izuku non lo avrebbe mai detto. Non aveva importanza, e lui era troppo stanco e assalito da sensazioni spiacevoli per mostrarsi accondiscendente come sempre. 
Si limitò a liquidare ogni questione con la scusa della stanchezza e a sistemarsi nella sua vecchia cameretta -che era quasi completamente stata riarredata a studio, fatta esclusione per il letto rimasto al suo posto "in caso di necessità". 
Poco prima che il figlio si chiudesse la porta alla spalle e la lasciasse fuori fisicamente e mentalmente dal suo piccolo spazio privato, lo sguardo di Inko tradì molte emozioni contrastanti: era allarmata da quel comportamento, ma anche dubbiosa e un po' amareggiata. Izuku non era tipo da troncare le discussioni a metà, ed era certa che se ci fosse stato un problema con Ochako gliene avrebbe parlato senza farsi troppi problemi. Era sempre stato molto sincero e aperto con lei, era persino andata a chiederle consiglio quando era arrivato il momento della sua fatidica prima volta -in ogni occasione, lei non si era mai scandalizzata, anzi, aveva sempre cercato di dimostrargli tutto il suo appoggio e la sua comprensione. Di conseguenza, il figlio non aveva mai avuto motivo di nasconderle qualcosa. Era come un patto silenzioso tra loro due.
Ecco il motivo per cui si sentiva così agitata. Qualsiasi cosa fosse successa, doveva essere abbastanza grave da aver spinto Izuku a tacere, chiudendosi in se stesso.
Inko aveva dei pessimi presentimenti.
Il figlio dal canto suo, beh, si era infilato sotto le coperte con la faccia pallida e il cuore pesante. Sperava solo che la madre non ci fosse rimasta troppo male, o avrebbe avuto la certezza di aver deluso una seconda persona nell'arco di una sola giornata; non le prime della sua vita, di quello ne era certo, ma l'abitudine non rendeva meno sgradevole quella sensazione alla bocca dello stomaco.
Con un po' di fatica riuscì infine ad addormentarsi: una piccola parte di lui sperava di svegliarsi da qualche altra parte il mattino dopo.
 
La notte passò veloce e senza sogni. Quando Izuku riaprì gli occhi, era ancora assonnato e le ossa, oh, gli dolevano quasi avesse appena finito di incassare un centinaio di pugni. Sì, forse aveva dormito in una posizione assurda, o forse la sera prima era crollato e non si era più mosso per le successive sette ore... ma quel dolore a braccia e gambe -e anche un po' all'altezza dello sterno- era davvero inusuale. 
Non riuscì a trattenere un mugugno sofferente non appena si mise a sedere, ma subito dopo si accigliò stranito: diede un paio di colpi di tosse, per schiarirsi la voce.
-Ciao?-, pronunciò con non troppa convinzione, lo sguardo perso nel vuoto, -Ciao!-
La seconda volta lo esclamò con tono sicuro, e fu allora che non ebbe più alcun dubbio: la sua voce era stranamente acuta. 
-Dannazione-
Nella penombra della stanza si intravedeva una miriade di poster appesi sulle pareti, la sua vecchia scrivania in un angolo e tutti i libri di scuola sparsi senza cognizione di causa in ogni angolo libero. 
Istintivamente portò entrambe le mani in alto, verso i suoi stessi capelli, che trovò crespi e ben più voluminosi di quanto ricordasse; o, quantomeno, di quanto non fossero la sera precedente. 
-Izuku?-
Il diretto interessato sobbalzò preso alla sprovvista. La porta di camera sua si aprì lentamente, facendo entrare la luce del mattino proveniente dal soggiorno.
-Con chi stai parlando?- sua madre gli rivolse uno sguardo perplesso, mentre a grandi falcate si dirigeva verso la finestra spalancando tende e imposte in legno.
-N-nessuno!-, rispose quello, spaventato dalla sua stessa voce, -Avevo un po' di... mal di gola-
Inko sospirò, alzando gli occhi al cielo: -Certo. Ora muoviti o farai di nuovo tardi a scuola-
Di nuovo? Izuku non aveva mai fatto tardi, in nessuna occasione della sua vita. Meno che meno a scuola. 
Obbedì senza aggiungere altro, e con un po’ di fatica si diresse in bagno con la divisa della Yuuei stretta tra le mani; si fece una doccia veloce, si vestì e si fermò per un istante a osservarsi nel piccolo specchio appeso sopra il lavandino.
Quanti anni aveva ora? 15, al massimo. Le sue braccia erano così piccole e poco sviluppate rispetto a quelle che aveva allenato duramente negli anni che sembrava potessero spezzarsi da un momento all’altro -e forse, ora che ci ragionava meglio, quello era proprio il motivo per cui sentiva quei dolori sparsi in tutto il corpo.
Tornato in camera per raccogliere lo zaino, prese tra le mani il cellulare: la data sullo schermo confermò tutti i suoi sospetti. Aveva 15 anni, ed era ovviamente tornato indietro nel tempo.
Uscì di casa di corsa, senza fare nemmeno colazione; aveva lo stomaco sottosopra, quindi in ogni caso non sarebbe riuscito a mandar giù niente. 
Era parecchio in anticipo ad essere sinceri, pertanto passeggiò con calma in direzione dell'accademia: conosceva a memoria quella strada, ed era assurdo pensare che fosse incisa nel suo cervello al punto che anche in una situazione simile, confuso e stanco, le sue gambe si muovessero da sole verso la loro meta.
In quel momento ripensò a ciò che sua madre gli aveva detto poco prima. Era stata una frase quasi casuale, buttata lì senza pensarci troppo, ma che nascondeva una grande verità. Lei non gli aveva mai parlato in quel modo, non gli aveva mai rivolto una parola cattiva, mai uno sguardo di rimprovero -o, almeno, non senza che lui avesse fatto niente.
Era tutto così strano.
Mentre camminava, passò accanto a un negozio; i suoi occhi vennero catturati dalla sua stessa immagine riflessa, come se non si fosse già osservato allo specchio quella mattina. Si fermò, facendo borbottare infastidite un paio di persone che furono costrette ad evitarlo per non cadergli addosso. 
Ma quanto aveva lasciato crescere i capelli? Onestamente, non ricordava di averli mai avuti così lunghi: la solita chioma riccia si era un po' appiattita ai lati, forse se si fosse impegnato avrebbe persino potuto raccoglierli in una coda. Era un look alquanto fuori dai suoi standard -e forse persino fuori dalla sua comfort zone.
Aveva 15 anni, stava studiando alla Yuuei, viveva ancora con sua madre, quindi riusciva a collocare con una certa sicurezza quel periodo preciso all'interno della sua non troppo lunga vita. Eppure c'era qualcosa che lo faceva sentire spaesato, come quando cambi disposizione ai mobili di casa: il contesto rimane sempre lo stesso, confortevole e ben conosciuto, ma il contenuto ti lascia disorientato.
Chissà se quella giornata gli avrebbe riservato altre sorprese.
 
Arrivò in anticipo in classe. L'atmosfera era abbastanza tranquilla, per i corridoi c'erano alcuni gruppi di ragazzi che chiacchieravano e altri che dal giardino esterno iniziavano a dirigersi pigramente verso le proprie aule. I docenti ancora non si vedevano.
Non appena Izuku entrò dalla porta già aperta, sospirò e, quasi inconsciamente, si rilassò in un piccolo sorriso vedendo una strana capigliatura bicromatica scattare di lato per capire chi si stesse avvicinando. C'era anche Iida, che alzò lo sguardo dai libri solo per rivolgergli un saluto leggermente infastidito.
-Midoriya- 
Quel richiamo, accompagnato da un gesto del capo, fu serio, pur tradendo però una lieve contentezza: Shoto si sentiva sempre stranamente allegro attorno a Izuku. Quel ragazzo gli trasmetteva positività.
Tuttavia, gli bastò un'occhiata veloce per capire che c'era qualcosa di strano -no, qualcosa di diverso. Izuku era diverso, un po' più ansioso del normale forse, ma decisamente diverso. Glielo lesse in faccia: non sembrava minimamente la stessa persona che aveva salutato il pomeriggio precedente, finite le lezioni. 
Il verdino, leggermente intimidito, rimase immobile sull'uscio mentre sosteneva quell'incomprensibile gara di sguardi. Fissò Shoto dritto nelle pupille -quanta agitazione potevano infondergli quell'azzurro e quel grigio tanto freddi ma allo stesso tempo tanto familiari?- durante attimi che sembrarono durare ore. Se solo il suo danger sense fosse stato in grado di attivarsi -dannato corpo che non rispondeva ai suoi comandi-, probabilmente si sarebbe preparato a un duello. 
Shoto, però, fu il primo a cedere, socchiudendo gli occhi e scrollando lievemente le spalle come un cane che rilascia la tensione. Forse era solo in ansia per il test di chimica, si disse quello; non c'era motivo di preoccuparsi, almeno per ora.
Izuku si sedette al suo posto indeciso: che materie aveva quel giorno? Avrebbero fatto degli allenamenti? E se sì, sarebbe stato in grado di controllare il suo quirk o avrebbe combinato uno dei suoi soliti disastri?
-Come mai sei arrivato così presto?-
Quella domanda prese il verdino completamente alla sprovvista, e per poco non ribaltò il banco di fronte a sé.  Shoto si era seduto dietro di lui, e si era sporto il più possibile verso il suo orecchio, per parlare piano; le occhiatacce di Iida dall'altro capo della classe erano il principale motivo di quel comportamento.
-Midoriya-kun?-, lo richiamò l'altro, facendolo tornare alla realtà, -Stai bene?-
L'amico sembrava sinceramente interessato alla sua risposta. Se ricordava bene, in quel periodo stavano iniziando ad avvicinarsi, e non voleva di certo evitarlo mandando a monte tutta la loro amicizia.
-Suppongo di sì-, rispose con un tono che diceva tutto il contrario, -Ho solo dormito un po' male-
-Sei andato a una festa?-
Un'altra voce, un po' più acuta e frizzante, spezzò la quiete del momento. Era Kaminari, appena arrivato con al seguito Kirishima e Kacchan. Senza pensarci, Izuku sorrise a quest'ultimo in segno di saluto, maledicendosi appena un istante dopo: erano adolescenti, e l'amico ancora lo odiava. La redenzione e il pentimento sarebbero arrivati da lì a qualche tempo. 
Tuttavia, con enorme stupore del verdino, Kacchan si limitò a sollevare un sopracciglio perplesso, e stranamente non lo insultò, né tentò di farlo a pezzi. 
Strano.
-Una... festa? Perché avrei dovuto?- 
Izuku era sempre più confuso. Perché ogni persona con cui interagiva faceva supposizioni senza senso su di lui?
Ma soprattutto, da quando Kaminari gli parlava e gli dava pacche sulle spalle come se fosse stato uno della sua cerchia di amici?
C'erano molte, troppe cose che non quadravano quella mattina. Non era stato come il giorno precedente: sì, Izuku non sapeva come sarebbe stato il suo futuro quindi non aveva realmente motivo di stranirsi per qualche cosa, ma gli era comunque sembrato tutto abbastanza plausibile. 
Il suo passato, invece, lo aveva già vissuto e lo conosceva bene. Era certo di non aver mai sperimentato un martedì mattina come quello durante i suoi 15 anni, ed era certo che tutto quello che gli stava accadendo -scuola e Shoto a parte, forse- non era affatto normale. 
Kaminari scrollò le spalle con un sorrisetto serafico in volto, lasciando cadere il discorso. Si limitò a lanciargli un "Ne riparleremo in pausa pranzo" per poi dirigersi verso il suo posto. 
Izuku rimase perso nei suoi pensieri fino all'ingresso del professor Aizawa in classe, che diede inizio alle lezioni.
 
L'ora di pranzo arrivò come una benedizione lanciata direttamente dal cielo; la giornata scolastica non era ancora finita, e nel pomeriggio avrebbe dovuto affrontare alcuni allenamenti che, al solo pensiero, lo facevano sudare freddo, ma l'idea di poter mettere qualcosa nello stomaco e, possibilmente, stare da solo con se stesso per la successiva ora lo facevano tranquillizzare un po'.
O almeno quello era teoricamente ciò che avrebbe voluto fare. Nella pratica, beh, la sua impresa si rivelò ben più complessa del previsto: appena suonò la campanella, Izuku sgattaiolò fuori dall'aula alla velocità della luce; forse, così facendo, nessuno lo avrebbe fermato. 
Riuscì ad arrivare in corridoio, ma fece in tempo a percorrere appena una decina di metri prima di venire richiamato dalla voce di Shoto. Izuku bloccò la sua marcia, socchiudendo gli occhi: non poteva ignorarlo. Avrebbe tanto voluto farlo, ma il suo sesto senso gli consigliava di non farlo. Erano già successe fin troppe stranezze e non aveva intenzione di peggiorare la situazione.
-Midoriya?- lo chiamò ancora, convinto che non lo avesse sentito. Era un po' dubbioso, un piccolo broncio intristito rabbuiava il suo volto normalmente serio. Izuku sospirò, voltandosi poi a guardarlo. Quella sua espressione gli ricordò Ochako la mattina precedente -sei anni nel futuro- che lo aveva scandagliato da capo a piedi convinta che qualcosa fosse fuori posto in quel corpo tanto familiare. Entrambi sembravano aver intuito qualcosa, ma se da un lato Izuku era riuscito solo a deludere Ochako lasciandola annegare nei dubbi e nelle preoccupazioni, ora aveva intenzione di mantenere un comportamento vagamente normale con Shoto. Sarebbe stato decisamente più semplice, dopotutto con lui non ci sarebbero state strane implicazioni amorose o contatti fisici indesiderati: erano solo due amici, due amici adolescenti che parlavano perlopiù di scuola e tecniche di combattimento. Poteva farcela.
-Vuoi stare solo?- 
Quella domanda lo fece galleggiare per un istante tra i suoi pensieri. Sì, avrebbe voluto urlarglielo in faccia con una punta di panico a colorare quelle due semplici lettere. Voleva restare da solo a ragionare su ogni singolo, minimo e impercettibile dettaglio o azione compiuta che lo avevano portato a quel passato leggermente scostato dalla linea temporale che aveva vissuto sulla sua pelle, come i denti di una zip che non combaciano alla perfezione ma tentano comunque di chiudersi.
Più la cerniera sale, più i denti iniziano a incastrarsi, a sovrapporsi e a saltare. Era una reazione a catena: così come le scelte del suo passato avevano scritto il suo presente, gli errori commessi in ogni salto temporale si ripercuotevano in quello successivo.
-No-, rispose infine, secco, -Ti va di pranzare insieme, Todoroki-kun?-
Aveva dovuto forzare se stesso per non chiamarlo per nome. Non era ancora il momento.
Shoto strabuzzò appena gli occhi, sorpreso. Poi, dopo un breve silenzio -ci stava ragionando su, forse?- annuì con il capo. Si diressero in cortile, verso il primo tavolo vuoto che trovarono: era nascosto dietro un pesco ampio e verde, fatto che forse avrebbe regalato a Izuku quella privacy che tanto desiderava -e avrebbe impedito a qualsiasi persona di individuarlo e metterlo in difficoltà con ciance non volute. 
Aveva dimenticato il pranzo quella mattina, prima di uscire di casa. Sì, forse era un po' viziato, ma sua madre gli aveva sempre preparato un bento che gli lasciava sulla scrivania mentre era in bagno a farsi la doccia. Tuttavia, in quello strano passato distorto ciò non era accaduto, e si era dovuto comprare dei noodle mollicci e sciapi alla mensa scolastica. 
Quel pasto scadente lo faceva sentire in qualche modo arrabbiato. Lui, che era stato arrabbiato appena un paio di volte nella sua vita -e sempre per motivazioni molto valide, si intende. Si accigliò non poco mentre tirava su alla velocità della luce gli ultimi bocconi. Shoto gli lanciava qualche occhiata di tanto in tanto, quasi si aspettasse che dicesse qualcosa; qualsiasi cosa, ad essere onesti. Era troppo silenzioso per i suoi gusti.
-Dopo le lezioni i ragazzi volevano fare qualche allenamento extra. Sei dei nostri?-
Se possibile, Izuku si irritò ancor di più. Perché non comprendeva una singola parola di ciò che chiunque gli diceva? Chi erano i ragazzi? Shoto non si era mai espresso con quei termini. Il loro gruppo di amici era sempre stato uno: loro due, Iida, Ochako, Tsuyu... Sì, Izuku voleva bene a tutti nella loro classe e a molti della loro scuola, li considerava suoi amici e non aveva problemi a uscirci assieme, ma non aveva mai avuto il classico gruppo di amici maschi che passano il tempo a fare sport e, uhm... beh, non sapeva precisamente cosa facessero i gruppi composti esclusivamente da adolescenti maschi -anche lievemente iperattivi. Parlavano di eroi? Di ragazze? Di eroine -giusto per unire i due argomenti in uno-?
Era molto confuso, sì, confuso e irritato da tutta quella giornata impossibile.
-Ehm, giusto per sapere, i "ragazzi" sarebbero...?- glielo chiese così, con una punta di fastidio nella voce. 
Shoto non si scompose, ma si intuiva che nella sua testa qualcosa avesse iniziato a girare.
-I soliti. Kirishima, Kaminari, Sero, Bakugo... Forse anche qualcun altro- 
Gli ingranaggi ormai arrugginiti del cervello di Izuku si incepparono nel sentire quel nome: Bakugo. Una risata isterica gli uscì spontaneamente di bocca.
-Kacchan non mi vorrebbe mai presente. Credo tornerò a casa-
-Perché?-, la perplessità del ragazzo era sincera, -Tu e Bakugo siete migliori amici, da sempre-
Izuku non credeva che si sarebbe potuto sentire più sconvolto di quanto già non fosse. Tuttavia, Shoto stava davvero mettendo alla prova la sua infinita pazienza; o, forse, si trattava più che altro dei suoi nervi già incredibilmente tesi. Era al limite, non si sarebbe stupito se le sue orecchie avrebbero presto iniziato a fumare. 
La sua faccia stravolta parlava al posto suo.
-No grazie-, disse infine, le dita che sfregavano sugli occhi nel tentativo di calmare quel turbinio di emozioni negative, -Penso che tornerò a casa a riposare-
Non aveva intenzione di esporsi così tanto conoscendo così poco di tutto ciò che gli stava accadendo.
 
Tornato a casa, Izuku si chiuse nuovamente in camera sua uscendone solo per cenare; non parlò granché con sua madre, altro fatto alquanto insolito. Lei non gli chiese come fosse andata la giornata, non sembrava nemmeno allegra come suo solito. Le persone attorno a lui si erano trasformate e lui non capiva più cosa fosse reale e cosa no.
Ecco perché voleva trovare delle informazioni riguardo ciò gli stava distruggendo la psiche e la vita. Rivoleva indietro la sua vita, il suo presente, i suoi amici e la sua famiglia così come se li ricordava; non voleva quell'inquietante e cupa copia del suo vissuto.
In un certo senso, dopo quella giornata davvero strana, si sentiva violato in ciò che custodiva con più gelosia dentro di sé: i suoi ricordi. Ormai non credeva ci fossero più molti dubbi riguardo la causa di tutto ciò -non era pazzo, non stava male e non stava accadendo tutto per un malato scherzo del destino: era finito vittima di un quirk. Oddio, forse era davvero uno scherzo del destino, perché si trattava decisamente del quirk più assurdo che avesse mai visto. Era affascinato, spaventato e arrabbiato allo stesso tempo. 
Mentre era perso tra i suoi pensieri -e tra le sue ricerche su internet-, sentì il telefono squillare. Era Kacchan.
 
"Eri davvero molto strano oggi"
"Intendo più strano e idiota del solito"
 
Sì, dopotutto non poteva dargli torto, si era comportato in modo strano, ma non era proprio cosa da tutti i giorni venire sballottati avanti e indietro nel tempo senza cognizione di causa e dovendo fare i conti con tutte quelle assurdità che non appartenevano in alcun modo alle persone e ai luoghi che conosceva. 
Tuttavia, quei messaggi sembravano fin troppo sospettosi e quasi apprensivi per provenire da Katsuki Bakugo. Soprattutto il Katsuki Bakugo quindicenne rabbioso e rancoroso nei suoi confronti che ricordava; in un certo senso, quel tentativo di instaurare un dialogo con lui lo metteva un po' in difficoltà, pareva quasi che i loro ruoli si fossero invertiti.
Izuku lesse i messaggi, e digitò una risposta veloce: la cancellò subito, convinto che non sarebbe mai riuscito a farlo fesso con una scusa qualsiasi. 
Gettò il telefono sul letto in preda allo sconforto: finì per ignorare completamente qualsiasi altra notifica, sebbene il biondino tentò di chiamarlo e, in seguito, gli mandò una sequela di messaggi  abbastanza minacciosi e risentiti che facevano tutti riferimento alla sua, testuali parole, "stronzaggine".
Al diavolo. Izuku aveva trascorso tutta la sera a fare ricerche su quella sua assurda condizione e scoccata la mezzanotte era stato scosso da un brivido di terrore al solo pensiero di mettersi a dormire e risvegliarsi di nuovo chissà dove, chissà quando. Si era ripromesso di non incasinare le carte in tavola con altre persone, era vero, ma la stanchezza e la confusione interiore erano troppo forti per cercare ancora di tenere insieme i pezzi della sua vita sociale -di cui non sapeva praticamente nulla, tra l'altro.
Aveva passato la notte sveglio, prima al computer e poi davanti allo schermo del telefono una volta infilatosi sotto le coperte, nella speranza di trovare qualche informazione che gli avrebbe permesso di far chiarezza su tutta quella faccenda.
L'unica cosa che aveva compreso dai forum online che aveva spulciato era che il metodo migliore per trovare una soluzione ai suoi problemi prevedeva il trovare il possessore del quirk incriminato e farsi spiegare il meccanismo di inversione. Semplice a dirsi, sì, ma nella pratica che avrebbe dovuto fare? Ricordava a malapena che faccia avesse quel ladruncolo.
Sospirò alla consapevolezza di star passando la notte insonne; forse alla ricerca di risposte o, forse più probabile, nel ridicolo tentativo di non trovarsi nuovamente scaraventato in un momento casuale della sua esistenza al suo risveglio. 
Era spaventato, sì. Solo che gli era più comodo sotterrarsi sotto quella marea di pensieri che, per quanto collegati, gli riempivano la testa e non lo facevano preoccupare per altro.
Quando la sveglia sul suo telefono prese a suonare, Izuku teneva ancora il dispositivo tra le mani -a metà tra internet e qualche attimo di relax sui social. Si alzò dal letto ignorando l'emicrania che gli pulsava sulla tempia sinistra e si diresse in bagno per prepararsi. Stessa routine della mattina precedente, stessi sguardi di sbieco provenienti da sua madre, stessa sensazione di malessere mista a confusione.
Uscì di casa e si diresse con molta calma verso l'accademia. La stanchezza lo aveva colpito in piena faccia non appena l'afa estiva lo aveva avvolto da capo a piedi, fuori dal portone del suo palazzo.
Giunse in classe prima del suono della campanella, come il giorno precedente solo Shoto e Iida erano già al loro posto intenti a studiare. Li salutò con ben poca convinzione e si lasciò cadere al suo posto; Todoroki provò a chiamarlo, forse per chiacchierare, ma Izuku lo liquidò con una mano alzata come a voler dire "Lasciami in pace".
Il silenzio era quasi assordante, interrotto soltanto dal leggero vociare di qualche studente che passava per i corridoi. Le palpebre faticavano a rimanere aperte.
Dopotutto, avrebbe potuto giusto chiudere gli occhi per qualche attimo, almeno fino all'arrivo del professore. Poteva resistere all'impulso di addormentarsi, sì.
Posò il capo sul banco e sentì subito sollievo: finalmente i suoi bulbi oculari smisero di bruciare come annegati nell'acido. Rimase ad ascoltare il suo stesso respiro lento e regolare, lo tranquillizzava.
Si rilassò e si estraniò dalla realtà attorno a lui tanto che, a un certo punto, si addormentò.

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