Jungfrau

di Cladzky
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Assunzione ad Amburgo ***
Capitolo 2: *** Bighellonando per Amburgo ***
Capitolo 3: *** Il porto di Amburgo ***
Capitolo 4: *** Considerazioni ***



Capitolo 1
*** Assunzione ad Amburgo ***


Forse non fu il romanzo di Melville a spingere il signor Friederich su una baleniera,  ma certo lo portò a ribattezzarla "Jungfrau". L'acquistò a un prezzo risibile quando molti armatori di Amburgo convertirono le proprie flotte in transatlantici e servizi postali, seguendo il modello di Albert Ballin, e di un brigantino non ne potevano fare che legname. Presa il primo di Marzo, passò un anno preciso a rastrellare i porti della Lega Anseatica alla ricerca di mozzi, cuochi, falegnami, chirurghi, primi, secondi e terzi ufficiali e, soprattutto, ramponieri, mentre la nave veniva rimessa a nuovo nell'antico cantiere di Reiherstieg. La Jungfrau, infatti, era quasi un pezzo da museo, vecchia quanto lui, e giaceva ormai da tre anni, inutilizzata, attraccata sull'Elba a marcire. Il suo proprietario l'aveva ereditata dal padre, uno junker della vicina Prussia, che, come molti proprietari terrieri, era un tradizionalista per cui la caccia nell'oceano Artico non era che uno svago rimasto dall'epoca d'oro dell'industria baleniera tedesca del diciottesimo secolo, prima che il blocco continentale imposto da Napoleone l'affondasse e ora fosse occasione buona solo come rito di passaggio per i propri figli e svago per questi ultimi, più interessati a procurarsi pellicce di foca e visitare la Scandinavia.

La ricerca stessa dei marinai si dimostrò un problema, perché, di gente disposta a veleggiare i mari della Norvegia, non se ne trovava ora che le crociere necessitavano di molto più personale e avevano destinazioni meno inospitali, come New Orleans, oltre che una paga salariale invece della incerta divisione dei profitti di una baleniera. Certo avrebbe potuto procurarsi tutta la manodopera di cui aveva bisogno se avesse varcato i confini della Danimarca e assunto i primi marinai di ritorno dalla Groenlandia che vedeva, con i loro bei carichi di grasso delle grasse balene franche, ma era una questione di orgoglio nazionale. L'intero scopo della spedizione, aveva detto, era di ravvivare il mercato della baleneria tedesca. Ma dove trovare allora un equipaggio disposto ad accompagnarlo nel clima più rigido di tutta la terra? Dove trovare ramponieri per arpionare cetacei in un popolo che, per quarant'anni, aveva infiocinato solo trichechi e orsi polari? Questa era la summa di quanto avevo sentito e, in virtù di questa disperazione, mi convinsi di avere buone possibilità di essere assunto.

Mi presentai all'indirizzo segnato dalle inserzioni e dapprima pensai d'essermi sbagliato quando mi trovai a camminare lungo il verde riflesso di Bleichenfleet. Attraversai il Postbrücke, mi trovai sull'affollata Poststraße e fronteggiai la facciata rinascimentale italiana del Postgebäude. Forse me lo sarei dovuto aspettare che dopo un ponte, una strada e un palazzo dedicato alle poste, sarei finito davanti a degli uffici postali, ma mi ero tanto aspettato di andare incontro all'armatore di una flotta che credetti la toponomastica puro anacronismo per ragioni storiche, giacchè in fondo molti edifici vengono riadoperati senza tuttavia cambiare loro il nome. Quando le basiliche romane furono tramutate in chiese nessuno smise di chiamarle a modo, così la reggia reale di Versailles rimase tale con l'abolizione della monarchia, divenendo un magazzino e la porta di Brandeburgo non è tutt'oggi simbolo di pace, benché edificata alla vigilia dei più sanguinosi teatri d'Europa? Ad Amburgo, poi, non avevo messo piede da quando la mia famiglia si era trasferita una ventina di leghe a nord-ovest su per il delta dell'Elba e affacciandosi al mare dei Wadden, poco prima del grande incendio, quando ancora non avevo dieci anni; la pianta era dunque completamente stravolta. Basito, guardai nuovamente il ritaglio dell'inserzione, ma diceva la stessa cosa, esortandomi perché salissi al secondo piano. Esitai. Nonostante la chiarezza di quelle lettere mi raccapezzavo a trovare una soluzione. E se ci fosse un indirizzo omonimo? Ma non potevano esserci un ponte, una strada e un palazzo dal nome uguale. Mi sentivo messo alla prova ancor prima di incontrare il mio datore di lavoro. La città era troppo complicata per uno come me. Piombato com'ero, mi smosse uno scalpiccio di ferri sul lastricato. Un passo in avanti e per poco non mi abbatteva il petto irto e caldo d'un bel baio che si limitò a sbuffarmi sui capelli, spettinandomi per sfregio, ondeggiando i labbroni su quei denti piatti fin troppo vicini ai miei occhi sgranati.

"Scusatemi" Fu la prima cosa che proferii nel momento stesso della rotazione, alzando le mani.

"Al diavolo le vostre scuse, guardatevi intorno, idiota" Proferì amorevolmente il cavaliere, un signorotto sui quarant'anni ben piazzato di spalle e rasato a liscio, con tutti i capelli ancora al proprio posto esclusa la stempiatura a punta, smontando con un salto e dandomi uno spintone per far spazio a un lacchè sbucato dal nulla a cui porse le redini. A sentirmi rimbrottare come faceva mio padre, feci quanto detto e mi vidi in mezzo a un buco di folla ben ampio per aggirarsi in sella ed ero abbastanza sicuro che la via fosse libera anche prima. Ridestato dallo scalpiccio di prima, a cui i riflessi si erano ora abituati a prestare attenzione, mi rimontò un senso d'orgoglio di esistenza che l'educazione non m'aveva mai estinto. Del signorotto vedevo solo la schiena, ammantata d'una bella giacca viola ricamata, e gli corsi dietro. Tentai la via diplomatica.

"Non vi avevo sentito…"

"Non ho tempo per le moine" Controllò, senza fermarsi, un orologio tirato fuori dal panciotto, legato a una cordicella d'argento.

"Anche voi, però…" Gli gridai dietro vedendolo aumentare il passo, temendo di perderlo una volta varcato l'arco gotico degli uffici in mattone rosso.

"Io cosa?" Si voltò di scatto, alzando un sopracciglio folto, che quasi sfiorava le basette, fermandosi nel mezzo di una falcata.

"Con tutto lo spazio che c'era…" Suggerii un'accusa.

"Sono anni che scendo in questo punto preciso ogni mattina alle sei e non intendo cambiare abitiduni per uno come voi" La sua condensa si fece quasi opaca in quel freddo mattino di Febbraio, puntellando ogni sillaba con un indice sul mio sterno.

"Anche al costo di investirmi e…?"

"E lo avrei fatto se non aveste avuto la buona creanza di togliervi dai piedi!" Sbraitò, agitando i pugni e voltandosi nuovamente.

"Voi non potete permettervi di parlarmi sopra" Ma, ciò detto, già aveva varcato le porte ornate di vetrate e rilevi lignei. M'infilai tanto ratto che ancora non s'erano richiuse al suo passaggio. Ci trovammo nel salone d'ingresso pavimentato di pietra riflettente a passare sportelli di servizio mezzi deserti "E neppure di ignorarmi!"

"Volete ancora discutere per questa sciocchezza?" Replicò, svoltando per un corridoio disseminato di stampe.

"Voi mi avete quasi investito in mezzo a una strada sgombra."

"Come se vi foste fatto male" Sbuffò, agitando ridicolmente la testa dai capelli pettinati in cornini.

"E dato dell'idiota".

"Data la mia posizione non è un insulto, è una valutazione" Imboccò una rampa di scale coperta di velluto.

"E mi avete parlato sopra e ignorato."

"Magari mi sono anche fatto vostra madre, così si spiegherebbe la vostra ossessione nei miei riguardi."

Ingoiai prima di terminare, che tutto questo movimento rendeva difficile proseguire linearmente con il tono.

"Prima mi sono scusato, ma ora mi rendo conto di una cosa".

"Che vi siete fatto due piani solo per farvi scaraventare di sotto?"

"Che siete voi a dovermi delle scuse."

"Questa poi!" Si fermò un attimo sul pianerottolo, sbalordito, prima di mutare nell'ilarità e di nuovo accigliarsi, stirandosi la giacca "Ma lo sapete chi sono io?"

"Uno che dovrebbe fare più attenzione a dove mena il proprio mulo" Gli piantai un indice di rivalsa sul naso aquilino, aspettandomi un imminenete manrovescio da quanto si era indispettito.

"Ma come osa toccarmi, uno come voi, e pretendere anche delle scuse?"

"Non le merito, forse?" Posi i pugni sui fianchi. Lui mi squadrò da capo a piede e abbozzò un sorriso.

"Figurarsi!" E sparì dietro un'altra porta. Lo seguì in una sala d'attesa e altri banconi ancora, di un ufficio telegrafico "Uno come voi che cerca scuse da me."

"Non sono forse un uomo come lei?" Insistetti, affiancandolo, pur sapendo già la risposta.

"Ma mi faccia il piacere, vestito com'è!" Attraversò un ultima porta, che dava su uno studio ordinato, e appese la sua giacca viola all'attaccapanni in rococò. Io c’affissai il mio fagotto di stoffa "Per non parlare di quel suo bizzarro accento."

Mi guardai un momento il maglione rosso che indossavo da fin troppi anni, mi tastai il mento poco curato ma mi riaggiustai la visiera del berretto per tentare un'ultima carica.

"Sono un rispettabile cittadino anch'io".

"Non certo di Amburgo" Alludette,  facendo il giro di una vasta scrivania e sprofondando nella poltrona in cuoio.

"No, di Cuxhaven" Portai fuori il petto coperto di lana. Lui trattenne a stento una risata e fallì nell'accendersi una pipa da quanto gli fremeva la mano.

"Ora si spiega tutto, certo, quel villaggio di servi scappati alla gleba. Se ad Amburgo dovessimo portare rispetto per stranieri come voi, perderemmo il tempo a scappellarci anche per i gabbiani. Dopotutto fate lo stesso mestiere, no?"

"Si dia il caso" Mi sporsi con ambo le mani sulla sua scrivania, schiacciando le scartoffie che l'affollavano "Che Cuxhaven è un paese di pescatori che lavorano sodo, autosufficienti, indipendenti e fieri di esserlo."

"Io so solo" Replicò, muovendo le labbra lentamente, ormai persa l'aria bonaria precendente "Che da Amburgo sta per partire una baleniera, mentre a Cuxhaven stanno ancora a scagliare le pietre per tenere a bada le focene."

"Sappiate che quella baleniera avrà a bordo un marinaio da Cuxhaven." Mi strofinai le nocche sul maglione. Il signore quasi mandò di traverso la tirata di tabacco.

"E voi come lo sapete?" Chiese che gli si rizzavano le corna dei capelli dalla curiosità.

"Sono giunto in questa città apposta per arruolarmi nell'equipaggio del signor Friederich" Quasi mi sedetti sulla scrivania dalla baldanza.

"Sì, per fargli da polena" E si diede uno schiaffo al ginocchio. Digrignai i denti, ma trovai la situazione ridicola e infantile, buttando un occhio sulle strade sottostanti alla sua finestra. Non eravamo forse adulti con cose migliori a cui pensare?

"Siete fortunato che sia un gentiluomo, feudatario che non siete altro" Mi rassettai i vestiti, specchiandomi in un paesaggio dipinto sotto vetro.

"Altrimenti cosa, pescatore di salmastro?" Ringhiò di sfida lui, abbassando la pipa, dall'altro capo della stanza, già che avevo recuperato il sacco e spalancavo la porta.

"Altrimenti vi darei l'unica lezione dimenticata da vostro padre" E la sbattei uscendo. Fermai il primo impiegato che passava con aria assonnata, portante degli schedari sotto braccio "Ehi, voi."

"Volete mandare un telegramma?"

"Non ho idea di come funzioni, ma può mandarlo al signor Friederich Meyer?"

"Quel Friederich Meyer?"

"Quello della baleniera, aveva detto di presentarmi qui."

"Cosa gli devo riferire?"

"Che ho seguito l'indirizzo lasciato dall'inserto e mi sono ritrovato in un ufficio postale."

"Credo che non serva un telegrafo per questo. Come vi devo annunciare?"

"Sono il nuovo ramponiere, Johannes Fischer."

"Allora mi segua" E ci dirigenmo verso la stessa porta da cui ero appena uscito. Solo ora notavo i caratteri d'oro della targhetta in cima. L'impiegato bussò tre volte, attese la risposta d'una voce cavernosa e mi aprì, rimettendomi faccia a faccia con il viso corrugato di Friederich Meyer, che aveva appena alzato gli occhi azzurrini di lampo dopo aver sistemato i fogli che gli avevo disfatto. Il terzo uomo si schiarì la voce "È arrivato il signor Johannes Fischer per l'offerta da ramponiere, signor direttore."

"Gli uffici sono ancora chiusi, ma prego, accomodatevi, rispettabile cittadino" Mostrò i denti fino a scoprire le gengive.

"Voi sareste il proprietario della Jungfrau?" Inghiottì un fiotto e puntai il dito tremante.

"E il suo nuovo datore di lavoro, a detta sua".

Che terribile, terribile burla. Lo diceva bene, il mio cervello, di cercare la trappola in quell'indirizzo. Lasciai cadere l’involto, con cautela, sul pavimento.

"Io non ho detto quelle cose per offendervi" m'impasticciai le parole nello strofinare un piede sulla gamba e grattandomi un orecchio.

"Sono certo anch'io che volevate solo fare il modesto a proprorvi solo come ramponiere."

"Certo, è una gran bella coincidenza" Cercai di ridere, sperando che stesse trovando l'assurdità della situazione divertente "E io che credevo di essere giunto nel posto sbagliato."

"A cercar le grane si finisce sempre al posto giusto" Esalò un fumo da vaporiera dietro la pipa intagliata.

"Suvvia" smanacciai per aria "Non intenderà mandarmi via per un disguido sulla precedenza."

"Oh no, dopo una tale dimostrazione sarebbe d’uopo investirvi capitano di tutto il brigantino."

"Vi prego, smettetela di prendermi in giro", feci per indietreggiare, tirandomi giù il cappello per far prendere aria alla mia testa rossa “Non merito questo giudizio.”

“È già tanto che non vi denunci.”

"Sono fuggito di casa a bordo di un traghetto per tutta la notte prima di arrivare qui. Non vedete quanto io ci tenga a quel lavoro?"

"È così divertente vedervi strisciare quando vi rendete conto qual è il vostro posto" Fece la smorfia del sorriso di si crogiola nel mangiare acido. Alzai il capo tanto forte da perdere un attimo la vista e compii grandi passi ciechi verso il despota.

"C'è stato uno spiacevole incidente" Supplicai prima di riacquistare la voce e interrompendo il tremolio delle mie ginocchia "Ma ciò non cambia che io abbia le competenze per salire sulla vostra nave."

"Di attaccabrighe che pretendono rispetto pur parlando dal fondo della scala sociale ne ho fin sopra i capelli" Scosse la testa, prima di soffiarsi il naso con un panno ricamato delle proprie iniziali. Procedette a studiare una striscia di carta appena giunta e rispondere a sua volta premendo a intermittenza il pulsante del proprio telegrafo personale "E ora aria, o finirete per mettervi a litigare anche coi clienti."

Mi morsi il labbro. L'impiegato provò a prendermi per un braccio e questo ennesimo insulto mi fece disinteressare a ulteriori conseguenze. Me lo scrollai di dosso e avanzai nuovamente, sbattendo il pugno sulla superficie di pino.

"Voi mi scacciate solo perché ho osato non farmi calpestare da un borghese come voi, senza neppure darmi la possibilità di mostrarvi che so fare. Certo, potrei dare lezioni sul mare quando ne ho voglia a un signorotto come voi che sogna di fare l'armatore per noia!"

"Franz, perché non ci lasci in colloquio con il signor Fischer?" Si girò i pollici il direttore, osservando quieto, l'impiegato, chiudersi dietro la porta alle mie spalle "Perché invece non cominciamo dalla lezione che mi avevate promesso?"

"Temo di non ricordare" Lanciai il cappello sul bell'attaccapanni rococò.

"Quella che mio padre si era scordata" Si sbottonò il panciotto fino a posarlo sulla poltrona. Frattanto stavo sfilandomi il maglione, rimanendo in canotta e poggiandolo su di una vetrinetta. Prima che me ne rendessi propriamente conto, quell'orso aveva scavalcato la scrivania e mi aveva assestato un diretto destro, caricato da in fondo lo studio. Volai all’indietro, incespicai nel mio stesso bagaglio, schiacciai contro la porta e giù seduto a terra sul tappeto persiano. Mi alzai senza fretta, tastandomi la mascella e smuovendo la lingua, schiacciato al muro.

"Ora che me lo fate presente vi avevo proprio promesso una lezione."

Si avvicinò a passi pesanti sul legno e subito partì di gancio sinistro, mi chinai, sentii l'aria sulla nuca e vidi scattare un altro diretto destro. Lo deviai, scorticandomi, col mio braccio sinistro e risposi di montante allo stomaco che lo piegò appena, il tempo d'un secondo al mento, che lo scapigliò dal contraccolpo e un diretto destro di mia foggia che lo rispedì da dove era venuto, capitolando all'indietro sulla scrivania e quasi rimettendosi seduto.

"Fatemi il piacere di non scordarla" Feci già per riprendere cappello e maglione che un'ombra mi ottenebrò. Voltandomi, lo vidi in cima al mobile, in contrasto con la finestra, prima che mi saltasse addosso con ambo le suole.


***


Quando gli schiamazzi cessarono, l'umile segretario, aprì di nuovo la porta, nella speranza che il suo capo avesse concluso con le percosse per dedicarsi a faccende più serie. Si ritrovò due uomini, un livido solo, che si circolavano come tori dalle corna alzate, ma non si scambiavano più insulti.

"Devo riconoscere che possedete una discreta forza d'animo" Continuò il direttore.

"E anche un bel destro" Aggiunsi prima di fargliene incassare un altro dei suddetti, solo per vedermelo sparire come una talpa, infilarmi la testa fra le gambe e ribaltarmi sopra le sue spalle con un tonfo che fece piegare le assi del pavimento.

"No, su quello avete ancora da lavorare" Ebbe il fiato di dire prima che glielo mozzassi, piegandomi a rospo e torpedinandogli una craniata sotto il diaframma.

"Signor direttore, vi prego, finirà per farsi male" Lo strappò al mio strangolamento quel santo protettore. Quando riprovai a tirare il collo a Friederich, fu lui la barriera che me lo impedì, sdrucciolando i tacchetti sul pavimento "E voi, signor Johannes, comprendetelo, il mio capo è un uomo dai modi rustici. Dopotutto si reca ancora in ufficio come un mandriano."

"Signor Franz, non vi permetto questa confidenza in presenza di ospiti" Lo rimproverò seccato il padrone, spolverandosi la camicia stropicciata, rendendosi conto che gli era saltato un bottone.

"Ora sarei un ospite!" Sputacchiai, recuperando il maglione in una mano e il berretto nell'altra, voltandomi solo per lanciargli un'altra occhiata di bragia "Ma non preoccupatevi, rimuovo la mia presenza immantinente, ora che mi son levato una gran soddisfazione mia e del sangue  voi."

E già solcavo gli stipiti che un vocione mi ritrasse dentro.

"Un momento, signor Fischer!" Friederich stava già facendosi riagganciare il panciotto dal segretario, ma gli riusciva difficile non corrermi dietro.

"Non volevate che sparissi?" Scossi le spalle strette, nuovamente avvolte nella lana. Il direttore si scrutò in fretta l'orologio da taschino prima di rispondermi.

"Forse vi ho giudicato male."

"Intendete chiedermi scusa?"

"Intendo che siete un soggetto interessante."

"Non sono più un bifolco di Cuxhaven?"

"Non mi fraintenda" Si risentì, sfilando davanti una libreria chiusa dietro pannelli di vetro che arrivava fino al soffitto. "Io sono un platonista e credo che ogni essere umano nasca nella propria casta  sociale."

"E voi siete al vertice per diritto di nascita?"

"Non lo prova quanto è florida la mia attività?" Allargò le braccia il signor Friederich, ingrossando il petto e stirando la camicia nell'atto di girovagare per lo stanzone addobbato pacchianamente.

"Siete un calvinista, per giunta" Aggiunsi ciò alle ragioni per cui trovavo detestabile quest'individuo, levando con un dito la polvere dal naso del busto scuro di suo padre.

"Voi no?" Si strinse il farfallino, allentato nella sommossa.

"Per carità, la mia famiglia non ha mai creduto in alcuna predestinazione" Mi rimisi il berretto con un movimento ridicolmente teatrale. Non volevo passare un minuto di più in quella gabbia di matti.

"Perché non volete ammettere le ragioni della vostra condizione” Borbottò come volesse farlo a bassa voce, ma sapevo di essere sentito. Credevo avesse esaurito le offese e invece ne prestigiava una inedita dalle maniche ogni volta, abbastanza per tenermi lì per il gusto di difendermi.

“Perché crediamo che un uomo non è altro che le azioni che compie” Mi battei un pugno sul petto pur di confermare la mia materialità. Vidi un guizzo di compiacimento atteso nei bulbi vitrei di Friederich.

    “Anche noi teniamo in alta considerazione le azioni, ma non in esse stesse” Precisò alzando un dito e facendolo volteggiare, abbassando il mento e distogliendo lo sguardo, adottando un tono paternalistico “Giacché niuno si crea da solo, ma distinguono le genti in gruppi umani. Agiamo in base a come siamo stati creati.”

    “E questo vale anche per il qui presente Franz, suppongo” Lo tirai in ballo annuendo, con un suo fugace disappunto, rovinandogli un così bello spettacolo dall’esterno.

    “Franz svolge a dovere il compito per cui è nato” Rispose come fosse una cosa naturale.

    “Ovvero un servo?”

    “Comandare non è certo nel suo sangue, ma è virtuoso nondimeno.”

    “Ma senti questo” Voltai lo sguardo al segretario, impassibile a mani giunte dietro la schiena “Come puoi lavorare per uno che ti considera un essere inferiore?”

    “Il mio compito non è quello di essere d’accordo o meno con il direttore” Fu il laconico lamento di cui ignoravo se l’origine fosse la sua condizione o la mia solidarietà non richiesta.

    “Franz è perfettamente felice nel suo habitat naturale” Annuì Friederich “Ma voi no, non è vero?”

    “Insomma, dove volete andare a parare?” Sbraitai, stringendo i pugni “Datemi un motivo per non sfuriare fuori a questa stanza piuttosto che sentirvi blaterare.”

    “Mi ascolti bene” Salì l’eco cavernosa di quello che già gli occhi azzurrini lampeggiavano della sua mente contorta, puntandomi un dito fermo sulla mia figura “Ho detto di essere un platonista e lo sono fino in fondo, come Calvino prima di me, e  se lei avesse letto La Repubblica, saprebbe che gli uomini sono divisi in gerarchie, è vero, ma non tutti gli uomini nascono nella loro casta di appartenenza, uomini infelici nelle loro posizioni perché nati per scopi differenti. Voi, signor Fischer, sembravate proprio uno di poco conto, ma più parlavate e m’assillavate e m’assalivate, più mi rendevo conto che c’è qualcosa in voi. Un senso di caparbietà, spirito indomito, orgoglio non comuni fra i suoi simili.”

    “Volete dire che…” Stentai un attimo a credere.

    “Che mi scuso per non avervi riconosciuto per quello che eravate, non un semplice pescatore di Cuxhaven.”

    “Ora mi date delle scuse” Stemperai l’eccitazione invano alla nuova prospettiva “Quindi mi accettate come ramponiere?”

    “Non corriamo, potrei sbagliarmi” Si grattò il mento “Avete mai adoperato un rampone?”

    “Sicuro, o non sarei qui apposta.”

    “Ma davvero?”

    “Donde vengo cacciamo focene, ma non a sassate.”

    “Certo, quelle vi servono per spingerli sulla battigia, ove li sgozzate.”

    “Errate. Io di persona salgo sulla barca di mio padre per scagliare il dardo e li colgo che volano ancora sul pelo dell’acqua.”

    “Credevo che giovani tedeschi come voi si fossero estinti.”

    “La competizione è dura nel mare del Nord, bisogna reinventarsi.”

    “E avreste il coraggio d’infiocinare una balena?”

    “Sarà certo più facile, grandi come sono.”

    “Oh, ragazzo mio” E mi venne incontro per abbracciarmi, ma rifuggì alla sua stretta, lasciandolo con un'espressione attonita a stringere l’aria.

    “Non correte anche voi” Strizzai gli occhi e inclinai il cranio “Prima voglio sapere sulla nave di chi vo imbarcandomi.”

    “Siete cieco, forse?” Si puntellò le dita al petto.

    “Non fate lo spiritoso” Schioccai la lingua “Perché mai il direttore di un ufficio telegrafico vorrebbe finanziare una baleniera?”

    “Non ho il diritto di diversificare i miei investimenti?”

    “Investimenti!” Roteai gli occhi a una motivazione tanto veniale “Crede davvero di rientrare nei guadagni?”

    “Dato il mio patrimonio posso pure permettermi di non farlo” Si ricacciò la pipa perlata in bocca, preparatagli dal suo fedele, accesagli pure da quest’ultimo con un fiammifero svedese in fosforo rosso.

    “Non è altro che un modo per far parlare di voi, vero?”

    “Ma insomma, lo volete il lavoro o no?” Friederich non ebbe il tempo di esalare un alito di fumo.

    “A voi della baleneria non importa nulla” Sollevai il fagotto con un piede e lo presi al volo. Mi grattai la tempia “Vi piace l’idea che qualcuno vada ai confini del mondo per vostro conto, solo per poter dire di non essere un capitalista come gli altri.”

    “Voi non sapete niente di me e sono stanco delle vostre insinuazioni” Agitò un momento le braccia e le gote prima di ricomporsi “E che si dovrebbe dire di voi? Non è ipocrita accusarmi quando voi stesso partite solo dietro promesse di compenso?”

    “Avrei potuto continuare a pescare focene nel mare dei Wadden, o industriarmi in qualunque altro modo e invece mi trovate qui.”

    “E perché, vorrei sapere? Cosa vi spinge a imbarcarvi sulla mia nave per mesi a non finire, a spingervi oltre l’Islanda, fino alle Svalbard e nel circolo polare? Considerate un gioco la caccia alle balene? Dove sono le prove che voi teniate alla baleneria?”

    “Volete le prove” Gli gridai, scoprendo l’involto di stoffa, una delle poche cose portatemi da casa “Ed eccole!”

    La stanza parve illuminarsi quando il bianco manico intagliato venne svelato e la nera punta in ferro battuto fu l’ultima parte a essere scoperta del drappo. Alzai al soffitto l’arma e quasi mi stupii io stesso di che bella fattezza era forgiata. Gli occhi azzurrini di Friederich si erano sbiancati e non riusciva a chiudere la bocca del tutto.

    “Un rampone eccezionale” Dovette ammettere Franz con un sussulto, che fu più di quanto sorpreso io l’abbia mai visto.

    “Quello è…” Balbettò l’armatore.

    “Osso di balena” Strinsi a due mani lo strumento tanto caro, tanto forte che le mie dita divennero pallide quanto la presa “Una mandibola e non una qualunque, ma del più grande leviatano dotato di denti su questa terra.”

    “Non posso crederci, un capodoglio?” Strabuzzò gli occhi Friederich “Come l’avete ottenuto?”

    “Mio padre, signore, mio padre era un ramponiere prima di me” Osservai il pungolo nero, così ruvido nella sua lavorazione grezza. Chiusi gli occhi “Lui mi ha insegnato tutto quello che so in proposito.”

    “Signor Fischer” Fui strappato ai ricordi dalla suadente voce di Franz, con mia sorpresa. Se ne stava lì a studiarmi senza rompere il contatto visivo “Oltre questo avete ereditato anche le sue capacità?”

    Me ne stetti lì un momento, sorpreso di essere sfidato proprio da lui. Guardai in giro per la stanza e lì, alle loro spalle, vidi una grossa stampa delle loro linee telegrafiche mappate in vari colori su tutta la regione circostante. Presi un gran respiro, richiamai tutta la forza nel braccio e piazzai bene le gambe. Ruotai il rampone in posizione di lancio e feci qualche passo verso i due, ritraendo indietro l’arma di fianco l’orecchio.

    “Ferma, che volete fare?” Si scansò goffamente il direttore per togliersi dalla traiettoria. Franz non mosse un muscolo, se non il sopracciglio e seguì il movimento della fiocina liberata dalla mia mano. Passò sopra la sua testa di un metro e si piantò, oltre la mappa e la carta da parati, nel legno sottostante con un tonfo. Friederich sbucò dal suo angolo ed era sul punto di urlare, se non avesse visto prima il risultato.

    “Allora, l’ho centrata Amburgo?”

    Il padrone sbuffò, abbassando le spalle e voltandomi un viso troppo nervoso per mostrarmi soddisfazione.

    “Voglio vedervi fare la stessa cosa su una lancia in movimento.”


***


    Non spenderò parole sull’imbarazzante sforzo di estrarre il cimelio di mio padre dal muro e, in completa franchezza, ero rimasto impietrito anch’io, con un’espressione beota, a temere di aver esagerato, ma i due mi accompagnarono fuori dalla stanza con un secondo indirizzo, stavolta ben più familiare del primo e di presentarmi lì domani sera. A quanto pare avevo fatto appena in tempo. Forse sarei dovuto uscire in fretta, ora che gli uffici circolavano di clienti che spedivano e ricevano raccomandate, in mezzo a cui figuravo non poco, vestito non dissimile dalle mie uscite in barca e con una fiocina avvolta alla bell’è meglio dietro la schiena, ma gli ultimi eventi mi avevano scosso parecchio da come si erano rivoltati in così poco tempo. Ero giunto lì per un lavoro, mi ero inimicato il mio capo prima ancora di conoscerlo, ci avevo fatto a pugni e infine lo avevo ottenuto per davvero quello che cercavo. Mi considerai fortunato, per quanto lo detestassi, d’avere un individuo tanto bizzarro come armatore, perché dubitavo che la mia esibizione avrebbe convinto chiunque altro. E stavo lì a riflettere, davanti la targhetta che recitava, a caratteri d’oro, il nome del direttore, che, fra uno schiamazzo e l’altro dei clienti, sentivo salire la voce sommessa di lui, oltre la porta.

    “Finirete per ammazzarvi prima ancora di partire, voi due.”

    “Oh, amico mio, lo sai che io cerco sempre brutte notizie.”

    “Allora mi spiace deluderti, ma le nostre quotazioni sono rimaste invariate.”

    “E l’appalto per il circuito di Lubecca?”

    “Lo abbiamo vinto.”

    “Qualcosa di negativo dev’essere successo. Forse Samuel Morse vuole ritirarci l’esclusiva.”

    “Tutt’altro, dice che siete il suo miglior usufruitore.”

    “Non c’è nulla da fare, questa società camminerebbe anche se non facessi alcunché. Speravo che vendere le terre di famiglia mi avrebbe rimosso dalla noia esistenziale e invece sono caduto in un investimento sicuro acquistando questo maledetto prodotto americano. L’America, oh Franz, quanto invidio la spensieratezza di quei piccoli Stati Uniti che hanno ancora una storia davanti e neppure cent’anni alle spalle. La Germania, invece, era già vecchia ai tempi di Ottone il grande e rimugina nella sua stagnazione da troppo tempo. Come vorrei qualcosa che scuotesse le cose, che sradichi le certezze e invece regnano tradizioni secolari, famiglie storiche che non hanno niente da temere, forti dello sforzo dei propri avi. Dio non mi concede pena e così mi da quella più grande. Franz, fratello mio, checché io lo nasconda, sono sempre uno junker.

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Capitolo 2
*** Bighellonando per Amburgo ***


    Mi rendo conto che nel capitolo precedente vi ho parlato della storia di Amburgo, ma non di Amburgo in sé e volevo restituire appena un po' di quell'atmosfera urbana che trovai in quell'amica d'infanzia ma che, come molte amiche appunto, se non le stai dietro crescono e indietro ti ci lasciano. Perché le città, come molte donne, non si adattano all'uomo, sebbene sia lui a darle ciò di cui abbisognano, sapendo che altri ne verranno. E molti uomini erano venuti ad Amburgo negli ultimi tempi! Ad ogni ora del giorno le strade brulicavano di gente affaccendata: Lungo il Nikolaifleet dei barili di whisky irlandese venivano scaricati tramite argani dal loro battello, mentre già si ormeggiava alle gomene un altro, carico d'olio di balena, rigorosamente da azienda danese. Chi non era al porto, a specchiare il suo muso indurito dal lavoro nel vitreo Alster, da cui saliva una nebbia febbrile che ingrigiva l'atmosfera, era ai magazzini adiacenti, a stipare lana inglese, desideroso di contorcevi dentro dal freddo che trapassava l'ossa. Pure i gabbiani rabbrividivano avvolti nelle loro stesse ali, abbarbicati sui piloni. Camminando sotto le facciate di quelle case tanto strette e alte, accorpate senza respiro l'una accanto all'altra, recentemente rimontate in mattoni rossi vivaci, mi riaffiorarono dalle acque, gelide quanto il canale sottostante, immagini d'infanzia,  di dolcezza, giochi, corse e amicizie avvenute in quei vicoli, ghiacciati in essi come statue che la mia memoria scolpiva vivide, esposte sul pietrame dei moli.

    Me ne stetti ancora un poco, offrendo il viso al vento, mani in tasca e fischiettando un vecchio motivetto del mio paese, come una vedetta al parapetto dell'Holzbrücke, guardando ad est i battelli arrivare e partire, scaricare e caricare, affondare e alzarsi. Come era quieta la vita di quei marinai d'acqua dolce: Sui fiumi non ci sono tempeste, scogli o correnti improvvise. E quanti ne avrei visti invece io, che in vita mia non mi ero mai spinto oltre una lega dalla costa, sul peschereccio di mio padre, e ora mi ero aggiudicato un bel viaggio in mezzo i fiordi della Norvegia, a millecinquecento chilometri e più da dove mi trovavo ora. Ma era per questa disperazione che mi ero offerto per il posto. Spesso in ciò che ci spaventa si nascondono i nostri interessi. Decisi infine che, anche provandoci, non si poteva fare guardia migliore agli scaricatori di porto di quanta non ne facesse già da centonovantacinque anni la guglia barocca di santa Katharinen e, ripreso il fagotto, lasciai il quartiere di Speicherstadt, affondando nella folla.

    Amburgo era cresciuta. Si era svestita dei suoi panni da bambina insieme alle sue mura medievali per cingersi con collane di tralicci telegrafici. Niente più assedi e battaglie coi soldatini per lei, né barchette di carta spinte verso il polo, solo investimenti sicuri, come testimoniavano i miti visi che entravano e uscivano dall'ingresso colonnato della camera di commercio dietro il municipio. Avevo risalito a nord, fino a sostare ancora per Adolphsplatz, rimirando l'Handelskammer Hamburg in tutta la sua austerità regale, bassorilievato di riflessivi visi storici e dée della fortuna. Una larga balconata dava sulla piazza e mi chiesi se mai qualche azionista si prendesse il tempo di aprire quei gran portoni in vetro e ammirare il profilo della città da lassù. Diedi un occhio all'orologio montato sull'ala destra, ma era ancora presto pure per mangiare. Per quanto mi sforzassi di stare tranquillo nel mio bighellonare non ci riuscivo, pur non avendo nulla da fare e forse era questa la causa. Quando sono libero la mia testa pensa e quando penso troppo mi ricordo del passato e quando penso al passato ricordo ogni mio sbaglio e quando ricordo gli sbagli analizzo gli sbagli e quando analizzo gli sbagli vedo tutto come uno sbaglio. Chissà che strazio avevo dato ai miei genitori, barcamenandomi per questa disgrazia furtivo come un ladro e lo ero davvero perché li avevo privati della loro serenità che si deve agli anziani. Non lo erano ancora, certo, ma lo sarebbero stati e chi si sarebbe occupato di loro se non il primogenito? Partivo anche per questo, mi dicevo quasi a convincermi, parto anche per loro, per tornare a versare ogni marco nelle loro tasche, abbastanza da dargli una pensione tranquilla, lontani dal lavoro. Nel frattempo, per quei mesi, un anno che mancavo, le mie sorelle avrebbero badato a loro. Erano ragazze di buona lena, appena più giovani di me, che già lavoravano. Bianka, aveva diciassette anni e da quando ne aveva quattordici si dava da fare per Cuxhaven, imparando a intrecciare reti da pesca, grattare cirripedi dalle chiglie e riparare le barche. Già aveva espresso il desiderio di farsi insegnare a pescare e ora mio padre sarebbe stato costretto ad accontentarla. Erano in buone mani per ora. 

    E se non fossi tornato? Di marinai morti ce n'erano in ogni famiglia del paese e se gli europei avevano abbandonato la navigazione nell'Artide un motivo c'era, solido come la calotta in cui si erano incagliate l'Erebus, e la gemella Terror, qualche anno fa. Se fossi assiderato, morto di scorbuto o divorato dai mostri marini, chi ci avrebbe pensato alla famiglia? Ero l'unico figlio maschio. Fuggivo a tali pensieri, prima con la statistica. Per un marinaio che muore cent'altri ne tornano, anche se non sarebbe stato carino essere proprio l'uno su cento. Ma io non ero un idiota, per quanto Friederich avesse detto il contrario, dovevo solo ascoltare e tenere gli occhi aperti, imparare il mestiere come un altro. E poi non era anche questo da che fuggivo? L'obbligo familiare? La monotonia paesana? Il mondo ristretto? Ora fuggivo a piedi, tornando da dove ero venuto in città. Scesi per Alter Wall, tenendomi l'Alsterfleet sulla destra, ma separato da un muro di edifici e visibile a scorci solo quando questi si aprivano per un ponte ben affollato in quella mattinata. Farsi strada era quasi dura e correre impossibile. Mi ero disabituato a vedere tanta gente, per di più attenta al vestire. Non che da noi ci si vestisse da animali, però era una questione lasciata alla praticità dell'individuo. Condividendo invece la strada, spalla a spalla con banchieri in giacca e camicia, industriali con tuba e bastone, studenti con visiera e cartella, giornaliste sobrie in gonne verticali, mogli borghesi in crinoline gonfie e cuffie floreali, mi faceva sentire nel posto sbagliato, ma una brigata di marinai, addobbati in uniforme mercantile, privi di mostrine e cinti da berretti di lana mi rimise il buon umore. Si aprivano la strada senza chiedere a nessuno, perché la folla stessa si liberava per evitare di incrociare un gruppo tanto chiassoso, ma io non mi schiodavo e li attesi fino a che, tanto erano presi, uno abbracciato all'altro, a cantare e discutere, non si fermarono prima di avermi a un tiro di sputo. Il più barbato e basso di loro si trasse la pipa da sotto i baffi e mi squadrò con occhietti azzurri.

    "Buon mattino, mi scusi un momento" esordì io, che alle loro orecchie giunse come "Goden Morgen, Deit mi Leed einen Moment." Specifico questo perché quello alzò le sopracciglia senza rispondere. Uno subito accanto mostrò i palmi sorridendo e facendo le sue veci.

    "Excuseer ons" Esordì chinando il capo e scuotendo la testa "Wij zijn geen Duitsers."

    "Oh, Niederländisch!" Esclamai allegro, riconoscendo il dialetto dei Paesi Bassi. Ne passavano molti a Cuxhaven, a chiedere informazioni, provviste, riparazioni, guide per il delta del fiume o solo per divertirsi. Non riesco a ricordarmene uno antipatico e forse furono quella gente, impregnata di viaggi lontani, a farmi guardare oltre la mia costa. Quegli uomini sembravano condividere la mia contentezza, forse meravigliati che sembrassi tanto felice di incrociare la loro gente.

    "Ja, nederlanders!" Si tolse il cappello con falsa cerimonia il più giovane, mostrando una chioma insolitamente lunga e castana chiarissima "wij komen uit Amsterdam."

    Attaccarono di nuovo con un paio di versi, presi dalla nostalgia e dalla voglia di gridare, dai passanti alle finestre, chi fieri di essere fossero.

"Ik hou van Holland, landje aan de Zuiderzee;

Een stukje Holland draag ik in m'n hart steeds mee!"

    In quell'aria contemplativa, su quanto l''olandese e il tedesco settentrionale fossero simili, mi perdevo quasi di chiedere loro dove fosse attraccata la loro nave.

    "Wonääm ist dein Schipp?" L'interruppi, cercando di risultare cordiale.

    Quelli si guardarono confusi, mentre l'uomo barbato, che doveva aver ragionato fino a quel momento, tradusse per loro.

    "Waar is je schip?" Sorrise, ricacciandosi la pipa in bocca. Quelli annuirono e presero a indicare alle loro spalle, dando informazioni basilari, e uno di loro scherzò che avrebbero presto avuto un mozzo tedesco a bordo. Rifiutai le loro generose offerte di seguirli a bere e ripresi il cammino verso il porto.

    Avevo bisogno di sapere dove ormeggiavano i velieri di grosso carico nel grande porto di Amburgo e avrei fatto prima se la mia casuale decisione mi avesse portato a interrogare uno del posto, ma incrociare uno straniero, felice anche solo di essere in un posto diverso, influenzava il mio spirito. Chissà se anch'io mi sarei comportato così, sbarcando a Tyskebryggen o dov'altro. Mi rimisi in cammino, più leggero, a cercare la benedetta Jungfrau.

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Capitolo 3
*** Il porto di Amburgo ***


    Qualcuno mi biasimerà, dandomi dello sciocco. Ma come Johannes, non mettesti tu piede al porto, scendendo dal traghetto partito sessantotto miglia più su, allo sbocco dell'Elba? Perché chiedere informazioni per un posto in cui fosti già stato? Chi dice questo ignora quanto grande possa essere il porto di Amburgo. Seguendolo, l'Alster s'immette nel fianco del gran fiume e le sue acque scorrono insieme fino a perdersi nell'oceano. Dove finisce il canale inizia una tale distesa d'acqua che a fatica si vede la gente sulla riva opposta. Potreste illudervi, guardando la penisola che sporge, chiudendo il canale di Binnehafen, offrendo terreno perfetto all'ormeggio e poco altro nella sua sottigliezza, ma, scendendo dal centro, spostatevi più a destra e intravederete, oltre gli alberi dalle vele ammainate delle imbarcazioni che formano una foresta sterminata di alberi secchi, la sponda della Bassa Sassonia, verdeggiante nei suoi boschi, con trecento metri d'acqua a separarci. Rigirando i talloni sulla regione opposta dell'Holstein, mi perdetti a studiare gli alberi di mezzana dell'ultimo paio di navi che manovravano ora: L'una per uscire, un vaporetto svettante la bandiera sarda. La seconda, che le scivolava accanto, lenta, placida sull'acqua, quasi senza alzare uno spruzzo in confronto al rombo dei motori della prima, appena diradato il fumo nero lasciato dalle ciminiere, si rivelò essere una modesta imbarcazione danese a tre alberi, molto bassa sull'acqua, con quattro lance montate ai fianchi sbiaditi e sopra questi stava scritto a caratteri gialli, in bordi neri, un nome che non riuscivo a distinguere da quanto era lontano e scurito da un'incrostazione, fin quanto non mi fu a nemmeno trenta metri dal molo, tanto vicina che ne potevo sentire l'ordinata scricchiolare. Si leggeva Jægerske e l'incrostazione era di un marroncino cha appariva quasi sangue secco e aveva tutta l'aria di esserlo davvero, perché là in prora, sotto il bompresso, stava legato quello che potrei definire solo come un becco gigantesco, color d'avorio e tanto lungo da percorrere in lunghezza tutto il palo, assicurato con lacci di funi come i resti d'una vittima sacrificale.

    Mi passarono dietro gli ufficiali del porto, che andavano comunicando con il capitano tramite gesti e un megafono di legno dal quale gridavano, con voce vibrante, ordini nella loro lingua scandinava, seppur con un forte accento. La nave mi sorpassò, approssimativamente a cinque miglia l'ora e gli piede con una camminata veloce, senza staccarle gli occhi dosso, arrischiando di essere buttato in mare a suon di bestemmie da un pescatore quando impattai contro la sua pila di gabbie d'aragosta. 

    L'equipaggio aveva già ammainato tutte le vele al di fuori della randa e un gruppo si avvicinò alla murata di babordo, prese delle cime spesse e, legate in cappi, le lanciò contro la terra ferma, facendo frustare con violenza quelle gomene sul molo. Subito si prodigarono gli ufficiali per assicurarle alle bitte in ferro lucido, nuove di zecca, mentre dall'occhio di cubìa veniva lasciata cadere di colpo l'ancora, che atterrò con un alta esplosione, turbando il manto violetto e calmo del fiume. Fu avvicinata da terra una passerella montata su ruote al piccolo veliero e, festanti, già si accumulavano i marinai al parapetto, gridanti frasi incomprensibili. Avevano l'aria di non vedere terra da tempo, ma ciò non aveva impedito loro di sistemarsi per bene. Qualcuno si era sbarbato, chi non l'aveva fatto si stava rivestendo a modo, chi si pettinava ed erano tutti belli puliti. Come fosse possibile farsi un bagno sopra un veliero, ancora non lo sapevo. Appena il ponticello fu bloccato, quelli si gettarono giù scavalcandosi a vicenda per poter calpestare per primi pavimentazione diversa dalle assi di coperta. Rimasero a discutere sul castello di poppa quelli che potei dedurre essere il capitano, col suo bel cappellino e in uniforme, insieme al suo nostromo, il timoniere e un paio di inservienti, anche questi vestiti a modo per approdare. 

    Salirono loro incontro gli agenti del porto e fui tentato di accodarmi per dare un'occhiata a questa nave d'alto bordo, ma appena messo un piede sulla passerella lo ritrassi per paura di farmi gridare contro da qualcuno per la terza volta, quel mattino. Infatti giurerei di aver scorto un'occhiataccia furtiva nei miei confronti da parte del capitano, che aveva calato le palpebre sugli occhi foschi durante le trattative con la capitaneria di porto. Lento e mesto ripresi a passeggiare, non senza fermarmi a sbigottire ancora di fronte quello strano becco che dava l'aria alla nave di un dreki normanno con la sua faccia da drago. Sembravano le zanne di un gigantesco elefante e in effetti si collegavano a una struttura che si poteva riconoscere essere un cranio, dati gli zigomi, un orbita ossea e inserti dove un tempo collegavano muscoli e tendini. Doveva essere un animale gigantesco, o tutto testa o con un corpo ancora più grande. Allora capì la professione di quella gente.

    "Ehi, tu" Mi fece trasalire la voce roca di un uomo al mio fianco. Voltandomi riconobbi quello che ipotizzai essere il nostromo, col volto di una statua e le rughe crepe nella pietra, ma sgattaiolato alle mie spalle col peso di una piuma, colpa il mio assortimento. Se ne stava lì, mani giunte dietro la schiena, ad alzare le sopracciglia cespugliose con uno sguardo di gioco e smuovendo la barba rossa col respiro. Nonostante avessi reputato quella decorazione un'insolita novità, ero l'unico di tutto il porto che si fosse fermato a studiare quella belva bianca, mentre altri buttavano uno sguardo e tiravano avanti. Feci per girarmi ancora e andarmene svergognato, ma di nuovo mi chiamò l'uomo, più forte di prima "Ehi, tu!"

    "Non volete che me ne vada?" Chiesi, agitato dalla confusione.

    "Ti interessa la nostra nave?" Continuò senza rispondere, annuendo con fierezza. Sebbene danese, questi aveva una dizione niente male e ne rimasi piacevolmente sorpreso e deluso di non poter ricambiare.

    "Mi interessa la vostra polena" Dissi indicando il mostro. L'uomo aprì la bocca in un gesto di chi ne sa di più.

    "Quella polena ha una grande storia" Disse, indicando col pollice le sue spalle. Il capitano era ancora lassù, che mostrava un piccolo barile agli agenti "È un trofeo del signor Guldbæk."

    "Vuole raccontamela?" Chiesi con tono scherzoso, ma dentro ci speravo.

    "Certo, perché no? Tanto non ci muoveremo finché non avranno concluso là sopra" Rise l'uomo e voltandosi verso l'argomento della discussione prese a dissezionarlo. Io seguivo con lo sguardo "L'abbiamo misurata: in tutto sono sei metri tondi e se la apri ci può stare un uomo seduto sulle spalle di un altro."

    "È una balena?"

    "Certo, la più grande che la 'cacciatrice' possa vantare di aver preso, onorando il suo nome" lo sguardo sognante mutò in un'espressione di scherno amichevole "Ne hai mai vista una?"

    "Mai, in tutta la mia vita."

    "Allora immaginala" E mi fece cenno di avvicinarmi, scrutandomi con occhi di vetro "Eravamo al largo della Grønland settentrionale, una terra arida che non è mai veramente verde. Le vedette in cima le coffe non vedevano altro che acqua e isbjerg, che in fondo è sempre acqua, sopra un orizzonte mosso. L'inverno si avvicinava e il sole compariva sempre meno. Permaneva un'atmosfera plumbea di giorno e il buio pesto la notte, senza luna, oltre nubi. Soffiava un vento, quell'ottobre, che t'irrigidiva tanto che faceva male muoversi, specie in cima agli alberi. Eravamo tentati di consumare l'olio estratto sino ad allora per scaldarci dando fuoco alla nave. Non si vedeva una balena da settimane e avevamo ancora mezza stiva vuota. Facciamo per tornare a casa, confortandoci di beccarne qualcuna nei pressi dell'Islanda, quando d'improvviso ci coglie un vento contrario e tremendo da sud-est. Subito il panico ci stringe quando ci rendiamo conto che siamo rapiti dal fønvind! Tentammo di risalire il vento con una manovra a bolina e lo scafo beccheggiava tanto forte ad ogni onda infranta che il povero timoniere rischiava di rimetterci tutti i denti sulla ruota. Kaptajn Guldbæk, allora, appendendosi all'albero maestro, grida a tutti un discorso tanto forte da sentirsi anche sulla tempesta. —Dio mi sia testimone— diceva —Abbiamo sbagliato a voltare indietro. Ecco, ora ci porta in un posto migliore!"

    "Non suona promettente." Dissi col cuore in gola, rapito dal racconto.

    "Lo pensammo anche noi. Fu una notte d'inferno ed eravamo convinti di naufragare sulle coste di Scoresbysund che tentavamo di fuggire. Invece, in un'atmosfera calmissima, ci trovammo all'alba, senza aver dormito, in una zona di mare sconosciuta, al limite della calotta polare. A mezzogiorno misurammo col sestante la latitudine e scoprimmo di essere settanta miglia nautiche più a nord. Nonostante la violenza dell'uragano e gli isbjerg ci eravamo salvati e questo fu il primo miracolo."

    "Non lo chiamerei miracolo."

    "Invece sì. Ascolta quello che succede dopo. Stavamo ancora decidendo come proseguire quando d'improvviso un grido ci scuote. Da sopra i pennoni giunge la voce della vedetta —Soffia! Laggiù a dritta!— Allora guardiamo e che meraviglia: a un miglio appena se ne stava placida una Grønlandshval! Quella che gli inglesi chiamano bowhead, testa ad arco, perché ha una bocca che quando è chiusa le forma un sorriso capovolto gigantesco sui labbroni. Era vecchia, lo si vedeva dalla corona che portava in testa, fatta di cirripedi e una schiena rugosa nel suo scintillio. Era la più grande che avessimo mai visto, tanto che perdiamo del tempo ad ammirarla. —Forza idioti!— ci grida Guldbæk —Aspettate che s'immerga per inseguirla? Abbiamo giá disobbedito a Dio una volta, facciamo quanto ci chiede!— Smontiamo tutte le lance e pure lui ci segue.

    "Anche voi?" Chiesi sbalordito. Quello quasi si risentì, poi rise, molleggiando le goti flosce.

    "Non nego di essere vecchio ma anche il primo ufficiale!"

    "E quella non scappava?"

    "Un baleniere sa come approssimarsi senza far rumore sull'acqua. La mia lancia fu la prima a raggiungerla, affiancandola dietro il lobo sinistro nel suo lento passeggiare. Da vicino era ancora più grossa, almeno venti metri, forse di più. Il mio ramponiere prese l'asta, fa per tirare, quella si volta appena e il colpo parte. Bang! La punta del rampone sbatte contro i cirripedi attaccati sopra l'occhio e rimbalza via. Per lo spavento alza la coda di quattro metri buoni fuori dall'acqua, una coda da delfino nonostante la sua mole, ad arco come lei, e poi ce la sbatte accanto, ribaltando la barca d'un lato."

    "Dio!"

    "Eh sì, ci aveva giocato un bello scherzo, catapultandoci in quelle acque gelide. In pochi minuti si muore assiderati. Allora, il Livjatan, preso dalla foga, si volta verso le altre imbarcazioni e vi rema contro a dieci nodi di scatto, volandoci accanto. Gli ho toccato il fianco mentre passava e dovevi sentire quanto fosse caldo quel mostro pure in quelle acque gelide. È molto insolito per una balena come quella agire in maniera tanto aggressiva, ma è insolito pure che raggiungano quelle dimensioni. Fendendo l'acqua con la schiena, correva velocissima in mezzo alle tre lance rimaste. La prima gli lancia un rampone, ma lo manca e viene investita dalla testa, spezzandogli la chiglia per intero. La seconda la colpisce sopra il dorso, quella tentenna, legano la cima, ma riparte e se li tira dietro fino a immergersi sotto la banchisa, costringendoli a tagliare la lenza. Rimane solo Guldbæk, alla barra della sua barca, sul sentiero della balena. Quella gli corre a perdifiato addosso per investirlo. I suoi uomini vorrebbero scappare ma lui no. Sa che poteva essere l'ultima volta che ne vedeva una così. Prende lui stesso il rampone e la becca sul muso. Quella devia dal dolore e corre via. Legano la lenza e si fanno trascinare a una velocità pazzesca che pare volassero. Comincia a calare una valle di nebbia e loro ne vengono inghiottiti. Gli urliamo di tagliare la corda, tornare indietro, ma non torna nessuno. Accendiamo i lumi, aspettiamo un'ora e ancora niente. Ci avviciniamo col veliero nella loro direzione ma non si vede a un palmo naso. Passa un giorno intero e già prefiguriamo il sontuoso funerale a cui attenderemo a Esbjerg. —Ohè!— grida una voce dal nulla, lontana. Ci sporgiamo dalle murate e lì, davanti a noi, la lancia di Guldbæk traghetta dietro di sè il Livjatan ed egli ci agita un pugno —Maledetti fuochi fatui, non sono ancora morto!

    "Ottima imitazione, Torsten" Si congratulò alle nostra spalle lo stesso capitano del racconto, con un accento molto più marcato. Un uomo alto e torvo, un corvo in persona, stempiato e dai capelli gonfi. Un po' imabarazzato, il suo primo ufficiale ci rise su.

    "Volevo solo spargere la vostra leggenda, herr Kaptajn .

    "Macché leggenda. Ho cacciato balene tutta la vita, è solo mio mestiere."

    La riprovazione nei confronti della sua mitizzazione me lo faceva sembrare, per paradosso, ancora più eroico, anche se dal fisico si sarebbe detto solo un quarantenne annoiato. Ma si leggeva nel volto, come marchiato a fuoco, che aveva visto più di quanto l'uomo comune doveva. Cosa fosse mai successo dietro quella nebbia, per un'intera giornata, lo sapeva solo il capitano e i suoi rematori.

    "La balena che avete ucciso è comunque gigantesca, Guldbæk" Insistetti ler osservare la sua reazione. Quello arricciò il naso per sopprimere un senso di vanità.

    "Le balene si stancano di correre, tutto qui e il metodo per ucciderle non cambia, fosse stata anche di trenta metri. Il più è stato rimorchiarla fino alla Jægerske per un giorno intero. Non c'è nulla di leggendario, solo uno spettacolo deprimente" E aveva tutta l'aria di dire la verità, ma non potevo crederci. Lo stesso essere che aveva seminato tre lance, ribaltando una e distruggendo un'altra, si era solo messo a correre in linea retta fino a stancarsi? Non aveva impiegato alcun trucco da vecchia esperta della zona? Magari saltando fuori dall'acqua, voltarsi contro la sua imbarcazione, avvilupparsi nella corda, immergersi. E il capitano Guldbæk non aveva risposto con manovre da eroe, anzi, saltandole addosso con un arpione e passandole il cervello standole sulla schiena? Non ci potevo credere.

    "La sua è una bella storia. La terrò in mente quando passerò per quelle zone" A queste parole quello strabuzzò gli occhi arrossati, proprio come quelli di un cetaceo, e si chinò su di me col suo naso stretto, lungo e schiacciato.

    "Det var noget pjat! Jeg håber ikke du vil blive hvalfangere?" Esclamò senza pensare "Dico, non vorrai diventare baleniere, tu?"

    "Certo, parto con la Jungfrau."

    Ma la sua incredulità era di diversa natura.

    "Il mestiere del baleniere è quanto di più bieco ci sia a questo mondo!"

    "Ma voi siete un baleniere" Feci stupidamente notare e poco ci mancò che quello mi picchiò sulla testa. 

    "Non c'è nulla di glorioso nel cacciare balene ma qualcuno deve pur farlo. Se proprio devi fare qualcosa di utile va a lavorare i campi o qualsiasi altra cosa."

    "Io non vi capisco. Perché scoraggiare la gente a unirsi alla vostra professione?"

    "Sempre questa storia" intervenne il barbarossa "Se tutti vi ascoltassero il mondo rimarrebbe senza olio. Come se la morte non esistesse sulla terraferma."

    "Torsten!" Gridò il capitano al suo primo ufficiale "Hai lasciato fuori un dettaglio dalla tua storia."

    "Sì, ecco" Si tolse il cappello con sguardo sconsolato "Dei rematori della mia lancia, cadendo in mare, uno non è tornato. La balena, correndo, lo aveva investito come un treno e gli è volato sul dorso. Lì è passato sopra la sua corona di molluschi, sbrindellandosi la pelle e ha rotolato fino a cadere dal lato opposto. Quando lo abbiamo recuperato era già morto e irriconoscibile. Si chiamava Johannes ed era un ottimo mozzo."

    "Questa è buona" Spalancai la bocca. Di nuovo il capitano minacciò un pugno.

    "Cosa credi, che sia una battuta?" Si risentì anche Torsten, agitando le ciglia cespugliose.

    "No, dico" Replicai timoroso come di fronte al destino in persona vestito da corvo "Anch'io mi chiamo Johannes."

    I due si scambiarono un'occhiata d'intesa, poi il capitano riprese a parlare.

    "Dio mi ha dato un segno e così anche a te. Avete fatto benissimo a raccontargli questa storia, signor Torsten."

    "Ragazzo, io in queste cose non ci credo" Intervenne il primo ufficiale "Ma ti prego di considerare in cosa vai a imbarcarti."

    "Ormai è deciso, è una questione di famiglia" Dissi, ed estrassi anche a loro il mio rampone d'osso, come un lasciapassare. Ma dietro i loro sguardi non c'era approvazione.

    "Non c'è sangue umano che possa bollire abbastanza da sciogliere i ghiacci di Groenlandia." Scosse il capo Guldbæk, prima di allontanarsi. Rimase indietro un momento Torsten a darmi parole di cordoglio.

    "Arktis è un posto orrendo perché ti mette a nudo. Crederai di stare impazzendo e invece sei solo te stesso. Quando succederà osserva la balena e considera le sue vie. Lei ci vive e saprà cosa dirti."

    "Chiedere aiuto a chi voglio uccidere." Feci una smorfia all'assurdità della cosa. Ma quello si grattò la barba con sguardo sornione.

    "Non c'è odio nella caccia. Non provare odio neppure per Arktis."

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Capitolo 4
*** Considerazioni ***


Considerazioni sulla lingua del testo ed eventuali traduzioni


    Non so se questo resoconto verrà mai letto da qualcuno là fuori, ma sovente documenti personali tornano utili, a scopo di ricerca, secoli dopo essere stati abbandonati in un cassetto o persino inghiottiti dalle macerie del tempo e ho la speranza che, se non in quest'epoca, nel futuro qualche storico, fra un editto reale e il menù di qualche rosticceria, trovi interesse a scoprire questo mio manoscritto. Dev'essere proprio una bella seccatura quando l'autore lascia sottinteso un argomento, mai espresso perché dato per scontato a gente sua simile, come quelle vecchie barzellette sumere sui cani ciechi, esilaranti per i cittadini di Ur ma da lasciar senza commento un moderno uomo qualunque. Per non far torto ad alcuno studente e facilitargli la verifica sul diciannovesimo secolo, ho dunque riportato ogni dettaglio, risultando, temo, prolisso per un romanzo, ma dovete capire che anche a me preme fissare queste immagini, perché i ricordi sono di quanto più potente un uomo possa desiderare, quando sarà incapace di crearne di nuovi. Vedetela allora come una cronaca medievale, sul modello di quel Thietmar da Merseburgo, che fra un Enrico I e un Ottone III, si faceva scappare un aneddoto personale, che io reputo ben più interessante d'ogni cerimonia ad Aquisgrana.

Vorrei peraltro far notare che io scrivo tutto questo, essendo di Cuxhaven, nel dialetto della Bassa Sassonia, altresì detto da noi Plattdüütsch,  e questo potrebbe generare dei problemi e vi spiego perché. 

    Proprio mentre scrivo, i fratelli Grimm vanno lavorando da anni a un definitivo dizionario tedesco, intitolato appunto "Deutsches Wörterbuch" e temo sarà pubblicato presto. Dico "temo" perché per quanto stilato con le migliori intenzioni, non è che il sintomo d'un moto unificatore che sta attraversando tutti i popoli della Germania, in particolare gente come il mio armatore Friederich Meyer, convinta che si debba formare una sola nazione per tutti noi Deutsche, come hanno fatto i Francesi, gli Spagnoli e i Polacchi, una nazione che sarebbe compresa, stando a quella canzoncina di Hoffmann, "dalla Mosa fino al Memel e dall'Adige al Belt". Sorvolando sull'esagerato espansionismo, cosa c'è fra me e un Viennese, uno di Dresda o Francoforte? Siamo solo compresi in una vaga regione che non si sa bene dove confini. Dove finisce il tedesco e inizia lo slavo? Guardate l'Italia. Per quanto si parli di Italia e Italiani, cos'è se non una penisola? Ponete un Milanese accanto un Palermitano e si vedranno come stranieri. Non c'è l'Italia eppure tutti parlano bene della simpatia, dell'arte e della letteratura italiana, come tutti parlano bene dell'ingegneria, della filosofia e la musica germana pur senza Germania. Le nostre razze sono sorelle di dolore, perché ambo siamo assediate dalla tentazione di unirci e diventare grandi paesi industriali, capitalistici, con colonie e armate pronte a muovere guerra come ai tempi del Sacro Romano Impero, in nome dell'identità nazionale posta sopra quella altrui.

    I danni del nazionalismo già li abbiamo osservati: Considera la meravigliosa diversità di lingue che abitavano nella terra dei Franchi. Dal Bretone dell'Armorica, al Corso dell'isola Napoleonica e al Fiammingo di Dunkerque, aggiungi l'Anglo-Normanno delle gesta di Orlando. Di questa fauna quanta ne sopravvive oggi? Chi ancora pubblica libri nel suo dialetto, piuttosto che la lingua di Parigi? E una volta che avremo la Germania unificata credete sarà diverso? Il Plattdüütsch non sarà preso in considerazione per il bel dizionario dei Grimm. Il Plattdüütsch non farà parte del tedesco standard. Il Plattdüütsch non sarà più una lingua a sé, ma solo una degenerazione della Bassa Sassonia e sarà perseguitato nelle scuole dei nostri ragazzi, fino a scomparire. Dio ci scampi da un caso del genere, ma se succede questo testo diverrà arcaico molto in fretta, come a voler leggere una lastra in fenicio. Perché il nostro parlare differisce da quel tedesco ufficiale che viene proposto di questi tempi, fatto, affermano, della migliore cultura, ovvero quella dell'Alta Sassonia. Eccovi degli esempi.

    Fossi stato un seguace dei Grimm avrei augurato "Guten Morgen!" a quei marinai olandesi, ma data la mia genealogia, non ho neppure esitato a dire piuttosto "Goden Morgen!" Fin qua è intuibile. Se fossi intenzionato a presentarmi col mio nome a un adoperatore dello standard,  dovrei sforzarmi di dire "Ich heiße Johannes", piuttosto che il mio naturale "Ik heet Johannes." Nel cercare qualcosa si pretende che io mi chieda "Wo ist das?", piuttosto che "Wonääm is dat?"

    In ultimo luogo, per farvi notare quanto sia assurda l'idea che i popoli tedeschi siano fratelli, vi faccio notare che non riusciamo a metterci d'accordo neppure su dove ci troviamo, considerando che per noi "Düütschland is en grôt Land" ma per loro "Deutschland ist ein großes Land."

    Discusso questo problema se ne pone un altro, stavolta morale. Di tutti i posti che visiteremo all'interno del resoconto dovrei mantenere la topografia originale? Mettiamo il caso che vi parli di Aachen. Lo abbiamo già fatto qualche rigo più sopra, ricordate? Se la risposta è no vuol dire che il vocabolo è stato tradotto nella vostra lingua. Difatti, Aachen ha molti nomi in molti posti, come tutte le città antiche. I Ripoarėsch la chiamano Oche, i francesi Aix-la-Chapelle, gli olandesi Aken, gli Italiani Aquisgrana, i polacchi Akwizgran, i cechi Češi, e così via! La mia Hamborg è molto fortunata, in quanto viene solo traslitterata, lettera più lettera meno, ma per tutte le località che visiteremo, con quale nome dovrò riportarla nel testo? Finora ho accennato alla Norvegia e l'ho riportata nella mia lingua, Norwegen, ma perché non lasciarla nella sua forma Bokmål originale, quale Norge? Per convenzione sarebbe più comprensibile per tutti, evitando di farvi spalancare un enciclopedia a ogni rigo, ma non trovate estremamente ipocrita che paesi quali gli Stati Uniti d'America ricevano il privilegio di rimanere anglofonicamente intatti? Perché dovrei riportare sulla mappa le isole Orcadi, piuttosto che l'arcipelago Orkney, ma lasciando posti come NantucketNew Bedford e Sag Harbor in originale? Non dovrei adattarli rispettivamente in MezzacquaNovaguado e Porto Noce? Badate che non sono parole a caso, mantengono infatti il significato originale: Nantucket prende il nome da un'espressione Algonchina che verrebbe a significare "in mezzo alle acque", in quanto isola del Massachusetts; New Bedford dalla località inglese Bedford che si spezza in due tronchi, "bed" per "letto", che devo assumere s'intenda di un fiume, e "Ford" per "guado"; Sag Harbor è stato più difficile, perché prende il nome da Sagaponak, località vicina, che a sua volta prende il nome da una pianta di tuberi coltivata dai Montaukett, per cui non esiste un termine inglese se non un generico "nuts".

    Spero apprezziate il doppio sforzo di rendere il gioco nella vostra lingua, perché nel mio caso dovrebbero comparire sulle cartine  quali ManketwotaNiegen Badföörd e Hassel Haven.

Anzi, un triplo sforzo, considerando che faccio un favore agli Alti Sassoni e glieli riporto anche come MittenwasserNeue Bettford e Nüsse Hafen, casomai ai Grimm venisse lo sghiribizzo di stilare un atlante.

    Ammetto che la mia è una provocazione. Proprio in virtù di queste complicazioni credo mi atterrò sullo stile di regime e riporterò ogni nuova località col nome che vi è più familiare in nome, è il caso di dirlo, della comprensione del testo,  ma, per dovere di onestà, aggiungerò, laddove possibile, un appunto sul loro titolo locale.

    Risolta questa diatriba, perdonatemi se, di tanto in tanto, vi lascerò delle espressioni non tradotte, del mio gergo o altrui, ma credo che aggiungano un tocco atmosferico a cui non so rinunciare. Spero non vi siate offesi prima, quando ho lasciato junker, holzbrücke, isbjerg kaptajn come tali, ma avrò la cortesia di inserirli in un contesto da cui sarà intuibile il significato, qualora non lo specifichi io stesso, e consideratevi fortunati. Dostoevskij non si è risparmiato dal riempire i suoi libri di paragrafi interi in francese, senza prendersi la briga neppure di una nota a margine per il povero pubblico russo, ma avete visto qualcuno lamentarsi?

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