Le Maître Des Illusions

di Signorina Granger
(/viewuser.php?uid=864554)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Selezione OC ***
Capitolo 3: *** Capitolo I ***
Capitolo 4: *** Capitolo II ***
Capitolo 5: *** Capitolo III ***
Capitolo 6: *** Capitolo IV ***
Capitolo 7: *** Capitolo V ***
Capitolo 8: *** Capitolo VI ***
Capitolo 9: *** Capitolo VII ***
Capitolo 10: *** Capitolo VIII ***



Capitolo 1
*** Prologo ***




LE MAîTRE DES ILLUSIONS
◊La brigade de la vie et de la mort◊

Maestro d’illusioni, rende capaci i suoi devoti di vedere il mondo come non è



sopra1
castello
ba5730b6fd10358e681b1d9360da98aa




Prologo






1° novembre 2022
00:45





A causa del prolungato fluire dell’acqua bollente e del vapore che aveva conseguentemente avvolto il bagno le superfici degli specchi a forma circolare risultavano completamente appannate, e minuscole gocce rotolavano, lente e silenziose, lungo le piastrelle bianche che rivestivano interamente le pareti. Quando una mano tracciò una breve linea orizzontale esattamente al centro dello specchio che sormontava uno dei sei lavabi di marmo, disposti in due file speculari lungo i lati opposti della stanza, una piccola porzione di vetro venne tersa dal vapore e la ragazza che fronteggiava lo specchio riuscì così a scorgere il riflesso di una piccola parte del proprio viso, a partire dalla fronte fino alla punta del naso diritto e leggermente all’insù. Per un paio di istanti lo sguardo della giovane strega indugiò sul riflesso dei propri stessi grandi occhi, che quella sera apparivano di una tenue sfumatura grigio-azzurra a causa del cattivo tempo che aveva imperversato per tutto il corso del giorno precedente, finchè non chinò leggermente il capo ruotandolo leggermente verso sinistra puntando il mento verso la superficie di marmo bianca striata da sottili venature verdi che separava il lavandino da quello accanto, dove poco prima aveva posato il suo orologio, un sottile nastro di raso nero e alcune forcine. Una volta scorsa l’ora un lieve sospiro si librò dalle labbra carnose e dischiuse della strega, che si affrettò a riallacciarsi al polso l’orologio dal cinturino di pelle marrone e il quadrante d’oro prima di raccogliersi i ricci capelli castani sulla nuca con una mano, attorcigliandogli e fissandoli in uno chignon aiutandosi con le forcine in una successione di gesti rapida, efficiente e ormai automatica. Per ultimo la ragazza raccolse dal ripiano marmoreo frapposta tra i due lavandini immacolati il nastro di raso nero, avvolgendolo attorno allo chignon prima di gettare un’ultima, rapida occhiata al proprio riflesso mentre il vetro iniziava lentamente a spannarsi dal vapore.
La strega spalancò la porta bianca del bagno, spingendo lentamente l’anta impugnando la fredda maniglia d’oro per affacciarsi su una stanza circolare buia e silenziosa occupata da letti a baldacchino dai tendaggi celesti – ai piedi di ognuno dei quali erano state sistemate delle panche imbottite foderate da velluto color carta da zucchero –, altrettanti comodini di legno, un enorme camino di marmo spento e un paio di toelette bianche.
Dopo aver spento la luce del bagno la ragazza si chiuse lentamente la porta alle spalle e attraversò rapida la stanza con passi leggeri e silenziosi, fermandosi davanti al proprio letto per recuperare la bacchetta dal comodino bianco, le scarpe che aveva lasciato sul pavimento prima della doccia e la mantella blu notte adagiata sulla trapunta bianca decorata da un motivo di minuscoli e sottili fiorellini azzurri. Dopo essersi gettata una rapida ed ultima occhiata attorno, appurato di non aver svegliato nessuna delle sue compagne si diresse senza fare il minimo rumore verso la porta a doppia anta celeste, aprendola solo quel tanto che bastava per permetterle di scivolare silenziosa fuori dalla stanza.
Dopo aver attraversato il corridoio del Dormitorio femminile e aver varcato anche la porta di accesso celeste della sua Salle Commune la strega sedette sui quattro gradini di granito che congiungevano il corridoio con la porta a doppio battente per infilarsi le francesine col tacco color cuoio, allacciandole frettolosamente prima di infilare anche la mantella blu. Rialzatasi in piedi ripose la bacchetta nella tasca della giacca che le arrivava fino a metà polpaccio come la gonna a vita alta color castagna, chiudendola infilando nelle asole i due bottoni d’oro sul colletto mentre iniziava a percorrere il lungo corridoio di marmo a scacchiera, spezzando il silenzio spettrale che si era impossessato del castello con il ticchettio scandito dai tacchi sul pavimento.
La strega scese rapida le scale di pietra fino a trovarsi al primo piano e poi al pian terreno, percorrendo la lunga e maestosa scalinata di marmo dell’Ingresso che era solita ipnotizzare chiunque mettesse piede nell’edificio per la prima volta. Quando finalmente i suoi piedi toccarono il pavimento di marmo bianco coperto da motivi geometrici dell’immenso e insolitamente deserto ingresso del castello la ragazza, anziché dirigersi verso l’enorme portone di legno che si trovava dall’altra parte della sala, raggirò la scalinata e imboccò la porta che si trovava immediatamente alla sua sinistra, attraversando un lunghissimo corridoio e superando porte e piccole rampe di scale secondarie fino a trovarsi di fronte ad una porta a vetri che si affacciava sul retro dell’edificio.
Mentre spalancava la porta la strega chinò brevemente lo sguardo sul proprio polso sinistro, sbuffando quando scorse l’ora e appurò di essere in leggero ritardo. Si costrinse ad affrettare il passo, nonostante non fosse affatto entusiasta della propria destinazione, mentre l’aria fredda le sferzava il viso e camminava affondando i piedi nella ghiaia, imboccando uno dei piccoli sentieri che dal retro del castello conducevano ai punti di maggior interesse della tenuta. Fortunatamente la sua destinazione distava appena poche centinaia di metri dall’edificio principale, e in breve la giovane strega poté scorgere la piccola struttura interamente costituita da metallo verde e vetro. Mentre si avvicinava al giardino d’inverno non provò il minimo stupore nell’appurare che i pannelli di vetro, che normalmente consentivano di osservare l’interno della struttura e alla luce di entrare, erano stati completamente oscurati, di certo coperti da degli spessi tendaggi scuri. Rimpiangendo il tepore e la comodità della propria stanza e del suo letto e invidiando le sue compagne, in quel momento cullate dal sonno e dalle braccia di Morfeo, la giovane si ritrovò infine a fronteggiare la porta d’ingresso del giardino d’inverno, sollevò la mano destra per bussare tre volte e infine attese, in silenzio, che qualcuno le aprisse.
Dovette attendere solo una manciata di istanti, al termine dei quali una voce maschile a lei familiare si levò oltre la porta chiusa, chiedendole di pronunciare una parola d’ordine. A fronte di quella richiesta la strega non poté fare a meno di roteare i grandi occhi chiari, spazientendosi un poco prima di rivolgersi al suo non tanto misterioso interlocutore con tono affettato:
“Per l’amor del cielo, Antoine, mi conosci da sei anni. Siamo nella stessa Casa! Siamo amici!”
“È tradizione!”
Antoine sembrava scioccato, quasi scandalizzato dalla noncuranza che la compagna stava manifestando nei confronti di tradizioni ben più vecchie di loro ma lei sospirò stancamente e scosse il capo, parlando con tono risoluto e distaccato:
“Talvolta le tradizioni sono sciocche e andrebbero abbandonate.”
“Parola d’ordine.”
Non poteva fare a meno di sentirsi terribilmente ridicola, lì in piedi nel bel mezzo della notte, di fronte ad una porta chiusa mentre un ragazzo che conosceva da anni le chiedeva di ripetere una stupida frase. Per di più, tutto per farla prendere a parte ad una situazione dalla quale lei si sarebbe estromessa più che volentieri. Disgraziatamente il tono di Antoine non le era mai parso tanto perentorio come in quel momento, e non potendo fare a meno di pensare a come solo quattro ore dopo avrebbe dovuto alzarsi la ragazza strinse le labbra e si costrinse a trovare la spinta necessaria ad assecondare quella che ai suoi occhi non era altro che una ridicola pretesa, decisa ad allontanarsi al più presto da quella situazione: tanto valeva assecondare quella ridicola tradizione, se farlo le avrebbe permesso di tornare nel suo letto nel più breve tempo possibile.
La tristesse durera toujours.”(1)
Il cupo borbottio della strega ebbe l’effetto sperato, perché subito una delle due ante della porta venne spalancata e i grandi occhi chiari della giovane poterono infine posarsi sul volto familiare del compagno dai ricci capelli biondo cenere e sulla sua espressione divertita:
“Non era poi così difficile, vero? Ti sei accertata che nessuno ti abbia seguita?”
Il ragazzo, che la superava di almeno una decina di centimetri, si spostò di lato per farla passare tenendo la porta aperta, gettando un’occhiata dubbiosa all’esterno della struttura mentre la compagna, dopo averlo superato, gli gettava un’occhiata esasperata portandosi le mani al colletto della giacca per slacciarla:
“Ebbene, Antoine, sono certa di poter affermare che ci sia una colonia di studenti nascosta dietro quei cespugli che in questo momento ci sta spiando, del resto tutti i nostri compagni muoiono dalla voglia di andare a delle riunioni a quest’ora vergognosa quando domani, beh, c’è lezione.”
“Io non la prenderei così alla leggera, o almeno non davanti agli altri. Sbrigati, aspettavamo solo te… E non chiamarmi Antoine quando siamo qui, lo sai!”
Dopo averle indirizzato un’occhiata di rimprovero Antoine la superò, dirigendosi a grandi passi verso il resto dei presenti mentre la strega, dopo aver alzato gli occhi al cielo e aver appeso la giacca ad uno dei vecchi ganci di ottone che si susseguivano in una lunga fila sulla parete adiacente all’ingresso, lo seguiva svogliatamente verso il fondo del giardino d’inverno, di norma occupato da tavoli di legno e sedie che tuttavia quella sera erano stati addossati contro le pareti, lasciando il posto ad un unico tavolo circolare collocato al centro della sala.
“È arrivata.”
C’erano otto persone radunate in piedi e ad aspettarla attorno al tavolo, e anche se sentì la pressione dei loro sguardi su di sé la ragazza non guardò in viso nessuno dei presenti, posizionandosi nello spazio rimasto vuoto tra due di loro e fissando insistentemente la penna d’oca e il minuscolo frammento di pergamena che aveva davanti come tutti i suoi compagni.
“Scusate il ritardo.”
Il suo tono non era di scuse affatto, ma nessuno disse nulla mentre anche Antoine raggiungeva il suo posto vicino ad un ragazzo biondo che stava esattamente di fronte lei. Anche senza ricambiare il suo sguardo la ragazza seppe che Abel la stava guardando con malcelata disapprovazione, ma continuò imperterrita a fissare il frammento di pergamena che aveva davanti prima che il ragazzo, parlando in un francese che tradiva il suo accento tedesco, invitasse i presenti a scrivere il proprio nome con le penne che avevano davanti.
Come tutti gli altri anche lei obbedì – dicendosi che prima quella pagliacciata sarebbe finita, prima se ne sarebbe potuta andare a dormire –, chinandosi leggermente sul tavolo per impugnare la penna e scrivere il proprio nome. Per qualche istante gli unici rumori all’interno del giardino d’inverno illuminato da alcune candele che fluttuavano sopra al tavolo furono il fruscio delle punte delle penne sulla pergamena, ma quando tutti ebbero finito di tracciare i propri nomi con linee di inchiostro blu e ripiegato i foglietti su loro stessi Abel si chinò su qualcosa che aveva lasciato sul pavimento accanto a sé, sollevando una coppa di vetro che posizionò al centro del tavolo. Tutti stettero a guardare in silenzio il ragazzo estrarre la bacchetta e picchiettarne per tre volte la punta sul bordo della coppa, lanciando sull’oggetto un incantesimo non verbale che produsse delle lingue di fiamme celesti che presto lambirono la parte superiore della coppa.
Uno ad uno tutti e dieci si sporsero sul tavolo per gettare tra le fiamme azzurrine il biglietto con il proprio nome, osservando in silenzio la coppa ardere i frammenti di pergamena attendendo che l’oggetto facesse le sue scelte; l’ultima arrivata iniziò presto a tormentarsi le mani che teneva allacciate davanti a sé, poggiate sul tessuto scamosciato della gonna, fissando le fiamme con i grandi occhi chiari pregando che la coppa non scegliesse lei, ma quando le fiamme diventarono bianche una lingua di fuoco si sollevò fino a staccarsi dalle altre, andando a scomporsi e a formare, per un istante, l’immagine di una libellula che si librò brevemente in aria prima di dissolversi.
Tutti guardarono in silenzio il punto in cui la libellula era sparita e poi chinarono in silenzio gli sguardi sulla ritardataria, che strinse le labbra in una smorfia contrariata mentre sentiva il proprio stomaco contorcersi, preda di una morsa: la ragazza dovette fare appello a tutto il suo autocontrollo per non imprecare e per la prima volta il suo sguardo indugiò sul resto dei presenti, tutti impegnati ad osservarla, chiedendosi se la coppa non avesse in qualche modo percepito il suo ritardo e la sua disapprovazione nei confronti di tutto ciò che in quella stanza la circondava e che rappresentava, finendo col punirla.
Abel, che di certo aveva immaginato quanto la compagna avesse sperato di non essere scelta, distese le labbra in un sorrisetto divertito che le fece venire voglia di schiaffeggiarlo e andarsene da lì, guardandola con un che di compiaciuto negli occhi chiari che riuscì solo ad incrementare il risentimento della strega:
Libellule. A quanto pare sei una dei fortunati eletti, quest’anno.”
Abel non si sforzò nemmeno di celare l’ironia con cui le si rivolse ma per una volta la diretta interessata non diede peso alle sue parole e non gli diede nemmeno la soddisfazione di mostrare alcun segno di amarezza. In fondo dopotutto era solo colpa sua, si disse lei con amarezza: avrebbe dovuto simulare un’influenza, assentarsi dalla serata. Era tutta colpa del suo dannato ed onnipresente senso del dovere e della sua totale incapacità di mentire, se era stata scelta.
E tirarsi indietro, disgraziatamente, non rientrava tra le sue possibilità.



 
1° novembre
5.45
 


Gisèle Delacroix aveva fatto ritorno nella camera da letto che condivideva con cinque tra le altre ragazze del VII anno appartenenti alla sua stessa Casa da sole quattro ore quando la sveglia impostata sul suo telefono iniziò a suonare e le note del passo a quattro del Lago dei Cigni avvolsero la stanza ancora buia con un volume sufficiente alto per svegliare la diretta interessata, ma non abbastanza da destare dal sonno le sue compagne. Gisèle, oramai talmente abituata a quella sveglia da riuscire a sentirla all’istante anche quando era preda del sonno più profondo, come ogni mattina spalancò i grandi occhi chiari al suono delle primissime note di Čajkovskij, afferrando il telefono con un gesto rapidissimo per spegnere la sveglia. Come ogni mattina la giovane strega sollevò lentamente il busto per mettersi a sedere sul materasso, prendendosi qualche breve istante per far vagare lo sguardo sul resto della stanza e assicurarsi di non aver svegliato nessuna delle sue compagne. Vaclav, il suo gatto bianco, sonnecchiava pacifico ai piedi del suo letto – il felino aveva l’abitudine di ignorare la sua cuccia e acciambellarsi lì, costringendo la padrona a dormire con le lunghe gambe raccolte in posizione fetale – e sembrava che lo stesso valesse anche per le altre ragazze: le tende dei baldacchini erano tutte tirate, a parte quelle del suo letto, ma Gisèle non scorse il benchè minimo movimento da dietro nessuno dei tendaggi. Assicuratasi che la sveglia non avesse destato dal sonno nessuno a parte lei Gisèle si scostò rapida il copriletto bianco e celeste di dosso per alzarsi in piedi, afferrando gli abiti che la sera prima aveva lasciato sulla cassapanca di velluto addossata ai piedi del letto a baldacchino da una piazza e mezza per dirigersi in bagno, silenziosa come un’ombra.
Ne uscì pochi minuti dopo con i ricci legati in una coda di cavallo, il viso lavato e un completo da corsa termico blu notte addosso, prendendo un paio di scarpe bianche e il borsone nero che ogni sera lasciava sul pavimento accanto al proprio letto prima di uscire dalla stanza, infilandosi le scarpe solo quando si fu chiusa lentamente e senza far rumore la porta bianca alle spalle. Puntuale come un orologio svizzero, a differenza di poche ore prima, Gisèle attraversò rapida il lunghissimo corridoio del dormitorio femminile con la borsa issata sulla spalla destra, scese una scala a chiocciola di pietra e alle 6 in punto si affacciò sulla Salle Commune.
L’enorme salotto quadrato, dotato di divani, poltrone, un enorme camino di marmo, librerie e tavoli per studiare, era deserto e silenzioso quanto la stanza che si era appena lasciata alle spalle, fatta eccezione per un lieve fascio di luce bluastra che attirò immediatamente l’attenzione della strega: su una poltrona blu notte rivolta proprio verso la soglia del Dormitorio femminile sedeva un ragazzo con addosso una felpa e dei pantaloni neri, il viso magro e cosparso da una generosa spruzzata di lentiggini illuminato dallo schermo del telefono che teneva in mano. Quando Antoine percepì la sua presenza e sollevò lo sguardo su di lei subito le labbra gli si allargarono per dare vita ad uno dei suoi magnifici e calorosi sorrisi, ma per una volta nemmeno quella vista riuscì a migliorare l’umore di Gisèle, che si trascinò cupa verso l’amico allacciandosi la fascia da braccio nera per infilarci il proprio telefono mentre il belga si alzava in piedi, torreggiando su di lei grazie al suo metro e novanta di altezza.
“Ciao. Dormito bene?”
“Oh, una favola.”
Gisèle bofonchiò torva mentre si fermava davanti al compagno di Casa, che le rivolse un sorriso comprensivo mentre le sfilava la cinghia della borsa dalla spalla per prenderla lui stesso. Gisèle non obbiettò: ci aveva provato ogni mattina per circa sei mesi consecutivi, l’anno prima, a convincerlo che poteva portarsela da sola. Alla fine si era arresa.
“Forse il freddo ti schiarirà le idee.”
Gisèle aveva seri dubbi a riguardo, anzi, quella mattina si era svegliata con l’impulso di nascondere la testa sotto il piumino e di restare nascosta a letto fino alla fine della settimana – come era possibile che fosse solo martedì?! –, ma Antoine quel giorno sarebbe stato probabilmente una delle poche persone con cui avrebbe sinceramente avuto voglia di parlare e andare a correre insieme di mattina presto, quando quasi tutti ancora dormivano, rappresentava sempre una delle loro migliori occasioni di fare conversazione in santa pace, senza distrazioni o interruzioni. La francese seguì dunque silenziosa l’amico prima fuori dalla loro Salle Commune e poi all’interno dell’apertura a varco di un passaggio segreto che Antoine aprì picchiettando secondo un ordine preciso i cappelli a punta dei maghi rappresentati in un quadro appeso vicino alla porta celeste della Salle Commune di Ombrelune. Quelli ormai nemmeno si lamentavano più per il brusco risveglio quotidiano ad opera dei due studenti, tanto ci si erano dovuti abituare.
Gisèle era avvezza a dormire poco, ma per colpa della riunione della Brigade quella notte aveva dormito ancor meno del solito, e rischiò di incespicare più volte sui gradini della lunga e claustrofobica scala a chiocciola di pietra che dovette scendere dietro ad Antoine: quel giorno la sua coordinazione sembrava insolitamente penosa e la strega non tardò ad addossarne la colpa alla riunione di poche ore prima, lo avrebbe fatto per tutte le cose sgradevoli che sarebbero avvenute fino al momento in cui avrebbe poggiato nuovamente la testa sul suo cuscino. Fortunatamente i due studenti giunsero alla base della scala senza che la francese si guadagnasse un infortunio, e Antoine lasciò la borsa dell’amica sul gelido pavimento di pietra prima di spingere uno dei mattoni del muro che avevano davanti, aprendo un secondo varco che permise loro di ritrovarsi all’esterno del castello e di calpestare l’erba madida di rugiada degli immensi prati della tenuta.
Novembre era arrivato e il clima attorno ai Pirenei sembrava volerlo far notare agli abitanti della zona, perché Gisèle si ritrovò subito a rabbrividire per il freddo, cosa che quando lei e Antoine iniziarono a correre la spinse ad accelerare più del solito per cercare di scaldarsi. Lei e l’amico stavano correndo con un’andatura costante e sostenuta da più di dieci minuti – la strega sospettava che lui stesse procedendo al di sotto delle sue possibilità solo per adeguarsi alla sua falcata – e Gisèle aveva finalmente smesso di tremare, formando nuvolette di vapore ad ogni respiro, quando la voce di Antoine spezzò il silenzio che si era andato a creare tra loro fin da quando avevano iniziato a correre:
“Devi guardare il lato positivo.”
“E quale sarebbe? Almeno fossi stato scelto anche tu… Per lo meno il fato mi ha risparmiato Abel.”
Lei e Antoine si diressero verso le sponde del Lago d’, e osservando la distesa di acqua dolce scura e gelida che si estendeva davanti a loro sotto al cielo notturno Gisèle si ritrovò a constatare come si sarebbe gettata in acqua per la disperazione se avesse dovuto assolvere il suo ingrato compito in compagnia di uno dei soggetti che meno tollerava tra gli altri membri della brigade. Anche se, certo, persino Abel, il suo sguardo di ghiaccio e il suo accento tedesco sarebbero stati comunque meglio della persona che Antoine nominò subito dopo, chinando lo sguardo su di lei per rivolgerle un sorriso divertito:
“Beh, Guillaume non è stato scelto.”
Gisèle era stata talmente impegnata a maledire la coppa e la propria malasorte da nemmeno aver preso lontanamente in considerazione quel punto di vista. Eppure Antoine aveva ragione, si ritrovò a riflettere la strega mentre lei e l’amico iniziavano a costeggiare le sponde sabbiose del lago: per qualche motivo lei era stata scelta, al contrario di suo cugino.
“Sembra che quella dannata coppa sia l’unica ad avermi riconosciuto delle qualità a discapito di quel troll di montagna di mio cugino. Anche se penso che abbia semplicemente fiutato il mio disappunto.”
“Una coppa può fiutare la paura, dici?”
Antoine rise e Gisèle annuì, seria, mentre le sue scarpe bianche affondavano nella sabbia umida e i ricci castani le solleticavano il collo scoperto ad ogni falcata.
“Certo, è come quando speri di non essere interrogato, e lo speri talmente tanto che alla fine pescano il tuo, di nome.”
“Beh, Guillaume non è stato scelto, tu sì. Gli brucerà fino alla morte.”
“Lo spero proprio, perché anche al suo funerale ci terrò a ricordarlo. O tu dovrai farlo al mio, intesi?”
 

Erano le 6.30 e il sole non era ancora sorto quando Antoine e Gisèle si fermarono davanti al passaggio segreto dopo mezz’ora di corsa senza interruzioni, e quando Antoine ebbe riaperto il vano nel muro di pietra Gisèle poté recuperare la sua borsa per tirarne fuori la sua borraccia bianca e trangugiare finalmente una generosissima sorsata d’acqua. Come ogni mattina i due a quel punto si divisero: dopo aver salutato l’amica Antoine iniziò a risalire la scala a chiocciola che lo avrebbe riportato al secondo piano e alla loro Salle Commune mentre Gisèle, caricatasi la borsa nera di tela in spalla, attraversò uno stretto corridoio buio facendosi luce con la torcia del telefono fino a fermarsi di fronte ad un’apertura quadrata nella parete. Gisèle sedette sul bordo della rientranza per sfilarsi le scarpe da ginnastica che la sabbia aveva irrimediabilmente sporcato, dopodiché picchiettò il retro della spessa cornice dorata appesa davanti all’altro sbocco dell’apertura per tre volte con la punta della bacchetta, scivolando fuori dal vano quando la cornice si spostò di lato.
Esattamente come poche ore prima – e come ogni mattina – Gisèle si ritrovò nell’immenso atrio del castello, deserto e silenzioso in modo quasi surreale, ma non perse tempo a guardarsi attorno e sgattaiolò invece rapida verso l’altissima apertura ad arco nella parete immediatamente alla sua sinistra tenendo le scarpe in mano, decisa a non lasciare alcuna traccia del suo passaggio. Ritrovatasi in un corridoio dal pavimento di marmo e le pareti bianche disseminate da dipinti Gisèle proseguì senza indugi imboccandolo nella direzione di destra, fino a fermarsi di fronte ad una porta bianca a doppia anta talmente larga da occupare quasi completamente la parete con cui il corridoio terminava. Quando l’aprì senza far rumore Gisèle poté finalmente addentrarsi nell’enorme palestra dalle pareti specchiate dove ogni settimana avevano luogo le sue lezioni di Duello e gli allenamenti di scherma, costeggiando a piedi scalzi una breve porzione di parete prima di fermarsi davanti ad uno degli specchi alti fino al soffitto, appoggiare le sue cose sul pavimento e controllare un’ultima volta l’ora sul telefono prima di sedersi per terra e tirare fuori le mezze-punte di raso rosa dalla borsa.
Mentre allungava i muscoli di piedi, gambe e braccia tramite il riscaldamento Gisèle ripensò a quando Antoine le aveva chiesto, mentre correvano, se avesse qualche idea riguardo ai ragazzi nuovi. A dire la verità Gisèle era piuttosto sicura di aver presente in maniera definita un numero decisamente ristretto di studenti del VI anno, e quasi nessuno le sembrava idoneo per superare lo scrupoloso esame dei suoi “colleghi”, o almeno non stando alle esigue informazioni sul loro conto che possedeva. Gisèle divaricò le gambe per creare senza sforzo una spaccata frontale, i piedi a martello rivolti verso l’alto mentre i suoi grandi occhi chiari scrutavano critici il riflesso dei suoi movimenti alla ricerca di ipotetiche sbavature.
Mentre si arrovellava su come uscire da quella situazione gravosa e portare a termine il suo compito in maniera rapida e indolore, senza che nessuno potesse avere nulla da obbiettare – l’ultima cosa che voleva erano più rotture del necessario –, Gisèle fletté il busto in avanti, la schiena dritta e i gomiti piantati sul pavimento. Gli occhi puntati pensosi sulla trave di parquet sotto di lei, Gisèle restò in posizione mentre alcuni ricci le scivolavano davanti alla testa fino a spargersi sul pavimento, ma invece di curarsene la strega cercò di ricordare quale dei suoi compagni avesse in custodia l’archivio degli ex membri della Brigade. Consultando il volume avrebbe potuto capire facilmente se ci fosse qualche studente di un anno più giovane di lei con qualche legame di parentela degno di nota, ma quando rammentò chi, a inizio anno scolastico, si fosse assunto l’incarico di quell’onere desiderò di sprofondare nel pavimento: Gisèle lasciò cadere per la disperazione la fronte contro il pavimento freddo e i ricci scuri le crollarono inesorabilmente davanti alla testa, spargendosi attorno alla sua testa sul pavimento come un’aureola mentre la ragazza gemeva sommessamente e la fastidiosissima faccia da schiaffi del suo tanto detestato cugino prendeva forma nella sua mente.
Perché?!”
 
 
Erano le 7.45 in punto quando Gisèle, dopo essersi allenata per un’ora e aver fatto ritorno nel suo Dormitorio per lavarsi e indossare la divisa di seta azzurra della scuola, varcò la soglia della porta a doppia anta spalancata della sala da pranzo per fare finalmente colazione. La strega indugiò sulla soglia facendo vagare i grandi occhi chiari, quel giorno grigissimi a causa del cielo nuvoloso, sui tavoli circolari apparecchiati per la colazione sparsi in ogni angolo della sala per cercare Antoine, incamminandosi con falcate lunghe e decise in direzione di un tavolo ancora semi vuoto quando scorse l’amico, che come lei era sempre tra i primi a presentarsi per la colazione, seduto e impegnato a versarsi del caffè da un enorme bricco di ceramica bianca. Quando la vide avvicinarsi, anticipata dal suono prodotto dai tacchi bassi delle scarpe azzurre della divisa che si levava dal pavimento di marmo, Antoine sorrise e accennò alla sedia vuota alla sua destra, invitandola a sedersi.
“Ciao. Com’è andato l’allenamento?”
Gisèle non rispose, ma in compenso dopo aver scostato l’elegante sedia bianca ed essersi seduta nella sua consueta maniera particolarmente composta, con la schiena e la testa drittissime, capovolse la tazza davanti al suo posto e prese il bricco di caffè per versarsene un po’ a sua volta sussurrando qualcosa talmente a voce bassa che per un istante Antoine credette di aver sentito male:
“Devo introdurmi in camera tua e rubare il registro a Guillaume.”
Antoine stava per bere un sorso di caffè, ma bloccò la mano a mezz’aria quando udì le parole dell’amica, chinando lo sguardo su di lei e inarcando un sopracciglio mentre la guardava sconcertato: doveva per forza aver frainteso. Anche se, trattandosi di quei precisi soggetti, poteva anche non essere così.
“Come scusa? Non puoi… chiederglielo e basta?”
Gisèle aggiunse latte e zucchero di canna al caffè, mescolando con gesti rapidi la miscela bollente con un sottile ed elegante cucchiaino dorato prima di picchiettare la posata sul bordo della tazza e riporla sopra al tovagliolo bianco, ricambiando sostenuta lo sguardo di Antoine solo quando ebbe sollevato a sua volta la tazza per portarsela verso le labbra, parlando con un’aria solenne che non ammetteva repliche:
“Antoine, getterò le punte e mi darò all’Hip Hop prima di chiedere un favore a quell’essere. Perciò tu mi farai da palo.”
Antoine aprì la bocca per tentare di replicare, ma quando vide Gisèle sorseggiare il suo caffè capì che la discussione era ormai chiusa. Il ragazzo sospirò, sconsolato, prima di prendere un croissant al pistacchio da uno dei due vassoi che facevano capolino in mezzo al tavolo per consolarsi: l’anno era iniziato da appena un mese e mezzo, e già si ritrovava invischiato nella Guerra dei Delacroix.
 








(1): "La tristezza durerà per sempre", che stando agli scritti di suo fratello pare siano state tra le ultime parole pronunciate da Vincent Van Gogh






……………………………………………………………………………………
Angolo Autrice:


Non avrei mai pensato che sarei tornata a scrivere una storia scolastica ma, quasi cinque anni dopo, rieccomi qui.
Questa volta non ci troviamo in Scozia e nemmeno in Scandinavia come l’ultima volta, bensì al confine tra Spagna e Francia, all’Académie de Magie de Beauxbatons: la storia avrà interamente luogo all’interno della scuola francese e nello specifico verterà su di un gruppo di studenti appartenente ad una sorta di società segreta.
La storia prende vagamente ispirazione dal romanzo “The secret history” di Donna Tartt e, come si può intuire facilmente, dalla società segreta fittizia “La brigata della vita e della morte” che fa la propria apparizione nella serie Gilmore Girls.


Regole


  • Le iscrizioni sono aperte fino al 16 febbraio, potete mandarmi la scheda via MP entro le 19, ma se qualcuno ne avesse bisogno naturalmente può chiedermi qualche giorno in più (con un minimo di preavviso, se possibile).
  • II. I vostri OC devono necessariamente essere del VI o del VII anno.
  • III. Potete partecipare con due OC, che se volete possono essere parenti (accetto gemelli, una coppia al massimo), amici o altro, accetto OC dello stesso sesso e dello stesso anno (solo nel caso del VI anno, non potete mandarne due del VII), ma potrei eventualmente chiedervi qualche modifica sull’età laddove ne avessi bisogno.
  • Non accetterò Animagus (al massimo, se volete, il vostro OC potrebbe star studiando per diventarlo), Licantropi o personaggi con ascendenze Veela, ma potrei accettare un Metamorphmagus al massimo.
  • Quando vi iscrivete vi chiederei di specificare il numero degli OC, l’anno di studio, la Casa e se avete intenzione di dargli un ruolo nel Quidditch o come Chef de Vie.
  • Non accetto personaggi affetti da disturbi mentali gravi.
  • Accetto al massimo uno studente nuovo che dovrebbe trasferirsi da un’altra scuola all’inizio della storia (il Prologo è ambientato durante la notte di Halloween, ma con i primi capitoli andrò a ritroso per ricoprire l’inizio vero e proprio dell’anno scolastico) che però dovrebbe necessariamente essere del VI anno. In generale accetto, naturalmente, personaggi che hanno studiato per qualche anno in una scuola diversa da Beauxbatons e che si sono qui trasferiti in seguito (es. tre anni passati ad Hogwarts, dal IV in poi ha studiato a Beauxbatons).
  • Prenderò al massimo 14 OC: 10 del VI anno e 4 del VII, i restanti membri del VII anno fungeranno da personaggi secondari.
  • Vale come sempre la regola dei due e dei tre capitoli: se non commentate due capitoli di fila nel terzo i vostri personaggi non appariranno, o al massimo verranno solo nominati di sfuggita; se qualcuno non dovesse farsi vivo nemmeno dopo la pubblicazione del terzo capitoli nel quarto l’OC/gli OC verranno eliminati. Mi rendo conto di essere obbiettivamente abbastanza celere a pubblicare, ma è anche vero che non solo scrivo su questo fandom da davvero tanti anni, quindi se decidete di iscrivervi ad una mia storia dovreste esserne consapevoli in partenza, ma su IG do anche molto spesso aggiornamenti riguardo a quando i capitoli dovrebbero arrivare, quindi penso che organizzarsi non sia impossibile. Se poi doveste rendervi conto che per un dato quantitativo di tempo avreste molte difficoltà a commentare basta che me lo diciate e i vostri personaggi appariranno normalmente, per me non ci sono problemi, basta avvisare. E per essere definitivamente del tutto chiara, con questo intendo che dovete esplicitamente scrivermi “per un mese/fino a giorno X non commenterò”, che è diverso da “scusa per il ritardo/arriverò”. Specifico anche che con “commentare” non intendo che dovete necessariamente recensire un capitolo qui su Efp, se mi commentate un capitolo in privato va bene ugualmente, ma, sempre per essere chiara, con questo non voglio dire che se mi scrivete solo “Il capitolo mi è piaciuto” dopo ogni aggiornamento siete autorizzate ad avere i vostri personaggi in ogni capitolo della storia senza mai recensire, anche commentando in privato dovreste darmi un feedback un tantino più elaborato di così, scrivo capitoli davvero molto lunghi e penso che qualcosa in più da dire lo si possa trovare.

E ora, qualche informazione sulla scuola:

Beauxbatons

  • Beauxbatons è un magnifico castello che si trova vicino al confine con la Spagna, in un’immensa tenuta circondata dai Pirenei e lontana dagli occhi indiscreti dei Babbani che comprende una serra gigantesca, scuderie, un serraglio popolato da disparate creature magiche, un campo da Quidditch e una sponda del Lago d’Oô.
  • Stando alle esigue informazioni canoniche a disposizione gli studenti di Beauxbatons devono provenire da Francia, Belgio, Lussemburgo, Olanda, Spagna, Italia e Portogallo. Io personalmente aggiungo alle possibilità anche Svizzera, Grecia, Malta e Cipro.
  • La lingua ufficiale parlata a Beauxbatons è il francese, ergo qualsiasi sia la nazionalità del vostro OC deve parlarlo e scriverlo alla perfezione.
  • L’organizzazione è pressappoco la stessa di Hogwarts, ci saranno i punti, la Coppa delle Case e il campionato di Quidditch.
  • Siamo nel 2022, è tempo di aggiornarsi, pertanto a Beauxbatons la tecnologia funzionerà.
  • Anche a Beauxbatons ci sono i Prefetti, un ragazzo ed una ragazza per Casa, chiamati Chef de Vie, scelti al VI anno e non al V come invece avveniva ad Hogwarts.
  • Gli studenti nel weekend non indossano la divisa.
  • Come ad Hogwarts la scuola prevede delle gite periodiche.
  • Le Case sono 3: Papillonlisse, Bellefeuille e Ombrelune. Per essere smistati, bisogna tirare una freccia d'argento attraverso la stanza, la freccia esploderà in scintille del colore della casa di appartenenza.

Case


BELLEFEUILLE: è famosa per il coraggio, la sensibilità, la lealtà e l'amore per la natura. Il colore della casa è il verde e sullo stemma sono impresse cinque foglie. Gli studenti che sono membri di questa Casa sono spesso amanti della natura, coraggiosi e leali verso tutto ciò che gli è caro. Sono attenti e sensibili ai bisogni delle persone che li circondano, lavoratori duri ed efficienti, sono attenti e gentili con gli animali e le altre persone. Spesso hanno una grande intelligenza emotiva, sono empatici e sanno come comportarsi nella maggior parte delle situazioni. Gli studenti di Bellefeuille hanno spesso un grande senso pratico, sono molto creativi di solito trovano le attività fisiche più piacevoli di quelle che richiedono il pensiero logico e sono spesso abili nel lavorare con le mani, creando oggetti di ogni genere e dedicandosi a passioni come l'artigianato.
OMBRELUNE: è famosa per l'astuzia, la logica, l'ambizione e la curiosità. Il colore della casa è il blu notte ed è simboleggiata da una luna sullo sfondo di un cielo stellato. I membri di questa casa sono molto spesso quelli che descrivono il concetto di "il fine giustifica i mezzi", in quanto talvolta possono essere manipolativi e astuti. Sono studenti spesso molto abili, votati a prendere decisioni logiche e ponderate e al perfezionismo. Ombrelune è spesso ritenuta la Casa più ambiziosa di Beauxbatons, i suoi studenti sono molto intelligenti, logici e strutturati, razionali, curiosi e interessati al mondo e al suo funzionamento.
PAPILLONLISSE: è nota per caratteristiche come gentilezza, abilità artistica, maturità e idealismo. Il colore della casa è il viola ed è simboleggiata da una farfalla che si posa su una foglia. Gli studenti che sono assegnati a questa Casa sono molto spesso naturalmente dotati nelle arti e alcuni di loro hanno la tendenza ad avere personalità in subbuglio, stimolanti e imprevedibili. Sono apprezzati per la loro raffinatezza e la loro sorprendente maturità a tutte le età, premiano la bellezza della mente e la bellezza dell'apparenza al di sopra di molte altre caratteristiche e sono sempre impegnati a migliorare le qualità estetiche della vita. Gli studenti di Papillonlisse sono spesso sognatori a occhi aperti, romantici senza speranza, quelli che vogliono cambiare il mondo con il loro idealismo e amore immortale. Valorizzano l'approccio umanista attraverso il mondo, non imparano a "raccogliere conoscenze", ma a diventare una persona migliore. Sono spesso introversi, focalizzati sul loro stato interno, e molto emotivi, accesi da forti sentimenti e una forte dedizione nel loro lavoro, essendo perfezionisti senza speranza in ciò che amano e a cui si dedicano.


Materie

  • Le materie insegnate a Beauxbatons per gli studenti del VI-VII anno sono a scelta, quindi nella scheda vi chiederò di indicarmi quali frequenteranno i vostri personaggi. Devono essere almeno 8 su 16 e a parte questo paletto potete scegliere con la massima libertà, solo mi sento di consigliare che buona parte degli OC frequentino Culture des Moldus.

Tabella


Attività extracurriculari


Ogni studente deve necessariamente svolgere almeno un’attività extrascolastica tra le seguenti:
  • Tiro con l’arco
  • Scherma (Fioretto)
  • Quidditch
  • Giornale della scuola
  • Club di scacchi
  • Orchestra (*le lezioni di musica sono frequentate solo da chi ne fa parte)
  • Cura delle Creature magiche (un gruppo di studenti che a turno si occupa delle Creature che vivono nel serraglio della scuola)

La brigade de la vie et de la mort


È la celebre società segreta di Beauxbatons, composta da 10 studenti che vengono scelti una volta approdati VI anno dai 10 studenti del VII già membri della società. È un gruppo dichiaratamente anarchico, dunque privo di un vero e proprio leader e di una qualsiasi gerarchia. L’iniziazione dei nuovi studenti viene nelle specifico gestita da solo una piccola parte dei membri “anziani”: cinque vengono estratti a sorte e a loro spetta il compito di testare gli studenti più giovani prima di iniziarli a tutti gli effetti all’interno del gruppo. Spesso gli ex studenti di Beauxbatons che sono stati membri della società entrano a far parte della “Power Elite”, cioè quel piccolo numero di individui di spicco che godono di un’elevata influenza sulla comunità, e sono quasi sempre destinati a ricoprire ruoli di spicco all’interno della società magica francese e non solo. Naturalmente il nepotismo fa da padrone nel mondo ristretto delle società segrete, pertanto molto spesso i membri vengono scelti per via della loro parentela con altri membri. I membri della brigade de la vie et de la mort non si propongono, vengono scelti, e quando si viene notati rifiutarsi non è consentito, salvo attirarsi lo sconsigliabilissimo astio da parte di tutti i componenti del gruppo. Agli iniziati una volta ammessi viene attribuito un nuovo nome con cui saranno conosciuti e chiamati dai compagni attuali e delle annate successive; il gruppo organizza spesso feste e uscite dai confini di Beuaxbatons per le quali la scuola ormai è costretta a chiudere un occhio essendo una pratica consolidata da decenni, e si riunisce due sere alla settimana, quando spesso si dibatte per novanta minuti di argomenti estratti a sorte. Tutte le attività sono finanziate dagli ex membri – spesso parenti di quelli attuali – e “coordinate” da un insegnante.
Il loro motto è “In omnia paratus” (“pronti a tutto”).
Non ci sono rigidi canoni scritti per i quali si può entrare nel gruppo, ma in linea di massima gli studenti che ne fanno parte possono essere parenti di ex membri, appartenenti a famiglie per qualche motivo molto ricche o importanti, oppure possono essere notati per una qualche spiccata caratteristica che li contraddistingue come un grande talento, una media altissima o una rinomata intelligenza. La brigade de la vie e de la mort quando non si dà alla goliardia apprezza particolarmente il discutere di tematiche culturali, specie in merito a storia, arte, filosofia e letteratura in particolare, molti pensano che siano per lo più un gruppo di secchioncelli intellettuali snob e questa considerazione potrebbe non essere troppo distante dalla realtà. Insomma, il succo è che ogni membro dovrebbe apportare qualcosa al gruppo per migliorarne l’immagine e il prestigio. Un ex membro illustre una volta sembra aver dichiarato che:
“Se la società ha avuto una buona annata, il suo gruppo «ideale» consisterà in: un redattore del giornale; un veemente radicale; un capitano della squadra di Quidditch; un romantico incompreso, un ubriacone con una media penosa; uno straniero; un donnaiolo; un esteta; un accanito lettore di poeti inglesi che giacciono in bare ammuffite e logorate dalle termiti, un tizio di cui nessuno ha mai sentito parlare prima d'allora e il più abile duellante della scuola.”

Scheda


Nome:
Anno di studio:
Nome come membro della società: (il nome viene scelto dai membri anziani, dovrebbe rappresentare una qualche caratteristica di qualsiasi tipo, fisica o caratteriale, dello studente. Possibilmente in francese)
Casa:
Eventuale ruolo e attività extrascolastica di cui fa parte:
Compleanno:
Nazionalità:
Stato di sangue:
Prestavolto:
Aspetto:
Segni particolari e abbigliamento che predilige:*
Personalità:
Background e famiglia:
Hobby/Talenti/cose che gradisce:
Fobie/Debolezze/cose che detesta:
Materie che studia, in quali va bene, in quali no:
Come vive il suo far parte della società segreta e per quale motivo ne fa parte? (solo per gli OC del VII anno)
Come prenderà l’onere di dover scegliere i nuovi membri? Si divertirà a tormentarli o sarà indulgente? (solo per gli OC del VII anno)
Per qualche motivo dovrebbe essere notato? Sarebbe entusiasta di poter far parte della brigade de la vie et de la mort oppure no? (solo per gli OC del VI anno)
Orientamento sessuale:
Segreto/i:*
Molliccio:
Patronus:
Amortentia:
Bacchetta:
Situazione sentimentale e persone che potrebbero piacergli (è importante che descriviate il passato sentimentale/sessuale del personaggio, se ce l’ha, capirete poi perchè)
Con quali persone potrebbe andare d’accordo e con quali no:
Animale:* (gatti, gufi o piccoli roditori)
Altro:*


Note in merito alla scheda:
I punti contrassegnati da (*) sono facoltativi. I segreti non sono obbligatori ma in caso decidiate di scrivere qualcosa non esagerate, parte dell’ispirazione mi è stata data da “The secret history” ma in questa storia vorrei evitare di scrivere di omicidi e il tono sarà infinitamente più leggero rispetto a quello del capolavoro della Tartt.
Ne approfitto però per rimarcare l’importanza che l’intellettualismo ricoprirà all’interno della storia: molti membri e molte intere annate della società sono spesso effettivamente caratterizzati da uno spiccato snobismo e dalla convinzione di essere migliori degli altri studenti proprio per il loro grande interesse per le discipline umanistiche. L’idea da cui la brigade de la vie et de la mort muove è un po’ quella dei celebri salotti letterari del passato, ergo è raro che qualcuno che viene scelto sia, passatemi il termine, una capra, a meno che la scelta non sia giustificata dalla parentela del soggetto in questione con ex membri o in generale con una famiglia molto importante, o da uno spiccato talento in qualche ambito che esula da quelli più intellettuali ma che può comunque apportare una qualche forma di prestigio al gruppo, come ad esempio il Quidditch o un altro qualsiasi sport.


Infine, vi presento la mia bambina:


Gisèle Delacroix
VII anno, francese, Ombrelune, Purosangue, membro del Club di Scherma, Eterosessuale
Libellule

Gisele Gisele-2

Gisèle è stata soprannominata Libellule a causa del suo modo di muoversi, della leggiadria e della grazia che la contraddistinguono: a vederla sembra che quasi scivoli sul pavimento come se indossasse dei pattini invece di camminare, frutto di anni e anni passati a ballare sulle punte. Gisèle è silenziosa, ci si potrebbe persino non accorgere della sua presenza, profondamente introversa e molto riservata, ma affatto timida, il suo silenzio cela un animo tenace e una forte determinazione, solo spesso preferisce tenersi in disparte, farsi gli affari propri ed essere semplicemente lasciata in pace. Gisèle è “figlia d’arte” di due ex membri della brigade de la vie et de la mort, pertanto essere scelta per lei è stato inevitabile, ma non è particolarmente entusiasta e reputa spesso il gruppo una perdita di tempo che le impedisce di dedicarsi liberamente allo studio e ai suoi interessi, la danza in primis. Verso ciò che l’appassiona Gisèle non è infatti affatto indolente, anzi, ci riversa il massimo della dedizione, della caparbietà e del perfezionismo che la contraddistinguono.



Grazie in anticipo a chi vorrà iscriversi🤍
A presto!
Signorina Granger

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Selezione OC ***


Selezione OC
 



 
Buongiorno!
Mi dispiace palesarmi solo con una lista invece che con un piccolo capitolo introduttivo, ma questo mese ho scritto veramente tanto (e ancora non ho finito) e sinceramente non me la sono sentita, in questi giorni, di dedicarmi subito anche al primo capitolo della storia. Ho preferito farvi aspettare meno e pubblicare direttamente la lista dei personaggi scelti, ma inizierò il capitolo sicuramente il prima possibile.
Qui sotto trovate ovviamente i personaggi selezionati divisi per anno, ho cercato di creare una situazione complessivamente il più omogenea possibile anche se al VII c’è una forte prevalenza di ragazzi e al VI di ragazze (e di Papillonlisse), e a seguire qualche informazione in più sui personaggi secondari. Ringrazio le persone che si sono rese disponibili a modificare l’anno di studio del loro personaggio mentre mi dispiace per chi non è stato scelto, alcuni dei personaggi del VI anno scartati figureranno come altri futuri membri della Brigade e in caso di qualche eliminazione li inserirò a tutti gli effetti nella storia. Ho preso gli OC che più mi convincevano per gusto personale e la possibilità di meglio adattarsi alla storia, ma se volete chiarimenti o chiedermi il motivo della mia decisione scrivetemi pure in privato. Vi chiederei solo di essere civili perché ho collezionato reazioni esagerate in passato e non ci tengo ad allungare la lista, ricordate che se una scheda non ha del tutto convinto me non significa necessariamente che sia fatta male o che non potrebbe invece convincere qualcun altro. In più, personalmente preferisco non includere in una storia personaggi che non mi convincono fino in fondo e che finirei col non rendere nella maniera dovuta, penso che sia molto più rispettoso nei vostri confronti non prendere proprio i vostri OC piuttosto che dare il contentino per poi renderli da schifo.
Detto ciò, noterete che per gli studenti del VI anno non ho indicato il loro nome come membri della Brigade, li scoprirete più avanti quando verranno effettivamente introdotti all’interno del gruppo.
Vi lascio al book fotografico di un’agenzia di giovani modelli alla lista dei personaggi scelti🤍
 

 
VI Anno
 
 
 
Dante Wang
Italo-cinese, Papillonlisse, Purosangue, Cacciatore, membro dell'Orchestra, del Club di Scacchi e di Tiro con l’Arco, Eterosessuale

Dante-1 Dante-2  

 
Daphné Michelle Blanchard
Francese, Papillonlisse, Purosangue, Chef fe Vie, membro dell’Orchestra e del Giornale, Eterosessuale

Daphne-1 Daphne-2
 
 
Diego Cesare Cornelio Colonna Orsini Paganini Sagredo
Italiano, Bellefuille, Purosangue, membro del Club di Cura delle Creature Magiche, Eteroflessibile

Diego-1 Diego-2
 
 
Lucinda Pais
Franco-portoghese, Papillonlisse, Purosangue, Cronista e cantante dell’Orchestra, Eterosessuale

Lucinda-1 Lucinda-2
 
 
Maëlle Phédre Macquart
Francese, Papillonlisse, Purosangue, membro dell’Orchestra e Cacciatrice, Pansessuale

Maelle-1 Maelle-2
 
 
Marguerite Dubois
Lussemburghese, Papillonlisse, Mezzosangue, membro dell’Orchestra, Eteroromantica demisessuale

Marguerite-1 Marguerite-2
 
 
Phoenix Anastasakis
Nick
Greco, Ombrelune, Nato Babbano, Cacciatore, Eterosessuale


Phoenix-1 Phoenix-2
 

 
VII Anno
 

 
Étienne Rainier Macquart
Francese, Bellefuille, Purosangue, membro del Giornale, Pansessuale
Tempête
 
Etienne-1 Etienne-2
 

Icaro Orsini
Italiano, Ombrelune, Purosangue, Cacciatore e Capitano, membro del Club di Scherma e del Giornale, Eterosessuale
Le Prince Charmant
 
Icaro-1 Icaro-2
 

Milad Sarkis
Belga, Ombrelune, Nato Babbano, membro del Club di Scacchi e di Tiro con l’Arco, Eterosessuale
Observateur

Milad Milad-2  

 
Nerea Pagano
Rea
Italiana, Bellefuille, Mezzosangue, Capitano e Battitrice, membro Giornale, del Club di Tiro con l’Arco, di Scherma e di Cura delle Creature Magiche, Eterosessuale
Cibelis


Nerea-1 Nerea-2
 

 
Secondari

 
 
Abel Hoffmann
Lussemburghese, Ombrelune, Purosangue, Chef de Vie, membro del Giornale, del Club di Scherma e di Scacchi
Glace

Abel  

È difficile dire se il nome di Abel all’interno della Brigade gli stia stato dato in merito alla sfumatura dei suoi occhi cerulei o se invece sia dovuto alla sua personalità e al modo di fare tutt’altro che cordiale e accogliente che lo contraddistingue. Abel è un ragazzo fortemente riservato e non di rado lo si può vedere da solo con un libro in mano, più che altro per sua scelta. Piuttosto selettivo nelle sue compagnie, Abel può risultare freddo e tagliente, fortemente sarcastico e un po’ cinico. Non è un tipo molto loquace, ma di solito quando parla lo fa per esprimere con grande fermezza e convinzione le sue idee, che protegge gelosamente. Naturalmente essendo molto piacente e “misterioso” ha metà della fauna femminile della scuola che lo osserva con sguardo sognante.
 

 
Annika De Vries
Olandese, Papillonlisse, Mezzosangue, Chef de Vie, membro dell’Orchestra
Nymphe
 
Annika

Annika è una giovane strega bellissima e delicata come un giglio, da qui il suo soprannome (si vocifera che abbia ascendenze Veela ma la teoria non è mai stata confermata). Introversa e un po’ timida è stata notata per la sua bellezza e il suo straordinario talento nel suonare il violino ed è talmente riservata da poter sembrare fredda, algida e distaccata nonostante l’apparenza celi un animo gentile e premuroso nei confronti del prossimo. Annika è una persona calma, ponderata e riflessiva e non si sa bene come è la migliore amica di Leticia, anche se sono diverse come il giorno e la notte.
 

 
Antoine De Vos
Belga, Ombrelune, Purosangue, Battitore e membro del Club di Tiro con l’Arco
Soleil
 
Antoine

Antoine è una sorta di tenero gigante dal cuore d’oro, quasi perennemente sorridente e di buon umore, da qui il suo soprannome all’interno della Brigade. Affabile, leale e generoso, se non fosse terribilmente sveglio ci si chiederebbe perché sia stato Smistato in Ombrelune. Antoine è sempre talmente in buona fede da poter sembrare ingenuo, ma la sua indole fortemente pacifica non gli vieta di intervenire e puntare i piedi quando ritiene che si stia commettendo un’ingiustizia. È il migliore amico di Gisèle e spesso e volentieri si ritrova a fare da pacere negli scontri che intercorrono tra la sua amica e Guillaume.
 

 
Guillaume Delacroix
Francese, Ombrelune, Purosangue, Redattore del Giornale e membro del Club di Scacchi e di Scherma
Lame
 
Guillaume

Nonostante i concenti sforzi di Gisèle volti a modificare l’albero genealogico o a smentire la loro consanguineità, Guillaume è suo cugino di primo grado. Guillaume e Gisèle sono nati nello stesso mese, hanno le stesse iniziali e sono stati Smistati nella stessa Casa, eppure il loro rapporto si può definire tutt’altro che idilliaco (lei aveva proposto di chiamarlo “Connard”, ovvero “Stronzo” all’interno della brigade, ma disgraziatamente la sua mozione non ha ricevuto abbastanza consensi), litigano quasi costantemente e sono animati dalla più spietata competitività quando si tratta l’uno dell’altra, forse perché sono più simili di quanto non ammetteranno mai. Come la cugina Guillaume è fortemente ambizioso, testardo e determinato, riesce misteriosamente ad eccellere in praticamente tutto ciò a cui si dedica, tant’è che è considerato il piccolo prodigio della famiglia e tra i migliori studenti della scuola.

 
 
Leticia Sanchez
Spagnola, Bellefuille, Mezzosangue, Cacciatrice, membro del Giornale e del Club di Cura delle Creature Magiche
Tornade
 
Leticia

È facile intuire il motivo del soprannome di Leticia anche solo dopo un approccio superficiale: è uno spumeggiante turbinio di energia, un tornado sempre in movimento. Positiva e molto energica Leticia non sta letteralmente mai ferma o con le mani in mano: segue una miriade di corsi, scrive per il Giornale e si dedica con grande cura al Serraglio della scuola oltre a partecipare alle attività della Brigade, tutto questo senza mai lamentarsi o dare alcun cenno di stanchezza. Estroversa fino al midollo, si vocifera che possa fare amicizia persino con le armature, non a caso è stata una dei pochi a valicare la barriera della timidezza di Annika e le due sono inspiegabilmente inseparabili. Leticia è molto affabile quanto irruenta e impulsiva, meglio evitare di discuterci, schiettissima e disponibile nei confronti dei suoi amici quanto indisponente e malevola con chi non è di suo gradimento.
 
 
 
 
Il primo capitolo dovrebbe arrivare al massimo nel corso della prima settimana di marzo, nel frattempo ho un paio di domande per voi:
  • C’è qualche autore, sia per quanto riguarda la letteratura sia la storia dell’arte, che il vostro OC predilige in maniera particolare? (Possibilmente vissuto tra ‘700 e ‘900 visto che saranno i periodi oggetto di studio nel corso delle lezioni)
  • Come ho sottolineato nel Prologo la tecnologia funziona a Beauxbatons, ma molte persone non ne hanno fatto cenno nelle schede, perciò lo chiedo qui: il vostro OC la usa? Ha un computer o un telefono con sé? Se sì, usa i social o magari ascolta musica/guarda serie tv? Se vi va scrivetemi pure quello che volete sui gusti musicali o inerenti al mondo seriale del vostro personaggio, i riferimenti alla cultura pop sono sempre estremamente graditi dalla sottoscritta. [Chi ha già affrontato la questione nella scheda ovviamente non deve rispondere a questa domanda]
Come in OMITB anche in questa storia prenderò in prestito Wizagram, l’IG dei maghi, da Chemy (grazie Chemy!), quindi anche se il vostro OC è Purosangue e cresciuto tra i maghi è plausibilissimo che abbia un telefono e che usi l’app, sarà anche ora che maghi e streghe un po’ si integrino con la tecnologia e i Babbani dopotutto. Arthur Weasley approves.
Vi chiederei di rispondermi con un messaggio qui su Efp, così che corra meno il rischio di perdermi per strada le vostre risposte.
A presto spero, buona domenica!
Signorina Granger

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo I ***


Capitolo I


 
 
 
Domenica 11 settembre 2022
In un punto non ben definito nel cielo delle Marche


 
 
Il primo viaggio di Dante Wang alla volta della sua nuova scuola, l’Académie de Magie Beauxbatons – il solo suono di quel nome, a sua detta pomposissimo, gli provocava una smorfia pregna di disappunto sul viso fin da quando sua madre aveva ben pensato di iscriverlo per i suoi ultimi due anni di studi – si stava rivelando uno dei più memorabili della sua vita. E non era sicuro, Dante, di poter conferire un’accezione positiva a quell’attributo.
Come funzionasse di preciso l’arrivo a Beauxbatons Nerea Pagano, sua più vecchia amica nonché unica persona che una volta rinchiuso tra le mura della scuola avrebbe potuto affermare di conoscere se si escludevano suo fratello minore Zhān e Cornelio, il fratellino della stessa Nerea, ci aveva provato a spiegarglielo un numero indefinito di volte nel corso della settimana passata, ma Dante non era mai stato a sentirla con attenzione, premurandosi invece di infilarsi puntualmente le cuffie nelle orecchie e di dileguarsi il più rapidamente possibile, non volendone sapere di immaginarsi nella sua nuova scuola: per tutta l’estate Dante si era convinto che se non avesse pensato a Beauxbatons e non si fosse concretamente immaginato tra le sue mura allora il suo trasferimento sarebbe diventato un po’ meno reale. Aveva fatto di tutto per evitare di pensarci il più a lungo possibile, ma ormai il fatidico giorno era arrivato e lui, la sua famiglia e la famiglia di Nerea erano inesorabilmente in viaggio. Verso dove Dante non lo sapeva, e nemmeno gli interessava particolarmente, ma di certo moriva dalla voglia di scendere dalla macchina.
Quando quella mattina Dante, suo fratello e sua madre si erano incontrati come da accordo con i Pagano nel giardino della loro umile dimora – leggasi castello – al ragazzo era quasi scappato da ridere alla vista del loro mezzo di trasporto: doveva per forza trattarsi di una burla per alleggerire il suo pessimo umore, perché come potevano ben 11 persone, con aggiunta di bagagli e animali vari, infilarsi in un minuscolo maggiolino rosso fiammante?
Eppure Nerio, il padre di Nerea, era sembrato estremamente serio quando aveva iniziato ad infilare il bagaglio dei suoi due figli minori, nonché quello di Dante e di Zhān, nel bagagliaio. Dante aveva fatto per andare a dare un’occhiata al bagagliaio, incredulo, per verificare come potessero tutte le valige entrarci, ma sua madre lo aveva presto spinto verso la portella posteriore destra dell’auto asserendo che fossero già in ritardo sulla tabella di marcia, e al ragazzo non era restato che infilarsi in auto tra suo fratello e Nerea. Con una buona dose di sconcerto Dante appurò come l’interno dell’auto non sembrasse affatto quello di un maggiolino, quanto più quello di un enorme van con, dietro al sedile del guidatore e del passeggero, ben tre file di posti a sedere. Il trasportino del suo gatto Ruggine sulle ginocchia, a Dante non era rimasto che guardarsi attorno spaesato e meravigliato mentre sua madre Giada, i suoi nonni e la madre di Nerea, Cassandra, s’infilavano nella fila di posti dietro a quella dove si erano stipati lui, l’amica e i loro fratelli minori. L’ultima a salire fu Calipso, la sorella maggiore di Nerea, che essendo la più grande godette del privilegio di avere una fila di posti tutta per sé, cosa che scatenò sonore manifestazioni di protesta da parte dei più piccoli Cornelio e Zhān mentre Nerio, collocatosi alla guida con suo padre accanto, metteva in moto l’apparente minuscola auto.
Quello che tutto sommato – e contrariamente alle sue aspettative conoscendo la sua famiglia e quella dell’amica – era iniziato come un viaggio abbastanza tranquillo ben presto si rivelò più caotico di una traversata in pullman di bambini in gita: Calipso, che studiava canto alla Scala, fece partire una sequela infinita di brani di Andrea Bocelli cinque minuti dopo essere partiti, quando il maggiolino scarlatto stava ancora sorvolando la campagna delle colline emiliane; Nicola, il nonno di Nerea, iniziò a discutere con il figlio per il modo in cui guidava e sulla strada da fare brandendo una cartina risalante al secolo prima mentre nella fila dietro sua madre, i suoi nonni e la madre di Nerea davano vita ad un torneo di carte dopo aver fatto apparire un minuscolo tavolino con le gambe basse.
“Ci vuole molto per arrivare?!”
Erano in viaggio da circa un’ora quando Dante, una nota di disperazione nella voce, ruotò la testa verso Nerea, che sedeva accanto a lui tenendo il suo gatto sulle ginocchia, accarezzando dolcemente il lungo e foltissimo pelo di Ruggine dopo averlo fatto uscire dal trasportino. Il gatto si godeva le coccole felice e soddisfatto, per nulla preoccupato di rendere evidente al padrone quanto preferisse la sua amica d’infanzia a lui.
“Eh?!”
Mentre Calipso, dietro di loro, intonava a gran voce il ritornello di “Con te partirò” Nerea guardò l’amico inarcando un sopracciglio non avendo capito una parola a causa del trambusto che imperversava nella minuscola auto rossa, che sfrecciava nel cielo portando con sé l’eco di note musicali che lasciavano piuttosto interdetti i piccoli stormi di uccelli di passaggio.
“Ci vuole molto?!”
Dante si ripeté alzando la voce di diverse ottave per sovrastare il canto di Calipso, la musica ma, soprattutto, la lite in corso nei sedili dietro al suo: sembrava che i suoi nonni stessero litigando a causa della partita a carte e dell’abitudine di nonno Alfredo di cercare di sbirciare la mano della moglie.
“Circa tre ore! Quindi credo che tra un paio arriveremo.”
Nerea gli rispose con un sorriso allegro e rilassato mentre si legava i lunghi e lisci capelli castani sulla nuca per avere un po’ di refrigero sul collo e sulle spalle lasciate nude dal vestito rosso con le spalline sottili che indossava, destando sempre più sgomento nell’amico mentre i loro fratellini, accanto a lui, si sfidavano a Mario Kart sulla Nintendo Switch di Cornelio.
“Come fai ad essere così tranquilla?!”
“Ah, è la forza dell’abitudine. Questo è niente, l’anno scorso abbiamo quasi preso in pieno un’auto che viaggiava col turbo invisibile.”
Nerea tornò ad affondare le mani abbronzate nel soffice pelo di Ruggine, che si era acciambellato sopra al suo lungo e svolazzante abito rosso con fantasia bianca, con una leggera e noncurante scrollata di spalle che lasciò Dante ancora più interdetto. Nicola, il nonno paterno della ragazza, scelse quell’esatto momento per inveire contro il figlio alla guida, accusandolo di andare a “passo d’uomo”:
“Nerio, ma come cazzo guidi, di sto passo in Abbruzzo ci arriviamo quando Cornelio avrà la patente e guiderà lui!”
“Nicola, ma dove siamo?!”
Cassandra, la madre di Nerea, alzò la testa dal suo mazzo di carte – mentre Alfredo, il nonno di Dante, cercava di sbriciare quello della moglie – per gettare un’occhiata incerta al suocero e al marito, impegnata a chiedersi se lasciarli sedersi vicini per giocare a Scopa fosse stata poi una buona idea.
“Probabilmente a Bolzano, mi sembra che Nerio stia facendo il giro al contrario visto quanto ci stiamo mettendo! Guarda, ecco delle montagne!!
“Papà ma quelli sono gli Appennini! L’anno scorso abbiamo quasi fatto un incidente con quell’auto volante sopra ad Ascoli, quest’anno decido io la velocità!”
Mentre Calipso tornava ad intonare a gran voce il ritornello della canzone Raffaella, la nonna di Dante, udito pronunciare il nome della città subito sollevò la testa come colpita da una consapevolezza improvvisa, e si affrettò ad aggiungersi alla conversazione sporgendosi leggermente verso i sedili dove erano seduti i nipoti mentre il marito ne approfittava per guardarle le carte.
“Ascoli?! Mi sono ricordata ora che volevo prendere un po’ di olive! Al ritorno ci fermiamo. … Alfredo, ma che fai, mi guardi le carte?!”
“Io?! Raffaella sei la solita donna di mala fede, mezzo secolo che siamo sposati e stai qui ad accusarmi di guardarti le carte!”
“Non parlare di matrimonio davanti a Giada, che si è appena lasciata!”
Mentre la nonna rimbeccava il marito Dante, seduto davanti a loro, alzò gli occhi al cielo prima di gettare un’occhiata in tralice al fratellino, che però non disse una parola e continuò a fissare concentrato lo schermo della console fingendo di non aver sentito mentre la loro madre, dopo aver esalato un basso sospiro per richiamare a sé tutta la sua pazienza, si rivolgeva con tono pacato ai genitori:
“Mamma, penso di poter sopportare te e papà che parlate di matrimonio, tranquilla.”
“Io l’ho sempre detto che quello non mi piace…”
Ma prima che Raffaella potesse inveire contro l’ormai ex genero il marito, un po’ per gusto di vincere e un po’ per bloccarla e impedire ai nipoti di sentire, gettò sul tavolino l’ultima carta che gli era rimasta in mano:
“To’, scopa!”
“Ancora?! Ma non è possibile che vinci sempre! Basta, cambiamo gioco, facciamo Rubamazzetto.”
Mentre nonna Raffaella raccoglieva le carte per rimescolarle e nonno Alfredo lamentava il suo scarso spirito di competizione Nicola, ormai saturo dell’andamento di velocità del veicolo, dopo aver sbuffato sonoramente allungò la mano destra verso il pulsante rosso che riportava la scritta “TURBO”.
“Basta, di sto passo arriviamo domani. Metti il turbo.”
“Papà, no, devo farlo revisionare!”
Nerio fece per impedire al padre di premerlo, ma prima che potesse staccare la mano dal volante Nicola aveva già premuto il tasto e il maggiolino schizzò a tutta velocità rischiando di investire uno stormo di colombe, che si dispersero svolazzando via infastidite da quei maleducati che non rispettavano il codice aereo della strada. Dante ringraziò sua madre per avergli intimato di legarsi la cintura almeno cinque volte, perché altrimenti avrebbe dato una bella crognata contro il sedile di Nerio, e Nerea strillò abbracciando Ruggine, che aveva drizzato il pelo spaventato, mentre la pressione la appiattiva contro lo schienale del sedile. Ben presto l’auto iniziò a tremolare scuotendo tutti i suoi passeggeri mentre il guidatore imprecava a bassa voce cercando di raddrizzare il volante e suo padre, accanto a lui, lo guardava con tanto d’occhi cercando di aggrapparsi al sedile:
“Ma perché fa così?!”
“Ti avevo detto di non premerlo, non mi ascolti mai!”
Ben presto il maggiolino, nonostante gli sforzi di Nerio, si inclinò e cominciò a viaggiare in obliquo perdendo quota, scatenando il panico in tutto il gruppo mentre ciascuno cercava di stringere a sé i beni di maggior valore a portata di mano: Calipso spense finalmente la musica per stringere a sé la sua preziosissima mini cassa Bluetooth, nonno Alfredo afferrò le carte da gioco più rapidamente che poteva e Cassandra cercò di salvare i panini che, usciti dalla borsa, avevano iniziato a disperdersi in giro per l’auto. La Switch sfuggì di mano a Cornelio e quasi colpì sua sorella in fronte mentre Dante abbracciava il suo gatto ritrovandosi schiacciato contro Nerea a causa della pressione. Il ragazzo, poco avvezzo a viaggi di quel tipo, si rivolse stralunato alla ragazza mentre Nerio, imprecando, raddrizzava il volante e con lui l’auto, che tornò a volare dritta con un movimento brusco che fece fare le capriole a tutti gli stomaci dei presenti.
“Papà, lo vedi perché vado piano?!”
“Beh, come potevo saperlo io che il turbo non andava bene!””
“Ma se te l’ho detto mille volte prima di partire?!”
“Pensi che anche gli altri viaggino più o meno così verso la scuola?!”
Dante deglutì a fatica mentre si rivolgeva all’amica temendo sinceramente la seconda parte del viaggio verso Beauxbatons che li aspettava visto come la giornata aveva avuto inizio, guardando Nerea restituire la console al fratellino e tornare a sedersi dritta sul sedile scuotendo la testa, cercando di ridarsi un tono mentre si ravvivava nervosamente i capelli castani.
“Sono piuttosto sicura di no.”
 

 
divisore

 
 
Da qualche parte nel Sud della Francia

 
 
Un silenzio tombale si era impossessato della Bentley bianca che sorvolava immense distese di campi e vigneti e sui suoi quattro passeggeri – cinque, se si contava anche la componente felina –, tanto che alla ragazza che sedeva con le gambe accavallate con grazia sul sedile posteriore sinistro non restava che tenere lo sguardo ancorato sul cielo limpido che circondava la vettura, immersa in un mare di pensieri.
Di che cosa sono fatte le nuvole?
Una domanda che si era spesso palesata nella mente di Gisèle Delacroix, soprattutto nel corso dei viaggi in auto che da bambina le capitava di condividere con la sua famiglia. Certo non viaggi in auto normali, bensì avvolti dai cieli tersi del Sud della Francia, quando tutto ciò che i suoi occhi potevano scrutare attraverso il finestrino erano masse bianche dall’aria soffice come cuscini di piume e un’infinita distesa celeste. Da bambina Gisèle non chinava mai lo sguardo sulla terra sotto di lei perché l’altezza era talmente tanta da procurarle le vertigini, così sua nonna le aveva insegnato a scrutare solo il cielo, assicurandole quanto esiguo fosse il numero di bambini al mondo in grado di godersi una vista come quella. Ci aveva messo un po’, Gisèle, a realizzare che viaggiare su un’auto volante non fosse una pratica comune a tutti, ma anche dopo aver compreso di far parte di una famiglia speciale quella domanda aveva continuato a farle visita ad ogni traversata aerea, quando osservava le nuvole attraverso il finestrino chiedendosi come sarebbe stato toccarle. Immaginava che sarebbe stato come toccare un’enorme nuvola profumata e soffice di zucchero filato finchè sua madre, un bel giorno, non aveva spezzato la magia delle sue fantasticherie infantili: sembrava che quei bei cuscini fluttuanti altro non fossero che cumuli di vapore e acqua che cadeva poi dal cielo. Una bella delusione per la piccola Gisèle, che per qualche tempo durante quei viaggi in auto aveva smesso di gettare occhiate trasognate alle sue amiche bianche, colpevoli di aver tradito le sue aspettative.
Anche se le nuvole non erano più magiche da tanto tempo ai suoi occhi Gisèle aveva tenuto lo sguardo incollato al finestrino per la stragrande maggioranza del tempo trascorso in auto mentre, a molti chilometri di distanza dal maggiolino dei Pagano, la Bentley bianca di suo padre sorvolava la Provenza: leggere era fuori discussione, o si sarebbe ritrovata con una nausea incontenibile ancor prima di lasciarsi la Provenza alle spalle, il telefono non prendeva e nemmeno fare conversazione rientrava tra le sue possibilità, visto che sua madre e suo padre non avevano fatto altro che parlare del calendario autunnale dei concerti o degli eventi prossimi a cui avrebbero dovuto presenziare. Sì, per Gisèle Delacroix il viaggio verso Beauxbatons rappresentava quasi sempre un’agonia, ma il pensiero che fosse l’ultimo, fatta eccezione per quello al ritorno dalle vacanze invernali, la rincuorò un poco.
“Manca ancora molto?”
La lussuosissima auto in cui viaggiava era avvolta da un silenzio quasi innaturale da un quarto d’ora quando Gisèle parlò ruotando leggermente la testa per rivolgere lo sguardo sul sedile del guidatore, posando i grandi occhi chiari sulla nuca di suo padre. Ormai Gisèle stava controllando spasmodicamente l’orologio da polso ogni cinque minuti tanta era la sua smania di arrivare a destinazione e la strega provò un indescrivibile sollievo quando Henri, dopo aver brevemente posato lo sguardo su di lei attraverso lo specchietto retrovisore e le lenti scure degli occhiali, le rispose con un diniego pacato:
“No tesoro, siamo quasi a Foix. A breve arriviamo.”
Gisèle non rispose, limitandosi ad annuire facendo precipitare nuovamente l’interno del veicolo nella quiete più totale prima di sistemarsi più comodamente contro il sedile di pelle beige dell’auto di suo padre e circondare il trasportino bianco di Vaclav, il suo gatto, con il braccio destro per rassicurarlo: il gatto non sembrava affatto felice di essere stato rinchiuso nella sua gabbietta per quasi quattro ore. Quando Gisèle posò lo sguardo sul felino per assicurarsi che non fosse troppo agitato Vaclav ricambiò, gettandole un’occhiataccia con i suoi penetranti occhi eterocromi, uno verde e uno azzurro. Gli occhi chiari, quella mattina di un brillante azzurro cielo dovuto al bel tempo, celati dalle lenti scure degli occhiali da sole tartarugati di Gisèle si spalancarono leggermente di fronte a quell’occhiataccia, sollevando al contempo le sopracciglia come ad assicurargli la sua totale innocenza e assenza di responsabilità: fosse stato per lei lo avrebbe tenuto libero per almeno una parte del viaggio, era stata costretta da cause di forza maggiore e, in particolare, dalla sgraditissima presenza del quarto incomodo che sedeva sull’altro sedile posteriore dell’auto. La colpa era tutta di suo cugino, non certo sua, e Gisèle sperò che il suo micio l’avesse capito vista l’impossibilità di dare il via ad un monologo su quanto il ragazzo fosse insopportabile. Lo avrebbe anche fatto, ma sua madre l’avrebbe zittita seduta stante, non valeva nemmeno la pena di provarci: per qualche ridicolo ed inspiegabile motivo sua madre adorava suo cugino, pensiero che le procurò un attacco di nausea ben peggiore di quanto non avrebbe potuto fare qualche minuto di lettura.
 


divisore
 
 

Sintra, Portogallo
 
 
Lucinda Pais era in procinto di partire con la sua famiglia quando il suo telefono, infilato poco prima all’interno di una borsa a tracolla bianca, iniziò a squillare con insistenza. Chiedendosi chi la stesse cercando con quel tempismo – anche se un’idea se la fece, a giudicare dall’orario – la ragazza si fermò sui gradini bianchi che congiungevano l’ingresso della villa di famiglia con un piazzale di ghiaia dove l’aspettavano una Bentley Speed Six verde scuro dove erano già stati caricati i bagagli, i suoi genitori, suo fratello maggiore Lisandro e Marcelo, l’autista. Reggendo la gabbia di Pavarotti, il suo corvo, con la mano sinistra Lucinda recuperò il telefono dalla borsa con la destra, gettando una rapida occhiata al nome apparso sul display luminoso attraverso le lenti scure degli occhiali da sole. Ben presto un sorriso incurvò le labbra rosee della giovane strega, che non esitò a rispondere accostandosi il telefono all’orecchio:
“Pronto?”
“Luli, ciao! Se mi hai risposto significa che non sei ancora partita. Ti prego dimmi che non sei ancora partita.”
Il sorriso si allargò sulle labbra di Lucinda mentre la ragazza riprendeva a scendere i gradini per raggiungere i suoi genitori, pronti per partire, e Pavarotti si agitava un poco all’interno della sua gabbia, per nulla contento di essere stato rinchiuso per affrontare il viaggio. La voce femminile dall’altro capo del telefono, che parlava a molti chilometri di distanza da Sintra, si presentò alla giovane strega con un marcato accento francese e una lieve nota di disperazione che divertì non poco Lucinda, ormai abituata a quel rituale pre-partenza che si presentava ormai ogni anno.
“No. E se mi chiami significa che nemmeno tu sei ancora partita.”
“Certo che no, siamo in ritardo, come ogni anno!”
Maëlle gemette disperata e Lucinda ridacchiò mentre udiva, come sfondo sonoro della chiamata, due voci maschili e una femminile discutere animamente tra loro in francese con l’aggiunta di un continuo aprire e sbattere di portiere e il distante e tetro piagnucolio di uno o più gatti. La partenza per Beauxbatons in casa Maquart era sempre molto turbolenta, e Lucinda avrebbe pagato volentieri per assistere personalmente alla loro traversata alla volta del Parco nazionale dei Pirenei. Chissà, magari per l’ultimo anno si sarebbe auto-invitata da loro pochi giorni prima della partenza, giusto per vivere in prima persona quell’esperienza.
“Vedrai che ce la farete, come ogni anno. La vostra fermata è l’ultima, hai tempo.”
“Lo spero. In caso, se non mi vedi, sai che è perché non ce l’abbiamo fatta. O perché ci siamo uccisi tra di noi, una delle due.”
Lucinda sorrise mentre udiva le voci dei fratelli maggiori di Maëlle battibeccare in lontananza e annuì come se la francese avesse potuto vederla, impaziente di arrivare a destinazione per poter salutare lei e tutte le altre amiche che non vedeva ormai da diverse settimane.
“Ci vediamo sulla carrozza, ora devo andare o farò tardi io.”
“Tienimi un posto!”
Maëlle rivolse un ultimo, disperato saluto all’amica prima di riattaccare e correre a sistemare i trasportini di Joey e Phoebe, il suo gatto e la gatta di suo fratello, in auto mentre Lucinda, giunta di fronte ai genitori e al fratello nel piazzale di ghiaia che fronteggiava la villa, riponeva il telefono in borsa. Ormai definitivamente pronta a partire Lucinda rivolse un sorriso allegro a Marcelo prima di consegnargli la gabbia di Pavarotti, ruotando brevemente la testa per gettare un’ultima e affettuosa occhiata in direzione della maestosa villa a tre piani che avrebbe salutato per qualche mese. Casa le sarebbe mancata, inutile negarlo, ma una parte di lei era immensamente felice di tornare a scuola: non vedeva l’ora di vedere le sue amiche.
“Grazie Marcelo. Bene, sono pronta, possiamo andare.”


 
divisore


 
La Bentley bianca dei Delacroix atterrò planando dolcemente sulla distesa erbosa che costituiva la destinazione del suo viaggio, un punto protetto da incantesimi all’interno del Parco nazionale dei Pirenei, e il suo proprietario ebbe appena il tempo di spegnere il motore prima che una delle due portiere posteriori venisse spalancata per consentire a sua figlia di gettarsi fuori dall’auto. Fu un sollievo calpestare l’erba e respirare a pieni polmoni l’aria fresca, anche se i suoi arti inferiori stavano chiedendo pietà dopo tutte quelle ore passate da seduta. Gisèle però non perse tempo a guardarsi attorno per godersi un panorama che già conosceva a memoria, anzi si affrettò a sistemarsi la sua borsa a tracolla color cuoio sulla spalla destra prima di tirare fuori dall’auto anche il trasportino di Vaclav, felice quanto lei di essere arrivato.
“Ti serve aiuto con la valigia?”
Suo padre si girò in direzione della figlia mentre la ragazza tirava fuori il trasportino del gatto trascinandolo verso di sé sui sedili di pelle, ma Gisèle si affrettò a rifiutare mentre anche sua madre e suo cugino uscivano dall’auto, entrambi desiderosi di prendere una boccata d’aria.
“Tranquillo, faccio da sola.”
Gisèle richiuse la portiera con quanta più delicatezza possibile – un graffio all’auto e si sarebbe ritrovata nelle vesti di senzatetto, e a quel punto avrebbe dovuto emigrare in Italia per chiedere asilo ai Pagano. Per fortuna la famiglia di Nerea era sempre ben felice di ospitarla  – prima di appoggiare il trasportino di Vaclav sull’erba, indispettendo ancor di più il micio per quella terribile mancanza di rispetto. Dov’erano le premure a cui era abituato, ora che si ritrovava abbandonato in mezzo al prato? Ma Gisèle ai capricci del suo viziatissimo gatto, che miagolò in protesta, ci avrebbe pensato più tardi, perché fece il giro dell’auto puntando al bagagliaio, desiderosa di recuperare le sue cose per andare ad aspettare il secondo mezzo di trasporto della giornata e raggiungere i suoi amici nel minor tempo possibile. Naturalmente la strega giunse davanti allo sportello posteriore in concomitanza con Guillaume, che le riservò un’occhiata se possibile ancor più glaciale del solito mentre anche Henri usciva dall’auto, cercando di scostarle la mano dallo sportello con la propria:
“Levati. L’anno scorso hai accidentalmente urtato la mia Pierre Cardin con la tua orrenda valigia dei Puffi. C’è ancora il graffio.”
“Levati tu. E solo perché è azzurra non significa che sia dei Puffi, emerito deficiente.”
Determinata a non farsi scavalcare da suo cugino per tutto l’anno scolastico a partire da quel giorno esatto Gisèle sollevò lo sportello per recuperare la sua valigia, barcollando quando Guillaume cercò di scostarla con un leggero spintone. A quel punto la strega, già terribilmente satura della sua vista ancor prima di arrivare a scuola, si voltò, gli assestò un poderoso calcio sullo stinco con la punta dei suoi mocassini loafer color cioccolato e dopo aver afferrato il manico del suo enorme trolley blu polvere battè la ritirata lasciandosi alle spalle suo cugino, che imprecava sonoramente stringendosi il ginocchio infortunato.
“Ci vediamo a Natale Maman, buon viaggio di ritorno.”
Raggiunta la madre davanti al lato destro dell’auto Gisèle recuperò il trasportino di Vaclav prima di scoccare un paio di baci frettolosi su entrambe le guance di Colette, che dopo aver ricambiato gettò un’occhiata stranita in direzione del nipote con i grandi e limpidi occhi azzurri che condivideva con la sua unica figlia:
“Che cosa succede a Guillaume? Si è fatto male?”
“Credo si sia fatto male con lo sportello del bagagliaio, c’è gente che riesce persino a farsi male da sola! A presto Papa!”
Gisèle doveva allontanarsi prima che Guillaume facesse la spia e le procurasse un rimprovero di cui non sentiva alcun bisogno, perciò dopo essersi alzata in punta di piedi e aver scoccato due baci anche sulle guance di Henri girò sui tacchi e marciò sul prato insieme alla sua valigia e a Vaclav, discendendo il pendio erboso in cima al quale erano atterrati e alla cui base si era radunato un consistente gruppo di studenti francesi, tutti in attesa che la scuola li passasse a prendere. In molti stavano scrutando ammirati e pieni d’invidia l’auto dei Delacroix, mentre alcune ragazze guardavano sognanti un po’ Guillaume e un po’ la madre di Gisèle, ma la giovane strega non ci fece caso e non si voltò indietro, allontanandosi in tutta fretta dalla sua famiglia mentre i suoi genitori la guardavano chiedendosi che cosa le fosse preso per darsi alla fuga così rapidamente.
Mentre scendeva il pendio con lunghe falcate controllate, stando ben attenta a non scivolare a causa delle liscissime suole dei suoi mocassini, e la coda bassa in cui aveva legato i capelli ricci con un nastro azzurro polvere alla base del collo dondolava ad ogni passo Gisèle udì la voce della madre, una delle più amate di tutta la Francia, chiamarla con un’indistinguibile nota di rimprovero nella voce. Evidentemente Guillaume le aveva spiegato la natura del suo piccolo infortunio, ma Gisèle non si fermò né si voltò indietro, continuando a correre sull’erba smeraldina mentre l’eco di una risata si disperdeva nell’aria.
 

 
divisore


 
Il viaggio dei Macquart verso il Parco nazionale dei Pirenei si rivelò eccessivamente movimentato come ogni anno, ma sempre come ogni anno Étienne e Maëlle riuscirono ad arrivare a destinazione prima del passaggio della carrozza di Beauxbatons insieme ai rispettivi gatti e ai loro due fratelli maggiori. Basile e Soleil sembrarono particolarmente sollevati quando l’auto del primogenito toccò finalmente il suolo erboso della porzione del parco adibita a punto di ritrovo, entrambi piuttosto grati che il percorso scolastico dei fratelli minori stesse giungendo al termine e che quello sarebbe stato uno dei loro ultimi viaggi: dopo aver spento il motore Basile uscì dall’auto per aprire il bagagliaio e aiutare Maëlle con la valigia e il suo manico di scopa mentre Etienne, dopo essere sceso dall’auto insieme alla sua british shorthair Phoebe, si guardava attorno strizzando leggermente gli occhi blu per cercare di mettere a fuoco i volti degli studenti arrivati prima di loro – ovvero la stragrande maggioranza, come al solito – e individuarne qualcuno di noto.
“Cristo Basile, hai guidato veramente di merda, avrò la nausea per tutto il giorno.”
Soleil fu l’ultima a scendere dall’auto, sollevando lentamente entrambe le braccia per tendere i muscoli indolenziti e darvi un po’ di sollievo – cosa di cui necessitavano anche le sue povere orecchie dopo che i fratelli minori avevano deliziato lei e Basile con i loro canti stonati per metà del viaggio – mentre il fratello maggiore, dopo aver svuotato il bagagliaio dagli averi di Etienne e Maëlle, chiudeva lo sportello gettandole un’occhiata torva:
“Parlane con il tuo amato fratellino che, come al solito, aveva dimenticato i libri scolastici.”
Soleil spostò lo sguardo su Etienne, in piedi davanti all’altra fiancata dell’auto, e il ragazzo si affrettò a sfoderare il suo miglior sorriso innocente mentre una leggera brezza rinfrescante gli solleticava le maniche della camicia bianca e i lisci capelli biondo scuro:
“In mia difesa posso dire che il primo pensiero del mio cervello è stato mettere in valigia i beni di prima necessità, e i libri scolastici non sono riconosciuti come tali dai miei emisferi cerebrali.”
“Certo, perché a scuola i libri non servono. Vieni qui, dammi un abbraccio.”
Esasperata ma, al tempo stesso, fortemente affezionata al fratello minore Soleil sollevò un braccio verso Etienne e gli fece sbrigativamente cenno di avvicinarlesi mentre Maëlle, dietro di loro, stritolava a sua volta Basile e tutte le ultime, sporadiche molecole di pazienza rimaste nel corpo del mago. Quando Etienne venne cinto dalle braccia esili e abbronzate della sorella maggiore sentì le labbra di Soleil scoccargli un bacio su una guancia prima che venissero accostate al suo orecchio per mormorare qualcosa senza che la sorella minore, impegnata a sorbirsi le solite raccomandazioni di Basile, potesse udirlo:
“Allora, vedi di non metterti troppo nei casini. Nemmeno con… tu sai chi. Tieni d’occhio tua sorella, soprattutto se dovesse entrarci anche lei, ok? Se dovesse succedere qualche disastro io e Basile lo sapremo, quindi usa il cervello se non vuoi vedermi arrivare per prenderti a calci.”
“Di che ti preoccupi, se anche dovesse entrare ci sono io! Giuro, farò in modo che nessuno la torturi.”
“Sarà meglio. E ti prego, studia, è il tuo ultimo anno.”
Étienne non potè far altro che sorridere dinanzi allo sguardo rassegnato della sorella maggiore, annuendo con la sua aria da bravo bambino innocente ed obbediente prima di rivolgersi al fratello per salutare anche lui:
“Mi impegnerò, giuro. Ciao Basile, grazie per il passaggio.”
Mentre Maëlle salutava anche Soleil abbracciandola Etienne rivolse un gran sorriso e una pacca sulla spalla al fratello maggiore, che rispose con un’affettuosa manata sulla schiena e una strizzata d’occhio prima di sforzarsi di apparire serio e rivolgersi ad entrambi i fratellini con tutta l’autorevolezza di cui disponeva.
“D’accordo ragazzi, ci vediamo a Natale. Etienne, non esagerare con le tue dannate vignette del giornale, Maëlle, non romperti l’osso del collo cadendo dalla scopa. Se vi serve qualcosa ditecelo e ve lo manderemo.”
“Sarà fatto. Non annoiatevi troppo senza di noi!”
Maëlle sorrise allegra ad entrambi mentre rivolgeva loro un cenno con la mano e lo guardava risalire in auto accanto ad Etienne, aspettando che entrambe le portiere anteriori venissero richiuse prima di rivolgersi al maggiore:
“Bene fratello, vado a cercare Daphnè che sicuramente sarà già arrivata visto che siamo sempre gli ultimi. Ci vediamo dopo.”
Maëlle, i grandi occhi castani celati dalle lenti degli occhiali da sole, arricciò le labbra per scoccare un bacio aereo al fratello prima di girare sui tacchi e dirigersi verso un sostanzioso gruppo di studenti, tutti seduti sul prato o sulle proprie valige, circondati da bagagli, manici di scopa e gabbie. Dopo aver ricambiato il saluto Etienne fece altrettanto, cercando una persona ben precisa con lo sguardo cristallini mentre, alle loro spalle, i fratelli maggiori li osservavano pensosi allontanarsi.
Quando furono di nuovo in auto, questa volta soli e avvolti da una pace che mai avrebbero potuto sperimentare in presenza dei fratelli minori, Basile e Soleil si presero qualche istante per osservarli dirigersi verso due direzioni opposte, entrambi alla ricerca di qualcuno. Per qualche breve attimo entrambi tornarono indietro nel tempo di alcuni anni, quando avevano accompagnato Etienne in quello stesso luogo per la prima volta insieme ad una piccola Maëlle di soli dieci anni che aveva inutilmente scalpitato per seguire il maggior a scuola, finchè Basile non spezzò il silenzio tornando ad inforcare gli occhiali da sole e raddrizzando lo specchietto retrovisore dell’auto:
“Mi mancheranno.”
“Certo.”
“… Ma neanche troppo.”
Ovvio. Adesso che se ne sono andati ti prego, metti musica decente. Dio, fare i fratelli maggiori è così faticoso.”
Soleil sospirò mentre si accasciava contro lo schienale dell’auto, esausta di fronte al consumarsi di un’estate segnata dalla presenza dei suoi amati quanto impegnativi fratelli minori. Non avrebbe mai potuto quantificare a parole o a gesti l’affetto che nutriva nei confronti dei suoi ex “nanetti”, ma a volte gestire un paio di adolescenti poteva risultare più sfiancante di una sessione di decathlon.
“Pensi che sceglieranno Maëlle?”
Il maggiore mise in moto ruotando la testa verso la sorella, che stava ancora osservando distrattamente la più giovane della famiglia dare le spalle all’auto e abbracciare un’altra ragazza, finchè Soleil non annuì, quasi del tutto certa che l’eventualità si concretizzasse:
“Penso di sì. In caso ricordami di mandar loro dei fiori.”
 
 
Daphnè Blanchard sedeva compostamente su una porzione di prato, le gambe esili lasciate parzialmente scoperte dalla gonna lunga fino a metà polpaccio del suo vestito bianco ripiegate e unite con grazia mentre la strega si tormentava distrattamente la catenina d’oro che portava al collo insieme ad un sottile filo di perle bianche, attorcigliandosela delicatamente attorno all’indice mentre faceva vagare gli occhi chiari dal taglio allungato attorno a sé in cerca di una tanto attesa silhouette a lei familiare. Quando finalmente questa entrò nel suo campo visivo per Daphnè, circondata dalla custodia nera del suo flauto, da un’enorme valigia rosa cipria e dal trasportino della sua gatta, individuare una delle sue migliori amiche non si rivelò affatto arduo: sarebbe stato possibile scorgere Maëlle Macquart da un miglio, dato l’arsenale di bagagli con cui, come ogni anno, la giovane strega si apprestava a raggiungere Beauxbatons. Mentre la bionda arrancava guardandosi intorno, probabilmente cercando proprio lei, insieme ad un manico di scopa, al trasportino del suo gatto, alla custodia del violino e ad una valigia che di certo era stata in grado di contenere tutte le sue cose solo grazie ad un incantesimo Daphnè distese le labbra sottili e rosee fino a dar vita ad un sorriso, affrettandosi ad alzarsi in piedi con un movimento fluido e aggraziato e a levare leggermente il braccio destro in direzione dell’amica:
“Maëlle!”
Quando udì la voce familiare dell’amica e compagna di Casa pronunciare il suo nome Maëlle smise di guardarsi attorno accigliata e spostò finalmente lo sguardo nella direzione giusta, sfoggiando un sorriso radioso prima di muoversi in direzione di Daphnè facendo sballottare leggermente valigia e trasportino a causa dell’entusiasmo. Joey, il suo micio, non parve gradire e si lamentò sommessamente ma la padrona, troppo presa dal raggiungere Daphnè e salutarla dopo settimane di lontananza per dargli corda, non ci fece caso.
“Eccoti finalmente! Per un attimo ho avuto paura di aver sbagliato fermata o di essere finita in un universo parallelo dove tu arrivi in ritardo e io no. Mi sei mancata!”
Dopo aver colmato la distanza che la separava dall’amica con qualche lunga ed energica falcata la bionda mollò i suoi averi sul prato senza tante cerimonie, premurandosi di adagiare sull’erba con un po’ di grazia solo il trasportino di Joey – che la guardò torvo prima di iniziare a leccarsi stizzito una zampina – e il violino prima di allargare le braccia e stringere Daphnè in un caloroso abbraccio.
“Anche tu. Sei molto abbronzata!”
Dopo aver ricambiato l’abbraccio dell’amica Daphnè le si allontanò leggermente per poterla guardare meglio, studiando con un po’ di invidia le braccia e le spalle abbronzate di Maëlle in netto contrasto con la sua carnagione lattea a delicata. La bionda, i cui capelli color grano lunghi fino alle spalle erano messi ancor più in risalto dal tono più scuro assunto dalla pelle del viso, annuì accennando un sorriso soddisfatto mentre si sfilava gli occhiali da sole per infilarseli tra i capelli a mo’ di cerchietto, studiando l’amica con i grandi e vivaci occhi castani:
“Gli spietati tornei di pallavolo estivi dei Macquart e le ore passate in sella alla scopa hanno dato i loro frutti. Io e Soleil gli abbiamo fatto il culo, a Etienne e a Basile. Tu invece sei sempre il solito adorabile fiorellino delicato.”
Maëlle rivolse un’occhiata pregna d’affetto all’amica e al suo aspetto da bambolina – ricordava ancora la prima volta in cui l’aveva vista, su quello stesso prato sei anni prima, e l’aveva immediatamente associata proprio ad una bambola tanto appariva eterea e delicata – mentre Daphnè, i lunghi capelli castani tenuti indietro da un sottile foulard di seta legato attorno alla testa, accennava una smorfia imbronciata inclinando gli angoli delle labbra sottili:
“Credimi, abitare nel Sud della Francia e non abbronzarsi neanche un po’ è una rottura. Non sembro neanche una del posto.”
Daphnè veniva scambiata per una turista persino a casa sua praticamente ogni giorno nel corso di ogni estate, talmente tanto di frequente che ormai ci aveva fatto il callo, ma anziché contagiare Maëlle il tono mesto con cui parlò destò un sorriso divertito ancor più largo sul viso dell’amica, che si strinse nelle spalle prima di chinarsi per salutare la gatta di Daphnè ancora chiusa nel trasportino.
“Beh guarda il lato positivo, non ti chiedono indicazioni. Ciao piccolina!”
Maëlle protese la mano destra verso il trasportino per solleticare il musetto della bellissima gatta Ragdoll bianca e beige, che dopo averle gettato un’occhiata con i suoi grandi occhi celesti accostò la testa alle sottili sbarre della gabbietta per farsi lasciare docilmente una carezza. Mentre Joey, il gatto di Maëlle, studiava stizzito la padrona con aria profondamente offesa per quell’imperdonabile mancanza di rispetto Daphnè si sfilò il telefono dalla sottile borsetta bianca a tracolla, accennando un sorriso quando lesse il messaggio che le era stato inviato poco prima da una delle loro amiche:
“Luli è partita con la carrozza poco fa, staranno andando verso l’Italia.”
“Beh, possiamo anche metterci comode, noi siamo gli ultimi.”
Maëlle si stese sul prato dopo aver liberato Joey dal suo trasportino per fargli sgranchire le zampine, permettendogli di scorrazzare brevemente attorno a lei e a Daphnè prima di acciambellarsi sul prato accanto alla padrona, che si era nuovamente infilata gli occhiali per proteggere gli occhi dai raggi solari. Daphnè fece lo stesso con la sua gatta, sedendo accanto all’amica sistemandosi dolcemente Duchess sulle ginocchia mentre l’aria fresca offriva loro un po’ di refrigero dal sole cocente del Sud della Francia. Maëlle si era coricata sul prato da qualche minuto quando la sua voce spezzò nuovamente il silenzio, strappando un sorriso sul bel viso dell’amica:
“Svegliami se mi addormento, ci manca solo che perda la carrozza perché ho preso sonno. È esattamente il tipo di figura di merda che io sarei capacissima di fare.”
 
 
Dopo aver salutato i suoi fratelli maggiori ed essersi congedato anche dalla minore Etienne si era mosso insieme alla sua pesantissima valigia color mirtillo e al trasportino della sua gatta in cerca di un volto amico, facendo scivolare attentamente lo sguardo su chi lo circondava in cerca di un viso familiare. Non riuscendo a scorgere traccia di Gisèle per un istante il ragazzo si chiese preoccupato se la compagna dovesse ancora arrivare, fatto insolito se si considerava quanto precisina e pignola fosse la sua amica, ma ogni dubbio a riguardo venne bruscamente messo a tacere quando il francese scorse Guillaume Delacroix seduto sulla sua valigia e impegnato a chiacchierare amabilmente con delle sue compagne di Casa.
Se suo cugino era arrivato doveva esserlo anche Gisèle, ma non vedendola Etienne si chiese se per caso Guillaume non avesse finito con il defenestrarla dall’auto con cui i due erano soliti arrivare. Stava per andare dal ragazzo – malvolentieri, visto che sapeva perfettamente di non andargli affatto a genio – e chiedergli della cugina quando i suoi occhi blu scivolarono quasi per caso su una figura che se ne stava in disparte rispetto alla stragrande maggioranza degli altri studenti presenti, stesa sul prato con accanto una valigia azzurra e un trasportino. Fu proprio la valigia a consentire ad Etienne di riconoscere istantaneamente la sua amica e il ragazzo sorrise mentre, sollevato di saperla sopravvissuta a quattro ore di auto in compagnia di Guillaume, si apprestava a raggiungerla camminando sul prato a grandi passi insieme ai suoi bagagli.
Gisèle se ne stava stesa supina sul prato con un vestitino smanicato infilato sopra ad una camicia bianca, gli occhi chiusi e i lunghi capelli ricci sparsi attorno alla testa e alle spalle mentre Vaclav, dopo essere stato finalmente liberato dalla padrona, le gironzolava attorno annusando l’erba. Quando Etienne si ritrovò ad appena un metro da lei appoggiò a sua volta valigia e trasportino sul prato, avvicinandosi silenziosamente all’amica fino a fermarsi esattamente dietro di lei e alla sua testa. Etienne si chinò leggermente flettendo le ginocchia, sfilando silenziosamente gli occhiali dal volto dell’amica per infilarseli a sua volta, aprendo le labbra in un sorriso quando vide Gisèle aprire gli occhi.
“Buongiorno principessa. Ti abbronzi?”
I grandi occhi celesti di Gisèle scrutarono interdetti il suo viso per un istante, forse certi di trovarsi di fronte a sua cugino in cerca di vendetta dopo il calcio di poco prima, ma non appena ebbero riconosciuto i lineamenti familiari del viso di Etienne le labbra carnose della strega si distesero in un sorriso, e Gisèle scosse la testa mentre sollevava il busto per mettersi a sedere tenendo la testa ruotata per guardare l’amico in faccia:
“Il tempo di abbronzarsi è finito, temo. Anzi, per me praticamente non c’è mai stato. Ciao, è bello vederti.”
Gisèle protese le braccia verso di lui per abbracciarlo e Etienne la lasciò fare, ricambiando la stretta prima che la ragazza gli sfilasse gli occhiali tartarugati per riappropriarsene.
“Anche per me. Non ti trovavo e giuro che ho temuto che non fossi uscita indenne dal viaggio con Guillaume.”
Etienne si rimise in piedi solo per spostarsi leggermente e mettersi seduto accanto all’amica, che si lasciò scivolare un breve accenno di risata sarcastica dalle labbra mentre tornava a rivolgere lo sguardo sulla valle che si estendeva a vista d’occhi davanti a loro, la testa leggermente sollevata per lasciarsi solleticare la pelle dai raggi solari e le mani piantate sul prato dietro di lei.
“Ti prego, se anche non dovesse esserci un sopravvissuto, non sarei certo io.”
Gisèle parlò incrociando le caviglie sottili fasciate da un paio di calzini color burro e ruotando il capo per gettare una rapida occhiata in direzione del cugino, accennando una smorfia di puro disgusto con gli angoli delle labbra quando lo vide intento a chiacchierare amabilmente con alcune delle sue stesse compagne di stanza.
“Ma come fa a piacere alle ragazze, quell’essere?”
“Beh, obbiettivamente è carino. Ma tu lo detesti e si tende e vedere chi non ci piace con un aspetto più sgradevole della realtà.”
Solo a sentir definire suo cugino carino Gisèle venne colpita da un attacco di nausea, e la strega si affrettò a scuotere la testa e a distogliere lo sguardo per tornare a scrutare la valle del parco naturale, osservando pensosa l’acqua di un lago scintillare in lontananza sotto la luce del sole mentre giocherellava con l’orlo del suo vestito in fantasia pied de poule azzurra e rossa scura con sfondo color panna.
“Suppongo che sia vero. Liberi Phoebe, così la saluto?”
“Certo.”
Etienne si alzò per raggiungere nuovamente la sua gattina e liberarla dal trasportino, prendendola in braccio prima di depositarci un lieve e affettuoso bacio sulla testa. Nel farlo gli occhi blu di Etienne scivolarono di nuovo e quasi per caso prprio su Guillaume, che stava studiando la cugina con sguardo se possibile ancor più malevolo del solito mentre si massaggiava la gamba sinistra.
“Perché tuo cugino sembra detestarti più del solito? E anche un tantino dolorante?”
“Le guerre familiari sono sempre le più sanguinose. Chiedilo a Elisabetta I(1). Ciao piccolina!”
Dopo aver rivolto un falsissimo sorriso angelico all’amico Gisèle si lasciò mettere la gatta tra le mani con un largo sorriso, sistemandosela per bene in braccio per iniziare a coccolarla mentre Vaclav annusava le scarpe di Etienne per considerare se farsi accarezzare da lui o meno: era un privilegio concesso a ben pochi umani.
“Perché ho la sensazione che Antoine dovrà impedirti di rompergli un piatto in testa a tutte le nostre cene?”
“Ehy, mi aveva paragonata ad una Mandragola!”
 


divisore


 
Dante e Nerea si trovavano all’interno del Parco nazionale d'Abruzzo, Lazio e Molise da ormai circa quattro ore: alle nove in punto, appena un quarto d’ora dopo essere arrivati, i loro fratellini erano stati prelevati dalla carrozza più grande e sfarzosa, interamente color carta da zucchero con costosissime finiture e dettagli in oro puro, che il ragazzo avesse mai visto. Carrozza trainata da sei enormi cavalli alati color champagne, con scintillanti e setose criniere color crema, che aveva lasciato Dante considerevolmente interdetto e a bocca aperta, ma Nerea non aveva battuto ciglio: aveva salutato Cornelio e Zhān – che era corso via rosso in viso dopo che la ragazza lo aveva abbracciato – e poi aveva tirato fuori una coperta a scacchi rossi e bianchi dall’enorme cestino di vimini che sua madre le aveva consegnato quando erano tutti scesi dal maggiolino del padre per i saluti. Come ogni anno Cassandra, preoccupata che i figli potessero morire di fame prima dell’arrivo a Beauxbatons, aveva lasciato loro degli spuntini, quel giorno aumentati in gran misura a causa della presenza dei fratelli Wang. Ai più piccoli Cassandra aveva consegnato due giganteschi panini alla mortadella, mentre per Nerea e Dante aveva direttamente tirato fuori un intero cestino da picnic dalla sua borsa magicamente ampliata.
“Mamma, guarda che non staremo qui due giorni!”
“Due giorni no, ma tre ore sì, dovete pranzare. Ho messo un panino alla mortadella in più per Gisèle, l’ho vista troppo magra quando è venuta a trovarci!”

Nerea aveva smesso di cercare di persuadere la madre dai suoi tentativi di mettere la sua amica all’ingrasso ogni volta in cui la vedeva, così aveva accettato il cestino senza fiatare e si era fatta stritolare in un abbraccio prima da lei, poi da suo nonno, da sua sorella maggiore, poi da suo padre e ovviamente anche dai nonni di Dante mentre la madre del ragazzo lo aveva preso da parte per pregarlo di comportarsi bene e di non mettersi nei guai una volta a scuola.
Dante non aveva detto nulla, in effetto ormai da settimane si rivolgeva quasi sempre alla madre in monosillabi, e dopo essersi limitato ad annuire con scarsa convinzione aveva girato sui tacchi per dirigersi verso i nonni e abbracciarli senza più degnare la madre di attenzione. Fortunatamente a salutare per bene e ad abbracciare Giada ci aveva pensato Nerea, che aveva subito preso il posto di Dante davanti a lei sfoggiando un radioso e allegro sorriso:
Tranquilla Giada, ci penso io a lui. Non starci male, è solo un po’ cretino.”
 
Per tre ore Dante e Nerea erano rimasti solo nel parco dopo che la carrozza aveva prelevato i loro fratellini e con loro gli studenti italiani dal primo fino al quarto anno per portarli a scuola, ore che i due avevano speso sulla coperta che Cassandra aveva infilato nel cestino insieme ad una quantità di cibo che avrebbe fatto impallidire il banchetto della scuola stessa. Era quasi l’una quando Nerea, stesa sulla coperta con un libro in mano, aveva gettato l’ennesima occhiata di sbieco in direzione dell’amico, decidendosi finalmente a parlare mentre Dante sedeva fumando una sigaretta e ascoltando musica con un paio di cuffie bluetooth over-ear nere.
“Sei troppo duro con tua madre. Non è facile nemmeno per lei.”
Per un attimo la ragazza si persuase che l’amico avrebbe fatto finta di non sentirla, a giudicare dal modo in cui Dante continuò ad osservare distrattamente la corona di montagne che li circondavano, ma contro ogni sua aspettativa il ragazzo infine parlò, pur senza guardarla ed esalando lentamente una nuvola di fumo acre.
“Certo, per lei non è facile. È tornata a casa sua, dalla sua famiglia, dai suoi vecchi amici. Per me invece è facile?”
Nerea chiuse di scatto il libro stringendo le labbra e trattenendo l’impulso di usarlo per percuotere Dante in maniera molto dolorosa, scrutandolo torva scuotendo lentamente la testa prima di sospirare esasperata:
“Porco Flamel, a volte sei così ottuso. Cosa avrebbe dovuto fare, restarsene in Cina con la famiglia di tuo padre? Con quella iena malvagia di tua nonna che al confronto Ursula la strega del mare era Madre Teresa?! Ovvio che abbia voluto tornare a casa sua, dalla sua famiglia. Lo avrei fatto anche io, specie considerando che se devi soffrire per amore tanto vale soffrire mangiano pasta fresca e tigelle dalla mattina alla sera.”
“Lei avrà anche fatto bene a tornare in Italia, ma io volevo solo finire la scuola in Giappone. È chiedere troppo non essere del tutto sradicato da dove sono nato e cresciuto?”
“Se ha deciso così è stato sicuramente perché pensava che fosse la cosa migliore anche per te. Davvero sarebbe stata una passeggiata, per te e tuo fratello, restare a Mahoutokoro con tutti, e dico tutti, che spettegolavano sulla vostra famiglia e su come erano andate le cose? Non è meglio cambiare, dove nessuno ti conosce e nessuno sa niente?”
Dante non rispose, pur avendo udito perfettamente le sue parole, e si limitò a portarsi nuovamente la sigaretta alle labbra sotto lo sguardo carico di disapprovazione dell’amica, che finì con l’annuire mentre riapriva il suo libro:
“Esatto. Come ho detto. Quindi sii più carino con lei a Natale, o ti schiaffeggio con una crescentina.”
“Che paura.”
“Non sfidarmi.”

 

divisore


 
Icaro Orsini e suo cugino Diego, portatore di talmente tanti cognomi da impedire a chiunque di ricordarli tutti, consanguinei a parte, apparvero nel punto designato dalla loro scuola del Parco nazionale, un angolo remoto in Abbruzzo protetto da decine e decine di incantesimi dal Ministero italiano, nello stesso istante insieme alle rispettive valige, ad un trasportino ciascuno e ad una palla da calcio bianca e nera sgonfia che atterrò accanto a loro prima di rotolare per un paio di metri fino a fermarsi.
La prima cosa che entrambi i ragazzi fecero, in silenzio e in quasi perfetta sincronia, fu sollevare e ruotare verso il proprio viso il rispettivo trasportino per gettare un’occhiata ai loro amati amici felini, entrambi dotati di un folto pelo rosso tigrato e grandi occhi gialli.  
“Romeo, tutto bene?”
Icaro osservò cautamente il suo miciotto per assicurarsi che il breve viaggio tramite Passaporta non lo avesse eccessivamente traumatizzato, o fatto star male, ma Romeo, che si era rannicchiato sul fondo del trasportino, si limitò a scoccargli la più velenosa delle occhiatacce mentre Diego, in piedi accanto al cugino, allungava nervosamente l’indice verso la sua gatta per accarezzarle il musino e rassicurarla: per Mew era il primo viaggio tramite Passaporta, e Diego aveva vissuto quel pensiero con tremenda ansia per un’intera settimana. La gattina, terrorizzata, lo guardò spaurita e miagolò preoccupata, ma si lasciò accarezzare e donò al padrone anche un accenno di fusa.
“Mew non mi sembra molto felice. Spero non me la faccia pagare più tardi.”
“Macché, gli daremo qualche biscottino per gatti e ci ameranno come prima. quando vedrò tutto lo spazio che avrà a scuola le passerà, vedrai.”
Riabbassato il braccio che reggeva il manico del trasportino di Romeo Icaro impugnò più saldamente la sua valigia, all’interno della quale aveva infilato una versione rimpicciolita della sua scopa per non avere troppa roba da portarsi dietro a mano, e si avviò con lunghe falcate sul prato per avvicinarsi al gruppo di studenti che si era radunato un centinaio di metri più avanti lasciandosi il cugino alle spalle, voltandosi verso Diego per invitarlo a seguirlo dopo qualche istante:
“Vieni Die’, dobbiamo stare pronti per prenderci i posti in fondo!”
“A me non importa dei posti in fondo, li lascio a qualcun altro.”
Diego dovette parlare alzando leggermente la voce per farsi sentire dal cugino visto che Icaro lo aveva già distanziato di parecchio, e finì con l’avviarsi mestamente per seguirlo insieme a Mew dopo aver tratto un profondo sospiro. Di accaparrarsi i posti più ambiti della carrozza gli importava ben poco, specie perché ogni anno vedeva con i suoi occhi pieni d’orrore ciò che alcuni dei suoi compagni sembravano essere disposti a fare per sedercisi. Tecnicamente la legge non scritta prevedeva che fossero riservati a quelli del VII anno, proprio ciò che lui ancora non era, ma sapeva per certo che suo cugino e il suo migliore amico ce lo avrebbero trascinato quasi di peso per non escluderlo.
“A me sì, e dobbiamo tenerne uno anche per Nick.”
“Pensi che arriverà in tempo?”
Diego trascinò se stesso e la sua valigia nera dietro al cugino gettando un’occhiata dubbiosa alla figura longilinea di Icaro, riuscendo ad udire perfettamente il suo sonoro sbuffo spazientito anche a tutti quei metri di distanza:
“Gli converrà, o vado a prenderlo io.”

 

divisore
 
 

Il Portogallo costituiva, dopo la Spagna, la seconda fermata della carrozza trainata dai sei Abraxan più veloci dell’allevamento della scuola, Castore, Polluce, Perseo, Cygnus, Rigel e Lycoris. Lucinda, dopo essere smontata dall’auto di famiglia e aver salutato i genitori e il fratello, aveva dovuto aspettare solo una decina di minuti prima di scorgere l’immensa carrozza color carta da zucchero, grande più o meno come una casa, spuntare all’orizzonte da dietro una candida nuvola. Le enormi ruote d’oro massiccio del mastodontico mezzo di trasporto, che si sviluppava su due piani per consentire a tutti gli studenti di starci comodamente, avevano toccato terra insieme ai cavalli trainati dall’insegnante di Créatures Magiques con una delicatezza che nessuno si sarebbe mai aspettato da una mole così consistente, e uno ad uno gli studenti portoghesi del V, VI e VII anno si erano messi in fila per salire a bordo insieme a bagagli e animali domestici attraverso una scaletta dorata.
Lucinda aveva preso posto al primo piano della carrozza, per nulla invogliata all’idea di trascinarsi la valigia su per le scale, e aveva sistemato bagaglio e gabbia di Pavarotti sul sedile foderato da uno spesso strato di velluto celeste accanto al suo per tenerlo occupato per almeno una delle sue amiche, avvisandole di essere in procinto di partire prima di sistemarsi comodamente contro lo schienale imbottito del sedile e godersi il panorama mentre la carrozza decollava, trainando lei e i suoi compagni di nuovo verso la volta celeste, in direzione dell’Italia.
 
 
Stando all’orario indicato sulle lettere contenenti le indicazioni sul materiale scolastico che entrambi avevano ricevuto due settimane prima mancavano soli pochi minuti all’arrivo della carrozza che Dante aveva già avuto modo di scorgere e ammirare quella mattina stessa, quando ad essere “prelevati” erano stati suo fratello e Cornelio Pagano. Il ragazzo era stato costretto, seppur di controvoglia, ad alzarsi e a raccogliere le sue cose dieci minuti prima, quando Nerea lo aveva fatto sloggiare per ripiegare la coperta, infilarla nuovamente nel cestino di vimini ormai praticamente vuoto lasciatole dalla madre e infine rimpicciolirlo per metterselo in borsa. Ruggine era stato nuovamente rinchiuso all’interno del suo trasportino e ora il micio si guardava attorno visibilmente scocciato tanto quanto il padrone, che aspettava in piedi accanto a Nerea che la famigerata carrozza si palesasse.
“Avremmo potuto aspettare un altro paio di minuti e mettere via tutto, stavo leggendo e ho dovuto interrompermi per guardare il vuoto cosmico!”
Dante sbuffò mentre si guardava attorno annoiato e spazientito, pregando che la carrozza arrivasse in fretta anche solo per potersi sedere e tornare a leggere con le cuffie nelle orecchie, giusto per rendere palese a chiunque la sua intenzione di non fare conversazione.
“E invece è meglio così, quando arriverà la carrozza sarà un delirio, tutti voglio sempre salire al piano superiore e andare verso i posti in fondo. Considera che è già passata per Spagna e Portogallo prima di arrivare qui, ergo i posto sono calati, ergo anche le possibilità di sedersi al piano di sopra.”
“Che cosa cambia di sopra e di sotto?!”
“Quelli del VII anno stanno sempre di sopra, è la legge!”
“Beh, io non sono del VII anno, che me ne frega?”
“Ti frega perché devi conoscere i miei amici! Gisèle già l’hai incontrata ma sei stato un cafone per tutta la settimana in cui è stata da noi, devi rimediare e starle simpatico.”
Nerea lo fulminò con lo sguardo ma Dante non si fece intimidire, facendo spallucce prima di scoccarle un’occhiata distaccata e sostenuta:
“E perché mi dovrebbe interessare?”
“Perché è la mia migliore amica, quindi se ti scopro ad essere maleducato con lei ti sguinzaglio contro uno Schiopodo Sparacoda. Ciao ragazzi!”
Nerea sembrava pronta a prendere una delle sue famigerate crescentine e a colpirlo sugli zigomi, ma la vista di un paio di ragazzi che si stavano dirigendo dritti verso di loro sembrò distrarla e restituirle il suo consueto sorriso allegro sul viso. Dante non aveva idea di chi fossero, ma provò comunque gratitudine nei loro confronti per averlo salvato dall’ennesima ramanzina della stagione. Il primo, alto e dal fisico asciutto, aveva capelli scuri e lucenti lunghi fino alle spalle e procedeva con lunghe falcate portandosi appresso valigia e trasportino, voltandosi di tanto in tanto verso il ragazzo che lo seguiva, vestito interamente di nero come Dante e con lisci capelli castani a coprirgli parzialmente fronte e occhi, per incitarlo a sbrigarsi. Quando fu abbastanza vicino a lui e a Nerea il ragazzo ricambiò il sorriso della strega, fermandosi sull’erba quando a separarli non fu che un metro di distanza.
“Ciao Nerea. I Fumagalli hanno l’aria di volervi fregare i posti, dobbiamo salire prima di loro.”
Il ragazzo parlò con tono perentorio e stringendo leggermente gli occhi scuri, destando un cenno di approvazione in Nerea e un’espressione perplessa sul viso di Dante: sembrava che lì la questione dei posti venisse presa molto sul serio.
“Quello stronzo di Fabio l’anno scorso mi ha fatto lo sgambetto, quest’anno non m farò fregare il posto vicino al finestrino. Lui è il mio amico Dante, si è iscritto quest’anno. Dante, loro sono Icaro e Diego. Icaro è del mio anno, Diego del tuo.”
Nerea accennò sbrigativa in direzione dell’amico e anche se con un po’ di reticenza Dante tese la mano per stringere quella di Icaro, certo che se sua nonna avesse udito qualche cenno di maleducazione in un resoconto fattole da Nerea gli avrebbe mandato una Strillettera prima di rimproveri. Icaro gli sorrise prima di accennare col capo in direzione di Diego, che li stava raggiungendo trascinandosi dietro la valigia come un peso morto.
“Ciao, piacere di conoscerti. Die’ è mio cugino, sembra scontroso ma in realtà è un agnellino.”
Non è vero! Ciao.”
Gli occhi chiari di Diego, quando si fu finalmente fermato accanto al cugino, solcarono solo per un istante la figura alta e immusonita di Dante prima che il ragazzo distogliesse lo sguardo, non particolarmente amante delle presentazioni.
“Ti sei trasferito da Mahoutokoro?”
Mentre Nerea controllava nervosamente un po’ l’orologio e un po’ il cielo sopra di loro e Diego spostava il peso da un piedi all’altro studiandosi gli anfibi neri – rigorosamente fatti a mano, perché che comprasse scarpe prodotte in serie suo nonno mai l’avrebbe permesso – Icaro sistemò la valigia per terra studiando Dante incuriosito, guardandolo annuire tenendo le braccia rigorosamente strette al petto in una morsa rigida.
“Sì. Mia madre è italiana ed è amica della madre di Nerea, è tornata a vivere qui e ha ben pensato di trasferire me e mio fratello.”
“Bene, allora stai per assistere al bagno di sangue. Lo hai preparato?”
Un sorrisetto incurvò gli angoli delle labbra di Icaro mentre il ragazzo, che parlava con un accento romano inconfondibile anche per le orecchie di Dante poco abituate alle diverse parlate italiane, spostava lo sguardo su Nerea, che invece sbuffò e alzò gli occhi al cielo mentre Dante li guardava senza capire. Diego invece, pur restando in silenzio, accennò una smorfia con gli angoli delle labbra, gesto che non migliorò le aspettative del nuovo arrivato.
“Non mi ha mai ascoltata, peggio per lui. Spostiamoci, di solito la carrozza atterra più in là.”
Nerea recuperò i bagagli e si allontanò di qualche metro parlottando con Icaro a proposito del numero di posti che avrebbero dovuto tenere occupati, una volta a bordo, per i loro amici. A Diego e a Dante non restò che seguirli, camminando in silenzio con i rispettivi gatti prima che quest’ultimo gettasse un’occhiata incerta al nuovo compagno di scuola:
“Bagno di sangue?”
“Tu dove sei cresciuto?”
Invece di rispondere Diego smise di osservare pensoso l’erba smeraldina ai suoi piedi per ricambiare lo sguardo di Dante, studiandolo con i grandi occhi chiari dietro a qualche sottile ciuffo di capelli castani che gli ricadeva sulla fronte pallida e parlando con lo stesso lieve accento del cugino.
“Cina.”
Dante rispose mettendosi quasi sulla difensiva, pronto all’eventualità di un qualche commento razzista idiota, ma per fortuna Diego non battè ciglio e non si pronunciò in nulla del genere, limitandosi a stringersi nelle spalle prima di tornare a guardare dritto davanti a sé e parlando con tono neutro:
“Allora non credo che tu sia pronto.”


Dante non capiva il perché di tutto quell’allarmismo: una carrozza arrivava, loro salivano, di che cosa mai doveva preoccuparsi?
E poi alla fine la carrozza arrivò: immensa e maestosa, planò verso di loro insieme a sei enormi cavalli alati dalle scintillanti piume color champagne che brillavano più che mai sotto la luce del sole come le folte criniere color crema che ciascuno degli animali scosse leggermente una volta giunti a terra, fermi e in obbediente attesa che l’uomo che li guidava impugnando le redini e il frustino più lunghi che Dante avesse mai visto desse l’ordine di ripartire. La portiera della carrozza, azzurra dai bordi dorati che, ora che li guardava da più vicini, a Dante parvero proprio fatti d’oro vero, si spalancò da sola e con lei scese una scaletta che avrebbe permesso agli studenti di salire. Il ragazzo stava per voltarsi verso Nerea, chiederle il perché di tutte quelle tragedie quando non vedeva proprio nulla di strano, quando qualcosa sembrò scattare in tutti gli studenti che lo circondavano: tutti, a parte lui e Diego, iniziarono a correre come forsennati verso la carrozza e verso la porta, ignorando le esasperate preghiere del cocchiere, un mago di circa quarant’anni che parlava in francese tradendo un accento del nord e che, come avrebbe scoperto quella sera a cena, altri non era che l’insegnante della materia preferita di Nerea, Créatures Magiques.
“Ma perché fanno così?”
Fu istintivo per Dante affrettarsi a seguire i compagni, alcuni dei quali si stavano spintonando e quasi schiacciando contro le porte per superare qualcuno e aggiudicarsi più facilmente un posto e iniziare a correre a sua volta temendo di essere lasciato a terra insieme a Ruggine, che scrutò la situazione dall’interno del trasportino prima di giudicare i nuovi compagni del padrone un branco di incivili e infine acciambellarsi. Diego, sempre accanto a lui, sbuffò e gli gettò un’occhiata di sbieco mentre Nerea, a qualche metro di distanza, minacciava un certo Fabio Fumagalli di prenderlo a calci se si fosse permesso di farle lo sgambetto un’altra volta.
“Tu l’autobus in Italia non l’hai mai preso, vero?”
A dire la verità nemmeno Diego aveva mai preso l’autobus, figuriamoci, ma una volta, diversi anni prima, sua madre aveva raccontato storie dell’orrore a lui e a Icaro a riguardo. I due, certi che fossero frottole per tenerli alla larga dai mezzi pubblici e dai germi, avevano deciso di appostarsi vicino ad una fermata e lì, davanti ai loro occhi, aveva preso forma un bagno di sangue che mai avrebbero immaginato di poter scorgere in un luogo pubblico, sotto gli occhi di tutti i passanti.
“Beh, no, ma non pensavo fosse così! Da noi ci si mette tutti in fila!”
Dante deglutì mentre guardava i suoi compagni salire sulla carrozza rischiando di far cadere qualche altro studente e per di più senza curarsene affatto, e Nere agli assicurò che gli avrebbe tenuto il posto prima di sparire, risucchiata dal vortice di adolescenti in cerca di sedili. Diego invece gettò un’occhiata stranita a Dante mentre si arrampicava sulla scaletta cercando di proteggere il più possibile la sua gatta dalle percosse, chiedendosi in che razza di mondo parallelo vivessero da dove veniva: lui una fila davanti ad un mezzo di trasporto qualsiasi non l’aveva mai vista in vita sua. In effetti sarebbe stato affascinante.
 
Nerea aveva occupato ben quattro posti al piano di sopra gettandoci sopra le proprie cose, e quando finalmente vide Dante spuntare alla strettissima scala a chiocciola gli fece sbrigativamente cenno di muoversi mentre Icaro, dietro di lei, gioiva per essere riuscito ad accaparrarsi l’ultima fila di posti, l’unica ad avere cinque sedili uno allineato con l’altro.
Sollevato di essere finalmente a bordo e di essersi lasciato alle spalle il groviglio di studenti in lotta per i posti vicino ai finestrini Dante si fece largo con le proprie cose fino a Nerea, che però gli impedì di sederlesi accanto con un rigoroso diniego disegnato col mento, accennando invece al posto davanti al suo:
“No, non metterti seduto vicino a me, mettiti davanti. Devo tenere il posto per Antoine e Gisèle, quando Antoine arriva ti metti vicino a me lui lo lasciamo con Gisèle.”
Chi fosse Antoine Dante non lo sapeva, ma non aveva voglia di obbiettare e sedette, deciso ad infilarsi le cuffie per non essere più disturbato fino al loro arrivo. Diego invece salì guardandosi attorno chiedendosi dove sedersi per passare inosservato e senza che nessuno lo disturbasse, finchè Icaro, alzatosi in piedi, non si sbracciò dal fondo della carrozza per intimargli di raggiungerlo:
“Dieeee’, vieni, dai!”
“Icaro, come hai fatto a prendere l’ultima fila?! Impossibile che qualche portoghese non l’avesse occupata!”
Fu con gli occhi chiari sgranati e pieni di sorpresa che Diego raggiunse il cugino e Romeo, chiedendosi se per caso Icaro non avesse corrotto qualcuno mentre invece questi, per tutta risposta, abbozzava un sorriso prima di sedersi al centro dell’ultima fila, distendendo le lunghe gambe nel bel mezzo del corridoio mentre abbracciava gli schienali dei sedili vicini al suo:
“Naturale, ma erano dei poverelli del VI anno e li ho fatti sloggiare, le leggi sono leggi. Forza, siediti.”
“Ma anche io sono del VI anno! E se mi aggrediscono?!”
Diego deglutì mentre si guardava attorno, timoroso all’idea di un portoghese in cerca di vendetta mentre il cugino, esasperato, alzava gli occhi scuri al cielo prima di fargli cenno di sedersi per l’ennesima volta:
“Ma che c’entra, tu sei mio cugino, sei autorizzato! E chi vuoi che ti aggredisca, mica siamo in Gomorra!”
Seppur poco convinto Diego sedette abbracciando il trasportino di Mew, morendo dalla voglia di arrivare a Beauxbatons per rintanarsi nella sua stanza, o in un angolo poco frequentato della tenuta, per avere un po’ di pace. Icaro invece sistemò il trasportino di Romeo sul posto accanto al suo, riservandolo ad uno dei suoi migliori amici. Poteva solo sperare che almeno quell’anno l’idiota non facesse tardi.
 

 
divisore
 
 
Santorini, Grecia
 

La spiaggia era stata chiusa per i Babbani e protetta da incantesimi che avrebbero celato alla loro vista l’enorme carrozza azzurra che era decollata in riva al mare. Celato alla vista dei Babbani poiché all’interno dei confini della cupola di incantesimi era anche un diciassettenne interamente vestito di nero con occhiali da sole calati sugli occhi, una scopa sottobraccio e un borsone nero in spalla che stava correndo a perdifiato verso la carrozza prossima alla partenza imprecando mentalmente in tutte le lingue che conosceva.
Cazzo
Cazzo
Cazzo
Felice di tornare a scuola Phoenix Anastasakis non lo era particolarmente, ma non voleva e non poteva nemmeno perdere la carrozza anche quell’anno: avrebbe dovuto farsi la strada in sella alla scopa, traversata lunga e faticosissima. E all’arrivo nessuno lo avrebbe risparmiato da una punizione ancor prima di varcare la porta del castello.
Phoenix stava correndo come non aveva mai corso in vita sua, nemmeno quando a lezione era stato costretto a mettersi in fuga da un granchio che sputava fuoco, quando da una finestrella del secondo piano della carrozza spuntò un viso e una chioma a lui familiari: Icaro, forse chiedendosi dove si fosse cacciato, si sporse fuori dal finestrino per guardarsi attorno e scorgere traccia dell’amico ritardatario, alzando gli occhi al cielo esasperato quando lo vide sfrecciare sulla sabbia.
Ancora!? Muoviti, brutto idiota!”
Icaro gridò per farsi sentire dall’amico, che nonostante lo sforzo fisico riuscì a sorridere, felice di vederlo, e a rispondere gridando qualcosa in francese a sua volta:
“Lo so che moriresti senza di me!”
Di chiunque fosse stata l’idea di far arrivare la carrozza in spiaggia Nick l’avrebbe volentieri preso a calci: gli anfibi neri affondavano sulla sabbia rallentandogli la falcata, e fu solo grazie alla sua abitudine di andare a correre tutte le mattine per tutto il corso dell’estate che il greco riuscì infine a raggiungere la carrozza prima che questa decollasse, aggrappandosi al corrimano della scaletta e montando per ultimo sotto lo sguardo esasperato e pregno di disapprovazione di qualche compagno e dell’insegnante alla guida.
Sorridendo soddisfatto, anche se vicino allo svenimento, Phoenix si affrettò a salire la scala a chiocciola che lo avrebbe portato di sopra ignorando le occhiate trasognate che qualche ragazza gli rivolse, attraversando l’intera lunghezza della carrozza per raggiungere Icaro e Diego quando li vide seduti negli ultimi posti.
“Come avete fatto a sedervi qui?!”
Il greco si fermò incredulo davanti ai due italiani prima di sedersi alla sinistra di Icaro, che gli assestò una manata un po’ affettuosa e un po’ di rimprovero sulla spalla senza riuscire a trattenere un sorriso, felice di vederlo:
“Non certo per merito tuo, cretino. Quest’anno che cosa è successo, sentiamo?”
“Sono arrivato volando, simpaticone, e il vento mi ha rallentato. E poi ovviamente sono partito in ritardo, ma nessuno si sorprende. Ciao Diego. Felice di essere in partenza? Tutta l’estate con questo rompipalle, ti faremo santo prima o poi!”
Phoenix sedette sporgendosi leggermente in avanti per potersi rivolere a Diego con un sorriso, guardandolo stringersi nelle spalle mentre Icaro, un tantino offeso, fulminava l’amico con un’occhiataccia:
“Sì, diciamo che a volte è sopportabile. Però è mio cgino, quindi devo essergli affezionato per forza.”
Io sopportabile? E voi invece? Ingrati.”

 

divisore
 


Milad era salito a bordo della carrozza insieme ad Axel e ad Antoine e come il compagno era rapidamente salito verso il secondo piano in cerca di posti liberi. Lì il ragazzo aveva finito col sedersi sul posto vicino al finestrino di una coppia rimasta miracolosamente libera proprio davanti a quello dove aveva preso posto Antoine, e aveva tirato fuori un libro per leggere durante il viaggio mentre il compagno di Casa, alle sue spalle, chiacchierava vivacemente con Nerea. Il ragazzo dai capelli scuri e i lineamenti asiatici che sedeva accanto all’italiana Milad non l’aveva mai visto e nemmeno gli aveva ancora sentito spiccicare parola da quando si era presentato ad Antoine con un borbottio, ma a compensare i suoi silenzi ci pensava la vicina di posto, che stava fornendo al belga un dettagliato resoconto della sua estate.
“Non vedo l’ora di vedere Gisèle, per fortuna presto saremo in Francia. Manca solo il Lussemburgo e poi arriviamo.”
Nerea parlò ruotando la testa verso Dante, ma lui si era limitato ad annuire senza dire nulla e ben presto la ragazza, rassegnata, aveva tornato a rivolgersi ad Antoine, che sedeva con il busto ruotato per poter chiacchierare guardandosi in faccia. Il ragazzo annuì, impaziente di abbracciare l’amica a sua volta mentre Milad, davanti a loro, cercava di leggere e di estraniarsi dal ciarlare di un gruppetto di ragazzine svizzere del V anno che di scambiarsi i pettegolezzi estivi a voce bassa proprio sembravano non volerne sapere.
“Anche io, non la vedo da tre mesi.”
“Da me è venuta due settimane fa, in effetti non è molto che non la vedo… Però a scuola è diverso.”
Nerea sorrise allegra mentre faceva tamburellare le dita sullo schienale azzurro del sedile di Antoine, che invece non vedeva l’amica dalla fine dell’anno scolastico precedente. Il belga inarcò un sopracciglio, guardando l’italiana con aria dubbiosa mentre pronunciava parole che mai avrebbe osato ripetere in presenza di Gisèle:
“E come ti sembrava?”
“Mah, secondo me troppo palliduccia, a Londra la fanno vivere come un vampiro!”
Nerea scosse la testa con disapprovazione, fulminando Dante con lo sguardo quando udì un sibilo in lingua italiana provenire giusto dalla sua direzione e consigliarle di farsi gli affari propri.
“Fatteli tu gli affari tuoi! Non fare caso lui, sotto sotto è simpatico. Lo conosco da quando facevamo insieme il bagnetto!”
Quel giorno Dante di sentire di nuovo quelle storie orripilanti sulla loro infanzia condivisa non ne aveva la forza, pertanto finì con l’alzarsi quasi con un gesto involontario dal sedile accanto a quello dell’amica e a spostarsi verso quello rimasto libero accanto a Milad, sedendosi mentre il belga, un poco accigliato, smetteva di leggere per gettargli un’occhiata perplessa. Resosi conto di essersi seduto senza nemmeno averlo chiesto Dante s’irrigidì, esitando prima di indicare l’amica seduta due file dietro di loro:
“Scusa, devo… fuggire da un’amica d’infanzia.”
Per un istante, forse a causa dell’espressione seria impressa sul viso di Milad, Dante temette sinceramente che il belga lo avrebbe cacciato ad insulti, ma anziché prendersela il ragazzo finì con lo stringersi nelle spalle e fargli cenno di restare.
“Tranquillo, nessun problema. Sono Milad, comunque. Sono in classe con Nerea.”
“Poverino. Spero una Casa diversa. Cosa leggi?”
prima che uno dei due potesse rendersene conto Dante e Milad iniziarono a fare conversazione sotto lo sguardo dapprima sgomento e infine meravigliato di Nerea, che li guardò portandosi commossa la mano destra all’altezza del petto mentre la carrozza iniziava il decollo per atterrare in Lussemburgo:
“Ma allora non si è dimenticato come ci si relazione col prossimo! Sono così fiera di lui!”


Quando la carrozza atterrò Lucinda, ancora seduta sola, smise subito di leggere e si sporse invece in avanti per avere una miglior visuale sulla porta, aspettando con ansia che si aprisse da sola per consentire agli studenti, in numero nettamente più esiguo rispetto a quelli che erano saliti a bordi nelle altre fermare, varcassero la soglia. La Papillonlisse non riuscì ad impedirsi, lei come molte altre ragazze presenti, di far indugiare per qualche istante il proprio sguardo su Abel Hoffman quando il ragazzo salì per primo sulla carrozza sfilandosi gli occhiali da sole e portandosi appresso una valigia color cuoio, gli occhi azzurri, i più chiari che Lucinda avesse mai visto, che scrutavano le file di posti e di volti in cerca di un paio di sedili vuoti. La giovane strega lo guardò finchè il bellissimo ragazzo non l’ebbe superata, tornando a quel punto a guardare la porta aperta della carrozza per cercare tracce di una delle sue migliori amiche.
Quando finalmente una ragazza magra, dai lunghi capelli castani raccolti in uno chignon basso con un elastico scrunchie bianco e una distesa di lentiggini chiare a ricoprirle naso e zigomi fece la sua apparizione Lucinda sorrise, agitando un braccio per farsi notare mentre chiamava a gran voce il nome della ragazza.
Quando si sentì chiamare Marguerite smise di guardarsi attorno in cerca dell’amica, posando gli occhi su di lei prima di ricambiare il suo sorriso e affrettarsi a raggiungerla con la valigia bianca al seguito, facendo del suo meglio per non farla sbattere contro le gambe di nessuno mentre attraversava lo stretto corridoio di sedili verso la portoghese.
“Luli, ciao!”
Lucinda si alzò per abbracciarla e subito Marguerite ricambiò la stretta, mollando la valigia sul pavimento senza più curarsene. Quando sentirono la carrozza iniziare a muoversi le due sciolsero l’abbraccio e la lussemburghese si affrettò a recuperare la sua valigia, spostandosi verso il sedile di fronte a quello dell’amica mentre Lucinda tornava a sedersi protendendosi però verso di lei, un largo sorriso ad illuminarle il volto abbronzato dopo un’estate passata a prendere il sole in Francia:
“Ho tenuto i posti per tutte, siediti davanti a me così ne teniamo per Maëlle e Daphnè. Ma hai visto che Abel quest’anno sembra ancora più bello dell’anno scorso? Cosa gli daranno da mangiare?!”
“Non ne ho idea, ma hai ragione. Tu invece devi raccontarci un sacco di cose.”
Marguerite accennò un sorriso divertito che Lucinda ricambiò, annuendo con un che di soddisfatto mentre accavallava le gambe abbronzate con grazia:
“Sì, ma stasera, con le altre, prima di dormire. Anzi, non dormiremo per niente come ogni anno, ma pazienza. Non vedo l’ora di arrivare in Francia per salutarle!”
“Maëlle ha rischiato di perdere la fermata?”
“Come sempre, certo.”
  
 
Daphnè e Maëlle, una volta salite sulla carrozza insieme ai compagni francesi, si erano riunite con Marguerite e Lucinda gettandosi collettivamente in un coro di acuti gridolini che avevano scosso l’intera struttura, i cavalli e anche destato dal sonno qualche povero compagno, che gettò loro un’occhiata torva prima di girarsi dall’altra parte e rimettersi a dormire. Ma a superarle in volume e intensità fu, in effetti, Nerea, che scattò in piedi come una molla quando dalla scala a chiocciola vide affiorare Etienne Macquart e il suo inconfondibile ciuffo di capelli biondo cenere, seguito dalla sua migliore amica. Quando vide Gisèle seguire Etienne al piano superiore con le mani occupate dalla valigia e dal trasportino di Vaclav Nerea, troppo felice di vederla per contenersi, cacciò un gridolino entusiasta e poi si avventò verso l’amica, dando a malapena il tempo ad Etienne di spostarsi prima di travolgere la francese con un calorosissimo abbraccio.
“Mi sei mancata tantissimo!”
Gisèle deglutì mentre si sfilava con un po’ di fatica gli occhiali da sole dal viso, cercando di respirare nonostante la morsa in cui l’amica aveva attanagliata.
“Ciao Nerea, anche io sono felice di vederti. Ma non è passato così tanto.”
Grazie al cielo l’italiana sciolse l’abbraccio e le permise di respirare, sorridendole allegra mentre le prendeva entrambe le mani con le proprie, scrutandola da capo a piedi.
“Beh, per me sì! Che belli i tuoi capelli! E il tuo vestito! Ho un panino per te in borsa, secondo mia madre eri troppo magra quando sei venuta da noi. Come sta Vaclav? Vieni, ti ho tenuto il posto vicino ad Antoine!”

Nerea afferrò personalmente il trasportino di Vaclav e costrinse l’amica a seguirla senza fermarsi a respirare o darle il tempo di aprire bocca, guidandola fino ai loro posti mentre Etienne le guardava allontanarsi accennando un sorriso divertito e rassegnato al tempo stesso:
“Ciao Nerea, è un piacere anche per me!”
Troppo entusiasta per l’arrivo dell’amica Nerea non udì le sue parole e non lo degnò di un’occhiata mentre trascinava Gisèle da Antoine, consentendo al ragazzo di alzarsi – sfiorando il soffitto per un soffio – e abbracciarla. Ad Etienne non restò che prendere le sue cose e dirigersi verso il fondo della carrozza, sorridendo allegro alla vista di Icaro, Phoenix e Diego:
“Ciao gente! Vi annoiavate senza di me?”
Diego dichiarò sarcastico che in sua assenza avessero tutti versato fiumi di lacrime, mentre Phoenix gli fece cenno di sedersi accanto a lui dopo aver smesso solo brevemente di leggere per scrutare il resto della carrozza insieme ad Icaro, che parve deluso quanto l’amico nel non scorgere un’altra figura nota affiorare dalle scale:
“MA Guillaume non c’è? È al piano di sotto?”
Icaro si voltò verso Etienne mentre il francese sistemava il trasportino di Phoebe sopra a quello di Romeo, impilati nel posto rimasto vuoto della loro fila, sedendosi tra i due gatti e Phoenix annuendo e stringendosi nelle spalle:
“Presumo di sì.”
Icaro parve delusissimo da quella rivelazione e Phoenix con lui, che pensò a dar voce ai pensieri di entrambi scuotendo la testa prima di esclamare qualcosa amareggiato:
“Che palle, avevamo scommesso che lui e Gisèle si sarebbero picchiati ancor prima di arrivare a scuola!”
 

 
divisore


 
Per Dante l’arrivo a Beauxbatons era stato surreale: suo madre glielo aveva ripetuto all’infinito, e Nerea con lei, quanto la scuola fosse bella, ma il figlio non aveva mai voluto darle retta, troppo concentrato a detestare l’idea del trasferimento per principio per poter dare credito alle sue parole.
Eppure, ora che era lì a tutti gli effetti, una parte di lui non poté che arrendersi all’evidenza: sua madre aveva ragione, quel posto era meraviglioso. La carrozza era atterrata nel bel mezzo di un parco enorme e talmente curato da non riuscire a scorgere un solo filo d’erba fuori posto, con tanto di siepi potate e aiuole fiorite in perfetto stato. Si potevano scorgere persino le sponde di un lago la cui acqua verdastra scintillava sotto la luce del sole, ma ciò che inevitabilmente catturò l’attenzione di Dante, mentre i suoi nuovi compagni uscivano dalla carrozza per dirigersi chiacchierando verso l’ingresso con bagagli e animali al seguito, fu l’edificio. Un castello così bello Dante non lo aveva mai visto, così bianco da quasi brillare sotto il sole, e quando varcò la soglia insieme a Nerea dopo aver percorso un lungo viale di ghiaia la sua meraviglia aumentò a dismisura.  Varcando l’altissima porta d’ingresso a doppia anta Dante si ritrovò a calpestare un pavimento di marmo di una sfumatura rosata decorato da un motivo geometrico che costituiva un intricato disegno che sembrava condurre lo sguardo verso una delle scalinate più imponenti che avesse mai visto. Il soffitto a volta era altissimo, arricchito da scene tratte dalla mitologia scolpite e da quattro enormi medaglioni di pietra disposti lungo il perimetro del soffitto circolare
“Sapevo che ti sarebbe piaciuta. Bellissima, vero?”
Nerea gli apparve accanto con un sorriso, fermandosi accanto a lui al centro dell’enorme sala circolare mentre fiumi di studenti li superavano riversandosi sull’alta scalinata, diretti ai loro alloggi. Dante si limitò ad annuire mentre scrutava affascinato il soffitto e le alte pareti, e Nerea annuì prima di sollevare un braccio per indicare, uno ad uno, i quattro medaglioni.
“Uguaglianza, Libertà, Forza e Apprendimento. Sono i valori della scuola. Non è poi male, no?”
Dante non rispose, non particolarmente entusiasta all’idea di darle ragione, ma Nerea sorrise e prese il suo silenzio come un assenso prima di rivolgersi allegramente a Gisèle, che li superò con la valigia che fluttuava dietro di lei, il trasportino di Vaclav stretto in mano e il braccio libero ad avvolgere quello di Antoine:

“Ci vediamo dopo? Faccio fare un giro al turista.”
Gisèle assentì e regalò un accenno di sorriso anche a Dante, che si sforzò di ricambiare. Non era stato propriamente gentilissimo quando l’aveva conosciuta in Italia, perciò fece del suo meglio per rimediare mentre la francese si allontanava chiacchierando fitto fitto insieme all’amico. tutti attorno a lui, in effetti, parlavano francese, e il ragazzo si guardò attorno un po’ spaesato e rassegnato: aveva studiato la lingua per parecchie settimane e la masticava dignitosamente, certo, ma a volte i compagni parlavano talmente in fretta da mandarlo letteralmente in confusione. Fortunatamente Nerea sembrò intuire i pensieri dell’amico perché gli sorrise, prendendolo a braccetto con fare incoraggiante:

“Tranquillo, imparerai, andrà tutto bene. Ora, informazioni rapide che cerca di assimilare nel più breve tempo possibile. Questo ovviamente è l’ingresso, a destra abbiamo la Sala da Pranzo, di là invece ci sono l’Infermeria e la palestra.”
“In palestra che fate?”
“Duello e, alcuni di noi, Scherma. Al primo piano ci sono tutte le aule, domani ti accompagnerò alla prima lezione affinché tu non ti perda. Metà del secondo piano è occupato dalla Biblioteca, nell’altra metà si trova la Salle Comune degli Ombrelune. Al terzo piano ci sono le altre due, inclusa la mia. Il quarto piano non ti deve interessare granché, ci sono gli uffici e le stanze dei professori. Tutto chiaro?”

“E le torri?”
“In una c’è l’ufficio della Preside, in un’altra l’aula di Astronomia. Nella terza la Guferia e nella quarta, che penso ti potrebbe interessare, c’è la Sala Musica. Ci fa le prove l’Orchestra, pare che l’acustica sia ottima, anche se corre voce che la vecchia Preside, Madame Maxime, non sopportasse di sentire costantemente gli studenti andare a suonare e che abbia dunque fatto spostare l’Orchestra lontano dal suo udito.”
“Capito…. Devo mettere la divisa?”
“No, la mettiamo domani. Tra un’ora ti aspetta lo Smistamento, mia madre ha scritto alla Preside che ci conosciamo e sono incaricata di accompagnare te e tuo fratello nel suo ufficio più tardi.”

“Hanno fiducia in te? Mi sa che non ti conoscono.”
“Cafone. Vieni, andiamo a fare un giro, se pensi che qui dentro sia bello aspetta di vedere l’esterno!”
Prima che Dante potesse provare ad opporsi Nerea lo aveva già trascinato verso la porta dopo aver spedito i loro bagagli ad ammucchiarsi in un angolo. Dante vide così le tre enormi clessidre collocate vicino all’ingresso, piene di gemme verdi, lilla e blu, ma prima che potesse chiedere a Nerea di che cosa si trattasse era già stato trascinato fuori, di nuovo all’aria aperta e sotto il sole.

 

divisore

 

Il Dormitorio sembrava essersi completamente svuotato dalla presenza di ogni studentessa che vi abitava, e quando Antoine De Vos salì due alla volta i gradini di marmo della scala a chiocciola che collegava la sua Salle Comune con gli alloggi delle sue compagne di Casa non si imbatté in anima viva. In fondo, tuttavia, il ragazzo fu grato alla provvidenza per avergli risparmiato le occhiate di sbieco e le risatine sguaiate che erano solite riservargli le ragazzine più giovani, e fu con un certo sollievo che dopo essere giunto su un piccolo pianerottolo circolare dal quale si poteva ammirare una porzione del Lago D’Oô grazie ad un’enorme finestra con tanto di davanzale interno pieno di cuscini per sedersi imboccò in tutta tranquillità uno dei due corridoi che da esso si diramavano, trovandolo deserto quanto l’intera Salle Comune: sembrava che tutti, eccetto per lui e colei dalla quale si stava recando, si fossero improvvisamente volatilizzati nel nulla. Antoine si incamminò con lunghe falcate ben distese e rilassate lungo il corridoio dalle pareti bianche costellato da porte ad arco verniciate con una delicata tonalità color fiordaliso, calpestando il marmo a scacchiera bianco e celeste che ricopriva le pareti di tutti i Dormitori della Casa fino a fermarsi dinanzi ad una delle porte sul latro destro del corridoio per bussare gentilmente sul legno. Mentre attendeva pazientemente una risposta Antoine sollevò la testa per lavare lo sguardo sul soffitto bianco decorato da incisioni che raffiguravano scenari tratta dalla mitologia greca, studiando per qualche breve istante l’aitante figura di Ercole in procinto di rubare i pomi d’oro dal giardino delle Esperidi prima che la voce di Gisèle lo invitasse ad entrare attraverso la porta chiusa.
Antoine afferrò la maniglia dorata e l’aprì senza indugio, accennando uno dei suoi radiosi e contagiosissimi sorrisi quando, fermatosi sulla soglia, scorse immediatamente la silhouette dell’amica in piedi accanto al proprio letto, davanti alla valigia aperta e in procinto di svuotarla.
Gisèle era sola nella stanza, circondata dal silenzio più totale e dai cinque letti intatti delle sue compagne, tutti con una o due valige adagiate sulle trapunte bianche a fiori celesti e in attesa di essere svuotate. L’unico a farle compagnia era Vaclav, che sedeva ai piedi del letto monitorando i movimenti della padrona con gli attenti occhi eterocromi. La strega, che si era giusto sfilata i mocassini per stare più comoda e calpestava il parquet chiaro con i calzini di cashmere color burro, volse lo sguardo sull’amico e sulla soglia ricambiando il suo sorriso imbracciando una consistente pila di libri, in procinto di sistemarli con cura sulla mensola di legno alla destra del suo letto.
“Ciao.”
“Sei, credo, l’unica persona in tutto il castello che disfa subito i bagagli anziché godersi questa bella giornata, la prima e ultima senza compiti o ansie di qualche tipo.”
Antoine si chiuse la porta alle spalle prima di attraversare la stanza circolare fino a fermarsi accanto al letto dell’amica, sedendosi sul bordo del materasso prima di gettare un’occhiata al contenuto della valigia azzurra aperta e rigorosamente incantata per contenere con facilità tutti gli averi della sua proprietaria. Scorto Antoine Vaclav gli si avvicinò e premette la piccola testa bianca contro il suo braccio per strusciarsi e ricevere qualche coccola, sedendosi accanto a lui con aria soddisfatta quando il belga lo accontentò sfiorandogli gentilmente il capo con due dita mentre Gisèle impilava uno ad uno i libri sulla mensola, assolutamente certa che l’amico non sbagliasse: le sue stesse compagne di stanza si erano tutte volatilizzate almeno un’ora prima, ma mettere in ordine le sue cose in pace senza il loro insistente chiacchiericcio non le dispiaceva affatto.
“Probabile, ma so che se non lo faccio adesso finirò col disfarla appena in tempo per riempirla di nuovo prima di tornare a casa per Natale.”
“Se vuoi ti do una mano, così finisci prima e poi possiamo andare a fare una passeggiata.”
“I vestiti li ho già tirati fuori tutti, e anche i libri di testo… Mancano le scarpe.”
Gisèle infilò una mano all’interno della valigia e dopo aver frugato brevemente in mezzo al mare di oggetti che aveva portato con sé ne tirò fuori una gigantesca candela al muschio bianco che andò a posizionare sul suo comodino mentre Antoine si apprestava ad aiutarla iniziando a frugare a sua volta all’interno della valigia, finendo con l’iniziare a tirare fuori tonnellate di tavolette di cioccolato e disporle in piccole torri ordinate sul letto.
“Sbaglio o aumentano ogni anno queste?”
“Lo sai che sono praticamente l’unico dolce che mangio. Non mi giudicare. Cavolo, una copia si è un po’ rovinata in un angolo.”
Mentre Antoine continuava a tirare fuori tavolette di cioccolato fondente al fleur de sel non sapendo se prenderla sul ridere o preoccuparsi – che Gisèle avesse svaligiato uno store Lindt prima di partire? – l’amica, dopo aver tirato fuori dalla valigia una cornice bianca e averla sistemata sul comodino con la massima cura, prese uno dei grossi tomi impilati sulla mensola sopra di esso per sfiorarne uno degli angoli inferiori leggermente piegati e guardarlo con profondo rammarico, quasi in lutto per il suo povero libro.
“Una disgrazia. Del resto ne hai solo altre cinque, di copie di quel libro…”
Antoine accennò sarcastico alla mensola dell’amica e alle sue sei copie del Conte di Montecristo mentre, svuotata la valigia dalle scorte di cioccolato di Gisèle, iniziava a tirarne fuori un paio di mocassini dietro l’altro, sia con lacci che senza.
“Tutti hanno un’ossessione. E questa è la mia copia più bella!”
Un’ossessione?”
Antoine sollevò le due paia di mocassini che aveva appena prelevato dalla valigia, identici sotto ogni aspetto fatta eccezione per la presenza di lacci in uno e di fibbie dorate nell’altro, prima di accennare anche tutti quelli che stavano sul pavimento accanto al letto aspettando di essere riposti, un sopracciglio inarcato con evidente scetticismo. Gisèle, il libro ferito ancora in mano, studiò brevemente l’esercito di scarpe che aveva davanti prima di sbuffare e liquidare un discorso con un rapido gesto della mano, decisa a non iniziare una discussione sul suo numero di paia di scarpe. Quante ne avesse di preciso ormai non lo sapeva nemmeno lei.
“Ma tu che ne vuoi capire, metti sempre le stesse due paia! Ok, finiamo le scarpe e andiamo, finirò più tardi… Ma prima, guarda che cos’ho portato quest’anno.”
Dopo aver rimesso a posto il libro sulla mensola, da sempre consacrata all’opera magna di Dumas, e aver sistemato sul comodino la sua agenda a spirale color crema, Gisèle tirò fuori un ultimo oggetto dalla valigia, mostrandolo all’amico con un sorriso soddisfatto.
“Non ci credo. Finalmente, dopo sei anni, sono degno del comodino?”
“E di stare vicino a Roberto. Un privilegio senza paragoni.”
Gisèle annuì accennando un sorriso con gli angoli della labbra mentre sistemava la seconda cornice, che conteneva una foto che la ritraeva insieme ad Antoine durante le vacanze natalizie dell’anno prima, a casa sua, accanto alla prima, che invece conteneva una foto di Roberto Bolle.
“Una sola ossessione, eh?”
Antoine ricambiò il sorriso dell’amica mentre si alzava in piedi, stando ben attento a non urtare il baldacchino del letto con il capo vista la sua considerevole altezza, e Gisèle scosse la testa mentre recuperava la bacchetta da sopra il cuscino, agitandola in direzione del suo esercito di scarpe affinché ogni paio decollasse in una fila ordinata verso la cassapanca di velluto celeste sistemata ai piedi del letto, anch’ella ingrandita magicamente per contenere tutti i suoi libri di testo, scarpe e vestiti. Tutte le scorte di cioccolato planarono invece all’interno di uno dei cassetti del comodino, lontano dalle grinfie di Vaclav.
“Roberto è Roberto, non si discute. Bene, possiamo andare, sarà meglio che io un po’ di sole lo prenda dopo due mesi chiusa in Accademia nella grigia Londra. E non puoi capire quanto male ho mangiato, lì persino l’insalata fa schifo!
Gisèle ripose la bacchetta nella tasca del suo vestito smanicato, infilò nuovamente i mocassini loafer con cui era arrivata e infine prese Antoine a braccetto per condurlo fuori dalla sua camera e raccontargli per filo e per segno tutte le sue disavventure londinesi, in primis dovute alla becera qualità del cibo.
“Ma tanto tu non mangi mai niente comunque.”
“Che c’entra, quel poco che mangio vorrei che non facesse ribrezzo! Per fortuna mi sono rifatta durante la settimana in Italia dai Pagano.”
Gisèle si strinse nelle spalle mentre lei e Antoine uscivano dalla stanza, rammentando con gioia mista a malinconia le sue abbuffate estive made in Italy mentre si chiudeva la porta celeste della sua camera alle spalle. I due si incamminarono fianco a fianco nel corridoio deserto, infrangendo il silenzio nel quale era precipitata la Salle Comune col suono riecheggiante dei loro passi sul pavimento di marmo prima che il belga, il braccio stretto con gentilezza da quello dell’amica, chinasse lo sguardo su di lei con la fronte aggrottata resosi conto di quanto inusuale fosse non vedere insieme Gisèle e Nerea Pagano durante il primo pomeriggio dell’anno a Beauxbatons:
“A proposito, Nerea dov’è finita?”
“Faceva fare un giro turistico al suo amico Dante.”
La francese si strinse debolmente nelle spalle, camminando con la sua consueta postura diritta e pressochè perfetta prima di aggrottare dubbiosa la fronte, colpita da un pensiero improvviso:
Spero si sia portato le scarpe da ginnastica.”

 

divisore

 
 
In vari punti della tenuta, nel pieno del Pagano Tour
 
 
“Come vedi, questo è il nostro bellissimo roseto.”
“Caspita, delle rose. Non le avevo mai viste.”
Simpatico come un’ortica. Guarda che lo ha progettato Pietro Porcinai(2) dopo aver studiato qui, dovresti apprezzare di più!”
 

Ecco, questa è la statua di Nicolas Flamel e sua moglie Perenelle, ha finanziato lui in larghissima parte la costruzione della scuola, ricco com’è. Anzi, com’era, visto che è morto circa trent’anni fa. Credo anche sua moglie. … In effetti pensandoci non è un luogo proprio allegro questo, andiamo alle scuderie!”
 

“Questi sono i nostri cavalli, si possono prendere e fare passeggiate quando si vuole, ma poi bisogna impegnarsi a strigliargli e a pulirgli gli zoccoli prima di rimetterli nei loro box. Non scegliere mai Diomede, è antipatico come la peste.”
 

“Questa è la serra, uno dei miei posti preferiti.”
Fu con enorme sorriso entusiasta, l’ennesimo da quando erano approdati a Beauxbatons, che Nerea si fermò dinanzi a Dante dando le spalle ad una mastodontica costruzione con colonne ioniche composta per lo più da vetrate e ospitante una ricchissima vegetazione che si poteva scorgere anche a diversi metri di distanza tanto era fitta. Dante, al contrario, seppur fino a quel momento avesse affrontato con scarsissima buona volontà il tour dell’amica si ritrovò a spalancare meravigliato gli occhi dal taglio a mandorla mentre studiava incredulo la struttura che aveva di fronte. Sua madre glielo aveva ripetuto più e più volte per tutto il corso della lunga estate che aveva alle spalle, quanto Beauxbatons fosse splendida e quanto di certo l’avrebbe apprezzata dato il suo interesse per l’architettura, ma Dante non aveva mai voluto darle ascolto, troppo impegnato a ripudiare con astio l’idea del suo trasferimento. Aveva quasi deciso che Beauxbatons non gli sarebbe piaciuta per partito preso, ma improvvisamente si ritrovò quasi a cambiare idea.
“Mi prendi per il culo?! Questa la definisci serra?! E voi qui ci fate lezione?!”
“Di che ti stupisci, non hai sentito la parte sui finanziamenti di Flamel?! Ti farei fare un giro interno, l’edificio è davvero bello, ma nel weekend è chiuso per gli studenti. Beh, in caso scegliessi Botanica lo vedrai a lezione, proseguiamo!”
 

“Questo giardino è un altro dei miei punti preferiti della tenuta, c’è un piccolo labirinto di siepi e in mezzo un gazebo adorabile, personalmente adoro venirci a studiare in primavera. Come quello di Una mamma per amica!”
Di nuovo Nerea guardò l’amico con un largo sorriso mentre accennava al piccolo giardino quadrato ricco di basse siepi e panchine dietro di lei che già ospitava qualche studente in cerca di relax, ma Dante non le diede grande soddisfazione e non sembrò affatto cogliere il suo riferimento mentre la guardava aggrottando le sopracciglia brune e alcuni degli altri studenti gettavano occhiate dubbiose verso di lui, chiedendosi chi fosse il nuovo arrivato.
“Ma che è?! E comunque questo posto assurdo, sembra di stare dentro una fiaba di Perrault.”
Ignorante! E comunque dove pensi che abbia studiato Perrault, scusa?! Ti porterei a vedere il campo di Tiro con l’Arco visto che so che ti piace, ma devo accompagnarti per lo Smistamento. Forza, in marcia.”
Dopo aver gettato una rapida occhiata al proprio orologio da polso Nerea si incamminò sul prato con passo deciso superando l’amico e facendogli cenno di seguirlo, dirigendosi nuovamente verso il magnifico castello bianco posto al centro della tenuta baciata dal sole mentre Dante si incamminava subito dietro di lei velocizzando le falcate per raggiungerla, improvvisamente un po’ nervoso e pentito di non aver mai dato grande ascolto alle informazioni sulla scuola che sua madre e l’amica gli avevano snocciolato per tutta l’estate. Di certo gli era stato detto in che cosa consisteva lo Smistamento, ma aveva spedito quell’informazione in una angolo lontano del suo cervello e non sapeva proprio come ripescarla.
“In che cosa consiste, esattamente?”
“Devi solo tirare una freccia. Quella esplode e in base al colore vieni Smistato, facile come bere un bicchiere d’acqua. Naturalmente non c’è nessun bersaglio, l’arco è incantato per tirare la freccia praticamente da solo visto che dovrebbero usarlo quelli del primo anno. Di norma lo si fa nell’ingresso, ma ha già avuto luogo stamattina prima che noi arrivassimo, quindi ti devo accompagnare in un’aula dalla Preside insieme a tuo fratello, lo farete insieme. Secondo me Zhān potrebbe essere un Bellefuille come me.”
Grato di dover affrontare la cerimonia da solo senza circondarsi da un branco di undicenni, in mezzo ai quali sarebbe di certo sembrato un ridicolo gigante, Dante annuì sollevato mentre camminava sull’erba fianco a fianco dell’amica, superando piccoli gruppi di studenti che sedevano chiacchierando, prendevano il sole su delle coperte, leggevano o giocavano a Gobbiglie.
“Ne sarebbe felice visto che ha una cotta per te.”
“Che?! Non è vero, che cagate dici!”
“Sei seria? In famiglia lo sanno tutti. Arrossisce e fugge appena gli sorridi. E poi sono io l’ottuso!”
Dante rise per la prima volta da quando aveva aperto gli occhi quella mattina dato che, in effetti, negli ultimi mesi il suo buonumore era stato parecchio compromesso, e Nerea lo guardò con gli occhi chiari strabuzzati, incredula e profondamente inorridita all’idea di dover dargli ragione.

 

divisore


 
Sala da Pranzo
 
 
Milad sedeva solo ad uno dei numerosissimi tavoli circolari, tutti apparecchiati per otto persone, disposti nell’immensa stanza dove studenti e insegnanti consumavano quotidianamente i loro pasti. Era arrivato in leggero anticipo e i tavoli erano ancora vuoti, fatta eccezione per l’acqua nelle caraffe e i cestini del pane, e i passi dei suoi compagni sul pavimento di marmo continuavano a riecheggiare e a fargli compagnia. Di norma Milad si sarebbe seduto vicino ad Abel, che però aveva ben pensato, sfortunatamente, di prendere posto accanto a Guillaume Delacroix. A Milad Guillaume non era mai piaciuto, probabilmente fin dal primo giorno, e aveva accuratamente evitato di sedersi al loro stesso tavolo, preferendo occupare una sedia solitaria ad un tavolo ancora deserto.
Stava studiando pensoso il tavolo vuoto quando aveva udito dei passi farsi sempre più vicini e infine una voce femminile salutarlo pronunciando il suo nome, inducendo il belga ad alzare la testa e ad accennare un sorriso in direzione di Nerea Pagano e del suo amico Dante.
“Ciao. Allora, com’è andato lo Smistamento?”
Milad si rivolse a Dante mentre il ragazzo prendeva posto tra lui e Nerea, scorgendo per un istante una lieve traccia di panico negli occhi scuri del nuovo studente. L’italiano si schiarì la gola, ancora incerto sulla pronuncia del nome della sua Casa, prima di sforzarsi di dirne il nome a voce alta:
“Pare che io sia un… emh… Papillon…”
Lo sguardo di Dante vagò implorante verso Nerea, che sorrise e si affrettò ad accorrere in suo aiuto mentre Gisèle e Antoine li raggiungevano, udendosi al loro tavolo.
“Lisse. Papillonlisse. Onestamente ero sicura che non saresti finito con me, ma ammetto che avrei puntato anche sulla Casa di Milad e Gisèle.”
“Buon per te Dante, corre voce che molti di noi abbiano dei caratteri di merda. Antoine è l’eccezione alla regola.” Gisèle sedette accanto all’amica accennando ad Antoine con un lieve movimento del capo, strappando un accenno di sorriso sul viso di Dante mentre Etienne, dopo essere andato a salutare sua sorelle e le sue amiche, li raggiungeva sedendo accanto a Milad, seguito da Phoenix, Icaro e Diego.
“Finalmente si mangia, crepo di fame!”
Etienne scostò la sedia sedendosi allegramente accanto a Milad prima di notare Dante, realizzare di non aver idea di chi egli fosse e allungare la mano per presentarsi.
“Ciao! Sei il famoso amico di Nerea? Parla sempre di te! Dice che facevate il bagnetto insieme.”
“Nerea, devi finirla con questa storia del bagno, giuro.”
Phoenix prese invece posto tra Icaro e Diego dopo un pomeriggio passato a rosolare sotto il sole con un libro in mano, rivolgendosi con un sorriso angelico a Gisèle mentre scostava rumorosamente la sedia sul pavimento di marmo per avvicinarsi al tavolo:
“Gisèle, non essere così dura con te stessa, non sei poi così male.”
“Infatti parlavo anche di voi due.”
Gisèle rispose al sorriso con un’occhiata in tralice mentre si riempiva d’acqua il bicchiere, destando una finta espressione offesa sul viso di Icaro mentre il ragazzo si spezzava un po’ di pane:
“Noi? Ma se siamo dei tesori. Così ci ferisci!”
“Lo vedo, siete proprio distrutti.”
Gisèle si strinse nelle spalle prima di portarsi il bordo del calice alle labbra, consentendo ad Icaro di voltarsi verso Milad:
“Milad, tu sei stato nella nostra stessa camera per cinque lunghi anni, diglielo che siamo adorabili.”
Mi astengo, grazie.”
Come Gisèle Milad si portò il calice alle labbra per prendere un sorso d’acqua, affrettandosi ad estromettersi dalla conversazione per andare in aiuto di Nerea, che stava cercando, insieme ad Etienne, di insegnare la pronuncia corretta dei nomi delle Case a Dante: il ragazzo non pareva entusiasta dei nomi, a sua detta eccessivamente pomposi e complicati per i poveri idioti come lui che non nascevano madrelingua o improntati allo studio del francese.  Mentre Phoenix si sporgeva oltre Icaro per dare del traditore a Milad Gisèle scosse la testa, guardando prima Antoine e poi Milad con sincero rammarico nei grandi occhi celesti:
“Cinque anni con voi due? Poverini.”
“Poverini? Non sei tu che una volta mi hai chiesto di mettere una tarantola nel letto di tuo cugino, sempre nostro compagno di stanza?”
Icaro parlò incrociando le braccia al petto e sollevando entrambe le sopracciglia con aria di sfida, destando una risata in Phoenix e un’espressione stralunata sul bel viso di Antoine, che volse di scatto lo sguardo sull’amica che invece sorrideva, colpevole:
“Lo sapevo che eri stata tu.”
Antoine, neanche troppo sorpreso, scosse la testa con rassegnazione mentre guardava l’amica, che invece schioccò le labbra e ripose la base del bicchiere sul tavolo prima di sorridere, divertita:
“Bei tempi.”
“Ti prego Gisèle, è l‘ultimo anno… Non trasformate la Sala Comune in un campo di battaglia.”
Milad si rivolse alla compagna di Casa, che sedeva praticamente di fronte a lui, con un sospiro e un’occhiata quasi implorante, ormai esausto dopo anni di lotta intestina tra gli Ombrelune. Anche Antoine dovette pensarla allo stesso modo, a giudicare dall’occhiata rassegnata che gli lanciò, mentre Icaro, al contrario, si rivolse al belga spalancando interdetto gli occhi scuri, seguito a ruota da Phoenic:
“Perché, io mi diverto!”
“Anch’io!”
“Vi credo, ma voi non vi siete trovati con il letto verniciato con quella roba che si illumina al buio perché Gisèle aveva sbagliato letto! Sono stato in un letto fosforescente una settimana.”
Gisèle annuì, seria in volto, pronunciò delle scuse sincere e poi tornò a bere un po’ d’acqua per soffocare una risatina mentre Icaro, accanto a Milad, sghignazzava senza alcun ritegno. Quando il belga lo fulminò con lo sguardo l’italiano scosse la testa sfilandosi il telefono dalla tasca dei pantaloni neri, in cerca della foto incriminata:
“Scusa, davvero, ma era troppo divertente vederti dormire in quella roba…”
Icaro voltò il telefono per mostrare la foto a Phoenix, che scoppiò a ridere mentre Milad, scuro in volto, roteava esasperato gli occhi scuri. Gisèle gli rivolse le ennesime scuse, questa volta in labiale e accompagnandole con un sorriso, prima che Diego, dopo interi minuti di silenzio, parlasse con la massima serietà:
“Sapete, sono davvero, davvero felice di non essere della vostra Casa. Davvero molto felice. Dante.”
Il ragazzo prese il suo bicchiere, levandolo leggermente in direzione del nuovo compagno come a voler brindare alla sua salute:
“Benvenuto. Ti sei salvato.”
 

 

divisore


 
“Avete visto il ragazzo nuovo che carino?!”
Tutto, nella stanza che Lucinda, Maëlle, Daphnè e Marguerite condividevano da ormai più di cinque anni era pronto per il loro rituale di inizio anno: le luci erano spente, fatta eccezione per l’abat-jour del comodino di Marguerite, le maschere idratanti erano state spalmate sul viso di ciascuna delle quattro giovani streghe e i kg di gelato prelevati direttamente dalle cucine erano stati serviti. Le quattro amiche, sedute sul pavimento nello spazio che intercorreva tra il letto di Marguerite e quello di Lucinda, avevano già indossato il pigiama e stavano chiacchierando da almeno un’ora, da quando si erano ritirate nella loro stanza al termine della loro prima cena dell’anno a Beauxbatons.
Fu Lucinda a parlare, seduta accanto a Maëlle standosene appoggiata con la schiena alla fiancata del proprio letto a baldacchino dai tendaggi color lavanda, e la franco-portoghese si portò una generosa cucchiaiata di gelato alla vaniglia alle labbra mentre Daphnè, seduta tra Marguerite e il comodino dell’amica, la guardava scuotendo leggermente la testa con impazienza, i capelli castani raccolti sulla nuca per non sporcarli con la maschera idratante e avvolta da un pigiama di raso rosa corto e dal taglio maschile.
“Sì, certo, carino, e pare anche sia nella nostra Casa… ma vogliamo sapere di Théodore!”
Marguerite e Maëlle sembrarono d’accordo con l’amica perché spostarono a loro volta lo sguardo con insistenza con Lucinda, che si prese qualche lungo istante per deglutire il gelato – e anche per creare un po’ di suspence – prima di stringersi nelle spalle esili, chinando lo sguardo cristallino sulla ciotola che teneva in mano mentre Duchess, la gatta di Daphnè, se ne stava raggomitolata tra le ginocchia della padrona annusando curiosa il gelato a lei proibito.
“Non c’è granché da dire.”
“Come sarebbe a dire? Ci hai fatto una testa così tutta l’estate con questo Théodore!”  Marguerite spalancò inorridita le labbra mentre guardava l’amica scuotendo la testa, incredula e decisa a non consentirle di liquidare in quel modo il discorso. Maëlle per tutta risposta annuì con decisione mentre ruotava il mento in direzione di Lucinda, puntandole contro il cucchiaino con eloquenza:
“Già, lo abbiamo pure stalkerato su Wizagram, ti ricordo!”
“Lo so, e siete state delle detective fantastiche. A parte quanto Maëlle ha messo like per sbaglio ad una foto di due anni fa…”
“Che figura di merda…”
“… Ma l’estate è finita e anche tutta quella storia. Insomma, io vado ancora a scuola, lui no, come pensate che sarebbe potuta proseguire?”
Lucinda abbozzò un sorriso mentre raccoglieva un po’ di gelato con la punta del cucchiaio, provando quasi un moto di senso di colpa di fronte alle espressioni sinceramente deluse, per non dire afflitte, che presero rapidamente forma sui visi di Marguerite e Daphnè:
“Quindi niente? Finito? Niente?” La lussemburghese sospirò, amareggiata, e la francese le fece eco scuotendo la testa mentre tornava a fissare il suo gelato, quasi immaginando la storia romantica che Lucinda le aveva negato al suo posto.
“E io che speravo in una storia piena di romanticismo…”
“Beh, credo che sia stata una bella storia estiva. E con un ragazzo più grande, cosa che non guasta… Ma forse solo questo. Non è una tragedia, lo sapevamo tutti e due, ci siamo divertiti e poco più.”
“Io non credo che potrei mai averne, sono troppo sdolcinata.”
Daphnè fece spallucce mentre raccoglieva un po’ di gelato alla fragola con il suo cucchiaio e Maëlle, sedutale di fronte a gambe incrociate e con Joey a sonnecchiarle acciambellato sulle ginocchia, annuì seria:
“Vero, sei una romanticona terribile che sogna il principe azzurro. Ma la mia esperienza in fatto di relazioni è una merda, quindi meglio se non parlo.”
Maëlle scosse la testa con una smorfia mentre affondava il cucchiaio nel gelato, decisa ad affondarci anche i ricordi che avevano appena ben pensato di riaffiorare nella sua mente. Trascorse qualche istante di silenzio, finchè la bionda non parlò di nuovo gettando un’occhiata accigliata alle amiche:
“Comunque, il ragazzo nuovo è davvero carino. Com’è che si chiama?!”
“Dante.”  Marguerite rispose con la bocca piena di gelato al cioccolato e coprendosi perciò, da brava ragazza educata qual era, le labbra con la mano, destando un’espressione un poco accigliata sul bel viso di Maëlle illuminato fiocamente dalla luce tenue e calda dell’abat-jour:
“Dante?! Beh, speriamo non svenga di continuo…”
 




 
 
 
 
 
 
 
(1): Doverosa specifica: Elisabetta I fece decapitare sua cugina di primo grado, Mary Stuart
(2): Architetto del paesaggio italiano, mi prendo qualche licenza e lo inserisco negli annali degli studenti di Beauxbatons, come Charles Perrault.
 
 





 
………………………………………………………………………………………………….
Angolo Autrice:
Buonasera🤍
Finalmente do a tutti gli effetti inizio a questa storia con il suo primo capitolo che è, emh, già lunghissimo, ormai temo che dobbiate proprio arrendervi. L’ho prevalentemente scritto sotto influenza quindi spero che il risultato sia decente e non uno scempio T.T   Non è specificato nel capitolo, ma Icaro e Diego sono due deliziosi cugini di terzo grado non previsti e dovuti al caso, mentre Phoenix è stato bocciato al V anno, quindi ha l'età dei ragazzi del VII ed è stato in classe con loro per la maggior parte del suo percorso accademico.
Vi ringrazio per le risposte dello scorso capitolo, per ora vi risparmio altre domande visto che già nel prossimo ce ne saranno ancora.
A presto!
Signorina Granger
 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo II ***


Capitolo II
 

 
Lunedì 12 settembre
 
 
 
I piedi di Gisèle affondavano negli strati di sottile sabbia dorata della riva del lago e la strega non tardò a cambiare traiettoria per essere più vicina all’acqua, correndo molto più facilmente nel calpestare la sabbia bagnata. Pur essendo molto presto faceva ancora abbastanza caldo da concederle di indossare solo una maglietta a maniche corte che le lasciava le braccia discretamente pallide scoperte, fatta eccezione per la fascia nera in cui Gisèle aveva infilato il suo telefono. Mentre correva in silenzio sulla riva con le braccia raccolte contro il corpo e i capelli ricci che le solleticavano collo e spalle Gisèle stava riflettendo sulla prima giornata di lezioni imminente e sui corsi che avrebbe dovuto decidere di seguire, ma la strega venne indotta a fermarsi bruscamente e ad interrompere le sue lunghe falcate quando udì la voce di Antoine informarla della sua intenzione di fermarsi. L’amico, che era rimasto dietro di lei da qualche minuto a quella parte, si fermò sulla sabbia e trasse qualche profondo respiro mentre si chinava in avanti mettendosi le mani sulle ginocchia, riprendendo fiato prima di raddrizzarsi e andare a sedersi, esausto, sulla sabbia asciutta. Sorpresa, Gisèle si fermò e subito si voltò verso l’amico, affrettandosi a raggiungerlo fino a fermarglisi di fronte con un debole sbuffo e un’occhiata affettuosamente severa:
“Non dirmi che ti sei rammollito.”
“Ok, ammetto di non essermi allenato granché quest’estate. Mea culpa.”
Antoine si lasciò cadere stancamente all’indietro finchè schiena, spalle e nuca non si scontrarono con la sabbia, concedendogli di gettare un’occhiata al cielo terso e già illuminato dalla luce del sole sopra di loro, privilegio di un’estate che si stava ormai consumando. Gisèle accennò un sorriso mentre si chinava per afferrare il piede destro dell’amico, sollevandogli la lunga gamba fino a posizionarsi la sua caviglia sulla spalla:
“Io mi sono presa una settimana di pausa quando sono tornata a casa, ma dai Pagano ho corso più o meno tutti i giorni. Nerea non ne era troppo entusiasta, ma si è dovuta arrendere. Lumaca.”
Gli angoli delle labbra di Gisèle si sollevarono appena verso l’alto dando vita ad un sorrisino di scherno mentre la ragazza assestava qualche colpetto affettuoso sul polpaccio dell’amico e i muscoli della gamba di Antoine si rilassavano, ridacchiando apertamente quando scorse l’espressione offesa che subito apparve sul volto abbronzato del ragazzo:
“Tra due settimane ti farò vedere chi è la lumaca, dammi il tempo di riprendermi.”
“Solo perché hai le gambe più lunghe delle mie, altrimenti ti seminerei.”
“Probabilmente è vero, non mi vergogno ad ammetterlo. Ok, mi alzo…”
Antoine fece scivolare la gamba dalla presa dell’amica per alzarsi in piedi e tornare così a torreggiare su di lei grazie ai venti centimetri che li dividevano, spolverandosi distrattamente la sabbia dai capelli prima di gettare un’occhiata speranzosa in direzione di Gisèle:
“Rientriamo? Ho così fame che sarò il primo a presentarmi a colazione, credo.”
“Va bene mammoletta, solo perché è il primo giorno. Hai pensato a che corsi seguire?”
Nonostante fossero abituati a percorrere un giro molto più lungo Gisèle acconsentì e i due si allontanarono dalla riva per tornare a calpestare l’erba del parco della scuola, dirigendosi nuovamente verso il castello e il passaggio segreto che erano soliti sfruttare ogni giorno da ormai tre anni.
“Più o meno. Di sicuro continuerò con il tiro con l’arco. Tu continuerai con scherma?”
Antoine chinò il capo per rivolgere un’occhiata incuriosita all’amica, guardandola sbuffare e annuire mentre gli sistemava un braccio attorno alla vita:
“Ovvio. Ti pare che io abbia tempo di imparare uno sport nuovo?”
Fosse stato per lei non ne avrebbe seguita proprio nessuna, di attività extra. A volte si chiedeva quale fosse stata la mente dietro a quell’idea malsana di costringerli tutti a seguirne almeno una.
 

 
divisore
 
 

Dante aveva ricevuto istruzioni molto dettagliate da Nerea nel corso della sua primissima cena a Beauxbatons: mentre il ragazzo ingurgitava una forchettata di spaghetti dietro l’altra la strega gli aveva più e più volte ricordato di come le lezioni iniziassero alle 8.30 per concludersi alle 17.30, e che la colazione veniva servita tutti i giorni a partire da un’ora prima rispetto all’inizio dell’orario di lezione. Dante aveva solo vagamente udito qualcosa in proposito all’importanza della primissima colazione dell’anno accademico, ma aveva finito col non darci peso e scordarlo completamente una volta giunto nella sua Salle Comune, ovvero quello che sarebbe stato il suo alloggio per i due anni successivi: terminato di cenare Nerea aveva portato a termine il sul tour accompagnandolo infatti fino all’ingresso, finendo col fermarsi di fronte ad un’alta porta a doppia anta verniciata di lilla con i battenti laccati d’oro.
Invece di entrare Dante si era immobilizzato di fronte alla porta guardando l’uscio con sguardo schifato, voltandosi lentamente verso l’amica – che invece gli sorrideva allegra mentre lo invitava ad entrare – prima di chiederle se fosse sicura che fosse quella la porta giusta.
“Certo che lo sono, scemo, tutti conoscono la locazione delle Sale Comuni qui! E poi la mia si trova precisamente nell’altra ala del piano, penso di aver visto la gente uscire da quella porta almeno un trilione di volte negli ultimi sei anni.”
L’espressione di Nerea assunse una lieve sfumatura spazientita mentre guardava l’amico inarcando un sopracciglio, sfidandolo ad insinuare nuovamente che non conoscesse bene il castello mentre Dante, atterrito, tornava a volgere lentamente lo sguardo sulla porta. Il ragazzo deglutì a fatica prima di indicarla, terrorizzato solo all’idea di scoprire che cosa celasse:
“Ma è… così… viola…”
“Facci l’abitudine, il viola è il vostro colore. Per tua fortuna però le divise sono uguali per tutti, non dovrai mai indossarlo.”
Nerea, consapevole del profondo astio nutrito dall’amico nei confronti di quello specifico colore, fece spallucce prima di invitarlo nuovamente ad entrare con un cenno, assicurandogli di come di sicuro la Sala Comune fosse splendida mentre Dante ringraziava mentalmente chiunque avesse avuto la buona grazia di non personalizzare le divise in base ai colori delle varie Case di appartenenza: gli mancava solo di andarsene a zonzo conciato da zucchero filato e poi la sua vita avrebbe davvero fatto schifo sul serio.

“Io non ci ho mai messo piede, ma le Sale Comuni sono tutte splendide. La mia è completamente verde, adorabile, un giorno te la mostro.”
Il verde era un bel colore, un colore che non odiava e che non gli destava attacchi di nausea né emicranie, e Dante sbuffò invidiando fortemente l’amica e anche il suo fratellino, che era stato Smistato nella stessa Casa di Nerea giusto un paio d’ore prima. Fece per chiederle se non ci fosse la possibilità di cambiare Casa, ma Nerea gli intimò spazientita di entrare quasi spingendolo verso la porta rischiando di farlo sbattere di faccia contro l’anta verniciata di lilla, non lasciandogli altra scelta se non addentrarsi nel suo nuovo alloggio.
 

Con gran sollievo di Dante Nerea non sembrava essersi sbagliata: seppur interamente viola l’interno non si era rivelato poi così male, soprassedendo sulla quantità esagerata di delicati cuscini color pastello che gli avevano provocato un acuto attacco di voltastomaco. Anche le pareti della sua nuova camera, condivisa con altri cinque ragazzi, erano viola e così le trapunte dei letti, ma Dante non aveva esitato a far diventare le proprie nere con un incantesimo: a tutto c’era un limite. Dante si era così infilato nel suo nuovo letto dalle lenzuola nere avvolto nel suo pigiama nero e con le sue cuffie over-ear del medesimo colore a coprirgli le orecchie per ascoltare un po’ di musica prima di dormire, finendo col cazzeggiare su Wizagram molto più del necessario e addormentarsi così ad un’ora considerevolmente tarda.
Aveva impostato la sveglia alle 7.30, ma una volta destato dal sonno Dante non aveva esitato a spegnerla con un’imprecazione sibilata tra i denti prima di voltarsi dall’altra parte abbracciando il cuscino, deciso ad ignorarla. Stava quasi per riaddormentarsi quando qualcosa lo fece sobbalzare, inducendolo a spalancare gli occhi scuri e a mettersi a sedere di scatto sul materasso tastandosi la fronte: accigliato, Dante si staccò un post-it verde pastello dal viso per gettare un’occhiata stralunata all’unica parola che qualcuno vi aveva scarabocchiato sopra in italiano:
 

 
ALZATI!
 

Intontito dal sonno com’era Dante impiegò qualche istante più del necessario per individuare la sua amica d’infanzia come artefice di quel pessimo incentivo a farlo sloggiare dal letto, e dopo aver appallottolato e gettato via il post-it il ragazzo era tornato a giacere supino sul materasso, del tutto incurante. Passarono trenta secondi prima che un secondo post-it gli si appiccicasse violentemente sulla fronte, questa volta dandogli della “capra scansafatiche”. Di nuovo il pezzo di carta finì sul pavimento e Dante si nascose sotto il lenzuolo, autoconvincendosi di averla persuasa a lasciar perdere finchè un aereo di carta non sfrecciò nella stanza dopo essersi appiattito per passare attraverso la fessura sottostante alla porta, puntellandolo fastidiosamente sul viso per costringerlo a sloggiare dal letto.
“Va bene, va bene, mi alzo, che palle!”
 
Tre minuti dopo la porta della Salle Comune dei Papillonlisse venne spalancata con un gesto brusco e visibilmente spazientito, ma anziché lasciarsi impressionare Nerea Pagano sfoderò un sorriso smagliante, i lunghi capelli castani raccolti in una coda alta e gli occhi verdi pieni di entusiasmo, la divisa di seta azzurra già indossata e pronta per l’inizio del suo ultimo anno accademico:
“Buongiorno, finalmente ti sei degnato! … Ma ci vieni così di sotto? E la divisa?! Qui ci tengono a queste cose!”
La vista dell’amico costrinse la strega a perdere immediatamente tutto il suo entusiasmo, e anzi la voce di Nerea tradì un lieve allarmismo mentre il suo sguardo scivolava dal viso cupo dell’amico fino al suo abbigliamento molto discutibile, consistente in una tuta nera che riconobbe immediatamente come il pigiama di Dante. A differenza dell’amica anziché preoccuparsene il ragazzo si chiuse la porta alle spalle con un gesto secco e la raggiunse passandosi una mano tra i capelli castani per lisciarli, del tutto incurante di qualsiasi regola in fatto d’abbigliamento:
“Me ne frego della divisa, la metterò dopo.”
Nerea stava per ribattere e intimargli di girare su tacchi per andare a cambiarsi, ma le bastò una rapida occhiata all’espressione risoluta e vagamente imbronciata dell’amico per decidere di arrendersi e di non perdere ulteriore tempo: anni di esperienza le permisero di constatare quanto discutere si sarebbe rivelato inutile, senza contare che aveva fame e non aveva nessuna voglia di perdere tempo tardando la colazione, pertanto l’italiana finì col roteare brevemente gli occhi chiari prima di fargli cenno di seguirla e avviarsi rapida verso le scale che li avrebbero condotti al pian terreno. I passi della ragazza sul pavimento di marmo echeggiarono rumorosamente per tutto il lungo e largo corridoio dalle pareti bianche, costeggiato da ampie finestre sul lato destro e da elaborati candelabri da parete dorati pieni di ghirigori, e anche se con scarso entusiasmo a Dante non restò che seguirla, consolandosi col pensiero della colazione imminente. Doveva ammettere che quantomeno la cena, la sera prima, non era stata poi così male.
“Esattamente, che corsi dovrò seguire?”
Deciso a non perdersi e a vagare per ore e ore alla ricerca della sala da pranzo Dante affrettò il passo fino a fiancheggiare l’amica per poterle scoccare un’occhiata dubbiosa, resosi conto solo in quel momento di non avere idea di quali materie avrebbe dovuto studiare a Beauxbatons, ma a giudicare dallo sguardo truce che Nerea gli rivolse mentre iniziavano a scendere un’ampia scalinata di marmo dagli alti corrimani neri il ragazzo intuì di come forse l’amica glielo avesse già accennato. Forse era proprio quella la parte che aveva ascoltato solo distrattamente della conversazione risalente alla sera prima.
“Te l’ho spiegato ieri, capra che non sei altro! È per questo che si arriva presto, alla prima colazione dell’anno!”
“Pensavo fosse per non farsi fottere le brioche migliori!”
“Beh, anche! E comunque ti consiglio di scordare la parola brioche, dì sempre croissant se non vuoi essere evirato. Siamo in suolo francese, qui.”
Dante continuò a scendere rapido i gradini fiancheggiando Nerea, le cui dita della mano destra scivolavano sfiorando la superfice dell’elegante corrimano nero, ma quell’informazione gli entrò da un orecchio e subito fuoriuscì dall’altro, del tutto deciso a fregarsene altamente di che cosa avrebbero potuto pensare i suoi nuovi compagni di scuola.
 

divisore

 
“Ragazze, ci siete?!”
Daphnè si stava infilando gli orecchini di perle d’oro alle orecchie, in piedi davanti al suo letto rifatto – quando ne aveva il tempo era solita metterselo in ordine per conto proprio, senza che dovesse pensarci un Elfo – e con la divisa scolastica già indossata. Mancavano solo le scarpe affinché potesse definirsi pronta, le francesine col tacco basso azzurre e blu che l’aspettavano sul pavimento accanto al letto, e parlò ruotando la testa in direzione della porta aperta bianca del bagno, rivolgendosi a Marguerite e Lucinda, la prima impegnata a spazzolarsi i lunghi capelli castani e la seconda a litigare con il mascara.
“Che palle questa cosa della divisa a colazione, fosse per me ci andrei in pigiama…”
Maëlle andava fiera, anzi fierissima del suo pigiama con i gattini, e parlò con un debole sbuffo risentito mentre se ne stava appoggiata con la spalla sinistra al baldacchino del suo letto ancora in disordine e con Joey, il suo amato micio, a sonnecchiare placidamente sopra al copripiumino bianco con i fiorellini lilla accanto ad un cuscino con una fantasia di note musicali. Maëlle invidiava spesso il suo gatto per il suo poter dormire tutto il giorno, e scoccò un’occhiata tetra al felino mentre Marguerite usciva dal bagno con i capelli in ordine e sistemandosi sbrigativamente i polsini blu polvere del vestito di seta azzurro pastello con la gonna lunga fino al ginocchio.
“Eccomi, sono pronta, metto le scarpe e ci sono.”
“Ci sono anche io, anche se stamattina i miei capelli sono come quelli della tipa bassa del film con i Supereroi…”  Lucinda seguì l’amica fuori dal bagno e si chiuse sbuffando la porta alle spalle, maledicendo i propri corti capelli scuri che quella mattina sembravano aver assunto vita propria mentre Marguerite imitava Daphnè sedendo sul bordo del proprio letto per infilarsi rapidamente le scarpe e allacciarle. Maëlle invece si staccò dal baldacchino del letto e diede un’ultima carezza affettuosa a Joey prima di avviarsi verso la porta della loro camera, un sorriso a distenderle le labbra al pensiero della colazione imminente:
“Edna è miliardaria, magari essere come lei. Forza fanciulle, i croissant ci aspettano! Ho così fame che me ne mangerò due.”
“Ci sono sempre troppe cose per colazione, non so mai cosa scegliere.” 
Daphnè seguì l’amica verso la porta lilla della loro camera aggrottando pensosa le sopracciglia mentre rifletteva su ciò che avrebbe potuto scegliere come prima colazione dell’anno, impresa che le risultava sempre piuttosto ardua a causa di quella che le sue amiche erano solite definire “indecisione cronica”. Maëlle, ormai avvezza e al tempo stesso esasperata dai tempi biblici che l’amica e compagna di Casa impiegava quotidianamente per scegliere che cosa mangiare, impugnò la maniglia dorata della porta e spalancò l’anta ruotando al contempo la testa verso di lei per scoccarle un’occhiata di severo rimprovero:
“Nel dubbio mangia tutto, non ti ho insegnato nulla in questi anni?!”


 
divisore
 
 
“Lo muovi quel culo?! Siamo in ritardo, ci fregheranno i croissant migliori!”
Icaro Orsini stava in piedi sulla soglia di una stanza che non era la sua ma che, in effetti, ci somigliava parecchio: sei letti, tutti a baldacchino con i tendaggi di un’intensa sfumatura di blu, pareti color cobalto, un camino di marmo spento in attesa dei giorni freddi e soffitto che ritraeva un cielo stellato. L’unica differenza stava negli inquilini di quella stanza e nelle costellazioni raffigurate sul soffitto, ma Icaro ormai le conosceva a memoria tanto quanto quelle della camera dove viveva ormai da anni, e non si premurò di osservarle mentre scrutava invece torvo e impaziente l’unico ragazzo presente nella stanza, le braccia strette al petto e i capelli scuri che gli ricadevano sulle spalle magre:
“Eccomi, pigna che non sei altro. Ma in parte hai ragione, non vorrei che ci trovassimo solo con quello schifo di marmellata alle fragole…”
Pur sbuffando infastidito contro l’insistenza di Icaro Phoenix dovette riconoscerete come l’amico non avesse tutti i torti ad intimargli di sbrigarsi, e si affrettò a raggiungerlo finendo di abbottonarsi la camicia di seta azzurra della divisa scolastica. Quell’orrendo vestiario proprio non gli era mancato, e già agognava il weekend per poter tornare ai suoi jeans neri e agli anfibi.
“La cravatta.”
Phoenix era arrivato ad un metro da lui quando Icaro alzò gli occhi scuri al cielo ricordandogli la cravatta, e l’amico girò sui tacchi e corse di nuovo, imprecando, verso la valigia che naturalmente ancora non aveva disfatto per recuperare una delle cravatte blu notte con sottili dettagli in oro della divisa. Afferrata Phoenix si affrettò di nuovo verso l’amico, che tuttavia non si mosse di un centimetro dalla soglia e si limitò a scoccargli un’occhiata scettica sollevando un sopracciglio:
“Il gilet.”
“Che si fotta il gilet, ho fame!”
Phoenix lo superò senza accennare a voler recuperare anche il panciotto blu polvere della divisa, sfrecciando nel corridoio del loro dormitorio cercando di infilarsi la cravatta senza fermarsi. Icaro si chiuse la porta della stanza alle spalle e lo seguì, ricordandogli a gran voce di come fosse colpa sua se erano, come al solito, in ritardo.
Quando finalmente aprirono la porta celeste della loro Salle Comune per riversarsi nel corridoio del secondo piano i due trovarono Diego ad aspettarli, gli occhi fissi sul display del telefono per tenere sotto controllo l’orario. Una volta scorti amico e cugino il ragazzo li guardò esasperato prima di accennare allo schermo e all’orario, scuotendo la testa con disapprovazione prima di intascarlo e affrettarsi verso le scale insieme a loro:
“Finalmente! Sbrighiamoci, o avranno già finito quelle al pistacchio per quando arriveremo!”
“Lady Phoenix ha bisogno dei suoi tempi per vestirsi, sai com’è.”
“Chiudi quella bocca Orsini, quando ti lavi i capelli ci metti più tempo di una ragazza, con tutti i prodotti che hai.”


divisore
 

Quando ebbe varcato la soglia della sala da pranzo lo sguardo di Nerea indugiò immediatamente su Gisèle, Antoine e Milad, tutti già seduti attorno ad un tavolo ed intenti a fare colazione. La strega, non provando il benchè minimo stupore nel trovarli in perfetto orario, si affrettò a raggiungerli facendo lo slalom tra gli altri tavoli circolari e le sedie bianche che li circondavano, quasi tutte ancora libere, con Dante al seguito, non preoccupandosi minimamente di voltarsi per assicurarsi di non aver perso l’amico per strada.
“Buongiorno a tutti! Scusate il ritardo, avevo una zavorra da recuperare.”
Nerea sfoderò un gran sorriso una volta fermatasi alle spalle di Milad, udendo solo una specie di grugnito provenire dalla direzione di Dante mentre il belga, un croissant alla marmellata in mano e un foglio nell’altra, salutava con tono neutro e senza distogliere lo sguardo dal pezzo di carta che aveva davanti, fissandolo concentrato:
“’Giorno.”
“Buongiorno un cavolo amaro, non so che materie scegliere! Rea, siediti vicino a me, così lo compiliamo insieme.”
Gisèle, seduta accanto ad Antoine, puntò i grandi occhi azzurri sull’amica accennando implorante alla sedia libera che aveva vicino mentre stringeva tra le mani un foglio identico a quello di Milad. Antoine, chino sul suo con una tazza di caffè semivuota davanti, stava scrivendo qualcosa con una splendida piuma di pavone verde e blu e mentre Nerea si affrettava a raggirare il tavolo per raggiungere Gisèle Dante si lasciò scivolare sulla sedia libera tra lui e Milad osservando accigliato i fogli, chiedendosi di che cosa si trattasse.
Di sicuro Nerea gliene aveva parlato, ma figurarsi se se lo ricordava.
Non fece in tempo, tuttavia, a parlare che subito quello stesso identico foglio, insieme ad una piuma di pavone, apparve da sé sul piatto bianco e ancora immacolato che aveva davanti, destando ancor più sconcerto sul bel viso del nuovo arrivato. Dante iniziò a scrutare accigliato la tabella che aveva di fronte e le istruzioni segnate sopra di essa, cercando di decifrarla con le sue conoscenze di francese non ancora perfezionate al massimo prima che Milad, scorta una traccia di confusione sul suo viso, non andasse in suo aiuto parlando con tono neutro e paziente:
“Devi compilare il tuo orario. Qui al VI e al VII anno le materie sono facoltative. Puoi scegliere tu quelle che vuoi, basta che siano almeno otto su sedici. Ah, e devi seguire almeno un’attività extra. Nerea non te l’ha detto?”
Milad parve sorpreso nel considerare l’ipotesi che la compagna, forse una delle persone più loquaci che avesse mai conosciuto, non avesse informato l’amico per filo e per segno a proposito delle dinamiche della scuola, ma prima che Dante potesse bofonchiare qualcosa in risposta Nerea si premurò di ergersi in propria difesa alzando di scatto la testa per scrutarli torva:
“Certo che glielo detto, non è certo colpa mia se è una capra!”
Sentitasi presa in causa la strega smise di studiare il foglio di Gisèle per appurare quali materie l’amica avesse già scelto di seguire per scoccare un’occhiata di rimprovero e anche un tantino risentita in direzione di Dante e Milad, destando un raro sorrisino divertito sul viso del belga e una smorfia di disappunto su quello dell’amico:
“Dici troppe cose per starti a sentire di continuo.”
“Piantala di fare lo yogurt greco scaduto, o ti do in pasto ad una pianta carnivora.”
Gisèle, estraniatasi fino a quel momento dalla conversazione per riflettere sulle materie che avrebbe dovuto scartare e quali no, all’improvviso spalancò gli occhi cerulei e riprese possesso del suo foglio per scrutare la tabella con le materie e le spunte che già aveva inserito sulle rispettive caselle.
“Botanique, ecco cosa avevo scordato! Non mi va particolarmente di seguirla, ma ad otto materie minimo ci devo arrivare.”
“Ma tu devi seguirla, ci sarò anche io! Daiiii, ti aiuterò con i compiti!”
Gisèle non aveva mai apprezzato particolarmente quella materia, tutt’altro, ma si ritrovò ugualmente a tentennare, indecisa, di fronte allo sguardo implorante di Nerea, che la guardava con l’aria di un adorabile cucciolo abbandonato sul ciglio della strada. Dicendosi che con la presenza dell’amica frequentare le lezioni non sarebbe stato poi così terribile la Ombrelune finì con il convincersi e annuire, arresa, riprendendo in mano la piuma di pavone per segnare una spunta sulla seconda colonna della tabella prima di rivolgersi ad Antoine:
“… Ok, va bene. Antoine, tu ci sei?”
“Sì.”
Antoine annuì masticando un boccone di croissant alla crema e allungò il proprio foglio a Gisèle affinché l’amica potesse consultare le sue scelte, lasciando Nerea ad esultare per la possibilità di seguire un corso in più in compagnia della sua migliore amica.
“Allora potrebbe non essere poi così male, anche se con il mio scarso pollice verde potrei far morire tutta la serra.”
“Impossibile, il mio è eccellente e compenserà il tuo. Dante, ti serve aiuto per i nomi delle materie?”
“In realtà sono simili all’italiano, non è così difficile… Ma che caspita è Métamorphose?!”
“Trasfigurazione. Io quest’anno la salto.”
Memore delle sue non propriamente brillanti performance dell’anno prima Nerea gettò un’occhiata di disappunto al nome della materia in questione, decisa a non approfondirne gli studi. Milad, che al contrario l’aveva segnata, vuotò la sua tazza di caffè prima di rivolgere un sorriso pacato e innocente alla compagna, quasi dispiaciuto all’udire le sue parole:
“Ma come, non ci delizi con le sfavillanti esibizioni dello scorso anno?”
Antoine scoppiò a ridere mentre sorseggiava il suo caffè e venne colpito da un acceso attacco di tosse nel tentativo di non farselo andare di traverso, inducendo Gisèle ad assestargli qualche colpetto sulla schiena mentre Nerea, improvvisamente rossa in viso, faceva di tutto per evitare lo sguardo improvvisamente interessatissimo di Dante, deciso ad apprendere tutti gli aneddoti imbarazzanti possibili sulla sua amica d’infanzia:
Capita a tutti di sbagliare mira e di trasfigurare la cosa sbagliata di tanto in tanto!”
“Non di quasi trasfigurare l’insegnante, però…”
Questa volta anche Gisèle sorrise, ma s’impegnò fortemente per non ridere dell’amica e mantenere intatto il suo contegno mentre Nerea diventava ancora più paonazza e Antoine, ripresosi ma con gli occhi quasi lacrimanti, mormorava delle scuse nei confronti della Bellefuille per il suo scarso tatto.
“Oddio, non parliamone, la Blanc non mi ha mai guardata così male… Pensavo stesse per fulminarmi.”
Nerea ancora si sentiva morire dalla vergogna al solo ricordo e si nascose il viso tra le mani, inducendo Gisèle a cercare di confortarla con qualche leggera pacca sulla spalla mentre Dante, amareggiato per aver perso lo spettacolo, tornava ad osservare la sua tabella prima di annuire e segnare una spunta accanto alla materia:
“Ok, la segno.”
“Ti avviso, la prof è abbastanza stronza.”
“Più stronza dei miei vecchi insegnanti non credo proprio.”
Abituato al regime molto rigido della sua vecchia scuola, per non parlare della nonna paterna che lo aveva parzialmente cresciuto fin da bambino facendolo vivere in un clima di semi terrore, Dante fece spallucce prima di tornare a concentrarsi sulle altre righe della tabella, scrutando accigliato i nomi delle materie per scegliere quali escludere dai suoi studi. Aveva appena spuntato Étude des runes e Sortilèges quando la soglia della sala da pranzo, che dal suo arrivo e quello di Nerea si era considerevolmente riempita, venne varcata da tre studenti all’affannata ricerca di posti liberi e di qualcosa da mettere sotto i denti. O meglio, Phoenix e Diego entrarono quasi correndo, Icaro con falcate rilassate e ponderate, perché di correre e sudare prima di iniziare le lezioni proprio non gli andava.
“Il caffè?! È finito il caffè?!”
Phoenix, scorte alcune sedie libere al loro tavolo, si fermò alle spalle di Dante alla disperata ricerca della brocca bianca del caffè, sospirando di sollievo e affrettandosi a prendere posto quando Milad negò con un cenno del capo, lasciando che la brocca gli riempisse da sola la sua tazza.
“Sono finite le brioche al pistacchio?!”
Diego seguì a ruota l’amico sedendoglisi accanto scrutando preoccupato il vassoio d’argento con i croissant rimasti alla ricerca del suo gusto preferito e subito Dante sollevò la testa per gettare un’occhiata al ragazzo e poi indicarlo con fare eloquente a Nerea, facendole notare la scelta lessicale dell’italiano.
“No, è tutta tua.”
Gisèle, che si era dovuta accontentare di sbocconcellare una tristissima fetta biscottata, accennò cupa in direzione del croissant che tanto agognava a sua volta prima di guardare Diego prenderlo e addentarlo con gioia, invidiandolo fortemente. Phoenix invece invidiò silenziosamente Dante per il suo non aver ancora indossato la divisa, chiedendosi amareggiato perché lui l’avesse fatto mentre Icaro sedeva accanto al cugino in tutta calma, senza scomporsi minimamente e lasciando che gli venisse versato del caffè nella tazza di ceramica bianca.
“Oh, l’orario. Nick, ricorda di segnare Divination, hai perso la scommessa alla fine dell’anno scorso.”
Quando il foglio apparve insieme ad una piuma sopra al suo piatto Icaro lo sollevò e lo mostrò sventolandolo sorridendo angelico all’amico, che in tutta risposta gli mostrò il dito medio senza smettere di masticare il croissant alla crema di cui si era appena appropriato.
“Piuttosto indosso la divisa femminile per un giorno intero. Gisèle, mi presti la gonna?”
Il greco si rivolse sfoggiando un sorrisetto ammiccante alla compagna di Casa, che lo imitò mostrandogli il dito medio senza rispondergli mentre sorseggiava un po’ di caffelatte.
“No, avevamo detto che se non avessi segnato neanche una volta all’ultima partita di Quidditch avresti dovuti seguire la materia che più detesti in assoluto.”
“Ma abbiamo vinto!”
“Ma non hai segnato. Forza, muoviti, voglio che a fine anno tu mi predica uno sfavillante futuro.”
“La smettete di fare la vecchia e acida coppia sposata? Siamo qui da un giorno.”
Diego sospirò stancamente tra un boccone di croissant e l’altro, già parzialmente esausto delle piccole diatribe che intercorrevano quasi quotidianamente tra i due, ma come c’era da aspettarsi nessuno dei due parve dar peso alla sua richiesta, e Phoenix si limitò a sorridere amabilmente al suo migliore amico prima di prevedere, per lui, un caloroso e sincero invito ad andare a fanculo.
 
 
“Quindi seguiamo insieme ben sei corsi… Beh, direi non male.” Nerea sorrise dopo aver confrontato il suo orario e quello dell’amica, lieta di seguire in sua compagnia la maggior parte delle lezioni dell’anno. Gisèle però non accennò a distogliere lo sguardo dal suo foglio, fissando accigliata le righe ancora vuote della sua tabella:
“Forse sette, devo sceglierne ancora uno. Se ne segno solo otto mia madre e soprattutto quel beota di mio cugino potranno accusarmi di fare solo lo stretto necessario, devo metterne nove.”
Gisèle si grattò pensosa la tempia destra coperta dai capelli castani che aveva raccolto in un ordinato chignon per tenerli a bada con l’ausilio di innumerevoli forcine e di un nastro di velluto dello stesso tono di azzurro della divisa, scrutando accigliata gli otto corsi tra cui ancora poteva scegliere. Dopo una breve riflessione la strega sollevò il capo puntando il mento verso il suo migliore amico, allargando le labbra carnose per dare vita ad sorriso adorabile ed innocente:
“Antoine?”
“Mh?”
Il belga smise di chiacchierare con Milad e Dante per rivolgersi alla ragazza, scontrandosi immediatamente con il suo sorriso angelico e con il suo battito di lunghe ciglia una volta che i suoi occhi azzurri ebbero solcato il viso di Gisèle. La conosceva abbastanza bene da intuire facilmente che cosa volesse chiedergli, e dopo giusto un paio di istanti Antoine sospirò, annuendo rassegnato prima di alzarsi facendo grattare i piedi della sedia bianca sul pavimento di marmo:
“Ok.”
“Grazie!”
Gisèle sorrise all’amico e gli indirizzò un bacio aereo con le dita della mano destra, guardandolo allontanarsi verso uno dei tavoli che li circondavano prima di tornare a raddrizzarsi sulla sedia, un accenno di sorriso soddisfatto sulle labbra.
“Non vuoi sporcarti le mani e gli hai chiesto di uccidere Guillaume?”
Milad, che provava un tantino di compassione nei confronti del povero e gentile Antoine per il suo essere perennemente invischiato nelle diatribe tra i loro due compagni di Casa, guardò Gisèle con un sopracciglio inarcato e una buona dose di scetticismo in volto mentre Antoine, alle spalle della strega, si fermava casualmente proprio accanto ai posti occupati da Abel e Guillaume
“Certo che no, non lo farei mai circondata da testimoni oculari!”
Gisèle fece spallucce con nonchalance prima di portarsi la tazza alle labbra, riempita poco prima con una seconda dose di caffè per affrontare con la dovuta energia il primo giorno di scuola e le ore di allenamenti che l’aspettavano prima di andare a dormire. Si pentì fortemente, tuttavia, di quella decisione pochi secondi dopo, quando Dante le rivolse la parola con un sopracciglio inarcato:
“Ma voi due stavate insieme?”
Non era sua abitudine farsi gli affari altrui, ma aveva sentito Gisèle menzionare con astio un certo Guillaume – nome che Dante si sarebbe a lungo rifiutato di pronunciare – per tutta la durata del suo soggiorno dai Pagano giusto un paio di settimane prima, e a vederli sotto lo stesso tetto era evidente che non andassero propriamente d’amore e d’accordo.
Intuì, tuttavia, di aver fatto una gaffe quando a Gisèle andò di traverso il caffè e la strega prese a tossire violentemente sotto lo sguardo inorridito di Nerea, che si affrettò a darle dei colpetti sulla schiena mentre Phoenix e Icaro, udita la domanda del ragazzo, si contorcevano dal ridere sulle loro sedie.
“Gisèle, non soffocare, non diceva sul serio! Dante, ma che fai, sei qui da un giorno e mi ammazzi l’amica?!”
Nerea fulminò l’amico con un’occhiata truce quando Gisèle ebbe ripreso a respirare facendosi aria con una mano, le guance arrossate e gli occhi quasi resi lucidi dallo sforzo. Mentre Icaro e Phoenix quasi singhiozzavano dal ridere e Milad e Diego si sforzavano di restare impassibile – il primo soprattutto temendo una ritorsione e di ritrovarsi con il letto fosforescente per la seconda volta, o ancor peggio il pigiama – Dante sbuffò e spostò seccato lo sguardo sugli altri commensali in cerca di una risposta, chiedendosi il perché di quelle reazioni esagerate:
“Che ne so io?! E che c’è da ridere?”
“Sono cugini. Di primo grado. E si detestano.”
Phoenix riuscì a smettere di ridere per rispondere alla perplessità di Dante, che pur restando perfettamente impossibile capì di aver preso un granchio gigantesco. Si voltò senza dire nulla in direzione di Gisèle, che annuì deglutendo a fatica dopo aver bevuto un generoso sorso d’acqua:
“Sto bene. Sto bene, ho pensato alla morte per un istante, ma sto bene.”
“Però legalmente tra cugini non è incesto, un pensiero ce lo puoi anche fare.”
Icaro sorrise alla compagna di Casa, che rispose con un’occhiata truce mentre sollevava minacciosa un coltello da burro:
“Scherzaci su un’altra volta, e ti ficco questo coltello…”
Antoine scelse esattamente quel momento per fare ritorno al loro tavolo, riprendendo possesso della sua sedia e rivolgendosi, incurante degli anni di vita che l’amica aveva appena perso a causa di Dante, a Gisèle con un semplice cenno di assenso con il capo. L’amica parve accantonare le immagini orripilanti che le erano tristemente appena passate per la mente e subito accennò un sorriso, spuntando un’altra riga sul suo foglio prima di riporre soddisfatta la piuma sulla porzione di tovaglia bianca accanto al suo piatto ormai vuoto, fatta eccezione per qualche briciola.
“Perfetto. Duel sia, e siamo a nove, direi che ho finito.”
“Mi spieghi perché ti ostini a seguire le lezioni di Duel solo se si iscrive anche tuo cugino? Lo detesti!”
Antoine scosse il capo mentre guardava l’amica con un accenno di esasperazione, temendo gli scenari macabri che avrebbero potuto prendere vita a lezione per tutta la durata dell’anno mentre Gisèle si stringeva nelle spalle con noncuranza accennando un sorriso soddisfatto con gli angoli delle labbra:
“Certo, e infatti non mi importa poi così tanto di affinare le mia abilità nell’arte del duello, mi importa di poter spedirlo in Infermeria ed essere anche legittimata a farlo. Ci divertiremo un sacco quest’anno.”
 

 
divisore

 
Lucinda, Maëlle, Marguerite e Daphnè stavano scegliendo le materie da seguire per il loro penultimo anno di scuola, tutte piuttosto entusiaste di poter finalmente compilare personalmente il proprio orario escludendo i corsi che meno rientravano nei loro gusti.
“C’è un corso che seguiamo tutte insieme, Musique e Philtres et Distillats a parte?”
Lucinda parlò senza nemmeno alzare lo sguardo dal proprio foglio, la piuma di pavone in mano e i residui del suo croissant dimenticati sul piatto mentre si arrovellava sulle materie da abbandonare. Marguerite, seduta tra lei e Daphnè, scosse la testa con un debole cenno del capo senza sollevare lo sguardo dal foglio a sua volta, sfoggiando una minuscola ruga di concentrazione in mezzo alle sopracciglia sottili e arcuate:
“Mmh, non credo, io ho scartato Astronomie…”
“E io Sortilèges e Histoire de la Magie.”
Maëlle aveva appena scartato con grande gioia anche Métamorphose e Botanique, di gran lunga le materie nelle quali aveva arrancato più faticosamente nel corso dei cinque anni precedenti, quando udì una voce maschile piuttosto familiare rivolgersi con tono fastidiosamente canzonatorio, e il suo accenno di sorriso le svanì immediatamente dalle labbra:
“Ma come, non torni a far morire tutte le piante della serra, sorellina?”
Étienne si accomodò sulla sedia rimasta libera accanto alla sorella minore sfoderando un sorriso beffardo che finì con l’allargarsi di fronte all’occhiata a dir poco truce che Maëlle gli indirizzò, prelevando in tutta calma un croissant alle mandorle dalla piramide che era stata formata sul vassoio d’argento circolare posizionato al centro del tavolo. Accanto a lui, con scarsa gioia di Daphnè, si accomodò il fratello maggiore di quest’ultima, e André non tardò ad imitare l’amico prendendo un pain au chocolat sotto lo sguardo esasperato della sorella minore:

“Non per essere sgarbata ragazzi, ma dovete proprio sedervi qui con noi?”
Daphnè trasse un debole sospiro prima di puntare gli occhi chiari sul fratello maggiore per scoccargli un’occhiata di mite rimprovero, ma anziché preoccuparsene André le sorrise amabile senza smettere di masticare il suo dolce, visibilmente deliziato dall’idea di arrecarle una qualche forma di disturbo. Era proprio a questo che pensava, quando Marguerite dichiarava di invidiare le famiglie numerose che contraddistinguevano lei e Maëlle: a volte avrebbe volentieri barattato tutti i suoi fratelli maggiori, ben quattro, con dei teneri e vaporosi barboncini.
“Sì, non per essere sgarbata, ma levatevi dalle palle.”
Notoriamente sprovvista del tatto e del garbo che invece contraddistinguevano la sua amica Maëlle sollevò sbuffando vistosamente la sua tazza di caffelatte gettando un’occhiataccia ai due elementi disturbatori della loro colazione, agognando il momento in cui lei e Daphnè si sarebbero finalmente liberate di loro l’anno dopo. Lucinda era così fortunata, ad avere un fratello più grande fuori dai radar.
“Ma come, non gradite la compagnia dei vostri adorati fratelli maggiori? Ma se le vostre amiche ci adorano!”
Étienne si finse offeso e agitò distrattamente il suo croissant in direzione di Lucinda e Marguerite prima di rivolgere alle due uno dei suoi smaglianti e adorabilmente seducenti sorrisi destando un mite assenso da parte di Marguerite, che pigolò che per lei potevano anche restare facendosi piccola piccola sulla sedia temendo che Maëlle potesse indispettirsi. Lucinda, che a dirla tutta come la lussemburghese trovava entrambi molto simpatici, fece per assecondare l’amica, ma prima che potesse parlare Maëlle agitò nervosamente la tazza verso il fratello maggiore facendogli cenno di levarsi dai piedi:
“Naturalmente vi vogliamo bene, ma ho visto la tua faccia ogni giorno per tre mesi, mi può bastare. E poi dobbiamo parlare degli affari nostri, sono mesi che non ci vediamo tutte e quattro insieme, e se ci siete voi non possiamo!”
“E di che dovete parlare, di ragazzi?”
Alle parole di Etienne lui e André presero a sghignazzare senza ritegno sotto gli sguardi truci delle rispettive sorelle minori, e mentre Daphnè arrossiva, imbarazzata, Maëlle dovette convincersi a forza che sarebbe stato un vero spreco rovesciare il suo caffè bollente sulla lucente chioma di capelli biondo cenere del fratello.
“Se anche fosse?! Spero che vi risucchi un buco nero mentre andate a lezione!”
Maëlle era assolutamente convinta che il regolamento della scuola avrebbe dovuto integrare qualche norma riguardo al divieto, per tutti i fratelli maggiori, di ammorbare l’esistenza delle povere e sventurate sorelle minori, specie di prima mattina nell’orario della colazione. Quando, una decina di minuti dopo, lei e le sue amiche si alzarono per lasciare la sala da pranzo e andare a consultare i fogli con gli orari che erano stati appesi fuori dalla porta lasciandosi Etienne e André alle spalle la bionda prese Marguerite a braccetto e sibilò qualcosa a denti stretti, rifiutandosi di rivolgere un’ulteriore occhiata al fratello:
Che nessuna si sogni di dire che mio fratello è simpatico.”
Per quanto legata potesse essergli, a volte lo avrebbe volentieri preso a calci, lui e la sua bella faccia.
“Consolati, io ne ho altri tre a casa.”
Daphnè sospirò mentre nella sua mente prendeva forma il sogno ad occhi aperti di un’esistenza fatta da sole sorelle femmine, in un idilliaco scenario alla Little Women, e Lucinda aggrottò le sopracciglia pensando al suo unico fratello maggiore con cui, avendo ben sei anni di differenza, aveva condiviso solo il suo primo anno a Beauxbatons.
“A me Lisandro non rompe poi così tanto, sarà che abbiamo qualche anno di differenza... Per lo meno non mi può stressare mentre sono a scuola.”
Per quanto affetto potesse nutrire nei confronti del fratello maggiore l’idea di non averlo nei paraggi a poterla controllare costituiva quasi un sollievo per Lucinda e la sua vita scolastica lontana da casa, sollievo che in parte due delle sue migliori amiche le invidiavano fortemente. Marguerite, l’unica delle quattro a ricoprire il ruolo di sorella maggiore, si strinse invece nelle spalle mentre i suoi pensieri vagavano sull’amato fratellino, riempiendole immediatamente il cuore d’affetto e un po’ di nostalgia di casa:
“Il mio credo non conti molto in questo senso, ha solo nove anni.”
“Beh, in compenso a volte Etienne nove anni li ha nel cervello.”
 

 
divisore

 
Torre Nord
 

Con gran gioia Daphnè, Lucinda, Marguerite e Maëlle avevano presto scoperto come la primissima lezione dell’anno non fosse altro che la loro preferita, e dopo essere tornate nella propria stanza per recuperare gli strumenti le quattro studentesse si erano dirette insieme verso la torre del castello che ospitava le lezioni di musica.
“In realtà dubito che oggi farò qualcosa, di solito alle prime lezioni suonate e basta…”
Rimpiangendo sinceramente i suoi comodissimi jeans e le sue felpe Lucinda parlò lisciandosi distrattamente la gonna del vestito azzurro della divisa e salendo le scale fiancheggiando Marguerite alle spalle di Maëlle e Daphnè, entrambe cariche di spartiti e dei rispettivi strumenti infilati nelle custodie nere.
“Suoniamo scoordinatissimi dopo tre mesi senza prove, vorrai dire.”
Maëlle abbozzò un sorrisino divertito e colpevole, conscia di non essersi minimamente esercitata come avrebbe dovuto durante l’estate – ma la colpa ovviamente era più che altro di suo fratello e della sua dote nell’arrecarle disturbo di continuo – mentre Daphnè, reggendo saldamente il manico della custodia del suo amato flauto, si stringeva debolmente nelle spalle: la prima lezione era sempre una mezza tragedia e una dura prova alla pazienza del loro insegnante, ma se non altro avevano chiuso magnificamente l’anno precedente solo pochi mesi prima.
“Però al concerto di fine anno siamo stati bravissimi, Toscani non potrà rimproverarci nulla.”

 
“Macquart, la finiamo di tenere l’archetto al contrario?!”
Quando la voce tonante, dall’accento italiano e profondamente irritata del loro insegnante e direttore d’orchestra giunse alle loro orecchie le quattro amiche stavano chiacchierando sedute vicine e accordando in tutta calma i rispettivi strumenti come i loro compagni, tutti seduti alla rinfusa sulle sedie disposte a semicerchio ignorando le solite disposizioni per poter stare il più a lungo possibile con i rispettivi amici. La violinista, che aveva già strimpellato qualche nota distratta per controllare il suono, sobbalzò sentendosi chiamare, e gettò un’occhiata all’archetto che teneva in mano prima di sgranare inorridita gli occhi castani nell’appurare di come l’insegnante non sbagliasse:
“Oh, cazzo… Scusi! Che figura di merda!”
Maëlle si affrettò a raddrizzare l’archetto mentre Marguerite accordava la bellissima arpa datale in dotazione dalla scuola – portarsi la propria da casa e trascinarla per le scale del castello non sarebbe stato molto agevole –, e Daphnè si lasciò sfuggire una sottile risatina mentre Lucinda, seduta accanto a loro con le gambe accavallate e le braccia incrociate, sbuffava piano e scuotendo amareggiata la testa:
“Io l’anno scorso sono inciampata nell’arpa di Marguerite e sono caduta dritta di faccia davanti al ragazzo più bello dell’orchestra, non ti preoccupare.”
Maëlle si astenne dal far sapere all’amica quanto quel momento fosse stato divertente, e anzi cercò di consolarla come poté, pur non riuscendo a trattenere un sorrisino, mentre lo sguardo di Marguerite vagava sul perimetro circolare della stanza dall’altissimo soffitto in cui si trovavano, garante di un’acustica eccezionale. Tutti i suoi compagni stavano accordando gli strumenti chiacchierando, forse ancora restii all’idea che l’anno scolastico fosse ormai iniziato a tutti gli affetti, ma quando lo sguardo della strega indugiò quasi per caso sulla porta di legno ad arco che garantiva l’accesso alla torre provò un sincero moto di sorpresa nel scorgere il nuovo ragazzo arrivato a scuola.
“Ehy, c’è il ragazzo nuovo.”
Bastarono quelle poche e semplicissime parole per catalizzare prima su di sé e poi sulla porta gli sguardi e l’attenzione delle sue tre amiche, che subito smisero di chiacchierare per osservare Dante avvicinarsi all’insegnante per parlargli con sguardi pieni di curiosità. Era stato smistato nella loro stessa Casa e ancora non avevano sentito la sua voce, non aveva l’aria d’essere particolarmente socievole e mai avrebbero pensato di poterlo trovare come compagno di classe in quella lezione.
“Allora forse suonerà con noi. Che cosa pensate che suoni?”
Daphnè guardò Dante inclinando leggermente la testa con curiosità, cercando di indovinare quale strumento il ragazzo suonasse mentre Maëlle, accigliata, cercava di scrutare le mani del ragazzo:
“Di sicuro non il violino, non ha le mani piene di calli come le mie.”
“Peccato che non si senta cosa stanno dicendo lui e Toscani.”
“Parlano in italiano, non capiremmo niente comunque! Ora che ci penso, perché non abbiamo neanche un’amica italiana?! Ci servirebbe in momenti come questo, è difficile farsi gli affari altrui in una scuola multilingue!”
Maëlle si guardò attorno alla ricerca di una ragazza italiana da mandare in esplorazione affinché lei e le sue amiche potessero farsi gli affari altrui come si doveva, ma prima che potesse anche solo rivolgere la parola alla seconda flautista insegnante e studente avevano già smesso di parlare, e Toscani aveva fatto comparire una sedia per Dante.
Il ragazzo trascinò la sedia verso la parete della stanza, sedendosi e incrociando le braccia al petto assumendo una posa rigida mentre osservava un poco accigliato gli altri studenti presenti all’interno della torre. Quando il suo sguardo indugiò su quattro ragazze che lo stavano guardando di rimando e che li parve di riconoscere come delle sue compagne di Casa il suo sguardo si fece ancor più accigliato chiedendosi, un poco a disagio, perché tutti gli studenti della sua età fossero così interessati a lui, che era arrivato con tutta l’intenzione di farsi gli affari propri e di non dare particolarmente nell’occhio almeno per i primi tempi.
“Ok, ci ha viste.”
Marguerite si affrettò a distogliere lo sguardo, imbarazzata, quando si ritrovò quello di Dante puntato addosso, pentita di avergli rivolto un po’ troppa attenzione mentre Daphnè si chiedeva, ad alta voce, come rimediare alla gaffe:
“Dovremmo salutarlo? Così sembreremmo gentili.”
“Infatti noi siamo gentili.”
Lucinda aggrottò le sopracciglia mentre si voltava verso Daphnè, che annuì e si agitò leggermente sulla sedia reggendo il flauto – che in preparazione della prima lezione dell’anno aveva pulito e ripulito più volte nel corso dei giorni precedenti – tra le mani, un po’ a disagio:
Appunto!”
“Se avete finito di farvi gli affari vostri iniziamo. Come potete vedere oggi abbiamo un osservatore che inizierà con noi la prossima volta, quindi impegnatevi per favore.”
Lasciatosi Dante in veste di spettatore silenzioso alle spalle l’insegnante attese che tutti si fossero alzati e diretti alle postazioni corrette, dopodiché accennò in direzione di Maëlle, che essendo la prima violinista sedeva in prima fila, proprio alla sua sinistra, con un movimento appena accennato della bacchetta per dirigere:
“Macquart, suonami La Campanella. Assolo.”

Naturalmente quella era la punizione per la sua figuraccia, ma Maëlle ricopriva fieramente il ruolo di maggior prestigio di tutta l’orchestra e di certo non si fece pregare, troppo preda del suo orgoglio per non dare sfoggio del suo talento. La strega sollevò il violino posizionandolo tra mento e spalla, inforcando l’archetto correttamente prima di iniziare a suonare a memoria, senza nemmeno aprire lo spartito sul leggio nero che aveva davanti.
Lucinda, che si era seduta in un angolo aspettando di essere interpellata, si lasciò presto cullare come tutti i presenti dalle note del violino che avvolsero tutta la sala circolare infilandosi le mani sotto le cosce prima di iniziare a far dondolare distrattamente i piedi a tempo di musica quasi senza rendersene conto. Gli occhi chiari della giovane strega, puntati sul viso concentrato dell’amica e sul suo amato violino, scivolarono brevemente su Dante chiedendosi se stesse ascoltando a sua volta la melodia e quando lui, forse sentendosi osservato, ricambiò il suo sguardo accennò un sorriso educato con gli angoli delle labbra a mo’ di saluto. Se Lucinda si aspettava di essere ricambiata venne ampiamente delusa, perché il ragazzo si limitò a scoccarle un’occhiata distaccata prima di distogliere lo sguardo con una maschera di totale indifferenza sul viso.
Un poco interdetta, Lucinda inarcò un sopracciglio e irrigidì leggermente le spalle prima di sbuffare piano e tornare a concentrarsi su Maëlle  sulla musica di Paganini, amareggiata e anche un tantino offesa.
Bah, che maleducato!
 

 
divisore
 
 
Serre serra-esterno serra-interno
 

Mancavano poco meno di dieci minuti allo scoccare delle 14 mentre buona parte degli studenti del VII anno calpestava i prati smeraldini del parco o la superficie ghiaiosa di uno dei sentieri che dal retro del castello si snodava in direzione dei diversi angoli della tenuta. Il sole era ancora alto nel cielo terso e scaldava i visi degli studenti diretti verso le serre del castello, tutti carichi degli rispettivi zaini o borse e animati da un vivo chiacchiericcio mentre si preparavano ad affrontare la prima lezione del pomeriggio.
Milad Sarkis aveva approfittato delle prime due ore libere della giornata – privilegio consentitogli dal non essere parte dell’Orchestra né, tantomeno, dal non essersi iscritto a Divination – per rilassarsi all’interno della Salle Comune straordinariamente semivuota e sprofondare nella lettura su uno dei divani azzurri che popolavano l’area comune degli Ombrelune: durante le ore buche, quando l’ambiente si svuotava parzialmente privandosi del rumoroso chiacchiericcio, delle risate e degli schiamazzi dei suoi compagni, Milad adorava rintanarsi sì per leggere o studiare. Etienne lo aveva accusato di “fare il vampiro” quando aveva declinato l’invito a stare all’aperto, ma il belga era stato ben lieto di godersi semplicemente le sue letture insieme alla compagnia silenziosa di Abel Hoffman. Forse il suo non essere molto loquace era proprio ciò che Milad più gradiva nel compagno, a pensarci bene.
Nerea Pagano, dal canto suo, stava vivendo quel primo giorno con enorme entusiasmo considerando che dopo aver faticosamente costretto Dante a lasciare la sua camera la sua giornata aveva preso una piega decisamente gradevole: dopo aver compilato l’orario aveva rapidamente scoperto di avere le prime due ore di lezione buche ogni lunedì, ore che aveva trascorso sulle sponde del Lago d’Oo insieme a Gisèle, Etienne e Antoine approfittando della totale assenza di compiti da svolgere, privilegio che presto sarebbe diventato solo un lontano e nostalgico ricordo di inizio anno. Per di più, Botanique era senza alcun dubbio una delle materie preferite in assoluto dalla giovane strega, che infatti si stava dirigendo verso le Serre con un radioso sorriso ad illuminarle il volto abbronzato, la borsa dei libri che le dondolava sul fianco e il braccio sinistro allacciato saldamente a quello di Gisèle, che aveva straordinariamente abbandonato il suo consueto portamento invidiabile per lasciarsi più che altro trascinare dall’amica sulla ghiaia.  
“Non vedo l’ora di vedere l’interno e di scoprire se le aiuole che abbiamo piantato l’anno scorso sono fiorite!”
Nerea, di gran lunga la più entusiasta della comitiva all’idea di fare lezione, parlò con gli occhi chiari luccicanti dall’emozione mentre affrettava il passo verso l’enorme e alta costruzione di vetro col soffitto a cupola che li avrebbe presto ospitati per l’ora successiva costringendo Gisèle, essendo ancorata al suo braccio, a fare altrettanto. Le due così facendo si avvicinarono ad Icaro e ad Etienne, che non tardò a smettere di chiedere, pensoso, all’amico quali compiti avrebbero dovuto svolgere per le vacanze estive prima di voltarsi verso la compagna di Casa sfoggiando un sorriso entusiasta pressochè identico al suo:
“Le mie devono essere fiorite, con tutto l’impegno che ci ho messo!”
Tutto l’entusiasmo per dei vegetali inanimati che i suoi amici palesavano incessantemente Gisèle era sicura che non sarebbe mai riuscita a comprenderlo del tutto, e anzi continuò a camminare in silenzio tenendo il capo chino e lo sguardo cristallino puntato dubbioso sulla ghiaia ai suoi piedi che le rendeva il passo un poco traballante. Mentre Etienne e Nerea discutevano animamente delle loro piantine la strega non riusciva a smettere di chiedersi, come ogni anno, di chi fosse stata la brillante idea di disseminare ghiaia ovunque quando la divisa delle povere ragazze come lei prevedeva i tacchi.
“Sono l’unica a non subire il fascino delle piantine?”
Finendo col sentirsi una specie di anomalia accanto ai discorsi di Etienne e Nerea Gisèle finì col sollevare lo sguardo e ruotare leggermente il capo per volgere gli occhi in direzione di Milad, che camminava in tutta calma tra lei e Antoine con le mani seppellite nelle tasche dei pantaloni blu polvere e in religioso silenzio.
“No, nemmeno io.”
“Beh, non è che quei due siano sempre dei perfetti esempi di assoluta normalità, e lo dico con affetto.”
Icaro parlò sbattendo leggermente le palpebre e gettando al contempo un’occhiata un tantino stranita ai due Bellefuille, non stupendosi per niente di come fossero stati Smistati nella stessa Casa tanto erano simili mentre Gisèle annuiva, rincuorata:
“Beh, mi sento un po’ meno strana. Speriamo solo che ci risparmino le cose disgustose e repellenti almeno per il primo giorno…”
Gisèle aveva appena finito di parlare quando Milad, ed Antoine ed Icaro con lui, ebbero l’impressione di sentire la voce di Guillaume informare la cugina che per quello fosse un po’ tardi, visto e considerato che lei si stava recando dritta verso le serre. Chiunque avesse deciso di formare dei sentieri di ghiaia all’interno della tenuta, Guillaume gli sarebbe stato a lungo debitore: non fosse stato per il dolore che camminare a piedi nudi le avrebbe procurato, Gisèle si sarebbe sfilata una scarpa per tirargliela contro.
 
Dopo aver accolto gli studenti all’interno di una delle aree dell’enorme serra della scuola e di aver chiesto loro di disporsi dividendosi per Case attorno a due lunghissimi tavoli di legno rettangolari Francisca Alvarez, armata di guanti, grembiule e del consueto sorriso vivace che i suoi alunni erano abituati a scorgerle sul viso, parlò fermandosi dinanzi al primo tavolo e facendo correre lo sguardo sui visi ormai familiari che la fissavano di rimando, in attesa di istruzioni:
“Bene chicos, oggi faremo qualcosa di molto semplice, visto che è il primo giorno.”
!”
Gisèle, in piedi tra Icaro e Milad, sorrise senza riuscire a trattenere l’esultanza mentre Nerea ed Etienne, di fronte a loro, gemevano delusi per quell’annuncio.
“… Ma che temo non piacerà ai più delicati.”
Oddio no.”
 
“Bah, quante storie… Non è poi così disgustoso. E poi è anche fin troppo semplice.”
“Appunto, roba da quinto anno massimo.”

Nerea, come Etienne, proprio non si capacitava di tutte le numerose lamentele che il compito assegnato loro per quella primissima lezione aveva destato nella maggior parte dei loro compagni, e dopo essersi infilata i guanti di pelle di drago non aveva esitato prima di mettersi all’opera: i primi due studenti a finire il lavoro avrebbero avuto un voto extra per il test successivo, voto che Nerea era decisa ad accaparrare per sé e per l’amico.
“Di norma non lo farei fare a voi, ma oggi pomeriggio ho lezione con il I e il II anno e domani passeranno a prendere le bottiglie, quindi temo che non abbiate scelta. Ma i primi che finiscono avranno un voto extra, quindi muoversi.”
L’insegnante, ormai totalmente immune al forte odore di benzina emanato dal pus del bubotubero, parlò con tono allegro e muovendosi in tutta calma alle spalle della fila di studenti in piedi davanti al primo tavolo, quasi tutti già armati di guanti e in procinto di mettersi all’opera.
“Io proprio non capisco come riescano a venderla, questa roba…”
Milad sussurrò quelle parole in modo che solo Antoine potesse udirle, manifestando tutto il suo disgusto sfoggiando una smorfia che trovò spazio sui visi di molti altri tra i presenti.  Quell’orribile poltiglia verdastra poteva anche avere effetti miracolosi sull’acne, ma lui non si sarebbe spalmato sul viso una sostanza anche solo lontanamente ricavata da quella neanche sotto tortura. Persino la pianta era, di per sé, orribile a vedersi: l’unica cosa a cui Milad riusciva a pensare, guardandola, era una gigantesca e disgustosa lumaca. Per sua fortuna Antoine non era un tipo particolarmente impressionabile o schizzinoso, ma lo stesso non si poteva dei due compagni di Casa che aveva accanto:
“Oggi è la tua giornata fortunata, ti do l’opportunità di dimostrare quanto sei più bravo di me in questa materia.”
Gisèle non aveva molta voglia di replicare la disgustosa esperienza avuta con quella pianta tre anni prima e spinse i guanti di pelle di drago verso Icaro facendoli strisciare sulla superficie di legno del tavolo con un largo sorriso sulle labbra, sorriso che Icaro ricambiò mentre la imitava spostandoli verso di lei:
“Stavo per dirti la stessa cosa. Vorrei tanto farlo io, ma sono diventato allergico alla pelle di drago e purtroppo questa roba può ustionare la pelle, quindi…”
Icaro sorrise sbattendo le ciglia con aria angelica, ma Gisèle gli lanciò un’occhiataccia, affatto convinta da quella storiella:
“E quando saresti diventato allergico visto che li hai sempre usati?”
“Durante l’estate.”
“Ti aspetti che io ci creda?!”
 

“Ma come fanno ad essere già così avanti?!”
Milad strabuzzò gli occhi scuri quando, alzato lo sguardo per caso, giusto per verificare a che punto fossero i suoi compagni, si rese conto di come Nerea ed Etienne avessero già riempito ben due delle numerosissime bottiglie di vetro che erano state accatastate su tutta la lunghezza del tavolo. Antoine, accigliato quanto lui, osservò come i due Bellefuille avessero persino l’aria di divertirsi nel portare a termine quel compito ingrato, e stavano chiacchierando amabilmente mentre travasavano il pus nelle bottiglie dopo averlo spremuto dalla pianta, come nel mezzo di un’attività come un’altra.
Accanto a lui, invece, Gisèle e Icaro stavano ancora cercando di stabilire a chi dei due sarebbe spettato l’ingrato compito:
“Ti do venti euro se lo fai tu.”
“Io te ne do cinquanta.”
“Ti faccio i compiti per una settimana.”
“Io per due. Ok, così non ne andremo mai fuori. Tiriamo a sorte, sarà lei a decidere chi di noi dovrà fare questa… schifezza ignobile.”
Icaro si frugò nelle tasche dei pantaloni sperando di trovarci qualche monetina, sorridendo soddisfatto quando mostrò a Gisèle una moneta da cinquanta centesimi:
“Testa vinco io croce perdi tu, ci stai?”
Gisèle non rispose, ma scrutò dubbiosa prima il sorriso amabile impresso sulle labbra di Icaro e poi la sua moneta, cercando di capire che cosa nelle sue parole non la stesse convincendo del tutto. Quando ci arrivò sbuffò, esasperata, ed evitò di fargli sapere dove poteva mettersi la moneta solo a causa della vicinanza dell’insegnante:
“Mi prendi per cretina, Orsini?! E comunque non mi fido, saresti capacissimo di andartene in giro con una moneta truccata.”
“Ok, niente moneta. Allora… Facciamo così. Se tu fai questa roba, io scrivo il tema sulle piante velenose che la Castillo ci ha dato da fare per la prossima lezione. E scommetto che saresti felice di non dovertene occupare, visto che passi molto del tuo tempo libero ad allenarti.”
Icaro intascò la moneta inutilizzata sfoggiando un altro sorriso, questa volta consapevole di aver pronunciato le parole giuste. Gisèle, infatti, dopo una breve riflessione assentì con un sospiro amareggiato, sfilandosi l’orologio da polso di sua nonna per non rischiare di rovinarlo per infilarsi i guanti di pelle.
Piagnucolando a proposito di quanto quel compito fosse ingrato e schifoso Gisèle iniziò a dedicarsi alle bruttissime piante che aveva davanti, pentendosi amaramente di essersi iscritta al corso mentre Nerea, ad un paio di metri di distanza, le chiedeva il motivo di quel muso lungo:
“Dai Gisèle, non ci pensare, è quasi divertente!”
“Solo se immagino la faccia di Guillaume al posto della pianta quando la schiaccio…”
 
 
“Finito! E abbiamo riempito più bottiglie di tutti!”
Nerea gettò un’occhiata visibilmente soddisfatta alle bottiglie sigillate riempite da lei ed Etienne mentre si sfilava i guanti per lasciarli sul tavolo, dandosi il cinque con l’amico mentre Milad, davanti a loro, reprimeva la tentazione di chiedergli se per caso fossero disposti a finire il lavoro anche per lui, tanto sembravano entusiasti.
“Penso che stasera salterà la cena.”
Gisèle, intanto, stava dando voce alla sua sofferenza con tono lacrimoso:
Io non me la meritavo questa schifezza già al primo giorno!”
“Dai Gisèle, smettila di lamentarti, non fa così schifo…”
Icaro parlò senza guardare la compagna di Casa, del tutto concentrato sulle punte dei suoi lunghi e lucidi capelli corvini. Gisèle all’udire le sue parole smise immediatamente di travasare il pus maleodorante nella bottiglia che teneva in mano per volgere lo sguardo su di lui, gli occhi chiari spalancati e le labbra dischiuse in una manifestazione di pura indignazione:
E allora perché non lo fai tu?!”
Icaro smise finalmente di contemplare i propri capelli, guardando prima le piante e poi lei inarcando un sopracciglio, come se dalla sua bocca stesero uscendo delle assurdità:
“Ma vuoi scherzare, è disgustoso! E poi ho lavato i capelli ieri sera.”
Il ragazzo si diede una leggera ravvivata ai capelli, felice di non averli riempiti di olezzo mentre Gisèle, resasi conto con orrore solo grazie alle sue parole di averli lavati la sera prima a sua volta, sospirava con aria affranta:
Anche io.”
“Mi spiace per te.”
“Perché Gisèle sembra disperata?!”
Etienne aggrottò le sopracciglia alla vista dell’espressione cupa che aveva fatto capolino sul viso dell’amica, in piedi dall’altro lato del tavolo, ma Nerea gli fece cenno di non preoccuparsi con un pigro movimento della mano destra, impegnata a crogiolarsi nella propria soddisfazione:
“Lascia stare, è solo sindrome da lezione di Botanique. Noi intanto, ovviamente, siamo stati i più bravi!”
“Finito! Finalmente. Non voglio vedere questa roba mai più.”
Milad allargò le labbra fino a far prendere forma ad un sorriso compiaciuto mentre si sfilava i guanti, gettandoli malamente sul tavolo con estrema soddisfazione dopo aver sigillato anche l’ultima delle sue bottiglie. Naturalmente si sentì in colpa per quella deplorevole mancanza di educazione un istante dopo, e si affrettò ad andare a mettere a posto i guanti sull’apposito scaffale in fondo alla serra.
Avendo iniziato in ritardo rispetto a quasi tutti i suoi compagni Gisèle fu l’ultima a terminare il lavoro, e chiuse l’ultima bottiglia quando l’ora di lezione era appena giunta al termine. Quasi tutti si stavano ammassando verso l’uscita o davanti agli scaffali per riporre i guanti mentre le bottiglie andavano ad impilarsi autonomamente in degli grossi scatoloni, e Gisèle si guardò brevemente intorno, in procinto di sfilarsi i guanti a sua volta, quando il suo sguardo scivolò su un blazer blu della divisa maschile abbandonato su uno degli alti sgabelli messi in fila davanti al tavolo. Sicura che si trattasse del posto di Guillaume Gisèle cambiò idea, non si sfilò i guanti e si diresse in tutta calma verso la fila di studenti in attesa di poter mettere a posto i propri prima di lasciare la serra, approfittando della distrazione generale per pulirsi i guanti sulla giacca blu abbandonata sullo sgabello.
Non se lo sarebbe mai aspettata, ma un paio di minuti dopo uscì dalla serra, tornando a farsi scaldare il viso dalla luce del sole, con un gran sorriso sulle labbra. Nerea, sconvolta, le chiese se fosse sicura di sentirsi bene, ma l’amica la prese sottobraccio e la rassicurò con un sorriso allegro, improvvisamente di ottimo umore e pronta ad affrontare la lezione successiva.
 
 
divisore

 
Alle 14 in punto, mentre buona parte degli studenti del VII anno si stava recando nelle serre per la prima lezione di Botanique dell’anno, Dante Wang si fermò davanti alla porta dell’aula di Métamorphose per la sua terza lezione all’interno della sua nuova scuola. In effetti Dante, seppur ancora profondamente astioso nei confronti del suo trasferimento, provò un moto di profonda gratitudine nei confronti della scuola quando scorse la targa bianca che riportava in caratteri dorati il nome della materia corrispondente appesa sulla superficie esterna della porta, evitandogli la spiacevole esperienza di perdersi e di dover chiedere indicazioni a qualche altro studente in merito all’aula giusta in un francese non ancora privo di sbavature: qualche occhiata di sbieco a causa del suo accento già l’aveva ricevuta, e non ci teneva a ripetere l’esperienza prima della lezione successiva.
Dante si sfilò il telefono dalla tasca dei pantaloni blu della divisa per controllare l’ora, sollevato di essere puntuale e di risparmiarsi una predica, prima di varcare finalmente la soglia dell’aula, inoltrandosi in una stanza ampia dalle ampie finestre e pareti color avorio immacolate in una maniera quasi fastidiosamente innaturale. Era arrivato ancor prima dell’insegnante e i suoi nuovi compagni di classe stavano ancora chiacchierando, chi in piedi e chi seduto dietro ai banchi da tre posti, radunati in gruppi più o meno numerosi. Gli occhi scuri di Dante scivolarono rapidi sulle tre file di banchi che si estendevano a partire da un paio di metri dalla cattedra vuota fino al fondo dell’aula alla ricerca di un posto dove sedersi, possibilmente lontano dagli sguardi incuriositi che già sentiva di star guadagnando. Essere “quello nuovo” era una sensazione che non gli piaceva affatto e sarebbe stato più che felice di occupare uno dei posti in fondo all’aula, il più lontano possibile dalle occhiate altrui, ma disgraziatamente qualcuno arrivato prima di lui aveva già pensato di sedercisi. Un mucchio di posti tecnicamente ancora vuoti erano stati prenotati per i ritardatari dai rispettivi amici, e uno spiacevolissimo senso di spaesamento dovuto al non sapere dove sedersi iniziò a farsi strada in Dante finchè una voce maschile non lo sorprese alle sue spalle parlandogli, con gran stupore e sollievo del ragazzo, in italiano:
“Vuoi sederti con noi?”
Voltandosi lo sguardo di Dante si scontrò con un paio di acuti occhi azzurri appena oscurati da qualche liscia ciocca di capelli castani che ricadeva davanti alla fronte di Diego, che dopo aver parlato lo scrutò serio ma con un vago accenno di gentilezza ad addolcirgli lo sguardo, come se gli stesse rivolgendo una gentilezza che lui per primo avrebbe potuto gradire.
“Se non vi dispiace.”
Il borbottio uscì a Dante più scostante di quanto il ragazzo non avrebbe voluto, ma rimase fermo e un tantino a disagio di fronte al ragazzo mentre Diego, dopo aver indugiato ancora brevemente con lo sguardo sul suo viso teso, ruotava la testa per gettare un’occhiata interrogativa al ragazzo dai lisci e lucenti capelli scuri e brillanti occhi azzurri che si era seduto al loro stesso tavolo a colazione. L’italiano si limitò ad inarcare un sopracciglio come a voler chiedere mutamente il consenso dell’amico, che guardò impassibile Dante in viso per alcuni istanti prima di chiedergli qualcosa in francese. Il suo bizzarro accento suggerì al Papillonlisse che quella non fosse la sua lingua madre, ma la padroneggiava abbastanza bene da rendergli comunque difficile comprendere che cosa gli avesse chiesto parlando a raffica. Atterrito e desiderando di aprire una botola per dileguarsi dall’aula Dante trasse l’ennesimo sospiro della giornata, scuotendo la testa prima di rispondergli scandendo lentamente le parole:
“Potresti parlare un po’ più lentamente? Sono ancora un po’ indietro col francese.”
Con gran sollievo del nuovo arrivato invece di mandarlo a quel paese o sfotterlo Phoenix accennò un sorriso con gli angoli delle labbra rosee prima di ripetersi, questa volta scandendo meglio le parole:
“Sei uno che parla molto?”
“No.”
Dante aggrottò le sopracciglia quasi senza volerlo, piuttosto perplesso da quella domanda, ma capì di aver dato la risposta giusta quando il ragazzo che aveva di fronte annuì e sorrise prima di superare lui e Diego per dirigersi verso il fondo dell’aula:
“Allora sei il benvenuto.”
Accigliato Dante seguì in silenzio lui e Diego verso gli ultimi banchi dell’aula, tutti già occupati, e guardò Phoenix fermarsi davanti ai posti della fila centrale dell’aula prima di intimare a due dei loro compagni di levarsi dai piedi. O almeno suppose che avesse detto esattamente quello, a giudicare da come quelli si affrettarono a sloggiare per lasciarli sedere al loro posto.
“Primo giorno e mi sto già rompendo.”
Phoenix sedette sulla sedia all’estrema sinistra dopo aver malamente gettato il suo zaino nero pieno di spillette sul banco, tirandone fuori un libro con un incomprensibile titolo in greco mentre Dante, sedendo accanto a Diego, guardava accigliato almeno metà delle ragazze presenti con le teste voltate verso di loro. Forse si era appena seduto accanto al ragazzo più ambito del suo anno?
Diego, del tutto incurante come Phoenix degli sguardi sognanti e dei battiti di ciglia che li circondavano, aprì un consunto zaino nero che vantava una generosa collezione di spillette di Doctor Who per estrarne i libri e un quaderno dalla copertina anch’ella nera – che serviva più ai suoi disegni che agli appunti, come Dante avrebbe avuto modo di scoprire poco dopo – guardando l’amico con un accenno di ghigno sulle labbra sottili:
“Ti manca il tuo Romeo, Giulietta?”
Chi fosse Romeo Dante non ne aveva idea, ma di certo Phoenix non gradì l’ironia dell’amico perché lo fulminò con lo sguardo e gli puntò minaccioso contro il suo libro in greco:
“Zitto Colonna. O ti dovrei chiamare…”
Il ghigno subito svanì dalle labbra di Diego e come in uno scambio apparve invece su quelle di Phoenix, i cui cristallini occhi color zaffiro brillarono beffardi prima che il nome completo dell’amico gli si srotolasse malevolmente sulla lingua:
Diego Cesare Cornelio Colonna Orsini Paganini Sagredo?”
Dante non aveva mai sentito un nome così ridicolo in tutta la sua vita, e guardò accigliato i due neo compagni di classe chiedendosi se non fosse una presa in giro tra amici. Per lo meno quelle parole essendo in italiano le aveva capite perfettamente, e capì anche che non si trattava di uno scherzo quando Diego avvampò morendo di vergogna prima di balbettare qualcosa, a disagio:
“Lo sai che non sopporto che mi si chiami per intero!”
“Scusa, ma quanti nomi hai?! Sei nobile o cosa?”
Dante parlò stralunato prima di riuscire a trattenere la propria voce, ma capì di essere nel giusto quando Phoenix annuì sogghignando e Diego si voltò lentamente verso di lui, lo sguardo atterrito e l’aria da cane bastonato. Non aveva minimamente preso sul serio in considerazione quell’ipotesi, lo aveva detto giusto per dire, ma di fronte allo sguardo del diretto interessato Dante finì col strabuzzare gli occhi dal taglio leggermente a mandorla, sgomento:
“… Davvero?!”
Che quella fosse una scuola di perfettini lo aveva capito dal primo istante, ma di certo di potersi sedere vicino ad un principino al primo giorno non l’aveva preso in considerazione.
 

divisore
 
 
Sala Comune dei Bellefuille bellefuille

 
 
Il primo giorno del suo ultimo anno a Beauxbatons poteva dirsi quasi giunto al termine: le lezioni si erano ufficialmente concluse quattro ore prima, anche se la sua giornata di studio aveva avuto fine già alle 16 visto che Etienne, quella mattina, non aveva inserito Métamorphose nel suo orario. Aveva deciso di sfruttare il tempo libero prima di cena standosene all’aria aperta insieme ad André e a Nerea, approfittando del bel tempo di un’estate agli sgoccioli e delle lunghe ore di luce per sedersi sul prato, al sole o all’ombra delle fronde dei faggi che popolavano il parco della scuola, leggendo, chiacchierano o stracciando André a Gobbiglie. Il tempo era volato e ben presto si erano ritrovati nuovamente seduti attorno ad uno dei tavoli della sala da pranzo per cenare, ascoltando distrattamente i resoconti di quella prima giornata da parte dei loro amici. La tentazione di andare a disturbare nuovamente sua sorella si era naturalmente palesata, ma Etienne si era limitato a scoccare una pigra occhiata al tavolo dove Maëlle aveva preso posto insieme alle sue amiche e a qualche altro studente del loro anno per stabilire di aver già sufficientemente adempiuto al suo compito di fratello maggiore rompiscatole per quel primo giorno di scuola.
Dopo essersi sbafato ben due porzioni di dolce sotto lo sguardo cupo e pregno d’invidia di Gisèle, che aveva dichiarato seccata di odiare a morte il suo metabolismo, Etienne aveva lasciato tavolo e sala da pranzo per dirigersi verso la sua Salle Comune procedendo sulle rampe di marmo che dall’ingresso lo avrebbero condotto al terzo piano standosene in silenzio dietro a Nerea e a Leticia, che come era noto a chiunque le conoscesse erano perfettamente in grado di chiacchierare sufficientemente per colmare il mutismo di chiunque.
Invece di raggiungere André nella loro stanza Etienne, una volta varcata la porta verde menta della Salle Comune, si era attardato su un divano color salvia addossato ad una delle pareti dipinte da una tenue tonalità pastello, sotto ad uno specchio circolare dalla pesante e spessa cornice d’oro. La caviglia destra poggiata sul ginocchio sinistro, Etienne sedeva standosene ricurvo su un minuscolo quadernino con la copertina di cuoio e le pagine completamente bianche, una matita da disegno nella mano destra e la sinistra chiusa a pugno premuta contro le labbra. Etienne si era seduto e si era semplicemente messo a disegnare su quel piccolo blocchetto che portava con sé ovunque andasse, privo di un’idea precisa, finendo col realizzare che cosa le sue mani stessero riproducendo sulla carta quando si ritrovò ad osservare, accigliato, l’abbozzo della facciata di una casa dall’aria familiare. Dopo un breve attimo di sconcerto il ragazzo staccò la punta della matita dalla sottile superficie di carta e girò la pagina con un gesto brusco, ritrovandosi ad osservarne una bianca e ancora intonsa. Quella specie di stupida nostalgia che sembrava colpirlo ad ogni rientro a Beauxbatons Etienne faticava a sopportarla, e si affrettò a spremersi le meningi per trovare altro a cui pensare, altro da disegnare, mentre la figura alta e longilinea di Nerea gli si avvicinava camminando a piedi scalzi sul pavimento, le scarpe della divisa blu e azzurre abbandonate in camera sua consentendole di affondare i piedi sui tappeti spessi e soffici che ricoprivano parzialmente il pavimento dell’enorme stanza, tutti dalle diverse e più o meno tenui tonalità di verde e i lunghi capelli castani sciolti sulle spalle esili.
“Ciao. Che cosa disegni?”
La strega abbozzò un sorriso gentile con gli angoli delle labbra mentre sedeva accanto all’amico ripiegando le ginocchia contro il corpo tenendo le lunghe gambe unite orizzontalmente sul cuscino del divano, appoggiandosi con il gomito allo schienale per sistemare la testa sopra al braccio e stare più comoda mentre Etienne, sempre osservando cupo il suo quaderno, scuoteva mesto il capo ricoperto dai sottili capelli color biondo cenere;
“Non lo so proprio. Idee?”
Gli occhi chiari di Nerea scivolarono per un breve istante sulle pagine bianche del blocchetto prima di rimbalzare nuovamente sul profilo del viso dell’amico, sorridendo divertita mentre ripensava alle lezioni di quel primo giorno:
“Puoi disegnare la Gisèle disperata di oggi a lezione di Botanique!”
“Mentre Icaro cazzeggia guardandosi le unghie? Approvo. E poi glielo darò.”
“Non penso che gradirà.”
“Proprio per questo glielo darò. Il tuo amico come se l’è cavata? Sopravvissuto?”
“Sì, gli ho fatto quasi andare l’arrosto di traverso, prima, quando è entrata la Preside e l’ho strattonato per alzarsi in piedi mentre masticava, ma mi è sembrato illeso. Ora gli chiedo com’è andata, spero si faccia presto qualche amico.”
Nerea si sfilò la bacchetta dalla tasca quasi invisibile della gonna azzurra della divisa, studiata proprio per quell’utilizzo, per appellare il telefono dalla sua camera, aspettando in silenzio e tamburellando le dita sul cuscino del divano che si palesasse fluttuando a mezz’aria verso di lei. Etienne invece, che stava già disegnando, parlò senza distogliere lo sguardo dalla pagina mentre cercava di riprodurre su carta un ricordo di quella stessa giornata: moriva dalla voglia di vedere la faccia che avrebbe fatto Gisèle quando le avrebbe consegnato quello schizzo.
“Non è una persona socievole?”
“Non so se lo definirei così. Quella simpatia, ovviamente, sono sempre stata io.”
Nerea sorrise mentre allungava la mano destra abbronzata tenendo il palmo ben aperto, lasciando che il telefono ci planasse sopra con grazia insieme alla sua cover verde coperta da un delicato motivo di foglioline e teneri scoiattolini. La foto che faceva da sfondo al suo telefono l’aveva, in effetti scattata proprio Dante poche settimane prima sotto minacce e la ritraeva sorridente e felice all’aperto, a casa sua, insieme a Gisèle. Nerea ricordava perfettamente l’espressione cupa e seccata con cui Dante era stato costretto a far loro da fotografo, e sorrise mentre gli scriveva per chiedergli come fosse andata la giornata. Sapeva per certo che fosse sveglio e sapeva che avrebbe usato il telefono prima di dormire, anche solo per ascoltare della musica, ma per sapere se l’avrebbe degnata o meno di una risposta avrebbe dovuto aspettare.
“Naturalmente. Come io sono il simpatico della famiglia.”
“Beh, tua sorella in realtà mi sembra molto simpatica. A proposito….”
Lo sguardo di Nerea all’improvviso s’illuminò mentre la strega tornava a concentrarsi sul viso dell’amico, ma prima che potesse dire qualsiasi cosa l’occhiata eloquente che Etienne le scoccò la costrinse a tacere e ad annuire, improvvisamente consapevole di quanto non fosse il momento e la situazione adatta.
“Giusto, scusa. A volte me ne dimentico.”
Nerea sorrise a mo’ di scuse ed Etienne annuì, guardandola brevemente con rassegnazione e affetto al tempo stesso prima di tornare a concentrarsi sul suo disegno:
“Me ne accorgo spesso. E il tuo amico?”
“… Non lo so. Non ci avevo proprio pensato. Immagino che ci rifletterò, in caso toccasse a me. Gisèle ovviamente spera di no.”
“Mi ha detto che se non dovesse essere scelta sarebbe così felice da impegnarsi ad essere gentile e adorabile con Guillaume come ringraziamento alla sua dea protettrice. Spero che non la scelga, sarebbe uno spettacolo imperdibile.”
Lo sguardo di Etienne assunse una nota quasi sognante mentre il ragazzo fissava sorridendo un punto indefinito della stanza davanti a lui e a Nerea, pregustandosi quelle immagini e il poterle rinfacciare vita naltural durante all’amica mentre la compagna di Casa, al contrario, spalancava inorridita gli occhi verdi:
“Quei due che si vogliono bene? Mi fa quasi paura immaginarlo. Da dove pensi venga tutto il loro astio?”
“Probabilmente hanno cominciato ad insultarsi in fasce, da una culla all’altra.”
 
 
divisore
 
 
Alle 22.30 una delle camere del Dormitorio femminile dei Papillonlisse era straordinariamente avvolta da un silenzio inusuale e del tutto estraneo al vivace chiacchiericcio che l’aveva animata, al contrario, la sera precedente a quella stessa ora: Maëlle, il pigiama con i gattini finalmente addosso, si era rannicchiata sotto le coperte bianche e lilla del letto a baldacchino con le cuffie nelle orecchie e gli occhi castani rapiti dalle immagini che animavano lo schermo del suo telefono, immersa in una sessione di serie tv pre sonno abbracciando il suo amato cuscino con le note musicali mentre Joey le sonnecchiava sulle gambe; Marguerite, avvolta da un pigiama color avorio e sotto le coperte a sua volta, sedeva contro la testiera del letto scrivendo lunghi messaggi sul proprio telefono mentre Lucinda, decisasi a disfare finalmente la valigia color lavanda con cui era giunta a scuola dal Portogallo, infilava cumuli di maglioni e paia di jeans più o meno sbiaditi all’interno della cassapanca lilla che era stata collocata ai piedi del letto, magicamente ingrandita per contenere tutte le sue cose.
“Detesto disfare i bagagli. E com’è possibile che anche con la magia io faccia fatica a farci stare tutto, qui dentro?!”
Lucinda sbuffò mentre cercava un posto per tutte le sue paia di sneakers in mezzo a libri, trucchi, vestiti e cumuli di quaderni e cancelleria colorata sotto lo sguardo estremamente giudicante di Pavarotti, che se ne stava appollaiato sul suo trespolo accanto alla finestra che divideva il letto della padrona da quello di Marguerite.
“Lo dici a me? Ogni anno arrivo trascinandomi dietro scopa e violino, oltre a tutto il resto.”
Maëlle, udite le parole dell’amica anche indossando le AirPods bianche, parlò senza distogliere lo sguardo dallo schermo del telefono, immersa in un rewatch di Friends mentre Daphnè, finalmente pronta a sua volta per la notte, usciva a piedi scalzi dal bagno con addosso un pigiama estivo di raso rosa cipria con i bordi di pizzo e spalmandosi della crema profumata sul viso pallido.
“A me piace il cuore mettere il flauto sotto al letto, ma non saprei dove altro sistemarlo…”
“Io per fortuna evito di portarmi appresso l’arpa e posso suonare quella della scuola, sarebbe un tantino scomodo.”
Marguerite parlò senza smettere di scrivere un lunghissimo messaggio muovendo freneticamente le belle dita affusolate sullo schermo del telefono, i lunghi capelli castani accuratamente spazzolati sciolti sulle spalle esili mentre Daphnè, invece di dirigersi immediatamente verso il proprio letto, indugiava sedendo sul bordo di quello dell’amica per rivolgerlesi con un sorriso:
“Stai scrivendo a Nico?”
“Sì, vuole un resoconto della mia giornata prima di andare a dormire.”
Marguerite smise brevemente di guardare lo schermo per ricambiare lo sguardo e il sorriso dell’amica, gli occhi castani addolciti dall’affetto nel pensare al fratellino, che le stava scrivendo con il telefono della madre a molti chilometri di distanza. Daphnè, ancora leggermente indispettita nei confronti del fratello maggiore, arricciò stizzita il naso prima di alzarsi in piedi, scuotendo la testa con sincera invidia:
“Beata te che hai un tenero, adorabile fratellino.”
“Tu sei la piccola principessa di casa, di che ti lamenti?”
“Non è certo un bene, mi trattano come se avessi ancora sei anni!”
Abitudine che i suoi fratelli maggiori sembravano decisi a non perdere, appurò con amarezza la strega mentre si dirigeva verso il proprio letto, pronta a ricevere lettere e messaggi con raccomandazioni inutili da parte di Cèdric, Damien e Laurent. Solo pochi giorni, riuniti a cena, i tre si erano detti felici di saperla a scuola insieme ad André per almeno un altro anno, destando proteste rimaste inascoltate e non poca irritazione da parte della sorella. Che il fratello maggiore, con cui per di più aveva solo un misero anno di differenza, si potesse definire più responsabile di lei le sembrava assolutamente ridicolo.
Fermatasi davanti al comodino bianco accanto al letto mentre Duchess, la sua gatta, si muoveva nella sua soffice cuccia bianca per cercare una posizione più comoda in cui appisolarsi Daphnè aprì il primo cassetto per tirare fuori il suo delizioso portagioie bianco, aprendo i vari sportellini per scegliere cosa indossare il giorno seguente. Era una vera fortuna, per lei e soprattutto per le compagne di stanza, che la scuola prevedesse la divisa, o avrebbe impiegato ore ogni sera per decidere che cosa mettere.
“Ragazze, che orecchini metto domani?”
Indecisa, come al solito, Daphnè sollevò due paia di orecchini d’oro giallo per mostrarli alle amiche, sollevandoli con entrambe le mani dalle unghie smaltate di rosa mentre le altre tre ruotavano le teste verso di lei in perfetta sincronia, pronte ad adempiere al loro compito in un rituale ormai consolidatasi negli anni. Ci fu un brevissimo istante di totale silenzio, finchè Marguerite non indicò il paio che l’amica reggeva nella mano destra, due sottili orecchini a forma di cuore:
“Quelli.”
Maëlle e Lucinda assentirono con mutui cenni del capo – la prima più che altro affinché l’amica si decidesse in fretta, visto che prima di dormire voleva almeno finire la puntata in corso invece di fare la consulente gioielliera – ma Daphnè, proprio come ogni sera, non parve del tutto convinta mentre tornava a scrutare i gioielli, le sopracciglia sottili leggermente aggrottate sulla fronte:
“Sicure? Ma con la collana stanno meglio gli al…”
Nessuna delle altre tre disse nulla, ma a Daphnè bastò riportare lo sguardo sulle loro espressioni eloquenti per lasciarsi persuadere, accennando un sorriso colpevole con le labbra, conscia della propria indecisione cronica, prima di annuire:
“Ok. Questi. Grazie.”
“Di nulla. Tu hai finito, Mary Poppins?”
Maëlle ruotò la testa per rivolgersi a Lucinda con un sorrisino ironico sulle labbra, ridacchiando divertita quando vide l’amica scrutare torva l’interno della sua cassapanca reggendo tra le mani una pila di variopinti reggiseni:
“Credevo di sì, ma mi sono appena resa conto che mi mancano ancora i reggiseni. Cacchio, non so dove metterli! Ma perché noi siamo piene di roba e i maschi non hanno mai niente in valigia?!”
“Loro avranno due paia di mutande per tutto l’anno, figurati.”
Maëlle fece spallucce prima di sprofondare ancor più comodamente contro il suo soffice cuscino, lasciandosi avvolgere dal piacevole tepore delle coperte mentre sui volti di Daphnè e Marguerite facevano capolino due identiche espressioni schifate:
“Che schifo!”
“Basta, mi arrendo, li metto nel comodino!”
Esasperata Lucinda aprì il secondo cassetto del suo comodino bianco per iniziare a riporci la biancheria, destando occhiate stranite da parte di tutte e tre le sue amiche:
“Nel comodino?!”
“Lì o addosso a Pavarotti.”
Quando Lucinda indicò seccata il corvo lo sguardo di Marguerite indugiò brevemente sull’animale, che non sembrò affatto gradire l’allusione della padrona, e infine annuì, seria, prima di impostare la sveglia sul suo telefono:
“Comodino, assolutamente. Metto io la sveglia, o finisce come al solito che Maëlle la spegne tre volte di fila e arriviamo in ritardo.”
“Come no, sempre mia la colpa! Arriviamo in ritardo perché Daphnè è sempre in crisi esistenzialistica sui post-it da portare a lezione!”
“Infatti ho deciso che quest’anno li porterò tutti ogni giorno! Vedete, faccio progressi!”
Daphnè, infilatasi a sua volta sotto le coperte, parlò con un sorriso compiaciuto mentre si metteva più comoda contro il cuscino coperto dalla federa floreale, fiera di se stessa e impossibilita a scorgere Maëlle quando l’amica roteò gli occhi, esasperata.
 

 
divisore

 
Sala Comune degli Ombrelune ombrelune
 

Milad e Antoine si stavano sfidando a scacchi, il primo seduto su una poltrona foderata celeste e il secondo sull’estremità di uno dei numerosi divani che affollavano la loro deliziosa ed enorme Salle Comune, interamente arredata con toni del blu e dell’azzurro in diverse gradazioni. Posizionata sul basso tavolino da caffè di vetro tra il divano e la poltrona c’era una costosissima scacchiera d’avorio che Milad per molto tempo, anni prima, aveva sinceramente avuto timore di toccare e rischiare di rompere, poco avvezzo ad essere circondato da oggetti di grande valore e intimorito da quell’opulenza. Con il tempo il belga aveva parzialmente finito con l’abituarsi all’ambiente in cui viveva e studiava, ambiente che sembrava assurdamente non tangere affatto alcuni dei suoi compagni. Uno di questi aveva ben pensato di occupare interamente il divano azzurro in stile barocco posizionato di fronte a quello dove sedeva Antoine standosene comodamente disteso sui cuscini, i lucenti capelli scuri a ricadergli attorno al viso a mo’ di aureola e le caviglie elegantemente incrociate che penzolavano dal divano. Icaro Orsini stava armeggiando con il suo pc digitando rapido sulla tastiera mentre i pezzi della scacchiera si muovevano autonomamente secondo gli ordini di Antoine e Milad, del tutto incurante della partita in corso e anzi del tutto concentrato sullo schermo luminoso che aveva davanti.
“Sapete, tutto sommato potrei compiacermi della mia capacità di rendere poetico persino un tema su un argomento come le piante velenose.”
“A me sfugge a priori il senso di farci scrivere persino un tema su quella schifezza. Non mi stupirebbe se Gisèle si stesse purificando le mani in qualche fontanella sacra dopo la lezione di oggi. Cavallo in H3.”
Icaro, che non aveva del tutto compreso tutte le lamentele di Gisèle per il suo essere stata costretta ad adempiere al disgustoso compito al posto suo, (ma aveva evitato di farglielo sapere con particolare eloquenza durante la lezione temendo che la compagna potesse indispettirsi un po’ troppo e rovesciargli una valanga di pus addosso) roteò teatralmente i profondi occhi scuri mentre il cavallo bianco di Milad scivolava silenzioso e minaccioso al contempo sulla scacchiera verso la Torre nera di Antoine, che stava studiando i pezzi rimasti premendosi pensoso l’indice destro sulle labbra serrate. Dopo aver riflettuto brevemente il Battitore stava per fare la sua mossa, ma prima che potesse pronunciarla a voce alta venne preceduto da Gisèle, che li aveva raggiunti senza fare il minimo rumore e ora stava in piedi alle spalle della poltrona di Milad:
“Se potessi mi laverei direttamente nel fiume Gange.”
Il cupo borbottio di Gisèle, che non avrebbe scordato la lezione di Botanique tanto in fretta, ridestò Antoine e Milad dalla partita in corso tanto che entrambi smisero di osservare la scacchiera per sollevare lo sguardo su di lei, e Antoine distese le labbra in uno dei suoi radiosi sorrisi mentre l’amica scavalcava le sue lunghe gambe per lasciarsi cadere stancamente sulla porzione di divano accanto a lui.
“Ciao! Hai finito prima oggi.”
Gisèle annuì cupa, per niente soddisfatta del suo allenamento serale finito prima del tempo, e lasciò cadere la sua borsa nera sul pavimento prima di premere la guancia contro la spalla dell’amico per fissare mesta la scacchiera e la partita interrotta in corso d’opera, esausta e un tantino atterrita:
“Sì, sono distrutta. È stata una prima giornata intensa.”
“Durante l’estate ti sei fatta di una tragicità… Lamentati pure, intanto il tema lo sto scrivendo io.”
Icaro sbuffò piano senza smettere di scrivere o distogliere lo sguardo dallo schermo del suo pc, deciso a portare a termine il compito prima di andare a dormire mentre Gisèle spostava lo sguardo sul suo viso assumendo un’espressione piuttosto torva:
“Mi pare il minimo, dopo lo schifo che mi è toccato visto che Sua Altezza è troppo delicato!”
“Quei guanti mi irritano la pelle delle mani, cosa posso contro la mia terribile allergia ai materiali scadenti?”
Icaro smise brevemente di scrivere tutti gli avverbi che conosceva per allungare il brodo e arrivare al numero minimo di caratteri prestabilito per il compito per gettare una rapida occhiata alla compagna di Casa, premurandosi di assumere la sua espressione più innocente sotto lo sguardo per nulla convinto di Gisèle:
“Certo, e io sono Jean d’Arc reincarnata. Per lo meno imbrattare la giacca di Guillaume con quella schifezza è stato il momento più alto della mia giornata… Ci penserò nei momenti di sconforto, ma mi sono fatta vedere orrenda e sudata per un periodo di tempo sufficiente, vado a farmi la doccia. Ci vediamo domani ragazzi.”
Gisèle scoccò un bacio sulla guancia di Antoine prima di alzarsi in piedi, desiderosa di infilarsi sotto le coperte per potersi finalmente rilassare un po’ e coccolare Vaclav prima di mettersi a dormire, ma si era appena issata in spalla la cinghia della sua borsa quando Guillaume, appena uscito dalla porta del suo Dormitorio, le puntò addosso gli occhi azzurri furenti e bramosi di vendetta:
“Gisèle, brutta stronza, quell’odore di benzina del cazzo non se ne vuole andare, ti farò lavare la mia giacca finchè non ti sanguineranno le mani!”
Per quanto si costringesse a farlo ogni mattina Gisèle non amava andare a correre poi così tanto, ma quelli erano esattamente i momenti in cui più si sentiva grata nei confronti di quell’abitudine consolidata negli anni: prima che Guillaume potesse raggiungerla era già scattata verso il proprio Dormitorio, dimenticando improvvisamente la stanchezza e il dolore agli arti inferiori che aveva massacrato per le precedenti due ore mentre fuggiva dalla sua ira vendicatrice.
Ormai del tutto avvezzi a scenari di quel tipo e affatto preoccupati Antoine e Milad ripresero la partita da dove era stata interrotta poco prima, e Icaro rilesse le ultime righe che aveva scritto traendo un teatrale sospiro:
“Sentivo che mancava qualcosa. Ora sì che l’anno è cominciato.”
L’italiano aveva appena finito di parlare quando Phoenix, appena rientrato da uno dei balconi di cui disponevano per fumare una sigaretta, gli si avvicinò di soppiatto e lo colpì giocosamente in faccia con un cuscino blu recuperato da una poltrona, destando un gemito di protesta da parte dell’amico:
“Che fai Icaruccio, scrivi una lettera d’amore per me per esprimermi quanto ti sono mancato?”
Icaro si strappò il cuscino dal viso per lanciarglielo contro, ma a causa della scomodissima angolazione mancò il tiro e il cuscino volò oltre Phoenix rischiando di far cadere a terra una lampada mentre gli occhi scuri dell’italiano si scontravano indispettiti con quelli limpidi e visibilmente divertiti dell’amico:
“No brutto demente, faccio quello che tu non fai mai, i compiti! E smettila di fare allusioni, la gente ci crederà davvero, prima o poi, che siamo una coppia!”
Phoenix spalancò teatralmente gli occhi celesti e si portò una mano pallida sul petto, assumendo la sua espressione più sgomenta prima di balbettare qualcosa con un tono appena un po’ più alto di quanto dovuto:
Così ferisci i miei sentimenti!”
Icaro decise che il tema avrebbe potuto aspettare, tutto sommato, e chiuse il computer per spostarselo dalle gambe e posizionarlo sul tavolo di vetro accanto alla scacchiera prima di alzarsi in piedi, gettandosi all’inseguimento del suo amico facendo lo slalom tra divani, tavoli, studenti perplessi e poltrone minacciando di trasformarlo in un lombrico per la successiva lezione di Métamorphose mentre Phoenix sghignazzava apertamente, per nulla preoccupato.
Rimasti soli di fronte alla loro partita Milad smise di guardare i due compagni di classe prima di spostare in tutta calma lo sguardo sul viso abbronzato e affilato di Antoine, un sopracciglio appena inarcato:
“Riusciremo mai a finire una partita senza cazzate in mezzo?”
“Non penso.”
 
 
 
 
 
 
 
 
………………………………………………………………………………………….
Angolo Autrice:
Buonasera a tutte!
Anche questa volta ho un paio di domande per voi, la prima obbligatoria e la seconda facoltativa. Come la scorsa volta vi chiedo di scrivermi le risposte qui su Efp
  • Qual è il rapporto del vostro OC con alcol, fumo e droga (leggera)?
  • Visto e considerato che questi personaggi si conoscono (per la maggior parte) da diverso tempo e trascorrono la stragrande maggioranza dell’anno a strettissimo contatto, ho pensato che sarebbe divertente approfondire l’aspetto sentimentale della storia: se volete e avete qualche idea potete scrivermi inerentemente a delle eventuali cotte che il vostro personaggio può aver avuto in passato o potrebbe avere già/sviluppare attualmente, all’inizio della storia, per qualche altro OC. Ovviamente la questione può anche riguardare personaggi che allo stato attuale praticamente non si conoscono, anche solo per un mero aspetto estetico. Questa domanda non è assolutamente vincolante per le coppie che andranno a crearsi, anche se ovviamente qualcuno potrebbe in passato aver avuto una cotta per un altro personaggio, al momento averla accantonata salvo poi tornare ad avere interesse per quella persona più avanti, ed è assolutamente facoltativa, la faccio giusto per avere un po’ di gossip e drama in più, Nerea brama di scrivere la sua rubrica sul giornale.
Ah, nel caso qualcuno stesse già facendo congetture romanticose… il “Romeo” di Nick menzionato da Diego altri non è che Icaro, mi dispiace.
A presto!
Signorina Granger
 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo III ***


Capitolo III


 
 
Venerdì 16 settembre
 
 
 
Una volta varcata la soglia della suntuosa Sala da Pranzo per affrontare l’inizio del suo quinto giorno a Beauxbatons Dante Wang non aveva potuto fare a meno di provare una piccola dose di leggero spaesamento: la consapevolezza che ci fosse qualcosa di diverso in quell’enorme sala rispetto alle quattro mattine precedenti lo investì non appena si affacciò oltre l’alta porta bianca a doppia anta lasciata aperta per consentire l’ingresso degli studenti, ma mentre si muoveva con passi incerti per raggiungere un posto dove sedersi, il tutto guardandosi attorno con la fronte aggrottata, non riuscì a comprendere di che cosa si trattasse. Il soffitto a volta affrescato era lo stesso, o almeno così gli parve, idem per i lampadari di cristallo che pendevano da esso e i gufi che sfrecciavano attraverso le ampie finestre aperte per recapitare la posta ai rispettivi padroncini. I tavoli imbanditi per la colazione erano gli stessi, così come le sedie bianche e dagli schienali rigidi, e Dante comprese che cosa avesse attirato la sua attenzione distorcendo l’immagine mentale della sala e della colazione che aveva inconsciamente creato nei giorni precedenti solo quando ebbe preso posto tra Nerea e Milad.
In un angolo della sala, tra la lunga tavolata rettangolare imbandita per i docenti e uno dei camini di marmo bianco più grandi che Dante avesse mai avuto modo di ammirare in vita sua era stato allestito un palco circolare dove cantavano, deliziando i presenti con il suono etereo delle loro voci, delle ninfe dei boschi. Ad una prima occhiata Dante credette di aver visto male, ma a giudicare dal colorito verdastro della loro pelle e dalle foglie che facevano capolino nelle loro lunghe chiome di capelli scuri, che in alcuni casi terminavano sbocciando in veri e propri piccoli fiori colorati, non c’erano molti dubbi a riguardo.
“Scusate ma… Quelle erano lì anche ieri?”
Dante guardò le ninfe cantare sbattendo ripetutamente le palpebre, in parte incredulo e in parte rifiutandosi di credere di non aver notato un coro bizzarro come quello per ben quattro giorni di fila. Fortunatamente Nerea, che stava spalmando una generosa quantità di Nutella su un croissant aperto a metà per iniziare al meglio la giornata dopo essere inciampata sul tappeto della sua Salle Comune e caduta di faccia davanti a metà della sua Casa, pose fine ai suoi dubbi con una noncurante scrollata di spalle:
“No, fino a ieri erano ancora in ferie, sono tornate oggi.”
“Qui cantano sempre durante i pasti, ci farai l’abitudine.”
Milad si versò altro caffè per affrontare l’ultima e lunga giornata di lezioni della settimana – seguiva più lezioni rispetto a quasi ogni altro studente del loro anno, e le poche che aveva escluso erano state scartate solo per l’impossibilità di trovarsi in più angoli del castello contemporaneamente – prima di allungare gentilmente la brocca bianca verso Dante in una muta richiesta, versandone anche al compagno quando lo vide assentire con un lieve cenno del capo.
“Tranne quando dovrai studiare e starai affogando nella disperazione più nera, allora te ne accorgerai eccome. Qui c’è gente che ripassa!”
Visibilmente contrariata e ben poco deliziata dalle voci eteree delle ninfe Gisèle, che dava loro le spalle sedendo accanto all’amica con un pesantissimo tomo dalla copertina rilegata in cuoio aperto sul tavolo, ruotò il busto per gettare un’occhiata torva alle bellissime creature, guardandole seccata per una breve manciata di secondi prima di tornare a concentrarsi, borbottando stizzita in francese, sul libro di testo e sul suo contenuto:
“Ho riletto la stessa riga cinque volte, stupido concertino non richiesto…”
“Proprio tu denigri le abilità canore altrui? Cosa direbbe la zia se ti sentisse?”
Guillaume, che aveva ben pensato di deliziare la cugina con la propria compagnia sedersi al suo stesso tavolo insieme ad Abel, parlò simulando sconcerto e preoccupazione mentre imburrava una fetta di pane tostato, sollevando entrambe le sopracciglia mentre Gisèle, di nuovo costretta a distogliere la propria attenzione dalla lettura, gli si rivolgeva con un sorriso:
“Io invece mi domando cosa abbia detto la zia quando dopo tanta fatica ha visto la tua faccia.”
Nerea, finalmente addentato il suo croissant farcito e ormai perfettamente abituata alle scaramucce che giorno e notte intercorrevano tra i due, ignorò il velenoso scambio di battute e si rivolse invece a Dante per spiegargli, le labbra aperte in un radioso sorriso:
“La madre di Gisèle è una cantante d’opera. Bravissima.”
Milad, le folte sopracciglia scure aggrottate, sorseggiò un po’ di caffè semi-nascondendo il volto con la tazza, chiedendosi se non fosse rimasto uno dei pochissimi studenti del suo anno a vivere in una famiglia normale e che non viveva in case che somigliavano più che altro a delle regge. Ovunque si voltasse udiva di gente che aveva trascorso le vacanze in ogni angolo del globo, talvolta persino in seconde o terze case, cosa che negli anni lo aveva spinto a non sbandierare ai quattro venti le sue origini e quelle dei suoi genitori. Gisèle, ad ogni modo, non parve condividere l’entusiasmo o l’ammirazione di Nerea, perché si limitò a sbuffare piano mentre sfogliava nervosamente le pagine dei primi capitoli del libro, indecisa su che cosa ripassare tante erano le lacune che sentiva di avere sui fin troppi argomenti che avevano dovuto studiare per le vacanze estive:
“Una cantante che sarò molto contrariata quando le dirò che il Professor Lefevre mi ha dato un’insufficienza alla prima settimana, se dovesse avere la malsana idea di interrogare proprio me…”
“Ma dai, è la prima settimana, non interrogherà mai!”
 

 
 
Venti minuti dopo



“Venendo qui ho incrociato Lefevre che parlava con la D’Angelo, e ha detto che vuole interrogare per fare ripasso!”
Bastarono le parole che Icaro Orsini pronunciò una volta messo piede nell’aula già piuttosto affollata di Colture des Moldus, prima lezione della giornata di buona parte degli studenti del VII anno, per gettare più o meno tutti i presenti nel panico: ad eccezione di Milad, che non battè ciglio e si limitò a sfogliare impassibile il suo libro, e di Guillaume, che sbadigliò dal suo banco in terza fila, seduto accanto ad Abel, asserendo di esserselo perfettamente aspettato, più o meno tutti gli altri trasalirono. Chi era già seduto iniziò a sfogliare libri e quaderni sulla buona strada per avere una crisi isterica, mentre chi all’ingresso di Icaro si era trovato in piedi per chiacchierare con qualcuno era subito sfrecciato al suo posto per gettarsi in un vano tentativo di ripasso dell’ultimo minuto. Icaro incluso, che si affrettò a raggiungere il posto che a colazione aveva chiesto ad Etienne di tenergli occupato per sedersi in quarta fila accanto al Bellefuille e tirare fuori il gigantesco libro di testo senza nemmeno avere idea di da dove cominciare. Nerea Pagano, che fino a quel momento aveva vissuto quella soleggiata e calda mattinata nella massima serenità, si ritrovò a far rimbalzare lo sguardo terrorizzato ed incredulo da Gisèle, seduta accanto a lei, fino ad Etienne ed Icaro, che avevano occupato il banco dietro al suo e a quello dell’amica:
“Ma… Ma… è la prima settimana! Non può farci questo!”
 
“Io me lo sentivo. È tutta colpa delle ninfe dei boschi! Dite che potrebbe chiedere Foscolo?!”
Gisèle, seduta di sghimbesci sulla sua sedia come l’amica, parlò deglutendo a fatica mentre guardava con orrore uno dei capitoli che avrebbe dovuto ripassare durante le vacanze estive. Di certo non era colpa sua se aveva trascorso quasi tutta l’estate richiusa in Accademia, a Londra, a ballare dalla mattina alla sera, ma di certo la sua scusante non avrebbe retto cin l’insegnante che era sul punto di varcare la sohlia dell’aula. Etienne, dopo aver desistito nei suoi tentativi di nascondersi nell’armadio accabto ak quale lui ed Icaro erano seduti, aggrottò le sopracciglia guardando l’amica con espressione pensosa, certo che quel nome gli dicesse qualcosa senza però riuscire a ricondurlo a qualcosa di concreto:
Quando lo abbiamo studiato?”
“L’anno scorso! Quello fissato con Napoleone!”
All’improvviso Etienne capì di chi si stesse parlando, e sorrise soddisfatto prima di realizzare di non ricordare assolutamente nulla dell’autore in questione. A quel punto aprì l’anta dell’armadio e cercò di infilarcisi dentro di nuovo, trattenuto dalla presa di Icaro:
“Etienne, falla finita, non è un Armadio Svanitore!”
“Magari! Dovrebbero metterne uno in ogni aula per legge, per consentire una via di fuga agli studenti disperati!”
Icaro si astenne dal fargli notare come i proposito educativi delle scuole consistessero più o meno nell’esatto opposto rispetto a quanto da lui appena decantato, costringendo l’amico a sedersi prima di tornare al suo libro, conscio di avere troppa roba da ripassare e troppo poco tempo per farlo. Quando gli capitò davanti il capitolo dedicato a forse uno degli autori peggiori di tutto il loro percorso accademico, Icaro si sentì annodare brutalmente le viscere, desiderando che il pavimento sottostante lo inghiottisse:
“Se chiede Manzoni io mi Smaterializzo in Mali.”
Due versi strozzati si levarono dal banco davanti a quello occupato da lui e da Etienne e Gisèle e Nerea, improvvisamente immobilizzate dalla paura sulle loro sedie, si scambiarono lentamente un’occhiata preoccupata prima che l’italiana, deglutendo a fatica, iniziasse a scuotere la testa con fervore nel tentativo di convincere se stessa più che i compagni:
“Non oserà chiederlo alla prima settimana. Tanto varrebbe darci fuoco, sarebbe meno doloroso.”
Di nuovo lo sguardo di Etienne, perfettamente rilassato e persino con un accenno di sorriso sulle labbra, scalfì i volti dei tre amici senza che il ragazzo avesse ben chiaro il motivo di tanta preoccupazione. Nerea alzò gli occhi al cielo, sospirando prima di premurarsi di rinfrescargli la memoria con tono paziente:
I promessi sposi. Ti ricorda qualcosa?”
In effetti quelle tre parole solleticarono la memoria di Etienne, che assunse la stessa espressione pensosa di poco prima sotto agli sguardi incuriositi e parzialmente esasperati dei tre amici, che lo osservarono in attesa prima che il francese, qualche istante dopo, iniziasse a mormorare qualcosa con tono incerto:
Quel ramo del lago di Como che volge ad est… Bravi… Don Abbondio… Renzo e Lucia, ma il loro matrimonio non s’ha da fare… Don Rodrigo vuole farsi Lucia, la Monaca di Monza non è affatto una monaca… Poi c’è la peste e si sposano e vivono felici e contenti?”
Etienne finì di parlare facendo rimbalzare incuriosito e speranzoso lo sguardo da un volto all’altro dei tre compagni, guardandoli fissarlo in silenzio di rimando per qualche istante prima che Icaro si rivolgesse alle due ragazze con una lieve scrollata di spalle:
“Beh, però il focus lo ha centrato.”
 
Milad sospirò rumorosamente, infastidito dalla baraonda che aveva colpito l’aula poco prima: naturalmente lui si era premurato di ripassare quanto dovuto come suggerito dal loro insegnante alla fine dell’anno precedente, ma in mezzo a tutta quella confusione non riusciva a concentrarsi e a leggere il capitolo nove del suo libro sugli scacchi!
 
Nicholas Lefevre era un uomo bellissimo e dotato di grande carisma, tanto che di norma il suo ingresso in aula era accompagnato da mormorii e sguardi pieni di ammirazione. Quel giorno invece l’insegnante salutò gli studenti dell’ultimo anno ricevendo solo un cupo coro di borbottii in risposta, per nulla contagiati dal suo buonumore mentre scivolava sulla sedia dietro alla cattedra consentendo loro di fare altrettanto. Lefevre tirò fuori il libro per aprirlo e iniziare a sfogliarlo avvolto da un silenzio di tomba spezzato solo dal fruscio delle pagine, suggerendogli come gli studenti avessero in qualche modo appreso delle sue imminenti intenzioni:
“Bene… Direi che potremmo finire la settimana ripassando un po’. Tanto per assicurarmi che non vi siate scordati tutto durante le vacanze. Iniziamo con Letteratura. Vediamo un po’… Italiana.” L’insegnante alzò la testa per guardare gli studenti con un sorriso allegro sulle labbra, sicuro della sua scelta, scontrandosi con i volti di chi sembrava sul punto di venir meno, chi si stava spasmodicamente facendo aria con le mani e chi pregava in silenzio entità superiori di varia natura.
L’ombra di Alessandro Manzoni incombeva sempre più concreta e minacciosa su di loro, e Gisèle sprofondò il più possibile contro lo schienale della sedia mentre Nerea, accanto a lei, cercava invano di mimetizzarsi con la parete di pietra respirando a fatica. Un curioso cigolio metallico attirò l’attenzione di tutti i presenti – o almeno di quelli non impegnati in delle preghiere – verso il banco di Icaro ed Etienne, che smise di cercare di aprire l’anta dell’armadio accanto a cui sedeva quando colse l’occhiata di sbieco che l’amico gli lanciò. Icaro, dal canto suo, si domandò che clima facesse a Timbuctu in quel periodo dell’anno mentre Lefevre sfogliava lentamente il libro, facendo correre lo sguardo sulle pagine mentre decideva l’argomento con cui torturare i suoi studenti in mezzo al silenzio di tomba che era andato a crearsi nell’aula. Quando gli parve di individuare il nome adatto il mago sorrise, orgoglioso della sua brillante decisione prima di alzare lo sguardo verso i volti pallidi e tesi che aveva davanti:
“Direi che parlare di Leopardi non vi farà male.”
Fino a poco prima Nerea avrebbe decretato che di certo Manzoni costituiva la peggiore delle opzioni possibili, ma all’improvviso persino le vicissitudini di Renzo e Lucia non le parvero poi così male. La giovane strega sospirò mentre si copriva il viso con una mano, mormorando qualcosa preda della disperazione più nera mentre Etienne, dietro di lei, accostava leggermente la testa a quella di Icaro chiedendogli dubbioso qualcosa riguardo ad “un tizio sempre impegnato a studiare a lume di candela”:
Voglio morire.”
“Beh, sei in tema con l’argomento.”


Perché tutti lo stavano fissando con tanta insistenza? E quasi tutti cercando di impietosirlo con sguardi spauriti, lacrimosi e imploranti? A Milad bastarono poche occhiate perplesse gettate ai suoi compagni per capire quale fosse il motivo, portandolo a sospirare e ad alzare al cielo i grandi oscuri prima di alzare la mano destra, mosso da una pietà misericordiosa che decise di concedere solo poiché si trovavano sul finire della primissima settimana di lezioni:
“Professore. Se vuole parlo io.”
 

 
divisore


 
Daphnè Blanchard era giunta alla seconda lezione di Divination, nonché ultima della settimana, piena di buonumore e buoni propositi: una volta raggiunta l’aula nella Torre Sud insieme a Maëlle – dovevano ancora abituarsi alle scale ed erano arrivate in cima col fiatone, ma almeno, stando alle parole dell’amica, dovevano aver smaltito parte del pranzo – aveva occupato insieme a lei uno dei tavolini di legno disseminati per tutta l’aula di forma circolare e aveva disposto su di esso con ordine e precisione millimetrici i suoi articoli di cancelleria. Una volta terminata l’opera la giovane strega sorrise soddisfatta, gongolando mentre accennava con fierezza all’amica i suoi evidenziatori nuovi, le sue penne e la collezione di post-it, tutto rigorosamente in diverse gradazioni di viola più o meno intense: Daphnè assegnava un colore ad ogni materia, dunque per Divination aveva acquistato solo quaderni, penne, pennarelli, graffette e post-it di quel colore.
“Ti piacciono le mie penne nuove? E i post-it non sono adorabili?”
Maëlle e Daphnè si conoscevano da ormai una considerevole quantità di tempo, sapevano più o meno tutto l’una dell’altra e si consideravano indissolubilmente ed indubbiamente migliori amiche. Malgrado le costanti e giocose prese in giro che elargiva nei suoi riguardi Maëlle era sinceramente affezionata alla compagna quasi in maniera viscerale ed era perfettamente abituata alla sua semi-ossessione per la cancelleria e per far sì che tutto ciò che possedesse fosse ordinato in ordine cromatico, calzini inclusi, ma spesso e volentieri si ritrovava ad osservare gli averi dell’amica chiedendosi, esattamente, quanto tutto ciò costasse alle sue finanze:
“Daph, esattamente quanto spendi in cancelleria ogni settembre, prima di tornare a scuola?”
Maëlle parlò inarcando un sopracciglio – armata solo di blocco per gli appunti e penna blu – e gettando un’occhiata incerta all’amica che fece immediatamente svanire il sorriso dal volto pallido di Daphnè, che si fece improvvisamente seria prima di rispondere con tono inespressivo:
“Non voglio dirlo.”
Lo shopping-cancelleria pre ritorno a scuola rappresentava forse uno dei momenti dell’anno che Daphnè preferiva in assoluto. Lo stesso però non si poteva dire dei suoi fratelli maggiori, poiché almeno due di loro venivano puntualmente ingaggiati per aiutarla a portare a casa le sue pesantissime borsette stracolme di roba colorata. Anche loro le chiedevano di continuo quanti soldi spendesse in penne, quaderni, post-it, etichette, raccoglitori ed evidenziatori, ma Daphnè si ostinava a tenere quell’informazione per sé onde evitare le certe prese in giro che il rivelare la cifra esatta le avrebbe fatto guadagnare.


“… Sono io o vedi anche tu Phoenix Anastasakis seduto a cinque metri di distanza da noi?!”
L’idea che Phoenix Anastasakis potesse seguire quel corso era ancor più ridicola di immaginare se stessa nelle vesti di lottatrice professionista, e subito Daphnè sbuffò, pronta ad intimare severa all’amica di smetterla di prendersi gioco di lei e della sua ingenuità. Fu con enorme sconcerto che invece la giovane strega, voltandosi, si scontrò proprio con la sagoma del suddetto compagno di scuola, che sedeva solo ad un tavolo in fondo all’aula con l’aria di essere sul punto di raggiungere il patibolo, nessun quaderno tirato fuori dallo zaino – o accenno di essere intenzionato a farlo sul viso –, gambe lunghe distese, espressione svogliata e posa a dir poco scomposta. Alla vista del ragazzo Daphnè non poté far altro che sgranare gli occhi chiari e dischiudere le labbra sottili, talmente sconvolta da dimenticarsi persino della cancelleria e rendendosi conto solo in quel momento di come quasi tutte le altre ragazze presenti si stessero improvvisamente dando molta pena per il proprio aspetto, chi controllando il proprio riflesso in degli specchietti e chi pettinandosi i capelli con minuscole spazzole da borsetta.
“Che cosa ci fa qui?! Martedì c’era?!”
“No che non c’era! Lo avremmo visto. Insomma, come si fa a non notarne la presenza?”
Daphnè era d’accordo: non avrebbero mai potuto lasciarsi sfuggire la presenza di Phoenix, a suo modesto parere forse lo studente più bello dell’intera scuola, dall’aula. Ma immaginarlo seguire Divination era talmente assurdo che per un attimo la Papillonlisse fu tentata di alzarsi e avvicinarglisi timidamente per chiedergli se per caso non si fosse perso – iutile dire che non aveva mai avuto il coraggio di rivolgergli la parola, eccezion fatta per una lezione di Pozioni durante la quale era stata costretta a chiedergli di passarle un ingrediente, rossa in viso e non certo per i vapori emanati dai calderoni –.
“Questa poi. Domani chissà che cosa succederà. Forse tu diventerai un’accanita sportiva!”
Superato lo sconcerto iniziale Maëlle si lasciò andare ad una lieve risatina che non contagiò l’amica, anzi Daphnè le rivolse un’occhiata sostenuta prima di sollevare una penna glitter coperta da piccoli unicorni sfoggiando la massima dignità:
“È più probabile che Phoenix inizi a leggere l’oroscopo a tutta la classe, fidati.”
 
Tutti lo stavano fissando, e anche se se l’era aspettato Phoenix ricordava poche occasioni in cui si era sentito tanto a disagio. Trascorse tutta la lezione senza prendere il benchè minimo appunto e sforzandosi di non prestare attenzione alle occhiate altrui, limitandosi a fingere di ascoltare tenendo le braccia incrociate per palesare tutta la sua contrarietà al contesto e maledicendo mentalmente il suo migliore amico e la sua pessima abitudine a scommettere con lui: se si apprestava a seguire il corso più inutile e ridicolo della storia di Beauxbatons diventando uno zimbello pubblico era solo colpa di Icaro, che ebbe persino l’ardire di aspettarlo fuori dall’aula al termine della lezione e di accoglierlo con un caloroso sorriso:
“Come è andata piccolo Nick? Mi fai il quadro astrale adesso?”
Nick naturalmente non ricambiò il sorriso dell’amico, limitandosi ad un’occhiata truce prima di superarlo per fuggire da quell’aula e quella torre il più rapidamente possibile. Sperava che dileguandosi nessuno si sarebbe ricordato di averlo visto da quelle parti, ma naturalmente si sbagliava.
“Fottiti Orsini.”
Phoenix tirò dritto affrettandosi verso le scale senza degnare l’amico di un’ulteriore occhiata, ignorando la voce di Icaro anche quando lui, seguendolo, si finse ferito ed offeso dal suo comportamento:
“Dai! Non mi dici che cosa causerà la posizione di Mercurio?”
Phoenix moriva dalla voglia di dirgli dove poteva ficcarsi Mercurio, ma trattenne quelle belle parole tra i denti per evitare di essere sentito da un qualche insegnante o Prefetto nei dintorni: la sua giornata stava già facendo abbastanza schifo, anche senza rischiare punizioni o altre rotture di vario genere. Alla fine fu Icaro a raggiungerlo e a bloccargli il passaggio parandoglisi davanti, improvvisamente serio e quasi credibile:
“Ok, basta scherzare, sono serio. Ti ho portato una cosa per farmi perdonare.”
Quando lo vide sfilarsi qualcosa dallo zaino Phoenix inarcò un sopracciglio, scettico e indeciso se dargli seriamente retta o meno, e decise che avrebbe strozzato Icaro Orsini entro la fine della giornata quando l’amico gli mise un foglio davanti con un sorriso a trentadue denti sulle labbra:
“Il tuo oroscopo! Sono o non sono un buon amico? Ho sottolineato dove parla di te, pare che l’amore sia più vicino di quanto pensi!”
Per tutta risposta Phoenix guardò il foglio, la mascella serrata, prima di strapparglielo dalle mani, appallottolarlo e usarlo per colpirlo in fronte prima di superarlo e allontanarsi con falcate lunghe e decise, maledicendo il giorno in cui si era fatto convincere a tornare a Beauxbatons per prendersi quel dannato Diploma una volta per tutte.
 


 
divisore

 

Le lezioni di Métamorphose 
rientravano forse tra quelle che Milad Sarkis prediligeva in assoluto, e non tanto perché la materia lo appassionasse più di altre, quanto più per la calma e il silenzio che normalmente le caratterizzavano: negli anni l’aula era sempre andata via via svuotandosi, abbandonata da studenti che avevano deciso di lasciare una delle materie più ostiche tra tutte quelle insegnante a Beauxbatons a favore di altre. Quando, nel corso del primo giorno di scuola, Milad aveva varcato l’ormai familiare aula appurando di come sembrasse ancor più deserta rispetto all’anno precedente il belga non aveva potuto far altro che prendere posto gioendo interiormente, felice di seguire almeno un corso in tutta tranquillità potendo così far ricorso a tutta la concentrazione richiesta.
Milad era arrivato in aula per la seconda ed ultima lezione della settimana in anticipo e di buon umore, si era seduto da solo in un banco in terza fila e aveva tirato fuori un libro dallo zaino per sfruttare i dieci minuti che lo separavano dal suono della campanella per leggere un po’. Milad portava sempre un libro con sé cercando di sfruttare tutti i momenti liberi per rilassarsi leggendo almeno qualche pagina, ma dopo averne lette appena un paio il ragazzo fu costretto ad interrompersi: Gisèle Delacroix, una dei pochi superstiti che, insieme a lui, persisteva a seguire quel corso gli si era parata davanti tenendo qualcosa in mano e puntando i grandi occhi azzurri irrimediabilmente su di lui.
“Ehy.”
Non infastidito dall’interruzione solo perché Gisèle era forse una delle persone che meno gli arrecava disturbo all’interno delle aule scolastiche, Milad smise di leggere e sollevò la testa per guardare la ragazza aggrottando un sopracciglio, perplesso: lui e Gisèle sedevano spesso vicino durante quelle lezioni, ma spesso e volentieri trascorrevano un’ora intera scambiandosi a malapena la parola. E a lui, naturalmente, andava benissimo così.
“Ciao.”
“Sono andata giù in cucina a prenderti questi. Spero che ti piacciano.”
Con gran sconcerto di Milad Gisèle appoggiò ciò che teneva in mano davanti a lui, sul suo banco, e una rapida occhiata bastò al belga per riconoscere una scatolina di cartoncino infiocchettata – di certo opera di qualche Elfo Domestico premuroso – contenente dei macarons colorati.
“Perché?”
Gisèle era sempre gentile con lui, ma una gentilezza che Milad avrebbe più che altro definito una distaccata cortesia che la compagna riservava più o meno a tutti, eccezion fatta per suo cugino. Niente che prevedesse l’elargizione di dei dolcetti, almeno, e non poté far altro che sorprendersi mentre Gisèle raggirava il banco per occupare la sedia vuota con una debole stretta di spalle:
“Ringraziarti per esserti offerto prima. Se Lefevre mi avesse chiesto qualsiasi cosa su La ginestra probabilmente mi sarei messa a piangere.”
Milad dubitava fortemente che la sua compagna di Casa fosse fisicamente in grado di versare delle lacrime, o almeno lui non l’aveva mai vista farlo in sei anni di convivenza, ma anziché mettere in dubbio le parole di Gisèle si limitò ad osservare nuovamente la scatolina che la ragazza gli aveva messo davanti prima di annuire, sforzandosi persino di abbozzare un rarissimo accenno di sorriso mentre Gisèle gli sedeva accanto sistemando lo zaino sul pavimento:
“Beh, grazie.”
“Di nulla. E poi, a pensarci bene sono ancora in debito per la storia del letto fosforescente.”
“Guarda che per quello non ti perdonerò mai. Quelle lenzuola popolano ancora i miei incubi e questi dolcetti non cancelleranno nulla. Di certo non le foto che gli altri mi hanno fatto.”
Gisèle appoggiò il libro sul banco rivolgendogli un sorriso colpevole, ma non aggiunse altro e tra i due calò un silenzio rilassato che riempì Milad di gioia e gli consentì di tornare a dedicarsi al suo libro addentando un delizioso macaron al cioccolato: Gisèle era forse una delle sue compagne di banco predilette, e proprio perché, come lui, parlava molto poco.
 


 
divisore


 
Le riunioni della redazione del giornale della scuola avevano inizio tutti i venerdì alle 21, di norma con estrema puntualità, ma quella sera Guillaume Delacroix aprì la porta dell’aula dove lui e “colleghi” erano soliti riunirsi con ben 10 minuti di ritardo: tardare non era abitudine del ragazzo, celebre invece per essere estremamente pignolo, e ciò non contribuì in partenza a rendere il suo umore particolarmente bendisposto verso il prossimo. Guillaume, impegnato a maledire mentalmente con non scarso astio la persona misteriosa che quella sera aveva ben pensato di far sparire tutte le sue paia di scarpe, si chiuse la porta alle spalle sbattendola più del dovuto, palesando così la propria presenza nella stanza mentre tutti i presenti, radunati attorno ad un lungo tavolo creato dall’unione di più banchi, smettevano improvvisamente di chiacchierare allegramente per posare gli sguardi su di lui.
“So che sono in ritardo, ma potevate almeno approfittarne per iniziare invece di cazzeggiare e… mangiare pasticcini?”
Dopo aver raggiunto il tavolo con poche e ben distese falcate Guillaume si fermò scrutando accigliato l’enorme vassoio pieno di adorabili dolcetti colorati di tutte le forme e dimensioni che vi era stato posato nel mezzo, chiedendosi come e perché fosse arrivato fin lì mentre Daphnè, fattasi improvvisamente scarlatta in viso, deglutiva a fatica prima di annuire e mormorare qualcosa con un pigolio a malapena percettibile:
“Li ho portati io. Ho pensato che fosse… un gesto carino. Visto che è la prima volta che ci incontriamo, quest’anno.”
Quando gli occhi di ghiaccio di Guillaume scalfirono il suo viso Daphnè si costrinse a racimolare tutta la saliva che le era rimasta e a deglutire, sentendosi il viso andare in fiamme mentre si tormentava nervosamente la sottile catenina d’oro con perla che portava al collo con evidente nervosismo, in piena soggezione. Fortunatamente prima che Guillaume potesse dire qualsiasi cosa Nerea, che si era seduta accanto a lei, si fece avanti sorridendo allegra e mettendole una mano sulla spalla per supportarla:
“Io penso che sia stata un’idea adorabile e che Daphnè sia stata molto carina.”
Malgrado il suo sguardo glaciale Nerea non temeva affatto Guillaume, soprattutto grazie agli innumerevoli aneddoti di natura imbarazzante che Gisèle le aveva spiattellato nel corso degli anni e che avrebbe quindi potenzialmente potuto usare ai danni del ragazzo, che non a caso riservò alla Bellefuille la più gelida delle sue occhiatacce. Daphnè invece si voltò verso di lei guardandola con gli occhi chiari traboccanti di gratitudine, quasi commossa dalla sua gentilezza mentre Etienne, seduto a capo del tavolo, annuiva masticando con gioia una mini porzione di tiramisù:
“Lo penfo anche io.”
Icaro, accanto a lui, annuì mentre raccoglieva generose dosi di candida panna montata dalla meringa che teneva in mano aiutandosi con un cucchiaino da tè:
“Anche io, brava Daphnè.”
Non avevo alcun dubbio. Ok, ora direi che avete mangiato abbastanza e che possiamo parlare di come dividerci il lavoro… Nerea, immagino che tu voglia continuare a scrivere quella roba sui gossip che tanto ti piace.”
“Certo! Sono qui apposta! Icaro, forse sono tenuta a dirti che Phoenix ha cercato di corrompermi per scrivere che state insieme.”
Nerea smise di guardare Guillaume per voltarsi in direzione di Icaro, gettandogli una rapida occhiata mentre il ragazzo quasi si strozzava con la panna montata:
“Che cos-“
Etienne provvide subito a dargli qualche rapido colpetto della schiena, ammonendolo di non parlare a bocca piena mentre Guillaume, per nulla interessato alle stronzate che i presenti erano soliti tirar fuori dal cilindro ad ogni riunione e desideroso di non perdere tutta la sera, cambiava argomento posando nuovamente il proprio sguardo su Daphnè:
“Daphnè, tu vuoi occuparti dell’… oroscopo?”
Malgrado la propria cocente disapprovazione – e fortissimo scetticismo – Guillaume si sforzò il più possibile di pronunciare quella parola senza lasciar trapelare il disprezzo che provava nei confronti dell’Astrologia, conscio di come buona parte della fauna di Beauxbatons leggesse quella roba per lui assolutamente ridicola. Daphnè, di nuovo rossa in viso per colpa dello sguardo del ragazzo puntato su di lei, annuì e si sforzò di sorridere – per qualche misterioso motivo in sua presenza si sentiva perennemente una perfetta cretina – con una noncuranza che non avrebbe convinto anima viva:
“Se per te va bene.”
Non dirgli così, devi farti valere di più!”
Nerea, che anche se la sola idea la lasciava non poco perplessa da qualche parte serbava la convinzione che la ragazza avesse una specie di cotta per Guillaume, sussurrò gettando una mite occhiata di rimprovero a Daphnè mentre la Papillonlisse si muoveva a disagio sulla sua sedia e Guillaume, dal fondo del tavolo, inarcava scettico un sopracciglio:
“Nerea, scusa, non ho sentito.”
“Niente, niente.”
Per nulla intenzionata ad indispettire Guillaume in un ambito dove il ragazzo occupava una posizione di netta superiorità l’italiana si stampò un bel sorriso sulle labbra e scosse la testa sbattendo amabilmente le ciglia, distogliendo l’attenzione da sé e consentendo così al ragazzo di rivolgersi a colui che in assoluto rappresentava il membro a lui più sgradito di tutta la redazione: Guillaume non gradiva particolarmente Etienne Macquart – non a caso era amico di sua cugina, si ritrovava spesso a considerare con sprezzo – in ogni momento o anfratto del castello, ma quando si trattava di collaborare con lui per il giornale la sua pazienza e il suo limite di sopportazione venivano più che mai messi duramente a dura prova.
“Macquart, tu sei qui perché disegni benissimo, ma evita di rifilarci le stronzate che tiri fori ogni anno per fare il coglione.”
Etienne, che aveva giusto poco prima mostrato il suo ultimo schizzo satirico ad Icaro per riderci su insieme a lui, raddrizzò le spalle e annuì con la massima serietà, giurando solennemente di impegnarsi nel suo compito come mai aveva fatto prima per il suo ultimo anno da illustratore in carica mentre Guillaume lo guardava torvo e per nulla persuaso dalle sue parole. Quando Icaro ridacchiò il redattore lo guardò male, e subito l’italiano si zittì per paura che potesse rifilargli un orrendo pezzo da scrivere per la settimana seguente.
“Qualcosa ti diverte, Orsini?”
“Assolutamente no. Mai stato più serio di così. Potrei non dover scrivere nulla di ridicolo e noioso almeno per questa prima settimana?”
Di norma il sorriso seducente e smagliante di Icaro gli consentiva di ottenere più o meno rapidamente tutto ciò che desiderava, ma pochi minuti dopo si ritrovò ad osservare, cupo ed amareggiato, il soggetto del suo primissimo articolo dell’anno: qualcosa su una razza di gufi che stava andando estinguendosi.
“Sai, forse dovremmo fingere di avere litigato e di non essere più amici, almeno durante queste riunioni.”
Icaro gettò un’occhiata mesta ad Etienne, consapevole di quanto la scarsa simpatia che Guillaume provava per il suo amico avrebbe nuociuto ad entrambi per tutto l’anno, ma il francese, per nulla preoccupato, gli sorrise allegro e gli impedì di demoralizzarsi dandogli un colpetto sulla spalla:
Oppure chiedere a Gisèle come ricattarlo con qualcosa di orribilmente imbarazzante.”
“Geniale. Non voglio più scrivere di specie in via di estinzione, anche perché, detto tra noi, in famiglia siamo pieni di pellicce, mi sento un tantino ipocrita.”


Mezz’ora dopo, quando tutti gli incarichi furono finalmente assegnati, Daphnè varcò la soglia dell’aula stringendo il quaderno a spirale rosa e il sottile astuccio di stoffa beige che aveva portato con sé tormentandosi l’orlo del vestito smanicato color cipria che aveva infilato sopra ad una camicia bianca: sempre estremamente attenta al proprio vestiario Daphnè riponeva sempre una particolare attenzione al proprio aspetto quando si trattava di recarsi alle riunioni settimanali del venerdì sera, finendo sempre con l’arrossire copiosamente, imbarazzata, quando le sue amiche glielo facevano puntualmente notare ridacchiando. Si stava giusto rimproverando mentalmente per essere tanto sciocca quando sentì qualcuno raggiungerla e affiancarla, e la voce gentile di Nerea la raggiunse prima di darle il tempo di voltarsi:
“Daphnè, posso chiederti un favore?”
A Daphnè Nerea Pagano piaceva, era sempre gentile e di buon’umore, quel tipo di persona in grado di risollevare il morale ad una stanza intera. In più, era amica di Etienne, e Daphnè conosceva abbastanza bene il fratello della sua migliore amica per riporre ottima fiducia in tutte le sue amicizie.
“Certo, dimmi.”
Daphnè sorrise gentilmente all’italiana, annuendo con un lieve cenno del capo mentre Nerea, più alta di lei di diversi centimetri, la prendeva sottobraccio per costringerla ad affrettare il passo e distanziare così i loro compagni. Prima di parlare Nerea si guardò attorno come volendosi assicurare che nessuno potesse udire le sue parole, chinandosi infine per accostare leggermente la propria testa a quella della compagna per parlarle con un mormorio sotto lo sguardo sempre più perplesso e incuriosito della francese.


 
divisore


 
Dante si stava godendo il tanto agognato venerdì sera non facendo un bel niente, crogiolandosi nel più completo relax e nella più completa solitudine mentre, steso su uno dei divanetti lilla che popolavano la sua Salle Comune, teneva gli occhi scuri puntati sul soffitto e le sue inseparabili cuffie nere a fasciargli le orecchie. Fino a poco prima aveva disegnato, ma ora il suo blocco con la copertina marrone giaceva chiuso ed inerte sul suo petto insieme alle matite: si era presto reso conto di come il suo impugnare carta e matite avesse attirato ancora più sguardi curiosi da parte dei compagni di Casa, e aveva rapidamente finito per abbandonare l’iniziativa temendo che qualcuno potesse avvicinarsi per impicciarsi o, peggio, chiedergli di vedere i suoi disegni, qualcosa che era solito condividere solo con i suoi amici.
Dopo cinque giorni di lezione era piacevole avere finalmente qualche minuto tutto per sé, e anche se non l’avrebbe mai ammesso a voce alta non vedeva l’ora che arrivasse il giorno seguente per poter prendere parte alla prima lezione di Tiro con l’Arco, uno dei suoi sport preferiti in assoluto. Forse c’era qualche minuscolo aspetto positivo in quella dannata scuola schifosamente color pastello e schifosamente simile ad un castello principesco, ma proprio mentre Dante si diceva quanto si stesse finalmente rilassando un viso si intromise prepotentemente nel suo campo visivo, piazzandosi tra lui e la sua visuale del soffitto lilla.
“Ciao musone!”
Nerea gli si piazzò davanti sorridendo allegra e qualche lunga ciocca di lisci capelli castani le scivolò oltre le spalle sfiorando il viso dell’amico, che vedendola sobbalzò e sussurrò un’imprecazione in cinese prima di mettersi a sedere di scatto togliendosi una cuffia e rivolgersi in italiano all’amica:
“Rea, che cazzo ci fai qui?!”
E lui che credeva che almeno lì dentro, in quella prigione lavanda da voltastomaco, sarebbe stato al sicuro. Come si sbagliava.
“Ho pensato di venire a farti un salutino. Antipatico come sempre, vedo... Hai mangiato panna acida a cena?”
Nerea spostò le gambe di Dante per potersi sedere sul bordo del divanetto, ignorando gli sguardi perplessi che molti dei presenti le stavano gettando in quanto intrusa mentre Dante, ancora piuttosto perplesso, la guardava chiedendosi come avesse fatto ad intrufolarsi lì dentro: di sicuro lui la parola d’ordine non si sarebbe mai sognato di spiattellargliela.
“No, ho mangiato la carbonara.”
“Era buonissima, vero?! Beh, cibo a parte, volevo chiederti come è andata la prima settimana.”
“Te l’ha chiesto mia madre?”
Dante spense la musica sul suo telefono prima di sfilarsi le cuffie per mettersele attorno al collo e guardare sospettoso l’amica, gli occhi a mandorla assottigliati mentre Nerea sgranava i propri scuotendo la testa con vigore, fingendosi sorpresa da quella richiesta:
“No! Certo che no! … Mia madre, in realtà. Beh, come è andata?”
“Bene. Normale. Il mio orecchio per il francese sta migliorando, credo.”
“Bravo. Ti sei iscritto a Tiro con l’Arco?”
Dante annuì continuando a non guardare l’amica, disegnando invece ghirigori sulla superficie del divano usando l’indice destro mentre Nerea, come sempre molto più loquace e di buon’umore di lui, gli sorrideva allegra:
“Allora saremo insieme!”
Quale immensa gioia.”
Questa volta l’amica, stanca del suo atteggiamento scostante e del suo sarcasmo, sbuffò e lo colpì con un cuscino bianco e coperto da delicati fiorellini guardandolo esasperata:
“Sei veramente insopportabile. Ti sei fatto qualche amico o hai fatto lo stronzetto tutta la settimana?”
Dante si strinse debolmente nelle spalle cercando di simulare noncuranza, anche se in fondo l’idea di aver trovato qualcuno con cui parlare e sedersi durante le lezioni lo rincuorava non poco:
“Ho trovato due ragazzi che parlano poco, si vestono di nero e che adorano la musica.”
“Oddio, una settimana e già trovi le tue anime gemelle? Fortunato. Phoenix e Diego? Phoenix era in classe con me, lo hanno bocciato al V anno. Ha un caratteraccio, è scostante con tutti e nonostante questo ha comunque tutte le ragazze che gli muoiono dietro… Vi adorerete. Con Diego sii carino, è della mia Casa ed è molto dolce.”
“Hai finito di fare la babysitter? Vai a… non lo so, spettegolare e metterti lo smalto con una tua amica, o quello che fate.”
Dante cercò di liquidare l’amica con uno sbuffo e un gesto brusco della mano, come a voler scacciare qualcosa di fastidioso, e Nerea si alzò dal divano lisciandosi le pieghe della gonna leggera del vestito nero a fiori rossi scoccandogli un’occhiata severa:
“Ti conviene essere gentile, o inserirò un inserto sul nuovo studente del VI anno nel primo numero del giornale. Sono sicura che più o meno tutti, qui, sarebbero deliziati nel leggere di qualche aneddoto del passato che non vorresti mai tirare fuori.”
La strega si congedò dall’amico senza aggiungere altro, lasciandolo a crogiolarsi nel terrore di vedere quella minaccia realizzarsi. Nel passare accanto ad un cerchio di poltroncine dove poco prima Daphnè aveva raggiunto le sue amiche Nerea sorrise alla ragazza e la ringraziò, ottenendo un sorriso di rimando sotto lo sguardo dubbioso di Dante.
“Perché ti ha chiesto la nostra parola d’ordine?”
Maëlle, le gambe lunghe distese su una piccola ottomana con motivo a fiori, inclinò leggermente la testa per guardare Nerea allontanarsi mentre Daphnè si stringeva nelle spalle sentendosi in realtà grata a Nerea per quella richiesta e per aver di conseguenza dato modo alle sue amiche di avere qualcosa di cui parlare che non fosse lei: la Bellefuille non ne aveva idea, ma per una volta Maëlle e Lucinda non l’avevano accolta con qualche commento ironico sul suo vestiario o sul motivo che l’aveva spinta a farsi così carina solo per una semplice riunione.
“Voleva parlare con Dante Wang. Sono amici da quando erano piccoli, così mi ha detto.”
Lucinda si voltò in direzione del ragazzo, che si stava rimettendo le cuffie per tornare alla propria musica sperando di non ricevere altre interruzioni indesiderate mentre Duchess, la gatta di Daphnè, faceva le fusa sulle sue ginocchia. Intuito chi avesse dato la parola d’ordine a Nerea Dante scoccò un’occhiata cupa al trio, e Lucinda si affrettò a tornare dov’era, nascosta dall’alto schienale della poltrona:
“Beh, non sembra molto felice che tu abbia permesso alla sua amica di raggiungerlo… E ci sta anche guardando storto, fate finta di niente.”
“A me pare che guardi storto tutti, a dire il vero. non per niente si è seduto vicino a Phoenix per tutta la settimana, a lezione.”
Maëlle si strinse nelle spalle mentre si chinava per acchiappare Joey, il suo gatto, e metterselo sulle ginocchia per coccolarlo un po’, sorridendo affettuosamente al micio quando lo sentì iniziare a fare le fusa. Lucinda invece iniziò ad attorcigliarsi una ciocca di capelli scuri attorno al dito, fissando pensosa il soffice pelo candido di Duchess che Daphnè spazzolava con cura ogni giorno e chiedendosi perché più o meno tutti i ragazzi più belli della scuola sembrassero avere un caratteraccio:
“Perché più sono carini e più sono così? A parte tuo fratello, lui è gentile.”
“Luli, che cazzo dici, mio fratello non è carino, che schifo! Non dirlo mai più, sto ancora riprendendomi da quando avevi una cotta per lui.”
“È stato decenni fa, piantala di rinfacciarmelo!”
 


 
divisore

 
 
Sabato 17 settembre
 
 
 
Giunto il mattino del primo sabato dell’anno Maëlle lasciò la Salle Comune dei Papillonlisse in ritardo rispetto alle sue amiche avendo dovuto cercare i suoi orecchini preferiti in lungo e in largo per tutta la camera che condivideva con loro: erano bastati pochissimi giorni affinché, come ogni anno, le loro cose finissero in ogni angolo della camera, mischiandosi e infilandosi ovunque. La giovane strega giunse quindi da sola nel Salone d’Ingresso, diretta con passi rapidi e decisi verso la sala da pranzo e il vociare allegro che giungeva da essa, ma proprio mentre scendeva i gradini della scalinata principale prodigandosi per non scivolare sul marmo con le suole dei suoi sandali si sentì circondare le spalle con un braccio prima di udire una voce pericolosamente familiare accanto a sé:
“Ciao sorellina. Dov’è la tua solita scorta?”
“Avevo perso gli orecchini e ho detto alle altre di precedermi.”
Maëlle allontanò Etienne assestandogli una gomitata che venne condita da un’occhiata torva mentre il fratello maggiore si massaggiava il fianco fingendosi offeso, chiedendole perplesso per quale motivo non avesse pensato di trovarli con la magia:
“Ho due fratelli e una sorella maggiori, casa nostra somiglia ad un girone dantesco e preferisco far sì che nessuno possa rubarmi le cose.”
“Ti prego, come se io e Basile fossimo minimamente interessati e rubarti gli accessori.”
Etienne rise mentre insieme giungevano al termine della scalinata di marmo, dirigendosi con falcate perfettamente sincronizzate verso le porte aperte della sala da pranzo mentre la sorella minore sollevava la testa per scoccargli un’occhiata eloquente:
“Conoscendovi, non si sa mai. Come è andata alla riunione ieri sera?”
“Il solito, Guillaume è un tantino tirannico, io e Icaro ci siamo divertiti… Daphnè ha portato dei pasticcini e, ovviamente, arrossiva ogni volta in cui lui le rivolgeva la parola.”
Etienne parlò sfoderando il sorrisino ironico ormai tanto familiare a Maëlle, come se la cosa lo divertisse non poco, mentre la sorella, al contrario, si esibiva in un finto conato di vomito:
“Dio, ancora mi chiedo come possa farsi piacere Guillaume Delacroix… Ok che è carino, ma non lo sopporto proprio.”
De gustibus non disputandum est. Ci vediamo in giro sorellina, comportati bene… Bel vestitino.”
Giunti sulla soglia della sala da pranzo Etienne si congedò dalla sorella con un sorriso ammiccante e un lieve cenno in direzione del vestito estivo e bianco indossato da Maelle, che replicò sollevando stizzita il mento e astenendosi dal mostrargli il dito medio solo a causa del suo essere ormai entrata nel campo visivo di tutto il corpo docenti della scuola:
“Il mio vestito è bellissimo, sei tu che non hai stile.”


Anche Lucinda, già seduta e con la colazione davanti, gioiva del weekend anche solo per la possibilità di poter finalmente rinunciare alla divisa e al vestito che quella prevedeva: per quanto i bei vestiti le piacessero e ne avesse l’armadio pieno, molti mai indossati e con il cartellino ancora attaccato, finiva sempre con il prediligere magliette, felpe e i suoi amatissimi jeans. Quella mattina la giovane cantante indossava una maglietta a maniche corte lilla abbinata alle sue Converse preferite e una salopette bianca che stava facendo ben attenzione a non sporcare con gocce di caffè o tracce di cioccolato:
“Che bello non mettere la divisa, mi mancavano i miei jeans…”
Lucinda chinò lo sguardo sulle proprie gambe per gettare un’occhiata quasi affettuosa ai pantaloni ancora miracolosamente rimasti immacolati della salopette, e Daphnè annuì, concordando con lei mentre sfogliava il giornale che le era stato fatto recapitare poco prima dal gufo di famiglia.
“A me i miei vestitini, voglio sfruttare quelli estivi finchè il tempo lo permette… Eccomi fanciulle, potete smettere di piangere la mia assenza.”
Maëlle raggiunse le sue amiche e occupò la sedia che Lucinda aveva tenuto occupata per lei in uno svolazzo di lino bianco, versandosi immediatamente caffè nero e latte in una tazza prima di adocchiare ciò che era rimasto nell’enorme vassoio d’argento dei dolci.
“Meno male, annegavo nelle mie lacrime… Oggi che cosa facciamo, compiti a parte?”
Era il primo weekend dell’anno, forse uno dei pochi che avrebbero potuto godersi senza soccombere sotto il peso dei libri, e Lucinda non aveva alcuna intenzione di trascorrerlo marcendo nella, seppur magnifica, Biblioteca del castello. Mentre Maëlle arraffava con gioia l’ultimo croissant al pistacchio rimasto per metterselo nel piatto Daphnè intinse il proprio, per metà glassato con crema di fragole e cioccolato bianco, nella schiuma del suo cappuccino brandendo un sorriso allegro:
“Stasera potremmo andare in cucina, rubare dei cupcake e poi guardare 27 volte in bianco!”
Maëlle, la bocca piena di pistacchio, sgranò inorridita i grandi occhi castani e si affrettò a scuotere vistosamente la testa, parlando a bocca piena per dar voce a tutta la sua contrarietà:
“Oh mio Dio, basta, sei fissata con quel film! Ok che James Marsden è fighissimo, ma basta!”
“E allora tu cosa vuoi vedere?!”
“Maratona di High School Musical.”
“L’abbiamo già fatta alla fine dell’anno scorso!”
Era troppo presto per prolungare in eterno una discussione di quel genere e dopo aver roteato rapidamente gli occhi Lucinda si affrettò a sedarla, sollevando una mano abbronzata per zittire le amiche e prendendo la parola con aria perentoria:
“Ok, sentite, facciamo così. Adesso facciamo colazione, poi andiamo a fare i compiti fino all’ora di pranzo, cerchiamo di sbrigarceli in fretta, dopo andiamo in caffetteria a fare merenda e una volta finiti ci piazziamo nel roseto a prendere il sole. E poi dopo cena decideremo cosa guardare.”
Quando in risposta dalle due amiche ottenne solo dei vaghi assensi Lucinda sorrise soddisfatta e ritenne il suo lavoro concluso, concedendosi quindi di tornare a concentrarsi sulla sua colazione finchè un pensiero improvviso non le balenò in mente, portandola a rivolgersi quasi minacciosa alle due:
“E non giocheremo a UNO, ogni volta voi due rischiate di non parlarvi mai più.”
“È lei che mi fa sempre pescare un sacco di carte e si inventa le regole!”
Daphnè, ancora scottata dalle sconfitte dell’anno precedente, scoccò un’occhiata torva a Maëlle prima di tornare a dedicarsi al suo croissant mentre l’amica, offesa, ricambiava lo sguardo dischiudendo indispettita le labbra carnose:
“Io non mi invento le regole, si gioca così dalla notte dei tempi!”
Lucinda decise saggiamente di semi-nascondersi dietro alla propria tazza di caffè facendo vagare discretamente lo sguardo sui tavoli che circondavano lei e le sue amiche, tentata di sgattaiolare via e di chiedere a qualcuno di concederle un po’ di asilo. Quando i suoi occhi chiari indugiarono sul tavolo dove avevano preso posto tre dei suoi compagni di corso, curiosamente tutti vestiti completamente di nero – per un attimo, prima di riconoscere i soggetti in questione, si chiese se non si fossero accordati – Lucinda inarcò un sopracciglio e smise di prestare attenzione al battibecco in corso tra Daphnè e Maëlle, concentrandosi invece su Phoenix, Diego e Dante appurando con un certo sconcerto di come i tre fossero in completo e religioso silenzio.
“Mio Dio... Secondo voi quei tre parlano, ogni tanto?”
Udite le parole dell’amica Maëlle e Daphnè smisero di discutere e si zittirono, seguendo perplesse la direzione dello sguardo di Lucinda per capire di chi stesse parlando. Quando gli sguardi delle due indugiarono a loro volta sul curioso terzetto Maelle sbuffò lievemente, stringendosi nelle spalle e liquidando il discorso con un pigro gesto della mano destra:
“Pare che il ragazzo nuovo abbia trovato la sua compagnia ideale. Noi però saremmo state più simpatiche.”
Maëlle fece spallucce e sorseggiò un po’ di caffè prima di gettare una rapida occhiata in direzione di Daphnè, che invece era tornata a concentrarsi sul suo giornale. Inizialmente indecisa se recuperare o meno le affettuose prese in giro che le aveva risparmiato la sera precedente, quando aveva fatto ritorno dalla riunione, Maëlle finì col stabilire l’importanza del rispetto delle tradizioni:
“… Ma a Daphnè non importa, lei pensa solo al suo amore proibito.”
Maëlle sorrise e si scostò i capelli biondi dalle spalle emulando il gesto con cui era solita spostarli l’amica sbattendo le folte ciglia più di quanto non fosse necessario, ridendo quando Daphnè, imbarazzata e rossa in viso, le lanciò contro una manciata di tovagliolini di carta.
 
 
Qualche metro e tavolo più in là Diego, Phoenix e Dante sedevano vicini consumando le rispettive colazioni in religioso silenzio, il primo con le cuffie nelle orecchie, Phoenix con un libro aperto sulla tovaglia bianca e Dante in procinto di terminare il disegno che ritraeva il salone d’ingresso del castello iniziato il giorno precedente.
Tazze e piattini erano ormai rimasti semi-vuoti sul tavolo quando Diego, dopo aver rivolto una breve occhiata agli altri due, mise in pausa la canzone che stava ascoltando e si schiarì leggermente la gola prima di rivolgersi a Dante: non che stare in silenzio per lui costituisse un problema, tutt’altro, ma una parte di lui non faceva che suggerirgli di sforzarsi di essere un po’ più loquace, specie se si trattava di un ragazzo che ancora a scuola non conosceva quasi nessuno. Al suo posto avrebbe sicuramente apprezzato se qualcuno avesse fatto del suo meglio per metterlo a proprio agio, ragion per cui il ragazzo si costrinse ad abbozzare un accenno di sorriso gentile e a rivolgersi a Dante mentre il ragazzo teneva gli occhi scuri incollati alla carta del suo blocco da disegno.
“A quale attività ti sei iscritto?”
Dante smise immediatamente di muovere la punta della matita sul foglio ma esitò prima di sollevare la testa e ricambiare lo sguardo di Diego, quasi come se avesse bisogno di chiedersi se il compagno si fosse realmente rivolto a lui o meno, e quando lo fece scrutò il viso del Bellefuille per qualche istante prima di appoggiare la matita sul blocco e raddrizzare le spalle, mettendosi a sedere contro lo schienale della sedia bianca:
“Tiro con l’arco, scacchi... E mi piacerebbe giocare a Quidditch ed entrare nell’Orchestra.”
“Complimenti per la forza di volontà. In che ruolo giochi?”
Anche Phoenix si distolse momentaneamente dalla lettura gettando un’occhiata fugace in direzione di Dante, il sopracciglio destro sollevato con aria interrogativa mentre Dante faceva rimbalzare il proprio sguardo dal volto di Diego fino a quello dell’Ombrelune.
“Battitore o Cacciatore, se c'è posto. Voi giocate?”
Fu il turno di Dante di inarcare un sopracciglio e di spostare lo sguardo sui due compagni, curioso, destando una specie di breve risata in Phoenix mentre il ragazzo, tenendo il segno sul libro usando l’indice, si sporgeva sul tavolo per recuperare il suo bicchiere:
“Cacciatore. Diego invece preferisce le attività in cui si sta seduti, e non a venti metri di altezza.”
Una parte di Diego si chiese se avrebbe potuto in qualche modo offendersi, specie a causa del lieve sorrisino che Nick gli rivolse prima di vuotare il suo bicchiere di spremuta d’arancia, ma finì col dirsi, rassegnato, che in fondo non aveva nulla da recriminare all’affermazione dell’amico. Tornò invece a concentrarsi su Diego con rinnovata curiosità, deciso a tralasciare il Quidditch per spostare la conversazione su qualcosa che lo interessava infinitamente di più:
“Che cosa suoni?”
“Sassofono.”
Dante si permise persino di accennare un sorriso quando i suoi pensieri vagarono fino alla custodia nera che, diversi metri più in alto, conteneva il suo amato strumento musicale, e gli occhi azzurri di Diego all’improvviso parvero come illuminarsi: le labbra del ragazzo, quasi sempre sigillate, si aprirono fino a far prendere vita ad un sorriso mentre Phoenix, seduto alla sinistra di Dante, tornava a concentrarsi sul suo libro per lasciarli parlare di qualcosa di cui s’intendeva ben poco.
“Bello. Adoro il sax.”
“Lo suoni anche tu?”
“Me la cavo. Anche se credo di essere più portato per altro.”
Diego si strinse nelle spalle e distolse rapidamente lo sguardo per tornare a concentrarsi sul suo caffè – che Dante aveva guardato stranito quando, poco prima, il ragazzo aveva farcito con del miele – pentito di aver portato la conversazione su di sé e richiudendosi nella posizione leggermente ingobbita che era solito assumere mentre Phoenix, esasperato, lo guardava torvo da sopra il margine del libro trattenendo l’impulso di scagliarli contro il centrotavola di rose bianche fresche:
“Non credere mai a quello che dice questo deficiente quando parla di se stesso. È una sorta di piccolo prodigio, sa suonare praticamente qualsiasi cosa. E ha quella cosa… come si chiama…”
Phoenix si esibì in un lieve sbuffo impaziente mentre levava la mano destra per agitarla accanto all’orecchio, cercando il termine che gli sfuggiva mentre Diego, imbarazzato, desiderava di sprofondare nella sedia. Finì però ugualmente con l’andare in aiuto dell’amico completando la frase di Phoenix con un mormorio appena percettibile, gli occhi azzurri puntati con ostinazione sulla tovaglia candida ma piena di briciole mentre Dante, accigliato, spostava perplesso lo sguardo in mezzo a loro:
“Orecchio assoluto, Nick.”
Quando Dante tornò a posare lo sguardo su di lui sgranando meravigliato gli occhi a mandorla Diego desiderò di mimetizzarsi con il pavimento, percependo l’ormai familiare e nonostante questo sempre spiacevole sensazione di sentirsi andare il viso in fiamme mentre Phoenix, al contrario, gli indirizzava un sorriso compiaciuto:
“Hai l’orecchio assoluto? Beato te!”
Dante non aveva mai conosciuto nessuno con quel dono e guardò il compagno di scuola con sincera ammirazione e una punta d’invidia, guardandolo annuire e accennare un sorriso prima di cercare di liquidare e sminuire goffamente il discorso:
“Sì. insomma, adoro la musica, quindi immagino sia una fortuna.”
“Ma perché non suoni qui, scusa? Saresti un elemento straordinario.”
Dante non poteva credere che qualcuno come Diego non suonasse ufficialmente per la scuola e all’improvviso guardò il compagno con la fronte aggrottata, perplesso, finchè Phoenix accanto a lui non alzò gli occhi blu al cielo esibendosi in un sonoro sbuffo:
“Te lo dico io perché. È un coglione.”
“Grazie Nick, anche io ti voglio bene.”
 
 
Per la prima volta da che la scuola era iniziata Gisèle Delacroix giunse nella sala da pranzo con un sorriso che le andava quasi da un orecchio all’altro sulle labbra, visibilmente di ottimo umore mentre camminava diretta verso il tavolo occupato dai suoi amici pregustandosi la colazione che stava per consumare. A scorgerla per prima fu Nerea, che smise di chiacchierare con Antoine e le rivolse un caloroso sorriso di benvenuto facendole cenno di sedersi sulla sedia rimasta libera accanto a sé:
“Ciao Gisèle!”
“Ciao ragazzi. Finalmente è sabato, posso mangiare quello che mi pare!”
Gisèle prese posto accanto all’amica guardando tutti i dolci in bella vista sul tavolo trattenendo a fatica lacrime di commozione, decisa ad ingurgitare tutto ciò di cui si era privata, come sempre, per tutta la settimana: per un giorno avrebbe finalmente potuto dire addio all’insalata e riempirsi di carboidrati, zuccheri e felicità. Nerea, conscia di come il sabato fosse l’unico giorno della settimana in cui l’amica non si costringeva alla dieta, le sorrise gentilmente porgendole un piattino coperto da un tovagliolo:
“Ti ho tenuto l’ultimo croissant alla gianduia.”
“È per questo che ti adoro, Rea. Come è andata ieri sera, devo andare da quel coso che figura nel mio albero genealogico a fargli un discorsetto?”
Gisèle prese il croissant farcito che Nerea le aveva conservato su un piattino prima di versarsi un’esagerata quantità di caffè e schiuma di latte nella tazza, senza che neanche il far riferimento al cugino riuscisse a toglierle il sorriso dalle labbra mentre Etienne ed Icaro, seduti davanti a lei, si scambiavano un’occhiata cupa.
“Tutto nella norma, io ho la rubrica dei gossip! Quindi se vedete o sentite qualcosa ditemelo, mi raccomando. A loro poteva andare meglio.”
Nerea accennò in direzione di Etienne e di Icaro con una lieve scrollata di spalle, spingendo Gisèle a puntare incuriosita lo sguardo su di loro mentre il primo si rimpinzava di pane e Nutella e il secondo se ne stava con il computer acceso davanti e un’espressione vagamente sofferente a trasfigurargli i bei tratti:
“Io sto facendo ricerche sui gufi, non vi serve sapere altro.”
“Mi dispiace per voi, ma ricordate che io sono quella che se lo deve sopportare anche a casa. comunque vada quella messa peggio sarà sempre la sottoscritta. … È per caso rimasta un po’ di Nutella?”
La richiesta di Gisèle, che parlò sollevandosi leggermente per vedere se la ciotola davanti ad Etienne fosse stata svuotata o meno dall’appetito dell’amico, gettò un’improvvisa ondata di silenzio e sconcerto sul tavolo e sui commensali: Nerea ed Antoine la guardarono sgranando gli occhi, incerti sulle sue condizioni di salute, Etienne smise di masticare, Icaro di scrollare l’ennesima pagina sui gufi e Milad persino di leggere facendosi i fatti propri. Tutti la guardarono esterrefatti, e quando se ne rese conto Gisèle, la tazza di caffè in una mano e il croissant nell’altra, ricambiò rapidamente i loro sguardi prima di sbuffare e agitare leggermente ciò che temeva in mano, come a volergli ricordare di come quello fosse il suo primo pasto decente da quando aveva messo piede a Beauxbatons.
“Che c’è? È una settimana che mangio roba scondita, ho fame!”


 
divisore


 
Il fatto che la scuola offrisse, tra le sue attività extracurricolari, delle lezioni di tiro con l’arco era stata una delle principali argomentazioni che sua madre nel corso dell’estate appena conclusasi aveva maggiormente utilizzato nel tentativo di persuadere il figlio maggiore ad approcciarsi a Beauxbatons con almeno un briciolo di entusiasmo, e anche se i tentativi di Giada non erano andati del tutto a buon fino Dante si era iscritto al corso senza remore fin dal primo giorno, sollevato di poter prendere parte ad un’attività a lui congeniale e che gli riusciva anche discretamente bene dopo gli anni di pratica a Mahoutokoro.
Dante, abbandonata con gioia la divisa scolastica per la prima volta da quando era arrivato a Beauxbatons per tornare ad abbracciare il suo guardaroba color pece, si diresse verso la zona del parco che ospitava i bersagli con dieci minuti di anticipo, del tutto intenzionato a non rischiare di arrivare in ritardo: aveva ancora scarsa dimestichezza quando si trattava di orientarsi, ma confidava di riuscire a smettere di perdersi entro poche settimane. Stava camminando discendendo il dolce pendio erboso con le mani sprofondate nelle tasche dei pantaloni neri quando gli sembrò di scorgere una silhouette familiare diretta inequivocabilmente nella sua stessa direzione precederlo di appena qualche metro, spingendolo ad affrettare il passo per affiancare Milad e rivolgergli la parola: tutto sommato qualcuno di suo gradimento aveva finito col trovarlo in quei primi, pochi giorni di scuola. E anche se ammetterlo gli costava trovarsi lontanissimo dalla sua famiglia paterna, dall’ombra di quanto accaduto tra i suoi genitori e dai conseguenti mormorii che il suo passaggio aveva destato per mesi tra i corridoi di Mahoutokoro costituiva per lui un vero sollievo: era piacevole non trovarsi più sulla bocca di tutto e al centro dell’attenzione, specie se negativa come quella che la brusca separazione dei suoi genitori gli aveva garantito.
“Ciao. Anche tu tiro con l’arco?”
Milad non smise di camminare, ma si voltò verso di lui e lo osservò brevemente prima di accennare un sorriso con gli angoli delle labbra, riconoscendogli di gradire a sua volta la sua compagnia:
“Ciao. Sì, mi iscrivo ogni anno. C’è anche Nerea, credo.”
Pur conoscendola da tutta la vita Dante non l’aveva mai vista impugnare arco e frecce, e il solo immaginarlo destava in lui una curiosa miscela di terrore e divertimento: voleva bene a Nerea, anche se difficilmente lo avrebbe ammesso candidamente di fronte a lei, ma proprio perché la conosceva da sempre sapeva quanto notoriamente goffa fosse la sua amica d’infanzia. Mentre fiancheggiava Milad dirigendosi verso il campo, sollevato di aver trovato qualcuno diretto nel suo stesso luogo senza dunque rischiare di sbagliare strada, Dante aggrottò perplesso le folte sopracciglia scure, guardando di sottecchi l’Ombrelune con una certa inquietudine:
“Nerea… sa tirare con l’arco senza uccidere qualcuno?”
Milad sorrise, tradendo una sottile traccia di divertimento che insospettì non poco Dante mentre il belga annuiva, le mani in tasca a sua volta e una maglietta della sua squadra calcistica prediletta addosso:
“Direi che se la cava. Anche se l’anno scorso abbiamo sfiorato un minuscolo incidente.”
Una parte di Dante avrebbe voluto indagare sull’argomento, ma si costrinse a non chiedere per evitare di cambiare idea e finire col non presentarsi alla lezione imminente: forse certe cose era meglio non saperle affatto.
“Non fatico ad immaginarlo, è notoriamente imbranata in modo cronico.”
 
 
 
divisore


 
Dopo un’interminabile settimana di lezioni il primo weekend dell’anno scolastico era finalmente arrivato, momento che Diego aveva accolto quasi versando lacrime di gioia quando, alzatosi dal letto, quella mattina aveva potuto scegliere liberamente come vestirsi: abbandonata la divisa – non l’avrebbe nemmeno trovata poi così intollerabile se solo non fosse stata confezionata sui toni del blu e dell’azzurro, colori a lui poco congeniali quando si trattava di abbigliamento – il ragazzo era finalmente tornato alle sue abitudini infilandosi una maglietta rigorosamente nera, pantaloni dello stesso colore e i suoi amati anfibi. Diego quel giorno si sentiva finalmente e nuovamente se stesso a pieno titolo, libero di andarsene a zonzo per il castello con i suoi abiti monocromatici che, insieme alla posizione chiusa e quasi leggermente ingobbita delle sue spalle che i suoi familiari sempre gli rimproveravano, erano soliti conferirgli un’aria un po’ cupa.
Dopo pranzo Diego aveva deciso di approfittare della bella giornata e del tempo libero a sua disposizione per spostarsi all’esterno del castello, finendo però col pentirsi di non aver recuperato gli occhiali da sole non appena ebbe varcato la soglia d’ingresso dell’edificio: per Diego vederci costituiva un’impresa ardua già di norma essendo brutalmente miope – o, come veniva sottolineato soventemente da suo cugino Icaro, “cieco come Enrico la Talpa” – e la forte luce del sole che lo investì colpendo il suo viso pallido e le sue iridi chiare di certo non gli fu di alcun aiuto. Imprecando a mezza voce in italiano e schermandosi il più possibile il volto con una mano Diego avanzò sul piazzale di ghiaia e sul largo sentiero principale che si snodava nel parco della tenuta, stonando visibilmente in mezzo ai suoi compagni di scuola, quasi tutti ancora agghindati in tenute estive e colorate, con la sua mise total black. Incurante di dover sembrare una specie di vampiro agli occhi altri con i suoi abiti neri e la sua visibile insofferenza nei confronti della luce Diego si diresse rapido verso le rive del Lago, desideroso di trovare un po’ d’ombra che gli donasse refrigero e soprattutto riparo dalla luce accecante.
Sperando di non inciampare in qualche compagno lungo disteso sul prato Diego si fermò una volta raggiunta la successione disordinata di frassini che si snodava lungo la sponda del Lago d’Oô che faceva parte della tenuta, strizzando gli occhi azzurri il più possibile per individuare uno spazio rimasto libero. Sfortunatamente il ragazzo non ebbe successo, e stava quasi per arrendersi quando scorse una sagoma distesa sul prato, all’ombra, vestita interamente di nero e con i capelli scuri. Da quella distanza scorgere con precisione i tratti dello studente in questione per lui sarebbe stato impossibile ma l’abbigliamento gli suggerì prepotentemente di chi potesse trattarsi, convincendolo a muoversi in quella direzione evitando tronchi d’albero contro cui andare a sbattere e radici sulle quali inciampare. Una volta giunto in prossimità del faggio giusto Diego, abbastanza vicino, riuscì più o meno a mettere a fuoco il volto pallido dello studente che aveva raggiunto e abbozzò un sorriso sollevato mentre si fermava facendo scivolare al suolo il proprio zaino:
“Non ho mai apprezzato tanto le tue scelte stilistiche come oggi, Nick.”
Diego ci vedeva rovinosamente ma persino ai suoi occhi le iridi di Phoenix non passavano mai inosservate, e quando quelle smisero di contemplare pensose le fronde del faggio sopra di lui per scivolare accigliate sulla sua sagoma Diego si rese conto di come mai avrebbe potuto scambiarlo per qualcun altro: probabilmente sarebbe stato in grado di riconoscere quelle penetranti, rare e sorprendentemente azzurre iridi in mezzo a centinaia d’altre. Phoenix, che se ne stava lungo disteso con le braccia incrociate dietro la testa e un paio di cuffie blu notte a fasciargli le orecchie, inarcò un sopracciglio mentre spostava la cuffia destra per potersi rivolgere all’amico, guardandolo aprire lo zaino e recuperare un grosso libro prima di mettersi a sedere accanto a lui all’ombra dell’albero:
“Considerando che ci vestiamo quasi allo stesso modo credevo fosse scontato, Diego.”
“Intendo che è solo grazie a come ti vesti che sono riuscito a riconoscerti. Lo sai che non ci vedo.”
Il basso e cupo brontolio con cui Diego si espresse costrinse Nick a roteare vistosamente gli occhi cerulei, scuotendo leggermente il capo con disapprovazione prima di rimettere la cuffia al proprio posto, in modo che gli fasciasse completamente l’orecchio.
“Gli occhiali li hai, mettiteli e ovvia al problema, no?”
“Mai. Non li sopporto, sembro Milo di Atlantis con quegli affari!”
Diego odiava la genetica, e il suo avergli conferito una pessima vista rientrava tra le motivazioni che sostenevano tale astio; non solo, oltre a non vederci per niente bene Diego detestava ancor di più il proprio aspetto quando si trattava di doversi mettere gli occhiali, e per completare la barzelletta che era la sua vita non riusciva nemmeno a sopportare le lenti a contatto. Tra la tortura inflittagli dalle lenti, l’odiare il proprio aspetto più di quanto già non facesse e il non vederci Diego, alla fine, aveva poco saggiamente scelto la terza opzione: era una fortuna che oramai conoscesse il castello a memoria e che riuscisse ad impedirsi di inciampare su ogni angolo o scalini.
Phoenix, al contrario, smise di concentrarsi sulla canzone che fino a poco prima stava ascoltando per prendersi qualche breve istante per osservare il suo bizzarro amico, guardandolo sfilare gli odiati occhiali da una tasca dello zaino e guardarsi furtivamente attorno prima di inforcarli e usare il libro che teneva in mano per schermarsi il viso, quasi fosse certo che se qualcuno lo avesse visto con quelli addosso lo avrebbe preso in giro fino alla fine dei tempi. Personalmente a Phoenix che Diego portasse gli occhiali o meno e che aspetto avesse con essi non gliene importava un bel niente, ed era certo che valesse anche per ogni altro studente della scuola, ma ormai conosceva abbastanza bene Diego e le sue insicurezze per sapere che a niente sarebbero valsi i suoi tentativi di persuasione. Si costrinse dunque a sospirare, scuotendo lentamente la testa prima di tornare a scrutare assorto le fronde del faggio che lo sovrastavano, mosse dall’aria fresca che accarezzava le sponde del lago:
“Straordinario che tu e Icaro siate parenti.”
“Già. Un vero e proprio scherzo della natura.”
Phoenix scorgeva a fatica il volto dell’amico a causa del volume che si frapponeva tra loro, nient’altro che una porzione di fronte e di lisci capelli castani che ricadevano davanti ad essa, fino ai brillanti occhi azzurri dell’italiano, ma percepì chiaramente l’amarezza di Diego anche solo dalle sue parole: se non gli fosse stato così affezionato forse Diego avrebbe anche potuto detestarlo, suo cugino, il suo bello, brillante e talentuoso cugino. Peccato solo che fossero cresciuti insieme e gli volesse un gran bene, anche se l’ultima volta in cui glielo aveva fatto sapere risaliva più o meno ad un decennio prima. Phoenix si concesse persino di sorridere, quasi divertito dal senso di inferiorità di Diego, e scosse la testa prima di colpirlo alle costole con una gomitata:
“Idiota, tuo cugino non è perfetto… E lo dico proprio perché lo conosco bene. Ha un carattere abbastanza di merda, se dobbiamo proprio essere onesti. Sarà per questo che andiamo d’accordo.”
Diego non rispose ma abbassò il libro per consentirsi di gettare una rapida e dubbiosa occhiata al volto pallido e dai lineamenti delicati di Phoenix, consentendo all’amico di avere una fugace visione dei suoi occhiali dalla montatura rotonda. L’italiano non disse nulla, incerto su cosa dire e come sentirsi, e dopo un breve silenzio decise di ripiegare sulla via più semplice: si raddrizzò gli odiati occhiali e cambiò argomento.
“Cosa ascolti?”
Phoenix avrebbe potuto insistere, ma era egli stesso un vero maestro quando si trattava di tergiversare ed eludere argomenti di conversazione poco graditi, pertanto decise di assecondare la volontà di Diego e rispose tornando a puntare lo sguardo sui piccoli frammenti di cielo, quel giorno dello stesso colore dei suoi occhi, andati a crearsi tra le foglie dei rami:
“I Queen. Tu cosa leggi?”
“Sto rileggendo La compagnia dell’Anello. Volevo una lettura leggera.”
“Leggera quella roba?”
Phoenix inarcò un sopracciglio mentre accennava al libro di Diego con il mento, sicuro che l’amico avesse bisogno di rivedere i suoi metri di giudizio mentre l’altro, al contrario, annuiva con una debole scrollata di spalle.
“Non sei tutto normale, tu. È per questo che mi stai simpatico.”
In realtà il greco gradiva la compagnia di Diego perché il ragazzo parlava poco, perché si faceva gli affari propri, perché avevano gusti affini e perché aveva una spiccata sensibilità che gli consentiva di sapere quando dire qualcosa e quando tacere, qualcosa che pochi riuscivano a scorgere, forse qualcosa che persino Diego stesso non apprezzava particolarmente, ma che agli occhi di Phoenix lo rendeva un amico ottimale.
“E a proposito di normalità… È ora che io vada a farmi psicanalizzare. Che palle...”
Phoenix si mise a sedere sull’erba e si alzò con uno sbuffo, spolverandosi i pantaloni neri mentre Diego, rimasto seduto esattamente dov’era, alzava la testa per guardarlo inarcando un sopracciglio:
“Gli psicologi non psicanalizzano, Nick. Quelli sono gli psichiatri, o psicoterapeuti.”
“Quello che è. Una rottura inutile in ogni caso.”

Diego avrebbe avuto qualcosina da ridire in proposito, ma sapendo quanto l’amico poco tollerasse gli incontri settimanali a cui era stato costretto a prendere parte come condizione alla sua ammissione al sesto anno si costrinse a tacere, guardandosi bene dal contraddire Nick sull’argomento mentre guardava l’amico riporre le cuffie over hear blu nello zaino nero dove lui stesso l’anno prima aveva disegnato il logo dei Rolling Stones su richiesta diretta del proprietario.
“Magari ti sarà… utile. Il senso è quello.”
Diego pronunciò quelle parole con la massima delicatezza possibile, guardando dubbioso l’amico infilarsi una delle cinghie dello zaino in spalla e guardarlo annoiato dall’alto in basso con una mano infilata nella tasca dei pantaloni neri:
“Per ora me ne starò in silenzio. Devo presentarmi, non parlare per forza. Ci vediamo dopo, non ammazzarti tornando dentro senza occhiali, se ti riesce.”
“Sono abituato.”
Phoenix si allontanò da lui e dal faggio senza aggiungere altro, preda di chissà quali pensieri, e a Diego non restò che osservarlo brevemente – a volte, quando si concedeva di indossare gli occhiali, si stupiva di quanto il mondo potesse essere in alta risoluzione – prima di tornare a concentrarsi sulla lettura immergendosi in un mondo che ruotava attorno alla distruzione di un anello, lontano dai problemi della vita vera, suoi e di chi gli stava attorno.
 


 
divisore


 
Essendo riuscita a centrare più o meno dignitosamente tutti i bersagli e a non far volare nemmeno una freccia dritta in mezzo alla chioma di un albero Nerea Pagano poteva dirsi estremamente soddisfatta del primo allenamento di Tiro con l’Arco dell’anno, ragion per cui sedette attorno ad uno dei tavolini circolari azzurri disseminati per l’enorme terrazza che dal terzo piano si affacciava sul retro del castello e della tenuta con un vistoso sorriso ad allargarle le labbra:
“Tutto sommato è andata bene! Dopo settimane senza esercitarmi pensavo di fare molto peggio… L’anno scorso alla prima lezione ho mandato all’aria più di una freccia.”
Milad, che le sedeva di fronte, annuì prima di asserire con tono pacato di ricordarselo perfettamente. Di certo il motivo che aveva spinto i loro compagni a tenersi a distanza di sicurezza dalla studentessa per tutti i primi minuti della lezione era stato proprio quello, ma il ragazzo si guardò bene dal sottolinearlo mentre Etienne, seduto tra i due, giocherellava distrattamente con il bracciale di cuoio che teneva allacciato al polso sinistro:
“Quindi non avete infilzato a mo’ di spiedino nessuno? Buono a sapersi.”  Il motivo che sembrava spingere la stragrande maggioranza dei suoi compagni ad essere tanto dedita allo sport e alle attività extrascolastiche che attorno ad esso ruotavano costituiva per Etienne un mistero: a lui bastava e avanzava far parte del Giornale, e anno dopo anno si domandava dove alcuni dei suoi amici, Nerea e i suoi mille impegni in primis, trovassero la forza di volontà per prendere parte agli allenamenti al di fuori dell’orario delle lezioni.
Nerea aveva quasi sfiorato un suo compagno anni prima ma sull’argomento la ragazza era ancora parecchio suscettibile, tanto che arrossì e puntò lo sguardo sull’amico e compagno di Casa gettandogli la più torva delle sue occhiate:
“Non è colpa mia se si era messo vicino ai bersagli! È come il non passare mai dietro ad un cavallo, sono regole basilari! Tu che ci fai qui, a proposito, a parte prendermi in giro?”
“Quando vi ho sentiti parlare di “merenda” nell’ingresso ho improvvisamente desiderato più che mai di godere della vostra preziosa compagnia. Tra l’altro, quando pensate che ci incontreremo la prima volta? Sarà divertentissimo quest’anno, senza pressioni e quelle sottospecie di prove a cui sottoporsi!”
Nel fare riferimento alla Brigade il sorriso si allargò sul bel volto di Etienne, che si raddrizzò sulla sedia e parve come illuminarsi dall’entusiasmo mentre Antoine si avvicinava al loro tavolo con un vassoio in mano: moriva dalla voglia di godersi l’ultimo anno di scuola divertendosi, tra le altre cose, a non rendere affatto semplici le cose ai nuovi membri, ragion per cui sperava vivamente di rientrare tra coloro che avrebbero dovuto sceglierli. Milad borbottò qualcosa sul primo di ottobre in risposta disegnando figure astratte sulla superficie del tavolo con l’indice destro e senza guardarlo, limitandosi a ringraziare Antoine con un cenno quando l’amico gli mise davanti una tazza di caffè.
“Ho cercato di persuaderli, ma gli Elfi hanno insistito per regalarci questa montagna di biscottini al burro… Di che parlavate?”
Antoine occupò la sedia rimasta libera brandendo il suo consueto sorriso allegro e contagioso, imitando Milad mescolando un po’ di zucchero nel suo caffè nero mentre Etienne si sporgeva verso il piattino coperto di fiori e pieno di biscotti per arraffarne subito un paio: lui di certo mai avrebbe rifiutato la generosità per la quale Elfi Domestici della scuola erano celebri.
“Di cose che dovremmo affrontare in una sede più privata.”
Milad parlò portandosi la tazzina bianca con il bordo dorato alle labbra e gettando un’occhiata di sbieco in direzione di Etienne, che fortunatamente aveva la bocca piena di pasta frolla e non sarebbe riuscito a dire una parola neanche volendo. Mentre il francese attendeva di poter dire la propria masticando i biscotti ad Antoine non rimase che far indugiare il proprio sguardo su Nerea, che stava sorseggiando in silenzio e in tutta calma il suo caffelatte. All’improvviso l’espressione del belga si fece accigliata, e Antoine guardò la compagna con leggera perplessità prima di parlare con tono dubbioso:
“… Rea, ma tu non dovresti essere in palestra?”
Grazie a Gisèle Antoine sapeva per certo che a quell’ora la lezione di Scherma doveva ormai essere appena iniziata, e se non ricordava male Nerea aveva partecipato insieme alla loro amica all’attività fin dal primo anno di scuola. L’idea che l’italiana, famosa per il suo riuscire a destreggiarsi tra centinaia di impegni settimanali, avesse deciso di mollare un’attività extra stranì non poco Antoine, che guardò Nerea sgranare inorridita gli occhi chiari prima di iniziare a tossicchiare il caffè:
“Porco Flamel, mi sono scordata! Devo ancora organizzarmi con gli orari…”
Certa che Lefevre non avrebbe affatto gradito il suo giungere in ritardo alla prima lezione a Nerea non rimase che vuotare ciò che rimaneva nella sua tazza in una sola sorsata, alzandosi in piedi e afferrando un paio di biscottini dal piattino prima di allontanarsi di corsa ringraziando Antoine a gran voce. I tre la guardarono senza dire una parola – Milad perplesso, Etienne rassegnato e con un altro biscotto in mano e Antoine un tantino divertito – finchè la strega non sparì dal loro campo visivo rientrando all’interno dell’edificio, ed Antoine inarcò un sopracciglio prima di tornare a rivolgersi ai due compagni:
“Ma come fa a fare…. Tutto?!”
“Magari ha una Giratempo.”
Etienne si strinse debolmente nelle spalle mentre agitava il frollino con noncuranza, addentandolo e gustandolo sentendosi più che mai lieto di aver abbandonato la pessima cucina dei suoi fratelli maggiori: voleva bene a Soleil e a Basile più che a chiunque altro, ma nessuno dei due poteva definirsi un cuoco provetto. Milad invece scosse la testa dopo aver vuotato la sua tazzina, rimettendola al proprio posto prima di esprimersi con il suo solito tono serio e quasi inespressivo:
“Impossibile, io l’avevo chiesta e me l’hanno negata.”
“L’avevi chiesta per seguire più lezioni?! Milad, sei proprio strano.”
Mentre Etienne scuoteva il capo come se non riuscisse a credere alle proprie orecchie Milad guardò il Bellefuille inarcando un sopracciglio astenendosi educatamente dal dire qualsiasi cosa, in primis sottolineare da quale pulpito provenissero quelle parole.
 
 
“Non posso credere che pur essendo solo la prima settimana siamo già sommerse dai compiti. Secondo me dovrebbero renderlo illegale.”
Lucinda si scostò una ciocca di corti capelli corvini che le erano scivolati davanti al viso ancora abbronzato, l’unico ricordo che rimastale dell’estate ormai conclusasi, con un gesto brusco ed infastidito mentre rileggeva la brutta copia del tema di storia che aveva scarabocchiato a matita su un grosso quaderno a spirale dalla copertina color lavanda. Lei, Daphnè e Maëlle avevano occupato lo stesso tavolo e sedevano godendosi il bel tempo e le loro tazze di caffè fumanti, o almeno finchè Maelle non adocchiò suo fratello seduto a qualche metro di distanza con alcuni dei suoi compagni di corso:
“Illegale è continuare a incontrare mio fratello ad ogni angolo, possibile che sia ovunque?!”
La bionda si esibì in un lieve sbuffo infastidito mentre scoccava un’occhiata torva in direzione del fratello maggiore, seccata dalla sua presenza anche se il ragazzo stava chiacchierando con i suoi amici e non sembrava minimamente fare caso a lei. Udite le parole dell’amica Daphnè rimise sul piattino la tazza che conteneva il suo cappuccino aromatizzato alla rosa e al cardamomo – ci aveva messo dieci minuti per decidere cosa ordinare, ma alla fine poteva dirsi soddisfatta della sua scelta – per gettare a sua volta un’occhiata in direzione del ragazzo, finendo con l’inarcare un sopracciglio e rivolgersi con scetticismo all’amica mentre Maelle scriveva un messaggio ad Etienne per chiedergli poco gentilmente di smetterla di finirle tra i piedi ovunque andasse.
“Maëlle, conosco abbastanza bene Etienne da poter dire con certezza che di sicuro non ti sta pedinando.”
“Non si sa mai. Tu che caspita hai ordinato, invece? Il tuo cappuccino è rosa?!”
Maëlle sbattè le palpebre mentre focalizzava perplessa la sua attenzione sulla bevanda ordinata dall’amica, certa che solo e soltanto Daphnè Blanchard avrebbe potuto ordinare un cappuccino dalle delicate sfumature rosate, con tanto di piccoli petali depositati con grazia sulla crema di latte.
“È buonissimo invece!”
Daphnè, che come Lucinda stava lavorando al suo tema armata di evidenziatore e post-it gialli pastello – chiaramente il tutto era stato abbinato alla copertina del quaderno corrispondente – smise di sottolineare una frase del libro che teneva aperto accanto al suo caffè per gettare un’occhiata offesa in direzione di Maelle, che roteò gli occhi castani mentre Lucinda, preoccupata che l’amica potesse cambiare idea, smetteva improvvisamente di leggere il proprio scritto per guardare la bionda sgranando inorridita gli occhi verdi:
“Non sognarti di farle venire strane idee, ci ha messo così tanto a decidere che il povero Elfo stava per chiedere il pensionamento!”
Daphnè, seppur avvezza alle prese in giro che le amiche erano solite rivolgerle in merito alla sua celebre indecisione cronica, dischiuse offesa le labbra per contestare in propria difesa, ma finì col rendersi conto di non poter dar loro torto e tacere, tornando a concentrarsi sui compiti con un cupo borbottio mentre Lucinda e Maëlle si scambiavano un’occhiata divertita.
 

 

divisore
 
 
 
Palestra

 

Nerea giunse in palestra in copioso ritardo rispetto ai suoi compagni, incespicando sui propri piedi mentre cercava di allacciarsi la scarpa da ginnastica sinistra e camminare al tempo stesso. L’enorme sala era gremita di studenti, tutti con la consueta divisa bianca addosso e fioretti e maschere alla mano, e numerose coppie si stavano già sfidando sui lunghi tappeti neri e rettangolari che erano stati sparsi lungo tutta la superficie della palestra mentre Nerea, impegnata a legarsi i lunghi capelli scuri in una coda di cavallo, si guardava freneticamente attorno alla ricerca della sua migliore amica. Quando finalmente scorse Gisèle in piedi accanto alla parete adiacente alla porta d’ingresso Nerea si sentì pervadere dal sollievo e si affrettò a raggiungerla sperando che il suo ritardo fosse passato inosservato agli occhi del loro insegnante, impegnato a riprendere due studenti del secondo anno per le loro posizioni scorrette. Nerea colmò la distanza che la separava dalla francese camminando a passo svelto e sfiorando la parete verniciata di bianco con la spalla destra, facendo del suo meglio per non farsi notare mentre Gisèle, guardandosi attorno forse con la fronte aggrottata forse per cercare proprio lei, finiva col vederla e inarcare un sopracciglio:
“Dov’eri finita? Cominciavo a pensare che ti fossi persa.”
Non era un quadro poi così irrealistico dal momento che Nerea nel corso dei loro sei anni a Beauxbatons si era persa più di una volta, ma l’italiana si fermò accanto all’amica scuotendo la testa con un sospiro, guardandosi attorno sperando che fosse rimasta una maschera libera per lei mentre le voci dei loro compagni e lo sferzare delle lame echeggiava tra le pareti della palestra:
“Mi ero scordata dell’incontro, stavo bevendo il caffè con Milad, Antoine ed Etienne… Ah, ti ho portato un biscotto.”
Rammentatasi di ciò che aveva portato con sé Nerea si infilò una mano in tasca estraendone i due dolcetti al burro che aveva avvolto in un tovagliolino, scorgendo i brillanti occhi azzurri di Gisèle illuminarsi quando la francese ci posò lo sguardo:
“Grazie!”
Gisèle accolse con gioia il regalo e addentò il biscotto prima di coprirsi educatamente le labbra con la mano destra per non farsi notare, il fioretto stretto tra il braccio e il fianco, e Nerea la imitò prima di far vagare il proprio sguardo sulle persone che le circondavano finendo col sfiorare con gli occhi le sagome di Abel e di Guillaume, impegnati a chiacchierare davanti alla parete di fronte.
“Ci alleniamo insieme?”
Gisèle annuì, anche se Nerea ebbe modo di appurare, non senza una lieve dose di ansia, come l’amica stesse studiando torva proprio suo cugino. L’italiana conosceva troppo bene la sua migliore amica per non immaginare quali pensieri le stessero passando per la mente, e si affrettò a scuotere la testa e a colpirla con una lieve gomitata per farla tornare alla realtà:
“Non puoi duellare con Guillaume, Lefevre l’anno scorso ha dichiarato che non incrocerete mai più i fioretti finchè lui insegnerà in questa scuola.”
“Quante storie, non ci siamo mica uccisi!”
Gisèle, infastidita, sbuffò e liquidò il discorso con un gesto della mano mentre si rigirava la fredda impugnatura di metallo del suo fioretto tra le dita, risentita per aver perso la possibilità di affettare l’amato cugino come un prosciutto a Natale mentre Nerea la guardava scuotendo la testa, gli occhi chiari spalancati:
“Lo hai inseguito per mezza palestra, preso per un piede e poi vi siete accapigliati sul tappetino cercando di strapparvi i capelli… nessuno ha capito cosa vi steste dicendo, ma non sembravano paroline amorevoli.”
“È per questo che litighiamo in provenzale in pubblico, così la gente non ci capisce. Mia madre dice che è disdicevole spiattellare i propri comodi ai quattro venti.”
Quando la francese si esibì in una stretta di spalle Nerea guardò l’amica sbattendo le palpebre, certa di aver frainteso quel ragionamento del tutto privo di senso, ma prima di aver modo di approfondire la questione la voce del loro insegnante squarciò il silenzio echeggiando tra le pareti e distogliendole dalle loro chiacchiere:
“VI e VII anno, tocca a voi.”
Mentre gli studenti del IV e V anno di allontanavano dai tappetini rettangolari disperdendosi all’interno della palestra Nerea, ancora senza maschera e fioretto, ne approfittò per farsi consegnare il necessario per duellare dal primo compagno di scuola che riuscì ad intercettare, pur finendo col perdere momentaneamente di vista Gisèle: la francese udite le parole di Lefevre ne approfittò per incamminarsi a passo di marcia verso Guillaume puntellandosi la lama del fioretto contro la gamba. Il cugino la imitò dirigendosi verso di lei lasciando Abel ad alzare gli occhi al cielo alle sue spalle mentre delle ragazzine più piccole gli passavano accanto guardando sognante lui, i suoi occhi di ghiaccio e la sua folta chioma bionda, e proprio mentre Nerea si guardava attorno per cercare l’amica, appurando con orrore di averla persa di vista, Icaro le apparve accanto con la maschera sottobraccio e un sorriso allegro stampato sulle labbra, parlandole in italiano:
“Ti prego, dimmi che duellano. Però non ho portato i popcorn…”
A differenza di Nerea Icaro trovava l’assistere alle liti pubbliche di Gisèle e Guillaume Delacroix uno straordinario passatempo, piccole pause di ilarità che si frapponevano, deliziandolo, nella sua vita quotidiana a Beauxbatons. Nerea al contrario guardò i due avvicinarsi l’un l’altro scuotendo la testa e guardandoli preoccupata, sperando che qualcuno giungesse a dividerli:
“Spero di no, o addio palestra. Ieri mentre Milad veniva interrogato abbiamo giocato all’Impiccato, e Gisèle ha rappresentato la sua vittima in maniera straordinariamente simile a Guillaume...”
Sfortunatamente per i Delacroix e per la gioia di Icaro, ma con gran sollievo di Nerea, Lefevre raggiunse i due cugini prima che potessero anche solo provare ad infilarsi l’un l’altro, guardandoli torvo per un istante prima di scuotere la testa e ordinargli di porre almeno cinque metri di distanza tra loro:
“Assolutamente no. Orsini, tu contro Delacroix. Delacroix, con Pagano.”
Nerea in primo momento sperò che l’insegnante avesse fatto riferimento a lei come compagna di Gisèle e non provò un grande entusiasmo all’idea di dover duellare contro Guillaume quando vide Lefevre voltarsi verso di lei accennando in direzione del ragazzo mentre i due cugini si guardavano in cagnesco, costretti a rimandare la loro diatriba ad un secondo momento. Anche Icaro parve deluso mentre si allontanava insieme ad una Gisèle visibilmente contrariata verso un altro tappetino, lasciando Nerea ad infilarsi la maschera gettando a Guillaume un’occhiata preoccupata: poteva solo sperare che il ragazzo, obbiettivamente più abile di lei con il fioretto, non decidesse di riversare l’astio che provava nei confronti della cugina su colei che era notoriamente la sua migliore amica.
“Ricordati che ti servo per il giornale, se dovessero venirti strane idee…”
 
Gisèle invece si posizionò all’estremità di un tappetino poco distante – aveva tentato di occupare quello vicino al cugino, ma Lefevre le aveva ordinato di allontanarsi per evitare che le venissero strane idee – sbuffando amareggiata, sfilandosi le scarpe bianche con gesti bruschi mentre Icaro, davanti a lei, si sistemava i guanti in attesa che la compagna fosse pronta.
“Un tempo si poteva duellare con chi si voleva, assurdo… Prima o poi lo riduco ad un roast-beef.”
Toltasi le scarpe ignorando gli sguardi sconcertati che la sua abitudine le fece guadagnare da chi la circondava Gisèle avanzò sul tappetino agitando leggermente la sua lama e gettando un’occhiata torva in direzione del cugino, facendola scontrare brevemente contro quella di Icaro mentre lui, al contrario, si stringeva nelle spalle:
“Puoi sempre sfidarlo in un incontro all’ultimo sangue all’alba. Io verrei ad assistere. Cose del genere non erano così estranee nelle famiglie, tempo fa.”
“Immagino che tutti abbiano un cugino con un carattere di merda in famiglia, dopotutto.”
Delusa, Gisèle abbassò le spalle mentre si voltava per tornare al proprio posto all’estremità del tappetino, imitata da Icaro, che esitò prima di infilarsi la maschera mentre si prendeva qualche istante per riflettere sulle parole della compagna di Casa: gli bastò un rapido vaglio dei membri più stretti del suo immenso albero genealogico per appurare di non avere un cugino che corrispondesse a quella descrizione, cosa che lo lasciò un tantino interdetto.
“Io non credo di avere un cugino del genere.”
Gisèle si infilò la maschera tenendola sollevata davanti alla fronte, esibendosi in un sorriso mentre si sistemava la coda bassa con cui aveva legato i capelli ricci usando un sottile nastro colo carta da zucchero:
“Sicuro? Magari non ce l’hai perché sei tu.”
“Non è vero!”
Icaro spalancò offeso i grandi occhi scuri prima di abbassarsi la maschera protettiva bianca davanti al viso, assolutamente sicuro di non essere affatto quel famigerato tipo di cugino. Doveva per forza esserci qualcuno di cui si stava dimenticando, e si appuntò di trovare Diego per interrogarlo sulla questione il prima possibile.


 
divisore


 
La sera costituiva il momento della giornata preferito da Phoenix, quando poteva acquattarsi in un angolo della Salle Comune con un libro, ignorando compiti e compagni per dedicarsi solo ed esclusivamente alla lettura, una delle poche cose a davvero stargli a cuore da un paio d’anni a quella parte. Un momento della giornata in cui tutti erano troppo presi dallo studio, dalle chiacchiere e dai propri amici per fare caso a lui, soprattutto nel weekend, concedendogli di rilassarsi in una piacevole bolla di sapone che tuttavia andò brutalmente ad infrangersi quando qualcuno lo braccò mettendosi improvvisamente a sedere sul bracciolo della sua poltrona e strappandogli di mano la copia di Franny e Zooey(1) che stava leggendo:
“Ci sei andato?”
Sembrava che nessuno all’interno della Salle Comune intendesse far caso a lui, nessuno tranne Icaro Orsini, che tenne sollevato il libro per sottrarlo alla presa del legittimo proprietario scrutandolo torvo dall’alto in basso, pronto a scorgere qualsiasi traccia di falsità sul bel viso dell’amico. Phoenix sospirò e si accasciò contro lo schienale della poltrona color carta da zucchero con aria esausta, scuotendo la testa mentre guardava l’amico con malcelata esasperazione: possibile che avere un po’ di quiete e solitudine fosse così difficile?
“Orsini, è sabato. Trovati una ragazza e fammi vivere, cazzo.”
“Ci sei andato?”
“Dove?”
Phoenix sbattè le palpebre sbandierando un’espressione da amabile angioletto innocente che fece venire voglia all’amico di prenderlo a schiaffi usando direttamente una delle opere di J. D. Salinger, portando Icaro a sbuffare sventolando leggermente il sottile volume dalla copertina interamente bianca con impazienza: una ragazza da cui andare ce l’aveva eccome, ma prima doveva concludere la sua opera giornaliera di babysitting nei riguardi del suo migliore amico.
“Dove, secondo te? Dalla psicologa, idiota.”
“Sì.”
Phoenix si riprese il libro con un brusco strattone mentre Icaro si ritrovava a sospirare interiormente di sollievo, grato alle briciole di buonsenso che evidentemente erano rimaste nel suo amico mentre si metteva più comodo sul bracciolo brandendo un sorriso allegro:
“E come è andata?”
“Le ho confidato la fonte dei miei problemi: il mio amore non corrisposto per un coglioncello con la chioma fluente.”
Il sorriso svanì dal volto pallido di Icaro rapido tanto quanto vi aveva fatto capolino, e l’italiano tornò improvvisamente serio prima di assestare una dolorosa gomitata sul fianco dell’amico, deciso a farsi dare ascolto dall’essere più testardo ed indisponente con cui avesse mai avuto a che fare in tutta la sua vita: perché tra tutti gli studenti con cui viveva si fosse scelto proprio lui come amico, sei anni prima, restava per Icaro un mistero.
“Senti, sono serio: se non ci vai ti sbattono fuori, cosa che il sottoscritto non desidera, quindi se necessario ti spedirò io ad ogni incontro a suon di calci prima di andare agli allenamenti di Scherma. Ti sei fatto bocciare e ti ho già abbastanza insultato per questo, non ti farai rimandare a casa.”
“Non voglio andare a casa, fidati.”
Anche se Phoenix parlò senza guardarlo e con un cupo borbottio appena percettibile, gli occhi blu puntati con ostinazione sulle pagine del libro aperto, Icaro lo conosceva abbastanza bene da credere alle sue parole: dopo aver scoccato un’ultima occhiata dubbiosa alla nuca dell’amico l’italiano parve considerarsi soddisfatto e sorrise, annuendo mentre scivolava dal bracciolo della poltrona per congedarsi.
“Bene. Domani primo allenamento di Quidditch, presentati in orario o te ne farò pentire.”
“Ma che cazzo, è la prima settimana!”
Phoenix distolse finalmente lo sguardo dal libro e si voltò per protestare recriminando il weekend di pace che sembrava destinato a non riuscire a godersi appieno, ma Icaro se n’era già andato, sparendo dal suo campo visivo. Al greco non restò che imprecare nella sua lingua madre e tornare a leggere, cercando un po’ di riparo nell’unico mezzo di evasione dalla propria vita che sembrava essergli rimasto.


 
 
 
 
(1): Romanzo di J.D. Salinger del 1961
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo IV ***


 
Capitolo IV
 

 
Sabato 1° ottobre

 
 
Erano appena scoccate le 5.45 quando come ogni mattina Gisèle aprì gli occhi, ormai talmente abituata a quell’orario da finire spesso col precedere la sveglia destandosi dal sonno con un paio di minuti di anticipo. Come ogni mattina la ragazza mise a tacere la sinfonia di Čajkovskij che ormai da anni dava inizio alle sue giornate dopo appena una manciata di secondi e si mise a sedere di scatto sul materasso per far scivolare lo sguardo su Vaclav, il suo gatto, che sempre come ogni mattina ancora ronfava standosene comodamente spaparanzato ai piedi del suo letto, costringendola a dormire in posizioni non sempre comodissime. Ogni mattina Gisèle scrutava il suo amato gatto invidiandolo non poco e dicendosi di averlo viziato un po’ troppo, ma quel giorno l’attenzione della giovane strega venne catalizzata da qualcos’altro: una sottile busta bianca con i bordi dorati giaceva sul copriletto trapuntato bianco e azzurro, una busta che la fece precipitare in una spirale di puro orrore non appena ebbe compreso di che cosa si trattasse e che giorno fosse: la strega afferrò il foglio, si scostò il copriletto di dosso e corse in bagno dimenticando di prendere con sé i vestiti per l’allenamento, affrettandosi a spezzare il sigillo di ceralacca dorata che riportava lo stemma della scuola. Come previsto quello che aveva di fronte si rivelò non essere altro che l’invito alla prima riunione dell’anno della Brigade, ovvero il suo primissimo incontro come membro del VII anno, evento che Gisèle non aveva atteso poi con tanta trepidazione.
“Senti, e se io non volessi o potessi venire?!”, domandò speranzosa la ragazza, che avrebbe preferito occupare il suo tempo in altro, come ripetere e ripetere uno degli atti dell’Esmeralda(1), invece che occupare buona parte della serata seduta allo stesso tavolo di suo cugino.
La riposta dell’invito non si fece attendere e tutto il testo presente fino a quel momento svanì nel nulla, lasciando spazio a due parole che apparvero nel bel mezzo del foglio piegato in tre parti e che spazzarono via le speranze della giovane strega:
 

 
Non puoi
 
 
Gisèle guardò interdetta il foglio che aveva davanti per una manciata di istanti, prima di stabilire di non poter accettare quella risposta e di tornare ad interrogare l’invito. Era una fortuna che tutte le sue compagne stessero ancora dormendo, appurò sconsolata la giovane strega, certa che se l’avessero vista litigare con un foglio di carta l’avrebbero presa e spedita dritta a casa per una perizia:
“Che vuol dire “non posso”? E se mi fossi rotta una gamba? E se avessi la febbre?!”

 
Devi venire

 
“Io non devo fare proprio niente! Chi lo dice?!”

 
Io
 
 
“Ah sì? Beh, se sei mio cugino te ne puoi andare a fanculo!”
La grafia che le stava rispondendo le era vagamente familiare, e anche se non era certa che appartenesse a Guillaume si prese comunque la briga di mandarla a quel paese, giusto per non sbagliare. Di nuovo al suono della sua voce, sempre più infastidita, quella singola sillaba svanì per lasciare spazio ad un ultimo messaggio che la rese pericolosamente vicina ad un tic nervoso all’occhio:
 

 
Sei molto sgarbata, Libellule
 
 
“Ho un nome, usalo!”, sbottò inviperita la strega prima di appallottolare il foglio e gettarlo piena di stizza sul pavimento, guardandolo prendere fuoco per autodistruggersi appena un paio di secondi dopo. Gisèle guardò il pezzo di carta accartocciarsi progressivamente su se stesso fino a ridursi ad un piccolo cumulo di cenere che svanì nel nulla prima di sospirare, conscia di non avere scampo, e uscire dal bagno per recuperare i suoi vestiti: quel colpa di quell’invito aveva già perso cinque minuti buoni, in pratica era già in ritardo per tutto ciò che l’attendeva nel corso della giornata, cosa che se possibile la infastidì ancor di più dell’invito stesso.
 
 
Non avrebbe potuto essere più diversa la reazione che lo stesso messaggio destò in Nerea Pagano un’ora e mezza dopo, quando la Bellefuille venne piacevolmente svegliata dalla luce naturale che filtrava attraverso la finestra accanto al suo letto. Nerea aprì gli occhi e si concesse qualche breve istante di pace avvolta dal copriletto verde e bianco con motivo a foglie e dal mare di cuscini soffici che la circondavano prima di mettersi a sedere sul comodissimo materasso sollevando le lunghe braccia per stiracchiarsi, impiegando qualche secondo prima di scorgere il biglietto che sembrava essere apparso dal nulla sul suo comodino. Alla strega non ci volle molto per fare mente locale su che giorno fosse e per intuire di che cosa si trattasse, intuizione che la spinse, approfittando del fatto che tutte le sue compagne di stanza stessero ancora dormendo, a spezzare il sigillo di ceralacca color champagne e a dispiegare il foglio con un sorriso a distenderle le labbra, piena di entusiasmo. La prima cosa che fece dopo aver letto il breve messaggio che la invitava a partecipare alla prima riunione dell’anno della Brigade fu recuperare il telefono dal comodino per scrivere a Gisèle, che vista l’ora intuì trovarsi ancora in palestra ad allenarsi, e incrociò le lunghe gambe sotto al copriletto mentre sbloccava lo schermo inserendo la data del compleanno di Ciuchino, il suo amatissimo asinello, la cui foto costituiva anche lo sfondo del telefono della ragazza.
 
Tu: Ciao tesorina! Hai trovato l’invito?
 
 
Non aspettandosi una risposta immediata Nerea fece per uscire dalla chat per rispondere a sua madre, che le aveva scritto per chiederle come stessero lei e suo fratello Cornelio, ma un messaggio di risposta da parte di Gisèle giunse inaspettatamente appena un paio di istanti dopo:

 
Gigi🤍🍫: Sì, ma farò come gli opossum, mi fingerò morta
Tu: Dai, devi venire per forza, chi tiene testa a Guillaume se non ci sei tu?!

 
Tutto sommato Nerea aveva ragione, si disse Gisèle studiando cupa lo schermo del telefono mentre se ne stava in piedi dando le spalle alla sbarra che faceva apparire ogni mattina per i suoi esercizi. Dopo aver assicurato all’amica che si sarebbe presentata alla serata, messaggio a cui Nerea rispose con una sequenza di cuori di tutti i colori e faccine gioiose, Gisèle sospirò e si chinò per appoggiare il telefono sul pavimento, tornando a rivolgersi alla sbarra e alla parete specchiata per finire lo stretching post allenamento, consolandosi con la prospettiva di poter finalmente fare colazione di lì a breve. La strega sollevò la gamba destra fino ad appoggiare il piede sulla sbarra, scrutando torva lo specchio che aveva davanti mentre la spiacevole prospettiva di trascorrere la serata con suo cugino assumeva connotati sempre più concreti. Mentre effettuava una torsione per arrivare quasi a toccarsi le dita del piede con quelle della mano sinistra Gisèle immaginò di usare tutta la sua flessibilità per prendere Guillaume a calci. Sarebbe stato così terribilmente semplice fargli sparire quel sorrisetto compiaciuto con un semplicissimo calcio rotante… peccato che si sarebbe trovata espulsa da Beauxbatons prima di avere il tempo di dire “Arabesque”.
 

 
divisore

 
Come ogni sabato mattina Dante si stava dirigendo verso la Sala da Pranzo di buon’umore, felice di aver potuto abbandonare la divisa celeste che, a detta sua, lo faceva sembrare “l’assistente rincoglionito della Fata Turchina” per tornare ai vestiti neri a cui tanto era affezionato. Insieme a lui stava scendendo la lunghissima ed imponente scalinata di marmo, meraviglia architettonica che Dante aveva già avuto modo di osservare da tutte le angolazioni possibili, suo fratello minore Zhān, che poco prima si era fatto trovare davanti alla porta lilla della Salle Comune dei Papillonlisse per scendere a fare colazione insieme a lui. al contrario del quasi perennemente immusonito Dante Zhān manifestava il proprio buon’umore anche con la mimica facciale, e stava fornendo al fratello maggiore un breve resoconto della settimana di lezioni conclusasi il giorno precedente snocciolando tutto ciò che aveva imparato e tutto quello che Cornelio, il fratello minore di Nerea, gli aveva mostrato del castello parlando fitto fitto in cinese:
“Li hai visti i cavalli?! Sono bellissimi! Conny ha detto che questo weekend possiamo andare nelle scuderie e fare una passeggiata con loro.”
“Beh, sono cavalli, sono uguali a quelli che ci sono ovunque. E comunque attento a non cadere, poi la mamma se la prende con me se ti fai male.”
“Non sono mica un bambino!”, sbottò il ragazzino storcendo il naso mentre Dante alzava vistosamente gli occhi scuri al cielo, astenendosi dal fare commenti a riguardo – per lui il fratello restava sempre “un nanetto”, anche se compiuti i 13 anni stava iniziando a farsi fastidiosamente alto – prima che Zhān riprendesse la parola scuotendo la testa con disapprovazione:
“Rea ha ragione, sei lo Scrooge di Beauxbatons. Ammettilo che è bello qui! A me piace.”
“Nerea parla troppo… Ma sono felice che ti trovi bene.” Giunti ai piedi della scalinata Dante si rivolse al fratello chinando lo sguardo su di lui e concedendogli uno dei suoi rari sorrisi, sinceramente sollevato di vederlo già ben ambientato e molto più a proprio agio tra le mura di quella nuova scuola rispetto agli ultimi mesi vissuti a Mahoutokoro. Forse una minuscola parte di lui quasi invidiava il fratellino per aver metabolizzato il divorzio dei genitori e il trasferimento in Italia e poi a Beauxbatons molto meglio di quanto non avesse fatto lui, ma per lo meno era felice di sapere che almeno uno dei due avesse raccolto solo i lati positivi di tutti i recenti cambiamenti. Mentre si dirigevano insieme verso le porte aperte della Sala da Pranzo già discretamente affollata e dalla quale proveniva un rumoroso chiacchiericcio Zhān rispose al sorriso del fratello maggiore emulandolo e annuendo, gli occhi scuri arricchiti da una luce quasi speranzosa, come volesse cercare di convincere lui stesso Dante a vedere il lato positivo della loro nuova vita:
“È bello stare dove nessuno conosce la tua famiglia, no? Cioè, a parte Conny e Rea, ma per loro non conta.”
“Sì, è vero. Niente più gente idiota che ci addita, almeno… Comunque, se volessi dirlo a qualcuno puoi anche farlo, qui la faccenda del divorzio e tutto il resto la vedono diversamente.”
Zhān annuì, ma ammise anche che ancora non sapeva se lo avrebbe fatto o meno. Dante non rispose, ma mentre varcavano insieme la soglia della Sala da Pranzo dovette ammettere a se stesso di sentirsi allo stesso modo.
 

divisore

 
Malgrado le aspettative, se si fosse chiesto a qualsiasi studente di Beauxbatons che cosa temesse di più in assoluto la risposta non sarebbe stata inerente ai voti, ai compiti o alle interrogazioni: la verità era invece racchiusa in una piccola, sottile e apparentemente del tutto innocua busta rossa che poteva precipitare senza alcun preavviso – e dunque senza conseguente possibilità di salvezza – su un tavolo come un altro nel momento della colazione, sconvolgendo il pasto e l’intera giornata della vittima designata.
Un evento che fortunatamente si verificava di rado ma che nel pieno della colazione della prima giornata di ottobre, data per altro significativa per buona parte dei commensali radunati attorno al tavolo colpito dalla tragedia, si avventò su un ignaro gruppo di studenti del VII anno: la busta rossa incriminata venne fatta cadere da un gufo di passaggio in cima alla pila di croissant rimasti ancora intatti sul vassoio d’argento sistemato nel bel mezzo del tavolo, facendo immediatamente cessare ogni chiacchiericcio e gettando in un silenzio pregno di terrore il gruppetto mentre ogni sguardo scivolava, inesorabile, sulla sottile e minacciosa lingua di carta scarlatta. Passato lo shock iniziale ogni commensale si domandò terrorizzato quanto alta fosse la probabilità che la lettera fosse indirizzata a lui o a lei, e il breve silenzio che si era andato a creare venne spazzato via da una serie di voci che si levarono all’unisono: Icaro, che fino a due secondi prima stava masticando una fetta biscottata coperta da due dita di Nutella con la massima nonchalance, si lasciò sfuggire una sonora imprecazione in italiano che solo Nerea Pagano comprese ma alla quale la strega non diede troppo peso, troppo occupata a cercare la saliva necessaria per deglutire mentre faceva rapidamente mente locale sui recenti avvenimenti, sulle prime settimane di lezioni e su ciò che poteva averle conferito il massimo grado di punizione che un genitore poteva infliggere ad un mago o ad una strega adolescente.
Milad, il croissant alle mandorle ancora a metà strada tra il piatto e le sue labbra, scrutò accigliato la Strillettera dubitando fortemente che potesse essere riservata a lui: i suoi genitori erano Babbani, come potevano avergliela mandata? Lui, per lo meno, poteva considerarsi salvo, pertanto scosse la testa e parlò con tono assertivo nel tentativo di convincere se stesso e i suoi compagni:
“… Non è per me.”
“Per me neanche! Non ho fatto niente!”
Antoine, seduto tra lui e Gisèle, scosse la testa guardando la lettera rossa con i grandi occhi celesti pieni di terrore mentre Nerea, seduta alla destra dell’amica, si faceva aria muovendo freneticamente la mano destra a mo’ di ventaglio:
“Nemmeno io! A meno che non sia diventata sonnambula e non abbia scritto lettere piene di insulti a mia madre… Ma non penso proprio. O forse sì?!” Nerea, dimentica della colazione rimasta a metà sul tavolo, si mise le mani nei lunghi capelli scuri terrorizzata mentre i peggiori scenari prendevano rapidamente vita nella sua mente. Al contrario Phoenix, passato lo shock, riprese a mangiare il suo secondo croissant fregandosene altamente, reazione che destò dello sconcerto nel suo migliore amico: Icaro lo guardò aggrottando le sopracciglia, chiedendosi come potesse il ragazzo, forse il destinatario più plausibile della lettera seduto a quel tavolo, manifestare tanta incuranza.
“Non pensi che possa essere per te?”
“Io dovrei riceverne una alla settimana se è per questo, e non è mai arrivata. E se anche fosse, me ne fregherei altamente.”
Phoenix manifestò la scarsa considerazione nei confronti delle lettera spostandola e gettandola a lato del vassoio per prendere un altro croissant, lasciando che Etienne la prendesse e la sollevasse in silenzio, pieno di terribili presentimenti, mentre Gisèle guardava la busta con gli occhi azzurri fuori dalle orbite, un croissant alla Nutella mangiato a metà in mano e preoccupata che la Strillettera potesse rivelarsi indirizzata a lei:
Come ha fatto mia madre a sapere che sto mangiando roba calorica?!”
E soprattutto come aveva fatto a scoprirlo così in fretta, quando ancora non aveva nemmeno finito di fare colazione? Se così erano andate le cose sua madre doveva per forza vere delle spie interne, convinzione che spinse la ragazza a guardarsi attorno cercandone l’identità più probabile: come spinti da una forza calamitica gli occhi di Gisèle andarono a posarsi sulla faccia da schiaffi di suo cugino, che stava chiacchierando amabilmente con Abel a due tavoli di distanza. Quel leccaculo di suo cugino, cocco di zia per eccellenza, era sicuramente la spia più plausibile – Gisèle non aveva certo scordato di quando, dieci anni prima, Guillaume era andato a dire a sua madre che era stata lei a colpire e a mandare all’aria le sue begonie giocando a pallone –, e la strega stava per alzarsi e andare a fargli un discorsetto – o per meglio dire picchiarlo con una baguette imburrata in assenza di meglio a disposizione – quando Etienne, trovato il coraggio di rivoltare la busta per leggere il nome del destinatario, spazzò via ogni dubbio e ogni folle teoria nata negli ultimi due minuti con un sonoro sospiro pregno di rassegnazione:
“È per me.”
Bastarono quelle tre parole per far zittire tutti gli altri commensali, che puntarono i rispettivi sguardi sul compagno in perfetta sincronia mentre Etienne, ormai abituato a situazioni di quel genere, si affrettava ad alzarsi in piedi facendo grattare i piedi della sedia contro il lustro pavimento di marmo.
“Effettivamente Etienne detiene il record di Strillettere del nostro anno…”, mormorò Nerea fissando pensosa la busta stretta dalle mani dell’amico ripercorrendo mentalmente tutte quelle che il compagno di Casa aveva avuto il dispiacere di ricevere nel corso degli anni. Gli altri invece ripresero a mangiare, ritrovando l’appetito, Gisèle in primis – non poteva consentire a niente e a nessuno di guastarle la sua unica colazione decente della settimana – mentre Etienne, dopo aver gettato un’occhiata sconsolata alla busta, si allontanava facendo lo slalom in fretta e furia tra gli altri tavoli, la voce di Icaro a fargli eco:
“Corri Etienne, sbrigati!”
Fortunatamente il francese aveva anni di esperienza alle spalle che gli consentirono di sgusciare rapidissimo tra un tavolo e l’altro, ignorando gli sguardi attoniti che raccolse attorno a sé mentre i compagni rimasti seduti si domandavano bisbigliando che cosa potesse aver combinato per ricevere una simile punizione. Una volta uscito dalla sala da pranzo Etienne ebbe persino l’accortezza, sempre dovuta alla sua vasta esperienza, di chiudersi l’anta della porta rimasta aperta alle spalle, ma anche così facendo una voce maschile e magicamente amplificata ben oltre la norma irruppe nella sala interrompendo la colazione appena un paio di istanti dopo.
 

“Maëlle, tuo fratello sta correndo fuori neanche lo stesse inseguendo una Manticora.”
Lucinda e le sue amiche stavano consumando la colazione avvolte da un atipico silenzio: la sera prima erano rimaste sveglie fino a tardi a chiacchierare e a scrollare sequele infinite di storie e reel su Wizagram, riducendole a sentirsi ancora talmente assonnate da mangiare in silenzio una volta sedute a tavola. La sonnolenza che ancora si sentiva addosso non impedì però a Lucinda di scorgere la familiare silhouette del fratello di una delle sue amiche schizzare fuori dalla sala da pranzo come se da quella corsa fosse dipesa la sua vita intera, e la franco-portoghese si ritrovò a scrutare Etienne aggrottando perplessa le sopracciglia corvine, una fetta di pane coperta da burro e marmellata ancora in mano. Le parole della strega ridestarono dal silenzio e dalle loro riflessioni anche le sue amiche, e Daphnè, che dava le spalle all’ingresso, ruotò il busto per osservare la scena con i suoi occhi dopo aver posato sul piattino il suo croissant alle fragole:
“Poverino, starà male?”
La preoccupazione che intrise la voce della francese non contagiò la sorella minore del diretto interessato, che si limitò a sollevarsi leggermente sulla sedia per guardare meglio dopo aver posato la tazza di caffelatte: quando si trattava del fratello e di corse disperate nel pieno della colazione la soluzione più plausibile era sempre la stessa, sgradita a lei quanto per Etienne:
“Macché, piuttosto scommetto che ha ricevuto una Strillettera da Basile, quell’idiota…”
“Ancora?!”, esclamò Daphnè con più sorpresa di quanto non avrebbe voluto mentre tornava a sedere diritta per rivolgersi alle amiche, gli occhi chiari spalancati mentre una smorfia abbassava gli angoli delle labbra carnose di Maëlle. Lucinda invece si rivolse alla bionda senza riuscire a trattenere un sorriso divertito, interessandosi con sincera curiosità prima di addentare la sua fetta di pane:
“Ha combinato qualcosa?”
“Non ne ho idea. E per fortuna, per una volta che non c’entro nulla voglio starne fuori! In ogni caso, penso che lo sapremo presto.”
A Maëlle non rimase che scuotere la testa con un sospiro di rassegnazione, in attesa di udire la voce di Basile – del resto erano sempre da parte sua le Strillettere che Etienne continuava a ricevere ogni anno – mentre Lucinda, masticando coprendosi educatamente le labbra con una mano, faceva del suo meglio per non scoppiare a ridere e sputacchiare pezzi di pane su tutto il tavolo, sforzo che le fece quasi lacrimare gli occhi:
“Vi ricordate di quando Basile gli ha scritto perché aveva preso in prestito la scopa di un suo amico per una scommessa e aveva fatto irruzione in aula di Sortilèges infrangendo una finestra?”
Maëlle ricordava quel giorno risalente al loro quarto anno come se fosse avvenuto solo un paio di giorni prima: suo fratello aveva bellamente interrotto la loro lezione catapultandosi nel bel mezzo dell’aula dopo essere andato a sbattere contro una finestra, e mentre Daphnè e Marguerite, riprese dallo shock, si erano subito alzate per raggiungerlo e assicurarsi che non si fosse ferito gravemente lei era capitombolata sul pavimento preda delle convulsioni, ridendo come raramente le era capitato in tutta la sua vita. Lucinda a non imitarla ci aveva provato, perché in fin dei conti le dispiaceva per Etienne, ma aveva finito col lacrimare dal ridere per dieci minuti consecutivi quando il ragazzo, alzatosi in piedi con la massima nonchalance, aveva sorriso allegro all’insegnante senza parole e aveva fatto per volare via come se nulla fosse dopo averla salutata e averle augurato una buona giornata.
“Forse il momento migliore di tutta la mia carriera accademica.”
“Avrebbe anche potuto farsi molto male con quei vetri!”, osservò Daphnè gettando un’occhiata di mite rimprovero in direzione della sua migliore amica, che però la ignorò e si limitò ad annuire con un sorriso sulle labbra, lo sguardo trasognato puntato su un punto indefinito della sala mentre ripercorreva mentalmente la scena più e più volte, in un loop che si spezzò solo quando la voce magicamente amplificata – e visibilmente incazzata – del maggiore dei suoi fratelli non la riportò alla realtà.
Di nuovo tra le tre streghe – o per meglio dire su tutta la sala – calò il silenzio, tutte occupate ad ascoltare la voce di Basile per venire a capo del mistero legato alla Strillettera. Lo stesso avvenne anche sul tavolo che Etienne aveva appena lasciato, mentre i suoi compagni ascoltavano accigliati il fratello dell’amico accusarlo di “aver speso una barca di soldi per comprare un dannato proiettore”, di “usarlo come bancomat”, minacciarlo di “tagliargli i viveri e mandarlo a lavorare in miniera” e di “non dargli un euro fino al Diploma”.
Ha comprato un proiettore?!”
Daphnè conosceva Etienne molto bene e da molto tempo: lei e sua sorella erano migliori amiche, e lo stesso Etienne era molto legato a suo fratello. Si vedevano di continuo durante le vacanze e a casa gli uni degli altri, eppure anno dopo anno il Bellefuille e le sue folli trovate continuavano a lasciarla di stucco. La francese puntò gli occhi sgranati sul viso di Maëlle, che invece anziché dimostrarsi sorpresa parve solo profondamente indispettita, le labbra dischiuse e un’espressione offesa sul volto:
Bastardo, e non mi ha detto niente per condividerlo! Potremo guardare Titanic come al cinema e goderci Leo in tutto il suo splendore ragazze!”, esclamò entusiasta la giovane strega – da brava sorella affettuosa riteneva che ciò che apparteneva di Etienne fosse anche suo, pertanto era pronta ad usufruire largamente del proiettore a sua volta – mentre Lucinda, incerta se ammirare Etienne o unirsi allo sconcerto di Daphnè, ascoltava in silenzio le parole poco gentili di Basile Macquart sbattendo le ciglia e chiedendosi come dovesse essere farsi in quattro per diventare un giocatore di Quidditch professionista per poi farsi svuotare il conto in banca dai fratelli minori a cui faceva da tutore: anche suo fratello maggiore Lisandro, come Basile, aveva fatto del Quidditch la sua professione dopo il Diploma, e Lucinda era certa che per quanto potesse esserle affezionato nemmeno lui avrebbe particolarmente gradito vedere sperperata la sua paga ai quattro venti.
 

A dieci metri di distanza, invece, Icaro spalancò gli occhi scuri e schioccò le dita della mano destra come colto da un’illuminazione improvvisa: ora un mistero recente aveva finalmente un senso.
“Ecco cos’era quel pacco enorme e pesante che gli è arrivato ieri!”
 

 
divisore
 
 
BibliotecaBiblioteca
 
 
La Biblioteca di Beauxbatons aveva un aspetto fiabesco in grado di lasciare a bocca aperta chiunque vi si recasse per la prima volta e costituiva, non a caso, uno dei punti del castello prediletti da gran parte della popolazione studentesca. A Phoenix Anastasakis al contrario di quanto la Biblioteca fosse magnifica e di quale architetto fosse opera importava ben poco: quel posto non gli piaceva per le altissime finestre ad arco che nelle belle giornate riempivano di luce anche l’angolo più nascosto, né per i pavimenti di marmo, i soffitti stuccati o le luccicanti finiture laccate d’oro che brillavano ovunque si posasse lo sguardo. Phoenix amava la Biblioteca del castello per il silenzio che vigeva perennemente al suo interno e per la calma che quel luogo maestoso gli trasmetteva, motivazioni che lo spinsero a pentirsi di aver deciso di recarcisi proprio di sabato mattina quando, non appena la porta a doppia anta munita di battenti dorati gli si spalancò magicamente davanti, si scontrò con una triste realtà: sembrava che molti dei suoi compagni avessero avuto la sua stessa idea e la Biblioteca brulicava di studenti di ogni età, tutti come lui sprovvisti di divisa. La vista di tutta quella gente destò una lieve smorfia sulle labbra rosee del ragazzo, i cui brillanti occhi blu che tanto facevano sospirare rimbalzarono rapidi su chi recuperava dei libri dagli altissimi scaffali bianchi, aiutandosi con la magia o con le scale a pioli in grado di muoversi da sole, chi si attardava a chiacchierare bisbigliando stringendo dei volumi appena presi e chi faceva la fila davanti al tavolo della bibliotecaria che affiancava l’ingresso per prendere o ridare indietro dei volumi: libri di ogni dimensione sfrecciavano librandosi in aria da quel punto per tornare nei rispettivi scaffali dopo essere stati restituiti e registrati conferendo all’enorme Biblioteca un aspetto ancora più affollato.
Due settimane dopo l’inizio dell’anno scolastico e tutti già sembravano essere dediti allo studio persino di sabato mattina, momento che di norma Phoenix prediligeva per infilarsi lì dentro e non uscirne per delle ore, avvolto dalla solitudine e dal silenzio, spesso portando Diego o Icaro con sé. Quella mattina Diego lo aveva abbandonato per stare con la sua gattina, alla quale purtroppo era vietato l’accesso, e del secondo dopo colazione Phoenix non era riuscito a trovare traccia, costringendolo a presentarsi solo insieme al suo zaino nero semi vuoto. Consapevole di non poter, sfortunatamente, far sparire tutti con uno schiocco di dita al ragazzo non restò che sbuffare lievemente e addentrarsi nella Biblioteca superando con lunghe falcate gli studenti in fila davanti  al tavolo coperto da moduli, penne che scrivevano da sole e torri di libri prenotati, incamminandosi verso gli alti scaffali collocati sul lato sinistro della sala e superandoli cercando tra i tavoli sistemati tra gli uni e gli altri uno almeno parzialmente libero dove sedersi.
Stava ormai prendendo in considerazione l’idea di salire una delle quattro scale a chiocciola bianche collocate negli angoli della sala nella speranza di trovare un posto al livello superiore della Biblioteca, sull’ampio ballatoio che si affacciava sulla distesa di marmo che stava calpestando, quando, giunto in mezzo agli scaffali adibiti ai volumi di Pozioni, scorse un tavolo deserto: quasi metà della superficie bianca era stata occupata dagli averi di uno studente che doveva momentaneamente trovarsi altrove, ma il lato opposto era completamente sgombro. In più si trovava addossato ad una finestra, i punti dove Nick preferiva sedersi, cosa che dopo una breve riflessione spinse il ragazzo a smettere di cercare e a muoversi in direzione dell’agognata sedia vuota. Nick sedette brandendo un accenno di sorriso sulle labbra e appoggiò lo zaino sul tavolo per aprirlo e tirare finalmente fuori Moby Dick, ma aveva appena aperto il grosso volume e tolto il segnalibro nero coperto da frasi tratte da Delitto e castigo, il suo libro preferito, che Diego aveva disegnato per lui l’anno prima quando un suono di passi affrettati e decisi anticipò l’arrivo di qualcuno, seguito da un sospiro e da un lieve borbottio in francese che spinse il greco ad alzare lo sguardo. Gli occhi di Phoenix poterono così scontrarsi con il viso e l’espressione seri della ragazza che si era fermata ad un paio di metri dal tavolo, lunghi capelli ricci biondo-castani a ricaderle sulle spalle e un vestito smanicato blu infilato sopra ad una camicia a righe sottili blu e bianche. Gisèle Delacroix lo stava fissando da dietro le lenti di un paio di occhiali dalla sottile montatura rosa cipria, e sembrò provare lo stesso entusiasmo del compagno di Casa nell’appurare di dover condividere lo stesso tavolo: Nick, dimentico del libro che teneva in mano, guardò la ragazza quasi con orrore, consapevole che mai in nessun universo lui e Gisèle sarebbero riusciti a condividere serenamente un tavolo per leggere o studiare a seguito delle esperienze come compagni di banco condivise per i primi anni di scuola.
“Che ci fai qui?”
“Dipingo a olio. Secondo te?! Sei seduto al mio tavolo, Anastasakis.”
Per nulla entusiasta Gisèle, le braccia esili ma muscolosissime cariche di libri, colmò la distanza che ancora intercorreva tra lei e il tavolo per appoggiarvi sopra i libri necessari che aveva appena raccolto per fare i compiti, tornando a sedersi al suo posto accavallando le lunghe gambe mentre Phoenix, davanti a lei, la guardava torvo:
“Non è il tuo tavolo.”
“C’è sopra la mia roba, quindi attualmente è il mio tavolo.”
Gisèle dispose i libri sul tavolo pentendosi amaramente di aver gioito quando, fino a poco prima, era riuscita a godersi uno spazio tutto per sé. Gli occhi blu di Nick invece schizzarono sull’astuccio di tessuto color crema e sulle spillette a forma di scarpine da ballo che vi erano state attaccate, dandosi dell’idiota per non aver capito davanti a chi si stesse sedendo. Quello e la gigantesca agenda ad anelli color panna con elastico avrebbero dovuto suggerirgli qualcosa.
“Scusa, dovevo immaginarlo. Chi altri ha un’agenda così ossessivamente organizzata?”
Mentre Gisèle apriva il primo libro della sua pila, la biografia dell’inventore della Felix Felicis, Nick distese le labbra nel suo sorriso amabile più finto e accennò lievemente in direzione della suddetta agenda destando un improvviso irrigidimento nella compagna, che sfilò una matita dall’astuccio per iniziare a prendere appunti per il suo tema su un quaderno a spirale già aperto su una pagina bianca scoccandogli la più truce delle occhiate:
“Mi piace organizzare le cose.”
“Una cosa adorabile. Quando non diventa un po’ troppo.”
Il sorriso sul viso di Nick non vacillò mentre il ragazzo accennava con aria angelica verso i post-it, gli evidenziatori e le penne che si trovavano accanto all’agenda, tutti abbinati per colore in base alle diverse cose che Gisèle vi scriveva all’interno.
“Non c’è niente di male ad essere precisi, soprattutto quando hai un sacco di cose da fare. Non che un perfetto cazzone come te possa capirlo.”
Stabilito di avergli concesso fin troppa attenzione e troppo tempo Gisèle si scostò i capelli castani pieni di riflessi biondi dalla spalla sinistra per iniziare a dedicarsi alla lettura del libro, detestando l’impossibilità di sottolineare le righe che le interessavano in quanto di proprietà della scuola. Nick invece persistette nel guardarla divertito per qualche altro istante prima di concentrarsi a sua volta sul libro che teneva in mano, ignorando ma in parte intuendo i pensieri che stavano vorticando nella mente dell’ex compagna di classe in quel preciso istante:
Phoenix Anastasakis aveva poco da prendere in giro la sua naturale inclinazione a centellinare il tempo, si disse Gisèle mentre sorvolava con lo sguardo l’indice della biografia del defunto Pozionista alla ricerca del capitolo dedicato alla sua opera magna: naturale che a lui farlo non fosse richiesto, dal momento che trascorreva le sue giornate a leggere, cazzeggiare e ad essere fastidioso, cosa che sarebbe piaciuta molo anche a lei, se solo avesse potuto permetterselo. Leggere, naturalmente, non essere fastidiosa, cosa che lei non era affatto.
Dopo dieci miracolosi minuti di silenzio sanciti dal patto non scritto tra Gisèle e Phoenix di non disturbarsi a vicenda o rivolgersi la parola più del necessario la strega, ancora impegnata a trascrivere informazioni sul suo quaderno, si stava sinceramente illudendo di riuscire quantomeno a finire la brutta copia del tema prima di pranzo, come indicato sulla sua agenda, quando dei passi affrettati iniziarono ad avvicinarsi sempre di più agli scaffali in mezzo ai quali lei e Nick sedevano, finchè qualcuno non si fermò proprio davanti a loro. Gisèle non osò alzare la testa, pregando che non si trattasse di qualcuno di sua conoscenza che la stesse cercando finchè la voce allegra ed inconfondibile di Etienne non si fece sentire spezzando via tutte le sue speranze:
“Gisèle, mia bellissima e stupendissima amica, stavo cercando proprio te.”
In men che non si dica Etienne Macquart aveva occupato la sedia accanto a lei fino a quel momento rimasta vuota, un sorriso sulle labbra e una mano pronta a prendere quella dell’amica, che lo lasciò fare trasudando contenuta esasperazione mentre lo studiava scettica attraverso le lenti degli occhiali da lettura:
“Che cosa ti serve Etienne?”
Etienne sgranò gli occhi chiari e la guardò colpito prima di iniziare a decantare tutta la sua indignazione: come poteva pensare che la stesse lusingando solo per ottenere un favore in cambio? Non erano amici, dopotutto? Non si aiutavano a lezione, quando lei faceva danni nelle serre e lui non riusciva a ricordare mezza data per le verifiche di Storia?
Nick smise di leggere, limitandosi a guardare la pagina che aveva davanti per fare finta di prestare attenzione all’opera magna di Herman Melville chiedendosi divertito che cosa Etienne fosse sul punto di chiedere all’amica, ancora impegnata a studiare in silenzio e visibilmente scettica il Bellefuille. A tagliare corto e a dare una risposta ad entrambi però ci pensò Icaro, che raggiunse il tavolo a grandi passi dopo aver svoltato l’angolo e si pronunciò senza perdere tempo:
“Gisèle, ci servi per un complotto. Ciao Nick.”
Icaro rivolse un lieve sorriso all’amico, che gli indirizzò un cenno del capo senza smettere di fissare la pagina che aveva di fronte, prima di prendere l’ultima sedia rimasta libera delle quattro e spostarla in modo da trovarsi più vicino ad Etienne e a Gisèle: non poteva andarsene in giro a sbandierare i suoi piani troppo a voce alta, dopotutto. Gisèle che gettò un’occhiata di sbieco in direzione dell’amico, che subito si esibì nel suo sorriso migliore e la guardò sgranando gli occhioni per impietosirla:
“Va bene, è vero, ma ti voglio bene lo stesso.”
Gisèle non aveva tempo per le moine di Etienne e nemmeno per i complotti, pertanto dopo aver alzato brevemente gli occhi al cielo scosse la testa e prese la sua agenda, aprendola sulla pagina del giorno corrente per sventolarla davanti ai due ragazzi e mostrare loro le scritte, le annotazioni e le annotazioni delle annotazioni con cui era stata riempita con colori diversi, freccette e sottolineature di vario spessore:
“Non ho tempo per complottare, devo fare la scaletta e scrivere metà tema sulle origini della Felix Felicis prima di pranzo!”
“Che stronzata.”
Nick parlò e si esibì in una lieve risata senza riuscire a controllarsi, consentendo a Gisèle di smettere brevemente di guardare Icaro ed Etienne per scoccargli una rapida occhiata truce: per sua fortuna non aveva nemmeno tempo per insultarlo a dovere.
“Nessuno ti ha interpellato. Come stavo dicendo, non ho tempo, ho valanghe di compiti da fare, oggi pomeriggio c’è scherma e poi ho promesso a Nerea di stare un po’ insieme prima di… Insomma, ho una scaletta fittissima di cose da fare da rispettare e come se non bastasse stasera prima di allenarmi…”
Gisèle stava per insultare l’incontro della Brigade a cui avrebbe dovuto prendere parte quella sera stessa e che avrebbe interferito non poco con tutti i suoi impegni previsti per la giornata, ma si trattenne in tempo a causa della presenza di Nick, che girò pagina in tutta calma per fingere di star leggendo nella maniera più convincente possibile. Gli occhi chiari di Gisèle saettarono brevemente sul compagno di Casa prima di tornare a puntarli sui visi di Etienne ed Icaro, sforzandosi di assumere un tono calmo e piatto prima di riprendere a parlare:
“Ho quell’impegno improrogabile.”
Riordini le tue quarantasei copie del Conte di Montecristo in ordine di uscita e guardi video di gattini su Wizagram?”
Questa volta per Nick fu sinceramente difficile non mettersi a ridere quando Gisèle ruotò bruscamente la testa per trafiggerlo con un’occhiata, la mascella serrata e lo sguardo fiammeggiante:
“Non ne ho affatto così tante, e comunque come fai a… Lascia perdere. Orsini, fai un favore all’umanità e portatelo via.”
Gisèle rivolse un insofferente cenno della mano in direzione di Nick, che però non si scompose e restò immobile sulla sedia, avvolto dalla mise total black e dalla sua solita aura di totale menefreghismo nei confronti del resto del mondo mentre Icaro, dopo aver annuito accennando sbrigativamente verso di lui a sua volta, si sporgeva leggermente sul tavolo per avvicinarsi a Gisèle e parlare abbassando il tono di voce:
“Dopo, prima le cose serie. Riguarda tuo cugino.”
Etienne ed Icaro sapevano – e speravano – che quelle due singole parole sarebbero bastate per persuadere Gisèle ad aiutarli, e trattennero il fiato mentre assistevano alla reazione della giovane strega, alla quale bastarono un paio di istanti per rilassare il volto e guardarli con rinnovato interesse: i grandi occhi chiari di Gisèle rimbalzarono pensosi prima sui loro visi e poi sulla sua agenda, finendo con l’annuire vaga come se la cosa non la interessasse particolarmente prima di chinarsi per recuperare il suo zaino.
“… Beh, siete fortunati. Nella mia agenda avevo giusto segnato di riordinare il mio AFMATC prima di pranzo.”
“Il tuo che?!”
Icaro sollevò entrambe le sopracciglia, perplesso e sul punto di chiedersi se la strega non avesse appena utilizzato uno strambo termine francese a lui sconosciuto, ma lo sguardo altrettanto stranito di Etienne smentì quell’ipotesi mentre Gisèle sistemava con cura una deliziosa scatolina rettangolare foderata da un tessuto bianco a fiorellini rosa sul tavolo, gli angoli delle labbra sollevati quel che bastava per dar vita ad un sorrisino compiaciuto.
Archivio delle Figure di Merda e Altro del Terribile Cugino. Perché, tu non ne hai uno?”
Gisèle, abbandonato il compiacimento, accennò in direzione della targhetta dorata che riportava il sopracitato acronimo mentre voltava la testa per rivolgere un’occhiata sinceramente perplessa in direzione di Icaro attraverso le lenti degli occhiali, gettando l’italiano in un breve attimo di smarrimento prima di scuotere lentamente il capo senza smettere di fissare accigliato la deliziosa scatolina a fiori:
“… No, a me piacciono i miei cugini.”
Le parole di Icaro fecero precipitare il tavolo in qualche breve istante di silenzio che Gisèle impiegò fissandolo immobile e sbattendo più volte le palpebre, come cercando di elaborare le sue parole. Di fronte all’anomala immobilità dell’amica Etienne fu tentato di sollevare una mano per scuoterla e assicurarsi che fosse ancora tra loro, ma fortunatamente Gisèle si riscosse prima di costringerlo a farlo, tornando a guardare il suo prezioso archivio prima di parlare con tono neutro:
Dev’essere una sensazione piacevole. Allora, qui c’è tutto quello che può servire per ricattare, far sfigurare, mutilare emotivamente o ferire gravemente mio cugino in diversi modi con aneddoti ordinati cronologicamente e cromaticamente in base alla dimensiona semantica. Anche se stavo pensando di riorganizzare tutto alfabeticamente, a dire il vero…”
Gisèle sollevò con cura il coperchio della scatola aggrottando le sopracciglia, scrutando dubbiosa le schede delle dimensioni di cartoline che erano state impilate al suo interno, tutte più o meno piene di scritte della sua grafie e munite di sottili alette di diversi colore che facevano riferimento a sfere semantiche differenti. Mentre Icaro osservava pensoso le schede chiedendosi se per caso in famiglia non circolasse nulla del genere a sua insaputa Etienne aprì le labbra in un sorriso allegro, indicando la scatola di Gisèle mentre Nick si asteneva con tutte le sue forze dal fare una battuta sarcastica sul fatto che la strega avesse persino ordinato le figure di merda del cugino:
“Che carina, sembra una di quelle scatole che le nonne usano per le ricette!”
E infatti me l’ha data mia nonna.”, disse Gisèle guardando Etienne con l’aria di avergli appena rilevato un’informazione del tutto ovvia, cosa che incrementò lo scetticismo altrui:
Tua nonna ti ha dato una scatola per contenere informazioni scottanti su tuo cugino?”
Icaro guardò la compagna di Casa inarcando un sopracciglio, conscio di non essersi aspettato niente del genere quando la sera prima lui ed Etienne, dopo la riunione del giornale, avevano deciso di chiedere a Gisèle di aiutarli, e la strega scosse la testa liquidando il discorso con un pigro gesto della mano destra mentre con la sinistra accarezzava il bordo della scatolina:
“Beh, non me l’ha data proprio per quello… E comunque sono la nipote prediletta. Non che avessi grande concorrenza… Quindi, che vi serve?”
Dopo aver rivolto una breve e affettuosa occhiata all’orologio da polso d’oro con il cinturino in cuoio che indossava, sempre una gentile concessione di sua nonna, Gisèle tornò a rivolgersi ai due compagni con un sorriso e un buon umore di cui fino a quel momento non aveva decisamente fatto foggio.
“Niente di troppo grave, solo che Guillaume con noi fa il capo tirannico e vogliamo che la smetta. Come possiamo fare?”
“Vediamo… Questo lo tengo da parte per il giorno del suo matrimonio… Questo no… No… No… Troppo personale… Mi serve un momento, qui c’è il risultato di anni di duro lavoro.”
Gisèle parlò aggrottando leggermente le sopracciglia arcuate e senza smettere di far scorrere rapidamente la sottili schede di cartoncino con la punta delle dita affusolate mentre Phoenix, di fronte a lei, continuava a fissare con finto disinteresse le pagine del romanzo che teneva in mano e Icaro ed Etienne si limitavano ad assentire debolmente scambiandosi un’occhiata: dopo aver appena assistito al livello di rancore che Gisèle sembrava in grado di serbare nei confronti del prossimo di contraddirla non se lo sognavano neppure.
Fortunatamente i due poterono considerare la loro missione conclusa appena un paio di minuti dopo, quando Gisèle consegnò loro una delle tessere rifiutandosi di cederla in prestito – non poteva permettere che informazioni così preziose venissero smarrite e accidentalmente diffuse senza la sua previa approvazione, e conosceva abbastanza bene Etienne da diffidare dell’amico in tal senso – ma consentendo in compenso di scattarci una foto come prova.
“Grazie Gisèle, sei stata preziosissima.”
Etienne, allegro e sorridente come sempre, si sporse verso l’amica per scoccarle un sonoro bacio su una guancia mentre la strega, sospirando e alzando gli occhi al cielo, annuiva distrattamente:
“Lo so, lo so. Ora lasciatemi scrivere, per favore.” Gisèle liquidò sbrigativamente i due con un pigro gesto della mano prima di raddrizzarsi la montatura degli occhiali che Etienne aveva urtato con le sue manifestazioni d’affetto, pronta a rimettersi al lavoro e a concentrarsi sui compiti. Stava rimettendo il suo preziosissimo schedario nello zaino, al sicuro da sguardi indiscreti, quando tuttavia si accorse di come nel frattempo Icaro ed Etienne si fossero alzati e si stessero allontanando, lasciandola nuovamente sola in compagnia di Phoenix Anastasakis, del suo libro e del suo muso lungo.
“Orsini?! Dove stai andando?! Dovevi portartelo via!”
Gisèle, gli occhi blu spalancati con orrore misto a preoccupazione, indicò indignata Phoenix come se il ragazzo fosse sordo e impossibilitato a sentire le sue parole, ignorando dunque deliberatamente l’occhiata truce che il compagno le indirizzò da sopra il bordo di Moby Dick mentre Etienne ed Icaro si allontanavano allegri e in tutta fretta, visibilmente soddisfatti dei risultati ottenuti grazie a lei.
“Non è il mio babysitter.”, sibilò Nick con un tono che trasudava puro fastidio: perché tutti ne sembravano tanto convinti? Icaro stesso non si preoccupò di smentire quella che sembrava essere la ferrea convinzione di Gisèle, limitandosi a voltare lo sguardo in direzione della strega e a sorriderle con aria angelica mentre si congedava con un lieve cenno della mano:
“Scusa, ho un appuntamento urgente, sarà per la prossima volta!”
Mentre osservava i due sparire dal suo campo visivo dopo aver svoltato l’angolo chiacchierando allegri Gisèle si annotò rassegnata un appunto mentale: alla prossima richiesta di qualsivoglia natura avrebbe fatto siglare un patto scritto, così da essere certa di ottenere qualcosa in cambio. Nick invece prima di tornare a leggere sfoggiò una smorfia schifata, scuotendo la testa con viva disapprovazione prima di mormorare qualcosa a mezza voce:
“Dio, spero non debba vedere quell’oca del quinto anno….” Nick voleva bene ad Icaro – non glielo aveva mai detto e di certo lo avrebbe fatto solo sul letto di morte –, ma spesso le sue scelte in fatto di frequentazioni non le comprendeva, né le condivideva. Gisèle invece, che in quel momento provava più interesse per un uomo vissuto secoli prima che nei confronti della vita sentimentale altrui, si sistemò sbuffando debolmente gli occhiali sul naso prima di riprendere mano su uno dei suoi preziosissimi evidenziatori:
“Per me può uscire anche con Bergoglio, mi basta finire il tema prima delle prossime Olimpiadi.”


“Non ti sembra strano che quei due fossero seduti allo stesso tavolo?”
I ricordi che Etienne serbava legati a situazioni in cui Gisèle e Phoenix si erano ritrovati costretti a condividere un banco durante le lezioni degli anni precedenti, quando ancora facevano tutti parte della stessa classe, erano più o meno tutti segnati da aspre discussioni tra i due, cosa che lo indusse ad allontanarsi verso l’ingresso della Biblioteca insieme ad Icaro aggrottando le sopracciglia, a dir poco perplesso. L’averli trovati insieme aveva lasciato un tantino interdetto anche lo stesso Icaro, che però andava troppo di fretta per farci caso e decise che si sarebbe accertato che nessuno avesse avvelenato la colazione del suo migliore amico più tardi, limitandosi ad una pigra scrollata di spalle mentre insieme si lasciavano lo splendore e il silenzio quasi irreale della Biblioteca alle spalle:
“Forse hanno minacciato Gisèle. Sedersi vicino a Nick o dire “Ti voglio bene” a Guillaume.”

“Non dirlo, è inquietante anche solo pensarlo.”


 
divisore
 
 
Torre Nordscale

 
Al di fuori dell’orario delle prove collettive la sala dove l’orchestra si riuniva era aperta agli studenti che desideravano esercitarsi separatamente, da soli o in piccoli gruppi, anche se nei giorni di lezione bisognava prenotarsi mediante un registro che, con gran disappunto di Daphnè e delle sue migliori amiche, finiva quasi sempre col risultare strapieno prima di dar loro il tempo di prenotarsi. Se c’era però qualcosa che anni di permanenza a Beauxbatons avevano insegnato a Daphnè era proprio l’ottima probabilità di trovare l’aula deserta nel weekend, soprattutto di sabato mattina, motivo che poco prima l’aveva spinta a tentare la sorte lasciando la sua Salle Comune insieme alla custodia del suo flauto e ai suoi spartiti per consentire a Maëlle di esercitarsi da sola nella loro camera: condividere la stanza con le sue amiche era forse uno degli aspetti della sua vita scolastica che maggiormente amava, ma il fatto che quasi tutte fossero delle musiciste non rendeva l’esercitarsi un compito facile per nessuna di loro, tanto da costringerle soventemente a darsi dei turni per alternarsi o, come nel suo caso quel mattino, a cercare altri angoli del castello in cui poterlo fare senza disturbare e senza essere disturbate.
Giunta al termine di un largo corridoio dal pavimento di marmo e le pareti bianche costellate da dipinti ad olio contenuti da spesse cornici dorate – di norma si fermava a salutare e a chiacchierare brevemente con i loro “abitanti”, ma quel mattino li trovò impegnati in un torneo di carte e decise di non disturbarli – Daphnè si fermò ai piedi dell’alta rampa di scale a chiocciola che l’avrebbe condotta in cima alla torre sperando di non udire l’eco di una melodia, segno che l’aula era deserta e a sua completa disposizione. La giovane strega, armata della sua custodia e di ottime speranze, iniziò quindi a salire i grandi coperti da un soffice tappeto color crema accarezzando lievemente la superficie liscia e lucida del corrimano che seguiva dolcemente la linea della rampa, perdendosi come spesso le accadeva, specie quando era sola e con la possibilità di muoversi con la massima calma come quel mattino, nella contemplazione della carta da parati che ricopriva le pareti che della torre, bianca e ricoperta da un motivo che brulicava di vegetazione celeste e dorata, con tanto di pavoni, aironi in volo e altri animali di cui Daphnè non conosceva il nome.
Era talmente occupata a studiare ammirata i dettagli della splendida carta da parati da impiegare qualche secondo in più del dovuto per accorgersi della musica che proveniva inequivocabilmente da qualche parte sopra di lei, in direzione della sala prove. Daphnè sollevò istintivamente la testa verso l’alto, studiando rapita e incuriosita il ballatoio dal quale si aveva accesso alla cima della torre: quello che stava avvolgendo la scala a chioccola era indubbiamente il suono emesso da un pianoforte, strumento che non facendo parte dell’orchestra sinfonica non le era mai capitato di sentire o vedere suonare da quando si recava fin lì tutte le settimane.
Fu con ancor più sconcerto che la ragazza, salito finalmente l’ultimo gradino, si trovò di fronte ad un visitatore del tutto inaspettato: un piccolo gatto dal pelo rosso e tigrato e le zampine bianche la guardava con gli occhi più grandi, teneri e verdi che Daphnè avesse mai visto, cosa la spinse a sorridere al micino e a chinarsi verso di lui allungando la mano destra:
“Ciao.”
Non era affatto insolito imbattersi in un gatto in giro per il castello, ma allo stesso tempo Daphnè non rammentava di averne mai scorto uno proprio lì, in cima alla Torre Nord. Amando infinitamente i gatti la ragazza provò un moto di gioia quando il gattino annusò brevemente le sue dita prima di farsi accarezzare la minuscola testa chiudendo gli occhi beato, finendo con il sgusciare nella fessura della porta lasciata socchiusa per fare ritorno nella sala poco dopo, lasciandola sola e con ancor più curiosità addosso.
Dopo una breve esitazione durante la quale Daphnè si interrogò in merito al comportamento più corretto ed educato da adottare – la porta era socchiusa, quello era un ambiente pubblico, quindi tecnicamente il suo non sarebbe stato “spiare” – la ragazza si decise ad appoggiare una mano sulla porta e a spingere debolmente l’anta, lasciando che si aprisse di qualche centimetro per consentirle di gettare un’occhiata sull’interno dell’ampia sala circolare a lei ormai tanto familiare.
 

Diego si avvicinava molto di rado alla Torre Nord, sede dell’orchestra e di chi ne faceva parte, e ancor più di rado varcava quella soglia per sedersi sull’ottomana dello splendido pianoforte a coda bianco che si trovava in un angolo della sala dove alcuni dei suoi compagni di scuola provavano insieme tutte le settimane. A volte la tentazione di infilarsi lì dentro durante le prove per studiare, in un angolo, chi ne faceva parte era talmente forte da farsi quasi soffocante, ma Diego finiva sempre col desistere e restare al suo posto, in qualche angolo del castello, limitandosi ad immaginare e basta.
C’erano dei giorni tuttavia, giorni come quello, in cui pensava più che mai a quel povero, bellissimo e costosissimo pianoforte abbandonato a se stesso, uno strumento che doveva costare più di tutti quelli posseduti dai suoi compagni messi insieme e che non veniva mai sfiorato dalle dita di nessuno. Che un pianoforte così prezioso non venisse mai adoperato, lasciato a prendere polvere, certi giorni Diego non riusciva proprio a sopportarlo e i suoi piedi lo portavano da soli fin lì, in cima alla scala a chiocciola: Diego si accertava che non ci fosse nessuno, chiudeva la porta, sedeva sull’ottomana e liberava la tastiera dal coperchio accarezzando quei sottili frammenti d’avorio quasi con affetto.
Quella mattina aveva portato Mew, la sua gatta, con sé: dopotutto la sua adorata piccolina non aveva ancora mai visto la Torre, così l’aveva infilata all’interno dell’anonima felpa nera con cerniera che aveva indossato quella mattina e aveva lasciato la sua Salle Comune da solo, la piccola testa fulva e le zampe anteriori bianche della gatta che sporgevano oltre la zip mentre i suoi occhi verdi si guardavano attorno per catturare la meraviglia che la circondava. Quella mattina Diego aveva lasciato la porta socchiusa per consentire a Mew di gironzolare, qualora ne avesse avuto voglia, ed era talmente concentrato sul finire la composizione che stava suonando, la fronte aggrottata mentre cercava di capire che cosa potesse andare sistemato e migliorato, da non accorgersi di non essere più solo.
Diego finì di suonare senza staccare le dita dai tasti d’avorio, fissandoli accigliato e poco convinto: faceva schifo. Faceva davvero schifo, e avrebbe tirato lunghe, lunghissime righe su tutti gli spartiti non appena giunto nella sua camera, dove li costudiva in un cassetto del comò accanto al letto. Perché suo nonno, perché tutta la sua famiglia lo definisse un gran talento talvolta faceva fatica a capacitarsene: fin troppo spesso gli capitava di rileggere uno spartito e di storcere il naso, convinto di aver composto un’emerita schifezza degna di essere gettata nel cestino più vicino.
“Ciao Diego.”
Quando sentì una voce parlare e salutarlo timidamente Diego s’irrigidì sull’ottomana, iniziando immediatamente a sudare freddo mentre si voltava lentamente in direzione di chi aveva parlato, le mani ancora appoggiate sulla tastiera: Daphnè Blanchard stava in piedi davanti alla porta semi-aperta reggendo una custodia nera, mentre Mew gironzolava indisturbata facendo lo slalom tra le sedie che solitamente venivano occupate dai componenti dell’orchestra. Alla vista di una sua compagna di classe Diego provò immediatamente il cocente desiderio di dissolversi nel nulla, e si alzò mettendosi a sedere di scatto elaborando un piano di fuga mentre Daphnè, invece, lo osservava con sincero ed evidente stupore, come se il suo solitario ed introvertissimo compagno fosse stata l’ultima persona che si sarebbe sognata di incontrare lì in cima.
“Devi suonare?”
“Sì, ma se vuoi continuare fa’ pure, sei arrivato prima tu. Come si chiama la composizione che suonavi? Non l’ho mai sentita.”
Daphnè gli sorrise gentilmente mentre si avvicinava di qualche passo, e Diego la studiò di rimando con sguardo critico, come volendosi accertare di non essere di fronte ad una presa in giro. A stranirlo, in effetti, fu scorgere solo tracce di onesta sincerità sul viso pallido della strega, cosa che lo spinse a schiarirsi la voce imbarazzato e a chinare lo sguardo sulla tastiera con una vaga stretta di spalle:
“Non… non me lo ricordo, in realtà. L’ho solo sentita da qualche parte a casa, in estate.”
Diego si sforzò più che poteva di adottare l’atteggiamento più vago e distaccato di cui era capace, pregando mentalmente che la compagna credesse alle sue parole e che non lo interrogasse oltre a riguardo: si sarebbe scavato una fossa proprio lì, su quelle mattonelle sempre talmente lucide da potervisi specchiare, prima di confessare di aver composto lui stesso quell’opera. Che a suo parere, per l’appunto, non era poi un granché.
“Molto bella. Non sapevo sapessi suonare! Peccato che non ci sia il piano nell’orchestra, sei bravissimo.”
Daphnè gli sorrise sembrando di nuovo il ritratto della sincerità, e a Diego non restò che annuire evitando il suo sguardo e di farle sapere di essere perfettamente in grado di suonare pressochè ogni singolo strumento incluso dalla disposizione dell’orchestra sinfonica: era qualcosa che non amava far sapere, soprattutto perché la domanda successiva era sempre la stessa, ovvero per quale motivo non facesse parte dell’orchestra della scuola.
“Grazie. Beh, vado, così puoi esercitarti. Ci vediamo. Vieni Minni.”
Desideroso di lasciare la scena in fretta Diego acchiappò la sua gattina non appena quella gli si avvicinò per strusciarsi sulla sua gamba, prendendola in braccio come aveva fatto poco prima mentre gli occhi chiari di Daphnè si spalancavano leggermente, illuminati da un sorriso radioso:
“La tua gatta si chiama Minni? Che carina!”
In realtà la sua gatta si chiamava Mew, ma come ogni padrone degno di questo nome Diego la chiamava in quel modo solo di rado, scadendo spesso in soprannomi melensi, affettuosi e soprattutto molto imbarazzanti. Cosa che andava benissimo quando era solo, e non certo in pubblico, dove doveva mantenere intatta la sua reputazione di tizio anonimo che non parlava mai con nessuno, di certo non un tipo in grado di chiamare la sua gattina Minni. Quando Daphnè sorrise, difficile dire se a lui o alla sua bella gattina, Diego si domandò chi e perché avesse deciso di donare ad un essere vivente inetto come lui il dono della parola: talvolta aveva l’impressione di fare delle clamorose figure di merda ogni volta in cui apriva bocca.
“Sì… Beh, no... Ciao.”
Stringendo la gatta al petto Diego fuggì con una rapidità che sorprese lui stesso in primis – considerata la sua scarsa predisposizione all’attività fisica non si sarebbe mai aspettato di poter essere tanto veloce – e lasciò Daphnè sola e accigliata prima di poter dare alla compagna il tempo di chiedergli altro: tutto quello che la ragazza poté fare fu guardare stralunata il punto in cui Diego era sparito, chiedendosi perché le fosse sembrato così strano. Forse aveva sbagliato a porgergli quelle due o tre domande per lei del tutto innocue? Conosceva Diego da sei anni e al tempo stesso non lo conosceva affatto, solitario com’era, quindi non ne aveva sinceramente idea.
Diego, nel frattempo, stava scendendo precipitosamente i gradini della scala a chiocciola imprecando contro se stesso e la propria idiozia, desideroso di tapparsi la bocca con del nastro adesivo da quel giorno fino al Diploma:
“Chi chiama la sua gatta Minni?! Minni, sono un coglione!”
Se glielo si fosse chiesto in quel preciso momento, mentre sfrecciava giù dalle scale insieme alla sua gatta, Diego avrebbe di certo decretato con assoluta fermezza di aver raramente provato tanta vergogna quanto quella mattina in tutto il corso della sua giovane vita. Tanto valeva trasferirsi a Durmstrang e seppellirsi sotto un cumulo di neve fresca in attesa di essere rinvenuto da una foca, si disse affranto il ragazzo mentre si lasciava alle spalle l’ingresso della torre chiedendosi dove potersi nascondere fino al conseguimento del Diploma.

 
divisore

 
Mentre diversi metri più in alto Daphnè si esercitava e Diego vagava penosamente per il castello crogiolandosi nel ricordo della “tragedia” appena verificatasi Maëlle Macquart stava facendo del suo meglio per emulare l’amica provando e riprovando a ripetizione lo stesso brano con il suo violino, ma senza trarne il giusto livello di compiacimento: come ogni anno Maëlle sapeva benissimo che avrebbe dovuto esercitarsi di più durante le vacanze estive e come ogni anno si stava ripromettendo con amarezza di imparare dai suoi errori e di comportarsi diversamente l’estate successiva, anche se una parte di lei restava consapevole di come quei buoni propositi sarebbero evaporati dalla sua mente una volta fatto ritorno a casa.
In sua difesa Maëlle sentiva solo di poter affermare di non vivere nell’abitazione ideale per un musicista: silenzio, pace e quiete erano tutte parole che non sarebbero affiorate nella mente di nessuno se gli si fosse chiesto di pensare ai Macquart e a dove vivevano, abitazione dove al contrario regnava quasi perennemente un gran caos a cui contribuivano, in modi e misure differenti, lei quanto i suoi tre fratelli maggiori.
Dopo aver stonato la medesima nota per la quarta volta di fila Maëlle smise bruscamente di suonare trattenendo l’impulso tanto familiare ad ogni violinista di scaraventare l’archetto fuori dalla finestra a lei più vicina per non doverlo vedere mai più, desiderio trattenuto solo dall’amore per il suo violino e dalla chiara immagine di sua sorella maggiore che setacciava tutta la priorità di Beauxbatons solo per rinvenire il costosissimo archetto e poi usarlo per suonarle a lei di santa ragione.
“Porco Flamel, possibile che non mi riesca?! Per quanto lo ami a volte vorrei che Paganini si fosse rilassato un po’ di più e scritto un po’ meno…”
In piedi davanti al leggio che di norma sostava accanto al suo letto e che per esercitarsi la ragazza era solita spostare più o meno verso il centro della camera circolare che condivideva con le sue amiche Maëlle recuperò la penna con i gattini che aveva appoggiato alla base della partitura per imprimere un rabbioso segnaccio sopra al passaggio incriminato mentre Lucinda, fino a quel momento rimasta distesa sul proprio letto con le caviglie incrociate e le cuffie lilla a fasciarle le orecchie, abbozzava un sorriso sollevando gli angoli delle labbra senza smettere di fissare il baldacchino sopra di lei:
“Su di voi scriveremo un’Enemies To Lovers splendida. Potremmo anche guadagnarci.”
Il telefono della ragazza giaceva accanto a lei sopra al copriletto bianco e viola, ma anche con la musica a palla nelle orecchie Lucinda era riuscita chiaramente ad udire i recenti bisticci dell’amica con il tanto temuto Capriccio n. 24 in La minore. Udite le parole di Lucinda Maëlle volse lo sguardo su di lei osservando la sua figura esile distesa sul letto con cipiglio contrito, le sopracciglia bionde leggermente aggrottate e le labbra carnose contratte in una smorfia dispiaciuta:
“Scusa Luli, ti do tanto fastidio? Se vuoi vado alla ricerca di un’aula vuota, anche se così metà castello finirà col sentire i miei toni soavi.”
Mentre la bionda gettava un’occhiataccia al leggio e alla partitura sempre stringendo violino e archetto Lucinda scosse la testa sollevandosi quel tanto che le bastava per mettersi a sedere sul letto, i palmi piantati dietro di lei sul copriletto a fiori e un sorriso sinceramente divertito ad illuminarle il viso e i limpidi occhi verdi:
“No, tranquilla, non ti preoccupare. E poi mi diverto a sentirti.”
“Su questo non ho dubbi, mi dicono da sempre che sono una comica mancata. Prima o poi capirò anche se è un complimento o meno… Che cosa stai ascoltando? A breve getterò la spugna e mollerò tutto per guardare una serie tv, così potrai esercitarti anche tu.”
Maëlle decise di potersi concedere una pausa, dunque abbandonò momentaneamente il leggio per avvicinarsi al letto dell’amica e sedersi sul bordo del materasso, appoggiando violino e archetto accanto a sé mentre Lucinda si sfilava le cuffie over ear lilla per metterle attorno alla sua testa.
“Il rondeau(2) della Cenerentola di Rossini. Non è meraviglioso?”
Sapendo quanto la musica, inclusa quella classica e l’Opera, fosse un grande amore che la legava alle sue migliori amiche Lucinda parlò con aria quasi sognante guardando il viso di una Maëlle in ascolto in attesa che il suo cipiglio concentrato lasciasse il posto alla pura meraviglia che il capolavoro in questione meritava di suscitare, finendo col sorridere e annuire compiaciuta quando vide l’amica sgranare appena percettibilmente i caldi occhi castani e sollevare meravigliata entrambe le sopracciglia:
“Come faccia certa gente a cantare così sfuggirà eternamente alla mia comprensione. Tu sei bravissima.”
La bionda si sfilò delicatamente le cuffie per restituirle alla legittima proprietaria guardandola con affetto e anche una punta di orgoglio, quasi come fosse fiera di lei mentre Lucinda, sorridendo, accettava le cuffie assestandole una lieve gomitata affettuosa prima di infilarsele nuovamente attorno alla testa e alla corta chioma di capelli corvini:
“Anche tu sei bravissima. Devi solo ripetere fino allo sfinimento e cercare di non defenestrare l’archetto… Ricordi quando andammo in giro disperate per il parco a cercarlo perché ancora non avevamo imparato l’Incantesimo di Appello?!”
Benchè la disperazione di quei momenti lontani fosse ancora ben impressa nella memoria di Lucinda alla portoghese venne quasi da ridere nel ricordare le forsennate ricerche sue e delle sue migliori amiche: se chiudeva gli occhi riusciva quasi a sentire di nuovo la voce di Daphnè maledire l’impulsività di Maëlle mentre frugava in mezzo ad un cespuglio, o a scorgere l’immagine tragicomica della proprietaria dell’archetto piena di foglie e rametti nei capelli biondi.
“Come mi conosci bene Luli.”
“Sai, sono davvero felice di avervi come amiche. Voi sì che mi capite, mio fratello pensa solo al Quidditch!”
Suddetto fratello che, appurò mentalmente Lucinda solo in quell’istante, non si degnava di scriverle da ben una settimana. Lei, la sua unica e preziosa sorellina! Come si permetteva Lisandro di non accertarsi di come stesse?! Lucinda si appuntò mentalmente, offesa, di tenergli il muso per un po’ – e dire che lei indossava proprio quel giorno una delle sue magliette rosa della divisa della squadra in cui giocava come Portiere, i Tapesouafles de Quiberon, che certo gli aveva rubato dall’armadio per appropriarsene, ma era pur sempre un segno di affetto – prima di rendersi conto dell’effetto che le sue parole avevano sortito su Maëlle, che si era immobilizzata in procinto di alzarsi dal letto e la stava fissando pericolosamente in silenzio e in totale inespressività. La reazione inusuale dell’amica spinse immediatamente la portoghese a correre ai ripari, del resto Maëlle era cresciuta assorbendo la passione per il Quidditch dal fratello maggiore più di quanto non avesse fatto lei, stampandosi un largo sorriso angelico sulle labbra prima di correggersi con tutto il suo aplomb:
“Non che io non pensi che il Quidditch sia fantastico, uno sport meraviglioso… ma è bello avere delle amiche che amano quello che ami tu, no?”
Maëlle si prese qualche lungo istante per studiare mentalmente le parole dell’amica mentre Lucinda continuava a sorriderle amabilmente, esaminandole con attenzione prima di stabilire di poter accettare la sua spiegazione e annuire di conseguenza:
“Certo, ovvio. Ora che ci penso, un altro motivo che mi fa quasi dubitare che Etienne sia davvero mio fratello: a lui del Quidditch non frega un cazzo. Come è possibile?!”
“Certo, infatti tu ed Etienne non vi somigliate proprio per niente. Nessuno direbbe che siete fratelli.”
Maëlle, seria in volto tanto quanto Lucinda, riprese in mano violino ed archetto annuendo come se fosse perfettamente d’accordo con lei, impiegandoci qualche istante di troppo per cogliere l’ironia nella voce dell’amica e per indirizzarle inviperita un’occhiataccia:
Io tutta questa somiglianza non la vedo. Tu sei fortunata, hai solo un fratello che ha parecchi anni più di te, non sai che impiastro averne uno della tua età che ti trovi sempre tra i piedi.”
Per nulla impressionata dalla stizza manifestata dall’amica Lucinda si limitò a sistemarsi distrattamente le cuffie sulla testa prima di scrollare le spalle con nonchalance e tornare a sedere sul materasso distendendo le gambe incrociando le caviglie sottili, i palmi allineati vicino ai fianchi e ben piantati sul copriletto:
“Vero, ma dimentichi che mio fratello è sempre stato un figlio esemplare, il che a volte costituisce una rottura per noi poveri secondogeniti. Se avessi un euro per ogni volta in cui mia madre mi ha fatto notare quanto Lisandro sia perfetto e un ottimo modello da seguire mi ci potrei comprare la squadra in cui gioca… Per fortuna gli voglio bene comunque.”
Anche se non si faceva sentire da un po’, quel maleducato, ma Lucinda sapeva che si sarebbe fatto perdonare con un regalo meraviglioso per quando sarebbe tornata a casa per Natale, dunque stabilì di poter non avercela troppo con lui mentre Maëlle, già che erano in argomento, si affrettava a sfoderare a sua volta un sorrisino compiaciuto:
“A proposito, Lisandro lo sa della tua liaison estiva con Théodore Belmont a Saint-Malo?”
Ogni traccia di sorriso svanì immediatamente dal bel viso di Lucinda, che si sentì raggelare – anche se quel giorno faceva discretamente caldo – e quasi impallidì mentre scenari a dir poco catastrofici prendevano rapidamente vita nella sua mente:
“Piuttosto di farglielo sapere emigro vicino all’Equatore.”
“Fammi un favore, in caso portati dietro Etienne.”

 
divisore
 
 
Scuderiescuderie
 

Le scuderie di Beauxbatons costituivano una delle strutture esterne della tenuta più amate e frequentate da tutta la popolazione studentesca: chi per prendere in prestito uno dei cavalli della scuola per una passeggiata, chi anche solo per ammirare i magnifici animali e offrire loro qualcosa da sgranocchiare, erano ben pochi i giovani maghi e streghe che vivevano al castello a non spingersi più o meno frequentemente fino alle scuderie. Tra questi pochissimi studenti si annoverava il nome di Gisèle Delacroix, che qualche minuto prima si era lasciata alle spalle uno degli ingressi posteriori dell’edificio principale per imboccare la lunga strada sterrata che conduceva fino alla scintillante struttura interamente ricoperta da assi di legno bianche armata di pazienza e di una precisa consapevolezza, ovvero che la sua migliore amica le avesse chiesto di raggiungerla laggiù in un vano tentativo di persuaderla a montare in sella. Non era certo la prima volta da che si conoscevano in cui Nerea cercava di spingerla in una trappola che sfociava in un gigantesco equino a cui Gisèle non voleva saperne di avvicinarsi, e la francese giunse in prossimità dell’edificio con la massima serenità, decisa a mantenersi ferrea sulla propria posizione: i cavalli le piacevano, senza dubbio ne riconosceva il fascino estetico, ma solo quando si trovavano ad almeno due metri di distanza da lei.
L’enorme porta di legno scorrevole dell’ingresso era come sempre spalancata per consentire il passaggio dei cavalli e una volta giunta dinanzi ad essa Gisèle si affacciò dubbiosa in cerca dell’alta e slanciata silhouette dell’amica senza però trovarne traccia, ritrovandosi a fissare solo lunghe file di box e la testa di qualche cavallo che sporgeva dalla propria finestrella, chi intento a attorno e chi con il muso sprofondato nella ciotola del mangime.
Dopo aver tratto un profondo respiro Gisèle si fece coraggio e si decise a varcare la soglia stando ben attenta a camminare il più possibile al centro dell’ampia corsia che divideva le file di box, giusto per non rischiare che da qualche porta lasciata aperta per sbaglio fuoriuscisse un qualche cavallo pronto ad investirla. Costretta a fare lo slalom tra montagnole di fieno che qualche incompetente aveva lasciato in giro Gisèle finì col chinare scettica lo sguardo sulle proprie scarpe, decisamente e volutamente inadatte al contesto, e col trasfigurare le delicate francesine blu e azzurre della divisa in un paio di orrendi stivali identici a quelli che Nerea utilizzava per montare. Trovatasi suo malgrado costretta ad ammettere quanto quelle calzature molto poco eleganti fossero comode Gisèle diede fiato alla propria voce chiamando il nome dell’amica, udendone subito l’eco in risposta quando Nerea la invitò a raggiungerla con l’entusiasmo che era solito caratterizzarla quando si trovava a contatto con gli animali.
Trovare Nerea non fu difficile per Gisèle, che a causa dell’amica si ritrovava ormai a conoscere a menadito le scuderie anche senza averlo mai desiderato: terrorizzata dalla loro mole non si era mai avvicinata ad un cavallo fino ai suoi tredici anni, quando la sua già migliore amica era riuscita a persuaderla ad accompagnarla fino alle scuderie per conoscerne qualcuno. Da quel momento la diffidenza della francese nei confronti degli equini si era leggermente appianata, ma Gisèle restava comunque molto più serena e rilassata quando si trovava a debita distanza. Nerea invece, che insieme ai cavalli ci era praticamente cresciuta, nelle scuderie avrebbe anche potuto piantare una tenda e trasferirsi: l’italiana, stivali color castagna con ghette ai piedi e una maglietta verde sgargiante infilata dentro ad un paio di pantaloni da equitazione marroni, stava lavando uno dei cavalli della scuola a cui era maggiormente affezionata, un Selle français il cui garrese superava in altezza persino il suo considerevole metro e 78. Il cavallo era stato legato ad uno dei ganci appesi alla parete di pietra che si trovava sul fondo delle scuderie, la zona adibita al lavaggio, e Nerea stava togliendo l’acqua in eccesso dal suo manto passandogli con cura il raschietto sul pelo baio, mani guantate e capelli castani raccolti in una lunga treccia che le ricadeva in mezzo alle scapole.
“Rea, giusto per non farti sprecare energie, non ho alcuna intenzione di salire su una di quelle cose di pelle e infilare i piedi in quelle cose con i ganci.”
Gisèle si fermò a debita distanza dall’enorme equino, guardandolo diffidente prima di stringere con risolutezza le braccia al petto mentre Nerea, interrompendo momentaneamente l’accurata operazione di pulizia, si voltava verso l’amica per guardarla con finta innocenza, gli occhi chiari spalancati ad arte:
“Non ti ho chiesto di venire per questo, solo per stare un po’ insieme! Io e Pegasus abbiamo fatto una passeggiata e sto finendo di lavarlo, non è bellissimo tutto pulito?”
Nerea finì di parlare spostando adorante lo sguardo sul Selle français a cui stava accanto, smettendo di passargli il raschietto sul mantello per allacciargli le lunghe braccia attorno al collo in un affettuoso abbraccio che Pegasus sembrò gradire insieme ai complimenti rivoltigli da una delle sue visitatrici più assidue. Gisèle, invece, scrutò scettica lo splendido animale facendo scivolare i grandi occhi azzurri sugli zoccoli che avrebbero potuto frantumarle facilmente tutta la struttura ossea del volto con un calcio ben assestato, stringendosi nelle spalle prima di lanciarsi in un mesto borbottio:
Carino.”
Lo scarso entusiasmo manifestato dall’amica indispettì non poco Nerea e spense immediatamente tutto l’entusiasmo dell’italiana, che smise di abbracciare il possente collo del cavallo per mettersi offesa le mani guantate sui fianchi, guardandola con aria di rimprovero:
Carino?! Pegasus è splendido! A volte proprio non ti capisco. Sei una ragazza di campagna anche tu da che mi risulta!”
“Guarda che i cavalli mi piacciono, più o meno. Solo che non voglio starci vicino. Li osservo a distanza. Un po’ come la gente che studia i volatili…”
Gisèle, che non aveva mosso un passo da che si era fermata davanti alla parete di pietra dove si poteva legare i cavalli per fargli la doccia, si strinse debolmente nelle spalle sotto lo sguardo scettico di Nerea, che scosse la testa prima di avvicinarsi all’enorme barile pieno di carote poco distante, accanto ad uno identico ma pieno di pane secco.
“Ma sono buoni, non ti fanno niente! Su, dagli una carota, così fate amicizia.”
Gisèle sapeva che quel momento sarebbe arrivato, puntuale come un orologio svizzero, e in men che non si dica si ritrovò un pezzo di carota stretto in mano e gli occhi neri di Pegasus puntati su di sé, desiderosi di uno spuntino. Dopo essersi avvicinata – ma non troppo – lentamente all’animale Gisèle sollevò dubbiosa la carota per porgerla a Pegasus stringendola tra le dita, destando un sonoro sbuffo di disapprovazione da parte di Nerea, che scosse la testa e le prese la mano per costringerla ad aprire completamente il palmo:
“Ma non così… Così. Apri la mano.”
“E se mi morde?!”
“Non ti morde, si fa così, smettila di fare la fifona!”
“Ok… Bravo… bello.”
Mentre Pegasus masticava soddisfatto la carota Gisèle si concesse di dargli un leggero colpettino al centro della fronte sperando di accontentare almeno parzialmente la sua migliore amica, che da anni cercava con scarsi risultati di farle stringere amicizia con gli equini. Consapevole di non poter ottenere molto altro da Gisèle Nerea infatti la guardò rassegnata prima di annuire, concedendosi di provare un po’ di soddisfazione e di allargare le labbra per dar vita ad un lieve sorriso:
“Meglio di niente. Gli ho già passato il grasso sugli zoccoli, ora deve asciugarsi, gli metto il districante sulla criniera e poi abbiamo finito… Vieni, lo porto nel paddock, così si asciuga prima.”
Nerea slacciò la lunghina blu elettrico di Pegasus dal gancio per voltarlo e portarlo fuori dall’edificio facendo echeggiare tra le pareti lo scalpitio regolare degli zoccoli ferrati del cavallo sul pavimento di pietra. Gisèle, decisa a non restare indietro né tantomeno di trovarsi alle spalle dell’animale anche solo per una frazione di secondo, si spostò con uno scatto e subito affiancò l’amica per uscire dal retro delle scuderie insieme a lei: Nerea e la sua esperienza con i cavalli erano tutto ciò che riusciva a spingerla fin lì e a sforzarsi di superare almeno parzialmente la sua forte diffidenza nei confronti di quegli animali.
“Bravo piccolino, sei proprio bravo bravo bravo.”
Mentre Nerea lasciava il cavallo libero di annusare il suolo e brucare l’erba scattandogli decine e decine di foto col proprio telefono e ripetendogli parole dolci ad oltranza Gisèle si posizionò dietro di lei con le braccia strette al petto e lo sguardo attento a contemplare gli steccati bianchi del paddock che le circondavano, chiedendosi dubbiosa se fossero abbastanza alti da impedire ad un qualche altro cavallo di arrivare di corsa, saltare, investirla e porre così fine alla sua carriera di ballerina. Non le importava un fico secco di sentire Nerea sgolarsi per ripeterle quanto quello scenario fosse molto poco probabile, lei continuava ad immaginarselo ogni volta in cui le capitava di recarsi fin laggiù.
“Sicura che non possano saltare quei recinti? Non sembrano così alti.”
“Sono fatti apposta, rilassati. E poi non siamo alla corrida, non è che i cavalli ti inseguono per investirti, è una tua folle paranoia! Guarda Pegasus com’è carino mentre mangia i trifogli!
Dopo aver parlato senza neanche volgere lo sguardo su di lei Nerea trillò entusiasta prima di correre dal cavallo e abbracciarlo di nuovo, pigolando qualcosa a proposito di quanto fosse “bello e bravo” mentre Gisèle, alle sue spalle, si limitava ad alzare gli occhi al cielo.
“Rea, venire qui non ti fa, emh, sentire la mancanza dei tuoi cavalli?”
Le stalle dei Pagano contavano ben cinque cavalli adulti più l’ultimo arrivato “della famiglia” – Nerea includeva anche gli animali, cani, cavalli, galline o mucche che fossero –, il piccolo Pepe, che la padroncina aveva accudito e viziato per tutte le ultime settimane di vacanze estive. Anche Gisèle si era ritrovata suo malgrado a fargli da babysitter durante il suo soggiorno a casa Pagano, ma essendo Pepe un tenero puledrino la francese non si era mai lamentata, finendo invece col provare un po’ di affetto per un equino per la prima volta in tutta la sua vita. Mentre accarezzava dolcemente il collo umido e spazzolato di Pegasus, il cui manto pulito e profumato brillava sotto la calda luce del sole mentre si asciugava, lo sguardo adorante di Nerea improvvisamente si incupì: per quanto la ragazza amasse Beauxbatons, i suoi amici e la sua vita a scuola, la lontananza forzata dai suoi animali la faceva sempre soffrire non poco durante i mesi che era costretta a trascorrere lontano da casa, al confine tra Spagna e Francia. La strega scoccò un’ultima occhiata mesta a Pegasus, che stava annusando la base dello steccato bianco che delimitava il rettangolo del paddock in cui si trovavano, prima di annuire e tornare a posare lo sguardo sull’amica, che naturalmente non si era mossa di un centimetro e moriva silenziosamente dalla voglia di tornare al castello, lontano dall’odore di stalla e da zoccoli ferrati potenzialmente mortali.
“Certo, mi mancano tantissimo… Pepe sarà cresciuto tantissimo per quando lo rivedrò, purtroppo. Almeno lui ti piaceva, quando sei venuta da me in estate.”
“Certo, era piccolo e carino, non abbastanza pesante da cadermi addosso e schiacciarmi una gamba.”
Nerea alzò gli occhi al cielo, ma non disse nulla: se non altro era riuscita a farle apprezzare un cavallo, a prescindere dall’età e dalla stazza. Chissà, forse entro la fine della loro vita a Beauxbatons sarebbe persino riuscita a portare a termine l’eroica impresa di convincerla a montare in sella insieme a lei: Etienne ed Antoine non facevano che ripetere quanto fosse folle anche solo sperarlo, ma Nerea era decisa a non darsi per vinta fino al giorno del Diploma.
“Mamma mi ha mandato un sacco di foto delle ragazze ieri, vuoi vederle?!”
Gisèle aveva imparato tempo addietro il gergo con cui Nerea era solita utilizzare per fare appello ai suoi amati animali, e sapeva che con “ragazze” l’amica faceva quasi sempre riferimento alle sue tre mucche, Maggie, Grace e Mrs Calloway.
“Certo. Le tue mucche sono molto simpatiche.”, disse Gisèle con un sorriso, questa volta sincera al 100%: del resto le mucche di Nerea, a differenza dei suoi cavalli, non la terrorizzavano affatto.
“Certo che lo sono, tutti i miei animali sono simpatici. È un tratto di famiglia. Ciuchino invece è triste e mangia meno da un po’, si vede che gli manco.”
Mentre si avvicinava all’amica per mostrarle orgogliosa le foto delle sue mucche il viso di Nerea s’incupì di nuovo, appoggiando il capo contro quello dell’amica quando Gisèle le concesse qualche pacca sulla spalla per invitarla a farsi forza: c’erano giorni in cui la vita di affettuosa padroncina a distanza della sua amica si faceva più dura che in altri.

 
Icaro Orsini aveva imparato a montare in sella – rigorosamente all’inglese, sua madre si sarebbe tagliata tutte le dita delle mano sinistra prima di consentire a lui o ad uno qualsiasi dei suoi fratelli di montare all’americana – ancor prima di imparare a calcolare le divisioni a due cifre: si considerava e si poteva indubbiamente considerare un fantino provetto, eppure quel pomeriggio aveva rischiato, per la prima volta dopo cinque o sei anni, di cadere dalla sella. In realtà la responsabilità più che al cavaliere o al suo cavallo, un Purosangue Inglese dal mantello completamente nero, fatta eccezione per i quattro calzini bianchi che gli ornavano le caviglie, si sarebbe dovuta addossare al ragazzo che aveva accompagno Icaro e Teseo, così si chiamava l’equino, nella loro passeggiata: Diego, immobile mentre stava in sella ad un palomino stringendo mollemente le redini alla base del suo collo, stava scrutando il cugino con sguardo truce mentre questi, fermo accanto a lui, si trovava completamente disteso in avanti sul collo del suo cavallo, preda di convulsioni da troppe risate e gli occhi scuri pieni di lacrime.
“Icaro, che cazzo ti ridi?! Io sono serio.”
Mentre Teseo si guardava attorno altezzoso e il palomino approfittava del momento di relax per brucare un po’ d’erba Icaro venne colpito da un altro violento attacco di risa che lo spinse a picchiettare la mano destra sul collo del Purosangue, fortunatamente sufficientemente addestrato da non fraintendere il gesto del cavaliere e partire al galoppo verso l’ampia distesa di prato che stavano fronteggiando.
 “Die’, scusa, non ce la faccio. Non puoi essere serio.”
Icaro si asciugò le lacrime che avevano iniziato a sgorgargli dagli occhi e si sforzò per rimettersi a sedere dritto sulla sella e a tornare serio, reprimendo l’attacco di ilarità che l’aveva colpito quando il cugino, scuro in volto e serio come sul punto di rivelargli di aver compiuto un omicidio, lo aveva costretto ad interrompere il trotto per informarlo di voler fare le valige e andarsene a casa dopo la sua disavventura di quella mattina. Icaro lo aveva guardato con tanto d’occhi, certo che si trattasse di una presa per il culo orchestrata dal cugino e da Phoenix, ma aveva finito col ricredersi e a con l’iniziare a contorcersi dal ridere sulla sella quando Diego gli aveva rivelato ciò che l’aveva spinto a prendere quella decisione definitiva: ora il più giovane lo guardava ancor più torvo e scuro in volto, sempre più convinto della sua decisione di sparire dalla circolazione per la vergogna.
“Vedi, è di questo che parlo! Ora tutto il castello saprà che la mia gatta si chiama Minni, sembrerò un idiota e nessuno penserà più che io sia un tizio da cui stare alla larga! Tanto vale fare le valige, o cambiare nome. Beh, a quello pensavo già da un po’, in realtà.”
Ora tutto ciò a cui Icaro riusciva a pensare era al cugino che, di nero vestito, serio e ingobbito, fuggiva via dalla Torre Nord insieme alla sua gattina di fronte ad una terrificante e dolcissima ragazzina che con ogni probabilità gli aveva rivolto al massimo un sorriso. Fortunatamente voleva bene a Diego e a minare la sua autostima non ci teneva, motivazioni che lo spinsero a sforzarsi di farsi serio mentre con un lieve colpo di talloni invitava Teseo a riprendere a proseguire al passo, Diego subito dietro di lui.
“Die’, senti, scusa se te lo dico, ma non è che tu abbia proprio l’aura da cattivo ragazzo
“Cosa?! Ma se mi impegno tanto per sembrare un tizio a cui non rivolgere la parola?!”, esclamò Diego sgomento mentre guardava il cugino con gli occhi azzurri spalancati e pieni di allarmismo: come poteva Icaro dirgli una cosa del genere quando lui aveva sudato anni e anni per diventare uno a cui non parlare, salvo casi disperati? Voleva forse dire che i suoi ripetuti sforzi erano stati vani?!
“Certo, un tipo poco raccomandabile che mangia miele dalla mattina alla sera neanche fosse un orsetto dei cartoni animati e che se ne va a spasso con un cavallo di nome Camomilla…”
Icaro accennò con fare eloquente in direzione della tenerissima palomina di Diego, tutta ciglia e occhi color ambra, che stava seguendo Teseo muovendo allegra la lunga coda bionda che il Bellefuille le spazzolava con cura e affetto dopo ogni passeggiata. Diego sentiva spesso la mancanza dei cavalli di proprietà della sua famiglia che ogni estate lo aspettavano quando faceva ritorno a casa ma non poteva negare di provare un profondo affetto per la cavalla in questione, attaccamento che lo spinse a farsi improvvisamente serio e a raddrizzarsi sul cuoio della sella mentre si ergeva in difesa dell’animale:
“Ehy! Camomilla è dolcissima e non le danno l’affetto che si merita!”
Diego accarezzò con fare protettivo il collo dorato della cavalla gettando un’occhiataccia ad Icaro e a Teseo, noto per essere la primadonna delle scuderie e da lui molto poco apprezzato a causa del suo carattere notoriamente capriccioso. Diego era solito sfogare quell’antipatia – reciproca, dal momento che Teseo lo sguardava stizzito e si voltava dandogli le spalle ogni volta in cui lo incrociava –  dando a Camomilla dei pezzi di carota come snack senza condividerli con il Purosangue: come faceva Icaro a definirlo un adorabile ragazzo dal cuore tenero, si chiese accigliato Diego a fronte di quelle considerazioni?
Ecco, appunto. Dai Die’, è una stronzata… Chiami la tua gatta Minni, e allora?! Tutti si rincoglioniscono con i propri animali.”, disse Icaro scuotendo la testa con un sospiro rassegnato, ignorando il cupo borbottio che il cugino bofonchiò in risposta e dal quale non riuscì ad estrapolare una sola parola dotata di senso compiuto.
“Dai, facciamo il giro largo attorno alle serre prima di tornare indietro… se pensi di riuscire a non fuggire verso il tramonto in un’uscita di scena drammatica, certo.” Icaro ridacchiò mentre si attorcigliava le redini di cuoio nero attorno alle mani pallide per accorciarle, affrettandosi a stringere le ginocchia contro i fianchi di Teseo e aumentare la pressione sui talloni per indurlo a galoppare mentre Diego, dietro di lui, si sporgeva leggermente in avanti per assestare un dolce colpetto affettuoso sul collo di Camomilla, che intuì le sue intenzioni e affrettò obbedientemente le falcate fino a passare dal trotto al galoppo, seguendo Teseo in mezzo all’erba alta e fitta.
“Anche volendo manca ancora troppo al tramonto…”, sussurrò Diego rivolgendosi più a se stesso che al cugino, che ormai non poteva più sentirlo. Come Icaro Diego rilassò le gambe, sollevò le spalle e rimase perfettamente seduto sulla sella seguendo l’andatura accelerata di Camomilla senza sollevarsi come a lungo gli era stato insegnato da bambino, quando una volta imparato a montare all’inglese gli era stato inculcato a forza di come il galoppo sull’inforcatura fosse infinitamente meno elegante di quello seduto. Dopo pochi secondi, presa velocità e abituatosi all’andatura, Diego sfilò i piedi dalle staffe lasciandoli cadere lungo i fianchi dorati di Camomilla traendo un profondo respiro di sollievo, concedendosi di sorridere mentre si lasciava quasi proiettare sulle nuvole.

 
 
divisore

 
“Mi spieghi come e quando ti è venuto in mente di comprare un proiettore? Basile arriverà di corsa roteando minacciosamente una mazza da Battitore la prossima volta in cui comprerai qualcosa di costoso.”
Maëlle parlò scuotendo il capo rassegnata mentre faceva affondare un biscottino al burro glassato nella soffice e candida schiuma, simile in tutto e per tutto ad una nuvola, del cappuccino speziato che aveva davanti, sempre più certa giorno per giorno che suo fratello dovesse essere precipitato dal seggiolone da neonato. Ironia a parte, viste le capacità genitoriali di chi li aveva cresciuti nei loro primi anni di vita la ragazza non se la sentiva di escludere del tutto quella possibilità. Etienne invece, che sedeva di fronte a lei con un paio di occhiali da sole tartarugati a celare le iridi chiare si limitò ad una debole scrollata di spalle senza manifestare troppa preoccupazione, le braccia che ancora presentavano gli ultimi rimasugli dell’abbronzatura estiva lasciate scoperte dalla camicia larga a maniche corte verde e lasciata aperta e infilata sopra ad una maglietta bianca.
“Ok, è una spesa considerevole, ma è per una giusta causa! E poi sono talmente generoso da essere disposto a farlo adoperare anche ai miei amici, questo non depone a mio favore?”
“Forse, ma dubito che Basile sia dello stesso avviso.”
Maëlle, che riusciva benissimo ad immaginare la lunga sequenza di tic nervosi che dovevano aver colpito Basile alla vista dell’ordine fatto su Amazon – chiaramente con il suo stesso account, perché i fratelli minori preferivano di gran lunga scroccare invece di sborsare per avere Amazon Prime – imitò il fratello stringendosi nelle spalle prima di addentare quel che restava del dolcetto glassato, riprendendo a sorseggiare il suo caffè dopo essersi interrogata a voce alta sul perché i fratelli maggiori creassero problemi costantemente.
“Noi povere sorelle minori dovremmo tutte essere santificate.”, decretò Daphnè con la massima solennità mentre stringeva la tazza di cappuccino alle fragole che come sempre aveva impiegato mezz’ora per ordinare stando ben attenta a non sollevare il mignolo: sua madre poteva anche trovarsi a chilometri e chilometri di distanza, ma Daphnè sapeva che se avesse infranto il galateo sarebbe venuta a saperlo in ogni caso. Maëlle annuì, d’accordo con lei mentre si serviva un altro biscotto dall’alzata per dolci che un Elfo armato di grembiulino a fiori aveva portato loro poco prima sulla terrazza, mentre Etienne al contrario manifestò tutta la sua disapprovazione scoccando un’occhiata torva a Daphnè, che si limitò a rivolgergli un sorriso colpevole e affettuoso al tempo stesso:
“Scusa Etienne, ti voglio bene, ma è così.”
“Detto sinceramente, l’unica della vostra famiglia che andrebbe santificata è vostra sorella.”, s’intromise Lucinda, che fino a quel momento aveva seguito di sfuggita la conversazione sorseggiando caffè freddo e standosene seduta sulla sedia da giardino di metallo bianca con la testa reclinata all’indietro nel tentativo di prendere più Sole possibile, le braccia abbandonate sui braccioli e lasciate scoperte dalla t-shirt rosa acceso con il suo cognome – o per meglio dire quello di suo fratello, visto che apparteneva a lui – stampato sul retro. Le parole della ragazza fecero quasi andare il caffè di traverso a Maëlle quanto ad Etienne, ed entrambi i Macquart volsero gli sguardi attoniti su di lei, entrambi con gli occhi spalancati e l’aria stralunata:
“Luli, che ti sei fumata?! Sono io la povera vittima in casa nostra!”
Maëlle parlò agitando indispettita la tazza di vetro rischiando di rovesciare la schiuma sul suo vestito nuovo in cotone sangallo con le maniche a sbuffo, ma anziché scomporsi Lucinda si strinse nelle spalle esili, aggiustandosi gli occhiali da sole sul naso con nonchalance prima di raddrizzarsi sulla sedia, riprendere in mano la sua tazza e vuotarla in tutta calma. Solo una volta finito di bere il suo caffè, con tre paia d’occhi ad osservarla in attesa, la ragazza riprese a parlare con una debole stretta di spalle:
“Soleil vi sta dietro sempre, fa la spesa, vi manda tutto quello che vi serve e cucina quasi sempre visto che Basile è totalmente incapace. E lavora anche, non so come faccia a far tutto! È la sorella dei miei sogni.”
“Anche dei miei, avrei tanto voluto una sorella…”, sospirò Daphnè guardando mesta la sua tazza mentre Etienne, poco convinto dalle parole di Lucinda, guardava l’amica della sorella con le sopracciglia aggrottate, dubbioso:
“Sì, ok, Soleil è una brava sorella, ma io sono quello che viene sempre maltrattato da tutti in famiglia! Siete solo invidiosi perché sono quello simpatico.”, decretò il ragazzo scoccando un’occhiata sostenuta in direzione della sorella minore, che quasi sputacchiò di nuovo il caffè all’udire quella che alle sue orecchie costituì la più grande stronzata della settimana. Mentre la bionda iniziava ad inveire contro di lui Lucinda ebbe la prontezza di riflessi di rubarle la tazza, ormai certa che di quel passo quella e il caffè avrebbero fatto una fine poco auspicabile.
“Perché te lo meriti, cretino! E comunque quella simpatica sono io. … Ora che ci penso, controlla che Basile non abbia cambiato la password di Netflix come l’ultima volta in cui lo hai fatto incazzare.”
“Porco Flamel, spero di no! Dovrò pur usarlo il proiettore!”
Improvvisamente impallidito Etienne si affrettò ad infilarsi una mano nella tasca dei pantaloni verdi abbinati alla camicia – che naturalmente gli aveva comprato Soleil, ma si astenne dal sottolineare come la maggiore si occupasse anche di aiutarlo a fare shopping, o sarebbe sembrata una sorella troppo perfetta – per recuperare il telefono, preoccupato all’idea di trovarsi tagliato fuori dall’account di famiglia come negli ultimi anni accadeva fin troppo di frequente. Mentre Daphnè e Lucinda cercavano di non ridacchiare troppo apertamente, la prima nascondendosi dietro la tazza e la seconda sforzandosi di guardarsi attorno con studiata nonchalance, Maëlle fulminò il fratello con un’occhiata talmente minacciosa che per un istante Etienne temette di ritrovarsi pietrificato nel bel mezzo della terrazza:
“Lo spero per te anche io, se resto senza Friends per colpa tua ti taglio quei bei capelli biondi nel sonno!”
“Ah ecco sorellina, mi odi perché ho i capelli più belli dei tuoi. … Cazzo, ha cambiato la password!”, gemette Etienne con aria grave quando Netflix lo informò che quella che aveva usato fino al giorno prima, ovvero un’eccessiva autoreferenziale “Maëllebellissima00” scelta dalla minore, non andava più bene. Conoscendo Basile quella nuova doveva essere un insulto alla sua persona.
“Ti disintegro, tu e il tuo proiettore!”, esclamò Maëlle pentendosi amaramente di non aver nulla da lanciare contro il fratello quando appurò che la sua tazza era misteriosamente sparita nel nulla – l’unica cosa che aveva davanti era la meravigliosa alzata per dolci, che però era troppo preziosa per sprecarla in quel modo –, dopodiché si affrettò a recuperare a sua volta il telefono dalla borsetta a tracolla di cuoio che aveva portato con sé per controllare Disney+ pregando che Basile avesse avuto un briciolo di pietà e che non avesse cambiato anche quella password, ma i suoi peggiori timori trovarono conferma quando la solita password venne brutalmente rifiutata:
“Ha cambiato anche Disney+, non accetta “Maëllesivestebenissimo”! Io volevo vedere la Sirenetta stasera… Come può nostro fratello essere così crudele?!”, esclamò con tono grave la strega prima di abbandonare sconvolta il telefono capovolto sul tavolo, mostrando la cover trasparente coperta da adesivi colorati e che conteneva una foto che la ritraeva insieme alle sue amiche risalente all’ultimo giorno di scuola dell’anno precedente.
Dopo essersi scambiata una rapida occhiata con Daphnè Lucinda fece per intromettersi e tranquillizzare l’amica assicurandole di poter usare la sua password per tutto il tempo che voleva – le settimane che Maëlle trascorreva in astinenza da serie tv e film erano tempi bui per lei e per tutti coloro che la circondavano –, ma Etienne la battè sul tempo scrutando accigliato la sorella minore attraverso le lenti degli occhiali da sole e scuotendo la testa in segno di diniego:
“Guarda che non è quella la password, è “Basilenonsacucinare01!”
“Era di due mesi fa, poi Soleil si è incazzata perché hai ordinato la pizza cinque volte in una settimana e l’aveva cambiata in “Etiennedeficiente”… E poi l’ho cambiata io.”
“Ma che razza di password usate…” Daphnè mormorò quelle parole facendo rimbalzare con lieve perplessità gli occhi chiari da un Macquart all’altro, indecisa se prenderla sul ridere come stava facendo Lucinda, in chiara difficoltà nel tentativo di non godersi troppo apertamente la discussione, o se prepararsi a dividerli quando avrebbero finito per rovesciare tavolo e pasticcini per prendersi per i capelli, come più di una volta li aveva visti fare anni addietro. Una parte di lei in quel momento non poté che vagare col pensiero fino a sua madre, ritrovandosi quasi a ridere a sua volta nell’immaginarla alle prese con dei figli come i suoi amici.
“Hanno uno strano modo di dimostrarsi affetto.”, convenne Lucinda prima di addentare un bignè alla panna, segretamente grata di poter assistere al drama che in Casa Macquart regnava sovrano 365 giorni all’anno: la giovane strega, cresciuta insieme ad un fratello parecchio più grande di lei e sì affettuoso ma terribilmente perfettino, era fermamente convinta che assistere alle loro discussioni fosse più soddisfacente di guardare una qualsiasi soap-opera, tanto da recarsi in visita da Maëlle ed Etienne ogni qualvolta in cui le si presentava l’occasione. Non a caso le capitava di desiderare di potersi trasformare in un minuscolo insetto volante ogni qualvolta in cui la sfiorava l’idea di intraprendere gli studi per diventare Animagus.
“Basta, io chiamo Basile e imploro pietà. Ragazze, andiamo, non voglio vedere un mio consanguineo qualsiasi fino a domani.”
Con queste parole Maëlle si alzò in piedi scostando rumorosamente la sedia all’indietro sulle mattonelle della terrazza, girando sui tacchi e andandosene senza aggiungere altro o sognarsi di salutare il fratello maggiore, il mento sollevato a conferirle un’aria sostenuta e la borsetta che le dondolava lungo il fianco destro. A Lucinda e a Daphnè non restò che seguirla, pertanto le due salutarono frettolosamente Etienne prima di alzarsi e andarle dietro, lasciando solo il Bellefuille per una manciata di istanti: il ragazzo stava per consolarsi prendendo un macaron dall’alzata per dolci, deciso a crogiolarsi nell’autocommiserazione riempiendosi di zuccheri, quando Lucinda tornò indietro per recuperare l’alzata per dolci rivolgendogli un mite sorriso di scuse:
“Scusami tanto, ma Maëlle vuole affogare la disperazione nel cibo.”
Lei vuole affogare la disperazione nel cibo?! E a me che cosa rimane?!”, esclamò incredulo il ragazzo guardando la Papillonlisse con gli occhi fuori dalle orbite, preda della disperazione a sua volta. Fortunatamemte Lucinda, mossa da un po’ di pietà, ebbe il buon cuore di allungargli un paio di bignè prima di scoccargli un bacio aereo, girare sui tacchi e raggiungere di corsa Maëlle e Daphnè. Etienne, rimasto definitivamente solo, guardò sconsolato i dolcetti che gli erano rimasti – ormai senza Netflix, cibo e proiettore, che cosa gli rimaneva? – prima di riprendere in mano il telefono e scrivere all’unica persona di sua conoscenza in grado di comprendere cosa significasse privarsi della gioia datagli dai dolci: Etienne scrisse a Gisèle in cerca di supporto emotivo, manifestando all’amica perennemente a dieta tutta la sua sofferenza, ma finì col trasalire inorridito quando quella gli rispose consigliandogli di consolarsi mangiando delle gallette di riso ricoperte di cioccolato. Secondo lei quella era una consolazione?! Etienne ripose il telefono sul tavolo scuotendo la testa con stizza, e all’improvviso non lo stupì poi così tanto il fatto che l’amica fosse spesso di cattivo umore viste le schifezze ipocaloriche con cui era costretta a nutrirsi.

 
divisore

 
Campo di tiro con l’arco
 
 
Quando dopo aver sferzato l’aria con un sibilo la freccia si conficcò nel pieno del terzo cerchio del bersaglio, accanto a quelle che già aveva lanciato in precedenza, una lieve imprecazione in cinese scivolò fuori dalle labbra di Dante Wang, che guardò affatto compiaciuto il risultato del suo ultimo tiro mentre Nerea, in piedi a due metri di distanza, abbassava l’arco di legno per rivolgersi all’amico con un sorriso divertito:
“Ma guarda, sembra che qualcuno oggi non stia dando il meglio di sé!”, esclamò la Bellefuille dopo aver scoccato una rapida occhiata al suo bersaglio e a quello dell’amico, prova di come gli ultimi tiri della ragazza fossero stati più precisi rispetto a quelli di Dante. Il ragazzo però, che di norma si dimostrava più abile dell’amica in quella disciplina grazie ai lunghi anni di esercizio a Mahoutokoro che aveva alle spalle, non si scompose più di tanto, e anzi restò impassibile mentre chinava a sua volta il rider di legno dell’arco con una debole scrollata di spalle:
“Forse è il tuo chiacchiericcio costante che mi disturba e mi distrae, chissà.”
“Ma se ero in silenzio?!”, gli fece notare Nerea strabuzzando gli occhi un tantino indignata, guardando l’amico fare di nuovo spallucce come se quel dettaglio fosse del tutto irrilevante:
“Fa’ niente, ti sento pensare.”
 
Milad ed Antoine sedevano poco distante sul prato, godendosi l’ombra di un albero in attesa del loro mentre guardavano i compagni tirare, e pur non capendo una parola di quello scambio in italiano entrambi riuscirono comunque a supporne tranquillamente il senso mentre le frecce si staccavano da sole dai bersagli colorati per tornare al loro posto all’interno delle faretre di cuoio. O meglio, Antoine stava guardando i compagni tirare, Milad come suo solito aveva deciso di approfittare del momento libero per tirare fuori un libro dallo zaino e mettersi a leggere un libro sulle tecniche scacchistiche, il capo chino e le gambe fasciate dai jeans neri incrociate sul prato.  
“Dante è molto bravo, vero?”
La voce di Antoine spezzò il silenzio mentre il belga guardava Dante e Nerea allontanarsi dai bersagli camminando sul prato in mezzo ad un lieve venticello che non stava facilitando per nulla l’attività in corso
“Mh-mh. Sono felice che si sia iscritto, anche perché mi sono reso conto che è divertente vederlo battibeccare con Nerea.”, decretò Milad senza alzare lo sguardo dal libro, limitandosi ad un lieve cenno del capo mentre girava pagina e Antoine, accanto a lui, sorrideva strappando distrattamente qualche filo d’erba, le gambe lunghissime distese davanti a sé:
“Sono una versione molto più soft di Gisèle e Guillaume. Speriamo che stasera riescano a non uccidersi sul tavolo.” L’espressione fino a quel momento serena e rilassata di Antoine si fece improvvisamente tesa mentre la sua mente vagava fino alla migliore amica e al cugino: tutti gli altri adoravano vederli litigare ma lui, consacrato fin dal primo anno di scuola all’ingrato ruolo di pacere, non si divertiva neanche lontanamente. Anzi, a quelle riunioni doveva sempre stare sul chi va là, pronto ad impedire a Gisèle di infilzare il cugino con una forchetta da dessert o di trasformarlo in un comodino. Dopo aver riflettuto brevemente sulla questione e aver sollevato persino lo sguardo dalla propria lettura Milad annuì, trovandosi d’accordo mentre Nerea li raggiungeva con un largo sorriso allegro sulle labbra per invitarli a prendere il posto suo e di Dante.
“Sì, dovremmo farli sedere il più lontani possibile… Dopo lo dico ad Abel.”
“Ciao ragazzi! Noi abbiamo fatto, se volete potete andare.”
Nerea si fermò con un sorriso davanti ad Antoine porgendogli l’arco di legno, e il belga si alzò prima di accettarlo ringraziandola. Milad chiuse il libro, lo rimise al suo posto con cura all’interno dello zaino e infine si alzò seguendo Antoine dopo aver preso l’arco di Dante. Mentre i due si allontanavano verso i bersagli, Milad sfiorando la corda di lino con le folte sopracciglia scure aggrottate per accertarsi di quanto fosse tesa, Dante s’infilò le mani nelle tasche dei pantaloni neri gettandosi una pigra occhiata attorno, i lisci capelli scuri lievemente mossi dal vento:
“Beh, io vado se abbiamo fatto.”
“Noo dai, resta ancora un po’, durante la settimana non riusciamo mai a vederci con tutte le cose che abbiamo da fare!” Lo sguardo implorante che Nerea sfoderò per cercare di persuaderlo a rimanere e farle compagnia riuscì a far esitare l’amico, che si vide costretto a non darle torto – specie a causa degli innumerevoli impegni che popolavano le giornate di Nerea – e dopo un breve tentennamento cedette e annuì, acconsentendo a restare ancora per un po’. Cinque minuti dopo i due sedevano sul prato uno di fronte all’altra con in mano delle carte, sfidandosi in un’accesissima partita a UNO che costrinse un sempre più seccato Dante a pescare una carta dietro l’altra:
“Piantala di farmi pescare, cazzo!”
“Non è colpa mia se sei sfigato!” Nerea accusò l’amico di essere poco avvezzo ad accettare la sconfitta premurandosi anche di ricordargli un aneddoto risalente a più o meno dieci anni prima, quando lui non le aveva parlato per tutto il pomeriggio dopo aver perso una partita a ping pong da tavolo.
“Perché tiri sempre fuori storie del secolo scorso?!”
 

Milad, in piedi davanti al bersaglio ancora vuoto, impugnò il rider dell’arco stringendo la mano sinistra attorno al grip dopo aver incoccato la freccia con l’aiuto del rest(3), prese la mira con la dovuta calma e dopo aver tratto un profondo sospiro lasciò andare la freccia sperando di aver calcolato la traiettoria giusta considerando il vento, guardandola sferzare l’aria fino a conficcarsi nel secondo cerchio giallo del bersaglio. Sul viso spesso serio del ragazzo, fermo sostenitore di quanto costanza, impegno e allenamento potessero migliorare qualsiasi abilità in chiunque, apparve un sorriso compiaciuto, e Milad si apprestò a prendere un’altra delle sue frecce ripensando con soddisfazione a quando, sei anni prima, aveva faticato anche solo a reggere l’arco e a tenderlo a dovere. Ecco spiegato perché non le avrebbe mai sopportate, le persone che mollavano alla prima difficoltà.

 
 
divisore

 
“Basile, sei meschino, io non ho fatto nulla! Non è colpa mia se Etienne è uscito male! Che cosa avrei fatto?! … No, non ho speso io tutti quei soldi su Asos, sarà stato tuo fratello! Erano gonne, e allora?! Magari erano… per una fidanzata di cui non sappiamo nulla. Va bene, non ci crede nessuno, ma magari Etienne ha cambiato gusti in fatto di abbigliamento!”
“Pensi che la smetterà?”
Dopo pranzo Daphnè e Lucinda avevano seguito Maëlle in giardino fino ai pressi del roseto e avevano steso una soffice coperta a quadri bianchi e beige sul prato per mettersi comode e godersi le ultime giornate di sole di un autunno ancora agli albori, ma invece di unirsi a loro l’amica aveva pensato bene di telefonare a Basile, e stava marciando avanti e indietro sul prato da ormai più di dieci minuti. Udita la domanda di Daphnè Lucinda si sollevò pigramente gli occhiali da sole quel che le bastava per scoccare una tiepida occhiata in direzione della francese, che stava discutendo animamente col fratello in merito alla punizione che era stata inflitta a lei e ad Etienne a causa del loro shopping eccessivo.
“Quando avrà le password, certo.”
Basile, non riesco a credere che tu sia così cattivo con me. Sei peggio di Scar!”
Questa era cattiva.”
“… No aspetta, scherzavo, non cambiare anche la password di Amazon, dai! Sei il mio fratello preferito!”
“Funzionerà?”
Daphnè prese a giocherellare con l’orlo della gonna di tweed rosa con i bottoni dorati per gettare un’occhiata incerta in direzione prima di Maëlle e poi di Lucinda, che si era spaparanzata accanto a lei sulla coperta e che accennò un sorriso divertito con gli angoli delle labbra:
“Questa volta forse no.”
Mi escludi da Amazon Prime?! È così che tratti la tua piccola e adorabile sorellina? Bene, allora trovatene una nuova!”
Mentre Maelle chiudeva inviperita la chiamata la mano di Lucinda scattò in aria fulminea:
“Io mi propongo, adorerei vivere a casa vostra!”
Tuttavia il sorriso svanì dal viso allegro della portoghese quando scorse l’espressione cupa con cui Maëlle stava facendo ritorno, inducendola a sibilare rapidissima qualcosa in direzione di Daphnè e del cestino contenente la merenda che avevano portato con loro:
I biscotti, presto dalle i biscotti!”
 
 
Phoenix aveva terminato la sua seduta settimanale con la psicologa della scuola esattamente come era avvenuto per tutte quelle precedenti, ovvero provando un gran senso di rabbia e frustrazione. Tirare fuori aspetti tanto personali della sua vita e come questi lo facessero sentire non gli piaceva affatto, soprattutto quando si ritrovava praticamente costretto a farlo dalle condizioni a cui lo aveva messo di fronte la Preside alla fine dell’anno precedente, quando lo aveva convocato nel suo Ufficio comunicandogli di non avere intenzione di bocciarlo una seconda volta soltanto qualora avesse accettato di prendere parte a delle sedute di terapie ogni settimana. Parzialmente avverso all’idea ma per nulla intenzionato a marcire dentro le mura di Beauxbatons per l’eternità Phoenix aveva infine acconsentito, anche se la risposta che aveva ricevuto quando aveva domandato per quante settimane avrebbe dovuto presentarsi agli incontri di terapia non gli era piaciuta affatto: Madame de Beauvoir aveva decretato di non avere una risposta definitiva per lui, limitandosi a fargli sapere che avrebbe dovuto continuare fino a quando la terapista lo avrebbe ritenuto necessario. E a giudicare da quante cose Madame Lambert, la terapista, scribacchiava sul suo blocco ogni volta in cui Nick apriva bocca – o stava in silenzio troppo a lungo dopo una domanda – il ragazzo aveva l’orribile presentimento che quegli incontri sarebbero perdurati ancora a lungo.
Al termine della seduta Nick si era lasciato il castello alle spalle, uscendo in giardino in cerca di un po’ d’aria e di quiete: di lì a breve Icaro avrebbe avuto la lezione di scherma, e a pranzo Diego gli aveva detto di voler passare il pomeriggio nelle scuderie a prendersi cura dei cavalli, attività che lo rilassava molto. L’amico gli aveva chiesto di raggiungerlo qualora ne avesse avuto voglia, e anche se Phoenix in fondo apprezzava la premura e la gentilezza di Diego, che sapeva quanto di malumore lo rendessero le sedute, aveva declinato la proposta, deciso a non contagiare l’amico con il suo malumore e a non ammorbarlo con i suoi problemi personali.
Non sapendo di preciso dove andare Phoenix era uscito in giardino camminando praticamente a vuoto, e finì col trovarsi nei pressi del roseto quando si imbatté in alcuni dei suoi compagni: Milad e Antoine, con i quali fino ad un paio di anni prima aveva condiviso la stanza in Dormitorio, stavano giocando a calcio insieme a Dante e a Nerea Pagano, intenti a discutere in merito ad un fallo di dubbia natura agitandosi reciprocamente contro le mani a sacchetto. Milad, in attesa che i due si decidessero e deciso a star fuori da una discussione che non lo riguardava in alcun modo stava palleggiando abilmente usando il piede destro tenendo le mani nelle tasche e gli occhi scuri puntati sulla palla mentre Antoine, eternamente calato nel ruolo di pacere, cercava di convincere i due a lasciar perdere.
Phoenix di fronte alla scena smise di camminare, gli occhi cerulei puntati sulla palla che rimbalzava ripetutamente sulla punta della sneaker rossa e bianca di Milad mentre Nerea, dopo aver gettato un’occhiata all’orologio, ammutoliva inorridita: possibile che ogni sabato si scordasse della quantità esagerata di cose che aveva da fare tra un’attività e l’altra?
“È già così tardi?! Devo andare ad aiutare a pulire la gabbia degli Unicorni prima di Scherma!”
“Ma così restiamo in tre!”, osservò Antoine guardandola dispiaciuto mentre Dante, al contrario, studiava l’amica con la fronte aggrottata e gli occhi scuri pieni di perplessità: dove Nerea trovasse il tempo di dormire, studiare e mangiare proprio non se lo riusciva a spiegare anche dopo due settimane. Il fatto che l’amica fosse anche sempre di buon’umore e piena di energie, poi, lo gettava in confusione ancora di più.
“Lo so, ma ho promesso che avrei dato una mano oggi pomeriggio, scusate… ci vediamo dopo ragazzi!”
Dopo aver scoccato un rapido bacio aereo di commiato ai tre compagni Nerea girò sui tacchi e sfrecciò via verso il Serraglio della scuola correndo sul prato con ampie falcate, consapevole di dover iniziare ad andarsene in giro con un’agenda parlante in grado di ricordarle le cose da fare in orario e di prenderla a mal parole in caso di dimenticanze.
Dante ed Antoine la osservarono brevemente allontanarsi, entrambi un poco accigliati, mentre alle loro spalle Milad smetteva di palleggiare per sistemarsi la palla sottobraccio, indeciso se tornare a studiare o meno chiudendosi in Biblioteca prima di doversi cambiare per la riunione della Brigade di quella sera. Alla fine, mentre Phoenix calpestava l’erba per raggiungerli, Dante volse lo sguardo sul belga scuotendo la testa con aria rassegnata, decretando di aver perso il conto delle attività a cui l’amica partecipava.
“Se volete gioco io.”, decretò Phoenix dopo essersi fermato ad un paio di metri dai compagni, desideroso di distrarsi e di distogliersi mentalmente dalla seduta che si era appena conclusa. Antoine e Milad parvero piuttosto sorpresi all’udire quella richiesta – non ricordavano di aver mai visto il compagno di Casa, notoriamente molto solitario, chiedere di unirsi a qualche attività di gruppo – ma il primo finì con l’annuire e il sorridergli sfoggiando la sua consueta gentilezza:
“Certo, siamo rimasti in tre!”
Milad, a cui Phoenix aveva cominciato a non andare eccessivamente a genio da qualche anno a quella parte, quando il greco aveva iniziato a manifestare atteggiamenti sempre più bruschi e scostanti, a volte quasi irascibili, esitò osservando brevemente il compagno prima di limitarsi ad annuire con un cenno a malapena percettibile del mento, lanciando la palla ad Antoine prima di girare sui tacchi e allontanarsi mentre Phoenix si levava la giacca di pelle per gettarla sul prato con noncuranza, proponendosi di prendere il posto di Nerea e di giocare con Dante contro i due belgi.
Ciò che Phoenix non si aspettava era scontrarsi con la rapidità con cui Antoine correva, tanto che mezz’ora dopo, quando sedettero tutti e quattro sul prato, gli chiese esterrefatto come facesse ad essere così veloce. Il belga gli sorrise e si strinse nelle spalle con noncuranza, informandolo di come lui e Gisèle andassero a correre tutte le mattine all’alba. La reazione di Phoenix fu di puro sgomento – dov’era che tutti trovavano quella voglia di fare, correre e studiare a tutte le ore del giorno? –:
“Mi prendi per il culo? All’alba?! Come fate?!”
“Beh, io corro e basta, Gisèle corre e poi si allena… e poi si allena anche di sera tardi.”, disse Antoine stringendosi nelle spalle mentre strappava qualche filo d’erba, le gambe lunghissime incrociate mentre Phoenix, seduto davanti a lui accanto a Dante con la palla vicino, lo guardava sempre più inorridito: aveva sempre preso in giro Gisèle per la sua mania per l’organizzazione, ora che veniva a sapere di quelle abitudini aveva la conferma che la compagna avesse qualche rotella fuori posto.
 
 
Dopo la sua sfuriata contro Basile Maëlle aveva trovato conforto nei dolcetti al cioccolato che Daphnè aveva avuto l’accortezza di portare in giardino, e ora la bionda stava stesa supina sulla coperta bianca e beige con gli occhi castani fasciati dalle lenti degli occhiali da sole e uno dei suoi libri preferiti in assoluto, Nadja di André Breton, a farle compagnia. Lucinda, seduta tra lei e Daphnè, si stava dedicando a sua volta alla lettura con Bel Ami di Maupassant aperto sulle ginocchia, mentre la terza stava invece litigando con delle parole crociate che la stavano mettendo in difficoltà, tanto che lievi sbuffi amareggiati si levavano di continuo dal suo angolo di coperta.
“Vuoi una mano?”, si premurò infatti di chiederle Lucinda dopo averla sentita borbottare qualcosa infastidita per l’ennesima volta, ma la francese scosse la testa con decisione e declinò gentilmente l’offerta, una penna bianca e rosa a forma di unicorno stretta in mano e gli occhi chiari puntati con fermezza sul lavoro ancora incompiuto e determinata a finirlo da sola. Trascorsero diversi minuti di silenzio, durante i quali la francese riuscì ad andare avanti fino a quasi completare la tabella, finchè Daphnè non alzò lo sguardo con l’intento di recuperare il thermos bianco a fiorellini che aveva fatto riempire di tè freddo da un Elfo prima di lasciare il castello insieme alle sue amiche. Fu in quel momento che la francese si rese conto che mentre Maëlle si trovava ancora immersa nella lettura Lucinda sedeva a gambe incrociate sulla coperta tenendo gli occhi puntati davanti a sé, su un punto del giardino che si trovava a qualche metro di distanza da loro. Dopo aver seguito silenziosamente la direzione dello sguardo dell’amica Daphnè allargò le labbra sottili in un sorrisino eloquente, gli occhi verdi luccicanti mentre formulava una domanda che portò immediatamente Lucinda a scuotere la testa con noncuranza e a chinare lo sguardo sul libro che le stava aperto sulle ginocchia:
“Chi stai guardando Luli?”
“Nessuno in particolare.”
“Cosa mi sono persa?”, esclamò Maëlle mettendosi a sedere di scatto mollando malamente il libro accanto a sé mentre Lucinda sbuffava, invitandola a lasciar perdere con un pigro cenno della mano:
“Niente! I ragazzi stavano giocando a calcio, cosa c’è di male a guardare di tanto in tanto?”
Nessuna delle due amiche risposte mentre entrambe le francesi puntavano a loro volta gli sguardi sui quattro ragazzi seduti sul prato a diversi metri di distanza, finchè Daphnè non si strinse nelle spalle prima di tornare a concentrarsi sulle sue parole crociate rimaste incompiute:
“Phoenix è davvero bello. Peccato che abbia un carattere inavvicinabile.”
“Sì, è molto bello. Però secondo me è più carino Dante Wang.”
Lucinda si scrollò nelle spalle prima di rimettersi distesa sulla coperta, il libro sollevato davanti a sé, sbuffando quando sentì Maelle ridere e darle una gomitata:
“Ahh, a Luli piace il ragazzo nuovo, senti un po’!”
“E finiscila, non si può dire niente!”
 
 
divisore
 
 
“Icaro? Ci sei?! Sono già scesi tutti per cena!”
Phoenix Anastasakis aprì una delle porte dipinte di azzurro del suo Dormitorio e infilò la testa tra anta e stipite con una buona dose di perplessità in corpo: non che fosse poi così inconsueto che il suo migliore amico fosse lento a prepararsi, a stupirlo fu piuttosto l’assenza dell’eco musicale che era solito provenire dalla camera di Icaro quando questi si trovava impegnato in quell’operazione.
La stanza era infatti deserta e insolitamente silenziosa, anche se comunque in disordine come sempre – l’unico letto in ordine e rifatto al millimetro sarebbe stato riconoscibile come quello di Milad anche da un centinaio di chilometri –, e fu con ancora più stupore che Phoenix scorse il suo migliore amico spaparanzato a letto, gli occhi scuri puntati sullo schermo del proprio telefono mentre lo scrollava con l’indice destro con aria annoiata.
“Beh?! Che cacchio fai, la Bella Addormentata?!”, si indispettì il greco mentre quasi riusciva ad immaginare i loro ingordi compagni di scuola intenti a soffiargli le portate migliori, già nella Sala da Pranzo, mentre Icaro pensava bene di poltrire a letto con il peggior tempismo dell’universo. Per tutta risposta l’italiano si esibì in un sonoro sbuffo mentre spostava lo sguardo dallo schermo luminoso per posarlo su di lui, scoccandogli un’occhiata infastidita a sua volta prima di fargli cenno di non disturbarlo con un pigro gesto della mano:
“Non rompere Nick, non ho fame… Tu scendi, magari ti raggiungo più tardi.”
“Ma… stasera c’è la carbonara.”, gli fece notare Phoenix sgranando inorridito gli occhi celesti, provando puro sgomento all’idea che l’amico avesse coscientemente deciso di rinunciare ad uno dei suoi piatti preferiti in assoluto e convincendosi di quanto Icaro dovesse stare male. Che per quella sera tra le portate fosse prevista anche la carbonara Icaro lo sapeva benissimo, e infatti anche se stava recitando la sofferenza con cui si ritrovò ad annuire fu totalmente sincera:
“Lo so. Ma non mi sento molto bene.”
“Ok… come vuoi. Ci vediamo dopo.”
Dopo avergli scoccato un’ultima occhiata dubbiosa Phoenix arretrò chiudendosi lentamente la porta alle spalle, esitando per un paio di istanti prima di allontanarsi percorrendo a ritroso il corridoio per raggiungere la Salle Comune con un po’ di apprensione: per arrivare a rinunciare alla carbonara, evento che non ricordava si fosse mai verificato da che si conoscevano, Icaro doveva stare proprio male.
All’interno della stanza, dopo aver atteso qualche accorto istante ed essere brevemente rimasto all’ascolto – in caso Phoenix fosse tornato indietro – Icaro si levò il copriletto di dosso con un gesto brusco e si alzò in piedi, spolverandosi la camicia nera che si era infilato poco prima per cercare di lisciarne le pieghe mentre, alle sue spalle, la porta del bagno si apriva per consentire a Milad e ad Antoine di uscirne.
“Se n’è andato?”, domandò Milad mentre i suoi occhi scuri vagavano lungo il perimetro della camera ed Icaro, ancora in piedi davanti al suo letto, si infilava rapidamente gli anfibi annuendo e dando le spalle a lui e ad Antoine:
“Direi di sì… Mentirgli di continuo mi sfinisce, ora capisco quanto dev’essere faticosa la vita dei partner fedifraghi.”
Fu solo quando fu pronto per uscire e rimessosi in piedi che Icaro rifletté sulle parole che aveva appena pronunciato, e si premurò di chiedere con tono pacato ai due compagni di Casa di non riferire a nessuno del paragone che aveva scelto di utilizzare per riferirsi alla sua situazione attuale mentre insieme lasciavano la camera che condividevano con Guillaume ed Abel.
Una volta giunti nella Salle Comune deserta i tre si fermarono davanti all’alta porta celeste dell’ingresso, esitando prima di uscire mentre Icaro, un sopracciglio inarcato, domandava agli altri due se dovessero aspettare qualcun altro prima di andare.
“Guillaume e Abel sono già andati, se andassimo tutti insieme daremmo un po’ troppo nell’occhio. Gisèle?”, domandò Milad rivolgendosi ad Antoine con aria interrogativa, resosi conto di non aver visto la compagna di Casa da quella mattina a colazione. Antoine per tutta risposta si sfilò il telefono da una tasca dei pantaloni blu aggrottando le sopracciglia color cenere, i grandi occhi blu puntati dubbiosi sullo schermo privo di messaggi da parte della sua migliore amica:
“In realtà non mi ha scritto nulla, non penso sia già scesa…”, soprattutto considerando che Gisèle non moriva dalla voglia di andare alla riunione, constatò mentalmente il belga, ma si astenne dal dar voce ai propri pensieri prima che Gisèle manifestasse personalmente la propria presenza levando la voce nel silenzio della Salle Comune che, come sempre a quell’ora, si era completamente svuotata:
“Sono qui, un momento!”
Confusi i tre ragazzi si guardarono attorno in silenzio, chiedendosi dove fosse la compagna e come avessero fatto a non notarla quando un minuto prima si erano lasciati alle spalle il loro Dormitorio, finchè Milad non notò un tavolino distante una decina di metri e coperto quasi interamente da due pile di libri di considerevoli dimensioni. La barriera di libri impediva di vedere se qualcuno vi fosse seduto dietro, ma il belga indicò comunque il tavolino ai due compagni mentre Gisèle borbottava da sola a mezza voce contro i compiti, le riunioni serali e la carbonara che non avrebbe potuto mangiare per cena anche se era sabato, il suo unico giorno libero dalla dieta.
“Stai ancora scrivendo il tema?!”, domandò esterrefatto Antoine quando nel silenzio della stanza echeggiò il frenetico digitare di Gisèle sulla tastiera del computer, suonò a cui seguì una brevissima pausa in cui la ragazza si aggiustò gli occhiali da lettura sul naso e diede voce al suo sdegno ricordando all’amico di essere stata interrotta più o meno settantacinque volte nel corso della giornata e di come la sua preziosissima tabella di marcia fosse quindi stata mandata brutalmente in fumo. Quando ebbe finalmente messo un punto alla penosissima conclusione che l’aveva tenuta occupata da quasi mezz’ora a quella parte Gisèle si alzò finalmente in piedi emergendo da dietro la pila di libri, si sfilò gli occhiali per mollarli sul volume in cima alla torre e diede sfogo alla sua felicità esibendosi in una piroetta che, eseguita a piedi nudi, destò una smorfia di orrore misto a dolore sul viso di Milad, certo che se lui o uno degli altri presenti avessero provato ad emularla avrebbero finito con ogni probabilità col spaccarsi tutte le falangi e a trascorrere la serata in Infermiera.
“Ho finito, finalmente! Bene, ora possiamo andare.”, asserì Gisèle con un sorriso compiaciuto mentre recuperava la bacchetta dal tavolino per spedire tutte le sue cose di nuovo nella propria camera, guardando computer, zaino, libri, penne e astuccio schizzare via mentre gli altri tre scrutavano perplessi il suo abbigliamento poco consueto per chi sta per recarsi ad una cena: Gisèle indossava quello che aveva tutta l’aria di essere un pigiama azzurro a fiori rosa antico dal taglio maschile, ma quando Antoine cercò di farglielo notare chiedendole con la massima pacatezza se prima non dovesse finire di prepararsi la ragazza si limitò a chinare lo sguardo per gettarsi un’occhiata e infine stringersi debolmente nelle spalle.
“Ah, è vero.” Gisèle si sfilò delle strane cose adesive bianche si era appiccicata sotto agli occhi che nessuno dei tre compagni di Casa fu in grado di riconoscere, si sciolse i capelli che fino a quel momento aveva tenuto legati sulla nuca e poi Appellò un paio di pantofole color crema dalla propria camera prima di asserire di essere pronta, raggiungendo Antoine, Milad e Icaro davanti alla porta dandosi una pigra ravvivata ai lunghi ricci castani.
“Ma ci vieni così alla riunione?”, domandò stranito Icaro accennando al pigiama a fiori della strega mentre quella, preso Antoine a braccetto, sbuffava liquidando il discorso con un gesto svogliato della mano destra:
“Pensate davvero che mi interessi o voglia perdere tempo per mettermi in ghingheri per otto persone che vedono la mia faccia ogni giorno da anni? Figurarsi.”
“Otto? Qualcuno non viene?” Mentre i quattro lasciavano insieme la Salle Comune Milad volse accigliato lo sguardo su Icaro, stranito dall’osservazione di Gisèle, ma fu la stessa strega ad appianare i suoi dubbi rispondendo con uno sbadiglio mentre insieme ad Antoine seguiva lui e l’italiano:
“No, è che io considero Guillaume alla stregua degli invertebrati che un tempo popolavano la Terra.”
 
 
Mentre i quattro Ombrelune si apprestavano a raggiungere la sede della riunione Etienne Macquart aprì lentamente la porta d’ingresso color salvia della Salle Comune dei Bellefuille, premurandosi di controllare il corridoio prima di uscire facendo cenno a Nerea di seguirlo:
“Non c’è nessuno.”, stabilì il ragazzo mentre scendeva i tre gradini di granito che separavano la porta dal pavimento di marmo con Nerea subito dietro, la quale si chiuse rapida la porta alle spalle senza far rumore prima di affrettarsi a seguirlo giù per i gradini in uno svolazzo della gonna verde bosco plissettata del suo vestito:
“Bene, ricordati che se qualcuno dei nostri compagni domani ci chiede perché a cena mancavamo diremo che io ti stavo dando ripetizioni in Biblioteca. Incluso André.”, precisò la ragazza prendendo a braccetto l’amico e scoccandogli al contempo un’occhiata ammonitrice che lo fece sbuffare, un poco infastidito:
“Dire stronzate ai miei amici è l’unica parte che non mi piace di tutto questo. E comunque perché sei sempre tu che mi dai ripetizioni nelle nostre bugie?! Così finirò col sembrare deficiente!”
Nerea roteò gli occhi al cielo mentre affrettava il passo – erano già in ritardo perché Etienne aveva impiegato un’eternità a scegliere cosa indossare – trascinandosi appresso anche l’amico, decidendo di accontentarlo per evitare di perdere tempo in discussioni inutili:
“Va bene, puoi dire che tu le davi a me allora. In che materia?”
“Che ne so… letteratura? Facciamo che ti stavo spiegando Baudelaire.”
“Ma non l’abbiamo fatto l’anno scorso?!”
L’espressione perplessa che fece capolino sul viso di Nerea persuase Etienne di quanto poco fosse una buona idea raccontare delle sue ripetizioni di letteratura, consapevolezza che lo spinse a cercare rapidamente un’altra scusa prima di sorridere compiaciuto e schioccare le dita:
“Idea. Niente ripetizioni, ti stavo aiutando a scrivere il prossimo pezzo per il Giornale. Che ne dici?”
“Perfetta! Tra l’altro sono piena di gossip, poi ti racconto.”, decretò la ragazza sfoderando un sorriso furbetto che gettò Etienne nello sconforto più totale: ora la sua sete di pettegolezzi voleva sapere tutto quanto, come avrebbe fatto ad aspettare la fine della riunione?! Del resto lui e Nerea ci avevano già provato qualche volta a scambiarsi bigliettini sotto al tavolo per comunicare, ed erano sempre stati beccati alla velocità della luce.

 
divisore

sala

 

Gisèle aveva raggiunto il luogo dell’incontro al quarto piano giurando a se stessa di non permettere a quel troll di montagna di suo cugino di farle perdere la pazienza per alcun motivo: sarebbe rimasta calma e posata qualsiasi cosa Guillaume avrebbe detto o fatto, anche e soprattutto per rimarcare a lui e ai presenti la sua netta superiorità. Disgraziatamente i maturi propositi della ragazza andarono in fumo non appena ebbe seguito Icaro e Antoine oltrepassando l’apertura nella parete che un enorme ritratto a figura intera di Nicolas Flamel aveva rivelato spostandosi di lato al suono della parola d’ordine pronunciata da Milad: ritrovatasi in un’ormai familiare sala rettangolare dalle pareti nere, il soffitto stuccato e un enorme lampadario a pendere su una tavolata apparecchiata per dieci Gisèle venne immediatamente accolta proprio da suo cugino, che stava in piedi accanto al gigantesco camino spento di marmo nero e che non mancò di fare un commento sulla sua curiosa scelta in fatto di abbigliamento:
“Ciao cuginetta, sono felice che tu abbia finalmente deciso di smetterla di perdere tempo nel vano tentativo di sembrare carina conciandoti come si deve!”
Le parole di Guillaume cancellarono ogni buon proposito dalla mente di Gisèle, che probabilmente avrebbe afferrato il minuscolo quanto pesante mappamondo decorativo d’oro che si trovava sopra al caminetto non fosse stato per l’intervento di Antoine, che grazie ad anni di partite sul campo di Quidditch e ai suoi eccellenti riflessi da Battitore riuscì a fermarla e a trascinarla verso il tavolo prima di darle il tempo di compiere una strage. Mentre l’amico cercava di ammansirla ricordandole gentilmente quanto il suo pigiama fosse bello Gisèle, colpita da un fastidiosissimo tic nervoso all’occhio sinistro, digrignò la mascella sibilando che persino il suo pigiama più orrendo sarebbe stato infinitamente più bello di un qualsiasi outfit sfoggiato dal “gargoyle saputello”.
“Ecco, vedi, non dargli retta.”, le suggerì Antoine sorridendole e dandole qualche colpetto di incoraggiamento sulla spalla mentre il diretto interessato ridacchiava compiaciuto. Milad, l’ultimo dei quattro Ombrelune a varcare la soglia della stanza, indugiò brevemente accanto al caminetto che affiancava l’ingresso con le mani nelle tasche dei pantaloni neri e lo sguardo inespressivo puntato su Guillaume, un sopracciglio inarcato in modo appena percettibile, finchè il compagno non gli si rivolse con aria un tantino seccata:
“Beh, che vuoi?”
“Non perdo neanche tempo a parlare con te.”, decretò infine Milad prima di voltarsi tirando dritto verso il tavolo apparecchiato e pieno di candele accese che contribuivano alla luce soffusa che vigeva all’interno della sala, cercando il foglietto che gli avrebbe indicato dove sedersi. Annika, arrivata prima di loro, si era nel frattempo avvicinata con un sorriso leggermente nervoso ad Antoine e a Gisèle, suggerendo alla strega di sedersi il più lontano possibile dal cugino. Gisèle non se lo fece ripetere e obbedì occupando la sedia che si trovava all’estremità del tavolo più vicina all’uscita – posto che le avrebbe permesso di defilarsi per prima, di meglio non avrebbe potuto chiedere –, ordinando ad Antoine di sedersi accanto a lei spostando il biglietto che, sistemato sul piatto dai bordi dorati vuoto, riportava invece il nome di Abel. Il belga, che non aveva nessuna intenzione di contraddire l’amica prima che avesse messo qualcosa sotto i denti, obbedì sedendosi accanto a lei mentre Icaro, che quel pomeriggio aveva studiato personalmente la disposizione dei posti, osservava la scena incrociando seccato le lunghe braccia al petto e studiando i presenti già seduti con cipiglio critico:
“Ma bravi, state scombinando i posti che avevo assegnato con cura!”
“Ma Icaro, avevi messi Gisèle di fronte a Guillaume…”, gli fece notare timidamente Annika indicando i due posti al centro del tavolo, dove Icaro aveva segnato i Delacroix, mentre Milad, occupata la sedia di fronte a Gisèle, indicava il suo biglietto facendo notare di essersi seduto dove doveva.
“Appunto! Milad è l’unico che mi ascolta!”, si lagnò il ragazzo con tono offeso indicando il belga, che si versò un po’ d’acqua in tutta calma usando una brocca di cristallo che, ne era sicuro, valeva più della metà degli oggetti che possedevano i suoi genitori. La rivelazione invece indignò non poco Gisèle, in procinto di prendere un grissino, che guardò l’italiano dischiudendo stizzita le labbra carnose:
Che cosa?! Bravo Orsini, vieni ancora a chiedermi un favore, vedrai come ti risponderò con una bella fattura!”
Ma no, io avevo buone intenzioni, ho pensato che mettendoti di fronte a lui ti sarebbe stato facile prenderlo a calci sotto al tavolo!” Icaro parlò sfoderando il suo sorriso più seducente e sbattendo amabilmente le lunghe folte ciglia scure che contribuivano a fare strage di cuori tra le sue compagne di scuola, e mentre Guillaume borbottava un ringraziamento senza muoversi dal suo angolo accanto al caminetto, intendo a giocherellare con lo stelo del calice che reggeva, la cugina si rivolse all’italiano scostandosi i capelli ricci dalla fronte pallida e chiedendogli se per caso ci vedesse scritto sopra “Cogliona”.
Persino Milad rise rischiando di farsi andare l’acqua di traverso, ma la discussione in merito ai posti finì quando il ritratto si spostò di nuovo permettendo di entrare a Leticia, che salutò tutti allegramente prima di andare ad occupare il proprio posto accanto al belga. Arresosi all’idea di vedere i Delacroix accapigliarsi sopra al tavolo ad Icaro non restò che imitarla andando a sedersi accanto ad Antoine, tenendo il posto vicino a lui per Etienne mentre Leticia dava al gruppo notizie per nulla sconvolgenti:
“Penso che Nerea ed Etienne arriveranno un po’ in ritardo, Rea mi ha scritto dicendomi che Etienne non sapeva cosa indossare…”
“Poteva sempre emulare la sua amica Gisèle e venire in pigiama…”, osservò Guillaume facendo roteare distrattamente il calice prima che Gisèle spezzasse a metà il grissino che teneva in mano, replicando in scala minore il suono che avrebbe voluto che producesse il femore del cugino.
 
 
Nerea ed Etienne non avevano stupito nemmeno loro stessi presentandosi per ultimi, e avevano occupato i rispettivi posti attorno al tavolo rettangolare, gli unici rimasti liberi ed uno di fronte all’altra, Etienne tra Icaro ed Abel e Nerea tra Annika e Guillaume, limitandosi a salutare i presenti senza scomporsi più di tanto. Il ragazzo aveva provato solo un po’ di delusione nel vedere i Delacroix così lontani e aveva subito gettato un’occhiata perplessa in direzione di Icaro, che però gli aveva fatto cenno di tacere mentre si sistemava, profondamente amareggiato, il tovagliolo sulle ginocchia. Nerea invece aveva accolto la notizia con sollievo, e anzi aveva provveduto ad assestare un calcio a Guillaume sotto al tavolo quando, al momento dell’arrivo del soufflé al cioccolato al termine della cena, quello aveva fatto per rivolgersi alla cugina facendole notare che di quel passo il tutù non le sarebbe più entrato.
Nerea si era stampata un sorriso gentile sulle labbra mentre volgeva lo sguardo sul francese porgendogli la ciotola di ceramica piena di panna appena montata dalla quale si era servita lei stessa, guardandolo massaggiarsi lo stinco dolorante con una smorfia prima di rivolgerglisi amabilmente:
“Guillaume, lo sai che io sono sempre gentile con tutti, ma se offendi la mia amica facendole venire strane idee sul mangiare meno ti tartarizzo.”
 

Quando tutti i commensali ebbero finito di cenare i piatti sparirono dal tavolo ed Icaro, che attendeva quel momento da almeno una settimana, non esitò per alzarsi e spostarsi davanti al camino per recuperare l’urna di cristallo che conteneva una ventina di minuscoli bigliettini di pergamena arrotolati.
“Bene signori finalmente passiamo alle cose serie!” – Gisèle sospirò abbandonando stancamente la testa contro la spalla di Antoine, desiderando il suo letto più che mai – “Non che io non abbia rispetto per il cibo, sia chiaro, ma direi che è il momento di estrarre l’argomento di discussione di questa prima serata…”
Icaro sollevò il coperchio dell’urna per appoggiarlo sull’estremità del tavolo, infilando la mano all’interno del vaso per scegliere un foglietto. Ci fu qualche istante di silenzio quasi solenne mentre l’italiano, il vaso sottobraccio, srotolava il foglietto, finendo però con l’aggrottare le sopracciglia con evidente perplessità una volta letto ciò che riportava e che andava contro tutte le sue aspettative. Dopo una breve esitazione che gettò in lieve confusione tutti i presenti Icaro abbassò lo sguardo su Gisèle, sinceramente perplesso:
“Quando ce lo hai messo?”
La strega non rispose, ma si strinse nelle spalle con nonchalance mentre si portava alle labbra il flûte di sorbetto al limone per vuotarlo sotto gli sguardi incuriositi di tutti i presenti. Dopo una breve esitazione Icaro appallottolò il foglietto e lo lasciò cadere sul tavolo, liquidando il discorso con un cenno della mano per procedere:
“… Beh, andiamo avanti, questo non contava.”
“Che cosa avevi scritto?”, domandò incuriosito Milad – che prendeva quelle riunioni molto più sul serio rispetto a quanto non facesse la compagna di Casa – sporgendosi leggermente sul tavolo, ma anziché rispondergli Gisèle recuperò con un sorrisino compiaciuto il proprio telefono e glielo scrisse, destando un rara risata faticosamente trattenuta sul viso del ragazzo. Icaro scelse finalmente un altro foglietto, ma prima che potesse srotolarlo e leggerlo la voce indispettita di Etienne si levò nel silenzio della sala, richiamando su di sé l’attenzione collettiva e interrompendolo:
“Ehy, voglio sapere anche io!”
Gisèle non si fece pregare e scrisse senza fare commenti lo stesso messaggio anche a lui sotto lo sguardo truce di Guillaume, persuaso che la questione avesse a che fare con lui: ne ebbe la conferma un attimo dopo, quando Etienne guardò prima lo schermo del su telefono, poi lui e infine iniziò a contorcersi sulla sedia preda di un attacco di ilarità prima di inoltrare il messaggio a Leticia, che lo lesse insieme ad Annika e a Nerea. Gli unici a non unirsi al sottofondo di risatine furono Abel, che fece cenno all’amico di lasciar perdere scuotendo la testa, ed Icaro, che agitò indispettito il foglietto che teneva in mano per richiamare l’attenzione su di sé:
Chiedo scusa?! Io qui starei facendo una cosa importante, finitela di fare i bambini!”
“Dai ragazzi, ascoltiamo Icaro, che poi se no si offende! Dicci tutto.”  Leticia fece brevemente cenno ai compagni di tacere prima di spostare lo sguardo su Icaro, sorridendogli mentre il ragazzo, seppur ancora un tantino seccato, annuiva con aria sostenuta prima di decidersi a srotolare il bigliettino e a leggerne il contenuto:
Il pensiero politico e filosofico di Thomas Hobbes. Etienne, inizia tu.”
Icaro gettò il fogliettino sul tavolo accanto a quello scartato poco prima e puntò lo sguardo sull’amico, ben presto imitato da tutti gli altri. Etienne invece non si mosse, rimase impassibile per qualche istante con le braccia strette al petto e restituendo lo sguardo dell’amico, ma proprio quando tutti avrebbero scommesso di essere in procinto di sentirlo esordire con la sua argomentazione il Bellefuille li stupì pronunciando parole del tutto inaspettate, che con ogni probabilità non si erano mai udite tra quelle quattro pareti e che gettarono più della metà dei presenti in un sonoro scroscio di risate:
“… Chiedo l’aiuto del pubblico.”
“Ma che cazzo dici?!”, esclamò sgomento Icaro fissando l’amico con gli occhi scuri quasi fuori dalle orbite, stentando a credere di aver capito bene – anche se conoscendo Etienne non avrebbe dovuto, si sarebbe detto in seguito – mentre quasi tutti ridevano, fatta eccezione per Milad, Guillaume e Abel, che si limitò a finire il suo sorbetto con la massima nonchalance, neanche avesse sentito, e il Bellefuille si guardava attorno perplesso, forse chiedendosi perché tutti lo stessero trovando così divertente:
“Perché, non posso?”
“No!”
“Ah. Beh allora chiedo un altro biglietto.”
Ne abbiamo già pescati due! Milad, ti prego inizia tu.”
Icaro si rivolse al belga con un sospiro rassegnato e un pigro cenno della mano, ringraziandolo mentalmente quando Milad, dopo aver sorriso, annuì e prese la parola. Ad Icaro a quel punto non rimase che tornare a sedersi accanto ad Etienne, che si premurò di chiedergli offeso cosa avesse fatto di sbagliato e lo accusò inoltre di essere fin troppo pignolo.
 
 
divisore
 
 
Nel Dormitorio femminile dei Papillonlisse, mentre le sue migliori amiche portavano avanti una diatriba in merito a cosa guardare quella sera Lucinda Pais se ne stava chiusa in bagno a terminare di asciugarsi i corti capelli scuri, felice di essere lontana dalla discussione in corso. Dopo aver asciugato completamente i capelli con estrema calma Lucinda ripose il phon all’interno di una delle ante del mobile bianco che si trovava al di sotto del lavandino di marmo e raccolse la propria spazzola per darsi una pettinata – giusto per non rischiare di svegliarsi l’indomani con l’aspetto di una che ha appena preso la scossa – al caschetto prendendola molto più comoda del solito, quasi sperando di emergere dal bagno e dalla nube di vapore che era andata a crearsi dopo la sua lunga doccia con le sue amiche che già avevano deciso che cosa guardare senza aver bisogno di interpellarla.
Lucinda aveva quasi finito di spazzolarsi i capelli quando lo schermo del suo telefono, sistemato davanti a lei accanto al lavandino, si illuminò salvandola dal dover decidere se uscire dal bagno o se restarsene lì in attesa che Maëlle finisse di elencare i motivi che la portavano a reputare più o meno tutte le varie rom-com di Netflix dei film di merda. Fu infatti con un sorriso che Lucinda abbandonò la spazzola sul mobile per sollevare invece il proprio telefono, la cui cover scelta in maniera affatto casuale era decorata da un motivo di piccole farfalle colorate, per rispondere e accostarselo all’orecchio:
“Mi stavo giusto chiedendo se la fama ti avesse dato alla testa e ti fossi scordato di me, sai?”, attaccò la giovane strega assumendo il tono più sostenuto e distaccato di cui era capace, pur consapevole di come lo avrebbe abbandonato a breve vista la sua incapacità di avercela a lungo con suo fratello.
“Sei veramente melodrammatica. Ho solo avuto da fare, è iniziata la stagione. Sono appena tornato dall’allenamento serale.”, la informò Lisandro con il suo consueto tono di voce pacato e paziente, qualcosa che non lo accumunava affatto alla sorella minore. Lucinda, non invidiando particolarmente il fratello maggiore per tutti gli allenamenti di ore ed ore a cui doveva sottoporsi ogni giorno, annuì chinando lo sguardo sul mobile del bagno e prendendo a giocherellare distrattamente con il manico della sua spazzola:
“Mh-mh, lo so, infatti per questa volta ti perdono. A breve ci sarà la prima partita anche qui, non vedo l’ora!”, esclamò Lucinda con un sorriso gioioso dimenticando seduta stante “l’offesa” subita, impaziente di poter commentare la prima partita della stagione di Quidditch e ancor più entusiasta di veder giocare la sua stessa Casa.
“Chi gioca?”
“Noi contro Ombrelune. Non ti sognare di dire che speri vincano loro!”
Dopo aver parlato Lucinda sentì suo fratello ridacchiare dall’altro capo della chiamata, e non potendolo fulminare con lo sguardo dovette accontentarsi di storcere il naso indispettita, ricordandogli che gli anni in cui lui aveva giocato nella squadra facendola vincere la Coppa un anno dietro l’altro erano ormai lontani.
“Del resto sei vecchio, hai studiato qui secoli fa, le cose cambiano.”, disse la strega tornando a scrutare il proprio riflesso nello specchio che le stava davanti, aggiustandosi distrattamente i capelli chiedendosi perché non stessero mai al loro posto dopo averli lavati mentre Lisandro, a molti chilometri di distanza, alzava gli occhi al cielo:
“Primo, l’affetto per la propria Casa è per sempre, secondo, dammi di nuovo del vecchio e i biglietti gratis per le partite durante le vacanze di Natale te li sogni, piccoletta.”
Lucinda si stava prodigando in una lunga e altamente ruffiana sequenza di scuse, preoccupata che il fratello potesse parlare sul serio e privarla di quei doni sempre tanto graditi, quando dopo aver bussato brevemente Maelle spalancò la porta del bagno, seria in volto come se si fosse trovata nel pieno di una discussione di vitale importanza:
“Scusa Luli, ci servi. Pensavamo di aver deciso, poi ci siamo rese conto che non riusciamo a deciderci tra Mamma Mia 1 e 2.”
Lucinda smise di parlare e posò brevemente lo sguardo sull’amica prima di annuire senza riuscire a reprimere un sorriso divertito, assicurandole che le avrebbe raggiunte immediatamente prima di tornare a rivolgersi a Lisandro mentre Maëlle chiudeva la porta per consentirle di salutarlo, permettendole comunque di udire ciò con cui tornò a rivolgersi a Daphnè a sostegno della sua posizione:
“Lo so che l’altro ha le canzoni meglio eseguite Daph, ma nell’altro c’è Meryl! Come la mettiamo?!”
La porta del bagno si chiuse portando la discussione lontano dalle orecchie di Lucinda, alla quale non rimase che sorridere e accomiatarsi dal fratello giocherellando con una delle corte ciocche di capelli corvini che le incorniciavano il viso:
“Devo andare, sai sono molto richiesta… Ma grazie per avermi chiamato.”
“Di niente. Fai la brava Luli.”
Il tono con cui Lisandro pronunciò quelle ultime parole non piacque affatto alla sorellina, che dischiuse indispettita le labbra chiedendosi perché tutti, in famiglia, non facessero che rivolgerle raccomandazioni di quel tipo:
“Lo faccio sempre!”
 
 
“Devo ammettere che hai avuto proprio una splendida idea per il nostro post-riunione.”, mormorò Nerea mentre spostava il cuscino che si trovava sotto la sua testa per stare più comoda, distesa su un sottile materasso che lei e Gisèle avevano fatto comparire nel bel mezzo della palestra insieme a dei cuscini. La francese, distesa supina accanto a lei con i capelli ricci sparsi attorno alla testa sul cuscino, annuì sfoderando un sorriso compiaciuto mentre incrociava le caviglie sottili per stare più comoda, spostando leggermente la testa per far sì che si trovasse più vicina a quella dell’amica prima di parlare:
“Le mie idee sono sempre ottime. Mi passi i biscotti? Domani mattina sarò di nuovo a dieta, ne devo approfittare finchè posso.”
Nerea obbedì, anzi non se lo fece ripetere e subito passò all’amica l’enorme scodella piena di cookies che erano passate a prelevare in cucina prima di raggiungere la palestra a seguito della riunione, decise a concludere la serata nel modo più dolce possibile. Gisèle affondò la mano nella ciotola per recuperare un biscotto e Nerea si affrettò ad imitarla, ritrovandosi a masticare il delizioso pezzo di dolcetto mentre fissava pensosa le immagini in movimento proiettate sul soffitto della palestra grazie all’esoso quanto recente acquisto di Etienne che l’amico aveva acconsentito a cedere a lei e a Gisèle per quella sera:
“Quante volte avremmo visto questo film?”
“Forse 150, ma è sempre il mio preferito. Anche se io avrei ballato molto meglio di lei, la fanno difficile ma in realtà è una scemenza.”, osservò Gisèle sollevando la mano sinistra per indicare la figura della protagonista di Dirty Dancing e destando un sorriso sul volto di Nerea, che ruotò leggermente la testa per rivolgerle un’occhiata:
“Di sicuro. Io invece andrei avanti a piedi pestati ogni due passi... Porco Flamel, come farò al Ballo?!”
Resasi conto di non ballare da mesi e mesi e di essere fortemente arrugginita Nerea quasi trasalì dall’orrore, ma a tranquillizzarla ci pensò immediatamente Gisèle con una pigra scrollata di spalle mentre addentava il suo cookie:
“Ti do ripetizioni io. E se non troviamo uno straccio di nessuno ci andiamo insieme, al Ballo.”
“È vero, potremmo. Hai proprio delle ottime idee!”, osservò l’italiana con un sorriso allegro guardando di nuovo l’amica con gli occhi chiari luccicanti, ridendo quando Gisèle sbuffò e agitò il biscotto chiedendole perché sembrasse tanto sorpresa.
“Chissà con chi ci andrà quel gargoyle di mio cugino, al ballo… ricordami di mandare dei fiori alla povera anima sventurata.”
“Daphnè Blanchard ha un’assurda cotta per lui, quindi che ci vada con qualcuno non è poi così impensabile.”
Nerea fece spallucce mentre addentava l’ultimo boccone del suo biscotto, masticandolo in tutta calma mentre Gisèle, al contrario, udite le sue parole quasi si faceva andare di traverso il proprio: la francese si mise a sedere di scatto sul materasso, tossicchiando ripetutamente prima di riuscire a riprendersi e chiedere sconvolta all’amica, gli occhi quasi lacrimanti, come una simile tragedia potesse essersi verificata e soprattutto chi avesse rifilato un filtro d’amore alla povera sventurata.
Nerea balbettò di non averne idea, e Gisèle, ancora sconvolta, dopo una breve esitazione tornò lentamente a distendersi accanto all’amica fissando inorridita le immagini in movimento sopra di lei: in qualche modo, realizzò abbracciando con stizza un cuscino, Guillaume era riuscito a guastarle persino la visione del suo film preferito.
 
 



 
 
 
(1): Opera lirica scritta da Victor Hugo tratta dal suo romanzo Notre-Dame de Paris
(2): Brano conclusivo di una composizione, o in alcuni casi brano a sé stante
(3): Il rider è la “struttura” di legno o carbonio dell’arco, il grip è l’impugnatura, la parte che si stringe per tendere l’arco, e il rest è il “poggiafrecce”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
………………………………………………………………..
Angolo Autrice:
Buonasera!
Ammetto di non voler neanche controllare per appurare quanto di preciso sia passato dallo scorso aggiornamento, di sicuro è passato troppo e mi scuso, sfortunatamente giugno è stato un mese in cui ho quasi totalmente messo in pausa la scrittura per una serie di motivi con cui non vi tedierò. Sono però felice di aver finalmente concluso questo capitolo iniziato ormai un’eternità fa, mi rendo conto che è lunghissimo ma spero che vista anche l’attesa la cosa vi faccia piacere e che non vi pesi. Inoltre vi ringrazio per le recensioni e anzi mi scuso per non avervi risposto🤍
Come già quasi tutte sapete a seguito del sondaggio che ho pubblicato ieri su IG questa volta ho anche una domanda per voi, ovvero la fatidica domanda per le coppie. Non penso sia più necessario che io stia qui a dilungarmi in merito a cosa vi sto chiedendo di preciso, direi che ormai lo sapete, mi limito solo a sottolineare che se non avete le idee troppo chiare e un nome preciso da darmi non è un problema, basta anche che mi diciate quali OC vi sentite di escludere per il vostro.
E a questa domanda ne aggiungo anche un’altra, perché come anticipato da Lucinda in uno dei prossimi capitoli ci sarà la prima partita di Quidditch, quindi se vi va vi chiedo di votare tra Papillonlisse e Ombrelune. Di norma ho sempre escluso dalle votazioni le autrici degli OC delle Case in gara, ma a questo giro sono solo tre e la quasi totalità dei personaggi appartiene a queste due, perciò potete votare a meno che il vostro OC non giochi in una delle due squadre a tutti gli effetti (chi ha due OC e uno solo gioca può votare lo stesso).
Detto ciò vi saluto, conto di pubblicare un altro capitolo entro la fine del mese, quindi a presto!
Signorina Granger
 
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo V ***


Capitolo V
 
 


 
Venerdì 14 ottobre
 
 
 
Icaro si era talmente immerso nel suo flusso di pensieri che l’improvviso e brusco aprirsi della portafinestra cui stava dando le spalle, seduto su una delle seggiole di vimini che costellavano la terrazza, lo fece letteralmente sobbalzare: il ragazzo, che vista l’ora non si sarebbe mai aspettato che qualcuno potesse raggiungerlo, strinse i braccioli della poltroncina con entrambe le mani pallide mentre si voltava di scatto, le sopracciglia aggrottate e i folti capelli scuri parzialmente davanti al viso a seguito del movimento.
Per un paio di lunghi istanti lui e il visitatore inaspettato, che ben presto Icaro riconobbe come nientemeno del suo migliore amico, si studiarono reciprocamente in silenzio, l’uno seduto e l’altro in piedi con la maniglia dorata della portafinestra bianca ancora stretta tra le dita e la medesima espressione perplessa impressa sui lineamenti.
“Ci eravamo messi d’accordo?”, domandò infine Phoenix infrangendo la bolla di silenzio con il suono della propria voce dubbiosa e con il suo francese ricco di sfumature direttamente riconducibili alla sua lingua madre. Mentre l’amico varcava la soglia della terrazza calpestandone il pavimento piastrellato per socchiudersi l’anta della finestra alle spalle Icaro rifletté brevemente sulla sua domanda, ma finì con lo scuotere capo e capelli non riuscendo a rinvenire tracce di una simile conversazione:
“Non mi pare.”
“Ma tu pensa… Chissà cosa direbbe la gente se sapesse che ci incontriamo in gran segreto a quest’ora della notte.”  Le labbra carnose e naturalmente rosee di Phoenix si tesero in un sorrisetto beffardo mentre il ragazzo avanzava superando le poltroncine vicine a quella dove si era seduto l’amico per avvicinarsi alla ringhiera di metallo, affacciandosi poggiando i gomiti sulla balaustra piena di ghirigori decorativi e dando così le spalle ad Icaro, che sbuffò lieve e agitò pigramente la mano destra come a volersi liberare dell’impiccio di un fastidioso insetto:
“Falla finita. E ti assicuro che quando mi devo incontrare in “gran segreto” con qualcuno non è qui che vengo.”
“I dettagli puoi anche tenerteli per te. Cosa fai qui fuori? Fa freddo a quest’ora.” Dopo aver rivolto una breve occhiata alle acque scure del lago sulle quali la terrazza della loro Sala Comune si affacciava Phoenix ruotò su se stesso dando le spalle al timido riflesso della luna per tornare a posare il proprio sguardo cristallino, fonte di cuori infranti disseminati per tutto il castello, sul viso dell’amico. L’incarnato di Icaro, già pallido di per sé, apparve agli occhi di Phoenix più cereo della norma a causa della fioca e fredda luce bluastra emessa dalle fiammelle azzurre che ardevano silenziose sulle eleganti torce bianche appese alla facciata esterna del castello, e mentre lo guardava tormentarsi distrattamente il labbro inferiore con un dito il greco ebbe la certezza, frutto di molti anni di amicizia alle spalle, che qualcosa lo stesse turbando.
“Non avevo sonno.”
“Questo è ovvio, genio. Sei preoccupato per domani?” Le mani di Phoenix scivolarono all’interno delle tasche della giacca di jeans nera che il ragazzo aveva infilato sopra alla tuta nera un po’ sbiadita che gli faceva da pigiama per estrarne accendino e pacchetto di sigarette, prendendone una per accenderla mentre Icaro, di fronte a lui, si stringeva nelle spalle fissandosi le gambe lunghe distese sul tavolino che aveva davanti.
“Magari un po’. Tu sei sveglio per la partita?”
“Di solito l’ansia mi viene appena prima di entrare in campo.”
La fiamma dell’accendino illuminò brevemente il viso pallido di Phoenix – Icaro lo aveva guardato, il giorno in cui la carrozza era passata a raccoglierli per portarli a scuola, chiedendosi se avesse trascorso l’intera estate lontano dal più timido e flebile raggio di sole – mentre il greco si accendeva la sigaretta, tornando ad intascarlo un attimo dopo mentre si guardava distrattamente attorno appoggiandosi alla ringhiera. Per un minuto nessuno dei due disse altro, entrambi persi nel proprio flusso di pensieri, finchè il greco, nonostante fosse consapevole di non avere la facoltà di cancellarli e basta, decise di ricacciare i propri in un angolo sperduto del suo cervello per focalizzarsi invece su ciò che stava affliggendo l’amico:
“Potrebbe essere una motivazione in più per portare a casa la partita.”  Icaro, che nel silenzio aveva ripreso a fissarsi pensoso le ginocchia, tornò a posare lo sguardo sull’amico quando lo sentì parlare trovandolo intento a picchiettare la sigaretta per far cadere con noncuranza un po’ di cenere incandescente sul pavimento immacolato della terrazza. Non era difficile per lui intuire a che cosa Phoenix stesse alludendo ma volle comunque accertarsene, in parte forse per non affrontare direttamente la questione, con una domanda e un sorriso poco convinto:
“Che cosa?”
“Il fatto che ti dispiaccia che qualcuno non possa assistervi. Puoi vincere per entrambi.”
Icaro conosceva Nick abbastanza bene da sapere che l’amico sembrava essere in grado di uscirsene con discorsi seri e sensati solo quando si trovavano fuori dalla portata d’orecchio altrui, e un sorriso amaro gli sollevò debolmente gli angoli delle labbra quando appurò di aver compreso perfettamente dove stesse andando a parare: l’italiano fletté le ginocchia per raccogliere le lunghe gambe contro il petto, stringendole debolmente tra le braccia mentre osservava l’amico fumare senza guardarlo, lo sguardo ceruleo quanto un cielo terso rivolto altrove.
“E se perdiamo?”
“Allora avrai giocato per entrambi. E comunque vada hai vinto lo stesso.”
“In che senso?” Questa volta il tono interrogativo di Icaro fu totalmente sincero, non del tutto certo di aver compreso che cosa l’altro stesse cercando di dirgli: da qualsiasi punto di vista la guardasse, dubitava fortemente di poter affermare una cosa del genere. Eppure Nick gli sorrise, il suo consueto sorriso di scherno – anche se un osservatore attento sarebbe stato in grado di scorgere una sottile traccia d’affetto nel suo sguardo – quando tornò a guardarlo, la sigaretta accesa tra le dita e una mano in tasca:
“Perché hai me come amico, coglione.”
Icaro, che non si aspettava una risposta simile, scoppiò a ridere e quando quel suono sincero, allegro e vibrante avvolse la terrazza il sorriso sulle labbra di Nick si allargò, anche se fece del suo meglio per sbuffare e fingersi seccato solo un istante dopo, mentre agitava debolmente la sigaretta con fare annoiato:
“Adesso finisco questa e poi andiamo a dormire, domani non voglio sentirti rompermi le palle per un passaggio andato male dopo essere rimasto qui sveglio insieme a te a farti da babysitter.”
“Te le romperò comunque se giochi male. E non farmi ridere, al massimo sono io che faccio da babysitter  a te. Ricordi quando volevi liberare uno Schiopodo Sparacoda per disseminare terrore?”
“Che bei tempi.”
Phoenix esalò del fumo con un lieve luccichio negli occhi e il sorrisetto che gli si poteva scorgere in viso quando era sul punto di mettere in pratica qualche idea poco saggia, sorriso che Icaro non imitò mentre scuoteva seccato la testa e lanciava, come a voler dare maggiore enfasi alla sua esasperazione, il cuscino celeste più vicino contro l’amico:
“Ti avrebbero espulso di sicuro, idiota!”
“Tanto meglio, pensi che vedere la tua faccia per prima cosa ogni giorno sia facile per me?!”

 
*

 Sabato 15 ottobre
 


Quando la porta d’ingresso celeste della Salle Comune degli Ombrelune le si fu chiusa alle spalle la prima cosa che Gisèle fece, body nero, gonnellino rosa, calze e scaldamuscoli ancora addosso dopo l’allenamento del mattino, fu cercare traccia del suo gatto facendo vagare lo sguardo
nei vari angoli dell’ampia sala che le si apriva di fronte: quel maleducato di non si era degnato di farsi vedere per tutta la sera prima, e ora intendeva punirlo acciuffandolo e strapazzandolo a dovere, anche contro la sua volontà. Un sorriso incurvò le labbra carnose della strega verso l’alto quando i suoi grandi occhi celesti indugiarono su un inequivocabile ammasso di soffice pelo candido chino contro la parete interna della stanza, dietro ad uno dei tanti divani disseminati in giro, e Gisèle si affrettò a raggiungerlo facendo lo slalom tra sedie, tavolini e poltroncine, quasi tutte deserte vista l’ora. Aveva finalmente raggiunto Vaclav quando si accorse che il suo gatto non era solo e che insieme a lui c’era un altro gatto rosso che ben presto Gisèle riconobbe come il gatto di Icaro, entrambi chini contro il battiscopa e intenti a fissare immobili il legno bianco con aria particolarmente concentrata. Pronta a prenderlo in braccio la ragazza si chinò per farsi scivolare il borsone dalla spalla fino a farlo atterrare con un lieve tonfo sulle assi del pavimento, chiedendosi accigliata cosa stessero combinando Vaclav e Romeo mentre qualche ciocca di ricci le scivolava davanti al viso:
“Eccoti qui! Cosa state facendo?”
La risposta giunse rapidamente da sola a Gisèle, che appena prima di avere il tempo di prendere Vaclav in braccio comprese cosa avesse spinto lui e Romeo ad appollaiarsi davanti al battiscopa. Un istante dopo la ragazza si allontanò di corsa dal divano dimenticandosi la borsa piena di tutte le sue cose strillando di aver visto un ragno “brutto, orrendo e peloso”.
 
Milad quella mattina si era svegliato di ottimo umore: non si poteva assolutamente considerare un fan sfegatato del Quidditch, anzi riteneva che quella specifica componente della cultura magica non sarebbe mai riuscita ad esercitare una grande attrattiva su di lui e sulla mentalità con la quale era stato cresciuto. Non era quindi di buon umore tanto per la partita in sé quanto per la certezza che, qualora avesse deciso di restare al castello come spesso accadeva nel corso di quei particolari sabati, avrebbe potuto godere della massima quiete per rilassarsi e studiare in pace. Sì, Milad adorava i sabati delle partite, e aprì la porta che dalla Salle Comune consentiva di accedere al Dormitorio maschile con un raro accenno di sorriso ad animargli il volto pronto a godersi una pace ed un silenzio che vennero bruscamente spazzati via quando il belga si ritrovò a fronteggiare i compagni che, come lui, si erano alzati presto ma ancora non erano scesi a fare colazione.
“Restiamo calmi, è solo un ragnetto e ora ce ne liberiamo… Dobbiamo solo ritrovarlo.” Impresa più facile a dirsi che a farsi, rifletté mentalmente Icaro mentre solcava i mobili e l’area del pavimento a lui più vicini con il proprio sguardo accigliato. Gisèle, che poco prima aveva trovato il coraggio di tornare sul luogo del misfatto per riprendersi la borsa – il terrore di ritrovarsi la bestia in mezzo ai suoi preziosi indumenti sportivi aveva superato quello per la bestia in sé – strinse a sé Vaclav come se sentisse di doverlo trarre in salvo dall’imminente attacco di un mostro feroce mentre Romeo, indispettito per non aver acciuffato il ragno, si leccava amareggiato una zampetta standosene seduto su un divano.
Ragnetto?! A casa ho piattini da tè più piccoli!”
“Ma per favore, non era così grande, sei più tragica di Shakespeare… avrai degli strani piattini da tè francesi più grande del normale.”
“Chi ti ha interpellato, scusa?!” Domandò Gisèle scoccando un’occhiata torva in direzione di Phoenix, in piedi accanto ad Icaro, ma il ragazzo, che non amava essere contraddetto né che gli venisse detto cosa fare, scosse la testa e continuò a parlare ricambiando l’occhiataccia:
“È colpa tua, perché hai portato via Vaclav, poteva ucciderlo e fine della storia!”  Gisèle, per tutta risposta, lo guardò sgranando inorridita gli occhi azzurri, come se avesse appena pronunciato una mostruosità:
“E se lo mangiava? E se era velenoso? E se poi moriva? Poi me li paghi tu i danni morali per la morte del mio gattino, Anastasakis!”
“Cosa è successo?” Milad si unì ai compagni con un sospiro, non del tutto sicuro di voler sapere cosa avesse urtato a tal punto la quiete collettiva mentre Vaclav si guardava attorno con sguardo torvo, per nulla contento di essere stato costretto dalla padrona a smettere di dare la caccia al ragno.
“C’è un ragnetto in giro e Gisèle sta dando di matto.”  Phoenix, ancora non del tutto certo sul perché stesse perdendo lì invece di andare a fare colazione e prepararsi psicologicamente a dovere per la partita, sbuffò mentre accennava in direzione di Gisèle, che scosse nervosamente la testa muovendo a destra e a sinistra i ricci che le ricadevano sulle spalle prima di parlare con tono lacrimoso:
“Non era un ragnetto, era orrendo, e io non voglio dormire vicino ad una cosa del genere, già devo convivere con mio cugino!”
Milad, Nick e Icaro rimasero in silenzio, limitandosi a ridacchiare solo mentalmente per evitare che il diretto interessato potesse trovarsi a portata d’orecchio prima che il belga, schiarendosi la voce, indicasse una cosa che stava zampettando allegramente proprio sulla parete davanti a loro:
“Il vostro ragnetto sarebbe quello?”
 
“Eccomi ragazzi, scusate il ritardo!”  I suoi capelli quella mattina avevano deciso di non essere affatto collaborativi, e Antoine spalancò la porta del Dormitorio maschile sorridendo allegro e con i ricci in ordine, ma anche consapevole di essere sceso in ritardo rispetto all’orario che la squadra aveva pattuito. Se pensava di trovare i compagni ad aspettarlo, tuttavia, il belga andò incontro ad un clamoroso errore di valutazione: il sorriso si congelò sulle labbra di Antoine fino a svanire e a lasciare posto ad un’espressione di pura sorpresa quando si ritrovò a fronteggiare uno scenario del tutto inaspettato e che vedeva tre dei suoi compagni di Casa – Icaro, Gisèle e Phoenix – accovacciati sul pavimento dietro ad uno divano azzurro in stile napoleonico e impegnati a parlottare fitto fitto tra di loro. Superata la sorpresa iniziale Antoine si diresse rapido verso Milad, che stava seguendo la scena mantenendo un paio di metri di distacco e standosene appoggiato contro il bordo di uno scrittoio.
Perché si comportano come se fossero in trincea?”
“Cercano di stanare un ragno. Effettivamente non mi è chiaro perché si siano messi dietro al divano visto che il ragno potrebbe tranquillamente passarci sotto e raggiungerli…” Milad aggrottò le sopracciglia mentre studiava pensoso la scena tenendo le braccia muscolose fasciate dalle maniche di una felpa verde bosco strette al petto, ma si guardò bene dall’esprimere le sue perplessità a voce alta onde evitare di scatenare altro – ed inutile – panico nella stanza.
“Allora, o lo facciamo uscire dalla finestra o ce ne liberiamo.”, asserì Icaro con aria sbrigativa – aveva una partita da vincere quel giorno e ben poca voglia di pensare ad un ospite indesiderato – mentre Romeo studiava lui e i compagni con aria annoiata, quasi chiedendosi perché gli umani fossero così idioti.
“Io non mi ci avvicino neanche morta! Fallo tu Anastasakis, visto che dai sempre aria alla bocca.”
“No grazie, sono allergico. Icaro?”
“Io che ne so di come si fa fuori un ragno?” Icaro non aveva mai dovuto liberarsi del più insignificante e minuscolo degli insetti in tutta la sua vita, a casa ci pensava sempre qualcun altro ancor prima che lui potesse anche solo sognarsi di vederne l’ombra, e arricciò stizzito il naso mentre Gisèle, seduta accanto a lui sul pavimento, alzava gli occhi al cielo:
“Perché, di solito lo fa la servitù?”  Icaro ignorò, o forse non colse, l’ironia con cui l’amico si soffermò volutamente sull’ultima parola, annuendo con aria sbrigativa come se si trattasse di un’ovvietà:
Certo! Ma che cazzo!” Esclamò offeso ed inorridito l’italiano quando tornò a concentrarsi sul loro visitatore indesiderato e poté così accorgersi di come la sua traiettoria stesse virando proprio in direzione del suo angolo preferito della sala: “Sta andando verso il mio divano! Ma come osa?!”
“Ancora con questa storia del divano?!” Gisèle, che aveva discusso a proposito del fantomatico divano prediletto da Icaro almeno una dozzina di volte solo l’anno precedente, si dimenticò momentaneamente dell’aracnide che aveva invaso la Salle Comune per rivolgersi esasperata al compagno, che stava ancora stringendo i bordi dello schienale dietro al quale si era inginocchiato ma che non mancò di voltarsi a sua volta verso la strega con tutta l’intenzione di replicare. Venne tuttavia interrotto da Phoenix, che intimò ad entrambi di piantarla minacciandoli anche di trasfigurare tutti i divani in balle di fieno qualora non avessero accantonato il discorso.
“Figurarsi Nick, fai schifo in Trasfigurazione!”
“Posso sempre provare a Trasfigurare voi due in un candeliere e in un orologio parlanti e rompipalle! Ora finitela e pensiamo al ragno, voglio che sparisca prima che qui si riempia di ragazzine isteriche in preda ad una crisi di nervi.”
“Facile, mandiamo Icaro, lui può andare a fargli un discorsetto sulla proprietà del divano…” Gisèle accompagnò il tono volutamente canzonatorio delle sue parole con un sorriso innocente e un ripetuto sbattere di ciglia e l’italiano non tardò a voltarsi nuovamente verso di lei con sguardo torvo e pronto a risponderle, ma Nick, sempre più esasperato e desideroso di squagliarsela prima dell’arrivo delle loro compagne più piccole che sempre starnazzavano incessantemente attorno a lui o all’amico, lo precedette interrompendolo sul nascere:
 
“D’accordo, prenderlo con un incantesimo è impossibile, è troppo veloce… Per farlo fuori servirebbe qualcosa di voluminoso, abbastanza pesante, inutile e sacrificabile…”  Il greco parlò aggrottando pensoso le sopracciglia, cercando qualcosa di simile con lo sguardo mentre Gisèle, una volta annuito ed essersi miracolosamente trovata d’accordo con lui, lo imitava sempre stringendo un esasperato Vaclav tra le braccia. La strega si guardl sbrigativamente attorno come, a differenza di Nick, cercando qualcosa in particolare, finendo col sbuffare e colpire piano lo schienale del divano con un gesto carico di amarezza:
“Ecco, lo sapevo, quando serve Guillaume non c’è mai!”
Mentre Antoine sghignazzava poco distante e Milad cercava di non imitarlo con tutte le sue forze Icaro, che fino a quel momento aveva controllato che il ragno non si azzardasse a mettere le sue zampacce sporche sul suo prezioso divano, volse lo sguardo su Gisèle con aria interrogativa, faticando a comprendere il suo ragionamento e chiedendosi se il suo francese non avesse fatto cilecca:
“Come pensi che avremmo potuto usare tuo cugino per…”
“Ecco, usa questo.” Phoenix, che invece di pensare a Guillaume aveva gettato un’occhiata al tavolino di legno rotondo a tre gambe più vicino, proprio accanto al divano dietro al quale si era inginocchiato, allungò il braccio per recuperare uno degli oggetti che un qualche studente distratto vi aveva lasciato per porgerlo all’amico, che gettò un’occhiata stralunata prima a lui e poi al titolo riportato al centro del grosso volume rilegato:

I Promessi Sposi?!”, domandò incredulo l’italiano agitando debolmente il libro, incapace di stabilire se Phoenix lo stesse prendendo in giro o meno, mentre il greco per tutta risposta si stringeva nelle spalle, per nulla scalfito dallo stupore manifestato dall’amico. Milad, al contrario, aggrottò le folte sopracciglia scure trovandosi in netto disaccordo, pur restandosene in silenzio, deciso a non intromettersi: non avrebbe usato un libro per schiacciare un insetto per niente al mondo, nemmeno se tra le mani si fosse trovato uno di quei dark fantasy trash tanto amati da molte delle sue coetanee.
“Scusa, hai detto qualcosa di voluminoso e sacrificabile.”  Poco convinto, Icaro guardò prima Phoenix e poi il grosso libro dal proprietario misterioso che teneva in mano mentre Gisèle, che non vedeva l’ora di chiudere la faccenda per andare a cambiarsi e fare colazione, dopo aver osservato brevemente il libro a sua volta si stringeva nelle spalle:
“Strano che io lo stia dicendo visto che si parla di Anastasakis, ma non è male come idea in realtà. Io stavo per controllare se qui in giro ci fosse una copia di Twilight…”

 
*

 
“Non vedo l’ora che inizi la partita, sarà bellissimo!”
Lucinda si era svegliata di ottimo umore quella mattina, e non aveva fatto altro che trillare entusiasta a proposito della partita imminente fin da quando si era scostata il copriletto bianco e lilla di dosso e aveva infilato i piedi nelle pantofole. La giovane strega si era lavata i denti mentre Daphnè, in piedi accanto a lei davanti al secondo lavabo di marmo, faceva lo stesso chiedendosi pensosa cosa avrebbe indossato – che cosa fosse più o meno adatto ad un evento sportivo lei, che di sport ben poco si curava, non lo aveva mai avuto ben chiaro –, si era spazzolata i capelli, aveva dato da mangiare al suo amato corvo e infine si era infilata gli abiti scelti per l’occasione, rigorosamente in tinta con i colori della sua Casa come era sua abitudine da sempre, e ancor di più da quando era stata investita della carica di cronista.
Quando finalmente anche Daphnè aveva deciso cosa indossare – o per meglio dire Maëlle aveva afferrato, esaurita dalla cronica indecisione dell’amica, alcuni degli abiti ordinatamente sistemati sul letto dell’amica disposti in modo da formare outfit ben distinti e glieli aveva consegnati ordinandole di andare a vestirsi senza osare ribattere – le tre avevano lasciato la loro Salle Comune in fermento ed erano scese insieme in direzione della sala da pranzo per fare colazione sfoggiando espressioni piuttosto contrastanti tra loro: Lucinda sorrideva allegra, di ottimo umore, Maëlle aveva le labbra tirare in un’espressione tesa e tradiva il colorito un poco spento di chi non ha dormito molto, e infine Daphnè continuava a ripetersi di dover almeno fingere di provare un qualche interesse per il Quidditch, almeno per supportare la sua migliore amica che quel giorno avrebbe giocato in veste ufficiale per la prima volta dopo mesi.
“Non ho fame.”, ammise Maelle scuotendo debolmente testa e chioma biondo grano quando Daphnè le borse il vassoio dei croissant alla crema, commento che portò la francese a cercare lo sguardo di Lucinda con un che di allarmato ad animarle gli occhi chiari: i Macquart il cibo non lo rifiutavano. Mai.
“Sei sicura?”, fu tutto quello che Daphnè riuscì a chiedere all’amica con tutta la gentilezza possibile mentre posava il vassoio sulla tovaglia bianca che presto si sarebbe riempita di briciole, il capo leggermente inclinato e un paio di orecchino d’oro a forma di piccole rose a brillarle ai lobi in bella vista grazie al fermaglio che le teneva indietro i capelli. Maëlle annuì cupa in segno di assenso, limitandosi a porgere la tazza verso Lucinda quando l’amica sollevò la pesante brocca piena di caffè proponendosi di versargliene un po’.
“Ho dormito di merda, ho sognato che giocavo da schifo. E poi tutti mi prendevano in giro perché mio fratello, invece, è ovviamente eccezionale… Avere un fratello maggiore straordinario è una merda!”  Maelle sbuffò e scosse il capo, profondamente amareggiata e preoccupata all’idea di fare una figuraccia in campo, figuraccia che sarebbe stata ancora più plateale a causa del cognome che era stato ricamato in grandi caratteri dorati sul retro della sua divisa lilla.
“Nessuno ti capisce meglio di noi.” Lucinda, che se avesse deciso di entrare a far parte della squadra di Quidditch a sua volta avrebbe avuto lo stesso problema dell’amica, versò del caffè prima per lei e poi per se stessa annuendo comprensiva mentre Daphnè si riempiva la tazza di tè bianco fumante senza riuscire ad impedire ai propri pensieri di vagare fino a casa propria e alla madre ipercritica che forse troppo di frequente metteva i suoi figli a confronto.
 
 
Poiché Gisèle era quasi sempre una delle prime persone a raggiungere la sala da pranzo una volta finito di allenarsi di norma Nerea Pagano avrebbe trovato fin troppo strana la prolungata assenza e il ritardo che la sua migliore amica stava accumulando, e forse avrebbe ipotizzato tragici scenari che vedevano la sua amica coinvolta in una violenta rissa insieme al cugino, ma non quel mattino, quando la prima partita dell’anno era alle porte e sapeva per certo che Gisèle quel giorno non si sarebbe preoccupata affatto di poter tardare. Nerea quel mattino stava invece indirizzando tutte le sue attenzioni a Dante, guardando l’amico giocherellare distrattamente con il cibo usando la forchetta mentre Zhān, che sedeva alla sua sinistra, mangiava scoccando continue occhiate di sbieco al fratello maggiore, come temendo che potesse esplodere da un momento all’altro. Era un timore che Nerea condivideva, certa che Dante fosse nervoso in vista della partita ma che non l’avrebbe ammesso a voce alta nemmeno se avesse cercato di cavargli le parole di bocca con una grossa pinza, pertanto sorrise allegra e sfiorò la spalla del ragazzo con un gesto delicato e affettuoso:
“Se sei un po’ nervoso è normale, è la prima partita dell’anno… e soprattutto la prima che giochi con persone nuove. Io prima delle mie sono sempre un fascio di nervi.”
“Non stento a crederlo.”, fu il lapidario commento che rotolò fuori dalle labbra di Dante, sempre ostinato nel non ricambiare lo sguardo dell’amica. In una qualsiasi altra giornata probabilmente Nerea gli avrebbe caldamente suggerito di essere meno acido, ma quel giorno la giovane strega si limitò a scambiare una rapida occhiata con Zhān, che la guardò sollevando entrambe le sopracciglia color pece come a volerle suggerire di lasciar perdere, prima di recuperare il suo sorriso e scuotere il capo:
“Non vedo l’ora di trovarmi faccia a faccia con te sul campo. Sarà divertente.”
In tutte le occasioni in cui avevano giocato insieme in Italia Nerea e Dante avevano sempre finito con il discutere animamente sotto gli sguardi rassegnati dei rispettivi fratelli minori, in perenne attesa che la smettessero, che stabilissero chi dei due avesse commesso un errore nel corso di un passaggio per poter riprendere a giocare. Il ricordo di quei soleggiati e caldi pomeriggi, anche se considerava l’estate appena trascorsa come una delle peggiori della sua vita, destò un accenno appena percettibile di sorriso sulle labbra di Dante, che annuì mentre ricambiava brevemente lo sguardo dell’amica:
“Questo sicuramente. Sarà divertente raccontare a tutti come ti avrò stracciato una volta a casa.”
“Te lo puoi anche sognare, al massimo sarà il contrario. Anche se io sono superiore, non mi piace infierire sulla gente che perde miseramente.”
“Ok, dimmi.”
Arresosi alla totale assenza di appetito che provava, troppo nervoso in vista della partita per inghiottire qualsiasi cosa, Dante abbandonò le posate sul tavolo per poggiarvici invece i gomiti, incrociando le lunghe braccia che presto sarebbero state avvolte dalla divisa della squadra per puntare deciso e incuriosito i grandi occhi scuri in quelli chiari dell’amica, che ricambiò sollevata di quel cambio di atteggiamento ma perplessa:
“Dirti cosa?”
“Dimmi chi sono quelli più bravi dell’altra squadra, no? Altrimenti a cosa mi servi!”   Tutte le speranze nutrite da Nerea nel vedere l’amico assumere finalmente un atteggiamento bendisposto nei suoi confronti vennero rapidamente e brutalmente spazzate via, facendo sì che Nerea sbuffasse infastidita prima di colpirgli piccata il polso mentre Dante, al contrario, tratteneva a fatica un sorrisino beffardo:
“Sei veramente un ingrato antipatico. Perché tuo fratello è carino e tu insopportabilissimo?”
Zhān, da tempo nutriva per Nerea una cotta di cui solo il fratello era a conoscenza, arrossì e quasi si fece andare di traverso i cereali al miele che stava mangiando quando la ragazza accennò verso di lui sempre guardando Dante con aria di rimprovero, prendendo a tossicchiare rosso in viso mentre Dante, ignorata la stizza dell’amica, lo guardava sogghignando.
 

 
*

 
Lucinda e Maëlle avevano raggiunto il campo insieme lasciando la colazione in anticipo rispetto alla maggior parte dei loro compagni, ma una volta giunte a destinazione si erano separate: la prima si era diretta verso la scalinata che l’avrebbe condotta la tribuna riservata agli insegnanti mentre la seconda verso gli spogliatoi per potersi cambiare. Quando aveva finito di salire i gradini due alla volta e si era finalmente ritrovata in tribuna Lucinda aveva salutato allegra gli insegnanti già presenti prima di raggiungere la sua postazione proprio davanti alla ringhiera, godendo forse della miglior visuale di tutto il campo.
In attesa che la partita avesse inizio a tutti gli effetti la portoghese si appoggiò alla ringhiera con i gomiti lasciandosi scuotere dalla brezza i corti capelli corvini attorno al viso, scrutando impaziente il campo ancora deserto mentre i primi gruppi di studenti iniziavano a riversarsi sulle tribune e il suo microfono l’attendeva.
Tutto quello che doveva fare, si disse la giovane strega per l’ennesima volta da che aveva aperto gli occhi quel mattino, era cercare di non farsi offuscare dalla sua leggerissima preferenza nei confronti della propria Casa – anche se la sua giacca di jeans lilla abbinata alle Converse Chuck Taylor non lasciava comunque spazio a molti dubbi – , preferenza quel giorno ancor più accentuata a causa della presenza di Maëlle in campo. Lucinda sperava ardentemente che nessun Battitore avversario venisse colto dalla brillante idea di colpire la sua amica con un Bolide, perché in quel caso di certo una valanga di insulti avrebbe echeggiato tra gli spalti del campo fino a raggiungere l’interno del castello.
La strega si sfilò il telefono dalla tasca della giacca per scrivere a Maëlle e chiederle come stesse, sorridendo quando in risposta ricevette una lunga sequenza di emoji verdastre che di certo ben rappresentavano lo stato dell’amica, a giudicare da come si erano lasciate poco prima. Daphnè invece le scrisse per comunicarle di essere ancora in attesa di Etienne e di suo fratello (insieme alla faccina con gli occhi alzati), messaggio che le ricordò di fare una foto al campo e di mandarla al suo, di fratello maggiore.
Con gran stupore della ragazza Lisandro per una volta le rispose subito, facendole gli auguri e facendole anche sapere di essere la sua cronista preferita. Lucinda gli rispose sorridendo, felice per la partita imminente ma al contempo dispiaciuta di non poter fare in modo che il fratello potesse assistervi.

 
*

 
Poiché dopo aver fatto colazione sia Lucinda che Maëlle si erano dovute avviare in anticipo in direzione del campo da Quidditch Daphnè, che contrariamente alle sue amiche non aveva alcun coinvolgimento diretto con la partita, aveva deciso di unirsi a suo fratello e ad Etienne e di raggiungere il campo da gioco insieme ai due ragazzi, finendo col pentirsi parzialmente della decisione presa quando si ritrovò a tamburellarsi impaziente i polpastrelli sulle braccia mentre aspettava che i due Bellefuille si decidessero a lasciare la sala da pranzo standosene in piedi e accanto alla porta d’ingresso. Mentre il vociare allegro tipico del sabato mattina degli studenti ancora impegnati a fare colazione echeggiava tra le altissime pareti dell’ingresso Daphnè teneva le braccia strette al petto e i delicati occhi chiari puntati sul pavimento ai suoi piedi, giocando con il motivo geometrico del marmo per intrattenersi nell’attesa dei due ritardatari: conoscendo Etienne e André non era difficile per la ragazza immaginarli ancora in procinto di abbuffarsi chiacchierando senza curarsi del ritardo accumulato, immagine che la spinse a prepararsi il discorsetto di rimprovero che avrebbe rivolto loro.
“Eccoti qui, ciao bonbon!”
Etienne varcò la doppia porta bianca che collegava ingresso e sala da pranzo sfoderando il più smagliante e caloroso dei suoi sorrisi in direzione di Daphnè, che come spesso accadeva vide tutti i suoi buoni propositi crollare e infine sciogliersi come neve al sole di fronte: per quanto potesse sforzarsi non riusciva mai ad infastidirsi seriamente quando si trattava di Etienne Macquart, e un sorriso di rimando si fece strada sulle sue labbra rosee quasi senza che la ragazza se ne rendesse conto mentre suo fratello seguiva l’amico fuori dalla sala da pranzo, le mani in tasca e per nulla preoccupato all’idea di aver fatto attendere la sua unica sorella.
“Tanto che aspetti?”, domandò il ragazzo con finta aria di noncuranza mentre si avvicinava a lei e alla massiccia doppia porta che costituiva l’ingresso principale del castello, sogghignando quando colse l’occhiata torva che Daphnè, passato “l’effetto Etienne”, gli rivolse:
“Certo simpaticone, e lo sapete benissimo! Forza, andiamo, così forse riusciremo a trovare dei posti decenti.” Pronunciate quelle parole la ragazza girò sui tacchi e uscì attraverso la porta aperta lasciandosi alle spalle il vociare dei compagni e anche i due ragazzi, che la seguirono mentre André le faceva notare a voce alta come lei non si fosse mai fatta problemi a farsi attendere quando si trattava di fare shopping o, peggio ancora, prepararsi per una qualsiasi uscita o evento di famiglia. Daphnè si guardò bene dal rispondere mentre scendeva rapida i pochi gradini che dividevano l’ingresso del castello dall’ampio piazzale di ghiaia che consentiva di raggiungere tutti gli altri luoghi della tenuta grazie a curati sentieri che solcavano i prati con le loro dolci curve, appurando di aver indossato le scarpe sbagliate – errore in cui cadeva di frequente – quando sentì affondare sgradevolmente nella ghiaia le suole delle sue ballerine a punta bianche. Sentì anche il fratello fare un qualche commento sulla sua tendenza ad essere overdressed in qualsiasi occasione, ma decise di ignorare con fermezza le parole di André mentre Etienne affrettava il passo per affiancarla e prenderla sottobraccio, sia per parlarle quanto per aiutarla a non incespicare:
“Da quando sei sfegatata di Quidditch, scusa? Credevo che io e te facessimo parte della stessa squadra, quelli che sopportano in silenzio per amor proprio e dei propri fratelli/amici.” Etienne si rivolse all’amica con aria contrita, come se fosse profondamente dispiaciuto all’idea di aver perso qualcuno che la pensasse esattamente come lui sull’argomento “Quidditch” (crescere con un paio di fratelli appassionati al limite dell’ossessione aveva generato in lui una quasi naturale repulsione), ma Daphnè lo rassicurò immediatamente guardandolo sgranando gli occhi verdi, come se avesse perso il senno:
“Infatti non andrei alla partita se non ci giocasse Maëlle e Luli non facesse la cronaca, per chi mi hai presa?”
“Ora sì che ti riconosco.”
“Non mi sorprenderebbe se si fosse portata dietro qualcosa per distrarsi durante la partita… hai boccetta di smalto e limetta per unghie nella borsetta, sorellina?”, domandò André con un sorriso sornione sulle labbra sottili mentre affiancava a sua volta la sorella minore, facendo sì che camminassero in fila sul vialetto ostacolando quasi completamente il passaggio altrui. L’espressione sorpresa che si dipinse sul viso pallido di Daphnè diede conferma al fratello maggiore di non essersi sbagliato neanche lontanamente, e André scoppiò a ridere mentre tutti e tre si avviavano verso il campo avvolti dall’aria frizzante del mattino.
 
 
“Gisèle, ti offendi se invece che tifare per voi tifo per Papillonlisse? Sai, visto che Dante gioca.”
Nerea era quasi arrivata in prossimità dello stadio dove lei stessa affrontava gli allenamenti settimanali con la sua squadra insieme a Gisèle e a Milad, entrambi costretti ad assistere alla partita da soggetti di loro conoscenza anziché essere spinti da un sincero interesse nei riguardi dello sport magico più popolare del pianeta: la prima non mancava mai di sottolineare come il suo interesse per lo sport terminasse là dove terminavano danza e scherma, e il secondo si considerava fin troppo fedele al calcio.  
L’italiana, che stava precedendo i due Ombrelune di un paio di passi tanta era la sua impazienza di arrivare e prendere dei posti decenti, si voltò per smettere di dar loro le spalle iniziando a camminare brevemente all’indietro, lo sguardo speranzoso rivolto al viso dell’amica parzialmente celato da un paio di occhiali da sole che, Milad ne era sicuro, costavano quanto tutto quello che i suoi genitori vendevano in un paio di intere giornate.
“Assolutamente sì, ti toglierò il saluto domani stesso.”  Gisèle, che era stata letteralmente trascinata fuori dal palazzo dall’amica e stava camminando dietro di lei fiancheggiando Milad, parlò esibendo un tono ancor più serio di quanto fosse sua intenzione, finendo col portare Nerea a sgranare gli occhi inorridita prima di affrettarsi ad assicurarle di non aver parlato seriamente per rassicurarla.
“Che scherzi orrendi mi fai, io ero serissima!”, sbottò Nerea gettando all’amica un’occhiata di rimprovero mentre la francese abbozzava un sorriso di scuse per farsi perdonare parlando con un’inclinazione più dolce del solito nella voce:
“Rea, tifa per chi preferisci, a me non importa nulla di questo campionato, a parte che Antoine non si fratturi l’osso del collo. Sei liberissima di tifare per Dante, come è giusto che sia. Milad, tu per chi tifi?”
“A me non frega poi molto, ma suppongo che lo spirito sportivo mi imponga di tifare per noi.”
Non tifare per Ombrelune sarebbe stato come non tifare per il Belgio agli Europei, e Milad scrollò debolmente le spalle larghe mentre Nerea tornava a camminare dritta roteando gli occhi con disapprovazione e Gisèle, al contrario, annuiva dando un lieve colpetto sul braccio del compagno in segno di supporto morale:
“Vedi? Io e Milad siamo anime affini. Siediti vicino a me, ce ne fregheremo insieme.”
Uno dei motivi per cui Milad un po’ soffriva le partite era il caos che vi regnava, e aveva ricordi molto poco positivi delle occasioni in cui si era ritrovato ad assistervi cercando in tutti i modi di farsi gli affari propri ma finendo col venir continuamente distratto da chi gli sedeva vicino. Se conosceva anche solo un po’ Gisèle era sicuro che, come lui, si sarebbe seduta e sarebbe rimasta più o meno in silenzio dedicandosi ad altro per buona parte del tempo, pensiero che lo portò ad annuire con un lieve cenno sollevato, acconsentendo silenziosamente. Non le sorrise, ma che Milad sorridesse in maniera direttamente proporzionale al numero di giorni dell’anno in cui non desiderava di usare suo cugino come giavellotto la compagna di Casa lo sapeva, e non se la prese.
A Nerea, invece, tornò in mente un dubbio che si portava appresso da quando Gisèle e Milad avevano fatto il loro ingresso in sala da pranzo insieme ad Antoine, Icaro e Phoenix, dubbio che l’amica non aveva voluto saperne di sciogliere per tutta la breve durata del pasto mentre i tre giocatori di Quidditch, in ritardo per il raduno negli spogliatoi, si abbuffavano senza ritegno.
“Ma mi spiegate cos’è successo stamani? È strano che tu sia arrivata così tardi… e perché Icaro e Phoenix continuavano a parlare di ragni?” Nerea tornò a rivolgersi direttamente a Gisèle e a Milad inarcando un sopracciglio, il ricordo di Phoenix che incantava un tovagliolo affinché assumesse la forma di un ragno pronto a dare il tormento a Gisèle ancora piuttosto vivido. Milad come suo solito si guardò bene dal parlare, ma dovette impegnarsi a fondo per mantenersi impassibile e non tradirsi con un sorriso – per quanto Phoenix Anastasakis non si potesse considerare il suo prediletto tra i compagni di Casa tutta la faccenda lo aveva un pochino divertito – mentre lo sguardo di Gisèle, al contrario, si incupiva all’improvviso:
“Non ne voglio parlare. A volte penso di essere circondata da un mare d’idioti, presenti a parte… Spero almeno che nessuno si sogni di proporre di metterlo nella Brigade.” La francese arricciò il naso stizzita all’idea di dover trascorrere parte del suo tempo libero non solo con suo cugino ma anche con Phoenix, che sembrava divertirsi a farla innervosire di proposito fin dal loro primissimo incontro risalente a sei anni prima, quando ancora nemmeno indossavano la divisa scolastica e aveva ben pensato di indicare il suo minuscolo baschetto definendolo orribile. Gisèle, che collezionava baschetti, non l’aveva presa bene.
“Io non credo che lo farei… Ma Icaro è il suo migliore amico.” Milad non aveva ancora riflettuto su chi avrebbe potuto individuare come nuovo membro, riteneva che non avesse senso perdere troppo tempo con quelle riflessioni fino a quando non avrebbe avuto la certezza di doversene occupare, ma Phoenix era pur sempre molto amico di Icaro e pertanto si strinse nelle spalle, certo di non poter totalmente escludere di ritrovare il greco tra i futuri membri del gruppo.
“Sì,” convenne Nerea annuendo distrattamente mentre rifletteva a sua volta sulla questione “potrebbe essere. Io non so davvero su chi andrei a parare, ci dovrei riflettere parecchio…”
All’improvviso la ragazza si rammentò del recente trasferimento di Dante a scuola e di come, soprattutto, il suo amico fosse iscritto al sesto anno. Per la prima volta Nerea rifletté seriamente sull’eventualità di poter provare a farlo entrare nella Brigade laddove il compito fosse effettivamente toccato a lei mentre Gisèle, poco più indietro, sospirava sperando di riuscire ad evitarsi quel compito ai suoi occhi ingrato.

 
*

 
Dante era stato felicissimo quando due settimane prima aveva passato le selezioni ed aveva assunto ufficialmente il ruolo di Cacciatore della squadra, ma all’improvviso, mentre se ne stava seduto su una delle rigide panche di legno dello spogliatoio – l’unico angolo di tutta Beauxbatons in cui si fosse imbattuto a conservare una parvenza di aspetto spartano, privo di stucchi, marmo od opere d’arte – con la divisa addosso e i guanti di pelle di drago con le dita tagliate infilati, tutto ciò a cui riusciva a pensare era la forte nausea e il senso di inadeguatezza di cui era caduto vittima. Due settimane di allenamenti non erano molte, tutt’altro, non tanto per una sua qualche incapacità di sorta quanto più per l’ancora scarsa conoscenza che lo legava al resto della squadra. Che cosa gli era saltato in mente quando aveva deciso di provare le selezioni Dante all’improvviso proprio non lo sapeva: era abituato all’ansia da prestazione grazie ai cinque lunghi anni trascorsi nella sua vecchia scuola e a tutte le attività sportive a cui era stato abituato fin da piccolo, dal Quidditch stesso fino al tiro con l’arco e le arti marziali, ma l’idea di giocare male, di fare una figuraccia e di diventare quello che aveva fatto perdere la squadra ad un mese dall’inizio dell’anno scolastico lo tormentava ormai da qualche giorno.
“Ehilà.”
Dante era caduto talmente vittima delle sue elucubrazioni mentali che quasi non si era accorto della persona che gli si era avvicinata per poi sedersi proprio accanto a lui rivolgendogli un sorriso gentile, portandolo a voltarsi di scatto e a ridestarsi per incrociare due occhi grandi, gentili e di una tonalità color cioccolato.
“Fanno miracoli per la nausea.”  Maëlle gli porse il sacchettino di plastica pieno di minuscoli grissini che teneva in mano, dono provvidenziale che Dante accettò provando per la ragazza un sincero moto di gratitudine:
“Grazie.” 
“Di nulla. Giocavi anche nella tua vecchia scuola?”
Dante si limitò ad annuire, restando in silenzio mentre masticava il pezzo di grissino che aveva appena addentato: anche se vivevano in due continenti diversi a volte serbava il terrore irrazionale di veder spuntare sua nonna da dietro un angolo al primo comportamento non conforme alla buona educazione. Era piuttosto sicuro che non sarebbe nemmeno mai riuscito a liberarsi del modo di camminare che lo contraddistingueva, con la schiena e le spalle talmente dritte che Nerea, quando per la prima volta ci aveva fatto caso in Italia, gli aveva chiesto se non sentisse dolore con gli occhi sgranati. Dante attese di aver mandato giù il boccone per prendere la parola, schiarendosi la voce mentre Maëlle lo guardava gentilmente in attesa:
“Sì. In realtà lì sentivo molta più pressione, solo che è la prima partita che gioco qui e sono appena arrivato, quindi…”  Dante si strinse nelle spalle mentre chinava il capo distogliendo lo sguardo da quello della compagna di Casa, quasi vergognandosi dell’ansia da prestazione che provava. Maëlle invece non desistette e anzi il suo sorriso si allargò mentre addentava a sua volta un grissino, annuendo come se lo capisse perfettamente:
“Non vuoi fare brutta figura. Sì, capisco. Se ti consola mio fratello maggiore è un giocatore professionista, quindi anche io ho il terrore di fare la figura della rincoglionita che è finita sulla scopa per sbaglio.”
Le parole della bionda strapparono un lieve sorriso sulle labbra fino ad allora tirare di Dante, che rifletté su come lui e Maëlle avessero condiviso lezioni, qualche allenamento e anche le prove dell’orchestra, ma sempre senza avere una conversazione vera e propria. In realtà erano pochi i nuovi compagni di Casa con cui aveva avuto modo di parlare più di un paio di volte, si ritrovò a considerare Dante, forse a causa della sua inclinazione a passare pochissimo tempo nella loro Salle Comune, preferendo invece chiudersi quasi sempre in camera sua.
“Come mai non ti ho vista a tutti gli allenamenti?”
“Non sono la Cercatrice ufficiale, sono la riserva. Oggi tocca a me perché Miguel si è slogato la caviglia.” Un largo sorriso incurvò le labbra carnose di Maëlle, come se la cosa la rendesse particolarmente felice, salvo poi rendersi conto di star parlando dell’infortunio di un suo compagno e aggrottare le sopracciglia:
“Forse è sconveniente che io sorrida. Non sono felice per la sua caviglia, anche se se l’è slogata scendendo dal divano e la cosa mi farà ridere fino al mio funerale… Sono felice di giocare, ansia da prestazione a parte. Beh, so che è una banalità, ma tu fa’ del tuo meglio e basta, per il resto andrà come andrà.”
La strega gli porse un secondo grissino prima di alzarsi in piedi e spolverarsi distrattamente la divisa viola, scelta che disapprovava fortemente fin dalla prima partita a cui aveva assistito anni prima e ancor più da quando giocava in prima persona: per quanto fosse il colore della sua Casa e ci fosse sinceramente affezionata non lo avrebbe mai adottato per le divise. Dante, che ancora non era riuscito a mandare giù il colore che ormai dominava il suo campo visivo per buona parte delle sue giornate, intercettò l’occhiata di disapprovazione che la compagna rivolse al proprio vestiario e inarcò un sopracciglio incuriosito:
“Non ti piacciono le divise? Io sto ancora cercando di abituarmi a tutto questo viola, e non penso che accadrà prima della fine dell’anno.”
“No, mi piace il viola. Solo che non andrebbe usato per delle competizioni o rappresentazioni di sorta, il viola porta sfiga!” 
“Non era una cosa… teatrale, credo?”, domandò Dante sentendosi un tantino confuso – i significati culturalmente attribuiti ai colori da parte degli occidentali ancora gli sfuggivano in parte – mentre Maëlle, davanti a lui, annuiva agitando sbrigativamente una mano come a voler scacciare un insetto:
“Sì, sì, ma vale per tutto. Mi raccomando Dante, non presentarti mai ad un’esibizione dell’orchestra in viola, potresti venir linciato seduta stante.”  La strega parlò recuperando sia la sua scopa sia quella del compagno di Casa, entrambe appoggiate alla parete accanto alla panca sulla quale si erano seduti poco prima, porgendo a Dante la sua mentre il ragazzo si alzava in piedi con una stretta di spalle e rendendo improvvisamente molto evidente la loro differenza d’altezza:
“Tranquilla, è un colore che aberro.”
“Buono a sapersi. Forza, andiamo a fargli il culo a strisce viola.”
Dante sorrise mentre Maëlle lo precedeva, sentendosi improvvisamente un po’ più sollevato mentre l’ansia iniziava a scivolargli via dal corpo per lasciare spazio alla sua forte competitività e all’adrenalina.

 
All’interno di un altro spogliatoio, dall’altra parte del campo, gli schemi di gioco erano stati ripassati, i discorsi di incoraggiamento fatti e le divise indossate, era tutto pronto per recuperare i manici di scopa, uscire e mettersi in campo, o quasi: come accadeva per gran parte delle partite che giocava a Beauxbatons Icaro era rimasto seduto sulla rigida panca di legno attardandosi un po’ più del necessario e più a lungo dei suoi compagni, lasciando che uscissero tutti sfilandogli davanti agli occhi per restare da solo per un minuto. Sentiva ancora il vociare febbricitante dei compagni echeggiare nel corridoio che si trovava al di sotto degli spalti che si erano ormai riempiti, come lo scalpitio dei piedi gli aveva suggerito già mentre indossava la divisa blu notte con il suo cognome e il numero uno ricamato sulla schiena, quando Icaro si sfilò dalla testa senza slacciarla la sottilissima catenella che portava al collo, rigirandosela distrattamente tra le dita affusolate e pallide per sfiorare e osservare più da vicino il singolo ciondolo a forma di lettera che vi era stato appeso molto tempo prima. Anche se restava sempre a contatto con la sua pelle il metallo gli risultò freddo al tatto mentre strofinava lentamente il pollice contro il bordo della lettera, studiandola pensoso.
Icaro era ancora seduto sulla panca quando Phoenix, che ben sapeva che cosa lo stesse trattenendo, fece la sua comparsa stagliandosi sulla soglia, la divisa blu che risaltava il ceruleo delle iridi e la mano destra stretta attorno al manico della sua scopa da corsa.
“Orsini, andiamo. Muovi il culo, non si inizia se tu non esci.”
“Lo sai che quando siamo qui e indossiamo la divisa dovresti portarmi un briciolo di rispetto in più, sì?”, domandò Icaro senza guardare l’amico e senza riuscire a trattenere un lieve accenno di sorriso mentre si srotolava la catenella dalla mano, conscio di dovergli dar ragione e di doversi decidere ad alzarsi e uscire dallo spogliatoio. Mentre Phoenix si appoggiava mollemente allo stipite della porta aperta guardandolo in attesa Icaro slacciò il gancetto della catenella prima di allungarsi in avanti, sollevandosi il lembo dei pantaloni neri e abbassandosi le calze per avvolgere più e più volte il filo di metallo attorno alla caviglia.
“Francamente, caro, me ne sbatto.”, asserì il greco con una stretta di spalle noncurante mentre Icaro, riallacciata la collana, sistemava calze e pantaloni per potersi finalmente infilare lo stivale sinistro e dichiararsi ufficialmente pronto per uscire dallo spogliatoio. L’italiano si alzò in piedi e sollevò le braccia per stiracchiarsi, aggiustandosi la divisa – Nick non mancava mai di ribadire come fosse vanesio anche quando giocava – prima di afferrare il manico della sua scopa portagli dall’amico.
“Bene. Ora che sono pronto e splendido possiamo uscire.”  Icaro ritrovò rapidamente il suo sorriso compiaciuto sforzandosi di accantonare i pensieri che lo coglievano prima di ogni partita, portando l’amico a gettargli un’occhiata di sbieco mentre scuoteva la testa:
“A nessuno frega del tuo aspetto quando si gioca.”
“Come sarebbe? E tutte le mie ammiratrici, allora?”
Phoenix alzò gli occhi al cielo e lo precedette fuori dallo spogliatoio prima di annunciare ai compagni che finalmente il Capitano era pronto a fare la sua uscita – o “sfilata”, come la chiamava quando lo sfotteva – e Icaro, nei due secondi di solitudine che gli rimasero, lo ringraziò silenziosamente per non aver detto nulla mentre sentiva il metallo freddo della catenella contro la caviglia. Levò la mano libera portandosela dietro la schiena per picchiettarsi i ricami argentati in un gesto scaramantico prima di stamparsi un sorriso sulle labbra, pronto ad entrare in scena.
 

 
*

 
Una volta giunti al campo Daphnè era stata abbandonata a se stessa da Etienne e soprattutto da suo fratello, che dopo aver incontrato alcuni compagni di Casa non sembrava aver molta voglia di assistere ad una partita in compagnia dei suoi amici e della sorellina al tempo stesso (screanzati!). La giovane strega terminò di salire i gradini della tribuna guardandosi attorno tormentandosi con leggero nervosismo le punte delle dita e sperando di trovare un posto dove sedersi e qualche faccia nota, sentendosi pervadere dal sollievo quando scorse, non troppo distante, Nerea Pagano seduta vicino ad un’altra compagna di Etienne e di suo fratello, una ragazza spagnola dai lunghi boccoli castani che le sembrava chiamarsi Leticia, e davanti a lei Gisèle Delacroix.
Daphnè raccolse tutto il suo coraggio e si avvicinò ai posti rivolgendosi con un sorriso a Gisèle, che conosceva discretamente grazie alle loro famiglie che, entrambe residenti in Provenza, frequentavano più o meno gli stessi ambienti.
“Ciao Gisèle. Posso sedermi?” Quando ebbe raggiunto la francese, seduta accanto ad un silenziosissimo Milad Sarkis, Daphnè indicò il posto rimasto libero accanto a lei prima che Gisèle, cessato momentaneamente di scrutare il campo, ricambiasse il suo sguardo e il suo sorriso cortese:
“Ciao Daphnè. Certo, siediti pure.”
“Grazie. Ciao Nerea.”  Daphnè sorrise grata a Gisèle prima di sedersi voltandosi verso Nerea per salutare anche lei, scontrandosi con il sorriso radioso e contagioso dell’italiana:
“Ciao Daphnè! Hai finito di scrivere l’oroscopo per il numero?”
“No, e onestamente ho paura che Guillaume si arrabbierà molto… spero di finirlo stasera, ma se dovessimo vincere noi penso che le mie amiche vorranno festeggiare…” Daphnè scosse il capo sconsolata, preoccupatissima all’idea che Guillaume potesse avercela con lei mentre Nerea le dava qualche colpetto d’incoraggiamento sulla spalla per invitarla a non preoccuparsi e Gisèle, accanto a lei, faceva appello a tutto il suo autocontrollo per non intromettersi nella conversazione e spiegare per filo e per segno a Daphnè tutte le motivazioni che le avrebbero dovuto categoricamente impedire di farsi piacere quel troll di suo cugino.
“Stai soffrendo?”, mormorò Milad tenendo le braccia strette al petto e chinando lo sguardo sui propri piedi sperando di non farsi sentire mentre Gisèle, accanto a lui, annuiva con un movimento appena percettibile della testa:
“Non sai quanto.”
“Tranquilla, con Guillaume in caso ci parlo io. Non vedo l’ora che il numero esca, sono piena di gossip!” Il sorriso allegro non abbandonò il bel viso di Nerea, nemmeno quando Gisèle si voltò e le rivolse un sorrisino all’apparenza innocente che lei sapeva bene non esserlo affatto:
“Ti sei finalmente decisa a pubblicare quella storiella di mio cugino che esce con un troll, Rea?”
“Ne abbiamo già parlato trecento volte, non scrivo sciocchezze, io! Lascia perdere Daphné.” Nerea si rivolse alla più piccola scuotendo il capo, destando un accenno di sorriso sulle labbra di Daphné prima che tornasse a rivolgersi alla Ombrelune:
“Tu e tuo cugino non andate d’accordo, vero?”
Una domanda abbastanza inutile: persino le pareti sapevano, dalle loro parti, che i nipoti di Séraphine Fournier e del defunto Gérard Delacroix non si potevano sopportare. Una sera, dopo che ad una festa di anniversario Gisèle aveva cercato di spingere il cugino all’interno di una fontana di cioccolato, tornando a casa Daphné aveva sentito sua madre commentare con aria tragica che se si fosse ritrovata con due figli simili lei avrebbe cambiato residenza.
Gisèle, perfettamente consapevole della nomea che lei e il cugino si portavano appresso – suo padre si lamentava spesso, affermando che suo nonno vedendoli in quei pessimi rapporti si sarebbe rivoltato nella tomba, ma Gisèle era dell’idea che Gérard, al contrario, una volta compreso quanta sfortuna avesse avuto nel crescere con un cugino simile avrebbe solo potuto compatirla – annuì e allargò le labbra in un sorriso divertito:
“Si può dire così, sì.”
Daphné, dal canto suo, proprio non capiva le ragioni di tutto quell’astio: Gisèle le piaceva, anche se non si conoscevano bene, e spesso finiva col trascorrere proprio in sua compagnia molte delle feste alle quali erano invitate insieme alle loro famiglie. Però le piaceva anche suo cugino. Stava giusto riflettendo su come proprio non potessero due consanguinei cresciuti insieme andare d’accordo – liti o meno lei voleva profondamente bene a tutti i suoi fratelli, dal primo all’ultimo – quando Nerea, alle sue spalle, levò una mano per indicare il campo strillando che la partita stesse per iniziare.
Milad si sporse in avanti e riuscì a scorgere i loro compagni, metà in divisa blu e metà in divisa viola, solcare il prato verde del campo per mettersi in fila gli uni di fronte agli altri. Fu quello il momento in cui sfilò dallo zaino il libro che aveva portato con sé, stabilendo che fosse arrivato il momento per iniziare a leggere. Gisèle lo imitò destando tutta la disapprovazione di Nerea, che per fortuna avrebbe potuto commentare la partita con Leticia, sua compagna di squadra, mentre Daphnè accavallò le gambe e si strinse il ginocchio destro sporgendosi in avanti per cercare di individuare la folta chioma bionda di Maëlle. Una volta che vi fu riuscita sorrise anche se l’amica non poteva vederla, sperando ardentemente che non si facesse male per non dover trascorrere la notte in Infermeria.

“Ah, stai leggendo Kafka.”  Gisèle scorse il titolo del libro tenuto in mano dal compagno di Casa mentre Icaro, diversi metri più in basso, porgeva la mano al Capitano dell’altra squadra e Phoenix, in piedi accanto a lui, guardava l’insegnante di Volo, Madame Marleau, aprire il baule che conteneva Pluffa, Bolidi e Boccino per liberare quest’ultimo.

“Stai pensando di trasformare tuo cugino in un insetto?” Milad accennò un sorriso mentre apriva il volume alla pagina dove aveva lasciato il segnalibro e Gisèle, udite le sue parole, scuoteva il capo con un’espressione schifata:
“Non potrei mai. Poi gli altri insetti si infurierebbero per averglielo accollato e mi attaccherebbero in massa! E come hai visto io non sono una loro fan.”
“I ragni non sono insetti, tecnicamente.”
“Sono brutti uguale, poco importa. Cioccolato?”  Gisèle recuperò dal suo zaino di tela azzurro una barretta di cioccolato al fleur de sel che non tardò a condividere con tutti i presenti, in particolar modo con Milad: doveva pur sdebitarsi per aver preso il ragno e averlo mandato fuori dalla finestra usando un semplice foglio di carta proprio mentre lei, Phoenix e Icaro discutevano per stabilire chi dei tre dovesse liberarsene, probabilmente più per sfinimento nei confronti della situazione che per altro. Lei non ne avrebbe mai avuto il coraggio.
Ma come si poteva paragonare Guillaume, che era così carino, ad un insetto? Daphné proprio non riusciva a capacitarsene mentre mangiucchiava il cioccolato donatale da Gisèle e il fischio d’inizio partita risuonava per tutte le tribune insieme alla voce allegra e squillante di Lucinda, ma il suo flusso di pensieri scandalizzati venne bruscamente interrotto da qualcuno che, fermatosi vicino a lei, si schiarì la voce:
“Posso sedermi?”
Di fronte a lei c’era Diego, ma poiché le era stato rigidamente insegnato a non parlare mai a bocca piena Daphnè invece di rispondere masticò quel che restava del cioccolato più rapidamente che poteva – e sentendosi una perfetta cretina – prima di annuire e abbozzare un sorriso:
“Ciao. Sì, certo.” Diego non ricambiò il sorriso, ma sembrò sollevato mentre prendeva posto accanto a lei sistemandosi i gomiti delle ginocchia, le mani nodose giunte e gli occhi chiari puntati davanti a sé, probabilmente solcando il cielo alla ricerca della sagoma del cugino.
“Grazie. Sono arrivato tardi e avevo paura che fosse già tutto pieno, non avrei mai avuto il coraggio di dire a Icaro di essermi perso la partita.”
Lucinda scelse quell’esatto momento per suggerire allegramente quanto la squadra dei Papillonlisse fosse fantastica e in particolar modo una certa Cercatrice dai capelli biondi, e Daphné sorrise in silenzio mentre Diego, accanto a lei, scuoteva il capo con un sospiro:
“Icaro non sarà felice che abbiano fatto dei complimenti ai capelli di qualcun altro e non ai suoi…”

 
Lucinda dovette mordersi la lingua per non imprecare proprio davanti al microfono: Icaro Orsini e Phoenix Anastasakis si passavano la Pluffa talmente tanto spesso da farle mandare in pappa il cervello e rendere le parole che le uscivano di bocca alla stregua di uno scioglilingua. Giacché non ne poteva più di menzionare i loro nomi decise di suggerire gentilmente ai Battitori o ai Cacciatori della sua squadra di darsi una bella mossa per riappropriarsi della palla di cuoio rosso, dopodiché si complimentò con Antoine De Vos, perché anche se apparteneva alla squadra avversaria bisognava ammettere che la divisa gli stava proprio bene.
Icaro stava volando in direzione degli anelli tenendo la Pluffa sottobraccio quando, udito il commento, storse il naso profondamente infastidito: e lui allora?!
“Antoine, sei bellissimo!”, gridò Gisèle a squarciagola con le mani racchiuse attorno alle labbra perforando il timpano destro di Milad, sperando che l’amico l’avesse sentita mentre quasi riusciva a scorgere, anche a quella distanza, il rossore che si era espanso sul suo viso al suono dei fischi che avevano seguito le parole di Lucinda. Daphné ridacchiò mentre Diego e Nerea scrutavano attenti la Pluffa passare di mano in mano tra i Cacciatori di Ombrelune, la seconda tenendo le mani strette sulle spalle di Gisèle tanta era l’ansia che provava.
Stabilito di poter tornare a leggere una volta fatto il suo dovere, ovvero aver sostenuto Antoine, Gisèle tornò a concentrarsi sul suo libro masticando un quadratino di cioccolato fondente appena prima che la folla trasalisse esultando: qualcuno doveva aver segnato, e Nerea si premurò di farglielo sapere intensificando dolorosamente la stretta sulle sue spalle e prendendo a saltellare sul suo posto. Milad al contrario si limitò ad una rapida occhiata volta a capire quale squadra avesse segnato, non provando particolare entusiasmo nell’appurare che fosse stata opera di Icaro e tornando presto a leggere imitando Gisèle, che pregò Nerea di risparmiare le sue spalle – le servivano per ballare – mentre Daphnè si sforzava di simulare un po’ di disappunto a fronte del goal subito dalla sua squadra.
“Neanche a te interessa tanto, vero?”, le domandò Diego alzando leggermente la voce per farsi sentire nonostante il caos che li circondava – Gisèle si chiese a voce alta come potessero pensare che lei e Milad riuscissero a leggere con tutto quel baccano –. Daphné scosse la testa accennando un sorriso, lieta di poterlo dire a qualcuno avendo anche l’impressione di poter essere compresa prima di rispondere alzando la voce a sua volta:
“Non sono un tipo sportivo!”
“Già, nemmeno io… Ma giocano Icaro e Nick, quindi non posso non farmi vedere.”
Anche Daphné andava alle partite soprattutto per via delle sue amiche e annuì sorridendo comprensiva a Diego, felice di aver avuto la fortuna di trovare apposto accanto a persone che non la facevano sentire un alieno a causa del suo scarso interesse per il Quidditch: Milad e Gisèle sembravano talmente poco interessati che avevano preso a scambiarsi opinioni sul compito di Letteratura per la settimana successiva, entrambi visibilmente poco felici di aver perso tempo prezioso per portarlo a termine restando confinati su quelle tribune.

 
*
 

Invece di atterrare Icaro quasi si schiantò al suolo a causa del suo sconsiderato migliore amico, che preso dall’euforia e dalla felicità data dalla vittoria gli planò direttamente addosso per gettargli le braccia al collo quando si trovavano entrambi ancora in aria, destando nell’italiano un fiume di insulti che sfociarono in risate quando i due capitombolarono sull’erba.
“Coglione.” Icaro si mise a sedere sull’erba sentendosi un tantino dolorante ma con un sorriso ad allargargli le labbra, cercando di districarsi dal groviglio di divise in cui si trovava mentre Phoenix, incurante, gli prendeva il viso tra le mani scuotendolo con euforia:
“Abbiamo vinto Capitano! Sei felice o no?”   Era diventato sempre più raro vedere il suo amico provare sincero entusiasmo per qualcosa e Icaro guardando Nick si rese conto di essere felice anche per la gioia che scorse nei suoi occhi cerulei e nel suo sorriso ormai sporadico, ritrovandosi ad annuire prima di scacciargli le mani dal proprio viso con un gesto giocoso:
“Sì ma mollami, o penseranno tutti che stiamo per baciarci.”
Phoenix rise, ma obbedì e lo lasciò andare appena in tempo affinché Icaro potesse venir travolto anche da altri membri della squadra. L’italiano riuscì anche a scorgere l’amico volgere lo sguardo in un’altra direzione e il suo sorriso svanire all’improvviso, portandolo a chiedersi che cosa avesse visto in grado di scalfire l’euforia conferita dalla vittoria.


 
*

 
Dal termine della partita l’ansia che lo aveva accompagnato per tutto il corso della giornata precedente se n’era andata come spazzata via dal vento, ma in compenso la sconfitta subita aveva lasciato in Dante una copiosa amarezza, per nulla soddisfatto – forse anche a causa del modo in cui era stato cresciuto – di quel risultato.
Fortunatamente poteva dirsi soddisfatto, per quanto lo riguardava: non pensava di aver giocato male, si era divertito e tutto sommato la partita non era andata male, con nessun infortunio e pochi falli. Dante sapeva per certo che se fosse stata lì sua madre gli avrebbe ricordato come l’importante fosse divertirsi quando si giocava a livello amatoriale, e stava cercando di ripeterselo fin da quando i suoi piedi avevano ritoccato terra, trovando quasi ironico quanto la mentalità della donna fosse diametralmente opposta a quella della famiglia paterna e che quindi aveva fortemente influenzato la sua crescita.
Un malumore generale si era impossessato anche dei suoi compagni di Casa, e non fu affatto difficile per Dante individuarli non appena ebbe varcato la soglia della sala da pranzo: di certo i Papillonlisse erano quelli che sedevano a tavola sfoggiando musi lunghi e aria contrita o amareggiata.
“Vuoi che resti con te?”, gli domandò suo fratello gettandogli occhiate di sottecchi, preoccupato che il fratello maggiore stesse risentendo del risultato dell’incontro più di quanto non stesse dando a vedere.
“Tranquillo, vai pure con Cornelio. Io andrò a farmi fare un lungo discorso di incoraggiamento da Nerea.”
Dante sorrise al fratellino, grato per avergli fatto compagnia per quasi tutto il pomeriggio restandosene seduti uno accanto all’altro in Biblioteca Zhān facendo i compiti e lui un po’ aiutandolo e un po’ disegnando lo spettacolo architettonico che li circondava, e lo invitò a raggiungere il suo migliore amico con un leggero colpetto affettuoso sulla spalla, guardando il ragazzino annuire prima di dirigersi verso il mare di tavoli circolare che avevano davanti. Al maggiore, gettata un’ultima occhiata alla schiena di Zhān dicendosi di dover essere lui a preoccuparsi per il fratello e non il contrario, non rimase che far vagare lo sguardo sui volti che lo circondavano per cercarne qualcuna di familiare, e soprattutto qualcuno con cui avesse voglia di scambiare qualche parola.
Una volta individuato il volto di Nerea Dante non esitò a dirigersi verso il tavolo dell’amica, che sedeva accanto a Gisèle mentre entrambe tenevano quelli che avevano tutta l’aria di essere dei menù. Quando lo vide arrivare l’italiana, anziché sorridergli e accoglierlo calorosamente come al solito, si alzò in piedi scostando la sedia e lo raggiunse allontanandosi di un paio di metri dal tavolo bloccandolo sollevando la mano destra:
“Scusa, stasera non puoi sederti con noi.”
Considerando che di norma era Nerea a lamentarsi della sua inclinazione ad isolarsi e a non stare in compagnia, Dante guardò l’amica chiedendosi se non fosse andata a sbattere contro una colonna dorica.
“Perché no? C’è una sedia libera.”, osservò accigliato il ragazzo indicando una sedia rimasta vuota accanto ad Antoine, che stava per sorridergli e invitarlo a sedersi quando Nerea lo precedette scuotendo il capo, parlando scandendo molto lentamente le parole come se le servisse tempo per trovare una scusa sensata:
“Sì, ma… io e Gisèle dobbiamo parlare degli affari nostri, non puoi sentire. Devo anche raccogliere gossip per il giornale, sai com’è.” Nerea, soddisfatta di come se l’era cavata, abbozzò un sorriso mentre si stringeva nelle spalle simulando una nonchalance in netta contrapposizione con l’espressione perplessa con cui Gisèle stava seguendo la conversazione restando seduta al tavolo: non aveva idea di che cosa avesse in mente la sua amica.
“E perché io non posso sentire? Non voglio mica origliare gli affari vostri, voglio solo cenare!” Dante, sempre più confuso e ormai vagamente spazientito, indicò seccato la sedia chiedendosi perché Nerea, che lo conosceva così bene, lo avesse improvvisamente scambiato per una delle anziane pettegole che popolavano il paesino di cui le loro famiglie erano originarie, ma anziché demordere l’italiana fece nuovamente spallucce, le braccia strette al petto e il mento sollevato con aria decisa:
“No, perché… dobbiamo parlare del fidanzato di Gisèle.”
La diretta interessata aveva avuto la malsana idea di bere un sorso d’acqua appena un istante prima, e finì col rischiare di farsela andare di traverso tossicchiando mentre Antoine, che volente o nolente aveva udito tutta la conversazione a causa della vicinanza, volgeva lo guardo sull’amica guardandola inorridito e offeso, gli occhi azzurri sgranati:
E io perché non ne so nulla?!”
“Non ne so niente neanche io, a dire la verità.”, borbottò Gisèle cercando di darsi un contegno mentre si tamponava discretamente le labbra carnose con il tovagliolino e Nerea, ancora in piedi di fronte a Dante, sorrideva all’amico invitandolo ad andare a sedersi con qualche suo compagno. Il ragazzo, che per quella giornata sentiva di aver esaurito le energie e non chiedeva altro che sedersi e cenare, finì con l’annuire con un sospiro, vinto:
“Va bene, cercherò Diego.”
Oppure potresti smettere di fare il troll di montagna dei Pirenei e cenare insieme a qualche tuo compagno di Casa, che ne pensi? Anche se il viola è il colore della loro Casa non mordono, sai.”, suggerì casualmente Nerea brandendo un sorriso a trentadue denti e un continuo battito di ciglia che portarono l’amico ad aggrottare la fronte guardandola esausto:
“Tutta questa stronzata è solo per farmi fare nuove amicizie?”
Ma che vai dicendo, è solo che voglio dettagli sulla vita sentimentale della mia migliore amica! Ora sorridi e vai, cerca di sembrare simpatico.”
Dante seppe di essere stato congedato quando Nerea gli fece pat-pat su una spalla e girò sui tacchi per tornare al suo tavolo, lasciandolo solo mentre Gisèle gli rivolgeva un mesto cenno di saluto con la mano, certa di non poter fare assolutamente nulla per aiutarlo se Nerea si era messa un’idea precisa in mente.
In fondo lo sapeva anche Dante, motivo per cui sospirò e andò a caccia di un’altra sedia mentre Nerea, soddisfatta, tornava a sedersi accanto all’amica e a riprendere in mano il menù per decidere quale pizza mangiare.
“Mi spieghi il mio fidanzato, di grazia, chi sarebbe?”, domandò Gisèle accostando il capo a quello dell’amica non appena Nerea le si fu seduta nuovamente accanto mentre l’altra, visibilmente soddisfatta del suo operato, le rivolgeva un sorriso allegro:
“Scusa, mi serviva una scusa che fosse abbastanza credibile. Non male per averla inventata di sana pianta. Penso che prenderò quella con le patate al forno…”
“Non potevi dire che lo hai tu un fidanzato?”
Quando udì la domanda di Gisèle Nerea fece forse l’ultima cosa che l’amica si sarebbe aspettata: scoppiò fragorosamente a ridere, così tanto da contorcersi sulla sedia dopo aver abbandonato il menù sul tavolo sotto lo sguardo perplesso dell’amica, che la guardò senza capire finchè la Bellefuille non aprì bocca per spiegarsi:
Io?! Io sono la persona più sfigata in amore che queste mura abbiano mai visto, mi avrebbe riso in faccia! Ho più friendzone alle spalle io che l’intero cast di una serie teen, non scherziamo!”
Gisèle stava per scuotere la testa e intimare all’amica di smetterla con quella storia della sfiga quando si rese conto che oltre a Nerea anche qualcun altro stava ridendo, e si voltò pronta a trafiggere chiunque con lo sguardo quando i suoi occhi azzurri indugiarono sulle quattro ninfe dei boschi che si stavano spazzolando i capelli pieni di foglie in attesa di iniziare a cantare.
“Voi che avete da ridere?!”, domandò piccata la francese alzando la voce e gettando alle quattro un’occhiata inceneritoria che fece immediatamente cessare le risate e distogliere gli sguardi.
“Ecco, brave. Cantate, che è meglio per voi. Io prendo la pizza con la burrata e il prosciutto crudo.”, dichiarò la strega appoggiando a sua volta il menù sul tavolo una volta che si fu seduta nuovamente dritta sulla sedia, lasciandosi le ninfe bisbiglianti e offese alle spalle. Nerea invece la guardò sgranando gli occhi, deliziata da quanto appena sentito, cercando di assumere un’aria adorabile mentre la guardava implorante:
“Ohhh, buona. Facciamo a metà?”
Gisèle annuì, sorridendole mentre le avvolgeva un braccio attorno alle spalle per stringerla brevemente a sé:
“Certo. Sei tu il mio fidanzato qui, in pratica.”
“Emh-emh.”
“Tu e Antoine. Siete le mie persone preferite!”
 
Offeso e scacciato da Nerea Dante iniziò ad aggirarsi tra i tavoli cercando un posto libero, finendo con l’individuare con sollievo un tavolo ancora pieno solo a metà: si avvicinò con circospezione alle due ragazze, entrambe sue compagne di Casa, che sedevano vicine parlando tra loro e una volta fermatosi alle spalle di una delle due si schiarì la voce per attirare la loro attenzione su di sé.
“Ciao. Scusate, posso sedermi?”
Per un lungo istante nessuna delle due gli rispose, entrambe impegnate a fissarlo meravigliate come se non fossero certe di aver capito la sua domanda. A Dante non restò che attendere sperando in una risposta affermativa – potevano anche aver perso, ma lui aveva comunque giocato e moriva di fame – finchè una delle due, dopo aver sbattuto le palpebre più volte, sorrise affrettandosi ad annuire e a ridestarsi:
“Sì, scusa, certo. Siediti pure.”
Dante ringraziò Daphnè con un borbottio a malapena comprensibile e prese posto mentre la strega tornava a rivolgersi a Lucinda, che la guardò di rimando con gli occhi sgranati e chiedendosi se qualcuno non avesse colpito il loro compagno con una mazza da Battitore: era la prima volta che rivolgeva loro la parola, fatta eccezione per le occasioni in cui a lezione aveva chiesto loro di passargli qualcosa. Persino durante le prove dell’orchestra Dante se ne stava in silenzio per la maggior parte del tempo, e nessuna delle due si sarebbe mai sognato di vederlo finire al loro stesso tavolo.
“Stasera come funziona?” Dante non aveva mai visto dei menù da quando aveva messo piede a Beauxbatons e sollevò quello che qualcuno aveva appoggiato sul suo piatto agitandolo debolmente mentre Lucinda, davanti a lui, lo guardava rendendosi conto stranita di aver sentito la sua voce appena una manciata di volte in un mese intero.
“Mangiamo sempre la pozza quando c’è una partita. Scegli, ordini e ti appare sul piatto.”  Daphnè sorrise gentilmente al compagno, che però continuò a non capire e la guardo inarcando un sopracciglio, perplesso:
“E… a chi devo ordinare?”
“Al piatto. Così.”
Contro ogni sua aspettativa la ragazza chinò il capo per rivolgersi direttamente al piatto, chiedendogli gentilmente una pizza con zucchine e gamberetti che un attimo dopo apparve, fumante, davanti a lei.
“State scherzando?! Dove andavo a scuola prima era tanto se non venivano a interrogarti direttamente mentre mangiavi.”
Quasi sul punto di mettersi a ridere di fronte a quella scoperta ma profondamente grato a chiunque avesse deciso di servire pizza proprio quella sera Dante si dedicò allo studio del menù scuotendo la testa sconcertato, certo che a Mahoutokoro nessuno avrebbe creduto al racconto di un simile lusso.
“A noi piace trattarci bene. Mi spiace molto che abbiamo perso, però sei stato molto bravo.”
“Grazie. Voi non siete amiche anche di Maëlle?” Pur avendoci avuto ben poco a che fare durante quelle prime settimane persino lui ricordava di aver quasi sempre visto Daphnè e Lucinda in compagnia della sua compagna di squadra e l’assenza di quest’ultima al tavolo lo stranì non poco mentre le due ragazze, al contrario, si scambiavano un’occhiata.
“Sì, sta cenando con suo fratello Etienne. Era un po’ demoralizzata dopo la partita, essendo Cercatrice si sente molta responsabilità addosso.”  Daphnè si strinse nelle spalle, astenendosi dal fare commenti su come Maëlle fosse erroneamente convinta che perdendo avrebbe deluso Basile mentre iniziava a tagliare la sua pizza tenendo i gomiti rigidamente stretti contro il busto. Lucinda, che stava lottando tra la smania di patatine fritte e la voce della coscienza che le diceva di mangiare qualcosa di più salutare, sbuffò esasperata mentre usava il menù per dare qualche colpetto al bordo del tavolo:
“Beh, non è colpa sua se abbiamo perso! Non è neanche colpa tua, ovviamente.”, si affrettò ad aggiungere rivolgendosi a Dante temendo una gaffe colossale, ma il ragazzo fortunatamente le rivolse un cenno prima di chiedere al suo piatto di servirgli una margherita. Quando quella gli apparve davanti quasi non ci credette, ma scacciò la vocina paurosamente simile a quella di Nerea pronta a suggerirgli come la nuova scuola dopotutto non fosse affatto male.
“È che gli altri erano molto bravi, tutto qui… Icaro e Phoenix sono straordinari, dev’essere difficile starci al passo. Bene, ho deciso, prenderò la pizza con le patatine.” Lucinda si raddrizzò sulla sedia bianca per ordinare, sorridendo felice alla sua pizza coperta di patatine non appena quella le apparve sul piatto e affrettandosi a condividerne un po’ con Daphnè mentre Dante, che stava tagliando la propria, annuiva in un cupo assenso:
“Sì, abbastanza.”
“Beh, loro si conoscono e giocano insieme da anni… Sono molto amici, sono avvantaggiati. Mio fratello dice che l’alchimia in campo è importantissima. La prossima volta andrà meglio, vedrai.”
Lucinda gli rivolse un sorriso incoraggiante che Dante si sforzò di ricambiare – provando un po’ di fastidio ai muscoli facciali – prima di stringersi nelle spalle e tornare a concentrarsi sulla sua cena:
“Lo spero, o mi cacceranno a pedate. Mi è piaciuta la tua cronaca, comunque, non ho sentito tutto perché ero concentrato ma era divertente.” Specialmente il momento in cui Lucinda aveva visto il Cercatore avversaio stringere il Boccino tra le dita e aveva iniziato a lamentarsi a gran voce, ma questo Dante non lo disse. 
“Grazie! Adoro fare la cronista, anche se l’anno scorso mi hanno imposto un sacco di veti!” Lucinda, pur apprezzando il complimento di Dante, smise rapidamente di sorridere per sbuffare amareggiata mentre addentava una patatina, per nulla d’accordo con tutte le raccomandazioni che le erano state rivolte dagli insegnanti. Daphnè, che anziché mangiare con le mani fetta per fetta stava tagliando la sua pizza in pezzi più piccoli usando le posate – la mangiava con le mani solo quando si trovava in esclusiva compagnia delle sue amiche o dei suoi fratelli – gettò all’amica un’occhiata divertita e rassegnata al tempo stesso prima di accennare un tiepido sorriso con gli angoli delle labbra:
“Hai parlato per due minuti delle braccia di quel ragazzo che si è diplomato…”
“Beh, faccio informazione! In pratica il mio è un servizio pubblico!”
Lucinda liquidò il discorso con un gesto pigro prima di sollevare una delle sue fette chiedendo esasperata alla sua amica perché si ostinasse a mangiarla in quel modo quando erano in pubblico, facendo desiderare a Daphnè di sprofondare quando si rivolse direttamente a Dante assicurandogli di avere un’amica in fondo normale, solo troppo vittima del giudizio altrui. E Dante, che forse Daphnè un po’ la capiva quanto a familiari troppo critici e vittima di insicurezze, le sorrise.
 
“Ha una bella voce.” Osservò Lucinda più tardi, quando lei e Daphnè lasciarono la sala da pranzo tenendosi a braccetto dopo aver finito le rispettive pizze e aver condiviso un sufflè al cioccolato. La francese, che stava riflettendo sul modo migliore per tirare su il morale di Maëlle – forse una buona dose di macarons e Gilmore Girls avrebbero fatto il miracolo –, volse lo sguardo sull’amica prima di sorridere e scuotere la testa, ridacchiando con l’aria di chi la sa lunga mentre Lucinda, invece, la guardava sgranando gli occhi:
“Sei sempre la solita.”
Che c’è?! Ho detto che ha una bella voce. È vero!”
 





 
 
 
 
 
 
…………………………………………………………………………………………
Angolo Autrice:
 
Mi dispiace averci messo così tanto a pubblicare questo capitolo, ma per quanto scrivere questa storia non sia di per sé difficoltoso ho fatto molta fatica a terminare questo a causa di personaggi che non ci sono, a cominciare da Marguerite che praticamente non ho mai inserito fin dall’inizio e che d’ora in poi non farà più parte della storia ufficialmente, o che non avrebbero dovuto esserci ma che ho inserito comunque in misura minore degli altri perché altrimenti scrivere questo capitolo in maniera pseudo-decente sarebbe stato praticamente impossibile: questa storia non ha una vera e propria trama, si fonda prevalentemente sulle interazioni tra i personaggi e i loro legami e se ne vengono a mancare diversi in uno stesso capitolo anche solo organizzare i paragrafi non diventa semplicissimo.
Detto questo vi saluto, domenica arriverà una OS nella raccolta attualmente in corso e poi dopo aver aggiornato OMITB cercherò di non far passare troppo altro tempo prima di riapprodare anche qui.
Signorina Granger

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo VI ***


Capitolo VI
 

 
Lunedì 31 ottobre
 
 

Nerea varcò la soglia della sala da pranzo gremita di studenti impegnati a fare colazione discutendo con Leticia a proposito della riunione di quella sera e della possibilità di dover scegliere personalmente gli studenti del VI anno da far potenzialmente entrare all’interno della Brigade, zittendosi quando si trovò pericolosamente a portata d’orecchi altrui e il rumoroso vociare di tantissimi studenti riuniti nella stessa stanza la investì.
A Beauxbatons era sempre piuttosto semplice riconoscere il lunedì mattina rispetto a tutti gli altri giorni della settimana: di lunedì sembrava che tutti fossero un po’ più spenti rispetto alle altre mattine, chi ancora assonnato, chi pentito di essersi alzato dal letto, chi rimpiangendo il weekend o chi ancora impegnato a ripassare o a finire di portare a termine dei compiti in vista della prima giornata di lezioni di una lunga settimana. Tuttavia se gran parte dei presenti non si sarebbe potuta definire di ottimo umore quella con cui Nerea e Leticia si scontrarono una volta raggiunto il tavolo occupato da alcuni dei loro compagni era quasi vera e propria disperazione: Milad, Icaro e Gisèle sedevano in religioso silenzio, tutti e tre chini su quaderni e pesanti quanto ingombranti dizionari aperti sul tavolo, quasi ignorando la colazione e circondati da cumoli di penne, matite, fogli strappati e accartocciati, post-it annotati e abbandonati a loro stessi e, nel caso di Gisèle, fazzolettini e una scatola di kleenex.
“Ciao ragazzi! State traducendo?”
Nerea andò ad occupare la sedia libera accanto ad Icaro con un sorriso allegro che nessuno dei presenti ricambiò: tutto ciò che l’italiana ottenne fu una sorta di mugugno d’assenso collettivo mentre Milad si massaggiava le tempie tenendo gli occhi chiusi, forse cercando di isolarsi mentalmente e di cercare un po’ di calma per non farsi risucchiare dalla disperazione, Icaro si teneva la fronte fissando con sguardo spento la traduzione monca che aveva trascritto sul quaderno di latino e Gisèle si soffiava rumorosamente il naso con l’ennesimo fazzolettino: ne aveva già consumati un numero indefinito da che si era tolta il piumino di dosso e alzata dal letto un’ora prima.
“Gisèle, sei malata?”, domandò Nerea guardando dispiaciuta l’amica mentre Leticia, come lei felicemente esonerata dai compiti di latino, sedeva accanto a Milad lasciando che una delle brocche incantante le riempisse la tazza di caffè aromatizzato al caramello fumante. La francese annuì, il naso arrossato e gli occhi grigi quasi lucidi mentre raddrizzava la sedia per tornare a concentrarsi sulla versione che stava facendo disperare lei, Milad e Icaro dalla mattina precedente.
“Ho il raffreddore.”
“Idea splendida andare a correre sotto la pioggia.”, commentò Icaro gettando una pigra occhiata di rimprovero in direzione della compagna, ben attento a non starle troppo vicino per paura di ammalarsi a sua volta. Le aveva detto la stessa cosa due giorni prima, quando aveva varcato la soglia della Salle Comune grondando acqua sul pavimento, e come due giorni prima la francese lo zittò immediatamente con voce nasale condita da un’occhiata truce:
“Orsini, stai zitto o ti mitraglio con i miei fazzolettini.”
“Chi state traducendo?” Leticia, di ottimo umore rispetto alle tre vittime della traduzione, tagliò un croissant aprendolo a metà per spalmarci una generosa dose di burro all’interno mentre Nerea versava del latte nel caffè e i primi stormi di gufi iniziavano ad entrare nella sala attraverso le finestre aperte, planando sopra le teste dei presenti alla ricerca dei destinatari dei pacchi o delle lettere che portavano con sé.
“Tacito.” Milad, Gisèle e Icaro risposero insieme e con lo stesso tono lugubre, tutti e tre con gli sguardi miseramente chini sui dizionari mentre Nerea addentava un croissant alla nocciola sentendosi felice più che mai di aver abbandonato il corso di lingue ben prima dell’ultimo anno: l’idea di affrontare una versione ai M.A.G.O. la spaventava più un’Acromantula. Al sentir pronunciare quel nome la pena che le due Bellefuille provavano nei confronti dei compagni non poté che aumentare a dismisura, e Nerea gettò un’occhiata mesta alla compagna prima di mormorare qualcosa che nessuno dei tre diretti interessati udì, tutti con la mente altrove:
Poverini.”
 
“Non è possibile. Non è possibile che io non riesca a finire una stramaledetta versione!” Icaro, vicinissimo a gettare per aria dizionario, quaderno e tavolo, cancellò l’ultima riga che aveva scritto con tanto nervosismo da quasi strappare la pagina mentre Milad, davanti a lui, si strofinava gli occhi mormorando che la versione non aveva senso e che doveva per forza esserci stato un qualche errore di stampa nel manuale. O forse, azzardò mentre tornava a guardare quanto scritto fino a quel momento, frutto di ore di lavoro, lacrime e discussioni con Icaro e Gisèle, Publio Cornelio Tacito aveva ben pensato di darsi al fumo di oppiacei mentre scriveva le righe che avevano davanti.
“Certo che Nerone poteva anche risparmiarsi di ammazzare sua madre, così ora non avremmo questa roba da tradurre!”, sbottò infastidita Gisèle con voce nasale appena prima di fare per starnutire un’altra volta, portando Icaro ad affrettarsi a ritrarre allarmato il suo quaderno mentre Milad, impassibile, si limitava a spostarsi leggermente sulla sedia in modo da allontanarsi di qualche centimetro dalla compagna restando in educato silenzio:
“Non sul quaderno!”
Dopo sei anni Nerea era ormai perfettamente abituata ai rumorosissimi starnuti della sua migliore amica, e continuò a sorseggiare il suo caffè senza batter ciglio mentre alcuni studenti seduti dietro di lei trasalivano spaventati. Gisèle, che mal sopportava il suo modo di starnutire – da sempre fonte di derisione da parte di suo cugino – senza però poter fare niente a riguardo, si accasciò esasperata sullo schienale della sedia bianca afferrando la scatola di kleenex che aveva lasciato sul tavolo, sospirando e mormorando qualcosa a proposito di quanto detestasse il lunedì mattina.

“Forse ci sono.”
“Davvero?!”  Icaro sollevò il capo guardando Milad con occhi pieni di stupore e meraviglia, quasi pronto ad alzarsi e fare il giro del tavolo per baciarlo tanta era la gioia che le sue parole gli trasmisero. Tutta la felicità provata si rivelò tuttavia solo una misera e momentanea illusione quando il belga, gli occhi scuri chini sulle pagine del dizionario aperto, aggrottò le sopracciglia e scosse la testa, rassegnato:
“… No. Scherzavo. Non regge il dativo.”
Icaro era ormai sul punto di strapparsi i bulbi oculari quando Gisèle, tirando su col naso, sollevò il proprio quaderno a spirale mentre osservava sconsolata le ultime righe che aveva scritto:
“Non mi sembra che la mia abbia molto senso… “Aniceto circondò gli uomini con un cordone, quindi sfondata la villa fece trascinare via tutte le porte che gli si facevano incontro finchè giunse davanti al letto della porta della stanza…”…”
“Ma in che lingua hai tradotto?!”
Ma io che ne so, non capisco niente, voglio dormire!” Gisèle gemette affranta mentre gettava malamente il quaderno sul tavolo, esasperata e stanca di verbi e casi latini mentre Milad, alla sua destra, fissava accigliato quanto aveva scritto:
“Credo che sia “Aniceto circondò la villa con un cordone di uomini…”
Ma esiste un cordone di uomini?”
“Chiedilo a Tacito Gisèle, io mi sono rotto.”
Nerea aveva cambiato sedia in modo da trovarsi accanto a Leticia mentre seguiva l’acceso scambio di battute in corso tra i tre Ombrelune, e smise di scrutarli pensosa per rivolgersi all’amica e chiederle a bassa voce se stesse capendo qualcosa di quanto si stavano dicendo. La spagnola si limitò ad un laconico quanto esaustivo cenno di diniego col capo e Nerea si sentì un po’ più rincuorata e meno sola.
 
“Certo che Tacito un hobby se lo poteva anche trovare…” Borbottò Milad mentre scriveva talmente in fretta da non essere del tutto sicuro di poter usare la mano destra per tutta la prima ora di lezione, gli occhi incollati alle righe del quaderno mentre Icaro, davanti a lui, riprendeva a dettare parlando a macchinetta:
“Ci mancano due righe e abbiamo dieci minuti, forza. I sicari circondarono il letto e il trierarca…”
“Ma esiste almeno questa parola?” Gisèle sollevò brevemente il capo per gettare un’occhiata perplessa ad Icaro, che annuì e continuò a scrivere a raffica, talmente male a causa della fretta che più tardi avrebbe faticato a decifrare la sua stessa grafia, deciso a non prendere nemmeno in considerazione l’ipotesi di dover sfogliare ancora una volta il dizionario in cerca di una diversa traduzione.
“Lo decido io che esiste.”
“Icaro, Phoenix non è con te?”
Quando udì una voce fin troppo familiare rivolgergli la parola Icaro fu costretto a smettere di scrivere per alzare lo sguardo e voltarsi, ritrovandosi ad osservare i lineamenti dolci e il viso pallido di una delle sue due sorelle minori, che lo stava guardando in attesa di una risposta e visibilmente dispiaciuta per l’assenza del suo migliore amico.
“Clelia, sto litigando con Tacito e ho otto minuti per finire la versione più merdosa della mia vita, non ho tempo per i tuoi amoretti adolescenziali.” Icaro tornò rapidamente a dare le spalle alla sorella e a scrivere dopo averle rivolto un rapido cenno scocciato con la mano sinistra, come a volerla invitare a lasciarlo in pace mentre la quindicenne, offesa, non tardava a replicare scocciata in italiano:
“Scusa, tu quanti hai, quaranta? Bene, vado a sedermi con Diego, stronzetto che non sei altro.”
Dopo aver gettato un’ultima occhiata torva al fratello maggiore – che nemmeno si degnò di risponderle – Clelia girò sui tacchi e si allontanò in cerca del cugino, per affetto e per la quasi assoluta probabilità di trovarlo in compagnia di Phoenix: di norma era in compagnia di Diego che lo si poteva trovare se non lo si vedeva insieme a suo fratello.
Nerea, che a differenza di Milad, Gisèle e Leticia aveva potuto seguire il breve scambio di battute comprendendone ogni parola, guardò la Papillonlisse allontanarsi in mezzo ai tavoli e alle sedie prima di gettare un’occhiata di sbieco ad Icaro, un sopracciglio inarcato a conferire un’aria di rimprovero al suo bel viso:
“Certo che non sei stato molto carino con tua sorella.”
Traduci Tacito e poi ne riparliamo. Allora, tra una riga Agrippina muore e abbiamo finito.”
Le parole di Icaro rincuorarono Gisèle e le strapparono il primo sorriso della giornata: la francese esultò mentre Milad scrutava critico e quasi schifato lo stato penoso in cui versava la sua tradizione, piena di cancellature e scarabocchi: non aveva mai presentato un lavoro tanto impreciso agli occhi di un insegnante in tutta la sua vita, tanto che si ripromise di strappare la pagina e ricopiarla al cambio dell’ora.
“Mi dispiace per lei, ma era ora!”

 
divisore


Scorgere Phoenix seduto da solo ad un tavolo e con un libro aperto davanti non fu certo una sorpresa per Diego, che non appena ebbe individuato l’amico dopo aver varcato la soglia della sala da pranzo – impresa che ormai gli risultava semplicissima, gli bastava solcare la sala cercando un ragazzo con folti capelli scuri, la cravatta annodata male e quasi sicura seduto da solo, o al massimo vicino a suo cugino – non esitò a raggiungerlo per occupare la sedia accanto alla sua.
“Ciao Nick.” Diego non aveva più bisogno di chiedere a Phoenix il permesso di sederglisi accanto, pertanto strinse lo schienale della sedia per spostarla e mettersi seduto non appena si fu fermato davanti al tavolo, cosa che probabilmente la maggior parte dei loro compagni non si sarebbe neanche sognato di fare.
“Ciao Diego. È appena passata tua cugina, mi è sembrata poco contenta di non trovarti.”
“Clelia?”
Phoenix annuì mentre Diego si metteva comodo sulla sedia, strappando un sorrisino quasi impercettibile sulle labbra dell’italiano: era piuttosto certo che sua cugina si fosse rammaricata di non trovarlo seduto al tavolo solo per non aver avuto la scusa perfetta per potersi sedere insieme a lui e al suo amico, ma si guardò bene dal fare commenti per evitare di tradire la cugina e si affrettò a cambiare argomento:
“Cosa stai leggendo?”
Phoenix non rispose, limitandosi a sollevare il libro dalla tovaglia candida per ruotarlo sempre tenendo il segno con l’indice, mostrando brevemente la copertina dell’edizione inglese di La valle dell’Eden all’amico prima di tornare a leggere, una tazza di caffè nero vuota davanti e nessuna traccia di residui di cibo in grado di suggerire che avesse effettivamente mangiato qualcosa.
“Io dovrei andare avanti con lo Zibaldone, ma mi viene voglia di trafiggermi con la forchetta non appena lo apro.” Diego scosse la testa sconsolato mentre si riempiva a sua volta la tazza di caffè mantenuto caldo dalle brocche incantate disposte su ogni tavolo, sorridendo quando sentì l’amico dichiarare che avrebbe preferito  fare il cameriere personale di Icaro per una settimana piuttosto che leggere “le seghe mentali di Leopardi”.
“A proposito, dov’è Icaro?”
“Come puoi appurare dall’assenza di un acceso aroma di vanità e supponenza nell’aria non è qui. Se ne sta da qualche parte con Gisèle e Milad a sbattere la testa contro il latino. In poche parole perde tempo inutilmente.”
“In famiglia la pensano diversamente.” Un sorriso mite incurvò le labbra di Diego mentre il ragazzo si serviva un caldo e profumato croissant al miele sul piatto, riuscendo quasi ad immaginare visivamente i tic nervosi che avrebbero colpito un’elevatissima percentuale della famiglia sua e di Icaro all’udire simili parole. Che Phoenix e la sua naturale propensione a dire sempre ciò che pensava senza veli non brillassero di simpatia agli occhi dei familiari non aveva sorpreso lui tanto quanto non aveva mai sorpreso Icaro.
“Io penso che se una lingua è defunta un motivo ci dev’essere. Invece ci fanno studiare quella ma non degli americani morti solo qualche decennio fa che hanno segnato la storia letteraria recente, mi sembra logico.”
Sotto una certa luce il ragionamento di Phoenix non faceva una grinza, e sapendo bene quanto elevato fosse il risentimento provato dall’amico nei confronti del programma di letteratura, che escludeva tutti i suoi autori prediletti, da Melville fino ad Hemingway, Salinger e Steinbeck, Diego si guardò bene dal controbattere. Venne invece preso in contropiede da un suono improvviso che lo fece voltare sulla sedia, gli occhi azzurri pronti a sorvolare la sala alla ricerca della fonte e la fronte aggrottata dalla perplessità:
“Cos’è stato?”
“Gisèle Delacroix che starnutisce.”
Nonostante fosse lunedì mattina e nonostante andasse molto fiero del suo celebre quanto perenne cattivo umore persino Phoenix si concesse un quasi impercettibile accenno di sorriso mentre tornava a dedicarsi alla lettura, memore delle numerose occasioni in cui quegli starnuti avevano turbato la sua quiete a lezione dandogli la perfetta scusa per sfottere la compagna di classe.

 
divisore

 
Lucinda e Daphné avevano lasciato la sala da pranzo in anticipo rispetto alla maggior parte dei loro compagni per tornare nel loro dormitorio e portare a Maëlle, che quel mattino era rimasta a letto con la febbre, caffè e croissant. Dopo aver appurato che la sua amica non stava poi così male – aveva trovato la forza necessaria per portarsi il computer sul letto e dedicarsi al binge watching insieme a Joey, il suo gatto – Daphné aveva recuperato la custodia del suo flauto lasciata sul letto, promettendole di tornare a farle visita appena terminata la lezione mentre Lucinda ne approfittava per lasciare qualche dolce carezza sul lucente piumaggio nero che ricopriva la testa di Pavarotti.
“Non ho mai visto qualcuno con la febbre avere così fame.”, ammise Lucinda divertita e un po’ stranita al contempo mentre si chiudeva la porta d’ingresso lilla della Salle Comune alle spalle, diretta insieme a Daphné verso una delle quattro torri del castello per la loro prima lezione della settimana, nonché la prediletta di entrambe.
“Maëlle quando non mangia sì che diventa difficile da trattare, meglio provvedere a portarle qualcosa di frequente. Dopo lezione tornerò a vedere come sta, poverina.”
Daphné, che ormai molto tempo prima aveva imparato a non lasciare mai che la sua migliore amica restasse senza mangiare per un lasso di tempo eccessivamente lungo, scosse il capo mentre s’incamminava lungo il corridoio deserto e pieno di luce grazie alle alte finestre ad arco che si affacciavano sul lago. I passi suoi e di Lucinda echeggiarono sul pavimento di marmo, talmente lucido che avrebbero potuto usarlo per specchiarsi, mischiandosi col vociare lontano proveniente dalla sala da pranzo ancora piena mentre si dirigevano verso le scale vuote, la prima munita della custodia del suo flauto traverso e di un fascio di spartiti molto spesso e la seconda impegnata a tormentarsi i lacci della camicia azzurra che avrebbe dovuto tenere legati in un fiocco che, a differenza dell’amica, le usciva grazioso molto di rado.
“Che cosa pensi che ci farà preparare oggi Corradi?”
“Spero non l’ouverture di Guillaume Tell(1).”, ammise la francese esalando un sospiro mentre insieme iniziavano a salire le scale “Non mi riesce ancora granché bene.”
 
Daphné e Lucinda erano state le prime ad arrivare in cima alla torre, e mentre la prima sistemava gli spartiti sul leggio davanti alla sedia che occupava tutte le settimane la seconda ne aveva approfittato per sedersi momentaneamente vicino a lei in attesa che insegnante e compagni si presentassero.
 Corradi era arrivato poco dopo, e aveva rapidamente gettato Daphné in un vortice di sconforto quando aveva annunciato che avrebbero iniziato esattamente dal brano sul quale si sentiva meno sicura di tutto il repertorio del mese. Lucinda, mentre l’amica sfogliava disperata gli spartiti alla ricerca di quello giusto, aveva invece gongolato sulla sedia al sentir pronunciare, tra ciò che avrebbero provato quel giorno, dei brani di una delle sue opere predilette, il Barbiere di Siviglia.
“Lo sapevo che avremmo iniziato da questo, dovevo ripassarlo meglio ieri!” gemette la francese mentre raddrizzava lo spartito pieno di annotazioni e segni a matita e l’amica faceva dondolare debolmente la gamba sinistra accavallata sulla destra allargando le labbra in un sorrisetto divertito nel sporgersi in avanti per indicare il foglio di carta:
“Ma come, non sei contenta? Strano, non hai neanche disegnato cuoricini sullo spartito!” Lucinda sfiorò il titolo dell’opera con l’indice, ridacchiando quando l’amica le scacciò la mano gettandole un’occhiata torva, le guance che le si imporporavano rapidamente: non che il pensiero non l’avesse minimamente sfiorata, ma l’aveva ritenuto un comportamento poco saggio trattandosi di un nome non propriamente diffuso all’interno della scuola e di un foglio di carta che sarebbe potuto finire facilmente sotto gli occhi degli altri componenti dell’orchestra. O peggio ancora dell’insegnante.
Piantala. Il titolo di disegnatrice di cuoricini lo lascio volentieri a te, il tuo annuario è pieno.”
Amo l’amore.”
“Io amo solo due cose, la musica e Duchess. Beh, anche la cancelleria. E gli éclair(2).”
“Beh son già quattro, facciamo cinque e aggiungiamo Guillaume?”
“Parla piano, qui c’è un’acustica ottima!”


Dante aveva capito molto rapidamente di detestare la calca che si creava sulle scale in prossimità dell’inizio dell’orario delle lezioni, in particolare quando si trattava di salire quella lunghissima, ricurva e stretta che conduceva in cima alla torre. Aveva imparato in fretta a lasciare la sala da pranzo con qualche minuto in anticipo in vista della prima lezione della giornata, e ogni settimana varcava la soglia della sala circolare dove si tenevano le prove trovandola ancora quasi deserta.
Quel giorno non fece eccezione, e quando spalancò la pesante porta di legno ricca di intarsi floreali sui bordi e i suoi occhi scuri attraversarono la sala il suo sguardo indugiò solamente sulle esili silhouette di due sue compagne di Casa, già sedute e impegnate a chiacchierare.
“Guarda, c’è la tua nuova cotta.” Alla vista di Dante in piedi sulla soglia – la porta era vecchia e non molto alta, e ci passava per un soffio senza andare a sbattere – Daphné si stampò un sorriso gentile sulle labbra e levò una mano per indirizzargli un lieve cenno di saluto, parlando quasi senza muovere le labbra e procurandosi un’occhiata di sbieco da parte dell’amica:
“Che ne sai che mi piace?”
“Ti conosco da sei anni, furbona!”
“Taci che viene verso di noi!” Anche Lucinda si stampò un sorriso sulle labbra e sferrò un lieve calcio sulla gamba dell’amica mentre dopo essersi chiuso la porta alle spalle e aver salutato l’insegnante Dante puntava dritto verso di loro per la prima volta da quando era entrato a far parte dell’orchestra: di solito andava dritto a sedersi al suo posto senza rivolgere la parola a nessuno.
Si era appena fermato insieme al suo sassofono accanto alla fila di sedie davanti a quelle dei fluati occupate da Daphné e Lucinda, destinate alle viole quando la sala si sarebbe riempita, quando le due levarono le voci parlando all’unisono:
“Ciao Dante!”
Il ragazzo indugiò accanto alle sedie vuote rivolte verso il leggio di Corradi e le finestre dalle quali si potevano scorgere il roseto della scuola e il labirinto, disposte in modo da creare un enorme ventaglio sulle mattonelle di pietra. Il saluto sincrono delle due compagne lo stranì un poco, portandolo a guardarle di rimando inarcando perplesso un sopracciglio prima di decidere di soprassedere e ricambiare:
“… Ciao. Che cosa si suona oggi, lo ha già detto?”
Guillaume Tell.”, mormorò Daphné con tono lacrimoso chinando lo sguardo sullo spartito mentre Lucinda, al contrario, sorrideva allegra stringendosi il ginocchio con entrambe le mani:
“E il Barbiere di Siviglia. Di solito se c’è tempo alla fine ci fa fare anche qualcosa di più moderno.”
“Lo spero.” Ammise il ragazzo abbozzando un accenno di sorriso speranzoso con gli angoli delle labbra: era pronto a dare personalmente il tormento all’insegnante fino a quando non gli avrebbe fatto suonare Duke Ellington e Charlie Parker.
“Vado a chiedergli su quale atto si vuole concentrare oggi, così mi studio i brani di Rosina mentre voi suonate.” Lucinda si alzò e senza perdere il suo sorriso allegro superò Dante per raggiungere la cattedra di Corradi e sfoderare tutta la ruffianaggine di cui era capace per potersi esibire nei suoi brani preferiti. Il ragazzo invece rimase in piedi davanti a Daphné, indicando lo spartito mentre la ragazza tratteneva faticosamente l’impulso di iniziare a mordicchiarsi le unghie dipinte con un delicato rosa antico.

“Come mai ti spaventa così tanto questo… Guillaume Tell?
“Guillaume.” Daphné lo corresse sulla pronuncia del nome quasi senza volerlo, pentendosene un poco quando vide chiaramente lo sguardo del compagno di Casa rabbuiarsi:
“Sì, questo. È un nome difficile.”
“Immagino.” Daphné gli sorrise comprensiva e Dante provò un sincero moto di gratitudine nei suoi confronti per non averlo deriso o non aver palesato il minimo cenno di scherno anche solo con lo sguardo. La ragazza si limitò a prendere lo spartito e a capovolgerlo mentre glielo porgeva, mostrandogli le interminabili file di pentagrammi pieni di scarabocchi – forse anche precedentemente bagnati da qualche lacrima –.
“Ah. Capisco. Arriva il momento in cui ti senti come se avessi corso la maratona ad alta quota, vero?”  Dante restituì lo spartito a Daphné e lo sguardo cristallino della ragazza si illuminò visibilmente all’udire le sue parole, riprendendo il foglio mentre annuiva sorridendo al compagno come se fosse entusiasta di aver trovato qualcuno in grado di capire il suo punto di vista:
“Sì! Nessuna delle mie amiche suona a fiato, nessuno capisce mai le mie lamentele.”
“Gli strumenti a fiato sono più difficili.” Dante fece spallucce, infilandosi le mani in tasca mentre Lucinda, alle sue spalle, procedeva nella sua opera di arruffianamento implorando e assumendo la stessa aria da cucciolo bastonato che sfoderava quando i suoi genitori la rimproveravano.
“Sono d’accordo. Ma non dirlo mai a Maëlle.” Daphné sorrise mentre riposizionava lo spartito sul leggio e Dante annuì, certo di doverle dare ascolto anche da quel poco che aveva potuto apprendere sulla compagna di Casa.
“Non lo farò.”
“Ha funzionato!” Lucinda fece ritorno dai due compagni mentre la porta della sala si apriva e altri studenti fluivano all’interno della sala insieme ad un lieve chiacchiericcio, sorridendo compiaciuta mentre si esibiva in una piroetta che fece ondeggiare la gonna azzurra della divisa come una ruota.
“Suoniamo la cavatina(3) di Rosina del primo atto.”
Mentre Dante annuiva fingendo di sapere di cosa si stesse parlando e Lucinda incrociava le braccia esili al petto con aria soddisfatta Daphné guardò l’amica riprendendo a sfogliare i suoi spartiti alla ricerca del brano in questione scuotendo debolmente il capo, incredula:
“Insegnami come fai.”


 
divisore

 
Quando il suono della campanella – magicamente amplificata in quell’area del castello per sovrastare quello degli strumenti e di conseguenza resa quasi assordante – aveva segnato il termine dell’ora di lezione di musica Lucinda e Daphnè avevano lasciato la Torre Nord insieme, salutandosi e separandosi momentaneamente una volta giunte alla base della lunga scala ricurva che conduceva alla sala dove provavano tutte le settimane mentre attorno a loro i compagni si disperdevano in un fitto chiacchiericcio, ciascuno diretto in angoli diversi del castello in base al proprio orario.
“Vado in Biblioteca a studiare, ci vediamo a pranzo o mi raggiungi quando hai finito?”
Alla domanda dell’amica, che le sorrise mentre si sistemava la custodia del suo flauto sottobraccio, Lucinda annuì con un tiepido sospiro, poco entusiasta all’idea di doversi recare alla lezione successiva da sola, senza la consueta compagnia di Maëlle:
“Ti raggiungo, devo ancora finire i compiti per stasera di Astronomie.”
“Allora ti tengo un posto, a dopo.”  Daphnè salutò l’amica scoccandole un bacio poggiandosi quattro dita unite della mano destra sulle labbra prima di voltarsi e dirigersi in direzione opposta rispetto a quella di Lucinda, che dopo aver ricambiato il saluto girò sui tacchi per imboccare lo stretto arco che si apriva nella parete esattamente al di sotto delle scale che conducevano alla torre e che permetteva di accedere ad una seconda rampa di scale a chiocciola che tuttavia scendeva verso i piani inferiori, stretta e scomoda quanto rapida per raggiungere le aule senza patire la calca che al cambio dell’ora si creava per i corridoi e per le scale principali del castello. Ormai perfettamente abituata a quei ripidi gradini di pietra che tutte le settimane scendeva chiacchierando insieme a Maëlle Lucinda li scese rapida uno ad uno canticchiando a mezza voce mentre la borsa le dondolava contro il fianco ad ogni passo e i tacchi delle scarpe producevano un discreto baccano all’interno della galleria altrimenti silenziosissima e che si faceva sempre più buia man mano che si scendeva in profondità.
Sceso l’ultimo gradino Lucinda si trovò di fronte ad una porta alta e stretta illuminata dalla luce bluastra delle fiamme che ardevano su una torcia appesa alla parete di pietra accanto, e la ragazza non tardò ad aprirla dopo averne abbassato la fredda maniglia di bronzo, irrompendo così nel pieno di uno degli ampi corridoi del primo piano in quel momento gremito di studenti in movimento. Nel spalancare un dipinto ad altezza naturale la cui pesante e spessa cornice dorata dava l’impressione di essere semplicemente appoggiata al muro Lucinda quasi rischiò di colpire in pieno viso un inconsapevole studente del primo anno, che trasalì e si scostò appena in tempo per evitare di trascorrere il resto della mattinata in Infermeria e con il naso sanguinante.
Lucinda al contrario mise piede fuori dalla galleria con tutta la nonchalance del mondo, richiudendosi il dipinto alle spalle mentre rivolgeva al ragazzino che la guardava allibito un sorriso allegro:
“Oh, ti chiedo scusa. Ti consiglio di stare lontano dai quadri appoggiati per terra da queste parti. Ciao Jeanne(4)!”
Dopo aver salutato vivacemente la donna in armatura ritratta nel dipinto, che ricambiò agitando l’asta della bandiera che teneva in spalla, Lucinda si diresse in tutta calma verso l’aula di Défense contre les forces du Mal, appurando con una certa soddisfazione di essere stata la prima ad arrivare quando giunta a destinazione si affacciò in una stanza ancora completamente deserta.
La giovane strega aveva già preso posto da un paio di minuti – felice di poter scegliere il suo banco con la massima libertà e puntando dritta alla penultima fila, per nulla intenzionata a sedersi dritta davanti all’insegnante – e stava sfogliando la sua agenda viola controllando tetra la quantità di compiti che l’aspettavano nel pomeriggio quando Dante raggiunse la porta spalancata dell’aula, gettandovi una rapida occhiata all’interno e strabuzzando leggermente gli occhi a mandorla quando individuò la portoghese: come aveva fatto ad arrivare così in anticipo se fino a poco prima si trovava, come lui, in cima alla Torre Nord?
“Ma… Quando sei arrivata? Eri di sopra come me cinque minuti fa.”
“Scorciatoia.” Lucinda gli sorrise ricordando a Dante di non aver ancora mai chiesto a Nerea di dargli una lezione sui vari passaggi segreti all’interno della scuola, e si ripromise di rimediare al più presto mentre indicava il banco rimasto vuoto accanto alla compagna:
“Posso sedermi qui se Maëlle non viene?”
Lucinda annuì senza che il suo sorriso vacillasse, felice di avere un compagno di banco e di non dover restare da sola per tutta la durata della lezione successiva.
Finì tuttavia col pentirsi parzialmente della decisione presa più o meno mezz’ora dopo, quando si vide costretta ad esercitarsi con gli incantesimi non verbali insieme a Dante, che si rivelò essere nettamente più abile di lei in quella pratica e che quindi contribuì a rendere ancora più penose le sue difficoltà.
“Non ci riesco! Perché non ci riesco?!”, gemette aspramente la giovane strega mentre si tratteneva dal picchiettare infastidita la bacchetta contro il banco e rischiare così di incenerirlo con un eccesso di scintille involontarie e il compagno di esercizi le stava in piedi davanti in placida attesa da ormai diversi minuti.
“Ti devi solo concentrare.” Dante, che aveva già avuto modo di imparare l’anno prima a Mahoutokoro, si strinse debolmente nelle spalle mentre teneva la bacchetta sollevata molto meno del dovuto e puntata pigramente contro Lucinda, pronto a difendersi da una fattura che però stava stentando a venirgli lanciata contro dalla compagna di classe. La portoghese per tutta risposta gettò un’occhiata torva al compagno mentre agitava infastidita la bacchetta particolarmente scura, realizzata con l’ebano, sbottando seccata mentre l’insegnante riprendeva aspramente i compagni che baravano mormoravano le formule degli incantesimi a bassa voce:
“Ma davvero? Tu pensa, e io che stavo contando le pecore!”
“Se ci riesco io che devo tradurre gli incantesimi dal cinese al latino nella mia testa durante ogni lezione di ogni giornata puoi farlo anche tu.”
“Voi non li dite in latino?”
“No, mia madre mi ha costretto a impararmi le formule occidentali prima dell’inizio dell’anno, in Italia. Quindi se per caso dovessi confondermi e trasformarti in una presina invece di pietrificarti, o per colpa del mio accento non proprio ottimo, saprai perché.”
Di nuovo Dante fece spallucce come se l’avesse appena informata di un’inezia insignificante, ma Lucinda non si trovò dello stesso avviso e spalancò inorridita gli occhi verdi, per nulla intenzionata a diventare un complemento d’arredo o un utensile da cucina anche solo per una manciata di minuti.
“Ora sì che sono rincuorata. Per altro, dovresti davvero lavorarci, sull’accento.”
Questa volta fu suo il turno di sorridere, divertita, e di Dante quello di rabbuiarsi e guardarla torvo prima di sollevare la bacchetta e lanciarle in silenzio un incantesimo che fortunatamente Lucinda ebbe la prontezza di riflessi di parare.
“Ehi! Certo che sei davvero permaloso… Mi stavo per trasformare in una teiera?”
Lucinda abbassò la bacchetta solo di un paio di centimetri, decisa a non farsi prendere in contropiede, mentre Dante allargava appena appena le labbra in un sorriso compiaciuto:
“È questo il bello degli incantesimi non verbali. Non lo puoi sapere.”
Non appena sarebbe stata finalmente in grado di padroneggiare a dovere quegli incantesimi, si disse Lucinda mentre cercava di riprovarci, avrebbe fatto diventare interamente viola la divisa di Dante. E si ripromise di farlo nel momento e nel luogo meno opportuni e più affollati possibile, così da impedirgli di poter addossare la colpa a lei.

 
divisore

 
Phoenix Anastasakis avrebbe preferito trascorrere il tempo che intercorreva tra il pranzo e la sua lezione successiva del pomeriggio sprofondando nella lettura, magari isolandosi nella sua stanza o in un angolo della Salle Comune, a quell’ora spesso poco frequentata. Con suo gran disappunto era stato invece sì trascinato nella sala racchiusa dalle ormai familiari pareti celesti arricchite da dipinti ad olio ed eleganti specchi dalle pesanti cornici d’oro, ma anziché potersi dedicare ad uno dei suoi libri Phoenix sedeva davanti ad un tavolino quadrato un poco traballante con il libro di storia e uno dei suoi quaderni a spirale, tutti con la stessa copertina nera, aperti davanti a sé. Mentre riempiva la penultima riga della pagina fatta di carta riciclata sbuffando sommessamente e una matita nera stretta nella mano sinistra Icaro, che gli sedeva di fronte tamburellando impaziente le dita sul tavolo, gli gettò un’occhiata scettica:
“E allora, quanto ci vuole? Stai scrivendo una nuova novella del Decameron?”
“Ti prego, ricordami esattamente il momento in cui ti ho chiesto di aiutarmi con i compiti, così posso prendere il muro a testate.” Phoenix posò la matita sul tavolo, che si mosse un po’ più del necessario mentre il greco ruotava il quaderno per porlo in direzione dell’amico e spingerlo verso di lui, per nulla interessato al suo giudizio ma deciso a porre fine a quella tortura il più rapidamente possibile.
“Non me l’hai mai chiesto, mi sono autoproclamato tuo tutor per impedirti di cazzeggiare troppo. Vediamo che hai scritto.” Icaro appoggiò tutte e cinque le dita della mano destra sulla pagina aperta per trascinare verso di sé il quaderno, apprestandosi a decifrare la penosa grafia di Phoenix con una destrezza conferitagli da sei lunghi anni di esperienza mentre qualche ribelle ciocca di capelli scuri gli scivolava davanti al viso pallido e chino in avanti. Nick incrociò invece le braccia al petto come a volersi mettere sulla difensiva e si appoggiò allo schienale della sedia scrutando torvo il volto dell’amico, osservando le sopracciglia corvine dell’italiano aggrottarsi sempre di più fino a quando, giunto più o meno a metà della prima delle due pagine riempite, non smise di leggere per tornare a rivolgerglisi seccato:
“Ma che è sto schifo?! Avrei scritto di meglio a sei anni. Rifallo, ti concedo giusto di tenere le prime due righe.”  Icaro spinse di nuovo il quaderno aperto verso Phoenix, che tuttavia non diede segno di voler riprendere in mano la matita – salvo usarla per lanciarla in mezzo alla chioma di Icaro, gettare l’amico preda di un esaurimento e filarsela – e anzi scosse il capo con veemenza sempre tenendo le braccia strette al petto, i brillanti occhi azzurri fiammeggianti e visibilmente infastiditi:
“Senti, sottospecie di Leopardi, mi hai rotto le palle. Non me ne frega niente di prendere un bel volto per questo dannatissimo tema, non so se ti è chiaro.”
“Innanzitutto si vede che sei una capra perché se stessi studiando sapresti che Leopardi era brutto e incapace di parlare con la tizia che gli piaceva, vale a dire qualcosa che non mi riguarda per niente…”
“Non cominciare con quella dannata Silvia, non ne posso più!” Era dall’inizio dell’anno scolastico che non faceva altro che sentir parlare delle elucubrazioni mentali dell’autore ad ogni lezione di letteratura, e Phoenix scosse la testa piegando le labbra in una smorfia schifata mentre Icaro, davanti a lui, lo guardava di rimando scuotendo il capo e cercando in tutti i modi di contenere l’impulso di sbattere qualche testa sul tavolo, indeciso se la sua o quella dell’amico.
“Teresa, ignorante!”
“Chi cazzo è Teresa adesso?!”, domandò il greco sgranando gli occhi inorridito: ci mancava solo che ne spuntasse un’altra, di tizia pronta ad ammorbargli l’esistenza con intere opere a lei dedicate.
“Teresa è Silvia.”
“E chiamarla con il suo nome era troppo difficile?! Perché sono tutti così disagiati questi scrittori?!”
“È una citazione all’Aminta.” Icaro gemette portandosi esasperato le mani pallide davanti al viso per strofinarsi gli occhi, certo di quel passo che entro la fine dell’anno gli si sarebbero ingrigiti tutti i suoi amati capelli. “E comunque lei era già morta quando ha scritto il sonetto, perché rappresenta la morte delle illusioni. Qualcosa che di sicuro dovresti sapere. Forza, rimettiti a scrivere, voglio controllare la brutta copia prima di andare a lezione.”
Mentre Phoenix voltava pagina per cercarne una ancora intonsa – i suoi quaderni erano dei disordinati ammassi di appunti e compiti estrapolati da materie diverse tutti raggruppati, qualcosa che procurava degli accenni di tic nervosi al suo migliore amico – chiedendosi se ci fosse una spiegazione scientifica dietro alle frequenti morti premature degli interessi romantici dei poeti e lamentando l’eccessiva pignoleria di Icaro Gisèle, a qualche metro di distanza, se ne stava distesa su un divano avvolta da una copertina a quadri bianchi e beige crogiolandosi nella sua sofferenza in mezzo a pile di fazzolettini usati e abbracciando il suo gatto per consolarsi.
“Vaclav, sto malissimo. E non mi posso neanche allenare!”, piagnucolò la giovane strega – già rabbrividiva immaginando lo stato pietoso in cui avrebbero versato i suoi poveri arti una volta ripreso gli allenamenti dopo qualche giorno di pausa – accarezzando il soffice pancino candido del gatto, che la lasciava fare pur sembrando un tantino esasperato. Incurante del fatto che il micio non potesse sentire nulla di ciò che usciva dalla sua bocca in quanto quasi del tutto sordo Gisèle continuò a lamentarsi della sua sfortuna e a soffiarsi ripetutamente il naso sempre più arrossato fino a quando, con suo gran disappunto, dalla porta del dormitorio maschile fece capolino la persona a lei più sgradita in tutto il castello.
“Cavolo cugina… hai proprio un aspetto orribile.”, constatò Guillaume dopo essersi brevemente fermato dinanzi al divano, le mani in tasca e un sorrisino stampato sul viso affilato che esprimeva tutto tranne cordoglio.
“Sicuramente comunque migliore del tuo.”, ribatté Gisèle fulminandolo con lo sguardo e con tutta l’altezzosità che una voce resa nasale dal raffreddore poteva sfoggiare.
“Dici? Perché io non sembro improvvisamente imparentato con una delle renne di Babbo Natale…” 
“Vattene, maleducato, o ti trasformo in un fermacarte!”  Guillaume si scansò pigramente evitando la scatola di kleenex che la cugina gli aveva lanciato contro mirando alla faccia senza nemmeno sfilarsi le mani dalle tasche degli eleganti pantaloni blu della divisa, e il suo sorriso non vacillò di un millimetro mentre occhi azzurri quasi del tutto identici ai suoi solcavano divertiti il viso più pallido del solito di Gisèle:
“No, ti prego, con la voce che ti ritrovi chissà che formula bislacca tireresti fuori.”
Pentita di aver adottato un innocuo gattino sordo e non un mastino napoletano trancia-cugini Gisèle infilò una mano sotto la copertina per cercare la bacchetta e fare una prova mentre la voce infastidita di Phoenix si levava dalla finestra davanti alla quale lui e Icaro erano seduti chiedendo con tono visibilmente seccato a Guillaume di zittirsi e di levarsi di torno. Per i due cugini lo stupore fu tale da riuscire nell’eccezionale impresa di zittirli entrambi – loro e anche Icaro, che smise di rimproverare l’amico per la sua brutta grafia e lo guardò meravigliato –, e Guillaume, che evidentemente non aveva nessuna voglia di discutere con Phoenix, si limitò a gettare un’occhiata stranita e seccata al contempo al compagno di Casa prima di allontanarsi dalla cugina dopo avergli suggerito di farsi gli affari propri.
Quando il cugino ebbe lasciato il suo campo visivo Gisèle, incredula dal fatto che Phoenix si fosse reso utile per la prima volta da quando lo conosceva, tornò invece a mettersi comoda sul divano dicendo a Vaclav che di certo l’indomani una pioggia di Pluffe infuocate si sarebbe abbattuta sulla scuola seminando panico e terrore. Il ragazzo invece tornò a scribacchiare sbuffando e borbottando torvo di non aver bisogno di ulteriori rotture mentre già era costretto a fare i compiti subito dopo pranzo da quella palla al piede del suo migliore amico, che dopo aver udito le sue parole rivolte a Guillaume e avergli gettato un’occhiata stranita di conseguenza stava invece fantasticando soddisfatto sul momento in cui Phoenix avrebbe preso un bel voto e lui avrebbe potuto prendersi il merito di quell’ardua impresa. Era proprio fortunato ad averlo come amico!
Rimasta sola senza la sgradita presenza del cugino Gisèle si rimise comoda contro lo schienale del divano continuando ad accarezzare il sofficissimo pelo bianco di Vaclav, sentendolo fare le fusa e godendosi la pace in cui era stata gettata la Salle Comune – fatta eccezione per qualche sporadico battibecco tra Icaro e Phoenix, impegnato controvoglia nella riscrittura del suo tema – fino a quando una delle due ante della porta d’ingresso celeste non venne spalancata consentendo al suo migliore amico di varcarne la soglia tenendo qualcosa di vetro in mano.
“Gisèle, sono andato in Infermeria e ho chiesto un po’ di Pozione Piperita… con questa dovrebbe passarti tutto entro domani.”
Fu con un sorriso gentile che Antoine raggiunse il divano che l’amica aveva occupato stringendo una fialetta tenuta sigillata da un tappo di sughero e piena di pozione scarlatta, parole che riempirono di speranza gli occhi azzurri di Gisèle resi lucidi dal raffreddore e che restituirono un sorriso sollevato sulle labbra della strega.
“Grazie Antoine, sei la mia salvezza.” Gisèle lasciò Vaclav libero di andare a gironzolare per la Salle Comune e si raddrizzò contro lo schienale facendo scivolare le gambe dal divano per consentire all’amico di sedersi accanto a lei e porgerle la fialetta, affrettandosi a stapparla e a sorseggiarne il contenuto caldo e dal sapore fortissimo mentre la voce sinceramente sollevata di Icaro si levava da qualche parte dietro di lei:
“Sì, grazie Antoine. Questo posto rischiava di diventare un lazzaretto.”
Bevuta metà dose della pozione Gisèle ruotò il busto per voltarsi e gettargli un’occhiata torva, asserendo che ormai non vi fosse alcun rispetto per i malati prima di vuotare la fialetta, la gola in fiamme e le orecchie improvvisamente scarlatte e bollenti.
 

 
divisore
 
 
Serre
 
 
“Non vedo l’ora che la lezione finisca, comincio a non poterne più di questa giornata.”
Un lieve sbuffo si levò dalle labbra di Daphné Blanchard mentre la ragazza si spolverava debolmente le mani coperte da un paio di spessi guanti marroni sul grembiule che indossava sopra alla divisa e che impediva alla sua deliziosa camicia color carta da zucchero di riempirsi di terra. Appena terminato di invasare l’ennesima pianta, Daphnè si sfilò i guanti per appoggiarli brevemente sul lunghissimo tavolo rettangolare di legno dove lei e gran parte della classe stavano lavorando e aprire il quaderno – la cui copertina era rigorosamente verde bosco, data la mania della giovane strega di abbinare tutte le materie ad un colore diverso – per trascrivere i compiti che aveva lasciato scritti sulla lavagna mobile.
“Peccato che non sia l’ultima, abbiamo ancora Astronomie…” Lucinda tornò al suo posto accanto all’amica reggendo una pesante cassetta di legno piena di piante che sistemò con sollievo sugli unici centimetri di tavolo rimasti liberi davanti a loro, visione che gettò Daphné nel più totale sconforto mentre terminava di scrivere stando ben attenta ad impedire al suo quaderno di toccare il tavolo e di conseguenza di riempirsi di terra.
“Quante altre piante abbiamo?”
“Troppe. Forse per quando finiremo avrò i capelli lunghi fino alle ginocchia e mi potrò calare da una torre, chissà. Posso fare una foto ai compiti da te, dopo?” 
“Certo.” Daphné annuì con un sospiro mesto mentre rimetteva quaderno e penna al sicuro nella borsa a cartella color crema abbandonata sullo sgabello inutilizzato, tornando ad infilare i guanti mentre Lucinda disponeva i vasi sul tavolo togliendoli uno ad uno dalla cassetta cercando di tenersi i corti capelli corvini lontani dal viso senza toccarli con i guanti sporchi ma limitandosi a scuotere il capo infastidita:
“Forse farli crescere non sarebbe male. Beata te che puoi legarli.”
“Però stai molto bene così.” Mentre si rimetteva al lavoro – dopo aver lanciato una rapida occhiata al suo orologio da polso col cinturino di pelle bianco agognando il momento in cui la lancetta delle ore avrebbe finalmente segnato le 16 e la loro conseguente libertà fino all’ora di cena – Daphné gettò uno sguardo all’amica e ai suoi bei capelli scuri, guardandola sbuffare debolmente nel tentativo di non sporcarli prima di cambiare argomento: forse la quasi totale libertà che avevano di chiacchierare mentre lavoravano era l’aspetto che maggiormente aspettava delle lezioni che avevano luogo all’interno delle serre.
“Come è andata a Défense contre les forces du Mal?”
Una lieve smorfia incurvò le labbra di Lucinda verso il basso mentre ripensava all’argomento di studio contro cui stava sbattendo la testa da ormai un mese, finendo col riversare forse troppa enfasi nel cambiare vaso alla pianta di dittamo e spargendo una dose eccessiva di terra sul tavolo.
“Benino. Gli incantesimi non verbali sono uno schifo, è difficilissimo!”
“Vedrai che ci riuscirai, se ci riescono gli altri puoi farlo anche tu. Con chi ti sei esercitata?”
“Con Dante. Lui ci riesce, pare che a Mahoutokoro siano più avanti di noi con il programma e che abbia iniziato ad esercitarsi già l’anno scorso.”
“Ah, con Dante… Beh, puoi sempre chiedergli di aiutarti.”
Daphné sorrise mentre sfiorava una foglia di dittamo tenendola tra indice e pollice, ridendo quando Lucinda, per tutta risposta, le picchiettò la sua paletta di legno sulla spalla fingendosi infastidita e facendole il verso in falsetto:
“Pensa alle tue piantine. O vuoi che chiami Guillaume per aiutarti?”
Daphné arrossì e le intimò di abbassare la voce con una lieve gomitata, zittendosi e chinando il capo sul suo lavoro quando la professoressa le riprese gentilmente per il loro eccessivo chiacchiericcio mentre Lucinda, la testa china a sua volta e i capelli neri parzialmente davanti al viso, cercava di non ridere.


 
divisore

 
Icaro non stava più ascoltando neanche una parola da almeno un paio di minuti, gli occhi scuri puntati fissi sull’orologio appeso alla parete alle spalle della cattedra, al di sopra della lavagna piena di rune, e la mano sinistra che picchiettava a ripetizione una penna nera sulla cerniera aperta dell’astuccio. La voce e il marcato accento bretone dell’insegnante di Étude des runes, Jacqueline Bonnet, erano diventati solo un eco che risuonava lontano dai pensieri del ragazzo mentre le lancette dell’orologio si spostavano facendosi sempre più inesorabilmente vicine a segnare la fine della lezione incrementando progressivamente il nervosismo di Icaro, combattuto tra il desiderare la fine di quell’agonia o di nascondersi in qualche angolo del castello per evitare la lezione immediatamente successiva.
Anche Milad, accanto a lui, sedeva immobile sulla sua sedia con il banco in perfetto e meticoloso ordine come suo solito: il quaderno aperto e perfettamente dritto sul banco, il dizionario già chiuso e nello zaino, le penne tutte infilate nell’astuccio. Come Icaro Milad non attendeva altro che la fine della lezione gettando continue occhiate all’orologio, il volto impassibile e la mascella serrata mentre il ginocchio destro tradiva il suo nervosismo tremando leggermente fuori dal controllo del ragazzo.
Quando la campanella finalmente suonò entrambi scattarono quasi come molle, affrettando ad infilare tutti i loro averi rimasti sui banchi nei rispettivi zaini prima di sfrecciare fuori dall’aula salutando l’insegnante senza fermarsi – Milad tuttavia, incapace fin proprio nel midollo di essere anche solo vagamente scortese con un docente, si premurò di rallentare il passo e di rivolgere anche un cenno educato del capo alla donna prima di correre fuori dalla stanza dietro ad Icaro – e precedendo tutti i loro compagni di classe evitando così di restare incastrati nella calca che era solita crearsi nei corridoi al termine delle lezioni.
“Che ore sono?! La D’Angelo è più puntuale di un orologiaio svizzero!”  Determinato ad occupare il banco più lontano dalla cattedra per avere qualche chance di mimetizzarsi con la tappezzeria Icaro quasi tramortì una minuscola ragazzina del primo anno che sbucò dal nulla uscendo dall’aula di Métamorphose, prolungandosi in una lunga sfilza di scuse senza però fermarsi mentre Milad gettava un’occhiata preoccupata al suo orologio da polso senza smettere di correre:
“Le 15. Anzi, adesso sono le 15.01.”
Giunti in fondo al corridoio i due inchiodarono davanti alla porta chiusa dell’aula dove avrebbe avuto luogo la lezione successiva, e dopo essersi brevemente ricomposto dandosi una rapida ravvivata ai lunghi capelli scuri Icaro bussò per assicurarsi che fosse deserta. Non udendo alcun suono aprì la porta quel tanto che bastava per gettare un’occhiata all’interno dell’aula, sospirando di sollievo quando appurò di essere riuscito ad arrivare prima della loro temuta insegnante di lingue.
“Ok, non c’è nessuno, possiamo sederci in fondo.”
“Gisèle dov’è? Lei aveva l’ora buca, dovrebbe essere già qui!”  Di norma Gisèle li aspettava proprio lì, davanti alla porta, a volte rimproverandoli per aver avuto l’ardire di farla attendere, e Milad si guardò attorno accigliato e stranito da quell’inusuale assenza – che Guillaume l’avesse chiusa in uno scantinato? – appena prima che l’inconfondibile e lontano suono di uno starnuto giungesse alle loro orecchie.
“Eccola, sta arrivando.”, asserì Icaro accennando pigramente verso il fondo del corridoio, prendendo a picchiettare impaziente il piede sinistro sul pavimento di marmo prima che l’arrivo della compagna venisse anticipato dall’echeggiare tra le pareti di un disperato scalpitio di tacchi: un attimo dopo Gisèle svoltò l’angolo, correndo trafelata verso di loro con la borsa in spalla e una scatola di kleenex che doveva aver avuto troppa fretta per riporre in mano.
“Eccomi, eccomi, eccomi! Scusate stavo ordinando i miei maglioni in ordine cromatico e mi sono scordata di guardare l’ora… Bene, adesso entriamo, ci sediamo in fondo e preghiamo di passare inosservati.” Gisèle inchiodò davanti ai due, che si ritrassero leggermente senza battere ciglio mentre la strega starnutiva una seconda volta – non sobbalzarono grazie all’abitudine, ma lo stesso non si potè dire della stessa ragazzina del primo anno di poco prima, che quel giorno decise di starsene alla larga da quelli del settimo fino alle vacanze di Natale –
“Se continui a starnutire come se volessi buttare giù il castello la vedo difficile. E per me sarà molto arduo in ogni caso.”  Icaro scosse il capo con fare tragico mentre sospirava seguendo Milad all’interno dell’aula – di norma il belga da buon studente modello non sedeva mai in fondo alla classe, ma quel giorno persino lui temeva talmente tanto la possibilità di essere scelto come vittima sacrificale che decise di fare un’eccezione straordinaria – e Gisèle, dopo essersi soffiata il naso, gli camminava accanto in mezzo ai banchi guardandolo stranita:
“Perché?”
Pensi forse sia facile essere belli come me e passare inosservati?!”
Gisèle decise che quel commento era talmente stupido da non meritare nemmeno una sua sillaba, e si limitò ad alzare gli occhi al cielo mentre scivolava sulla sedia accanto a Milad, prendendo posto in ultima fila tra lui e Icaro. Mentre il belga si affrettava a tirare fuori dizionario di latino, libro e quaderno per darsi ad un disperato ripasso e Icaro si interrogava tra la possibilità di pregare, nascondersi o imitarlo Gisèle sembrò avere le idee molto chiare sul da farsi: piazzò i kleenex su un angolo del banco, che le sarebbero serviti sia per il raffreddore sia per le lacrime che avrebbe versato se avesse sentito pronunciare il suo nome dall’insegnante, e una volta aperta la borsa tirò fuori una fotografia che appoggiò sul suo astuccio di tela beige pieno di spillette a forma di scarpine da ballo e una minuscola fialetta di vetro con tanto di contagocce. Mentre nella mente di Milad prendevano vita scenari catastrofici in cui si vedeva assegnare il primo brutto voto della sua vita e si vedeva costretto ad informare i suoi genitori sentendo di dar loro una delusione e Gisèle svitava rapida la boccettina Icaro non poté fare a meno di gettare un’occhiata al soggetto della foto, ritrovandosi a sollevare entrambe le sopracciglia quando, contro ogni sua aspettativa, lo riconobbe all’istante:
Perché hai una foto di Roberto Bolle?”
“Qualcuno dovrò pregare!”
Gisèle reclinò leggermente la testa mentre si versava stoicamente delle gocce di liquido trasparente su entrambi gli occhi, prendendo poi a sbattere ripetutamente le palpebre per alleviare il fastidio mentre richiudeva la boccetta e la riponeva nella sua borsa sotto lo sguardo sempre più perplesso dell’italiano: forse con la malattia era diventata più strana del solito.
“… Perché il collutorio?”
“Già sembro malata, se sembra che io abbia pianto fiumi e fiumi di lacrime la D’Angelo non potrà interrogarmi senza sentirsi una persona orribile.”
Gisèle, che quel mattino si era ben guardata dal truccarsi per avere il peggior aspetto possibile, fece spallucce mentre estraeva il pesantissimo dizionario di latino dalla borsa, facendolo cadere sul banco con un lieve tonfo mentre Milad si dedicava con la massima concentrazione alla rilettura dei suoi perfetti appunti. Dopo una brevissima riflessione Icaro dovette riconoscere che l’idea della compagna non fosse affatto male, e si affrettò ad estrarre il telefono dallo zaino per darsi una controllata con la fotocamera interna: forse Gisèle a furia di starnutire gli aveva attaccato qualcosa e anche lui avrebbe potuto giocarsi la carta della malattia.
Con suo gran rammarico Icaro finì invece con lo scontrarsi con la dura realtà: era bello come sempre, e sospirò affranto mentre scuoteva il capo sconsolato, costretto ad arrendersi al suo triste destino.
“No, sono bellissimo, non penserà mai che io sia malato!”

 
divisore
 
 
Biblioteca
 

“Avanti, riprova.”  Diego gli sedeva di fronte, il viso spigoloso e gli occhi azzurri illuminati dalla luce calda che entrava dall’alta finestra cui Dante dava le spalle; lo guardava serio e in attesa, i gomiti puntati sui libri e sui quaderni aperti per sorreggere le braccia sollevate e le dita lunghe e ricche di calli intrecciate. Dante esitò, annuendo prima di ripetere stancamente lo stesso nome per l’ennesima volta, talmente tante da aver perso il conto.
Guillaume.”
Ghi. Guillaume.” Quando Diego lo corresse, sempre senza battere ciglio e armato di una pazienza zen che Dante stava iniziando a perdere di vista, il Papillonlisse trattenne l’impulso di gettare all’aria tutto ciò che aveva davanti sul tavolo, sbuffando esasperato prima di cercare di capire cosa differenziasse la sua versione e quella del compagno: per quanto Diego potesse ripetere quel nome a lui suonava sempre identico a ciò che usciva dalle sue labbra.
“E io che cosa ho detto?!”
“La “u” non si pronuncia, devi dire una specie di “o”.
“L’ho detta!”
“La dici male.”
Diego si strinse nelle spalle con nonchalance mentre Dante malediceva a mezza voce i francesi e i loro nomi impronunciabili. Fortunatamente in compagnia di Diego poteva parlare in italiano, ma gli sguardi straniti che riceveva di tanto in tanto per la sua pronuncia cominciavano a dargli fastidio più di quanto non fosse disposto ad ammettere.
“Puoi sempre dire Guglielmo.”  Diego si strinse nelle spalle mentre frugava all’interno del suo astuccio di tela nero pieno di spillette di Doctor Who e a forma di vinili e videocassette alla ricerca di una matita, ignorando l’occhiata torva che il compagno gli lanciò dall’altro lato del tavolo:
“Certo, perché i francesi adorano quando gli storpi i nomi. Sono proprio famosi per quanto sono carini e bendisposti verso chi parla male la loro lingua.”
“Io lo faccio. Li chiamo all’italiana.” Diego aprì il libro di Étude des runes e con la matita nera che aveva appena estratto dall’astuccio iniziò a leggere e a sottolineare pigramente il capitolo che avrebbe dovuto studiare per la lezione successiva, il tutto sotto lo sguardo stranito di Dante:
“E non si offendono?”
“Beh immagino di sì, ma non è un problema mio. A me fa rabbrividire come pronunciano il mio, di nome.”
“Interessante punto di vista. Quindi cosa devo dire, “Ehy Gugliemo Dellacroce” se lo vedo in corridoio?”
Provaci.”
 
Milad aveva cercato di leggere e studiare nella sua Salle Comune al termine delle lezioni, ma racimolare anche una piccola dose di concentrazione gli era risultato impossibile a causa di un torneo di Gobbiglie in corso e di un rumorosissimo gruppo di studenti del terzo anno, tutti fattori che l’avevano spinto a recuperare le sue cose e a decidere di spostarsi in Biblioteca senza pensarci due volte.
Si stava aggirando tra le alte librerie bianche piene di volumi più o meno antichi e polverosi della sezione dedicata allo studio delle rune, alla ricerca di un angolo isolato dove sedersi, quando sentì una voce chiamare il suo nome e voltandosi incrociò lo sguardo di Dante Wang, che lo stava guardando con aria talmente implorante da portarlo ad avvicinarsi al tavolo senza indugi.
“Ciao. Ti serve qualcosa? Ciao Diego.”
Dopo essersi fermato davanti al tavolo il belga chinò brevemente lo sguardo sull’italiano per salutarlo, e il ragazzo ricambiò senza alzare il proprio dal libro aperto che aveva davanti mentre Dante continuava a guardarlo speranzoso:
“Milad, tu sei madrelingua, forse mi puoi aiutare meglio di Diego.”
Ingrato.”, borbottò il diretto interessato in italiano senza neanche alzare la testa dal libro, ma Dante non ci fece caso e continuò imperterrito a rivolgersi a Milad:
“Mi insegni a pronunciare qualche nome astruso di certa gente che vive qui? Se sento qualche altra correzione sulla pronuncia mi muro vivo in una parete.”
Prima di rispondere Milad chinò lo sguardo sulla scacchiera pieghevole che teneva sottobraccio e che aveva portato con sé per esercitarsi, ma dopo una rapida riflessione stabilì di poter perdere qualche minuto per dare una mano a Dante e annuì, comprensivo, prima di sedersi accanto a Diego e poggiare sul tavolo zaino di pelle e scacchiera.
“Volevo esercitarmi, ma può aspettare. Qual è il problema?”
“Guillaume.”
Guillaume il nome o Guillaume Delacroix?” Milad guardò l’italiano inarcando un sopracciglio, restando impassibile senza lasciar trasparire neanche una traccia della personalissima antipatia che provava nei confronti del compagno di Casa. Dante però scosse il capo, liquidando il discorso con un pigro cenno della mano mentre la bibliotecaria, una donna svizzera molto alta dai lineamenti spigolosi che esercitava soggezione persino su di lui, si aggirava tra gli scaffali per assicurarsi che nessuno facesse troppo chiasso, costringendolo ad abbassare la voce di un’ottava:
“Il nome, con Guillaume Delacroix non ho mai parlato, so solo che è il cugino di Gisèle e che lei lo detesta.”
Mi asterrò dal fare commenti di sorta. Guillaume.”  Milad parlò brandendo una naturalezza e un accento perfetto che Dante era sicuro che non avrebbe mai potuto padroneggiare, gettandolo nello sconforto mentre scuoteva il capo, incapace di capire dove stesse sbagliando:
“A me sembra di dirlo come lo dici tu.”
“Non lo dice così, lo dice male. Se me ne accorgo io tu da belga non puoi non accorgertene.” Diego sollevò la testa per gettare una rapida occhiata a Milad, che brandì un debole sorriso mentre Dante scoccava un’occhiataccia in direzione del compagno di classe.
“In realtà ho imparato a parlare in arabo, i miei genitori sono libanesi. Comunque è obbiettivo che la pronuncia francese corretta sia difficile, mia madre fa ancora fatica con certe parole dopo decenni da quando si è trasferita a Charleroi.”
Mi sento un po’ meno idiota. E la vostra grammatica è una merda, lasciatelo dire.”
Milad sorrise, assicurandogli che non si sarebbe offeso mentre Diego, accanto a lui, agitava sbuffando piano la matita in direzione di Dante, domandandosi perché non volesse dargli ascolto e adottare la sua strategia di fregarsene dell’altrui opinione e pronunciare i nomi in italiano. Fortunatamente aveva una soluzione geniale a disposizione dell’amico:
“So io cosa devi fare, non parlare mai con o di Guillaume Delacroix. Per te non esiste.”
“Che idea del cazzo Die’. Se mi chiedono qualcosa che dico, lo chiamo “Tu-Sai-Chi”?”
“Certo che sei una lagna, non ti va bene niente!”

 
divisore

 
Visto dall’esterno il serraglio aveva le sembianze di un suggestivo padiglione di forma ottagonale in stile coloniale fatto interamente di vetro e ferro bianco, una sorta di immenso giardino d’inverno collocato a circa mezzo chilometro di distanza dalle enormi serre della scuola. Quando ci aveva posato lo sguardo per la prima volta Dante non aveva potuto esimersi dal chiedersi come fosse possibile che la struttura, dalla quale non si udivano mai provenire suoni di sorta, ospitasse un gran numero di Creature Magiche, in certi casi nemmeno propriamente innocue, ma aveva finito col ricredersi quando ci aveva messo in compagnia della sua migliore amica, che tutte le settimane trascorreva lì dentro una buona parte del suo tempo libero.
Le piante che Dante aveva scorso dall’esterno e che sembravano popolare il serraglio, rendendolo in tutto e per tutto simile ad un giardino botanico, si erano rivelate solo frutto di un incantesimo che dall’esterno impediva di scorgere tutte le creature che popolavano la struttura, divise in gabbie e recinzioni di diversa grandezza in base alle dimensioni degli animali e distribuite all’interno di quattro sezioni in mezzo alle quali ci si muoveva percorrendo due ampi corridoi che s’incrociavano al centro della costruzione formando una croce.  
Seduto su un’alta recinzione Dante stava accarezzando la testa coperta dal piumaggio argentato di un Ippogrifo particolarmente docile che sembrava averlo preso in simpatia fin dalla sua primissima visita e che ora quasi gli trottava incontro non appena lo scorgeva avvicinarsi in compagnia di Nerea. La sua amica si trovava all’interno della gabbia immediatamente di fronte, impegnata a pulirla e a sfamarne i residenti dopo aver provveduto ad occuparsi di quella degli Ippogrifi, che ora sonnecchiavano pacifici standosene rannicchiati sul terriccio.
“Sicura che vada tutto bene?”, domandò Dante gettando un’occhiata dubbiosa alla recinzione di legno reso ignifugo dalla magia che aveva di fronte e che celava alla sua vita quanto stava accadendo all’interno, consentendogli di udire solo dei lamenti poco felici e i rimproveri infastiditi che la sua amica stava rivolgendo agli abitanti della gabbia. Con gran sollievo del ragazzo Nerea spalancò il cancello di accesso un attimo dopo, consentendogli di scorgere brevemente la sagoma di un Fiammagranchio che si allontanava zampettando torvo sul terriccio. La strega si affrettò a chiudersi il cancello alle spalle abbassando il catenaccio prima di sfilarsi gli spessi guanti di pelle di drago che indossava, sbuffando infastidita mentre si strofinava via dalla pelle la cenere che le aveva sporcato la guancia destra:
“Sì, Claude è un capriccioso del cavolo, ma ce l’ho fatta. Ogni settimana non mi lascia pulire perché deve farmi vedere che fa le capriole.”
“Chi ha chiamato un Fiammagranchio “Claude”?”, domandò Dante inarcando scettico un sopracciglio mentre l’Ippogrifo che aveva accanto, il cui nome riportato su una targhetta placcata d’oro (“Gingembre(5)”) appesa al collo aveva destato le medesime perplessità, si lasciava accarezzare felice la testa.
“L’hanno recuperato l’anno scorso insieme ai suoi fratelli quando era un tenero, piccolo e indifeso granchietto, gli stava bene! Allora, come è andata oggi alle prove?”
“Bene. Credo che il mio francese stia migliorando. Milad mi dà una mano.” Dante scrollò debolmente le spalle mentre guardava l’amica consultare i dettagli del suo turno dal telefono, controllando di quante e quali altre Creature dovesse occuparsi per poi poter tornare a scuola per cenare a sua volta. Appurato di doversi ancora occupare di Kneazle e Demiguise la strega si rifece scivolare il telefono nella tasca dei jeans logori che usava per i suoi turni nel serraglio per tornare a rivolgersi all’amico con un sorriso allegro ad illuminarle lo sguardo:
“Mi fa piacere! Può non dare questa impressione perché è sempre serio, ma Milad è molto gentile con chi gli sta simpatico. Evidentemente non ti trova insopportabile.”
“Chi mi trova insopportabile?”
Dante saltò giù dalla recinzione per salutare Gingembre e seguire Nerea, che doveva proseguire il giro e andare a servire la cena all’allevamento di Kneazle della scuola. La ragazza si sistemò dietro l’orecchio una ciocca di lunghi capelli castani scivolata fuori dalla treccia in cui li aveva legati donandogli un sorriso amabile, stringendosi nelle spalle prima di sollevare e ficcargli tra le braccia un pesante sacco pieno di croccantini al salmone per “Gatti magici in salute”.
“Io, certe mattine.”
 

 
divisore

 
Ogni lunedì alle 21.30 per gli studenti del VI anno aveva inizio la prima lezione di Astronomia nella settimana, pertanto come ogni lunedì Daphné Blanchard e Lucinda Pais dopo aver finito di cenare anziché tornare nella loro Salle Comune si erano chiuse in Biblioteca per studiare, o per meglio dire studiare e chiacchierare per la metà del tempi. Dopo circa un’ora le due avevano lasciato la Biblioteca ormai deserta, talmente silenziosa da rendere quasi spettrale l’eco dei loro passi sul pavimento di marmo, per trascinarsi svogliatamente in direzione di una delle quattro torri del castello, entrambe più desiderose di tornare nella propria camera invece di prendere parte all’ennesima lezione della giornata.
“Ma possibile che facciamo queste scale da un mese e mezzo e ancora mi sembrano così faticose? Non finiscono mai…” Daphnè sospirò mentre procedeva nella salita sempre più faticosamente, la borsa a cartella color crema che le dondolava fastidiosamente a fianco picchiettandole continuamente la gamba destra mentre Lucinda, alle sue spalle, sbuffava piano:
“Guarda il lato positivo, le scale fanno bene ai muscoli… anche se un ascensore non sarebbe male.”
Lucinda si fermò per prendere fiato sul gradino subito dietro quello dell’amica, che non tardò ad imitarla, e appoggiandosi all’elegante corrimano, agognando più che mai il momento in cui avrebbe potuto infilarsi il pigiama e raggomitolarsi sotto il suo soffice e confortevole piumone.
“Pensa quanto bello sarebbe fare lezione in giardino.” Gli occhi verdi di Daphnè si fecero luccicanti quando la strega, sorridendo sognante, immaginò di fare lezione di Astronomia senza quel faticoso supplizio. Senza contare il numero imbarazzante di volte in cui lei e Lucinda, in prossimità delle primissime lezioni del corso, si erano perse ed erano arrivate in ritardo.
“Senza scale.”, sospirò Lucinda mentre picchiettava le dita sul corrimano prima di far cenno all’amica di riprendere la salita, decisa a non arrivare in ritardo. Daphnè annuì mentre tornava a darle le spalle, riprendendo a salire i gradini sbattendo rumorosamente le francesine azzurre e blu della divisa sull’elegante pietra levigata.
“E pensare che ce la siamo scelta noi, questa tortura…”, borbottò Lucinda dietro di lei gettando un’occhiataccia alle scarpe col tacco basso che indossava e che di certo non rendevano più agevole salire tutte quelle scale, scarpe che detestava con tutta se stessa dal primo giorno del primo anno e che ogni mattina si allacciava ai piedi agognando il momento in cui avrebbe potuto sfilarsele per sostituirle con delle soffici pantofole coperte da un ricamo di minuscoli manici di scopa.
“Ma le lezioni mi piacciono, il problema è l’orario!”
“E le scale.”
“Beh, quello è scontato. Chissà che cosa stanno facendo adesso quelli che non hanno lezione.”
“Spero quello che non facciamo noi, che si stiano rilassando.”


Nerea sedeva sul pavimento della propria camera appoggiandosi al letto con la schiena, le gambe lunghe distese davanti a sé e le caviglie sottili incrociate. Terminato di cenare e salutato Gisèle, che aveva progressivamente quasi smesso di starnutire e far sobbalzare chiunque le stesse vicino, era tornata nella sua camera insieme a Leticia, si era fatta la doccia e aveva sostituito la divisa  – ogni sera arrivava il momento in cui non riusciva più a sopportarne le scarpe – con una tuta verde salvia abbinata a delle pantofole con un ricamo floreale ben più comode dei tacchi che era costretta a portare praticamente ogni giorno della settimana per nove mesi all’anno.
Ora lei e Leticia sedevano una accanto all’altra sul pavimento della loro camera, le mani strette attorno a delle tazze di ceramica piene di infuso fumante in attesa che si facesse l’ora di prepararsi per la loro uscita notturna dal castello. Nerea stava osservando pensosa la deliziosa carta da parati che ricopriva ogni angolo della stanza, bianca con motivi di fiori e foglie, identica ai copriletti, quando Leticia, dopo aver sorseggiato un po’ di infuso caldo, parlò aggrottando le folte sopracciglia brune:
“Forse non è stata una buona idea prepararci questa,” asserì pensosa la spagnola gettando un’occhiata incerta al liquido ambrato e bollente con cui lei e l’amica si stavano scaldando. Nerea smise di pensare alla riunione imminente – ancora non aveva ben chiaro se sperava o meno di dover contribuire a selezionare gli studenti del VI anno da inserire nella Brigade – per volgere lo sguardo sul volto pallido dell’amica, guardandola dispiaciuta:
“Perché? Non ti piace? Me l’ha mandato mia madre da Castelbosco.”
“No, figurati, è buonissimo, ma mi sta venendo sonno e tra tre ore dobbiamo uscire.”  Leticia sospirò scuotendo sconsolata il capo e le lunghe ciocce di capelli castani che, sfuggite alla coda di cavallo bassa in cui li aveva legati, le ondeggiarono ai lati del viso. E Nerea, a pensarci bene, si rese conto di doverle dare ragione.
“… Dici che era meglio un caffè? Potremmo sempre fare i compiti per tenere in funzione il cervello.”
“Gli altri cosa staranno facendo per passare il tempo?”
 
 
“Pesca quattro!” Icaro sorrise trionfante mentre gettava la sua carta in mezzo al mucchio confusionario di tessere colorate che si era andato a creare nel bel mezzo del tavolo che divideva il suo divano da quello di fronte, occupato da Antoine e da Gisèle. Quest’ultima, costretta di malavoglia a pescare di nuovo delle carte, sbuffò con amarezza mentre si allungava verso il mazzo per prelevarne quattro: ormai ne aveva talmente tante da non sapere più come disporsele a ventaglio tra le mani.
“Come si fa ad essere così sfacciatamente fortunati?!”
È un problema di noi bellissimi. Questo gioco Babbano mi piace un sacco!” Icaro, che al contrario aveva in mano solo tre carte, sorrise compiaciuto mentre tornava a mettersi comodo accanto al bracciolo e ad un cuscino dalla federa di raso color crema. Milad, che gli sedeva accanto impegnato a sistemare le sue carte in modo che avessero un senso, non poté fare a meno di chiedersi come fosse possibile che quei tre non avessero mai giocato ad UNO in tutta la loro vita prima di quella sera, quando avevano deciso di dover passare il tempo in qualche modo prima della riunione e Antoine lo aveva praticamente costretto ad unirsi a loro invece di starsene seduto in disparte a leggere in solitudine.
“Ti piace perché stai vincendo.”, osservò Gisèle gettando un’occhiata torva ad Icaro mentre cercava di sistemare la carte alla meno peggio.
“Che colore vuoi?”
“Verde.”
Gisèle, che naturalmente non aveva neanche una carta di quel colore in mano, gemette mentre Vaclav sonnecchiava in mezzo alle sue gambe incrociate sul divano e avvolte dalla medesima copertina bianca e beige di quel pomeriggio. Se non altro la pozione aveva fatto effetto e ormai non starnutiva quasi più.
Trenta carte in mano e di verde neanche mezza. Milad, tocca a te.”
“Blocco Antoine, blocco Icaro, cambio giro.”
Milad gettò una carta dietro l’altra del mucchio per poi guardare Gisèle con un sopracciglio inarcato in un muto invito a usare il suo turno, e la strega, di nuovo costretta a pescare una carta non avendo nulla da poter calare in mano, sospirò mentre si allungava verso il tavolo:
“Ma questo gioco l’ha inventato Guillaume? Queste carte mi detestano.”
“Dai Gisèle, muoviti, che tra poco vinco e poi voglio fare un’altra partita.” Icaro agitò spazientito le sue carte in direzione della francese, che lo scrutò impassibile per una breve manciata di istanti prima di rivolgersi ad Antoine e chiedere all’amico se per caso non potesse far pescare qualche carta anche a lui.
Dopo aver brevemente controllato quelle che aveva in mano Antoine dovette scuotere il capo, limitandosi a gettare nel mucchio una comunissima carta verde mentre Icaro, di fronte a lui, sghignazzava divertito:
“No Gisèle, quelle che fanno pescare le abbiamo usate tutte per te.”
Ovviamente. Dopo propongo un altro gioco.”
“Tipo?”, domandò Milad mentre Icaro protestava (non aveva nessuna intenzione di cambiare gioco dopo aver già vinto ben due partite di fila), deciso a non insegnargli niente che avrebbe potuto facilmente sfociare in una rissa – era una fortuna che Guillaume e Abel non avessero deciso di unirsi a loro, o di certo sarebbe finita male –. Gisèle, dopo aver averci riflettuto brevemente sistemandosi come meglio poteva la coperta sulla tuta color cioccolato che indossava nonostante tutte le carte che aveva in mano, sfoderò un sorriso amabile:
Tipo chi fa meglio la spaccata.”
“Quello non è un gioco.” Icaro scosse il capo guardando pieno di stizza la compagna di Casa, che tuttavia non battè ciglio e si strinse debolmente nelle spalle mentre annuiva con nonchalance:
“Sì che lo è. Si chiama Gisèle vince sempre.”
 
 
Tre ore dopo la Salle Comune si era completamente svuotata e tutte le luci erano state spente, fatta eccezione per i piccoli fuocherelli azzurri che ardevano ininterrottamente, senza mai estinguersi, in alcune piccole lanterne bianche appese alle pareti. L’altra fonte di luce presente nell’enorme sala deserta era la torcia del telefono di Milad Sarkis, che si stava dirigendo verso l’uscita insieme ad Icaro e ad Antoine, tutti e tre vestiti e pronti per uscire.
“Dov’è Gisèle?!”, domandò in un sussurro il belga quando si ritrovò dinanzi alla doppia porta celeste.
“Sarà già uscita come Guillaume e Abel. O magari sta ancora contando le sue carte.” Un sorrisino increspò le labbra di Icaro nella semioscurità mentre Antoine, in piedi accanto a lui, si sfilava accigliato il telefono dalla tasca dei pantaloni per sbloccarlo e controllare di non avere messaggi, poco propenso a credere che l’amica si fosse avviata senza di lui:
“Strano, se dobbiamo andare da qualche parte insieme mi aspetta sempre, o mi avvisa.”
“Magari è uscita prima, ha preceduto Guillaume e Abel per costruire una trappola per orsi per Guillaume. Non è così improbabile.”
 
 
Stanca di perdere a quel ridicolo gioco di carte fondato solo sulla fortuna Gisèle si era ritirata nella sua stanza, sistemandosi sul proprio letto per riposarsi un po’ a seguito di una notte insonne dovuta al latino e al raffreddore che l’aveva colpita. Doveva ancora prepararsi per la riunione, ma mancava ancora così tanto che la ragazza non se ne curò mentre fissava pensosa il baldacchino sopra di lei: si sarebbe solo rilassata un po’ e poi sarebbe stata rapidamente pronta per uscire.
Gisèle si addormentò, senza sapere bene come, e quando le sue palpebre pesanti si risollevarono i suoi occhi azzurri dovettero abituarsi ad un’oscurità ben diversa da quella che aveva avvolto il castello quando si era distesa sul materasso. Dopo un breve attimo di confusione la consapevolezza di che giorno fosse e di quale impegno avesse la investirono di colpo, portandola a mettersi a sedere di scatto sul letto per afferrare il telefono abbandonato sul comodino.
“Merda!”
Quando appurò di come mancasse meno di mezz’ora all’inizio della riunione Gisèle trasalì, gettando le gambe giù dal letto per correre ad aprire il baule e cercare qualcosa di decente da indossare cercando di non far rumore, poiché le sue compagne di stanza erano già tutte profondamente addormentate: lei non arrivava mai, mai in ritardo. E anche se di quell’impegno non le importava poi granché non aveva nemmeno intenzione di sorbirsi le lamentele dei suoi compagni.


 
divisore

 
Nerea era piuttosto soddisfatta di se stessa: si era vestita e preparata per tempo, riuscendo a ritrovarsi pronta per lasciare il Dormitorio persino in anticipo rispetto all’orario stabilito per l’incontro, riuscendo così a fare in modo che anche Leticia ed Etienne fossero pronti e a trascinarli attraverso la Salle Comune buia e ormai deserta data l’ora tarda in perfetto orario.
Certo, il fatto che Gisèle non avesse risposto ai suoi messaggi dopo più di mezz’ora la straniva non poco, ma Nerea si convinse che di certo l’amica era impegnata a prepararsi per uscire mentre insieme ai due amici e compagni di Casa percorreva in silenzio le scale di marmo deserte e semibuie del castello, la bacchetta accesa e sollevata davanti a sé mentre scendeva rapida i gradini di marmo sfiorando la superficie fredda e liscia del corrimano di legno con le dita lunghe e affusolate.
La sua migliore amica non era mai in ritardo, di certo un’abitudine frutto di anni e anni trascorsi in Accademia circondata da severissimi maestri di ballo, e quando Nerea, seguita da Leticia ed Etienne, varcò la soglia del giardino d’inverno dopo aver snocciolato la parola d’ordine ad Abel si aspettava per certo di trovarla lì, in attesa di iniziare. Se la immaginava seduta su una sedia, un piede che dondolava mentre si sorreggeva il capo inclinato con un gomito piantato sul tavolo, l’aria annoiata e impaziente di iniziare al tempo stesso per potersela sbrigare in fretta e andare a dormire, e invece quando fu entrata lo sgaurdo di Nerea indugiù solamente su Icaro, Antoine e Milad, tutti e tre in piedi in un angolo mentre Annika tirava i pesanti tendaggi neri per coprire le finestre e Guillaume sgombrava la lunga sala interna della piccola sera con la magia, facendo in modo che solo un ampio tavolo circolare rimanesse ad occupare il centro dello spazio avvolto dalla semi-oscurità.
“Dov’è Gisèle?!” Nerea inarcò un sopracciglio mentre si sbottonava la giacca color castagna facendo rimbalzare lo sguardo da Antoine, Icaro e Milad – che ricambiarono straniti tanto quanto lei, come se avessero dato per scontato che avrebbe saputo rispondere al posto loro – fino ad Abel, che chiuse la porta alle spalle di Etienne osservandola con i penetranti occhi color ghiaccio pregni di perplessità:
“Credevamo stesse arrivando insieme a te.”, osservò secco il ragazzo con l’inconfondibile strascico di accento tedesco che non era mai riuscito ad abbandonare mentre le candele che brillavano sopra le loro teste galleggiando a mezz’aria illuminavano i suoi lisci capelli biondi donandogli un’aura quasi dorata. All’improvviso, guardandolo voltarsi verso Guillaume, Nerea rammentò per quale motivo avesse avuto una gigantesca cotta per lui l’anno prima.
“Guillaume, che le hai fatto?”, domandò Abel con una leggera nota di esasperazione nella voce mentre tutti i presenti all’improvviso si zittivano e Guillaume, voltandosi verso l’amico, si ritrovava con otto paia d’occhi puntati su di sé.
“Assolutamente niente.”
“Sei sicuro di non averla chiusa in un armadio a muro prima di venire qui?” Antoine parlò incrociando le braccia al petto e studiando torvo il compagno di Casa dall’alto del suo metro e novanta, pronto a smettere di essere il dolce e gentile ragazzo di sempre per recuperare la sua mazza da Battitore dal baule.
“Io e Abel siamo arrivati insieme, di certo in caso mi avrebbe visto. Probabilmente non verrà, lo sapete come la pensa.” Guillaume tornò alla sua occupazione con una pigra stretta di spalle, poco interessato a sapere che fine avesse fatto sua cugina e per niente preoccupato a riguardo mentre Annika faceva silenziosamente il giro della stanza per raggiungere Leticia ed Etienne, accostando il capo a quello dell’amica per chiederle con un basso mormorio se non fosse il caso di controllare i Sotterranei per assicurarsi che il francese non avesse chiuso la cugina lì sotto.
“Secondo me in tal caso ce lo avrebbe detto, non si fa problemi a dire come la pensa.” Milad si strinse nelle spalle, poco propenso a credere che la compagna di classe avesse deciso di dar loro buca senza avvisare nemmeno i suoi due migliori amici, e Icaro annuì arricciando il naso stizzito:
“Già, a me una volta ha persino detto che non le piaceva la mia camicia. Assurdo.”
“Guillaume, ti avviso, se hai fatto sparire Gisèle ti aizzo contro i miei Fiammagranchi!”
Nerea gettò sul ragazzo un’occhiata fiammeggiante tanto quanto la sua minaccia, ma di nuovo Guillaume sospirò e scosse la testa, annoiato da quel mucchio di idiozie che gli toccava stare a sentire:
“Come se fosse possibile farla sparire, ci ho già provato quando andavamo all’asilo, cosa credete?!”
 
Dieci minuti dopo stavano tutti in piedi attorno al tavolo, con un posto vacante tra Nerea e Milad, e di comune accordo avevano deciso di attendere altri cinque minuti prima di iniziare. La Bellefuille stava in piedi spostando nervosamente il peso da un piede all’altro, le lunghe braccia strette al petto mentre continuava a gettare occhiate ansiose al suo orologio da polso, Milad si tormentava l’orecchino fissando pensoso il centro del tavolo e Icaro, in piedi tra lui ed Etienne, tratteneva sbadigli mentre l’amico non ci provava nemmeno, ormai piuttosto assonato.
Quando finalmente si udì bussare alla porta tutti sobbalzarono per la sorpresa, e mentre Guillaume si affrettava a far notare infastidito di aver sempre avuto ragione Antoine si allontanò rapido dal tavolo per andare verso la porta e assicurarsi speranzoso che al di fuori, in attesa e al buio, ci fosse proprio la sua amica. Gli otto restanti attesero in silenzio mentre la porta si apriva con un cigolio, udendo solo un indistinto mormorio prima che Antoine facesse ritorno con un sorriso sollevato sulle labbra:
“È arrivata.” 
Guillaume si astenne dal fare commenti solo perché erano già in ritardo, ma le occhiate torve che lanciò a tutti i presenti parlarono per lui mentre sua cugina, appesa la giacca a mantella blu notte con cui era arrivata, si affrettava a raggiungerli tenendo il capo leggermente chino sulle assi di legno del pavimento e senza ricambiare lo sguardo di nessuno, limitandosi a scusarsi per il ritardo con tono neutro prima di posizionarsi tra Milad e Nerea senza aggiungere altro.
Abel si astenne dal rimproverarla limitandosi a suggerire ai presenti di procedere scrivendo il proprio nome sui frammenti di pergamena che ciascuno aveva davanti sul tavolo, e per qualche istante gli unici rumori racchiusi tra le pareti di vetro del giardino d’inverno furono il fruscio delle punte delle penne sulla pergamena. Mentre scarabocchiava rapida il proprio nome Gisèle si domandò se scriverne uno falso rientrasse tra le sue possibilità, ma accantonò in fretta l’idea.
Quando tutti ebbero finito di tracciare i propri nomi con linee di inchiostro blu e ripiegato i foglietti su loro stessi Abel si chinò su qualcosa che aveva lasciato sul pavimento accanto a sé, sollevando una coppa di vetro che posizionò al centro del tavolo. Tutti stettero a guardare in silenzio il ragazzo estrarre la bacchetta e picchiettarne per tre volte la punta sul bordo della coppa, lanciando sull’oggetto un incantesimo non verbale che produsse delle lingue di fiamme celesti che presto lambirono la parte superiore della coppa.
Uno ad uno tutti e dieci si sporsero sul tavolo per gettare tra le fiamme azzurrine il biglietto con il proprio nome, osservando in silenzio la coppa ardere i frammenti di pergamena attendendo che l’oggetto facesse le sue scelte; l’ultima arrivata iniziò presto a tormentarsi le mani che teneva allacciate davanti a sé, poggiate sul tessuto scamosciato della gonna, fissando le fiamme con i grandi occhi chiari pregando che la coppa non scegliesse lei, ma quando le fiamme diventarono bianche una lingua di fuoco si sollevò fino a staccarsi dalle altre, andando a scomporsi e a formare, per un istante, l’immagine di una libellula che si librò brevemente in aria prima di dissolversi.
Tutti guardarono in silenzio il punto in cui la libellula era sparita e poi chinarono in silenzio gli sguardi sulla ritardataria, che strinse le labbra in una smorfia contrariata mentre sentiva il proprio stomaco contorcersi, preda di una morsa: la ragazza dovette fare appello a tutto il suo autocontrollo per non imprecare e per la prima volta il suo sguardo indugiò sul resto dei presenti, tutti impegnati ad osservarla, chiedendosi se la coppa non avesse in qualche modo percepito il suo ritardo e la sua disapprovazione nei confronti di tutto ciò che in quella stanza la circondava e che rappresentava, finendo col punirla.
Abel, che di certo aveva immaginato quanto la compagna avesse sperato di non essere scelta, distese le labbra in un sorrisetto divertito che le fece venire voglia di schiaffeggiarlo e andarsene da lì, guardandola con un che di compiaciuto negli occhi chiari che riuscì solo ad incrementare il risentimento della strega:
Libellule. A quanto pare sei una dei fortunati eletti, quest’anno.”
Abel non si sforzò nemmeno di celare l’ironia con cui le si rivolse ma per una volta la diretta interessata non diede peso alle sue parole e non gli diede nemmeno la soddisfazione di mostrare alcun segno di amarezza. In fondo dopotutto era solo colpa sua, si disse lei con amarezza: avrebbe dovuto simulare un’influenza, assentarsi dalla serata. 
Mentre Gisèle malediceva mentalmente la sua incapacità di mentire e il suo spiccato senso del dovere, tutti elementi che l’avevano trascinata fin lì, le fiamme tornate azzurre si tinsero rapidamente di bianco una seconda volta, e un attimo dopo tutti e dieci stavano scrutando accigliati una lingua di fuoco staccarsi dalle altre e scomporsi andando a disegnare a mezz’aria una specie di radura, con tanto di alberi, piante e bassi arbusti.
“Credo che si riferisca a Nerea.”, mormorò dubbioso Antoine senza smettere di studiare accigliato la figura finchè quella si dissolse nell’aria in minuscoli ed intangibili granelli di polvere luminosa. Nerea al contrario di Gisèle sorrise, compiaciuta, e anche se sentiva di dover stare in silenzio chinò lo sguardo per gettare un’occhiata all’amica e darle una leggera gomitata incoraggiante che la francese incassò sforzandosi di sorridere, rincuorata dalla prospettiva di essere invischiata in quel compito sgradito in compagnia della sua migliore amica.
La coppa mostrò ai presenti la terza figura pochi istanti dopo, lasciando che delle fiamme si scomponessero in quello che tutti riconobbero rapidamente come un cavaliere a cavallo.
“Che caspita dovrebbe essere?”, domandò a voce alta Gisèle spezzando il rigoroso silenzio e fregandosene altamente della solennità che in teoria avrebbe dovuto aleggiare nella stanza. Icaro, offeso, indicò il cavaliere appena prima che l’immagine si dissolvesse, guardando la compagna come se la risposta fosse ovvia:
“Sono io! Le Prince Charmant, no?”
Gisèle non rispose, ma chinò il capo per guardarsi le punte delle francesine che portava ai piedi e non dare a vedere di star trattenendo faticosamente una risatina, divertita dallo sdegno di Icaro, mentre continuava a tormentarsi le dita dietro la schiena e il cugino le scoccava un’occhiata torva, intimandole silenziosamente di tenere la bocca chiusa fino alla fine.
 
“Manca una persona.”, annunciò Abel un paio di minuti dopo fissando inespressivo le fiamme appena tornate celesti a seguito di aver manifestato di aver scelto Milad, destando un raro sorriso sul volto del ragazzo. Il fuoco divenne bianco per l’ultima volta fino all’anno successivo mentre Gisèle scoccava un’occhiata in tralice in direzione del compagno di Casa, trattenendosi a fatica dal chiedergli per quale motivo lui potesse parlare e lei no.
“Etienne.”
Al vedere le nubi in tempesta fluttuare a mezz’aria sopra al tavolo Etienne sorrise e assestò una gomitata ad Icaro asserendo che di certo si sarebbero divertiti parecchio, pentendosi di aver parlato quando Abel lo guardò esasperato ricordandogli che divertirsi non sarebbe stato il loro obbiettivo per le settimane a venire.
Etienne si affrettò a farsi sparire il sorriso dalle labbra e una volta tornato serio annuì, anche se stava già pensando a come divertirsi alle spalle degli studenti del VI anno. Chissà, magari anche a discapito di sua sorella.
 
 
“Ma che fine avevi fatto? Pensavamo che Guillaume ti avesse rinchiusa in una torre!” Nerea lasciò il giardino d’inverno insieme a Gisèle, prendendo l’amica sottobraccio mentre Abel, dietro di loro, sigillava la porta con le chiavi che si era fatto consegnare dall’insegnante di Colture des Moldus il giorno prima.
“Figurati se quello può chiudermi da qualsiasi parte, stavo dormendo!”
“Cavolo, forse dovrei scusarmi con lui…”  Nerea prese a camminare accanto all’amica sul sentiero di ghiaia seguendo Icaro ed Etienne, che stavano già decidendo come tormentare gli studenti più piccoli, mordicchiandosi il labbro, sentendosi un poco in colpa – sentimento che non credeva avrebbe mai provato per Guillaume Delacroix – e indecisa sul da farsi mentre Gisèle la guardava sgranando gli occhi, quella sera azzurro scuro, inorridita:
“Sei impazzita? Con Guillaume non ci si scusa mai. Ti umilierebbe e te lo rinfaccerebbe per trent’anni, come minimo.”
“Quindi che faccio?”
“Fai finta di niente, pensa che presto farò comunque qualcosa che varrà le tue accuse.”
Quello dell’amica era un modo piuttosto bislacco di vedere la situazione, ma dopo un breve attimo di riflessione Nerea decise di non fare commenti e assecondarla, chiedendole invece con un sorriso se avesse già qualche idea a proposito del loro nuovo compito mentre la prendeva sottobraccio. Gisèle sembrò rifletterci per qualche istante, fissando pensosa Etienne ed Icaro precederle lungo la stradina che conduceva al castello prima di asserire accigliata di non detestare nessuno tanto da infliggergli la punizione di entrare nella Brigade, tolto suo cugino.
Possiamo farlo retrocedere e fargli rifare tutto da capo?”
“Francamente penso proprio di no.”
“Allora non ne ho idea.”
 
 
 
 
 

 
 
(1): Opera di Gioachino Rossini
(2): Pasticcino francese fatto con pasta choux
(3): Aria breve che chiude un recitativo
(4): Perdonate il mio black humor, la donna raffigurata è la ben nota presunta strega Giovanna d’Arco
(5): “Zenzero” in francese
 
 

 
 
 
………………………………………………………………………………..
Angolo Autrice
Buonasera mie care!
Sono molto felice di averci messo poco tempo per aggiornare, decisamente meno rispetto alla volta precedente. Questo capitolo finalmente si congiunge temporalmente con il prologo entrando nella seconda parte della storia, quindi da qui in avanti vedremo naturalmente i ragazzi del VII anno andare alla ricerca di qualche cavia da tormentare selezionare.
A presto,
Signorina Granger
 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Capitolo VII ***



Capitolo VII
 


 
Mercoledì 9 novembre


 
 
Dante si ridestò dall’abbraccio di Morfeo dischiudendo debolmente le palpebre, prendendosi qualche breve istante per fare mente locale e riflettere su che giorno della settimana fosse e quali impegni lo aspettassero prima di decidere di poter richiudere gli occhi per altri cinque minuti, girandosi sul fianco per dare le spalle al comodino e alla sveglia impostata sul suo telefono che prima o poi avrebbe inesorabilmente iniziato a suonare. Non avrebbe saputo dire con certezza quanto tempo fosse passato, avrebbe potuto trattarsi di pochi istanti come di qualche minuto intero visto il stato di dormiveglia in cui ancora riversava, ma ad un certo punto Dante riaprì gli occhi, questa volta acquistando un briciolo di lucidità e rendendosi conto di aver avuto l’impressione di scorgere qualcuno in attesa accanto al suo letto quando poco prima si era svegliato. In un misto di sorpresa, curiosità e orrore il Papillonlisse si girò nuovamente sul fianco, questa volta facendo sprofondare il gomito sul cuscino per usarlo come leva per tenersi sollevato di qualche centimetro prima di posare il proprio sguardo su Nerea, che gli rivolse un sorriso a trentadue denti prima di lanciarsi su di lui per abbracciarlo.
“Buon compleanno Dantuccio!”
“Cazzo Nerea, perché ti sei appostata qui come una serial killer?!”
“Non ti volevo svegliare! Tanti auguri.” La ragazza gli stampò due sonori baci sulle guance prima di arruffargli i lisci capelli neri con un gesto della mano, blaterando qualcosa a proposito di quanto da bambino fosse stato infinitamente più carino e gentile nei suoi confronti mentre l’amico si rigettava disperato sul materasso, deciso a restare nascosto sotto al cuscino fino al giorno seguente.
“Senti ciccio, non fare lo struzzo, ti devono fare gli auguri anche gli altri.”
“Gli altri chi?!”, domandò Dante colto dalla disperazione riemergendo da sotto la federa nera del cuscino e finendo col precipitare in un vortice di terrore un attimo dopo, quando scorse l’amica armeggiare in maniera inequivocabile con il proprio telefono.
“Non ti azzardare a chiamare nessuno!”, ordinò cercando invano di strapparle di mano il telefono e la cover verde pastello coperta da adesivi di teneri animaletti, ma per sua sfortuna Nerea, senza l’impiccio delle coperte, riuscì a levare prontamente il braccio mettendolo al sicuro:
“Ma mi hanno detto di chiamarli quando saresti stato sveglio, ti devono fare tutti gli auguri! Non fare il musone asociale, dai!”
Dante si nascose completamente sotto il copriletto – nero come il suo umore e la sua vita –, deciso a non emergere mai più allo scoperto mentre Nerea cercava di strapparglielo di dosso con energici strattoni, sibilando tra i denti di avere un amico dannatamente più testardo persino del suo amatissimo asinello.

 
divisore

 
La porta d’ingresso blu notte del Dormitorio maschile si aprì e richiuse con un cigolio alle spalle di Antoine e Gisèle, che fece cenno all’amico di precederla lungo il corridoio dalle pareti bianche e il soffitto stuccato con un lieve e sbrigativo movimento del capo. Pur non essendo particolarmente convinto di quanto si stavano accingendo a fare Antoine, sapendo bene di non poter in qualcun modo far desistere l’amica dal suo intento, obbedì e si avviò calpestando le mattonelle di pietra levigate roteando i grandi occhi azzurri e con Gisèle, che riusciva a muoversi senza far rumore persino indossando i tacchi bassi della divisa, subito dietro.
Meno di un minuto dopo i due si fermarono davanti alla porta della camera del ragazzo, e solo all’ora Gisèle si permise di aprire bocca guardandosi attorno con aria guardinga:
“Sicuro che non ci sia?”
“Sì che sono sicuro, ti ho detto di averlo visto scendere a fare colazione!”
“Va bene, allora vado. Tu resta e fai da palo.” Gisèle aveva bisogno di prepararsi psicologicamente prima di mettere piede in una stanza abitata solo da ragazzi, e infatti inspirò profondamente dicendosi di cercare di sopportare tutto gli orrori che si sarebbe trovata a fronteggiare mentre Antoine, in piedi accanto a lei davanti alla porta ad arco blu, persisteva nel guardarla accigliato:
“E se torna che faccio?”
Intrattienilo.”, asserì la strega con una noncurante stretta di spalle mentre impugnava il pomello d’ottone laccato d’oro della porta. Antoine le chiese seccato se per caso l’avesse scambiato per un giocoliere, ma anziché farci caso l’amica girò il pomello e aprì la porta, pronta a varcare la soglia della camera del cugino.
 
Milad si trovava in piedi alle spalle del suo letto, impegnato a finire di preparare la sua borsa a cartella di cuoio ponendovi all’interno un libro dietro l’altro, quando la porta della sua camera si aprì consentendo all’ultima persona che si sarebbe aspettato di vedere lì dentro di entrare. Anziché infilare nella borsa il libro di Métamorphose Milad si bloccò tenendo il libro a metà strada, i profondi e interrogativi occhi scuri puntati su Gisèle mentre la compagna, in piedi davanti alla soglia, si chiudeva la porta alle spalle tenendosi gli occhi coperti con la mano libera:
“Siete tutti vestiti?”, domandò la ragazza tenendosi ostinatamente gli occhi coperti mentre Milad, sempre più perplesso, annuiva istintivamente anche se lei non poteva vederlo in volto:
“Sono solo io, Icaro è in bagno. E sì, sono vestito.”  Le sue parole sembrarono tranquillizzare parecchio la giovane strega, che si levò la mano dal viso rivolgendo al compagno un largo sorriso impregnato di sollievo:
“Bene, ottimo. Rilassati Milad, non farò nulla al tuo letto questa volta.”
“Mio dio, c’è un odore terribile qui dentro! Non le aprite mai le finestre?!”
“Sì che le apriamo.”, obbiettò Milad inarcando offeso un sopracciglio, perfettamente consapevole di essere non solo un ragazzo molto ordinato e diligente – si faceva il letto da solo tutte le mattine prima di andare a lezione –,ma anche pienamente in grado di mantenere più che dignitose le condizioni della stanza dove dormiva. Gisèle però sembrò non starlo a sentire, perché sollevò i lembi della camicia azzurra della divisa per coprirsi naso e labbra e dalla sua borsa tirò fuori un flacone bianco che il belga riconobbe rapidamente, sempre più attonito, come deodorante.
 
Icaro si stava lavando i denti quando, udito l’eco indistinto di una voce femminile provenire dalla sua camera, aprì la porta del bagno per fare capolino oltre lo stipite solo con la testa, lo spazzolino in mano e la bocca piena di dentifricio. Si aspettava di vedere pressappoco chiunque, era anche pronto a chiedere a Milad se per caso si fosse trovato una fidanzata senza dirlo a nessuno, tranne Gisèle Delacroix, e lo stupore di vederla in territorio nemico – così chiamava la camera del cugino –, per di più impegnata a spargere nubi di deodorante, fu tanto da spingerlo a parlare dimenticandosi di avere la bocca impastata dal dentifricio alla menta piperita:
“Pefchè Gifèle fta mettendo deodorante ofunque?”, domandò l’italiano aggrottando la fronte e accennando verso la ragazza con il suo spazzolino mentre Milad, a pochi metri da lui, scuoteva il capo sconsolato:
“Non ne ho idea.”, mormorò infatti il belga senza smettere di seguire con lo sguardo i movimenti della compagna di classe, che si stava circondando da una nuvola di deodorante borbottando seccata parole incomprensibili a proposito delle penose capacità dei suoi coetanei di mantenere profumati i loro alloggi.
“Bene, ora sì che si respira.” Gisèle chiuse il flacone di deodorante alla lavanda e se lo rimise in borsa prima di sollevare la bacchetta e puntarla verso la finestra a lei più vicina, che si spalancò all’istante con un cigolio mentre Milad, sempre in piedi alle spalle del suo letto, le rivolgeva un’occhiata offesa:
“Si respirava anche prima!”
“Si respirava l’aria velenosa respirata da mio cugino, vorrai dire. Bene, non badate a me, devo commettere un furto. Orsini, i denti ce li si lava in bagno.”   Gisèle si diresse con passo deciso verso l’angolo della camera circolare dove si trovavano il letto, il comodino e la cassapanca del cugino prima che i suoi occhi indugiassero su Icaro, ancora in piedi davanti alla porta aperta del bagno e con lo spazzolino blu in mano, rivolgendogli un’occhiata piena di disapprovazione che il ragazzo non accettò affatto di buon grado:
“Lo ftavo fafendo!”, obbiettò stizzito Icaro prima di sbuffare, girare sui tacchi e tornarsene davanti ad uno dei lavandini di marmo mentre Gisèle sollevava il coperchio della cassapanca blu di Guillaume per iniziare a frugarci all’interno, stupendosi nel non trovare nessuna sua fotografia marchiata con una “x” scarlatta.
“Cosa stai cercando, se possiamo saperlo?”, domandò Milad facendo il giro del letto per avvicinarsi, sempre più curioso, alla compagna, la borsa con i libri dimenticata sul copriletto blu mentre Gisèle, inginocchiata sulle assi di legno a spina di pesce del pavimento, sbuffava piano senza smettere di rovistare tra cumuli di vestiti e libri.
“Il libro.”
“Quale libro?”
“Il registro della Brigade, quello che per motivi a me del tutto incomprensibili lui è stato incaricato di conservare fino al prossimo anno.”
“Non glielo potevi chiedere e basta? Non è che sia vietato consultarlo.” Pur sforzandosi Milad non riusciva a comprendere il senso delle azioni di Gisèle e per quale motivo la ragazza si stesse evidentemente complicando la vita per niente intrufolandosi in camera loro e cercando qualcosa che avrebbe potuto semplicemente chiedere in prestito, ma capì che probabilmente mai nessuno sarebbe riuscito a cogliere il profondo significato della faida che intercorreva tra lei e il cugino quando vide Gisèle interrompere le sue ricerche, voltarsi e rivolgergli un’occhiata dalle sfumature a metà tra l’indignato e lo scandalizzato:
Io che chiedo qualcosa a lui?! Mai! E comunque non me lo avrebbe mai lasciato, figuriamoci!”
“Che cosa succede, sei venuta per piazzare un’altra Salamandra nel letto di tuo cugino?”
Icaro uscì dal bagno, questa volta perfettamente in grado di parlare normalmente, allacciandosi la cravatta blu e oro attorno al collo e con gli occhi scuri che andarono rapidamente a posarsi su Gisèle, che si concesse di sorridere nel ripensare all’episodio risalante all’anno prima mentre teneva in bilico su un ginocchio una vistosa pila di maglioni:
Quello sì che è stato un bello scherzo.”
“Per fortuna quella volta hai individuato il letto giusto.”
“Dai Milad, ti ho chiesto scusa mille volte! Comunque qui non c’è niente, che palle!” Gisèle ricacciò i maglioni all’interno della cassapanca prima di alzarsi sbuffando infastidita, richiudendola prima di dirigersi con falcate decise verso il comodino del cugino.
“Cosa sta cercando?”, domandò Icaro volgendo lo sguardo su Milad dopo aver finito di annodarsi la cravatta, dirigendosi verso il proprio letto per prendere gilet e giacca e finire così di vestirsi mentre la strega metteva a soqquadro il comodino del cugino.
“Il libro.”, si limitò ad informarlo vagamente il belga con una pigra stretta di spalle, gli occhi scuri sempre puntati su Gisèle come per volersi assicurare che non arrecasse troppi danni alla loro camera mentre Icaro lo guardava perplesso e senza capire:
“Il libro?”
“Sì.”
“… La Bibbia?”
“Ma quale Bibbia, il registro!”
“Se parlate in codice che cosa volete che capisca?!”, sbottò Icaro scuotendo capo e capelli scuri infastidito mentre si abbottonava il gilet e Gisèle, richiusi i cassetti del comodino del cugino, cercava di sollevare il materasso per assicurarsi che il libro non fosse lì sotto, appurando rapidamente che Guillaume non l’aveva riposto nemmeno lì sotto. Ormai non sapendo più dove cercare la strega prese a fare avanti e indietro nello spazio che divideva il letto di Guillaume da quello di Icaro, gli occhi puntati pensosi sul pavimento e le lunghe braccia strette al petto mentre borbottava qualcosa a proposito del nascondiglio ridicolo scelto dal cugino.
Gisèle ignorò il consiglio di Milad, che le suggerì speranzoso di arrendersi e limitarsi a chiedere a Guillaume prima di devastare tutta la camera, prima di fermarsi all’improvviso e puntare accigliata lo sguardo sulle assi del pavimento che aveva appena calpestato.
Milad e Icaro la guardarono perplessi picchiettare i tacchi delle francesine blu e celesti prima su alcune assi e poi su altre, scambiandosi un’occhiata incerta prima che l’italiano le suggerisse di andare ad esercitarsi altrove con il tiptap. Il commento venne caldamente ignorato dalla francese, che invece si inginocchiò di nuovo sul pavimento per cercare di sollevare una delle sottili assi di legno:
“Quando mia nonna ci riempiva di schifezze ci diceva di nasconderle sotto le assi del pavimento, così gli Elfi e le nostre madri non le avrebbero trovate.”, mormorò la strega prima che, riuscendo a sollevare facilmente un’asse, come trattandosi di un’operazione che veniva ripetuta di frequente, un sorriso le distendesse la labbra carnose. Un minuto dopo Gisèle la rimise a posto e si rialzò in piedi stringendo tra le mani un libro dalle spesse pagine ingiallite e la copertina di cuoio che mostrò compiaciuta ai compagni asserendo di, come sempre, non essersi sbagliata.
 

 
divisore

 
Venerdì 11 novembre
 
 
“Non vedevo l’ora che questa settimana finisse, adoro i weekend lunghi(1)! Anche mettere la divisa un giorno in meno a settimana è una gioia. Che cosa vuoi fare oggi?”  Lucinda spalmò una generosa quantità di marmellata di ciliegie sul sottile strato di burro con cui aveva precedentemente farcito il suo croissant tagliato a metà e aperto sul piattino bianco dai bordi decorati da un delicato motivo floreale azzurro e bianco, di ottimo umore grazie al giorno di vacanza che attendeva lei e Daphné. L’amica, che le sedeva accanto, si prese qualche istante prima di risponderle per finire di masticare il boccone di croissant alle fragole e cioccolato bianco che aveva precedentemente addentato, coprendosi educatamente la labbra con la mano destra adornata da sottili anelli d’oro prima di parlare spolverandosi distrattamente le briciole cadute sulla gonna verde salvia abbinata alla camicia infilata sotto ad un maglione bianco e al nastro che aveva annodato in mezzo ai lunghi capelli castani.
“Devo assolutamente portarmi avanti con il prossimo numero del giornale, o Guillaume mi uccide. Penso che passerò la mattinata in Biblioteca.”
Che barba. Va bene, allora io me andrò su alla torre per esercitarmi un po’, almeno faccio qualcosa di utile. Sai che cosa potremmo fare questo pomeriggio, invece?” Un sorriso che ormai la francese conosceva quasi fin troppo bene allargò le labbra di Lucinda mentre si sporgeva leggermente in avanti verso di lei, e Daphné inarcò scettica un sopracciglio mentre sollevava la tazza di caffellatte con petali di rosa inzuppati tenendola delicatamente per il sottile manico dorato:
“Farci le unghie? A lezione di Botanique mi si è rovinato il french.”
“… Anche. Ma prima potremmo andare ad assistere all’allenamento di Quidditch della squadra, che ha prenotato il campo approfittando dell’assenza di lezioni. Che ne dici? Lo so che non ti piace molto, ma vieni a farmi compagnia!”  L’espressione sul viso di Lucinda assunse sfumature imploranti mentre guardava l’amica tamburellandole piano le dita su una gamba, sorridendo vittoriosa quando vide Daphné arrendersi e annuire con un lieve sospiro:
“Va bene, se ci tieni ci vengo se riesco a finire prima i compiti.”
“Grazie, ti voglio bene!” La portoghese si sporse verso l’amica sollevando da terra le gambe sinistre della sua sedia, scoccandole un bacio su una guancia mentre la francese, prima di sorseggiare un po’ di caffelatte, si domandava distrattamente a voce alta che cosa mai potesse spingere l’amica ad avere tanta smania di assistere all’allenamento.
 

 
divisore

 
Non sapeva bene nemmeno lui come, ma nonostante l’allenamento di Quidditch di quella mattina li avesse lasciati entrambi a dir poco esausti e desiderosi di poltrire per tutto il resto della giornata Icaro dopo pranzo era riuscito a trascinare Phoenix con sé in Biblioteca, deciso ad approfittare del giorno di vacanza privo di lezioni per prendersi avanti con i compiti e avere di conseguenza meno da fare nel weekend. Certo Nick si era dedicato ai compiti più o meno per mezz’ora – e solo delle uniche materie che gli piacevano, ossia storia e letteratura – per poi tirare fuori dallo zaino una raccolta di racconti di Francis Scott Fitzgerald e immergersi nella lettura senza più degnare di uno sguardo i libri di testo, ma Icaro poteva comunque ritenersi soddisfatto per il risultato ottenuto.
Stava litigando con le ciocche di lunghi capelli corvini che continuavano a scivolargli davanti al viso pallido dandogli fastidio quando qualcuno aveva occupato la sedia rimasta libera accanto alla sua, destandolo dalla brutta copia del tema sulle Maledizioni senza perdono che stava scrivendo:
“Ciao Icaro!”, lo salutò sua sorella con un tono esageratamente allegro e benevolo, condito da un sorriso fin troppo affettuoso a cui Icaro rispose con un’occhiata di sbieco e un saluto pigro, certo che Clelia non si fosse unita al tavolo per godere della sua compagnia.
“Che cosa vuoi Clelia?”, domandò infatti il ragazzo distogliendo lo sguardo dal volto sorridente della sorellina per tornare a concentrarsi sull’ammasso disordinato di fogli e penne di cui si era circondato cercando invano di tirarsi indietro i capelli affinché non gli dessero fastidio mentre stava chino sul tavolo.
“Niente, sono in Biblioteca, secondo te che cosa sono venuta a fare, se non i compiti? Vuoi un elastico? Ciao Phoenix.”  Clelia porse al fratello maggiore un sottilissimo elastico nero tirato fuori come per magia dalla tasca dei jeans tenendo gli occhi puntati sul suo migliore amico, e improvvisamente ad Icaro apparve chiarissimo chi avesse spinto la sorella a sedersi con lui invece che in compagnia delle sue amiche. Ma accettò comunque l’elastico, visto che gli serviva, mentre Phoenix distoglieva lo sguardo dalle pagine del suo libro per far indugiare brevemente i brillanti occhi cerulei su Clelia, abbozzando un sorriso mentre ricambiava il saluto:
“Ehy, ciao Clelia. Come stai?”
“Bene, sono solo terribilmente indietro con i compiti. Se solo qualcuno potesse darmi una mano con il Romanticismo e Victor Hugo!”
“Io ho da fare.”, asserì secco Icaro rileggendo le ultime righe che aveva scritto prima dell’arrivo della sorella, che gli scoccò un’occhiataccia, come a volergli dire di non voler affatto il suo aiuto, prima che Phoenix, dopo un breve tentennamento, le facesse sapere di aver già finito la sua relazione sulla poetica del padre del Romanticismo francese. Clelia questo lo sapeva benissimo grazie a Diego, ma si finse comunque sorpresa strabuzzando gli occhi con fare teatrale prima di assumere un’espressione adorabilmente implorante:
Davvero? Allora ti dispiacerebbe aiutarmi? Penso di aver perso qualche passaggio a lezione.”
“Tuo fratello lo farebbe sicuramente meglio di me, ma se proprio vuoi posso provare.”  Phoenix si strinse nelle spalle, non del tutto convinto di essere in grado di aiutare qualcun altro a fare i compiti, ma Clelia si era già alzata per fare il giro del tavolo e andare a sedersi accanto a lui prima ancora che finisse di parlare.
“Figurati se passo i miei appunti preziosissimi, ordinatissimi e frutto di ore e ore di copiature fino a notte fonda senza farmi pagare.”
“È tua sorella.”, gli fece notare l’amico inarcando un sopracciglio mentre Clelia si preparava a fingere di non aver capito nulla di quanto spiegato nelle settimane precedenti, ma Icaro si strinse nelle spalle senza smettere di studiare la brutta copia del suo tema:
“Mi farei pagare il doppio proprio per questo.”
“Taci capellone, nessuno ti ha chiesto niente.”
Da sempre molto sensibile quando la sua chioma fluente era argomento di discussione Icaro fece per ribattere piccato che la sua fosse solo pura invidia, ma venne distratto da una notifica che fece vibrare il suo telefono, capovolto in modo da ridurre al minimo la tentazione di tergiversare con lo studio, sul tavolo. Incuriosito, l’italiano lo prese e lo voltò mentre Clelia iniziava a fare domande al suo migliore amico sbattendo esageratamente le lunghe ciglia scure, tanto da portarlo a chiedersi se non corressero il rischio di impigliarsi tra loro. Quando però lesse le parole che erano apparse sullo schermo la sua sorpresa aumentò a dismisura:
 
Gisèle Delacroix ti ha aggiunto al gruppo “Non vorrei fare niente di tutto ciò ma mi tocca
 
 
Gisèle non era quella che fuggiva dalle chat di gruppo alla velocità della luce? Sempre più accigliato, Icaro toccò la notifica e lesse il conciso e perentorio messaggio che la compagna di Casa aveva appena inviato:

 
Gisèle: Vediamoci al secondo piano alle 17, davanti al dipinto di Harriette Charbonneau.

 
Oltre al fatto che non aveva la più pallida idea di quale fosse il quadro indicato, Icaro lesse le parole che avevano fatto capolino sullo schermo del suo telefono inarcando offeso un sopracciglio: Gisèle pensava forse che non avesse di meglio da fare nel suo tempo libero, per dare appuntamenti con così poco preavviso?! Stizzito, si affrettò a rispondere:

 
Tu: Mancano due ore, se avessi altro da fare?!
Gisèle: Ti stupirà sapere che possiamo sopravvivere senza di te.

 
Icaro si era sentito raramente tanto offeso in vita sua, ma prima di poter replicare per dar voce alla sua profonda indignazione Nerea lo precedette infilandosi nello scambio comunicativo:

 
Nerea: Io porto i biscotti🥰!
Milad: Va bene, ci sarò.
Gisèle: Rea non portare niente, sono a dieta!
Nerea: Ma uffaaaaaa, è l’ora della merenda!
 
 
Icaro uscì dalla chat e posò nuovamente il telefono sul tavolo sbuffando infastidito, limitandosi a scuotere la testa in segno di lasciar perdere quando Nick gli domandò che cosa avesse. Stava per tornare a fare i compiti, deciso a chiudere il tema alla svelta per riuscire a ricopiarlo in bella copia e finire tutto quello che si era programmato di fare quel giorno prima della sottospecie di riunione improvvisata che lo aspettava di lì ad un paio d’ore quando scorse la più piccola delle sue sorelle andare a sedersi insieme alle sue amiche ad un tavolo poco distante. Icaro salutò Atena con un cenno della mano, ma quando lo vide la ragazzina arrossì fino alla radice dei capelli e si affrettò a distogliere lo sguardo, come se fosse a disagio, tornando a confabulare con le sue amiche, tutte visibilmente reticenti ad aprire i libri di testo e impegnate invece a mostrarsi foto sui rispettivi telefoni.
“Perché Atena è strana? E perché confabula con le sue amiche?”
“Per il Ballo, presumo.” Clelia si limitò ad una debole stretta di spalle, decisa ad ignorare il fratello per tornare rapidamente a parlare con Phoenix, ma il maggiore non mollò la presa e anzi continuò a guardarla inarcando perplesso un sopracciglio:
“Lei non ci viene al Ballo, è al terzo anno.”
“Ma il suo fidanzato è al quarto, quindi ci viene.”  
La Papillonlisse si rese conto di aver detto troppo con appena un istante di ritardo, quando non scorse alcun movimento muscolare sul viso di Icaro, che rimase a guardarla immobile per un paio di istanti mentre elaborava quanto appena udito senza nemmeno battere le ciglia. Phoenix, accanto a lei, si lasciò sprofondare lentamente sulla sedia per nascondersi parzialmente dietro al tavolo prima che la voce dell’amico tornasse a farsi sentire con un paio di ottave in più rispetto a quelle socialmente accettate all’interno di una Biblioteca:
“… Il suo CHE COSA?!”
 
 
Nerea aveva appena posato il telefono sul tavolo dopo aver scritto a Gisèle per chiederle il motivo della convocazione quando sollevò la testa, guardandosi attorno con un sopracciglio inarcato: le era parso come di udire l’eco di una voce maschile familiare parlare in italiano, anche grazie ai pavimenti di marmo che facevano rimbalzare ottimamente i suoni per tutta la Biblioteca. La si sarebbe potuta trovare una scelta edificativa discutibile, ma si diceva che la prima Preside della scuola avesse deciso di scoraggiare il più possibile ogni tipo di chiacchiericcio quando gli studenti si trovavano in quella particolare area del castello dove tecnicamente avrebbe dovuto vigere il silenzio.
Dicendosi che forse si era solo immaginata la voce di Icaro Nerea tornò a concentrarsi sullo schermo del suo pc acceso, raddrizzando la schiena per far sì che le spalle non le dolessero al termine della sua lunga sessione di studio e di scrittura: nel corso dei giorni precedenti le erano arrivati non sapeva nemmeno più quanti messaggi, e doveva finire di leggerli tutti e fare una scrematura per decidere quali informazioni incorporare e quali no nel numero successivo del giornale della scuola.
Daphnè si era unita a lei più o meno un’ora prima, quando si era avvicinata al tavolo dell’italiana chiedendole se potesse sedersi di fronte a lei. Nerea, che preferiva di gran lunga stare in compagnia anche quando si trattava di studiare, aveva immediatamente rivolto un largo sorriso alla francese, assentendo e invitandola allegra a sedersi senza indugi.
Ora Daphné sedeva sì di fronte all’italiana e con gli occhi chiari puntati nervosamente sullo schermo del suo pc, trattenendo l’impulso di mordicchiarsi le unghie e rovinarsi ulteriormente il french che aveva comunque bisogno di una bella ripassata: sua madre ripeteva sempre che unghie rovinate e smalto sbeccato fossero un tremendo segnale di sciatteria, e la ragazza se l’era sentito ripetere talmente tante volte dall’aver finito col prendere l’abitudine di controllarsi le unghie ogni mattina prima di andare a lezione e ogni qualvolta in cui doveva uscire di casa. Esattamente come Nerea anche Daphné si stava momentaneamente dedicando al giornale, e come avveniva ogni settimana stava rileggendo e rileggendo ad oltranza ciò che aveva scritto: ogni settimana procrastinava per almeno due ore dopo aver finito la sua sezione prima di decidersi ad inviarla a Guillaume, e lo stesso avveniva con l’impaginazione, della quale era incaricata. Non importava quante volte le sue amiche potevano assicurarle di non aver riscontrato errori di ortografia, un uso scorretto della punteggiatura o periodi sconclusionati, la sola idea di mandare qualcosa di poco soddisfacente l’atterriva a dir poco.
“Non crederai mai a cosa mi hanno scritto, Daphnè. Come si fa ad andare dietro ad un tizio simile?!”
Al suono sgomento delle parole di Nerea la francese si sentì capitombolare giù dalla sedia, tanto che si scordò delle sue mansioni e puntò inorridita lo sguardo sull’italiana mentre questa fissava lo schermo del suo computer con le labbra dischiuse e gli occhi sgranati, un’espressione quasi inorridita stampata sul bel volto.
“Di chi parli?” Daphné deglutì a fatica mentre cercava di ricordarsi come si respirava ad un ritmo regolare, pronta a fare la valigia e a mettere Duchess nel suo trasportino per andarsene dalla scuola – e dal Sud della Francia – se ciò a cui Nerea stava facendo riferimento riguardava proprio lei.
“Me l’ha scritto quella cretina di Giulia Innocenti, quindi sono piuttosto scettica, ma a quanto sembra ad una ragazza della sua classe piace Lucien Richer. Il Cacciatore della mia squadra che se potessi caccerei a pedate, peccato che siamo in democrazia e serve la maggioranza di tutti gli altri.” Daphné scorse distintamente l’espressione di Nerea incupirsi parecchio al solo menzionare il tanto detestato compagno di Casa e di squadra, sfortunatamente ammesso insieme a lei, quando ancora non rivestiva il ruolo di Capitano, sentendo un peso sollevarsi dal suo petto. La francese si concesse di sorridere, provando un sollievo che Nerea non avrebbe potuto nemmeno immaginare:
“Non è quella ragazza bionda del quinto con l’aria, emh… un po’ poco simpatica?”
“Mh-mh. Detesto parlare male delle persone, ma è così antipatica… è quella che lo scorso anno si fece invitare al Ballo e poi mollò quel poverino del suo accompagnatore per stare con quel tizio belloccio che poi si è diplomato. Nah, non penso che sia vero, non lo scriverò.”
Nerea scosse la testa con stizza mentre cestinava il messaggio, decisa a dare credito alle parole di una tale gallina soltanto qualora fosse giunto il giorno in cui un uragano si sarebbe abbattuto sulla scuola. O il giorno in cui Dante si sarebbe vestito di rosa cipria, evento che si sarebbe potuto verificare con le medesime probabilità. Stava giusto tornando a visionare i messaggi – non si poteva assolutamente permettere di divulgare falsità – quando le saltò all’occhio un nome familiare. Un nome talmente familiare da farle schizzare verso l’alto entrambe le sopracciglia, salvo poi esibirsi in un sospiro rassegnato:
“Scrivo a Gisèle di finirla di implorarmi di pubblicare false notizie su suo cugino. Sono una persona seria io!”
Nerea scosse il capo mentre riprendeva il telefono per scrivere all’amica, che la pregava di scrivere illazioni sul cugino almeno una volta al mese, e Daphné tornò a concentrarsi sullo schermo del suo pc con un accenno di rossore sulle guance che sperò fosse passato inosservato allo sguardo dell’italiana. In realtà Nerea era perfettamente a conoscenza della sua cotta per Guillaume, ma si guardò bene dal dire qualcosa a riguardo per farglielo intuire anche quando Gisèle, appreso che Daphné fosse seduta giusto di fronte all’amica, le chiese di provare a capire se per caso non fosse sotto l’effetto di un filtro d’amore.
Nerea alzò gli occhi al cielo, certa che l’amica fosse drammatica come suo solito: era del tutto impossibile che fosse vero. L’italiana posò di nuovo il telefono sul tavolo per tornare al suo lavoro, anche se le parole di Gisèle le lasciarono addosso la vaga ombra di un dubbio che la portò a gettare un’occhiata un tantino accigliata a Daphné da sopra il bordo dello schermo luminoso, salvo poi scuotere il capo e intimarsi di tornare alla lettura senza dar peso alle assurde teorie della sua migliore amica.  
 
Lucinda aveva appena trascorso più di un’ora chiusa nella sala da prove dell’orchestra per esercitarsi, approfittando dell’assenza di lezioni e della possibilità di avere tutto lo spazio a sua completa disposizione mentre il suono della sua voce risuonava all’esterno della torre fuoriuscendo da una finestra aperta. Dopo aver provato tutti i pezzi che avrebbe dovuto eseguire il lunedì successivo a lezione aveva lasciato la torre per raggiungere Daphné in Biblioteca e studiare per un po’ insieme a lei, finendo col dover superare numerosi scaffali colmi di libri e file e file di tavoli prima di trovare quello che era stato occupato dall’amica:
“Ciao bellina, finalmente ti ho trovata. Sono ufficialmente pronta a ricopiare tanti di quegli appunti che potrei quasi mettermi a piangere. Ciao Nerea.”
La Papillonlisse mollò senza tante cerimonie il suo zaino viola sulla porzione di tavolo bianco rimasta libera accanto a Daphné e rivolgendo un accenno di sorriso gentile a Nerea, che ricambiò sorriso e saluto prima di sollevare entrambe le braccia sopra la testa, distendendo i muscoli e prendendosi una breve pausa dalla postura rigida in cui era rimasta ferma per troppo a lungo. Mentre Lucinda prendeva posto Daphné si rivolse all’amica con un gran sorriso, mostrandole i suoi due astucci piene di penne colorate, pennarelli dalla punta fina ed evidenziatori invitandola ad usufruire senza remore della sua invidiabile collezione.
“Ho anche i post-it ovviamente. Ecco, serviti pure.” La francese tirò fuori dal suo zaino bianco – sempre talmente immacolato da portare quotidianamente l’amica a sospettare che ci avesse lanciato sopra un qualche strambo incantesimo anti-macchie – un raccoglitore trasparente che Lucinda sapeva bene contenere la sua immensa quantità di post-it, rigorosamente divisi per colore e di tutte le forme e di tutte le sfumature cromatiche attualmente sul mercato. Nerea si guardò bene dal fare commenti, ma non poté esimersi dallo strabuzzare gli occhi verdi, impressionata.
“Ma te li porti dietro sempre? Come fai?”, domandò Lucinda dando voce alla perplessità propria tanto quanto quella dell’italiana mentre girava le buste trasparenti del raccoglitore piene di post-it e Daphné tornava a concentrarsi sulla bozza dell’impaginazione della prima pagina del giornale a cui stava lavorando con una debole stretta di spalle:
“Non si sa mai che colori possano servire. Non potrei mica usare il viola per Botanique, che ha il verde!” Daphnè rabbrividì al solo pensiero, e scosse subito il capo per scacciarlo via, lontano da lei.
Per certi versi Nerea sentiva di trovarsi d’accordo con lei, ma non ebbe il tempo e nemmeno il modo di farglielo sapere: quando il suo sguardo indugiò nell’angolo in basso a destra dello schermo del suo pc consentendole di appurare che ore fossero l’italiana trasalì, sgranando inorridita gli occhi verdi prima di iniziare a ficcare tutte le sue cose alla rinfusa all’interno dello zaino Fjällräven verde salvia. Era già discretamente in ritardo per il suo appuntamento al campo di Tiro con l’arco.
“Porco Merlino, perché perdo sempre la cognizione del tempo… Mi ci vorrebbero tre sveglie! Ciao ragazze, buono studio!” Dopo aver chiuso il pc e averlo infilato nello zaino Nerea chiuse la zip, sorrise alle due Papillonlisse e dopo essersi issata una bretella sulla spalla destra sistemò la sedia che aveva occupato fino a quel momento, correndo via facendo il più piano possibile per non disturbare i compagni che stavano studiando. Daphné e Lucinda restarono a guardare in silenzio lo scaffale dietro al quale Nerea era scomparsa dal loro campo visivo per silenzioso qualche breve istante, finchè la seconda non parlò inarcando un sopracciglio e con tono assorto:
“Chissà se deve vedere Dante.”
“Ti prego non chiedermi di travestirmi da cespuglio e di seguirla…”
“Però il verde ti dona molto.”
“Grazie!”


 
divisore
 

Diego aveva deciso di impiegare il pomeriggio libero – da quando frequentava Beauxbatons l’undici novembre era rientrato di diritto nella lista dei suoi giorni favoriti del calendario – in ciò che meglio gli riusciva: rintanarsi in un angolo isolato e molto poco frequentato del castello, le cuffie nelle orecchie e lasciandosi cullare in solitudine dalla musica ad alto volume. Certo gli sarebbe piaciuto anche suonare, ma sapeva per certo che qualche membro dell’Orchestra si sarebbe recato alla torre per esercitarsi approfittando del giorno libero, e non ci teneva a replicare l’incontro non programmato che qualche tempo prima aveva visto coinvolti lui e Daphné Blanchard.
Il ragazzo se ne stava comodamente disteso su un divano a triclinio dallo schienale alto, foderato con un soffice velluto color verde bosco che insieme a dei soffici cuscini di piume lo rendeva particolarmente confortevole. Il capo leggermente reclinato e sprofondato su uno di quei morbidi cuscini – provava spesso il desiderio di rubarne uno e di portarlo in camera sua, ma era anche certo che avrebbe finito col riportarlo al suo posto, vinto dal senso di colpa –, le caviglie incrociate e le mani intrecciate all’altezza del petto Diego era immerso nella sua bolla fatta di musica, che nella sua mente riusciva ad assumere delle forme dall’apparenza quasi concrete tanto intensamente la sentiva, quando inavvertitamente l’incanto si spezzò, e qualcuno gli sfilò con gentilezza la cuffia dall’orecchio destro:
“Ciao Dieghino. Che cosa ascolti?” 
Dopo aver spalancato di scatto gli occhi azzurri, sorpreso da quell’interruzione imprevista, Diego non ci mise molto per mettere a fuoco il familiare volto sorridente di sua cugina, che lo guardava con cipiglio divertito standosene inginocchiata sul pavimento accanto all’elegante divano verde dallo schienale alto, gli occhi scuri puntati dritti su di lui. Con ogni probabilità parte del divertito visibile sul viso della ragazza era dovuto all’espressione accigliata con cui il cugino stava ricambiando il suo sguardo, ma Clelia era ormai abituata alle sopracciglia quasi perennemente aggrottate di Diego, così come ai suoi occhi azzurri socchiusi: molti potevano anche credere che la sua forse un’aria costantemente scocciata e infastidita, ma lei sapeva benissimo che l’espressione corrucciata del cugino era semplicemente dovuta alla miopia a cui Diego si ostinava di non far rimedio indossando gli occhiali.
Anziché dargli il tempo di rispondere Clelia si accostò la cuffia all’orecchio, prendendosi qualche istante di ascolto prima di riconoscere il celeberrimo brano che il cugino stava ascoltando al momento del suo arrivo:
“Oh… Wagner le terrible. Non vieni mai colto dal desiderio improvviso di invadere un Paese centro europeo quando lo ascolti?” Clelia restituì la cuffia nera al cugino inarcando un sopracciglio e con l’angolo destro delle labbra sollevato a dar forma un accenno di sorriso sbilenco che Diego ricambiò, trovandoci come sempre qualcosa di incredibilmente familiare con i sorrisi di Icaro. Il ragazzo scosse il capo mentre riprendeva la cuffia senza indossarla, anzi mise in pausa la riproduzione del brano su Spotify per poter parlare liberamente mentre faceva leva sui gomiti per sollevare il busto, mettendosi a sedere sul divano:
“No, per il momento no.”
“Allora, che fai tutto solo?”, domandò Clelia allargando il suo sorriso e sedendogli accanto non appena il cugino ebbe abbassato le gambe, incrociando le proprie sul soffice materasso e aggiustandosi qualche ciocca di capelli scuri dietro le orecchie per poterlo guardare meglio mentre Diego si stringeva debolmente nelle spalle, le mani pallide e piene di calli frutto di anni e anni passati a suonare e a scrivere che giocherellavano distrattamente con le cuffie ormai silenziose.
“Non sono da solo, ci sei tu. Come sapevi che ero qui?”
“Non lo sapevo, ho tirato a indovinare. Non è proprio insolito trovarti qui, no?”
Era successo due anni prima, durante le vacanze di Natale: Diego stava suonando malinconicamente Für Elise al pianoforte, nascosto in uno degli infiniti saloni che si snodavano tra i lunghi e bui corridoi della vasta dimora dove era cresciuto, perlomeno nei periodi della sua infanzia vissuti a Roma tra i numerosi spostamenti su e giù e fuori dall’Italia. Sua madre si era allontanata dalla festa dalla quale il figlio era felicemente rifuggito per raggiungerlo, sapendo benissimo dove trovarlo, e gli si era seduta accanto. Diego ricordava di averle confidato qualcosa che non aveva ancora mai trovato il coraggio di rivelare a suo nonno Terenzio, colui che gli aveva insegnato a leggere uno spartito e lo aveva iniziato allo studio della musica finendo inevitabilmente con lo scoprire del suo eccezionale dono, ovvero che anche se con dispiacere a scuola suonava molto di rado. Era stato allora che Tosca gli aveva sorriso e gli aveva raccontato di un particolare anfratto del castello che lei stessa ricordava di aver scoperto quasi per caso insieme a delle amiche quando ancora era una giovanissima studentessa: magari lì, aveva suggerito la donna con la splendida e soave voce ereditata dalla madre cantante d’opera, donandogli un sorriso e accarezzandogli i lisci capelli castani, potresti suonare senza essere disturbato. E di certo per opera della madre Diego, la prima volta in cui spostando un arazzo verde smeraldo e imboccando un lungo e stretto corridoio di pietra era giunto in quella piccola saletta circolare piena di luce e dalle alte finestre, vi aveva trovato un violino, una viola e un violoncello, un corno francese, un oboe, un sassofono e persino una chitarra classica. Gli aveva scritto assicurandogli di potergli far avere anche un pianoforte, ma Diego aveva declinato l’offerta, seppur con gratitudine.
Aveva custodito il segreto di sua madre per circa un anno, quando aveva ceduto e dopo le sue assidue insistenze aveva finito col confidare alla cugina dove sparisse per tante ore tutte le settimane fuori dall’orario di lezione. Clelia però gli aveva solennemente promesso di non farne parola né con Atena, né con Icaro: sarebbe stato il loro piccolo segreto. Anche perché, come aveva prontamente sottolineato la Papillonlisse, il fratello maggiore avrebbe con ogni probabilità finito col portarci qualche ragazza. E allora addio segreto.
“Pensavo fossi venuta a cercarmi sperando di trovarmi con Nick, che strano.” Diego rivolse alla cugina un sorriso eloquente che la ragazza ricambiò, gongolando visibilmente mentre si faceva dondolare sul divano spostando il peso corporeo a destra e a sinistra:
“Phoenix mi ha gentilmente aiutato a fare i compiti giusto poco fa. Oh, e non sai cosa ti sei perso. Atena ha uno spasimante, Icaro non lo sapeva… Beh, ora lo sa, e mi sembra abbastanza scosso dalla notizia.”
“Noo, perché non ci sono mai quando succedono queste cose?!”
Mentre Clelia ridacchiava al ricordo della faccia scandalizzata del fratello maggiore – era determinata ad imprimerla per bene nella sua memoria non avendo avuto la possibilità di scattarvici una foto – Diego sospirò amareggiato, ma anziché consolarlo la cugina gli assestò una debole pacca sulla spalla, dandogli una lieve spinta che lo smosse solo di qualche centimetro:
“Perché te ne stai a fare il Gobbo di Notre-Dame qui tutto solo, ecco perché!”
“Grazie Clelia, sei carina. E vivo in un castello, non in una cattedrale.”
“Lo so, lo so… e soprattutto sei molto più carino di Quasimodo, ma prima ho studiato Victor Hugo, sai com’è.” Clelia si strinse debolmente nelle spalle, liquidando la questione con un pigro gesto della mano prima di prendere uno dei cuscini tanto amati dal cugino e metterselo in grembo, abbracciandolo mentre faceva vagare distrattamente lo sguardo sulle alte pareti ridipinte con una rilassante tonalità color salvia che ben si sposava con le venature verdastre del marmo che costituiva l’architrave e i piedritti del caminetto, quel pomeriggio acceso per scaldare l’ambiente dal gelo autunnale, a cui stando seduti sul triclinio davano le spalle.
“Quindi la piccola Atena andrà al ballo?”, domandò infine Diego mettendosi seduto più comodamente sul divano, poggiandosi allo schienale mentre Clelia, davanti a lui, sorrideva divertita:
“Tutti andranno al ballo, Die’. Penso che ci siano persino delle vecchie armature polverose che ci andranno.”
“Io ne dubito.” Esattamente come la cugina aveva preventivato Diego aggrottò le sopracciglia e arricciò il naso quasi con stizza, certo che avrebbe trascorso la serata lì dentro, o nella sua camera. E la cosa gli andava benissimo.
“Tu sei proprio stupido. Nonostante l’aria arcigna che hai sempre sei carino, sai? Sarà per questo che sei tanto amico di Nick.”
“Non sono arcigno, è che non ci vedo.” 
Mentre parlava Clelia gli lanciò il cuscino e si alzò in piedi, sorridendogli mentre si chinava verso di lui per arruffargli i lisci capelli castani con un gesto della mano:
“Ma questo lo sappiamo noi e basta, no?”
Sua cugina non aveva torto, e Diego non replicò mentre la guardava strizzargli l’occhio prima di raggirare il divano, avvicinandosi al caminetto per scaldarsi le mani infreddolite e darsi una ravvivata ai capelli studiando la propria immagina riflessa dal pesante ed enorme specchio dalla cornice d’oro che era stato posato sopra al caminetto, a dividere le due alte finestre in mezzo alle quali si trovava.
“Icaro ci va?” Dalla sua angolazione Diego riusciva perfettamente a scorgere il volto della cugina riflesso nello specchio, e la vide annuire con un lieve cenno del capo mentre si aggiustava le ciocce di capelli scuri che le incorniciavano il volto.
“Difficile dire che cosa passi nella testa di mio fratello, ma immagino proprio di sì. Potrebbe sempre trascinare Nick in un ballo, chi lo sa.”
Clelia poggiò le mani sul bordo tiepido dell’architrave di marmo del caminetto studiando pensosa il proprio riflesso per qualche istante; dopo una breve esitazione si voltò per cessare di dare le spalle al cugino e posare direttamente gli occhi scuri sul suo viso pallido, facendo sì che i loro sguardi si incrociassero:
“In realtà a volte penso che non gli piaccia poi così tanto andarci… O che non riesca a goderselo davvero, non come gli altri. Non lo so. Capisci cosa intendo? L’anno scorso c’è stato un momento in cui mi sono voltata e l’ho visto, stava seduto ad un tavolo vicino a Nick, ovviamente. Poi Nick si è alzato, si è allontanato, non so per andare dove… e quando l’ho visto restare solo ho capito che non si stava divertendo davvero. Solo per un attimo, poi mi ha vista e mi ha sorriso, e quello che credevo di aver visto è sparito.”
“Fare finta è più facile.”
“Sì, ma perché fare finta con me? O con te, o con Nick. Non capisco.”
Clelia scosse il capo mentre tornava a sedersi sul triclinio, questa volta sul bordo e nel verso opposto rispetto a poco prima, dando le spalle all’ingresso della stanza e rivolgendosi invece verso la finestra che le stava davanti, parzialmente coperta da pesanti tendaggi bianchi. Diego le mise una mano sulla spalla, sperando che il gesto le fosse in qualche modo di conforto mentre guardava il profilo della cugina scrutare accigliato il cielo grigio, la mente altrove e di certo persa tra i ricordi.
“Credo che se persino con noi fa finta di nulla semplicemente non gli va affatto di parlarne.”
“E secondo te dovremmo rispettarlo o parlargliene noi?”
Questa volta Clelia parlò voltandosi dritta verso di lui, e pur non vedendoci affatto bene mentre esitava cercando le parole giuste da dire Diego scorse della tristezza negli occhi scuri della cugina. Infine scosse il capo, la voce bassa e profonda ridotta ad un mormorio mentre distoglieva lo sguardo, chinandolo sul velluto verde che rivestiva il divano:
“Non lo so Clelia. Vorrei saperlo, ma non lo so.”
A causa della miopia la vista di Diego era irrimediabilmente compromessa, ma si sporse ugualmente verso la cugina per cingerla in un abbraccio quando gli parve di scorgere una lacrima sgorgarle dall’occhio destro e bagnarle il viso rotolando verso le labbra.

 
divisore

 
La freccia sferzò l’aria gelida con un lieve sibilo e interruppe la sua traiettoria conficcandosi nel bersaglio di paglia quasi in pieno centro, infilzando il primo dei due cerchi concentrici scarlatti e destando così un accenno di sorriso compiaciuto sulle labbra di Dante, che abbassò le braccia e l’arco di legno con loro mentre Milad, in piedi accanto a lui in attesa del suo turno di tiro, sollevava entrambe le sopracciglia in segno di apprezzamento:
“Niente male.”
Dante distolse lo sguardo dal bersaglio per posarlo sul compagno, allargando con gratitudine il sorriso che gli aveva sollevato gli angoli delle labbra prima di stringere l’arco solo con la mano sinistra per passargli una freccia con la destra, spostandosi di poco per lasciargli spazio e permettergli di tirare a sua volta.
“Grazie. Nerea dove pensi che sia finita?”
Milad prese il posto del Papillonlisse sistemandosi con cautela la freccia sottobraccio, sfilandosi i guanti di lana neri per far sì che le sue mani avessero la maggior aderenza possibile sull’arco prima di infilarseli nelle tasche del cappotto e prendere l’arco che Dante gli stava porgendo, sollevandolo stringendo il riser per incoccare la freccia sul poggiafrecce e tendere la corda. Di Nerea al contrario, appurò Dante gettandosi una rapida occhiata attorno, non vi era ancora alcuna traccia nonostante i tre avessero deciso di usare parte del pomeriggio libero per allenarsi con qualche tiro.
“Nerea ha sempre migliaia di cose da fare, non mi stupirebbe se stesse arrivando di corsa dopo essere stata ad un allenamento di Quidditch… o magari ad invasare piantine nelle Serre. Oppure nel serraglio ad accudire qualche creatura con una zampa ferita.”
“Non riesco ancora a ricordare esattamente tutte le cose che fa. Me ne scordo sempre una.”, ammise Dante scuotendo leggermente il capo mentre si affrettava ad infilarsi le mani nelle tasche della giacca a vento nera che indossava, pentendosi amaramente di non essere stato lungimirante come Milad portandosi dietro un paio di guanti. Dopo aver parlato rimase in religioso silenzio, lasciando al compagno il giusto tempo per concentrarsi adeguatamente e prendere la mira, impresa resa più ardua del solito a causa della poca luce che quella giornata grigia aveva deciso di concedere loro.
Milad dal canto suo aveva iniziato ad amare quello sport, iniziato più che altro per curiosità e per la volontà di prendere parte a più di un’attività extrascolastica – si era iscritto più che con gioia al Club di Scacchi, ma il Quidditch non lo aveva mai interessato neanche lontanamente, così come l’Orchestra o la possibilità di prendersi cura delle Creature della scuola –, quando si era reso conto di ciò che tirare con l’arco comportava: precisione, concentrazione e silenzio. Tutte caratteristiche che lo avevano reso rapidamente il suo sport preferito, tolto il calcio.
 
Nerea arrivò di corsa riempiendosi i polmoni di aria gelida proprio mentre la freccia colpiva il cerchio giallo più esterno del bersaglio, vicinissima al centro e a quella di Dante. L’italiana raggiunse i due quasi col fiatone – adorava la sua scuola, ma perché doveva essere così dannatamente enorme? –, biascicando delle scuse tra un respiro e l’altro dopo essersi fermata ad un metro di distanza da Milad e all’arco che il belga impugnava.
“Eccoti finalmente. Ti eri scordata di noi?” Dante guardò l’amica inarcando un sopracciglio con ironia non troppo sottile: a giudicare da quanto sembrava esausta Nerea doveva aver attraversato di corsa metà scuola per giungere col minor ritardo possibile al loro punto d’incontro.
“No, scusate, ero… stavo lavorando al prossimo numero del giornale in Biblioteca, non ho guardato l’ora per dieci minuti di troppo.”
Nerea scosse il capo mentre Milad abbassava l’arco assicurandole di non preoccuparsi, e Dante si colpì lievemente la fronte con una mano prima di guardare il belga indicando l’amica con un sorriso: tra tutte le numerose attività che occupavano le giornate di Nerea ce n’era sempre una che gli sfuggiva quando si sforzava di elencarle tutte.
“Ecco cosa mi ero scordato, il giornale! Lo vedi, c’è sempre qualcosa che mi passa di mente.”
“Che intendi dire?”, domandò la ragazza inarcando confusa un sopracciglio mentre i suoi occhi verdi rimbalzavano dal suo viso a quello di Milad, che si affrettò a scuotere il capo prima di porgerle gentilmente l’arco:
“Niente. Vado a recuperare le frecce, così puoi dilettarti anche tu.”
Il belga aveva percorso appena un paio dei metri che li dividevano dalla fila di sei bersagli, sistemati ad altezze diverse anziché essere perfettamente allineati sul prato per aumentare o diminuire i gradi di difficoltà, quando Dante disse qualcosa senza guardare l’amica, le mani in tasca per metterle il più possibile al riparo dal freddo pungente e lo sguardo puntato distrattamente sulla schiena di Milad:
“Sai, non fosse che ci conosciamo da sempre penserei che hai una gemella segreta con cui ti alterni.”
“Le gemelle segrete sono sempre cattive, e in me non c’è neanche l’ombra di cattiveria.”, ribatté Nerea stringendosi nelle spalle e sollevando il mento con aria sostenuta, assolutamente certa che nessuna gemella avrebbe potuto in ogni caso eguagliare neanche lontanamente il suo altissimo livello di simpatia e il suo buon carattere. Dante tuttavia sembrò di un altro avviso, perché le gettò un’occhiata mostrandole un sorrisetto beffardo che ormai l’italiana avrebbe scorto e riconosciuto anche a metri e metri di distanza:
“Interessante riflessione. Io pensavo più che altro a quanto sarebbe ardua la mia esistenza con non una Nerea, ma due.”
Milad tornò dai due compagni per porgere le frecce a Nerea giusto in tempo per vederla assestare una lieve sberla sul braccio dell’amico, ma anziché chiedere o fare commenti rimase in silenzio, sia perché non era avvezzo a farsi gli affari altrui sia per la certezza che Dante se lo fosse meritato prendendola in giro.
 
Mezz’ora dopo, quando il turno di andare a recuperare le frecce fu di Dante, Milad si sfilò il telefono dalla tasca del cappotto per controllare l’ora con una fugace occhiata al proprio telefono, appurando così che l’appuntamento che lui e Nerea avevano con Gisèle fosse ormai vicinissimo. Il ragazzo ripose rapidamente il telefono in tasca e dopo aver osservato brevemente Dante, troppo lontano per sentirli, si rivolse all’italiana parlando con tono pacato:
“Nerea, Gisèle ci aspetta tra dieci minuti.”
Nerea smise di osservare con aria adorante il tenero scoiattolino che si stava arrampicando su un albero poco distante – come avrebbe reagito sua madre se le avesse detto di voler adottare uno scoiattolo? – per voltarsi di scatto e guardare Milad sgranando gli occhi verdi, tornata bruscamente alla realtà: si era quasi scordata dell’incontro misterioso a cui Gisèle li aveva convocati. Forse Dante aveva ragione nel dire che avesse troppe cose da fare!
“Cavolo, è vero… e credimi, non è il caso di farla aspettare troppo. Come facciamo ad andare via senza destare qualche strano sospetto in Dante?”
“Direi che prima potresti allontanarti tu, magari dicendo che devi vedere Gisèle.” Milad si strinse debolmente nelle spalle mentre Dante, poco lontano, litigava con una freccia che si era incastrata in mezzo alla paglia, imprecando in cinese a bassa voce mentre cercava di estrarla senza rovinare la punta o creare uno squarcio eccessivo nel bel mezzo del bersaglio. Di nuovo gli occhi verdi di Nerea, che mal sopportava l’idea di dover mentire di continuo a chi le stava attorno, si spalancarono, accogliendo di buon grado l’ottima idea del belga:
“Il che non sarebbe nemmeno una bugia!”, osservò infatti la strega con un sorriso allegro, felice di non dover riempire Dante di bugie. O almeno non per quel giorno.
“Esattamente. Prima vai tu, io aspetterò un paio di minuti e poi menzionerò una ricerca da finire.”
Di nuovo Milad si strinse nelle spalle, il tono di voce controllato come sempre e un’espressione difficile da decifrare mentre Dante gioiva per aver vinto la sua battaglia contro la freccia. Nerea al contrario del compagno annuì vivacemente, manifestando ben più entusiasmo di lui per la sua idea mentre lo colpiva leggermente sulla spalla sinistra:
“Direi perfetto Milad. Però aspetta, io devo andare anche in cucina a prendere i biscotti!”
Milad le avrebbe chiesto se fosse davvero necessario fare quella tappa, ma le parole gli morirono in gola quando scorse tutta la determinazione che stava animando lo sguardo di Nerea, che prendeva sempre molto sul serio la sua missione volta a non far morire di fame la sua migliore amica. Milad tacque (più o meno un quarto d’ora dopo sarebbe rimasto pazientemente ad aspettare che Nerea scegliesse quali biscotti portare all’incontro) mentre Dante li raggiungeva facendosi roteare pigramente una freccia tra le dita della mano sinistra, chiedendo ai due chi volesse essere il prossimo. Da come i due si zittirono nell’esatto istante in cui posarono lo sguardo su di lui Dante venne sfiorato dalla netta sensazione che avessero appena cessato di parlare di qualcosa che non avevano nessuna intenzione di condividere, ma si limitò ad accigliarsi senza dire nulla mentre passava le frecce alla sua amica d’infanzia, che tornò a sorridergli allegra e a parlare del più e del meno alla rapidità della luce.   

 
divisore

 
Secondo piano
 

Mentre diversi metri più in basso Nerea si struggeva per l’ardua scelta tra due vassoi di frollini quasi del tutto identici Icaro era semplicemente fuori di sé: le 17 in punto erano scoccate ben cinque minuti prima e lui aveva raggiunto il luogo prestabilito per l’appuntamento misterioso indetto da Gisèle, ma dei suoi compagni neanche l’ombra. Grazie all’aiuto di altri dipinti aveva persino trovato il ritratto di quella tale Harriette Charbonneau, un orrendo dipinto ad olio dallo sfondo di una terribile tonalità a metà strada tra il verde e il marrone che restituiva al suo sguardo sempre più seccato l’immagine di una donna pallida, vestita di nero e con un gatto, il cui pelo lo avrebbe quasi fatto confondere con l’abito della donna non fosse stato per i cangianti occhi verdi, stretto tra le braccia. Icaro non aveva idea di chi fosse quella donna, ma stava rapidamente appurando di non provare particolare simpatia nei confronti suoi, della sua aria sgradevolmente sostenuta e del suo gatto dallo sguardo torvo.
“Senta, le dico che dietro il suo dipinto ci deve per forza essere un qualche passaggio segreto. Mi faccia passare!”
Ogni traccia di garbo era scomparsa dal tono del ragazzo, che si stava facendo invece sempre più impaziente man mano che il tempo passava e quella donna dall’aria arcigna non ne voleva sapere di dargli una qualche spiegazione, limitandosi a fissarlo torva con le labbra sottili strette in una smorfia che trasudava puro fastidio e antipatia:
“Qui non c’è un bel niente ragazzino, vai a importunare qualcun altro!”
“Dovrei incontrare una persona esattamente qui. Per caso vede una ragazza con i capelli ricci qui intorno? Ci dev’essere per forza un passaggio o una stanza segreta!” Icaro agitò le braccia esasperato, ormai non sapendo più che pesci prendere: le aveva provate tutte. Aveva chiesto più e più volte a quella donna tremenda se ci fosse una qualche parola d’ordine per passare (e non avrebbe avuto senso, o Gisèle l’avrebbe scritta), aveva provato a spostare la cornice del dipinto, ci era passato davanti in tutti i versi e in tutte le direzioni… aveva persino picchiettato in più punti il muro verniciato di bianco attorno alla spessa cornice dorata, ma nessuna porta segreta si era magicamente spalancata di fronte a lui.
“Io non ho visto nessuna ragazza con i capelli ricci. Magari ti ha dato buca.”
Harriette si strinse debolmente nelle spalle prima di aprire il suo ventaglio vermiglio con un pigro movimento del polso destro, prendendo a farsi aria sollevando il mento appuntito e senza guardarlo, come se non fosse minimamente degno della sua attenzione. Dopo un breve e sgomento silenzio le sue parole destarono in Icaro un accenno di risata che ben prestò risuonò nel corridoio deserto, e il ragazzo la guardò scuotendo il capo come certo di avere a che fare con una perfetta squilibrata. Forse anche cieca.
Non credo proprio che sia un evento verificabile. Non è che devo colpire il quadro da qualche parte? O ha un indovinello da propinarmi come le Sfingi?”
“Ti dico di no ragazzino, lasciami in pace!” Sfortunatamente per Harriette, Icaro si era già sfilato la bacchetta dalla tasca dei pantaloni per iniziare a picchiettarne la punta su punti randomici del dipinto, le sopracciglia aggrottate mentre cercava di capire quale angolo dovesse colpire per far scattare il passaggio segreto. Quando colpì accidentalmente la donna sul naso si esibì in una profusione di scuse molto poco sentite, e dovette stare a guardare Harriette agitargli contro il ventaglio prima di alzarsi dalla seggiola dove secoli prima si era seduta per posare e andarsene indispettita, cambiando dipinto insieme al gatto dandogli del “vile screanzato del tutto sprovvisto di buone maniere”.
“Torni qui, mi deve dire come si passa! Beh, sa che le dico? Non mi importa se è morta da due secoli, è proprio una stronza!” Icaro la guardò allontanarsi unendosi alla festosa cena di un gruppo di maghi di inizio Novecento, dove di certo si sarebbe dilungata in uno sproloquio sui terribili giovani del presente e sulla perdita di educazione che aveva inesorabilmente colpito la modernità, e proprio quando stava per tornare a cercare di spostare la cornice dorata dalla parete una voce familiare giunse inaspettatamente da un punto imprecisato alle sue spalle:
Ma che stai facendo?”
Dapprima pietrificato, Icaro ruotò di 180 gradi per rivolgersi alla parete opposta del corridoio, sgranando sgomento gli occhi scuri quando il suo sguardo indugiò sull’espressione a dir poco accigliata di Gisèle Delacroix, apparentemente apparsa dal nulla. Momentaneamente incapace di formulare un pensiero di senso compiuto Icaro tornò prima a guardare lo sfondo verdastro del dipinto vuoto e poi a rivolgersi alla compagna di Casa, indicando il quadro alle sue spalle mentre apriva e chiudeva la bocca cercando di ritrovare le parole.
“Non c’è… Non c’è una dannata stanza segreta?!”, riuscì infine a boccheggiare interdetto l’italiano continuando ad indicare il dipinto alle sue spalle, sgranando gli occhi con ulteriore sgomento quando vide la francese esibirsi in una stretta di spalle prima di indicare a sua volta la parete vuota dietro di lei:
“Sì, è qui dietro.”
In poche parole Gisèle se n’era stata ad aspettare comoda comoda e, non vedendolo arrivare, invece di dare un segno di vita era rimasta ad ascoltare la sua lite furibonda con una sgradevole scheda morta poco dopo la Rivoluzione francese?
E ti scocciava farmelo sapere?!”
“Onestamente pensavo che la conoscessi… poi ti ho sentito interloquire con Harriette e ho capito, ma mi dispiaceva impedirvi di afre amicizia.”  Le labbra carnose di Gisèle si distesero per dar forma ad un sorriso dall’aria docile, e la strega guardò il compagno sbattendo amabilmente le ciglia mentre quello, sbuffando cupo, si allontanava dal dipinto di cui non avrebbe voluto sapere nulla per un bel po’ dirigendosi con un paio di lunghe falcate verso la parete opposta:
Piuttosto farei amicizia con una pianta succulenta.”
“Sì, è proprio una stronza. Tu entra pure, io aspetto Milad e Nerea… Non vorrei che si mettessero a litigare con quel povero bambino con il modellino dell’aeroplano ritratto in fondo al corridoio.” Il sorriso sul volto di Gisèle non vacillò mentre la strega spingeva lievemente un pannello inserito nella parete, aprendolo come l’anta di una porta senza fare il minimo rumore. Icaro voleva sbrigare la faccenda al più presto e la precedette inoltrandosi all’interno della stanza misteriosa, ma non prima di averle scoccato un’ultima occhiata profondamente infastidita:
“Non sei simpatica, sai?”


“Quindi, Gisèle… Vieni spesso qui?”
Milad aveva preso posto tra Icaro e il bracciolo del divano a tre posti color ocra addossato alla parete, esattamente alla base di un enorme specchio che rifletteva la piccola saletta quadrata dalle pareti azzurro chiaro in cui si erano riuniti nella sua interezza. Nel parlare, mentre Gisèle gli dava le spalle tracciando con un pennarello blu delle linee verticali per formare delle colonne su una lavagna magnetica bianca spuntata da chissà dove, lo sguardo del belga indugiò brevemente su Icaro, che da dietro il cuscino su cui si era seduto aveva appena sfilato una foto di Guillaume bucherellata in più punti, come se fosse stata usata come bersaglio lanciando delle freccette, e gliela stava mostrando con un sopracciglio che sfiorava l’attaccatura dei folti capelli scuri.
Finito di creare tre colonne Gisèle richiuse il pennarello premendo il tappo sulla punta e fissò brevemente la superficie lucida della lavagna aggrottando la fronte, prendendosi qualche breve istante di riflessione mentre Icaro, per nulla intenzionato a fare la stessa fine della foto, la faceva prontamente sparire nella fessura tra lo schienale del divano e la parete dietro di lui.
“Mah, ogni tanto. Quando mi stufo dell’umanità…”
“Gisèle, sei sicura di non volere un frollino?”, domandò Nerea prendendo un biscottino dal mucchio che era andata a raccogliere in cucina per sé e per i compagni mentre sedeva tra Icaro e il bracciolo del divano
“Sì.”, assicurò la francese con un tono che non era sicuro affatto nel voltarsi verso i tre compagni e gettare uno sguardo malinconico al piattino di biscotti che Nerea si teneva le sue ginocchia, guardandola mangiucchiarne uno e venendo ben presto imitata sia da Icaro che da Milad. Fortunatamente l’indomani avrebbe potuto mettere in pausa la sua dieta e mangiarsi montagne di carboidrati, si disse la francese tirando un sospiro interiore prima di ordinarsi di tornare seria e indicare la lavagna con il pennarello con un gesto perentorio:
“Allora, vi ho chiesto di vederci per parlare di questa gigantesca cazzata che siamo costretti a fare. Non ne ho alcuna voglia, ma ancor meno ho voglia di perderci troppo tempo, pertanto sono giunta alla conclusione che facendo le cose per bene finiremo col guadagnarci tutti sbrigandocela in fretta.”
“Perché le tre colonne?” Rincuorato e in piccola parte divertito dall’efficienza di Gisèle Milad si spolverò le briciole dalle mani prima di posare i gomiti sulle ginocchia e intrecciare le dita olivastre tra loro, sporgendosi leggermente in avanti per poter scrutare meglio la lavagna mentre la compagna di Casa prendeva un secondo pennarello dal tappo scarlatto dal tavolino di legno circolare a tre gambe che aveva vicino, usandolo per scarabocchiare sbrigativamente qualche parola in cima ad ogni colonna.
“La prima è per quelli che scartiamo, la seconda per i forse. La terza per i forse molto probabili.”
Forse molto probabili è troppo lungo, chiamala “Forse forse”.”, suggerì Nerea indicando la lavagna con un biscotto a forma di cuore, salvo venir smentita da Icaro nell’istante successivo:
Forse forse non mi piace, perché non “Molto forse”?”
“Non mi suona granché corretto.”
“Perché “Forse forse” è corretto?”
Vedendo che Nerea stava per replicare Milad si alzò in piedi optando per una soluzione che accoglieva molto di rado: s’intromise in un discorso altrui, anche se per una buona causa comune, ovvero non perdere tempo.
“Chiamale “No”, “Forse” e “Forse sì”. Prendo il libro per dare un’occhiata, anche se non voglio includere gente solo per il cognome che ha ereditato.” Dopo aver rivolto un lieve quanto sbrigativo cenno a Gisèle il belga si allontanò brevemente dal divano per giungere in prossimità del tavolino che si trovava accanto alla lavagna, raccogliendo il registro che la francese aveva portato con sé per aprirlo e sfogliarlo mentre tornava al suo posto, guadagnandosi un’occhiata colma di pacata gratitudine da parte della strega:
“Grazie Milad. Ci vorrebbe una lista completa degli studenti del VI anno, a dire la verità… magari con qualche informazione aggiuntiva su ciascuno, che non farebbe male.”
“E dove la troviamo questa lista per farci gli affari altrui?”
“Nell’ufficio della Preside, ovviamente.” Icaro si allungò verso Nerea per prendere un biscotto dal piattino con una noncurante stretta di spalle e tono d’ovvietà, addentando con placida calma il dolcetto mentre la compagna lo guardava inarcando scettica un sopracciglio:
“Grazie Archimede, e come ci arriviamo all’ufficio della Preside? Bussiamo alla porta e le chiediamo di prestarci le sue cose?”
“Qualcuno dei vostri genitori la conosce, magari? Se c’è qualche famiglia con degli agganci tra maghi, qui dentro, sono di certo le vostre.”
Milad, il libro ancora aperto sulle ginocchia, sollevò la testa per gettare un’occhiata sui volti di ciascuno dei compagni, gli occhi scuri che rimbalzavano da un’espressione pensosa all’altra finchè Nerea, come colta da un’illuminazione improvvisa, non sgranò gli occhi verdi guardando Gisèle.
Quella sembrò capire quale pensiero avesse appena colto l’amica, ma anziché esultare le labbra della francese si tesero all’ingiù in una smorfia: avrebbe proprio dovuto telefonare a casa.
 
Al termine di un’ora di discussione collettiva e dopo aver scattato numerosissime foto alle pagine del vecchio e pesante libro Gisèle aveva affidato il registro a Milad, chiedendogli di rimetterlo nel punto da cui lei stessa l’aveva prelevato qualche giorno prima senza che il cugino se ne accorgesse. Prima di uscire tutti insieme dalla stanza il belga aveva visto la francese indugiare, china su un tavolino e intenta a strofinare con veemenza una gomma da cancellare su una delle pagine adibite agli alberi genealogici delle famiglie che storicamente contavano più membri all’interno della Brigade. Dopo essersi avvicinato incuriosito insieme ad Icaro, mentre Nerea spingeva di appena un paio di centimetri il pannello che collegava la stanza con il corridoio per accertarsi che fosse deserto, Milad aveva faticosamente trattenuto uno scrocio di risate. Icaro invece, dopo aver gettato un’occhiata perplessa alla francese e ai ricci capelli castani che le erano scivolati davanti al viso sfiorando le spesse pagine di pergamena e le sottili linee che componevano l’albero genealogico, aveva parlato inarcando scettico un sopracciglio:
“Gisèle, questo libro è incantato. Pensi che una normalissima gomma da cancellare sia più forte della magia e del DNA?”
Dopo aver cercato di invano di cancellare quell’odiosa linea vermiglia che testimoniava la sua parentela con Guillaume Gisèle, costretta ad arrendersi, sollevò la testa, ricambiando brevemente lo sguardo dell’italiano con cipiglio torvo prima di chiudere il libro con un tonfo sordo e depositarlo senza tante cerimonie tra le braccia di Milad:
“Ci sono giorni in cui spererei che lo fosse.”


 
divisore

 
Cosa non si era disposte a fare per le proprie amiche, si ritrovò a riflettere Daphné mentre si stringeva nel suo elegante cappottino bianco, la sciarpa di cashmere rosa ben annodata al collo e le mani fasciate da guanti del medesimo colore sprofondate nelle tasche. Lei e Lucinda stavano assai coraggiosamente sfidando il freddo e la progressiva carenza di luce stando sedute sugli spalti dello stadio, la seconda visibilmente compiaciuta all’idea di avere per sé tutto lo spazio che voleva mentre se ne stava seduta con le gambe esili distese davanti a sé, le graziose caviglie sottili incrociate e appoggiate sullo schienale del sedile di fronte al suo.
“Hai freddo Daph? Ho portato questo, tienilo… Non voglio mica che ti ammali.”
Dal suo vivace zainetto lilla ricco di spillette colorate che raffiguravano i loghi di squadre di Quidditch e gruppi musicali Lucinda tirò fuori un barattolo di vetro che racchiudeva delle fiammelle blu, cedendolo all’amica con un sorriso affettuoso prima di recuperare anche una confezione quasi del tutto piena di Gelatine Tutti i Gusti + 1. Lucinda aprì la confezione bianca e rossa mentre Daphné stringeva grata il barattolo scaldato dall’incantesimo, abbracciandolo quasi come se si fosse trattato di una stufetta portatile.
Una stufetta portatile? Daphné sgranò meravigliata gli occhi verdi senza degnare di uno sguardo i loro compagni di scuola, tutti in divisa lilla, che sfrecciavano davanti a loro passandosi la Pluffa, rincorrendo un Boccino che brillava nella semioscurità o cercando di indirizzare un Bolide impazzito. Quello sì che sarebbe stato un meraviglioso e più che propizio regalo di Natale! Un sorriso trasognato incurvò le labbra sottili della giovane strega mentre pensava alla stufetta portatile rosa dei suoi sogni, colei che l’avrebbe scaldata anche negli attimi più freddi e tenebrosi.
“Grazie Luli. Non sarebbe meraviglioso avere una stufetta da portarci mentre spiamo l’allenamento del ragazzo che ti piace?”, domandò con un sospiro agognante la francese mentre Lucinda, una gelatina al burro aromatizzato alle erbe tra i denti, le porgeva la confezione senza distogliere lo sguardo dal campo neanche per un istante:
Noi non spiamo, noi assistiamo. E comunque non dire così, messa in questo modo sembra che io sia una di quelle cretine che si interesse allo sport solo quando vede un tizio carino con la divisa, a me è sempre piaciuto il Quidditch e sempre piacerà. Vuoi una? Ok ma andiamo, ha mancato l’anello di tre metri, non possiamo mica perdere anche la prossima partita!” Visibilmente innervosita Lucinda si animò levando i piedi dallo schienale del sedile e sporgendosi in avanti verso il campo, i brillanti occhi chiari ridotte a due fessure per studiare meglio l’andamento dell’allenamento mentre Daphnè, accanto a lei, studiava con estrema attenzione la valanga di gelatine colorate – potenzialmente deliziose quanto terribili al gusto – cercando di individuare un colore che difficilmente avrebbe potuto trarla in inganno. L’anno prima aveva fatto il madornale errore di accettare la sfida di assaggiarne una grigia per avere l’ultima fetta di tarte tatin a cena, contesa tra lei e tutti i suoi fratelli maggiori, e aveva finito col tossire per cinque minuti buoni sentendosi la gola piena di fumo acre.
“Però non c’è molta luce… Io lancerei così male che potrei colpire qualcuno.” Alla fine la francese optò per una gelatina di una calda sfumatura aranciata che faceva ben sperare, estraendola dalla confezione per studiarla in muta preghiera mentre l’amica, accanto a lei, si stringeva debolmente nelle spalle liquidando il discorso con una mano:
“Pf, ho visto partite di mio fratello giocate con meno luce di così. E con la pioggia.”
“Tuo fratello è un fenomeno, non so quanto regga come confronto… Comunque non riesco ad immaginare niente di più terribile, a parte forse suonare Wagner su un piede solo.”
“Perché mai dovresti suonarlo su un piede solo?! Vedi, quello era un bel lancio.”, asserì Lucinda indicando Dante con un sorriso soddisfatto, risentita solamente verso l’ora tarda a cui si stava svolgendo l’allenamento e che di certo aveva impedito al compagno di Casa di vedere lei e Daphné sedute sugli spalti. Se non altro, rifletté per consolarsi mentre accanto a lei Daphné sospirava laconica dicendo qualcosa a proposito di un incubo ricorrente che le dava il tormento, avrebbe potuto andare a salutarlo più tardi, fuori dal campo. Dopodiché si sfilò dallo zaino un sacchetto di carta pieno di popcorn al burro ancora gradevolmente tiepidi al tatto: quanto adorava gli Elfi Domestici.
Daphné al contrario addentò la gelatina, masticandola brevemente prima di tirare un sospiro di sollievo: caramello salato. Ingollò la seconda metà decidendo di poter azzardare e fare un secondo tentativo e riprese la confezione per scrutare le caramelle dopo aver gettato una rapida occhiata pensosa al viso concentrato dell’amica, che stava studiando l’allenamento con visibile interesse, prima di dar voce ai propri pensiero con tono vago:
“Comunque quando ti piace un ragazzo è abbastanza raro che ti interessi per più di qualche settimana di fila… Allora ti piace parecchio.”
Anziché rispondere immediatamente Lucinda si prese qualche breve istante per riflettere sulle sue parole chinando il capo sul sacchetto di popcorn che teneva sulle ginocchia, scrutando accigliata i chicchi di mais scoppiati prima di scuotere debolmente il capo scrollando piano i corti capelli scuri che le incorniciavano il viso grazioso: una parte di sé era perfettamente consapevole che Daphné aveva ragione, ma la verità era che non lo sapeva nemmeno lei. Considerando poi che non lo conosceva nemmeno così bene, quel ragazzo, la cosa la lasciava perplessa e per certi versi intimorita al tempo stesso.
“Non lo so.”

 
divisore

 
Dante stava facendo ritorno dall’allenamento di Quidditch quando, diretto verso il castello insieme a Daphné e a Lucinda dopo essersi imbattuto nelle due compagne fuori dal campo (la prima tremando dal freddo e agognando visibilmente una tazza di tè bollente, la seconda accogliendolo con un sorriso) aveva scorto Phoenix seduto sotto un albero, apparentemente deciso a sfidare il freddo mentre fumava una sigaretta.
“Ah, io non lo farei.”, aveva decretato Lucinda scuotendo la testa, smuovendo i corti ciuffi di lisci capelli corvini rimasti scoperti dal berretto a trecce di lana lilla, quando seguendo la direzione dello sguardo del compagno aveva intuito la natura del suoi pensieri. “Non ama che lo si disturbi. Dico davvero.”
Nonostante Daphné avesse avallato la tesi dell’amica annuendo e assicurando a Dante che di norma ci si doveva tenere alla larga da Phoenix Anastasakis se lo si vedeva impegnato a leggere per i fatti propri – salvo che il tuo nome fosse Icaro o Diego – il ragazzo chiese alle due compagne di precederlo fino al castello, abbandonando il sentiero di ghiaia per dirigersi, la scopa sottobraccio e lo zaino nero con il cambio sulle spalle, verso il faggio sotto al quale Phoenix si era sistemato.
L’Ombrelune naturalmente lo vide arrivare, e lo osservò fino a quando non gli fu ad un paio di metri di distanza, rivolgendogli un sorriso molle mentre teneva la sigaretta accesa tra le dita della mano sinistra, un libro aperto sulle gambe lunghe distese fasciate da jeans neri ormai leggermente sbiaditi.
“Ciao. Ti allenavi per la prossima sconfitta?”
“Sei davvero simpatico come dicono in giro.”  Dante si lasciò scivolare lo zaino dalle spalle per farlo cadere con un lieve tonfo sul prato ghiacciato e umido, ben presto seguito dal suo manico di scopa. Sedette accanto al compagno senza preoccuparsi di chiedergli se fosse d’accordo o meno, scrutando le serre che si ergevano in lontananza raccogliendo le gambe verso il petto e puntellandosi i gomiti sulle ginocchia mentre Nick si stringeva nelle spalle:
“Ci tengo a tenere fede alla mia reputazione. Vuoi una?”
Quando il greco agitò debolmente la sigaretta che teneva in mano Dante annuì, lasciando che gliene passasse una insieme ad un accendino nero che gli restituì poco dopo, non appena l’ebbe usato per accendersi la sigaretta. Per qualche istante nessuno dei due parlò, finchè Dante non disse qualcosa esalando il fumo della sigaretta e strappando distrattamente qualche sottile filo d’erba con la mano libera:
“Le ragazze mi hanno detto che sei famoso per essere inavvicinabile.”
“Meglio così. Preferisco avere solo un paio di amici piuttosto che essere circondato de deficienti.”
“Non è male come filosofia di vita. Con me non sei mai stato esageratamente stronzo, però.”
Dante smise di scrutare la vasta area della tenuta della scuola che si estendeva davanti a loro per voltarsi e gettare un’occhiata in direzione del compagno, che non ricambiò e anzi si strinse nelle spalle non noncuranza mentre si fingeva interessato ad un segno di matita sul bordo della pagina dei Racconti dell’età del jazz(2):
“Non so, ti eri appena trasferito, non conoscevi nessuno. Forse in fondo ho il cuore tenero. Forse passo troppo tempo con Diego.”
“Forse non sei così male come pensano.”, osservò Dante ruotando la testa per gettare solo una rapida occhiata in direzione del compagno, guardandolo esitare e aggrottare leggermente le sopracciglia mentre fissava pensoso la sigaretta accesa che teneva tra le dita. Lo vide annuire, ma tornò a fissare il tetto a cupola dell’enorme serra della tenuta prima di poter udire nuovamente la voce del greco:
“Già, forse. Allora, come ti va la vita a Beauxbatons?”
“Potrebbe andare peggio, credo.” Dante espirò il fumo della sigaretta sollevando leggermente il mento appuntito, scrutando distrattamente il cielo carico di sfumature rosa e arancioni che si mischiavano insieme. Gli tornarono in mente, come ancora spesso avveniva, stralci di ricordi confusi risalenti all’anno prima, e provò – in parte inconsapevolmente – un gran moto di sollievo nel potersi crogiolare nella convinzione che non avrebbe mai più messo piede a Mahoutokoro, e che difficilmente avrebbe rivisto a breve le persone che per mesi avevano dato il tormento a lui e a suo fratello. Prima tra tutti gli tornò sgradevolmente alla memoria sua nonna, e all’improvviso si convinse di aver appena trascorso forse uno dei migliori compleanni della sua vita, pur non avendolo festeggiato affatto, senza doversi più preoccupare di lei.
“L’altro ieri era il mio compleanno.” Tale rivelazione giunse inaspettatamente per Nick tanto quanto per Dante, che aveva pronunciato una precisa successione di parole che qualche giorno prima aveva fermamente deciso di non confidare a nessuno, lì a scuola. Non che pensasse che a qualcuno potesse importare del suo compleanno, ma la sua voglia di festeggiare anche solo in minima parte quell’anno era ai minimi storici.
“Davvero? Perché non lo sapevo?”, domandò Phoenix d’istinto dopo una breve esitazione, sentendosi sorpreso da quella rivelazione inaspettata mentre guardava Dante prendere un altro tiro dalla sigaretta dandogli le spalle. Eppure, finì col dirsi l’Ombrelune, non avrebbe nemmeno dovuto provare stupore: nascondere il suo compleanno in modo che passasse inosservato era esattamente ciò che aveva intenzione di fare a sua volta.
“Ho fatto giurare Nerea di non dirlo a nessuno, ecco perché… non è stato facile, ho dovuto ricattarla usando una delle sue piantine grasse, ma ha funzionato.” Questa volta un sorriso increspò le labbra di Dante, un sorriso sincero che da mesi a quella parte era raro scorgergli in viso. A Phoenix quel privilegio venne negato non essendo l’amico rivolto direttamente verso di lui, e il greco si limitò a fissargli pensoso la nuca coperta dai lisci e lucenti capelli corvini prima di annuire:
“Il mio compleanno è tra un mese. Ma non è poi questa gran cosa, in effetti.” Icaro e Diego lo sapevano, naturalmente. E naturalmente avrebbero ignorato le sue richieste di far finta di nulla, tanto che Phoenix si disse con un sospiro di doversi iniziare a preparare psicologicamente con almeno una settimana di anticipo. Dante, nel frattempo, annuì mentre si rigirava fissandola la sigaretta ormai parzialmente consumata tra le dita:
“Quando ero piccolo quasi lo detestavo, il mio compleanno. Avendo gli occhi di tutti puntati addosso si presupponeva che il mio comportamento dovesse essere ancora più impeccabile.”
“Hai una famiglia rompicoglioni?” La domanda di Nick giunse talmente candida e a bruciapelo da strappargli un sorriso, e Dante annuì mentre con una parziale rotazione del busto tornava a posare lo sguardo sul viso pallido e sui brillanti occhi cerulei del compagno:
“Metà della mia famiglia è cinese e piuttosto tradizionalista. Quindi sì, per usare un eufemismo. Mia nonna è stata il mio incubo per anni.”
“Mia nonna mi rompe le palle perché sono troppo magro, secondo lei, e perché mi comporto da deficiente. Immagino che non sia la stessa cosa.”
“No. Decisamente no. Penso che potrei benissimo non rivederla mai più ed esserne solo profondamente grato e felice.”
Dante parlò con un sorriso, certo che senza quella parte della sua famiglia la qualità della sua vita non ne avrebbe certo risentito. Si rese conto di aver inavvertitamente disteso le labbra solo dopo qualche istante, e si affrettò a farsi sparire quella smorfia dal viso nonostante nessuno potesse scorgerla.
 

 
divisore
 

Cesare, ma tu lo sapevi che Atena ha un fidanzato?!”
Tenendosi il telefono accostato all’orecchio destro Icaro parlò senza smettere di percorrere con ampie falcate la lunghezza della Salle Comune, un costosissimo pigiama blu notte addosso e i capelli scuri celati alla vista dall’asciugamano nero nel quale li aveva avvolti: aveva deciso di chiamare il fratello maggiore mentre teneva in posa la maschera ai frutti tropicali, ma era stato costretto a lasciare la sua camera per parlare con Cesare a causa della pessima linea.
Gisèle, seduta su un divano accanto a Milad, dopo aver gettato un’occhiata in direzione del compagno di Casa sbloccò il telefono e gli scattò con discrezione una foto prima di riporlo e tornare a concentrarsi come se nulla fosse sul computer che teneva aperto sulle ginocchia, soddisfatta. Nel frattempo Icaro, ascoltata la risposta di Cesare, fece dietrofront per rifare da capo tutto il tragitto gesticolando nonostante il fratello non potesse vederlo:
“No che non lo sapevo, te lo sto dicendo ora! No, non so bene chi sia, so solo il nome. Sì, devo indagare. Ma non è illegale avere il fidanzato a 13 anni?!”
“Cosa pensi si stiano dicendo?”
Milad non parlava più di un paio di parole d’italiano e non aveva idea di quale fosse l’argomento dell’accesa telefonata che vedeva coinvolto Icaro: benchè fosse una persona estremamente riservata e per niente incline al gossip e a farsi gli affari altrui dovette ammettere a se stesso di essere un tantino curioso mentre parlava rivolgendosi a Gisèle senza alzare lo sguardo dal libro che teneva in mano, limitandosi a girare pagina mentre la compagna evidenziava e sottolineava gli appunti presi a lezione e ricopiati sul pc.
“Presumo qualcosa a riguardo della sorella. Siamo quasi a metà novembre, a breve impazziranno tutti per il ballo, non c’è da stupirsi.” La strega rispose con una scrollata di spalle e senza distogliere a sua volta lo sguardo dallo schermo luminoso, rileggendo accigliata ciò che aveva trascritto quella stessa mattina in Biblioteca attraverso le lenti degli occhiali da lettura rosa cipria. Le sue parole risvegliarono in Milad dei ricordi dolorosi che fino a quel momento erano rimasti dormienti, forse per rifiuto, e il belga sgranò inorridito i profondi occhi scuri prima di gemere sommessamente e passarsi una mano tra i capelli:
“Dio, il ballo…”
Milad si lasciò sprofondare un poco in mezzo ai soffici cuscini del divano azzurro, desiderando di sparire mentre si copriva il volto con il romanzo di Proust che stava leggeva: se c’era una cosa che mal sopportava legata alla sua vita scolastica era proprio il ballo che tutti gli anni si ostinavano ad organizzare prima di Natale. Gisèle, a sua volta ferrea detrattrice del Ballo da quando era costretta a prendervi parte, si strinse nelle spalle e parlò senza battere ciglio, correggendo un errore di ortografia:
“Io sto progettando di darmi malata, se vuoi unirti.”
“Gisèle, tu sai ballare. Vorrei solo che si potesse tornare a casa dalle vacanze prima di quel dannato ballo…” Milad sospirò mentre si toglieva il libro aperto dal viso per adagiarselo sul petto, studiando affranto il soffitto blu notte della Salle Comune, decorato con le costellazioni che ormai conosceva a memoria grazie ad anni di lezioni di astronomia.
“Ballare per me è il problema minore. Anche se quello, per me, lo si può chiamare così a malapena... Mia madre va matta per questo genere di cose, vuole che ci vada.”
La cosa peggiore, per Gisèle, era l’impossibilità di mentire a sua madre assicurandole di andare al ballo per poi darsela a gambe a causa della sgradita presenza di suo cugino, che di certo non avrebbe esitato a tradirla solo per la gioia di assicurarle una ramanzina e qualche manfrina a proposito di quanto deludente fosse la sua condotta.
“Anche la mia, dice che ci devo andare perché è l’ultimo anno!” Di norma evitare coscientemente di accontentare sua madre non rientrava tra le intenzioni di Milad, che al contrario avrebbe fatto pressochè qualsiasi cosa per renderla felice e orgogliosa di lui, ma in quella precisa situazione era quasi tentato di fare qualcosa che di norma ripudiava: mentire, o inventare delle scuse. Non aveva nemmeno idea di come dovesse andarci vestito, al ballo, quel che era certo era che dubitava fortemente  di potersi presentare in tuta, ma si astenne dal condividere i suoi dubbi con Gisèle, cresciuta in un ambiente ricco di eventi da cravatta nera, per paura di fare la figura del deficiente. Che era esattamente ciò che lo spingeva a voler fuggire il più lontano possibile dalla serata.
“La mia speranza è che nessuno mi inviti, così avrò la scusa per-fetta per starmene in camera mia. Di sicuro mia madre non vorrebbe che si veda sua figlia senza accompagnatore, sarebbe uno smacco, quindi se nessuno mi invitasse forse persino lei mi darebbe il benestare per fingermi emigrata su Marte.” Gisèle si mise più comoda contro lo schienale del divano – alle loro spalle Icaro stava ancora parlando al telefono con il fratello maggiore, presi da un’accesa discussione su come liberarsi del cognato indesiderato senza destare sospetti sul loro conto – gongolando con un sorrisetto compiaciuto sulle labbra, soddisfattissima della sua trovata-anti-ballo. Milad invece, poco convinto, la guardò inarcando scettico un sopracciglio:
“E se qualcuno ti invita?”
“Fuggo alla velocità della luce, o mi auto-trasfiguro in una cassetta postale. Correre tutti i giorni darà i suoi frutti, no? Tu non vuoi andare perché non sapresti con chi andarci?”
“Quello e tanti altri motivi.”, borbottò cupo Milad tornando a puntare lo sguardo dritto davanti a sé, sulle fiamme che ardevano scoppiettando allegre nel caminetto di marmo bianco, separato dal divano dove sedevano da un’elegante griglia parascintille di metallo e dall’ottomana blu sulla quale Gisèle aveva sistemato i piedi incrociando le caviglie sottili.
“Beh, se proprio ti serve una ragazza te la troviamo. Con tutti i lombrichi che trovano della accompagnatrici vuoi non riuscirci tu? Anche se credevo che avessi la ragazza, a casa, e che non volessi venirci per questo.”
“Chi te l’ha detto?!”  Milad si voltò verso di lei con un movimento talmente fulmineo del capo che Gisèle si chiese interdetta come fosse riuscito a non farsi male al collo, pentendosi di aver parlato non appena scorse l’espressione serissima e quasi seccata sul volto del compagno:
“Forse Antoine. Ma non dirglielo, gli dev’essere scappato.”
“Non è la mia ragazza.”, bofonchiò il belga tornando a sprofondare nel divano, imbarazzato – cercava sempre di tenere le sue questioni personali lontane dalle conversazioni – e maledicendo mentalmente Antoine e la sua parlantina mentre Gisèle, accanto a lui, tornava a concentrarsi sui suoi appunti scuotendo il capo, per nulla intenzionata ad infierire e a farsi gli affari suoi:
“Non è affar mio. Ma se decidi di andare non ti preoccupare, a tutto c’è rimedio. Sguinzaglieremo Nerea e ti troveremo un’accompagnatrice.”
Sempre senza guardarla e sempre imbarazzato Milad mormorò cupo un ringraziamento mentre Icaro, finito di discutere con il fratello, li raggiungeva andando a sedersi sulla poltroncina rimasta libera accanto al camino (qualcuno aveva avuto l’ardire di occupare il suo divano prediletto, aveva deciso di soprassedere su quella vergognosa mancanza di rispetto solo perché aveva passato gli ultimi minuti al telefono con Cesare) con un sospiro esausto:
“Ah, ragazzi, che serata impegnativa. Di che parlavate?”
“Niente, del ballo. Carina la tua mise.”  Gisèle gli rivolse un sorrisino che il ragazzo ignorò, troppo occupato a pensare al fidanzato della sorella ancora senza nome e senza volto:
Non m’importa se sei sarcastica, per avere capelli belli come i miei gli impacchi servono. E comunque non parlatemi del ballo, devo impedire a mia sorella di andarci!”
“Perché non vuoi che Clelia ci vada?”
“Non lei, Atena!”
“… Ma non è troppo piccola?”
“Ha un dannato fidanzato del quarto anno, quindi se la invita può andarci. Stupidi tizi del quarto anno. Noi eravamo molto meglio di loro alla loro età! … Nick, vieni qui, abbiamo una missione!”
Quando vide l’amico rientrare dal terrazzo dopo aver fumato una sigaretta Icaro si sbracciò in direzione di Phoenix per farsi notare e intimargli di raggiungere lui, Gisèle e Milad, cosa che in effetti il greco fece rimettendosi cartine e accendino nella tasca del chiodo nero. Quando su abbastanza vicino per scorgere per bene la mise di Icaro Nick si immobilizzò, scrutandolo attonito per un breve istante prima di scoppiare in una fragorosa e rara risata, tastandosi le tasche alla ricerca del telefono per immortalare il momento:
Ma che cazzo ti sei messo?! Aspetta, devo farti una foto per l’annuario…”
“Ci ho già pensato io, guarda.”  Gisèle sorrise mentre si sfilava il telefono dalla tasca dei pantaloni della tuta color panna per mostrare soddisfatta la sua opera d’arte a Phoenix, che si chinò sullo schienale del divano per ammirarla prima di scoppiare una seconda volta a ridere e chiederle di mandargliela. Gisèle obbedì mentre Icaro scrutava torvo la scena, aggiustandosi l’asciugamano con fare sostenuto prima di parlare sollevando stizzito il mento:
“Siete tutti invidiosi dei miei capelli. Tutto qui.”
“Non farmi ridere, i miei sono più belli dei tuoi.” 
All’udire una simile follia Icaro quasi si strozzò con la sua stessa saliva, guardando Gisèle continuare a dedicarsi non nonchalance ai suoi appunti, come se non avesse appena pronunciato un’eresia, con gli occhi scuri strabuzzati e le labbra dischiuse, incredulo e inorridito:
“Cosa hai detto?! Nick, domani mattina dovrai decretare chi tra me e Gisèle ha i capelli più belli.”
“Non ci penso nemmeno a perdere tempo con queste stronzate.” Dopo aver gettato una rapida occhiata alla foto dell’amico che Gisèle gli aveva appena inviato Nick girò sui tacchi e si allontanò in direzione del Dormitorio per mettere via la giacca e recuperare un libro, determinato a tenersi alla larga da questioni talmente stupide da non meritare lo spreco del suo tempo, ignorando Icaro quando lo sentì dargli dell’”amico inutile” mentre se ne andava.
“Milad?”
“Sinceramente non mi reputo un esperto, se non ve ne siete accorti i miei li tengo corti per non perderci tempo.”
Siete uno più inutile dell’altro. Voi e il fidanzato di mia sorella.”
“Ma se nemmeno sai chi è?”
“Lo so e basta.”





 
 
(1): L’11 novembre in Francia è festa nazionale per celebrare l’armistizio del 1918
(2): Raccolta di racconti di Francis Scott Fitzgerald del 1922

 
 
 
 
 
 
 
…………………………………………………………………………………………
Angolo Autrice:
Buonasera a tutte!
Mi spiace averci messo parecchio per aggiornare, ma nelle ultime settimane sono piena di OS da scrivere che stanno irrimediabilmente rallentando non poco la stesura dei capitoli💔
Spero di pubblicare un altro capitolo entro la fine dell’anno, in caso contrario ci risentiamo a gennaio.
A presto,
Signorina Granger  

 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Capitolo VIII ***



Capitolo VIII
 
 

 
Mercoledì 23 novembre
 


 
Dante aveva il sentore che l’imminente lezione di musica sarebbe stata differente da quelle che l’avevano preceduta, ma le motivazioni sfuggivano alla sua comprensione: seduto al suo solito posto con il suo sassofono pulito e lucidato giusto la sera prima in grembo, Dante stava facendo correre lo sguardo sempre più accigliato sui volti che lo circondavano, quasi tutti visibilmente molto tesi. Anche il brusio che si era levato tra i suoi compagni era più acceso del solito, e anche se buona parte delle parole che rimbalzavano tra le alte pareti della torre sfuggivano alla sua comprensione Dante era assolutamente certo che tutti fossero nervosi, preoccupati o in trepidante attesa di qualcosa, qualcosa di cui lui era bellamente all’oscuro.
Alla fine, stanco di quel fastidioso senso di incertezza che sembrava attanagliare solo e soltanto lui il Papillonlisse si alzò e approfittando dell’assenza dell’insegnante si spostò tra le sedie cercando di raggiungere qualcuno in grado di mettere a tacere almeno parzialmente i suoi dubbi.
Individuare alcune delle sue compagne di Casa non fu difficile grazie alla folta chioma di capelli biondo miele di Maëlle, che come lui aveva abbandonato il suo posto di rito come primo violino e sedeva invece davanti a Daphné occupando abusivamente una delle sedie delle viole. La giovane strega sedeva dando le spalle all’alto leggio di legno di Corradi per poter chiacchierare con la flautista e con Lucinda, anche lei spostatasi per poter conversare con le amiche prima dell’inizio della lezione.
Quando Dante le ebbe raggiunte le trovò impegnate a parlare fitto fitto a bassa voce, le teste leggermente più vicine del normale quasi stessero confabulando, e all’improvviso il ragazzo ebbe la certezza che niente di buono stava per abbattersi su di loro: persino Maëlle dava l’impressione di essere molto più seria del solito, tanto da spingere il ragazzo a convincersi di come la spiegazione dietro a quelle stranezze non poteva che essere qualcosa di terribile.
“Ragazze, mi dite che cosa succede? Perché sembrano tutti agitati?”
Siamo tutti agitati! Si dice che oggi Corradi ci dirà cosa dovremo suonare a fine anno.” Le labbra di Maëlle si torsero per dar vita ad una smorfia preoccupata mentre Dante si affrettava ad occupare la sedia libera più vicina alle tre ragazze, alternando sguardi perplessi a ciascuna di loro mentre sollevava il sopracciglio destro, non del tutto certo di capire quale fosse il problema:
“A fine anno scolastico? E quindi, siamo a novembre!”
“No scemo, letteralmente a fine anno, al Ballo!”
“Al Ballo dovremo suonare noi? Perché non ne sapevo niente?” E perché tutti davano per scontato che lui fosse messo a parte di ogni informazione utile quando era arrivato solo da qualche mese, pensò inarcando infastidito un sopracciglio mentre Maëlle alzava gli occhi al cielo e Daphnè, il flauto sulle ginocchia sottili tremolanti, scuoteva la testa senza smettere di alternare occhiate nervose in direzione della porta d’ingresso della torre:
“Più o meno, non per tutta la sera. Però dopo il banchetto ci si esibisce con alcuni brani davanti a tutti, sì.”
“E qual è il problema, non è per suonare che siamo qui seduti due volte alla settimana?”
Di nuovo, Dante guardò i visi più o meno preoccupati (a cominciare da Daphné, che sembrava starsi crogiolando nell’ansia, per finire con Lucinda, di gran lunga la più rilassata delle tre) delle compagne di Casa senza riuscire a capire quale fosse il problema di doversi esibire davanti agli altri studenti per persone che facevano pur sempre parte di un’Orchestra sinfonica. Maëlle al contrario sbuffò e gettò un’occhiata leggermente torva in direzione della porta senza smettere di picchiettarsi l’archetto del violino sul ginocchio sinistro mentre Lucinda, dietro di lei, metteva una mano su quello di Daphné per cercare di far cessare il tremore delle gambe dell’amica.
“Il problema è che Corradi alterna anni in cui si sente di fare a noi poveri dementi un regalo di Natale ed essere misericordioso e anni in cui rifila le peggio cose, ecco qual è!”
“Secondo me dipende anche molto da come si sveglia al mattino,” osservò Lucinda con una stretta di spalle, certa che come ogni direttore d’orchestra che si rispettasse l’insegnante fosse classificabile come piuttosto lunatico, “se si sveglia di buon umore arriva e ci rifila Il Mattino di Grieg, se si sveglia con la luna storta ci fa soffrire tutti in agonia.”
“E l’anno scorso che avete suonato?”, domandò Dante iniziando a percepire un inizio di preoccupazione stringergli lo stomaco e sperando in brani e compositori quasi impossibili come risposta per avere più speranze positive per il futuro, speranze che Maelle spazzò brutalmente via scuotendo il capo con amarezza.
“L’anno scorso abbiamo suonato Mozart, il concerto per pianoforte e orchestra n° 17 in sol maggiore, è stato clemente, quindi quest’anno siamo certi che ce la metterà in quel posto.”
“Vi immaginate se dovesse arrivare con Rachmaninov?!”, domandò Lucinda inarcando un sopracciglio e facendo così rabbrividire le sue amiche. Per un istante le tre si scambiarono occhiate timorose, finchè Maëlle non si sforzò di sorridere e scosse il capo nel tentativo di convincere le sue amiche tanto quanto se stessa:
“No, andiamo, non può essere così bastardo. In caso io mi mollo e mi do all’apicultura.”
Forse Maelle aveva parlato troppo presto, si disse Dante aggrottando la fronte quando un istante dopo la porta d’ingresso bianca della torre venne bruscamente spalancata e il loro insegnante varcò la soglia senza salutare o guardare nessuno. Un paio di Elfi Domestici, entrambi con addosso completini blu e cravattine azzurre, lo seguirono solerti reggendo borse di tela rigonfie e dall’aria piuttosto pesante, andando a sistemarle sulla cattedra – i tonfi sordi che l’impatto produsse e che echeggiarono tra le alte pareti non fecero ben sperare nessuno dei presenti – mentre Corradi si sfilava la giacca per gettarla malamente sullo schienale della sua sedia. All’ingresso dell’italiano seguì un fuggi fuggi generale in cui tutti si alzarono per tornare ai rispettivi posti, e Daphné e Maelle si strinsero debolmente la mano quasi si stessero salutando per l’ultima volta prima che la bionda si alzasse per raggiungere la sua sedia.
Anche Dante e Lucinda si alzarono e si affrettarono ad allontanarsi dalle prime file – entrambi felicissimi non essere vicini al leggio di Corradi –, scivolando rapidi tra le sedie mentre il brusio si quietava ma le espressioni dei compagni si facevano sempre più preoccupate.
“Che ha in quelle borse, delle incudini?!”, domandò in un soffio Dante alla portoghese mentre cercava di raggiungere la sua sedia prima che l’insegnante decidesse di usarlo come bersaglio ambulante per le freccette, e Lucinda scosse brevemente il capo prima di rispondergli sbuffando con un cupo mormorio:
“Niente di buono.”
Gli Elfi Domestici nel frattempo, concluso il loro lavoro, si stavano dirigendo uno dietro l’altro verso l’uscita della torre con Corradi ad aspettarli accanto alla porta, pronto a richiuderla alle loro spalle. Salutò e ringraziò le due creature con un garbo che con ogni probabilità quel mattino non avrebbe riservato a nessuno dei suoi studenti, e quando la pesante porta di legno si fu richiusa con un tonfo che risuonò tra le pareti la classe si zittì definitivamente, precipitando in un silenzio quasi tombale mentre tutti scrutavano preoccupati e in attesa le movenze dell’insegnante.
Prima di parlare Corradi, che Lucinda ebbe l’impressione si fosse svegliato mettendo un piede giù dal letto e sbattendo il mignolo contro lo spigolo del comodino, si avvicinò nuovamente alla cattedra e sfilò da una delle due borse un primo plico di fogli contenuti in una cartellina trasparente. Li depositò sul ripiano di legno con un altro tonfo che fece sobbalzare le prime file e Dante, tendendo il collo per cercare di vedere, si ritrovò ad aggrottare la fronte: non aveva mai visto un plico di spartiti simile in vita sua. Che razza di opera avrebbero dovuto suonare?
Invece di parlare l’insegnante continuò in silenzio per qualche altro tesissimo minuto, perfettamente consapevole della suspence che stava creando sui suoi poveri studenti in crescente ansia. Solo quando ebbe tirato fuori tutti i plichi sollevò lo sguardo sulla piccola platea disposta a ventaglio davanti a lui, allargando le labbra in un sorriso affabile che non convinse pienamente nessuno dei presenti:
“Quest’anno ho deciso che al Ballo e a fine anno suonerete qualcosa dello stesso compositore per dare continuità al vostro studio. Naturalmente il mese prossimo non suonerete tutti i brani che sto per darvi, ne ho selezionati alcuni per il Ballo e altri per maggio… Quelli segnati in rosso sono quelli che potreste suonare il mese prossimo.”
Dopo aver parlato ed aver sfilato la bacchetta di frassino dalla tasca interna della giacca nera che aveva lasciato sulla sua sedia – che nessuno ricordava di avergli mai visto utilizzare per sedersi – la puntò contro gli spartiti impilati e disposti su tutta la superficie della cattedra, e tutti sembrarono trattenere il fiato mentre i fogli si libravano in aria, schizzando attraverso la stanza verso gli studenti. Quando i primi blocchi di spartiti raggiunsero i primi studenti Dante li guardò cercando di decifrarne le reazioni, e quello che vide e sentì lo lasciò sempre più perplesso: gente che sospirava, gente che chinava il capo con aria disperata, chi si voltava verso un proprio amico con gli occhi sgranati e pieni d’orrore per dirgli qualcosa in labiale.
Fu esattamente ciò che Maëlle fece con Daphné, voltandosi verso l’amica e sillabando senza parlare il nome che, minacciosissimo, la fissava dalla cima della prima pagina, appena sopra al titolo se possibile ancor più terribile dell’opera. Daphné avrebbe disperatamente voluto non crederci, e deglutì a fatica in attesa di ricevere i suoi spartiti aggrappandosi ai bordi della sedia e alle ultime magre speranze che le rimanevano in corpo mentre Dante, a qualche metro di distanza, ruotava lentamente il capo, a disagio, per guardarsi attorno e osservare sempre più perplesso le bizzarre reazioni che i suoi compagni stavano rapidamente collezionando facendolo pensare al peggio: erano forse lacrime quelle che gli sembrò di scorgere attorno agli occhi di una violoncellista?
Quando sentì una trombettista seduta davanti a lui mormorare un soffocato e sofferto “È lui!” all’amica che le sedeva vicino Dante avrebbe voluto disperatamente sporgersi in avanti e chiederle di chi stesse parlando e porre così fine a quella breve ma apparentemente interminabile agonia, ma a dargli una risposta ci pensarono direttamente gli spartiti, che gli planarono sulle ginocchia proprio in quell’istante. Improvvisamente non del tutto certo di avere il coraggio di guardare Dante chinò lentamente il capo per leggere attraverso il sottile velo di plastica che proteggeva i fogli, finendo col trattenere, come di certo molti altri, un’imprecazione che avrebbe avuto l’effetto di farlo sbattere fuori dalla torre.
Lucinda, dal canto suo, ebbe modo di sbirciare il nome del compositore e dell’opera scelta da Corradi attraverso la spalla di un clarinettista, e quella vista la portò a sgranare gli occhi inorridita e a gettare un’occhiata preoccupata in direzione del direttore d’orchestra, che si stava arrotolando le maniche della camicia bianca sugli avambracci ostentando la massima nonchalance. In quel momento la portoghese si persuase che sì, Corradi doveva essersi alzato dal letto sbattendo il mignolo del piede contro un mobile, ma non certo una volta. Forse una decina.
Daphné fu una delle ultime a ricevere i suoi spartiti, e trovare il coraggio di chinare il capo e guardare non fu affatto semplice. Alla fine la ragazza si convinse, si fece coraggio, inspirò profondamente e dopo aver cercato di deglutire un po’ di saliva chinò lo sguardo, restando impietrita di fronte a uno dei nomi che in assoluto più detestava al mondo.

 
Richard Wagner
Tetralogia(1)

 
Daphné non poteva esserne del tutto sicura, ma mentre sentiva qualcuno quasi singhiozzare disperatamente alle sue spalle e altre voci chiedere sussurrando ai vicini se fosse possibile abbandonare l’Orchestra ad anno avviato si domandò quale aspetto avrebbe potuto assumere il suo Molliccio da quel momento della sua vita in poi. Con ogni probabilità avrebbe assunto l’aspetto di Richard Wagner, con tanto di stempiatura ed espressione arcigna, che la inseguiva sventolando minaccioso gli spartiti della sua opera magna intimandole in tedesco di eseguirla.
Probabilmente l’idea di abbandonare l’Orchestra non era poi così malvagia, si disse la francese mentre sentiva un moto di forte nausea risalirle dallo stomaco fino alla faringe e riportava gli occhi verdi pieni di terrore sul viso sorridente di Corradi, che si premurò invece di chiedere a tutti se fossero felici della sua scelta appoggiandosi con fare rilassato al suo bel leggio e facendo rimbalzare lo sguardo sui volti tesi e disperati dei presenti.
“Ma come?”, domandò sgranando con fare teatrale gli occhi cerulei mentre un sorriso amabile gli addolciva la linea delle labbra, “Non siete contenti?”
Per il suo insegnante di musica Maëlle nutriva il massimo rispetto, ma quel giorno la tentazione di lanciargli contro violino, archetto e spartiti fu indicibilmente difficile da contenere.
 
 
divisore
 
 
Nonostante lei e Clelia avessero spalancato la porta chiacchierando e ridendo il suono delle loro voci si spense bruscamente non appena si furono affacciate sulla stanza che condividevano da sei anni: Lucinda tutto si aspettava tranne di sentire un brano musicale rimbombare a tutto volume tra le pareti, e riconoscere rapidamente quel brano in particolare ebbe l’effetto di farla irrigidire, sempre più confusa, sulla soglia della stanza, la mano ancora stretta sul pomello laccato d’oro mentre cercava perplessa una delle sue compagne con lo sguardo facendolo rimbalzare a destra e a sinistra. Di una delle sue amiche, tuttavia, sembrava non esservi alcuna traccia.
“Ma non è La Cavalcata delle Valchirie?”, domandò Clelia inarcando un sopracciglio e dando rapidamente voce ai medesimi pensieri della compagna, che si limitò ad annuire prima di entrare nella stanza, seguita dall’italiana, e chiudersi la porta alle spalle. Mentre Clelia si dirigeva rapida verso la porta del bagno per bussare e appurare o meno la presenza di una delle loro compagne Lucinda indugiò davanti al letto a baldacchino di Daphnè, da dove una Duchess acciambellata la stava guardando come a chiederle di porre fine a quello strazio sonoro e di lasciarla dormire in santa pace. In realtà l’attenzione di Lucinda indugiò sulla bella gatta dell’amica solo per un istante, finendo rapidamente col gettare un’occhiata scettica alla massa informe che sembrava essersi nascosta sotto al copripiumino fiorito della legittima proprietaria del letto.
Mentre Clelia la informava che in bagno non c’era nessuno Lucinda, che aveva già individuato da sé la coinquilina nascosta, raggirò il letto, afferrò il bordo del piumone e con uno strattone lo sollevò, sorridendo allegra al volto teso, pallido e dall’aria contrita di una delle sue migliori amiche:
“Buongiorno Principessa!”, la salutò allegra Lucinda mentre Daphnè gemeva di voler sparire dall’universo e afferrava il suo cuscino per premerselo sul viso. La portoghese invece, affatto preoccupata, sedette sul bordo del materasso lisciando distrattamente le pieghe del copripiumino e allargò il suo sorriso mentre Clelia, sbuffando, chiedeva a gran voce di spegnere la musica cercando di surclassare le note di Wagner con il proprio timbro.
 “Che fai, ti nascondi? Non ti avrà mica morso un vampiro voglio sperare!”
“Nessun vampiro.”, borbottò la voce di Daphné al di sotto del cuscino con un tono tetro che Lucinda ricordava di averle sentito usare solo in poche occasioni: quando avevano finito di guardare The Notebook e prima di un’esibizione, quando si faceva vincere dal panico da palcoscenico.
“Beh meno male, in estate volevo chiederti di andare al mare insieme, se fossi un vampiro sarebbe un po’ complicato. Allora, perché te ne stavi qui a farti martellare le orecchie da Richard Wagner?” Lucinda si allungò chinandosi verso i propri piedi per slacciare e sfilarsi le deliziose scarpette blu e azzurre della divisa per poter assumere una posizione più comoda, incrociando sul piumino le gambe esili fasciate dalle calze mentre Daphné si toglieva finalmente il cuscino di dosso per gettarle un’occhiata cupa e indicare il suo telefono, abbandonato sul comodino, con l’indice:
“Lo senti?”
Lucinda non era del tutto sicura in merito a cosa avrebbe dovuto sentire oltre al brano sparato ad alto volume e aggrottò le sopracciglia prima di annuire lentamente, guardando l’amica iniziando a chiedersi se non si fosse scolata qualcosa di forte per affogare la disperazione:
“Sì, sono le Valchirie.”
“No, non sono le Valchirie, è Wagner che persino da morto e sepolto mi prenderà brutalmente a calci davanti a tutti.” Daphné si premette di nuovo il cuscino sul viso piagnucolando, o almeno era ciò che aveva intenzione di fare, ma Lucinda glielo strappò di mano per abbracciarlo intimandole che di quel passo avrebbe riempito di mascara colato la sua bella federa di raso color confetto. Non avendo nient’altro da abbracciare – Duchess se n’era andata non gradendo tutta quella gente attorno – alla francese non restò che lamentarsi e inveire contro l’uomo che, quel giorno, più detestava al mondo:
“Quanto odio Richard Wagner! Lo hai sentito? È impossibile, lui e il suo dannato anello del cavolo! Come si fa ad impararlo in un mese?! Un mese! Mi verrà un esaurimento giusto in tempo per Natale!”
Detta così sembra che tu stia parlando di Sauron.”
Peggio! Non riuscirò mai ad imparare i brani in tempo, farò una figuraccia e Corradi si infurierà. A mia madre non voglio neanche pensare, come minimo mi esilia in soffitta come Cerentola.”, piagnucolò la francese precipitando sempre più in profondità di un tunnel senza fine fatto di desolazione, “E poi mi taglierà i viveri, passerò il Natale vendendo fiammiferi in strada come la piccola fiammiferaia!”
“Se ti consola erano tutti visibilmente disperati a lezione, non sei la sola.” Nel tentativo di essere di qualche conforto per l’amica Lucinda si strinse debolmente nelle spalle, e all’improvviso le tornarono alla mente le lacrime che era sicura di aver visto rigare più di qualche volto alla vista dell’immenso plico di spartiti che Corradi aveva distribuito quel mattino per mettere al tappeto l’umore generale di tutta l’Orchestra.
“Certo che erano disperati,” commentò con una punta di rassegnazione Clelia riuscendo finalmente a mettere mano sul telefono rosa di Daphnè per mettere a tacere, con gran sollievo di Lucinda e dell’udito collettivo, il compositore più temuto da ogni aspirante musicista che si rispetti, “è Wagner. Quando passava Attila i fiori non crescevano più, quando senti nominare Wagner sei tu che vorresti sotterrarti e sparire.”
“Esatto. Mi darò malata. Dirò di avere qualcosa di terribile, come la tubercolosi.” Daphnè annuì decisa e si sistemò meglio il copripiumino addosso, pronta ad assumere una posa da moribonda mentre Lucinda, il cuscino ancora tra le braccia, la guardava esasperata e sentendosi piuttosto scettica a proposito della riuscita del piano dell’amica:
“L’hanno debellata la tubercolosi genia, c’è un vaccino!”
Qualcos’altro allora, o Wagner anche da morto mi farà fare una figuraccia davanti a tutta la scuola! Maledetto schifoso.”
 
 
divisore
 

 
Venerdì 25 novembre


 
“Mi devi fare un favore Die’.”
Diego stava leggendo un interminabile e orribile capitolo dei Promessi Sposi appuntando a bordo pagina con una matita gli spunti di riflessioni richiesti da Lefevre per la settimana successiva quando la sua dolce cugina aveva deciso di porre momentaneamente fine al suo tedio piazzandoglisi davanti e sottraendogli il voluminoso romanzo, probabilmente per essere certa di ottenere tutta la sua attenzione. Trovatosi bruscamente senza libro Diego aveva istintivamente sollevato il capo per puntare i brillanti occhi azzurri su Clelia, inarcando un sopracciglio mentre la guardava gettare un’occhiata alla copertina del volume e dar vita di conseguenza ad una smorfia disgustata:
“Merlino che merda. Ma non l’hai già lett0?”, domandò la ragazza appoggiando il romanzo sul tavolo della Biblioteca davanti al quale il cugino aveva preso posto, guardandolo stringersi debolmente nelle spalle mentre la guardava rigirandosi la matita tra le dita affusolate e piene di calli:
“Eccome, ma Lefevre vuole argomenti di discussione, sto fingendo di interessarmi alla lettura.”
“Contento tu. Insomma, ti dicevo che devi farmi un favore.”
“Dimmi cara cugina, cosa posso fare per allietare la tua giornata?” Diego parlò rivolgendo alla cugina un sorriso amabile che sapeva di presa per il culo, ma Clelia era giunta per chiedere un favore ed era dunque perfettamente consapevole di non potersi permettere di replicare (avere dei fratelli maggiori le aveva insegnato moltissime cose), pertanto si limitò ad arricciare il naso con lieve stizza prima di fare finta di nulla e incrociare le braccia al petto:
“Potresti smettere di fingere di non essere una persona gentile per un pomeriggio o due e prestare la tua genialità al prossimo? A Natale e a fine anno scolastico Corradi vuole suonare Wagner e sono tutti disperati.”
“Wagner?” Essendo la musica entrata nella conversazione Clelia aveva tutta l’attenzione del cugino, che inarcò un sopracciglio chiedendosi quanti spigoli il mignolo del piede di Corradi avesse incontrato di recente per spingerlo a sottoporre un gruppo di adolescenti ad una simile tortura.
“L’anello del Nibelungo. Una parte, ovviamente, non tutto.”
“Vorrei ben vedere, è una tetralogia di 900 minuti, staremmo a sentire l’Orchestra più o meno dal taglio del Panettone fino a Capodanno. Quindi chi dovrei aiutare?”
Diego non avrebbe mai avuto la presunzione di affermare di essere in grado di eseguire tutti i brani che componevano le quattro opere della tetralogia, ma di certo con suo nonno ne aveva studiati la maggior parte e molto probabilmente il suo aiuto sarebbe potuto risultare di qualche utilità per qualcuno dei suoi compagni. Parlare di musica o suonare a scuola non era in realtà mai stato di suo gradimento, ma di abbandonare qualche povera anima ad un crudele destino chiamato Richard Wagner proprio non se la sentiva.
Clelia, capito di aver raggiunto il suo obbiettivo a tempo record, sorrise compiaciuta. E Diego quasi si pentì di aver accettato.
 
Come gli era venuto in mente di accettare, si chiese atterrito e amareggiato Diego un’ora dopo mentre saliva gli interminabili gradini ricurvi che conducevano in cima alla Torre Nord. Vestito di nero, cupo e ingobbito – anche perché gli spartiti della tetralogia pesavano, e non poco – Diego si sentì improvvisamente vicinissimo al Gobbo di Notre-Dame mentre Clelia, subito dietro di lui, non la smetteva di riempirgli le orecchie e di stordirlo col suo allegro chiacchiericcio: la cugina sembrava essersi improvvisamente resa conto che tutto sommato lui e l’amica che aveva accettato di aiutare avrebbero potuto “essere carini insieme”, e non la smetteva di dargli consigli del tutto non richiesti su come comportarsi.
“Clelia finiscila, mi stai innervosendo, vai ad accasare Icaro se ci tieni!”
“Ma con quello è impossibile, a lui non piace mai nessuno!” Clelia scosse il capo e liquidò il discorso con un gesto che sembrò voler scacciare il ronzio fastidioso di una mosca, portando Diego a smettere di salire i gradini per fermarsi, voltarsi verso di lei e guardarla come certo che avesse improvvisamente perso il senno. O forse era lui che, oltre che miope come una talpa, stava anche diventando rincoglionito? Eppure, anche se non ci vedeva bene, le ragazze che al passaggio di suo cugino lo guardavano sognanti era certo di non essersele immaginate.
“Ma che cazzo dici Clelia, se è pieno di ragazze?!”
“Sì ma non gli interessano seriamente, lo sai com’è. Sarebbe proprio carino invece se il mio cugino tenerino si prendesse una cotta.”  Le labbra di Clelia ripresero la forma del sorrisetto sfoggiato fino a poco prima mentre con una mano pizzicava la guancia destra del cugino, ridacchiando divertita quando vide il volto del ragazzo imporporarsi e Diego le scacciò la mano infastidito:
“E piantala!” Più pentito che mai di aver accettato riprese a salire affrettando il passo nella speranza di seminare la cugina, che tuttavia superò le sue aspettative riuscendo a stargli dietro scavalcando due gradini alla volta e continuando imperterrita a snocciolargli consigli:
“Ricordati di non fare il musone, sii gentile e non farla sentire stupida se sbaglia, non piace a nessuno!”
“Clelia, ho già interagito con degli esseri umani in passato.”
Certo forse le interazioni sociali non erano proprio ciò in cui eccelleva, ma questo si guardò bene dal riconoscerlo a voce alta mentre Clelia, ignorando il suo commento, gli intimava di allenare i muscoli facciali per sorridere di tanto in tanto.
 
Daphnè aveva occupato la sua solita seduta, più per abitudine che per altro, e stava aspettando con il flauto già tirato fuori dalla custodia, posato in grembo, e l’alta pila di spartiti che la fissavano minacciosissimi dal posto di fianco. Discretamente preda dell’agitazione, le sue ginocchia sembravano non volerne sapere di stare ferme e non facevano che tremolarle all’impazzata, esattamente come accadeva prima di un’esibizione o di una potenziale interrogazione: se Diego era davvero un così bravo musicista l’idea di suonare e di sbagliare clamorosamente davanti a lui la innervosiva non poco, temendo di passare per una totale incapace.
Aveva appena gettato l’ennesima occhiata nervosa al suo orologio da polso in maglia d’oro con il quadrante di madreperla quando nell’ampia sala circolare deserta aveva preso a risuonare l’eco indistinto di un paio di voci, una maschile e una femminile, provenienti da dietro la porta chiusa che collegava le scale con la cima della torre. Incuriosita e non riuscendo a comprendere una parola – le voci stavano parlottando in italiano – Daphné puntò lo sguardo sulla porta bianca a forma di arco e raddrizzò spalle e schiena per assumere la postura a cui sua madre aveva sempre cercato di abituarla giusto in tempo per vederla aprirsi e scorgere la figura di nero vestita e dall’aria visibilmente seccata di Diego Colonna, che aveva appena faticosamente placato i tentativi di sua cugina di pettinargli i capelli usando una spazzola da borsetta a forma di unicorno.
“Ciao Diego.”
Daphné si stampò un sorriso gentile sulle labbra mentre il ragazzo si chiudeva la porta alle spalle con fare forse appena un po’ troppo sbrigativo, quasi stesse morendo dalla voglia di liberarsi della persona che lo aveva accompagno fin lì, e la francese lo vide seguire il suono della sua voce e far correre lo sguardo sulla sala delle prove stringendo leggermente gli occhi fino ad individuarla e rivolgerle un muto cenno del capo, avvicinandosi portando con sé tutti gli spariti.
“Ciao Daphné. Mia cugina mi ha detto che sei un po’ preoccupata per Wagner.” Raggiunta la compagna Diego spostò leggermente le sedie che si trovavano immediatamente davanti a lei – le viole lo avrebbero perdonato – per far sì che entrambi avessero più spazio per muoversi, prendendo posto su una sedia vicina per posarsi gli spariti sulle ginocchia mentre Daphnè accarezzava il bordo freddo del suo flauto annuendo con lieve nervosismo:
“Sì, diciamo.”
“Da quale opera vuoi iniziare?”  Se percepì il suo nervosismo Diego non lo diede a vedere, limitandosi a guardarla in pacata attesa mentre Daphné, le ginocchia finalmente tornate immobili, esitava mordicchiandosi indecisa il labbro inferiore e togliendosi così parte del balsamo alla fragola che in quei giorni vi spalmava di continuo a causa del freddo crescente. Alla fine, non volendo tentennare a lungo e farsi risucchiare dalla propria indecisione, Daphné si impose di ricorrere alla proposta più logica, ovvero alla prima opera della Tetralogia:
“L’oro del Reno?”
Diego annuì in segno di muto assenso prima di porgerle gli spariti della prima scena, suggerendole di provare ad usare i suoi invece di quelli consegnatale da Corradi a lezione. Daphnè si prese qualche istante per studiarli accarezzando i numerosi pentagrammi incolonnati l’uno sotto l’altro con lo sguardo e appurando così la presenza di numerose annotazioni sui margini e segni fatti a matita sulle note, presenza che Diego giustificò asserendo di aver ritenuto che potessero esserle d’aiuto.
“Li hai fatti quando hai studiato il brano?”
“No, li ho fatti prima sulle prime scene di tutti e quattro i drammi, ho pensato che ti sarebbero stati utili.”
“E hai eseguito i brani?” Daphné tornò sbigottita a guardare l’italiano chiedendosi come e quando avesse trovato il tempo di eseguire parte delle composizioni, ma la reazione di Diego, che si limitò a scuotere debolmente il capo in segno di diniego, la stupì ancora di più.
“Quindi sei andato… a memoria?”
“Non proprio, quando leggo gli spartiti riesco a sentirli molto bene. È un po’ difficile da spiegare.”
Invece di rispondere Daphné si limitò a fissarlo meravigliata per un paio di istanti che a Diego sembrarono interminabili e durante i quali si pentì di aver usato parole che avrebbero potuto suonare cariche di arroganza. Fortunatamente Daphné finì col sorridere spazzando via i suoi timori, impressionata e un tantino invidiosa al tempo stesso:
“Cavolo, beato te. Io li devo sentire, risentire e provare a dismisura.”
“È normale, non vuol dire che tu non sia brava. Comunque,” Diego si raddrizzò sulla sedia e si schiarì la voce, non vedendo l’ora di cambiare argomento, e sollevò il primo spartito della sua pila per agitarlo lievemente:
“immagino tu sappia che Wagner aveva una concezione dell’opera d’arte totale, quindi componeva l’opera e scriveva anche i testi poetici dei drammi. Scrisse la Tetralogia per denunciare il sistema capitalistico e borghese della prima metà dell’Ottocento mascherando la denuncia sociopolitica prendendo spunto dall'epopea tedesca del Nibelungenlied per la trama.”
“È per questo che la musica di Wagner è sempre… arrabbiatissima?” Daphné non avrebbe saputo quale altro aggettivo usare per definire al meglio composizioni dell’autore tedesco – almeno non in base alle sue conoscenze rispetto al repertorio –, ma quando colse lo stupore sul volto di Diego percepì una nota quanto sgradevole sensazione di calore pervaderle le guance. Per un attimo temette sinceramente che l’italiano le avrebbe dato della frivola ignorante, ma finì col rilassarsi quando scorse un accenno di sorriso sollevare gli angoli delle labbra di Diego, che annuì sembrano sinceramente divertito:
“Sì, direi che più o meno si può definire così… Perciò quando suoni Wagner devi metterci impeto, trasforma l’ansia e il nervosismo in energia. Il protagonista dell’opera è Alberich, un nano, re dei Nibelunghi appunto, che oserei definire altamente sgradevole.”
“Mi ricorda un mio lontano cugino.” Daphné non aveva idea di come le fosse venuto in mente di uscirsene con un commento del genere, e quando l’italiano smise bruscamente di parlare per guardarla perplesso si sentì fastidiosamente arrossire fino alle radici dei capelli. Diego, invece esitò, guardando Daphné con una punta di perplessità prima di distendere le labbra per dare forma ad un sorriso scuotendo il capo:
“I miei sono tutti piuttosto belli e non hanno nulla che li renda simili ad un nano barbuto.” Il che era vero, rifletté silenziosamente Diego, come era vero anche che non avrebbe potuto affermare il contrario in ogni caso sospettando che una delle sue cugine fosse giusto appostata fuori dalla porta nel tentativo di origliare la conversazione. Al contempo Daphné sorrise, rilassandosi, ma si chiese per quale motivo Diego avesse pronunciato quelle parole gettando una rapida e sfuggente occhiata in direzione della porta chiusa della torre, quasi si aspettasse di poter udire un commento o una risposta di qualche tipo risuonare tra le pareti.
 


 
divisore
 
 
 
Sabato 26 novembre
 

 
Se un qualsiasi studente di Beauxbatons si fosse alzato dal letto al sorgere del sole e avesse fatto indugiare il proprio sguardo sul vetro di una delle finestre che si affacciavano sul versante del Lago avrebbe potuto senza alcun dubbio scorgere dieci piccole sagome avanzare, tutte con degli zaini sulle spalle, proprio verso i faggi che si trovavano in prossimità del vasto specchio d’acqua dolce che bagnava parte della tenuta.
Naturalmente ciò non sarebbe avvenuto poiché nessuno studente sano di mente si sarebbe alzato dal letto tanto presto di sabato mattina, specie in pieno autunno, quando a quell’ora il freddo si faceva più pungente che mai. Nessuno, certo, fatta eccezione per le dieci persone che si stavano trascinando verso le sponde del Lago d’Oô, quasi tutte sbadigliando mentre calpestavano le foglie secche gialle e arancioni cadute dalle fronde ormai quasi del tutto spoglie dei faggi nel corso dei giorni precedenti.
Antoine e Gisèle, abituati ad alzarsi molto presto, giunsero per primi, seguititi in breve tempo da Milad, Abel e Guillaume – all’arrivo del cugino Gisèle aveva inforcato rapida un paio di occhiali da sole vintage marrone Havana firmati Ralph Lauren rubati a sua madre l’estate precedente, certa che vedere la faccia di Guillaume a quell’ora fosse troppo per le sue povere cornee –  da Leticia e da Nerea – che si stringeva le cinghie dell’enorme zaino di tela verde pino sorridendo con più entusiasmo di chiunque altro – e infine da Annika, che si fermò di fronte ai compagni con uno zaino color glicine quasi più ingombrante della sua esile figura sulle spalle e scusandosi affannata per il ritardo con il viso normalmente pallido arrossato per l’imbarazzo. A rassicurare la Papillonlisse ci aveva rapidamente pensato Leticia, pronta a far notare all’amica e a tutti gli altri di come all’appello mancassero ancora un paio di persone:
“Dove cazzo sono Etienne e Icaro?!”
 
Nicholas Lefevre sapeva perfettamente che sperare nella puntualità dei suoi studenti, quegli studenti in particolare, equivaleva e sperare nell’eventualità che un bel giorno una valigia piena di monete d’oro sarebbe caduta dal cielo atterrando ai suoi piedi; proprio per questo motivo si era recato al punto d’incontro prestabilito la settimana precedente attraverso biglietti che si erano autodistrutti dopo la lettura prendendosela comoda: dicembre era alle ormai alle porte, quando il sole ancora non era sorto la valle in cui sorgeva la scuola era avvolta dal gelo e di aspettare al freddo per un’eternità non ne aveva intenzione alcuna.
Dopo essersi vestito ed essersi premurato di prendere un vecchio vaso di ceramica sbeccato in più punti aveva lasciato la sua stanza, aveva raggiunto il pian terreno scendendo le scale deserte, l’eco dei suoi passi sul marmo a fargli compagnia risuonando tra le pareti e nient’altro, e infine aveva varcato la soglia del castello per addentrarsi nel parco della tenuta rabbrividendo per l’aria gelida che gli si era insinuata implacabile nei polmoni mentre avanzava a grandi passi sul prato, diretto verso le sponde del lago.
Considerando che le persone che si aspettava di trovare erano solo dieci appurare che qualcuno mancasse non fu difficile, Nicholas se ne rese conto con un sospiro non appena scorse le sagome studenti in piedi a poca distanza dai ciottoli bagnati dall’acqua dolce, quasi tutti impegnati a parlottare discutendo tra loro.
“Che cosa c’è? Dove sono… Orsini e Macquart?”, domandò non appena si fu fermato ad una manciata di metri dal piccolo gruppo, il vaso sempre stretto sottobraccio. Il suono della sua voce, che tradì immediatamente una punta di nervosismo, interruppe ogni discussione e portò su di sé sedici occhi, chiari, scuri e quasi tutti visibilmente desiderosi di tornare a dormire al più presto.
“Non lo sappiamo, Signore.”, si limitò ad asserire Guillaume con una pigra stretta di spalle mentre Nerea, a poca distanza e in piedi tra Leticia e Gisèle, ciondolava sul posto spostando distrattamente il peso da un piede all’altro e mordicchiandosi con lieve nervosismo il labbro inferiore, pentita di non essersi premurata di trascinare personalmente Etienne fuori dal letto.
“Come fate a non saperlo se vivete insieme e dormite nello stesso posto? Voi quattro dormite nella stessa stanza di Orsini.” Nicholas inarcò un sopracciglio mentre faceva rimbalzare le iridi grigio-azzurre dal punto in cui si trovavano Guillaume, Abel e Milad a quello dove si trovava Antoine, che svettava sul resto del gruppo stando fermo accanto a Gisèle e tormentandosi nervosamente le cinghie dello zaino blu. Lui e Milad si scambiarono una muta occhiata perplessa, incapaci di affermare dove fosse finito il loro compagno di stanza prima che Abel, le mani infilate nelle tasche profonde di una giacca a vento vermiglia e i lisci capelli biondissimi leggermente mossi dall’aria fredda del mattino, facesse eco a Guillaume parlando con tono neutro:
“A letto non era di sicuro quando siamo usciti. Anzi, è uscito dalla stanza prima di noi.”
La pazienza di Nicholas aveva un limite, specie a quell’ora del mattino. Sospirò cercando di mantenersi calmo, ma quando parlò la sua voce risuonò tra gli alberi con almeno un’ottava in più del normale:
“E allora dove sono?!”
 
“Muoviti, cazzo!”
Invece di scenderli uno alla volta Icaro saltò i gradini di granito che collegavano l’ingresso del castello al piazzale su cui esso si affacciava, incespicando sulla ghiaia che gli era di impedimento alla corsa mentre Etienne, subito dietro di lui, scendeva rapido i gradini con lo zaino che gli dondolava sulle spalle e sbuffando infastidito:
Io mi devo muovere? Ti ho aspettato per quasi dieci minuti buoni!”
“Non è colpa mia, sono uscito prima di tutti gli altri, ma per sfiga mi sono imbattuto in Nick sulle scale del Dormitorio e mi sono dovuto inventare una balla.” Icaro sbuffò maledicendo l’insonnia del suo amico, sperando vivamente che se ne fosse tornato a letto. Se non altro, rifletté con sollievo mentre Etienne affrettava il passo per stargli dietro, dalla camera di Phoenix il lago non era visibile e difficilmente avrebbe potuto scorgere lui e tutti gli altri. 
“Che ci faceva Phoenix in giro a quell’ora?!”
“Non dorme un cazzo, mi ha detto che si era messo a leggere su una poltrona e non sembrava parecchio convinto di quello che gli ho raccontato. Dai, muoviti!”
Era davvero troppo presto per correre, si ritrovò a riflettere Etienne mentre Icaro aumentava la frequenza delle falcate distanziandolo – certo il fatto che fosse più alto di lui non aiutava – e costringendolo così ad imitarlo, finendo col fermarsi davanti al resto del gruppo e ad un Lefevre visibilmente seccato quasi con il fiatone.
“Oh, bene, avete deciso di renderci omaggio con la vostra presenza. Datevi una mossa, avete cinque minuti.” Lefevre si chinò per posare il vaso sul prato mentre Etienne, agognando un bicchiere d’acqua, avanzava già stanco verso Nerea e Gisèle in cerca di conforto. Per sua sfortuna la Ombrelune non gli diede troppa soddisfazione in tal senso, anzi gli sorrise con fare beffardo e lo colpì giocosamente su una spalla:
“Non ti farebbe malaccio un po’ di allenamento, eh?”
“Oggi ho corso principessa, sono a posto per un mese. Ciao ragazze.” Mentre ancora cercava di riprendere fiato Etienne salutò con un cenno Nerea, Leticia e Annika, che gli rivolse uno dei suoi sorrisi dolci come lo zucchero a velo mentre Nerea, visibilmente felice di vedere l’amico, gli assicurava che senza di lui sarebbe stata indubbiamente una gita meno divertente.
“Non è una gita, è una tradizione. Il luogo è sempre lo stesso, vedete di non disastrarlo con qualche casino o ve la vedrete direttamente con i vostri genitori. Forza, tutti attorno al vaso.”
Seguì qualche istante di brusio generale mentre i dieci studenti cercavano di stringersi attorno al vaso, operazione resa più complicata a causa dell’ingombrante presenza degli zaini che ciascuno di loro reggeva sulle spalle. Guillaume appurò con orrore di essere capitato accanto a Gisèle mentre cercava senza successo di mettersi comodo sul prato – sentendosi un perfetto cretino a starsene lì accovacciato in attesa che un vaso sbeccato li portasse altrove –, e si premurò di dare una gomitata alla cugina e di chiederle garbatamente di spostarsi di qualche centimetro. L’altrettanto garbata risposta naturalmente non si fece attendere:
“E levati dalle palle!”
“Tu levati, sei sempre in mezzo peggio di Carlo V(2)!”

Nicholas, dal canto suo, decise di portare avanti la sua missione volta ad ignorare le scaramucce dei Delacroix e diede al gruppo le ultime informazioni utili senza battere ciglio, guardandoli in pacata attesa con le braccia strette al petto:
“La Passaporta vi porterà al Pont d’Espagne. È un’area naturale protetta quindi, di nuovo, non fate niente di stupido, e se potete evitate di cadere dal ponte.” Malgrado tendesse ad ignorarli quando discutevano per futili scemenze lo sguardo del mago indugiò comunque per un istante su Gisèle, gettando una lieve occhiata ammonitrice a lei e al sorriso che le era sorto sulle labbra mentre di certo immaginava di legare il cugino ad un tronco e gettarlo giù dalla cascata. “Da lì arriverete al Lac de Gaube, basterà camminare per un’ora.”
“Un’ora?!” La voce di Etienne si levò preoccupata mentre i suoi occhi chiari saettavano allarmati e inorriditi sul volto dell’insegnante: “E quando si mangia?!”
“Chiedo scusa Signore, ma come facciamo a sapere la direzione giusta da seguire?”, domandò invece Antoine con un accenno di sorriso pacato a sollevargli gli angoli delle labbra sottili, e a questa domanda, al contrario di quella sollevata da Etienne, Nicholas decise di potersi degnare di rispondere trovandola sensata:
“Ho dato una bussola a Sarkis, vi sarà sufficiente usare quella. Ricordate, ai vostri compagni dirò che vi ho spediti a Parigi per un progetto di storia dell’arte, vedete di tenerlo a mente quando tornerete e vi faranno delle domande.”
“Che palle, chi lo dice alle mie sorelle che non avrò souvenir per loro se pensano che sono stato a Parigi per tutto il weekend?”, sbuffò Icaro amareggiato prima di imprecare a bassa voce per colpa di un crampo al polpaccio dovuto alla posizione scomodissima in cui si trovava, intimando secco ad Etienne di spostarsi di qualche centimetro per garantirgli un po’ di spazio in più mentre Guillaume, un sopracciglio inarcato, domandava scettico a Lefevre per quale motivo avesse consegnato la fantomatica bussola a Milad.
“Semplice, perché lui è affidabile. Bene signori, buon viaggio, vedete di tornare tutti e dieci e con tutti gli arti al loro posto… L’albero che dovete trovare è segnato, non dovrebbe esservi difficile riconoscerlo… E ricordate, domani alle 15.”
Con ogni probabilità Guillaume avrebbe sollevato una qualche obiezione legata al suo essere affidabile tanto quanto il belga – che pur non amando darsi delle arie non riuscì a trattenere un accenno di sorriso fortemente compiaciuto, più per la consapevolezza di aver infastidito il francese che per la mansione affidatagli dall’insegnante – ma la voce del ragazzo venne spazzata via ancora prima di levarsi dall’azionarsi della Passaporta, che portò lontano dalla tenuta i ragazzi e anche le preoccupazioni di Nerea, che ebbe appena il tempo di chiedersi assorta se avesse ricordato o meno di mettere nello zaino i marshmallow prima di sentirsi strappare bruscamente dal terreno, come legata al vaso da un filo invisibile.
Un istante dopo Nicholas era solo, in piedi davanti ad un pezzo di prato completamente vuoto che tuttavia serbava ancora il ricordo della presenza dei ragazzi nei punti vi si erano sistemati, dove i fili d’erba erano appiattiti. Il silenzio che improvvisamente lo colse fu una piacevolissima sorpresa, e Nicholas se lo godette con un profondo sospiro prima di sorridere, sentendosi un po’ più leggero rispetto a soli pochi istanti prima:
Finalmente.”
Il suo predecessore glielo aveva detto, che star dietro a quel gruppo non sarebbe stata una passeggiata, ma Nicholas si chiedeva anche quanti ce ne fossero stati, nella storia della Brigade, di assemblaggi di studenti tanto bislacchi. Determinato a godersi un po’ di meritato riposo l’insegnante levò in aria le braccia per stiracchiarsi mentre dava le spalle al lago, dirigendosi verso il castello per scendere nelle cucine e bersi una generosa tazza di caffè bollente mentre le nuvole sopra di lui si tingevano di meravigliose e calde sfumature di rosa e d’arancione.
 
 
divisore
 
 
 
Pont d'Espagne, Alti Pirenei


 
Atterrare in malo modo costituiva per Etienne Macquart un’abitudine, pertanto quando giunse a destinazione sbattendo il naso al suolo non provò, dolore a parte, poi tutta questa gran sorpresa. Dopo che il suolo contro cui era premuto il suo volto ebbe attutito il suo sofferto gemito Etienne si agitò per cercare di rigirarsi in modo da mettersi supino sul prato e alzarsi in piedi, operazione resa particolarmente difficoltosa a causa dell’ingombro dello zaino che reggeva sulle spalle. Inveendo contro il campeggio, le tradizioni e la separazione forzata da ciò che di più caro aveva al mondo – il suo letto e la sua gatta – Etienne riuscì infine a rotolare su se stesso mettendosi sul fianco, esalando un sospiro stanco – erano partiti da cinque minuti scarsi ed era già esausto – prima di mettere a fuoco il bellissimo cielo rosa che si ergeva sopra di lui.
Se non altro il panorama non era male, cercò di consolarsi il francese mentre si tastava il naso preoccupato, timoroso di averlo rotto. A poca distanza Nerea, atterrata in piedi, stava aiutando Leticia ad alzarsi trillando entusiasta qualcosa a proposito della bellezza del luogo in cui si trovavano, ma l’attenzione di Etienne venne ben presto catturata da Gisèle, che dopo aver toccato il suolo con una grazia che a lui sarebbe eternamente rimasta sconosciuta si stava spolverando con disinvoltura le maniche della giacca a vento verde che indossava, in tinta con i leggings termici. Come i suoi occhiali da sole fossero sopravvissuti incolumi all’atterraggio Etienne non seppe spiegarselo.
“Ma che cazzo mangi a colazione?”, domandò il francese all’amica quasi con tono affranto mentre cercava di trovare le forze – inclusa quella di volontà – per alzarsi in piedi. Per sua fortuna Gisèle si sfilò gli occhiali adagiandoli sul frontino del cappellino da baseball bianco e gli rivolse un sorriso, avvicinandoglisi senza esitazione per porgergli una mano:
“Quello schifo di fette biscottate integrali che sanno di segatura. Vuoi provare?”
“Per carità, no.” Etienne si sentì scuotere da un brivido solo all’idea, ma accettò di buon grado la mano che l’amica gli porgeva e si lasciò aiutare ad alzarsi dalla forza sorprendente delle braccia di Gisèle. Così facendo riuscì finalmente a guardarsi attorno mentre si dava una ravvivata distratta ai lisci capelli biondo cenere, vedendo Milad, Antoine e Icaro chini sulla bussola che il primo teneva in mano dopo averla estratta dalla tasca della sua giacca nera. Mentre i tre parlottavano discutendo in merito alla strada da prendere Leticia, Annika e Nerea si erano avvicinate all’enorme ponte di pietra accanto al quale erano atterrati – visto il suo tremendo atterraggio Etienne ringraziò chiunque avesse stabilito le coordinate dell’arrivo, o il suo naso avrebbe dolorosamente incontrato del granito anziché una porzione di prato –, godendosi la visuale sulle ripide cascate che si trovavano sotto di loro.
“Cavolo, fa freddissimo, quanto in alto siamo?” Di nuovo Etienne rabbrividì, questa volta a causa dell’aria fredda che gli si stava insinuando nei polmoni, mentre si sistemava le bretelle dello zaino sulle spalle e Gisèle, accanto a lui, si sfilava il cappellino bianco per legarsi i capelli in una coda di cavallo:
“Credo di gran lunga sopra i 1000 metri. Da qui una volta si arrivava in Spagna attraverso le montagne… Rea, ti prego, non ti sporgere!” La voce della francese si alzò di un’ottava e assunse improvvisamente un’inclinazione preoccupata alla vista dell’amica, che si stava sporgendo leggermente oltre il parapetto di pietra per godersi il panorama naturale e cercare di scorgere al meglio l’enorme cascata vicino alla quale si trovavano, visione che la portò ad allontanarsi brevemente da Etienne per affrettarsi verso lei, Annika e Leticia.
“Gisèle, stai tranquilla, non ho cinque anni!”, osservò ridendo l’italiana quando l’amica, raggiunto il ponte, si posizionò dietro di lei e l’afferrò per l’orlo della giacca, pronta a trattenerla e impedirle di cadere. Gisèle al contrario, guardandosi bene dall’avvicinarsi a sua volta al parapetto, per nulla intenzionata a far indugiare il proprio sguardo sulle cascate sotto di loro, si limitò ad una debole stretta di spalle:
“Meglio prevenire. Ma se vogliamo chiedere a qualcuno di guardare bene il panorama in nostra vece possiamo chiedere a mio cugino.”


“Ragazzi, venite, dobbiamo salire per di qua! E vedete di muovervi, perché non voglio perdere e andare a cercare nessuno!” Vivamente intenzionato ad arrivare a destinazione in fretta e non oltre l’ora di cammino prestabilita Icaro alzò la voce e fece cenno ai compagni di incamminarsi dietro a Milad e ad Antoine, che già si stavano allontanando chiacchierando. Guillaume e Abel superarono l’italiano per seguire gli altri due, con tanto di commento non propriamente mormorato da parte del francese:
Mia cugina possiamo anche lasciarla qui, nessun problema.”
“Io ho fame!”, si premurò invece di far sapere Etienne all’amico quando lo ebbe raggiunto, lo sguardo triste e implorante da cucciolo maltrattato. Suo malgrado Icaro non riuscì a trattenere un lieve accenno di sorriso a quella vista, e colpì un paio di volte la spalla dell’amico con un paio di pacche d’incoraggiamento:
“Mangiamo quando arriviamo, forza bello. Gambe in spalla.”
Le labbra di Etienne si tesero in una smorfia mentre superava Icaro – quel weekend proprio non gli piaceva per niente –, che invece dopo aver individuato le ragazze alzò gli occhi al cielo prima di alzare la voce per farsi sentire da Annika, Leticia, Nerea e Gisèle, tutte ancora nei pressi del ponte:
“Ragazze, finitela di farvi le foto, dobbiamo andare!”
Dopo aver scattato la quattordicesima foto perfettamente identica ad Annika e Leticia Nerea si affrettò a restituire il telefono alla compagna di Casa e a rivolgere un allegro sorriso di scuse ad Icaro, affrettandosi a raggiungerlo con rapide e ampie falcate mentre lo zaino le si agitava tintinnando rumorosamente sulle spalle esili, portando l’italiano a chiedersi che cosa diavolo si fosse portata dietro. Gisèle invece seguì l’amica prendendosela decisamente comoda, la tazza termica nera piena di caffè che aveva precedentemente sfilato dallo zaino in mano e gli occhiali da sole di nuovo calati per schermarle lo sguardo:
“Arriviamo, che stress… Tranquillo che i bigodini li puoi tenere in posa anche mentre dormi.”
“I bigodini li porterai tu, i miei capelli sono naturalissimi!”
Icaro seguì stizzito e oltraggiato la compagna di Casa unendosi alla fila, ma Gisèle sembrò ignorare le sue parole tanto quanto il suo malcontento, limitandosi a riprendere a sorseggiare il suo caffè mentre poco più avanti Nerea porgeva sorridendo affettuosamente ad Etienne un panino farcito alla Nutella: sua madre e sua nonna l’avrebbero come minimo disconosciuta se avessero saputo che era andata in gita senza nemmeno un po’ di cibo nello zaino.
 
Quando un’ora dopo ebbero raggiunto il lago il sole era ormai definitivamente sorto illuminando un cielo azzurro e limpido e la vasta distesa d’acqua blu incuneata in mezzo alle montagne e ad un ampio paesaggio verdeggiante. Ancora non del tutto certo di quale fosse di preciso la loro destinazione ultima, dopo aver scavalcato un alto dislivello formatosi sul sentiero che avevano seguito fin dal Pont d’Espagne Milad si sfilò per l’ennesima volta la piccola bussola d’oro dalla tasca della giacca blu, sollevando il coperchio che riportava l’incisione di una rosa dei venti per studiare accigliato l’ago vermiglio dello strumento magico che, anziché puntare a Nord, stando alle parole di Lefevre si muoveva indicando loro la direzione da seguire.
Gli occhi scuri del ragazzo accarezzarono l’ago rosso della bussola e poi volsero altrove cercando di seguirne la direzione, ritrovandosi ad osservare la fiancata della distesa d’acqua dolce che bagnava i margini di un bosco di pini mentre, alle sue spalle, dopo averlo raggiunto Antoine si voltava verso il resto del gruppo e allungava una mano a Gisèle, aiutandola ad issarsi sul proseguo del sentiero.
“Grazie Antoine. Ormai non dovremmo esserci? Al lago ci siamo arrivati, no?” approfittando della sosta dettata da Milad Gisèle si lasciò scivolare lo zaino dalle spalle per farlo cadere ai propri piedi, accanto alle scarpe da ginnastica nere leggermente impolverate, e circondò la vita dell’amico con le lunghe braccia per appoggiarsi stancamente ad Antoine senza smettere di guardarsi attorno, scrutando scettica il lago attraverso le lenti scure dei suoi occhiali.  
“Sì, ma credo che dobbiamo raggiungere il bosco, in mezzo agli alberi da quella parte.”  Milad levò il braccio destro per indicare distrattamente il bosco, che si trovava quasi dall’altra parte del lago rispetto a dove si trovavano in quel momento, prima di riporre la bussola al sicuro nella tasca della giacca e voltarsi verso i due compagni di Casa, giusto in tempo per udire il lieve sbuffo che si levò da Gisèle e vedere Icaro spuntare accanto a lei e ad Antoine spolverandosi distrattamente i pantaloni con una mano e indicando un punto imprecisato alle sue spalle con l’altra:
“Dovremmo fermarci per un minuto o due, gli altri sono rimasti indietro.”
“Perché? Nessuno si è fatto male, vero?” Nella mente di Milad, che aveva ripetuto talmente tante volte ai compagni di non restare indietro e di non uscire dal sentiero di montagna dal finire col sentirsi alla stregua di una vecchia zia apprensiva, subito presero vita gli scenari più orribili e catastrofici, ma fortunatamente Icaro li mise immediatamente a tacere scuotendo il capo mentre si sistemava distrattamente le bretelle dello zaino sulle spalle, guardandosi attorno schermandosi il viso con la mano sinistra per proteggersi gli occhi scuri dalla luce del sole:
“No, credo che Nerea abbia visto una marmotta. Da che parte dobbiamo andare?”
“Nel bosco, suppongo che la zona protetta dagli incantesimi sia lì da qualche parte.” Milad accennò di nuovo in direzione del bosco sentendosi pervadere dal sollievo, ma Gisèle non sembrò dello stesso avviso: mentre intuiti i pensieri dell’amica un sorriso divertito allargava le labbra di Antoine la ragazza sgranò inorridita i grandi occhi chiari prima di voltarsi cercando con lo sguardo la Bellefuille, certa che in quel momento Nerea fosse impegnata nel disperato tentativo di fare amicizia con un’adorabile marmotta.
Una marmotta? Allora non ce ne andremo mai più.”
 
“Uffa, qui non prende per niente! Volevo cercare su internet se esistono casi di marmotte addomesticate… Magari potrei chiederne una per Natale!” Una ventina di minuti dopo il gruppo si era finalmente inoltrato in mezzo al bosco di pini che fiancheggiava il lago, ma forse per la prima volta in vita sua Nerea non si stava godendo appieno il panorama e la natura in mezzo a cui si trovava e stava invece litigando con il telefono, le braccia lunghe ed esili levate in aria mentre cercava disperatamente un po’ di campo. Gisèle, che la stava affiancando in quell’ultimo tratto di cammino, si scansò appena in tempo per evitare di prendersi il basso ramo di un pino in pieno volto prima di parlare cercando di immaginare una marmotta unirsi allo zoo che Nerea già gestiva a casa propria:
“Oh, sì, tua madre sente di sicuro il bisogno impellente di una marmotta domestica. Chissà invece come se la caverà Vaclav da solo fino a domani sera…” Gisèle non lasciava mai il suo gatto, lo portava con sé persino nelle sue lunghe estati a Londra, quando si chiudeva in Accademia per i corsi intensivi estivi per lunghe settimane. La francese sospirò tristemente sentendo già la mancanza del suo gatto, per il quale essendo sordo nutriva una vera e propria iperprotettività, e Nerea smise brevemente di cercare campo abbassando le braccia per avvolgere le spalle dell’amica con il destro, sorridendole affettuosamente e assicurandole che sarebbe stato benissimo. Nerea suggerì allegra che con ogni probabilità il viziatissimo gatto avrebbe passato tutto il weekend a dormire beatamente sul suo letto, e trovando l’immagine tutto fuorché poco realistica la francese annuì e un accenno di sorriso tornò rapidamente a sollevarle gli angoli della labbra.
“Ecco, brava, sorridi. Ora tesoro, parlando di cose serie, tu come la chiameresti una marmotta? Che ne dici di Isotta?”
“Isotta la marmotta?”, le fece eco Gisèle aggrottando scettica fronte e sopracciglia, ma l’italiana non sembrò cogliere il suo evidente scetticismo perché spalancò euforica gli occhi verdi, come trovandola un’idea sensazionale. Era proprio un peccato che non prendesse per nulla in quell’angolo di Francia in cui si trovavano, o avrebbe già chiamato sua sorella Calipso per chiederle cosa ne pensasse del nome che aveva scelto.
Nel frattempo, solo qualche metro più avanti, Milad, il capo chino e gli occhi scuri puntati sempre sulla bussola, smise di colpo di camminare fermandosi nel bel mezzo di una piccola radura: da quasi un minuto lo strumento sembrava essere impazzito, e l’ago scarlatto non sembrava volerne sapere di smettere di agitarsi roteando e puntando senza un senso apparente in tutte le direzioni.
“Ok, l’ago della bussola sta girando all’impazzata, quindi o è rotta, e spero vivamente che non lo sia, o siamo arrivati.”
“Siamo arrivati, lo decido io, mi sono rotto di camminare!” Etienne, subito dietro il belga insieme ad Icaro, diede maggiore enfasi alle proprie parole e alla propria ferrea decisione levandosi lo zaino e gettandolo sul prato, stabilendo che da lì non si sarebbe proprio più mosso di un centimetro.
Consultandosi rapidamente i dieci decisero che si sarebbero stabiliti nei paraggi con le loro tende, e tutti stavano perlustrando la zona per decidere dove sistemarsi quando Annika, in piedi a pochi metri dalla riva del lago insieme a Leticia, indicò accigliata dei sottili fili scuri a malapena visibili dal punto in cui si trovavano, ma che la ragazza aveva scorto in lontananza per quasi tutto il tragitto in salita compiuto per arrivare fino al lago.
“Ragazzi, che cosa sono quei fili laggiù? Li vedevo anche prima, mentre salivamo.”
“Credo sia una seggiovia, Anni.” Accanto a lei Leticia si schermò il viso con la mano destra e strizzò i grandi occhi chiari per cercare di vedere a sua volta e un attimo dopo le due vennero raggiunte da Etienne, che guardò sgomento a sua volta prima di voltarsi inorridito verso il resto del gruppo, indeciso se incazzarsi con Lefevre per quel piccolo dettaglio che gli era sfuggito o prenderla con filosofia:
“Una che?! Mi state dicendo che c’era una cazzo di seggiovia e noi siamo saliti a piedi come dei poveri coglioni?”
 
 
divisore
 
 
Nel frattempo, a Beauxbâtons, come quasi tutte le mattine Diego e Phoenix stavano facendo colazione insieme, anche se sarebbe stato più corretto dire che stavano facendo colazione occupando due sedie vicine ma entrambi con un libro aperto sul tavolo, in mezzo a piatti, tazze, briciole e bricchi caldi di tè, latte e caffè.
“Che cosa stai leggendo Dieghino?”, domandò il greco senza mentre allungava la mano pallida per prendere la sua tazza senza nemmeno alzare la testa.
“Il libretto dell’Otello(3).”
“Che rottura di palle.” Phoenix, che non si era e mai si sarebbe considerato un fan di Shakespeare, parlò distogliendo di sfuggita lo sguardo dalle pagine del suo libro per gettare una rapida occhiata in direzione dell’amico, abbozzando un sorrisetto beffardo quando lo vide distogliere a sua volta gli occhi azzurri dalle spesse pagine ingiallite del libricino che teneva aperto e appoggiato accanto al piatto e al suo croissant alle mandorle mangiato a metà. Diego scoccò all’amico occhiata sinceramente offesa che allargò il sorriso sulle labbra del greco, che trattenne a stento una risata – la soddisfazione che traeva nell’infastidirlo era persino superiore a quella che provava nel dar fastidio a suo cugino – mentre l’italiano lo scrutava torvo:
“Taci Nick, mia nonna cantava l’opera e ci tiene che legga questa roba. Tu cosa leggi?”
A dire la verità Diego doveva ringraziare che l’edizione mandatagli da sua nonna prevedesse un formato di stampa dei caratteri maggiori della media e che gli consentiva di riuscire a leggere senza occhiali senza perdere cinque minuti appresso ad ogni riga – o forse la scelta non era stata del tutto casuale –, e quasi senza rendersene conto accarezzò il bordo delle pagine ingiallite che la donna doveva aver letto e girato più e più volte nel corso della sua vita mentre teneva gli occhi chiari puntati sul viso pallido dell’amico che, come sempre, non riusciva a scorgere in maniera del tutto definita a causa della sua miopia. Il sorrisino di Nick, però, quello sì riusciva sempre a vederlo.
“Sto rileggendo Moby Dick, è decisamente uno di quei libri che va letto più di una volta per essere capito davvero.”
“Pensi che la tua balenotta sia più interessante di Otello?”
“Non lo so Dieghino, penso che l’allegoria della vita e dell’ignoto che nessun uomo può raggiungere pur spingendosi verso la follia e verso la morte sia più interessante di un pazzo coglione? Mi è difficile risponderti.”
Le conversazioni che lui e Nick intavolavano a proposito di letture erano solite protrarsi all’infinito e spesso degeneravano in delle discussioni vere e proprie – al termine delle quali, di norma, Diego poneva fine al silenzio teso proponendo con un borbottio all’amico di guardare insieme la puntata di una serie tv, mossa che aveva sempre un effetto conciliatorio – tanto che l’italiano scelse saggiamente di lasciar cadere l’argomento limitandosi ad alzare gli occhi al cielo. Per qualche lungo istante Nick tornò a leggere e Diego fece altrettanto, fino a che quest’ultimo non rammentò quale giorno della settimana fosse e cosa ciò significasse per il suo amico:
“Dopo hai la seduta?”
“Mh-mh.”
“Ci andrai? Ci devi andare, o ti trascinerò io.” Diego tornò a guardare l’amico stringendo gli occhi azzurri, per combattere la sua miopia e scrutarlo bene in volto più che per risultare minaccioso – come talvolta la gente fraintendeva, destando sghignazzi da parte di Icaro e Phoenix – nonostante fosse determinato a tenere fede alla sua promessa. Le sue parole destarono un rinnovato sorriso sul bel viso del greco, che annuì mentre tornava a guardarlo con un luccichio divertito nei brillanti occhi cerulei:
“Tranquillo, puoi sempre minacciarmi di cantarmi l’Otello, correrò a farmi psicanalizzare come non ho mai corso prima.”
Diego non avrebbe fatto sentire la sua voce in pubblico nemmeno se torturato e questo Phoenix lo sapeva benissimo: un sorriso più ampio allargò le labbra del greco mentre Nick guardava il volto dell’amico andare a fuoco, visione che lo portò a ridacchiare maligno prima di sporgersi verso di lui e colpirgli debolmente la spalla.
“Povero Dieghino, come mi intratterrei senza te nei paraggi?” Diego non ricambiò il sorriso dell’amico, si limitò a scoccargli un’occhiata di sbieco prima di tornare a concentrarsi sul suo libro, annuendo distrattamente prima di parlare:
“Già, soprattutto in assenza di Icaro.”
“Stamattina l’ho trovato in Dormitorio con questo enorme zaino, ha blaterato qualcosa a proposito di un progetto di arte e poi è schizzato via. Chissà che cazzo è andato a fare.”
Diego non rispose e quasi senza volerlo Nick, forse incuriosito da quel silenzio, gli gettò un’occhiata. Fu così che ebbe l’impressione si scorgere un accenno di sorriso sulle labbra dell’amico, e dato che dei due quello a vederci perfettamente era lui la cosa lo stupì non poco: che cosa ci trovava Diego di divertente nell’assenza del cugino? Sapeva qualcosa di cui lui era all’oscuro? Quel che era certo era che quel giorno il suo amico non era l’unico assente del suo anno, a giudicare dalle numerose facce che non aveva scorto quando era sceso al pian terreno per fare colazione.
“Sai qualcosa che non so?”
“Io non so proprio niente,” asserì l’italiano con un sorriso angelico, frutto di anni e anni di insegnamenti e tentativi da parte dei suoi cugini per permettergli di mentire senza farsi scoprire, “pensi che se Icaro avesse in mente di combinare qualcosa lo direbbe a me e non a te? Magari è andato a fare una gitarella con una ragazza, chissà.”
“E perché non dirlo allora? In realtà credo che gli assenti siano diversi, magari è davvero andato a fare un progetto inutile.”
“La cultura non è inutile, demente che non sei altro. A proposito, quando hai finito con la seduta ripassiamo insieme letteratura? Chiederò anche a Dante.”
“Come ti pare. Che farai in mia assenza, vagherai per i corridoi cercando di non inciampare su un gradino?”
“Devo aiutare Daphné con una cosa.” Diego si strinse nelle spalle per conferire alle sue parole il massimo grado di noncuranza possibile, ma Nick naturalmente le accolse in tutt’altro modo: il greco riuscì finalmente a dimenticare il libro sul tavolo per rivolgergli la sua completa attenzione, ruotando il busto e mettendosi a sedere con le gambe rivolte verso di lui mentre lo guardava esterrefatto e con gli occhi azzurri spalancati, quasi increduli:
“Che cosa devi fare con Daphné?! Sei veramente un idiota, mi parli dell’Otello del cazzo e le cose più interessanti non me le dici!” Com’era prevedibile Diego si sentì arrossire, e maledisse se stesso per non aver mentito – anche se in caso avesse mentito quando poi Phoenix lo avrebbe scoperto sarebbe stato peggio, e ancora peggiori sarebbero state le illazioni a riguardo – mentre appallottolava il suo tovagliolo bianco nella mano destra, lanciandolo verso l’amico e colpendolo in pieno viso:
“Sei più pettegolo delle amiche di mia nonna, lo sai vero?!”
Naturalmente tovagliolo e paragone con le amiche di sua nonna (da suo nonno soprannominate “Oche del Campidoglio”) non frenarono la curiosità quasi morbosa di Phoenix, che si levò il quadrato di stoffa bianco di dosso e lo rimise malamente sul tavolo prima di iniziare a sghignazzare, la mano sinistra già in direzione del telefono precedentemente abbandonato per scrivere a Icaro e condividere con lui la notizia.
“Stai seriamente scrivendo a mio cugino? Davvero? Siete peggio di due bimbette del primo anno!”
 
 
divisore
 
 
Lac de Gaube


 
In un piccolo angolo del bosco di pini che affiancava il Lac de Gaube quattro ragazzi stavano in piedi rivolti gli uni verso gli altri, chiusi a capannello e attorniati da un silenzio carico di tensione: nessuno tra Antoine, Milad, Etienne e Icaro parlava mentre tutti i quattro stavano con le teste chine, gli sguardi – per lo più scettici o perplessi – puntati sul cumulo di tessuto verde scuro ammucchiato in mezzo ai loro piedi insieme ad un sottile manuale di istruzioni e minuscoli aggeggi metallici che nessuno di loro era certo di saper usare correttamente.
“Com’è che la tenda è tua e non la sai montare?”, domandò infine Milad, che non era mai andato in campeggio in tutta la sua vita – i suoi genitori di certo non si sarebbero mai sognati di chiudere il negozio per andare a stare in tenda per qualche giorno, men che meno dovendo fronteggiare la salute fragile di sua madre – alzando la testa per puntare il mento verso Etienne, i grandi scuri impregnati di rassegnazione ed esasperazione al tempo stesso mentre il francese, esasperato a sua volta, si stringeva nelle spalle tenendo le mani sprofondate nelle tasche dei pantaloni scuri:
“Non è mia, ve l’ho detto, è di mio fratello! Me l’ha mandata per posta l’altro giorno sapendo che dovevamo venire qui, ci sono venuti anche lui e Soleil quando erano al VII anno di scuola, ma noi in campeggio insieme non siamo mai andati, a volte lo fa lui con i suoi amici e la squadra quando viaggiano.” In un paio di occasioni lui e Maëlle dovevano anche averlo proposto ai fratelli maggiori, di andare in campeggio tutti insieme durante l’estate sfruttando l’enorme tenda di Basile. Eppure, per qualche motivo che sfuggiva alla sua comprensione, Soleil si era sempre fermamente opposta. Probabilmente la sorella pensava che loro quattro e una tenda non fossero un abbinamento in grado di far ben sperare.
“Io non ho mai dormito in tenda.”, ammise Antoine con una lieve stretta di spalle mentre, in lontananza, si udivano le voci di Abel e Guillaume discutere in maniera indistinta a proposito della loro: si sarebbe detto che nemmeno loro si potevano considerare degli esperti in materia.
“Nemmeno io, la mia famiglia quando va in vacanza preferisce stare comoda. Quel che è certo è che di sicuro voi siete più pratici di me con queste cose, quindi forse io potrei andare a dare un’occhiata in giro e rendermi utile in qualche altra maniera…”
Un sorriso amabile stampato sul viso Icaro stava già iniziando ad indietreggiare lentamente per dileguarsi tra gli alberi e sfuggire allo sgradito compito di montare la tenda che li avrebbe ospitati fino alla sera seguente quando Etienne spazzò via i suoi piani fulminandolo con lo sguardo:
“Tu non vai proprio da nessuna parte!” Determinato ad impedire all’italiano di darsela a gambe scaricando l’incombenza su di loro Etienne afferrò prontamente l’amico per il bavero della giacca a vento blu, trattenendolo accanto a sé con decisione. Icaro si liberò dalla presa del francese sbuffando e con un lieve strattone, lisciandosi con una smorfia indispettita le pieghe createsi sulla sua giacca prima di sollevare la pallida mano sinistra e indicare pieno di stizza un punto che si trovava alle spalle di Antoine, in direzione della zona vicina a dove avevano deciso di montare la loro tenda, dove gli alberi si diradavano aprendo ampi scorci sul paesaggio lacustre:
E perché Gisèle può starsene a non far niente su una sedia Adirondack?”
 Antoine, Milad ed Etienne volsero rapidamente gli sguardi seguendo la direzione indicata loro dal compagno finendo con l’individuare rapidamente la strega, che se ne stava effettivamente seduta su una bella sedia di legno da giardino con lo schienale alto, reclinato e dall’aria particolarmente confortevole che nessuno di loro rammentava di aver scorto nei paraggi fino a poco prima. Rivolta verso il lago Gisèle dava loro quasi del tutto le spalle stando seduta al sole con una rivista aperta in grembo, le gambe accavallate, il cappellino bianco in testa per schermarle lo sguardo dai raggi solari e una felpa dello stesso colore a fasciarle spalle e braccia.
“Forse ha già montato la sua tenda.”, azzardò Milad con scarsa convinzione, faticando ad immaginare la compagna di Casa come un’esperta di campeggio: da quel che sapeva Gisèle viveva immersa nella campagna provenzale, in mezzo a distese di campi di lavanda e verdeggianti vigneti, ma era anche vero che difficilmente a qualcuno sarebbe venuto in mente di definirla una ragazza di campagna in piena regola, né tantomeno amante dell’aria aperta.
“Forse conosce un incantesimo per farlo in fretta! Andiamo a chiederglielo.”, propose Etienne mentre gli si illuminava lo sguardo, speranzoso nei confronti dell’amica e di qualche capacità che magari avrebbe potuto condividere con loro, ma come Milad Antoine aggrottò la fronte, per nulla convinto mentre studiava la sua migliore amica: Gisèle si dedicava con impegno solo e soltanto a ciò che le interessava, e l’idea che avesse impiegato i giorni precedenti per studiare qualche incantesimo da campeggio gli risultava abbastanza difficile da credere.
“Ne dubito fortemente, Gisèle non è amante del campeggio, e direi nemmeno la sua famiglia.” Anche se doveva ammettere che c’era un che di comico nell’immaginare Colette, la madre della ragazza che Antoine mai aveva scorto sprovvista di tacchi alti ai piedi, alle prese con una tenda e un falò.
“Beh, andiamo a chiederglielo.” Etienne si strinse nelle spalle e di nuovo accennò in direzione della francese, invitando i compagni a fare come diceva. In fila indiana i quattro si avvicinarono al punto in cui Gisèle aveva deciso di piazzare la sua bella seggiola, interrompendo il quiz che la ragazza stava per portare a compimento (Quale strega famosa sei?) quando Icaro le picchiettò fastidiosamente il dito indice sulla spalla. Lentamente la francese distolse lo sguardo dalle pagine della rivista per ruotare il capo e rivolgersi a chi l’aveva interrotta, e Icaro quasi si pentì di non aver mandato avanti Antoine – di certo con lui sarebbe stata più bendisposta – mentre la guardava farsi scivolare di un paio di centimetri la montatura degli occhiali sul setto nasale per potergli gettare un’occhiata da sopra le lenti scure:
“Posso esserti d’aiuto?”, domandò Gisèle celando il proprio sarcasmo dietro un tono amabile e un accenno di sorriso che di certo sua madre avrebbe lodato mentre Icaro annuiva, schiarendosi la voce:
“Sì, volevamo chiederti se hai già montato la tua tenda.”
“No, non l’ho fatto.” Gisèle fece per tornare alla sua rivista e al suo quiz – rilassarsi in solitudine di quei tempi era diventato impossibile, non le restava che trasferirsi su una montagna una volta conseguito il Diploma – ma una seconda voce maschile glielo impedì levandosi da un punto imprecisato alle spalle dell’italiano:
“E allora perché stai qui a rilassarti?”, fece eco Etienne facendo capolino indispettito da dietro l’amico, guardandola sospettoso e come certo che stesse nascondendo loro un sordido segreto sulle tende da campeggio. Di nuovo Gisèle si rivolse alla sua fonte di disturbo con estrema calma, limitandosi ad una lieve stretta di spalle prima di indicare con nonchalance un punto impreciso del bosco usando la penna che stava adoperando per le crocette del suo quiz:
“Perché io ho una Nerea. Voi potete dire lo stesso?”
I quattro stavano giusto per chiederle che cosa volesse dire quando la voce allegra e familiare dell’italiana giunse alle loro orecchie, anticipando l’arrivo di una sorridente Nerea pronta ad annunciare felice di aver finito con “Brenda” e ad invitare l’amica a seguirla per andare a vedere.
“Chi è Brenda? Un’amica loro?”, domandò Icaro rivolgendosi accigliato al resto del gruppo mentre Milad, sempre più confuso, guardava Nerea sbracciarsi in direzione di Gisèle inarcando scettico un sopracciglio:
“Difficile dirlo.”
“Magari lei sa come si monta una tenda!”, propose Etienne speranzoso mentre Gisèle si alzava in tutta calma dalla sua Adirondack e chiudeva la rivista per sistemarsela sottobraccio, sospirando mentre studiava rassegnata i quattro scuotendo lentamente il capo:
“A volte mi chiedo se non abbiate due neuroni, dove uno si nasconde dall’altro. Brenda è la tenda di Nerea, non lo sapete che le piace dare i nomi alle cose?”
Con quelle parole la francese fece per allontanarsi in direzione dell’amica, ma dopo soli pochi metri sembrò ricordarsi di qualcosa, perché fece dietro-front e tornò indietro, superò uno ad uno Antoine, Milad, Etienne ed Icaro, tutti e quattro sempre più perplessi, e infine si fermò alle spalle della sedia:
“Se volete scusarmi,” asserì seria mentre gettava rivista e penna sulla seduta per poi sollevare lo schienale della sedia, “questa è mia.”
Con quelle parole la ragazza si allontanò definitivamente, trascinandosi appresso l’enorme sedia finchè Antoine non la raggiunse per darle una mano, sollevandola al posto suo e dirigendosi insieme a lei verso Nerea. Etienne gettò invece un’occhiata amareggiata al punto in cui fino ad un attimo prima si era trovata la seduta, asserendo di aver già visto sfumare il suo piano di usarla per dormire in caso fossero rimasti sprovvisti di tenda.
 
“Guarda che carina!”, esclamò Nerea rivolgendosi all’amica mentre guardava sorridendo orgogliosa la sua tenda, che col suo color senape spiccava in mezzo ai colori scuri del bosco quanto un semaforo in mezzo alla strada. Gisèle, accanto a lei, studiò con sincera ammirazione il bel lavoro dell’amica prima di sorriderle e sfiorarle affettuosamente il braccio destro con una carezza:
“Molto carina, sei stata bravissima Rea. Vuoi venire dentro a vedere?” Gisèle si rivolse ad Antoine, che non esitò e accettò di buon grado la proposta, piuttosto curioso di scorgere l’interno dell’apparentemente comunissima tenda a due posti che aveva davanti.
Qualche metro più indietro Icaro, Milad ed Etienne, che naturalmente avevano seguito i compagni per vedere con i loro occhi, osservarono sgomenti l’ottimo lavoro di Nerea mentre l’italiana, Gisèle e Antoine entravano uno dietro l’altro nella tenda, sparendo dal loro visivo.
“Quindi Brenda era davvero una tenda.”, osservò infine Milad dopo qualche lungo istante di silenzio osservando stupito la costruzione color senape che si ergeva vivace in mezzo agli alberi mentre Etienne, in piedi alla destra di Icaro, scuoteva la testa sconsolato:
“Io speravo fosse una tizia in grado di darci una mano.”
“Magari anche figa.”, aggiunse distrattamente Icaro continuando a studiare la tenda che avrebbe ospitato Nerea e Gisèle fino al giorno seguente, ed Etienne annuì sempre con aria sconsolata. Alla fine, dopo qualche altro lungo istante di contemplazione e riflessione, l’italiano sbuffò e fece cenno agli altri due di seguirlo per tornare alla loro tenda, che ancora era solo un ammasso di stoffa:
“Beh, sentite, se ci riescono gli altri ci riusciremo anche noi. Siamo in quattro e non siamo certo un branco di deficienti, è impossibile che non riusciamo a metterla in piedi!”

 
Mezz’ora dopo
 

“Di chi cazzo è stata l’idea del campeggio? Che tradizione stupida! Sapete quante belle e comode case col pavimento riscaldato avrei potuto offrire io per ospitarvi? Un sacco!” Esasperato Icaro gettò malamente il manuale d’istruzioni sulla porzione di prato davanti a sé e che lo divideva da Milad, Antoine ed Etienne, tutti e tre seduti come lui con le gambe incrociate e cercando di capire come mettere in piedi la tenda senza che crollasse sopra le loro teste mentre dormivano. A raccoglierlo con calma fu Milad, che lisciò quasi distrattamente e senza rifletterci la pagina che si era piegata su un angolo prima di alzare lo sguardo e farlo rimbalzare sui visi che lo circondavano:
“Credo che ci resti solo una cosa da fare.”
Per una manciata di istanti, mentre gli altri tre riflettevano sull’eloquenza delle sue parole, il belga non ottenne risposta, o almeno finchè Etienne non annuì facendo per alzarsi in piedi:
“Vado a chiedere aiuto a Nerea.”
 
 
divisore
 
 
Mentre Icaro, Milad, Antoine ed Etienne litigavano con la loro tenda una studentessa del VI anno si trovava in Biblioteca, alle prese con uno dei temi più lunghi e barbosi della sua vita, pile di libri e un cocente malumore: era sabato e c’erano tantissimi modi in cui Lucinda avrebbe potuto sfruttare il pomeriggio, invece eccola lì, a marcire in Biblioteca e con il polso che le doleva a furia di scrivere e tirare righe per cancellare le frasi che non la convincevano della sua brutta copia.
Se non altro la Biblioteca restava comunque obbiettivamente un gran bel posto per marcire a studiare, dovette ripetersi la portoghese mentre sollevava il mento verso l’alto soffitto che svettava su di lei e sugli altri studenti disperati, reggendosi la testa con la mano mentre studiava pensosa gli stucchi e i dettagli laccati d’oro del soffitto. Forse l’avevano progettata tanto bella proprio per quel motivo, rifletté distrattamente mentre un lieve brusio nervoso le suggeriva che, dietro di lei, altri studenti del suo anno stavano litigando proprio con il medesimo compito, per allietare in qualche modo le lunghe ore di studio di loro poveri studenti.
Daphnè e Maëlle l’avevano abbandonata a se stessa per dedicarsi allo studio di Wagner – e francamente non si sentiva di invidiarle –, quindi Lucinda si era trascinata in Biblioteca da sola e da sola aveva riletto tutti gli appunti presi a lezione, nonché tutte le informazioni reperibili sull’oggetto del suo tema sul libro di testo. Aveva anche cercato qualche volume da consultare sugli scaffali, ma sembrava che altri studenti disperati l’avessero preceduta, e non ne era rimasta una sola copia, gettandola nello sconforto. Stava per prendere in considerazione l’idea di voltarsi e chiedere ai compagni che sedevano attorno al tavolo alle spalle del suo se fossero riusciti a mettere le mani su un volume dedicato alle pozioni soporifere avanzate quando una voce alle sue spalle la salutò ridestandola brevemente dalla terribile noia in cui versava ormai da quasi un’ora:
“Ciao. Stai scrivendo il tema sul Distillato della Morte Vivente?”
Lucina si voltò e levò lo sguardo verso la fonte della voce, restituendo lo sguardo di Dante con un’occhiata talmente cupa che, assieme al libro di pozioni aperto sul tavolo, fornì da sé una risposta al ragazzo.
“No, ci sto piangendo sopra. Se sei in cerca di qualche libro da consultare ti faccio risparmiare tempo, sono tutti scomparsi. Domani mattina verrò all’alba sperando che qualche copia ricompaia sulle mensole.”
Lucinda sbuffò cupa mentre continuava a sorreggersi la testa con la mano, quasi il suo capo non fosse più in grado di stare dritto da solo, e gettò un’occhiata torva alla pagina piena di cancellature e segnacci che già aveva scarabocchiato a matita su un quaderno a spirale bianco mentre Dante, accanto a lei, si faceva scivolare lo zaino di tela nero dalla spalla sinistra per poterlo aprire e tirarne fuori qualcosa da mostrarle:
“Tipo questo? Ieri mattina dopo colazione sono corso qui prima che tutti ci si fiondassero sopra come avvoltoi.”
Dante mostrò libro e copertina alla compagna di Classe e vide gli occhi verdi della giovane strega spalancarsi e illuminarsi come se le stesse porgendo un regalo da sogno, abbozzando un sorriso divertito quando la vide annuire con aria concitata:
“Sì, tipo quello! Weber vuole una lista dei dannati usi più noti di quella dannata pozione, se non sono attestati lì non so dove altro potremmo guardare. Non è che ti dispiacerebbe condividere?” Lo stupore svanì rapido dal viso di Lucinda lasciando spazio ad un sorriso amabile e speranzoso che Dante decise di non disilludere, limitandosi ad annuire con una pigra stretta di spalle mentre posava il volume dalla copertina rigida verde bottiglia e le pagine ingiallite sullo spazio libero del tavolo accanto a lei:
“No, credo di no.”
Dante posò lo zaino sul pavimento e scostò la sedia accanto a quella della portoghese per sedersi vicino a lei, destando un sorriso allegro sulle labbra della ragazza mentre prendeva il suo quaderno a spirale per mostrargli ciò che aveva già scritto:
“Dobbiamo scrivere quattro pagine, se ti interessa e vuoi prendere ispirazione, visto che mi presti il libro, io ne ho sprecata già più di mezza parlando di Shakespeare.”
Dante non ricambiò il sorriso allegro di Lucinda, aggrottando invece le sopracciglia mentre la guardava stranito e chiedendosi se non avesse per caso frainteso le sue parole. Il che poteva anche darsi, visto che da madrelingua la ragazza parlava francese a macchinetta e con un accento impeccabile, ancor più di molti altri compagni di scuola.
“Perché Shakespeare?”, domandò istintivamente il ragazzo – che non aveva mai letto Shakespeare in tutta la sua vita – inarcando scettico un sopracciglio mentre faceva rimbalzare gli occhi scuri dal volto sorridente della compagna al suo quaderno pieno di scarabocchi. Le sue parole fecero sparire ogni traccia di sorriso dalle labbra di Lucinda, che invece sbuffò quasi con fare offeso mentre gli sventolava impaziente il quaderno davanti:
“Sveglia, Romeo e Giulietta! È ovvio che siano un po’ la stessa cosa, no, la roba che Giulietta beve per fingere di essere morta e il Distillato della Morte Vivente. Weber vuole una “riflessione personale”, giuro che se non troverà questa abbastanza personale andrò nel suo ufficio a lamentarmi. E poi gli dirò di leggersi Shakespeare, se non mi crede.”
“Giulietta è una povera cretina,” obbiettò scettico Dante aggrottando ulteriormente la fronte, “finge di essere morta, non avvisa personalmente Romeo e alla fine muoiono tutti.”
“Ma certo che muoiono tutti alla fine, è Shakespeare, cosa ti aspetti? Forza, scrivi, io consulto l’indice per cercare qualche esempio.” Lucinda posò il quaderno sul tavolo accanto a Dante per prendere invece il libro preso in prestito dagli scaffali dell’immensa Biblioteca, e anche se non era sua abitudine apprezzare che gli si dessero ordini, e a dirla tutta nemmeno fare i compiti in compagnia, il ragazzo tacque e obbedì, iniziando a cercare di decifrare accigliato sia la grafia della compagna tanto quanto il suo ottimo e fluente francese: la tentazione di chiederle di parlare un po’ più lentamente era spesso molto forte, ma ancora non aveva mai osato per paura che la ragazza lo prendesse in giro, considerato che già correggeva la sua pronuncia imperfetta un po’ troppo di frequente.
 
 
divisore
 
 
Mentre cercava di districare dallo zaino pieno i vestiti che aveva portato con sé Icaro osservò dubbioso uno dei due letti a castello presenti nella camera della tenda, in particolare quello di sotto che gli era spettato dopo aver perso a morra cinese con Etienne. In tutta onestà non sapeva se essere grato o meno a quella sconfitta: certo dormendo nel letto in basso non rischiava di cadere dal letto, ma nemmeno l’idea di alzarsi e prendersi una testata appariva molto allettante.
“Non ho mai dormito in un letto a castello, spero di non svegliarmi domattina e dare una testata alle assi che sorreggono quello di Etienne.”, osservò a voce alta l’italiano per farsi sentire da Milad, che come lui era rimasto all’interno della tenda per pulire solertemente la cucina: Etienne e Antoine si erano offerti di aiutarlo, ma il belga li aveva liquidati forse temendo che avrebbero potuto arrecare, Etienne in primis, più danni che altro.
“Non hai mai dormito in un letto a castello?”, gli fece eco incredulo Milad mentre finiva di mettere in ordine il caos spropositato generato dai compagni per prepararsi un semplicissimo spuntino strofinando energicamente una spugna gialla sui fornelli: poteva solo sperare che l’incombenza della cena sarebbe ricaduta su qualcun altro e non sui suoi tre “coinquilini”. Il compagno di Casa lo raggiunse nelle stanza infilandosi dalla testa una felpa blu col cappuccio, sistemandosi i lunghi capelli scuri mentre scuoteva debolmente il capo:
“No, prima volta. Ti va di accompagnarmi a prendere la legna per fare il falò? Preferisco fare quello che aiutare in cucina, non so fare niente.”
“Ho avuto quest’impressione quando tu e gli altri stavate per mettere un contenitore di plastica in microonde, sì. D’accordo, tanto qui ho finito.”
Dopo essersi lavato le mani Milad seguì Icaro fuori dalla tenda, chiedendogli se volesse chiedere anche a qualcun altro di andare ad aiutarli mentre Guillaume e Abel sistemavano delle colorate sedie pieghevoli da campeggio attorno al luogo prescelto per il falò ed Etienne e Gisèle stavano seduti preparando i bastoncini di marshmallow da arrostire quella sera.
“In tre faremmo prima… Gisèle, hai visto Antoine?”
“Antoine lo ha già prenotato Nerea, deve dare una mano a lei, Annika e a Leticia con le cose da mangiare. E qualcuno deve anche andare a cercare gli ombrelli e la Passaporta che dobbiamo usare domani per tornare a scuola prima che faccia buio… Basta mangiarne, o non ne rimangono per dopo.” La francese strappò delicatamente di mano ad Etienne il marshmallow che l’amico stava per inghiottire, infilzandolo su un bastoncino mentre il ragazzo sbuffava borbottando qualcosa a proposito di come tutti avessero sempre qualcosa da rimproverargli.
“Beh, prima che faccia buio dobbiamo anche prendere qualcosa per appiccare il falò. Andiamo noi due?”
Icaro si voltò verso Milad, che si strinse debolmente nelle spalle mentre spostava lo sguardo dal punto in cui sedevano Etienne e Gisèle chiacchierando fino a farlo indugiare su Abel e Guillaume.
“A Guillaume non chiederei un favore nemmeno sotto tortura, Abel è occupato in ogni caso… servirebbe qualcuno di abbastanza forte.”
In silenzio i due Ombrelune tornarono a scrutare brevemente Etienne e Gisèle, e dopo essersi scambiati una rapida occhiata che gli permise di accertarsi di aver avuto la stessa idea Icaro si schiarì la voce:
Gisèle, vieni a darci una mano con la legna?”
“Ok, arrivo… Non mangiarne troppi se non vuoi star male.” Gisèle si alzò e dopo aver lasciato il suo sacchetto di marshmallow sulla sedia pieghevole rossa arruffò affettuosamente con entrambe le mani i capelli biondo cenere di Etienne, salutando l’amico con un sorriso prima di raggiungere i due compagni di Casa con poche e rapide falcate.
Etienne seguì brevemente con lo sguardo i tre allontanarsi per inoltrarsi nel bosco per nulla dispiaciuto all’idea di potersene restare comodamente lì seduto per assolvere un compito tanto semplice, anche se il suo idillio ebbe vita breve: un paio di minuti dopo Nerea lasciò Leticia ed Annika alle prese con il cibo in cucina e uscì dalla sua sgargiante tenda gialla insieme ad Antoine. Una volta scorto l’amico seduto su una delle sedie da campeggio che lei stessa aveva previdentemente infilato nello zaino la sera prima l’italiana non tardò a raggiungerlo e a pararglisi davanti con un ampio sorriso sulle labbra:
“Ciao carino… vieni a dare una mano a me e ad Antoine? Dobbiamo cercare gli ombrelli, ergo dobbiamo controllare tutti gli alberi delle vicinanze, ci potrebbe volere un po’.”
“Come vuoi… Anche se onestamente questa cosa degli ombrelli incantati non mi piace nemmeno un po’.”, asserì con tono poco convinto Etienne mentre si alzava, abbandonando il sacchetto di marshmallow sulla sedia esattamente come aveva fatto Gisèle poco prima.
“Col culo che ho il mio sarà sicuramente quello difettoso che non si aprirà o che funzionerà male… sentite, è il caso di lasciare i marshmallow qui in bella vista? Non è che ci sono orsi qui nei paraggi, vero?” Dopo aver gettato un’ultima occhiata leggermente apprensiva ai sacchetti pieni di candidi dolcetti pieni di zucchero Etienne s’incamminò per seguire Nerea affiancando Antoine, sentendosi un po’ più sollevato quando l’amica ruotò su se stessa scuotendo il capo e prendendo a camminare all’indietro mentre accennava agli alberi che li circondavano:
“Milad ha detto di no, quindi sicuramente non ci sono. In caso Gisèle ha detto che possiamo usare Guillaume come esca… Bene, dividiamoci e cerchiamo un pino che abbia un intaglio a forma di ombrello sulla corteccia, forza.”
“Ci vorrà un’eternità! Lefevre non poteva darci delle coordinate, un’altra bussola magica o che so io?
“Certo, perché in caso tu le avresti sapute decifrare di sicuro, le coordinate… Lamentati di meno e cerca di più.”
Con quelle parole Nerea scoccò un bacio aereo ai due prima di dar loro nuovamente le spalle e allontanarsi verso i pini alla loro sinistra, lasciando Etienne ed Antoine a seguirla brevemente in silenzio con lo sguardo finchè il francese non si rivolse al belga inarcando un sopracciglio:
“Sembra anche a te che a volte assuma un tono autoritario un tantino simile a quello di Gisèle? Forse cominciano a passare un po’ troppo tempo insieme.”
“Sono la perfetta personificazione di quelle foto dove c’è il Golden Retriever sorridente accanto al gatto nero dallo sguardo truce che sono magicamente diventati migliori amici... Nessuno sa come sia accaduto, è accaduto e basta. ”, asserì Antoine annuendo serio mentre a poca distanza Nerea iniziava ad ispezionare i primi alberi e Guillaume, alle loro spalle, sgraffignava qualche marshmallow dai sacchetti rimasti incustoditi.
“Quindi secondo la stessa logica Gisèle stando sempre insieme a Nerea dovrebbe diventare un po’ più solare e un po’ meno… Gisèle?”, ipotizzò con tono scettico Etienne mentre avvicinava ancor di più un sopracciglio all’attaccatura dei lisci capelli biondi, ma dopo una breve riflessione Antoine smentì la sua ipotesi scuotendo serio il capo:
“No, questo mi sembra improbabile.”
 
Dopo più di mezz’ora di ricerche Nerea stava quasi iniziando a perdere le speranze, ma l’incisione a forma di ombrello tanto decantata dal loro insegnante apparve infine, con gran gioia dell’italiana, sulla corteccia di un pino distante quasi mezzo chilometro dal punto in cui lei e i compagni avevano sistemato le tende.
“Ragazzi, l’ho trovato finalmente!” Mentre si sfilava la bacchetta dalla tasca dei pantaloni della tuta verde bosco Nerea si alzò in piedi e si voltò con un ampio sorriso sulle labbra per richiamare a gran voce l’attenzione di Antoine ed Etienne, chinando poi lo sguardo sul grosso masso che si trovava ai piedi dell’albero. Istintivamente ci puntò contro la bacchetta per sollevarlo con un Wingardium Leviosa non verbale, esultando con un lieve ed euforico saltello sul posto quando la pietra sollevandosi e atterrando con un tonfo accanto al tronco del pino rivelò una cavità nel terreno. Mentre Antoine ed Etienne la raggiungevano Nerea ripose la bacchetta e s’inginocchiò sul terriccio per afferrare, sorridente, il manico ricurvo nero di un ombrello che, una volta sollevato dalla buca, ne rivelò molti altri.
“Venite, qui sotto ci sono gli ombrelli, e… una palla da tennis?!” L’euforia svanì improvvisamente dal bel volto dell’italiana quando tirò fuori dalla buca una palla da tennis scolorita che aveva decisamente visto giorni migliori, chiedendosi come un oggetto del genere fosse finito lì sotto mentre Antoine, fermo dietro di lei, si stringeva nelle spalle:
“Sarà la Passaporta per domani. Brava Nerea, cominciavo a pensare che non saremmo affatto torbati a scuola domani.”
“Certo che lo potevano anche scegliere più vicino all’area indicata dalla bussola, l’albero… tipico di Lefevre. Dammi, ti aiuto.” Etienne si inginocchiò accanto all’amica per aiutarla a sfilare dalla buca tutti e dieci i loro ombrelli, mentre Nerea continuò a fissare incredula e confusa la palla da tennis che teneva in mano:
“Ma perché una Passaporta così piccola? Sarà scomodissimo tornare con questa domani, siamo in dieci e dobbiamo toccarla tutti almeno con un dito! Forse pensa che non saremo tutti pronti in tempo per tornare a scuola?”
 
Quando poco dopo fecero ritorno Nerea, Antoine ed Etienne trovarono Gisèle, Milad ed Icaro accanto al falò già acceso, e l’italiana non tardò a correre incontro all’amica stringendo tra le mani la palla da tennis mentre i due ragazzi la seguivano con le braccia cariche di ombrelli:
“Ciao ragazzi, abbiamo gli ombrelli e la Passaporta per domani! Com’è messo il nostro falò?”
“Bene credo, penso che abbiamo raccolto abbastanza legna per tutta la sera…  Guillaume sta portando le casse nella nostra tenda. Forse è meglio se questa la tengo io…” Milad gettò un’occhiata apprensiva alla pallina da tennis in mano a Nerea e l’italiana, non sentendosi di replicare, annuì prima di cedergliela. Gisèle invece stava studiando scettica suo cugino, impegnato a trasportare dalla tenda che condivideva con Abel la pesante cassa piena di bottiglie di Champagne prodotto dalla loro famiglia che il giorno prima gli era arrivata per posta dopo essere stata rimpicciolita dentro una scatola.
“Zio Hércules come l’ha presa quando gli hai chiesto di mandarti tutte quelle bottiglie?”
“Non è stato papà, una settimana fa ho scritto direttamente alla nonna, ha detto che ci avrebbe pensato lei.” Guillaume si strinse debolmente nelle spalle mentre camminava in direzione della tenda di Etienne reggendo con cautela le costosissime bottiglie mentre Milad, accigliato, si complimentava con i Delacroix per quella fantomatica nonna tanto intraprendente da rubare delle bottiglie che costavano un occhio della testa dalla antina dei suoi stessi figli.
Gisèle invece, ben sapendo quali fossero le condizioni di salute della donna, sgranò incredula gli occhi grigi non riuscendo neanche lontanamente ad immaginare come la nonna paterna fosse riuscita in una simile impresa:
La nonna?! Ma se è sulla sedia a rotelle?! Come ha fatto a rubare tutte quelle bottiglie dalla cantina senza farsi notare?!”
“La nonna da bambina nascondeva gli ebrei dai nazisti Gisèle, secondo te la spaventano un paio di bottiglie?”
Guillaume sparì all’interno della tenda dei compagni roteando gli occhi, come a chiedersi come fosse possibile che la genetica avesse sbagliato dando facendogli capitare una cugina tanto poco sveglia rispetto a lui mentre Milad si rivolgeva a Gisèle chinando il capo sulla compagna di Casa:
“Le vostre cene di famiglia hanno l’aria di essere molto interessanti.”
“Se non siete mai stati al circo siete tutti invitati da me per Natale.” Imitando inconsapevolmente il cugino Gisèle roteò brevemente gli occhi prima di girare sui tacchi e dirigersi verso la tenda che fino al giorno seguente avrebbe condiviso con Nerea, seguita immediatamente dall’amica mentre Etienne, le mani in tasca e l’espressione accigliata, pensava assorto ai cataclismi che ogni anno si verificavano a casa sua in occasione delle feste:
“Dice così perché non è mai stata a casa mia…”
 
 
divisore
 
 
Dante e Diego sedevano uno di fronte all’altro, divisi da un caos di astucci neri, quaderni, libri e penne sparsi su uno dei tavolini bianchi da giardino di metallo disseminati per tutta la terrazza. Stavano aspettando che a loro si unisse anche Phoenix, in quel momento in procinto di porre fine alla seduta settimanale di terapia che gli era stata imposta alla fine dell’anno precedente, e Dante ne stava approfittando per fumare una sigaretta mentre si teneva il quaderno di letteratura aperto sulle ginocchia.
“Anche tuo cugino è andato via con Nerea, vero?”, domandò il ragazzo picchiettando distrattamente la sigaretta accesa e ormai parzialmente consumata sul bordo del posacenere di vetro che un solerte Elfo Domestico vestito di blu e con lo sguardo carico di disapprovazione aveva portato loro poco prima, non appena Dante aveva estratto il pacchetto dalla giacca. Diego, che stava rileggendo i suoi infiniti appunti sui Promessi Sposi con gli occhi azzurri stretti e un’espressione vagamente schifata, alzò la testa per studiare brevemente il compagno di classe prima di annuire, mormorare un assenso e infine tornare a leggere in silenzio, quasi non avesse voglia di spendere troppe parole sull’argomento.
“Che cosa sono andati a fare? È strano che Nerea non mi abbia detto niente, mi racconta sempre tutto. L’altro giorno mi ha trovato davanti ad un bagno e non la finiva di spoilerarmi i gossip del prossimo numero del giornale, anche quelli su gente che non ho mai sentito nominare.”
“Non ne so molto, credo che andassero a vedere… Il Louvre. Per arte, sai.”  Diego si mosse leggermente sulla sedia senza alzare la testa per ricambiare lo sguardo del compagno, certo che avrebbe rischiato di tradirsi in qualche modo e sperando di chiudere l’argomento il più rapidamente possibile: naturalmente lui per primo non ci credeva, alla storia di Parigi, ma non aveva nessuna intenzione di condividere le sue rimostranze con nessun’altro.
“Cioè loro sono volati a Parigi e noi stiamo qui con Manzoni? Che palle.” Dante sbuffò debolmente mentre si riportava la sigaretta alle labbra e Diego continuava ad ostinarsi a non guardarlo, impegnato a leggere maledicendo la loro abitudine di studiare in luoghi pubblici che gli impedivano – loro e la sua scarsa autostima – di indossare gli occhiali.
“Sì, e spero che Nick arrivi in fretta, se Lefevre lo interroga e prende un votaccio suo padre non gli manderà una Strillettera, verrà qui personalmente per prenderlo a calci.” L’italiano rabbrividì neanche la minaccia fosse rivolta a lui: il padre del suo amico aveva sempre l’aria di essere arrabbiato e di cattivo umore, e quando lui e Nick discutevano sbraitando in greco le vibrazioni non sembravano mai particolarmente positive.
“Come mai Nick va dalla psicologa? Faccio fatica ad immaginarlo come qualcuno che accetta facilmente di andare in terapia.” Quando era riuscito ad estorcere i motivi che portavano Phoenix a dissolversi nel nulla per parte di ogni sabato pomeriggio Dante era rimasto sinceramente di stucco, stentando a crederci. E poi aveva ringraziato che sua madre non avesse avuto la stessa idea: ci mancava solo che una sconosciuta lo psicanalizzasse in merito a quanto era successo tra i suoi genitori, nonché nel corso del suo ultimo anno a Mahoutokoro.
“Stai scherzando, la odia. L’hanno costretto, ovviamente... Non ci sarebbe mai andato spontaneamente.”
Diego, a dire la verità, era piuttosto entusiasta delle sedute dell’amico, certo che gli avrebbero fatto bene. Ma questo a Nick naturalmente non si sognava di dirlo.
“L’anno scorso minacciarono di bocciarlo un’altra volta, suo padre venne qui e rimase non so quanto a parlare con la Preside nel suo ufficio… In qualche modo hanno deciso che Nick non avrebbe ripetuto l’anno solo a patto che iniziasse ad andare a parlare per un’ora, ogni sabato, con la psicologa della scuola.”
“Perché lo mandarono dalla psicologa invece di bocciarlo di nuovo? Pensavano che non studiasse per qualche motivo particolare?”
Diego esitò, iniziando a cercare di ricreare un po’ di ordine sul tavolo che avevano occupato per prendere tempo e pensare a come rispondere mentre attorno a loro, nonostante il freddo, altri studenti studiavano insieme, chiacchieravano o semplicemente sorseggiavano caffè scaldandosi grazie alle lanterne che ospitavano piccole fiamme turchine presenti su ogni tavolo. Alla fine, mentre Dante lo guardava incuriosito ormai dimentico dei suoi appunti di letteratura italiana, si strinse nelle spalle giocherellando con una matita nera, senza guardarlo:
“Nick non è… mai stato uno studente modello, Icaro dice sempre che in certe materie ha fatto schifo fin dal primo anno, come Botanique. Però sai, se la cavava, studiava quantomeno quello che gli interessava, e alla fine dell’anno mio cugino lo faceva sedere e lo costringeva a recuperare le insufficienze. Al quinto anno è un po’ cambiato.”
“Che è successo?”
Di nuovo Diego esitò prima di rispondere, questa volta per gettarsi un paio di rapide occhiate alle spalle, come per essere certo che il diretto interessato non fosse nei paraggi e in grado di sentirlo. Alla fine l’italiano si schiarì la voce sporgendosi leggermente verso Dante al di sopra del tavolo, lieto che la maggior parte delle persone che sedevano attorno a loro non fosse in grado di capirli quando parlavano la loro lingua:
“Sua madre se n’è andata. Non nel senso che è morta, se n’è proprio andata. È tornato a casa per le vacanze di Natale del suo quinto anno e lei non c’era più. Lei e tutte le sue cose… Non gli scrisse niente, credo che Nick non avesse nemmeno idea di dove fosse andata.”
“Cosa? Che merda!” Dante strabuzzò gli occhi prima di rendersi conto di aver alzato un po’ troppo la voce attirando qualche sguardo incuriosito sul loro tavolo, e si affrettò ad abbassare il tono mentre si avvicinava a sua volta al compagno di classe:
“E poi che è successo?”
“Credo che si sia fatta sentire dopo più di un anno e che abbia provato a vederlo l’estate scorsa, ma lui non ha voluto, potrei benissimo definire Nick una delle persone più testarde e rancorose che abbia mai conosciuto. Il fatto è che andava molto più d’accordo con lei che con suo padre, quei due discutono sempre, in parte perché sono uguali, penso che sia incazzato nero ancora di più proprio perché se n’è andata senza di lui, e senza dirgli niente.” Diego si raddrizzò sulla sedia scuotendo il capo, lo sguardo dispiaciuto per il suo amico mentre Dante, di fronte a lui, fissava pensoso e quasi incredulo il quaderno che teneva ancora aperto sulle ginocchia: il suo, di padre, faceva schifo e lo sapeva benissimo, ma all’improvviso si chiese se non fosse il caso di rivalutare almeno in parte il comportamento passato di sua madre.
“Cavolo. E io che ce l’avevo con mia madre perché mi ha fatto trasferire in Italia... Tra mio padre e sua madre è la fiera dei genitori di merda.”
“Sì, beh, mi raccomando, non ne parla mai, quindi fai finta di niente.”
Dante annuì nell’esatto istante in cui scorse il diretto interessato far capolino sulla terrazza e guardarsi attorno cercando proprio loro, affrettandosi ad informare anche Diego con un mormorio mentre l’Ombrelune, una volta individuati, si affrettava a raggiungerli a grandi passi e con un accenno di sorriso sulle labbra rosee:
“Allora, che avete combinato mentre io mi facevo psicanalizzare?”, domandò il greco con disinvoltura mentre sedeva sulla sedia rimasta libera appositamente per lui sfilando una sigaretta dal pacchetto aperto che Dante non tardò a porgergli, destando come sempre profonda disapprovazione da parte di Diego.
“Io ho dato ripetizioni a Daphnè.”, si limitò ad asserire l’italiano con tono neutro e una lieve stretta di spalle senza guardare l’amico, in parte nella speranza di risparmiarsi un commento sarcastico e in parte provando un lieve senso di colpa per aver parlato delle sue questioni personali.
“Io ho fatto il tema di Philtres et Distillats con Lucinda.”  Anche Dante si strinse debolmente nelle spalle mentre porgeva a Nick il suo accendino nero, ma il ragazzo, al contrario, sembrò quasi non accorgersene mentre faceva rimbalzare gli occhi cerulei dal suo viso a quello di Diego tenendo la sigaretta spenta e dimenticata sospesa a mezz’aria.
“Mi prendete per il culo?”, domandò infine dopo una breve esitazione e con tono stralunato, “Mi state dicendo che sarò l’unico coglione da solo a quella merda di Ballo a cui mi tocca andare per forza?”
“Ma figurati, io sarò sempre il coglione da solo al Ballo. Mi faranno una targa commemorativa per il Diploma: “Diego Colonna, da solo al Ballo”.”, decretò quasi fin troppo serio Diego scuotendo il capo e provando già il cocente desiderio di sotterrarsi quando, una volta a casa per le vacanze, in famiglia gli avrebbero fatto domande a riguardo.
“Io al Ballo non voglio neanche andarci.”, gli fece eco Dante con una stretta di spalle mentre sentiva un brivido gelido scendergli lungo la schiena: poteva solo sperare che la sua famiglia restasse all’oscuro di quella tremenda tradizione natalizia di Beauxbâtons, o chissà che escamotage avrebbero trovato per costringerlo ad andarci. Probabilmente lo avrebbero legato a Nerea con una corda.
“Ma che cazzo dici, la tua targa commemorativa sarà “Diego Colonna, il ragazzo dai mille nomi, miope, non portava gli occhiali e sbatteva il naso su ogni superficie piana disponibile”. Io al massimo andrò al Ballo per sfottere le tizie che sbavano per Icaro, poi me ne andrò a farmi i cazzi miei come al solito.” Nick accettò finalmente l’accendino di Dante stringendosi nelle spalle con noncuranza, e Diego non riuscì a trattenersi: guardò l’amico accendere la sigaretta offertagli da Dante inarcando un sopracciglio, un velo di scetticismo nello sguardo.
“Non c’è davvero nessuna persona con cui ti piacerebbe andarci?” Ballo o meno – che Phoenix non fosse un fan di simili ricorrenze non era difficile immaginarlo – Diego trovava piuttosto bizzarro che si parlasse sempre delle ragazze di suo cugino e mai di un qualche interesse da parte dell’amico, che grazie al suo bell’aspetto era obbiettivamente oggetto di attenzioni a sua volta. Diego aveva la netta impressione che Phoenix evitasse con maestria l’argomento svicolando e portando l’attenzione sul suo migliore amico per un motivo ben preciso, ovvero che forse in fondo qualcuno che interessava anche a lui c’era eccome, ma i suoi sforzi volti ad affrontare l’argomento si rivelavano costantemente vani, mitigati dall’estrema, quasi ossessiva, riservatezza dell’amico.
“Perché Dieghino, a te con chi piacerebbe andarci? È un invito forse?” Invece di accendersi la sigaretta dopo una quasi impercettibile esitazione Nick si rivolse infatti all’amico sfoderando un sorrisetto e strizzandogli l’occhio, finendo come al solito col farlo arrossire e portarlo a borbottare sommessamente qualcosa senza ricambiare il suo sguardo:
“Non capisco perché mi prendete sempre in giro.”
“Perché ti vogliamo bene, che domande! Chissà Icaro come se la passa, a proposito. Di certo si dispera per la mia assenza.”


 
divisore
 
 
Comodamente sprofondata sul materasso e in mezzo a soffici cuscini Gisèle raddrizzò il computer che si era adagiata sulle ginocchia sistemando l’inclinazione dello schermo per avere la miglior visuale possibile e avvicinò la ciotola piena di popcorn ancora caldi che aveva preparato nel microonde di cui la cucina della tenda era provvidenzialmente munita. Felicissima di potersene finalmente stare da sola e in pace la francese sorrise mentre faceva partire il video, prendendo a sgranocchiare manciate di mais scoppiato finchè, cinque minuti dopo, qualcuno non interruppe bruscamente il suo idillio personale picchiettando nervosamente una mano sull’entrata chiusa della tenda color senape di Nerea:
Gisèle?! Gisèle, mi serve una cosa!”
La francese interruppe il video prima di voltarsi incredula e inorridita verso l’ingresso della tenda, chiedendosi per quale motivo stessero interferendo con la sua tanto sospirata solitudine prima di spostarsi computer e ciotola dalle gambe e alzarsi dal letto: Icaro aveva ripreso a picchiettare impaziente sulla tenda chiedendole di aprirgli, e a giudicare dal suo fastidiosissimo tono lagnoso sembrava non avere alcuna intenzione di andarsene. In pigiama e con una fascetta di spugna bianca a tenerle indietro i capelli Gisèle ciabattò furiosamente verso la soglia prima di aprire l’ingresso della tenda abbassando la zip e ritrovarsi così a fronteggiare uno dei suoi compagni di Casa:
“Che vuoi?!” Gisèle lo accolse con un’occhiata truce e con un tono per nulla ospitale che sembrarono indispettire vagamente l’ego di Icaro, che la guardò scuotendo leggermente il capo con disapprovazione mentre alle sue spalle il falò attorno al quale un’ora prima avevano cenato ancora crepitava:
Che maleducata.”, commentò con tono aspro il ragazzo mentre Gisèle, sempre più esasperata, gli faceva sbrigativamente cenno di parlare con un stizzito movimento della mano destra:
“Avanti, che vuoi, non mi far perdere tempo!”
“Ho scordato la schiuma a scuola, non è che mi presteresti la tua?”, domandò l’italiano con tono implorante mentre si indicava i capelli bagnati che gli incorniciavano il viso pallido.
“Perché cavolo ti sei lavato i capelli, domani si riempiranno di acqua e di tutte le schifezze del lago!”
“E infatti me li laverò anche domani sera a scuola, ma non voglio affrontare la giornata di domani con dei capelli orrendi.” Icaro si esibì in una lieve stretta di spalle mentre dalla tenda che condivideva con Milad, Etienne e Antoine giungeva l’eco delle voci dei compagni, ritrovandosi ad aggrottare la fronte perplesso quando la sua attenzione indugiò sul pigiama indossato dalla compagna di Casa, a righe blu e coperto da orsetti ricamati.
“Hai un pigiama con gli orsetti?”, domandò stranito prima di riuscire a trattenersi mentre Gisèle chinava il capo per scrutare a sua volta il pigiama che indossava, abbinato alle pantofole bianche Polo Bear abbellite da un orsetto ciascuna.
“E quindi? A me piace.”, osservò accigliata la francese chiedendosi cosa avesse di strano il suo pigiama prediletto mentre Icaro si stringeva nelle spalle con un accenno di sorriso sulle labbra:
“Penso solo che ti si addirebbe più qualcosa con i serpenti a sonagli, o roba del genere…”
“La vuoi la schiuma? Allora non rompere. Aspetta qui.”
Ma Icaro di starsene al freddo con i capelli bagnati a fine novembre non ne aveva nessuna intenzione, pertanto quando Gisèle si fu allontanata verso il bagno che condivideva con Nerea non tardò ad ignorare il suo ordine seguendola dentro la tenda, deciso a non tornare a scuola pieno di raffreddore.
“Mi spieghi perché te ne stai qui da sola a fare l’eremita?”, domandò l’italiano mentre chiudeva la tenda e Gisèle rovistava tra i fin troppi prodotti per capelli che si era portata da Beauxbatons,
“Hai ragione, del resto stiamo tutti insieme ogni giorno di ogni settimana di tutto l’anno da quando avevamo undici anni, c’è proprio bisogno della mia presenza anche stasera. E comunque ti avevo detto di startene fuori!”, osservò infastidita Gisèle mentre Icaro, ignorandola, dopo essersi brevemente guardato attorno finiva col posare lo sguardo sul computer rimasto aperto sul grande letto che si trovava in fondo alla tenda, circondato da piante e piantine verdeggianti che lasciavano pochi dubbi sull’identità della proprietaria.
“Ti prego non dirmi che stai facendo i compiti!”, osservò inorridito il ragazzo mentre si avvicinava al computer che, a giudicare dagli adesivi ritraenti scarpine da ballo, apparteneva inequivocabilmente alla compagna di Casa. E in fondo chi altro si sarebbe portato il computer in campeggio, rifletté brevemente Icaro mentre sollevava il computer chiedendosi rassegnato quale tema stesse scrivendo la francese mentre a poca distanza i suoi compagni giocavano a beer pong sprecando litri del costosissimo champagne prodotto dalla famiglia della diretta interessata.
Quando Gisèle uscì dal bagno con in mano il flacone di schiuma per capelli ricci fece per intimare ad Icaro di farsi gli affari propri e di non romperle, ma le parole le morirono in gola quando scorse l’italiano in piedi, di spalle, davanti al letto e con in mano il suo computer aperto.
La strega si avvicinò in silenzio e senza riuscire a dire nulla, fermandosi accanto ad un Icaro dall’aria sgomenta e fissando brevemente a sua volta lo schermo del pc prima di voltarsi verso il ragazzo e ricambiare così il suo sguardo stralunato:
“Ti prego dimmi che scherzi.”, fu ciò che Icaro riuscì a dire un paio di istanti con voce tremante, trattenendosi faticosamente dal scoppiarle a ridere davanti essendo più che certo che Gisèle non avrebbe esitato ad usare la schiuma per capelli come corpo contundente.
“Se lo dici a mio cugino ti taglio i capelli nel sonno e poi li dono per farci una parrucca. Non scherzo affatto.”
Stranamente Icaro non fece alcuna fatica a crederle, perciò sempre cercando a fatica di non sghignazzare le restituì rapido il computer prendendole la schiuma dalle mani e si allontanò per lasciare la tenda e uscire dalla possibile traiettoria di lancio della francese. Quando tornò nella sua per finire di sistemarsi i capelli prima di unirsi agli altri, tutti radunati attorno al tavolo, Icaro stava quasi ridendo, ma invece di rispondere alle domande che i compagni gli posero si limitò a scuotere il capo senza dire una parola.
 
 
*
 
 
Milad aveva fatto del suo meglio per buona parte della serata, aveva cercato di andare oltre alla sua naturale introversione e di valicare le sue scarse inclinazioni alla socializzazione prolungata restando nella sua tenda insieme agli altri, ma poco dopo le 23 era uscito per andare a sedersi vicino a ciò che restava del falò attorno al quale avevano cenato sfidando il freddo munito di giacca, sciarpa e berretto. Si stava rilassando godendosi la quiete della natura e studiando le porzioni di cielo notturno visibili tra le fronde dei pini in mezzo a cui si trovavano quando qualcuno lo aveva inaspettatamente raggiunto: Gisèle uscì dalla sua tenda con una giacca termica infilata sopra al pigiama e con le mani sprofondate nelle tasche si avvicinò a sua volta al falò sedendosi a qualche posto di distanza dal compagno di Casa, salutandolo con un muto cenno della mano mentre Milad, al contrario, la guardava sorpreso di vederla:
“Ciao. Come mai sei uscita?”
“Mi si è scaricato il computer.”, affermò con tono tetro la francese mentre sedeva su una delle sedie pieghevoli colorate che Nerea aveva rimpicciolito e infilato nel suo zaino prima di lasciare Beauxbâtons sollevando le lunghe gambe per incrociarle.
“Stavi facendo i compiti?” Milad inarcò un sopracciglio guardando sorpreso la compagna di Casa, stranito all’idea che qualcuno fosse persino più smanioso di fare i compiti di lui mentre Gisèle si sollevava il cappuccio della giacca attorno alla testa con una lieve stretta di spalle:
Non proprio. Ma mi fa piacere non essere l’unica che ogni tanto vuole stare sola.”
Dopo essersi sistemata i capelli ricci che le incorniciavano il viso fuoriuscendo dal cappuccio Gisèle si inclinò sulla sedia per avvicinarsi al suolo e ad una delle riviste sul campeggio che Antoine si era messo a leggere mentre infilzavano decine di marshmallow su dei bastoncini per farli arrostire, mettendosela sulle ginocchia e prendendo a sfogliarla distrattamente mentre Milad tornava a reclinare il capo sullo schienale della sedia per studiare pensoso il cielo notturno.
“Pronta per domani?”, domandò il belga dopo qualche lungo istante di silenzio mentre dalla tenda che condivideva con Antoine, Icaro ed Etienne giungeva l’eco rabbioso della voce di Leticia, che sembrò accusare il compagno di Casa di averle volontariamente versato addosso mezzo litro di champagne.
“Domani non vengo, mi dovrete trascinare per i piedi.”, commentò Gisèle con tono inespressivo e senza nemmeno alzare lo sguardo dalle pagine della rivista, studiando accigliata le immagini di una trappola mentre Milad tornava invece a guardarla scettico:
“Non penso che gli altri ne saranno felici.”
“Ci sono muschi di cui importa di più. Sapevi che costruire una trappola a rete è semplicissimo?”
“In realtà non penso ci siano orsi da queste parti.”
“Sì lo so, pensavo più a mio cugino. Potrei ingabbiarlo la sera del ballo, così se dovessi assentarmi nessuno potrà andare a dirlo a mia madre.”
“Puoi sempre farti vedere per un po’ e poi sparire, tanto per poter dire di esserci stata. E poi tu sai ballare, di che ti preoccupi?” Milad si sistemò il berretto di lana verde sulla testa gettando un’occhiata scettica alla compagna di Casa, che smise di studiare le immagini della rivista per alzare lo sguardo e posare gli occhi blu su di lui inarcando un sopracciglio:
“È questo che preoccupa te? Non sai ballare Milad?”
Milad non rispose, prendendo a fissare con ostinazione le fiamme sempre più fievoli del falò tenendo le braccia strette al petto mentre Gisèle sgranava gli occhi guardandolo divertita e stupefatta al tempo stesso:
“Ma dai, è una stupidaggine! Di che t’importa?”
“Ti stupirà sapere che non mi piace fare la figura dell’idiota in pubblico.”, bofonchiò cupo Milad stringendosi nella giacca e sprofondando leggermente nella sedia, a disagio, mentre Gisèle chiudeva la rivista e l’agitava con un lieve sbuffo infastidito:
“E allora, manca un mese, puoi imparare! Se balla mio cugino può ballare chiunque. Ti insegno io, è facilissimo.”
“Non sono capace!”, replicò torvo Milad sempre fissando il fuoco e desiderando di sparire, astenendosi dal far sapere a Gisèle di avere sicuramente meno orecchio musicale dei tronchi d’albero che li circondavano mentre la francese, sfortunatamente per lui, prendeva la ferma decisione di aiutarlo e di insegnargli a ballare:
“Non scassare Milad, hai due piedi e due mani, ergo sei capace. Poi potrai andare a casa per le vacanze e dire ai tuoi genitori che gran bella figura hai fatto… Ormai ho deciso, quindi rassegnati. Ora, secondo te mi cacciano dalla Brigade se intrappolo mio cugino e gli impedisco di prendere parte a quella ridicola pagliacciata di domani?”
 
 
divisore
 

 
Domenica 27 novembre
 

 
“Come sarebbe a dire che non vieni?”
Nerea, in piedi accanto al letto e già vestita, guardò la sua migliore amica sgranando inorridita e dispiaciuta gli occhi verdi mentre Gisèle, ancora comodamente sotto le coperte e con la mascherina da notte di raso rosa antico indossata a mo’ di fascetta per capelli, scuoteva svogliatamente il capo scartando una Kinder Delice:
“Scusa Nerea, ma non vengo neanche se mi dite che alla meta c’è Jacopo Tissi(4) ad aspettarmi.”
“Ma è tradizione, lo facciamo tutti da… beh, non so di preciso da quanto, ma da sempre. Lo hanno fatto anche i nostri genitori!” L’italiana sedette sul bordo del letto rivolgendo all’amica uno sguardo implorante da cane bastonato, arma che di solito Nerea sfoderava per convincere Gisèle a fare pressochè qualsiasi cosa, ma quel mattino l’Ombrelune sembrava particolarmente ferma sulla sua posizione e scosse il capo prima di addentare la merendina al cioccolato:
“Beh, con tutto il rispetto, se mia madre si butta da un dirupo io cerco di fermarla, di sicuro non la seguo!”


“Gisèle non viene, possiamo anche portare un ombrello in meno.”, annunciò con tono cupo Nerea un paio di minuti dopo, quando raggiunse gli altri davanti ai resti del falò della sera prima con i lunghi capelli castani legati in una traccia e una tuta verde salvia infilata sotto ad una giacca termica.
“Ve l’avevo detto che non voleva... Non le piacciono le altezze.” Antoine scosse leggermente il capo mentre giocherellava con il manico ricurvo dell’ombrello blu notte che stringeva tra le mani, abbozzando un sorriso quasi divertito quando Etienne gli chiese di andare dall’amica per convincerla a seguirli:
“Sinceramente non penso che nessuno possa convincerla a fare qualcosa che non vuole.”
“Per me nessun problema, lasciamola qui.” Deciso a non perdere tempo per aspettare sua cugina Guillaume si strinse nelle spalle e fece per girarsi e incamminarsi per uscire dal bosco, ma Icaro lo precedette consegnando il suo ombrello ad Etienne e chiedendo al gruppo di aspettarlo prima di incamminarsi verso la tenda gialla di Nerea:
Un momento solo.”

 
Seduta contro la testiera del letto Gisèle stava giusto pensando a come poter sfruttare nel miglior modo possibile i fortuiti momenti di pace e solitudine che l’aspettavano quel mattino quando per la seconda volta in dodici ore Icaro Orsini decise di interrompere la sua quiete: la zip della tenda venne bruscamente abbassata e Gisèle si voltò accigliata e masticando giusto in tempo per scorgere l’italiano sporgersi con il capo oltre i lembi impermeabili per dirle qualcosa con un tono sbrigativo che non ammetteva repliche:
“Vedi di muoverti, o dico a tuo cugino cosa stavi guardando ieri sera e ti prenderà per il culo fino al tuo ultimo giorno di vita. Bene, ciao.” Dopo averle indirizzato un breve sorriso amabile Icaro sparì dal suo campo visivo ritraendosi dall’ingresso della tenda, lasciandola di nuovo sola con quel che restava della sua merendina al cioccolato, l’unica gioia della giornata. Trascorso un breve attimo di realizzazione Gisèle si scostò sbuffando le coperte di dosso e si alzò addentando l’ultimo boccone di Kinder Delice, accartocciando e gettando in un angolo la cartina prima di andare a recuperare i suoi vestiti borbottando a mezza voce:
Lurido baftardo.”

 
“Eccomi, ci sono. Ho cambiato idea.”, annunciò Gisèle quando, meno di cinque minuti dopo, raggiunse il gruppo dopo aver lasciato la tenda vestita da capo a piedi e con gli occhiali da sole del giorno prima a schermarle gli occhi grigi lampeggianti d’ira.
Davvero?! Che le hai detto?” Dopo aver gettato un’occhiata incredula alla sua amica, che si allontanò prendendo Antoine sottobraccio chiedendogli di non farle domande, Nerea si rivolse ad Icaro, ma il ragazzo si limitò ad un pigro sorriso prima di stringersi nelle spalle e avanzare per incamminarsi in testa agli altri:
“Niente, le ho solo fatto notare i pro e i contro. Forza gente, andiamo.”
Etienne si affrettò a seguire l’amico per restituirgli il suo ombrello, ma soprattutto per far sapere di non aver alcuna intenzione di fare il tragitto a piedi come il giorno precedente:
“Ok, ma sia chiaro che questa volta prendiamo la seggiovia, io col cazzo che mi faccio due ore di strada anche oggi!”
 

 
divisore
 
 
“Sapevate che fino a qualche anno fa per farlo si mettevano dei bellissimi abiti da sera? Me l’ha detto mia sorella.” Nerea strizzò leggermente gli occhi verdi mentre teneva il capo sollevato cercando di scorgere la cima della cascata ai cui piedi si trovavano, pentendosi di non aver imitato Gisèle portandosi gli occhiali da sole mentre cercava di schermarsi lo sguardo tenendosi una mano poggiata sulla fronte.
“Mi sembra piuttosto sciocco vestirsi eleganti per poi farsi il bagno.”, osservò accanto a lei Milad aggrottando le sopracciglia mentre studiava a sua volta la cima della cascata. Gisèle, in piedi a braccia conserte vicino all’amica, si limitò a sbuffare scrutando torva la cascata maledicendo la stupida tradizione a cui era stata costretta a prendere parte:
“Certo, perché invece lanciarsi da una cascata con un ombrello è proprio una mossa da geni...”
“Quanto sei acida, beviti un po’ di latte e miele quando torniamo a scuola… Beh, io vado, ci vediamo in cima.” Bacchetta in una mano e ombrello nell’altra Icaro si Smaterializzò creando uno spazio vuoto tra Antoine ed Etienne, che non tardò ad imitare l’amico sparendo a sua volta. Guillaume, Abel, Milad, Leticia e persino Annika, che con i grandi occhi azzurri e le mani pallide tremolanti appariva di gran lunga la più preoccupata del gruppo, ben presto li imitarono lasciando indietro solo Antoine, Nerea e Gisèle, che continuò a fissare immobile e torva la cascata mentre l’amico le porgeva con un sorriso mite l’ombrello che avrebbe dovuto utilizzare.
“Fai tante di quelle cose spaventose con le punte di gesso ai piedi che un sacco di gente non si sognerebbe mai di fare… non dirmi che ti fai spaventare da un po’ d’acqua.”
Antoine depositò una carezza gentile sulla spalla dell’amica prima di strizzarle l’occhio e Smaterializzarsi, lasciando Gisèle e picchiettare nervosamente la punta dell’ombrello sul terriccio umido mentre scrutava con apprensione la cascata cercando di quantificare il numero di ossa che avrebbe potuto spezzarsi cadendo da un’altezza simile.
“Andiamo?” Rimaste sole, Nerea si rivolse all’amica con un sorriso gentile e porgendole la mano, invitandola mutamente a stringerla finchè Gisèle, dopo una breve esitazione, non acconsentì con un lieve sospiro. Prese la mano di Nerea e borbottò un assenso prima di lasciarsi Smaterializzare insieme a lei, riapparendo pochi istanti dopo in cima alla cascata accanto agli altri.
“Ah, la fifona ce l’ha fatta, non ci contavo!”
A frenare l’impeto di Gisèle di spingere il cugino dalla cascata furono gli otto testimoni oculari presenti – di cui sfortunatamente solo un paio talmente affezionati a lei da poter considerare corruttibili –, e la francese dovette esercitare tutto l’autocontrollo impartitole in Accademia da quando era solo una bambina per ignorare il commento di Guillaume, restando ferma a diversi metri dal limitare della sporgenza: non aveva nessuna intenzione di saltare per prima.
“Beh, chi vuole andare per primo?” Quasi le avesse letto nel pensiero Etienne si sporse leggermente – Icaro lo afferrò per un lembo della giacca quasi spinto da un riflesso involontario – per gettare un’occhiata al fondo della cascata e all’acqua che scendendo a valle affluiva nel lago per poi spostare lo sguardo sui compagni. Per qualche breve istante nessuno fiatò, finchè Nerea non si strinse nelle spalle e smise di stringere la mano di Gisèle facendo un passo avanti:
“Lo faccio io!” La ragazza sorrise mentre apriva il suo ombrello, avanzando verso Etienne ed Icaro mentre Gisèle, alle sue spalle, impallidiva guardandola inorridita:
Sei matta?! No Rea, fai andare prima qualcun altro! Guillaume, vai tu, così vediamo se gli ombrelli funzionano.”
“Andrò prima di te proprio per dimostrarti che non c’è niente di cui preoccuparsi. Leti, vieni?” Dopo aver rivolto un ultimo sorriso all’amica l’italiana volse lo sguardo sulla compagna di Casa, in piedi in un angolo accanto ad Annika con le braccia conserte, e dopo una breve riflessione la spagnola si strinse nelle spalle:
“Sì, perché no. Vieni Anni, andiamo insieme.”
Decisa a non lasciare sola l’amica Leticia prese Annika per mano e la costrinse gentilmente a seguirla fino a raggiungere Nerea vicino alla sporgenza.
Mentre anche Leticia e Annika aprivano i loro ombrello Gisèle ruotò su se stessa, rifiutandosi di guardare le tre compagne saltare nel vuoto affidandosi solamente a degli ombrelli. Mentre Leticia e Annika si prendevano per mano Nerea si sporse leggermente in avanti per gettare un’occhiata all’acqua sottostante, cercando di non chiedersi di quanti metri fosse il salto che stava per fare e di tenere a freno il dirompente principio di ansia che stava iniziando a pervaderla in tutto il corpo. Per la prima volta in tutta la sua vita riusciva a sentire distintamente il cuore pulsarle nel petto, ed era talmente presa dall’idea di dover saltare che quasi trasalì quando sentì una mano stringerle la sua:
“Salto io con te, avanti.”
“Grazie.”  Le labbra di Nerea si distesero dando vita ad un sincero sorriso pieno di gratitudine quando voltandosi gli occhi verdi della ragazza indugiarono sul viso di Etienne, che in tutta risposta si strinse debolmente nelle spalle prima di gettare un’occhiata poco convinta alla base della cascata:
“Aspetta a ringraziarmi, lo sai che la sfiga mi perseguita, spero di non essere contagioso.”
In fin dei conti se tutte quelle persone, inclusi i suoi familiari, l’avevano fatto tempo addietro non poteva poi trattarsi di qualcosa di tanto terribile, si ritrovò a riflettere Nerea mentre gettava un’ultima occhiata in basso prima di costringersi ad alzare la testa per puntare i brillanti occhi verdi dritti davanti a sé, la mano stretta con parecchia enfasi su quella di Etienne. E di cose catalogabili come assurde ne aveva fatte parecchie già nel corso dell’anno precedente, prima di entrare nella Brigade.
Dopo essersi scambiata un ultimo sorriso con Leticia Nerea raccolse tutto il coraggio di cui disponeva e saltò appena un paio di istanti prima delle due compagne portando Etienne con sé, ritrovandosi suo malgrado a sferzare l’aria con un acuto grido involontario mentre prendeva velocità aggrappandosi alla mano dell’amico e al manico dell’ombrello. Era vicinissima a maledirsi per aver deciso di saltare per prima quando la magia dell’ombrello si attivò e la caduta verso l’acqua rallentò, conferendole quasi la bizzarra sensazione di star fluttuando. Meravigliata, Nerea ebbe a malapena il tempo di guardarsi attorno e di godersi quell’inaspettatamente piacevole sensazione quando, sfiorata la superficie dell’acqua con la punta del piede, la magia si spezzò facendola precipitare rovinosamente con un tuffo.
“Vi prego ditemi che sono vivi.”, mormorò Gisèle senza avere il coraggio di voltarsi mentre tutti i possibili peggiori scenari prendevano vita davanti ai suoi occhi, una mano nervosamente premuta contro le labbra.
“Mi sembrano vivi e vegeti. Andiamo Abel.”
Dopo aver gettato una rapida occhiata ad Annika, Leticia, Nerea ed Etienne, tutti bagnati fradici mentre galleggiavano ridendo insieme ai loro ombrelli in mezzo all’acqua, Guillaume aprì il suo e fece cenno ad Abel di seguirlo per saltare insieme all’amico vantando una calma e un sangue freddo che Gisèle, voltatasi giusto in tempo per guardare il cugino saltare, si ritrovò ad invidiargli. Anche se non l’avrebbe ammesso a voce alta nemmeno sotto tortura.
Seppur scettico Milad si avvicinò a sua volta alla sporgenza per guardare in basso inarcando un sopracciglio, giusto in tempo per vedere la caduta dei due compagni di Casa rallentare fino a che Abel e Guillaume non ebbero sfiorato l’acqua. Tutta quella faccenda alla Mary Poppins gli sembrava un tantino bizzarra da quando ne aveva sentito parlare dai compagni ad inizio anno, ma in fondo chi era lui per giudicare o mettere in discussione una tradizione più che consolidata?
“Sarai felice di sapere Gisèle, più o meno, che anche Abel e tuo cugino sono incolumi… Ci vediamo giù.”
Milad aprì il suo ombrello e dopo aver gettato un’ultima e rapida occhiata ai tre compagni rimasti in cima alla cascata saltò facendo precipitare vertiginosamente lo stato d’ansia di Gisèle, che prese a rigirarsi nervosamente l’ombrello ancora chiusa tra le mani mentre si avvicinava con cautela alla sporgenza: il suo turno di saltare si era fatto ormai drammaticamente vicino.
Intuito cosa volesse fare Antoine le consigliò con tono allarmato di non guardare giù, ma appena un istante troppo tardi: scorti i compagni nuotare una quindicina di metri più in basso si sentì investire da un violento senso di vertigini, portandola ad allontanarsi di scatto facendo un passo indietro prima di voltarsi scuotendo il capo verso Antoine e Icaro:
“Sapete che c’è? Io non penso che salterò. No, penso che tornerò giù a piedi… Non ho la bacchetta, quindi non mi posso Smaterializzare, ma posso andare a piedi, o rotolare… O magari resterò a vivere qui in cima. Di sicuro non salto. No, perché Guillaume potrebbe avermi fatto il malocchio all’ombrello, e di finire con due vertebre spezzate senza poter ballare per il resto della vita non mi va… Bene, voi andate pure.”
Gisèle si allontanò dalla sporgenza per riavvicinarsi ad Antoine, incrociando le braccia al petto ed evitando categoricamente di ricambiare lo sguardo dell’amico quando lo sentì circondarle le spalle con un braccio:
“Gisèle, Guillaume non ti ha manomesso l’ombrello. Ok, è stronzo, ma non uno psicopatico! Credo che in fondo, molto molto in fondo, ti voglia anche bene.” Gisèle aveva seri dubbi a riguardo, ma si limitò ad un lieve accenno di risata sarcastica mentre Icaro apriva il suo ombrello esibendosi in una pigra e noncurante stretta di spalle:
“Credo che tu debba chiederti se vuoi vivere tutta la tua vita pensando a quel giorno in cui non hai avuto il coraggio di fare qualcosa che tuo cugino ha fatto… Io non lo sopporterei.”
Per qualche strano motivo, tuttavia, le parole di Icaro non portarono Gisèle a pensare a suo cugino, bensì a sua nonna. La sua amatissima nonna che da bambina nascondeva altri esseri umani sotto le assi del pavimento e che in sedia a rotelle rubava bottiglie da una cantina. All’improvviso Gisèle si chiese che cosa avrebbe detto di lei sua nonna vedendola in quel preciso istante, e provò quasi un profondo senso di vergogna nel paragonarsi a lei.
“Ok. Ma aspettatemi, non lo faccio da sola.” Anche se certa che di lì ad una manciata di istanti se ne sarebbe pentita Gisèle afferrò un sorpreso Antoine sottobraccio e lo costrinse a seguirla verso Icaro e la sporgenza, fermandosi per aprire finalmente il suo ombrello tenendo la mano sinistra ben stretta in quella del suo migliore amico.
“D’accordo. Se muoio dite a Nerea che può tenersi i miei vestiti… A Guillaume invece dite che sono migliore di lui. E tu dovresti ricomprarmi la schiuma,” asserì voltandosi verso Icaro, “ma se muoio puoi anche evitare.”
“Che dramma, non morirà nessuno! Ma se anche fosse giuro solennemente che non ti infangherò dicendo a Guillaume che ieri sera stavi guardando B…”
Antoine ebbe appena il tempo di voltarsi accigliato per gettare un’occhiata perplessa al compagno di Casa prima di vederlo fare il salto nel vuoto e precipitare con un allarmato grido di sorpresa che lo portò a chiedersi se Gisèle non lo avesse volontariamente spinto, ma quel pensiero durò solo per un istante, poi Gisèle strinse i denti e saltò trascinandolo con sé verso l’acqua.
 
 
divisore
 
 
Esattamente come Nicholas Lefevre aveva previsto le 15 di quella fredda domenica si avvicinarono precipitosamente e dopo aver pranzato sulle sedie pieghevoli disposte sul prato tutti si ritrovarono a riporre le proprie cose negli zaini e a smontare le tende in fretta e furia rischiando di perdere la Passaporta che li avrebbe riportati a Beauxbâtons. Come chiunque – il loro insegnante in primis – avrebbe potuto immaginare Milad fu il primo ad essere pronto per tornare a scuola, tanto da ritrovarsi ad aspettare con impazienza i compagni stando in piedi vicino alla riva del lago tenendo la palla da tennis scolorita in mano.
“Sapete, non penso che Lefevre sarebbe molto felice di dovervi venire a prendere personalmente.”, si premurò di far notare a voce alta il belga mentre faceva rimbalzare gli occhi scuri da Nerea, che aveva già smontato la tenda e stava rimpicciolendo una dietro l’altra le sedie da campeggio per infilarle nello zaino magicamente ampliato con l’aiuto di Leticia, ad Icaro, che stava facendo avanti e indietro per la terza volta lamentando la misteriosa sparizione dei suoi calzini prediletti.
“Icaro, li ha Etienne i tuoi calzini.” Milad sospirò mentre si accertava di aver riposto la bussola nella tasca della giacca e gettava al contempo l’ennesima occhiata impaziente al proprio orologio da polso, implorando mentalmente i compagni di darsi una mossa mentre Guillaume e Abel riponevano gli ombrelli all’interno della cavità ai piedi del pino in cui li avevano trovati il giorno prima.
“Perché cazzo ha i miei calzini?! Ti avevo detto di portartene due paia!”, sbottò l’italiano sbuffando prima di dirigersi a grandi passi verso il punto in cui l’amico e Antoine stavano cercando di infilare in fretta e furia tutti i componenti della tenda nello zaino del Bellefuille: Etienne sapeva anche fin troppo bene che se ne avesse perso qualche pezzo compromettendo tutto l’incantesimo che la teneva in piedi suo fratello lo avrebbe personalmente aspettato sulla soglia di casa per suonargliele una volta tornato per le vacanze di Natale.
“Eccomi, sono pronta.” Annika fu la prima a raggiungere Milad con un ampio sorriso sulle labbra sottili e con lo zaino lilla chiuso sulle spalle, tanto da guadagnarsi uno dei rari sorrisi del belga mentre Nerea e Leticia cercavano faticosamente di chiudere lo zaino stracolmo e apparentemente sul punto di esplodere dell’italiana:
“Ma che ti sei portata, tutta la dispensa di Beauxbâtons?”, sbottò la spagnola sbuffando mentre Gisèle si dirigeva verso Milad e la riva del lago in tutta calma e sbadigliando con aria annoiata.
“Non si sa mai, non volevo che nessuno patisse la fame! Qualcuno ci dà una mano?” Nerea smise di cercare di chiudere le cinghie dello zaino per gettare un’occhiata implorante a chi le circondava, ritrovandosi a sorridere grata e quasi commossa ad Abel quando il ragazzo si avvicinò sospirando e le fece cenno di spostarsi per lasciar fare a lui.
“Non vorrei mettervi ansia, ma mancano tre minuti alle 15…” Milad si inginocchiò al suolo per posare a terra la pallina fissandola accigliato, non del tutto certo che sarebbero riusciti a toccarla in dieci viste le dimensioni ridotte – forse Lefevre aveva scelto un oggetto così piccolo sapendo che non sarebbero mai stati tutti pronti in tempo? – mentre Icaro e Guillaume si univano a lui, Annika e Gisèle.
“Io sono pronto.” Annunciò Guillaume con tono annoiato mentre si voltava in direzione di Abel, forse chiedendosi se sarebbe riuscito a prendere la Passaporta mentre l’amico riusciva finalmente a chiudere lo zaino di Nerea.
Peccato, speravamo avessi deciso di darti alla vita selvaggia e di restare qui.”, commentò la cugina aggiustandosi distrattamente il berretto col frontino sulla testa mentre si inginocchiava accanto ad Annika, ignorando l’occhiata truce che Guillaume le scoccò mentre Leticia sfrecciava verso di loro seguita a poca distanza da Nerea, Abel e i rispettivi zaini. Grazie alle sue quotidiane corse insieme a Gisèle Antoine invece li superò con un energico scatto, intimando ad Etienne di darsi una mossa prima di affrettarsi ad inginocchiarsi accanto all’amia.
“Non vi azzardate neanche a partire senza di noi!” La spagnola quasi si buttò a terra accanto al gruppo per paura di perdere la Passaporta, affrettandosi a farsi spazio vicino ad Annika mentre Icaro, esattamente come il giorno prima, si chiedeva che cosa avessero fatto per far incazzare Lefevre e avere una Passaporta tanto scomoda e minuscola: forse i loro ultimi temi non erano stati affatto di suo gradimento, rifletté l’italiano mentre sollevava la testa per cercare Etienne con lo sguardo, sospirando quando lo vide ad una quindicina di metri di distanza.
“Sbrigati, se poi Lefevre deve venirti a prendere come minimo si andrà a lamentare con tuo fratello!”
Etienne non aveva nessuna intenzione di superare il record di Strillettere stabilito nel corso dell’anno precedente e corse verso Passaporta e compagni come non aveva mai fatto prima, nemmeno quando a tredici anni aveva accidentalmente scambiato il lucido per la costosissima scopa da corsa di Basile con della colla. Si buttò a terra finendo in realtà parzialmente addosso ad Icaro a causa del poco spazio rimasto, ma ignorò le conseguenti imprecazioni dell’amico mentre allungava l’indice verso la palla da tennis e la toccò appena in tempo per sentirsi strappare bruscamente dal suolo.
Il weekend fuori dai confini di Beauxbâtons di Etienne finì esattamente come era cominciato, quando pochi istanti dopo si sentì di nuovo precipitare al suolo atterrando di faccia e trattenendo di conseguenza a fatica un gemito, ma riuscì comunque a sentire perfettamente le parole che il loro insegnante, in piedi a due metri di distanza dal punto in cui erano atterrati e con un orologio da taschino in mano, pronunciò con tono sinceramente colpito:
“Caspita, siete in dieci. Questa sì che è una sorpresa.”



 
 
 
 
 
 
 
(1): Una tetralogia è un’opera costituita da quattro elementi legati da un filo conduttore, come trama e personaggi comuni. In ambito musicale la Tetralogia di Wagner, L’anello del Nibelungo, è la tetralogia per antonomasia, tanto che spesso viene chiamata semplicemente con questo nome. Le quattro opere che la costituiscono sono L’oro del Reno, La Valchiria, Sigfrido e Il crepuscolo degli dei, ed eseguirne una parte provoca all’incirca una sofferenza paragonabile a quella dovuta ad un dito sbattuto contro lo spigolo di una cassettiera per una ventina di volte consecutive.
(2): Imperatore del Sacro Romano Impero, prezzemolo di tutti gli esami di storia
(3): Opera di Giuseppe Verdi
(4): Étoile dell’Het Nationale Ballet
 
 
 
 
 
 
 
 
………………………………………………………………………………….
Angolo Autrice
 
Salve a tutte!
Riappaio con questo capitolo lunghissimo dopo all’incirca dodicimila anni, perdonatemi T.T
Questo capitolo è un’enorme reference a forse l’episodio più iconico di Gilmore Girls, You Jump, I Jump, Jack (5x07), in italiano appunto La Brigata della Vita e della Morte. Se qualcuno non ha visto la serie e si sta chiedendo il perché degli ombrelli in realtà un motivo non c’è, è semplicemente una citazione❤️
Ora, una questioncina: in un capitolo precedente, credo il VI, ho introdotto il personaggio di Clelia scrivendo che frequentava il V anno, mentre qui diventa improvvisamente compagna di stanza delle ragazze del VI. Bri qualche tempo fa mi ha infatti proposto di aggiungerle un anno in più in modo da renderla coetanea di Diego e tutti gli altri, quindi è “diventata” effettivamente una studentessa del VI anno e più avanti, avendo eliminato Marguerite dalla storia, prenderà anche il suo posto come membro della Brigade.
Fatta questa doverosa spiegazione ne occorre un’altra: mi rendo conto che la reazione di Daphné, ma anche quella collettiva, dovuta al dover imparare a suonare relativamente in breve tempo le opere di Wagner possa risultare eccessiva (e in fondo Daphné è innegabilmente una drama queen), ma posso assicurare che quasi nessuno in questo campo è capace di suscitare isteria e panico collettivi quanto lui, alla vista del cui nome su uno spartito è possibilissimo scorgere gente mettersi in fuga neanche stesse evitando un Basilisco.
Detto ciò, nel prossimo capitolo ci sarà la prima gitarella scolastica dei ragazzi e nel frattempo ci si avvicina anche a Natale e al Ballo, non temete vi ammorberò presto l’esistenza con le domande di rito✨
Vi avviso già che pretendo le foto degli outfit, quindi andate e rendetemi fiera.
Baci baci,
Irene

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=4045899