Le cronache dei draghi e dei re - La guerra di Constant

di Rossini
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La grande guerra dell'oriente ***
Capitolo 2: *** La via da percorrere ***
Capitolo 3: *** Nuove prospettive ***
Capitolo 4: *** Trappola per volpi ***
Capitolo 5: *** La morte al Consiglio ***
Capitolo 6: *** Un inizio, una fine ***
Capitolo 7: *** Un problema di culto ***
Capitolo 8: *** Il Principe Piromante ***
Capitolo 9: *** La Dieta di Dorne ***
Capitolo 10: *** La regina e il cavaliere ***
Capitolo 11: *** Il maestro e l'allievo ***
Capitolo 12: *** La battaglia di Alberocasa ***
Capitolo 13: *** La vendetta dell'Andalo ***
Capitolo 14: *** Il re del Nord ***
Capitolo 15: *** Luce sul Nido ***



Capitolo 1
*** La grande guerra dell'oriente ***


Capitolo 1

LA GRANDE GUERRA DELL'ORIENTE

 

 

 

La piana di Ghony, un piccolo e ristretto triangolo coltivabile a nord della grande foresta di Qohor. Era l'ultimo baluardo di difesa per l'umanità, anche se una parte di umanità – più o meno consciamente – aveva deciso di evitarsi questa informazione. Questa volta per davvero le potenze dell'oriente erano tutte riunite, non come era stato a Marrah Cankhubhia. La notizia della mattanza in quella città, di come un popolo di piante e bestie indemoniate avesse occupato la città-mercato dove risiedeva la ricca e potente famiglia dei Panecha, aveva infine sconvolto i Goldsmith, i Loackland e quello che rimaneva dei Gaholla. Eppure a giudizio di Garhel Sawela gli uomini stavano continuando a sbagliare, e pure quella battaglia sarebbe stata perduta come la precedente, sempre a causa della cecità volontaria degli uomini. Prima l'oriente aveva lasciato inascoltato l'urlo dei Panecha, e Marrah era caduta. Adesso era l'occidente a ignorare il grido di allarme provenire dai Lord dell'Essos; e anche Braavos sarebbe caduta. Infine sarebbe toccato ai re d'occidente, ma prima o poi sarebbero periti tutti. Non c'era infatti altro modo di sconfiggere quel malvagio dio drago – quello che la draghessa Kimera aveva chiamato “fratello Requiem” quando, insieme a Banfred Panecha, Lord Garhel aveva assistito al loro tragico scontro fratricida – se non reagire tutti insieme; ma proprio tutti e subito. E ormai era troppo tardi.

Garhel aveva accettato di sostenere quell'ultima battaglia proprio perché sentiva che tanto ormai era tutto perduto. E lui aveva già perduto tutto. La sua famiglia, la sua passione, perfino la sua sempre tonica corporalità lo aveva al fine lasciato, visto che sostanzialmente aveva perso l'uso delle gambe a partire da quel giorno maledetto a Marrah quando, nel caos generale, aveva deciso di salvare l'inutile Banfred guadagnandosi per questo un bell'elefante addosso. Un elefante vero, non la metafora con la quale pure talvolta ci si poteva rivolgere ai Panecha e dunque, in questo caso, a Banfred. I Panecha d'altronde l'elefante ce l'avevano proprio nei loro stendardi. Ebbene ne tenevano anche diversi in casa – un labirinto orizzontale nel quale infaustamente Lord Garhel si era per l'ennesima volta introdotto al fine di uccidere il Lord – e uno di quelli aveva per sempre compromesso le gambe di Sawela. In realtà già due medici su due non gli avevano dato l'assoluta certezza che non avrebbe più camminato, ma Sawela aveva per lo più imputato la cosa al fatto che temessero di dirgli la verità. Conclusione: era stato trasportato come uno zaino sulla schiena del giovane Lord ed erede (erede ormai di nulla) che l'ex Tribuno Popolare aveva raggiunto la seconda capitale dell'Essos. Se Marrah, la città dei Panecha, era la città-mercato; Braavos, la città dei Goldsmith, era notoriamente la città-banca.

Quest'ultima era situata nel punto estremo di nord-ovest del continente, teoricamente di fronte alla Valle di Arryn, una volta oltrepassato il Mare Stretto. Teoricamente perché sebbene qualche porticciolo si potesse anche trovare, in verità la valle era costituita da una serie di alti scogli e promontori, ragion per cui di norma i popoli che l'abitavano non erano navigatori. Esistevano delle navi che battevano la bandiera della Valle di Arryn? Certamente: ma non tra le più rinomate dell'occidente. C'era come un muro tra oriente e occidente in quella zona: tanto è vero che la gran parte dei contatti avvenivano più a sud, dove il Westeros aveva le terre della corona, il capo della tempesta o la penisola dorniana. Braavos era quindi come un fortino, isolato a nord e ad ovest dal mare e a sud dalla foresta di Qohor, che prendeva il nome dall'altra più grande città vicina. Solo in una ristretta area a sud-est si trovava una reale e semplice via di comunicazione, collegata più che altro col deserto stepposo che finiva poi per diventare quello che era chiamato il Mare Dothraki. Lungo quel canale, pur se la strada era lunga, era quasi fisiologico che il nord del continente si collegasse con l'estremo sud, e nella fattispecie che si collegassero Braavos e Marrah, le due più importanti città. Fu per questo che quelli di Braavos seppero per tempo che l'onda verde e nera caratterizzante l'esercito demoniaco di Requiem si sarebbe abbattuta su di loro, prima che su qualsiasi altra città della costa. Avevano dunque avuto la possibilità di chiamare a raccolta tutti gli eserciti dell'oriente, questa volta per davvero. Quella guerra comune che Justus Panecha aveva invocato per sé e per la sua città, era finalmente stata approntata. Solo che non era più possibile farla per come Justus l'aveva immaginata, visto che non c'era più l'esercito di Marrah – il secondo del continente per importanza – né buona parte di quello dei Gaholla, unica altra famiglia orientale che aveva risposto alla chiamata dell'elefante. L'unica speranza per l'oriente da solo di sconfiggere la magia dei draghi sarebbe stata con l'esercito congiunto dei Goldsmith e dei Panecha, ma ora che quello dei Panecha non c'era più, non rimaneva che la chiamata all'occidente. E l'occidente ovviamente non aveva risposto. Quindi il Westeros, ad opinione di Garhel Sawela, era già spacciato.

Lui era uno storpio che non poteva muovere le gambe, per cui non sentiva di avere molto di meglio da fare, così rimase a Braavos dove con Banfred e i sopravvissuti di Marrah era arrivato ormai da parecchie settimane, e cercò di fare quello che potette per cucire una sorta di alleanza tra quelli che erano rimasti. Era presente quando vennero organizzati i ranghi e preparati gli eserciti e i piani di battaglia: anzi, più che altro i piani di difesa. Sì, perché Braavos aveva molte minori possibilità di difesa di Marrah: le sue mura erano più antiche e più fragili. Persa la battaglia – che di sicuro sarebbe stata persa – la città sarebbe stata espugnata realmente in una questione di istanti. Almeno Marrah ci mise un po' prima di farsi invadere nel suo centro storico e nel suo palazzo reale dalle orde nemiche. Per Braavos il trattamento sarebbe stato ancora più rapido.

Tuttavia Garhel pensava che tanto valeva morire combattendo. Non lui: lui non sarebbe stato in grado, anche se gli sarebbe piaciuto da morire. Diciamo che aveva trasferito sull'intero genere umano l'idea del comportamento che avrebbe tenuto per lui stesso. Se lui fosse stato l'umanità, avrebbe scelto di morire combattendo, e non dando le spalle al proprio nemico, fuggendo verso una salvezza che non sarebbe mai arrivata. Fu sempre seguendo questa tragica ma ferrea logica, che Sawela pensò anche a un apparecchio di cui aveva sentito parlare molto tempo prima. Lui era un ex soldato e tutto ciò che riguardava armi e modi di combattere, lo appassionava. Così una volta, mentre era ancora all'interno del Concilio del Re del regno occidentale, gli venne data la possibilità di visitare le segrete della Fortezza Rossa, dove si trovavano gli antichi gingilli e altre curiosità delle famiglie reali precedenti. Lì per la prima volta Sawela aveva visto i teschi dei draghi, grandi più o meno quanto quello che a occhio avrebbe detto fosse quello di Kimera, mutata nella sua forma di drago. In quest'ultimo modo, Sawela non aveva potuto vedere Requiem, dunque non sapeva se sarebbe stato in effetti grande quanto la sorella, o di più, o di meno. Ma avrebbe giurato che più o meno sarebbe stato un drago di quelle dimensioni. Questo dando per assodato che invece nella sua forma “umanoide”, Requiem aveva avuto invece un aspetto che Garhel avrebbe definito ben più inquietante di quello di Kimera. E dire che Kimera la prima volta che l'aveva vista, nelle sue dimensioni così enormi, in questa forma di donna così abbondante da sembrar quasi voler prendere in giro l'imperfezione umana, quasi gli aveva provocato un mezzo infarto. Di sicuro, Garhel temette di starlo per avere. Anche Requiem era un uomo perfetto, nella sua forma simile agli uomini. Come il seno grande e sodo di Kimera pendeva sul suo petto come fosse fatto per allattare un reggimento, così Requiem aveva la muscolatura di un guerriero perfetto. E tra le altre cose, aveva anche impugnato quella sua lancia da guerra – con la quale aveva trafitto Kimera – con la grazia di un danzatore braavosiano.

Eppure, nonostante l'apparente perfezione fisica di questo avversario, e la sua capacità di evocare chissà quali oscure magie, a Garhel era venuta un'idea. Faceva sempre parte di quella sua strategia un po' nichilista del combattere più per l'obiettivo di cadere tentando di difendersi che non per vincere, tuttavia lui quello sapeva fare e per tale ragione a un certo punto gli venne questa idea che subito condivise con la corte dei Goldsmith, e con tutti gli alleati che erano sopraggiunti per combattere quell'ultima grande guerra dell'oriente. Quella volta della sua visita alle cripte della fortezza di Roccia del Re, aveva visto qualcos'altro, a parte i teschi degli antichi draghi; un'arma. Un'arma appositamente concepita per abbattere i draghi. Draghi quanto quello di cui l'immenso teschio che pure aveva visto lì vicino doveva essere appartenuto. Draghi grandi su per giù quanto Kimera e Requiem dunque.

Gli avevano anche detto il nome, “scorpioni” forse, ma in fondo si trattava di balestre giganti. Balestre in grado di lanciare arpioni lunghi due, anche tre volte un uomo. Balestre da azionare servendosi dell'uso dell'intero corpo di un soldato. Naturalmente Garhel non era un ingegnere: non sapeva costruirle. Ma le aveva viste, e quelle che aveva visto erano molte antiche, dunque anche ingegneri di secoli e secoli prima erano stati in grado di costruirle, quindi: qualcuno su tutta la faccia dell'Essos ci sarà pure stato! Lord Goldsmith (inizialmente contrario all'operazione) mobilitò tutte le sue forze, e così trovò l'uomo adatto nell'arco di mezza giornata. Il tempo non sarebbe servito a ricercare l'ingegnere, ma a costruire nel breve tempo che gli rimaneva un numero di scorpioni adatto a trafiggere il loro sempre più venturo nemico. Perché era chiaro che più ce ne sarebbero state di quelle armi, e più alta sarebbe stata la possibilità di colpire Requiem, anche fortuitamente. Ma il tempo non ci fu. Il grande appuntamento per la vita o la morte dell'oriente cadde nel momento in cui nemmeno il terzo scorpione era stato ultimato. Venne portato sul campo di battaglia lo stesso, anche se di sicuro i suoi enormi dardi avrebbero avuto una curvatura talmente accentuata da risultare ingestibile per il soldato addetto al loro azionamento. D'altro canto, la situazione era disperata ed ogni tentativo doveva essere provato. Sarebbero tutti morti lo stesso entro l'indomani, ma ogni tentativo doveva essere provato ugualmente.

Venne in questo modo il giorno dello scontro. Le tigri dorate dei Goldsmith, le serpi a più teste dei Loackland e le chimere col martello dei Gaholla, tutte schierate come un unico grande battaglione. Non c'era il vessillo dei Panecha purtroppo, l'elefante. Ma c'era Banfred, insieme con Garhel ad osservare la situazione dall'avamposto rialzato dei capi-reggimento. E c'era anche Sir Poll, l'unico figlio maschio di Lord Gaholla che invece – obeso e gottoso – se ne era rimasto nella sua puzzolente Pentos. Poll aveva combattuto al fianco di Garhel a Marrah, e alla fine era sopravvissuto. Adesso, mentre suo padre si nascondeva alla loro capitale in attesa di morire lì, magari nel suo letto, lui – da giovane e audace soldato quale era – aveva deciso di guidare anche a Braavos la fazione armata della sua famiglia. Era davvero un bravo e coraggioso figliolo. Smunto, pederasta, ma davvero bravo e coraggioso. Garhel quasi lo invidiava. Invidiava il fatto che Poll, nella praticamente impossibile ipotesi in cui sarebbe tornato nella sua camera, vi avrebbe trovato quel giovanotto figlio bastardo dei Loackland a consolarlo e accarezzarlo. Certo Garhel non avrebbe voluto un ragazzo, avrebbe voluto sua moglie, ma... lei era morta. Mentre il ragazzo del Gaholla era ancora vivo. E poi Gaholla aveva ancora le gambe: poteva ancora una volta scendere in battaglia e brandire la sua lama. Poteva morire da eroe. Il destino di Sawela invece non era più quello. Era quello di aspettare il trapasso fermo su una sedia in mezzo ad altri codardi, mentre la polvere cominciava a coprire le sue membra, prima ancora di morire.

Lo spettacolo dell'arrivo del nemico fu terrificante. Già una volta Garhel lo aveva visto, e non pensava che sarebbe sopravvissuto fino ad osservarlo perfino una seconda volta. Eppure questo accadde. Certo, c'erano alcune differenze significative nell'onda magica e bestiale che stava per travolgere la piana di Ghony rispetto a quella che aveva già travolto Marrah. Il nemico che velocemente aveva fatto la sua corsa verso la casa dei Panecha, era stato per lo più di colore verde accesso. La massa di fronde e foglie che si era riprodotta sempre di più avanzando minacciosamente verso l'esercito dell'elefante, era dominata dallo stesso colore che normalmente si associa con le fronde e le foglie, solo molto acceso. L'onda demoniaca che invece ora si parava dinanzi agli occhi del vecchio e storpio ex Tribuno Popolare era molto scura. C'era sempre del verde, ma intervallato da una serie di striature brunastre che ne rendevano l'aspetto generale assai più fosco. Quello non era solo un esercito di piante e fiori e belve, era un esercito di queste cose, come macchiate ciascuna da una nuvola di fumo spesso e nero. Erano piante e fiere possedute dal maleficio brutale e demoniaco del drago Requiem.

Non appena li vide, Garhel ebbe la conferma di quello che aveva pensato per tutto quel tempo, fin dalla presa di Marrah Cankhubhia. Per l'umanità non c'erano più speranze. E così, pure per quanto riguardava l'umanità che risiedeva e stava combattendo per prima in oriente: pure per essa non c'erano speranze. Sarebbero semplicemente morti prima dell'umanità dell'occidente. Ma sarebbero morti. Quell'ultima battaglia di Braavos sarebbe stata solo una mattanza.

Lo sconto iniziò, e ancora una volta Garhel rivide la battaglia in cui la città-mercato era caduta. Cavalieri attrezzati per combattere un certo tipo di nemico, erano stati mandati a fronteggiare qualcosa che nessuno al mondo aveva mai fronteggiato, non solo loro. Era qualcosa di pietoso: soldati armati fino ai denti, che perivano colpiti da rami e tronchi, o aggrediti alla giugulare da pantere nere, o assaliti agli occhi da uccelli rapaci furiosi e invasati. Era come un incubo. Un incubo con tutta la durezza e l'amarezza della realtà. A un certo punto, Garhel – sempre dall'alto della montagnola dei generali – osservò come una sorta di tiepida resistenza da parte della fazione umana. L'onda nera e verde scuro rallentò visivamente la sua avanzata. Non si arrestò per niente, ma... cominciò a procedere con minore velocità. Garhel non seppe perché, francamente non ne aveva idea: poteva trattarsi di un mero fatto di casualità. Ma la cosa andò avanti ancora per un po'. Lui non tenne il tempo, i suoi maestri molti anni prima gli avevano insegnato che a battaglia cominciata questo non si fa mai, né se si sta vincendo né se si sta perdendo. Stava di fatto che per qualche motivo la linea di difesa dei Goldsmith, Loackland e Gaholla stava tenendo: nel senso – secondo Garhel – che forse avrebbe tenuto ancora per un po'.

L'ex Tribuno Popolare cercò di non riconoscerlo a se stesso, perché sapeva che se si fosse dato delle false speranze poi la loro disillusione sarebbe stata ancora più amara. Ma forse le forze di Requiem stavano avendo qualche difficoltà. Anzi, la stavano avendo davvero. Dunque venne lui personalmente a risolvere il problema. Sì, perché fino a quel momento gli scorpioni di Garhel – i due e mezzo che era stato possibile preparare – non avevano avuto modo di essere provati. Il drago non aveva partecipato alla battaglia. Fino al momento in cui le sue “truppe” non si erano quasi arrestate. Quando lo fecero, venne all'improvviso fuori dall'orizzonte, subito immenso e oscuro per come Garhel se lo era immaginato. Il cuore gli balzò in gola, ma almeno lui qualcosa del genere l'aveva già vista. I Lord che erano con lui invece, da Goldsmith a Loackland, sostanzialmente diventarono bianchi per il terrore. Non che l'onda di piante e bestie indemoniati non li avesse già scossi abbastanza; ma un drago era un drago. Era una creatura mitologica, una cosa di cui uno nella vita aveva solo potuto aver letto nei libri, e visto nei propri sogni, se dotato di vivida immaginazione. E invece ora quel sogno si stava realizzando. Ed era terribile e immenso.

Il drago cominciò a spruzzare il suo fuoco, anch'esso nero e verde scuro come i suoi servi. Disastroso, dirompente. In grado di eliminare decine e decine di uomini in una volta sola. E ne fece tante, Requiem, di quelle soffiate. Quattro, sei, nove. Finalmente un arpione si librò nell'aria, sorprendendo Sawela che – come tutti – era rimasto incantato dallo spettacolo tremendo della morte magica dall'alto. Però si accorse subito che qualcosa non andava. Il dardo era partito da uno dei due scorpioni funzionanti, eppure era andato troppo lontano dall'obiettivo “drago”: neanche lontanamente vicino da impensierirlo, e abbastanza lontano da fare in modo già di farlo accorgere dell'esistenza di un potenziale pericolo. A quel punto Requiem ci avrebbe messo davvero poco a individuare le costose armi appositamente costruite per abbatterlo e farne falò, con tutti i soldati agganciati sopra per azionarle.

«Banfred!» esclamò a questo punto Garhel Sawela, rivolto al principino degli elefanti, «Devi portarmi lì»

«Dove?»

«Lì, dagli scorpioni»

«Cosa? E p-p-perché?»

«Fallo e basta, Banfred. Secondo te c'è tempo per le spiegazioni?». A Garhel piaceva pensare che in qualche modo tra lui e il giovanotto ci fosse anche un rapporto di amicizia, o qualcosa di simile. Così gli piacque pensare che il giovane elefantino si fosse subito messo in moto per eseguire quell'operazione più per affetto e rispetto che non perché Garhel gli aveva appena urlato contro, dandogli sostanzialmente un comando militare. Ma purtroppo era anche vero che Banfred era un codardo e un ragazzino viziato e sì, quando gli urlavano contro si sentiva ancora rimproverato, come succedeva ai mocciosi. Ma il buono fu che il giovane Panecha prese l'attrezzo a mo' di zaino di cui si serviva per trasportare Garhel, lo mise sulle spalle, e iniziò a correre verso il campo di battaglia e in particolar modo nella zona – anch'essa lievemente rialzata ma celata da alcune truppe – nella quale si era deciso di montare le immense balestre dette scorpioni. Una volta lì, Garhel inveì rivolto al giovanotto che se ne stava legato dentro quell'immenso archibugio, quello insomma che aveva mancato l'obiettivo di colpire il drago: «Ma che diamine stai facendo, figliolo?»

«Come? Signore?»

«Il dardo! Scagli il dardo sulle ali?»

«Ehm... sì, signore»

«E perché, di grazia?»

«Ehm... è così che mi ha comandato il mio superiore»

«L'ingegnere?»

«Sì»

«Stupido ingegnere. Senti, senti: se miri all'ala, stai cercando di colpire un bersaglio in movimento in una sua porzione esterna, non interna, chiaro?»

«Ehm...»

«Hai mai giocato al tiro a bersaglio, figliolo?»

«C-cosa?»

«Ci hai mai giocato?! Lo sai come funziona? Si mira sempre al centro! Poi non è detto che lo si prenda esattamente lì, ma per lo meno aumenti le possibilità di prendere il bersaglio, anche nelle falde laterali. Se miri all'ala, c'è tutto un pezzo di drago che ti lasci fuori, capisci?»

«Ehm... c-cosa?»

«Oh, basta così, levati!» e Garhel, sempre intrappolato sulla schiena di Banfred, cominciò a colpire il giovanotto con le braccia e con le mani per spaventarlo. Quello un pochino resistette, più che altro perplesso nell'osservare quella scena di quell'uomo storpio e agganciato alla schiena di un altro uomo, che gli gridava addosso come un generale. Ma alla fine desistette, e Garhel pretese che Banfred legasse lui medesimo sullo scorpione. Prese dunque la mira e scagliò il suo primo giavellotto. Mancò completamente, esattamente come aveva già fatto chi lo aveva preceduto. Imprecò, disquisendo in merito al mestiere della madre del drago, dopodiché riprovò. Requiem era più vicino adesso, molto più vicino. Garhel continuò a imprecare. Quindi azionò il meccanismo e scagliò il suo secondo lunghissimo dardo d'acciaio. E lo prese. Lo prese bene. Se non al petto, in una zona dell'ala che doveva essere dannatamente vicina al petto. Un grido disumano esplose fuori dalla creatura, una cosa che avrebbe fatto tremare il più impavido degli uomini. Quindi, Requiem ebbe il tempo di volare allontanandosi un po', prima di precipitare da qualche parte, lontano. Le sue creature possedute continuarono brevemente a combattere, ma poi – senza direttive dal loro capitano – cominciarono ad agitarsi confuse. Alla fine arrestarono il loro assalto e si ritirarono, dirette verso il luogo da cui erano provenute. E fu così che l'oriente vinse la sua grande battaglia per la sopravvivenza.

 

 

 

Sangue. Da quanto tempo non vedeva quel brillante liquido bianco-grigiastro che colava giù dalla propria pelle! Erano passati millenni. Da millenni il drago Requiem infatti non subiva una ferita fisica; dai tempi delle guerre contro gli umani. Sempre loro, sempre gli stupidi umani erano in grado di compiere quella sacrilega azione, uniche creature sulla terra a possederne le eventuali volontà e possibilità. Quanto pazzi erano stati i suoi fratelli a considerare la possibilità di un dialogo contro quelle bestie! Non c'era dialogo possibile con l'umanità, e quel dolore che in quel momento Requiem stava provando ne era la prova. Più dolore sentiva e più pensava che gli umani dovevano morire: tutti. Erano intelligentissimi, per carità. In quanto figli dei draghi avevano ereditato da loro giustamente ogni loro essenza principale: l'intelligenza, la magia e quella dannata strana predisposizione tanto cara a Luxia e Nidhogg che loro avevano chiamato “amore”, e che con questo termine l'avevano spiegata e trasmessa agli umani più illuminati. Perché, com'era noto, solo un umano in grado di avere intelligenza poteva comprendere l'amore, così come solo un umano dotato sia di intelligenza che d'amore poteva comprendere la magia. Tutto questo era ciò che veramente si celava alla base di qualsiasi insegnamento da drago a uomo, e valeva sia per gli allievi di Luxia e Nidhogg, che per i suoi, i Criomanti e i Necriomanti.

L'ingegnosità umana era stata in grado adesso di inventare questa nuova arma: dardi giganti, abbastanza da colpire un di loro mentre si trovava in volo. Idea che, per le dimensioni che di norma gli umani avevano, era tutto fuorché intuitiva: per quale ragione mai l'umanità avrebbe dovuto costruire oggetti del genere se non per uccidere i draghi? L'odio, la predisposizione a disprezzare un avversario era ciò che si celava dietro a quel loro ingegno, come dietro a qualsiasi altra idea che tendevano ad avere. Un'analista ingenuo della storia, o ignorante, avrebbe certo detto che in realtà quegli umani della città chiamata Braavos si stavano semplicemente muovendo perché minacciati per primi, ed era vero: per carità. Ma proprio la loro capacità d difendersi era, per Requiem, la più palese controprova del fatto che dovessero morire. Non come individui, chiaramente esistevano individui umani amabili: anche Requiem ne aveva conosciuti. Ma questo non bastava per salvarne la razza: era questo che Luxia e Nidhogg non avevano capito, ed era per questo che ora loro erano morti e sepolti, mentre Requiem era ancora lì, pronto alla sua nuova battaglia; alla sua nuova guerra, anzi.

Certo, in quel momento non era in condizione di guidare più il suo esercito, e il suo esercito non era il tipo di armata che senza guida potesse andare da alcuna parte, ovviamente. E quindi ora? Seduto nel suo antro, una cavità rocciosa sotto una duna che era riuscito a trasformare in qualche modo nella sua sede temporanea, il drago – nella sua forma naturale – cominciò a riflettere, mentre si leccava le ferite. Era in forma naturale, perché la sua forma simile a un uomo richiedeva dispendio di energia magica, e un drago ferito non ha energie magiche da spendere. E poi Requiem odiava quell'altra sua forma. Pensò che forse doveva usare – finché ce ne aveva – la sua magia per organizzare subito un contrattacco. Ma contro quell'esercito di umani che si era appena lasciato alle spalle non sarebbe stato sufficiente. C'era bisogno di qualcosa di diverso, qualcosa di utile e immediato, ma che nello stesso tempo non lo coinvolgesse fisicamente, almeno fino a quando non avrebbe appieno ritrovato la propria forza, cosa che a occhio avrebbe richiesto diversi giorni: i dannati umani lo avevano preso proprio affondo con quel fendente. Però, magari, come la sua armata naturalmente non poteva combattere una guerra senza di lui, la cosa magari poteva valere anche per gli umani. Certo! Via la testa, via la ragione per combattere. Era questo che ci voleva in quel momento. Non lo sterminio dell'intera umanità, quello sarebbe avvenuto dopo che si sarebbe completamente ripreso. Ma nel frattempo si potevano uccidere i capi.

Gli tornò alla mente un'antica fattura. Una di quelle simili al tipo di trucchi che sapeva fare il Maestro Braff; ma una cosa più grande. Una cosa da draghi. I draghi di spirito. Significava in sostanza riversare buona parte della propria energia non solo magica, ma anche vitale, in delle “creature” puramente artificiali, animate dal semplice spirito del drago: il suo. Non sarebbero state creature senzienti, se non soltanto per una cosa: eseguire il comando del loro creatore. E in quel caso l'ordine sarebbe stato uno soltanto: uccidere i capi degli umani. Ora si trattava di vedere quanti draghi di spirito Requiem sarebbe stato in grado di evocare. Accumulò ogni suo pensiero, inalò con forza l'aria della terra. E si rese conto che per non morire poteva farne un massimo di sette. Sette draghi di spirito per sette umani, andavano bene. Erano abbastanza per confondere gli umani più stupidi per un certo numero di giorni. Fatta anche quella magia, per Requiem forse ci sarebbe voluto addirittura qualche mese per riprendersi pienamente, ma andava bene. Gli umani avrebbero litigato, avrebbero messo in discussione gli uni le leadership degli altri per un tempo sufficiente a permette al drago di ritornare ad essere il loro re, imperatore e dio.

Così l'incantesimo venne creato. Richiese molto più tempo e molta più energia di quanto Requiem avesse sperato, forse il fatto che era ferito aveva contato parecchio in queste sue difficoltà. A un certo punto, circa a metà procedimento, pensò d'interrompere, pensò che avesse fatto male i conti e che i draghi di spirito che era in grado di evocare non potevano essere più di tre. Ma si ostinò. Soffrì ancora, molto più di prima. La sua ferita ritornò a sanguinare. Il suo sangue biancastro ricominciò a sgorgare. E alla fine i suoi burattini vennero evocati. A questo punto mancava solo un ordine preciso: dei nomi. Glieli fece. Chiunque comandasse nel più vicino consiglio di guerra, quello degli umani di Braavos, doveva morire, e morire al più presto. Non c'era un nome esatto in questo caso, ma il drago di spirito avrebbe pure potuto uccidere un intero gruppo: non erano umani in grado di tenere testa alla magia quelli. Il re dell'occidente, lo stregone con il sigillo dei Sette, una reale minaccia per Requiem: quel Gabryaerys Targaryen aveva resistito fin troppo. Doveva morire. Eppure l'occidente aveva anche un altro re, le spie di Requiem sapevano anche questo: il suo vecchio allievo Constant Lannister. Era pericoloso, e doveva morire anche lui. Il suo fratello drago Kyrios, che da lungo tempo si nascondeva, ma nel malaugurato caso avesse voluto improvvisamente risvegliarsi e schierarsi contro di lui, anche se mai lo aveva fatto, sarebbe stato un problema. Meglio evitarlo. Doveva morire: per lui due draghi di spirito, visto che era un drago e non un uomo e che la sua magia probabilmente sarebbe ancora stata potente, pur se da lungo tempo assopita. Infine anche coloro i quali potevano rivendicare il trono perché diretti discendenti del vecchio re dovevano morire. Daniel, primo erede vivente di re Lionel, e il piccolo Napoleon, primo erede vivente di re Axelion. Dovevano morire anche loro. Il consiglio di guerra di Braavos, e poi Gabryaerys, Constant, Daniel, Napoleon e due draghi di spirito per Kyrios. Questo era il comando al termine del quale gli esseri di magia sarebbero semplicemente evaporati perché il loro obiettivo era stato eseguito. Così funzionava quell'incanto. Era un meccanismo simile a quello che era stato messo in piedi per Cair Dedalos, quando i Sette Manti più potenti della terra erano stati trasformati nei sette servitori più fedeli della magia e della giustizia per il mondo. Anche se naturalmente quella dei draghi di spirito, pur prendendosi buona parte dell'energia di Rquiem, era pur sempre una magia di livello inferiore. Un comando solo infatti potevano eseguire, e poi: per evocarli era bastato il potere del solo Requiem, anche se ne uscì stremato, e non anche quello degli altri quattro suoi fratelli e sorelle. Si assomigliavano per idea i draghi di spirito e l'incanto di Cair Dedalos, ma nella pratica erano molto diversi. I draghi di spirito erano molto più effimeri.

Di questi obiettivi, quello che più preoccupava Requiem era suo fratello, Kyrios. Non nel senso dell'importanza, probabilmente in quel momento l'obiettivo più importante da abbattere per lui era quello del consiglio di guerra di Braavos. Ma Kyrios era preoccupante nel senso che era l'obiettivo più difficile da essere raggiunto per i suoi spiriti. Era nascosto ed era potente. Anche se colto all'improvviso, era il genere di creatura in grado di capire molto bene quello che stava accadendo. Mentre per un Gabryaerys, un Constant o un Daniel – pur se anche loro dotati di magia – il fattore sorpresa consistente nella manifestazione di una magia mai vista avrebbe potuto giocare un ruolo fondamentale in favore di Requiem. Sul lattante Napoleon e sul cieco consiglio di guerra a Braavos, Requiem aveva invece molti meno dubbi.

Per un momento Requiem temette pure che l'evocazione della magia avesse esploso un carico di luce talmente forte da richiamare l'attenzione dei maledetti umani. Non era improbabile, anzi era quasi sicuro. Ma questo significava che adesso il suo covo era scoperto e lui non aveva abbastanza forza per difendersi. Doveva spostarsi, andare lontano. Anche lentamente, per come poteva muoversi, ma doveva partire prima di subito. L'incanto dei draghi di spirito era un'operazione di luce e calore. Se c'era qualcosa che l'occhio umano poteva percepire quando si manifestavano era una luce. Una intensa luce verde a forma di drago, e questo aspetto poteva avere anche l'esplosione dovuta alla loro creazione. Era come un'immensa segnalazione nel cielo notturno. Se gli umani erano stati attenti, allora l'avevano vista sicuramente. Erano abbastanza furbi da farlo: avendo avuto l'intelligenza d'ingegnarsi quel macchinario in grado di ferirlo fisicamente, allora era probabile che avessero pure avuto il buon senso di organizzarsi per andarlo a cercare, e con molto meno timore del solito visto che sapevano benissimo che lo avevano ferito. Fu così che dopo che anche le sue creature di energia verde intenso volarono via verso le loro rispettive direzioni, anche Requiem fece lo stesso. Cercando mantenersi basso, spiegò le ali e volò via. Ma in una direzione totalmente opposta rispetto ai suoi draghi di spirito.

 

 

 

Garhel ci mise un'eternità per far capire allo stupido Lord Goldsmith che bisognava muoversi e bisognava farlo in fretta anche. Per lui, Goldsmith si era dimostrato il contrario del leader adatto per l'umanità in quel preciso momento della storia. Confuso e incattivito perché qualcuno che non conosceva bene aveva finalmente osato minacciare le sue sacre porte, delimitate dall'immensa statua del titano, sotto le gambe della quale ogni nave che voleva attraccare nei porti della città-banca doveva passare. Tutta la fama del capo equilibrato e astuto, per Garhel Sawela, il Lord della tigre se la stava giocando in quelle giornate infernali. Giornate che sarebbero state complicate per qualsiasi capo, su questo non c'erano dubbi. Ma non ce n'erano nemmeno sul fatto che neanche mai una sola volta il Lord ex Tribuno aveva concordato con l'opinione iniziale di colui il quale sostanzialmente fungeva da capo dell'intero gruppo, in quanto rappresentante della famiglia più antica e potente presente su quel territorio, e inoltre la famiglia che dominava la città aggredita, e quella che stava contribuendo alla guerra contro il drago con il più numeroso carico di vite, militari e civili.

All'inizio, Lord Goldsmith si era arroccato anche su una posizione contraria alle balestre giganti, dette scorpioni, che alla fine si erano rivelate determinati per annientare il drago. Era così: se Garhel non avesse insistito, probabilmente nessun dardo avrebbe colpito il mostro alato nel corso della battaglia per la vita o per la morte dell'oriente. Questo giusto per capire quanto Sawela aveva odiato Goldsmith in quelle orribili settimane.

E adesso stava succedendo ancora una volta. Ancora una volta Garhel si ritrovò a dover giustificare qualcosa che secondo lui, ma non soltanto secondo lui, era invece chiaro come la luce del sole. Banfred, per quello che contava, la pensava come lui e Sir Poll e gli altri uomini dei Gaholla, per quello che contavano, la pensavano esattamente come lui. Inoltre, cosa mai scontata, anche parecchi generali e luogotenenti degli stessi Goldsmith e Loackland più o meno manifestamente avevano comunicato il loro assenso. Ma il Lord di Braavos, e quel leccaculo di Loackland che a questo punto Garhel avrebbe detto non avere idee proprie sostanzialmente per nessuna materia, loro continuavano a trovare scuse per non farlo, per non correre subito alla ricerca del drago ferito e tramortirlo prima che riprendesse le proprie forze e il controllo sulle sue demoniache truppe di piante e bestie. Un'ennesima scelta suicida.

Non è che Lord Goldsmith non sostenesse che il drago fosse comunque lì da qualche parte, magari a leccarsi le ferite: no, lui questo lo riconosceva. Diceva però che se pure fosse rimasto vivo dopo l'arpionata scagliatagli direttamente da Sawela, allora sarebbe stato troppo pericoloso raggiungerlo, indipendentemente dal numero degli uomini, e delle loro armi, che lo avessero fatto e in questo modo il Lord soffiava sul fuoco della paura che ormai, forse anche giustamente dopo quella lunga notte, imperava nel cuore della gran parte di chi si trovava a Braavos in quel momento. Questo rese assai più difficile per Banfred, che di Garhel ormai era le gambe, per Poll e per tutti gli altri convincere la massa ad andare alla ricerca del loro nemico. E invece era una cosa che andava fatta tempestivamente, senza perdere più neppure un momento! Garhel quindi sbraitò, gridò contro quel gruppuscolo di dannati aristocratici con la puzza sotto il naso e che del mondo capivano meno della metà di quello che pensavano, e alla fine attirò l'attenzione su di sé. Goldsmith e Loackland l'ebbero comunque vinta per lo più: la gran parte degli uomini era stremata e non rispose all'appello accorato di Garhel, Banfred e gli altri, di andare alla ricerca del drago. Ma pochi audaci lo fecero, guadagnandosi pure le critiche e le minacce dei loro Lord. Un generale di Loackland addirittura tolse le proprie insegne di riconoscimento di fedeltà e le gettò ai piedi del suo, dunque “ex”, signore. Bei gesti, anche se forse vani. Goldsmith e Loackland non avevano ragione secondo Garhel, finché un numero abbastanza copioso di uomini fosse andato a cercare il drago. Ma ridotto il numero dei coraggiosi, naturalmente le possibilità di venire in ogni caso divorati aumentavano. Il che avrebbe dato modo a quei bastardi di poter dire che avevano avuto ragione. Bene: a Garhel questo stava benissimo. Tanto lui sarebbe stato tra i divorati, e il discorso compiaciuto di Goldsmith non lo avrebbe dunque mai ascoltato. Si sarebbe risparmiato, e grazie agli dèi, l'ennesimo folle monologo che avrebbe annunciato il piano sbagliato per portare dritta dritta l'umanità in contro al suo definitivo e fatale declino.

Fu così che la compagnia suicida lasciò Braavos in barba a quello che i reali comandanti della città e dell'esercito avevano decretato. Erano in tutto ventotto. Ventotto bravi uomini contro centinaia e centinaia di illogici cacasotto. Tramortiti dalla battaglia questi ultimi, certo. Spaventati da quello che avevano visto, ovvio. Ma non abbastanza lucidi da comprendere che ancora una volta trovare il drago subito, proprio ora che in cielo era esplosa quella luce verde come a voler dare quasi un segnale su dove il mostro si trovasse, era l'unica alternativa. L'altra era aspettare che il drago si rigenerasse e tornasse per ucciderli tutti. Un'altra volta. E chi avrebbe avuto più resistenza un gruppo di uomini dell'oriente sempre più stanchi e confusi, o una creatura eterna e millenaria, dotata di intelligenza e poteri magici?

Comunque i ventotto partirono, e con loro Garhel Sawela. In realtà Garhel aveva in cuore il peso di aver convinto altri, tra cui molti giovani, ad andare con lui, visto che con quel numero aveva la sensazione che quando avessero trovato il drago, si sarebbe trattato di un confronto impari. Lo stesso Banfred, sulle cui spalle Garhel si trovava, era poco più di un ragazzino. Tra l'altro, un ragazzino dal cognome importante. Glielo aveva spiegato bene Lord Justus prima che Garhel gli squarciasse l'addome: il fatto che Banfred fosse comunque il figlio dell'elefante, nelle cui vene scorreva il sangue dell'uomo che un tempo ebbe persino a coltivare l'ambizione di diventare il re dell'oriente, non era per niente cosa da poco. E forse invece adesso quel ragazzino stava per morire, come un qualsiasi signor nessuno, un anonimo plebeo convinto da uno sciocco e idealista ex Tribuno testone. Solo in quel momento, Garhel rifletté sul fatto che in realtà Banfred – che era sempre così carino con lui – non era a conoscenza del fatto che Sawela aveva ucciso suo padre. Garhel Sawela considerava Banfred come un amico, e tra l'altro non era pentito di ciò che aveva fatto: Panecha era un mostro, un pericolo ambulante per i poveri e gli ultimi dell'oriente, e aveva fatto uccidere la sua famiglia e centinaia di altre persone con l'incendio del Formicaio. Ma era pur sempre stato un padre mezzo bravo, da quello che Garhel aveva avuto modo di capire: sicuramente Banfred – con la sua indole così atavicamente buona – lo aveva sempre considerato tale. E Garhel lo aveva ucciso.

Fu così con un'immane senso di colpa che, in groppa alla schiena dell'elefantino, Sawela guidò i ventotto all'avventura, compreso Sir Poll, il giovane e coraggioso unico rampollo maschio dei Gaholla; il cavaliere smunto. Tutti loro finirono per tornare al campo base con un nulla di fatto. Sì perché una terza ipotesi, su cui non avevano riflettuto molto, si verificò; ipotesi che si concretizzò come terribile per Garhel e ottima per Lord Goldsmith. Ancora una volta loro due, ancora una volta su posizioni opposte. Il drago non c'era. Non era da nessuna parte. Certo, si sarebbe anche detto – e molti lo dissero – che il gruppo semplicemente non aveva cercato abbastanza o non lo aveva trovato, ma Garhel era un militare esperto ed era praticamente sicuro che il drago era stato la fonte della luce verde che a un certo punto era esplosa nel pieno della notte (e che Goldsmith diceva di non aver visto). Cosa c'entravano le due cose? Semplice: era impossibile che un uomo che aveva avuto anche solo metà dell'addestramento che Garhel Sawela aveva accumulato in trenta e passa anni, non riuscisse a rintracciare un'area geografica così ampia, specifica e relativamente vicina. Impossibile! Anche fesso, anche con la testa tutta al contrario rispetto a quella che Garhel Sawela aveva, anche se avessero parlato due lingue diverse e contato con due sistemi numerici diversi, un soldato addestrato avrebbe trovato l'area segnalata dalla luce. Il fatto certo era quindi che il drago se n'era andato, e la notizia era terribile: significava che presto avrebbe contrattaccato.

Naturalmente, come era prevedibile che fosse, Goldsmith della nuova situazione disse che era una buona cosa, perché così loro – e sottintendendo con questo l'umanità tutta – potevano riorganizzarsi: per esempio costruendo nuove balestre giganti, di cui ora era improvvisamente diventato, guarda caso, un accanito sostenitore. L'umanità non aveva dove andare, questo per Sawela era ormai matematico. A meno che l'occidente tutto non si mobilitasse verso Braavos e in tempi assai stretti. Era impossibile? Allora era impossibile che quell'umanità sopravvivesse a un nuovo assalto del drago, specie ora che il drago sapeva che avevano gli scorpioni: avrebbe avuto dunque il modo per riguardarsi attentamente. Non uccidendolo da subito era forse stata sprecata l'ultima occasione del genere umano. E Lord Goldsmith aveva in questo, secondo Garhel, colpe storiche inaudite. Se mai posteri ci sarebbero stati, avrebbero di certo condannato la tigre di Braavos come una dei principali colpevoli della fine, o del forte ridimensionamento, del genere umano.

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Capitolo 2
*** La via da percorrere ***


Capitolo 2

LA VIA DA PERCORRERE

 

 

 

Dopo una lunga cavalcata, scortato da uomini con la mela rossa ricamata sulle vesti, il principe Daniel di Cowain raggiunse infine una radura che tutto il resto della compagnia disse di poter considerare sicura: si erano allontanati abbastanza dal castello grigio di Forte Terrore, da poter affermare che difficilmente gli sgherri dell'orso del nord, o quelli della dama Baratheon che reggeva il Forte, avrebbero potuto raggiungerli. Non bisognava tuttavia abbassare la guardia: si trovavano ancora, e per lungo tempo ci si sarebbero trovati, nelle terre della giurisdizione di Bolton/Worchester. E su Daniel campeggiava di sicuro, già in quel momento, una taglia grossa come un montone: doveva essere così. Qualunque lurido sceriffetto di campagna, se lo avesse riconosciuto, avrebbe potuto farsi venire in testa l'idea di consegnare il principe di Lannister al nuovo sovrano del nord. Bisognava dunque stare molto attenti. Anzi: era meglio se Daniel rimanesse imbacuccato quanto più possibile, in ogni dove, pure in quel desolato scorcio di foresta, apparentemente disabitato.

«Bisogna comportarci come se avessimo costantemente sguardi addosso, anche se magari non sempre sembrerà così. Questo almeno fino a quando non avremo attraversato il rudere dell'antica Barriera» così constatò il vecchio Terwyn Lannister, l'ometto magico che non si sapeva quanti anni avesse. Era proprio di quello che in effetti si stava parlando nella compagnia. Elthon Applegate, figlio del Lord di Alberocasa, replicò: «Questo... a meno che non prendessimo il mare»

«Il mare?» chiese Daniel, confuso.

«Certamente. Se facessimo l'intero tragitto via mare, eviteremmo di incappare in qualsiasi inopportuno incontro. I pesci possiamo incontrare»

«Tu dimentichi, mio Sir» replicò a sua volta Terwyn «che prima di arrivare al mare, bisognerebbe prendere un porto, e lì accordarsi con qualcuno con un'imbarcazione»

«Ho danari con me: non sarebbe un problema»

«Ma, razza di asino, il problema sarebbero i danari secondo te? Chiunque ci sia al porto, sarebbero comunque persone, magari interessate a un guadagno superiore rispetto a quello che tu gli daresti per una traghettata verso nord. Magari becchiamo un porto bazzicato da un ufficiale del luogo, o da un cavaliere errante: è tutto troppo rischioso»

«È così? O forse il tuo problema è sempre lo stesso, vecchio?»

«Certo: c'è anche quello. Ed è importantissimo!» dicendo questo, il vecchio accese una fiammella dal palmo della propria mano, mentre il Sir allungò la sua, di mano, verso l'elsa della propria spada. Che diavolo di discussione precedente avevano avuto i due, che Daniel non conosceva? Il principe Piromante decise di mettersi in mezzo, e di insistere per farsi spiegare. Fu presto fatto: alla disperata ricerca dell'amico e “suo signore” (così diceva) Daniel, Elthon Applegate – che se l'era visto scivolare oltre un crinale, per poi sparire completamente – a un certo punto di una certa zona di quello che formalmente considerava il suo regno, vicino ad un'immensa quercia gigante, si sentì chiamare. A farlo era stato il vecchio Terwyn che, a suo dire, aveva magicamente percepito che qualcuno lì nelle vicinanze stesse invocando – almeno con il cuore – il nome di Daniel di Cowain, e dunque si era interessato. L'incontro fatale era alfine accaduto, e i due avevano capito di conoscere la stessa persona. In particolare Terwyn scoprì da Elthon tutta una parte della storia del giovane principe di Lannister che gli era mancata. Si era dunque messo a disposizione di quella compagnia, perché insieme si rintracciasse e liberasse Daniel da qualsiasi guaio gli fosse capitato. Ma a un certo punto del loro comune viaggio, i due – Terwyn ed Elthon – avevano capito di avere un interesse diverso: l'anziano piccolo mago, una volta addetto alla custodia della dimora del drago Nidhogg, aveva tutta l'intenzione di riportare Daniel sul suo cammino di apprendista Piromante, e nella fattispecie inserirlo in quella dimensione altra dove l'entità energetica Phira aveva qualcosa di urgente da comunicargli. Sir Elthon voleva invece che Daniel mantenesse la propria promessa, e che dunque si recasse ad Alberocasa per combattere contro i Willoughby della stella del nord e di conseguenza liberare l'importante centro strategico, soglio storico della Casa Applegate.

Fino a quel momento, la compagnia di amici a Daniel era non poco dispiaciuta. Lo avevano liberato dalle grinfie dell'orso del nord, e non solo andandolo a scovare presso Forte Terrore, ma anche partecipando a quel momento – pure simbolico – di rottura di ogni catenaccio che teneva Daniel legato a pezzi di quel materiale misterioso chiamato Pietra di Luna che ne inibiva il potere magico. Terwyn ed Elthon quest'ultimo coi suoi uomini, avevano letteralmente spaccato ogni suo ceppo, e poi lo avevano accompagnato davanti al laghetto mezzo innevato nel quale Daniel aveva lanciato ogni coccio di Pietra di Luna che lo aveva tenuto sotto scacco. Era stato un momento solenne, e a Daniel era piaciuto trascorrerlo con quei sinceri amici, perché – al di là di qualsiasi interesse che avessero potuto avere – che Terwyn ed Elthon fossero sinceri con lui ormai Daniel avrebbe pure potuto giurarlo dinanzi agli dèi in cui non credeva granché. Il vecchio Terwyn poi, aveva avuto delle favelle nel suo comportamento che a Daniel per un momento fecero venire una sorta di strana inquietudine. Certe cose che diceva, e il come le diceva, e il come si comportava, rammentavano a Daniel più il suo antico e defunto maestro drago, che non il vecchio scorbutico e francamente poco sfaccettato che per la prima volta aveva accolto il principe di Cowain e il suo vecchio e carissimo amico Sir Cordell (scomparso purtroppo pure lui) nella sua piccola capanna, salvando il giovane da un attentato di ghiaccio compiuto da uno di quei demoni al comando del drago Requiem. Terwyn ora era diverso: nella sua corporatura sempre da vecchissimo uomo quasi nano, Daniel lo avrebbe giudicato molto più... “vivace” di prima.

Fu dunque con una certa amarezza nel cuore che dovette sorprendere i due, con una terza indiscutibile opzione: «Spiacente, amici. Ma prima di ogni altra decisione, io ritornerò a Forte Terrore»

«Diavolo» rispose subito il vecchio Terwyn «E io che credevo che con l'ultima affermazione di Elthon si fosse raschiato il fondo dell'idiozia. Invece ce n'è ancora!»

«Daniel, spiegaci: ti prego» disse invece Elthon «Cosa devi fare e perché. Ti daremo una mano, se possiamo. Ma... tu però tieni a mente, per favore, che per Alberocasa invece il tempo sta stringendo maledettamente»

«Sì?» intervenne ancora Terwyn «E per Phira ancora di più. La sua energia si sta estinguendo: da quando Nidhogg è morto, anche il suo soffio vitale è destinato a sparire con lui. Ma ha una missione da compiere con te, Daniel, e – mi dispiace – ma non ammetto ragioni!». Concludendo ciò, Terwyn iniziò a spintonare e strascinare il principe Piromante verso chissà quale direzione avesse deciso. Il monito era chiaramente indirizzato sia allo stesso Daniel, che a Elthon, il quale ordinò a un paio dei suoi di mettersi di traverso. A questo punto fu Daniel a replicare: «No! Ho detto: NO. Sono il vostro principe, e farete come vi dico. C'è una ragazza prigioniera a Forte Terrore, come lo ero io. E va liberata e ricondotta alla mia presenza perché senza di lei... non ci sono nemmeno io». Daniel stesso si riscoprì molto indeciso nel pronunciare queste parole. Gli uscirono fuori dal petto con indomito istinto, ma... forse non erano adatte per il momento. Forse avrebbe dovuto pronunciarle alla presenza di Licyane stessa, anziché per convincere quei due a lasciarlo andare.

«Oh no» fece Elthon deluso «se c'è una ragazza di mezzo siamo fregati. Non farà niente finché non avrà ottenuto ciò che vuole. È così, io ne so qualcosa: l'infatuazione è forse la più potente delle forze che muovono l'animo umano. Non importa quanti rischi correrà, non importa che cosa diremo... o lo portiamo con noi con la forza – cosa che non accadrà mai – o possiamo solo aiutarlo»

«Le parole, caro Sir Elthon, possono essere molto più efficaci di quanto una “mentalità d'azione” come la tua possa comprendere» aggiunse ancora il vecchio Terwyn, irritando vistosamente non poco il giovane cavaliere di Alberocasa. Dopodiché quella sorta di stregone si rivolse direttamente al principe di Cowain: «Daniel: se il legame con questa ragazza è, come tu dici, così forte, e se Uryon ne è consapevole... allora non la ucciderà. Sa che tornerai da lei. Potrà soffrire forse, e certo: glielo dovrai spiegare quando vi rivedrete; avrete un bel po' di che discutere. Ma sono sicuro che non la ucciderà. D'altro canto, cosa che da settimane provo a spiegare a questo bietolone» e qui fece cenno ad Elthon «Un Daniel finalmente completo nella sua formazione di Piromante, potrà essere utile in mille circostanze. Potrà essere di maggior ausilio ad Alberocasa, se deciderai di salire a nord. E potrà essere estremamente più forte di come è ora, stanco e indebolito da giorni e giorni di Pietre di Luna, se deciderà di ridiscendere a sud a Forte Terrore. Che tutti insieme ancora una volta, potremo infilarci dentro il castello e liberare un ennesimo prigioniero dopo che già avranno prese le loro precauzioni visto che abbiamo sottratto te... beh, è improbabile. Io sono stanco, tu sei stanco, Elthon e i loro uomini sono stanchi. Ma se ritorni a nord da Phira, che da lunghissimo tempo ti attende, forse ti darà il modo per essere infine quello per cui anni fa eri stato designato: il più grande Piromante sulla faccia del mondo». Non c'era che dire: il vecchio sapeva cosa diceva, quando affermava quella roba della forza delle parole. Era stato calzante in tutto, e aveva ragione su tutta la linea. Era così che un uomo saggio al posto di Daniel avrebbe fatto: sarebbe salito alla Grande Quercia, avrebbe completato il suo addestramento, e solo poi avrebbe scelto se andar prima a combattere la guerra degli Applegate alla piana di Alberocasa, oppure se liberare Licyane dagli artigli dell'orso deforme del nord. Ma la nuova domanda che ora compariva all'orizzonte mentale di Daniel di Cowain era la seguente: lui era un uomo abbastanza saggio?

 

 

 

Nord o sud? Le uniche due possibilità da percorrere per Gino Barron erano chiare ormai da diverse settimane, da quando Lord Braff gli aveva comunicato dello stato ancora in vita della ribelle Saestrya Martell e di quello di strisciante tradimento da parte di chi sovrintendeva alle Terre dell'Ovest: il Leone Nero, Pylgrim Lannister. Re Gabryaerys, di cui Lord Braff continuava ad essere il Maestro dei Sussurri, e Gino un indiretto alleato, reclamava da parte del Protettore dell'Altipiano un segno di fedeltà. Non si erano ancora incontrati dai tempi dell'incoronazione del nuovo re, e già questo a quanto pareva non aveva fatto bene ai rapporti tra il re e il suo sottoposto: il Targaryen era a quanto pareva un tipo che ci teneva a quel genere di cose. Ma non era solo per il re che Gino ora doveva scegliere: entrambi i nemici si trovavano a confine con il territorio sotto la sua giurisdizione. Certo, a un primo giudizio, la Martell sarebbe potuta sembrare più urgente: tesseva trame da anni e praticamente nessuno ne conosceva bene l'aspetto. Aveva disseminato la penisola di Dorne di sue “sosia” pronte a morire per lei e che bene ne nascondevano l'identità. Gino era già andato a sud, e aveva visto una delle Saestrya Martell morire. Ma non era bastato e francamente ritornare in quell'afoso covo di serpi, dal caldo appiccicoso e il deserto infinito, era una cosa che sul momento non si era sentito di fare. Meglio era concentrare le proprie attenzioni verso un nemico forse meno pressante (i Lannister non avevano intenzione di invadere l'Altopiano, nascondevano solo il traditore Constant, che era un problema più del re che di Gino), ma con il quale almeno la strategia poteva essere più semplice: un assedio, un'invasione, una ricerca e tanti saluti. Prima di tutto, avendo deciso di occuparsi di quello, Gino aveva iniziato una corrispondenza con il Lord sovrintendente Pylgrim. Non era riuscito a cavarci granché: il Leone Nero sosteneva che Constant non si trovasse nelle Terre dell'Ovest, punto e basta. Ma Braff, per conto di Gabryaerys, insisteva: bisognava forzare la mano. Gino avvertì dunque Pylgrim che un esercito bordato di volpi rosse e rose dorate avrebbe presto varcato i suoi confini. E Pylgrim gli fece notare una cosa: prima di Castel Granito, i cavalieri dell'Altopiano avrebbero dovuto prendere Lannisport, perché di lì solo si poteva passare e quindi l'azione, da rapida che Gino l'aveva immaginata, poteva prolungarsi. Questo significava: guerra vera e propria, che a sua volta voleva dire più uomini, più tempo, più energie e più danari. Gino sapeva che le casse di Altogiardino erano ancora, come da tradizione, belle piene ma... insomma non voleva essere lui il Lord ricordato per un mezzo tracollo finanziario.

Tutto questo ragionare, gli fece perdere ancor più tempo. Gabryaerys perse la pazienza, e per l'ennesima volta fece scrivere da Braff a Gino che non doveva più avere ulteriori remore, che comunque a tutto avrebbe pensato la Corona, e che dunque l'importante era che si partisse. “A tutto pensava la Corona” era una frase che poteva avere talmente tanti significati, da contenerne alcuni in contraddizione, e quindi non significava niente. Però dalla parte di Approdo del Re parevano piuttosto convinti che Gino avrebbe vinto quella battaglia, per ragioni che loro davano per assodate ma sulle quali Gino non riusciva a capacitarsi molto bene. Non gliele dicevano, facevano i vaghi, e questo non gli piaceva. Era stato chiaro con Braff l'ultima volta: niente più segreti, niente più sotterfugi, altrimenti né il politico della Capitale né il suo re avrebbero più ottenuto nulla da lui.

Ma le settimane continuarono a passare. E a Gino continuarono ad arrivare voci, stavolta dal suo personale apparato spionistico da uomo più potente dell'Altopiano, che il tempo per non perdere definitivamente Dorne stava quasi per scadere. E via Dorne, significa via una buona parte di quella ricchezza che Altogiardino aveva nei secoli accumulato. Oltretutto, Gino cominciava ad annoiarsi. Mise incinta Shanty, la giovane Tyrell che era stato costretto a sposare per accaparrarsi il soglio che una volta era stato di Lorthan e Shane Tyrell, i fratelli che per il potere avevano ucciso il proprio padre. Ora Lorthan era morto e Shane pure, e quello che la ricca e influente famiglia dell'Altopiano aveva pensato per mantenersi in sella era far sposare una delle loro più spigliate figliole al nuovo “uomo forte” di Altogiardino, messo lì dal nuovo re per il tramite del Maestro dei Sussurri. Comunque la questione era che adesso c'era un piccolo Barron/Tyrell che cresceva nella pancia di Lady Shanty, la signora dell'Altopiano. E quindi... anche a quel dovere Gino aveva infine assolto.

Decise così di prepararsi alla guerra verso nord. Mandò una comunicazione a tutti i soldati del suo territorio, riunì uomini, armi e cavalli e alla fine venne anche il giorno della partenza. Shanty era da sempre stata contraria a queste decisioni e anche nel giorno prima che tutto cominciasse, andò a visitare il marito per chiedergli di ripensare la sua partenza. Disse: «Gino, una guerra mentre aspetto in grembo il tuo bambino, il tuo primogenito, è qualcosa di senza senso»

«La guerra non ha senso quasi per definizione. Eppure la si fa. Se non muoverò io l'Altopiano contro Pylgrim, molto presto potrebbe essere lui a muoversi verso di noi. Oppure potrebbe essere il re a muoverci guerra, scontento del fatto che noi a nostra volta non l'abbiamo mossa al Leone Nero. La politica è tutto un affare complicato Shanty, ti prego: non costringermi a spiegartela. Ci ho messo anni anche io»

«Ma è di tuo figlio che stiamo parlando. Non avrai un altro primogenito»

«Quindi secondo te chiunque abbia ingravidato sua moglie non parte per la guerra? Oppure poi il problema sarà un secondo figlio, o un terzo, e poi il compleanno del primo, e il battesimo del quarto, e il compleanno del secondo, e la maggiore età del primo. La vita è così, Shanty. A un certo momento, si parte. Piaccia o meno»

«La mia famiglia non è contenta». Quando sentiva quel, genere di frasi, Gino la odiava davvero. Era più forte di lui: perdeva il lume della ragione. I Tyrell rimasti ormai contavano meno di niente, erano l'ultima cosa al mondo che poteva destargli paura. Ma questa frase era quasi automatica per Shanty, che fin da piccola era stata abituata come se lei, i suoi genitori e zii e altri parenti fossero i padroni del mondo. Gino, che era pure nobile di famiglia, ma non di quel rango, era stato cresciuto con l'idea che verso gli altri bisognasse incutere rispetto, non timore. Era un modo malsano di interpretare le cose della vita e, ora che la famiglia Tyrell era in malora dopo secoli di dominio, risultava pure tutto un po' goffo e triste. Non voleva che suo figlio crescesse con quel tipo di frasi per la testa, che venisse educato come un pomposo principino senza spina dorsale. Uno pronto a utilizzare l'escamotage dialettico del “chiamo mio padre”, o peggio “chiamo la mamma”, al benché minimo problema che nella vita – come tutti purtroppo – avrebbe incontrato. Bisognava che Shanty se lo mettesse subito in testa questo, che fosse ben chiaro, prima che Gino partisse. Così la prese, la sbatté al più vicino muro, e le inveì: «Ascoltami bene, razza di oca giuliva. Quello che ti porti lì dentro è mio figlio. Avrà anche parte del sangue di quei vigliacchi dei tuoi parenti, ma il suo cognome sarà Barron. E finché lo porterà, i suoi affari non riguarderanno gli affari della tua famiglia. Non li riguarda mio figlio, non li riguarda la mia politica, e non li riguarda il mio territorio. Perciò non azzardarti mai più, cosa che pure fai spesso, a usare “la tua famiglia” come velata minaccia di non si capisce cosa, nel tentativo di manipolarmi e convincermi a fare qualcosa che tu vuoi che io faccia. Qui si fa a modo mio. Non le vedi le volpi che hanno sostituito le rose sugli stendardi e gli arazzi di ciascun corridoi del castello? È Barron il nome della famiglia reggente. E pure tu, volente o nolente, ora sei una Barron, visto che sei mia. Farai meglio a non scordarlo la prossima volta che intendi pronunciare il nome della tua famiglia in mia presenza. La tua famiglia è morta, ora. Ti resto solo io e il nostro piccolo. E in mia assenza tu vedrai di amministrare bene ogni aspetto della vita di tutto ciò che mi riguarda. Non succederà, ma se il bambino dovesse venire al mondo prima del mio ritorno, tu lo crescerai come un Barron. E prenderai da te le decisioni per il castello e per i territori, senza domandare alcunché alla tua famiglia. Se lo farai, io lo saprò. E se lo saprò, prenderai finalmente un po' di quelle legnate che purtroppo non hai mai ricevuto nella tua comica, ridicola, vita da viziatella. Non tradirmi Shanty, sono stato chiaro? Non tradirmi o io lo saprò».

Gino era cambiato. Il ragazzino un po' confuso che aveva scalato con l'aiuto di Braff il vertice del potere, che aveva amato donne (Daessenya), combattuto battaglie (Cowain) e sconfitto nemici (i Tyrell), non era più lo stesso: era cresciuto. Era divenuto un giovane uomo disilluso, uno che comprendeva che nella vita spesso non si otteneva ciò che si voleva. Che a volte si facevano cose perché bisognava farle, e non per il piacere di farle. Aveva visto tanta morte e tanto dispiacere. E aveva capito che in soli due modi avrebbe potuto reagire alla durezza della vita: soccombendo o combattendo. Soccombere significava morire, oppure accettare tutto quello che arrivava con la passività di uno che è morto. Combattere significava fare qualcosa, anche qualcosa di brutto, triste, o sbagliato di tanto in tanto, ma mai rimanere fermi ad aspettare che qualcuno o qualcosa migliorasse la situazione. Gino Barron aveva capito che ciascuno è artefice unico del proprio destino. E lui aveva deciso che il suo destino ora era la guerra a Castel Granito.

Gino abbandonò così la sua consorte, e madre del suo futuro frugoletto, convinto di averla terrorizzata abbastanza da che lei avesse recepito il messaggio. Shanty avrebbe governato lealmente Altogiardino in sua vece, e forse lo avrebbe fatto anche bene, o almeno sufficientemente. Il Lord Protettore sapeva di averla trattata apparentemente male, e che Shanty lo avrebbe odiato per questo. Ma sapeva anche che sul lungo periodo questo avrebbe fatto bene: al regno, a Shanty stessa, e di conseguenza al piccolo che lei aveva in grembo. Con questa convinzione, alla prima alba, Gino si mise in marcia con il proprio esercito, alla ricerca del Lannister traditore.

 

 

 

Castel Granito: in una fredda nottata di pioggia le navi di re Constant Lannister raggiunsero infine la loro più naturale capitale. Insieme al sovrano, un nugolo di agguerriti uomini-drago mandati dal grande Kyrios in persona a partecipare a quello scontro di re del Westeros. E poi: Sir Bastian dell'oriente, il signor Jorando Pashamanyna, Xenya l'esploratrice, Daessenya di Cowain e il principe Marcus della Casa Lannister, fratello dell'ultimo re prima di quello che adesso occupava la Capitale del Regno. E ancora: un buon numero di giovani e aitanti soldati Kowacz, e anche di Sayun-sama di supporto.

Tutti i gruppi di uomini che venivano dal Miriedos stavano patendo, ora che finalmente si era formato un accampamento nelle Terre Occidentali, una strana forma di freddo che non prendeva né il principe Marcus, né ad esempio il navigatore Pashamanyna, che veniva addirittura dal continente orientale. Per loro, uomini del vecchio mondo, quella era una semplice temperatura da mare in inverno: non è che stesse cadendo la neve, o che ci fosse il ghiaccio quasi perenne come a Forte Terrore o presso la Valle di Arryn. Ma gli uomini del vulcano invece tremavano, e Constant fu costretto a ordinare che tutte le coperte e trapunte più pesanti del suo antico maniero venissero consegnate agli accampamenti per essere distribuite ai guerrieri provenienti dal nuovissimo continente: non li aveva certo fatti sbarcare per vederseli morire congelati sulla costa del leone. Più o meno, tempo qualche ora, gli uomini-drago si ripresero abituandosi in maniera repentina alle nuove temperature. Un po' più di tempo ci mise il popolo guerriero dei Kowacz, ma alla fine ce la fecero anche loro; e ancora più tempo ci mise il popolo agricoltore dei Sayun, ma da ultimi ce la fecero anche loro. Le settimane iniziarono ad accavallarsi, ma Constant non poté permettersi di togliere l'accampamento, visto che sapeva che la guerra era imminente: se questo Gino, nuovo signore dell'Altopiano, avesse avuto l'audacia di attaccarlo in casa sua, lui lo avrebbe accolto per come una guerra prescriveva. Ma se non lo avesse fatto, le sue ore sarebbero comunque state contate. L'intero Westeros si sarebbe ben presto reso conto della potenza con la quale re Constant era sbarcato presso le coste della sua dimora, ivi soprattutto incluso l'usurpatore Gabryaerys Naharis Targaryen.

Al quinto giorno dal loro arrivo nella capitale dei Lannister, Marcus – il principe che era anche un Cavaliere della Chimera – si ritrovò a presenziare a un ristrettissimo, quasi intimo, consiglio di guerra con il re suo zio, che però lui aveva deciso di appoggiare temporaneamente visto che il legittimo erede al Trono era l'infante Napoleon, figlio di suo fratello Axelion, e poi con il suo prozio Pylgrim, il Leone Nero, e con quel Sir Bastian, divenuto una sorta di consigliere e ombra del suo zio re. Quando alla cena della sera prima Constant aveva riferito, sussurrandoglielo in un momento un po' di distrazione di tutti gli altri, che voleva fare una riunione da solo con lui e Pylgrim, Marcus ci era restato un po' perplesso. Sebbene in fondo una qualche gratificazione gliela poteva anche dare l'esser inserito nella cerchia di consiglieri più stretti di Sua Maestà, dall'altra stare da solo con il re un po' lo inquietava. Quando però, all'indomani mattina, il re si era portato appresso il suo scudiero Bastian, allora si sentì preso in giro: anche lui avrebbe voluto una Xenya o una Daessenya a fargli da spalla; perfino un Pashamanyna. Uno che appartenesse alla sua stessa generazione insomma, e che non fosse una vecchia volpe della politica. O un vecchio leone...

Quando per ultimo arrivò col fiato corto il troppo pesante zio Pylgrim, tutto allegro re Constant proclamò: «Allora, zio. Guidaci. Verso dove siamo diretti?»

«Di qua, Vostra Grazia» rispose ossequioso l'anziano guerriero dalla chioma grigio-scura che una volta era stata nera: così almeno narravano le molto note storie su di lui. Ora, Castel Granito era un labirinto. Tutti i castelli lo erano: e Marcus ne aveva girati tanti nella sua breve vita, ma Castel Granito aveva nella sua architettura qualcosa di assai più caotico e strano degli altri. Fin da quand'era un bimbetto, la fase della sua vita in cui per più tempo aveva risieduto nel vecchio castello della sua famiglia, ricordava che con Daniel vi si perdeva sempre. Era facilissimo scambiare una stanza mai visitata con una dove invece si pensava di esser stati mille volte. Per fare ancora un esempio della assoluta particolarità di quel luogo: differentemente da tutte le altre alte residenze dei Sette Regni, anche le più grandi, quella di Castel Granito aveva immotivatamente due diverse sale del trono. Che poi non era mai immotivato: c'erano molto spesso ragioni dovute alla sedimentazione storica ma... di fatto il castello era un luogo strano.

Al seguito di Pylgrim e di zio re Constant, e seguito a sua volta dall'invadente piccolo Sir Bastian, Marcus camminò dentro Castel Granito per un tempo che gli parve infinito. Poi, dal nulla, un immenso arredatissimo, salone che aveva tutto l'aspetto di una sala da ballo, mutò in un ballatoio esterno, rivolto verso nord, gigantesco, dove Marcus era sicuro di non essere mai stato. «Diamine» esclamò per primo il re, con stupore, «è vero: lo ricordavo molto più piccolo»

«Potrebbe entrarci un esercito» constatò l'insulso Sir Bastian. E Pylgrim: «O se non proprio un esercito, almeno un reggimento». Dicendo queste ultime parole, il vecchio leone puntò uno sguardo assai complice verso il re. I due si sorrisero. Dunque ancora Bastian: «Dovresti attendere qui, Maestà, nel malaugurato caso in cui Barron prenda il castello e...»

«Sì, sì, Bastian» lo interruppe re Constant «l'idea è quella ma... non siamo troppo pessimisti: Gino quasi sicuramente perderà sul campo. Non v'è dunque ragione perché io non mi faccia vedere durante il confronto e oltretutto... sono una discreta risorsa sul campo di battaglia. No: io presenzierò alla guerra. Qualcun altro attenderà qui per me...». Ancora una volta Pylgrim e Constant si guardarono. Era evidente che il re avesse appena sottinteso il nome del suo zio dalla criniera corvina. Dopodiché Constant congedò il vecchio zio e il Sir dell'oriente che una volta aveva servito Gabryaerys per rimanere un po' da solo con suo nipote. Gli chiese: «Sai da dove mi è venuta l'idea di questi ballatoi? I terrazzamenti di Tharyssa, si chiamano. Fatti scavare dalla regina Tharyssa per tendere un agguato armato a suo marito il re e alle sue innumerevoli amanti. Sì, e poi... per massacrare il resto della corte fedele a suo marito. Lo sai perché ci ho pensato?»

«No, zio» rispose Marcus.

«Per Mirietta. Qualche anno fa, mentre si annoiava da reggente di Lannisport, venne qui e curiosando per il castello s'imbatté in questo posto. Sembra che stiamo parlando di un'altra epoca: tuo padre era ancora il re e io il suo Primo Cavaliere. Tu dovevi essere alla Valle del Leone da poche settimane, Daniel giù a Cowain, e Axelion a corte aspettando che Abigail sgravasse. Non c'erano... nuovi continenti, o... re Targaryen, o Sir Bastian o Gino Barron o...»

«O i draghi?»

«Beh, no. Quelli in effetti c'erano. Comunque il fatto è che... eravamo ancora una famiglia»

«Non tramavi ancora contro mio padre?» a queste parole del principe, lo sguardo del re si raggelò. Marcus intuì bene che Constant ci mise un po' di fatica, prima di sorvolare e tornare al suo discorso: «Comunque, il fatto è che tua sorella non scriveva a tuo padre. Lo immaginava troppo impegnato (cosa tra l'altro falsa), così... scriveva a me e...»

«Vuoi dirmi che non scriveva ad Hana per prima, se proprio voleva confabulare con la corte centrale?»

«Sì, ad Hana. E poi a me. Fece riferimento a questo spazio che francamente nemmeno io conoscevo, pur avendo passato a Castel Granito un po' meno della metà della mia vita. Le dissi di chiedere a Pylgrim e lei lo fece e poi tornò a rifermi via lettera. Da allora li conosco, li ho anche visitati parecchie volte, sempre domandandomi come un casato moderno potesse sfruttare questo così singolare spazio»

«E ora... lo hai realizzato...»

«Marcus, c'è una ragione del perché ti ho voluto qui oggi. E... non solo oggi. Mi pare corretto tenerti al corrente anche delle più celate pratiche di governo, come per esempio una strategia di guerra. Lo capisci il perché?»

«Senti, zio...»

«Se stai per dirmi che non vuoi considerare l'ipotesi di essere re lo capisco e lo rispetto. Neanch'io ci avrei mai pensato, benché molte malelingue straparlino del contrario. È vero: a un certo punto lavorai per destituire tuo padre, perché anche a lui era seccato, nonostante non volesse ammetterlo. Ritenni l'opportunità migliore quella di sostituirlo con Lorthan Tyrell il quale era sì ambizioso, ma anche maledettamente versato nelle pratiche di governo. Continuo a credere che sarebbe stato un buon re, molto bilanciato. Per certi versi, anche migliore di me. Perché si è arrivati alla mia proclamazione, allora? È semplice: Gabryaerys non può restare. È nemico dei suoi sudditi, ancor prima che di noi. So che sto per dire qualcosa che non vuoi sentirti dire ma: Napoleon è tra le grinfie di sua madre, e comunque è troppo piccolo, e Daniel... non si sa dove sia. Hana è una donna, con tutte le complicanze che questo può manifestare davanti al consenso popolare. Dovere, Marcus. Mi sono reso conto che rimanevo solo io ed è quello che dovresti fare anche tu. Io non avrò figli. Da quando sono vedovo non ho mai più toccato una donna, e continuerò a fare così per la vita. Niente Lady Ladylynn Kastalweyrah, niente figli per Lord Constant Lannister, il che significa... che manco di un erede»

«Zio... tu sei ancora giovane...»

«Certo, e mi riserverò di cambiare questo mio proposito. Di trovare un erede migliore, se lo desidererò. Ma adesso stiamo dentro a una guerra. E, per quanto molto probabilmente vinta, una guerra è una guerra. E io ho bisogno di sapere che il progetto non sarà mandato a monte dalla mia eventuale scomparsa»

«Zio...»

«Giuralo Marcus. Se io morirò, rivendicherai il trono per te»

«Ma N-Napoleon»

«Proclamarsi rappresentante di qualcuno che in questo momento è in mani nemiche non serve a niente. Neanche Mirietta te lo avrebbe consigliato. Vuoi che il piccolo abbia il trono? Rivendicalo per te, conquistalo e, se vorrai, poi potrai consegnarglielo. Se riuscirai a strapparlo dalle grinfie di Abigail. Ma ritengo che questa sia l'unica prospettiva, mio giovane nipote». Marcus chinò il capo. A parte il fatto che non voleva proprio considerare quella ipotesi e che avrebbe avuto una voglia matta di urlare «no!» e mettersi a scalciare come un bambino, non trovò tuttavia niente da dire. Il discorso dello zio lo aveva imbarazzato e gratificato. E poi: si basava su una ipotesi piuttosto azzardata. Anche nel caso del tutto improbabile che avessero perso, come avrebbero fatto i loro nemici ad arrestare e infine uccidere un nemico come Constant? Impossibile. Così Marcus rimase in silenzio, cosa che allo zio re apparve già buona da essere considerata come un assenso. Quindi, Sua Maestà Constant Lannister affondò: «Bene. Rimarrai qui ai ballatoi con tuo zio e la tua chimera, in caso i nemici assaltino Castel Granito»

«Cosa? Perché?»

«Perché un sovrano e il suo erede non combattono mai sullo stesso campo di battaglia. Guarda i Baelish: padri e figli non vivono neppure nelle stesse sedi»

«Capisco, ma io...». In realtà Marcus comprese che in quel momento il re aveva tutta l'intenzione di lasciargli ben poca possibilità di contesa. Sì, gli seccava l'idea che tutti quelli che stavano dalla sua parte avrebbero combattuto, mentre lui se ne sarebbe rimasto tra le ombre come un codardo, ma chiaramente questo non aveva nulla a che vedere con l'intelligente trama strategica che Constant aveva fin lì intessuto. E oltretutto il principe Cavaliere della Chimera venne ulteriormente interrotto, questa volta non dal re.

Sir Bastian venne a riferire a Constant che un importante ospite era appena giunto per conferire con il re. Un incontro da lungo programmato e che re Constant attendeva. Il re pretese che Marcus rimanesse, cosa che quest'ultimo non poté certo declinare. Anzi, Constant decise di dirlo esplicitamente al nipote: «È meglio che osservi un paio delle cose che fa un re dei regno occidentale». Marcus colse tuttavia uno strano sguardo nel volto di quel Bastian, il Sir orientale che accompagnava suo zio da prima che quest'ultimo lo raggiungesse in Miriedos, salvandolo dal Demone delle Fonti.

A questo punto, lasciati ancora una volta da Bastian, i terrazzamenti di Tharyssa vennero raggiunti da quello che a Marcus parve nient'altro che un ragazzino. Gracile, emaciato, poveramente vestito, bassino. Con la pelle molto chiara e un caschetto di capelli rossi come una carota. «Dunque» fece re Constant, anche lui vistosamente colpito, «voi siete l'Alto Septon dei Septon di Roccia del Re»

«Beh, sì, Maestà» rispose il ragazzo «l'unico confratello giurato rimasto alla Capitale»

«Lasciatemi dire, padre... Brendan, è corretto?»

«Sì, Maestà»

«Lasciatemi dire che quello che sta succedendo tra i fedeli della più importante città dell'occidente è di una gravità inaudita. Un altro esempio del caos in cui questo re straniero ci ha portati tutti»

«Beh, io non so se sia esattamente colpa di re Gabryaerys a essere onesti. Ma so che in questo momento il Credo abbisogna di tutta la protezione possibile, da chiunque possa fornirla»

«E qui la troverete sempre, Vostra Sacralità. Né culti né sovrani stranieri infangheranno mai il servizio di Constant Lannister».

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Capitolo 3
*** Nuove prospettive ***


Capitolo 3

NUOVE PROSPETTIVE

 

 

 

Finalmente libera dopo la brutta esperienza dell'imprigionamento presso Delta delle Acque per mano degli uomini di Baelish, Lord dei fiumi e della Valle, la regina Hana Lannister, maritata Targaryen, raggiunse quindi Roccia del Re in un generico clima di festa e allegria. La folla infatti accorse per le strade a salutare il suo arrivo in carrozza, mentre con il re si dirigeva alla fortezza che era anche il luogo che per più tempo nella sua vita aveva chiamato “casa”. Lei non riusciva neanche a spiegarsi bene il perché, ma la gente della più popolosa città del mondo le voleva bene; l'aveva presa come ad esempio di una donna un po' come loro, ma che aveva la fortuna di bazzicare i più alti corridoi della politica della città. La cosa curiosa era che Hana non era mai stata una di loro: figlia di re, sorella di re e moglie di re... quando mai aveva avuto anche solo il sentore di una vita grama, a parte che quando era stata prigioniera del suo stesso attuale consorte, prima che la chiedesse in moglie? Vero: di tanto in tanto ad Hana piaceva mostrare un po' di carità; uscire dalla carrozza per sporcarsi la sottana e salutare in questo modo da vicino la folla festante e sorridente. Dare un tozzo di pane ogni tanto o qualche moneta, ma non molto altro. L'impressione era che la povera gente di Roccia del Re si accontentasse di poco, che fosse così affamata di attenzione per i propri bisogni che anche quel poco di umanità che Hana gli concedeva, se lo faceva andare molto più che bene. Gabryaerys non godeva delle stesse simpatie, questo ormai anche tra i due coniugi era un dato assodato ed esplicito. Non che fosse un brutto uomo, era anche lui giovane, e alto e a suo modo aitante. Ma non gli giovava il fatto di dover mascherare tutta una parte del suo deforme volto, così come non lo faceva il suo doversi costantemente circondare di mostri come guardie del corpo, e in più c'era la storia che lui era venuto dall'oriente, come un re invasore e non liberatore, racconto questo ancora molto difficile da smacchiare sul mantello della reputazione di Sua Maestà. Tuttavia, per transizione, da quando Hana era ben voluta, anche il re aveva cominciato ad essere tollerato dal popolino; tutto il resto della sua corte no, ma il giovane re, con la sua giovane moglie e peraltro il di lei ventre incinto, ricreavano una sorta di immagine sacra che per gli uomini e le donne di più basso rango residenti a Roccia del Re era simbolo di amicizia e di vicinanza.

In cuor suo, anche se non lo dava a vedere, la regina era in verità non poco confusa. Da una parte, aveva capito di essersi mossa molto bene con questa cosa di Gabryaerys e del loro comune e ormai imminente pargolo. E lei stessa male non si trovava affatto. Certo però che l'incontro con suo fratello Daniel a Delta delle Acque, Daniel che lei erano anni che non vedeva e che per lungo tempo aveva temuto fosse morto, un po' le idee cominciò a mescolargliele. In quei momenti rivivette infatti un clima che aveva dimenticato. Il clima di serenità e spensieratezza che aveva vissuto da giovane, quando sia il loro padre Lionel che il loro fratello primogenito Axelion erano stati vivi e unici in famiglia a doversi sobbarcare tutte le responsabilità che la famiglia nobile in cui erano nati richiedeva. Anche ora, che sulla carta era la donna più potente del mondo, Hana di tanto in tanto aveva paura. Era come se si muovesse tenendosi in equilibrio su un filo: siccome aveva già fatto un tratto piuttosto lungo, qualcosa le diceva che era stata brava e che poteva anche continuare così, ma qualcos'altro invece le rammentava di tanto in tanto che da quel filo si poteva sempre cadere per precipitare schiantandosi al suolo. Gabryaerys non era la sua famiglia, non lo faceva sentire sicura come a quei tempi. Il problema era: quei tempi sarebbero mai tornati? Forse no. Stare con Daniel per quelle poche ore era stato bello ma effimero: tutto era già ritornato nelle sue posizioni. Lei al fianco del re alla Capitale e suo fratello prigioniero nel nord. E a questo punto una domanda si faceva evidente e materiale nella testa della regina: ma la moglie del re del Sette Regni occidentali, da tutti riverita e amata dal popolo, era mai possibile che lasciasse un suo fratello carnale come prigioniero, anche se riverito, presso un altro Lord del continente, sulla carta fedele al re ma a conti fatti indipendente? Lei era la regina! Eppure suo fratello era platealmente tenuto in ostaggio da un nobile in teoria sotto la giurisdizione del re suo marito. Avrebbero dovuto fare qualcosa: lo sapeva questo. E decise che presto si sarebbe messa all'opera.

Anche se in un primo momento se ne discusse, alla fine venne deciso che Tararus, il mostro sempre vestito da antico principe, non rimanesse a Delta delle Acque a presidiare quel luogo di recente conquista e a sorvegliare di conseguenza (nel senso di tenerlo sott'occhio senza farlo scappare) il giovane erede di Baelish su quel territorio. La madre del piccolo, re Gabryaerys l'aveva fatta affogare nel fiume, con Baelish il Giovane a fare da testimone. Uno dei tanti momenti in cui Hana si era ricordata che era sposata a un uomo bieco e senza scrupoli, e non al bravo galantuomo che la teneva in considerazione solo perché lei portava in grembo suo figlio e rispondeva con solerzia al suo ruolo di commendevole consorte. Baelish il Giovane rimase comunque sorvegliato da Helmon, il titano di roccia ma sempre dal teschio nero come tutti gli altri suoi “consimili”, e da altri viscidi nuovi consiglieri del re, di cui questi era certo che non lo avrebbero tradito, visto anche che Helmon aveva l'ordine di schiacciargli la testa con le enormi mani che si ritrovava, qualora l'avessero mai fatto. Il demone del fuoco invece, Corarus, dalla nerissima corona puntuta da generale delle romanze, era ancora prigioniero alla Valle di Arryn. Rappresentava un po' una sorta di merce di scambio per Baelish il Vecchio, che però naturalmente non valeva esattamente quanto lui magari ci sperasse. Era vero che Gabryaerys teneva a quei suoi fedeli servi (mostri) perché gli erano assai utili e perché da una vita lo proteggevano e lo aiutavano nei suoi propositi. Hana stessa era rimasta basita da quanto infuriato il re fosse divenuto, una volta giuntagli la nuova che il signore della Valle tenesse in catene il suo tanto agognato mostro dal corpo oscillante, ma... insomma paragonare questo a un figlio, e per giunta primogenito ed erede, sicuramente non stava in piedi. E Baelish stesso d'altro canto, pure se ormai erano passati parecchi giorni, non aveva ancora fatto recapitare l'ombra di un messaggio che contenesse la richiesta di liberazione del suo principino in cambio di quella del mostro schiavo di Sua Maestà. Forse lo stesso Protettore della Valle aveva non pochi dubbi su come giocare la carta del suo prigioniero. E intanto, il tempo scorreva e Gabryaerys ebbe il tempo di riorganizzarsi e tornare dunque al caro vecchio gioco della politica di Roccia del Re.

Nel medesimo tardo pomeriggio della giornata in cui, quasi al levar del sole, la carrozza reale ritornò col sovrano alla Capitale, giunse un po' più defilato un altro trasporto, questa volta niente meno che da Forte Terrore, la ex sede della Casa Bolton ora sotto il comando di Abigail Baratheon in nome e per conto di Lord Worchester e dunque del re. La tempistica faceva ragionare sul fatto che chiunque avesse viaggiato da quei territori, per giungere nello stesso giorno del re e della regina, doveva essersi messo in moto parecchi giorni prima. Era dunque tutto organizzato alla perfezione, perché infine il piccolo Napoleon Lannister – di ormai un anno passato d'età – ritornasse al castello dov'era nato e dove l'attendeva sua zia Hana e il suo zio acquisito re Gabryaerys. Separare in questo modo un figlio da una madre era qualcosa che alla giovane regina Lannister creava non pochi pensieri; ma d'altro canto era stato il re stesso a richiedere al signore del nord, Uryon Worchester – che le malelingue sostenevano dalle sue parti lasciarsi chiamare “re del nord” – di concedere Napoleon come un segno di fedeltà nei confronti del nuovo re e dell'amicizia che li aveva legati dal momento in cui l'orso del nord aveva liberato il re Targaryen-Naharis dalla sua prigionia presso Delta delle Acque. Da sempre ipotesi divenute ormai quasi leggendarie dipingevano il deforme Uryon come un uomo più unico che raro nelle arti della dialettica e della retorica; forse grazie proprio a queste gli era riuscito di convincere Abigail a separarsi dal bambino. Era l'unica ipotesi cui potersi appigliare, poiché d'altro canto la regina Hana – che conosceva bene Abigail da numerosi anni per diretta frequentazione – non avrebbe mai immaginato che quest'ultima potesse considerare anche solo lontanamente l'ipotesi di un allontanamento dal suo figlio unico e primogenito, avuto forse con Axelion Lannister o forse con il vecchio e ormai trapassato Maestro delle Armi del Regno, Lord Henrich Bolton. Nessuna madre avrebbe amato separarsi dal proprio figlio, ma Abigail aveva addirittura un attaccamento particolare: dunque o il genio della retorica Uryon era intervenuto con la sua verve da galantuomo e i suoi denti aguzzi, oppure...

Era chiaro che il re volesse da Hana che lei riconoscesse il proprio nipote, cosa sulla carta non difficile ma neanche scontata: alla fine, erano mesi che la regina di Lannister non vedeva il figlio del proprio defunto fratello, deposto e ucciso in nome e per ordine del suo momentaneo marito. L'ultima volta che l'aveva visto, il bambino aveva cominciato a blaterare qualche confusa parola e non camminava affatto. Adesso forse era sia in condizione di pronunciare frasette di senso compiuto che di muoversi con una certa autonomia: l'età doveva esser quella! Ma prima di quest'esame, il re dovette partecipare al suo primo Concilio Ristretto dal momento del ritorno. E visto che ad Hana aveva ormai concesso di partecipare come ospite, non poté rifiutarsi di lasciare che anche la giovane regina sedesse al tavolo con gli altri consiglieri.

Il Concilio Ristretto era ormai completamente snaturato rispetto a quello in cui Hana era stata una giovanissima Altissimo Segretario e suo padre Lionel governava il mondo. Prima era il luogo d'incontro ufficiale tra i poteri del Regno, dove s'incontravano le principali forze e si confrontavano talvolta duramente, per poi cercare di far coincidere tutto in un “punto di caduta” equilibrato, pacifico e condiviso. Non sempre ci si riusciva, ma quasi sempre ci si provava. Adesso la funzione del Concilio non era più quella. Molti vecchi poteri inclusi nell'assemblea, come per esempio le rappresentanze regionali e quelle popolari (il famoso ruolo di “tribuno” ricoperto per anni ad esempio dall'eroe di guerra orientale Garhel Sawela) non erano più rappresentati. Inoltre anche le vecchie divisioni “classiche” della politica del Regno erano ormai assai diluite. Per esempio da un paio di riunioni partecipava ormai in modo fisso Sir Winston Cleghorn, il capo dell'armata dei Cavalieri della Chimera, il quale aveva pigliato nei fatti il posto una volta ricoperto in comunità tra Helmon il demone degli elementi e l'anziano signore dei Willoughby in pensione, Senus, che rappresentava in Concilio gli interessi del nord del continente e in particolar modo dello stesso Uryon Worchester. Ora Senus aveva a poco a poco preso a occuparsi dei tribunali e delle leggi, ruolo sulla carta ancora ricoperto dalla principale delle guardie del corpo del re, Tararus il demone delle energie. Quest'ultimo dal canto proprio, conservava ancora la spilla di Primo Cavaliere, ma sostanzialmente non aveva altri ruoli a parte quello di proteggere lui direttamente Sua Maestà. Se Braff e Irwin si mantenevano saldi nel loro ruolo di Maestro dei Sussurri e Gran Maestro delle Scuole e degli Ospitali, il re era come se avesse accumulato in capo alla propria persona, e un po' anche alla stessa Hana, i poteri del Maestro del Conio, visto che sempre e necessariamente da lui passavano le carte dei contabili del Regno al fine di amministrare la cosa pubblica. Ma era tutta una gran confusione, visto che nessuno ormai ricopriva realmente ruoli ufficiali e un po' tutti si occupavano un po' di tutto.

Ebbene in un Concilio Stretto del genere, nel primo pomeriggio dopo il pranzo del giorno del loro ritorno, Gabryaerys ed Hana vennero informati sulla situazione in cui versavano le anime religiose della città. Già fin da quando il re si trovava a Roccia del Re, era imperversata una vera e propria guerra tra i fedeli dell'antichissimo Credo dei Sette Dèi e coloro i quali avevano invece aderito al culto straniero del dio della luce, fomentati da un sacerdote di recente arrivo in città, chiamato Yashua. Gabryaerys aveva voluto fino alla fine tenersene alla larga, fin quando non venne coinvolto (e per di più minacciato) da Sua Santità l'Alto Septon dei Sette e costretto a mandare Tararus allo scontro, il quale venne coinvolto in quella che le cronache chiamarono “la strage del vespro” e della cui onta il re, per quanto a lungo ci avesse provato, non riuscì invero mai completamente a smacchiare il proprio nome. Troppo spesso si faceva il suo nome infatti quando si parlava di quel gravissimo delitto, lo sterminio dei fedeli del dio rosso, anche se il più delle volte nessuno riusciva a collegarlo in maniera puntuale ed esatta. Ebbene, durante la sua assenza perché prigioniero di Lord Baelish alla Terra dei Fiumi, era invece accaduto che uno sterminio – ancora più grave – fosse stato perpetrato ai danni dell'altra fazione, quella dei cultisti del Credo tradizionale. Tutti i Septon maschi, compreso Sua Santità il più “alto” di costoro, vennero fatti fuori dalla furia magica e terribile del diabolico Yashua. Il coinvolgimento del re venne, a quanto gli dicevano i suoi consiglieri, presto dimenticato perché sostituito dal clima di assoluta tensione che ormai era andato assestandosi per le strade della città. Ma una città in preda al costante delirio religioso non poteva essere lasciata, altrimenti si sarebbe realizzata una sorta di costante teocrazia con il sovrano a fare da spettatore. Bisognava che una delle due forze prevalesse e bisognava che il re subito accogliesse il vincitore tra le sue preferenze. Hana sapeva che Gabryaerys era nato e cresciuto in oriente. E non poteva mai essere che non sapesse nulla di quel culto del dio rosso, visto che forse era nuovo per il continente occidentale, ma in Essos era forte ed imperante da secoli: tutti gli uomini e le donne mezzo acculturati del Westeros erano a conoscenza di questo dato di fatto. Si parlava di una religione antichissima, che tuttavia – differentemente da quella dei Sette – tendeva a scomparire per intere decadi per poi riapparire in particolari circostanze, e nella fattispecie quando da qualche parte nel mondo c'era una grande massa di poveri e disperati alle soglie di una inevitabile rivolta sociale. Era tuttavia pure vero che tutte le volte che c'era stata l'occasione di parlare di religione, di tutti i generi, in pubblico o in privato, la regina non era mai riuscita ad intercettare una reale partecipazione da parte del suo consorte, tanto era vero che ormai aveva concluso che in verità a Gabryaerys di tutte quelle faccende importava poco e niente e, ove mai credesse in qualcosa al di là della materia, certamente non tendeva né a confidarlo a chicchessia né a farne un discorso che esondasse dai confini del più intimo e personale.

Per tale ragione, nonostante avesse origini orientali come lo stesso culto del dio della luce, Hana si sorprese non poco quando vide Sua Maestà ascoltare con una certa partecipazione chi, tra i suoi folli consiglieri, gli iniziò a suggerire di considerare la possibilità di determinare uno storico e inaudito cambio di sponda da parte della Corona, e di fare dunque del Re del Regno Unificato un fedele del dio orientale. Nessuno glielo presentò come un'unica alternativa, e ci sarebbe mancato altro! Tuttavia il solo fatto che l'ipotesi venne messa sul tavolo, alle orecchie e agli occhi della regina di Lannister la cosa non poté che apparire sconcertante e pericolosa, oltre che decisamente bislacca. Sperò in cuor suo che il re reagisse come lei, ma non aveva ragioni di farlo, lui non era un uomo dell'occidente e la cosa in lui non suscitava il medesimo senso di scandalo. Gabryaerys si limitò a reagire freddamente, come se gli avessero chiesto se gradisse una coppa d'acqua. Dunque passò oltre e tutto ciò che aveva a che fare con le guerre di religione, quel giorno venne dimenticato. Hana aveva tutta l'intenzione di riprendere quel discorso col re da sola, non appena le fosse stato possibile, ma per quel giorno non lo fu. Finita la riunione, dopo il resto degli aggiornamenti dalla Capitale, il re e la regina dovettero infatti subito prepararsi per l'ultimo impegno di quella sorprendentemente fin troppo piena giornata di ritorno dal loro tribolato viaggio a Delta delle Acque. L'arrivo in città ufficiale di un membro della famiglia reale, quale Napoleon continuava ad essere poiché figlio del fratello di sangue della regina, non poteva infatti che essere accompagnato da un minimo di formalità, per quanto il nuovo ospite fosse un bambino poco più che lattante.

Era intervenuto qualche curioso e di conseguenza, ma in realtà già organizzata da giorni, anche la Guardia Cittadina prese il suo posto. Vennero poi preparati gli stendardi con il drago dei Targaryen e la chimera ancora incoronata dei Lannister. Il re e la regina dovettero cambiarsi d'abito per l'occasione, e così fece anche buona parte del resto della corte. Quando la carrozza del nord arrivò dinanzi al lungo tappeto color rosso scuro preparato per l'occasione, chi l'accompagnava uscì fuori alcuni altri stendardi: uomini scuoiati della Casa Bolton, cervi rampanti della Casa Baratheon, orsi furiosi della Casa Worchester e ancora una volta chimere incoronate; d'altronde Napoleon era sempre un Lannister, almeno sulla carta. Un quinto emblema campeggiava poi insieme agli altri, una sorta di figura allo specchio, una donna forse. Ovviamente per tutto il giorno continuamente ad Hana e a Gabryaerys vennero ripetuti nome e rango della donna in compagnia della quale il piccolo bambino aveva viaggiato. Ma il re e la regina erano stati costantemente troppo stanchi, visto che da quando erano arrivati non avevano avuto la maniera di riposare, e dunque a quel dettaglio dell'accompagnatrice del loro nipote finirono per non prestare una grande attenzione.

Probabilmente ben istruito sul ciò che doveva fare, il bambino non appena sceso dalla carrozza si fece una lunga corsa senza riposo e saltò subito in braccio alla zia, abbracciandola con calore. In verità, queste esternazioni i due non avevano mai avuto la possibilità di scambiarsele: il bambino era troppo piccolo l'ultima volta che Hana lo aveva visto; nemmeno camminava, figurarsi correre! Era tutto un po' troppo forzato. La Lady accompagnatrice arrivò invece con tutta la lena pacata di qualcuno che si porta addosso degli abiti ancora pesanti e un lungo viaggio, più lungo di quello che il re e la regina avevano concluso nella mattinata di quello stesso giorno. Con lei, la donna giovane ma non ragazza si portava appresso due altri bambini biondi pure loro, della medesima età di Napoleon, mese più mese meno.

«Vostra Maestà» salutò quindi la graziosa signora, inchinandosi al sovrano. Poi fece: «Vostra Altezza Reale», inchinandosi ad Hana. Senza dubbio non era una carente in nozioni di etichetta. Gabryaerys, annoiatissimo, replicò: «Siamo lieti di accogliervi,Lady...»

«Brimshey, Maestà. Mleena Brimshey. Siamo una piccola ma antica famiglia tra Forte Terrore e il nord estremo, dove il ghiaccio è perenne. Lungi da noi la pretesa di essere ricordati dai re»

«Siete comunque la benvenuta come dicevo, e vi ringraziamo per il prezioso lavoro che avete portato avanti in questi giorni»

«Oh, non ce n'è di bisogno» a questa replica Hana ebbe come l'impressione che per un istante Lady Brimshey stesse facendo gli occhi dolci al re, impressione che tuttavia svanì quasi subito. La Lady continuò: «Napoleon è già un frugoletto così regale e a modo di suo, che occuparmi di lui non ha rappresentato altro per me che un piacere»

«Venite, Milady. Voi, come noi, sarete parecchio affamata. C'è una lauta cena che ci attende tutti»

«Vi seguo, Maestà».

A questo punto, a un cenno della giovane donna (ma non ragazza!), il piccolo Napoleon ritornò ad aggrapparsi alla sua mano, insieme con gli altri due marmocchi. Agiva come a comando. E, mentre s'incamminava da sola con i suoi pensieri, dietro al re suo marito, alla Lady ospite e alla marmaglia di ragazzini che si era portati appresso, un pensiero fisso, già sospetto, continuò a restare vivido nella mente della giovane regina, ormai quasi come una certezza: quello non era suo nipote.

 

 

 

A Braavos pareva che tutti fossero impazziti. Un clima di festa e gozzoviglio era esploso fin da poche ore dopo che Garhel Sawela – e lui e lui soltanto – aveva colpito con quel lungo e poderoso arpione affilato il drago nemico dell'umanità, forse chiamato Requiem. Per un po', all'inizio, Lord Goldsmith – signore della città-banca – creditore di tre quarti degli uomini più ricchi e delle famiglie aristocratiche più potenti del mondo, aveva fatto finta di essere uno che sa fare buon viso a cattivo gioco e dunque pretese e fece in modo che avvennero più d'un brindisi nel corso degli infiniti banchetti organizzati per la vittoria, e tutti declamati in onore dello storpio, vecchio, ma ancora indiscutibilmente valoroso ex Lord, Sawela. Il nome della leggenda non poteva essere infangato, poiché serviva alla propaganda dell'Essos per potersi dire da solo, per dirlo alla massa di plebei e affamati che calpestavano la sua terra e soprattutto per farlo arrivare in occidente, che lì c'erano gli uomini e le possibilità per essere e restare per sempre indipendenti. Ma in privato, sostanzialmente il Lord banchiere e il vecchio Tribuno Popolare del re dell'occidente arrivarono a scambiarsi due parole forse un paio di volte. Goldsmith avvertiva Sawela come un nemico, e faceva bene: perché quest'ultimo era l'ultimo uomo che un ricco e tronfio aristocratico poteva considerare amico. Per tutta la sua vita Lord Garhel aveva combattuto contro uomini del genere e, solo di recente, in barba a un'amicizia che ormai sentiva di avere con l'elefantino Banfred Panecha, aveva alzato personalmente la sua lama per espellere definitivamente da questo mondo l'insulsa e prevaricatrice anima schiavista di Lord Justus Panecha, signore di Marrah Cankhubhia. Ma non solo sul piano teorico si basava la totale distinzione che separava l'uomo del popolo dal Lord delle banche: c'erano anche naturalmente questioni d'imminente attualità. Si erano infatti venute a creare come due fazioni: una, con a capo Goldsmith, cui aderivano anche Lord Loackland di Myr e Lord Baelish, il viscido signore della occidentale Valle di Arryn che da qualche tempo risiedeva fissamente come ospite del Lord banchiere. Era accaduto, a quanto cronache ben supportate raccontavano, che Baelish avesse compiuto un passo falso nei confronti di colui che in quel momento sedeva nel famoso Trono di Spade del Westeros. Aveva iniziato una sorta di guerra personale, cosa a dir poco sorprendente da parte dell'illuminato e manipolatore Lord del tordo canterino, e ora il re aveva occupato metà del suo territorio, quella denominata “terra dei fiumi”, con capoluogo Delta delle Acque. Sempre a quanto narravano le cronache, Baelish aveva dalla sua un prigioniero piuttosto caro al re, ma il re teneva in ostaggio niente meno che Petyr il Giovane, l'erede del Lord della Valle. E ora, non sapendo bene quale carta giocare, pareva che Lord Petyr il Vecchio stesse cercando di prender tempo nel tentativo di un confronto con i suoi storici amici dell'oriente e, per farlo, si era trasferito con un quarto della sua corte di montanari giù a Braavos, che tutto era meno che una città di montagna. Braavos era la città più popolosa dell'oriente, era quella dove probabilmente circolavano più danari liquidi e non, ma era una città di mare e sul mare, per quanto strategicamente ben isolata.

La seconda fazione a Braavos si componeva di Garhel e Banfred, che per quanto possedessero un nome assai rilevante in termini di gloria tra la plebe (l'uno quello di difensore degli ultimi e l'altro quello di Panecha, anch'egli un tempo venditore di frutta secca, fattosi da solo re della sua Città-Stato), in verità non disponevano di ciò che più in quei grami tempi contava: un esercito bene armato. Un mezzo esercitino ce l'aveva invece il terzo componente della fazione, il gottoso Lord Gaholla, giunto con l'intera sua famiglia alla città dei banchieri solo una volta che il drago era stato sconfitto: nelle sue condizioni, il Lord di Pentos non poteva comunque rendersi utile su un campo di battaglia. Ma l'esercito dei Gaholla, il cui fiore all'occhiello era l'unico figlio maschio del Lord, Poll il cavaliere smunto, era stato a sua volta per metà o forse più decimato alla battaglia di Marrah, quella disertata proprio dai Goldsmith e i Loackland che adesso si facevano belli di quella vittoria solo apparente contro il drago. Non capivano, questi ultimi, che il drago non era sconfitto e che non c'era niente da festeggiare. Bisognava muoversi subito secondo Sawela. In un colloquio privato, Goldsmith gli aveva espresso in effetti la sua partecipazione in merito al problema: capiva benissimo che bisognava battere a tappeto tutto il continente se necessario fin quando non si sarebbe trovato il cadavere del mostro, e che si sarebbe impegnato in prima persona perché i lavori cominciassero presto. Pensava tuttavia che un esorcizzante momento di gioia dopo una dura e terrificante battaglia, in cui comunque molti dei loro erano morti, fosse necessaria come tonificante e che quindi sì, c'era da trovare il drago morto, ma un po' di pausa sarebbe stata fisiologica e tonificante. Garhel, che era veterano di mille battaglie sul campo molto più di Goldsmith, gli rispose che la cosa avrebbe avuto senso se si fosse trattato di un nemico comune. Ma quella era una circostanza eccezionale e bisognava agire in maniera eccezionale. L'ex Tribuno, anche se questo non lo disse al Lord banchiere, era assai preoccupato perché era sicuro di aver cercato già – con la sua prima ricognizione di ventotto uomini – in tutte le possibili aree in cui un cadavere mastodontico come quello sarebbe potuto esser precipitato. E se non c'era, voleva dire che era vivo. Almeno questo era quello che Garhel nell'intimo del suo cuore più temeva. Ma non poteva affermare tale cosa come un dato certo, e questo era il suo principale punto debole nel confronto con Goldsmith.

Lo scontro quindi tra le due fazioni – Goldsmith, Loackland e Baelish contro Banfred, Garhel e Gaholla – si spostò quindi su un nuovo piano, diverso da quello della ricerca del cadavere del drago, dove ormai Lord Sawela e i suoi alleati erano stati sconfitti. Se il drago era forse stato sconfitto, e se non definitivamente sconfitto per lo meno indebolito per qualche tempo, allora era necessario che finalmente si facesse qualcosa di pratico per coinvolgere l'occidente in quella battaglia. Non bastavano più le sole missive che da lungo tempo i Lord dell'Essos mandavano al re e ai Lord del Westeros, senza pressoché mai ricevere risposta. Bisognava incontrarsi e ridiscutere i termini dell'alleanza politica ed economica tra i due continenti. Se il drago era morto, sarebbe stata comunque una buona mossa per rivitalizzare i rapporti diplomatici tra est e ovest. Se il drago era vivo, si poteva sperare che la chiamata questa volta non sarebbe rimasta inascoltata. Adesso si poneva un nuovo problema: era piuttosto difficile incontrare qualcuno che per via lettere non rispondeva mai. Fu così che qualcuno nella stessa fazione di Sawela, uno dei generali di Gaholla, fece notare in un'assemblea riunita che una grossa famiglia nobile del Westeros rispondeva sempre: i Martell, nella persona della loro leader indiscussa, Saestrya. Forse una volta aveva risposto pure Gino Barron, e magari due Uryon Worchester: tutte personalità troppo distanti nello spazio e negli interessi. Ma Saestrya era la rappresentate di un'antica famiglia in forte conflitto con i suoi attuali dominatori e che si trovava sostanzialmente alle porte del continente. E non solo: anche nella zona del continente in cui più facili e sempre più numerosi avvenivano gli scambi; il sud.

Al solo nome della Martell tuttavia, qualcuno in zona Loackland cominciò a borbottare e a poco a poco la pacifica riunione di Braavos che Garhel e i suoi avevano cominciato con le migliori intenzioni, era divenuta una baraonda tra grida e strepiti che coinvolgevano non meno di una quarantina di persone, tutte lì a discorrere dei loro confini e dei loro più ciechi affari, quando quello di cui si doveva discutere era pur sempre un abbraccio tra continenti e una guerra potenziale come non se n'erano mai viste nella storia recente. Colto da un forte mal di testa, lo storpio Garhel si arrese e, massaggiandosi la fronte, decise di ammutolirsi e sedersi in un angolo remoto della sala. D'altro canto, il compito di portavoce delle loro ragioni era stato affidato a Banfred, il cui eloquio andava migliorando costantemente e che a poco a poco, almeno per quella caratteristica, si stava dimostrando un non poi così indegno erede del padre. Certo non ne aveva la stessa storia, e neanche la stessa audacia, però il giovane elefante sapeva senza dubbio parlare bene, ed era in grado di portare avanti un'appassionata arringa davanti a un consesso di politicanti e culi nobili del rango pari o inferiore al suo.

Garhel neanche si trovava nelle condizioni per dire se alla fine la sua fazione stesse vincendo. Goldsmith e Loackland insieme si erano ormai dimostrati un duo inscalfibile, e non si convincevano mai se non esclusivamente tra di loro due. Però, chissà, se Banfred avesse trovato il modo di instillare la serpe della sedizione in qualche importante luogotenente dell'uno o dell'altro, forse finalmente... e invece no, non era quello che stava accadendo. Sawela vide Banfred venirgli incontro, scuotendo il capo. Le cose non andavano bene: maledetto Lord Goldsmith, era tutta colpa sua e del suo atteggiamento da sangue blu spietato, pieno di vizi e abituato a farsi dare ragione anche quando avevano torto marcio. Anche se, a essere proprio precisi, chi più di tutti aveva da preoccuparsi per un abbraccio tra l'oriente e Saestrya era Loackland, i cui territori si affacciavano sulle isole che in teoria erano sotto la giurisdizione di Altogiardino, e che di conseguenza erano un caldissimo punto di contatto con la Casa Martell che in quella zona regnava da molto prima che i Tyrell li sgominassero definitivamente imponendo rose dorate su tutti gli stendardi che sventolavano su quegli scogli. Ma, come detto, Loackland era legato a Goldsmith e se Loackland diceva di no, allora sicuramente anche Goldsmith lo avrebbe detto, perché troppe battaglie i due avevano combattuto assieme e troppi interessi avevano intrecciato. Chi lo sa: forse se Loackland perdeva parte della propria regione non erano solo suoi gli introiti che si andavano ad intaccare, ma anche quelli di Braavos stessa. Era un'ipotesi che a Garhel stava sovvenendo solo in quel momento, ma che aveva molte possibilità di essere plausibile.

«Io non ce la faccio più, Lord Garhel: è da stamattina che mi sgolo inutilmente!» esclamò Banfred, irritato, ma solo sottovoce e solo a lui. Banfred irritato, Garhel non l'aveva forse mai visto: quei due imbecilli di Goldsmith e Loackland erano riusciti perfino nell'impresa di far arrabbiare il serafico elefante. “Attendere per contendere” era il motto dei Panecha, e Banfred aveva atteso: per quasi un giorno intero. Ma non ce la faceva più, la sua resistenza era al limite. Garhel, che l'aveva perduta già da molto prima, assentì con un cenno e gli sussurrò a sua volta: «Va bene, per me possiamo procedere». Banfred non si accontentò solo di quel permesso. Prima di “procedere” andò pure da Lord Gaholla il gottoso, probabilmente a chiedere la medesima cosa. Dovette ricevere una risposta uguale, visto che alla fine il pingue giovanotto richiese ancora una volta l'attenzione dell'assemblea, perduta in uno dei tanti momenti di delirio in cui tutti gridavano contro tutti. «Signori!» fece il giovanotto «Vogliate ascoltarmi un ultimo istante! Signori! SIGNORI!». Finalmente silenzio; ancora Banfred: «C'è un'ultima rilevante cosa che qui mi preme comunicare, dopodiché mi taccerò e per quanto mi riguarda considererò conclusa questa riunione, quantomeno per quanto concerne miei interventi attivi»

«Concludete pure» disse Goldsmith, che in teoria presiedeva quell'assemblea trasformata in cagnara, «Lord Panecha»

«Grazie, Mylord. È importante che ci capiamo, miei signori, e che ci muoviamo sempre nell'onda del rispetto reciproco che mai deve mancare e mai credo è mancato in un consesso del genere, con partecipanti del genere. Perché d'altronde è questo quello che fa la differenza: il rispetto. Rispettosamente noialtri abbiamo accettato la scelta della maggioranza e non abbiamo imposto a nessuno di seguirci alla ricerca del cadavere del drago. Altrettanto rispettosamente, Lord Goldsmith, Lord Loackland – che pure non la pensavano come noi – hanno permesso a una ventina di bravi uomini di seguirci, perché convinti invece delle nostre ragioni. Oggi, a distanza di così poco, ci troviamo a un bivio del tutto similare, signori. La maggioranza qui non vuole un incontro diretto con l'occidente, ed è quello che otterrà. Io però, da uomo libero, scelgo di continuare il rapporto epistolare così fruttuoso che si è venuto a creare con Saestrya Martell. E, voglio che sappiate, che qualora la vita dovesse darmene l'opportunità, io la incontrerò. In rappresentanza della sola mia persona, certo. Non di quest'assemblea, non degli altri Lord, e men che meno dell'oriente tutto. Ma la incontrerò. Rispettosamente, voglio che sappiate che altri uomini, quali Lord Gaholla e Lord Sawela mi hanno pure confidato di avere la medesima intenzione e mi hanno dato il permesso di comunicarvelo a nome loro»

«No, un momento! Un momento! SOLO UN MOMENTO!» gridò Lord Loackland, che tutto pareva in quel momento, meno che un Lord, «Vada bene per voi, giovanotto, il cui esercito è tristemente venuto a scomparire nelle circostanze che tutti sappiamo»

«E che voi sapete particolarmente, Lord Loackland!» insinuò neanche troppo velatamente un luogotenente dei Gaholla.

Loackland fece finta di non aver sentito, e continuò: «Vada bene anche per Sawela, che un esercito non l'hai mai avuto, benché goda del suo così rinomato nome, ma Lord Gaholla rappresenta tutta una lingua di territorio di questo continente. Con città piene di persone, e financo con Pentos, cui tutti qui ne conosciamo l'importanza e il valore. Come può Gaholla sostenere di agire a titolo personale se sulla sua persona gravano le responsabilità del Lord e signore di Pentos?»

«Ma io infatti la incontrerò come Lord di Pentos, Loackland, che credi!» esclamò il gottoso, pur restando seduto, visto che le sue condizioni gli sconsigliavano troppo bruschi movimenti. Non l'avesse mai fatto! In un istante, la riunione tornò ad essere quello che per il più del tempo era stata: il caos più totale. Dannato Gaholla: lui sì che non aveva affatto le maniere di un nobile, e si vedeva. Banfred si era mosso come un equilibrista pur di non dar adito a nuove rimostranze, e lui che fece? Gettò tutto all'ortiche pur di provocare l'uomo che lì dentro più odiava. Per un momento, Garhel si chiese se Gaholla facesse parte della loro fazione più per reale convinzione, ovvero per il bene dell'umanità, o più per creare un fastidio ai suoi storici rivali Loackland e Goldsmith, di cui da tempo il Lord gottoso lamentava le angherie.

Alla fine, niente se ne riuscì a cavare, e sostanzialmente buona parte dei convitati si lasciarono senza nemmeno salutarsi. Lo fecero Loackland e Gaholla, ma non Banfred e Goldsmith, le parti più dialoganti delle due distinte fazioni. Proprio sul finire della riunione, Lord Baelish si avvicinò al terzetto Sawela-Banfred-Gaholla per dirgli: «Una sola domanda, miei Lord. Avete riflettuto che agendo come intendete agire, probabilmente vi inimicherete il re dell'occidente? Perché Saestrya Martell è una ribelle di Lord Gino Barron. E Lord Gino Barron è formalmente il principale degli alleati del re. Se vi mettete con lei, vi mettete contro Gino e... contro Gabryaerys»

«Beh, tu m'insegni Lord Baelish» replicò Banfred «che, da quando s'è insediato, il nuovo re Naharis ha sostanzialmente smantellato le cariche di Lord Tribuno e dei Lord rappresentanti dell'oriente. Anche semplicemente sulla carta noi siamo già dei ribelli per il re sul Trono di Spade»

«Sì... difatti, è così». Non disse niente altro Baelish. Semplicemente sorrise, e si congedò.

Quello che doveva esser fatto, era stato fatto. A Garhel andava bene così. Non era il massimo, ma finché Goldsmith e Loackland spadroneggiavano in oriente, il massimo non sarebbe mai stato raggiunto. Era per questo che con Gaholla e Banfred aveva teorizzato quel piano dell'incontro ad oltranza con Saestrya Martell, incontro che praticamente era già programmato. I due stronzi andavano avvisati, perché qualora non lo fossero stati: sai che danni sarebbero stati in grado di combinare, pur di soddisfare il loro cieco ego. Ma ora basta con la diplomazia, basta con le parole. Goldsmith e Loackland erano una causa persa. Forse – con immane tristezza per il Lord ex Tribuno che così tanto ci aveva combattuto – anche per l'oriente la causa era persa. Ma per l'occidente invece forse no. Con l'occidente, c'era forse ancora tempo. Valeva la pena di provare.

 

 

 

Anche se non si capacitava della velocità con la quale l'aveva raggiunta, Daniel ora si trovava presso l'immensa valle depressa ed innevata di Alberocasa. Alle sue spalle, il valoroso esercito degli Applegate con i suoi vessilli dalla mela rossa agitati da un vento di tempesta che non prometteva nulla di buono. Sarebbe stata una battaglia sotto la pioggia? E come funzionava il ghiaccio infinito sotto la pioggia? Si scioglieva? Si sarebbe scivolato? Applegate e Willoughby, le principali parti in contesa, possedevano calzari adatti per quel tipo di guerra che, onestamente, solo dalle loro parti nel mondo si poteva combattere? Il caos incominciò, e subito il terrificante sibilo dell'acciaio che sbatte, accompagnato da voci di uomini che urlavano e da cavalli (quei pochi che c'erano) che nitrivano. Era il suono della paura, della fatica inutile e della morte. Perché quello era la guerra: morte inutile. Morte che avrebbe potuto benissimo essere scambiata con delle parole: le parole della trattativa, le parole della diplomazia, del dialogo. Nulla era servito, e ora la grande piana ghiacciata stava sanguinando. Il suo suolo candido si stava tingendo di rosso. I suoi figli e fratelli stavano morendo. C'era Elthon lì da qualche parte, ma Daniel lo aveva perso. C'era Lord Applegate, che poco tempo prima – in un accorato momento – si era addirittura inchinato a lui come re. Ma Daniel aveva perso anche il Lord di quelle terre. I suoi turbini di fuoco non erano sufficienti. La luce nel nord profondo era troppo fioca e appassita. D'altronde, appassito era pure il suo animo e a poco a poco anche il suo gracile corpo stava per tracollare. Daniel non aveva mai avuto un fisico da guerriero. Era dinoccolato, alto ma non robusto. Uno studioso, non un cavaliere. Si ricordò di questo, e ricordò anche di certe formule silenziose, di certi trucchetti che da Piromante aveva imparato alla scuola del drago Nidhogg e che lo aiutarono ancora una volta ad andare avanti. Per un tempo infinito, Daniel non vide la vittoria ma solo la sua sopravvivenza. Sentiva che non sarebbe durato ancora per molto. Non sapeva chi stava vincendo, ma sapeva che la sua energia magica stava per esaurirsi e che di tutto quel conflitto lui non riusciva a vedere la fine.

Sentì un grido a un certo punto: quello di Licyane. Era Licyane o era Anylice? La sua pelle in effetti era quasi bianca, come quella della Criomante che per un brevissimo periodo il giovane principe di Cowain aveva conosciuto sempre lì, nel freddo e inospitale nord del continente. Ma non era Anylice: non lanciava i suoi raggi di ghiaccio per rendersi libera. Era prigioniera di Uryon Worchester, che la teneva attaccata con una catena al suo cavallo. Con il mostruoso orso del nord, c'era Abigail Baratheon: sua cognata, la moglie di suo fratello Axelion e madre di suo nipote, Napoleon. Lei ora era divenuta un'alleata così stretta di Worchester, tanto da seguirlo ad Alberocasa? Era assurdo: Abigail non era il tipo! E con loro c'era poi il vecchio Senus Willoughby, il patriarca della famiglia della stella del nord, che Daniel aveva forse visto una sola volta a Roccia del Re ma che per qualche motivo il principe Piromante ricordava bene. Erano molto lontani, ma... Senus stava armeggiando con qualcuno: un altro prigioniero incatenato; un altro che Daniel conosceva... era... suo padre! Lionel Lannister ancora vivo, per quanto prigioniero e martoriato. Che faceva lì? Com'era possibile tutto ciò? Daniel cominciò a correre verso di lui, con le lacrime agli occhi, ma pieno di rabbia. Uccise nemici a destra e a manca pur di raggiungere la sua amata e suo padre, prigionieri. Senus Willoughby intanto iniziò a pugnalare suo padre. E Gabryaerys Targaryen, lo stregone dell'oriente usurpatore del Trono di Spade, giunse dal nulla e cominciò a fare lo stesso con... suo fratello Axelion? Pure lui vivo? Pure lui giunto dal nulla? E gli uomini di Uryon, cominciarono di nuovo a violentare Licyane. Quei bastardi: non meritavano di vivere. Meritavano di finire abbrustoliti. Daniel sentiva di non averne più la forza ma doveva... doveva...

Cominciò a correre ancor più velocemente. Gridò, si disperò. Uccise uomini a decine. Mariti di mogli sconosciute, padri di figli ignoti. Li sterminò tutti. E arrivò ad una corretta distanza: lanciò dunque il suo ultimo raggio infuocato dal palmo delle proprie mani e... tutto divenne luce e fumo e calore. E tutti perirono (o, forse, nessuno?) nel nero del carbone, e dell'oscurità e dell'orrore. Ogni cosa ruotò immensamente su stessa: vita e morte, ghiaccio e calore, dolore e passione, e patimento. Il principe Piromante sentì il cuore quasi scoppiargli, quasi uscirgli fuori dal petto debole che ormai si ritrovava. Gridò disperatamente. Poi aprì gli occhi, e si risvegliò.

Non aveva mai lasciato il territorio dei Bolton. Era sotto un albero, un grosso castagno, coperto da un telo pesante, ma comunque sudato e infreddolito. Il vecchio e piccoletto Terwyn Lannister lo raggiunse con aria preoccupata. «Principe Daniel! Avete la febbre?». Elthon Applegate, giunto pure lui, pure lui con una faccia atterrita, si chinò su Daniel e gli tastò la fronte con il palmo della mano. «No, febbre no» disse «ma sta tremando...»

«Solo un incubo» decretò Terwyn «un brutto incubo»

«No» fece invece Daniel «i-io... ho visto cose... c'era mio padre c-che...»

«Vostro padre, il re? Ancora vivo?»

«S-sì. Lui... no... non per molto, perché i Willoughby...»

«Cani di Willoughby!» esclamò Elthon, tutto appassionato, «Sempre loro!»

«E... Uryon Worchester e Abigail, e il r-re Naharis e Axelion e... e... Anylice. No. Ho visto cose c-che...»

«Cose che senti come vere» disse Terwyn, serissimo, «anche se non sai come, né perché. Ma sai di aver visto la verità. È così che sono gli incubi nel nord»

«Ma che vai dicendo, vecchio?» replicò ancora il Sir degli Applegate, tutto orgoglioso.

A sua volta, il vecchio Lannister gli rispose completando: «È così che sono gli incubi nel nord, per noi che abbiamo la sventura d'incanalare la magia. Incubi evocativi, incubi premonitori. Incubi di possibilità concrete»

«Oh, andiamo» ridacchiò Elthon, cercando però di contenersi perché il momento non era molto adatto alle canzonature né alle polemiche, «Qualsiasi incubo lo è, per un visionario che vuole vederla a quel modo»

«Io... non ci sono riuscito» pianse ancora Daniel «stavo per... per... salvarli ma non ci sono riuscito. Quanta morte... Quanti morti! E poi, appena avrei dovuto, io non riuscivo più... più...»

«A scaricare la magia» disse Terwyn.

E Daniel confermò: «Non c'era più magia. Non c'era più magia. Per uccidere sì, ma per salvarli...»

«Lo sapete cosa significa questo, vero? Che se andrete ad Alberocasa» proclamò Terwyn ad alta voce, di modo che tutti gli uomini al seguito di Applegate lì presenti potessero ascoltarlo, «senza che le ultime lezioni alla montagna siano state seguite. Voi morirete. Tutti quanti. E la vostra causa sarà perduta. E la vostra città conquistata. Definitivamente»

«Oh, andiamo!» provò per l'ennesima volta a rispondere a tono il biondo Sir Elthon, ma questa volta non venne molto ascoltato. Un coro di domande preoccupate si rivolse a Terwyn e, non appena anche Daniel ebbe bevuta un po' d'acqua e ritrovata almeno parte della propria lucidità, anche a lui. Pure lui cominciò sempre di più a pensarla alla maniera del vecchio mago. Ne discussero. Elthon non riuscì ad imporsi nemmeno sui suoi uomini. Si optò quindi per una non tradizionale scelta democratica. La misero ai voti. E Daniel, con Terwyn, decise di votare per Cabuk. E così fece anche la maggioranza dei cavalieri al seguito dello stesso Sir Elthon. Per la grande delusione dell'erede al soglio di Alberocasa.

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Capitolo 4
*** Trappola per volpi ***


Capitolo 4

TRAPPOLA PER VOLPI

 

 

 

Per qualche motivo, proprio agli ultimi giorni prima di poter porre un assedio su Castel Granito, il re fece giungere nelle mani di Gino Barron una notifica con la quale gli chiedeva di ritardare quell'azione che pure lui stesso aveva da lungo tempo ispirato. Per lungo tempo Gabryaerys aveva insistito addirittura perché Gino muovesse in ogni caso il suo esercito. Basta con le missioni, basta con i viaggi di piccoli gruppi. La Corona richiedeva che l'Altopiano rimediasse immediatamente in merito alle voci di instabilità che sempre più numerose si ripetevano verso il sud del continente, oppure che si occupasse dei loro comuni nemici dell'ovest. In verità più nemici di Gabryaerys che di Gino, ma certo i Lannister ancora forti in quelle zone rappresentavano una minaccia. Era così che Gino si era infine deciso a marciare con tutta la sua potenza verso la capitale degli uomini della chimera. Aveva trovato sul suo passaggio l'ostacolo di Lannisport, il centro marittimo della zona: ma i Lannister lo avevano abbandonato. Erano stati sciocchi, secondo lui. Facendolo combattere sia a Lannisport che a Castel Granito, i familiari dell'ultimo sovrano prima di quello momentaneamente seduto sul Trono di Spade, avrebbero infatti potuto innescare una guerra di logoramento sulla quale le idee del giovane e guercio signore dell'Altopiano non sarebbero state ben chiare. Gino lo ammetteva con se stesso: era nuovo a quel gioco e, da quando i suoi rapporti con Braff si erano raffreddati, anche piuttosto solo. Più semplice sarebbe stata una guerra strategicamente impostata su un'unica battaglia, per quanto lunga poi quest'ultima potesse rivelarsi. E questo i Lannister gli avevano dato, praticamente svuotando Lannisport di qualsiasi forma di esercito per la resistenza, e anche di buona parte della cittadinanza: inutile per Gino, che di quelle terre si apprestava ad essere il nuovo conquistatore, sterminare una popolazione inerme e tra l'altro assai scarsa di numero.

Fu così che l'esercito della volpe e della rosa dorata quasi raggiunse Castel Granito; quest'ultima era praticamente a meno di un giorno di viaggio, quando il corvo con alle zampe le piccole insegne della Capitale, raggiunse di volata il giovane Barron. Per ordine del re, Braff ingiunse di fermare quel suo assalto per dirigersi alla Capitale al fine di organizzare quell'urgente incontro con Sua Maestà cui il re Targaryen spasimava sin da quando era stato incoronato, perché in effetti Gino e Gabryaerys non si erano proprio mai visti, per quanto il primo stesse per combattere una guerra anche per fare un favore al secondo e per rinforzare la loro alleanza, forgiata su inevitabilmente comuni interessi. Ma Gino decise di fregarsene: le trombe della guerra erano già scoccate e poi... si trattava ormai di quasi solo un giorno di cammino! Non si interrompeva un affare di quel genere a distanza di così poche ore. E da ultimo: Gino era estremamente motivato. Voleva dimostrare a se stesso di essere in grado di compiere da solo un'impresa importante, una esattamente ritagliata per il ruolo che la vita era finita per fargli ricoprire. Ci aveva già provato con la ricerca di Saestrya Martell tra le dune di Dorne, e non era andata bene. Gino si era sentito preso per il culo per tutto il tempo. Ora si era stufato: la conquista di Castel Granito sarebbe stata la sua grande impresa, l'inizio della storia di un giovane uomo divenuto Lord quasi per caso (in realtà per bieche manovre politiche) e che però alla fine – sempre in età piuttosto acerba – si era anche guadagnato un posto tra le fila dei conquistatori della storia del Westeros.

Prima ancora di arrivare a Castel Granito, Gino passò anche da Lungotavolo: una deviazione di solo poche ore, visto che essa si trovava sulla strada tra Altogiardino e le terre dei Lannister, solo un po' più a est. A Lungotavolo, Barron incontrò di nuovo, vispo e in salute, il suo vecchio precettore Sir Rollo il quale, nel poco tempo che aveva passato ad Altogiardino quando Gino lo aveva chiamato come suo consigliere dopo la morte dei fratelli Lorthan e Shane Tyrell, si era ammalato. L'aria dell'alta politica di palazzo doveva averlo avvelenato, visto che sostanzialmente Lungotavolo – dove per tutta la vita Rollo aveva risieduto e operato – era pur sempre un maniero di campagna. Quando tuttavia, vedendolo poi così in forma e ristabilito, Gino tornò a domandare a Rollo di seguirlo, almeno durante il suo assedio delle terre dei Lannister, il vecchio precettore non poté ancora una volta rifiutarsi al suo signore. Non è che Gino non si rendesse conto che Rollo fosse anziano, ma paradossalmente era probabilmente più quest'ultimo ad avere compassione del giovane Lord, accorgendosi – dopo qualche minuto di colloquio in solitario con lui – che fosse proprio lui quello debole tra loro due, rimasto senza amici ad occuparsi di un lavoro di potere il quale inevitabilmente finisce per lasciarti un po' da solo. Non che Gino non fosse pieno di cortigiani; quelli anzi di norma si moltiplicavano alle corti dei potenti. Ma reali compagni sinceri, con cui condividere ansie e preoccupazioni, oltre che gioie e gozzoviglie, quelle a un uomo di potere non nato per quel mestiere, spesso venivano a mancare. E Rollo lo capì, dunque fu lui in prima persona anzi a proporsi come accompagnatore del Lord verso la sua guerra occidentale. E, nonostante all'inizio un po' di ipocrita preoccupazione, infine anche lo stesso Lord dell'Altopiano accettò di buon grado la compagnia e il futuro consiglio del vecchio amico. Per inciso: fu anche per consiglio appunto dello stesso suo vecchio precettore che Gino decise di ignorare le pressioni del re affinché virasse con il suo esercito verso la Capitale. Gabryaerys aveva altresì lasciato trapelare che presto per Castel Granito i due eserciti congiunti del Barron e della Corona sarebbero potuti pure partire insieme, ma chiaramente solo dopo l'incontro tra il re e il suo grande vassallo. Questo avrebbe lasciato scoperta Altogiardino per un tempo minimo di un mese o un mese e mezzo, comodissimo per Constant Lannister non solo per riorganizzarsi, ma perfino – qualora lo avesse voluto – per scendere a sua volta alla conquista dell'Altopiano.

Insomma, per Gino e il suo nuovo (vecchio) consulente Rollo, quella del re degli Andali e dei Primi Uomini non era altro che una proposta piena di lacune, da non potersi fare altro se non scartarla, fingendo di non averla ricevuta. D'altronde, Gino Barron non sarebbe stato mica il primo Lord a non ricevere una comunicazione via corvo; o a fingere di non averla ricevuta. Certo, il re Naharis avrebbe comunque potuto ritentare, ma per quel momento Gino sperava di esser già sul campo di battaglia a incrociare le lame col Leone Nero, visto che Sua Maestà era stato così improvvido da ricordarsi di scrivergli solo a praticamente un giorno di distanza tra Barron e la più grande città sulla costa occidentale.

L'armata dei Barron/Tyrell raggiunse lo spazio un po' contorto dinanzi alle porte della città alle prime luci di un'alba assai poco convinta. I generali a cavallo che vennero incontro al Lord dell'Altopiano, di cui uno minuto dell'insegne dei Lannister, erano: il sedicente re Constant, Sir Bastian che pure Gino aveva incontrato sul campo della battaglia di Cowain, e poi appunto il leggendario Pylgrim, il Leone Nero. Gino invece si portò appresso il solo Jon Barthalo, di cui molto poco si fidava e preferiva averlo vicino a sputare sangue piuttosto che lontano a trescare con Shanty e i suoi parenti Tyrell. In termini di forza numerica, era chiaro che la battaglia dalle chimere non poteva essere vinta: gli uomini dell'Altopiano erano il doppio, e tendenzialmente più freschi e più giovani. Dunque, se i Lannister non avessero avuto una qualche forma di forza fisica superiore, o un altro tipo di asso nella manica a sorpresa, alla lunga sarebbero stati destinati a perdere. Gino tra l'altro si accorse solo in quel momento che nella sua breve vita solo in un altro vero campo di battaglia si era trovato: Cowain, per l'appunto. La cittadella da lui difesa alla fine aveva vinto, ma il dato interessante era che tra gli aggressori c'erano due dei generali che ancora una volta gli si paravano davanti: Constant Lannister e il bassetto e biondino Sir Bastian, del continente orientale. In quell'occasione, Gino non aveva aperto bocca: per il borgo marinaro all'estremo sud del continente era stata una certa Lady Trench a parlare, che poi era morta sul campo. Dall'altra parte invece erano stati proprio Sir Bastian e Constant a parlare e lo stesso schema pareva stare per ripetersi.

«Cari signori» esordì il curvo cavaliere dell'oriente «Vi presentò Constant della Casa Lannister: il vero re degli Andali e dei Primi Uomini»

«E questi è Gino Barron» fece un po' contrariato il proprio dovere anche Jon Barthalo «il Protettore dell'Altipiano»

«L'ultima volta che ci siamo visti» fece quindi re Constant, senza attendere oltre, «caro Gino Barron, rappresentavate l'autorità costituita: il re sul Trono di Spade. E ora che il re è cambiato, e con esso una intera dinastia, voi continuate a rappresentare l'autorità costituita: il re sul Trono di Spade. L'usurpatore, in questo caso»

«Ero un giovane, inesperto, rappresentante di una casata minore, allora» replicò Gino «Ora sono il signore di Altogiardino»

«Scalate bene, non c'è che dire. Sul combattere ho qualche dubbio invece: il vostro occhio destro a quanto pare giace ancora calpestato da qualche parte presso la spiaggia di Cowain»

«Io l'ho combattuto» s'immischiò Bastian «il mio martello ha affrontato la sua lama. Non è niente di temibile, in tutta onestà»

«Se non vado errato, signori, quella battaglia da voi è stata persa»

«Altri tempi, altri uomini, altri contesti» riprese di nuovo lo pseudo re «Allora io combattevo per il re Naharis e voi contro. E adesso... è il contrario: quanto strani sono i casi della vita»

«Strani e a volte solo utili a perder del tempo. Bando alle ciance, mylord: siete in numero assai inferiore. Prenderemo la città, il problema è se in un paio d'ore o in mezza giornata. Come intendete risolvere la situazione?»

«Combattendo fino alla morte, Lord Gino»

«Mi va benissimo. Ma sappiate che una resa incondizionata, solo in questo momento, potrebbe salvare delle vite e con esse la possibilità di un dialogo. Occuperemo il castello per un po' ma, se vi inchinerete al re, un giorno forse potrete tornare a rivendicare il vostro nome su questi scogli aridi che chiamate casa. A me non interessa Castel Granito, m'interessa ribadire la mia autorità e quella di Sua Maestà»

«Dimenticate una cosa, giovanotto...»

«Cosa?»

«Che sono IO l'unico vero re. E sarà la verità a spazzar via voi, il vostro esercito e soprattutto quell'usurpatore cui vi ostinate a reggere il moccolo». Detto questo, Constant girò rapidamente il cavallo e tornò verso le sue truppe.

«Cercheremo di risparmiarvi la vita» disse l'impavido Pylgrim, parlando per la prima volta, e anche lui poi dirigendosi verso dove già il suo re si era rivolto. E infine Sir Bastian: «E anche quell'unico occhio che vi rimane».

Purtroppo Gino aveva lasciato ai suoi avversari l'ultima parola. Un ennesimo sgarbo di cui si sarebbe ricordato sul campo, di lì a qualche momento. In verità, non gl'interessava assassinare nessuno di loro, e della leggenda che ammantava il Leone Nero aveva pure un poco di timore. Ma, se le circostanze lo avessero obbligato, li avrebbe affrontai tutti. E, se le circostanze lo avessero obbligato, Gino sarebbe pure stato disposto a ucciderli tutti.

Cominciò bene, con molto entusiasmo: la prima fila di soldati gregari avversari venne fin da subito annichilita dagli uomini al suo comando, e lui personalmente ne fece fuori circa cinque senza versare alcuna goccia di sangue o sudore. C'era qualcosa che gli puzzava: si stava verificando tutto fin troppo facile. I soldati dei Lannister erano come stanchi e impreparati. Certo, loro avevano dalla loro parte l'alone del mistero e della leggenda: Constant e Pylgrim. Per fronteggiare lo stregone, che Gino aveva già avuto modo di vedere sul campo di battaglia, e il vecchio cavaliere veterano di mille battaglie, Gino aveva fatto una sorta di cernita: aveva individuato i dieci più forti ed esperti combattenti tra le sue schiere e li aveva spartiti. Cinque avrebbero dovuto stare su Constant, non appena il re stregone avrebbe cominciato con i suoi micidiali trucchi di magia. E gli altri cinque invece sull'impetuosità gagliarda del Leone Nero.

Quando Constant cominciava con le sue diavolerie, all'inizio – anche se Gino li aveva preparati, i suoi uomini – era necessariamente un momento di grande meraviglia e panico per tutti. Non solo il fuoco padroneggiava infatti il mago ex Primo Cavaliere, ma anche il ghiaccio, e li combinava insieme un inaudito quanto trascinante esempio di forza d'urto. Con un raggio dei suoi ben scagliato, il re stregone poteva fare fuori nemici a decine: bisognava impedirglielo, per questo Gino pensò di mettergli subito addosso i più abili tra i suoi sicari, uno dei quali venne abbrustolito praticamente subito, ancor prima di cominciare. Ma dopo una prima fase di assestamento, la strategia riuscì a trovare dunque un suo buonsenso. Anche il vecchio Leone Nero trovò le sue difficoltà prima di atterrare uno solo degli uomini che Gino mise su di lui; e nel frattempo il Protettore dell'Altopiano, come il resto del suo esercito, si dedicò a falcidiare la manovalanza. Questo fin quando non venne raggiunto da Sir Bastian, con il suo martellaccio da guerra...

Il comandante orientale dell'altro esercito si avvicinò a lui con fare sinuoso: Gino d'altronde si era accorto di lui fin dalla distanza, quindi chiaramente non si stava trattando di un agguato, né dall'una né dall'altra parte, bensì di una sfida. Per la seconda volta nella sua vita Gino si apprestava infatti a combattere contro l'uomo col martello. Erano passati molti mesi, anzi qualche anno. Gino si era addestrato sia come guerriero-ombra che come spadaccino, e d questo Bastian se ne accorse. Inevitabilmente il tipo di combattimento che caratterizzava il generale orientale era un combattimento di potenza, lento e fortissimo al momento dell'impatto. Dunque adatto contro avversari inesperti, oppure in mezzo a una mischia contro avversari numerosi e per lo più distratti. Ma nell'uno contro uno con Gino della Casa Barron, Sir Bastian dell'oriente non era più quello che si trovava in una situazione di vantaggio. Sapeva difendersi bene, e dunque neanche Gino riuscì a colpirlo per tutto un primo tempo, ma far roteare quell'attrezzo enorme sostanzialmente a vuoto, mentre Gino gli danzava attorno, lo fece affaticare maledettamente.

All'improvviso tuttavia avvenne l'inaspettato. Gino si distrasse. Si distrasse anche per una cosa positiva: i suoi uomini, quelli con le insegne della volpe rampante e della rosa dorata, erano in irreversibile vantaggio e stavano buttando giù la porta del castello. Lo fecero: cominciarono ad entrare, anche senza il loro comandante in capo. In quel secondo esatto, mentre l'unico occhio di Gino si concentrava per un istante su quell'azione, arrivò un colpo secondario di Bastian. Non era quello principale con la punta del martello, ma quello di ritorno per permettere al guerriero orientale di riequilibrarsi. In pratica, Gino venne semplicemente colpito dal legno centrale dell'arma in una maniera sgraziata che fece un po' male al suo fianco, ma che soprattutto fece cadere il Sir orientale col culo per terra. Arrivò quindi Jon Barthalo, grondante sangue da tutte le parti, ma in piedi e fiero, che aiutò rapidamente il Protettore dell'Altipiano a rialzarsi e gli disse: «È finita: siamo entrati. Dentro non hanno difese!». Gino quindi lasciò che di Bastian si occupassero almeno sei dei suoi, appena accorsi dietro a Jon, mentre lui veniva sempre da quest'ultimo preso per la spalla ed accompagnato dentro la roccaforte storica dei Lannister. Finalmente, forse, Gino aveva vinto tutto da solo una sua battaglia. Senza Braff, senza il re, senza nessun'altro. Aveva preso una decisione, l'aveva perseguita e aveva conquistato una vittoria. Ora il problema sarebbe stato cosa farci con quella diavolo di Castel Granito, ma sarebbe venuto dopo. In quell'esatto momento, tutto quello che Gino – la volpe dei Barron – aveva per la testa era: un breve, meritato, riposo per tutti e poi... festeggiamenti in suo nome e gloria lunghi almeno un paio di settimane.

 

 

 

Nel segreto dei terrazzamenti nascosti e dei cunicoli scavati del castello, Marcus Lannister attendeva. Xenya l'esploratrice, il suo secondo Pashamanyna e Daessenya la giovane fanciulla con cui pure avevano stretto un'amicizia fin dal Miriedos, all'altro capo dell'oceano, erano tutti con lui e lì vicino da qualche parte doveva star svolazzando – alla ricerca di un topolino piuttosto che di un'arvicola – anche la sua chimera Shirley. Per la verità, e anche paradossalmente, Marcus aveva conosciuto Daessenya proprio lì, nelle terre dell'occidente. La ragazza aveva seguito il giovane principe cavaliere e la sua sorellina Mirietta, ancora in vita, per le strade della città. Poi si era presentata come una donna indipendente, attratta dalla storia di Mirietta, principessina reggente di una intera regione del Westeros. In quell'occasione, Marcus e Mirietta erano stati intercettati e messi in cella da quello che ora era un alleato: re Constant, che Marcus neppure adesso – che stava lavorando per lui – considerava il vero re. Il vero re era Napoleon, figlio di Axelion, fratello primogenito di Marcus e ucciso dall'usurpatore orientale adesso seduto sul Trono di Spade. Però Constant era il cavallo migliore su cui puntare in quel momento: sarebbe stato, a giudizio di Marcus, il miglior reggente in attesa della maggiore età del piccolino. E c'erano tutte le premesse perché tutto andasse bene: la donna che zio Constant aveva amato, era morta in circostanze violente quando ancora entrambi erano due ragazzi, e lo zio era rimasto così scioccato da quell'evento, da non aver più amato una donna in tutta la sua vita. Quindi non aveva avuti figli. E quindi, Napoleon avrebbe potuto rappresentare una sorta di surrogato per il reggente che, nelle speranze del principe Cavaliere della Chimera, avrebbe cresciuto il piccolo come suo e fatto di lui il migliore dei sovrani. E così la linea del sangue tanto cara al padre di Marcus, re Lionel, sarebbe stata ristabilita e tutto sarebbe tornato per il meglio. Certo, doveva succedere che ogni cosa filasse liscio, ovvero che Constant, una volta ottenuta la corona, non si lasciasse prendere dalla famosa sete di potere che prende tutti gli uomini che ne assaggiano anche solo un pochino, o almeno questo dicevano alcuni libri di storia che Marcus ricordava vagamente di aver studiato quando era più piccolo.

Constant, dal canto suo, ogni volta che a un pranzo o a una cena si toccava l'argomento, tendeva a svicolare: se messo alle strette, lasciava trasparire una certa fede nelle malelingue che sostenevano Napoleon essere il figlio del defunto anche lui Henrich Bolton, e non del re prima di Gabryaerys. Ma la verità era che era stato raggiunto un equilibrio un po' delicato tra lo zio e il nipote, e nessuno dei due voleva far precipitare il tutto. Per questo Marcus ora si trovava nei terrazzamenti segreti di Castel Granito, immischiato anche fisicamente in un conflitto che in buona sostanza riguardava solo Constant e decisamente non il piccolo Napoleon, al momento da qualche altra parte in balia delle bizze di sua madre, Lady Abigail Baratheon.

Marcus aveva quindi affilato le sue lame insieme con almeno un terzo dell'esercito della chimera. Ora bisognava solo aspettare che Gino Barron prendesse il castello e che si sentisse abbastanza al sicuro da ordinare alle sue guardie di abbassare le proprie armi. Dopodiché sarebbe cominciata la carneficina delle volpi.

Da un po' di tempo, l'esploratrice Xenya viveva tutte quelle circostanze con tutta l'aria di un pesce fuori dall'acqua. Era come se l'amicizia e in qualche misura la gratitudine che ancora sentiva di avere nei confronti di Mirietta, l'avessero costretta a lasciarsi trascinare da eventi di cui evidentemente le importava meno che poco. Marcus la comprendeva: quello non era il suo mestiere, lei in pratica era una navigatrice; e quello doveva fare: stare in mare. Aveva resistito perfino troppo secondo il principe di Lannister, e lui a sua volta sentiva ormai come una specie di affetto nei confronti della donna che più di ogni altro aveva dimostrato un sincero attaccamento nei confronti della sua piccola sorellina, che adesso aveva dato il nome a un intero continente: il Miriedos. O se non affetto, per lo meno si sentiva in grande debito con lei. E nelle ultime settimane, in cui l'aveva vista così insofferente, perfino in obbligo di fare qualche cosa: ma cosa si poteva fare con una donna, abituata a pensare e lavorare come un uomo? Semplici parole di conforto e confronto di sicuro non sarebbero state opportune. Quindi...? Quindi il principe Marcus attese. Fino a quando non fu proprio Xenya a rivolgergli la fatidica parola, proprio in quel tempo di attesa che insieme stavano passando presso i terrazzamenti di Castel Granito.

«Principe, io t'informo» esordì l'esploratrice, mentre affilava una lama alla cote, «che questa è l'ultima battaglia che combatto con voi. È stato bello e utile conoscervi tutti, a voi signori di Lannister, e vi auguro il meglio. Ma questa guerra per me finisce qui. Spero già domani mattina di poter ritirare l'ancora e salpare. Speriamo» precisò, facendo riferimento a Pashamanyna che era lì accanto e stava partecipando alla comunicazione.

«Sì» fece Marcus, con un filo di amarezza, «Lo capisco». Xenya gli ricordava dannatamente sua sorella. Fisicamente poco, anche se qualcosa c'era: tenevano entrambi i capelli in una sorta di caschetto, ma Xenya era molto più alta e molto più matura. Però nei termini del carattere, per come Marcus si ricordava della sua sorellina, non riusciva a non rivedere nella navigatrice che aveva scoperto il Miriedos una sorta di versione più adulta di Mirietta. E il pensiero che adesso, per la seconda volta, l'avrebbe perduta un po' gli dispiaceva. Anzi, gli dispiaceva molto. All'improvviso tutta la realtà che aveva attorno gli si sgretolò; Xenya aveva un obiettivo, magari non chiarissimo, ma sicuramente più chiaro del suo: prendere il mare. Lui invece non aveva niente. Si rese conto che stava per combattere una battaglia, per versare del sangue, e senza che gl'importasse granché di tutto quello. Certo, trovava giusto onorare la memoria dei suoi padri, e ristabilire la linea di successione, rimettendo Napoleon sul trono, ma... quel progetto avrebbe impiegato mesi, se non anni. E lui davvero aveva tutta questa passione per la guerra e la politica? Come un fulmine a cielo sereno, come se gli stesse leggendo dentro, come se Marcus più che un cavaliere di carne non fosse altro che un tomo di carta, Xenya dunque gli disse: «Ti dirò quello che una volta dissi a tua sorella: vieni con me». Era come se la terra stesse tremando e le nubi stessero tuonando. Un cavaliere, un guerriero qualsiasi, prima di una importante battaglia, doveva essere tranquillo, avere un animo sereno; e invece quelle poche parole dell'esploratrice riscossero l'animo del principe cavaliere fin nel suo più atavico profondo. Ancora una volta, lei gli lesse tutto in viso, e gli disse: «Non ci capisco niente di retorica e paroloni, non mi metterò qui a disquisire con te su cose che già sai, tipo che questa non è la tua guerra. Sai benissimo tutto, quindi non voglio convincerti: conto che lo faccia da te medesimo. Io ti dico solo che domani parto, se le condizioni me lo permetteranno. E c'è posto»

«Xenya, i-io ti ringrazio e-e...». Non disse altro. Non emise neanche più un suono, perché non aveva nulla da dire. Sebbene qualcosa dentro di lui gli diceva di concentrarsi sull'operazione imminente, non riuscì a immaginare un suo immediato futuro diverso dal mare, in compagnia di Xenya e del suo secondo navigatore. Fu ancora una volta, e per l'ultima, l'esploratrice a interrompere quell'imbarazzante momento, lanciandogli un sorriso sornione e dicendogli: «Pensaci solamente un po' su, va bene?»

«Sì. Grazie molte per avermelo chiesto» fece Marcus, liberandosi in un sospiro di sollievo. Poté dunque ritornare a concentrarsi sul massacro che da giorni, con gli zii Constant e Pylgrim e con Sir Bastian dall'oriente, si era programmato.

Dai terrazzamenti, gli uomini guidati dal principe cavaliere raggiunsero ogni corridoio segreto, ogni cunicolo e ripostiglio della immensa magione di Castel Granito. Erano circa duecentocinquanta. L'effetto che gli uomini di Barron dovettero vedersi subite, doveva essere come qualcosa di magico, oltre che di terribile. Nemici armati, in un momento di ristoro in cui loro non lo erano, che venivano praticamente fuori dalle pareti per pugnalarli senza pietà. Molti dormivano e chi non dormiva era ubriaco. Fu la carneficina più grande cui Marcus avesse partecipato. Avrebbe provato orrore, se l'atto stesso che stava compiendo non gli richiedesse già tutte le energie e la concentrazione, tanto che semplicemente il Cavaliere della Chimera non ebbe il tempo per fermarsi a contare quante vittime stavano cadendo in quella trappola per volpi.

Certo, qualcuno degli uomini di Lord Gino ebbe anche il tempo di reagire e di assassinare qualcuno dei loro, ma la grande, sterminata, massa cadde quella notte, e un altro risibile numero riuscì a scappare. Marcus in prima persona, seguito da una dozzina di suoi uomini armati, spalancò la camera da letto dove Gino Barron aveva deciso di accogliere la sua puttana da festeggiamento. Gli disse: «Il vostro esercito è stato decimato, Protettore dell'Altopiano. Rivestitevi e ditemi in quale zona del castello tenete prigionieri Sua Maestà e il Leone Nero. Dopodiché, parleremo». Per un attimo, Marcus ebbe come l'impressione che Gino stesse pensando di reagire; di allungarsi e recuperare l'arma più vicina che avesse lasciato accanto al letto. Era giovane e con le spalle larghe: perfino più giovane di lui. Avrebbe potuto venirne fuori un bel duello. E invece non fu così. Il giovane Lord Barron si limitò a rispondergli: «C'è un anziano signore, tra i miei attendenti. È il mio antico precettore, Sir Rollo. Lui... è solo un diplomatico di lunghissima esperienza, se domandate ai vostri consiglieri sicuramente lo conosceranno. È utile ed è un uomo di servizio non d'armi, non val la pena ucciderlo»

«Il luogo esatto di prigionia di Constant e Pyglrim, mylord» si trovò a insistere Marcus «dopo parleremo».

 

 

 

Apparentemente Gino ottenne quello che aveva richiesto: il massimo da uno che si trovava nelle condizioni di un prigioniero, raggirato e sconfitto. I Lannister gli avevano teso una trappola degna delle peggiori cronache di guerra, una cosa inaudita. Nella storia millenaria del Westeros doveva esser sicuramente accaduto qualcosa del genere in qualche momento: ma nulla di cui il Gino, giovane studente della periferica Lungotavolo, fosse in grado di ricordarsi. Un colpo da manuale: non avendo i numeri per sconfiggerlo, i Lannister avevano usato la strategia, e avevano congegnato la trappola perfetta, servendosi di quel dannato castello che avevano, il quale di per se stesso – Gino se ne rese conto purtroppo solo troppo tardi – era un po' come una trappola. Labirintico e avviluppato su se stesso: Altogiardino non era fatto a quel modo. Lì prevalevano la grazia architettonica e l'estetica floreale, anche nella struttura. L'architetto che l'aveva fatto, aveva dovuto pensare al bello, più che all'utile. Per Castel Granito non era stato così, e Constant, Pylgrim, quel Marcus... erano tutti stati abbastanza abili da servirsene alla perfezione.

Ora si apriva tutto un nuovo capitolo della vita del giovane Lord. Gino era un alleato di Gabryaerys: certo. Ma Gabryaerys non era un suo amico, né suo fratello. Non l'aveva nemmeno mai incontrato! Certo, c'era Braff: lui era suo amico, anche se non come una volta. Si sarebbe adoperato per liberarlo? In questa semplice domanda si concentrava tutta la questione della prigionia di Gino. I Lannister avevano già chiarito che, almeno per il momento, non intendevano ucciderlo. Quindi, se Gino tradiva, e poi Braff o Gabryaerys o entrambi con i loro trucchetti fossero stati in grado di liberarlo: lo avrebbero ucciso loro, prima o poi. Comunque se li sarebbe fatti nemici. D'altro canto, se Gino non tradiva poteva probabilmente rimanere un prigioniero mantenuto a pane e acqua per il resto della vita. Pane, acqua e minacce di morte.

Forse tutto questo per il momento era prematuro. A Gino una cosa era importata in realtà fin dal momento del suo arresto per mano di Marcus Lannister, mentre stava festeggiando l'apparente vittoria tra le gambe di una cortigiana dai capelli color carota. Della vita di Rollo. Gino era figlio unico, sua madre non l'aveva mai conosciuta e suo padre era stato ucciso proprio da quel re Constant che adesso lo aveva fregato. Rollo era la cosa più vicina a una famiglia che Gino avesse in quel momento. Ed era solo un vecchio, non un guerriero pericoloso. Gli bastava che lo mandassero a casa. E, a quanto gli dissero, realizzarono quel suo ultimo desiderio in un paio di giorni. Dopodiché, prigioniero in quel castello che per pochi momenti aveva pensato di possedere come Lord, Gino venne lasciato a ribollire nella sua solitudine per un po'. All'inizio contò i tramonti: il primo, il secondo, il terzo, il quarto; ma poi un giorno se ne dimenticò, e perse il conto, anche se ragionandoci un po' sopra non dovevano esser passate più di due settimane. Finalmente venne re Constant a trovarlo in cella.

A prima vista, Gino avrebbe detto che non aveva tanto l'apparenza di un re, quanto più quella di un guerriero. Vero: vestiva di abiti raffinati, ma non sontuosi. E anche il modo di muoversi era come quello di uno che non ci tenesse troppo ad apparire superiore. Quando era piccolo, Gino ricordava che anche su re Lionel, fratello di Constant, e re per tutti gli anni dell'infanzia del giovane Barron a Lungotavolo, si raccontava che non avesse mai smesso con i suoi modi da guerriero. Quel ceppo di Lannister era notoriamente un po' così: nobile di nome, ma di fatto... c'erano molte più famiglie che ci tenevano a sottolinearlo: i Tyrell, per esempio, che Gino ben conosceva.

«Voglio essere molto chiaro» esordì quindi il re che aveva deciso di fargli visita in cella «strategicamente io dovrei ucciderti, mylord. Dubito che la famiglia Tyrell, o il re con cui hai deciso di schierarti, pagherebbero per te un qualche genere di riscatto. E ad ogni modo non vedo che cosa potrebbero offrirmi: di sicuro non mia nipote Hana, che sarebbe la loro unica vera merce di scambio. Denaro? Non mi serve. Quindi: ho semplicemente un ragazzino che per qualche mese ha giocato a fare il Lord. Un gioco decisamente più grande del suo. E quindi, in qualsiasi dei termini che io abbia considerato, direi che non mi servi. E, anzi, economicamente mi costi il vitto e l'alloggio di cui usufruisci. Non avevo neanche alcuna ragione per accontentare la tua unica richiesta, quella di liberare Sir Rollo, che pure conosco e cui mi legano... un paio di ricordi, non spiacevoli. Lui è stato liberato, per meriti in realtà suoi, e non tuoi. Mettiti nei miei panni: lasciarti in vita, non farebbe della mia immagine una figura di re poco risoluto? Troppo misericordioso, anche quando l'occasione non lo richiederebbe? Ragioniamo a parti inverse: se fossi io prigioniero di Gabryaeris o di Lord Braff, cui – mi dicono – ti lega una qualche amicizia... loro mi risparmierebbero? E tu? Lo faresti? Stavi per farlo?»

«Ah, io non l'avrei fatto di certo» rise Gino fra i denti. Lo disse e rise, ma in verità se ne pentì già nel momento in cui lo stava facendo.

«Provi... un qualche sentimento di antipatia particolare nei miei confronti?» azzardò quindi il re, accorgendosi dell'astio del Barron, «Oppure sei semplicemente scorbutico di tuo? Continua pure: agevolerai la mia decisione in merito alla tua sorte»

«Hai già ucciso un Barron. Non sarà strano ucciderne un secondo»

«Io non ho mai ucciso un Barron» dichiarò Constant con una certa convinzione. Che faccia tosta per un re! Mentire così spudoratamente, e senza ormai più alcuna ragione, a un prigioniero dentro ad una angusta cella. A questo punto, più per disperazione che per provocazione, perché veramente non aveva più nulla da dire né da fare, nessuna idea per la testa, Gino si liberò in una risata ancora più grassa. Quel porco spudorato di un bugiardo, che aveva assassinato suo padre perché rifiutatosi di aderire all'alleanza di ferro a suo tempo formata da Constant, i fratelli Tyrell e lo stregone orientale poi diventato re: Gabryaerys Targaryen. All'inizio, era infatti stato pianificato che Shane Tyrell avrebbe dovuto sedersi sul Trono di Spade, secondo i piani dei congiurati. O almeno, questo era quello che Lord Braff aveva un giorno piegato a Gino Barron per filo e per segno... Lord Braff, il suo amico.

Il falso re non poté che giudicare a quel punto troppo ingiuriose per lui quelle risate e quelle insinuazioni: Gino al suo posto avrebbe concluso la stessa cosa. Si rigirò su se stesso quindi e fece per lasciare la sua cella, anche se prima di farlo si concesse un'ulteriore e definitiva minaccia: «La vostra vita è in bilico, Gino Barron: voi non mi servite. E prenderò molto presto una decisione sul cosa fare di voi».

Passò qualche giorno ancora. A Gino giunse la voce, tramite i suoi secondini che forse Constant voleva mandarlo alla Valle del Leone a fargli prestare giuramento come confratello Cavaliere della Chimera. A molti nobili scomodi (per esempio figli cadetti) spettava quella sorte, che onestamente non infastidiva per niente, a questo punto, il giovane Lord senza un occhio: decisamente molto meglio quello rispetto a una corda sopra un patibolo. Quello del secondino – cosa nota a tutti – era notoriamente il mestiere meno silenzioso del mondo: Gino poté ascoltare bellamente i suoi due carcerieri mentre discutevano di tutto quello durante una merenda, a una camera di distanza dalla cella nella quale si trovava lui. E loro davano molto più probabile la Valle, almeno cinque contro uno. Ma la sorte di Gino – la buona sorte tanto per cambiare – stava per riservargli una inaspettata e gradevolissima sorpresa...

Essa arrivò che era notte, tanto che Gino ancora non dormiva proprio profondamente ma si apprestava a farlo, e una delle sue due guardie era andata già a casa, visto che intorno alla mezzanotte sempre una delle due se ne andava presso la famiglia, lasciando la sola altra a fare l'intera notte con lui e quegli altri tre o quattro prigionieri che i Lannister tenevano in quella specie di stalla adibita a prigione.

Nel pieno della notte, una voce femminile destò la sua attenzione. Gino era ancora mezzo addormentato, e la ragazza parlava un po' sottovoce, ragion per cui non capì bene quello che essa disse al suo unico secondino di quella notte. Ma, sebbene soffuso, il tono pareva insistente e parzialmente allarmato. Convinse l'idiota ad allontanarsi. Quindi, e qui strette la fortuna, venne da lui con un mazzo di chiavi: Gino non riusciva a immaginare quando e come l'avesse preso; poteva anche essere una copia, per quanto ne sapeva. Il fatto rimase che la ragazza iniziò a provare le chiavi proprio per aprire la sua cella. Solo osservandola bene, il giovane Lord (o ex Lord?) di Altogiardino si accorse che quella... era Daessenya. La sua Daessenya, l'unica ragazza che aveva mai amato in vita sua. Si erano conosciuti a Cowain e perdutamente innamorati, ma poi lei – cresciuta nella città governata da un'ex puttana (Xalandra) ed amministrata da donne indipendenti – aveva cominciato a sentirsi troppo “stretta” da quel genere di rapporto, e dunque aveva deciso di dirgli addio per sempre e scomparire; lasciò finanche la stessa Cowain per il fine di non farsi più rintracciare da Gino.

Daessenya era diversissima. Sempre bella, se vista con la luce giusta che il chiaroscuro delle lanterne sistemate sul corridoio poteva permettere. Ma i suoi capelli, che una volta erano biondo paglierino, si erano schiariti; e poi, una volta, li teneva a caschetto; adesso erano... un po' superficialmente sistemati in una sorta di lunga treccia leggermente improvvisata. Ma soprattutto... la ragazza era emaciata, pallida, molto più magra di quanto Gino ricordasse. Sembrava debole. E poi... a completare il quadro, Daessenya aveva anche un'improbabile pancione gonfio: l'unica parte florida, di quelle sue quattro ossa minute. Era incinta. E di chi?

«D-Daessenya» balbettò il giovane, guercio, Lord andandole incontro, sfiorandole teneramente una mano tra le sbarre. «Cosa ci fai qui?»

«È una storia troppo lunga, mi spiace. Io ho tempo, ma tu non ne hai molto»

«Stai rischiando...?»

«No, non preoccuparti. So il fatto mio», qui la ragazza trovò la chiave e la girò dentro il lucchetto.

«Lo hai sempre saputo», replicò Gino, sorridendo e cominciando a seguirla. Il suo odore era rimasto lo stesso. Era forse l'unica cosa, insieme ai suoi occhi pieni di vita e d'orgoglio.

«Sto per portarti a una finestra» riprese Daessenya «Guarda giù: puoi buttarti in modo tale da rotolare dolcemente fino alla scogliera, e di lì al mare. Segui la costa verso sinistra, arriverai al porto. È enorme, dubito che qualcuno si accorgerà di te. E la città... lei stessa ha migliaia di abitanti. Potrai disperderti tra le sue strade. Se sarai bravo, riuscirai a fuggire da qui».

Con un piede praticamente già fuori da quella stretta feritoia alla quale era stato condotto, Gino di Lungotavolo replicò con un'altra domanda: «Perché lo stai facendo?»

«Non potevo fare diversamente» gli sorrise lei «sei sempre il padre del bambino che porto in grembo». Concludendo con questo colpo di bombarda quel loro fugacissimo incontro, Daessenya baciò quindi la guancia sinistra del giovane Lord e sostanzialmente lo spintonò giù verso la scogliera, non dando alcun tempo a Gino né di metabolizzare l'informazione, men che meno di elaborare un qualche genere di risposta.

Mentre rotolava giù per quel pendio che – in tutta onestà – guardandolo dalla finestra, e sentite le parole incoraggianti di Daessenya, gli era sembrato ben meno lungo e ben meno ripido, Gino dunque pensò al fatto che stava per diventare padre. E che Daessenya, avendolo tagliato sotto ogni aspetto dalla sua vita, probabilmente avrebbe cercato di tenergli quel futuro bambino distante. Solo che la cosa, così riflettendoci solo superficialmente, lo faceva sentire molto male. Il bambino era anche suo: lei non poteva prendersi ciò che almeno per metà gli apparteneva! Ma non avrebbe mai litigato con lei: l'amava troppo. Solo che stava sbagliando. Avrebbero potuto essere felici insieme, Gino avrebbe potuto rinunciare a tutto per lei. Per loro. E invece lei, ancora una volta, lo respingeva. Sotto sotto, perché anche lei lo amava troppo e voleva per lui che diventasse il grande Lord che per tutta una fase della sua vita Gino era stato costretto ad essere. Ma adesso, a Castel Granito, molto era rapidamente cambiato: quasi tutto. E la vita che Daessenya portava in grembo era un altro ulteriore fattore che scompaginava tutto l'immenso e caotico quadro dell'esistenza del giovane Barron. Oh, sì: lui avrebbe solcato la costa e raggiunto quel dannato porto, certo. Sarebbe emerso dall'acqua, facendo finta di niente, per poi perdersi nel mezzo dei passanti o di chi, in quella tarda ora, avrebbe potuto trovarsi nei pressi del molo sul mare. Dopodiché però non sarebbe uscito dalla città. Si sarebbe camuffato in qualche modo. E, indipendentemente da ciò che avrebbe rischiato, e da ciò che la stessa Daessenya avrebbe rischiato, sarebbe tornato al castello. Avrebbe parlato con lei, le avrebbe mostrato le sue ragioni e l'avrebbe convinta: oh, sì. Questa volta sì: sarebbe stato così insistente che alla fine, e per la prima volta con Daessenya, l'avrebbe spuntata lui! Insieme avrebbero per sempre lasciato quel luogo e... sarebbero andati da qualche parte, insieme. Vivendo forse un po' alla giornata all'inizio, ma sempre insieme. E quando lei avrebbe dato alla luce il loro piccolino, lui sarebbe stato lì accanto a lei a tenerle la mano, e baciarla. E baciarli tutti e due. Le cose sarebbero solo potute migliorare. Per sempre, insieme.

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Capitolo 5
*** La morte al Consiglio ***


Capitolo 5

LA MORTE AL CONSIGLIO

 

 

 

Mleena Brimshey era chiaramente una assai abile arrampicatrice sociale. Trovava un buon argomento di conversazione e un sorriso per tutti e in ogni circostanza. Tuttavia, il fatto di essere in pratica l'unica altra donna a bazzicare i più stretti corridoi della corte, e che non fosse una delle sue dame di compagnia, fece orientare Hana verso un tentativo di tenersela buona. Mleena le faceva un complimento fasullo? E lei contraccambiava con altrettanta sfacciataggine. Mleena la invitava per un tè delle cinque? E lei contraccambiava con una cena insieme; e così via discorrendo. Alla fine, finirono per tollerarsi a vicenda e non starsi troppo antipatiche. L'importante – almeno a giudizio della regina – era rimanere entro quel noto confine: Mleena non era sua amica. Era una donna simpatica e piena di risorse, venuta lì per badare che Napoleon venisse su sano e forte quanto a Forte Terrore sua madre Lady Abigail lo desiderasse.

Ovviamente i momenti che passava con Mleena erano anche una buona scusa, per la regina incinta, di rivedere quel bambino sceso dal nord che lei aveva seri dubbi fosse suo nipote e, per così dire, “far pratica” con lui. In poche settimane, apprese tantissimo da Mleena su come bisognasse approcciarsi con un infante, fermo restando che lei era una signora e le mansioni meno commendevoli, dato il loro stato sociale, spettavano alle balie. Inoltre, vedersi con Mleena e lo pseudo Napoleon, fu molto utile per Hana al fine di trarre le sue conclusioni in merito al marmocchio. Quando la prima volta l'aveva visto, a una primissima occhiata, subito aveva avuto l'impressione che il bimbo non fosse chi avrebbe dovuto essere. Col tempo, forse perché semplicemente si era un po' abituata – come lo aveva fatto con la compagnia di Lady Brimshey – ai risolini, alle paroline e perfino ai primi capricci del poppante, Hana aveva cominciato ad avere minori certezze. Continuò a pensare che il bimbo forse non era Napoleon, ma non ci avrebbe più giurato e spergiurato davanti ai Sette Dèi. Ma nelle ultimissime settimane, proprio perché aveva avuto modo di approfondire ancora con più efficacia quelle conoscenze, di nuovo l'opinione della regina era andata sempre più affermandosi: il bimbo non era il figlio di suo fratello. Lord Uryon della Casa Worchester, l'orso del nord, stava facendo il doppio gioco con loro. Non era amico dei nemici di Gabryaerys, ma questo non significava che lui e Gabryaerys fossero amici. Erano solo alleati, e dalle alleanze bisognava guardarsi sempre. Potevano cambiare. Anni passati alla corte di suo padre re Lionel come suo Altissimo Segretario qualche cosa, alla giovane Hana, avevano insegnato: e una di queste era proprio che un alleato non è un amico. L'amico ti sta a fianco per sentimento, l'alleato per interesse.

Con ormai questa sacrosanta certezza nel cuore, e il dubbio infinito se, quando e come riferire i suoi sospetti al re suo marito che, fatalmente, in quella fase della sua vita, era il suo principale protettore e “alleato”, Lady Hana passò circa due mesi a riprendersi definitivamente dal periodo di prigionia a Delta delle Acque e da tutta quella brutta vicenda del duello con i Bolton e Baelish, che per un momento aveva visto la sua fazione soccombere, per poi però rinascere più forte che prima. Adesso Hana mangiava bene, era sana e florida, e tutto lasciava pensare – così dicevano i maestri e i curatori – che il suo pargolo sarebbe presto venuto fuori, pieno di vita e di salute.

Meno serena era la regina per ciò che concerneva il re e il regno. Nel senso: lei era serena, perché le cose relative alla sua vita personale e a quelle del suo futuro bambino stavano andando alla grande, e di conseguenza non si era preoccupata di altro. Mentre prima che la gravidanza entrasse in una fase così “piena”, lei aveva avuto tutto l'animo di pensare al Westeros e a Roccia del Re, ora non ci pensava affatto. Ma le cose erano andate avanti, senza di lei, e Gabryaerys non l'aveva granché aggiornata, o se lo aveva fatto, lei non lo aveva granché ascoltato. Decise quindi che era giunto il momento di tornare ad aggiornarsi un poco e pensò di fare una sorpresa al suo consorte Targaryen, andandolo a trovare nella sala in cui – s'era fatta riferire che – stava tenendo una riunione. Quello che quegli incapaci di inservienti non erano stati tanto furbi da comunicarle, era che il re non si trovava in riunione – magari – con i membri del suo Concilio Ristretto che, bene o male, Hana aveva saputo imparare a conoscere e “tollerare”, persino il più mostruoso di loro: il Primo Cavaliere dal teschio nero Lord Tararus. Il re invece era nel bel mezzo di una delicata riunione diplomatica con un nuovo ospite. Un ospite che Hana non apprezzò affatto, non appena aprì la porta della sala della riunione per sedersi accanto a suo marito. Anzi, un ospite che la fece financo trasalire...

«Mia diletta,» fece Gabryaerys accogliendola «lascia che ti introduca il mio ospite: il sacerdote Yashua». Ovviamente Hana era una giovane e beneducata donna della società più mondana, quindi certo che si sforzò a sorridere quando quel lercio monaco, secco come uno stecco di legno, le di esse di essere lieto di fare la sua conoscenza. Tuttavia la regina degli Andali e dei Primi Uomini ebbe anche la sensazione che quel sorriso finì per spezzarsi a metà mentre si stava producendo, realizzando così niente più che una smorfia. Ed ebbe anche la sensazione, Hana, che tristemente il sacerdote eretico avesse capito tutto.

«Portate nella pancia il seme di un uomo saggio e profondamente illuminato, Altezza» commentò quindi ancora Yashua «dovete esserne felice»

«Lo sono, ehm... eminenza?»

«Solo Yashua, Altezza. I titoli sono formalità necessarie in una società complessa quale quella che viviamo, ed è giusto che certi individui li portino, anche con orgoglio. Ma io non sono un amministratore di alcunché. Io porto il messaggio del dio mio padre e dunque... dareste dell'eminenza all'araldo che vi porta le lettere dei vostri cari?»

«Beh, ma voi non portate semplici lettere piene di amenità tra amiche, mi pare di capire...»

«No certo, il contenuto del messaggio è assai serio. Ma posso assicurarvi che il tipo di amore e di affetto che lo connatura non è solo simile a quello che avete citato come esempio, è superiore. Assomiglia più a quello che avete per la creatura che portate in grembo»

«Capisco»

«Questa città molto presto brillerà della luce della fede come nessun'altra al mondo, lo posso garantire. Saluti, mia regina»

«State già andando?»

«Ci hai intercettati» rispose Gabryaerys, questa volta, «nel momento esatto in cui la riunione era conclusa»

«Ma sono comunque lieto» disse ancora l'eretico, prendendo la mano della regina e baciandola, «di aver avuto la maniera di questa piacevole conoscenza». Questa volta Hana si limitò a sorridere, senza più proferire parola. Non era lieta, e non riuscì a sostenere il contrario. Per fortuna, Yashua lasciò rapidissimamente la sala, evitando così d'imbattersi nello sguardo misto di sgomento, rabbia e delusione che la regina rivolse verso il suo consorte. Gabryaerys tutto era fuorché uno stupido, e dunque passò subito alla difensiva: «Sono il re. È mio dovere confrontarmi con tutte le forze e le istituzioni che sorgono, anche autonomamente, nella città che è capitale»

«Quella non è una forza, né un'istituzione, è solo il capo di una vile banda di assassini e depravati»

«C'è chi lo direbbe anche di me. C'è chi lo direbbe di te. C'è che direbbe che Yashua sia nel giusto, così come talvolta lo dicono di noi. Purtroppo ho imparato che in politica tutto è relativo»

«Hai fatto presto»

«Sei venuta qui per qualche motivo preciso?».

Sì: Hana era andata da suo marito con tutta la voglia di condividere con lui i suoi dubbi in merito al giovane pseudo Napoleon. Aveva soppesato tanto la questione, per diversi giorni: perché sapeva benissimo che cosa avrebbe implicato. Suo marito, avrebbe cominciato a dover tenere in considerazione che quello che s'era appena lasciato alle spalle come un fedele alleato – Uryon Worchester – in realtà era un viscido doppiogiochista come troppi altri in quello sporco mondo. Ma adesso, tutt'assieme, Hana s'era pentita. Elevare a interlocutore un individuo del genere di Yashua, e senza neanche ponderare con lei prima quell'opportunità, era stato un colpo basso che Gabryaerys non avrebbe mai dovuto sferrare alla madre del suo venturo figlio. Hana era cresciuta nella fede dei Sette Dèi, e anche se non praticante quanto il suo cuore in realtà avrebbe voluto, in realtà era da sempre una media frequentatrice della Chiesa dei Sette. Era una cosa che aveva a che fare con la sua cultura più che con il suo modo di pensare alla creazione o all'al di là, o qualche dogma in particolare. Roccia del Re aderiva da millenni a quella fede, per quanto nella storia non fossero ciclicamente mancati momenti di sfiducia tra il clero e il popolo di fedeli. Forse il momento che stavano vivendo era uno di quelli, anzi: lo era sicuramente. Ma infatti, certo che una condanna a priori del culto del dio rosso, che ormai contava anch'esso centinai e centinaia di adepti tra le sole mura della città, era fuori luogo per la regina. La Corona, secondo lei, avrebbe dovuto rimanere fuori dagli scontri di religione e lasciare che passassero da soli. Gabryaerys si era invece prima fatto coinvolgere dall'Alto Septon, poi sentitosi tradire da quest'ultimo, aveva cominciato ad “amoreggiare” coi cultisti del dio del fuoco, o almeno questo era quello che sembrava. Una cosa era condannare ogni forma di violenza, cosa cui Hana avrebbe intimamente aderito, pure contro lo stesso Clero dei Sette, e una cosa era però invitare ad una riunione quello che molte malelingue tendevano a giudicare essere niente più e niente meno che uno stregone, abbattutosi come una sciagura sulla più popolosa e la più complicata città del mondo.

Hana rispose piccata, con un'espressione nel viso quasi di sfida, al suo re consorte che le aveva testé domandato se fosse lì per qualche motivo preciso: «No, niente di particolare»

«Mi stai mentendo?» capì Gabryaerys.

E Hana: «Tu mentiresti se dicessi di mantenere ancora un punto di equilibrio,distante e osservatore da lontano, in merito a questa grave schermaglia insorta tra i fedeli di questa città, e che non sei passato dalla parte del dio rosso?»

«No, non mentirei»

«Allora non mento neanch'io»

«Lascia... che ti dica una cosa, moglie mia» Gabryaerys a questo punto, dopo una pausa, si preparò per un lungo monologo: era chiaro. Così continuò: «Quando sono nato, figlio di una leggendaria regina e di un suo capitano delle guardie, venni fin da subito nascosto e messo da parte», un brivido corse a questo punto lungo la schiena di Hana: il re mai si era aperto in tali confidenze con lei, «Non era consono per la più grande regina di tutti i regni dell'epoca, portarsi appresso un figlio bastardo come me: con solo metà di sangue reale nelle sue vene. Mio padre, Daario, era un guerriero: non un governante. Mi crebbe come poté. Ma morì quando io era ancora piccolo. Ho vissuto la fame più nera, una vita passata nel trascorrere di giorni in cui sapevi che oggi avevi da mettere qualcosa sotto i denti, ma domani... chissà. In quel momento, mi resi conto di avere sia una grande povertà, ma anche una grande ricchezza. Quasi per caso, mi resi conto di essere uno di quei tanti individui nella storia cui il fato aveva dato la possibilità dell'incanto del fuoco. Non l'ho mai cercato, non ho mai studiato per averlo. Ce l'avevo e basta. A me piace pensare che c'entrasse il mio sangue del drago: mio padre mi aveva sempre detto che la mia vera madre fosse la regina dell'occidente, Daenerys Targaryen»

«Qu-queste» balbettò Hana «sono storie di migliaia di anni fa»

«Sì, lo so bene. Lascia che continui. Ero uno stregone dunque, un po' come questo... Yashua che adesso pretende di essere il figlio del suo dio. Non so se sia un grande mago, non l'ho sperimentato ma... di sicuro è molto abile a crearsi un certo consenso. Anche se, al fondo, immagino rimanga il pagliaccio che uno stregone con delirio di potenza non può che essere. È giovane. Ero come lui, una volta»

«Questo significa che non lo appoggerai?»

«Questo significa che farei di tutto per proteggere te e il nostro bambino. Da incatenarti con corde di fuoco e costringerti ginocchioni a baciare il terreno su cui Yashua cammina, a prendere lo stregone per i suoi folti capelli castani e condurlo personalmente sulla picca per la corda. Yashua non è l'oggetto dei miei pensieri, lo è il mio governo della città. E il governo dei miei figli e dei figli dei miei figli. Sei soddisfatta?»

«I-io...»

«Risponderò alla tua constatazione sulle storie di migliaia di anni or sono: cominciai a fare quello che fa Yashua. Mi faceva sentire potente. Ma mi mancava qualcosa: una famiglia. Venni a sapere che mia madre Daenerys era stata assassinata in seguito a una cospirazione ordita solo pochi giorni dopo il suo insediamento. Era una vicenda nota, ma io... ero cresciuto per le strade. Non ero mai andato a scuola e non ero aggiornato sui fatti dell'occidente. A malapena sapevo che c'era un continente lì, dove regnava mia madre. Preso dalla rabbia cieca per esser stato sottratto di uno dei beni più grandi su questa terra (l'amore di una madre), partii meditando la vendetta. Ma scoprii che il re che sedeva sul trono, un vecchio storpio di nome Brandon, poco o nulla aveva avuto a che fare con la cospirazione che aveva per sempre detronizzato la famiglia Targaryen dal soglio dell'occidente. Il suo vecchio Primo Cavaliere, Tyrion Lannister, era morto. Partii allora verso le nevi perenni del nord, dove si trovava esiliato Jon Snow, l'uomo che aveva sollevato la propria lama su mia madre e che era fratellastro del re. Trovai morto anche lui, da poco. Ma Jon Snow aveva una sorella, ancora viva, anche lei partecipe della congiura. Le sue tracce erano sparite navigando verso l'occidente. Raggiunsi così il terzo continente, quello che neanche voi westerosi fino a poco fa conoscevate. Seppi lì che anche Arya Stark era morta a nord, nei pressi di un grande vulcano. Ma trovai qualcos'altro: una nuova ragione di vita. Un incantesimo. Un incantesimo antico ed oscuro cui, quasi inavvertitamente, mi legai per sempre. Lessi il libro di Cair Dedalos: le sue formule, le sue promesse; e liberai i Sette Maghi dell'Origine, da quel momento costretti a servirmi grazie al sigillo che custodisco gelosamente penzolante sul mio collo. Pagai con il mio aspetto fisico, oltre che con parte della mia energia magica, quell'avvenuto legame. È da allora che un occhio di drago infesta la mia faccia. E scaglie e spine fioriscono in parte della mia schiena e del mio braccio». Il re si concesse una breve pausa; poi riprese con più enfasi: «Decisi di servirmi di Cair Dedalos per conquistare il trono che era stato di mia madre. Per rimettere i Targaryen sul trono di spade, come è giusto che sia. In verità liberai solo sei maghi, uno si trovava già in condizione di libertà. Non so spiegarmelo, ma la sua potestà violava l'incantesimo. Certo non avrebbe potuto agire contro la mia diretta volontà, e quando di recente la sua natura magica ha lasciato questo mondo, io l'ho avvertito come se fosse parte di me, come con tutti gli altri miei servi. Ma rimase celato fino dall'inizio. Così non fecero gli altri sei Manti, che mi servirono. Incuriosito da storie ancestrali di draghi dell'origine in grado di parlare, in qualche modo genitori della stessa umanità, ne cercai qualcuno, con il fine di sfruttarne l'amicizia o, eventualmente, il potenziale. La superiorità magica dei Sei Manti, contro quella di creature millenarie ma ormai le cui energie erano ormai fiaccate, mi consentivano buone speranze. Anzi, fu principalmente questo a giustificare la mia impresa. Ci vollero secoli per trovarne una soltanto e molti altri per sconfiggerla e altri tanti per riuscire comunque a sottometterla e a farne un'arma. Ma alla fine, riuscii a crearmi un mio esercito e dunque, dopo una serie di malcelate alleanze con politici dell'occidente, tutti spinti dai loro più ciechi e personali interessi, conquistai Roccia del Re»

«Uccidendo mio fratello»

«Un crimine necessario, purtroppo. Non avevo nulla contro di lui, come puoi immaginare: non lo conoscevo. Era solo l'uomo sbagliato nel posto sbagliato al momento sbagliato», qui Hana pianse e Gabryaerys provò a metterci una pietosa pezza: «Doveva essere un bravo fratello, se ancora lo piangi così. Io non ho mai avuto un parente per cui piangere a questo modo»

«E quel Sir Bastian...? Non mi hai detto essere tuo fratello?»

«Sì, beh... non come piangi tu per il tuo, ma certo il suo tradimento mi ha ferito molto. Mi piace pensare che, dopo di te e mio figlio, lui è stata la persona cui ho tenuto di più. Ma non era mio fratello, in senso stretto»

«E chi allora?»

«C'è stato un momento, dopo un particolarmente duro confronto con la draghessa... che ella scosse talmente tanto la mia entità magica da farmi regredire. Per fortuna non persi dei Manti, ma... d'improvviso ridivenni ragazzino e per tutto un lungo periodo non fui più in grado di fare magie. In verità, nemmeno adesso sono abile come un tempo. Mi riesce bene il teletrasporto e poco altro, ma senza i maghi di Cair Dedalos... sarei finito. Anche contro uno Yashua qualsivoglia. Lui è giovane, e la magia è da poco sorta in lui. La mia situazione non è la stessa. Dunque, ti dicevo, in un villaggio non distante dai pressi dello scontro, viveva questa famiglia di piccoli commercianti. Ero di nuovo nell'Essos, poco lontano da Myr. Loro mi aprirono la porta della loro casa, nonostante fossi deforme e con le vesti stracciate. Condivisero il loro poco cibo e il loro poco bere con me. E sostanzialmente mi crebbero insieme al loro unico figlio, Bastian. Dal quale non mi sono mai più separato, fino ad oggi. Puoi comprendere quanto mi bruci che abbia scelto di sostenere un altro re, ma... io credo che lo perdonerei in ogni caso»

«Beh, ora sei tu a capire come mi senta io quando parli di Axelion...»

«Ti comprendo benissimo. E mi far star male, sapere che questo ti faccia stare male. Ma preservare la nostra, ormai comune, linea di sangue è un compito che sempre più sta risultando gravoso, molto più di quanto immaginassi. Conquistare il trono è stato facile rispetto a quanto è difficile mantenerlo. E non parlo solo di Constant, quello è il nemico più evidente e vicino. Ce ne sono altri di mutevoli e striscianti. Il primo, è questa schermaglia tra culti religiosi: se si rimane passivi, ad osservare – come tu suggerisci – potrebbe finire che la cosa ci scoppi tra le mani, risultando poi ingovernabile. Un secondo è molto lontano, eppure molto potente. Quando decenni or sono mi avventurai alla ricerca di ciò che rimaneva dei draghi dell'origine, m'imbattei in uno di costoro... diverso per indole dagli altri. Uno che pensava che il mondo andasse purificato dall'umanità. Egli cercò di servirsi di me come una pedina, ma poi io tradii le sue aspettative, visto che mai i nostri progetti erano seriamente stati comuni. Da allora so che mi considera suo nemico e mi dà la caccia. Ho mandato il mio schiavo demone dei ghiacci alla sua ricerca, con l'ordine di sbarazzarsi di lui. Ma da diverse settimane di Xenorus e del suo falcone gigante s'è perduta ogni traccia magica. Alleviare il proprio potere, in modo da risultare impercettibile da altre creature in grado di maneggiare l'arcano, è una pratica che potrebbe aver scelto di realizzare da solo, proprio per non farsi rintracciare dal drago a sua volta, ma... puoi immaginare quanto la cosa mi desti non pochi pensieri. E poi c'è Baelish, nascosto da qualche parte in oriente. Abbiamo sempre suo figlio prigioniero, ma lui ha il mio demone delle fiamme e... probabilmente neanche lui ha idea di che ascendente dispone su di me»

«Che cosa vuol dire?»

«La vita dei Sette Manti è legata alla mia, da quando detengo il sigillo di Cair Dedalos. Io non posso morire, se prima non muoiono loro Sette»

«E loro sono... mortali?»

«Abbiamo appurato che una certa fonte di energia magica, se ben utilizzata, può annientarne l'essenza, sì. Due di loro, il demone delle fonti e prima di lui quelli degli spiriti, non ci sono più. E io difatti sono più debole»

«C-che succederebbe se morissero tutti e sette?»

«Rimarrei da solo. Con la mia vita umana, e le mie potenzialità di stregone, mai più tornate ai fasti di un tempo, dal momento in cui ruppi il sigillo dal libro e me lo misi al collo. Ho voluto condividere con te tutta la mia storia. Le mie luci e le mie ombre, diletta. Le mie debolezze e i miei punti di forza. I miei piani, le mie aspettative, le mie delusioni, le mie preoccupazioni. Dunque voglio chiedertelo un'altra volta: questa mattina, al consiglio che mi vedeva impegnato con un importante giocatore dell'esercizio dei poteri di questa città, sei venuta per qualche motivo preciso?».

Era chiaro come quel discorso del re non poteva aver avuto altro esito se non stravolgere le opinioni della giovane regina: tutte quelle certezze con cui era entrata in quella sala del maniero, convinta di poter nascondere o meno i suoi sospetti sul piccolo pseudo Napoleon. Subito dopo che Gabryaerys smise di parlare, nella stanza esplose un silenzio fragorosissimo. Hana realizzò tutto assieme quello che fino a quel momento aveva voluto ignorare: suo marito d'altronde l'aveva detto fin dal primo inizio, in pubblica piazza, che era il figlio di Daenerys Targaryen, una donna vissuta migliaia e migliaia d'anni prima. Era sposata con un mostro magico la cui storia cominciava ai tempi delle grandi guerre per il Trono di Spade. Lì per lì, Hana sentì come di avere un mancamento, tanto fu vero che lo stesso Gabryaerys, un po' preoccupato, le sussurrò: «Mia cara... stai bene?». Lei non rispose: rimase ancora un po' in silenzio. Ebbe qualche dubbio se il re fosse preoccupato per lei o per il figlio che aveva in grembo. Forse entrambe le cose. Eppure, tutto quello che il Targaryen e Naharis millenario le aveva appena raccontato, doveva essere vero. Perché inventarsi tutte quelle storie? Per spaventarla? No: il re l'aveva messa alla prova; aveva messo alla prova la sua fiducia. Se le aveva raccontato tutto quello, era perché voleva fidarsi di lei. E lei non poteva tradirlo proprio ora: non conveniva a nessuno. Non a lui certamente, non al bambino che doveva nascere sicuramente e... in fondo, anche lei litigando con Gabryaerys, cosa avrebbe ottenuto? Una condizione di prigionia e poco altro. Lo aveva già concluso molto tempo prima: il suo posto, per il suo stesso interesse e per quello della sua famiglia, in quel momento non poteva essere che accanto a quello del re usurpatore che aveva assassinato suo fratello. Hana decise quindi, rapidamente, di sorvolare perfino su quella questione della religione, per quanto anche lì era sicura che avrebbe continuato a monitorare la situazione. Ma il re aveva bisogno di un innesto di fiducia da parte sua, e lei gli confessò quello per cui fin dall'inizio era entrata quel giorno in quella sala del castello. Le disse di tutti i suoi dubbi in merito allo pseudo Napoleon, e di conseguenza sulla condotta certamente non limpida di Lady Brimshey, ma soprattutto di Abigail Baratheon e Uryon di Worchester.

 

 

 

Ora che anche Lord Baelish se n'era andato, salutato quella stessa mattina con tutti gli onori dovuti a un potente alleato, Lord Goldsmith poteva considerare la sua capitale Braavos finalmente libera da tutti coloro che vi avevano bivaccato per lungo tempo. Loackland se n'era andato il pomeriggio precedente, ormai annoiato data l'assenza del suo nemico preferito, Gaholla, che invece – a sua volta – erano già due settimane che aveva lasciato la città del titano. Prima di tutti, comunque, se n'erano andati quei “capitani coraggiosi”, in qualche modo capeggiati dal giovane elefantino Banfred Panecha, che prima s'erano avventurati alla ricerca del cadavere del drago, e adesso avevano deciso d'incontrarsi (non si sa perché) con Lady Saestrya della Casa Martell. Dietro a tutto ciò, ci doveva naturalmente essere lo zampino non tanto degli stessi Gaholla, troppo poco raffinati per un piano del genere, quanto di quell'arringa-folle che altro non era l'ex Tribuno Garhel Sawela. Per tutto il tempo della permanenza degli ospiti alla sua capitale, Goldsmith si era sforzato di non darlo a vedere con nessuno, né amici e né nemici, ma considerava Sawela la spina nel fianco più profonda che in quel momento potesse avere. Era chiaro che fosse lui l'ispiratore di molto di ciò cui spessissimo il Lord della tigre era stato in quei recenti giorni fortemente contrario. Tutta quella fazione di allarmisti, che giustamente avevano visto la morte in faccia ed erano caduti a Marrah Canckubhia, nonostante continuassero ad agire dissennatamente come chi ha subito un grave trauma, in realtà – di fatto – avevano perduto. Avevano gettato il panico per quel problema della guerra contro il drago, ma la guerra era stata vinta. Perché continuarsi a fasciare dunque ferite che non c'erano? Ora che tutto doveva ritornare alla normalità, loro continuavano con quella presunta emergenza, gridando e strepitando che bisognasse allearsi con l'occidente. Era difficile non pensare che dietro non ci fosse quella “rivoluzione popolare” per cui Sawela tutta la vita aveva combattuto. Goldsmith seriamente pensava che quel tipo di illazioni non gli venissero dalla sua condizione di uomo più ricco e potente dell'Essos, bensì dall'evidenza dei fatti: il drago, per quanto ne sapevano, era morto o gravemente ferito. La sua minaccia poteva dunque essere considerata conclusa, la guerra contro di lui terminata. Cosa poteva dunque spingere mai un gruppo di apolidi ex potenti e famosi dell'oriente, ad incontrare un'aperta ribelle dell'occidente, se non il fine ultimo di cospirare contro lo status quo, che in occidente significava “trono di spade” e in oriente “banca di Braavos”? Davvero si aspettavano un appoggio basato sulle loro previsioni a dir poco apocalittiche e fantasiose?

In tutti i modi che aveva, Goldsmith aveva tentato di mettere ogni suo ingombrante bastone tra le ruote di Panecha, Sawela e gli altri, ma alla fine quelli avevano deciso per conto loro e a lui non sarebbe rimasta che la carta dell'assassinio. Non che non fosse nelle sue possibilità, e non che non ci avesse pensato: il suo alleato e, un po' petulante, amico Loackland gli aveva suggerita quella strategia più di una volta e non con poca enfasi. Loackland era più “uno dalla lama facile”. Ma Goldsmith si reputava un politico illuminato: uno che non ricorreva alla violenza, a meno che non fosse l'ultimissima spiaggia. Un nemico, era molto meglio indebolirlo con una guerra fiscale: lo riducevi alla fame, senza che se ne accorgesse, mentre continuava a stringerti la mano. E il caso in questione era in effetti uno di quelli in cui – in conclusione – il Lord di Braavos pensò che fosse bene non intervenire: una banda di ribelli, più o meno convinti, più o meno dichiarati: che facessero quello che gli pareva, un domani sarebbero stati schiacciati da un esercito, e non da un sicario. Ora, Lord Goldsmith aveva mille altre idee e pensieri per la testa: ricostruire la città, nel suo morale e nelle sue fondamenta, dopo la guerra contro il drago sarebbe stata un'operazione meno semplice di quanto un governante di poca esperienza avrebbe mai detto. Sarebbe stato lungo e sfibrante, e forse Lord Goldsmith non sarebbe neanche sopravvissuto per concluderlo. Aveva ormai compiuto sessant'anni, anche se sapeva di dimostrarne meno: era un uomo asciutto e piacente, pure se brizzolato e non più nero come un tizzone. E sessant'anni erano tanti, per i tempi che stavano vivendo.

Da qualche mese ormai Goldsmith meditava di lasciare tutto a suo figlio – il quale pareva non vedere l'ora – per ritirarsi nelle sue residenze di vacanza. Baelish, alleato di una vita, con il quale i Goldsmith avevano pure di recente recuperato un vecchio legame di cuginanza, gliel'aveva detto fin prima di partire: ®vieni da me ospite per un periodo, a prendere un po' del freddo che ti meriti». Solo che Baelish viveva una situazione complessa: diversamente da lui, non aveva risolto tutte le questioni “marziali” che lo riguardavano: dei veri e propri grattacapi. In occidente c'era come una sorta di guerra silenziosa ancora in corso, perché il fresco re era uno straniero – anche se con un nome apparentemente importante – e gli stranieri hanno sempre maggiori difficoltà ad imporre una nuova dinastia su un soglio regio o della grande aristocrazia che fosse. Conclusione: non c'era una vera e propria dichiarazione di guerra controfirmata, ma di fatto il Targaryen occupava Delta delle Acque – di storica competenza del Baelish – tenendo in ostaggio Baelish Jr., e il Lord dei fiumi e della Valle invece teneva, a quanto dicevano le voci di corridoio, un ostaggio a sua vola caro al re dell'occidente, rinchiuso in una torre segreta del Nido dell'Aquila. Brutte storie insomma; storie su cui, ove possibile, Goldsmith – che aveva, come detto, già i suoi grattacapi – avrebbe preferito non rimanere coinvolto. Se Baelish gliel'avesse chiesto ufficialmente, allora la loro tradizionale amicizia avrebbe imposto un intervento della tigre, portando quindi – dopo secolari anni di pace – il vero signore dell'oriente a scontrarsi contro il re sul Trono di Spade. Ma evidentemente per il momento Baelish aveva altre carte in mente da giocare: era un uomo astuto, come d'altronde la sua tradizione familiare non poteva che testimoniare.

Il nuovo progetto era dunque, per Lord Goldsmith, il seguente: avviare la ricostruzione e attendere ancora il tempo minimo perché quel lavoro si consolidasse. Dopodiché mollare tutto al figlio primogenito e, perché no?, concedersi quella benemerita lunga pausa, magari nello stesso occidente. Ma Lord Goldsmith non ebbe il tempo di fare nulla di tutto ciò.

Sorseggiando del vino, se ne stava nella balconata di uno dei suoi offici a riflettere su tutto quanto fin'ora esposto, in attesa che arrivasse un ospite. Fu in quel momento che il drago ritornò. O almeno: in un primo momento, Goldsmith pensò che fosse proprio lui, visto che si trattava di qualcosa di dimensioni titaniche che in volo si stava precipitosamente avvicinando al suo palazzo. Poi pensò a una sorta di allucinazione: era una roba grande quanto un drago, ma di uno strano verde trasparente. Il Lord poteva vedere attraverso di essa, il normale panorama che – immobile – di solito si stagliava davanti a quel suo ballatoio. Per un momento, Il Lord pensò che in qualche misura c'entrasse il vino, e si ritrovò a controllare incredulo il contenuto della sua coppa; problema: di solito lui era un bevitore più che navigato, non aveva le visioni da sbornia da quand'era un ragazzetto, e comunque prima di andare in sbornia, altro che una coppia di vino che ci voleva (ne aveva bevute una e mezza al massimo in quel momento)! No: quella cosa nel cielo c'era, e si stava avvicinando sempre di più, sempre di più... era come se scimmiottasse l'aspetto di un drago, ma non lo era. Era come l'anima di un drago, oppure un angelo, o qualcosa di simile.

Il terrore divenne poi infinitamente più grande, non appena Goldsmith ebbe modo di accorgersi che la creatura non fosse affatto eterea. Precipitò con rombante frastuono vicinissimo a lui, aggrappandosi ad una torre con gli “artigli” e facendo cadere un po' di mattonelle e calcinacci. Dunque rivolse il proprio “muso” proprio verso di lui e con voce cavernosa e satanica disse: «I capi del Consiglio di guerra di Braavos». Fu a metà tra un'affermazione e una domanda. Per un brevissimo istante, Lord Goldsmith ebbe anche il dubbio su cosa rispondere: “Sì?” era ciò che la creatura stava cercando? Sempre se quella fosse stata una domanda...

Non lo era. La creatura non attese oltre. Ad ulteriore conferma che di qualcosa di un po' palpabile fosse fatta, non attendendo una vera e propria risposta, lo strano angelo aprì le proprie fauci e liberò fuoco di drago. Fuoco di drago vero. Ridusse Goldsmith e tutto ciò che lo circondava, in poco tempo, a un concentrato di carbone polveroso. Dunque il “drago di spirito”, quella magia evocata dal vero drago Requiem, si spense, scomparendo nel nulla. Ma Lord Goldsmith, il Lord della Tigre, signore della città-banca di Braavos, questo non ebbe alcuna maniera di verificarlo.

 

 

 

Il congedo con Elthon Applegate e i suoi scudieri avvenne al tramonto davanti a un crocevia che più chiaro non avrebbe potuto essere: dal sentiero a destra avrebbero preso i cavalieri del nord, per tornare ad Alberocasa e continuare a predisporre la loro guerra di liberazione dagli occupanti Willoughby. Dal sentiero a sinistra avrebbero preso Daniel e il vecchio Terwyn, alla volta della montagna più alta del mondo. Lì il principe Piromante avrebbe rivisto, nel suo mondo di dimensione incorporea, la creatura che già una volta gli aveva conferito parte delle proprie energie e poteri sotto forma di lezioni di vita: Pyra era il suo nome, e in quale legame si trovasse con Terwyn stesso o col drago Nidhogg, il vero e primo maestro del fuoco che Daniel aveva avuto, questo non era chiaro. Ai cavalieri dell'albero di mele, Daniel era consapevole che doveva molto: se anche Elthon e i suoi avessero agito per l'interesse di far sì che il principe mantenesse la propria promessa di tornare a combattere al loro fianco per liberare l'altipiano che era loro capitale, comunque il fatto stava che loro lo avevano liberato da una condizione di prigionia, niente meno che mettendosi in movimento da una distanza eccezionale. Tutto per salvare lui: e Daniel non poteva che essergliene grato. Ecco perché un vago senso di colpa colpì il principe quando per l'ultima volta strinse la mano del cavaliere del nord, dai capelli lunghi e biondi e gli occhi cerulei. D'altro canto, era pure vero che il vecchio Terwyn aveva esercitato una non minore pressione su di lui, quando più volte gli aveva ripetuto che l'energia di Pyra non sarebbe durata per sempre; anzi, che si sarebbe presto estinta. E inoltre, come se non bastasse, nonostante tutti questi pensieri, era una e una soltanto l'immagine che il principe non riusciva a cancellare dalla propria mente: quella di Licyane, ancora prigioniera a Forte Terrore, mentre lui – libero – si trovava a ragionare serenamente su quale sentiero della vita fosse meglio da percorrere. Daniel dovette fare un sforzo per rimuovere momentaneamente il pensiero di Licyane dalla sua mente, e concentrarlo su ciò che in quel momento aveva la priorità: un congedo quanto più solenne e rispettoso nei confronti dell'amico Sir Elthon e dei suoi uomini. Alla fine avvenne, con la solita solenne promessa – da parte del principe di Cowain – di recarsi quando possibile ad Alberocasa per aiutare gli Applegate a sfrattare i Willoughby. E con “quando possibile”, Elthon intendeva: “non appena conclusi quegli strani addestramenti sul cucuzzolo della montagna che il principe doveva fare”. Daniel era un po' meno inflessibile in merito a questa definizione, anche se pure lui reputava importante quell'affare: non è che la guerra poteva rimandarsi per sempre.

Con il cuore sempre pesante, e mai leggero da quando aveva lasciato la bibliotecaria al suo destino con l'orso del nord, il principe quindi prese il suo sentiero a sinistra e di lì, dopo un paio di giorni, raggiunse la piccola e spopolata Dunwark: l'ultimo minuscolo centro abitato prima della neve senza fine e della montagna più aspra. Per la seconda volta nella sua vita, Daniel affittò quindi due piccole cavalcature, due onagri dalle orecchie lunghe: gli unici in grado di inerpicarsi tra i sentieri del Monte Cabuk senza scivolare giù, o fare scivolare gli uomini che avevano sulla groppa. Inoltre, sempre per la seconda volta nella vita, Daniel s'avventurò lungo quel tragitto in compagnia di un “vecchio” amico; vecchio in due sensi: di età sicuramente, ma anche amico da tanto tempo. Nel primo caso, si era trattato di Sir Cordell di Villaranza, un uomo che da sempre aveva bazzicato la corte di re Lionel, e che dunque in qualche modo a Daniel l'aveva persino veduto crescere. Ora, invece, c'era quel Terwyn Lannister, un'entità che – per quanto ormai conosciuta da tempo – a Daniel rimaneva in parte misteriosa. Quanti anni aveva quel vecchio piccolo e curvo? Cento? Duecento? Mille? Ogni cosa poteva essere plausibile. Inoltre, Terwyn era legato al potere magico dei luoghi in cui per tutto quel tempo aveva vissuto. Per un primo momento, Daniel aveva pensato che il suo potere fosse stato legato al drago Nidhogg e che quindi, morto Nidhogg – come era morto nei ghiacci perenni del confine del mondo, oltre l'Ultima Porta – anche Terwyn a poco a poco sarebbe andato “spegnendosi”. Forse era così, ma lo stava facendo assai lentamente, rispetto a quanto Daniel aveva immaginato. Tanto lentamente, da non render visibile quell'invecchiamento a occhio umano.

La Grande Quercia, il luogo dove si trovavano la baita di Terwyn e, poco oltre, l'antro di Nidhogg – dove Daniel aveva sempre trovato anche Pyra – era un luogo che, per chi era in grado di intercettarla, trasudava magia. Una magia antichissima, di cui lo stesso Daniel non era in grado in verità di rintracciare ogni segreto, collegare ogni strano fenomeno ad un altro: l'origine dei suoi poteri e di quelli di Nidhogg; le porte ancestrali che non potevano esser state fabbricate da mani umane; la natura del piccolo Terwyn o della fata danzante che appariva dentro un paiolo e vi trascinava dentro anche lo stesso principe di Cowain: Pyra per l'appunto. Ma il momento dell'importante incontro della continuazione della “lezione” che Daniel aveva ancora da apprendere, non venne subito all'arrivo dei due amici al capanno dove da sempre risiedeva il più vecchio fra loro. Giunsero infatti alla baita che era sera inoltrata: prepararono una cena frugale con quello che la montagna e gli stipi mezzi vuoti di Terwyn avevano da offrire, e si misero a letto. Lì, nonostante la spossatezza che solo una scalata così in alto poteva portare, il vecchio decise di avviare un confronto con il giovanotto. Cominciò domandandogli: «Principe, stai dormendo?»

«No, Terwyn»

«C'è una cosa che, prima di domani, ho pensato di dirti...»

«Ti ascolto»

«Tu lo sai: la magia... la nostra magia, muta costantemente. Non nasce, non muore... si sposta»

«Uhm... sì, allora?»

«Niente, dico che è un principio che devi sempre tener presente. Quando accadono cose che non ti spieghi, una delle domande fondamentali – da Piromante – che devi porti è: cosa è cambiato? Come si è trasformato? Dove è finito ciò che prima era qui? Perché... da qualche parte si trova sicuramente»

«Stai... stai parlando di Nidhogg per caso?»

«Di Nidhogg, di Pyra, di me stesso, degli allievi che negli anni il drago ha avuto e... quindi anche di te»

«Non so se ti sto proprio seguendo, Terwyn»

«Prima che il drago morisse...io non ero così. Io non ero... chi sono ora»

«Sì, di questo mi sono accorto»

«Beh, quando Pyra concluderà con te la sua lezione... neanche tu sarai chi sei adesso. A questo, devi essere preparato»

«Non è che perderò... i miei ricordi?»

«No, puoi stare tranquillo. Perderai tutto, meno che quello, giovane Lannister. Tutto meno che quello. E ora, buonanotte»

«Buona... notte» balbettò Daniel, un po' confuso. Sapeva bene che quello che gli stava capitando, da mesi, era di per se stesso enigmatico. La magia, e tutto ciò che essa comportava, non era un fenomeno facile da spiegare, né da comprendere. E quel discorso, prima di dormire, che Terwyn gli aveva fatto corroborava questa tesi. Certo, Daniel si confuse e odiò trovarsi temporaneamente in quello stato di confusione. Ma aveva imparato a tollerare il mistero. Tutto sopra quella maledetta montagna, da sempre, era misterioso: che lui lo gradisse o meno.

L'indomani mattina, dopo una buona colazione – molto meno frugale della cena precedente – visto che Terwyn possedeva una cantina nascosta con salumi e formaggi la cui esistenza rivelò solo per l'occasione, Daniel e il vecchio, di bastoni muniti, si avviarono alla volta della cosiddetta Grande Quercia, la quale – all'inizio sì – era l'albero più grande che Daniel avesse mai veduto, la cui fine sostanzialmente era impossibile da vedersi insieme con l'inizio, ma i cui rami e radici poi finivano per incrociarsi col resto della struttura naturale di quei luoghi: pareti rocciose ammantate di neve all'inizio e poi a un certo punto, nascostissime, le immense porte magiche intarsiate dell'antro del drago. Le porte si aprirono non appena Daniel e Terwyn arrivarono, nessuna strana formula proveniente dal nulla questa volta, solo semplicemente: la magia. Era come se la caverna stessa li stesse attendendo. Quindi venne il momento del paiolo, attorno al quale il principe Piromante si dispose, come Terwyn Lannister gli disse. Dopodiché accadde qualcosa che non era avvenuta la prima volta: il vecchio – che d'altro canto non era mai stato lì dentro insieme a Daniel: si era sempre fermato alla sua capanna – cominciò ad appoggiarsi con le mani alle pareti dell'antro, pronunciando formule a Daniel sconosciute, e che comunque quest'ultimo dubitava sarebbe stato in grado di replicare. Suoni gutturali, più che vere e proprie parole, che fuoriuscivano dal petto del vecchio per espandersi nell'eco provocato dal cuore della montagna. Dapprincipio, furono come sussurri: asserzioni sottovoce. Ma via via divennero sempre più forti, e l'aria cominciò a rarefarsi. Daniel avvertì del malessere, anche se non sapeva dire che cosa esattamente gli facesse male: la testa? L'anima, forse? Fu costretto ad appoggiarsi al paiolo. I suoni di Terwyn divennero urla. E Daniel chiuse gli occhi, e cadde. Giù, sempre più, nel fondo del pentolone. Quando ritornò il silenzio, venne anche il buio. Lui riaprì gli occhi, ma lo stesso non fu in grado di vedere alcunché. All'improvviso: un fuoco, una fiamma allungata. Era Pyra, la donna infuocata che risiedeva nel paiolo, e che lentamente gli venne in contro. Disse semplicemente: «Preparati, Daniel di Lannister, per la tua seconda lezione. La tua seconda prova del fuoco».

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Capitolo 6
*** Un inizio, una fine ***


Capitolo 6

UN INIZIO, UNA FINE

 

 

 

Nella fredda alba della scogliera di Castel Granito, infine Xenya l'esploratrice si preparò a partire, con Jorando Pashamanyna e un gruppo di altri quattro disperati che il nostromo aveva recuperato per lei. Mentre infatti i politicanti del Westeros si erano impegnati a tessere le loro trame e le loro strategie per la guerra che avevano deciso di combattere, lei aveva dato al suo secondo la direttiva di predisporre il tutto perché potesse partire all'indomani del mantenimento della sua promessa al principe Marcus, quella ovvero di combattere al fianco dei Lannister un'ultima battaglia. Aveva assunto quell'impegno a suggello di ciò che in tutti quei mesi l'avevano legata soprattutto alla figura di Lady Mirietta, colei che per prima le aveva finanziato una spedizione all'occidente e il cui nome adesso si trovava parzialmente inciso in quello dello stesso continente che insieme avevano scoperto: il Miriedos. Con lo stesso principe Marcus alla fine, come presumibilmente la stessa Mirietta si sarebbe augurata, l'esploratrice era finita per stringere un buon rapporto; e in verità neanche con Sua Maestà re Constant aveva avuto chissà quali screzi, Constant i cui rapporti con i i nipoti invece – lei sapeva – esser stati fin di recente piuttosto burrascosi. Ma ora era giunto il momento di dire addio a tutto quel mondo: l'aveva attratta all'inizio, e perfino incuriosita. Xenya era un'anima eclettica, e tendenzialmente attratta dall'ignoto, per questo faceva l'esploratrice. E quello che la vita con Marcus e Constant gli aveva proposto per tutto un periodo, erano cose nuove, interessanti, tutte da scoprire per lei. Ma da qualche settimana ormai (forse perfino qualche mese) sentiva invece che troppo stava ripetendosi. Cambiavano talvolta gli attori, ma le dinamiche erano sempre le stesse: il cavalier tale, che tardiva il Lord tal'altro per allearsi col re tale ancora. E quando Xenya scopriva le dinamiche delle cose, quando cominciava a saper prevedere come sarebbe andata a finire, allora non ne poteva più. Prendeva e staccava con ogni cosa e persona che non volesse darle seguito. Aveva proposto al principe Marcus di andare con lei, visto che lo vedeva un po' “fuori dall'acqua” come lei stessa si sentiva, anche se di meno. Ma lui aveva temporeggiato troppo. E così, alla fine, il giorno della partenza era arrivato, davanti a un piccolo molo un po' nascosto, e anche con il principe lì presente. Lui era l'unico verso cui un congedo sarebbe stato doveroso per lei: era stata amica della sua sorellina, e in parte anche di lui, mentre senza dubbio non era mai stata una serva del re di Lannister, anche se per un periodo avevano lavorato insieme. Pashamanyna, che in una delle sue mille vite precedenti aveva anche fatto un po' contrabbando, si muoveva bene nel sottobosco dei porti delle grandi città. Lui gli fece trovare una bagnarola, piccola ma veloce, che stava a galla, e sempre lui promise ad un gruppo di disperati parzialmente senza famiglia, una eventuale lauta ricompensa se sarebbero partiti insieme a loro per fare da mozzi, senza fare domande. Ad un giorno e mezzo dall'ultima battaglia in cui avevano teso una trappola tra le mura del castello dei Lannister a Gino della Casa Barron, tutto era pronto, e – giunta la mattina – Xenya si preparò dunque alla partenza.

«Bene principe» esordì quindi l'esploratrice, diretta a Marcus di Lannister, «è l'ultima occasione che hai per dire addio a questi scogli e salpare con me. Ma penso proprio che non la coglierai, non è vero?»

«No, me lo hai chiesto con troppo poco preavviso» rispose Marcus «e soprattutto... troppo mistero. Si può sapere dove sei diretta?»

«A nord»

«Solo a nord? Non puoi essere più specifica?»

«A nord e poi a ovest»

«Tu» capì allora il principe «vuoi aggirare la Montagna di Fuoco?»

«Beh, anzitutto scoprirne il confine, se ne ha... e poi sì: raggiungere il capo nord, e poi ancora il capo sud di quel continente»

«Non sai quanto può essere vasto e complesso in latitudine! E se ti spostassi verso ovest e poi... l'occidente non finisse mai?»

«Se ho imparato una cosa esplorando questo dannato mondo, principe, è che tutto ha una fine» a questo punto Xenya tese la propria mano guantata. Marcus per un momento non la strinse. Replicò: «Sei una dannata pazza», dunque stringendola: «E mi ricordi dannatamente mia sorella, maledizione a te»

«Piano con le maledizioni» rise Xenya, ma anche il principe accennò a una vaga smorfia di apprezzamento, «potresti lusingarmi. Anzi, lo fai davvero se mi paragoni alla ragazza più audace che, in tutti i miei viaggi, io abbia mai conosciuto»

«Grazie» a questo punto Xenya avrebbe detto che il principe si fosse parzialmente commosso. Quest'ultimo fece infatti ancora: «Grazie di tutto»

«Grazie a te, stammi bene». A questo punto, il principe Cavaliere della Chimera andò a stringere la mano pure al signor Pashmanyna, tradizionale secondo in comando dell'esploratrice. Nel frattempo lei si perse nell'orizzonte grigio e un po' gelido verso il quale era intenzionata a direzionare la bagnarola che Jorando le aveva recuperato. Venne distratta, quasi spaventata, dallo squillo di alcune trombe, nient'affatto in lontananza.

Sua Maestà re Constant in persona stava venendo incontro al gruppetto con passo svelto, pure se – come al solito – circondato da una nuvola di vassalli ed inservienti: uno addirittura che gli teneva il mantello. Tutte formalità che Xenta detestava alla vista, ma come al solito non si espresse in merito. Chinò il capo, come anche fecero Marcus e Pashamanyna. I quattro pescatori mezzi pazzi che si stava per portare in giro per l'oceano occidentale invece, fecero tutto un assieme di salamelecchi goffi ed inutili: non erano mai stati alla presenza di un re.

«Xenya l'esploratrice» salutò quindi Constant, direttamente rivolto a lei.

«Vostra Maestà» replicò lei, impeccabilmente leziosa.

«State partendo»

«È così, Maestà»

«Non sono stato avvertito»

«Non sapevo fosse mio dovere farlo»

«Dovere no, ma ne avrei senza dubbio avuto il piacere. Visto che mi avrebbe risparmiato una corsa all'ultimo minuto per cercare di convincervi del contrario»

«Non so quale possano essere le ragioni di questo così onorevole disturbo per me, Maestà, ma con immenso rammarico devo comunicarvi che non c'è niente che voi potreste dirmi, o darmi o fare perché io non salpi questa mattina stessa. Anzi, proprio adesso. L'unica alternativa che vedo è che mi costringiate con la forza, e so che non lo fareste»

«Non lo farei mai. Mai a qualcuno che considero mia amica e alleata»

«È la seconda volta oggi che mi fate onore, Maestà»

«Qualcosa nel sud di questo continente si sta muovendo. Le nostre spie ci informano che avverrà un incontro a Dorne tra Lady Saestrya della Casa Martell e l'unico rampollo rimasto in vita della Casa Panecha della lontana Marrah Cankhubhia. Saestrya è una nemica di Gino Barron e di chiunque sieda sul Trono di Spade, almeno fino a questo momento. E l'abbraccio con l'oriente la renderebbe anche più minacciosa di quanto già non sarebbe per conto proprio. È una nostra alleata naturale, sulla carta. Ma ci vuole che anche noi partecipiamo a questo incontro»

«Volete mandarmi in missione, ma io non sono una politica. Rischierei di fare qualche danno»

«Siete una donna di rara intelligenza, e sono sicuro di no: non fareste danni. Tuttavia, è vero, siete nuova a questo gioco. Ecco perché manderei Sir Bastian con voi. Ma solo come consiglio e supporto, pretendo che – da donna a donna – siate voi a fare un buon effetto alla vipera del sud»

«Maestà...»

«Volete navigare? Andateci via mare. Ma fate questo per me. Avreste la riconoscenza di un re. E inoltre, anche un obiettivo che sia un po' meno vago di “salpare verso l'ignoto”. Dico bene?». Quel viscido traditore di Pashamanyna a questo punto, si azzardò con un: «Beh, in effetti...».

Xenya lo interruppe subito, dicendo rivolta al re: «È vero Maestà; è una grande opportunità che mi state dando, e io non posso che esservi grata. C'è una condizione però: io non riesco a non essere me stessa. Non fatemi sostenere battaglie ingiuste, o nelle quali non credo. Non so dire bugie, e comunque non voglio dirle»

«Non ci saranno bugie, né altre trappole retoriche. Dovrete solo testimoniare all'incontro, essere voi stessa, ed eventualmente dare l'avallo potenziale a qualsiasi genere di progetto che intuiate esser contro Gino o Gabryaerys o l'orso del nord. Questo terzetto è l'asse contro il quale noi combattiamo. Tutti gli altri, sono amici»

«E se dovesse succedere qualcosa che non capisco bene? Di cui non sono ben sicura se dare o meno il mio avallo?»

«Sir Bastian sarà lì per questo. O, male che vada, interrompete la riunione, dicendo che prima volete consultarmi con me e inviatemi un corvo. Ma, secondo me, non saremo costretti a queste complicazioni»

«Avete calcolato proprio tutto, eh?»

«Non sono mica re per niente, mia cara. Ho una nuova inattesa anche per te, nipote mio» ora il re rivolse il proprio sguardo e le proprie attenzioni a Sir Marcus, «il re ci ha inviato un emissario dalla Capitale che dice di conoscerti. Vuole cercare di capire se esistano in termini di una pace e, con l'occasione, a quanto mi pare di capire, far riconciliare due vecchi amici o conoscenti»

«E di chi si tratta» disse Marcus «se posso chiedere?»

«Questo non è chiaro. Ma nella missiva, Gabryaerys ha parlato... di una “lei”. Sii felice per questo e per me, nipote: la mia guerra è alfine cominciata»

«VOSTRA MAESTÀ!» gridò una voce da un punto più remoto, lo stesso da cui prima erano provenute le trombe che avevano annunciato l'arrivo del re in quel, fino a poco tempo prima, pacifico e silenzioso molo nascosto dietro al castello. Sir Bastian, l'uomo dell'oriente che seguiva il re da sempre come un'ombra, e che Xenya avrebbe dovuto portarsi appresso nella missione diplomatica a Dorne in cui Constant l'aveva incastrata, caracollando si avvicinò al gruppo. Era allarmato; non portava buone nuove. «Vostra Maestà» il cavaliere dell'oriente arrivò e non attese oltre per dichiarare: «Ehm... Milady esploratrice, principe Marcus: la cosa interessa anche voi. La... giovane di Cowain, Daessenya, ha partorito»

«Che cosa?!» fece Marcus quasi incredulo; la stessa Xenya se la sentì di domandare: «Ma non sembrava che la gravidanza fosse così prossima»

«Ha partorito» replicò Sir Bastian «E la creatura è in salute m-ma...»

«Ma?»

«Lei sta morendo».

 

 

 

Quando Gino si metteva qualche cosa in testa, era poi assai complesso fargliela levare. Non gli era piaciuta la mossa di Daessenya di praticamente costringerlo a percorrere un'altra strada, tagliandolo completamente fuori dalla vita del loro comune figlio, e quindi – pur se resosi libero grazie allo stratagemma della ragazza che un tempo aveva amato e che forse amava ancora – Gino aveva preso ed era tornato nel suo luogo di prigionia della notte precedente, il castello di Castel Granito. Lasciò passare un giorno ed entrò in azione quando calò il primo tramonto della sua condizione di evaso dalle catene delle chimere di Lannister. Raggiunse gli appartamenti della servitù, ammantato come un popolano grazie a un lungo mantello di sacco che qualche ora prima aveva rubato da qualche parte nella immensa zona del porto. Aveva riflettuto che, conoscendo Daessenya, non sarebbe sicuramente stata il tipo da tenersi lontana dal mondo della servitù; le cose erano due: o, più probabile, che ella si fosse fatta assumere nel personale della casa natale di re Constant, o che – meno probabile – pure se in qualche modo avesse rapidamente asceso la scala del servizio al castello, fintanto da divenire “una della corte”, comunque una della corte con forti legami popolari sarebbe rimasta. Gino non aveva dubbi a proposito di questo: Daessenya non stava bene circondata dai nobili, doveva avere sempre la compagnia e il supporto di qualcuno di popolare, almeno facendosi degli amici tra la servitù. Così, Gino cominciò a chiedere di lei alla servitù del castello. I primi sei, quattro uomini e due donne, non seppero dirgli nulla. La settima invece fece un'aria stupita e gli domandò: «Ma come, non lo sai?»

«Cosa dovrei sapere?»

«È sopra! Sta partorendo!». Beate le anime candide e ignoranti delle donne e degli uomini di servizio. Quella aiuto-cuoca un po' paffuta non si era fatta il minimo problema con Gino, non si domandò chi fosse, cosa ci facesse in quelle cucine, che cosa volesse. Semplicemente rispose a una domanda. Magari anche i nobili fossero fatti di quella pasta! I nobili che non rispondevano neanche alle domande più banali, se non con perifrasi e giri vari di parole. Gino si fece spiegare meglio esattamente verso dove doveva correre: nella zona della cosiddetta “ospitalerìa”, che si trovava in una certa ala est del secondo piano. Lì si trovava un Maestro curatore, con diploma riconosciuto della Cittadella, il quale in teoria era al servizio dell'aristocrazia, ma che mai si rifiutava di assistere a qualcuno della servitù, specialmente se caduto malato mentre si trovava fisicamente tra le mura del castello. Insomma, sulla carta quel curatore curava le chimere di Lannister, ma in pratica stava più con le mani sulle ferite – sempre più numerose – dei lavoratori del castello, che su quelle dei leoni e dei loro parenti. Quando già si fece vicino, Gino ascoltò un suono inconfondibile: il vagito di un neonato. Lo seguì, e trovò il piccolo già lavato e asciugato. Una ragazza, forse una sguattera, si stava prendendo cura di lui. Suo figlio. «Posso... posso vederlo?», fece alla ragazzetta, precipitandosi sul fagotto. «Ma certo» gli rispose la popolana, ingenua quanto la precedente aiuto-cuoca, «un giovane Hill». Hill era il cognome che di norma veniva dato ai figli di padre ignoto, se si trovavano nelle terre dell'ovest, le terre insomma sotto la giurisdizione diretta dei Lannister. Ma quel bambino non era uno Hill; parlando tra sé, ma lasciandoselo scappare davanti alla ragazza, il giovane Barron disse: «No, non è un Hill. Sono io il padre»

«Che cosa state dicendo?»

«Sono il padre!» ripeté Gino, afferrando il bambino in fasce, dopo che per un lungo momento di silenzio era rimasto a contemplarne gli occhietti, le manine e i piedini, tutti al loro posto. Dunque chiese alla popolana: «La madre. Dov'è?»

«Oh, è stata male. Il Maestro l'ha condotta alle stalle. Lì dice che si trova un attrezzo che forse può salvarle la vita»

«Salvarle la vita?»

«Sì. Sta morendo, purtroppo»

«Lo porto con me»

«Come dite?»

«Porto il bambino con me, sono suo padre»

«Ma signore, sono stata incaricata di tenerlo d'occhio. Io... no, signore, signore!» la tiepida resistenza della giovane non poté nulla contro i bicipiti allenati di Gino. Lei provò a rimettere le mani sul fagotto, ma lui non le diede neanche una speranza di riuscirci. Lei gli urlò quindi un po' contro, intimando qualche astante ad acchiapparlo per lei. Ma le fu inutile: Lord Gino era già dabbasso, sulla via delle stalle di Castel Granito.

Col fagotto ancora tra le braccia, Gino raggiunse la zona indicatagli, ma quest'ultima era purtroppo assai vasta: vastissima. Quello di Castel Granito era il più grande maneggio in cui Gino avesse mai messo piede. Cavalli, giumente e puledri dovunque. Forse un centinaio. Cercò di riuscire a rintracciare un qualche suono di voci, magari grida (anche se in cuor suo non se le augurava). Niente di niente, solo sbuffi e nitriti di cavallo, e schiocchi di coda. Per minuti interi, Gino girovagò in quel labirinto di stalle, aie e cortili. Quando finalmente arrivò dove doveva arrivare, venne preceduto da un manipolo troppo numeroso di curiosi. Si accorse che quella doveva essere la zona dove si trovava Daessenya, proprio per tutto quell'assembramento di plebaglia concentrata. Erano uomini e donne che sicuramente Daessenya aveva trattato con rispetto, di cui doveva essersi guadagnata la stima, forse financo l'affetto. L'ex Lord di Altogiardino, scavalcò qualcuno di quegli uomini, s'infiltrò in mezzo alla piccola folla, ma non riuscì ad andare oltre. A un certo punto si fermò: il re, il principe Marcus e tutti gli altri grandi signori con cui Gino aveva combattuto all'ultimo sangue fino a pochi giorni prima erano là, vicino al capezzale della donna che lui aveva amato. Il curatore stava praticando una qualche specie di massaggio al petto, anche se Gino era troppo lontano per poter vedere bene. A un certo punto, il curatore smise chiaramente di fare quello che stava facendo. Una donna anziana, un po' zoppa, con una bandana alla testa, si avvicinò al gruppo degli spettatori di ceto più basso, quelli distanti, dove lo stesso Gino si trovava. «Come ultima cosa» fece la vecchia, con la voce rotta di commozione, «la signora Daessenya ha avuto la forza di scusarsi col re»

«Col re?» chiese un uomo barbuto «E perché?»

«E il re che ha detto?» chiese invece il ragazzo.

«Che non c'era bisogno» rispose la vecchia zoppa; un po' barbuta anche lei, «ma la ragazza ha insistito. Si è scusata, per esser stata lei a liberare il Lord prigioniero, evaso l'altra sera. Ha detto che non avrebbe potuto fare altrimenti: era il padre del suo figliolo. E il più grande amore della sua vita. L'aveva conosciuto in un altro momento, uno in cui le cose andavano meglio, erano più facili. Un tempo spensierato. Dopo è morta»

«Oh, come è triste» intervenne lo stesso ragazzo di prima, quasi piangendo.

«Come è romantico!» disse invece una fanciulla, poco lontano.

Triste. Romantico. Questo era il finale di tutto un pezzo della vita di Lord Gino Barron, che se ne andava con la buona Daessenya, la donna forte che aveva conosciuto a Cowain. L'appassionata Daessenya, Daessenya la funzionaria della città delle donne. Consigliera e confidente di Xalandra, la puttana che s'era fatta regina di quel villaggio. La giovane vita di Daessenya era finita così. Spezzata, senza alcuna pietà, senza alcuna ragione. Nell'ingiustizia più totale. Il cuore di Gino non c'era praticamente più. Il giovane Lord sbiancò in viso, ma per il resto era come se non ci fosse più. Non piangeva, non rideva. Non versò una lacrima. Nessuna espressione gli si fece in viso. Per un attimo, era come se fosse morto anche lui. Tutte le certezze, compresa la certezza della vita, se n'erano andate. Non c'era più Daessenya e in parte non c'era più nemmeno lui. Non c'era il giovane che era stato; non c'era l'uomo che sarebbe divenuto. Solo il pianto del ragazzino, suo figlio, riuscì a ritrascinare il giovane Lord alla vita, al momento straziante che stava vivendo. Allora Gino si commosse e, pur facendolo, cercò di placare il marmocchio, prima che destasse l'attenzione di troppi curiosi. Ritrovò anche la lucidità, per fortuna, di accorgersi che la sguattera a cui aveva strappato il bambino era a pochi passi di distanza da lui. Stava indicando a due omoni barbuti e armati fino ai denti verso la sua direzione. Ci avrebbero messo poco tutti quanti a sapere che il padre di quel bambino era Gino Barron. Doveva scappare. Correre più veloce di quanto le forze gli permettessero; non c'era tempo per i sentimentalismi, non c'era tempo per piangere. Un giorno Gino avrebbe raccontato al piccolo chi era sua madre, e allora forse, insieme, avrebbero avuto tempo e modo di commemorarla a dovere, e commuoversi per la sua prematura dipartita, e per loro stessi: loro che avevano perso una madre e una compagna così meravigliosa. Ma quel tempo non era adesso! Adesso era il tempo di darsela a gambe. Se c'era qualcosa che Daessenya aveva desiderato prima di morire, era stata che Gino fosse libero, e lontano da quel luogo. Lontano dalla sopraffazione dei Lannister, e da quello che gli avrebbe fatto se lo avessero preso. E lui doveva rispettare questo desiderio, esaudirlo nei limiti delle sue possibilità. Restando al sicuro e tenendo al sicuro il piccolo. Che non sarebbe stato un Hill, un orfano dell'ovest, bensì – Gino aveva appena deciso – un Flowers; un figlio illegittimo dell'Altipiano. Avrebbe riconquistato il suo soglio per lui, e lo avrebbe tenuto a corte, crescendolo come un Lord. Questo Gino avrebbe fatto per il figlio che Daessenya gli aveva dato. Daessenya, il più grande amore della sua vita.

 

 

 

Proprio un pessimo momento aveva scelto quell'emissaria del re sul Trono di Spade per giungere alla capitale del re di Lannister. Appena morta la giovane Daessenya infatti, subito Constant per primo aveva

richiesto che si facessero funerali solenni, per una donna che considerava – o aveva considerato sino alla di lei dipartita – “parte del proprio ristretto entourage”. Se lo pensasse per davvero, o se fosse un modo per continuare a corteggiare Xenya l'esploratrice o proprio lui stesso, il principe Andalo – Marcus – questo non lo sapeva. Ogni cosa era stata congelata: la partenza di Xenya, Pashamanyna e Sir Bastian verso Dorne, o l'incontro tra il re e l'emissaria dell'altro re, erano solo le più “pubbliche” delle numerose incombenze che il castello avrebbe avuto. Tra l'altro, c'era da considerare che l'ultima cosa che Daessenya aveva fatto era stata, pur scusandosi, quella di confessare il proprio tradimento. Era stata lei a liberare Gino Barron, perché un tempo, in qualche lontana occasione, l'aveva amato. Tutto molto sentimentale, ma comunque di un tradimento si era trattato, che un grave danno potenziale aveva apportato alla causa di Sua Maestà il re della chimera. Marcus era convinto che suo zio aveva odiato Daessenya in quegli ultimi momenti, e che la sola ragione del perché avesse voluto tributargli gli onori di un funerale istituzionale, fosse che il re era benissimo consapevole del fatto che Daessenya era amata dalla plebe. E un funerale patrocinato dalla Corona, avrebbe in qualche modo consolidato i rapporti tra Constant e quelli che erano i suoi sudditi più diretti; rapporti che non erano mai stati pessimi come nel caso di certi altri re e certi altri popoli, ma neanche mai idilliaci. La gente dell'ovest era gente tendenzialmente rispettosa del concetto di “autorità”. Stavano bene con il re che li comandava, o per lo meno ritenevano che la mossa più saggia per loro stessi fosse quella di fare buon viso a cattivo gioco. Non come quelli di Roccia del Re, che una volta all'anno almeno scoppiavano in una rivolta popolare.

Constant quindi aveva optato per questa mossa d'immagine, e gli era andata bene. Il castello si era riempito di una folla contrita per la scomparsa della giovane donna di Cowain. Qualche popolano pettegolo, così come fu anche la sera della morte della ragazza, sostenne anche di aver veduto Gino Barron da qualche parte immischiato tra di loro. Ma, come anche alla sera della morte della ragazza, nessuno fu mai in grado di confermarlo, e nessuno trovò più traccia del Barron, per tutti i giorni e le settimane a venire. Era sparito, insieme con il suo lattante. Come mai avrebbe potuto tenerlo in vita in quelle dure settimane, era un problema che Marcus si chiedeva, ma al quale rispondeva anche che – in fin dei conti – purtroppo quelli non fossero più affari suoi.

Il giorno del lutto e della contrizione passò in fretta, almeno nello stretto ambito della corte. Se i camerieri, i pescatori e i contadini di Castel Granito fossero ancora tristi per la morte di Daessenya, non era già più un affare della Corona. Un affare, anche piuttosto gravoso, sarebbe invece stato il prossimo pranzo, quello dell'incontro ufficiale tra re Constant e la donna di Roccia del Re, inviata dall'usurpatore Gabryaerys Naharis per parlamentare. Sesso sarebbe stato preceduto da una colazione, più intima, negli appartamenti presso i quali risiedeva Marcus da quando quasi stabilmente si era insediato presso il castello dei suoi avi. Il cuore gli saltò in gola, quando il principe cavaliere si ritrovò giungere presso il suo desco nientemeno che Jasmina Tahorel, la prima donna (e al momento unica) di cui mai si fosse preso un'infatuazione. La prima (e al momento unica) che aveva anche baciato. C'era stata una grande passione, nei duri momenti della Valle del Leone, in cui Marcus per un periodo aveva assistito Jasmina, che a sua volta era la prima e unica assistente di Sir Rabastan Merrin, il cavaliere giurato che alla Valle si occupava della manutenzione in vita delle delicate bestie alate, assurte a simbolo nei sigilli e negli stemmi della Casa di Lannister. Sir Rabastan che purtroppo era morto; e la vista di Jasmina anche quell'orrendo ricordo – insieme a tutti gli altri – causò al principe Marcus. Dopodiché era accaduto che a Marcus venisse data una mansione lontano dalla Valle (e per l'esattezza a Marrah Cankhubhia o giù di lì) a completamento del proprio addestramento. Chi gli aveva dato la mansione, era soprattutto stato il dispotico comandante Sir Winston Cleghorn, che ora Jasmina era finita per servire, probabilmente come principale curatrice delle chimere a Roccia del Re. Le chimere e i loro cavalieri infatti si erano quasi tutti spostati alla Capitale in seguito alla guerra perduta contro Gabryaerys, il quale era ora il re che Cleghorn e il suo piccolo, ma validissimo e assai peculiare esercito, servivano. Per questo Jasmina era stata mandata là, perché ella serviva Cleghorn – il suo capo – che Marcus aveva detestato per tutto il tempo della sua permanenza alla Valle del Leone. E Cleghorn a sua volta – Marcus sapeva – era divenuto membro integrante del Concilio Ristretto del re sul Trono di Spade, anche se il principe bene non si ricordava con quale mansione specifica. Insomma: “maestro” di quale ambito della politica del regno poteva esser mai quel bifolco dell'ex comandante della Valle, se non delle armi e degli armamenti?

«Principe Marcus» salutò dunque Jasmina, con deferenza, come se non ci fosse mai stato niente tra di loro. Era imbarazzata: era evidente! Ma Marcus non intendeva fare nulla per farla “sciogliere”, la ferita di quando le aveva chiesto di stare con lui, e lei aveva preferito starsene con le chimere, ancora gli bruciava. Forse lo avrebbe fatto per sempre. Jasmina si sedette al tavolo nel quale già Marcus era seduto: erano accanto, non l'uno di fronte all'altra. Il principe decise di replicare a Jasmina con tutta l'assenza di forma che lei nel suo saluto aveva cercato di evitare. Le disse: «Quando il re mi zio mi ha comunicato che una donna stava venendo dalla Capitale per parlare con me, francamente non ho avuto idea di cosa pensare. E tuttavia, tu non mi sei venuta in mente. E mai l'avresti fatto, devo dire»

«Ehm...» balbettò un po' lei «M-mio principe, ti sono comunque grata di questa accoglienza. E sono lieta che tu abbia dimenticato con facilità i nostri... trascorsi. Non era banale, per me non lo è stato»

«Ah no? È per questo che ti sei messa subito a servizio dell'usurpatore? Di Cleghorn, che tu stessa non mancavi di scimmiottare, quando eravamo insieme alla Valle?»

«Beh, che cosa avrei dovuto fare? Rinunciare alle chimere? Sono la mia vita. Sono stata addestrata per anni da Sir Rabastan come sua protetta; praticamente non so fare altro»

«Sai curare anche gli uomini...»

«No, non è vero. Potrei rintracciare qualche dinamica simile, ma non è sempre così. Molto meno di quanto un profano, come te, potrebbe pensare»

«E ora servi Cleghorn...»

«Io sono al servizio delle chimere della Capitale, e sì – se proprio ti fa piacere sentirtelo dire – Cleghorn è il mio capo. Non mi piace né come capo, né come persona, ma non tutti possiamo scegliere da chi essere circondati. Io non l'ho scelto mai, in tutta la mia vita. È capitato»

«Oh, non vorrai davvero uscirtene con questa morale pietosa della ragazza della plebe, mentre io sarei quello fortunato? A quattordici anni sono stato strappato da casa mia per andare a spalare la merda per ordine di Cleghorn! Non sfidarmi alla gara dell'infanzia più negata, Jasmina, non è detto che vinceresti»

«Non importa; non sono qui per questo. Quello è un capitolo chiuso della nostra vita. Un bello, bellissimo, ricordo. Ma è finita. Le cose sono andate diversamente da come sia io che te speravamo»

«Non ne sono tanto sicuro»

«È così e basta. Ma adesso ci troviamo su due sponde diverse nel bel mezzo di una guerra. E se c'è qualcosa che possiamo fare per evitarla, beh è nostro dovere»

«Va' avanti...»

«Ti giuro che se il comando di venire qui a dirti quello che sto per dire mi fosse provenuto dalla sola voce di Cleghorn, probabilmente non avrei accettato. Ma ho avuto modo di parlare col re, direttamente»

«Il tuo re»

«Il re che siede nel trono che rappresenta il dominio su questo continente. E... mi è parso sincero. Un discorso quasi in amicizia, per questo ho accettato di farmi coinvolgere. Perché mi ha detto cose credibili, con un modo di fare credibile»

«Magari ti ha manipolato... o magari sei stupida»

«Deve continuare per molto quest'atteggiamento provocatorio? Guarda che è solo un tentativo. Gabryaerys è abbastanza pazzo e risoluto da continuare il conflitto, e abbastanza ben armato da pensare di vincere»

«Sì, dai, ti chiedo scusa...»

«Bene. Ti ho detto che mi è parso sincero, perché mi ha rivelato una sua debolezza. E vuole che voi la conosciate. È il punto chiave della sua proposta di pace»

«E quale sarebbe questa debolezza?»

«Non ha nessun alleato da mettere all'ovest. Certo, se vincesse la guerra gli alleati si troverebbero, un vincente trova sempre nuovi amici. Ma ora come ora non vedrebbe nessuno al comando di Castel Granito, salvo chi Castel Granito conosce e abita da sempre. Tuo prozio Pylgrim, tuo zio Constant. Anche tu stesso. Cessate le ostilità e rimanete in occidente, quali suoi vassalli. Si risparmierebbero numerose vite»

«È davvero solo questo quello che è stato in grado di formulare come proposta di pace?»

«A me sembra una gran cosa»

«Sì, ehm... Jasmina, con tutto il rispetto: tu sei asciutta di cose di politica, ti rendi conto, vero? Dico, non è un'offesa: potrebbe perfino essere un merito! Neanch'io mi reputo questa grande volpe dell'alta diplomazia continentale. Ma mi sento di dirti una cosa: non si propone a uno che già avuto la protervia di proclamarsi re, di ridimensionare il proprio ego e scendere al livello di vassallo. Cioè: è inconcepibile, è una cosa inimmaginabile. Avrei capito bene, se il re Naharis avesse proposto una divisione delle aree di competenza, due re per il Westeros. O, ancor più spendibile, un qualche genere di proposta matrimoniale, anche se non ho idea mettendo in mezzo quali marito e moglie...»

«Il re è già sposato a tua sorella Hana: ci hai mai pensato?»

«Ci penso ogni giorno, soprattutto da quando Mirietta è morta. Anche Hana è più piccola di me, e ora è la piccola della famiglia. I miei genitori ebbero questo strano fato di concentrare tutti i maschi all'inizio e le due femmine alla fine: Axelion, Daniel, io, Hana e Mirietta»

«Non siete quasi coetanei tu ed Hana?»

«Dieci mesi mi separano da lei, come dieci mi separano da Daniel»

«E allora?»

«Allora, per quanto mi riguarda, mia sorella è tenuta prigioniera da quell'usurpatore, vile e straniero»

«Non è così. Non mi dire che non ti giungano nuove di come il re tratti sua moglie. Di come la regina sia divenuta un perno per la politica verso i ceti subalterni di Roccia del Re, un tramite fondamentale tra il popolo e la Corte: lo sanno tutti questo»

«Potrebbero essere notizie inventate»

«Ma non hai ricevuto una lettera anche da lei?»

«Sì, magari non è di suo pugno, o magari è stata costretta a scriverla: che cosa posso saperne io?»

«Dovresti incontrarla allora»

«Mi piacerebbe molto»

«Sappi che rimarresti deluso: soprattutto da quando è incinta del re, si sa bene che Sua Grazia Lady Hana è forse la principale sostenitrice delle cause del marito»

«È tutto qui quello che sei venuta a dirmi? Di parlare con mia sorella e di convincere Constant ad accettare di inginocchiarsi a Gabryaerys? Guarda: so per certo che non lo farebbe, neanche se ci provassi»

«Ma tu non vuoi provarci, non è vero?»

«Decisamente no»

«Neanche se sono io a chiedertelo?»

«È questo che ti hanno detto alla Capitale? “Fai leva sul principe Marcus, appigliandoti all'amaro ricordo che una volta vi siete presi in simpatia? Che vi siete baciati?”»

«Io ero innamorata di te, Marcus»

«Sì, certo. È questo che loro sperano?»

«Io sono innamorata di te ancora adesso. Nonostante il tempo che è trascorso e la distanza che ci ha diviso, nonostante lo stronzo che sei diventato. Se tengo a qualcuno al mondo, sei tu»

«Mi chiedo se lo pensi davvero, e Gabryaerys e Cleghorn abbiano deciso di sfruttarlo, oppure se ti abbiano perfino imboccato!»

«Che dici! Non lo farei mai!»

«Sì, lo credo anch'io. Tu provi ancora qualcosa per me... ma più delle maledette chimere?»

«Assolutamente no!» rispose a questo punto Hana con orgoglio «Pensa al tuo legame con Shirley! Tu tieni più a me, a un eventuale e mai concretizzatosi vero e proprio rapporto con me, che alla tua chimera? La creatura con la quale ti sei saldato in un rapporto per la vita!»

«Una volta ti avrei risposto di si...»

«E adesso?»

«Adesso» ammise Marcus, un po' confuso, «adesso assolutamente no...»

«Vedi com'è difficile? Beh io non ho una Shirley, non sono un Cavaliere della Chimera. Ma ho tante chimere. Alcune che ho fatto nascere. E alcune che devono nascere ancora. Ho semplicemente preso atto di non poterti mettere in mezzo tra me e questo e quindi, con grande dolore, piangendo per notti intere, ho deciso di tagliare il cordone. Con te. Puoi biasimarmi per questo?»

«I-io... non lo so. È tutto troppo difficile, e ho la testa un po' piena adesso. Non interverrò con Constant in merito alla questione del vassallaggio. Ma, quando glielo dirai tu stessa, ti consiglio di proporgli un'altra cosa. Che Gabryaerys sarebbe disponibile a un incontro. La vedo male comunque, ma almeno passeremmo la responsabilità di una guerra tutta in capo a questi due caproni con corone sulla testa»

«Marcus, io non sono autorizzata a prendere di queste iniziative...»

«Io ti consiglio di farlo. D'altro canto, se non hai neanche ricevuto un veto particolare...»

«Ci penserò, ti ringrazio». Marcus avrebbe voluto risponderle “grazie a te”, ma grazie di cosa? Visto che, chiacchierando e litigando, avevano anche finito la loro colazione, pensò anche al modo migliore di congedarsi: ma come? “È stato bello rivederti?” Decisamente fuori luogo. Finì per non dire niente a Jasmina, e lei finì per non dire niente a lui. Si sorrisero solamente, con profondo imbarazzo; dopodiché la porta degli appartamenti del principe si chiuse dietro alle spalle della cerusica delle chimere di Roccia del Re.

Al pranzo di qualche ora dopo, tutti poterono assistere all'incontro tra Constant e l'emissaria del re Naharis nelle terre dell'ovest. C'era anche, come ospite, Sua Sacralità l'Alto Septon Brendan che – anche se non intervenne mai al momento del colloquio – s'intrattenne tuttavia in prolungate conversazioni con l'ospite della Capitale, sia prima che dopo il dibattito. Marcus non sapeva cosa pensare di quel sorprendente figuro: era praticamente un ragazzino, forse più giovane di lui. Come poteva essere arrivato al soglio più alto nella gerarchia del Credo dei Sette Dèi? Quel tipo di “elezioni” avvenivano in assoluta riservatezza, e quindi molto probabilmente non ne avrebbe saputo parlare neanche il re a Roccia del Re, dove fino a poco prima padre Brendan si era trovato, figurarsi lì negli scogli di Castel Granito.

Jasmina non andò bene. O almeno: nella forma si mantenne impeccabile, ma su questo Marcus non avrebbe mai dubitato: era una fanciulla decisamente a modo. Nei contenuti invece, visto che era evidente che Constant già di per sé sarebbe stato soggetto difficoltoso ad essere convinto, lei praticamente non fece alcunché per risolvere la questione: rimase bloccata sulle sue informazioni e formalità. Quando Constant, amabilmente ma inflessibilmente, rifiutò e fece per congedare la ragazza, lei a quel punto lanciò la bomba del prendere l'iniziativa, del mettersi in mezzo come Marcus le aveva suggerito. Riferì al re la questione dell'incontro con l'altro re, e Constant rispose che avrebbe valutato con attenzione. Quanto su questo sarebbe stato sincero, solo qualche giorno ancora di tempo e riflessione avrebbe dato il responso. Ma comunque il dato rimaneva: Marcus aveva aiutato Jasmina che aveva aiutato Cleghorn e Gabryaerys. E questo un poco lo inquietava.

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Capitolo 7
*** Un problema di culto ***


Capitolo 7

UN PROBLEMA DI CULTO

 

 

 

Esattamente per come Hana aveva temuto, il sacerdote rosso Yashua aveva iniziato a bazzicare la corte reale. Per un motivo o per un altro, lo si vedeva spesso girare per le sale del Palazzo: era diventato un amico della Corona. Quello che stava accadendo era davvero rivoluzionario: forse mai nella storia, mai che Hana ricordasse (ma lei comunque in storia era sempre stata bravina), era avvenuto che un re sul Trono di Spade concedesse la propria amicizia a un sacerdote della religione dell'oriente. Si diceva che qualcuno avesse fatto il doppio gioco e che avesse cercato di tenersi buone tutte le confessioni – Daenerys Targaryen era una di queste – perché più debole è il potere religioso, più forte risulta quello temporale ed è prevalentemente ad esso che i cittadini (i sudditi) si affidano. Ma arrivare a fare in modo che il capo di una di quelle esotiche confessioni del dio rosso potesse dire di essere un amico della Corona, questo non l'aveva mai fatto nessuno. Gabryaerys non si era ancora sbilanciato, ma per Hana era chiaro: lui era un uomo dell'oriente tendenzialmente non religioso, e se qualche nozione di religione avesse avuto da bambino, di sicuro dovevano esser state nozioni connesse al culto del fuoco. Quella era ancora oggi la religione prevalente nell'Essos, da cui il re proveniva. Per questioni personali, Gabryaerys avrebbe fatto a meno di qualsiasi culto, ma per questioni politiche non aveva alcun problema nell'avvicinarsi a Yashua e i suoi fanatici, e il problema da questo punto di vista – per lui – restava solo Hana che era fedele al culto dei Sette, e tendenzialmente praticante. Hana sapeva che prima o poi col suo dolce e affezionato marito su questo punto sarebbe pure potuto arrivare lo scontro, specialmente in vista della nascita del loro futuro erede e del di lui battesimo. Bisognava che si chiarissero, come avevano sempre fatto. Da mesi ormai la regina aveva imparato a trovare una soluzione con il suo regale compagno e quindi era necessario che si superasse quella fase di stallo per trovare una strategia comune e definitiva: basta mezze parole, facevano del male alla loro coppia e al Regno Unificato.

Certo Hana non poteva cominciare quel suo discorso proprio in quel momento, durante quel banchetto in piedi per festeggiare il compleanno dello pseudo-Napoleon, con Yashua lì presente. Era già piuttosto imbarazzante per lei che quello stregone si trovasse tra le mura di casa sua e che non ci fosse alcun membro del credo tradizionale dei Sette. Sì perché gli alti papaveri dell'antica religione dei suoi padri, si erano tutti dati alla macchia, visto che a quanto pareva uno scontro tutti interno tra le due fazioni di fedeli aveva pure cominciato a fare diverse vittime. L'ultimo Alto Septon era morto, e nessuno conosceva l'identità del nuovo unico Alto Septon dei Sette Dèi, che però doveva esistere visto che quella era una carica che – per diritto canonico – non poteva mai rimanere vacante. Semplicemente, come non succedeva da secoli, l'Alto Septon aveva momentaneamente spostato la sua sede: non si trovava a Roccia del Re e nessuno, al di fuori della gerarchia ecclesiastica, lo aveva ancora conosciuto. C'era una Septa che bazzicava gli stretti appartamenti di Hana; si occupava in parte della casa, aveva voce in capitolo anche sulle cucine, ma per il resto Hana era circondata: non c'era più lo straccio di un esponente del Credo dei Sette alla Capitale. Il Gran Maestro delle Scuole e degli Ospitali – il giovane e fascinoso Irwin – tutti sapevano essere assai vicino ad ambienti della vecchia chiesa, ma non ne faceva parte ufficiale: non aveva preso i voti, anzi aveva frequentato la Cittadella e optato per le scienze positive. Dopodiché: il vuoto totale. Un osservatore esterno, avrebbe detto che a Roccia del Re il credo del dio rosso aveva definitivamente vinto ed attecchito. Ma finché Hana Lannister era regina, la partita era ancora aperta...

A un certo momento della cena, come era inevitabile, la regina e lo stregone s'incontrarono. Avevano entrambi l'aria di chi è rilassato e tutto orientato per condurre una amabile conversazione, ma entrambi sapevano che tra di loro si stagliava una gravissima divergenza. «Vostra Maestà», incominciò Yashua. Era la prima vera e propria volta che Hana si soffermava ad ascoltarne la voce. Era calda, suadente, rassicurante. La voce di un leader. Lei replicò: «Salute, sacerdote Yashua... non so bene come chiamarvi»

«Non ha alcuna importanza, mia regina: state tranquilla. Non storcerò il naso o spalancherò la bocca come farebbe un Alto Septon se non ci si rivolgesse a lui con “Vostra Santità” o “Sacralità”, mi pare...»

«L'etichetta è un materiale delicato. Penso come voi che sarebbe scandaloso offendersi perché non chiamati per come la regola prevederebbe... ma d'altronde essa nasce per dare struttura ai rapporti. Ed è importante che io sia la regina, e mi si riconosca come tale, mentre voi siete il sacerdote del dio rosso, e vi si riconosca come tale. È la ragione per cui tutte le cose hanno un nome»

«È un discorso troppo alto questo per me, temo. Io purtroppo non sono cresciuto, come voi, in una corte. Vengo dalle strade. E dalle dune del deserto dell'est»

«E siete qui per dare voce a quelli come voi. È una cosa molto nobile, che apprezzo»

«Grazie, mia regina»

«Così come non apprezzo le voci che girano su di voi e alle quali, beninteso, io per posizione presa non presto ascolto. Le dicerie non confermate, per quanto mi riguarda, sono sempre false per principio, e il loro girare un malcostume dei nostri tempi. Ma è pessimo il fatto che vi dipingano come un assassino, uno che per arrivare dove è arrivato abbia versato copioso sangue. Come vi approcciate voi a queste malelingue?»

«Io penso che queste cose vengano dette su tutti gli uomini di potere, o le donne. Voi, per esempio: giurereste che nessuna malalingua, purché inferiore di numero a quelle che ne parlano per il sottoscritto, abbia mai affermato che per vostro diretto ordine siano stati uccisi degli individui? Innocenti, magari? Siete la regina del Regno Unificato, mi sento di dire che sia impossibile. E allora qual è il discorso? Che io ho ucciso cento uomini e voi solo dieci? È la quantità che distingue un vile assassino da un sovrano illuminato? E se, su mio ordine, fossero stati uccisi cento infami e su vostro ordine dieci illuminate personalità politiche di questo Regno?»

«Non mi piace la piega che sta prendendo questa conversazione», si lasciò scappare Hana. Non avrebbe dovuto: era l'ammissione che aveva voluto giocare il gioco della provocazione col sacerdote e che lo aveva perso. Quest'ultimo infatti rispose serissimo: «Sì, e nemmeno a me. Perché invece non cominciamo a rivolgerci l'uno all'altra come ai collaboratori per una pace perpetua che le circostanze ci hanno, volenti noi o nolenti, obbligati ad essere? Voglio dire: non è che un singolo uomo, neanche un re, possa scegliersi ogni singolo uomo con cui nella vita debba aver da lavorare. Mi pare che vostro marito questo lo abbia concepito molto bene». Yashua non lo disse, ma il suo ghigno vittorioso voleva alludere le parole: “più di voi”, questo Hana lo percepì bene. Hana, che odiava Yashua e odiava essere sconfitta in una diatriba verbale, trovò la scusa di Lady Brimshey per chiedere permesso e allontanarsi. La nobildonna del nord, che era scesa su ordine di Abigail Baraheon o Uryon Worchester per accompagnare il piccolo festeggiato pseudo-Napoleon, stava discutendo animatamente con Septa Yullhia, una delle poche serve dei Sette Dèi rimaste in città, alle dirette dipendenze del palazzo reale. Anzi, più che una discussione era come una sorta di velato rimprovero, sempre a modo, sempre gentile, ma a voce un po' alta perché a quanto pareva la Septa non aveva ben recepito ciò che la Brimshey le aveva appena ordinato. Era una cosa che aveva a che fare con un abito da cucire. Hana decise d'immischiarsi in quella discussione, tenendo così lontano Yashua per un po', il quale a sua volta si recò dal re.

Ma non durò. Lo stregone del di rosso voleva qualcosa da lei, anche se Hana non riusciva a immaginare che cosa, oltre che molto genericamente tentare di condurla dalla sua parte magari con una conversione a sorpresa. Sarebbe stato un colpo di teatro gigantesco per lui e per la sua causa, ma proprio per questo Yashua doveva ben sapere che la partita gli sarebbe stata piuttosto difficile. Hana, e tutta la sua famiglia, era tradizionalmente, profondamente, devota ai Sette Dèi. No: era impossibile che lo stregone stesse cercando di fare proprio quello senza una tattica, senza un miracolo da mostrarle o una minaccia da porle... Voleva qualcosa d'altro: ma cosa? Per altre due volte egli tentò un approccio nei confronti della regina, che per altre due volte trovò il modo di scansarlo. Ma alla terza non poté che cedere.

«Vostra Maestà, c'è una questione che mi preme» riuscì a dire Yashua. E Hana non poté che replicare con finta gentilezza: «Dite pure, Yashua»

«Voi siete incinta...»

«Sì, allora?». Ah ecco: adesso le era tutto chiaro, anche se fece la distratta.

«Immagino che userete come rito di battesimo quello del vostro culto, o che per lo meno questo avete per la testa»

«Certamente. È così»

«E... avevate riflettuto che non ci sono sacerdoti uomini in giro per Roccia del Re? Le Septe non possono celebrare, e anche loro sono poche e non tutte maestre di teologia. Quelle poche che bazzicano il vostro palazzo ad esempio, pur mai volendo, non sarebbero proprio in grado di farlo, non conoscendone il protocollo».

Hana rimase in silenzio. Quelle parole la stavano raggelando. Erano semplici e minacciose insieme. Yashua aveva fatto terra bruciata tutto attorno a loro, tanto da non lasciargli alternative. Ma non poteva battezzare il suo piccolo secondo il culto di un'altra religione! Non era proprio neanche in discussione. Mentre la regina si arrovellava sul dafarsi, al fine di sbrogliare quella così complicata questione, il suggerimento giunse sorprendentemente dal sacerdote medesimo: «Certo, potreste sempre cercarvi un sacerdote fuori città e far battezzare l'erede al trono, ma... sarebbe altamente fuori dagli schemi»

«Sì» rispose invece Hana subito, e Yashua non se l'aspettava, «È così che faremo, molte grazie. Siete un uomo molto cortese e saggio, benché patriarca d'un culto diverso dal mio». Detto ciò, la regina tagliò rapidamente la corda, questa volta direttamente dirigendosi fuori della sala di quel banchetto. Quello che gli aveva riferito all'ultimo momento Yashua, era una verità pesante come un macigno: forse, nella lunga storia dei re e degli eredi al Trono di Spade, doveva pur essere esistito qualcuno battezzato al di fuori delle mura della Capitale, ma... Hana non ne ricordava, dovevano essere davvero pochi. Certo: perché fuori non c'erano i luoghi adatti, e gli strumenti sia simbolici che meno, e gli addobbi e le persone, e la cittadinanza. Sulla carta si poteva anche fare, ma in termini di forma sarebbe venuto fuori qualcosa di difficilmente spiegabile ai sudditi o ai nemici politici o anche agli amici. E la forma, per un futuro re del Regno Unificato, era determinante.

 

 

 

«Voglio essere franco con voi, Maestà, visto che siete stato così gentile da accogliermi qui presso la vostra corte temporanea dell'ovest...» disse Sua Sacralità l'Alto Septon Brendan a Constant, sedicente re degli Andali e dei Primi Uomini in esilio, lontano dalla sua città natale (Roccia del Re) e di conseguenza dal Trono di Spade. Il re lo interruppe: erano nel corso di un'amabile cena privata, in cui avevano dialogato non proprio come vecchi amici, ma comunque come due conoscenti che si stavano molto simpatici. Si trattava delle due più alte cariche – spirituale e temporale – del Regno Unificato. «Voi... siete delle nostre zone» commentò quindi re Constant «se non vado errato». «Esattamente» rispose Brendan «Di Banefort, sulla costa dirimpetto alle Isole di Ferro»

«Beh, come territorio in teoria sì fa parte dei possedimenti dell'ovest, ma... da sempre, alla nostra corte, girano voci che quelli della vostra costa siano più simili ai pirati di Pyke che non a noi della Casa di Lannister. Lo dico, senza malizie, Sacralità...»

«Nessun problema. So bene che esiste questo gioco a differenziare costa da corte, mi ricordo fin da bambino che noi ci pensavamo come quelli realmente intraprendenti che sanno cos'è una vita dura, mentre voi... Senza malizie, ma semplicemente dei “molli culi nobili»

«Ahahah, nessuna offesa giovane Sacralità, giuro. Nessuna offesa. Siamo tutti figli di questo mondo»

«Oh, bene: a proposito di questo. Volevo dirvi... di una cosa che ritengo importante ma che, strategicamente, mi scoprirebbe in quanto capo del mio Credo. Voi siete un mio alleato, questo è ormai chiaro, ma... vi confesso di essere in dubbio se rivelarvi proprio ogni cosa. Voglio che sappiate che – per quanto ci riguarda – quello che sta accadendo in questi giorni, è il consolidamento dell'antico rapporto che esiste tra Corona del Regno Unificato e Sacro Credo dei Sette Dèi. Noi siamo la vera luce per il futuro di questo continente. E gli altri... sono usurpatori: entrambi»

«Sento che avete delle remore, padre Brendan. Vi prego: ditemi quali sono, prima di proseguire col vostro “segreto strategico”...»

«So che incontrerete Saestrya Martell. O che comunque tenterete un avvicinamento»

«Certo. Dobbiamo comprendere che, piaccia o meno, in questa fase tutti i nemici dell'usurpatore sono dei potenziali alleati»

«E io lo comprendo. Ma Saestrya Martell, come da tradizione della sua famiglia, è portatrice di un'idea diciamo “flessibile” della nostra religione»

«I Martell sono devoti ai Sette Dèi...»

«Sì, ma spesso praticano esistenze molto lontane dai dettami dei testi sacri e... è capitato che abbiano ospitato teorici di idee assai diverse»

«Sì, capisco cosa volete dire. Diciamo che sono la più laica delle famiglie nobili (sebbene religiose) del Regno. E allora?»

«Beh, conviverci va benissimo: è da millenni che la nostra Chiesa convive con i costumi più disparati, con una certa serenità. Ma c'è un motivo per cui la famiglia regale è quella dei Lannister, e non quella dei Martell»

«E così continuerà ad essere, non preoccupatevi. Non ci lasceremo sopraffare da questi... eccentrici signori, se e quando ne diverremo degli alleati ufficiali. Né da loro, né da nessun'altro. Sotto Constant di Lannister, il culto di Stato sarà solo quello dei Sette Dèi: ve lo garantisco»

«Molto bene»

«Ora, ditemi pure»

«Sì: voi sapete che la regina, moglie del re usurpatore, è una fedele dei Sette Dèi»

«Ovviamente. Tutta la mia famiglia è sempre cresciuta con questa formazione. E Hana è una giovane intelligente e tenace: non si lascerà ammaliare dai fanatici del dio del fuoco. Se anche mai dovesse arrivare la notizia di una conversione, giurerei che avrebbe a che fare con fattori politici e legati alla sua salute personale, ma mai di reale convincimento»

«Sì, questo è quello che arriva pure a me»

«Vi continuano ad arrivare notizie dalla città, nonostante l'intera struttura del Credo sia stata costretta alla fuga? Ho sempre invidiato questo efficientissimo sistema spionistico di voi preti!»

«Beh, sapete com'è: una donna confessa qualcosa alla sua Septa di rifermento, e poi da lei ad una struttura un po' più lontana, e poi una più lontana, e così a cascata fino a noi»

«Sconvolgente, davvero»

«Ebbene quello che mi è arrivato, oltre che l'inflessibilità audace e stimabile della regina nel cambiar parrocchia, sono anche... dei dubbi, nel senso di “problemi”, in merito al battesimo del futuro re»

«Oh» Constant palesemente non aveva pensato a questo aspetto pur determinante, che uno nella sua posizione avrebbe dovuto immancabilmente considerare, «certo. Il battesimo dell'erede...»

«A quanto pare Yashua ha già avanzato la sua proposta, e la regina ha rifiutato»

«E lui non l'ha ancora arsa viva? Miracoloso!»

«No, perché pensa di averla in pugno comunque. Non ci sono più sacerdoti maschi a Roccia del Re, e dunque nessuno può officiare una cerimonia pubblica di quel calibro»

«Dovrebbe uscire dalla città...»

«Sì, si può fare, ma a questo punto siamo noi del Credo a non essere più sicuri. Chi ci dice che, complice dell'usurpatore, Yashua non si immischi alla cerimonia. Non so se vi sono giunte voci, sui poteri che ha...»

«Certo: temete per la vostra vita»

«Non solo per la mia. Il Credo ha già versato il suo tributo di sangue alla follia dello stregone del dio rosso. Io stesso ne sono stato un innocente e purtroppo inutile testimone. Ho giurato che nessun'altro Septon o Septa verrà più massacrato per mano di quel folle. Adesso la tattica deve prevalere sul confronto diretto»

«Sì, lo penso anch'io. Quindi, che c'è da fare?»

«Beh, ho pensato... che voi siete lo zio della regina. Prozio dell'infante che sarebbe tenuto a battesimo, per cui...»

«No, Vostra Sacralità, questo non è possibile. Non posso partecipare a quella celebrazione, significherebbe riconoscere la legittimità di Gabryaerys»

«Ma solo il vostro esercito potrebbe proteggerci...»

«L'esercito? No, davvero. Siamo amici e alleati, padre Brendan, ma... quello che mi chiedete non posso farlo, neanche per il migliore degli amici o per il più fido degli alleati. Tuttavia... posso prestarvi un contingente»

«Maestà, purtroppo vi ripeto che io ho visto che cosa Yashua è in grado di fare, e potrebbe ridurre in cenere quel contingente con l'agitarsi di una sola mano»

«Sì, credo di aver capito di che genere di potere si tratti... tuttavia, ritorniamo al problema iniziale: il bambino deve essere battezzato. E il massimo di protezione che io posso fornirvi è questa. Si potrebbe... mettere il principe Marcus a capo della spedizione, lui è un Cavaliere della Chimera esperto e inoltre in quanto tale... possiede una chimera. Un contingente di una ventina di soldati, più un principe del Regno, fratello della regina e zio di sangue dell'infante, e in più una chimera. Non è il massimo della sicurezza, ma è quello che possiamo fare. A voi il giudizio, Sacralità». Per qualche ragione, Brendan percepiva sincerità nelle parole del re in esilio presso le terre dell'ovest. Stava facendo i suoi interessi, che in quel momento coincidevano con la Chiesa dei Sette Dèi: questo era palese. Ma bastava questo a poter bollare quella ostentata amicizia e disponibilità come qualcosa di sospetto, da non avallare? E qual era l'alternativa? Lasciare che il futuro re venisse battezzato sotto le insegne del diavolo di fuoco che Yashua e i suoi veneravano? In questo modo sì che sarebbe scoppiata la catastrofe: perché si sarebbe sancita la definitiva autorità di quel culto nella capitale dei Sette Regni. Se questo fosse accaduto, le altre grandi città della regione avrebbero potuto cadere subito di seguito, agitate da rivoltosi resi forti e legittimi dalle simpatie del nuovo re usurpatore e dello stregone che gli sussurrava all'orecchio. Un tempo buio sarebbe venuto per l'unica fede, come non lo si vedeva da secoli. E Brendan doveva fare di tutto per evitarlo. Questo decise, e decise inoltre che era giunta l'ora di un consulto con i suoi nuovi, ma estremamente saggi, mentori, l'una con lui lì a Castel Granito e l'altro in trasferta dove spadroneggiava il nemico: Septa Sharma e il Gran Maestro Adlai Irwin.

 

 

 

E alla fine il momento della resa dei conti arrivò. Non poteva essere troppo lontano nel tempo, ma Hana decise di approfittare non appena possibile, e quindi la sera stessa della cerimonia di compleanno di Napoleon (del bambino che lo aveva sostituito) la regina decise di cogliere l'occasione che Gabryaerys aveva scelto di dormire in camera con lei, e iniziò a parlargli amabilmente, cominciando da un altro argomento per finire strategicamente dove lei voleva finire. Il re Naharis non usava dormire spesso con lei: aveva delle sue camere situate in suoi appartamenti, dove certe volte preferiva riposare. I suoi orari quasi mai coincidevano con quelli della regina e quindi, un po' perché diceva di non volerla disturbare, e un po' proprio per sue comodità, oramai erano più le volte in cui andava a dormire nella sua torre solitaria come un drago, che non nell'alcova accanto a sua moglie come un normale uomo. Tra l'altro, anche quell'incontro sarebbe potuto saltare e questa volta per causa sua (di Hana): in una circostanza invero piuttosto curiosa, il Gran Maestro Irwin – per il tramite della Septa che si occupava delle sue stanze – le aveva richiesto un del tutto fuori protocollo, urgente e ufficioso incontro. Lei aveva colto chiaramente l'emergenzialità della cosa, ma aveva deciso di declinare quell'affare all'indomani: quella sera doveva parlare con Gabryaerys del battesimo del loro figlio. Anche questo era piuttosto emergenziale.

«Come va con la questione dello pseudo-Napoleon?» cominciò la regina rivolta al suo consorte, mentre si stavano spogliando: c'era anche la Septa in camera, che stava piegando e mettendo nei cassetti le ultime robe. «Hai più contattato...?»

«Sì, il vecchio Senus Willoughby: come ti dicevo. Purtroppo mi ha fatto capire che la cosa è ingarbugliata, anche se potevamo prevederlo. A quanto pare a Uryon Worchester piace giocare due partite: una a nord della sua Biancavilla, e una a sud. I Willoughby e i Bolton, con questa loro momentanea governante Baratheon, non si sono mai incontrati fra di loro, non si reputano neanche alleati, benché chiaramente non siano nemici. Semplicemente, non si considerano perché non ne hanno ragioni: Uryon non gliene dà. Governa la sua zona in mezzo fra le due, ha dato aiuto alla casa della stella del nord contro gli Applegate, ha dato aiuto ad Abigail mettendola sul soglio che era di Henrich Bolton e quindi tutto procede tranquillamente, in armonia. Ma come fanno i Willoughby a conoscere un segreto che solo Uryon ed Abigail si sono scambiati, se la tua teoria dello pseudo-Napoleon fosse vera?»

«Ti ho detto che sono sicura»

«Lo so. E io ti credo. Ma non abbiamo alcuna prova a parte la tua parola, e non basta, e per questo la situazione è ingarbugliata. Willoughby mi ha detto che manderà qualcuno dei suoi a indagare la situazione, ed eventualmente portarci il bambino che Abigail custodirebbe con sé sotto le mentite spoglie del figlio di una serva. Ma... se prima, giustamente, i nostri alleati optassero per la via diplomatica: è chiaro i tempi non potrebbero essere brevi»

«E questo come ti fa sentire?»

«Profondamente in collera. Irritato ed impotente nei confronti dell'orso del nord. Ma purtroppo con tutto quello cui devo pensare, la cosa non può che passare in secondo piano. Ho detto di sì: che il vecchio mandasse qualcuno dei suoi nipoti a vedere cosa può fare e... incrociamo le dita».

Hana si concesse qualche altro minuto prima di ritornare all'attacco, anzi di colpire sul punto che più le premeva. Per qualche istante osservò la chioma di capelli castano chiari del suo regale marito, un colore bellissimo, ma che nulla aveva a che fare con il leggendario biondo argentato dei Targaryen. La sua pelle abbronzata era del color del castagno, le sue labbra carnose, e la rete di cicatrici disumane che gli percorrevano tutta una metà superiore del corpo... quasi armoniche, con un loro senso, una loro sintonia. Nessun dubbio che il loro bambino, il loro futuro re, sarebbe venuto fuori un pargoletto molto bello. Ed era per questo che Hana si sincerò: «Gabryaerys, credo che tu abbia già avuto modo di riflettere sulla cerimonia di battesimo del nostro piccolino»

«Sì» replicò il re con sincerità «certamente. Verrà battezzato da Yashua, secondo il rito del suo dio del fuoco. Questo sancirà la definitiva unione tra la Corona e il nuovo culto imperante in città»

«CHE COSA?». Quella sì che per la giovane Lannister era una sorpresa. Aveva immaginato che il re usurpatore avesse avuto modo di riflettere sulla questione, ma che avesse già deciso e deciso così perentoriamente, su questo non avrebbe mai scommesso. Era una cosa scandalosa, che avrebbe sollevato un polverone in tutto il regno. Non lo si poteva decidere così a cuor leggero!

A sua volta evidentemente sorpreso dalla reazione irritata della moglie, Gabryaerys fece: «Beh? Che c'è? Mi sembra la cosa più naturale da farsi, per quanto mi concerne a battezzare l'infante potrebbe pure venire uno stregone da Vaes Dothrak e intingergli la fronte col sangue di cavallo. Non è una questione che ha a che fare con le nostre scelte personali, purtroppo. Yashua è il nuovo astro della religione in questa città e inoltre... non ci sono Septon tra le mura di Roccia del Re»

«Sì potrebbe organizzare qualcosa fuori dalle mura...»

«Che? E dichiarare così agli occhi di tre quarti dei sudditi di questa città che si è contro di loro?! Ma come ti vengono certe idee?»

«Te le avrei comunicate anche prima, se avessi deciso di coinvolgermi in una decisione che ha a che fare con il futuro di nostro figlio. Non è una scelta che compete a te soltanto!»

«Ti ripeto che non è una scelta in nessun caso. A me non interessa chi battezzerà il bambino, ma è al popolo che interessa, e lui verrà battezzato nel modo che di più aggrada al popolo. E questo è un fatto, consorte mia, non un'opinione»

«No, non lo è. E ti spiego anche perché: perché senza il mio consenso, non succederà in nessun caso che quello stregone dell'est sollevi la propria mano sul mio bambino»

«Hai problemi con gli stregoni dell'est? Ne hai sposato uno»

«Sì, ce li ho se sono dei volgari assassini!»

«Oh, per favore! Per favore: non venirmi a rifilare questa stronzata dell'assassino. Siamo tutti assassini considerati da una certa luce, e tutti eroi e tutti martiri se considerati da una cert'altra»

«È imbarazzante! È lo stesso discorso che mi ha fatto Yashua, fino a qualche ora fa»

«È un discorso realistico»

«È un discorso da pazzi sanguinari e tu... pensavo che non fossi così. Ma forse mi sbagliavo...». La discussione era in parte finita: non aveva sbocchi. Ma non fu per questo che Hana smise di litigare. Tutt'assieme si sentì qualcosa, una sensazione come di caldo e di freddo allo stesso momento, e una profonda debolezza. Una necessità di sedersi, anzi stendersi. Provò a farlo sul letto, ma lo mancò di poco e scivolò verso il pavimento. Ebbe solo il tempo di capire che qualcosa non andasse bene, quando sentì da una parte qualcosa di strano muoversi dentro la sua pancia e le sue cosce bagnarsi tutto d'un colpo, e dall'altra Septa Yullhia esclamare con fare perentorio ma non troppo preoccupato: «Maestà! Aiutatemi subito a metterla a letto... poi correte a chiamare un maestro».

 

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Capitolo 8
*** Il Principe Piromante ***


Capitolo 8

IL PRINCIPE PIROMANTE

 

 

 

Gino Barron non aveva idea di come si crescesse un neonato. Era un problema bello grosso, cui non aveva avuto modo di riflettere, visti gli eventi concitati capitatigli tutt'insieme al momento in cui aveva deciso di portare con sé suo figlio e farne un Lord, anche se bastardo. Sulla lunga strada a piedi dalla capitale dei Lannister a quella che in teoria era la sua, Altogiardino, era riuscito ad andare avanti in pratica rubacchiando un po' di qua e un po' di là. Aveva la fortuna di essere un giovane alto e prestante, dunque minaccioso verso la media dei popolani che abitavano quelle campagne, finché questi ultimi rimanevano disarmati. Quelli invece che avevano in mano un rastrello o una vanga, Gino li evitava. Lui aveva mangiato, bevuto e dormito poco e niente. Il piccolo invece lo aveva nutrito a intervalli regolari, di circa quattro volte al giorno, servendosi di latte di qualsiasi animale rubato dalle stalle, e – intinto in esso – di un panno abbastanza doppio piegato come a simulare una tetta. Lui sapeva che non era la stessa cosa, ma il piccolo pareva apprezzare comunque. Tutto ciò non risparmiò al giovane Lord i pianti notturni, rumorosi e disperati, che arrivavano a prescindere da se il neonato si fosse nutrito o meno. Gli sembrava quasi come se glielo facesse apposta a cominciare a gridare, come se lo stessero maltrattando, specialmente nei momenti più delicati in cui, con suo padre, si trovava da qualche parte che nei pressi di una casa o di una fattoria abitata. Durante esattamente uno di questi momenti di disperazione, all'improvviso, un'idea gli balenò per la testa. Era una cosa anche scontata ma che, sempre a causa di quella concitazione che non l'aveva mai lasciato da quando Daessenya lo aveva fatto evadere dalle prigioni di Castel Granito, a Gino non era ancora arrivata. Lui e il piccolo si trovavano in effetti circa a metà del percorso principale che connetteva le Terre dell'Ovest da quelle dell'Altipiano: un po' prima, per dire la verità. E a quell'altezza c'era un luogo che Gino conosceva bene, anzi quello forse che conosceva meglio in tutto il Westeros: la sua Lungotavolo, il podere dove era cresciuto e dove aveva campato serenamente per tutti i suoi primi quindici anni. Dopodiché, c'era tornato sporadicamente, ma molti vecchi amici erano ancora là. E le case, e le grotte, e gli alberi, e le pareti amiche erano ancora tutte là. Era il luogo ideale dove fermarsi, fare una pausa e concedersi una lunga riflessione. Svoltò dunque verso casa.

Il problema della zona della Dodecapoli era che era molto boscosa e le strade – per lo più viottoli sterrati e veri e propri sentierelli – difficilmente erano dritti e praticabili. Anzi: erano tutti pieni di curve e giravolte, per aggirare questa collinetta piuttosto che quella macchia troppo intricata di piante spinate. Gino e il piccolo c'impiegarono quindi un giorno pieno prima di arrivare al primo piccolo centro abitato dove poter trovare un po' di cibo e una coperta per la notte, e altri due di bosco fitto per raggiungere Lungotavolo, che si trovava esattamente al centro della Dodecapoli: sempre meglio delle ancora circa tre settimane di viaggio che gli sarebbero spettate, se il giovane Lord avesse preso la decisione di scendere direttamente ad Altogiardino. Per fortuna, a Lungotavolo – cosa che non era scontata – ritrovò davvero molte delle cose, come se non fossero cambiate. Anche se ora la famiglia padrona del castello avrebbe dovuto essere quella dei Barthalo, comunque questi ultimi non avevano cambiato pressoché nulla, neanche i drappi della famiglia originaria. Jon, il giovane capostipite dei Barthalo e vecchio amico/nemico di Gino, non aveva mai fatto mistero della sua intolleranza verso la vita periferica che il bosco riservava a tutti i cittadini – nobili o plebei – che risiedevano nella Dodecapoli. Infatti aveva sempre seguito Gino nelle sue imprese presso l'alta corte della capitale che una volta era stata dei Tyrell (e in parte lo era ancora, visto che Shanty Tyrell aveva proprio sposato Gino). Quindi sì: di norma il castello ora apparteneva a Jon, ma di fatto Jon lo aveva lasciato ai suoi vecchi abitanti e ai vecchi scudieri e servitori di Gino. Certi volti furono quelli della memoria: vecchi uomini e vecchie donne della plebe che Gino stava ora solo ritrovando con qualche riga in più, qualcuna più marcata. Certo qualcuno di loro aveva perduto il marito, qualcun altro la moglie, ma le perdite erano state rimpiazzate da altri lavoratori che erano tutti quei bambini e bambine con cui Gino aveva avuto a che fare fin da piccolino. Una in particolare, Peyra, Gino l'aveva sempre considerata come una sorta di migliore amica e confidente, solo che non aveva certo l'età per lavorare, ai tempi in cui entrambi avevano bazzicato Lungotavolo nello stesso momento. Ora Peyra era una sorta di governante, una che conosceva bene ogni angolo e ogni lavoratore della casa: era un po' il ruolo che anche sua madre aveva avuto. Sua madre che – Peyra informò il Lord – era venuta a mancare il mese scorso per via di una polmonite, che però se l'era portata senza troppi travagli e senza troppi pensieri. La signora Peyrette era morta in serenità, e questo era quello che per sua figlia contava.

Peyra,poi, aggiornò Gino anche su un mucchio di altre cose. A partire dalla politica su all'Altopiano, che al giovane Lord giustamente era ormai sfuggita di mano da diverse settimane: più o meno fin da quando i Lannister lo avevano sconfitto in battaglia e preso prigioniero. Sebbene fortissima si era levata la protesta della famiglia Tyrell e dell'a loro sempre più vicino Jon Barthalo, che chiedevano una liberazione senza indugi del giovane loro Lord, il quale Gino ancora era, a quanto pareva, nei corridoi segreti della diplomazia più sussurrata – cosa che Gino aveva in effetti già previsto quasi da subito – si vociferava che chi comandasse ad Altogiardino fosse in realtà piuttosto freddo nel considerare la palese ed unica vera ipotesi realistica: quella del pagamento di un riscatto. Sempre a quanto si diceva, e a quanto Peyra aveva sentito dire da chi a Lungotavolo si occupava di quelle cose, a spingere per una soluzione in positivo erano più che altro ambienti vicini alla Corona, anche se non il re personalmente. Lord Braff insomma, ancora una volta, si stava muovendo in autonomia e in segreto da tutti perché Gino fosse liberato. Caro, manipolatorio Braff: alla fine, quella – più che il suo mestiere – era la sua natura. Se una cosa poteva essere risolta senza offese, senza affronti, e senza scontri, allora il Maestro dei Sussurri c'era sempre e si adoperava per risolvere i problemi. Incredibile come in quegli anni, nonostante il carattere ontologicamente misterioso del personaggio, Gino avesse imparato a conoscere almeno quelle qualità del suo vecchio amico della Capitale. Forse era il caso che, prima di tornare ad Altogiardino, il giovane Lord si recasse da lui alla Capitale. Da Braff e dal re, per realizzare finalmente quel gesto di omaggio da lungo tempo richiesto e rimandato. Braff e il re in effetti erano le persone che più di tutte in quel momento potevano aiutarlo a riprendersi quello che gli spettava, molto più che Jon, Shanty e i suoi parenti che – a quanto diceva Peyra – avevano fino a quel momento fatto un po' le orecchie da mercante. Certo, il neonato non poteva più fare quella vita: aveva già viaggiato parecchio, per essere un esserino di pochi giorni. Bisognava che rimanesse lì a Lungotavolo e che fosse costantemente sotto controllo. Già di Peyra Gino si sarebbe fidato ciecamente, ma certo tutto sarebbe stato perfetto se il giovane Lord avesse saputo che in quel momento a mandare avanti la baracca ci fosse ancora lì il vecchio Rollo. In effetti, il fatto che Gino non l'avesse ancora incontrato era un po' sospetto. Anche se caparbio e pieno di ragioni, Rollo era un uomo molto anziano: era già vecchio quando aveva fatto da precettore a Gino negli anni della sua infanzia. Pensare che anche lui nel corso di quei famosi giorni concitati se ne fosse andato, raggelava il sangue nelle vene del giovane Barron, ma purtroppo non poteva essere un'eventualità da escludere totalmente. Con il cuore di colpo balzatogli in gola, ma voce ferma e piena di serietà, il giovane decise di chiedere alla sua vecchia amica Peyra: «L'ultima volta che eravamo ad Altogiardino, Rollo mi è parso un po' stanco. Così gli ho suggerito di tornarsene qui alla Dodecapoli, a riposare. Lui è...?»

«Vivo. Ma purtroppo non per molto, secondo il curatore»

«La mia decisione lo ha...?»

«Oh, no, Gino: stai scherzando? Assolutamente no. Rollo è un uomo estremamente vecchio. E ha dato a questa vita tutto quello che poteva dare. È giusto che adesso trovi ristoro. Non c'entra niente il viaggio che ha fatto per ritornare a casa. Lui ci ha cresciuti... tutti quanti, con immensa passione. Ci ha reso uomini e donne liberi, perché consapevoli delle cose del mondo. E questo a prescindere da se eravamo figli di un Lord o... di una governante»

«Per me è stato quasi come un padre»

«Per tutti noi, Gino»

«Dov'è ora?»

«A casa sua, circondato dai suoi familiari. Vieni, andiamo a trovarlo». In realtà anche Peyra doveva avere con Rollo un qualche legame familiare, forse era una sua lontana pronipote, o almeno così a Lord Gino pareva di ricordarsi.

I due si recarono dunque alla casa del loro antico precettore, sempre modesta, nonostante i necessariamente lauti onorar che Rollo aveva avuto il modo di accumulare nell'arco della sua lunghissima esistenza. Quando arrivarono, furono sorprendentemente accolti da sguardi come di gioia, oltre che di commozione. Qualcuno disse: «Lord Gino! Oh, è un miracolo!». Gli spiegarono che il febbricitante vecchio ex precettore era da almeno mezza giornata che – ormai quasi sicuramente giunto per davvero alle soglie dell'ultima stazione – invocava il nome del suo giovane Lord, come se volesse dargli un ultimo saluto, un'ultima lezione, prima di congedarsi per sempre. Tutti i presenti avevano preso la situazione per quello che anche Gino l'avrebbe presa: i tipici deliri di un vecchio febbricitante prossimo alla dipartita. Ma la presenza di Gino in quel luogo, giusto in quel momento, non poteva non acquisire quasi il senso di un presagio. Quante probabilità c'erano che, giusto in punto di morte, Rollo invocasse Gino e quello – senza aver ricevuto messaggi di alcun genere – finisse per cercarlo presso la sua casa, dove se ne stava ricoverato? Era uno di quei tanti fatti inspiegabili che nella vita Gino pure non poteva che ammettere con se stesso gli fossero capitati. Come tutta quella questione della spada millenaria e dei suoi possessori: perché proprio a lui? Braff era uno che in questo genere di cose sapeva muoversi, mentre Gino... più che altro ci caracollava. Eppure l'inspiegabile avveniva al mondo. E fortemente lo chiamava, come anche in quell'ultimo caso: quello del suo morente vecchio precettore che lo chiamava dal capezzale.

Gino entrò nella stanza semibuia sommessamente, in assoluto rispetto del momento e della situazione che stava per affrontare. Sarebbe stato il suo secondo lutto personale nel giro di un mese. Rollo era tutto ciò che gli rimaneva della sua famiglia: una volta rotto il legame con lui, Gino aveva sì ancora Lungotavolo, ma poi non molto altro. Ci sarebbero state sempre braccia aperte e un pasto caldo nella sua città natale, ma fuori di essa... il buio assoluto. Solo Braff: che il buio assoluto un po' lo incarnava lui stesso. Di certo Gino non poteva fidarsi del re, visto che era uno straniero che non conosceva. E di certo lui non si fidava dei Tyrell né di Barthalo. Niente da fare: senza neanche più Rollo, a Gino non restava che Lungotavolo e il suo bambino. E come poteva un giovane così a secco di possibilità, riconquistare una delle capitali economiche del Regno?

Peyra era immediatamente dietro di lui nell'ingresso presso la stanza dove Rollo stava riposando; e, dopo di loro, una delle figlie più giovani del vecchio (una donna comunque cinquantenne). Dopodiché basta: i parenti pensarono che in effetti Rollo potesse desiderare di vedersi con Gino in una certa intimità. Giunto proprio al capezzale del maestro, Gino gli prese la mano e sorridendogli, lacrime agli occhi, disse solo: «Oh, Rollo...»

«Mh... mh?» mugugnò il vecchio. Era sveglissimo, ma senza forze. Gino capì subito che non l'aveva riconosciuto, che gli stava domandando chi fosse.

«Sono Gino. Il tuo vecchio allievo»

«V-voi» biascicò ancora il vecchio con fatica «e-eravate un pargoletto. E-e ora s-siete... s-siete... un Lord. Il mio Lord»

«Mi piacerebbe essere degno di almeno la metà dell'affetto che mi dài. E mi piacerebbe esser stato un allievo più in grado di mettere in atto almeno una metà delle tue lezioni»

«L-le lezioni non vanno messe in atto. L-le lezioni danno un modello, da cui r-ricavare poi... la propria storia. Siete stato tra i miei allievi m-migliori, ve l'assicuro»

«E tu il migliore dei maestri»

«Sì, m-ma ora... ora... c'è qualcosa che è n-necessario che facciate. D-dovete, d-dovete... riprendervi ciò che è vostro»

«Altogiardino non è mai stata nostra. Francamente, non solo non so come fare ma... non so neanche più se mi va di farlo»

«No... no... non Altogiardino. Lungotavolo. T-tu devi riprenderti la Dodecapoli»

«Ma la Dodecapoli... è sotto Altogiardino e quindi...»

«N-no! Da quando è Jon il padrone qui, non a-arrivano più finanziamenti. La t-terra sta morendo. Presto arriverà una c-ca... c-carestia»

«Ha ragione» sentì d'inserirsi Peyra, anche lei sommessamente, «pure se pure Jon è di queste zone, in realtà ci ha abbondato. Dirotta tutto quello che prima veniva qui, verso lidi che non conosciamo. Ma pensiamo che c'entri Altogiardino, se non addirittura la Capitale»

«La Capitale?» chiese Gino.

E Rollo: «C'è stato un complotto! Jon, i Tyrell e Lord Braff nel nome del re... l-loro hanno ucciso vostro padre»

«Mio padre? Ma mio padre è stato ucciso da Constant Lannister...»

«Non è così. Vostro padre era in procinto di allearsi con Constant: non si fidava più di Lorthan e Shane e del nuovo re che volevano servire. S'incontrò con Braff e lo fece prigioniero. Lui usò la sua magia e riuscì ad evadere, ma prima di farlo uccise vostro padre. E consegnò Lungotavolo a Jon. Poi accadde che gli stessi Tyrell risultarono a un certo punto scomodi al nuovo re, e così misero voi su ad Altogiardino. Ma questo non cancella il complotto originario: i Tyrell, i Barthalo, Braff e il re. L-loro si liberarono di vostro padre, e poi s-sì vi hanno messo ad Altogiardino: ma sotto il loro controllo. F-facendovi dimenticare della Dodecapoli. Tornate alla Dodecapoli, Lord Gino. Tornate alla Dodecapoli, m-mio Lord».

Fu dicendo queste ultime parole che Rollo chiuse per l'ultima volta i suoi occhi stanchi ed esalò il suo ultimo respiro. Sebbene probabilmente non avesse mai preso una spada in tutta la sua vita, Gino aveva imparato a conoscere Sir Rollo come un uomo dall'azione controllata, ma decisa. Difficilmente avrebbe detto quelle parole se non fosse stato sicuro del fatto suo, anche se Gino non riusciva a capacitarsi il perché non gliel'avesse detto prima. Era come se Rollo avesse scoperto di quel complotto solo recentemente. E poi... Braff uccidere suo padre? In realtà, sì, era vero: tutto tornava. E questo significava che Gino non aveva alcun motivo per odiare re Constant, ma ne aveva di numerosi per odiare Lord Braff e il re che serviva. Il re presso il quale lui aveva deciso di recarsi, almeno prima che il vecchio Rollo non gli rivelasse tutto quello che aveva saputo. “Come l'hai saputo, Rollo? E chi te lo ha raccontato? E perché lo ha fatto?”; queste domande nella testa di Gino sarebbero rimaste senza risposta purtroppo. Eppure avevano avuto un nuovissimo e del tutto inatteso effetto: Gino era tornato a dubitare. Poteva più fidarsi dell'uomo che il più caro dei suoi amici considerava un assassino? Anzi niente meno che l'assassino di Lord Barron di Lungotavolo. Gino non aveva mai avuto chissà quali rapporti con il suo severo padre, ma suo padre aveva avuto la lungimiranza di affidarlo fin da piccolo a Rollo. E tutto quello di buono che Gino era divenuto, lo doveva al caro, affezionatissimo, vetusto Rollo. No: non avrebbe mancato di rispetto al più caro dei suoi amici e al più savio dei suoi mentori. Se Rollo aveva pensato che Braff e il re, come Jon e i Tyrell, fossero dei traditori, allora con questa consapevolezza Gino sarebbe andato avanti. Ma aveva bisogno di Braff e del re, adesso. L'unica cosa di nuovo era che finalmente li avrebbe trattati con gli stessi modi con cui loro avevano trattato lui sino a quel momento. Con le belle parole, e tanta manipolazione. Era un modo di fare e di essere che non gli apparteneva: non sapeva se sarebbe stato bravo. Tuttavia, ora che Rollo era morto, gli rimaneva l'unica vera carta spendibile da giocare nel gioco dei troni.

 

 

 

Stancamente, Hana riaprì gli occhi. C'era un enorme frastuono attorno a lei. Anzi, non era un frastuono: erano suoni normalissimi, ma che per qualche motivo alle sue orecchie... rimbombavano. Si attutivano e poi riesplodevano. Ricordò subito chi era e che cosa stava facendo prima di addormentarsi: stava per avere il suo bambino. Stava litigando con il re suo marito, e poi si era sentita male e... il bambino aveva preteso di venir fuori, forse con qualche giorno di anticipo rispetto a quello che i maestri curatori avevano vaticinato. La cara, paffuta, Septa Yullhia le venne incontro, con un sorriso rassicurante. Le disse: «Altezza, come vi sentite? Avete perduto molto sangue, siete debilitata»

«Stanca. Come se non riuscissi a muovere un arto»

«Provateci». Hana alzò il braccio destro. Non sentì che si stava muovendo, ma lo vide muoversi: era bello arzillo. Ancora Yullhia: «Le funzioni corporali sono tutte a norma. Ci avete solo fatte prendere uno spavento». Il sorriso della santa donna era veramente giulivo, Hana quasi l'avrebbe abbracciata, se solo ne avesse avuta la forza. Si osservò un po' attorno. Era in una delle sue camere da letto, anche se non la principale, e in stanza – oltre a lei e alla Septa – c'era anche un maschio: il curatore che l'aveva aiutata a tirar fuori il piccolo. Di spalle, costui stava armeggiando con una brocca d'acqua e degli attrezzi: probabilmente stava ripulendo. Hana si rese dunque conto che sì: mancava qualcosa. In quella camera non c'erano i vagiti di un lattante. Si preoccupò. La Septa glielo lesse negli occhi e, accarezzandole i capelli, fece: «No, Altezza, Altezza... non c'è da animarsi: il piccolo sta bene. È già stato nutrito e si è anche calmato. Voi siete stata sedata, quindi vi siete persa il momento esatto, ma... lui sta bene, è con suo padre ora»

«Voglio vederlo. Septa, voglio vederlo adesso»

«Ehm... S-sì...» balbettò quella, con un certo e sospetto imbarazzo. Si rivolse al curatore: «Maestro, la regina vuole vedere il bambino»

«Ah» fece quello, anche lui con uno strano tono di voce, «Sì, è ovvio. Andiamo», e rapidamente i due uscirono dalla stanza. Hana s'era aspettata che almeno uno dei due restasse, mentre l'altro andava a prendere il piccolo: non funzionavano così questo genere di cose? Per lei era tutto nuovo giustamente: quello era il suo primogenito. Decise di lamentarsi: era la regina, ed era una mamma ricoverata, era un suo diritto. Disse con la forza che poteva recuperare: «No! Dove andate? Che uno resti qui! Che uno resti qui con me!». Non la degnarono di alcuna risposta. Si sentì all'improvviso tutto il contrario di una regina. Anzi si sentì come al tempo in cui, per diverse settimane, il suo regale marito l'aveva rinchiusa in una torre: prima che considerasse la possibilità di sposarla. Fragile quindi, e vulnerabile, e piccolissima. Ma durò poco. Qualcuno arrivò abbastanza presto, ma senza portare il bambino con sé.

Il Gran Maestro Irwin era un uomo molto giovane: doveva avere più o meno l'età di Hana, e dunque persino qualcosa meno dello stesso re Gabryaerys, il quale era a sua volta notoriamente uno dei monarchi più giovani mai assurto al Trono di Spade. Eppure Irwin, come Gabryaerys, era stato in grado di raggiungere uno status di elevatissimo prestigio e potere e un incarico, unico nel suo genere, che – Hana immaginava – doveva essere ben complesso da agguantare! Lei non ci aveva mai avuto molto a che fare: tutte le volte che aveva incontrato il Gran Maestro, i due non erano stati soli: riunioni del Concilio del re o feste ufficiali, cose così. Quella volta invece Irwin, con i suoi fluenti riccioli biondi e i suoi estremamente fascinosi occhi azzurri, si recò da lei da solo. In una circostanza del tutto fuori luogo per Hana, benché logica a ben pensarci: a corte era noto che il Gran Maestro aveva qualcosa a che fare con il vecchio mondo religioso della città, Septe e Septon in particolare. O meglio: Hana non sapeva quanto questo fosse noto, per esempio non aveva idea se Gabryaerys lo sapesse, ma ai tempi del breve regno di suo fratello Axelion, invece, ad Hana risultava che almeno metà del Concilio Ristretto ne fosse al corrente. Ora, non solo il Gran Maestro Adlai era quindi amico dei preti, ma era anche il capo assoluto del potere scientifico in città, l'ultimo decisore insomma (Sua Maestà esclusa) per tutto ciò che riguardava l'istruzione, l'educazione, le scuole, gli ospitali. E quindi ecco spiegata la facilità con cui, nella circostanza in cui lei aveva appena partorito, Irwin riuscì a trovare un modo per rimanere da solo con lei. Sia la Septa (più indirettamente) che il curatore (direttissimamente) erano dei più o meno suoi sottoposti. Era anche molto inquietante poiché, al di là dell'espressione affabile che aveva nel viso, quello che il Gran Maestro in quell'esatto momento poteva concretizzare nei suoi confronti poteva persino essere una minaccia. Forse non ne era esattamente il tipo (non era quella l'impressione che Hana aveva di lui), ma a Roccia del Re tutto poteva essere. Nonostante la debilitazione, nonostante la stanchezza, la regina decise quindi di reagire nel solo modo che sapeva. Contraccambiò Irwin con un sorriso pure lei, e disse con enorme formalità: «Mio Lord Gran Maestro, sono lieta di vedervi. Vi siete occupato personalmente del parto?»

«N-no io...» rispose quello, forse preso un po' di sorpresa, «sono più un teorico, Altezza. Ma naturalmente vi ho affidato al migliore dei cerusici per parti che le scuderie reali erano in grado di fornire, al momento un po' improvviso del travaglio. In realtà è il secondo migliore a Westeros, il primo si trova alla Cittadella, purtroppo. Chiedo venia, ho fatto del mio meglio»

«Scherzate? Avete fatto benissimo. Molto più del vostro dovere. Posso vedere il piccolo?»

«S-sì, Altezza, ma prima... vi starete chiedendo il perché della mia improvvisa visita, subito dopo il vostro risveglio...»

«Me lo chiedo, ma avrei la priorità di vedere mio figlio, prima»

«Maestà... è necessario che io vi parli viso a viso, prima che le circostanze non possano più permettercelo. E temo che andranno sempre più rarefacendosi»

«Vi assicuro che una volta portatomi il principe, io...»

«Oh, benedetta figliola, lui è sano e in salute: ve l'assicuro. Attendete un momento, il tempo di una comunicazione...»

«Sapete, non capita spesso che un uomo della vostra età mi chiami figliola»

«Preferireste... Hana?»

«Perché, avete terminato i “Vostra Altezza”?»

«No» chinò il capo Irwin, contrito, «certo»

«Comunicatemi dunque. E poi portatemi mio figlio»

«Lady Hana, voi sono sicuro che sapete che... io possiedo una corrispondenza particolare con certi ambienti del Credo dei Sette»

«Certo che lo so»

«E Sua Maestà il re ne è al corrente?»

«Non lo so. Io non gliene ho mai parlato. Ma posso dirvi che, sulla carta, finché non si tratti di un pericolo per la mia vita o per quella del bambino che è appena nato, il Credo avrà sempre una ferma alleata nella mia persona. Sono cresciuta sotto l'ala dei Sette Dèi»

«Benissimo. Voglio che sappiate che vi basta un cenno, una missiva ben serrata, perché io mi mobiliti per mettervi in comunicazione con loro, qualora lo vogliate»

«Vi ringrazio, ora...»

«Volete che vi porti vostro figlio, certamente. È in arrivo. Nel frattempo, Altezza, devo chiedervi: voi avete avuto modo di riflettere sulla cerimonia di battesimo del piccolino? E... confrontarvi con il re in merito a questo?»

«Sì. Si farà secondo il rito tradizionale, che al re questo piaccia o meno»

«E per quanto riguarda Yashua...?»

«Beh, conta meno del re per quanto mi riguarda. Vi ripeto: l'unica cosa che potrebbe farmi cambiare idea, sarebbe la minaccia di un serio pericolo per me e per il mio bambino. Ma farò quanto in mio potere perché la situazione sia risolta secondo il nostro... a quanto pare comune interesse, Gran Maestro»

«Allora è tutto» sorrise Irwin «Ricordate quello che vi ho detto in merito al ponte di congiunzione fra voi e il Credo. Sia io che Septa Yullhia siamo sempre a vostra disposizione»

«Certo, grazie. Ora...»

«Il bambino. Solo un momento» fece Irwin, e le diede le spalle. S'incamminò verso la porta, fece un cenno con la testa a qualcuno e poi si dileguò. Meno di un minuto dopo, Gabryaerys era seduto accanto al letto di Hana, e il pargoletto tra le di lei bianche braccia. Sorridendole, innamorato, quasi commosso, quasi in lacrime, il re stregone fece dunque rivolto alla sua consorte: «Questo è il dono più bello che abbia mai ricevuto», e con estrema convinzione aggiunse anche: «So che non attendi il mio permesso, ma sappi che per quanto mi riguarda possiamo battezzarlo in qualsiasi modo tu preferisca. Quando, dove e come vuoi. Io non entrerò nella scelta: dopo un regalo del genere, questo è il minimo che ti devo». La baciò. Hana si godette il momento: probabilmente non sarebbe durato a lungo. I litigi tiepidi e le incomprensioni celate sarebbero ritornati, magari più duramente di prima. Ma in quel momento, l'unica cosa che lei desiderava era rilassarsi, sentirsi al sicuro, e soprattutto far sentire sicuro il frugoletto che aveva tra le braccia. Lo osservò intensamente per capire a chi somigliasse. Si sentì una madre un po' strana, nel momento in cui – a una prima occhiata – non seppe bene inquadrarlo. Era sicuramente bellissimo, ed era sicuramente profumatissimo di un odore particolare; uno che, a quanto aveva avuto modo di capire, facevano solo i lattanti alle prime settimane. Ma... non era ancora facilissimo distinguerne i tratti. Gli occhi erano sul sottile, come i suoi? Ma chiari, come quelli del re? Niente da fare: troppo presto e troppa stanchezza. Hana decise di limitarsi ad accarezzarlo e, a un certo momento, le sue dita palparono come una specie di indurimento sulla guancetta sinistra del bambino. Il principe aveva una minuscola scaglietta di drago: come quelle che suo padre aveva in buona parte della metà anteriore del corpo.

 

 

 

Sir Elthon Applegate e i suoi ragazzi erano ormai quasi giunti alla piana di Alberocasa. Era stato un lungo viaggio il loro, partiti con l'ordine diretto di Lord Applegate (suo padre) di ritornare solo con il principe Daniel al loro seguito. Daniel infatti aveva promesso a quel Lord dell'estremo nord che lo avrebbe aiutato con gli usurpatori Willoughby che in questo momento occupavano il loro castello e le loro terre. I Willoughby, che dietro di loro avevano niente meno che Uryon Worchester, l'orso del nord, e – più indirettamente – perfino il nuovo re sul Trono di Spade: Gabryaerys Naharis Targaryen. Da mesi ormai, anziché vivere nel castello dove erano cresciuti, gli Applegate (padre e figlio) e i loro cavalieri e cortigiani vivevano sparpagliati per tutto quell'arcipelago di minuscoli villaggi di poche anime che, nei secoli, erano andati formandosi qui e là dove resisteva almeno in parte un po' di vegetazione. Nel bene o nel male, sotto l'egida dell'albero con la mela, quegli uomini e quelle donne avevano vissuto vite abbastanza sicure ed abbastanza serene. Per questo gli Applegate erano amati e rispettati, e per questo i loro ex sudditi – ove potevano – li accoglievano con gioia. L'idea di un loro ritorno, rispetto che quella di un'eterna sottomissione agli stranieri dalla stella bianca incisa sugli scudi, era sicuramente la loro preferenza. Ma ancora per molto così avanti non si poteva andare. Lord Applegate, suo figlio Sir Elthon e tutti i loro consiglieri lo sapevano bene: o in poco tempo succedeva qualcosa in grado di svoltare le dinamiche del conflitto e riprendersi almeno un pezzo del territorio, o gli Applegate e i loro cavalieri avrebbero dovuto mollare anche le case dei loro sudditi più ospitali, al dominio dei Willoughby e lasciare per sempre quei lidi. Il cibo nell'estremo nord era quello che era e, per quanto prima di essere sgombrati dal castello loro fossero stati in grado di trafugarne una buona parte, adesso stava per terminare. Era soprattutto questa la ragione per cui il Lord della mela aveva spinto suo figlio alla ricerca del principe perché mantenesse la sua promessa e, con i suoi poteri di Piromante, abbattesse una volta e per tutte la compagine dei Willoughby.

Ma Daniel, che Elthon e il suo contingente insieme a un piccolo stregone di nome Terwyn erano stati in grado di liberare dalla sua prigionia di Forte Terrore, aveva deciso di non mantenere la sua promessa, o comunque di non mantenerla subito. Dunque era con le mani vuote e il cuore pieno di tristezza che l'erede di Alberocasa si stava recando da suo padre per riferirgli l'amara novità: stavano tutti per lasciare l'estremo nord. Ma l'amara verità invece fu lui a scoprirla non appena giunto al piccolo villaggio di Kramwelth: una sessantina d'anime in tutto, che erano diventate una novantina da quando una parte della corte e del cavalierato di Alberocasa vi si era rifugiata. Tra questi, anche il vecchio Lord. Per qualche motivo, truppe dei Willoughby in gran numero avevano occupato il villaggio. Anzi, il motivo poteva esserci, anche se Elthon rifiutava di crederlo: qualcuno aveva tradito. Qualcuno nel villaggio aveva soffiato a una qualche autorità vicina alla stella del nord, che il Lord e parte dei suoi cavalieri erano lì e ora... che ne era d suo padre?

I cavalieri che Elthon si portava appresso, erano i migliori della bianca piana, dunque abbastanza eclettici: portati sì per la battaglia, ma anche per missioni più delicate come quella – riuscita – di andare a recuperare il principino dai poteri di fuoco, giù nella parte più meridionale del Grande Nord. Adesso bisognava entrare a Kramwelth senza entrare a Kramwelth, cioè farlo riuscendo a mantenersi nascosti dai troppi soldati della stella del nord che ronzavano per quelle quattro stradine. Se lo scontro fosse accaduto direttamente, Sir Elthon e i suoi sarebbero stati fottuti. Elthon domandò al più anziano dei suoi cavalieri, più anziano anche di lui, Sir Brotch, come organizzare quello che aveva in mente. Innanzitutto Brotch gli disse che per quella missione erano in troppi: loro erano circa una dozzina, qualcosa di più. Bisognava entrare in tre o in quattro. Alla fine si optò per il numero di cinque, inclusi gli stessi Elthon e Brotch. Guidati dalla sapiente esperienza di quest'ultimo, si mossero con agilità, come spie. Uccisero parecchi Willoughby accoltellandoli alla gola, dopo averli sorpresi dalle spalle. Fecero parecchia strada in questo modo, tanto che a un certo momento cominciarono a sentirsi sicuri. Il nuovo problema ora era: dove si trovava il Lord padre di Elthon? Dove lo tenevano nascosto? Era incatenato? Tutte queste erano domande che non avrebbero avuto risposte se non avessero interrogato qualche d'uno. Lo fecero: ma il primo appuntato che trovarono, non sapeva proprio niente. Gli diedero un colpo in testa e proseguirono. Il secondo, l'indirizzò verso un generico piazzale su una collinetta di neve rialzata e lì, poco oltre, una struttura militare temporanea. Diedero un colpo in testa anche a lui e proseguirono ma, per sicurezza, decisero di fermare un terzo soldato, il quale confermò l'esistenza della struttura, ma disse alla squadra degli Applegate di svoltare sulla sinistra anziché sulla destra, come a loro risultava. Si sentirono perduti, ma continuarono con solerzia e convinzione. Purtroppo, marciando costantemente a una certa velocità ma sforzandosi di risultare silenziosi, accadde che all'ultimo dei loro venne per pura sfortuna a cadere un pugnale dalla fodera. Esso rimbombò contro il sentierello roccioso. Un arciere posto su una struttura sopraelevata che dava l'idea di un vecchio carro dismesso con le ruote fuori asse, vide l'uomo di Elthon e lo colpì al petto, uccidendolo quasi sul colpo. Poi, gridando, denunciò la loro presenza al villaggio intero.

I cavalieri di Lord Elthon combatterono valorosamente, fino allo stremo delle forze, come Elthon non li aveva mai visti in vita sua. E li aveva visti spesso in azione: avevano affrontato insieme mille battaglioni e contingenti. Una volta, tra le lande desolate del nord anche oltre l'Ultima Porta, avevano pure avuto a che fare con un gigante, anche se in quel caso lo scontro si era risolto in parità: nessuno di loro ci aveva lasciato le penne, nonostante qualche osso rotto, e a il gigante a sua volta era riuscito a correre via, spaventato e con la coda tra le gambe, ma comunque in piedi. E ora quell'ultima impresa alla torre dei Bolton, non era stata mica semplice come il principe Daniel avrebbe potuto pensarla. Scoprire lui dove si trovasse, interrogare mezzo nord, avventurarsi fin quasi alla Grande Quercia – oltre Dunwark – e parlare con il misterioso piccolo stregone che poi aveva scelto di accompagnarli... tutto questo era stata una grande avventura. Una grande avventura che Elthon era stato lieto di condividere con quei ragazzi.

Circondati da nemici palesemente più scarsi e meno addestrati all'arma bianca di loro, ma in numero spropositatamente più grande, alla fine Sir Elthon della Casa Applegate li vide cadere uno ad uno. Prima Chett, poi Leghonwolf e infine anche il vecchio, grosso e burbero Brotch che, nel tirare le cuoia, con già almeno un due o tre dardi conficcati in varie parti del corpo, si portò appresso altri due Willoughby, tirandoli a sé e conficcandoli sulla punta del suo spadone, prima che anche le loro spade gli trapassassero definitivamente il ventre e lo stomaco. Brotch sputò del sangue prima di morire e poi, rivolto ad Elthon, con sguardo vispo e quasi sereno, annunciò: «Per Alberocasa!».

Quei quattro cavalieri erano appena morti per Alberocasa, per la liberazione della terra dove erano cresciuti, e che adesso si trovava violentemente e coercitivamente occupata dagli uomini della stella. Erano morti per un'ideale di libertà. Ed Elthon non poteva deluderli. Non poteva fare diversamente: continuò a combattere fino all'ultimo respiro, nell'assoluta convinzione che fosse giunto il suo momento. Che Alberocasa l'avesse chiamato, e che sulla sua terra innevata lui avrebbe esalato il suo ultimo respiro. Come un figlio dell'estremo nord doveva morire: avvolto nel manto candido della terra che lo aveva accolto, fatto suo per una vita intera, anche se la vita di un cavaliere ancora giovane.

Un colpo nemico che non aveva visto, costrinse a un certo punto il giovane e biondo Sir a poggiare un ginocchio. Lì capì che era finita. Elthon chiuse lo sguardo, convinto che ormai prossimo sarebbe arrivato il colpo alla schiena o al collo, per spiccargli via la testa. Invece quello che gli giunse fu una voce. Una voce gracchiante, catarrosa, ma non troppo bassa. Elthon riaprì gli occhi: la voce apparteneva a quello che presumibilmente doveva essere il comandante di quel campo occupato. Era un vecchio un po' curvo, dal sorriso maligno e le borse sotto gli occhi più gonfie che il Sir avesse mai veduto. «Siete Sir Elthon» fece il vecchio «niente meno che il rampollo degli Applegate. Merce pregiata. Mi presento: il mio nome Hennycker. E ho l'ultima parola in tutto quello che succede dentro questo accampamento»

«Porco di un Willoughby» replicò Elthon orgoglioso. Sputò ai piedi del comandante dell'accampamento (in realtà aveva mirato più in alto, ma dalla posizione in ginocchio cui si trovava, la mira non era stata delle migliori). Quindi continuò a testa altissima: «Uccidetemi ora! E fate di me un martire. Il martire delle terre bianche occupate»

«Ma se ho appena detto che per me siete merce pregiata» fece ancora Hennycker. Schioccò le dita e qualcosa si mosse tra le fila numerose dei soldati Willoughby che erano accorse. Elthon vide suo padre il Lord, incatenato e grondante sangue. Ancora Hennycker: «Ne consegnerò ben due a Lord Waldo, e lui farà di me come minimo il suo secondo in comando in tutto il Nord estremo. Voi, signori, siete ogni garanzia che ho per la mia vecchiaia»

«Signore!» esclamò qualcuno dal manipolo. E un altro ugualmente, pochi attimi dopo: «Signore!». A questo punto fu lo stesso comandante a dire, guardando in alto, dietro Elthon: «Ma che cazz...». Elthon a sua volta, si voltò come poteva; vide un bagliore. Un bagliore di fuoco incantato che colpì d'improvviso l'attenzione di tutti. Rapido e terribile come la mannaia di un boia, s'abbatte sui suoi nemici, lasciandoli inermi. Era il principe Daniel. Era lui, ma non era lui. Era un uomo diverso rispetto a quello che, fino a poche settimane prima, Sir Elthon e i suoi avevano salutato presso il bivio sulla via della Grande Quercia. Il vecchio principe Daniel non sapeva fare quelle cose! Si muoveva come scivolando al di sopra di una lingua di fuoco che lui stesso creava e da lui stesso si estingueva, e che lasciava abbrustolito tutto quello che toccava. E poi anche i capelli del principe sembravano presi da un qualche stato di magia: erano di fuoco! Le sue sopracciglia erano di fuoco, e più inquietante di tutte: anche le sue pupille erano di fuoco. Un campione completamente fuori da qualsiasi schema umano, sbaragliò ovviamente tutti quei nemici senza neanche il rischio di un piccolo contraccolpo. In poco tempo, gli uomini e gli stendardi dei Willoughby a Kramwelth furono cenere.

Successe tutto molto rapidamente. Subito dopo aver pronunciato quella sua ruvida esclamazione di stupore, il comandante Hennycker disse anche: «È il Principe Piromante! Ritirata! Portate via i prigionieri!». Si mise in moto con uno scatto di sorprendente velocità per essere un vecchio mezzo curvo e, per di più, con indosso un'armatura di evidente peso medio. Praticamente sparì prima ancora che Elthon comprendesse che cosa fare. Il Sir degli Applegate tentò primariamente di tenere sott'occhio dove i Willoughby portassero il suo prigioniero padre, incatenato e vessato molto più di quanto non fosse lui medesimo. Ma, per sua grande contrizione, lo perse. L'arrivo di Daniel aveva causato troppa confusione. Troppi soldati alti, grossi e armati fino ai denti, fino a un momento prima pronti a tagliargli la testa, scappavano ora a destra e a manca, avvolti nelle fiamme. Elthon riuscì a liberarsi: tirò lungo e improvvisamente la catena verso di sé, colpendo uno dei suoi aguzzini. L'altro lo eliminò con uno spadino che riuscì ad acchiappare dal terreno, improvvisamente ritrovatosi coperto di metalli e ferri caduti. Si guardò intorno. Non vide più suo padre. Lo chiamò; lo chiamò disperatamente. Ma giusto nel tempo che ritrovò il suo equilibrio, anche il nuovo e potentissimo principe Daniel aveva terminato il suo lavoro. Metà dei Willoughby di Kramwelth (comandante incluso) erano riusciti a scappare via, e metà avevano preso fuoco. Daniel scese dalla sua lingua di fiamme incantate, estinguendola, e all'improvviso si spense anche il fuoco dei suoi occhi e dei suoi peli. Aveva una barba un po' lunga: pareva invecchiato. Gli venne incontro. Elthon ammise: «Non sapete quanto lieto io sia di vedervi mio Lord, mio re»

«Lord va già bene, Elthon» fece il principe, aiutandolo a mettersi ben ritto. «Ma il vostro unico re» continuò «è un infante, e si chiama Napoleon Lannister».

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Capitolo 9
*** La Dieta di Dorne ***


Capitolo 9

LA DIETA DI DORNE

 

 

 

La nuova che il ricco e potente signore di Braavos fosse caduto in un attentato di matrice magica probabilmente da imputare al drago contro il quale erano in guerra, giunse a tutti gli uomini dell'Essos come una doccia gelata, e Garhel Sawela, Lord Justus Panecha e Sir Poll dei Gaholla – che formavano ormai un terzetto consolidato – non furono diversi. Inoltre il più ricco e influente Lord dell'Oriente aveva lasciato la sua città in un mezzo caos, visto che ora un po' meno di una decina di eredi sedicenti legittimi – chi più chi meno – si stavano scannando per le macerie, come gli sciacalli che a giudizio di Sawela altro non erano. Tra l'altro, quegli sciacalli Garhel s'era lasciati alle spalle per trovare altri sciacalli. Lui per tutta la vita – con la lama e con la lingua – aveva combattuto i nobili, e continuava ad averne un'opinione sempre peggiore. Certo, esistevano delle eccezioni: l'impacciato, paffuto e a volte sorprendentemente utile Banfred era fra queste; di lui il Lord ex Tribuno Popolare aveva ormai una certa radicata stima. Ma era l'eccezione che confermava la regola: per la loro cecità i nobili avevano condannato l'Essos, e adesso – se non avrebbero fatto qualcosa – avrebbero condannato pure il continente dell'Ovest. Quelli dell'ovest avevano ignorato le richieste d'aiuto dell'est, non avevano mobilitato i loro eserciti, e adesso l'est era sostanzialmente caduto. Vero: aveva pareggiato contro il drago, visto che l'aveva sconfitto anche se lasciato in vita, ma ora? Quanto tempo ci avrebbe messo il drago a ritrovare le sue forze? Più di quanto avrebbe impiegato Braavos a ricostruirsi dopo la morte del suo capo indiscusso? Decisamente no. Braavos era caduta, e con essa l'oriente. Garhel lo sapeva e sapeva che Banfred – che era un tipo colto e intelligente – lo sapeva a sua volta. Forse sul buon Poll c'era da avere qualche dubbio, il Cavaliere Smunto. Quindi i nobili di Westeros erano stati i primi a fallire, secondo Garhel, in tutta quella faccenda, ma quelli di Essos non erano stati da meno: perché l'Oriente non era accorso in aiuto di Marrah quando lei per prima tra le città più grandi di quella macro-area, era caduta? Sempre lo stesso errore: presentarsi divisi, e cadere dunque. Uno alla volta, come foglie in autunno. E adesso toccava a Dorne. Garhel non sapeva se per l'esercito animale del drago valessero esattamente le medesime regole, ma se si fosse trattato di un esercito di uomini, notoriamente la via più rapida per passare dall'un continente all'altro era proprio il sud. Per tutti gli altri versanti, bisognava prendere il Mare Stretto – e quindi disporre di una flotta – e affrontare un viaggio in un mare notoriamente poco calmo. E poi, una volta raggiunta la costa, bisognava sbarcare più o meno nella zona del Capo della Tempesta: zona che tutti sapevano ventosissima quando faceva bello e appunto tempestosa quando invece non lo faceva: nomen omen. Per non parlare del nord: lì, dopo il mare, bisognava affrontare la montagna, prima di vedere un insediamento umano venendo dall'est. No: se l'esercito del drago voleva passare, non disponendo sicuramente di navi, doveva farlo dalle isole della zona posta a meridione, chiamata Dorne.

Anche per questo loro erano lì, un po' per avvisare, un po' portare una testimonianza, un po' per chiedere aiuto, e un po' per realizzare quella unione di tutti gli eserciti degli uomini disponibili che fino a quel momento non si era potuta realizzare. Ma di speranze Garhel in cuor suo ne aveva veramente poche. Anzi: per lo più, si lasciava trascinare dagli eventi. Non aveva niente da fare, e tra l'altro non poteva muoversi, quindi: Banfred aveva deciso di portarlo a Dorne a parlamentare con Saestrya Martell? E a Dorne a parlamentare con Saestrya Martell lui serenamente si era fatto trasportare. Ma tutto sarebbe stato vano: l'umanità, con un nemico di quel genere, per come l'aveva visto lui, e soprattutto conoscendo l'impossibilità degli uomini a una coesione generale, era già spacciata. Ma meglio questo che niente. Perché non morire provando a cambiare le cose (pure se non cambiabili), anziché attendere il proprio momento fuggendo, o rimanendo da soli a piangere su se stessi come dei pazzi? Almeno, a quel modo, Garhel recuperava un po' d'azione: lui da sempre era uomo d'azione. O per lo meno gli piaceva ancora, nonostante tutto, considerarsi tale.

Per un qualche paradosso, uno dei tanti della sua vita, a Dorne lui era stato poche volte: forse due o tre. Era uomo che aveva viaggiato in tutto il mondo, comprese molte città del Westeros, ma Dorne era forse il luogo del continente occidentale in cui – insieme al nord più estremo– di meno lui era stato. Per i westerosi la loro zona più a sud aveva un qualcosa di “esotico”: era l'unica dove si potesse ritrovare un po' di deserto, e un paio di costumi e colori accesi come invece erano quelli dell'Oriente. Ma per lui che veniva dall'Oriente, a Dorne non c'era molto di interessante. C'era caldo più o meno come nella media delle città dell'Essos. C'era buon vino e donne disinibite, esattamente come da dove lui proveniva. E, anzi, tutte queste dune che per i westerosi erano così caratteristiche, per lui erano poca cosa, visto che il suo termine di paragone erano i grandi e infiniti deserti dell'estremo sud-est del continente orientale. Alla fine, gli occidentali consideravano deserto anche una landa di terra un po' secca e con vegetazione per lo più arbustiva, di cui il famoso deserto di Dorne in parte si componeva e che non aveva nulla a che fare con le immense distese di sabbia dei deserti dell'est. C'erano anche distese di sabbia a Dorne, ma sporadiche, sparse un po' qua e là tra un centro abitato e l'altro che non erano distanti tra di loro come invece poteva capitare per certi abitati dell'Essos, praticamente isolati e circondati di sola sabbia e dal mare. Insomma: per Garhel Sawela, Dorne da sempre era una sorta di pezzo di terra un po' ibrido che giocava a fare l'imitazione del suo est, riuscendoci male. Se proprio doveva passar del tempo in occidente, Garhel preferiva osservare le alture, i fiumi e le gelate di neve, piuttosto che... ancora sabbia, ma di meno; ancora caldo, ma troppo simile alle temperature che lui conosceva da una vita. Dorne per Garhel Sawela era quindi un bluff.

Comunque non stava andando a Dorne per turismo, ci stava andando per politica. Era inoltre incuriosito da questa ribelle Saestrya Martell, rappresentante di un'antichissima famiglia caduta in disgrazia, e di cui non poche si ripetevano voci perfino contrastanti. Saestrya Martell era anziana, ma era anche giovane, e secondo certe fonti una bambina. Era bellissima, ma anche dai tratti un po' spigolosi come quelli di un maschio. Era abile nel duello corpo a corpo con la lancia e con la frusta, ma era anche una diplomatica niente male, con una lingua particolarmente tagliente. Era mora e con la carnagione olivastra, ma anche a volte bionda e con la pelle chiara. Insomma: Saestrya Martell esisteva, ma chi veramente fosse nessuno lo sapeva. E Banfred l'elefantino si era reso conto di questo? Che andando a gettarsi nella mischia della ragnatela occidentale forse ne sarebbe uscito più confuso che persuaso, e forse già a partire da Dorne? Garhel aveva molti dubbi su questo, ma era disincantato e quindi gli andava bene ogni cosa. Se era pericoloso, avrebbero affrontato il pericolo. E se era una trappola, sarebbero caduti in una trappola e poi avrebbero cercato di uscirne...

Come Sawela non avrebbe potuto aspettarsi diversamente, l'incontro avrebbe avuto luogo in uno di quei palazzi secondari, di nobili terziari, di cui spesso era zeppa l'affollata aristocrazia dorniana. Rari erano in quel luogo i nobili che vivevano in un vistoso castello scintillante; per lo più i più ricchi erano dei grossi proprietari terrieri che risiedevano in casali nel bel mezzo dei loro uliveti o vigneti. Ce n'erano a centinaia di realtà simili in tutta Dorne; ed in una realtà simile Garhel, Banfred, Poll e una parte della guardia più stretta di quest'ultimo, vennero accolti. Il nobilotto di turno si chiamava Lord Granger ed era stato vassallo dei Tyrell prima, come – sulla carta – di Gino Barron adesso. Ma in verità, gli dèi soli sapevano da che parte stavano veramente personaggi come quelli. Dalla loro evidentemente, e poi poco altro.

Il tizio gli offrì del vino, tanto per gradire, nell'attesa della Martell, che comunque non si fece attendere molto. Venne fuori da una tenda nel corpo occidentale del casale di Granger, con Granger stesso alla sua destra e un omone altissimo armato di alabarda alla sua sinistra. Lei tuttavia sorprese Garhel non poco. Non sembrava affatto una leader rivoluzionaria, anzi: quella che gli si presentò davanti era vistosamente una vecchia signora, un po' acciaccata. Era secca e bassa e aveva lunghi capelli argentati. Ma altro che guerriera: si muoveva lentamente, come se soffrisse di un qualche male alle ossa. «Signori» fece Saestrya per cominciare, andandosi a sedere esattamente di fronte a Banfred, «Ci tenevo a darvi anch'io il mio benvenuti qui a Dorne, anche se so che il nostro comune ospite è già stato abbastanza solerte da questo punto di vista»

«Sì» confermò Banfred «il vino è squisito»

«Mi fa piacere, Mylord. Avete viaggiato per lungo tempo?»

«No, signora, per qualche settimana. Abbiamo fatto una pausa a Pentos, presso i Lord genitori del qui presente Sir Poll dei Gaholla. Partivamo da Braavos»

«Sì, ho saputo delle storie sconcertanti che arrivano da quelle valli. Una guerra con un drago. Un Lord assassinato da una luce tonante. Quindi, è tutto vero, miei Lord?»

«Si sarebbe potuto evitare. Se l'Occidente avesse partecipato alla guerra per l'umanità...»

«Io non dispongo di un esercito ufficiale, come sapete: vi ho risposto anche nel momento in cui la battaglia stava infuocando. Ho delle spie, qualche sicario: ma nulla che possa essere utile in uno scontro in campo aperto, figurarsi poi dinanzi all'esercito condotto da un drago»

«Non siamo qui per fare alcun processo, Milady»

«Anche se» s'intromise Garhel, guadagnandosi subito uno sguardo preoccupato da parte del giovane Panecha, «attraverso la vostra rete di alleanze, qualche amico avreste pur potuto scomodarlo. O avreste potuto provarci almeno»

«Forse è così. Mi scuso»

«È tardi per le scuse»

«Quello che Lord Sawela vuole dire» Banfred riprese così il filo della conversazione «è che purtroppo ogni minuto che passa è un minuto perso di una battaglia che prima o poi ci riguarderà tutti. Ed è anche di questo che noi siamo qui venuti a parlare, Lady Saestrya»

«Lo comprendo» rispose l'anziana rivoluzionaria «ma devo deludervi. Questa sera non ci confronteremo su questa... emergenza. Lo faremo domani, in una dieta appositamente convocata, alla presenza anche di altri notabili del regno»

«Bene!» si lasciò scappare Poll.

«Per oggi, tutto quello che volevo fare era scambiare saluti e convenevoli» continuò Saestrya «con voi, con l'altro ospite che è sopraggiunto. E fare in modo che dal vostro canto vi salutiate tra voi stessi: ho saputo che vi conoscete»

«Con chi?» fece Banfred, sempre più sospettoso. Come nella più forzata delle messinscene, “l'ospite” in questione venne fuori dalla medesima tenda sulla destra dalla quale Saestrya stessa era uscita. Era un uomo di media statura e senza scorta, ma i suoi abiti non erano quelli di un popolano.

«Piacere di rivedervi, signori» salutò dunque Petyr Baelish, con un maligno sorriso a tutta bocca.

«Baelish!» s'alzò Sawela con rabbia, e d'istinto un paio delle guardie di Poll misero le mani sull'elsa della spada. Garhel proseguì: «Non è un piacere per niente: l'ultima volta che ho avuto a che fare con te, un nobiluomo è morto, io sono stato accusato di quell'omicidio e tu – pur essendo presente – non hai fatto niente per difendermi. Dopodiché hai cospirato con Goldsmith dandogli evidentemente i peggiori dei consigli, in merito alla guerra con il drago»

«Non è così: ti assicuro che Goldsmith faceva tutto da solo» rispose Baelish.

Sir Poll dei Gaholla invece fece: «Cosa? Quest'uomo è coinvolto nell'omicidio di Lord Gaholla padre per il quale io e il mio ragazzo abbiamo dovuto pagare?»

«Mi dicono che non avete pagato niente» replicò ancora il Lord di Baelinstratth «che il processo è stato interrotto perché bisognava organizzare la guerra»

«Non è questo il punto» fece ancora Garhel con rabbia «Il punto è che tu sei un verme. E noi non vogliamo avere nulla a che fare con te»

«È un peccato: visto che forse conosco un modo per risolvere la questione del drago una volta e per tutte»

«E quale sarebbe?»

«Ne parlerò domani alla Dieta. Alla presenza vostra e degli altri ospiti che Lady Saestrya e il suo Lord Granger stanno qui attendendo»

«Quanto detesto non sapere le cose, o saperle a metà, o all'ultimo minuto»

«In questo, Lord Sawela» si alzò l'anziana Martell «sono forse io a dovervi delle scuse, più che Lord Baelish. Purtroppo quando si è dei ricercati nella propria patria, si tende sempre ad operare con un certo... tatto. Comprendo che la cosa non possa risultare simpatica: non a tutti piacciono le sorprese...»

«Specialmente le brutte sorprese, Milady» replicò ancora, tra i denti, il Lord ex Tribuno.

«Sì. Ma è così che io opero» concluse la Martell, definitiva, «ed è questo che ci si deve aspettare, quando si ha a che fare con me. Me ne spiaccio, ma va accettato»

«E noi lo accettiamo, Lady Saestrya» s'intromise il più diplomatico Banfred, «qualsiasi cosa pur di recuperare alleati, meglio se numerosi»

«Beh, quelli di domani purtroppo numerosi non saranno, Lord Panecha. Ma vi prometto che saranno importanti: io domani v porto, niente meno, che degli inviati del legittimo re del Regno Unificato», e dicendo questo Saestrya Martell si liberò in un sorriso pieno di astuta soddisfazione.

 

 

 

Delta delle Acque. Il giovane Petyr era in teoria ancora il Lord incontrastato di quel castello sul delta triforcuto di tre rivi diversi: il famoso Tridente. Che poi diverse volte, da quando era nato, gli avevano anche spiegato che in verità Tridente era proprio il fiume principale, quello più grosso, mentre gli altri due, che proprio nei pressi del castello si staccavano dal principale, erano più che altro degli affluenti, parti di un immensa rete che faceva del fiume Tridente il più carico d'acqua dell'intero continente occidentale. In qualche maniera si poteva dire che fosse il padre di tutti i fiumi al di sotto dell'Incollatura. Sua madre era da sempre stata legata a quei luogo, gliel'aveva sempre descritto quasi come un posto magico. Un luogo ideale dove far crescere uomini di pace e di diplomazia, perché quello era il luogo dell'incontro. Tra il nord e il sud, tra il monte e la valle, tra gli antichi dèi e quelli nuovi. Suo padre, invece, Petyr il giovane sostanzialmente sentiva di non averlo neanche mai veramente conosciuto. C'erano dei ritratti in giro per casa, in cui si vedeva che quell'uomo dal pizzetto curato e lo sguardo intelligente lo avesse preso in braccio per più volte, in più fasi della sua breve vita (Petyr avrebbe compiuto in quei giorni dodici anni). Da neonato, e poi a circa tre anni e a circa cinque, suo padre doveva averlo tenuto in braccio: c'erano gli affreschi a testimoniarlo. Eppure, Petyr non si ricordava del suo anziano genitore: il suo omonimo, Petyr il vecchio, l'uomo che avrebbe dovuto proteggerlo da tutto quello che era successo e che adesso non si sapeva più dove fosse.

Da quando sua madre era morta, affogata in quello stesso Tridente che aveva tanto amato, e che tanto adesso Petyr odiava, gli stessi aguzzini che avevano operato quell'atto da una parte lo tenevano prigioniero, ma dall'altra pretendevano che lui ratificasse ogni loro decisione, come se si preoccupassero a mostrare che il Lord della Terra dei Fiumi rimanesse ancora lui, e non loro che materialmente prendevano tutte le decisioni. “Loro” erano un gruppetto di cinque burocrati palesemente messi lì perché bravi nei numeri e nella politica, ma a cui l'esercito regio lì mollato dal re sul Trono di Spade in realtà non rispondeva. L'esercito, in parte composto di uomini e in parte di mostri ferini, rispondeva a un titano fatto interamente di roccia, ma vestito come un uomo, che era di poche parole e pareva non gradire molto il fatto di essere lì. Petyr – volente o nolente – ci aveva avuto a che fare diverse volte, perché ogni qual volta c'era da fare qualcosa di azione per il governo di quella regione, c'era bisogno di coinvolgerlo e... alla fine si era abituato. Era un mostro, sì. E all'inizio della loro convivenza presso lo stesso castello aveva più di una notte turbato i suoi sogni, senza dubbio. Ma alla lunga... il titano di roccia si era dimostrato come il meno antipatico degli inquilini abusivi a Delta delle Acque. Che poi in effetti Petyr non sapeva se esattamente dormisse nel castello o in qualche zona limitrofa (ma necessariamente non lontana). Cioè... quel coso dormiva? Petyr non lo sapeva. Non sapeva molte cose da quando gli stranieri avevano occupato la sua casa, meno di quante ne sapesse prima, quando a governare in pratica c'era sua madre. Quando aveva la mente libera e senza pensieri, e poteva giocare come il bambino quale ancora si reputava. Almeno aveva la sensazione che sua madre volesse addestrarlo a qualcosa. Questi di adesso no; questi di adesso, volevano solo la sua firma sugli atti ufficiali e poco altro. Una volta, per loro volere, Petyr aveva dovuto farsi vedere all'inaugurazione di una sorta di sagra della pesca in un villaggio vicino (che lui non aveva mai visitato nonostante fosse della zona), ma insomma anche in quel caso non era stato nulla di memorabile.

La sua vita stava procedendo così, come quella di un servo in casa propria. Cioè: non proprio un servo, non veniva mica frustato continuamente o costretto a lavori manuali, ma... minacciato della vita sì, quello capitava. E poi non era libero: non poteva scappare, visto che le guardie dei suoi cinque padroni lo tenevano sotto controllo anche quando andava al bagno. Era prigioniero, terrorizzato, traumatizzato e... non vedeva granché speranze nella sua vita. Finché non venne quel giorno...

Uno dei mille inservienti che bazzicava da sempre il castello ma con lui non aveva mai avuto molto a che fare e di cui non sapeva il nome, forse un erborista di palazzo, gli si avvicinò con fare un po' sospetto in un noioso momento di una mattina un po' piatta. «Hye, mylord!» gli disse, come a non voler farsi notare, «Mylord! Vieni qua!». Era palesemente una persona che non aveva studiato: se conosceva qualcosa del suo settore, la sapeva per nozioni dirette, non per la via di libri e volumi. Un uomo del popolo insomma, peraltro anziano e un po' malaticcio. Anche sporco. Lo invitò con una certa insistenza a seguirlo fino a un ripostiglio giù da una breve scala. Quindi, gli prese le mani con le sue lerce mani e gli consegnò una missiva.

«Ma che...?» fece Petyr, sbigottito.

«Leggila» gli disse invece il vecchio servo «solo quando pensi di poter essere completamente solo. Nascondila. Nascondila e poi leggila». A quel punto il vecchio semplicemente lasciò lo stanzino, quanto più rapidamente potesse. Anzi, prima di chiudersi la porta alle spalle si guardò prudentemente a destra e a manca: Petyr lo distinse benissimo. Quindi, il vecchio si dileguò e – dopo pochi secondi – pure lui, con la missiva ben piegata in una tasca interna della blusa.

Leggerla tuttavia fu un problema. Petyr non poté che attendere il sopraggiungere della notte, e pure in quel caso non riuscì a farlo. Le guardie si alternavano nel dormire in un sofà all'interno della sua camera da letto, e se lui avesse acceso un lume ovviamente se ne sarebbero accorte. Passarono così un paio di giorni, senza che Petyr riuscisse a trovare una soluzione a quel problema. Alla mattina del quarto giorno, decise che quello doveva essere il giorno in cui avrebbe letto la sua lettera misteriosa. Accese un fuocherello vicino a un pollaio con molta paglia attorno, e attese. Quando l'incendio divampò, ben quattro dei cinque legati regi che amministravano Delta delle Acque si precipitarono verso la zona del danno, per coordinare i lavori, raccomandando al quinto di non mollare la sua sorveglianza nei confronti “del ragazzino”, così gli venne detto. Intenzionato a giocarsi il tutto per tutto e quindi affrontando la possibilità di risultare troppo palese, Petyr si lanciò in un finto inciampo gettando addosso al burocrate quel grande piatto di dessert alle creme varie che parte dei presenti stavano consumando in quel fine pranzo. Tutto allarmato per i suoi “vestiti buoni”, anche il quinto amministratore lasciò la sala, raccomandando a sua volta ad un paio di guardie di non mollare il principe della Terra dei Fiumi. Ma le guardie non avevano esattamente le medesime direttive di quei cinque. Così, quando Petyr chiese di andare al gabinetto, loro gli dissero di sì ma lo seguirono. Fino a un certo punto. Quando lui disse che non potevano certo seguirlo fin proprio al pisciatoio, loro semplicemente attesero, e lì fecero l'errore che uno di quei cinque maledetti non avrebbe mai fatto. Dalla prossimità del pisciatoio, che conosceva bene, finalmente lasciato da solo, Petyr il giovane saltò giù da una bassa finestra a un piccolo tetto di un corpo basso, e di lì fu libero. Sapeva che lo avrebbero trovato, e poi non sapeva neanche dove andare... non fuggì, non intendeva farlo. Ma rimase da solo il tempo necessario.

Mentre il resto del castello lottava per spegnere un incendio domato già dopo meno di un'ora, lui si recò presso un posto speciale. Una mezza altura rocciosa dove si poteva scorgere bene il punto dove i tre fiumi s'incontravano. Era un terrazzamento naturale che aveva scoperto grazie alla sua mamma: lei lo aveva portato lì la prima volta, durante un tramonto. I tramonti lì erano qualcosa di eccezionale, ma in quel momento c'erano solo i tre fiumi. Era troppo presto per l'ora del tramonto, ma non lo era abbastanza per la sua tanto spasimata lettura della missiva.

Rompendo il sigillo di cera sul plico, nel quale campeggiava stilizzato un tordo tipico della sua famiglia, il giovane Petyr decise di leggere a voce alta. Quel posto lo meritava, e la sua solitudine conquistata dopo tutti quei mesi sofferti, lo meritava anche lei. Si liberò cominciando: «Mio caro figliolo, questo è un messaggio di speranza e di consapevolezza. Indipendentemente da quali siano le sofferenze che – immagino – tu stia soffrendo, debbo invitarti a resistere. Presto tu sarai libero. Per quello che è in mio potere, sto organizzando un piano con nuovi ed inattesi alleati. È un piano che prevede tanta attività diplomatico e poca azione centellinata. Per tal ragione, i tempi potrebbero non essere brevissimi, per quanto io ti giuro davanti ai Sette Dèi e sulla memoria della tua defunta madre, la mia adorata moglie, che farò quanto in mio potere per accorciarli. Volevo solo dirti in questo messaggio che qualcosa si muove, dunque non perdere la speranza. La speranza è perduta se non si hanno più prospettive, e non si hanno più prospettive se non si hanno più informazioni. Ma con questa mia io ti informo. Ricorda che, come dice il nostro motto, “la conoscenza è potere”. Con affetto, tuo padre il Lord della Valle di Arryn. Post Scriptum: distruggi il messaggio non appena lo avrai letto». Petyr si prese un minuto buono per piangere di delusione e disperazione. La lettera di suo padre non conteneva nulla di pratico che potesse farlo sperare in un futuro di libertà, se non un vago accenno ad un misterioso “piano”. Un piano: suo padre l'aveva sempre, era il tipico uomo che aveva un piano. E dove lo avevano portato tutti quei piani? A una moglie morta, un figlio prigioniero, e metà delle terre sotto la sua giurisdizione, occupate. Quel messaggio di speranza non aveva suscitato in Petyr il giovane alcuna speranza. Anzi, lo condannava ancora a quella vita di prigioniero in casa sua... per quanto? Un mese? Due, sei? Un anno? In un anno tutto poteva succedere. Magari arrivava il re Targaryen e decideva di liberare Delta delle Acque dall'occupazione, facendo di lui il suo erede e pupillo nella Terra dei Fiumi. O magari semplicemente un giorno, preso da un impeto sino ad allora insospettabile, il mostro di roccia prendeva il suo martello e schiacciava la testa di Petyr contro una parete rocciosa: perché no? No, suo padre in quella missiva aveva calibrato male lo spirito: non era proprio il caso di parlare di conoscenza e soprattutto di speranza.

Petyr strappò in tanti piccoli pezzi la missiva che portava in calce la firma d suo padre, e la consegnò al vento e, tramite questo, al fiume. Fece per tornarsene al castello e prepararsi alla ramanzina più dura che fino a quel momento i cinque usurpatori gli avessero mai fatto: non che lo potessero incolpare dell'incendio, ma di aver versato apposta la crema sull'abito di uno di loro, di aver manipolato le guardie e poi esser scappato... beh per quelle cose Petyr non aveva difese. Sperava che, nel consegnarsi di sua volontà, avesse ottenuto una qualche attenuante, ma non era per niente sicuro. Fece per andare, quando tutt'assieme la parete di roccia accanto a lui si mosse. Era il demone guardiano del re Targaryen, fino a quel momento assolutamente mimetizzato con l'ambiente. Terrorizzato, Petyr cacciò un urlo, a fu subito fermato dal mostro che era di poche parole, però parlava: «Niente grida, giovane Lord» disse «Risparmiale per quando ti saranno necessarie»

«T-tu m-mi hai s-sentito?» balbettò Petyr il giovane, comunque morto di spavento.

«Sì, ma non m'interessa. Io non rispondo al mio padrone se non per ordine diretto. E ho l'ordine diretto di tenerti prigioniero qui presso Delta delle Acque. Quello che tu leggi o non leggi, non è affare mio»

«Ehm... e... e lo dirai agli altri legati del Regno? Sì, ai cinque amministratori?»

«Non vedo una sola ragione per farlo», chiuse il titano di roccia e lo precedette, dirigendosi verso il castello. Petyr gli andò dietro con la coda tra le gambe. In verità, anche con un po' di speranza. Almeno quella di non ricevere punizioni troppo gravi dall'intemperanza che aveva appena compiuto. Quel fuggire e manipolare che sicuramente i cinque suoi momentanei padroni avrebbero considerato tale.

 

 

 

Dopo una serata e una nottata di riposo piuttosto tranquille, che in verità ci stavano, visto che era sostanzialmente da Pentos che non si fermavano, venne alla fine la mattina della Dieta, tanto propagandata sia da Baelish che soprattutto dalla vecchia Saestrya Martell. La riunione si sarebbe tenuta esattamente nello stesso luogo dove già il giorno prima Garhel, Banfred e Poll erano stati accolti, ma l'arredamento venne rinnovato talmente alla radice e talmente in fretta da dare perfino l'impressione di trovarsi in un luogo diverso. Certo: dei legati regi ufficiali, erano pur sempre dei legati regi che nobilitavano il dialogo di un gruppetto di rivoluzionari che il resto dei convitati alla Dieta altro non era. Saestrya era fuori da ogni norma e regola proprio per tradizione, fin dall'inizio della sua attività sediziosa. Baelish era un nemico della Corona ufficiale, quella sulla testa del re sul Trono di Spade, in quanto aveva cospirato con i suoi nemici e adesso subiva l'occupazione di una parte del proprio territorio, nonché la prigionia del suo unico figlio ed erede: cosiddetto Petyr il giovane. E per quanto concerneva loro tre – Sawela, Banfred e Poll Gaholla – loro erano gli esuli da un continente che il re sul Trono di Spade si era praticamente rifiutato di riconoscere fin dal suo insediamento. Costui non rispondeva alle lettere, neanche a quelle ufficiali, neanche a quelle di Goldsmith, giusto per fare un nome fuori da ogni sospetto. E poi ai suoi Concili Ristretti non partecipavano né Lord delegati regionali né Tribuni Popolari. L'Oriente non pareva essere proprio nei pensieri di Gabryaerys.

La grande sorpresa giunse, perfino per Baelish stesso, quando i primi ad arrivare alla riunione non furono nobiluomini e cavalieri sulle cui insegne campeggiasse un qualche tipo di corona. No: il vessillo che per primo giunse a Dorne garrendo allo scirocco del deserto, era quello su cui fioriva un albero di mele. Garhel era sicuro di averlo già visto, specialmente nei pochi anni in cui aveva bazzicato la Capitale in qualità di Tribuno Popolare dell'Est. Doveva essere di una qualche famiglia del nord, anche se non si ricordava quale.

«Salute a tutti» salutò il giovanissimo e biondo capo della delegazione, andandosi a sedere accanto alla padrona di casa, Saestrya, la quale pareva essere l'unica ad avere il reale controllo su quello che stava accadendo. Il cavaliere del nord si presentò: «Sono Hrysso degli Applegate, pronipote del Lord della ridente Alberocasa, al momento tristemente occupata»

«Occupata?» fece Garhel piano rivoltò a Banfred «E da chi?».

Dall'espressione sul suo volto, l'elefantino doveva saperne perfino meno di lui. Ma Lord Baelish, che era riuscito ad ascoltare come diversamente non poteva essere, dato la faina che altro non era, gli disse: «Dai Willoughby della Stella del Nord. E soprattutto, sotto l'avallo del reale dominus di tutta quell'area: Uryon Worchester. Che la fa da padrone da Delta delle Acque in su, strafottendosene altamente di chi comanda a Roccia del Re. E, nonostante tutto, in una sorta di appiccicaticcia amicizia col re sul Trono di Spade: è per causa sua che noi e i Bolton abbiamo perduto, e i due bestiali re si sono spartiti il continente. L'orso e il drago»

«Noto un filino di astio nel tuo tono, Baelish» constatò Sawela, senza peli sulla lingua.

«Anche più di un filino, Mylord. Sono qui per questo»

«Io non sono un Lord: come devo fartelo capire?». Baelish aveva come al solito la risposta pronta, ma venne interrotto da Saestrya che passò dalla sua semplice conversazione di accoglienza alla casa del nord lì sopraggiunta, a un discorso di spiegazione rivolto a tutti.

«Sir Hrysso, qui» disse ad alta voce la rivoluzionaria «è un amico che ci porta la voce di un nord apparentemente tutto asservito all'usurpatore Naharis. La sua presenza ci dimostra che non è così. Attenderemo la delegazione del re prima di approfondire meglio con le presentazioni ma... vi basti sapere che la guerra nell'estremo nord non è ancora finita. E, a quanto Sir Hrysso mi riferisce per il tramite di suo cugino Sir Elthon, non è neanche detto che vada per come al momento sembri star andando. Hanno un asso nella manica». Saestrya e quel Sir del nord si sorrisero complici, mentre sempre più Garhel Sawela si domandava che cosa diamine loro dell'est ci facessero in quel posto.

La delegazione regia giunse con una mezz'ora di ritardo. Chiaramente si presentò con al seguito almeno una cinquantina di cavalieri, ma i principali rappresentanti erano tre: due di loro vestiti con abiti orientali, uno addirittura con arco, faretra e frecce. Quella al centro, era una donna col caschetto castano, vestita come un uomo. Senza dubbio un trio curioso all'apparenza, per essere la rappresentanza ufficiale di un sovrano del Westeros. La ragazza col caschetto, giunta al centro di tutte le attenzioni, dunque presentò: «Una buona giornata a tutti. Mi chiamo Zenya e giungo qui a parlare in nome di Sua Maestà Constant della Casa Lannister. Il vero re del Regno Unificato. E questi sono Sir Bastian, da lungo tempo ormai consigliere personale del re. E il signor Pashamanyna, il mio secondo».

In quel momento, Garhel finalmente riconobbe uno dei due uomini orientali. Era un bassetto dall'aria furbetta che sapeva di aver già visto, ma pensava si trattasse di un caso, un suo errore di valutazione. Invece era proprio lui! Era l'uomo che aveva tenuto imprigionato la draghessa Kimera in nome e per conto di un padrone che gli aveva commissionato di praticare della magia oscura per le sue guerre d'occidente. Quell'uomo lo aveva persino tenuto imprigionato, insieme con il principe Marcus e con il sacerdote Yashua, il cultista del Dio Rosso. Solo che quando s'era occupato di quell'operazione, in coordinamento con un mostro fatto di sola roccia e teschio nero, lo aveva fatto con un ghigno beffardo sulla faccia. Invece adesso aveva un'aria tronfia e solenne. Come quella di un vero politico dell'occidente. Garhel era un passionale: non resistette. Disse ad alta voce: «Banfred! Portami via!»

«Che succede?» chiese Saestrya, un po' in imbarazzo.

«Succede che io non parlo con gli aguzzini!»

«Di che cosa state parlando?»

«Del Lord-sorrisetto lì, vestito come uno di Pentos, leccapiedi del re occidentale. Io sono stato un prigioniero di quell'individuo, insieme niente meno che con il principe Marcus dell'occidente! E maneggiava con la stregoneria e con... mostri mezzo-beste che usava come carcerieri. E come soldati»

«Il principe Marcus dell'occidente» disse quella Zenya «in questo momento è, forse, il principale degli alleati di suo zio re Constant. E lo abbiamo lasciato insieme a lui nelle terre dei Lannister. Dunque...»

«Un po' strano che lo riconosca come re» rise Baelish, provocatorio, «visto che sulla carta sarebbe più in alto di Constant nella linea successoria del defunto re Axelion»

«Eppure lo ha fatto. Constant sarà il suo re, fino al momento del ritrovamento dell'infante Napoleon Lannister»

«Ehm...» s'intromise un po' titubante Sir Hrysso «Napoleon Lannister è il re. Daniel di Cowain, che si trova con mio cugino non lontano da Alberocasa, pretende che venga riconosciuto come tale»

«Perché: è vivo?» chiese Baelish, evidentemente stra-divertito dalla situazione, «Daniel di Cowain?»

«Lo è, signore»

«Io presumo» fece a questo punto Sir Bastian, il primo che era stato chiamato in causa, e che ancora non aveva detto la sua, «che tutto quello di cui in questo momento stiamo discutendo, per quanto importante, non sia l'oggetto di cui oggi avremmo dovuto discutere qui, a questa Dieta così gentilmente organizzata dalla signora Saestrya Martell. Giusto per essere chiari, e abbassare i toni, sì» a questo punto il Sir paffuto si rivolse direttamente a Garhel Sawela, «io servivo il Signore delle Dune, oggi noto come re Gabryaerys Targaryen Naharis. Mi lega... un qualche rapporto complicato di affetto nei suoi confronti. Pure ora, in questo momento. Ma non combatto più per lui. Non è bene che sia lui il re del Regno Unificato. Per questo adesso, come Zenya via ha già spiegato, servo re Constant. Come fa anche Marcus Lannister, che voi Sir... Sawela... giusto?»

«Sono un Lord»

«Ma come...» s'intromise Baelish «non mi avevate detto poc'anzi di non esserlo?»

«Dipende da chi parla, Baelish. E ora sta' zitto»

«Sì, comunque» riprese Bastian «quello che voglio dire... è che ora siamo tutti dalla stessa parte»

«Sapete, Sir Bastian, ho la sensazione che voi qui vogliate fare bella figura, oltre a rendervi utile» cominciò il Lord della Valle «ma avreste molto più successo, se foste disposto a dirci tutta la verità, su questo usurpatore circondato da demoni e... oscurità»

«Che cosa volete sapere?»

«Le mie fonti alla Capitale da lungo tempo mi parlano di un legame... particolarmente stretto tra lo pseudo-re e questi suoi inquietanti servitori»

«Sì, è così»

«Tanto stretto... da poter risultare vitale?»

«Io questo non lo so...»

«Sì!» esclamò Zenya «la vita dei demoni su questa terra è inevitabilmente legata a quella di colui che li ha risvegliati. E viceversa: ogni volta che si scalfiscono loro, si scalfisce lui»

«Come sapete tutto questo» chiese Saestrya Martell «Lady Zenya?»

«È difficile da spiegare. Sono nozioni antiche. Che siamo riusciti a reperire grazie al nostro viaggio nel nuovo continente, il Miriedos. Esso è il più antico di tutti i continenti. E custodisce realtà... che voi, signori, non potreste immaginarvi»

«È un po' vago» commentò Baelish «ma forse non abbiamo alternative»

«Signori. SIGNORI!» gridò a questo punto e finalmente Banfred «Davvero? Ancora una volta state ricadendo nel medesimo errore? Sono sicuro che a tutti voi, o ai vostri Lord o re, sono giunte le nostre missive di accorato appello: non c'è più tempo per scannarci tra di noi. Un drago! Vero! Che qui in molti abbiamo visto coi nostri stessi occhi. Fatto di scaglie e squame e sputa-fuoco, ha fatto cadere una a una tutte le più grandi città dell'est. Pentos è la prossima, e poi Myr e poi... Dorne. E poi forse Roccia del re, chi lo sa? Bisogna agire tutti insieme, uniti, in questo momento! Non è un'invenzione: è un pericolo reale. E sta venendo a prenderci tutti»

«Sono stato in oriente» replicò Baelish, pacato, «E so bene che ogni vostra attenzione al momento è giustamente dedicata a questo problema. Ma lasciate che vi apra un'altra prospettiva: vi prego. Sempre le mie fonti alla Capitale mi riferiscono...»

«Ne hai proprio parecchie...» si lasciò scappare Garhel, con una punta di polemica.

«È così» rispose Baelish, serissimo, «perché è così che si fa la politica. Ebbene, mi riferiscono... che quando parla celle sue connessioni con i suoi mostruosi servitori... il re usurpatore parla spessissimo anche di un drago. Da cui più o meno tale potere deriverebbe. Naturalmente, è una materia assai delicata, che forse neanche noi capiremmo appieno, ascoltando con le nostre orecchie. Ma, ora che abbiamo saputo che il nostro Sir qui conosce Gabryaerys personalmente, mi sento di domandare... è possibile questa cosa?»

«Lui... sì, era in accordo con un drago. Ma non ho idea se, dietro tale accordo, si possa celare – come con i demoni – un qualche legame di natura più... viscerale»

«Un drago, uno stregone con una corona sulla testa e un gruppuscolo di mostri dal teschio nero che gli girano attorno» concluse Baelish «tutti mescolati insieme in una sordida alleanza che va a discapito di noi tutti. Quindi... se abbattessimo questi famosi demoni, uno ad uno, cercando di prenderli in solitaria...»

«Di cosa stai parlando esattamente, Baelish?» chiese Saestrya Martell.

«Sappiamo con precisione dove si trovano due di loro. Uno, il cui corpo di titano è interamente ricoperto di solida, quasi inscalfibile roccia, tiene prigioniero mio figlio a Delta delle Acque. L'altro, se possibile ancor più inquietante, è invece mio prigioniero alla Valle. Su costui, si potrebbe fare una prova»

«Il re...» suggerì Zenya «Constant conosce la magia. E ha già abbattuto uno di quei cosi. Quello con il potere dell'acqua. Il vostro prigioniero invece...?»

«Fuoco. Ad elevatissime temperature. Dalle mani, come se niente fosse. Infatti lo teniamo prigioniero immerso in una cella di neve e ghiaccio. Da lì non riesce a rigenerarsi»

«Deve essere Corarus, e l'altro Helmon» fece quel Pashamanyna, quello con arco e frecce, che fino a quel momento non aveva aperto bocca. Garhel era più confuso che persuaso, e un senso di rabbia e insoddisfazione lo stava prendendo tutto. Perché non aveva più le gambe, altrimenti sarebbe zompato in piedi e avrebbe cominciato a sbraitare.

«Dici che il suo» fece Zenya al suo secondo «È quello con la corona d'ossidiana?»

«Così è» proclamò Baelish, solenne, «Una tiara nera indistruttibile come il suo teschio, poggia sul suo capo spoglio. Ne conoscete il nome?»

«Abbiamo letto un libro» disse Zenya.

«Che libro?» chiese l'ospite di casa Martell, Lady Saestrya, tutta entusiasmata.

«Un libro magico... io ho una buona memoria, ma... quella del mio secondo è prodigiosa. Lui sì che ne conosce i nomi»

«Quanti sono?» chiese Baelish.

«Sette» rispose Pashamanyna «Uno presumibilmente già eliminato: Muldrow. Poi ci sono Corarus ed Helmon, Xenorus delle energie fredde, Meredjuxor della natura, Tararus dell'energia del cielo in tempesta e... Braff»

«Braff?» disse Saestrya «come il Maestro dei Sussurri?»

«A detta di Marcus, il nome non è la sola rassomiglianza» spiegò Zenya «il demone delle ombre, quand'era in vita, era anche una spia... ed un pedagogo. Il migliore del suo tempo»

«È impressionante» commentò ancora il Lord della Valle «Dunque sappiamo l'ubicazione di almeno altri due di loro. Se uno fosse Braff... l'altro è sicuramente quello che per ora gli fa da Primo Cavaliere, anche se non ho idea quali siano il suo nome o i suoi poteri... potrebbe essere ghiaccio, come natura come... quell'altra cosa che avete detto. Pensate che Constant potrebbe sconfiggerli?»

«Non lo so» ancora Zenya «l'ultima volta ci ha quasi lasciato le penne»

«Abbiamo alternative?» chiese Saestrya.

«No» sentenziò Baelish.

«Saresti in grado di convincerlo?» chiese Banfred alla ragazza vestita da uomo.

«No» disse Zenya, ma indicando Sir Bastian concluse con un: «ma lui sì»

«Anche il principe Daniel ha dei poteri» suggerì Hrysso Applegate.

«Il tempo che scenda qui, e il drago si sarà già preso anche Altogiardino, oltre che Dorne» constatò Banfred.

«Fermi, fermi. FERMI!» sbottò quindi Garhel. Si rivolse al solo elefantino: «Non vedi che cosa sta facendo?»

«Chi?» replicò quello.

«Baelish! Ci sta convincendo a fare quello che a lui conviene che facciamo. Non abbiamo uno straccio di garanzia che, ove mai riuscissimo ad annientare uno di quei cosi, Gabryaerys ne risentirebbe, e di conseguenza... dovrebbe risentirne il drago? Perché? Perché lui l'ha sentito dalle spie? Ma non ti rendi conto che discorsi da pazzi sono questi? Lo sai cosa farà, se l'impresa alla Valle dovesse andare a buon fine? Vi manderà tutti a Delta delle Acque dritti dritti a liberare suo figlio!»

«Certo» replicò Baelish «infatti è così, non lo nascondo per niente. È già stato detto: siamo tutti da una stessa parte»

«Noi non eravamo veniti qui per vaneggiare di spettri e demoni» continuò quasi senza fiato Garhel «Cercavamo qualcosa di concreto! Almeno di plausibile! Banfred: ti chiedo di portarmi via da questo consesso. E di venire con me»

«Ma Lord Sawela» provò Saestrya Martell «non ci sono alternative...»

«L'alternativa è combattere il drago!»

«Sì» disse Banfred «e a che cosa ci ha portati fino ad ora? Forse la strategia è meglio dello scontro diretto...». Garhel rimase in silenzio. Non aveva nulla da dire, anche se era contrario. Non poteva farci niente. Non poteva neanche andarsene. Osservando di essere l'unico a pensarla a quella maniera, decise di rimanere in silenzio per il resto della riunione. A questo punto, prima di darsi un vero e proprio appuntamento a Nido dell'Aquila e vedere chi c'era e chi no, Zenya – per conto del re a Castel Granito – chiese lealtà. Saestrya Martell le rispose che Dorne avrebbe appoggiato Constant, a cambio del tanto atteso riconoscimento ufficiale. Sir Bastian disse che da questo punto di vista i carteggi tra Constant Lannister e Jon Barthalo, che loro avrebbero messo sul trono di Castel Granito al posto di Gino Barron – leale al re Naharis – erano parecchio incoraggianti. Saestrya si accontentò e annunciò che per l'impresa nella Valle avrebbe messo a disposizione l'armadio munito d'ascia che gli faceva da guardaspalle. Non che lame e coltelli avrebbero potuto mai essere utili senza la magia di Constant, ma tutti dovevano pagare un prezzo a quella sgangherata alleanza che si stava venendo a formare.

Hrysso Applegate ribadì che, per quanto lo riguardava, non aveva alcun potere di non riconoscere quale re colui che i suoi Lord gli dicevano di riconoscere, ovvero Napoleon. Ma comunque si mise a disposizione, lui con il suo piccolo seguito di cavalieri del nord in pelliccia, per l'impresa alla Valle. Lì almeno avrebbero trovato temperature più consone ai loro abiti. Anche Baelish si mise a disposizione, ma usando un arzigogolo di parole sulle quali un giorno avrebbe potuto montare tutto e il contrario di tutto. Garhel lo aveva ormai imparato a conoscere bene, e anche i delegati di Constant – se non fossero stati degli sprovveduti – avrebbero fatto bene a fidarsi, ma sempre e solo fino a un certo punto.

Per quanto riguardava loro, la delegazione dell'est, finì che si spaccarono: con Banfred profondamente convinto del piano degli occidentali da una parte, e lui – l'ex Tribuno Popolare Garhel Sawela – che se solo avesse avuto le gambe, se ne sarebbe andato probabilmente a morire da qualche parte di nuovo nell'Essos. Forse a combattere al fianco dei pentosiani: chi lo sapeva. L'eventualità non si sarebbe mai ripresentata, perché sempre con Banfred lui sarebbe rimasto. Un po' perché il giovane elefantino ormai era le sue gambe. E un po' perché aveva sviluppato nei suoi confronti una sorta di paterno senso di protezione. Non che sarebbe stato in grado di difenderlo fisicamente ma... almeno poteva controllarlo, buttare un occhi su quello che faceva e non faceva.

Ad ogni modo, anche Banfred se ne uscì un po' come poteva con una specie di: “intanto facciamo insieme 'sta cosa, e poi vediamo”, e quella Zenya non poté in effetti pretendere altrimenti, come d'altronde fecero anche gli altri due, quel Pashamanyna e quel Sir Bastian; quest'ultimo tra altro, da uomo più vicino in assoluto al re dei Lannister, o almeno così gli avevano spiegato. Ma l'impresa non era ancora vicina dal cominciare: bisognava che Zenya e gli altri tornassero alla capitale dei Lannister e si facessero dire di sì dal loro re. Se Constant accettava, allora c'era un demone da eliminare, e forse due. Ma se Constant rifiutava? Allora tutto ritornava come prima e... niente guerra contro il drago? A che cosa era servita dunque questa Dieta di Dorne? E in attesa della risposta di Sua Maestà il re senza Trono di Spade, loro dell'est cosa avrebbero fatto? Sarebbero rimasti lì in vacanza a Dorne a spese della Martell? Mentre magari il drago, all'est, si rifocillava e riacquistava tutte le sue energie? C'erano troppe zone d'ombra in quel programma. E tutta quella situazione, all'ex Lord Garhel Sawela, piaceva proprio poco.

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Capitolo 10
*** La regina e il cavaliere ***


Capitolo 10

LA REGINA E IL CAVALIERE

 

 

 

La regina Hana della Casa Lannister aveva infine ottenuto quello che voleva. Non che la cosa le risultasse incredibile, visto che ormai da un po' di tempo si era resa conto di saperci fare: di sapersi muovere in mezzo a tutti i potentati e relativi personaggi che occupavano certi ruoli nel Regno e nella fattispecie nella sua capitale. Solo che questa volta, quello che – insieme ad altri – era riuscita a realizzare aveva davvero qualcosa di inaudito: due re che mettevano in pausa i loro contrasti al fine di battezzare un infante. Suo zio Constant aveva così dimostrato tutta la pacatezza e la lungimiranza che lo contraddistinguevano: voleva il trono, questo ormai era chiaro per Hana, ma non era disposto a versare altro sangue dei suoi nipoti per questo, e su di questo la diplomazia aveva potuto lavorare. Gabryaerys, d'istinto suo, se non avesse avuto lei al suo fianco, Hana era sicura che avrebbe cercato di organizzare almeno un qualche tipo di trappola pur di fare prigionieri almeno una parte di quelli che considerava suoi nemici: gli uomini che minacciavano la sua sicurezza sul tanto spasimato Trono di Spade. E invece anche il re Targaryen-Naharis, per amor di suoi figlio e soprattutto di sua moglie, si era alfine ammorbidito.

Venne dunque organizzato un grande evento fuori dalle mura della città, con una cinta di guardie occupate ad evitare che il volgo si avvicinasse troppo ai convitati. Hana, nelle settimane precedenti, praticamente ogni giorno aveva ripetuto a Gabryaerys di fare in modo che il suo nuovo amico Yashua non scatenasse un pandemonio, e che gli facesse vivere il giorno del battesimo del suo delfino con assoluta serenità. Dal canto suo il re, che ormai le pareva piuttosto sincero con lei, la tenne aggiornata sull'intera trattativa, ed era in effetti vero che Yashua – senza che loro gli avessero detto niente – probabilmente si sarebbe auto-invitato alla cerimonia con l'intenzione di mandarla all'aria. Ma Gabryaerys gli aveva promesso ancora più libertà in città di quanto già non avesse fatto, si era continuato a trattare ancora per un pochino, e alla fine il sacerdote del dio rosso aveva promesso solennemente al re – a costo di farselo nemico – che il principino avrebbe avuto un sereno abbraccio con gli dèi di sua madre e dell'intera sua genia materna.

Il principale bersaglio, l'ossessione per cui Hana avrebbe giurato che Yashua in quel momento si stesse reprimendo con tutta la forza interiore che aveva, non poteva che essere Sua Sacralità l'Alto Septon dei Sette: Brendan, colui che rappresentava in terra che le forze cui Yashua si appellava non potevano che essere forze demoniache. Sul versante politico, padre Brendan era meno interessante, ma Gabryaerys invece avrebbe avuto non poco interesse nel catturare Marcus, fratello di Hana, che a quanto pareva stava per scortare l'Alto Septon fuori dalle mura della Capitale, con un piccolo contingente di veterani dei Lannister; pochi ma ben addestrati. Ed in effetti fu così che andò tutto. Dopo che qualche mese prima, a Delta delle Acque, Hana aveva avuto la bella notizia che suo fratello Daniel era ancora vivo e vegeto, adesso – non lontano dalla loro vecchia casa in cui erano cresciuti insieme: il palazzo del re – anche di Marcus, la regina avrebbe potuto dire la stessa cosa. Solo che si ricordava di suo fratello come di un ragazzetto bruttarello, secco e lungo, e dall'aria un po' ingenua, mentre quello che adesso le si trovava dinanzi agli occhi era un uomo dalla folta barba nera e le spalle larghe, bardato come il Cavaliere della Chimera che era. Anzi, Marcus venne perfino giù dal cielo sulla sella di uno di quegli straordinari animali, il simbolo della Casa regia di Lannister.

Quando Hana corse verso di lui per abbracciarlo, la sensazione di stranezza crebbe. I due non si riconoscevano molto, anche se chiaramente sapevano che in quella regina e in quel cavaliere si nascondevano i ragazzi che giocavano ad acchiapparello per gli ampli corridoi del castello regio di Roccia Del Re, nascondendosi tra gli arazzi oppure convincendo una guardia a regger il gioco per loro. Marcus era sempre stato molto diverso da Daniel; selvaggio come un Andalo il primo, serie e pacato come lo studente che sarebbe destinato ad essere il secondo. Forse era proprio per questo suo essere un bambino dal carattere così diverso dal fratello, che si finì per bollare Marcus con il nomignolo di “Andalo”. Marcus l'Andalo adesso non c'era più. Adesso c'era un serissimo Cavaliere della Chimera, di gran lunga più serio del Daniel che Hana aveva rincontrato alla Terra dei Fiumi. In quel caso, quello che la regina aveva percepito era stata la tanta gioia che lei e suo fratello avevano avuto in comune; erano entrambi festanti perché provenivano da una ritrovata libertà, anche se temporanea nel caso del principe di Cowain. Questa volta le circostanze erano un po' più bislacche. Marcus arrivava come ambasciatore di un sovrano nemico; e anche se Gabryaerys e soprattutto Yashua avevano spergiurato che tutto sarebbe andato tranquillamente, non si poteva negare un minimo di tensione nell'aria. «Hana» fece Marcus baciandola sulla guancia: la differenza d'età fra i due era di poco meno di un anno. «È davvero un piacere vederti»

«Oh, Marcus, anche per me. Il viaggio è andato bene?»

«Sì tutto bene, sorellina. Circa a metà strada ci ha beccati una pioggia un p' forte, ma avevamo ospitalità e riparo. È questo il festeggiato?»; Marcus allungò la testa verso il fagotto che la regina teneva tra le braccia. «Sì»

«Ha i tuoi colori» continuò il principe cavaliere «che però, in verità,mi sembrano anche quelli di tuo marito»

«Dipende quanto s'inscuriranno crescendo. Chi lo sa: di qua a qualche anno potrebbe perfino raggiungere i tuoi. Questo castano molto scuro alla zio Pylgrim»

«No, scuro come il Leone Nero non sarò mai»

«E come stanno gli zii?»

«Beh, floridi e in salute, se è questo che stai chiedendo... Ma certo un po' infelici, per... la situazione»

«Ma in questo momento noi due siamo qui, insieme. Chissà che questo non possa essere il segnale di un possibile scongelamento delle ostilità fra le due parti»

«Chissà» sorrise suo fratello, poco convinto.

«Vostra Maestà», sopraggiunse a questo punto il Gran Maestro Irwin, in compagnia di un giovane monachello dai capelli color di carota, «lasciate che vi presenti Sua Sacralità, l'Alto Septon Brendan»

«Così siete voi» fece Hana, non riuscendo a nascondere un certo stupore, «mi avevano detto che eravate giovane ma... ecco – nonostante tutto – non mi aspettavo così tanto, Sacralità»

«Sì, in verità» replicò padre Brendan «mi sento ancora in fortissimo imbarazzo con tutte queste persone che mi chiamano “sacralità”. Mi hanno spiegato che è un'accezione necessaria ma... regina, per voi, se volete sono solo Brendan»

«Ci proverò padre... Brendan». Dunque il religioso e il Gran Maestro delle Scuole si allontanarono dirigendosi verso l'altare. Hana confessò a Marcus, con un po' di sarcasmo: «Quest'Alto Septon è già un rivoluzionario». Ci voleva un po' d'ironia per stemperare il clima, visto che – immediatamente dopo – Hana non poté che condurre il suo fratellone a fare le presentazioni con suo marito e i demoni che lo accompagnavano: Tararus il Primo Cavaliere e Braff il Maestro dei Sussurri, l'uomo che aveva ucciso Axelion Lannister, comune fratello di Hana e Marcus. In realtà, Braff era l'unico dei tre che Marcus già conosceva. E c'era il rischio che da quell'incontro scaturissero delle scintille, ma per fortuna tutto andò bene. Entrambe le parti sapevano che la posta in gioco era troppo alta e che tutti erano chiamati a un gesto di tolleranza e distensione. Anche a costo di dover stringere la mano a una persona che si odiava. Hana in effetti per un attimo, un istante più che repentino, pensò che tutto stesse per degenerare, quando Marcus si rivolse al re chiamandolo “mylord”. E invece niente: tutto regolare. Gabryaerys inghiottì il rospo e il cerimoniale proseguì più sereno di prima.

Quando si trattava di Hana, la folla improvvisamente diventava benevola ed affezionata; per questo, salutò con garbo alle celebrazioni per il battesimo del delfino. Incredibilmente non ci furono scontri con la guardia cittadina; e quando padre Brendan proclamò il piccolo battezzato nella luce dei Sette, si liberò perfino in uno scrosciantissimo applauso che commosse Hana non poco. Un altro momento che pure la emozionò, anzi forse il più emozionante di tutti, fu il momento in cui Brendan le chiese – a lei e a Gabryaerys – di dichiarare il nome dell'infante. «Lyoneth» esclamarono con convinzione i due sovrani genitori. Per giungere a quel nome c'era voluta un'intera giornata di trattative tra il re e la regina, che coinvolse anche diversi loro consiglieri. Lord Pamir Gaholla e Lord Gushing per esempio, entrambi presenti poi anche alla cerimonia, che misero in testa ad Hana l'idea di dover chiamare il bambino con un nome che contenesse l'idea del leone al suo interno: era stato così per tutti gli eredi Lannister recenti, da re Lionel, ad Axelion a suo figlio Napoleon. Dal canto suo, il re aveva preteso che il nome finisse in “erys”, come buona parte di quelli dei sovrani Targaryen, ma dalla parte della regina quel suffisso patronimico era percepito come un po' troppo esplicito: non suonava bene che un re che già si chiamasse Gabryaerys, desse come nome al proprio figlio una roba tipo: “Lyonerys”. Dunque le trattative s'arenarono per un'altra mezza giornata, e alla fine dalla parte del re venne fuori la proposta definitiva, quella che poi risultò vincente. C'era un altro suffisso usato dai Targaryen, meno in uso ma comunque utilizzato da certi sovrani antichi: “eth”. E così Lyoneth fu.

Dopo il più che solenne momento del nome, e il momento dell'applauso della folla, dalla regina tanto apprezzato quanto inatteso, spettò dunque ad Hana – sempre col fagotto al braccio e il marito coronato accanto – di fare gli inviti per la cena: la cerimonia s'era tenuta nel pomeriggio. Gli inviti erano una formalità: più che una tradizione, la cena con tutte le autorità convenute era una tradizione scolpita nella pietra che mai e poi mai avrebbe potuto evitarsi, anzi si può dire che fosse parte del cerimoniale essa stessa. Ma parte del cerimoniale richiedeva pure che la regina facesse ufficialmente gli inviti. Così, rivolta primariamente agli ospiti principali, ovvero all'Alto Septon Brendan e a Sir Marcus Lannister – ma anche a Braff, Tararus, Irwin, Gushing, Gaholla e tutti gli altri nobiluomini lì presenti – la regina con un sorriso smagliante fece: «Miei signori... ma cos'è quello?» e il sorriso le si trasformò di colpo in una smorfia d'orrore.

Una strana luce verde, come un fumo denso dalla vaga forma di uccello, si avvicinava sempre di più al corteo battesimale. E più rapidamente si avvicinava, più grosso pareva. Era forse una specie di pipistrello? No: troppo grosso. Uno strano, magico, uccello orientale? No: troppo grosso. Quello non poteva essere che un drago. «Un drago?» fece il Primo Cavaliere Tararus, il demone dal teschio nero che più di tutti scortava Gabryaerys e che aveva sul capo una ridicola coroncina principesca. «No, è una magia dello spirito» rispose Braff «un rituale particolarmente antico e potente. Impossibile da praticare con i mezzi di oggi: nessuno di noi ci riuscirebbe»

«E allora» disse ancora Tararus al suo simile «di chi si tratta?»

«Hai davvero bisogno di chiedere?» replicò ancora Braff; Hana notò che il Lord delle spie aveva un'aria quasi atterrita: un'espressione di sincera paura gli si era dipinta nel volto, «Proprio tu?»

«Requiem?» chiese ancora Tararus. Braff non rispose, ma con una delle sue magie dell'ombra, semplicemente si volatilizzò dalla zona. Tararus gridò: «Dove vai? Vigliacco!», ma non ci fu più il tempo di discorrere oltre. La creatura, che – per come Hana se li era sempre immaginati – un drago non era, a meno che non fosse un drago interamente composto di una strana luce gassosa, s'appollaiò su di una roccia sopraelevata, buona per fare ciò che subito il mostro eseguì: scagliare una fiammata ardente su tutta una parte della ressa di plebe e nobili che non avevano ancora avuto il tempo di darsela a gambe. Ora sì, Hana capiva: quella cosa era immenso, aveva le ali e sputava pure fuoco; doveva essere un drago!

Naturalmente gli attimi cominciarono a scorrere concitati, quando in realtà mille cose nella mente della regina iniziavano a turbinare tutte insieme: per prima, la priorità della salvezza per il bambino che aveva in braccio. Per seconda: la sua stessa salvezza. E per terza, con sua immensa sorpresa: la salvezza di suo fratello, il Cavaliere della Chimera. Si domandò poi che cosa stesse accadendo, che cosa un drago ci facesse alla cerimonia di battesimo di suo figlio e perché una tale tragedia così dannosa e crudele si stesse abbattendo sulla sua persona e sulla sua storia di donna e di regina. Adesso il battesimo di suo figlio sarebbe rimasto negli annali, perché fu anche il giorno dell'avvento di un drago fuori dalle mura di Roccia del Re. Hana non poté in ultimo non chiedersi se in tutto quello che stava accadendo, nonostante il nome di “Requiem” che lei non conosceva e che il Maestro dei Sussurri e il Primo Cavaliere avevano appena fatto, non si celasse invece lo zampino di un nemico così palese dell'intera comunità che quel pomeriggio si era riunita: lo stregone del dio rosso, Yashua.

La creatura parlò, con un'inquietante voce graffiante, del tutto non umana. Disse: «Gabryaerys Targaryen». Attese pochissimi istanti; poi completò: «Gabryaerys Targaryen e il suo erede». Una morsa strinse il cuore della regina. Capì che quello era il segnale per scappare velocemente. Mentre suo fratello il principe Marcus balzava quasi senza dir niente, ma con uno sguardo complice a Gaholla e Gushing, sul suo destriero dorato dalla foltissima criniera, anche l'Alto Septon Brendan, scortato dal Gran Maestro Irwin, spariva da qualche parte in mezzo alla folla. Gushing, che sotto suo padre re Lionel aveva ricoperto il ruolo di Maestro delle Leggi, sguainò il suo fioretto e, prendendola per mano, chiese alla regina Hana di seguirlo, con il suo fagotto sempre in grembo. Pamir Gaholla andò con loro. Hana vide suo marito il re lanciare un ultimo sguardo preoccupato verso di lei; dopodiché, tranquillo evidentemente per le mani in cui stavano sua moglie e il suo delfino, con la sua magia si librò a mezz'aria: era la prima volta che Hana glielo vedeva fare. Quindi il re esclamò solenne al drago: «Eccomi, sono io Gabryaerys Targaryen». Dunque cominciò a battagliere – non si capiva bene come – contro quel drago fatto di puro spirito. Con lui, anche il suo primo assistente Tararus iniziò a scagliare verso la creatura quelle che ad Hana parvero delle saette; e inoltre Marcus, che invece s'abbatté in volo sul mostro, senza però apparentemente pigliarlo. Nel mentre, il drago si concentrava sì sui suoi nuovi avversari, ma di tanto in tanto continuava a scagliare fiammate sulla folla, che nel frattempo era completamente andata di matto.

In preda al puro terrore, Hana, Gushing e Gaholla si ritrovarono schiacciati in mezzo alla plebe. A nulla valsero gli improperi di Gushing che richiamava le guardie al loro dovere di difendere la regina. Pochi lo fecero: la gran parte dell'esercito di animali che con il re straniero era venuto a Roccia del Re, con lui tendeva a rimanere, e se non faceva questo, scappava come qualsiasi membro del popolo. Conclusione: quella della regina e del delfino fu una fuga solitaria. E lo fu ancor di più quando il drago con la coda distrusse un arco che fungeva da porta, sotto il quale parte della folla stava passando per rientrare verso la città. Gushing rimase sommerso dalle macerie, e Gaholla incastrato per la gamba. Hana, che conosceva Gaholla da quando erano bambini, con gli occhi pieni di lacrime, gridò disperatamente e fece tutto ciò che poteva per capire come liberare Pamir da quella prigione. Nulla poteva assicurare al vecchio Maestro delle Strade e dei Ponti di suo padre di non venire calpestato dalla massa, furiosa di paura. Ma tutto era troppo confuso e troppo rapido. Hana venne costretta a proseguire il suo cammino dentro la città, spinta a forza da uomini e donne che non riusciva a distinguere. Insieme con la folla, anche il drago si era spostato e con lui il combattimento nel quale era coinvolto. Nel cielo, Hana non riuscì più a vedere il Primo Cavaliere Tararus e neanche suo marito. Vide Marcus: la sua chimera venne sbalzata via, perse un certo equilibrio. L'Andalo cadde giù, ma carambolò di tetto in tetto, senza sfracellarsi al suolo. La chimera invece volò via. Marcus, che al collo teneva un fischietto, cominciò a soffiarlo disperatamente: la sua armatura era rotta in moltissime parti; anzi, era più l'armatura rotta che l'armatura sana, quella che in quel momento copriva il principe cavaliere. A un certo momento, Marcus alzò lo sguardo e la vide, sua sorella la regina. I due fratelli dunque si ritrovarono, correndosi in contro. Come già aveva fatto il caro Gushing, anche Marcus prese sua sorella per la mano e cominciò a trascinarla. Entrarono in un edificio mezzo distrutto che, se Hana non andava errata, doveva essere di proprietà del clero. Percorsero insieme molte sale e lunghi corridoi. Ma il drago non conosceva pietà: scoperchiò la parete dell'edificio e trovò lei, Lyoneth, Marcus, e il resto della folla che vi si era introdotta. Il mostro sibilò: «L'erede». Hana non riusciva a capire come diavolo facesse a sapere loro dove si trovassero e l'erede chi effettivamente fosse, eppure era ormai piuttosto chiaro che il drago sapeva. Addirittura, in mezzo a tutti quei fasci di luce un po' più concentrati che dovevano essere il muso dello stranissimo animale, Hana distinse quello che le parve quasi un crudele sorriso. Pensò che era finita. Si disperò. Ma suo fratello non intendeva arrendersi: prese e la spinse dentro una camera la cui porta era fino a quel momento rimasta nascosta da un armadio mezzo caduto e mezzo distrutto. Quando anche lui provò ad entrare, fu in parte tardi: dentro la camera, Hana fu costretta ad assistere al braccio sinistro di suo fratello prender rapidamente fuoco. Appoggiò il piccolo su un cuscino e prontamente staccò un pesante tendaggio dalla parete e batte sul braccio del suo fratello cavaliere urlante, in preda al dolore. Ci mise un po', ma estinse la fiamma. Il braccio di Marcus era praticamente tutto nero e secco, e puzzava da morire.

Fu in quel momento che la regina s'accorse che qualcosa oltre la porta doveva esser mutato. Il clima era diverso, i suoni erano diversi. L'aprì per un filo e osservò la scena. Tararus e – volto nuovo, che fino a quel momento Hana quel giorno non aveva visto – il sacerdote Yashua stavano unendo le loro forze contro lo sgradito, mostruoso, ospite della città: il drago di luce. Gabryaerys invece giaceva ad un angolo, apparentemente fuori combattimento; adesso solo i suoi amici combattevano per lui. E finì pure che ebbero la meglio...

Continuando a scrutare il tutto da quella piccola fessura nascosta che aveva deciso di aprirsi, la regina non riuscì neanche bene a capire che cosa esattamente capitò. Si trattava in ogni caso di magia, ambito che per sua definizione è misterioso, e lo era ancor di più per chi non l'aveva mai praticata. Ma alla fine, la robusta fiammata sprigionata dai palmi congiunti delle mani di Yashua, e l'uguale energia di tuono che invece Tararus scagliò dai suoi guantini di pelle (che chissà che dita scheletriche dovevano nascondere) finirono per estinguere la figura del drago di luce, che praticamente scomparve tutt'assieme come se si fosse trattato di niente di diverso da una distruttiva e mortale bolla di sapone. Incredula, ferita, ancora spaventata, anzi tremante di terrore, ma felice per essere viva, con suo figlio lì vicino e suo fratello pure, anche se forse gravemente ferito, alla fine la regina aprì ancora di più la porta ed uscì dal proprio nascondiglio. Vide anche Yashua crollare a picco come già era successo a Marcus: pure il sacerdote del dio rosso doveva aver perso ogni energia. Il demone coronato invece, Tararus, pur se evidentemente spompato, era ancora vegeto. Fu lui a organizzare la scorta per Hana, Lyoneth, il re, Marcus e gli altri, su alla volta degli appartamenti regi.

 

 

 

Daniel di Lannister era un uomo diverso. Era accaduto qualcosa dalle sue ultime “lezioni” di piromanzia, quelle che il giovane principe avevo preso da Pyra, la maga intrappolata in un'altra dimensione, accessibile a sua volta però solo dalla Grande Quercia, la vecchia residenza del drago Nidhogg. Era come se, tutt'a un tratto, ogni energia sopita nel suo spirito e soprattutto nel suo corpo si fosse risvegliata. Si sentiva più alto, anche se era altino già da prima. Ma soprattutto si sentiva più forte, più robusto, più resistente. La prova del fuoco non era stato solo un addestramento. Pyra lo aveva aiutato a cavare fuori da sé un qualcosa che Daniel non riusciva a capire se fosse insito in ogni natura umana, o se ce l'aveva solo lui. Se in qualche modo Nidhogg gli avesse instillato un potere sopito che – come Terwyn gli aveva spiegato – in quel momento stesse transitando tra la Quercia, il drago, Pyra e Terwyn stesso e che adesso fosse in definitiva giunto a lui. Perché così gli disse Pyra, prima di estinguersi per sempre in un ricciolo di fumo, gli disse: «Ricorda, principe Daniel, che adesso disponi di un potere immenso. Il potere del drago. Non sprecarlo, non usarlo con disattenzione o leggerezza e soprattutto, quando sarà il momento, liberalo solo per fare del bene. È una norma cui non si può contravvenire. La norma principale che ha connaturato l'esistenza stessa del tuo maestro, e la mia. Essa ha connaturato il nostro amore».

Con queste ultime parole rivelatrici, Pyra se ne andò per sempre e Daniel venne per sempre scaraventato fuori dalla dimensione del fuoco, che molto probabilmente non sarebbe più esistita. O almeno: non in quella forma. Sarebbe mutata probabilmente, come faceva ogni cosa da quelle parti. Ma, prima di estinguersi, Pyra lo aveva addestrato. A poco a poco, lo aveva portato alla riscoperta dell'energia di fuoco che Daniel in teoria già conosceva, ma ne aveva accresciuto l'intensità. Era come se la maga nel calderone avesse fretta. Dunque un giorno, la sua temporanea maestra, arrivò perfino a fare a Daniel un discorso strano, quasi minaccioso. Lo avvertì che, quando le lezioni sarebbero finite, lei avrebbe fornito a lui un potere tale da renderlo un individuo molto pericoloso, e quindi lo stava per caricare di una grande responsabilità. Tale potere, Daniel non avrebbe potuto usarlo sempre, bensì una volta sola. Poiché la magia è forte e, una volta espulsa, si sarebbe sparsa in mille frammenti in giro per il mondo, non ritornando mai più nel corpo di quello che Daniel altro non era: un giovane, semplice e non molto preparato mago umano. Ma neanche un mago umano di alto livello sarebbe mai riuscito a raccogliere quel tipo di potere, poiché il potere non poteva essere raccolto, né compreso, conosciuto o replicato: lo si poteva solo condensare per un breve tempo dentro un contenitore, che Pyra in questo caso scelse essere proprio Daniel quello giusto.

In pratica, adesso Daniel era un Piromante completo, uno di cui qualsiasi nemico – in teoria – avrebbe dovuto temere, perfino un drago, un demone o – ad esempio – lo zio Constant. Solo che quella condizione di teoricamente estremo vantaggio celava invece una fastidiosa sconvenienza: una responsabilità immane e un segreto da dover portare nel cuore chissà per quanto tempo, forse per sempre. Una cosa soprattutto inquietava Daniel più di altre: cosa sarebbe successo se avesse scelto di usare il potere del drago in una circostanza che magari fosse stata adatta, ma non troppo? Chi lo decideva? Come si giudicava? Daniel non aveva nessun libro su cui studiare, nessun confronto di cui potersi avvalere. C'erano solo lui e il suo buonsenso, che così assai veniva a cozzare con la sua gioventù. Vero che Daniel da sempre si reputava, anche prima di Nidhogg, prima della piromanzia e prima del nord, un ragazzo piuttosto responsabile, ma... era pur sempre un ragazzo. Chiamato ora alle responsabilità di un uomo, perfino di un re, perfino... di un drago.

Se Elthon, per un'ipotesi dell'assurdo, fosse stato a conoscenza del potere segreto del principe, e gli avesse chiesto di utilizzarlo in battaglia per risollevare le sorti della guerra degli Applegate contro i Willoughby-Worchester, una guerra in cui Daniel convintamente pensava che la ragione stesse dalla parte degli uomini dell'albero di mele, che cosa avrebbe dovuto fare? Rifiutare, giusto? Non sprecare un potere tanto devastante per una guerra che in definitiva aveva a che fare solo con le smanie di potere degli uomini... Pyra infatti gli aveva spiegato in precedenza, prima di dirgli che il potere sarebbe passato nelle sue mani, che proprio in quel momento in giro per il mondo stessero operando forze in grado di sterminare anche l'umanità intera e che compito di Daniel fosse anche di stanarle e debellarle, o di cadere provandoci. Ora, nel momento in cui veramente esistevano di quei problemi – di cui pure Daniel aveva avuto un sentore, incontrando mostri dai teschi neri e alberi e fiere invasati – era mai possibile spendere il dono che gli era stato fatto per una guerra? No, ma... tanto Elthon non sapeva del suo potere e dunque... almeno da questo punto di vista non c'erano problemi, no?

Daniel aveva riflettuto su queste cose per giorni; per tutto il tempo (breve) che gli c'era voluto del viaggio in lingua di fuoco dalla Grande Quercia diretto ad Alberocasa. Un viaggio breve, nel senso che se avesse dovuto farlo a piedi ci avrebbe messo molto più tempo, ma che comunque un giorno e mezzo s'era preso. Sulla via della capitale degli Applegate, poi, Daniel, dall'alto del cielo in cui svolazzava, aveva visto quel trambusto in quel villaggetto piuttosto affollato in rapporto al quantitativo di casette che c'erano; si era avvicinato, si era accorto di Elthon ed era intervenuto. E adesso si trovava in un bel Consiglio di Guerra, dove uomini tutti più maturi e più d'esperienza di lui, discutevano sul come attuare l'assalto al castello occupato dai Willoughby. Solo Elthon probabilmente doveva avere su per giù la stessa età di Daniel, ma Elthon per tutta la vita aveva intrapreso una carriera marziale, tanto da essersi già guadagnato il titolo di Sir. Daniel era un Lord e un principe per diritto di nascita, che questa cosa a lui o ad altri piacesse o meno. Conclusione: Elthon, secondo in comando di suo padre il Lord di Alberocasa, lo capiva eccome il linguaggio dei suoi luogotenenti mentre gli dicevano di assalire ad est con la fanteria, piuttosto che ad ovest con quello sputo di cavalleria rimastagli. Ma Daniel s'era già annoiato dopo i primi minuti. Si allontanò per prendere una boccata d'aria. Quando non era nello stato d'animo del combattimento, i suoi capelli e pupille di fuoco non c'erano più; erano i suoi capelli e pupille normali, tutto d'un castano medio-scuro. Passò poco, ed Elthon lo raggiunse decidendo di fargli una battuta proprio su questo: «Devo dire che è ora che sei... tutto spento che ti riconosco davvero, mio principe»

«Sì, ehm...» rispose Daniel «ho notato che è una cosa che succede quando sto usando in un certo modo l'energia di fuoco contenuta dentro di me. Non conosco neanch'io benissimo il meccanismo del fenomeno, succede solo da qualche settimana, ho... praticato un addestramento speciale in cose però... la cui natura è complessa e sfuggevole, quindi...»

«Ma sarai in grado di utilizzarlo quando verrà il momento?»

«Mi auguro di sì»

«Eheh francamente» rise il Sir dell'estremo nord, con un po' d'imbarazzo, «non era questa la risposta in cui confidavo»

«No, voglio dire: quello che hai visto, sì. Sono in grado di controllarlo, ma...»

«Ma?»

«E-esiste un potere ancora più grande, da usare eventualmente solo in caso di grave necessità e che... è molto più... disastroso e dispendioso, per quanto riguarda le mie energie personali e...». Daniel si stava odiando; neanche si rendeva conto del perché all'improvviso gli fosse venuto fuori quel discorso con Elthon, che era sicuramente un bravo ragazzo e verso il quale lui era in un certo senso in debito, perché lo aveva liberato dalla prigionia dell'orso Worchester ma... niente, la verità era che gli era semplicemente sfuggito. Elthon, che si rivelò essere più previdente di quanto il principe Piromante si aspettasse, invece dal canto suo replicò con umiltà: «Mio principe, non sono io che posso dirti come e quando usare questi tuoi poteri... dubito di essere anche solo degno di questa nostra conversazione. Voglio dire: sto parlando con un vero Piromante, dovrei solo essere grato di averlo... dalla nostra parte. Se tuttavia dovessi essere io quello a poter essere utile come mero amico, o consigliere... vorrei che semplicemente me lo dicessi e...»

«Sì, grazie Elthon». Daniel ci pensò un po' su. Poi, vista la situazione e le parole appena pronunciate, se la sentì di continuare: «Vedi, il potere che mi è stato concesso – non quello che tu hai già visto e che è sotto il mio controllo – ma... quell'altro. Potrei utilizzarlo una volta soltanto, ma non so quando. Chi me lo ha conferito, mi ha anche detto che mi accorgerò quando sarà il momento adatto, ma sono pieno di dubbi e...»

«Mio principe, ma allora non c'è altra ragione per cui torturarsi: il potere sarà utilizzato, quando sarà giusto. Basta avere un po' di fiducia. Tu ne hai... in colui o coloro che te lo hanno conferito?»

«Sì, certamente»

«Allora ti fai pensieri inutili»

«Hai ragione, mio caro Sir, forse è così. Forse è veramente così», pensò amaramente Daniel. E poi, per tutto il resto della giornata, i suoi pensieri continuarono ad oscillare tra le sue responsabilità, le forze misteriose che si levavano da qualche parte nel sud, e quella del tutto inutile grande guerra che stava per scoppiare per il controllo dell'Estremo Nord.

 

 

 

Quando Marcus riaprì gli occhi, pensò comunque di trovarsi dentro a un sogno. Incredibilmente, tutto quello che aveva attorno gli ricordava la sua vecchia camera alla Capitale, quella di quando era bambino e viveva negli appartamenti regi con suo padre re Lionel, sua madre la regina, e i suoi tre fratelli: Marcus e Daniel, più grandi di lui, e Hana, la più piccolina che adesso era la regina. A quei tempi, Mirietta non era ancora nata: venendo a questo mondo, non s'era ancora portata via la vita della loro comune, bellissima, madre. Eppure più sgranava gli occhi e più il principe Cavaliere della Chimera aveva come la sensazione che quel sogno fosse quantomai reale. Le coperte sotto le quali si trovavano le sue membra erano calde e morbide. Il colore rossiccio della camera ricordava quello tipico della sua famiglia; ma non c'erano più stemmi di chimere appesi qui e là sulle pareti. Era tutto molto curioso. Ancora un po' indolenzito e intorpidito, Marcus si mise ritto sul cuscino. Notò due cose contemporaneamente: il suo braccio, sinistro ancora pieno di bende, ma in condizioni pessime... non lo sentiva minimamente, non riusciva a muoverlo e... puzzava di bruciato. E poi, seduta su uno sgabellino, bellissima e sorridente, sua sorella la regina. Assomigliava dannatamente alla madre che così poco entrambi avevano conosciuto: Hana quasi niente. Marcus si chiedeva in effetti se sua sorella potesse ricordarsene. Però il sorriso della regina aveva un che di nascosto, non era proprio convinto. C'era in esso un bel po' di pietà. Fu lei a parlare per prima; d'altronde lui non ne aveva le forze. «È salvo dall'amputazione» sentenziò la ragazza con la corona sulla testa, riferendosi all'arto sinistro del fratello, «ma i medici dubitano che potrai mai riutilizzarlo a dovere. Non possono escluderlo ma... dubitano. Mi dispiace». Vedendo che Marcus non sapeva come reagire alla tragica notizia inattesa, Hana continuò: «Tu mi hai salvato la vita, fratello mio. A me e a Lyoneth...»

«Sei la mia sorellina... non volevo dire addio a un altro membro della nostra famiglia»

«Sì, so che è così. È così anche per me»

«Eppure sei sposata con l'uomo che ha ucciso nostro fratello...»

«E tu lavori per quello senza il cui ausilio col cavolo che mio marito sarebbe diventato re»

«È tutto così complicato»

«Sì, la penso come te. Solo una cosa non lo è»

«E cosa?»

«Noi. I Lannister»

«Anche Constant è un Lannister. Anche Napoleon»

«Sì, questo è da dimostrare. Crescendo con sua madre, è molto più probabile che venga su più come un Baratheon o un Bolton...»

«Hana... è il figlio di nostro fratello. L'unico a cui Mirietta è sempre rimasta fedele»

«E tu a chi sei fedele? A Constant o a Napoleon?»

«A Napoleon ovviamente, ma Constant ha giurato che una volta ottenuto il trono avrebbe fatto di tutto per reinsediare...»

«Sì, e tu gli credi?»

«Onestamente sì»

«Bene allora te lo dico anch'io: tua sorella, cresciuta insieme a te e che da ieri ti deve la vita. Lavorerò per ritrovare il vero figlio di Axelion ed eventualmente rimetterlo sul trono, ma fino a quel momento... serviresti mio figlio?»

«T-tuo figlio?» balbettò Marcus «ma il re Naharis...»

«Non ha più ripreso i sensi. Lo abbiamo carcerato: è un gesto forte, ma... me la sono sentita, per il momento. Neanche Yashua s'è ancora ripreso. Ti chiedo di aiutarmi a ricostruire la città, sotto la luce dei Sette». A queste parole, Marcus s'accorse di qualcosa che fino a quel momento gli era stata impossibile. Nella stanza della sua infanzia, oltre a se stesso e alla sua sorellina, c'era qualcun altro, esattamente dietro di lei. Qualcuno di minuto, anzi proprio basso. Solo in quel momento l'uomo misterioso si fece avanti: era l'Alto Septon, che Marcus aveva scortato fino a quel luogo da Castel Granito. «Salve, principe Marcus» fece padre Brendan, dai capelli color carota, «anch'io, come voi, sono nuovo a questo gioco e inesperto. Ma mi piace l'idea di condividere un piano di rinascita insieme a dei giovani – come me – e bene intenzionati»

«Ma quale piano?»

«Marcus» riprese Hana «vorresti essere il mio Primo Cavaliere pro tempore?»

«C-cosa?»

«Ti prego, non rifiutare: ho bisogno di una persona di cui mi possa fidare... uno che mi voglia bene»

«E che fine ha fatto quello di tuo marito?»

«Non ha alcun interesse di ricoprire la carica, lo faceva solo perché Gabryaerys glielo ordinava. Mi ha dato la spilla con assoluta noncuranza. E poi... sarebbe solo nel tempo in cui tu starai qui e... Constant non accetterà per lui l'incarico»

«Cioè, vuoi fare di nuovo di Constant il Primo Cavaliere?»

«Pensi che accetterà?»

«Non ne ho idea

«Sarebbe perfetto: sul continente tornerebbe la pace, da tutti i punti di vista: spirituale e temporale»

«Certo. Finché tuo marito e Yashua non si risveglieranno»

«A Gabryaerys ci penso io. Quanto al sacerdote del dio rosso... beh, ho fatto chiamare degli inservienti perché ti aiutino ad alzarti e vestirti. Dopodiché, dovrai seguirmi e vederlo con i tuoi occhi». Adesso sì che Marcus riconosceva il sorriso della sua sorellina, raggiante e sincero. Era vero quello che si diceva: lei era divenuta un'intelligente donna politicante, a forza di bazzicare costantemente i corridoi del Palazzo. Già loro padre re Lionel aveva intuito questa particolarità dell'attuale regina, tanto che giovanissima l'aveva voluta al suo fianco, creando appositamente per lei il ruolo di Altissimo Segretario del Re. Ruolo che forse adesso non ricopriva più nessuno, forse neanche esisteva più. Marcus invece era sempre stato alieno a questo tipo di mondo, e sua sorella neanche si rendeva conto di che cosa gli stava chiedendo. Per lui, la politica era come una lingua straniera completamente incomprensibile. Però una cosa era pur vera: la situazione era di estrema peculiarità. Non che questo fosse sufficiente a fargli imparare un mestiere che non sentiva suo e che mai e poi mai avrebbe fatto... però forse semplicemente affiancare sua sorella in attesa che le trattative con lo zio andassero in porto... questo Marcus avrebbe potuto farlo.

I valletti incaricati dalla regina lo aiutarono a vestirsi e rimettersi in piedi. In verità, le gambe il principe cavaliere le sentiva ormai perfettamente funzionanti, anche se leggermente intorpidite: il problema non erano quelle. Era il suo braccio sinistro, che gli venne sostanzialmente legato al collo come il campanaccio di una vacca, visto che altro non era se non un peso morto, annerito e puzzolente. Marcus seguì dunque la sorella, insieme con l'Alto Septon Brendan, giù per un'ala del castello che francamente non conosceva molto bene, o di cui comunque molto poco si ricordava. Attraversarono come una specie di scogliera, ma su cui comunque in buona parte arrivava ancora l'architettura della magione. C'erano certe scale e certe piattaforme ammattonate che però quasi si toccavano con la roccia della scogliera e di lì con il mare. Un luogo veramente assai curioso. La brezza e la salsedine tra l'altro cominciarono a risultare a Marcus un po' fastidiose, tanto che decise di alzare il cappuccio ed ammantare un po' meglio il braccio offeso sotto la sciarpona che aveva in dosso. Scendendo sempre di più, alla fine la regina condusse quello che nei suoi desideri era il suo Primo Cavaliere fino a una spelonca nascostissima che però non doveva essere troppo distante dalla zona del molo. La strada non si concluse lì: il prete, la regina e il cavaliere s'inoltrarono dentro i meandri bui della grotta; dovettero perfino accendere un paio di fiaccole. Lì, Hana ricominciò a spiegare: «Il demone delle fiamme che serve mio marito e che in questo momento si trova prigioniero presso uno dei picchi dove la casa Baelish ha costruito i suoi fortilizi... sarebbe in grado di ridurre qualsiasi cosa in cenere, come e anche più del sacerdote Yashua, che hai modo di vedere con i tuoi occhi»

«O come lo zio Constant...»

«O come lo zio Constant. Eppure, alla Valle lo tengono prigioniero. Come? Tenendolo rinchiuso in una cella di ghiaccio, che a loro non manca. Qui non abbiamo celle di ghiaccio: ma abbiamo il mare»

«A proposito... quella creatura che ha attaccato tuo marito e tuo figlio... non era propriamente un drago...»

«Sicuramente no, ma ancora non sappiamo né cosa sia né il perché abbia agito a quel modo. Se... quell'incantesimo avesse un mandante per esempio»

«Probabile»

«Lord Gushing sta cercando di vedere se trova delle notizie in merito a questo... strano fenomeno. L'ho reinsediato all'interno del Concilio Ristretto». In questo sua sorella era stata prevedibile, ma d'altronde perché avrebbe dovuto fare diversamente? Gushing era il loro più vecchio e caro amico, forse affezionato ai figli di re Lionel più di quanto non lo fosse lo stesso zio Constant. Se tanto gli dava tanto, allora Marcus avrebbe scommesso che anche Pamir Gaholla presto sarebbe ritornato a ricoprire il suo ruolo tra i consiglieri della regina reggente.

Marcus stava deducendo come meglio poteva in merito a tutte quelle cose, quando finalmente lui, sua sorella e l'Alto Septon arrivarono dove dovevano arrivare. Yashua era lì e per un istante Marcus pensò di sguainare la spada, ma vide che sua sorella aveva tutto sotto controllo dunque si tranquillizzò abbastanza repentinamente. Yashua difatti era incatenato e posizionato in modo tale che sia i suoi piedi che le sue mani fossero immersi nell'acqua marina. «Ma» constatò Marcus «e se venisse una piena?»

«Ci penseremo quando accadrà» sentenziò Hana, sorprendentemente crudele, «e se non ci saranno soluzioni, lo lasceremo così»

«Puttana!». A questo punto, il prigioniero stregone si sfogò gridando; Dopodiché ancora più forte, tanto che rimbombò per tutta una parte dell'anfratto, esclamò con rabbia: «Lurida PUTTANA!».

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Capitolo 11
*** Il maestro e l'allievo ***


Capitolo 11

IL MAESTRO E L'ALLIEVO

 

 

 

Roccia del Re era distrutta. Quando Gino ci arrivò, l'intera città che aveva conosciuto come splendida, terribile e solenne, che tutto richiamava meno l'immagine di qualcosa che potesse essere ferito, adesso sanguinava. Buona parte delle mura cittadine erano distrutte: almeno una metà di quelle meridionali dell'est, verso il Mare Stretto. C'era gente che andava e veniva, di tutti i generi: poveri, ricchi, uomini e donne, membri del clero. Anche guardie cittadine e inoltre quei mostri che in parte alla guardia s'erano sostituiti da quando c'era il re Targaryen: quelli che sembravano più bestie che uomini, ma che degli uomini avevano le braccia e le gambe. Comunque tutti questi, nessuno escluso, avevano in volto un'aria disperata, come se un male terribile e incurabile si fosse abbattuto sull'intera città.

Anche una volta entrati dentro, la situazione non cambiava. Gino percorse per una buona metà la via principale del mercato del pesce, per poi raggiungere il decumano che la tagliava e che, con qualche tortuosità, lo avrebbe condotto verso il quartiere dei palazzi di potere. Ma più avanzava e più la cosa pareva farsi critica. Se un nemico esterno, anche uno debole, con un esercito di qualche centinaio d'uomini ben armati avesse voluto prenderla, la Capitale sarebbe caduta nel giro di qualche ora: non ci voleva essere un genio tattico-militare per accorgersene; Gino non lo era. Era tutto molto caotico, e in questi casi l'impressione era come se una città perdesse la propria guida. Gino non sapeva se il re Targaryen, Lord Braff e gli altri del Concilio Ristretto fossero ancora lì, magari si trovavano normalmente a lavoro... ma se invece del re Gino avesse trovato un nuovo capo-popolo aizzatore delle folle o qualcosa di questo genere, beh non sarebbe rimasto sorpreso. Questo era il quadro estetico che gli si presentava davanti quando fece, dopo lunghissimo tempo, il suo ritorno in quella dannata e non molto odorosa città.

Per quanto invece riguardava il quadro dentro di sé, la confusione era pure superiore. La prima cosa cui Gino anelava in quel momento era la sicurezza per il suo bambino, ma si trovava in forte difficoltà. Altogiardino non era più un luogo sicuro per lui e... Lungotavolo lo era in un certo senso ma non per molto. Lui aveva lasciato il piccolo a Lungotavolo con Peyra, che però gli aveva fatto capire che non poteva tenerlo. Lungotavolo era alla fame, viveva la più dura carestia da cent'anni a quella parte, per colpa di Jon Barthalo che stava governando l'intera regione come una specie di aguzzino: tutta la ricchezza collocata al centro (dove lui risiedeva) e le briciole in periferia. Jon andava rimosso da quel soglio, e l'unico che poteva attuare questo era Gino, ma solo con l'aiuto dei suoi “amici” alla Capitale. E qui veniva la parte difficile: dopo la rivelazione fattagli in punto di morte da Sir Rollo – di cui Gino si fidava ciecamente – il giovane Barron aveva scoperto che quelli della Capitale – il re e Lord Braff – non erano affatto suoi amici. Loro, insieme a Jon e ai defunti fratelli Tyrell (Shane e Lorthan), avevano ucciso suo padre, precipitandolo in tutto quel casino che il giovane Barron aveva vissuto in quegli anni di disperazione e responsabilità non richieste, servendosi di lui e manipolandolo. Braff poi, quello che più degli latri gli si era rivolto come un amico, era colui che – stando a Rollo – aveva materialmente compiuto l'atto, uccidendo suo padre: il Lord della volpe. Dunque riassumendo: Gino rivoleva Altogiardino o almeno voleva cacciare Jon da quel luogo, ma per cacciare Jon da quel luogo gli servivano Braff e il re Targaryen-Naharis, i quali però – in cuor suo – Gino voleva morti a loro volta. Doveva bluffare, come tutti loro avevano fatto fino a quel momento nei suoi riguardi. E fu con questo spirito che aveva lasciato Lungotavolo, e lì il suo pargoletto di poche settimane, per raggiungere la Capitale del Regno Unificato (o almeno quello che una volta si chiamava così), non aspettandosi però di trovarsi in quella baraonda in cui la città più popolosa dell'occidente versava.

Gino si avvicinò dunque a una guardia rinoceronte che impediva l'accesso al palazzo degli uffici di Lord Braff, con in mano un'alabarda decisamente non rassicurante. Era incappucciato: non era il caso che la plebe sapesse che lì in mezzo a loro c'era uno che aveva governato una delle regioni più ricche d'occidente, per quanto per breve tempo. Disse piano al mostro alabardato: «Ehm... sarebbe possibile vedere Lord Braff?»

«No» rispose quello, definitivo.

«Ehm... sarebbe un'urgenza e... i-io... lui mi conosce, sono Lord Gino»

«Lord Gino?»

«Della Casa Barron» fece il giovane Lord, pianissimo e guardandosi attorno che nessuno lo udisse, a parte il mostro.

«Braff non è qui, signore» una mosca si posò sul muso della guardia. Infastidita, quella si diede un gran ceffone da sola, e poi completò: «Ha lasciato l'edificio ore fa. Pochissimo dopo l'attacco»

«C-che attacco ha subito la città? Io vengo da fuori...»

«Un drago»

«Un... d-drago?»

«Sì o... una specie. Un drago fatto di luce».

Gino non ebbe più altro da chiedere: era sicuro che quel gaglioffo non sarebbe stato in grado comunque di spiegare meglio le parole che aveva appena pronunciato, considerando poi che evidentemente non aveva alcuna voglia di chiacchierare. Neanche Gino ce l'aveva, ma aveva l'impellenza di incontrare Lord Braff. Il suo nemico Lord Braff.

Indeciso sul dafarsi – anzi veramente proprio senza idee – diede le spalle al palazzo che così bene aveva conosciuto ai tempi in cui lavorava per Lorthan Tyrell, e cominciò a guardarsi intorno. Una bella cesta di pesche freschissime richiamò la sua attenzione. Apparteneva a un venditore con due enormi carri ricchi di roba: frutta e verdura. Ma a Gino interessavano solo le pesche. Sentendosi incoraggiato dal fatto che erano settimane che per campare aveva rubacchiato, decise di sfruttare l'occasione di una distrazione del mercante, e afferrò un paio di pesche mettendosi a degustarle in giro per il mercato. Aveva appena dato il suo terzo morso alla prima pesca, quando dalle spalle all'improvviso una voce lo fece sobbalzare.

«Se ne parlassi con il mio collega Maestro delle Leggi» disse «probabilmente potrei farti condannare al taglio della mano»

«Lord Braff» salutò dunque Gino, voltandosi a guardare se avesse ragione. Ce l'aveva: il suo vecchio amico dal pizzetto rosso lo stava guardando con un po' di pietà. Gli rispose: «Ti sei dato alla macchia?»

«La città ha subito un grave attacco. Molte cose sono cambiate in pochissimo tempo. Non so dirti come andrà a finire ma... la regina parrebbe aver preso il controllo»

«E il tuo re?»

«Senza sensi in un letto. Da ore. Hai scelto il momento peggiore per venire a prestare quel giuramento che da mesi ti dicevo di fare»

«Sì, mi rendo conto... possiamo parlarne in un luogo più appartato?»

«Certamente» chiuse il Maestro dei Sussurri, e s'incamminò da qualche parte dentro la città vecchia. Gino lo seguì.

Si ritrovarono in quello che, dalle tappezzerie e dai suoni che si udivano in sottofondo, non poteva che essere un bordello di bassa lega. Veramente curioso come luogo in cui un politico della Capitale si sentisse al sicuro. Barron non resistette e domandò al suo amico/nemico: «Vi sentite sicuro in un lupanare?»

«Sì, ho degli interessi. Non preoccuparti se senti voci in sottofondo, non possono ascoltarci. E, anche se lo facessero, le tue parole sarebbero comunque al sicuro: te lo giuro»

«Dei tuoi giuramenti ho imparato a fare a meno, Lord Braff» dicendo ciò Gino si sedette presso il morbido sofà appena indicatogli dal politico.

«Siamo qui per insultarci?» gli rispose quello «Vuoi davvero che ti rinfacci quanta ragione avessi nel consigliarti di non fare di testa tua a Castel Granito? Adesso... rubi dalle bancarelle. Un Lord che ruba dalle bancarelle credo di non averlo sentito neanche nella più fantasiosa delle novelle»

«Sì, va bene: smettiamola. Ho bisogno del tuo aiuto»

«Per?»

«Riprendermi Altogiardino. C'è Jon Barthalo adesso, messo lì da Constant. Non se ne andrà se glielo chiedo per piacere»

«Sì, lo so. Ma come vedi: neanche noi, qui, siamo nel massimo delle nostre disponibilità»

«Beh, ci sono due modi per eliminare chi controlla un'importante città. La guerra su campo aperto o...»

«O...?»

«L'omicidio»

«Ahah» rise Lord Braff «se penso alla prima volta che ti ho visto: un giovanotto sperduto dentro un Concilio Ristretto, svogliato e annoiato, messo lì per ordine del paparino»

«Non menzionare mio padre!» fece Gino fra i denti.

Braff, che era furbo e le parole erano il suo mestiere, subito se ne accorse e replicò: «Perché? Nei tuoi giorni di vagabondaggio lo hai rivalutato? Non eravate in pessimi rapporti?»

«Sì, ma da quando è morto la mia vita non ha fatto che peggiorare»

«Conosco il tuo punto di vista, me lo hai già manifestato molte volte. Ma permettimi ancora una volta di replicarti che, per quanto mi concerne, diventare Lord e governare forse la città più ricca del continente occidentale, a mio giudizio non è una vita così male. E sono sicuro che se uscissi da questo bordello e chiedessi alle prime dieci persone che mi vengono in contro, bene o malvestite, loro mi direbbero che non è una vita così male»

«Sì, beh: ora la rivoglio. In realtà, non voglio proprio Altogiardino, ma voglio che Barthalo sloggi da quel soglio. E, se devo essere io a sostituirlo, allora lo farò»

«Come ti dicevo, hai scelto il momento peggiore per venire qui a fare la pace. Il re non può ascoltarti»

«Lo stai facendo tu»

«Io... da quando quel coso è venuto fuori dal cielo dell'oriente e ha bersagliato la città, ho perso parte del mio potere. È una cosa che ci accomuna tutti: Tararus adesso riesce a lanciare solo qualche fulminino, il re non si sveglia e anche Yashua, il sacerdote del dio del fuoco, mi dicono sia in pessime condizioni. Il drago di spirito ci ha tramortiti»

«Braff, ti prego» insistette Gino posando una mano sulla spalla del Maestro delle Spie e guardandolo con occhi languidi; non sapendo bene come insistere, continuò così: «sono padre adesso. Ho nascosto il bambino in un luogo di fiducia e...»

«Lo hai lasciato a Lungotavolo»

«Mh... sì ma...» balbettò Gino colto alla sprovvista «c-come?»

«Ma è ovvio! Dove accidenti avresti potuto lasciarlo, se Altogiardino non l'hai mai considerata casa e Roccia del Re men che meno»

«Sì, va bene, comunque... Braff... voglio che il piccolo stia al sicuro»

«E non sai dove cavolo andare» dedusse il politico. La conversazione tuttavia stava prendendo una piega che a Gino non piaceva affatto. Lo stesso Maestro dei Sussurri continuò: «Barthalo sta affamando la periferia. Concentra tutte le ricchezze sulla sua Capitale, in preparazione di non si capisce quale guerra, probabilmente in aiuto di Constant»

«O magari vuole solo sembrare minaccioso. Del genere: “meglio che non ci proviate neanche a toccarmi, perché guardate che difese sono in grado di organizzare”»

«Sì, mi convince. Sei diventato molto perspicace, giovane Barron. Anche maturato, oserei dire»

«Quindi, come vedi, il mio piano è perfetto. Non ci vuole una guerra per rimuovere Barthalo, ci vogliono delle abili spie. Degli abili sicari»

«Sì, c'è solo un problema in questo tuo perfetto disegno»

«Ti ascolto...»

«Sei tornato mani e piedi alle mie dipendenze. E a quelle del re che servo»

«Ma non c'è nessun re che servi in questo momento: dico bene?»

«Vedrò quello che posso fare» cambiò discorso Braff «forse racimolando un po' di energia posso mandarti un paio dei miei guerrieri-ombra. Ma due o tre, non di più. Loro ti addestreranno lungo la strada e poi... ti aiuteranno a combinare l'atto che però tu stesso, in ultima istanza, dovrai eseguire. Solo tu puoi uccidere Jon Barthalo, Gino. Ti va bene?»

«Non chiedo di meglio»

«Ehm... sarà molto rischioso» fece il politico, forse lasciando trasparire un po' di preoccupazione.

«Beh, cos'hai da perdere?»

«Molto» fece quello guardando intensamente negli occhi «Cioè... cioè un amico. Più di un amico»

«Ti ringrazio, Lord Braff» rispose il Barron, fintamente sincero. Poi ritornò alla carica: «Quindi come restiamo? Devo seguirti o...»

«Assolutamente no. Attendi che tramonti. Sarò io a farmi vivo».

E Gino attese. Per un'intera giornata, a non far nulla se non rubacchiare. Siccome era anche diventato bravino e se ne rendeva conto, ormai non c'era più neanche quell'ebrezza dovuta al rischio che lo beccassero e gli mozzassero una mano. Fu forse una delle giornate più lunghe della sua vita, trascorsa ad osservare parenti disperati alla ricerca dei loro figlioli o genitori ammalati da qualche parte sotto le macerie, oppure in un qualche ospitale improvvisato per la strada. C'era un senso di tristezza nell'aria che poteva esser raccolto con un cucchiaio. E anche lui si fece prendere da questa amarezza. Fu con gioia dunque che scattò in piedi quando vide avvicinarsi verso di lui tre giovanotti bassini e biondini, ammantati come le tipiche guardie del Maestro dei Sussurri: gli uomini-ombra.

Gino non sapeva come Braff li reclutasse, ma ormai aveva concluso che sicuramente ci fosse qualcosa di oscuro che legasse tutti quei giovanotti (perfino più giovani di Gino stesso) al misterioso e antico politicante della città. Qualcosa che non fosse semplicemente uno stipendio, insomma. Qualcosa di ben più vincolante, di magico magari. Sicuramente di oscuro.

«Siete voi...?» fece Gino per cominciare, in realtà sapeva che erano loro, ma non sapeva come cominciare.

«Sì, Lord Gino», gli rispose quello chiaramente più spigliato dei tre: il capo insomma, «sono Callum. Prima di andare... Lord Braff ha insistito perché tornassi a chiedervi: siete proprio sicuro? Jon Barthalo è sempre un Lord di Altogiardino e non sarà facile penetrare le sue difese. Se Lord Braff dovesse scommettere, dice che le probabilità che noi falliamo e moriamo tutti sono assai più alte di quelle di una riuscita dell'impresa. Diciamo che lui scommette su un ottanta percento contro venti»

«Beh, voi avete nulla da perdere, ragazzi?»

«Nossignore, siamo qui per servirvi»

«Bene. Nemmeno io».

 

 

 

Il drago Requiem riceveva informazioni esatte e puntuali dai draghi di spirito che aveva inviato per il mondo: uno per il consiglio di guerra di Braavos, uno per Gabryaerys Targaryen e i suoi eventuali eredi, uno per Daniel di Cowain e i suoi eventuali eredi, uno per Constant e uno per Napoleon Lannister e infine due per suo fratello Kyrios, all'altro capo del mondo. La magia, antica e potente, lo aveva indebolito molto ma gli dava una serie di opportunità, come quella di conoscere esattamente se il suo intento fosse andato a buon fine. E le cose andavano male. Se il primo drago di luce che aveva raggiunto l'obiettivo era stato in grado di sterminare il Lord dei Goldsmith, che del consiglio di guerra di Braavos era stato il capo e l'ispiratore e la cui dipartita gli garantiva la rinuncia a un contrattacco umano per mesi, il secondo drago ad arrivare dove doveva – quello di Roccia del Re – era stato annientato. Probabilmente aveva fatto un gran casino, tra l'altro scoprendo lo stesso Requiem e rivelando a tutti quelli che avrebbero potuto riconoscerlo (per esempio i suoi antichi servi Braff e Tararus) che lui era ancora vivo e combatteva ancora. Ma per il resto il drago di spirito della Capitale aveva fallito: il re degli uomini dell'occidente era ancora vivo, anche se malconcio, e pure il suo erede. Erano intervenuti degli altri umani dalle capacità magiche, potenzialmente ereditate dai suoi fratelli draghi. C'era stato un mago del fuoco con poteri palesemente derivati da suo fratello Nidhogg o da suo fratello Kyrios. Uno che non era Constant, che Requiem aveva conosciuto bene e la cui magia avrebbe riconosciuto immantinente. Dopodiché si erano anche alternati, nello scontro nei confronti del suo secondo drago di spirito giunto alla meta prefissata, almeno altri due maghi: Tararus probabilmente, o qualcuno che come lui conoscesse con una certa profondità la magia del cielo in tempesta, e poi il re medesimo, Gabryaerys, il cui potenziale magico d'attacco non era invece niente di che: come Braff, Gabryaerys era un mago da illusioni. Sapeva sparire, ricomparire, viaggiare lontanissimo in tempi risicati. Forse, da buon Targaryen, aveva anche lui ereditato in qualche maniera la magia del fuoco ma... nulla che a Requiem fosse giunto come qualcosa di preoccupante.

Eppure, quell'accrocco di fattucchieri improvvisati era riuscito a mettere in piedi una resistenza sufficiente. Il che significava che almeno una parte dell'energia magica che Requiem aveva investito per quella magia dei draghi sicari, in verità era andata dispersa.

Stanco da giorni, e da giorni senza aver più ritrovato le forze, neanche per librarsi in volo, l'antico drago nemico degli uomini se ne stava dunque in una tana improvvisata non così distante dall'ultimo centro che aveva personalmente assalito: quella Braavos che era di quel continente l'abitato più popoloso. Si leccava le ferite, e attendeva in una sorta di condizione di riposo simile al letargo di certe creature terrene. Era sveglio, non dormiva. Ma era immobile, e qualsiasi sua altra funzione biologica – eccetto il respiro – era stata momentaneamente interrotta. Dopo uno scontro non perduto, ma neanche vinto, con gli uomini di Braavos e la creazione di ben sette draghi di spirito, tutto ciò che a Requiem rimaneva nelle possibilità di fare era quello. Fu quindi assai preoccupato quando si rese conto di essere osservato. Finalmente, qualcuno lo aveva trovato...

L'esercito degli uomini ci aveva provato a cercarlo dopo la battaglia di Braavos, con una serie di contingenti esplorativi via via sempre meno numerosi e più demoralizzati: lui lo sapeva, non perché li avesse sentiti magicamente – visto che il suo potenziale magico in quel momento era quasi annichilito – ma perché in molti casi erano stati assai vicini dal trovarlo: perfino due o tre distinte volte. Eppure non era ancora successo che un uomo lo trovasse in quelle condizioni. E ora invece il pericolo era finalmente giunto. Un pericolo pure maggiore, visto che quello che lo aveva trovato non era esattamente un uomo. Oh, certo: era stato un uomo, millenni e millenni prima, ma ora non lo era più. Ora era un mucchio d'ossa tenute insieme da una magia che pure Requiem, ere fa, aveva contribuito a creare...

«I miei ossequi, Maestro» disse dunque Xenorus il necriomante, scendendo dal suo falcone scheletrico. Il teschio nero sul suo collo, brillava della luce oscura di cui la magia lo ammantava. Il suo artiglio di ghiaccio era già sguainato e pronto all'uso: sarebbe stato efficace almeno quanto le stesse fauci di Requiem, se non di più. Solo che Requiem, per sua natura, era ricoperto di scaglie: solo poche parti molli compongono il corpo di un drago. No, il suo antico allievo non lo avrebbe colpito con quell'affare puntuto. Se aveva abbastanza potenziale magico, forse sarebbe stato in grado di ucciderlo, ma in uno scontro corpo a corpo l'antico drago dell'energie oscure pensava ancora di poter aver la meglio.

«Xenorus» rispose il drago «sei qui per ordine del tuo nuovo padrone, immagino...»

«Niente di personale. Sai bene che devo eseguire ogni suo singolo ordine diretto. È questo che d'altronde prevedeva l'incantesimo con cui, decine di migliaia anni or sono, voi ci avete incatenato»

«Eravate consenzienti, mi pare»

«Non ci aspettavamo che potesse accadere questo»

«Sì, beh... neanche noi»

«Ma come! Gli infallibili draghi dell'origine... dunque falliscono»

«Non siamo comunque tenuti a giustificarci. No con te, né con alcun altro uomo»

«Io non sono più un uomo»

«Non sei neanche un drago. Ed è per questo che stai per fallire. Stai per essere annientato, mio vecchio allievo»

«L'annientamento sarebbe una liberazione. Ma, purtroppo, credo che non accadrà»

«Sai, le strategie del tuo nuovo padrone e mia si sono incrociate. Anch'io ho mandato un drago di spirito ad ucciderlo»

«Se sono ancora qui, vuol dire che il sigillo non è stato spezzato. Quindi, la tua strategia non ha avuto buon esito, maestro. Vediamo se quella di Gabryaerys lo avrà»

«E vediamolo», concluse Requiem, lanciandosi di scatto verso il suo avversario e cercando di inghiottirlo in un solo boccone. Quello ebbe la lucidità e la rapidità di scansarsi, dunque gli colpì il muso con i suoi artigli indistruttibili. Non gli fece alcun danno. Continuarono così a cercare di colpirsi per alcuni minuti. Dopodiché lo stregone del ghiaccio cominciò a lanciare qualche fievole magia su di lui. Non sapeva che Requiem era infiacchito per la guerra e per l'incantesimo, o comunque poteva ipotizzarlo ma non fino al punto in cui Requiem in effetti era. Probabilmente, Xenorus aveva tentennato ad usare la sua magia perché proprio Requiem gliel'aveva insegnata. E se c'era una magia verso cui Requiem non era debole, ancor più che la magia oscura, era la magia del ghiaccio.

Quando tuttavia la debole, rispetto alla sua, magia del ghiaccio dello stregone scheletrico – pur non scalfendolo – continuò ad abbattersi su di lui per un tempo abbastanza prolungato, senza che Requiem dal canto suo replicasse allo stesso modo, chiaramente Xenorus (che non era scemo) capì la situazione. Gli disse provocatoriamente: «Sei debole, Maestro. Cosa succede? I draghi di spirito ti hanno fiaccato al punto tale da privarti del resto della tua magia?»

«Loro e non solo loro. Ma ti resisterò: stanne certo»

«Anche se dovessi... concentrare tutto il mio potere in UN SOL COLPO?!» gridò il suo antico servitore e cercò di sfruttare la sorpresa per lanciare il suo colpo definitivo verso il drago che in un tempo assai remoto era stato il suo maestro. Requiem se lo aspettava. Xenorus era sempre stato un sicario abile quanto subdolo, o forse abile proprio perché profondamente subdolo. Quand'era ancora in vita, e carne e sangue – non solo ossa – componevano il suo corpo, egli era stato in grado di eliminare i suoi bersagli in tempi record, molto prima che chicchessia se ne accorgesse, men che meno il malcapitato. Era stato un servitore di estrema utilità per risolvere una miriade di questioni, ma soprattutto quelle che richiedevano... servizi rapidi ed efficaci.

Proprio per tutte queste ragioni – perché lo conosceva! – Requiem prevenne il colpo del suo allievo, e a sua volta scaldò l'energia magica nel suo petto e liberò tutto il ghiaccio che c'era rimasto. Aveva ancora la forza per fare un altro po' di magia: bastava solo quel poco in più per sopprimere il raggio energetico di Xenorus ed eliminarlo definitivamente. Gli avrebbe fatto un favore: lui voleva essere libero dell'incantesimo di Cair Dedalos, solo che non poteva farlo. Per questo stava cercando di ucciderlo: perché esplicitamente il re degli uomini sul Trono di Spade glielo aveva comandato. Re degli uomini che tra l'altro aveva resistito anche al drago di spirito. No: Requiem non si sarebbe lasciato sopraffare per due volte da quel maledetto fattucchiere da quattro soldi che Gabryaerys altro non era. Gabryaerys aveva avuto solo fortuna nella sua vita: la fortuna di risvegliare Cair Dedalos. Da adesso in poi non ne avrebbe più avuta: Requiem non gli avrebbe permesso di trionfare su di lui una seconda volta. Insistette con tutta la forza che aveva, ma anche Xenorus lo fece. Per un momento Requiem parve prevalere, ma nell'istante dopo Xenorus parve farlo. Dunque Requiem si stancò, e forse anche lo stregone suo vecchio allievo. Entrambi cedettero ed esplosero, in un fragoroso lampo di luce e ghiaccio. Neve ricoprì il deserto tutto attorno e tutt'assieme. Molta vita divenne ghiaccio. E il drago nemico degli uomini perse quindi i suoi sensi. Probabilmente anche Xenorus lo fece.

 

 

 

Ora, Petyr detto il giovane, momentaneo signore della Terra dei Fiumi in sostituzione del suo padre traditore del regno governato da Gabryaerys Targaryen, aveva dodici anni. E non era cambiato niente. Era ancora prigioniero presso il castello che da sempre era casa sua: Delta delle Acque. E ancora, ogni giorno, temeva per la sua vita. Completamente in nulla la lettera ricevuta dal suo esiliato padre aveva contribuito a rendere i suoi giorni migliori. Completamente in nulla essa aveva causato il benché minimo mutamento dello status quo. In effetti, nelle ultime settimane, una piccola cosa a Delta delle Acque era accaduta, ma sostanzialmente ininfluente. Proprio il giorno del suo dodicesimo compleanno, uno dei suoi cinque aguzzini che prendevano per lui le decisioni e avevano ordine di controllarlo, era passato a vita migliore e per giunta in modo violento. Petyr non aveva mai capito come funzionasse quella cosa della magia per cui agiva il titano di roccia che pure Gabryaerys aveva piazzato in quella terra a controllare il rampollo di Casa Baelish. Con il tempo, capì che il mostro fosse per lo più contrariato dal fatto di dover stare in quel luogo a subire quell'ordine, e sostanzialmente detestava i suoi colleghi comandanti, legati del re, almeno quanto detestasse gli abitanti medesimi del luogo (ivi incluso Petyr il giovane). Aveva spiegato a Petyr che semplicemente eseguiva ordini precisi e diretti, e non poteva opporsi a tale circostanza. Eseguiva ciò che il re gli aveva detto ed eseguiva ciò che i cinque legati gli dicevano, ma se da questi ultimi non uscivano direttive precise, allora poteva capitare che il demone titano agisse completamente di sua iniziativa. Così, un giorno, fatalmente il giorno in cui Petyr compiva dodici anni, esso uccise uno di quelli che in teoria erano suoi alleati se non padroni. Probabilmente per qualche incomprensione già avvenuta nel pomeriggio, per cui aveva subito una bella ramanzina, il titano aveva covato una certa indignazione. Non aveva fatto nulla per tutta la giornata; poi, alla sera, in un momento completamente randomico dei festeggiamenti per il genetliaco del nobile giovane, aveva preso e scagliato con tutta forza la sua ascia bipenne sul quinto uomo, seduto accanto agli altri quattro governatori ufficiosi della terra dei fiumi, uccidendolo sul colpo e piantandolo sulla sua stessa sedia di legno da dove – come ultima cosa nella sua vita – il legato regio si stava abbuffando di coste d'agnello e fagiolini.

Scoppiò il silenzio assoluto, quando fino all'istante prima un gruppo di suonatori stava eseguendo la ballata favorita del festeggiato. Il demone Helmon, questo era il suo nome, semplicemente si alzò in tutta la sua altezza mostruosa e, avvicinandosi al corpo del delitto per ritirare la sua arma, disse pacatamente rivolgendosi agli altri quattro legati: «Beh, cosa c'è? Non ho mai ricevuto un ordine di non uccidervi, né da Gabryaerys né da nessuno di voialtri, i quali avete la grazia di darmi ordini perché il re mi ha ordinato di seguire quanto voi mi ordinate. Fossi in voi, mi affretterei a prendere un provvedimento. Buona serata».

In realtà, anche se sconvolgente, tutta quella situazione aveva suscitato in Petyr un po' di amenità. Si vergognò, ma la prima cosa che gli venne da fare fu sorridere e, se tutto attorno a lui non ci fosse stato il silenzio terrorizzato che c'era, si sarebbe anche liberato in una grossa risata. La tempestività e la totale imprevedibilità del gesto del mostro, aveva reso tutta quella scena tragicamente divertente, se non ci fosse scappato il morto. Morto – tra l'altro – che Petyr considerava uno dei suoi carcerieri senza alcuna pietà né compassione nei di lui riguardi. Si trattenne dunque, ma non appena il cadavere venne rimosso dalla sua postazione, pretese che i festeggiamenti andassero avanti, e gli permisero di farlo.

All'indomani di quel giorno, gli venne detto che i restanti quattro amministratori sopravvissuti avessero immediatamente disposto e messo in sicurezza che un evento come quello della sera prima non potesse accadere mai più, ordinando chiaramente al demone di non uccidere mai – in nessun caso – nessuno di loro. Petyr si domandò però cosa sarebbe accaduto se uno di loro avesse cambiato disposizione e comandato ad Helmon di uccidere se stesso o uno degli altri tre. E se, invece, a dare l'ordine fosse stato Gabryaerys? Quale gerarchia avrebbe prevalso? Probabilmente quella regia, certo ma... chi controllava? Come funzionava? Con la magia, gli aveva spiegato Helmon ma... quindi non ci si poteva opporre? E se Helmon si opponeva, che cosa accadeva? Ci lasciava le penne? O meglio, data la sua natura, le pietre?

La sua curiosità era a questo punto andata ogni oltre sua possibilità: a Petyr non sarebbe mai stato concesso di conoscere altro, oltre a quello che già sapeva su suoi aguzzini e carcerieri, uomini o diavoli che fossero. Il giorno della morte del quinto legato regio, era semplicemente stato un giorno un po' più divertente degli altri. E meno male, visto che era il suo compleanno. Ma dopo di allora, la vita aveva ricominciato a procedere piatta come sempre e con – come sempre – lo spettro del pericolo per la sua stessa vita, se gli equilibri politici fossero mutati tutt'assieme. Se si fosse comportato male; o semplicemente se a uno dei suoi quattro aguzzini rimasti fosse venuto un giorno il ghiribizzo: in tutti questi casi, Petyr poteva sempre morire. Ma ormai lo aveva accettato. Era un dodicenne maturo. Un degno figlio dell'antica casa del tordo dal quale aveva preso il nome: Baelish della Valle di Arryn.

Così quel giorno, a Petyr era venuta la voglia di allenarsi. Di tanto in tanto, aveva preso questa abitudine trasmessagli da un vecchio precettore, morto prima ancora che morisse sua madre stessa, la Lady della Valle di Arryn e governatrice della Terra dei Fiumi, affogata nel Tridente per ordine del re Targaryen. Petyr sognava un giorno di vendicarla: di spiccare via dal collo la testa del drago che sedeva sul Trono di Spade. O mezzo drago, visto che si diceva che in realtà quell'individuo non fosse proprio un figlio legittimo di quell'antica e famosa dinastia. Ma per fare questo, Petyr doveva prima diventare un abile combattente, un abile cavaliere. Diventare insomma tutto il contrario dell'uomo che suo padre avrebbe voluto che diventasse: Petyr il vecchio difatti aveva cresciuto il suo rampollo con l'intenzione di farlo diventare uno come lui; uno che siede ai tavoli più alti, e che le guerre non le combatte ma le decide. Tutto molto interessante, ma non faceva per il giovane Petyr. Il giovane Petyr, fin dalla più tenere età, aveva dimostrato interesse per la vita d'azione: adorava correre, nuotare, andare a cavallo. E, segretamente, quando poteva ed era ancora viva, sua madre aveva assecondato questi suoi vezzi. Certo: l'incarico principale per Petyr era studiare, ed era più probabile che nell'arco della sua giornata passasse del tempo su un libro che in groppa a un cavallo, ma non per scelta sua: perché il Lord della Valle aveva deciso così per lui. Ma da quando Petyr era prigioniero, paradossalmente, il Lord della Valle non poteva più influire sulla sua vita, e quindi da questo punto di vista Petyr ebbe una vita più comoda. Ai cinque (adesso quattro!) legati regi non importava un tubo se a lui piacesse leggere o tirar di spada, bastava che gli firmasse le cose che volevano firmate. Così, da un po' di mesi, il ragazzo ormai aveva quasi del tutto abbandonato la via del libro e aveva riabbracciato quella dell'arma. In particolare, ultimamente, aveva coltivato un interesse per le armi a due mani: spadoni, mazze, martelli. Quel giorno, optò per un'ascia bipenne e se la portò con sé nel famoso spiazzo di roccia da cui si vedevano tutt'e tre le punte del fiume; quello che aveva scoperto grazie alla sua mamma, e dove l'ultima volta aveva letto l'inutile messaggio del suo esiliato padre.

Per leggere quel messaggio, Pet0yr era finito per beccarsi una settimana di dura punizione. Era scappato dal controllo degli amministratori regi e, per quanto poi fosse ritornato di sua iniziativa domandando perdono, quelli dapprima gli dissero di apprezzare il gesto, dopodiché attivarono una politica di controllo nei suoi riguardi molto più restringente, e che solo di recente – con il suo compleanno – erano tornati molto parzialmente ad ammorbidire. E il messaggio non conteneva nulla di utile: non un piano, non un'idea di complotto. Solo l'invito ad una non meglio giustificabile speranza.

Quel messaggio, insieme con la punizione, erano state le ragioni per cui Petyr aveva vissuto in modo pessimo i giorni antecedenti al suo compleanno. Ma adesso le cose erano cambiate. Seppure controllato, almeno da una certa distanza, adesso lui poteva tornare a muoversi autonomamente. Poteva andare al piazzale roccioso ad esempio, ed allenarsi con la sua ascia bipenne: cosa che fece. Dunque cominciò il suo addestramento: aveva un chiaro problema di bilanciamento, che con la spada a due mani aveva ormai imparato a gestire. Ma nuova arma, nuovi problemi di impugnatura e posizione. Così, anche solo un po' per sciogliersi, il giovane rampollo della Valle di Arryn cominciò a dare qualche colpicino all'aria leggera. Le sue guardie e controllori, lo osservavano impassibili, senza commentare. Ma qualcun altro lo fece...

Sorprendendo Petyr per la seconda volta nella stessa maniera, con quella sua caratteristica di essere sostanzialmente invisibile accanto ad altre rocce, il mostro il cui corpo gigantesco era a sua volta fatto di laterizi, emerse da qualche parte ed osservò con fare quasi pedagogico: «Ma che cosa diavolo stai facendo?». Gli si avvicinò, e Petyr non ebbe dubbi: non stava per fargli del male, e non lo stava rimproverando per una qualsiasi ragione. Voleva insegnargli. Helmon continuò: «Non la userai mai bene se continui solo ad agitare le braccia, come se volessi acchiappare un insetto»

«Che... cosa stai dicendo?» replicò Petryr «Cos'è che sbaglio?»

«Le gambe. In battaglia non usi solo le braccia, anche le gambe. Tienile molto più larghe e leggermente piegate, dinamiche». Petyr eseguì e ricominciò a far oscillare l'arma. «No, no: aspetta. Non avere fretta, non avere fretta, ragazzo. Prepara il movimento: in questo momento non ti insegue nessuno. Molleggia un poco con le ginocchia, e ruota un po' il torace» Petyr eseguì «così bene, bene. Ma non troppo! Ogni movimento deve essere fluido, come in una specie di danza. Ci sono culture orientali che addirittura ne fanno una specie di arte, dell'uccidere»

«Onestamente, non avrei detto che ne fossi il tipo» si lasciò scappare Petyr, mentre Helmon – questo nuovo improvvisato maestro – gli si poneva accanto e lo aiutava verso la ricerca del movimento perfetto.

Il mostro di roccia rispose: «E non lo sono. È sempre un combattimento di massa il mio ma... ogni massa necessita di un proprio controllo della forma: è questo il segreto. Ci sono molte cose di me, che potrebbero sorprenderti, giovane Lord. Moltissime»

«Beh, puoi insegnarmele?». Petyr disse queste ultime parole così, senza rifletterci neanche tanto; tutta quella situazione d'altronde era venuta fuori così liberamente e amichevolmente che... semplicemente non aveva pensato che quello che aveva davanti era uno dei suoi aguzzini, forse il principale. Gli sembrò che, per quanto non molto espressivo, il titano di roccia fosse sorpreso ed anche confuso dalla domanda.

Gli disse di rimando: «Cioè... dovrei trattarti come una specie di allievo?»

«Sì, se vuoi e... se ne hai la possibilità»

«Certo che ne ho la possibilità. Io... una volta ero... ero... qualcosa di simile a un precettore»

«Veramente?»

«Sì, questo... richiama in me ricordi di un passato così remoto... così remoto...» lunghissima pausa; dopodiché la decisione definitiva: «Va bene: facciamo così. Intanto, mi allontano e tu mi fai vedere come ti batteresti con un avversario alto... almeno il doppio di te. Poi, dalla prossima volta, cercheremo un manichino o qualcosa del genere. Va bene?»

«Sì, va bene, maestro», confermò Petyr con indescrivibile entusiasmo. Da lungo tempo non si sentiva così contento. Non aveva più una famiglia, però almeno aveva recuperato un precettore.

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Capitolo 12
*** La battaglia di Alberocasa ***


Capitolo 12

LA BATTAGLIA DI ALBEROCASA

 

 

 

Venne infine il giorno che Sir Elthon e i suoi generali decisero di dedicare alla liberazione della immensa pianura innevata dove, in casa propria, il Lord degli Applegate – padre di Elthon – veniva tenuto prigioniero ormai da mesi. Per lungo tempo il principe di quella parte di mondo, erede del castello di Alberocasa, aveva insistito perché quello che considerava un suo superiore, il principe Daniel della Casa Lannister, lo aiutasse in quella battaglia. Si era adoperato con i fatti e le parole: era perfino sceso giù fino a Forte Terrore per liberare il principe Daniel dalle catene che sua cognata Abigail Baratheon, in nome e per conto dell'orso del nord Uryon Worchester gli aveva messo. Dopodiché, Elthon si era augurato che Daniel a questo punto gli desse una mano, ma Daniel aveva insistito per ritornare alla Grande Quercia e completare il suo addestramento, ed Elthon aveva pazientato ancora. Adesso era giunto il momento per il principe di Cowain di ripagare il suo debito verso quel fedele amico e alleato con l'albero di mele inciso sullo stemma. Non c'erano alternative, non c'era più tempo da perdere: Elthon gli aveva confessato che da dieci giorni non riceveva neanche più notizie dal Lord di Alberocasa e che temeva il peggio. Bisognava che la battaglia scoppiasse, e così la dichiarazione del conflitto venne inviata e in pochi giorni l'esercito dell'albero di mele venne schierato lungo tutto il versante meridionale della piana.

Se un esperto militare, che i generali di Elthon in effetti erano, avesse considerato le condizioni della situazione prima della battaglia, probabilmente avrebbero detto che per gli Applegate non c'erano speranze: erano come numero circa la metà dei cavalieri di Waldo Willoughby. Ma quello su cui Elthon contava, era l'asso nella manica, l'arma segreta che i poteri da Piromante di Daniel rappresentavano. Daniel non aveva idea se tutta questa fiducia di Elthon alla fine sarebbe stata premiata: non aveva mai combattuto con un numero così elevato di nemici. Era sicuro che cinque li avrebbe potuti abbrustolire tutti assieme in poco tempo, dieci in un minuto, venti in poco di più... ma su quel campo di battaglia non si ragionava a decine. Erano centinaia i nemici da abbattere, e Daniel non aveva idea se aveva abbastanza energia magica: non ne aveva mai sprigionata tanta. Oh certo: l'ultimo addestramento con Pyra gli aveva fatto intendere di aver ormai ottenuto delle nuovissime abilità devastanti. Ma tanto da sconfiggere da solo un intero esercito? Non lo convinceva. Era vero: c'era sempre il potere del drago, di cui incautamente il principe Daniel aveva perfino parlato con Elthon, ma quello andava usato per qualcosa di veramente speciale che Daniel avrebbe sicuramente capito: così la sua ultima maestra, Pyra, gli aveva spiegato ma... e se il momento non fosse stato quello? Per l'ennesima e ultima volta Alberocasa sarebbe caduta. E per sempre Daniel avrebbe tradito tutte le aspettative che non solo Elthon, ma anche gran parte degli abitanti dei villaggi del nord che quest'ultimo governava, da mesi avevano nei confronti del principe di Cowain.

Schiacciato da tutte queste responsabilità, il principe Daniel incominciò dunque la sua battaglia. Come prima cosa, si preparò ad accompagnare Elthon e il più anziano dei suoi generali all'ultimo confronto sul campo, nel tentativo di evitare il disastro. Sopra un cavallo non suo e che non lo conosceva, ma accanto ad Elthon, Daniel attese il segnale che però tardava ad arrivare. Quando, lontano, Waldo venne fuori dalle sue fila di uomini armati fino ai denti, non era da solo. Portava con lui il più importante dei prigionieri: il Lord di Alberocasa. Daniel poté osservare chiaramente la bocca di Elthon iniziare a schiumare di rabbia, mentre il suo sguardo preoccupato si rivolgeva al suo inerme padre tra le grinfie del loro nemico. Willoughby fece un cenno con la mano, come a dire: “state fermi dove siete”. Dunque incominciò ad urlare un suo discorso: l'acustica dal centro di quella piana, era particolarmente risonante, tanto da far sembrare la normalissima voce di Waldo – che Daniel pure aveva avuto modo di ascoltare nella sua vita – una emissione sinistra ed assai robusta.

«Inutile che ci confrontiamo Sir Elthon!» declamò dunque il Willoughby, tenendo ben stretta la sua presa sul vecchio Lord, «In nessun caso ti ridarò Alberocasa. Puoi cercare di venire a riprendertela, per quanto mi riguarda. E condannare così a morte sia te stesso che tutti quelli che ti seguono. Non vuoi? Allora vattene, e 'sta volta per sempre. Quanto a te, principe Daniel di Cowain, ti abbiamo già catturato una volta. Cosa ti fa credere che non lo faremo di nuovo? Non aiutare chi è già sconfitto. Non contribuire al versamento di un sangue che è già stato versato, e che adesso VERSEREMO ANCORA!», quindi Waldo fece quello che già Daniel – come sicuramente anche Elthon – aveva preventivato. Estrasse un coltello e tagliò un orecchio del povero vecchio Lord. Per fortuna, solo un orecchio. Daniel – e forse pure Elthon – aveva temuto molto di peggio: che magari gli tagliasse la gola. E invece Waldo, per qualche tornaconto, aveva deciso di mantenere il Lord ancora in vita. Tuttavia, dopo la sceneggiata, codardo come pochi, si allontanò esattamente verso il luogo da cui era provenuto, portandosi naturalmente dietro il suo ostaggio. Elthon dunque ordinò la carica.

Fu tutto molto rapido: Daniel si ritrovò in mezzo praticamente a soli nemici. Non vide più non solo Elthon, ma neanche nessun altro con le insegne di Alberocasa, solo stelle del nord dappertutto: il simbolo della Casa Willoughby. La situazione era critica: Daniel non capì come avevano fatto, ma ebbe in poco tempo la certezza che i soldati di Willoughby che fino a poco prima erano stati schierati sulla piana in difesa del castello, si fossero improvvisamente moltiplicati per due, anche per tre. Forse Waldo aveva furbescamente tenuto parte delle proprie truppe nascoste: era una cosa che Daniel sapeva che in guerra si faceva, anche se indice di un comportamento piuttosto viscido, quando non proprio sleale. Ma d'altronde: Waldo era quello che aveva appena tagliato l'orecchio di un vecchio curvo e indifeso solo per provocazione. Daniel pensò ai soldati che combattevano per la sua stessa causa, anzi: all'ultimo di loro. Si trovava, come lui, circondato dai nemici? In preda al panico e soltanto con uno spadino da far roteare, in attesa che uno dei troppi che lo circondavano scagliasse il suo fendente definitivo? In battaglia, il morale era qualcosa di determinante. E quello dell'esercito dell'albero di mele non poteva che essere rasoterra, data la situazione.

Svolazzando un po' qua e un po' là sulle sue lingue di fuoco, Daniel certamente era un avversario un po' meno semplice da intercettare: anche perché le sue lingue di fuoco, in un contesto di uomini ammassati come quello, servivano come arma oltre che come mezzo di trasporto: bruciavano eccome. Ma anche se sterminava soldati avversari a gruppi di cinque o anche sei, abbrustolendoli spesso con singole ondate di fuoco, comunque la situazione rimaneva critica anche per lui. Era come se più ne facesse fuori e più ne spuntassero, una cosa quasi incredibile, perfino per uno abituato a usare la magia. Si rese conto che stava passando troppo tempo in quella maniera, senza che nulla cambiasse, e invece era palesemente chiaro che la strategia doveva subire radicali modifiche. E già pensò di usare il potere del drago, ed esplodere tutto il fuoco che fosse possibile. Aveva promesso ad Elthon una vittoria, e invece non si stavano neanche avvicinando: se non era questo il momento, allora qual era? Si guardò intorno, vedendo mucchi e mucchi di giovani ragazzi soffrire e morire davanti a lui. Lui, che avrebbe potuto porre un termine a tutto ciò ma... sarebbe stata questa l'unica battaglia della sua vita? O ne sarebbero seguite altre, di peggiori? Il principe di Cowain continuò a guardarsi attorno, sempre più confuso. Usare il potere o non usarlo? Esplodere o non esplodere?

«Daniel! Ma che cosa stai facendo?». Elthon lo trovò proprio in quel momento, giusto mentre il principe di Cowain se ne stava fermo sulla sua lingua infuocata, un po' confuso, a contemplare per metà il vuoto e per metà il mucchio di cadaveri carbonizzati che aveva causato e aveva ai piedi. Il giovane Sir degli Applegate continuò: «Stai pensando di usare quel tuo potere?»

«Io... no... non lo so»

«Scusami, mio signore, ma siamo in battaglia e stiamo perdendo. Fermi non si può rimanere. Non... ti chiederei mai di usarlo, ci mancherebbe: sei stato chiarissimo, è una valutazione solo tua ma... non restare fermo. Continua a fare quello che... che» Elthon si commosse un po': se era chiaro per Daniel che erano sostanzialmente sconfitti, figurarsi per lui che era molto più esperto di battaglie, «che stavi facendo»

«Sì, sì, hai ragione» si limitò ad annuire il principe di Cowain. Giusto in quel momento una freccia arrivò a pochi centimetri da lui, piantandosi in un piccolo rettangolo di terra rimasto senza cadaveri. Era un dardo molto strano. Daniel estinse la lingua, scese al suolo e strappò dal terreno l'arma mortale per osservarla. Elthon gli si avvicinò, incuriosito. Cominciò Daniel: «Questo non è metallo...»

«È pietra»

«Non una pietra qualsiasi...»

«Pietra di Luna?» concluse Elthon, con un quesito retorico. Il colore biancastro era chiaramente quello: sia il Sir degli Applegate che il principe piromante avevano imparato bene a conoscerlo. Era la materia che annullava i poteri del fuoco del principe. Lo avrebbe fatto anche ora che Daniel era un nuovo se stesso, molto più potente? Non lo sapeva, ma non poteva rischiare.

Sempre insieme al suo fedele alleato e amico cavaliere degli Applegate, Daniel diresse dunque lo sguardo verso la zona da cui la freccia era stata scagliata. C'era un manipolo assai cospicuo (più di cinquanta) di arcieri pronti a dedicarsi esclusivamente alla sua persona. Non venne perso altro tempo, sia Elthon – con i suoi ragazzi più vicini – sia Daniel si diressero verso quei nemici. Ma la corsa di Elthon venne bloccata strada facendo, perché purtroppo il problema principale di quello scontro rimaneva: i Willoughby erano di più, e lo bloccarono. Ma Daniel ci arrivò e cominciò a fare cenere di quei dannosi arcieri con le frecce di pietra lunare. Fu una mossa istintiva, che purtroppo lo condusse a una certa facilità di mira da parte dei suoi avversari. Lui si mosse rapidamente, rabbiosamente e in pochi istanti eliminò forse una metà di quei suoi nuovi e particolari nemici. Ma alla fine una distrazione inevitabilmente lo colse, e finì che venne colpito a un fianco.

La lingua di fuoco si spense subito; Daniel precipitò al suolo, schiantandosi malamente e ferendosi al braccio sinistro. Provò dolore e rabbia ma... l'energia di fuoco non si spense. Sentì qualcosa dentro di lui diventare sempre più caldo. Aveva voglia di combattere, di vendicarsi. E decise di appagarla. Corse ancora una volta verso gli arcieri con una palla di fuoco per mano. La vecchia strategia dei Willoughby di usare su di lui la Pietra di Luna, questa volta non aveva funzionato.

 

 

 

Sostanzialmente l'intera compagnia che si era già riunita presso quella che tutti avevano cominciato a chiamare “la Dieta di Dorne”, prese armi e bagagli e – a cavallo ciascuno del proprio corsiero – superò Altogiardino e in otto giorni raggiunse Crakehall, una sede di fiducia del re Constant, situata al sud delle Terre dell'Ovest. Tutti, meno uno: la vecchia Saestrya Martell, che si disse troppo stanca per una missione verso la quale sentiva che non sarebbe stata poi così utile. Per convincere il proclamato re dei Lannister, sarebbe probabilmente servita l'amicizia e il sostanziale rapporto di fiducia che costui condivideva con Sir Bastian, o la buona capacità affabulatoria di Lord Baelish o di quel giovane e rotondetto Lord del continentale orientale che aveva detto di chiamarsi Banfred Panecha.

In suo nome, la rappresentante della regione più a sud di Westeros aveva lasciato quel grosso guardaspalle armato di alabarda – di pochissime parole – che Xenya e gli altri della dieta avevano avuto già modo di conoscere, praticamente sempre attaccato alla signora dei Martell. Il combattente si era semplicemente presentato come Chato e dopodiché, a sua volta alla guida di un altro gruppetto di altri due uomini armati più una donna (una ragazzina quasi) con la frusta, si era limitato a seguire il resto della compagnia intervenendo pressoché mai. Tra l'altro, silenzioso era lui e silenziosi erano gli stessi membri di questo piccolo manipolo dorniano al suo comando.

Non mancò di partecipare alla compagnia il settentrionale Sir Hrysso degli Applegate, cugino dei signori di Alberocasa che in quel momento stavano combattendo una battaglia per la vita contro i Willoughby della stella del nord, i quali – a quanto pareva – gli avevano rubato la capitale e tre quarti del territorio. Xenya di quelle cose continuava a capirci poco e ad interessarsi ancor meno, ma era da quando Constant gli aveva assegnato quella mansione di rappresentarlo alla dieta del sud, che non sentiva parlare d'altro se non di politica; e d'altro canto i suoi interlocutori erano da una parte uomini come Bastian, Baelish e Banfred che di politica campavano, oppure come il suo secondo Pashamanyna e quel tal Chato di Dorne, i quali invece d'istinto tendevano sempre a rimaner zitti.

Per quanto concerneva Hrysso e Chato, una volta giunti a Crakehall, si limitarono a fare quello che era il loro compito, quindi per il momento solo portare un messaggio di amicizia da parte dei loro padroni, al fine di un'eventuale futura intesa che per il re dei Lannister rimaneva auspicabile ma non necessariamente vicina, mentre invece loro sapevano benissimo essere anzi imminente. La nuova mansione che invece la maggioranza degli ex partecipanti alla dieta nel sud – da Xenya stessa a Sir Bastian, da Banfred a Baelish – era di proporre a Constant quel piano un po' sgangherato che avevano avuto per sconfiggere una volta e per tutte lo stregone tanto odiato che in quel momento sedeva sul Trono di Spade. Tutti loro non immaginavano però che a sua volta il re medesimo avesse qualcosa da dirgli.

Si ritrovarono in una sorta di riunione ristretta solo loro: non era un'assemblea formale, più che altro una cena anche piuttosto spartana per essere quella di un re. Insieme con quest'ultimo, si trovava il Lord di quel castello ospitante, Berhid Crakehall, con un bel cinghialotto rampante inciso su tutte le insegne. Dopodiché c'erano: Xenya – senza Jorando – Banfred con quel Garhel Sawela – ma senza il giovane Poll dei Gaholla – Baelish e Bastian. Sette commensali in tutto.

«Allora» fece il re non smettendo un momento di trangugiare il suo piatto stra-condito con base di pollo «avete detto che ci sono novità: raccontatemi pure...»

«Maestà» cominciò Baelish, che fino a quel momento aveva piluccato qualcosa ma non sembrava intenzionato a mangiare seriamente, «trattasi di un'idea sovvenutaci in pratica collegialmente, a partire dal confronto che gli uni abbiamo avuto con gli altri. Uomini diversi, rappresentanti di popoli diversi, che abitano regioni lontane fra loro e che pure condividono uno stesso fine»

«Vieni al dunque, Baelish»

«Sì ,ehm... la conoscenza diretta del vostro servitore, Bastian, che – come sapete – ha un legame con l'usurpatore; poi, quest'esperienza del libro che voi stesso avete avuto nell'altro continente, insieme alla qui presente Lady Xenya...»

«Non sono una Lady» precisò lei.

Baelish proseguì: «Sì, ehm... e poi l'idea che uno dei demoni a servizio del re Naharis sia mio prigioniero. E... le notizie che giungono dall'oriente e che i qui presenti Lord Sawela e Panecha possono testimoniarvi più di me... sono come tutti cocci di un vaso che forse potrebbe essere ricomposto».

Xenya sapeva, gliel'aveva spiegato Sir Bastian, che re Constant conosceva bene sia Lord Baelish che Lord Sawela, in quanto tutti insieme avevano fatto parte del Concilio di Sua Maestà re Lionel, fratello di Constant e padre di Marcus, Mirietta, il principe Daniel e via dicendo. Constant, poi, aveva conosciuto e fatto di Bastian il proprio braccio destro, e la stessa Xenya non era ormai una totale straniera al tavolo del re all'occidente. Se c'era qualcuno che a quella tavola Constant non aveva mai conosciuto, era il giovane elefantino Banfred dei Panecha: ma sicuramente aveva conosciuto suo padre, Lord Justus, morto di recente nella tragica battaglia di Marrah Cankhubhia, la prima degli uomini contro il tanto temuto drago di cui ormai si parlava liberamente: Baelish, Banfred, Sawela, Poll, tutti costoro avevano in effetti visto la creatura. Xenya non ci avrebbe creduto altrimenti.

«Quindi» fece il re di risposta al signore della Valle di Arryn, ma con un'aria piccata e apparentemente rivolta più che altri a Xenya e Bastian, «avete deciso di raccontare a tutti la faccenda del libro... e del demone d'acqua»

«Maestà» replicò Bastian «non è mica un mistero che voi siete dotato di alcuni fra i più poderosi poteri magici sulla faccia della terra»

«No, hai ragione: non lo è. Ma il fatto che quelle creature abbiano un passato, con una loro storia e di conseguenza... delle vulnerabilità. Questo era un vantaggio strategico che non avrei rivelato proprio a chiunque»

«Ma Maestà» riprese Baelish «fidati o meno che siamo l'uno dell'altro... adesso le cose sono cambiate. Una di quelle creature, ve lo ripeto, è in mio potere. Prigioniera. Se solo avessimo un modo per eliminarla, probabilmente anche il re Naharis ne risentirebbe, quando non il drago medesimo...»

«E con “un modo per eliminarla” io immagino che tu alluda al sottoscritto»

«E-ecco io...»

«Non so se ve l'hanno detto, Lord Baelish, i miei fedeli legati... che quando il demone d'acqua è morto, io stesso ho rischiato la vita. Ho perduto i miei poteri per settimane, e solo di recente sono tornato a un reale controllo. Veramente mi state chiedendo di rischiare di nuovo la mia vita? E per cosa? Per un piano che non ha nulla di sicuro...»

«Ecco, bene» si lasciò scappare Garhel Sawela, fino a quel momento zitto, ma da sempre il più restio della compagnia ad avallare il piano della distruzione del demone alla Valle di Arryn.

«Inoltre, signori» continuò il re «ci sono delle novità. Immagino che voi non siate stati debitamente informati lungo il rapido viaggio da Dorne a qui ma... Roccia del re non è più governata dall'usurpatore Naharis al momento. Un drago di luce – un essere interamente magico alimentato da un antico e oscuro potere – ha attaccato la Capitale e... annichilito sia il re che lo stregone Yashua, ora tenuti prigionieri dalla regina Hana, mia nipote. Ella vuole che io vada lì e l'aiuti con il governo della città, in qualità di Primo Cavaliere. Il re, va da sé, per lei rimane l'infante che ha avuto con Gabryaerys ma... il bambino ha un paio di mesi. Significherebbe governare indisturbati per almeno un decennio e, chissà, magari riuscire nell'impresa di educare un buon governante. Uno... che finalmente lasci un solco definitivo. Uno che io non potrei mai avere, visto che da lungo tempo ho deciso che non avrò figli miei»

«Ancora» fece Bastian, dispiaciuto, «la vecchia storia di Lady Ladylynn»

«Sempre, amico mio. Sempre»

«Maestà» s'intromise Banfred «se questo quadro da voi testé dipintoci fosse tutto vero, e andasse a buon fine.... Ciò non risolverebbe la questione dei demoni, comunque a piede libero in giro per il mondo e in qualsiasi momento richiamabili da un re che si trova al momento prigioniero ma... come possiamo sapere cosa sarà di qua a un semestre? E a un anno? E a cinque? Inoltre: non vedo come tutto ciò intervenga sulla questione che per me, che vengo dell'est, rimane quella cruciale. Col drago, come ci combiniamo?»

«Già...» fece Garhel Sawela.

Ancora re Constant replicò: «Siete un pensatore molto perspicace, Mylord, ve lo riconosco. E vi riconosco che mi ricordate molto vostro padre, uno degli uomini più saggi che abbia mai conosciuto: e vi assicuro che nella mia vita ho conosciuto un mucchio di uomini sedicenti saggi. Vi informo di qualcosa di cui giustamente solo chi mastica magia può sapere: quel tipo di incantesimo, quello del drago di spirito, da una parte è qualcosa di molto raro e di difficile da produrre. Per intenderci: io stesso non ne sarei mai in grado. Quindi, il qualcuno che lo ha prodotto è un mago di me assai più potente... dall'altra, di norma non se ne creano mai a singoli. I draghi di spirito sono solitamente almeno due, quando non tre. E vengono inviati per compiere missioni specifiche, assassinii per lo più. Ora quello che io presumo, è che chiunque abbia deciso di utilizzare quella magia non possa che essere un drago. Un drago intenzionato a uccidere i re e i capi dell'occidente»

«È lui...» disse Garhel; e Banfred: «È Requiem»

«Questo io penso» completò il re «ma sono piuttosto sicuro anche di qualcos'altro: se Requiem ha utilizzato la sua energia magica per creare quelle creature... allora in questo momento è molto debole, se non in fin di vita. E rimarrà così per settimane, forse mesi»

«Allora dobbiamo agire!» si scaldò Sawela, quasi cadendo dalla sedia, «E subito!»

«Sì» ancora Constant «Certo: questa è una delle conclusioni che dobbiamo trarre. E l'altra è... che comunque non è un pericolo imminente. Da una parte è meglio agire subito, ma dall'altra... non abbiamo poi così tanta fretta. Mi spiego?»

«Certo, Maestà» disse Banfred.

«No, che non vi spiegate!» esclamò Sawela «Dobbiamo armarci tutti e subito. E partire prima di subito!»

«Sono d'accordo» ancora rispose il re «ma per riunire un esercito come si deve... ci vuole che almeno il nostro e quello della Capitale si muovano come un sol corpo. E per farlo... c'è bisogno di qualche mese di politica attiva alla Capitale. Andrò lì e lavorerò per realizzare esattamente questo»

«Mh» mugugnò il Lord dell'oriente rimasto paralizzato alle gambe. Secondo Xenya, non era affatto contento ma semplicemente non gli sovveniva null'altro da replicare. Fu Lord Baelish invece ad aggiungere: «Quindi, Maestà, dobbiamo considerare il nostro progetto di eliminazione dei demoni... definitivamente scartato?»

«No, era una buona idea. Diciamo: accantonato, per il momento. Anzi, vi chiedo un favore: Lord Baelish, Panecha, Sawela e Crakehall potete lasciare la stanza? Vorrei confrontarmi un momento solo con i miei più diretti consiglieri».

Quindi il re considerava Xenya una dei suoi consiglieri più diretti, purtroppo. Insieme con Sir Bastian. Fu quest'ultimo a limitarsi a domandare (una volta che gli altri avessero lasciato la stanza): «Maestà?»

«Sì, vorrei capire voi cosa ne pensate sinceramente di questo piano... ora che non ci sono più quei serpenti che ci strisciano intorno. Dico: è chiaro che Baelish muove per il suo esclusivo interesse e pure se lo aiuteremmo a liberare il figlio – perché è lì che vuole arrivare – nessuno ci garantisce che il giorno dopo non volti la faccia e cominci ad allisciarsi il drago o l'orso del nord. O tutt'e due. Mi chiedo perché due persone accorte come voi siano arrivate a fargli credere che il suo piano abbia un senso...»

«Beh, ma Maestà... ce l'ha...»

«No invece: per una semplice ragione. Nessuno ci dice che io sarei in grado di eliminare un altro di quei demoni. Ma anche se fosse, io posso assicurarvi questo: non riuscirò mai a sconfiggere tutti e sei quelli restanti, più magari Gabryaerys, più magari Requiem. È impossibile. C'è una sproporzione magica immensa da questa parte piuttosto che da quell'altra. Totale»

«E se...» provò Xenya «Da questa parte aggiungessimo il principe Daniel di Cowain?»

«Il principe Daniel è vivo?»

«Sì. Quegli uomini del nord giunti insieme a noi, la compagnia di Hrysso Applegate... ci informa che addirittura il principe stia combattendo nel nord insieme a loro. Ed è dotato di magia»

«Non basta... a meno che...»

«Sì, Maestà?»

«L'estremo nord è un coacervo di potere magico. Vi ha risieduto per lungo tempo il drago Nidhogg e, di lui ancora più a nord, lo stesso Requiem. Ci sono... creature che animano quelle vette di nevi perenni. Energie disparate, spesso con fattezze umane... ma... hanno dei loro interessi, e non ho idea se potrebbero coincidere con i nostri...»

«E poi c'è l'altro drago» aggiunse Xenya, entusiasta ma neanche lei capiva bene perché, «Quello dell'est...»

«Ci ha fatto capire in tutti i modi che non intende lasciare la sua montagna infuocata»

«Sì, ma...»

«Maestà, perdonatemi...» fece adesso un fino ad allora curiosamente sempre silenzioso Sir Bastian «Ma veramente stiamo decidendo sulla base di... tutto ciò che possa andare perfettamente, anche sul lungo termine? Mi spiego meglio: io capisco che la strategia preveda un conteggio di mosse eventuali da fare in vista della vittoria ma... prevedere troppe mosse non corrisponde ad impiccarsi su un'improbabile utopia?»

«Stai dicendo di buttarmi su questa impresa di eliminare il demone di fuoco e poi si vede...?»

«No, è chiaro che Daniel vada informato. Abbiamo un contatto immediato e diretto adesso con vostro nipote, potreste scrivergli anche in questo momento e la missiva lo raggiungerebbe in pochissimo»

«Mh...»

«Sono già due mosse. E, in tutta franchezza Maestà, se davvero pensate che il potere di Requiem in questo momento sia sopito... non riesco veramente a capire l'urgenza di andarlo ad attaccare. Non finché ci saranno i servi di Gabryaerys ancora a piede libero... E infine: la Valle è più vicina dell'oriente. Sappiamo dove andare con precisione, non dobbiamo lanciarci alla ricerca di qualcuno che sicuramente non vorrà essere trovato...»

«Mh...». Bastian era un interlocutore assai abile, molto più di quanto Xenya non considerasse se medesima. Il discorso del paffuto Sir dell'oriente aveva in primis convinto lei, ma anche il re in effetti era rimasto senza altre parole, a riflettere. Forse sarebbe andata avanti così ancora per qualche minuto, ma la riflessione del re dell'occidente venne interrotta. S'udì prima, in lontananza, un rumore di passi sempre più vicino. Doveva essere più di una persona, e vestita in modo pesante. Dopodiché la porta si spalancò: c'erano Hrysso degli Applegate e la sua compagnia dinanzi al re, insieme a un paio di servi della magione e a Lord Crakehall, il quale disse, tutto allarmato: «Maestà, mi dispiace: non sono riuscito a fermarlo!».

Sulla faccia, il Sir del nord aveva stampato un sorriso a tutt'e trentadue i denti. «Vostra Maestà» fece dunque Hrysso «buonissime nuove dal nord! L'armata della stella ad Alberocasa è caduta! Il nord estremo è libero. Adesso, Vostra Maestà ha un sicuro alleato anche da quella parte del continente»

«Perfetto, Hrysso» rispose re Constant «dimmi: avresti modo di far giungere rapidamente una mia missiva al principe Daniel di Cowain?».

 

 

 

Alla fine, Daniel non aveva utilizzato il potere del drago per vincere la battaglia di Alberocasa. Era rimasto sulle potenzialità che aveva sotto controllo, anche se in qualche misura sempre più amplificate: distruttive ma precise. Da quel giorno, cominciò a pensarsi un Piromante niente male, mentre fino ad allora si era sempre considerato niente di più che un principe del sud che aveva avuto la fortuna di conoscere un drago e di apprendere qualche cosa da lui e dagli esseri a lui in qualche misura connessi. Adesso no: adesso quello che aveva fatto era interamente farina del suo sacco. Partendo dalle basi che Requiem, Terwyn, Pyra gli avevano dato, Daniel sentiva finalmente di aver messo su qualcosa di esclusivamente suo, il che gli aveva consentito di fare la migliore delle figure che potesse fare ad Alberocosa, non disilludendo le aspettative che l'amico Elthon Applegate aveva fino a quel momento avuto su di lui e liberando il vero Lord di quella zona, ricacciando i Willoughby della stella del nord, ancora più a nord. Dove dovevano stare. Breccia sugli Astri era la loro capitale, una landa desolata dove le nevi erano praticamente già perenni. E verso lì, Lord Waldo – tornato dunque ad essere obtorto collo un vassallo degli Applegate – cercò di rifuggire. Acchiapparlo era la nuova missione che fin da subito Daniel ed Elthon si erano dati, visto che nulla avrebbe potuto considerarsi concluso senza Waldo prigioniero il quale, da casa sua, avrebbe sicuramente trovato il modo per ritornare sotto la gonna di Uryon Worchester, probabilmente prendendo il mare ghiacciato che solo le navi dei Willoughby (primariamente) e degli Applegate sapevano veramente solcare.

Fin dalla liberazione di Lord Applegate infatti, a battaglia neanche ancora interamente ultimata, Daniel, Elthon e un manipolo di soldati e cavalieri a quest'ultimo fedelissimi (e che Daniel stesso aveva in parte imparato a conoscere) si erano subito lanciati all'inseguimento del manipolo di circa cinquanta uomini che, alla scorta di Lord Waldo, si era lanciato a cavallo verso nord. Elthon non aveva fatto neanche in tempo a scrivere di suo pugno la missiva di informazione agli alleati che sapeva avere nel sud. Lasciò l'incarico a un suo scrivano, che si mettesse d'accordo con il suo appena liberato padre Lord di Alberocasa, e pensasse lui alla forma e sintassi migliori per annunciare la vittoria. Lui aveva da fare: aveva da acchiappare il nemico della vita, uno con cui rivaleggiava da anni e verso cui probabilmente provava sentimenti di rivalsa che Daniel neanche si sognava.

L'inseguimento di Lord Waldo si portò via circa mezza giornata, con in mezzo due occasioni di scontro tra le due fazioni, in cui perse la vita un numero sostanzialmente uguale di contendenti da una parte e dall'altra. A circa metà dell'operazione, Daniel, Elthon e tutti i cavalieri di quest'ultimo si resero conto che in effetti – più che verso Breccia sugli Astri – l'erede dei Willoughby stesse cavalcando verso il mare. Intendeva quindi lasciare tutto e dirigersi verso Biancavilla, a questo punto per diventare niente di più che uno dei tirapiedi (tra l'altro sconfitto) al servizio dell'orso del nord, il deforme Uryon, che Daniel aveva avuto maniera di ben conoscere. Era meglio che questo non accadesse, che Waldo non raggiungesse la barca che sicuramente per lui era stata già predisposta da qualche parte in quel deserto di ghiaccio che però solo i Willoughby conoscevano bene.

Venne un momento in cui, anche se da lontano, la compagine degli Applegate e del Principe Piromante poté riuscire a vedere il mare all'orizzonte. Capirono allora che quello era il punto di non ritorno: bisognava abbattere Waldo e farlo subito. Cominciarono la loro carica, la terza in quella giornata. Ma i cavalieri della stella giustamente non si fecero cogliere impreparati, ed anche loro spronarono i loro cavalli quando videro che i nemici si stavano avvicinando. Dalle parti di Elthon, cominciò ad esplodere anche una pioggia di frecce. Qualcuno dei cavalieri di Waldo venne colpito, magari anche molti. Ma non lui e non i suoi diretti tirapiedi. Erano ormai a un tiro di schioppo dalla barca che ormai pure Elthon e i suoi intravedevano. Il Sir rampollo degli Applegate dunque, senza smettere di spronare il proprio destriero, decise di rivolgersi direttamente al suo nemico. Ad alta voce fece: «WALDO! Fermati! Per una volta sola nella tua inutile vita compi un atto di coraggio! Vieni qui! Affrontami! Uccidimi! O muori provandoci!». Non ottenne alcuna risposta. Per quanto Daniel ebbe modo di vedere, il Willoughby neanche si voltò a degnare di uno sguardo colui che si era appena rivolto alla sua persona. Una e una sola in quel momento era la priorità del signore di Breccia sugli Astri: raggiungere la sua imbarcazione.

Fu allora che, con uno sguardo di disperazione ma senza parole, Elthon si rivolse al suo amico principe di Cowain. Gli chiese di fare qualcosa, e Daniel decise di non farselo ripetere due volte. Perché Elthon se lo meritava, era stato un amico per lui utile e fedele. E aveva il bisogno di catturare Waldo. Daniel decise di provare a farlo per lui. Spiccò un rapido volo scagliando fuoco dai palmi delle proprie mani e precipitandosi in una rapida lingua; vi scivolò sopra e in men che non si dica, piombò su Waldo e i suoi cavalieri più stretti. Ne atterrò uno, poi due, poi cinque. Rimase solo Waldo che non ne voleva sapere di combattere. Daniel lo afferrò per il mantello e Waldo cadde da cavallo. Dunque il principe fece per colpire quel codardo, ma quel codardo reagì e – con una sorprendente velocità – pugnalò due volte al bassoventre Daniel, che cadde a terra dolorante. Waldo si rimise a cavallo. Daniel non lo vide ma a questo punto fu praticamente certo che il signore dei Willoughby avesse raggiunto la sua imbarcazione e incominciato a salpare.

I cavalieri di Elthon tardavano ad arrivare: Daniel, con la sua magia, li aveva superati di un bel po'. Stava sanguinando parecchio. Non riusciva più a rialzarsi e men che meno a produrre fuoco. A meno che...

Decise di concentrare il proprio potere anziché in un atto devastante (come uno spostamento o una fiammata per sconfiggere un nemico), sulla ferita. Sentiva che un po' di calore avrebbe rilassato la parte sanguinante. E aveva ragione. In brevissimo tempo, in pratica il principe Daniel di Cowain si curò da solo. Non aveva idea che fosse in grado di poter fare anche di quelle cose, eppure sapeva – lo aveva studiato – che la magia di Nidhogg pure era stata utilizzata in parte per fini curativi ma... insomma Daniel non aveva mai messo in conto di poterla usare a quel modo. Quando Sir Elthon e i suoi cavalieri arrivarono presso di lui chiedendogli come stava, il principe Daniel non poté che rispondere «bene». Era di nuovo in piedi e non provava alcun dolore. La barca di Waldo Willoughby invece s'era ormai perduta all'orizzonte.

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Capitolo 13
*** La vendetta dell'Andalo ***


Capitolo 13

LA VENDETTA DELL'ANDALO

 

 

 

Il primo Concilio Ristretto della regina reggente sul Trono di Spade: Sua Maestà Hana della Casa Lannister, al governo in nome e per conto del degente marito Gabryaerys Targaryen e del loro comune infante figlio, Lyoneth. Marcus non si trovava in una situazione simile da tempo immemore, praticamente da quando era ancora un ragazzino. Capitava di tanto in tanto che suo padre – e anche di Hana – re Lionel, li portasse a quelle riunioni, giusto per avere un po' d'intrattenimento, visto che notoriamente si annoiava a morte. E anche Marcus, a quanto rimembrava, lo faceva. Solo che adesso era il Primo Cavaliere della regina, in sostituzione di Constant con cui erano state intavolate delle trattative. E un Primo Cavaliere assisteva alle riunioni del Concilio Ristretto, anzi: sulla carta, le presiedeva e le convocava, anche se per quel consesso preciso ad occuparsi di queste mansioni erano stati la regina e i più competenti Lord Gushing e Gaholla.

Non erano solo loro quattro i convitati quel giorno, giustamente. C'era anche il Gran Maestro Irwin, un anziano e ricurvo signore che Marcus non ricordava di conoscere, e poi... il suo vecchio “amico” Sir Winston Cleghorn, l'uomo che più di tutti l'aveva vessato ai tempi in cui tutt'e due s'erano trovati alla Valle del Leone. E, per il grande disagio del principe Cavaliere della Chimera (e adesso Primo Cavaliere pro tempore), insieme a Cleghorn c'era anche Jasmina Tahorel; chissà con quale giustificazione...

Marcus e Jasmina non s'erano lasciati bene l'ultima volta, al loro incontro nelle Terre dell'Occidente. Marcus difendeva la causa di Constant, mentre Jasmina era stata inviata da qualcuno in alto nel Concilio di Gabryaerys, proprio a convincere Marcus e a fare in modo che quest'ultimo manipolasse il re Lannister perché lo scontro tra le due corone non avvenisse. Qualcuno sapeva che i due giovani erano stati in buoni rapporti alla Valle e pensava che Jasmina sarebbe stata buona per fare il lavaggio di cervello a colui che adesso ricopriva la carica di Primo Cavaliere. E quel qualcuno non poteva che essere Winston Cleghorn. Jasmina stessa, poi, ci aveva messo del suo – agli occhi di Marcus – abbracciando completamente l'idea di una pace che solo a Gabryaerys conveniva. Ma era inutile nasconderlo: per Cleghorn, Marcus provava da sempre un odio particolare. Ed era contento che adesso quel vecchio suino ricevesse finalmente quanto meritato. Marcus, d'altronde, era a conoscenza almeno in parte di ciò che la regina aveva deciso e stava per comunicare al suo Concilio.

«Cari amici», cominciò Hana. Aveva Marcus alla destra e Lord Gushing alla sinistra. «Il Concilio di oggi vuole essere una formalità atta ad avviare questo nuovo e comune percorso insieme. Come tutti sapete, le circostanze mi obbligano a prendere la reggenza, che lascerò non appena mio marito si sarà rimesso. Ma, per il momento, ho pensato di risolvere da me alcune cose che a mio giudizio non andavano, al fine supremo del bene per il Regno. E per cominciare: una riorganizzazione di questo Consiglio. Ora, in verità, molti di voi hanno già ricevuto un comunicato nel quale preannunciavo le mie intenzioni, e in particolare quando esse si riferivano personalmente al destinatario...»

«Sì, ecco, appunto, Maestà» fece il vecchio dalla barba bianchissima, subito mettendosi in piedi e attirando l'attenzione della sala, «mi domandavo se, per quanto riguarda il mio caso...»

«Io non ho concluso il mio intervento, Lord Willoughby»

«Ma lo capisco, Maestà! E tuttavia...»

«Tuttavia niente, Lord Senus. Sono la tua regina e tu mi farai ultimare quello che ho da dire». Era stato un momento un po' imbarazzante, ma non certo per colpa della regina, pensò Marcus. Anzi, sua sorella aveva fatto quello che era necessario: pretendere che quel vecchio non la prevaricasse, come molti anziani purtroppo tendevano a fare quando si rapportavano con qualcuno di più giovane. Brava Hana: aveva fatto valere le sue ragioni di regina. Era molto cresciuta e lui era fiero di lei. La regina dunque continuò: «Come avete modo di vedere, al mio fianco siede il nuovo Primo Cavaliere, mio fratello Sir Marcus Lannister dei Cavalieri della Chimera. Lui prenderà l'incarico altresì, su nostra concorde decisione, di Maestro delle Armi, andandosi così a sostituire al qui presente Lord Senus. Come Primo Cavaliere invece sostituisce Lord Tararus, che è stato avvisato e mediante una sua comunicazione... ha rinunciato quest'oggi ad apparire al suo congedo ufficiale dalla regina e dal regno che ha serviti. Anche tu, mylord della Breccia sugli Astri, sei dunque congedato. La Corona ti ringrazia per il tuo servizio e confida in una tua lunga e felice vita». A questo punto Hana sorrise con pazienza e attese la replica, che affatto tardò.

«Vostra Maestà, quello dell'amicizia tra la casata del nord che rappresento, quella di Uryon Worchester e quella di Sua Maestà vostro marito... è un legame ormai talmente consolidato, da non darmi difficoltà a esser definito “amicizia”. Sono ormai anni che, con diverse combinazioni, noi governiamo insieme il regno, e non credo affatto che né vostro marito e né l'intero nord considererebbe saggio ora gettare alle ortiche questi mesi di proficua collaborazione. Io vorrei che voi...»

«Sei stato chiarissimo Lord Senus, ma la premessa di questo incontro era che le cose sono cambiate. Non è più mio marito il tuo interlocutore per la Corona, bensì io. E quanto al nord... insistentemente si ripetono le voci che – sotto i colpi degli Applegate – la casata della stella del nord, la tua, sia ormai decaduta. C'è ancora Lord Uryon, è vero ma... il nord conta meno nel regno adesso. E conterà meno anche nel Concilio Ristretto della regina»

«Del re» disse una voce fino ad allora silente. Appartenente a qualcuno che Marcus non aveva notato. C'era un cono d'ombra all'angolo della stanza. A un certo punto, apparvero un paio d'occhi. E poi venne avanti lui: Lord Braff, vestito di viola scurissimo, ma con i suoi capelli e i baffi e il pizzetto tradizionalmente rossi. Il Maestro delle Spie proseguì: «Se sei reggente, Vostra Maestà, allora formalmente il Concilio rimane quello del re. Perdona la mia saccenza: un vecchio vizio da pedagogo. Ricorderai che ho fatto questo per gran parte della mia vita»

«Sì, Lord Braff, lo ricordo»

«Dunque quale trattamento riserverà alla mia persona il nuovo governo? Verrò anch'io brutalmente congedato come Lord Senus? Ho servito anch'io il re tuo marito, così come tuo fratello e vostro padre prima di lui»

«Tu mio fratello lo hai ucciso!» esclamò Marcus, non riuscendo a resistere al suo istinto di Andalo, e sguainando la spada.

«Marcus, stai calmo, per favore», lo trattenne sua sorella, «Questo è un Concilio Ristretto e tu sei il Primo Cavaliere»

«Già, il Primo Cavaliere» rise Lord Braff con tono provocatorio «uno che chiamano l'Andalo. Ci sarà da divertirsi. Per quanto mi riguarda, ho sempre messo le mie competenze al servizio di una cosa soltanto: il Regno. E di tutto mi si può accusare meno che di una cosa: che io non abbia agito – sbagliando magari – ma con l'intenzione di fare del bene al Regno»

«Lord Braff» riprese Hana «tu, come il Gran Maestro Adali Irwin, manterrai la tua carica. È questo che la Corona ha pensato essere il meglio nell'interesse del suo popolo e della sua nazione. È pure vero, tuttavia, che ho deciso di chiederti... una prova di fiducia particolare, di cui dopo parleremo»

«Maestà» chinò il capo Braff, e ritornò al suo posto presso il suo angolo ombroso.

Ancora una volta, la regina si ritrovò a riprendere: «Lord Gushing, qui, riprenderà la sua vecchia mansione di Maestro delle Leggi, anche in questo caso andandosi a sostituire all'uscente Primo Cavaliere Tararus. Lord Gaholla invece ricoprirà il suo vecchio ruolo di Maestro delle Strade e in più quello temporaneo di Maestro del Conio. Sono intenzionata ad assegnare a qualcun altro quest'ultimo incarico, ma in questo momento Lord Pamir ha gentilmente detto che si sente pronto a...»

«Maestà! Maestà! Maestà!», batté i pugni, visivamente irritato, il Lord dei Willoughby. Non ne voleva sapere di togliersi dai piedi, e quindi tornò a contestare: «L'edificio pubblico dove io risiedo qui alla Capitale è casa mia! Non permetterò che...»

«Che cosa non permetterai alla tua regina, Lord Senus, sentiamo?»

«No, un momento, Maestà, io non intendevo...»

«Già, mylord, tu mai intendevi: non è così? Sei solo un vecchio buono, che qualcuno giudicherebbe al massimo un po' tonto, assolutamente consegnato alla causa del nord e a niente oltre, non è vero?! Sai invece che cosa ho inteso io in questi mesi da regina consorte, e di tempo dedicato al mio Regno? Ho inteso che il veleno che assassinò mio padre, il nostro re Lionel, era un veleno piuttosto raro che non si trova da molte parti, se non nel nord del continente. Lo sapevi? Quello stesso nord da cui ti vanti e glorifichi di provenire tu, no?»

«Cosa? Ma Maestà: è scandaloso! Io non capisco niente di... veleni e intrugli vari, e per di più: non ero mica io il solo uomo del nord presente il giorno di quel tragico Concilio Ristretto in cui tuo padre perse la vita!»

«No. Ma sei il solo uomo del nord che è ancora qui tra noi, in questo momento, che i miei occhi possono ben vedere e le mie mani toccare: non è così, mylord della stella?»

«I-io... va bene, mi sa che adesso vado, visto che a quanto pare questo Concilio non è più il mio posto»

«Questa città non lo è più, Lord Senus. Salutaci le nevi perenni».

Il vecchio batté l'ultima volta il suo pugno, in verità non con troppa convinzione. Dunque diede le spalle e rapidamente lasciò la sala. Forse era l'ultima volta che la sua schiena ingobbita si sarebbe vista da quelle parti. Ma in quella sala rimaneva ancora qualcuno cui la regina non aveva rivolto la parola...

«Sir Cleghorn» disse quindi Hana rivolgendosi a colui che ora era il più vecchio attorno al tavolo «voi siete un Sir, non un Lord. Condividevate con Willoughby la mansione di Maestro delle Armi, e in più siete il capo di tutte le guardie della città, cavalieri semplici e... della chimera. Bene: avevate troppe mansioni, d'ora in avanti non vi preoccuperete più della carica di Maestro delle Armi, che sarà solo in capo al mio Primo Cavaliere. Mio fratello d'altronde, il vostro nuovo diretto superiore, è un Lord, figlio, fratello, cognato e zio di re. Questo è quanto»

«Sì, Maestà» recepì il vecchio Sir della Valle del Leone, che si alzò e fece per andare, seguito da Jasmina, ma non prima di lanciare uno sguardo al suo nuovo “superiore”, come aveva detto la regina. Lo stesso cui aveva fatto spalare la merda per troppi troppi mesi. «Lord Gran Maestro» continuò la regina «ti spiace lasciarci anche tu? Devo scambiare due parole solo con Lord Braff, Gushing, Gaholla e con il Primo Cavaliere»

«Certo, Maestà» replicò Irwin, e si dileguò.

«Lord Braff» fece dunque Hana «non c'è una cronaca che non ti descriva come il più abile Maestro dei Sussurri dai tempi di Lord Varys. Sei troppo indispensabile per questo regno e per la Corona che io rappresento, e per questo sei ancora qua, seduto in questo Concilio»

«C'è forse un “ma”, mia regina?»

«No. Ma tu hai ucciso mio fratello. E volevo sapessi che non lo dimenticherò mai»

«Non immaginavo nulla di diverso» ebbe la faccia tosta di replicare quello, anche sorridendo tra i baffetti, «Vostra Maestà»

«Allora c'è qualcosa che intendo chiederti: la tua prima mansione quale Maestro delle Spie della regina reggente»

«Tutto ciò che desiderate, Maestà»

«Uccidi Senus Willoughby. Fa' che non lasci mai vivo la Capitale. E... che comunque non vi rimanga a lungo. Voglio un lavoro pulito, invisibile, che non lasci tracce. Per questo mi rivolgo a te. L'uomo che ha ucciso mio fratello, ucciderà l'uomo – forse suo alleato – che ha ucciso mio padre»

«Maestà, io non sono mai stato alleato di quel bacucco. Voi mi offendete», Braff ghignò ancora.

«Sparisci adesso. Più ti guardo, più mi ricordi il giorno in cui mi desti una pozione, spergiurandomi che bevendola non avrei mai avuto un figlio dal drago»

«Hana: non capisco se questa è un'accusa... oppure un ringraziamento. L'intruglio non ha funzionato, vi chiedo scusa se ho provato ad aiutarvi. Ma vi dico “prego”, visto che ora il frutto di quell'errore è l'infante che tanto amate e per mezzo del quale ora rivendatei il trono e il capotavola a questo Consiglio». Dunque il Maestro delle Spie non disse altro, non attese replica. Marcus vide in effetti sua sorella sforzarsi di trovare rapidamente qualcosa, ma non fece in tempo. Anche Braff, come già gli altri convitati, sparì rapidamente dalla sala.

«Complimenti, sorellina» si lasciò dunque scappare Marcus, ora che in sala erano rimasti solo tra amici sinceri (loro due fratelli, più Gushing e Gaholla), «ho sempre saputo che questo tipo di mestiere faceva per te. Ma adesso... mi rendi orgoglioso»

«C'è tanto da fare» sorrise lei «e le cose o te le fai da solo... oppure te le fanno altri. E se poi non ti piace, trovo che tu non abbia alcun diritto a lamentarti»

«Parole degne di una regina»

«Sì, ma anche parole di tua sorella» dicendo questo, Hana gli sorrise con grande contentezza.

 

 

 

Il viaggio dalla Capitale alla più importante città dell'Altopiano fu per Gino come immergersi in un confuso e sfumato sogno. C'era nell'aria, attorno a lui; qualcosa che non era in grado di attribuire a nulla di preciso se non alla “magia di Lord Braff” e che rendeva le giornate in qualche misura... “annacquate”. Esisteva un cronoprogramma, che sulla carta stavano rispettando, e che prevedeva che Gino e la scorta di tre guerrieri-ombra che lo stavano seguendo, avrebbero dovuto essere in quel giorno a quella data ed in effetti era tutto confermato, tutto sotto controllo. Ma per qualche ragione era come se il tempo dentro il giovane Lord, differentemente da quello al suo di fuori, non stesse scorrendo affatto. Saranno state le fronde verdi dei boschi della Dodecapoli, tutte uguali a se stesse, anche se proprio lui – che tra quei boschi c'era cresciuto – avrebbe dovuto ben sapere che c'è fronda e fronda all'Altipiano, e radice e radice, e ramo e ramo. Ebbene tutta questa varietà Gino non la percepiva più. Percepiva solo uno scorrere vago, e un volto – quello di Jon Barthalo, il traditore – più che altro simbolico e anch'esso privo di connotazioni specifiche. Jon lo aveva tradito: era passato dal re Targaryen al re di Lannister – Constant – e s'era seduto ad Altogiardino come nuovo Lord. Stava affamando la Dodecapoli e doveva essere rimosso. Ma Gino si domandava se in effetti questa fosse la principale causa a muovere le sue azioni. Se non ci fosse qualcos'altro. Qualcosa di più sottile, invisibile e nascosto.

Avevano anche avuto l'opportunità di passare da Lungotavolo, ma Gino aveva pensato che non fosse una buona idea. Come non si fidava più di Lord Braff, ancor meno si fidava dei misteriosi aguzzini al suo comando: gli uomini-ombra, fedelissimi solo ed esclusivamente al Maestro dei Sussurri. Rapidi, silenziosi, ma che in pratica non esistevano al di là del loro mestiere. Gino non li aveva mai visti bere, mangiare o andare al gabinetto: l'unica cosa di “umano” che quei ragazzi esili ma letali facevano era riposare, ma tutte le volte che lo facevano il giovane Lord non poteva non pensare che stessero bluffando. Non era la prima volta che Braff lo circondava di quegli individui, qualcuno si era anche divertito ad addestrare il giovane Barron; di qualcuno Gino era anche diventato una specie di “amico”: come di Kellan, il primo capitano dei guerrieri-ombra con cui aveva avuto a che fare e che poi gli era morto davanti agli occhi nel corso della battaglia di Cowain. Sì, perché c'era un'altra cosa piuttosto umana che i soldati di Braff in effetti facevano: morivano. E poi parlavano: avevano una parlantina piuttosto precisa e piena di vocaboli. Ma non erano sconvenienti e giammai volgari. Degli ometti modello, come fatti con lo stampo, ideali agli occhi di un buon padre per farli sposare alle loro figlie. Non fosse che di mestiere facevano i sicari.

Ebbene, nonostante la grande tentazione, Gino decise di tirare dritto: di non riabbracciare il suo piccoletto lasciato a Peyra presso la corte di Lungotavolo, probabilmente travestito (e trattato) come un neonato del popolo. Non avrebbe rivisto ancora il suo piccolino, perché quando l'avrebbe rivisto entrambi sarebbero stati liberi e senza più nemici a minacciarlo. Però quanto gli fece male passare da quel bivio e non potersi soffermare neanche a riflettere, a proporre una scusa, un obiettivo mascherato, niente di niente. Decise semplicemente che era meglio di no e spronò il suo cavallo ad inseguire Callum e gli altri sicari di Lord Braff.

«Mylod Gino» gli fece a un certo punto Callum, rallentando il trotto del proprio baio e avvicinandosi a lui, «per Altogiardino si potrebbe fare ancora una pausa, riposare, e giungere al castello in mattinata: dopo l'alba intendo. Altrimenti, se tu non vuoi riposare: potremmo tirare dritto, spronare i cavalli e giungere oggi stesso più o meno verso l'ora del tramonto o poco dopo. Io suggerisco la prima alternativa: un'azione violenta richiede un buon riposo. Ma devi essere tu a decidere»

«Sì, va bene, Callum. Riposiamo. E domani ammazziamo quel bastardo».

Ma i sogni del giovane Lord della volpe non lo lasciarono per nulla sereno. Le stesse ombre e immagini fumose che aveva visto in quei giorni, continuavano a ripetersi anche adesso. Uomini, donne, tutti mescolati insieme prima nell'amore e poi nella morte. La guerra con tutte le sue vittime: dirette e indirette. Daessenya, morta di parto da sola a Castel Granito. Jon, che sarebbe morto l'indomani: Gino lo vide. Una lama che trapassava il petto del traditore da parte a parte; ancora una volta: una lama d'ombra. E poi il padre di Gino: il Lord di Lungotavolo, morto anche lui. Anche lui per mano di un'ombra. Per mano di Lord Braff.

Gino si risvegliò sudatissimo, anche se caldo non faceva. Si ritrovò in piedi, con davanti a lui – tutti mezzi nudi – Callum e gli altri due sicari.

«Lord Gino» disse Callum, un po' preoccupato in viso, «tutto bene?»

«Io... s-sì. Che ci faccio qui?» replicò, confuso, il giovane Barron. Si trovava infatti nella seconda tenda, quella dove non riposava lui bensì quelli che a tutti gli effetti erano dei suoi coadiuvanti.

«Non lo so» replicò ancora l'altro ragazzo, abbottonandosi il giacchino, «dimmi, sei forse sonnambulo, mylord?»

«Non che io sappia»

«Beh... sei appena entrato con uno sguardo un po' perso nel vuoto e... ora ci stai chiedendo cosa ci fai qui»

«V-vi... vi domando scusa»

«Non preoccuparti» Callum gli mise un braccio attorno al collo «è piuttosto normale farsi sopraffare dall'ansia, prima di un'impresa così importante. Bevi un po' di questa: ti agevolerà il sonno». Il giovane capo dei guerrieri-ombra gli allungò un'ampolla chiusa da un tappo di sughero e contrnente un liquido color caramello. «È dolce», specificò pure. Gino rifiutò; per qualche motivo adesso dormire non era più la sua priorità. Non voleva ricadere in quello strano e confuso incubo che lo aveva portato a fare cose che... la sua mente non aveva controllato.

«Stavamo un pochino ripassando il piano d'azione» continuò il giovanotto dallo scilinguagnolo fluente «richiederà un'agilità fisica non indifferente. Tu sei massiccio. Ti definiresti anche un tipo agile?»

«Beh, lento non sono...»

«Ma qui non c'è da correre una gara, c'è da scalare un castello. Non so se ti basteranno i muscoli delle gambe»

«S-sono resistente...»

«Ma non agile abbastanza, dunque? Temo che ci toccherà fare tutto il lavoro, ragazzi». A questo punto Callum rise. E gli altri due suoi sottoposti lo seguirono. Erano tutti efebici, avevano più tratti femminili che mascolini. Nessuno li avrebbe scambiati per guerrieri in mezzo a una folla pacifica. Li avrebbero presi solo per ragazzini, questo Gino pensava. E d'altronde anche lui non era molto altro: un ragazzino da troppo tempo prestato al gioco della politica.

«Il lavoro?» fece ancora Gino, confuso.

«Sì. Uccidere Jon Barthalo. Ucciderlo penetrando nelle sue stanze, senza scomodare alcuna guardia»

«È imp... impossibile»

«No, che non lo è. Tu... hai ricevuto un addestramento da guerriero-ombra un tempo, non è così mylord?», per un motivo che Gino non capì, tutt'e tre i suoi compagni risero ancora. Si decise a bere un po' di quell'intruglio. Non sapeva perché. Poche cose avevano avuto senso nel corso di quel viaggio. Ancora meno nel corso di quella notte.

Rispose: «Sì, è così»

«E ti ricordi più o meno quello che hai imparato?»

«Mah, sì: alcuni trucchetti di rapidità. Nel modo di gestire alcuni movimenti. Nel modo di impugnare una lama. È stato utile»

«Utile, ma non sufficiente»

«Non l'ho mai considerato tale»

«Perché Lord Braff si rifiuta di condividere con te i veri segreti dell'ombra. Eppure la tua vicinanza a lui – o la sua a te – ha inevitabilmente compromesso la tua natura, ormai»

«Che cosa vuoi dire?», Gino bevve un altro po' di quella robaccia disgustosa, dolce e amara insieme.

«Il potere dell'ombra è andato al di là del controllo perfino del suo maestro stesso. È un'energia vitale, vecchia di migliaia e migliaia di anni. Noi possiamo percepirla. Anche dentro di te. È contrastata, spezzata. Il tuo animo razionale cerca di opporsi, ma noi ci chiediamo... per quanto a lungo potrà farlo?»

«Opporsi... al potere dell'ombra?»

«Sì, mylord. Braff non te lo dice, ma esso ormai scorre dentro di te. Perché lui ti ama. Come ama tutti noi. Come ama tutte le cose in cui può scendere una tenebra»

«Mi sembrano un mucchio di stronzate»

«Lo vuoi vedere?»

«Che cosa?»

«Il potere dell'ombra che scorre dentro di te. L'eredità volontaria e involontaria di Lord Braff». Gino non rispose. Si chiese che cosa diavolo ci fosse dentro a quell'intruglio che quei sicari gli avevano passato: ma davvero bevevano quella roba? Lui ne aveva bevuto due sorsi e già si sentiva mezzo ubriaco. Ma nonostante tutto continuava ad avere un pensiero lucido. Pensava lucidamente che tutti quei discorsi avessero davvero poco senso. Tuttavia Callum non desistette. Si sedette accanto a lui, estremamente vicino. Gli prese la mano con le sue mani. Dunque disse: «Concentra il tuo sguardo sulla punta delle tue dita. Le vedi sì?»

«Sì, certo»

«E... senti la mia presenza qui accanto? Le mie mani che sfiorano le tue?»

«Sì»

«Cercherò di dare solo un piccolo impulso per risvegliare la tua energia, d'accordo?»

«Eh?»

«Vedi quella pesca? Lì sul tavolo?»

«Sì»

«Adesso... direzioniamo le nostri mani, e in particolare la punta della tua mano verso quella zona. Ci sei? La vedi bene?». Gino vedeva bene la pesca. In alto, a una decina di piedi da lui. Lui era seduto per terra, come Callum e tutti gli altri.

Rispose: «Sì»

«Bene. Ora ti chiedo di concentrarti solo sullo spazio tra te e la mela. Ci sei?»

«Sì»

«Ok. Ora abbattila, Lord Gino. Senza alzarti in piedi, colpisci la pesca. La voglio vedere schiantare per terra»

«I-io... io non capisco»

«Guarda con attenzione la punta delle tue dita». Gino guardò. Era come diceva Callum: c'era qualcosa che scorreva in lui. Il potere dell'ombra si stava manifestando. Un'ombra grigio-violacea ballonzolava fiocamente all'estremità della sua mano, presa tra le mani di Callum. Un'energia. Un'energia oscura.

«È impossibile» si meravigliò.

«No che non lo è» sentenziò Callum «tu sei una creatura strana, mylord. Non sei né Lord Braff né noi, che di Lord Braff siamo i servi. Sei una terza cosa, una che neanche noi sappiamo definire. Ma ciò non ti libera dal suo potere. Ora: abbatti la pesca»

«Cosa?»

«Concentrati sulle vibrazioni oscure alle tue estremità, e colpisci quella pesca!»

«C-cosa?»

«COLPISCILA!» gridò quindi Callum, e Gino lo fece. Un'ombra oscura si dilatò da dentro il suo corpo, fuoriuscì dalla sua mano e si diresse verso la pesca. Lui la vide benissimo, nonostante il chiaroscuro dovuto alla luce fioca delle candele in quella tenda. Un colpo scosse il frutto, che insieme venne sia sbalzato dalla tavola che in pratica sminuzzato in più parti. Gino guardò basito quel suo nuovo temporaneo maestro. «Sì» gli confermò quello «non molto preciso ma evidentemente all'altezza. Tu sei quasi un guerriero-ombra, mylord. Che ti piaccia oppure no. E adesso dormi».

E all'istante il giovane Lord di Lungotavolo si addormentò. Forse in preda agli effluvi di quella strana pozione che gli avevano fatto bere e che di sicuro non era vino. O forse confuso dalle mille cose fantastiche che un po' aveva visto e che un po' la voce tagliente di Callum gli aveva raccontato. Fatto stette che cadde in un sonno profondo. E questa volta un sonno tranquillo, in quanto completamente senza immagini di alcun genere. Un sonno senza sogni.

 

 

 

Accadeva che una volta riorganizzato un Concilio Ristretto del re (o della regina), si riunissero i vertici dei singoli apparati amministrativi per conoscere la nuova politica di governo e i nuovi governanti. Questo poteva succedere o il medesimo giorno del consiglio, oppure nelle ore a seguire. Nel caso del nuovo Primo Cavaliere ad interim e Maestro delle Armi Marcus della Casa Lannister, quasi fin da subito venne convocata un'adunanza d'urgenza di tutto il corpo militare cittadino e reale. Marcus aveva tutta l'intenzione di mettere le cose in chiaro fin da subito; far vedere chi comandava. Gli fece un certo effetto l'osservare che tra chi veniva considerato un “capo” del corpo militare, ci fossero anche alcune di quelle creature mezze bestie, ma in effetti non poté dirsi così sorpreso della cosa: quell'armata portata per la prima volta alla Capitale dal re Naharis, era ormai da mesi diventata una parte fondamentale delle forze di difesa del regno, come la guardia cittadina di Roccia del Re e i Cavalieri della Chimera, ormai praticamente quasi tutti di stanza a Westeros.

«Ho sentito dire» cominciò a mentire Marcus, seduto al capotavola, «che da quando il re Naharis s'è insediato sul trono, l'esercito regio – ormai consideratosi vittorioso e dunque non più minacciato da nemici alcuni – abbia iniziato a prendersela comoda. A occupare i suoi membri facendoli girovagare per le strade in cerca di gozzoviglie, pure se sempre a spese della Corona. Le malelingue al di fuori delle porte della città, sussurrano che i soldati si siano tutti accomodati. Che si siano ingrassati e a colpo d'occhio... invecchiati», in questo momento il giovane principe cavaliere non resistette dal lanciare uno sguardo carico di significato all'uomo che più in quella stanza suscitava il suo odio: il grasso Sir Winston Cleghorn, l'uomo che per lungo tempo lo aveva vessato alla Valle del Leone, trattandolo in pratica come l'ultimo degli sguatteri. Marcus non aveva mai dimenticato quegli anni durissimi della sua vita: i peggiori. E quelli in cui non sarebbe mai riuscito ad andare avanti, senza l'appoggio di qualche amico – giovane e vessato come lui (vessato perché giovane) – e poi di Sir Rabastan Merrin, che purtroppo ora era morto, e... di Jasmina, la cerusica delle chimere. La ragazza che ora era lì presente, uguale per certi aspetti del suo corpo, ma così diversa nella luce dello sguardo e negli atteggiamenti...

«Ebbene vi annuncio» continuò a mentire spudoratamente Marcus: non aveva idea di che cosa stesse dicendo, «che il nuovo Primo Cavaliere, che io qui sostituisco, Constant della Casa Lannister, non è uomo che permetta che le difese di un regno rimangano assopite in attesa che una minaccia a sorpresa le risvegli, le tramortisca e dunque le annienti. Come per esempio quello che è accaduto con quel “drago di luce”. D'ora in avanti, sotto il mio comando, l'addestramento sarà costante. L'armata totale del regno si muoverà sempre e in ogni caso come se stesse per scoppiare la guerra della vita. E questo significa che la pacchia è finita. E che un rinnovo è necessario in tutti i vertici di comando. Ho già avuto modo di consultarmi con parte dei capi di ciascun ordine» – questo era vero – «e ho dunque decretato che Sir Gymondias prenderà ora la guida della guardia cittadina» applausi, felicitazioni, «Sir... Rhabàno? È così che si pronuncia? Prenderà quella dell'armata degli uomini bestia» applausi, felicitazioni, «E Sir MacNeil prenderà quella dei Cavalieri della Chimera». Silenzio assoluto. Cleghorn si alzò, guardò Marcus con aria di sfida. Dopodiché si avvicinò a Sir MacNeil e, stringendogli la mano, gli fece i suoi complimenti. «Se tu pensi» fece dunque con la sua voce rocciosa, rivolto direttamente a Marcus, «giovane Lannister, che io faccia ora una qualche scenata di modo da darti la ragione per cacciarmi fuori, allora temo che tu abbia preso un granchio enorme. Mi stai squalificando nonostante i miei numerosi anni di servizio: va benissimo. Ti dimostro di saper fare qualcosa cui tu non sei mai stato portato. Starò al mio posto. Andrò dove il mio superiore mi richiede. E farò ciò che egli mi comanda»

«È un piacere sentirtelo dire, mio Sir» replicò Marcus, liberandosi nel più sfavillante e sincero dei suoi sorrisi, «Proprio un piacere. Specie perché, nel tuo caso, l'avvicendamento con un comandante di reparto più giovane non significa un mero scostamento di carriera. Ma una promozione. Vieni con me, mio Sir. Anzi, che vengano tutti i comandanti – appena destituiti o i loro successori – affinché testimonino il grande evento. Vieni con me, Cleghorn».

Dicendo queste ultime parole, il principe Marcus si diresse fuori dalla stanza. Era il comandante supremo delle armate del regno ormai: tutti quelli a cui lo aveva chiesto, eseguirono il suo ordine e gli andarono dietro. Scendendo un paio di rampe di scale, Marcus uscì da un edificio ed entrò in quello adiacente: il palazzo che a Roccia del Re accoglieva i Cavalieri della Chimera. Probabilmente Cleghorn, e forse anche Jasmina che decise pure di seguirlo, capirono bene quello che stava per succedere. Forse anche lo stesso MacNeil aveva intuito qualcosa. Il gruppo di circa una dozzina di persone scese giù verso quella che alla Valle del Leone Marcus aveva imparato a chiamare “la gabbia”. Non che tutte le chimere – per norma ed esigenza – non fossero in verità rinchiuse in gabbie. Ma ciascuna nella sua. Quella invece era un unico grande ammasso di ferraglia, situato al di sotto di tutte le altre gabbie e ad esse connesse mediante una serie di buttatoi e poi una complessa ragnatela di larghi e spessi tubi. Era il luogo dove si concentrava tutta la merda degli animali. Era in questo modo che si custodivano delle chimere, così da che mondo era mondo andavano costruiti i luoghi che dovevano ospitarle. A Roccia del Re come alla Valle, nel lontano Essos.

«Questo cacatoio è un po' troppo zeppo, mio Sir, non trovi?» riprese Marcus «Che, forse, sotto il tuo comando la pulizia della gabbia non è stata più un'esigenza determinante?»

«No, mio Lord» rispose Cleghorn fra i denti, «Forse... abbiamo avuta un po' di carenza di personale»

«Che strano» replicò ancora il principe, beffardo, «ad ogni modo, potrai comunque ovviare da questo momento in poi. Sei ufficialmente nominato custode della nettezza del palazzo delle chimere. Prendi pure qualcuno che ti dia una mano: due o massimo tre cadetti. Non di più: servono in altre mansioni. Nel frattempo, mio Sir» Marcus prese una pala e un grosso sacco vuoto, li diede al vecchio e concluse: «la questione è urgente, come si può ben vedere. Ci penserai da te»

«Piccolo figlio di...»

«Ti ho sentito dire, poc'anzi, che tu rispetti i ruoli. Non smentirti, non ti converrebbe. E ora... buon lavoro!», e con una pacca Marcus spinse Cleghorn verso il dentro della fetida struttura. Quindi si allontanò, pur rimanendo sempre in quell'area dell'edificio delle chimere. Intimò tutti coloro che l'avevano seguito a lasciarlo, meno che Jasmina. Quando tutti se ne furono andati, il principe rivolse dunque un sorriso pieno di soddisfazione alla ragazza cui aveva dato il suo primo bacio.

«Ti vedo soddisfatto» constatò lei.

«Sì. Tu non la saresti?»

«Hai condannato un vecchio grasso e curvo a un lavoro per giovani aitanti. Che c'è da essere soddisfatti?»

«Quello non è un docile vecchietto. È il più grosso stronzo che infangava il nome dei Cavalieri della Chimera alla Valle del Leone, quando noi eravamo ragazzini. Ti se dimenticata anche di questo...»

«Non mi sono dimenticata. Sono solo una abituata a constatare le cose come stanno. E non riesco a capire il come condannare lui ai tuoi stessi patimenti di una volta, possa in qualche modo... risolvere alcunché. Proprio: non ci vedo nessuna logica»

«Però vedevi una logica nel difendere la causa del re usurpatore. E come è finita quella tua battaglia?»

«Io difendevo la causa della pace, Marcus. In tutta franchezza, chi sia seduto sul Trono di Spade – almeno fino ad oggi – è una cosa che non ha mai influito granché sulla mia vita. La pace invece sì. La pace piuttosto che la guerra»

«Servirai quindi mia sorella come hai servito Gabryaerys?»

«Io ho servito solo le chimere. E basta. E continuerò a servire solo loro e basta. Tuttavia, mi pare di aver capito che la regina sia solo una reggente. Che il re sia convalescente e che, quando tonerà in forze, lei si farà da parte. Ho capito male?»

«No» chiuse Marcus, colto un po' alla sprovvista, «è così».

Con un cenno del capo, la ragazza fece come per salutare il suo comandante e andarsene via. Lui le bloccò l'accesso alla porta d'uscita. Disperato fece: «Che cosa ci è successo, Jasmina? Una volta, eravamo felice e appassionati. Ci amavamo, una volta»

«Sono successi gli anni, principe» rispose lei, fredda come una lama, «e tutte le cose che attraverso gli anni sono accadute. Io non sono più la ragazza della Valle e, checché tu te ne possa accorgere, neanche tu lo sei. Sei... una specie di nobilotto vendicativo e infelice. Anche alla Valle, di tanto in tanto, provavi frustrazione ma... era come se, comunque, avessi una prospettiva davanti a te. L'orgoglio dell'Andalo illuminava i tuoi occhi. Ora... mi sembri uno come tanti. Anzi, forse anche un po' peggio»

«Io non ti permetto...» balbettò Marcus, ma non aveva niente da dire. Provò a baciarla. Lei si scansò, guardandolo quasi con pietà. Con due occhi che Marcus avrebbe paragonato a quelli di qualcuno che non prova timore per quello che sta succedendo. Solo pena. Lui, fulminato, non se la sentì di andare oltre. Non era giusto. Forse Jasmina aveva ragione: lui non era più l'Andalo. L'Andalo non sarebbe mai scaduto in quel quasi gesto disperato che stava per compiere e che non aveva più compiuto. L'Andalo trovava un motivo di sorridere anche nei momenti di più tragico sconforto. Di lottare anche nei momenti di sconfitta. Chi era adesso l'uomo che aveva quasi baciato una donna, senza permesso? Senza che anche lei lo volesse. Non lui.

Il principe si ritrasse dunque, e chinò il capo. Jasmina abbandonò quindi subito la stanza. E Marcus rimase lì. Con il lezzo del materiale escrementizio lì vicino a pizzicargli le narici e i lamenti di quel povero vecchio messo lì a spalare, a fargli da compagni.

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Capitolo 14
*** Il re del Nord ***


Capitolo 14

IL RE DEL NORD

 

 

 

La tenebra di una giornata silenziosa e un po' angusta alla Capitale era ormai venuta giù, e con essa ogni speranza per il vecchio Senus della Casa Willoughby di rimanere in quella che per più di dodici anni aveva considerato la sua casa. Ritornare al nord suscitava in lui sentimenti in contrasto. Lui era stato un figlio del nord: non c'erano dubbi in merito a questo. I ricordi ghiacciati del bianco perenne all'Ultima Porta erano per lui perfino calorosi. Da bambino ci andava a giocare, e immaginava di trovarci i tanti mostri malvagi e meravigliosi che popolavano le leggende e i racconti degli abitanti più anziani del castello. Per lui, e per gli altri bimbi figli di nobili come lui, quelle storie non erano spaventose: non del tutto. Avevano qualcosa di affascinante. La morte non faceva paura a un figlio della stella del nord: Breccia sugli Astri aveva sempre un piatto caldo e un camino acceso per chi avesse potuto permetterseli. Dalle tenebre, dall'oscuro, certo spesso poteva provenire lo sconosciuto, il misterioso, quello che deve ancora essere illuminato. Ma non necessariamente il pericolo. Anzi, al castello più a nord del continente si diceva che sciocco è chi trema di paura prima ancora che lo pigli il freddo. Quindi: niente paura – mai!– per un vero figlio del nord. Almeno, per un figlio giovane del nord.

Ma adesso tutto era cambiato. Gli occhi gelidi del vecchio Senus non vedevano l'inverno da un tempo di cui neanche ben si ricordava. Si era abituato al cibo grasso e alle temperature delle terre del tramonto. Si era abituato agli intrighi della corte e ai discorsi formali da tenere ai Concili Ristretti del re (o della regina) o nelle riunioni amministrative dell'apparato alle Armi della Corona, quello che ora questa nuova sovrana aveva deciso di strappargli via senza tanti complimenti. Era vero: lui aveva partecipato in maniera attiva all'avvelenamento di re Lionel, il padre di Hana, l'attuale reggente. Come lei fosse a conoscenza della cosa rimaneva un mistero, ma di una cosa Willoughby era certo: non poteva avere prove. Quel genere di intruglio non lascia tracce: gliel'avevano assicurato più maestri e curatori diversi in lungo e in largo per il regno; si sentiva perciò assolutamente certo. Ma allora come poteva permettersi una sovrana, la rappresentante più alta del pubblico potere, di accusare un cittadino illustrissimo come lui basandosi sul mero sospetto dovuto al fatto che lui fosse un uomo del nord, come del nord era anche il veleno che aveva soffocato Lionel? Era poco, troppo poco: era inaudito! Stava subendo un'ingiustizia e se fosse stato solo un po' meno vecchio e un po' meno stanco, probabilmente si sarebbe messo a combattere per le sue prerogative. Rimuovere un nobil'uomo del suo livello senza una vera ragione: solo una despota si sarebbe comportata a quel modo, e i despoti meritano di essere avversati, combattuti, financo infastiditi.

Ma Senus non l'avrebbe fatto. Era vero quanto la regina aveva sostenuto nella sede del suo congedo: la sua casata stava vivendo anch'essa un momento di ridimensionamento. Senus non aveva neanche più l'intero nord a proteggerlo. Uryon Worchester, l'orso di Amergoth, aveva da pensare alla sua guerra, sul suo territorio, non poteva occuparsi pure degli alleati, visto che quei maledetti Applegate – supportati dal principe “magico” di Cowain – forse stavano persino pensando di prendere un'armata e scendere verso Biancavilla, verso Amergoth stessa, l'antica torre-biblioteca nella quale si diceva che l'orrendo mostro trascorresse grandissima parte delle sue giornate.

Quello del vecchio patriarca della Stella del Nord era insomma una situazione che stava via via inclinandosi: non aveva forza, non aveva energie e non aveva amicizie. Forse lasciare la Capitale era la miglior cosa da fare. Non la più semplice naturalmente, ma la più sicura forse sì. Più trascorrevano le ore e più se ne convinceva. Aveva agito senza fretta: un uomo vetusto e austero come lui pensava di essere, non poteva mettersi a saltellare come un ratto non appena vengano accese le luci di una stanza. Era un figlio del nord lui e come un figlio del nord avrebbe lasciato quei cari lidi. Muovendosi con passo lento e deciso, inesorabile come il nevischio che scende dal cielo grigio dell'inverno. Nessuno lo può fermare: solo il tempo. E il tempo su Senus della Casa Willoughby aveva agito bene in tutti quegli anni: non poteva certo lamentarsi. Il tempo era stato un suo alleato prezioso, da sempre. E magari col tempo, un giorno, la stella del nord sarebbe ritornata a risplendere sul firmamento della politica del regno. Ma non era questo il momento. Questo era il momento della fuga.

Il vestito di pelliccia leggera cadeva sulle sue anziane membra impeccabile, come sempre. La servitù aveva approntato i bagagli. Alcuni di loro si commossero: con qualcuno di loro, avevano collaborato per decenni; con altri, almeno per un lustro abbondante. Non ci si dimentica della persone: neanche un aristocratico si dimentica degli uomini e delle donne a suo servizio; quelli che lo fanno, lo fanno in malafede: così pensava il vecchio Senus. Con qualcuno si concesse perfino un abbraccio. Il vecchio Sir Corgrove lo attendeva fuori dalla porta, sempre solido come una quercia, anche se più o meno suo coetaneo. Ma lui era un uomo d'arme, sempre in allenamento. Sarebbero partiti in tre: Senus, Corgrove e poi un cocchiere della Valle lautamente stipendiato solo per questa mansione: riportare un vecchio e stanco Lord al sicuro nel suo soglio innevato.

Sia Corgrove che il cocchiere lo aiutarono coi pesanti bagagli. Dunque, prima di salire sulla carrozza, il vecchio ex Maestro delle Armi si soffermò un'ultima volta ad osservare il palazzo di pietra gialla nel quale aveva risieduto negli ultimi dodici anni abbondanti. Si rivolse in alto a guardare il cielo della Capitale, limpido quella sera anche se una strana scia magnetica attraversava l'aria. Come un alito di freddo in mezzo alle temperature miti che di norma connaturavano quelle settimane, anche di sera. Così si concludeva dunque il suo lungo viaggio nella politica del Regno. Si domandò se da qualche parte, in qualche annale, un memorialista un giorno avrebbe mai riservato uno strapuntino per la sua persona. Immaginava di no, ma poco importava. Aveva fatto del suo meglio per portare in alto il nome della sua Casata. Ora poteva anche mettersi a riposare.

Fu allora che all'improvviso la tenebra si aprì e dal nulla apparve uno sfavillante Lord Braff, perfino più sorridente e più beffardo del solito. «Hai scelto una sera un po' strana per dire addio alla Capitale» fece quindi il Maestro delle spie, rivolto a Willoughby. Continuò: «il tempo sta cambiando».

«Parli per metafora» si decise a domandare il vecchio «mio signore?»

«Sì e no. Sta cambiando davvero. Impercettibili micro-onde più fredde arrivano dall'est e dal nord. Dalla tua casa. E hanno già cominciato ad irradiare il nostro cielo. Di qui a domani, potrebbe anche piovere»

«Una rarità, per questa città»

«È così. E molto spesso quando piove, piove fango. Ma non oggi»

«Non so... sento come se ti dovessi ringraziare»

«Non potresti essere più in errore»

«Allora stai per uccidermi?»

«La regina sta per farlo. Io mi limito ad eseguire degli ordini»

«È questo che ti racconti quando sei da solo, immerso nei tuoi pensieri? Esegui ordini spesso di personalità diverse. Come puoi rimanere sereno con te stesso, Mylord? O... qualunque altra cosa tu sia...»

«Te l'ho detto: siamo soggetti a mutamenti di questi tempi. Re che vanno e re che vengono. Intere dinastie dimenticate, riportate dal nulla di nuovo sulla bocca di tutti. E... vecchi Lord che non contano più niente. Siamo tutti soggetti alla mutevolezza, mio signore. O la cavalchi o ne vieni travolto»

«Questa volta, temo che mi tocchi venirne travolto»

«Sì, ma non abbatterti. Sei stato un abile cavallerizzo, vista anche la tua età. Solo un cieco non lo vedrebbe»

«E come intendi agire?», chiese ancora il vecchio Senus a testa alta.

«La regina ha richiesto un lavoro pulito» rispose il politicante dal baffetto rosso scintillante e, facendosi da parte tra le ombre, mostrò che accanto a lui nascosto praticamente dal primo momento, si trovava il mostro dal teschio nero che per un po' aveva ricoperto il ruolo di Primo Cavaliere del re Targaryen. Aveva degli eleganti, anche se un po' antiquati, abiti da alta corte dei tempi che furono. Sir Corgrove, con un gesto che quasi commosse il vecchio Senus, sguainò dunque la sua spada e puntandola dritta verso i due mostri esclamò con voce roca: «Tu non toccherai il mio signore»

«Grazie, Corgrove» parlò dunque il vecchio Senus «ma ti prego di placare la tua buon'anima. Questo è un nemico che neanche un uomo valoroso e d'esperienza come te, può sconfiggere. Non vale la pena lasciare più d'un cadavere sul selciato»

«Sì, vecchio Sir» confermò Braff «vattene ora. Sono sicuro che i tuoi servigi potranno ancora essere utili, da qualche parte nel nord». Con un po' di indecisione, il vecchio Sir rimise dunque la sua spada nel fodero. Concesse un ultimo sguardo all'uomo che per decenni lo aveva lautamente pagato e, sempre su sua insistenza, infine se ne andò. Il cocchiere s'era già dileguato da un pezzo. Senus rimase da solo con i due mostri: aveva sentito dire, che il tipo di magia ce il vecchio Primo Cavaliere – cosiddetto “Tararus” – riusciva a manipolare, era qualcosa di rapido, invisibile e letale. «È così» confermò Braff, leggendogli nella mente, «niente ferite, niente sangue, niente tracce. Ti rispediremo alla tua famiglia tutto intero»

«Almeno questo...»

«Ti saluto, vecchio Lord. Sei stato un intrigante e un regicida. Ma ora il gioco per te è finito. Non potevi vincere per sempre»

«Farà male?»

«Io non l'ho mai provato. Ma ti garantisco che sarà rapido»

«Bene».

L'ultima cosa che Senus vide fu una strana scintilla provenire dall'estremità degli avambracci del demone Tararus,e propagarsi poi verso le punte affusolate coperte da guanti in pelle di daino. Un ghigno malvagio si dipinse sul volto mostruoso del demone, talmente inquietante che quello di Braff a confronto pareva quasi umano. Ma il vecchio Senus non era spaventato. Il suo viaggio era comunque finito: questione di settimane, forse mesi. Gl'interessava, se possibile, di non provare dolore e così Braff gli aveva assicurato: che motivo aveva di mentire a un uomo in punto di morte, pure un mentitore spudorato quale Braff era, che della menzogna aveva fatto il suo mestiere? Willoughby decise quindi di abbandonarsi a quell'onda calorosa e un poco pizzicante. Fu doloroso, ma non il peggiore dolore mai provato in ottant'anni di vita. E poi fu rapido. Senus Willoughby si accasciò dopo forse un minuto che Tararus aveva lanciato la sua onda di tempesta. Al secondo minuto e mezzo il vecchio Lord della stella era già morto.

«Più pulito di così, direi impossibile» commentò il mostro in abiti principeschi.

Lord Braff replicò: «La tua magia ha un potenziale unico: l'ho sempre detto. E ti ho sempre invidiato»

«Fai poco il sentimentale. So bene quanto ti piace lavorare coi tuoi intrugli d'ombra»

«Sì, ma comunque, in sostanza, qualsiasi cosa io avessi utilizzato si sarebbe trasformato in lama. Cosa che non fa al caso tuo»

«Te l'ho detto, Braff: ti dovevo un favore, ero in debito con te. Adesso ho veramente concluso con questa puzzolente città. Tornerò non appena il nostro padrone si sarà ripreso. Non contattarmi più. Mai»

«Non è così puzzolente, una volta che ti sei abituato»

«Le tue narici di finta carne, forse, funzionano meglio delle mie. Ma va bene così. Considererei una condanna il dover risiedere qui per sempre»

«E perché mai? La gente è simpatica»

«Quella piace solo a te. Ne facesti il tuo oggetto principale di studi millenni or sono. Ti ci dedicasti anima e corpo, più che all'ombra medesima. Ma la sopravvaluti: lo pensiamo tutti»

«Se ti ci dedicassi anche tu, ne rimarresti sorpreso»

«No, Braff. Ti ringrazio, ma no. E scordati di convocarmi mai più quale tuo sicario personale»

«Certo, confratello. Addio: fa' buon viaggio». Tararus si dileguò, a piedi ma rapidamente. Lord Braff sparì nel suo solito ricciolo d'ombra. Il cadavere del vecchio Willoughby scomparve anch'esso, trascinato via da corde fatte di buio e mistero.

 

 

 

Il tempo stringeva e non solo una decisione andava presa subitaneamente, ma andava pure messa in pratica nel più breve tempo possibile. Che si trattasse di una eventuale ricomparsa del drago – sua antica conoscenza – in oriente, o del risveglio del Signore delle sabbie – incoronato Targaryen – alla Capitale, comunque re Constant Lannister doveva darsi una mossa. All'inizio non gli piaceva l'idea di distruggere i demoni al servizio di Gabryaerys: erano troppi e lui di sicuro non aveva molte forze. Era tanto vero questo, che Sua Maestà decise sì di predisporre un viaggio per la Valle, ma pretese che – nel momento del tentativo di distruzione del teschio nero – Baelish mettesse a sua disposizione anche tutte le forze armate che possedesse: non potevano rischiare, a questo punto, che l'operazione facesse fiasco.

Per un momento, Constant era stato più tentato invece di partire per la Capitale e prendere per sé la spilla del Primo Cavaliere offertagli dalla regina, sua nipote Hana, e attualmente detenuta pro tempore e in suo nome dall'altro suo nipote: Marcus, fratello della regina. Così facendo, Constant avrebbe potuto subito rimettere le mani sul Regno, assicurandosi che il re Naharis non tornasse mai più e crescendo il piccolo rampollo (Lyoneth) finalmente come un sovrano degno di questo nome, cosa che Constant non riteneva di aver conosciuto mai in vita sua: né in se medesimo e in nessuno dei sedicenti re che attualmente calcavano la terra del Westeros, né nel giovane Axelion deceduto troppo presto, e né infine nei tanto osannati suo padre e soprattutto suo fratello, Lionel, che a suo giudizio era stato un re pessimo e grazie agli dèi non governava più niente.

Alla fine, i suoi più stretti consiglieri: Sir Bastian e Xenya la navigatrice (anche se lei non si reputava effettivamente una sua consigliera, e questo Sua Maestà ben lo sapeva) lo avevano convinto a risalire la Valle. La questione dell'andare a prendersi la spilla di Primo Cavaliere, si tirava appresso anche quella della guerra con il drago: creatura che Constant sapeva bene esistere, visto che ci aveva avuto a che fare, ma che in questo momento era nascosta, debole, misteriosa, invisibile. Si trattava di una caccia al fantasma, mentre il demone delle fiamme Constant sapeva bene dov'era: prigioniero di Baelish a Nido dell'Aquila. Tra l'altro, anche di un'altra di quelle creature si conosceva bene la posizione: a Delta delle Acque, ma meno prigioniera della sua consorella. Anzi: a Delta delle Acque erano praticamente gli uomini del re Naharis a comandare, e la creatura era libera e – a quanto raccontavano le spie di Constant – teneva in scacco il giovane figlio di Baelish, di nome Petyr come lui, con un'alabarda alta un piano e mezzo, di quelli spaziosi. Baelish era un politico raffinato e quanto stava cercando di fare era la cosa più raffinata in suo potere: ma anche qualcuno di mediocre intelligenza questa volta avrebbe intuito il suo piano, che fatalmente però coincideva con la cosa migliore da fare. La Valle era una regione montana del Westeros, la cui città capoluogo – Nido dell'Aquila – si trovava appollaiata su di un crinale raggiungibile solo attraverso una raggrumata ragnatela di gole, sentieri e viottoli montani. La via principale e più comoda per raggiungerla passava dalla Terra dei Fiumi: le due regioni erano connesse, cugine, anche se l'una a monte e l'altra a valle. Ecco perché era logico scendere a Delta delle Acque una volta finito a Nido dell'Aquila, se l'impresa fosse riuscita: si trattava di un viaggio d'un giorno e mezzo, due al massimo.

Così adesso il re la cui sede principale al momento si trovava temporaneamente presso Castel Granito, e sul cui stendardo – invece che un drago – campeggiava una chimera incoronata e rampante, si trovava ora in una compagnia di altre ventiquattro persone, proprio sulla parte della via che a poco a poco cominciava a diventare sentiero montano. Il fiume era ormai alle loro spalle da un pezzo.

Gli altri ventiquattro erano: cinque componenti della sua guardia personale (di cui tre recuperati nell'esercito del Miriedos, il continente nuovissimo), più Xenya l'esploratrice, il suo secondo signor Pashamanyna e ovviamente Sir Bastian; c'era poi il padrone di casa – Lord Baelish – e la componente orientale formata dall'infermo Garhel Sawela, portato a spalla da Banfred Panecha, e poi da Sir Poll dei Gaholla. Completavano il quadro i cinque guerrieri della delegazione dorniana, guidata da quell'energumeno di Sir Chato, e sette membri del piccolo manipolo Applegate giunto in rappresentanza del nord, e a sua volta guidato da Sir Hrysso, cugino del Lord dell'albero di mele. Sir Hrysso aveva lasciato una parte dei suoi a Crakehall.

Inevitabilmente erano una compagnia rumorosa, perché il numero fa di per sé clangore, ma meglio così che spostare un intero esercito attraverso le strette gole delle Valle di Arryn. E poi: non c'era bisogno che morissero troppi uomini. Se l'impresa riusciva, Constant era convinto che sarebbero sopravvissuti tutti o quasi. Se non riusciva, sarebbero morti tutti, e dunque meglio venticinque che ottanta, cento o di più. Forse la gente non lo sapeva, o non lo conosceva ancora abbastanza bene, ma Constant Lannister era un uomo generoso e sarebbe stato un re generoso.

«Vostra Maestà» lo chiamò a un certo punto Baelish, avvicinandoglisi con il suo cavallo, proprio mentre Constant si trovava perso nel più profondo dei suoi pensieri. «Lord Baelish», rispose il re. E il Lord continuò:

«Io so bene che mi hai chiesto di armare tutto il mio esercito e porlo al tuo servizio, per il momento in cui distruggeremo il mostro...»

«Proveremo a distruggere è più corretto»

«Sì, beh... mi chiedevo, oltre a questo, tu come intendevi agire? Intendo... personalmente»

«Vuoi conoscere i segreti della mia magia?»

«Non credo che potrei mai...»

«Potresti. Ma ci vorrebbero anni di apprendistato»

«Non so neanche se sarò vivo fra qualche anno, Maestà»

«Su, non essere pessimista, Lord Baelish. Un passo alla volta. Un passo alla volta»

«Allora? Come?»

«Mh...» perse ancora un po' di tempo il re, invero indeciso se chiacchierare proprio di questo con uno che, forse, adesso era suo alleato, ma suo amico per niente, «Vedi, differentemente da molti ex Primi Cavalieri, io non dispongo solo della piromanzia insegnatami dal maestro Nidhogg. Dispongo anche della necriomanzia di Requiem. Quindi, produco fuoco dall'energia dall'animo e ghiaccio dall'energia delle cose che terminano,quindi dalla morte. Direi che il fuoco in questo caso specifico non servirà tanto. L'ambiente potrà essere un alleato utile»

«Quindi... più freddo, più probabilmente una riuscita dell'impresa»

«Con il demone di cui stiamo parlando, sì. Direi che è così. Ma perché tutte queste domande, mylord?»

«Curiosità» sorrise Baelish beffardamente, suscitando una irrefrenabile antipatia in re Constant, «È nella mia natura. E siamo solo all'inizio della strada: non arriveremo prima che il sole non sia giunto a mezzogiorno. Senza chiacchiere, potrebbe finire che ci muoia su questa dannata strada, eheheh».

Il re condivise in parte l'ilarità del nobiluomo, ma più che altro perché trovava giusto partecipare della compagnia con gli alleati con i quali forse stava andando in contro alla morte. Tuttavia, che il Lord di Nido dell'Aquila volesse o meno, Constant subito riprese il filo dei suoi pensieri e ritornò al silenzio. Venne di tanto in tanto interrotto, ma non più attivamente. I cinque dorniani e i sette Applegate si muovevano piuttosto sommessamente, intuendo probabilmente la gravità della situazione. Chi faceva baccano erano gli abitanti dell'Essos, probabilmente felici di ritrovarsi insieme provenendo da un luogo così distante. E se di Sir Bastian, Constant non fu sorpreso, perché era un gran chiacchierone, e di Panecha nemmeno, perché suo padre era stato pure lui un gran chiacchierone: e infatti erano loro due che avevano cominciato, più caratteristico fu per il re osservare per la prima volta ridere sia quel Pashamanyna che Xenya spesso si portava appresso che Lord Garhel Sawela, un noto capopopolo, ispiratore di rivolte e rivoluzioni; sempre serio. L'esploratrice era in mezzo a questo gruppetto, anche se in effetti la sua voce si sentiva meno, forse perché sormontata da tutte le altre più gravi, in quanto appartenenti a maschi. Dapprima il gruppetto di abitanti dell'Essos perse fior fior di tempo a rimirarsi ciascuno nei propri ricordi di quella terra, così calda e maledetta. Quando tuttavia i loro discorsi, spinti da Garhel Sawela, si portarono sull'argomento del drago Requiem e sulle eventuali speculazioni su di lui, re Constant tornò a distrarsi. Di Requiem gli interessava poco. Lui, d'altro canto, lo aveva conosceva già abbastanza bene...

 

 

 

Fu così che la battaglia del ghiaccio perenne venne infine vinta. La lotta per il controllo di un territorio che pareva non aver niente, e che era invece ricco di legno per grosse fabbricazioni (navi, edilizia) aveva finalmente avuto termine. I Willoughby avevano perso. E gli Applegate erano di nuovo i signori incontrastati del settentrione estremo, come lo erano rimasti per secoli. Solo di recente questa strana parentesi dei loro vassalli, gli uomini della Stella del Nord, con capitale Breccia sugli Astri, aveva in qualche misura riscritto parzialmente la storia di quel pezzo di mondo. Ma solo parzialmente: alla fine, le cose erano andate per come sarebbero dovute andare, e la fazione che il principe Daniel di Cowain aveva scelto era infine risultata vittoriosa.

Lui in realtà non è che avesse scelto per una questione “storica” per così dire. Daniel aveva semplicemente conosciuto gli Applegate, sia il Lord che suo figlio Sir Elthon, con cui in qualche modo erano divenuti pure amici, e verso il quale aveva accumulato inoltre una serie di debiti, di cui almeno uno di vita. E poi aveva conosciuto l'altra fazione, non tanto nella sua più esplicita denominazione di “Willoughby”, quanto piuttosto nel reale giocatore di quella partita, l'uomo che con tutti i suoi potenti mezzi supportava e finanziava la casata della stella: Uryon Worchester, il mostruoso orso di Amergoth. Lui sì era una persona terribile: crudele quanto manipolatrice, colta quanto spietata, disposta a tutto per il potere e la rivalsa. Era uno che forse aveva pure sofferto nella sua vita, ma questo non lo giustificava negli orrori che aveva commesso. E in tutti quelli che Daniel sapeva che fosse disposto a fare per ottenere ciò che voleva: il potere, il riconoscimento sempre maggiore. Il dominio incontrastato su tutto il nord, per cominciare, e poi – chissà – magari anche quello dei Regno Unificato, o del mondo intero: questo voleva Lord Uryon. Di lui sì che Daniel aveva paura, e si considerava suo nemico. E se sconfiggere i Willoughby significava, almeno in parte, sconfiggere Uryon: allora sì, il principe Piromante pensava di essere dalla parte giusta della storia. Ora però forse stava accadendo qualcosa che avrebbe potuto sfuggirgli di mano...

Stavano festeggiando tutti quanti: il Lord degli Applegate, il Sir suo delfino, e tutto il loro esercito e i loro alleati minori, in una di quelle tipiche, gigantesche, sale delle strutture del nord dove tendenzialmente veniva collocata la sala del trono. Anche al sud gli edifici regi o alto-nobiliari possedevano una sala del trono, ma quasi mai essa si trovava a un piano terreno e di così semplice raggiungimento. Era più spesso collocata al centro della struttura, circondata da mille altre sale minori, corridoi e ballatoi verso l'esterno, scale e scalette. Non poteva certo porsi il caso di una rivolta popolare che subito raggiungesse il trono e i luoghi del potere ad esso connesso: così almeno l'avevano pensata gli antichissimi architetti e costruttori di tutti i Regni dall'Incollatura in giù. Forse al nord non erano abituati alle insurrezioni. O forse c'erano talmente abituati, che l'una famiglia dominante valeva l'altra e dunque perché preoccuparsi?

La sala del trono era dunque piena sia di persone che di cibo e bevande per gozzovigliarle. Quei cavalieri avevano comunque visto la morte in faccia tante volte, prima dell'intervento di Daniel in quella guerra, ed era giusto che adesso si godessero la vittoria come gli dèi comandavano. Conclusione: uno dei presenti e mezzo su due era, alla tarda serata, ormai bello che ubriaco. Anche Daniel lo era per metà. Chi però, da suoi occhi di brillo, gli pareva assolutamente lucido era il Lord di Alberocasa, colui per difendere il quale Daniel aveva combattuto. Addirittura l'anziano aristocratico era perfino serioso, come se non avesse appena combattuto e vinto una battaglia che sarebbe rimasta negli annali per lo meno del nord estremo, quando non del nord tutto. Il Lord era lì lì per fare qualcosa di stravagante: Daniel ne era sicuro. Anche Elthon, tra l'altro, accanto a suo padre – ora che Daniel lo osservava con attenzione – era piuttosto lucidino, sicuro molto più dei suoi uomini più stretti e del resto della sua armata.

Il principe di Cowain non dovette aspettare oltre. A un certo momento, con fare sontuosissimo, del tutto discordante con quello che invece stava accadendo dinanzi ai suoi occhi, il Lord di quella magione si alzò e, anche se non era particolarmente alto né particolarmente prestante, richiamò immediatamente l'attenzione di tutti nella sala. Pure se il silenzio era già calato, Lord Applegate incominciò il suo discorso domandando: «Silenzio, per favore!», dopodiché bevve un sorso da un calice di vino, e continuò: «Io mi rifiuto di continuare ad ignorare il nostro debito come se nulla fosse. Il popolo del ghiaccio è un popolo onorevole. E la storia della famiglia Applegate, che qui tutti rappresentiamo, è interamente costellata da comportamenti onorevoli. Avventati, forse, di tanto in tanto. Lo dico: talvolta perfino stupidi. Ma audaci. E giusti. E la giustizia oggi m'impone di riconoscere nel Principe Daniel l'uomo che in tutti questi mesi è stato determinante per noi. La nostra guida. L'unico signore che ha combattuto per noi e che ci sentiamo di riconoscere», a questo punto il cuore saltò nella gola di Daniel. No: non di nuovo. Già una volta quel Lord aveva esagerato giurandogli fedeltà totale con una scena come quella. Forse agli uomini del nord piacevano quel genere di cose, ma per lui erano solo imbarazzanti. Non esistevano sceneggiate di quel genere sotto l'Incollatura. Il vecchio Lord delle nevi perenni sguainò la spada e, conficcandola di punta verso il suolo, s'inchinò e disse: «Io ti onoro, Daniel Lannister, guida e protettore delle terre gelate, unico e vero RE DEL NORD». A quelle parole, pure più esagerate, molto più esagerate dell'altra volta, anche Elthon e qualche altro fecero la stessa cosa, declamando le medesime parole “magiche”. Alla terza chiama, l'intero esercito salutò Daniel come suo sovrano.

Lui non sapeva cosa fare. Non era mai stato suo compito fare il re, non era stato formato per questo, come suo fratello Axelion, o loro padre re Lionel. Proprio gli mancavano tutta una serie di nozioni formali. Ora che doveva fare? Doveva dire qualche cosa? Era il re. Quindi immaginava di poter fare tutto; per prima cosa bevve – per l'ennesima volta – dalla sua coppa di vino, poi si alzò in piedi, un po' barcollando, e infine decise di cogliere l'occasione. Se così doveva andare, allora almeno intendeva trarne qualche vantaggio. C'era una cosa che lo tormentava da lunghissimo tempo, un'idea che gli era venuta e che fino ad ora si era limitato a pensare come una semplice proposta da fare prima a Sir Elthon e poi a suo padre. Ora invece forse poteva anche far pesare in parte questo suo nuovo ruolo, che non gli piaceva e che intendeva abbandonare quanto prima ma... magari solo dopo esser ridisceso, e stavolta armato, alla torre di Forte Terrore.

«Miei signori» il nuovo re incominciò, quindi, il proprio discorso «io vi sono grato, naturalmente, di questa fiducia immeritata. E vi giuro che fin quando sarò in forze, cercherò di dare il mio contributo acciocché questa magnifica terra versi nelle migliori delle condizioni. Però, fratelli miei, debbo qui affermare con solennità che mai saremo liberi finché il nord verrà soggiogato da uno e un unico figuro che da troppi anni estende le sue minacce entro ed oltre i nostri confini. Dicono che sia un mostro» a questo punto buona parte della sala cominciò a ululare ringhi di disapprovazione verso la persona di cui tutti avevano capito si stesse parlando «dicono che sia un demone. Fratelli: non lo è. È un uomo. Sangue scorre nelle sue vene. Un cuore batte nel suo petto. È solo un uomo. Triste, isolato e crudele. Va rimosso dal suo soglio. È troppo potente. Troppo ambizioso. E ha esaurito la pazienza del popolo delle nevi perenni»

«Che cosa suggerisci di fare» domandò il Lord, un po' a basa voce, «Mio re?».

E qui si veniva alla parte complicata della questione. Daniel sapeva che l'idea di eliminare Uryon definitivamente avrebbe stuzzicato gli uomini dell'estremo nord: era davvero il loro più acerrimo nemico da sempre, ed era necessario che il ferro fosse battuto da caldo, finché ancora scottava la ferita per l'orso di Amergoth di aver perduto Breccia sugli Astri, la capitale dei suoi alleati Willoughby. Il ragionamento filava tutto liscio, fin qui. Ma adesso al principe (ora re) Daniel toccava portare la situazione a suo vantaggio.

«Ebbene» incominciò «ancora oggi uno scontro sul campo diretto sarebbe impossibile con l'uomo che regna presso la terra che una volta era quella degli Stark. Io sono stato suo prigioniero: ho conosciuto lui e tutto quello che lo riguarda. Dispone di troppe risorse, anche da solo. Tuttavia, una volta sconfitti i Willoughby, anche noi abbiamo qualche carta in più»

«Pochi uomini, forse» rispose un Sir, perfino più anziano del Lord e di questi seduto poco più lontano, «e comunque senza nessuna garanzia che siano disposti a combattere per noi. Si consideravano dei Willoughby fino a ieri l'altro»

«Non pensavo agli uomini...»

«E a che cosa, mio signore?»

«Alle navi»

«Sono confuso» ammise Elthon «il mio re è troppo saggio per non sapere che Biancavilla non si può raggiungere via nave»

«Si può raggiungere Forte Terrore»

«Forte Terrore?» chiese Lord Applegate «Per farci cosa?»

«Circondare Uryon. E, con la forza di ben tre grandi armate a noi assoggettate, sconfiggerlo definitivamente. Inoltre, miei signori, io – come vi ho già detto – mi riterrò sempre grato e onorato di esser stato da voi scelto come vostro re. Ma un altro re giace imprigionato presso la torre dell'uomo scuoiato. Egli è mio nipote Napoleon, il legittimo re del Regno Unificato. Di tutti quelli che una volta chiamavamo i Sette Regni, tra i quali si annovera anche il nord del continente su cui da oggi io governo. Con lui al soglio di Roccia del Re ed io qui al di sopra dell'Incollatura, potremo forse finalmente instaurare un vero periodo di pace. Ma il re di Lannister va liberato dal giogo dei Bolton e Worchester»

«Ma mio signore» ora di nuovo Elthon «tuo nipote non è forse un bambino? Quanti anni avrà adesso, quattro o cinque?»

«Sì. E allora?»

«Il nostro re ha ragione» replicò il Lord di Alberocasa, il castello dove si trovavano, rivolgendosi a suo figlio, «Non serve certo essere adulti per esser piazzati su un soglio che ci serve. Basta che ci siano dei consiglieri sicuri e fidati. Ed il piano, Maestà, ammetto che sul lungo termine parrebbe davvero geniale. Tuttavia, Vostra Grazia, mi corre l'obbligo di farvi riflettere su un problema: Uryon al momento è ferito e andrebbe colpito subito. Ma neanche noi stiamo messi tanto bene. Pur se vittoriosi, siamo stanchi e sanguinanti. Obbligare tutti questi figlioli a una nuova marcia, a un lungo viaggio via nave e poi ancora alla compagnia della morte, per l'ennesima volta nelle loro tristi vite...»

«Non è forse quello del nord un popolo guerriero, mylord?» domandò Daniel un po' sprezzantemente, interrompendo il signore dell'albero di mele.

Costui replicò così: «Sì, Maestà»

«E non ha giurato al suo re, il popolo del nord, che avrebbe fatto di tutto per sdebitarsi della benemerita liberazione della piana ghiacciata? Sono io o no corso in vostro aiuto per scacciare i Willoughby dalla vostra casa, mylord?»

«Certo che l'avete fatto»

«Allora direi che il popolo del nord ora può limitarsi a farmi il favore di seguire il mio istinto e la mia decisione. E a salpare verso sud, non appena la marea ne dia opportunità. Questi non sono dei soldati stanchi, Lord Applegate. Sono dei fieri cavalieri che hanno appena vinto la battaglia della vita. Vanno motivati, incoraggiati, e spinti ancora una volta verso l'ultima e definitiva battaglia»

«Prima Forte Terrore» dicendo questo Lord Applegate chinò il capo in segno di riverenza verso re Daniel, il sovrano del nord, «poi Biancavilla, e poi saremo finalmente liberi. Così è dunque deciso, giusto?»

«Sì, lo è»

«Ti dispiace se comunicherò io, con i metodi che so essere a loro graditi, ai ragazzi che la guerra non è ancora finita?»

«Certo»

«Posso farlo non subito, ma entro le prossime ore?»

«Certo, mylord. Conosci i tuoi uomini meglio di me: ne hai tutto il diritto. E ce l'hanno anche loro». A questo punto, Lord Applegate invitò un'ultima volta la sala a porgere i propri onori al re del nord, dunque gli disse che potevano continuare coi loro bagordi. Li avrebbe informati del continuo della guerra l'indomani, a mente lucida e fresca, non mentre festeggiavano la vittoria appena avvenuta. Poco tempo dopo , re Daniel si ritirò, in compagnia di due belle fanciulle dai seni sodi gentilmente offertegli dalla casa.

Sulla strada verso gli appartamenti a lui designati, però, il principe Piromante si sentì chiamare alle spalle. Era Sir Elthon che richiamava la sua attenzione. «Vostra Altezza» fece il giovane cavaliere e, oramai, suo caro amico, «Ti posso parlare?»

«Certo, amico mio, dimmi pure»

«Ehm... Da solo, Altezza»

«Ah, va bene!». Daniel diede dunque una pacca ciascuno ai sederi delle due fanciulle, e le intimò così a proseguire senza di lui verso le sue camere. Quando le ragazze sparirono oltre il corridoio, il cavaliere degli Applegate tornò a parlare. Sembrava un po' preoccupato...

«Mi piace pensare che tra noi due ci sia un rapporto sincero, Maestà»

«Puoi anche chiamarmi Daniel, in privato»

«Sì, beh...ci proverò»

«Hai ragione. Anch'io penso a te come a un amico sincero, Elthon. Mi hai salvato la vita»

«Ma non l'ho salvata, non l'abbiamo ancora salvata alla tua ragazza ce si trova a Forte Terrore, vero?»

«Io... beh... che cosa c'entra questo adesso?»

«Sinceramente, Maestà... non riesco a non pensare che stai cercando di organizzare un assalto a un castello lontano non per il bene di quelli che ora sono i tuoi sudditi ma... per te stesso»

«Lo capisco. Hai ragione. Mi hai chiesto sincerità, e sarò sincero con te: certo che anch'io ci ho pensato. Ma quando ho pensato a come liberare Licyane, ho capito che fatalmente la cosa si abbracciava moltissimo con la causa del nord e della famiglia Applegate. Sinceramente: tu non credi che sia ora di finirla con questo Uryon Worchester? Una volta e per sempre?»

«Sì, cioè... non lo so, onestamente»

«Non lo sai?! Elthon, quell'uomo è la causa di tre quarti dei mali che ammorbano tutte le terre che sono al di sopra dell'Incollatura! Non puoi non essere d'accordo»

«Sono d'accordo, Daniel, ma... solo non sono sicuro che questo sia il momento giusto per continuare la guerra»

«Certo: mi rendo conto che questo è il nodo più delicato. Un quesito che non ha risposta: contrattaccare su Uryon quanto prima, a costo del morale e dell'energia degli abitanti del Nord... o farlo dopo, e rischiare che nel frattempo lui si organizzi e ci rimandi gli Applegate dentro casa prima che non ce ne accorgiamo? Immagino che, in quanto re, spetti a me il gravoso compito di fare una scelta. E ho scelto. E la mia scelta porterà anche alla liberazione di Licyane. Ma cosa credi? Che vi abbandonerò una volta presa Forte Terrore?»; Daniel avrebbe voluto, avrebbe spasimato con tutto il cuore di poter mollare la causa, prendere Licyane e finalmente potersene ridiscendere al sud, a casa sua. Ma ora non poteva più farlo. Non era una persona così schifosa. Era un Lannister: e i Lannister pagano sempre i loro debiti.

«No» rispose Sir Elthon «con tutto il cuore non lo credo, Maestà. Amico mio»

«Bene. Lieto di averti rasserenato. Ci aspettano giorni duri, mio Sir: non lo nego questo. Altri ragazzi moriranno. Altre donne piangeranno per loro. Altri bambini rimarranno orfani. Ma succederà comunque prima o poi, e sempre e per sempre, finché l'orso rimarrà tranquillo nella sua caverna. Uryon dev'essere sconfitto, Elthon. Sei un un uomo d'arme: te ne rendi conto meglio di me»

«Sì, è vero»

«Buonanotte. E buona fortuna per domani, quando comunicherete ai vostri che la guerra non è ancora finita...»

«Grazie, Maestà. Daniel. Che anche tu abbia una buona notte».

 

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Capitolo 15
*** Luce sul Nido ***


Capitolo 15

LUCE SUL NIDO

 

 

 

La compagnia con le insegne del re all'occidente, Constant della Casa Lannister, giunse infine nella innevata Valle di Arryn in una bella giornata di sole pomeridiano. Il caldo che veniva dalla luce in alto forniva solo vagamente un certo tepore: buona parte dei componenti di quella squadra non provenivano da regioni di freddo: dorniani, gente dell'est, perfino gente del nuovo continente Myriedos, che forte risentiva del calore dell'anomalo vulcano magico strettamente connesso con il drago Corarus: tutta quella terra versava più o meno in questa condizione, o almeno la parte che Xenya l'esploratrice aveva avuto modo di indagare. Certo, la baia dei Sayun-sama, più lontana dal vulcano, era un po' più fresca per via della corrente oceanica... ma l'aria comunque rimaneva torrida. Per tutti costoro la Valle era gelida, indipendentemente dal sole, pure brillante, che ci fosse.

Facevano eccezione invece gli uomini del gruppo Applegate che anzi consideravano quel clima perfino piacevole e ci mancava poco che non si spogliassero di tutti i loro armamenti e rimanessero solo con le maniche corte. Non lo facevano perché erano soldati ed erano abituati a mantenere un certo decoro militaresco, ma Xenya glielo leggeva in viso che stavano soffrendo, esattamente per come l'avevano già fatto a Dorne e a Crakehall, nelle Terre dell'Ovest. Per quanto invece riguardava coloro che provenivano da queste ultime, tra cui il re Constant e i suoi uomini più stretti nonché la stessa Xenya – che in quelle zone era nata ma che in realtà viaggiava in giro per il mondo fin da quand'era ragazzina – la loro casa in realtà era di norma grigia e piovosa. Ma, per gli uomini del nord estremo, niente da fare: quello era clima caldo. Con la pioggia o con il vento, sempre ghiaccio non era e quindi era caldo.

La verità era che erano una compagnia di venticinque persone tutte diverse, che probabilmente si sarebbero state tra di loro molto antipatiche (se non detestate), ma che purtroppo avevano degli interessi comuni: la lotta contro il re sul Trono di Spade e, più sul lungo termine, quella contro il drago che aveva dichiarato guerra all'umanità. Già il clima, dal momento della partenza, era cambiato. Quando infatti la compagnia aveva raggiunto circa la metà dell'itinerario preventivato, avevano cominciato a moltiplicarsi i manipoli di soldati Baelish sulla strada per Nido dell'Aquila. Non c'era nulla di sorprendente in questo: pressoché per le vie di tutte le città del mondo – Xenya immaginava – più ci si avvicinava all'agglomerato urbano e più si moltiplicavano gli uomini armati dell'esercito governativo; nulla di più prevedibile! Ma la situazione ora s'era capovolta, perché se quand'erano partiti da Crakehall, il re Constant e tutti gli altri erano una maggioranza nei confronti del solo uomo Baelish tra di loro (precisamente Lord Petyr il vecchio), adesso invece Lord Petyr era a casa sua ed era circondato da uomini armati fino ai denti, tutti al suo comando. Xenya non sapeva se il re Constant, che era un uomo da lungo tempo addentro alle dinamiche politiche del paese, avesse previsto questa situazione in cui Baelish li aveva portati: lei non l'aveva fatto di certo. Vale a dire: Baelish aveva dato vita a tutta quella situazione, essendo il principale sostenitore della distruzione dei demoni del re alla Capitale, si era presentato come un agnello innocente consegnandosi – lui da solo – a potenziali nemici (non solo il re Constant, ma anche gente dal nord, dall'est e dal sud), e ora però si trovava in una situazione di estremo benessere e vantaggio. Non che nulla cambiasse; il piano era sempre quello: distruggere il demone, questo Baelish aveva detto e ripetuto di volere e questo tutt'e venticinque stavano andando a fare, ma... c'era qualcosa che a Xenya non convinceva in tutte quelle guardie. Forse perché lei era stata abituata a muoversi in contesti relativamente spartani. Gli ultimi luoghi che aveva visitato erano stati nell'ordine: un regno di selvaggi in lancia e gonnella al di là dell'oceano, comandati da un drago; un castello di un re fuori sede, freddo, solenne e – per la verità – anche un poco spoglio; e infine Dorne, che era colorata e piena di buon cibo, bella gente e buoni odori, ma... non era una vera e propria capitale dei Sette Regni per come raccontavano le cronache. Nido dell'Aquila invece sì. Si respiravano in quel contesto potere e ricchezza millenari. E anche un non so che di sinistro.

Xenya naturalmente si chiedeva anche come sarebbe stato l'incontro con il nuovo demone. Di lui le era stato detto, differentemente da Mawldor, il demone delle fonti che lei già aveva conosciuto, che non fosse in grado di raggiungere una vera e propria forma umana. Anzi – a detta di Sir Bastian, che a quanto pareva lo aveva conosciuto bene – il demone delle fiamme tendeva a presentarsi in un'armatura un po' ondeggiante, come fosse riempita d'aria anziché di carne, e poi con il famoso teschio nero sorridente e una pesante corona d'ossidiana nerissima sulla testa. Aveva indossato, un tempo, una specie di maschera di carne che ne coprisse il volto: così Bastian lo aveva conosciuto. Ma quella cosa, quell'intenzione di simulare un aspetto umano che in realtà non aveva, tendeva a connaturalo di tratti ancora più mostruosi. Meglio il teschio nero della maschera di carne, che comunque era da un po' che non si vedeva più. Che ragioni aveva ora, questo demone delle fiamme, a mascherarsi? Tutti sapevano che i demoni esistevano e che fossero al servizio del re Naharis. Non molti sapevano invece che potevano essere sconfitti, che il loro danneggiamento avrebbe anche danneggiato Gabryaerys e che adesso proprio questo, venticinque uomini armati dall'occidente erano in procinto di fare.

Anche se non poi così distante dalla sua terra natia, Xenya non era mai stata al Nido dell'Aquila. Era un castello veramente – quasi letteralmente – appollaiato su una montagna. O per meglio dire: chi l'aveva costruito, aveva deciso di piazzarlo sopra una serie di creste montane, collegandone gli spazi non si capiva come, visto che inevitabilmente parti di quell'edificio dovevano a questo punto dare verso il vuoto. Solo in quel momento, Xenya ricordava le parole di un tizio della Valle con cui aveva condiviso per qualche giorno la cella di un carcere nelle Terre della Tempesta. Egli le aveva descritto la sua casa e il castello che la dominava. A Nido dell'Aquila c'erano, per esempio, delle celle di prigione che davano sul vuoto assoluto, tanto che molti condannati finivano per decidere di fare il grande salto. Ma questa doveva essere solo una delle numerose strategie ingegneristiche che si celavano dietro a quel castello unico nel suo genere.

Quando vi entrò, l'esploratrice ne rimase ovviamente meravigliata. Una luce chiarissima e quasi paradisiaca irradiava le vetrate che immense e numerose si trovavano sparpagliate tra le pareti del castello. Era come stare più vicini al cielo che alla terra, e d'altro canto il livello del mare doveva essere lontanissimo a questo punto. Si accorse, nonostante si fosse preparata, che i vestiti che portava non erano adatti a qualcuno che decideva di rimanere in quel genere di posto. A forza d'indossare quelli che pure con cura aveva scelto a Crakehall, in vista della sua partenza per la capitale della Valle, sarebbe morta assiderata nel giro di un paio di giorni. Per fortuna, Lord Baelish fin dal primo momento dell'arrivo presso il suo palazzo si mise a disposizione, insistendo perché tutti i suoi ospiti si rifocillassero.

In realtà, per qualche ragione che Xenya non comprendeva, re Constant aveva mostrato un po' di insofferenza in merito a tutti questi temporeggiamenti, perché voleva fin da subito vedere il demone prigioniero. Xenya condivideva la sua curiosità; per istinto, anzi lei era proprio il tipo che di norma avrebbe voluto vedere tutta e subito ogni cosa nuova che le si fosse presentata: aveva sempre fatto così nella sua vita. Ma in verità non le era mai capitato – strano ma vero – di percorrere un tratto di montagna così spietata, dura e pura. Anche se aveva visto molti angoli del mondo, e alcuni sconosciuti ai più, comunque Xenya era una donna di mare. Le coste conosceva, l'entroterra molto meno. Era poco preparata a quel genere di freddo, pacato e silenzioso, ma sovrano assoluto di quei territori.

Anzi, bisognava ammettere che – probabilmente grazie al fatto che vivessero in quella situazione da millenni – i castellani della Valle sapevano come risollevare significativamente la temperatura degli interni. C'era sempre freddo, ma cavolo se tutti quei candelabri, caminetti e camini più grandi disseminati un po' ovunque, facevano la differenza rispetto a fuori. Chissà dove gli abitanti della Valle prendevano tutto quel legno: ne era così pieno il Nido dell'Aquila? Più si guardava attorno meravigliata – guidata insieme a una parte del resto della compagnia da un più che appassionato padrone di casa Lord Baelish – meno Xenya si accorse del tempo che stava scorrendo. Venne l'ora della cena in un battibaleno. Xenya era una che mangiava sempre con grande appetito, ma quel giorno mangiò tanto da vergognarsi, se solo in generale gliene fregasse qualche cosa dell'altrui giudizio. Baelish aveva fatto preparare per i suoi ospiti una cena luculliana, degna di un re (che Constant in effetti era). Il Lord del castello si era dimostrato un padrone di casa veramente degno: Xenya all'inizio aveva sospettato un po' dei suoi toni leziosi e del suo palese desiderio di piacere a tutti; in più in molti le avevano sconsigliato di fidarsi, tuttavia erano ormai passati giorni di compagnia insieme. E Xenya d'altra parte non doveva legarsi per la vita a quell'individuo: era solo sua ospite, e come padrone di casa il vecchio Petyr si stava comportando in modo impeccabile. C'era poco da discutersi.

Alla fine della cena, Lord Baelish il vecchio propose alla comitiva di fare una passeggiata a vedere non si capiva bene quale bellezza architettonica del castello, per digerire prima di andarsi tutti a coricare. Re Constant invece insistette per vedere il demone prigioniero: magari non per mettersi da subito irradiare il proprio potere magico al fine di distruggerlo – visto che pure il re, come tutti, era ormai strematissimo a causa del viaggio breve ma intenso – ma vederlo perché no? Parlarci, scoprire se il mostro avesse qualcosa da dichiarare prima della sua definitiva dipartita da questo mondo. Come fu e come non fu, alla fine Baelish si convinse: anche se non voleva. Molti della comitiva tuttavia defezionarono e preferirono direttamente la strada del letto. Non Xenya, che voleva vedere; e, con lei, il caro Jorando Pashamanyna che non l'abbandonava mai. A sua volta, neanche Sir Bastian decise di abbandonare il fianco del re, ragion per cui si recarono in cinque in visita al demone: Baelish, Constant, Bastian, Jorando e Xenya. Escluso il Lord della Valle, si trattava dello zoccolo duro degli uomini (e la donna) più fidati attorno al sovrano dell'occidente. Quelli su cui un cronachista a cui interessava il gioco della politica, avrebbe maggiormente scommesso per un ruolo ad un eventuale Concilio Ristretto del re, se Constant fosse stato veramente il re. In realtà, avrebbe pure potuto nominare per vie ufficiali un suo gabinetto all'ombra di quello che governava alla Capitale, ma re Constant non era il tipo da andare appresso a queste buffonate,del tutto simboliche. Bastian, Xenya e Jorando erano i suoi più stretti consiglieri: con o senza nomine formali.

Chissà come mai, lungo il tragitto per arrivare alla “prigione” (che Xenya immaginava naturale) che manteneva in una trappola di ghiaccio il demone delle fiamme, Baelish decise di rivolgere le proprie chiacchiere verso l'argomento del proprio figlio tenuto prigioniero da Gabryaerys a Delta delle Acque, per mano di alcuni emissari del re e in particolar modo di un ennesimo demone al suo servizio: probabilmente quello di roccia. Ancora la questione del demone infuocato non era stata risolta, e lui già – con garbo ma anche con lezio – tornava sulla questione che più gli premeva: la liberazione di suo figlio, da farsi – a suo dire – il prima possibile e ancora una volta tutti assieme. L'eloquio del politicante era pure credibile, e più parlava più Xenya gli avrebbe anche dato ragione; ma c'era un problema: se Constant avesse perduto tutti i suoi poteri, anche temporaneamente, per distruggere il primo mostro, allora inevitabilmente altre strade non si prospettavano, se non quella di scendere a Roccia del Re per accettare la nomina a Primo Cavaliere della regina. Ma Baelish, per quanto viscido e navigato come politico, era pur sempre un padre e ragionava come un padre. Se Xenya conosceva un minimo re Constant, costui non avrebbe mai accettato di scendere a Delta delle Acque a meno che lo sforzo richiestogli per distruggere il demone delle fiamme non fosse stato per lui meno che minimale. Altra cosa, quest'ultima, decisamente improbabile.

Dopo un po' che in cinque camminavano per i corridoi del Nido dell'Aquila, Xenya si accorse di provare un certo calore. Si aspettava che via via il gruppo si sarebbe diretto all'esterno, perché solo in uno di quei panorami ghiacciati di cui la Valle disponeva, poteva trovarsi il teschio nero e spoglio del mostro la cui anima era indissolubilmente legata a quella del re che sedeva sul Trono di Spade. Invece Baelish aveva guidato il gruppo verso segrete sempre più in profondità e piene di torce e fiaccole anche più dei corridoi dei piani alti del castello. Tanto era vero, che Xenya – cosa anomala per una che si trovava alla Valle di Arryn – aveva perfino cominciato a sentire un certo tepore. Non tanto da togliere la pelliccia prestatagli gentilmente dal padrone di casa, ma da starci fin troppo bene sì. E più si andava avanti, più calore si avvertiva e meno neve si vedeva. A un certo momento, lo stesso re Constant ebbe a domandare: «Lord Baelish: è ancora molto distante la prigione del demonio? Devo ammettervi che arrivando a questo punto avevo immaginato che avrei sentito freddo»

«No, Maestà, non è lontana» rispose il Lord della Valle «ma... ecco, è lontana dal castello. Abbiamo deciso che questa fosse la decisione migliore: seppellire sì il teschio nel ghiaccio, ma lontano dall'abitato e dal palazzo. Per questo stiamo attraversando tutta questa serie di cunicoli. Non siamo più nella zona del castello: siamo scesi, ma ci siamo anche allontanati nel sottosuolo»

«Astuto»

«Doveroso, direi. Per proteggere la mia gente».

Avevano pensato fin troppo. Proprio ora che Constant aveva sollevato la questione, il Lord della Valle portò lui, Xenya, Bastian e Pashamanyna davanti a uno spesso muro, cinto da una nera cancellata. Baelish cacciò fuori dalla tasca un rumoroso mazzo di chiavi ed aprì il cancello. Continuava ad esserci sempre più caldo. Quello che Xenya vide al di là del cancello, non le piacque per niente...

Era esattamente per come glielo avevano descritto: alto ed inquietante, con un corpo vestito di lunghissime lane e cotoni, una sorta da gigantesco pastrano da vecchio nobile, ma... decisamente non umano. In alto, l'orrendo teschio nero e sorridente. Sulla parte alta di esso, una lucente corona nera piena di punte. La corona d'ossidiana. Il corpo, celato dal cappottone scuro, sembrava esser composto da aria o denso fumo. E poi il particolare più importante: il demone delle fiamme non era imprigionato. Non lo era, e si trovava circondato da fiamme ad una temperatura che Xenya avrebbe giudicata più che consona per la sua “salute”, o almeno per il suo benessere.

«TU, BAELISH!» gridò re Constant «Brutto verme!»

«Ve l'ho detto, Maestà!» disse il Lord traditore, correndo rapidamente dietro l'accesso alla cancellata e richiudendolo con numerose mandate: il re, Xenya, Bastian e Jorando erano quindi adesso chiusi dentro una gabbia. «Ve l'ho detto, Maestà!» riprese Baelish «La mia priorità assoluta va a mio figlio. E il re sul Trono di Spade, mesi addietro, mi ha giurato che lo libererà se vi consegno a lui»

«Schifoso!» commentò Sir Bastian «Lo prospettavi da mesi! Sin da quando ci hai raggiunti a Crakehall!»

«Da prima, mio signore. Ma non c'è nulla di personale: lo giuro. Solo politica, re Constant, squallida, nauseabonda politica». Furono le ultime parole del Lord della Valle, che sparì per i corridoi che avevano condotto tutto il piccolo gruppo in quella trappola.

«È lui» fece ancora Bastian, che dei presenti era l'unico che conosceva il demone, «è Corarus. Lo stregone delle fiamme, servo di mio fratello»

«Non pensavo di rivederti, Bastian» fece il mostro con voce spettrale «Immaginavo avessi trovato un posto comodo da qualche parte, che ti evitasse il rischio dell'azione»

«Non hai mai saputo niente di me, demone. Né capito»

«Importa poco. Anzi, sarà un vero piacere incenerirti con il resto dei tuoi nuovi alleati»

«Basta chiacchiere!» gridò Constant che già da un pezzo si stava preparando: Xenya aveva osservato ogni momento della trasformazione di entrambe le mani e gli avambracci del re in gelidi pezzi di ghiaccio, pronti a liberare energia fredda; ma l'aria rovente e ferma di quella cantina glielo avrebbe permesso abbastanza a lungo?

Anche lei decise di non aspettare oltre e, non appena Constant pronunciò quelle sue ultime due parole, gettandosi sopra il mostro, lei tirò fuori la sua balestra e cominciò a colpirlo a sua volta, cercando di mirare al teschio. Anche il signor Pashamanyna fece lo stesso con il suo arco e le sue frecce: ormai il dato era acclarato, bisognava staccare la testa ossea e marcia dal resto dell'energia da essa sviluppatasi a conformante quella specie di “corpo”.

Passò davvero poco e Xenya si rese conto che forse era davvero finita. Stavano per essere sconfitti. Il re scarseggiava, in quell'ambiente, a ritrovare abbastanza potere per creare del gelo. E il demone, a sua volta, pareva acquisire sempre maggior vigore dalla situazione. L'aria dentro il pastrano sembrava gonfiarsi sempre di più. Finché dalle maniche del mostro, anziché le braccia grigie che c'erano state fino a poco prima a brandire il gigantesco spadone nero a due mani, spuntarono come delle colate di quella che a Xenya parve lava. Una lava liquida ma senziente, che il mostro direzionava come fossero le sue braccia. Non era diverso da quello che aveva fatto il demone delle fonti, Mawldor, con le onde del mare presso il quale era avvenuto il suo ultimo scontro: ancora una volta, contro Xenya, Constant e Pashamanyna. Gli stessi che stavano ora per morire per mano del demone di fuoco.

«È finita, vostra maestà!» gridò dunque il demone, mandando fuori una vampata di fuoco e luce che irradiò tutta l'ampia cella sotterranea; Xenya pensò che in effetti fosse finita davvero. Ancora il demone: «È giunto il momento di bruciare!». Così quindi finiva il viaggio di Xenya l'esploratrice: dopo anni e anni di viaggi all'aria aperta in giro per il mondo, sarebbe morta nelle profondità di una montagna innevata, senza più aria nei polmoni e con un mucchio di cenere e fumo a farle compagnia per l'eternità.

Ma non avvenne. Un rumore fortissimo si precipitò sull'ambiente, ben più forte di qualsiasi vampata infuocata o urla di demone. Mille volte più forte! Era il suono di un'intera parete di muro e roccia che crollava tutta assieme: scostata, fatta da parte. E di un drago che esalava tutta la sua bestialità. Non però un drago comune: un drago composto interamente di luce verde.

Successe tutto rapidamente, ma nella testa analitica e abituata alle emergenze di Xenya, fu invece piuttosto lento: il demone delle fiamme, visto che d'improvviso piovve il gelo su lui e tutt'e e quattro le sue quasi vittime, perse in una volta ogni sua forza, ridivenne soltanto un teschio, cadde al suolo e scivolò lontano sugli strati di neve in pendenza, forse andandosi a sfracellare da qualche parte a valle. Il re paradossalmente riprese un po' di energia, e ritornò alla sua vecchia possibilità di utilizzo sia di fuoco che di ghiaccio, energie che subito – svolazzando – riversò sul nuovo nemico che era sorto. Dopodiché: lei, Pashamanyna e Bastian, a loro volta salvi per miracolo visto che il drago di luce si era portato via un'intera parete causando tra l'altro una discreta valanga. Tutt'e tre loro, come già il re, si rivolsero al drago cercando di fare quello che potevano: ma le loro armi non facevano breccia sul “corpo” del nuovo mostro; era come se l'attraversassero. Pareva che l'unica cosa in grado di impensierirlo fosse la magia e dunque, in quel momento, solo re Constant.

 

 

 

Petyr il giovane, dodici anni compiuti, quel tardo pomeriggio si stava addestrando addestrando con la spada. Quella normale, a una mano questa volta, anche se lui – per quanto gracile – per qualche motivo prediligeva le armi a due mani. Colui che ormai da diverse settimane lo stava addestrando, il demone delle rocce Helmon, gli aveva spiegato che un vero guerriero – uno utile, poliedrico, che in battaglia aveva sempre qualcosa da fare – non si specializzava mai in un'arma sola. Almeno in due, e che fossero diversissime. Avevano provato con l'arco, pure fondamentale e a cui Helmon ancora non aveva rinunciato del tutto, ma in sincerità Petyr non ci si trovava. Con la lama semplice invece non stava andando malissimo. Si annoiava molto più che con le armi a due mani, non ci si vedeva, non la considerava l'arma cui subito sarebbe corso in casi di emergenza, ma... l'addestramento non poteva dirsi che stesse andando male. L'ultima volta, Helmon lo aveva riempito di gratificazioni e non era una cosa accadeva sempre. Il fatto era che il demone al servizio di re Gabryaerys era tipicamente di poche parole: non diceva nulla che non fosse necessario, tutto il contrario dell'approccio che Petyr era stato educato ad avere. Gli studi di retorica che aveva compiuto lui, lautamente pagati da suo padre il Lord della Valle e della Terra dei Fiumi, prevedevano che lui avesse invece sempre qualcosa da dire. Cioè, in pratica, Petyr era stato addestrato alle parole come Helmon avrebbe voluto addestrarlo con le armi. Evidentemente, i due mondi – quello del nobile figlio di un pari e quello di un sicario tra i più temibili al mondo – ripartivano in maniera diversa le priorità loro.

Petyr aveva appena finito di fare a pezzi tutti i manichini che amorevolmente Helmon gli aveva fatto predisporre quel giorno: ed erano stati un bel po', tanto da farlo sudare non poco. In pratica, il mostro era il vero padrone del castello, anche se era una sorta di “battitore libero”. Nel senso: eseguiva l'ordine generale datogli dal re dell'occidente di tenere Petyr lì a Delta delle Acque senza farlo allontanare mai. Ma per il resto, se ne fregava altamente di tutte le responsabilità e i crucci amministrativi che spettavano ai quattro nobili signori che il re aveva piazzato al controllo di quella regione. Lui non temeva loro, ma loro temevano lui. E questo faceva di quella strana creatura, quel titano alto due uomini il cui corpo era interamente scolpito nella pietra, colui che veramente dominava il Tridente e tutto ciò che c'era attorno, anche se in verità occupava poco del suo tempo su Delta delle Acque e sui suoi abitanti. Alcune volte aiutava Petyr con i suoi addestramenti: anche spesso. Ma per il resto, il giovane Baelish non aveva idea che cosa Helmon in effetti facesse. Riposare, forse?

I manichini di quel pomeriggio non li aveva mica predisposti direttamente il mostro! Aveva ordinato a qualcuno di farlo. E a Delta delle Acque tutti facevano quello che lui chiedeva: era lui ormai il padrone. Ma non erano stati granché duri come avversari, anche quando Helmon incominciò a lanciarglieli contro: erano troppo leggeri. Troppo fasulli per essere qualcosa che simula la fisionomia di un uomo. Petyr pensava che fosse oramai giunto il momento di mettersi ad allenare con qualcosa di diverso, di più utile, più verosimile. Ma non aveva idea di come fare. Aveva anche accennato al mostro che cominciava a sentire questa esigenza e che, per quanto apprezzati, quegli addestramenti stavano incominciando a divenire via via ripetitivi. Ma come fare, se non con una persona in carne e ossa?

Il giovane Baelish li aveva già visti prima, mentre si allenava, ma adesso quel gruppetto di sei ragazzini popolani – tutti lerci e smilzi – che aveva ridacchiato tutto il tempo, si stavano addirittura avvicinando. Uno biondino, un po' più alto della media degli altri, con una faccia un po' più da furbetto, si permise di dire: «Hey: sei scarso, principino! Torna a palazzo a leggere i libri, che la spada non è cosa tua!»

«Non mi pare che io stia facendo niente che vi disturbi» rispose Petyr, che era linguacciuto e non aveva niente da temere da quei poveracci, «siete voi che lo state facendo con me! Perché non andate da qualche altra parte a ridere o a... fare qualunque cosa facciate voialtri»

«Noi cerchiamo un ottavo: per un torneo tra di noi, ragazzi. Alla spada. E tu... sei nostro coetaneo»

«Un ottavo? Siete in sei!»

«Il settimo è malato. Si riprenderà. Oh, ma: principino, noi facciamo seriamente eh! Non abbiamo intenzione di pagare qualcosa per averti fatto male. Lo dicevo: per me, sei scarso e puoi tornare al tuo castello. Ma Garvyn, qui, dice che invece ci sta di invitarti»

«Ci manca comunque un ottavo!» disse il più grassoccio del gruppo «Che torneo è?»

«Un torneo del popolo!» insistette il “capo” «Che duella con il popolo».

Se Petyr stava capendo bene, quei sei ragazzini – tutti più o meno suoi coetanei – lo stavano “invitando” a giocare con lui a un torneo di spade. Ma temevano le conseguenze di ritrovarsi in mezzo a loro un estraneo, con costumi, mentalità e comportamenti decisamente lontani dai loro. A lui non fregava niente di queste cose. «Va bene» replicò senza esitazione «ci sto. Quando?»

«Lord Baelish...» provò ad immischiarsi il demone Helmon il quale sì, suscitava un certo terrore nei ragazzini visto che si mantenevano ben distanti, ma comunque resistevano: cioè non erano scappati via urlando, non appena il demone aveva parlato. Chissà quanto ci avevano ragionato, prima di lanciarsi in quell'invito al loro Lord, protetto di quel mostro.

«Quando?» insistette Petyr, fregandosene dell'opinione del mostro: voleva provare un addestramento con delle persone vere e non con dei manichini. E poi: chissà, magari si sarebbe anche presentata l'occasione di un'amicizia. Lui non aveva molti amici: i figli dei grandi signori che gli faceva bazzicare sui padre erano tutti con la puzza sotto il naso, e comunque si erano dileguati da quando Gabryaerys aveva preso la Valle e aveva fatto di Petyr un prigioniero sotto sorveglianza costante. Adesso, al giovane Lord della Terra dei Fiumi era tornata la voglia di socializzare.

«Ancora non lo sappiamo... tanto ti troviamo qui praticamente ogni giorno, principino, no? Ti avvisiamo noi»

«Smettila di chiamarmi principino. Non sono un principe. Al massimo: “mio Lord”»

«Non ti ci chiamerò mai»

«Te lo farò dire con la forza»

«Va bene: ora basta!»dicendo questo, il demone degli elementi si alzò per mettersi in mezzo tra le due fazioni, ma non vi riuscì: nel tempo che lo facesse, i sei ragazzacci della campagna corsero via, ridacchiando. Uno di loro – né il capo né Garvyn – trovò, correndo, il tempo di aggiungere: «Guarda che il torneo si fa con le spade di legno eh, non con quelle vere, principino! Noi mica le abbiamo quelle vere!»

«Peccato» disse quindi Petyr al solo Helmon, poiché solo lui era rimasto, «se avesse continuato a chiamarmi principino, una bella lama vera sarebbe stata la cosa più adatta»

«Cosa c'è che t'infastidisce di quel termine?» domandò il mostro, con la sua voce cavernosa, piena di detriti, «Dopotutto: ti elevano di grado»

«È il tono. Mi deridono. È normale: la massa contro il singolo. Se fossi io circondato da cinque aristocratici come me, sarebbe quello stupido popolano in minoranza. Dì: ma tu che razza di precettore eri?»

«Sono passate ere geologiche. Questo continente, di cui noi ora calchiamo la terra, non aveva nemmeno gli stessi confini. I ricordi sono... vacui, fumosi. Ma credo che insegnassi la magia»

«E ora sei passato alle lame...»

«Questa mia conoscenza, la devo agli anni da servo del sigillo di Cair Dedalos. È secolare anch'essa ma... non la mia originaria inclinazione»

«Mi aiuterai a vincere quel torneo?»

«Secondo me, non avresti dovuto acconsentire. Non ce n'è alcun motivo serio e ti espone a dei rischi»

«Sono stanco di restare chiuso tra le mura del castello! Non è una fuga: non ho dove andare! Si tratta solo di uno svago!»

«Lo comprendo ma... potresti farti male. Non li conosci neanche quei ragazzini, potrebbero... trattarti come non devono»

«Helmon» Petyr si liberò in un sorriso sincero «Ti ringrazio! Da quando mia madre è morta nessuno mi ha fatto sentire così... pensato. Sì, insomma: che pensino al mio bene. Da mio padre ogni cosa penso che arrivi, meno che il mio bene. I suoi interessi, quelli di Casa Baelish, o del Regno: non lo so. Ma decisamente non la mia felicità»

«Sono sicuro che tuo padre ti vuole bene, giovanotto»

«Sì, ne sono sicuro anch'io. A suo modo, però»

«Esiste un modo giusto e uno sbagliato di volere bene?»

«Senti: non è questo il punto. Per una volta, non è mio padre l'oggetto della discussione. Sono io. Che ti ringrazio di pensare a me. E che ti chiedo ufficialmente... di supportarmi nel mio scontro con quelli là»

«Farò quello che posso, piccolo Lord. Ma tieni alta la guardia, siamo intesi?»

«Certo, amico mio». Chiudendo con queste parole, il giovane Baelish se la sentì di condividere un sorriso con il mostro. E quello – incredibile a dirsi – ricambiò! Il teschio nero di Helmon si dispose in modo da inarcare quella che una volta doveva essere la bocca e formare un'espressione decisamente non consueta per lui. Qualcun altro si sarebbe spaventato a morte. Ma non Petyr: lui si fidava di quel mostro. Più di quanto non facesse del suo lontano padre, il Lord della Valle, con le sue infine trame e le pallide promesse.

 

 

 

Se solo un qualche cantore furbo avesse deciso di metterci su un paio di ballate, Garhel Sawela era sicuro che la storia di quella giornata avrebbe garantito successo assoluto tra tutti coloro che sarebbero venuti, abitanti della Valle o anche di altri luoghi. Lo scontro tra un re magico e un demone millenario mai prima d'ora descritto in nessuna cronaca, e poi l'avvento di un drago di luce – che Sawela personalmente era certo avesse qualcosa a che vedere con quello vero, latitante in Essos – era qualcosa di inaudito. Tre, quattro forze – di cui una metà sovrannaturali – tutte mescolate insieme, ma con interessi diversi, e dunque in guerra l'una con l'altra: una roba da poema epico. Lui quel demone dal teschio nero di cui tutti parlavano, purtroppo non l'aveva visto: gli avevano solo raccontato quello che era accaduto. Ma il drago: oh, se l'aveva visto. Doveva esser stata una creatura della medesima natura di quella che, in oriente, aveva fatto in poltiglia in pratica l'uomo più ricco e potente di quell'angolo di mondo: Lord Goldsmith di Braavos.

Aveva le dimensioni di un drago e faceva i suoni che uno immagina facciano i draghi. Però, era materiale fin quando si trattava di sputare un devastante fuoco verde brillante in grado di ardere ogni cosa; ma non lo era veramente: non c'era modo di scalfirlo con nulla, non lo si poteva toccare! Un'arma devastante e pericolosissima che in effetti aveva fatto danni incommensurabili allo splendido castello di Nido dell'Aquila: che era tutto il contrario delle case dove a Garhel sarebbe piaciuto abitare, ma che non si poteva negare fosse un capolavoro dell'antica architettura, una di quelle strutture uniche al mondo. E Garhel poteva dire, nella sua condizione di uomo dimezzato, di aver assistito a tutto questo ed esserne uscito vivo. Chiaramente, ne aveva capito poco e niente man mano che la cosa si andava sviscerando. Ebbe tutto chiaro solo una volta che gli avvenimenti smisero di correre come battiti di un cuore esagitato e un pover'uomo non anziano, ma neanche più giovane (come lui), avesse modo di metabolizzarli.

Tutto accadde non appena finita la cena offerta dal Lord di quel luogo. Quest'ultimo, il re Constant e un paio di suoi confidenti (tra cui una donna, la navigatrice Xenya) che Garhel aveva avuto modo di conoscere nell'arco delle scorse settimane, si alzarono per andar a far visita al demone. Lui, Garhel, non riteneva che sarebbe stato in alcun modo utile qualora presente, e siccome non era né incuriosito dalla cosa e né francamente ben riposato, declinò gentilmente l'invito a far parte dell'itinerario, meditando invece di mettersi a dormire quanto prima. Tuttavia, come spesso accade, l'intenzione non venne seguita immediatamente dai fatti. Dopo che il Lord della Valle, il re e gli altri lasciarono la sala da pranzo, Garhel rimase un altro po' a chiacchierare con chi c'era: cortigiani del Nido più i soliti dorniani e gente del nord e dell'est, che già il re s'era portato appresso da Crakehall. Discussero di facezie, tutte già dimenticate quasi nell'istante in cui erano state dibattute. Dunque un bel manipolo di almeno sessanta uomini armati sopraggiunse nel bel mezzo della discussione su quanto fossero più poppute le femmine del sud e dal ventre largo quelle del nord, e sguainando delle lame dichiarò tutti in arresto. Adesso Garhel, Banfred, quegli Applegate del nord e quei mercenari di Dorne erano tutti sotto il controllo dei cavalieri di Nido dell'Aquila. Alla fine il tordo aveva cantato la sua canzone. Baelish non aveva smentito la lunga e assodata tradizione della sua famiglia: aveva fatto il doppio gioco.

Per quanto il colpo di scena fosse in effetti riuscito, in realtà fino a quel momento si trattava di qualcosa di prevedibile. Garhel la prese con filosofia: non gli era mai piaciuto Baelish, e adesso aveva una motivazione in più per non apprezzarlo. Ma tutta quella situazione di andarsi a impelagare nelle dinamiche politiche del Westeros – altra cosa che non gl'interessava manco quando era Tribuno Popolare del re – non l'aveva mai condivisa. Aveva detto e ripetuto a Banfred che non capiva cosa cavolo ancora ci stavano facendo lì, appresso a un re che pubblicamente ed esplicitamente gli aveva ormai fatto capire che per lui i loro problemi erano secondari. Ma Banfred era quello con le gambe funzionanti, e quindi Banfred momentaneamente decideva. Ora, ovviamente, le cose non erano andate come previsto, perché mai nel Westeros andavano come previsto: tutto era sempre molto più ingarbugliato e complicato rispetto all'oriente. Ogni cosa aveva un sottotesto, un altro significato.

I neo-prigionieri e i loro nuovissimi carcerieri non avevano ancora lasciato la sala da pranzo: almeno una parte di loro si trovava ancora dentro, mentre un'altra metà aveva appena raggiunto il corridoio d'uscita. Garhel, per esempio, era ancora dentro, davanti al piatto che aveva terminato di ripulire fino a solo qualche istante prima. Il nuovo nemico, questo sì che gli fece accapponare la pelle, molto più dei pallidi cavalieri montanari con un uccellino canterino sullo stendardo. Innanzitutto perché, praticamente dal nulla, un'intera parete di pietra del castello venne divelta da questa specie di zampa gassosa e unghiuta di un intensissimo color smeraldo. Letteralmente atterrito, con tutte le catene e i sigilli del caso, Sawela – che di norma si reputava un uomo coraggioso – in un primo momento si ritrovò a darsela a gambe levate: il che lasciava intendere la gravità della situazione, visto che in quel particolare momento della sua vita le sue gambe erano i gomiti. L'ex Tribuno capì che non aveva dove andare: il mostro di pura energia era troppo grande! Per di più, guardandosi attorno, non poté non accorgersi del fatto che in molti avevano colto l'occasione e preso l'attacco del “drago” come un diversivo. Non solo quei cavalieri dell'albero di mele, non solo quegli strani combattenti dorniani, ma gli stessi Banfred e Sir Poll dei Gaholla stavano lottando per liberarsi dal giogo degli uomini di Baelish. C'era quindi una battaglia nella battaglia: non solo il drago contro tutti, ma anche i prigionieri contro gli imprigionatori, e tutto contemporaneamente.

A un certo momento, il mostro di pura luce emanò perfino un suono che insindacabilmente scimmiottava la voce umana. Pronunciò delle parole molto chiare, per quanto spettrali; queste: «Constant della Casa Lannister!». E poi, tanto per far rabbrividire Garhel ancora un altro po', le ripeté con inquietante precisione: «Constant della Casa Lannister. CONSTANT DELLA CASA LANNISTER». Garhel non ci capì più niente. Seppe solo ce era riuscito ad uccidere l'uomo dei Baelish che aveva cercato di tenerlo incatenato e a liberarsi rapidamente delle catene e inoltre che, da quello che lui poteva vedere, praticamente mezzo castello era venuto giù. Di sicuro l'intera sala da pranzo e tutto quello che aveva avuto attorno. Macerie e soltanto macerie era ciò che il Tribuno Popolare riusciva ora a scorgere attorno a sé. E poi, ancora dopo poco ma non pochissimo, ecco affacciare la battaglia delle battaglie: un incomprensibile e misterioso mostro di pura magia, contro un uomo. Un re. Un re volante e in grado di lanciare raggi di ghiaccio e di fuoco. E mentre con un occhio Garhel si godeva quello spettacolo irripetibile del re di Lannister contro il drago di luce, con l'altro e con la sua fedele scimitarra– sempre costretto nel suo zainetto sulle spalle dell'elefantino Panecha – cercava di dare il suo contributo nella “lotta di liberazione” da quegli aguzzini molto temporanei e traditori per tradizione che i Baelish altro non s'erano dimostrati.

La battaglia durò fino a tarda notte, ma alla fine il re riuscì nell'impresa. Garhel lo vide bene: il re scagliare la sua ultima intensissima energia. Il drago di luce esplodere in mille frammenti simili a comete nell'eternità di un nero cielo invernale senza nuvole. E infine ancora Constant: precipitare al suolo come un corpo morto, completamente senza sensi, senza forze e forse senza vita.

A nottata conclusa, arrivò il momento della conta dei morti e dei feriti. A quanto pareva, non solo Constant aveva perduto i sensi (ma era vivo!), ma anche lo stesso Lord della Valle, rimasto gravemente offeso dal crollo di un pilastro portante tra il terzo e il quarto piano del Nido. Questo significava che adesso le redini della contrattazione tra le due parti che s'erano appena combattute, ma che insieme erano sopravvissute al disastro, dovevano necessariamente prenderle altri individui. A nome di re Constant, parlò quel Sir Bastian che a Garhel non era mai andato giù, pure se era originario dell'Essos. A nome di Baelish, un Lord galoppino proveniente da una zona lì vicino. Quest'ultimo manifestò il desiderio di seppellire l'ascia di guerra, in primis cercando di stabilire una tregua che non portasse le due fazioni a tornare a scannarsi in poche ore per desiderio di ripicche e vendette varie. In secondo luogo, pur se il Lord montanaro costantemente sottolineava la sua volontà di non prendere decisioni troppo gravi in assenza del suo diretto superiore, era come se volesse sì scusarsi, ma anche giustificare il suo Lord per quello che aveva fatto, visto che lo aveva fatto per amore di suo figlio. Ora quindi, anche se non lo diceva esplicitamente, visto che ogni incomprensione era stata chiarita, suggeriva di prepararsi mentalmente ad attaccare la Terra dei Fiumi, uccidere il lì presente demone e liberare in questo modo il delfino Baelish. Quegli occidentali, avevano proprio la faccia tosta! Per fortuna, anche se aveva presenziato a quelle riunioni di confronto post-casino, Garhel si reputavo esulato da tutto questo.

Lui con l'occidente aveva finito. Lo aveva spiegato a Banfred:andava bene assecondare il re dell'occidente se si fossero visti dei frutti maturare. Invece non solo alcun frutto era maturato, ma la situazione era andata ingarbugliandosi sempre di più. Lui lo sapeva! Il Westeros e chi lo abitava erano così. Difficili, contorti, molto più di loro che abitavano il continente delle grandi dune orientali. Bisognava ritornare ai loro affari quanto prima. Loro avrebbero pensato al drago, o comunque ci avrebbero provato, mentre l'occidente avrebbe continuato a scannarsi da solo. Ora anche il giovane Panecha aveva avuto una prova di ciò che lui già sapeva. E quindi bisognava tornarsene di corsa a casa.

 

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