Episodi dalla vita di Max Mayfield

di lo_strano_libraio
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Spiraglio di Vita o Anonima Apatia? ***
Capitolo 2: *** La Fatica ***
Capitolo 3: *** 26 marzo 1986 ***



Capitolo 1
*** Spiraglio di Vita o Anonima Apatia? ***


Spiraglio di vita o anonima apatia?

 

Mercoledì 12 ottobre 1985.

Max era seduta al suo banco, capo chino sul libro di storia ripassando per il primo test dell’anno, che sarebbe stato il venerdì successivo. L’insegnante di matematica era assente, quindi Mr. Ronald stava tenendo d’occhio la classe dalla cattedra, in questa ora buca. I ragazzi e le ragazze si riunivano in gruppetti, a chiacchierare o piú raramente a fare compiti insieme. Solo Max, come accadeva spesso recentemente, si isolava, chiudendosi nella sua piccola bolla triste e ignorando tutti gli altri. Il manuale di “Storia del Mondo” era aperto sulle pagine riguardanti la repubblica romana e le guerre puniche. Storia era una delle sue materie preferite, ma trovava veramente stupido che nelle scuole americane si insegnasse per la maggior parte la storia dei soli Stati Uniti, ma per imparare quella del resto del mondo ci si dovesse iscrivere a una classe separata e facoltativa. 

Era appoggiata allo schienale, scivolando con le gambe stese sotto il banco, quasi sdraiata tra esso e la sedia. Non poteva ascoltare la musica in quel momento perché le batterie del Walkman erano scariche e non ne aveva di scorta. Dover sentire gli altri parlare le metteva il nervoso addosso: i suoi compagni di classe erano così stupidi, non capivano niente della sua sofferenza e anche se nessuno la trattava male, anzi si mostravano premurosi nei suoi confronti, non ce la faceva comunque a sopportarli. Si mostrava gentile con gli insegnanti, ma se si trattava dei suoi coetanei, a volte faceva proprio fatica a non essere sgarbata. Si era fatta dei nuovi amici, e neanche pochi tutto sommato, perché se era in classi con quelli del gruppo (Lucas, Dustin e Mike), se loro facevano nuove amicizie, era portata a farne anche lei con le stesse persone: non era una sociopatica. Ma quando si trovava  “sola” in classi con solo ragazzi che non conosceva, le veniva spontaneo isolarsi. “Ma perché non possono essere interessati come me alla storia del resto del mondo? Potevamo seguirla insieme questa classe, sarebbe stato senza dubbio più divertente di falegnameria! Uff, che stupidi che sono!”

Marc, un ragazzo non troppo alto, dalle spalle larghe, i capelli biondi e un sorrisone sempre stampato in volto, si avvicinò a lei.

“Ehi, Maxine giusto?”

“Ah ah”

“Cosa stai leggendo? Oh vedo che ripassi per il test, non ti facevo così studiosa.”

“Ah ah”

“Fai anche diritto e costituzione?”

“Ah ah”.

Se non si fosse capito, non lo stava ascoltando proprio, e avrebbe risposto a qualsiasi domanda allo stesso modo. Anche lui se ne rese conto, e passò al punto.

“Ci chiedevamo se ti andasse di venire con noi in fondo alla classe a fare quattro chiacchiere? Ti abbiamo vista qui tutta sola.”

“Grazie, ma non contarci.”

“Ne sei sicura? Possiamo anche ripassare insieme.” Lei tirò un lungo e rumoroso sospiro.

“Ughh…ci arrivi? Voglio starmene solaaaa…” Disse cantilenando dopo aver alzato gli occhi al soffitto. Marc posò su di lei un occhiata triste, non capendo cosa avesse detto di male. 

“Ok, scusami…” alzò le mani, facendo dietro front e tornando al retro della classe.

“Bene…”

Ma la “pace” di Max non sarebbe durata a lungo, perché uno spettatore curioso aveva supervisionato tutta la vicenda con occhio severo e inquisitorio: Mr. Ronald.

Il prof di inglese arricciò i baffi castani per poi alzarsi dalla cattedra e piazzarsi di fronte a Max piazzando le manine sul banco, per attirare la sua attenzione. La ragazzina alzò lo sguardo su di lui.

“Cosa c’è adesso?” Pensò.

“Maxine! Io e te dobbiamo fare un discorsetto. Vieni con me un attimo fuori.”

“Va bene…”. Posò il libro è seguí l’uomo appena fuori dalla classe. L’insegnante chiuse la porta affinché nessuno li sentisse da dentro.

“Ho fatto qualcosa di male?”

“Si signorina: é quello il modo di rivolgersi ai tuoi compagni di classe?” Era un rimprovero, ma nella sua giá calorosa e pacata voce si leggeva molta tenera gentilezza. Ronald era uno dei migliori insegnanti della scuola superiore di Hawkins, perché da trent’anni si premurava anche di far crescere i suoi alunni come persone, sia dentro che fuori delle nozioni che insegnava. “La Lettera Scarlatta” diveniva quindi un opportunità per capire l’importanza di non giudicare il prossimo, “Via Col Vento” una spinta a considerare il modo in cui gestiscono il tempo nella loro vita e “1984” una lezione sui pericoli della deriva politica, da considerare quando avrebbero ottenuto il diritto al voto. La psicologa della scuola l’aveva informato dai primi giorni di scuola, riguardo la complicata situazione personale e familiare di Maxine, che si portava dietro dall’estate dopo l’incendio dello Starcourt Mall e dell’abbandono del patrigno. Sua quindi era la missione di rendere il più confortevole possibile a Maxine l’inizio della sua nuova esperienza scolastica. L’inizio delle scuole superiori era già un cambiamento a volte difficile, a volte bello, per ogni adolescente; ma nelle condizioni di Max, si presentava come una sfida ancora più ardua. 

“É così grave se voglio stare un po’ per conto mio, e ripassare per il primo test dell’anno?” L’insegnante notò che rispondendo, la ragazzina si strofinava il braccio con la mano: uno dei sintomi della sua ansia. 

“No, ma c’è modo e modo di rispondere. Marc voleva essere solo gentile con te, non si merita di essere trattato così.”

“Ok, credo in effetti di essere stata un po’ scortese. Mi scuserò con lui.” I suoi occhi ora miravano al basso, sinonimo della vergogna che provava. La sua non era una frase fatta, era veramente dispiaciuta di aver trattato male Marc, a cui non voleva male. Non odiava nessuno, ma la sua depressione la spingeva incessantemente ad allontanare gli altri da lei, anche se sotto sotto, non avrebbe voluto. 

“Ti ricordi di cosa abbiamo parlato l’ultima volta? Mi promisi che ti saresti impegnata a fare amicizia coi tuoi compagni di classe. Marc ti ha anche proposto di ripassare insieme a loro, avresti potuto unire l’utile al dilettevole.” 

“Si, in effetti…uhhh. È tutto così difficile.” L’uomo le mise una mano sulla spalla rincuorandola. I loro occhi si incontrarono.

“Un passo alla volta: il meglio che puoi fare ora basta e avanza, ma devi incominciare!” A lei scappò un sorriso.

“Rientriamo per riprovare?”

“Va bene prof.”

Di nuovo dentro, Max si avvicinò al gruppetto raccolto intorno al banco in fondo. Si teneva ancora il braccio dall’ansia, ma l’incoraggiamento di Mr. Ronald l’aveva calmata abbastanza da spronarla ad aprirsi un po’. I ragazzi si voltarono verso di lei. 

“Ehi, ci ho pensato su. È ancora valido l’invito? Giuro che Mr. Ronald non mi ha costretta, ho deciso io e vorrei stare con voi veramente.”

“Ma certo.” Rispose Marc, ma anche gli altri sembravano contenti. Sul volto di lei comparve un timido sorriso.

“È vero che ti piace ascoltare Kate Bush?” Chiese una ragazza.

“Si, è la mia cantante preferita.”

“Figo, é di Madonna che ne pensi?”

“Parli della cantante o della madre di cristo?”

“Della cantante!”

“Ahah scusa, ma certa gente qui è fissata con la religione e pensa che la musica pop sia opera del demonio.”

“Ah si, ti capisco. Judy del terzo anno cerca costantemente di farmi smettere di ascoltare il metal.”

“Ti piace il metal?! Che gruppi ascolti?” Max si stava finalmente sciogliendo e il gruppetto iniziò una discussione sui loro gusti musicali, per poi ripassare insieme storia.

Mr, Ronald intanto, sorrideva dalla cattedra, gigioneggiando orgoglioso di Maxine.

Quella sera però, ritornata a casa quando sua mamma non era ancora tornata, si chiuse in camera e sdraiatosi sul letto, cominciò a piangere mentre ascoltava musica nel walkman per non sentire il proprio pianto. 

“Qual’é…qual’é il mio stramaledetto problema?!”

Passata una mezz’oretta buona di pianto incontrollato, Max sentì la porta di casa aprirsi.

“Maxine! Sono tornata. Esci un po’ da camera, sei sempre rintanata li dentro!”

Posò il Walkman sul comodino e si asciugò le lacrime, non volendo apparire così di fronte a sua madre, che di problemi ne aveva già fin sopra il collo. Scese le scale andandole incontro, vedendola stravaccata sul divano, davanti la tv accesa su un gioco a premi, birra onnipresente in mano. Sotto i suoi occhi ampie occhiaie nere da procione, frutto della stanchezza e tristezza che si portava dietro impedendole di dormire bene, accomunandola alla figlia, anche se parlavano davvero poco di questo argomento. 

“Coraggio, siediti un po’ con me. C’è chi vuol essere milionario, tu indovini sempre le domande.” Le fece segno di sedersi, battendo la mano sul lato del divano affianco a lei. Max si sedette controvoglia, ma evitando di sbuffare per non darlo a vedere. 

“Come è andata a scuola oggi?”

“Come al solito…”

“Ma come siamo mogie: preferivi le medie?”

“No, non è quello il punto: é tutto nuovo e mi sento a disagio…”

La mano libera dalla birra di sua mamma, la strinse sulla spalla.

“O piccina, hai appena iniziato, è normale. Devi solo acclimatarti, trovare qualcosa che ti metta a tuo agio.”

“Ecco, io preferirei che tu ti metta meno a tuo agio con la birra.” Si voltò a guardarla, ma rimase sorpresa nel scoprirla già appisolata e russante rumorosamente.

Ma non sapeva se ridere o piangere della situazione, così si limitò a togliere di mano alla madre la lattina, posarla sul tavolino, spegnere la tv, e dopo averla riparata dal freddo mettendole addosso una coperta, tornò al letto. Ma stavolta, sotto le coperte, per far cadere i suoi pensieri nel dolce oblio del sonno.

“Sveglia! Il bus passa tra mezz’ora!”

Mamma le stava urlando in faccia, strattonando la dalle spalle. La luce del giorno le impediva di aprire bene gli occhi, accecandola invadente la camera dalla finestra.

“Accidenti, che modi!” La spinse via maldestramente, scocciata nera per essere stata svegliata in così mal modo. 

“Oh scusami “signorina tu mi stufi”, se ho cercato di non farti arrivare tardi a scuola!” Sbraitava ironica la madre.

“Si si, ho capito, va bene! Mi fai alzare dal letto?!” Susan uscì dalla camera della figlia sbuffando.

“Uff…ma perché dobbiamo sempre litigare?” Schiantò la testa sul cuscino un ultima volta, fece un lungo respiro e si alzò dal letto controvoglia. In fretta e furia fece colazione con una tazza di latte, si fiondò nel bagno per lavarsi velocemente, e vestitasi, si trovava ora davanti alla fermata del bus 1 minuto prima del suo arrivo. Più stanca di quando era andata a dormire, si reggeva con una mano al palo. Quando il veicolo si fermò e le porte automatiche di aprirono, svelando il volto cupo di Max all’autista, questi la salutò esordendo: 

“Accidenti Max, che brutta cera! Abbiamo fatto le ore piccole stanotte?”

“Guarda, non farmi dire…” 

Muovendosi frettolosamente per il bus, ricambiava distratta chi le rivolgeva un saluto, non vedendo l’ora di sedersi. Si sedette in su un posto in fondo, sonnecchiando appoggiata al finestrino. Per fortuna, quel giorno non c’era Dustin, potendo così evitare di dover chiacchierare per gentilezza con l’amico, e recuperare un po’ di sonno nel tragitto. Tanto, si sarebbe capito quando sarebbero arrivati a scuola, visto il solito gran schiamazzo dei ragazzi che scendono tutto insieme. Mentre faceva riposare gli occhi, gli tornarono in mente i brevi viaggi in auto casa-scuola, scuola-arcade con Billy; non riuscendo a darsi pace neanche in questo pisolino.

Questa volta però, la stanchezza ebbe il sopravvento, e fu risvegliata così per la seconda volta in una mattinata da un adulto, questa volta l’autista, che aveva però modi decisamente più gentili e pacati di sua madre.

“Ehi, sveglia dormigliona. Eheh devi essere davvero stanca.”

Max soprassalí dallo spavento.

“Oddio, mi scusi. Che vergogna!”

“No no, tranquilla capita a tutti. Ma adesso faresti meglio a scendere, a meno che tu non voglia visitare il magazzino dei bus.”

La rossa ringraziò velocemente l’uomo è scese, accodandosi alla fila di ragazzi come se non fosse successo nulla. Non le era mai capitata una cosa simile, e si ripromise di fare attenzione, per evitare di dover essere svegliata anche da un insegnante sul suo banco. Se fosse successo, sarebbe stato ancora più umiliante. Mentre le sue prime volte era accaduto con una sola persona presente, su cui avrebbe potuto confidare nella loro discrezione. In quel caso si sarebbe ritrovata come spettatori tutti i compagni di classe. 

Sbuffò un ultima volta, tenendosi lo zaino sulle spalle e preparandosi per un altra, estenuante, giornata di scuola.

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Capitolo 2
*** La Fatica ***


La fatica

28 novembre 1985.

Max aveva fame, tanta, ed era spossata fisicamente per questo.

Il prof di ginnastica continuava ad urlare ordini durante la partita di palla avvelenata, aspettandosi che lei riuscisse a stargli dietro. Ma a malapena si reggeva in piedi e provava a schivare le palle come i compagni di squadra. Solitamente avrebbe adorato l’ora di ginnastica, lei che era da sempre appassionata di sport e trovava borioso stare seduta per più di un ora. Ma ultimamente i problemi economici di sua madre l’avevano costretta letteralmente a razionare il cibo, tanto che la sera prima si era dovuta accontentare di un uovo in padella e una scatoletta di carotine. Il mattino poi, dovette saltare la colazione in toto, non trovando niente in frigo. Quindi, in quel momento non aveva ne le forze ne la testa per giocare a pallone. Stava invidiando per la prima volta Cynda, la ragazza anoressica della classe, che a causa delle due condizioni fisiche precarie era costretta a star seduta a guardare gli altri giocare dalla panchina, anche se avrebbe voluto unirsi a loro sostenendo di sentirsi bene e di potercela fare. Le faceva sempre una gran pena vedere quello scricciolo con la divisa addosso, ma impossibilitata dal prof a non fare nessun gioco o attività fisica, per colpa delle sue fissazioni sul cibo. Ovviamente non poteva fare troppi sforzi fisici perché era pericoloso per lei consumare troppe calorie, ma soprattutto perché era più fragile degli altri ragazzi: una caduta, un urto involontario troppo forte con un altro ragazzo, avrebbe potuto romperle le ossa. Si limitava quindi a pochi esercizi utili per tonificare gli arti, e poi il prof la obbligava a sedersi. Ogni tanto a Max veniva da pensare, vedendola come ora guardare con quegli occhioni tristi e invidiosi allo stesso tempo, gli altri divertirsi da fuori campo:

“Che stupida che sei, ben ti sta. Che ti aspettavi? Che smettendo di mangiare saresti stata meglio?” Non arrivava a comprendere, come molta della società dell’epoca che non educava i ragazzini della sua età riguardo i pericoli dei disturbi alimentari, che quella di Cynda era una vera e propria malattia e non una “moda” pericolosa. Ora avrebbe voluto trovare una scusa per stare seduta tutta l’ora come lei, ma che avrebbe potuto inventarsi? Mr. Hasmold non era facile da abbindolare e pretendeva sempre molto dai suoi alunni, ritenendo che l’educazione fisica, nel senso più atletico del termine, fosse una materia seria come tutte le altre.

Cercando di intercettare con le mani una pallonata diretta a lei, riuscì solo a farla volare in aria e cadde all’indietro. Appoggiò in tempo le mani a terra evitando di farsi veramente male sbattendo la schiena.

“Eddai Mayfield, sembri una gallina zoppa! Se non te la senti di giocare va a sederti in panchina e da il cambio a qualcun altro!” Sbraitava l’omone, rosso in volto. Rosemary le fece segno dalla panchina e si diedero il cambio, uscendo sbuffando rumorosamente. Dustin fece lo stesso con Marc e andò a sedersi affianco a lei.

“Ehi, tutto bene?”

“No, non va bene un cazzo!”

“Sei malata? Non è da te giocare così male.”

“Non ho l’influenza se è quello che ti stai chiedendo; ho solo, fame!”

“Ehm…hai saltato la colazione?”

“Sì, e non è neanche la prima volta! Anche quando c’è da mangiare, chiunque oltre mia madre non li definirebbe neanche veri “pasti”. Sembra che non sia più capace di fare la spesa. Uhhh…” si chiuse la faccia tra le mani, coi gomiti poggiati sulle ginocchia.

“Ok, oggi ti offro il pranzo io.”

“No no, Dustin. Non voglio dipendere da te…”

“E ti aspetti che sapendo questo non ti voglia aiutare? Siamo amici!” Lei ci pensò su e comprese che aveva ragione. Anche lei avrebbe fatto lo stesso per lui. Sul lungo termine però, la frase di Dustin si sarebbe capovolta contro Max: perché comprendendo che i suoi amici sarebbero stati la sua risorsa principale per superare questo momento di crisi, si sarebbe vergognata sempre di più nel chiedere loro aiuto. 

Mr. Hasmold, l’insegnante di ginnastica aveva ancora una brutta sorpresa in serbo per lei. Radunò tutti i ragazzi in una lunga fila, al centro della palestra, e di fronte a loro diede il “lieto” annuncio:

“Oggi facciamo il test di Cooper! Quindi mettetevi in fila e correte per 12 minuti uno alla volta.”

Non serve che vi dica che Max fu la peggiore di tutti. I compagni e il prof la guardavano basiti arrancare nel tenere il passo e rischiando pure di fermarsi del tutto. Proprio lei che era la più entusiasta delle ore di ginnastica, quella che correva più veloce di tutti, saltava più in alto e la si vedeva sfrecciare sullo skateboard all’uscita da scuola, stava faticando a correre in tondo alla palestra per una decina di minuti? 

Dustin era quello che soffriva di più nell’assistere a questo calvario, e gli venne l’istinto di smettere di guardarla proprio, dopo un po’. 

Finito il test, il prof si sentí in dovere di parlare con la ragazza esausta e senza fiato al punto di reggersi sulle ginocchia per stare in piedi, in disparte fuori dalla palestra.

“Mayfield…ma che mi combini? Sei la migliore della classe e fai queste figure? Lo sai che non insisto sul farti diventare una atleta di una delle nostre squadre e neanche di entrare nelle cheerleaders, ma almeno mi aspetto che ti impegni nelle attività comuni. So che c’è la puoi fare-“ 

Poi però gli venne un dubbio, che sfiora la mente di pochi insegnanti di ginnastica americani, abituati a dare voti sulle abilità atletiche degli alunni, come se fossero tutti alla pari fin dall’inizio e quindi valutabili allo stesso modo, senza considerare fattori esterni. Se non ce la fai è perché non ti impegni, così ti urlo contro per spronarti. Questo rende un inferno l’ora di ginnastica a tantissimi ragazzi delle superiori in tutti gli Stati Uniti; ma non dovrebbe essere così per Maxine Mayfield, no? È la migliore della classe. 

“Ma…stai bene?”

“No, non sto bene! Ho fame! Non riesco più a mangiare regolarmente, perché siamo al verde! Come si aspetta da me, che riesca a stare dietro a un ora di ginnastica, quando mi sento svenire?!”

L’insegnante rimase senza parole a guardarla in silenzio per qualche secondo. Non aveva previsto una risposta del genere, ma guardandola ora più attentamente, stava notando che i polsi e le gambe, in particolare dalla parte sotto le ginocchia, erano meno toniche del solito, e che il suo viso era leggermente emanciato all’altezza degli zigomi. 

Si massaggiò il mento, pensieroso.

“Accidenti Maxine…e chi se l’aspettava una cosa del genere…” per un momento l’aveva sfiorato con terrore il dubbio che, lasciatasi prendere da Cynda, si stesse instradando anche lei sulla via dell’anoressia, ma questo proprio no; cosa avrebbe dovuto dirle ora?

“Mi dispiace Mr., vorrei con tutta me stessa essere ancora capace di correre bene. Ma è così faticoso.” La frase si spense in un mugolio. Era sul punto di piangere, cosa veramente rara per Maxine Mayfield. 

“Ehi, ehi! Non era un rimprovero. Anzi, scusa per non averlo capito subito. Non avrei dovuto insistere così con te.” Mr. Hasmold era un brav’uomo, che però era abituato a insegnare con metodi militareschi, figli dei programmi scolastici di educazione fisica degli anni’50-60, dove l’insegnamento era basato proprio sul preparare alla guerra gli alunni, finendo per terrorizzarli. Ma quand’era necessario, come in questo caso, era capace di provare grande empatia nei loro confronti. Perché voleva loro bene. 

“Lo sa questo la psicologa della scuola?”

“No, la prego! Non deve saperlo!”

“Ma-“

“Si, lo so cosa sta pensando, ma non voglio che causino problemi a mia madre. È già distrutta di suo per tutto quello che è successo. Le serve solo un po’ di tempo e tutto si rimetterà a suo posto; solo…solo la prego, mi lasci un attimo di respiro fino a quando non succederà, ok?”

L’insegnante annuí pensieroso, facendo vagare lo sguardo per il corridoio. 

“Ok…li hai i soldi per pranzo?”

“Dustin si é offerto di darmeli lui oggi.”

“Bene. È un bravo ragazzo.”

“Vero, d’altronde è tra i miei migliori amici.”

Ora Max si trovava seduta al tavolo della mensa insieme a lui. Le aveva passato i soldi prima di entrare, in modo che li desse lei alla cuoca, e così non si sarebbe dovuta vergognare più del dovuto, nel farsi offrire da mangiare pubblicamente. I due sono seduti allo stesso lato del tavolo. Max ha preso un hamburger di manzo, patate al forno come contorno,

una fetta di pizza con formaggio sciolto, una mela verde e un cartoncino del latte. Il cibo della mensa non fa impazzire nessuno, soprattutto da quando il governo Reagan ha svenduto le mense scolastiche alle catene di fast food; ma la fame è la fame. 

Mr. Hasmold la scruta in piedi, dal fondo della sala: vuole assicurarsi che non abbia mentito e che il problema non sia L’anoressia. Ma per la sua gioia, Max addenta con foga l’hamburger e così anche gli ultimi dubbi si dissipano. Un sorriso triste si abbozza sul suo volto, mentre esce dalla mensa sollevato.

“Accidenti, sei davvero affamata, eh? Vai piano o ti andrà di traverso.”

“Hmm, hai ragione, ma non c’è la facevo proprio più. In palestra ho avuto paura di svenire davanti a tutti.” 

“Beh dai, abbiamo preso oggi due piccioni con una fava: tu hai potuto fare pranzo, e io avendo diviso i soldi con te, ho avuto l’occasione d’oro per sforzarmi di mangiare un po’ di meno come vorrebbero mia madre e il dottore!”

“Ahah sai sempre trovare il lato positivo, eh Dustin?” 

“Dai mangia, che devi crescere.”

Pranzarono così insieme, chiacchierando amorevolmente. Fu un bel momento per entrambi e rifocillatasi lei si sentiva finalmente meglio. Uscendo dalla sala, Max stava finendo di bere il cartone di latte dalla cannuccia, nel frattempo Dustin le raccontava dell’ultima chiamata radio che aveva avuto con Susie. 

“E quindi hanno dovuto spruzzare un repellente per tutta casa, o gli orsi avrebbero-“

Buttato il cartoncino nella spazzatura, lo sorprese con un abbraccio.

“Grazie Dustin. Non so come avrei fatto a superare la giornata senza di te.”

“Questo ed altro per te, Max. Però, meritano di saperlo anche Mike, ma soprattutto Lucas, di questa tua situazione.”

“Ok…” 

“Guarda che siamo felici di aiutare.”

“Si lo so, ma, ricambierò in qualche modo il favore. Giuro!”

“Non farmi venire un coccolone, morendomi durante l’ora di ginnastica. Sarebbe già molto!”

“Ahah. Ok.”

18:30 casa di Max.

Era seduta al tavolo della cucina a scarabocchiare calcoli sul quaderno di matematica. Sua madre entrò dalla porta con due buste della spesa, che sbatté sul tavolo, proprio dov’erano posati il quaderno e l’astuccio, che Max tolse tempestivamente prima che le buste li schiacciassero.

“Ehi! Sto facendo i compiti, se non l’avessi notato.”

“Non è giornata, Maxine…” la risposta della madre racchiudeva molta rabbia repressa. 

“Non lo è mai ultimamente.” Questa volta fece finta di non sentire e continuò a mettere a posto la spesa, ma a un certo punto, Susan si sentí in dovere di puntualizzare che:

“Ti ricordo che sono io quella che porta da mangiare a casa…”

Max rimase allibita nel vederla aprire la seconda busta e scoprire che il contenuto fosse esclusivamente lattine di birra. La signora Mayfield ne prese una, e dopo aver messo le altre nel frigo, la aprí con foga e incominciò a berla attaccandosi alla lattina. 

“Bella spesa che hai fatto: metà cibo spazzatura del discount e il resto alcolici. Vuoi che inizi a mangiare cereali e birra la mattina a colazione?” Sua madre la fulminò con gli occhi. Stava iniziando a incazzarsi davvero. 

“Un altra parola e fili dritta in camera tua. Anzi, vacci già ora fino a quando non ti chiamo per cena.” Max si alzò, incamminandosi per le scale, astuccio e quaderno in mano.

“EsCi Un Pó dAlLa tUa CaMeRa, sTaI sEmPrE rInTaNaTa Li dEnTro!” Le faceva la vocina mentre saliva in camera sua. Susan non rispose, fissandola mentre continuava a sorseggiare dalla lattina. 

Giunta nella sua tana, accese la radiolina sedendosi sul letto.

“Dustin, qui Max, pronto.” Dopo qualche secondo, il ronzio metallico del segnale precedette la calorosa voce dell’amico.

“.Qui Dustin. Pronto, tutto bene?”

“Manco per niente. Ahh…ho litigato per l’ennesima volta con mia madre.”

“Mi dispiace, so com’è vivere da figli unici con una madre protettiva e asfissiante.”

“Oh magari fosse protettiva…o almeno, in limiti ragionevoli. Ma è solo asfissiante, non fa altro che trovarmi da ridire per tutto. É sempre incazzata nera, non c’è modo di renderla contenta.” Dustin poteva sentirla chiaramente singhiozzare e si trovò all’improvviso in difficoltà sul da farsi. 

“Ehi ehi, vuoi che faccia un salto da te?”

“No no, ma grazie. Devo solo dormire e calmare i nervi. Uhh…é stata una giornata estenuante.” 

“Ok, buonanotte Max.”

“Buonanotte, Dustin.”

L’indomani la ragazza ebbe una piacevole sorpresa alla fermata dei bus: prima di esso arrivò Eddie sulla sua decappottabile. 

“Ti serve un passaggio?” Gli chiese aprendole la portiera. 

“È stata un idea di Dustin, vero?”

“Ovviamente!” Dal sedile posteriore fece capolino il sorrisone del diretto interessato, che le mostrò anche due sacchetti di carta di un diner.

“E indovina chi ha preso le ciambelle glassate che ti piacciono tanto?”

Max non riuscì a trattenersi dal ridere.

“Accidenti, siete i migliori stalker del mondo…”

Ora era seduta sul sedile posteriore affianco a Dustin, sgranocchiando le gustose ciambelle e chiacchierando voi due, mentre Steve guidava verso scuola.

“Visto? Avete anche l’autista privato ora, ma non abituatevi troppo, oggi ho potuto perché è il mio giorno libero.”

“Ti lamenti sempre di doverci fare da baby sitter, ma sotto sotto ci adori, vero? Sennò perché dovresti impiegare la tua mattinata libera per accompagnarci a scuola?” Lo stuzzicava Dustin.

“Vero, stai facendo più il genitore modello tu, che mia madre. Ahah.” Commentò Max.

“Lo considero un allenamento per quando avrò dei figli.”

“Comunque grazie ragazzi, lo apprezzo davvero.” Max strinse in un abbraccio forte Dustin.

“Uh, piano. Mi sta andando di traverso la ciambella!”

“Ti dico sempre di mangiare piano per questo, Henderson!” Lo sgridava il conducente, dal posto di guida.

In quei momenti di leggerezza, Max si sentiva veramente a casa.

L’auto arrivò al marciapiede della scuola superiore di Hawkins. Max e Dustin scesero dopo aver salutato Steve. La ragazzina rossa di sentiva quel giorno pronta e carica come non le accadeva da tempo. “Buongiorno a tutti!” Esordì passando la soglia della classe di inglese. I suoi compagni e Mr. Ronald, rimasero piacevolmente sorpresi essendo apparsa loro, non col suo solito broncio, ma sorridente e raggiante.

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Capitolo 3
*** 26 marzo 1986 ***


26 marzo 1986

 

Max stava facendo zapping, annoiata, morta in volto, buttata sul divano del salotto. Giochi a premi, noiose soap-opera, vecchi film western in bianco e nero; che noia!

Sua madre entrò, e rimase sorpresa nel vederla lì a sbuffare allo schermo. 

“Perché non sei andata alla partita? Ci sono tutti, e gioca Lucas, no?”

“Non ne avevo voglia; e si può sapere comunque perché ci tieni tanto a lui? Non è tuo figlio.”

“Ma è il tuo fidanzatino.”

“No, non lo é: l’ho mollato! E non chiamarlo mai più “fidanzatino”: é imbarazzante.” Susan non sapeva che risponderle, e sospirò dall’apprensione: non era da Maxine fare così. 

“Come sarebbe a dire che non siete più fidanzati?”

“L’ho mollato. Lui cerca di continuo di accollarsi, ma è solo un illuso. Tanto era solo una perdita di tempo…”

“Ma come una perdita di tempo? Maxine, ma ti senti? Lui è un caro ragazzo che ti ama molto; perché devi trattarlo così male?”

“Forse perché sono stufa di tutto e tutti! Sono così stupidi! Dei mocciosi!” Ora Susan la fissava a braccia conserte. 

“Quei mocciosi ci hanno aiutato a fare il trasloco quando Neil ci ha abbandonate, erano tutti presenti ai funerali di Billy, ti hanno consolata in ogni modo, ti sono stati vicini e questo è il tuo ringraziamento?” Max era paralizzata, assalita dai sensi di colpa derivanti dalla constatazione di sua madre. Susan sbuffò e prese la sua borsa in mano.

“Senti, ora devo andare a fare delle commissioni; e santo cielo, non ci credo sia arrivata a dirti questo, ma al mio ritorno desidererei non trovarti qui, ma che tu sia al palazzetto a vedere Lucas giocare; e se i tuoi amici ti proponessero di mangiare fuori, per me andrebbe bene lo stesso. Guarda, ti lascio anche dei soldi sul tavolo. Intese?” Max non rispose, limitandosi a roteare gli occhi. 

Uscita sua madre di casa, pensieri incominciarono ad assalirla: “dovrei andarci veramente? Sono davvero l’antipatica di questa storia?” 

Era quasi sul punto di alzarsi e uscire, quando le sue ansie la bloccarono di nuovo. “Ma che fai? Sarebbe solo una rottura. E poi ti assillerebbero tutti: “Max come va? Max tutto bene a casa? Ti va di farci un giro, Max?” “Però vorrei andarci, o almeno sapere come stia andando la partita.” 

Alla fine, si decise per un compromesso: Max accese e ascoltó alla radio tutta la partita, sbattendo il tacco della scarpa a terra e mordicchiando di il labbro, come faceva sempre quando era nervosa. 

“Ed ecco Sinclair Che segna il canestro della vittoria! Il pubblico è in disibilio.” La ragazzina sobbalzò genuinamente dalla gioia ed esplose in un breve applauso. 

Ben presto una dolce e lieve, ma al contempo, amara tristezza le salí dallo stomaco alla gola: in quel momento sarebbe voluta essere stata con lui, per congratularsi di persona, abbracciarlo e dirgli quanto fosse orgogliosa. 

Il pensiero la portò a chiudere la radio e a stringersi le ginocchia sul letto, walkman sulle orecchie. 

Lacrime calavano sulle sue guance. Max si dondolava cantilenando le parole di “Running Up That Hill”. Si faceva pena da sola.

“Perché? Perché sono così sola? Perché mi rendo, così sola? Perché non ce la faccio a stare più con gli altri? Perché non riesco a essere un adolescente felice come gli altri? Perché?!” Pensava nella sua testa..

E così i suoi tristi pensieri divagarono tra i bei ricordi con Lucas, Undi, mamma e papà in California e tutti gli altri con cui aveva condivido esperienze felici. Ricordi, che le apparivano ormai come distanti miraggi, come se non potessero essere reali. Ma erano davvero avvenuti? 

Dopo un ora, sua madre rientrò e scosse la testa in dispiacere e disapprovazione trovandola in quello stato. Max la guardò con occhi che trasparivano un animo ferito, ma anche arrabbiato, come stesse dicendole: “non mi puoi giudicare.”

“Coraggio, sciacquati il viso e almeno aiutami a cucinare per la cena.” Max spense il walkman, si tolse le cuffie e la raggiunse in cucina. 

Stava avvicinandosi a lei, quando si bloccò nuovamente e lacrime iniziarono a rogarle le guance. Susan si voltò e la raggiunse, confortandola mettendole le mani sulle spalle, abbassandosi alla sua altezza per guardarla dritta negli occhi. 

“Ehi ehi, tesoro. Cosa succede?”

“Mamma, mi dispiace…”

“Maxie, devi dispiacerti solo per te stessa. Perché per quanto soffra nel vederti così, ti stai soltanto facendo del male da sola.” La abbracciò, e Max scoppiò in lacrime sulla sua spalla. 

“Sfogati piccina mia, butta tutto fuori, parla con la mamma.”

“Lucas mi aveva invitata alla partita, aveva anche tenuto da parte il posto migliore prenotato; io però l’ho rifiutato, sono stata una stronza con lui, gli ho detto che la sua partita non era importante, che era stupida.”

“Non gli avrà fatto di certo piacere.”

“Beh, certo che no. Ma non si è neanche arrabbiato: mi ha detto che sono cambiata, che sembro un fantasma; sembro un fantasma, mamma?”

“A volte sì, sembra che tu faccia di tutto per passare inosservata, tenere lontana gli altri.”

“Lo so! Lo so, dannazione! Ma mi esce spontaneo, anche se in fondo, ci sto male, vorrei non essere così…”

“Ed è per questo che è importante che tu vada dalla psicologa della scuola regolarmente, ne avete parlato oggi?”

“No, cerco sempre di evitare di aprirmi troppo con lei…come con gli altri.”

“Ma dimmi un po’, qualcuno dei tuoi compagni di scuola ti ha trattata male? Avete litigato?”

“No no. Anzi” tirò su col naso, prima di continuare “tutti mi trattano bene, anche troppo, considerando che li ignoro sistematicamente.” 

“Così non va bene.” 

“Lo so…”

Quella notte ebbe uno dei suoi incubi ricorrenti, questo in particolare era quello più gettonato: la morte di Billy.

Ma anche la sua vita stava per entrare nella dimensione dell’incubo, perché la polizia arrivò di corsa nel parco caravan: Chrissy Cunningham era morta, ma il lato più stravolgente della faccenda, era che fosse avvenuto IN CASA DI EDDIE!

Dopo essere stata allontanata dagli agenti dalla scena del crimine, Max ritornò sotto il portico di casa sua, affianco a sua madre.

“Dai Max, vieni qui, non sono cose che devi vedere.”

“Secondo te, cosa è successo?”

“Mah, che vuoi che ne sappia? Quel ragazzo è sempre nei guai.”

Max però mezza idea se l’era fatta: la luce era quasi saltata la sera prima. Stava guardando, seduta sul divano e con sua madre addormentata affianco a lei, con una coperta che le aveva messo addosso a mó di letto, “Chi Vuol Essere Milionario?” Sulla tv. 

“Ultima domanda, signor Hemsworth. Se la indovina, lei stasera, potrà dire di essere milionario. Mi dica: agli occhi di quale animale, Lord Byron dedicò una sua famosa poesia?”

“Accidenti…l’ho già sentita nominare…” pensava Max.

La sua attenzione venne portata via dal gioco a premi, dallo sfarfallio della lampadina appesa al soffitto.

“Che topaia…” sussurrò tra sé e sé.

Ma ben presto un altra, ben più inquietante evento, la destò dal torpore serale: urla provenienti dalla strada, Eddie Munson sfreccia via sulla sua auto, terrorizzato in volto. 

Al contrario di quanto potreste aspettarvi, a Max fece venire sonno, essere spettatrice di tutto questo: la depressione fa brutti scherzi e capovolge le nostre reazioni umane a volte. 

Spense le luci, ma gli incubi le fecero visita, e la polizia si fiondò il mattino dopo, in casa di Eddie. Unendo i puntini, realizzò che qualcosa non quadrava. 

Tornò in camera sua, chiamò tutti col walkie talkie, ma solo Dustin rispose, invitandola ad andare a parlarne con lui a casa sua. 

Si vestì in fretta e furia, prendendo con sé solo lo stretto necessario. 

“Mamma, vado da Dustin, ok?” Susan le sorrise a trenta denti, nel sentirle dire questo. Non poteva sapere però, che il motivo era molto più tetro di quanto si aspettasse.

“Ma certo, tesoro. Era l’ora che uscissi un po’!”

E così, Max Mayfield salí sulla sua bicicletta, diretta a casa Henderson: l’inizio della fine. 

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