Dream, remember and ...

di AMYpond88
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Suguru ***
Capitolo 2: *** We love you, but you... ***
Capitolo 3: *** Satoru ***
Capitolo 4: *** Curse me a little at the end... ***
Capitolo 5: *** The stronger and the curse ***
Capitolo 6: *** Prison ***
Capitolo 7: *** Epiphany ***



Capitolo 1
*** Suguru ***


"Ehi, devi deciderti ad andare da un medico..."
"Tu sei un medico..."
"Io sono un patologo!"
Silenzio. Effettivamente a questo non ha idea di come ribattere.
"Suguru, ci vediamo per caffè?"
Con un veloce assenso, interrompe la chiamata.
Non ha proprio voglia che Ieiri gli faccia la solita ramanzina, lei che è famosa per la sua ricetta per sopravvivere alla quotidianità a base di sigarette, troppo caffè e decisamente poco sonno, ma questa mattina la solitudine pesa di più.
Lo sa anche lui che non è normale svegliarsi con una mano che non controlla, i nervi tesi allo spasmo e le dita pronte a scattare.
Ancora meno normale, nonchè novità fresca fresca, aprire gli occhi perché la propria mano sta autonomamente artigliata alla gola.
È riuscito a prendere il telefono per chiamare Shoko, l'unica persona a cui sa di poter parlare del suo problema senza esser preso per pazzo, dopo mezz'ora passata a fissare la sua mano destra, quasi un'appendice estranea, tenuta bloccata sulle lenzuola dalla sinistra, più obbediente.
Le dita che ancora lo ascoltano impegnate a stringere forte all'altezza del polso, aspettando che le altre lentamente decidessero di piantarla di flettersi e scattare a stringere il vuoto.
Lascia che il telefono scivoli tra le sue dita, per cadere sulla moquette, mentre crolla esausto sul materasso.
Sono appena le sette di mattina e si sente come se non dormisse da settimane.
Invece è sveglio da nemmeno mezz'ora.
Si rimette seduto, poggiando i piedi a terra e raccogliendo il cellulare, perdendosi mentre se lo rigira tra le mani.
... questa volta il ragazzo con i capelli bianchi sembrava proprio nei guai.


"L'hai sognato di nuovo?"
Annuisce, aspettando che sia l'amica a rompere il silenzio per la seconda volta da quando è entrato nel locale.
Shoko Ieiri soffia sul bicchiere di caffè nero, mentre lui sorseggia piano il suo.
Fa così freddo, che non ha avuto il coraggio di levarsi il cappotto una volta seduto al tavolo di Starbucks.
Guarda fuori dalla vetrata i primi turisti uscire dal parco di Ueno e muoversi verso la zona dei musei, incuranti delle temperature di quella domenica di dicembre.
Dovrebbe portarci anche i ragazzi, magari al Nazionale... ha letto che hanno adibito diverse sale ai bambini. Nè parlerà con Yaga l'indomani, prima di lezione.
Stranamente, il suo lavoro di insegnante alle elementari è una delle poche cose che è in grado di migliorare il suo umore. Per quanto sfiancante possa essere.

"... questa mattina sei uno straccio".
Il lampo di positività si infrange come cristallo al suolo, colpito dalla voce stanca dell'amica.
Lo sa di sembrare uno schifo. Non si è nemmeno raccolto i capelli.
Quello che non sa, è perché quel ragazzo abbia cominciato a popolare i suoi sogni.
Va avanti così da un mese.
Si addormenta, sogna, si sveglia con la mano destra fottutamente autonoma e tante, troppe domande.
Ma almeno fino ad oggi la sua mano non aveva tentato di ucciderlo.
Non ha idea di chi sia lui... anche se dopo così tanti giorni inizia a pensare di cominciare a conoscerlo.
A volte è un adulto, un suo coetaneo, a volte solo un ragazzino... anche piuttosto petulante.
A volte sembra in pericolo, a volte è Il pericolo.
Per gli altri, per sé stesso.
Qualche volta, poche, anche per lui. Spesso indossa occhiali da sole, a volte addirittura una benda nera.

"Ripetimi cosa succedeva..."
La voce di Shoko lo riporta alla realtà.
Sente un moto di fastidio attraversarlo come una scossa.
Non è per questo che le ha chiesto aiuto.
Su cosa significhi tutto ciò può e si spreme le meningi anche troppo da solo.
Vuole sapere cosa ha la sua testa che non va, ma dal punto di vista medico.
Perché deve esserci un problema fisico in tutto questo.
"Non mi serve interpretare i sogni, non hanno senso... devo sapere cosa succede al mio cervello e alla mia mano".
Prima ancora che Shoko alzi gli occhi verso di lui per fulminarlo con lo sguardo, capisce di aver esagerato.
"Perdonami, non volevo sembrare così duro, è che.. "
Stringe tra le dita il ponte del naso, salendo fino a massaggiarsi le tempie.
Ha già finito la sua tazza di caffè, ma gliene servirebbe almeno un altro paio.
Senza contare che oggi ha promesso a Mimiko e Nanako di portarle a provare un locale di crepes in centro.
... Cosa ci troveranno mai in posti tanto affollati.
Ama le sue sorelle, il caos che diffondono ovunque passano è una delle poche cose che riesce ancora a mettergli allegria. Non vuole essere di cattivo umore con loro.
Come non vuole essere scortese con l'amica. Non lo merita di certo.
"... è che sei esausto e non dormi bene da giorni".
"Sono stato scortese, perdonami".
Cerca di mettere su un sorriso, guadagnando dalla donna un veloce cenno del capo, che sta per 'sei un idiota, ma va bene'.
Portandosi la sigaretta spenta tra le labbra, l'amica si alza per prima prendendo dal tavolo le tazze usate e il biglietto del conto.
"Usciamo di qua, ho bisogno di fumare".
Vorrebbe protestare, ma il tintinnio della porta e l'arrivederci in coro delle cameriere gli fanno capire quanto siano lenti i suoi riflessi.

"Allora, pensi di raccontarmi il sogno? Poi io ti dirò se è il caso di aprire la tua testolina e tagliuzzare quel tuo amabile cervello..."
Ridacchia, sperando sinceramente che quella della donna sia solo una battuta.
Si passa una mano nei capelli, raccogliendoli sulla nuca.
"Era a terra, non era ferito, però sembrava fosse in trappola".
"Benda? Occhiali da sole?"
"Nulla di tutto ciò..."
"Quindi ... "
La curiosità è così lampante da non essere mascherata nemmeno dal tono annoiato.
Quel particolare infatti era una novità. In nessun sogno era riuscito a vedere gli occhi dell'uomo. Fino a quella notte.
Suguru assottiglia lo sguardo, prendendosi un momento prima di rispondere.
Nella sua testa, un paio di iridi si fanno spazio. Confuse, arrabbiate, sofferenti, ma belle.
Belle da spaccargli il fiato.
"Azzurri. I più azzurri che abbia mai visto".

Shoko ridacchia, guadagnandosi una sua occhiata stranita.
Non gli pare di aver detto nulla di divertente.
"Ti stai innamorando di lui?"
"Ieiri, non ho idea di chi sia..." sbuffa, prima di aggiungere quasi offeso: "Sono un adulto vicino alla trentina, non mi innamoro di ragazzi a caso che mi perseguitano in sogno".
"Scusa, è che dal tuo tono di voce mi sembravi in pieno panico gay..."
Guarda la donna con gli occhi sgranati, prima di scoppiare a ridere.
"Mi sembra di essere tornato al liceo, quando ti ho detto di essere omosessuale..."
L'occhiata complice in risposta, se l'aspetta. Come la leggera gomitata che lo raggiunge nel costato.
"Intendi quando ti ho ospitato nella mia stanza del dormitorio, perché i tuoi ti avevano cacciato di casa?"
"Ripetendomi di non andare in panico, che essere gay non mi avrebbe reso più stronzo di quanto non fossi già".
Shoko appoggia la testa al muro del locale, sbuffando il fumo e stringendosi nel cappotto.
Un sorriso stanco sul bel viso.
"E ci dividevamo le sigarette perché nessuno di noi aveva un quattrino?"
Fa un cenno di assenso con la testa, prendendo dalle dita della donna la sigaretta a metà che gli sta offrendo.

Rimangono in silenzio per un po', passandosi la cicca fino a quando non ne rimane che un mozzicone ridicolo.
Shoko lo lascia cadere a terra, schiacciandolo sotto il tallone.
Si china a raccoglierlo prima che Suguru la fulmini con lo sguardo, riservandogli un'occhiata scocciata.
Lo sconvolge sempre quanto non serva nemmeno parlare dopo tanti anni di amicizia.
È sicuro che potrebbe fare una strage e Shoko sarebbe lì, disposta ad ascoltare la sua versione, offrendogli una sigaretta o chiedendogli di accendere.
"Ok, non sono più così povera da fumarmi il filtro".
Inclina leggera la nuca, con una vena di preoccupazione che non riesce a nascondere nella voce.
"Hai programmi per la giornata? Non sei da solo vero?"
Sorride, scuotendo la mano come ad allontanare una mosca.
"Decisamente no! Ho promesso a Mimiko e Nanako un giro in centro, a fine giornata avrò la testa e le orecchie vicine ad esplodere".
Il sollievo che le si dipinge sul viso gli fa sentire qualcosa di molto vicino al senso di colpa dalle parti del petto. A volte pensa di essere un ingrato.
"Oh, un pomeriggio con le ragazze è quello che ti ci vuole".

"Non so il suo nome..."
La donna lo guarda incuriosita, fermandosi e guardandolo stranita.
Effettivamente, perché mai dovrebbe conoscere il nome di uno sconosciuto che gli compare in sogno..
"Ma mi sento come se dovessi saperlo...".
Suguru guarda in basso, fissa i piedi come quando era bambino e i suoi genitori fingevano di non vedere quelle che liquidavano come 'stranezze'.
Un fiocco di neve si pianta sulla sua scarpa.
Alza gli occhi al cielo, mentre la prima nevicata dell'anno comincia a scendere su Tokyo.
"Come se avessi dimenticato".
"Ha detto qualcosa?"
Riflette. Sì, la cosa più strana che gli ha sentito dire fino ad ora.
Il ragazzo dai capelli bianchi gli era apparso confuso, sconvolto, arrabbiato.
Costretto ai suoi piedi, intrappolato.
Era in ginocchio di fronte a lui, ma lui si era sentito come uno spettatore.
Finché l'uomo non aveva detto una frase in particolare, una frase che Suguru avrebbe potuto giurare fosse rivolta a lui.



"Fino a quando ti farai usare così, Suguru".



Salve salvino! Ho una raccolta e una long (capitolo prossima settimana) in corso, ma sapete quando si ha un'idea senza senso in testa e va proprio scritta? Ecco.
Questa long è una cosa del genere. Prendetela per una au, per iniziare.
Non sarà una storia facile, ma un mio tentativo di dare un lieto fine ai SatoSugu.

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Capitolo 2
*** We love you, but you... ***


"Noi ti amiamo, noi ti amiamo, noi ti amiamo".


Fa freddo. Tanto. È come se tutto il calore fosse stato risucchiato via.
Sono fredde le luci artificiali della stazione.
Shibuya?
È freddo, viscido, quello che trasuda da tutte quelle persone mascherate e in preda al panico.
Una voce nella sua testa gli ripete che dovrebbe essere in grado di dare un nome a tutto questo, dovrebbe sapere, ma è come abitare in un corpo non suo.
Energia maledetta, ecco come si chiama quell'aura che circonda quella gente spaventata.
Come i sensi, anche consapevolezza e ricordi compaiono ad intermittenza.
Tra tutte quelle persone, due in particolare lo fissano.
Due ragazzine, in piedi di fronte a lui.
Mimiko, Nanako, cosa fate qui?
"Restituiscilo!"
Non hanno paura, ma può sentire fin nelle ossa tutto il loro odio, tutta la loro rabbia, ma anche il loro dolore.
Le ragazze, le sue ragazze, sono coraggiose.
"Non osare continuare a giocare..."
"...Con il corpo del Maestro Geto".
Una finisce la frase dell'altra.
Qualcuno ride, interrompendo il suo più inquietante pensiero: perché parlano di lui come "corpo"?
'Stupide', sussurra una voce gelida da qualche parte nella sua testa.
'Stupide mocciose, pensate di riaverlo? Pensate che ci sarà un lieto fine?'
"E come potrei ridarglielo, di grazia? Che sciocche! Eppure non ricordo di aver preso anche i vostri cervelli..."
Qualcuno parla e gli serve un attimo per realizzare.
Quando la consapevolezza arriva, la sua stessa voce gli fa l'effetto di unghie contro una lavagna.
È vuota. Cattiva. Minaccia le sue ragazze.
"Ora sparite o preferite essere uccise da questo corpo?"


"Noi ti amiamo, noi ti amiamo, noi ti amiamo, ma tu, tu non sei lui".


Suguru apre gli occhi di scatto, una paura totalmente irrazionale che gli attanaglia lo stomaco e gli blocca il fiato, più di qualsiasi mano aggrappata alla trachea l'abbia svegliato nei giorni precedenti.
Quasi salta giù dal divano, inciampando nelle coperta con cui si è accampato per passare la notte, mentre corre verso la camera da letto.
Apre la porta, rimanendo fermo sulla soglia della stanza.
Improvvisamente si ricorda come respirare.
Mimiko e Nanako dormono ancora profondamente, accoccolate nel letto che ha ceduto loro.
Ignora le dita della mano destra che si contraggono e aprono in rapidi scatti contro la sua gamba. È troppo sollevato per dare loro attenzione.
Sorride del leggero russare di Nanako, interrotto dai borbottii lamentosi che Mimiko si lascia sfuggire nel sonno.
Stanno bene, ripete a sé stesso, stanno bene. Sono al sicuro.
Ma al sicuro da chi? Perchè non avrebbero dovuto esserlo?
È stato solo un sogno, non diverso da quelli che ormai sono una costante routine dell'ultimo mese.
Scuote la testa. Forse è proprio questo a preoccuparlo, perché i suoi sogni non sono normali.
Vorrebbe chiamare Shoko anche questa mattina, ma ha un elenco di motivi per non farlo.
Primo, è lunedì ed entrambi hanno un lavoro.
Secondo, Shoko potrebbe cominciare a vederlo seriamente come una cavia per qualche esperimento sul tronco celebrale.
Terzo, ha un'altra telefonata da fare.

Le ragazze sono scese dal treno il giorno prima con tanto di valigie.
'A casa le cose non vanno... vogliamo stare con te', aveva esordito Nanako.
'Almeno per un pochino', aveva concluso, seguendola a ruota, Mimiko.
Nonostante la bionda, da sempre la più spigliata delle due, avesse iniziato il discorso, gli era bastato uno sguardo per capire come il problema riguardasse l'altra gemella.
Quella timida, dolce, che a sedici anni non riesce a dire addio al peluche preferito.
Mimiko, tanto intelligente, quanto chiusa, introversa, illeggibile.
Gli occhi di Suguru erano scivolati sul vecchio giocattolo stretto dalla ragazza... quante volte aveva rammendato quel pupazzo inquietante, bucandosi le dita?
Gli era bastato un istante per stringersi al petto la sorella, impegnata a fissare il pavimento della banchina della stazione, per evitare il suo sguardo.
Non sapeva ancora cosa fosse successo di preciso, ma avrebbe avuto tempo per indagare.
Nanako si era lanciata nell'abbraccio un attimo dopo.
Respirando il profumo dolce dei loro capelli, aveva cercato la calma, soffocando l'odio per quelle scimmie ignoranti che si rifiuta di chiamare famiglia.

Affonda i piedi nella moquette, guardando dalla finestra la vita che lentamente comincia ad animare la via.
Quella è una telefonata che non ha proprio nessuna voglia di iniziare, quindi cerca di fare il punto della situazione prima di ritrovarsi ad urlare nel suo salotto, spaventando l'anziana del piano di sopra.
È certo che le ospiterà, per tutto il tempo che vorranno.
Tanto il liceo che frequentano è in città. Più vicino al suo appartamento che a quel buco di villaggio dove vivono con la madre e il compagno di questa.
E questa è da sola un'ottima scusa.
Già da un po' sta pensando di procurarsi una sistemazione in grado di ospitare tutti e tre. A quanto pare i tempi si sono solo accorciati.
L'ostacolo più grosso è che le gemelle sono minorenni... quindi deve avvertire a "casa" che la loro permanenza da lui non si sarebbe limitata ad una notte sola.
Stringe il telefono tra le mani, prima di comporre il numero.
Ha cancellato il contatto Casa nel momento in cui le sue sorelle sono state abbastanza grandi da avere un cellulare loro su cui poterle chiamare.
Non che prima i suoi gli permettessero di avere grandi contatti con loro.
Ricorda ancora la frase di suo padre: 'Non voglio che le condizioni, di scherzo della natura ce ne basta uno... '
Questa la risposta quando, dopo pochi mesi essersene andato da casa, aveva chiesto di passare a trovare le bambine.
Compone il numero a memoria, digitando le cifre con la mano sinistra, dato che la destra sembra intenzionata ad essere poco gestibile anche più a lungo del solito. Quasi volesse prolungare il capriccio per attirare la sua attenzione.
Il telefono suona. Una, due, tre volte.
Probabilmente anche la madre ha rimosso il suo contatto, ma lo ricorda suo malgrado.
Se la linea rimane libera, è quasi certo che dall'altro capo ci sia la donna, intenta a riflettere se sia il caso o meno di rispondere al figlio.
Il suo compagno avrebbe buttato giù appena riconosciuto il numero.
"... Suguru?"
La voce all'altro capo conferma le sue supposizioni.
"... Ciao mamma".

La telefonata dura più di un'ora. Ora durante la quale grazie al cielo Nanako e Mimiko non si svegliano.
A vederlo al telefono, la prima avrebbe cercato di intervenire, la seconda sarebbe stata sommersa dai sensi di colpa.
Entrambe le cose sarebbero state estremamente dannose.
Fissa lo schermo del cellulare, il bloccaschermo che ormai si è inserito automaticamente, sentendo ancora la voce della donna rimbombargli in testa.
'Mi hai portato via tuo padre, ora prenditi pure anche loro'.
Questa la frase con cui la madre ha interrotto bruscamente la conversazione, e lui non saprebbe dire se ha portato a casa una vittoria o una semplice tregua, ma ciò che conta è che per il momento le sue sorelle potranno stare da lui.
Per quanto riguarda ciò che è successo a casa, nemmeno la donna è stata chiara. 'Probabilmente Mimiko ha esagerato', 'È solo una ragazzina, avrà frainteso': queste le frasi che è riuscito a strapparle.
Poi, sentendo la rabbia montare, ha smesso di chiedere.
Si sente emotivamente svuotato come non succedeva da anni.
Odia sentirsi così, odia quanto i suoi pensieri possano diventare oscuri in questi momenti.
Si sente freddo, estraneo, lontano.

Il rumore di uno sbadiglio dalla camera lo distrae e fortunatamente basta a portarlo indietro, a farlo sentire più umano e meno come una maledizione in preda alla furia.
Non passa un secondo che una testa bionda cozza contro il suo torace, mentre due braccia magre gli si aggrappano al collo.
Incassa il colpo, perdendo il fiato per un attimo, chiedendosi come possa una ragazzina di sedici anni avere tanta forza.
Mimiko invece esce dalla stanza pochi secondi dopo, trascindando la sua bambola di pezza in una mano e facendogli un piccolo gesto di saluto con l'altra.
Quando Nanako si ricorda di come anche a lui serva ossigeno per vivere, lo lascia andare, per cominciare a sommergerlo di parole.
E domande. Un sacco di domande.
Suguru inclina la testa, guardandole e trattenendo una risata.
Entrambe le ragazze hanno scartato le giacche loro pigiami che conserva in casa per quando passano la notte da lui, preferendo saccheggiare il suo armadio.
Il risultato è... originale.
La bionda indossa una vecchia maglia da concerto over size (già per lui, figurarsi per lei), su un paio di pantaloni dei pokemon, mentre deve essere arrivata direttamente dalla sua adolescenza la t-shirt di Bleach, con un Hollow inquietante stampato in pieno petto, che completa il pigiama della Principessa Selene di Sailor Moon indossato da Mimiko.
Sorride, accarezzando le loro teste, sperando che non si accorgano che non ha sentito una delle loro domande.
"Facciamo i pan cake a colazione?"
Le loro facce si illuminano, poi la discussione tra le due esplode.
"Americani?"
"Nana, no! Sono meglio quelli giapponesi!"
"Abbiamo lo sciroppo d'acero?"
Nanako non ascolta la sorella, aggrappandosi al suo braccio come se dalla presenza di sciroppo d'acero dipendessero le sorti del pianeta.
Scuote la testa, sospirando. Sarà una lunga, lunga, lunga giornata.
Sperando in un paio di minuti di pace, appoggia le mani sulle spalle delle due ragazze, guidandole verso la camera perché si preparino per la scuola, così che lui possa pensare alla colazione.
Sussulta e si allontana come scottato, quando le dita della mano destra si contraggono contro la spalla di Mimiko.

Arriva a scuola in tempo per la seconda ora.
Già la sera prima aveva avvertito Yaga della situazione, chiedendo una sostituzione.
L'uomo, con voce stanca, gli aveva fatto presente che la prima ora la sua classe avrebbe avuto educazione fisica, quindi non sarebbe servita nessuna supplenza.
Gli aveva anche ricordato altro, ma non è che fosse riuscito a sentire molto, visto come era impegnato ad urlare a Nanako di abbassare le casse del suo telefono.
La ragazza aveva ribattuto "Ehi, ma sono i King Gnu", quindi il ritornello di Ichizu* aveva continuato a coprire la voce del preside.
Guarda l'ora, ha sì e no... tre minuti?
Non importa, dopo il suo inizio di giornata si merita davvero un altro caffè.
Alla fine aveva preparato abbastanza pan cake, sia nella versione americana che in quella giapponese, per nutrire una squadra di calcio, cercando di non chiedersi quanto gli convenisse nell'ottica di una convivenza duratura, viziare tanto le sorelle.
Ovviamente era finita con Nanako che si abbuffava di entrambe le versioni e Mimiko che spizzicava pezzi del suo dolce giapponese, mentre lui spiegava ad entrambe come per il momento la madre avesse accettato che restassero con lui.
Aveva stroncato sul nascere la delusione per quel 'per il momento' promettendo ad che avrebbe lavorato per assicurare che potessero rimanere con lui, ma soprattutto tirando fuori dal frigo un cestino di fragole** che Nanami aveva portato in regalo alla sua ultima visita.
E ovviamente si era trovato a spiegare che no, non era come quelle due testoline maliziose pensavano, Nanami era solo un vecchio compagno di università.
Le aveva messe sulla metro, rassicurandole che sarà lì per recuperarle alla stazione il pomeriggio, sentendosi come se un treno, un adorabile treno di pokemon, magliette rubate, pan cake e musica a tutto volume, lo avesse investito.
Lato positivo: non ha avuto il tempo materiale per pensare al sogno. Punto per lui.
Però è al terzo caffè della giornata e non sono nemmeno le dieci. Se muore di attacco cardiaco a nemmeno trent'anni, è decisamente un punto per l'universo.

Si dirige verso la classe, ma si accorge subito che Miguel, il maestro di ginnastica, lo aspetta fuori dalla porta.
"Geto! Ti aspetta Yaga..."
Ah, ecco cosa gli aveva detto di ricordarsi il preside.
Di andare nel suo ufficio per parlare del nuovo bambino che sarebbe arrivato quella mattina.
Si volta e lancia un'occhiata alle spalle di Miguel, verso l'interno della classe.
Strepiti e grida allegre lo travolgono.
Sospira. L' ora di ginnastica lascia sempre i bambini sovraeccitati e iperattivi.
L'altro insegnante gli lancia uno sguardo esasperato, che fa a pugni con il ghigno che gli storce il viso.
"Posso trattenerli ancora dieci minuti".
Gli sorride furbo, dandogli le spalle. "Rimani vivo".
Mentre cammina verso l'ufficio di Yaga sente l'uomo rimbeccarlo ancora una volta.
"Se muoio tornerò dall'altretomba per tormentati, Geto!"

Entra nell'ufficio, trovando il preside seduto intento a sfogliare una cartella di fogli, mentre un bimbo dai capelli corvini, che davvero ricordano tanto un riccio di mare, fa dondolare le gambe da una delle sedie piazzate di fronte alla scrivania.
"Oh Geto, ben arrivato", esordisce Yaga.
Il ragazzino si gira verso di lui, guardandolo con occhi annoiati. O minacciosi, non saprebbe dire.
La sedia al fianco, quella che dovrebbe essere destinata al genitore, è vuota.
"Lui è... "
Il preside parla, ma lui non ascolta.
Sente passi alle sue spalle, attirano la sua attenzione. Passi seguiti a ruota da una voce.
"Buongiorno! Lei deve essere il nuovo insegnante di Megumi-Chan... "
Una voce che conosce, ma non riesce a ricordare dove può averla sentita.
Si gira e il terreno gli crolla sotto i piedi.
Il tempo pare andare a rallentatore, mentre l'uomo sorridendo si fa strada verso di lui.
Alto, occhiali da sole posati sui capelli bianchi.
Occhi azzurri.
I più azzurri che abbia mai visto.
Almeno fuori dai suoi sogni.

"Sono il tutore, Gojo Satoru".



* Ichizu, King Gnu: brano presente nella colonna sonora del film "Jujustu Kaisen 0".
**  Curiosità: la frutta può costare veramente molto in Giappone ed è usanza portala come presente quando ci si reca a casa di amici.


Ed sono arrivati anche Gojo e Megumi, versione baby.
In questo capitolo ho inserito anche Mimiko e Nanako, nei prossimi chiarirò pian piano il background famigliare di Geto e quelle che qui sono le sue sorelle.
Spero che il capitolo piaccia, scusate i tempi biblici per aggiornare.
Un abbraccio.

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Capitolo 3
*** Satoru ***


"Santo cielo, non ti sopporto..."
"Non è che tu sia molto credibile in questo momento".
Solleva una gamba di Iori sulla spalla, sorridendo tra sé quando la donna nel suo letto inarca la schiena, affondando le unghie nelle lenzuola.
"Sei sempre fottutamente pieno di te..."
"Assolutamente..."
"E arrogante!"
"Probabile..."
Rallenta le spinte, quasi si ferma. Prende respiro, godendosi il momento in cui l'espressione di Utahime passa da sgomenta a irritata. Decisamente irritata.
"Cosa diamine stai facendo, Satoru?", sbotta, lanciandogli un'occhiata furiosa.
È paonazza, la vecchia cicatrice che le attraversa la guancia tende al fucsia e la voce è quasi stridula.
È evidente che stia valutando l'ipotesi di tirargli un pugno in faccia.
"Ti lascio il tempo di finire il discorso, sembrava importante".
"Idiota, ti va bene..."
Esce dalla donna, ignorando il gemito di esasperazione e i nuovi, fantasiosi, insulti che comincia a lanciargli.
Con una delicatezza che spesso si dimentica di avere con i partner uomini, la gira, premendo la sua schiena contro il proprio torace, mentre riprende a muoversi.
"Stavi dicendo?", la stuzzica, saggiando le acque ad un ritmo dolorosamente lento.
"... Ti va bene che mi piace come scopi, Satoru".
"Non l'avrei mai detto", soffia, fingendo un tono sorpreso.
"Ma se non ti decidi a fare sul serio potrei ucciderti... ", sbuffa lei, lasciando andare la testa contro la sua spalla.
Gojo ride contro la conchiglia dell'orecchio della donna.
"Allora mi toccherà essere un pochino rude".

Esce sul balcone, due bicchieri in mano. Passa quello di vino ad Utahime e tiene quello d'acqua per sé.
"Lo sai che puoi restare vero? Ti cedo il letto, io dormirò sul divano...", propone.
"Come all'università?", ghigna la ragazza di rimando.
"Però ora cambio le lenzuola", specifica, incredibilmente fiero di sé e dell'espressione stupita di Utahime, "qualcuno ha preso l'abitudine a farmi da sveglia umana, lanciandosi nel lettone alle sette di mattina".
Lei ride, ma scuote la testa, mentre prende una sorso dal bicchiere.
"Non voglio passare la prossima seduta con Megumi ad inventarmi scuse sul perché la sua psicologa fosse a casa sua per la colazione".
"Ehi, chi ha parlato di colazione?"
Il pugno che gli arriva sul braccio non lo sorprende, sa di esserselo meritato.
Iori si appoggia al parapetto, lo sguardo di nuovo perso sulle luci di Tokyo.
"Non l'abbiamo svegliato, vero?"
"Tranquilla, dorme come un sasso...", la rassicura.
La donna gli rivolge un piccolo sorriso, addolcendo lo sguardo.
"Non voglio aggiungere nuovi traumi a quelli che gli procura avere te come tutore", canticchia con il tono più saccente che riesce a tirare fuori.
"Sono un ottimo tutore!", risponde indignato o almeno cercando di sembrarlo.
"Certo. Dimmi quando sarà la prossima seduta, e senza guardare l'agenda!"
Gli ruba di mano il telefono, prima che possa riuscire ad aprire l'app del calendario.
"Mercoledì?", tenta.
Sì, sicuramente. Ne è certo. Forse.
"Giovedì", lo corregge, alzando gli occhi al cielo, ma trattenendo un mezzo sorriso.
"La prossima seduta è giovedì? Bene, potrà raccontarti dei primi giorni nella nuova scuola..."
Annuisce seria, prima di tornare a perdersi nel cielo della metropoli.

È Iori ad interrompere il confortante silenzio tra loro, guardandolo mentre gira tra le mani il bicchiere vuoto.
"Sei preoccupato?"
Inspira, senza togliere lo sguardo dal fondo di vetro.
"È una novità. Sai bene come le novità non lo facciano impazzire..."
"Hai parlato con il nuovo insegnante?"
"No, me lo presenterà domani il preside".
Sente la mano della donna posarsi sulla sua spalla e dare una stretta rassicurante.
"Megumi è un ragazzino speciale, andrà bene..."
Si ferma, come se valutasse quello che sta per dire. Poi, dopo un breve silenzio, aggiunge: "Con lui è veramente impossibile essere professionali e non affezionarsi..."
Gojo si volta stupito verso di lei, non ha mai sentito la donna mettere in dubbio la sua professionalità.
Beh, chiunque penserebbe che già andare a letto con il tutore di un paziente non lo sia molto, ma quello è iniziato molto prima.
Un passatempo dai ritmi altalenanti e innocuo per i momenti in cui entrambi sono single, cosa che capita molto spesso nel suo caso, o con il cuore spezzato, come succede molto più di frequente a Iori.
Non è bravo a rassicurare, o ad avere una qualsiasi reazione normale nel rapporto con il prossimo, o almeno così direbbe la quasi totalità delle sue conoscenze, quindi la risolve come gli viene più naturale: mettendo su il suo sorriso più fastidioso, preparandosi a dire qualcosa di incredibilmente stupido.
"E con me no?"
La donna sbuffa.
"Lui è mio paziente, tu la puttana bisessuale che conosco da un decennio..."
Lo guarda storto, ruotando gli occhi davanti al suo sguardo esageratamente triste e offeso.
Sa di essere poco credibile, ma Utahime ci casca da sempre.
"Certo che sono affezionata a te, sei mio amico..."
Fregata, punto per me, pensa senza smettere di fingersi ferito.
"Mi hai appena definito puttana".
"Perché lo sei!"
"Sì, lo sono", ammette con uno sbuffo che fa ridacchiare la ragazza.
Si stringe il mento tra le dita, fingendosi pensieroso.
"Effettivamente potresti pagarmi..."
"Prego?".
Le lancia un braccio sulla spalla, tirandosela contro e guadagnandosi una gomitata.
"O almeno farmi sconti sulle sedute di Megumi... "
"Gojo!"

Il cielo sopra di lui è tinto delle tonalità dell'alba. La prima luce si posa sulle macerie della scuola, nel silenzio pieno di pace di quella mattina di fine dicembre.
Questo posto...
Lui non è mai stato qui, eppure si muove tra i vicoli devastati come se fosse a casa sua.
Lo ricorda. Sa anche che lo ricostruiranno.
Anche io ho sanguinato su questo selciato, con la gola tagliata e il petto squarciato. Eppure sono ancora qui .
È un pensiero illogico, è un pensiero che non capisce, quindi lo accantona.
Hanno vinto, lo sa.
Sia a Tokyo che a Kyoto le maledizioni sguinzagliate sono state esorcizzate. Gli stregoni feriti, dove possibile, curati.
Nessun civile è stato coinvolto.
Maledizioni, stregoni? Non fa tempo a chiedersi il senso di quelle parole nella sua testa che sente, sente lui.
È vicino ed è debole, molto.
Probabilmente è in fin di vita.
Di colpo i suoi piedi sono come macigni, vorrebbe andare via, ma una determinazione, forse la più forte provata in vita sua, lo spinge a fare un passo e un altro ancora.
Sa che lo dovrà uccidere e che questa volta non potrà evitarlo.
Non deve camminare molto per trovare Suguru Geto.

"Sei arrivato tardi, Satoru"

"Satoru..."

"Ehi! Satoru!"

"Svegliati Satoru!"
L'ossigeno viene strappato via di colpo dai suoi polmoni.
Cerca di prendere fiato, ma un peso sul torace glielo impedisce.
Apre un occhio. Un volto pallido, circondato da un'aureola di capelli nerissimi e spettinati, riempie il suo campo visivo.
Sopracciglia agrottate, occhi stretti, espressione aggressiva. Troppo aggressiva per qualcuno che ha addosso un pigiama de Il mio amico Totoro e sa da sì e no due mesi allacciarsi le scarpe.
"Buongiorno Megumi", sputa fuori, per quanto il sonno e la mancanza di ossigeno gli permettano di parlare.
Gira la testa verso l'orologio abbandonato sul comodino. Ovviamente sono le sette precise.
Cosa serve una sveglia quando hai in casa un bambino di sei anni pronto a piantarti le ginocchia nello sterno?
Megumi puntella le mani sul suo torace e fa leva sulle braccia per ripiombargli addosso, finendo per sbilanciarsi.
Di colpo completamente sveglio, Gojo lo afferra prima che possa perdere l'equilibrio e prendere una testata.
Non passa un secondo, che il bambino è di nuovo appollaiato sul suo stomaco.
A quanto pare, aver evitato una gita al pronto soccorso ad entrambi, non lo rende degno di misericordia.
Si chiede quanto può essere poco dignitoso chiedere pietà a qualcuno che non raggiunge il metro e venti.
Prova a richiudere un secondo gli occhi, cercando leve per corrompere quella peste, perché lo lasci dormire ancora cinque minuti.
I modi ci sono, deve solo attivare il cervello e far mente locale, ma immediate le dita cicciotte di Megumi sono sul suo viso, impegnate in un tentativo maldestro di aprirgli la palpebra. Maldestro e terribilmente pericoloso per i suoi occhi.
"Satoru dobbiamo andare a scuola", insiste, spostando le mani sulle sue guance.
"Se non ti alzerai, arriviamo in ritardo..."
Si arrende, non ha senso continuare a tentare. Solleva il ragazzino tra le braccia, mettendosi seduto a gambe incrociate e piazzandolo di fronte a lui.
"Ritenta cucciolo..."
"Arriveremo?", azzarda Megumi, spostandosi sul lato del letto e lasciando ciondolare le gambe dal bordo.
"Meglio... ora perché non cominci ad andare in cucina, ti raggiungo".
Il bambino gli lancia un'occhiata piena di sospetto, valutando le possibilità, davvero? A sei anni? pensa Satoru, concludendo che sì, quel demonietto ne sarebbe capace, che lui torni a dormire ora che ha riacquistato la capacità di respirare normalmente.
A quanto pare decide di potersi fidare, visto che, serio, compito e incredibilmente buffo scende dal letto per trotterellare via.
Recupera il suo peluche a forma di cane, lasciato ad attendere fuori dalla porta della stanza come se fosse vero e Satoru avesse una qualche forma di allergia al pelo di animale.
Solo in quel momento l'uomo realizza: quella mattina Megumi ha scelto il lupetto nero.

Ti prego, no, implora a tutte le divinità che riesce ad elencare nella sua mente.
Ha dormito malissimo, perseguitato dai soliti sogni senza senso.
È lunedì mattina.
Non è davvero pronto per il lupetto nero.
Non se lo merita.
È un pessimo auspicio, segno di cattivo umore, capricci e tragedie da regina del dramma pronte ad esplodere dietro l'angolo.
Sbuffa, lasciandosi ricadere sul letto.
A quanto pare aveva ragione a dire a Iori che Megumi non ama i cambiamenti.
Rimpiange il pupazzo gemello, il cane bianco, abbandonato chissà dove per casa.
Deve ammettere però che lo stratagemma dei peluche si sta rivelato dannatamente utile.
Nè lui nè Megumi sono campioni di comunicazione. È stata Utahime, in una delle sedute iniziate ormai da tre anni, a proporre di utilizzare questo metodo.
Peluche bianco, Megumi felice. Peluche nero, Megumi triste.
Peccato che la donna non abbia aggiunto alla spiegazione "ore da incubo per Gojo".
Affidarsi a lei una volta iniziata l'avventura da tutore è stata una delle scelte più azzeccate della sua vita, non fatica a riconoscere che è fantastica con Megumi.
Si stiracchia, sbadigliando. Iori forse potrebbe dargli una mano anche con i sogni che lo tormentano da un paio di mesi?
No, finirebbe solo per farsi insultare.

Arriva fino in bagno, apre l'acqua della doccia e ci si fionda sotto. Spera serva prima di tutto a svegliarlo, in secondo luogo a fare chiarezza sulla notte precedente.
Lo sogna, ma non lo vede mai direttamente. A volte sente la sua voce, altre sa che è vicino.
Ogni tanto invece, deve trovarlo.
A volte amico, a volte nemico, a volte... non lo saprebbe dire.
La costante di quei sogni è sempre e solo una, quel nome chiaro stampato in mente:
Suguru Geto.
Il problema però è che in trent'anni di vita non ha conosciuto nessun Suguru Geto.
Lo sa per certo, ha controllato.
Dagli annuari di scuola a quelli dell'università, ma non solo.
Nell'ultimo mese ha scorso le rubriche di tre diversi vecchi telefoni, compreso l'esemplare cartaceo di quando era al liceo.
Ha ripassato mentalmente decine e decine di nomi, dai colleghi incontrati durante lavori saltuari ai tempi dell'università, fino agli amici, degli amici, degli amici.
Ha pure chiesto a sua madre se qualche lontano cugino porti quel nome, ma no.
Nulla.
Ma nei suoi sogni esiste, è dannatamente reale, e Satoru sa praticamente tutto di lui.
Sogna di essere solo un liceale? O qualcosa di simile, considerata la divisa nera che indossa.
Bene, sa che le caramelle al limone o allo zenzero le deve tenere da parte per lui. Per il suo stomaco.
Quindi lo conosce abbastanza da sapere che il ragazzo ha problemi di alimentazione.
Se nel sogno si vede un elastico al polso, sa che non è suo, ma di Suguru. Che quindi ha i capelli lunghi.
E a quanto pare almeno in sogno lui tiene abbastanza a questo sconosciuto, da sapere che gli danno fastidio sciolti e da essere pronto in caso si trovi senza.
Sogna una mano che gli accarezza i capelli per calmare le sue emicranie? Sa che è di Geto da quale recondito angolo della mia mente vieni Suguru.
Quello che non conosce è che faccia abbia e tutto ciò sta cominciando a diventare snervante.
Non riesce a ricordarla, ma vorrebbe. Anzi, sente che dovrebbe ricordare.

La cosa peggiora nei sogni in cui è adulto. Come quello della notte precedente.
Perché se è evidente che nei giretti onirici in cui si trasforma in un adolescente, lui sia dannatamente cotto di questo benedetto Suguru, negli altri, in quelli in cui è un adulto, sono distanti. Lontani.
E fa male.
Fa così tanto male da essere un dolore quasi fisico.
Poi ci sono altri sogni, ancora meno chiari, e sono tremendi. Una tortura.
Sono quelli che al risveglio lo lasciano tremante e incapace di riaddormentarsi. La testa sepolta nelle mani, a ripetersi che non è reale.
A differenza degli altri casi, che la mattina gli lasciano il ricordo di nomi di persone sconosciute e assurdità come 'maledizioni' o 'dominio', nulla è chiaro.
Solitudine, buio, pareti strette attorno a lui. La costante sensazione di essere sul punto di impazzire.
Esce dalla doccia, chiedendosi se davvero può essere il caso, almeno per questi, di parlare con il suo di terapista.

"Suguru Geto", chiede allo specchio, passandosi una mano sul viso. "Chi diavolo sei?"




Sarò sincera, più o meno è andata così:
"Potrei iniziare il capitolo con un sogno... "
"Gojo..."
"Cervello, ancora tu? Beh, avevi la mia curiosità, ora hai il mio interesse. Cambiamo pov, scriviamo un momento di riflessione..."
"Nudo".
"...Però non è che possiamo iniziare sempre con..."
"Fallo scopa'..."
"Cervello perché parli come i produttori di Boris?"
"..."
"Così. De botto, senza senso"?
"SI!"

Scherzi a parte, l'idea qui era di contribuire alla caratterizzazione di Gojo, (Ps. Ditemi che non sono l'unica che ha avuto un mancamento quando Gojo se ne è uscito con quella frase, sull'essere un pochino più rude, prima di devastare una foresta con purple), che è un po' il fulcro di questo capitolo.
Detto questo, pensavo di arrivare ad un altro punto con questo capitolo, ovvero il momento in cui incontra Suguru, ma mi sono persa su baby Megumi, quindi ho pensato di dividerlo. Lato positivo: il capitolo quattro è quasi tutto scritto, non dovrebbe uscire tra molto.
Un abbraccio

Sì, il titolo è cambiato. Cambierà ancora, quando la storia prenderà la svolta che deve, ma niente spoiler! 😅

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Capitolo 4
*** Curse me a little at the end... ***


Non deve nemmeno entrare in cucina, gli basta una rapida occhiata dal quadro della porta.
Il lupetto nero lo aspetta sul tavolo della colazione, con il suo tenero musetto portatore di guai e catastrofi.
Sbuffa, quel peluche è in cima alla sua lista dei nemici, perché sì, è abbastanza infantile da averne una.
Megumi lo ha posizionato rigorosamente al fianco della sua tazza per i cereali, prima di cominciare a frugare in frigo, in bilico sulle punte dei piedi nel tentativo di arrivare al ripiano dove si trova il latte.
Gojo entra in cucina, appoggiandosi al tavolo, fingendo un'aria distratta e vaga, senza perdere l'occasione di dare un colpetto tra le orecchie del peluche, solo per il gusto di vederlo sbattere la testolina sul tavolo.
"Ehi, vuoi una mano?", chiede abbassando lo sguardo sul bambino.
Non è stupido, può vedere chiaramente come al piccolo serva decisamente un aiuto, ma sa anche bene quanto sia orgoglioso.
Per tutta risposta Megumi si volta appena, fulminandolo con lo sguardo mentre puntella il piede sul primo ripiano dell'elettrodomestico per darsi una spinta verso l'alto.
Gojo nasconde gli occhi nel palmo della mano, aspettando il prevedibile tonfo della caduta. A quanto pare il rischio di finire al pronto soccorso non è ancora del tutto sventato.

Una tazza di latte, abbastanza cereali al cioccolato da far venir mal di testa a qualsiasi dentista, un paio di merendine e diversi minuti di trattative sull'ultimo gioco dei pokemon (seriamente? Ha comprato "Diamante" un paio di mesi fa e ora deve mettersi in coda per "Scarlatto"?) dopo, Satoru assicura un sorridente Megumi al seggiolino della bici con tra le braccia il peluche bianco.
Vittoria, gongola, mentre dà l'ennesima sistemata alla sciarpa e al berretto del bambino.
Inclinando il capo, osserva la sua opera: praticamente ora può vedere solo gli occhi e la frangia spettinata spuntare tra gli strati di lana e felpa.
L'aria frizzante della mattina gli riempie le narici, pizzica il naso e apre i polmoni e Gojo sente montare un certo buonumore, mentre comincia a pedalare con lo zainetto di Megumi in spalla.
Il cielo su Tokyo, fatto di ritagli azzurri tra i cavi dell'elettricità, è sereno. La spolverata di neve della mattina precedente giusto un ricordo.
Nonostante il bel tempo, l'entusiasmo dura poco, pochissimo. Si spegne quando si rende conto di essere sul filo del rasoio per il treno.
Si accorge presto di come 'sul filo del rasoio' si stia velocemente trasformando in 'ritardo quasi drammatico', quando lascia la bici davanti alla stazione di Shibuya.
Sistema lo zainetto sulle spalle del bambino, prima di prenderlo in braccio e iniziare a correre, lanciando un'occhiata veloce all'orologio.
Sbuffa, mancano cinque minuti al treno, possono farcela.

Il binario è affollato e Gojo può sentire chiaramente il disagio del ragazzino, una mano aggrappata alla manica della sua giacca e l'altra intenta a stritolare la zampetta del peluche.
"Ehi, vuoi venire in braccio?", prova a chiedere, pur prevedendo la risposta.
Megumi lo guarda torvo, prima di far segno di no.
Piccolo testone orgoglioso, pensa Satoru, trattenendosi dal roteare gli occhi troppo platealmente.
Non riesce però a trattenere un piccolo sorriso quando sente le dita, prima agganciate alla sua giacca, cercare la sua mano.
Le stringe, mentre lancia un'occhiata al tabellone degli arrivi. Finalmente sente di poter tirare un respiro di sollievo: manca un minuto.
All'improvviso qualcosa cambia, come se l'aria attorno si fosse fatta più fredda. È come una sensazione, un brivido che scivola e avvolge le sue ossa.
Un senso di inquietudine che lo assale sempre più forte, quasi gli rimbomba in testa e guida il suo sguardo, mentre gli occhi scivolano lenti tra la folla in attesa del treno.
Un ragazzo lo sta guardando. È pallido, estremamente. La pelle più simile al grigio che a qualsiasi altra tonalità, così come i capelli, quasi azzurrognoli, lunghi e lasciati in liberi di cadere in ciocche unte sulle spalle.
Tutto in lui sembra malato, marcio. Ricorda il puzzo di un frutto troppo maturo lasciato al sole.
Grottesco.
Solo in un secondo momento Gojo, distratto come è stato dal senso di disagio, nota un altro particolare: l'uomo è coperto di cicatrici.
Ma non sono normali, sembrano cuciture, percorrono le braccia, scoperte nonostante il freddo, attraversano il suo viso. Lo rendono simile più ad una bambola di pezza fuori misura che ad una persona, è come rattoppato.
Un tremito corre sulla pelle, penetra le ossa, tende i nervi di Gojo, mentre stringe più forte la mano di Megumi, ma non è paura. È disgusto.
Più simile alla nausea e quasi gli attanaglia la gola, bloccandogli il respiro.
Ed è a quel punto che il ragazzo sorride.
Un sorriso infantile che stona così tanto da parere una dissonanza.

Rattoppato, risuona una voce nella sua testa.

Questo deve essere il rattoppato... , ripete ancora quella voce che ora sembra tanto simile alla sua, come sentire un vecchio vocale registrato sulla memoria del telefonino.

"Questo..."

"Questo è il nostro treno, Satoru!"
Abbassa lo sguardo verso Megumi, attirato dal richiamo del bambino. Quando lo rialza il ragazzo è sparito.
Scuote la testa. Probabilmente si sarà trattato solo un comune senza tetto, il resto tutto lavoro di fantasia della sua mente priva di sonno.
"Satoru, aspetta... ", sente appena, ma lo sferragliare del treno sui binari copre il resto della frase.
Le porte si aprono e fa un passo per entrare.
Improvvisamente, non sente più la mano del piccolo nella sua.
È un attimo. Nel tempo che impiega a voltarsi, le immagini attorno a lui cominciano a scorrere a rallentatore.
Vede il peluche a terra sulla banchina.
Poi Megumi che, sfuggito alla sua presa, scende dal vagone per raccoglierlo e, mentre stringe il lupetto tra le mani, gli sorride.
Gojo sente come se il suo stesso corpo fosse frenato. Trattiene il fiato, l'aria attorno a lui come risucchiata.
Le porte si chiudono con un fischio, mentre il sorriso sul viso del piccolo si trasforma in un'espressione prima sorpresa, poi spaventata.
Quando finalmente il tempo decide di riprendere a scorrere a scorrere, Satoru si lancia contro le porte, il palmo della mano che preme frenetico il pulsante di apertura, ma il treno sta già partendo.
E Megumi è su quel maledetto binario.
Da solo.
Sbatte le mani contro il vetro del finestrino facendogli segno che rimanga lì, che non si muova. Cerca di sorridergli, di non farsi vedere spaventato.
Non può fare altro per evitare che Megumi si faccia prendere dal panico, mentre il mezzo è quasi sul punto di entrare nella galleria della metro.
Prima che il vagone abbandoni il binario, ormai svuotato e pronto a riempirsi di nuovi passeggeri, vede ancora il rattoppato, guardare verso di lui.
La testa in una posizione innaturale, impossibile. Impossibile per chiunque sia vivo.
O umano.

Deve rimanere calmo. Deve analizzare la situazione. È bravo in questo.
Alza lo sguardo verso lo schermo che elenca le fermate del treno. La prossima è  a cinque minuti.
Scenderà, tornerà da Megumi.
Abbassa gli occhi sul finestrino davanti a lui, il buio dell'interno della galleria gli sfreccia di fronte. Tutto uguale, quasi claustrofobico, riflette la sua immagine.
Un breve scorcio di città interrompe il nero sporco dei mattoni, prima che l'oscurità torni a soffocarlo.
Quasi fa un salto indietro quando il suo riflesso riappare.
È il suo, ma il volto che lo fissa è deformato da sei spettrali occhi azzurri.
Sta per tirare un urlo, chiedendosi in quale momento Tokyo si sia trasformata nel set del suo personale film horror, quando il suo telefono suona, facendolo sobbalzare ancora una volta.
Un numero sconosciuto sta chiamando il suo contatto di whatapp.
Risponde, titubante.
"Parlo con Gojo Satoru?", chiede una voce femminile all'altro capo.
"Sì, sono io... "
"Sono qui con Megumi..."
"L'hai rapito?", butta fuori stridulo, portando una mano alla bocca, mentre trattiene il fiato.
"Decisamente no, tu l'hai abbandonato sul binario?", risponde la donna, tra lo scocciato e l'ironico.
"No! Certo che no!", scatta.
"Bene, allora che ne dici se la smettiamo con le domande idiote?"
Allontana la cornetta dall'orecchio e lancia un'occhiata storta al cellulare. Chiunque sia la persona con cui sta parlando, andrebbe d'accordo con Utahime.
"... c'era questo numero sullo zainetto. E sul peluche. E da quanto mi sta facendo vedere il bambino, nell'interno del cappuccio", continua la donna e Satoru può chiaramente sentire come si stia trattenendo dal scoppiare a ridere.
Effettivamente potrebbe aver esagerato nel segnare contatti d'emergenza sui capi di Megumi. Potrebbe.
"Posso lasciarti il piccolo ostaggio alla prossima fermata?"
Annuisce, cercando di ignorare il termine 'ostaggio', prima di ricordarsi che la sua interlocutrice non può vederlo.
La sente sbuffare. "Lo prendo come un sì".
La telefonata si chiude e lui rimane qualche istante a fissare lo schermo ora scuro, del cellulare.
Sì, conclude, chiunque sia quella donna andrebbe decisamente d'accordo con Utahime, ma non può negare di sentirsi in qualche modo rasserenato.
Il suo riflesso lo guarda dal vetro del finestrino. Due soli occhi questa volta, ma decisamente stanchi, ricambiano il suo sguardo.

Quando il treno ferma ad Harajuku*, Gojo salta sulla banchina. Il jumpscare che il suo cervello gli ha gentilmente offerto già dimenticato, soffocato dall'ansia di vedere Megumi.
Secondo il tabellone mancano meno di cinque minuti all'arrivo del prossimo treno, quello su cui quello che è, almeno legalmente, praticamente suo figlio è senza di lui e con una perfetta estranea.
"Sono un tutore fantastico", borbotta, scimmiottando se stesso e la boria dimostrata la sera prima con Utahime, mentre mani in tasca, fa rotolare sotto il piede una cartaccia. Probabilmente l'unica su tutto il binario.
Decide che è meglio ingannare l'attesa elencando nella sua mente tutti gli incidenti che potrebbero capitare come no a quel maledetto peluche, evidente unico colpevole della situazione.
Il treno arriva mentre lui sta pensando a quanti danni, possibilmente non letali dato che quel maledetto giocattolo gli serve, possano fare uno o più giri in lavatrice a 90 gradi.
I suoi occhi cadono sulle mani e sulla fronte di Megumi, schiacciate contro il vetro, prima che il vagone sia fermo sul binario.
Quello che sembra un decennio dopo, sta stringendo il bambino, sollevandolo in un abbraccio stritolaossa e ignorando ogni suo lamento imbarazzato.
Tende le braccia, sostenendolo sotto ascelle, per avere una visuale completa su eventuali ferite, almeno per quanto glielo permetta il giubbotto imbottito in cui l'ha fasciato. Megumi quasi scalcia per protesta, mentre Gojo cerca di ignorare come il suo cervello gli mandi indietro l'immagine di un gattino arruffato, per concentrarsi nella ricerca di eventuali danni.
Tutto, dal loro arrivo in stazione, è stato troppo inquietante perché possa darlo per scontato.
Quando è certo che stia bene, lo riposa a terra, ridacchiando mentre lo guarda affondare nella sciarpa per nascondere le guance rosse per l'imbarazzo.
Solo allora, sbuffando una mezza risata, alza gli occhi verso la donna.
"Grazie", sussurra e subito sente un piccolo corto circuito, un pensiero che si radica nella sua mente: lui l'ha già vista.
La osserva. La figura snella avvolta in un cappotto chiaro, capelli scuri su un volto diafano e segnato da occhiaie profonde.
Un trucco leggero e frettoloso, ma non sciatto, le rende gli occhi castani più evidenti.
Stringe una sigaretta tra le dita, pronta per essere accesa fuori dalla stazione.
È elegante, bella in una maniera non comune, affascinante anche solo per l'aria di stanchezza cronica che pare portarsi dietro.
Si ricorderebbe di una persona così. Eppure, quella sensazione non lo abbandona. Una strana familiarità che non riesce a spiegarsi.
"Ho pensato non fosse normale un ragazzino di cinque anni da solo sul binario della stazione più affollata di Tokyo... ", risponde lei.
La voce della donna lo riscuote, interrompendo il suo flusso mentale.
"Ehi, ne ho sei!", protesta Megumi sbucando dalla sciarpa e ricordando a Gojo che bestiolina indisponente possa essere.
"Dai ringrazia la signora...", lo incoraggia.
Il bambino arrossisce, il cipiglio cocciuto intento a fissare le proprie punte dei piedi.
"Grazie... anche per avermi aiutato a pulire il mio peluche", borbotta.
Gojo si accorge solo ora di come Megumi stringa un pacchetto di salviette in mano.
"È stato un piacere, non farti più abbandonare, eh?", scherza la donna, dando un leggero buffetto al bambino.
Satoru rotea gli occhi cercando di non intenerirsi troppo, poi si ferma, indeciso se chiedere. Non può averlo notato solo lui.
"Ehi, hai visto qualcuno sul binario?"
"... mi stai seriamente chiedendo se ho visto qualcuno sul binario della stazione più affollata del mondo?", sbuffa lei, trattenendo un ghigno.
Eccola lì, la strana familiarità che non riesce a spiegarsi. Qualcosa che lo fa sentire come se potesse scherzare, ridere, come se si potesse fidare di quella sconosciuta.
Vorrebbe fare una descrizione del tizio sfregiato del binario, ma si rende conto di rischiare di sembrare più strambo di lui, quindi lascia perdere.
"Scusa, non ti ho nemmeno chiesto come tu chiami... ", dice invece.
"Shoko. Ieiri Shoko".

Non gli sembra vero, quando finalmente sono nei corridoi della scuola, davanti al preside.
Con il suo metro e novanta, Gojo deve comunque alzare la testa di qualche centimetro, per incrociare lo sguardo dell'uomo, leggermente più alto di lui e largo il doppio.
Che diamine ci fa un maledetto Navy Seal in una scuola elementare?, si chiede, mentre l'energumeno di fronte a lui fa un passo indietro e tende la mano.
"Sono Masamichi Yaga, il preside. Lei è?"
Sente chiaramente Megumi stritolare le sue dita.
Lancia un'occhiata furtiva al bambino e quasi gli scappa da ridere.
Il piccolo è evidentemente indeciso tra nascondersi dietro le sue gambe o mantenere il contatto visivo con l'insegnante, come se volesse studiarlo. O come se pensasse di rendersi invisibile rimanendo fermo.
Gojo ride, pensando se sia il caso di spiegare a Megumi che quello non è un t-rex e in ogni caso quelle di Jurassic park sono leggende metropolitane.
Che stessi fermo o no, le tue probabilità di essere mangiato da un tirannosauro non cambiavano.
"Sono Gojo Satoru, ho appuntamento per l'inserimento di Fugushiro Megumi".
"Mezz'ora fa...", puntualizza con tono stanco l'uomo di fronte a lui.
"Mezz'ora fa...", ammette in risposta, senza cedere un millimetro, mentre il preside lo squadra da capo a piedi quasi come se fosse un suo alunno.
È evidente che quello che ha davanti non gli piace, Satoru può vedere chiaramente la vena sul collo del preside pulsare.
Ha preso tutta la giornata a lavoro, sia mai che Megumi abbia una crisi di nervi e lui debba recuperarlo, quindi non è che sia esattamente in completo.
Fa mente locale del suo abbigliamento, composto dalla felpa più calda che abbia trovato in casa, che si dà il caso sia rosa, jeans un po' troppo corti alle caviglie per essere suoi (Entra nei mom jeans di Utahime? Davvero? ), all stars alte e giaccone.
Sembro un cavolo di quindicenne, conclude, passandosi una mano tra i capelli.
E deve pensarlo anche il preside, anche se quello che pare davvero insospettire l'uomo sembrano essere gli occhiali da sole, ancora fermi sul ponte del suo naso.
Li tira su e posa sopra i capelli, strizzando gli occhi per l'immediata sovrastimolazione del suo nervo ottico.
"Tra poco dovrebbe arrivare l'insegnante, accomodatevi nell'ufficio", lo informa Yaga, con il tono di chi non vede l'ora di liberarsi di lui.
"Fantastico", sospira, non è l'unico in ritardo.
"Satoru?", si sente chiamare. Abbassa lo sguardo verso Megumi, accovacciato a terra a rovistare nello zaino.
"Satoru abbiamo dimenticato l'acqua...", lo rimbecca il bambino, mentre comincia a lottare per liberarsi della sciarpa.
"Scusi, c'è un macchinetta?.. posso lasciare Megumi-Chan con lei?", chiede, ricevendo in risposta un 'vada' masticato tra i denti e un cenno della mano.
Mentre si allontana, Satoru si domanda quando sia diventato alunno di quell'armadio a due ante. Prima di girare l'angolo e assicuratosi che l'uomo sia entrato nell'ufficio, si volta per fargli una linguaccia con tanto di dito medio alzato.

"Buongiorno! Lei deve essere il nuovo insegnante di Megumi-Chan... ", esordisce, mentre rientra nell'ufficio.
Lo nota immediatamente: un uomo alto, quasi quanto lui, con i capelli neri legati sulla nuca, gli da le spalle.
Profuma di caffè. Un po' anche di sigaretta. A lui non fa impazzire il caffè, tanto meno il fumo, ma quell'odore si abbina bene alla camicia bianca e alla crocchia di capelli corvini.
"Sono Gojo Satoru, il tutore", continua, ormai distratto.
L'altro si volta ed è... è letteralmente l'uomo più bello che abbia mai visto.
Sembra arrivare da un'altra era, forse da un'altra vita.
Un po' gli spiace essere conciato come un quindicenne, ma pensa di avere tutto il tempo per scoprire quali suoi vestiti possano piacere al ragazzo che ha di fronte, perché sta per chiamare Utahime e dirle di trovarsi un altro vibratore umano, che lui ha appena deciso di sposarsi con questo insegnante.
Qualcosa però non va, il ragazzo lo guarda come se fosse un fantasma.
Ad un certo punto quasi barcolla e lui deve resistere all'impulso di sostenerlo.
"Satoru...." ripete l'uomo, incrociando il suo sguardo e guardandolo come se lo avesse riconosciuto, come se lui fosse qualcuno del suo passato.
Ma lui non ha proprio idea di chi sia. Se lo ricorderebbe.
È la seconda volta che ha questa sensazione in una sola mattina, ma questa volta è diverso. È più radicato, struggente e aumenta ad ogni respiro.
Non un semplice e spontaneo dejavù, somiglia più ad una strana nostalgia?
Come tornare a casa, senza aver la certezza di poter restare.
Come far pace un istante prima di salutarsi, senza sapere se sarà davvero solo un arrivederci.
Come sentirlo ridere dopo dieci anni, prima di dire addio.
Ha una strana stretta allo stomaco a questo pensiero, illogico ed estraneo, e quasi sente come se gli dovesse venire da piangere. Ma come si può avere nostalgia quando non si ha ancora vissuto nulla con una persona?
Come si può aver nostalgia di qualcosa che non si ha vissuto?

Si stropiccia gli occhi con le dita, cercando di scacciare la sua solita emicrania che arriva a bussare, insistente e subdola, ma utile. Il fastidio lo riporta alla realtà.
"Geto, stai bene?", prova il preside tendendo la mano verso di loro, facendo esplodere la bolla in cui è finito.
Aspetta cosa?
Non ha davvero tempo di riflettere su cosa stia succedendo, che l'uomo vacilla davvero e lui questa volta non può fare a meno di sostenerlo per le braccia, affondando le dita nel tessuto bianco della camicia bianca, stringendo forse più del dovuto la presa.
Al contatto il ragazzo sembra riscuotersi, mentre Yaga si avvicina di un passo, evidentemente preoccupato.
"Suguru! Suguru, cosa succede?", lo richiama, l'uso del nome a dimostrare tutta la sua preoccupazione.
Poi si rivolge a lui, dicendo cose che Gojo sente solo in parte.
'Mi scusi', 'forse è il caso di farlo sedere'... frasi senza senso.
Perché Suguru Geto ha alzato lo sguardo verso di lui e iniziato un goffo tentativo di mettersi in piedi, ma lui non riesce a lasciarlo. Non può lasciarlo.
Perché ad ogni respiro, ad ogni battito, ad ogni secondo che passa, quel volto prende il suo posto, incastrandosi come un pezzo ritrovato nel puzzle dei suoi sogni, dei suoi ricordi vorrebbe quasi dire.
Il ragazzo che da mesi nei suoi momenti onirici gli accarezza i capelli, che perde gli elastici, che apre il palmo della mano perché lui ci lasci cadere una caramella, ora ha un viso.
E come il ragazzo, anche l'uomo che lo aspetta, stravolto e in fin di vita, in quel vicolo, ora ha un volto e una voce.
L'uomo che la notte precedente ha sognato di star per uccidere.
Quello che rideva sereno nei suoi ultimi attimi, mentre andandosene si portava via un pezzo di lui.
Poi sente la sua voce, sussurrare stanca nella sua testa.

Almeno alla fine, fammi sentire qualche maledizione.





*Harajuku: la fermata dopo Shibuya sulla Yamanote line, la linea ferroviaria principale di Tokyo.


"Gojo che... "
"No! Cervello no! basta con Gojo che fa cose zozze... "
"Ma guarda quante visualizzazioni l'ultimo capitolo!"
"Cervello dai, sono certa che sia per l'analisi del personaggio... "
"..."
"Per baby Megumi?"
"..."
"Sì, ok è per Gojo ignudo, ma qui abbiamo una trama... "
"E che palle che sei... "
"Cervello?"
"...dimmi"
"Posso chiamarti Kenjaku?"

Questo siparietto per ringraziarvi di tutte le visualizzazioni dell'ultimo capitolo. Quindi ecco un regalo:
https://mobile.twitter.com/_3aem/status/1596069199121551361/photo/1  
https://mobile.twitter.com/_3aem/status/1584124329654030341/photo/1  
Queste sono le fanart che mi hanno ispirato il jumpscare del treno.
L'artista secondo me è bravissima, se non la conoscete, consiglio un giro sul suo profilo, in alcuni casi potrebbe poi servire una doccia fredda.
Tornando a noi, come direbbe Tyrion Lannister, I wish to confess: uno: avevo detto che avrei pubblicato presto, che il capitolo era praticamente fatto ed è passato comunque un po', ma succede se cambi tutto da capo.😅
Secondo: ho scritto i primi due capitoli sottolineando che fosse dicembre, poi nel terzo ho piazzato Gojo e Utahime a chiacchierare sul terrazzo. Diciamo avevano le giacche e facciamo finta di niente? Diamo la colpa al cambiamento climatico?
Per chi mi segue, i prossimi programmi: Ho un paio di pezzi che se la girano, mezzi buttati giù, mezzi nella mia testa, per la raccolta One and Only. Stranamente potrebbero essere i pezzi più autoindulgenti della storia.
Tattos and coffee però credo avrà la precedenza.
Come sempre, un abbraccio
Amy

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Capitolo 5
*** The stronger and the curse ***


"Suguru?"

Flette le dita della mano, assicurandosi che la benda che la fascia non sia troppo stretta, prima di lasciare che il braccio ricada sulla sua coscia.
Seduto sul bordo del letto, ora che è tutto finito, ora che l'adrenalina è scemata, Suguru sente tutto il peso delle giornate passate sopraffarlo.
Guarda l'arto come se fosse un'appendice estranea. È pallido e, come il resto della sua epidermide, trema.
Non sa se è per il freddo, non ha voglia nemmeno di prendere una maglia pulita dal cassetto, o se per la debolezza. In fondo ne ha perso di sangue nell'ultimo scontro.
Sa che è stato curato, ricorda mani amiche posarsi tremanti sugli squarci che gli aprivano il petto.
Shoko, è stata Shoko, si ricorda in un angolino del suo cervello.
Lei l'ha rimesso in piedi, ha ricomposto i pezzi dopo il suo scontro con Fushiguro.
Ora, delle ferite quasi mortali lasciate dallo Zenin rinnegato rimangono poche tracce, poco più che tagli superficiali.
Il palmo della mano, uno zigomo, il torace in via di guarigione.
Però non sembrano voler smettere di bruciare.
Sfiora la pelle dello sterno con le dita. In quel punto la ferita era più profonda, Ia compagna è riuscita a fermare l'emorragia e a salvargli la vita, ma il taglio deve ancora rimarginarsi del tutto.
La carne viva, bollente al tatto, pulsa sotto l'epidermide appena formata, delicata e tesa come carta velina. Risponde alla pressione dei suoi polpastrelli, delle sue unghie che fremono per scavare.
Il dolore gli ricorda che è vivo.
Per cosa? Perché lo ha lasciato in vita?
Non pensare, vai avanti.
Non si ripete altro, negli ultimi giorni.
Non si ripete altro in questo limbo in cui è finito, mentre si tiene insieme fasciando meticolosamente ferite praticamente già guarite.
Serve a ricordare a se stesso che non può permettersi di fermarsi, non ha tempo. Non ne ha mai avuto.
Nè quando Riko è crollata a terra, un proiettile in testa a congelare il suo ultimo sorriso, nè quando quel bastardo gli ha detto di aver ucciso... lui.
Anche in quel momento, ha registrato nella sua testa l'informazione nel tempo di un secondo, soffocando l'immagine dell'amico morente, affogandola nella maledizione evocata nella sua mano e scagliata un istante dopo.
Rabbia, rabbia e altra rabbia. Nessuno spazio per piangere.
Non serve che gli stregoni abbiano un'anima.
Non pensare, non hai tempo, vai avanti, combatti.
Per cosa? Perché?
Cosa avrebbe trovato alla fine di questa corsa?
Sarebbe stato solo l'ennesimo cadavere?
Quelli dei suoi compagni lo avrebbero preceduto? Anche il suo?
No, noi siamo i più forti, si ripete.
Mente, ora lo sa. Mente a se stesso come ha fatto con Amanai.
Le ha detto che avrebbero difeso la sua scelta, la sua vita, il suo futuro. Persino da Tengen.
Nasconde il viso tra le mani, seppellendo una risata amara. Non hanno saputo difenderla nemmeno da uno stronzo con una pistola.
Se qualcuno è destinato a diventare Il più forte, non è più lui, né insieme a lui.
Suguru teme di essere sul punto di diventare una maledizione, a furia di ingoiarne.
Non pensare, non hai tempo, vai avanti, dimentica.

"Suguru?"
Giusto. Si è perso, scordandosi del ragazzo fermo sulla porta.
Riconosce la voce, quanto il peso che sente posarsi accanto a lui sul letto.
Sa che deve essere davvero preoccupato, se non ha fatto irruzione come al solito, ma ha aspettato inutilmente un suo cenno.
"Lascia che ti aiuti con questo..."
Risponde con un borbottio, senza alzare lo sguardo. Non lo vorrebbe qui. Odia che possa vederlo così. Eppure non può evitare la sensazione di conforto che sente formicolare nel petto.
Il nuovo arrivato si allunga verso le bende posate al suo fianco, prima di sostituire le mani alle sue, cominciando a fasciare il suo torace.
Dove le sue dita scavavano, le altre accarezzano.
L'Infinito è attivo e vigile, ne sente lo sfrigolio sulla pelle, ma lo sta lasciando passare.
"Mi sto allenando a selezionare cosa bloccare e cosa no", spiega il ragazzo, rispondendo alla domanda che lui non ha ancora fatto.
"...Con te è facile", continua, prima di dargli un colpetto leggero sul braccio
"Puoi girarti?"
Fa un mezzo sorriso, obbedendo e dandogli le spalle, permettendo all'altro di fissare le bende con dita agili.
"Ecco fatto", conclude l'amico, senza però staccare le mani dalla sua pelle.
Suguru socchiude gli occhi, quando sente le labbra morbide appoggiarsi tra le sue scapole, leggere. Così leggere che penserebbe di esserselo sognato, se non fosse per i capelli che solleticano la pelle del suo collo, per la punta del naso che sfiora la sua spina dorsale.
Questo è reale? Probabilmente. Altrimenti come potrebbe pesargli tanto il vuoto che lo schiaccia, quando Satoru, questo è il nome, si allontana, lasciando solo freddo al suo posto.
La sensazione fortunatamente dura poco. Il ragazzo ora è davanti a lui.
Gli occhi celesti incrociano i suoi per un istante, prima di socchiudersi.
Si aspetta quasi che gli salga in grembo e lo baci, ma no. Le sue labbra ora sono posate sul suo zigomo escoriato che Shoko ha tralasciato di curare, concentrata su ferite più gravi. Il tocco di Satoru è deciso sulla pelle lesa, gli fa quasi stringere i denti.

Non dice una parola ed è strano, quando mai sta zitto, ma Suguru non ha tempo di preoccuparsene, nè di chiedersi che senso abbia questo pensiero, dato che perde una decina di anni di vita, mentre il compagno si piazza inginocchiato tra le sue gambe.
Posa una mano sul suo ginocchio, per assicurarsi un equilibrio migliore. L'altra si alza fino al suo viso, gioca un istante con le ciocche corvine, prima di posarsi a coprire i suoi occhi.
La bocca di Satoru compie il percorso inverso della sua mano. Si ferma quando arriva all'altezza del suo torace.
Il ragazzo lambisce la pelle arrossata che sbuca dalle bende, delicato. Lo diventa anche di più, quando sbatte la testa come un gatto particolarmente affettuoso contro il suo mento, prima di accarezzare con la lingua lo spazio tra le sue clavicole.
Scende, tira una morsicata all'altezza del cuore, giocoso e possessivo ad un tempo.
È veloce, non si ferma. Gli lascia appena il tempo di sentire i denti sulla pelle, il calore del respiro. Non gliene concede abbastanza per pensare a quanto quel gesto gli faccia venire voglia di piangere.
Scende, scende ancora, mentre Suguru si lascia cadere supino sulle lenzuola.
Le dita che coprivano le sue palpebre fino ad un istante prima, scivolano sulla sua guancia nel movimento, ma lui continua a tenere gli occhi chiusi.
Si chiede se stia sognando. Forse no.
Spera di no.
Se fosse, la morsicata dispettosa, che Gojo riserva alla curva dell'anca, non dovrebbe svegliarlo?
Non dovrebbero farlo unghie che grattano la sua pelle, impegnate ad abbassare la stoffa dei pantaloni?
Invece tutto si fa più sfocato, quasi onirico, mentre il piacere attraversa come una scossa il suo corpo e rimbomba sordo nella sua testa, quando sente la bocca del ragazzo avvolta attorno a lui.
Quando il suo addome si contrae, quando Satoru geme contro la sua pelle.
Prima di scivolare via, si chiede se può bastare quello a soffocare il vuoto che sente dentro.

"Suguru..."

"Suguru..."

Socchiude gli occhi, mentre morde le dita che scavano nella sua bocca.
Non è all'Istituto, quelle che lo circondano sono le pareti di un tempio.
Il suo.
Il suo torace non è fasciato, il suo zigomo non brucia.
Non ha diciassette anni, per saperlo gli basta guardare le proprie mani, la sicurezza con cui si muovono agili per spogliare l'uomo davanti a lui.
Anche l'altro è diverso. La sua mascella netta e lo sguardo affilato, gli occhi scoperti.
Le bende che solitamente li coprono, sono il primo capo d'abbigliamento con cui se l'è presa. Con loro è quasi una questione personale.
"Suguru, questo non ha senso".
La voce è poco più di un sussurro, soffocato contro la pelle del suo collo.
Perché nonostante le sue parole, l'uomo ha ceduto nel momento esatto in cui ha messo piede in quella stanza.
Parla, ma non lo ferma. Lascia che lo spogli della divisa da stregone, subito abbandonata a terra, seguita a ruota dalle vesti da monaco, le sue.
Sparse sul pavimento, finiranno a far loro da letto. La loro unica utilità in questi momenti.
Quando non sono lo stregone più forte e La maledizione, come li etichettano all'Istituto.
Quando sono solamente loro, senza difese. Non ne hanno bisogno. O forse si illudono che non servano, tra loro.
Ma ora non può pensare a questo.
Ora che gli è addosso, ogni arto e muscolo teso per restare legato a lui. Gambe allacciate alla sua vita, braccia avvinghiate alle sue spalle, unghie ad incidergli la pelle (solo perché può), con gli occhi che si sforzano di restare aperti, fissi in quelli di Satoru.
E si sente nudo, esposto, fin nell'anima. Come se il suo petto fosse spaccato, la sua scatola cranica aperta, tutto sotto lo sguardo e gli occhi dell'uomo.
Quindi affonda il viso nell'incavo del suo collo, morde e bacia la sua gola, godendosi il battito frenetico della giugulare sotto la lingua.
Infila il naso tra i capelli bianchi, sentendo le mani prudere dalla voglia di tirarli. Peccato che non possa, dato che a quanto pare in un momento non precisato quello stronzo gli ha bloccato i polsi dietro la schiena con le sue bende, giusto per dargli un buon motivo per avercela con loro.
Quando diamine è successo?
Sbuffa, indispettito, morendo d'affetto quando il suo gesto strappa una risata all'altro uomo, negli occhi l'espressione dispettosa che conosce bene.
Per un attimo tutto sembra più leggero.
Gojo lo ingabbia tra le braccia, tenendolo più saldamente in grembo, affondando le mani tra le ciocche nere.
Ad ogni spinta, Suguru trema. E lo chiama. E tutto il suo corpo gli si stringe addosso.
E Satoru non smette di guardarlo un istante mentre lui gli chiede di più, più forte. Vuole tutto quello che l'altro uomo può dargli.
Che sia amore o morte, non l'ha ancora capito.
Il piacere, il dolore, rendono tutto sfocato e ad ogni respiro nascosto nella pelle dell'altro, ad ogni grido soffocato contro la sua mascella, tutto si fa più irreale.
Si perde nel tocco delle mani di Satoru che stringono il suo viso tra le dita.
Il leggero strato di sudore che gli bagna la fronte, quando la poggia contro la sua, gli ricorda i giorni d'estate.

"Suguru..."

"Suguru..."

È la voce di Satoru, ancora. Ora però pare un sussurro, distante. Suguru non sente più il suo calore addosso. Solo quello in divenire di una pallida alba di dicembre.
Ha freddo. Il gusto metallico del sangue punge in bocca e non sente più un braccio.
Apre con fatica gli occhi, cercando di seguire la voce di Satoru, accovacciato davanti a lui, a dire che gli dispiace, a ricordargli che è sempre il suo migliore amico.
Dice anche altro, ma lui lo sente a malapena.
Pensa che avrebbe qualcosa da rispondergli, qualcosa che è importante, che deve sapere, ma tutto si fa nero.

"Suguru..."

"Suguru Geto, quando ti ho trovato non riuscivo a credere alla mia fortuna..."
Questa non è la voce di Satoru. Non la conosce.
Il tono è dolce, ma Suguru può cogliere il gelo dietro ad ogni parola.
Poi rimane solo il silezio, il buio e il freddo di un bisturi che corre sulla fronte.
È morto, sa di esserlo. Come può sentire? Come può avere paura?
"E ora dammi il Sei occhi..."

"Dammi Satoru Gojo".

Il rumore della maniglia che si alza e abbassa copre le ultime parole che si trascinano, accompagnandolo dal sogno alla veglia.
Una luce filtra sotto le sue palpebre, tremolante. È quella che viene dal bagno.
Guarda ad occhi socchiusi Mimiko chiudere piano la porta della stanza, per poi lanciare un'occhiata verso il divano, preoccupata di averlo svegliato.
Finge di dormire per il tempo che la ragazza ci mette ad arrivare in camera da letto, solo quando sente il fruscio delle coperte, si mette seduto.
Si stropiccia gli occhi con una mano, prima di passarsi le mani nei capelli. Sono umidi di sudore, segno della sua nottata agitata. Può anche sentire il gonfiore di nuove borse formarsi sotto gli occhi.
Che cazzo di casino, pensa.
Lo sapeva che incontrare quel ragazzo, Satoru Gojo, Suguru, fingere di non sapere il suo nome non lo farà sparire dalla tua testa, non poteva non avere conseguenze.
Una parte di lui aveva quasi sospirato di sollievo trovandoselo davanti in carne ed ossa la mattina precedente.
Perché quello era evidentemente il ragazzo che continuava a sognare, l'aveva riconosciuto subito, ed era... normale?
Ok, magari non normale, decisamente non sembrava una persona ordinaria, ma era come lui. Umano.
Peccato per la sequenza di immagini rimbombata nel suo cervello un istante dopo, un'ondata di ricordi, sembravano ricordi, decisamente non suoi.
Un banco di scuola in legno, in un'aula che pare un tempio.
Una spiaggia e la risata di una ragazzina con una treccia nera.
Persone che applaudono e in mezzo, un ragazzo dagli occhi azzurri, folli.
Una gabbia di legno. Due bambine malmenate. Due bambine così simili alle sue sorelle.
Sangue, sangue per le strade di un villaggio. Altro sangue, su pareti bianche e mobili moderni.
Quella sembrava casa sua...
Una scuola elementare. Un ragazzo con una katana.
Tante, troppe immagini. Così tante da tramortirlo.
Senza contare l'assurda voglia di piangere e il groppo alla gola che l'aveva soffocato, mozzandogli il respiro nel momento in cui l'altro lo aveva sorretto.
Quel pensiero che non riusciva a tacere, un pensiero assurdo, non suo.
Ti ho trovato, sei qui.
Non aveva senso.

Ammette che pensare che la situazione si sarebbe risolta così facilmente, era stato stupidamente ottimista da parte sua.
Ma ora i suoi sogni dovevano diventare anche così simili a dei ricordi, così dettagliati, così dannatamente fisici?
Non lo sono stati fino ad ora. Almeno non così tanto.
Oddio, forse ha ragione Shoko quando gli fa notare che non fa sesso da troppo. Teme che una svolta alla sua vita sessuale non possa bastare a questo punto.
E perché un minuto prima ci stava facendo sesso e quello dopo è quasi certo che lo stesse uccidendo?
E c'era anche altro. Un'altra voce, ne è sicuro, però non riesca a ricordare.
Non ci sta capendo nulla. Sta impazzendo. Le dita della sua mano destra che come al solito scattano senza che lui riesca a controllarle, sono la cosa che lo preoccupano di meno.
Aspetta che gli spasmi si calmino, poi lancia un'occhiata verso la sveglia posata sul tavolino del salotto. Non sono nemmeno le quattro della mattina.
Chiude gli occhi e si lascia andare sullo schienale del divano.
Al buio, nel silenzio dell'appartamento, può sentire il respiro regolare delle ragazze.
Qualsiasi cosa avesse scosso il sonno di Mimiko, non le ha impedito di riaddormentarsi, oltre a non aver minimamente turbato Nanako.
Lui quante speranze ha di riprendere sonno?
Geme, portandosi una mano al retro del collo. Al turbamento lasciato dalla sequenza di sogni, si aggiunge il molto più prosaico male alla cervicale.
A quanto pare attorno ai trent'anni dormire due sere di fila su un divano non è un'ottima idea.
Come prima cosa, domani mattina ordinerà un divano letto su Amazon, che tanto le ragazze non vanno da nessuna parte, ormai ha deciso.
Ora, però, una doccia bollente pare un palliativo abbastanza efficace.
Si alza, muovendosi al buio, finché non raggiunge a tentoni l'interruttore dello specchio del bagno.

Un improvviso nuovo disagio gli prende la bocca dello stomaco. È stupido, quello è il suo appartamento, ma sotto la luce fredda del neon, la stanza ha l'aria di un laboratorio. Tutto sembra improvvisamente troppo freddo e asettico.
Ringrazia i flaconi colorati e gli accessori per capelli che le ragazze hanno sparso ovunque, anche se è pronto a scommettere che la gran parte di quelli lasciati in disordine appartengano a Nanako.
In questo momento è contento di essere un fratello dal cuore debole e totalmente privo di polso, perché quel disordine gli ricorda che è a casa.
Stropicciandosi il viso, si volta verso lo specchio.
Strofina gli occhi con pollice ed indice, cercando di scacciare il sonno, la stanchezza. Rinuncia quasi subito al tentativo.
Nel momento in cui la mano scivola via, il suo sguardo cade sul suo stesso riflesso. Deglutisce a vuoto, mentre il respiro gli muore in gola.
Guarda inorridito un taglio sottile aprirsi sulla sua fronte, un rivolo rosso cominciare a scivolare lento ai lati del suo volto.
È terrorizzato, ma non riesce a levare gli occhi dallo specchio.
Vede i lembi di pelle aprirsi, il sangue sgorgare violento dalla ferita, il bianco delle ossa della calotta cranica emergere.
Quando il lobo frontale comincia a spaccarsi, la sua materia celebrale esposta, il suo riflesso ride. Una risata fredda, maniacale. Piena di scherno.
'Che tristezza, non ti ricordi di me?', sussurra infida una voce.
È la sua? È lui che sta parlando?
Un conato gli scuote lo stomaco e il petto, il gusto acido della bile gli riempie la bocca, mentre si piega su se stesso e porta le mani alla bocca.
Quasi sbatte contro la parete alle sue spalle, indietreggiando e cercando di raggiungere alla cieca la tazza.
Quando trova il coraggio di rialzare lo sguardo sullo specchio, il riflesso che lo guarda di rimando è quello di un trentenne terrorizzato. Con il viso bianco e le labbra tremanti, ma illeso.
Nessun taglio, nessuna cicatrice, niente sangue né ossa esposte.
È semplicemente lui.
Si porta le dita alla fronte, testando febbrilmente la pelle alla ricerca di lesioni, ferite, ma nulla.
L'epidermide è gelida, il volto coperto di sudore, il suo cuore batte ancora a mille, ma sta bene.
Nulla di ciò che ha visto era reale e questo lo terrorizza.
Indietreggia fino a toccare con le spalle il muro. Si lascia scivolare a terra, sul pavimento freddo, nascondendo il viso tra le ginocchia.
Nulla è reale.

Geto Sama?

Geto Sama?

Mani delicate lo scuotono. Nel dormiveglia riconosce le voci di Mimiko e Nanako.
Geto Sama!
'Sama'? Da quando lo chiamano così?
"Ni-chan? Cosa ci fai in terra?"
"Mimi, chiamiamo Ne-san?"
"Cerco il numero!"
Gli fa male la schiena, la sua cervicale è evidentemente peggiorata e l'emicrania gli sta facendo a pezzi il cervello.
Tutto potrebbe drammaticamente peggiorare se le sue sorelle chiamassero Ieiri.
"Ehi ragazze, sto bene", le interrompe, mentendo spudoratamente. Non escluderebbe di avere un mezzo trauma cranico.
"Non è il caso di chiamare Shoko..."
Non voleva immaginare la reazione della donna ad una sua chiamata di prima mattina, sentendo dall'altro capo due adolescenti in crisi di panico.
Anzi, non serviva che immaginasse nulla. Sarebbe finita con una serie di minacce che avrebbero coinvolto lui, le sue zone più sensibili e le capacità di Shoko di dissezionare più o meno rapidamente parti del corpo umano. In breve, sarebbe stata gentile con le sue sorelle, per poi assicurare a lui che sì, gli avrebbe staccato le palle, ma l'avrebbe fatto con un bisturi sterile.
"Ma sei in terra!", sbotta Nanako.
"Sul pavimento del bagno...", insiste Mimiko, in un sussurro.
Sente il senso di colpa attorcigliargli lo stomaco, mentre fissa i volti preoccupati delle ragazze.
"Chiamerò Shoko, ve lo prometto, ma lo farò più tardi", le rassicura.
Si alza, sentendosi più accartocciato che mai.
"Mi faccio una doccia e vi raggiungo per la colazione, probabilmente sono rimasti dei pancake da ieri..."
Comprale con il cibo, funziona sempre, riflette, al diavolo la lotta allo spreco alimentare.
"Ma dovrebbero esserci delle uova. Se preferite possiamo fare delle crepes..."
Propone con un sorriso, sperando che basti.
Come previsto, il volto di Nanako si illumina, mentre anche la ragazza mora sembra rasserenarsi, anche se non del tutto.
Mentre la sorella si allontana saltellante verso la cucina, Mimiko si attarda, esitando sulla porta del bagno.
"Ni-chan, non è colpa mia vero?", sussurra.
Se prima si sentiva in colpa, ora non saprebbe nemmeno descrivere il sentimento che prova.
Stringe la ragazzina al petto, nascondendo il volto nei suoi capelli. Scuri come i suoi, a differenza della sorella.
"Mai, piccola". La rassicura, cercando di ignorare come la sua mano riprenda a tremare. Si prende qualche istante, prima di staccarsi dall'abbraccio, con tutta la gentilezza che possiede.
"Ora vai, prima che Nana faccia danni in cucina".
La ragazza fa un cenno, un piccolo sorriso, prima di dirigersi nell'altra stanza.
Passano pochi attimi e Suguru ridacchia, sentendo le due punzecchiarsi per chissà cosa.
Prima di entrare in doccia, lancia un'ultima occhiata allo specchio.
L'immagine che torna indietro è la sua. E gli urla che ha bisogno di una doccia.
Si lancia sotto il getto bollente, godendosi i primi momenti di pace.
L'acqua calda gli scorre sui capelli e scivola addosso, mentre poggia la fronte contro le piastrelle, godendosi il freddo della ceramica sulla pelle arrossata dal calore.
Si riscuote, quando si accorge che il sollievo si sta trasformando in torpore. Gli manca solo di addormentarsi sotto la doccia.
"Ni-chan! Comincio a preparare!".
Sobbalza, quando Nanako urla dalla cucina, annunciando a lui e anche ai vicini di casa la sua intenzione di dar fuoco alla stabile.
Inspira, espira.
Non è pronto, ma la sua giornata deve iniziare.




E ce l'ho fatta! Mi scuso per i soliti templi biblici, alle scuse solite (lavoro - faccio la commessa e sono iniziati i saldi, abbiate pietà - bestiolina anche chiamata figlia che quando sono a casa vive appiccicata alla sottoscritta, possibilmente cercando di mordere il naso, bisogno di una cosa chiamata sonno) si è aggiunto il marito in ferie. Inoltre, scorci di vita della sottoscritta a parte, mettersi nella testa di certi personaggi, per provare a scriverli in modo decente, può essere stancante. Per me, i pov di Suguru Geto in fase depressa (ne ha altre di fasi? A si, quella da pazzo psicopatico) sono un massacro mentale.
Sul capitolo, in breve: non doveva andare così. Notizia buona? Quello che doveva essere questo capitolo è diventato il capitolo dopo, che quindi è già quasi pronto, molto più leggero e nessuno viene torturato psicologamente.
Altro punto che mi ha levato tempo: le scene di sesso.
Ho un problema con queste e finiscono per essere riscritte sessanta volte.
Detto questo, spero che il capitolo piaccia, darò la precedenza alla seconda parte quanto prima.
Un abbraccio
Amy

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Capitolo 6
*** Prison ***


"Quei jeans sembrano quelli delle mie sorelle..."
Satoru ripete a pappagallo, facendo il verso all'altro uomo.
Che frase antipatica da dire, pensa tra sè e sè.
Anzi, proprio idiota, conclude, mentre racconta ad Utahime l'incontro di qualche ora prima, con il nuovo insegnante di Megumi.
In qualche modo devono passare il tempo mentre, fermi sulla soglia della stanza, osservano il ragazzino giocare.
"Chi se lo aspettava che dal vivo fosse un tale stronzo?", aggiunge con tono melodrammatico, grattandosi la nuca.
Deve ammettere che l'altro è decisamente un bell'uomo.
E probabilmente anche piuttosto interessante, con quell'abbigliamento impeccabile che fa a pugni con i dilatatori ai lobi delle orecchie. 
Senza contare quell'aria da maestrino saccente, che gli calza anche bene.
Mettersi d'impegno per far scendere l'altro dal piedistallo, potrebbe diventare la missione della sua vita.
Anzi, probabilmente lo sarà, però non ha ancora deciso le modalità.
Rendere un inferno tutte le riunione genitori - insegnanti? Infilarsi nei suoi pantaloni?
Entrambe le opzioni?
Gli piacerebbe di più vederlo pregare perché la pianti di farlo ammattire con i vestiti addosso o perché non smetta di farlo in un letto?
Di nuovo, se si tratta di Suguru, entrambe le possibilità gli paiono allettanti.
Geto sensei, cos'è questa confidenza, Satoru?, si ripete, sicuro di star usando il tono che avrebbe l'insegnante.

"...Per la tua cotta mi vesto come un'adolescente?"
Utahime lo distrae dal suo monologo interiore, con un tono talmente esasperato, che finisce per chiedersi se realmente il suo sproloquio sia avvenuto nella sua testa o se abbia spiattellato tutto ad alta voce.
Appoggiata allo stipite opposto della porta, Iori gli lancia un'occhiata veloce, prima di tornare con lo sguardo all'interno della stanza, a Megumi seduto ai piedi del letto.
Il bambino canticchia una filastrocca con voce sottile, senza alzare gli occhi dai cani di peluche che fa saltellare sulle coperte, attori inconsapevoli del suo piccolo spettacolo.
"Ma soprattutto, entri davvero nei miei jeans?", rincara lei, guardando storto i pantaloni che indossa, borbottando un 'effettivamente paiono i miei' che trasuda scetticismo.
Decide di ignorare la domanda e passare oltre, prima che la donna possa scagliarsi contro il suo metabolismo.
"Non è la mia cotta...", risponde, senza alzare lo sguardo dal ragazzino.
"No, è solo il tipo che sogni tutte le notti da mesi...", lo corregge l'altra, sbuffando. "Non hai pensato di parlarmene? Lo sai che faccio la psicologa, vero?"
"Infantile", sottolinea lui in risposta.
"Eh, appunto", ribatte la donna.
"Scusa, ma mi sono persa il momento in cui sei diventato adulto. Quando è successo?"
Il tono sinceramente curioso dell'amica lo fa ridere di gusto, tanto da costargli un'occhiataccia da parte di un inserviente.
Alza una mano in segno di scusa, ricordandosi del posto in cui si trovano.

"Tornando all'incontro", riprende Utahime, "Il fantastico Gojo Satoru che non fa colpo al primo sguardo?".
"Hai perso il tocco?", chiede, fin troppo soddisfatta.
Gojo esita, prima di convincersi che sì, può levare gli occhi da Megumi almeno per un istante.
Non è in una stazione iper affollata e non sta salendo su un treno che straripa di persone. Non rischia di perdere il ragazzino.
Senza contare che il bambino pare davvero troppo impegnato ad elencare, contandoli sulle dita, i nomi dei suoi nuovi compagni, per far caso a loro.
Sbuffa, divertito e incuriosito dal fatto che "Yuji Itadori", registrato nella sua testa come capelli rosa a riccio, cappuccio rosso che sporge dalla piccola uniforme, banco sulla destra, sia già comparso tre volte nel computo.
Fa un'alzata di spalle e canticchia tra sè, con un piccolo ghigno che danza sul suo viso.
"Dici?"
Sembra quasi sul punto di darle ragione. Quasi.
Si mostra indifferente, annoiato, mentre si china ad allacciarsi una scarpa.
Nel piegarsi, gli occhiali gli scivolano sul ponte del naso, ad evidente rischio caduta.
"Hime, gli occhiali per favore", riprende, tranquillo e casuale, le mani impegnate a riallacciare, dopo averli allentati con un gesto tanto rapido da passare inosservato, i nastri delle sue sneakers.
Lancia un'occhiata veloce verso l'alto per assicurarsi che il giochetto di prestigio sia passato inosservato.
Lo sguardo della donna non si è mosso, fisso sul suo piccolo paziente.
Al suo tono petulante, lei alza gli occhi al cielo, prima di allungare distratta una mano a sfilargli le lenti.
Fregata. Il ghigno si apre, mentre prende tra le dita il polso di Utahime, avvicinando la mano che tiene i suoi occhiali al viso.
Alza gli occhi ad incontrare quelli dell'altra, ora fissi su di lui, mentre sfiora con le labbra la pelle del dorso della destra, sussurrando un "grazie".
Cerca di non ridere mentre l'amica borbotta qualcosa che ricorda vagamente un 'prego', guardandola arrossire fin alla radice dei capelli.
Si alza in piedi, chinandosi piano su di lei, le labbra ad un centimetro dalle sue.
È vicino, tanto vicino, ma non abbastanza per non riuscire a mettere a fuoco il panico puro che prende la ragazza.
"Gojo che diam..."
"No", sussurra con il tono più basso possibile, arrivando quasi a sfiorare la pelle del collo e il guscio dell'orecchio, solleticando l'epidermide tenera con il respiro.
"Direi che non ho perso il tocco", conclude, tornando leggero e giocoso.
Le stampa un bacio innocente sulla guancia e si trattiene dallo scoppiare a ridere, godendosi il momento in cui l'espressione dell'altra passa da eccitata e confusa a furiosa.
"Direi piuttosto che sto sulle palle a Geto sensei", conclude.
Il calcio che quasi arriva sulle sue, di palle, lo schiva per un pelo.

"Idiota", borbotta Utahime, incrociando le braccia.
Ridacchia in risposta, cercando di ignorare il dolore alla caviglia raggiunta da un secondo colpo, che non se l'era sentita proprio di evitare. Alla fine era stato scorretto.
I suoi occhi tornano veloci su Megumi. Seduto sul bordo del letto, il bambino sbadiglia stanco, dannatamente simile ai suoi lupetti.
Sembra sul punto di accoccolarsi e cedere al sonno, ma proprio quando Gojo è pronto di entrare nella stanza, il piccolo si riscuote, si siede a gambe incrociate, un peluche per fianco, quasi a proteggerlo, e ricomicia a parlare.
Questa volta è una favola. Qualcosa su una principessa addormentata, uno stregone che la salva e chissà che altro...
"Quindi è voluto venire qui subito uscito da scuola?", ripredere Iori.
Il tono, tornato serio e professionale, non nasconde la dolcezza che riserva al suo paziente.
Satoru fa un cenno di assenso.
"Sì, è la prima cosa che mi ha chiesto uscito dall'aula", prosegue, "ha detto che voleva raccontarle dei suoi nuovi amici".
Il suo cuore si stringe a guardare Megumi, tutto serio mentre racconta la storia inventata o, più probabilmente, l'insieme di storie sentite qua e là e messe insieme nella sua piccola testolina a riccio, alla ragazza distesa sul letto, priva di coscienza.
Immobile, legata a macchine che la tengono in vita: è così che Gojo ha sempre visto Tsumiki Fugushiro.
Megumi no, era con lei che il bambino viveva prima che lui entrasse nelle loro vite. Però ora Satoru teme che con il tempo questa immagine diventerà l'unica che Megumi avrà della sorella maggiore.
L'uomo non prega mai, ma pregasse, se sapesse farlo, chiederebbe che Tsumiki potesse ascoltare almeno una delle favole che il fratellino recita per lei.
Ma la ragazza non muove un muscolo, intrappolata nel suo stesso corpo.
Non reagisce nemmeno mentre le piccole dita del bambino si fermano su un ciuffo fuori posto che le cade sugli occhi, sistemandolo con tutta la cura del mondo dove è certo non le dia fastidio.
Davanti alla scena, entrambi gli adulti perdono le parole.
Quando le ritrovano, sembrano passati anni.
"Scusa per il poco preavviso, ma non me la sono sentita di dirgli di no...".
"Non dirlo nemmeno per scherzo..."
Utahime aggiunge qualcosa sull'anticipare la seduta della settimana, ma viene interrotta da passi nel corridoio.
Gojo si volta, facendo cenno all'infermiera arrivata a comunicare la fine dell'orario delle visite, di dar loro ancora qualche istante. Che almeno nella fiaba, la principessa si sta svegliando.
Mentre la donna risponde, concedendo loro altri cinque minuti, Satoru sente la mano dell'amica appoggiarsi sulla spalla e dare una leggera stretta.
"Iori, grazie di essere qui".

"Sei sicuro di non voler venire nel lettone?"
Gojo sa che nel momento in cui ha pronunciato questa frase, almeno un paio di pedagogisti nel mondo hanno avuto una sincope. Può immaginare anche il sopracciglio di Utahime alzarsi, netto come una lama, come se la donna fosse lì con loro a dare il colpo di grazia ai suoi tentativi di essere un tutore appena passabile.
Eppure rischiare di perdersi in una stazione, affrontare il primo giorno in una nuova scuola e la visita alla sorella in ospedale sono tutti eventi pesanti da affrontare per il bambino, già presi singolarmente. Figurarsi tutti stipati nell'arco di dodici ore.
Quindi al al diavolo, si sente libero di offrire tutta la compensazione emotiva che conosce.
Hanno mangiato la pizza sul divano, rielencando ancora i nuovi compagni. Questa volta il piccolo Itadori è stato citato solo due volte, con un grande piccolo passo avanti verso la logica, anche se un po' gli è spiaciuto spiegare a Megumi che se un compagno è particolarmente simpatico, non per forza deve essere capace di duplicarsi.
Hanno guardato l'episodio di Spy x Family, anche se era già passata l'ora per la televisione, letto due libri della buonanotte e lui è anche riuscito a raccontare la favola del cucciolo Shiro* senza che il bambino lo interrompesse per correggerlo.
A quanto pare è bastato, dato che Megumi sembra tranquillo, mentre scrolla la testolina di capelli spettinati.
"No, grazie Satoru...", borbotta assonnato, lasciandosi cadere sul cuscino.
"Porta aperta?", propone ancora, mentre rimbocca le coperte. A questo punto non sa più se questa contrattazione serva più a rassicurare se stesso o il piccolo.
È su questo punto che il bambino cede, o concede, non saprebbe, e già ad occhi chiusi fa un cenno di assenso.
"Buona notte, cucciolo..."
"Buona notte, 'Toru".
Si chiude la porta alle spalle. Forse questa giornata eterna è finalmente terminata.

"Pensi davvero tornerà da te?"
La voce che riempie lo spazio vuoto attorno a lui, che gli rimbomba in testa, è quella di Suguru.
Certo, stuprata e distorta dal tono ironico e freddo dello stregone che ne occupa il corpo, ma è la sua.
Dovevi prendere anche quella, dannato parassita?, si chiede, tracciando con il dito il profilo di uno dei tanti teschi che lo circondano.
Sbuffa, quasi annoiato. A volte vorrebbe dei coinquilini meno inquietanti. O per lo meno, non così silenziosi.
Almeno non sarebbe obbligato a stare a sentire l'altro e la voce del suo migliore amico morto sarebbe rimasta dove doveva stare: nel suo ricordo.
"Ti ha abbandonato ben prima che entrassi nella sua testa, Sei occhi..."
Lo sa, lo sa benissimo. E lui l'ha ucciso. Si potrebbe dire che il conto tra lui e Suguru ora penda decisamente più dalla sua parte.
Inoltre avergli fatto un buco nel petto a quanto pare non è che un piccolo particolare anche per il vecchio amico, dato che non l'ha fermato dal cercare di ammazzare con le sue mani quel bastardo che ha scambiato il suo cadavere per la sua nuova casa.
Quindi non gli pare il caso di soffermarsi su una sottigliezza come la loro rottura di dieci anni prima.
"Aspetta, scusa. Che lasciassi il suo cervello a marcire, per prendermi la sua tecnica".
Lascia cadere il teschio a terra, alzando platealmente gli occhi al cielo. O verso dove pensa si trovi il cielo, da qualche parte che non sia l'interno della Soglia dei dannati.
Ora almeno è sicuro di non essere impazzito. Se si trattasse di un'allucinazione, se quella voce fosse un parto della sua mente sull'orlo della follia, non cercherebbe di smuoverlo con del semplice splatter.
Lui ha visto il cadavere dell'amore della sua vita usato come una marionetta. Ha visto la sua scatola cranica divelta, il suo corpo smontato come un giocattolo.
Il ricordo del suo ultimo sorriso, fatto a pezzi dall'immagine di un ghigno aperto come una ferita sul viso tanto amato.
È un incubo che ha già vissuto. Non gli serve immaginare un bel niente.
Quindi, si tratta del ragazzaccio in persona, che si diverte a monologare ed a tediarlo come il cattivo standard di un film di serie b.
"Mi spiace vederti affogare nei ricordi, Sei occhi".
Gli viene da ridere. Può immaginare quanto l'altro sia dispiaciuto.
Raccoglie un altro teschio da terra, lo osserva, decidendo che sì, può andare bene.
Potrebbe andare bene.
Se fosse una persona totalmente orribile, sarebbe perfetto per farci due palleggi. Ma non lo è, lui è uno dei buoni, anche se annoiato.
Molto annoiato.
Con un sospiro, abbandona nuovamente l'osso a terra.
"A differenza tua, sono una persona gentile...", riprende Kenjaku, a quanto pare a corto di impegni per la serata.
"Ora lo citi anche? Stai perdendo colpi...", risponde lui ironico, con la caricatura di un sorriso che gli tira il volto.
"Oh quindi non ti sei strappato la lingua, Sei occhi", gongola il suo interlocutore in filo diffusione.
"Effettivamente avrei voluto continuare il gioco del silenzio, ma stavo cominciando ad annoiarmi", sbeffeggia in risposta.
"Sai, potevi darmi dei compagni di cella più interessanti".
Questa volta, anche l'altro stregone ride. E per un momento assomiglia davvero a Suguru.

"... Comunque era solo per dire che non sono io quello che gli ha portato via mezzo torace..."
Silenzio. A questo non ha intenzione di rispondere.
"Il suo corpo era un disastro quando ci ho messo mano".
"Tu non hai mani, sei uno schifoso cervello parassita...", ripete tra sè e sè. "e gli schifosi cervelli parassiti non hanno mani".
Vorrebbe urlarglielo, aggiungendo che un po' gli dispiace non abbia arti e collo, perché strapparglieli sarebbe stato il suo passatempo preferito una volta uscito da lì.
Non fa niente di tutto ciò. Non gli darà la consapevolezza di poterlo irritare tanto. Non la merita.
"E l'hai ridotto così, dopo avergli detto che era il tuo migliore amico, dopo avergli detto ... "
La voce si ferma, il tono diventa più dolce. "Forse sperava che lo risparmiassi..."
Gojo vorrebbe quasi ridergli in faccia, ne avesse una che non fosse quella di Geto.
"Non dire stronzate", sbotta, senza riuscire a trattenersi. "Suguru non era un codardo. Non era nemmeno uno stupido..."
"Non ti facevo così maleducato, Sei occhi".
"Sorpresa, sorpresa", canticchia.
"Comunque, hai ragione... non è stato quello il suo ultimo pensiero".
La voce si fa più distante, lontana. Una fitta gli attraversa la tempia e nel tempo di un respiro, fatto di panico e confusione, lui si sente estraneo a tutto questo.
Sono Gojo Satoru, sono lo stregone più forte.
"Vorresti saperlo? A chi è andato il suo ultimo pensiero?"
Sono Gojo Satoru, sono lo stregone più forte e quello non è Suguru, si ripete, tornando alla consapevolezza.
Sbatte le palpebre una, due volte sotto la benda. È ancora qui.
"Va bene, non parliamo di quello... Sai, ho un po' sottovalutato il vostro rapporto. Hai visto anche tu, vero?"
Si, Satoru ha visto. Ma soprattutto ha sperato. Lo fa ancora.
"È stata una novità anche per me, sai?  Nessuno degli altri aveva mai tentato di riprendere il controllo, di ribellarsi..."
Gojo è costretto ad ascoltare, ma la sua tortura non si limita a questo. Può vedere Il ghigno che distorce il viso di Geto; Può sentire, come se gli strisciasse addosso, la soddisfazione di quell'essere per aver sottomesso il tentativo di Suguru di cacciarlo via dal suo corpo.
"A quanto pare non si smette mai d'imparare..."
Vorrebbe sentire spavento, paura o almeno rabbia nella voce dell'altro. Invece in quelle parole legge solo curiosità, stupore. Fastidio, forse.
Come se Suguru non fosse che un insetto particolarmente restio a farsi impalare in una collezione di qualche biologo particolarmente sadico.
"... Ehi, il tuo monologare comincia ad essere irritante", sbuffa, "potresti stare zitto?"

In un attimo, ritorna il silenzio. Un secondo, dieci, un minuto. Deve contare gli attimi ad uno ad uno nella sua testa, visto che lì dentro il tempo non pare passare, ma il suo computo arriva a trecento e nessuna voce è tornata a tormentarlo.
È bastato così poco?, si chiede, prima che un urlo gli geli il sangue.
"Ridammelo!"
Yuji.
"Restituisci Gojo sensei!"
Scatta, strappa via la benda dal suo viso, implora i suoi Sei occhi di trovare, di capire, ma nulla. Solo quell'urlo che si ripete.
Realizza al volo e, di nuovo, è la sua anima a dare la soluzione.
Stupido, coraggioso, folle ragazzino, sta combattendo per lui, lo stanno facendo tutti.
Sente la paura arrampicarglisi addosso.
Che cosa ha fatto? In cosa li ha lanciati? Sono poco più che bambini, si fidavano di lui. Si fidavano del loro professore.
"Lo senti urlare, Sei occhi?"
Il suo carceriere ritorna, con la sua subdola cantilena, a scavargli nel cervello.
Quando sta per cominciare ad elencargli nel dettaglio che cosa gli farà se oserà far del male ad uno a caso dei suoi studenti, qualcosa rotola ai suoi piedi.
Un occhio. Un occhio dall'iride castana.
Lo riconosce. Lo riconosce subito.
Nobara
"Cosa le hai fatto?", ringhia al nulla, senza riuscire a smettere di guardare.
Vorrebbe strapparsi i suoi, di occhi, tutti i suoi maledetti, ora inutili Sei occhi.
Basta che smetta.
"Io?", la voce dell'altro è scossa da una risata leggera.
Può sentire il battito del proprio cuore rimbombare nelle orecchie, frenetico. Il respiro che entra e esce dai suoi polmoni.
Il tempo sembra più fermo ora che mai, per quanto sia assurdo.
Pensa a Kugisaki, a quanto le brillava lo sguardo se alla fine di qualche missione si ritagliava mezz'oretta per portarla a fare compere.
Non riesce a realizzare.
Quello ai suoi piedi non può essere il suo occhio. Non può.
"Sei stato tu, Sei occhi..."

Non è vero.

"Stanno tutti andando in pezzi, Gojo Satoru, ed è colpa tua".

Sono Gojo Satoru, sono lo stregone più forte e io posso proteggerli.

"Solo tua..."

Io posso proteggerli tutti.

"Li senti urlare?"

Grida. Sente delle grida.
Ricordano l'agonia di un animale ferito, coprono la risata gli rimbomba in testa. .
Scatta seduto, il viso affondato nelle mani.
Non capisce subito che l'unica voce nella stanza è la sua.
Le urla, sono le sue.
Se ne accorge tardi, in ritardo il suo cervello elabora che un bambino di sei anni è nella stanza a fianco, che a sentirlo morirebbe di paura.
Troppo tardi, perché Megumi è in piedi, piccola statua di cera incorniciata dal quadro della porta, il peluche nero in una mano, il bianco stretto al petto.
"Satoru", sussurra con voce flebile e spaventata.
Sentendosi chiamare, alza al volo lo sguardo sulla piccola figura.
Il bambino sembra anche più piccolo dei suoi sei anni.
Assonnato e impaurito, Megumi tiene gli occhi fissi su di lui, le labbra serrate. Le mani scosse da tremiti.
È bloccato, fermo su un ricordo triste o su una paura tornata a tormentarlo quando si è svegliato perché un adulto urlava. Ed ora il piccolo è lontano, intrappolato dove anche Gojo fatica ad arrivare.
E non è buono. Per nessun bambino, meno che mai per Megumi.
Cosa gli direbbe Utahime? Qualcosa come 'Non invadere il suo spazio, lascia che gestisca le sue emozioni' o 'porta lui nella tua calma, non cadere tu nel suo caos'.
Facile, se almeno lui fosse calmo. Peccato che non lo sia, per nulla.
In ogni caso deve farcela a riprendere in mano la situazione, a tornare alla realtà, e deve farlo in fretta, è lui l'adulto qui.
Fa un respiro profondo, un altro.
"Cucciolo, mi dispiace", prova, la voce meno tremante di quanto avrebbe pensato.
Tende una mano verso il bambino, forzandosi di sorridere.
"Sto bene, non volevo svegliarti".
Per un istante tutto è fermo, è difficile per Gojo non correre a prenderlo tra le braccia.
Poi qualcosa nello sguardo di Megumi si incrina, i suoi occhi diventano lucidi, il labbro inferiore sporge tremulo. In un attimo è arrampicato sul letto, il visino nascosto contro il suo petto, i piccoli pugni che stringono freneticamente la maglia del suo pigiama.
"Satoru, non te ne andare", sussurra piano, spezzandogli il cuore.
"Non te ne andare anche tu..."
"Non vado da nessuna parte, piccolo...", rassicura, stringendolo a sè. Dopo il sogno appena vissuto però, è una promessa che ha paura a fare.

Sembrano passate ore, quando Megumi si è finalmente riaddormentato.
Il viso nascosto nell'incavo del suo collo, le mani che non lasciano la stoffa bianca della sua maglietta.
Cercando di fare meno movimenti possibili, Satoru si appoggia alla testiera del letto, Megumi sempre rannicchiato contro il petto.
Le sue tempie pulsano al ritmo dell'emicrania regalatagli dalla nottata appena trascorsa. Le immagini del sogno, subito tanto nitide da non sembrare nemmeno sogni, stanno tornando ad essere fumose e confuse.
La paura che lo ha scosso al risveglio, però continua a rimanere lì. Nelle sue ossa.
La sveglia segna le sei della mattina. Quando avrà cuore di posare Megumi sul letto, magari si farà una doccia.
Non è pronto, ma la sua giornata deve iniziare.


*

"Quei jeans sembrano quelli delle mie sorelle..."
Suguru tiene il cellulare tra spalla e orecchio, rimpiangendo i suoi auricolari, ormai proprietà di Nanako.
Maledice le cuffie della ragazza, fuori uso dalla sera prima, mentre cerca in borsa l'abbonamento della metro, prima di far scorrere la tessera sul sensore del tornello.
Comunque avrebbe potuto fare a meno di tutto questo teatrino, mettere in attesa la chiamata e avere le mani libere, dato che il silenzio dall'altro capo del telefono gli fa quasi pensare che Shoko abbia riattaccato. A questo punto non sente di poterla biasimare.
Solo a ripetere la frase con cui ha iniziato la conversazione con il tutore del suo allievo, nonché ragazzo che sogna da mesi (ora a quanto pare anche senza vestiti da ragazzina di quindici anni) si sente più idiota di quando ha avviato la chiamata per raccontare alla donna la giornata precedente.
Ed il livello di imbarazzo era già abbastanza alto quando è stato svegliato dalle sue sorelle ed ha dovuto distrarle a suon di zuccheri dall'averlo trovato praticamente svenuto sul pavimento del bagno.
  Può essere sull'orlo della follia, ma ha ancora un minimo di istinto di autoconservazione, quindi nonostante le promesse fatte alle ragazze, non crede proprio che dirà a Ieiri quest'ultimo particolare.
Almeno non per telefono.
E no, non basta il ricordo degli occhi spalancati e indagatori di Nanako, nè quello del labbro tremulo di Mimiko, nè qualsivoglia immagine il suo cervello intenda proporgli, giusto per assicurarsi che non smetta di affogare nella vergogna.

"È una frase stupida da dire", commenta dopo quelli che sembrano interi minuti di mutismo l'amica.
"È così tanto carino?", aggiunge poi, con un tono che è un misto di curiosità e stupore.
"Ieiri, non è questo il punto", taglia corto. Basta quella piccola e quasi innocente, almeno per gli standard di Shoko, domanda, perché nella sua testa il sorriso leggermente spiazzato di un normale ragazzo con una felpa rosa troppo larga e un paio di jeans un po' corti per essere indossati da un trentenne, si fonda con uno più strafottente, dispettoso, familiare.
Lo sa anche lui di aver detto una frase dannatamente stupida, di sicuro l'ha fatto sembrare uno stronzo, ma quale era l'alternativa? 'Ciao! Ti amavo e mi hai ucciso in una vita precedente?'
Questo pensiero non fa tempo a formarsi nella sua mente, che subito altre immagini lo rincorrono. Un sorriso triste, una parola sussurrata, la luce dell'alba che colora tutto di lilla e arancio.
Freddo.
Per farlo tornare alla realtà, serve la voce di Shoko.
"Hai interrotto la mia colazione, se può esserci un risvolto alla tua noiosissima vita sentimentale, voglio saperlo".
Alza un sopracciglio, mentre lancia uno sguardo al tabellone dei treni, giusto per essere sicuro che il binario sia sempre lo stesso.
"Non penso che due sigarette e un caffè preso alle macchinette si possano definire colazione", quasi canticchia.
"Beh, resta il fatto che il mio tempo libero sia agli sgoccioli e far da psicologa a te non rientri tra le voci sul mio libro paga..."
Venale, pensa Suguru.
"Posso sempre offrirti un pranzo per sdebitarmi", tenta, prima di aggiungere, "un pranzo vero".
Ci tiene a specificare, ricordando come Shoko già ai tempi degli studi, facesse passare un pacchetto di patatine o una mela come pasto completo.
"Resto un patologo, Suguru. Come ti ho già spiegato sei fastidiosamente vivo per essere mio paziente..."
Sente la voce della donna più distante, ma non si preoccupa di controllare il funzionamento della linea. Conosce l'amica così bene da poter indovinare i suoi gesti. Quasi la vede allontanare il telefono dall'orecchio per guardare l'ora.
"Giornata piena, niente pranzo. Quindi hai ancora esattamente tre minuti..."
Suguru da un'occhiata all'orologio al polso, tra mezz'ora deve essere a lezione.
Ha decisamente bisogno di parlare con qualcuno e tre minuti non sono certo sufficienti. Quindi gioca sporco, bluffando.
"Ci facevo sesso", cede, tagliando con l'accetta tutto il contorno, cercando di tacere quella voce nella sua testa che gli ricorda l'imbarazzo che proverà davanti al tutore del suo allievo alla prossima riunione genitori-studenti.
"Nel sogno", specifica, dato che ha chiaramente sentito la donna trattenere il respiro. "Non in uno ripostiglio o in aula vuota a scuola".
"Interessante comunque", concede l'amica, "forse posso prendermi un'ora per pranzo, tanto i miei pazienti non vanno da nessuna parte". La voce atona unita al solito humour nero gli strappano una risata.
Sta per chiudere la telefonata, quando la donna riprende a parlare.
"Non mi innamoro di ragazzi a caso che mi perseguitano in sogno".
"Prego?", chiede stordito.
Confuso non per le parole di Shoko, ma per il ragazzo a pochi metri da lui.
Alto, dai capelli bianchi e con indosso gli occhiali da sole.
È appena sceso dal treno arrivato al binario, porta una cartella in spalla e tiene un bambino per mano.
Un bambino con una testa di capelli corvini a punta e un peluche di cane nero stretto tra le braccia.
"È quello che hai detto esattamente due giorni fa, Suguru..."
Sbatte gli occhi, ricordandosi di essere ancora al telefono con Shoko, mentre cerca vie di fuga da quell'incontro che ora non sente proprio di poter affrontare.
Troppo tardi, perché il piccolo Fugushiro Megumi si volta verso di lui e lo riconosce. Gli tira un'occhiata annoiata, prima di scuotere la manica del suo tutore.

"...non mi innamoro di ragazzi a caso che mi perseguitano in sogno".

"Satoru guarda! C'è Geto sensei!".





*Shiro: favola giapponese.

E questo doveva essere un capitolo breve e leggero. Poi che è successo? Non saprei dirlo, ma è stata psicologicamente una faticaccia.
Annuncio infatti che per il prossimo mese ripiombo nella mia confort zone di Tattoos and coffee e prequel, che se no mi deprimo... 😅
Precisazione sui personaggi: ci sono molte fic, bella e su cui non ho nulla da dire, in cui Gojo è tipo la persona migliore del mondo. Ecco, nelle mie no. Soprattutto qui, no.
Passa dall'essere un idiota infantile ad uno psicopatico infantile. Che però ci prova ad essere una persona "migliore", che sia per il figlioccio o per i suoi studenti, poco importa.
Perché? Perché è così che vedo il personaggio ed è per questo che lo trovo uno dei meglio costruiti da Gege.
Perché sto pippone?
Così, per mettere le mani avanti. Che poi non si dica che non ho avvertito.
Anyway, questa è la fan art che ha ispirato la mia testolina per la prima parte del precedente capitolo.
https://mobile.twitter.com/_3aem/status/1612124621842833410/photo/1
Un abbraccio, Amy
Ps. Precisazione che potrebbe incuriosire e spingere verso gli spoiler.
In questa storia, ci sono spoiler del manga fino alle uscite italiane, quindi direi ad oggi volume 17.
Per chi come me è in pari con le uscite giapponesi e si guarda pure gli spoiler, scusate. Giuro non volevo, scusate.

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Capitolo 7
*** Epiphany ***


"Ti ricordi lo scorso Mitama Matsuri?"
"Sì, avevi uno yukata splendido! Ma non è la sera che quello stupido ti ha baciata?"
Le due ragazzine quasi lo urtano e nemmeno se ne accorgono, troppo concentrante a parlare fitto fitto tra loro, le frasi che non riescono a trovare una conclusione, soffocate da una risata o da un gridolino.
Le loro parole però, si lasciano qualcosa dietro.
Il ricordo delle luci, dei profumi, dei suoni del festival estivo.
Una frase sussurrata, come se fosse un segreto.

"Posso baciarti, Suguru?"

La voce che saltella nel chiuso del suo cervello è dannatamente simile a quella dell'uomo che ha di fronte.
È solo stranamente timida, più spensierata e giovane.
Arriva, forse torna, portando a braccetto un ricordo che si fa strada nella sua memoria, pigro e lento come una sera d'estate.
Di lanterne e bancarelle, di stoffe colorate e di uno yukata blu come il cielo di luglio.
Di una mano che avvolge il suo polso e lo trascina via, di dita affusolate che si intrecciano alle sue, di corse, di un angolo di prato sotto il cielo di Tokyo.
È il ricordo di capelli bianchi che gli solleticano il viso.
Di profumo di shampoo alle mandorle, fresco nella calura della sera, del canto dei grilli che riempie l'aria pregna dell'odore di takoyaki.
Di un ragazzo con le guance rosse per la corsa, bagnate d'oro dalla luce delle lanterne.

"Non sono mai stato al Mitama Matsuri, sai?"

"Sei così bello..."

"Posso baciarti, Suguru?"

La cantilena meccanica dall'autoparlante avvisa dell'arrivo del treno al binario e Suguru sbatte le palpebre una, due, tre volte, mentre il ricordo perde forma, con lo scoppio gentile di una bolla di sapone.
O sarebbe meglio dire di un fuoco d'artificio, lasciando dietro di sè scintille che ancora continuano a brillare nella sua testa.
Tipo farfalle nello stomaco? A trent'anni?, si chiede un pochino indignato con se stesso.
Si domanda anche chi in Giappone non sia mai capitato almeno una volta al Mitama Matsuri.
Lui c'è stato ovviamente. Ogni estate, da bambino.
Anche quando tutto ha iniziato ad andare male, anche dopo che i suoi hanno cominciato a guardarlo come se qualcosa in lui non quadrasse.
Quelle sere di luglio erano momenti felici, quando la visita al tempio li portava tutti in città.
Il loro angolo di provincia rimaneva alle spalle e con esso i compagni di classe, le loro occhiate, i mormorii dei vicini sul 'figlio strano dei Geto'.
Ricorda anche il primo da solo con Nanako e Mimiko, poco più che bambine, tutte fiere nei loro yukata, leggermente impacciate mentre correvano tra una bancarella e l'altra con ai piedi i geta nuovi, così diversi dalla scarpe da ginnastica che erano già solite indossare.
Ma tra tutti quei ricordi, come si incastra quello che gli è appena corso alla mente?
Non è mai stato ad un festival con il ragazzo che ha di fronte.
Non avrebbe potuto. Fino al giorno prima, l'altro era solo una presenza strana nei suoi sogni.
Perché è così chiaro, allora?
Perché si intreccia a quello di Nanako che lo tira per una mano a vedere uno yukata blu, che lei e la sorella avevano adocchiato per lui?
È tutto lì, nella sua mente. E mentre le loro voci si confondono, teme di star perdendo la testa.

"Possiamo pettinarti noi, vero Ni-Chan?"

"Hai capelli così belli, Geto Sama..."

"Posso baciarti, Suguru?"

"Ehi, stai bene?"
Una voce reale, o almeno spera che lo sia e non si riveli l'ennesimo parto della sua mente, richiama la sua attenzione.
Il fischio del treno in arrivo sul binario gli conferma che sì, quella è la realtà.
E in carne ed ossa è anche la versione di Satoru Gojo che ha davanti e che lo sta guardando come se fosse totalmente pazzo.
Una parte del suo cervello, quella che ancora funziona, gli fa notare che sarebbe carino, dopo aver fatto la figura dello stronzo con lui il giorno prima, non fare anche quella dell'idiota.
"Sì, solo un po' di stanchezza...", cerca di ricomporsi.
"Grazie", aggiunge, abbassando lo sguardo sul piccolo Megumi e rivolgendo un sorriso al suo allievo.
"Fushiguro Kun, pronto per andare in classe?"
Il bambino annuisce con fare scocciato, prima di nascondersi dietro alle gambe del tutore.
Suguru mantiene il suo sorriso calmo, ben attento a non invadere i confini che il piccolo ha costruito attorno a sé.
Si trattiene a malapena dall'alzare gli occhi al cielo, anzi forse non si limita affatto, vedendo Gojo fare l'esatto opposto. Il ragazzo si gira a guardare verso i suoi talloni, ridacchiando mentre prende Megumi tra le braccia per stanarlo dal suo nascondiglio.
Con una mossa che deve essergli abituale, rapida e fluida, se lo aggancia ad un fianco.
"Ehi, non fare il maleducato...", aggiunge, pizzicando il naso del piccolo.
Megumi quasi soffia, strappando ad entrambi un sorriso.
Privato del suo nascondiglio, il bambino borbotta una o due frasi, prima di agganciare il mento alla spalla dell'adulto, nascondendo il viso.
"Fare lo scontroso non ti renderà certo più affascinante, Scimmietta", lo riprende Gojo.
Il tono però è dolce e l'insegnante deve trattenersi dal far diventare il suo sorriso troppo ampio.
Ascolta il bambino brontolare un 'non sono una scimmietta', mentre continua ad impegnarsi nel suo tentativo poco riuscito di sparire nella giacca del tutore.
Poi, lo sguardo di Gojo si sposta su di lui e Suguru deve fare uno sforzo per rimanere focalizzato sulle sue parole.
"Perdonalo, Geto Sensei...", sbuffa, sistemandosi meglio il piccolo Fushiguro addosso.
E più piano, quasi mimando le parole, in modo che solo lui possa sentire: "nottata difficile".
"Non preoccuparti, Gojo San".
Gojo San... è strano chiamarlo così, sembra sbagliato.
È come se dovesse sputare fuori le parole.
Anche l'altro sembra stranito, quasi stupito dall'uso dell'onorifico e dalla formalità di Suguru.

Il silenzio si fa imbarazzante finchè Gojo non lo interrompe (e chi se non lui), con un 'quasi scordavo', masticato tra i denti.
Si fruga in tasca e gli allunga un biglietto da visita.
"Ieri mi sono dimenticato, questo è il mio numero... "
Suguru cerca di frenare la mano, ma quella già si è sporta a prendere il biglietto.
Qui non c'entrano gli strani scherzi che l'arto sembra divertirsi a fargli ormai quasi quotidianamente, ora è solo lui che è un idiota.
Vorrebbe correre ai ripari, dire che non può accettarlo, non sarebbe professionale, ma le parole gli rimangono incastrate da qualche parte tra lo stomaco e la gola.
Regala all'uomo dai capelli bianchi un vantaggio che l'altro non esita a cogliere.
"Dai, oggi non sono nemmeno vestito come un quindicenne".
Gojo mette su un sorriso gentile. Sembra flirtare con lui, la voce più bassa di un'ottava o due.
Mentre parla si sfila gli occhiali, infilandoli nella tasca del cappotto.
Colpo basso. Colpo estremamente basso, pensa Suguru, mentre non può fare a meno di rimanere stordito dall'azzurro insensato degli occhi di Satoru.

Non fare l'idiota, si schernisce, imbarazzato dai suoi stessi pensieri, decidendo di soffocarli, partendo al contrattacco.
"Beh, sì... oggi sembri quasi un adulto", ribatte, soddisfatto di quanto la sua voce suoni tranquilla.
La risposta è un'espressione tanto offesa da essere al limite del teatrale, con tanto di mano al petto.
Gli occhi di Satoru però sorridono tutto il tempo, complici.
Sembra quando torna il sole, si trova a pensare Suguru, sbattendo le palpebre immediatamente dopo, nel tentativo di liberarsi di quell'idea.
"Occasione particolare?", chiede fingendo indifferenza, lasciando però correre lo sguardo sulla figura dell'altro.
Si sofferma un po' troppo, ne è consapevole. Si giustifica ricordandosi improvvisamente di avere un debole per cappotti lunghi e dolcevita neri come quelli indossati da Gojo.
"Semplice lavoro", risponde l'altro uomo, probabilmente fingendo di non aver notato la sua occhiata.
"Scherzavo comunque, il biglietto è quello di Utahime Iori, una amica speciale di Megumi..."
Fa cenno al cartoncino che Geto non si è accorto di tenere tra le sue mani.
Quando diamine l'ho preso?, si chiede.
È un idiota, conclude per la seconda volta in nemmeno dieci minuti. Pensava di essere diventato pazzo, invece si è anche instupidito, a quanto pare Gojo gli fa quell'effetto.
Gli sarebbe bastato guardare il biglietto da visita, per leggere il nome della donna, con a fianco la qualifica 'Psicologa infantile'.
Alza lo sguardo incredulo verso Gojo e come unica spiegazione al siparietto appena vissuto, riceve un sorriso tronfio e un occhiolino.
Si gratta la fronte con indice e medio, gesto che si trova a fare quando ha una scelta da prendere.
In quel momento davvero non sa se ha più voglia di tirare un pugno in faccia al ragazzo o... nulla, vuole solo davvero tirargli un gancio destro su quel viso angelico che l'altro si ritrova.
Il fatto che l'altro abbia un bambino in braccio e che siano in un luogo pubblico, lo fa optare per una soluzione differente.
Questo e l'alta probabilità che un occhio nero finirebbe per renderlo solo schifosamente più attraente.
Niente cazzotto, quindi. Opta per grattarsi la nuca, ricambiando il sorriso.

Il treno si decide ad arrivare e lui si trova a guardare il convoglio avvicinarsi come un'ancora di salvezza.
Non può fare a meno di chiedersi, da quando in Giappone i treni ci mettano tanto a palesarsi.
Proprio oggi, le ferrovie hanno deciso di combattere gli stereotipi?
Proprio mentre sta cercando una scusa per salire su un vagone diverso da quello del suo allievo e del suo tutore, Gojo riprende a parlare, facendolo sobbalzare.
"Comunque se ti servisse anche il mio, è sullo zainetto di Megumi".
Potrebbe far finta di non aver sentito, ma il suo corpo (infame) lo tradisce ancora una volta e lui si ritrova a far cenno di 'sì' con la nuca.
"Satoru", aggiunge l'uomo, salendo sul vagone. "Niente onorifici, solo Satoru".
"Puoi chiamarmi Suguru", risponde dopo qualche istante.
A ribattere, resta la voce meccanica dall'autoparlante della stazione.
Imbambolato sul binario, ci mette qualche secondo a rendersi conto che dovrà aspettare il prossimo treno.

*

"Iori, io ho un lavoro", specifica, sbuffando in modo teatrale mentre si leva la giacca. Fa davvero troppo caldo in quella stanza.
"Che non è nemmeno vicinissimo al tuo studio...", aggiunge, con un certo fastidio.
Appoggia il palmo della mano alla scrivania per darsi un minimo di equilibrio, mentre riprende a muovere i fianchi.
"Non è che puoi chiamarmi ogni volta che la madre di un ragazzino ti fa girare le scatole..."
L'altra mano va a coprire la bocca di Utahime, che sta diventando davvero troppo rumorosa per essere le due di pomeriggio.
Ci manca che la stagista della donna entri e becchi la sua mentore sperimentare nuovi fantasiosi usi per la scrivania dell'ufficio.
Tipo starci piegata sopra. Con lui dietro.
Senza contare che è quasi certo che la ragazza abbia una cotta per lui. Miwa? Si chiama Miwa, giusto?
Iori però sembra non gradire il tentativo di evitarle una figuraccia, vista la morsicata che tira alle sue dita.
"Ahi!", grida, stupendosi di quanto la sua voce suoni stridula, mentre ritira la mano come scottato.
"Allora cerca di fare meno casino", sussurra direttamente nel suo orecchio, assicurandosi di suonare più minaccioso di un sedicenne alle prime armi.
Pianta una sculacciata sulla natica della donna, tanto per rimarcare il concetto.
Oltre che per vendicarsi per la morsicata.
È distratto. Ad essere sincero ha anche una certa fretta.
Dannato lui e la mascolinità tossica che evidentemente ha interiorizzato e che  lo rende incapace di dire di 'no' quando gli viene proposto del sesso.
Sente la camicia appiccicata addosso. È come se ogni grammo di filato scavasse piccoli solchi fastidiosi nella sua epidermide.
Sta scopando Utahime, ma a fottere lui è la sua emicrania.
Come se avesse un tarlo a pizzicargli il cervello.
Con una parte della mente registra che fuori sta cominciando a piovere.
Corre con lo sguardo alla finestra dello studio, catturando uno spicchio di cielo grigio.
Chiude gli occhi, cercando di scacciare la sensazione di fastidio, concentrandosi sul suono delle prima gocce contro il vetro.
Il suo corpo si muove in automatico, spinge i fianchi senza pensare, mosso dall'istinto e dalla memoria muscolare, mentre la sua mente finalmente si rilassa.
Il picchiettare della pioggia si fa ad ogni istante più intenso, quasi silenzia i rumori della città.
Si fa strada nella sua testa, fino ad aprire la porta ad un ricordo, quello di una pioggia diversa.
Una pioggia che non batte sui palazzi, ma cade sui gradini in legno di una veranda, sulle foglie degli aceri di un giardino che ancora non si è tinto dei colori dell'autunno.

"...Satoru"

"Satoru, tutto bene?"

Sbatte le palpebre. Confuso.
La notte in bianco a quanto pare si fa sentire più del previsto.
Riprende fiato. Fa scendere Utahime dalla scrivania, per sedercela sopra e infilarsi tra le sue gambe.
"Sì, certo, perché non ti piace?", chiede con il tono più provocatorio che riesce a fare.
Vuole liberarsi della sensazione di tristezza che gli attanaglia lo stomaco il più velocemente possibile.
"A me sì, ma sto cominciando a chiedermi se sta piacendo a te..."
Iori lo guarda con una vaga preoccupazione nello sguardo.
È decisamente tranquilla, per la posizione in cui si trovava fino a qualche minuto prima, Satoru gliene dà atto.
È anche drammaticamente loquace.
La cosa lo punge anche un po' sul vivo, deve ammetterlo.
Secondo la sua esperienza, a questo punto la sua dialettica dovrebbe essere poco più che un pasticcio incoerente.
"Vuoi ricordarti una dannata volta che sono una psicologa?", continua lei.
"Infantile", sottolinea Gojo, prima di mordere la pelle bianca del collo.
"E non osare darmi del bambino ora, Hime".
La donna sta per ribattere, ma qualsisi frase stia per dire, muore sul gemito che non riesce a trattenere, mentre lui assesta una spinta più convinta delle altre.

La pioggia continua a battere, quasi un sussurro costante nella sua mente.
Porta rumori, suoni, colori che sembrano venire da lontano.
E visi, uno in particolare.
E voci, una più forte delle altre.

"Il grande Satoru Gojo mi ha degnato di una visita?"

"Cosa?", chiede stordito ad Utahime, che persa nel suo piacere manco lo ascolta.
Ma la voce non è la sua. Non era nemmeno quella di una donna.
La conosce, però. È quella che sente ormai di continuo, una notte dopo l'altra.
Anche se mai così tagliente, così fredda, a malapena ingentilita da una maschera di finta condiscendenza.
Non importa, lo attira comunque.
Satoru si lascia andare, scivolare, correndo dal presente al ricordo.
Nella sua testa si dipinge chiara l'immagine di un uomo dai capelli neri sciolti sulle spalle, tanto lunghi da arrivare fino ai reni.
Lo sguardo perso, incatenato alla pioggia d'agosto.
Non lo guarda mentre parla, scandendo le parole lentamente. Il tono cantilenante e strafottente, non riesce a cancellare la tristezza che cerca di nascondere.
Suguru è deluso. Per questo non lo degna del suo sguardo, Satoru lo sa.
Legge la sua rabbia, la vede nelle dita chiuse a pugno dell'uomo, tanto strette da far sbiancare le nocche.
Le parole possono mentire, il corpo no.

"Satoru hai detto qualcosa?"
Le voce di Utahime risuona lontana, distante come un'eco.
Quella di Suguru, invece, scava nel profondo.
In una parte del suo cervello, Gojo prova a ritrovare un po' di razionalità.
Cerca di tenere a mente che quello è un ricordo non suo, per un istante ne è consapevole, ma sente comunque che gli appartiene così intimamente, da non riuscire a staccarsene.
È come dondolare, un andirivieni assurdo, fino a non comprendere quale sia la realtà.
Sceglie. Sceglie di permettere che il profumo della pioggia riempia le sue narici.
Ed è realmente lì, a vivere quella strana epifania nella pelle di qualcun'altro che è anche la sua.
Dimentica tutto, dimentica il traffico di Tokyo e il mal di testa, il lavoro e il sesso.
È davvero lì, a godere di ogni istante che può concedersi a bere l'immagine di quello che sa essere Suguru.
Non il suo Suguru, se così può definire l'insegnante che ha incontrato sul binario quella mattina.
Questo è il Suguru di un altro Satoru, lo sa. Lo sente, ma non gli importa.
Non può fare a meno di guardarlo. Sembra un quadro, a piedi nudi su una veranda dal pavimento in legno, con un kimono leggero che gli scivola addosso e la pioggia che gli bagna il viso.
È così bello da spezzargli il cuore, ma ciò non lo rende meno pericoloso.
È freddo, corrotto, spezzato.
Calmo della pace che si trova nell'occhio di un ciclone o nell'elettricità che attraversa l'aria prima della tempesta.

"Non ti vedo da mesi..."
È appena un sussurro, sputato fuori, a denti stretti, ma quelle parole sono veleno sulla pelle di Gojo.
Lo sa, di meritare quella rabbia. Lo sa, perché la conosce bene. Quella di Suguru è la stessa che lacera lui.
Ma è anche consapevole di non poter fare altro, di non poter dare altro all'uomo di fronte a lui.
Solo pochi, frettolosi attimi, spesso ridotti ad amplessi disperati, a sfuriate altrettanto laceranti o a silenzi assordanti. È tutto quello che lo stregone più forte ha da dare all'amore della sua vita, alla sua maledizione.
Sa bene che sono le loro scelte ad averli portati a questo.
Vorrebbe abbracciarlo, portarlo indietro. Portare indietro i giorni per lui. Amarlo.
Non può.
Non in quel tempo, né in quel luogo.
In quell'istante si accontenterebbe anche di meno, gli basterebbe che lo guardasse, che lo degnasse di uno sguardo.
L'uomo lo fa e lui si ricorda che dovrebbe fare attenzione a quello che desidera, perché se Suguru ormai è più maledizione che uomo, il dolore nei suoi occhi è dannatamente umano.

"Vattene Satoru..."

"Satoru, fermati..."

Questa volta la voce è quella di Utahime. È chiara, reale, vicina.
Blocca ogni movimento, ogni muscolo, terrorizzato dall'aver fatto qualcosa di sbagliato.
Sbatte le palpebre, tornando al presente.
Una mano di Iori è sulla sua guancia, lo sguardo della donna ora è davvero preoccupato.
"Satoru... stai piangendo?"
Come un automa sposta la mano dell'amica dal suo viso, sfiorando la propria pelle.
Trovarla bagnata non lo stupisce nemmeno.

Nei minuti che seguono, in qualche modo, riesce a seppellire nel profondo gli occhi pieni di dolore di Suguru Geto.
O almeno, quello di un Suguru Geto diverso, più problematico di quello in cui è incappato lui. O almeno spera.
"Ehi, aiutami con la zip, si è incastrata..."
Smette di litigare con i polsini della sua camicia, per dedicarsi alla cerniera della gonna della donna.
"Allora...", esordisce lei, tastando le acque con modi insolitamente cauti.
Lo sta trattando come se fosse un suo paziente, un qualche ragazzino odioso e viziato. Satoru lo odia.
"Non stai per psicanalizzarmi...", premette, mettendo le mani avanti.
Almeno metaforicamente, nella realtà non può farlo, è troppo impegnato a litigare con quella dannata cerniera.
Non è stata tanto difficile da slacciare, pensa, sbuffando via un ciuffo di capelli dagli occhi.
Utahime lo ignora, proseguendo nei suoi tentativi di aprire un dialogo su quanto appena successo, girandogli intorno come fa quotidianamente con bambini particolarmente poco inclini a dialogare.
"Per tanto che mi dispiaccia perdermi il mio orgasmo settimanale..."
Satoru sgrana gli occhi, spera seriamente non esordisca così anche con i suoi piccoli pazienti. Perlomeno non con Megumi.
Con lui funziona però, se ne accorge tardi, quando ormai è caduto nella trappola della donna.
Prima di rendersene conto, abbandona il suo mutismo e scatta sulla difensiva.
"I tuoi orgasmi, so contare Hime".
La donna ruota gli occhi, senza prestargli attenzione.
"In ogni caso, magari hai bisogno di parlare un po'?"
Ripensa alle ultime ventiquattro ore. All'ultimo mese e ai sogni assurdi che ora paiono voler invadere anche la vita reale.
Forse è davvero il caso di affrontare il problema.
"Hai appuntamenti la prossima ora?", chiede. Al segno di diniego di Iori, si lascia cadere sulla poltroncina dedicata ai pazienti, distendendo le gambe sul tappeto decorato con facce di animaletti. Si mette comodo, sarà un'ora lunga.
"Sta notte ho avuto un incubo..."


Un altro posto, un altro momento


Yutaa, Yutaa, Yutaaa

Il cuore gli rimbomba nelle orecchie, al ritmo dei suoi stessi passi.
Lo scricchiolio delle assi del pavimento sotto i suoi piedi è l'unico rumore nel silenzio assoluto dei corridoii dell'Istituto di Arti Occulte.
Almeno, l'unico udibile da altri.

Yutaaa, Yutaaaa, Yutaaaa

Okkotsu si ferma, sistema meglio la katana al suo fianco. Solitamente la porta sulla schiena, ma dopo quanto è successo, con i fatti di Shibuya, le vittime, Satoru Gojo sigillato, si appiglia a qualsiasi cosa gli possa dare sicurezza.
E ora ne ha bisogno anche lì, anche nel primo posto che è riuscito a chiamare casa.
Lì, dove imparando a proteggere, si è sentito protetto. E tutto grazie al Sensei.

Yutaaa, Yutaaaa, Yutaaaa
"Rika..."
La sua risposta è appena un sussurro, sospirato piano mentre accarezza con le dita l'anello che porta al collo. È sufficiente perché alle sue spalle si manifesti la maledizione.
L'energia di Rika è al solito ad un tempo rassicurante e spaventosa, come solo un abisso può esserlo.
Famigliare, conosciuta, tanto quanto lo è la sensazione dei filamenti dell'anima della ragazza ormai tessuti nella sua.
Eppure Rika è ancora capace di terrorizzare ed annichilire anche lui, quando prende la forma della sua peggior paura: quella di non saper più distinguere dove inizia l'uomo e dove finisce la maledizione.
È lo stesso timore che prova in momenti come questi, quando non capisce nemmeno se quella che sente ribollire, è la rabbia di Rika o la sua.
Geto Suguru a furia di ingoiare maledizioni, era a poco da trasformarsi in una di esse, quando lo ha affrontato.
Finirà anche lui così?
Cosa lo rende in grado di tenere controllata La Regina delle maledizioni, senza pagarne il prezzo?
Imprigionata, non può fare a meno di pensare, sentendo la colpa pesargli nello stomaco come un macigno.
"Rika, non in questa forma per favore". L'artiglio che preme contro il suo fianco si ritira, lasciando una piccola mano che in pochi secondi si aggrappa alla sua.
L'entità davanti a lui quasi non gli arriva al petto.
"Rika ama Yuta, vuole proteggere Yuta", recita la maledizione dalla voce e dall'aspetto di bambina.
"E anche gli amici di Yuta", aggiunge, dopo un attimo di esitazione, dandogli l'impressione di averlo detto unicamente per fargli piacere.
"Ma Yuta ora ha paura, Rika lo sente", conclude, stringendo appena la mano del ragazzo.
"Gli altri non devono rendersene conto, vero?", risponde lui, chinandosi all'altezza della bambina.
"Rika, il prof ha detto di proteggerli", aggiunge. "Possiamo farlo solo noi e lo faremo a qualsiasi costo"

"Shake..."
Fermo sullo stipite della porta, Yuta rimane congelato a guardare una delle conseguenze dei fatti di Shibuya.
Seduto sul letto, avvolto nelle bende, Toge gli pare così piccolo.
Le fasce sono coperte dai caratteri che formano sigilli, posti per evitare che l'energia maledetta dell'attacco di Sukuna faccia più danni di quanti ne abbia già fatti.
Quello è il massimo che erano riusciti a fare.
Il viso del ragazzo è pallido, i marchi del clan Inumaki risaltano sulla pelle bianca, così come le occhiaie scure.
Okkotsu si sente sprofondare.
"Ehi... come stai?", sussurra, avvicinandosi cauto.
L'altro fa spallucce, poi lancia un'occhiata al moncherino del braccio.
"Scusami, domanda stupida...", riprende Yuta, "Sono un idiota"
"Okaka!"
Toge scuote la testa, prima di indicargli con la mano rimasta, lo spazio vuoto al suo fianco.
Con occhi bassi, obbedisce e si lascia cadere sulle coperte.
Tiene lo sguardo fisso sulle sue stesse mani, lasciate abbandonate in grembo.
Non riesce a guardare le ferite del compagno. Soprattutto, non può non pensare che avrebbe potuto far qualcosa per evitare tutto questo.
"Tuna mayo..."
Inumaki pare leggere i suoi pensieri, il tono pieno di rimprovero, mentre cerca di capire cosa stia pensando.
'È assurdo, Toge è quello che usa il linguaggio maledetto, ma il più incomprensibile dei due sei tu', aveva detto un giorno Panda, guardandoli insieme.
Yuta ricorda come Maki avesse riso, mentre Toge confermava entusiasta con una serie pressoché infinita di 'Shake, Shake'.
Gli mancano quei giorni. Soprattutto ora.
Intreccia le dita con quelle dell'altro ragazzo, portandosele alle labbra e baciandole con tutta la delicatezza che conosce.
Rika si tende, scalpita. Yuta avverte tutta la gelosia, infantile, della maledizione.
Stranamente la sua irrequietezza non lo smuove più di tanto, è un discorso che hanno già affrontato.
L'occhiata di Toge invece gli suggerisce tutto il fastidio del suo ragazzo ad essere trattato con i guanti di velluto.
Prova tenerezza e amore, per entrambi, ma in qualche modo non è riuscito a proteggere nessuno dei due.

"Io avrei potuto fermare Itadori..."
"Sukuna", si corregge, davanti allo sguardo pieno di rimprovero di Inumaki.
"Lo so che non è colpa di Yuji, non lo biasimo, ma..."
Le parole gli muoiono in gola. È stanco, stanco, stanco.
Non crede di essere pronto a quello che sa di dover fare.
"Io... avrei dovuto essere con voi", sussurra scuotendo il capo.
"Okaka...", risponde l'altro, con un tono di rimprovero nella voce che spinge Yuta ad alzare lo sguardo.
"il Sensei mi aveva avvertito che qualcosa non andava..."
"Takana..."
Okkotsu sa esattamente cosa intende e per la prima volta da quando ha messo piede in quella stanza, scoppia a ridere.
"Sì, è stato il solito idiota", concorda, sentendosi un po' in colpa, non riuscendo a nascondere l'affetto per il suo insegnante.
Non riesce a biasimare del tutto Gojo per essersi lasciato ingannare. Non lo biasimerebbe nemmeno se avesse smesso di voler combattere, dopo...
"Ma non riesco a pensare a cosa ha passato, Geto era il suo migliore amico..."
Inumaki sbatte la testa contro la sua guancia, attirando la sua attenzione. Gira il viso verso di lui, sfiora con un bacio le sue labbra, stranamente libere, senza lottare per una volta contro colli alti o sciarpe.
Ignora indispettito il borbottio di Rika, appuntandosi mentalmente di rifarle un bel discorso su quanto Toge sia importante per loro.
Si lascia andare ad un altro bacio, più profondo, cercando di non pensare a quanto Inumaki sembri piccolo e fragile tra le sue braccia.
Non sa quando potranno rivedersi, quindi si prende ancora un attimo, per posare la fronte contro quella del compagno.
"Ucciderò Kenjaku, porterò indietro il prof Gojo..."

"Lo prometto".




Mitama Matsuri, o "Festival delle lanterne", si svolge a metà luglio al Santuario Yasukuni di Tokyo. Durante i quattro giorni della festa, le bancarelle di cibo tradizionali offrono i loro piatti lungo il vicolo principale del tempio ai partecipanti solitamente vestiti con lo yukata, kimono tradizionale in cotone leggero.



Ops, ma cos'è questo ultimo paragrafo dall'universo canonico?
Chi scrive che sente la mancanza di Yuta? Anche, molto, decisamente, ma non solo.
Credo che i lettori attenti del manga, possano trovare nascosta (nemmeno tanto) il momento che ha fatto nascere questa storia. Ovviamente, la chiave di lettura verrà chiarita prima o poi. Ma non voglio spoilerare nulla, per ora beccatevi questa specie di, boh, multiverso?
Comunque, tornando al capitolo, chiedo scusa al fantasma di Joyce per un uso così bieco della sua epifania (un po' è quello che si rischia, quando le tue scelte di scrittore obbligano generazioni di studenti a leggere The Dubliners). In particolare, la parte su Suguru in veranda non doveva esserci, anzi, doveva essere la parte "leggera" del capitolo, con il buon Gojo che si faceva i fatti suoi con la sua "amica con benefici" e veniva distratto dal pensiero di Geto.
Poi che è successo? È successo che ho visto una fan art stupenda ( https://pin.it/2QC8Xdv ) e sentito a ripetizione "Snake eyes" dei Mumford and sons.
Ora che avete tutti gli strumenti per godere a pieno dell'angst partorito dalla mia mente, sperando di non metterci più due mesi per un capitolo, mando un abbraccio.

Amy

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