Leone

di moira78
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Uccellini che cinguettano e infermiere che non stringono bende ***
Capitolo 2: *** Candy torna a casa ***
Capitolo 3: *** Albert torna a casa ***
Capitolo 4: *** Candy e Albert tornano a casa ***



Capitolo 1
*** Uccellini che cinguettano e infermiere che non stringono bende ***


Non c'è niente di così piacevole come tornare a casa.
(Margaret Elizabeth Sangster)


 
 
 
Uccellini che cinguettano e infermiere che non stringono bende

Candy lisciò con la mano le bende che dovevano essere applicate sulla ferita di Albert la mattina dopo, srotolandone una piccola striscia per accertarsi che fossero della larghezza giusta. Seduta su uno sgabello in un angolo dello studio del dottor Martin, ebbe una specie di dejà-vù: ma stavolta non ci sarebbe stato un rientro congiunto a casa, né un maglione rosso e caldo, pieno del profumo di lui, che l'avrebbe avvolta.

Perché Albert, testardo, aveva preferito tornare a casa prima di lei per cominciare a preparare la cena come se fosse un giorno normale e non quello in cui si era quasi fatto uccidere da un leone.

Serrando i denti e gli occhi che, finite le lacrime, sembravano bruciare per la rabbia al pari dell'intero corpo, Candy ripose con gesti secchi le bende e il disinfettante nell'armadietto, richiudendolo con tale impeto che il vetro tremò.

"Se domani lo medichi con questa delicatezza rischi di riaprirgli le ferite. E non ti conviene portare un po' di quelle cose a casa? Sai, nel caso servissero stanotte...".

La voce e le parole del dottor Martin le arrivarono alle spalle assumendo le sembianze di piccole spine che la punzecchiassero implacabili. Non era un tono quasi ironico quello che stava usando il buon medico? E non era il medesimo che, dopotutto, usava quasi sempre? Allora perché si stava voltando con tanta veemenza pronta a gridare?

"Se lo merita un po' di dolore per la grande sciocchezza che ha fatto!".

Il dottore inarcò un sopracciglio, piegando i gomiti e appoggiando le mani grassocce sui fianchi prominenti: "Mi sembra che tu oggi lo abbia punito abbastanza".

Candy si morse il labbro, in leggero imbarazzo: era vero, aveva stretto un po' troppo le bende, tanto che Albert si era lamentato che gli stava facendo male. Peccato che le ferite parallele lasciate dal grosso felino dovessero bruciare come l'inferno e sul suo volto non aveva visto che una vaga smorfia di dolore solo nei primi istanti. Non un fiato quando gli avevano tagliato via la camicia sporca di sangue, non una reazione quando aveva appoggiato il batuffolo di disinfettante sui tagli, se non un sussulto appena percettibile a lei, che era un'infermiera. Un'infermiera che si era diplomata per poterlo assistere quando era arrivato, smagrito e smemorato, nella stanza numero zero.

"Perché si è lamentato tanto, poi", aggiunse sbuffando e incrociando le braccia. Era quasi ora di tornare a casa e non voleva dare a vedere che fremeva per rivederlo e accertarsi che stesse bene, che l'infezione non avesse preso il sopravvento. Lo avrebbe trovato sulla soglia della loro cucina, con il solito grembiule e la pentola in mano, intento a darle il bentornata e a spiegarle cosa aveva cucinato di buono o accasciato nel suo letto, febbricitante e con una smorfia di dolore sul viso?

L'urgenza improvvisa di accertarsi che Albert stesse bene quasi offuscò le considerazioni su quel viso, che tentavano di affiorare maliziose per ricordarle che sì, era davvero bello senza tutta quella barba, anche se già lo aveva pensato quasi due anni prima, rivedendolo in ospedale. E persino in un tempo antecedente, a Londra, pur se il pensiero era stato una sorta di solletico in mezzo alla tempesta che Terence stava appena cominciando a provocarle.
Un viso d'angelo, cesellato come un'opera d'arte, nel quale gli occhi azzurri erano acque placide che avevano il raro e potente dono di calmarla.

Le dita le schioccarono davanti al volto e Candy si accorse che il ronzio lontano che udiva era, ancora una volta, la voce del dottor Martin che parlava ma non ascoltava affatto. Si stava soffermando sul proprio rientro da New York, sentiva persino sulla pelle il gelo della neve e il calore implacabile della febbre. Salvo poi perdersi nei laghi calmi di Albert, ricominciare a respirare al tocco delle sue mani gentili che le toccavano la fronte, trovare un conforto quasi sconfinato nelle sue braccia forti che la avvolgevano in un abbraccio e smarrire gran parte del dolore nel suo tono pacato e dolce mentre le spiegava che lui avrebbe fatto lo stesso, che la gentilezza di Terry era stata uno dei motivi per cui si era innamorata.

"Credo che tu non abbia ascoltato una sola parola di quello che ti ho detto, vero? È perché non siete tornati a casa insieme a braccetto come quella volta, giusto?". La risata sguaiata le diede modo di infuriarsi abbastanza per mascherare il rossore che le era salito al volto.

"Non è divertente! Lo sa che sarei tornata a casa con Albert, ma ha insistito perché rimanessi qui con lei a imparare quello che devo fare da domani. Può... ehm... ripetere quello che mi stava dicendo prima, comunque?".

L'uomo smise di ridere e sospirò: "Dicevo solo che se si è lamentato per la tua benda stretta, forse è perché non si aspettava di ricevere dolore da te. Dal leone sì, ma da te...".

Candy rimase interdetta e diede a quella frase più peso di quello che aveva in realtà. Dolore. Albert provava dolore? Sì, lo aveva visto nei suoi lineamenti contratti, quello fisico, quando era in ospedale; e aveva scorto quello empatico mentre lei piangeva un ragazzo che non avrebbe più potuto rivedere. E si sorprese nel constatare che non desiderava neanche più che accadesse. Si stava lasciando Terence alle spalle.

"... solo cure amorevoli dalla sua infermiera preferita. Ho visto come ti guarda, Candy, e comprendo come mai dall'ospedale abbiano deciso di mandarti via. Tutto sembrate tranne che fratelli, te lo assicuro. Si direbbe quasi che siate una coppia di...".

"Non è affatto vero!", lo interruppe di colpo, preda di imbarazzo, sorpresa e altri sentimenti così confusi che non seppe davvero riconoscerli.

Martin si limitò ad alzare le mani in aria in un gesto di pace e resa e tornò al tavolino dove il giochino cinese aveva rappresentato la sua unica occupazione del pomeriggio. Quel giorno, a parte Albert, non c'era stato alcun paziente.

"Bene, allora domani vieni in mattinata così possiamo cominciare a preparare la campagna vaccinale per i più piccoli. Alcune mamme mi hanno chiesto quando avrei cominciato e dovrebbero arrivare già alcuni lotti. Sono certo che quando i bambini ti vedranno saranno ben felici di ricevere un'iniezione da te!".

Candy si portò le mani alle guance arrossate, lieta di poter mascherare l'imbarazzo precedente con quello attuale: "Oh, per favore, non mi prenda in giro!".
Fu quasi felice di congedarsi dal dottor Martin, portando con sé i medicamenti che aveva insistito recasse ad Albert qualora ne avesse avuto bisogno. Si profuse in ringraziamenti, sia per il lavoro che le aveva appena offerto che per le bende e il disinfettante, riflettendo che avrebbe dovuto sempre tenerne in casa. Aveva ragione miss Mary Jane, a volte era davvero sbadata come infermiera!

Sostò per qualche istante vicino all'albero sulle cui radici era inciampata solo una manciata di ore prima

sbadata, sbadata e incosciente!

facendo sì che Albert, senza pensarci su due volte, si frapponesse fra il leone, che aveva appena spiccato un balzo con un ringhio sordo e lei, a terra inerme e gelata dall'orrore.

Ho visto come ti guarda, Candy...

Scosse la testa, le lacrime che dopo la rabbia stavano tornando implacabili, ricordandole uno degli spaventi peggiori della sua vita dal giorno in cui lo avevano investito e lo aveva raggiunto proprio lì, in quella clinica. Forse solo quando aveva rischiato di morire lei, giovanissima e su una barchetta in balia della corrente, ricordava di aver provato un simile terrore. Ma Albert era lì, anche se non lo sapeva, pronto a salvarla, anche allora.

Tutto sembrate tranne che fratelli, te lo assicuro. Si direbbe quasi che siate una coppia.

Una coppia, pensò sfiorando il legno ruvido del tronco prima di voltarsi e riprendere il cammino verso casa. Sì, quando si era messa a cercare una casa per vivere con Albert e guarirlo dall'amnesia, inizialmente il padrone della Casa della Magnolia si era rifiutato di affittarle l'appartamento, visto che non erano fratelli, né sposati. Ricordava anche come Annie, prima del suo sfortunato viaggio a New York, le avesse domandato se Terence fosse a conoscenza della sua convivenza con Albert. E lei, ingenuamente, non aveva compreso che male ci potesse essere, perché Terry dovesse saperlo. E poi, le insinuazioni del dottor Leonard, il suo divieto di vivere con un paziente, il monito che era sfociato nell'espulsione dall'ospedale perché gli aveva mentito riferendogli che viveva da sola...

Un uomo, di sicuro più maturo di lei, e una donna che vivono sotto lo stesso tetto. Anzi, che condividono persino un letto a castello.

Candy fermò i suoi passi davanti a una panetteria, specchiandosi nella vetrina e cercando di decidere se acquistare del pane per la cena. Ma di certo, lui lo aveva fatto. Albert era quello che pensava al cibo, che cucinava con amore e che riusciva a stupirla con le sue abilità, tanto sviluppate quanto erano carenti le sue. Poteva letteralmente andare in crisi davanti a una pentola che ribollisse mentre lui, con un sorriso e la sua solita serenità, si limitava ad abbassare il fuoco e a mettere un coperchio.

Era come nella vita. L'anima che si rispecchiava nei suoi occhi era la medesima che metteva in tutto. Vivere nella natura, quasi da vagabondo, doveva averlo forgiato e abituato davvero a tutto. Forse proprio per questo se ne stava per andare dopo essere fuggito dall'ospedale, rifletté Candy allontanandosi dalla panetteria e soffermandosi davanti a una pasticceria da cui proveniva un profumo dolce e delizioso.

Un profumo che sapeva di lievito, farina e vaniglia, come quando miss Pony impastava assieme a suor Lane i suoi dolci alla Casa di Pony. Un aroma rassicurante che sapeva di casa e di amore. Il medesimo che aveva avvertito, sebbene con sfumature diverse di vento, foglie e pioggia, sulla giacca logora di Albert quando, infine, l'aveva stretta a sé in quel parco, permettendole di stargli accanto fino a che non avesse recuperato la memoria. In quella sera in cui gli aveva ripetuto che per lei era come il fratello che non aveva mai avuto.

Ed era vero, lo era stato soprattutto negli anni della sua infanzia, rifletté scorgendo le luci accese in casa e sorridendo. Albert c'era stato per lei quando la cascata aveva rischiato di ucciderla; c'era stato per lei quando aveva pensato di morire di dolore per aver perso Anthony; c'era stato per lei quando, per le strade buie di Londra, cercava una farmacia per curare un Terry ferito; c'era stato per lei quando lo aveva perso, quell'amore mai cominciato.

E c'era stato per lei quel pomeriggio, in una situazione assurda come un leone scappato da un circo che li aveva aggrediti. Era come se il destino le stesse rimarcando, a lettere sempre più chiare, che i momenti più difficili della sua vita sarebbero stati sempre scanditi dalla presenza di Albert, che lui l'avrebbe sempre salvata dalla morte fisica e psichica, qualunque fosse il rischio.

Fratelli... sì. Lui è un fratello maggiore che si prende cura di me.

Ma, mentre saliva le scale, Candy fu costretta a fermarsi e a portarsi una mano al cuore, dove avvertiva qualcosa di sbagliato, che si spostava da un punto all'altro del petto come un breve sfarfallio. E non era la fatica. Non l'ansia sempre più pressante di rivederlo e magari medicarlo, toccarlo per accertarsi che stesse bene.

Era la consapevolezza che qualcosa, in quei sentimenti che per tanti anni l'avevano legata a Terence, al suo volto gioviale e al suo comportamento irriverente, alla sua espressione di dolore mentre prendeva in braccio Susanna su quel tetto, al suo ultimo abbraccio alla rovescia sulle scale di un ospedale stava mutando.

Sì, voleva ancora bene a Terence e sì, desiderava con tutto il cuore che riprendesse presto in mano la sua vita e la sua carriera. Lo voleva con ogni fibra del suo essere. Ma intanto, il suo passato e il suo presente erano Albert. Lui, che l'attendeva dietro quella porta con la tavola di sicuro già apparecchiata e il profumo dell'arrosto che magari permeava quelle pareti. Le pareti di casa loro.

"Non si aspettava di ricevere dolore da te. Dal leone sì, ma da te...".

Allungando una mano per aprire la porta, quasi tremando, Candy ebbe un ultimo ricordo a invaderle la mente, i sensi e il cuore: Albert che la deponeva con delicatezza sul proprio letto dopo averla trovata quasi priva di sensi sul pavimento, asciugandole con mani calde e amorevoli le ultime tracce delle lacrime versate per Terence, il pomeriggio che aveva letto le notizie negative sui giornali.

E, di nuovo, la sua voce come ulteriore carezza. Una carezza dell'anima: "Vorrei tanto vederti felice".

 
- § -
 
 
Albert si sporse un poco davanti allo specchio per guardare meglio il punto in cui le ferite erano coperte dalla benda e ne approfittò per allentarle un poco: poteva notare solo una sfumatura rosea sotto alla fasciatura bianca, segno che non stava più sanguinando. Tirò con prudenza i lembi sorridendo, ricordando con una punta di divertimento la faccia imbronciata di Candy che, dopo un pianto spaventato, aveva avuto la sua piccola vendetta avvolgendolo stretto neanche fosse una specie di mummia egizia. Di certo, la medicazione era stata fatta a regola d'arte, anche se non gli erano sfuggite le dita fredde e tremanti mentre armeggiava con il cotone e la benda. E non gli erano sfuggite la devozione e la sofferenza sul volto di lei, che aveva davvero temuto che morisse.

E io? Ho avuto paura?

Raddrizzando la schiena e voltandosi per andare in camera e rimettere la camicia, Albert si disse che sì, aveva avuto paura: ma non per se stesso, bensì per Candy. Da quando si era risvegliato nel retrobottega del ristorante dove faceva il lavapiatti, col suo carico di ricordi come una mole di bagaglio pesante con cui fare i conti dopo più di due anni, l'unica costante, l'unica Stella Polare, l'unica luce che lo orientasse era stata quella di Candy.

Certo, c'era stato l'incontro con Georges, il recupero di determinati affari lasciati in sospeso da tempo allarmante, ma quello era stato svolgere il suo dovere. Quante volte, di giorno e di notte, si era ripetuto che doveva dirle la verità e tornare a casa? O perlomeno mezza verità e riprendere il suo posto nel mondo prima di spiegarle meglio come stavano le cose?

Quando il leone aveva spiccato il balzo, non c'era stata la voce allarmata di Candy, né il ruggito che aveva riempito il mondo e neanche l'alito rovente del felino che ormai gli era quasi addosso; non c'era stata la sensazione del dolore bruciante che gli aveva lasciato quattro strisce parallele sul torace, del fluire del sangue e neanche dell'adrenalina che, riversandosi nelle vene, rendeva lontano quel dolore, come un rumore sordo. No, nulla di tutto questo. C'era solo la certezza che lei era al sicuro.

Con un sospiro stanco e il bruciore che gli ricordava quanto, tutto sommato, fosse stato fortunato, Albert iniziò a muoversi per la cucina con gesti meccanici e naturali. Come sempre, le sue mani trovarono gli ingredienti e si misero ad accendere pentole, predisporre carne e contorni, regolare la fiamma, versare condimenti come se lo facesse da sempre. E, a dirla tutta, lo aveva fatto per la maggior parte della sua vita quando viveva da solo, in condizioni ben peggiori di quelle: non aveva avuto spesso stufe o cucine attrezzate e passava dai fuochi nel bosco a ristoranti esclusivi dove lo servivano con prelibatezze di ogni tipo. Ma le rare volte in cui aveva potuto cucinare con più agio si era divertito e, mentre versava alcune spezie sulla carne e la copriva con un coperchio perché cuocesse a fuoco lento, pensò che se fosse stato un'altra persona forse gli sarebbe piaciuto fare il cuoco. O il veterinario. O il medico. Diamine, amava il mondo degli affari, dopotutto nelle sue vene scorreva pur sempre il sangue di suo padre, ma la posizione che ricopriva faceva un po' a pugni coi propri ideali di libertà, anche se ormai era ora che mettesse la testa a posto.

Inevitabilmente, quando si soffermava a pensare al suo futuro, il volto sorridente di Candy era come un'immagine fissa impressa nelle retine anche se chiudeva le palpebre. Lo era mentre era avvolto da una nebbia fitta e non vedeva nulla del suo passato, sentendosi quasi sospeso sul ponte di un presente in precario equilibrio; ed era rimasto lo stesso anche dopo.

Fosse dannato, si disse prendendo dei piatti dalla credenza e predisponendosi ad apparecchiare per due, se il fatto di aver compreso chi fosse gli aveva fatto rimettere giudizio. Il muro che nascondeva la sua vita precedente era crollato, ma il sole abbagliante che illuminava quella valle dal verde brillante degli occhi di lei aveva osato persino risplendere più ostinato.

Albert fece quasi cadere un bicchiere e alzò lo sguardo aspettandosi di vedere nella stanza la zia Elroy, che lo ammoniva in un cipiglio, Georges, che lo fissava impassibile ma con la chiara sorpresa dietro alla maschera imperturbabile e persino Candy, con le mani premute sulle labbra, magari persino disgustata.

Sei come un fratello per me.

Fece schioccare la lingua sul palato e andò a controllare se l'acqua per le patate stesse bollendo. Ridendo di se stesso, si rese conto che sì, era così, ma non le aveva neanche tirate fuori dalla dispensa. Se non si fosse concentrato un poco, rischiava di fare un piccolo disastro come quelli che di solito combinava Candy.

Determinato a svegliarsi da quella sorta di trance, premette una mano sulla ferita e lo sentì, il dolore, così simile a quello del proprio cuore che per un attimo ebbe il dubbio che gli artigli del leone si fossero conficcati più a fondo di quanto credessero tutti.

Il grido di Candy, il tonfo del suo corpo che cade a terra, il leone che forse sente la minaccia o l'odore di una possibile preda su cui sfogare la propria frustrazione: come me, si è trovato rinchiuso in gabbia e lui non può decidere di fuggire senza rischiare la vita. Spicca il balzo e io smetto di pensare lucidamente, divento un fascio di istinto e nervi e mi frappongo fra lui e Candy, pronto a dare la mia vita per la sua. Non penso che potrei morire, però... me lo ricorda lei, poco dopo. In quel momento sono roccia, cemento, muro solido. Sono la consapevolezza che a Candy non deve accadere nulla, perché allora sì che potrei...

La sensazione di freddo alle mani e il borbottio costante dell'acqua sul fuoco gli indicarono che le patate erano più che pulite, sotto al rubinetto aperto, e pronte per essere gettate in pentola. Lo fece velocemente, conscio che si era di nuovo mosso in modo automatico tornando in cucina dopo aver apparecchiato per proseguire con le preparazioni.

Arrosto con patate, insalata, un dolce preso in pasticceria di quelli che Candy amava. Tutto qui: quella era la loro cena a due mentre la ferita si rimarginava lenta sotto alle bende e forse sanguinava un poco perché non si era comunque fermato a riposare, né ne aveva l'intenzione. Ma sapeva che non avrebbe sanguinato molto, anche se aveva allentato un poco la morsa della fasciatura: perché lei era un'ottima infermiera e metteva amore in tutto quello che faceva.

Era davvero amore fraterno quello che l'aveva spinta a disperarsi così, sapendo che aveva rischiato la vita? Dolore, disperazione e persino rabbia, sentimenti a fior di pelle che erano emersi da lei uno dietro l'altro. E il rimprovero, neanche tanto velato, di aver fatto qualcosa di stupido. No, non si sarebbe illuso.

Albert abbassò lo sguardo sulla tavola e i suoi occhi registrarono una macchia sulla camicia scura: dopotutto, il movimento continuo e poco attento doveva aver riaperto i tagli. Corse in bagno, tolse la camicia e la gettò nella cesta, appuntandosi mentalmente che avrebbe dovuto lavarla presto perché Candy non la vedesse, e si accorse che non avevano bende di ricambio nell'armadietto.

Si morse il labbro inferiore, valutando se poteva pulire le ferite e rimettere le bende vecchie, quando udì il rumore della porta che si apriva e capì di essere in trappola.

"Albert? Che profumino! Ma perché ti sei messo a... oh mio Dio!". Era stata veloce a raggiungerlo e a scoprirlo, la mano ancora sull'anta e l'espressione contrita.

"Non è nulla, ho solo fatto un movimento di troppo e...".

"Lo sapevo, lo sapevo che non dovevo mandarti a casa da solo! Ti sei messo a cucinare e hai riaperto la ferita! Avanti, siediti lì e non muovere neanche un muscolo!".

Le labbra gli tremarono per il sorriso trattenuto, ma obbedì e sedette sullo sgabello accanto al lavabo: "Posso almeno respirare?". Candy stava armeggiando con un sacchetto di carta da cui tirò fuori bende e disinfettante, per cui sapeva che avrebbe dovuto ringraziare il dottor Martin.

"Non prendermi in giro e non osare alzarti!". Il dito si agitò in aria e un istante dopo Candy era sparita nell'ingresso per togliere il cappotto. Tornò con passi veloci e si lavò le mani prima di sfiorare la benda cercando il punto in cui l'aveva legata nel pomeriggio. Albert strinse la mascella perché iniziò a sentire la pelle d'oca e si convinse che dipendeva dal fatto che le mani di Candy erano fredde.

"Sono certo che il sanguinamento è superficiale", disse per mantenere il controllo.

"Guarda che disastro questa benda! Superficiale o no sta sanguinando e tu dovevi dare retta a me e al dottore quando ti abbiamo detto che non dovevi muoverti troppo!", borbottò cominciando a svolgere il bendaggio. Albert trattenne un sussulto che non aveva a che fare con le mani di Candy, ma con il tessuto che si era attaccato al sangue parzialmente rappreso: la sensazione fu quella di sentirsi strappare via la pelle. "Scusa, ti ho fatto male?".

Il viso di Candy era così vicino al suo, nonostante fosse seduto e lei appena china, che poté avvertire il calore del suo respiro. Fu un istante breve ma intenso. Benedetto e maledetto. Un istante in cui si chiese cosa avrebbero provato le proprie labbra a sfiorare le sue.

"No, sto bene", le assicurò sforzandosi di sorridere.

Candy si volse impedendogli di capire se era davvero rossore quello che le aveva tinto un poco le guance e prese un asciugamano pulito. Lo mise sotto al rubinetto e glielo passò sulla ferita ancora coperta dalle bende, consentendo al tessuto di staccarsi meglio. Durante l'intera operazione, Albert rimase fermo e in silenzio osservando Candy e non osando muovere un muscolo, sentendosi avvolto dal suo profumo di fiori e disinfettante, soffermandosi sul cipiglio concentrato e sulle labbra contratte che si morse quando fu il momento di scoprire le ferite del tutto.

La ragazzina provata e impaurita del pomeriggio aveva lasciato posto alla donna, all'infermiera, alla compagna amorevole che lo stava curando.

Compagna? Ho davvero pensato... compagna?

Un rumore improvviso proveniente dalla cucina gli indicò che forse Candy lo aveva davvero distratto a tal punto da trasferirgli parte della sua distrazione culinaria: "L'arrosto!". Schizzò in piedi a torso nudo, con le ferite scoperte e si precipitò ad aprire il coperchio: la carne si stava bruciando.

Senza perdere tempo, aggiunse al tegame un bicchiere d'acqua, poi un secondo, quindi abbassò al minimo la fiamma e, aiutandosi con una forchetta e un cucchiaio, lo sollevò un poco per valutare il danno.

"Che è successo?". Candy era sulla soglia con il disinfettante e il cotone in mano.

"Credo che dovremo raschiare il fondo dell'arrosto prima di finire di cuocerlo, se non vogliamo che sappia di bruciato". Mentre finiva di parlare, si stava già adoperando con un piatto e un coltello per effettuare l'operazione prima di rimettere l'arrosto in pentola. "Mi hai contagiato", ridacchiò.

"Oh, Albert, ringrazia che sei ferito, altrimenti io...!".

Rise apertamente all'indignazione di lei, che per buona misura aveva alzato sulla testa la boccetta di disinfettante e fatto un paio di passi verso di lui. Albert sollevò il coperchio come uno scudo davanti a sé. "Non farlo, o stasera non mangeremo niente".

Candy abbassò il braccio e guardò i tagli con occhio critico: "Non hanno un bell'aspetto", disse accostandosi a lui mentre toglieva la parte bruciata della carne e la riponeva sul fuoco con gesti attenti. Se la ritrovò accanto, che gli sfiorava il braccio con i capelli dorati.

"Io eviterei di fare qui la medicazione, o avremo carne al sangue per cena", scherzò cercando di usare una voce divertente e macabra, ma che risuonò più roca di quanto avesse voluto. Perché averla vicina lo turbava sempre più spesso e sapeva che non avrebbe potuto più dormirle accanto troppo a lungo prima che lei percepisse...

"Scusa, non volevo farlo, comunque". Si era allontanata come se si fosse scottata, ma era certo che quello più vicino al fuoco fosse lui. In tutti i sensi.
Nonostante non gli fosse più accanto e si fosse allontanata, in quel momento ebbe la certezza che Candy fosse in imbarazzo.

Un fratello maggiore... sul serio? Sto sperando in qualcosa di assurdo? O mi vede con gli stessi occhi di prima e prova solo un po' di vergogna?

Era stato a lungo suo paziente, in ospedale, ma non aveva mai notato in lei quel particolare sentimento. E tuttavia, s'impose di non mettersi a fare congetture che lo avrebbero portato fuori strada o ad alimentare ipotesi impossibili.

Senza più dire una parola, sistemò il cibo sui fornelli perché cuocesse senza più bruciare e tornò in bagno con lei, dichiarandosi pronto a una nuova medicazione. Candy annuì e fu metodica e professionale nel pulire prima la ferita con l'asciugamano umido, quindi a disinfettarla con il cotone e infine a ricominciare col bendaggio. Stavolta, fu stretto a sufficienza ma non troppo.

"Grazie mille infermiera, posso offrirle una cena non bruciata per ringraziarla?", disse azzardando un cauto inchino.

Finalmente, Candy rise: "Molto volentieri, ma c'è anche il dolce?".

"Il suo preferito".

"Albert, non avevi una maglietta o una camicia?", chiese guardandosi intorno.

Lui socchiuse gli occhi: "In effetti sì, ma si è macchiata. Vado a prenderne un'altra". Scomparve in camera prima che lo sguardo assassino di Candy e il suo 'te l'avevo detto!' gli penetrassero nella carne ancor più che gli artigli del leone.

La cena fu quasi rilassata come sempre, anche se Candy gli lanciava spesso occhiate preoccupate e se c'era da prendere qualcosa in cucina si alzava lei trattandolo quasi come un invalido. Gli riempì persino il bicchiere di acqua quando fu vuoto. Certo, era pur vero che le ferite si erano in parte riaperte, ma si chiese come avrebbe fatto a lavorare in quelle condizioni e col rischio di doversi medicare ogni volta.

"Domattina prima di andare dal dottor Martin passerò dal ristorante e avviserò che non andrai per qualche giorno", disse Candy quasi leggendogli nel pensiero, sorseggiando il suo bicchiere d'acqua.

Albert alzò le mani, posando forchetta e coltello: "Immagino che non ho diritto di replica dopo quanto è successo, vero?".

"Assolutamente no", confermò calcando su ogni parola e brandendo la propria forchetta quasi come una minaccia. "Ora dimmi dov'è il dolce che lo prendo io".

Albert sperò che le risate convulse che solo lei gli provocava in modo tanto repentino non contribuissero a peggiorare la sua situazione, ma Candy era stata così buffa nella sua espressione seria, passando dalla negazione alla richiesta del dolce, che non poté farne a meno. Le indicò la credenza più alta e la vide mentre si allungava sulle punte dei piedi per prenderlo, pronto ad aiutarla. E invece riuscì ad afferrarlo e a portarlo a tavola senza incidenti.

"Allora? L'ho preso al cioccolato, visto?".

"Mhhhh, il mio preferito, grazie Albert! Sai che stavo per entrare in pasticceria e prenderne uno io? Tu mi leggi nel pensiero!", disse trasformandosi in una bimbetta felice, mentre affettava la torta e la poneva in due piattini.

"Diciamo che conosco i tuoi gusti".

Mangiarono in silenzio per alcuni istanti, nei quali poté godersi le espressioni entusiastiche e golose della sua ineffabile infermiera, trattenendosi ancora una volta dal ridere.

"Albert...".

"Sì?".

"Io ti ho mai... fatto del male?".

Si bloccò con il cucchiaino a mezz'aria, guardandola che giocherellava con le briciole nel proprio piatto. "Sì, oggi pomeriggio quando mi hai fatto il primo bendaggio".

"Non intendevo quello. Non male fisico. Volevo dire... ti ho ferito in qualche modo, in passato?".

Albert si accigliò, non capendo dove volesse andare a parare Candy. Aveva già finito il suo dolce, laddove lui era solo a metà porzione, ma non si stava affrettando a servirsene una seconda fetta e quello sì che era preoccupante.

"Certo che no, perché avresti dovuto ferirmi?". Non capiva, sul serio.

Lei continuò a giocherellare con la forchetta e le briciole, spostandole sul piatto e poi attaccandole alla punta delle dita prima di portarsele alle labbra. Un gesto che gli strinse il cuore in un sentimento tanto forte a metà tra tenerezza e desiderio che dovette smettere di fissarla, tornando a concentrarsi sul suo dolce.

"Beh, ad esempio... non so, quando mi hai trovata a terra in mezzo ai giornali che avevi nascosto, quelli che parlavano di Terence...".

Potevano esserci tante implicazioni in una domanda? Albert udì squillare mille campanelli di pericolo nella testa e cercò di comprendere cosa davvero volesse sapere lei e soprattutto cosa dovesse risponderle. Per fortuna, aveva imparato durante l'intero arco della sua vita, e persino da amnesico, a controllare le proprie emozioni. Fu quindi con pacatezza che poté dirle in maniera diplomatica e sincera: "Candy, non ti nascondo che sono stato molto preoccupato per te. Da quando... sei tornata da New York mi rendevo conto dello sforzo che facevi per cercare di essere sempre allegra e positiva. E hai tutta la mia ammirazione per questo, perché hai ancora dimostrato di essere una ragazza forte".

La vide alzare gli occhi con gratitudine. E non gli sfuggirono le stelle iridescenti nei suoi occhi, che assunsero tante di quelle sfumature che pensò ne sarebbe rimasto ipnotizzato. "Oh, Albert...".

"Tu per me hai fatto così tanto che desideravo solo fare qualcosa per te, visto che non ricordo il mio passato e so solo quello che mi hai riferito".

"Ti assicuro che mi hai salvata tante volte. Dalla cascata, dal dolore, da me stessa...", disse lei in un sussurro.

"E io non voglio essere ripagato se non con il tuo sorriso. Vederti felice, credimi, per me è la contropartita più bella che possa desiderare. Per questo vorrei fare di tutto...".

"Voglio solo vederti felice... allora non lo avevo sognato". Albert rimase interdetto. Dunque quel famoso pomeriggio lei era sveglia? Aveva sentito le sue carezze, mentre le asciugava le lacrime, e le sue parole?.

"Sì", confermò sorridendole e togliendo con un dito l'ennesima lacrima che le era sfuggita dalle ciglia.

Candy gli prese la mano, impedendogli di ritrarla: "Però promettimi una cosa, anzi due".

Le avrebbe promesso la luna, il sole e l'intero firmamento, se solo avesse potuto. Ma, almeno per il futuro più immediato, forse poteva solo fare qualcosa perché il suo nome come infermiera fosse riabilitato negli ospedali di Chicago. E avrebbe provveduto a quell'aspetto molto, molto presto.

"Tutto quello che vuoi", disse con fin troppa veemenza.

"La prima è che non farai più nulla di così stupido come farti attaccare da un leone per salvarmi. Oggi mi si è fermato il cuore. La seconda è che semmai dovessi ferirti in qualche modo, dovrai dirmelo. Sempre".

Albert trasse un lungo respiro, stringendole quella mano e trattenendosi a stento dal baciarla per sapere se vi era rimasto un po' dell'aroma delle briciole di cioccolata.

Controllati, Albert, ti stai comportando come un adolescente in piena cotta giovanile...

"Per la seconda richiesta non c'è problema, anche se dubito fortemente che tu possa fare qualcosa per ferirmi. Ma sul primo punto mi è impossibile farti promesse. Se domani fuggisse anche una tigre e ti attaccasse, non esiterei un solo istante a proteggerti, ancora e ancora".

Intuì in maniera netta quanto le sue parole l'avessero colpita, perché aprì la bocca apparendo sconvolta. Aveva esagerato? Si era scoperto fin troppo?

"Perché?", chiese in un ansito quasi impercettibile.

Per lungo tempo, Albert si sarebbe chiesto come avesse fatto a non lasciar fluire da sé la risposta più spontanea, limpida e meravigliosa che sembrava scorrergli dentro come acqua sorgiva. Sarebbe stato così naturale e giusto! Ma anche scorretto, da parte sua. Candy non sapeva praticamente nulla di lui e soprattutto le stava nascondendo verità ancor più grandi: il ritorno della memoria e la sua vera identità. Non aveva alcun diritto di implicarla in un mondo del quale non faceva parte e forse non le sarebbe mai appartenuto.

"Perché ci tengo a te, almeno quanto tu tieni a me. Per quanto ne sappia, sei stata tu a salvarmi per prima".

"Anche io... tengo a te, Albert. E non solo per quello che hai fatto per me, anche se non te ne ricordi, ma perché...".

Il tempo si fermò in quel momento. Candy era arrossita, aveva abbassato gli occhi e lui non resistette oltre: si alzò e fece il girò del tavolo, prendendole le mani e inducendola ad alzarsi per guardarlo. E tuttavia, lei cercò di evitare il suo sguardo, che si ritrovò ad anelare come ossigeno. Con due dita sotto al mento, la costrinse a mostrargli i suoi occhi verdi e brillanti di lacrime.

"Perché?", chiese come se la conversazione non si fosse mai interrotta. Lui non aveva avuto il coraggio di dirle la verità, ma ora la pretendeva da Candy. E sarebbe bastata una sola parola perché mandasse al diavolo la prudenza.

Le labbra di Candy si stirarono in un sorriso e si mossero, ma per qualche strano motivo Albert non udì il suono della sua voce.

"...Albert".

"Come? Non ho capito, Candy, puoi ripetere?".

Di colpo, il tempo di sbattere le palpebre, Candy era sparita e lui era solo e al buio nella stanza. Si era immaginato tutto? Stava sognando?

"Albert!". La voce di Candy lo raggiunse, urgente come un richiamo disperato. Si volse di scatto, cercandola.

"Candy! Dove sei?! È saltata la corrente?!". Buio, ombre. Solo questo vedeva.

E non era più nel piccolo salotto della Casa della Magnolia, ma vicino alla clinica del dottor Martin. Poteva udire i richiami di Candy alle sue spalle e il respiro pesante del grosso felino davanti a sé. Gli occhi dell'animale sembravano vacui, cattivi, diversi da come li ricordava. Ma li ricordava davvero? Sul serio aveva già vissuto quell'aggressione? Eppure, tutto era identico ma diverso.

Il ruggito più forte, il balzo che spiccò più alto e le grida di Candy più acute. La zampa si mosse, fendette l'aria e gli artigli incisero la carne strozzandogli un gemito di mero dolore in gola. Il tempo di cadere facendo scudo a Candy col proprio corpo, sentendola invocare il suo nome, e le gocce di sangue presero a fluire dai tagli, scorrendo come rivoli, come fiumi, come mari.

Rosso, rosso ovunque. Le forze che l'abbandonavano e il sangue... Candy era ricoperta di sangue e Albert gridò il suo nome. Il leone aveva ferito entrambi e tutto il sogno che aveva fatto sul suo rientro a casa, sul ritorno di lei con le bende... tutto svanì mentre la prendeva fra le proprie braccia e vedeva la vita abbandonarla in un sussulto, sentendo la propria scivolargli via.

Moriremo insieme... e non riuscirò a dirti nulla... oh, Candy... Candy!

"Albert! Ti prego, svegliati! Riaprirai le ferite!".

Con un singulto strozzato, fece un movimento repentino e si ritrovò seduto su qualcosa di morbido

il mio... letto?

con due braccia esili ma forti che lo trattenevano per le spalle.

La luce della lampada sul comodino era accesa e gettava ombre sul volto di Candy, che lo fissava con qualcosa di molto simile al terrore.

"Sei... qui?", disse prima di rendersi conto di quanto fosse sciocca la sua domanda.

"Accidenti a te, mi hai spaventata a morte! Credevo che ti stessi sentendo male!". Era sull'orlo delle lacrime e gli stava già alzando la maglietta del pigiama per controllare le ferite. "Per fortuna non si sono riaperte. Ti sei agitato tanto che non sapevo se stessi avendo un incubo o provassi solo dolore".

Incubo...?

"Io... non mi ricordo niente... stavamo cenando...". Si portò una mano alla fronte, chiedendosi se stesse di nuovo perdendo la memoria e udì il suono più bello che conoscesse: la risatina nervosa di Candy.

"Che non ricordi niente lo sapevamo già. Ma, Albert, dopo cena abbiamo sparecchiato e siamo venuti qui a dormire, hai dimenticato anche questo?".

Chiuse gli occhi, calmando il proprio respiro che, ormai, non sapeva più se fosse agitato al pari del proprio cuore per via dell'incubo o a causa delle mani di Candy che lo toccavano attraverso le bende prima di rimettere a posto il pigiama con gesti lenti.

Sì, ricordava la cena dopo che la sua piccola infermiera gli aveva rifatto la medicazione. E ricordava anche quelle promesse che lei aveva cercato di strappargli

non farai più nulla di così stupido

ma che lui le aveva confermato di poter mantenere solo per metà.

"No, non l'ho dimenticato", le rispose finalmente con un sorriso rassicurante. "Perdonami per averti fatta preoccupare. Stavo sognando... l'incidente di oggi".
E anche che dopo cena, invece di darti la buonanotte, facevo il giro del tavolo per farti confessare qualcosa che non oso sperare. Magari poco prima di baciarti.

Il sorriso di Candy divenne dolce, quasi struggente mentre si sedeva meglio sul bordo del suo letto, con una gamba ripiegata sotto di sé e l'altra poggiata a terra, come avrebbe fatto una ragazzina. "Vorrei chiederti di nuovo di giurarmi che non farai mai più una cosa simile, ma prima sei stato categorico. A questo punto spero che non fugga davvero anche una tigre".

Albert scosse la testa, ridendo a sua volta: "Lo spero anche io, ma soprattutto perché non è in un circo o in uno zoo che gli animali sono felici. Ora capisco perché sono andato in Africa, come mi hai raccontato. Nessun essere vivente dovrebbe mai trovarsi in una gabbia".

E lui era in una sorta di gabbia? La sua posizione, che da poco aveva riscoperto di ricoprire, di certo non era priva di sbarre, anche se sapeva che avrebbe fatto il suo dovere fino in fondo per amore e profondo rispetto alla propria famiglia; ma la gabbia più grande e invalicabile stava diventando il suo cuore. Era in trappola, volente o nolente, imprigionato in un sentimento così bello e delicato, che non vi trovava nulla di immorale, nonostante avesse visto crescere la bambina che era stata Candy. Un sentimento naturale come il sole che sorge prima timido e roseo, puro come un essere appena nato, e poi splende in tutta il suo maturo calore.

Candy non era più una ragazzina, ma una donna che lo aveva salvato dal suo destino.

"Ora rimettiti a dormire e cerca di fare bei sogni o dovrò legarti al letto!". La guardò serio, indeciso se toccarla o meno. Voleva sfiorare le sue guance rosee, infonderle il calore delle sue mani e al contempo godere di quello della sua pelle lì, dove nascevano le lentiggini. Ma non osò.

"Prometto solennemente che sognerò solo uccellini che cinguettano e infermiere che non stringono bende", disse alzando una mano per sancire meglio la promessa.

"Oh, stupido!", rise lei prima di arrampicarsi sul letto superiore con agilità. Vide sfrecciare a pochi pollici dal viso le sue caviglie bianche sulla scaletta e poi sparire, così si allungò per spegnere la lampada sul comodino.

Si sistemò sul cuscino abituando lo sguardo al buio, fissando la parte inferiore del letto di Candy senza osare respirare. Si sentiva stanco, a dirla tutta, forse alla fine le emozioni della giornata avevano raggiunto anche lui.

"Buonanotte, Candy", mormorò.

"Buonanotte, Albert".

Chiuse gli occhi, avvertendo il gradevole torpore del sonno impossessarsi di lui nonostante l'incubo, sentendosi rassicurato dalla presenza di Candy a poca distanza, ripetendosi che tutto sarebbe andato bene. Fu in quel limbo a metà tra sonno e veglia che la udì.

"Albert...?". Una vocina flebile, che non sembrava neanche la sua. Stava dormendo e sognava? Era stato ancora lui a sognare? Oppure...

Il richiamo non si ripeté e Albert, prendendo un respiro profondo, si arrese al sonno e si addormentò.

 
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Il respiro di Albert era ritmico sotto di sé, a indicarle che dormiva profondamente. Si sporse un poco per guardarlo e nel chiarore lunare appena accennato ne distinse la linea del naso dritto e ben fatto e del mento, il movimento leggero del torace che si alzava e si abbassava sotto le coperte.

Lì, oltre le ferite e oltre le bende, albergava il cuore di un uomo che era stato davvero il suo punto di riferimento per molti anni, anche se in modo diverso nel tempo. Quante volte poteva dire di aver incontrato Albert sul suo cammino? Non molte, non poche. E poi lui se ne andava sempre, seguendo la sua strada mentre lei rincorreva la propria, qualunque essa fosse.

Un cuore grande, solitario, colmo d'amore per tutti gli essere viventi, uomini o animali che fossero. Aveva rivisto il suo vecchio amico nell'uomo che, dopo essere stato ferito, induceva il leone ad avvicinarsi e lo carezzava neanche fosse un grosso gatto. Quell'animale si era fidato di lui e si era lasciato catturare docilmente. Aveva fatto qualcosa di simile in Africa, pur non ricordandoselo?

Candy si girò su un fianco, cercando di riprendere sonno e rendendosi conto che non ci riusciva: ma, una volta tanto, non era per via di Terence.
Durante la cena, Albert le aveva detto che avrebbe affrontato anche una tigre, perché teneva a lei. E molto, anche.

"Anche io... tengo a te, Albert. E non solo per quello che hai fatto per me, anche se non te ne ricordi, ma perché...".

Quelle parole le erano uscite di bocca prima che potesse fermarle e, soprattutto, prima che comprendesse appieno come voleva concludere la frase. Ovviamente, lui l'aveva guardata con aria interrogativa, aspettandosi una risposta.

"Perché... perché... beh, te l'ho appena detto". Il sopracciglio inarcato e le mani congelate nel gesto di tagliare la carne nel proprio piatto le indicarono che si aspettava una spiegazione a quel "non solo per quello che hai fatto per me".

Ma anche perché sei speciale, molto più di quanto avessi mai osato immaginare. Perché vivendo con te mi sto rendendo conto, sempre di più, che somigliamo a una vera famiglia, pur se non con i canoni che mi aspettavo o che si aspetta la società. Perché questa nuova vita a stretto contatto con te, senza più separazioni, mi sembra quasi un bel sogno.

In piena notte, dopo che il suo amico di sempre l'aveva salvata a costo della propria vita, Candy si ritrovò a stringere forte il proprio cuscino, rannicchiandosi come una bambina. Mai, come in quel momento, desiderò avere una madre che l'aiutasse a comprendere il palpito quasi impazzito del proprio cuore, il motivo per il quale i suoi occhi si spalancavano nel buio invece di chiudersi e la ragione per cui si ritrovò ad ascoltare e a lasciarsi cullare, come da una musica dolce, dal respiro regolare di Albert.
 
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Se amate le storie canon e a lieto fine, vi consiglio di fermarvi qui: a seguire, ci sono 3 what if con diverse interpretazioni della giornata in cui Albert salva Candy dal leone... o no...?
 

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Capitolo 2
*** Candy torna a casa ***


Dove amiamo è casa, casa che i nostri piedi possono lasciare, ma non i nostri cuori.
(Oliver Wendell Holmes Sr.)

 
 
 
Candy torna a casa

Brava Candy, così, smettila una volta per tutte di fissare quell'albero come se facendolo potessi riavvolgere la giornata e annullare quello che è successo oggi pomeriggio! Tu che indietreggi regredendo di oltre dieci anni, la schiena di Albert che diventa, ancora una volta, il tuo scudo contro il male...

Lo scudo da una cascata che voleva inghiottirti quando, stupida anche allora, hai pensato bene di entrare in una barchetta sperando di navigare in dolci acque fino alla Casa di Pony; lo scudo da un dolore che pareva straziarti pelle e viscere, e che invece aveva solo il suono di una campana a morto per Anthony; lo scudo da notti di corsa, giorni grigi, addii strazianti e lacrime amare; lo scudo da occhi che ti guardano storto quando rincasi, da bisbigli sulle scale del piccolo condominio dove vivi con lui e oggi persino da un leone che vi ha attaccati.

Quale uomo si metterebbe tra te e un leone? Te lo chiedi mentre ti solletica un paragone tanto lampante quanto sgradevole: Terence che viene salvato da Susanna a costo della sua stessa vita. Albert che si getta a corpo morto davanti a te senza dare nemmeno il minimo segno di esitazione. Quasi ti stesse passando la ciotola dell'insalata con un gesto spontaneo e non ti stesse...

...facendo da scudo.

Il leone ringhia e si avventa, lui lo respinge prendendo la prima zampata che lo ferisce: le linee parallele lasciate dal grosso felino dovevano bruciare come l'inferno e sul suo volto non hai visto che una vaga smorfia di dolore solo nei primi istanti.

E il tronco diventa solo un tronco, le immagini scompaiono, decidi che è ora di tornare a casa. Puoi solo incamminarti con passi lenti e metodici come sempre, anelando di rivederlo. Per sapere come sta, se gli è venuta la febbre per l'infezione o se il disinfettante e le bende del dottor Martin stanno facendo il loro dovere.

La strada sembra scivolare lenta, troppo lenta sotto i tuoi piedi. Chi sei, alla fine, per lui? E cosa è lui per te? Cosa siete voi? Un uomo, di sicuro più maturo di te, e una donna che vivono sotto lo stesso tetto. Anzi, che condividono persino un letto a castello. Siete questo e cos'altro? Infermiera e paziente, amici da tanto tempo, anche se lui non se lo ricorda. Dopo quello che ti è accaduto poche ore fa, però, ti vengono mille sani dubbi.

Fermi i passi davanti a una panetteria, dove tante volte sai che Albert ha comprato il pane quando non facevate in tempo a impastarlo insieme, in un pasticcio di farina e risate che ornavano la cucina piena di luce. Perché lui è quello che pensa al cibo, che cucina con amore e che riesce a stupirti con le sue abilità, tanto sviluppate quanto sono carenti le tue. Perché tu puoi letteralmente andare in crisi davanti a una pentola che ribolle mentre lui, con un sorriso e la sua solita serenità, si limita ad abbassare il fuoco e a mettere un coperchio.

Come nella vita, pensi decidendo di riprendere un cammino che ti sembra più lungo che mai. L'anima che si rispecchia nei suoi occhi è la medesima che mette in tutto. Vivere nella natura, quasi da vagabondo, deve averlo forgiato e abituato davvero a ogni cosa. Persino a rischiare la sua vita per la tua? Oppure, oggi, hai aperto una qualche finestra che ti consente di vedere più chiaramente di prima?

E di colpo, davanti alla pasticceria all'angolo, i tuoi sensi vengono sopraffatti da un profumo che sa di lievito, farina e vaniglia, come quando miss Pony impastava assieme a suor Lane i suoi dolci alla Casa di Pony. Un aroma rassicurante che odorava di casa e di amore. Il medesimo che hai avvertito, sebbene con sfumature diverse di vento, foglie e pioggia, sulla giacca logora di Albert quando, infine, ti aveva permesso di stargli accanto fino a che non avesse recuperato la memoria. In quella sera in cui gli hai ripetuto che per te era come il fratello che non avevi mai avuto.

Fratello...

E dopo Terry è il turno di Annie. Tua sorella, lei, almeno di cuore, visto che vi hanno trovate e cresciute insieme. Anche lei ti ha tradita, anche se tu l'hai giustificata con ogni fibra del tuo essere. È stata finalmente adottata! Ha una famiglia! Ha cambiato vita, ma conserverà sempre il tuo ricordo, anche se devi fingere di non conoscerla per non farla sfigurare! E ancora...

Annie ti accusa di volerle rubare Archie, ma tu invece di infuriarti con lei, così debole e insicura, cerchi di convincere il tuo amico che deve starle accanto, che è una ragazza meravigliosa! Poi, certo, ti arrabbi e tua sorella finalmente capisce quanto si è sbagliata, ma quanti anni e quante lacrime hanno inghiottito la tua vita fino ad allora?
Fratelli.

No, decisamente Albert non si era comportato da fratello. Stair lo aveva fatto e anche Archie. Si sarebbero mai gettati davanti a un leone per te, tuttavia?

Mentre sali quelle scale che ti porteranno a casa, capisci che ormai è inutile pensarci, anche se sei costretta a portarti una mano al cuore, dove avverti qualcosa di sbagliato, che si sposta da un punto all'altro del petto come un breve sfarfallio. E non è certo la fatica. Non l'ansia sempre più pressante di rivederlo e accertarti che stia bene.
È la consapevolezza che qualcosa, in quei sentimenti che per tanti anni ti hanno legata a Terence, al suo volto gioviale e al suo comportamento irriverente, alla sua espressione di dolore mentre prendeva in braccio Susanna su quel tetto, al suo ultimo abbraccio alla rovescia sulle scale di un ospedale, stava mutando.

Sì, sai di volere ancora bene a Terence e sì, desideri con tutto il cuore che riprenda presto in mano la sua vita e la sua carriera. Ma intanto, il tuo passato e il tuo presente sono Albert. Lui, che ti attende sempre dietro quella porta con la tavola già apparecchiata e il profumo dell'arrosto che permea quelle pareti. Le pareti di casa vostra.

Allunghi una mano per aprire la porta, quasi tremando, non sapendo bene che mondo troverai al di là. Aspettandoti il buio e il silenzio, perché forse stavolta lui è andato via per davvero, o una luce accecante.

E hai un ultimo ricordo a invaderti la mente: Albert che ti depone con delicatezza sul suo letto dopo averti trovata quasi priva di sensi sul pavimento, asciugando con mani calde e amorevoli le ultime tracce delle lacrime versate per Terence.

La sua voce è un'altra carezza. Una carezza dell'anima: "Vorrei tanto vederti felice".

Entri, trattieni il fiato e lo capisci. Hai la conferma, in un tremito, che non era solo un brutto sogno. Il leone ha strappato via coi suoi artigli qualcosa che aveva appena iniziato a germogliare.

 
- § -
 

Ti sporgi davanti allo specchio puntellandoti con una mano sul lavandino, ancora confuso dopo aver perso i sensi subito dopo essere rincasato. Come se tutta la tensione fosse arrivata dopo, comunicandoti quanto ci sei

ci siete

andato vicino.

Guardi il punto in cui le ferite sono coperte dalla benda e ne approfitti per allentarle un poco. Il sangue si sta rapprendendo e ha lasciato solo un alone rosa appena visibile attraverso la fasciatura. Nulla a confronto di quanto potevi subire.

Hai avuto paura?

Sì, ti dici tornando in camera per recuperare la camicia, ne hai avuta eccome: ma non per te stesso, bensì per Candy. Da quando ti sei risvegliato nel retrobottega del ristorante dove fai il lavapiatti, col tuo carico di ricordi come una mole di bagaglio pesante con cui fare i conti dopo più di due anni, l'unica a renderlo più leggero e al contempo insostenibile è stata lei.

Quante volte, di giorno e di notte, ti sei ripetuto che devi dirle la verità e tornare a casa? O perlomeno mezza verità e riprendere il tuo posto nel mondo prima di spiegarle meglio come stanno le cose? Quante volte ti sei fissato in quello stesso specchio col desiderio di sbattere la testa al muro e perdere di nuovo i ricordi per continuare a starle accanto anche se in una sorta di limbo senza sbocchi?

O per dimenticare gli eventi brutti, quelli in cui hai perso una persona cara e il tuo cuore sembra spezzarsi in frammenti infiniti...

La tua immagine torna nello specchio mentre le dita rallentano nel loro compito di allacciare i bottoni, quasi ti fossi scordato

hai dimenticato di nuovo

come si fa.

Eppure rammenti benissimo il leone che spicca il balzo, perché non c'era stata la voce allarmata di Candy, né il ruggito che aveva riempito il mondo e neanche l'alito rovente del felino che ormai ti era quasi addosso; non c'era stata la sensazione del dolore bruciante che ti ha lasciato questi quattro solchi paralleli sul torace, del fluire del sangue e neanche dell'adrenalina che, riversandosi nelle vene, ha reso lontano quel dolore, come un rumore sordo. No, nulla di tutto questo. C'era solo la certezza che lei fosse al sicuro.

Al sicuro, dietro la tua schiena, mentre tu ti accasci al suolo su un ginocchio portando una mano alla ferita e il leone...

No, ti esplode la testa, c'è un buco nero grosso come l'ovale bruciacchiato che Candy ha lasciato su un lenzuolo quando ha provato a stirarlo. Nero e fumante, proprio come quello. E ciò ti ricorda che devi cucinare, prima che lei torni e tenti di farlo al posto tuo.

Come sempre, le tue mani trovano gli ingredienti e si mettono ad accendere il fuoco, predisporre carne e contorni, regolare la fiamma, versare condimenti nelle pentole per accogliere Candy con piatti nutrienti e colmi di tutto ciò che non puoi dirle.

E mentre apparecchi per due ti senti quasi felice. Felice e dannato al contempo. Perché il fatto di aver compreso chi fossi non ti ha fatto rimettere giudizio, neanche lontanamente. No! Il muro che nascondeva la tua vita precedente è crollato, ma il sole abbagliante che illuminava quella valle dal verde brillante degli occhi di lei osa persino risplendere più ostinato.

Il bicchiere quasi ti cade dalle mani e le parole di Candy in quella sera che sei scappato dall'ospedale sono come un lieve ma inesorabile rintocco funebre nel tuo cervello.

Sei come un fratello per me.

Sì, allora lo aveva detto. Cosa ti fa pensare che ora sia cambiato qualcosa?

Devi controllare se l'acqua per le patate sta bollendo. Ridi di te stesso perché sì, è così, ma non le hai neanche tirate fuori dalla dispensa. Se non ti concentri su questa cena, rischi di fare un piccolo disastro come quelli che di solito combinava Candy.

Era incredibile quanto andasse fuori di testa davanti a una padella che sfrigolava o a una pentola che borbottava. E quanto adorassi accorrere in suo aiuto, sentendola rimproverarsi e poi ridere, finché...

Perché pensi a lei al passato?

Ti svegli da quella sorta di trance, premi persino una mano sulla ferita e lo sentì, il dolore, così simile a quello del tuo cuore che per un attimo hai il dubbio che gli artigli del leone si siano conficcati più a fondo di quanto credessi.

Il grido di Candy, il tonfo del suo corpo che cade a terra, il leone che forse sente la minaccia o l'odore di una possibile preda su cui sfogare la propria frustrazione: come te, si è trovato rinchiuso in gabbia e lui non può decidere di fuggire senza rischiare la vita. Spicca il balzo e smetti di pensare lucidamente, diventi un fascio di istinto e nervi e ti frapponi fra lui e Candy, pronto a dare la tua vita per la sua. Non pensi che potresti morire, però. In quel momento sei roccia, cemento, muro solido. Sei la consapevolezza che a Candy non deve accadere nulla, perché allora sì che potresti...

La sensazione di freddo alle mani e il borbottio costante dell'acqua sul fuoco ti indicano che le patate sono più che pulite, sotto al rubinetto aperto, e pronte per essere gettate in pentola. Ma non lo fai, sentendo quanto l'acqua gelida ti abbia intorpidito fin dentro l'anima. Invece, con gesti lenti e quasi controllati, chiudi il rubinetto e spegni la fiamma, ponendo fine al rumore basso e gorgogliante.

Il silenzio si avventa su di te con più ferocia del leone. Ti sbrana, senza pietà alcuna. Ti fa a pezzi e ti sgranocchia persino l'anima.

E con il silenzio torna anche il ricordo che prende il posto del buco nero, facendoti tremare le gambe e costringendoti ad appoggiarti al bancone della cucina. Il respiro ti si mozza, perché mentre sei inginocchiato per terra, il leone sembra quasi più rabbioso di prima. Ha ferito ma non ha una preda e l'odore del tuo sangue forse lo irrita persino di più.

Prima che tu possa alzarti in piedi, lui ti attacca di nuovo e le grida di Candy stavolta ti penetrano nei timpani. E tuttavia, sai che finché le senti non ha importanza che il peso del felino sia tutto su di te e le sue fauci si stiano avvicinando al tuo collo, perché significa che è viva.

Sì, Candy è ancora viva in quel momento, ma le sue urla sembrano far infuriare ancora di più l'animale, che ruggisce di nuovo e prende lei al posto tuo. Lasciala, senti gridare il dottor Martin. Candy, senti te stesso invocare cercando di rialzarti. E quando finalmente ci riesci...

L'urlo straziato e pietoso ti fa accasciare a terra mentre tenti di raggiungere la tavola. Sei carponi, come quando da ragazzino sbirciavi nelle tane dei conigli a Lakewood. E se non fosse stato per Candy, anche questo ricordo dolceamaro sarebbe stato perso per sempre.

Ma lei non potrà più raccontarti delle vostre avventure passate, né potrà mangiare quella cena a metà che come un idiota ti sei affrettato a preparare. Perché Candy era già morta quando il leone le ha spappolato le costole con le zampe pesanti, fermando il suo respiro, giusto un attimo prima di affondare le luride zanne nel collo niveo lordando di sangue il suo cappotto.

Forse stai per vomitare sul pavimento qui, vicino alla vostra tavola apparecchiata che non serve a nulla, ma che importa? Trovi a malapena una sedia e pieghi la schiena come se tutto il peso del mondo vi fosse rovinato sopra. Puntelli i gomiti sulle ginocchia perché la testa ricadrebbe in avanti e tu la sostieni per un mero istinto primitivo.
Quello stesso istinto che ti ha portato a cercare di salvarla. Ma che non è bastato. E ora non basterà il resto della tua vita per perdonartelo.

Mentre cominci a singhiozzare come un derelitto qualunque, avverti qualcosa di gelido sfiorarti una guancia.
- § -

La luce c'è. La tavola anche, parzialmente apparecchiata. L'odore che proviene dalla cucina, però, ti indica che Albert, che piange con la testa fra le mani come non lo hai mai visto, ha lasciato qualcosa sul fuoco. Eppure sei calamitata da lui, dalle sue lacrime, dal tuo nome pronunciato in un sussurro disperato: perché sei tornata? Cosa puoi fare, ormai, per lui? Ora che il tuo corpo, portato via dalla polizia ore fa, non è più sotto quell'albero, a cosa serve far vagare la tua anima nei luoghi che hai amato? Pensi forse di andare anche alla Casa di Pony, magari per provare a manifestarti facendo venire un colpo a Miss Pony e a tutti gli altri?

No, per ora ti accontenti di sfiorare la guancia di Albert, cercando di asciugare il suo pianto come lui ha fatto tante volte con te. Ma non ti riesce, ovviamente. Eppure lui ha come un sussulto, rabbrividisce e si guarda intorno. Tira su col naso e forse è così che si accorge che sta rischiando di dare fuoco alla cucina come è capitato a te altre volte. In altri giorni. In un'altra dimensione dove tu eri viva e ne ridevate.

Quando si alza barcollando, ti sembra quasi che cammini come un vecchio. Sembra curvo, come hai immaginato spesso debba camminare lo zio William, quello che non conoscerai mai e mai potrai ringraziare.

Albert guarda un fornello spento come se non capisse e tu fissi quello acceso dove si sta carbonizzando l'arrosto che avreste dovuto mangiare assieme. Finalmente pare vederlo e spegne anche quello, alzando il coperchio e facendo una smorfia nel fumo e nel puzzo di bruciato. Tossisce due volte, apre la finestra e poggia le mani sul davanzale.

Lo chiami, vorresti che si voltasse, vorresti dirgli tante di quelle cose che forse non ti sarebbe bastato neanche il resto della tua vita terrena. Perché ora sì che è tutto chiaro! Era lui, era sempre stato lui la costante nella tua vita! E se allunghi una mano per toccargli la schiena lo vedi, come un ricordo vivido, l'inizio della vostra storia. E ti stupisci, trattieni quasi un grido che tanto non uscirà. Ma certo, quest'uomo che per te era un mistero ma di cui ti bastava sapere quel che già sapevi, non poteva che essere un Principe e un benefattore. Un amico devoto e un fratello maggiore. E ora, troppo tardi, molto, molto di più.

"Sei qui?". La sua voce, più vicina di prima, ti sconvolge. Si sta rivolgendo a te? Ti ha sentita davvero quando lo hai toccato due volte?

Se avessi un respiro sarebbe accelerato; se avessi un cuore sarebbe un tamburo selvaggio; se avessi un corpo, ti getteresti ancora fra le sue braccia. Invece gli dici quelle parole che ormai, in questa non vita, sono diventate altrettante certezze a una velocità vertiginosa.

Ti amo, ti amo con tutto il cuore.

Lui sorride, non sai se ti ha udita sul serio, ha di nuovo gli occhi pieni di lacrime: "Sono uno stupido. Un vero stupido".

No, non lo sei, io sono davvero qui.

 "Perdonami, Candy, perdonami per non averti salvata". La sua mano va sul cuore, sulle ferite. E tu vi allunghi la tua fatta di niente. Forse di anima, di vento. E resti così finché lui te lo permette.

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Capitolo 3
*** Albert torna a casa ***


Nella mente, nel cuore, ero sempre a casa. Ho sempre immaginato, davvero, di tornare a casa.
(Miriam Makeba)


 
 
Albert torna a casa

"Signore, sta bene?".

"Cosa?".

"Sta lì seduto da un sacco di tempo. È sicuro di voler rimanere qua?".

Ti guardi intorno e ti rendi conto che è già sera. Giri il capo, spaesato, a destra e a sinistra, accorgendoti che il bagliore tenue delle luci della strada raggiunge a malapena la clinica del dottor Martin, rendendola quasi spettrale.

Posi le mani sulle ginocchia e infine ti alzi, chiedendoti effettivamente quanto sei rimasto seduto su quella radice, ai piedi dell'albero che è stato teatro della tua ultima avventura fuori dall'ordinario insieme a Candy.

Già, Candy, chissà se ora...

"La tua fidanzata ti aspetterà a casa. O è tua moglie?". Il piccolo passa a darti del tu e pensi che, tutto sommato, preferisci così. Non sei poi così vecchio!

Però alle sue parole sussulti così forte che per poco non sei tu a inciampare.

Cade all'indietro, Candy, con le palpebre spalancate dall'orrore, in un momento cristallizzato nel tempo che pare infinito.

Il ragazzino ti fissa con i suoi curiosi occhi infantili sotto al berretto consunto. Neanche la giacca è in condizioni migliori e non sai se lo copre a sufficienza. Non che abbia importanza, dopotutto, ora la tua priorità è cercare di confezionare una risposta plausibile perché, forse per la prima volta da quando sei nato, non sai cosa rispondere.

Magari solo la verità...

"Nessuna delle due, piccolo. Come ti chiami?", gli posi una mano sul berretto in un gesto confortante. Non deve essere affatto bello starsene lì da soli a quell'ora e ti chiedi dove siano sua madre, i suoi genitori, chiunque si occupi di lui.

"Ryan. Allora cos'è? Sembrava così triste quando è andata via in macchina! Avete litigato?".

Deglutisci, o almeno ci provi, fissando prima con più attenzione il bambino e poi scoccando un'occhiata alla strada ormai deserta. In qualche modo, comprendi che il ragazzino è lì da solo. Veramente da solo. D'istinto, senza alcuna connessione logica, ti porti una mano alla fasciatura e noti il sangue rappreso, la camicia strappata. Stringi il tessuto e chiudi gli occhi, ricordando le lacrime di lei, quel pegno che hai dovuto pagare vedendola però sana e salva. Odi vederla piangere, daresti la tua stessa anima perché sia sempre felice.

La tua stessa vita.

D'altronde, sei sempre più carina quando ridi che quando piangi...

"Lei è la mia infermiera".

Il piccolo sgrana gli occhi: "Un'infermiera tutta per te?! Forte! Io quando sto male vengo... venivo sempre qui".

Ryan s'interrompe, socchiude gli occhi come scrutandoti la ferita quasi volesse trapassarla e arrivare all'anima. O perlomeno è questa la sensazione che hai, netta e chiara come il sole, mentre ti accorgi di una consapevolezza che gli rilassa i lineamenti in un movimento impercettibile delle labbra socchiuse. Eppure si riprende subito, come se non fosse accaduto nulla, come se preferisse ignorare i tagli sotto alla benda. Saltella in quel modo allegro in cui solo i bambini riescono a farlo senza sembrare goffi: bilanciandosi su un piede e poi sull'altro, in una marcia ritmica che presto coinvolge anche le braccia e che ti strappa un sorriso. E così va verso la strada e ti risolvi a seguirlo, affondando le mani nelle tasche dei jeans. Cammini in silenzio, ti concentri sulla figura piccola e smunta che sembra piena di vita e di buone intenzioni, sull'asfalto che s'impregna dell'umidità della sera e sul mormorio delle fronde degli alberi sopra di voi. Perlomeno finché non raggiungi la periferia abitata e allora tutto diventa un mormorio lontano e vicino di voci, il canto di un ubriaco appoggiato a un lampione, la risata che proviene dall'interno di un locale e il pianto di un neonato dietro la finestra di una casa dai muri scrostati.

Eppure, tutto è anche Candy, che ti stringe forte le bende gridandoti quella domanda come se rispondendole poteste tornare indietro nel tempo. Perché lo hai fatto?! Perché hai fatto una cosa tanto pericolosa, Albert?

Perché non avrei potuto fare altrimenti. Non mi era possibile comportarmi in modo diverso.

Era disperata ma anche furiosa, oh se lo era! Di rado hai visto tanta furia nei suoi occhi e per un attimo pensi che non ti perdonerà mai. Il problema, però, non è quello: sei sicuro che prima o poi la rabbia si sgonfierà, sciogliendosi come neve al sole.

Come lacrime.

La domanda è: perché pareva così spaventata? Quasi come se tenesse a te più di quanto fosse lecito illuderti?

"Da quanto lavora dal dottor Martin la tua amica infermiera con le buffe code?". Ryan si ferma a un incrocio con un semaforo rosso e ti fissa con una certa serietà.

Lo raggiungi e ti chini alla sua altezza, puntellandoti su un ginocchio: "Candy non lavora per il dottor Martin, ma in ospedale. Temo però che da oggi non...". Un'idea ti passa per la mente, chiara e limpida come un fulmine a ciel sereno. "Potrebbe lavorarci in effetti!".

Il piccolo sorride e china un poco il capo, come se non capisse il tuo ragionamento. E come potrebbe comprendere che Candy, forse, non avrebbe più lavorato in ospedale a causa tua? Perché ha deciso, contro tutto e contro tutti, di viverti accanto per aiutarti a recuperare la memoria suscitando di certo i leciti sospetti del direttore e magari voci poco lusinghiere da parte di colleghe e medici...

Povera, piccola e altruista Candy...

Ryan allunga una manina quando ti raddrizzi in piedi per proseguire e per un breve istante lo guardi, incerto se accettarla. "Vuoi... che ti accompagni da qualche parte?".

Il ragazzino scuote la testa e ti pare, per la prima volta da quando lo hai visto, sull'orlo delle lacrime. Le piccole labbra tremano e ti senti stringere il cuore. "No, sono già stato dove dovevo andare. Se vuoi accompagno te".

"Io...". Stai per dire che non hai bisogno di compagnia, sei adulto e sai perfettamente qual è la strada di casa, ma comprendi anche che state procedendo verso la stessa meta, dopotutto, quindi perché non percorrere la via insieme?

Stringi la manina sentendoti un po' fratello maggiore, un po' papà, un po' sostenuto tu stesso e cammini senza fretta verso la Casa della Magnolia.

A pochi passi dal piccolo condominio, vedi due figure venire verso di voi e riconosci Archie e Annie, che procedono stretti e a testa china. Un passo, un altro ancora, l'oscurità della sera e la poca luce dei lampioni ti rendono impossibile capire quanto siano in pena i due amici che, è evidente, hanno da poco lasciato l'appartamento.

Oh, Candy...

Impercettibilmente, stringi la piccola

...e calda...

mano di Ryan e ti sorprendi nel ricevere da lui una stretta di risposta. Archie ha il braccio attorno alle spalle di Annie, la cui mano destra tiene un fazzoletto premuto sulla bocca. E le parole escono come ovattate...

"Non avremmo dovuto lasciarla sola"

...prima che vi passino attraverso in una sensazione così strana a metà tra il vuoto e la pienezza, che rabbrividisci come se la ferita fosse davvero ancora aperta.

"Se la caverà, Annie, d'altronde sai benissimo che i tuoi genitori non ti lascerebbero mai dormire fuori casa".

"Ma hai visto com'era disperata?! Neanche quando si è lasciata con Terence era in simili condizioni!".

"Hai ragione. Possibile che lei...".

Ti senti tirare per il lembo della giacca e sbatti le palpebre, abbassando infine gli occhi, prima incollati alla coppia che si allontana piano, su Ryan che ti guarda incuriosito: "Non credo che abbiamo tanto tempo, sai?".

Annuisci, incapace di proferire parola e, come in sogno, riprendi a camminare verso casa domandandoti cosa volesse dire Archie prima di aprire la portiera dell'auto e far salire Annie. Avresti potuto seguirli, ascoltare ancora, ma non sarebbe servito a molto, se non a evocarti un dolore così grande che forse ti saresti sentito dannato per l'eternità anche se non hai commesso alcun peccato mortale.

A parte uno, forse...

"Io ti aspetto qui", dice il bambino sedendo sull'ultimo gradino, come se davvero non volesse essere d'intralcio al vostro saluto. Tira fuori dalla giacchetta lisa uno yo-yo in legno che inizia a far scendere e risalire con una certa abilità e un movimento quasi ipnotico.

Ti ci perdi per lunghi istanti.

Stai forse cercando di rimandare l'inevitabile? Forse, perché una volta che rientrerai a casa, non sei sicuro di poterne uscire di nuovo. E, tuttavia, sai che prima o poi ti reclameranno e dovrai farlo, volente o nolente.

Dietro la porta ancora chiusa, puoi udire i singhiozzi sommessi di lei e ti basta allungare una mano sulla maniglia per trovarti davanti a Candy che, con i gomiti incrociati sul tavolo e il capo in mezzo, scuote le spalle nel suo pianto accorato.

Quella tavola dovrebbe essere apparecchiata e colma di vivande. E tu dovresti trovarti in cucina, a preparare le ultime portate da servire a una ragazza sorridente che si toglie il cappotto e corre a lavarsi le mani prima di cena.

Invece la tavola è spoglia, eccezion fatta per un bricco di tè o camomilla che doveva aver preparato Annie, tre tazze di cui una quasi piena, e dei fazzoletti di stoffa che appaiono madidi di lacrime versate. Se potessi, piangeresti con lei, abbracciandola, ma soprattutto chiedendole perdono.

Perdonami, perché avrei voluto vivere per te. Perdonami, perché non sapevo che avresti sofferto tanto. Perdonami, perché ho stupidamente pensato di essere immortale e invincibile. Perdonami, perché ora non potrò più raccontarti la verità.

Senza potertelo impedire, allunghi una mano per poterla toccare e ti sorprendi di sentirla solida come non lo erano stati Archie e Annie o la stessa porta. Possibile che il desiderio di averla vicina un'ultima volta la renda tangibile?

"Perché, perché sei stato così stupido? Cosa farò ora, senza di te? Albert... Albert!". La voce è soffocata dalle lacrime e dalle braccia e tu, contro ogni logica, ti chini sulle ginocchia come hai fatto poco prima in strada.

"Perdonami. Volevo solo salvarti, Candy".

Lei scatta su come per un grosso spavento e ti rendi conto che, dopotutto, forse può persino sentirti. Rimani in silenzio per brevi istanti, perdendoti nei suoi occhi, cercando in essi il tuo stesso riflesso e non trovandolo, dopotutto. Ma anelandolo al pari di un respiro.

"Albert...". La sua voce è un sussurro gelido, uno sbuffo di fumo denso e inodore, condensa in una giornata d'inverno.

Lo sai che stai per fare qualcosa di assurdo, solo per usare un eufemismo. Così come sai che da vivo non ti saresti azzardato neanche ad accarezzare l'idea. Eppure eccoti, che ti sporgi verso le sue labbra socchiuse e tremanti; eccoti, che rimani immobile per un breve istante eterno, cercando di cogliere il suo aroma, il suo respiro caldo, la sua essenza. Prima di unire le vostre labbra illudendoti di sentirle morbide e vive... e, diamine, forse è vero! Dio, se è vero! Sono tiepide, dolci e salate, umide e carnose.
Assurdo come tu ti possa sentire vivo pur non essendolo. E come senti che il tuo corpo sia tangibile e desideroso di un contatto più profondo, più esclusivo, fosse anche solo un abbraccio per completare questo strano bacio a metà tra la Terra e il Paradiso.

Hai ancora gli occhi chiusi quando ti accorgi che Candy è a testa china. Non la stai più baciando ma guardando, il tempo forse è diventato relativo e lei sembra una bambola rotta, afflosciata su se stessa come se le energie fossero state risucchiate via. Solo le gambe sembrano reagire e la portano in piedi, la fanno camminare con movimenti automatici e legnosi fino alla vostra camera. La vista del vostro letto a castello ti pugnala e ti ferisce, uccidendoti ancora una volta, mentre lei si getta a peso morto sul tuo letto, quello inferiore, quello dove l'ultima volta hai dormito giusto ieri notte.

La sua immobilità, le sue lacrime silenziose che scivolano come cascate dalle iridi spalancate sono peggio di qualunque singhiozzo. Se tu non hai più un corpo, Candy ha appena perso l'anima.

"Reagisci, Candy, reagisci! Mi dispiace, mi senti? Non volevo... non doveva succedere! Ma, diamine, che potevo fare?!".

La sua immobilità è tale che sembra lei la morta. Se non fosse per le lacrime che sembrano cascate incontrollabili, persino il suo pallore sarebbe quello cadaverico

del tuo corpo quando, ancora fasciato stretto nell'intento di bloccare l'emorragia, viene messo su una barella e coperto prima che Candy inizi a gridare. E non serve che il dottor Martin la trattenga. Ha gli occhi aperti, non vedete? È vivo! Lasciate che gli disinfetti le ferite e gli rifaccia il bendaggio, vi prego!

di una donna che non sia più in vita.

Per questo, quando finalmente parla, persino la sua voce ti sembra provenire dall'oltretomba. Spenta, un suono che ha solo il ricordo del tono fresco di Candy.

"Non posso sopportare anche un colpo simile. Non posso".

"Sì che puoi!", urli, sperando che in qualche strano modo ti ascolti per davvero.

"Miss Pony, suor Lane, ho sempre cercato di mantenere il sorriso, ma ora che ho perso anche Albert cosa mi rimane? Cosa mi resta?!". E la senti, oh, se la senti l'emozione, adesso! Un'emozione viva eppure defunta allo stesso tempo. La morte della speranza, la fine dell'illusione, l'ultimo grido prima di lasciare la presa e precipitare.

"No, Candy, no, reagisci, mi senti? Mi senti?!". Speri che alzando la voce a pochi pollici dal viso serva ad arrivare a lei? Ripetendo ancora e ancora che deve reagire e ascoltarti?

"Cosa mi resta?!", ripete invece Candy, stringendo le mani al petto, stropicciando la stoffa del vestito come se volesse distruggerla al pari del cuore già martoriato.

"Hai te stessa, Candy, il tuo lavoro da infermiera, i tuoi amici! Hai la tua vita che ho salvato a costo della mia! Ti prego... ti prego...". Può un morto piangere? In qualche maniera sovrannaturale lo stai facendo, mentre la supplichi e lei ti guarda attraverso.

E mormora qualcosa che non ti aspetti. Che forse hai sperato, ma che se prima che ti gettassi a corpo morto contro quel leone poteva essere motivo di gioia, ora ti provoca una sensazione di orrore.

"Dio mio, io lo amavo... lo amavo davvero...". Sembra stupita, la tua Candy, mentre lo dice con un tono che diventa calmo e si alza a sedere, senza togliere le mani dal petto, quasi temesse che quel cuore possa davvero marcirle tra le dita per tanta sofferenza.

Preferiresti che non fosse così, come avevi sognato tante volte. Che non ti ricambiasse e che desiderasse ancora Terence, che perlomeno è vivo. Invece no. Invece quella meravigliosa eppure terribile verità ti trafigge, facendoti comprendere di colpo a quali livelli il tormento di Candy la sta colpendo.

"Candy...". Allunghi una mano in una carezza. Vorresti baciarla di nuovo, dirle che l'ami da sempre, anche se in modo diverso in ogni fase della sua vita. Oggi saresti stato pronto a farne tua moglie, una volta sistemato tutto. Ma ancora le dovevi tante, troppe verità...

"Tutti, ho perso tutti...". Il tono ora è definitivo, quasi un soffocare lento e inesorabile.

"No, Candy, non dire così...". Ma sai che è vero. Sai che a soli tredici anni ha affrontato il trauma della morte di Anthony, subendolo forse anche più di te, perché non era che una ragazzina che aveva appena imparato ad amare. Sai che di recente ha detto addio al suo amore dell'adolescenza perché un'altra donna ne ha bisogno più di lei. E sai che, se davvero si era innamorata di te, non può che sprofondare nell'ineluttabilità di un destino beffardo e crudele che sembra deriderla.

"Tutti...".

"No, Candy, non...".

"Non posso vivere con questo dolore!". E grida, Candy, come se ti stesse accusando direttamente. "Non voglio più vivere per veder morire le persone che amo, non voglio, non voglio!". E si prende la testa fra le mani, lasciando il cuore a colare via sulla stoffa sciupata del vestito rosso, adesso cerca di non far esplodere il capo o di non ascoltare il macabro suono dell'addio coprendosi le orecchie. E continuando nel suo gesto di diniego. Ripetendo che non può e non vuole vivere.

E tu provi quasi rabbia. Comprensione, sì, ma anche rabbia. Perché Candy non è così, Candy deve continuare a essere resiliente e forte e tu devi fare qualcosa perché non si lasci andare. Ha ingannato forse Archie e Annie convincendoli a lasciarla sola, che se la sarebbe cavata. Ma tu non vuoi, non puoi lasciarla sola.

E devi fare in modo che lo sappia.

La osservi mentre si alza e ti sposti per lasciarla passare, stupidamente, per mero istinto. Candy batte i due pugni sul tavolo, facendo tintinnare il servizio da tè. "Mi hai lasciata sola anche tu, anche tu, Albert!".

"Non ti ho lasciata sola, volevo solo salvarti la vita!". E ti ritrovi ad alzare la voce ancora una volta, ma anche a emulare il suo gesto. Più forte, come un uomo che stia discutendo a tavola. Incredibilmente, le tazze tintinnano più forte, il piccolo coperchio del bricco di porcellana si sposta e scivola via, cadendo sulla tovaglia.

Lo guardi stralunato, rendendoti conto che lo sta fissando anche Candy con due occhi spalancati da uno stupore senza fine, le lacrime non scendono più e hai la netta sensazione che stia trattenendo il fiato. E che continui a farlo mentre allunga una mano verso quell'insignificante coperchietto, la ritrae come spaventata, quindi lo prende in mano e si guarda intorno.

"Albert...?".

"Sono qui e a quanto pare mi sono appena trasformato in un poltergeist per causa tua", le mormori con un leggero sorriso.

Ovviamente, stavolta non ti sente. Oh, se solo potessi restare qui, ignorando che sulle scale c'è un bambino con lo yo-yo a cui hai praticamente promesso che lo raggiungerai! Non hai idea se sia colui che ti deve scortare dove devi andare o solo una piccola vittima che ha bisogno di compagnia, ma sai anche che è giusto che tu torni da lui. Fuori dalla vita di Candy, della tua famiglia, di tutti. Fuori... dalla vita e basta.

Con occhi avidi, segui il suo dito che accarezza la porcellana come se stesse accarezzando il tuo viso.

"Sono qui, Candy, in qualche modo sarò sempre qui. Non ti arrendere, ti prego. Un giorno, fra molti anni, molti, MOLTI anni, mi rivedrai. Ci rivedremo. Ti aspetterò e voglio che tu abbia una vita piena e felice. Con chiunque vorrai. In qualunque modo vorrai".

"Grazie, Albert". Sussulti a quelle parole. In apparenza, si rivolge al piccolo coperchio che ripone con gesti lenti e precisi dov'era prima. Forse pensa che sia stato tu a farlo cadere ma non ha davvero sentito quello che le hai appena detto. O forse sì. Non lo sai, ma avverti il senso di pace che l'avvolge e ti senti in pace tu stesso.

Le hai dato il segnale che volevi e hai ottenuto il risultato che desideravi, quindi perché questa sensazione che stia fingendo solo per te? Per te che non dovresti neanche essere qui?

"Vorrei tanto vederti felice". Le ripeti quelle parole che le sussurrasti una volta, quando le sue lacrime erano per Terence, e vedi qualcosa illuminarsi nelle sue iridi. Lacrime, stupore, consapevolezza. Fissa un punto un po' alla tua destra e protende le dita come per toccarti. Ti sposti per offrirle la guancia, su cui hai la netta sensazione che scivolino le tue, di lacrime, e speri che ti senta.

Una sorta di piccolo sorriso le attraversa le labbra e, nel medesimo istante in cui ti sembra che ti guardi negli occhi, Candy sparisce e ti ritrovi al buio. In un nulla buio dove un ragazzino con i vestiti logori e un berretto consunto sta facendo scendere e risalire uno yo-yo come una clessidra del tempo che abbia terminato la sabbia.

Sai che è un pensiero stupido, perché una clessidra e uno yo-yo sono molto diversi, ma dentro di te si agitano consapevolezze nuove che non riesci sempre ad afferrare appieno. E tuttavia, le accetti e ne fai tesoro, perché sai che da ora in poi saranno il bagaglio che ti accompagnerà nel luogo in cui sei destinato.

"La rivedrai molto presto". Il bambino lo dice mentre inizia a camminare in quel vuoto, aspettandosi che tu lo segua, senza far smettere al giocattolo quel movimento ritmico.

"Potrò tornare da lei?", chiedi pieno di speranza.

Ryan si ferma, lo yo-yo resta appeso, il viso infantile si alza verso di te e sembra pervaso da una serietà che stride con la sua giovane età. "La guerra", dice e ti si gela il sangue nelle vene. Se non fosse che non hai più vene, né sangue. "Partirà come crocerossina e la guerra finirà presto. Però lei non tornerà qui. Verrà da te una notte di settembre. Lo stesso giorno in cui è morto Anthony".

L'orrore che provi a questa rivelazione ti fa correre indietro, anche se indietro non esiste, perché non c'è più la Casa della Magnolia, tantomeno la luce o qualcosa che somigli a un pavimento. Stai fluttuando. Fluttuando nel panico e in un grido muto o reale che sia.

"Non puoi farci nulla". Ryan è al tuo fianco, come se non ti fossi mai spostato, corso via proprio come un poltergeist impazzito. Fa spallucce, sembra calmo e rassegnato, ma tu sei lontano dal sentirti così e vuoi solo tornare da Candy e dirle di non partire.

"Lei deve vivere ed essere felice, non può lasciarsi morire a causa mia, si tratta di una missione suicida!".

"Ma lei non si lascerà morire. Lei partirà per vera vocazione. Sarà brava e guarirà tanti malati, molti più di quelli che potrebbe aiutare dal dottor Martin. Qualche soldato morirà, ma a uno ad esempio farà una fasciatura come la tua e lo salverà, sentendosi finalmente felice come se avesse salvato te". Lo ascolti, rapito, non sapendo più cosa rappresenti questo bambino, perché il suo sapere sembra così vasto. Si trova in questa dimensione sospesa da più tempo? Ha comunicato con qualche entità superiore che gli ha svelato i reconditi segreti del futuro? E perché te lo sta dicendo?

"Perché voglio che ti calmi e la aspetti dove devi, invece di agitarti tanto, ché non serve a niente!". E ti legge anche nel pensiero! "Il mio sapere non è così vasto, ma hai ragione... sono qui da più tempo perché dovevo tranquillizzare la mia mamma. Anche lei non arriverà tardi, ma starà qui più anni della tua Candy".

Sei allibito, sconvolto, provi empatia per il bambino, hai sete di saperne di più, però... sai che deve bastarti.

"Va bene, andiamo allora". Gli tendi la mano quasi in un gesto di resa e finalmente Ryan sorride e sembra di nuovo un bambino piccolo. Ti si stringe il cuore in una morsa pesante, anche se paradossalmente, man mano che cammini con lui e cominci a scorgere una luce lontana, quel tuo corpo che non è più carne e ossa pare sempre più leggero e inesistente.

Ma l'animo piange l'ingiustizia che ha colpito il ragazzino, che sembra molto più forte di te, e di Candy. E grida all'immagine chiara di lei, sotto un cumulo di macerie, che respira a malapena e non risponde ai richiami che provengono dall'esterno. Anzi, sorride e gira il capo non verso la lama di luce che penetra da un lato, ma verso il buio dove, ora lo sai, l'aspetterai per condurla in un sole ancora più bello e accecante.
 

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Capitolo 4
*** Candy e Albert tornano a casa ***


È una cosa divertente tornare a casa. Niente cambia. tutto sembra lo stesso, anche gli odori. Realizzi che ciò che è cambiato sei tu.
(F. Scott Fitzgerald)


 
 
 
Candy e Albert tornano a casa

"Pensi di tenermi il broncio per tutto il tempo?", le chiedi vedendola quasi marciare come un'altezzosa soldatessa davanti a te, l'orlo della gonna che ondeggia a ogni passo nervoso.

Quella semplice domanda innesca in Candy una reazione esilarante. Ruota su se stessa quasi fosse una ballerina classica in cima a un carillon molto realistico e pianta su di te quelle due iridi verdi che sono acqua e distesa d'erba al contempo: "E me lo chiedi anche? Ti rendi conto di cosa hai fatto?!".

Fai spallucce, sapendo che dovresti risponderle a tono, ma tentando solo di non scoppiare a ridere perché di certo la faresti arrabbiare ancora di più: "Quello che ho fatto io è diretta conseguenza di quello che hai fatto tu". Eppure, la componente infantile nel vostro discorso surreale emerge persino da te, che dovresti essere l'adulto, l'uomo maturo, quello... beh, di undici anni più grande di lei. Sì, perché sottolinei i due pronomi indicando prima te stesso e poi lei, che accusa il colpo spalancando la bocca.

"Ora è colpa mia che io sia inciampata? ". Da come vibra la voce, capisci che non è mai stata tanto furibonda con te e che è pronta a farti una scenata in piena regola.

E tuttavia, scuoti la testa senza perdere la tua proverbiale compostezza e, sopratutto, non provando più lo stimolo a ridere: "Non parlo di quando sei inciampata sulle radici dell'albero, ma del... dopo. Dopo che il leone ti ha attaccata".

I suoi lineamenti si rilassano e cogli come acqua fresca l'istante in cui diventano seri e poi mutano in una smorfia che sembra renderla ancora più bella, con le sue lentiggini come cornice: "Ti sei messo in mezzo e ha attaccato te". Adesso il tono è privo di inflessioni rabbiose. È piuttosto pervaso da una tristezza profonda, da un senso di sconfitta che le fa stringere i pugni e darti le spalle, negandoti la visione sublime del suo viso. "E comunque sai benissimo che si tratta anche... del resto".

Già, il resto...

La segui nel tramonto incipiente che getta fasci di luce arancione per le vie, dove gli ultimi avventori entrano nei negozi alla spicciolata o ne escono con le braccia piene dei loro acquisti. Superi una signora che tiene per mano un bambino piccolo vestito con una giacca logora e un berretto consunto e finalmente ti decidi a raggiungerla, cercando la sua mano per stringerla: "Basta parlarne, va bene? Torniamo a casa e basta".

La sua espressione contrita ti pugnala al cuore, ma il sorriso che ti regala dopo ti dona un'estasi quasi fisica.

"Va bene, andiamo".

E ti sembra di tornare indietro nel tempo, quando lei arrivava dall'ospedale e tu l'attendevi appoggiato a un lampione per accoglierla, magari aiutandola con la busta della spesa. Ancora non sai come mai oggi fosse in giro per il parco, ma la tua supposizione è quasi certezza e decidi che, se bisogna parlarne, tanto vale farlo ora.

"Che è successo in ospedale?". Quella semplice domanda la fa bloccare di colpo. Ma siete in mezzo alla strada e non credi sia una buna idea sostare a quell'incrocio: rabbrividisci al ricordo dell'ultima volta in cui ti sei distratto e sei stato investito da un pirata della strada, anche se sei certo che non ricapiterà più.

Così, con gentilezza, la induci a raggiungere l'altro lato del marciapiede, lasciandoti alle spalle i negozi e scorgendo i primi lampioni sfarfallare brevemente prima di accendersi. Ti fermi in un angolo illuminato dagli ultimi scampoli di tramonto e dalla luce elettrica e incroci le braccia inarcando un sopracciglio, attendendo la risposta.

Candy abbassa il capo e si morde il labbro, sembra una bambina colta in flagrante come qualche ora fa. Unisce gli indici una, due, tre volte, quasi decidendo come dirtelo e, ancora, senti l'impulso di ridere e di stringerla a te al contempo.

"Beh, ecco... immagino che sia inutile ormai dirti una cosa per un'altra, vero?".

"Direi di sì". Ci ripensi su, sussulti, e ora sei tu quello arrabbiato. "Candy, volevi raccontarmi una bugia?". E, subito dopo, ti mordi la lingua. Tu di raccontare bugie non ne sai nulla, vero? E non osare pensare che le tue fossero a fin di bene!

"Non volevo farti preoccupare o... sentire in colpa". Ecco, avete avuto lo stesso pensiero, quindi togliti quel cipiglio irritato dalla faccia e ascoltala! "La verità è che... il dottor Leonard ha scoperto, non so come, che vivo con te e mi ha licenziata". Candy chiude forte le palpebre, come se attendesse da te un rimprovero.

Invece hai solo la conferma che ciò che avevi immaginato è reale e ti senti triste e amareggiato. Dopotutto, gli eventi delle ultime ore sono in parte tua responsabilità. E di chi non ha prestato attenzione a richiudere come si doveva la gabbia di quel povero leone che avrebbe dovuto trovarsi in Africa con i suoi simili e non in un circo di Chicago.
Mentre Candy è ancora a occhi chiusi aspettandosi da te chissà quale eccesso, come se le avessi mai dato motivo di attendersi da te manifestazioni esagerate, la chiudi in un abbraccio che speri sia caldo e confortante. "Mi dispiace, piccola Candy".

Lei vibra contro di te come una foglia al vento e ti rendi conto che, anche se ora è una donna, racchiudere quello scricciolo pieno di energie e vitalità ti fa sentire completo da sempre. Ti è successo quando dovevi inginocchiarti per arrivare alla sua altezza e ti succede tutt'ora che avverti le discrete forme femminili premere contro il tuo torace.
Questa completezza, però, somiglia all'unione di due anime.

"Ora tocca a te". È soffocata dal tuo petto la voce di Candy, percepisci il calore delle sue parole contro il cuore. Sì, tocca a te spiegarle come mai, mentre vi stringevate come ragazzini guardando a occhi spalancati la pozza del vostro sangue che si mescolava, lei ha rabbrividito così forte che ti sei chiesto cos'altro stesse succedendo.

Ma non c'è stato bisogno di attendere a lungo, perché nelle grida e nel caos generali hai potuto leggerlo nei suoi occhi sconvolti. Allora, nulla ha più avuto senso, se non la necessità vitale di avere il suo perdono. L'hai inseguita quando, forse per la prima volta dacché vi conoscete, Candy si è allontanata da te. Le hai riservato qualche parola di spiegazione prima che la questione centrale riprendesse il sopravvento, mostrando a entrambi cosa avesse significato veramente il gesto di mutua protezione che avete compiuto.

Hai avuto la conferma che saltare tra lei e il leone non è stato sufficiente e sai che daresti un'altra vita perché Candy non fosse corsa di nuovo fra le tue braccia nel disperato tentativo di staccare le mefitiche fauci dal tuo collo. Il groviglio di arti e l'odore del sangue. Il dolore cupo e il respiro che si spezzava quando cercavi di muoverti o solo chiamare il suo nome. Il nome che diventa gorgoglio vermiglio, vista appannata, orrore e persino un bastone brandito dal dottor Martin per staccare l'animale da Candy. Da te. Da voi.

E te la sei ritrovata fra le braccia dopo una strana pausa, quella nella quale il raccapriccio di ciò che stava accadendo si è celato ai tuoi occhi. Ci hai messo, anzi, ci avete messo alcuni istanti per capire, comprendere, rabbrividire dinnanzi a voi stessi inerti e ancora allacciati. Lo sparo ha riempito il mondo e ti sei persino rimproverato di non aver salvato nemmeno quel povero animale.

"Ho sbagliato tutto, perdonami". Hai sbagliato a pensarti immortale e invincibile; hai sbagliato a non proteggerla meglio; hai sbagliato a non fuggire via con lei; hai sbagliato... a nasconderle tutte quelle verità che le si sono riversate addosso in un momento troppo delicato nel quale c'erano già troppe altre cose da capire.

Coglie il tuo sussurro e ti porta una mano al viso: "Sei così diverso da allora... e da come ti immaginavo. Eppure sei sempre tu, Il mio principe. Il mio benefattore".

"Parliamone a casa, vuoi?". Vorresti cucinare ancora per lei, sederti a tavola, versarle un bicchiere di vino e parlare anche per tutta la notte. Spiegandole, raccontandole. Ma ti limiti a varcare la soglia di una casa vuota e ancora buia dove le luci sono state spente ore fa, dove non vi servono le chiavi e dove quel tavolo giace al centro del piccolo salottino come il relitto di una nave fantasma.

Sedete lì, in silenzio, e la conferma che non vi trovate in una specie di limbo che somiglia al vostro appartamento la trovi nel rumore ritmico della goccia che cade nell'acquaio in cucina, quello che non hai avuto tempo di riparare.

"Allora?".

Sai che Candy sta battendo il piede a terra e torna a guardarti con l'espressione indispettita di poco fa. Ti schiarisci la voce, non sapendo da dove cominciare e alla fine lo fai dall'inizio: dalla tua infanzia complessa, dalla collina, proseguendo per i boschi di Lakewood in un viaggio mentale nel tempo. Un tempo che si snoda attraverso l'oceano, fino a Londra, ti riporta in Africa e alla Casa della Magnolia, fino al momento in cui...

"Candy, ma tu tutto questo lo sapevi già in parte, vero? Devi averlo sentito". Quella consapevolezza ti colpisce e comprendi che forse lei ti sta punendo per il tuo silenzio.

"In parte", ti conferma intrecciando le dita delle mani sul tavolo, slacciandole, unendole di nuovo. Percepisci il suo nervosismo che diventa tuo.

"Perdonami, come ti ho spiegato... avevo i miei motivi per nasconderti queste cose. Te le avrei rivelate, un giorno".

"Quando?". Candy alza la voce e ti accorgi che succede una cosa strana: la lampada a muro dietro di lei sfarfalla brevemente come se tentasse di accendersi ma non ci riesce. Si rispegne e la luce del lampione e quella lunare sono di nuovo le uniche che ti fanno distinguere i suoi lineamenti tesi.

"Presto, davvero. Solo che ero molto combattuto. Mi sono messo in contatto con Georges per fargli sapere che ero ancora vivo e per riprendere in mano gli affari, ma non mi decidevo a...".

"Allora è per questo che stavi via di casa così spesso, anche di domenica!". Ti interrompe Candy e la tensione diventa comprensione, stupore. "Lo sai che le vicine di casa cominciavano a sparlare di te, pensando che fossi coinvolto persino con la malavita?!".

Sussulti, sconvolto. Avevi immaginato che le tue lunghe assenze le avrebbero dato da pensare, ma non avevi compreso quanto il tuo comportamento la stesse mettendo in difficoltà.

"Scusa, Candy. Non lo sapevo". Sei contrito, curvi le spalle, vorresti toccarla ma capisci che le hai appena rovesciato addosso, in due minuti, le verità di un'intera vita.
Restate in un silenzio carico di tutto e di niente, non sai neanche quanto tempo sia passato, quanto ne avete ancora. Sai solo che, ovunque dovete dirigervi, ci andrete insieme. Eppure per ora tutto è sospeso, strano, etereo. Odi delle voci per le scale, una porta che si chiude, il rumore di una vettura che passa per la strada.

"Stavi per dirmi... qualcos'altro, prima. Cosa non ti decidevi a fare e perché?". Te lo meriti il suo interrogatorio, lo sai. Come sai che adesso è il momento di un'altra verità.
"Non mi decidevo a tornare a casa perché non volevo lasciare la vita che stavamo conducendo insieme".

Gli occhi spalancati, le labbra che si socchiudono, lasciando fuggire un mormorio indistinto prima di richiudersi. Il capo che si scuote, il sorriso che non sa se affiorare. La tua Candy sembra davvero non sapere bene che reazione avere davanti a questa tua mezza confessione: "Te ne saresti andato senza dirmi nulla?". E tuttavia, non manca di affondare il dito nella piaga

le zanne nel collo

con quella domanda.

"Io...". Prima che tu possa deciderle se mentirle è lei a toccarti, allungando una mano sulla tua. Sai che le basta questo, se non il tuo sguardo colpevole, per leggerti dentro.
La sua mano sulla tua si ritrae e lei scatta in piedi, furiosa come prima: "Volevi andartene di nascosto, dunque! Magari con un biglietto!". La luce dietro di lei fa lo stesso giochetto di prima e stavolta la fissi mentre ti alzi a tua volta e lei si gira seguendo il tuo sguardo.

"Candy, ammetto il mio errore, ma non c'è bisogno di far esplodere le lampadine. Non vorrai diventarmi un poltergeist, vero?". Sei ironico eppure serio e lei gonfia le guance come una bambina arrabbiata. La trovi adorabile.

"Non so neanche cosa fa un polte... quella cosa lì! Ma so che non voglio fare danni nella nostra casa e che vorrei... vorrei solo tornare a vivere qui con te e dimenticarmi di questa giornata orribile! Beh, non tanto orribile. Alla fine ho scoperto delle cose bellissime. Però... però...". Si porta le mani al viso e scoppia a piangere, così fai il giro del tavolo per stringerla a te.

"Ssssst, va tutto bene, piccola Candy, va tutto bene...", le mormori quasi cullandola.

"Non sono piccola", piagnucola proprio come una bambina. O una donna irritata.

"Lo so, lo so. Se una meravigliosa ragazza che ha un coraggio da vendere. Un coraggio da leone". Il sussulto delle spalle si ferma e alza il volto per guardarti, con quei boccioli di ninfea su cui vorresti solo posare teneri baci.

"Sciocco", ti soffia in faccia. Come se fosse vera. Come se fosse viva e tu lo fossi altrettanto. Invece no. Ci avete lasciato la pelle, ai piedi di quell'albero, vicino alla clinica del dottor Martin, nel giorno in cui Candy è stata licenziata dall'ospedale. Perché tu hai cercato di proteggere lei. E lei si è messa in mezzo per salvare te.

Due sciocchi, sentimentali suicidi.

E di colpo la senti dentro di te la luce e anche dentro Candy. Non hai bisogno di dirle nulla, né tantomeno di baciarla. Bastano il vostro abbraccio e questo sguardo che illumina il vostro mondo. E, tuttavia, le sfiori la fronte con le labbra.

"Andiamo", sussurri accorgendoti che annuisce.

"Qui lasciamo tutto così? Voglio dire...".

"Pensi forse che abbiamo modo di metterci a fare le pulizie o di riparare il tubo sotto al lavabo?". Alzi un sopracciglio, divertito, mentre ti stacchi da lei solo per prenderla per mano.

"Beh, ma... quando sono uscita stamattina non ho neanche rifatto il letto! Penseranno che sono davvero disordinata!".

Le sorridi, cominciando a guidare i suoi passi. Eppure, dentro di te sai benissimo che nessuno si soffermerà su un dettaglio così insignificante, quando la tragedia piomberà

come un leone

sulle loro vite.

"Candy, ci ho pensato io se può consolarti".

"Hai rifatto il mio letto?".

"Certo". Alzi il capo, t'impettisci, sei orgoglioso di aver lasciato la casa come lei vorrebbe. Anche se non del tutto.

Come se la strada corretta fosse stata evocata dai vostri stessi sentimenti, si para dinnanzi a voi pervasa da un sole che sulla Terra non hai mai visto: luminoso, sì, ma non accecante. Caldo, ma non soffocante. Ma, soprattutto, privo di ombre.

"Dove stiamo andando, Albert? Ci sarà anche... Anthony?". Ti irrigidisci, dalla sua mano avverti come una scarica elettrica il senso di colpa fluire da lei.

"Può darsi". E, ancora una volta senza parole, le comunichi ciò che devi. No, Candy, tu non hai colpe. Semmai sono io che ho preso la decisione di organizzare quella caccia alla volpe, dopo averti fatta adottare dalla famiglia.

La sua mano ti stringe più forte: sai che ha percepito tutto e ti rimanda una cosa così potente che non credi di meritartela. Il perdono. Non è nemmeno colpa tua, è stato un incidente.

Se fossi ancora vivo, sai che si riempirebbero gli occhi di lacrime, ma ti accontenti di lasciarti trasportare dalla sensazione di leggerezza più incredibile che tu abbia mai provato. Sei una piuma, sei vento, sei cielo. E con la tua Candy procedi dove è giusto andare, lasciando dietro di te la zavorra di preoccupazioni e dolore che, tuo malgrado, sai che saranno l'eredità di Georges, della zia Elroy e dei tuoi nipoti e amici.

Non è facile, eppure lo diventa, mentre la luce diventa un caleidoscopio di colori.

"Andiamo", ripetete a una voce.

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