La Chiesa dell'Acqua

di A_Typing_Heart
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il ritorno del sole ***
Capitolo 2: *** Dio come acqua ***
Capitolo 3: *** Morte non sospetta ***
Capitolo 4: *** Punto di rottura ***
Capitolo 5: *** Fino alle luci blu ***
Capitolo 6: *** Il noviziato ***
Capitolo 7: *** Rete di sostegno ***
Capitolo 8: *** Pedine ombra ***
Capitolo 9: *** Il messaggio sulla segreteria ***
Capitolo 10: *** La pecorella smarrita ***
Capitolo 11: *** Il favore del re ***
Capitolo 12: *** Di testa e di cuore ***
Capitolo 13: *** Le parole dimenticate ***
Capitolo 14: *** Il ponte verso il mondo superiore ***
Capitolo 15: *** Rivoluzione agricola ***
Capitolo 16: *** Paradiso perduto ***
Capitolo 17: *** L'oro della terra ***
Capitolo 18: *** Pioggia autunnale ***
Capitolo 19: *** L'altra strega ***
Capitolo 20: *** Angeli artificiali ***
Capitolo 21: *** Atto di fede ***
Capitolo 22: *** Riserva di caccia ***
Capitolo 23: *** Rischio calcolato ***
Capitolo 24: *** L'esito della battaglia ***
Capitolo 25: *** Elevato in gloria ***
Capitolo 26: *** Dono della Grazia ***
Capitolo 27: *** L'Encore di Madison Carter ***
Capitolo 28: *** Lo scopo del peccato ***
Capitolo 29: *** Un nome da ricordare ***
Capitolo 30: *** Le vie infinite ***



Capitolo 1
*** Il ritorno del sole ***


Persino nel pallore della morte quel viso restava il più bello che ricordasse di aver mai visto. I suoi fini capelli biondi fluttuavano nell’acqua verde mentre lo trascinavano più vicino all’infida, scivolosa riva del bacino idrico.

«Non c’è nulla da fare… è freddo come il ghiaccio» commentò il vecchio che lo trascinava, altrettanto gelido.

«È lui?»

L’uomo sulla riva fece un profondo sospiro, ma non riuscì a staccare gli occhi da quel viso smagrito e privo di colore per fare alla donna la cortesia di guardarla.

«Sì. È Noah.»

Seguì un momento di denso silenzio e il vecchio factotum tolse il cappello prima di segnarsi. In cerca di una forza e di una temperanza che non sentiva di avere l’uomo serrò le dita attorno al crocefisso.

«Lasciatelo sulla riva… torniamo alla chiesa» ordinò poi con voce ferma. «Chiamate Manuel… chiamerà lui la polizia. Aspetteremo che arrivino da noi.»

«E cosa dovremo dire?»

Esitò ancora e sospirò per calmarsi. Finalmente riuscì a chiudere gli occhi, ma il viso di Noah galleggiava dietro le sue palpebre come le macchie colorate della luce diretta del sole. Di un sole ormai spento.

«Dite loro semplicemente la verità. Dite loro che Noah era turbato e infelice e che non sapete la causa… e, naturalmente, nessuno di noi è stato qui.»

Le sue istruzioni seminarono turbamento nei suoi tre compagni ma, paradossalmente, questo risaldò il suo spirito.

«Non possiamo più aiutare Noah. Lui è con il Signore. Ma dobbiamo proteggere i nostri confratelli di Saint Barthelemy.»

«Sì, Padre.»

Il factotum, l’uomo dall’abito azzurro bagnato e la donna guardarono il corpo senza vita di Noah, si segnarono e si allontanarono verso la macchina. Il Padre si accovacciò accanto al giovane e passò le nocche sulla sua guancia in una goffa carezza, lo spettro di quelle che gli aveva dato quando la sua pelle era ancora rosea e calda. Si rialzò in piedi sistemandosi la veste blu, la mano destra serrata intorno al crocifisso che teneva al polso.

«Mi dispiace, Madison» soffiò nell’aria, con un filo di voce. «Io…»

Serrò la mascella. Incapace di aggiungere altro, voltò le spalle al corpo e andò all’auto, con la sensazione che ogni passo di distanza aumentasse il peso del senso di colpa.

 

*

 

Con il fiato ancora corto e la sgradevole sensazione di avere i capelli appiccicati alla faccia Ferid allungò la mano sul comodino, a caccia dell’orologio d’oro di Claude. Non riuscì a trovarlo, ma sollevando lo sguardo vide il cielo rischiararsi fuori dalla finestra.

«È già mattina…»

«Mh, che peccato…»

Con il bollore che aveva in corpo trovò sgradevole sentirsi abbracciare e sfuggì all’uomo e al groviglio di lenzuola troppo calde, alla ricerca del suo orologio. Forse lo aveva lasciato in bagno.

«Pensi che ora tu possa finalmente spiegarmi che cosa fai a casa mia?»

«Non dimentichi mai niente, eh?»

Basito, lo fissò dalla soglia del bagno padronale.

«Come faccio a dimenticarmelo? Sei riuscito a seguirmi persino in Inghilterra, nella casa dei miei genitori… per non parlare dello scompiglio che hai creato quando Bertrand ti ha scoperto a mescolarti con la mia servitù, stava per chiamare Scotland Yard!»

Ma le sue osservazioni condite di tono accusatorio scivolarono su Connor Maguire come le lenzuola di seta del letto e ne rise compiaciuto mentre si stiracchiava come un gattone pigro.

«Ti sono parecchio fedeli per non averti mai visto prima, devo dire» osservò lui, mentre si alzava senza accennare a coprirsi il corpo nudo. «Quella cameriera nera, come si chiama? Beh, lei sembrava prontissima a piantarmi nel collo quel coltello da burro.»

«A riprova che Mel è molto più saggia di me» commentò Ferid, con un senso di sconfitta dilagante. «Dunque? Sei venuto fin qui soltanto per spuntare il mio nome sulla tua lista di anime perdute?»

«Vuoi parlare di affari prima di colazione? Credevo fossi un uomo civile!»

«Connor.»

L’uomo non replicò, ma prese qualcosa dalla borsa per laptop che aveva portato con sé e lo lanciò sul letto. Quando capì che si trattava di un libro la sua curiosità s’impennò e tornò indietro per prenderlo. La copertina mostrava cerchi su una superficie d’acqua blu e il titolo in inglese diceva Dio come acqua, con un illuminante sottotitolo quale “La forma liquida di Gesù attraverso una nuova visione della Bibbia”.

«Tu non sei cristiano, no?» fece Ferid, accigliandosi mentre iniziava a sfogliarlo. «Non sarai mica venuto qui dall’America per fare proselitismo?»

«Sai di che cosa si tratta?»

«Vagamente» replicò mentre già scorreva l’introduzione. «Questo libro è uscito nel catalogo del Magick quando ero sotto protezione. Non ho avuto modo di aggiornarmi sulle uscite di quel periodo, ma so che è nel reparto di saggistica dei nuovi culti. Una derivazione cattolica… mistica, a giudicare da qualcosa che ho visto nell’indice.»

Sentire lo scatto del portasigarette di Connor lo strappò dalla lettura. Schioccando le dita attirò la sua attenzione.

«Uhm?»

Sorpreso Connor gli si avvicinò per offrirgli una sigaretta e poi l’accendino, ma Ferid li lanciò entrambi fuori dalla portafinestra strappandogli una protesta incredula.

«Non si fuma in casa mia, caro. Grazie.»

«Ma che– non potevi solo dirlo?! È uno zippo da collezione!»

Detto ciò attraversò la stanza per andare a recuperarlo e quando udì lo scatto proveniva dal balcone. Dandogli una fugace occhiata si accorse che non si era ancora rivestito e ridacchiò.

«Santo cielo, che esibizionista sei.»

«Con i tuoi metodi non mi è più così difficile capire perché Ginger si sia convertito al salutarianesimo

«Convertito a che?» fece distratto mentre leggeva.

«Sì, adesso beve strani intrugli con l’etichetta bio sulla scatola, dando come motivazioni sciocchezze come l’indice glicemico, grassi idrogenati, calorie, e straparla di predisposizione genetica alle malattie e rischio cardiovascolare. Blatera come un vecchio nella sala d’attesa di un dottore» snocciolò con irritazione crescente. «Per non parlare dell’alcol! In pratica non c’è verso di fargliene bere, sono stato con lui per quattro mesi e sono riuscito a fargli bere due birre medie… divise in tre sere. È scandaloso

Mentre girava pagina Ferid sorrise.

«Ne sono lieto.»

«Lieto, hai detto?» ripeté Connor allibito. «Mi stai ascoltando o no? Biologico! Dieta! Astenia!»

«Certo che ti ho ascoltato… e sono felice. Crowley sta mantenendo la promessa che mi ha fatto.»

«Quale promessa, di morire di una vita triste?»

«Di fare tutto quello che può per starmi vicino il più a lungo possibile e nel miglior modo possibile.»

Connor sbuffò il fumo dalle narici e le sue sopracciglia si rasserenarono appena. Non parlò per tutto il tempo della sua sigaretta, rientrò in camera mentre albeggiava e ancora tacque.

Ferid era immerso nella lettura – come al solito estremamente rapida – dello strano saggio. Era una visione piuttosto particolare del cristianesimo, qualcosa di mai visto e con una particolare enfasi esoterica sul simbolismo ricorrente dell’acqua. Il testo conteneva alcuni diagrammi e foto, quindi le circa centocinquanta pagine in caratteri grandi scorsero molto rapide fino alla fine.

«Già finito?»

«Sì… ma perché mi hai portato questo libro?»

«Se vuoi una risposta sincera a questa domanda ho bisogno che tu abbia un po’ di fiducia in me.»

L’inaspettata premessa lo stuzzicò. Appoggiò le mani sul libro e lo guardò, trovandolo insolitamente austero.

«Un po’ ne ho. Dunque?»

«Come hai letto, la Chiesa di Nostro Signore delle Acque è una ramificazione del cristianesimo. Non è molto diffusa, nonostante l’uscita di quel libro, ma la popolarità di un paio delle loro parrocchie maggiori sta allargando la cerchia.»

«E come mai una piccola chiesa interessa te o me?»

«Qualcosa non va in quella chiesa… e non sto parlando di assurde regole di vita soppressive della libertà dell’individuo e monitoraggio sistematico della sessualità.»

Se Connor si aspettava che intuisse qualcosa aveva sopravvalutato le sue capacità, perché non capiva dove volesse arrivare.

«E quindi…?»

«Ho trovato quella copia a casa di un mio amico, Horatio Lanius. È stato uno dei loro adepti nella parrocchia di Bay Plaza a San Francisco, poi è stato nel gruppo mandato nella sede di Nashville.»

«Non vedo la stranezza, Connor.»

«È morto, Pepper. È annegato in uno stagno a pochi chilometri dalla chiesa.»

Ferid attese una continuazione, ma non arrivò. Sfogliando le pagine colse qualche stralcio del testo e tentò di arrivare da solo al suo collegamento.

«Pensi che… la Chiesa dell’Acqua sia responsabile dell’incidente?»

«Non è stato un incidente» replicò lui acido. «Conoscevo Lanny. Era un agente operativo, come me, ed eravamo amici. Era devastato dalla perdita di una persona cara e ha cercato conforto nella vita religiosa, ma ti posso garantire che non era un ubriacone né un drogato.»

«È questo che hanno detto? Che era drogato?»

«Le analisi dicono che aveva livelli di alcol e oppiacei nel sangue da ammazzare un rinoceronte, ma io so che non è vero. E se è vero qualcun altro glieli ha fatti assumere… e lui viveva da mesi dentro quella comunità. Se ha messo le mani sulle droghe, se è diventato un alcolista o se qualcuno l’ha ammazzato è lì dentro che è successo.»

Ferid chiuse il libro, chiedendosi da dove iniziare. Era evidente che la questione era molto cara a Connor, e questo rendeva difficile la sua risposta.

«Che cosa ti aspetti che faccia io, Connor?»

Contro ogni previsione si sedette sul bordo del letto e gli strinse la mano.

«So che Ginger ha un buon amico nella narcotici che ha un grado elevato… ti prego, convincilo a parlargliene. Qualsiasi appiglio ci sia, devono riaprire il caso di Lanny e scoprire cos’è successo.»

«Ma… ma perché non glielo chiedi tu? Crowley farebbe praticamente qualsiasi cosa per te…»

«Per la miseria, Pepper» sbottò lui infastidito. «Se andassi da lui a dirgli queste cose dovrei spiegargli come ho avuto il referto dell’autopsia e come conosco un uomo che lavorava per l’intelligence! Lui crede che io sia un navy seal, e loro non possono parlare di niente e vengono informati solo dello stretto indispensabile per agire. Se fossi un vero seal non saprei un bel niente di un caso come questo.»

Sapeva che forse – anzi, certamente – era una domanda stupida, ma Ferid la fece comunque.

«Perché non gli dici la verità? Se scopre da solo, in qualsiasi altro modo, che cosa sei veramente si sentirà tradito. Non gli piacciono le bugie e i segreti… lo vuoi perdere in questo modo?»

«Dopo così tanti anni lo perderei anche se gli dicessi la verità. La sola cosa che posso fare per non farlo sparire dalla mia vita è continuare come ho fatto fino ad ora, quindi mi devi aiutare tu.»

Ferid sospirò e strinse di rimando la mano di Connor.

«Connor, vivere dietro le maschere non è–»

«Pepper, quando fai il mio lavoro le maschere sono la sola cosa tra te e una morte sicura.»

«Crowley non è un agente bulgaro o un qualche genere di terrorista. È un uomo normale, e sincero… che può capire le tue ragioni, ma non la mancanza di fiducia. Una maschera, o due, o tre non salveranno il tuo rapporto con lui quando cadranno… e cadranno. Cadono sempre.»

«Vuoi aiutarmi o no?»

Gli era chiaro che Connor era al limite. La questione di Lanius doveva essere molto importante per lui e si chiese se l’ignoto agente fosse quello che George era stato per Crowley. In quel caso poteva immaginare con buona approssimazione quanto ci tenesse a far luce sulla sua scomparsa. Annuì deciso.

«Andrò da Crowley e gli dirò di questo caso… ma non posso prometterti che ne verrà fuori davvero qualcosa. Però ti prometto che mi servirò di qualsiasi appiglio per convincerlo a parlarne a De Stasio.»

«Se davvero ci riuscirai sarò io in debito con te.»

«Suona piuttosto bene come ricompensa.»

Connor tornò a sorridere, anche se in modo molto più puro del solito. Senza i tratti incisi di sarcasmo era molto più bello, ma a Ferid stava frullando tutt’altro pensiero, instillato dal titoletto di uno dei capitoli del libro.

«Ma Connor è il tuo vero nome?»

«No» rispose lui senza esitazione mentre spariva nella stanza da bagno, lasciando la porta aperta.

«E come ti chiami davvero?»

La sola risposta fu il gorgogliare dell’acqua dai rubinetti e gli spruzzi sulle mani. Sfidando le gambe indolenzite si rialzò dal letto e si affacciò sul bagno padronale con una posa molto teatrale.

«Il tuo nome, il mio regno per il tuo nome!»

Colse nello specchio un accenno di sorriso.

«Una notte sola non basta per sbloccare il contenuto.»

Ferid tese un angolo della bocca appoggiandosi allo stipite.

«Mi hai detto cosa sei… e anche che cosa è importante per te. Che male può farti dirmi il tuo nome, a questo punto?»

L’uomo si asciugò il viso affondandolo nella salvietta.

«Potrei dirti un nome qualsiasi. Come sai che non mentirò?»

«Ho un po’ di fede in te.»

I suoi occhi verdi lo fissarono dal riflesso dello specchio. Ebbe un altro barlume di un sorriso privo di malizia.

«Ismael… mi chiamo Ismael.»

 

*

 

Crowley entrò nell’open space della divisione investigativa di Satbury lottando contro una cravatta che non ne voleva sapere di lasciarlo libero. L’ultima volta che ricordava di essere stato così accaldato, sudato e a disagio aveva undici anni, era infiocchettato nel vestito buono e suor Adele lo sgridava nel suo assolato ufficio in un afoso pomeriggio di settembre.

Fu difficile dominare l’impulso di strapparsi di dosso la giacca che gli stringeva sulle spalle e la camicia che sentiva appiccicata come una muta da sub e quasi altrettanto bagnata, ma una sorridente distrazione giunse ad alleviare il suo disagio e lo fece bussandogli sul braccio con tocco delicato.

Posò lo sguardo su un visetto grazioso con vivaci occhi verdi, capelli corti di un biondo dorato, un fisico esile che si avviava alle trasformazioni della pubertà e abiti larghi con accenti color arancione fluorescente. Il sorriso uscì spontaneo a Crowley.

«Ciao, Samara… che cosa fai di nuovo qui?»

La ragazza saltellò e gli porse un cartoncino con entrambe le mani. Quando lo avvicinò agli occhi vi lesse la data, l’orario e il luogo di un’esibizione di danza moderna, seguiti da un breve sunto del programma della serata.

«Oh, il tuo prossimo saggio? Questa volta ce l’hai un pezzo da sola?»

Lei scosse la testa con l’aria di scusarsi e sollevò tre dita, poi con l’indice tracciò un triangolo in aria. Usando le mani mimò rapidamente le lettere dell’alfabeto.

«Ah, fate un pezzo in tre tu, Lindsey e Cara… come? Aspetta, troppo veloce.»

Samara aveva fatto un gesto del linguaggio dei segni che non riusciva ad afferrare. Lei lo fece di nuovo, più lentamente, e indicò il cartoncino. L’indizio aiutò molto un povero poliziotto alle prime armi con quella lingua senza suono.

«Oh, sì. Certo che ci vengo. Mi libero, non ti preoccupare.»

Samara gli lanciò le braccia intorno al torace e lo strinse con insospettabile forza; ciò mise Crowley un po’ a disagio.

«Perdonami, Sam, sono inzuppato. Ero a colloquio con i pezzi grossi e mi sono dovuto vestire da poliziotto serio.»

Samara emise una risata quasi del tutto silenziosa, arricciando il naso come un topolino, e lo strinse più forte strofinando la faccia sulla camicia. Ne era divertita da matti.

«Ah, benedetta gioventù, non vi fa paura proprio niente! Su, se non c’è altro ora vai, lascia questo vecchio a vergognarsi da solo.»

Samara gli disse a gesti che era vecchio ma ancora bello e questo le valse un pizzicotto sulla guancia che era più un buffetto che una punizione, poi con un sorriso ancora più ampio di quand’era comparsa se ne andò sventolando freneticamente la mano.

Con la giacca buttata sul braccio e la cravatta in mano imboccò il corridoio – particolarmente fresco grazie all’aria che soffiava dalla finestrella aperta in fondo – e senza troppa fretta raggiunse il suo ufficio.

Purtroppo non posso spogliarmi e restare qui a rinfrescarmi all’aria…

Con una certa riluttanza aprì la porta a vetri con le veneziane semichiuse, lanciò la giacca sull’appendiabiti e si fermò dopo aver sfilato un altro bottone dall’asola. Il suo ufficio non era vuoto come l’aveva lasciato.

Sulla sedia girevole era seduto un uomo con lunghe e belle gambe accavallate, una camicia bianca appena trasparente sulla pelle chiara delle braccia e le mani su un libro di psicologia criminale che prendeva polvere sui suoi scaffali da qualche settimana.

Non riuscì a respirare per quello che gli parve un lungo intervallo di tempo, poi, di colpo, il suo battito divenne più intenso. Ebbe la sensazione che il cuore gli battesse davvero per la prima volta da due anni.

«Ferid…»

Gli occhi celesti smisero di scorrere le righe e si posarono su di lui. Provò un immenso desiderio quando vide le sue labbra aprirsi nello stupore; lo stesso desiderio che sentiva quando lo vedeva nei suoi sogni. Vedendolo sorridere pregò con tutto se stesso che non fosse un altro sogno.

«Buongiorno, detective… oh, no, perdonami» si corresse lui con un cenno alla targhetta. «Tenente Eusford… ti trovo bene.»

Crowley attese, ma Ferid non aggiunse altro e dondolò appena sulla sedia. Deglutì con fatica.

«Tutto qui?»

«Tutto cosa?»

«Ti trovo bene? È tutto quello che hai da dire dopo due anni?»

«Ci sei rimasto male? Mi sembrava untuoso dirti che sei più bello di quanto ti ricordassi.»

Con un sospiro appese la cravatta e distolse lo sguardo. Fiotti di emozioni confuse e contrastanti gli guizzavano dentro come fuochi d’artificio dalle code colorate: allegria giallo intenso, irritazione di un freddo argento, girandole rosa e rosse di sentimenti molto più dolci e persino scintille verdi e caotiche di rabbia.

«Due anni, Ferid. Quasi due anni che non so nulla di te, che non ti fai vedere, che non telefoni. Non hai mandato neanche un misero messaggio.»

«Lo so, ma nemmeno tu, giusto?»

Queste parole dette con un tono totalmente privo di accusa lo fecero sentire in colpa e spensero le braci che si stavano accendendo nelle sue viscere. Non trovando in Ferid alcuna traccia di rabbia la sua tornò a dormire sotto la cenere come un vulcano troppo pigro per scoppiare.

La delusione, però – quelle scintille violacee che non aveva notato in quello scoppio di colori sgargianti – c’era ancora.

«E pensi che sia il modo di fare? Che ti basti apparire nel mio ufficio a sorpresa perché tutto torni come prima?»

«Come prima? Santo cielo, Crowley, non sono stato via due anni per tornare esattamente com’ero prima

Crowley non incrociò il suo sguardo e colse il momento per cambiarsi la camicia con qualcosa di più comodo e presentabile. Voleva ritardare il confronto, darsi tempo per elaborare quell’esplosione di emozioni. Quando sbottonò tutta la camicia non arrivò la battuta maliziosa che si era aspettato.

«Ti sono mancato così tanto, Crowley?»

Fissò la polo blu che stava per infilarsi. Aveva sognato e immaginato da sveglio il loro incontro tante volte, si era convinto di volergli dire una cosa o un’altra, a volte voleva persino fargli pesare quel lunghissimo periodo di solitudine… ma ora che c’erano dentro voleva solo liberarsi di quel peso.

«Tu non puoi neanche immaginare quanto.»

«Forse sì, sai? Forse posso.»

L’ombra del dubbio non aveva fatto che divorarlo in quei mesi. L’idea che Ferid avesse trovato qualcun altro, che potesse non fare mai più ritorno come non era mai tornato in Inghilterra dalla sua famiglia lo aveva lambiccato, come un uccello che becchetta un caco maturo fino a farne cadere i miseri resti. Non era riuscito neanche a rifugiarsi in una nuova relazione, era rimasto bloccato… e aveva paura di scoprire che lui era andato avanti, invece.

«Puoi?» fu il modo in cui tentò di concentrare il suo malessere in voce.

«Oh, mio caro, non credere che non sappia» replicò Ferid, abbandonando la poltrona per avvicinarsi. «Non credere che sia passato un solo giorno in cui io abbia aperto gli occhi senza sentire il vuoto nel non trovarti lì.»

Crowley rifletté sulla frase e si calmò un poco. La ripeté mentalmente qualche volta e si acquietò di più. Le sue spalle si rilassarono e Ferid ci passò lentamente la mano sopra. Quando si guardarono Crowley fu sorpreso e felice che non ci fosse l’imbarazzo che aveva temuto.

«Quindi… non hai nessun altro ora?»

«Come te, non sono riuscito a concludere niente… ci ho provato, senza successo. Avevo sempre in mente il mio detective e mi chiedevo chi ci fosse accanto a lui dall’altra parte dell’oceano.»

Gli passò per la mente di accarezzarlo, ma poi registrò il senso di un paio di parole in particolare.

«Aspetta, come fai a saperlo?»

«A sapere cosa?»

«Che anche io non sono riuscito a uscire con altri. Chi te lo ha detto? Non certo io.»

«Oh, beh… ho le mie fonti.»

Ferid esibì un sorrisetto e lanciò un’occhiata al di là del vetro che dava sulle scrivanie dei detective. A Crowley bastò un passo avanti per vedere Yuu che si sbracciava in un saluto entusiastico, mentre Mikaela si defilò nella stanza delle fotocopie a passo fin troppo rapido.

«Mikaela» si rispose da solo, irritato e divertito insieme.

«Bingo, detective… ah, tenente. Non mi ci abituerò mai!»

«Chiamami Crowley, allora. O mio caro, fa lo stesso per me.»

Ferid ridacchiò senza replicare e Crowley si prese qualche attimo per guardarlo bene. Non era fisicamente molto diverso dall’uomo che era uscito dal suo appartamento in un triste giorno di novembre, ma qualcosa – la sua aura, per metterla in termini esoterici – era profondamente cambiata. Ovunque fosse stato, qualsiasi cosa avesse fatto in quel periodo, gli aveva lavato via quell’espressione che aveva prima in fondo agli occhi, quella perenne supplica di non essere lasciato solo.

È più vicino all’uomo che voleva diventare… ma… abbastanza vicino da smettere di cercare? Per questo è tornato?

Crowley allungò la mano passando le dita sul viso e sfiorando il suo orecchino; non portava più orecchini pendenti ma piccoli rombi d’argento al lobo.

«Senti, Ferid…» esordì titubante, passando le mani fra i suoi capelli. «Mi chiedevo… sei… Ferid, che è successo ai tuoi capelli?»

Infatti alla sua coda di capelli d’argento mancava un bel po’ della lunghezza che ricordava. Ferid ridacchiò e passò la coda sulla spalla: aveva perduto metà del suo rifulgente crine di unicorno, chissà dove, quando e perché.

«Li ho accorciati, sai… praticità» spiegò lui, e ributtò i capelli sulla schiena. «Ora sei tu quello con i capelli più lunghi tra noi due… ma non credo che quell’aria così seria fosse per questi, anche se so quanto li adoravi~»

«Sì, no… uhm» fece Crowley, e si schiarì la gola. «Mi chiedevo se…»

«Bacialo!»

Entrambi sussultarono a quell’esortazione proveniente da Yuu, al centro di un trio di agenti freschi di accademia, affacciati al vetro come un gruppetto di bambini allo zoo. Crowley tirò giù la veneziana in faccia ai tre impiccioni con un gesto brusco e fissò Ferid con più risolutezza.

«Ferid, sei tornato per restare?»

Lui sorrise raggiante, portandosi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.

«Vuoi che resti, mio caro?»

«Dipende. Hai trovato quello che stavi cercando quando te ne sei andato?»

Ferid soppesò la domanda per alcuni secondi che parvero mostruosamente lunghi. Alla fine gli prese le mani con delicatezza.

«Credo di averlo trovato, sì.»

«Sì, lo credo anch’io» commentò Crowley, rapito da quanto Ferid sembrasse maturato. «Allora puoi restare… anzi, devi restare.»

Non rispose a parole, ma la sua espressione felice parlava di un’allegria quasi infantile. Era evidente a Crowley che entrambi fossero sollevati di trovarsi alla ricerca l’uno dell’altro. Nonostante le curiose circostanze in cui si erano conosciuti e avvicinati, si erano scelti di nuovo anche senza forzature: questa consapevolezza bastava a spazzare via due anni di dolorosi dubbi.

«Ora è meglio che vada. Ti lascio tornare al lavoro.»

«Te ne vai già? Ma sei–»

Venne tacitato da un bacio inatteso quanto desiderato. Strinse d’istinto Ferid a sé, si lasciò sommergere dalle emozioni del momento e dimenticò del tutto dove si trovavano. Tentò di trattenere Ferid quando lo sentì scostarsi per interrompere il bacio, ma quando gli premette le mani sul petto lasciò che quella parentesi felice finisse.

«Possiamo vederci a cena, tenente?»

«Certo che possiamo. Ti vengo a prendere, stai a casa nel West End?»

«Prenoto da KP, che ne dici? Alle sette ce la fai?»

Crowley annuì. Non riusciva a non sorridere accorgendosi di come le loro dita si stringessero e intrecciassero come se volessero impedire ai loro proprietari di separarsi.

«Alle sette passo da te.»

Ferid gli diede un bacio sul viso, tenero come non ricordava di averne mai ricevuto uno da un uomo.

«A più tardi, mio splendido tenente. Non arrabbiarti con Mikaela, mh?»

Crowley strinse le sue dita prima che scivolassero dalla sua mano.

«Oggi non so neanche cosa sia la rabbia.»

Un sorriso pieno di dolcezza e occhi brillanti furono il suo congedo mentre la mano scivolava via e l’uomo che aveva lasciato vuoto il suo letto per quasi due anni abbandonò il suo ufficio. Si sentiva vagamente stordito ora che non lo vedeva più davanti agli occhi, come se si fosse svegliato da uno dei molti sogni in cui l’aveva incontrato.

Andò alla scrivania anche se non ricordava più che cosa dovesse fare. Aprì i cassetti in cerca di qualcosa che gli rinfrescasse la memoria e rifocalizzasse i pensieri, e trovò l’appunto sull’interrogatorio Carson. Uscendo per spedire uno dei suoi a controllare certe informazioni il suo sguardo si posò su un angolo dell’open space e sorrise.

Un giovane, biondissimo agente di pattuglia con la faccia d’angelo e una scia di cuori infranti lasciati in accademia stava parlando con Ferid, con una complicità e intimità rara a vedersi. Era sinceramente contento di vedere che il loro legame fosse rimasto saldo anche con quella lontananza, perché se Ferid era maturato e forse si era costruito una nuova rete Mikaela aveva ancora bisogno di ponti verso il mondo esterno.

In quel momento non aveva nessun motivo di pensare che il loro rapporto così stretto si sarebbe trasformato in un’arma a doppio taglio.

 

*

 

Alle sette e mezzo, seduto a un tavolo nel patio da KP con un gran ben di Dio di fronte, Crowley avrebbe voluto concentrarsi sulla carne grigliata e le alette di pollo, ma il divertimento e la gioia di vedere Ferid mangiare come un morto di fame e leccarsi le dita gli impediva di masticare appropriatamente.

«Sai, quando mi hai detto che prenotavi tu pensavo mi portassi in un posto raffinato, di quelli con otto posate e tre bicchieri…»

Ferid deglutì scartando le ossa di un’aletta e si pulì la faccia dagli sbafi di salsa piccante.

«Se ci tieni te li faccio portare, ma mi sono ricordato di quanto ti piaceva vedermi mangiare. Ho digiunato tutto il giorno.»

Ricordi dei burritos di Albador gli passarono in mente, ma preferì smettere di fissarlo quando si accorse delle occhiate stranite degli avventori del tavolo accanto e decise di muovere l’assalto alla gran porzione di spiedini di salsiccia e pollo.

«Se hai un momento tra un boccone e l’altro mi potresti dire dove sei stato in questo periodo» buttò lì Crowley mentre lo guardava scegliersi un’aletta tra le più grandi.

«Sono stato in Inghilterra» fece lui, quando trovò un boccone all’altezza delle sue aspettative. «Sono andato a vedere la mia casa e a conoscere la servitù… sai, avevo disposto che parte dell’eredità servisse a pagare chi avesse voluto rimanere a servizio, per mantenere in buone condizioni la tenuta.»

«Molto generoso da parte tua» commentò Crowley, masticando.

«In verità non è una cosa molto cortese obbligare la servitù a servire in una casa sempre vuota, per questo ho disposto che venisse controllata e ripulita periodicamente senza obbligarli a risiedere alla tenuta.»

«Oh» fece lui, vagamente sorpreso. «Beh, mi sa che non sono molto informato su come vada trattata la servitù di casa…»

Ferid non replicò e fece un accenno di sorriso, lasciando qualche istante a Crowley per rimuginare sulla questione e rendersi conto che doveva essere noioso pulire stanze che non venivano mai usate e cucinare unicamente per i camerieri.

«Sai, la casa… era diversa da come la ricordavo nella mia mente… lì era molto più triste, brutta, e cupa.»

Ferid si ripulì le dita con la salvietta, con uno sguardo assorto in essa. Inesplicabilmente sorrise.

«Quando sono entrato… camminavo cercando di non fare rumore, parlavo a bassa voce, accostavo le porte per non sentire il rumore dello scatto… esattamente come si faceva in casa quando mia madre era viva.»

Crowley perse il sorriso e mangiò quasi senza badare a cosa, concentrato sul suo racconto. Come aveva già avuto modo di sapere la sua infanzia era stata dura, ma quei dettagli aggiungevano tinte più fosche al tutto.

«Poi quando ho visto le camere vuote di mia madre… a quel punto ho davvero realizzato che lei non c’era più. Che non mi avrebbe tirato dietro qualcosa come quando mi azzardavo ad andare da lei. Ah, quanto è stato liberatorio strappare le tende da quelle finestre e lanciarle di sotto!»

La risata di Crowley fece ribollire la gassosa che stava bevendo e ne fece schizzare dappertutto; si ripulì la faccia e la mano con il tovagliolo, incapace di trattenere l’ilarità.

«Hai lanciato fuori le tende?»

«Ho lanciato tutto quanto dalla finestra. Tutte le sue cose, i suoi vestiti, i suoi profumi, tutto quello che aveva» raccontò con fierezza Ferid. «E poi ho urlato nei corridoi radunando tutto il personale e gli ho chiesto di strappare le tende. Ho detto loro che volevo il sole in ogni angolo della villa!»

La sua espressione diceva tutto di quanto fosse felice di com’era andata quella visita e Crowley sorrise di rimando; lo lasciò parlare per minuti di fila di come si fossero sparpagliati per la casa a strappare via i tendaggi e di quanto allegramente le cameriere si fossero messe a lustrare i vetri per un’impeccabile trasparenza. Riuscì a immaginarselo quel nuovo Ferid a camminare per ampi corridoi e su per larghe scalinate di marmo, con dietro uno stuolo di cameriere come anatroccoli dietro la madre, a guidare una spedizione punitiva contro il suo passato.

Crowley aveva riempito il piatto di ossa ripulite e consumato un paio di salviette quando l’ultimo discendente della casata Cosworth ritenne di aver raccontato tutte le scene più interessanti della pulizia massiva e in tutta quella cronaca il nome di una delle cameriere gli affiorava alla bocca con una frequenza sospetta, secondo il tenente.

«Certo è stata una visita costruttiva, Ferid… e cosa mi dici d’altro di questa cameriera che chiami Mel?»

«Che cosa vuoi sapere?»

«Mi sembra che tu abbia parlato quasi solo di lei in tutti questi aneddoti…»

«Oh, non sei geloso, vero, Crowley?»

«Certamente lo sono» fece lui col tono più seccato possibile. «Mi parli di una sola ragazza mentre mi racconti i tuoi due anni di vuoto, è normale che mi faccia delle domande, no?»

Non aveva diritto di essere geloso visto come si erano lasciati e lui stesso non si era certo chiuso in un chiostro con addosso un saio, ma il pizzicorino che sentiva intorno al ventre gli diceva che il sospetto pungeva, e che quindi non amava Ferid meno di allora. Era sgradevole e piacevole al tempo stesso.

«Si chiama Melody, Melody Wiley. Non so il suo secondo nome, se ne ha uno.»

«Hai fatto un altro tentativo con una donna meno pazza di Krul Tepes?»

Ferid alzò le mani in segno di resa.

«Krul ha dimostrato che vado a segno con una probabilità del 100%, non ci proverò un’altra volta.»

Il boccone di controfiletto andò giù lento e pesante come una palla da bowling.

«Ferid… che cosa significa questo?»

Il suo sguardo si fece sfuggente, come cercasse il percorso antincendio per scappare da qualcosa che gli era uscito di bocca senza volere. Quel disagio peggiorò le sue sensazioni all’istante e nulla fu più divertente.

«Ferid. Che cosa significa quello che hai appena detto?»

«Io… non ti arrabbiare, Crowley. Posso spiegare.»

«Allora fallo. Subito

Non fu del tutto indolore scoprire che alla loro relazione di una notte sola era seguita una gravidanza prematuramente interrotta a causa della costituzione debole di Krul e per un attimo pensò di andarsene, smaltire quel colpo in solitudine. Ferid si giustificò rapidamente spiegandogli che non era mai stato certo di avere visto giusto fino a quando non ne parlarono in quel fatidico novembre, e questo almeno cancellò il risentimento di bugie taciute e lo persuase a rimanere.

Si scoprì comunque a invidiare Yuu e Mika, che si conoscevano da sempre: cercare di comporre l’immagine di Ferid avendo un pezzetto per volta si rivelava spiazzante e frustrante, alle volte.

«Sei arrabbiato, Crowley?»

«No… no, non sono arrabbiato. Scusami se sono stato brusco, ma…»

«So perché sei suscettibile ai figli non menzionati» concluse lui, accomodante.

Non era riuscito a passare sopra alle omissioni colpevoli di Horn altrettanto facilmente, quindi affondò la mano nel cestino delle patatine fritte e decise di non entrare in quel terreno paludoso.

«Ehi, Ferid.»

«Sì, caro?»

«Che cosa avresti fatto se non ci fosse stato l’aborto spontaneo?»

«Beh, sarebbe dipeso tutto da che cosa Krul avrebbe scelto di fare» rispose lui senza esitare, come se ci avesse già pensato su a lungo. «Ti ho già detto che io sarei stato contento di poter avere dei figli ed essere un genitore migliore di quelli che ho avuto. Se fosse successo, se Krul me lo avesse detto, avrei fatto il padre.»

Crowley annuì. Sapeva che Ferid trovava la compagnia dei bambini molto più confortante di quella di molti adulti e che avrebbe voluto una famiglia anche al prezzo di sottostare a un matrimonio combinato nella prassi delle famiglie nobili; ricordava di averne discusso con lui durante la nottata di Halloween.

«E tu, Crowley?»

«Mh? Io che cosa?»

«Tu che cosa avresti fatto se io avessi avuto un figlio da quella relazione?» fece, servendosi uno spiedino molto abbrustolito. «Mi avresti voluto comunque?»

«Credo di sì. Io sono innamorato di te, non del fatto che sei solo al mondo.»

«Oh, sì, ha un senso» commentò pensieroso. «E invece, che cosa faresti se capitasse a te? Tipo, l’ultima ragazza con cui sei stato ti viene a dire che è incinta e che il padre sei tu. Che cosa faresti?»

Crowley sospirò inclinando la testa mentre si massaggiava il collo. Quella domanda gli metteva le spine ai piedi, per dirla come nonno Gideon.

«Dobbiamo proprio parlarne?»

«Su, su, è solo ipotetico… è un argomento come un altro. Non ti vergogni mica con me, no?»

Crowley sospirò e sperò che Ferid si scoraggiasse, ma mentre scomponeva lo spiedino per iniziare a mangiare dai pezzi di pollo non smise di guardarlo, in attesa.

«Mh… sarò onesto, Ferid. Non so che cosa farei. Io non sono come te, non mi sono mai fermato a pensare a me in veste di padre e non penso neanche di esserci tagliato. Decidere quando dire di sì e quando di no, quando premiare e quando punire, e spiegare le cose difficili… dare un esempio… non credo di essere capace di fare qualcosa di così importante e delicato. Probabilmente sarei uno di quei padri che lasciano fare tutto alla mamma e si limitano a insegnargli lo sport, fare la ramanzina quando la mamma lo dice e a rispondere alle domande sul sesso quando arriva l’adolescenza.»

Ferid rise, ma non chiarì mai se a divertirlo furono le ultime domande menzionate o l’insieme della prospettiva.

«Però stai parlando di figli maschi… che cosa faresti con una figlia femmina?»

Quella domanda accese quella parte di fantasie genitoriali di Crowley che erano rimaste a impolverarsi dopo la sua partenza improvvisa due anni prima. Sapeva benissimo che l’idea di una figlia femmina metteva in moto molto di più la sua immaginazione e riusciva a vedersi molto più partecipe nella vita di una bambina, ma trovava imbarazzante – anche se non seppe spiegarsi come mai – rivelarlo a Ferid.

Non ce ne fu bisogno.

«Oh, Crowley, ti stanno brillando gli occhi!»

«Cosa… no, non è vero.»

«Ma si vede benissimo, ti sei acceso!»

«Smettila, non è vero» borbottò, versandosi da bere.

«Non c’è mica niente di male… oh, non sarai della risma che pensa che tutti i padri dovrebbero desiderare figli maschi per farne degli ometti e lasciare le femmine alle loro madri, vero? Ne sarei tremendamente deluso.»

«No, io… tutto il contrario, piuttosto…»

Sospirò e scolò la gassosa rimasta in un sorso solo. Cercò con gli occhi il cameriere per ordinarne altra e darsi un momento di respiro, ma non era in vista.

«Penso solo che… non ho avuto molto da mio padre e da mio nonno, a parte l’esempio. Nella mia vita sono state le figure femminili a pensare a me. A nutrirmi, accudirmi, educarmi… c’era mia madre, e nonna Susan, e zia Beatrice… e poi, Bernadette. È come se… mi avessero lasciato intendere che un uomo non ha ruolo nel crescere un figlio maschio se non fargli da esempio, mentre si dedicano a proteggere le figlie dai guai e dai bellimbusti, quindi… mi è più facile pensare a…»

«A ricambiare l’amore che hai ricevuto dalle donne della tua famiglia tramite le tue figlie» concluse per lui Ferid. «Certo è una reazione comprensibile data la situazione… hai percepito come una questione priva di affetto crescere un figlio maschio da parte degli uomini di famiglia, e pensi inconsciamente che succederebbe lo stesso se tu avessi dei figli maschi.»

«Beh, non so se è proprio così che–»

«Lo so io» fece lui con un largo sorriso. «Ti conosco, Crowley, e tu sei un uomo pieno di amore e di affetto che vuoi dare~»

«Ehmm…»

Tentò di attirare l’attenzione del cameriere, ma quello non lo vide e rientrò nel ristorante.

«Ah, non serve imbarazzarsi. Sai che è così, e non c’è assolutamente nulla di sbagliato in questo. Non ha nulla a che vedere con le tue preferenze sessuali, non c’entra Dio né il peccato, né chiunque altro della famiglia Eusford o degli O’Brian. Tu, Crowley, sei questo tipo di persona, ed è un meraviglioso tipo di persona.»

Crowley ripensò a tutte le occasioni in cui era stato ripreso per la sua espansività o aveva messo in imbarazzo qualcuno con una confidenza eccessiva nelle conversazioni; per non parlare di come aveva salutato Connor dopo la loro permanenza in West Virginia. Decise con risolutezza di non farlo sapere a Ferid.

«Sei diventato bravo a parlare, Ferid. Sei diventato psicologo?»

«No, ma ho fatto esperienza durante la terapia. Si sente proprio di tutto…»

«Terapia? Sei stato in terapia?»

«Sì, certo… sai, terapie di gruppo per vittime di abusi infantili. Dove tanti altri come me avevano difficoltà a capire e a dare l’amore per via di come erano stati trattati. È stato determinante per rimettere le cose nella giusta… ottica. Ora sto molto meglio, sono in pace con quello che è stato. Non credevo che sarebbe mai accaduto… ed è merito tuo.»

Crowley lo guardò accigliato.

«Che c’entro io? Sei stato tu, Ferid, tu soltanto.»

«Se tu non avessi cercato così disperatamente di salvarmi, non avrei mai visto in me qualcuno che valesse la pena difendere. Non ci avrei mai nemmeno provato.»

Di certo il suo sguardo diceva che era sincero: Crowley aveva adempiuto al suo ruolo mostrandogli quanta meraviglia vedeva in quell’uomo che si considerava senza speranza, e che ora era sbocciato splendidamente. Solo ora che lo vedeva rifinito si rese conto di quanto fosse sbozzato e fragile il Ferid che aveva lasciato andare a malincuore quel giorno di novembre.

Lo guardò attirare finalmente il loro cameriere, ordinare altre bibite e un dolce della casa. Aprì bocca per dire qualcosa, ma il brillio dell’anello della ragazza al tavolo accanto gli riportò alla mente un’altra donna che credeva di aver dimenticato: una giovane infermiera che gli chiedeva se avessero fissato una data, che diceva che lei e la sua fidanzata erano ancora indecise tra maggio e settembre.

Alzò lo sguardo sugli occhi celesti di Ferid, che lo guardava senza parlare e gli sorrideva con l’aria incuriosita. Crowley allungò la mano sul tavolo per prendere la sua e questo accentuò la sua divertita perplessità, e in quel momento ci pensò su seriamente. Dopo l’emozione di rivedersi, dopo quella riunione così tenera e sentita, con la sua mano stretta nella sua, pensò che si sentiva pronto. Decise che avrebbe aspettato il suo prossimo compleanno per chiedergli se preferisse maggio o settembre.

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Capitolo 2
*** Dio come acqua ***


Ferid salutò con la mano mentre l’auto del tenente Eusford si allontanava lungo Ashland street e la guardò finché non scomparve dietro la curva. Ancora non era riuscito a capire come mai il suo compagno sembrasse così allegro – non si riteneva dopotutto un amante così spettacolare da fare quell’effetto agli uomini – e come mai si fosse sbilanciato con tanto romanticismo a colazione.

Forse gli sono mancato davvero tanto… in effetti era stravolto quando sono andato via. Non è il tipo che piange facilmente, ma io gliel’ho fatto fare…

Solo il pensiero del sorriso allegro che aveva tenuto sul viso tutta la mattina evitò a Ferid il gravido senso di colpa che l’aveva pungolato ogni volta che aveva rivisto nella mente la loro discussione prima del Ringraziamento.

È bello essere finalmente a casa!

Indugiando in sensazioni che avevano poco a che vedere con l’appartamento e molto con l’uomo che ci aveva ospitato fece un lungo sospiro, con lo sguardo trasognato sull’orizzonte. Quasi sperò che avesse dimenticato qualcosa sul tavolo e tornasse a prenderla, ma dopo lunghi minuti si convinse di dover aspettare la fine del turno.

Sospirò ancora – più rassegnato questa volta – e controllò l’orologio d’oro di Claude, scoprendo che non era tardi quanto credeva.

Ci vorrà ancora un po’ prima che arrivi… in questo caso, allora…

Invece di rientrare in casa marciò lungo la strada, facendo finta di non accorgersi che Cyrus lo aspettava in piedi davanti al negozio. Era più facile sfuggirgli così che dirgli qualcosa e rischiare che avesse in canna una nuova tirata su quanto non si fidasse di poliziotti, irlandesi e gente residente fuori dal West End; figurarsi che cosa poteva avere da ridire su un poliziotto irlandese di Satbury che aveva l’arroganza di portarsi a letto il suo padrone di casa.

Raggiunse poco dopo il posto che più gli era mancato nei suoi quasi due anni di lontananza. Sorrise felice come un bambino al luna park quando vide l’insegna viola, le vetrate serigrafate e gli scaffali altissimi carichi di libri e dovette sforzarsi per non precipitarsi dentro di corsa.

La porta del Magick si aprì con uno scampanellio nostalgico e Ferid si fermò un passo all’interno, chiudendo gli occhi e respirando a fondo per sentire il profumo magico di libri cartacei, incensi e resina mescolati. Tuttavia c’era qualcosa di storto nell’odore che sentiva e ciò rovinò in parte il momento.

Sento odore di borotalco… sarà entrato un cliente con un deodorante forte…

Clienti però non ne vedeva e neanche notò qualcuno dietro il bancone, che non era più nero e lucido ma era stato sostituito da uno più basso in legno di noce. Qualcosa di inatteso l’attirò verso la cassa.

«Dora~ che fai qui, stupida gattona pigra?» fece con la consueta vocina che le aveva sempre riservato. «Ha messo a lavorare anche te? Tipico di quella strega~»

«Ora vengo lì fuori e ti prendo a sberle, Ferid!»

Ferid sussultò nel sentire la voce di Krul dal bugigattolo dietro il bancone e anche la gatta ebbe uno scatto; lei però si calmò subito e si appollaiò sullo spigolo del banco di noce facendo fusa con gli occhi semichiusi. Di certo si era abituata a Krul e ai suoi sbalzi d’umore più velocemente di quanto fece lui agli albori della sua carriera di libraio.

La proprietaria del negozio spostò la tenda divisoria – anche quella nuova, di un delicato color ambra – e apparve, ma Ferid la riconobbe con meno immediatezza della sua gatta.

Aveva ancora i capelli rosa ma li portava legati in una voluminosa treccia, aveva un vestito nero a motivo ripetuto di piccole rose rosse ma nessun accessorio gotico; non aveva collane, né orecchini, né anelli. Non aveva spille nei capelli, né le solite unghie finte ad artiglio e neanche un po’ di trucco, se non una linea di eyeliner nero.

Si rese conto di fissarla in modo poco lusinghiero ma non lo poteva evitare; era troppo stranito per far finta di niente. Senza una parola Krul si fermò accanto al computer guardandolo, lui si sporse in avanti appoggiandosi al banco per guardarla da capo a piedi come se credesse che le mancasse un pezzo. Era più bassa di come la ricordava, perché anche i suoi tacchi erano un po’ ridimensionati e non più a spillo: portava degli stivaletti aperti con una spessa zeppa di gomma.

Tornando verso il viso Ferid trovò la cosa più strana in assoluto e il suo sopracciglio si sollevò. Senza rifletterci allungò le mani e palpò un seno che non ricordava assolutamente così all’epoca della sua partenza.

«Oh, wow, ragazza, queste non c’erano l’ultima volta!»

Krul sospirò alzando gli occhi al cielo.

«Togli le mani di lì o devo staccartele dai polsi?»

«Sono vere? Sembrano vere…»

«Ferid, togli le mani o ti tiro la spillatrice in faccia.»

«La tua magia fa progressi… enormi progressi.»

Krul prese la massiccia spillatrice – la stessa di sempre – e Ferid si decise a ritirare la mani al di là del bancone.

«Guarda te che pessime maniere… non avvisi del tuo ritorno, compari qui all’improvviso e la prima cosa che fai è mettermi le mani addosso. Neanche un “ciao”, un “grazie per aver badato a Dora”, o un “come va”. Nemmeno un abbraccio.»

«Un abbraccio? Non ci penso neanche. L’ultima volta che l’ho fatto sei rimasta incinta, non voglio saperne niente!»

«Questa volta non siamo brilli, riusciremo a evitare di arrivare a quello che ha fatto il danno» ribatté Krul in un tono decisamente più calmo di quello a cui era abituato con lei. «Vieni qui dietro e dammi un abbraccio, cretino.»

Ferid era quasi certo che quella donna non fosse davvero Krul, o che fosse lei addomesticata da dosi massicce di qualche droga. Arrivò a chiedersi se il borotalco non si usasse per coprire l’odore della marijuana o qualcosa del genere.

«Sei sicura di stare bene, Principessa?»

Lei accennò un vago sorriso che scomparve quasi subito e sospirò.

«Non ti vedo da quasi due anni, ho accumulato pazienza sufficiente per sopportarti cinque minuti, più o meno» fece, con un tono leggermente più simile al suo vecchio sarcasmo. «Quindi sbrigati e abbracciami prima che scada il tempo.»

Aveva immaginato diversi scenari quando aveva deciso di tornare al negozio a trovare Krul, ma neanche la sua più positiva fantasia andava vicino a quella reazione così inattesa. Fece il giro del banco restando un po’ diffidente, ma quando le sue braccia gli strinsero la schiena con forza e Krul affondò la testa nel suo torace comprese che non era il solo a essere molto cambiato in quel lasso di tempo.

Lei non diceva una parola ma non accennava a lasciarlo, quindi a Ferid venne spontaneo sollevare la mano e accarezzarle la testa senza cercare di sottrarsi.

«Che ti è successo, Principessa? Neanche da ubriaca sei mai stata così… neanche da bambina, mi sa.»

Seguì un silenzio lungo disturbato solo dalle fusa della gatta, poi si levò una vocina, un sussurro di fata.

«Sono andata in terapia.»

«Tu?»

Istintivamente Ferid l’afferrò per le spalle e la spinse indietro per riuscire a guardarla in faccia.

«Tu, in terapia? Cioè, tipo da uno psicologo? Quel genere di terapia?»

Lei annuì con sguardo sfuggente e prese a giocherellare con l’unico ninnolo che aveva addosso: un braccialetto che Ferid riconobbe come uno dei loro articoli in vendita, un intreccio di fili con una perla di legno naturale che fungeva da amuleto protettivo.

«Pazzesco! E che cosa ti ha convinto a farlo? Perché, insomma, per convincere me c’è voluta una storia orrenda di un serial killer, reiterati tentativi di assassinarmi e la rottura con Crowley, non so che cosa possa aver–»

Un lamento proveniente da dietro la tenda del retrobottega l’interruppe ed entrambi guardarono verso la stanzetta.

«Cos’è?»

In realtà non era esattamente quello che intendeva chiedere, perché aveva un’idea piuttosto chiara di che cosa fosse stato a produrre quel suono. Krul non rispose e si infilò tra i fili della tenda divisoria. Ferid lanciò un’occhiata nervosa nel negozio, sebbene fosse deserto, ma cercava invano un modo per arginare l’enorme flusso di pensieri che gli si erano riversati nel cervello e che peggioravano a ogni altro flebile lamento che sentiva.

Alla fine tornò alla porta e quando Krul ne uscì teneva il fagotto di una copertina di cotone molto sottile e al suo interno una neonata con una tutina bianca con piccole api gialle. La manina che muoveva era in assoluto la più piccola che Ferid avesse mai visto e reagì come se non gli fosse mai successo di vedere un bambino in vita sua.

«Krul, per l’amor del cielo.»

«Mi dispiace.»

Ferid scosse la testa confuso. Non capiva che cosa ci facesse una neonata nel retrobottega del Magick e ancora meno capiva perché Krul si stesse scusando.

«Che stai… che significa “mi dispiace”?»

Krul si sedette sullo sgabello, con gli occhi fissi sulla bimba.

«Mi dispiace che sono riuscita a far nascere lei, ma non tuo figlio. L’avresti voluto, no? Tu volevi fare il padre.»

«Ma… tu devi essere pazza! Con tutte le cose sensate delle quali potresti scusarti scegli sempre e solo quelle che non sono dipese da te?» la rimproverò brusco. «Non è stata una scelta tua che non andasse bene… ha scelto Dio, io e te non c’entriamo per niente.»

Krul lo guardò con sorpresa, ma lui non se ne accorse perché era preso a studiare da vicino la bambina. Aveva capelli castano scuro con dei riflessi dorati quasi solo in un ciuffo sulla fronte, guance rotonde e una bocca rossa come un papavero. Ferid la trovava incantevole ogni secondo di più e si chiese come avrebbe reagito Crowley nel vederla.

«È proprio un gioiellino, Principessa… oh, ora le principesse sono due~»

«Da quando sei un credente, Ferid?»

«Mi dici come si chiama?»

Krul scambiò un’occhiata silenziosa con Ferid, ma lui sostenne il suo sguardo cercando di dirle, senza parole, che non voleva affrontare quell’argomento con lei. Alla fine cedette e decise di esporsi per prima.

«Naisha. Si chiama Naisha.»

«Naisha… è un nome carino per una ragazza carina~ da dove l’hai preso? È celtico?»

«È un nome indiano… dell’India» puntualizzò lei, con gli occhi fissi sul volto di Ferid. «Significa “unica e speciale”.»

Ferid distolse lo sguardo dalla bimba per guardarne la madre con una certa dose di stupore. Non sapeva come interpretare il fatto che Krul avesse dato a sua figlia un nome equivalente al suo; ci rimuginò su qualche secondo mentre la manina di Naisha si stringeva intorno al suo dito.

«Sai che “Ferid” in arabo significa la stessa cosa, vero?»

«Certo che lo so. Me l’hai raccontato tu, cinque… no, seimila volte.»

«E il papà di questa creaturina sa del tuo… omaggio, per così dire?»

Krul disse appena una sillaba, ma la voce maschile che arrivò dalla porta coprì completamente la sua.

«RID! Ma che fai qui… sei tornato senza dire niente, sei il peggiore amico di sempre!»

Gli occhi celesti di Ferid si posarono con gran sorpresa sul volto ovale sorridente, con gli stessi capelli ricci che ricordava e meno barba di quanta gliene avesse vista l’ultima volta. La maglietta con il logo del bar gli diceva che lavorava ancora alla sua solita caffetteria.

«Liam~ che ci fai tu qui, questa è la mia seconda casa~»

«Consegna speciale!»

Infatti si avvicinò al bancone con due bicchieri di caffè da asporto e li appoggiò accanto al piatto con i braccialetti di corda ammucchiati. Scambiò un saluto lampo con Krul e tornò a dedicare la sua allegra sorpresa al vecchio amico.

«Ormai pensavo che non ti saresti più fatto vedere, ma dove sei stato? Mi sembri in forma, comunque! Come stai?»

«Ah, lascia perdere come sto io! Vi siete annoiati senza di me da queste parti, sto via un anno e mezzo e qui avete fatto tutti dei figli, pure lei!»

Krul nascose un sorrisetto dietro il bicchiere del caffè e Ferid era troppo concentrato su Liam per farci caso.

«È maschio o femmina? Quando me lo fai vedere?»

«Oh, presto… anzi, prestissimo, lo prometto!» fece William battendosi il palmo della mano sul petto. «Scusa, mi dai la bambina?»

Krul passò la piccola Naisha nelle braccia tese di Liam e si riaccomodò seduta a bere il caffè, poi l’uomo si girò verso Ferid.

«Ah, Rid, ti presento Naisha, mia figlia!»

Il cervello di Ferid si scollegò lasciandogli sul volto un mezzo sorriso congelato e uno sguardo vacuo che fece scoppiare a ridere Krul e Liam. Passò un bella manciata di secondi prima che smettessero di ridere e Ferid riuscisse davvero a capire che cosa gli era appena stato detto.

«Aspetta, aspetta… aspetta, che cosa?!»

«Te l’avevo detto che reagiva così!» gongolò Krul, girando a destra e a sinistra sullo sgabello.

«Tu e lei avete un figlio insieme?!»

«Eh, sì. Mi sa proprio di sì.»

Sembrava ancora incredibilmente assurdo, quasi inconcepibile, eppure Liam non era granché come bugiardo, anzi. Era talmente pessimo come bugiardo che non era mai riuscito a tenere nascosti i suoi interessi – seppur platonici – verso donne che non erano la sua fidanzata Maricela. A essere onesto quando l’aveva sentito – in una sola occasione – e gli aveva detto frettolosamente di stare per diventare papà aveva dato per scontato che fosse Maricela quella in dolce attesa.

«Okay, voglio sapere com’è successo. Non mi muovo da qui finché non ho la cronaca completa.»

«Ora non posso, scusami» rispose Liam, con un rinnovato sorriso. «Devo proprio andare, ho altre due consegne… ma te lo racconta Krul, se vuoi. Ehi, vieni a cena da noi, così possiamo parlare di tutto quanto!»

«Ah, veramente…»

«No, niente scuse, vieni e basta. Gli altri possono aspettare! Krul, non accettare un no come risposta!»

«L’ho mai fatto?» replicò lei con un sorrisetto decisamente malizioso.

«Convincilo a venire a cena, faccio un salto da Augusta e mangiamo le empanadas!»

«Non so se mangia le empanadas» osservò Krul, accigliata.

«Certo che le mangia! Non è mica successo una sola volta che ci curassimo la sbornia con un’abbuffata di empanadas!»

Krul si accigliò di più, ma sorrideva con aria divertita.

«Vi ubriacavate insieme, voi due?»

Beh, anche noi, Krul.

Ferid scelse di evitare l’argomento, per rispetto a Liam.

«Avevo una vita prima di conoscerti, tesoro, ti basti sapere questo» tagliò corto lui, e depositò il fagotto giallo della sua bambina tra le braccia di Ferid, ignorando il suo disagio. «Sei ancora intollerante al lattosio, vero?»

«Eh? Uh… m-meno di prima, ma sì…»

«Allora sei a posto, Augusta non usa il burro o il formaggio per fare le empanadas! Tu quali vuoi, Krul?»

«Quelle con il manzo e con il pesce.»

Ferid cercò invano di protestare, ma bastò che Naisha muovesse appena le gambe perché le dedicasse ogni attenzione, neanche avesse rischiato di lasciarsela sfuggire dalle mani. Per quanto gli piacessero i bambini non ne aveva mai tenuto in braccio uno ed era terrorizzato all’idea che gli cadesse. Gli piaceva guardarla da così vicino, ma allo stesso tempo non vedeva l’ora che qualcuno gli togliesse quella responsabilità.

Liam si raccomandò altre due volte con Krul di fare in modo che Ferid si presentasse a cena e salutò prima di sparire fuori dal negozio dove l’aspettava il suo motorino delle consegne. Quando lui e Krul si guardarono – di nuovo soli nel negozio, non contando gli esseri viventi al di sotto dei sei chili – Ferid si dimenticò dell’urgenza di liberarsi le braccia.

«Ma tu che stai facendo? Non bere quella roba, stai allattando!»

«Oh, non rompere, è caffè d’orzo» ribatté lei seccata. «Sei tornato da dieci minuti e già mi rimproveri per qualcosa!»

Cadde un silenzio teso, rotto solo dai versetti soffocati della bambina.

«Scusami. Sono un po’ nervoso.»

Krul si spostò la treccia sulla spalla, scorrendovi le dita sopra.

«Ti turba tanto che io stia con Liam?»

«Eh? N-no, veramente è che… puoi tenerla tu?» le fece supplichevole. «Ho una paura dannata che mi cada…»

«Per questo devi tenerla: più la tieni più ti ci abitui… ne so qualcosa» insistette lei, e si alzò dallo sgabello. «Ti preparo un caffè, abbiamo una macchinetta nuova che lo fa molto buono…»

Krul scomparve dietro la tenda e Ferid, rassegnandosi al suo destino di culla umana per i prossimi – chissà quanti – minuti, tornò dietro il bancone di legno di noce mentre Pandora ne saltava giù, oscillando altrove in cerca di un posto più silenzioso.

Dopo un minuto Krul tornò con un caffè per lui, la sedia della sua scrivania della contabilità e un sorriso confortante quanto insolito. Non riconosceva in quella piccola donna quella che aveva lasciato e questo lo rallegrava e turbava al tempo stesso, ma non riuscì a rifugiarsi nel caffè per alleviare i suoi pensieri.

Come prendo quel bicchiere se devo tenere su la bambina?

«Così.»

Krul gli staccò il braccio dalla schiena della piccola e gli mise la tazza in mano, poi gli aggiustò l’angolo del gomito perché con un un braccio riuscisse a tenere su sia la testa che il sederino di Naisha.

«Oh. Ingegnoso.»

«È una questione di abitudine… comunque, io e Liam non la teniamo sempre in braccio. Se si abituano così non vogliono più stare giù e diventa un tormento…»

«Beh… mossa saggia… anche io ho fatto il guaio con Baudelaire, il mio gatto: lo tenevo sempre in braccio e da adulto mi saltava sempre addosso, infatti…»

Ferid bevve un goccio di caffè, che era davvero buono. Era molto migliore di quello della vecchia macchinetta e si domandò con una velata tristezza quante cose fossero completamente cambiate dopo la sua partenza. In particolare si chiese se Krul avesse ancora bisogno di lui o se quella parte della sua vita potesse considerarsi conclusa.

«Allora… esattamente, come siete diventati una coppia, tu e Liam?»

«Beh… per caso, come succede sempre» commentò Krul con una scrollata di spalle. «Quando sei partito e io sono tornata a lavorare lui passava a portare il caffè… la macchina vecchia l’ha rotta Ash, ovvio. Parlavamo un po’ di com’era andato il giorno prima… e parlavamo di te. Insomma, del rapporto che avevamo con te… e poi si finiva a parlare di qualche altra cosa…»

«E poi?»

«Niente… una mattina eravamo qui a parlare, non ricordo di che cosa, e gli ho chiesto se gli andava di uscire. Lui ha detto che gli andava bene.»

«E Maricela?» domandò Ferid, cercando di azzerare ogni tono accusatorio.

«Non siamo usciti in quel senso… siamo stati al cinema, e basta. Siamo usciti un bel po’ di volte come semplici amici… anche dopo che ha rotto con Maricela ci sono voluti due mesi prima che arrivassimo a quel punto. Era agosto.»

«Agosto…»

Ferid guardò la bimba, accigliato.

«Quanto tempo ha lei?»

«Un mese» rispose lei, come a stroncare una silenziosa insinuazione. «È nata il sei giugno e per tua informazione è nata prima del tempo prestabilito. Se vuoi davvero saperlo, sono rimasta incinta con molta probabilità–»

«No, non mi interessa, davvero!»

«… Quando abbiamo fatto un weekend a Cuba a metà ottobre» proseguì lei imperterrita.

«Oh, avanti, non voglio saperlo! Ormai siamo come fratelli, è imbarazzante sentirlo!»

Seguì un lungo silenzio durante il quale Ferid guardò la bimba – ora addormentata – pur di non incrociare lo sguardo con sua madre.

Non era affatto così che avevo immaginato questo incontro… non era così che mi aspettavo di ritrovarla… ma che cosa mi aspettavo, esattamente?

«Non vuoi parlare di nient’altro?»

A fatica girò gli occhi su Krul, che si stava sporgendo per prendere la seconda tazza di caffè portata da Liam.

«Dove sei stato in tutto questo tempo? Che cosa hai fatto, chi hai visto? Avrai qualcosa da raccontare» l’incalzò lei, con un sorrisetto. «Hai trovato un altro poliziotto sexy? A me puoi dirlo, non dirò niente a nessuno.»

«Ma se una volta che ti ho raccontato qualcosa il primo a saperlo è stato proprio Crowley!»

«Oh, ma quando mai?»

Chiarire quale fosse la circostanza – cioè le indagini della polizia all’epoca del primo tentativo di Robert di assassinarlo con il veleno – richiese uno scambio serrato, ma alla fine Krul abbozzò chiamandola “eccezione” e continuò a fare domande, quindi Ferid decise di rispondere. Le raccontò del suo viaggio in Inghilterra, della purificazione di casa Cosworth – e qui lei consigliò qualche erba da bruciare in casa e altri metodi esoterici – e infine del suo viaggio verso nord per trovare il Marigold Cottage di sua nonna.

«L’hai trovata?» chiese Krul sorpresa, abbassando bruscamente il bicchiere.

«Sì, mia nonna Nancy… è la madre di mio padre. Non somiglio affatto a mio padre e credevo di aver preso da mia madre, ma quando l’ho vista… di sicuro è la parente a cui assomiglio di più, tra quelli che ho conosciuto.»

La notizia strappò un sorriso a Krul.

«Che tipo è?»

«Uhm… è una signora elegante, ma non è appariscente. Le piacciono i giardini in fiore, le poesie, il teatro… da buona inglese, berrebbe soltanto tè se potesse e le piace molto zuccherato.»

«Oh, una cosa in comune almeno l’abbiamo.»

«Ne avete un’altra» aggiunse Ferid divertito. «Ha una collezione smisurata di orecchini. Decine su decine… forse centinaia.»

Krul brontolò e richiuse la tazza ormai vuota con un gesto stizzito.

«Lo sapevo che avrei guadagnato di più a fidanzarmi con te, lo sapevo

«Audace da parte tua dare per scontato che io volessi questo, e anche presumere che farlo ti avrebbe dato il diritto di impossessarti degli orecchini della nonna~»

«Sei l’unico Cosworth in vita, non vedo che altra fine avrebbero mai fatto i gioielli di tua nonna!»

«Per vantare dei diritti devi sposare un nobile, e ancora meglio generare altri piccoli Cosworth~»

Krul sospirò, lanciando la tazza nel cestino nell’angolo.

«Beh, non sarebbe stato troppo brutto. In fondo tu sei malaccio come amante.»

Ferid alzò la mano e guardò altrove.

«Questo discorso sta tornando a essere imbarazzante, Principessa.»

«Avanti, si scherzava… da quando sei diventato così pudico? Da quando hai cominciato a credere che Dio scegliesse per nostro conto quello che ci succede?»

«Io ho sempre creduto in Dio. Solo che Dio è un gran bastardo egoista.»

Dopo un attimo di smarrimento Krul scoppiò in una gran risata.

«E il tuo fidanzato chiesarolo lo sa che la pensi così?»

«Sospetto che lo sospetti… e poi non è chiesarolo come sembra quando va a messa» osservò Ferid, leggermente infastidito che qualcun altro lo chiamasse in quel modo. «Non è che ha la casa tappezzata di gingilli cristiani, di Bibbie o cose del genere. Ha un crocefisso sopra il letto e ne porta uno al collo, ma niente altro.»

«E prima di mangiare prega?»

«No, non l’ha mai fatto quando c’ero io…» mentì lui, muovendosi sullo sgabello.

«Ah, no? E prima di dormire?»

Ferid maledisse silenziosamente l’insistenza di Krul: era tale e quale a un cane da caccia che fiuta il sangue.

«Okay, prega per cinque minuti al giorno, non mi pare tanto grave!»

«Mh, mi pareva~»

«Ah, piantala. Non c’è mica niente di male, se lo fa sentire sicuro credere che Dio lo protegga.»

«Ma tu non lo credi, no?»

«Non so che cosa credo.»

Anche se stava studiando le guance rosee di Naisha e la sua piccola bocca rossa si sentiva gli occhi di Krul addosso. A quanto ne sapeva lei non si era mai bevuta la storia del dio amorevole e onnipotente e fin da piccola aveva sempre seguito personali convinzioni riguardo a spiriti del vento e la Madre Terra, quindi non lo stupì che trovasse strane le crisi di fede o ipocrita l’intera risma dei monoteisti.

«Davvero non lo sai o ti vergogni a dirlo a una figlia della Madre?»

«Non capisco a cosa vuoi alludere» replicò Ferid, ed era sincero.

«Allo scudo di San Michele, per essere precisi» fece lei, rivangando memorie lontane. «Quando lo hai sentito in pericolo gli hai dato un amuleto protettivo… tra i tanti sei andato dritto allo scudo di San Michele, e nemmeno glielo hai mostrato. Non l’hai scelto perché lui è cattolico, lo hai scelto perché tu sei cattolico.»

«Oh, piantala» ribatté Ferid, secco.

«Allora avrai una ragione per spiegarlo.»

«È San Michele, che cavolo, è il patrono delle forze dell’ordine!»

«Ed è un argomento rilevante soltanto se credi ai santi patroni, giusto?»

Se Ferid non sbatté il pugno sul bancone fu soltanto per non svegliare di soprassalto la piccola, ma fu difficile trattenersi. Non capiva perché Krul ci tenesse tanto a pungolarlo su un argomento simile.

«Si può sapere che cosa accidenti vuoi da me? Cos’è, la vendetta dei pagani contro la Santa Inquisizione? Adesso ci volete estorcere confessioni di fede in Dio per poi bruciarci in piazza?»

Krul fece un sorriso trionfante, ma Ferid era troppo alterato per capire come mai sentisse di aver vinto lo scontro.

«Hai detto “ci”. Ti sei appena incluso nei credenti monoteisti.»

Ferid scattò in piedi e le voltò le spalle, infilandosi nello stanzino del retro. Con il massimo della premura che riuscì a racimolare in quel momento adagiò la bimba nella carrozzina che era stata infilata lì tra la scrivania e il tavolo per il caffè, e riuscì a depositarla senza che si svegliasse.

«Ti detesto. Giuro che non capisco perché ti stai accanendo in questo modo contro di me.»

«Non c’è una ragione perché non sono contro di te. Io non disprezzo i cristiani, ma sappiamo entrambi che è una regola di vita costrittiva, volta a far sentire i suoi credenti perennemente in torto.»

Quell’osservazione placò il fiotto di furia di Ferid, che rimase sulla porta girato di spalle. Appoggiò il braccio contro lo stipite, trovando un sostegno fisico in luogo di quello mentale di cui avrebbe avuto più bisogno.

«Lo sai che cosa pensano i cristiani di quelli come te… e come il tuo innamorato. Per loro siete sbagliati… siete un abominio, è questo il termine che usa il vostro libro sacro. Unirti a una fede che perdona tutto quello che potresti fare ma non quello che sei per natura ti farà soltanto soffrire.»

Ferid serrò i pugni, ma non riuscì a scollare le labbra per fare un singolo suono.

«Non voglio dirti come vivere la tua vita, ma… non lasciarti trascinare da lui in una comunità che non vi accetterà mai. Per voi non è diverso che per me, che sono una strega: ci sarà sempre qualcuno che lo riterrà stupido e sbagliato, che ci additerà dicendo ai suoi figli che gente come noi non dovrebbe esistere… ma viverci dentro è da pazzi, Ferid. So che lo ami, ma non farti tirare dentro al suo sistema o sarete infelici qualsiasi cosa facciate. Se puoi, tiralo fuori tu da lì.»

«Starai scherzando» rispose Ferid a mezza voce. «Crowley riesce ad affrontare la sua vita solo con la fede che ha… rinunciarci renderebbe i suoi amici morti veramente morti, inutili crudeltà tutti i crimini violenti che vede al lavoro e lui stesso fragile e vulnerabile… se non credesse nel suo Dio non potrebbe mai accettare tutto il male che vede, tutta la sofferenza che viene dal vivere una vita lunga… senza la sua fede lui perderebbe se stesso.»

«Si può accettare e convivere con la sofferenza anche senza imputarle al volere superiore di un padre dispotico.»

«Certo che si può, ma…»

Ferid sospirò e si girò lentamente, appoggiandosi contro lo stipite.

«Credere in Dio è così… confortante… nessun karma che ti resta addosso da una vita all’altra, tutto ti può essere perdonato… quando sei spaventato, quando sei disperato puoi credere che qualcuno sia lì per provvedere… operando miracoli… rendendo possibile l’impossibile… non lo troveresti confortante? Persino la morte non è la fine…»

«Ti sentirai confortato anche quando i tuoi fratelli in Cristo ti guarderanno disgustati? Perché lo sai…»

Krul girò un po’ sulla sedia per guardarlo negli occhi.

«Non ti vedranno per la persona che sei. Non gli importerà di quanto sia forte la tua fede, di quanto bene fai al prossimo o di quanto attivo sarai per la tua comunità. Sarai sempre quello che sta con un altro uomo. I peggiori ti aggrediranno e ti ostracizzeranno, i migliori ti compatiranno soltanto. Chiederanno al tuo Dio di farti tornare retto

Ferid emise un lungo sospiro e deglutì. Avrebbe avuto bisogno di un goccio d’acqua, se non di qualcosa di più forte..

«Ti diverte torturarmi in questo modo?»

«Neanche un po’» rispose lei in un sussurro. «Ma io ti conosco. So che hai passato la tua vita a sentirti sbagliato, e non voglio che continui a farlo per un dio in cui, mi auguro, non credi davvero.»

Ferid restò in silenzio, con la sensazione di avere le corde vocali annodate da un esperto marinaio. Krul restò in silenzio a guardarlo, anche se lui non aveva abbastanza forza da ricambiarle lo sguardo. Non disse nulla neanche quando lo vide scivolare lentamente lungo lo stipite fino a sedersi per terra; d’altronde Ferid non le avrebbe risposto, immerso com’era nell’immaginare le conseguenze di quella scelta.

«Ferid» fece Krul, diversi minuti dopo. «Stai bene?»

Ferid annuì senza aprir bocca e si asciugò gli occhi.

«Sei sicuro?»

«No» replicò con un filo di voce.

«Già…»

Krul abbandonò la sedia e si sedette per terra vicino a lui, avendo cura che la gonna del vestito non le lasciasse le gambe scoperte.

«Non ti volevo far sentire male.»

«Lo so.»

«Eusford mi piace. Davvero, è un tontolone, ma mi piace. State bene insieme.»

«Lo so.»

«Penso solo che voi due non stiate bene in un triangolo con il cattolicesimo, capisci che intendo? Non voglio che tu stia male. Sei stato male già abbastanza in questi trent’anni.»

«So perché mi stai dicendo questo» la rassicurò lui, e sospirò. «So che cosa succederà, perché Crowley me lo disse già due anni fa… che se fosse stato certo che io lo rendevo felice lui avrebbe scelto me. Che lui avrebbe sempre scelto la felicità prima della religione, se le due cose fossero state incompatibili… lui crede che rinunciare alla felicità per Dio finirebbe per fartelo odiare.»

«L’avevo detto che Eusford mi piace!» rincarò Krul, con un sorrisetto. «Ma allora perché sei così abbattuto?»

«Perché Crowley è sereno nella sua fede. Sta bene nella sua parrocchia, sono tutti suoi amici ed è molto amato… se loro gli si rivoltassero contro per causa mia… lui se ne andrebbe, ma so che gli si spezzerebbe il cuore. Non è giusto che sia costretto a scegliere.»

«La vita non è giusta per nessuno. Tu lo sai meglio di chiunque altro, l’Universo… o Dio, se vuoi, si è accanito contro di te fin da quando eri piccolo, ti ha tolto un sacco di persone a cui tenevi e ti ha anche tolto la migliore occasione di avere un figlio tuo. Francamente non so come fai a pensare che questa sia opera di un Dio e non odiarlo.»

«L’ho odiato per un sacco di tempo.»

Krul inclinò leggermente la testa, incuriosita.

«E ora?»

Ferid scrollò le spalle.

«Odiarlo non farà tornare le persone che se ne sono andate, né il tempo che ho già vissuto. Odiare Dio non cambierà niente.»

«Sì, questo è vero.»

«Tuttavia… è stato sleale prendere seriamente la preghiera di un bambino disperato che non sapeva che cosa diceva.»

Ferid era immerso nella memoria di quel giorno di pioggia furiosa nella cappella privata dei Cosworth, ma Krul non era stata messa al corrente di quell’episodio e lo guardava accigliata. La lunga risposta che avrebbe richiesto la domanda gli fu risparmiata dallo scampanellio della porta che costrinse Krul a rialzarsi in piedi.

«Buongiorno!»

«Buongiorno» le rispose una voce che a Ferid suonò molto familiare. «Ecco… per caso, Ferid è qui?»

Krul si girò a guardarlo con un sorrisetto e, al di là della sua testa, poté vedere l’espressione sorpresa di Mikaela.

«Che dici, Ferid, ci sei?»

«Che fai nascosto lì dietro?» fece Mikaela, sporgendosi un po’. «Ti senti male? Sembri appena sparato fuori da un parabrezza.»

«In un certo senso» borbottò Ferid, rimettendosi in piedi. «Sei in anticipo, no?»

«Un po’, ma ho staccato prima e sono passato a casa tua per vedere se c’eri. Il tuo lacchè della ferramenta mi ha detto che forse eri al negozio, perché ti ha visto venire da questa parte a piedi.»

Per la prima volta Ferid pensò che doveva fare due chiacchiere molto serie con Cyrus Brown: che andasse a dire a sconosciuti dov’era andato, se era in casa o no dopo quello che gli era successo con il Vampiro di West End andava ben oltre l’ingenuità.

Beh, visto che è già qui, meglio passare alle questioni serie.

Ferid si spolverò i pantaloni, notando solo marginalmente il sorriso di Krul.

«Il tuo buono è ancora valido, sai?»

«Il mio… oh» fece Mikaela, e si grattò la testa di capelli biondi. «A essere sincero l’avevo dimenticato…»

«Io no.»

Krul aprì il cassetto sotto la cassa e ne prese un cartoncino con il logo del negozio, impugnò la stilografica e scrisse qualcosa sul retro del biglietto. Con una punta di sospetto Ferid si sporse per cercare di leggerlo, senza riuscirci prima che la sua ex datrice di lavoro lo porgesse al giovane.

«Ecco, così te lo ricorderai anche tu.»

«Ah… ti ringrazio molto. Verrò presto a dare un’occhiata al reparto nuovi culti.»

«Ci sono novità interessanti, quindi passa quando hai tempo.»

Ferid finse di non aver sentito una parola di quel dialogo e uscì da dietro il bancone.

«Andiamo?»

«Ah, sì… dove andiamo?»

«A casa mia, c’è qualcosa di cui dovrei parlarti… e che vorrei mostrarti, a proposito di libri» aggiunse, sapendo di incuriosirlo. «Ci vediamo, Principessa.»

«Stasera» scandì lei con tono minaccioso. «Sei invitato a cena e se non sei lì per le sette vengo a prenderti per le orecchie, mi hai capito?»

Ferid e Mikaela si scambiarono un’occhiata fugace e silenziosa, poi Ferid riprese la strada verso la porta.

«Sarò lì, lo prometto.»

«Auguratelo

«Sì, sì, non ringhiare, tesoro. Ci vediamo più tardi, ho promesso, no?»

«A-arrivederci.»

Ferid tenne gli occhi fissi davanti a sé, il passo sostenuto e il collo rigido finché non fu sicuro oltre ogni ragionevole dubbio che lei non potesse più vederlo e solo allora sospirò. Mikaela si voltò indietro prima di guardarlo.

«Fa sempre così con te?»

«Ha sempre fatto peggio di così, è migliorata durante la mia assenza» l’informò Ferid, rallentando il passo. «E con te, fa sempre così?»

«Non saprei, l’ho incontrata solo due volte dopo quella faccenda… sono stato all’ospedale a vedere come stava, e una volta sono andato a trovarla a casa, quando mi hai chiesto di dirti se stava bene. È stato allora che mi ha detto del buono per il negozio… è ancora convinta che io le abbia salvato la vita chiamando l’ambulanza quando è stata ferita.»

«Beh, l’hai fatto, e tutti noi ti siamo molto riconoscenti.»

«Non ci sarebbe stato alcun bisogno di salvarla se avessi gestito meglio quella situazione» lo contraddisse Mikaela, rabbuiato. «Avrei potuto trovare un modo per attirare quel pazzo fuori senza che facesse del male a te o a lei. Non so come abbia fatto Crowley a perdonarmi una simile leggerezza…»

«L’ha fatto perché sa che è molto difficile sapere cos’è giusto fare quando la situazione è delicata, si è personalmente coinvolti e non c’è tempo per pensare. Lui non è diverso: quando si trova alle strette prende pessime decisioni.»

Mikaela accennò un sorriso imbarazzato tipico di chi pensa di ricevere consolazioni immeritate, ma Ferid aveva in mente qualcosa di molto più urgente. Erano al piazzale davanti alla sua casa di West End e si sentiva stranamente agitato, come se stesse per finire sotto esame.

«Ascolta, Mikaela… la cosa di cui ti parlerò è strana, e particolare…»

«Trattandosi di te non mi aspetto niente di normale.»

«E ti chiedo scusa in anticipo se mettertene a parte ti turberà, ma ho bisogno di un alleato.»

La sua espressione cambiò in un istante e si fece attenta come avesse fiutato un predatore. Ferid lo scortò dentro fino alla cucina, prese il libro che aveva appoggiato sul ripiano e glielo porse, mentre prendeva il bollitore. Si sforzava di sembrare tranquillo come se si accingessero a discutere solo ricette di cucina.

Mikaela non parlò mentre scorreva il titolo e apriva le pagine per sfogliare l’introduzione, ma arrivato all’indice dei capitoli gli lanciò uno sguardo. Era difficile dire se sembrasse più spaventato o più eccitato.

«Perché vuoi parlare della Chiesa dell’Acqua? Ti sei unito a loro?»

«Conosci la Chiesa?»

«Mi aggiorno sui nuovi culti cristiani, e tu lo sai bene. Quindi, cos’è che vuoi sapere?»

«Stimola il tuo sesto senso?»

L’agente di pattuglia coi capelli biondi chiuse il libro e passò l’indice sulla scritta Dio come acqua, avviluppato in una nube di pensieri che Ferid poteva quasi vedere.

«Il mio istinto mi dice che questo culto è pericoloso.»

«Era quello che speravo di sentirti dire.»

«Tuttavia, non c’è nulla di realmente pericoloso descritto in questo libro… insomma… si sa. La divulgazione è diversa da quello che sembra quando vivi il culto dall’interno… e… non so dire perché, ma qualcosa non torna in questa chiesa. Naturalmente è un culto chiuso, con riti segreti e una catechesi che viene illustrata solo ai membri.»

«Sì, il libro fa riferimento allo studio e ad alcuni sacramenti a dir poco misteriosi… e io sono anche stato cattolico praticante, sai com’è.»

Mikaela, tuttavia, studiava lui con molto più interesse e sospetto del libro.

«Ma il tuo interesse per questa chiesa qual è?»

«Faccio del tè, prima, vuoi? Sarà una lunga conversazione…»

Il ragazzo si issò sullo sgabello.

«Non ho fretta.»

Se da una parte l’istinto di Mikaela dava consistenza alla sua tesi dall’altra Ferid non sapeva con quali argomenti chiedere alla polizia americana di indagare sulla morte di un adepto del culto. Per non parlare del fatto che avrebbe dovuto dire all’amico chi gli aveva chiesto quel favore.

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Capitolo 3
*** Morte non sospetta ***


 

Nel suo ufficio il tenente Eusford era così sommerso dalle carte di un caso spinoso che la sua bella mattina con Ferid sembrava già lontanissima. Il dedalo di indizi inconcludenti e alibi barcollanti pungolava la sua anima investigativa, ma il suo nuovo ruolo era più un dosare le forze del suo ufficio saggiamente che scendere in prima linea.

Riattaccò dopo una telefonata poco amichevole dell’assistente del procuratore, e cerchiò con una penna colorata dei dettagli delle deposizioni da ricontrollare, di nuovo opera dell’ex investigatore californiano Aguirre. Ancora non gli andava a genio quell’aria da Miami Vice che teneva, e ancora meno il suo pressapochismo.

Quando si spalancò la porta era già pronto a cacciare fuori qualsiasi scocciatore – o in alternativa ad arpionare lo stesso Aguirre per una robusta ramanzina – ma un sollievo di corpo e spirito si affacciava con un bel sorriso e accessori in colori fluo.

«Sam, di nuovo qui?»

Samara saltellò dentro l’ufficio, allegra e completamente a suo agio come a casa propria.

«Devi smettere di venire così spesso, i miei colleghi mi chiedono se sei mia figlia… come?» fece quando lei gesticolò qualcosa. «Oh, hai saputo del ritorno di Ferid… ma… da chi, scusa?»

Le lettere che scandì con le dita presero di sorpresa Crowley.

«Te l’ha detto Mika? Fa l’informatore di tutti adesso… beh, sì, è tornato da due giorni. In realtà l’hai mancato di pochissimo quando sei venuta l’altro giorno, sai, mi aspettava qui in ufficio.»

La notizia fece letteralmente piroettare la ragazzina di gioia e prese a gesticolare a raffica, troppo veloce per il tenente.

«Calma, calma… che cosa…? Ah, il saggio… vuoi che lo porti con me a vederti? Ma sì che lo porto, sono sicuro che verrà volentieri. Sono certo che in tutto questo tempo ti ha pensata più spesso di quanto pensasse a me.»

Samara mise su un’espressione dolce più adatta a una donna adulta e gli si sedette sul ginocchio stringendolo al collo con la consueta forza. Anche se sapeva di non doverle dare troppa confidenza sul posto di lavoro la strinse brevemente con un braccio.

«Questa è corruzione di pubblico ufficiale, ragazzina, sappilo» l’ammonì lui. «E ancora peggio, mi stai consolando. Guarda che Ferid mi pensa più che abbastanza.»

Samara alzò gli occhi su di lui con uno strano sorrisetto.

«Lo sai? Cosa sai?»

Samara si alzò con un’altra mezza piroetta e parlò a gesti, ma stavolta Crowley capì tutto e si irrigidì a livello delle spalle.

«Che vuol dire che lo sapevi dalla prima volta che ci siamo visti? Non eravamo… ci conoscevamo appena quando ti abbiamo incontrata, Sam!»

Lei ghignò e agitò l’indice come a negarlo.

«È vero, noi non eravamo… che vuol dire che si vedeva? Non si vedeva niente, non… e poi che cosa avresti visto?»

Era fin troppo sulla difensiva e nemmeno se ne accorgeva, tuttavia Samara poteva anche essere muta ma non era certo stupida, né timida. A quei suoi gesti si trovò a boccheggiare scandalizzato.

«Sam, per l’amor di Dio, hai tredici anni, che ne vuoi sapere tu di tensione sessuale? A malapena so io che cos’è!»

Samara sbuffò vistosamente e alzò gli occhi al soffitto in un modo che gli ricordò molto Mikaela, poi sillabò la frase successiva a segni elementari, lettera per lettera. Ciononostante Crowley non la capì e si accigliò.

«Yaoi? Che è yaoi?»

Non ebbe modo di colmare le lacune in merito all’editoria dell’estremo oriente perché la detective Adigun apparve nello specchio della porta e bussando interruppe la discussione. Samara sembrava comunque divertita come si trovasse a un luna park.

«Chiedo scusa, tenente… ha qualche minuto?»

«Ehm… sì, credo… Sam, dovevi dirmi qualche altra cosa?»

Lei scosse la testa, ma poi ripeté che doveva farsi accompagnare da Ferid a vedere il saggio di musica.

«Sì, sì… glielo dirò oggi, appena lo vedo. Non me ne dimentico.»

Ottenuta questa vittoria – e avendola festeggiata con un gran salto di gioia – Sam salutò sventolando le mani e uscì dall’ufficio di corsa. Rebecca Adigun la guardò con un sorriso indulgente.

«Quindi… che cosa c’è, Adigun?»

«C’è una signora che la cerca, tenente. Ha chiesto di parlarle se non è impegnato.»

«Una signora?» ripeté Crowley, meditabondo. «Ti ha detto per che cosa?»

«Ha solo detto che non è qui per una denuncia, quando mi sono offerta di occuparmene io» fece lei scrollando le spalle. «È una signora anziana, distinta, accompagnata da un’altra signora. Che devo fare con loro?»

Crowley guardò le pagine aperte della sua agenda. Contava di presenziare a una discussione con un testimone di lì a una mezz’ora, aveva qualche telefonata da fare in mattinata, ma nulla di immediato. In effetti aveva deciso di ritagliarsi del tempo per mettere ordine sulla scrivania, che era ingombra di incartamenti del caso del porto.

«Beh, perché no. Falla entrare, Adigun, sono curioso di sapere che cos’ha da dirmi.»

«Bene.»

Mentre la collega andava a chiamare la misteriosa signora Crowley fece del suo meglio per impilare le cartelle in modo ordinato e far sparire pacchetti di gomme da masticare, memo volanti, pinze da fogli e altri piccoli oggetti nei cassetti.

Aveva appena controllato che la maglietta bianca che indossava non avesse macchie quando la Adigun fu di ritorno scortando la signora nel suo ufficio: era una signora sì anziana ma molto curata ed elegante, anche indossando dei semplici pantaloni beige, scarpe basse e una camicetta dai ricami floreali dava l’impressione di una signora di classe. Aveva occhi grigi molto lucidi e l’aria intelligente, forse un poco altezzosa. Si alzò dalla sedia per accoglierla.

«Buongiorno» lo salutò con un tono vagamente altero. «Il tenente O’Brian Eusford, suppongo?»

«Sì, sono io… e lei è…?»

«Nancy Kingston» si presentò lei prendendo la mano con decisione ma senza stringerla. «La viscontessa madre.»

«Mi scusi?»

La signora si accomodò sulla sedia di fronte alla scrivania e gli lanciò un’occhiata penetrante.

«Sono Lady Cosworth, e Ferid Bathory-Oakley, ventesimo visconte di Cosworth, è mio nipote.»

Ohmmerda.

Non aveva idea di come avesse fatto a non dirlo ad alta voce ma per fortuna l’aveva trattenuto. Tirò un sorriso che sperò essere disinvolto, ma si sentiva raggelato nonostante l’afosa giornata di luglio.

«Certo… naturale… ehm, se vuole scusarmi un momento soltanto, porto un appunto al mio… agente, di là. Uhm, posso offrirle qualcosa? Tè, caffè…»

«Qui in America fa tremendamente caldo per il tè, tuttavia…» fece, e qualcosa le illuminò lo sguardo di allegria infantile. «Mio nipote mi ha parlato di un caffè freddo che fate qui, con il ghiaccio. Gradirei moltissimo assaggiarlo.»

«Caffè con… sì, certamente.»

Crowley prese il foglio del blocchetto dove aveva segnato il nome di un avvocato e niente altro e infilò la porta. Puntò dritto alla scrivania dove Yuu si era annidato abusivamente come un cuculo. Non appena lo vide si allarmò.

«Crowley, ma che hai?! Sembra che tu abbia appena visto un fantasma!»

«Yuu, non fare domande» gli sibilò di rimando. «Corri al bar qui davanti e fatti fare un caffè shakerato, nero, classico come un film con Humphrey Bogart. Chiaro?»

«Chi è Humphrey Bogart?»

«Sbrigati, per l’amor di Dio.»

Yuu era confuso, ma si alzò e appena calzato il berretto partì spedito per uscire, mentre Crowley si appropriò del telefono sulla scrivania incustodita e digitò il numero di cellulare di Ferid alla velocità della luce. Gli sembrò che suonasse all’infinito prima di sentire lo scatto di risposta.

«Sì, Crowley caro?»

Crowley raddrizzò la testa per poi girarla indietro. Non era stato un suono di ritorno: mentre sentiva la voce di Ferid nell’apparecchio l’aveva sentita anche nella stanza e infatti era lì, qualche metro dietro di lui, con il cellulare accostato all’orecchio. Il tenente mise giù la cornetta.

«Ferid, perché tua nonna è nel mio ufficio?»

Fu sorpreso di vederlo stupito quanto lui.

«Mia nonna? Intendi nonna Nancy?»

«Una signora seduta nel mio ufficio dice di essere Nancy Kingston, tua nonna! Non sapevo neanche che ne avessi una!»

«Oh, sì… beh, in effetti avevo un sacco di cose da raccontare, non ho fatto in tempo a dirti anche di lei. Ho saputo da Bertrand – il mio maggiordomo, sai – che si era ritirata a vita privata dopo la morte di mio padre e che stava in un cottage un po’ più a nord, quindi sono andato a incontrarla e…»

«La tua nonnina ritirata a vita privata ora è nel mio ufficio» ripeté Crowley, il cui cuore iniziava a pulsare nelle orecchie. «Si può sapere perché l’hai portata qui?»

Ferid mise su un buffo broncio nel percepire quella sfumatura accusatoria.

«Mi hai forse visto portarla sulle spalle? Nonna Nancy è autonoma e va dove le pare!»

Crowley si passò la mano nei capelli e guardò verso la sua scrivania. Cercò di calmare quella sua inspiegabile ansia ripetendosi che non doveva superare alcun test familiare per stare con Ferid, ma visto come gli O’Brian avevano preso in simpatia il suo fidanzato – e il suo amico, anche – gli sarebbe piaciuto che anche quel che restava della famiglia Cosworth lo rispettasse.

Già, ma io non sono nessuno… nient’altro che un tenente di polizia che non sa neanche la differenza tra un conte e un visconte.

Sentì la mano di Ferid stringergli il braccio.

«Vuoi che ci parli io con la nonna? Curiosa o no, non avrebbe dovuto disturbarti sul lavoro.»

«Ah… no, no. Non sono troppo impegnato, posso parlarle per un po’… senti, come la devo chiamare? Come si chiama una viscontessa madre?»

Ferid fece una risatina divertita.

«Chiamala Nancy, mio caro… vive come una signora qualsiasi. A casa ha una cameriera che fa le pulizie, ma fa l’uncinetto, prepara torte, annaffia fiori e legge libri come qualsiasi altra anziana signora. Sii naturale, non si aspetta né desidera che tu conosca la nostra etichetta.»

Crowley sorrise, lanciò un’occhiata nei paraggi per controllare chi prestasse loro attenzione e poi gli diede un bacio leggero sulle labbra.

«Grazie… vuoi entrare anche tu?»

«Oh… n-no, credo sia meglio di no. In fondo è venuta per vedere te, o me lo avrebbe detto… ti aspetto qui intorno. C’è Mika, per caso?»

«Da qualche parte sì, aiutava Rebecca con certi controlli incrociati.»

«Allora credo che l’importunerò un po’ mentre tu fai conoscenza con la nonna.»

L’importante è che non abbiano degli scacchi, o chi li schioda più.

Evitò di mettere Ferid a parte del suo pensiero e lo lasciò andare, appena in tempo per veder tornare Yuu con un bicchiere di caffè freddo. Se ne appropriò e lasciò che fosse Ferid a spiegare al ragazzo che cosa stesse succedendo – o chi fosse Humphrey Bogart – ma rientrando non trovò sola la signora.

Non colse l’argomento della conversazione ma Nancy emise una risata – molto controllata ma sincera – alle parole di un agente di pattuglia biondo.

«Mikaela, che fai qui?» gli fece, non senza stupore. «Credevo aiutassi Rebecca.»

«Ho visto questa signora qui da sola e ho pensato di farle compagnia fino al tuo ritorno.»

Lo lasciava sempre stupefatto il tono di voce calmo e avvolgente che era capace di adottare quando era a contatto con i civili, per non parlare di un insieme di gesti e accortezze che riuscivano a renderlo magnetico. A volte lo trovava inquietante, altre volte gli invidiava la capacità di adattamento. Altre ancora, come in quel frangente, capiva la ragione dei cocci di cuore seminati in accademia.

«Ah… beh, ti ringrazio molto, Mikaela. Comunque il tuo compagno di scacchi ti cerca lì fuori.»

Sollevò un sopracciglio tentando di comunicargli senza voce di non pronunciare il suo nome e il ragazzo parve capirlo, perché lanciò una particolare occhiata a Nancy. Probabilmente lui sapeva già di trovarsi davanti alla nonna di Ferid, dato che era stato aggiornato più di chiunque durante quei due anni.

«Il tempo vola quando ci si diverte… devo andare, ma ora avete qui il tenente Eusford.»

«Ti ringrazio di aver fatto due chiacchiere con una vecchia signora, agente… oh, Mikaela, vero?»

«Sì. È stato un piacere, Milady.»

Con sommo stupore di Crowley il suo agente di pattuglia sollevò con grazia la mano di Nancy e si chinò in un baciamano senza contatto, molto rigoroso nell’etichetta. Anche la Lady ne restò colpita.

«Arrivederci.»

Coronando una magnifica esibizione di classe e buone maniere con uno splendido sorriso Mikaela si congedò e uscì dall’ufficio. Crowley sedette alla scrivania posando il caffè e domandandosi se alla riforma dell’accademia di polizia spettasse il merito di aver plasmato così bene quell’adolescente scontroso che era solo due anni prima.

«Un ragazzo così affascinante non lo incontravo dal ‘68!»

«Si riferisce a suo marito?»

«Oh, no, no. Santo cielo, no, mio marito era tutt’altro tipo» commentò lei, con un gesto stizzito della mano come a scacciare una mosca. «Joseph era un tipo molto poco diplomatico, un uomo testardo, tutto d’un pezzo, ligio al dovere… tipico del militare. Sì, da giovane era proprio come te.»

Crowley lasciò uscire un sospiro molto, molto lentamente. Si doveva preparare, perché quello aveva tutta l’aria di non essere un complimento.

«Era un uomo virile, schietto fino alla rudezza, con qualità che in quegli anni erano considerate sinonimi di scarsa educazione, ma in qualche modo faceva colpo perché non era come gli altri. Poi con l’età è diventato un burbero orgoglioso, un testardo senza speranza, un ottuso. A quel punto avevamo ben poco da spartire noi due, ma eravamo i Cosworth e avevamo Foster già adolescente… i Cosworth non divorziano e non si separano. All’epoca era uno scandalo.»

«Mi dispiace, Nancy. Non dev’essere stato piacevole vivere con una persona che non apprezzava più.»

«S’impara a sopportarsi, perlopiù, ma la cosa che non gli perdonai mai è che non mi permise di tenere Ferid con noi» puntualizzò lei, poi finalmente notò il bicchiere di caffè. «Oh, è per me? Molto gentile, signor Eusford… o preferisce essere chiamato con il suo grado?»

«Solo quelli della banca mi chiamano “signor Eusford”… e non sono proprio i rapporti migliori che ho coltivato finora. Quanto al tenente, suo nipote è l’unico estraneo alle indagini a chiamarmi così. Mi chiami Crowley.»

«Crowley» ripeté lei con un sorriso, e bevve un sorso di caffè. «Oh, è molto gradevole… anche il tuo nome lo è. Negli anni ‘50 incontrai un giovane che si chiamava così, Crowley Montague, nipote di un certo baronetto Nonsochi… capelli corvini, pelle di alabastro, occhi come il ghiaccio: bello come il chiaro di luna, come lo definì la mia migliore amica all’epoca. Tutte speravano di ballare insieme a lui e convincerlo a un secondo giro, come si usava allora, ma che io sappia non ci riuscì nessuna.»

«Che fine fece?» domandò Crowley, più per cortesia che per interesse.

«Non ne ho idea… finito il college partì per l’America, almeno così dissero i suoi, e non tornò mai. Non venne più nominato e di solito nell’aristocrazia questo significa due cose: o era scappato di casa come successe a Ferid, o si prese qualche forma di pazzia e venne chiuso da qualche parte. In quegli anni non c’erano farmaci per le malattie mentali.»

Seguì un momento di silenzio e la signora sorseggiò con gusto il suo caffè freddo.

Almeno quello è di suo gradimento.

Attese qualche altro secondo, ma la donna lo scrutava senza dire una parola. Si sentiva sotto esame e intrecciò le dita tra loro, teso.

«Spero di non essere troppo brusco, Nancy, ma posso sapere come mai è venuta fin qui?»

«Oh, sono stata in America solo una volta, quando io e Joseph eravamo due sposini e io avevo appena saputo di aspettare Foster. Davvero molto tempo fa, quindi ho pensato di prendere la mia Meg e andare a fare un viaggetto» spiegò lei con un tono leggero che gli ricordò Ferid. «Meg è la mia cameriera e una cara amica.»

«Non l’avrà lasciata qui fuori, spero.»

«Oh, no, certo che no. È andata a visitare il museo della fondazione, ci teneva particolarmente… pare che dei suoi antenati arrivarono qui e contribuirono a costruire la vecchia New Oakheart. Meg è sempre stata molto americana in queste cose, le guerre d’indipendenza stimolano la sua immaginazione romanzesca.»

«Immagino di sì, ma io intendevo perché è venuta qui, in centrale, per incontrarmi nel mio ufficio» puntualizzò Crowley, appoggiandosi allo schienale della sedia. «Sono fidanzato con suo nipote, potevamo vederci in qualsiasi posto e ora nel mio tempo libero.»

«Resterà fra noi un piccolo segreto, Crowley?»

Incuriosito Crowley annuì e si sporse verso di lei quando la donna fece lo stesso.

«Non ho creduto proprio a tutto quando Ferid mi ha raccontato quella storia dell’assassino di bambini… quindi sono venuta a vedere se c’era davvero un tenente O’Brian Eusford qui e se corrispondeva al suo racconto.»

La rivelazione fece ridere Crowley senza traccia di artificio e si sentì un po’ più leggero.

«È una storia assurda, vero? Qualche volta persino io mi sono svegliato chiedendomi se non fosse stato tutto un contorto sogno… ma lui era lì, ogni mattina, appena aprivo gli occhi.»

Si pentì di aver detto tanto, perché non aveva idea di quanto Ferid avesse raccontato alla nonna della loro relazione. Nancy tuttavia sorrideva senza il minimo turbamento.

«Sì, anche Ferid dice di esserselo chiesto. E mi ha raccontato di come guardarti a ogni risveglio gli facesse desiderare di invecchiare insieme a te.»

La rivelazione di Nancy lasciò Crowley come paralizzato sulla sedia e la sua espressione non celava niente del suo stupore. Solo dopo un attonito silenzio riuscì a scollare le labbra, e gli occorse qualche altro secondo dopo quello.

«Ha… lo ha detto davvero?»

«Più di una volta» replicò la signora, sorridendo.

Non credeva che potesse emozionarlo tanto una frase riportata, specie in una relazione già matura come la loro. Non era una dichiarazione d’amore inaspettata, una frase romantica uscita da qualcuno che non lo era mai… eppure si sentiva commosso e si trovò a nascondere le labbra – che si erano strette in un tentativo di controllare il fiotto emotivo improvviso – dietro il pugno chiuso. Cercò con gli occhi la figura di Ferid fuori dalle vetrate, senza trovarlo.

«Non è una cosa facile da dire alla persona interessata» osservò lei, alzandosi dalla sedia. «Esprimere un desiderio così umano come consumare la propria vita accanto a una persona soltanto… mette una certa pressione se non si è certi che sia un desiderio ricambiato. A Ferid non piace imporre la sua volontà agli altri.»

Nancy non perse il sorriso mentre Crowley rimuginava in silenzio, galleggiando alla deriva in emozioni che non aveva ancora lasciato uscire. Paure ed eccitazione infantile si mescolavano quando pensava a Ferid e a com’era diventato, a che cosa potesse ancora volere, eppure dicendo qualcosa di tanto forte alla sua unica parente in vita sembrava riconfermarsi il sognatore in cerca di un amore veramente eterno. E gli sembrò di amarlo ancora di più.

«È stato un piacere conoscerti, Crowley. Passa una gradevole giornata.»

«È ricambiato.»

La signora Kingston si fermò sulla porta, la mano sulla maniglia e la perplessità sul volto.

«Cosa?»

«Il suo desiderio è ricambiato.»

«Ah, miei cari! Se condividete un letto dovreste saper condividere i pensieri! » sospirò lei, un poco brusca. «Uno di voi dovrà pur parlare per primo! Non potete mica sposarvi in tre, voi due e l’intermediario, no?»

Nancy lasciò l’ufficio chiudendosi la porta alle spalle. Crowley non disse niente, non guardò dai vetri: appoggiò i gomiti sulla scrivania, intrecciò le dita e vi appoggiò la fronte, meditabondo. Considerati i suoi genitori, irlandesi cattolici, la sua famiglia contadina tradizionalista e la sua formazione di matrice cristiana mescolata a relazioni poco profonde quello della viscontessa madre era il miglior consiglio sul matrimonio che avesse mai ricevuto.

 

*

 

Le capacità informatiche non erano carenti in Mikaela, ma certo trovava molto più difficile ripescare dossier e consultare database con un occhio perennemente puntato sul corridoio. Iniziava a temere che se quella ricerca fosse andata per le lunghe sarebbe rimasto strabico.

«Mika, ti prego, smettila» sbottò sottovoce Ferid, indispettendolo all’istante. «Mi fai salire l’ansia.»

«Oh, chiedo scusa, Milord, se rischiare il posto di lavoro per il suo sgradevolissimo amico non è nella mia lista delle cose da fare quest’anno!»

Ferid non replicò sfogliando il plico dentro la cartellina azzurra degli incartamenti del dipartimento.

«Tutto qui quello che c’è?»

«Quello è solo quello che ho trovato online da casa. Le informazioni dei database non sono autorizzato per nessuna ragione a vederle, figurarsi a stamparle per farle vedere a te» rimbeccò Mika, e mise mano al mouse. «Ora fa’ finta di niente. Faremo un’incursione molto rapida.»

«Quanto rapida?»

«Come Oprichnik nella steppa.»

«Fingerò di aver capito.»

La porta dell’ufficio restava chiusa e Mikaela digitò alla velocità massima possibile le credenziali di accesso che Crowley gli aveva affidato per svolgere ricerche informatiche al posto suo. Violare quella fiducia per un uomo come Connor Maguire lo disgustava, ma si sforzò di fidarsi di Ferid.

«Horatio Lanius» sussurrò Mika, mentre apriva le copie digitalizzate del rapporto. «Il suo corpo è stato trovato in un bacino artificiale fuori Nashville. Causa della morte: annegamento causato probabilmente dallo stordimento dovuto a massicce dosi di alcol e oppiacei nel sangue. I valori indicati dal medico legale sono assurdamente alti.»

Ferid si chinò per avvicinarsi allo schermo e inforcò gli occhiali da lettura.

«Nessuna contusione o ferita imputabile a una difesa fisica… nessun indizio di violenza sul corpo. Non c’è prova che qualcuno lo abbia colpito, atterrato o costretto sott’acqua.»

«Si può sapere chi hanno interrogato, giusto?»

«Ferid, a questo punto devi almeno dirmi perché Maguire ti ha mandato a indagare su un caso di morte accidentale in Tennessee, ti pare?»

«Mi ha pagato in sesso sonante. Ora posso vedere le deposizioni?»

La rara smorfia di disgusto sul viso di Mika avrebbe fatto ridere molte persone che lo conoscevano e strappato a Maguire una protesta indignata o una proposta maliziosa secondo umore.

«Che diavolo, Ferid, che schifo

«Ah, per cortesia, Mika, sei talmente accecato da Yuu che non vedresti un uomo sexy neanche se ci sbattessi contro… cosa che probabilmente ti è anche già successa e nemmeno te ne sei accorto» ribatté Ferid, con un disagio che fece venire la pelle d’oca a Mika.

Cavolo, stava dicendo sul serio!

«Non posso crederci… Ferid… ma tu hai Crowley, come ti viene in mente?»

«Lui mi capirebbe, visto che è il primo ad andarci a letto da anni. Detto ciò non una parola al riguardo, o gli dirò che mi hai mostrato dei rapporti di polizia riservati.»

Mika si accigliò e con un clic passò alle pagine che li interessavano, ma era troppo risentito per tacere.

«Guarda che non c’è bisogno di ricattarmi. Siamo amici o no?»

«Se si è anche complici di un crimine si è più leali» tagliò corto lui, scorrendo le copie degli interrogatori. «Qui dice che hanno interrogato il Padre della comunità di cui Lanius faceva parte…»

Fu allora che Mikaela smise di pensare a Maguire, o almeno alla sua discutibile condotta sessuale. Finalmente aveva intuito il legame: l’uomo morto l’anno prima era un membro della Chiesa di Nostro Signore delle Acque, unitosi alla comunità di Nashville pochi mesi prima della morte. Ma ancora gli sfuggiva come Maguire fosse collegato a Lanius e soprattutto perché cercasse di coinvolgere Ferid in un’indagine quando conosceva di persona – e intimamente – un tenente della omicidi.

«Ferid, in che modo questa faccenda interessa te e Connor Maguire?»

«Temo che non siano affari che interessano te, Mika.»

Mika gli afferrò il polso impedendogli di cambiare la pagina sul monitor e lo fissò con quei suoi occhi azzurri penetranti.

«Tu sei mio amico… e voi due imbecilli siete importanti per Crowley» ribatté in una specie di ringhio sussurrato. «Quindi se siete nei guai io voglio saperlo… io devo saperlo!»

Ferid gli ricambiò lo sguardo senza vacillare neanche un attimo.

«Non posso chiarirti tutto, ma Connor ha i suoi motivi per cui non può andare da Crowley a dirgli che qualcosa non va in questo caso di morte accidentale… e io ho lo stesso problema nel riportarli a te. La mia sola, solenne parola che non c’entro direttamente con questo poveretto morto e con quella chiesa e che Maguire non è coinvolto in una morte sospetta vale come assicurazione?»

Per qualche secondo si fissarono e Mikaela usò tutto quello che aveva per scovare la menzogna, ma non la trovò. In parte si rilassò, ma si riappropriò del mouse con un gesto brusco.

«Faccio io, tu non sei autorizzato neanche ufficiosamente a usare i computer della centrale.»

«Ah, che soldatino ligio sei~»

«Sta’ zitto prima di dire qualcosa che mi dia davvero fastidio.»

Il capo della chiesa di Nashville era indicato come Padre Wassen e nella sua dichiarazione aveva dipinto Lanius come un uomo squilibrato, dall’umore altalenante e con gravissime difficoltà a controllare il suo bisogno compulsivo di assumere alcolici. Alcuni membri interrogati sull’uomo dichiaravano circa le stesse cose, enfatizzando un “grande cuore” ma anche il suo “profondo turbamento”.

Per quanto fosse diffidente verso il culto per sua natura, Mikaela non riusciva a trovare un’incongruenza tale da ritenere affrettata la conclusione delle indagini sull’incidente.

Un uomo turbato e afflitto si unisce a una comunità religiosa, ma non gli basta a superare i suoi drammi e torna all’alcol e alle droghe… fugge dalla comunità, trova da consumare, ne assume in grande quantità… e mentre è stordito finisce in acqua e annega. Non è così improbabile da suscitare un sospetto, e gli esami del medico legale non fanno sorgere dubbi.

Girò la testa per guardare Ferid quando si raddrizzò.

«Non trovo nulla di insolito, e tu?»

Ferid prese tempo sfilandosi gli occhiali.

«No… niente di niente.»

«Sei ancora dell’idea di andare da Crowley a sottoporgli un caso che non è un caso?»

«Ho promesso a Connor che lo avrei fatto… che avrei tentato di tutto per convincerlo a fare una telefonata a qualche collega che possa rimetterci mano.»

«Per venire da te a supplicare un aiuto per aprire un caso deve essere certo che c’è qualcosa sotto… solo se conoscesse quell’uomo e sapesse che non era depresso, alcolizzato o drogato sarebbe tanto convinto che non ha fatto quella fine. Questo è logico, ma chi era?» l’incalzò Mika, appoggiando il mento sulla mano. «Per non avere il coraggio di andarlo a chiedere direttamente a Crowley… non sarà stato il suo compagno, spero!»

Ferid sembrò sorpreso da questa ipotesi e il modo in cui aggrottò le sopracciglia sottili gli disse che ci stava seriamente riflettendo.

«Non ci avevo pensato… chi lo sa, Connor è un uomo talmente misterioso che potrebbe anche avermi mentito, e avermi nascosto questa verità… certo spiegherebbe perché non vuole che Crowley sappia che è lui a volere indagini su Lanius.»

Mika fissò la foto del dossier. Horatio Lanius non era un uomo interessante, almeno a prima vista: aveva un viso comune senza particolare bellezza o fascino, non era brutto né bello e il tratto più peculiare della sua persona sembravano essere un paio di occhi celesti come quelli di Ferid. Se quello era stato davvero il compagno di Maguire Mika poteva capire – anche se non approvare – la sua decisione di cercarsi qualche amante più interessante e piacevole.

Ma conosceva Crowley e i suoi valori imprescindibili. Sapeva che se fosse venuto fuori che Maguire aveva una relazione ufficiale e stabile ne sarebbe stato devastato; odiava calarsi nelle relazioni extraconiugali ed esserci calato a sua insaputa era un tradimento di non uno ma due partner, dal suo punto di vista.

Lui e Ferid si trovarono a sospirare sconsolati nello stesso momento. Il detective Aguirre, alla scrivania accanto, li guardò perplesso ma non commentò.

«Che facciamo ora?»

«Hai detto di averglielo promesso» gli ricordò Mika. «Almeno devi provare a dirgli che trovi strano questo fatto… non so, potresti dire che ne hai sentito parlare da qualcun altro?»

«Già, e chi? Il barista del migliore amico di mio cugino, come nelle leggende metropolitane?»

«Già. Come minimo servirebbe una deposizione di questa persona, anche solo per pensare che possano esserci ragioni per riaprire il caso.»

«Potremmo cercare qualche altra cosa… qualcosa sulla chiesa di Nashville? Potrebbe venir fuori un po’ di fango che aiuti la nostra causa. Magari il Padre o i testimoni non sono trasparenti quanto sembravano.»

«Beh… suppongo che spenderci qualche ora non possa fare troppo male, giusto? Ma sappi che non spenderei un solo minuto per quell’imbecille di Maguire» precisò Mika, lapidario. «Lo faccio perché tu ci tieni a mantenere la promessa.»

Ferid posò uno dei suoi occhi celesti su di lui, con mezzo sorriso.

«Ragazzo dolce.»

«Ma smettila.»

La prospettiva di aver chiaro almeno il passo successivo li rinvigorì un poco, facendoli raddrizzare nella posa mentre scandagliavano nuovi documenti e siti web. Purtroppo non vennero a capo di nulla prima che Ferid gli piantasse il tacco nel piede. La protesta gli morì in gola vedendo Crowley uscire dall’ufficio e puntare alla sua scrivania. Con in testa pensieri completamente diversi dai loro, sorrideva.

«Ah, eccovi qui!»

«Com’è andata, caro?»

«Oh, bene… almeno credo. Tua nonna è una signora simpatica dopotutto, e un po’ vi assomigliate. Credo ci siano i presupposti per una convivenza civile» rispose lui, ottimista. «Piuttosto, ricordi Samara, vero? Mi ha obbligato moralmente a portarti con me a vedere il suo saggio di danza, e non ci crederai ma ora balla hip-hop nello stesso corso di Cara. Te la ricordi, no? Cara Parks!»

Mika approfittò di quelle divagazioni per uscire dal database senza dare nell’occhio, poi si alzò e calzò il cappello sulla testa.

«Ferid, Yuu-chan fa il turno di notte oggi. Ho tempo per quello.»

«Uhm, da te?»

Crowley si mise a guardare prima uno poi l’altro, confuso. Era meglio tagliare corto prima che cominciasse a fare domande, insospettito da quel minimalismo verbale.

«Sì, okay. Fammi sapere quando ti liberi.»

«Sì, certo.»

Raccolse il cellulare e si avviò verso la scrivania della Adigun, che quel giorno doveva portarlo con sé all’ufficio del coroner e a parlare con un certo potenziale testimone; lavoretti per potenziare la sua esperienza in vista dei successivi esami per diventare detective. Ebbe modo di sentire Ferid coprire i loro affari segreti buttandola sugli scacchi e nostalgicamente sorrise ripensando alle lunghe partite di due anni prima.

 

*

 

Mentre aspettava che il caffè fosse pronto Mikaela lanciò un’occhiata di desiderio ardente alla scacchiera vicino alla finestra, che da troppo tempo non vedeva un giocatore decente dal lato dei bianchi. Ci sarebbe stato tempo per giocare ancora con Ferid e quel tempo sarebbe stato tanto più vicino quanto prima avessero concluso la loro indagine non ufficiale sulle Chiese dell’Acqua.

Guardò Ferid, sdraiato sul divano, ancora preso a scorrere col dito lo schermo del suo cellulare. Stava con un occhio chiuso alla volta, come i gufi, e l’associazione lo fece quasi scoppiare a ridere.

«Ferid… lascia il telefono per un po’. Dobbiamo riposarci, o saremo così distratti da non vedere l’elefante nella stanza.»

Riluttante lui gli obbedì, prese a stiracchiarsi e a sbadigliare. Lo vide guardare l’orario e lo sentì mugugnare qualcosa di incomprensibile mentre affondava la testa tra le mani. Il suo pappagallino Albert prese il volo da uno dei suoi trespoli e atterrò sul fiocco nei capelli di Ferid, facendolo sussultare.

«Albert, non essere maleducato!»

«Peek a boo!» cinguettò lui in un frullare di ali.

«Vattene, Albert, su» fece, allontanandolo con un gesto della mano. «A quest’ora sei nella tua gabbietta. Vai a nanna.»

Il pappagallino planò sulla giacca di Yuu appesa vicino alla porta, flautò un suono che assomigliava a “ninnananna” e volò nella stanza accanto, dove probabilmente si sarebbe chiuso da solo nella gabbietta. Ferid aveva rialzato il capo e sorrideva, stupefatto.

«Ha detto nanna?»

«Dice ninnananna quando va nella sua gabbia. Si chiude anche lo sportellino da solo. Ancora non capiamo come l’ha imparato.»

«La mia gatta sa tirare lo sciacquone, neanche io ho mai capito come lo abbia imparato.»

Mikaela, sorridendo a scene di fantasia su Pandora e lo sciacquone, recuperò due tazze per il caffè e lo servì prima a Ferid. A lui bastò anche solo l’odore per sentirsi meglio.

«Trovato qualcosa, comunque?»

«Solo che la prima Chiesa dell’Acqua è stata fondata da due preti cattolici, uno dei quali è ancora a capo della parrocchia di Ashby. Da quello che ho trovato scritto in giro dev’essere stato un esoterista, ma di sicuro è un po’ nazista.»

«Addirittura?»

«A chi può venire in mente che la benedizione di un dio stia solo dentro alle persone i cui occhi sono del colore dell’acqua, se non a qualcuno con la fobia degli occhi scuri?» commentò Ferid, come se presentasse una prova inoppugnabile. «Penso che sia l’unica nota stonata. Si sa che il Cristianesimo lavora a formula all-inclusive

«È qualcosa più sul genere “eletti da Dio e gli altri fuori”, o più nel senso che i benedetti salveranno gli altri?»

«Difficile da dire… Dio come acqua è l’unico libro di divulgazione che hanno pubblicato, e i dettagli dei sacramenti non sono resi noti. Hanno il sacramento del battesimo nei neonati, hanno l’Eucaristia, le messe ripercorrono il calendario della chiesa romana… non so dove quella simbologia dell’acqua, di stampo molto esoterico, inizi a cambiare tanto da renderla una chiesa diversa.»

Mikaela sorseggiò il caffè e Ferid fece altrettanto, finché non passò il dito sulla copertina del libro del nuovo culto. Era molto pensieroso, ma non ci fu bisogno di incalzarlo.

«In un capitolo Padre Maim, il fondatore, afferma che guardando negli occhi un benedetto da Dio puoi vedere una piccola parte di lui. Si riferisce alle persone con gli occhi azzurri, blu, o grigi.»

Il modo in cui mise da parte il volume tradì il suo turbamento.

«Ma se una volta nella mia vita io ho visto Dio l’ho visto in Melody.»

«Melody… la tua cameriera?»

«In lei c’è tanta di quella fede, di quella purezza… ama tutto e tutti in modo così naturale che non la si può spiegare. Sorride quando riceve una brutta notizia, perché ha trovato il lato positivo prima di sentire il dolore o la paura.»

Mika tacque mentre lui si alzava e guardava dalla finestra, verso il cielo.

«Nessuno che la incontri potrebbe pensare che non è la sua prediletta. L’idea che queste persone potrebbero giudicarla indegna, o una pecorella smarrita solo perché non ha gli occhi azzurri… te lo giuro, Mika, li prenderei a schiaffi con il loro stesso libro se fosse così.»

Aveva sentito molte storie di Melody, compresa la volta in cui Ferid aveva sistemato il vecchio salone da ballo per una sera di beneficenza e aveva danzato con lei quando avevano finito di ripulirlo. Non percepì neanche l’ombra della malizia in quel rapporto, come non l’aveva mai percepita in quell’anno di aneddoti su di lei.

«Melody ha gli occhi scuri? Non mi hai mai detto com’è, in effetti.»

«Neri come l’ebano. Melody è afroamericana… non ha la pelle così tanto scura, ma ha i capelli e gli occhi come la notte d’estate del Sussex. Se nel mondo c’è la prova che il dio di Abramo esiste, quella è lei.»

«Attento, Ferid. Inizi a sembrare innamorato.»

«Lo sono» rispose lui, lasciandolo attonito. «In modo del tutto platonico, s’intende… ma non si può conoscerla senza finire per amarla. Bisognerebbe essere senza cuore per riuscirci.»

Era forse un momento un po’ azzardato, ma Mika aveva qualcosa da chiedergli e decise che era l’occasione.

«Conoscere Melody ti ha aiutato in qualche modo a… superare Krul?»

«Avevo creduto di sì» replicò lui, assumendo un tono stanco che non aveva prima. «Ma poi sono tornato… l’ho rivista… ed è felice. La felicità la rende bellissima.»

«Pensi di dirle che cosa senti?»

«Il fatto che Krul abbia trovato la sua dimensione quando io me ne sono andato chiarisce piuttosto bene che non aveva e che non ha bisogno di me. Tornare senza preavviso e mettermi a rivangare vecchie questioni non ha senso ed è anche un po’ ignobile da parte mia, visto che il suo uomo è anche uno dei pochi amici che io abbia mai avuto.»

«Ti fa soffrire?» indagò Mika, accavallando le gambe e posando la tazza. «Che tra tutti gli uomini che ci sono abbia scelto un tuo amico ti fa arrabbiare?»

«Liam è una brava persona… ha i suoi difetti, come tutti, ma in confronto a gente come me è praticamente un santo. Se avessi dovuto scegliere io un uomo per lei non mi sarebbe venuto in mente qualcuno di migliore a cui lasciarla.»

Mente.

Se la sua frase focalizzante del topo blu si fosse indebolita o se Mikaela fosse diventato più capace di leggere il corpo umano non gli era chiaro, ma di certo Ferid stava mentendo.

«Pensi che abbia un senso mentire a me?» gli domandò in tono calmo, e indicò il soggiorno con il braccio. «Non c’è nessuno qui. Siamo soltanto noi due.»

Ferid prese tempo versandosi altro caffè, poi sedette sul divano. Si rialzò quasi all’istante per mettere dello zucchero e si mise a cercare chissà che cosa in un cassetto. Quando Mika chiamò piano il suo nome cessò di cercare di sfuggire a se stesso e chiuse il cassetto, senza voltarsi verso di lui.

«Non lo sopporto. E mi sento in colpa perché non lo sopporto! Io ho Crowley, eppure non riesco a non essere geloso di lei, che senso ha questo? Stavo seduto a cena da loro, li guardavo e non riuscivo a darmi pace per quello che vedevo!»

«E che cosa vedevi quando li guardavi?»

Ferid esitò e prese tempo bevendo il caffè a piccoli sorsi.

«Che cosa vedevi, Ferid? Una donna che amavi che ha trovato una vita migliore quando tu sei sparito? Un amico che non ha avuto riguardo per i tuoi sentimenti per lei? O soltanto il riflesso della vita che vorresti per te e che ancora non hai ottenuto?»

«Tutte e tre» ammise lui in un sussurro. «Ed è… da egoisti.»

«Perché?»

«Me ne sono andato… ho piantato in asso tutti quanti per preoccuparmi soltanto di me. Anche se Crowley stava per portarmi dai suoi parenti, Krul aveva bisogno più che mai di qualcuno che badasse il negozio per lei, e anche tu hai dovuto fare i conti con quello che è successo con Bobby nel West End… ho abbandonato tutti ai loro problemi pensando soltanto ai miei.»

Mikaela tacque. Riteneva più saggio lasciare che tirasse fuori tutto quanto, da solo se ci riusciva. Ogni volta che si trovava in una situazione del genere tornava con la mente a quel film d’animazione giapponese in cui un mostro che sembrava un’enorme massa di fango puzzolente veniva liberato dalla spazzatura dell’inquinamento umano per rivelarsi uno spirito del fiume: era la metafora che meglio rendeva l’idea di che cosa facesse un’appropriata terapia psicologica.

«Sono diventato un uomo arrogante» concluse Ferid dopo una breve pausa. «Non ha senso girarci intorno. Ho creduto che mentre io sistemavo i fatti miei in Inghilterra tutti voi teneste gli occhi sull’orizzonte in attesa del mio ritorno.»

«Ferid» l’interruppe col tono più dolce possibile. «Posso dirti che cosa ne penso io? Per darti una seconda prospettiva.»

Lui non rispose, concentrandosi sul girare la tazza su se stessa esattamente al centro del sottobicchiere. Sapeva che lo faceva nel tentativo di tenere i suoi pensieri sotto controllo.

«Quello che penso è che tu fossi per tutti molto importante. Non siamo rimasti a guardare l’orizzonte perché non era sano farlo, ma la tua partenza ci ha costretto tutti a cercare nuovi equilibri. Guarda Crowley» insistette quando vide la mezza smorfia di Ferid. «È diventato tenente grazie a te. Perché avere a che fare con te lo ha reso capace di proteggere in un modo nuovo, che non ti insegnano in un’accademia. Ha combattuto per diventare un uomo che non avrebbe più dovuto soffrire per quel terribile senso di impotenza che ha provato quando si è trovato incapace di difenderti.»

Ferid non rispose, ma smise di far girare la tazza.

«Allo stesso modo Krul ha dovuto aprirsi al resto del mondo. Ha dovuto gestire il negozio meglio, appoggiarsi ad altri quando tu non ci sei stato più. Liam, che ti aveva perso, ha trovato conforto incontrandola e parlandole di te. Ferid, andandotene hai fatto la cosa giusta per te e per tutti quelli che contavano su di te.»

«So che lo dici per confortarmi, ma…»

«Io non dico cose per confortare, smettila di calunniarmi» sbottò Mika, strappando un’ombra di sorriso a Ferid. «Il fatto che nessuno di noi sia arrabbiato con te è una prova di quello che ti sto dicendo. Siamo tutti contenti di riaverti, e alla gente non fa piacere avere degli egoisti intorno.»

Alla fine Ferid riuscì a girarsi per guardarlo in faccia. Era riuscito a trattenersi, ma gli occhi gli erano rimasti lucidi.

«È un peccato che cerchi ancora di non essere capito dalle persone, Mikaela… perché sei un ottimo amico.»

Non del tutto indifferente a quella frase preferì schermirsi ed evitare il contatto diretto, sedendosi più dritto davanti al pc portatile. L’emozione che gli aveva suscitato il giorno della partita di scacchi, quando gli aveva parlato della metafora dell’albero usata dal suo defunto marito, era ancora intensa come allora.

«Condivido i frutti del mio albero, per quanto posso.»

Dopo questo scambio intenso – accusato da entrambi – Ferid propose di riprendere a cercare e Mikaela fu d’accordo: mentre lui approfittava della sua specializzazione indagando sulla pubblicazione del libro l’agente iniziò a collezionare scatti di facce e liste di nomi. Quando una pagina e mezza del suo taccuino furono riempite decise che aveva bisogno di un altro caffè e si alzò per prepararlo, rendendosi conto che il cielo fuori dalla finestra stava rischiarando.

Alla fine ho fatto un altro turno di notte… e Yuu-chan dovrebbe tornare a momenti. Dovrò inventarmi qualcosa…

Neanche il tempo di pensarlo che il rumore caratteristico dell’ascensore annunciò il suo ritorno. Non si scompose né incrociò lo sguardo di Ferid; si limitò ad avvicinarsi alla scacchiera e a togliere dei pezzi per imbastire lo schema di una partita appena conclusa.

Il tintinnio delle chiavi anticipò l’apertura della porta e Yuu entrò con gli occhi stanchi, il passo trascinato ma il solito sorriso. Notò immediatamente Ferid sul divano, che alzò la mano in un saluto.

«Ferid, cosa fai qui così presto? Crowley non ti ha lasciato le chiavi?»

Yuu appoggiò sul tavolo il giornale, una scatola di cookies al cioccolato bianco e il cappello e notò la scacchiera, poi scoccò un’occhiata di rimprovero a Mika.

«Mika, non avevamo parlato del dormire la notte, almeno quando possiamo?»

«Sì, ma il tempo ci è proprio scivolato sotto il naso… è stato un caso, non giocheremo più così tanto, lo prometto.»

Yuu era troppo stanco per avere dei sospetti e neanche da pimpante aveva voglia di litigare sulle piccolezze, quindi lasciò che la questione si chiudesse pacificamente. Baciò Mika sul viso e trattenne a fatica uno sbadiglio.

«Scusate, sto crollando… vado a dormire, Mika. Scusami, Ferid, ma…»

Uno sbadiglio dirompente rese superflue le spiegazioni e Ferid l’invitò a riposarsi. Yuu salutò e con un altro gran sbadiglio barcollò verso la camera da letto. Mika sapeva che sarebbe crollato sul letto vestito e avrebbe dormito per ore, come dopo ogni doppio turno.

«È opportuno che faccia dei turni così lunghi? Poliziotti così stanchi non pensano in modo lucido» commentò Ferid, e si mise a leggere gli ingredienti sulla scatola dei biscotti.

«Ci tiene a fare presto un tot di ore di servizio per puntare alla promozione… non puoi mangiare quelli, ma ho una scatola di biscotti senza burro e zuccheri nella credenza. Prendili pure.»

«Grazie… sai, comunque tornare in Inghilterra è stato illuminante a livello alimentare. Ti ho raccontato della mia cuoca, Irene? Una mattina, una delle prime mattine che ero lì, mi ha preparato un piatto tedesco, non ricordo il nome…»

Mikaela addentò un biscotto e lo lasciò parlare delle più strane colazioni della sua permanenza inglese, almeno finché non superò le pagine dedicate alla campagna elettorale locale. Il biscotto scese allo stomaco con una lentezza disarmante.

«Ferid.»

«E ti assicuro che non gli avrei dato un penny» continuò lui, sordo al suo debole rantolo. «Marmellata di mirtilli dentro un panino alla carne, voglio dire, ti viene da pensare che solo un cavernicolo potrebbe mai–»

«Ferid, smettila di chiacchierare a vanvera.»

«No, ti giuro che– Mika, che c’è?» domandò allarmato quando lo guardò in faccia. «Che cos’è successo?»

Mika ripiegò il giornale e indicò l’articoletto incolonnato a destra. Avendo abbandonato gli occhiali sul divano Ferid tastò il taschino invano e si avvicinò per leggere, ma quasi subito rialzò lo sguardo, trattenendo il fiato.

«Credi che…?»

«Credo che ora possiamo parlare con Crowley.»

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Capitolo 4
*** Punto di rottura ***


 

Crowley sedeva in silenzio alla sua scrivania riordinata, con le dita intrecciate a coprirgli metà del viso e gli occhi blu fissi sul giornale aperto. Era preoccupato, ma non necessariamente per la notizia del ragazzo affogato che gli stavano sottoponendo quanto per l’intricato soppalco che ci stavano costruendo sopra.

«Quindi?»

Alzò gli occhi con un lampo di collera e causò un tremito sincronizzato nella coppia.

«Mi state prendendo in giro, voi due?»

«Oh, sì, niente mi diverte più dei bambini morti, Crowley. Lo sai bene, no?»

«Tu… fai silenzio» gli intimò prima di rivolgere la sua attenzione a Mika. «Tralasciando lui, ma tu, Mikaela?»

«Io sono d’accordo con Ferid. Penso che ci sia da approfondire.»

«No, sai che cosa penso io? Penso che so il motivo per cui lui è venuto da te a metterti in testa queste teorie balorde, ma non so come sia riuscito a dartele a bere. Sono molto deluso, Mika.»

Se Mikaela fu smosso dalle sue parole o dal suo tono non ne diede alcun segno esteriore e anzi, si fece più agguerrito di prima.

«Quindi due membri della stessa comune religiosa muoiono annegati, a pochi chilometri dal loro monastero, trovando chissà dove alcol e droghe per strafarsi e sarebbe una coincidenza, una statistica?»

«Infatti, è una statistica comune che tossici che ci ricadono muoiano a causa di quello che assumono.»

Quando quei due erano entrati nel suo ufficio con quell’aria grave non si era aspettato nulla di più grave di una denuncia di furto – aveva istintivamente ipotizzato che qualcuno potesse aver rapinato o scippato la Viscontessa – e li aveva ascoltati con perplessità crescente. L’ultima cosa che si aspettava era di dover smontare un palco di accuse contorte e paranoiche.

«Ho lavorato nella narcotici quando avevo la tua età, Mika. So bene come funzionano queste situazioni… quando si è disintossicati e si torna ad assumere si tende a usare lo stesso dosaggio a cui si era arrivati prima della terapia, ed è troppa…»

«Parliamo allora del fatto che il ragazzo aveva diciannove anni, passati tra chiese e scuole corali, senza mai un rimprovero o una nota di demerito? Non era neanche schedato, nessun ricovero sospetto in ospedale, niente! O parliamo del fatto che Lanius non ha neanche una multa per guida in stato di ebbrezza, nessuna denuncia per disturbo della quiete pubblica, rissa, o qualsiasi altra cosa che possa far pensare che bevesse?»

Fu la goccia che fece traboccare il vaso. Crowley lo zittì sbattendo la mano sulla scrivania una sola volta e Ferid ebbe un lieve sobbalzo.

«Hai controllato il database della polizia per un’indagine personale non autorizzata da nessuno. Hai idea di quanto sia grave per un agente di pattuglia fare una cosa del genere?»

«Mi hai dato tu le credenziali!»

«Per fare il tuo lavoro, o piuttosto il mio, non certo per fare i tuoi comodi su qualsiasi persona infastidisca il tuo umore la mattina presto!» replicò spazientito, prima di guardare Ferid. «E tu. Non credere che non ne abbia anche per te.»

Ferid fece un passo indietro quando Crowley si alzò dalla scrivania per avvicinarsi, ma poi strinse i pugni lungo i fianchi e lo fissò negli occhi con uno sguardo che avrebbe definito di sfida.

«Mi meraviglio che proprio tu ti sia approfittato di quello che sai di Mikaela per tirarlo dalla tua parte.»

«Mikaela è un uomo adulto e decide da sé da che parte stare» replicò Ferid quasi senza inflessione. «Ha letto, ha visto e ha elaborato un’ipotesi usando il suo cervello… cosa che tu ti rifiuti di fare, direi.»

Quella frase urtò i nervi di Crowley come il battacchio su una campana e dovette chiudere gli occhi un momento per non agire in modo avventato. Pur con i guai che avevano con il procuratore che li pressava e la carenza di organico non era in vena di assecondarli, neanche per liberarsene in fretta. Era necessaria una presa di posizione che facesse capire a Ferid che non faceva parte della polizia e che non poteva dispiegarla a suo uso e consumo.

«Tu, fuori» intimò a Mikaela con un gesto del braccio.

«Crowley!»

«Ho detto fuori, agente Shindo. Ora, prima che prenda dei provvedimenti che potresti rimpiangere.»

Mikaela restò al suo posto per qualche attimo, poi sputò fuori un’imprecazione e uscì dall’ufficio sbattendo la porta così forte che la veneziana crollò a terra. Crowley non gli badò e afferrò Ferid per il braccio, trascinandolo con ben poca delicatezza alla scrivania e di fatto spingendolo sulla sedia. Lui non fece un solo suono per protestare: si raddrizzò contro lo schienale, accavallò le gambe e si sistemò la coda dietro le spalle.

«Pare che per te il poliziotto cattivo non sia soltanto un gioco da fare in camera da letto.»

Crowley ignorò la bassa provocazione.

«Che cosa stai cercando di fare, Ferid?»

«Portare alla tua attenzione un fatto grave che la polizia americana sta ignorando.»

«Che in un anno un paio di persone intossicate dalle droghe affoghino secondo te è un fatto grave?»

«Non lo sono? Sono importanti solo le vite dei buoni borghesi, della gente che conta? I peccatori e i miserabili non valgono?»

«Prima che tu mi tiri fuori una parabola sui farisei sappi che se vuoi che abbiano la mia compassione ce l’hanno già. Che altro vuoi da me, posso saperlo? Che cosa vuoi realmente da me.»

Crowley si costrinse a fatica a sedersi. Contava che dividere la squadra gli desse il vantaggio di discutere da solo con quella che reputava la metà più ragionevole dell’esercito nemico.

«Perché di certo non ti puoi aspettare che io riapra un caso o che indaghi su una morte recente che non sono nella mia giurisdizione, e non per una questione di isolati quanto di confini statali.»

«No, so che non puoi. Per questo vorrei che chiamassi l’FBI, o il tuo contatto più vicino a loro, e passassi la palla a qualcuno che ne ha il potere.»

Crowley lo guardò come se gli avesse chiesto di espiantarsi un rene con un tagliacarte.

«Prego?»

«De Stasio aveva dei contatti nelle agenzie a tre lettere, no? Chiama lui, se non conosci nessun altro.»

«Agen… Ferid, sentimi bene» gli fece in un disperato tentativo di non arrabbiarsi. «Se vuoi comandare la polizia, la Guardia Nazionale, la Marina, le agenzie a tre lettere come le chiami tu o smuovere i procuratori ti consiglio di diventare prima Ministro della Difesa o qualcosa di molto simile. Forse non lo hai saputo dai recessi della libreria in cui ti eri nascosto, ma le colonie sono indipendenti e ora non prendiamo più ordini da re Giorgio e i suoi lord.»

«La tua ironia è veramente molto caustica, Crowley. Non ti sapevo capace di essere uno stronzo.»

«Per favore, Ferid» sospirò lui supplichevole. «Mi vuoi dire che cosa c’è veramente sotto? Che cosa stai cercando di fare raccontando a Mikaela storie dell’orrore? Un culto cristiano che uccide le persone… non hai davvero idea di come questo riporti a galla i Figli della Virtù e la storia della sua famiglia?»

«Naturalmente lo so. Ma Mikaela è anche il maggior esperto che io conosca sulle dinamiche dei culti… si documenta continuamente e i suoi studi di psicologia sono molto proficui. Di lui mi fido come persona. Che altro argomento ti serve per giustificare la mia decisione?» replicò Ferid, con la compostezza di una sfinge. «È anche tuo amico e pensavo che tu lo stimassi quanto lo stimo io, ma pare che mi sbagliassi su questo. Lo tratti come fosse un bambino, ma non lo è. Forse con quel suo passato non lo è mai stato davvero.»

Crowley restò in silenzio per un momento denso di tensione. Combatté intensamente per decidere se parlare o no, e scelse di farlo.

«Chiariamo bene questo punto. Conosco quei due ragazzi da quando appena sedicenni misero piede nell’appartamento accanto al mio. Mikaela è sempre stato in apparenza quello più forte e maturo, ma non è davvero così… è sempre stato fragile e lo è ancora. Senza Yuu non sarebbe arrivato a quello che è adesso. Era troppo chiuso e arrabbiato per concludere qualcosa di buono nella sua vita.»

«Non posso credere che tu veda davvero questo quando guardi Mikaela.»

Crowley fu non poco sorpreso che Ferid non condividesse neanche in piccola parte la sua visione.

«E tu che cosa vedi quando guardi Mikaela?»

«Non conosco il ragazzino che era prima, ma ho visto qualcosa quando lo incontrai il primo giorno lì a casa, e lo vedo ancora così: un giovane uomo forte abbastanza da salvare un centinaio di nullità come me e come te.»

Quell’uscita spiazzò Crowley completamente, tanto che non riuscì a dire niente e a fare altro che fissarlo sbalordito. Ferid si alzò e prese il quotidiano ripiegandolo con cura.

«Mi perdoni se le ho fatto sprecare tempo, tenente Eusford… ma può recuperare. Si ritenga pure libero per pranzo.»

«C-co… non dovevamo andare da–»

«Temo che dovrò usare quel tempo per trovare qualcuno che mi stia ad ascoltare… e lo troverò, dovessi arrivare fino alla Compagnia delle Indie Orientali.»

Ferid scomparve fuori dall’ufficio, lasciando Crowley a combattere con un misto di emozioni. Si sentiva già in colpa per come gli aveva risposto, confuso per quello che aveva detto di Mikaela e arrabbiato per tutta quell’assurda storia. Imprecò sottovoce e si passò le mani sul viso.

Che cosa si aspettano da me? Che tiri giù pezzi più grossi di me per… un ragazzo affogato e un tossico morto l’anno scorso? Anche se volessi, con quale autorità? Non sono generale dei Navy Seals, o……

Crowley sollevò lentamente la testa, posando uno sguardo distratto sulla veneziana rovinata sul pavimento.

«I Navy Seals…»

Spostò gli occhi blu sulla foto di famiglia fatta a Eanverness per il Ringraziamento. In un angolo, a lato di nonno Gideon e del piccolo Cole in piedi sulla sedia, Connor sorrideva. Guardò poi fuori, verso Ferid che si era trattenuto accanto alla scrivania di Harry Gillespie.

No, non può c’entrare lui… o forse…

Il suo settimo senso pizzicava.

 

*
 

Ferid sedette sul muretto all’ombra rinfrescante degli alberi e si asciugò il volto sudato con una tovaglietta profumata di ammorbidente. Il cortile in terreno e ghiaia sul retro era immerso nella luce aranciata del sole calante, c’era poco vento e poco traffico su Ashland Street. Tutto aveva un senso di immobilità che lo faceva sentire estraniato; la mano che teneva la bottiglia del tè non sembrava nemmeno attaccata al suo corpo.

Forse… dopotutto, non ho imparato a gestire la solitudine. Mi sembra così strano passare tanto tempo zitto e solo.

Non era più abituato come prima a trovarsi solo, dopo aver vissuto con Crowley accanto ai ragazzi e aver passato oltre un anno alla tenuta Cosworth circondato di servitù, gruppi di terapia e associazioni filantropiche.

Il suo amato appartamento era affollato di soli fantasmi, come Claude e i suoi gatti, e non era riuscito a sfuggire a se stesso dentro una casa vuota: aveva dovuto fare i conti con quel senso di colpa che provava quando si rendeva conto di essere ancora geloso di Krul, e forse lo era ora più di quanto lo fosse stato mai.

Il suo amico che aveva un rapporto difficile con una compagna irritabile si era sposato con la sua Krul, la strega, la piccola despota, e sembravano felici anche con le loro differenze. Yuu e Mikaela proseguivano a lunghi passi nelle loro carriere, sempre insieme, e anche Crowley – con l’aggiunta di tutte quelle trasformazioni personali che tanto urtavano Ismael – procedeva rapido nel suo lavoro. Anche se era stato soddisfatto dei suoi cambiamenti e della vita che faceva in Inghilterra, aveva covato il sogno di trovare in America qualcosa che mancava, uno spazietto nella vita dei suoi cari, lasciato lì per lui. E non c’era.

Si rendeva conto di essere capriccioso, di reagire in modo esagerato a piccole delusioni che non aveva preventivato, ma il pensiero di avere riavuto Crowley non bastava a mitigare la sensazione di essere superfluo per tutti gli altri. Soprattutto in quel giorno, in cui il pensiero di Crowley era amaro.

Come può pensare che sia il tipo che sfrutterebbe Mika così e dire anche di amarmi?

Incapace di trovare una risposta, Ferid brontolò sonoramente, afferrò una pinza a pappagallo dalla cassetta e si rituffò nella messa a punto della vecchia auto con il cofano aperto: almeno concentrarsi su un lavoro manuale gli impediva quel rimestare costante e inconcludente di pensieri.

Passò un minuto o forse un’ora, ma era completamente immerso nello smontaggio alla ricerca del guasto quando fu riportato alla realtà da voci familiari nel cortile anteriore. Una era la voce roca e alterata di Cyrus, e per causare quello stridio da aquila l’altro doveva essere un irlandese.

«Alla larga dalla proprietà del signor Trobiano!»

«Ti ha mai detto che non è più il signor Trobiano?»

«Sono armato e non ho paura di un irlandese!»

«Andiamo, Cyrus… a me non dispiacciono i revival nostalgici, ma questa storia sta diventando ridicola…»

«Fa’ silenzio, irlandese! L’ultima volta che ti ho lasciato entrare qui il signor Trobiano per poco ci lasciava le penne!»

«Sì, ma mica sono stato io» replicò piccata la voce di Crowley. «Per tua informazione l’ambulanza l’ho chiamata io, e tu hai anche cercato di accopparmi. Stavolta sappi che stai puntando il fucile contro un tenente di polizia.»

«Che è in una proprietà privata! O hai un motivo, signor tenente?»

Ferid sospirò esasperato. In una serata di malumore, caldo e pensieri martellanti l’ultima cosa che voleva fare era discutere con quei due, ma ignorarli avrebbe anche potuto significare sentire uno sparo.

«Cyrus, che cosa fai ancora qui?» gli fece Ferid, alzando la voce per farsi sentire di fronte. «Dovresti avere già chiuso!»

«Desolato, signor Trobiano» rispose lui nel solito tono servile. «Ma me ne stavo andando quando ho visto questo irlandese di nuovo sulla sua proprietà…»

Decise di ignorare il fatto che Cyrus avrebbe dovuto chiudere il negozio già da parecchio.

«È tutto okay, Cyrus… fallo passare.»

Appoggiò i pezzi e il cacciavite lungo per pulirsi le mani prima di afferrare la bottiglia e Cyrus apparve, con il solito vecchio fucile da caccia sotto il braccio.

«Signor Trobiano, vuole che resti finché non se ne va?» gli soffiò in tono cospiratorio.

«No, Cyrus, vai a casa da tua moglie, una volta ogni tanto. Almeno te lo ricordi che faccia ha?»

«Purtroppo sì, signor Trobiano.»

«Dovresti apprezzare di più quello che hai. Potrebbe mancarti quando non sarà più ad aspettarti a casa con le sue sfuriate e una zuppa insipida per te.»

Per tutta risposta Cyrus grugnì, in disaccordo ma troppo servile per controbattere.

«Vai a casa e dille che sto ancora cercando di capire cos’ha la sua macchina… domani dovrei riuscire a sistemarla se non servono dei pezzi di ricambio.»

«È gentilissimo da parte sua» fece l’uomo, con un sospetto rumore di naso. «Lei che si abbassa a riparare la macchina di mia moglie…»

«Non mi abbasso da nessuna parte, Cyrus. Diciamo che ricambio tutti i riguardi che hai avuto per me in questi anni.»

Gli bastò guardarlo in volto per vedere la sua commozione senza voce. Ferid sorrise e gli diede un colpetto sul gomito.

«Su, vai via, adesso. Lasciami una bottiglia di tè fuori dalla porta per dopo.»

Cyrus annuì, incapace di proferire parola, e con un goffo inchino si ritirò. Voltando di proposito le spalle a Crowley, Ferid bevve dalla bottiglia e scandagliò i pezzi smontati alla luce del riflettore della ferramenta.

«Avevo dimenticato che sei un meccanico, oltre che visconte.»

«Sì, sembra che il mio titolo tenda a oscurare tutto il resto.»

Posò la bottiglia in bilico sul fanale e si mise a controllare i collegamenti elettrici. Quando non gli fu più possibile ignorare Crowley piegato sul ginocchio accanto a lui con inesistenti interventi col cacciavite si decise ad abbandonare il motore e a guardare lui e il mazzo di fiori che portava. Vedere i tulipani multicolore non gli diede alcuna sensazione, né positiva né negativa, e non si sforzò di pendere per l’una o l’altra.

«Quelli?»

«Sono per te.»

«Per quale occasione, se ce n’è una?»

«Ho pensato che ti sarebbero piaciuti… in casa tua ho sempre visto i tulipani nei vasi» osservò lui, con un sorriso che andava indebolendosi davanti alla freddezza di Ferid. «Eri un uomo romantico… non lo sei più?»

«Servono a lenire il tuo senso di colpa o pensi che bastino a sistemare tutto?» domandò lui, scostandosi di un passo per pulirsi le mani con lo strofinaccio meno macchiato. «Se non ti amassi questa storia l’avrei chiusa stamattina, dopo quella risposta da bastardo. Non permetto a nessun uomo di trattarmi così, non più.»

Il sorriso non c’era più mentre Crowley si rimetteva in piedi.

«Sono in imbarazzo per come ti ho risposto stamattina… me ne vergogno, sono sincero.»

Senza replicare Ferid prese i fiori e li portò al naso, anche se quella particolare varietà di tulipano aveva un odore molto erboso. Vedendo che continuava a tacere senza guardarlo e senza una reazione incoraggiante davanti a quell’omaggio, Crowley si fece un po’ più avanti, allungando la mano per accarezzarlo sul braccio.

«Sono sotto pressione… non è una scusa, solo… cosa posso fare per farmi perdonare?»

Accennando appena a sollevare gli angoli della bocca Ferid allungò la mano per dargli una singola carezza sulla guancia.

«Ti ho già perdonato… ma dimenticarlo sarà tutta un’altra storia, temo.»

Di certo non era la reazione che Crowley si aspettava o quella in cui sperava, perché anche se non aveva cambiato espressione il suo viso aveva perso colore. Lo vide scuotere appena la testa.

«Non puoi dire sul serio… Ferid… ti prego, lo sai che non lo pensavo davvero!»

«Ah, no? Ne sei sicuro?»

Ferid si avvicinò, si fece così vicino che i loro nasi si sfioravano.

«Io credo che tu dicessi sul serio, Crowley… non ti piace l’uomo che sono diventato, perché non sono più la creaturina fragile che aveva bisogno di un uomo forte che la proteggesse. E tu ami sentirti il difensore dei deboli.»

«Non essere ridicolo» replicò lui, accigliandosi. «Dovevi diventare più forte. Io non desideravo altro, per questo ti ho lasciato andare via anche se era l’ultima cosa che avrei voluto vederti fare! Ti sei dimenticato quel giorno? Io no!»

Dimenticarlo? Avrebbe potuto dimenticare più facilmente il proprio nome che la reazione di rabbia di Crowley, seguita dalle sue lacrime amare. Lo sguardo di Ferid perse di freddezza e Crowley acquistò fermezza.

«Se lo ricordi, non dirmi mai più che non voglio che tu sia forte. Voglio che tu abbia bisogno di me perché mi vuoi, non perché hai paura di vivere se non ci sono io a proteggerti.»

Ferid non allontanò la sua mano quando gli accarezzò il viso e si lasciò baciare sulle labbra.

«Sei la cosa più importante della mia vita… e io voglio invecchiare insieme a te.»

A Crowley sfuggì un accenno di risa che trattenne con uno splendido, gran sorriso.

«Anche nelle colonie orientali dell’Impero Britannico, se desideri così.»

Ferid non rispose neanche a quello, per altre ragioni: si sentiva come se gli fosse esploso un reattore nello stomaco e poi fosse collassato nelle viscere, e purtroppo non era una reazione del tutto invisibile.

«Ferid, sei arrossito…»

«Oh, sciocchezze, tenente.»

«Posso dimostrarlo, Lord Cosworth.»

«Ma smettila, è questo caldo tremendo che fa in queste colonie americane.»

Lo colpì sulla testa con il bouquet di tulipani causando solo un gran scricchiolio della carta che li avvolgeva e un sorriso più largo di Crowley, ma persino quella forte dichiarazione non placò la tempesta nel suo animo: non era più così sicuro di essere capace di gestire le sue relazioni e le sue emozioni, ora che il suo titolo e la sua bella tenuta non sorreggevano la sua autostima.

«Ora torna a casa, Crowley.»

«Non posso restare con te?»

«No… non stasera» replicò con un sorriso stiracchiato. «Mi dispiace, Crowley… ma te l’ho detto. Dimenticarlo non sarà così facile, per quanto romantico balsamo tu possa spalmarci sopra. Ho bisogno di pensare.»

Crowley sospirò silenziosamente. Sorrideva, ma i suoi occhi erano tristi.

«Ti ho ferito, vero, Ferid?»

«Sì. L’hai fatto, mio caro.»

Se si aspettava che Crowley rinnovasse le sue scuse rimase deluso: gli prese la mano baciandola delicatamente sulle nocche e gli strinse piano le dita.

«Buonanotte, Ferid… chiamami quando vuoi sentirmi o vedermi… aspetterò.»

Crowley si allontanò lanciandogli un ultimo sguardo prima di scomparire nel passaggio per tornare al parcheggio frontale. Rimasto di nuovo solo Ferid strinse a sé il mazzo di fiori affondandovi il viso dentro e inalando profondamente l’odore erboso dei tulipani multicolore, poi si appoggiò di peso sul cofano.

Accidenti a te, nonna, ti avevo detto di non dirlo a nessuno e sei andata a dirlo proprio a lui!

La furia verso la nonna durò appena un attimo, e rimase solo una grande confusione. Se Crowley lo amava esattamente come prima, se Mikaela aveva inquadrato la prospettiva giusta, allora era di nuovo lui a svilire se stesso e a reagire con un rimuginio logorante.

Sapeva che tornare a casa – per lui, New Oakheart era ancora casa sua – avrebbe potuto scatenare una tempesta difficile da controllare, ma in fondo era lì, con quelle persone, che lui voleva davvero stare.

Mentre proseguiva l’intervento sull’auto della signora Brown ripercorse mentalmente tutto quello che ricordava dalle sedute di terapia, fece appello a tutte le strategie che aveva imparato, fino a che il suo unico pensiero diventò scovare un vaso grande abbastanza per quella marea di tulipani.

 

*

 

Quando Yuu entrò nel soggiorno si accigliò come un falco. Sperava di scoprire che Mikaela si era solo addormentato sul divano, invece l’aveva colonizzato come una specie aliena infestante: era circondato dai suoi libri sui culti, aveva computer da un lato e il tablet dall’altro – entrambi più stanchi di lui e collegati a svariati fili e caricatori – e prendeva appunti frenetici su un blocco note. Sul tavolo la sua cena era ancora intatta e la bottiglia sigillata.

«Mika.»

Come aveva fatto le due volte precedenti lui fece finta di non sentire, contando che lo lasciasse in pace. Non voleva distrazioni mentre raccoglieva materiale utile: prima avesse ordinato i punti focali prima Crowley avrebbe capito che qualcosa non quadrava.

«Mika, adesso basta, sei lì da ore!»

«Che ore sono?» domandò lui senza staccare gli occhi dal capitolo diciotto di La visione cristiana fondamentalista d’America.

«È quasi mezzanotte, sei stato sveglio tutta la notte anche ieri!»

«Se è mezzanotte che cosa fai ancora in piedi? Vai a dormire.»

«Tu devi andare a dormire, ti sei guardato in faccia oggi? Sei brutto!»

Mika non replicò immergendosi ancora più concentrato nelle pagine. Ma Yuu aveva esaurito la pazienza e gli strappò il libro di mano, anche se così facendo a Mika rimase tra le dita metà della pagina. Guardò Yuu con un misto di incredulità e ferocia.

«Che diavolo fai, idiota?! Hai rovinato il libro!»

«Per quel che me ne frega lo brucerei, ma bruciare i libri è da nazisti» sentenziò Yuu, e buttò il libro alle sue spalle, sul tavolo. «Non fare lo stupido, Mika! Guarda che Crowley non lo pensa veramente!»

Mika si inacidì all’istante al ricordo della conversazione tra il suo tenente e Ferid, che aveva origliato dalla presa d’aria che dava sul corridoio dei bagni.

«L’ho sentito dalla sua voce, quindi lo pensa eccome.»

«Gli sarà uscito per far cambiare idea a Ferid, nessuno con un cervello potrebbe mai credere davvero che tu sei fragile!»

«Ad ogni modo, questo non ha niente a che vedere con lui. È il mio lavoro… questo è ciò per cui sono nato, si potrebbe dire! Nessuno meglio di me può risolvere questo caso!»

«Ma se non è neanche un caso!»

Mika tacque, indispettito, e prese uno degli altri libri ammonticchiati intorno a lui.

«Vai a dormire, Yuu. Ho da fare.»

Non si illudeva che mollasse tanto facilmente, e infatti lui si inginocchiò davanti al divano per cercare i suoi occhi anche dietro i suoi tomi.

«Mika… questo tuo comportamento è ossessivo. Non è sano, okay? Non hai nemmeno mangiato, non hai bevuto un goccio d’acqua e non dormi da un giorno! Ti vuoi ammalare di nuovo?»

Era infastidito e montava rapidamente verso la collera. Voleva finire la sua analisi il prima possibile, voleva concludere la sua indagine personale. Non si capacitava di come Yuu potesse non capire che quel caso lo chiamava, facendo leva su radici antiche, e che desiderava dimostrare qualcosa. A se stesso, prima che a Crowley.

«Perché non vieni a dormire e continui domani? Per favore.»

Mika chiuse il libro con un tonfo, ma non era affatto incline a obbedire.

«Se invece di un culto cristiano scoprissi due bambini scomparsi e una comunità che potrebbe essere coinvolta… se vendessero i bambini, tu riusciresti a fare finta di niente? A mangiare, bere, dormire e fare sesso come niente fosse?»

Yuu non ebbe neanche una minima esitazione nello sguardo.

«Sì, se tu mi chiedessi di farlo. E pensa, non ti ho neanche chiesto di non indagare… voglio solo che non lo fai tutto in una volta. La prendi una pausa, per me?»

Neanche il peggior risvolto del malumore di Mikaela riuscì a trovare qualcosa da rispondere e si limitò a brontolare piano, come un tuono in lontananza. Quando Yuu gli mise in mano la bottiglia si accorse di avere sete, così l’aprì per bere.

«Non ti fissare su quello che dice Crowley… è in quella fase della vita, sai» fece Yuu, passandogli le dita sulla mano libera. «Nuovo lavoro e nuove responsabilità, e sta in quell’età in cui quelli come lui iniziano a sentire quell’istinto di papà. Siccome non ha figli fa la chioccia con noi, ci vedrà sempre come fossimo un po’ bambini. È una cosa da vecchi, la capirai quando ci arriverai anche tu.»

Mika non riuscì a restare indifferente e Yuu si accorse di averlo divertito. Di solito le loro discussioni finivano quando entrambi arrivavano a ridere.

«Quanti anni pensi di avere, tu?»

«Non abbastanza per aver voglia di fare il papà… ma se tu la pensi diversamente sono aperto al dialogo. Vuoi un altro pappagallino o ti senti pronto per il passo successivo?»

«Sono a posto, grazie, tu come bambino mi basti.»

«Io pensavo di più a un gatto, o un cane» puntualizzò Yuu, ridacchiando. «Ma anche tu mi basti, ragnetto!»

Questa volta a Mika venne spontanea una risata che fu davvero liberatoria e strinse Yuu in un abbraccio che venne immediatamente ricambiato.

«Non mi chiamavi così da anni…»

«Erano anni che non facevi il ragnetto.»

Restarono così stretti per un paio di minuti, in silenzio. Mika lo sciolse solo per il peso che metteva sulla ginocchia del suo compagno.

«Sai, è un peccato che tu non sia davvero un ragno.»

«Che?»

«Avresti altri sei occhi bellissimi!»

«Ah, credevo per le mani in più. In effetti potrei sfogliare, scrivere e digitare insieme…»

«Oh, beh, sarebbe un bonus utile senza dubbio… a me di certo servirebbero quando il capitano mi fa fare le copie dei rapporti per l’archivio…»

Gli occhi verdi di Yuu si abbassarono sulle gambe di Mika, che erano nude dato che – finché era certo di non ricevere visite improvvise del vicino – in casa metteva sempre le sue magliette lunghe e nient’altro.

«Ma ora che ci penso… i ragni hanno otto zampe, ma sono braccia o gambe?»

Mika aveva già capito dove stava cercando di arrivare. Nonostante la stanchezza gli andava di assecondarlo.

«Sono zampe… quindi non sono né braccia né gambe, no?»

«Certo che sarebbe strano avere sei gambe… anche se…»

La sua mano prese ad accarezzare lentamente la coscia di Mika fino al ginocchio e ritorno.

«Gambe come le tue varrebbe la pena di averne in più.»

Mika sollevò quella sinistra, sollevando il mento di Yuu con il ginocchio.

«Stai straparlando… andiamo a letto, Yuu-chan.»

«A dormire o…?»

Mikaela tese un sorrisetto.

«Le tue teorie sull’anatomia dei ragni sono interessanti… meritano un serio approfondimento.»

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Capitolo 5
*** Fino alle luci blu ***


 

 

Lunedì mattina, con una calma che non si poteva mai permettere, Crowley sorseggiava un tè verde in un nuovo locale dalla cui vetrina riusciva a vedere il portone della centrale di polizia. Non credeva di riuscire a ignorare il senso di colpa di restare fermo – lui, tenente della squadra omicidi – e godersi una tazza di tè, il passeggio delle persone e il chiacchiericcio senza sentirsi costretto ad ascoltare e osservare. Si scoprì a suo agio in mezzo alla gente restando però da solo.

Momenti come questo mi ricordano il West Virginia… quando ero da solo nel bosco, o nei campi, con il rumore del vento e il verso degli animali, con il tempo scandito dalle stagioni e dal sole e non da un orologio al polso…

Ricordò all’improvviso che presto sarebbe arrivato il compleanno di Desirée; la sua unica nipote femmina avrebbe compiuto tre anni. Prese l’agendina dalla tasca e si scrisse di chiamare Charity quella sera, di dare il preavviso per assentarsi qualche giorno per andare dai suoi famigliari e di cercarle un regalo appropriato.

La prima idea che gli balenò in mente fu di chiedere a Ferid di aiutarlo a scegliere il regalo e di accompagnarlo, per presentarlo finalmente agli O’Brian, ma poi lanciò un’occhiata incupita al cellulare silenzioso. Non aveva sue notizie dalla sua improvvisata di sabato sera e temeva che quella sua lunga riflessione sarebbe diventata un silenzio definitivo.

«Che aria cupa, Crowley.»

Crowley alzò lo sguardo e sorrise. Non immaginava di poter provare tanto calore e tanto sollievo nel rivedere la figura di Dante De Stasio, quel giorno con una tenuta estiva che faceva risaltare la sua abbronzatura naturale, che a sua volta aveva reso i suoi occhi verdi anche più brillanti.

«Va già molto meglio… com’è stata la tua vacanza in Messico?»

«Spericolata, complicata e calda» rispose lui, e sedette dopo aver stretto la mano del suo ex allievo con una certa confidenza. «Ma si è conclusa con i migliori risultati che potevamo sperare.»

«E una tintarella molto sexy.»

De Stasio accennò una risata divertita e sollevò la mano per attirare l’attenzione della cameriera e chiedere un “cappuccino con doppio espresso”, come sua abitudine. Posò gli occhi sulla tazza di tè verde del tenente, incuriosito.

«Vedo che non sei tornato alle vecchie abitudini.»

«Uh? Ah, no… ogni tanto prendo ancora il caffè o la parmigiana da tua cugina, però.»

«Bene, una parmigiana fatta a dovere ti rimette al mondo lo spirito.»

Crowley scoprì che non era così difficile continuare a sorridere nonostante l’incertezza attuale con Ferid continuasse a ricoprire tutto come una macchia di petrolio sulla superficie del mare.

«Mi è mancato sentirti straparlare del tuo cibo italiano… in realtà mi sei mancato sempre, De Stasio. Mi ero così abituato a te che quando sono tornato non sono riuscito a capacitarmi che tu non ci fossi più.»

L’espressione dell’italiano divenne leggermente sorpresa.

«Ma sapevi che non ci sarei stato più.»

«Sì, ma… prima Ferid se n’è andato, sono stato in West Virginia con Connor, e quando sono tornato al lavoro mi sembrava tutto così… credo di essere stato un po’ depresso in quel periodo. Non è stato facile riprendermi» confessò Crowley, girando piano la tazza sul piattino. «Se non ci fosse stato Connor insieme a me per qualche mese non so come sarebbe andata… almeno lui mi costringeva a uscire e fare qualcosa.»

«Aspetta, aspetta» fece De Stasio, scuotendo la testa confuso. «Che cosa? In che senso, Ferid se n’è andato? Quando?»

Crowley sospirò e prese a raccontare nei dettagli l’accaduto da quando lui e De Stasio si erano salutati. Riportò alla lettera la loro ultima discussione, la sua partenza per l’Inghilterra, ma anche il suo ritorno e il nuovo motivo di conflitto tra di loro. Dato che De Stasio era al corrente delle ascendenze nobiliari di Ferid il riassunto fu più corto, ma richiese un secondo cappuccino e una nuova tazza di tè nel mentre.

Ragguagliato sul silenzio di Ferid delle ultime quarantotto ore circa, De Stasio rimase di espressione molto seria.

«Mi hai chiamato per questo, stamattina?»

«Beh… non proprio… è che… mi chiedevo se io e Ferid potremmo approfittare della tua Osservazione Fredda su questo caso… se tu potessi dirmi se vedi qualcosa che non ho visto, o far capire a Ferid che la sua idea è inconsistente. Lui si fida di te, e anch’io… forse un tuo parere potrebbe aiutarci a trovare una soluzione pratica per questo e…»

E salvare il nostro rapporto prima che coli a picco per un ragazzino morto che non abbiamo mai conosciuto.

Ci mancò poco che lo dicesse ad alta voce, ma era più trasparente di quanto credesse.

«Non crederai che abbiate litigato per via di questo presunto caso, vero?» domandò il suo mentore con un tono sardonico. «Perché se lo pensi davvero sei diventato un vero idiota, Crowley.»

«Scusa?»

«Ferid è un uomo troppo intelligente per offendersi per una ragione simile, specie se le prove oggettive sono labili come sostieni tu. È molto più probabile che sia stato il tuo modo di fare, una tua risposta, un tuo tono o qualcosa di sottinteso a indispettirlo… oppure, si aspettava che almeno raccogliessi con gentilezza il suo punto di vista.»

La coscienza di Crowley si dibatté nel senso di colpa ricordando le sue risposte al cianuro.

«Quando abbiamo un rapporto di confidenza con qualcuno dobbiamo essere cauti, Crowley. Siamo poliziotti, questo significa che chi ci conosce personalmente cercherà noi quando avrà a che fare con qualcosa più grande di lui… quando avrà paura, o quando non saprà cosa fare.»

Abituato a essere circondato da poliziotti – suoi colleghi o di suo padre – Crowley aveva perso di vista questo banale fatto.

«Ferid è venuto da te convinto di trovare un porto sicuro per le sue insicurezze, in questo caso, per le sue teorie poco concrete su un crimine che gli avrà ricordato lo sgradevole caso del Vampiro. Tu come hai reagito davvero alle sue confidenze?»

De Stasio aveva sempre la risposta, anche se non era tra quelle che Crowley aveva considerato: non aveva visto Ferid per quello che davvero era – un civile, una sua conoscenza intima in preda a un dubbio che lo stava tormentando e in cerca di aiuto – e aveva finito per trattarlo esattamente come un suo sottoposto dal fare precipitoso, disorganizzato e incurante dell’autorità.

Nel momento del bisogno cerchi l’aiuto della persona di cui ti fidi di più… e io… mi sono davvero comportato in quel modo con lui?

Provò imbarazzo persino per le sue scuse così vaghe e insensate. Non aveva neanche capito come l’aveva fatto soffrire e aveva avuto l’arroganza di chiedere lo stesso il suo perdono. Forse, ipotizzò allora, era questa la ragione della pausa di riflessione di Ferid: serviva al suo uomo per capire con quale arma l’aveva ferito, non a lui per rimarginare.

Un colpetto di tosse di De Stasio lo riscosse.

«Prima che tu decida cosa fare o dire a Ferid, posso dare un’occhiata a quello che avete riguardo queste morti sospette?»

«Sicuro. Ho qui una copia.»

Con sua sorpresa, De Stasio prese l’incartamento e scosse la testa ancora prima di aprirlo.

«Giurisdizione, Crowley. Non mi dovresti dare documenti che escono dal tuo ufficio.»

«Sono usciti dal mio cassetto, ma non sono roba della mia giurisdizione. Gabe ha messo insieme un fascicolo accedendo ai rapporti della polizia del Tennessee.»

De Stasio sollevò le sopracciglia per lo stupore e senza perdere un secondo aprì l’incartamento e iniziò a leggere. La sua velocità nel muovere gli occhi lungo le righe gli ricordò Ferid e gli inflisse un po’ di nostalgia per i loro giovedì sera di lettura.

Qualche minuto dopo la tazza del tè era di nuovo vuota e De Stasio chiuse il dossier, con l’aria molto pensierosa ma senza dare l’impressione di volersi esprimere.

«Allora?» l’incalzò.

«I casi statistici esistono, ma questi due episodi si ricalcano. Stessa comunità, stessa causa della morte, stesso luogo e stesse analisi del sangue delle vittime. Non so come abbiano approfondito i colleghi e come e quanto abbiano cercato, ma due persone che muoiono annegate dopo aver abusato di alcol e droga, che non dovrebbero circolare in un monastero, è senza dubbio curioso.»

«Pensi che ci sia qualcosa sotto?»

De Stasio sfogliò ancora.

«Il Padre interrogato per le due morti è lo stesso… a distanza di un anno non ha risolto il problema di droghe, sembra, se è dentro il monastero che le vittime l’hanno trovata. Non ha un retrogusto di Nome della rosa, secondo te?»

«Quindi l’assassino è un libro?»

«Nel romanzo il libro è il movente e l’arma, non l’assassino, Crowley. No, quello che intendo dire è che se non mi sento di condannare i colleghi per negligenza, io penso che al posto loro avrei approfondito un po’, prima di chiudere il caso… ma non eravamo lì, il giudice forse non ha convalidato una perquisizione all’interno della chiesa. Le organizzazioni religiose godono di un certo status ancora oggi.»

L’italiano riordinò i fogli che sbucavano dalla cartellina.

«Come mai Ferid è così tanto colpito da questo avvenimento? È per il ragazzo?»

«Beh… in realtà non lo so. Non sono riuscito a farmi dire perché gli premesse tanto.»

«Mh… d’accordo, senti» esordì allora De Stasio in tono più pragmatico. «Visto che la questione gira intorno a due casi di abuso di droghe intavolerò l’argomento con un mio amico che lavora nella DEA. Uno discreto e scrupoloso, ci ho lavorato. Se lo incuriosisco di sicuro approfondisce con la polizia locale, se c’è qualcosa di aperto mi dirà che non può parlarne. In ogni caso lo saprò e ti farò uno squillo.»

«Oh… ti ringrazio davvero, De Stasio. Ti devo qualcosa per questo favore.»

«Pensa prima a far pace con il piccolo lord, così magari usciamo tutti a cena. Per il favore mi farò sentire io quando ne avrò uno da chiedere.»

De Stasio lasciò una banconota sul tavolo per pagare il conto e si congedò. Dopotutto l’incontro non lo aiutò a sentirsi meno in torto, ma almeno poteva dire a Ferid che era stato accontentato: qualcuno all’interno della DEA avrebbe avuto un indizio per l’indagine se non ne era già stata avviata una.

Crowley tornò verso la centrale con l’incartamento sotto braccio, notando solo in quel momento quanto fosse voluminoso. Aveva incaricato Gabriel quella mattina presto e fu sorpreso di un risultato così celere e completo, quindi passò davanti alla sua scrivania per dirglielo.

«Grazie, ma ho avuto tempo di lavorarci» si schermì lui. «Venerdì scorso l’agente Shindo mi ha anticipato che mi avresti chiesto un supplemento d’indagine e mi sono portato avanti. La polizia di Nashville comunque non ha fatto storie quando ho riferito che potevamo avere un nesso ai loro casi.»

Crowley non replicò, ma si accigliò in preda a pessimi presagi, nonché a un’irritazione crescente. Mikaela stava diventando così insubordinato da rischiare di compromettere il proprio avanzamento di carriera.

Marciò oltre la sua scrivania vuota e scandagliò corridoi e uffici alla ricerca di una testa bionda; controllò persino nei bagni, ma non lo trovò. Tornò a controllare la lavagna dei turni quando Harry Gillespie lo bloccò chiamandolo a voce alta.

«Che c’è, Harry?»

«Shindo ha in programma un viaggio all’estero, per caso?»

«Un viaggio? Che viaggio?» fece, improvvisamente più attento.

«Beh, ha preso tutte le ferie che aveva accumulato, qualcosa come sei settimane! Deve avere in mente un viaggetto all’estero o qualcosa del genere, no?»

«Che cosa?»

Il sorriso di Harry si smorzò.

«Non lo sapevi…? Pensavo di sì, essendo il tuo vicino di casa…»

«Ha preso tutte le ferie? Quando?»

Davanti al silenzio confuso di Harry Gillespie s’intromise Rebecca Adigun, sedendosi alla sua scrivania con dei fogli alla mano.

«Ieri mattina è venuto in centrale a parlare con il capitano Alford, e quando è uscito ci ha detto che aveva preso le ferie per fare un viaggio e cambiare un po’ aria. A me ha detto proprio così.»

La sensazione che qualcosa non quadrasse aumentava a ogni secondo. Non disse niente ai due detective e li superò, diretto alla saletta della fotocopiatrice dove trovò Yuu preso a copiare i rapporti per l’archivio. Lui lo guardò, stranito dalla sua irruenza.

«Crowley, che succede?»

«Dov’è Mika?»

«Mika? A casa, penso» fece lui, scrollando le spalle. «Ieri sera è stato da Ferid fino a tardi, non l’ho sentito rientrare… ma mi sa che hanno bevuto un po’ troppo. Stamattina Mika aveva l’emicrania e ho detto al capitano che prendeva il permesso… non era mai tornato ubriaco il giorno prima del lavoro, ma è un periodo un po’ così.»

«Mika ha preso tutte le sue ferie residue, non lo sapevi?»

«Mika che? Ma stai scherzando, figurati se sta a casa per un mese, quello lì. Impazzisce.»

La serietà sulla faccia di Crowley o la sua preoccupazione minarono le certezze di Yuu, il cui sorriso sbiadì velocemente.

«Perché mai l’avrebbe fatto?»

«Speravo me lo potessi dire tu» replicò Crowley in tono cauto. «Non è che semplicemente è arrabbiato con me e non vuole vedermi per un po’?»

«Beh… è un po’ arrabbiato, ma non è da lui, non… me l’avrebbe detto se avesse avuto in mente di farlo! Non può credere che non me ne accorga, no?»

«Ha preparato qualcosa? Una valigia, per esempio?»

«Una valigia? Ma che stai dicendo? Vuoi dire che vuole andarsene da qualche parte?» sbottò Yuu, infastidito come se la sola idea fosse un insulto personale. «E dove, scusa? Non conosce nessuno e soprattutto non si fida di nessuno, e di certo non abbiamo soldi per stare un mese in hotel!»

«E per un mese in motel, ce li avete?»

Yuu borbottò qualcosa di cui Crowley capì soltanto “idiozie” e “senza di me”; sbatté le fotocopie sul tavolo e tirò fuori il cellulare con foga. In effetti il tenente convenne che telefonargli fosse la soluzione migliore per sbrogliare quella matassa di malintesi e frasi riportate, ma purtroppo attesero in silenzio finché Yuu non scollò l’orecchio.

«Suona libero, ma non risponde… beh, aveva mal di testa. Probabilmente è solo silenzioso e non lo sente!»

«Qualcosa non va… non va bene, non va per niente bene.»

Prese il suo cellulare e chiamò immediatamente Ferid, che con suo sollievo gli rispose subito. In quel momento si dimenticò persino che loro due erano in quello stallo.

«Ciao, tenente Eusford.»

«Ferid, Mika è con te?»

Ferid tacque qualche attimo, spiazzato dalla strana domanda.

«No, perché dovrebbe?»

«Era con te ieri sera, vero? Ti è sembrato strano? Ti ha detto qualcosa? Per esempio, se era arrabbiato o aveva intenzione di prendere un periodo di ferie?»

«Di che parli? Non era con me ieri» replicò Ferid dandogli un brivido sgradevole. «Ho sistemato la macchina di Nathalie… ieri pomeriggio ero a Red Chapel con la nonna e Meg, siamo rimasti fuori fino a sera. Non ho visto Mika né l’ho sentito.»

«Co… come sarebbe…»

«Ma che succede?»

Crowley abbassò il telefono senza rispondergli, con la sensazione di avere un punteruolo per il ghiaccio piantato nello stomaco. Yuu, di fronte a lui, assunse un pallore che rifletteva perfettamente la sua preoccupazione.

«Yuu, vai immediatamente a casa a vedere se davvero è lì e dorme» gli ordinò con una voce innaturalmente quieta. «Io continuo a chiamare.»

Per un attimo sembrò che Yuu volesse ribattere qualcosa, ma poi ingoiò qualsiasi parola gli fosse venuta in mente e corse fuori dalla stanzetta. Crowley si attaccò al telefono – dopo aver chiuso senza spiegazioni la chiamata a Ferid – per cercare di parlare con Mikaela, ma dopo minuti non aveva ancora ricevuto una risposta.

 

*

 

Quando l’autobus superò il punto del tamponamento che aveva rallentato il traffico Mikaela sospirò di sollievo. Continuò a sbirciare da uno spiraglio della tendina finché i sobborghi vagamente familiari di New Oakheart lasciarono il posto a paesaggi mai visti; scostò la tenda e si mise in bocca una gomma da masticare al caffè ripercorrendo ciò che aveva fatto negli ultimi due giorni. Alla fine si sentì tranquillo, certo di essersi attenuto al piano.

Aveva davanti un viaggio di nove o dieci ore, considerando un paio di tappe intermedie. Con una copia del libro Dio come acqua, pochi abiti, una busta per l’igiene e un portafoglio dentro un frusto zainetto si sentiva nervoso, perché per la prima volta da quando aveva lasciato i Figli della Virtù non aveva un adulto di riferimento o il suo prezioso Yuu vicino: andava dritto contro l’ignoto e ci andava da solo.

Arrivato a Charleston lasciò l’autobus confortevole per uno molto vecchio e scomodo. Quando finalmente questo lo scaricò a Ridgewood – fu l’unico passeggero a scendere a quella fermata – era già sera. L’orologio della piccolissima stazione segnava le sette e un quarto quando lo straniero biondo venne notato da un gruppetto di uomini che si passavano una bottiglia coperta da un sacchetto di carta marrone, ma dopo averlo guardato per qualche secondo persero interesse e iniziarono a chiedersi l’un l’altro chi avesse una sigaretta e chi un accendino.

La cittadina non è grande, ma sembra che non ci sia la proverbiale curiosità di paese. Mi hanno guardato a malapena.

Mikaela lasciò perdere il gruppetto e individuò un pub con le luci accese e un po’ di vita all’interno, quindi sistemò lo zaino sulla schiena e si diresse lì. Dentro c’erano luci aranciate e un odore di fumo di tabacco che lo costrinse a coprirsi il naso.

«Ehi, fiocco di neve!» commentò un tipo alticcio, con una risata acquosa. «Ho vinto ai cavalli, beviti una birra con noi!»

«Guarda che non hai vinto così tanto, Fred» gli fece notare l’oste coi baffi; scosse la testa ma sorrideva. «Ehi, sei mica arrivato con la corriera? Mi sa che non vedo un forestiero da un anno!»

«Io… sì, signore. Sono appena arrivato con l’autobus.»

L’oste sghignazzò, ma non commentò.

«Che ti do, amico?»

«Un… ha un ginger ale?»

«Se non avessi un ginger ale non entrerebbe più nessuna donna di questa città, qui dentro!»

Mika sedette su uno degli sgabelli più lontani dal gruppo di bevitori che festeggiavano la vittoria alle corse. Si premurò di continuare a lanciare occhiate alla porta ogni volta che l’oste gli prestava attenzione e la sua ostinazione fu premiata, perché l’uomo tornò da lui prima che la sua bibita finisse.

«Senti un po’, amico… da dov’è che arrivi?»

«Da Squall’s End… New Oakheart.»

«Hai dei parenti in città? Scommetto che sono i Robbins, ho visto una volta il fratello di Herb ed è biondo come te!»

Mika scosse la testa.

«No… non ho parenti… ora non più. Me li sono lasciati alle spalle.»

«Ma quanti anni hai?»

«Più che abbastanza per andarmene.»

L’oste non sembrava della stessa opinione. Lanciò un’occhiata verso un angolo del locale e Mika seguì quella linea fino a un uomo alto come Crowley e largo il triplo nel girovita, che però era immerso in una rivista di pesca. Bastò notare la camicia con la targhetta per capire che era dell’ufficio dello sceriffo.

«Non te lo dovrei chiedere visto che non hai ordinato alcol, ma non è che hai un documento? Sembri veramente giovane per essere in viaggio da solo…»

Mika sperava di non doverlo usare così presto, ma titubante tirò fuori il portafoglio e da lì una tessera che gli passò. Lo faceva senza intenzioni maligne, ma come poliziotto si vergognò di usare un documento falso.

«Caspita, hai vent’anni. Sembri più giovane… ma che ci fai qui a Ridgewood?» fece, restituendogli la patente. «Qui non è una vita facile per i forestieri. È una piccola cittadina, non c’è molto lavoro e difficilmente si trova un alloggio… specie se vieni da fuori, capisci?»

«Capisco, signore, ma io… sono venuto qui per… per Bluefields.»

L’espressione dell’oste cambiò dopo aver sentito quel nome e la sua improvvisa freddezza risultò molto interessante per Mika. Forse quella comunità non era così pacifica e ben vista come si evinceva dalle poche fonti in internet.

«Sei venuto a unirti ai cristiani dell’acqua?»

«Io… ho pensato che potrebbe essere il posto a cui appartengo… sì.»

«Non sei il primo che passa di qui in cerca della parrocchia di Bluefields… beh, se vuoi arrivarci prima di notte è meglio se ti sbrighi, perché non è in città. Bisogna arrivare all’ufficio postale e prendere la strada che esce verso il bosco, e fare qualche chilometro prima di vedere la comunità. L’hanno creata dentro la tenuta di Bluefields, una vecchia piantagione.»

«Mi può indicare la direzione?»

«Sì: gira l’angolo del bancone e vai con quel vecchio con la barba da Merlino» fece l’oste, prima di emettere un fischio acutissimo. «Huck, dai uno strappo al ragazzo fino al bivio per la chiesa!»

Il vecchio di nome Huck poggiò il boccale vuoto e si alzò con difficoltà dalla sedia, senza dire una parola. Il barista bloccò la mano di Mika mentre raccoglieva dollari accartocciati per pagare il conto.

«Lascia stare quello, è offerto» tagliò corto, a voce bassa. «Huck guida come una vecchia rimbambita, ma conosce il bosco meglio di uno scoiattolo. Quando ti lascerà al bivio devi proseguire verso le luci, sono solo i cristiani dell’acqua a tenere quelle luci blu sul campanile. Saranno un paio di chilometri.»

«La ringrazio moltissimo, signore.»

«Ma quale signore. Io sono Bill» fece lui strizzandogli la mano. «Quanto a te… beh, quando ci rivedremo mi dirai il tuo nome. Quello di adesso non l’avrai più.»

 

*

 

Mikaela ripensò a quelle criptiche parole – che, alle sue orecchie, avevano un che di avvertimento – per tutto il tragitto nel cassone del furgone di Huck. Si congedò da lui al bivio, che non era altro che la biforcazione di due sentieri senza la minima indicazione della direzione, e si mise in marcia per uscire dalla macchia di bosco.

Era fitto e scuro come quello di un racconto del terrore, e per un ragazzo di città era più spaventoso di un’irruzione a seguito di colpi d’arma da fuoco; gli sembrava che il fruscio dei suoi passi risuonasse in modo innaturale là in mezzo. Incalzato dalla paura accelerò il più possibile su quel sentiero sconnesso, diretto verso quelle piccole luci lontane, ma gli ci vollero altri venti minuti per avvicinarsi abbastanza da poter dare un’occhiata alla struttura.

Bluefields era un’ampia area recintata da una cancellata di ferro, con un edificio centrale chiaro alto più piani. Mentre si avvicinava Mika notò che non era l’unico edificio e ne vide uno che aveva tutta l’aria di essere un fienile ristrutturato o qualcosa di simile. C’erano ampi spazi tra un edificio e l’altro e solo quando – finalmente – arrivò a costeggiare il cancello poté scoprire che c’erano sentieri di ghiaia che correvano tra aiuole fiorite e piccoli orticelli divisi per coltura. Poté notare belle piante di pomodori con grappoli rossi aggrappati a sottili canne.

«Fermo lì!»

Mika incespicò bloccandosi di scatto. La voce che gli aveva urlato contro veniva da un uomo con i capelli molto corti, occhi celesti, abiti azzurri e un torace che avrebbe surclassato persino Crowley. Aveva una mole impressionante.

Ma che cosa danno da mangiare ai bambini in West Virginia?

«Chi sei?»

«Io… è la parrocchia di Bluefields, vero?»

Mika si fece avanti. L’uomo al di là del cancello lo fissava ma non gli intimò di allontanarsi o di non avvicinarsi, quindi arrivò fino alle sbarre. A quel punto notò che l’uomo portava una lunga collana con una croce azzurra che scintillò nell’alone della lanterna elettrica.

«Per favore… sono venuto da lontano per unirmi a voi!»

«Per quale motivo?»

«Io… ho sentito di voi… anzi…»

Con agitazione calcolata armeggiò nella borsa ed estrasse il libro.

«Ho letto il libro e qui c’è l’indirizzo di questa chiesa! Per favore, non mi mandate via» insistette Mika, aggrappandosi alle sbarre. «Se torno a casa lui mi ammazza davvero per essere venuto qui!»

Non sapeva se fosse loro politica accogliere tutti i richiedenti o se la sua afflizione avesse smosso la sua pietà, ma l’uomo dalla stazza enorme aprì il cancello per lasciarlo entrare e lo richiuse alle sue spalle.

«Come ti chiami?» gli domandò in tono molto più gentile.

«Mikael… si scrive con la k soltanto…»

«Bene, Mikael… sei il benvenuto a Bluefields. Io sono Ariel. Significa “Leone di Dio”»

Gli strinse la mano senza energia e Mika gliene fu grato, perché era il doppio della sua e si convinse che all’occorrenza avrebbe potuto rompergli il collo con una sola stretta come un cracker.

«Purtroppo senza il consenso dei Padri non posso farti entrare negli alloggi comuni, e si sono già ritirati. Puoi incontrarli domani mattina presto.»

«Io… già domani?»

«Certo, i bisognosi hanno la precedenza sulla routine del monastero.»

Ariel tese il braccio indicandogli la direzione e si avviò con lui lungo la cancellata.

«Potrai dormire negli alloggi per gli esterni, nel frattempo.»

Mika lanciò un’occhiata curiosa alle luci blu sul campanile e all’arco che lasciava intravedere un giardino interno. La struttura ricordava molto un monastero e poco una piantagione.

«Quindi… questo è… un monastero?»

«Esattamente» replicò Ariel, camminando con le manone giunte. «I Padri gestiscono i sacramenti e fanno rispettare le regole. I Fratelli, come me, e le Sorelle hanno preso i voti della Chiesa dell’Acqua hanno i loro ruoli per aiutarli a far funzionare le cose… e ci sono molti novizi. Persone che accettano le regole di studio e lavoro del monastero e si applicano per rispettarle… immagino che sei qui per questo.»

«Io… non so se ne ho le qualità, ma… una mia conoscenza mi ha… consigliato di andare in monastero e cercare di capire se…»

Mika smise di parlare, ma Ariel annuì energico.

«Per cercare la tua strada. Hai avuto un saggio consiglio! Qui c’è molta pace e siamo una comunità piccola e unita. Ti troverai bene.»

Ariel l’accompagnò a una casetta di legno vicina alla recinzione e gli aprì la porta, mostrandogli tre letti pronti, alcune sedie pieghevoli accanto al tavolino che si abbassava dalla parete e una scaffalatura con ceste vuote per gli effetti personali. Mika entrò e vide una tenda in fondo che celava un piccolo bagno.

«Mettiti comodo. Ti porterò qualcosa da mangiare, non sarà nulla di speciale ma ti prego di avere pazienza.»

«No… io… grazie. Non mi aspettavo tanto.»

«L’umile di cuore ottiene onori» citò Ariel sorridendo, e si ritirò.

Mikaela sbirciò dalla finestrella l’imponente figura di Ariel camminare verso l’edificio centrale e quando fu abbastanza lontano studiò l’alloggio. Le finestre si aprivano tutte, la porta aveva un chiavistello all’interno e una rapida ispezione non rivelò nulla che somigliasse a un mezzo per registrare o trasmettere audio o video dall’interno.

Sembra un posto sicuro… non sembra fatto per costringere qualcuno dentro o controllarlo.

Attese quasi venti minuti con il presentimento che stesse per succedere qualcosa di brutto, ma poi Ariel fu di ritorno con un panino di tonno e formaggio morbido e una bottiglia di tè al limone.

«Sorella Miriam è stata così gentile da scendere apposta per prepararti un panino, anche se ha potuto usare solo qualcosa di avanzato dai pasti di oggi… anche il tè è suo, per omaggiarti. Dice che non vede l’ora di conoscerti.»

«Oh… g-grazie… è veramente molto più di quello che merito, per essermi presentato qui a quest’ora senza neanche–»

«Non abbiamo orari di visita per chi è bisognoso, Mikael… è un monastero. Dio non ha certo orari in cui ascoltare o confortare, quindi perché dovremmo averli noi?»

Mika si sforzò di sorridere di rimando e questo bastò. Ariel gli chiese poi con molto tatto se potesse controllare il suo bagaglio per accertarsi che non portasse con sé armi o droghe. Perquisì lo zainetto vuotando le tasche e controllò sommariamente i suoi effetti, e dopo essersi scusato gli augurò di riposare bene e lasciò la casetta.

Il ragazzo si affacciò alla finestrella per guardarlo allontanarsi e staccò un morso del panino, pensando che era andata anche meglio di qualsiasi simulazione avesse fatto nella sua testa. Era dentro Bluefields. Sarebbe bastato raccontare la sua storia preparata attentamente al Padre che sarebbe venuto a parlargli e sarebbe stato parte della comunità. Avrebbe potuto girare tutta l’area, parlare con le persone presenti, vedere tutti i paradossi del culto e finalmente strapparne i veli di sacralità per mostrare a tutti che la Chiesa dell’Acqua non era niente di diverso da una setta.

 

*

 

Crowley era in piedi nella sua cucina, con la stessa tuta, la stessa tazza di tisana tiepida e lo stesso libro delle sue serate rilassanti, ma non con lo stesso stato d’animo. Certo se Yuu avesse smesso di camminare furiosamente intorno al tavolino del soggiorno avrebbe fatto un favore ai suoi nervi.

«Yuu… smettila, per favore. Ho mal di mare.»

«Vuoi che te lo scriva quanto me ne frega del tuo mal di mare?!»

Si arrese subito e sospirò soltanto, chiedendosi ancora una volta come avesse fatto a generare così tanto caos con una risposta storta. Da quando l’aveva conosciuto Yuu non gli era mai stato contro, e ora che non c’era più Mika e Ferid sembrava distante come dall’altro lato dell’oceano si sentiva orrendamente solo, in equilibrio precario sul baratro.

Ah, Dio, quanto vorrei non aver detto una parola… quanto vorrei non essere stato promosso tenente!

Il bussare ripetuto sulla porta strappò Crowley dai suoi rimorsi e Yuu dal suo angosciato peregrinare intorno al tavolino. Si guardarono e capì che Yuu stava sperando che fosse proprio Mika a bussare, magari tirando fuori una storia contorta che spiegasse le sue mezze verità, le chiamate senza risposta e un’assenza lunga un giorno.

«Volete aprirmi o no? Lo so che siete lì dentro, ho sentito le vostre voci!» sbottò Ferid al di là della porta. «Se uno di voi stronzi non mi apre all’istante, giuro che…»

Non seppero mai che cosa avesse in mente di minacciare perché Yuu gli aprì, ma non lo salutò né gli rivolse una parola, come se avesse fatto entrare in casa un cane che grattava sulla porta. Ferid entrò e saettò con gli occhi da uno all’altro, con un cipiglio tale da smontare anche le pallide speranze di Crowley di aver trovato un sollievo.

«Sono stato chiamato stamattina per delle informazioni confuse su Mikaela, mi è stato chiuso il telefono in faccia e nessuno di voi due ha risposto a una singola mia chiamata» sillabò lui con una rabbia mal contenuta.

«Ero troppo impegnato a cercare Mika per rispondere a qualcuno che non l’ha visto!» ribatté velenoso Yuu.

«Magari potevi rispondermi lo stesso, visto che forse so che cosa ha in mente di fare!»

Yuu arrestò di nuovo il suo flusso migratorio e si avventò su Ferid afferrandogli le braccia con foga.

«Che cosa? Cosa vuole fare, Ferid?!»

«Indagare, ovviamente!» ribatté lui, liberandosi dalla presa del ragazzo. «Era sicuro che qualcosa non andasse per via di quel ragazzino affogato, dev’essere partito per andare a indagare di persona! Potrebbe essere in Tennessee, a Nashville, per andare a parlare con quelli della comunità, o con la famiglia del ragazzo, se ha saputo da dove proveniva…»

Ferid aveva con sé una tracolla grande e Crowley scoprì il perché quando ne estrasse una busta di carta marrone gonfia di fogli. La parte superiore era tagliata, come se fosse stata chiusa con l’adesivo e riaperta con il tagliacarte.

«Quando Cyrus mi ha portato la posta, dopo la vostra chiamata, c’era anche questa. Me l’ha lasciata Mika, è la sua scrittura.»

«Cosa dice? Cos’è?»

Yuu gliela strappò di mano e tirò fuori i fogli, mettendosi a spulciarli. Ferid si accigliò appena.

«Un dossier. Sono le informazioni che Mika ha preso sulla Chiesa dell’Acqua di Nashville, sul ragazzo annegato, e quello che trovava utile. Ha evidenziato il nome di uno dei Padri di Saint Barthelemy, e credo che voglia incontrarlo.»

Yuu lanciò un’occhiata a Crowley, che capì immediatamente che lo biasimava per l’accaduto e anche che idea gli era passata per la testa.

«No, Yuu.»

«No un cazzo» ringhiò in risposta.

Marciò verso la porta, ma questa volta fu Ferid a tagliargli la strada.

«Aspetta, Yuu… calmati un momento. Mi ascolti per un attimo?»

«Togliti!»

«Mika sta sicuramente bene, okay? È andato via senza dire niente proprio perché nessuno di noi provasse a fermarlo, e se non risponde è per lo stesso motivo. Magari è impegnato nelle indagini e non vuole ancora parlarne. Appena si sarà calmato ti chiamerà, e poi tornerà a casa.»

«Non se ne andrebbe mai senza dirmi dove!»

Ferid era pericolosamente vicino all’esasperazione.

«E tu l’avresti lasciato andare a indagare su una setta che gli ricorda i Figli della Virtù?»

«Ovvio che no, lui…»

Yuu ammutolì e strinse i pugni tanto forte da sbiancarsi le nocche. Ferid sospirò.

«Appunto… ecco perché non te l’ha detto. Perché non lo ha detto a nessuno. Non voleva essere fermato.»

Crowley abbassò la guardia proprio allora, quando avevano una spiegazione e Yuu sembrava aver perso quella frenesia data dall’incertezza. Fece qualche passo verso di lui.

«Ora dovresti–»

«Tu dovresti stare zitto, Crowley» gli ringhiò contro. «Tutto questo è colpa tua! Non ti fidi di lui e probabilmente nemmeno di me, e non mi interessa, ma lui… Mika ha bisogno della fiducia delle persone a cui tiene! Ha fatto questa idiozia perché tu ti sei rifiutato di ascoltare una parola di quello che aveva da dirti!»

Il resto della frase che voleva dire gli rimase impigliata in gola e deglutì come volesse mandarla fisicamente giù.

«Non volevo questo…»

«Da quando sei diventato tenente sei un uomo diverso, Crowley! Prove e procedure sono le tue sole preoccupazioni! Mettere in ordine le carte è diventato più importante di dare giustizia alle vittime e arrestare colpevoli! Proprio tu, che eri famoso per essere il detective più indisciplinato di tutti! Il migliore di tutti!»

Non doveva andare così indietro nel tempo per trovare le prove indiscutibili di quello che diceva. Gli orari erano stati suggerimenti d’uso per lui, gli interrogatori non li preparava mai in anticipo, e uscire senza avvisare per andare dal coroner, sulla scena del crimine, da un indiziato o un teste in seguito a un’idea improvvisa era una consuetudine. Era l’uomo che aveva risolto il caso Harrison in loco in meno di un’ora, era folle abbastanza da sparare alle ruote di un’auto in fuga e arrampicarsi in cima a una gru per salvare qualcuno…

Mi manca l’uomo che ero allora… lui avrebbe saputo che cosa dire…

Ferid lo guardò e Crowley non riuscì a sostenere due sguardi come quelli.

«Yuu… se solo fosse stato in mio potere, avrei consentito un supplemento d’indagine… ma Mika è comunque un agente di pattuglia, deve ancora fare il corso d’investigazione, e…»

«Non è questo il punto! Che è una scemenza chiederti di investigare su due reati a Nashville lo so anch’io, ma tu lo hai trattato come un idiota! Ti è bastato sentire che pensava che ci fosse un collegamento con quella religione e per te è diventato un povero fesso che si è bevuto le sue balle!»

Yuu indicò Ferid accanto a lui, che restò in silenzio, mortificato quanto il suo uomo.

«A ferire Mika è stato accorgersi che pensi che io sono la sua migliore qualità» proseguì Yuu, con la voce incrinata. «Che… pensi che senza di me lui sarebbe diventato un ragazzo arrabbiato come tutti quelli che troviamo per le strade… fragile… incapace di usare le sue doti… che si sia aggrappato a me, come l’edera, per arrivare dove batte un po’ di sole.»

Il ragazzo emise un sospiro tremante.

«L’ha ferito che tu lo vedessi così. Lo ferisce la tua opinione, più di quanto lo conforti la mia.»

Crowley spostò lo sguardo su Ferid, e quella sua espressione era come sale sulle ferite. Sembrava contrito, ma era come se avesse previsto quell’epilogo, e forse l’aveva fatto già da quando erano nel suo ufficio a discuterne. La vista gli si offuscò appena e batté le palpebre per cercare di snebbiarla, senza successo.

«Yuu… io… vi conosco da quando siete arrivati qui… eravate due ragazzini, e lui… non riesco a dimenticare quanto fosse spaventato dal mondo, terrorizzato di essere avvicinato dagli estranei… ho… ho avuto paura che fissarsi su questa storia l’avrebbe riportato a quei tempi. Nel mio nervosismo ho espresso molto male quello che pensavo e… sono mortificato, Yuu, non so cos’altro dire…»

«Non dire più niente, Crowley. Se non sai cosa stai dicendo tieni chiusa quella boccaccia.»

Dirigendosi alla porta assestò una spallata a Ferid ma non si scusò; uscì dall’appartamento sbattendo la porta e poi entrò nel suo facendo altrettanto. In un silenzio greve Crowley abbandonò la tazza sul tavolo: aveva un tale nodo in gola che dubitava di riuscire a inghiottire qualsiasi genere di cibo; quasi gli sembrava di respirare a fatica.

Ferid si avvicinò a lui a passi lenti e quando gli fu davanti lo guardò fisso, in silenzio. Crowley allungò le mani e sfiorò i suoi avambracci salendo piano ma lui non fece niente per sottrarvisi, quindi un momento dopo lo strinse a sé, forte come fosse l’appiglio nella tempesta. Era così che lo sentiva in quel momento, e un briciolo di sollievo l’ebbe soltanto quando sentì ricambiato il suo abbraccio.

«Ho fatto un disastro…»

«Sì» replicò Ferid vicino al suo orecchio.

«Io non volevo dire quello che ho detto… non è così che credevo di… Ferid, tu sai che non volevo questo…»

Si rendeva conto di non riuscire neanche a spiegarsi, ma era troppo confuso per trovare parole migliori, più ordinate e comprensibili.

«Io lo so… ma loro no, caro. A me basta guardarti per sapere perché dici una parola anziché un’altra… lo so che non lo vedi così debole. Ce l’avevi con me.»

Crowley serrò la sua stretta un po’ di più quando sentì la carezza sulla testa.

«Eri arrabbiato con me… con le mie pretese… e ti sei chiesto se non fossi tornato apposta per usare te e la tua nuova posizione per uno scopo che non capivi. Pensavi che stessi usando te e anche Mika… e ti sei arrabbiato. Hai parlato di Mika in quei termini perché io mi vergognassi di averlo coinvolto.»

Il fatto che Ferid capisse i suoi pensieri meglio di lui stesso lo fece sentire terribilmente inadeguato non solo come comandante di polizia, ma come persona. In quei giorni non si riconosceva più neanche lui, così indeciso, esitante, nervoso, incapace di affidarsi al suo “settimo senso” e insensibile alle persone importanti.

«Mi dispiace, Ferid» mormorò contro la sua spalla. «Meritavi di trovare qualcosa di meglio ad aspettarti qui.»

«A chi non succede di perdersi, di tanto in tanto? Vuol dire che si sta provando ad andare da qualche parte.»

Restarono così stretti in un lungo silenzio, passarono minuti uno dopo l’altro; la lancetta dell’orologio scivolò fino al sei e riprese a salire prima che Crowley allentasse di un poco la sua stretta. Ferid gli accarezzò ancora i capelli, lentamente.

«Mika tornerà presto… Yuu si calmerà… e ricomincerete da capo.»

«E io e te? Noi ricominceremo?»

«Non siamo mai finiti, noi due… ci siamo solo un po’ strappati.»

Con tutti i suoi casini a sopraffarlo, sentire quelle parole era come spalmare un balsamo su una scottatura. Non avrebbe potuto sentirsi meglio di così in quelle circostanze e lasciò andare un sospiro che uscì più simile a un singhiozzo.

«E io sono un ottimo sarto. Te li ricordi i pantaloni di Robin Hood?»

Come se potessi mai dimenticare il primo tuo compleanno passato insieme…

Ma quando riuscì a controllare la gola ciò che ne uscì fu una domanda.

«Resti qui stanotte?»

«Sì, se tu mi vuoi qui.»

«Sì, ti prego.»

Non contava di riuscire a riposare come se nulla fosse e occupare la sua notte romanticamente era l’ultima delle sue intenzioni, ma avere qualcuno vicino che sapesse calmare le sue inquietudini ogni volta che gli si fosse affacciato un brutto pensiero su Mikaela era la prospettiva più confortante che potesse chiedere a Dio.

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Capitolo 6
*** Il noviziato ***


 

Alla luce del giorno Bluefields appariva di una vastità straordinaria; la cancellata che la delimitava correva fino a perdersi all’orizzonte al di là di macchie di alberi, lontani edifici agricoli e campi erbosi. Anche se viveva in una delle città più grandi al mondo la vastità di quella tenuta era intimidatoria.

Non fu del tutto sorpreso di trovare il colossale Ariel che lo attendeva sotto un albero per accoglierlo con un sorriso.

«Buongiorno, Mikael… hai riposato?»

«Sì… sì, grazie. C’è molto silenzio qui.»

«Siamo lontani dalle strade trafficate e dalle grandi città, e questo è un luogo di preghiera. Sono stato in diversi monasteri, ma amo Bluefields più di qualsiasi altro.»

Mika annusò l’opportunità di fare ingenuamente delle domande e non la perse.

«In altre Chiese dell’Acqua?»

«No, no… monasteri cattolici, sai. Ero un benedettino prima di unirmi alla Chiesa dell’Acqua, ma sono stato anche alla Prima Chiesa, quella di Padre Maim.»

«Quella ad Ashby nel Michigan, giusto?»

«Hai letto con attenzione il libro» lo lodò Ariel. «Dici bene. Comunque ho inoltrato una richiesta per essere mandato alla nuova chiesa in Messico, per aiutare a diffonderla.»

Mika distolse gli occhi da un paio di giovani donne dall’abito grigio come quello che gli avevano fatto indossare e guardò il suo accompagnatore.

«Messico? Credevo che la Chiesa dell’Acqua avesse solo tre chiese, oltre a Bluefields.»

«Quando è uscito il libro, nel 2019, era così… in realtà ci sono due piccole comunità in Wyoming e nel Maine, ma sono ordini chiusi, di lavoro e preghiera, e non accettano novizi» spiegò Ariel; aveva un tono di voce molto pacato e rassicurante. «Abbiamo dei confratelli in una chiesa in Ontario e una piccola comunità appena avviata poco fuori Città del Messico. Assistono attivamente i poveri e chi necessita di cure mediche e vorrei essere trasferito lì per aiutare, dato che sono stato anche infermiere.»

«Spero ti accontenteranno. Un infermiere sarà sicuramente più utile là che a sorvegliare un cancello qui…»

Nonostante il tono lievemente caustico del suo commento Ariel allargò il suo sorriso.

«Sono lieto che tu condivida la mia idea. Per il resto, Dio deciderà dove deve essere il mio posto.»

Superarono in silenzio svariati pruni selvatici che costeggiavano il vialetto, quando da una porta dell’edificio centrale poco più avanti emerse una figura ammantata in una tunica blu intenso.

«Ah… è Padre Vann. Padre, buongiorno!»

L’uomo, che aveva all’anagrafe due anni più di Ferid, aveva capelli neri come piume di corvo e una pelle dal tono caldo, abbinati a occhi color del ghiaccio. Aveva spalle larghe e fisico asciutto tipici di chi pratica sport, e un’espressione decisamente fredda mentre lanciava un’occhiata a Mikaela… appena prima di impallidire e fermarsi sul sentiero.

«Noah?»

Mikaela trattenne a stento un ghigno di trionfo. Quando aveva scoperto che il giovane annegato, Noah, era praticamente un suo sosia si era messo in testa di seguire a Bluefields il Padre di Saint Barthelemy – convinto che la sua visita alla comunità sorella fosse una fuga – e di presentarglisi per analizzare la sua reazione. E Padre Vann sembrava aver appena visto il fantasma da cui era scappato.

«S’inganna, Padre… questo è Mikael. Il ragazzo è arrivato stanotte, lo sto accompagnando da Padre Nereus per discutere del suo percorso.»

«Oh… certo… capisco. Credo che Nereus sia su nel suo ufficio» replicò Vann, tornato padrone di sé. «Benvenuto, Mikael.»

«C’è qualcuno qui nella comunità a cui assomiglio, Padre?»

«Io… come?»

«Appena mi ha visto mi ha chiamato “Noah”… sembrava sicuro, mi sono chiesto se questa persona mi assomiglia.»

«Ah… sì, conoscevo un Rinato di nome Noah che ti somigliava moltissimo. Era nella mia comunità di Nashville.»

«Oh, per questo era sorpreso di vederlo qui a Bluefields…» Mika teneva gli occhi su di lui, immobile come un cecchino con il dito sul grilletto. Vann parve esitare, ma poi sospirò con aria grave.

«Lo ero certamente. Purtroppo Noah ha raggiunto la gloria del Padre in giovane età… sono ancora scosso. Mi manca molto.»

Ariel assunse un’espressione contrita e Mika offrì le sue scuse e condoglianze. Indagò con domande di circostanza ma il padre spirituale non fece mistero della data, della causa della morte e neanche del turbamento che aveva causato in lui.

«L’avevo ribattezzato io… avevo la massima fiducia nel suo potenziale e nella sua fede, e non mi perdono di non essermi accorto che i suoi demoni erano ancora dentro di lui a tormentarlo. Ho lasciato la mia carica perché mi sono reso conto di essere stato… arrogante a credere di essere in grado.»

«Siete troppo severo con voi stesso, Padre Vann…»

«Qualcuno penserebbe che è stato volere di Dio la tragica fine di Noah… ma anche se possiamo di certo trarre insegnamento dalla sua storia, sono convinto che Nostro Signore mi rimprovererà aspramente per lui, prima di perdonarmi.»

Per un attimo sembrò che Ariel intendesse aggiungere qualcosa, ma poi vi rinunciò. Vann ricompose la propria espressione ma non riuscì a fare un solo sorriso.

«Perdonatemi, ma devo recarmi a Ridgewood all’apertura degli uffici. Ci rivedremo alla messa.»

Vann accennò loro un inchino col capo prima di proseguire la sua strada. Mika non poté far altro che seguire Ariel per andare a colloquio con l’altro Padre, il responsabile della comunità di Bluefields.

Non si aspettava che Vann vuotasse il sacco sulla morte tragica del suo parrocchiano con un estraneo e se ne accollasse la responsabilità, ma non poteva fingere di non aver notato quei segnali: nel parlare dei demoni aveva mentito.

 

*

 

L’ufficio di Nereus si trovava al primo piano della canonica, che era l’edificio al quale era stata aggiunta la chiesa con il campanile, e vi si accedeva principalmente dal bel cortiletto interno. Ariel bussò con il battacchio sulla robusta porta ma all’invito del Padre non entrò, spingendo leggermente Mika con fare incoraggiante.

«Deve parlare con te. Sarai più a tuo agio se nessun altro ascolterà, come in confessione.»

Annuì rigido ed entrò, scandagliando la stanza. L’ufficio di Nereus aveva una moquette blu scuro come l’imbottitura della sua sedia, un’ampia scrivania di quercia ingombra di libri, fogli e un vassoio per il tè posato in bilico sotto la luce di una vecchia lampada dal paralume verde. Non aveva tende alle finestre né gingilli sugli scaffali. Solo molti libri, molti dei quali in latino, e due sedie per ricevere ospiti. Accanto alla finestra un piccolo inginocchiatoio di fronte a un’effige della croce era l’unica cosa a interrompere la striscia di parete spoglia. Aleggiava nell’aria un residuo di odore d’incenso.

«Entra, ti prego… accomodati.»

Mika avanzò nella stanza, con la moquette spessa che attutiva i suoi passi completamente, e al cenno di Nereus si sedette davanti alla scrivania.

«Solo un momento… perdonami, sono sempre così caotico nei miei spazi» si giustificò con una risata nervosa. «Gradiresti un poco di tè? È ancora caldo.»

«Io… s-sì, certo.»

Nereus cercò di sgomberare un po’ del ripiano per servire il tè e Mika ne approfittò per studiarlo. Sembrava avere all’incirca l’età di Crowley anche se secondo le informazioni di Gabriel ne aveva ben cinque in più, aveva capelli biondo cenere più corti ai lati con una frangia laterale che dissimulava una cicatrice sul sopracciglio, un pizzetto ben tenuto e, ovviamente, occhi blu. Era alto quanto Crowley, ma la sua stazza era almeno la metà.

«Eccoci» fece quando riuscì a liberare una trentina di centimetri per appoggiare la tazza del tè. «Dunque… sei Mikael, vero? Come puoi notare da…»

Nereus indicò qualcosa che però non era in vista e, perplesso, iniziò a spostare fogli dagli angoli per cercarla. Alla fine rinvenne una targhetta con la dicitura “Padre Nereus” e la riposizionò in bella vista, con un colpetto di tosse.

«Come potresti notare dalla targhetta se io non continuassi a perderla, sono Padre Nereus e sono responsabile della comunità di Bluefields.»

«Sono onorato che mi abbiate ricevuto di persona, Padre…»

Lui sorrise e si sedette sulla poltrona blu.

«Non serve essere così cerimoniosi… allora, Mikael. Veniamo al punto, vuoi?»

Puntò gli occhi su di lui e unì le punte delle dita in una posizione che a Mika fece venire in mente Ferid quando giocava a scacchi.

«Da cosa stai scappando?»

Mika non si aspettava un approccio così diretto, ma era molto preparato sulla sua parte.

«Dalla mia famiglia… sono persone terribili e adesso che mio padre è uscito di prigione… ricomincerà da dove aveva lasciato… non… non posso farcela» esalò Mika con studiata afflizione. «È così violento, e… tre volte in terapia e due in carcere non hanno cambiato niente… e… sono scappato via, sono salito sul primo autobus…»

«E hai intenzione di usare Bluefields come uno scudo contro tuo padre?»

«Non… no, io sono venuto qui perché…»

«Perché, Mikael? Perché qui e non nei molti monasteri e comunità cristiane da qui a New Oakheart?»

In verità Mikaela non si aspettava un interrogatorio. Non sapeva che cosa rispondere, perché non immaginava che un parroco gli domandasse perché era arrivato invece che al primo convitto benedettino. Poi guardò le mani di Nereus, ancora intrecciate nello stesso modo di Ferid, e qualcosa nella sua memoria gli venne in aiuto.

«Perché ho sentito parlare Dio quando cade la pioggia.»

Nereus parve colpito da quella risposta, tanto da sporgersi verso di lui.

«Davvero, Mikael? E che cosa ti ha detto?»

«Che il mio posto non era lì» riprese Mika, di nuovo al timone delle sue bugie. «Avevo saputo del rilascio di mio padre e avevo paura… mi ha detto cosa fare. Per questo sono andato via…»

Proseguì la sua storia raccontando di una libreria del West End, del libro, della coincidenza che aveva preso per destino e del viaggio in autobus.

«Questa è indubbiamente una bella storia… la maggior parte dei nostri membri ci ha scelti perché siamo diversi dalle altre congregazioni cristiane con cui sono venuti in contatto. Sono molto pochi coloro che hanno fatto esperienza di Nostro Signore tramite l’acqua in modo così lampante.»

«Credevo… fosse qualcosa di comune, qui.»

«Diciamo che imparano a vedere la gloria del Signore nell’acqua dopo aver fatto un po’ di scuola qui… la chiesa di Roma dà importanza all’acqua nel suo insegnamento, ma non abbastanza.»

Mika decise di usare quel momento per bere un po’ del tè offerto, per non sembrare teso come quando era entrato. Nereus tacque qualche istante, poi assunse un’espressione seria.

«D’accordo, Mikael, venendo al nocciolo… noi non mandiamo via i bisognosi, tuttavia questa è una comunità religiosa… è un monastero a tutti gli effetti. Ci sono preti e persone che hanno preso i voti di questa chiesa, che si sono assunti l’onore e l’onere di servire il Signore e il suo ministero attraverso una serie di regole» spiegò il Padre lentamente, come lo spiegasse a un bambino. «Nessuno ti costringerà a rimanere per tutta la vita, ma finché vorrai restare ci sono delle regole da seguire. Ogni violazione è punita secondo gravità, e in casi estremi posso decidere di allontanare qualcuno che sia un danno per la comunità… e chiamare la polizia, se necessario.»

«Seguirò qualsiasi regola, vi prego! Prometto di non creare fastidi a nessuno!»

Il Padre si alzò dalla sedia blu, raccolse un libretto dalla copertina di pelle e tirò un sorriso.

«Molto bene. Se è così facciamo due passi mentre ti spiego come funziona qui da noi.»

Pochi minuti dopo camminavano lungo lo stesso vialetto di prima in direzione opposta e Nereus attese di arrivare a tiro della struttura che era l’ex scuderia prima di decidersi a parlare.

«Qui è dove alloggiamo i novizi… come te, Mikael. I novizi indossano abiti neri, o grigi durante l’estate… gran parte del loro tempo è dedicato allo studio della regola e della Bibbia. Hanno l’obbligo di presenziare sia le lezioni che le funzioni del mattino e della sera, e ognuno ha un lavoro specifico da assolvere nel tempo che questi altri obblighi lasciano. Per esempio le pulizie dei locali o del cortile, la preparazione dei pasti, la cura dei giardini o degli orti, fare il bucato comune, o stirarlo.»

«Capisco…»

«Sei pratico in qualcuno di questi lavori?»

«Non ho problemi… non capisco molto di piante e orti, ma a casa facevo regolarmente le pulizie, il bucato, la spesa… e cucinavo. Credo di essere bravo a cucinare, almeno questo…»

«Suggerirò che tu venga impiegato nelle cucine, se ti fa piacere. Sorella Maddalena è la responsabile del refettorio, quindi dopo averti visto lavorare deciderà lei se andrai bene o no. Non è una dittatura di Re Nereus, sai!»

Nereus rise e scambiò un saluto con alcuni novizi in vestiti grigi che uscivano dall’ex scuderia. Lungo il viale incrociarono una ragazza che portava abiti grigi e un grosso libro tra le braccia, che si fermò a far loro un inchino.

«Oh, Cecilia, sei mattiniera» la lodò Nereus. «Innaffiatura?»

«Oh, l’ho già fatto, Padre» disse lei, ma continuava a girare gli occhi su Mika. «Volevo solo… andare alla biblioteca per cercare un passo latino… Abel ci ha dato un compito l’altro giorno.»

«Studi molto diligentemente, molto bene.»

«Grazie» rispose lei, ma stava guardando Mika dritto negli occhi.

Nereus emise un sospiro appena udibile e si arrese all’evidenza che quel giovane novizio la interessasse più delle lodi del Padre della comunità.

«Normalmente non presentiamo i novizi con i loro nomi, ma… Cecilia, questo è Mikael. È nuovo della comunità e inizierà stamattina. Quando andrai a colazione assicurati di trovarlo e portarlo con te da Abel, d’accordo?»

«Oh! Certo, Padre, non mancherò!»

Cecilia esibì un sorriso luminoso persino dagli occhi, si congedò da loro come se non stesse nella pelle per il suo compito e trotterellò verso l’edificio centrale abbracciando il librone come fosse stato quello a renderla felice. Nereus sospirò ancora.

«Mikael, forse ti era già evidente, ma a questo punto meglio essere chiari» esordì a mezza voce, passando il braccio intorno al suo. «A Bluefields non abbiamo ladri, non ci sono persone violente e non abbiamo avuto gravi problemi di condotta… il peggiore dei nostri problemi è un certo grado di fornicazione, d’altronde è una comunità piena di persone giovani…»

«È giovane perfino lei, Padre» osservò Mika, incapace di trattenersi.

«Questo è vero, e per questo posso capire che sia naturale… tuttavia, è pur sempre proibito. Sebbene prendere i voti dell’ordine non leghi al celibato o al nubilato, si suppone che prima di conoscere una donna tu la sposi.»

«Sì, capisco…»

«Per i novizi, che stanno studiando la regola per entrare nella comunità come membri battezzati, siamo un po’ più severi. Hanno orari più rigidi, obblighi di frequenza, molto studio da portare a termine e viene loro richiesta la condotta più irreprensibile che si possa sperare… essere pigri, saltare le messe o lo studio ed essere viziosi comporta che il noviziato diventi più lungo.»

«Lei… mi sta dicendo questo perché mi vede come un vizioso?»

Nereus lo guardò con stupore.

«Oh, no. No, per niente, sebbene a volte l’apparenza inganni… no, te lo sto dicendo perché ho visto come ti guardava Cecilia» puntualizzò, serio. «Non parlarne con nessuno, ma Cecilia si è unita a noi come alternativa a una comunità di recupero… teneva una condotta che definirei… un poco promiscua. Temo che il tuo bell’aspetto sarà una tentazione per lei, e che sarà in nutrita compagnia.»

La notizia smosse qualcosa in Mikaela, che se solo fosse stato irlandese l’avrebbe definito il settimo senso: il fatto che la comunità isolata raccogliesse persone che l’avevano scelta al posto di centri di recupero metteva i suoi vertici in una posizione di potere rispetto ai suoi novizi del tutto differente da quella che poteva avere su membri aggregati spontaneamente.

«Mettila così, Mikael: aiutale a resistere le tentazioni indossando l’armatura della Fede e la tua grazia presso Nostro Signore sarà doppia.»

Mika sorrise con una naturalezza tale che avrebbe sconcertato le persone che meglio lo conoscevano.

«Tutto posso in colui che mi dà la forza… è così, vero?»

«Filippesi, capitolo quattro, versetto tredici» specificò Nereus con un sorriso. «Sembra che i presupposti siano molto buoni con te, Mikael. In questo caso non penso di potermi opporre nemmeno se per qualche ragione lo volessi. Rischierei rane e locuste.»

Il Padre si fermò vicino a una porta e gli lasciò il braccio.

«È l’ingresso delle cucine. Presentati a Sorella Maddalena, la donna con il velo bianco. Lavora e poi mangia con gli altri» l’incoraggiò come un maestro al primo giorno di scuola. «Ricorda che non puoi parlare con le persone in abito azzurro fino a che sarai un novizio, dovrai sedere a mensa e parlare solo con coloro che portano l’abito grigio come te. Cecilia verrà a prenderti e ti porterà a lezione da Fratello Abel, che ti dirà esattamente tutto quello che ti è permesso fare e cosa sei obbligato a fare.»

«Sì… grazie, Padre.»

«Ci vedremo più tardi alla messa.»

Nereus si avviò verso il cortile frontale e Mika aveva già la mano sulla maniglia quando gli attraversò la mente una domanda.

«Padre, quanto dura un noviziato?»

L’uomo dai capelli biondo cenere si fermò e lo guardò, come se non si fosse aspettato quella domanda proprio da lui.

«Non c’è un tempo stabilito… quando il Padre vede nel novizio lo spirito di sacrificio, la dedizione, la conoscenza salda delle Scritture e il rispetto dei Comandamenti decide che è pronto per rinascere. Allora sceglie un nuovo nome per lui e lo battezza, così acquista una nuova luce presso il Signore… come l’acqua sporca che viene purificata dal fango.»

Mikaela non replicò e Nereus non aggiunse nulla riprendendo la sua strada. Non avere tempi stabiliti significava un percorso lungo mesi o anni, ma anche, eventualmente, una scalata molto rapida.

Senza perdere tempo aprì la porta delle cucine in cerca di sorella Maddalena. Se voleva farsi battezzare e vedere un gradino più alto della piramide di potere della Chiesa dell’Acqua aveva bisogno di lavoro duro, studio efficace e di una condotta perfetta: fare, cioè, ciò che gli era andato così tanto di traverso all’orfanotrofio Hyakuya.

 

*

 

Seduto sul bracciolo del divano, Ferid guardava dentro la camera da letto Crowley che si era finalmente addormentato. Non era stata la loro notte più intensa insieme né la più travagliata, ma Ferid non riusciva a chiudere occhio davanti all’evidenza di aver preso un abbaglio enorme: Crowley non era affatto andato avanti senza di lui. Le sue confidenze erano trasparenti abbastanza da rendere ovvio che il suo impegno nel lavoro e la sua attenzione – un po’ maniacale, in effetti – per la salute erano stati solo il suo modo di non pensare che era rimasto solo.

Il timer del cellulare vibrò sul tavolo della cucina. Ferid lanciò un ultimo sguardo ai capelli rossi sparpagliati sul cuscino e con un sospiro si alzò per raggiungere la teiera. Rimosse le foglie, apparecchiò con cura per due e sedette lì da solo, mescolando il miele – non era riuscito a trovare alcuna traccia di zucchero in casa – nella tazza fumante e fissando il piatto dei biscotti, che erano a scacchi. Avrebbe voluto avere taccuino e penna per svuotarsi la testa da un po’ di pensieri.

È colpa mia… Crowley è diventato così osservante delle regole per via di quello che ci è successo con Bobby. Mika è scomparso perché io l’ho coinvolto, e Yuu è preoccupato e in collera con Crowley sempre per causa mia… ci dev’essere qualcosa che posso fare…

Tornando lucido al presente prese il cellulare di Crowley e prese a scorrere la rubrica. Riconoscere una certa voce lo fece sorridere, anche se a fatica, e lanciò la chiamata al signor “Pescivendolo”. Non si scoraggiò quando non rispose la prima volta e neanche la seconda; si era appena servito un paio di biscotti che una voce irritata interruppe la ripetizione degli squilli.

«Ma sei insistente, Ginger! Che diavolo succede?»

«Buongiorno, Ismael.»

Connor Maguire tacque per un attimo, poi il suo tono cambiò completamente e perse sia l’irritazione che svariati strati di artificio.

«Ah, sei tu, Pepper.»

«Io non sono insistente? Puoi arrabbiarti se ti ho interrotto.»

«Sì… mi hai interrotto, ma detto fra noi niente che non fossi disposto a perdere» replicò frettoloso. «Che succede? Tu che mi chiami è veramente preoccupante come evento.»

«Qualcuno doveva farlo, e visto che nessuno sa del tuo interessamento per quella questione dei bacini artificiali soltanto io potevo, non trovi?»

«Apprezzo la conversazione criptata, ma non credo sia necessario… e ho saputo che c’è stato uno scambio di informazioni tra uffici. Mi sono arrivati bisbigli di qualcuno alla narcotici di New Oakheart che ha mosso qualche filo alla DEA per sapere se ci sono indagini in corso per traffico di stupefacenti.»

«Le tue fonti sono sempre belle zampillanti, Ismael… per questo continuo a domandarmi perché non sia andato direttamente tu a tirare quei fili ai piani superiori, e un giorno mi darai una risposta.»

«Non è una domanda né un invito o mi sbaglio?»

«È un avviso. Un giorno mi risponderai senza bugie, Ismael.»

«Ci sono solo io in linea da questo lato» gli fece notare Maguire con un sospiro. «Potresti gentilmente smettere di ripetere il mio nome? Mi fa sentire come se stessi cercando, che so, di ipnotizzarmi.»

«Mi piace come suona» abbozzò Ferid scrollando le spalle. «Molto meglio di Connor, se lo chiedi a me. Comunque, visto che sai del gentile favore che ti ha fatto Crowley…»

«Quindi è stato Ginger a chiedere al suo amico?»

«Direi proprio di sì, dato che io non so come rintracciare De Stasio e lui ci è andato a colazione giusto ieri mattina.»

«Quindi ce l’hai fatta… e io ti devo un favore.»

Ferid lanciò un’occhiata verso la camera quando sentì un lieve rumore. Non sapeva se si fosse svegliato o soltanto mosso nel sonno, ma era meglio tagliare i convenevoli il più possibile.

«Allora lo riscuoterò subito» gli bisbigliò più in fretta. «Visto che Crowley si era rifiutato di prestarci attenzione Mikaela è saltato su un autobus senza dire niente a nessuno. Penso che sia andato in una delle comunità della Chiesa dell’Acqua a fare domande… anzi, in realtà dopo aver saputo che cos’ha portato con sé credo che la sua intenzione sia una missione sotto copertura.»

«Non sono sorpreso, Angel Face è un esserino molto istintivo quando si infuria… ti ho mai raccontato che mi ha rotto un dito?»

«Ismael, potrebbe essere in pericolo. Devi scoprire dov’è finito, in quale delle loro comunità. Credo sia andato a Nashville dove è morto quel ragazzino, o a Ridgewood, West Virginia, che è più vicina.»

«Cosa ti fa pensare che io possa?»

«Potrai anche avere dei guai coi tuoi amici dell’FBI, ma se un ragazzo biondo è arrivato un giorno fa in una comunità religiosa chiusa lo scoprirebbe qualsiasi detective.»

Connor fece un mugugno indistinto cui seguì il cigolio di una sedia.

«Non per cattiveria, ma perché non ne paghi un paio invece di scomodare me dall’altro lato dell’oceano?»

Ferid emise una breve risatina di scherno.

«Altro lato di che cosa? Forse non sei neanche all’altro lato di Satbury.»

«E come fai a dirlo?»

«Perché domenica pomeriggio eri a Red Chapel, Ismael… o credevi che non ti avrei riconosciuto solo con un po’ di trucco di scena che ti allargava il naso e i capelli biondi? Spero che quella pantomima non fosse per spiare me o resterei terribilmente deluso dal livello dell’MI6.»

Connor tacque, ma già il fatto che non negasse diede a Ferid la certezza di avere ragione.

«Mh… beh, è un feedback utile. Stavo sperimentando un aspetto rapido, qualcosa di fattibile in poco tempo, ma pare che non riesca a ingannare qualcuno che conosco già.»

«Forse ci riuscirebbe, se non interpretassi un cliente così sfacciato con la cameriera da farmi pensare immediatamente alla persona più sfacciata che io conosca. Insomma, probabilmente mi avresti ingannato se la tua intenzione non fosse stata quella di farmi sapere che eri tornato anche tu a New Oakheart.»

«Tu mi piaci per questo, Pepper. Al contrario di Ginger tu spesso sai che cosa penso… non è una cosa che riesce a tutti.»

«Visto che ti sei mostrato in quel modo ho pensato due cose» proseguì Ferid ignorando le sue ciance. «Prima cosa, che tu volessi ricordarmi la promessa che ti avevo fatto… o seconda, che tu volessi dirmi che eri qui se avessi avuto bisogno di te.»

«Oh, no, no, Pepper… ti prego, non di nuovo quella storia della brava persona che aiuta gli altri!»

«E ora ho bisogno di te. Angel Face ne ha bisogno, per quanto morirebbe volentieri piuttosto che chiederti qualcosa.»

«Ti denuncio per calunnie!»

«Discuteremo di questo la prossima volta che avremo una vasca da bagno e una bottiglia di vino. Ora apri bene le orecchie, perché quando troverai Mika ho bisogno che tu gli faccia avere un messaggio.»

Dall’altra parte Connor Maguire sospirò teatralmente.

«Va bene, va bene… che messaggio?»

 

*

 

Il karma di Mikaela si ripresentò nei suoi giorni a Bluefields con una puntualità che gli fece riconsiderare le religioni indiane: l’immensità della sofferenza che aveva patito crescendo nei Figli della Virtù gli aveva dato una conoscenza delle Scritture e della Catechesi tale che Abel lo promosse direttamente al terzo livello; dall’altra parte la sregolatezza dei suoi anni di orfanotrofio e di liceo la pagò stringendo i denti molto più degli altri per seguire la tabella di marcia serrata dei novizi.

Era stato così occupato tra messe, lezioni di latino, lavoro alla mensa e la mole sulle Scritture che non aveva fatto una singola indagine, né una domanda né un’esplorazione nei primi giorni. Così, mise a punto una nuova strategia – mentre nel letto sotto il suo il suo compagno di stanza mormorava verbi latini – e rinunciò al riposo con i migliori intenti.

Appena finita la lezione del pomeriggio attraversò il giardino interno e raggiunse la canonica. Salutò con un cenno del capo una Sorella che non aveva mai visto e salì le scale, trovando Padre Nereus mentre usciva dal suo ufficio con l’aria di chi aveva una cinquantina di problemi da sistemare nell’ora successiva e nessuna idea di come riuscirvi.

«Padre, buon pomeriggio.»

«Ah, buon pomeriggio, Mikael… che cosa ti porta tanto distante dall’aula di Abel in orario di lezione?»

«Abel ci ha fatti uscire un po’ prima per la visita dei pastori protestanti.»

«Ah, sì.»

Dato che Nereus aveva rallentato ma non accennava a fermarsi Mikaela fece dietrofront e ridiscese le scale insieme a lui, accennando ai libri che portava con sé.

«Ecco, mi chiedevo, Padre…»

«Sono mortificato, ma la delegazione è in arrivo e io sono terribilmente indietro con miei doveri perché me n’ero dimenticato, figliolo. Temo di non avere tempo per aiutarti con lo studio, non oggi.»

«Ah, non è questo, Padre» lo tranquillizzò lui sorridendo. «Solo che mi avete dato un quaderno per appuntare le riflessioni, le preghiere e i versetti significativi, ricordate? Mi è rimasta soltanto una pagina e mi domandavo se potessi acquistarne uno più grande da qualche parte, magari in città…»

«Finito? Ecco, non era esattamente un quaderno di appunti, e…»

«No, infatti ho usato questo per gli appunti» proseguì lui, mostrandogli uno spesso plico di fogli pinzati con una molla da ufficio. «No, è che anche se abbiamo appena iniziato gli Atti degli Apostoli ho trovato moltissimi versetti ispiranti e li ho trascritti tutti… mi rendo conto di dover essere più selettivo, ma davvero non posso pensare che un quaderno così piccolo possa essere sufficiente, e…»

Senza parlare Nereus gli fece segno di passarglielo e sfogliò il quadernetto dalla copertina verde scuro. Ogni pagina conteneva citazioni e talvolta osservazioni a margine, non aveva scritto in grande né lasciato spazi esagerati per finirlo più in fretta: era stato sveglio una notte intera per riempire il quaderno e renderlo esca appetibile per il Padre.

«Sono impressionato, Mikael. Sembra che le Scritture suscitino in te un vivace interesse… e le tue note sono osservazioni molto accurate. Davvero non hai frequentato scuole cattoliche?»

«No, Padre… mio padre non l’avrebbe mai permesso, lui è contrario a ogni forma di religione o di legislazione che lo obblighi a non rubare e non tradire mia madre, purtroppo. La morale è un concetto ripugnante per lui.»

Nereus sospirò con aria grave e chiuse il libretto.

«Posso capirti, il secondo marito di mia madre era un tipo del genere… o meglio, lo diventò. Dev’essere stato arduo per un ragazzo come te subire le sue influenze quando eri così prepotentemente chiamato al Signore.»

«Sì, è stato terribile… nonostante fosse più spesso in galera che a casa riusciva a far sentire il peso del suo patriarcato.»

«Mhh… beh, venendo al quaderno: come sai i novizi non lasciano la comunità finché non ricevono il Battesimo, per evitare influenze esterne in un momento delicato di concentrazione e impegno. Tuttavia se mi comunichi che cosa stai cercando posso guardare io stesso in città, ci andrò domani con i nostri ospiti.»

«Oh, vi ringrazio molto… mi piacerebbe un quaderno di formato più grande di questo e con la copertina rigida. Se mi prendeste il più voluminoso che trovate ne sarei molto grato.»

«Hai intenzione di scrivere un tuo commentario biblico, Mikael?» domandò Nereus con aria divertita.

«Forse un giorno, quando avrò studiato tutto e mi sentirò preparato… credete sia arrogante, Padre?»

Erano di nuovo nella luce del cortile assolato e Nereus strizzava gli occhi tanto da sembrare accecato da uno shampoo molto aggressivo.

«Credo che sia un’onesta meta cui ambire per chi è un appassionato studioso di teologia oltre che devoto del Signore… mi darò da fare per trovare il primo volume in bianco del tuo commentario, figliolo, ma ora devo sbrigarmi. Vedo arrivare un pulmino di provenienza sospetta.»

Mentre il Padre si allontanava Mika poté vedere un vecchio pulmino arrancare lentamente sulla strada che usciva dal bosco. Era molto interessato alla visita di questi pastori protestanti e al motivo per cui erano stati invitati e aveva ogni intenzione di immischiarsi con qualsiasi appiglio; possibilmente di parlare con qualcuno di loro.

Per arrivare alle cucine fece un largo giro che gli permise di passare più vicino al cancello dove Nereus, Vann, Ariel e un altro uomo in azzurro stavano ricevendo la piccola congregazione di pastori; erano in cinque di cui uno piuttosto anziano accompagnato a braccio da un pastore alto e biondo.

Non riuscì a distinguere che qualche parola sconnessa della loro conversazione e poi si avviarono verso l’edificio centrale lungo il vialetto. Mika si appartò il più vicino possibile all’aiuola – invero un po’ appassita – delle begonie e lasciò che gli sfilassero davanti. Anche se tutti lo guardarono con curiosità nessuno gli rivolse la parola.

Forse Nereus gli ha detto che i novizi non possono parlare con gli estranei… accidenti, poteva essere una buona occasione.

Alzò lo sguardo che aveva abbassato in una simulazione di umiltà scoprendo che il biondo accompagnatore dell’anziano lo stava fissando. Fu questione di un attimo prima che si voltasse in avanti e mormorasse all’anziano pastore di guardare i piccoli orticelli sulla loro destra, come nulla fosse, ma Mikaela pur se in pieno sole si sentiva raggelare.

Perché mi dà questa sensazione…? Chi è quello?

Aveva la sensazione di conoscerlo ma non riusciva a focalizzare dove o quando potesse averlo incontrato. Questo dubbio gli metteva angoscia, perché se fosse arrivato nella comunità qualcuno che lo conosceva avrebbe distrutto la sua copertura, svelato il suo nome e la sua professione… arrivò persino a domandarsi se quell’uomo non fosse connesso ai Figli della Virtù e lo conoscesse per questa ragione, ma erano anni che avevano smesso di cercarlo. Anche grazie a Crowley.

Si affrettò verso la mensa con quel polverone di pensieri ancora ben levato nella testa, tanto che andò dritto contro la ragazza che stava uscendo dalla porta.

«Oh, mi dispiace! Ti ho fatto male?»

«Oh, no, sto bene… mi sono solo spaventata, sei sbucato all’improvviso!»

La ragazza che era uscita portava vestiti azzurri e una croce dello stesso colore, il che la designava come una Rinata dell’Acqua, un’adepta ribattezzata della comunità. Non aveva il permesso di rivolgere la parola a una persona che indossasse un abito che fosse bianco o azzurro a meno che non fosse il suo responsabile – come nel caso di fratello Abel suo insegnante e di sorella Maddalena che coordinava il suo lavoro – e si trovò a coprirsi la bocca con la mano quando si rese conto di averle parlato.

«Ti ho pestato un piede? Oh no, ti ho dato una testata?»

La ragazza era della statura per colpirlo con la fronte sul labbro, ma non era successo. Non sapeva come farle notare che non poteva parlarle e si limitò a scuotere la testa.

«Ah, meno male… sono un po’ impacciata, faccio sempre danni, io.»

Fece una risata buffa, un suono che per qualche ragione a Mika fece venire in mente il cigolio delle vecchie reti quando saltavano sui letti in orfanotrofio. Nonostante quel suo modo di ridere che certo non era di campanelli come in certi libri sdolcinati, Mika si accorse di qualcosa che non aveva mai notato in un ragazza prima.

Era bella. Aveva degli occhi azzurri vivaci, labbra ben delineate in un sorriso e riccioli di capelli castano scuro le sfuggivano dalla coda. Non era possibile scambiarla per una habituée dei corsi di aerobica, ma era bella. Cosa molto più strana, era senza ombra di dubbio una donna, e nonostante ciò Mika pensava che fosse bella.

Dal canto suo, lei lo guardava esattamente come Cecilia: come se avesse voluto mangiarlo.

E io che durante l’accademia pensavo che fosse la divisa a rendermi affascinante.

Tese un sorriso, ma non disse una sillaba. Buttare al vento le sue strategie di avanzamento per abbordare una possibile fonte di informazioni non era un piano che riteneva vantaggioso.

«Oh… è per il noviziato che non parli? Ma sai, non ci sente nessuno qui fuori» gli fece notare lei, parlando a voce leggermente più bassa. «Sorella Maddalena sta strepitando perché padre Nereus ha dimenticato di avvertirla degli ospiti e sta cercando di migliorare il menu della cena… come se fosse possibile!»

Gli sfuggì una breve risatina divertita: aveva visto abbastanza Maddalena da sapere perfettamente quali smorfie e quale tono di voce assumeva durante i suoi strepitii.

«Devo raccogliere degli ortaggi e qualche erba, accompagnami!»

Prima ancora che se ne rendesse conto l’aveva preso sottobraccio e poté solo seguirla verso gli orticelli. Non aveva neanche notato il cesto di vimini che portava, puntato contro il fianco.

«Ho sentito del tuo arrivo… sei Mikael, vero? Certo di norma non si usa diffondere i nomi veri di chi arriva visto che poi li abbandoneranno, ma… mi pare sciocco non dargliene nessuno per tutto il tempo del noviziato, non trovi? Sareste come i passeri, o le farfalle.»

Mikaela sospirò, ma annuì continuando a sorriderle. Gli parve che lei fosse un po’ infastidita dal suo silenzio ostinato ma anche colpita.

«Beh, di certo sei uno che si applica per bene… vuol dire che rinascerai presto! Ehi, ti dispiacerebbe se io fossi presente alla cerimonia? Per vederti rinascere nell’Acqua del Signore… e sapere subito il tuo nuovo nome.»

Mikaela scosse la testa. In realtà non afferrava il motivo per cui glielo stava chiedendo; immaginava che l’intera comunità o quasi presenziasse al battesimo dei nuovi membri non diversamente da una cerimonia cattolica normale.

Ora che ci penso, succedeva così nei Figli della Virtù… ma non so se il battesimo viene fatto in pubblico o se ci vanno solo persone invitate.

La ragazza però si era accigliata.

«No? No, non ti dà fastidio o no, non vuoi che venga?»

Comunicare senza parole era più difficile del previsto e dato che non c’era nessuno nel raggio di un centinaio di metri avrebbe anche potuto parlare, ma così come aveva tenuto la recita del ragazzo fuggito di casa ancora prima di partire da New Oakheart continuava a pensare che non abbassare mai la guardia dentro i confini di Bluefields fosse preferibile. Tentò di dirle che l’avrebbe reso felice con un gesto della mano sul petto, ma non era chiaro quanto sperava.

«Ooh, Mikael, ti prego… Dio non ti fulminerà per un paio di parole innocenti! Io sarei già un carboncino, durante il noviziato mi mettevo a chiacchierare con tutti!»

Mika smise di camminare e con il piede smosse la ghiaia del sentiero; fece un buco, poi un altro, e sotto tracciò una linea ricurva. La ragazza stavolta capì il messaggio e rise.

«Ah, ecco cosa volevi dire… perdonami, con la mia goffaggine ti devo spazientire un sacco!»

Scosse di nuovo la testa e insieme ricompattarono la ghiaia per cancellare la faccina sorridente. Quando ripresero a camminare lei non disse più niente ma continuò a tenere il suo braccio finché non arrivarono all’orticello che cercava. Nonostante la giornata calda quella sua stretta non era stata sgradevole.

«Maddalena vuole preparare arrosto di maiale e di manzo… non ce n’è molto, quindi servirebbe un bel contorno saziante, non credi? Ci sono tante belle zucchine qui, potremmo usare queste!»

Mika quasi parlò per istinto, ma poi si chinò e le bloccò il polso. Si rese conto di essere stato un po’ brusco e sorrise per scusarsene, poi a gesti cercò di farle capire che cuocendole le zucchine si sarebbero ridotte di dimensione. Questa volta, fortunatamente, lei afferrò subito.

«Oh… cosa dovrei prendere?»

Si alzò in piedi e scandagliò gli orticelli, aiutandosi con i cartellini che indicavano le colture là dove non riconosceva le foglie, andò qualche metro più avanti e trovò qualcosa che gli diede un’idea. Afferrò un peperone giallo e lo mostrò alla ragazza che lo stava seguendo con interesse.

«Peperoni…?»

Mika annuì, andò a indicarle il cartellino delle piante di fagioli nell’orticello di fronte e prese una manciata di ghiaia lasciandosela scorrere via dal pugno semichiuso. Lei si accigliò.

«Che c’entrano i… oh, intendi il riso! Il riso con peperoni e fagioli, alla messicana!»

Sorridendo le mimò un applauso che la fece ridere.

«Sembri un mimo, a cercare di dire qualcosa senza parole… ma è divertente! Il riso è una buona idea, non costa molto ed è molto saziante… penso che Maddalena approverà, mi aiuti a raccoglierne un po’?»

Bastarono pochi minuti per riempire il cesto di peperoni di tre colori, ma quando lei l’invitò a rientrare in cucina insieme lui si trattenne, mostrandole i libri.

«Oh… certo, devi riportarli in camera… beh, allora vado prima di te. Ci vediamo in giro, Mikael… ma se non hai niente da fare vieni da me, se mi vedi. Possiamo giocare al mimo o non parlare affatto, se preferisci così.»

Si voltò per andarsene, ma Mika la trattenne per il braccio. Ancora una volta fu difficile non usare la voce.

«Che succede…?»

«Mh…»

Sospirò e aprì il commentario, sfilò la matita dal suo astuccio di tela arrotolato e scrisse sulla quarta di copertina. Quando la girò verso la ragazza lei sorrise radiosa ma non rispose; gli prese la matita sfiorandogli volontariamente la mano e scrisse la sua risposta.

«A presto!»

Mentre la ghiaia scricchiolava sotto i suoi passi Mika abbassò lo sguardo sulla copertina. Accanto alla sua scritta “nome?” sghemba per la fretta e la mancanza di un appoggio, lei aveva scritto in un corsivo tondeggiante come la sua figura.

Damaris…

Si mise in cammino verso l’ex scuderia dove era alloggiato, rimuginando. Mentre camminava e si sbattocchiava la copertina del libro sul mento quel nome gli tornava alle labbra in un sussurro, e così assorto fece a malapena caso al fatto che i suoi due compagni di stanza non erano presenti. Posò i libri sul letto superiore, aprì la camicia per cambiarsi e fissò il proprio riflesso nello specchio alto e stretto accanto alla porta.

Il suo sguardo si soffermò sui punti che Yuu diceva di preferire – in verità non pochi – ma si costrinse a distoglierlo e a deviare i suoi pensieri lontano da quella che ancora considerava casa. Nonostante i suoi tentativi di separare la sua esistenza precedente dal gioco di ruolo, non riuscì ad accettare l’idea di sfruttare l’interesse di Damaris e tradire la fiducia di Yuu per il suo scopo, a meno che non fosse stato inevitabile per salvarsi la pelle.

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Capitolo 7
*** Rete di sostegno ***


Mikaela guardò in tutte le direzioni tre volte prima di decidersi a uscire dall’ex scuderia, attuale dormitorio dei novizi maschi. Attraversò il prato tenendosi all’ombra dei pruni e distante dal sentiero per non essere facilmente visto o sentito. Appena superata la cosiddetta “casa grande” sentì passi sulla ghiaia nei pressi degli orticelli frontali.

«Questi cetrioli sono enormi, John… come faranno a farli crescere così? Sarà il potere dell’acqua benedetta che hanno qui?»

Mika si bloccò quando era quasi arrivato, perché il prete biondo era insieme al vecchio con il bastone. Con più circospezione uscì dall’ombra e si mostrò, facendo emergere un ghigno sul viso del più giovane: ora lo riconosceva senza incertezza.

«Ah, quindi hai capito il mio messaggio.»

«Non era così difficile, Maguire. Che cosa sei venuto a fare qui?»

«Ovviamente mi ha mandato Pepper. Ha detto che era anche colpa mia se eri finito qui, ed è riuscito a prendermi per disperazione, così, eccomi.»

Lanciò un’occhiata all’anziano, che sembrava non calcolare affatto l’apparizione di un’altra persona, ancora meno quello che stavano dicendosi.

«Oh, non ti preoccupare di lui, è parte della mia copertura… lo sa benissimo che non sono un parroco.»

«Ah, parroco! Questo disgraziato» commentò John, prendendo alla sprovvista Mikaela. «Mi stupisce che non abbia preso fuoco quando è entrato in chiesa per la messa.»

«Che cattiveria, papà~»

«È tuo padre?!»

Connor ridacchiò, passando il braccio sulle spalle leggermente curve di John.

«Ci somigliamo?»

«Neanche un po’» replicò senza esitazione Mika.

«Ah, smettila, cornacchia spennacchiata!»

La voce del vecchio si fece stridula e in uno slancio di energia agitò il bastone per allontanarlo come un cane randagio troppo invadente. Ridendo Maguire si scansò con un balzo, portandosi fuori dal raggio del randello.

«Ti ho fatto un favore perché ero curioso anche io di dare un’occhiata qui dentro!»

Mika inclinò leggermente la testa, confuso. L’uomo aveva preso a borbottare qualcosa in una lingua che non capiva neanche in parte. Non guardava neanche dalla parte del ragazzo, come se non fosse neanche presente.

«Ma allora chi è?»

«John Townsend, il mio professore di greco~»

Mikaela guardò l’uno e l’altro per qualche secondo, poi fissò il più giovane.

«Sei venuto fino qui da New Oakheart, con quella specie di travestimento, aggregandoti a un gruppo di pastori protestanti e portandoti dietro il tuo professore di greco?»

«Perché no? In fondo lui è vero. È un frate.»

«Domenicano, per l’esattezza!»

«Pensa che con le sue piante parla in latino. Dice che crescono più vigorose… a proposito, questi cetrioli, com’è che–»

«Ah, basta scemenze, Izzy!» sbottò l’anziano, mandando a segno un colpo allo stinco di Connor con il suo bastone. «Sbrigati a istruire il ragazzo, voglio andare a dormire!»

«Ahia! Sì, sì, non diventare irritabile, John, ti si alza la pressione…»

Ma il vecchio era già ben irritato e si allontanò da loro per osservare delle piante, borbottando qualche parola che Mika non comprese. Dimenticò le sue curiosità sulla strana coppia in un secondo, perché sentì un rumore e studiò con ansia crescente gli scuri delle finestre della facciata. Non vide nulla, ma gli restò addosso la sensazione di essere scoperto come puntato da un cecchino.

Connor si massaggiò furtivamente la gamba.

«È sempre stato un sostenitore della didattica brutale, sai? Il mio compagno di banco ha ancora una cicatrice sulla mano di quando il prof–»

«Maguire, io rischio molto più di te a starmene qui fuori. Non sono venuto a chiacchierare dei tuoi giorni di scuola.»

L’uomo tacque, ma non disdegnò di esibire il suo sorrisetto.

«Bene, allora. Per prima cosa: Pepper ti informa che De Stasio della narcotici è stato avvertito e che ci sono possibilità che la DEA indaghi sui flussi di droga a Nashville, in virtù di questo ti chiede di tornare a casa.»

«Non lo farò» tagliò corto Mika. «Ho deciso di impiegare le mie sei settimane per questo scopo. Il Padre responsabile della comunità di Nashville ora è qui e farò del mio meglio per indagare su di lui.»

«Pepper sapeva che mi avresti risposto così, quindi mi ha dato una valigetta portavalori da darti. L’ho nascosta sotto quel pitosforo laggiù» fece Connor, indicandolo con un cenno. «Ci sono dei soldi e delle monetine, nel caso ti servisse usare il telefono pubblico che ho visto a Ridgewood davanti all’ufficio postale. Ci sono delle buste affrancate, un telefono con una batteria, ma aspetta lunedì prossimo per usarlo, perché è una scheda nuova ancora da attivare… che altro?»

Maguire si grattò la testa meditabondo.

«Mi pareva ci fosse un’altra cosa… ah, sì: Pepper mi ha dato delle barrette energetiche al cioccolato bianco, sai, nel caso non ti avessero dato abbastanza da mangiare.»

Quel dettaglio fece fare uno strano sbuffo a Mika.

«Non è mica mia madre. Digli che mangiamo decentemente, qui.»

«A me non pare proprio» ribatté l’altro, seccato. «Qui è tutto senza sapore e senza grassi, come fanno ad essere vivi? Quel riso con quella specie di piselli marroni era così triste che potrei piangere!»

Se il riso con lenticchie non era abbastanza di certo gli occhi gli lacrimarono dopo che il vecchio frate gli assestò un colpo sulla testa con il bastone.

«Datti una mossa, babbeo!»

Il profondo gemito e l’aria stordita con cui scosse la testa per snebbiarsi la vista la disse lunga sulla forza residua di John Townsend nell’assestare bastonate nonostante l’età. Il sorriso di Maguire si era incrinato come un vaso di porcellana dopo quel colpo.

«Ti… serve altro, Angel Face?»

Per contro, Mika sorrise più di quanto avesse mai fatto in sua presenza.

«Una polaroid di questo momento sarebbe il massimo.»

*

«Merda!»

Il fragore della pioggia era tale che si poteva permettere persino di imprecare a pieni polmoni, e lo fece di nuovo quando, balzando giù dalla cancellata, affondò nel fango fin quasi alle ginocchia.

Se da un lato era una fortuna che piovesse tanto perché Ariel avrebbe pattugliato molto meno del normale e avrebbe avuto una visuale minima sul cortile, dall’altro Mika era ridotto peggio di un soldato nelle paludi vietnamite.

Si tastò sotto la camicia per essere certo di avere ancora le monete rimaste e nella foga di trovarle, incespicando nella ghiaia bagnata sotto una pioggia a catinelle, non si accorse di essere osservato da una finestra del primo piano della canonica. Ne rimase inconsapevole finché non arrivò alla lavanderia, dove contava di ripulire i suoi abiti abbastanza da renderli quasi innocenti.

«Mikael.»

La voce del Padre di Nashville quasi rimbombò nell’ampio locale vuoto e gli strappò un singulto di spavento. In piedi accanto a un lavabo ingombro di vestiti zuppi e infangati e vicino a delle scarpe inzaccherate aveva ben poche possibilità di mentire.

«Cosa fai qui con questo tempo da lupi?»

«I-io… niente, Padre» replicò Mika, frugando la mente alla ricerca di qualcosa in grado di salvarlo. «Lavavo i miei vestiti prima di… tornare a dormire.»

«E come si sono ridotti tanto male i tuoi vestiti mentre dormivi?» gli domandò con il tono che sottintendeva moltissime cose, tra le quali l’immediatezza della punizione. «Li ha forse indossati qualcun altro? Sei diventato sonnambulo? Dimmi, adoro sentire delle scuse creative. Sono come le favole della buonanotte per me.»

Quando si trattava di mentire gli tornava sempre in mente Ferid seduto sull’altro lato della scacchiera, con la sua formula del topo blu che l’aveva così abilmente ingannato la prima volta. Alzò gli occhi azzurri sull’uomo, che esibiva un sorriso sardonico, e fece appello a ogni granello di Angel Face che poteva avere in corpo.

«Non… non posso dirvelo, Padre. Mi prendereste per matto o per bugiardo.»

«La seconda è ben più probabile della prima, ma voglio comunque una spiegazione.»

Mika si mordicchiò il labbro e aprì il rubinetto. Mentre Vann seguiva il movimento della mano sinistra sul miscelatore il ragazzo si assicurò che il sacchetto delle monete fosse ben fermo sotto l’elastico della sua biancheria intima.

«Ho sentito di nuovo Dio» rispose allora con voluta esitazione. «Lui… mi chiama spesso quando c’è una pioggia forte… non riuscivo a capire e… sono uscito nel tentativo di capire che cosa mi stesse dicendo.»

Vann non scoppiò a ridere, non accentuò il suo ghigno; in verità non mosse un solo muscolo. Solo gli occhi vagarono su tutto il viso, alla caccia di nervosismo e menzogna. Forse non ne trovò, perché si fece molto inquieto.

«E sei riuscito a capire?»

«No, purtroppo… non sono riuscito a sentirlo uscendo. Ho vagato per il cortile, ma…»

«Perché non ti stava parlando, figliolo.»

«Ma l’ho sentito, Padre. So che lo fa, lo ha già fatto quando mi disse di andare via di casa.»

«Ma non stanotte» insistette Vann, leggermente spazientito. «Proprio perché sai che è accaduto una volta ti è sembrato di sentirlo parlare… in queste notti di tempesta il vento e la pioggia fanno scherzi e probabilmente eri anche nel dormiveglia.»

«Ma Padre…»

«Non è stato nulla. E d’ora in poi non uscire di notte, visto che è proibito» gli fece più duro, sfiorandogli la spalla. «Ora mettiti qualcosa di pulito, prendi una cappa, corri nella tua stanza e mettiti a dormire. Asciuga bene i capelli o prenderai un malanno e lo passerai ai tuoi compagni di stanza.»

«Io… sì, Padre. Perdonatemi, sono stato così sciocco da avervi costretto scendere fin qui per rimproverarmi.»

«Per correggerti, piuttosto. Ora sbrigati o domattina dormirai durante le lezioni.»

«Sì… grazie, padre Vann.»

«Buonanotte, figliolo.»

«Buonanotte.»

Il pastore se ne andò lanciando un’occhiata penetrante alle sue scarpe, ma non aggiunse altro mentre usciva. Mika tirò appena un sospiro di sollievo mentre strofinava il fango via dalla sua camicia, ma non era affatto sereno. Sapeva che non l’aveva bevuta e che sospettava – nella migliore delle ipotesi – che era uscito nel bosco.

Avrebbe fatto meglio a costruirsi una storia credibile ma non troppo compromettente sul perché Mikael avesse sentito la necessità di uscire da Bluefields nel mezzo di una notte di tempesta, e per prudenza avrebbe nascosto la valigetta di metallo in un posto sicuro più distante dal dormitorio.

 

*

 

Ferid era di nuovo nel piazzale della ferramenta a montare dei nuovi fanali quando uno scooter verde come un ramarro fece la sua rumorosa comparsa. Naturalmente il ragazzo che lo guidava non fece in tempo a togliersi il casco che Cyrus era apparso alla vetrina con un cipiglio da falco; Ferid gli fece un gesto per tranquillizzarlo ma lui aspettò di assicurarsi che non ci fossero capelli rossi in vista prima di tornare a riordinare il suo assortimento di viti.

Silenziosamente, Ferid sospirò di sollievo.

«Ciao, Yuu. Che cosa ti porta fino qui?»

«Non lo immagini?»

Un’idea l’aveva di certo, ma decise di non scoprirsi per primo e si limitò a scrollare le spalle.

«Ho ricevuto una telefonata da Mika.»

Ferid smise di fingere di preoccuparsi del vetro del fanale e lo guardò con curiosità.

«E?»

«Puoi smettere di prendermi per stupido, Ferid? Lo sapevo che tu eri dietro questa storia. Lo sapevo che eravate d’accordo, e voglio che tu mi dica perché non l’hai fermato!»

Sospirò e posò sullo scatolone dei ricambi il vetro e il panno.

«Yuu, non l’ho fermato perché non mi ha detto che sarebbe partito. È scomparso usandomi come copertura, ma non sapevo che volesse indagare… detto questo, però» aggiunse, sfidando i suoi brillanti occhi verdi, «anche se l’avessi saputo non l’avrei fermato comunque.»

«Pensavo che fossi suo amico» ribatté duro il ragazzo. «Che a lui ci tenessi.»

«Certo che ci tengo, ma il fatto che sia mio amico non significa che possa o che debba prendere decisioni al suo posto. Mikaela è cresciuto abbastanza da poter decidere con chi passare la sua vita, che lavoro fare e cosa conta per lui. Anche se avessi provato a fermarlo, comunque, non mi avrebbe dato retta: per questo non ha detto nemmeno a me dove stava andando.»

«Quindi tu non sai che è a Ridgewood?»

«Alla parrocchia di Bluefields?» ripeté Ferid, sorpreso. «In realtà ero sicuro che sarebbe andato a Nashville a fare domande.»

«Il prete che stava a Nashville è scappato a Bluefields, e quindi ha deciso di seguirlo là. Me l’ha detto ieri.»

«A questo punto mi pare ovvio che sia tu quello che ne sa di più tra noi due. Com’è giusto che sia, no?»

«Quello che io so» aggiunse Yuu tagliente, «è che tu e lui siete in contatto anche ora in qualche modo. Il numero con cui mi ha chiamato è una cabina telefonica, ma tu devi avere un modo per parlargli.»

«E cosa te lo fa supporre? Ti ho detto che non sapevo neanche dove stesse andando!»

«Quando lo sentirai, digli di tornare a casa. Crowley ha parlato con De Stasio, come volevate. Ora può ritornare.»

Ferid sapeva che Ismael doveva avergli recapitato il suo messaggio ormai, ma non poteva dirlo a Yuu per paura che l’interferenza di quell’uomo arrivasse alle orecchie di Crowley. Mentre raccoglieva un attrezzo a caso per sparire dentro al cofano dell’auto fece del suo meglio per rievocare la figura del topo blu sulla mongolfiera.

«Glielo dirò, ma credo che sarai solo tu a sentirlo… e dopotutto, ascolterà più facilmente te che me.»

«Ha ascoltato te, per questo è laggiù ora.»

Non gli sfuggì il suo tono accusatorio, tra i rumori del suo scooter mentre gli risaliva in sella.

«Non so che cosa vuoi da quella chiesa, Ferid, ma dovrai ottenerla da solo. Non usare Mika.»

Ancora una volta quell’ingiusta accusa gli fece ribollire il sangue. Sbatté senza volerlo la chiave inglese contro il metallo mentre si raddrizzava.

«Non sto usando nessuno. Mika non è un oggetto, dannazione. Avete mai pensato, tu e Crowley, che è il vostro istinto di difenderlo da tutto che lo spinge a dimostrare di non essere un cucciolo ferito? È per voi due che resta laggiù, non per me! Per dimostrarvi che non ha più paura delle sette!»

«Io lo so che non ha paura, ma lo conosco. Certe cose… lo ossessionano. E se succede, non si prende più cura di se stesso. Dovresti capirlo, no? Anche tu quando non potevi più lavorare alla tua libreria ti sei spento. Non volevi mangiare, non riuscivi a dormire… anche Mika fa così.»

Ferid chiuse il cofano con più enfasi del necessario, per poi sedervisi sopra e aprire una lattina coperta di condensa.

«Io e Mika non potremmo essere più diversi in questo. Io mi stavo lasciando morire perché la mia vita non aveva senso, ero solo e mi aggrappavo all’unica cosa che avevo, il mio lavoro… Mika lo fa perché si impegna con tutto se stesso quando pensa che qualcosa sia importante. Lo fa per gli altri, e per la missione della sua vita, che è aiutare altri nella stessa situazione in cui era intrappolato lui. Non c’è nessun paragone possibile tra noi.»

Yuu aveva già il casco sulla testa, la mano sul gas, ma non sembrava volersene andare. Non gli scollava gli occhi di dosso e non distolse lo sguardo neanche quando Ferid lo fece per poter bere.

«Sono sicuro che pensa di aiutare gli altri… ma so anche che a volte è solo lui che pensa di aiutare. A volte… non c’è niente di brutto… non ci sono pericoli… ma Mika è schiavo del suo passato, e li vede. Sono preoccupato che si metta in pericolo o si rovini la carriera cacciando mostri che non ci sono.»

«Ti tranquillizzerebbe di più sapere che ci sono o che non ci sono?»

Era una domanda senza una risposta giusta: sapere che Mikaela era paranoico al punto da attraversare tre stati per inseguire le sue fissazioni non era molto più confortante di saperlo in mezzo a dei criminali. Alla fine, Yuu decise di dare gas e fece il giro intorno all’auto per girarsi fronte strada.

«Fa strano vederti fare il meccanico.»

Ferid si aspettava che gli intimasse un’ultima volta di parlare a Mika, ma non lo fece e dopo un’ultima occhiata Yuu si immise su Ashland street e sparì nel rumore del suo motore, più simile a un ronzio che a un ruggito.

Bevve la sua bibita con troppi pensieri per godersela, ma anche per soffrire il caldo. Quando la lattina fu vuota Ferid abbandonò lì dov’erano macchina e attrezzi per salire le scale fino in casa – il bagliore della giornata soleggiata gli fece sembrare il suo appartamento una grotta buia – e si precipitò nel suo piccolo studio senza neanche chiudersi le porte alle spalle.

Frugò in tutti i cassetti due volte, spulciò inutilmente il libretto porta biglietti da visita che era appartenuto a Claude, tirò fuori un libro alla volta per accertarsi che non fosse finito a fare il segnapagina da qualche parte.

Ma dove diavolo l’ho messo? Devo averlo tenuto, ho…

Colto da un’illuminazione improvvisa, raggiunse gli scaffali dei suoi diari. I suoi fedeli registri che avevano conservato per iscritto quasi tutta la sua vita adulta, ad eccezione della sua vita dopo aver conosciuto Crowley…

Iniziò ad aprirli per cercare l’anno giusto, poi il mese. Seppe di aver fatto centro non appena prese il diario accanto, con il mese precedente al gemello: le pagine si aprirono obbedienti sul resoconto del suo viaggio, forzate dal bigliettino pinzato alla pagina. Con il cuore che martellava contro il pomo d’Adamo prese il telefono, compose il numero e attese.

Squillava. Ferid si mordicchiò il labbro, indeciso su cosa dire e come, e senza sapere che cosa avrebbe fatto se il numero non fosse più appartenuto alla stessa persona. Alla fine udì lo scatto di risposta e quella voce; con una leggera stretta allo stomaco il cervello gli confermò di ricordarla ancora bene.

«Ciao, Whisky Sour» esordì Ferid, incerto. «Io… sono ancora a credito di quel favore?»

 

*

 

Seduto a uno dei tavoli della sala studio Mika scriveva poche parole per volta, faticando a concentrarsi. Non poteva credere di aver schivato una punizione esemplare – o peggio, l’allontanamento – per la sua sortita notturna, ma Vann o non aveva davvero capito che era uscito dai cancelli o aveva deciso di far finta di niente: a colazione gli si era avvicinato per chiedergli come si sentisse e dopo essere stato rassicurato se n’era tornato al “tavolo blu”, dove mangiavano i Padri e coloro che avevano preso i voti dell’ordine.

Ma non posso dare per scontato che si sia bevuto la mia storia e non abbia notato nulla. Devo stare attento d’ora in avanti, essere prudente… probabilmente è meglio evitare di recuperare la scatola per un po’ di giorni.

Mika smise di muovere la penna sulla carta e mordicchiò leggermente il tappino. Sarebbe stato molto comodo avere una stanza personale come i membri dalla croce blu per poter contare su una certa privacy e nascondere con cura il telefono – e perché no, le barrette al cioccolato – ma nella stanza da quattro nel dormitorio non c’era garanzia che non venisse trovata dai suoi compagni, magari in cerca anche loro di nascondigli.

Mika sospirò grattandosi la testa; così facendo si scompigliò i ciuffetti biondi e uno di quelli rimase dritto come una strana antenna.

Beh, alla peggio resterò in silenzio radio per altre cinque settimane… scappare non è affatto difficile persino dal cancello, e la tenuta ha chilometri di recinzioni in zone meno illuminate.

Stava per tornare alla sua lettera – ancora con la stessa frase a metà – quando alcuni ragazzi del suo stesso corso entrarono nella saletta. Uno di loro era il suo compagno di stanza del letto accanto, Dorian, un ragazzo mingherlino con una gran capigliatura color zenzero.

Ovviamente appena lo vide andò al suo tavolo, seguito da un altro compagno che stava nella stanza in fondo al corridoio. Sapeva che lavorava con Dorian nell’orto grande, ma non sapeva il suo nome.

«Stai già studiando?» gli fece quello, sedendosi di fronte a lui. «Qui proviamo tutti a fare un passo verso Dio, ma tu gli stai correndo incontro… con un ariete sotto il braccio… e la testa in fiamme…»

Davanti a quella pittoresca immagine neanche Mika riuscì a trattenersi e lui e Dorian risero.

«Sfonderai la porta della casa di Dio se non rallenti, amico mio!»

«La buona notizia è che non credo che abbia una porta chiusa da sfondare» rispose Mika, ancora sorridente. «Ma la cattiva è che me la chiuderò alle spalle, quindi sbrigatevi o vi chiudo fuori.»

«Bastardo!»

«Julius» lo riproverò Dorian con quel suo tono accomodante. «Niente parolacce, dai.»

Julius scosse la testa e si lamentò di quanto Dorian prendesse tutto troppo seriamente. Mikaela studiò la combinazione molto particolare della sua persona, con una pelle come miele di castagno e capelli bruni e mossi abbinati a occhi color blu scuro, mentre borbottava contro “la vergognosa voglia di studiare” dei suoi compagni.

Ancora con la medesima frase a metà Mika venne distratto dal nome in cima al foglio. Lentamente posò la penna.

«Voi due… sapete qualcosa di più preciso sul Battesimo?»

«In che senso?»

«Il Battesimo dei Rinati, ne avete visto uno da quando siete qui?»

«Certo che no» rispose subito Dorian. «No, solo chi è già battezzato può assistere al Battesimo degli altri. Solitamente alla cerimonia sono presenti il Padre, un fratello o una sorella già ribattezzati per ogni novizio che riceve il nome, e a quanto ne so un medico. Sorella Dorcas c’è sempre.»

«Ricorda un po’ una confraternita, no?»

«È vero!» fece Julius. «Anche quando mio fratello è entrato nella sua confraternita al college non c’era verso di sapere come fosse la cerimonia, gli unici a saperlo erano i membri ma non potevano parlarne…»

«Perché credete che serva tanta segretezza per un battesimo?»

Gli altri due lo guardarono in faccia, poi si guardarono tra loro ma non trovarono una risposta immediata. Julius si grattò la punta del naso, Dorian incrociò le braccia e dondolò la testa.

«Beh… forse è proprio per il concetto della Rinascita» azzardò Julius, non molto convinto lui stesso. «Non è che invitino tutta la città quando una donna sta partorendo… è una questione un po’ intima.»

«Almeno dove si svolgono lo sapete? Viene fatto in chiesa, giusto? Possibile che nessuno abbia azzardato un’occhiatina?»

«Mikael, hai un’indole ribelle anche tu allora» osservò Dorian divertito. «Ma non ci riuscirai. Non si svolgono nella cappella, per il Battesimo si viene portati fuori.»

Mika si fece più attento.

«Fuori? Fuori dove?»

«Non lo so… solo fuori. È successo che una ragazza del terzo grado una volta si addormentò nella sala d’arte al secondo piano e si svegliò che era già notte, e vide il Padre accompagnato da altri Rinati portare da qualche parte le tre persone che dovevano ricevere il Battesimo. Indossavano delle tuniche nere, e si sono allontanati dagli edifici centrali.»

«Si sono allontanati» ripeté sottovoce Mika, pensieroso. «Fuori dai cancelli…?»

«Mah, lo sapremo quando ci arriveremo, no? Magari ti diremo qualcosina di straforo dopo che saremo stati battezzati!»

Dorian controllò i dintorni dopo quell’audace affermazione del compagno, ma nessuno badava particolarmente a loro o alla conversazione: tutti i gruppetti stavano parlando a bassa voce scambiandosi osservazioni sulle letture.

A Mika si erano aperti scenari molto più stimolanti dopo quegli accenni misteriosi: se le due vittime erano state trovate al bacino idrico vicino alla loro chiesa forse poteva essere il luogo prescelto per il rito di passaggio che chiamavano Battesimo.

I suoi pensieri furono interrotti quando Julius sfilò con un gesto fulmineo il foglio e iniziò a scorrere le parole. Mika diede in un’esclamazione inconsulta e si sporse per riprenderlo, ma non ebbe più successo di un gatto che caccia un puntino laser.

«È una lettera!»

«Hai avuto il permesso di scrivere a casa così presto? Bene!»

«Non è per qualcuno a casa» rivelò Julius con un sorrisetto. «Chi è Damaris?»

«Damaris?» ripeté Dorian a voce più bassa, e si appropriò della lettera per leggerne il nome. «Non è quella ragazza del coro, quella con tutti quei riccioli? Ma tu come la conosci?»

Mika riprese la lettera e si prese qualche attimo per dissimulare l’imbarazzo. Si guardò alle spalle e lanciò occhiate eloquenti ai due ragazzi.

«Manterrete il segreto?»

«Certo» rispose subito Julius, sporgendosi verso di lui per sentire meglio.

«Mikael, non hai combinato qualcosa di inappropriato, vero?»

«No! Cioè… non proprio.»

Si era già pentito di aver parlato, ma Julius pressava tanto che si decise a snocciolare come aveva incontrato Damaris e come comunicavano senza che lui parlasse per non infrangere direttamente le regole del monastero. Julius fu colpito dalla sua soluzione, Dorian ne fu preoccupato e divertito in egual misura.

«Sul filo di lana come condotta, Mikael…»

«Per questo non dovete parlarne» commentò Mika, e spiegò di nuovo il foglio della lettera. «Solo che… penso sia un po’ risentita dal fatto che non le parlo neanche se non può sentirci nessuno, e volevo scriverle perché per me è tanto importante essere accettato qui e ricevere il Battesimo… e… dirle che vorrei che venisse alla mia Rinascita, quando sarà il momento.»

I due ragazzi si scambiarono un’occhiata compiaciuta che non seppe spiegarsi.

«Che sono quelle facce?»

«Ti piace proprio!»

«Non vorrai mica dichiararti già adesso? È una cosa seria, insomma, non penso che sia–»

«Dorian, nessuno sta parlando di promesse di matrimonio» gli fece notare Julius. «Ci sono molte ragazze carine qui, non è mica un peccato guardarle o pensare di voler chiacchierare con loro!»

«Non… non dico questo, solo… chiedere a una ragazza di essere presente al Battesimo, insomma, è… una cosa davvero intima e personale…»

«A me sta bene» ribatté Mika, anticipando la replica di Julius. «Io… lei mi piace. Credo di piacerle, quindi… insomma, mio padre esce sulla parola contro ogni previsione, trovo il libro della Chiesa in un negozio che non sapevo neanche esistesse e i soldi che mi ha dato il padrone per l’ultima paga bastavano proprio per arrivare con l’autobus in West Virginia! Forse dovevamo incontrarci, non pensate anche voi?»

Julius scosse la testa ma sorrideva, Dorian ridacchiò.

«Sei proprio un romantico, Mikael.»

Mika tese un sorriso non propriamente pianificato. Aveva progettato con cura la vita del ragazzo che stava interpretando e le sue reazioni possibili, ma l’allegria che sentiva quando vedeva Damaris sorridergli non era del tutto artificiale, e non poteva far finta di non averla sentita.

«Mi sa di sì… però non fatene parola, capito? Non è proprio il modo più giusto di seguire le regole, e non voglio che ci siano conseguenze anche per lei…»

«Senti, Mikael… perché non chiedi al Padre di darti il permesso di entrare nel coro?»

Sia lui che Julius guardarono Dorian confusi.

«Nel coro?»

«Damaris canta nel coro da tempo, è un mezzosoprano… ecco… se fate parte dello stesso gruppo almeno potete rivolgervi la parola, anche se non proprio passare tanto tempo insieme…»

«È vero! Io in effetti parlo con Fratello Levi e con Sorella Rebecca, che sono con me nel gruppo dell’artigianato, anche quando non siamo in laboratorio!»

Mika guardò la lettera, con un misto di entusiasmo e paura che si mescolavano a fatica tra loro. Era una splendida occasione di parlare con lei e con altri membri dei livelli superiori della Chiesa e carpire informazioni prima del Battesimo, ma in piccola parte si sentì come un bambino timido; gli si annodava lo stomaco all’idea di incontrare quella ragazza estroversa senza la difesa del suo obbligo al silenzio che gli permetteva di pensare ed evitare gli imbarazzi.

Preso in una disastrosa simulazione di prima conversazione finì per sobbalzare quando Julius gli afferrò il braccio.

«Devi farlo, Mikael! Metti che siete veramente destinati, tanto vale dare una spintarella!»

Mikael preferì non replicare e si prese tempo per ripiegare con precisione da origami la lettera non finita. Quando guardò i due compagni non c’era niente di finto nella sua incertezza.

«Voi ce l’avete avuta una ragazza, prima di arrivare qui?»

Dorian scosse la testa, Julius borbottò qualcosa prima di far loro sapere che l’aveva “quasi avuta”. Per ovviare alla generale ignoranza in materia Dorian chiamò immediatamente al loro tavolo la novizia Cecilia chiedendole senza mezzi termini di spiegare loro come approcciare con garbo una ragazza. La visione di Cecilia era di una purezza e delicatezza che strideva con la sua stessa reputazione, e Julius in particolare le prestava più attenzione di quella che riservava alle letture e ai sermoni del Padre.

Mika aveva passato un’infanzia da incubo, un periodo di doloroso adattamento all’orfanotrofio, i suoi anni adolescenziali in un istituto di formazione speciale – per ragazzi difficili, si poteva dire – per poi finire in accademia di polizia sempre accanto a Yuu e relazionandosi solo con lui. Stare in una biblioteca a parlare di ragazze e scherzare con persone circa sue coetanee era un’esperienza nuova. Non si aspettava di scoprire, quando ci ripensò coricato nel suo letto, che quel vertiginoso vuoto che aveva sempre sentito dentro non era più senza fondo.

 

*

 

Crowley camminava sull’erba mentre il vento faceva stormire le fronde degli alberi e scostava i suoi capelli. Raggiunse senza esitare la prima tappa del suo viaggio, mettendo un vivace mazzolino di margherite colorate sulla tomba della famiglia Bell, che ospitava Amos Bell, la sua consorte e la più giovane delle loro figlie. Con un sorriso stentato strofinò la fotografia della sua ex collega, ma era stata sbiadita dal sole e non impolverata.

«Ciao, Chess… vedo che come sempre sono in ritardo. La tua famiglia è già stata a trovarti.»

La lapide di marmo scuro era ingombra di fiori, c’era un sigaro – immaginò fosse stato lasciato per il padre – e una macchinina della polizia che forse le aveva lasciato uno dei nipoti, figli della sorella maggiore.

«Ti hanno portato dei fiori eleganti… io sono stato più sul semplice. Ho sempre pensato che tu fossi semplice… sincera, e vivace. Ma non ti ho mai portato dei fiori quando eri viva. Non so se ti sarebbero piaciuti davvero o mi avresti dato dello spilorcio.»

Sistemò il suo mazzolino di fiori nello stesso vaso di un bouquet di gigli per garantire loro di sopravvivere almeno un giorno con quella canicola e si inginocchiò per offrire una preghiera. Con un ultimo sguardo alla fotografia raccolse i fiori per gli altri e si allontanò.

Lasciò un mazzo di gladioli di un intenso color viola sulla lapide di Dominic e scambiò con lui qualche notizia sui suoi amati Los Angeles Lakers, prima di salutarlo e proseguire per mettere sulla tomba della famiglia di Dakin una pianta in vaso. Ricordava le molte piante sulla sua scrivania e il suo piccolo ma rigoglioso giardino, che avevano visto quando aveva invitato tutta la squadra per un barbecue.

Infine arrivò nella zona più ariosa del cimitero di Rosendale, dove sorgeva un bell’acero che al mattino faceva ombra alla piccola targa interrata. Crowley si chinò, provando il piccolo conforto di vedere che veniva pulita con cura e che l’erba era tagliata tutt’intorno. Posò i fiori sotto il nome e sedette di lato, sul prato.

«Ciao, George. Non ti sei liberato di me neanche quest’anno.»

Sorrise ripensando alle volte in cui gli aveva sbottato contro che era fastidioso e invadente, per poi precipitarsi a bussargli alla porta se per qualche ragione non gli rispondeva al telefono durante i suoi giorni di permesso.

«Oggi è una bella giornata… fa caldo, con un po’ di vento… ma le previsioni hanno dato temporali per stasera. Come due anni fa…»

Crowley si sdraiò sulla schiena e incrociò le mani dietro la nuca, e sospirando chiuse gli occhi. La terra era calda, il luogo silenzioso, ricordava un giorno d’estate nei boschi vicino a Eanverness. Si trovò a pensare che riposare lì non sarebbe stato così male: lontano da cruente scene del crimine e da parenti, amanti e amici che diventavano assassini, distante dal dolore di sopravvivere alle persone care e senza più sentire il senso di colpa, la vergogna, la paura, l’insicurezza…

«Ehi… George… ti dispiacerebbe se mi mettessi proprio qui, quando sarà il momento?»

«Gli dispiacerebbe di certo.»

Crowley aprì gli occhi ma si trovò abbagliato dal sole, così riconobbe l’avventore dalla sua risata prima di riuscire a scorgerlo attraverso macchie rosa e verdi dovute alla luce: in abiti civili con il collare ben celato e delle vivaci violaciocche in mano, Gilbert sorrideva.

«Gilbert…»

«A George dispiacerebbe che tu finissi a dormire proprio qui. Oserei dire che sarebbe l’ultima cosa che avrebbe voluto.»

Ferito come da un grosso spillo a quelle parole, si raddrizzò seduto e attese una spiegazione, ma il parroco aveva offerto il suo omaggio alla lapide e si era raccolto per una preghiera.

«Perché non avrebbe voluto? Eravamo amici da sempre.»

«Perché» esordì Gilbert, con pazienza e senza aprire gli occhi, «sai bene che avrebbe voluto che tu invecchiassi fino alla pensione, e che avevi detto che dopo ti sarebbe piaciuto tornare in West Virginia. Lui spera che tu possa farlo e che verrai sepolto là, con la tua famiglia.»

Crowley lanciò un’occhiata di profondo rammarico alla data della morte del suo amico, incisa sotto il nome di cui andava così poco fiero.

«Sa meglio di chiunque che per noi non c’è la minima garanzia.»

«Non c’è per nessuno. Il disegno del Signore è imperscrutabile a tutti noi… ma, al di là di ciò, so che George sperava che tu trovassi una persona speciale. Una così adatta a te che l’ultimo dei tuoi pensieri sarebbe di riposare accanto a un vecchio amico piuttosto che a lei.»

Era sempre stato troppo chiuso su certi argomenti, molto poco incline al sentimentalismo per parlargli direttamente di simili prospettive, ma l’espressione di Crowley vacillò e dovette mordersi il labbro per contenersi. Non era così difficile credere che George trovasse le storie a breve termine del suo amico di valore minimo e che gli augurasse qualcosa di assai migliore, qualcosa di simile al grande amore.

«Preghiamo per lui e per la sua famiglia, Crowley.»

Annuì e si mise vicino a Gilbert, come lui raccolto, ma lo lasciò recitare da solo le preghiere a bassa voce. Fu una fortuna che quell’angolo fosse deserto e che l’amico pregasse a occhi chiusi, così non poté vedere le lacrime che una per volta, sotto il peso di tanta solitudine, gli rigavano il volto un attimo prima che riuscisse ad asciugarle.

Alla fine Gilbert riaprì gli occhi e lo guardò sorridendo.

«Andiamo a casa.»

«Io… voglio restare qui con George.»

«Sì, è questo che mi preoccupa» commentò Gilbert alzandosi. «Su, andiamo. Se ti lascio qui va a finire che ti scavi una fossa da solo.»

«Gilbert, sul serio… non vengo mai a trovare George, ormai, se non all’anniversario…»

«E così dovrebbe essere… sai che lui non è qui. Il suo corpo è qui, ma lui no. Puoi parlare con lui ovunque tu sia, in qualsiasi momento… ma adesso hai bisogno di reagire.»

«Reagire a che?»

«Al Crowley-medusa» fece lui, prendendolo completamente alla sprovvista. «Quello senza ossa che si lascia in balia della corrente. Questo non sei tu, e io so che ti succede quando sei stanco di combattere.»

«Ti stanchi di combattere quando vedi che perdi la guerra e anche qualcos’altro.»

Gilbert si fece riflessivo e per un attimo Crowley pensò che l’avrebbe lasciato in pace, ma poi gli lanciò uno sguardo che sembrava brillare. Aveva lo stesso sguardo di quando da ragazzo trovava la maniera di convincere qualcuno a partecipare alle iniziative della parrocchia, e si appellò a Dio perché non gli parlasse di nuovo di coro e peperoncini.

«Forse cambiare avversario ti aiuterà a cambiare il tuo modo di combattere la guerra. Andiamo a casa e passiamo in palestra.»

«In… cosa? Tu in palestra?»

«Certamente, pensi che io passi tutti i giorni solo a cantare e lucidare panche?»

«E coltivare peperoncini.»

«Oh. Se pensi questo allora ci andrai piano nel nostro sparring, giusto?»

Gilbert l’afferrò per il braccio per convincerlo a schiodarsi dal luogo di riposo di George, cosa che ancora non aveva voglia di fare.

«Non è una buona idea, davvero…»

«È una buona idea. I guerrieri come noi dimenticano il loro scopo dopo una lunga battaglia complessa… io mi sento di nuovo come al mio primo giorno alla Saint Thomas dopo aver incrociato i pugni ed essermi sfinito per bene.»

«Tu combatti? Cioè, per davvero?»

«Sì, buon vecchio pugilato… ottimo allenamento per un corpo sano, e… perché no, una buona scusa per accogliere lo sfogo di un amico troppo stressato.»

Suo malgrado Crowley si trovò a sorridere e seguì Gilbert verso i cancelli del cimitero. Quando si girò indugiando sulla vicina lapide di Dominic, Gilbert gli strinse l’avambraccio come volesse impedirgli di essere trascinato via dalla corrente.

«Su chi pensi che scommetterebbe George, in un incontro amichevole tra di noi?»

«Su di me, no? Ha sempre scommesso su di me.»

«Sì, ma quante volte ha vinto facendolo?»

«Abbastanza» replicò Crowley, con un certo tono di sfida.

«Abbastanza, ma non sempre, giusto?»

Si scambiarono un’occhiata di rivalità come il tenente non ricordava d’aver mai fatto con i suoi amici non sportivi. Fu grato a Gilbert e al suo tempismo, perché non dubitava che altrimenti sarebbe rimasto a farsi il sangue amaro accanto alla tomba di George fino al calare del sole, rimuginando su ogni scelta sbagliata.

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Capitolo 8
*** Pedine ombra ***


Crowley parcheggiò davanti alla sconosciuta caffetteria di Red Chapel e ricontrollò l’indirizzo due volte prima di convincersi a scendere dalla moto. Non senza disagio entrò nel locale dietro a un paio di ragazzi in tuta da basket e difatti la cameriera che li accolse gli lanciò un’intensa occhiata fin dal primo passo.

Cercò di fingersi disinvolto mentre ricambiava il suo saluto e per fortuna adocchiò immediatamente una faccia conosciuta: passò tra i tavoli per arrivare a quello nell’angolo, dove Yuu sedeva sulla panca con il libro dei test d’esame aperto davanti. Anche se erano ancora ai ferri corti per non riuscire a risolvere la tensione, non appena lo vide Yuu trasalì.

«Crowley, ma che hai fatto alla faccia? Hai preso una colonna in pieno?»

«Una colonna con un gancio sinistro da paura» borbottò lui, sedendosi. «Fa’ finta di niente, per favore.»

«Gancio? Ti ha preso a pugni qualcuno?»

«Senti, non è niente. Ho fatto un allenamento e mi sono distratto, credevo di aver sentito il timer di fine round e ho abbassato le mani, tutto qui.»

Yuu sembrava tutto fuorché convinto. Girava la penna tra le dita e lo fissava con la stessa intensità di Mikaela quando cercava di capire se mentiva o no.

«Balle. Eri veramente in palestra o ti sei scazzottato con qualcuno in strada?»

«Per favore, di Mika ne basta uno» l’implorò Crowley, schermandosi l’occhio pesto con la mano mentre faceva un gesto alla cameriera. «Tè verde, per favore…»

Yuu tacque e continuò la sua simulazione di test a risposta multipla in vista del corso di tecnica investigativa che ambiva a frequentare. Se Crowley aveva pensato che superare l’accademia e indossare la divisa sarebbe bastato a soddisfare il ragazzo si era chiaramente sbagliato, perché Yuu sembrava ancora più deciso a bruciare le tappe e diventare detective prima dei ventitré anni, battendo così i tempi da record di Crowley.

Quando ricevette il suo tè, tuttavia, Yuu smise all’istante di controllare i suoi punteggi. Prese una busta di carta gialla – non gli fu chiaro dove l’avesse nascosta fino ad allora – e gliela porse.

«Devi vedere questo prima che arrivi Ferid.»

«Uh? Che roba è?»

«Aprila. C’è tutto.»

Perplesso Crowley aprì la busta, tirandone fuori un foglio stampato piegato in due e un cellulare vecchio modello. Yuu aveva ripreso a contare le sue risposte esatte, quindi Crowley cercò nel foglio qualche genere di delucidazione, ottenendo solo delle istruzioni molto basilari. Compose il numero indicato e alla richiesta della voce registrata inserì il codice che era riportato lì. Dopo una serie di rumori metallici indistinti udì una voce familiare.

«Sono Mika. Questo è un resoconto della mia prima settimana di investigazioni a Bluefields.»

Sconvolto Crowley alzò gli occhi su Yuu, che gli lanciò solo una rapida occhiata e tornò al suo libro con la faccia congelata in un’espressione distaccata.

«Al momento sono nella comunità come un ragazzo di nome Mikael che viene da Squall’s End, con un padre pregiudicato. Non così distante dalla realtà, come è meglio fare con le coperture. Sono stato accettato tra i cristiani dell’acqua e sono un novizio di terzo livello. Ne mancano ancora due per essere presi in considerazione per il Battesimo, quindi per adesso non posso stimare un tempo per l’obiettivo.»

Ascoltandolo non sapeva se essere sollevato che stesse bene o furioso per i suoi colpi di testa. Ebbe anche l’idea di saltare in macchina e andarlo a prendere per le orecchie, e forse se il suo catorcio non fosse stato così malconcio da dubitare che sopravvivesse al viaggio ci sarebbe andato davvero.

«Mi guardo intorno e sembra una comunità tranquilla. I novizi sono per lo più allegri, i gradi superiori sono affabili, il Padre che dirige la baracca, Nereus, sembra una persona amichevole e alla mano. Non ha l’aria di un manipolatore, ma all’inizio non l’hanno mai.»

Forse non lo sono. Non tutti coloro che parlano di Dio hanno un buco nero nel cuore come quelli che hanno plagiato i tuoi genitori, Mika.

«Se c’è qualcosa di poco chiaro è questo sacramento che chiamano Battesimo. Pare che nessuno sappia come e dove si svolge tranne chi lo ha già fatto, e per le regole della comunità i novizi non possono parlare ai gradi superiori se non per lavorare e per fare lezione. So che si svolge fuori dagli edifici e penso che potrebbe c’entrare con quello che è successo al ragazzo affogato a Nashville e a Lanius. Richiamerò quando ci saranno novità, altrimenti mi sentirete tra due settimane per farvi sapere che sto bene.»

Crowley si raddrizzò sulla panca, con la strana sensazione che qualcosa non fosse a posto. Il suo settimo senso aveva qualcosa da dirgli, forse?

«Se Yuu non ascolta questo messaggio, digli tu che lo amo.»

Sentì solo rumori di pioggia e di vento prima che la registrazione finisse. Confuso e turbato incrociò ancora gli occhi verdi di Yuu, che stavolta non tornò al test.

«Hai ascoltato il messaggio?»

«No. Ferid ha detto che in quanto mio superiore era meglio se lo ascoltavi prima tu e poi decidevi se tenermi informato.»

La mente già affannata di Crowley non riuscì a processare anche quell’informazione. Prese un sorso di tè e guardò le istruzioni della casella vocale, cercando di ricollegare pezzi sconnessi della storia. Prese il cellulare nero e lo rigirò fra le mani.

Ferid aveva detto, quando si erano conosciuti, di non aver mai avuto un cellulare prima e che sapeva usare appena quello del negozio… ora ne aveva due – a detta sua, uno di lavoro e uno personale – e se ne usciva con un cellulare dalla casella criptata, roba che per lui era da spionaggio, consegnato in una busta in una caffetteria. Aveva il sentore di un film alla Mission: Impossible, e lui detestava i film dove nessuno era quello che sembrava.

Non aveva dimenticato che quasi una settimana prima l’aveva sentito parlare al telefono con qualcuno in cucina, e non era abbastanza addormentato da pensare di aver sentito male: aveva detto più volte il nome “Ismael”, lo stesso misterioso informatore di De Stasio, quello che aveva scovato il cerchio di identità fittizie di Robert Warren… e che l’aveva sentito nominare l’MI6.

L’ombra del sospetto era di nuovo insieme a lui. Voleva disperatamente fidarsi di Ferid, essere completamente certo della sua sincerità, ma lunghe assenze, mezze verità e comportamenti non compatibili con l’idea che aveva di lui piantavano il sospetto dentro il suo cuore a martellate.

Crowley posò la tazza e si mise a fissare il tempo cupo fuori dalla vetrata. Nel marasma emerse una congettura di ombre, una scintilla scura del suo settimo senso. Si bloccò, contemplandola per un po’, poi si alzò in piedi di scatto per dirigersi senza meta in fondo alla saletta.

Non essere ridicolo, non può essere… o può?

Sforzandosi di essere più distaccato che gli fosse possibile, si mise a sparpagliare tutti i dettagli che conosceva di Ferid su un tavolo nero che esisteva solo nella sua mente.

Non conosceva molti dettagli certi. Sapeva che i verbali della sua infanzia negli USA erano stati segretati. Aveva visto una patente di guida e un certificato autenticato da lui stesso, qualche documento per l’eredità del suo defunto marito e qualche altra tessera di poco conto, che si può falsificare o comprare per pochi soldi. Non aveva prova tangibile della sua nobiltà, così come non poteva dire se sua nonna lo fosse davvero.

Alla prova attenta dell’Osservazione Fredda, scevra di voti di fiducia, l’esistenza di Ferid Bathory poteva essere vera quanto poteva essere una copertura con i fiocchi per qualcuno che stava dentro un’agenzia.

«Non essere ridicolo» sussurrò, ignorando le persone che lo guardavano stranite.

Eppure, qualcosa di insolito l’aveva fatto. Per esempio, era riuscito a sfuggire a un’aggressione armata da solo, non qualcosa di facile per un libraio con le attitudini atletiche di un ozioso ippopotamo. La volta prima era stato pestato parecchio, ma in quel momento si chiedeva se non fosse stato intenzionale per prendere tempo, del tempo pagato caro.

Crowley serrò le palpebre e si massaggiò la fronte. Avrebbe voluto avere i suoi cartoncini e pennarelli per mettere tutto davanti agli occhi e toglierselo dalla testa; era come avere uno sciame di vespe dentro il cranio mentre la parte più razionale smembrava i ricordi più forti che aveva di quell’uomo per studiarli da dentro.

Stava dando nell’occhio, quindi prese il miele dal banco dei condimenti e tornò al tavolo, dove Yuu lo osservava quasi senza sbattere le palpebre. Non voleva metterlo a parte delle sue paranoie su Ferid e tentò di dissimulare le sue reazioni aprendo il flacone. Tuttavia, preso il cucchiaino per mescolare il miele nella tazza, sentì la voce di Ferid nella sua memoria dire il nome Ismael.

Ismael… un informatore che nessuno conosce ma che tutti i pezzi grossi hanno in comune… come lo conosce Ferid un elemento del genere? E poi… quella volta…

Solo una volta, per un puro caso, aveva sentito Ferid parlare al cellulare mentre era al di là della porta. Non sapeva che lo poteva sentire e gli aveva sentito dire di essere Ismael… con chi parlasse non lo aveva saputo, perché aveva detto al suo interlocutore che avrebbe richiamato non appena si era accorto del suo ritorno.

Forse Ismael non è una persona soltanto. Forse è un nome che usano per…

Crowley sospirò e si massaggiò la fronte.

«Usano chi, in nome di Dio? Sto delirando.»

Yuu sembrava sul punto di dire qualcosa, ma venne distratto dalla porta che si apriva. Avendola alle spalle Crowley dovette voltarsi per vedere l’uomo che stava puntando dritto verso di loro: vestito in jeans scuri e t-shirt con un giacchetto leggero, si avvicinava con il casco da moto sotto il braccio. Niente nella sua espressione altezzosa, nel suo sorriso sarcastico, negli occhi dalla sfumatura viola e nei capelli neri leggermente mossi gli dava la sensazione di essere davanti a un conoscente: Crowley non lo aveva mai incontrato, ma sentiva già che non gli piaceva.

Un ragazzino allargò di scatto le braccia mentre raccontava qualcosa alla donna con lui e l’uomo fece uno scatto di lato per evitare di essere colpito. Il giacchetto si era mosso di pochissimo, ma era stato sufficiente ad accendere tutti i suoi sistemi di emergenza alla vista della fondina.

Era disarmato essendo in borghese, perciò si alzò di scatto per fronteggiarlo a mani nude; per pochi secondi si fissarono negli occhi e Crowley gli artigliò il braccio quando lo vide infilare la mano sotto la pelle color daino. Ci fu un rapido scambio di prese del braccio come poteva verificarsi solo tra due esperti di combattimento corpo a corpo che non volessero dare spettacolo, poi Crowley – non riuscì a comprendere come – si trovò davanti agli occhi un tesserino che mise fine al suo attacco.

«Il tenente Eusford, immagino» commentò l’uomo, che non aveva perso quel sorriso irritante per tutto il tempo. «Sei come mi hanno raccontato, solo più ammaccato.»

«Che diavolo succede, Crowley?»

L’uomo guardò il ragazzo con l’aria divertita.

«Sloggia, pulce, gli adulti hanno qualcosa da discutere.»

Yuu si gonfiò di rabbia come un pesce palla e Crowley non poté forzarsi a calmarlo: anche a lui quel tizio piaceva sempre meno ogni secondo che passava.

«Sono un adulto, io! Sono un agente di pattuglia della polizia di New Oakheart!»

«Un agente di pattuglia, che tenero» lo schernì l’uomo, e li superò per accomodarsi al loro tavolo. «Non è che ho tutto il giorno per questo, quindi siediti, Eusford. Anche tu, pulce, se proprio vuoi sentirti importante.»

«Mi chiamo Yuuichiro Amane, brutto idiota.»

«Yuu… sta’ calmo, per favore» fece Crowley, e sedette. «Non è il posto per gridare contro… questo qui.»

Yuu si lasciò cadere sulla panca con l’aria di pensare che invece fosse proprio il posto giusto e il momento perfetto per gridare contro qualcuno.

«Voglio sentire il messaggio che vi ha lasciato l’agente Shindo.»

Completamente dimentico del suo orgoglio, Yuu scoccò un’occhiata sbalordita a Crowley. Lui preferì tacere senza guardare né l’agente né la busta o il cellulare.

«Come sapete che ne ha lasciato uno?»

«Oh, via, Eusford. Siamo l’FBI, noi sappiamo tutto.»

Yuu si accigliò all’istante, neanche il federale avesse fatto il nome di una pericolosa gang di strada.

«Vi piace darlo a bere a tutti, questo è vero» commentò acido Crowley. «Ma non sto scherzando. Voglio sapere come lo sapete.»

«Informatore, basta come risposta?»

«Ismael?»

L’espressione del federale cambiò subito. Sembrava essere piacevolmente sorpreso, ma il suo sorriso conservava un certo velo di disgusto, come qualcosa nell’ambiente o nelle persone intorno a lui continuasse a infastidirlo.

«E un tenente della omicidi come conosce l’uomo dalle mille voci?»

«Non lo conosco così bene» ammise suo malgrado Crowley. «Mille voci per quale ragione?»

«Per la più ovvia: ha voci di impronta diversa e accenti differenti, tanto che non siamo sicuri neanche noi che sia una persona soltanto.»

Il settimo senso di Crowley mandò scintille come avesse acceso una saldatrice su un tubo di metallo. Con quella bella rivelazione ormai sembrava più da idioti che da prudenti supporre che Ferid non avesse nessun collegamento con quella misteriosa figura.

«Ismael vi ha detto che cosa sta succedendo?»

«Ismael ha parlato di un agente di New Oakheart che è dentro la comunità di Nostro Signore delle Acque di Bluefields, in West Virginia. Non presto attenzione a un informatore se non so chi sia e cosa ci guadagna da quello che mi dice, ma visto che qualche giorno fa un vecchio amico mi ha chiesto se avessimo qualcosa di aperto sulle comunità della Chiesa dell’Acqua la coincidenza mi è parsa sospetta…»

Il federale accavallò le gambe.

«E pare che abbia fatto centro. Ora, che cosa sta facendo quell’agente laggiù, se non avete neanche un fascicolo aperto… e siete ben al di là della giurisdizione del vostro dipartimento?»

«Ti hanno chiesto qualcosa della Chiesa dell’Acqua? Stai parlando di De Stasio?»

«Sì» confermò lui, aggrottando le sopracciglia. «Mi ha detto che tu gliel’hai chiesto, o c’è forse un altro tenente con un nome così tanto strano qui?»

«Sei Ichinose.»

Ichinose diede in una breve risata, per la prima volta con una sfumatura di imbarazzo.

«Suppongo di aver dimenticato di nuovo di presentarmi. Mi succede sempre, negli uffici dell’FBI non serve che lo faccia» si giustificò senza la minima traccia di umiltà. «Sono Guren Ichinose, agente speciale bla bla bla. Per che ufficio o squadra lavoro non ti serve saperlo e altre cose se le sapessi finiresti ammazzato da un cecchino, quindi manteniamo una cortese indifferenza uno per l’altro, vuoi?»

«Non è mai stato così facile restare indifferente stando seduto davanti a un bell’uomo, credimi» tagliò corto Crowley, accigliato. «Quello che voglio davvero sapere è perché sei piombato qui per sapere che cosa Mikaela sta facendo. Se sei un federale dovrebbe essere più facile per te scoprire qualcosa, che per noi.»

«Il succo è, Eusford, che l’indagine di cui mi occupo potrebbe essere collegata a questa nuova chiesa… o meglio, questa chiesa prepara un terreno in cui potrebbe starci molto bene l’erbaccia che cerco di strappare via. Quindi, se avete un uomo dentro deve diventare i miei occhi e le mie orecchie. A voi non serve, ma serve a me

Crowley si accigliò di più.

«Mikaela Shindo è un mio agente, un semplice agente di pattuglia. Non è qualificato per fare il vostro lavoro» rimbeccò seccato. «Se ti servono occhi, orecchie, mani e quant’altro mettici uno dei tuoi a fare il lavoro sporco, con le microspie, le trasmittenti, i chip per il segnale GPS e tutti i giocattolini che fate coi soldi dei contribuenti. Non giocare con la pelle del mio amico.»

Guren non smetteva di sorridere e questo iniziava a essere snervante. Prese il cellulare e toccò qualche volta lo schermo, in silenzio, poi si mise a fissarlo per qualche secondo.

«Mhh… sì, ricordavo questo nome… Mikaela Shindo. Non si sente spesso un abbinamento tanto strano… è il bambino sopravvissuto ai Figli della Virtù.»

Capì che doveva avere il dossier di Mikaela sul suo telefono. Si sentì ancora una volta piuttosto old fashioned con il suo schedario di cartelline di fogli sparsi e il suo taccuino nella tasca dei pantaloni.

«Curriculum notevole» commentò mentre scorreva ancora lo schermo. «Accademia di polizia con il massimo dei punteggi, corsi e seminari di psicologia criminale… counseling alle vittime di abuso psicologico. Seminari sulle nuove ideologie e linguaggio del corpo…»

Guren batté la mano sul cellulare guardando finalmente di nuovo il tenente.

«Questo non è un agente di pattuglia, ha fatto più della metà degli studi che richiedo ai membri della mia squadra. È qualificato per questo lavoro.»

«Studiare gli effetti delle droghe ti rende un buon consulente scolastico, ma non certo un agente della narcotici pronto a smantellare un cartello.»

«Il cartello lo smantello io da solo. Non è quello che voglio da lui.»

Guren si fece più avanti, con un sorrisetto ancora più largo.

«Se il ragazzo porta a termine la raccolta di informazioni per me, lo raccomando per Quantico. Lo prendo nella mia squadra. Gli piacerà… dopotutto, io vedo gente come i Rinati dell’Acqua e i Figli della Virtù ogni giorno, anche oltreoceano. Abbiamo a che fare con ideologie criminali e religioni contorte. Il genere di cose che il tuo agente Shindo conosce così bene.»

«Quindi è questo di cui ti occupi? Indaghi su questi gruppi?»

«Sì, e su tutti i crimini che commettono scappando da uno stato all’altro quando iniziano a incasinare le cose. Ero troppo giovane per esserci dentro, ma fu la squadra del mio mentore ad arrestare i capi dei Figli della Virtù dopo il processo per l’omicidio di quella bambina.»

«Non credere che ti ringrazierebbe qualcuno, qui. Squadre come la tua dovrebbero impedire che si arrivi a tanto, non ripulire dopo che si è fatto un casino irrimediabile.»

Guren smise di sorridere, ma lo sguardo restò imperturbabile.

«La mia squadra è migliore di com’era prima di me. Non lo lasceremo succedere ancora.»

Yuu decise che era il momento di sbottare contro quel federale, elencandogli tutte le ragioni per le quali “non poteva prendersi Mika”. Crowley, invece, era dell’idea che Ichinose fosse serio – a vedere con quale interesse aveva letto il curriculum – e si chiese se Mikaela avrebbe preso in considerazione quell’offerta, senza dubbio molto succulenta per un agente appena diplomato. In quel caso si sarebbero separati o Yuu avrebbe chiesto un trasferimento?

Decine di scenari gli si prospettavano, molti dei quali vedevano l’appartamento accanto al suo svuotarsi, e sullo sfondo vedeva fisso la schiena di Ferid, come una macchia sulla lente di un proiettore di diapositive.

Tutto va incontro al cambiamento, nella vita… ma è la prima volta che ho così tanta paura dei cambiamenti.

A riscuoterlo dalla sua trance fu la tazza del caffè che gli oscillò davanti pericolosamente quando Yuu si appropriò del telefono nero. Si rese conto che non voleva fargli sentire il messaggio e per questo cercava di portarglielo via, ma lo fece ragionare: se non avessero ostacolato Ichinose avrebbero avuto la possibilità di non venire del tutto estromessi dall’operazione.

Stava per avviare la registrazione quando Ferid entrò nel locale con l’aria di uno che si era fatto un bel pezzo di strada di corsa: aveva i capelli scompigliati, il fiato corto, il volto arrossato.

«Che carino a farti vedere, Ferid. Spero non ti rubi troppo tempo» commentò Crowley, non del tutto immune agli effetti dei suoi dubbi.

«Mi dispiace, c’è un ingorgo sulla Treyers, ho dovuto mollare il taxi e arrivare qui di corsa…!»

Ferid scambiò uno sguardo con Guren e Crowley ebbe la netta impressione che ci fosse dell’imbarazzo. Gli bastò guardare l’altro per vedere che i suoi occhi viola erano fissi su una persona che già conosceva.

«Guren?»

«Guarda guarda. Il ragazzo dello York Club.»

Per fortuna fu Yuu a parlare prima, perché Crowley dubitava che gli sarebbe uscito qualcosa di diverso da un ringhio. Aveva ben presente che lavoro Ferid avesse fatto in club e discoteche e che tipo di vita ci conducesse dopo la morte di suo marito.

«Voi due vi conoscete?»

Ferid esitò, ma Guren no e tornò a esibire quel suo sorrisetto detestabile.

«Si può dire così? Ci siamo già incontrati, questo sì.»

«Dove?»

«Allo York Club di Las Vegas. Un po’ di anni fa, ormai.»

Senza dire una parola Crowley puntò gli occhi su Ferid. Il resto della faccia lo teneva nascosto mettendoci davanti le mani intrecciate. In quel momento non sapeva se lo indispettisse di più sospettare che quell’uomo odioso avesse messo le mani – e non solo – su Ferid o scoprire un’altra sua alta conoscenza nelle agenzie a tre lettere. Ferid guardò dalla sua parte e almeno lui parve risentirne, perché si irrigidì.

«Non ho fatto niente! Alloggiavamo nello stesso hotel» si spiegò lui, nervoso. «C’era un bar casinò in albergo, lo York Club… ci siamo conosciuti lì. Allo stesso tavolo.»

«Abbiamo bevuto parecchio. Credo sia stata la mia serata migliore in termini di whisky sour. Ci abbiamo dato dentro seriamente.»

«Non io, io bevo soltanto Gimlet!»

«Oh, sì, sì» commentò Guren, divertito. «Ricordo di aver pensato che fosse così vintage… ma ne buttasti giù un bel po’, visto che ne ordinavi uno ogni volta che io ordinavo whisky.»

«Tutto molto simpatico» li interruppe Crowley, che difficilmente ricordava una conversazione meno simpatica di quella. «Ma un ragazzo potrebbe essere in guai seri, e ormai mi pare evidente che la ragione principale siete voi due. Avete intenzione di spiegare qualcosa?»

La sua considerazione mise una diversa forma di tensione sulla faccia di Ferid e fece tornare Guren presente a sé. I suoi occhi violetti guardarono il tenente, poi il poliziotto e il cellulare che aveva davanti.

«Sì, giusto. Gimlet, aspetta fuori.»

«Non mi chiamo Gimlet» sillabò Ferid. «Sono Ferid Bathory, e nessuno mi dice dove andare, specie un tronfio, arrogante incravattato del Bureau.»

Le espressioni di Crowley e di Guren ebbero un identico, brevissimo fremito e il tenente abbassò le mani.

«Come lo sai che è dell’FBI?»

«Già» convenne Guren. «Come lo sai? Non lo ero ancora quando ci siamo incontrati.»

«Ricordo il tuo nome. De Stasio una volta disse di avere dei contatti, un certo Ichinose… se sai di Mikaela, se sei qui a parlare con Crowley, vuol dire che i federali hanno scoperto un nido di vespe grosso sotto quella chiesa.»

Acqua. Fa acqua da ogni parte… però…

Possibile che Ferid fosse già lì da un po’ e che l’avesse visto mostrargli il distintivo, anche se era stato impossibile persino per Yuu? Forse la sua relazione con Guren Ichinose non era rimasta sopita per così tanti anni e sapeva che era un federale? Aveva sentito qualcosa prima di avvicinarsi, o letto il labiale dalla vetrina? Teorie stiracchiate, forse, ma più plausibili del fatto che Ferid fosse a sua volta un agente di qualche ufficio con l’acronimo.

«Mah, allora fa’ come ti pare, Gimlet. Ora posso sentire quel messaggio o devo requisire il telefono?»

Riascoltarono il messaggio due volte e la seconda Guren Ichinose ascoltò con molta concentrazione. Yuu non commentò l’ultima frase a lui diretta, ma Crowley notò che sbatteva le palpebre più frequentemente del normale.

«Tutto qui. Non è neanche una faccenda interessante per voi, non ci sono abusi, adepti segregati né perversioni. Niente che porti qualche gloria alla tua squadra.»

«Aggiornerà ancora. Quando lo farà voglio essere immediatamente informato» sentenziò Guren, e presa una penna scrisse un numero su un angolo di un foglio. «A qualsiasi ora arrivi un’altra chiamata io devo essere il primo a cui rivolgerai la parola.»

«Altrimenti?»

«Mi rivedrai di persona. So che non ti piace l’idea» aggiunse lui alzandosi dalla panca. «Sarò il referente dell’agente Shindo e dopo… tre minuti, diciamo, da quando sarò uscito da qui lui sarà a tutti gli effetti un agente sotto copertura con tutti i benefici e le protezioni del caso.»

«Mika un agente sotto copertura?! Ma siete pazzi?!»

Crowley non replicò e intascò il numero senza un fiato, senza prestare attenzione alle inutili proteste di Yuu. Lanciò un’occhiata penetrante a Ferid, che per una ragione o un’altra scelse di andarsene.

Non riusciva a togliersi di dosso l’idea che ci fosse qualcosa o qualcuno di molto più grande dietro quel caso di suicidi o incidenti, dietro la Chiesa dell’Acqua e dietro quella cortina di agenti segreti e pedine ombra. Poteva risolvere un caso con tutti i pezzi sulla scacchiera o quasi, osservando, leggendo gli indizi… ma non poteva farlo se i suoi occhi non riuscivano neanche a vedere i confini della scacchiera.

 

***

 

La sua partecipazione alle prove del coro era la sola ragione per la quale Mika era ancora fuori dal dormitorio alle undici di sera. Camminava svelto ai margini del sentiero per non fare rumore sulla ghiaia, bramando un po’ di luce per riuscire a leggere i due foglietti che Damaris gli aveva infilato nel quaderno dei canti insieme allo spartito di un brano intitolato I belong to Him.

Non se ne rese conto, ma mentre camminava nella sera piacevole con il naso immerso nel giornale dei canti e il pensiero che andava a come Damaris avrebbe potuto cantare I belong to Him Mika non prestava la minima parte della sua mente alla missione, alle indagini, né, in verità, alla vita da poliziotto e fidanzato che aveva lasciato a nove ore di strada verso nordest.

Fu provvidenziale che si scontrasse con una figura che, come lui, si muoveva al di fuori del sentiero e con una certa fretta: lo urtò tanto forte da fargli cadere il libro e dovette tenersi in piedi aggrappandosi all’albero più vicino. L’uomo lo guardò appena senza fermarsi e senza nemmeno scusarsi, marciò lungo il muro in direzione della canonica.

«Che stronzo.»

Mika si chinò a raccogliere il giornale e si assicurò che la lettera di Damaris non gli fosse caduta, poi la confusione mentale svanì e si ritrovò di nuovo presente a se stesso: un poliziotto nel corso di un’indagine privata.

Quell’uomo non ha gli abiti della chiesa. Cosa fa un esterno qui a quest’ora di notte?

Senza esitazione marciò dietro all’uomo, con il miglior compromesso tra velocità e silenzio. Entrò nel cortiletto appena in tempo per vederlo entrare dall’ingresso che usava sempre per salire all’ufficio di padre Nereus; accelerò, entrò senza far scattare la chiusura del portone e alzò gli occhi per guardare su nella tromba delle scale. Lo vide salire al primo piano.

Non c’erano molti posti dove potesse dirigersi, perciò Mika si attardò per sfilarsi le scarpe e salì a passi felpati come un gatto, senza alcun rumore sulla moquette beige. Aveva appena superato il pianerottolo quando sentì una maniglia cigolare appena. Si affrettò per vedere quale porta avesse aperto ma quando lo sentì parlare si inchiodò sul terzo gradino dal primo piano.

«È un labirinto, qui! Non riuscivo a trovare la porta dei giardini…»

«Come puoi non trovarla? Dal cancello sempre dritto verso il campanile. Ci saresti arrivato davanti.»

È la voce di Padre Vann. Cercava il suo ufficio.

«Sono andato verso i giardini davanti e ho trovato un caseggiato basso… non sono passato davanti alla chiesa.»

«Idiota, sei andato a sinistra. Ti avevo detto dritto dal cancello.»

«Beh, sono arrivato, no?»

«Grazie al cielo» commentò acido Vann. «Entra.»

Sentì la porta chiudersi e le voci farsi deboli come un sussurro lontano. Ripartì girando l’angolo e proseguì nel corridoio, avvicinandosi a tutte le porte per sentire le voci dei due uomini: non sapeva quale fosse l’ufficio di Vann. Scoprì che si erano chiusi nella terza camera sulla destra.

«Ti ha visto qualcuno venire qui?»

«No… anzi, ho incrociato un ragazzino biondo mentre cercavo l’ingresso dei giardini.»

«A quest’ora?»

La sua voce suonò allarmata a Mika, e seguì il rumore di una tenda scostata bruscamente. Stava guardando se il ragazzo era ancora in giro? Aveva la paranoia di essere spiato o pensava solo che ci fosse un indisciplinato da punire? Mika si sentì stringere lo stomaco: se si era davvero fissato con qualcuno era probabile che si trattasse di lui, visto che era già stato beccato fuori dal letto di notte una volta.

Sono troppo esposto qui…

Mika si spostò verso la porta a sinistra, ma era chiusa. Corse a quella a destra e l’aprì entrandovi; si trattava di una stanzetta simile a quella delle fotocopiatrici nella centrale di Satbury. C’erano alcuni scatoloni di risme di carta, opuscoli pubblicitari su carta semplice e un paio di vecchi modelli di fotocopiatrici e fax. Si accovacciò in uno spazietto tra la fotocopiatrice e una pila di anonimi scatoloni rettangolari e per sua fortuna incollare l’orecchio alla parete bastava per sentire cosa succedeva nello studio accanto.

«Che ne so che aspetto aveva? Era un biondino, almeno credo» stava dicendo lo sconosciuto.

«Che cosa indossava?»

«Siete vestiti tutti uguali qui» fece quello, con un tono seccato. «Pantaloni e camicia, che altro?»

«Grigio?»

Mika aveva l’impressione che Vann sospettasse di lui… ma perché un prete dovrebbe sospettare che un novizio lo controllasse? Se aveva visto in lui qualcosa di diverso da un giovane novizio con un piccolo segreto – tra i più plausibili in un posto così isolato, una ragazza da incontrare – forse aveva qualcosa da nascondere.

Qualcosa che un poliziotto potrebbe voler vedere?

«Credo fosse vestito in azzurro» rispose a sorpresa l’uomo. «Sì, sono abbastanza sicuro.»

«Davvero?»

«Credo di sì, sì» ripeté più convinto. «Ma che importa? Non mi avrà neanche notato, aveva il naso ficcato in un quadernetto di spartiti.»

«Spartiti? Non sai che faccia ha ma sai cosa leggeva?»

«Beh, forse no, ma mia sorella insegna musica. Sembrava uno dei suoi quaderni della musica. Mi è saltato all’occhio.»

Seguì un breve silenzio. Mika si spostò trattenendo il fiato, appoggiando le ginocchia per evitare che si intorpidissero le gambe.

«Può essere… sì, c’erano le prove del coro oggi. L’avevo dimenticato, o ti avrei detto di arrivare più tardi per sicurezza.»

«Ora sono qui, possiamo smettere di chiacchierare di cori e parlare di affari?»

Affari. Mika respirava così piano da sembrare addormentato: non voleva perdersi una sola sillaba su degli affari da discutere in un orario notturno facendo attenzione che nessuno li notasse incontrarsi.

«Sarebbe a dire?»

«Moss mi ha mandato a chiederti se il tuo catalogo è pronto.»

«Di’ pure a Moss che non posso fare un bel niente. Qui non sono il capo, sono soltanto un ospite, e Nereus non accetterà mai. Vada pure a caccia da qualche altra parte.»

Caccia? Caccia di cosa?

Mika avrebbe voluto avere modo di registrare, ma non aveva nulla che servisse allo scopo. In ogni caso, finora era un dialogo losco ma non incriminante.

«Moss mi ha detto di dirti che verrà ad Halloween per guardare un film insieme.»

A questa frase apparentemente innocua Vann non replicò per un certo tempo.

«Io… farò quello che posso. Ma digli che qui non c’è tanta selvaggina come potrebbe pensare.»

«L’importante è che non sia la stessa del Tennessee, no?»

Ci fu un altro breve silenzio.

«Vuole un elenco.»

«Deve darmi prima il tempo. Come ho detto, qui sono un ospite, non posso decidere io e andare in giro a raccogliere firme come una petizione per la pace in medioriente.»

«Te l’ha detto: ad Halloween verrà per qualche sparo con degli amici.»

«Sì, ho capito» ribatté Vann, con un tono irritato. «Lo chiamerò prima di quel momento per… accordarci sul tempo.»

«Bene, bene… ti saluto Chloe, eh?»

L’uomo sconosciuto scoppiò in una risata detestabile, per suono e e sensazione che dava.

«Non fare quella faccia, Miles… credimi, è un piccolo club esclusivo. Dai, ti ho fatto arrabbiare? Non avete il senso dell’umorismo, voi clerici.»

«A chi il senso dell’umorismo, a chi quello della decenza, Patch.»

Vann si offrì di accompagnarlo di sotto per mostrargli dove passare. Mika si alzò lungo la parete ma non si accorse del piano di raccolta copie della fotocopiatrice che sporgeva e l’urtò con il gomito con più rumore di quanto ne avrebbe desiderato; si schiacciò contro il muro ma la conversazione dei due – ora parlavano di come si stesse riprendendo un tale di nome Buns – non si interruppe e Mika sperò che non l’avessero sentito.

Il cigolio della porta, lo scatto della serratura, poi passi che superarono il ripostiglio e raggiunsero le scale. Mika lasciò uscire il fiato lentamente e per buona misura richiuse il vassoio di raccolta con un leggerissimo scatto.

Credevo succedesse solo nei film di urtare qualcosa in modo idiota nel momento più pericoloso, e invece…

Mika andò alla porta e l’aprì lentamente, sbirciò nel corridoio con accese solo le lucine di cortesia montate nei due edifici centrali e reputò che la via fosse libera: se Vann avesse voluto rientrare subito non avrebbe spento le luci dietro di sé.

Richiuse la porta dello stanzino mentre infilava di nuovo le scarpe e con il passo più leggero di cui fosse capace andò alla porta accanto. Buon per lui che nonostante la paranoia Vann non chiudesse a chiave.

L’ufficio di Vann era molto più pieno di quello di Nereus: davanti alla scrivania molto ordinata c’erano due sedie nere di cui una spostata dall’uomo che vi si era seduto poco prima, c’erano due poltrone in pelle e un divanetto senza schienale, dei piccoli tavolini di vetro addossati alle pareti o negli angoli ospitavano statue sacre, c’era una libreria zeppa alta fino al soffitto e un ampio mobile antico con decine di piccoli cassetti. Più interessante per Mika fu il telefono, che era un vecchio modello davvero: uno dei primi a sostituire i telefoni a disco.

Con questo non c’è identificativo di chiamata o funzione di memoria. Posso chiamare la casella vocale da qui.

Mika alzò la cornetta e iniziò a comporre il numero, ma poi esitò e riagganciò. Ora che sapeva dove trovare un telefono sicuro senza uscire dalla tenuta era in vantaggio, ma chiamare in quel momento per riferire una conversazione vaga con un uomo che non sapeva neanche chi fosse sarebbe stato sciocco. Come gli aveva insegnato Crowley, doveva captare le informazioni da più fonti fino a che non avesse visto il disegno generale, con l’evidenza o con l’intuizione. E sapeva che la sua intuizione correva più veloce della sua logica deduttiva.

Prese di nuovo il ricevitore con la semplice intenzione di assicurarsi che il telefono funzionasse senza prefissi per la linea esterna – per una chiamata di prova gli veniva in mente solo il numero del fast food in cui aveva lavorato – ma premette solo un numero prima che gli strappassero la cornetta dalle mani.

Venne strattonato e spinto sulla poltrona con tanta forza che quasi la ribaltò, ma nell’attimo di immobilità che seguì Mika mise a fuoco il suo aggressore: era un giovane molto muscoloso che non aveva mai visto sorridere, non ne conosceva il nome ma era dell’entourage di Vann e lo accompagnava spesso senza parlare mai; almeno non quando lui lo vedeva.

Neanche quella sera sembrava aver voglia di chiacchierare, perché senza scollare le labbra si avventò su di lui per prenderlo per il collo. Resistergli fu inutile, aveva una forza così dirompente in quella corporatura che neanche i suoi corsi di combattimento gli evitarono di essere atterrato sulla moquette e immobilizzato dalle sue ginocchia.

Non sapeva esattamente cosa dire, ma non avrebbe fatto alcuna differenza minacciarlo o pregarlo: dalla gola serrata gli uscì soltanto un rantolo. Lanciò le mani in alto per attaccare agli occhi, ma l’uomo di Vann era un combattente esperto e riuscì a mettersi fuori pericolo inchiodando il suo braccio sinistro col ginocchio. Mika fece saettare gli occhi sul tavolino alla ricerca di un’arma di fortuna ma scorse solo un’apparizione di colore blu sulla porta: Vann era di ritorno nel suo ufficio e non sembrava affatto sorpreso che vi fosse in corso una colluttazione.

«Barak, non strozzarlo» fu ciò che disse in tono neutro. «Sei pur sempre un servo di Dio.»

«Mi perdoni, Padre.»

La voce di Barak era profonda e dava l’idea di un uomo più vecchio e più corpulento di quello che era. Liberò la gola di Mika e questi gli lanciò un’occhiata invelenita mentre tossiva per riprendere fiato, ma l’astio non sembrava scalfirlo. Si rimise in piedi assicurandosi che gli abiti fossero impeccabili e Mika soffiò un insulto mentre cercava di assumere una posizione più dignitosa.

«Eccoti di nuovo dove non dovresti essere, Mikael… ma non posso dire di essere sorpreso» ammise Vann, che chiuse la porta a chiave dietro di sé. «Nereus crede a tutto e a tutti, ma io… ho visto qualcosa che non andava in te. Fin da quando sei arrivato osservi tutto e tutti come dovessi dipingere questo posto senza poterlo rivedere, ti sei buttato a capofitto in una routine serrata con fin troppa perfezione…»

Mika pensò che la soluzione migliore fosse fingere di non sapere di che cosa stesse parlando; anche perché difficilmente Vann poteva sapere chi lui fosse e da dove arrivasse.

«Per chi lavori?»

«In… in che senso, per chi lavoro?»

Vann si appoggiò al bordo della scrivania e si voltò a fissarlo, corrucciato. Sembrava preso a rimuginare febbrilmente sul calderone bollente dei suoi sospetti.

«Assomigli a Noah. Moltissimo. Sei suo parente?» gli chiese allora, gli occhi ridotti a fessure. «Conosco Noah da quando era piccolo, ma non i suoi. Veniva da una famiglia affidataria e mi disse che aveva diversi fratelli e sorelle maggiori che erano stati adottati o affidati in tutto il Tennessee. Sei uno di loro?»

«Se lo fossi le farei paura o tenerezza?»

Barak decise arbitrariamente di entrare in una conversazione che non lo riguardava assestando a Mika un ceffone forte abbastanza da fargli perdere buona parte della sua scorta di calma e prudenza. Fissò gli occhi azzurri su di lui.

«Toccami di nuovo e ti stacco quella mano.»

«E con che cosa?»

«Colpiscimi ancora e lo scoprirai» ringhiò Mika, faccia a faccia con Barak. «Non saresti il primo a cui taglio via qualcosa, sappilo.»

«Barak, basta così» gli intimò Vann, che con gran gioia di Mika sembrava allarmato. «Quindi lo sei? Sei uno dei fratelli di Noah? Mi stai seguendo per indagare sul mio coinvolgimento nella morte di tuo fratello?»

Mika l’osservò con cura. Vann era un uomo che reggeva bene la tensione, ma da alcuni piccoli dettagli evinceva che era nervoso, provava una rabbia che cercava di soffocare. Un innocente che si sentiva perseguitato o un colpevole che si credeva al sicuro fino a un momento prima?

«Scoprirei qualcosa se lo facessi?»

«Non rispondere con una domanda, figliolo. Mi stai spazientendo.»

Se così non fosse sarei davvero preoccupato per le mie capacità mentali.

Mika lanciò un’occhiata a Barak, che palesemente attendeva solo un cenno per poterlo malmenare a piacimento, poi tornò a guardare Vann. Questa volta senza l’intenzione di attaccare.

«Io… sarò sincero, padre Vann, ho sentito qualcuno parlare di lei… e dell’incidente di Noah. Ma non sono suo parente e non sono mai stato in Tennessee. Non lo conoscevo e non conoscevo lei prima di arrivare qui.»

«Allora perché vai in giro di notte a ficcare il naso dappertutto?»

Barak di fianco alla poltrona emise uno strano fremito, come faticasse a trattenersi. Mika evitò di guardarlo.

«Non stavo ficcando il naso! Sono stato alle prove del coro e stavo tornando alla mia camera!»

«E ti sei perso quassù?»

«Certo che no, solo… ho visto un tizio strano e ho pensato fosse un ladro, ma poi ho sentito che cercava lei…»

«Ma sei ancora qui» obiettò Vann, accigliandosi.

«Stava telefonando» intervenne Barak. «Aveva la cornetta in mano e stava per chiamare quando sono entrato.»

Mika si masticò la lingua per non scaricare su Barak il più grosso torrente di improperi che gli fosse mai uscito di bocca, escludendo una sfuriata memorabile contro Maguire qualche anno prima. Vann era ancora più nervoso, ma i segni di rabbia erano scomparsi, quindi poteva di nuovo riflettere con una certa lucidità. La rivelazione di Barak era una mossa che mandava all’aria la strategia principale sulla sua scacchiera mentale.

«Bene, sentiamo… chi stavi chiamando, Mikael?»

«Nessuno» replicò, mentre rielaborava il suo gioco il più velocemente possibile.

«Se ti ostini a non rispondermi sarò costretto a dire a padre Nereus che il suo nuovo favorito ha detto molte bugie a tutti noi… e che l’ho sorpreso a rubare dal mio ufficio» aggiunse, con un tono falsamente addolorato. «Ne sarebbe deluso, non credi? Ti dovremo espellere e dovremo chiamare la polizia… difficilmente finiresti in cella dove stava tuo padre, vero? Ma forse questa è la sola nota positiva. Potrebbe non avere molti amici lì dentro.»

Barak ebbe l’ardire di afferrargli il braccio con una presa che faceva impallidire quella dell’istruttore Sanchez, ma l’orgoglio di Mika sorvolò sull’affronto: qualsiasi cosa avesse dovuto dire o fare, doveva restare dentro Bluefields.

«Non ho… non stavo facendo niente di male!»

Barak lo strattonò a un cenno di Vann. Mika cercò di divincolarsi ma quelle dita sembravano di acciaio. Per sopraffare quel tipo così forte avrebbe dovuto fare ricorso a tutta la sua fisicità e a ogni tecnica imparata in allenamento, ma questo avrebbe alimentato i dubbi di Vann.

«Cercavo di chiamare mio fratello!»

Barak si fermò a guardare il Padre come aspettasse il suo benestare per portarlo via, atterrarlo o lasciarlo. Vann tuttavia non gli badò; si fece curioso.

«Ah, dunque un fratello ce l’hai.»

«S-sì, Padre… ce l’ho, ma non è…»

«Un fratello più grande?»

«Sì, Padre.»

«Non ne hai fatto parola con Nereus, mi pare. Dunque se non è abbastanza importante da menzionarlo nella tua famiglia perché tanta urgenza di chiamarlo?»

Le risposte seguenti gli uscirono dalla bocca senza neanche che se ne rendesse conto.

«Mio fratello è andato via di casa tanto tempo fa» snocciolò con la mente apparentemente vuota. «A causa di mio padre, litigavano in continuazione. Se n’è andato via appena ha potuto e non lo vedo da allora, per questo non ne ho parlato a padre Nereus.»

«E perché dunque lo cerchi adesso?»

«Perché mio fratello ha preso una brutta strada… ho pensato che se gli dicevo che ero qui, che è un bel posto, forse potevo convincerlo a smettere con quelle cose in cui si è invischiato… che potevo far venire qui anche lui!»

Vann cambiò espressione. Da allarmato divenne molto riflessivo, poi quasi interessato… elettrizzato.

«E quanti anni ha questo tuo fratello?»

«Io… ha diversi anni più di me, Padre…»

«Ti assomiglia?»

Ma che… perché mi fa una domanda del genere? Cosa crede, che ci sia una specie di fabbrica di cloni di Noah che lo seguono?

«Non direi… non ci assomigliavamo quando eravamo piccoli» replicò incerto, gli pareva la risposta più prudente.

«Non sei riuscito a chiamarlo, però.»

«No, il suo cane da guardia me l’ha impedito con tutta la diplomazia del caso» fece con sarcasmo. «In West Virginia non c’è una legge sulle museruole, immagino…»

«Barak, Barak… su, ti ha spiegato perché era qui. Lascialo, vuoi rompergli il braccio perché cercava di riunirsi a suo fratello?»

Barak lo mollò, ma non senza una spintarella che gli suggerisse con quanta gioia l’avrebbe volentieri sbattuto contro un muro o un robusto mobile. Mika si sistemò la camicia senza distogliere lo sguardo dal suo; non sapeva che cosa avrebbe dato per poterlo atterrare a suon di arti marziali prima di andarsene da quel posto…

Vann alzò la cornetta del telefono e gliela porse.

«Coraggio. Chiama tuo fratello e digli quello che volevi dirgli» l’invito lui con un tono dolce che metteva i brividi. «Vive a New Oakheart?»

«Non ne sono sicuro, Padre. Mi diede il numero di una casella vocale l’ultima volta che lo sentii, quindi non so dove viva adesso.»

«Beh, poco male. Se è una casella vocale lascerai un messaggio e l’ascolterà quando potrà.»

«Io… sì.»

Messo alle strette dalle circostanze e da una pessima gestione della sua missione Mikaela non aveva molta altra scelta. Doveva chiamare e lasciare un messaggio in cui chiedeva soccorso in modo che i suoi amici lo capissero… ma Yuu non avrebbe potuto fingersi suo fratello maggiore, né aveva gli occhi blu. L’idea di dover lanciare un SOS proprio a Crowley, dopo quello che aveva detto su come fosse fragile, gli risultava insopportabile.

Seguendo quell’istinto, compose un numero che non era quello della casella vocale per i suoi rapporti.

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Capitolo 9
*** Il messaggio sulla segreteria ***


Con gioia adolescenziale Ferid chiuse lo sportello dell’auto che molti anni prima era appartenuta a un giovane, ancora scapolo Claude Trobiano III. Si allontanò per guardarla nella sua interezza, con l’orgoglio che gli sprizzava dai pori a ogni battito del cuore: quella vecchia auto d’epoca era finalmente funzionante, con i fari originali, nuove rifiniture fedeli al modello classico e interni in rosso scuro rifatti da un certo vecchio collega suo e di Liam che lavorava ancora nel campo delle automobili. Con una buona messa a punto e una lucidata era tornata a essere un gioiello e Ferid non stava più nella pelle.

I ragazzi adoreranno questa macchina! Non vedo l’ora che Mika torni a casa, devono esserci tutti e due a provarla…

Era la prima volta che faceva un lavoro così su un’auto e da solo – escluso il rifodero dei sedili – e ne era così soddisfatto che prese una decisione che non avrebbe neanche preso in considerazione in un qualsiasi altro giorno. Andò alla vetrina della ferramenta e bussò sul vetro.

«Cyrus, è finita! Vieni a vederla!»

Neanche a dirlo l’uomo abbandonò l’etichettatrice e si affrettò a uscire. Contemplò l’auto dalla carrozzeria rosso vivo annuendo compiaciuto.

«È un capolavoro, signor Trobiano. Non sembra neanche la stessa che ha portato qui dieci giorni fa.»

«Era un rottame, eh? D’altronde, era in quel magazzino da quarant’anni.»

«È straniera, vero?»

«Oh, sì. Una Alfa Romeo Spider Duetto, originale del 1971. Fu la prima auto di Claude, ne era così fiero…»

Sentì una fitta nostalgica quando ripensò alla sera in cui Claude gli aveva raccontato delle fatiche per acquistare la sua prima auto. Una sera in cui suo marito era ancora sano, parlava senza stancarsi per ore e ore anche nella notte, e gli sorrideva beandosi della curiosità che il suo giovane protetto aveva per le sue storie.

«Il signor Trobiano sarebbe molto felice di vederla di nuovo fiammante.»

«Sì… ma non è per me che l’ho sistemata. Voglio regalarla a qualcuno di speciale.»

A quelle parole Cyrus si ingrugnì.

«Non vorrà dare la macchina di suo marito a quell’irlandese!»

Ferid sospirò.

«Ah, lo sa Dio se non gli servirebbe una macchina decente! Ma non è la macchina giusta per lui… è in età da figli, girare con questa sarebbe da crisi di mezz’età bella e buona.»

«E allora a chi la vuole dare?»

«A un paio di amici» fece Ferid sorridendo. «È la macchina adatta a loro… sono una coppia, sono giovani… loro possono avere dei bei ricordi di questa macchina, come li ha avuti Claude quando era ragazzo.»

Cyrus era tranquillo a sufficienza una volta appurato che una proprietà dei Trobiano non sarebbe passata a un irlandese e non indagò oltre per sapere di quali amici parlasse. Ferid cominciava a credere che non gli importasse se tutti gli altri suoi amici fossero stati irlandesi e che fosse solo Crowley a infastidirlo.

«Perché non la tiene lei? Forse non è più così tanto giovane, ma può ancora farci qualche bel viaggio da solo. Mio figlio mentre lei era via ha fatto da solo un coast-to-coast

«Sai, Cyrus… non è una cattiva idea… ma lo farei con la mia Supra.»

Per essere un uomo esperto di lavori manuali che aveva una ferramenta da quarant’anni Cyrus era piuttosto ignorante in materia di auto, soprattutto di auto veloci. Fu vago nel descrivere la macchina del figlio, come chi ne capisce poco, e molto più dettagliato sulle sue tappe.

Ascoltandolo, Ferid si chiese se non fosse davvero la cosa migliore da fare quando Mika fosse tornato a casa: lui e la sua macchina, per centinaia, migliaia di chilometri solo con se stesso… una compagnia che, in fondo, non aveva tenuto molto in considerazione in quei due anni impiegati a guerreggiare con il passato.

Ma Crowley capirebbe quest’altro capriccio?

Non fece caso all’auto che accostò davanti al negozio, ma almeno il rumore del motore lo distrasse. Decise di spostare l’auto sotto la tettoia del cortile sul retro e di coprirla per bene con il telone in attesa del momento giusto per regalarla ai ragazzi, ma non fece neanche in tempo ad aprire lo sportello del guidatore che vide la figura di Ismael andargli incontro.

Era così scioccato che non riuscì neanche a parlare.

«Ciao, Pepper! Mhh, un Lord in canottiera è proprio sexy, non credevo~»

«Ismael…»

«Peccato che sono arrivato tardi, vederti mettere le mani dentro questa bella carrozzeria sarebbe stato muy sensual

«Ism–»

Lui abbassò appena la testa per baciarlo sulla bocca e Ferid ebbe l’impressione di sentirsi rizzare i capelli. Senza parole e a occhi spalancati rimase lì dov’era, senza osare scoprire che faccia avesse Cyrus davanti a quella scena. Se l’avesse fatto avrebbe potuto notare che il nuovo arrivato era ben accetto quanto una cartella esattoriale.

Incurante di tutto Ismael commentò i lussuosi interni dell’auto, salutò il “buonuomo” con un frizzante commento sul bel tempo e si avviò alle scale di casa sua. Ancora stordito Ferid gli corse dietro per evitare che entrasse in casa e notasse il modesto disordine in cui versava.

«Cyrus, sii buono, parcheggiala sotto la tettoia… scusami!» gli fece frettoloso, prima di lanciarsi su per le scale. «Ismael, non–»

«Spero tu abbia fame, ho portato la pizza!»

«Vuoi ascoltare una parola, maledetto?! Guarda che ho un guardiano armato e non ho paura di usarlo!»

«Certo che no, sei fidanzato con un tenente della omicidi» commentò lui mentre entrava senza aspettarlo. «Sono certo che la chiuderebbero con un eccesso di legittima difesa al massimo… però, una bella casetta, Pepper. Mobili da soldi anche qui.»

Col fiato corto per l’improvviso scatto Ferid entrò in casa e chiuse la porta.

«Ismael… non… mangio la pizza… sono intollerante al lattosio…»

«Per questo ti ho preso la pizza senza lattosio, mi hai preso per un pazzo sadico?»

Ferid si accigliò e gli tenne gli occhi addosso mentre si lavava le mani velocemente al lavabo della cucina. Lui stava sistemando per cenare, disponendo anche tovaglioli e due bicchieri, come se si trattasse di casa sua.

«Come mai sei qui?»

Ismael si bloccò mentre scoperchiava una pizza carica di formaggio e peperoni e gli lanciò uno sguardo carico di malizia.

«Ho sentito che con poliziotti e agenti governativi ti trastulli volentieri, quindi mi sono detto che potevo fare un altro tentativo~»

«Oh, no, anche tu hai saputo di Guren?» si lagnò Ferid, e si avvicinò alla penisola annusando il profumo proibito di quella pizza come un topo che sospetta il veleno. «Guarda che quando l’ho conosciuto non sapevo che fosse un agente di polizia…»

«Si vede che i tuoi ormoni lo sentono~»

Ferid prese uno spicchio e lo sollevò, quasi potesse esserci scritta sotto la risposta ai suoi dubbi.

«È davvero senza lattosio questa roba?»

«Certo che lo è» fece Ismael, piazzandosi sullo sgabello. «Sarò anche terribile, ma se voglio passare la notte con te non voglio farlo mentre vomiti. Non è nella mia lista dei preliminari preferiti.»

Ferid non si sedette, ma si appoggiò al ripiano e prese una delle lattine di limonata che Ismael aveva portato.

«Uhm… esattamente cosa ti fa pensare che passerai una notte con me? Sono tornato a casa e ora sto con Crowley, lo dovresti sapere…»

«E questo ci impedisce di passare una sera insieme come buoni amici?»

Il modo in cui tentava con scarso successo di recidere i fili del formaggio caldo strappò a Ferid un sorriso, ma lo mascherò subito bevendo un sorso di bibita fredda.

«Il bacio che mi hai dato prima non mi faceva pensare a un amico… sai, io sono inglese. Noi non baciamo in bocca i nostri amici.»

«Dovreste!»

«Diventerebbe una questione molto… controversa, se iniziassimo a farlo tutti.»

«Affatto» bofonchiò lui mentre masticava. «Se lo fate tutti no hay problema, no?»

Ferid suo malgrado rise.

«Liam parlava spesso in spagnolo avendo una fidanzata portoricana, ma non lo ha mai fatto mentre mangiava pizza… è piuttosto divertente.»

«Puedo continuar

«Non è il caso, ti strozzerai col formaggio e io ho già abbastanza problemi con la legge da non volere che qualcuno trovi il tuo cadavere qui dentro.»

Ismael si premurò di inghiottire prima di scrollare le spalle.

«Chiama Ginger e trascinatemi fuori, seppellitemi sotto il pitosforo, lasciatemi nel bosco… divertitevi.»

Avrebbe volentieri obiettato che smaltire cadaveri non era una voce della sua lista di divertimento, ma aveva questioni più importanti per la mente: prima di tutto aveva molti più problemi di Ismael a gestire il formaggio filante – principalmente per inesperienza – e secondo, aveva la sua prima volta con una pizza. Riusciva a pensare solo che fosse buona, anzi, buonissima.

«Niente male, eh?»

Ismael lo guardava come un genitore avrebbe guardato un figlio che cerca di mangiare la sua prima pappa da solo.

«Buona, eh? Ginger me l’ha detto che non mangi cibo da fast food, tranne certi burritos senza formaggio… ma Milord, senza mai mangiare una pizza avresti vissuto invano, credimi.»

Mangiarono la pizza seduti insieme in cucina e per lo più fu Ismael a parlare, raccontando – che fosse vero o meno – di un periodo in cui aveva lavorato in una pizzeria vicino a dove viveva da ragazzo e snocciolando incredibili aneddoti di clienti svitati abbastanza da farsi ricordare a distanza di anni.

Dopo aver finito di mangiare alla limonata aggiunsero gin e foglioline di menta – direttamente da un vaso del balcone di Ferid – e fu allora che Ismael chiese dell’indagine dando al padrone di casa l’occasione di riversare a torrente su di lui il racconto di lunedì mattina.

«E questo Ichinose l’hai davvero incontrato al casinò?» domandò incuriosito, quando il discorso verté sull’agente dell’FBI.

«Sì, ero a Las Vegas per partecipare a un seminario…»

«Non intendevo questo, e lo sai.»

Ferid si accigliò e si prese un secondo per bere dal suo raffazzonato gin lemon.

«Non sono molto sicuro di cosa è successo. Avevo bevuto veramente tanto…»

«Il guaio dei drink gratis al casinò~»

«Un’associazione a delinquere, davvero» convenne Ferid, infastidito. «So che ero nella sua stanza quando mi sono svegliato il giorno dopo, ma mica lo potevo dire a Crowley, no? Sembrava già disposto a picchiarlo solo perché è un federale, non era il caso di buttare benzina sul fuoco, ti pare?»

«Cerchi di convincere me o te stesso?»

Ferid scosse la testa, ma non era così sicuro di quello che stava per dire.

«Crowley non mi ha mai chiesto con quanti uomini io sia stato… e dando per vero che sia successo qualcosa con Guren non vedo perché dovrei dirglielo, ci siamo conosciuti molti anni dopo… e oltretutto non significa niente una cosa di una notte soltanto.»

«Ah, che cosa terribile da dire a uno dei tuoi uomini di una notte soltanto!»

Ferid fu strappato dai suoi malinconici pensieri da quell’osservazione e si trovò a ridacchiare.

«Scusa, Ismael. Ma non è proprio la stessa cosa… lui era un nessuno. Un affascinante nessuno, ma sempre nessuno.»

Lui sorrise in quel suo modo malizioso, poi dondolò il bicchiere, anche se vi era rimasto solo qualche ghiacciolino.

«Ora il Bureau si occuperà di seguire Angel Face, giusto?»

«Sì. Così ha detto.»

«Allora così farà. Finché gli serviranno occhi e orecchie là dentro, terrà Angel Face al sicuro.»

Ferid lanciò un’occhiata a Ismael e poi mescolò la fogliolina di menta dentro i resti del suo gin lemon. Non sapeva come spiegare i suoi presentimenti, ma nei suoi occhi verdi vedeva l’invito a parlare, come se fosse già consapevole di che cosa voleva dire.

«Noi… ci possiamo fidare del Bureau, vero? So che li ho chiamati io, ma… Yuu pensa che sia colpa mia, e iniziavo a sentirmi responsabile, e… non sapevo più che cosa fare.»

«Ti puoi aspettare lealtà solo se sei il Presidente, e forse neanche allora ti fidi completamente di loro» replicò lui aprendo un’altra lattina. «Ti fideresti di un’agenzia che ha quasi ogni potere di decisione, licenza di violare le leggi in nome della sicurezza nazionale e delle cui operazioni sono al corrente quasi sempre solo coloro che ci sono dentro, tanto che molte task force sono invisibili persino per altri agenti dello stesso grado?»

Ferid sospirò.

«Già, anche Guren adora ripetere quanto sia segreto quello che fa, con quel “non ti serve saperlo” o ancora peggio “mi sparerebbero se dicessi a un civile cosa faccio”» brontolò, con quel sorrisetto di Ichinose che gli appariva fisso dietro le palpebre ogni volta che le chiudeva. «Non puoi farmi avere, che ne so, un distintivo dell’MI6? Tanto per obbligare Guren a dirmi qualcosa o almeno a guardarmi senza quel ghigno.»

«Cosa ti fa credere che tu non ne abbia già uno, Pepper?»

Ferid tese un sorriso appena accennato.

«Sono membro onorario? La mia famiglia ha fatto qualche donazione?»

«Lo sei così posso parlarti di fatti segreti, passare tempo con te, darti telefoni criptati, farti conoscere le caselle vocali sicure e insegnarti a usare un’arma o a uccidere un uomo con una sola mano~»

Ferid si accigliò e appoggiò il mento contro la mano.

«Potevi fare tutte queste cose interessanti e passi una notte intera a fare sesso? Che uomo scontato!»

«Non osare offendermi, sai! Era copertura, ricordi? Copertura… ed è un tale peccato.»

Passò appena un secondo e si ritrovò Ismael di nuovo incollato alle labbra, ma questa volta non aveva intenzione di staccarsi subito. Coi riflessi rallentati dall’alcol gli agguantò le spalle per spingerlo indietro, ma non ci riuscì e – ne fu consapevole lui per primo – smise di provarci. Ismael se ne accorse, gli serrò le dita all’altezza dei gomiti e lo trascinò fuori dalla cucina fino al soggiorno.

«Vorrei che non facessi così» disse subito Ferid, appena gli lasciò la bocca libera di muoversi.

«Non ne hai bisogno? Sembra che il tuo ritorno a New Oakheart non sia stato così trionfale, romantico e felice come ti aspettavi.»

Ismael mostrava ancora una volta la sua naturale inclinazione per le verità scomode e Ferid non trovò da replicare.

«Alla villa eri piuttosto sereno e tranquillo, ma ora sei tutto rigido e stressato… non posso fare qualcosa che ti faccia sentire meglio?»

«Crowley non sarebbe contento di sapere che cosa stai cercando di fare.»

«E tu? Tu sei contento di quello che sto cercando di fare?» replicò quello, con un tono vagamente canzonatorio. «Perché è questo che conta, sai?»

Sì, è questo che conta… ecco perché mi sento così colpevole.

Non riuscì a trovare le parole per riassumere le contraddizioni della sua testa e Ismael lo baciò di nuovo, spingendolo con il suo peso contro la chez-longue. Quando non riuscì ad arretrare ci finì seduto sopra con non molto garbo, ma dato il gonfiore allarmante sotto i blue jeans di Ismael non si preoccupò di altro.

«Credevo che Crowley fosse una persona importante per te… per come ne hai avuto cura per tutto questo tempo, e dopo la mia partenza. Davvero non ti importa di fargli male in questo modo?»

L’uomo si mise carponi sopra di lui, con un’espressione confusa.

«Male? Si arrabbierebbe, questo sì, è un po’ possessivo… ma fargli male così, non posso fargliene. Lui sa che cosa penso delle relazioni e come le vivo, perché anche lui ne ha una con me da anni.»

«Mi hai già raccontato questa storia e ti ho già detto che non ci credo.»

«Mi spiace, Pepper, ma se non ci credi sono problemi soltanto tuoi» puntualizzò lui scrollando le spalle. «Ginger sa che per lui ci sono sempre, quando gli serve quello che posso dargli. Oh, naturalmente non lo spiegherebbe mai in questo modo. Lui si fida, ha dei sentimenti… ma io so che la nostra è una piacevolissima relazione di reciproco servizio. E di amicizia, perché no?»

«Questo come gli impedirà di vedere che il nostro è un tradimento di quella fiducia?»

Ismael emise una risatina a bocca chiusa così sottile che non fu neanche sicuro di averla sentita davvero.

«Ma vedi, io non tradisco niente. Sei tu quello che ha accettato una relazione monogama con lui… ma non dovresti aver paura. Lui sa quanto sono persuasivo. Ti capirebbe.»

«Io penso che dici tante, tante balle.»

«Ma se preferisci possiamo fare un patto…»

La sua mano, liscia e con le dita affusolate, gli accarezzò delicatamente il collo.

«Possiamo non dirgli niente e non saprà mai che questo è successo dopo il tuo ritorno… che ne dici?»

Ferid fece un sorriso. Gli tornò in mente una sera, un uomo su quello stesso divano e una conversazione molto simile…

«No, Ismael. Crowley non se lo merita.» rispose allora, spostandogli la mano. «E nemmeno tu, anche se sei convinto che non sia un male essere l’eterno amante di tutti e l’amore di nessuno.»

Lui si raddrizzò con l’aria pensierosa, come si fosse imbattuto nella strana traduzione di qualcosa.

«L’eterno amante di tutti… sai che suona davvero bene? Lo userò come nome utente di Instagram!»

Sentir squillare il telefono di casa fece sussultare entrambi, chiusi com’erano nella loro bolla. Ferid si riprese per primo e si sollevò un po’, dandogli un colpetto sul fianco.

«Spostati, devo rispondere.»

«Ma chi ti chiama il venerdì sera così tardi? Non avrai una vita sociale di cui sono all’oscuro?»

«Oh, mi conforterebbe tanto sapere che sei all’oscuro di qualcosa che mi riguarda. Su, togliti ora.»

«Ma sto così comodo» fece in tono lamentoso da bambino.

«Ismael, piantala! Potrebbe essere Crowley, o anche Krul, non si sa mai che abbia bisogno di qualcosa!»

Prima che quel folletto dispettoso prendesse una decisione rispose la segreteria telefonica: una voce femminile invitava a lasciare un messaggio, ma fu quella subito dopo a bloccare sul nascere l’invettiva di Ferid.

«Sono… di nuovo Mikael» disse la voce titubante di Mikaela. «Davvero non sei a casa? Immagino di no… venerdì sera, sarai di nuovo fuori con quella gente che pensi sia tua amica.»

Ferid scambiò un’occhiata con Ismael e vide nei suoi occhi verdi lo stesso sconcerto che sentiva lui.

«Te lo chiedo di nuovo, non so se hai ascoltato l’altro messaggio… molla tutto quanto e raggiungimi a Bluefields… ti prego, fratellone, ho bisogno di te.»

Dopo un sospiro e qualche secondo di silenzio la chiamata venne chiusa e sentirono il suono della comunicazione interrotta. L’atmosfera della stanza era cambiata come fossero stati messi sottovuoto; Ismael si alzò per andare all’apparecchio e Ferid lo seguì immediatamente.

«Era Mikaela che chiamava da Bluefields! Ma che significa? Aveva il numero della casella vocale per comunicare con Crowley!»

«La sua prima chiamata era normale» osservò Ismael, che stava digitando sulla tastiera del telefono fisso. «Qui sembrava spaventato… doveva sembrarlo. Qualcuno ha scoperto che ha un telefono cellulare, o stava tentando di chiamare da una linea interna… in effetti, i telefoni prendono davvero poco in quella zona…»

«Sanno chi è?»

«Non credo, o non avrebbe parlato così… ha detto “fratellone”, come volesse dirti che al monastero sanno che ha un fratello maggiore. O forse perché è quello che ha raccontato a chi lo ha scoperto: che cercava di contattare un fratello.»

Il numero chiamante apparve sul display dell’apparecchio. Non era un numero di cellulare.

«Un fisso. Chiamava da dentro la chiesa, probabilmente… hanno trovato il telefono. O è stato beccato a un apparecchio. A quanto ho visto quando ci sono stato, ne hanno solo negli uffici dei Padri…»

Ismael si stropicciò il lobo dell’orecchio, con gli occhi fissi sul display.

«Ma cosa ci faceva? Forse in realtà era alla ricerca di qualcosa in uno degli uffici…»

«Mika… Mika è nei guai, è così?»

«Temo proprio di sì… o almeno, le cose non gli vanno lisce come sperava.»

Ferid si mordicchiò il labbro inferiore. La sua mente correva a orrendi scenari e non poteva pensare ad altro che al fatto che gli aveva portato lui quel caso. Avrebbe potuto scavalcare Mika, andare da Crowley e ragionarci, evitare di mettergli in testa di avere davanti la missione della sua vita.

Crowley… aveva ragione lui. Non avrei mai dovuto coinvolgerlo, se non per la sua fragilità almeno per i rischi che comportava se l’avesse presa sul personale… e così è andata.

Non si rese conto di stritolare le mani fra loro nel vano tentativo di dominare le onde spaventose che gli stavano spumeggiando dentro.

Non posso credere che l’ho fatto di nuovo. Ho messo di nuovo qualcuno in pericolo.

«No, Pepper.»

Ferid guardò Ismael, che era più allarmato che mai. Non l’aveva mai visto così pallido e serio.

«Non farlo. Non pensarlo nemmeno.»

«Oh, certo che lo farò.»

«È una pessima idea prendere decisioni sull’onda della rabbia.»

«Non solo ho fatto in modo che Mikaela venisse a conoscenza di questa storia e se la prendesse a cuore, ma l’ho anche lasciato partire… e l’ho fatto restare anche dopo aver saputo il suo piano!»

«Questo cercavo di dirti di non fare» sbottò Ismael. «Non assumerti colpe che non hai. Angel Face non è mica un cretino… cioè, lo è, ma è la sua libera scelta essere un cretino che agisce d’impulso!»

Ferid marciò nel corridoio, ma poi si fermò. Di che cosa avrebbe avuto bisogno prima di tutto? Di poche cose se voleva partire immediatamente. Non serviva molto, il minimo indispensabile per un paio di giorni. Il tempo di arrivare a Bluefields e portarsi via Mikaela.

Entrò allora in camera e prese la valigia più piccola dalla cabina-armadio. Ismael, che lo aveva tallonato fino alla porta, alzò gli occhi al soffitto e si appoggiò allo stipite con una posa a dir poco drammatica.

«E ora che cosa fai, spegni il cervello esattamente come lui?»

«Vattene, Ismael.»

«Qual è il tuo piano, mh?»

«Prendo quattro stracci, arrivo a Bluefields con la macchina, prendo Mika e lo riporto a casa, al sicuro!»

Ismael stese il braccio bloccando lo sportello della cabina.

«Angel Face adesso è dei Federali e a loro apparterrà finché la missione non sarà conclusa… che lui lo sappia o no, che lui lo voglia o no» fece lui, con un tono troppo serio per non ascoltarlo. «Mi hai sentito? Non ti permetteranno di andare a prenderlo. Dopo cinque giorni hanno di certo già qualcuno a Ridgewood che controlla la situazione per sapere se è operativo… e se qualcuno prova a interferire.»

«Saranno anche il Bureau, ma non c’è niente, te lo ripeto, niente su questa terra che impedirà a me di piombare lì dentro e portarmi via Mikaela! Né loro né l’MI6, la CIA, la DEA o gli stramaledetti X-Files, capito?»

Ismael sospirò e abbassò il braccio di modo che Ferid potesse raccogliere vestiti ed effetti personali nella sua piccola valigia. Restò in silenzio, spostandosi passivamente come acqua ogni volta che si trovava sul percorso di un Lord inglese piuttosto nervoso e con molta fretta, ma quando fu pronto per uscire si piazzò ancora una volta sulla porta.

«Ti ho già detto di andartene da casa mia.»

«Pepper, mi vuoi ascoltare? Trenta secondi non faranno la differenza su nove ore che ti separano da lui.»

«Che accidenti c’è? Mi vuoi dire che dovrei chiamare Guren, o…»

«Ichinose è l’ultimo che dovresti chiamare… e non avresti dovuto chiamarlo neanche prima. La tua paura ti ha fatto fare una scelta che non puoi più ritrattare… e se non lo avessi tirato in ballo, ora potresti davvero andare a riprenderlo in macchina come nulla fosse.»

«L’ho fatto perché tu non volevi aiutarci, quindi grazie di niente. Ora spostati.»

L’ennesimo tentativo di passare oltre l’imponente stazza di Ismael fu vano.

«D’accordo, Pepper, hai vinto. Datti una calmata e ascoltami… se prometti di non cambiare più idea, io vi aiuterò.»

Forse fu qualcosa nel tono di voce di Ismael a smontare la frenesia di Ferid, ma sentì quel senso di urgenza scemare veloce com’era arrivato. Si sentì svuotato, quasi stanco, e guardò gli occhi verdi come un bambino che cercava rassicurazione riguardo a un mostro sotto il suo letto. Lui gli strinse piano la spalla.

«So come possiamo cavarcela senza scontrarci coi federali… ma sarà difficile, richiederà concentrazione, autocontrollo e tutto il meglio delle tue considerevoli capacità… un lavoro che io potrei senz’altro fare, ma purtroppo questa volta la genetica ci gioca contro.»

«Che cosa devo fare?»

Ismael tornò a sorridere e gli diede un buffetto sotto il mento.

«Per ora non fare niente… riposati e aspettami. Tornerò appena prima che faccia giorno e partiremo subito.»

«Partiremo…? Io e te?»

«So come arrivare a Bluefields. Ti ci porterò dando nell’occhio il meno possibile… e lungo la strada ti spiegherò come salverai Angel Face.»

Ferid non capiva molti nodi essenziali di quello che pensava di fare, ma come Crowley e forse anche a un altro livello personale, si fidava di lui. Annuì senza replicare e l’uomo gli sorrise soltanto – in un modo dolce che non avrebbe neanche sospettato fosse possibile – prima di attraversare il corridoio e uscire di casa.

 

***

 

Quando sentì il battente Ferid schizzò via dal divano come fosse scoppiata una granata; corse alla porta e la spalancò. La scena subito dopo sarebbe stata comica se si fosse potuto vedere fissare il vuoto per poi abbassare gli occhi sulla piccola statura di Krul.

«Aspettavi qualcuno di più alto?»

«Aspettare qualcuno di più basso in piena notte sarebbe molto compromettente per un uomo senza figli.»

Krul fece solo una fiacca smorfia a quella battuta. Svanita la delusione di non trovare Ismael alla porta subentrò l’angoscia: che cosa ci faceva Krul alla sua porta alle quattro del mattino?

«È successo qualcosa?»

«No, ma ho visto la luce accesa… poco fa ti sei mosso davanti alla finestra.»

«Ah… sì, mi sono alzato qualche minuto fa per—»

«Vieni con me, per favore.»

Ferid la guardò perplesso.

«Con te dove, a quest’ora?»

«A casa da me.»

«Fossi matto» replicò di getto Ferid. «Non è finita bene l’altra volta.»

«Intendi rivangarla ogni volta che ti chiedo di fare qualcosa?» sbottò lei. «Non ho bisogno di venire a bussare da te se voglio fare sesso, e se ti tranquillizza saperlo William e Naisha saranno al piano di sopra. Dormiranno come sassi, ma ci saranno.»

Ferid occhieggiò la strada in entrambi i versi, chiedendosi che cosa fare. A quanto ne sapeva Ismael poteva essere di ritorno in ogni momento prima dell’alba… ma dubitava che sarebbe sparito se non fosse riuscito a trovarlo in casa. Almeno, così sperava.

«Solo pochi minuti» insistette Krul. «Ma non posso rimandarlo. È tutto già pronto.»

Cominciava a capire dove volesse andare a parare, anche se sul vago. Si rese conto di quanto fosse nervoso solo quando sentì la tensione allentarsi sulle sue spalle. Senza fare altre storie uscì dalla porta chiudendosela dietro e scese le scale esterne insieme a Krul.

«Perdonami se sono stato brusco, Principessa.»

«Non fa niente» replicò lei in quel tono tranquillo che ancora non si era abituato a sentire. «So che hai delle preoccupazioni. La tua sabbia è un vero casino.»

«Ah, sì. Me l’accennavi a cena… quel tuo nuovo metodo di divinazione.»

«Uhm, sì. Ci sto lavorando… non è molto preciso, ma fa una buona mappatura. Riesco a capire su cosa concentrarmi quando uso le conchiglie.»

«Liam si è lasciato sfuggire che ora è quella l’attività che ti frutta di più.»

«Sì, è vero… guadagno bene con la divinazione e gli amuleti. Qualche volta mi chiedono dei riti per l’amore o la fortuna, ma solitamente rifiuto questi lavori.»

Il West End era più silenzioso che mai: era dal periodo del Vampiro che Ferid non notava tanto silenzio durante la notte. Sentiva il rumore dei tacchi bassi di Krul sul marciapiede e ben poco altro.

«Forse ti converrebbe vendere il Magick… dedicarti alla tua Vecchia Arte… ottima opzione per qualcuno che ha una figlia piccola a cui badare. Niente più turni, inventario, pulizie…»

«Tu lo compreresti?»

La domanda lo stupì, e si trovò a ridere.

«Io? No, no… non credo proprio. Stranamente ho due lavori in Inghilterra, o qualcosa che gli assomiglia.»

«Ah, sì, dicevi qualcosa… con la biblioteca dei Cosworth, no?»

«Sì, amministro la biblioteca che ho aperto con la collezione Cosworth… ma ora la mia casa ospita delle attività artistiche e dei laboratori, sai? Mostre per giovani artisti, proiezioni della scuola di cinema, e una fiorente compagnia teatrale. Controllare i tempi e le modalità di sfruttamento degli spazi è piuttosto complicato, più tutta la burocrazia del caso.»

Krul non fece altre domande in merito, si limitò a sorridere.

«Sei diventato una specie di mecenate? È molto da te… ma in questo caso il Magick resta a me. Ho troppi ricordi di quel posto per lasciarlo a chi non se ne prenderebbe la stessa cura che gli daremmo tu ed io.»

Lei superò il cancellino della sua casa e Ferid le sfiorò la spalla per fermarla prima che arrivasse alla veranda.

«Principessa, lo sai che un posto è niente più che questo, vero? È una stanza con le vetrate, degli scaffali… nient’altro che questo.»

Krul si voltò lentamente e lo guardò, ma la sua espressione rimase indecifrabile persino per lui.

«I ricordi che condividiamo… quello che noi siamo… per noi stessi e uno per l’altra, non hanno nessuna dipendenza da un luogo. Anche se dovessimo non vedere mai più quel negozio, anche se demolissero tutto il palazzo… non cambierebbe niente di quello che è davvero importante.»

«Questo lo so» rispose allora, con un accenno di sorriso. «Ma io sono una strega… per me i luoghi sono le energie che contengono… quel negozio ha tanto di noi al suo interno. Tutta la nostra storia fino ad oggi… trattiene anche il mio incontro con William, e il tuo con Crowley. Non sono le mura, gli scaffali o il mio meraviglioso graffito sulla serranda…»

Ferid trattenne appena un risata e Krul sorrise di più.

«È la magia che trattiene. Per me è un santuario e come tale vorrei che restasse inviolato il più a lungo possibile.»

«Se ci tieni tanto ti compro tutto il palazzo» fece allora Ferid, seguendola alla porta d’ingresso. «Ti regalo l’atto di proprietà, così nessuno ci farà niente se non vuoi.»

«Dovevi farmi avances come questa quando mi volevi sposare, Ferid. Non prendi mai il tempo giusto.»

Entrarono in casa ed era silenziosa e buia, fatta eccezione per una luce accanto alla porta d’ingresso. Ferid sapeva che la teneva per ragioni “religiose”, perché gli spiriti trovassero la strada o qualche altra questione sovrannaturale di quel tipo.

Seguì Krul alla porta sul retro e al suo piccolo giardinetto, che era migliorato nel suo periodo di latitanza: c’erano fiori colorati lungo lo steccato, quasi del tutto divorato da un gelsomino fiorito che emanava un profumo che dava alla testa per la sua intensità. Aveva ridisegnato il cerchio con le pietre – cosa che con ogni probabilità faceva ogni volta che cambiava rito – e all’ombra di un prugno più grande di due anni prima c’era ancora una piccola pietra commemorativa per il futuro che non avevano mai avuto.

«Aspetta qui.»

Ferid rimase davanti all’ultimo dei tre scalini e la guardò raggiungere il suo cerchio, togliere le scarpe, superare le pietre e andare a raccogliere una bella coppa d’argento che aveva posato nell’erba, insieme a qualcosa di molto piccolo: l’illuminazione esterna scarsa e la luna crescente non gli permisero di distinguerlo bene da lontano.

Quando tornò da lui lo spruzzò con un poco di acqua sulla faccia, contenuta in quello che scoprì essere un piccolo guscio di mollusco, iridescente di madreperla. Scoppiò in una breve risata.

«Okay, fa caldo, ma…»

«Serve a purificarti prima di darti questa.»

Ferid guardò la coppa. Era d’argento con un motivo di fiori intarsiati, un lavoro di pregio, e dentro c’era un liquido trasparente su cui si rifletteva il lampioncino da giardino della casa accanto. La prese con una certa confusione.

«È gin?»

«Solo acqua, dal punto di vista chimico… su, bevila. Non spillarne neanche una goccia, è preziosa.»

«A che cosa serve?» le chiese, ma iniziò comunque a bere senza aspettare risposta.

«Farò per te quello che tu hai fatto per me.»

Non gli era più chiaro adesso di quanto gli fosse prima, ma bevve tutto il contenuto della sua coppa – decisamente maggiore di quanto sembrasse a prima vista – prima di restituirgliela.

«Non so che cosa pensi che io abbia fatto per te, ma non sei in dovere di ricambiarlo.»

«Se non lo sai come pensi di potermi dire se va ricambiato o no?»

«Puoi dirmelo, allora?»

Krul sorrise con una vena di compiacimento nella sua espressione.

«Dirtelo ora influirebbe sull’esito… ma appena sarà successo, ti darò quella.»

Accennò a una piccola busta posata su una delle pietre più grandi, che non aveva affatto visto alla prima occhiata. Aveva un tondo al centro e ipotizzò che si trattasse di un sigillo in ceralacca, qualcosa che Krul utilizzava per alcuni suoi lavori magici.

«C’è scritto che cosa hai fatto oggi?»

«È una lettera per te… ma avrà molto più senso leggerla quando il mio incantesimo avrà effetto» fece lei, improvvisamente allegra, quasi gongolante. «Ma è quasi ora che ritorni a casa, quindi non perdiamo altro tempo… per favore, girati.»

Gli sorse spontanea una battuta, ma decise di tenerla per sé e le voltò le spalle obbediente. Non sentì nessun rumore particolare finché non soffiò con forza e sentì sul collo qualcosa di simile a una polvere, accompagnato da un forte profumo. Distinse lavanda, menta, rosmarino e percepì altri odori familiari che aveva sentito al Magick ma non riusciva a identificare per certo.

«Non voltarti» l’ammonì Krul, impedendogli con la mano di guardarla. «Farai sparire l’effetto se lo fai.»

«E questo a che cosa serve?»

«Finché non mi guarderai di nuovo, tutto il mio potere ti proteggerà ovunque sarai.»

L’idea che adoperasse un incantesimo simile – ne sapeva abbastanza da sapere che di norma più erano rigide le limitazioni più potenti erano gli effetti – gli fece presagire qualcosa di angosciante nel prossimo futuro.

«Dovresti risparmiarlo per Naisha.»

«Lei è al sicuro. A casa con suo padre e sua madre» replicò lei, e passò dita leggere in mezzo alla sua coda. «Ma tu… nel posto in cui stai andando ci sono delle forze avverse. Due re, in particolare.»

«Hai guardato le tue conchiglie, eh?»

«Ci hanno già avvertito una volta… e ti avverto di nuovo, Ferid. Dove stai andando ci sono due re, e uno di loro ti ostacolerà. Guardati da lui.»

«Questo significa che il mio viaggio durerà più di un giorno… ho ragione a crederlo?»

«Sì. Il tuo è un viaggio lungo nel tempo, per questo avevo bisogno di un incantesimo potente… qualcosa che non dipendesse da un amuleto che potevi perdere o che poteva venirti tolto.»

Ferid si fece molto serio mentre ricordava gli ammonimenti delle conchiglie di Krul, che aveva ascoltato al telefono seduto al freddo sulla scala antincendio del palazzo dove abitava Crowley. Quella volta avevano previsto il suo incontro con Bobby e persino che lui sarebbe arrivato a colpire la donna più importante.

«Che cosa dicono le tue conchiglie?»

«Cerca di capire quale re è tuo alleato e quale tuo nemico, questo farà tutta la differenza tra il successo e il fallimento. Ma è una lunga battaglia, Ferid. Devi essere pronto… ora hai tutta la protezione di cui hai bisogno. Il resto è nelle tue mani…»

Sentì una piccola mano sfiorare il dorso della sua e la prese, stringendola un attimo.

«Grazie, Principessa.»

Lasciò che le dita scivolassero via dalle sue mentre risaliva i gradini senza voltarsi ed era già vicino alla cucina quando lei lo fermò.

«Ferid, aspetta.»

«Che c’è?»

«Tu sei protetto… fai da scudo a Mikaela, perché è in pericolo quanto te.»

La forma di quei pericoli iniziò a profilarsi dalla nebbia. Ombre indistinte sul futuro divennero nette, ma non per questo meno temibili. Sorrise anche se con un certo nervosismo, come a voler esorcizzare la paura che iniziava a serpeggiargli addosso. In quel momento non realizzò che Krul sapeva di Mikaela e non si chiese come potesse essere a conoscenza di qualcosa che Crowley aveva espressamente proibito a tutti di rivelare.

«Lo riporterò a casa, non temere» le assicurò, con una fermezza che non sentiva così forte come voleva ostentare. «Saluta Liam e Naisha per me.»

Non restava altro da aggiungere. Ferid uscì da casa di Krul con la sensazione che la notte fosse più fredda di prima. Era difficile camminare sulla via del ritorno senza voltarsi a guardare se lei fosse sulla porta o affacciata alla finestra per seguirlo finché le fosse stato possibile. Era come Orfeo che camminava sulla via del ritorno dall’Inferno… ma questa volta – lo sapeva già – gli stava andando dritto incontro.

 

***

 

Potevano anche definirle “camere di sicurezza”, ma per Mika quelle stanze nel seminterrato dell’edificio che ospitava l’infermeria sembravano vecchi alloggi per schiavi di poco valore. Forse con un letto e qualche mobilio essenziale potevano anche essere passabili per persone ritirate a vita spirituale, ma con la porta di pesante metallo chiusa dall’esterno e completamente vuote salvo una seggiola avevano l’aria di una prigione. Soprattutto se a quella sedia si veniva legati, come nel caso di Mika.

La legatura dei suoi polsi ai braccioli era abbastanza comoda da permettergli quantomeno di grattarsi la fronte – con un poco di buona flessibilità dorsale – ma durava da così tante ore che si sentiva le braccia doloranti per l’immobilità. Il meglio che potesse dire di quella permanenza era che lì sotto era più fresco che nei campi.

Sentì scattare il chiavistello e il rumore rimbombò nella cella spoglia prima che la porta si aprisse cigolando e ne entrasse padre Nereus. Più calmo e controllato di quanto fosse mai stato dal suo arrivo Mikaela accavallò le gambe, quasi a dimostrare che non era provato dalla punizione.

«Buongiorno, Mikael» lo salutò il Padre, non diversamente da come faceva ogni mattina. «Capirai dal fatto che ti ho trovato qua sotto che Vann mi ha parlato di cosa è successo ieri sera.»

«Sì. Lo immaginavo.»

Nereus scorse con gli occhi la stanza, ma non trovò quello che cercava – qualcosa su cui sedersi – così si limitò ad avvicinarglisi restando in piedi.

«Non mi hai mai parlato di un fratello… come mai?»

«Le ho raccontato da cosa scappavo… ma mio fratello è già scappato da tempo. Non è nella mia vita da un bel po’ ormai.»

«Ma ora lo stai cercando.»

«Ho pensato che poteva essere un nuovo inizio per tutti e due… siamo affezionati… lo eravamo» si corresse con voluta enfasi. «Mi proteggeva da nostro padre, ma poi…»

Si fermò in un’esitazione predeterminata. Sapeva che fare nomi o riferimenti precisi avrebbe potuto mettere in difficoltà chiunque fosse arrivato per dargli aiuto. Restare sul vago arroccandosi dietro a qualche dolore familiare era la scelta più intelligente: aveva avuto ore per riflettere con calma.

Era probabile – aveva anche pensato – che arrivasse Crowley a riprenderlo. Avrebbe detto qualche balla per tirarlo fuori dalla comunità dicendo che lo portava a casa, e sarebbe tutto finito. Gli fece bruciare le viscere pensare che con quel pasticcio poteva anche essersi giocato la carriera, oltre che la stima del suo amico per sempre.

Nereus sospirò dopo aver atteso a lungo la fine di una frase che non ne aveva una.

«Se mi avessi parlato di questo fratello e mi avessi chiesto di chiamarlo per questa ragione, ti avrei lasciato usare il mio telefono. Sarei stato anche felice di parlargli io stesso per dirgli che ti trovi bene qui.»

«Mi dispiace terribilmente, Padre… ma… la situazione è più complicata di così. Ho creduto che il miglior risultato possibile fosse convincerlo a venire qui senza che voi sapeste perché non ci vediamo da anni.»

«Ma perché lo pensi, Mikael?» insistette Nereus, esasperato. «Ti abbiamo dato l’impressione di essere persone irragionevoli? Di essere ostili, inclini a giudicare male gli altri?»

In realtà Mikaela non si era mai sentito sereno come da quando viveva lì, copertura a parte. Pur tenendo a mente la sua missione non aveva potuto ignorare che non trovava i segni che si aspettava di vedere in una setta: il fondamentalismo, le punizioni psicologiche, la sudditanza a un leader che si proclamava Dio in terra, le privazioni ai membri di basso livello mentre i capi rotolavano nei vizi come porci nel fango. Aveva studiato dozzine di casi identici.

Nella Chiesa dell’Acqua non aveva trovato questo. In realtà non c’era neanche una reale sorveglianza ai cancelli e apparentemente nessuno era armato. Bluefields era completamente diversa dalla comunità dei Figli della Virtù e nessuno aveva avuto neanche una parola storta per lui. Con la piccola eccezione di Barak, le cui gentilezze avrebbe volentieri ricambiato prima di andarsene.

«Sai bene che qui abbiamo accolto tutti… persone con fedina penale sporca, ragazzi che avevano condotte immorali, piccoli reati, problemi di droga…»

Mika tacque ancora e Nereus sospirò.

«Volevi tuo fratello qui perché ti fidi di noi, no? Non sarà accolto peggio se sappiamo che cosa gli è successo… non c’è niente che possa aver fatto che non gli sarà perdonato, se lo chiede. Da noi e dal Signore.»

Mika alzò la testa, ma fissò un bullone della porta e non l’uomo.

«Sta a lui raccontare questa storia… e chiedere perdono. Non posso chiedere io perdono per suo conto.»

Nereus esitò un attimo, ma poi annuì.

«Sì. Anche questo è vero… tuttavia non nascondo di essere deluso da te, Mikael. Credevo fossi un ragazzo con più giudizio. Che avessi capito che ora non sei più con tuo padre, al quale dovevi nascondere tutto.»

Gli posò la mano sul braccio.

«Puoi chiamare tuo fratello, pregare, e fare tutto alla luce del sole. Se sei in dubbio, chiedi. Chiedi e ti sarà dato, è scritto; ti dico che è molto probabile anche qui.»

Quel riferimento alle cose che poteva o non poteva fare gli riportarono alla mente Damaris e all’improvviso si ricordò di che giorno fosse. Improvvisamente la gola gli si asciugò. Stavolta guardò il Padre dritto negli occhi.

«A proposito, Padre… capisco che ho sbagliato a comportarmi così e mi sta bene qualsiasi punizione, anche restare qui dentro per quanto lo riterrete opportuno» esordì, ignorando l’espressione esasperata di Nereus. «Ma oggi alla messa si esibirà il coro… posso avere il permesso di assistere? Ho promesso a Damaris che l’avrei ascoltata.»

«Metti a dura prova la mia pazienza, sciocco ragazzo» borbottò lui, e prese a sciogliere il nodo intorno al suo polso destro. «Vann ti ha chiuso qui convinto che mentissi riguardo a tuo fratello e cercassi di chiamare chissà chi, ma questa è la mia comunità. Qui non lasciamo le persone legate in una stanza, né abbiamo paura che tu racconti che cosa impari al catechismo o cosa cucina suor Maddalena, che sono le uniche cose che penso tu possa raccontare di noi a qualcuno…»

Avere le mani libere fu un sollievo. Per la prima volta Mika ripensava ai film thriller e polizieschi e capiva quanto fosse sgradevole essere legati a una sedia e tenuti in una stanza, anche se per poche ore. Si massaggiò i polsi.

«Per punizione per aver trasgredito le regole ti assegnerò dei compiti aggiuntivi. Potrai assistere alla funzione, ma questa sera verrai nel mio ufficio subito dopo la cena e richiameremo tuo fratello.»

«Richiamarlo?»

«Vann mi ha detto che hai lasciato solo messaggi perché non risponde… se succederà ancora, ne lasceremo un altro e io stesso gli lascerò un numero da richiamare» asserì Nereus, e annuì a se stesso. «Magari non può raggiungerti ora, ma non può dirtelo. Così potrà telefonare se ha qualcosa da dirti.»

Un risvolto inatteso… non avrei mai creduto che Nereus si sarebbe schierato dalla mia parte.

Mentre usciva dalla celletta nella scia di Nereus non poteva non sentirsi amareggiato per la cattiva gestione della situazione. Anche se questa volta non si erano verificati accoltellamenti quasi fatali e rapimenti finiti in sparatoria, sentiva di aver sbagliato ancora a gestire una situazione di pressione.

Salendo le scale non badò ai brontolii di Nereus sulla fiscalità del suo collega di Saint Barthelemy. Era troppo preso a chiedersi se entrare in polizia fosse stata la scelta giusta per lui o se fosse stato il suo banale desiderio di continuare a seguire Yuu a mettergli addosso un’uniforme che non faceva al caso suo.

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Capitolo 10
*** La pecorella smarrita ***


La Jeep scura si fermò al bivio in mezzo alla boscaglia. Ferid non vedeva nulla che somigliasse a un edificio nei paraggi.

«Appena usciremo dal bosco vedremo Bluefields… e loro vedranno noi. Sei pronto, Pepper?»

Lui prese un profondo respiro guardando il proprio riflesso nello specchietto, poi lo chiuse di scatto.

«Lo sono.»

«Ti fa molto male?»

«Ne ho prese di più pesanti, te lo assicuro.»

Ismael lo guardò con un’occhiata intensa, ma non aggiunse altro in proposito.

«Stai bene così, comunque.»

«Saresti impazzito per me dieci anni fa, allora.»

«Probabile» fece lui scrollando le spalle. «Ti ricordi la storia?»

«Me l’hai fatta ripetere sedici volte, Is, me la ricordo meglio della mia vera infanzia.»

Uno scatto del sopracciglio fu la sola reazione a quel diminutivo.

«Quando ci avvicineremo fa’ finta di non avermi mai visto prima. Io ti ho solo raccolto un po’ fuori da Ridgewood e ti ho dato un passaggio. Se te lo chiedono, ho detto di essere diretto a Eanverness.»

«… Dove vive la famiglia di Crowley? E perché?»

«Beh, perché è vero» fece lui, scrollando le spalle. «Mi sono trovato alla grande con loro, e ci vogliono tre ore di viaggio per arrivarci da qui, a strada libera. Andrò a scroccare un letto e una bella cena prima di tornare a New Oakheart.»

Ferid sorrise, non senza un po’ di malinconia. Aver mancato quell’occasione di conoscerli e pensare che Crowley ci aveva portato qualcun altro – anche se con una diversa qualifica – era una piccola ferita che aveva continuato a fare male, di tanto in tanto, per quei due anni.

«La prossima volta ci andrai tu insieme a lui… certo, se non ci ammazza tutti e due quando scopre cosa stiamo facendo.»

L’atmosfera si raffreddò un po’ nell’abitacolo. Dato che Ferid, esattamente come Mika, non aveva avvertito Crowley della telefonata da Bluefields e quindi neanche delle sue intenzioni, era molto preoccupato di farlo arrabbiare al di là di ogni perdono.

«Sarà terribile, vero?»

«Per me peggio che per te» commentò Ismael con un sospiro. «Sono io che devo mettere le toppe quando tu strappi qualcosa, come l’altra volta.»

«Ma visto che tu sei un meraviglioso amico di tutti e due non ti pesa, vero?»

«Perfido bastardo» mugugnò, udibilissimo. «Il modo in cui ti approfitti di quella briciola di umanità che ho ancora è abietto, privo di moralità ed egoistico… per questo questa missione sembra fatta apposta per te.»

Ismael rimise in moto la Jeep e l’ansia di Ferid salì come un fuoco d’artificio.

«Sei sicuro che posso farcela?»

«Sì. Quindi devi esserne sicuro anche tu.»

«Se succede qualcosa…»

«Torno immediatamente qui a prendervi tutti e due» lo rassicurò lui, col tono da maestro dell’asilo. «Ma non ce ne sarà bisogno. Quando uscirete da qui l’FBI avrà fatto il suo lavoro e l’unica cosa di cui dovrete preoccuparvi è rimettere insieme i pezzi dei vostri rapporti coi partner. Quindi forse vi conviene morire in missione.»

Ferid sospirò, niente affatto allettato dal pensiero di come l’avrebbe guardato Crowley quando si sarebbero rivisti. Sarebbe stato arrabbiato? Deluso? Avrebbe ancora voluto fare un tentativo di riparare lo strappo? Alcune sue parole riecheggiarono più di altre nella sua testa.

Dopo questo penserà ancora di voler invecchiare con me?

Il cancello della proprietà era bene in vista. Erano quasi arrivati.

«Sempre ammesso che io ci riesca di nuovo a sistemare… a forza di strappi, prima o poi non riesci più a rattoppare.»

«Ci riuscirete. Siete due stupidi romantici e vi amate in maniera imbarazzante, come ragazzini.»

«… Non capisco se sia un apprezzamento o un insulto.»

«Un insulto generato da un po’ di invidia» replicò lui, evitando accuratamente di guardare dalla sua parte. «Non riesco più a ricordare se e quando sono stato così semplice… e dopotutto voi sembrate felici di essere così romanzati.»

Vista dal cancello Bluefields sembrava davvero enorme. Ferid afferrò la cintura di sicurezza.

«Ismael… hai mai… hai mai pensato di mollare? Di trovarti una vita che ti piace?»

Lui scosse la testa deciso.

«Non posso farlo… alcuni uomini sono fatti per popolare il regno della terra, altri per popolare il regno del Cielo. Io non sono fatto per il mondo delle cose semplici… sono nato per obiettivi che non possono e non devono riguardare persone come te e Ginger.»

Ferid tacque un momento ma poi, quando fu il momento di scendere dall’auto, si girò a guardarlo negli occhi.

«E sei sicuro che non sia solo una tua convinzione?»

Ismael sorrise emblematico.

«Ne riparleremo la prossima volta che saremo soli con una bottiglia di Tarcage Rouge Riserva… ora devi andare. Vaya con Dios, Pepper.»

Ferid scese dall’auto e aprì sportello per recuperare la borsa dal sedile posteriore.

«Fa’ quello che puoi per Crowley, per favore. Conto su di te.»

Ismael fece solo un vago cenno di saluto e mise in moto. Ferid si accorse che il suo arrivo non era passato inosservato: alcune persone con l’abito grigio intorno a piccole aiuole guardavano verso lo sconosciuto sceso dall’auto e un uomo grande come un armadio vestito d’azzurro si avvicinava. Ferid prese un respiro profondo e marciò verso il cancello.

«Cosa vai cercando, pellegrino?»

L’uomo aveva un’espressione indulgente nonostante la stazza da buttafuori e il tono di un saggio cinese con un indovinello spirituale per lui. Ferid lo guardò negli occhi celesti.

«Cerco mio fratello. Mikael.»

 

***

 

Mikaela avrebbe dovuto immaginare che la punizione per una chiamata non approvata non poteva esaurirsi del tutto col silenzio. Come Nereus aveva avuto cura di ripetergli più volte, quella era una grave violazione del regolamento dei novizi e che solo la sua particolare benevolenza per il suo caso – queste le sue esatte parole – lo avevano convinto a non allontanarlo.

Con un sospiro sofferente Mika lasciò cadere la penna e roteò il polso sinistro indolenzito. Prese la penna con la destra e riprese a scrivere la quarta delle dieci pagine che il Padre gli aveva chiesto di riempire con dovute riflessioni sul senso del dovere, sulla fiducia e sul rispetto.

Grazie, mamma, per avermi fatto diventare ambidestro.

Non ricordava qualcosa in particolare per cui si sentisse di essere grato a sua madre – se non forse l’averlo partorito – ma almeno la loro convinzione che essere mancini fosse un segno di possessione diabolica gli aveva regalato la non trascurabile capacità di scrivere e compiere anche gesti di precisione con entrambe le mani.

Non fece subito caso al vociare al di là della finestra, immaginando che il gruppo di studio del livello uno stesse uscendo dalla lezione. Poi un gridolino stupito – che istintivamente associò a Damaris – lo distrasse da vuote frasi di retorica sul pentimento.

«Mika! Dov’è Mika?!»

Si raddrizzò come se gli fosse stato infilato un cubetto di ghiaccio sotto la camicia. La penna volò giù mentre si scaraventava via dalla sedia per avventarsi contro la finestra e guardare in cortile; per poco non gridò anche lui quando vide Ariel agguantare un estraneo in nero con le braccia lungo i fianchi e sollevarlo come fosse un cucciolo di cane scalmanato.

Aveva mille pensieri e nessuno coerente mentre correva fuori dalla stanza, e arrivato alle scale inchiodò vedendo Nereus che si affrettava a scendere, allarmato dal fracasso. Si scambiarono un’occhiata e il Padre non gli disse di tornare al suo compito, così lo tallonò fino alla porta della canonica.

Nel breve tragitto la scena era cambiata, con lo straniero in nero che era riuscito a piazzare le mani sulla faccia di Ariel e tentava di districarsi dalla sua stretta come se lottasse con un calamaro gigante. Un altro confratello, Elijah, si era avvicinato per trattare timidamente un armistizio improbabile.

«Ora basta!» tuonò Nereus, con una potenza di voce insospettabile.

Ariel bofonchiò delle scuse e allentò la presa quel che bastò a lasciarsi scappare un uomo che si agitava quanto un marlin tirato in barca. Ora che lo vedeva fuori dal groviglio della lotta Mika riconobbe con assoluta certezza Ferid, anche se non capiva perché fosse truccato di nero come un musicista dark wave.

«Che cos’è questo trambusto, si può sapere? Chi è lei?»

Ferid lanciò uno sguardo truce a Nereus, per poi guardare lui e aprire la bocca sorpreso. Tuttavia Mika non era sicuro che guardasse proprio lui, con quel trucco nero e a quella distanza.

Il silenzio era diventato opprimente. Il respiro affannoso dei due coinvolti nella zuffa era l’unico suono che si sentiva oltre a una cicala lontana. Mika allungò una mano tremante e strinse l’avambraccio del Padre, prima che Ferid facesse qualcosa di avventato – o almeno, di più avventato di quello che stava già facendo.

«P-Padre Nereus… è… mio fratello.»

«Prego?»

Ferid tese un sorriso incerto e fece un passo sulla ghiaia, ma Mika l’anticipò e gli andò incontro, per potergli sussurrare qualcosa senza che Nereus sentisse. Da vicino l’ematoma che aveva sulla faccia risultò non essere una mascherata.

«Stai bene?»

«Mika!»

Ferid lo strinse in un abbraccio che lo fece irrigidire come un pesce essiccato, ma poi gli strinse le braccia sulla schiena. Per lo scandalo del suo arrivo tempestoso o per l’intimità di una riunione di famiglia, Nereus iniziò a gesticolare agli altri ordinando loro di tornare ai loro doveri.

«Che cosa hai detto di me?» gli sussurrò Ferid all’orecchio, pianissimo.

«Che sei andato via di casa tempo fa. Nient’altro» gli rispose altrettanto piano. «Non sapevo… chi avrebbe risposto alla mia richiesta e con quale storia.»

«Bravo, ragazzo mio. Ora sta’ tranquillo, metteremo tutto a posto, d’accordo?»

Per la commedia poteva anche bastare, ma Mika lo tenne stretto qualche altro secondo. Aveva messo in conto di poter essere salvato da Crowley, di dover sopportare mentre lui si puliva i piedi sul suo orgoglio come aveva già fatto senza neanche rendersene conto; avere lì Ferid, invece, fu un sollievo che non seppe neanche descrivere. Si accorse di non mettere più bene a fuoco le aiuole e le sagome che si allontanavano da loro.

«Oh, cielo, sei così contento di vedermi?»

«Sì» rispose lui, sorridendogli. «Avevo paura che mi spedissi Maguire al salvataggio… non lo avrei potuto sopportare.»

Dopo un momento di smarrimento Ferid emise una strana risatina stridula, poi passò la manica sul suo viso come per asciugargli una lacrima. Pur sotto tutto quel trucco riuscì a vedere in lui una tenerezza che non gli avrebbe attribuito.

«Lascia fare a me… appena saremo da soli ti spiegherò tutto.»

Mika annuì e subito dopo Nereus piombò su di loro come un’aquila, artigliando la spalla destra di Mika e quella sinistra di Ferid in una presa insospettabilmente forte.

«Voi due, immediatamente nel mio ufficio. Senza discussioni

 

***

 

Qualche minuto dopo i due presunti fratelli sedevano nell’ufficio di Nereus, che era più caotico del Magick quando Krul tentava di fare l’inventario da sola. Ferid trovava molto buffo il cipiglio severo che Nereus teneva su mentre si affannava nel tentativo di sgomberare la scrivania, al punto che si pizzicò senza farsi accorgere in più punti sensibili per non mettersi a ridere. Non soffriva così tanto dall’ultima volta che aveva giocato con Melody a guardarsi senza ridere.

«Voglio essere ben chiaro, Mikael: benché io sia felice che tuo fratello sia riuscito a raggiungerci, esigo la parola di entrambi che un comportamento come quello che avete tenuto, tu ieri e lui oggi, non si ripeterà mai più.»

«Sono dispiaciuto… non so perché…»

Ferid sospirò profondamente, più per controllarsi che per simulare dispiacere.

«Siete monaci, o qualcosa del genere, no? Credevo di trovarmi davanti a gente che non voleva che lo rivedessi. So che lui è il bravo bambino e io… sono quello che sono.»

Nereus lo scrutò con fare da professore, poi rinunciò a riordinare e sedette sulla sedia.

«Siete proprio fratelli, voi due… medesima inclinazione a pensare il peggio delle persone» sospirò sconfortato il pastore, spostando futilmente un libro da un angolo all’altro della scrivania. «E come ti chiami vuoi dirmelo?»

Ferid e Mika si guardarono.

«Non gli hai detto neanche come mi chiamo?»

«Diglielo tu, no? La lingua ce l’hai» ribatté Mika, con un nostalgico ritorno a un barlume del suo vecchio sarcasmo tagliente.

Ferid tese un angolo della bocca prima di guardare il Padre.

«Connor. Connor Maguire.»

Fu una fortuna che Nereus si alzasse sulle ultime sillabe del cognome per rispondere a brevi colpi sulla porta: non si accorse dell’occhiata fulminante che Mika lanciò al suo presunto amato fratello, né del ghigno con cui lui rispose. Mentre l’uomo accettava il tè portato da una fedele piuttosto curiosa di dare una sbirciata, Mika mosse le labbra facendone uscire un fiato troppo flebile per essere sentito ma era chiarissimo comunque.

«Ti ammazzo.»

Ferid flautò una risatina quasi altrettanto eterea ed entrambi tornarono perfettamente seri quando la porta venne richiusa. Nereus posò il vassoio davanti a loro.

«Se gradite servitevi, da parte di sorella Ruth» fece sedendosi. «Dicevamo? Ah, sì… Connor Maguire, vero?»

«Sì.»

«Bene, lascia che ti chieda una cosa, Connor… perché sei venuto fin qui?»

Qualcosa nel modo in cui piantò gli occhi nei suoi ricordò a Ferid le conchiglie di Krul. Era senza dubbio uno dei due re di Bluefields e doveva essere cauto, perché uno gli era ostile.

«Sono venuto perché Mika mi ha chiamato.»

«Ma non avevate contatti da molto tempo, giusto? Perché proprio ora che si è unito a noi… monaci?»

Ha sentito ostilità e teme che sia un soggetto pericoloso… e dato come sono vestito e come sono arrivato sarebbe uno stupido a non testarmi. Solo che… che cosa si aspetta di vedere adesso? Cosa lo convincerà?

Scambiò uno sguardo con Mikaela, che era diventato improvvisamente spaurito e angosciato. Non si aspettava una tale capacità di adattamento e doti di recitazione da lui.

«È… per le ferite che hai in faccia?»

Nereus si fece più serio quando guardò il suo zigomo.

«Per favore, togli quel trucco dal viso.»

«Non serve» replicò Ferid secco. «Posso dirtelo io che ho un occhio pesto. Ho anche qualche altro regalino, ma non mi spoglio per fartelo vedere.»

Nereus unì le punte delle dita in una breve riflessione.

«Bene. Puoi essere visitato da sorella Dorcas in infermeria, ma dopo devo chiederti di andare via. Non puoi restare.»

«Ma–!»

«Capisco che cosa provi, Mikael… ma questo è un monastero. Può restare, se lo chiede, ma tuo fratello dev’essere pronto ad accettare le regole come fanno tutti.»

Mikaela guardò dalla sua parte con un impeto tale da faticare a credere che fingesse.

«Fallo! Ti prego, digli che vuoi restare! Che seguirai le regole, per una buona volta, che…»

Ferid sobbalzò quando Mika si gettò in ginocchio accanto alla sua sedia.

«Che hai bisogno che non veniamo più separati!»

Gli ci volle qualche attimo di totale immobilità della scena per ricordarsi che avrebbe dovuto dire qualcosa; le capacità di immedesimazione di Mikaela erano così eccellenti che dubitava che qualcuno avrebbe mai scoperto che era un agente sotto copertura, se non fosse stato per quella manovra scoperta con il telefono.

Gli prese la mano stringendola.

«Se solo bastasse, Mika… ma uno come me non lo vogliono qui. Per questo sono… venuto a prenderti, per andare via insieme…»

La confusione nei suoi occhi azzurri era vera.

«Via? Andiamo via?» gli chiese, preso di sorpresa. «Vuol dire che… hai un posto dove stare? Un lavoro?»

«Beh, ci penseremo su quando saremo fuori da qui…»

Mika aveva già messo su un’espressione ribelle che la diceva lunga sulle sue intenzioni di mollare la presa sulla sua indagine e cercò di riportarlo alla lucidità dandogli una carezza che tirò con forza una delle sue ciocche di capelli.

«Potremmo andare dalla zia Ginger per un po’… che ne pensi?»

«Non voglio andare dalla zia Ginger» replicò lui secco. «Io sto bene qui, e ci staresti bene anche tu! Fidati di me!»

Gli strinse la mano tanto forte che faticò a non lamentarsi.

«Devi stare lontano dalla gente che frequenti, e qui le persone sono davvero buone… non come quell’ubriacone delinquente di nostro padre.»

Non poteva dire di non aver recepito il messaggio di Mika, quindi si rassegnò a seguire il piano principale. Sospirò profondamente e lanciò uno sguardo a Nereus, che non aveva perso una sola loro mossa.

«Dovresti prima chiedere ai tuoi amici se vogliono uno come me qui.»

«Mi sento in dovere di avvertirti che l’uso di cosmetici è fortemente sconsigliato.»

Mikaela tirò un sorriso straordinario, che Ferid non ricordava di aver mai visto.

«Padre Nereus è la persona migliore del mondo, non ti manderà mai via… qualsiasi cosa tu abbia fatto, se chiedi perdono, sarà tutto a posto!»

«Se solo servisse a qualcosa…»

«Ma serve» obiettò Nereus con dolcezza. «Chiedere perdono serve sempre. Non è mai stupido e mai inutile… quindi, perché non ci racconti qualcosa? Per esempio chi ti ha preso la faccia a calci.»

«Il mio uomo» replicò Ferid, lasciando basito più Mikaela che il prete. «Quello con cui vivevo fino a ieri. Mi ha visto mentre prendevo le mie cose per andarmene.»

«Per colpa mia?» fece Mikaela, con una vocina sottile.

«Per colpa del fatto che è un bastardo, ecco cosa.»

Nereus diede in un colpetto di tosse mentre riempiva le tazze del tè.

«Anche gli epiteti sono fortemente sconsigliati, qui.»

«Ah, sì.»

«Com’è stata la tua vita da quando hai lasciato la casa dei vostri genitori, quindi?»

«Se vuoi la lista dei miei peccati è bella lunga. Un saldo e stralcio no?»

«Il tè serve a bagnare la gola per le lunghe chiacchierate» replicò lui con un accenno di sorriso. «Parla quanto vuoi. Io ascolto ogni parola.»

«Non c’è molto da dire» fece Ferid con una scrollata di spalle, e prese la tazza. «Sono sparito con una band musicale di disagiati molto poco portati per il rock, ho incontrato uno spacciatore e ho battuto il marciapiede per un po’. In quei tempi avevo tutta Nashville ai miei piedi… metaforicamente parlando, ovvio, ero più io che mi mettevo in ginocchio per–»

«Credo di aver afferrato» l’interruppe Nereus. «E dopo questi… rocamboleschi tempi?»

Si affrettò a bere un sorso di tè per spegnere l’ilarità quando vide con la coda dell’occhio Mika che si pizzicava con ferocia dietro il ginocchio, con le labbra serrate contro la tazzina.

«Se si aspetta della redenzione la mia non è la storia che vuole sentire, Padre.»

«Per un pastore che si aspetta redenzione storie come la tua sono esattamente quello che vuole sentire. Il Signore fa salti di gioia per ogni pecorella perduta come te che riesce a tornare, e con moderazione anch’io…»

Posò la tazza sul ginocchio e passò l’indice sul bordo.

«Io… spero che quello che le dirò ora non sia troppo sconvolgente… cioè… so che lo sarà, ma spero che non mi manderete via per questo. Vorrei restare con Mika, è la sola famiglia che ho.»

«Hai assassinato qualcuno?»

«Temo che il mio crimine sia peggiore di questo.»

Nereus lo guardò sorpreso. Era il momento buono, con la tensione al punto giusto.

«Sono stato reclutato da un uomo che si faceva chiamare col nome di un demonio… che guidava una setta che venerava il diavolo. Una setta satanica.»

«Starai scherzando, mi auguro!»

Ferid scosse piano la testa. Per un attimo temette che la sua storia fosse troppo grossa per sembrare credibile, o troppo seria per una comunità come quella. In effetti il libro glissava completamente riguardo la visione di Satana della dottrina, sempre ammesso che fosse una derivazione che ci credeva.

Mika aveva un’aria allarmata, ma non capiva se fingesse o no. Nereus appoggiò la schiena contro la sedia e si passò la mano sulla faccia e nei capelli; era sconvolto e pallido.

«Santo cielo» mormorò. «Ecco perché Mikael era così misterioso… perché non voleva dirmi nulla riguardo a te. Era stato così vago… si capiva che pensava a qualcosa di molto grave, eppure…»

«Aveva tutte le ragioni per vergognarsi di me…»

«No, no… non è vergogna. No, temeva per te… Mikael si è fatto l’idea che la religione cristiana sia molto rigida e selettiva, forse perché l’ha studiata da solo, di nascosto da vostro padre. Si aspetta sempre una punizione dura per i suoi errori e temeva che davanti a qualcosa di tanto grave ti avremmo cacciato e abbandonato a te stesso.»

Nereus si alzò dalla sedia con aria risoluta.

«Naturalmente questo non accadrà. Non potremmo definirci cristiani se alla sola menzione del Maligno chiudessimo tutte le porte e iniziassimo a guardarci con sospetto l’un l’altro.»

Era un bel concetto, toccante e coraggioso, detto da un sacerdote. Ferid ne restò colpito. Mika gli artigliò il polso come un gatto nervoso e gli strappò un lamento sussurrato.

«Ora, la questione fondamentale è: quanto eri coinvolto, Connor? Tu eri un servo di Satana?»

La risata amara che gli salì fu spontanea.

«Ho servito un uomo che mi controllava con un finto amore, che mi dava droghe e alcol e che mi usava per i suoi cosiddetti rituali, per meglio dire orge di perversione inenarrabile. Io di esseri caprini con le corna o con le ali non ne ho mai visti.»

«Non ti ho chiesto se hai scritto il tuo nome sul libro, come fosse un processo di Salem… voglio sapere se tu credevi in lui. C’è stato un momento, all’inizio magari, in cui hai pensato di ottenere il suo favore per qualcosa? Renderti più felice, più ricco, più potente di quello che eri?»

Ferid rimase sorpreso di sentir parlare in quei termini un uomo di chiesa, perché erano sfumature colte da chi leggeva e studiava manuali di demonologia come ne aveva letti molti al Magick. Nereus era un uomo devoto ma anche intelligente e sperò che non si trattasse del nemico.

«La mia famiglia non è cattolica… solo Mika lo era. Non credevo in Dio e non credevo nel diavolo, e che mi ricordi non volevo altro che l’approvazione di quell’uomo… il suo carisma era così forte…»

«Se non credi in Dio, perché vuoi restare?»

«Per… per Mika, no? Per che altro?»

«Raccontaglielo, ti prego» s’intromise Mika. «Raccontaglielo… di quando l’hai sentito parlare nella pioggia.»

Il riferimento a quell’antico evento lasciò Ferid senza voce per raccontare di quello o di qualsiasi altra cosa. Nereus girò intorno alla scrivania per mettersi accanto a lui.

«Raccontamelo.»

Era praticamente la sola cosa vera che gli fosse stato chiesto di dire, eppure non riusciva a pronunciare neanche una sillaba. Davanti ai suoi occhi non vedeva più Mika, Nereus o il suo ufficio disordinato, ma la pioggia che batteva contro le finestre della cappella privata come fosse uno dei quaranta giorni. Sentiva le ginocchia doloranti, le gambe indolenzite e ma continuava a mormorare le sue preghiere, finché non era svanito ogni rumore e…

Si rivide sul tetto della palazzina dove vivevano Crowley e i ragazzi, sotto la pioggia battente. Un ricordo che aveva del tutto dimenticato fin dal primo momento quando il suo uomo era venuto a riprenderlo. Eppure ora si rendeva conto di essere stato in ascolto, di aver aspettato di sentire qualcosa…

Alzò gli occhi su Nereus e sentì una lacrima cadergli dalle ciglia appesantite dal mascara. Non riusciva a capire perché in quel momento quell’emozione lo schiacciasse tanto. Le mani gli tremavano tanto che non osò sollevare la tazza dalle ginocchia.

«Va bene… va bene, non c’è fretta» fece Nereus, stringendogli la spalla con fare rassicurante. «Dev’essere stato un viaggio lungo dopo una serata intensa… Mikael, per favore, va’ da Tabitha, trova a tuo fratello una tenuta più consona per cenare con noi… e poi lo accompagnerai da Dorcas. Dille di controllargli queste ferite, se riesce a togliergli questo mascherone.»

«Subito!»

Mikaela saltò in piedi, ma si fermò davanti alla porta.

«Padre, vuol dire che ho il permesso di parlare, adesso?»

«Sì» sospirò lui, «ma voglio lo stesso il tuo scritto domani.»

«Grazie!»

Vedere Mika correre via fece sentire Ferid terribilmente vulnerabile, da solo con Nereus in quello stato di confusione. Si sentì il cuore in gola quando l’uomo sedette sulla sedia lasciata da Mika e posò la mano sulla sua.

«Non ti farò rimproveri sull’inferno, o paternali su come hai fatto le tue scelte, Connor… quello che voglio che tu sappia è che Dio ti ha portato dove dovevi essere oggi. Qui con noi… qui con tuo fratello. Ora possiamo avere cura di te per conto del nostro Padre Celeste.»

Trovò insolito che l’aiutasse a tenere ferma la tazza per fargli bere un sorso di tè, ma percepì una cura, una tenerezza profonda come finora aveva visto solo nelle attenzioni amorevoli di Claude. La cura pregna di abnegazione che si riserva a un figlio.

 

***

 

Quando Ferid lasciò la canonica con gli abiti neri dei novizi scoprì che Mikaela non era l’unico ad aspettarlo: il cortile era affollato di persone con abiti azzurri o grigi che sembravano passeggiare lì con la sola intenzione di esserci quando lui sarebbe finalmente stato rilasciato dal loro padre spirituale. Li guardò con un certo timore prima che Mika l’agguantasse per il braccio e lo trascinasse oltre l’arco, dalla parte opposta a quella da cui aveva fatto irruzione.

«Ti ha chiesto qualcosa mentre ero via?»

«Eh? Ah, no… solo se ero stato al pronto soccorso prima di partire.»

«E ci sei stato, già che ne parliamo?» fece lui, con uno sguardo preoccupato all’ematoma sul viso. «Sembra brutto, ma come te lo sei fatto?»

«Non è importante, mi è successo di peggio.»

Avrebbe dovuto aspettarselo dal cipiglio di falco che gli era apparso sul viso d’angelo che doveva essersi fatto una brutta idea.

«Non è stato Crowley, vero?!»

«Ma che… ancora?!» sbottò Ferid seccato. «Che razza di idea hai di quell’uomo? Sei sempre pronto a credere che mi picchi! L’hai fatto anche dopo quella sera alla Belfast Arena!»

Mika balbettò qualcosa ed ebbe almeno la decenza di assumere un’espressione contrita.

«N-non volevo dire questo, è che… penso che…»

Esitò, scorrendo lo sguardo sulla ghiaia bianca dello stradello.

«Penso che… se Yuu-chan avesse saputo che cosa cercavo di fare, mi avrebbe preso a pugni pur di impedirmelo. Una volta che volevo pestare un tizio mi ha fatto bloccare dalla polizia stradale, dicendo che volevo suicidarmi. Mi hanno tenuto due giorni in psichiatria.»

«Drastico… ma gli innamorati sono drastici, quando pensano di perdere quelli che amano. Non so se Crowley mi avrebbe fermato, comunque: non gli ho detto dove stavo andando.»

Mika si bloccò sul sentiero.

«Non lo sa?»

«Non sa nessuno della tua telefonata… ma è possibile che Connor dovrà dirglielo, alla fine. In ogni caso sono qui con il benestare di qualcuno più in alto di Crowley.»

«Se dici Dio giuro che non rispondo di me» l’ammonì Mika truce.

«No, magari… no, è il Bureau che tiene il suo amorevole occhio su di noi.»

«Il Bu– i federali?!»

«Shhh» gli intimò Ferid, guardandosi intorno. «Mai una parola mentre siamo qui. Semplicemente anche loro pensano che ci sia qualcosa di losco qui e sono felici che noi facciamo questo lavoro per loro. E quando andremo via un certo tale ha un posto per te nella sua unità anti-setta, o come la chiamano là.»

«Nel Bureau?!»

«Mika, o controlli quella tua linguaccia o te la taglio.»

La notizia aveva talmente impressionato Mika che la sua minaccia non la sentì neanche. Riprese a camminare sperando di invogliarlo a rimettersi in moto, ma non accadde.

«… Devo trovarla da solo l’infermeria?»

Solo allora il ragazzo tornò al presente e lo raggiunse, per guidarlo poi a sinistra.

«Non è uno scherzo, vero, Ferid?»

«No, ma ti giocherai l’occasione se continui a chiamarmi così e a parlare a sproposito… uh-oh, arriva qualcuno.»

Mika guardò i ragazzi in avvicinamento – due giovani in abiti grigi – e sorrise.

«Ah, tranquillo. Sono i miei amici.»

Il ragazzo con la pelle olivastra fu il primo a parlare.

«Mikael, allora è vero che è arrivato tuo fratello?!»

«Sì, ma il Padre ci ha detto di stare sulle nostre per oggi. Credo voglia dire qualcosa lui alla messa di domani mattina…»

Il ragazzo con i capelli chiari lo guardò, incuriosito e intimidito in ugual misura, e Ferid cercò di sorridere.

«Voi conoscete Mikael?»

«Ah, no» l’interruppe Mika sollevando la mano. «Non possono risponderti. Non sei ancora un novizio, e durante il noviziato non possiamo parlare con gli esterni.»

«Ma tu mi parli!»

«Circostanze eccezionali» tagliò corto lui, e guardò gli altri due. «Cenerò con mio fratello. Per favore, ditelo anche a Cecilia.»

«Sì… e Damaris? Dobbiamo… insomma, dirle qualcosa?»

«Se vi chiede qualcosa ditele solo che le lascio il solito sasso. Grazie.»

I due ragazzi lo salutarono – senza smettere di lanciare occhiate incuriosite a Ferid come se fosse un cane incapace di capire che parlavano di lui – e si allontanarono di fretta. Ferid aveva molte domande.

«Sasso?»

«Non posso parlare con lei, è una Rinata… le ho dato una lettera, però. Ogni mattina si siede molto presto su una panchina di pietra lungo questo viale, più giù vicino agli orti. Gliel’ho lasciata lì con un sasso pesante sopra perché c’era vento, e ora mi dice così quando vuole che le spieghi qualcosa per iscritto.»

«Oh, siete già intimi…»

«Ci sto lavorando. Mi ha permesso di scoprire un po’ di cose interessanti, comunque ancora sono troppo limitato… non posso andare in molti posti, non posso parlare con chi non è novizio, e ho troppi impegni per poter osservare per bene le persone importanti della comunità… ma di sicuro l’uomo da controllare è padre Vann, quello che è venuto da Nashville.»

«Prima di questo, dimmi che cosa devo aspettarmi da questo noviziato… perché se è così dobbiamo superarlo a tempo di record se vogliamo ficcanasare dove ci pa–ahia!»

Si era toccato la faccia proprio dalla parte ferita. Mika si rabbuiò di nuovo.

«Davvero non vuoi dirmi chi te l’ha fatto?»

«Se serve a darti pace, è stato Connor. Mi ha portato fin qui, mi ha aiutato a decidere la copertura, e mi ha tirato qualche pugno per rendermi un po’ più pietoso da vedere» snocciolò Ferid, come se dirlo in fretta impedisse a Mika di infuriarsi. «Se ti può consolare, non ho mai conosciuto un uomo così restio a tirare un cazzotto. La sua indecisione mi ha fatto tribolare decisamente più a lungo.»

«Non mi consola affatto, che cazzo. Quando esco lo gonfio di botte.»

Mika emise un buffo verso, incrociando le braccia.

«E stavolta non ci sarà Yuu-chan a impedirmelo facendomi internare.»

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Capitolo 11
*** Il favore del re ***


Crowley, appoggiato di schiena allo spigolo del muro tra il soggiorno e il disimpegno tra le altre due stanze del suo appartamento, aveva le sopracciglia così aggrottate che quasi gli facevano male. Teneva gli occhi fissi sulla faccia di Connor Maguire, che se ne stava seduto sul tavolo della cucina con in mano una lattina delle sue bibite senza zuccheri come se stesse raccontando la sua ultima passeggiata con il cane nel parco… e gli aveva appena raccontato qualcosa che sapeva di film poliziesco, a dire la meno.

«Tu devi essere impazzito.»

«Me l’hai detto così tante volte che non so mai associarlo a un qualche genere di schema ricorrente» ammise Connor in tono di scuse. «Ti seccherebbe molto chiarire?»

«Connor, non mi sto divertendo, l’hai notato questo? Prima Mikaela pianta tutti in asso e sparisce per fare un’indagine privata in un posto che forse, e dico forse, nasconde segreti che potrebbero ucciderlo e tu arrivi in casa mia a dirmi che Ferid è andato a dargli man forte!»

«Sì, quindi?»

Crowley ebbe uno zampillo d’ira che sarebbe bastato a fargli tirare un pugno a Connor se non ci fosse stato un soggiorno a dividerli. Non sarebbe stato capace di controllarsi ancora per molto: una mareggiata di pensieri ed emozioni gli si stava agitando dentro spumeggiando sempre di più.

Mikaela che non vuole parlare, Ferid che sceglie di nuovo da solo per tutti quanti e ora anche Connor che finge di non capire… quando smetteranno tutti di comportarsi come bambini?

«Ascoltami bene, Connor, perché sono a tanto così dal mettermi a urlare» lo ammonì Crowley, con l’indice e il pollice praticamente incollati. «Ora guardami in faccia e dimmi con la massima sincerità per quale cazzo di motivo non hai fermato Ferid.»

Connor inclinò la testa, interessato ai valori nutrizionali sulla lattina, prima di obbedirgli e guardarlo negli occhi.

«Per due motivi, a essere sincero. Il primo è che Pepper si sentiva in colpa e avrebbe fatto qualcosa di molto stupido o di molto autodistruttivo se non avesse potuto riparare neanche questa volta.»

Crowley si accigliò e fece per esporre le sue perplessità, ma Connor alzò appena la voce per dissuaderlo.

«La seconda ragione è che tu non puoi salvare il mondo ed è ora che inizi a capirlo, Ginger.»

Questo fece dimenticare a Crowley quello che voleva dire solo pochi secondi prima.

«Che diavolo significherebbe questo?»

«Tu ami salvare la gente. Ti senti realizzato quando dai un buon consiglio a qualcuno, quando l’aiuti a fare qualcosa, quando lo proteggi da un pericolo… quando risolvi un problema quell’anima luminosa che ti ritrovi si crogiola nella gioia come un maiale nel fango.»

«Che diavolo–»

«Questo ti rende la persona straordinariamente amata che sei. Un parrocchiano modello, il vicino che tutti vorrebbero avere, un poliziotto eccellente e una bella persona… ma anche un insopportabile eroe» puntualizzò Connor con un tono sprezzante che non gli aveva mai sentito. «Diventi aggressivo quando non ti è permesso di essere l’eroe. Quando la soluzione non dipende da te ti senti inutile e frustrato, e questo è insopportabile per chi ti sta intorno e deleterio per te stesso.»

Connor non gli aveva mai parlato di niente del genere, ma in verità di rado avevano avuto conversazioni personali di profondità, in tutti quegli anni di relazione. Una capricciosa parte di lui si sentì insultata, ma capì all’istante che la parte che voleva rispondere era proprio l’eroe.

«Pensa quello che vuoi di me» disse allora forzandosi a essere calmo. «Ma non ti permetterò di mettere a rischio le persone che amo per insegnarmi qualcosa.»

«Non ho bisogno del tuo permesso» replicò lui neutro. «È quello che ho già fatto.»

Crowley si ritrovò così confuso da non sapere che cosa dire. Connor scrollò le spalle.

«Beh, non che l’abbia fatto con questo fine esplicito, ma se riuscirai a cavarne una lezione per te tanto di guadagnato.»

Che cosa… diavolo sta dicendo? Cosa sta facendo?

Non si accorse neanche di attraversare il soggiorno in pochi passi; si ritrovò a tirare Connor giù dal tavolo della cucina strattonandogli il colletto della polo. In quel momento non gli sembrava neanche la stessa persona che aveva conosciuto quando era un giovane agente di polizia della narcotici. Non poteva pensare che era lo stesso uomo con cui aveva una relazione e al quale aveva mostrato così tante cose che prima di raccontarle a qualcun altro si sarebbe tagliato via la lingua con le sue mani. Lo disgustava pensarci.

«Chi diavolo sei tu? Che cosa vuoi da me e dalla mia famiglia? Esigo delle risposte!»

Connor, dopo lo stupore iniziale per quello scatto, fece un sorriso. Non l’aveva mai visto sorridere in quel modo.

«Vorrei poter rispondere… ma non mi crederesti comunque.»

Seppur turbato, Crowley non cedette.

«Tu non sei un navy seal.»

«No, ma questo lo sai già, vero?»

«E non sei dell’FBI.»

«Da dove vengo io gli insulti alla madre sono meno scortesi che dare del federale a qualcuno.»

«Niente ironia. Non adesso, o ti prendo a pugni.»

«Sissignore.»

Crowley gli mollò il colletto e Connor se lo sistemò, sereno come se non fosse mai stato aggredito da un poliziotto dalla stazza e forza sufficienti a rompergli il collo in un paio di secondi.

«Cosa sai di Ferid che io non so?»

Connor alzò gli occhi dal disastro che aveva fatto lasciandosi sfuggire di mano la lattina. Sembrava sorpreso.

«Mi stai facendo davvero questa domanda?»

«Sì, ora rispondi.»

«Posso prendere un’altra lattina?»

Crowley sospirò. FBI, Navy seal o qualsiasi altra cosa Connor fosse, il suo carattere restava impossibile.

«Sì. Ma pulisci per terra.»

Connor annuì e recuperò uno straccio assorbente per pulire, poi si chinò per asciugare.

«So che ha una bella casa davvero, nelle campagne inglesi. Che ha un maggiordomo, delle cameriere battagliere come valchirie, un mezzadro che coltiva la tenuta e uno stalliere mezzo sordo per i suoi cavalli. Che beve vino che costa un occhio della testa e ha una vasca da bagno immensa.»

Crowley si accigliò.

«Beh, non lo sapevi questo, no?»

«Facciamo che ti tiro un calcio ogni volta che rispondi buttandola sul vago? Magari così ti invoglio a restare sull’argomento.»

«Oh, quindi è di com’è Pepper dentro che ti interessa sapere?» fece Connor, strizzando lo straccio sul lavabo. «Uhm, è un uomo avventuroso. Non lo sembra, con tutte le sue abitudini da ricco pigrone come leggere in poltrona o fare il bagno bevendo vino. Le novità lo divertono. Non sopporta l’odore di fumo in casa, mangia una quantità allarmante di mirtilli e non sa nuotare.»

«Avete una storia, voi due?»

Connor si girò a guardarlo con la lenta circospezione di un animale selvatico. La sua espressione era già una risposta, per quanto riguardava Crowley.

«Ho fatto qualcosa che te l’ha fatto capire?»

«Io non fumo, e neanche tu… fumi soltanto dopo aver fatto sesso. Se sai che a Ferid dà fastidio l’odore…»

Connor emise una risata imbarazzata e si passò la mano nei capelli.

«Ahah, mi sono fregato… ma non è una storia, non più di quanto lo sia una storia con una pagina soltanto. È successo solo una volta e mi sono dovuto anche impegnare tanto per convincerlo. Non sono abituato a sforzarmi» commentò lui, quasi non credesse di averlo davvero fatto. «Da quando è tornato qui, da te, ha confermato che non sarebbe successo più niente del genere tra di noi, quindi puoi stare tranquillo… sempre che ti fidi della sua fedeltà.»

Crowley non sapeva esattamente come si sentiva al riguardo. Restava sempre piuttosto geloso di Ferid e l’idea che un uomo come Connor avesse raggiunto anche lui non gli piaceva, ma voleva credere che il suo uomo fosse in grado di essere più fedele di quanto i suoi dubbi infondati gli lasciassero sperare. Il fatto che Connor avesse fatto peccare lui tante volte non significava necessariamente che avrebbe ottenuto lo stesso risultato con tutti.

«Cosa ci facevi tu da lui, se non eravate ancora intimi?»

«Ero a Londra per le mie ragioni e ho chiesto ospitalità. Ero anche un po’ curioso, quindi sono andato a vedere questa tenuta Cosworth. È stato un bel colpo d’occhio, con quel parco verde in mezzo al grano. E non avevo mai visto raccogliere le fragole, per gente di città come me è sempre una fonte di meraviglia vedere cose come queste…»

Fragole?

«Quando ci sei stato? Appena prima che tornasse, vero?»

Dall’espressione che passò per un attimo negli occhi verdi seppe che si era accorto di aver parlato troppo.

«Da un po’… non ricordo esattamente quando.»

«Gente di città come te dovrebbe pensarci due volte prima di dire a gente come me che cosa ha visto nei campi e poi provare a mentire sul tempo» replicò secco Crowley. «Ferid mi ha detto dov’è la tenuta Cosworth. Se il grano è già cresciuto e raccoglievano le fragole non può essere successo più di due, massimo tre settimane fa.»

Connor sospirò e si lasciò cadere sulla sedia, come fosse esausto per una maratona sotto il sole.

«Questo ha qualche rilevanza?»

«Evidentemente sì, se hai provato a nascondermelo.»

Ma in che modo questo è importante? Perché il momento dovrebbe essere importante abbastanza da provare a mentirmi? Era comunque prima che tornasse da me, non è per quella scappatella…

Meccanicamente andò al frigorifero e prese una bibita, aprendo la lattina con il dito medio mentre richiudeva lo sportello. Lo sfiato della cola fu concomitante alla conclusione a cui arrivò.

«Sei stato tu.»

Connor lo guardava senza espressione.

«Sei stato tu a parlare a Ferid della Chiesa dell’Acqua. Dell’annegamento di Lanius.»

«Perché avrei dovuto farlo?»

«Dimmelo tu perché… sei andato da lui fino là, gli hai raccontato questo, e lui torna in America con uno strano libro e quell’idea assurda che la chiesa nasconda qualcosa! Come hai fatto tu a saperlo e perché ti interessa? Perché, se conosci me, sei andato a chiedere a qualcuno come Ferid aiuto per un’indagine?»

Connor non rispondeva e non accennava un’espressione. Crowley non riusciva a capire se si sentiva alle strette o se si stava limitando a guardarlo remare sempre più lontano dalla verità.

«Connor, maledizione! Se questi anni passati insieme significano qualcosa per te, anche solo una briciola di quello che significano per me, rispondimi!»

Gli occhi verdi di Connor scivolarono sulle mani con cui teneva ancora lo strofinaccio. Schioccò le labbra stizzito e lo scagliò dentro il lavabo.

«Tu e Pepper, con questa balorda idea che a me importi qualcosa di voi, o di chiunque altro in questo mondo! Cosa devo fare oltre a metterti in imbarazzo, farti bruciare all’inferno del tuo credo e mettere in pericolo i tuoi affetti per farti capire che non sono una brava persona?!»

Paradossalmente, l’uscita di Connor così aggressiva lo rasserenò molto più di quanto avrebbero fatto vane promesse e belle parole.

«Non mostrare dolore negli occhi quando mi ferisci aiuterebbe la tua causa…»

Connor emise un ringhio frustrato, un suono che non si era mai sognato che fosse capace di emettere, e si scompigliò furiosamente i capelli con le mani. Non servì a granché; tutta la lacca che ci metteva li fece tornare praticamente come prima. Si appoggiò al lavabo e sospirò, come un Atlante stanco.

«Horatio Lanius era come un fratello per me.»

Associare una relazione personale a una morte difficilmente spiegabile inquadrava tutto sotto una nuova luce. Senza parlare gli porse la lattina che aveva appena aperto e Connor la prese.

«Lo chiamavo Lanny. Detestava che lo chiamassero Horatio, era il nome di suo nonno e lui l’aveva sempre trovato un uomo detestabile… lui invece era buono, Ginger. Era un uomo davvero buono. Era gentile, il tipo di persona che si sente spezzare il cuore quando inevitabilmente fa del male al prossimo. Nonostante facesse un lavoro complicato trovava una serenità incredibile nelle piccole cose ed era capace di trasmetterla… quando ero con lui mi sentivo anche io come se non esistesse un posto migliore, un giorno migliore di quello in cui eravamo.»

Connor prese un sorso di cola, abbassò la lattina, poi ne prese un altro. Sembrava in difficoltà a parlare, per la prima volta da quando lo conosceva la sua dialettica era meno che efficace.

«Assomiglia tanto all’amore, questo.»

«Lo so» commentò lui a voce bassa.

Bevve in silenzio metà bibita prima di ricomporsi a sufficienza.

«Lanny perse la donna che amava… morì sul… lavoro, diciamo. Non riuscì più a riprendersi. Scivolò in una depressione profonda e io… finii per sentirmi come se il mondo intero fosse una menzogna. Come se ci fosse concessa un po’ di felicità solo per farci soffrire di più nel perderla.»

«So che cosa significa.»

«Niente frasi di circostanza, Ginger, per favore… è difficile già così.»

«So che cosa significa. Lo so davvero

Si scambiarono un’occhiata e Connor sembrò ancora più afflitto di prima. Bevve un altro sorso.

«Non tornò più al lavoro. Dopo averlo visto un paio di volte in quelle miserabili condizioni non lo rividi più nemmeno io, perché partì e andò a unirsi alla comunità della Chiesa dell’Acqua. Non era un alcolista, non si drogava… era depresso, ma non scappava dal suo dolore, Ginger. Ha cercato nella fede un modo per non soffrire, e loro gli hanno fatto qualcosa.»

Non assomigliava affatto al Connor che pensava di conoscere, ma la sua incoerenza, il modo caotico in cui applicava la sua intelligenza e l’emozione che gli vibrava nella voce lo rendevano più autentico di quanto avesse mai creduto possibile.

«Che cosa pensi sia davvero successo a Lanius?»

«Io…»

Si morse il labbro, improvvisamente reticente. Che cosa non voleva dirgli?

«A Ferid hai raccontato questa storia?»

Lui annuì.

«E a lui hai detto che cosa pensi?»

«Sì. Gliel’ho detto.»

«Per quale ragione ti fidi più di lui che di me? Cosa pensi andrebbe perso se ora parlassi?»

Connor incrociò le braccia al petto come a volersi proteggere da qualcosa, raddrizzò la testa, ma non lo guardò in faccia.

«Credo che in qualche modo siano venuti a sapere che Lanny era nell’MI6 e che lo abbiano ucciso, sospettando che fosse lì sotto copertura… per indagare su qualcosa. Per questo sono convinto che nascondano un segreto grosso abbastanza da giustificare l’assassinio di un agente speciale.»

Di nuovo l’MI6 che veniva fuori. Cominciava a venire fuori troppo spesso e in contesti diversi…

Non sono diversi.

All’improvviso collegò tutti i puntini sulla sua mappa; troppo pochi per un disegno ma abbastanza per la forma vaga di una costellazione.

«Sei… sei anche tu un agente dell’MI6.»

Sorprendentemente Connor non lo negò, anzi annuì.

«Connor Maguire non è il tuo nome, allora.»

«No» confermò lui, col tono di chi si scusa di aver dimenticato di fare una commissione.

Crowley ripercorse un po’ più lentamente i pensieri che gli erano sfrecciati come una scarica elettrica nel cervello poco prima. Avevano senso… anche se non gli piacevano.

«Tu sei Ismael» fece poi, meditabondo. «Ferid parlava con te al telefono.»

«Sì.»

«È il tuo vero nome?»

«Sì.»

Tantissime domande gli risalivano dal mare dei pensieri, come bolle che affioravano dalle acque scure, ma alcune avevano la precedenza. I suoi dubbi, allora infondati, ora si ripresentavano.

«E Ferid… Ferid è un altro di voi?»

«Sì… e no» replicò vago Connor. «I tecnicismi non ti riguardano… ma per il senso in cui me lo stai chiedendo, no. Pepper non ha una vita decisa a tavolino, una storia costruita da un ufficio, un nome falso e tante bugie da darti a bere… è l’uomo che conosci e che ami. Era il libraio che hai incontrato nel suo negozio, era la vittima nel mirino del Vampiro di West End, è Lord Cosworth… quello che ti ha indottrinato a bere succo di mirtillo e questa robaccia senza zucchero e senza caffeina» aggiunse, con un’occhiata disgustata alla lattina. «L’abbiamo preso in prestito per un lavoro tagliato apposta per uno come lui, diciamo.»

Sebbene molto confortato da quelle parole – persuaso che fossero sincere – non gli piacque l’idea che i servizi segreti di qualsiasi paese piombassero dal nulla a “prendere in prestito” le persone che amava per i loro affari.

«Che cosa può fare Ferid che un agente dell’MI6 non possa?»

Connor tornò a sorridere e a guardarlo negli occhi.

«Miracoli.»

 

***

 

Due giorni dopo Mikaela era di nuovo chino sugli orticelli frontali a caccia di peperoncini per la cena, ma con suo gran sollievo l’insolito caldo che aveva investito lo stato del West Virginia era ormai un ricordo per gli annali meteorologici: anche se splendeva il sole c’era un vento tiepido e l’umidità era sparita, rendendo del tutto tollerabili anche gli abiti scuri dei novizi.

Ne passarono due sul sentiero dall’altro lato e gli lanciarono un’occhiata incuriosita. Come si aspettava iniziarono a parlottare a bassa voce non appena si considerarono fuori portata d’orecchio: aveva visto quella scena spesso da quando Ferid era piombato a Bluefields con la pretesa di essere suo fratello maggiore.

Tranciò il gambo di un peperoncino arancio acceso con una certa ferocia. Ancora non aveva digerito del tutto il fatto che l’FBI fosse arrivata dal nulla ad impadronirsi di un’indagine che doveva essere sua personale, trattando Crowley come un segretario e autorizzando un civile come Ferid ad aiutarlo.

Ferid non è un poliziotto, è un libraio. Come gli è venuto in mente di mandare lui? Nella polizia e nell’FBI ci saranno migliaia… anzi, decine di migliaia di operativi con occhi azzurri o celesti… lo stesso Crowley li ha! Come gli è venuto in mente? Ferid non si sa difendere e non sa nemmeno usare un’arma da fuoco in caso di necessità… è ridicolo!

Mika sospirò e si massaggiò la tempia, tenendo gli occhi chiusi. Si lambiccava il cervello fin troppo, ma non riusciva a pensare che fosse una scelta sensata sotto nessun punto di vista. Almeno non fino alla comparsa di tombe violate o figure ultraterrene che passeggiavano nottetempo nei campi.

«Pensi troppo, Mika!»

Mika sobbalzò e si sbilanciò indietro cadendo sul fondoschiena.

«Feri–»

«Finisci quel nome e ti strappo la lingua» l’interruppe lui con un sorriso che strideva del tutto con il suo tono.

«Chiedimi di chiamarti Connor e me la strappo da solo» ribatté Mika rabbuiato. «Che cosa fai qui? Non sapevo che potessi uscire dall’infermeria.»

«E perché non avrei potuto, scusami?»

«Ho sentito che la prima sera hai dato di matto con Dorcas perché non volevi farti visitare le parti intime.»

Ferid guardò ovunque tranne che lui con quell’aria accigliata.

«Come corrono le voci qui, è peggio che un paesino dell’entroterra britannico.»

«Vuoi dire che è vero?» fece lui sorpreso, mentre raddrizzava il suo cestino. «Non ti credevo così pudico, visto che dormivi nudo con Crowley fin dalla prima notte!»

«Questo è inesatto, ho iniziato la quarta sera.»

«Ah, allora sì, sei veramente timido» lo dileggiò Mika con un sorrisetto. «Comunque Dorcas era sconvolta dal fatto che non le si permettesse di fare il suo lavoro. Qualcuno s’è messo a dire che avevi qualche strano piercing, altri che il diavolo lo… ah, lasciamo perdere, mezzo tavolo ha smesso di mangiare quando hanno buttato lì quell’idea…»

Lo sguardo di Ferid era fin troppo curioso e non voleva rivangare quell’immagine raccapricciante, quindi mise su il cipiglio che Yuu chiamava “da maestrina”.

«Dovevi startene buono e lasciarti visitare.»

«Non potevo» sibilò Ferid. «Mi ero scritto il numero di telefono!»

Mika ammutolì per un tempo che gli parve lungo svariati minuti.

«Ti eri scritto cosa?»

«Il numero, il numero di telefono di Ismael!»

Lì per lì chi fosse Ismael non pensò neanche di chiederlo.

«Ti sei scritto un numero di telefono lì?»

«Era l’unico posto che pensavo di poter tenere privato!»

Mika scoppiò a ridere senza riuscire a trattenersi. Ferid si rabbuiò all’istante.

«Cazzo, Ferid!»

«Non chiamarmi così! E non ridere, maledizione, tu che avresti fatto?!»

«In nove ore di viaggio? L’avrei imparato a memoria!»

«Che posso farci se non mi ricordo numeri così lunghi?!»

«Ma se sai i codici della libreria a memoria? Non potevi usare quelli per ricordartelo?»

Ferid perse istantaneamente il broncio.

«Cavolo, questo sì che era ingegnoso! A me non è venuto in mente, e Connor non mi ha detto che potevo associarci qualcosa per ricordarmelo meglio…»

«Sospetto che preferisse l’idea di scriverti un numero di telefono lì sotto.»

«Me lo sono scritto da solo… oh, ma lo prenderò a schiaffi lo stesso, lo giuro. Deve conoscere mille di questi trucchetti, l’ha fatto apposta a non dirmeli!»

Mikaela pensava in tutta onestà che quella di Connor Maguire fosse stata una bassa manovra, ma evitò di alimentare la furia di Ferid. Si sarebbe premurato di ricordargli quel momento imbarazzante quando fossero tornati alle loro vite.

«Visto che sei uscito, ti hanno detto che lavoro devi fare?»

«In realtà no… dovrei prima andare a parlare con Nereus, ma non era nell’ufficio. Lo stavo cercando quando ho visto te. Sai dove sia?»

«A quest’ora non lo so… ma verso mezzogiorno è sempre in chiesa, seduto lì da solo a pregare, o chissà che.»

Lui scrollò le spalle e sbirciò con interesse il cestino.

«E tu, che cosa stai facendo?»

«Sorella Maddalena mi ha mandato a prendere il peperoncino e i peperoni per il chili. Mi sa che ci ha preso gusto, lo abbiamo già fatto tre volte da quando sono venuti i padri protestanti… il chili in West Virginia, non siamo all’assurdo?»

«È il tuo lavoro qui?»

Mika inclinò la testa, trovandosi un po’ confuso.

«In effetti no, io dovrei lavorare in cucina… ma mi trovo spesso qui fuori a raccogliere una cosa o l’altra, o andare a prendere delle scorte al deposito… sai, quell’edificio basso laggiù.»

Indicò un edificio con il tetto curvo che sbucava di poco dagli alberi, dalla loro prospettiva. Ferid si voltò a guardarlo, ma subito dopo emise un verso strozzato e schizzò a nascondersi dietro l’albero più vicino.

«Ferid? Che succede?»

Stava borbottando qualcosa, ma non ne capì una sillaba. Confuso cercò la causa di tanto terrore, ma vedeva solo la fila di orticelli, alberi dalle fronde mosse dal vento, la sagoma del deposito alimentare e un piccolo gruppo di Rinati a passeggio. Senza una risposta si alzò e andò a chiederla direttamente a Ferid, che aveva la stessa espressione che appariva in faccia a Crowley quando camminava sul ponte sospeso.

«Che succede, Ferid?»

«N-non… non mi chiamare così.»

Mika alzò gli occhi al cielo, ma non era il momento di impuntarsi su qualcosa di tanto insignificante.

«Che succede, Connor?»

«I-io… non ne sono sicuro» disse poi, un po’ più calmo. «Vengono da questa parte?»

«Quei Rinati?»

Mika si girò a guardarli e Ferid si sporse di pochissimo per fare lo stesso, quasi fosse nel bel mezzo di una sparatoria e temesse un colpo in testa se si fosse esposto troppo. Il gruppetto ciondolava più che camminare; probabilmente erano liberi da impegni e si godevano il sole prima che arrivasse la pioggia promessa dalle stazioni meteo locali.

«Sembra di sì, ma potrebbero entrare nell’edificio centrale.»

Ferid non si decideva a uscire dal suo nascondiglio. Restò lì a fissare il gruppo finché non furono più vicini, ma come Mika aveva ipotizzato imboccarono il sentiero che portava verso l’ingresso dell’edificio. Qualsiasi cosa preoccupasse Ferid venne confermata, perché lo sentì sospirare in tono lamentoso, come quando si accorgeva che la mossa sulla scacchiera gli lasciava come opzione solo la resa.

«Non posso crederci. Estelle» commentò, coprendosi la faccia con le mani. «Estelle, qui! Ma com’è possibile?!»

«Co– la conosci?! Conosci una di quelle ragazze?!»

Mika piantò gli occhi sulle donne del gruppo: erano tre, tutte piuttosto giovani, e caso volle che i suoi compagni novizi e Damaris gli avessero detto qualcosa di tutte. Valutò che Bethany, la ragazza dalla pettinatura che ricordava vagamente Marilyn Monroe, fosse troppo giovane perché Ferid la conoscesse, quindi la misteriosa Estelle doveva essere il vero nome di Lebanah – una bella donna con capelli mori e lisci – o di Judith, una ragazza che portava i capelli biondi in due treccine che a Mikaela facevano pensare alle ragazze dell’Oktoberfest.

«Veniva a scuola con me. Frequentava la Saint Matthew a Red Chapel… oh, ma com’è finita qui? Aveva una specie di insegna al neon che diceva “aspetto solo un giocatore di football per darla via”, come cavolo è finita in una comunità religiosa?!»

Nonostante lo sviluppo potenzialmente preoccupante Mika non riuscì a non ridere.

«Un’insegna bella grande… ma non capisco perché ti sorprende. Sbaglio o sei qui anche tu? Qualche giocatore di football l’hai conosciuto anche tu, mi risulta.»

«Ah, no. Rugby, basket, golf, ma niente football» sentenziò lui, come se questo cambiasse completamente la situazione. «Svegliava ormoni come il sole sveglia i girasoli, te lo giuro. Ho visto classi intere girarsi a guardarla mentre passava.»

Ferid si sporse sull’altro lato dell’albero per guardarla, anche se era ormai lontana.

«Sei sicuro che sia lei? È passato un po’ di tempo…»

«Stai scherzando? La riconoscerei tra cento sue sosia!»

«Devi averla guardata anche tu parecchio, allora» osservò Mika, non senza divertirsi a stuzzicarlo.

«Sì, infatti. Non hai idea di quanto mi piacesse quell’insopportabile, arrogante stronza

Mika si trovò ad aprire bocca e richiuderla un paio di volte prima di riuscire ad articolare come voleva.

«Ma… è una… ragazza

«Sì, credo ci fossero pochi dubbi su questo anche allora.»

«A te piaceva così tanto una femmina?»

Ferid distolse lo sguardo dal gruppo e fissò lui con un’espressione seccata.

«Non so se tu possa farmi questa domanda con quel tono, Mika. Almeno una volta io ci sono stato a letto con una donna, tu no. O mi sbaglio?»

«Ehmm… no, non sbagli, in effetti… solo che tu sei…»

Il modo in cui lo fissava fece sentire Mika molto stupido.

«S-sei… insomma… un sacco gay!»

«Sì, un sacco. Ma non del tutto, no?»

Mikaela si trovò stranito dalle proprie idee preconcette e si grattò la testa come se sperasse di rimetterle in ordine con le dita. Ferid scosse la testa borbottando “Estelle” sottovoce. Decise che era meglio lasciar cadere il discorso sull’orientamento sessuale e guardò ancora le tre ragazze.

«Quale di loro è Estelle?»

«Quella più alta. Con i capelli scuri. Porta anche lo stesso taglio di capelli di quando era al liceo, non mi posso sbagliare… porca miseria, perché dev’essere ancora così bella?! È frustrante!»

«Lebanah» commentò Mika, incredulo. «Tu conoscevi Leba

«Leba… si chiama così, qui dentro?»

«La chiamano così… è la più bella che viva qui, lo dice praticamente chiunque. I novizi naturalmente fanno a botte per avere un lavoro che li porti a tiro dell’ufficio amministrativo… credo tenga la contabilità, o una cosa del genere.»

«Tch, non è cambiato niente» commentò Ferid, acido. «Lei è ancora la più bella e io l’ultimo arrivato con la fama di essere un tossico. Maledizione, che karma terribile.»

Mika sospirò e andò a recuperare il cesto.

«Lo sai, vero, che non sei qui per rimorchiare?»

«Caso vuole che io sia qui proprio per questo» lo contraddisse lui. «Ma il target non è lei, questo è vero.»

«Uh? Cosa… che stai macchinando, Ferid?»

All’improvviso l’espressione di Ferid si rasserenò completamente, era come se Lebanah non gli fosse mai apparsa davanti con il suo carico di brutti ricordi giovanili.

«Lo vedrai~»

Filò via in un attimo, attraversò metà cortile quasi correndo e arrivò vicino a un uomo vestito di blu: rivolse un saluto piuttosto allegro a Padre Nereus e i due intavolarono una conversazione, ma Mika era troppo lontano per sperare di sentire qualcosa.

Con il suo carico di pomodoro e peperoncino si avviò verso le cucine ma continuò a guardare la strana coppia parlare vivacemente: Ferid doveva aver centrato un argomento interessante a giudicare dalla gestualità di Nereus, e i due finirono per camminare insieme lungo il sentiero finché non girarono l’angolo, diretti forse alla canonica.

Colse il nocciolo della sua strategia e sorrise con una certa malizia, chiedendosi se Ferid non l’avesse concepita dopo aver notato quanto i suoi occhi assomigliassero a quelli di Crowley.

 

***

 

Ferid non dubitava che uno dei due re profetizzati da Krul fosse padre Nereus: era sì a capo della diocesi di Bluefields, ma era anche l’amato capo spirituale delle molte pecorelle del suo ovile e lo si poteva vedere negli occhi e nei gesti di tutti coloro che lo salutavano mentre passava. Anche se stava spiegando a Ferid le regole del monastero non mancava di salutare tutti con il sorriso e rivolgendosi a ognuno col suo nome.

È come quel versetto sui passeri… non ne dimentica nemmeno uno.

Finalmente abbandonarono il sentiero ghiaioso, lasciandosi dietro buona parte del brulicare del monastero. Ne imboccarono invece uno sterrato che costeggiava un campo incolto. Era una distesa marrone macchiata di erbacce verdi a perdita d’occhio.

«Come ti dicevo poco fa, Mikael è un ottimo ragazzo» riprese il suo discorso Nereus. «È molto diligente nello studio e impara molto in fretta. Ha un’ispirazione come non ne ho mai viste.»

«Sì, è sempre stato il più dotato dei due.»

«Ma mi chiedevo… se vostro padre non voleva neanche sentir parlare di religione, com’è cresciuto così cattolico?»

«Credo siano stati gli altri bambini. Passava molti pomeriggi fuori casa per evitare nostro padre e alcuni dei suoi amici frequentavano la parrocchia.»

«Oh, certo… una soluzione semplice al mistero, dopotutto. Tu non avevi amici cattolici?»

«Non avevo amici. Io leggevo sempre» replicò Ferid d’istinto.

Nereus lo guardò con sorpresa, poi sorrise.

«Ma guarda un po’.»

«Ero quel genere di bambino, sì. Immagino sembri strano, visto come sono finito.»

«Perché, come sei finito?» gli domandò il prete di rimando. «Che cosa vedi quando ti guardi allo specchio?»

«Tu che cosa hai visto, quando sono arrivato?»

«Te lo dirò… ma prima vorrei sapere che cosa vedi tu. Perché oserei dire che è la cosa più importante.»

Ferid scrollò le spalle. Non era sicuro di cosa sperasse di sentire, quindi si mantenne sul suo personaggio senza autostima e sperduto. Il se stesso di qualche anno prima.

«Un fallimento. Non c’è niente che io sia riuscito a fare come volevo… nessun traguardo che io sia riuscito a raggiungere. Non ho niente di cui andare fiero se non mio fratello, e lui non l’ho cresciuto io. Non ho nessun merito.»

«Tu ami tuo fratello, e molto. Questo è un tuo merito.»

«Dovrebbe essermi di conforto?»

«Sì. L’amore conforta chi lo riceve quanto chi lo dà, perché vedi, Connor… nostro Padre è un Dio d’amore. Solo chi prova amore, fosse anche per poche persone, persino per una sola… se prova amore, conosce Dio. Tu conosci Dio, e questo basta a fare di te un capolavoro.»

Ferid non si trovava a gestire un ragionamento così contorto da quando aveva studiato Kant al liceo. Aveva l’impressione che filasse, ma che mancasse qualche anello di congiunzione nel mezzo.

«Non sono sicuro che abbia senso» ammise alla fine, corrucciato.

«Connor, ascoltami, per favore. Tu sei qui, d’accordo? Sei rimasto intrappolato in una spirale terribile di eventi, come Mosè nel deserto, ma ora sei riuscito a sentire la sua voce… ti ha portato fuori dal deserto.»

«Dove scorre latte e miele?»

Nereus sembrò colpito e Ferid avrebbe voluto prendersi a schiaffi, ma svicolò con un’alzata di spalle.

«Anche in televisione citano la Bibbia.»

«Ed è una citazione calzante. Sì, Connor, questa per voi due è la terra promessa. Qui siete al sicuro e qui avrete un posto per sempre, o fino a che lo vorrete. Sei stato ferito dalle prove che ti sono state messe davanti, e ora è il momento di guarire e coglierne i frutti.»

Gli strinse il braccio con dolcezza.

«C’è qualcosa di speciale in te e in tuo fratello… la grazia che avete ricevuto lo dimostra. Voi due lo avete sentito nella pioggia. Persino qui, anche tra noi della Chiesa di Nostro Signore delle Acque, è una grazia rara.»

Ferid indugiò sul ricordo di quel lontano giorno e si chiese se ci fosse qualcosa di vero. Se quella notte, sul tetto, ci fosse andato in quella specie di trance per ricevere un messaggio…

Nereus gli mise la mano sulla spalla.

«E per dimostrarti che credo a ciò che ho detto, ho intenzione di farti lezione personalmente per un’ora al giorno… purtroppo i miei impegni non mi permettono di fare di meglio, ma posso insegnarti per un’ora ogni giorno prima di prepararmi per la messa della sera.»

Preso alla sprovvista lo guardò, come per sincerarsi che fosse stato lui a parlare.

«Come?»

«Desidero occuparmi personalmente del tuo recupero. Frequenterai le lezioni di fratello Abel come gli altri novizi, ma ti farò questa lezione particolare per metterti in condizione di riprendere tuo fratello… beh, per quanto possibile. Mikael è proprio una macchina da catechismo.»

«Ma… perché?»

Nereus emise una risata spontanea; era davvero un suono limpido.

«Siete fratelli, no? Sarebbe triste se proprio ora che siete insieme dopo tanti anni non poteste più parlarvi perché lui raggiungerà il Battesimo prima di te.»

Ferid assunse un’aria seria: non aveva riflettuto su quel dettaglio, ed era importante che lui e Mikaela restassero il più possibile vicini e in grado di muoversi e comunicare liberamente.

«Uhm… sì… sarebbe un po’ triste… non voglio più che passiamo tanto tempo senza parlarci. Siamo stati distanti per troppi anni.»

«Lo penso anch’io… tuttavia Mikael è piuttosto vicino al Battesimo, quindi devo metterti in condizioni di seguirlo presto.»

Spalancò gli occhi con autentico stupore.

«Credevo fosse qui da pochissimo tempo!»

«Ha un dono per le Scritture ed è molto ligio… beh, mi sono accorto delle lettere che si scambia con una nostra Rinata, Damaris, questo sì… ma vederli coinvolti in un rapporto così platonico non fa che farmi sorridere. Si amano come bambini.»

Solo uno che non l’ha mai visto con Yuu potrebbe pensare che Mika ami come un bambino.

«Ma lei… lei farebbe davvero questo per me? Insomma, per me e per Mika?» domandò Ferid, strappando Nereus ai suoi commenti sulle relazioni innocenti. «Dedicherebbe a me un’ora del suo tempo, ogni giorno, perché non restiamo separati di nuovo?»

«Perché sei così sorpreso? A me pare un’ottima ragione per investire un’ora della giornata.»

Ferid ritenne sicuro anche al vaglio della prudenza presumere che Nereus fosse il re dalla sua parte, a quel punto. E dato che era il re che più contava in quel regno poteva dire di essere in una posizione di vantaggio per affrontare una partita massacrante, dalla quale contava di ottenere una vittoria assoluta.

 

***

 

Quella notte Mikaela aprì gli occhi con la sensazione di trovarsi a bordo di un peschereccio nel mezzo della tempesta perfetta. Un novizio – tutti lo chiamavano Tan – lo stava scuotendo guardando qualcuno nel letto sotto, pallido come un cencio.

«Ma perché non si sveglia?!»

Yuu era il solo a essere consapevole di quanto fosse difficile svegliarlo quando si addormentava davvero stanco. Purtroppo sembrava che il suo segreto imbarazzante non sarebbe rimasto un argomento intimo su cui il suo ragazzo lo punzecchiava.

«S-so… sono sveglio» bofonchiò, spostandogli le mani.

«Oh, finalmente!»

«Mikael, alzati, sbrigati!» intervenne Dorian, emergendo dal letto sotto. «È tuo fratello!»

«Mio… che cos’è successo?»

«Sta nella camerata con me» gli spiegò concitato Tan. «S’è svegliato cinque minuti fa urlando come un posseduto, ci si sono messi i due in camera con me a cercare di calmarlo e quando ha smesso di urlare ha cominciato a chiamarti! Sei tu Mika, no?»

Ma che cazzo succede?!

Mika lanciò via la coperta e saltò giù dal letto ignorando la scaletta.

«Dov’è?»

«Mi sa che il mio amico l’ha portato fuori, per fargli prendere aria…»

Non disse una parola agli altri, neanche ai molti che si erano affacciati sul corridoio o parlottavano fra loro sulle porte delle loro camerate. Si chiese quanto cavolo dovesse aver gridato Ferid per tirare giù dal letto letteralmente tutto il dormitorio e – con angoscia crescente – il perché.

Conquistò finalmente l’uscita dalla porta principale dell’ex scuderia. Ferid era seduto con la schiena appoggiata alle assi di legno verniciato e si stringeva le ginocchia al petto.

Un uomo dalle spalle massicce e i capelli scarmigliati era lì in piedi, in allerta: sembrava un buttafuori che teneva d’occhio un ubriaco particolarmente rumoroso, anche se al momento Ferid non emetteva un suono.

«Sei tu Mika?»

«Sì… io… scusaci. Grazie di esserti preso cura di mio fratello. Ci penso io adesso.»

Il giovane uomo lanciò un’occhiata perplessa da Mika a Ferid, forse stupito della vistosa differenza tra due fratelli, ma poi annuì rigidamente e rientrò nel dormitorio.

Sentendosi il cuore battere dalle parti del pomo d’Adamo Mika si accovacciò accanto a Ferid.

«Che è successo, Ferid?»

«Non chiamarmi così, te l’ho già detto.»

Si stupì di trovare il suo tono di voce tutt’altro che turbato, giusto un po’ rauco.

«Ma che è successo? Hanno detto che stavi urlando come un matto! Hai svegliato tutti!»

«Tranne te, naturalmente. Non ci credevo quando Yuu me l’ha detto, ma dormi davvero come un sasso!»

Ignorò la frecciata diretta al suo punto più debole, anche se a fatica.

«Ma cos’è successo me lo dici o no?»

«Niente, ovvio. Ho aspettato un orario in cui tutti sarebbero stati addormentati e ho iniziato a gridare» rispose lui, come avesse detto che aveva fame e si era fatto un panino. «Quello che tu e io diremo agli altri e a padre Nereus è che ho dei violenti attacchi di terrore notturno, di certo causati dallo stato di stress in cui mi trovo.»

«Ah… e… perché glielo dobbiamo dire?» domandò Mika, che non seguiva il filo del suo piano.

«Perché se non lo faranno domani, i novizi inizieranno a lamentarsene quando questa scena si ripeterà per due, tre, o sette notti.»

«E si ripeterà?»

«Oh, sì. Per tutto il tempo necessario.»

«Necessario a che cosa, a farci buttare fuori? Diamo forfeit così?»

«Il tempo necessario a farci dare un alloggio separato… in modo che io non dia più fastidio agli altri durante la notte e tu possa occuparti delle mie crisi finché non spariranno.»

Mikaela accolse queste parole con un silenzio attonito, ma poi sorrise. Il suo sorriso si fece largo e guardò Ferid con una vaga malizia.

«Tu sei un genio del male. A me non sarebbe mai venuto in mente di fare una cosa del genere.»

«Sei troppo un bravo ragazzo per pensare di torturare i tuoi commilitoni. Ma io sono più che pronto a vendicarmi indirettamente dei bulli che mi hanno tormentato a scuola. Non vedo l’ora.»

«Ora potrei anche chiamarti Connor» fece Mika, e gli porse la mano per aiutarlo ad alzarsi. «Ti sei guadagnato quel titolo con l’onore delle armi.»

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Capitolo 12
*** Di testa e di cuore ***


Lo scatto della porta prese Crowley di sorpresa mentre prendeva alcuni ingredienti dal frigorifero, ma per qualche ragione non gli sembrò tanto strano che Ismael avesse il mazzo di chiavi di scorta. Come se ne avesse ogni diritto lui entrò con passo baldanzoso.

«Non voglio sentire storie salutiste, ho preso la birra e ho intenzione di berla!»

«Come ti pare» fece il padrone di casa. «Ma le chiavi di Ferid rimettile dove stavano.»

«Che se ne fa Pepper di un mazzo di chiavi di casa tua dentro casa tua?»

«Le avevo fatte per lui l’anno in cui ci siamo conosciuti. Volevo dargliele a Natale, ma se n’è andato prima… e da allora sono appese lì dove le hai sgraffignate. Rimetticele.»

Ismael emise un verso disgustato e rimise il mazzo dentro la casetta appesa alla parete, con la copia di riserva delle chiavi dell’auto e del garage.

«Romantici fino al vomito, siete scandalosi» sentenziò. «Non c’è Penny Bucket?»

«Oggi fa un paio d’ore in più per coprire il turno di Simpson… per le sei e mezzo gli dà il cambio Fables, quindi non sarà qui prima delle sette.»

«Oh, bene» fece lui, distrattamente, guardando i ripiani della cucina. «Che si mangia per cena? Ti prego, niente di vegetariano senza grassi macrobiotico e qualsiasi schifezza possa essere consigliata dal tuo medico.»

«Ho deciso di scegliere la mia sanità mentale, quindi per non sentire le tue lamentele faccio il pesce. No, non è bollito da ospedale, non fare quella faccia… Dio, sei come un bambino.»

«Mia madre cucinava tutto nel modo più scialbo e insapore che si potesse pensare, sono rimasto traumatizzato!»

«Ma basta palle, Ismael.»

«Come fai a dire che è una palla? Non la conosci mia madre!»

«Quando metti tanta enfasi su qualcosa è perché vuoi convincermi che è spontanea… ce l’avevi una madre che cucinava, almeno?»

«Ah, questo sì» confermò lui tornando al tono consueto. «Una madre e un padre come la normalità impone. Molto noiosi, anche questo molto normale. Niente losche storie di tradimenti, padri alcolizzati, droga, figli segreti, ambizioni politiche, gangster, un tesoro medievale in cantina…»

«Quanti film stai mischiando?»

«Mi sembra sette…»

Crowley rise suo malgrado quando lo vide contare sulle dita. Non l’incalzò per farsi raccontare altro, concentrato su quelle patatine così piccole fra le sue grandi dita.

«Posso aiutare?» fece allora Ismael.

L’offerta lo sorprese, ma Crowley gli indicò l’insalata.

«So che la detesti, ma pensi di riuscire a pulirla?»

«Sono un amante dei grassi idrogenati, non un idiota!»

In effetti Ismael scovò una ciotola traforata, la mise nel lavello e prese un coltello per tagliare le foglie esterne come fosse abituato a maneggiare anche le verdure, sebbene di rado con la forchetta. Crowley si mise a caccia dello spelucchino, un oggetto che era stato introdotto nella sua vita da Mikaela e che aveva scoperto essergli molto pratico. Non ricordava mai in quale cassetto lo metteva.

«È un po’ che me lo chiedo, ma… i tuoi amici com’è che ti chiamano?» domandò all’improvviso Ismael. «Non ti chiameranno mica Crow? Fa troppo gothic per uno come te.»

«Sì, forse lo pensano tutti, infatti i miei amici mi chiamano Rowl. È un po’ stupido, ma lo abbreviano così… e i tuoi come ti chiamavano, quando ancora eri Ismael?»

Lui scrollò le spalle concentrandosi sull’insalata, ma l’occhiata sfuggente non era stata abbastanza disinvolta. Crowley annusò qualcosa di divertente che non voleva rivelargli.

«Avanti, devo indovinare? Quanto è imbarazzante da uno a dieci?»

«Ventotto» replicò lui malmostoso. «Izzy

«Come?»

«Mi chiamavano Izzy quando ero bambino, e se ti azza–»

Ma Crowley era già scoppiato a ridere per la letale combinazione di un vezzeggiativo simile e dell’espressione imbarazzata di Ismael e rise tanto forte da non sentire la sua sfilza di minacce.

«Smettila di ridere, Ginger, o ti pelo con quel coltellino!»

Mentre riprendeva il controllo della sua trachea Ismael inventò qualche altra minaccia fantasiosa quanto inapplicabile, ma il sorriso gli rimase.

«In realtà è carino… doveva starti bene quando eri bambino. Ti ricordi, almeno un po’, di quando eri piccolo?»

Ismael non si era mai sbottonato sul suo passato – preferendo di gran lunga sbottonarsi in senso letterale – ma durante la preparazione della cena Crowley riuscì a farsi raccontare qualche aneddoto sulla piccola città, sul cane di famiglia, sul suo piatto preferito di bambino e sulle feste di Halloween che adorava. Quella conversazione fu certamente il momento più intimo che avessero condiviso in tanti anni di conoscenza.

Ismael era però arrivato al limite di confidenza giornaliero – o forse persino mensile – e non esitò ad approfittare del campanello per sfuggire una domanda sulla scuola correndo ad aprire la porta a Yuu, che aveva l’aria esausta.

«Ah… ci sei anche tu, Connor.»

«Ciao, Penny, non ci vediamo da un po’~»

«Mh, sì. Credo da quando siete tornati dal West Virginia, quando davo gli esami all’Accademia.»

Yuu entrò in casa sfilandosi il cappello e Ismael lo seguì con gli occhi meno vivaci di poco prima: si era accorto anche lui dell’inquietante cambiamento del ragazzo.

Crowley aveva sempre creduto che Mikaela fosse la metà fragile dei due e che senza il suo sostegno non sarebbe stato in grado di andare avanti, ma aveva avuto la riprova che i ragazzi Hyakuya funzionavano come una persona sola. Anche Yuu, privato della sua metà bionda, era come menomato.

Il tenente l’osservò infilare il cappello sullo schienale della sedia e sbottonarsi la camicia a maniche corte per scoprire un po’ alla volta il collo e poi tutto il torso, prima di guardare il padrone di casa e l’altro ospite.

«Non vi turba, no? Mika non vuole che me ne stia mezzo nudo a tavola o in giro per casa, ma lui non c’è, ora.»

Crowley non disse nulla e si chinò per infornare il pesce, mentre Ismael tornava a sorridere.

«Io mi sento turbato~»

«Ismael» sillabò in tono di rimprovero.

«Poliziotti con le uniformi mezze sbottonate, su! C’è gente che paga per averli ai compleanni!»

«Ismael?»

Crowley imprecò mentalmente. Aveva dimenticato che Yuu non sapeva niente dell’identità segreta di Connor Maguire. Si girò per incrociare i suoi occhi verdi e lui comprese all’istante.

«Già, è il mio nome» prese parola lui, afferrando dal manico la brocca di infuso freddo di mirtillo e menta. «Bevi un po’ di Disgusto al mirtillo, o al ribes nero, o a qualche altro superfrutto benefico. Ho una storia da raccontarti.»

«Sei sempre strano, ma stavolta sembri più strano del solito» osservò Yuu, avvicinando il bicchiere.

E aspetta di sentire la parte dell’MI6.

Crowley si astenne dall’entrare nel racconto di Ismael per breve che lo avesse reso, preferendo lavare le stoviglie che avevano usato per preparare la cena che stava ancora cuocendo. Yuu non fece domande, praticamente non emise un fiato fino a che Ismael non gli disse che Ferid era sotto copertura insieme a Mika per quella missione, ma la prese con più spirito di lui.

«Ferid è insieme a Mika? Per questo non l’ho più visto qui?»

A quel punto Crowley annuì e Yuu sospirò.

«Meno male… non sopportavo che Mika fosse da solo. Non è mai stato completamente solo da quando l’ho conosciuto in orfanotrofio e… mi preoccupa che si senta abbandonato. Insomma… io correrei là subito se potessi, ma…»

Con un gesto teatrale si indicò gli occhi, con un sorriso che sembrava quello dipinto sul viso di un clown triste.

«Verdi. Il verde non è buono per loro…»

Se Ismael tese un accenno di sorriso Crowley non riuscì a non fuggire dal confronto andando ad aprire il forno. I suoi occhi erano blu. Lui poteva andare, fare qualcosa… ma sapeva di non doversi buttare d’istinto: avrebbe solo causato guai, per non dire in quale caos avrebbe lasciato la centrale se fosse scomparso per settimane.

Per fortuna il momento triste di Yuu passò velocemente. O almeno, fu veloce a farsi tornare un tono di voce più vispo.

«A Mika sono sempre piaciuti gli occhi verdi. Non lo dice mai, come se mi potessi ingelosire, ma quando vede un ragazzo con gli occhi verdi lo guarda in modo diverso… succede anche coi bambini. Qualche volta anche con le ragazze.»

«Ad Angel Face piacciono anche le ragazze?»

«Non credo, no… almeno… finora non credo che ne abbia mai trovata qualcuna degna della sua considerazione» rispose Yuu dopo una lunga riflessione. «Mika è un… perfezionista, credo si dica così. È piuttosto esigente su tutto, da se stesso e dagli altri… ancora mi chiedo come faccia a sopportarmi, visto che io sono lontano anni luce dalla perfezione!»

«Per essere un perfezionista s’è lanciato in una missione con un bel po’ di falle» osservò Ismael.

Crowley lo fulminò con uno sguardo, ma ormai aveva parlato.

«Sì… questo infatti mi ha sorpreso… e io credevo che Mika non potesse più davvero sorprendermi. Credevo di conoscerlo bene… quanto conosco me stesso.»

«Sai, Penny… ho imparato anch’io da poco che non conosci davvero qualcuno finché non hai guardato negli occhi il demone più oscuro che ha dentro.»

Yuu inclinò appena la testa, come se stesse cercando di capire se la foto che stava guardando aveva un’altra angolazione. E Crowley sospettava che Ismael avesse più facce di un icosaedro.

«Ritieniti fortunato che Angel Face stia bene e che avrai occasione di conoscerlo anche nei lati che finora sono rimasti al buio… c’è chi non ha avuto questa possibilità.»

Crowley si chiese se si stesse riferendo a Horatio Lanius o se nel suo passato ci fosse stata un’altra persona speciale, ma dubitava che un uomo così pieno di segreti accettasse di aprirsi sui suoi affetti. Con lo spettro di un sorriso prese la terrina del pesce dal forno.

Beh, ho sempre saputo che non ero il più importante per lui… d’altronde anche per me lui non può essere il numero uno, ed è giusto così.

Diede un colpetto di tosse nel silenzio che aleggiava al tavolo.

«Mentre chiacchieravate lo sguattero ha cucinato, nel caso non l’aveste notato.»

Spinse un tono frizzante che alleviasse quell’atmosfera appesantita, e gli altri due risposero alla sua chiamata con reazioni entusiaste.

«Ha un ottimo odore, Crowley!»

«Vorrei vantarmene, ma è la ricetta di Ferid… Ehi!»

Ismael ritrasse la forchetta come se gli fosse stata puntata una pistola addosso.

«Che c’è?»

«Visto che sei quello più ingordo, di’ la preghiera.»

«Io?!»

«Sì, tu, che ti stavi buttando sulla cena come un gatto famelico. Di’ la preghiera o ti tengo a digiuno, non m’importa.»

«Tu sei cattolico, Conn— Ismael?»

«Neanche per sbaglio» rispose lui secco.

«Non mi interessa, questa è casa mia» replicò Crowley, con uno sguardo battagliero. «Qui si prega prima di mangiare.»

«Scherzi? In questa casa io e te abbiamo fatto roba da far cadere stecchiti un bel po’ di cherubini!»

«Sì, senza dubbio. Ora se vuoi cenare a questo tavolo di’ la preghiera o vai a vedere se i cherubini morti sono buoni da mangiare.»

Ismael lo guardò come un bambino capriccioso messo alle strette, poi sbatté la forchetta sopra il tovagliolo.

«Bene. Bene. A modo tuo, allora.»

Emise un sospiro che sembrava più un gatto che soffiava e congiunse le mani. Non senza una certa soddisfazione Crowley lo imitò e Yuu, col suo modo molto giapponese, unì i palmi.

«Signore, ti ringraziamo per il cibo che stiamo per mangiare» esordì, tenendo gli occhi fissi su Crowley. «Nella tua infinita misericordia hai concesso ai presenti di cenare e preghiamo che presto a questa tavola possano esserci anche le persone che desideriamo riavere vicino.»

Si aspettava una formula standard, sbrigativa e detta controvoglia. Lo aveva stupito con una scelta di parole così delicata e gli fece un cenno di assenso quasi impercettibile con la testa, al quale Ismael rispose con un sorrisetto soddisfatto. Yuu fece un sorriso che assomigliava al suo smagliante marchio di fabbrica più di quanto fosse riuscito a fare dalla partenza di Mika.

«Amen!»

«Amen» gli fece eco Crowley.

La ricetta per il pesce al forno di Ferid riuscì a conquistare persino i gusti sregolati di Ismael e i tre cenarono quantomeno sereni, seppur lontani da quella che consideravano normalità. Ismael snocciolò loro qualche novità da Bluefields e la macedonia di frutta fu più gustosa dopo aver saputo che su nel West Virginia Mika e Ferid non solo stavano bene, ma sembravano avere il pieno controllo della situazione come ci si poteva aspettare da due scacchisti.

 

***

 

«Connor» sussurrò la voce. «Svegliati, Connor.»

Molto lontano dall’avere una connessione tra corpo e mente, Ferid non fece neanche caso alla voce vicino al suo orecchio. Solo quando ebbe la netta sensazione di cadere spalancò gli occhi, appena in tempo per vedere delle braccia vestite di blu sorreggerlo al volo mentre scivolava giù dall’inginocchiatoio.

«Oops» fece l’uomo, e diede in una risata. «Bentornato, Connor!»

Ferid lanciò un’occhiata alla figura, riconoscendovi Nereus, e si guardò intorno intontito. Solo dopo un giro completo della navata ricordò che cosa stesse facendo prima di addormentarsi.

«Mi… mi sono addormentato?»

«Credo proprio di sì… stai bene? Ti sei fatto male scivolando?»

«Io…» balbettò Ferid, tastandosi come fosse uscito da un incidente automobilistico. «N-no, sto bene…»

«Meglio così… su, alzati. Appoggiati a me.»

Gli si appoggiò spinto da necessità funzionali: le sue gambe erano anchilosate. Nereus si accertò che si reggesse in piedi da sé e poi si chinò a raccogliere il libretto delle preghiere – un piccolo volume con preghiere tradizionali e varianti dell’Acqua – ma lo guardò come se si trattasse di un giornaletto di dubbio gusto.

«Ma che cosa stavi facendo, esattamente?»

«Io… mio fratello mi ha detto che ripetere molte volte alcune preghiere serve a… a essere perdonati.»

«Mh-mh.»

Nereus lo stava guardando con un’espressione che gli sembrava di conoscere: era uguale a quando Crowley aspettava che finisse di parlare per poi dirgli che stava sbagliando tutto, come un maestro d’asilo. La somiglianza tra i loro sguardi lo disorientò, quasi gli fece scordare cosa stava dicendo.

«E quindi… stavo… stavo…»

«Ripetendo parole scritte su un foglio finché sonno non è sopraggiunto» concluse lui, e fece dondolare il libriccino tenendolo per un angolo. «Il che non ha affatto senso. Questo non è il modo in cui facciamo le cose qui.»

«Ah… no?»

«No» confermò lui semplicemente.

Accigliandosi appena il parroco sfogliò il quadernetto e dopo qualche pagina scosse la testa; lo richiuse facendo fare alle pagine un leggero tonfo e se l’infilò in tasca.

«Questo non ti è utile. Non avrei dovuto dartelo.»

«Cosa… perché no?»

Nereus fece un tiepido sorriso e indicò la panca più vicina. Ferid vi prese posto e il parroco si sedette accanto a lui.

«Con te non posso seguire lo stesso metodo che abbiamo dato a Mikael… e a tutti gli altri, possiamo dire. Lui è uno studioso, uno… scienziato della Fede, passami il termine. È metodico, preciso, legge molto, confronta testi, prende appunti… la sua è una specie di vivisezione delle Scritture, è portato per questo tipo di vita. Ha l’indole di un ricercatore, di un logico, nonostante stiamo nel campo della religione… ma tu non sei così.»

Ferid contenne appena un sorriso. Pur con tutta la finzione del caso, Nereus era riuscito comunque a cogliere l’essenza di Mikaela, quelle sue qualità che ne avevano fatto un prototipo che interessava anche l’FBI.

«Tu… sei un uomo di cuore, non di testa» disse poi, lasciandolo basito. «Non dico che tu sia stupido, non è il senso che intendo. Voglio dire che tu pensi con il cuore, reagisci alle emozioni e non ai fatti… se voglio insegnarti il nostro modo di vivere la Fede devo fartela sentire, non solo spiegartela.»

Seguì un lungo silenzio, perché Ferid non sapeva esattamente come interpretare quello che aveva appena sentito. Una parte di lui pensò il peggio.

«E… come pensi di farlo?»

Nereus si grattò il mento, riflettendo, poi un’illuminazione passò nei suoi occhi e su tutto il volto: sorrise e lo guardò negli occhi con l’aria di chi ha in mente uno scherzo, ma poi cambiò del tutto l’argomento.

«Come va adesso con i tuoi attacchi di terrore notturno?» gli domandò, di fatto spiazzandolo. «Ora che sei con tuo fratello va meglio?»

«Sì… almeno, non sono più violenti come prima. Ho degli incubi, ma quando mi sveglio o mi sveglia Mika è tutto passato» rispose come concordato con Mika. «Ma perché—»

«Capisco. Beh, è ovvio che tu ti possa addormentare mentre ripeti delle litanie nel silenzio assoluto, se continui a dormire male di notte.»

Nereus fissava l’inginocchiatoio con aria pensierosa, ma Ferid era molto più propenso a riportare il discorso sulla traccia interrotta, che gli sembrava più promettente.

«Ha qualche attinenza con quello che dicevi prima, del mio—»

«Sai, credo che tutti i cristiani abbiano lo stesso problema di fondo» l’interruppe ancora una volta Nereus. «Tutte le derivazioni hanno canti e preghiere scritte, da recitare in serie come nel Rosario o durante una messa… noi ne teniamo alcune, come hai visto nell’opuscolo, ma… l’idea è che vengano usate come apertura, per… rompere il ghiaccio, per così dire.»

«Rompere il ghiaccio…?»

«Sì, che servano da guida per capire lo scopo di quella conversazione. Recitare un Padre Nostro dovrebbe essere solo un modo di raccogliere i pensieri e iniziare a parlare con Dio… per ringraziare di quello che abbiamo, per chiedere un piccolo perdono per le sciocchezze che ci passano nella mente mille volte al giorno, e chiedere la sua assistenza durante il nostro tempo di veglia.»

Ferid si stupì di quell’approccio, anche se gli era chiaro che Nereus non era un prete come ne aveva conosciuti molti altri. Gli ricordò tempi passati da tanto, quando un bambino pregava iniziando a raccontare la sua giornata con le cose belle per prime, ringraziando.

«Sai… pregare è come parlare con un caro amico… se non sei nelle condizioni di dargli la tua attenzione, se sei di fretta, se sei assonnato, se sei malato, è meglio rimandare quella chiacchierata a quando avrai tutto il tempo e la voglia di farla.»

Nereus scrollò le spalle.

«Io la vedo così.»

Ferid sorrise.

«È un bellissimo modo di vederla… anche io—»

Si trattenne appena in tempo dal dire qualcosa di difficile da spiegare. Per un attimo aveva dimenticato di essere nei panni di qualcun altro e non nei suoi.

«Anche io posso vederla nella stessa maniera?»

«Che domande!» fece Nereus, ridendo. «Non devi chiedermelo… se ti piace, guardala in questo modo!»

Erano vicini. Ferid se ne accorse solo quando poté notare che Nereus aveva una pagliuzza più chiara, come una macchia candeggiata, nel blu del suo occhio sinistro. Erano seduti vicini, tanto che le loro gambe erano appoggiate, le loro spalle si sfioravano. Visto da così vicino Nereus era più bello, o forse lo sembrava nell’atmosfera strana della chiesa vuota, e si chiese con un improvviso aumento dei battiti se non fosse la mossa giusta, se non fosse il momento perfetto.

Sei un uomo di cuore, non di testa, gli aveva appena detto. Ed era vero.

Non conservò alcuna memoria neanche dopo di cosa pensò, se davvero fece qualche ragionamento prima di decidere: ci fu un istante di buio che purtroppo venne squarciato dal portone che veniva aperto con foga.

Ferid tornò presente a se stesso trovandosi a un soffio dalle labbra del parroco, lui però girò il volto alla ricerca della fonte dei passi frettolosi sul pavimento e del respiro affannoso. Ferid fece lo stesso, per poi far scattare la testa in avanti fingendo di non esistere.

«Leba, che cosa succede?»

«Pa… Padre» fece Estelle, tirando il fiato come avesse corso per tutta la tenuta. «Io… siete impegnato…?»

«Stavamo… solo parlando di preghiere» rispose con una lieve esitazione. «Che cosa ti prende? Sei stravolta…»

«Padre… p-potrebbe confessarmi, ora?»

Ferid lanciò un’occhiata in tralice alla donna. Ora che la vedeva da così vicino era ancora più sicuro che fosse Estelle Young; gli sembrava quasi di poter sentire quel profumo di arancia e vaniglia che si metteva addosso quando era ragazzina.

Con sua sorpresa Nereus non fece altre domande e acconsentì, invitandola a sedersi nel confessionale a rifiatare. I suoi passi si allontanarono, mentre il parroco esibì un sorriso di scuse a Ferid.

«Perdonami, Connor. Il dovere mi chiama.»

«Sì… certo.»

Si allontanò di qualche passo dalla panca, ma prima che Ferid si alzasse lo stava di nuovo guardando.

«Vieni domani alle dieci e un quarto in fondo al viale alberato, all’angolo col campo grande» gli disse a bassa voce, con un sorriso. «Faremo una piccola gita al chiaro di luna. Le previsioni meteo sono incoraggianti.»

Rimase spiazzato da quello strano appuntamento, si ritrovò ad annuire e rimase fermo mentre Nereus andava a recuperare la stola azzurra con le gemme a forma di goccia che indossava per officiare e confessare.

Ancora stordito come svegliatosi di soprassalto una seconda volta si trascinò sulla panca fino al corridoio centrale per poi alzarsi. Lanciò un’occhiata alle gambe di Lebanah che vedeva al di sotto della tenda blu; non vedeva altro che l’orlo della gonna azzurra che tutte le Rinate portavano sotto al ginocchio e un paio di scarpine senza lacci dello stesso color carta da zucchero.

Si costrinse a lasciare la cappella prima di reagire male alla presenza di quella donna e si immise a passo svelto lungo il viale alberato sud – opposto a quello del cancello d’ingresso – per tornare alla sua celletta. Non smise un secondo di masticarsi la lingua, come se non volesse lasciar uscire dalla bocca tutto quello che pensava di Estelle Young e del suo tempismo tragico.

 

Stava ancora rimuginando su di lei, o piuttosto su quello che ricordava della ragazza adolescente che era, quando spalancò la porta dei bagni nel seminterrato in cui si trovavano le celle doppie dei Rinati. Offuscata dalla tenda di plastica bagnata la sagoma di Mika sussultò violentemente.

«Ferid, che cazzo!»

«Non chiamarmi così» gli rispose meccanicamente, girando la testa dalla sua parte. «Ma che stai facendo?»

«Questa è la domanda più stupida che tu mi abbia mai fatto.»

Ferid scrollò le spalle come a concedergli il punto; di certo non aveva dubbi su che cosa stesse facendo nonostante la tenda. Chiuse la porta e andò allo specchio sopra il lavabo dandosi un’occhiata critica al volto prima di aprire il rubinetto.

«Preferisci che parli o che stia zitto?»

«Preferirei che te ne tornassi in camera» ribatté Mika, acido come nei suoi peggiori momenti.

«Perché non sei andato tu in camera a fare quello? Non ti disturbava nessuno.»

«Non lavo io le lenzuola. È un bel guaio se sporco da qualche parte.»

Ferid si sciacquò il viso più volte, poi si raddrizzò tirando indietro i capelli argentati con le dita bagnate.

«Ma che ore sono?» fece Mika, scostando appena la tenda. «Com’è andata con Rex?»

Ferid si lasciò sfuggire una risata dentro all’asciugamano con cui si stava strofinando il viso. Guardò Mika nel riflesso.

«Lo hai davvero chiamato Rex?»

«Beh, è il Re, no? Chiamiamolo così, meglio se gli altri capiscono il meno possibile quando parliamo.»

«Allora potresti anche chiamarmi Connor, per dirne una.»

«Mai» lo stroncò lui.

Ferid rassettò con cura l’asciugamano, com’era abituato a fare anche a casa.

«Penso che Rex ci abbia provato con me. Non ne sono del tutto certo, ma era molto ambiguo.»

Seguì un momento di silenzio, poi Mika si girò aprendo la tenda con uno strattone.

«Davvero?!»

«Uhm… che aria seria, sei geloso?»

«Ci ha provato con te?! Che cosa ti ha detto?!»

«Sei geloso di me o di lui?»

Con un minimo preavviso Mika gli lanciò contro la saponetta, ma con una mira così approssimativa che non dovette neanche spostarsi. Ferid rise di gusto, chinandosi a prenderla sotto l’ultimo lavandino della fila.

«Mi hai davvero lanciato una saponetta! Sei tutto matto!»

«Ringrazia che non sono armato!»

«A me sembra di sì» commentò malizioso, avvicinandosi per porgergli il sapone che recava un bel bozzo dove aveva impattato il pavimento. «Ti serve una mano, magari?»

«Non la tua» replicò Mika secco, e tirò la tenda. «Vai via. Arrivo tra poco.»

«Oh, non sai davvero cosa ti perdi… ma se sei così convinto…»

Nel borbottio di Mika distinse chiaramente una parolaccia che lo fece ridacchiare; abbandonò la saponetta sul bordo del lavandino più vicino, uscì dai servizi e attraversò il corridoio fino alla celletta, senza incontrare anima viva.

Due letti erano sistemati ai due lati della stanza, addossati a pareti spoglie. Avevano a disposizione due piccoli scrittoi con due seggiole e un’unica cassettiera lunga e bassa, che copriva la parete di distanza tra le due testiere.

Vi erano appoggiate due luci a forma di sfera blu e al centro una croce intagliata nel legno. Ferid accese entrambi i globi inondando le pareti spoglie di una luce morbida che proiettava le sottili onde create dall’imperfezione del vetro.

Certo sono un po’ maniacali… è tutto blu, qui. Sembra un albergo dentro un parco acquatico.

Non aveva un’idea di come fosse davvero un parco acquatico, non ne aveva mai visitato uno. Nonostante non gli piacessero particolarmente gli animali marini si chiese se Crowley avrebbe voluto accompagnarlo a vedere un parco o uno zoo… anche se sarebbe stato un posto da visitare con dei bambini.

Diventa sempre più lontano…

Il suo coinvolgimento in un’indagine federale, seppure da agente, lo portava qualche passo più lontano ancora dalla possibilità di adottare dei bambini. Non sapeva perché continuasse a tornarci su con il pensiero, dato che i molti pasticci del suo passato erano sufficienti a buttarlo fuori a calci da qualsiasi ufficio regolatore degli Stati Uniti.

Si inginocchiò davanti al letto e intrecciò le dita. Non pregò per il suo desiderio, non lo faceva mai, ma per il suo uomo: che stesse bene, che non si sentisse in colpa o abbandonato. Immaginare che Crowley potesse trovarsi in preghiera nella sua stanza in quello stesso momento affievolì la sua sofferenza. Il ricordo di lui accanto al letto che mormorava le sue preghiere era così vivido che per un momento Ferid ebbe l’impressione di averlo accanto e di sentire la sua voce nell’orecchio.

«E tu, che stai facendo?»

La voce di Mika aveva rotto quell’incantesimo, ma non l’effetto ristoratore che aveva avuto. Sorrise e appoggiò le mani sulla coperta.

«Anche questa è una domanda stupida. Ovviamente pregavo.»

«E perché mai? Non ci vede nessuno qui dentro» fece lui, appena prima di buttarsi sul suo letto. «Non serve fingere.»

«Ma io non fingo… al contrario di te, io sono cristiano.»

Mika emise un verso piuttosto buffo che ricordava un tricheco, ma non replicò. Si girò sulla pancia e lo guardò.

«Allora, che cosa stavi dicendo su Rex?»

«Oh, quello.»

«Sì, quello! Avanti, com’è andata?»

«Meglio di quanto pensassi, sono sincero» ammise lui, mentre ripercorreva mentalmente il loro scambio. «Credo di averlo colpito. Ha detto che sono “un uomo di cuore” e che “se vuole insegnarmi la fede deve farmela sentire”.»

Mika si accigliò.

«Per un prete è porno?»

«Sei infoiato alla grande, Mika, complimenti.»

Lui sospirò profondamente e affondò la faccia nel letto.

«Non sono abituato a passare così tanto tempo senza fare niente» bofonchiò soffocato dalla coperta. «Mi sembra di scoppiare, a volte…»

Ferid rise. Si mise sul letto e appoggiò la schiena contro il muro.

«Sei giovane, è una cosa normale per la maggior parte dei ventenni… a quell’età ero così acceso anch’io, poi si invecchia… e non sai cosa daresti per poterlo fare ancora così e così spesso.»

«Parli come un vecchio cardiopatico che non può prendere il viagra.»

Diapositive molto, molto peccaminose a partire dalla sua gioventù fino alla recente notte con Ismael gli saettarono in mente e fu impossibile non sorridere, anche se con una buona dose di senso di colpa.

«Sì, beh… ho qualcosa da raccontare, almeno, quando arriverò a quell’età.»

«Tch…»

Mika girò la testa per guardarlo con un sorrisetto divertito.

«E le tue avventure risalgono a prima o dopo la tua iniziazione all’oscura setta del grande padre Satana?»

«Non mi serve una setta satanica, sono stato con Morris Mackham.»

Il ragazzo alzò la testa di riccioli biondi – erano più ricci quando erano umidi – e assunse un’aria confusa. Si rese conto di non avergli mai accennato quel nome prima.

«Chi è questo… ehi, non starai parlando di Connor Maguire?»

«No, no! Morris era un golfista del circolo Alcott, nel West End. Un membro del vip club. Un bell’uomo, Mika, veramente… aveva capelli mori, li portava corti, e la pelle abbronzata dal sole. Passava le vacanze invernali in Messico…»

«Non il mio tipo» commentò lui, deluso.

«Chiunque non sia Yuu non è il tuo tipo, no?» lo punzecchiò. «Ma aveva un carisma particolare, Morris. Aveva sempre tutti intorno quando era al club… io avevo ventiquattro anni quando andai a lavorare lì e lo incontrai… troppo pochi per sapere come resistergli, e non ne avevo voglia.»

Mika era un ottimo pubblico per il suo racconto: era già completamente assorbito.

«Così, subito?»

«Sì, gli bastò parlarmi… ora non riesco neanche a ricordare cosa mi disse. Qualcosa di stupido, una battuta sulle scarpe da golf… era la prima volta, sai? Voglio dire, la prima volta che facevo sesso con un uomo senza aver bevuto.»

Un fischio basso fu il solo commento che venne dall’altro letto.

«Era diversi anni più grande di me… mi faceva sentire importante. Avevo le attenzioni di un uomo che era ammirato da tutti, che era bello e che era più maturo… ci ho creduto per un po’. Poi ho scoperto che era un gran bugiardo che mi ha solo manipolato, e io gliel’ho anche reso facile.»

«Davvero?»

«Sì… aveva una moglie e una figlioletta di sei anni. Non venivano mai al club con lui e non ne sapevo niente, finché un giorno sono venute per una festa. Morris ha portato sua figlia a festeggiare il suo compleanno proprio sotto il mio naso, il viscido.»

«Che stronzo» rincarò Mika, gli occhi ridotti a fessure. «E l’hai ucciso e sepolto in una di quelle buche di sabbia che ci sono sui campi, vero?»

«No, certo che no. Io ho passato la mia vita a scappare, ricordi? Sono scappato anche quella volta. Ho troncato la storia e mi sono dimesso, per non incontrarlo più.»

«Pessima scelta. Avresti dovuto dirlo a tutti, così ci faceva una gran figura di merda.»

«Un uomo come Morris avrebbe trovato il modo di vantarsene… era un manipolatore assoluto, dopotutto. Forse avrei finito solo con il guadagnarmi una pessima fama e rovinare il compleanno di una bambina.»

Cadde il silenzio mentre Mika elaborava quello che aveva sentito e forse escogitava metodi retroattivi per vendicare un torto vecchio di dieci anni. Ferid sospirò il più rumorosamente che riuscì, per rompere la barriera dei suoi pensieri.

«Però scopava da dio

La precisazione riuscì a distrarre Mika dai piani di vendetta.

«Addirittura?»

«Oh, sì. Beh, qualche virtù doveva pur averla!»

Mika sorrideva divertito mentre si tamponava i capelli con l’asciugamano, ma Ferid fissando il soffitto precipitò in una spirale di angosce. Non aveva detto a Mika che per poco non aveva baciato Nereus, non gli aveva neanche detto che contava di usare ogni sua arte, persino le più basse, pur di espugnare Bluefields entro il tempo limite… e questo significava, forse, anche commettere un peccato grave nei confronti di Crowley.

«Ehi… Mika.»

«Che c’è?»

«Credo… che farò molte cose di cui mi potrei pentire, mentre sarò qui… cose che se Crowley sapesse…»

«Sì. Succederà a entrambi.»

Ferid credeva senza riserve che avesse ragione.

«Loro non devono saperlo. Qualsiasi cosa succeda Crowley deve sapere il meno che sia possibile.»

«Puoi fidarti di me. Terrò qualsiasi segreto… li ho tenuti tutti finora.»

«Sì, ma… anche se dovessi fare qualcosa che lui troverebbe ripugnante, per il nostro obiettivo…»

«Ehi.»

Mika si risollevò mettendosi seduto. Era strano vederlo con quei capelli umidi così arricciati, sembrava un cherubino sotto la pioggia.

«L’hai detto tu, no? Siamo insieme in questa storia. Se tu dici una balla, io la confermo. Se rubi qualcosa, ti aiuto a nasconderla. Se ammazzi qualcuno, ti aiuto a seppellirlo nel campo grande.»

«Se vado a letto con qualcuno?»

«Beh, dipende… se mi piace, mi aggrego. Altrimenti farò da palo.»

Ferid rise, cercando di tener basso il volume vista l’ora tarda, ma sentì comunque la tensione allentarsi un po’. Mika infilò le gambe sotto la coperta e si sporse per spegnere la lampada tonda.

«Quello che succede a Bluefields resta a Bluefields. Ci stai?»

Ferid allungò la mano e spense la lampada dal suo lato.

«Ci sto.»

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Capitolo 13
*** Le parole dimenticate ***


Mika riemerse da dietro il suo commentario biblico solo quando fu certo che Ferid si fosse rivestito e lo seguì con gli occhi mentre tornava a sedersi sul suo letto. Se i segnali non lo ingannavano – e lo facevano molto di rado – diventava più nervoso a ogni minuto che lo avvicinava all’ora del suo appuntamento.

«Non devi uscire con Crowley, perché sei così nervoso?»

«Non sarei nervoso se dovessi uscire con lui, sarei felice» replicò Ferid cercando di ridare una forma ai suoi capelli appena asciugati.

«Quando sei arrivato da noi eri sempre sulle spine con lui… ci tenevi a fargli una bella impressione e stavi rigido come uno che è appena sceso dalla bicicletta dopo tre ore» gli ricordò con un ghigno. «Mi viene da ridere a ripensarci. Come quella volta che è tornato a casa e sei andato in paranoia perché non gli avevi fatto trovare la cena, come se Crowley fosse quel genere di uomo.»

«A mia discolpa, anche Crowley si comportava in modo strano con me» protestò Ferid, piccato. «Si era presentato come un tipo territoriale, uno attaccato alle sue abitudini e che vuol fare le cose a modo suo, invece è un cagnolone: dove gli metti il tappeto lui si sdraia senza un fiato.»

«Letteralmente?» domandò Mika incuriosito, chiudendo il libro.

«Non saprei. Non ha tappeti in casa sua.»

Ferid si fece pensieroso e fissò il soffitto, assorto.

«La prima volta che è venuto da me appena entrato ha notato il tappeto iraniano nel mio salotto. Ricordo che mi ha sorpreso che si intendesse di tappeti, dopo aver visto com’è minimale casa sua.»

«L’avrà imparato da sua madre. Ha lavorato anni nell’antiquariato.»

Ferid si rigirò la spazzola tra le dita, come se tentasse un trucco da prestigiatore.

«Non me ne ha mai parlato… in realtà non parla mai di sua madre.»

«Non si parlano da qualche anno. Lei non ha preso bene che lui uscisse con degli uomini. A quanto ne so sono tutti e due molto credenti, i suoi.»

Una fugace ombra passò nello sguardo di Ferid e Mika sapeva perfettamente come interpretarla. Sapeva già che il suo amico credeva di aver rovinato la vita perfetta che Crowley avrebbe potuto avere con una moglie e dei figli, irrompendo nella sua esistenza come una malattia incurabile.

Sospirando Mika si alzò dal letto e andò a sedersi sul suo, gli prese la spazzola dalle mani e passò le dita nei suoi capelli. Senza il libero accesso alle sue molte bottiglie e boccette di diavolerie non erano così lisci e fluidi come tutti erano abituati a vederli, ma erano ancora luccicanti: gli ricordarono i fili d’argento che adornavano l’albero di Natale dell’orfanotrofio Hyakuya.

Quando diede il primo colpo di spazzola su una ciocca Ferid lo guardò stupefatto.

«Che stai facendo?»

«Se continui a cianciare e guardare in aria non finirai mai di pettinarti» tagliò corto Mika.

Ferid fece un gesto per farsi ridare la spazzola, ma Mika fece finta di non averlo visto e proseguì i suoi tentativi lisciare quella chioma argentata. Non si era mai accorto di quanto fossero sottili, ma ognuno scintillava nella luce della celletta. Non era così sorpreso che Crowley li trovasse ipnotici e alle volte si perdesse a fissarli quando Ferid era seduto davanti a lui o di schiena a fare qualcosa in cucina.

«Non mi hai detto dove ti hanno messo oggi.»

«Ah» fece Ferid, decisamente poco entusiasta. «Oggi sono stato alle pulizie della casa grande. È stato molto tedioso e faticoso.»

«E domani?»

«Dovrei essere nel campo grande, quindi ancora peggio… oh, che risate si farebbe Crowley a vedere un cittadino chic come me brandire una stupida zappetta intorno a piante di pomodori.»

Mika rise senza riuscire a trattenersi.

«Non sono pomodori, Pepper. Sono fagioli.»

«Ehh? Davvero?!»

«Non sei capace di riconoscere una pianta di pomodori? Sai, quei grossi frutti tondi e rossi, mentre i fagioli…»

«Ah, smettila» sbottò lui. «Finché non cresce qualcosa sembrano tutte uguali quelle stupide piante!»

Mika si mordicchiò il labbro per impedirsi di replicare e al tempo stesso di ridere. Le campane rintoccarono le dieci in punto.

«Coprifuoco» annunciò con tono molto meno ilare. «È quasi ora.»

«Sì.»

Nel minuto seguente sentirono qualcuno andare su e giù per il corridoio per usare il bagno un’ultima volta, diverse cellette chiudere le porte col chiavistello, e infine il clic che accompagnava lo spegnimento delle luci tra una celletta e l’altra. Mika si mise con più premura a sistemare i capelli di Ferid: era ora che uscisse.

«Ahi… che stai facendo?»

«Scusa. Sopporta un momento, ci metto poco.»

Era passato del tempo dall’ultima volta che aveva fatto la treccia ai capelli di Crowley – per un paio di settimane se n’era occupato quando si era infortunato la spalla a seguito di un incidente stradale in servizio – ma ricordava come fare e i capelli di Ferid erano più facili da gestire, più corti e leggeri. In un minuto gli aveva fatto una morbida treccia di una spanna.

«Temo non potrai puntare sul fascino dei tuoi capelli sciolti stasera, ma avrai qualche altro asso nella manica o da qualche altra parte, giusto?»

«Niente che si noti con questi stracci da novizi» commentò sconsolato Ferid.

«Troverai il modo di farteli togliere, allora.»

«Ah, non istigarmi! Mi sento colpevole a non farmi venire in mente un altro piano!»

Mika scrollò le spalle. Non poteva dire di non comprendere come si sentiva, ma se la loro missione doveva arrivare da qualche parte lui doveva almeno mettere a tacere gli scrupoli di Ferid quando si fossero manifestati. Non potevano concederseli.

«Ti sei fatto portare a letto da quello. Meriti di sentirti colpevole.»

«Un giorno ti racconterò la storia. Ci sarà da ridere, giuro.»

«Non voglio sentirla.»

«Ma smettila, tu sei un pervertito. Vuoi ascoltare tutte le storie erotiche che sono disposti a raccontarti» ribatté Ferid, e si avventurò dentro la cassapanca alla ricerca di qualcosa. «Ah, non che ci sia qualcosa di male, ma devi far pace con quel lato della tua natura.»

«Non è delle tue scappatelle che non voglio sentire, ma di quello. Quell’uomo mi disturba a un livello profondo, dico sul serio.»

Ferid aveva trovato quello che cercava – un piccolo barattolo dal tappo dorato – quando si sedette sul mobile sospirando.

«Se solo lo lasciassi fare per dieci minuti vedresti cosa può farti a livello profondo, mio caro.»

Mika si sentiva fin troppo vulnerabile alle tentazioni in quel posto così restrittivo e lontano dal suo compagno così puntualmente affidabile in quel senso; non aveva proprio intenzione di farsi entrare in testa strani tarli, quindi fissò il barattolo che Ferid aveva appena aperto.

«Che è quella roba?» chiese, poi lo vide spalmarselo sulle labbra con la punta del dito. «Un balsamo?»

«Mh-mh… uno speciale… costa un sacco di soldi, ma li vale tutti» esitò mentre ne metteva un velo sul labbro superiore, poi tese un sorrisetto. «Quando lo metto Crowley non riesce a non guardarmi e mi fissa finché non me lo toglie tutto~»

Il sopracciglio sinistro di Mika fece un sussulto involontario.

«Finché non te lo toglie…?»

«Non vorrai che ti spieghi come, vero?»

«Certo che lo voglio. A forza di parlare di Dio tutto il giorno finirò per dimenticarmi che avevo una vita sessuale prima di finire qui dentro.»

Ferid rise, richiuse il barattolino e si alzò per rimetterlo tra i suoi abiti.

«Rimandiamola, è una cronaca che merita tutto il tempo necessario per raccontarla e apprezzarla… e io non ne ho…»

Mika annuì.

«Devi avviarti.»

Ferid tese un sorriso, con labbra illuminate da un lieve riflesso caldo. Socchiuse la porta per ascoltare il silenzio in corridoio e poi scivolò fuori come un’ombra.

Mika si alzò dal letto e si accostò al battente finché non udì un lieve rumore metallico che immaginò fosse la maniglia della porta del seminterrato, poi spinse piano la porta della celletta e la richiuse senza farle fare rumore.

Ora è tutto nelle sue mani… quello che succederà questa sera sposterà l’ago della bilancia da una parte o dall’altra, a nostro favore o contro…

Ciondolò fino al letto e vi si raggomitolò sopra, affondando la faccia nel cuscino alla ricerca di buio e assenza di stimoli, in modo da poter ragionare il più obiettivamente possibile sulle mosse successive per ognuno degli scenari che poteva immaginare.

 

***

 

È strano, ma… sembra di essere tornato ragazzino.

Il buio tipico delle zone di campagna, il cielo stellato, un’uscita di soppiatto in piena notte per incontrare qualcuno di nascosto: era davvero come tornare ai tempi in cui usciva dalla villa per raggiungere Bobby dietro la scuderia. Il ricordo era dolce e amaro al tempo stesso.

La figura ferma all’incrocio delle strade la riconobbe anche da lontano, con quell’abito blu intenso illuminato da uno dei lampioni del viale alberato. Accelerò il passo e lo raggiunse mentre la campana rintoccava le dieci e un quarto.

«Ah, eccoti qui… puntualissimo.»

«Sì… ma è sicuro che posso stare fuori a quest’ora?» domandò Ferid, controllando sospettoso le zone più buie intorno ai campi. «Come novizio dovrei essere in camera mia alle dieci…»

«È vero, ma come novizio hai moltissimi impegni durante il giorno, e anch’io… a quest’ora invece nessuno ci interromperà. Non stai certo violando la buona condotta se passeggi con il tuo padre spirituale, no?»

Nereus raccolse qualcosa da terra, un metro circa dietro le sue gambe, e Ferid vide che era una lanterna elettrica. Ne ricordava una simile usata da Crowley per accompagnarlo al cimitero monumentale nel North End.

«Sai, è questo il problema di fondo di molti ordini cristiani… mantengono un atteggiamento molto severo, quasi militare nel disciplinare i loro fedeli… vestigia del tempo in cui la chiesa di Roma era una potenza politica, che controllava il modo di vivere della popolazione facendo leva sulla paura del demonio e dell’inferno. Non è un modo corretto.»

Nereus accese la lanterna e si avviò a passo tranquillo sul sentiero senza ghiaia che si allontanava dalle due case principali dell’ex piantagione. Ferid si gettò un’occhiata alle spalle prima di seguirlo. Camminarono a lungo nel più completo silenzio, ma Ferid cercò qualcosa di adatto per conversare: non poteva sprecare il tempo con lui, specie in una condizione così favorevole.

«Padre, posso parlarle di una cosa?»

«Puoi parlarmi di qualsiasi cosa tu voglia.»

«Ho… sentito qualcuno, oggi, parlare di me. Dire a un altro che non dovrei essere qui… che non dovrei stare con i credenti, perché vengo dall’inferno.»

«Sciocchezze» ribatté lui secco. «I demoni vengono dall’inferno, per chi ci crede, non certo i peccatori. Vengono da Dio, come tutti gli altri, perché di fondo siamo tutti peccatori. E qui a Bluefields ce n’è di ogni tipo, se potessi snocciolare tutti i peccati che ho sentito in confessione.»

«Per questo non ha paura di me?»

Nereus gli lanciò uno sguardo confuso.

«Che ragione avrei di aver paura?»

«Vengo da una setta di satanisti. Molti uomini di fede avrebbero paura di mettermi a contatto con il resto del loro gregge.»

«Ah… sì, immagino che molti lo penserebbero… ma così facendo ti negherebbero la salvezza, e non è qualcosa che penso un pastore debba fare. Io voglio salvarti, visto che tu desideri essere salvato.»

Nereus sussultò alla vista di qualcosa sul sentiero, ma si trattava solo di un grosso rospo e l’evitò, lasciando che quello saltellasse fino al fossato erboso che separava il campo dalla strada. Ferid ebbe qualche secondo di silenzio per riflettere sulla sua strategia.

«Quindi pensa che io debba essere salvato, comunque…»

«Sì, ma non dal diavolo. Il diavolo non esiste» puntualizzò lui. «Le persone con vite tragiche come la tua alle spalle sono fragili. Le loro convinzioni vacillano, non hanno autostima. Quando incappano in una difficoltà pensano di non essere capaci di superarla e che hanno sbagliato a provare a cambiare strada. Si voltano e tornano indietro, credendo di essere destinati a essere infelici, sfruttati, calpestati… ti salverò da questo, non importa quanto tempo ci vorrà.»

Neanche una parola su Dio, sulla provvidenza, sulla salvezza… è veramente un parroco?

«Padre, posso essere un poco inopportuno?»

«Correrò il rischio di scoprire cosa trovi inopportuno. Parla.»

«È veramente un prete?»

L’uomo si fermò in mezzo alla strada e si voltò a guardarlo. La lanterna illuminò un’espressione basita.

«In che senso, scusa?»

«Mi ha appena parlato di autostima, di traumi passati e di difficoltà. Neanche un vago “con l’aiuto di Dio”, o qualcosa del genere…»

Nereus tese gli angoli della bocca e scoppiò in una risata imbarazzata.

«Mi sono laicizzato troppo! Ho studiato un po’ da psicologo prima di andare al seminario, e poi al noviziato dell’Acqua. Credo sia importante ricostruire la personalità prima di darle una spiritualità, o si scambierebbe un tiranno con un altro… ma naturalmente Dio ha in mano tutto questo processo.»

«Come mai una scelta così drastica?»

«All’università incontrai… una persona» spiegò lui, sul vago. «Ebbi un rapporto difficile con lei, e alla fine non andò molto bene. Cercavo una nuova via e stavo aiutando in un campo spirituale per adolescenti quando ebbi un contatto coi Rinati dell’Acqua, in Michigan.»

Raddrizzò le spalle e sollevò il mento, rinfrancato dal ricordo di quel momento decisivo.

«Mi affascinò la loro visione e… beh, sono stato chiamato, possiamo dire. Non riuscivo a pensare a nient’altro che mi entusiasmasse come lo studio di questa religione e mi ci sono immerso del tutto, fino ai voti.»

«Un amore a prima vista, possiamo dire?»

«Sicuramente… beh, non c’è altro da dire. Quando padre Maim ha deciso di fondare una nuova comune ero entusiasta, mi sentivo pronto e mi sono proposto… ed eccomi qui.»

«Entusiasmo, mh? Come Mikael… forse lui è destinato davvero a qualcosa di importante. In fondo è il fratello migliore… di gran lunga migliore di quanto io potrei mai essere.»

Nereus fece scioccare le labbra e scosse la testa.

«No, no. Vedi, è da questo che voglio salvarti: non è detto che solo perché hai fatto più errori di qualcuno tu non possa recuperare. Anzi, le persone migliori di solito hanno nel loro passato grandi dolori e immensi sbagli dai quali hanno imparato lezioni che non possono mai dimenticare.»

Ah, com’è vero questo…

Aveva un prontuario nutrito di lezioni imparate e a ognuna poteva collegare delle cicatrici, alcune delle quali sulla pelle e non solo nella sua mente. Sollevò la mano e guardò il segno più chiaro sul palmo, il segno rimasto visibile della notte in cui un pigro, vile libraio era diventato la sola speranza di una bambina di non morire da sola in una foresta…

Samara è stata solo la prima lezione… ma una di quelle che non dimenticherò mai. Non avevo mai provato orgoglio per me stesso, prima di riuscire a salvarla… non avevo mai sentito di essere in grado di fare la differenza in positivo al di là degli scaffali di una libreria.

Ferid strinse il pugno e si guardò intorno, nella zona più buia della tenuta, con sporadici punti luce lungo il sentiero e in lontananza dove vi erano edifici o capanni. Inspirò aria umida, ascoltò i grilli e il fruscio creato dal leggero vento, chiedendosi dove sarebbe stato, quel giorno di agosto, se Bobby non si fosse mai ammalato… o se, come Krul gli aveva strillato quella volta, fosse rimasto al negozio e avesse lasciato cercare Samara a qualcun altro.

«Stai sorridendo» gli fece notare Nereus, strappandolo ai suoi ricordi. «Hai trovato qualcosa di buono in quel periodo di cui pensi di doverti vergognare?»

«Uh… no, io…»

«Ha a che fare con quella cicatrice?»

Gli prese la mano con quella che era libera e gliela sollevò per vedere il segno nel palmo.

«Come te la sei fatta?»

«Io… mi sono forato la mano con un bastone, almeno credo.»

«Com’è accaduto?»

«Mi sono ferito cadendo… da un albero» aggiunse Ferid, decidendo di alterare la storia nel remoto caso che il ritrovamento di Samara avesse riscosso più interesse di quando credesse. «Stavo aiutando una bambina che non poteva muoversi.»

«Ma senti un po’. Che curioso passatempo per un satanista, far scendere bambini dagli alberi!»

«Ma non ho ancora detto che sotto l’albero c’erano cani da caccia affamati.»

Nereus rise di gusto.

«Sì, certo! Ti infastidisce tanto sembrare una brava persona? Devi smettere questa mascherata, con te stesso e gli altri.»

Lo dirò a Ismael la prossima volta che si lamenta di essere scambiato per un umano decente.

Incespicò in qualcosa che credeva essere una zolla di terra, ma mentre la guardava la zolla balzò via gracidando. Con un brivido di raccapriccio emise un verso simile a un guaito e si aggrappò d’istinto al gomito di Nereus. Lui soffocò quasi all’istante una risata e lo confortò senza parole con una pacca sul braccio che era più umiliante della sua ilarità.

«Siamo così lontani dalla casa grande che i rospi sono grossi come tigri! Arriveremo ovunque stiamo andando, prima che io inciampi in un orso?»

«Credevo che non me lo avresti mai chiesto» ribatté lui divertito, e indicò un punto. «Stiamo andando là, dove c’è quella luce di segnalazione gialla che lampeggia.»

«È parecchio lontano… che cosa c’è là?»

«C’è il borgo… o meglio, ci sarà… ma faccio prima a spiegartelo quando ci saremo. Porta ancora un poco di pazienza.»

Ferid annuì e gli lasciò il braccio, fingendo di non sentirsi ancora il cuore in gola per lo spavento.

«Non serve la pazienza quando passi del tempo in modo piacevole. Parlare con lei è molto… facile… sarà perché è anche un po’ psicologo, ma non è come parlare con gli altri preti che ho conosciuto.»

«Oh, grazie. Si capisce che i tuoi sono complimenti, quindi ne sono lieto… ahimè, non posso ricambiare perché sei l’unico satanista con cui abbia mai parlato, ma sei un esemplare molto gradevole. Quasi troppo. Se foste tutti così penserei di cambiare parrocchia.»

Ferid fece per spostarsi i capelli dietro l’orecchio com’era abituato a fare e si stranì di sentirli così legati: si era dimenticato della nuova acconciatura fatta da Mika. Nereus gli lanciò un’occhiata ed ebbe l’impressione che indugiasse sulla treccia, ma non commentò e tornò a guidare la spedizione verso la luce intermittente.

Camminarono in silenzio per almeno un quarto d’ora finché i profili non cominciarono a delinearsi nella luce della luna. Ferid strizzò gli occhi per cercare di vedere meglio.

«È… sono case?»

Nereus accelerò il passo sorridendo, come un bambino smanioso in vista dell’insegna della gelateria. Ferid dovette assumere una strana andatura da marcia per stargli dietro.

«Sono i cottage di Bluefields. Scheletri, per il momento… pare che l’ultimo proprietario della tenuta volesse costruirli per darli in affitto ai mezzadri. Non fece in tempo prima di finire in bancarotta quando dovette interrompere gli scavi nella sua miniera.»

«Quindi non ci alloggia nessuno?»

«No, abbiamo dato priorità alla ristrutturazione della casa grande e degli edifici intorno… ci sono ancora molti capanni e fienili che non abbiamo toccato, e ovviamente il borgo. Eccoci…»

Erano ormai arrivati: ai due lati di una strada ampia ma rovinata da una lunga incuria correva una fila di cottage su due piani, con piccole finestre ravvicinate e tetti spioventi nel pieno stile rurale americano. Erano scrostati e vecchi, ma Ferid poteva già immaginarli rimodernati, ridipinti nei colori vivaci delle cittadine dei sobborghi, con i gradini davanti all’ingresso, fiori sulle finestre e luci elettriche sopra la porta.

«Padre, è bellissimo qui…»

«Beh, non tanto ora… ma con uno sforzo di immaginazione si può vedere che idea ho per questo posto.»

«Credo proprio di vederla» fece lui, e lo guardò. «Per quale scopo vuole ristrutturarli?»

«Ecco… a Bluefields ospitiamo per lo più membri molto giovani, e anche se siamo qui da pochi anni contiamo di restarci e diventare più importanti… e presto, auspico, qualcuno dei nostri Rinati penserà a sposarsi. Vorrei riservare questi cottage per le coppie che vogliono sposarsi e mettere su famiglia qui, non possono vivere da sposati in una stanza dei dormitori.»

«Certo che no, non avrebbero intimità né spazio per i figli.»

«Infatti… quindi mi piacerebbe poter assegnare alle coppie questi cottage dopo il matrimonio. Purtroppo, per ora, non è ancora possibile.»

Nereus guardò le case più vicine alla sua destra e sospirò con aria afflitta, ma non diede alcuna spiegazione.

«Perché non potete?» l’incalzò Ferid.

«La comunità di Bluefields non ha molto denaro. Siamo a malapena autosufficienti, si può dire» gli rivelò lui con una certa amarezza. «I fondi per la prima ristrutturazione sono arrivati da padre Maim, ma qui non c’è l’affluenza di San Francisco o di Nashville, e quindi…»

Nereus non lo guardava, tutto preso a controllare una porta qui o strappare un rampicante secco là, ma Ferid stava sorridendo: non si aspettava di scoprire così facilmente un punto debole da colpire.

«Come mai mi hai portato a vedere il borgo, Padre? Lo mostri a tutti quanti?»

«No, viste le condizioni in cui versa… no, il borgo era solo di strada per il posto in cui volevo portarti» fece Nereus, e tornò a sorridergli. «È qua dietro, ci metteremo un minuto. Seguimi.»

Il pastore svoltò a destra dietro il cottage successivo, dove un viottolo scendeva in un dislivello di qualche metro e lì, in fondo, scorreva un fiume con argini artificiali coperti di rametti e foglie. Alla luce della luna si vedeva l’acqua scorrere pigramente, con il riflesso della notte increspato dalla corrente. Al di là del torrente qualche lucina dorata appariva e scompariva: Ferid non aveva mai visto le lucciole in America, prima.

«Non è un posto incantevole?»

«È bellissimo… ci sono le lucciole! Ormai pensavo fossero un mito come gli unicorni…»

«Non qui nel West Virginia!»

«Peccato non avere una fetta di torta e del tè, è un ottimo posto per un picnic.»

Nereus scoppiò a ridere mentre posava la lanterna accesa e Ferid lo sentì distintamente dire “satanista” nel suo borbottio divertito. Con suo sommo stupore subito dopo il pastore si sbottonò la giacca, la sfilò e aprì la cintura.

«Che sta facendo?»

«Non ti spaventare, per carità. Non sono un maniaco» lo rassicurò lui. «Non lo sai ancora perché sei al primo livello. Normalmente iniziamo queste pratiche al livello tre, ma te l’ho già detto… devo farti vedere come viviamo la nostra fede, piuttosto che darti dispense da leggere. Ora te lo mostro.»

«Cosa intendi per pratiche?» domandò Ferid, con un accenno di nervosismo del tutto sincero.

«Via, non sarà peggio dei Sabba o altri incontri che già conosci, no?» fece lui con un brio che aumentava la sua tensione. «Non c’è motivo di essere nervosi, ci sono io con te. Ti fidi di me, vero?»

In realtà partiva dal presupposto che non poteva fidarsi di nessuno che non fosse Mika, ma annuì lo stesso.

«Spogliati, allora… guarda, ci sono questi ciocchi di alberi tagliati che usiamo apposta per appoggiare i vestiti. Questo è il tratto del fiume che usiamo per le meditazioni e i riti purificatori per quelli del terzo grado di preparazione e per i Rinati.»

«Io… non è…» esordì lui, con uno sguardo alle acque nere che riflettevano il cielo. «Quanto… quanto è profonda?»

«Sarai perfettamente al sicuro se stai in piedi, non aver paura… sarò vicino a te tutto il tempo, non ti succederà niente.»

Nereus si tolse anche gli ultimi abiti che aveva addosso e Ferid gli voltò le spalle istintivamente mentre si sbottonava la camicia. Alzò gli occhi al cielo, anche se vide solo stelle e qualche ramo d’albero.

Perdonami, Crowley, non dipende da me!

Un tonfo e gli schizzi d’acqua che seguirono gli dissero che Nereus si era buttato in acqua di peso. Valutando che una volta in acqua non avrebbe visto gran parte del suo corpo nudo azzardò un’occhiata nella sua direzione e in effetti quando riemerse gli vedeva metà della schiena.

«Accipicchia, è un po’ più freddina di quanto pensassi! Meglio se non mi imiti!»

«Non ci pensavo neanche lontanamente, tuffarsi dove non si vede un accidenti è da cretini… uh… beh…»

Nereus, lungi dal risentirsi, scoppiò a ridere.

«È verissimo, sì… ma conosco questo tratto del fiume molto bene… officiamo i nostri riti qui durante tutto il periodo caldo, e qualche volta durante l’inverno.»

«Ora è estate» gli fece notare mentre si sedeva per togliere le scarpe. «Ma noi siamo sempre in chiesa…»

«Sì, ma tu e Mikael non siete arrivati al livello tre.»

Ferid non poteva dire di essere un ingenuo con il suo passato: aveva conosciuto intimamente fin troppi uomini – molti dei quali erano ormai volti sfocati ai quali non associava nomi o forse non li conosceva neppure – ma si sentiva a disagio, esposto, lì da solo con un uomo quasi sconosciuto a spogliarsi sulla riva di un fiume.

«Credevo che i cristiani si preoccupassero di cose come la pudicizia, Padre.»

«Si preoccupano fin troppo di molte sciocchezze, a quanto ne so.»

Nereus si avvicinò all’argine di cemento che creava una specie di basso muretto e allungò la mano verso di lui.

«Ti ho portato qui per mostrarti proprio le differenze… normalmente insegniamo prima le similitudini e poi le differenze tra noi e la chiesa cattolica che già conoscono, ma con te credo sia meglio fare l’opposto.»

«E quante differenze ci sono, esattamente?»

«Parecchie» replicò lui con l’aria di non volersi svelare. «Noi abbiamo un approccio molto più concreto… per noi Dio non è separato da noi, né inconoscibile. Con il giusto percorso si può sperimentare la sua presenza in ogni attimo, proprio vicino a noi… dentro di noi.»

Nereus non aggiunse altro e restava lì, a mano tesa, come se invece di una sorta di bagno rituale dentro una comunità religiosa fossero a bordo piscina a una festa universitaria. Indugiare non sarebbe servito a nulla e Ferid sapeva che sarebbe potuto arrivare il momento di dover fare qualcosa che davvero non voleva, quindi tirò giù i pantaloni e la biancheria in un solo gesto, li lasciò sul ciocco che un tempo fu un albero di papaya e prese la mano di Nereus per scavalcare l’argine. L’acqua era decisamente fredda, nonostante il mese di agosto.

«Fai attenzione vicino all’argine… si accumulano un po’ di residui e si scivola. Appoggia bene i piedi.»

«Quali piedi?» domandò Ferid, che era già infreddolito.

«Ti devi abituare, passerà tra poco… l’aria è ancora calda.»

«P-perché l’acqua è così fredda, allora? Sembra che sia appena uscita da un ghiacciaio!»

«Perché viene da sottoterra» replicò Nereus, indicando un punto lontano. «Emerge in quella zona laggiù, ma fino ad allora scorre per due chilometri sotto la roccia della montagna. Per questo è fredda.»

Ferid si sentiva orrendamente: la pelle fino all’ombelico urlava per il contatto con acqua fin troppo fredda per i suoi gusti, avvertiva sotto i piedi qualcosa – rametti, foglie o altro – che gli metteva angoscia e ogni passo che l’allontanava dall’argine consegnava parecchi centimetri del suo corpo all’acqua scura. Dire che l’esperienza non gli piaceva era oltre l’eufemismo.

«Che… che cosa venite a fare in questo…»

“Pozzo terrificante” era l’espressione che gli balenava in mente e non riuscendo a trovare parole meno scortesi non concluse la frase. Nereus gli stava accanto e sorrideva; l’acqua fredda non era un problema per lui.

«Preghiere, meditazioni… purificazioni a seguito delle confessioni. Nel terzo grado lo facciamo due volte l’anno.»

«Non sembra il cristianesimo che conosco…»

«Perché non lo è, Connor… questa sera farò una purificazione anche a te. Di sicuro Vann non potrebbe rimproverarmi se scoprisse da dove sei arrivato.»

Parole come purificazione e meditazione le aveva sentite di certo più spesso da Krul che da Gilbert e altri preti che aveva incontrato e ciò rafforzò la sua idea che quella corrente cristiana fosse molto più mistica di quanto non volesse sembrare dal loro libro promozionale.

Nereus alzò la mano e con il pollice bagnato segnò la croce sulla fronte di Ferid.

«Ora devi solo fare come ti dico… cerca di non fare domande, è importante che ti sforzi di non perdere la concentrazione.»

Si stava abituando alla temperatura dell’acqua, abbastanza per poter ragionare meglio. Nereus gli strinse delicatamente il polso.

«Osservo questo rito io stesso e lo officio per molti membri. Non farei niente che possa metterti in pericolo, quindi fidati di me e segui le istruzioni.»

Ferid strinse le dita sulle sue per un attimo.

«Guidami.»

Si alzò un vento caldo più insistente, che smosse le fronde della foresta intorno e degli alberi della tenuta, con un tempismo da brividi. Nereus gli impose un certo ritmo lento di respiro, gli fece chiudere gli occhi e si mise alle sue spalle continuando a dargli il ritmo di inspirazione ed espirazione come un metronomo. Fu però quando gli disse di immergersi fino al collo che iniziò a preoccuparsi; quell’acqua scura e sconosciuta non lo invogliava ad abbandonarvisi.

«Fidati di me» sussurrò la voce di Nereus. «Sono proprio qui. Ti tengo su la testa, tu scendi e lasciati galleggiare.»

Non era neanche del tutto certo di poter galleggiare: da quando era un bambino non aveva memoria di essersi mai immerso in una quantità di acqua superiore a quella che poteva stare in una vasca da bagno. C’era un fiume vicino alla villa ma non ci era mai stato, né si era mai azzardato ad andare sulla spiaggia a New Oakheart. Che ricordasse non si era mai nemmeno messo il costume da bagno per avvicinarsi alla piscina della Saint Matthew dove provavano a dare agli studenti una speranza di borsa di studio sportiva.

Si immerse fino al collo e sentì le mani di Nereus sostenergli la testa e il collo, quindi con un sospiro e molto spavento bloccato dentro il petto obbedì al suo comando e si lasciò andare. Sentì i suoi piedi sollevarsi verso la superficie e quando respirò di nuovo anche il suo torace emerse dall’acqua fredda. Quantomeno galleggiava.

«Bravissimo… è una bella sensazione, vero? Senza peso e senza che qualcosa ti leghi… è questa la sensazione di un’anima ripulita dal peccato.»

Era una bella sensazione, nonostante avesse ancora paura di sprofondare all’improvviso e annaspare, ma il pensiero che lo colpì fu quanto riuscisse a essere avvolgente la sua voce e quanto fossero suadenti i suoi modi. Assomigliava più a un corteggiamento che alla guida di una meditazione.

«Ora procederò, Connor… quello che farò è spingerti leggermente sotto il pelo dell’acqua» gli spiegò con un tono molto calmo, quasi sussurrando. «Abbasserò la tua testa e dovrai trattenere il fiato per una ventina di secondi, e con l’altra mano ti spingerò giù dall’addome. Dovrai restare rilassato come sei ora, perché se ti irrigidisci affonderai e il panico ti toglierà l’ossigeno… mi hai capito?»

«Sì.»

«Sarai sotto l’acqua per il tempo della preghiera, poi ti tirerò di nuovo fuori. Non c’è niente di cui aver paura.»

«Non ho paura.»

Non aveva il panico, ma affermare di non essere spaventato dalla prospettiva era ottimistico. Prese il respiro tentando di calmarsi; trattenere il fiato per venti o trenta secondi restando immobile non avrebbe dovuto essere un problema per un uomo sano.

«Prendi il respiro, Connor.»

Ferid prese un respiro profondo, poi sentì le mani di Nereus premere lievi sulla sua fronte e sul suo addome. L’acqua gli coprì il volto completamente e ovattò il suo udito. Aggrottò le sopracciglia tentando di restare più rilassato possibile e di dominare l’istinto di aggrapparsi all’uomo in piedi vicino a lui per tornare a respirare.

Sentiva la preghiera troppo smorzata per distinguerne le parole, ma almeno parve ambientarsi meglio nell’acqua. Si abituava velocemente alla sensazione della pressione e del freddo, poi cominciò a percepire la sua viscosità intorno alle dita, il movimento della corrente sulla pelle e persino la ruvidezza della sabbia che portava con sé da più a monte. Non sapeva più da quanto tempo era sotto, ma aprì gli occhi quando percepì che aveva una luce al di sopra di lui.

Aveva la sensazione di essere in un drive-in, da solo. Davanti a lui vedeva scorrere immagini di se stesso, del suo corpo: si vedeva pregare in ginocchio in una cappella con i vetri colorati, poi teneva uno zainetto stretto tra le braccia mentre correva sotto la pioggia seguendo la schiena di Bobby verso la strada che portava a Crawley.

Ah… che brutta idea fu quella…

La voce l’udì da lontano, come il borbottio di un altro avventore e non come un suo pensiero. Rivide se stesso al circolo Alcott, vide con quale espressione sognante guardava dalla parte di Morris Mackham che parlava con degli amici e provò pietà per la sua ingenuità.

Lo schermo sembrò scorrere avanti veloce. Rivide Krul, poi si vide mettere al collo di Crowley lo scudo di San Michele. Correva nella tempesta estiva con una bambina dalla gola squarciata tra le braccia. Una voce lo chiamava dal quadro di una chiesa. La pioggia scrosciava sul tetto di una palazzina di Satbury… mentre una voce parlava e lui ascoltava.

«Connor!»

Ferid aprì gli occhi e prese il fiato come fosse rimasto sott’acqua… poi tornò presente a se stesso, girò la testa osservando le ombre del borgo diroccato e l’acqua del fiume alla sua sinistra. Era seduto sulla riva, bagnato e con fili d’erba e foglie appiccicate addosso, i capelli non erano più intrecciati e Nereus, davanti a lui, era pallido.

«Connor, santo cielo… mi senti ora?»

«Io… c-che cos’è successo?»

«Non lo so, io… ti ho tenuto sotto mentre recitavo la preghiera, ma quando ti ho tirato su non aprivi gli occhi e non rispondevi più… non… capisco cosa sia successo, non ti ho visto fare le bolle, non hai… non hai espirato, quindi non puoi nemmeno aver respirato l’acqua… non hai buttato fuori niente…»

Ferid si toccò la bocca, scioccato dagli stralci di quella specie di sogno più che dalla notizia di essere rimasto senza fiato. Le parole che aveva sentito erano chiuse nel suo subconscio fin dalla sera in cui Crowley l’aveva riportato in casa?

«Stavo… non respiravo?»

«No, ma non capisco come sia stato possibile… soffri di qualche malattia che non hai dichiarato? Asma, o qualche problema respiratorio?»

«No… »

«Allergie?»

«Sono intollerante al lattosio. L’ho detto alla dottoressa, ma non vedo come possa aver causato… questo

Entrambi si trovarono a guardare il fiume, come fosse un tenero gattino che si era rivelato una bestia divoratrice di uomini. L’atmosfera pacifica di quell’angolo di campagna alla luce della luna era diventata inquietante, o almeno Ferid la percepiva così. Nereus non sembrava più tranquillo di lui.

«Io… rivestiti, andiamo via. Ti accompagno all’infermeria.»

Gli afferrò entrambe le mani per aiutarlo ad alzarsi e raccolse in fretta i suoi abiti. Ferid non aveva idea di che cosa gli fosse successo dentro quelle acque, perché non ricordava di essere stato a corto di ossigeno o di aver almeno tentato di lottare per tirare fuori la testa.

«Non… sarai nei guai a spiegare questo alla dottoressa?»

«A chi importa se Vann o qualcun altro se la prende? Non respiravi più, Connor, sembrava che la tua anima fosse scivolata via lungo il fiume!»

Scivolata via…

Ferid tornò a guardare l’acqua dove la luce tradiva il flusso del suo movimento, ignorando del tutto Nereus che tentava di togliergli di dosso quel campionario di flora locale che gli si era appiccicato sulla pelle bagnata. Forse aveva capito che cosa gli era appena successo, anche se pensare che fosse accaduto lo turbava molto di più dell’ipotesi di una malattia respiratoria.

«Probabilmente dovrai uscire da Bluefields… ovviamente è permesso a tutti per ragioni di salute, e qui non abbiamo nessun macchinario né un laboratorio per le analisi» stava proseguendo Nereus in un febbrile tentativo di riordinare le idee sul da farsi. «Sì, qui non possiamo fare niente per te, potrebbe essere un disturbo molto grave… Dio, se penso che potevo ammazzarti per questa stupidaggine, io—»

«Oh, non essere così melodrammatico, Nereus, sto bene… credo che sia successo esattamente quello che speravi.»

La sua occhiata lo fulminò.

«Come puoi pensare che io volessi questo?!»

«Che cosa fai quando devi lavare un vestito?»

«Un… che c’entra ora?»

«Che cosa fai?»

Non capiva dove volesse arrivare, ma almeno accettò di pensarci su, mentre infilava la camicia a Ferid come fosse un bambino piccolo.

«Penso che… beh, lo metto nella lavatrice, metto del sapone e…»

Ferid scosse la testa e finalmente si decise a rivestire la sua metà meno presentabile.

«Per prima cosa te lo togli. Questo fai quando indossi un abito che va lavato.»

«Beh, sì… ma questo che cosa…?»

Non ci fu bisogno di spiegarglielo, perché a occhi sbarrati guardò il fiume per parecchi secondi, abbastanza da consentire a Ferid di rendersi presentabile e infilarsi le scarpe.

«Credi che… non… non era mai accaduto da quando sono officiante di questi rituali» balbettò, sopraffatto da sorpresa e felicità. «La tua anima si è staccata per purificarsi e poi si è ricongiunta… è qualcosa di incredibile, non era mai accaduto a Bluefields!»

«Forse perché la mia era davvero sporca, che ne pensi?»

«È una possibilità, sì… oppure questa volta c’è qualcosa di differente… o…»

Nereus prese i suoi abiti, ma non li indossò. Fissò Ferid dritto negli occhi.

«O sei tu. Forse ho ragione quando dico che tu e tuo fratello avete qualcosa di speciale… dopotutto voi lo sentire parlare nella pioggia. Non è mai successo a nessuno che io abbia incontrato nelle comunità dell’Acqua.»

«O siamo due pazzi.»

«Certo quello che è successo ora non è stato normale… e se è come penso io inizieranno ad esserci dei segni chiari, da adesso in avanti.»

Ferid ridacchiò. La convinzione di Nereus la trovava piuttosto buffa, visto quanto sembrava un uomo razionale solo una mezz’ora prima.

«Oh, Padre, sembri un bambino eccitato che fa congetture sul sequel del suo film preferito!»

«Le mie sono ragionevoli ipotesi, e le manterrò vive finché un medico non mi dirà che ti si è chiusa la gola per un’allergia al polline nell’acqua o qualcosa del genere.»

«Parli come fossi convinto che nessun medico possa risponderti così…»

«Lo sono abbastanza, perché quando ti sei svegliato non hai neanche tossito» insistette lui, iniziando infine a rivestirsi dalla camicia. «Non è normale per delle vie respiratorie chiuse riprendere dal nulla a funzionare senza neanche un colpo di tosse.»

Non si intendeva di medicina, ma Ferid concordava e ciò rafforzò le sue conclusioni: gli era accaduto davvero qualcosa di innaturale e perciò voleva mettersi in contatto al più presto con qualcuno che sapesse che cosa rispondere a domande bizzarre.

Durante il ritorno dovette rassicurare Nereus almeno una dozzina di volte sul fatto che si sentisse bene, che non avesse la vista offuscata, giramenti di testa o altri malesseri di sorta. L’accompagnò fino all’ingresso della Casa Grande, perché i Padri avevano i loro alloggi privati nella dependance e gli era di strada, e gli raccomandò ancora una volta di comunicare subito qualsiasi problema al medico ignorando le conseguenze che avrebbero potuto derivarne per lui. Tuttavia Nereus era tornato a essere cupo e Ferid notò che non voleva guardarlo negli occhi.

«Padre… sto bene. Non devi angosciarti, è tutto a posto.»

«Poteva… accadere qualcosa di male… sono stato imprudente e non ho fatto altro che dirti che ti potevi fidare di me…»

Ferid sospirò e gli prese la mano con cui stringeva la croce.

«Se è stata una complicazione medica, sarebbe accaduta allo stesso modo anche quando fossi arrivato al terzo livello e avessi provato la purificazione la prima volta» gli fece notare pazientemente. «Se invece è stato qualcos’altro… era inevitabile, giusto? Era così che lui voleva che andasse. E non correvo davvero alcun rischio, perché tu eri con me… eri attento, e vigile. Non sarebbe successo nulla di terribile in qualsiasi caso.»

Nereus riuscì a sforzarsi di sorridere.

«Grazie… sei una persona troppo gentile per essere un satanista. Devi avermi mentito al riguardo.»

«E perché pensi che lo farei?»

«Per l’effetto che fai a me, lo diresti per sembrare più splendido quando ti comporti in modo gentile.»

Ferid trattenne a malapena una risata, ma non fece in tempo a rispondere prima che il campanile rintoccasse. Nereus gli lasciò la mano e fece un passo indietro, come se il campanile avesse lanciato loro un’occhiata in tralice, come un genitore severo che spia una coppia dalla finestra.

«Ti ho fatto fare tardi, dovrai di nuovo lavarti prima di dormire… se ti senti stanco ti autorizzo a saltare la messa della mattina, ma vieni lo stesso a lezione.»

«Sarò anche alla messa, Padre» gli garantì Ferid. «Buonanotte.»

«Buonanotte.»

Ferid si sbrigò a scendere nel seminterrato prima che qualcuno potesse vederlo fuori dal letto, ma si rilassò appena superata la porta e richiusa quasi senza rumore. Decise di darsi una ripulita veloce prima di tornare alla celletta e lì forse Mika l’aspettava sveglio per una cronaca dell’accaduto.

Procedette a tentoni nel corridoio buio e sorrise. Non era esattamente il resoconto sexy che lui avrebbe voluto sentire, ma di certo aveva qualcosa da raccontare.

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Capitolo 14
*** Il ponte verso il mondo superiore ***


Percorrere la familiare Ashland Street non dava a Crowley una buona sensazione quel giorno, perché per lui quella strada del West End era qualcosa di prezioso finché sapeva che ci abitava un uomo che amava. Purtroppo quell'uomo non era più lì, di nuovo.

Ismael, al volante della sua Jeep, o non si accorgeva della cupezza del suo umore o fingeva di non farci caso per non fare domande e dargli modo di sfogarsi. Tamburellò le dita sul volante e rallentò, osservando le case su quel lato della carreggiata.

«Hai detto che era il numero…»

Crowley ci mise qualche secondo a riscuotersi dai suoi malumori e a capire che cosa Ismael gli stesse chiedendo, ma prima che potesse aprire bocca per ripetere il civico aveva già la risposta.

«Ah, eccola!»

«Come fai a sapere che è… no, ritiro la domanda.»

Infatti quando Ismael accostò di fronte al cancellino anche Crowley capì come l’aveva riconosciuta: sul frontone della veranda spiccava un pentacolo di rami d’albero legati insieme, c’era una manciata di pannocchie a testa in giù accanto alla porta e quella che sembrava una bambolina legata al battente. Uno sgradevole brivido percorse la schiena di Crowley mentre Ismael apriva lo sportello.

«Io… è meglio se aspetto qui.»

«Oh, non essere ridicolo, Ginger» lo rimproverò lui, scendendo. «Ti rendi conto che letteralmente tutti quelli che hai fatto entrare in casa tua nell’ultimo anno credono in qualcosa che non è il tuo Dio?»

«Non è la stessa cosa» protestò il tenente, stizzito, e lanciò un’occhiata alla porta. «Questa è… lei è una strega

«Vai a letto col demonio da quando avevi ventitré anni, pensi che parlare a una strega farà qualche differenza quando ci sarà da scegliere tra il paradiso e l’inferno?»

«Le tue argomentazioni non mi aiutano!»

«Non voglio farti sentire meglio. Sto cercando di dirti di cosa dovresti preoccuparti davvero.»

Crowley guardò ancora la casa. Una finestra sul davanti era stata aperta e si vedevano degli oggetti luccicanti penzolare nel rettangolo visibile della stanza.

«Scendi, Ginger, o farai la figura dell’idiota davanti a me» fece Ismael, seccato. «Se la cosa significa qualcosa per te.»

Sbatté lo sportello e si avviò al cancellino. Crowley lo guardò controllare le colonnine, ma non vi trovò un campanello e si avventurò dentro il giardino ingombro di piante. Pur con mille pensieri in testa e qualche tormento nel cuore, si decise a scendere e lo raggiunse quando stava per salire i gradini della veranda.

«Alleluja, Ginger. Hai visto? Non sei stato ancora fulminato.»

«So che non mi capisci, ma avrei preferito che accettassi i miei stati d’animo.»

«C’è differenza tra capriccio e stato d’animo. È perché è la donna della vita di Pepper che non vuoi incontrarla?»

Crowley restò in silenzio, ma qualcosa nella sua espressione doveva averlo tradito, perché mentre bussava Ismael sospirò con aria grave.

«Quanto sei prevedibile.»

Crowley persistette nel suo silenzio, fissando gli occhi sulla bambola appesa al battente. Era una figurina fatta di paglia e foglie di mais secche, ed era sicuro di averne vista una simile in casa di suo cugino Nathaniel e di Florence. Una tradizione contadina a quanto ne sapeva, ma vederla alla porta di una strega iniziava a farlo sentire inquieto.

La porta si aprì e sull’uscio comparve la bassa figura di Krul Tepes, ma Crowley la riconobbe a malapena: non era fisicamente molto diversa, ma l’aveva sempre vista all’apice della ferocia e con quell’espressione tranquilla gli sembrava di stare guardando la gemella buona. Aveva anche smesso i vestiti da gothic lolita e quel giorno indossava un abito senza maniche con la gonna lunga, di colore verde prato, un grembiule da cucina in un tessuto grezzo simile al lino e molte collane fatte di conchiglie, ciondoli di legno dipinti e lacci di alcantara.

«Buongiorno, signora Bosley, noi…»

«Vi aspettavo» disse lei, interrompendo l’esordio di Ismael. «Entrate. Lasciate le scarpe sotto la panca.»

Lei scomparve dentro la prima stanza a sinistra, ma Crowley guardava Ismael con più perplessità di quanta gliene mostrò lui guardandolo di rimando.

«Bosley?» sillabò sottovoce.

«È sposata con quell’amico di Pepper, Liam Bosley… non te l’ha detto?»

Ovviamente non glielo aveva detto, come non gli aveva detto di essersi tenuto in contatto con loro. Per la prima volta sentì le viscere bruciare davvero. Non era per la loro recente relazione sessuale, ma per il fatto che Ferid sembrasse confidarsi più con quell’amante occasionale che con l’uomo che diceva di amare.

Ismael entrò per primo in casa e sfilò le sue eleganti scarpe lasciandole sotto la panca di legno – dove c’erano anche le piccole scarpe di tela di Krul e un paio di scarpe da jogging da uomo – e Crowley cominciò ad assimilare la novità.

Krul era sposata con un uomo, uno che non era ovviamente Ferid, quindi qualsiasi cosa ci fosse stata era una storia conclusa… ma poi un’immagine fugace di Horn Skuld balenò dietro le sue palpebre e contribuì a espandere il bruciore in tutto il torace.

«Che posticino interessante!»

Ripose le scarpe e sollevò la testa per capire di che cosa Ismael stesse parlando. La prima cosa che vide lì vicino era un tavolino addossato a una parete, che ospitava una scatola di legno intagliato, una statua raffigurante una donna con una grande falce di luna sopra la testa, una ciotola di madreperla e una coppa d’argento, immerse in una sovrabbondanza di pannocchie di mais, spighe d’orzo e alcune stelle decorative ricavate intrecciando gli steli rigidi del mais. Al centro c’era un girasole che andava appassendo.

«Così questo è quello che chiamano altare! È la prima volta che ne vedo uno da vicino!»

Krul ricomparve sulla porta, sorridendo. Crowley trovava innaturale quella sua espressione.

«È decorato per la festa dell’estate, il Lughnasadh… è passato da pochi giorni. È il tempo in cui il raccolto prospera, appena prima di essere maturo e qualcosa è già sulle tavole, secondo il capriccio della natura… è usanza decorare gli altari con tutto ciò che simboleggia la ricchezza che viene dalla terra.»

«È proprio interessante! Sarebbe maleducato se io…?»

«Fallo.»

Ismael prese il cellulare per fotografarlo, come se si trovasse in un museo, e Krul lanciò uno sguardo intenso a Crowley. Non sarebbe riuscito a evitarlo neanche volendolo, si sentiva attratto in modo magnetico.

«Ferid conosce bene mio marito, ma io e te sappiamo a malapena dell’esistenza uno dell’altra» gli disse, mentre giocherellava con una delle sue collane. «L’ho trattato in modo orribile, eppure per lui sono ancora una persona cara… non lo trovi giusto, vero? Per questo hai preferito evitarmi per tutto questo tempo?»

Non si aspettava che Krul volesse un confronto così diretto con lui e se solo l’avesse immaginato non sarebbe sceso da quella macchina. Confidava che si sarebbero ignorati reciprocamente e che Ismael sarebbe stato l’unico a parlarle.

«Non… non è così importante che noi due ci conosciamo.»

«Siamo parte della famiglia di Ferid, tutti e due. Che ti piaccia o no, la realtà è che lui non rinuncerà a nessuno di noi… e se lo costringerai a tenerci in due aree separate della sua vita non farai che ferirlo.»

L’argomento affondò come un arpione dentro di lui e non seppe che cosa replicare, perché si rese conto che lei aveva ragione: per Ferid lei sarebbe sempre stata importante e il fatto che si fosse sposata con un suo caro amico non faceva che rafforzare il loro legame.

D’altronde, come si sarebbe sentito lui se Ferid avesse deciso di non rivolgere la parola ai suoi nonni, o ai suoi cugini? Ne sarebbe stato addolorato.

«Venite in cucina» li invitò Krul. «Sedetevi. Siete i benvenuti.»

«C’è un buon odore~»

Ismael la seguì in cucina e Crowley si accodò mentre si guardava intorno. A quanto ne sapeva lui di magia, quella casa urlava stregoneria da ogni angolo: dall’altare decorato alla scopa appoggiata a rovescio dietro la porta, dalle candele su ogni scaffale ai mazzi di erbe appesi davanti a una porta in fondo, sotto il palco delle scale. Anche arrivati in cucina si respirava lo stesso odore, con altre erbe appese, mais, nastrini legati in punti sospetti e un gioco di vento fatto con pezzi di vetro appeso alla finestra che dava sulla strada.

«Ho della birra artigianale che ho fatto per il Sabba… a meno che non siate in servizio.»

«Non lo sono» replicò Crowley, dato che guardava lui. «Ma non bevo più, ormai.»

«Allora della ginger beer. È analcolica, la facciamo per chi non può bere alcol o per i bambini.»

«Ginger beer, perfetto, no?»

Crowley scoccò un’occhiataccia a Ismael mentre si sedeva al tavolo e prese posto accanto a lui, guardingo. La padrona di casa prese una bottiglia dal frigorifero e versò loro un liquido giallo chiaro e torbido in due boccali di vetro. Faceva la schiuma come una birra.

«Per “facciamo”, intendi… quelli come te?»

Ismael gli lanciò un’occhiataccia come mai ne aveva ricevuta prima, ma Krul restò tranquilla mentre portava loro i bicchieri.

«Intendi le streghe? In questo caso parlavo di streghe, ma una bevanda può essere fatta in casa da chiunque. Anche da te… anche dai frati. Mi risulta che la birra originale l’abbiano inventata loro.»

«Infatti, ma Ginger pensa ancora che le streghe mangino i bambini» replicò Ismael, con evidente intento di mettere a tacere le sue domande.

«Non sono così sorpresa. È un Eusford, dopotutto.»

Anche lei sapeva che gli Eusford discendevano da un valoroso condottiero crociato, e si aspettava da lui l’atteggiamento ottuso di un cattolico medievale. Non si vergognava che i suoi antenati fossero stati devoti a sufficienza da versare sangue in Terra Santa, ma si sentì in imbarazzo per i termini che aveva scelto: gretti, impastati di stereotipi, come odiava essere.

«Tu, piuttosto…»

Krul tornò al tavolo con due pagnottelle di pane fatto in casa e tre tortini a forma di fiore che mandavano un odore di vaniglia e miele terribilmente seducente. Si arrampicò sullo sgabello davanti a loro e i suoi occhi studiarono Ismael, che stava già godendosi la ginger beer.

«Tu chi sei? So che sei una figura potente che sta vicino a Ferid, ma non ti conosco.»

«Oh! Sì, è vero. Sono Ismael» si presentò lui, asciugandosi sopra il labbro superiore con la mano. «Tu ovviamente sei Krul Bosley. So tutto di te, o quasi. Ferid adora parlare di te, per fermarlo devo dargli da mangiare.»

Krul rise con allegria e tagliò il suo tortino in quattro parti prima di prenderne una.

«Ismael… mi ha detto qualcosa di te quando è stato a cena qui. Dice che gli devi un vino costoso e un grosso favore.»

«Ah, no, ora il favore l’ho restituito… ma il vino credevo fosse offerto. Che spilorcio.»

Krul spostò lo sguardo su Crowley e spinse appena il piatto verso di lui.

«Mangia. Mangia e bevi. Ti sentirai meglio.»

«Io sto benissimo.»

«No, non è vero… il senso di colpa sta divorandoti un pezzo per volta.»

Crowley distolse gli occhi dal boccale di birra torbida e incontrò i suoi ancora una volta.

Come fa a saperlo? Gliel’ha detto… Ferid?

«Non ho bisogno che qualcuno me lo dica, so che cosa affligge le persone… specie quando è così grande da vedersi subito. Ai miei occhi è come se avessi un lupo che ti sbrana dalla schiena» insistette lei. «Mangia e bevi, dammi retta.»

«Hai messo qualche magia dentro il pane?»

«Certamente» rispose Krul, ignorando il suo sarcasmo. «Come in tutto quello che faccio. Questa è casa mia, siete nel mio tempio e qui tutto contiene la mia magia… non lascerai questa casa con lo stesso dolore che ci hai portato dentro, Crowley Eusford. Ora mangia, mentre il tuo amico mi dice quello che siete venuti a dirmi.»

Parlare con quella donna era una delle esperienze più inquietanti che ricordasse, perché non gli era mai parsa più strega di ora: era come se gli leggesse dentro la testa, come se avesse saputo che Ferid aveva qualcosa da dirle e che sarebbe andato anche lui a casa sua.

Prese la pagnotta di pane e la spezzò in due. Dentro era lievitato come il pane impastato e cotto sapientemente, era ancora tiepido e il suo profumo lo riportò ai suoi anni infantili a Eanverness: a quei tempi sua nonna faceva spesso il pane in casa, e per loro che erano bambini faceva piccole pagnotte che il pomeriggio tagliava a metà e farciva con la crema di cioccolato, la marmellata fatta da lei, o la crema di latte con la frutta fresca. Erano ricordi piacevoli legati al cibo e lo convinsero a prendere un boccone.

Masticò lentamente, quasi svogliato, mentre Ismael raccontava a Krul del messaggio lasciato da Ferid sulla casella sicura in cui raccontava una strana esperienza. Aveva appena iniziato a spiegarle della comunità e dell’uomo che la guidava, Nereus, che Crowley si trovò a staccare il terzo boccone di pane, famelico come se non mangiasse da giorni.

C’è qualcosa per davvero… non so che cosa sia, non è qualcosa che posso capire, ma… non è soltanto il pane fresco e il calore della cottura. Qualcosa nel modo in cui va giù è… magico.

Non riusciva a spiegarsi quella sensazione di conforto che provava mentre mangiava e beveva, ma era uguale a quella che aveva provando quando, dopo la partenza improvvisa di Ferid, era arrivato a Eanverness e si era seduto a mangiare i suoi piatti preferiti con una famiglia che non vedeva da tanto tempo. Provava lo stesso conforto, lo stesso sollievo… lo stesso amore. E dal cibo di una donna che conosceva a malapena non se lo aspettava.

«Sì, deve essere il re alleato» stava dicendo Krul, giocherellando con una collana. «Una cosa che ho visto nelle conchiglie e di cui gli avevo parlato prima che partisse… serviti ancora, Crowley Eusford.»

Con un cenno indicò il banco della cucina, dove altre pagnotte erano allineate su un panno verde.

«Ah… no, grazie, io…»

«Non è per cortesia. Ne hai ancora bisogno» insistette lei con l’aria di un medico. «Mangia finché non sarai sazio, non importa se servirà tutto il pane che ho preparato.»

Esitò, ma la sensazione dentro il suo addome scelse al posto suo e lo convinse ad abbandonare lo sgabello e avvicinarsi ai panini tiepidi. Si accorse che Ismael lo guardava con lo spettro della preoccupazione negli occhi, ma gli avrebbe spiegato più tardi quell’istintiva sensazione: si sentiva come un animale che, ascoltando la sapienza di molti anelli di catena evolutiva, sapeva cosa mangiare per curare un malessere.

«Ginger è una buona forchetta, potrebbe mangiare tutto!» commentò Ismael, in un sussurro così enfatizzato da non poter non essere sentito.

«Va bene così. L’ho preparato per le persone che sarebbero arrivate oggi… per voi due. Mangiate finché ne sentite il bisogno, bevete a volontà. Può solo farvi bene.»

Ismael prese un boccone del pane e fece una strana espressione mentre guardava la mollica, e quello fece credere a Crowley che anche lui avesse sentito qualcosa di simile. Doveva essere più resistente di lui alla magia o aver meno bisogno dell’incantesimo di Krul, però, perché non fu preso dalla smania di mangiare e poté continuare a parlare della questione importante.

«È delizioso… devi darmi la ricetta.»

«Te la invio, l’ho presa su Biancofarina. Ma dicevi qualcosa di interessante sul fiume.»

«Ah, sì. Stavo dicendo, mentre Pepper era con Nereus al fiume…»

«Pepper?» ripeté lei, divertita. «Si fa chiamare così dai suoi amici?»

«Beh, da me non ha mai fatto storie.»

«È carino. Lo chiamerò così anch’io» sentenziò la strega, e balzò giù dallo sgabello per avvicinarsi a un bollitore smaltato sul fornello. «Scusa l’interruzione. Che cosa è successo?»

Crowley la guardò versarsi un liquido rosso in una tazzina decorata a pipistrelli stilizzati – un residuo della donna che era stata – e pochi istanti dopo l’odore di quell’infuso gli arrivò alle narici: pesca e melograno, il preferito di Ferid…

Ha cominciato a berlo su suggerimento di Ferid o lui lo beveva perché gli ricordava lei?

Rimase lì in piedi, alienato dal resoconto di Ismael, a osservare i suoi dubbi, le paranoie, le fitte di gelosia, il disagio delle incomprensioni, gli strascichi dei litigi, rabbia, paure e ansia sollevarsi dalle acque della sua mente per dissolversi senza dolore mentre masticava.

Gli parve improvvisamente tutto così sciocco: aveva lasciato che foglie e rametti accumulati sulla superficie lo ingannassero, facendogli scambiare una meravigliosa piscina blu per una melmosa palude insidiosa. Aveva lasciato che lo stress di circostanze avverse e dubbi su se stesso offuscassero la purezza del sentimento che lo legava a Ferid.

L’amore è una quiete accesa…

Guardò il piccolo pezzo di pane che gli era rimasto in mano e si sorprese di rendersi conto che stava sorridendo. Si ficcò in bocca l’ultimo morso e tornò allo sgabello per bere un po’ di quella deliziosa ginger beer. Krul stava bevendo dalla tazza di infuso e aveva un’aria molto seria.

«Tu… so in che condizioni sei» esordì Krul. «Tu, Ismael, cosa sai di esoterismo?»

Lui sbatté gli occhi qualche volta di seguito e scrollò le spalle.

«Pressappoco quello che posso aver sentito di vero dai film, direi… sono un ex cristiano e un convinto Shivaista, quindi…»

Crowley lo guardò aggrottando le sopracciglia e sentendosi osservato anche lui lo guardò, solo per scrollare di nuovo le spalle.

«Questa è la prima volta che la sento… che ne sai tu di dei indiani?»

«Un dio che dice “dove c’è un membro eretto, là sono io” merita la mia attenzione se non addirittura la mia stima.»

Crowley scosse la testa, ma rimandò ogni genere di polemica. Krul sospirò e posò la tazza.

«In tutte le culture antiche c’è traccia del potere mistico dell’acqua… diversi popoli amerindi, asiatici ed europei veneravano divinità di fiumi, laghi, mari e delle piogge. In popoli anche molto distanti antropologicamente riscontriamo una profonda connessione tra l’acqua, la veggenza e i miracoli della divinità…»

Crowley non aveva mai sentito Krul spiegare qualcosa in modo pragmatico, ma era molto affascinante. Come Ferid, si spiegava trasmettendo il suo interesse per ciò che sapeva e la volontà di regalarlo a qualcun altro, in un modo tale che la cadenza della voce sembrava voler cullare le parole dentro la memoria di chi li ascoltava.

«In Mesopotamia i sacerdoti delle divinità compivano rituali immersi in acqua e ciò è stato tramandato culturalmente all’ebraismo, con il battesimo praticato con l’acqua del fiume. Dal punto di vista esoterico posso dirvi che è provato da molte correnti diverse che l’acqua ha una frequenza simile a quella degli spiriti. In luoghi dove scorrono canali e fiumi è più complesso per i medium distinguere le vibrazioni, come se voci simili si sovrapponessero.»

Benché non avesse fatto alcun riferimento a Shiva o a un membro eretto Ismael l’ascoltava con una concentrazione rara per un uomo che amava fingersi annoiato da tutto ciò che non fosse satira o sesso.

«Ferid… l’ho assunto per un motivo preciso, quando è venuto in negozio.»

«Vale a dire?»

«Emetteva un fluido meraviglioso.»

Forse Krul pensava che fosse una scelta di parole chiara e cristallina, ma Crowley non aveva la più pallida idea di che cosa avesse inteso dire e Ismael, a giudicare dal sorrisetto, aveva avuto quella peggiore.

«Un… fluido. È un termine che usiamo noi dell’ambiente, è… diciamo che intorno alle persone si capta qualcosa, se hai l’attitudine a farlo… qualcosa che ha un colore e una forma. Che si muove, qualcosa tra il fumoso e il liquido… lo chiamiamo fluido» si spiegò lei, un po’ più impacciata. «Anche chi non lo vede può avvertirne la natura… siete mai stati vicino a una persona che sembra ribollire come una bibita gassata?»

Ismael si grattò la testa, Crowley lo guardò con la sensazione che lui rispondesse esattamente al requisito. Krul annuì.

«Sì, esatto. Lui ha quel tipo di fluido, che si muove incessantemente in modo caotico.»

«Lo sapevo» commentò Crowley.

«Che… Ginger, adesso sei anche medium?»

«Lo conosco bene il tuo fluido, ormai» tagliò corto, e tornò a lei. «E quello di Ferid… com’è?»

«Luminoso» rispose lei, lasciandolo un po’ sorpreso. «Ed è… sinuoso, lo spiegherei così… ha un movimento costante, regolare… ordinato… e soprattutto, quello che mi sorprese molto allora, è che è enorme.»

Crowley intravvide un angolo della bocca di Ismael sollevarsi e accavallò le gambe tirandogli un calcio nello stinco di proposito. Lei non si accorse di niente o finse di non averlo notato.

«Dovete sapere che i miei poteri di questo tipo si sono amplificati moltissimo dopo che ho rischiato la morte con quella coltellata… ma prima, cose come il fluido e l’aura erano qualcosa di cui leggevo e basta. Ma quando lui entrò nel negozio la prima volta fu come se la porta l’avesse spalancata un temporale, l’avvertii chiaramente… e fu impressionante, per me che non l’avevo mai sperimentato.»

Crowley ricordava di aver provato una sensazione particolare incontrandolo in libreria, ma non riuscì a convincersi che fosse qualcosa di diverso dal naturale interesse per un uomo bizzarro nello stile e splendido nella forma.

«Sapevo che aveva un dono… non capivo quale, ma l’aveva, e dopo un po’ che era mio cliente gli chiesi se era interessato a lavorare per me. Mi aveva detto di aver lasciato il lavoro per un dissidio con i titolari e… mi venne d’istinto chiederglielo e lui accettò subito, quando gli dissi che avrebbe dovuto occuparsi del reparto libreria.»

«Sì, me lo immagino com’era contento» fece Crowley con un accenno di sorriso. «E alla fine l’hai capito che cosa avesse?»

«Mi ero fatta un’idea… ma adesso che mi avete raccontato questo credo di averne una molto più precisa.»

«Ah, sì? E cosa?» saltò su Ismael. «Qualcosa di figo?»

«Aspettate un momento qui. Devo avere qualcosa di sopra su questo argomento.»

Krul saltò ancora una volta giù dallo sgabello e sparì a passi svelti verso le scale. Crowley bevve l’ultimo sorso di ginger beer e si chiese se la padrona di casa si sarebbe offesa se avesse riempito il boccale senza chiederglielo.

«Che cosa pensi che sia Pepper esattamente?»

Crowley guardò Ismael, confuso.

«A quanto ne so io è l’uomo che amo. Per il resto potrebbe essere un vampiro, un gargoyle o il Mothman, non me ne importerebbe niente.»

«Ah, che amore incondizionato… e se, ipoteticamente, fosse qualcosa di terribilmente concreto e anticristiano?»

«Tipo che cosa, il figlio di Lucifero?» ribatté Crowley, sarcastico. «Sua madre era abbastanza crudele da essere Lucifero, in effetti, ma lui è una persona fantastica. Nessuna strampalata teoria cambierà questo ai miei occhi.»

«È questo il punto… e se non fosse affatto una persona?»

Quell’uscita fu sparata con un’espressione così seria che Crowley, preso in contropiede, non seppe che cosa dire. In realtà faticò anche a elaborare un senso: come poteva avere l’aspetto di una persona, mangiare, bere, dormire, ridere, fare sesso, restare ferito e provare emozioni senza essere una persona?

Il tenente sobbalzò vistosamente quando sentì qualcosa sulla sua gamba, poi incrociò un paio di occhi sonnolenti e delle macchie bianche, rosse e nere che conosceva. Rise e passò la mano sulla testa pelosa di Pandora, scatenando immediatamente le sue fusa.

«Ciao, Pandora… ti ricordi ancora di me?»

«Oh, la micia!» esclamò Ismael, abbandonando la tortina al miele immediatamente. «Vieni qui, bellezza!»

Pandora si lasciò prelevare da Ismael – per il quale aveva già dimostrato due anni prima di provare solo un immenso quanto inspiegabile affetto – e attaccò fusa ancora più rumorose mentre lui le grattava le orecchie e l’accarezzava ovunque, dai baffi alla coda fino alle zampe tastandole i cuscinetti come bottoni di un cicalino antistress. Solo il ritorno di Krul convinse la gatta a sottrarsi a Ismael per andarle incontro miagolando, ma la strega del Magick non portava con sé soltanto un libro.

Ma che diavolo…

«Metti giù quel bicchiere, zio Crowley» esordì lei avvicinandosi con un fagottino che emetteva dei sottili vagiti. «Visto che sei qui e lei è sveglia, è ora delle presentazioni… Naisha, questo è lo zio Crowley, sai, sta con lo zio Ferid che ti piace tanto. Ti piacerà anche lui… zio, questa è Naisha.»

Gliela mise tra le braccia quasi a forza, ma per fortuna l’esperienza fatta in tempi recenti con il piccolo Cameron gli aveva insegnato come tenere in braccio un neonato senza sembrare uno con in mano un vassoio di flute di champagne in equilibrio precario.

Dentro un lenzuolino color pesca c’era una bimba piccolissima con addosso solo un pannolino e un body rosa; aveva pochi capelli color nocciola e un paio di occhi grandi e blu che andavano scurendosi: Crowley pensò che, come era successo a suo nipote, sarebbero diventati presto castani. Si perse così tanto nella sua vocetta, nel vigore con cui sgambettava e nel modo in cui si strofinava gli occhi e le guance tonde con le manine che non badò affatto al libro che Krul aveva portato.

«Tu… tu sei proprio una bellezza

Lasciò scorrere l’indice sulla sua testa e sul nasino finché la sua manina non glielo afferrò con una forza sorprendente. Non lo sfiorava più il pensiero che era la bimba di una donna che conosceva appena: era come uno dei suoi nipoti, una seconda Desirée.

Distolse a fatica lo sguardo da lei per sorridere alla madre.

«È meravigliosa, Krul.»

«Me l’aveva detto che avresti reagito così… che ti illumini quando vedi una bambina. Aveva ragione.»

«Sì, sei tutto una luce, Ginger. Mi imbarazza guardarti.»

Ismael sembrava confuso, disgustato, diffidente e preoccupato; tutto fuorché imbarazzato si poteva dire. Crowley gli avvicinò Naisha e questi si ritrasse così bruscamente che quasi scivolò giù dallo sgabello. Mikaela sarebbe stato meno fulmineo davanti a uno dei rospi che gli mettevano tanto terrore addosso.

«Oh, su! Guardala, non è splendida?»

«Chiedimelo fra una ventina d’anni.»

«Non essere burbero, Ismael… tu sei uno che bacia al primo appuntamento, salutala come si deve!»

«Se è una tattica da poliziotto per accusarmi di pedofilia non ci cadrò, tenente O’Brian Eusford! Ora rinfodera quella neonata o ti denuncio per abuso di potere!»

Crowley scoppiò a ridere e diede al suo amico un po’ di pace, lasciando Naisha ad appoggiarsi sulla sua spalla. Ismael, ricomposta la sua posizione dignitosa sullo sgabello, riportò la conversazione a qualcosa di importante accennando al libro.

«Che hai lì? A Ginger interessa strafarsi di borotalco per bambini, ma io sono rimasto appeso sulla risposta.»

Crowley scosse la testa per la sua frecciatina, ma si sporse un po’ per vedere la copertina del libro mentre lei lo spingeva verso di loro.

«Quello che io penso è che Ferid sia quello che la comunità esoterica definirebbe uno sciamano.»

«Prego?» replicarono all’unisono i due uomini.

«Uno sciamano. Un uomo che è un tramite tra l’umano e il divino… tra questo mondo e quello degli spiriti, quello degli dei, o dei morti… uno che è capace di abbandonare il proprio corpo per raggiungere il mondo superiore e ottenere risposte che altrimenti non avrebbe. Poteri che non avrebbe.»

«Io… no, okay, sei seria?»

«Certo che lo sono! Ti sembra sensato che io scherzi su queste cose?»

Crowley aggrottò le sopracciglia, ragionò qualche secondo in silenzio e poi prese un profondo respiro.

«Tu mi stai dicendo che pensi che Ferid sia uno di quelli… tipo i nativi, uno di quelli?»

«Tra i molti esempi di sciamano esistenti al mondo, sì, immagino che quelli nativi siano i più iconici» confermò lei serena, senza la minima agitazione. «Credo che quello che Ferid ha fatto ieri sia esattamente un’esperienza di questo tipo… ha raggiunto uno stato di alterazione psichica che gli ha permesso di attingere al fluido di cui dispone per natura, e tornare in piena coscienza al suo subconscio. Lo farà di nuovo, se le condizioni saranno soddisfatte.»

«Altro che alterazione psichica! Ferid non si svegliava!»

«Non poteva svegliarsi. Era in trance. Forse addirittura separato dal corpo per collegarsi al Tutto… il flusso cosmico che collega tutte le vite e tutti i tempi. Non poteva sentire nulla di ciò che stava succedendo al suo corpo fisico.»

Crowley sbatté gli occhi più volte, ma per ragioni che non afferrava Krul non si metteva a ridere e Ismael non trovava necessario dire che tutto ciò era ben oltre l’assurdo. Si mordicchiò il labbro e tentò di riordinare, se non i pensieri, almeno le sue emozioni.

«Io spero ti renda conto che per una persona normale sentirsi dire che il proprio fidanzato era diventato un corpo senza l’anima è sconvolgente. E che visto che sono cristiano tutto questo mi lascia… scettico, come minimo.»

«Sì, questo lo capisco» ammise Krul, accondiscendente. «Ma nel tuo caso non è qualcosa di cui aver paura. Ricorderai che Ferid ha rischiato la morte, dato che lo hai salvato tu dal veleno… le esperienze di premorte acuiscono tantissimo i poteri spirituali di una persona, e lui era già un uomo con un dono spaventosamente grande… credo che da adesso in avanti dovrai aspettarti che capitino più spesso cose strane che lo coinvolgono, Crowley.»

«Cosa strane di che genere?»

«Tipo diavoli che ballano intorno al letto quando fate sesso, Ginger~»

«Tu… non è il momento delle buffonate, okay?»

Krul si fece pensierosa mentre girava la tazza sul piattino spingendola dal manico.

«Non so dirti come possa cambiare… ma uno sciamano non è più una persona ordinaria una volta che è chiamato, non può rifiutare il suo destino… il suo potere non svanisce. Resterà sempre con lui, dentro di lui… e sarà sempre legato al mondo superiore.»

«Che cos’è? Cosa intende la gente come te per mondo superiore? Fammi capire qualcosa, per favore!»

Krul lo guardò negli occhi, restando in silenzio. Prese un profondo respiro.

«Per i nativi è il Grande Spirito… per una strega come me, uno sciamano comunicherebbe con la Grande Madre, la Terra e tutto ciò che le sta nel ventre… per lui… lui è un cattolico, quindi immagino che quando comprenderà che il suo è un dono e non uno strano sintomo… sarà convinto di essere in contatto con il vostro Dio.»

«E non lo sarà?»

Naisha lanciò un lamento acuto e Crowley la dondolò un po’ per calmarla. Krul lo guardava come se si fosse trovata davanti un cane che faceva bizzarri giochi da circo.

«Una curiosa domanda, Crowley… tu credi che lassù ci sia il tuo Dio assoluto, no? Che osserva tutti e tutto, che stabilisce le prove delle vostre vite e ascolta preghiere… quindi perché stai chiedendo a me che cosa Ferid troverà nel mondo superiore? Dovresti essere sicuro di quello che ci troverà.»

L’argomentazione diede uno scossone deciso alle fondamenta di Crowley, perché si rendeva conto che doveva essere quello il suo primo pensiero: se Ferid poteva parlare con qualcosa di ultraterreno, quello era Dio o almeno uno dei suoi angeli. Eppure non era affatto sicuro.

«È vero che intorno a Ferid succedono fatti incredibili… e io… sono cattolico, ma non ho mai fatto una vera esperienza di Dio. Ho avuto la sensazione che mi ascoltasse, ma non l’ho mai sentito, né visto, neanche in un sogno. Dio era inconoscibile e invisibile per me, finché Ferid non è arrivato nella mia vita.»

Crowley era a disagio come nudo a parlare di qualcosa di così intimo con una strega e Ismael.

«Mi ha salvato con quel medaglione… ha salvato la bambina nel bosco… e quando io ho salvato lui ho cominciato a vedere un disegno in tutto questo, e… per la prima volta ho capito che nei piani di Dio non ero del tutto marginale… che si ricordava di me.»

Ismael inclinò appena la testa mentre lo guardava, ma non accennò a commentare.

«Quando lui è entrato nella mia vita ho iniziato a vedere Dio ovunque… anche in luoghi e forme in cui la mia religione non mi ha insegnato a trovarlo. Quindi… non sono più certo di sapere esattamente che cosa ci sia sopra e cosa sia sotto, e se sono cosciente di tutto quello che posso trovare nel mezzo.»

«È un buon modo di vedere le cose, Crowley… ti aiuterà, specie se Ferid ti costringerà senza volerlo a mettere in discussione tutto quello in cui hai creduto fino ad ora.»

Ismael alzò le mani a palmi aperti e strinse gli occhi.

«No. No, time out, non capisco.»

«Mh?»

«Parlate come se un pantheon di divinità antiche dovesse usare Pepper per irrompere nel mondo, sta diventando inquietante ascoltarvi!»

«Beh, è una visione drastica ma potrebbe non essere del tutto assurda» replicò Krul con la massima calma. «Se il mondo moderno ha preso un grosso granchio astrale e un pugno di antiche divinità babilonesi sono i regnanti del mondo superiore, potrebbero anche decidere di farlo.»

Lui aprì e chiuse la bocca senza emettere suono, troppo scioccato per parlare.

«Sarai contento, Ismael» commentò Crowley con una tranquillità che non sentiva. «Ci saranno finalmente peni eretti ovunque con il tuo Shiva.»

«Sbaglio o hai detto un momento fa che non è il momento delle buffonate?!»

Krul li interruppe con uno sbuffo sonoro.

«Quanto guaite per essere due uomini grandi e grossi! Ho per caso detto che Ferid sia l’Anticristo? Che sia il ponte definitivo che riporterà sulla terra i veri dei creatori del genere umano? Uomini e donne come lui nascono da millenni e non ci siamo mai estinti. Probabilmente, come succede per la magia, la scelta di come usare il suo dono dipende solo da lui.»

Ismael ponderò la questione, poi sorrise.

«Sì, questo mi piace di più.»

«Per quanto so di lui, Ferid è un guaritore più che un medium» fece poi Krul, pensierosa. «Tra noi due sono io quella che vede cose future, per lo più. Lui… sì, lui è stato in grado di guarire come nessuno che io abbia mai conosciuto nel mio ambiente ha mai potuto.»

Crowley appoggiò Naisha sull’altra spalla, dalla quale lei poteva puntare gli occhi su Ismael e renderlo decisamente nervoso, ma stava pensando a un’altra bambina che conosceva.

«Parli di Mary?»

«Mary? Chi è Mary?»

«Una bambina malata della nostra parrocchia… aveva una malattia degenerativa agli occhi e stava diventando cieca. La prima volta che ho portato Ferid a vedere la chiesa le ha segnato la fronte con l’acqua benedetta perché non arrivava all’acquasantiera» snocciolò, e a quel punto si toccò la fronte. «La malattia si è arrestata e poi è regredita, e ora Mary è sana. Nella mia comunità sono convinti che sia stato lui a farlo.»

«Probabilmente hanno ragione» affermò Krul, con un sinistro luccichio negli occhi. «Io so che è capace di qualcosa di straordinario perché ha guarito me. Qualcosa che neanche la mia magia è stata capace di fare.»

«Guarita da cosa?»

«La mia è una condizione genetica. Comporta una bassa statura e uno sviluppo non normale di organi nel corso della vita… c’è un limite a quanto forti possono diventare le mie ossa, i miei muscoli, o alla maturazione del mio utero, nello specifico. Non potevo avere bambini.»

Ismael fissò la neonata accigliato, ma non parlò.

«Mi ha detto di… quell’episodio» disse Crowley ermetico, per farle capire che sapeva di loro.

«Non credo che sia un caso che sia stato l’unico tra moltissimi uomini a mettermi incinta e dopo una volta soltanto.»

Ismael sgranò gli occhi e fissò Krul, poi fissò Crowley.

«Cosa? Chi? Chi ha messo incinta chi?»

Crowley decise che ignorarlo fosse la reazione più opportuna.

«Beh, a meno che tu non abbia delle brutte notizie per me, pare che ci sia riuscito anche il signor Bosley.»

Krul rise.

«Non ho notizie scioccanti, Naisha è figlia del signor Bosley oltre ogni dubbio… ma sono certa che sia stato Ferid a renderlo possibile.»

«E come avrebbe fatto?»

La piccola strega si mosse sullo sgabello, fece un sospiro profondo e un sorriso.

«Una volta che era da me in ospedale… parlavamo, niente di che, solo sciocchezze. Mi ha toccato la pancia» raccontò lei, e si toccò il ventre con una mano. «Mi ha dato una benedizione, sa che mi irritano le formule liturgiche cristiane e gli ho risposto male… lui mi ha nominato questa Mary, ma ero arrabbiata con lui e non l’ho lasciato parlare. Credo cercasse di raccontarmi di quella storia, ma aveva un tono… come quando fa lo stupido, quindi pensavo stesse inventando qualcosa di ridicolo.»

«Questo è un tantino tirato per i capelli» commentò Ismael.

«Sono tutte coincidenze… ma tutte insieme con Ferid al centro non cominciano a sembrare un disegno preciso?»

Ismael sembrava alle prese con il problema di Galois inverso, tanto era accigliato.

«Okay, quindi secondo voi due c’è una sorta di… geometria sacra con Pepper come punto centrale in cui si uniscono le linee?»

Krul ponderò il paragone, Crowley ci pensò su un momento. Lei scrollò le spalle, lui assunse un’espressione più convinta man mano che ci rifletteva.

«Sì, è un buon modo per riassumerlo.»

«Messa così concordo» fece il tenente.

Ismael li guardò come non credesse alle sue orecchie e sollevò le mani al cielo.

«Cioè, sono il solo qui a non bersi la storia della spada di Dio puntata dritta al cuore dei malvagi?»

Crowley sorrise: era tanto che non ripensava a Ferid in quei termini, ma ricordava come fosse successo ieri di aver chiesto a Dio la sua spada… e non si sarebbe mai aspettato di ricevere un’arma così bella. Ismael davanti al silenzio dei due presenti emise un borbottio indistinto.

«Dovete essere membri di un qualche ordine esoterico segreto che trama contro le insidie soprannaturali, voi e Pepper. Non può essere diversamente» brontolò lui masticando svogliato un pezzo di tortino. «La spada di Dio… siete invasati, lo sapete? Sciamani spade di Dio. Il Tomahawk di Dio, che cazzo.»

Sia Crowley che Krul scoppiarono a ridere.

«Sì, voi ridete, ma io che cosa dico a Pepper?!»

Il primo a riprendersi abbastanza da parlare fu Crowley, che non perse il sorriso.

«Credo che basterà dirgli che Krul gli fa sapere di confidare senza riserve nelle sue doti di taumaturgo… dopotutto l’hai detto anche tu, no? Cosa Ferid può fare più di un agente dell’MI6 è…»

«Fare miracoli» concluse Ismael, con l’aria di essersi pentito di quella scelta di parole.

Fece un sospiro molto teatrale, gettò la testa sull’avambraccio sul tavolo e sollevò il boccale.

«Posso avere quella birra? O anche qualcosa di più forte… ne ho bisogno.»

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Capitolo 15
*** Rivoluzione agricola ***


Mika lanciò un’occhiata ai campi grandi quando passò davanti alla finestra. Non aveva più visto Ferid da quando era uscito dalla camera quella mattina annunciando che “andava a combattere contro l’ostinazione della terra a non voler nutrire l’uomo” – frase che l’aveva fatto ridere a crepapelle. Non vide alcun riflesso argento sulle teste dei lavoratori del campo, impegnati a raccogliere qualcosa di maturo o a rivoltare la terra a mano con una vanga.

Col caldo che faceva, era molto felice di essere impegnato tra cucina e coro. Lasciò la finestra mentre un pensiero gli increspò le sopracciglia sottili.

Spero non si sia sentito male e sia in infermeria… un piccolo lord come lui si può anche far male sotto il sole con degli attrezzi in mano. Forse dovrei parlare a Nereus e dirgli che è un lettore accanito, che potrebbe essere utile per organizzare la biblioteca…

La porta dell’ufficio di Nereus era aperta e lo sentì parlare dal corridoio. Si avvicinò con cautela, ma non colse altre voci: doveva essere al telefono. Dalle sue rispose e dal tono stressato, qualcuno gli dava brutte notizie. Dopo un silenzio denso sospirò affranto.

«Sì, ho capito… ho capito. Verificherò che cosa posso ricavare e ti faccio sapere… ma noi non stiamo spendendo in frivolezze, padre Maim potrebbe essere un po’ più comprensivo…»

Non udì risposta, ma doveva essere stata tassativa.

«Sì, ho capito. Ti richiamo la prossima settimana.»

Rimise a posto la cornetta con più energia del necessario ed emise un ringhio a denti stretti.

«Il coro di Ashby non ha bisogno di tuniche nuove a ogni stagione concertistica, che diamine! Sono cinquanta membri, oltretutto, che spreco di risorse…»

Sospirò e la sua sedia cigolò.

«Signore, perdona la mia facile collera. Dovrei darmi da fare a risolvere il problema invece di fare i conti in tasca alla chiesa di padre Maim.»

Mika si stampò un sorriso in faccia mostrandosi sulla soglia e bussò sull’architrave, ma l’uomo lo aveva già visto. Si teneva un dito sulla tempia come se premesse sul foro da cui spillava il suo malcontento.

«Buongiorno, Mikael… ti prego, dimmi che non ti occorre un altro quaderno.»

«Stia tranquillo, Padre, mi basterà per molto tempo… mi chiedevo se avesse un momento per parlare.»

Nereus lanciò un’occhiata all’orologio da polso e si alzò dalla sedia.

«Devo prendere una cosa dal mio alloggio e parlare con Lebanah di certe spese, ma se è una questione breve possiamo scambiare due chiacchiere camminando.»

«Certo. È sempre molto impegnato ultimamente… va tutto bene?»

«Sì, certo. Ci sono delle questioni… revisioni, ecco» spiegò vago lui, rifuggendo lo sguardo. «In questo periodo dell’anno padre Maim richiede a tutte le comunità dell’Acqua di presentare un resoconto spese e introiti, è tutto qua… niente di cui vi dobbiate impensierire.»

Mente… qualcosa nei conti della comunità non torna. Forse lui o qualcun altro fa sparire del denaro? Potrebbe esserci sotto un crimine finanziario. Bisognerebbe dare un’occhiata a quei conti…

«Sorella Lebanah è quella che tiene i conti?»

«Io e lei, sì… insomma, lei si preoccupa di verificare che quello che compriamo abbia prezzi in linea con quello che possiamo spendere e segna ogni ricevuta, e io faccio una verifica periodica… quindi possiamo dire che è lei che lo fa, io non avrei tempo di insegnare né di essere pastore se dovessi fare i conti per una tenuta così grande da solo.»

«Nessuno aiuta Lebanah? Sembra tanto lavoro per una persona soltanto…»

«Si accorda con i singoli responsabili… per esempio, Maddalena fa la spesa e tiene l’inventario alimentare, Abel segna le spese per i novizi… credo si faccia dare delle liste parziali e poi faccia i suoi conti. Sa quello che fa, prima di arrivare qui teneva i conti di uno studio associato…»

L’ex fiamma di Ferid fa la ragioniera. Se non stesse con Crowley oserei dire che erano la coppia perfetta di nerd, un libraio e una ragioniera…

Tuttavia l’insidioso posizionamento di quella regina bloccava una strategia che sarebbe stata molto valida: piazzare Ferid, con la sua piccola esperienza di gestione del negozio, nell’ufficio contabilità. Sarebbe stata una mossa eccellente… se solo non fosse capitata lì, tra tutti i conventi e monasteri del mondo, proprio una donna che era stata a scuola con Ferid.

Stessa scuola… e purtroppo Ferid non è uno che passa inosservato, con un accento britannico che all’epoca doveva essere inconfondibile e dei capelli color argento. Bisognerebbe essere stati strafatti per tutto il tempo per non ricordare anche solo vagamente un compagno così particolare in una scuola cattolica.

Erano appena scesi nell’atrio quando il fracasso di un grosso motore turbò la quiete rurale di Bluefields. Ebbero appena il tempo di scambiarsi un’occhiata perplessa che un coro di esultanza si levò da qualche parte in direzione del campo grande. Senza parlare i due allungarono il passo giù per le scale e uscirono dall’uscita posteriore, la più vicina ai rumori.

Un trattore con imponenti ruote – di colore verde brillante intaccato da uno sprazzo di ruggine su un lato ma inequivocabilmente funzionante – marciava lungo il sentiero verso il gruppo di lavoratori assegnati al campo grande. Quando il frastuono del motore e la corsa del veicolo si arrestarono lo sportello fumé venne aperto e saltò giù dalla cabina di guida l’ultima persona al mondo che Mika si sarebbe aspettata di veder guidare un automezzo agricolo.

Ferid sorrise, appoggiò il gomito contro la gomma e si sfilò un paio di frusti guanti da lavoro. Nereus restò a bocca aperta e Mika non riuscì a non sorridere.

E dice a me di tenere un basso profilo!

«Allora… chi di voi sa usare questo bambino?»

Nel gruppetto un paio di ragazzi alzarono la mano timidamente, altri due levarono il braccio in aria con più convinzione.

«Io, ho fatto il bracciante in una fattoria in Kentucky.»

«Anch’io, i miei hanno una fattoria qui nel West Virginia, vicino Welch.»

«Nel capanno dietro l’infermeria è pieno zeppo di strani aggeggi per gente tosta come voi» disse loro Ferid, e diede una pacca alla gomma del trattore. «Mi intendo di motori, non di attrezzi. Andate a vedere se abbiamo qualcosa che assomigli a un aratro che si possa usare?»

La notizia entusiasmò parecchi dei presenti e i due con più esperienza salirono sul trattore per tornare al capanno. Altri cinque o sei si misero in marcia sul sentiero principale nella loro scia, eccitati dalla speranza di meccanizzare almeno una fase del loro lavoro.

Ferid venne verso di loro. Teneva gli occhi sul padre spirituale anche mentre rispondeva a qualcuno dei novizi che si congratulavano per la sua impresa e gli allungavano una pacca al merito. Nereus riuscì a fatica a chiudere la bocca; era troppo chiedergli di non sgranare gli occhi così tanto.

Ormai balla nel palmo della tua mano… come poliziotto sei pessimo, ma a sedurre maschi non c’è gara.

«Lo so, dovevo essere qui a zappare la terra sotto il sole… ma nella mia opinione il mio amico lassù mi ha dato un cervello perché lo usassi, se no sarei una scimmia che adora brandire le zappe, non trovi?»

Secondo Mika Nereus aveva in testa fin troppe idee, ma di sicuro il rimproverarlo per la sua indisciplina non era tra quelle. Stando alla sua attenta analisi del linguaggio del corpo i suoi problemi più imminenti sembravano riguardare l’outfit di Ferid, che pur consistendo in una t-shirt, dei pantaloni da lavoro color verde militare e un paio di vecchie scarpe dalla suola spessa incontrava il suo gusto in modi che faticava a controllare. O forse – si accorse solo dopo di una fugace occhiata – a infiammarlo era la sottilissima striscia di pelle chiara che emergeva tra la cinta consumata e la maglietta annodata di lato.

«Cosa… dove… come…?»

«Qualche aggiunta sarebbe gradita, o potrei andare fuori contesto nelle mie risposte.»

Gioca meglio al gatto col topo che a scacchi, devo dire.

Ma anche se avesse voluto fargli qualche segnale di non esagerare Ferid non lo guardava; era come se non ci fosse nessun altro tranne lui e Nereus. Il fatto che non staccasse gli occhi da lui surriscaldava il cervello di quel povero pastore di anime in modo allarmante.

«Io… intendevo… da dove sono arrivati questi? Sono tuoi?»

«Ah, i vestiti? No, no. Li ho presi dalla lavanderia.»

Tirò l’orlo della maglietta abbastanza perché gli si vedesse l’ombelico per qualche secondo. Mika si accorse per la prima volta che aveva l’ombelico chiuso; non lo aveva mai notato, se mai gli era capitato di vederlo prima. Una rapida occhiata bastò ad appurare che anche Nereus l’aveva guardato e stava stringendo il crocifisso così forte che le nocche gli stavano sbiancando.

«Ieri prima di colazione ho gironzolato un po’ e ho guardato dentro il capanno… la catena è arrugginita e si è rotta, quindi era aperto. Quando ho visto il trattore ho pensato che forse potevo sistemarlo e facilitare il lavoro a tutti, e sono andato a cercare qualcosa da mettermi che potessi anche rovinare. Una sorella molto gentile con i capelli raccolti mi ha dato questi, ha detto che ne hanno un po’ in un armadietto in lavanderia.»

«Hai… aggiustato tu il trattore?»

«Beh, direi di sì, sembra che funzioni bene» fece lui, e si voltò a guardare il bestione verde in lontananza. «Per fortuna non serviva nessun ricambio speciale, solo una ripulita e una stretta qui o là… se i ragazzi trovano almeno un paio di attrezzi in buono stato possiamo seminare tutti i campi grandi e magari raccogliere in pochi giorni… potrebbe farci scorta per la comunità o potremmo rivenderlo, se i prezzi sono buoni.»

Ferid tornò a guardare Nereus e gli sorrise.

«Hai dei progetti per cui servono dei soldi, no? Potrei prendere quei ragazzi e tutti quelli che sanno qualcosa di lavori agricoli e controllare tutte le attrezzature nei capanni… dopotutto questa era una piantagione. Se riuscissimo a rimettere in piedi il trattore e i suoi accessori… in fondo, noi lavoriamo per la comunità, possiamo dire che la manodopera è a costo zero. Puntare sul terreno potrebbe essere vantaggioso.»

«Ah… io… non saprei. Purtroppo non so niente di fattorie, io stesso sono pessimo nel curare le piante.»

«Hai tante persone qui con te, Nereus, non ostinarti a fare tutto da solo» lo rimproverò Ferid. «Così fallirai.»

Nereus si rabbuiò e abbassò gli occhi. Mika non ne capiva il motivo ma leggeva chiaramente la vergogna nei suoi tratti. Ferid non gli lasciò lo spazio per sentire qualcosa che non fosse lui, e gli sollevò il mento per incrociare lo sguardo di nuovo.

«Senti, Nereus, può non piacerti l’idea, ma Bluefields è un’impresa» insistette con un tono più morbido. «Come credi che faccia padre Maim a farla fruttare tanto, la sua chiesa? La monetizza come un’impresa qualunque. Ha trovato quello che aveva che nessun altro ha: il suo carisma, un eccellente coro, e punta su quelli per guadagnare. Ora, che cosa ha Bluefields che non ha né Ashby, né Saint Barthelemy né Bay Plaza?»

Mika aveva finalmente capito dove stesse andando a parare. Aveva capito il suo piano, che era molto più raffinato di una seduzione carnale e in definitiva molto più efficace. A quel punto sapeva come dargli man forte, quindi alzò lo sguardo verso il campo grande.

«Il terreno» replicò quando Nereus esitò. «Ashby è una cittadina turistica di interesse storico… San Francisco e Nashville sono grandi città, ma Bluefields è una comunità in una zona rurale distante da grandi centri abitati. Essendo stata una piantagione ha un enorme appezzamento di terreno agricolo.»

Ferid annuì.

«Per prima cosa dobbiamo ridurre l’importazione il più vicino possibile allo zero. Dobbiamo arrivare al punto in cui la produzione di Bluefields copra del tutto il fabbisogno dei membri della comunità, per via diretta e con la vendita dell’eccesso.»

«Che cosa… Connor, ti prego, non essere assurdo.»

«Non lo sono affatto» replicò lui secco. «Ti sto presentando un business plan a grandi linee. Il terreno è la risorsa di Bluefields, e abbiamo un trattore che funziona. Se riusciamo a trovare gli attrezzi che venivano usati con quello possiamo coltivare i terreni su tutta l’estensione con la spesa d’investimento di fertilizzante e semi.»

«Non sappiamo se questi attrezzi esistono» ribatté il pastore, cocciuto. «Non credi che sia prematuro?»

«Quei capanni sono pieni di aggeggi che servivano quando quest’area era ancora coltivata!»

Ferid emise uno strano sibilo spazientito e afferrò Nereus per il braccio, trascinandolo diversi passi lungo il sentiero prima che riuscisse a fare resistenza.

«Ehi!»

«Vieni con me a vedere quei capannoni, Nereus! Guarda con i tuoi occhi, usa tutti gli occhi di questa comunità, usa ogni competenza di ognuno di noi, e solo dopo parla di assurdità, se ancora crederai che sia impossibile!»

«Tu… tu non capisci!»

Ferid smise di tirarlo. Gli lanciò un’occhiata che fece credere a Mika che si fosse accorto anche da solo che Nereus aveva qualcosa che non andava. Qualsiasi cosa nascondesse sotto quella revisione dei conti doveva preoccuparlo molto.

«No, non capisco… quindi vieni con me. Andiamo a vedere l’altro capannone prima del borgo» gli disse più dolcemente, e la stretta scese dal gomito fino alla mano. «E parliamo di quello che ti fa paura… dove non ci sentirà nessuno a parte Dio.»

L’argomento fece breccia, perché anche se Nereus non rispose seguì Ferid verso i campi. Mika rimase dov’era, a chiedersi di quanta manipolazione fosse capace un uomo che quando l’aveva conosciuto era fragile come una barchetta di carta nell’oceano.

 

***

 

Crowley si rendeva davvero conto di come si cambiasse durante la carriera da poliziotti quando, appena lasciato l’ufficio del coroner, si fermava a comprare da mangiare: agli inizi nella squadra omicidi era già difficile che riuscisse a mangiare qualcosa lo stesso giorno di una visita all’obitorio.

Salì in macchina, valutando che avrebbe avuto tutto il tempo di pranzare prima di presenziare all’interrogatorio del caso Loneport. Gabriel aveva istruzione di telefonare subito se l’avvocato fosse arrivato in anticipo, ma non aveva ricevuto neanche un sms pubblicitario nelle ultime due ore. Una mattinata tutto sommato tranquilla.

«Che hai preso?»

Sussultò appena e un momento dopo la sua pistola era quasi incollata alla faccia di Ismael sul sedile accanto al suo. Sospirò, esasperato.

«Ma che cazzo fai, Ismael? Ti potevo sparare!»

«Dovrei essere io a chiederti che cazzo fai, ti sembra? Mi potevi sparare!»

Crowley roteò gli occhi, inserì la sicura e rinfoderò la pistola sotto la giacca. Fu allora che con la coda dell’occhio notò che la mano di Ismael scivolava a fare lo stesso con una pistola di piccole dimensioni – quella che nei film gialli di vecchia data era chiamata “pistola da borsetta” – sotto la sua stilosa casacca che sembrava un kimono blu scuro.

«Sali armato nella mia macchina di servizio, sei matto?»

«Avanti, lo sai per chi lavoro, quindi posso anche girare armato… so che eri dal coroner, ma a me non piacciono i cadaveri nudi su tavoli di metallo, quindi ho pensato di aspettarti fuori.»

«E di spararmi per rubarmi il pranzo?»

«Mh. Mi hai dato un’idea» ironizzò lui, e come un procione goloso scartocciò il sacchetto. «Ma prima ho un messaggio per te. Da Pepper.»

Crowley, che stava per mettere in moto, schiacciò male la frizione e la macchina ebbe un fiacco sussulto prima di spegnersi.

«Che cosa c’è, così presto? È successo qualcosa?»

«Mi ha detto di dirti che ha rimesso in moto un trattore più vecchio della tua carretta, e che persino quello che ammuffiva in un capannone era messo meglio del tuo cesso.»

«Ehi!»

«Non prendertela con me, ha detto lui di usare la parola cesso» protestò Ismael, appropriandosi di uno dei panini. «Io sono rimasto sconvolto dal fatto che abbia sistemato un trattore, piuttosto!»

«Beh… io no. È un bravo meccanico, questo lo sapevo…» fece, mettendo finalmente in moto senza esitazioni. «Ma un sacco pieno di sé.»

Ismael ghignava quando affondò i denti nel panino, ma pochi istanti dopo fece una smorfia e sollevò il pane come se si aspettasse di trovarci dentro una rana morta o un groviglio di larve.

«Ma che è questa merda?» bofonchiò, senza osare inghiottire.

«Il mio pranzo. Crema di avocado e hamburger di patate e verdure con pane al farro.»

«Oh mio Dio» mugugnò, ricacciandolo nel sacchetto. «Ci vuole del disincrostante per wc per ingoiare questa roba, che cazzo…»

«Morirai giovane, Ismael, se continui con queste sceneggiate. O perché ti collasserà il corpo o perché qualcuno ti sparerà veramente.»

Come Crowley si aspettava emise un verso strozzato quando, dopo aver attinto al suo bicchiere, ingoiò il tutto.

«Ma che cos’è, in nome di tutto ciò che è sacro in India?!»

«Succo di aloe vera.»

«Succo di che cosa?!» fece lui, con una buffa voce stridula. «Se vuoi ammazzarmi sparami come stavi per fare prima, lo preferisco!»

Non riuscì a trattenere del tutto l’ilarità.

«Che drama queen

«Pensi che valga veramente la pena di vivere qualche anno in più, se devi ingoiare questa roba per farlo?»

«Sì, certo» rispose Crowley, sorridendo. «Finché avrò Ferid varrà la pena di fare qualsiasi cosa per vivere anche un solo minuto in più.»

A conferma del suo titolo di drama queen Ismael roteò vistosamente gli occhi enfatizzando con il movimento della testa, poi sbatté la fronte più volte contro il finestrino.

«Come fate voi due ad avere sempre una smanceria di calibro 500 Magnum da sparare quando vi si fa una domanda sull’altro? Come? Come, mi chiedo! Non vi si sopporta, mi fate venire voglia di piangere!»

Crowley tentò persino di mordersi la lingua, ma non riuscì a non ridere, e più rideva più Ismael infieriva con i suoi commenti esasperati in un tremendo circolo vizioso. Dopo due isolati Crowley fu costretto ad asciugarsi gli occhi quando si fermò al semaforo; non riusciva più a vedere chiaramente la strada.

«Sme-smettila, Ismael… non vedo dove vado se mi fai ridere così…»

«Vai in paradiso, bastardo salutista, ecco dove!»

Crowley strinse la mano sinistra sul volante e il pugno destro davanti alla bocca nel tentativo di dissimulare, ma si accorse lo stesso che stava ancora ridendo. Tentò invano di schivare un pizzicotto in un punto insidioso che gli fece fare uno scatto involontario così brusco da fargli piantare il gomito sul clacson. Lo sguardo di due dozzine di persone tra passanti e automobilisti si puntò su di loro e il tenente fece del suo meglio per sorridere e fare un gesto rassicurante.

«Basta scemenze, Ismael, siamo sull’auto di pattuglia e tu non dovresti nemmeno salirci… non attiriamo l’attenzione più dell’inevitabile.»

«Sì, sì» borbottò lui, improvvisamente annoiato, come spento. «Accosta a sinistra, dopo l’edicola.»

«Per fare cosa?»

«Devo prendere qualcosa di unto e cancerogeno da mangiare… e darti la lista delle richieste di Pepper.»

Qualche minuto dopo Crowley mangiava il suo panino vegano seduto a un tavolino, scorrendo accigliato un foglietto al di là del quale Ismael si stava ingozzando di enchiladas e di inquietanti peperoncini ripieni, facendo finire salsa al formaggio ovunque come un bambino di sei anni.

«Cioè… Ferid vuole davvero sapere se si guadagna di più dalla vendita dell’orzo o del mais?»

«Mh-mh.»

«Ma perché vuole sapere cose del genere?»

La lista includeva una richiesta della stima dei costi di alcuni attrezzi agricoli e di prezzi di mercato di diversi cereali; anche se Crowley era cresciuto in fattoria non era in grado di rispondere se non con una dose di approssimazione che poteva rasentare l’errore grossolano. Sugli usi delle macchine o sui tempi di maturazione di certe colture era preparato, ma per conoscere i valori di mercato ci voleva qualcuno che facesse di mestiere il contadino, come suo cugino Nathaniel.

«Uhm… beh, Bluefields era una piantagione, tempo fa, quindi ha molto terreno… credo che Pepper stia cercando un modo di sfruttarlo per far guadagnare la chiesa.»

«Credevo dovesse indagare sulla droga o altri crimini, o il riciclaggio agricolo è nella vostra lista?»

«Ohi, noi non abbiamo nessuna lista, sono i federali che vogliono metterci il naso.»

«Sai cosa intendo» tagliò corto Crowley. «Ti avrà detto qualcosa, oltre a insultare la mia macchina!»

«Quello che ho detto: mi ha detto che ci sono ottime potenzialità e che conta di rendere autosufficiente Bluefields con il raccolto estivo.»

«E tu non hai pensato di domandargli perché pensasse di doverlo fare?»

«No, perché io ho capito da solo che cosa sta cercando di fare.»

Gli lanciò uno sguardo affilato, ma preferì mantenere la calma.

«È troppo disturbo per due geni come voi spiegare qualcosa a un povero tenente di polizia?»

Ismael buttò giù un enorme boccone con abbondante cola ghiacciata e dopo essersi guardato intorno emise un rutto soffocato con la mano.

«Quello che Pepper sta facendo è mettere tutta Bluefields in debito con lui. Si sta mettendo in una posizione dalla quale esercitare un enorme potere… a livello psicologico, perché gli devono molto in termini di gratitudine, e a livello economico perché se si mette al centro dello sviluppo di questo progetto e lo coordina diventerà una figura indispensabile.»

Crowley guardò il foglietto, profondamente colpito.

«Ferid è davvero intelligente… ecco perché gioca a scacchi con Mikaela. Io vedo solo ciò che è stato da quello che ho davanti, ma lui è capace di vedere cosa succede dopo. Non avrei mai potuto fare niente di utile per lui, anche se fossi corso là.»

«Certo che no. Limitati a essere di supporto e non fare l’eroe» ribatté Ismael. «Fornisci le informazioni e tieni buono quell’Ichinose. Pepper ha tutto sotto controllo. L’hai sentita Betsy, no?»

Crowley si accigliò.

«Chi è Betsy?»

«Krul Bosley.»

«E perché accidenti la chiami Betsy?»

Ismael sembrò riluttante a rispondere, ma poi scrollò le spalle.

«Per il grembiule… mi ha ricordato una fornaia, nostra vicina di casa quando ero bambino… si chiamava Betsy Klupper, e aveva un grembiule come quello. Anche lei era bassa di statura… ma pesava, credo, cinque volte Krul Bosley.»

Crowley rise brevemente e guardò ancora la lista. Non aveva tempo per occuparsene con quattro agenti vacanti al dipartimento, ma se a Ferid servivano quelle informazioni gliele avrebbe trovate a ogni costo.

«Ismael, devi telefonare a Florence, su a Eanverness.»

«Io… che?»

«Mi spiace, ma devo tornare al volo in ufficio e sono occupato fino a questa sera, visto che mancano agenti. Li conosci anche tu: chiama a casa e parla con Florence, è lei che si occupa della parte contabile della fattoria. Dille che ho bisogno di questi riferimenti per verificare la storia di un indiziato, lei sa che non posso raccontare i dettagli e non te li chiederà. Così sono certo che li troverà subito e sarai pronto quanto Ferid ti richiama.»

«Puoi sempre chiedere tu domani, e se ha da fare? Insomma, mi ha visto una volta sola.»

«Per tre mesi» gli fece notare il tenente, accartocciando il sacchetto vuoto. «Sei stato seduto in cucina con nonna Susan e Flo a parlare di sceneggiati tv e a fare l’uncinetto per tutto il tempo, non fare la lagna.»

«La fai sembrare un’attività intima.»

«Sei tu che ogni volta che cercavo di portarti via dicevi che stavi facendo family building. Dai, Ismael, non sei il tipo che si imbarazza di telefonare a sconosciuti. Ti ho visto portartene uno dentro il bagno di un pub e limonartelo!»

«Sono calunnie, chi te lo ha raccontato?»

«L’hai fatto con me, cretino» commentò secco Crowley. «Sei il referente, no? Devi essere pronto quando Ferid richiama. È al timone e deve avere tutto quello che serve per mantenere la sua rotta.»

«Ah, ora ti fidi ciecamente?»

«Mi fido sempre di lui… è della gente che ha intorno che spesso non mi fido. Ma questa volta sono molto lontano da lui e, come quando era in Inghilterra, devo contare che sappia difendersi da solo… e che Mikaela lo difenda dai pericoli che non riesce a vedere.»

Crowley lanciò la carta appallottolata nel bidone e si alzò.

«Quando li senti di nuovo, digli che prego per il loro ritorno… perché mi mancano.»

Ismael sospirò.

«Devo dirgli davvero questa sdolcinatezza?»

«Sì, perché a te fa ribrezzo, ma a loro no.»

Lui alzò le spalle e si attaccò alla cannuccia della cola, Crowley salutò con la mano e risalì in auto per tornare al lavoro. Mise in moto e accese la freccia per segnalare che intendeva immettersi sulla carreggiata, ma mentre aspettava via libera gli passò accanto un giovanotto su una bicicletta elettrica con un cestino stracolmo di tulipani colorati.

Gli balenò in mente la freddezza con cui Ferid aveva accolto il suo ultimo omaggio, quello a cui pensava non avrebbe resistito. Per un attimo si chiese se anche le sue preghiere sarebbero state accolte con diffidenza… ma durò soltanto qualche minuto, il tempo che ci mise a tornare alla sua scrivania per prendere la cartella Loneport.

La foto nella nuova cornice nell’angolo della sua scrivania ritraeva quattro sorrisi allegri, appartenenti a quattro persone intorno a un tavolo di formica carico di bibite e cibo da fast food come non ne vedeva da parecchio. La figura che riconosceva come un vecchio se stesso con un assurdo costume peloso era circondata da uno spadaccino con i capelli argentati, un ragazzo biondo con buffe antenne e uno moro vestito da diavoletto femmina, immortalati poco dopo una terrificante abbuffata di grasso e colesterolo.

Con un sorriso più sicuro prese la cartellina che gli serviva e uscì dall’ufficio, a fare l’eroe nel modo in cui gli competeva farlo, per le persone che davvero avevano bisogno che fosse lui a proteggerle e servirle. Le persone nella foto erano tutte capaci di salvarsi da sole e salvare anche altri, come avevano fatto con lui.

 

***

 

Ferid sentì i rintocchi della campana e seppe che era più tardi di quanto pensasse. Si accigliò e continuò a mormorare mentre sfogliava veloce le pagine del volume aperto sul tavolo, diventando più nervoso via via che passavano i secondi senza trovare il capitolo che stava cercando, e batteva un tempo sempre più rapido con la punta della matita.

«Eccoti.»

Aprì per bene la pagina, lesse quelle facciate e le due successive in poco meno di un minuto e si appuntò numeri, date e qualche parola chiave su un foglio già zeppo di appunti sconclusionati. Chiuse il libro e lo infilò nello spazio rimasto vuoto sullo scaffale, infilò il foglio volante dentro il suo quaderno e marciò fuori dalla biblioteca senza che l’anziano che la presidiava alzasse neanche gli occhi da una frusta copia della Bibbia.

Non riuscì a stare in pace per più di due secondi; infatti aprì il quaderno e riportò i numeri in una tabella accurata e ordinata che occupava varie pagine. Non si accorse di essere raggiunto da due ragazzi finché uno di loro non gli batté sul braccio.

«Ehi!»

Dopo averli guardati in faccia Ferid tornò dalla sua dimensione di calcoli matematici.

«Oh, eccovi qua.»

«Ci hanno detto che ci stavi cercando!»

«Sì, infatti. Facciamola breve: voi due siete i miei uomini. Siete il mio consiglio di amministrazione agricolo, mi sono spiegato? Come vi chiamate?»

«Io sono John.»

«Anche io sono John.»

Ferid si fermò in mezzo al corridoio e si girò lentamente a guardare in faccia prima uno e poi l’altro. Entrambi avevano un sorriso un po’ incerto e uno di loro si grattò la testa di corti capelli castano rossicci in imbarazzo.

«Mi state prendendo in giro, voi due?»

«No… io sono Jonathan, ma siamo quattro cugini con lo stesso nome, quindi Joe, Johnny, Nate e John, che sono io.»

«E tu, sei il quinto cugino?»

«Ahahah… no, ma mi chiamo Jonathan anche io, quindi…»

Ferid sospirò, poi puntò la matita verso il John con i capelli rossicci e l’ombra di lentiggini.

«Tu sei quello che ha la fattoria a Welch?»

«No, è lui.»

«Bene, quindi tu sei Welch» fece, indicando l’altro. «E tu sarai… Lucky.»

Il ragazzo si grattò di nuovo i capelli, perplesso, ma entrambi ripresero a seguire Ferid quando continuò a camminare nel corridoio.

«Ehm, perché Lucky…?»

«Fa rima con Kentucky, così ti associo al posto giusto. Voi due mi potete chiamare Pepper.»

«Pepper?»

«Avevo capito che ti chiamassi Connor…»

«I miei amici mi chiamano tutti Pepper. Anche mio fratello, quindi va bene così.»

Mentre i suoi nuovi amici acconsentivano, Ferid sospirò silenziosamente.

Quando Ismael mi ha chiamato così al primo incontro non avevo idea che mi sarebbe rimasto appiccicato addosso…

«Avevo un cane che si chiamava Pepper!» fece Lucky, allegro. «Era un cane così vivace… ma è morto quando ero adolescente, di vecchiaia, e lo abbiamo seppellito vicino al—»

«Lucky, ti prego, sta diventando una conversazione inquietante e soprattutto inutile ai fini della prosperità di Bluefields» l’interruppe Ferid. «Forse non è gentile da dire, ma non vi ho chiamato per diventare amici. Le vostre competenze servono a padre Nereus per far diventare Bluefields una comunità fiorente, una che paga le spese da sé. Non dobbiamo dipendere dalle casse di Ashby, è chiaro?»

«Ah… sì, ma… possiamo farcela?»

«Possiamo di certo, solo dobbiamo capire cosa sfruttare. Per prima cosa dobbiamo capire quanto possiamo essere in grado di guadagnare dal terreno che attualmente è pronto per la coltivazione e se è conveniente rimettere in sesto la tenuta come piantagione.»

«I campi grandi sono molto estesi, solo che ne usiamo una piccola parte» osservò Welch. «Qui abbiamo sempre coltivato a mano… più come lavoro manuale per lo spirito che per il guadagno, e quello che abbiamo raccolto lo abbiamo consumato noi.»

«Ma ora abbiamo un trattore che funziona, un aratro, un erpice, anche una seminatrice… è vecchia ma in buone condizioni, quindi se riuscissimo ad avere il fertilizzante per tutto l’appezzamento e i semi…»

«Il carburante» aggiunse Welch, pensieroso.

«E il carburante per il trattore potremmo farcela. Va seminato entro, diciamo, metà ottobre al massimo.»

«Che cosa possiamo coltivare in questa zona?» fece Ferid, prendendo un rapido appunto.

«In questo periodo dell’anno… orzo per distillazione…»

«Ortaggi autunnali…»

«Richiedono troppa diversificazione» lo contraddisse Lucky. «Siamo pochi con meno del minimo necessario, serve qualcosa che possiamo raccogliere con la mietitrebbia. L’orzo si vende bene se ne otteniamo uno di buona qualità per il malto.»

Ferid rimase lì un paio di minuti a sentirli discutere di semina, depositi, accestimento e umidità capendo più o meno la metà di quello che dicevano, poi il rintocco della mezz’ora gli diede una buona scusa per interromperli.

«Ho un compito per voi, ed è molto importante, quindi statemi a sentire un minuto. Devo andare a lezione fra poco…»

I diversi punti di vista dei due coltivatori avevano inasprito i loro caratteri e fu con una sfumatura accusatoria che Welch gli si rivolse.

«Scusa, ma a te chi ha dato l’autorità di assegnare compiti? Sei l’ultimo arrivato e a quanto si dice vieni da una setta di adoratori del diavolo. Noi abbiamo già dei compiti e il fatto che ti sia riuscito di resuscitare un trattore non fa di te il figlio prediletto.»

Ferid si accigliò appena.

«Non mi è riuscito di aggiustare un trattore, non gli ho dato un calcio per farlo ripartire. Sono un bravo meccanico che ha visto un veicolo che sembrava poter servire ancora a qualcosa e l’ho sistemato. Portami rispetto, io non vengo da te a dire che ti è riuscito di seminare un campo e raccoglierne qualcosa, come se questo fosse un caso fortunato.»

Welch aggrottò le sopracciglia scure ma non replicò.

«E già che ne parliamo: sono l’ultimo arrivato ma ho notato subito che qui c’è un enorme potenziale lasciato alle ortiche come quel trattore, e se conosco il modo di farlo funzionare lo aggiusterò. Voi due potete aiutarmi per il bene della comunità di cui fate parte da più tempo di me o andarvene a pregare che Dio faccia crescere lo zafferano nei campi mentre siamo impegnati a fare il bucato e a dire messe.»

Welch sembrava combattuto sulla posizione da prendere, ma Lucky era più bendisposto a partecipare.

«Io sono con te. Che cosa posso fare?»

«La prima cosa da fare è radunare tutti i membri che abbiano conoscenza di agricoltura. Che siano cresciuti in fattoria, che abbiano lavorato lì, con qualsiasi mansione, o chi è capace di tenere un orto. Chiedete a tutti di partecipare e radunatevi in biblioteca alle… beh, quando potete esserci tutti o quasi tutti, non so che impegni avete. Fatemi sapere quando vi incontrate.»

«Per fare cosa? Voglio dire… a queste persone, sempre che ci siano, che cosa dobbiamo dire?»

«Che sono chiamate da Nostro Signore a offrire la loro competenza alla loro chiesa» replicò Ferid calmo. «Hanno tutti ricevuto molto da Bluefields, finora… accoglienza. Conforto. Perdono. È il tempo di ricambiare.»

Lucky annuì e Welch, seppur riluttante, dismise l’espressione bellicosa: aveva fatto breccia con quell’argomento.

«Ah, dimenticavo… appena avete tempo buttate giù una lista di quello che ritenete sia lo stretto necessario per riaprire Bluefields come piantagione, compreso quello che abbiamo… che so, in due colori diversi o qualcosa del genere, ma serve sapere che cosa possediamo già.»

«Posso farlo stamattina, pare che pioverà. Non andremo nei campi.»

«Ottimo, allora ci vediamo a pranzo. Devo correre a lezione, a dopo!»

Ferid infilò la scalinata per scendere. Aveva la bizzarra sensazione di essere tornato al liceo, questa volta con un ruolo attivo nell’organizzazione studentesca: lezioni da seguire, coprifuoco, un cellulare segreto e un piano accademico molto ambizioso a cui lavorare… in definitiva non quello con cui, da adolescente, aveva sognato di occupare il suo tempo alle soglie dei trentacinque anni.

Per il bene superiore… è per il bene superiore, Ferid. Più diligentemente ti applicherai, più veloci ed eccellenti saranno i risultati, ma te l’ha detto anche lei che ci vuole tempo…

Inchiodò così bruscamente che le sue scarpe stridettero sul pavimento come scarpe da ginnastica su un campo da basket; a causa di ciò Nereus si voltò verso di lui senza che dovesse chiamarlo. Qualcosa nel modo in cui lo guardò fece capire a Ferid che non aveva superato del tutto l’imbarazzo di quello che si erano detti nel magazzino vicino al borgo.

«Buongiorno, Nereus… stai meglio, oggi?»

«Suppongo si possa dire così» replicò lui, cauto. «Scusami per ieri, Connor…»

Ferid tese un sorriso a fatica e fece qualche passo verso di lui. Il suo sguardo era sfuggente, come se il giorno prima l’avesse preso a insulti e urli, mentre la sola cosa di cui si vergognava era di non essere all’altezza del suo ruolo di guida di Bluefields.

«Te l’ho detto ieri… non c’è niente di cui vergognarsi. Il fatto che tu sia il nostro leader non significa che devi fare tutto da solo e non barcollare mai.»

Il Padre non replicò; era ancora inquieto.

«A questo proposito, ho chiesto ai ragazzi di farmi delle liste e delle direttive per vedere se è fattibile per noi iniziare il progetto da soli… insomma, quanti soldi ci vorranno. Non si sa mai che non si riesca senza bisogno di contattare il nostro così venerabile padre Maim, non ti piacerebbe?»

«Connor… tu…»

Nereus sospirò nella maniera più plateale che Ferid avesse mai sentito, abbassò testa e spalle, e quando si raddrizzò sorrideva di nuovo, con l’ombra della frustrazione più pallida di prima.

«Che ho fatto per meritarmi te, mh?»

«Probabilmente hai pregato, Nereus~»

«Quando ho chiesto aiuto al Signore avevo in mente più un robusto bastone per pascolare il mio gregge, ma sembra che mi abbia mandato qualcosa che assomiglia di più a una spada» osservò divertito. «Spero non mi manderà in guerra come un crociato.»

Il sorriso di Ferid si indebolì un po’ a quel paragone.

«Non devi conquistare… Bluefields è già tua. Devi solo edificare… hai tutte le qualità che servono per guidarci. Molto presto il borgo sarà pronto per le prime famiglie.»

«Mi hai mentito, vero?» buttò lì il pastore, dandogli un buffetto. «Tu sei troppo gentile con gli altri per essere mai stato coinvolto con qualcosa di violento come un culto satanico.»

Ferid gli trattenne la mano e vi appoggiò la guancia. Si guardarono a lungo, fermi in quella posizione, tanto a lungo che si convinse di aver vinto la sua resistenza. Fu l’arrivo di un manipolo di Rinati armati di spartiti – parte del coro di fratello Davide – a fare tornare Nereus nel suo ruolo.

Ritrasse bruscamente la mano, anche se nessuno del gruppetto guardò verso di loro.

«Ti imbarazza farti vedere a consolare la tua pecorella nera, Nereus?»

«Puoi non chiamarmi così? Siamo fin troppo intimi, se capisci cosa voglio dire. Non vorrei che qualcuno fraintendesse o pensi che tu sia troppo poco… formale coi tuoi superiori.»

«Oh, ma certo. Se mi dici come ti chiami davvero ti chiamerò così.»

«Nereus è il mio nome, e lo sarà fino a che non verrò destituito. È la vita che ho scelto, e che amo moltissimo… se mi rispetti non me lo chiedere più. Quel nome e quel ragazzo non ci sono più.»

Ferid fece un mezzo passo avanti, ma lui non arretrò per mantenere la distanza.

«Quando arriverò al Battesimo cancellerete quello che sono stato?»

«Cancellerai i peccati che hai commesso e prometterai a te stesso una nuova vita in Cristo. Forse vorrai rinascere del tutto, ma questa è una scelta tua… e io la rispetterò.»

Un’argomentazione come quella avrebbe forse fatto breccia in un Ferid più giovane e confuso, uno che non aveva ancora incontrato Crowley. Quello adulto invece ci vide un buon presentimento di vittoria.

Non osò toccarlo per paura di spingersi troppo oltre, e si limitò a sfiorare il suo crocifisso azzurro con il dito in una voluta esitazione.

«Sceglierai tu il mio nome, quando sarà il momento?»

«Darò un nome alla mia pecorella più indisciplinata» confermò lui, sul rintocco della campana. «Ora vai. Sei già in ritardo a lezione.»

Gli diede un altro buffetto al mento e si allontanò. Ferid girò le spalle al pastore per andare nell’altra direzione e salì di corsa le scale, con il sorriso che sfumava di più a ogni gradino. Nereus – o comunque si chiamasse davvero – era una brava persona, un uomo profondo, intelligente e simpatico, un uomo piacevole. Se si fossero incontrati in un altro posto, in un altro momento e in un altro contesto sarebbero diventati amici, ne era sicuro… o addirittura qualcosa di più.

Forse dovrei pensare meglio… forse dovrei solo raccogliere informazioni, e lasciare che il Bureau…

Scosse la testa appena prima di entrare nell’aula. Passare la palla ai federali era il modo più certo di distruggere Bluefields e con essa anche ogni singola brava persona che poteva esservi dentro; lo stesso Nereus sarebbe rimasto inevitabilmente imprigionato dalla tagliola della squadra di Guren.

Passò la lezione sui Sacramenti a ripensare al suo piano, a rivedere le sue strategie, ma alla fine si convinse che cambiare qualcosa per mettere Nereus fuori tiro avrebbe rischiato di pregiudicare un risultato dal quale poteva dipendere la felicità di una persona assai più importante.

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Capitolo 16
*** Paradiso perduto ***


La mancanza di riposo che affliggeva Ferid dalla notte della sua esperienza astrale iniziava a farsi sentire: si trovò per la seconda volta in una giornata a barcollare vistosamente mentre camminava per poi rendersi conto di non sapere dove si trovasse. La stanchezza delle lunghe giornate dense di impegni e studio, i resoconti con Mika fino a notte fonda e talvolta pensieri che non consentivano un riposo tranquillo stavano iniziando a logorare le sue energie.

Confuso dopo quella sbandata nel corridoio ci mise qualche secondo a rendersi conto di dove si trovava e ancora un altro po’ per ricordarsi che cosa era venuto a fare lassù. Sospirò e si massaggiò gli occhi che bruciavano come se stesse pelando chili di cipolle.

Se Crowley sapesse che cosa sto facendo si arrabbierebbe tantissimo… come la volta che sono quasi svenuto a casa perché non mangiavo e non dormivo.

Ferid si trovò a sorridere incerto a quel ricordo: gli aveva dimostrato una dolcissima preoccupazione, ma gli aveva anche rifilato delle tremende uova strapazzate che ancora pensava fossero le peggiori che avesse mai mangiato.

Decise che sarebbe andato a discutere brevemente della lista che i suoi nuovi collaboratori Lucky e Welch avevano stilato sulle attrezzature con l’ufficio contabile e poi, prima della lezione del pomeriggio, sarebbe andato in camera a dormire un po’: non sarebbe stato di aiuto a nessuno se non fosse stato in grado di reggersi in piedi, ragionare lucidamente o se, ancora peggio, fosse stato costretto a essere ricoverato fuori da Bluefields.

Non fu difficile trovare l’ufficio contabile grazie alla targhetta accanto alla porta, e visto che quella era aperta Ferid entrò senza bussare. Scoprì che dentro c’era un vecchio modello di stampante con due cassetti sul lato destro e due scrivanie angolari appoggiate a T che delineavano due spazi di lavoro separati, ognuno con la sua sedia, il suo schedario, una calcolatrice da tavolo e dei computer che avevano l’aria di venire dal secolo passato.

Le postazioni erano vuote e Ferid stava chiedendosi dove potessero essere finiti i responsabili quando una zaffata di caffè lo fece voltare verso sinistra. Una porta a soffietto collegava la camera a uno spazio adiacente che ricordava il cubicolo dietro la cassa del Magick.

D’improvviso si svegliò completamente e il cuore gli salì fino alla gola: lì in piedi, con un abito azzurro dalla gonna lunga, una tazza di caffè in mano e un sorriso da ammaliatrice in volto, stava la donna che un tempo era Estelle Young.

«Ciao» lo salutò lei con un tono amichevole. «Ti sei perso?»

«Io…»

Ferid si morse il labbro. Era ancora la ragazza che non riusciva a guardare in faccia, dopo così tanti anni e tanto lavoro psicologico sull’imprevedibile, il passato e la paura.

«È l’ufficio contabile… no?» riuscì a dire dopo qualche secondo di imbarazzante silenzio.

«Proprio quello.»

«Allora non mi sono perso.»

«Molto bene» replicò lei, apparentemente ignara del suo disagio. «Non mi capita mai di vedere dei novizi qui negli uffici, sai…»

Per la prima volta Ferid guardò l’abito di Estelle rendendosi davvero conto di cosa significasse: l’azzurro voleva indicare che era una Rinata, una donna ribattezzata, e in quanto tale lui non avrebbe neanche dovuto rivolgerle la parola. Lei, tuttavia, non si faceva un problema che un novizio le parlasse.

«Che cosa posso fare per te?»

«Ah… beh, è una questione un po’ complessa, ma volevo sapere se e come Bluefields potesse far fronte a una spesa a quattro zeri.»

Estelle parve intrigata e preoccupata al tempo stesso.

«E la prima cifra quale sarebbe? Perché fa tutta la differenza…»

Ferid aprì il foglio della lista delle attrezzature con i relativi costi – rigorosamente relativi a un attrezzo usato – e glielo porse. La donna nascose non troppo bene il suo stupore e scosse la testa, facendo ondeggiare i suoi capelli scuri e fini.

«No, mi dispiace. Non c’è modo che Bluefields possa spendere quella cifra, a meno che la sede centrale non ci dia una buona parte come sovvenzione.»

La scelta di parole tradì un passato come impiegata nella contabilità o simile, il che chiarì a Ferid come mai potesse essere finita a fare i conti per la parrocchia. Dal lato più negativo, la sua risposta non spianava alcuno dei dossi sulla strada tortuosa che avevano davanti per attuare il suo piano.

«Quanto potrebbe spendere?»

«Eh?»

«La comunità. Quanti soldi ha? Quanto può investire?»

«Guarda che questo è un monastero, non un’impresa commerciale… non facciamo investimenti.»

«Sì, è proprio questo che non riuscite a capire da queste parti» obiettò Ferid, un po’ più brusco di quanto intendesse essere. «Lo è. Come ogni monastero cristiano dall’anno zero in avanti Bluefields è un’impresa, e il primo obiettivo dev’essere l’azzeramento delle spese. Guadagnare abbastanza da coprire le spese che ha per il terreno, la manutenzione, i membri… riesce almeno a fare questo?»

Estelle lo guardava come fosse stato uno sconosciuto che le si era avvicinato per strada per iniziare a farle strane domande e darle oscuri ammonimenti. Dato che lei continuava a fissarlo stralunata Ferid si spazientì e sollevò le mani esasperato.

«Allora? Riesce a fare almeno questo o no?»

«Ah… uhm, ecco… io… non direi, no» ammise lei, improvvisamente più seria e reattiva. «Non abbiamo introiti regolari, il fondo stanziato dalla chiesa di Nostro Signore delle Acque di Ashby è ormai esaurito e le donazioni, beh…»

Ferid sospirò e si passò le mani sugli occhi.

«Peggio di quanto pensassi.»

«Tu sei… una specie di consulente finanziario, o qualcosa del genere? Perché padre Nereus non mi ha detto nulla e credevo che le revisioni le dovessimo consegnare la settimana prossima.»

Di colpo Ferid aprì gli occhi e guardò la stanza in cui era. Scorse la donna con cui stava parlando e si rese conto di quanto avventatamente si stesse muovendo, nella fretta di conquistare la sua roccaforte. Abbassò lentamente le mani.

«Pensavo mi conoscessero tutti, qui. Sai, il satanista? Quello lì. Ma forse per questo riesco a vedere un po’ meno il lato spirituale del luogo e un po’ di più quello pratico.»

Con suo stupore Estelle tese un sorriso che – a meno di non aver preso un clamoroso abbaglio per la stanchezza – avrebbe definito eccitato a quella notizia.

«Quello che intendo dire è che se questa comunità non si mantiene da sola verrà abbandonata presto» si affrettò ad aggiungere Ferid, per deviare da quel territorio pericoloso. «La Chiesa dell’Acqua ha pochi accoliti e solo quattro diocesi negli Stati Uniti… ma se tutte si mantengono e la nostra no, è questione di pochi anni o forse di mesi prima che chiudano i battenti.»

«Come una filiale che non fa incasso.»

«È esattamente questo che siamo adesso» confermò lui, infiammato dal fatto che qualcuno finalmente capisse il suo punto di vista. «Siamo un posto isolato in una zona rurale, una ex piantagione… vedi, in questa lista…»

Riacchiappò il foglio con la lista degli attrezzi e si lanciò in una spiegazione diretta e sintetica – per quanto gli riuscisse – come se avesse davanti un intero comitato di investitori facoltosi, snocciolando le prime fasi della sua strategia economica a una Estelle che ascoltava interessata e annuiva di tanto in tanto.

«È davvero un’idea eccellente» convenne lei alla fine. «La soluzione l’abbiamo avuta sotto gli occhi tutto il tempo e non l’abbiamo mai notata… ma temo che tu sia arrivato troppo tardi.»

Estelle sospirò afflitta, sfogliando le pagine di appunti.

«Non abbiamo più i capitali per sostenere l’investimento iniziale… e a meno che padre Maim non sia più che lungimirante non sborserà così tanto per Bluefields. In realtà dal Michigan chiamano spesso, non sono contenti della gestione della situazione qui» gli svelò lei, abbassando la voce. «Credo che abbiano mandato qui padre Vann da Nashville per fargli dare un’occhiata e decidere se valga la pena mantenere la proprietà, o forse per fargli prendere il comando…»

Padre Vann… quello che per poco non aveva preso Mika con le mani nella marmellata? Non l’ho ancora visto da quando sono qui… chissà se è andato a riferire personalmente ai piani alti che cosa ha visto?

Non poteva darsi per vinto. Aveva il piano giusto, aveva l’uomo giusto: non poteva ritirarsi dalla partita con le carte buone in mano. Avrebbe combattuto per Bluefields, a costo di incatenarsi al cancello come forma di protesta… o di comprarsela a moneta sonante dietro prestanome.

«Quanto possiamo spendere, al momento attuale? Ora, come se dovessimo andare a una fiera agricola domani mattina. Quanti soldi ha la comunità, stringendo le altre spese al massimo?»

«Non è una domanda facile…»

«Il fatto che non sia facile rispondere neanche con una stima approssimativa dà l’idea di quanto sia stato gestito male questo posto.»

Estelle parve per la prima volta piccata dal suo commento.

«Per curiosità, che lavoro facevi prima di arrivare qui?»

Ferid non rispose subito. Per la sua copertura avrebbe fatto meglio a dire di non aver combinato granché e stare sul vago, ma se voleva sperare che qualcuno gli lasciasse le redini di quella che sperava essere una ripresa economica doveva ottenere quanto più appoggio possibile. Decise di essere sincero ma intorbidire le acque quanto bastava a proteggere la sua identità.

«Negli anni ho… gestito il reparto amministrativo di un’officina… ho avuto un negozio di antiquariato per tanti anni, sono abituato ai numeri.»

L’irritazione sul bel viso di lei era sparita.

«Oh, quindi hai esperienza nel commercio. Ecco perché mi stai strapazzando così tanto…»

Emise una risatina nervosa e in quel momento Ferid vide in lei qualcuno che non era la Estelle Young che lui ricordava: vanitosa, altezzosa, irriverente, carina da vedere ma in definitiva insopportabile. Quella non avrebbe mai avuto una ragione al mondo di sentirsi a disagio o di addossarsi la responsabilità – anche parziale – di una gestione fallimentare dei conti di un’impresa.

«Non è colpa tua, Estelle… non si può tenere sotto controllo i costi di una comunità così estesa da soli, neanche per chi è un professionista del settore. Come si suol dire, il pesce puzza dalla testa.»

La donna lo guardò negli occhi con una strana espressione, con una forza improvvisa e sbalorditiva, come se gli occhi brillanti di un gattino nell’ombra si fossero improvvisamente rivelati essere quelli di una pantera. Ferid ebbe una sensazione sgradevole, come il principio della paura.

«Oh, come sono maleducata! Ti ho lasciato parlare qui per una mezz’ora senza neanche offrirti qualcosa… il caffè dev’essere ancora caldo, ne vorresti una tazza?»

«Ah… io… perché no» balbettò lui, preso di sorpresa. «Grazie…»

Estelle abbandonò la sedia così in fretta che quella fece un paio di giri su se stessa prima di bloccarsi e Ferid la guardò sparire nella stanza accanto. Si mise a riordinare i suoi fogli di appunti e le liste, poi realizzò che cosa aveva appena fatto. Si coprì la bocca con la mano.

L’ho chiamata per nome! Sono un idiota, come mi è venuto di farlo?! L’ho chiamata Estelle!

Terrorizzato per quel clamoroso piede in fallo decise di battere immediatamente in ritirata e prendersi il tempo per elaborare una scusante che reggesse abbastanza, ma aveva fatto un paio di passi prima che lei gli si piazzasse di fronte con una tazza di caffè fumante e il sorriso di un vampiro che sente già l’odore del sangue.

«Il tuo caffè» gli disse con un tono mielato che la rendeva ancora più inquietante. «Anche se sei di fretta dovresti godertelo… è davvero buono.»

«S-sì… grazie.»

Ferid prese il bicchiere, deciso a trangugiare il caffè alla maggiore velocità possibile e poi tagliare la corda. Soffiò sul liquido fin troppo caldo per il pieno agosto e guardò Estelle sedersi sulla sua sedia, accavallando le gambe con troppa lentezza per essere naturale: lo sapeva, perché lui tendeva a fare la stessa cosa quando voleva che un uomo guardasse quelle.

«Sai, ti ho intravisto qualche volta. Alla mensa, soprattutto.»

«Beh… è… ovvio, no? Alla mensa ci siamo tutti.»

«Mh mh… e tu non passi inosservato, con quei capelli argentati.»

Il sorso di caffè restò come bloccato nella gola di Ferid; non andava giù e non tornava su.

Lo sa. Ha capito chi sono.

«Conoscevo un ragazzino, tempo fa… ai tempi della scuola superiore» esordì lei, con gli occhi turchesi piantati nei suoi. «Un ragazzino timido… impacciato… di quelli che non guardano negli occhi nessuno quando camminano.»

Fece una pausa così lunga che Ferid ne dedusse che volesse un commento.

«Ce n’è almeno uno in ogni scuola, penso.»

«Nella mia c’era lui. Avevamo soltanto un corso insieme, quello di letteratura… era l’unica occasione in cui lo sentivo parlare, e parlava tantissimo. Era un secchione in quella materia… sembrava che passasse i giorni sui libri e le notti a parlare con gli spettri degli autori. Ascoltare i suoi temi di critica letteraria era la parte migliore di quel corso…»

Non sapeva neanche lui come riuscisse a non sputare fuori il cuore con un colpo di tosse, dato che se lo sentiva dentro la gola a battere come una furia. Si accorse di stringere il bicchiere un po’ troppo forte e lo prese tra le mani come volesse scaldarsi.

La ragazza che era stata il suo amore platonico per due anni si ricordava di lui – il che avrebbe dovuto essere una tragedia in quella situazione, ma il suo cervello si era distratto – e stava elogiando i suoi compiti di letteratura, che in realtà gli erano sempre valsi un sacco di prese in giro, come se essere quasi albino e venire da una retata di prostitute minorenni non avesse fornito materiale sufficiente. Ma a lei, alla bella, insofferente e vanesia Estelle Young piaceva ascoltarlo. Era così inverosimile e che si accigliò appena e aspettò la coltellata sotto forma di commento sprezzante.

«Aveva un accento inglese davvero marcato. Era così carino da sentire.»

Estelle fece un sospiro e finalmente distolse lo sguardo dal suo, solo per puntarlo fuori dalla finestra con un sorriso più ampio.

«Ricordo ancora alcuni passaggi del suo tema su Paradiso perduto di Milton… ho ancora il suo libro, sai?»

Ferid la fissò, troppo sbigottito per dire alcunché. Per fortuna lei non sembrava aver bisogno di essere incalzata.

«Se ne andò il giorno stesso dei risultati degli esami, e lasciò nella sua camera alcune delle sue cose… come tutti, anche io andai a curiosarci prima che la sgomberassero le suore. C’era una copia di Paradiso perduto tra i suoi libri sulla scrivania… non aveva l’etichetta della biblioteca, quindi l’ho preso. L’ho conservato per tutto questo tempo.»

Ferid non ricordava neanche che cosa avesse lasciato a scuola: aveva ficcato in valigia le cose più essenziali come i vestiti, certi libri e altri effetti personali, ma se avesse dovuto dire che cosa avesse preso o lasciato non l’avrebbe ricordato. Però ricordò con certezza che a casa sua Paradiso perduto non c’era, non era tra i libri che aveva portato con sé quando era andato a vivere con Claude.

«Quanto riguardo per un ragazzino sfigato che non ti interessava» commentò, con il tono più neutro che avesse.

«Non era uno sfigato… anche se tanti credevano che lo fosse. Era solo diverso, e in una scuola cattolica il diverso è più additato che in qualsiasi altro posto. Ho preso quel libro per ricordare quelle lezioni… quel suo accento carino… anche se…»

Emise una risata nervosa, come aveva fatto prima.

«Anche se per lo più mi fa rimpiangere di non avergli mai detto quello che pensavo di lui. Per questo l’ho messo in fondo a un baule, ma non l’ho buttato!»

I loro occhi si incontrarono ancora e Ferid tornò a sentire lo stomaco trafitto da un paletto, come una farfalla da collezione.

«C’è qualche possibilità che tu abbia frequentato la Saint Matthew di New Oakheart?»

«Temo proprio di no» replicò Ferid, con più fermezza di quanta pensasse di racimolarne. «Vivevo a Squall’s End, ma sono scappato di casa. Ho passato gli anni del liceo a girovagare tra il Tennessee e la Louisiana.»

Lei assunse un’espressione bellicosa, ma fu solo un istante prima che sorridesse. Ferid sbatté più volte gli occhi, incapace di dire se l’avesse visto davvero o se era un parto del suo cervello mezzo addormentato e sotto stress.

«Capisco… è curioso, però. Vi assomigliate un po’.»

«Beh, credo che sia facile… è passato parecchio tempo, e se ricordi dei capelli argentati dev’essere una sovrapposizione di immagini quasi immediata.»

Per la prima volta da quando l’aveva chiamata per nome lei sembrò vacillare. Forse era riuscito a stordirla a forza di chiacchiere, almeno abbastanza da metterle un dubbio in testa.

«Può essere… sì.»

Ferid sorrise e decise che era il momento buono per battere in ritirata, prima che le venisse in mente qualche altro argomento con cui attaccare. Posò il bicchiere quasi vuoto sulla scrivania.

«Ti ringrazio del caffè. Era proprio buono.»

Allungò le mani per prendere i suoi fogli, ma lei li trattenne con uno scatto.

«Non potresti lasciarmeli fino a domattina? Potrei fare una botta di conti e vedere se riesco a tirare fuori una cifra attendibile… per la fiera agricola a cui non andremo domani.»

Interdetto, Ferid la guardò sorridergli come a volersi scusare di qualcosa e lasciò la presa.

«Sì, okay… in realtà mi faresti un favore enorme. Vorrei un piano dettagliato, quindi più sono precisi i numeri, meglio è.»

«Mi ci metterò d’impegno, lo prometto… passa domani dopo la messa, saranno pronti.»

«Sarebbe perfetto. Ti ringrazio molto.»

Tornare in quell’ufficio non era qualcosa che desiderava, ma decise all’istante che avrebbe mandato Mikaela con una scusa a prendere quei conti al posto suo.

«Ah, dimenticavo… chi ti ha detto come mi chiamavo prima?»

Ferid si inchiodò a un passo dalla porta, come se qualcuno gli avesse sparato un colpo di avvertimento.

«Ah… c’è… un novizio con cui ho lavorato qualche giorno… credo che sia infatuato, parla continuamente di te… non so come lo abbia saputo, ma ti chiama Estelle, e involontariamente mi è uscito di dirlo… com’è che ti chiami qui? Levina… no, era…»

«Lebanah» replicò lei, in tono più dolce. «Puoi chiamarmi Leba. Lo fanno tutti… e tu sei…?»

«Puoi chiamarmi Pepper. Lo fanno tutti.»

Quando lui alzò le spalle arrendevole lei rise, si scambiarono un amichevole “ciao”, e Ferid lasciò l’ufficio contabile a passo di marcia. Solo quando fu fuori dalla canonica sospirò come fosse sfuggito a una retata della DEA per un soffio e, privo dell’adrenalina che lo aveva sostenuto durante il confronto con l’incarnazione del suo passato remoto fallimentare, trascinò letteralmente le gambe fino alla celletta. Con suo sommo sollievo Mika non era lì e poteva rimandare il momento delle spiegazioni.

Senza togliere neanche le scarpe fece qualche passo e si lasciò cadere di faccia sul letto con un cigolio minaccioso della vecchia rete. Chiuse gli occhi, i suoi muscoli si rilassarono in tutto il corpo e la stanchezza sembrò avvolgerlo completamente come un bozzolo che non gli avrebbe fatto sentire nulla del mondo al di fuori.

Ma non poté fermare il flusso dei pensieri, i ricordi di un tempo che aveva desiderato cancellare non meno degli anni che l’avevano preceduto e che lo avevano seguito. Nel suo ultimo barlume di coscienza rivide il suo banco, i fogli pieni di quella sua scrittura così sofisticata, Estelle seduta nel secondo banco vicino alla finestra che guardava fuori, ma senza farsi accorgere ascoltava lui leggere il suo tema.

Dal profondo di lui si agita l’inferno, perché ha l’inferno dentro di sé, attorno a sé, e non può fare un passo per allontanarsi dall’inferno o da se stesso…

 

***

 

Mika sobbalzò violentemente appena varcata la porta del bagno.

«Per la miseria, Pepper!»

«Qualsiasi commento tu abbia in mente ne ho sentiti di peggio» replicò con una voce troppo stanca per suonare stizzita o qualsiasi altra cosa.

«Non è nel mio stile commentare le nudità di qualcuno…»

Era la prima volta che vedeva Ferid nudo, ma il modo in cui arrancò fuori dalla doccia e sospirò come avesse fatto uno sforzo mortale lo preoccupò abbastanza da impedirgli di notare qualsiasi altra cosa.

«Stai bene? Sembri un morto.»

«Mi sento come se lo fossi, infatti…»

«Che hai? Sembri Yuu dopo un doppio turno…»

«Lui è molto più vivace di me.»

Non poté evitare di avvicinarglisi e aiutarlo a infilare l’accappatoio di spugna; sembrava troppo stanco per sollevarlo o troppo confuso per coordinarsi. Non riusciva a capacitarsi di cosa gli potesse essere accaduto così all’improvviso.

«Pepper, che è successo? Rispondimi, sono preoccupato.»

«Sono solo stanco… terribilmente stanco» fece lui con un sospiro. «Ho cercato di dormire prima della lezione, ma… ho fatto strani sogni e mi sono alzato messo peggio di prima.»

«Hai esagerato, lo sapevo» lo rimproverò con un tono più duro. «Niente strategie e niente piani. Dopo la cena fili a letto immediatamente.»

«Se le fosse mai importato di me direi che sembri mia madre.»

«Non voglio sentire storie. Ti trascino in camera e ti lego al letto se necessario.»

«Ah, sì. Divertente, Mika.»

Ferid aveva tutta l’aria di ascoltare una parola sì e una no. Aveva visto molti momenti di debolezza da quando l’aveva conosciuto, ma di sicuro non lo aveva mai visto così assente e non gli piaceva la sensazione che gli dava: era l’unico, e l’altra metà dell’intero. In quel contesto, aveva soltanto Ferid.

«Ho un rotolo di nastro adesivo forte nascosto sotto il letto. Provocami e ti lego al letto con la bocca e gli occhi chiusi.»

Ferid emise un fiacco sussulto, l’ombra pallida di una risata.

«Non farmi oggetto delle tue perversioni erotiche, te ne prego… una volta Crowley mi ha ammanettato e credimi, non mi è piaciuto.»

La sua voce sembrava aver ripreso un po’ di vigore e con meno sforzo attraversò la stanza per prendere un asciugamano dalle mensole. Mika si sentì un po’ sollevato, ma si ripromise di obbligarlo comunque a riposare subito dopo la cena. Era sicuro che se fosse stato costretto a lasciare Bluefields neanche lui sarebbe riuscito a restare.

«Ah, dimenticavo… ho parlato con Tu Sai Chi prima, ma ha detto che Ginger non sapeva rispondere a quello che gli hai chiesto. Ha dovuto aspettare di sentire sua cognata alla fattoria, ma ho una lista di valori proteici e di costi al chilo e al quintale da far invidia all’esame di trigonometria.»

«Ah… sì, certo. In effetti immaginavo che avrebbe girato la richiesta ai suoi parenti.»

Ferid fissava il proprio riflesso nello specchio mentre si strofinava i capelli bagnati, ma per qualche ragione Mika percepì nelle sue microespressioni un risentimento forte. Verso Crowley, verso la sua famiglia o verso se stesso?

«Con chi ce l’hai, Pepper?»

«Potresti smettere di…?»

Si interruppe quando un Rinato entrò nei bagni. Dopo aver scambiato un’occhiata con il nuovo arrivato aprì la porta.

«Potresti smettere di farmi domande? Ti spiegherò tutto quando avremo raccolto tutte le idee.»

Mika ignorò del tutto il Rinato che li guardava incuriosito e si lanciò fuori nella scia di Ferid, che camminava fin troppo veloce per essere l’uomo stravolto di qualche minuto prima. Lo raggiunse solo una volta arrivato alla loro celletta.

«Pepper…»

«Potresti smetterla di chiamarmi così?»

«Perché dovrei? Ti presenti a tutti con questo nome ormai… e sai, in realtà ti si addice.»

Ferid brontolò qualcosa di incomprensibile e tornò ai suoi capelli.

«Mi dici con chi sei così arrabbiato? Con Crowley?»

«Certo che no. Perché dovrei esserlo?»

«Per come la vedo io non dovresti esserlo affatto, eppure ogni riferimento alla famiglia di Crowley ti fa fare… esatto, proprio quella espressione.»

Ferid emise un verso stizzito e chiuse gli occhi come se fossero quelli a rivelare i suoi segreti al compagno di stanza e non tutto un insieme di muscoli del suo viso e tono di voce.

«Le tue capacità di lettura diventano sempre più fastidiose.»

«Lo prendo come un complimento, visto che sei ancora l’uomo più difficile da leggere che mi sia capitato» commentò Mika, sorridendo. «Avanti, siamo amici. Dimmi che cosa c’è che non va.»

Ferid lasciò cadere l’asciugamano sul letto e si spostò le ciocche umide dalla faccia.

«So che non sarebbe venuto nulla di buono se fossi andato in West Virginia con lui al Ringraziamento… la sua famiglia avrebbe visto un uomo che valeva poco o niente, un debole aggrappato al loro nipote, al loro cugino che amavano tanto… si sarebbero convinti che non ero abbastanza per lui. Non potevo andarci…» fece, prima che gli si incrinasse la voce. «Ma… ogni volta che penso che ha portato Ismael da loro… che hanno passato tre mesi lì, che lui ha… costruito un rapporto con la sua famiglia, io…»

Prese un respiro profondo dal naso. La mano stringeva l’asciugamano fino a sbiancarsi le nocche.

«Mi sento derubato di qualcosa di speciale che doveva essere mio… e non lo sopporto!»

Mika sospirò. Aveva una visione un po’ più chiara ora e si stupì che fosse stato così ostinato a nascondere questo malessere per anni persino a lui, a cui aveva confidato molti dei suoi problemi e delle sue paure. Si avvicinò e si sedette sul letto.

«Ferid» gli sussurrò, per evitare che qualcuno potesse sentirli da fuori. «Avrai il prossimo Ringraziamento, o il prossimo Natale, o qualsiasi altra festa per conoscere la sua famiglia e la casa dove è cresciuto… la cosa più speciale, quella che può avere una persona soltanto, è ancora tua e non te la può rubare nessuno. Tanto meno quell’idiota.»

«Non lo so» rispose con un filo di voce lui.

«Lo so io. Crowley è pazzo di te, farebbe qualsiasi cosa per te… se fosse inevitabile penso che lascerebbe morire anche me e Yuu per la tua pellaccia, pensa un po’. Alabastro, senza dubbio, ma costa caro.»

Ferid emise una delle risate più acquose mai sentite da Mika e si strofinò gli occhi cercando goffamente di dissimulare il gesto.

«Non glielo lascerei fare, però…»

«Molto confortante» commentò sbrigativo Mika dandogli una pacca incoraggiante sulla mano. «Vediamo di sbrigarcela in fretta, qui… prima del Ringraziamento, così quando avremo finito verrà a prenderti e andrete direttamente alla fattoria.»

Si alzò dal letto e finse di cercare qualcosa nel suo quadernone di appunti di catechismo per dare a Ferid il tempo di ricomporsi. Quando lo sentì di nuovo aveva una voce più simile alla sua consuetudine.

«Non so se quando avrò finito qui avrà ancora voglia di venire a prendermi e portarmi dai suoi.»

«Potrei ipotizzare questo scenario solo se avessi intenzione di mettere a ferro e fuoco la chiesa cattolica…»

«Ferro e fuoco… no, non direi… no, il ferro e il fuoco non servono per quello che ho in mente.»

Mika non aveva ancora sentito il Grande Piano nella mente di Ferid e, intrigato da quella premessa, si girò a guardarlo. Non incrociò i suoi occhi, che guardavano fuori dalla stretta finestrella della celletta, verso un cielo denso di nubi.

«E… che cosa hai in mente?»

«Acqua… e tuoni. Sì. Un tuono abbastanza forte da scuotere le fondamenta.»

Mika si accigliò e chiuse il suo quaderno.

«Che vuoi dire?»

«Non sono sicuro di riuscire a spiegarlo… è una cosa che sento, più che averla programmata. Ma ho la sensazione che quello che faremo qui avrà ripercussioni a lungo.»

Mika scosse la testa, con un sorrisetto nervoso.

«Sul serio, in te c’è qualcosa che mette paura.»

«Sì. In me c’è qualcosa che mi spaventa, ma non so ancora che cosa sia.»

Ferid si rimise ad asciugarsi i capelli e dopo qualche minuto gli disse che non sarebbe andato a cena e che si sarebbe messo a dormire. Dopo averlo visto così sfibrato Mika si convinse che saltare un pasto fosse meno deleterio di restare sveglio per giorni di fila e acconsentì a lasciarlo riposare.

Uscì nel corridoio silenzioso chiudendo la porta con uno scatto. Nel farlo, si rese conto che aveva la pelle d’oca sul braccio. Quel brivido che gli correva sotto la pelle si indeboliva a ogni passo che faceva per allontanarsi dalla cella e si chiese se non fosse stato il “fluido” di Ferid a provocarlo.

 

***

 

Ferid riusciva a consultare tre pagine diverse, fare calcoli, correggere quelli errati con la matita e al tempo stesso camminare senza inciampare: Mika fu impressionato dalla sua efficienza, sapendo quanto poco avesse dormito.

«Sai che straordinari livelli di efficienza fisica e mentale in condizioni di grave carenza di riposo sono solitamente associati alla psicopatia?»

«O all’uso di cocaina» buttò lì lui, scribacchiando una colonna di percentuali.

«Sì, ma tu non ti fai di coca…»

Forse per ironia o forse per un buffo tempismo, Ferid tirò su col naso mentre sfogliava le pagine.

«Non… tu me lo diresti se ti facessi di qualcosa, vero?»

«Una cosa che so per certo è che se fossi psicopatico la mia altra personalità mi vieterebbe di dirtelo.»

«Okay, non fa ridere, sul serio.»

«Sembri tu quello poco lucido, Mika. Dato che siamo qui per scoprire come quei due poveretti sono finiti ubriachi e strafatti ad annegare non pensi che te l’avrei detto, se fossi riuscito a trovare della cocaina qui?»

«Sì, però gradirei se qualche volta ti limitassi a dire sì o no senza giocherellare con la mente degli altri… almeno con la mia. A Rex puoi fare quello che ti pare. Anzi, è molto divertente vedere quanto fatica a trattenere i suoi pensieri impuri

Ferid emise una risatina a labbra chiuse che esprimeva un netto compiacimento. Mika fece per avvicinarsi all’arco per accedere al giardino interno, ma Ferid proseguì.

«Ehi, non dobbiamo andare in canonica?»

«No, ho dato appuntamento a Nereus nell’ufficio contabile di sopra.»

«Ma che…»

Mika si guardò intorno e lo raggiunse di corsa, prima di scoppiare.

«Ma sei pazzo? Sotto il naso di Leba!»

«Quel che è fatto è fatto, Mika» sospirò lui. «Ci siamo già visti… e credo che lei sappia chi sono, ma se il Padre non ha voluto vederci significa che non ha detto niente. Non so se vuole coprirmi o se non è certa di quello che pensa, ma non c’è più ragione di evitarla. Anzi, farlo potrebbe insospettirla di più.»

«Cosa… vi siete visti? Quando? Cos’è successo?»

«Ieri mattina… volevo sapere dall’ufficio contabilità quale fosse la liquidità di Bluefields, e…»

«Frena, frena» gli soffiò Mika, tirandogli un colpetto di gomito. «Padre Vann a ore undici.»

Le “ore undici” di Mikaela arrivarono così tardi che l’uomo dall’abito talare blu era già abbastanza vicino a poter far loro lo sgambetto se avesse voluto. Ferid sobbalzò a trovarselo accanto appena alzò gli occhi dai suoi fogli di numeri.

«Buongiorno. Come mai non siete a lezione?»

«Buongiorno, Padre Vann» lo salutò con sussiego Mikaela. «Abbiamo avuto un permesso da padre Nereus, stavamo andando su agli uffici per incontrarlo…»

«Ah, sì. Mi ha accennato qualcosa riguardo un business plan, con un entusiasmo non da lui.»

«Dov’è stato in questi giorni, Padre? Non l’ho vista da nessuna parte.»

«Ero da padre Maim ad Ashby, per certe questioni sulla mia ricollocazione…»

«Se ne va da Bluefields?» indagò il ragazzo, pronto a scansionare i suoi muscoli facciali. «Torna a Nashville?»

Captò soltanto un accenno di scontento.

«A quanto pare il nostro patriarca ritiene che io non sia pronto per una nuova comunità, ma che non sia saggio tornare da dove sono arrivato, quindi ancora per qualche tempo resterò qui… probabilmente, almeno fino al nuovo anno» commentò lui, tradendo un velo di delusione. «Anche se sembra che Bluefields sia meno noiosa di quanto appaia. È questo il tuo famoso fratello?»

Mika si voltò verso Ferid con l’intenzione di presentarlo – e con la massima preoccupazione nell’evitare di pronunciarne l’odiato finto nome – accorgendosi solo allora della sua espressione. Era più pallido che mai, teneva le labbra serrate e gli occhi fissi sulla faccia di Vann; sembrava terrorizzato. Allarmato Mikaela studiò il Padre, trovandovi solo una genuina curiosità, ma niente che potesse spiegare il tremore alle dita di Ferid.

«Dunque sei tu… non vi assomigliate molto, per essere fratelli» commentò, con le sopracciglia appena flesse. «Ma in effetti, io assomiglio a mio fratello anche meno di te. Come ti chiami?»

Purtroppo Ferid non sembrava capace di riscuotersi.

«Lui… lo scusi, Padre, è in soggezione davanti a lei. Lui è Pepper… uh, voglio dire, Connor, ma qui lo chiamiamo tutti Pepper.»

«Io sono padre Vann. Ero il vice di padre Wassen a Nashville, mi occupavo della guida dei novizi…»

Vann allungò la mano e Mika fu sollevato di vedere Ferid riprendersi abbastanza da stringergliela, ma durò poco. Vann assunse un’espressione acuta, come di falco che punta un topolino nell’erba, e si avvicinò studiando il volto di Ferid.

«Ci siamo già incontrati, noi due?»

«N-no, signore, no» pigolò Ferid, forse persino più bianco di prima.

A quel punto Mikaela capì la reazione di Ferid: anche se Vann non ricordava come e dove, si dovevano essere davvero già incontrati.

«In realtà è possibile, Padre!» intervenne allora, premurandosi di allontanarli mettendosi in mezzo. «Mio fratello è stato a Nashville per diversi anni dopo essere andato via di casa! Ha girato un sacco di città tra Tennessee e Louisiana, potrebbe anche essere successo!»

«Oh, quand’è così… sì, credo che ci siamo incontrati prima. Ha un viso familiare» confermò Vann, facendo un passo indietro. «State andando da Nereus per questo progetto di cui non sa spiegarmi neanche un punto, vero? Vi dispiace se partecipo anche io?»

«No… niente affatto, Padre… in ogni caso penso vorrebbe renderla partecipe, quindi è meglio se sente anche lei.»

«Benissimo. Devo chiamare l’ufficio di Maim per far sapere che sono rientrato; vi raggiungo subito.»

Si congedò con un cenno della testa e si mosse a lunghi passi che facevano ondeggiare la tonaca blu attorno alle sue gambe. Mikaela scoccò un’occhiata a Ferid.

«Chi diavolo è? Non sarà venuto a scuola con te anche lui!»

«Oh, quanto sarebbe meglio se fosse così» sussurrò angosciato Ferid.

«Che significa?»

Ferid si appoggiò al muro della Casa Grande, tormentandosi il labbro inferiore.

«Oh, Dio mio, questo posto sembra il purgatorio!»

«Pepper!» sbottò, acchiappandolo per il gomito. «Voglio sapere che relazione c’è tra voi due e voglio saperlo subito!»

Lui si passò la mano – tremava ancora – sugli occhi e tra i capelli, prima di risollevare la testa.

«È suo fratello. È il fratello di Morris Mackham.»

«Di Morris Ma— quello con cui andavi a letto anni fa?!»

Per un momento chiuse gli occhi e accostò la mano alla bocca, quasi sentisse un’improvvisa nausea.

«L’ho visto… era con la bambina. Era con la figlia di Morris mentre lui mi diceva che aveva una moglie e una figlia. L’avevo visto un altro paio di volte insieme a Morris al circolo. Sono sicuro.»

Mikaela espirò lentamente, per cercare di ragionare senza farsi prendere dalla paura. Fin troppe volte aveva fallito per colpa della sua incapacità di gestire lo stress.

«D’accordo, Ferid. Come si chiama?»

La domanda prese di sorpresa il suo partner, che balbettò qualcosa di indefinito e si massaggiò la fronte in cerca della risposta.

«Io… Cecil… no, forse Cyril… o forse… Basil?»

«Lo sai oppure no?»

«N-non me lo ricordo! Non è che Morris ci tenesse a presentarmi la sua famiglia, sai!»

«Quindi c’è la possibilità che non abbia detto a suo fratello come ti chiami tu.»

Mika cercò con lo sguardo Vann, ma era scomparso alla vista.

«Sono passati anni, potrebbe non ricordarselo, come te… o non saperlo. Non ricorda dove ti ha visto, se crede di averti incrociato a Nashville è tutto a posto.»

«S-se ne parla a suo fratello io sono bruciato, Mika.»

«Se non ricorda che ti ha visto con lui non chiederà niente a suo fratello» lo tranquillizzò lui, con un cenno. «E poi dopo tanto potrebbe non ricordarselo neanche Morris. Magari ne ha avuti dozzine come te, gente che lavora nei posti da soldi che frequenta… da come ne parli dubito che dia un valore ai suoi amanti occasionali, o non si divertirebbe a umiliarli.»

«Per Morris non sono una storia così vecchia» ammise con voce malferma. «De Stasio lo ha interrogato per la faccenda del Vampiro di West End… per… se voleva ammazzarmi o incastrarmi.»

Mika si mordicchiò l’unghia, poi abbassò la mano di scatto: non voleva riprendere quel vizio che aveva avuto da ragazzino.

«D’accordo… d’accordo. Non è così grave, senti: tutto quello che Morris sapeva è che lavoravi come manutentore in un golf club. Qui sanno già che sei un meccanico, che comunque siamo originari di New Oakheart… se non ricorda il tuo nome, è tutto perfettamente a posto. Se se lo ricorda possiamo sempre fingere che fosse un falso nome, dopotutto gli hai rifilato che scappavi da un mercato di droga e prostituzione. Abbiamo le spalle coperte, ce la caveremo.»

Il ragazzo aprì il portone e lo precedette dentro l’atrio. Fecero un cenno di saluto a sorella Tabitha, responsabile della lavanderia, e solo arrivati al primo piano Mika trovò opportuno chiarire un’ultima questione fondamentale.

«Certo, dipende da te, Pepper… devi essere tu a reggere il tuo gioco, qui. Te la senti, anche con Leba e padre Vann intorno?»

Ferid era ancora pallido, ma aveva l’espressione risoluta e annuì deciso. Lo superò per raggiungere la “sala ricreativa 1” accanto all’ufficio contabile, ma esitò con la mano sul pomello fin troppo a lungo, immerso in qualche riflessione.

«Che c’è?»

«Niente…» sospirò lui, a mezza voce. «Solo… questo mondo è davvero piccolo.»

«Il mondo non è piccolo, Pepper… è il tuo letto che è troppo grande.»

Ferid lo fulminò con un’occhiata che era un confortante ritorno alla sua normalità.

«Non osare farmi le pulci, sai, tu… tu… guarda che ti sento parlare, se non fosse per Penny avresti una lista che non ti basterebbe l’interstatale da qui fino a New Oakheart!»

Mika soffocò le risate solo perché vide già molte persone sedute al tavolo quando Ferid spalancò la porta. Nereus era il più distante da loro, servito per primo con una tazza di tè da sorella Miriam, e fece loro un gesto incoraggiante.

«Eccovi, vi stavamo aspettando… sedetevi.»

Ogni traccia della sua stizzita sbuffata di vapore svanì: Ferid rispose con molta cortesia a Nereus e andò a sedersi – caso o no che fosse – di fronte a Lebanah. Lei gli sorrise in un modo che non poteva essere frainteso, non da chi come Mika l’aveva vista interagire con tutti gli altri: era come luminosa, con un modo gentile di parlare che lasciava nessun dubbio sul fatto che stesse provando a blandire Ferid.

Non so se sa che è Ferid o se pensa solo che sia un bell’uomo che assomiglia a quel suo compagno di scuola, ma… non posso sbagliarmi, lo sta mangiando con gli occhi.

In effetti Lebanah guardava Ferid come se volesse morderlo mentre lui non guardava dalla sua parte. Gli salirono preoccupazione e divertimento mescolati al pensiero di cosa avrebbe potuto dire o pensare Crowley se avesse visto quella scena e cercò di ridimensionare quel sorriso nervoso mentre sedeva al posto libero più comodo da raggiungere.

«Tè?»

Il ragazzo accanto a lui era il più vicino al vassoio di tazze. Preso di sorpresa Mika annuì anche se non aveva voglia di bere. Passando tanto tempo con i suoi compagni di stanza e di studio e con la brigata di cucina si era quasi dimenticato di rischiare l’interazione anche con qualcuno che non conosceva.

Il ragazzo gli riempì la tazza e gliela mise davanti, prima di servirsene una per sé. Mentre era assorto a decidere tra zollette di zucchero bianco e zucchero di canna Mika poté guardarlo meglio e capì dove aveva visto quei capelli castano-rossicci e quelle lievi lentiggini: era uno dei due che avevano detto di saper guidare il trattore, quindi doveva essere uno dei due aiutanti di cui Ferid aveva parlato.

«Tu sei Welch o Lucky?»

Lui si voltò stupito, la pinzetta e la ciotola con lo zucchero di canna sospese in aria.

«Lucky… cioè… J-Jonathan. Dal Kentucky. Lucky è… uhm…»

«Non preoccuparti, dà strani soprannomi a tutti» lo rassicurò con un sorriso, indicando la zuccheriera. «Posso?»

«Anche a te?»

Nonostante avesse un fisico ben strutturato, bicipiti che tiravano sotto la camicia grigia e l’aria di un ragazzo di montagna che non lo avrebbe fatto sfigurare con un fucile a tracolla, aveva l’imbarazzo inciso in ogni tratto come un bambino che non conosce nessuno al doposcuola. Gli ispirò un’inedita tenerezza, dato che non si trattava davvero di un bambino.

«Sì, mi chiama Angel Face, ogni tanto.»

Fece per prendergli la zuccheriera, ma gli occhi azzurri di lui gli vagavano sulla faccia come se stesse giocando a “trova le differenze”, e la sua espressione diventava sempre più sognante.

«È proprio azzeccatissimo…»

A quel punto lasciò la zuccheriera tra le sue dita. Confuso da quell’adorazione inspiegabile che gli leggeva in faccia non riuscì a trovare qualcosa di divertente da dire, o qualcosa per proseguire la conversazione.

«Grazie» borbottò invece.

Non era sicuro che Lucky avesse capito che si riferiva allo zucchero, ma non osò precisare sotto quell’occhiata saccente che gli stava infliggendo Ferid due sedie più avanti dall’altro lato. Si zuccherò il tè all’arancia e lo bevve a microscopici sorsi per non conversare attivamente, ma non poteva far finta di non essersi accorto che Lucky sbirciava dalla sua parte quando credeva che non potesse vederlo.

Fu il tè più imbarazzante della sua vita.

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Capitolo 17
*** L'oro della terra ***


La brigata di cucina aveva finito di sistemare dopo aver servito il pranzo. Si stavano radunando intorno al tavolo all’angolo della sala mensa, il più vicino alla porta delle cucine, che restava vuoto per loro. Mika recuperò il suo tomo di appunti per dare una scorsa veloce alla lettera ai Galati prima della lezione del pomeriggio, ma Ferid apparve come sbucando dalla parete e glielo tolse dalle mani.

«Proprio tu, Mika!»

«Che vuoi?» gli fece, più brusco del necessario.

«Lucky è al lavoro da tuuutta la mattina nel campo grande, sii buono e portagli qualcosa da mangiare!»

«Eh? Perché io?!»

Non era riuscito a controllare affatto il suo nervosismo. Dal giorno in cui c’era stato il meeting aveva evitato con cura di incontrare di nuovo Lucky, e Ferid non ci aveva messo molto a notare che Mika tendeva a scomparirgli da sotto il naso ogni volta che il suo “braccio destro agricolo” appariva all’orizzonte per parlargli.

«Perché, hai qualcosa contro i braccianti agricoli?»

«Certo che no, ma…»

«Non fa neanche così caldo. Su, non fare storie e portagli il pranzo. Quel poveretto si sta spaccando la schiena perché nessun altro sa guidare il trattore oltre a Welch.»

Pressato dalle occhiate della brigata e di sorella Maddalena Mika rinunciò a spiegare a Ferid le sue ragioni e lo seguì dentro la cucina. Solo quando fu sicuro che nessuno cercasse di origliare o di sbirciare si decise a insistere.

«Non voglio vedere Lucky, okay? Mi mette inquietudine.»

«Ma stiamo parlando della stessa persona?»

Ferid prese da una credenza dei cestini in plastica che usavano per consegnare il pasto all’infermeria o alle guardie notturne. Davanti all’ostinazione di Mika si accigliò.

«Lucky è un ragazzo del tutto innocuo… non puoi trattarlo come un maniaco solo perché si è accorto che hai un visetto delizioso. Il mondo è pieno di donne e di uomini che ti guardano in faccia e pensano che tu sia stupendo, vuoi chiuderti in una grotta per la paura?»

«N-no, però…»

«È tranquillo. Un ragazzo timido. Fidati di me, ho visto abbastanza uomini da capire che tipi sono dal primo incontro… trova che tu sia bello, ma siamo sinceri, chi non lo pensa?» insistette Ferid, ficcando del pane, dei pacchetti incartati e una bottiglia nel cesto. «Solo un babbeo omofobo potrebbe riuscire a negare che tu sia splendido!»

«Va bene, ora siete in due a darmi i brividi.»

«E soprattutto, tu sei di strada» gli fece a bassa voce. «Fai tu rapporto a Whiskey Sour e a Is, così sei coperto.»

Mika si arrese con le mani alzate e sospirò.

«Spero ci sia anche il mio pranzo, sto morendo di fame.»

«Ma se tu mangi come un fringuello?»

Aggiunse comunque un altro pacchetto di carta marrone, lungo e chiuso con lo spago, e dell’altro pane. Per buona misura Mika prese un paio di coltelli e due pesche da aggiungere al cestino – ormai strapieno come quello di una gita di famiglia al parco naturale – e lo prese in carico. Pesava parecchio.

«Sai dove sia?»

«No, ma non sarà difficile trovarlo, no? Sta su un grosso trattore verde!»

Non volendo dargli piena ragione scrollò le spalle e uscì dalla porta di servizio accennando un saluto con la mano, mentre il suo stomaco brontolava cupo.

Mangerò anche come un fringuello, ma un fringuello che ha fame…

Scese il sentiero sud fino alla biforcazione che portava all’edificio dell’infermeria e una semplice occhiata nei campi bastò a individuare la macchina verde dalle grosse ruote, quindi si affrettò a imboccare uno dei sentieri che passavano tra un appezzamento e l’altro.

Bluefields era così grande che falsava le distanze; ci vollero diversi minuti di marcia per raggiungere il campo. Si fermò sull’orlo del fossato erboso che separava il terreno arato dalla stradina e agitò la mano per attirare la sua attenzione mentre gli veniva incontro.

Arrivato in fondo al campo il trattore si fermò e l’attrezzo smise di produrre quel fragore quando venne sollevato. Con un minimo di curiosità si sporse per guardarlo più da vicino, ma quell’insieme di ruote dentate non aveva nessuna familiarità per lui. Avrebbero potuto spacciarglielo per un pezzo d’artiglieria medievale e ci avrebbe creduto.

«Fa’ attenzione, Mikael… non stare vicino al bordo mentre il trattore lavora» gli gridò Lucky, per coprire il rumore del motore. «Devo fare manovra, è pericoloso!»

«Perché non scendi a mangiare? L’ora del pranzo è già passata!»

Lucky corrugò la fronte e spense il motore, prima di sporgersi dallo sportello.

«Che hai detto?»

«L’ora del pranzo è già passata. Ti ho portato da mangiare.»

«Ah, di già…? Ci ho messo più di quanto pensassi…»

Il campo gli sembrava praticamente uguale al giorno prima.

«A fare che cosa, esattamente?»

«Oh… sto facendo l’erpicatura dei campi. Speravo di finire la zona tre oggi, ma ci vuole più tempo del previsto…»

Non aveva la più vaga idea di che cosa fosse un’erpicatura – suonava quasi come una malattia – e la sua perplessità doveva leggerglisi in faccia.

«Serve ad ammorbidire la terra… a renderla adatta per usare la seminatrice.»

«Non è quello che avete fatto dieci giorni fa?»

«Quella era un’aratura… rompe il terreno in pezzi grossi, con l’erpice invece la si sbriciola… vedi la differenza?»

Gli indicò il terreno arato, spaccato in grosse zolle lungo i solchi, e quello dove era già passato, che era più fine e appiattito, come pettinato. Accennò un sorriso e Lucky ne fece uno radioso.

«Tu sei cresciuto in città, vero? A New Oakheart…»

«Beh, sì… sì. Un vaso di fiori sulla finestra è il massimo di natura che ho visto…»

«Ti faccio vedere la magia della terra, vuoi? È qualcosa che la gente delle grandi città può vedere solo in tv, se mai guardasse un programma del genere!»

Tornò al trattore e aprì di più lo sportello. Mika si era già pentito di aver offerto spunti di conversazione.

«Sali con me, c’è spazio! Finiamo questo pezzo, fin lì. Ci mettiamo poco, ma non lo dimenticherai, veramente.»

Non si fidava di Lucky, come non si fidava di nessuno che gli mostrasse un interesse al di fuori di Yuu, ma anche con quei bicipiti dubitava che fosse in grado di fargli qualsiasi cosa che non volesse; era un pur sempre un agente di polizia addestrato anche al corpo a corpo.

«E il cestino?»

«Chi vuoi che ce lo rubi qui in mezzo?» fece lui, allegro. «Lascialo lì, facciamo veloci. Vieni, sali prima tu. Devo stare sulla sinistra dove c’è la leva del cambio.»

Mika si avvicinò circospetto, ma non per paura. Il terreno lavorato era diventato soffice, era come camminare su un materasso in memory foam. Si issò sul trattore – si sorprese della prospettiva così alta – e si pressò un po’ di più contro il vetro per lasciar salire la mole più ingombrante di Lucky.

«Quanti comandi… non me l’aspettavo così un trattore.»

«Ci sono modelli più nuovi e potenti con un sacco di comandi in più… alcuni sono davvero moderni, con computer che regolano tutto… altri hanno sì e no la leva per l’attrezzo, l’accensione e le marce. L’ideale, come per tutto, è la via di mezzo!»

Con un sorriso che andava da un orecchio all’altro Lucky rimise in moto e si mise a fare una complicata manovra per girare il trattore in modo da tornare indietro. Ancora una volta parve leggergli in faccia le domande che pensava.

«Si fa questa manovra per girarsi alla fine di ogni rettilineo, così è facile fare linee dritte senza lasciare buchi… la prima volta che l’ho fatta ero sul trattore a pedali e avevo tre anni! Oh, guarda, guarda dietro!»

Mika si sporse per guardare dietro il sedile. L’erpice sollevava le zolle e le sbriciolava tra i dischi dentati, mentre le punte frontali smuovevano solido terreno come fosse semiliquido. Sembrava ribollire in quel movimento, come una cioccolata che bolliva sul fuoco. Restò a guardarlo per tutto il tratto, finché l’erpice non venne sollevato per girarsi ancora una volta.

«Vuoi guidare per un tratto?»

«Io?»

«Chi altro c’è?»

«No, io… non so guidare questo coso.»

«Sai guidare la macchina?»

«Sì, ma…»

I suoi occhi scorsero levette e bottoni a lui sconosciuti.

«Qui è più facile: niente segnali, nessuno da tamponare! Su, mettiti seduto più al centro. Ti insegno io, vedrai, è elettrizzante! Okay, per prima cosa metti giù l’erpice, si fa con questo. Benissimo. Ora, marcia e pedale come una macchina.»

Un trattore era una sensazione del tutto diversa da un’auto: il rumore, la vibrazione, l’altezza della guida… guardarsi dietro con lo specchio e vedere l’erpice lavorare un campo con lui alla guida fu effettivamente una sensazione strana, non l’avrebbe definita elettrizzante ma di certo non era sgradevole.

«Sei bravissimo, Mikael, stai andando perfettamente dritto! Non è una bella sensazione? Vuoi provare a girarti? Tranquillo, se non riesci lo sistemo io!»

Non sapeva se Crowley da giovane avesse lavorato i campi di famiglia con il trattore e se fosse in grado di fare la manovra in tre tempi, ma Mika non vedeva l’ora di raccontarglielo al telefono.

 

***

 

All’ombra delle fronde già tendenti al giallo di un grande acero saccarino Mika inspirò profondamente l’aria tiepida, tenendo gli occhi chiusi. Anche così vedeva muoversi la luce tra le foglie.

«Lo senti?»

«Scusa, il profumo del salame è troppo forte.»

Lucky, che stava rimuovendo la carta che l’avvolgeva con tagli precisi e manualità, rise.

«È vero, fa venire l’acquolina… allora, fetta grossa o sottile?»

«Non lo so, com’è meglio?»

«Grossa, ovviamente» fece lui, iniziando subito ad affettarlo e a riempire la pagnotta già aperta a metà. «In campagna è la risposta giusta per quasi ogni domanda! Che formaggio abbiamo?»

«Non lo so, non ho riempito io il cesto… vediamo…»

Mika si mise a frugare, scoprendo che Ferid l’aveva riempito abbastanza per un esercito: aveva messo tre tipi di formaggio, salame, prosciutto, una scatoletta di aringhe, patate al burro schiacciate, un barattolo di sottaceti, parecchio pane e delle scodelle ancora calde che dovevano contenere lo stufato di manzo che aveva cucinato per il pranzo.

«Quale preferisci, Mikael? Di formaggio.»

«Uhm… non lo so. Cosa si mette insieme al salame?»

«Ma che, sei cresciuto in un convento macrobiotico? Non hai mai mangiato un panino con il salame e il formaggio?»

«No» ammise lui, che aveva solo una vaga memoria di un panino al salame.

«Non sai che ti sei perso finora… te lo faccio io un panino come si fanno a casa mia, uno di quelli che sognerai di mangiare di nuovo!»

«Ma prima dovremmo mangiare lo stufato, è ancora tiepido» osservò prendendo le ciotole. «Questo l’ho fatto io stamattina.»

Lucky inspirò profondamente l’odore che saliva dalla ciotola scoperchiata.

«Adoro lo stufato… è uno dei miei piatti preferiti della cucina di mia mamma, sai? Quando è la stagione di caccia lo fa col cinghiale, con le patate schiacciate alle erbe, e lo mette dentro questa crosta bella spessa che diventa croccante… quando la mordi fa crack, e se non lo tieni dritto cola il succo dello stufato…»

«Mmhh» mugugnò Mika, incapace di trattenersi. «Sembra delizioso… sto morendo di fame, non è leale che mi racconti adesso queste cose.»

«Bene, perché sei servito!»

Lucky mise il panino sopra il cesto. Era così imbottito di prodotti che non osava neanche comprare al supermercato che si sentì in colpa persino a trovarlo appetitoso. Prese solo un boccone dello stufato – che già sapeva che sapore aveva – e cercò un punto buono per attaccare una pagnotta che anche da sola era tre volte un suo pasto normale. Lucky non gli fece fretta; fece finta di non badargli mentre affettava salame e formaggio per un altro panino.

Quando riuscì ad affondare i denti nel pane, salame, formaggio e sottaceti sentì così tanti gusti, retrogusti e consistenze sconosciute che non trovò nessun commento da fare: si appoggiò al tronco dell’albero e masticò lentamente a occhi chiusi. Si aspettava un commento di Lucky, ma non ne fece.

Rimasero per minuti seduti contro l’acero, accarezzati da macchie di sole e dal vento, a mangiare con gusto in silenzio. Non provava imbarazzo in quella situazione e non trovava in Lucky niente di ciò che gli sembrava di aver visto durante la riunione.

Lo sbirciò mentre beveva attaccato alla bottiglia di vetro. Aveva finito di mangiare sia lo stufato che il panino mentre il suo era circa a metà. Quando finì di bere il suo sguardo indugiò a lungo sui campi o sull’orizzonte, col sorriso sulle labbra.

«Che cosa guardi che ti rende così felice?»

Lucky stese il braccio, con un gesto che abbracciava tutto il panorama: i campi arati, la Casa Grande di Bluefields, un cielo con poche nuvole, uccelli in volo e una cornice di boschi lontani.

«La natura… è tutto così bello, non pensi? Andare nel bosco e assaggiare una mora, arare e sentire il profumo della terra, aprire la finestra in piena estate e guardare grano a perdita d’occhio… hai mai visto il grano maturo, Mikael? È una distesa d’oro che brilla sotto il sole.»

«E una stesa di spighe dorate ti rende felice?»

«So che non è facile da capire… sono cose piccole, e ci vuole tanto lavoro… ma così si sente la vita, Mikael. Forse non si vedono le grandi capitali, forse non si leggono tanti libri… ma seguire il ritmo della terra ti fa sentire vivo» gli spiegò lui, con la voce densa di emozione. «Se riusciremo a fare questo a Bluefields… anzi, quando riusciremo a mietere il primo raccolto capirai.»

Mika prese la bottiglia e bevve qualche sorso, cercando di immaginare i campi di Bluefields visti dal piano più alto della canonica: un’immensità di spighe i cui riflessi cambiavano col vento, facendolo assomigliare a un mare d’oro brunito…

Sentì una puntura lieve di tristezza al pensiero che non sarebbe rimasto lì abbastanza a lungo da vedere il primo raccolto dell’orzo.

 

***

 

Crowley non fece altro che sollevare gli occhi verso il soffitto quando si accorse di Guren Ichinose appoggiato al bancone del bar. Fece del suo meglio per fingere di non averlo notato quando arrivò abbastanza vicino al barista; un tipo basso, con capelli fissati dal gel e un gilet di paillettes nere troppo corto.

«Crowley! Non ti vedevo qui da una vita! Come stai, amico?»

Il tenente scambiò un saluto a pugno stretto con uno dei molti vecchi amici del quartiere di North End.

«Non faccio più la vita sregolata di una volta, Manuel… come stanno i bambini?»

«Vivaci e sempre più alti» ribatté lui con un gran sorriso fiero. «Che ti preparo?»

«Cuba Libre, e… quel drink al matcha è analcolico?»

«Sì, ma te lo correggo con quello che vuoi… ho un ottimo gin giapponese!»

«Magari la prossima volta. Cuba Libre e l’analcolico al matcha.»

«Volano!»

Manuel approfittò dell’ordinazione per far roteare qualche bottiglia e cucchiaino per impressionare delle giovani donne che sedevano dietro Guren. Crowley pagò la sua consumazione in anticipo e appena pronti prese i due cocktail, sentendosi gli occhi viola di Guren addosso con un’insistenza fastidiosa.

«Che cosa c’è, Ichinose?»

Come immaginava, era proprio nella sua scia mentre attraversava il locale per raggiungere un tavolino libero.

«Che cos’è questa storia della piantagione?»

«Ho ricevuto lo stesso messaggio che ho girato a te, che ne so io?»

«Eusford, se mi guardassi in faccia sapresti che non mi sto divertendo.»

«Non scherzo con persone che non mi piacciono» ribatté Crowley, e prese un sorso di Cuba Libre. «Lasciano un messaggio di tanto in tanto e come stabilito io te lo mando. Mi avevi promesso che sarebbe bastato questo per non vederti più.»

«Ho mandato Mikaela Shindo laggiù perché mi facesse sapere che panni sporchi nascondono. Non ho mandato là quel moccioso a giocare a Farmville.»

Crowley si sedette al tavolo e guardò Guren a viso aperto per la prima volta. Gli mise un certo buon umore notare la sua irritazione.

«Fa parte della loro strategia. Non lo hai capito?»

«Capito cosa?»

«Se non salgono nella gerarchia della chiesa non possono vedere e sapere tutto… se trovano il modo di arricchire la chiesa saliranno più rapidamente. Ergo, prima avranno informazioni importanti per te. Non è ovvio?»

«Non c’è niente di ovvio, dato che sono dei dilettanti… uno di loro non è neanche un poliziotto, e vorrei tanto sapere che cosa ci fa laggiù.»

«Ferid non è un poliziotto… ma… diciamo che ha delle virtù che lo rendono adatto. In ogni caso nessuno di noi ce l’ha mandato, ha scelto da solo e lo abbiamo saputo solo dopo che era già in contatto con Mikaela.»

Guren spostò bruscamente la sedia e sedette scomposto sul bordo, facendo tintinnare il ghiaccio del suo whisky sour.

«Non l’ha detto neanche al suo fidanzato?»

Si scambiarono uno sguardo che percepì come ostile, ma tirò un sorriso. Avrebbe dovuto immaginare che avrebbero scandagliato la vita di Ferid, e di conseguenza anche la sua.

«Non so quanto tu lo conosca… ma Ferid fa sempre così. Se sa che gli si impedirebbe di fare qualcosa che pensa sia giusto fare, non dice niente a nessuno per non creare conflitti inutili. Ma non puoi saperlo, lo hai conosciuto per una sola sera, è così?»

«Il tuo uomo non mi interessa, né mi è mai interessato» tagliò corto Guren. «Era solo una calamita fortunata, e molto ubriaca. Non riusciva a ricordarsi la camera e dove aveva messo la chiave, quindi l’ho parcheggiato in camera mia… glielo dovevo. Ho vinto milleduecento dollari con lui seduto di fianco.»

«E tu eri sobrio abbastanza da ricordarti tutto?»

«Sì, lo ero. Te lo ripeto: la sola cosa che mi importa del tuo uomo è che cosa sta combinando adesso a Bluefields.»

«Se vuoi un buon consiglio, Ichinose… lascialo fare. È un eccellente stratega e ha imparato a crederci.»

Crowley bevve qualche sorso. Lui stesso faticava a pensare che il Ferid che aveva paura di lasciare la sua casa e non riusciva a dormire in un letto non suo fosse diventato l’uomo che era adesso.

«Non mollerà. Tenterà anche l’impossibile per arrivare al suo obiettivo, e se è importante per Mikaela sta’ sicuro che non si arrenderà mai.»

Guren trovò qualcosa di poco chiaro nelle sue parole e si accigliò.

«Perché? A me risulta che non si siano mai visti prima della storia del Vampiro di West End, quando Ferid è stato parcheggiato a casa tua. Mikaela è solo il tuo dirimpettaio, e poi se n’è andato in Inghilterra. Da dove viene un rapporto così stretto?»

«Sono simili come persone, e con molta sofferenza da digerire. Ferid… ha trovato un sostegno in Mikaela in un periodo molto buio, e Mikaela ha trovato qualcuno con cui aprirsi. I legami più forti si formano attraverso le difficoltà.»

Guren non fece commenti, ma bevve con l’aria assorta nei pensieri. Abbandonò la sedia e il bicchiere, con solo un goccio di liquido giallo sul fondo.

«Voglio degli aggiornamenti più frequenti… e soprattutto, un po’ più attinenti al caso. Non sono in vacanza al campeggio Chippewa.»

Guren si allontanò con le mani in tasca senza voltarsi. Per qualche motivo lo scorno di un agente dell’FBI gli migliorava l’umore, che salì ulteriormente quando il cliente che dava loro le spalle al tavolo accanto girò la sedia, puntando su di lui gli occhi verdi.

«Dovrei dirti di non farlo… ma ci godo troppo.»

Yuu cambiò rapido la sedia e si mise davanti al bicchiere del drink al tè matcha.

«Come mai è così irritato? Cosa è arrivato di poco attinente da Bluefields?»

Crowley sorrise e gli passò il suo cellulare, dove era pronta la registrazione del messaggio. Restò in silenzio a sorseggiare mentre Yuu ascoltava, con il telefono contro l’orecchio per sentire sopra la musica e il brusio del locale, e poi lo vide sorridere.

«Si diverte anche troppo per essere un poliziotto…»

«Si diverte come un bambino» convenne Crowley.

«Ne sono felice.»

Il commento lo sorprese. Aspettò che Yuu riascoltasse il messaggio ancora una volta ed ebbe la sensazione che i suoi occhi fossero diventati più lucidi – difficile dirlo con le luci del locale – ma quando gli restituì il telefono sembrava di nuovo normale.

«Da quando ci siamo incontrati all’orfanotrofio Mika non ha mai fatto niente senza di me… l’ho persino accompagnato al fast food quando è andato a chiedere il lavoro. Non è mai andato da nessuna parte, neanche a una presentazione di un libro o a una caffetteria senza di me… sono felice che stia bene e che stia facendo delle cose nuove. È bello sentirlo allegro.»

«Anche se tu sei uno straccio senza di lui?»

Non intaccò il sorriso di Yuu, ma vide più chiaramente quanto fosse stanco. La sua decisione di fare più turni e ore extra al lavoro per raggiungere la quota per il corso di investigazione iniziava a consumare anche l’energia dirompente di quel ragazzo che sembrava instancabile.

«Sai, Crowley… forse è stupido, ma qualsiasi cosa sia un bene per Mika per me è okay. Anche se lui decidesse di… che ne so, fare un viaggio zaino in spalla in Guatemala, se vedessi quel… quel brillio che ha negli occhi quando qualcosa lo entusiasma, allora lo lascerei andare. Anche se stesse via un anno intero. È stato un fiore di serra anche troppo a lungo.»

«Non mi sembra stupido… e non mi sorprende. La tua maturità nelle relazioni è… straordinaria, sono serio. Non ho mai sentito uno della tua età parlare così dell’amore… ed è… fantastico, davvero. Credo che voi due siate una coppia perfetta.»

Yuu tirò un sorriso con un velo di timidezza e scrollò le spalle.

«Chi lo sa…»

«Io lo so, dannazione.»

«La perfezione non esiste… e poi, ci sono mille ostacoli… le persone che Mika incontrerà da adesso in avanti, quelle che io conoscerò, errori che potremmo fare, e il tempo… stare insieme per una vita vuol dire sbattere contro la noia… e chissà che altro. Ma di sicuro mi piacerebbe un giorno essere vecchio e avere ancora Mika. Sono sicuro che sarebbe bellissimo anche da vecchio… acido come un limone acerbo, ma bellissimo.»

Non si era mai chiesto come Ferid sarebbe stato dopo dieci anni, o venti, o più. Non riusciva a immaginare le sue rughe, né quale sarebbe potuto essere il suo primo acciacco, o quando avrebbe smesso di portare i capelli lunghi… ma non riusciva a immaginare prospettiva di vita migliore che scoprirlo nei prossimi dieci, venti o più anni.

 

***

 

Gli scarabocchi fronzoluti sui fogli sparsi sul tavolo erano comprensibili soltanto a Ferid, che li scorreva rapido punzecchiandosi la guancia con il gommino della matita.

«Guarda che bella scrittura ha» commentò a mezzavoce Lebanah. «Dovrei imparare anche io a fare la L così elegante…»

«Ma non si legge niente, ha anche troppi ghirigori» osservò la sua compagna di stanza.

«Ma ha un che di fiabesco…»

Ferid strizzò la matita abbastanza forte da sentirla scricchiolare.

«Non eravate qui per aiutare? Smettetela di chiocciare e tirate fuori un’idea!»

«Non ti irritare, Pepper» lo blandì Lebanah, versandogli una tazza di tè. «Aspettavamo che ci decifrassi i tuoi elegantissimi riccioli.»

Ferid sospirò e portò la tazza alle labbra. In realtà i suoi appunti erano pieni delle più svariate idee impraticabili; gli sembrava di essere un ragazzino che tenta di progettare la sua scalata alla fama senza neanche sapere in quale campo.

«Per farla breve: quando arriverà l’estate prossima e sarà il momento di raccogliere servirà una mietitrebbia, almeno un camion che raccolga quello che esce, e non abbiamo nessuno dei due. Dobbiamo raccogliere abbastanza soldi da noleggiarli.»

«In che senso, raccolga quello che esce?»

Ferid rimase del tutto ignaro dell’occhiataccia che Lebanah lanciò alla sua compagna di stanza.

«Beh, la mietitrebbia è una specie di rullo che falcia tutto il raccolto, divide la parte erbosa dai chicchi e un tubo esteso di lato scarica il raccolto nel—»

«Tranquillo, Pepper, Candace voleva solo fare battute allusive molto poco opportune» l’interruppe Leba, stringendogli appena le spalle. «Non vede l’ora di sposarsi, sai com’è…»

«Mi sposeresti, Connor?»

Candace alzò gli occhi dalla calza che stava rammendando per sbattere le sue ciglia chiare come una cerbiatta. Ferid sentì le unghie di Leba affondare un po’ di più nella sua camicia. Per fortuna un verso indignato di sorella Maddalena, che girava loro intorno da un’oretta affaccendandosi attorno a non sapeva bene che cosa, interruppe lo scambio.

«Sposarti! Non sai rispettare neanche le regole basilari» rimproverò a Candace con le sopracciglia quasi unite in un unico cipiglio. «È un novizio. Voi due non dovreste parlargli!»

«Ma io sono la contabile» protestò Leba.

«Beh, forse tu» cedette Maddalena, agitando un mestolo di legno verso le ragazze, «ma lei?»

«Sono utile!»

«Tu stiri gli abiti e attacchi bottoni, Candace, quindi a meno che il rilancio di Bluefields non comprenda una stireria non hai nessun motivo di parlare con lui!»

«È terribile che lei dica questo, Sorella! Sta dicendo che una testa in più non serve?»

«Lo sarebbe se non fosse piena di frivolezze e di pensieri impuri» replicò lei acida.

«Ora il matrimonio è un pensiero impuro! Lo dice solo perché lei non si è sposata!»

«Lo dico perché ti conosco da quando sei arrivata qui!»

«Sorella» le interruppe Ferid, roteando la matita tra le nocche, «credo che tutto sia utile se servirà a tenere in piedi Bluefields. Le sue stilettate al veleno su Candace però non servono allo scopo, quindi può per favore partecipare positivamente oppure andarsene a dormire?»

Per bella risposta Maddalena ripose mestoli e spatole con stizza e lasciò la cucina a passi pesanti. Ferid sospirò di sollievo.

«Bene, forse adesso possiamo discuterne in pace.»

«Grazie» gli fece Candace, con il viso che si tingeva di rosa per l’emozione.

«Ho un debole per il romanticismo, mi addolora vedere una ragazza romantica bersagliata di cattiverie» abbozzò Ferid. «Sapete, l’isolamento di Bluefields è il nostro problema più grande. Se da una parte ci ha permesso di avere un tale appezzamento di terreno, dall’altra ci taglia fuori da molti servizi che potremmo fornire.»

«Ad esempio?»

«Doposcuola per bambini. Servizi di pulizia, manutenzioni, lavaggi… in pratica, da qualsiasi fonte di soldi.»

Ferid buttò la matita sul foglio e fissò il lampadario con il paralume finto Tiffany, intrecciando le dita dietro la nuca. Quasi non si accorse di quella specie di massaggio che le mani di Leba facevano sulle sue spalle, o almeno non trovò nulla di innaturale in quel gesto.

«Chi farebbe la strada fino qui per portare dei bambini al catechismo, o a un qualsiasi corso doposcuola? Chi porterebbe l’auto a riparare, o a lavare, o il bucato, o qualsiasi altra cosa fino a Bluefields quando qualcun altro lo farà a prezzo modico molto più vicino?»

«Mmh…»

Le ragazze emisero un identico sospiro sconsolato e per lunghi minuti solo il ronzio del frigorifero scongiurò il silenzio assoluto. Candace poi snocciolò qualche idea, ma pur sempre impraticabile in una zona così remota, mentre Leba ipotizzò di chiedere a Nereus un permesso speciale per lavorare al di fuori della tenuta. Ferid appoggiò la sua idea più per mandare a dormire le ragazze con la sensazione di aver concluso qualcosa che per fiducia nel risultato, e finirono il loro tè mentre le due cercavano di decidere dove andare e cosa avrebbe fruttato di più.

Nella sua testa Ferid concluse che era giunto il momento di rivelare a Crowley un segreto che contava di mantenere ben più a lungo.

 

***

 

Mentre attraversava il metal detector all’ingresso di una delle banche più importanti del paese Crowley si sentiva il cuore in gola come se stesse entrando per rapinarla. Il biglietto che gli avevano dato era accartocciato nella mano sinistra e dovette stirarlo per leggerlo di nuovo. Si guardò intorno, spaesato come la prima volta che da bambino aveva preso un aereo al Chambers International.

«Posso aiutarla, signore?»

Crowley guardò la donna attempata dall’invidiabile fisico asciutto con tutta la gratitudine che poteva manifestare.

«Dovrei parlare con il signor Edwards… Steven Edwards.»

«Ha un appuntamento?»

«Non proprio, ma… riguarda…»

Esitò guardandosi intorno con occhiate nervose. Si sentiva come quando comprava cocaina per arrestare gli spacciatori, ma molto più impacciato.

«Riguarda i conti a nome Redfield.»

«Attenda un momento, per favore. Mi informo sugli impegni della giornata.»

Il tono in cui la donna gli rispose gli suggerì che lo sconosciuto signor Edwards dovesse essere un pezzo grosso e molto impegnato, e Crowley si chiese che cosa fare se non avesse potuto riceverlo. Fissò il bigliettino, con il nome e alcuni numeri scribacchiati da lui stesso sul retro secondo le istruzioni di Ismael, e ancora non aveva idea di che cosa significassero.

«Prego, signore, il signor Edwards è ansioso di riceverla.»

L’apparizione della donna lo prese di sorpresa e si alzò come se dalla sedia fossero uscite puntine da disegno. Diede un colpetto di tosse e si aggiustò la cravatta per dissimulare l’imbarazzo, attraversando la banca nella scia della donna dal completo blu scuro. Per quanto si sentisse un pesce fuor d’acqua pareva che nessun altro cliente o impiegato facesse caso a lui.

Arrivò a un ufficio con la targa dorata sulla porta e la donna l’annunciò. Le mormorò un ringraziamento impacciato quando entrò e ottenne in cambio un sorriso servile e la cortesia di avere la porta chiusa dietro la sua schiena.

«La prego, si sieda» l’invitò l’uomo alla scrivania. «Posso offrirle del caffè? Acqua minerale?»

«Ehm… sì, grazie.»

Fu una fortuna che Edwards stesse versando il caffè dalla sua macchinetta personale, perché per poco Crowley non fece saltare il bottone della giacca sedendosi senza sbottonarlo. Non indossava giacca e cravatta da quando aveva presenziato al matrimonio del suo superiore alla narcotici.

«Panna e zucchero?»

«Nero è meglio, grazie.»

Edwards glielo servì e sedette davanti a lui, intrecciando le dita sul bel sottomano di vera pelle. Aveva il sorriso di un esattore delle tasse che si aspetta una sacca di monete d’oro.

«Ho l’onore di parlare con il signor Redfield o con il signor Eusford?»

Sorpreso, rinunciò al primo assaggio di caffè.

«Sono… Eusford.»

«Che cosa vuole fare? Depositare? Trasferire? Prelevare? Ha forse delle domande sul nostro prospetto di diversificazione degli investimenti?»

Perplesso Crowley bevve solo per avere una scusa per non scoprirsi e gli allungò il biglietto malconcio. Per fortuna i numeri avevano più senso per lui che per l’irlandese.

«Oh, un trasferimento… una cifra modica. Di che si tratta, signor Eusford? Donazioni? Investimento in piccole aziende?»

«Diciamo… entrambe, ma non acquistano utili d’impresa, quindi… donazione sia.»

«Procederò immediatamente. Mi occorre però il suo documento, visto che in verità non ci siamo mai visti, capisce.»

«Certo, ehm…»

Si tastò le tasche interne alla ricerca della patente. Aveva ricevuto istruzione di parlare il meno possibile, ma non riuscì a trattenere la curiosità.

«Tanto per parlare, ehm… esattamente quanto c’è su questo conto?»

«Desidera un estratto conto dettagliato o la cifra di mia memoria le è sufficiente?»

«La cifra può bastare» abbozzò, mentre gli passava il documento.

«Al netto degli interessi maturati nell’ultimo trimestre, otto milioni e seicentomila, e qualche spicciolo.»

Crowley deglutì appena in tempo per non sputarsi tutto sulla camicia nuova.

«Otto— a-aspetti, dollari? Parliamo di dollari americani?»

Edwards tese un sorrisetto divertito mentre digitava sulla tastiera del suo terminale.

«Immagino sia il signor Redfield che controlla il capitale.»

«Sì» replicò lui, con la gola improvvisamente secca. «È lui che… si occupa del denaro.»

«Lo supponevo… altrimenti saprebbe che sono sterline.»

Dopo un caffè, un bicchiere di Perlier, una ricevuta stampata e una cordiale stretta di mano Crowley abbandonò la filiale della banca e salì in macchina, quasi strappandosi di dosso la cravatta. Ismael abbassò il volume della radio.

«Hai ammazzato qualcuno? Sei bianco come il gesso.»

«Per quale diavolo di motivo ho una delega su un conto di quasi dieci milioni di dollari?»

«Non è ovvio?»

«Se lo è, illuminami!»

Ismael mise in moto con un sospiro esasperato.

«Pensi davvero che Pepper abbia sparso soldi a tutti gli enti benefici d’Inghilterra e non abbia pensato a te, nel caso gli fosse successo qualcosa?»

Scioccato e senza parole, Crowley scorse la ricevuta e il saldo del conto al netto del trasferimento appena ordinato. Quando aveva detto di voler mantenere alla scuola cattolica la sua moltitudine di figli Crowley non l’aveva preso sul serio, ma a quel punto fu certo che Ferid non scherzasse.

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Capitolo 18
*** Pioggia autunnale ***


Il vento scompigliava i capelli di Ferid mentre guardava i campi seminati di Bluefields dalla finestra del corridoio al secondo piano della Casa Grande. Alle sue spalle Nereus parlava da solo di qualcosa che a lui non interessava e la sua mente l’aveva ridotto a un mero rumore di fondo mentre rimuginava.

Non possiamo fare nient’altro… è troppo tardi per installare un impianto di irrigazione, e ci vorrebbero troppo tempo e troppi soldi. Non posso fare trasfusioni troppo cospicue dai miei conti, sarebbe sospetto… ma se non piove per un mese la qualità dell’orzo sarà compromessa…

Ferid si abbandonò sul davanzale con un sospiro affranto molto teatrale. Nereus, del tutto ignaro della natura dei suoi pensieri, si avvicinò per dargli una pacca sulla spalla.

«Lo so che le meditazioni in acqua non ti piacciono, ma per il livello quattro è necessario che cominciamo a farle…»

«Nereus, per favore, non ho tempo per il livello quattro» tagliò corto Ferid, fin troppo brusco. «Dobbiamo organizzare un sacco di cose, devo lavorare a quel rottame, e abbiamo continue revisioni di budget. Non ho tempo per studiare di più e fare tutte quelle cose.»

«Connor, mi pareva di averti chiarito che la cosa importante qui è il tuo percorso spirituale… tutto quello che fai per Bluefields è degno di lode, ma devi coltivare anche la tua anima.»

«La mia anima non serve a niente se la comunità va in rosso. Non lo capisci? Dio mi ha mandato qui per questo. Per risollevare Bluefields… per farti arrivare dove vuoi arrivare. In cima.»

Le labbra di Nereus si strinsero con quella rigidità della mascella che ormai aveva imparato ad associare al disappunto.

«Non dire così… le mie ambizioni non sono queste, io…»

«Non ti devi vergognare con me. Io non vedo nulla di male nel voler diventare un leader riconosciuto, visto che vuoi farlo per raggiungere più persone che puoi. Tu hai fatto molto per me e per mio fratello, e io voglio darti il mio meglio per raggiungere l’obiettivo.»

«Io… grazie, Connor. Apprezzo molto le tue parole e i tuoi intenti… ma io sono un pastore, devo guidarvi. Tu devi continuare il tuo percorso…»

«Lo farò quando saremo pronti per il raccolto estivo… quando saremo sicuri di aver superato l’ostacolo più alto.»

Ferid lanciò un’occhiata ai campi, come se quelli lo stessero sbeffeggiando con la loro terra secca in superficie.

«Va bene» l’assecondò il Padre. «Ma ora non hai da fare, quindi che ne pensi di un po’ di lezione per recuperare quelle che hai saltato per andare a fare il sopralluogo al pozzo?»

«Non posso. Devo andare a pregare per la pioggia.»

Vide con la coda dell’occhio Nereus scuotere la testa mentre si allontanava da lui. Scese le scale fissato su pensieri che stavano per scoppiare al calore come pop corn, non salutò nessuno di quelli che incrociò e alla fine giunse alla cappella. Assicuratosi di essere il solo lì dentro, chiuse il portone.

«Bene, bene, bene. A tu per tu.»

Sollevò gli occhi celesti sul crocefisso, un ricercato Gesù scolpito in pietra arenaria con pregevoli smalti blu a decorare i raggi di luce intorno al capo. Misurò a grandi passi la navata centrale dal tappeto del medesimo blu zaffiro.

«Sono stanco di questa storia, hai capito? Perché devi opporti a me qualsiasi cosa faccia? Che cosa ho sbagliato, stavolta?» sbottò, bloccandosi sul gradino più basso di fronte all’altare. «Cerco di aiutare Mikaela! Cerco di… fare del bene! Di scoprire ipocrisia e intenti criminali che ci posso essere qui, e lo sto facendo aiutando la comunità!»

Quasi irritato dal silenzio della cappella Ferid prese a marciare su e giù da un lato all’altro.

«Quello che io sto facendo qui rimarrà anche dopo che ce ne saremo andati! Lascerò qualcosa di valore a una tua casa, a gente che cammina con te! Che cosa vuoi più di questo, che mi squarto una gamba con un cilicio? Sto persino evitando di usare il piano B, e tu sai che cos’è! Che altro vuoi per schierarti dalla mia parte, per una maledetta volta?!»

Ferid smise di camminare con un grande sforzo, ma appena ci riuscì si sentì del tutto svuotato della sua ira. Si sedette sui gradini e ancora una volta si sentì abbandonato, esattamente come quando da bambino aveva continuato a subire per anni i soprusi di una madre malata a dispetto delle sue accorate preghiere.

«Perché mi hai fatto incontrare Crowley, se non possiamo stare insieme? Perché mi hai portato da Mikaela, se non posso fare qualcosa per aiutarlo?»

Attese nel silenzio una risposta, un segno di qualsiasi tipo, ma non accadde nulla. Appoggiò la fronte alle ginocchia in preda allo sconforto.

«I tuoi disegni sono troppo difficili da capire.»

Restò lì, con la testa sulle ginocchia, a ripensare ai suoi grandi piani, alle sue strategie e ai suoi sogni che avrebbero potuto infrangersi per colpa di una banale siccità. Finì alla deriva nella memoria della sua infanzia dolorosa, dell’orrendo tradimento di Bobby, dei travagli della sua adolescenza in un paese non suo senza punti di riferimento, dei pericoli che aveva evitato per fortuiti incontri, prima con Claude e poi con Krul.

Chissà come sta… la bimba sarà già diventata più grande…

Con uno schiocco secco la serratura del portone scattò e i battenti si spalancarono, facendo sussultare Ferid. Il vento trascinò dentro la chiesa le foglie secche dal cortile e con esse l’eco di un tuono.

Con il cuore in gola si alzò e corse al portone, guardando con meraviglia le nubi nere che si ammassavano in un cielo che era perfettamente azzurro quando era entrato in chiesa. Fuori di sé dalla gioia non si preoccupò neanche di chiudere il portone: uscì di corsa sul viale nord, ammirò un cielo di nuvole tempestose a perdita d’occhio e raggiunse il sentiero che tagliava a metà i campi grandi, bloccandosi proprio lì, in piedi a braccia spalancate nel vento.

Non attese molto prima di sentire le prime gocce di pioggia cadergli sul viso. Vide piccole macchie ricoprire il terreno secco e scoppiò in un urlo di gioia, neanche fosse un pellegrino appena riemerso dal deserto.

«La pioggia! Finalmente la dannata pioggia!»

Come un pazzo scoppiò in una risata, fece una piroetta sotto grosse gocce di pioggia fredda e si lasciò cadere di schiena sull’erba ingiallita del sentiero. Non riusciva a tenere gli occhi aperti sotto la pioggia, ma sospirò con il cuore leggero come una piuma.

«Grazie» esalò, sorridendo tanto che aveva male alle guance. «Grazie…»

L’euforia si spense poco a poco come un falò sotto lo scroscio, ma subentrò un senso di pace così diffuso che il disagio degli abiti bagnati non era sufficiente per convincerlo ad alzarsi. Il suo corpo sembrava volere quella pioggia come se anche lui fosse un seme in attesa di germogliare nel buio confortante del sottosuolo.

Un lieve cambio nel rumore del temporale, come di gocce su un tessuto sintetico, gli suggerì che qualcuno fosse in arrivo prima che gli facesse da barriera. Aprì gli occhi notando l’ampio ombrello scuro e sotto ad esso l’espressione preoccupata di Nereus.

«Connor… ma che cosa stai facendo? Ti ammalerai.»

Ferid si alzò puntellandosi sui gomiti. Aveva la camicia fradicia e affondò un po’ nel terreno ammorbidito dall’acqua. Non ricordava di aver mai deciso di sua iniziativa di fare qualcosa di poco signorile come sdraiarsi a terra e sporcarsi, non da quando era stato l’ultima volta in mezzo al fieno con Bobby.

«Hai visto, Nereus? È arrivata la pioggia, alla fine.»

«Visto che hai tanto pregato per averla non avevo dubbi che sarebbe venuta» fece lui accomodante. «Ora però alzati… vieni a cambiarti e dedichiamo un po’ di attenzione alle lettere di Pietro.»

Nereus gli afferrò saldo il braccio per aiutarlo ad alzarsi. Ferid gli si aggrappò addosso, colto da un’idea improvvisa che volle seguire senza rifletterci troppo.

«Lo senti? Proprio adesso…»

Nereus non replicò subito, come se si aspettasse davvero di sentire qualcosa a parte il rombo strascicato di un tuono e il tamburellare sull’ombrello.

«Che cosa senti?» gli domandò in un sussurro.

«Sta ridendo… è una pioggia piena di gioia» replicò Ferid, altrettanto piano. «Siamo sulla strada giusta, Nereus… siamo dove voleva che arrivassimo.»

Nereus cercò di mascherare il suo sorriso indulgente con un sospiro ostentato.

«No, sai dove dovremmo essere adesso? Nella sala studio con una tazza di tè e la Bibbia. Su, lascia la pioggia ai nostri campi prima di ammalarti» lo incalzò sbrigativo. «Non ti lascerò uscire da Bluefields neanche se ti prenderai una polmonite spaventosa.»

«Non è molto carino da dire, sai?»

Ferid si rialzò e si accorse davvero di quanto fosse zuppo, e anche di quanto fosse freddo. Venne scosso da un brivido vistoso e il braccio di Nereus lo strinse con un vigore che non passò inosservato. Gli fece un sorriso caloroso che si irradiava fino a quegli occhi così simili a quelli di Crowley.

«Farò tutto quello che è umanamente possibile per tenere questo dono di Dio.»

 

***

 

La catasta di cassette di mele sotto il portico attirò immediatamente l’attenzione di Crowley quando superò il cancello di casa Bosley. Cercando tracce di vita vide solo Pandora guardarlo oziosamente dalla finestra del soggiorno, ma prima che attraversasse il giardino la porta si aprì rivelando Liam Bosley alle prese con il passeggino in cui era adagiata Naisha.

«Ah, eccolo qua» fece non appena lo vide. «Come va, Crowley?»

«Beh, è una buona giornata… un giretto?»

Prestò il suo braccio per aiutarlo a scendere i gradini con il passeggino e la piccola gli indirizzò un gran sorriso senza dentini, come volesse ringraziarlo personalmente. Ora che erano più vicini il tenente e Liam si scambiarono una stretta di mano.

«Krul vuole che Naisha stia fuori tutti i giorni, a meno che non ci sia brutto tempo. La porto al parco della quercia, è qualche isolato più giù della casa di Rid.»

«Volevo scambiare due parole con Krul, ma se sta per uscire posso ripassare…»

Non fece in tempo a finire che lei apparve sulla porta, con addosso un abito dal sapore vittoriano bianco con curiosi ricami di foglie verdi e quelle che a Crowley sembravano ghiande sul colletto. I suoi lunghi capelli erano legati in una treccia morbida attraversata da nastri verdi e arancioni.

«Abbiamo tutto il tempo di parlare, Liam e Naisha vanno da soli» gli annunciò mentre prendeva una cassetta di mele. «Vieni dentro, e già che ci sei porta queste in cucina.»

«Divertitevi» fece Liam con un sorrisetto. «Fai ciao a mamma e allo zio, tesoro… ciao~»

Naisha emise un gridolino perforante mentre il padre la portava via. A Crowley dispiacque non poterla vedere per un po’ o tenerla in braccio, ma si rassegnò a caricarsi invece le braccia di quante più mele riuscisse e a portarle in cucina. Notò immediatamente che la casa sembrava disordinata, molte credenze erano state svuotate.

«State traslocando o cambiate la cucina?»

«Nessuna delle due» replicò lei, allungandogli uno strofinaccio. «Si avvicina il Mabon, e molti colgono questo sabba per ripulire la casa e liberarsi di quello che non serve più. Per i wiccan è come un capodanno.»

«Il vostro anno finisce a settembre?»

«No, finisce il 31 ottobre con Samhain… sai, Halloween. Ma per i praticanti della magia è un giorno da dedicare a potenti incantesimi, alla divinazione e alla comunicazione con i morti, quindi si coglie l’occasione del Mabon, il sabba minore, per dedicarsi a queste pulizie, fisiche ed energetiche.»

Gli mise in mano lo strofinaccio e uno spruzzino, poi sospinse lo sgabello vicino alle credenze vuote.

«Alle energetiche penso da sola, ma apprezzo molto le tue lunghe braccia per quelle fisiche.»

«Mi hai chiamato per farmi fare le pulizie a casa tua?»

«Solo gli scaffali in alto» s’indignò lei. «Non essere meschino, hai visto o no quanto sono bassa?»

«Hai un marito per questo, e non sono io» sospirò Crowley, ma salì lo stesso sullo sgabello.

«Parli bene tu! Ferid fa le pulizie da solo ed è alto quasi quanto te!»

Crowley esitò mentre spruzzava sopra la credenza. L’odore di arancia del detergente aveva un che di amaro, o forse lo sentiva lui per via dei suoi pensieri cupi.

«Ferid non è mio marito.»

«Non ancora» precisò lei con la massima naturalezza.

Crowley le lanciò un’occhiata nel tentativo di capire se lo prendesse in giro o se godesse nel trafiggerlo nella sua piaga più dolorosa, ma non vide altro che una donna tranquilla che spolverava i suoi ninnoli. Non capiva come potesse essere tanto certa di qualcosa di così improbabile.

«La mia religione non mi permette di sposare un uomo… e neanche questo Stato, in realtà. Dubito che ci sposeremo mai.»

«La mia religione lo permette» fece lei scrollando le spalle. «Potreste sposarvi dentro la mia congregazione. In fondo la cosa importante del matrimonio è il legame spirituale, il voto che fate uno all’altro. Le nostre celebrazioni delle unioni sono molto belle.»

«Io non sono uno di voi.»

«Neanche Liam lo è, ma ci siamo sposati lo stesso così. È stato lo scorso Lughnasadh, è una data frequente per i matrimoni, ma si può scegliere qualsiasi giorno. Molti si sposano in occasione di Beltane, i primi giorni di maggio.»

Mentre Krul gli spiegava che la festa di Beltane celebrava l’inizio della stagione calda, la fertilità della terra, l’amore e la vita e gli raccontava il ciclo di vita e morte del loro Dio maschile, Crowley si trovò per la prima volta a invidiare i pagani: il loro dio forse non era onnipotente come quello dei monoteisti, ma almeno non vietava loro di sposarsi per questioni di genere. Si sentì sconfortato e colpevole nei confronti del suo dio.

Nel mentre, aveva ripulito le credenze con quel detergente che sapeva di arancia e cannella e la padrona di casa gli stava passando stoviglie e decorazioni da rimettere al loro posto. Forse lei si era accorta della corazza mentale che aveva alzato per proteggersi dalle sue chiacchiere pagane, perché tese un sorrisetto e gli afferrò il braccio quando provò a prendere un vaso di coccio dipinto a papaveri.

«Oh, avanti… davvero non vorresti fargli una promessa pubblica, con quella solennità che viene dal giurare davanti a tanti altri che ami qualcuno? Scambiarvi un anello che suggelli quel momento e un bacio, festeggiati da persone che sono felici per voi due?»

Per un attimo, al battito delle palpebre, Crowley immaginò quella scena con una vividezza incredibile per essere concepita in una frazione di secondo. Vide Ferid con uno di quei suoi completi così ricercati che usava mettersi quando era libraio, immaginò uno sconosciuto sorridente snocciolare un discorso di fiducia, di amore e di rispetto, uno scambio di semplici anelli e un bacio. Senza la sua famiglia, ma con tutte le persone importanti per Ferid, fuori da una chiesa che non poteva accettare che si amassero.

Crowley prese il vaso e lo mise sopra la credenza.

«Ferid se lo meriterebbe. Troppe volte ha vissuto dei rifiuti, delle prese in giro, dei rapporti incompleti… meriterebbe un giuramento solenne, e un amore eterno come ha sempre sognato.»

«La tua religione non approva che tu viva con un uomo, che lo sposi o no… quindi sposarlo in un altro contesto non fa nessuna differenza, non trovi?»

Crowley scese dallo sgabello senza commentare. Ancora una volta, però, Krul sembrò leggergli dentro come se avesse i pensieri scritti sulla fronte come il tabellone pubblicitario luminoso di Cork Square.

«O piuttosto… è la magia che ti fa paura? Pensi che avvicinarti a gente come me ti farà perdere il paradiso? Lo vedo come diventi rigido quando vedi qualcosa che la tua religione ti ha insegnato a guardare come maligno. Le erbe appese sulle porte, la stella sul tavolino, le corna del dio della foresta…»

«Mi hai fatto venire qui per pulirti casa o per convertirmi?»

«Oh, adorerei riuscirci, Crowley. Ferid soffre moltissimo all’idea che tu perda il tuo dio e la tua chiesa per causa sua, e io sarei felice di darti un dio e una chiesa che non ti costringe a scegliere. Che non obbliga nessuno di voi due a scegliere tra la salvezza e l’amore.»

Se Krul avesse preso quel coltello intarsiato che teneva sul suo altare pagano e glielo avesse conficcato nella schiena gli avrebbe fatto meno male. Aveva il dubbio che Ferid si preoccupasse di metterlo a disagio con i suoi parrocchiani o con i suoi genitori che non erano affatto di mente aperta, ma non credeva che si affliggesse anche per aver minato la sua spiritualità.

«Te l’ha detto lui?»

«Sì. Dice che la tua fede ti protegge dal dolore che hai provato fino ad ora, e che portartela via sarebbe come rendere vana la morte dei tuoi amici. Che ti sentiresti solo senza la tua comunità. Lui, forse, abbraccerebbe anche una dottrina diversa… non ha mai avuto paura della mia magia, e si fida della mia divinazione. Si fiderebbe anche delle sue doti di guaritore, col tempo… ma finché tu resti così, non vuole. Non vuole separarti da un dio assoluto che pensi ti tenga tra le braccia.»

Aveva la sensazione di avere le labbra incollate con il silicone sigillante. Non riusciva a spingere fuori neanche una parola di fronte alla consapevolezza di non essersi accorto di quanto fosse profondo il dolore di Ferid e all’orrore di esserne la causa.

Con insospettabile dolcezza Krul gli si avvicinò, gli tirò il braccio per avvicinarlo alla penisola della cucina e gli mise davanti una mela e un coltello.

«Siamo nel periodo del Mabon. Scarta tutto quello che non serve anche dentro di te… taglialo via come la buccia di una mela. Quello che resta è quello che davvero conta.»

È magia o è una tecnica da psicoterapia?

Krul sedette a sbucciare mele di fronte a lui, canticchiando una musica che aveva qualcosa di familiare. Lentamente, come intorpidito, Crowley iniziò a fare lo stesso, creando una spirale di buccia screziata di rosso.

Non sono riuscito neanche a fare sesso quando Ferid non era più con me… come potrei amare qualcun altro? Sposare una donna, fare una famiglia… con il ricordo di lui che mi lascia solo per… la chiesa?

Un altro giro di buccia.

Lasciare una persona così speciale… un dono così straordinario… per cosa? La legge più grande dovrebbe essere l’amore… un amore così come potrebbe mai essere sbagliato?

Assorto, passò a un’altra mela.

Finirei per trovarmi deluso dalla vita e amareggiato dal mio Dio, se scegliessi la fede e abbandonassi quello che mi rende felice… ho sempre pensato questo. Ho scelto Ferid pur sapendo che non avrei potuto sposarlo, e presentarlo alla mia comunità…

Nelle sue mani il coltello si fermò a metà di una spirale molto regolare.

Se lui volesse qualcosa di diverso… se volesse… che ne so, mettersi a cantare nei giorni di luna piena, o… preparare dolci al miele in pieno agosto o… riempire la casa di gingilli di vetro di mare… che diamine, se volesse questo gli chiederei dove vuole che li appenda! Farei qualsiasi cosa per lui!

Si stupì di sentire la goccia calda sulla mano e ancora di più di scoprire che gli era caduta dall’occhio. Si affrettò a strofinarlo, ma sentì solo ciglia umide.

«Sei arrivato a qualcosa?» gli domandò Krul, che aveva già sbucciato e fatto a spicchi quattro mele.

«Come hai fatto a diventare così?»

«Così bella, intendi? Dono di natura» fece lei, divertita.

«Così… come se sapessi sempre tutto. Come se sapessi sempre che cosa fare o che cosa dire.»

Emise una risata sottile che gli ricordò Ferid quando non voleva svelare i suoi trucchi culinari.

«Con te non è così difficile… sei un uomo onesto, che non vuole ferire nessuno e sei devotamente cristiano. È facile prevedere come reagirai a qualcosa.»

Crowley osservò Krul con occhi diversi, con curiosità, per la prima volta da quando l’aveva incontrata al Magick. Per l’uomo che era una volta un soggetto particolare come lei sarebbe stato una fonte di novità, le avrebbe fatto migliaia di domande su qualsiasi argomento, sulla sua magia, sul suo modo di vivere. Ancora una volta rimpianse l’impulsività di Crowley Eusford di due anni prima.

«Io non so prevedere niente di quello che dirai o che farai… ma non sei più la stessa bisbetica scostante che prendeva Ferid a tacchi sugli stinchi, in effetti.»

«Quello che è successo con Robert Warren ha cambiato il rapporto tra me e Ferid… o almeno… mi ha costretta a vedere quello che davvero provavo per lui. Non ho potuto ignorare il fatto che… che anche mentre mi picchiava e inzuppava di benzina io volevo solo che Ferid non gli desse retta… che non venisse ucciso. E non ho potuto ignorare che mi sono quasi fatta ammazzare per non farglielo portare via.»

«Se gli volevi così bene perché lo trattavi in quel modo?»

«Mh… Ferid mi ha amata più di chiunque altro io abbia incontrato prima di Liam… io non ero abituata all’amore, neanche a quello famigliare. Non mi piaceva la sua fragilità, la sua indecisione, e non sapevo come reagire. Ancora oggi trovo inspiegabili alcune reazioni che ho avuto a cose che mi ha detto.»

«Ma ora sei molto calma… direi che hai trovato pace.»

«È vero, ma l’ho trovata in Liam… da quando lo conosco ho rimesso a fuoco… ho fatto delle scelte che mi hanno portata ad altre persone ed esperienze, che mi hanno cambiata ancora. Una catena che parte da lui.»

Crowley soppesò una mela, rossa come il sangue.

«Sembra una bella cosa… io ero molto migliorato quando vivevo con Ferid, ma… la sua partenza credo mi abbia peggiorato. Mi prendo cura di me, non mi perdo più in relazioni da poco… ma… mi sembra di avere paura di tutto. Di fare, di non fare, di sbagliare… di cambiare. Anche se tutto cambia, ora ne ho paura.»

«Come dici tu, tutto cambia… a volte dopo quarant’anni, a volte dopo appena un giorno. Queste mele tra qualche settimana saranno solo resti… tra dieci o cento anni, anche noi saremo solo ossa. Tuttavia, si può scegliere di aspettare che il cambiamento ci piova addosso oppure cambiare queste mele in un delizioso sidro.»

«È una massima zen? Dobbiamo morire, ma puoi stare a rimuginarci oppure bere un bicchiere di sidro?»

«Buona risposta, Crowley… il punto, comunque, è che non sei costretto a restare una mela, se non vuoi. Se non ti piace esserlo, diventa sidro. Aceto di mele. O una apple pie. Ferid adora la torta di mele.»

Il che sarebbe come dire che… ho paura perché scelgo di lasciarmi prendere dalla paura? Che posso essere di nuovo quello di prima, se solo scelgo di agire come avrei fatto due anni fa?

Krul terminò di affettare le sue mele e tirò fuori da sotto il ripiano un barattolo contenente qualcosa che Crowley non aveva mai visto: sembravano piccoli fiori secchi, ma sporgendosi vide che avevano dei semi incastrati tra i petali.

«Anice stellato» fece la strega. «Viene dalla Cina. Ne uso sempre un po’ nel mio sidro di Mabon: mele, cannella, scorza di arancia, anice stellato e un goccio di liquore al mandarino… una della mia congregazione, Arianne, prepara liquori deliziosi con i suoi agrumi.»

Krul gli parlò di come era arrivata all’idea di escludere i chiodi di garofano dalla ricetta in favore dell’anice stellato dopo ave bevuto un infuso indiano a casa di un’altra donna della sua congrega, poi iniziò a parlare del successo dei suoi dolci lievitati e arrivò a fargli una cronaca dettagliata di come si svolgevano le celebrazioni dei sabba minori e del perché facessero questa o quella cosa.

Quando vide che non aveva intenzione di smettere di parlare della congrega o di semplici preferenze personali di Crowley, il tenente si convinse che non era stato invitato per sapere qualcosa di Bluefields. Era determinata a fare qualcosa per alleviare il fardello di Ferid e aveva deciso di farlo portando il suo uomo dalla schiera dei cristiani a quella dei pagani.

 

***

 

Al terzo piano della canonica Ferid schiumava di rabbia, spostando vecchi tomi sul tavolo della cosiddetta biblioteca. Non aveva mai visto in vita sua così poco riguardo per la cultura umana e non riusciva a capacitarsene: scaffali polverosi senza lettere o contrassegni ospitavano una serie di libri rilegati in pelle consunta, la gran parte senza titolo sul dorso o così scolorita da risultare illeggibile, senza un codice o un’etichetta. Alcune copertine erano staccate, qualche rilegatura aveva ceduto e pagine spiegazzate sporgevano, altri erano macchiate d’inchiostro o bevande sgocciolate.

Cercare un libro in quelle condizioni era come setacciare sabbia alla ricerca d’oro nel buio più fitto e urtava la sua anima di libraio come una palla demolitrice chiodata.

«Solo un mentecatto chiamerebbe questo marasma biblioteca.»

Ferid sbuffò nella stanza vuota e si lasciò cadere sulla sedia più vicina alla lampada per sfogliare libri anonimi, antiquati e dall’odore di stantio. Non riusciva neanche a concentrarsi e carpiva solo frasi scollegate, qua e là tra i paragrafi, per tentare di cogliere l’argomento.

Era esausto. Nereus insisteva sempre di più sugli studi, Mikaela diventava sempre più intrattabile – sospettava fosse dovuto soprattutto alla prolungata insoddisfazione di bisogni fisici – e un mucchio di libri malconci era la ciliegina sulla torta di una settimana molto lunga e pesante.

Alla fine, dopo un combattimento di quasi un’ora, si arrese: non aveva la minima speranza di riuscire a trovare materiale sugli argomenti della sua ultima lezione con Nereus setacciando volumi del tutto a caso. Quello che aveva davanti, infatti, aveva tutta l’aria di essere un compendio di botanica.

«Sei il primo che vedo studiare qui dentro!»

Ferid alzò la testa e dissimulò un principio di sbadiglio coprendosi con la mano.

«Che cosa fai qui a quest’ora, Lucky?»

«Ho visto la luce accesa dal dormitorio… credevo che l’avesse lasciata accesa qualcuno, ma poi ho visto un’ombra passarci davanti. Sono venuto a curiosare.»

«La curiosità uccise il gatto, non lo sai? Avresti potuto trovare qualcuno in procinto di concludere affari illeciti… o di pomiciare come ragazzini.»

«E invece ho trovato te qui da solo… sei solo, vero?»

Ferid tese un sorriso quando lo vide guardare sotto il tavolo e dietro lo scaffale.

«Sono sotto sorveglianza speciale?»

«No, però se ci fosse qualcuno non lo direi al Padre… non sono uno spione» fece il ragazzo, sedendosi sulla panca. «Tutti noi abbiamo difetti e facciamo qualche sbaglio. Cerco di non giudicare quelli degli altri…»

«Lo apprezzo, Lucky, è gentile… ma non c’è proprio nessuno. Mi spiace non averti offerto uno spettacolo abbastanza interessante da giustificare la strada fino a qui.»

«Sei spettacolare più che abbastanza.»

Con il cervello ottuso dalla stanchezza Ferid non riuscì a dare un senso a quella frase prima che Lucky mettesse le labbra sulle sue e non fu veloce quanto avrebbe voluto nel respingerlo. Bastò una mano per staccarselo di dosso ma il cuore gli pulsava in gola come se avesse lottato con un orso.

«Che cosa diamine fai, Lucky?»

Sapere di avere oltre dieci anni più di quel ragazzo fece sentire Ferid orrendamente colpevole, ma essere rifiutato fece sbiancare Lucky sotto il suo spruzzo di lentiggini. Scattò come una molla dalla panca e, asserragliatosi dietro le braccia muscolose incrociate, si mise dietro lo scaffale quasi volesse nascondersi.

«P-perdonami, Pepper, io… ti prego, non dirlo al Padre!»

«Okay, ma…»

«Ci provo, lo giuro su Dio! Ci provo a resistere, con tutte le mie forze, ma…»

Il terrore del ragazzo ebbe un effetto calmante su Ferid. Non si era sbagliato su di lui, anche se aveva avuto uno slancio di coraggio che non si aspettava, e si dispiacque che un ragazzo tanto giovane fosse intrappolato nella tenaglia tra fede e sessualità.

«Neanche io sono uno spione, e ho il peggior curriculum del mondo su difetti e peccati… non ti preoccupare, non dirò niente a nessuno.»

Se sperava che Lucky si sentisse sollevato e scappasse a letto per dormire sopra il suo imbarazzo fu deluso. Per qualche ragione il ragazzo era più nervoso di prima.

«Non sono riuscito a ignorarti. Io… sono finito qui per questo, Pepper. Per i miei… interessi.»

«Non ti seguo.»

In realtà lo seguiva eccome, ma Lucky sembrava scalpitare per raccontare quella storia più di quanto fosse smanioso di baciarlo.

«A me… a me piacciono gli uomini… sono sempre stato così. Fin da bambino… e quando mia madre lo ha scoperto hanno deciso di mandarmi in una comunità cattolica… è la terza in cui arrivo, sono stato espulso dalle altre due.»

«Ma è orribile!» s’indignò Ferid.

«Non riesco a controllare i miei impulsi… rigo dritto per un po’… a volte per tanto tempo, ma poi devo… dargli retta, capisci? Non riesco più a dormire bene, non mi concentro più, divento nervoso e aggressivo…»

L’elenco dei sintomi era Mikaela sputato e Ferid si passò la mano nei capelli. Non sapeva se ridere o disperarsi e nel dubbio non fece niente se non fissare il profilo di Lucky.

«Capisco benissimo» replicò in tono neutro.

«Vedendoti ho… perso un po’ la bussola… tu… tu sei il tipo che piace a me» aggiunse aggrappandosi allo scaffale, come se gli desse la forza di spiegare. «Un uomo… bello come una donna… uhm, non so spiegare bene, ma… i tuoi capelli lunghi, e… metti quella cosa lucida sulle labbra, è da impazzirci… ho… ho pensato che venendo da un gruppo di satanisti forse anche tu… a-anche tu avresti voluto un po’ di…»

A quanto ne sapeva Lucky aveva tra i venti e i venticinque anni, ma sembrava un timido adolescente mentre cercava di spiegare i suoi gesti impulsivi. Provò tenerezza per lui, cancellando qualsiasi dubbio di essersi sbagliato nel giudicarlo.

«Ti ringrazio per i complimenti, caro… ma proprio perché vengo da lì non posso permettermi di mettere un piede in fallo, capisci? Non ti giudico… ma non posso darti quello che cerchi.»

«Perdonami… io… ti ho giudicato dal tuo passato… non avrei dovuto…»

Ferid si alzò per avvicinarglisi e Lucky sfuggì la sua carezza affondando la testa tra le spalle come un gatto diffidente.

«Sei un caro ragazzo, Lucky… perciò ti darò una dritta… un suggerimento, diciamo.»

«Ti supplico, non dirmi di pregare» sospirò lui, come se l’avesse sentito dire migliaia di volte.

«Dici che sono il tuo tipo… e il mio fratellino, lo è?»

Non servì una risposta palese, anche perché agli occhi di Ferid non esistevano parole più espressive dello sguardo colpevole che gli lanciò.

«Non sono nella sua testa, ma… diciamo che… ho l’impressione che il mio devotissimo fratellino inizi a pagare la sua giovinezza morigerata… e poi, mi sono accorto di come ti guarda quando sa che tu non lo vedi.»

Si era preso una piccola licenza narrativa, ma aveva notato qualche sguardo curioso e qualche parola spesa su di lui da parte di un giovane che prima diceva di essere inquieto in sua presenza. In realtà tacitò la propria coscienza con argomenti indiziari: Mikaela stava diventando così irritabile che avrebbe messo mano al suo portafoglio se solo fosse servito a scaricargli i nervi, o qualsiasi cosa fosse sovraccarica in lui.

«Mikael…? M-Mikael parla di me?»

«Oh, certo, in modo piuttosto casto… ma parla spesso di quanto hai lavorato duramente, di quanto è spontaneo il tuo sorriso quando parli di casa tua… non passa un giorno senza che parli di te o che ti guardi, vorrà pur dire qualche cosa. Non trovi?»

«Di… di certo non quello che pensi! È così impegnato, è arrivato da poco ed è già un corso avanti a me… è un ragazzo meraviglioso, se gli angeli esistono devono essere come lui» replicò Lucky, agitato. «Uno come lui non potrebbe mai… pensare alle cose che penso io… provare quello che provo io…»

«Non sei nella sua testa più di quanto lo sia io, Lucky… potresti sempre approcciarlo. È mio fratello, in qualsiasi caso non direbbe niente a Nereus… e… beh, la sua immaginazione è molto più facile della mia da stuzzicare, sai… è più… ingenua.»

La sola idea di corrompere un fiore che credeva essere incorrotto sembrava troppo angosciante per il ragazzo del Kentucky, che balbettò frasi sconnesse di cui Ferid capì solo “non posso” ripetuto un paio di volte. Riuscì persino a inciampare nella panca mentre barcollava verso la porta.

«Beh, tu pensaci su, Lucky… il mio balsamo per le labbra glielo posso sempre prestare~»

Fu l’affondo finale e il suo assistente quasi fece il corridoio di corsa per allontanarsi. Ferid sospirò di stanchezza e spense la lampada, lasciando i libri alla rinfusa sul tavolo per andare a farsi una bella dormita.

Tirò un altro sospiro, questa volta di sollievo, quando scoprì che Mikaela stava già dormendo, risparmiandogli stoccate o lamentele della tarda sera. Saltò la preghiera e si mise sotto le coperte, con un piccolo tarlo insistente nella testa.

Perdonami, Yuu, ma se tu vedessi com’è ridotto Mika arriveresti fino qui a piedi per montarlo come panna nella zangola.

Tuttavia solo il pensiero che alla fine sarebbe toccato a Mikaela scegliere riuscì a spegnere quel ronzio abbastanza da permettergli di addormentarsi.

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Capitolo 19
*** L'altra strega ***


Mikaela canticchiava un motivetto che assomigliava molto a un canto del loro modesto coro e questo sorprese molto Ferid, che rientrò nella celletta col dubbio di aver sbagliato porta. Chiuse cautamente alle sue spalle e vide che Mika stava soppesando il suo bloc notes e il suo voluminoso libro di studio, ma si accorse della sua presenza.

«Oh, ciao. Dov’eri?»

«In lavanderia, a prendere il cambio…»

«Ah, ecco.»

Il ragazzo riprese a canticchiare mentre infilava blocco, quaderno di appunti, penne e anche il libro della sua borsa ricavata da vecchi jeans. Il suo comportamento era ancora più inspiegabile di prima e non capiva se era un nuovo stadio dell’evoluzione della sua astinenza.

«Sei… hai…»

Il balbettio incerto di Ferid interruppe i solfeggi di Mika.

«Eh?»

«Hai incontrato Lucky, oggi?»

«Sì, perché? Gli è successo qualcosa?»

«No… cioè… che avete fatto?»

Le sopracciglia di Mika si sollevarono, e fu piuttosto certo che non fosse accaduto quello che pensava: e lo conosceva quanto pensava la sua reazione sarebbe stata quella di stare sulla difensiva e accigliarsi come un falco.

«Quello che facciamo sempre quando ci incontriamo. L’ho salutato e abbiamo parlato di qualcosa.»

«Per esempio?»

Mika si fece sospettoso. Aveva capito che stava indagando su qualcosa, ma non sembrava che avesse capito che cosa cercasse di sapere.

«Le solite cose, no? La pioggia, i campi, le lezioni…»

«Quindi non ti ha detto niente?»

«Che cosa doveva dirmi?» fece lui, spazientito. «Pepper, che hai combinato? Hai fatto qualcosa di stupido, vero? Ti sei di nuovo sentito male perché non dormi?»

«Ma che… no! E poi non mi sono sentito male, l’altra volta mi sono solo addormentato sulle scale mentre aspettavo che Nereus tornasse in ufficio!»

«Beh, domani chiederò direttamente a lui che cos’è che mi nascondi» tagliò corto Mika, mettendosi la borsa in spalla. «E se non mi piacerà ti prenderò con la stretta del cobra.»

Non aveva idea di che cosa fosse, ma bastò l’idea che potesse essere una mossa delle arti marziali miste per farlo sudare freddo. A quel punto però gli occhi azzurri di Mika fissarono le scarpe da lavoro che Ferid aveva ai piedi del letto.

«Ma dove pensi di andare, tu?»

«Ho avuto il permesso di Nereus di lavorare stanotte nel capannone verde. Sai, a quell’auto malconcia.»

«Malconcia? Quell’affare è un’auto quanto un fossile è un animale vivente!»

«Forse… ma se ci fosse modo di farla funzionare potremmo venderla, o usarla per andare e tornare da Ridgewood. Non si sa mai.»

«Ti fa così schifo dormire?»

«Voglio andare dai parenti di Crowley per il Ringraziamento» ribatté secco Ferid, ficcandosi le scarpe. «Non manca molto, bisogna darsi una mossa!»

«Se la pensi così smettila di saltare le lezioni del quarto livello.»

«Non vedo come immergersi in acqua gelata aiuti a scalare la gerarchia. No, farò a modo mio, grazie.»

«Non è poi così fredda, ci si abitua subito…»

«Tu sei mezzo russo, sei geneticamente immune al freddo!»

«Veramente sono russo per un ottavo, o giù di lì.»

«Beh, quell’ottavo è dirompente, Mika, ti sei mai guardato allo specchio? A volte mi sorprende che non partano cori alla Santa Madre Russia quanto entri in una stanza.»

Mikaela scoppiò a ridere come mai l’aveva sentito fare. Aveva una risata sonora, fresca, con un che di femminile dato anche dal modo in cui mise la mano davanti al viso. Lo prese del tutto di sorpresa, soprattutto perché non ricordava di aver mai sentito una risata tanto deliziosa in vita sua.

Oh, se Lucky lo vedesse ridere così sarebbe capace di sposarselo!

Dopo quel picco la sua risata si ridimensionò, rientrando nei parametri che conosceva già. Qualcosa nella sua battuta l’aveva divertito tanto che non riuscì ad articolare che parole interrotte per un paio di volte.

«Questo… okay, questo mi ha fatto ridere» riuscì a sospirare alla fine, a corto di fiato.

«Ma tu dove vai con quella borsa, invece?»

«Io seguo il protocollo, Pepper» lo pungolò, ma la sua bocca era ancora tesa in un sorriso. «Vado a lezione. Padre Vann organizza delle letture preparatorie per quelli del quinto livello, in preparazione al Battesimo.»

«Incontri Vann a quest’ora di sera?»

«Non agitarti, papà, sono incontri con più studenti. Stasera saremo io e Julius» lo rassicurò, con un colpetto sulla testa che era più un dileggio. «Lavorerai tutta la notte, immagino… ci vediamo domattina a colazione.»

Mikaela uscì dalla celletta e il corridoio rimandò lo strascico dei suoi passi e di una risatina che gli sfuggì di nuovo. Anche se Ferid lo considerava meglio della sua versione inacidita, aveva la sensazione che qualcosa aspettasse nell’ombra. Sentiva una minaccia avvicinarsi, come l’aria carica di elettricità preannuncia un temporale.

 

***

 

«Brava, bambina.»

Ferid diede un’affettuosa carezza alla piccola radio che aveva aggiustato quasi due settimane prima. Ogni tanto singhiozzava, ma non era riuscito a correggere anche quel difetto.

Ottenuto il suo sottofondo di musica Ferid tornò a dedicarsi alla macchina. Come diceva Mikaela quella Ford era più il fossile di una vettura che un veicolo con necessità di intervento, con la carrozzeria erosa dalla ruggine e il motore più vecchio e malmesso che Ferid avesse mai visto. Non aveva ancora controllato tutto, ma aveva il sospetto che mancassero dei pezzi e che, a quel punto, avrebbe potuto solo lasciar perdere.

Questo rottame è peggio di quello di Crowley. Almeno la sua carretta ogni tanto si muove.

Infilato sotto la macchina e con una pila così piccola da temere di ingoiarla al minimo movimento azzardato, non vedeva nulla che gli facesse immaginare un esito positivo per quel tentativo di resurrezione. Quasi sputò la torcia, sospirò di sconforto e si spinse fuori contro la resistenza di un carrello con ruote cigolanti.

«Cosa c’è di più sexy di un meccanico?»

S’irrigidì alla vista Lebanah, in piedi lì accanto, ma riuscì a non mostrare di essersi spaventato per la sua apparizione.

«Un poliziotto, forse» rispose, mettendosi seduto. «Che ci fai quaggiù, Leba? Ti sei persa?»

«Ho sentito padre Nereus dire ad Abel che non saresti stato a lezione perché ti eri chiuso qui a lavorare sulla macchina. Ho pensato che ti avrebbe fatto piacere un po’ di tè caldo.»

Dondolò il thermos e girò le tazze di plastica su un tavolo di acciaio ammaccato che Ferid aveva trascinato in mezzo al capanno come appoggio.

«Tu sei consapevole, vero, di essere una Rinata?»

«Ma certo. Ricordo molto bene il mio Battesimo. Sono anche scivolata, mi sono fatta male al ginocchio…»

«Quindi come mai continui a gironzolarmi intorno chiacchierando? Non puoi parlare con me, e spero tu abbia capito che non sono quello che veniva a scuola con te.»

«Veramente le regole dicono che i novizi non possono parlare ai Rinati, non il contrario.»

Lebanah versò il tè nelle due tazze e si avvicinò porgendogliene una. Il carrello mandò un lamento quando ci si sedette anche lei.

«Assam… delizioso aroma, no? Scommetto che è il tuo preferito…»

«Non m’intendo di tè» mentì lui, ripetendosi la frase del topo blu nella mente con variante: ora teneva una tazza nelle zampe. «Il mio uomo beveva solo birra e vodka, tra i suoi molti vizi costosi, e anche io quando ero con lui… il tè non mi appartiene granché.»

«Però, sai, Connor… ti sei abituato velocemente a una vita del tutto diversa. Hai imparato le preghiere e i canti, ti alzi presto la mattina… cosa che, se ricordo bene dai miei anni di college, non è tanto facile quando vivi di notte e bevi tanto.»

«Mi sforzo per mio fratello.»

Ferid preferì alzarsi dal carrello e prendere della distanza da Lebanah, che aveva pronunciato il suo finto nome con un’inflessione sospetta. Bevve un sorso di tè – davvero una buona qualità di Assam – e mise la tazza da parte, come se la bevanda non gli piacesse, per tuffarsi a frugare nella sua cassetta di attrezzi.

«Oh, sì. È molto carino quello che fai per Mikael…»

Non alimentò la conversazione, dedicandosi al controllo di tutti i pezzi presenti dentro al cofano. Smontò con fin troppa facilità il collettore, le candele, e alcune guarnizioni gli si sbriciolarono in mano. Scosse la testa, sicuro che senza costosi pezzi di ricambio quel rottame non sarebbe stato utile neanche come insegna pubblicitaria spruzzata di vernice dai colori fluo.

Restò immobile quando sentì le dita passare tra i suoi capelli, raccolti in una specie di crocchia spettinata come usava quando lavorava sui motori.

«Mi sono sempre chiesta come mai fossero d’argento…»

«Si chiama “placcatura al cromo”.»

Fingere di non capire non l’aiutò. Lebanah passò le braccia intorno al suo torace appoggiandosi contro la sua schiena. Era tanto stretta da poter sentire chiaramente le curve del suo corpo e il punto in cui il mento poggiava sulla sua spalla.

«Lo so che non sei Connor Maguire» gli sussurrò all’orecchio. «Sei Ferid Bathory… vieni dall’Inghilterra, non da Squall’s End… padre Karl Smythe ti ha fatto da tutore a scuola, e non avevi un fratello. Anche la tua calligrafia è quasi uguale, sai? Le scritte sul tuo Paradiso perduto sono uguali ai tuoi riccioli.»

«Ti sbagli» replicò, con il cuore in gola.

«E non hai mai lasciato il West End… è sciocco che tu abbia provato a mentire a me, Ferid. Ho frequentato la Blair University nel West End, e ho letto di quell’assassino di bambini con attenzione… e soprattutto lavoravo nella stessa azienda della signora Mitchell. So chi ha salvato sua figlia Samara nel bosco di Dern.»

Il cuore scese dalla gola per sprofondare direttamente dentro le sue viscere. Con il suo nome opportunamente nascosto alla stampa e il suicidio di Bobby che aveva scongiurato il processo e la notorietà che avrebbe potuto derivargliene, Ferid si era sentito sicuro di non essere mai associato a quel fatto. Questo, purtroppo, senza considerare quella tragica coincidenza: non solo aveva incontrato una collega della madre di Sam, ma una collega che l’aveva conosciuto da ragazzino. Non poteva esserci una combinazione peggiore, considerando che non aveva parenti prossimi da poter trovare là dentro.

«Sono curiosa… che cosa ti porta fin qui? Perché menti sul tuo nome? E perché quel ragazzo fa finta di essere tuo fratello?» l’incalzò lei, con una voce dolce e infida come miele al veleno. «Che cosa siete venuti a scoprire?»

Ferid strinse le dita intorno alla pesante pinza per tubi, tanto forte da sbiancarsi le nocche. Fissava l’attrezzo, con un ronzio indistinto nelle orecchie che lo allontanava dalla voce di lei e dalla musica della radio.

È pesante… e robusta… probabilmente basterebbe un solo colpo sulla tempia o sulla nuca…

Il cuore gli pulsava contro le costole alla sola idea, ma valutò che fosse fattibile: un colpo l’avrebbe sicuramente atterrata, un secondo sarebbe bastato per essere certo che non avrebbe mai più parlato a nessuno di quello che sapeva.

Girò lo sguardo alla ricerca di qualcosa che gli permettesse di trascinare il corpo in una zona meno battuta, chiedendosi se fosse più sicuro seppellirla nel bosco fuori da Bluefields o abbandonarla dove qualcuno avrebbe potuto pensare a una caduta. Crowley gli aveva detto tempo prima che la cosa più vicina al delitto perfetto era una morte che non si poteva provare che non fosse un incidente.

Così com’era arrivata, quella sua trance svanì. Sentì la musica di nuovo normale, il battito del cuore non sembrava più un tamburo tribale. Lasciò immediatamente la presa sulla pinza.

Mio Dio, ma a che diavolo stavo pensando?

Si passò la mano sul viso. Lo stress e il poco sonno stavano alla fine reclamando la loro fetta della sua lucidità mentale; per fortuna di entrambi i presenti non una porzione sufficiente a fargli attuare un delitto.

Si voltò per fronteggiare la minaccia direttamente.

«Che cosa vuoi, Estelle?»

«Non lo capisci da solo, Ferid?»

«Che cosa vuoi per il tuo silenzio?»

Estelle fermò il dito, con cui stava tracciando un segno ripetuto, come un infinito, sulla sua camicia.

«Ma io non voglio dire niente a nessuno. Non sono venuta a ricattarti. Non m’importa che cosa racconti a Nereus e a Vann.»

«E allora perché sei venuta qui a fare domande?»

Estelle fece un sorriso incerto.

«Da quando ci siamo visti nell’ufficio ci ripenso… e… volevo far finta di niente, come facevi tu, però… non volevo portarmi dietro lo stesso rimpianto di nuovo.»

«Ma di che parli? Se è per il mio libro te lo puoi tenere.»

«Mi piacevi» fece lei, con uno sguardo sfuggente. «A scuola. Non eri un ragazzo… prestante, questo no, però… tutti parlavano di te come di uno sbandato, di un figlio della droga, e alcuni dicevano che eri ritardato… ma io ti sentivo leggere i tuoi compiti, guardavo che libri prendevi dalla biblioteca. Lo sapevo che tu eri speciale, e non come dicevano gli altri. Mi affascinavi.»

Ferid si indispettì a quelle parole. La scostò con un brusco movimento del gomito e prese la sua tazza di tè, allontanandosi da lei.

«Ti affascinavano molte cose, ma di sicuro non io. Non l’ho scordato.»

Piantò gli occhi nei suoi e fu come se quel ricordo così doloroso venisse condiviso tra di loro. Estelle poi abbassò lo sguardo, facendo girare un anellino intorno al dito avanti e indietro.

«Oh, Ferid, mi dispiace tanto… volevo… volevo chiederti qualcosa… non sapevo ancora cosa avrei detto, era per… parlarti… ma poi è entrata Olive, e…»

«E hai pensato che la tua amichetta stronza si sarebbe divertita se avessi fatto la stronza» concluse lui, senza il minimo rimorso per l’uso del linguaggio.

«Non ne vado fiera, neanche un po’! Ma a quell’epoca… avevo diciassette anni, e mio padre ci teneva che mantenessi buoni rapporti con Olive…»

«Perché era la figlia di un magnate dell’acciaio, immagino.»

«Sì… oh, ti prego, si fanno così tante sciocchezze al liceo! Non ho avuto modo di scusarmi» insistette lei, con l’espressione più salda. «Volevo chiederti di venire con me al ballo del diploma, per riparare… ma tu… sei sparito la settimana prima. Non ho mai potuto chiederti scusa.»

Poteva essere vero, ma Ferid scelse di arroccarsi dietro i pezzi rimasti a sostegno della sua idea che Estelle Young fosse una snob perfida e arrogante come le peggiori ragazze dipinte nei film ambientati al liceo.

«Sai che cosa? Non importa. È andata bene così, io ero comunque uno poco normale ed è stato meglio prendere quello schiaffo da te subito piuttosto che prenderlo in seguito da tutta la scuola o da tuo padre. Non siamo mai stati compatibili.»

«Non significa che non possiamo esserlo… su, Ferid! Ora sei un uomo» fece lei, afferrandogli la mano libera. «Non sei insicuro e solo come allora… e io sono una donna, non mi faccio più influenzare dallo stato sociale. Fai il libraio adesso, vero? Io facevo la contabile, non mi sembra che siamo così distanti… possiamo essere amici, posso chiederti che cosa stavi leggendo, e…»

Estelle sospirò.

«Mi dispiace di averti ferito per un motivo così sciocco… se potessi tornare indietro mi siederei con te, e ti direi quali sono le mie poesie preferite, e ti chiederei quali sono le tue, e…»

Ferid rimase senza parole nel vedere i suoi occhi azzurro-verdi diventare lucidi.

«Ti chiederei di portarmi al ballo, così tutti quei cretini vedrebbero che non sei un ritardato… e vorrei ballare con te, e ci divertiremmo tanto che suor Rosetta verrebbe a dirci di non ridere così forte…»

Gli sfuggì suo malgrado un sorriso storto.

«Io piacevo a suor Rosetta.»

«Perché non ridevi mai… Ferid, mi perdoni, adesso?»

Estelle lo strinse in un abbraccio forte. Ferid cercò di convincersi di non aver visto una lacrima scenderle sulla guancia prima che la strofinasse contro la sua camicia, ma non riuscì a negarlo.

Il dolore che gli aveva causato da ragazzo era stato bruciante e legato a tanta frustrazione, ma sapeva che non aveva niente a che vedere con il modo in cui aveva scelto di vivere la sua vita: una scelta diversa di Estelle in quel frangente non avrebbe necessariamente convinto il giovane Ferid, così ferito e diffidente, a fare amicizia con lei o ad accettare un invito al ballo. Era più probabile che l’evitasse per non essere bersagliato dai molti ammiratori di quella splendida ragazza che – all’epoca ne era sicuro – era mostruosamente fuori dalla sua portata.

«Terrò i tuoi segreti se tu prometti di non pensare a me come a quella stupida ragazzina che ero, d’ora in poi.»

«Non sembri la stessa persona…»

Lei sorrise, senza lasciarlo. Puntò il mento sulla sua spalla per guardarlo da sotto in su.

«Sono contenta. Non mi piace com’ero in quel periodo.»

«Sono ancora in ostaggio? Ho finito il tè e ne vorrei un altro po’.»

Lei emise un risolino divertito e finalmente lo lasciò andare. Ferid sentiva caldo e non era certo che fosse stato quel goccio di Assam a causarglielo.

«Allora ho ragione? Ti piace?»

«Non è una qualità eccelsa, ma… ha un buon sapore, sì. Per future referenze, però, il mio preferito è il Flowery Orange Pekoe, ma mi puoi fare contento con un infuso di melograno. Non sono un uomo snob, io

«Fingerò di non aver sentito quell’ultima sillaba» l’informò lei mentre gli versava altro tè. «Comunque dobbiamo accontentarci, questo è il meglio che Nereus si è potuto permettere con quella donazione generosa che ci è arrivata. Magari se diventeremo una comunità ricca potremo stare seduti a sorseggiare tè pregiato e mangiare scones con crema e marmellata…»

«Se volevi arricchirti hai scelto il posto sbagliato, mia cara.»

«Forse no… oh, adoro questa canzone!»

La radio trasmetteva una vecchia canzone, e se la memoria non tradiva Ferid era un brano molto popolare nei due anni in cui era stato alla Saint Matthew. Il testo era a dir poco scabroso per una scuola cattolica rigida come quella ed era proibito ascoltarla o cantarla, il che aveva assicurato che tutti gli studenti la conoscessero.

Estelle piroettò verso il centro del capannone, libero da ostacoli. Quel movimento fece sollevare l’orlo della gonna lunga e scoprì parte delle sue gambe. In quel momento – e mai prima – Ferid vide Estelle come non era più abituato, soprattutto dentro Bluefields: come una donna. Il vestiario sempre uguale e molto castigato aveva alla fine compiuto l’illusione e nascosto le tentazioni in bella vista.

«Vieni!»

La donna lo prese per le braccia e lo trascinò nella sua scia. L’ultima cosa che Ferid aveva voglia di fare era ballare con lei, non avendo ancora avuto tempo di elaborare quello che era successo tra di loro e il fatto che avesse appena bruciato la sua copertura.

«La tua cara sorella Rosetta non avrebbe avuto più tanta simpatia se ci avesse visto ballare…»

Sorella Rosetta non sarebbe stata l’unica ad avere una vena pulsante sulle tempie alla vista di Estelle che ballava così davanti a lui. Dal canto suo, Ferid non aveva qualcuno che gli si strusciasse addosso in quel modo da quando era il re del venerdì sera del Black Roses nel fiore dei suoi ventun anni.

La canzone finalmente finì e lui lasciò andare un discreto sospiro di sollievo. Estelle gli fece un sorriso radioso e con il dito spostò una ciocca di capelli sfuggita dalla coda.

«Sai che altro mi sarebbe piaciuto fare al diploma…?»

Non le rispose, ma non aveva bisogno di una replica.

«Ti prego, non giudicarmi male.»

Ferid non poté non pensare la stessa cosa mentre Estelle lo baciava sulle labbra e una fiammata esplodeva da ceneri adolescenziali che ormai credeva fredde e inerti.

 

***

 

Mikaela salì i gradini tre per volta per salire all’ufficio di Vann, convinto di essere in ritardo. Quando arrivò trovò la porta ancora aperta e Julius, seduto su una poltrona, stava appoggiando un quaderno e la sua copia della Bibbia sul tavolino.

«Ah, eccoti, Mikael» l’accolse Vann, con un cenno del braccio verso il divano. «Prego, accomodati. Sei puntualissimo, anche Julius è appena arrivato.»

«Credevo di essere in ritardo… ciao, Julius.»

«Ciao, Mika!»

Conosceva già l’ufficio di Vann, una specie di salotto al confronto con quello spartano di Nereus, ma notò qualcosa di nuovo: un bollitore elettrico aveva preso parecchio spazio su un ripiano.

«L’abbiamo comprato per la sala ricreativa» spiegò lui, dopo aver seguito il suo sguardo. «La prendo in prestito per le sere in cui faccio l’orientamento. Vi va del tè? Abbiamo davanti qualche ora di lavoro.»

«Magari!» accettò entusiasta Julius.

«Grazie» acconsentì Mika.

«Molto bene… intanto vi spiego che cosa faremo in questo orientamento.»

Vann accese il bollitore e diede loro le spalle per preparare le tazze con una bustina, mentre spiegava loro che avrebbero letto dei brani dell’opera di alcuni teologi e ne avrebbero discusso nell’ottica della dottrina dell’Acqua.

Mikaela trovò questo tipo di orientamento molto semplice e sospettò che le loro osservazioni sarebbero state valutate per decidere se erano pronti al Battesimo, quindi si impose di essere attento e il più possibile brillante.

Per qualche minuto Vann parlò del tempo, delle loro valutazioni e della fortuna che era arrivata sotto forma di donazione, e Julius azzardò qualche ipotesi – molto lontana dalla realtà – sulla famiglia da cui potesse provenire.

Infine il tè fu pronto e Vann servì loro due tazze bianche e anonime con un liquido dall’odore curioso. Mika annusò qualcosa che gli ricordava il finocchio selvatico, ma era così delicato che non rimase a lungo.

«Credo ci sia del finocchio o della menta qui dentro… Nereus beve le stranezze più disparate» commentò Vann, che pareva perplesso dal tè più dei due ragazzi a cui l’aveva servito. «Non me ne intendo molto, io bevo soprattutto caffè. Dunque, vediamo…»

Vann prese dallo scaffale due libri dal taglio dorato e con la copertina in pelle consumata dall’uso e li porse ai due ragazzi. Mika lo prese e, nel tentativo di decifrare il sottotitolo ormai sbiadito, prese male le misure e urtò il bordo del tavolo con la tazza, spillando un po’ di tè alle erbe. Asciugò le macchie con la manica – ringraziò di avere ancora gli abiti neri del noviziato – prima che Vann se ne accorgesse, mentre Julius ridacchiò.

«De Bynn, l’autore di questo trattato, era uno scrittore e giornalista. Raccolse in questo memoriale le riflessioni di alcuni membri della chiesa, sia romana che protestante, tra i quali figurava anche un suo zio cardinale. C’è una lunga riflessione di un prelato di campagna, Van Buyk, che troverete sicuramente interessante dopo aver studiato le Scritture. Andate al segnalibro e iniziate a leggere» lì istruì il pastore, e si accomodò sulla poltrona libera. «Leggete con attenzione. Prendetevi il tempo necessario. Se volete potete prendere degli appunti per discuterne dopo, il brano è di diverse pagine.»

Mika aprì il suo volume al segnalibro – assomigliava in tutto e per tutto a una vecchia lista della spesa ingiallita – dove trovò un titoletto “dell’acqua e del fluido nelle Scritture”. Appoggiò il libro sul ginocchio della gamba accavallata e iniziò a leggere il brano.

Intuiva subito la ragione di tanto interesse: l’ignoto Van Buyk aveva colto il simbolismo dell’acqua che la nuova chiesa americana aveva adottato come fondamento della sua ideologia e l’estendeva non solo alle acque correnti, ma anche alla pioggia, al sangue e persino all’aceto dato a Gesù sulla croce.

Aveva letto alcune pagine e quasi dato fondo alla sua tazza di tè quando gli si chiusero le palpebre la prima volta. Si strofinò gli occhi e cercò l’ultima riga che aveva scorso riprendendo la lettura, ma sentiva il sonno blandirlo come onde delicate sulla spiaggia. Una volta, due, tre…

«Mikael.»

Mika alzò la testa di scatto e si stupì di avere Vann proprio accanto, che gli scuoteva la spalla. Aveva il libro sulla gamba, Julius non era più lì e aveva gli occhi che bruciavano.

«C-cosa… mi sono addormentato?»

«Credo solo un minuto» replicò lui, con un sorriso incerto. «Sembri molto stanco. Credo che dovremmo rimandare a un momento in cui sarai più fresco. Questo orientamento è molto importante e non deve essere affrontato con leggerezza.»

«N-non sono stanco… io… non so come sia successo. Stavo leggendo…»

«I novizi hanno giornate molto piene. Non avertene a male» fece l’uomo, dandogli un colpetto sul braccio. «Fisseremo un altro incontro nei prossimi giorni… magari chiederò a Nereus di farti uscire prima dalla lezione del mattino.»

Mikaela non si sentiva tanto mortificato dalla volta in cui in un’esercitazione di tiro aveva inserito male il caricatore dell’arma e questo era schizzato per terra quando aveva cercato di premere il grilletto, di fronte a tutti gli allievi di polizia e gli istruttori.

«Questo… questo rimanderà il mio Battesimo, Padre?»

«Per un pisolino a sera tarda? Non è il caso di metterci il pensiero, Mikael… va’ a letto, adesso. Riposati a dovere. Ti farò sapere quando sono libero per recuperare… forse già giovedì mattina.»

Il pensiero di aver rimandato solo di un paio di giorni lo fece sentire meno in colpa, ma decise di tacere a Ferid quell’imbarazzante scivolone.

Vann prese il suo libro per riporlo e la tazza vuota. Mika lanciò uno sguardo colpevole all’alone del tè che aveva lasciato sotto quando aveva spillato il contenuto, raccolse le sue cose nella borsa e si congedò.

Mentre faceva ritorno alle cellette lanciò uno sguardo nel buio, nella direzione in cui si trovava il capanno dove Ferid doveva essere al lavoro. Sospirò di sollievo al pensiero che non fosse in camera per chiedergli come mai fosse tornato così presto.

 

***

 

La radio aveva ripreso a singhiozzare e la canzone non si sentiva che a tratti, ma invece di alzarsi e andare a darle due colpetti Ferid preferì appoggiare le labbra sulla spalla di Lebanah e scorrere le dita vicino al suo ombelico, in cerca di un segno tattile di quel piercing ormai rimosso.

«Hai freddo?»

«Stammi vicino.»

Difficile che riuscisse a fare altrimenti visto che erano sdraiati sui sedili posteriori del rottame, ma l’accontentò stringendole il braccio intorno al ventre con un po’ più di vigore.

«Ti posso chiedere una cosa, Estelle?»

«Che cosa?»

«Sei… al ballo del diploma ci sei andata con Fredrick, alla fine?»

«Fredrick? Chi è Fredrick?» fece lei, accigliata.

«Holland… il capitano della squadra di pallanuoto, no? Non uscivi con lui?»

«Davvero? Non era Roderick?»

«No, Fredrick… aveva anche le iniziali F e H ricamate su tutte le camicie, non si può sbagliare.»

«Beh, il fatto che non mi ricordo il nome è già una risposta, no?» ridacchiò Leba. «Mi tampinava, mi ricordo che mi chiedeva di andare agli allenamenti a vederlo… e non ci pensavo nemmeno, odio la pallanuoto. Mi piace il basket, però.»

In silenzio Ferid si crogiolò nella tardiva vittoria personale: Fredrick Holland era stato uno dei campioni del bullismo al nuovo arrivato e – in completa onestà – aver conquistato la bellissima donna che un tempo lui aveva corteggiato gli dava una soddisfazione di stampo maschile che non aveva mai provato prima.

«Posso chiederti io una cosa, adesso?»

Si girò, in bilico sul bordo del sedile troppo stretto, per guardarlo e intrecciare la mano con la sua.

«È vera quella storia, che avevi un uomo prima di venire qui? Me lo dicevi anche prima. Quello della birra e vodka.»

Il senso di colpa corrose il suo stato di benessere come una scrosciante pioggia acida.

«Quello no, ma… ne ho davvero uno a casa» confessò, con un mezzo sorriso. «Ogni tanto beve birra, ma per il resto beve tè e tisane, come me. Forse anche più di me.»

Si aspettava che la notizia turbasse Lebanah, che la facesse arrabbiare o forse disgustare, invece lei lo guardava come fosse stata l’insegnante di un bambino che stava realizzando un’opera d’arte.

«E lui com’è?»

«Più prestante di me, senza dubbio.»

Lei rise, ma non gli chiese il suo nome o altre informazioni come Ferid temeva.

«Ma se non hai un uomo violento a casa, e Mikael non è tuo fratello… che cosa sei venuto a fare qui?»

Non pensò neanche per un attimo di nominare l’FBI con Lebanah, ma visto quanto sapeva di lui non riuscì a trovare una scusa plausibile. Cercava una scappatoia, senza trovarla.

«Non sei… venuto qui per me. Non sapevi che ero qui, e non volevi che ti riconoscessi, quindi…»

Riconobbe le tracce di una lieve speranza, e all’idea di deluderla il sorriso gli mancò. Le accarezzò il viso con le nocche.

«No… non ero qui per te, Estelle.»

«Allora per le agrotecniche?»

«No» fece, soffocando una risata. «Per farla breve… c’è una persona qui che penso sappia qualcosa di un ragazzino scomparso.»

Lei scoppiò a ridere.

«Sei un poliziotto? Un investigatore privato, forse?»

«Dolente di deluderti, al massimo posso dire che sono un meccanico.»

«Ma la sola idea, sai, mi fa sentire più caldo.»

«Ti sei nascosta ben lontano dai poliziotti. Se ti piacciono tanto suggerirei una grande città.»

Lebanah si mise seduta sul bordo del sedile, con le ginocchia segnate da qualche vecchia sbucciatura raccolte contro il petto.

«Ma è colpa della luna… c’è la luna piena, ed è l’equinozio, fa uno strano effetto sulle donne come me.»

«È il Mabon, non Ostara.»

Lei lo guardò con un mezzo sorriso e le sopracciglia flesse, perplessa e divertita insieme.

«Che ne sai tu di equinozi, Ferid?»

«Beh, lo sai com’è la vita nel West End… piena di magia.»

Con due dita la donna prese la punta dell’unica calza bianca che le era rimasta a posto e la sfilò. Ferid non fu del tutto sorpreso quando vide il tatuaggio sulla sua caviglia sinistra, ma gli sfuggì lo stesso una risata amara mentre le toccava il disegno col pollice.

«Il pentacolo e la triplice luna… sei una wiccan.»

«Lo dici in tono così sexy…»

«Forse perché io adoro le streghe.»

Per bella risposta lei gli balzò sopra come un felino all’attacco e non ci pensò neanche a rifiutarla. Aveva deciso di godersi il massimo del momento nella speranza che la storia non sarebbe mai uscita da Bluefields né arrivata alle orecchie di Mika. Mentre stringeva a sé il suo corpo ancora una volta non poté non leggere della macabra ironia: aveva avuto solo due donne nella sua vita ed erano entrambe delle streghe.

 

***

 

«Ehi… dove diavolo sei stato?»

A Mika sarebbe saltata la mosca al naso subito per quell’occhiata vacua che Ferid gli lanciò dall’altro lato del tavolo, se non si fosse svegliato con un mal di testa tale da voler evitare qualsiasi cosa potesse peggiorarlo.

«Eh?»

«Eh un corno» ribatté a bassa voce, e s’infilò sulla panca. «Stamattina il tuo letto era vuoto… dove diavolo sei stato tutta la notte?»

«Nel capanno, con la macchina.»

Non aveva bisogno di essere alla sua massima forma per capire che gli nascondeva qualcosa: aveva lo sguardo sfuggente e rimestava la zuppa con una dedizione eccessiva per un movimento così banale.

«Bugiardo» gli sibilò. «Dove sei stato? Non avrai fatto qualche mossa strana con Nereus, spero.»

«Uh… no, no. Non vedo Nereus da ieri alla messa del mattino.»

«E hai saltato anche quella di stamattina…»

«Beh, avevo bisogno di una doccia.»

Mika si massaggiò la tempia, fissando tutto l’insieme di Ferid che emergeva dal tavolo. Non poteva saperlo senza specchiarsi, ma avevano lo stesso sguardo stralunato.

«C’è qualcosa di strano in te, Ferid. Non so cosa, ma…»

«Non chiamarmi così» l’ammonì lui. «Comunque anche tu hai un aspetto strano. Strano e tremendo. Sembri reduce da una delle Notti Bianche del Black Roses.»

«Delle notti cosa del Black cosa

«Da una nottata al night club. È stata una lezione di catechismo o una degustazione di tequila?»

«Ho mal di testa… mi sono svegliato con un cerchio terribile, e sento… un sapore amaro in bocca. Forse mi sto ammalando.»

«Allora non lavorare in cucina!»

«Mh… comunque andrò a farmi dare qualcosa da Dorcas per il mal di testa… magari mi controlla la gola. Mi si infiamma facilmente…»

Mika si alzò con la sensazione di aver fatto uno sforzo immane. Fu quasi certo, con quei segnali nefasti, di covare una brutta influenza.

«Che farai oggi?»

«Eviterò le lezioni più a lungo possibile, come al solito… credo che andrò su in contabilità per controllare il budget degli adeguamenti, Lucky mi ha fatto avere la lista…»

Piantò gli occhi su di lui con lo sguardo di un gatto che studia un misterioso nemico.

«A proposito… Lucky ti ha detto qualcosa?»

«A me? È con te che parla, di solito… che cosa mi doveva dire? Qualche disastro che hai combinato?»

«Ah, niente, niente di che… immagino te ne parlerà quando capiterete in argomento. Ora è meglio se vai in infermeria, sembri ancora più pallido del solito.»

Avrebbe volentieri indagato su quello che Lucky avrebbe dovuto fargli sapere, ma non era nelle condizioni di concentrarsi su nulla, quindi si congedò con un cenno di saluto con la mano e infilò l’uscita più vicina per puntare all’infermeria. Fu lieto che il sole fosse coperto; la luce infliggeva una fitta acuta alle sue tempie.

Stava per lasciare il giardino interno sulla scia di Cecilia – aveva con sé il suo fedele, piccolo annaffiatoio rosa – quando la sentì emettere un gridolino e sussultare. L’annaffiatoio le cadde di mano e Mika cercò la fonte del suo sgomento, ma vide solo padre Vann che sopraggiungeva dall’altra parte dell’arco.

«Tutto bene? Ti ho spaventata?»

«A-ah… io… mi scusi, Padre, ero soprappensiero…»

«Stai più attenta, poteva caderti su un piede. Non vogliamo che tu ti faccia male.»

«Sì… mi scusi…»

Stava per chiudere gli occhi e dare un po’ di tregua alla sua fronte pulsante quando vide padre Vann toccare Cecilia sulla spalla e il corpo di lei irrigidirsi, fare una lieve flessione per sottrarsi a quel tocco. Era qualcosa di comune in qualsiasi corso e manuale di linguaggio del corpo: segnali istintivi di paura, tracce emotive di una violenza subita che però non aveva mai notato in lei in presenza di altri, compresi totali sconosciuti.

Era solo soprappensiero? Forse Vann l’ha sgridata per qualcosa che ha combinato, o durante l’orientamento… magari non è niente.

Vann si allontanò verso la Casa Grande, diretto alla mensa o al suo ufficio, e Cecilia raccolse il suo annaffiatoio che era atterrato in piedi sui mattoni rossicci senza rovesciarsi. Mika attraversò l’arco dopo di lei e guardò distrattamente a terra, dove era rimasto l’orlo bagnato dell’attrezzo… e fu allora che ricordò l’alone della tazza del tè.

Si accigliò mentre camminava più lentamente sul sentiero di ghiaia.

Perché mi sembra così importante? Ho rovesciato il tè e non ho asciugato bene… non è il caso di farsi tanti scrupoli per una macchia, e poi i Padri non puliscono i loro uffici. Ci sono le Sorelle che fanno le pulizie.

Una fitta alla tempia interruppe i suoi pensieri e se la massaggiò. Non riuscì a dimenticare del tutto quella sensazione che qualcosa non quadrasse, che gli fosse sfuggito qualcosa, ma non era in grado di rifletterci prima di aver buttato giù un paio di pillole, possibilmente con un succo di frutta che cancellasse quel retrogusto amaro in fondo alla lingua.

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Capitolo 20
*** Angeli artificiali ***


Un tonfo pesante sopra la sua testa distrasse Ferid dai suoi tentativi di catalogare la stanza dei libri. Non sapeva chi stesse al piano superiore e suppose che si fosse rovesciata una sedia o fosse caduto qualcosa di pesante. Tornò ai libri, soppesando un volume di Leggende della Virginia tra la pila di libri di storia e quelli di mitologia e folklore, ma venne di nuovo interrotto da altri tonfi. Alzò gli occhi verso il soffitto.

Sarà in corso una rissa o… qualcosa di meno lecito in un monastero?

L’idea che qualcuno si stesse facendo male era quasi sufficiente a convincerlo a trascurare il caos ripugnante di quegli scaffali, ma non del tutto. Quando sentì quel grido di donna, però – gli si rizzarono i capelli per quanto era agghiacciante – schizzò nel corridoio. Quasi si scontrò con Lebanah che correva giù dalle scale, con pallida e tremante.

«Leba, stai bene? Chi ha—»

«Ferid! Oh, Ferid, ti prego, aiutami! Cecilia non sta bene, ha una crisi!»

Un altro strillo ricacciò le domande e le ammonizioni di Ferid giù per la gola e con Leba al seguito corse di sopra. Capì immediatamente che la fonte dei colpi era Cecilia, che gridava e ringhiava sbattendosi con violenza contro una porta; una macchia rossa si allargò sul battente di colore chiaro all’ennesimo colpo.

«Cecilia! Ma che fai?! Ferma!»

L’acchiappò allontanandola dalle pareti del corridoio, ma lei si divincolava con la forza disperata di un animale in trappola. Non era un uomo con una stazza da giocatore di rugby come Crowley, ma non riuscire quasi a trattenere una ragazza così esile era inconcepibile. La ragazza ringhiava e sbavava come un cane rabbioso e gli tirò una testata che fece fare un rumore terribile al suo naso. Il dolore gli fece lacrimare gli occhi, ma non mollò la presa su di lei.

«Cecilia! Calmati, ti prego!» gridò Lebanah, che non sapeva da che parte avvicinarla.

Ferid si snebbiò la vista e si accorse che sanguinava dal naso, ma la gravità delle condizioni della ragazza lo preoccupava molto di più, visto che sanguinava dalla fronte e sembrava una specie ibrida tra un toro infuriato e un pesce tirato in barca.

La sentì blaterare delle parole tra un ringhio e l’altro, e la situazione divenne ancora più surreale di prima. Bloccò Leba con il braccio prima che tentasse di avvicinarla.

«Non ti avvicinare a lei! Una di queste stanze è la tua?»

«I-io… s-sto nella stanza in fondo a destra…»

«La prendo su e tu vai ad aprirmi la porta. Sei pronta?»

Era chiaro che Leba non avesse alcuna idea di che cosa stesse succedendo, ma pur con lo sgomento dipinto in faccia annuì. Ferid agguantò Cecilia riuscendo ad afferrarla in modo da tenere le braccia e la testa lontano dal suo naso; la sollevò di peso e partì a grandi passi per il corridoio. Leba schizzò avanti a loro e spalancò la porta.

«Dalilah… Dalilah!»

«Ma che… che succede, Leba?»

L’arrivo di Ferid, che digrignava i denti quasi quanto la ragazza mentre lei gli graffiava la gamba agitandosi tanto da rendergli difficile stare in equilibrio, diede alla compagna di stanza di Lebanah un’idea del problema.

«Mio Dio, ma che cosa succede?!»

«Lasciami!» urlò Cecilia con un tono rauco da mettere i brividi. «Non toccarmi, uomo della pioggia! Stai lontano!»

Con uno sforzo immenso Ferid staccò la ragazza dalla sua gamba e la lanciò letteralmente su uno dei due letti. Non ricordava di aver mai fatto così tanta fatica in un tempo così breve: ansimava come dopo quattro chilometri di jogging.

Se la “gita apostolica” della gran parte dei Rinati nella vicina Norton Bridge fosse un colpo di fortuna o il peggior tempismo del mondo ancora non sapeva dirlo.

«Dalilah, vai a chiamare Dorcas e trova Nereus. Anche se devi chiamarlo a Norton Bridge. Deve tornare subito!»

«Corri, Dalilah!» l’incalzò Leba.

La ragazza, che era quella Rinata dai capelli corti che lavorava nelle cucine con Mikaela, corse via subito dopo essersi tolta le cuffie dal collo; lo studio dei canti del coro doveva averle impedito di sentire gli strepiti di Cecilia dal corridoio. Ferid placcò la ragazza prima che si alzasse dal letto e Leba gli diede man forte bloccandole il braccio libero.

«Ma perché sta facendo così?!»

«Non è proprio il mio campo» borbottò Ferid, a denti stretti per lo sforzo di fermarla, «ma penso sia un attacco psicotico, o qualcosa del genere. Mika mi ha detto che da qualche giorno era strana!»

Cecilia piazzò una ginocchiata ben assestata nelle reni di Ferid spezzandogli il fiato, ma subito dopo smise di lottare con quella ferocia. Con il fiato corto quanto quello del suo avversario prese a ripetere frasi quasi incomprensibili, e con il solo occhio che il braccio di Lebanah gli permetteva di usare fissava proprio lui.

«Che cosa sta dicendo?»

«È ebraico, ma non sono sicuro di cosa stia dicendo… trova qualcosa per bloccarla, Leba. Una sciarpa, una cinta, va bene qualsiasi cosa!»

Lei lasciò titubante il braccio, ma la ragazza sembrava essersi stancata e non reagì se non borbottando in tono ancora più basso e rauco. Corsa all’armadio buttò abiti per aria alla ricerca di qualcosa di utilizzabile, tirando fuori una lunga sciarpa color avorio e delle calze di nylon ricamate.

Qualcosa nel suo volto dovette tradire i suoi pensieri quando glieli passò, perché Leba fece spallucce.

«Le indossavo quando sono entrata qui.»

«Peccato essersele perse.»

Cecilia oppose resistenza ma non aveva la stessa energia di prima e questo rafforzò l’idea di Ferid che quella fosse solo una finta, o almeno qualcosa che ci andava vicino. Quando fu sicuro che non sarebbe riuscita a muovere braccia e gambe per ferirsi o attaccare gli altri indietreggiò fino ad appoggiarsi al muro. Aveva male dappertutto e respirava a malapena.

«Oh, Ferid, sei coperto di sangue…»

Leba prese un fazzoletto di stoffa per tamponargli la colata calda e appiccicosa che si sentiva sulla faccia e sul collo, ma dubitava che avrebbe potuto combinare qualcosa con quel fazzolettino se non rovinarlo. Le bloccò la mano.

«Leba, non so che cosa abbia innescato questa reazione in Cecilia, ma forse possiamo fare qualcosa» le sussurrò, per non farsi sentire dall’altra. «Si sta comportando come una posseduta. Ora sta blaterando insulti in latino.»

«Ma… come li ha imparati?»

«Come li abbiamo imparati noi, forse. Da una scuola cattolica, o da un corso di latino. Ci sono studenti che lo fanno in previsione di studi di legge e per i crediti.»

«Credi che finga?» domandò lei in un soffio.

«Non so se finge o se la sua mente ha trasformato il suo malessere in un demonio… ma se è così…»

Ferid lanciò uno sguardo a Lebanah.

«Io e te possiamo fare qualcosa.»

«Che cosa?»

«Un esorcismo.»

Lo strillo incredulo di Lebanah gli fece fischiare l’orecchio come le unghie di una tigre sulla lavagna.

«Ma sei impazzito?! Non ha senso, io…»

Fu uno sforzo per lei abbassare la voce.

«Io sono una wiccan, non credo nel diavolo e non faccio esorcismi, sono una strega verde! E tu? Tu non sei neanche un vero novizio, vendi libri esoterici in un negozio di magia!»

«Questo è irrilevante. Ho letto praticamente ogni pubblicazione arrivata in America sull’esorcismo e conosco il rituale romano. La cosa importante è che Cecilia si senta esorcizzata, hai capito?»

«No» ribatté lei ostinata.

«È una battaglia di suggestione. Se siamo abbastanza forti fermeremo la sua crisi.»

A quel punto l’aria bellicosa di Lebanah sbiadì e lasciò il posto alla compassione mentre guardava quella giovane ragazza legata a un letto che ringhiava e borbottava insulti in lingue antiche. Quando i suoi occhi turchesi tornarono su di lui erano fermi e determinati.

«Che cosa ti serve?»

«Prendi l’acqua. Basterà.»

Lebanah corse fuori dalla stanza. Ferid si tamponò il naso con la manica – anche se il dolore era diventato una massa confusa tutto sommato trascurabile la sua voce sembrava quella di un raffreddato per il sangue e il gonfiore – e guardò la ragazza.

Non si riteneva al livello di analisi di Mikaela ma a pelle capiva che era stanca, spaventata e piena di senso di colpa. Forse l’obiettivo di quella crisi era chiedere aiuto, o forse era farsi mandare via da Bluefields… o banalmente aveva pressato le sue debolezze e i desideri che non riusciva a soffocare nella forma in cui poteva accettarli: in una forza sovrumana estranea che la schiacciava e contro la quale non poteva niente.

Se aveva ragione, una recita efficace l’avrebbe placata. Strinse d’istinto la mano intorno alla croce azzurra, data a tutti i novizi, in cerca della fermezza necessaria. Mentre lo faceva Cecilia tacque per fissarlo, quasi cercasse di intimidirlo.

«Sai, non mi fai paura… persino se tu non fossi Cecilia non mi faresti paura. Ne ho avuto uno come te dentro per tantissimo tempo.»

Un movimento quasi impercettibile delle palpebre gli fece capire che aveva appena conquistato il vantaggio psicologico. Poteva aiutare Cecilia e poteva anche trarne un inatteso vantaggio.

«Ecco l’acqua!»

Lebanah rientrò con due bottiglie di vetro con l’acqua benedetta. Gli occhi della ragazza fissarono il suo carico con paura e questo calmò Ferid. Si sentiva pronto.

«Chiudi la porta, Lebanah… e cominciamo.»

 

***

 

Mika slittò sulla ghiaia quando tentò di curvare alla massima velocità sotto l’arco, ma si rialzò subito dando l’idea del rimbalzo di un pallone. Schizzò dentro la Casa Grande e raggiunse almeno con gli occhi l’abito talare blu di Nereus che saliva due rampe di scale più in alto di lui e macinò i gradini per raggiungerlo.

«P-padre Nereus!»

L’uomo si fermò solo quanto bastò per riconoscere il suo viso, poi riprese a correre.

«Non è il caso che tu stia qui, Mikael! Torna alla tua cella!»

Lungi dal dargli retta il ragazzo accelerò la sua scalata e quando arrivò al quarto piano aveva le gambe quasi bloccate dall’acido lattico. Barcollò verso il gruppo radunato davanti a una porta in fondo al corridoio nella scia di Nereus: riconobbe Dalilah che lavorava nelle cucine con lui, Vann, Dorcas e fratello David, il direttore del loro coro.

«Che cosa fate tutti qui? Come sta Cecilia?»

Vann era senza parole, come il resto del gruppo, ma alzò una mano per indicare la stanza. Nereus entrò e Mika scostò bruscamente David per poter guardare dentro: vide Ferid – il cuore gli mancò un colpo nel vedergli tutto quel sangue in faccia e sul collo – seduto in fondo uno dei letti, Cecilia che singhiozzava tra le sue braccia e dietro di lei Lebanah che le accarezzava la schiena con tenerezza.

«Che… ma che cosa… esigo delle spiegazioni» asserì Nereus, quasi vibrante di indignazione.

Per tutta risposta Cecilia emise un singulto che la scosse come una foglia al vento e Ferid le accarezzò la testa.

«Shhh… va tutto bene, Cecilia. È tutto passato.»

«Insomma! Sono stato chiamato a Norton Bridge con strilli incomprensibili, mi è stato detto che Cecilia stava male, e… Connor, per l’amor del cielo, che diavolo ti è successo?» incalzò invano Nereus. «Qualcuno vuole dirmi, per favore, che cosa sta succedendo qui?!»

Mikaela avrebbe volentieri scrollato qualcuno per quelle risposte, ma Dalilah restava là impalata con le mani sulla bocca e occhi pieni di lacrime, David sembrava incapace di chiudere la bocca per lo stupore e Dorcas era più simile a una statua di porcellana. Alla fine Vann riuscì a deglutire e ad articolare qualcosa.

«Non… N-Nereus… è… appena stato eseguito un esorcismo.»

«Un… prego?» fece Nereus, la cui voce salì di un’ottava. «Un esorcismo?! E da chi, come…?»

Vann alzò un indice per indicare e Mikaela si portò una mano sulla bocca, incredulo, quando fu certo oltre ogni equivoco che stesse indicando Ferid. La sua mente logica si svuotò del tutto; non riusciva a capire né a trovare una spiegazione razionale.

«State scherzando, non… questo non può…»

«P-Padre» balbettò Dalilah da dietro le mani, «ve lo giuro sul Signore, Cecilia lottava come un orso inferocito… strepitava… e parlava in una lingua sconosciuta! Era posseduta, Padre, l’ho visto come faceva!»

«Per favore, limitiamo gli isterismi» l’interruppe Nereus.

«Nereus.»

Vann gli fece un cenno con la mano e, pallido come un cencio, si allontanò dal gruppetto. Nereus sembrava irritato come se dei ragazzini si fossero messi d’accordo per fargli un dispetto con delle giustificazioni ridicole e scoccò a Dalilah e David delle occhiate insolitamente severe quando passò loro davanti per raggiungere il collega.

Mentre parlavano a voce troppo bassa per sentirli Mikaela cercò Ferid con gli occhi, ma lui li teneva sulla ragazza stravolta.

«Che cos’è successo davvero?» chiese allora a David.

«Ho sentito gridare Dalilah e le ho fatto usare il telefono dell’ufficio… e… sono venuto qui con lei, per aiutare… l’ho sentito. Tuo fratello ha fatto l’esorcismo su Cecilia.»

«Starai scherzando.»

«Ti dico che l’ho sentito! Sono stato anche al seminario, conosco il rito romano, anche se solo per curiosità. Lebanah lo ha aiutato, e poi Cecilia ha smesso di urlare.»

«Le ha detto che era libera, quando ha iniziato a piangere. Si è sentito, è stato come se… l’aria diventasse più leggera anche qui in corridoio. Vero, David?»

«Se me l’avessero raccontato gli altri non ci avrei creduto neanch’io, ma Padre Vann è arrivato subito dopo di noi. L’ha sentito anche lui. Ha aperto la porta quando è finito tutto.»

Attonito, Mikaela si sentiva come in un bizzarro sogno: voleva capirlo e al tempo stesso voleva svegliarsi e dimenticarselo. Guardò Nereus quando terminò il suo colloquio privato e quasi corse dentro la stanza.

«Andate tutti al refettorio… tranne te, Dorcas. Controlla Connor, sta sanguinando.»

«Padre, non—»

«Andate subito! E non parlate con nessuno di quello che è successo qui finché non vi ordinerò diversamente!»

Mikaela puntò dritto a Ferid per fargli subito tutte le domande che aveva in testa, ma Vann lo agguantò appena prima che Nereus chiudesse la porta alle sue spalle con uno schianto. Si arrese solo perché in un barlume di lucidità capì che non era il momento per parlare e con un senso di stordimento e confusione si accodò agli altri Rinati per scendere alla mensa. Vann, dietro di loro, era tale e quale a un soldato di terracotta.

«Non posso credere che sia accaduto qui… e… Cecilia! Quella poverina, è praticamente una bambina, come avrà preso un simile orrore?»

«Non è mica un herpes» commentò Mika, laconico.

«Ma questa liberazione… Mikael, tuo fratello deve avere veramente qualcosa di benedetto! Sente la sua voce nella pioggia, come te, e quando è arrivato qui ha fatto così tanto per la comunità! I campi, e l’apostolato, e oggi…»

«Dalilah, per favore…»

«Ma deve essere questo! Lo sai che giorno è oggi, no? È il giorno dei santi Arcangeli! Non può essere un caso… è sotto la protezione degli arcangeli!»

«Forse stai enfatizzando un po’» commentò David cauto.

«Ma lui sente la voce, offre la sua conoscenza, e ora caccia il maligno! Sono cose che fanno gli arcangeli! Lei che cosa ne pensa, padre Vann?»

Vann esitò quando i tre lo guardarono.

«Io… penso… non so che cosa pensare» ammise infine. «Credo… che dovremmo pregare… e aspettare.»

«Aspettare che cosa?»

«La risposta.»

 

***

 

Rivedere la pesante porta di metallo della camera di sicurezza non gli piacque, anche se questa volta non era lì per finirci chiuso dentro. Aprì il chiavistello e la porta con lo stesso cigolio che già conosceva, ma almeno qualcosa all’interno era diverso: Ferid era seduto su una brandina pieghevole, aveva una lampada accesa e un libro in mano.

Mikaela lanciò uno sguardo ostile alla seggiola, la stessa a cui era stato legato, accostata contro il muro.

«Ah… Nereus ha detto che ora posso uscire o sei venuto senza permesso?»

«Mi ha detto che potevo venirti a prendere… e sono venuto prima che qualcun altro decidesse di accompagnarmi. Che cosa è successo con Cecilia, posso saperlo?»

«Che cosa dice Nereus?»

«Chissenefrega di Nereus! Rispondimi!»

Ferid aveva in sé una quiete anormale, tanto che Mika si domandò se non avesse assunto qualche droga. Sopportò a malapena la lentezza con cui posizionò il cordino segnapagina e chiuse il volume; aveva l’impulso di scrollarlo come un distributore inceppato.

«Che cosa dicono gli altri?»

«Gli altri parlano di esorcismi e di demoni, com’è ovvio che sia dentro una comunità cristiana! Ora puoi rispondere o devo spaccarti il naso per davvero contro il muro?!»

Ferid sospirò con aria grave e si alzò dalla brandina. Prese tempo rassettandola, spense la lampada, e solo dopo si decise a guardarlo in faccia.

«Quello che io e Leba abbiamo fatto era un esorcismo. Tuttavia, Cecilia non era posseduta.»

«Non capisco niente se mi butti le molliche di pane. Spiegamelo e basta.»

«Avevi ragione, a Cecilia è successo qualcosa. Quel qualcosa di non detto ha causato una ferita psicologica, e si è convinta che quello che ha fatto o quello che è successo è da imputare a un demonio. Ho letto tutto il leggibile sui demoni e la possessione, e ti assicuro che quella di Cecilia era una recita… volta a ingannare se stessa, però.»

Mikaela controllò che non ci fosse nessuno a portata di voce al di là della porta.

«Quindi perché quella scena?»

«Era terapeutico» ribatté Ferid con semplicità. «Se era convinta che un demonio le avesse causato quella sofferenza, essere esorcizzata l’avrebbe fatta sentire meglio. Ora come sta?»

«A parte il fatto che le hai slogato la spalla? Sta benissimo. Si sente una miracolata e tutti la trattano come se fosse appena risorta dalla morte» gli riferì con un velo di sarcasmo nella voce. «E ovviamente tu sei il suo santo. Dalilah le ha dato man forte, anche se Nereus ci aveva proibito di parlarne lei è andata a dire a chiunque che tu incarni i tre arcangeli. Sei a tanto così dalla santità, Pepper. Spero che la cosa non ti metta in imbarazzo.»

«No, ma sembra indisporre te.»

«Conosco questo tipo di isteria di massa. Questa comunità sembrava tranquilla, e normale… ora sembrano tutti dei fissati.»

«Hanno assistito a qualcosa di difficile da capire e le hanno attribuito un significato in relazione alla loro fede. Non hanno ancora fustigato nessuno. E cosa più importante sono stato io a imbastirla, non Nereus o Vann… come ti aspetteresti da una setta.»

L’argomentazione placò almeno un po’ la tempesta nella mente di Mikaela. Quando era bambino nei Figli della Virtù i demoni erano indicati dal leader e dai suoi fedelissimi, i metodi per combatterli erano brutali e loro decidevano ogni aspetto della vita e delle credenze dei loro adepti. Non poteva dire che le circostanze in atto a Bluefields rispondessero a questi requisiti, anche perché Ferid era la fonte della maggior parte dei “miracoli” ai quali i membri credevano.

«Che cosa succederà, adesso?»

«Suppongo che mi succederà qualcosa… verrò costretto a fare un milione di ore di lezione, o di meditazione, o chissà che altro.»

«Di questo ne dubito» replicò Mika, fermandosi davanti a una finestra. «Vann ti ha proposto per il Battesimo.»

Anche Ferid si fermò, incespicando sul gradino.

«Che cosa?»

«Credo… che Vann sia rimasto impressionato dall’esorcismo che ha sentito. L’ho sentito dire a Nereus che i gradi del noviziato erano una formalità in un caso come il tuo… credo che tu abbia conquistato un uomo della famiglia Mackham per davvero, alla fine. Congratulazioni.»

La risata amara che fece annunciò il ritorno del Ferid umano tra i mortali di Bluefields.

 

***

 

Mika non aveva mai ispezionato alcuna parte di Bluefields non fosse a ridosso degli edifici frequentati come alloggi, magazzini e di recente il capanno dove Ferid si accaniva a cercare di resuscitare il cadavere di una vecchia auto.

Un tratto del sentiero che passava nei campi era completamente immerso nel buio, con una luce blu alle sue spalle sul campanile e una arancione apparentemente in mezzo al nulla, e una pozza giallastra a illuminare appena pochi passi avanti.

Mika guardò il grosso sasso sul sentiero e vederlo muoversi gli fece uscire di bocca un verso da topolino schiacciato. Con la pelle d’oca sulle braccia si aggrappò alla persona più vicina, con gli occhi fissi sul rospo che se ne andava per la sua strada.

«Sei proprio un cittadino, Mikael» commentò Julius, divertito.

«Non fanno niente, non sono mica serpenti! Calmati, Mikael.»

James, uno dei suoi ex compagni di stanza e attuale sostegno di Mika, gli diede un colpetto di conforto sulla schiena. Il rospo era già fuori dalla bolla luminosa della lampada di Julius ma lui aveva ancora i peli dritti sulle braccia e una profonda sensazione di disgusto.

«Ma dove diavolo stiamo andando, così lontano dalla Casa Grande?»

«Proprio perché è lontano ci andiamo… vogliamo festeggiare Cecilia, che ora sta bene, e che compie anche gli anni!»

«Sì, ma dove? A casa sua in Connecticut?»

James ridacchiò.

«Non l’avete mai visto, non facevate ancora le meditazioni in acqua in estate… per arrivare là dove le facciamo ci passiamo proprio in mezzo. Ora che è più freddo usiamo la piscina dell’infermeria. Ma ci siamo quasi.»

«Sei nervoso, Mikael?»

«Sì, non sono mai stato a Las Vegas.»

I due amici risero, ma non fecero altri commenti. Qualche minuto dopo la luce aranciata era diventata più grande e in movimento, come un bagliore di fiamma tra i profili di piccoli edifici. Avevano raggiunto il borgo.

«Ma è… siamo ancora dentro Bluefields, vero?»

«Sì, certo! Questo è il borgo» spiegò James. «Erano case per i mezzadri della tenuta quando la schiavitù è stata abolita. Ora è ancora in rovina, ma forse potremo ricostruirlo quando la comunità avrà delle entrate!»

«Ma nel frattempo è il miglior posto per una festa non autorizzata» tagliò corto Julius.

Appena superarono un paio di casali si aprì la vista su un piazzale, al centro del quale ardeva un grande fuoco sorgente della luce aranciata. Erano già presenti decine di novizi, tra i quali Cecilia; dal giorno dell’esorcismo indossava uno scialle bianco che la rendeva immediatamente distinguibile.

«Ma siete pazzi? Anche il fuoco, sembra un sabba… vi volete far punire tutti quanti?»

«Aspetta la tunica blu prima di essere noioso, dai» si lagnò Julius.

Mikaela li seguì con un’inspiegabile nervosismo che lo portò a strofinare le mani tra loro mentre cercava di riconoscere le facce. Non aveva rivelato a Ferid che sarebbe uscito di nascosto senza sapere dove Julius lo volesse portare, quindi non sapeva se l’avrebbe trovato lì con gli altri. Non lo vide, ma in compenso scovò bottiglie di vetro sospette e cibo che seppe per certo essere arrivato dalle cucine.

«Se cerchi tuo fratello, credo che non verrà.»

Mika riconobbe subito il viso con qualche lentiggine, anche nella luce aranciata del fuoco.

«Anche tu qui, Lucky?»

«Ora sono più contento di essermi lasciato convincere.»

La sua mano scorse sul braccio di Mika fino a sfiorargli le dita.

«Hai freddo? Continui a strofinare le mani… vieni un po’ più vicino al fuoco.»

Lo sospinse più vicino e il calore del falò fu confortante. La pelle d’oca che aveva fin dal brutto incontro con il rospo lo abbandonò.

«Che cosa state facendo esattamente intorno al fuoco?»

«È l’equivalente di una festa sulla spiaggia, direi: si parla, si beve e… beh, lo sai.»

«Non sono mai stato a una festa sulla spiaggia» ammise Mika, e guardò le fiamme. «Neanche a una intorno al fuoco. Non so che cosa si faccia.»

«Neanche io, non c’è il mare in Kentucky» replicò lui, con una breve risata. «Ma guardo la televisione e vedo che cosa succede di solito… ma ehi, in campagna ne abbiamo fatta qualcuna di nascosto, nel bosco.»

«Come le streghe?»

«Non ho ballato nudo, se era quello che volevi sapere. Non so ballare.»

Mika provò a mascherare il sorriso con un gesto casuale della mano, ma Lucky si accorse di averlo fatto ridere. Non era facile divertirlo, non trovava piacevole la gran parte dell’umorismo che gli arrivava alle orecchie, ma da quando era dentro Bluefields il suo modo di percepire gli estranei era cambiato. Non era più così difficile avere una conversazione con qualcuno.

«Tu? Tu sai ballare, Mikael?»

«Oh, sì. Sono una forza al Dance Dance Revolution

«Ma davvero? Con quell’aria da Cappuccetto Rosso?»

«Scusa?»

Lucky si scompigliò i capelli grattandosi la testa.

«Sì, un… tu mi dai l’impressione di essere stato uno di quei ragazzini così… che fa quello che gli viene detto, sempre educato, quello che riuscirebbe a vendere i biscotti degli scout a tutti gli anziani perché il suo quartiere lo adora… ti immagino così!»

Mika suo malgrado scoppiò in una grassa risata, così vistosa che fece voltare diversi novizi verso di loro.

«Dio ti benedica, Lucky, non hai capito un accidente!»

«No? Sicuro? Ho un buon fiuto per le persone.»

Incrociò le braccia, ma stava ancora sorridendo.

«Ho morso un’infermiera quando voleva farmi il vaccino antinfluenzale, sono stato sospeso da scuola tre volte per altrettante scazzottate nel cortile, ho fumato la prima sigaretta a quattordici anni, sono stato licenziato due volte dopo aver insultato il capo e ho rovesciato un milkshake in faccia a un cliente» snocciolò con un ghigno. «Ti sembro Cappuccetto Rosso?»

Con suo stupore Lucky assunse un’espressione intenerita, come ascoltasse la giornata scolastica di un bambino. Gli diede un buffetto sotto il mento.

«Non male per un bambino di città.»

Lucky fece per allontanarsi; sull’onda dell’orgoglio Mika afferrò l’estremità sporgente della cintura che aveva in vita e lo tirò indietro. Lui restò basito da quella sua reazione e i suoi occhi chiari spalancati fissavano i suoi, più vicini di quanto gli fosse stato chiunque non si chiamasse Yuuichiro Amane.

«Non m’importa se sei più grosso. Ti prendo a pugni se mi fai arrabbiare.»

Gli tornò in mente il modo in cui l’aveva guardato il primo giorno, durante la riunione coi Padri per il business plan: lo stesso modo in cui lo guardava quella notte. Con quell’adorazione, come se non avesse mai visto qualcosa di tanto bello in vita sua… e Mika si sorprese di non trovarla più imbarazzante. In qualche modo solleticava la sua vanità, e non pensava più che fosse una reazione di cui vergognarsi.

Poi la bolla s’infranse al suono della risata di Lucky.

«Facile fare il gradasso, sapendo che non avrei il coraggio di tirare neanche una margherita su quel tuo faccino d’angelo!»

Rise della smorfia che fece Mika, e gli diede un altro buffetto, rapido come la carezza a un gatto col pelo ritto.

«Vieni un attimo con me… ho una cosa che potrebbe piacere a un tipaccio come te.»

Mika restò lì, confuso, a guardare la mano di Lucky scorrere lungo il suo braccio come prima. Quel momento si dilatò in maniera innaturale, come una scena al rallentatore, e oppose resistenza quando sentì che cercava di fargli strada da qualche parte. Poi lui strinse la sua mano con delicatezza e confidenza, e quando mosse un passo Mika lo seguì docile.

Non tentò di portarlo lontano o dentro uno dei casali fatiscenti. Puntò dritto a un uomo, finora l’individuo più anziano che Mika avesse visto con gli abiti del noviziato.

«Ehi, ce l’hai? Quello che ti avevo chiesto.»

«Sicuro» fece lui con una voce profonda.

C’era una vecchia cassa coperta di muschio accanto alla porta di uno dei cottage e fu dentro quella che l’uomo andò a frugare. Sentì l’inconfondibile rumore di vetro che tintinnava contro altro vetro e quando tornò consegnò a Lucky una bottiglia.

«Sei grande, Trev. A buon rendere!»

Lo sconosciuto Trev diede a Lucky una pacca sul braccio quando si accorse che non aveva intenzione di mollare la mano di Mika per stringere la sua, e lanciò al ragazzo un’occhiata che ritenne poco lusinghiera. In qualche modo gli ricordò le occhiatacce di Bernadette, la donna anziana che abitava al piano terra del condominio.

«Lucky… è alcol?» gli fece quando furono a debita distanza. «Quell’uomo come lo ha avuto?»

«Trev si occupava dell’amministrazione dei condomini in una grande città… sbriga commissioni negli uffici per Bluefields, sai, tipo le bollette. È uno dei pochi che ha il permesso di uscire anche da solo…»

«E quando è fuori compra roba di contrabbando?»

«Non so se lo faccia per tutti, ma noi siamo amici… sai, la sua famiglia è delle mie parti, mi ha preso in simpatia… qui, che ne dici?»

Sbucarono sul retro di un cottage ridotto a uno scheletro coperto di edera. C’erano tre tronchi d’acero tagliati molto tempo prima e accatastati e su uno di quelli Lucky si sedette. Mika tenne lo sguardo sul passaggio tra due edifici dal quale erano arrivati, col pensiero all’uomo di nome Trev.

Quindi c’è modo di avere qualcosa senza che i Padri lo sappiano… gli alcolici possono entrare. Quindi, Lanius e il ragazzo erano in grado di procurarsi tanto alcol da finire sbronzi e affogare?

Lucky stappò la bottiglia e per festeggiare l’evento fischiettò. Mika si sedette vicino a lui mentre recuperava due bicchierini di plastica dalla tasca della giacca.

«Lo so, la plastica non gli rende giustizia, ma per la prossima occasione vedrò di sgraffignare qualcosa di vetro!»

«Lucky… il tuo amico porta solo alcolici?»

«Che io sappia, sì… qualche bottiglia di birra o spiriti, e compra del cioccolato per alcune ragazze… per Lebanah, per esempio. Credo che voglia corteggiarla così.»

Mi sa che Trev combatte una battaglia persa in partenza.

Tenne per sé quel pensiero mentre Lucky versava del liquido ambrato nei bicchierini.

«Sai, è la prima volta che gli chiedo una bottiglia grande. Qualche volta gli ho chiesto quelle piccole, solo per me… ma questa mi andava di dividerla con te.»

Gli consegnò la bottiglia e Mika strizzò gli occhi nella penombra per leggere l’etichetta. Si trattava di brandy alle albicocche.

«Forse non lo sai, visto che hai esperienza in milkshake» gli fece con un’inflessione che non lasciava dubbi che lo trovasse buffo, «ma c’è un cocktail con il tuo nome.»

«Mikael?»

«Angel Face» lo corresse lui. «Si fa con il brandy alle albicocche… ho pensato che potevamo provarlo, ma non siamo così attrezzati da poterci fare un cocktail. Possiamo sempre brindare alla nostra amicizia con questo, però.»

Mika raccolse le gambe sul tronco e posò il gomito su quello in alto, mentre prendeva uno dei bicchierini.

«Vuoi davvero brindare a questo?»

Il suo sorriso sbiadì un poco.

«Non siamo amici?»

«Abbiamo seminato il raccolto e abbiamo avuto la pioggia, è arrivata una bella donazione alla comunità e Cecilia si è rimessa… davvero dovremmo brindare a noi due?»

«Beh, sì. Ma abbiamo abbastanza brandy per tutte queste cose!»

Non trovò da obiettare, quindi lasciò che dedicasse il primo brindisi a quella che lui reputava una nuova amicizia. Che cosa commentò sul gusto non lo capì, perché inghiottire il brandy gli fece bruciare la gola come se avesse ingoiato albicocche in sciroppo di acquaragia. Neanche quel buio illuminato da una metà di luna bastò a nasconderlo e Lucky rise a crepapelle finché Mika non riuscì a districare una gamba per colpirlo allo stinco.

«Non sfottere, cazzo! In città non danno superalcolici sotto l’età legale, come voi…» esitò per tirargli un altro calcio quasi alla cieca. «Come voi che vi fate il moonshine nelle vasche da bagno!»

Ridendo come davanti al più esilarante dei cabaret Lucky gli bloccò la gamba, e quel momento cambiò qualcosa nell’atmosfera. Si rese conto di quanto fosse forte la sua stretta e grande la sua mano, al confronto con quelle di Yuu. L’alcol non era ancora arrivato in fondo al suo esofago e già annebbiava la sua ragione e fomentava la sua immaginazione.

Non soltanto la sua. Lucky strisciò in avanti sul tronco e con la mano su per la coscia. In qualche modo Mika si trovò seduto sulle sue gambe e con le sue labbra a un soffio. In un battito di palpebre un lampo di occhi verdi emerse dal buio…

Lo spinse indietro e schizzò in piedi, con il cuore in gola e uno strisciante senso di colpa che si irradiava dai punti in cui un altro uomo l’aveva toccato.

«Non posso.»

«Mikael… ti… ti puoi fidare di me, non lo dirò a nessuno…»

«Che cosa ti ha fatto pensare che ci sarei stato?!»

Fare quella domanda fece contorcere le sue viscere per il senso di colpa e la vergogna. Sapeva perfettamente di non essere stato distaccato né freddo come avrebbe dovuto, e che poco prima aveva ceduto a un istinto sconosciuto che l’aveva portato a provocarlo. Solo qualcuno con una bassa autostima o un’ingenuità totale non avrebbe visto nel suo comportamento un invito.

«I-io… me… me l’ha detto tuo fratello…»

Si bloccò a metà dell’inspirazione come trapassato da una coltellata.

Ferid… Ferid ha detto a Lucky che io… perché? Perché l’ha fatto?

Mika si passò la mano nei capelli, fissando l’unica forma chiaramente visibile nel buio: la luna quasi a metà. Più ci ragionava più avevano senso tutte quelle volte in cui gli aveva chiesto se Lucky gli avesse parlato… ora gli era chiaro di che cosa.

Si irrigidì come marmo quando sentì le mani di Lucky toccargli la schiena e questo gli impedì di avere una reazione violenta.

«Ti prego, non avercela con lui, è colpa mia! Io… io ho… dei bisogni, Mikael, e non riesco a soffocarli a lungo. Per quanto mi impegni, per quanto preghi, non passano mai… quando ho sentito delle voci sulla storia di tuo fratello, ho… pensato che mi avrebbe potuto… aiutare, diciamo» spiegò il giovane bracciante, con la voce che tremava. «Mi ha detto di no, ma… ha detto che tu… forse tu avresti voluto. Se non è così dimmelo e giuro che non mi avvicinerò mai più a te. Non ti toccherò mai più.»

Quel bastardo… l’ha mandato dritto su di me! Sapendo quanto è difficile per me, lui ha…

Al di là del casale scoppiarono risate, ma Mika non era mai stato meno propenso a ridere.

Io… gliel’ho detto io. Gli ho detto io come mi sentivo, e che… quello che sarebbe successo a Bluefields, anche la cosa peggiore, l’avremmo tenuta segreta…

«M-Mikael…»

A dispetto delle intenzioni che aveva manifestato Lucky strinse le sue spalle come volesse trattenerlo a ogni costo.

«Di’ qualcosa…»

Ma le labbra di Mika non sembravano potersi aprire, come la bocca delle bambole era dipinta sul blocco unico del suo profondo orrore.

«Io ti avrei scelto prima… ti avrei scelto fin al primo momento, quando ti ho visto camminare vicino a Nereus il giorno in cui sei arrivato. Se non l’ho fatto è solo perché… tu eri così devoto, e rispettoso delle regole… ero sicuro che non mi avresti mai voluto, e se ho avuto questa faccia di bronzo questa sera è soltanto perché ho voluto credere che tuo fratello mi dicesse il vero!»

Mika avrebbe voluto che tacesse: a ogni parola sembrava che un pezzo di mondo al di fuori dei cancelli di Bluefield si spezzasse e cadesse nell’oblio, e con esso anche parte della barriera che gli impediva di accettare quel decorso.

«Mikael, tu… sei l’uomo più bello che abbia mai visto… sulle riviste, o in tv, non c’è confronto… c’è qualcosa di angelico nella tua aura…»

Il giovane di campagna sembrava annaspare alla disperata ricerca di parole abbastanza importanti per le sue sensazioni.

«Il modo in cui mi guardi, come parli, o quando ridi, mi dà una sensazione… è meraviglioso, eppure mi dà una sensazione primitiva… non l’ho mai provata prima, anche se ho da sempre questi bisogni…»

Lucky lo forzò a voltarsi verso di lui. Mika non avrebbe voluto farlo: non sopportava l’intensità del suo sguardo e del suo desiderio – quasi tangibile – mentre si sentiva fragile come una figurina di cocci di vetro con la colla ancora fresca. Per quanto intima fosse la relazione con il suo fidanzato, non era mai stato corteggiato così, né si era sentito tanto disperatamente voluto.

«Se è vero che anche a te manca qualcosa… se è così… ti prego, prendi me per riempire quel vuoto.»

Mika riuscì a deglutire e così facendo ingoiò anche il suo blocco. Con il cuore che gli pulsava contro il pomo d’Adamo alzò la mano e gli fece una carezza, breve e goffa come se non avesse mai avuto un gesto tenero per nessuno.

«O-okay… okay.»

Ebbe una fugace visione di un sorriso di gioia infantile, ma in un battito di ciglia gli si incollò alle labbra per prendersi il bacio che gli aveva strappato per un soffio poco prima.

È solo una questione fisica… solo… movimenti meccanici e scariche ormonali. Nient’altro che questo.

Mika chiuse gli occhi rispondendo al suo bacio e cercò di aggrapparsi a quel momento avvinghiandosi alle spalle robuste di Lucky, ma non gli impedì di trovare qualcosa di inusuale in quel bacio: aveva le labbra più carnose di quelle di Yuu, le uniche che conosceva, e questo rese il suo bacio esitante come se fosse stato il primo. Non ebbe il tempo di aggiustare il tiro.

«Scusami, Mikael… troppo precipitoso? Per quanto tu mi piaccia devo andarci piano con te…»

«Non voglio che tu ci vada piano» replicò Mika, seccato.

«Capisco come ti senti» l’assecondò lui, con un tono che fece saltare la mosca al naso di Mika quasi all’istante. «Però davvero, non puoi mettere la quarta come hai fatto con il catechismo. È la tua prima volta, non è una buona idea andare di fretta.»

Tra il difendere l’orgoglio personale e la prospettiva di liberarsi del suo fardello di nervosismo da astinenza non ci mise molto a scegliere: scaricò la sua frustrazione con un sospiro e si lasciò prendere in braccio da Lucky, le cui braccia in fibra d’acciaio fecero leva su fantasie che Mika non sapeva neanche di avere.

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Capitolo 21
*** Atto di fede ***


Ferid si fermò alla conclusione di una delle parti di Paradiso perduto, quella su cui si era soffermato nel suo compito che Estelle ancora ricordava così bene. Chiuse la copertina, riaprì la prima pagina bianca della stampa e si trovò a sorridere all’inchiostro scolorito con cui aveva vergato il suo nome e l’anno in cui era stato iscritto alla Saint Matthew.

A quell’epoca aveva ancora una calligrafia corsiva perfetta, quella che aveva imparato in Inghilterra. Non aveva ancora cominciato a farla più stretta, con i trattini lunghi e la y con la pancia alla rovescia.

Non ebbe il minimo preavviso dell’arrivo di qualcuno nonostante il corridoio delle cellette rimbombasse come un hangar e sobbalzò quando la porta venne aperta, poi riconobbe Mika e si rilassò.

«Ah, sei tu… dov’eri sparito?»

Il braccio di Mika caricò un colpo e Ferid alzò il libro per coprirsi la faccia, ma venne colpito sulla fronte da qualcosa di non abbastanza morbido per non essere sentito. Emise un verso acuto di stupore e dolore e massaggiandosi la fronte guardò che cosa gli avesse tirato addosso: era un portasapone di plastica.

«Ouh… ma che problema hai?» si lagnò Ferid.

«Questo è perché hai mandato quel mandrillo da me!»

Fu subito certo che si stesse riferendo a Lucky. Non osò scollare le labbra per rispondere.

«Questo invece è perché hai mandato quel mandrillo da me.»

Mika appoggiò un fagottino di iuta sul letto accanto a lui e appena ne lasciò i lembi vide che conteneva delle more polpose, viola e screziate di rosso.

«Non… credo di capire.»

Mika per bella risposta sospirò e si stiracchiò, quasi si fosse appena svegliato. Non replicò prima di aver spostato i suoi quaderni da sopra il letto.

«Ne avevo veramente bisogno. Adesso mi sento leggero e… perfettamente lucido. Mi sento meglio di quando sono arrivato qui.»

Ferid suppose di aver fatto qualcosa di non eccessivamente tragico spingendo “quel mandrillo” verso Mika, ma aveva la sensazione che ci fosse un risvolto negativo. La fronte che gli pulsava di trauma da portasaponetta glielo suggeriva.

Il ragazzo si buttò sul letto di schiena e rimase lì a fissare il soffitto, così a lungo che Ferid riprese il libro per rimettersi a leggere.

«Non dovrei sentirmi così bene.»

«Mh?»

Guardò dalla sua parte, ma Mika fissava ancora il soffitto.

«Ho fatto sesso con un uomo che non è Yuu. Non dovrei sentirmi così bene… perché non mi sento uno schifo, Ferid? Perché non mi vergogno e… non ho paura di che cosa dirà quando lo saprà?»

«Perché sai bene che è una questione fisica e basta, no?» buttò lì Ferid. «Non lo stai tradendo perché avete dei problemi e non vi parlate, o perché non lo ami più, o per qualche ripicca. Semplicemente lui non può essere qui, tu non puoi tornare e hai bisogno di uno sfogo. Questo è quanto.»

Ferid seppellì lo sguardo tra le pagine senza leggerle. Da qualche parte dentro di lui delle tarme avevano iniziato a mordicchiare, perché lui non poteva dire esattamente la stessa cosa della sua condotta.

«Dovrei dirglielo… così, se si arrabbia, non aspetterà che io torni. E se vuole fare la stessa cosa potrà farlo, è giusto così…»

«No, io non penso che dovresti dirglielo. Dirglielo adesso lo farebbe solo soffrire, e non potete neanche discuterne di persona… inoltre, lo sapevamo» aggiunse lui, abbassando il libro. «Sapevamo che potevamo fare qualcosa di scorretto, persino di illegale… abbiamo promesso che sarebbe rimasto tutto a Bluefields.»

«Ma se lo scoprisse da solo sarebbe peggio.»

«E chi pensi che glielo dica? Lucky? O io? Fossi scemo.»

Mika emise un lungo sospiro e non replicò. Aveva ancora il dubbio negli occhi, ma Ferid confidava che pensandoci su avrebbe deciso di non dire niente, giustificando così il suo silenzio senza dubbio più colpevole.

«È stato un sacco imbarazzante. Non pensavo.»

«Mh?»

«Farlo con Lucky… ero così impedito che si è convinto che fosse la prima volta. Che imbarazzo.»

«Perché mai? Mi sa che l’hai fatto più di me, alla fin fine.»

«Ma con lui è tutto… strano» insistette Mika. «È completamente diverso da Yuu, è… tanto

«Tanto cosa?»

Solo il gesto con cui sembrò disegnare le larghe spalle e la schiena di Lucky diede a Ferid il senso della frase. Con una fitta d’invidia ripensò alla sensazione che provava quando stringeva Crowley.

«Lieto che tu abbia imparato quali gioie può offrire un uomo massiccio in quei momenti, Mika.»

Mika si alzò a sedere di slancio e lo guardò come se non si fosse affatto accorto di non essere da solo nella stanza.

«Già, tu lo sai! È normale sentirsi così?»

Mika infilò il maggior numero di parole che Ferid gli avesse mai sentito mettere in sequenza nel tentativo di spiegare cosa sentiva e cosa pensava, quando per lui era la questione più semplice del mondo. Lo lasciò spiegare senza riuscire a nascondere un sorriso, finché non lo guardò con l’espressione di un bambino che aspettava la risposta di un adulto al più grande dei suoi perché.

«Mika… dipende dalla tua relazione con Yuu» esordì allora, cercando un tono equilibrato tra la tenerezza e la serietà. «Hai conosciuto soltanto lui… e lui conosce soltanto te. Siete diventati uomini insieme, sapete tutto uno dell’altro… Yuu sa cosa serve ad accenderti e a soddisfarti, ma Lucky non lo sa e usa tutto quello che ha imparato. Anche cose che tu non hai mai imparato. È ovvio che tu ti senta così quando hai a che fare con un ragazzo con più esperienza di te.»

«Capisco… non pensavo che ci potesse essere tanta differenza tra…»

Ma qualsiasi cosa stesse per dire l’evitò. Si rialzò dal letto, finalmente pronto a cambiarsi per dormire quelle poche ore che gli restavano prima della sveglia. Ferid decise di spiluccare una delle more che si era guadagnato e di tirare una piccola pungolata quando notò la rigidità di un suo movimento.

«C’è molta differenza con le armi in dotazione?»

All’inizio pensò che non gli avrebbe risposto, ma preparò il libro per parare qualcosa che avrebbe potuto tirargli addosso.

«Credo che in Kentucky abbiano fucili d’ordinanza.»

«Ah, sì» fece lui, cercando di non ridere. «Mi sembrava che fossi stato colpito da un grosso calibro.»

«Non qualcosa di cui ti debba preoccupare, vero? Quella che sta puntando a te non ha un’arma da fuoco.»

L’ilarità svanì completamente da Ferid.

«È una cacciatrice che prende i suoi uccelli al laccio.»

«Ouch. Fa male?»

Buttò un’occhiata palese al suo fondoschiena prima di nascondersi dietro il libro.

«Meno di una fucilata, direi.»

 

***

 

«Hai una foto di questo?!»

Yuu scoppiò in una risata deliziata che non gli sentiva fare da mesi. Per quanto imbarazzanti fossero le fotografie che aveva nel cellulare valeva il rischio di tenerle, se erano in grado di mettere il suo giovane amico di buon umore.

E lo erano, a giudicare dal gran sorriso che aveva in faccia mentre scorreva col dito sullo schermo, con il pappagallo Albert che gli passeggiava da una spalla all’altra senza sosta.

«È proprio forte! Non avrei mai pensato che tu accettassi di prestarti a una cosa del genere! Com’è stato?»

«Bizzarro» ammise Crowley. «All’inizio mi sono vergognato come un cane, ma… c’è un profondo senso di comunità. È come essere in chiesa, ma… più intimo, come se tutti ti conoscessero. E non avevo mai visto neanche uno di loro.»

«Ma dai… e ci tornerai?»

«È stata una celebrazione annuale, fa parte del loro calendario…»

«Ma ce ne sono altre, no?»

Crowley prese tempo sfornando le sue patate e zucca al rosmarino. Non si capacitava ancora di essersi lasciato persuadere da Krul a presenziare alla loro celebrazione del Mabon – eccezionalmente caduto durante il plenilunio, quell’anno – e di aver persino partecipato alle loro danze e al loro banchetto di festeggiamento. Era stato un ritorno alla sua genuina curiosità verso il mondo, senza dubbio, ma in certi momenti ripensandoci provava imbarazzo.

«Pare che la prossima sia il 31 ottobre, ma… beh…»

«Speri che Ferid sia di ritorno per festeggiare con lui» completò il ragazzo. «Beh, ti capisco… però sembra molto divertente. Pensi che potrei andarci io?»

«Vuoi andare a un sabba?»

«Se ci vai tu che sei cristiano posso andare anche io, no?»

«Oh, certo. Non c’è dubbio che Krul sarebbe contenta. Credo che abbia iniziato una campagna di scouting per la congrega.»

Stava per snocciolare tutte le proposte buttate a cuor leggero dai membri della congrega quando sentì bussare alla porta con un’insistenza che non attribuiva a nessuno dei suoi più comuni visitatori. Spostò la padella del pollo dal fuoco e andò ad aprire, ma si pentì ancora prima che la porta arrivasse ad accostarsi alla parete.

«Speravo che le buone notizie dell’ultimo aggiornamento ti avrebbero tenuto lontano da me, Ichinose.»

Lui non attese un invito a entrare – che difficilmente Crowley gli avrebbe elargito – e s’infilò in soggiorno lanciando un’occhiata dura a Yuu, il quale reagì solo accigliandosi.

«Ma quel moccioso vive con te?»

«Sta qui di fronte. Quando siamo entrambi a casa ceniamo insieme… per caso vorresti darti una calmata e mangiare con noi?»

Come immaginava, l’invito alla calma lo pungolò.

«Suppongo che tu abbia ascoltato il rapporto prima di mandarmelo.»

«Sì, l’ho fatto.»

«Pensano che lavoro per il Vaticano? Il mio superiore mi ha quasi riso in faccia alla menzione dell’esorcismo, e tutto questo per scoprire che un novizio di quarant’anni compra cioccolatini e qualche bottiglia di alcolico in un discount quando va in città per contestare una multa o imbucare la posta!»

«Se il tuo superiore avesse prestato attenzione avrebbe capito che l’esorcismo era una finta, un placebo per la ragazza che aveva un problema» gli fece notare Crowley mentre portava in tavola il petto di pollo ripieno e le verdure. «E soprattutto, che la comunità ha reagito molto bene. Ora pensano che Ferid sia una persona speciale e daranno molto peso alla sua opinione.»

«Peccato che a noi importi molto poco di costruire la carriera ecclesiastica del tuo fidanzato, Eusford.»

«A lui importa ancora meno di cosa pensate voi, dato che è andato là per Mikaela e non per l’FBI. Non avete nessun potere su di lui e tenervi informati è una cortesia che vi fa. Non vorrei che questo dettaglio ti scivolasse di mente nel corso di qualche conversazione importante col tuo capo… una in cui potresti dire di impartirgli ordini o di imporgli la ritirata, per esempio.»

Incurante della sua reazione Crowley sedette a tavola e unì le mani per la preghiera.

«Signore, ti ringraziamo per questo cibo e per le persone che hai messo nella nostra vita per aiutarci e sostenerci. Amen.»

«Amen» gli fece eco Yuu, prima di allungare ad Albert un pezzo di frutta disidratata. «Ecco, ora della pappa, Albert.»

Il pappagallino atterrò sulla sedia accanto per mangiare il suo frutto con comodità. Crowley si servì il pollo mentre Yuu si riempiva il piatto di patate e zucca e piselli al burro.

«Hai qualche altra cosa da dirci, Ichinose? Dico, qualcosa che tu possa pretendere o che a noi interessi sentire.»

«Forse a Ferid Bathory non importa cosa pensa il Bureau, ma può darsi che a Mikaela interessi la mia opinione. Se è così… io voglio dei risultati e li voglio in fretta, altrimenti non ho motivo di fare posto a lui nella mia squadra.»

«Ti dirò io una cosa: Ferid è un catalizzatore. È realmente una persona in grado di far muovere le cose intorno a lui… se vuoi un consiglio da chi lo ha visto farlo, pensa alle tue indagini e lascia che lui lavori. Che faccia smuovere le cose. Se c’è qualcosa di nascosto lui la farà uscire fuori. Non intralciarlo e non pressarlo, e avrai quello che stai cercando.»

Qualcosa di inspiegabile passò nello sguardo di Guren, e a Crowley parve di riconoscere la scintilla di una curiosità al di là delle deduzioni, simile alla sua.

«Sono parole di un certo peso.»

«So di che cosa parlo» replicò lui, con un sorriso sicuro.

Guren esitò qualche istante in profonda riflessione, poi andò alla porta.

«Mi fiderò di te… ma non posso lasciargli più di un altro mese. Dopodiché il capo mi ordinerà di lasciar perdere, e saranno soli. Non dipende da me.»

«Non mettere limiti a Ferid. Non si sa cosa può riuscire a fare in un mese.»

Guren non replicò e lasciò l’appartamento senza salutarli, con l’aria di chi ha qualcosa su cui riflettere e una soluzione da trovare. Crowley si accinse a mangiare quando notò l’espressione irritata di Yuu mentre tagliava il pollo.

«Non hai detto proprio niente di Mika» lo redarguì. «Ferid non fa mica tutto da solo, lì.»

«Scusami, Yuu, ma non era per sfiducia. So che cosa è capace di fare Ferid quando ci crede e si impegna… ma che cosa sia in grado di fare Mika, credo che lui non lo abbia mai mostrato a nessuno di noi. Forse neanche a se stesso.»

«Ha insegnato a un pappagallino ad accendere la macchina del caffè, a chiamare il 911 e a giocare a peek-a-boo! Se non è magia questa…»

«Peek-a-boo!» trillò Albert dalla sedia. «Mika caffè! Mika caffè!»

Crowley ridacchiò.

«Quando ritorna adotto anche io un pappagallo. Chiederò a Mika di insegnargli a usare il computer al posto mio… non dovrebbe essere difficile farlo meglio di me.»

 

***

 

Il primo raggio aranciato del sole superò il profilo del bosco. Mika strizzò appena gli occhi contro la luce ma continuò stoico la sua corsa, al ritmo regolare del passo e del respiro. Correre senza musica nelle orecchie e sentire quel silenzio, dopo essersi abituato al frequentatissimo Cross Park di Satbury, dava una dimensione nuova alla sua attività fisica. Assomigliava allo slargo di pensieri e alla pace dei sensi che raggiungeva durante le meditazioni in acqua: era soltanto lui con il suo respiro, il battito del suo cuore e la terra sotto le sue scarpe.

Quando fu in vista del Borgo accelerò un po’. Fu costretto ancora una volta a limitarsi a causa del terreno.

Se solo avessi le mie scarpe da trail…

La prima cosa che sentì fu l’odore dei resti del fuoco, sospinto verso di lui dal vento. Quando arrivò trovò l’ammasso di legno carbonizzato al centro dello spiazzo, che emetteva piccole volute di fumo dalla brace nascosta e un piacevole tepore.

Con il fiato corto e il cervello ben attivo dopo quel ricambio di ossigeno si guardò intorno, riflettendo. Non era sicuro che avrebbe trovato la merce di Trev ancora nascosta lì, o che avrebbe trovato anche delle sostanze, e nemmeno si aspettava che sarebbe stato facile scoprire altri nascondigli con tutti quei casali, le casse e i materiali abbandonati.

Andò alla cassa di legno coperta di muschio e ne sollevò il coperchio per spiare dentro con l’aiuto di una piccola torcia che aveva avuto da Ferid. Fu sorpreso di trovarci la merce di contrabbando, ma non era niente di eclatante: illuminò tre confezioni di birre, delle gomme alla nicotina, un paio di bottiglie di gin e una grossa busta di marshmallow colorati.

Sembra più la spesa segreta di un adolescente che frutto di attività criminali…

Spense la pila e si appoggiò di schiena alla cassa, lasciando scorrere lo sguardo sui casali vicini. La sera prima, con tutto quello che era successo con Lucky, non si era neanche reso conto di poter essere vicino alla verità su Bluefields e forse sugli incidenti alla chiesa di Nashville.

Poteva essere successo esattamente questo: un collaboratore dell’amministrazione poteva essere compiacente e procurare alcol e droghe ai membri della comunità, causando la morte di un uomo e di un ragazzo che forse, dopo aver assunto un mix di sostanze, avevano sperimentato allucinazioni o tentato la meditazione in acqua com’era uso della chiesa.

Possibile che sia così semplice… e tutto questo sia stato inutile?

Era un’ipotesi valida, perché finora niente – in completa onestà doveva ammetterlo – nella chiesa lasciava intuire che vi fossero sotto affari loschi o strane macchinazioni, tanto meno abusi di qualche genere. Alla luce della scoperta persino il cedimento di Cecilia poteva essere spiegato, se aveva assunto qualche farmaco insieme a dell’alcol o simili.

Tuttavia non erano molti coloro a cui era permesso di uscire dalla comunità senza accompagnatori e se otteneva una lista di chi poteva farlo aveva già in mano dei potenziali responsabili.

Forse neanche quello è stato del tutto inutile…

Mentre impostava una nuova scacchiera sulla base delle sue scoperte – il quasi del tutto ignoto Trev vi prese parte nel ruolo di un alfiere – si rimise in moto per fare il giro del campo nord e tornare verso la canonica.
 

***

Era troppo presto persino per andare a colazione. Ferid soffocò uno sbadiglio mentre si dirigeva alla cappella, accompagnato dal tramestio sommesso di qualche stoviglia spostata nelle cucine da una mattiniera sorella Maddalena. Il solo pensiero gli pungolò lo stomaco e si chiese se ci sarebbero state le uova: aveva una voglia terribile di uova, patate in padella e toast, la colazione che per lui corrispondeva a un’abbuffata mattutina.

Mi fanno voglia persino le salsicce di tacchino alla cipolla che fa Crowley… anche se l’ultima volta ci ho messo tutto il giorno a digerirle.

Iniziava a sentire di nuovo la mancanza di Crowley come quando era partito per l’Inghilterra. Sse nei primi giorni era stato impegnato e nervoso per tutte le incognite che l’aspettavano, la sua mancanza si era presentata non appena raggiunto uno stato di calma sufficiente da notare una metà vuota nel letto, una sedia senza occupante di fronte a lui a cena, e il silenzio di qualcuno che non era lì per chiedergli come stava, a cosa pensava o che cosa gli andasse di fare.

Il fattore Estelle non aiutava la sua causa. Si sentiva in colpa a crogiolarsi nell’evidente preferenza che lei aveva per lui, anche perché quella volta non aveva messo in chiaro con Crowley che sarebbero stati liberi di fare quello che gli pareva. Poteva rigirarlo in cento modi, ma era un tradimento quanto un cerchio restava tale anche se fatto passare per un foro quadrato più grande.

Quando aprì il battente ed entrò nella cappella Ferid avrebbe tanto voluto che lì seduto ci fosse stato Gilbert. Era sicuro che lui, come uomo di buon senso e amico di Crowley, avrebbe saputo consigliarlo per il meglio senza farlo sentire più colpevole.

«Mi hai fatto chiamare, Nereus?»

L’uomo non rispose, restando a capo chino seduto alla seconda panca. Ferid lo raggiunse per scoprire che stava recitando il corollario dell’acqua, una versione unica del rosario cattolico.

«Siediti, per favore» gli fece, subito dopo aver sgranato l’ultima perla blu tra le dita.

Ferid obbedì.

«Vann è dell’opinione che tu sia pronto per il Battesimo. Tu che cosa ne pensi?»

«Che padre Vann non mi sembrava un tipo così istintivo da decidere sull’onda di un’emozione.»

«Non credi di essere pronto?»

«Non vengo mai alle lezioni del quarto livello, figurarsi arrivare al quinto» ironizzò lui, sorridendo. «Penso che Vann si sia solo… lasciato trascinare, diciamo, da quello che è successo con Cecilia.»

«Eppure è qualcosa che hai fatto tu.»

«È qualcosa che ho fatto, sì… ma Nereus, tu non credi nel diavolo. Quindi non credi neanche a quello che tutti pensano che io abbia fatto.»

Nereus fletté appena le sopracciglia, rigirandosi il piccolo rosario da dieci perle tra le mani.

«Non so a cosa credo. Non credo nel diavolo, non come certe correnti vogliono farcelo vedere… ma credo nella psicologia e quella non è certo un tipo di terapia che uno psicologo attuerebbe. Eppure, ora Cecilia sta bene… sta meglio di quanto sia mai stata da quando la conosco. Non ha più bisogno di prendere gli ansiolitici…»

L’interesse di Ferid si riaccese immediatamente.

«Cecilia prendeva ansiolitici?»

«Sì, da prima ancora che entrasse qui. Non è un segreto, Connor: questa comunità è inclusa nella lista di strutture di recupero autorizzate dal tribunale. Alcune persone con reati lievi e problemi di droga o di dipendenze arrivano qui per un periodo di terapia, anche se non medica, fino a che il tribunale non li consideri riabilitati. Cecilia era una di loro.»

«Aveva problemi di droga?»

«Dipendenza sessuale. Finì arrestata insieme a certa gente che spacciava, la questione venne fuori e… i suoi, gente di buon nome, le fecero fare una terapia e finì per prendere ansiolitici. Quando uscì e videro che non era facile tenerla lontana dalla tentazione la spedirono qui.»

Ferid emise un verso di disappunto trascinato da un sospiro.

«Povera bambina… rinchiuderla non era il modo di aiutarla.»

«Anche un esorcismo l’avrei considerato un modo decisamente poco opportuno di aiutarla, eppure sembra funzionare… certo, sta ancora prendendo le medicine perché non è saggio che smetta improvvisamente» precisò Nereus. «Però è la prima volta che si sente di voler tentare di sospendere la terapia.»

«Sono felice di questo. Spero si riprenderà e avrà il coraggio di affrontare anche il resto del mondo, prima o poi.»

Nereus annuì, leggermente rigido.

«È possibile che anche lei arrivi al Battesimo tra poco. Per la prima volta in una comunità così piccola abbiamo molti candidati insieme.»

«Ma tu hai dei dubbi su di me, non è così?»

«Sì. Io… anche se credo nei miracoli, se ci sono innumerevoli esempi di ultimi divenuti primi, tu… per venire da dove vieni, il tuo operato è… veramente sa di miracoloso. Persino troppo, e in un certo senso mi spaventa. Perdonami se sono così schietto.»

Gli salì spontanea una risata.

«Oh, Nereus, non essere così formale, non con me… se pensi che non sono ancora pronto io mi rimetto alla tua decisione. Dopotutto sei tu il Padre, Vann è solo in visita. Non farti influenzare… sei tu il mio pastore, no?»

Ferid si alzò dalla panca scricchiolante ma si fermò lì accanto, con la mano ancora sullo schienale.

«Però dovresti riflettere su una cosa… esattamente, che cosa dovrei mostrarti perché tu sia convinto che è il mio momento?»

La lieve inflessione sulla parola giusta e Nereus fu colpito proprio dove Ferid voleva affondare il seme del dubbio: il suo sguardo scivolò dal volto fino giù, ma Ferid non gli diede altro tempo.

«A più tardi, Nereus.»

Se ne andò, certo di aver lasciato al Padre di Bluefields abbastanza materiale per alimentare il fuoco che cercava disperatamente di spegnere.

 

***

 

La stanza che Ferid definiva “l’inferno del libraio”, al terzo piano della Casa Grande, era un vero casino: un paio di tavoli di altezza diversa erano infilati di misura tra gli scaffali ingombri di libri senza etichette, senza indicazioni alfabetiche e senza alcun criterio; gli era molto chiaro perché il suo amico ne fosse così infastidito.

Mika superò la soglia lasciata aperta e dopo aver dato un’occhiata al corridoio l’accostò quanto più possibile senza far scattare la maniglia. Lucky, seduto di spalle sulla panca, si grattò la testa senza sospettare di non essere più solo nella stanza.

Dipende tutto da come la giocherò adesso… non credevo che l’avrei mai pensato, ma avrei voluto poter chiedere qualche suggerimento a Maguire. Era il tipo giusto per queste manovre viscide…

Deglutì i suoi timori stampandosi il sorriso in faccia. Si avvicinò con passo felpato, posò senza un rumore il cestino che aveva portato dalla cucina e si buttò con tutta la sua sfacciataggine: si appoggiò contro la sua schiena passandogli le braccia intorno al collo e con un briciolo di malizia in più si assicurò che le dita scivolassero sulla pelle, sotto il primo bottone della camicia.

Lui si irrigidì immediatamente.

«Che… M-Mika?»

«E chi altro poteva essere?»

«S-sì, io… non farlo, per favore» fece, spostandogli la mano sotto la camicia. «Che… che fai qui?»

«Il tuo compagno di stanza mi ha detto che a volte vieni qui a studiare, per non essere disturbato dal via vai.»

«S-sì… in effetti…»

Lucky spediva occhiate ovunque pur di non guardarlo in faccia. Non era esattamente la reazione che si aspettava. Si sedette sulla panca.

«Hai saltato la colazione… cos’è così urgente?»

«Ho… avevo un compito assegnato che volevo finire di ritorno dalla festa, ma… poi abbiamo… e ho fatto troppo tardi. Cerco di finirlo ora…»

«Oh, mi dispiace, Lucky…»

Molto distante dal sentirsi dispiaciuto Mika tentò l’attacco sotto forma di bacio, ma il ragazzo gli sfuggì con una manovra brusca. A quel punto non poté ignorare l’evidenza: lo stava evitando.

«Che c’è, Lucky? Sei arrabbiato con me?»

«Arrabbiato? No, certo che no… solo…»

«E allora cosa c’è che non va?» l’incalzò, aggiungendo una sfumatura accusatoria.

«Noi… lo sai che non… avremmo dovuto… insomma, è contro le regole, e non è neanche giusto nei confronti di… insomma, del Signore.»

«Ieri sera non ti è venuto in mente che era contro le regole, vero?»

La poca fermezza raccolta da Lucky sbiadì sotto quel tono.

«C-certo che lo sapevo, ma…»

«Ma ora che mi hai avuto non sono più così speciale» proseguì Mika.

«A-assolutamente no! Pe-penso ancora quello che ti ho detto ieri sera, ogni parola, ma… io… tu sei… così…»

Non avrebbe permesso a Lucky di togliersi dalla scacchiera prima che lo decidesse una sua mossa.

«Ma non sono abbastanza per te. Sono troppo inesperto… non ti ho fatto divertire abbastanza, vero? Non posso crederci» aggiunse, stroncando il suo balbettio. «Persino qui ci sono uomini del genere. Manipolatori, viscidi e disgustosi.»

Schivò una carezza e saltò in piedi per marciare fuori – era già con il pensiero alla fase successiva, quella in cui Lucky avrebbe finalmente ceduto al senso di colpa cercandolo – ma Lucky strinse una delle sue mani di granito intorno al suo avambraccio, bloccandolo.

«Ti prego, calmati! Non volevo dire nessuna di queste cose orribili!»

Con più delicatezza mise l’altra mano sul suo fianco e lo tirò indietro. Ancora una volta Mika si trovò seduto sulle sue gambe, a una distanza minima dal suo viso.

«È stato meraviglioso stare con te… anche in quel posto scomodo.»

Mika esibì un sorriso appena accennato, gli accarezzò il viso spruzzato di leggere lentiggini.

«Ma?»

«Ma… né la comunità né la Chiesa dell’Acqua giustificherebbero quello che abbiamo fatto… e tu… io non valgo molto, Mikael, dentro o fuori da Bluefields. Ma tu… tu hai una vita brillante davanti… forse persino una carriera ecclesiastica, non posso mettermi in mezzo. Non voglio rovinarti.»

Mika fece una smorfia, come se avesse inghiottito una caramella all’olio di fegato di merluzzo.

Ma che problema hanno tutti quanti? Mi propina le stesse scemenze di Ferid a Crowley… non lo capiscono che i fardelli sono altri?

Lasciò andare un sospiro e gli strinse le braccia intorno al collo. Era molto lontano da intenti romantici, ma la tenerezza che gli suscitava era autentica.

«Lucky… non c’è niente di sbagliato in te. Non c’è alcuna ragione per cui tu debba pensare di essere meno di me, o di Pepper, o persino di Nereus. Sono uno che legge veloce e impara presto a memoria, e allora? Se dovessi coltivare un orto per sfamarmi finirei per morire prima di primavera. Abbiamo tutti un talento, o più di uno, e il tuo non è per lo studio della teologia. Non c’è niente di cui vergognarsi.»

«Sei molto carino a dirlo…»

«No, carino è averti portato la colazione fin qui» lo corresse lui. «Sto cercando di farti vedere quello che non vedi. Persino mio fratello senza il tuo aiuto, tuo e di Welch, non avrebbe combinato nulla… Dio non gioca ai dadi, l’hai mai sentito dire? Se siamo diversi è perché insieme possiamo comporre un mosaico… o una musica, se preferisci.»

Lucky lo guardava con quell’aria accomodante che per poco non gli tirò fuori un ceffone dalle mani. Riuscì a scongiurarlo solo afferrandogli la faccia, con più forza del necessario.

«Lucky, mi vuoi veramente oppure no?»

«Mikael, io ti vorrei più di qualsiasi altra cosa, ma…»

«Allora tienimi. Trova una scusa qualsiasi per dire che tenermi è la cosa più giusta per tutti e due, e tienimi con tutta la forza che hai!»

Lucky strinse gli occhi come se avesse sentito dolore a quelle parole. Sulla sua faccia lesse i segnali di una lotta tra quello che sapeva essere il meglio per lui e quello che voleva, ma alla fine le sue braccia lo strinsero alla stregua di una presa di arti marziali e lo baciò senza esitazioni, come la notte prima.

Mika iniziò a sbottonargli la camicia alla cieca. Essere preso alla sprovvista l’aveva fatto tentennare, le differenze rispetto all’unico uomo che conosceva l’avevano confuso, ma questa volta sapeva cosa fare ed era determinato ad assicurarsi che Lucky non dubitasse più.

 

***

 

Ferid bussò sulla porta con le nocche e non attese la risposta per entrare nell’ufficio contabilità. Lo blandì con garbo il profumo di caffè nell’aria e seppe di aver azzeccato il tempismo.

«C’è nessuno? Ruberò del caffè, che proviate a impedirmelo oppure no.»

Stranamente non venne alcuna risposta. Immaginò che Estelle fosse andata al bagno o avesse lasciato in funzione la macchinetta mentre andava a prendere la lista spese di qualcuno, così andò nello stanzino per versarsi il caffè, tutto preso a pianificare le prossime cose da fare nella sua frenetica gestione aziendale.

Emise un verso stupefatto lasciando cadere il bicchiere di carta quando qualcosa gli passò davanti agli occhi e gli strinse il collo. Solo il sentire una risatina familiare gli impedì di stendere Estelle con una reazione violenta prima che gli schioccasse un bacio sul collo.

«Ma sei impazzita?» sbottò, tirandosi via il foulard dal collo. «Ti avrei fatto male se non mi fossi accorto che eri tu!»

«Non arrabbiarti… sei venuto a rubare il mio caffè, non puoi invocare diritto all’autodifesa!»

Non soddisfatta cercò di solleticarlo e quando lui le bloccò le mani si sporse per rubargli un bacio a stampo.

«Oh, smettila… sembri un cagnolino molesto che prova in tutti i modi di leccarti in faccia!»

Estelle fece un ghigno e si passò la punta della lingua sul labbro.

«Preferisci che lecchi da qualche altra parte?»

Le scoccò un’occhiata, sconcertato da tanta sfrontatezza.

«Liebe, per l’amor di Dio!»

Lei scoppiò a ridere e si appoggiò alla sua spalla.

«È così carino che ti imbarazzi per così poco…»

Ferid mise un mugugno di disappunto prendendo un altro bicchiere in cui versarsi una dose abbondante di quel caffè delizioso che sapeva fare lei.

«Senti un po’, mi hai appena chiamato Liebe?»

«Ah… l’ho fatto?»

Sapeva di averlo fatto, anche se non intenzionalmente.

«Leba non ti piace?»

«Uh… no, è che… mi riesce difficile pronunciarlo, più di una volta ho detto Liba. In tedesco c’è la parola Liebe, mi suona simile.»

Non fece neanche in tempo a pregare che non gli chiedesse spiegazioni.

«Che cosa vuol dire? Non conosco il tedesco… ma tu sì, leggevi un sacco di poesia tedesca!»

«Uhm, Liebe è… amore. È un verbo e un… appellativo affettuoso.»

Avrebbe preferito che gli risparmiasse quel mugolio adorante, neanche le avesse regalato uno scatolone di amabili gattini trovatelli.

«Che cosa meravigliosa! Chiamami sempre così!»

«Non so se sia il caso. Qualora non l’avessi notato siamo dentro una comunità religiosa che dubito ci stringerebbe la mano se si sapesse che cosa abbiamo combinato.»

«Ma la loro opinione non t’importa più di quanto importi a me, no?»

Non voleva affrontare un simile discorso. Non avrebbe neanche voluto che ci fosse bisogno di affrontarlo. Avrebbe di gran lunga preferito che Estelle si chiamasse fuori una volta toltasi lo sfizio e che riprendessero a far finta di non essersi mai conosciuti, in senso biblico o meno.

«Liebe… voglio dire… te l’ho detto. Lo sai che ho qualcuno.»

Estelle si sedette sulla poltroncina girevole.

«Ma io non voglio che ci sposiamo e facciamo dei bambini… beh, non è quello che ti chiedo, no? Non possiamo restare insieme finché non sarà il momento di andare via per te?»

«Non è il mio addio al celibato.»

«No, lo so… però…»

Estelle si mordicchiò il labbro per un momento prima di sorridere, con un velo di tristezza nello sguardo.

«Non ti chiedi mai… cosa saremmo oggi, se quel giorno fosse andata come volevamo?»

«Me lo sono chiesto quando ti ho rivista. Quando mi hai parlato del mio libro.»

«E che cosa ti sei risposto?»

«Estelle.»

Dovette trovare una buona dose di coraggio per avvicinarsi e prenderle la mano.

«Non saremmo niente, se non cattivi ricordi uno dell’altra. Ero spaesato, spaventato… e fragile. Non avresti saputo guarirmi, né rafforzarmi. Ti saresti stancata subito di me, e io avrei messo il tuo nome nella lista delle persone dalle quali sono stato abbandonato. Non avere rimpianti per quel giorno, perché non ne sarebbe nato niente di buono.»

«O forse ce l’avrei fatta» ribatté lei, stringendo la mano con vigore. «Forse oggi saremmo una famiglia. Con una casa nel West End, dei bambini… e un cane molesto che prova a leccarti la faccia.»

«Non farti del male con queste fantasie… in ogni modo non è successo. Io non ho moglie, non ho figli e neanche un cane.»

Estelle aprì bocca come pronta a ribattere, ma poi esitò. Dopo un lungo silenzio tese un sorriso a fatica e lasciò la sua mano.

«Perdonami… hai un uomo fuori da qui. Non dovrei metterti idee del genere in testa neanche per scherzo… il fatto che non siate sposati non vuol dire che non valga niente. Scusami, mi sono lasciata prendere da idee da romanzo rosa…»

Ferid suo malgrado sorrise e le porse il tovagliolino per asciugare quegli occhi turchesi lucidi.

«Sono molto onorato di essere il principe del tuo romanzo rosa.»

Lei fece un sorriso incerto mentre si tamponava gli occhi.

«Io posso ancora essere l’alleata nel tuo romanzo di spionaggio?»

«Certo che puoi, tesoro… ma per quello che vale, tu sei una meravigliosa creatura, Liebe. Se solo lui avesse fatto una scelta diversa quando ha avuto l’occasione, ora vorrei senza dubbio essere l’eroe della tua storia.»

«Oh, smettila, stupido, mi vuoi far piangere? Accidenti a te!»

«Tanto stai già piangendo.»

Estelle si tamponò gli occhi borbottando abbastanza a lungo da permettere a Ferid di sorseggiare metà del suo caffè. Quando si riprese iniziò a sistemare le penne e spostare fogli con gesti bruschi.

«E comunque, potresti pensare a me per quando sarai un Rinato! Se ci fidanzassimo avremmo un sacco di possibilità in più, e molta più privacy!»

«Di possibilità di cosa? Di finire come nel garage?»

«Anche!» ribatté lei, con il broncio.

«Dai, Liebe, non ti fissare. E poi ne passerà di acqua sotto i ponti prima che mi prendano in considerazione. Nereus non è d’accordo con Vann per il mio Battesimo.»

«Macché!»

«Ci ho parlato stamattina.»

«Ma se ho qui la lista degli ordinativi! Me l’ha data mezz’ora fa!»

Quasi Estelle gli spiaccicò la pagina sulla faccia. La prese portandosela a una distanza buona per la messa a fuoco e scorse il nome di Mika, insieme ai suoi due amici, di Cecilia e un certo Jonathan, e in fondo era stampato “Connor Maguire”.

«Che cosa… cos’è questa lista?»

«La lista degli ordinativi» ripeté lei. «Padre Nereus scrive la lista di quelli che passano al grado di Rinati o che prendono i voti perché io gli ordini i vestiti nuovi dall’azienda che ce li fornisce. Ho un database con le misure e le taglie…»

«Oh, cielo! Che imbarazzo, veramente? Non dovremmo firmare una liberatoria per questo genere di dati personali?»

«Sii serio, Ferid, insomma! Ti sto dicendo che sei confermato per il Battesimo!»

«Shh, sei matta? Non mi chiamare così.»

«Sei confermato!» sillabò Estelle, ancora più forte. «Hai capito, adesso?»

A quel punto smise di giocherellare e si prese un attimo per guardare la lista. Nereus gli aveva detto che erano in tanti, ma non pensava che includessero quei nomi: era quasi l’intera cricca di amici di Mikaela.

Quando si dice un lavoro ben fatto… anche Crowley ne sarebbe colpito.

«Ti è capitato che la lista venisse cambiata o che un nominativo venisse cancellato?»

«Non abbiamo soldi da buttare, Ferid, quando mi danno la lista è sicura.»

«Se mi chiami ancora così prendo un rasoio e ti pelo quella amabile testolina, hai capito?»

«Ma Pepper è un nome sciocco.»

«Lo so, ma un mio amico me l’ha appiccicato addosso e m’è rimasto.»

«E come si chiama questo amico? Ginger?» fece lei, sarcastica.

«No, Ginger è il mio fidanzato, in effetti. Lui si chiama Connor.»

«Conn… Connor? Questo Connor?» fece lei incredula, indicando il nome sulla lista.

«Sì, quel Connor. Una volta ti faccio una lista dei soprannomi che ha appioppato in giro quel deficiente, ma adesso gradirei vedere quelle e-mail con i preventivi…»

Ferid lanciò un’occhiata verso il corridoio, tendendo le orecchie. Non sentì alcun rumore né voci.

«E decidere cosa fare dopo il Battesimo» aggiunse sottovoce. «Magari domani potremmo vederci su quella panchina prima dell’infermeria e conversare come tortorelle, che ne pensi?»

«Uh? Io e te?»

«Oh, sì. Tu e io.»

Gli occhi di Estelle vagarono confusi sulla sua faccia, poi vennero attraversati da un guizzo e lei sorrise.

«Oh, amerei conversare con te quasi sotto la finestra della stanza di Nereus…»

«Adoro quando mi leggi nel pensiero, Liebe.»

«Quindi posso venire alla cerimonia del Battesimo?»

«C’è bisogno di inviti?»

«Beh, in un certo senso… è una cosa intima, sai. Quando arriverete alla fonte blu dovrete spogliarvi prima di immergervi e rinascere…» gli rivelò, e lanciò uno sguardo voluttuoso al di sotto del suo volto. «Ti imbarazza se ti vedo nudo?»

«Sì, se tu sei vestita» replicò, sedendosi sulla sedia accanto. «Non venire.»

«Mi posso spogliare per te in privato quando vuoi~»

«Liebe!»

Lei scoppiò di nuovo a ridere e Ferid scosse la testa prima di affogare il suo risentimento nel fondo del caffè. La sua vita a Bluefields somigliava sempre di più a un film ambientato al liceo.

 

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Capitolo 22
*** Riserva di caccia ***


Crowley imboccò quasi di corsa il cancello e salì i gradini del portico, senza rallentare per spalancare la porta.

«Ehi, di casa» salutò entrando.

«Ciao, Crowley!»

Anche questa volta Liam Bosley fu il primo ad accoglierlo, e Naisha era ben coperta e pronta a uscire nel suo passeggino.

«Uscite?»

«Il solito giretto al parco, zio!»

«Non è possibile… mi hai di nuovo fatto venire per cucinare qualcosa o attaccare pipistrelli in casa tua, Krul?»

Krul era apparsa sulla porta della cucina, con il suo solito grembiule verde e il sorriso da faina nel pollaio.

«Non me la fai mai vedere» protestò Crowley, con un gesto della mano a Liam e Naisha già sul portico.

«Non è mica figlia tua, non sono obbligata a farle passare del tempo con te.»

«No, però… le insegni a chiamarmi zio, ma mi vede meno del netturbino!»

«Non ti lagnare, Crowley, ci divertiremo! Non ti sei divertito al Mabon la volta scorsa?»

Crowley aprì la bocca e la richiuse senza dire nulla, e si accigliò come un falco.

«Al Mabon sì, ma stare a casa tua è una gran fatica… e detto fuori dai denti, io avrei delle cose da fare quando prendo i permessi. Per esempio pulire casa mia, visto che Ferid non è ancora tornato per pulirla lui cantando come una Cenerentola.»

«Ah, che immagine deliziosa. Avrò gli incubi per questo.»

Crowley alzò le mani in segno di resa.

«Va bene, va bene. Allora, per cosa mi hai chiamato stavolta? Puliamo la cantina? Svuotiamo la soffitta? Potiamo le piante? Ah, fammi indovinare: scaviamo le zucche.»

«Ed essicchiamo i pipistrelli.»

Krul rise della sua smorfia e con sua sorpresa si sfilò il grembiule. Sotto indossava un grosso pendaglio che rappresentava le tre lune in un cristallo bianco lattiginoso, legate insieme da un filo di rame.

«Ho preparato il sidro con Liam e un’amica ieri, e delle focaccine al rosmarino. Prendine un po’ e sediamoci fuori.»

«Fuori?»

«Sul retro. Non ti mangio, Crowley, e anche se volessi farlo un tuo bicipite basterebbe per sei mesi.»

Crowley allora le obbedì: andò in cucina e si versò del sidro caldo che era sulla stufa e prese un piatto di focaccine posato sul tavolo come se stesse aspettando lui, poi la raggiunse sul retro della sua cucina da strega. Non aveva mai visto il fazzoletto di prato ombreggiato dal prugno, né lo strano cerchio di ciottoli disegnato sull’altro lato.

Krul era seduta sul primo gradino e lui si accomodò su quello più basso, per poterla guardare in faccia più comodamente. Lei si servì una delle focaccine.

«Come sta Ferid?»

«Ah, mi hai chiamato per questo, stavolta» fece lui con un boccone di focaccia. «Sta bene. L’ho sentito la settimana scorsa, fa sempre lui rapporto al posto di Mika… ha fatto progressi e riceverà il battesimo della Chiesa dell’Acqua domani notte.»

Krul si bloccò prima di addentare la focaccia.

«Davvero? Domani notte?»

«Già, la notte di Samhain, vero? Ed è anche il suo compleanno.»

«Un disegno particolare, devo dire… chissà se succederà qualcosa.»

«Qualcosa cosa?»

«Te l’ho spiegato, no? È l’ultima notte dell’anno per i pagani, e la separazione tra i due mondi è più sottile… uno con il suo potere…»

«Andiamo, Krul, non mi far preoccupare. Ero tranquillo prima di arrivare qui.»

«Ah… no, no. Starà bene… ma mi preoccupa che cosa potrebbe succedergli intorno. Non so come sia il rito di questa chiesa, tuttavia l’acqua è da sempre un mezzo mistico molto potente.»

Krul si fece pensierosa, si stiracchiò e diede un morso alla focaccia.

«Vorrei proprio esserci, sono curiosa!»

«Vorrei esserci anche io» ammise Crowley, con uno sguardo malinconico alle nuvole. «Non per il tuo stesso motivo, però.»

La piccola mano di Krul gli strinse la spalla.

«Lo rivedrai prima che arrivi la neve.»

Crowley staccò un altro morso di focaccia al rosmarino. Nel West Virginia non mancava molto a una prima nevicata, ma per il clima di New Oakheart sarebbe passato anche un mese o due, stando alla tirannia delle correnti oceaniche.

 

***

 

Il digiuno e l’isolamento di un giorno intero avevano fatto raggiungere a Ferid uno stato di perfetta calma e profonda pace. Disteso sulla branda, le mani incrociate sull’addome, gli occhi chiusi e un vago sorriso sulle labbra sperimentò un livello di rilassamento mai raggiunto in una vita occupata da libri da sistemare e da leggere, gatti da curare, servitù da istruire e mille faccende a cui pensare.

Non sento neanche più la fame… non so neanche che ora sia. È magnifico.

Galleggiò in quello stato più vigile del sonno e più rilassato della veglia per un’altra ora, poi captò i primi rumori della giornata. Aprì gli occhi e vide avvicinarsi una luce fioca, come di candela.

La serratura scattò e la porta cigolò. Ferid non mosse un muscolo.

«È ora di andare. Sei pronto?»

Lui si limitò a sospirare prima di alzarsi dalla branda. Quello stato di rilassamento persistette, lasciandogli la sensazione che il suo corpo gli appartenesse non di più della tunica nera con cui era coperto. Anche il freddo fuori dall’edificio non lo aggredì subito, mentre seguiva Nereus nella notte vellutata di un nero-grigio uniforme.

Erano soli mentre attraversavano il vialetto e tutte le luci della Casa Grande, là lontana, sembravano spente.

«Dev’essere tardi…»

«È passata l’ora del coprifuoco.»

Ferid annuì, distogliendo lo sguardo dalla sagoma del campanile immersa nel buio.

«Mika?»

«Lo sta accompagnando Vann, insieme agli altri ragazzi. Dorcas si occupa delle ragazze, in questi casi.»

«Noi andiamo soli, Nereus?»

«Sì… ti accompagno io. Siamo i più vicini alla fonte.»

«Dove si trova?»

«Lo vedrai.»

Ferid non insistette con le domande e non sentiva neanche la martellante premura di capire, vedere e sapere. Seguì il Padre per le strade battute finché non vide che erano ben oltre il borgo e più a ovest, e il rumore gorgogliante di un fiume si intensificava.

«Ci siamo… eccola lì.»

Tutto quello che Ferid riuscì a vedere nell’alone della lanterna era una spaccatura simile a una porta nella roccia, una parete scura che affondava nell’oscurità della notte. Nereus andò per primo e la luce iniziò a scendere, suggerendo la presenza di una scala. Ferid mosse qualche passo tentando di non incespicare nella tunica, poi la mano di Nereus gli venne in aiuto.

«Tieniti a me, non c’è il corrimano.»

Accettò il suo aiuto con sollievo e tenendo l’altra mano sulla parete gelida scese quelle che gli parvero svariate decine di gradini levigati. La temperatura scendeva rapidamente. A un tratto la scala terminò e il basso soffitto si aprì in un buco nero.

«Siamo i primi… beh, me lo aspettavo.»

Nereus lo lasciò e armeggiò vicino alla parete, impacciato dalla lanterna. Ferid strizzò gli occhi cercando di scorgere qualcosa – magari il punto di origine dello scrosciare dell’acqua – ma non vide nulla finché Nereus non riuscì a produrre uno sciocco secco, accendendo diversi punti di luce fissati lungo i muri. Lo spettacolo che illuminarono fu tra i più sbalorditivi che potesse raccontare.

La volta della grotta era scavata nella pietra grigia screziata di blu intenso con striature bianche e d’oro, che mandavano riflessi brillanti, e alcune punte in cristallo violaceo mandavano bagliori da sotto la cascatella di acqua trasparente. Ammaliato Ferid si avvicinò a un punto della parete completamente blu, passandovi la mano sopra.

«È straordinario… è… una caverna in un filone di lapislazzuli!»

Avendo lavorato tanto a lungo al Magick conosceva perfettamente l’aspetto e le qualità magiche attribuite alle varie pietre in vendita, e il lapislazzuli era tra i più potenti cristalli secondo tutte le enciclopedie dedicate all’argomento. Una certa atmosfera permeava quel luogo e lasciò un formicolio alla mano con cui aveva toccato la parete; non sapeva se era per la pietra, per la fonte sotterranea o per autosuggestione.

«Ecco perché si chiama Bluefields…»

«Sì… c’erano miniere di azzurrite e lapislazzuli nella zona, e una è ancora qui vicino, con i suoi tunnel… è proibito entrare, naturalmente, ma è ancora intatta tutta la struttura. Questa è la sola zona agibile di quei cunicoli.»

Nei minuti seguenti Nereus accese altre luci, simili a lanterne di carta posizionate sulla cima di pali dalla base larga, per rischiarare l’ambiente e Ferid fece del suo meglio per non battere i denti dal freddo. Purtroppo l’acqua corrente in cui Estelle gli aveva anticipato di doversi immergere sarebbe stata gelida e maledisse di non aver iniziato quella missione in maggio.

I primi ad arrivare furono Abel l’insegnante e Ariel il guardiano, poi arrivò Dorcas accompagnando una Cecilia raggiante che gli rivolse un sorriso luminoso. Per ultimo arrivò Vann, alla testa dei quattro ragazzi. Mentre giustificava il suo ritardo con un tratto di strada reso impraticabile per la pioggia recente Ferid cercò di incrociare lo sguardo con Mika, che però guardava solo Lucky. In effetti il ragazzo era pallido e aveva l’aria di uno col mal di mare su una barchetta.

«Se ci siamo tutti, cominciamo» fece Nereus allora. «In fila da questo lato. Prego tutti di restare in silenzio al di fuori del momento della preghiera.»

I futuri Rinati si misero in fila e Cecilia si spostò di parecchio per potersi accostare a Ferid. La cerimonia cominciò con la versione più lunga del Padre Nostro nella versione dell’Acqua, che con tante voci sotto la volta di lapislazzuli divenne un brusio indistinto che si fondeva con la cascatella.

Nereus entrò nell’acqua e si inginocchiò di modo che fosse immerso fino alla cintola. Fece il segno della croce, mentre alle sue spalle, dall’altro lato del corso d’acqua che separava i novizi dai Rinati, Vann stava sistemando dei fagotti di abiti in fila. Davanti a ciascuno si posizionò uno degli spettatori, e fu allora che Ferid vide tra loro Estelle e il suo sorriso smagliante.

Cecilia fu la prima a essere chiamata. Si avvicinò alla sponda, si sfilò la tunica restando nuda e scese in acqua – secondo Ferid con la resistenza di un guerriero vichingo, visto che non tradì il minimo fastidio per la temperatura – per raggiungere il Padre.

Come veniva fatto nel corso delle meditazioni Nereus la sostenne mentre si immergeva e galleggiava supina. Con sorpresa e angoscia di Ferid, lui le premette la mano sul petto e la spinse con delicatezza finché non fu completamente immersa.

«Dal tuo spirito reso materia tua figlia rinasce. Questa tua serva si affida a te e alla tua misericordia. Abbandona gli inganni, la sofferenza e le lusinghe di questo mondo. Tua figlia, Shifrah, oggi rinasce nel tuo regno!»

Nereus sollevò la testa di Cecilia fuori dall’acqua e lei gli sorrise. Le sussurrò qualcosa di indistinto nell’eco e nel gorgogliare dell’acqua, ma lei si alzò e riemerse sull’altra sponda, dove Dorcas l’avvolse in un telo bianco per asciugarla.

Questa volta quando cercò lo sguardo di Mikaela lo trovò e seppe che stavano pensando la stessa cosa: anche sotto l’effetto di droghe e alcol quella cerimonia non poteva causare l’annegamento di qualcuno.

Prima che potesse elaborare una teoria Nereus pronunciò il suo nome fittizio. Era arrivato il suo turno. Con un certo nervosismo si avvicinò alla fonte e contro ogni volere della sua mente e del suo corpo si tolse la tunica, l’unica fragile difesa contro il freddo. Prese un profondo respiro prima di mettere un piede in acqua e dovette trattenere qualsiasi istinto di ritirata serrando i pugni e i denti per sopportare quella specie di fuoco freddo che gli divorò le gambe.

Nereus gli sorrideva incoraggiante, ma l’ultima cosa che sarebbe stato in grado di fare era sorridergli in risposta. Non aveva fatto molte meditazioni ma sapeva che cosa fare: si immerse fino al petto, con la sensazione che gli si ghiacciasse il fiato dentro i polmoni, e la mano del padre spirituale gli sostenne la nuca mentre raggiungeva il galleggiamento. Il freddo e l’inevitabile ansia di ciò che l’attendeva accorciavano il suo respiro e chiuse gli occhi quando lo spinse sotto il pelo dell’acqua.

Detesto l’acqua… non sopporto di sentire l’acqua sulla faccia così…

Con il solo rumore dell’acqua corrente contro le orecchie non sentiva parlare Nereus.

Non ho mai detto neanche a Crowley che l’acqua non mi piace… neanche quando abbiamo fatto la doccia insieme.

Un’unica bolla gli uscì di bocca. Ebbe la confusa visione di un albero di arance, e di una lucente goccia di pioggia o di rugiada che rotolava sulla buccia. Per un momento, dentro quella goccia, gli sembrò di vedere un cosmo intero: dalla polvere del deserto alla foresta brulicante di vita, fino a dove il cielo era un mantello nero pieno di luci…

«Ehi… svegliati… Raphael!»

Ferid spalancò gli occhi sulla volta di lapislazzuli e prese un profondo respiro. Era seduto sul fondale della sorgente, Nereus gli teneva la testa fuori dall’acqua e gli altri novizi, quando li guardò, avevano tutti un’espressione tesa.

«Ah… rieccoti, Raphael» fece Nereus, sollevato. «Raggiungi gli altri e riscaldati.»

Raphael…? Ah… il mio nuovo nome…

Intontito si rimise in piedi e arrancò dall’altra parte. Non fu facile visto che non si sentiva più i piedi. Si strinse le braccia in un riflesso naturale ed Estelle l’accolse con un sorriso, tenendo il telo aperto per lui.

«Che imbarazzo» rantolò tremante. «Non è proprio la condizione in cui un uomo vorrebbe che una donna lo vedesse.»

«Se hai fiato per queste sciocchezze vuol dire che stai meglio di quanto sembra!»

Ferid fece del suo meglio per asciugarsi ed Estelle l’aiutò – con suo sommo imbarazzo – anche a rivestirsi degli abiti bianchi del primo giorno della rinascita. Mentre faceva questo sia Julius che Lucky ricevettero il loro battesimo con i nomi di Nicodemo e Israel.

Estelle stava tamponando amorevolmente i suoi capelli bagnati quando fu il turno di Mikaela. Ferid non si stupì affatto della sua completa indifferenza all’acqua gelida. Nereus lo immerse senza alcun intoppo e lo ribattezzò Ezekiel. Alla sua uscita dall’acqua fu Damaris a offrirgli il telo e fu mortificante notare che si prodigò molto meno di Estelle.

«Va tutto bene?» gli sussurrò, mettendoglisi accanto.

Ferid annuì, ma non replicò: era il turno dell’ultimo novizio, Dorian, che ricevette il nome di Cain. Per ironia della sorte o di Dio, ad accoglierlo per la vestizione c’era Abel l’insegnante.

A quel punto Nereus uscì dall’acqua – si sorprese che non fosse viola e prossimo all’ipotermia – e concluse la cerimonia con la preghiera che terminava sempre le messe, alla quale seguì un allegro chiacchiericcio dei Rinati, segnale che la solenne celebrazione era conclusa.

Estelle pensò che fosse opportuno abbracciarlo per strofinargli la schiena.

«Oh, sei così pallido che ti si vedono le vene attraverso la pelle, Raphael!»

«Lo dici come se fosse una cosa tenera.»

«Non preoccuparti, alla festa ti scalderai subito!»

«Uh… festa?»

«Ma certo» fece lei a voce più alta, lasciandolo. «Dopo avervi tenuti da soli e a digiuno ora è il momento di rimpinzarvi! C’è sempre un banchetto dopo il Battesimo!»

Julius lanciò un’esclamazione entusiasta e Dorian mugugnò qualcosa che sembrava una commossa manifestazione di gratitudine.

«Avevo tanta fame!»

«Torniamo al refettorio subito, allora» fece Abel, accondiscendente. «Un sidro caldo non farà che bene, per cominciare.»

Per il freddo che si sentiva nelle membra Ferid avrebbe accettato anche del catrame bollente. Abel condusse Dorian verso la scala per primo e ci fu qualche momento di confusione nel comporre la fila.

«Cos’è successo prima, Pepper?»

Ferid guardò Mika alle sue spalle, confuso. Non aveva idea di che cosa parlasse.

«Prima quando?»

«Durante il battesimo! Non ti muovevi quando ti ha tirato fuori dall’acqua» fece Mika, irritato al pensiero che fingesse di non saperlo. «Ti ha dovuto scrollare più volte! Cos’è successo?»

Ferid ammutolì e lanciò uno sguardo vacuo alla fonte. Era la seconda volta che immerso in acqua gli succedeva qualcosa di strano e nella sua mente ritrovò lo strascico di quella visione o sogno che fosse, la goccia sulla buccia dell’arancia.

Deglutì in silenzio e rimase l’ultimo ai piedi della scala, guardando la parete di lapislazzuli con il timore reverenziale di un cristiano al cospetto della croce.

 

***

 

La curiosità che l’aveva accompagnato per tutto il tragitto fino al cancello principale diventò un blocco unico di paura quando incrociò lo sguardo con il fattorino che aveva strenuamente richiesto la firma di Connor Maguire per la sua consegna assicurata. Quegli occhi viola non smisero di fissarlo finché non arrivò al cancello.

«Guren…»

«Vi sta divertendo la gita scolastica, vero?»

Guren sfogliò la copia commissioni della spedizione. Nel caso qualcuno li stesse guardando da lontano non avrebbe avuto dubbi che era lì per il suo pacco postale.

«Avete fatto progressi, ma non per l’indagine. Qui non c’è niente, e se è successo qualcosa di strano la risposta è a Nashville» fece, quasi in tono annoiato. «Parlatene tu e Mikaela, e toglietevi di torno con qualche scusa plausibile. Se volete che qualcuno chiami per avvertirvi della dipartita di qualche vostro caro lasciate un messaggio.»

Gli porse una penna. Stordito dalla comunicazione improvvisa Ferid la prese senza sapere che cosa farci.

«Ma ora ci siamo… siamo Rinati, abbiamo più tempo, possiamo guardare in giro, seguire delle persone che pensiamo sappiano qualcosa… è per questo che ci siamo impegnati, per arrivare alla condizione migliore per guardarci intorno!»

«Non siete degli agenti operativi. La copertura che abbiamo esteso a Mikaela Shindo era vincolata alle possibilità che la chiesa nascondesse delle attività illegali, non al fatto che un paio di membri comprino alcolici e delle gomme alla nicotina… quanto a te, non ti posso obbligare a rientrare, decidi tu. Ma sei venuto qui per aiutare lui, perciò…»

Guren batté il dito sulla riga dove mettere la firma. Ancora confuso dall’evoluzione imprevista della vicenda Ferid tracciò una F come prima lettera e la cancellò. Alzò gli occhi su Guren.

«Abbiamo… bisogno di un altro po’ di tempo… per favore, Guren, noi—»

«Devo rispondere al sottosegretario dell’operato della mia squadra. Se non c’è niente non abbiamo motivo di avvalerci di coperture… e Mikaela Shindo figura come tale. Per questo ha ancora un lavoro in polizia, e se vuole tenerselo deve tornare in servizio quando noi sospendiamo. Come ho detto, tu puoi fare quello che ti pare. Sei un freelance, quindi la tua condotta non mi riguarderà più una volta che Mikaela mollerà tutto.»

Ferid, quasi sotto shock, scarabocchiò due volte la sua peggiore firma, con il suo vero nome. Strinse la penna quando Guren cercò di togliergliela.

«Ti prego… un… s-se troviamo qualcosa ora, in pochi giorni, possiamo avere una proroga?»

Guren esitò, poi tese un sorriso storto.

«Tu non sei abituato a supplicare per avere qualcosa, vero?»

Gli prese la penna e l’infilò nella tasca, poi affondò la scatola contro il suo addome con un gesto brusco.

«A quanto pare, il tuo fidanzato pensa che tu sia molto più speciale di quello che sei davvero… il classico babbeo che scambia la pirite per oro. Ma neanche questo è un problema mio.»

Guren risalì sul furgone scassato con cui era arrivato e lo lasciò lì, tramortito da quello che era a tutti gli effetti un ordine di ritirata immediata. La loro missione, che credevano filare così bene, era appena stata abortita, e si rese conto che entrambi l’avevano presa come una specie di videogame con i livelli da superare, anziché come un’indagine.

Ferid richiuse il cancello con una mano sola e ciondolò verso la Casa Grande. Aveva fatto metà strada prima che prestasse attenzione alla scatola e decise di aprirla in privato, nel caso avesse contenuto istruzioni o qualche strumento. Si riparò dietro la casupola prefabbricata degli alloggi per esterni e strappò i lembi del cartone senza il minimo riguardo.

All’interno trovò molto polistirolo per imballaggio e solo un libro dal titolo “Il poeta che non c’era”. Il romanzo non gli era noto e ne aprì le prime pagine, scoprendo una scritta a penna nel bianco sotto titolo e autore.

Dal primo istante in cui lo vidi

capii che era di più. Tutto il più che c’è.

Era la regola del mio caos,

il senso di ogni dolore,

il colore del mio vivere.

 

Buon compleanno. C.

 

Ferid si morse il labbro per trattenere le emozioni, ma quelle sfondarono le sue difese come un fiume in piena. Si sentì orrendamente in colpa per quello che era successo con Estelle, per tutto il tempo che si era permesso di sprecare in una specie di gioco di ruolo, e per i risultati deludenti della sua missione personale. Serrò gli occhi contro le lacrime di frustrazione che gli salivano e tirò un pugno contro la parete, stringendo al contempo il libro contro il petto.

Crowley, perdonami! Sono stato via così tanto, e non ho combinato niente… e ancora peggio, ho dimenticato il motivo per cui sono venuto fin qui!

Scivolò fino ad accucciarsi contro la casetta e lasciò uscire qualche lacrima, fino a che non si sentì le gambe doloranti e gli occhi che bruciavano, ma alla fine riuscì a rimettersi in piedi, di nuovo in sé. Più in sé di quanto non fosse stato per tre mesi.

Avevano le ore contate per fare la loro mossa.

 

***

 

Mika camminava a passo di marcia alla ricerca del volto familiare di Lucky. Era ancora scosso dalla veemenza con cui Ferid l’aveva rimproverato – in realtà, rimproverato entrambi – per la loro distrazione ed era deciso, come lui, a rovistare nel marcio di quel barile anche a costo di grattarvi dentro a mani nude.

Non aveva trovato il suo amante alla solita stanza dei libri sparpagliati – così la chiamava lui – e andò alla sala ricreativa per vedere se fosse lì a studiare o a giocare a carte con il nuovo piccolo circolo di Rinati.

Trovò un paio di accoliti e il mazzo di carte, quindi pensò che Lucky avrebbe fatto presto la sua comparsa e si mise in un angolo, in attesa. Quasi subito dietro di lui fece il suo ingresso Damaris, con il viso sciupato di una ragazza ammalata e gli occhi stanchi.

«Damaris… stai bene? Non hai una bella cera.»

«Accipicchia, non esagerare con i complimenti» ironizzò lei con voce stanca.

«Scusa… ma davvero, sei così pallida…»

Le fece una carezza per sentirle la temperatura, ma non gli parve accaldata.

«Non ho dormito bene… e ho mal di testa» fece lei, sfiorandosi un sopracciglio. «Credo che mi abbia fatto male quello strano tè di erbe che mi ha offerto padre Vann ieri dopo cena.»

Qualcosa cadde fuori dall’addome di Mika, o almeno fu la netta impressione che ebbe: si strinse la camicia all’altezza dello stomaco di riflesso.

«Cosa… ti ha dato del tè?»

«Sì, un tè che sapeva di finocchio, come una tisana, o qualche cosa del genere… non mi piaceva ma l’ho bevuto per non essere scortese… mi sa che non avrei dovuto.»

Un milione di campanelli d’allarme scattarono tutti insieme e Mika si vergognò di aver lasciato che quell’importante elemento scivolasse via dalla sua memoria, in gran parte per colpa della sua relazione con Lucky. Si sforzò di sorridere.

«Mi sa di no… ma che ci facevi da Vann, comunque?»

«Qualche tempo fa gli avevo chiesto qualcosa a proposito del fidanzamento… insomma, di come è regolato qui, nella Chiesa dell’Acqua…»

«Per noi due?»

«Oh, sei un mascalzone, Ezekiel» commentò lei con un sorriso accennato e gli occhi socchiusi per il dolore. «Onestamente l’avevo anche dimenticato, ma ieri mattina mi ha detto che aveva ricevuto un opuscolo in merito e mi ha invitato a passare in ufficio a prenderlo.»

Un opuscolo? Avrebbe fatto prima a portarselo dietro a cena e darglielo allora…

Capì subito che era una scusa e anche traballante. Aveva attirato Damaris in ufficio e le aveva dato quel tè, lo stesso che aveva bevuto lui prima di addormentarsi. Un orribile pensiero lo sfiorò.

«Damaris… per caso ti sei addormentata dopo averlo bevuto?»

Il visetto rotondo di lei si colorì appena per l’imbarazzo.

«Oh, ma come lo sai? Non te l’avrà detto lui!»

Mentre lei arrossiva lui impallidiva di qualche tono.

«S-scusami, Damaris… io… ho dimenticato che mio fratello voleva vedermi giù in canonica. Tu riposa un po’… niente più tè alle erbe, eh? Promettilo.»

Le diede un buffetto passandole accanto e uscì quasi di corsa. Incrociò Lucky che stava arrivando ma non lo degnò della minima considerazione; si lanciò giù per le scale e dopo un frenetico quarto d’ora riuscì a ripescare Julius, intento a trascrivere dei documenti al computer della scrivania gemella di quella di Lebanah.

«Oh, Zeke» gli fece sorpreso. «Che fai qui?»

«Ti cercavo» disse subito, senza badare né all’occhiata curiosa di Leba né al nuovo nomignolo che di solito lo urtava. «Devo chiederti una cosa. Di quando abbiamo fatto quell’orientamento con Vann nel suo studio.»

«Quando io ho fatto l’orientamento! Tu hai dormito tutto il tempo!»

Ebbe ancora quella sensazione di perdere qualcosa per strada.

«Per quanto tempo?»

«Non lo so» fece lui accigliato. «Quando ti sei addormentato padre Vann ha detto che eri stanco e che era meglio spostarci, e siamo andati in una stanza vicina. Ho fatto l’orientamento e sono andato a letto… non so se tu fossi ancora lì a ronfare o no.»

«Sei andato in un’altra camera e io sono rimasto lì a dormire?»

«Sì, Zeke, è quello che ti ho appena detto» ribadì lui, annoiato. «Dobbiamo parlarne adesso? Ho un po’ di roba da trascrivere…»

Fu come rendersi conto che la partita a scacchi era contro due giocatori e non contro uno soltanto. Mentre dalla nebbia emergevano pezzi e strategie inaspettate il ragazzo girò intorno alla scrivania e afferrò il braccio di Julius. Capì dalla sua espressione che lo aveva indisposto, ma ora la verità era molto più importante dei rapporti di simpatia.

«Tu hai dormito?»

Julius scambiò il cipiglio con un motto di stupore e irritazione che diedero a Mika la certezza che avesse visto giusto. Lui lanciò un’occhiata verso Leba, come a volergli dire che non avrebbe detto niente davanti a lei.

«Zeke, falla finita. Sembri matto.»

Tutt’altro che dissuaso Mika forzò la stretta e se lo trascinò via, fuori dall’ufficio. Il suo amico era a un passo dal prenderlo a pugni, ma si limitò a divincolarsi.

«Ma che hai?!»

«Julius, è importante! Ti sei addormentato nell’altra stanza?»

Il suo furore calò di una tacca e incrociò le braccia.

«Un… per un attimo, forse… Vann mi ha scrollato e abbiamo fatto lezione come previsto! Insomma, era pur sempre tardi e quel libro era un sacco lungo!»

«La testa? Ti faceva male la testa? Anche il giorno dopo…»

«Non lo so, non mi ricordo… forse, ma mi fa sempre male quando studio tanto!»

Davanti a tre situazioni quasi identiche Mika non dubitava di aver scoperto un modus operandi. La vera domanda, però, era a che cosa servisse quel modus operandi. Aveva un vero terrore di scoprirlo, ma credeva che l’angoscia di non saperlo sarebbe stata ancora più corrosiva a lungo andare.

«Julius, ascoltami. A me Vann ha raccontato un’altra storia, e anche Damaris ha preso quel tè e non si sente bene. Credo che Vann abbia fatto qualcosa mentre noi dormivamo, e non erano pochi minuti o secondi come ha cercato di farci credere.»

L’espressione di orrore che gli comparve in volto rifletteva perfettamente come Mika si sentiva.

«Ma che cosa stai dicendo? Guarda che questa è un’accusa grave!»

«Sì. Per questo voglio tornare nello studio e cercare qualche prova» gli confidò, a voce molto bassa. «Vuoi aiutarmi?»

Per un attimo Mika si ritenne un pazzo a confidare i suoi sospetti con tanta facilità e temette di aver bruciato tutto con la sua imprudenza. Il fatto che Julius invece annuisse, che gli credesse con tanta fiducia, fu la prova della forza dei rapporti che aveva coltivato dentro Bluefields.

«Cosa posso fare?»

«Tieni Vann e quel suo cane, Barak, lontano dall’ufficio mentre io lo rivolto come un calzino.»

Julius si fece pensieroso.

«Penso di sapere cosa fare… ma devo trovare Cain. Lui sa bene come realizzare la mia idea.»

«Quanto tempo puoi guadagnarmi?»

«Non posso essere sicuro… ma tu saprai quando il diversivo finirà, stanne certo.»

 

***

 

Mika non poteva evitare di guardare quelle alte fiamme da ogni finestra davanti alla quale passava mentre correva all’ufficio di Vann. Scoprendo che i suoi migliori amici dentro Bluefields erano stati arrestati da minorenni rispettivamente per furti in aziende e per incendio doloso Mika si sentiva veramente Gesù tra i due ladroni e, se non fosse stato assorbito da questioni più urgenti, avrebbe fatto domande su quali fossero le colpe che portavano Lucky a sorridere delle sue giovanili scorribande a scuola.

Avendo già visto Vann e il suo fedele assistente precipitarsi fuori al primo fumo nero che si levava dal capanno Mika andò a colpo sicuro: raggiunse l’ufficio, fece scattare la serratura con il grimaldello giusto e si chiuse dentro. Dalla finestra poteva controllare lo stato dell’incendio e in lontananza gli parve di riconoscere la tunica blu di Vann.

«Vediamo… se fossi io… dove nasconderei qualcosa, qui?»

Per prima cosa spostò i quadri per cercare una cassaforte a muro – la più spaventosa alternativa che riuscisse a pensare – poi ispezionò la scrivania alla ricerca di un doppiofondo in un cassetto o di certi scomparti segreti, come in un vecchio romanzo giallo.

Non ne trovò traccia e iniziò a scandagliare con lo sguardo i molti suppellettili dell’ufficio, chiedendosi se sarebbe riuscito a perquisire da solo l’intera camera in così poco tempo.

Prima di tutto, allora, quello strano tè.

Andò dove Vann installava il bollitore e trovò ancora lì la scatola di latta dove teneva le bustine; aprendola individuò subito lo strano tè, con un’etichetta del tutto bianca appesa all’estremità del filo. Ne intascò un paio e fece per richiuderla quando notò che aveva lo stesso infuso al pompelmo che avevano provato lui e Ferid in uno dei loro giorni di scacchi e che avevano gradito molto.

Come un lampo ricordò Ferid con la sua tuta da motociclista e quello che gli disse quel giorno: il miglior posto dove nascondere qualcosa è sotto gli occhi di tutti, Mika.

Sotto gli occhi di tutti…

Il suo sguardo andò immediatamente alla libreria. Si avvicinò a lunghi passi, scorrendo i dorsi.

Se volessi nascondere qualcosa sotto gli occhi di tutti, qui… semplicemente sceglierei un volume che non può interessare nessuno dei ragazzi… per esempio…

Puntò un volume poco appariscente e lo sfogliò, senza trovarvi nulla. Tentò con un libro dal titolo in cirillico scoprendo che era una Bibbia e niente più di quello, poi andò allo scaffale sopra, dove difficilmente lo sguardo di qualcuno si sarebbe fermato a meno di una lunga attesa solitaria; qui pescò a colpo sicuro un dizionario di latino e quando l’ebbe tra le dita seppe già di aver fatto centro.

Non era un vero libro, ma una scatola camuffata da antico volume da collezione. Aprì la semplice serratura che non aveva lucchetto e portò alla luce una fotocamera compatta, avvolta in una busta di cellophane, accompagnata dal suo cavo di caricamento.

Con ansia crescente lanciò la scatola-libro sul divano e spacchettò la videocamera. Aveva ancora almeno metà della batteria carica, ma pochi comandi gli bastarono per scoprire che non conteneva niente. Aprì lo sportello per confermare i suoi sospetti: non conteneva nessun tipo di scheda SD o memory card.

Sì, è ovvio… se fossi io, terrei i file dove posso andare solo io… nella mia stanza, o in un posto che posso controllare e il cui accesso è limitato.

Una lontana sirena annunciò l’arrivo dei vigili del fuoco. Mika richiuse la scatola e la rimise al suo posto, infilò la videocamera sotto la camicia e uscì. Mentre richiudeva la serratura per essere certo che Vann non sospettasse un’incursione si chiese se avrebbe avuto abbastanza tempo per controllare anche le sue stanze personali.

Preso dalla frenesia di scoprire che cosa gli fosse successo davvero quella notte decise di correre il rischio.

 

***

 

Fu una fortuna che la fantasia criminale di Vann si fosse esaurita, così trovò quasi subito il nascondiglio nelle pagine tagliate al centro di una copia di Delitto e castigo e tutte le memory card che conteneva. In piedi accanto allo scrittoio Mika inserì nella macchina quella sulla cui etichetta custodia era scritto solo il numero mille e trovò molti file. Ne aprì uno a caso, perché quelle lettere e numeri non gli suggerivano niente.

Riconobbe lo studio di Vann, ma non la donna che era sdraiata sul divano. Non poteva dire di essere davvero sorpreso dal fatto che sembrasse completamente priva di sensi né dal fatto che nel corso del video venisse spogliata. Interruppe la riproduzione e passò a un altro, il più recente, e scoprì il suo amico Julius, come l’altra privo di sensi ma filmato in una stanza diversa dall’ufficio, come aveva detto riguardo alla notte dell’orientamento.

Febbrile cercò nella scheda contrassegnata cinquecento un video recente, ma non trovò nulla che non fosse vecchio di qualche mese. Tuttavia tra i video che scorse trovò Cecilia. A denti stretti inserì anche la scheda col numero duemila e qui trovò un solo video. Alla vista della data di creazione gli si asciugò la gola e difatti si vide addormentato sul divano, con una mano ancora sul vecchio libro.

Non fu in grado di trovare il coraggio di guardarlo, ma fu un’insana sete di vendetta a spingerlo a farlo. Voleva carpire ogni dettaglio per sapere come rispedirlo al mittente.

Tuttavia nel video non successe quasi nulla di quello che si aspettava e temeva: delle mani lo spogliavano senza malizia, come svestissero il manichino in una vetrina, veniva filmato dalla testa ai piedi un paio di volte, ma il video si concludeva così.

Interdetto, controllò alcuni dei video delle altre schede e anche quelli finivano senza che venisse immortalato il minimo gesto esplicitamente erotico, quasi si trattasse di una ripresa a fini diagnostici. Quasi ci avrebbe creduto se non avesse notato un’enfasi sulle zone erogene del corpo.

Quel… porco… che diavolo fa con questa roba? Non avrà duemila di queste memory card, non ci sono così tanti membri a—

Folgorato da un orrendo pensiero Mika guardò la scheda che aveva ancora in mano, quella che conteneva il suo video. Andavano dal cinquecento all’ottocento, poi mille, milleduecento, millecinquecento, e duemila. Non ne era sicuro, ma la conversazione che aveva ascoltato di nascosto tra lo straniero e padre Vann gli sembrava innestarsi perfettamente con la sua idea.

Il catalogo… quell’uomo gli aveva chiesto se era pronto un elenco… di selvaggina…

Con la sensazione di non sapere più come riempire i polmoni fissò il numero duemila nel suo palmo.

«Sono… prezzi…»

Mika si accovacciò e poggiò la schiena contro il muro, stravolto.

I video in ogni scheda… sono quelli in vendita a quel prezzo… quello schifoso maiale… Damaris… dov’è Damaris?

Si stava attardando nella stanza di Vann, ma in quel momento non avrebbe chiesto di meglio di vederlo entrare, per rovesciargli addosso la sua ira finché era ancora pura.

Febbrilmente si mise a sfogliare i file, guardando i video quanto bastava per riconoscere i soggetti. Trovò la prima faccia familiare in Lucky, nella scheda da milleduecento, poi Dorian nella stessa scheda di Julius.

Man mano che il prezzo scendeva il sangue nelle sue tempie pulsava di più, e infine trovò Damaris nella fascia da ottocento. Ad accendere la miccia definitiva fu rendersi conto che quel video di Damaris era stato creato al ritorno di Vann da Ashby, e non la sera prima.

Quel pervertito di merda ha venduto Gloria a qualcuno ieri sera!

Per alimentare il suo odio visionò l’inizio di tutti i video, e aveva l’impressione che l’unico novizio mancante nell’elenco fosse Ferid: aveva persino trovato qualche Rinato, come Damaris, ma non lui.

Di sicuro era un pezzo da collezione perduto per sempre, perché Mika aveva ogni intenzione di chiudere la stagione di caccia a Bluefields.

 

 

 

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Capitolo 23
*** Rischio calcolato ***


 

Era buio nella stanza e gli alloggi erano silenziosi. Lo scatto della serratura era come un tuono in quel vuoto. La porta si aprì, l’uomo entrò con un sospiro stanco e allungò la mano verso l’interruttore.

Come un predatore in agguato Mika bloccò il polso, colpì il suo bersaglio affondando il ginocchio nel suo addome per stroncare il suo respiro e lo spinse per terra; gli fu sulla schiena in un battito di ciglia e intrecciò le mani sotto il suo mento tirandolo indietro in una delle prese più efficaci che le lezioni di arti marziali gli avessero insegnato.

«Non un fiato, bastardo, o ti stacco quella schifosa testa e scopriamo quanta merda contiene» gli sibilò nel buio. «Mi hai capito?»

«S… sì» soffiò a fatica lui.

Allentò di pochissimo la presa, solo per permettergli di rispondere alle domande.

«Ho trovato i tuoi video, e questa volta non ti puoi nascondere in un’altra tana, schifoso ratto.»

Vann deglutì, ma non tentò neanche di dire qualcosa per spiegarsi o per supplicare. Infastidito Mika spostò un ginocchio per aumentare la pressione sulla sua schiena fino a ottenere un rantolo.

«Ti credi potente, vero? Intoccabile, forse? Hai fatto la stessa porcheria a Nashville e ora qui, questo vuol dire che è un reato federale! Parla e forse avrai ancora entrambe le mani per le manette!»

Vann prese fiato quando la presa si allentò un po’.

«S-sei… sei un federale?»

Con suo stupore Vann emise un sospiro che non era di arrendevolezza, né amaro.

«Dio, ti ringrazio…»

Mika era perplesso, e la sua rabbia bruciante venne quasi spenta quando sentì le gocce scorrergli sulle mani. Mollò la sua presa di sottomissione e poté scorgere il suo profilo, seppure nella penombra, attraversato da un sorriso. Sotto di lui il suo torace era scosso dal pianto.

«Dio, grazie di aver ascoltato… finalmente finirà questo incubo…»

«Di che diavolo stai parlando?» domandò Mika, aspro.

«Se i federali hanno trovato i video scopriranno tutto… anche a Saint Barthelemy… e pagheranno per quello che hanno fatto… e per la morte di Noah.»

Vann si portò la mano al volto e Mika gli artigliò il collo contro una ribellione che non venne. Era inerme come un piccolo animale ferito.

«Lui è con te, vero? Il tuo cosiddetto fratello… Ferid Bathory.»

Mika si irrigidì appena.

«Sapevi chi era?»

«Sapevo di averlo già visto… e quando mi ha guardato con quella paura sono stato sicuro. Mi ci è voluto poco per ricordare che era una delle molte vittime di mio fratello Morris…»

«Lui non è nei tuoi video. Perché?»

Vann emise una risata secca e amara.

«Per l’amor del cielo… dopo quello che gli ha fatto? Non glielo avrei mai dato in pasto di nuovo… non potevo farlo. Questo no, non importa quello che Morris avrebbe fatto a me.»

Non del tutto persuaso che quel riguardo valesse la sua benevolenza Mika gli fece sbattere la faccia contro la moquette abbastanza forte per essere sicuro che non fosse gradevole.

«Non è certo l’unica persona al mondo ad aver sofferto, bastardo. Perché lui ha un trattamento di favore e gli altri no? Perché lui sì e non Gloria?»

«Gloria…?»

«Damaris!» ringhiò Mika, scrollandolo. «Cos’ha fatto lei di così sbagliato per essere data in pasto a tuo fratello, eh?»

«Niente… no, niente. Ho sbagliato a difendere un solo innocente e cullarmi nella convinzione di aver protetto il gregge.»

Ma più che turbato, a Mika sembrava che fosse sollevato. In pace.

«Sono felice che il Signore mi abbia messo il sospetto su voi due… ero sicuro che non eravate qui per lo spirito, ma non immaginavo i federali.»

Era confuso, e irritato dalla piega che aveva preso quell’incontro. Lo faceva infuriare che Vann si sentisse come se gli avesse tolto la croce dalla schiena, perché non lo meritava.

«Sono grato che tu abbia capito… iniziavo a temere che non ci saresti arrivato più.»

«Non mi piacciono gli indovinelli, Mackham» fece lui, con il tono più minaccioso che riuscisse a soffiare fuori.

«Il tè. Ho usato quel trucco con te e Nicodemo perché tu capissi che era successo qualcosa. Perché tu scoprissi che cosa succede a Bluefields… fin da quando mi sentisti parlare con Patch, da quando capii che eri uscito dalla tenuta, cercavo un modo per portarti alla verità senza che fosse troppo chiaro che ti avevo guidato io. Quando ti vidi parlare con quell’uomo in visita nel cortile sapevo che ti tenevi in contatto con qualcuno… che cercavi qualcuno, o qualcosa. Speravo che capendo cosa cercavi avrei potuto mettere i video sulla tua strada…»

Dopotutto le manovre di Mikaela erano state scoperte facilmente, con quella sua impulsività iniziale. Non lo sorprese del tutto, ma questo gettava del sospetto su Vann: o sul suo agire in segreto o sulla veridicità di ciò che stava rivelando.

«Ho cercato di mettervi in condizione di vedere… di agire… finalmente, avete i miei segreti e non ho neanche dovuto darveli di proposito. Siete stati bravi. Sapevo che Dio vi aveva messo qui per rispondere alle mie suppliche…»

Vann sospirò di nuovo, come un vecchio stanco alla fine di un lungo viaggio.

«Il mio voto è salvo e la mia anima può darsi pace… almeno un poco.»

Mika era molto lontano dalla pace e gli diede uno strattone che gli strappò un lamento.

«Quel ragazzino, Noah. Era nel tuo catalogo anche lui?»

«Dirò qualsiasi cosa, Mikael, o quale che sia il tuo nome vero… ma io sono un burattino. Sono il sommelier che vende la bottiglia, ma la cantina appartiene ad altri, e dovete avere la prova. Sarebbe la mia parola, la parola di qualcuno che da giovane ha fatto tante scelte sbagliate, contro rispettabili persone con amici potenti. Io da solo non posso nulla, o credimi che non sarei rimasto a guardare!»

Mika tacque nella penombra della stanza. La sua umiliazione personale chiedeva di chiuderla così e scappare a casa, mentre la rabbia anelava una vendetta rapida e cruenta… ma sotto, la sua freddezza cercava la migliore strategia: le più alte probabilità di successo con il minimo rischio di perdite lungo la strada.

Dopo alcuni minuti di totale immobilità in cui anche Vann sembrava aspettare pazientemente il castigo, Mikaela scelse il più eclatante schema tra le sue opzioni, ma anche quello che reputava più efficace.

«Se ti pesa tanto quello che tuo fratello ha fatto a Ferid… e quello che è successo a quel ragazzino, e a Gloria… aiuterai le indagini, giusto?»

«Sì. Dirò tutto, non cerco accordi… farò qualsiasi cosa perché questo orrore finisca.»

«Qualsiasi cosa?»

«Morirei se servisse.»

Mikaela sorrise nel buio e si chinò fino ad accostarsi al suo orecchio.

«In effetti, serve. Ascoltami, perché non lo ripeterò e non tollererò errori.»

 

***

 

Ferid stava pettinandosi i capelli con gli occhi persi al di là della finestrella quando Mika entrò nella stanza. Fino a due settimane prima avere una comoda camera nell’edificio dove dormivano i Padri e quelli che prendevano i voti era uno dei suoi vezzosi desideri e avrebbe pagato di contrabbando per poter usare le sue creme e il suo olio di cocco per i capelli, ma dal giorno dell’ultimatum ben poche cose gli donavano un sincero conforto.

«La delegazione di Maim è appena arrivata al cancello» annunciò il ragazzo con vibrante entusiasmo. «Lui, il suo vice e il suo tesoriere sono venuti per la cerimonia, più qualche altro membro di Ashby. Ti senti pronto?»

«Non sento niente» replicò Ferid, che in effetti si sentiva estraneo a tutto da qualche giorno.

«Non farla tanto lunga, Ferid. Metterti le lenti a contatto e fare la scena da vampiro non ti preoccupava anche se non serviva a un bel niente.»

«Non mi preoccupava perché mi faceva sentire meglio. Era il mio modo di spiegare la mia solitudine e la mia incapacità di relazionarmi con il resto del mondo.»

Mika sospirò alle sue spalle. Ferid smise di pettinarsi quando la spazzola non fece più il minimo attrito tra i suoi capelli, come se sfiorasse solo l’aria.

«Senti, lo so che non ti piace che abbia deciso al posto tuo, ma avevi detto che eravamo insieme in questa missione.»

«Insieme, non io al tuo servizio. Anche se ti potrebbe sembrare così per la premura con cui sono accorso alla tua chiamata» lo rimbeccò lui, con una punta di acidità che non si curò di nascondere.

«Ma eravamo d’accordo di non arrenderci così. Che dovevamo salvare la missione.»

Ferid sedette sul bordo del letto e prese il libro, Il poeta che non c’era. L’aveva letto in una sera e l’aveva apprezzato, trovandosi stupito che Crowley avesse sviluppato una sensibilità tale da scegliere una perla così delicata di letteratura e poetica.

«Questa sera capovolgeremo tutto. Se va tutto come ho pianificato d’ora in avanti sarai tu quello che decide, e non Nereus o chiunque altro. Dobbiamo resistere e seguire il piano.»

Ferid lanciò un’occhiata a Mika, che si stava togliendo la camicia da lavoro in cucina per mettere quella azzurra. Il suo sguardo si assottigliò alla vista di quei segni, e riaprì il libro per cominciarlo un’altra volta.

«Scusa se te lo dico, ma tra noi due sono io quello a cui viene chiesto uno sforzo, adesso. Il tuo piano, dalla tua parte, sembra decisamente più gradevole.»

Mika ebbe persino la pretesa di far finta di non capire, anche se si era girato in modo da nascondere il più vistoso dei segni lasciati da un certo bracciante agricolo.

«Che vuoi dire?»

«Ah, almeno non trattarmi come un babbeo, Mika… sono stato giovane come te e richiesto quanto te, so che cosa sono quei segni che hai dappertutto da due settimane e immagino anche come te li ha fatti… inoltre la frequenza con la quale sparisci dalla vista di chiunque è indicativa, visto che quando accade non si trova nemmeno Lucky.»

«Ora non fare la vittima. Non sono certo io a dirti che non puoi svagarti» ribatté il ragazzo, piccato. «È una scelta tua, non hai sempre intorno quelle tre donne? E se davvero volessi avresti persino Nereus, a malapena mantiene il senno quando ti guarda per più di tre minuti.»

Su questo aveva assolutamente ragione: Estelle, Candace e la neo-Rinata Shifrah sembravano tre corpi celesti in orbite disposte strategicamente perché almeno una di loro fosse sempre con lui quando non era chiuso in camera sua.

Se Estelle almeno rispettava la sua volontà di restare fedele all’uomo che l’amava e si limitava a punzecchiarlo con ironia e schioccargli un bacio quando meno se l’aspettava, Candace aveva una tattica passiva che la portava a pronunciare la parola “matrimonio” almeno due volte al giorno, mentre la giovane ex-Cecilia aveva un modo di imporsi inquietante, con un atteggiamento che passava dalla devozione all’allusione in un movimento continuo.

Quanto a Nereus, Ferid era arrivato al punto di evitare di imporgli la sua presenza se non era necessario, per non costringerlo a passare ore e ore in chiesa a pregare quando arrivava la notte.

«Non sta a me dirti quale sia il limite, né quando sentirti in colpa… ma a questo punto, Mika, tu mi stai imponendo di espormi molto, e non me l’hai neanche chiesto prima. Il tuo tipo di esposizione, sempre ammesso che serva alla missione, è assolutamente volontaria.»

«Non mi potevo trascinare dietro Vann per metterci a chiacchierare a tavolino, okay? È come quando ho dovuto telefonare, non ho potuto stare lì a riflettere e a fare la lista dei pro e dei contro» ribadì Mika per l’ennesima volta. «A me dispiace davvero che la storia stia andando per le lunghe. So che Crowley ti manca, che l’hai dovuto mollare lì da solo per colpa mia, ma te l’avevo detto che se volevi ritirarti potevi andare e me la sarei cavata da solo. Tu non hai voluto.»

Ferid sospirò e passò il dito sulla poesia che Crowley gli aveva scritto sul frontespizio. Ricordava anche i versi di Ungaretti che aveva lasciato prima di andarsene… e la piccola fiammella di determinazione si rinvigorì.

È la nostra sola chance… Crowley… ho solo questo modo di renderti felice, di tenerti con me senza strapparti via niente. Darò tutto per riuscire, fino all’ultimo istante.

Le campane iniziarono a rintoccare a festa, poi smisero. Iniziavano a richiamare i fedeli per l’inizio della cerimonia della fondazione di Bluefields.

«Sta per cominciare.»

Mika teneva i suoi occhi azzurri fissi su di lui.

«Ora sei pronto?»

«Sì» replicò Ferid, e si legò i capelli col nastro bianco. «Ora preghiamo che il tempismo degli eventi sia quello giusto. Farà tutta la differenza, credo.»

Si diressero alla cappella, trovando quasi l’intera popolazione di Bluefields accalcata dentro il giardino interno. Con Ariel e Barak che facevano da spartiacque, mancava solo il cordone perché sembrasse l’ingresso di un night club esclusivo.

«Non sei armato, vero, Ferid?» gli sussurrò Mika, ironico.

«No. E grazie a Lucky ora neanche tu.»

La spiritosaggine gli costò una gomitata contro il braccio. Mentre attendevano che arrivasse il loro turno Candace si premurò di raggiungerlo per assicurarsi che avesse gli abiti stirati e impeccabili, e nel suo chiacchiericcio confermò che erano presenti due cineoperatori per filmare l’evento per fini pubblicitari.

«E dire che credevo che i miei sogni di gloria teatrale fossero finiti quando mio padre mi criticò il monologo di Amleto quando avevo cinque anni» commentò quando la ragazza si allontanò da loro.

«Infatti lo sono. Ma hai una chance in televisione.»

Dopo venti gelidi minuti nel cortile Ferid e Mika vennero sommariamente perquisiti – sebbene Ferid avesse avuto l’impressione che Barak si aspettasse un’arma carica in possesso di Mika – e venne loro indicato di mettersi nelle prime panche dietro lo spazio.

L’istruzione fu più chiara quando entrarono: una panca era stata tolta, separando le prime due di entrambi i lati come una tribuna d’onore per i visitatori da Ashby. Ancora non aveva preso posto che notò uno degli operatori puntare l’obiettivo su di lui.

Preferì sfuggire alla situazione e chiuse gli occhi come in preghiera. Iniziava a sentire il nervosismo man mano che si avvicinava il momento della sua performance e per la prima volta nella sua vita avrebbe accettato di buon grado qualche pillola che l’aiutasse.

La cerimonia ebbe inizio quasi dieci minuti dopo, quando la campana suonò l’ora piena. Ferid aprì gli occhi e notò il posto vuoto a lato dell’altare – il posto di Vann – e gli parve che Nereus avesse lanciato uno sguardo ansioso proprio nello stesso angolo, ma iniziò a parlare al microfono come se nulla fosse insolito.

Le preghiere e i canti erano gli stessi delle altre celebrazioni liturgiche importanti, e seguì il momento dell’eucaristia. Nella Chiesa dell’Acqua il “sangue di Cristo” veniva versato in una brocca d’oro, il “corpo di Cristo” vi veniva immerso e poi da essa veniva versato un goccio dentro piccoli calici in peltro o argento da cui i fedeli bevevano: era stata la differenza dal cattolicesimo romano più vistosa a cui abituarsi nelle celebrazioni quotidiane.

Fu Abel a disporre i calicini al posto di Vann. I Rinati formarono una fila ordinata che scorreva di fronte al tavolino dove prendevano uno dei calici e poi sfilavano davanti a Nereus, che aveva servito prima i membri della delegazione di Ashby in segno di rispetto. A ogni passo Ferid era più nervoso.

«Siamo in tempo, secondo te?»

«Non posso saperlo, ma gli abbiamo dato dei tempi esatti» gli sussurrò Mika, dietro di lui. «Fidati di lui. Anche se succedesse tra pochi minuti avrebbe un effetto devastante comunque.»

Ferid sospirò profondamente, per calmarsi. Un paio di Rinati ricevettero l’acqua davanti a lui, poi venne il suo turno. Fissò l’acqua rosata riempire il bicchierino in argento, che gli ricordava il calice intarsiato di Krul e l’acquasantiera gorgogliante della chiesa di Saint Thomas, quella a cui la piccola Mary non arrivava.

Invece di spostarsi e lasciare il passo a Mika Ferid alzò uno sguardo carico di sgomento su Nereus. Il suo sorriso si incrinò subito, quasi si aspettasse che sarebbe accaduto qualcosa.

«Raphael… qualcosa non va?»

«Padre Vann…»

Ferid guardò di nuovo l’acqua che rifletteva le luci elettriche e le candele tra le quali Nereus stava in piedi. Appena sentì il tocco di Mika sul braccio sobbalzò spillando l’acqua, abbassò lo sguardo a guardare la macchia e deglutì a fatica.

Lanciò un lamento acuto e si portò le mani alla testa, accasciandosi a terra sul tappeto blu. Il calice rotolò via quando Nereus lo colpì col piede per la fretta di soccorrerlo.

«Raphael! Che cos’hai?!»

«È lui, lui… padre Vann!» ansimò tra gemiti di dolore. «È morto!»

Le sue ultime parole riecheggiarono in modo innaturale nell’improvviso silenzio della chiesa. Forse animato da una vena giornalistica a cui aveva rinunciato col tempo, uno degli operatori scavalcò la fila per puntare la telecamera sulla scena.

«Raphael, calmati… padre Vann sta benissimo, è solo andato a Plainworth…»

Ferid lasciò che lui gli spostasse le mani dalla testa e lo fissò, puntellandosi sul gomito.

«Ho visto l’auto nella scarpata!»

In quel momento Ferid sentì scendere una singola lacrima sul suo zigomo. Nel silenzio il portone laterale della canonica si spalancò e Ariel fece il suo ingresso, confuso dalla calca al centro della navata. I novizi gli fecero largo e lui, titubante e con l’aria stravolta si avvicinò a Nereus.

«Padre, una chiamata importante…»

«Non adesso, Ariel» lo zittì Nereus, e cercò di sollevare Ferid.

Dal gruppo di abiti blu si staccò l’unico membro con la tonaca lunga, un uomo anziano dai capelli bianchi come cotone ancora nei campi e gli occhi di un azzurro acciaio uniforme che puntò su Ariel. Fece un cenno come a invitarlo ad avvicinarsi.

«Parla, giovanotto. Cos’è accaduto?»

«Eccellentissimo» fece Ariel con un inchino sul ginocchio. «Ci hanno contattato dalla polizia stradale per un incidente sulla Faning Road, pochi chilometri da Plainworth… l’auto di Bluefields è finita in una scarpata, e il conducente è… deceduto sul colpo…»

La voce profonda di Ariel venne meno.

«L’aveva presa padre Vann stamattina…»

Il mormorio fu quasi immediato e Maim non lo tacitò. Ferid sentì il peso del suo sguardo anche se l’aveva alle spalle. Il cuore gli batteva contro il torace, neanche temesse una fucilazione sommaria se avessero dubitato dell’autenticità della sua profezia.

«Tornate ai vostri alloggi, tutti voi» ordinò Maim. «Nereus, porta il ragazzo nel tuo ufficio. Vieni anche tu.»

Fece un cenno ad Ariel, che sbalordito si limitò ad annuire. Mentre i più diligenti fratelli e sorelle dell’ordine dirigevano gli altri verso il portone come tanti cani pastore Estelle si staccò da loro per andare da Ferid, che si era appena rimesso in piedi appoggiandosi a Nereus. Prima che potesse bloccarla se la trovò appesa al collo.

«Ferid, stai bene? Cos’è successo?»

Fu un sussurro appena udibile sopra le voci che davano comandi dentro la cappella, ma Ferid intercettò comunque uno sguardo di sospetto da parte di Maim. Lo vide allungare la mano verso di lei – forse per separarli, o per ordinarle di andarsene – ma un’intuizione del suo subconscio lo spinse a evitare che la toccasse: con un braccio spostò Estelle e con l’altra mano prese il polso dell’uomo, per poi scivolare sulle dita lunghe e secche come rami autunnali.

«Eccellentissimo, sono mortificato… non volevo interrompere la celebrazione… non so che cosa mi sia preso!»

«Lo scopriremo presto.»

L’uomo ritirò la mano. Aveva modi flemmatici e una voce pacata, eppure Ferid sentiva una minaccia venire da lui, come se intangibili parametri facessero di lui l’alfa del branco. Mika mise su una protesta per essere presente e Nereus lo liquidò bruscamente, ma diede a Ferid qualche attimo senza la telecamera addosso alle spalle dei Padri.

«Ci vediamo al garage più tardi.»

Estelle fece un segno appena percettibile e si allontanò quando Maddalena venne a recuperarla con la stizza di una vecchia zia bigotta. Mika fu costretto a seguirle, mentre Nereus lo prese sottobraccio per accompagnarlo al suo ufficio.

«Resta calmo, Raphael… tu e io sappiamo come stanno le cose. Non è detto che Maim ci creda, ma… Dio ci è testimone. In qualche modo andrà bene…»

Anche se manteneva un contegno Ferid si accorse che stringeva la sua croce con forza, come faceva quando si sentiva mancare la fermezza. Non aveva ancora iniziato a sentire il contraccolpo della notizia della morte di Vann e non poteva abbandonarsi alla preghiera o a uno sconforto molto umano finché l’Eccellentissimo Maim non fosse stato convinto.

Ferid, che non aveva in Dio un testimone a favore, lo pregò almeno di indulgere in un briciolo di omertà.

 

***

 

Aveva memoria di un momento simile quando era ragazzo: era seduto dentro una sala interrogatori, mentre al di là della porta un paio di ostili poliziotti cercavano di decidere se arrestarlo o rispedirlo dai suoi genitori, o almeno così immaginava. Nel presente Maim e Nereus parlavano a voce bassa lanciandogli qualche occhiata, mentre sedeva nel corridoio in cui attendeva che decidessero del suo destino.

Ferid aveva captato abbastanza – dalla voce di Nereus e non dal tono sommesso di Maim – da capire che gli aveva già parlato delle presunte rivelazioni che aveva avuto tramite la pioggia, dell’episodio di trance durante la meditazione e – avendo colto il nome di Cecilia – immaginò che si fosse spinto a riportargli anche la storia dell’esorcismo.

Per un buon minuto Maim tacque, in riflessione o forse in preghiera, poi rialzò la testa.

«Voglio parlare con quel ragazzo. Fallo entrare, Nereus.»

Nereus accennò un inchino e uscì, facendogli soltanto un gesto. Con il cuore in gola Ferid raggiunse lo studio e vi entrò, scambiando uno sguardo nervoso con Ariel prima di guardare il volto marmoreo di Maim.

«Mi è stato raccontato più di te negli ultimi dieci minuti di quanto abbia mai sentito di qualsiasi altro parrocchiano in tanti anni» esordì, senza una traccia di calore. «Vieni davvero da una setta satanica?»

«Sì, Eccellentissimo.»

«E l’hai ripudiata per ricongiungerti a tuo fratello minore?»

«Sì, è così.»

«Senti la voce di Dio?»

«A volte è successo così, Eccellentissimo.»

«Cosa fa di te un uomo speciale?»

Il suo tono non era cambiato, ma riuscì a capire che era la domanda con la quale sperava di indurlo a smascherarsi.

«Non sono più speciale di qualsiasi altra creatura del Signore. Chi dice che i grilli di notte non stiano parlando con lui?»

L’anziano non tradì alcuna espressione.

«Che cosa hai visto poco fa in chiesa?»

Esitante lanciò un’occhiata a Nereus, e lui gli strinse la spalla per fargli coraggio.

«Diglielo, Raphael… gli ho parlato di te. Sa tutto quello che so io… non avere timore di parlare. Sappiamo che ciò che senti e vedi viene da Dio, e non può che voler dire che tu debba farne qualcosa di questi messaggi.»

Ferid guardò l’uomo accanto a Maim – un uomo sulla cinquantina con l’aria decisamente altera – e poi il fondatore delle chiese dell’Acqua. Si strofinò il braccio.

«Era… il pick up della chiesa. È andato fuori strada, dritto di muso in una scarpata… era…»

Ferid si fermò per deglutire.

«Era riverso sul volante… coperto di sangue e con gli occhi sbarrati… e il suo tesoro sul sedile del passeggero.»

A quella menzione Nereus, l’uomo altero, Ariel e persino Maim sgranarono gli occhi e si scambiarono sguardi allarmati e confusi. Ferid li guardò tutti, ma nessuno gli ricambiava lo sguardo, quasi troppo spaventati per osare.

«Lasciaci qualche minuto, figliolo… aspetta fuori.»

Ferid abbozzò un inchino goffo e tornò al sicuro nella penombra del corridoio, con le gambe traballanti come gelatina. Se non avesse fatto l’impressione che Mika sperava di suscitare si sarebbero mutilati seriamente: era una strategia che a Mikaela piaceva usare sulla scacchiera, quella di predisporre una ghiotta esca per liberarsi la strada, e se non avessero abboccato alla sua trappola avrebbero perso un complice potente come Vann per nulla.

A quel punto sentì la voce del fondatore.

«Nessuno sapeva della croce di lapislazzuli, vero?»

«No, Eccellentissimo… la croce e l’Acqua di Cristo sono custoditi in un luogo segreto e solo io e Vann, e Ariel in quanto guardiano, sappiamo che esistono.»

«Ma anche se l’avesse saputo e avesse scoperto che Vann l’aveva rubata, come spiegare che abbia saputo della tragedia mentre avveniva? Era in chiesa per la messa, non poteva essere in contatto con nessuno.»

Ferid non riconobbe la voce roca, quindi dedusse per esclusione che fosse l’uomo dall’espressione truce.

«Nessuno… nessuno su questo piano di esistenza, almeno.»

Seguì un denso silenzio.

«Ascolta bene, Nereus. Diffonderemo le riprese di questa sera sulle reti a beneficio dei nostri sostenitori fuori dalle comunità. Il tuo compito è preparare il ragazzo per l’investitura.»

«C-cosa? Ma, Eccellentissimo, con tutto il rispetto, è con noi dallo scorso luglio e Rinato da due settimane, non è pronto per un simile passo!»

«Se il Signore lo reputa in grado di ascoltare la sua voce senza intermediario e riferire messaggi, a chi di noi spetta il diritto di porgli un freno? A questo punto è evidente che il piano del nostro Padre Celeste è grande per lui, e per noi che ha scelto come culla per il suo messia.»

Passò da un tono da mistico a quello pragmatico di un direttore di cantiere.

«Preparalo, Nereus, e se pensi di non esserne in grado lascerò Saffira per affiancarti. È la migliore insegnante di Ashby. Il ragazzo dev’essere pronto per Natale, ma lo investiremo in pubblica sede… ti farò sapere quando.»

Ferid si sentì un palloncino gonfio nel petto, per trionfo e tensione mescolati. Ancora una volta le strategie aggressive di Mikaela gli avevano regalato la vittoria.

 

***

 

Quando il subbuglio generale venne sedato e le luci si spensero negli alloggi degli ospiti erano ormai le due di notte passate, e Ferid dovette aspettare che anche Mikaela si addormentasse. Una volta scivolato in un ritmo di respiro lento e regolare sapeva che neanche una zuffa l’avrebbe svegliato, quindi abbandonò il letto, si vestì in fretta e sgattaiolò fuori.

Andò al suo garage, anche se si era ormai convinto che dopo tante ore Estelle fosse tornata a dormire. Per questo motivo restò sorpreso di trovarla lì a passeggiare su e giù, stretta in uno scialle di lana alla luce fioca di una lanterna.

«Oh, sei venuto!»

Gli si buttò tra le braccia. Aveva le mani gelate e zigomi e naso arrossati dal freddo.

«Liebe… ma perché hai aspettato così tanto? Sei un pezzo di ghiaccio…»

Le strofinò le spalle e la schiena cercando di offrirle un poco di calore.

«Come potevo dormire con tutti questi pensieri?» fece lei, quasi irritata che lui potesse considerarla un’ipotesi. «Che cos’è successo prima in chiesa?»

Ferid aveva pensato a lungo a cosa dire o non dire mentre aspettava il via libera, ma averla lì davanti a guardarlo con quell’angoscia fece vacillare le sue intenzioni. Dovette lottare con se stesso per non compromettere il risultato.

«Io… l’hai sentito Ariel, vero? Vann è morto.»

«Allora è vero?» esalò lei in un sospiro. «È orribile…»

«Sì… ha avuto un incidente sulla strada per Plainworth.»

Estelle versò delle vere lacrime per padre Vann, anche se le asciugò con l’orlo della manica come se si vergognasse della sua sensibilità. Temeva la quantità e la precisione delle domande che gli avrebbe rivolto quando fosse passato il momento della commozione, ma il cigolio della porta rimandò a tempo indeterminato le spiegazioni: padre Maim, accompagnato dal suo alto assistente e da Nereus, li fissava.

«Immagino ci sia una spiegazione per questo.»

«Non… non facevamo nulla di male, Eccellentissimo Padre» mormorò Estelle, scostando le mani dal suo petto. «Ero molto preoccupata per la sua salute…»

«Non mi risulta che tu sia un’infermiera né che questa sia un’infermeria.»

«N-no, ma…»

Ferid riusciva a malapena a sopportare che Maim la fissasse. In bilico tra un feroce istinto di difesa territoriale e la necessità di conservare il vantaggio ottenuto dovette fare appello all’unica arma che aveva: fissò Nereus, lì in disparte, con uno sguardo indignato.

Da come lui prima trasalì e poi si fece avanti doveva aver capito che la sua pecorella prediletta reclamava il sostegno del suo pastore.

«Eccellentissimo, state equivocando… Raphael sta curando il rilancio economico di Bluefields, come vi ho scritto, e Lebanah è la nostra contabile. Sono quotidianamente a stretto contatto ed è stata la sua accogliente alla cerimonia del Battesimo… come me, anche Lebanah è molto preoccupata per la salute di Raphael.»

«Non sono nato ieri, Nereus… per quanto comprensibile la vicinanza e innocente ciò che abbiamo visto, non serve una visione divina per capire come andrà a finire tra qualche tempo» fece Maim, lanciando occhiate da lei a Ferid. «Tra un giovane uomo e una giovane donna non vi sono che ostacoli facili da superare, come diceva il mio mentore…»

Lo sguardo di Maim era inquietante. Non capiva come tanti fedeli potessero essere ammaliati da lui come guida spirituale, perché secondo Ferid c’era qualcosa di calcolato nella sua calma e di distaccato nei suoi occhi. Pur con dei modi più bruschi e la ferma volontà di non legarsi, Vann ispirava sensazioni migliori.

Un’occhiata di particolare fermezza costrinse Ferid, suo malgrado, a prestargli tutta la sua attenzione. Come riflesso alla sua tensione strinse il braccio di Estelle, e lei lo guardò preoccupata.

«Dopo aver ricevuto l’investitura la sposerai… prima che succeda qualcosa di dannoso per la vostra anima e per la comunità che ti ha accolto. Fino ad allora non la vedrai più in un luogo appartato né da solo.»

Maim si voltò e guardò Nereus.

«Fa’ che le mie istruzioni siano seguite con dovizia… anche se…»

L’anziano lanciò uno sguardo a Ferid, con un angolo della bocca sottile sollevato in un ghigno che gli mise dei brividi indistinguibili dal freddo della notte.

«Sotto le cure di Saffira non avrà tempo che per dormire e mangiare.»

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Capitolo 24
*** L'esito della battaglia ***


Il secondo piano dell’infermeria aveva preso il posto della stanza dei libri disordinati da quando Mika era riuscito a mettere le mani sul doppione della chiave: con una dozzina di letti disponibili, nessun paziente ospitato per una lunga convalescenza e nessuna loro conoscenza che sapesse di doverli cercare lì era il nido più adatto per lui e il suo amante. Inoltre, non dovevano sbrigarsi e rivestirsi prima di prendere un malanno per colpa del freddo.

Mika apprezzava soprattutto questo aspetto. Il rapporto in sé gli piaceva ovunque, ma solo nell’infermeria poteva restare sdraiato e godersi il lento scemare dei brividi e il respiro che tornava regolare.

Sorrise sentendo la mano di Lucky passargli nei capelli e le sue labbra sul collo. La sua pelle contro la sua schiena era ancora calda, molto più calda della sua.

«Adoro i tuoi capelli biondi» gli sussurrò. «Come il grano, come il sole, o il miele… tutte le cose meravigliose che ho trovato nella vita.»

«Credo tu me l’abbia già detto… due o tre volte al giorno» replicò Mika dandogli una carezza alla cieca. «Ma non mi stanca risentirlo.»

Lucky non aggiunse altro, né gli domandò se dovesse rientrare come faceva quasi sempre. Mika non aveva fretta e si crogiolò nelle sue carezze, sonnolento.

«Senti… Mikael…»

«Mh?»

«Tu… a parte tuo fratello non hai nessuno là fuori, vero?»

L’ozioso torpore svanì. Mika si girò sulla schiena per guardarlo in faccia.

«Che vuoi dire?»

«Intendo, la tua famiglia… sei scappato di casa, non è vero?»

«Ah… sì.» fece lui, sollevato.

Lucky tormentò la sottile catenella d’argento che portava al collo. Da che lo conosceva intimamente l’aveva sempre notata e non aveva mai avuto alcun ciondolo.

«Pensi mai di… lasciare Bluefields?»

Il ragazzo sollevò un sopracciglio.

«Da dove ti è venuta ora questa?»

«Pensavo che magari… pensavo che potevamo andare via insieme.»

Mikaela ricambiò la serietà di Lucky con uno sguardo vacuo. Non avrebbe potuto stupirlo di più neanche se si fosse messo a parlare di balletto russo. D’altro canto, la sua esitazione incoraggiò il giovane bracciante.

«Non posso prometterti che sarai ricco o che sarai importante, ma farei di tutto per renderti felice. Lavorerei senza lamentarmi mai per darti quello che ti serve e il più possibile di quello che vuoi. Ti darei tutte le attenzioni che meriti.»

Fino a quell’estate sarebbe inorridito a una simile sfilza di proposte romantiche da chiunque non fosse Yuu, ma la sua prima reazione fu di compiacimento per la devozione che gli veniva dimostrata. Dopo subentrò un sentimento di tenerezza per la sincerità che vedeva in quegli occhi, e in terza istanza apparve uno strascico di senso di colpa.

«Non ti chiedo di rispondere adesso… so che tu potresti diventare importante, e che ora che tuo fratello è così famoso ti sarebbe ancora più semplice. Ti chiedo di rinunciare a molto, per troppo poco forse…»

Lucky gli diede un bacio sulla spalla.

«Però se non ci provo finisce che tra dieci anni ci penso ancora, a che cosa avresti risposto. Mi prometti che ci pensi su?»

«Ah… io… sì. Ci penso.»

Lucky gli diede un bacio sulle labbra prima di alzarsi, spiegando che doveva tornare alla Casa Grande per incontrare i membri della chiesa ai quali stava insegnando gli aspetti tecnici del lavoro agricolo.

Mentre lui si rivestiva e poi quando rimase solo Mikaela fissò il soffitto, con la mente piena di stralci di sconnessi scenari di una vita che non era quella di Bluefields, ma neanche quella che aveva sognato a Quantico o la vecchia, serena vita a New Oakheart.

 

***

 

La scrivania della sua nuova stanza a Ferid era sembrata inutilmente grande, ma la severa insegnante di nome Saffira gli aveva fatto cambiare subito opinione ingombrandogliela di libri di teologia e trattati dalla rilegatura semi-amatoriale stampati a computer in un ufficio della redazione di Bay Plaza.

Se non fosse per la mia velocità di lettura ci sarebbe voluto il quattro luglio per preparare un’investitura, altro che per Natale.

Posò il volume e si sfilò gli occhiali da lettura, massaggiandosi gli occhi. Non fece neanche in tempo a pensare di fare due passi fino all’ufficio contabilità nella speranza di trovare un po’ di caffè pronto che bussarono alla porta.

«Non ho ancora finito Elementi nelle Sacre Scritture, Saffira, mancano quattrocento pagine» borbottò.

«Sono io… posso entrare un minuto?»

Fu un sollievo che non fosse quel colonnello siberiano a rispondergli.

«Entra, Mika.»

Il ragazzo entrò e nel mentre Ferid sbirciò fuori per vedere se uno dei suoi carcerieri fosse in attesa in corridoio.

«Non c’è nessun altro…»

«Finalmente! Non mi sentivo così controllato da quando Crowley vi mise di guardia all’appartamento con me e la mia gatta dentro.»

«Il che non ti impedì di passeggiare sul cornicione, né di scappartene sul tetto sotto la pioggia, a quanto ricordo.»

«Qui però non ci sono cornicioni» sospirò amaramente. «Come mai fino al mio eremo, Mika?»

«È un eremo spazioso, però…»

Assottigliò lo sguardo seguendo Mika che guardava la stanza come la sala di un qualche museo e poi dalla finestra.

«Ma niente cornicioni, in effetti.»

«Cosa sei venuto a fare qui? Sai che non dovrei avere contatti con nessuno senza che qualcuno di Ashby lo sappia.»

Mika richiuse la finestra, ma continuò a guardare fuori.

«Lucky mi ha chiesto se voglio scappare insieme a lui. Mi ha detto che dedicherebbe la sua vita a me, pur di farmi felice.»

Ferid alzò lo sguardo dalle lenti dei suoi occhiali. Sbalordito attese in silenzio il seguito di quella svolta inattesa.

«Ho notato che era affettuoso, ma credevo che fosse il suo modo di fare sesso. Non credevo che provasse qualcosa di più di una pulsione per me, ma… Ferid, te lo giuro, era sincero.»

«E ti turba perché tu non sei sincero, a partire da chi dici di essere?»

«Mi turba perché… avrei dovuto dirgli che non voglio lasciare Bluefields, e basta. E invece… continuo a pensarci mentre faccio altre cose. Penso a come andare via, a dove andremmo… a cosa faremmo arrivati da soli in una nuova città» spiegò lui, e con un sospiro sedette sul letto. «Non sono mai stato sincero. Non volevo niente da Lucky, se non… trarre soddisfazione da una serie di movimenti meccanici. Al massimo, guadagnare la certezza che al bisogno si sarebbe schierato dalla nostra parte.»

Guardava ovunque tranne che dalla sua parte e Ferid sapeva che aveva paura di trovare del biasimo.

«E mi sento in colpa. Dovrei fantasticare di tornare a casa, di coccolare il mio pappagallo, e desiderare il mio fidanzato… ma… ora mi sembra di non ricordare neanche dove ho messo le mie cose a casa. Penso alle mie scarpe da trail e non ricordo dove le tenevo…»

Mika lasciò andare un sospiro tremante e si nascose la faccia tra le mani. Ferid posò gli occhiali sul libro, chiedendosi se faceva una scelta saggia a dirgli come la pensava… e ritenne di sì.

«Ascolta, Mika… tu sei molto giovane. Un giovane cresciuto molto in fretta per colpa di una vita difficile… e hai conosciuto soltanto Yuu, come amico e come amante. Tu hai il dovere di pensarci. Hai il dovere di immaginare come sarebbe la tua vita se scappassi domani con Lucky e se questa ti piacerebbe.»

Mika alzò la testa, con uno sguardo confuso.

«Lascia che ti dia un consiglio qualcuno che ha vissuto più tormenti di te… per esperienza o tramite la carta» proseguì Ferid, un po’ più delicato nel tono. «Non devi scegliere Yuu perché lo scegliesti anni fa. Devi scegliere Yuu se la vita che immagini senza di lui non è bella come quella che vivi accanto a lui.»

«Ma non posso… Yuu… mi ha dato veramente tutto fino ad ora.»

«Tutto quello che poteva, ne sono sicuro… ma se scegli questa linea di pensiero forse un giorno, tra molti anni, quando lo guarderai vedrai soltanto quello che non è stato capace di darti. Lo odierai perché gli darai la colpa di averti legato… per questa ragione, e per altre, io e Crowley ci siamo dati un po’ di tempo per sceglierci di nuovo… oppure per andare avanti.»

Mika si portò le dita alla bocca, ma trattenne quel tic strizzandosi le mani tra loro. Quasi sentiva le rotelline dei suoi febbrili pensieri.

«Devi sognare, Mika. Lasciati sedurre dalla fantasia di scappare con qualsiasi uomo, o donna, ti dia profonde emozioni. Se sceglierai Yuu dopo questo sarà perché nessuno ha saputo farti sognare tanto da rubarti il cuore, non perché non hai voluto lasciare che un altro ci provasse.»

Mika rimase a lungo in silenzio. Ferid non aveva altro da dire, nient’altro che valesse la pena buttare nella tempesta, e prese gli occhiali per riprendere lo studio.

«E se…»

Mika si schiarì la voce roca con un colpetto di tosse.

«E se pensassi che… voglio una di queste altre vite?»

«Yuu è un giovane innamoratissimo… ma anche molto maturo. Per quanto addolorato ti capirebbe… ti lascerebbe andare. Anche se gli dovesse costare un dolore lungo e profondo quanto un lutto… se ti ama, ti lascerà cercare la felicità ovunque tu pensi di poterla trovare.»

Seguirono minuti di silenzio meditabondo, che Ferid passò guadagnando qualche altra pagina del pesante volume. Infine il ragazzo si alzò dal letto.

«Grazie per i consigli. Cercherò di capire che cosa voglio fare.»

«Una buona idea» commentò Ferid.

Avrebbe voluto trattenersi, ma la strategia con cui l’aveva lanciato allo sbaraglio come un pedone qualunque gli bruciava ancora.

«Ma prima di scappare ti chiederei di fermarti un momento e guardare in che situazione mi lasceresti.»

Mika rimase sulla porta qualche attimo, poi uscì. Se sentisse un senso di colpa o solo il peso di un’altra catena al piede mentre anelava a un nuovo modello di libertà, lo poteva soltanto supporre.

 

***

 

Crowley entrò all’ospedale centrale con tanta foga che quasi sbatté nelle porte troppo lente ad aprirsi. Individuò subito una donna che conosceva e puntò verso di lei.

«Catalina!»

La donna non era invecchiata di un giorno da quando l’aveva conosciuta in chiesa alle prove del coro. Per quel mese i suoi capelli erano raccolti in lunghe treccine lucenti come trecce di liquirizia.

«Ah, sei qui! Credevo non arrivassi prima di domani.»

«Al lavoro se la caveranno per questa notte… lui come sta?»

«Oh, ora sta bene» replicò lei, con un sorriso. «Il suo amico Hank l’ha portato in ospedale appena ha cominciato a sentirsi male… gli ha salvato la vita. È andato via un’ora fa, poco dopo che è arrivata tua madre.»

«La mamma è qui?»

«Di sopra con lui.»

«Dove l’hanno messo?»

«Terzo piano, a sinistra, stanza undici.»

«Grazie, Catalina… sei stata gentile a stare qui tutto il tempo.»

Catalina lo strinse brevemente in un abbraccio.

«Non dirlo neanche, Crowley… ripasserò domani quando stacco dal lavoro per vedere come se la passa e tirargli un po’ le orecchie.»

«Sì, te ne prego» commentò lui, col primo tentativo di sorriso da quando aveva ricevuto la tremenda chiamata. «Grazie ancora. Buonanotte, Cat.»

«Buonanotte.»

Crowley si trattenne solo per accertarsi che Catalina salisse sulla sua auto e uscisse dal parcheggio senza fastidi, poi andò al primo ascensore libero e salì al terzo piano. Seguì le indicazioni per il reparto di cardiologia e mentre superava la porta tagliafuoco posò gli occhi su una donna che usciva da una stanza.

«Mamma!»

Maureen alzò gli occhi, dello stesso blu del figlio, su di lui. Per la reazione che ebbe Crowley poteva pensare di essere un fantasma, perché non fece né un sorriso né una smorfia, o qualsiasi altro genere di reazione visibile.

Crowley ricordava bene di non avere contatti con lei da anni neanche al telefono, ma trovava sconcertante che tenesse quell’atteggiamento davanti alla stanza d’ospedale di suo padre.

«Mamma, come sta papà? È sveglio?»

Lei lo guardò in faccia, questa volta con gli occhi ridotti a fessure, come se non riuscisse a credere che lui osasse rivolgerle la parola, o peggio, che osasse chiamarla mamma. Aprì la porta e allungò le mani dentro per recuperare la sua grande borsa marrone.

«Neil, se non ti serve nient’altro torno domattina e ti porto il cambio.»

«Buonanotte, Maureen» fece lui a mo’ di risposta.

«Mamma» la chiamò Crowley, accigliato. «Mamma, parlami.»

Lei scosse la testa, un gesto più simile allo scrollarsi di dosso una mosca che un diniego rivolto a un essere senziente, e se ne andò a brevi passi veloci come faceva sempre quando era arrabbiata.

«Cazzo, mamma! Rispondimi!»

Maureen Eusford scomparve al di là della porta tagliafuoco del reparto senza dare neanche uno straccio di attenzione all’unico figlio che aveva. Crowley borbottò un’imprecazione e andò alla stanza undici, bussandovi sopra. Dallo spiraglio Neil lo guardò e gli fece un cenno.

Beh, almeno lui mi vuole parlare.

Entrò nella stanza, scoprendo che gli altri due letti erano vuoti. Almeno avrebbe potuto godere di un po’ di tranquillità e riservatezza per una notte.

«Come stai, papà?»

«Pensavo avessi il turno di notte questa settimana.»

Crowley si accigliò.

«E chissenefrega? Se stai male mi devi chiamare, non dev’essere la tua assistente sanitaria a farlo.»

«Ah, ti ha chiamato Cat…»

«Certo, se aspettavo la mamma stavo fresco» commentò con acredine. «Che cos’ha detto il dottore? Ischemia cardiaca? Infarto?»

Neil sollevò il braccio libero dalla flebo per indicargli la cartella in fondo al letto. Crowley la prese e la sfogliò, scoprendo che il dosaggio dell’insulina era raddoppiato dall’ultima volta che Cat l’aveva aggiornato e che suo padre aveva avuto un piccolo malore causato da un’arteria ostruita. Era stato operato d’urgenza e aveva una severa convalescenza da rispettare.

«Il vecchio Hank ti ha salvato, stavolta… ti conosco, se non ci fosse stato lui, che ha una testa più dura della tua, saresti rimasto sulla tua poltrona fino a morire.»

Neil fece un sospiro e iniziò a contorcersi nel tentativo goffo di spostare i cuscini. Crowley si fece avanti e glieli sistemò perché stesse quasi seduto e fosse comodo.

«Crowley… non avercela con tua madre.»

La sua espressione si indurì appena.

«Lo trovo difficile, papà. Non si è fatta vedere neanche quando ho rischiato di morire, perché si vergogna troppo di avere un figlio omosessuale. E io non sono neanche omosessuale. Le donne mi piacciono, ma mi piace di più l’uomo con cui sto.»

«Non è in grado di capire… è pur sempre una Eusford. Per gli Eusford la chiesa è una cosa seria» abbozzò lui, insolitamente diplomatico. «Ma è stata a pregare tutto il tempo, sai, quando ti hanno sparato.»

«Probabilmente per la mia anima di peccatore, non perché mi volesse ancora qui. Tanto per quanto mi ha calcolato sono già morto tre anni fa.»

Crowley sedette sulla sedia vicino al letto. Parlare di sua madre non faceva che urtarlo, perché se almeno con suo padre poteva scornarsi fino allo sfinimento lei si rifiutava di avere qualsiasi tipo di dialogo.

«Eh… non ha preso tanto bene le voci che sono arrivate dalla nonna… mi sento ancora il braccio addormentato, non è che mi sbucceresti quell’arancia? Me la spicchio da solo.»

«Almeno puoi mangiarla?»

«Diamine, ragazzo, se volessi un ultimo pasto non sarebbe una misera arancia.»

Suo malgrado gli venne spontaneo un sorriso. Prese l’arancia sul comodino e prese a strapparvi la spessa buccia. Suo padre restò in silenzio finché non finì e come aveva detto prese a dividersi gli spicchi da sé, anche se con difficoltà.

«Questo odore mi ricorda le feste quando ti raggiungevamo giù in West Virginia… mangiavamo le noci e le arance e buttavamo la buccia dentro il caminetto.»

«Lo facciamo ancora.»

Neil masticò un boccone molto lentamente.

«Quello che hai portato dai tuoi nonni… chi era? Non era Ferid.»

«Ah… no. Era Connor, un mio amico. Abbiamo fatto un… corso insieme, uno di quelli che valgono per le promozioni.»

Neil si fece più curioso.

«È un poliziotto? Come fa di cognome? Ha dei parenti in polizia?»

«Si chiama Maguire… ma non è un poliziotto, fa l’investigatore privato» mentì Crowley, ritenendola la bugia più accettabile. «Il suo campo sono le frodi assicurative.»

Era piuttosto certo che nessuno dei conoscenti di suo padre avesse esperienza in quel campo, così era ragionevolmente sicuro che non potesse indagare più di tanto o sorprendersi se non avesse trovato quel nome da nessuna parte.

«Dal nome sembra irlandese… strano che non lo conosciamo. E come mai un investigatore delle assicurazioni era con te dai tuoi nonni?»

Continuare a girarci intorno o piazzare mezze verità non sarebbe stato utile a nessuno e una seccatura da tenere a mente in un secondo tempo, quindi prese coraggio e raccontò a suo padre delle scelte di Ferid di due anni prima. Per non rivelargli che era di nuovo sparito – e dovergli spiegare o nascondere il perché – non fece accenno al suo ritorno in luglio.

«Mi dispiace, ragazzo. Dev’essere stato difficile dopo che ti eri tanto affezionato…»

«Sì.»

«Non hai sue notizie da allora?»

«Mi è arrivata qualche voce… diciamo che al momento è impegnato nel suo percorso. Penso che quando sarà pronto tornerà… e lo porterò dai nonni, stavolta.»

«Mh… chissà se potrò muovermi per Natale» ponderò Neil con uno sguardo malinconico alla flebo.

Incredulo Crowley si bloccò con la bottiglia dell’acqua in mano nell’atto di stapparla.

«Vuoi venire in West Virginia per Natale, papà? Non è che stai morendo?»

Come risposta Neil gli tirò una sberla sulla testa come non ne riceveva da quando era ragazzino.

«Bada alla tua lingua, Crowley! Sono un po’ scassato, non moribondo. Tu più di tutti lo sai che gli O’Brian hanno la pelle dura e il cuore d’acciaio.»

Provò un bizzarro desiderio di mettersi a ridere al pensiero dello Scudo di San Michele – lo portava ancora per ammaccato che fosse – che deviava due proiettili per salvare quel presunto organo in acciaio.

«Non proprio, ma è chiaro il nocciolo.»

Neil prese l’ultimo spicchio ma non lo portò alla bocca.

«Mentre mi operavano avevo un pensiero fisso in mente» gli rivelò Neil, con una voce sofferente che lo inquietò. «Baby Hope. Un caso di quando tu eri bambino. Una neonata rapita e i genitori assassinati a MacQuaid Park, vicino a casa nostra. Tua madre, come tante altre, era terrorizzata che ci fosse un rapitore di bambini…»

«E come mai ti è tornato in mente?» gli domandò con dolcezza.

«Perché non l’abbiamo mai preso… avevamo un’impronta a misura da uomo adulto, e nient’altro. Non vennero presi altri bambini… scomparve come un sogno al risveglio. Non mi sono mai rassegnato… coi bambini è così…»

«Lo so» fece Crowley, dandogli un colpetto di conforto sulla mano. «Il Vampiro di West End ne ha portati via anche troppi… e la più piccola, Patricia, io non la riesco a dimenticare. La rivedo in tutte le bambine di colore… a volte penso che è stata colpa mia. È stato Robert Warren, e con stramaledetta maestria, non c’era qualcosa che io avrei davvero potuto fare… eppure mi sento lacerato. So che cosa provi.»

«La tua povera madre non voleva che anche tu conoscessi questo senso di impotenza… per questo non voleva che facessi il poliziotto. Lavorammo tanto per la San Cristoforo, ma quasi speravamo che tu ci dicessi che te ne andavi a studiare agrotecnica con tuo cugino e andassi a lavorare alla fattoria. Difficile provare tanto dolore per una gallina sbranata da un coyote o per un vitello perso.»

Crowley si trovò a ridere di cuore.

«Oh, Dio, no… non sono fatto per la campagna… mi piace viverci e mi piace mangiarci, ma lavorarci? Tornerei a New Oakheart a costo di scappare nudo dal bagno, come quella volta che il nonno per spaventarmi ha detto che mi avrebbe circonciso.»

Persino Neil scoppiò in una risata secca a quel ricordo. All’epoca lo aveva trovato meno buffo: Crowley si era andato a nascondere nel capanno degli attrezzi dello zio Frank e si era rifiutato di tornare a casa per due giorni.

«Avrei dovuto pensare a cose del genere durante l’operazione» commentò Neil, quando si esaurì l’ilarità. «Bei ricordi di famiglia. Di mio figlio. Avrei dovuto pensare che dovevo chiarire le cose con te prima di andare dal Signore… non l’ho fatto. Forse sono un pessimo padre.»

«Tu non sei un pessimo padre. Sei irlandese, questo vuol dire che sei pessimo in qualsiasi cosa implichi il cambiare idea o accordarsi con qualcuno.»

«Ah, sì… ma un accordo lo voglio fare, Crowley, con te.»

La mano destra non la muoveva che di poco a causa del bracciale a pressione che gli chiudeva la ferita dell’intervento, così sollevò la mano sinistra.

«Quando ritorna Ferid andiamo a cena noi tre. Andiamo dal mio amico Egan al pub e offro io. Mangiamo a una vera tavola irlandese, e ascolterò tutto quello che mi raccontate. E se non torna andiamo con il tuo prossimo compagno, così me lo presenti.»

Non fu facile non commuoversi. Suo padre non era in grado di cedere neanche per comprarsi un paio di scarpe che non gli tormentassero i piedi; il fatto che si mostrasse tanto ben disposto verso il fidanzato di suo figlio assomigliava a un miracolo quanto la guarigione di Mary.

Gli strinse la mano tra le sue e cedette almeno una volta a una tenerezza nei confronti di uno degli uomini più rigidi che avesse mai conosciuto: gli diede un bacio sulla mano e la tenne appoggiata contro la sua guancia. Era tiepida.

«Grazie, papà.»

 

***

 

Ferid sbirciò al di là della porta. Non vide abiti blu all’orizzonte e fece entrare anche il resto del corpo nell’ufficio.

«Buongiorno, Liebe! Ah, finalmente soli, eh?»

Estelle alzò gli occhi dal suo computer e guardò tutt’intorno, come se una folla si fosse improvvisamente volatilizzata. Per una volta Saffira aveva trovato qualche altro posto dove imporre la sua presenza e l’uomo alto – aveva scoperto essere Ezra di Ashby – si era preso abbastanza a cuore Candace da mostrarle persino un sorriso; così, per poterle dedicare tutta la sua attenzione, aveva acconsentito che Ferid se ne andasse da solo. Forse il fatto che indulgesse spesso a chiacchierare con Candace nelle stanze del ristoro lo rendeva più aperto e meno incline a pensare che fosse un grave peccato che Ferid parlasse con Estelle all’ufficio contabilità.

«Non c’è l’arpia?»

«Grazie a Dio misericordioso no, e se è misericordioso un decimo di quello che spero quella donna non riapparirà mai più!»

Il suo sorriso si incrinò appena quando sbirciò nella stanzetta.

«Niente caffè neanche oggi? C’è un embargo dal Sud America di cui non sono stato messo a parte o è una punizione per te?»

«Mh… siediti qui un momento. Per favore.»

Il pensiero del caffè scivolò via senza dolore. Abbandonare libretti il cui scopo principale sembrava il plagio mentale e parlare con qualcuno sano di mente era un piacere sufficiente, quindi andò a sedersi sulla poltroncina accanto a lei.

«Liebe, tesoro, ti senti bene? Sei così pallida… non è che ti stanno punendo, vero?»

«Ma no, caro, mi guardano male e basta… e sai che non m’importa cosa pensano.»

Ferid le spostò una ciocca di capelli, pensieroso.

«Sarà, ma davvero non sembri stare bene… hai bevuto qualche strano tè, per caso?»

«Sono una strega verde, se bevo qualcosa sta’ pur certo che so cos’è.»

«Forse… ma tu non prendere niente che ti dia qualcuno di poco fidato, mia cara. Forse sono paranoico ma quell’Eccellentissimo Padre mi piace persino meno del mio vero padre. Non vorrei neanche che ti guardasse, c’è qualcosa di sgradevole in lui.»

Un sorriso increspò le labbra di lei.

«Sei geloso?»

«Liebe, ho abbastanza amore per più di una persona, e per te ne ho più che abbastanza da non volere che un vecchio strambo si faccia delle idee da vecchio strambo.»

«È il sì più lungo che abbia mai sentito.»

Ferid cercò di pizzicarle la punta del naso, lei scoppiò a ridere e si sottrasse dimenandosi come un’anguilla, finché non lo accalappiò in un altro abbraccio.

«Quanto vorrei averti trovato prima che tornassi dal tuo uomo» sospirò, poggiando la testa sulla sua spalla.

Non se la sentiva di alimentare vane speranze dicendole che pensava la stessa cosa e le diede un bacio sulla fronte che sperò mettesse in chiaro le sue intenzioni.

«Se ci tieni, ti farò portare il caffè domani…»

«Ah, il caffè è un extra, vengo qui per te… e per le e-mail. Lavoro, sempre lavoro! Sono sfinito.»

«Ah, ne devi vedere una subito, per il noleggio che avevi chiesto… te la stampo.»

«Tesoro di ragazza.»

Estelle stampò due fogli dal suo computer, ma né lei né lui si diedero la pena di prenderli per leggerli subito. Si scambiarono un’occhiata.

«Tornerai presto dal tuo uomo?»

«L’idea è quella, sì.»

«Ci riuscirai prima che quei matti ti obblighino a sposarti con me?»

«Suppongo…? In realtà non lo so. A quanto pare mi nomineranno Padre a Natale, o subito dopo, e il nostro matrimonio dovrebbe avvenire più tardi. Potrei anche farcela.»

«Quando te ne andrai posso venire anche io con te? A New Oakheart, dico… abiti ancora nel West End, no?»

«Ah, certo… sì, se vuoi, ma… non stavi qui per non farti diseredare da tuo padre?»

Estelle fece un sorriso amaro.

«Ormai non fa nessuna differenza… e davvero, non ne vale la pena, non dopo che te ne sarai andato.»

«Allora vieni con me nel West End. Posso anche tenerti a casa mia intanto che ti organizzi, non è un problema.»

All’improvviso fu folgorato da un’idea luminosa come il sorgere del sole sul Serengeti.

«Anzi, avrei anche un lavoro che farebbe proprio al caso tuo! Lo conosci il Magick, in Ashland Street. La proprietaria cerca qualcuno che lo mandi avanti, lei ha una figlia piccola, di sei mesi, e vorrebbe passare più tempo a casa.»

Qualcosa di simile a un tremore mosse il labbro di Estelle e le fece distogliere lo sguardo. Fu un attimo ma Ferid lo colse, ma non ne comprese subito il senso. Secondo lui era un lavoro molto più interessante che tenere dei numeri e gli sembrava la persona adatta per quel settore.

Ah… che indelicato, le ho parlato di famiglia e di bambini, in un momento come questo…

Si interruppero a vicenda alla prima sillaba, lui di scuse, lei di esitazione. Si sorrisero per l’imbarazzo e poi la porta che si apriva lavò via qualsiasi bella sensazione quando vi entrò Nereus, seguito da Maim.

«Raphael, preparati. È ora.»

«Ora… di che cosa? È presto per la messa.»

L’anziano padre Maim si fece avanti, con le dita rugose congiunte in punta e l’espressione priva di emozioni.

«A mezzogiorno di oggi, a Fort Royal, Raphael di Bluefields non esisterà più. Rallegrati, figliola» aggiunse, rivolto a Estelle. «Al suo ritorno questa sera il tuo promesso sposo sarà Padre della Chiesa dell’Acqua.»

Guardando negli occhi Estelle vi vide riflesso il suo stesso sgomento.

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Capitolo 25
*** Elevato in gloria ***


Fort Royal era il capoluogo della contea di Wise, dove sorgeva anche Bluefields. Era una cittadina vivace, con il municipio in un bell’edificio di mattoni rossi con le bandiere esposte, una scuola elementare proprio accanto a un parco e strade ordinate. A Ferid ricordò i sobborghi di New Oakheart e alcune zone residenziali del West End.

Raggiunsero un basso edificio che separava un minimarket dal salone di una parrucchiera e solo quando entrò capì che era un ufficio satellite di Bluefields, una specie di punto informativo. Apprese che era lì che Trev, l’amico di Lucky, andava a gestire le pratiche formali e le comunicazioni con Ashby. Quando ci entrò erano quasi le dieci del mattino e il luogo era per metà ingombro di pacchi postali, volantini e lettere.

A Ferid fu detto di aspettare nella stanza al piano di sopra e così fece. La stanza assomigliava a quella di un motel, non aveva bagagli da disfare né alcunché da leggere, quindi dopo essersi lavato il viso – più per fare qualcosa che per necessità – aprì la finestra e guardò a lungo la strada con il suo affollamento.

Dubito che Mika avesse previsto un’evoluzione così rapida degli eventi…

Non sapeva cosa fare e si sentiva come la barchetta di carta che aveva fatto quando era bambino: l’aveva messa nel ruscello che scorreva nella tenuta e quella, dopo un’illusione di stabilità, era stata sballottata dalla corrente e infine inzuppata e fagocitata dallo stagno. In un altro momento avrebbe confidato che Mika l’avrebbe aiutato a scegliere, ma ora gli mancava quella certezza.

Non lo vedo da ieri… a quanto ne so potrebbero aver deciso di nominarmi ora proprio perché Mika è scappato con Lucky… per rendermi impossibile seguirlo.

Più ci pensava più riteneva l’ipotesi la più sensata per spiegare il loro modo precipitoso di agire. Angosciato all’idea che Mika fosse scappato senza di lui e senza dirgli niente e nervoso al pensiero di essere a tre ore di auto dal suo unico mezzo di comunicazione di emergenza strinse le mani in preghiera. Una lunga permanenza a Bluefields aveva reso automatici alcuni gesti.

Sono di nuovo da solo in una situazione impossibile?

Forse non era del tutto ingestibile, ma di certo l’affrontava da solo: quando vennero a chiamarlo non c’era traccia di Mika o di altri volti amici di Bluefields. Gli venne consegnato un libello molto essenziale e venne portato giù, nella sala sul retro, che era una versione tremendamente squallida e asettica di una cappella dell’Acqua.

La cerimonia fu riservata a pochi membri, sbrigativa e tutto sommato scialba a paragone con l’atmosfera mistica del Battesimo. Il tutto mal si conciliava con la pompa magna con cui Maim sembrava volerlo spingere in vetrina.

Ferid non riusciva a non immaginare scene da film in cui Crowley irrompeva con decine di agenti senza faccia per venirlo a salvare, ma quelle sbiadirono a ogni parola mentre cessava di essere Raphael per assumere il nome di “Regen”, parola tedesca per la pioggia. Non dovette interrogarsi sul perché di quella scelta.

In tutto ciò Nereus, che credeva sarebbe stato il re suo alleato, non fece altro che stare seduto in disparte a guardare. Fu il momento in cui lasciava la cappella con abiti blu nuovi e l’ennesimo nome fittizio, vedendolo là inerte in un angolo, che Ferid si chiese se non avesse interpretato male la profezia di Krul.

«Da Connor a Regen in così poco tempo» fu il commento tentennante di Nereus, quando restarono per la prima volta soli in disparte. «Il Signore ha davvero disegni meravigliosi per alcuni di noi… sono molto fiero di te.»

«Avevi ragione tu, Nereus.»

«Riguardo a cosa?»

«Non era ancora il mio momento. È tutto sbagliato.»

La voce gli si incrinò su quelle ultime parole, perché pensava a Crowley, a Krul con la bambina e alla vita com’era prima. Al Magick, ai suoi giovedì di lettura, alla domenica con il documentario che il suo uomo considerava sacro quanto la messa al mattino.

Esattamente che cosa avrebbe dovuto fare dopo aver conquistato quel vestito blu? Aveva davvero avuto un senso buttarsi in tutto quel pantano, tradire il suo fidanzato e mentire a tutti per il pallido miraggio di una fede che riempisse le lacune?

Nereus era senza parole, contrito come se il dolore di Ferid fosse una sua colpa, e gli sfiorò il braccio in una muta consolazione di poco valore. Non ebbe tempo di trovare qualche parola di maggior efficacia perché Maim venne a recuperare il suo trofeo per mostrarlo alla folla.

«Mantieni un contegno adeguato, qualsiasi cosa ti venga detta, Regen. Il video della celebrazione è stato diffuso ben oltre le aspettative.»

Il boato della folla fuori dall’edificio l’investì appena si aprirono le porte, una miscela di esultanza e invettive. Maim, come sempre, non ebbe una reazione, come sordo e cieco alle cose del mondo, e Ferid cercò di restare nella sua scia.

Era inquietante vedere quelle persone sbracciarsi per cercare di toccarlo, come un film di zombi, e non capiva come qualcuno potesse trovare entusiasmante essere oggetto di tanta primitiva adorazione.

«Padre!»

Si sentì strattonare il giaccone dalla spalla. Barak, l’ex guardia del corpo e assistente di Vann, piombò lì per liberarlo dalla presa. Gli era sempre parso glaciale, privo di emozioni, ma quando si accorse che tremava fu gentile nel guidarlo a distanza di sicurezza.

«Sta bene, Padre? Cammini al centro, è più sicuro. Non si preoccupi, ci penso io a proteggerla.»

Borbottò un assenso e riprese la strada. Essere passato da potenziale pericolo quando era un membro qualsiasi a un padrone da difendere solo in virtù di una nomina improvvisa lo scombussolava. Il delirio della folla peggiorava il tutto e fu quello il primo momento in cui gli passò per la testa di saltare sulla prima macchina e guidare come una scheggia fino a New Oakheart.

Non era il solo ad avere paura: una donna sui sessanta allungava verso di loro una bambina piccola, che piangeva con tutto il fiato che aveva ed era lo stesso impossibile sentirla in quel caos. Fu per semplice compassione per la sua angoscia che Ferid le accarezzò la testa, e bastò quel tocco a calmarla abbastanza per farle aprire un paio di occhi color castagna su di lui. Barak gli spostò la mano all’improvviso, neanche avesse accarezzato un ordigno esplosivo.

«Per favore, non lo faccia.»

La folla tacque all’improvviso, gelando tutto in un surreale fermoimmagine.

«Mia nipote! Il profeta ha toccato mia nipote!»

Altre grida, più forti di prima, si levarono dal gruppo. In compenso il lato positivo fu che la maggior parte delle persone smisero di seguirli e accalcarsi intorno a loro e diressero le loro attenzioni alla bimba.

«Perché mi chiamano profeta? Io non sono un profeta» fece allora Ferid, guardando la nuca bianca di Maim.

«Predire le cose future e conoscere ciò che non può essere conosciuto è prerogativa di demoni e profeti, Regen. Sei un demone, allora?»

«Forse lo sono» insistette lui in tono di sfida. «Sette sataniche, rapporti promiscui, profanazione di tombe… lei può forse dire che cosa io abbia fatto e che cosa sono capace di fare?»

Maim rallentò il passo e lo guardò con un sorriso che a Ferid piacque ancora meno della sua espressione senza vita.

«Chiaramente tu non sai che cosa sei capace di fare. Limitiamoci, dunque, a trarre vantaggi reciproci dalla nostra collaborazione.»

«Se questo è un patto da rispettare servirà una stretta di mano.»

Scattò davanti a lui bloccandolo davanti alle porte dell’ufficio dello sceriffo, con la mano tesa in un’evidente provocazione. Maim lo studiava, con le mani unite, come se un suo studente avesse tirato fuori un’insolita ma interessante risoluzione alternativa del compito assegnato.

Prima che decidesse come rispondere qualcuno si aggrappò al braccio di Ferid e gli abbassò la mano con decisione.

«Eccellentissimo, lo perdoni… mio fratello ha sempre un po’ di sabbia sulla lingua, quando sente un’autorità più alta della sua.»

Ferid incrociò lo sguardo di Mikaela con stupore, ma non era mai stato tanto contento di vedere il suo sorriso.

«Allora… come ti devo chiamare adesso?»

 

***

 

Ritirati i permessi dall’ufficio dello sceriffo di Fort Royal, Ferid fu parcheggiato nella stanza di una pensione in una stradina laterale della piazza. Barak restò di guardia nel corridoio e a Mika fu permesso di stare con lui, mentre tutti gli altri andavano a preparare il palcoscenico per l’atto finale della giornata: una messa pubblica alla presenza del profeta.

«Credevo che fossi venuto ad aiutarmi, ma vedo che sei venuto solo a gongolare.»

Mika non smise di sorridere mentre sbirciava dalla finestra.

«È il miglior scenario possibile… la partita contro un giocatore mediocre: abbastanza intelligente da farsi tentare dalle esche e troppo ingenuo per distinguerle da un’occasione.»

«Mentre tu ti diverti a giocare per vincere una carriera io sono quello si sta spacciando per un profeta! Hai visto il furgone della tv? È una rete dello stato del West Virginia!»

«Chi credi che li abbia avvisati?»

Ferid tirò un pugno carico di stizza nel cuscino della poltrona.

«Vuoi smettere di fare le cose senza chiedermi niente?! Avrò anche un altro nome, ma è la mia faccia! Hai pensato anche solo un attimo che cosa penseranno i familiari di Crowley quando vedranno questa trasmissione?»

«Ma se neanche ti conoscono?»

«Sua nonna mi ha visto» rincarò Ferid in una specie di ringhio. «E anche se non fosse successo la mia speranza è che Crowley voglia ancora portarmi da loro quando finirà questo disastro di indagine! Vuoi farmi passare per un mistificatore da due soldi?»

Mika sospirò.

«Calmati. Gli racconterai la verità. Che eri in missione. Sistemerà tutto.»

«Certo, si sistemerà tutto… che ti importa? Tu sparirai, a Quantico o da un’altra parte con Lucky! Le conseguenze non ti toccheranno!»

Avrebbe voluto riavvolgere gli ultimi dieci secondi per cancellare quell’accusa. Il ragazzo, comunque, era calmo. Forse comprendeva il suo stato di stress meglio di quanto credesse.

«Non ho la minima idea di cosa farò alla fine… e non mi importa. La cosa che conta è la missione.»

Cadde il silenzio e per alcuni minuti restarono uno seduto e l’altro in piedi alla finestra, ad ascoltare rumori e voci intorno.

«Ferid, se ti fa soffrire tanto possiamo trovare un’altra strada.»

Sbalordito, guardò verso di lui, ma poteva vedere i suoi occhi solo nello sbiadito riflesso del vetro.

«Scherzi, Mika? Tu non arretri mai. Non ti fermi mai. Quando scegli una strategia la porti avanti finché non ottieni quello che vuoi… è il tuo modo di giocare.»

«Ma tu non sei un pezzo di plastica con una corona» replicò lui, appoggiandosi con la spalla alla finestra. «Hai ragione. Tu sei corso da me appena ti ho chiamato, senza dire niente a Crowley perché non volevi che ti fermasse… sei corso da me per salvarmi. Perché mi consideri un amico che non vuoi perdere.»

C’era una straordinaria fermezza negli occhi di Mika quando si girò a guardarlo.

«Neanche io ti voglio perdere. Se ti sto chiedendo un sacrificio troppo grande posso ancora tirartene fuori.»

Il primo istinto fu di accettare, di pregarlo di tornare indietro e cancellare almeno quella macchia dalla sua coscienza. Poi ricordò quella discussione così aspra che aveva avuto con Crowley riguardo a quel ragazzo.

«Cosa ne sarà della copertura, se torniamo indietro ora?»

Mika tese un sorriso e non gli parve così forzato.

«Mi toglierebbe strane idee di testa sulle fattorie, questo è certo. Non devi sacrificarti per me… io conquisterò Quantico in ogni caso. Prima o poi ci arriverò. Sai che non ero venuto qui per la mia carriera… l’ho fatto per me. Per sfidare le mie paure e combattere un nemico che studio da lontano da molto tempo.»

Il ragazzo si sedette sul bracciolo della sua poltrona.

«Avrei dovuto chiederti se eri pronto a delle conseguenze così grandi. Non ho avuto tanto riguardo per come ti sentivi, in effetti. Come ti tiro fuori da questa storia? In modo plateale, con disonore, in sordina? Come preferisci?»

«Preferisco restare.»

Mika gli lanciò un’occhiata confusa, ma Ferid sorrise.

«Essere immolato per la tua carriera non mi piace, anche perché i federali non mi sono simpatici… ma se lo fai per te stesso, è un’altra storia. Per te, per la tua battaglia personale, io accetto il ruolo che vuoi darmi.»

«Cosa… Ferid, sei sicuro che valga la pena?»

«Tu ci sei stato per me… e io ho ancora fede in quello che ho visto, Mika. Vedo ancora l’albero d’arancio che sei… e i frutti che darai. Voglio fare parte della tua maturazione.»

Ebbe l’impressione di cogliere un accenno di commozione, ma passò così veloce che non ne fu sicuro. Mika gli strinse la mano, con una foga insolita per un ragazzo così poco propenso all’entusiasmo.

«Non sprecherò l’occasione, te lo prometto.»

Ferid sorrise, e in quel momento Mika gli sembrava più giovane di quanto l’avesse mai visto. Cercò di pizzicargli una guancia e lui si ritrasse, ma aveva ancora gli angoli della bocca abbastanza tesi da evidenziare le sue fossette.

«Ah, smettila, sembri una vecchia zia rompipalle!» protestò alzandosi dal bracciolo della poltrona. «Ma come mai… arance?»

Ferid l’aveva detto quasi senza accorgersene, ma aveva ancora nitida in mente la visione che aveva avuto nella fonte di lapislazzuli. Allora non aveva capito a che cosa si riferisse, ma ora gli era così chiaro da non avere dubbi.

«Un giorno te lo spiegherò.»

Si sentì la voce di Barak nel corridoio discutere con qualcuno. Ferid non si era ancora raddrizzato che Mika era già alla porta.

«Faccio io, non ti preoccupare» fece, e sgattaiolò fuori.

Ferid si ributtò sulla poltrona. A giudicare dalla sua fretta aveva l’impressione che il visitatore che cercava di passare fosse Lucky.

Certo sembrano due colombi, sempre insieme… o piuttosto, penso, due conigli.

Mika rientrò subito, con un sorriso non del tutto convincente sulla faccia. In un primo momento pensò che la figura che lo seguiva fosse Barak, questo prima di vedere il sorriso irritante e degli irriverenti occhi di un verde chiaro.

«Ismael!»

«Ciao, Pepper… ah, il blu ti dona per davvero!»

Era così felice di rivedere una faccia della vita prima di Bluefields che forse avrebbe abbracciato commosso persino il suo pedante affittuario Cyrus, ma con Ismael non pensò neanche a trattenersi e gli saltò al collo, quasi in braccio. Persino lui se ne stupì.

«Oh oh, quanta foga! Anche io sono felice di vederti~»

«Oh, Ismael, non sono mai stato felice di vederti ma adesso sì» fece, continuando a stringerlo. «Ti prego, dimmi che hanno ordinato un attacco aereo su Bluefields!»

Lui rise divertito.

«Ci credi davvero persone di così scarsa fantasia? No, sono venuto a dare una piccola mano e un po’ di conforto~»

«Ma come sapevi che ero qui?»

«Angel Face mi ha chiamato ieri sera, ha sentito chiacchierare il vecchio di quello che intendeva fare… e sono arrivato con calma.»

Ismael si districò dalla presa di Ferid per andare alla sua valigia. Non aveva neanche notato che Mikaela l’aveva portata dentro e appoggiata sul letto.

«Crowley?» domandò allora. «Come sta Crowley?»

«Avrebbe voluto venire qui, ma quando Angel Face ha telefonato lui era già in ospedale… sta bene, sta bene» aggiunse in fretta. «Hanno operato il suo vecchio, gli hanno messo uno stent in un’arteria ieri pomeriggio. È rimasto tutta la notte con lui, non gli ho detto della chiamata.»

Ferid si sedette sul letto.

«Neil è in ospedale… è una cosa seria?»

Ismael sollevò le sopracciglia.

«Conosci suo padre?»

Ferid si limitò ad annuire. Non se la sentiva di raccontare a entrambi la storia di come Neil O’Brian l’avesse salvato dopo la retata trovandogli un posto dove stare.

«Beh… serio, dipende. Se sta a riposo per la convalescenza l’impianto si stabilizza e poi è più o meno una vita normale. Ma mi sa che Ginger lo sta già indottrinando a succo di aloe vera e tisane di mirtillo e pane di farro e che diavolo d’altro ha cominciato a inghiottire in questi due anni… quindi sì, è grave davvero.»

L’uscita fece ridere Ferid abbastanza da smorzare la sua ansia. Mika, che sembrava tollerare male restare sulla difensiva con Ismael, trovò il modo di passare all’attacco.

«Le tisane al mirtillo sono squisite.»

«Oh, no, Angel, anche tu?»

«Quindi tu non bevi tisane per niente? Neanche del tè alle erbe?»

«Ho bevuto del tè alla malva l’ultima volta che ho preso l’influenza» replicò lui secco. «E non per mia volontà.»

«E non mangi niente di integrale?»

«Io mangio le robe intere, non integrali. Più grasso, zucchero, sale e schifo c’è dentro e meglio è.»

«Bene» esclamò Mika con un sorriso. «Quindi morirai presto. Che bella notizia.»

Fu una considerazione così cruda che strappò un verso di disappunto allo stesso Ismael.

«Che crudele! Cosa faresti se io non esistessi?!»

«Festa.»

«Oh, voi due, smettetela di beccarvi» li rimproverò Ferid, con poca convinzione. «Resterai nei paraggi, Ismael? Non so se rientreremo a Bluefields immediatamente, ma…»

Le sue speranze s’infransero sul suo diniego.

«No, rientro oggi stesso… ma sappi che non sei mai da solo. Il tuo lunatico amico Whisky Sour ha mandato qualcuno a tenere d’occhio tutti i membri mentre organizzano queste messe, perché è un buon momento per parlare con gente particolare senza che venga notata… io non l’ho ancora incontrato ma da quanto urta i nervi a Ginger sono sicuro che è un grande stronzo.»

«Ti assomiglia un po’. È rude, se cambia idea non ti degna di una spiegazione, e probabilmente è anche un gran bugiardo» snocciolò Mika. «Vorrei proprio che vi incontraste. Magari vi ammazzate come galli da combattimento.»

Ferid aveva la sensazione che potesse succedere più facilmente di quanto Mika stesso credeva.

«E vuoi lavorare per uno che mi somiglia?» lo punzecchiò Ismael.

«Lui almeno non prova a infilare il pisello in tutto quello che si muove.»

«Oh, non giudicare un libro dalla copertina, Angel Face… o ancora peggio, dalla sovraccoperta. Dopotutto a guardarti neanche tu sembri la puttanella che sei.»

Lo scatto del sopracciglio di Mika era tale e quale alla rimozione della spoletta di una granata. Ferid si affrettò a interrompere lo scambio di complimenti.

«Quindi ci seguono tutti? Voglio dire, ognuno di noi?»

«Così sembra. Almeno ci provano, devo dire che sciamate in giro come api.»

Ferid sospirò di sollievo, in parte per le notizie e in parte perché lo scoppio di Mika era scongiurato.

«Allora troveranno qualcosa di certo… magari siamo davvero vicini alla fine.»

«Ma bisogna forzare la mano, Maguire» aggiunse Mika con un tono aspro, strascico del commento di poco prima. «O come accidenti ti chiami sul serio. L’ho detto anche alla casella vocale, ma… hai il dono di una parlantina quasi insopportabile che ti aiuterà. Prendi di mira Nereus, è l’anello più debole.»

«Di che cosa state…?»

«Sì, lo so. L’ho visto il ragazzo, fa quasi tenerezza per quanto è sperduto.»

«Ma di che cosa parlate?»

«Allora sbrigati e renditi utile. Il vestito l’hai portato?»

«Ehi!»

Dalla valigia Ismael tirò fuori qualcosa di blu e molto familiare. Dimenticò all’istante lo scambio incomprensibile tra i suoi amici e scattò in piedi per stringere una delle cose materiali che più gli mancavano: i suoi vestiti. Era il suo completo blu preferito e si sarebbe messo a saltare di gioia come una ragazzina alla vista degli stivali che vi si abbinavano perfettamente.

«Ah, lo sapevo di farti felice~ Devi essere bello in televisione, non possono metterti addosso la prima cosa che ti sta, giusto?»

Ismael lo strinse in un abbraccio inaspettato e capì perché quando gli sussurrò qualcosa all’orecchio, molto piano.

«Lui lo tiene nascosto nella scatola delle tisane in casa» gli soffiò, «ma l’ho visto. L’anello che ti voleva dare per il tuo compleanno. Ti aspetta.»

L’immaginò. Immaginò Crowley che gli chiedeva di fare una tazza di qualcosa durante una serata televisione, lasciando che trovasse una strana scatolina… ma non riuscì a concepire le fattezze dell’anello, né l’emozione che avrebbe potuto provare.

Quando Ismael lo liberò dall’abbraccio Ferid sostenne come poteva i suoi vestiti mentre si asciugava gli occhi. Aveva avuto paura che Crowley avesse preso male la sua decisione impulsiva e fosse più propenso a prendere le distanze; ora invece aveva solo paura che venisse a sapere di Estelle e finisse tutto per una rivincita adolescenziale a cui non era riuscito a dire di no.

«Pepper, non è il caso di piangere per dei vestiti» commentò Mika.

«Solo un bifolco non capirebbe la commozione di indossare seta e velluto dopo mesi di cotone di scarsa qualità» fece Ismael annuendo comprensivo. «Ne riparliamo quando ti metterai di nuovo del latex. Deve mancarti molto.»

Passi e voci in corridoio fecero scoppiare il caos dentro la stanza: Mika si lanciò verso la porta, Ferid aprì l’armadio per nascondervi i vestiti dentro e Ismael prese a buttare qua e là cose che tirava fuori dalla valigia. Nereus si affacciò allo spiraglio che Mikaela gli permise di aprire.

«Dov’è Regen? Deve prepararsi.»

«È qui, ma adesso… non è un buon momento, Padre!»

«Voglio vederlo.»

«Si sta cambiando» ribatté Mika.

«E con cosa? Non ha neanche un bagaglio!»

Mikaela fece un cenno a Ferid, che in qualche modo capì: prese a cambiarsi alla velocità della luce.

«Voi due state combinando qualcosa, vero? Se è così ti assicuro che è meglio se lo scopro io e non Padre Maim. È in assoluto l’uomo più severo che abbia mai incontrato e potrebbe quasi farvi rimpiangere vostro padre.»

«Ci siamo sempre comportati bene! Perché adesso sospetta che combiniamo qualcosa di strano? A che cosa sta pensando? Che abbiamo alcolici e droga sul tavolino da tè?»

La camicia gli stava dando problemi e Ismael raggiunse Ferid per aiutarlo a vestirsi un po’ meglio di un amante che scappa dalla stanza al rientro del marito.

«O pensa persino peggio?» fece Mika, sporgendosi sul corridoio. «Pensa che abbiamo qualche tipo di rapporto incestuoso?»

«P-per l’amor di Dio, Ezekiel, no! Santo cielo, che cosa può mai averti messo in testa anche solo l’ombra di un pensiero così orribile?»

«Ce l’avete?» sussurrò Ismael.

Come risposta Ferid piantò il tacco dello stivale nel suo piede. Mikaela buttò un’occhiata dentro la stanza, nervoso.

«Almeno è davvero qui? Oggi non è davvero il caso che vada in giro da solo, non con questa frenesia che c’è in città… e, ve lo ripeto, non sotto il naso di padre Maim!»

«Sei preoccupato per me, Nereus?»

Ferid spalancò la porta, ormai del tutto vestito. Mika lasciò andare un sospiro di sollievo, ma Nereus non se ne accorse: boccheggiò come un pesciolino prima di ritrovare la voce.

«Ah… q-quindi ci sei…»

«Mi stavo cambiando… come ti sembra? È eccessivo, forse…»

Nereus non apprezzava soltanto la sua divisa da lavoro, a quanto traspariva dal suo imbarazzo.

«S-sei… elegantissimo» commentò infine. «Dove hai preso questi vestiti?»

«Me li ha portati questo signore.»

Ferid rientrò nella stanza lanciando uno sguardo a Ismael. Lui si stampò in faccia un sorriso servile e lanciò la mano in avanti non appena vide Nereus.

«Padre onorevolissimo, sono lieto di conoscervi! Taddeus Quigley, della bottega sartoriale Quigley, l’esperienza di due generazioni al servizio delle vostre cerimonie, questo il motto del mio abilissimo zio!»

Il vigore della sua stretta sconquassò Nereus come le biglie dentro un pallottoliere e Mika, in un angolo cieco del Padre, si cacciò le nocche tra i denti per non scoppiare a ridere.

«La famiglia Quigley ha voluto offrire qualcosa al Signore in occasione di questa visita storica a Fort Royal! Sono lieto che il mio occhio allenato abbia saputo selezionare la taglia a una sola occhiata! Abbiamo confezionato un completo perfetto con pochissime modifiche, non trova? Oh, teneteci in considerazione per le vostre manifatture su misura. Abbiamo un campionario unico con ben sette favolose sfumature di blu, in seta, raso, velluto, cotone puro, lana merino!»

Seduto sul letto Ferid si mordicchiò il labbro per non ridere. La scenata di Ismael era così esagerata e la voce nasale che stava modulando così ridicola che Mikaela era finito nell’angolo della cabina armadio, a sussultare in silenzio.

«Io… lo farò presente a Padre Maim, è lui che decide da chi—»

«Vi ringrazio infinitamente! La nostra sarà una lunga e proficua collaborazione, Padre gentilissimo, perché, in sincerità, la fattura del vostro attuale fornitore è davvero da dilettanti. Offriamo una qualità superiore anche a occhi bendati!»

Ferid decise che era il caso di tagliare la commedia, quindi si avvicinò e spinse Ismael verso la sua valigia.

«È meglio che adesso andiate, non vorremmo che per colpa nostra dei clienti affezionati non trovino il formidabile Taddeus Quigley al loro servizio per appuntamenti già presi» lo blandì Ferid, e gli fece un segno eloquente con gli occhi. «Avrete centinaia di clienti in una settimana, bravi come siete!»

Ismael farneticò qualche altro aneddoto sulla sartoria mentre raccoglieva quello che aveva sparpagliato prima – scatole di spilli, forbicine, rocchetti di filo – nel suo bagaglio. Ammirava che fosse stato capace di allestire un personaggio e una storia simile con un preavviso breve e condizioni incerte.

«Ancora grazie, signor Quigley» gli fece quando fu già in corridoio. «Non avrebbe potuto rendere più felice una persona in un giorno importante neanche se avesse confezionato un abito da sposa.»

«Per questo servizio mia sorella è una sarta famosa fino alla costa occidentale! Ma per uno sposo…»

Ismael scoccò un’occhiata sopra la spalla di Ferid, con quel sorriso malizioso che gli riusciva così bene.

«Per lo sposo chiedete di me. Buon pomeriggio, signori!»

Ferid non riuscì a nascondere del tutto l’ilarità. Chiuse la porta e incontrò Nereus, che strizzava tanto la sua croce che era inevitabile che quella o la sua mano ne uscissero deformate.

«Dici che ci stava provando, Nereus?»

«Tu… trovi?»

«Oh, sì… e non con me» buttò lì, allusivo.

«Non essere sciocco» sbottò lui, in imbarazzo. «Uomini che fanno lavori del genere, legati all’estetica, hanno sempre atteggiamenti ambigui. Lo fanno per conquistare i clienti con la lusinga.»

«Oh, non sarai mica arrabbiato?»

Ferid finse di spolverare qualcosa dalla sua manica e mise le mani sulle sue spalle.

«Sei un bell’uomo giovane… il signor Quigley non sarà l’unico a farci un pensierino, no?»

«I peccati in cui si rotolano questi individui non mi riguardano, finché non vengono a confessarmeli.»

«Non mi hai riservato tanta freddezza al mio arrivo… anche se sapevi che avevo un uomo. Che ne ho avuti tanti. Sei un pastore, Nereus, i peccati degli altri ti riguardano eccome.»

Nereus sospirò, e con suo stupore mise le mani sulle sue. Di solito non lo toccava mai se poteva evitarlo.

«Scusami. Sono molto nervoso… tutte queste novità… Bluefields è una comunità protetta, con relazioni filtrate. Non sono più abituato a tanto contatto con gli esterni.»

«Non preoccuparti» gli fece, stringendo le sue mani. «Lo sai, vero? Lo sai che, qualsiasi cosa succeda, io non ti giudicherò mai?»

Non sapeva se Nereus vi avesse letto o meno del sottotesto, ma sorrise con una sorta di dolcezza.

«Grazie, Connor… ah, no. Regen.»

«Regen» ripeté Ferid. «Ma quando siamo soli puoi chiamarmi come vuoi.»

Nereus lanciò un’occhiata a Mika. Vicino alla finestra si teneva la mano sulla bocca e aveva ancora le lacrime agli occhi per le risate che non era riuscito a sfogare. Ferid fece spallucce.

«Ignoralo, non si è ancora ripreso. È la prima volta che lo supero in qualcosa.»

 

***

 

«Ecco, signor O’Brian, qui c’è il pollo…»

«E qui la zucca! È molto buona, è al forno!»

Crowley guardava tre ragazzine trafficare nella stanza di suo padre – lo aveva fatto spostare a sue spese in una stanza privata quel pomeriggio – per sistemargli i cuscini, apparecchiargli il tavolino mobile e servirgli la cena. Erano come tre fate irlandesi in un prato: vivaci, colorate e sempre in movimento.

«Cara.»

Cara Parks si girò verso di lui e i suoi orecchini a pon-pon dondolarono all’impazzata. Crowley le fece segno con il dito di avvicinarsi e lei lo raggiunse sulla porta.

«Chi ha pagato per la cena?»

«La mamma di Sam. Quando le abbiamo detto che venivamo a trovare tuo papà che non stava bene ha dato a Sam la carta di credito e ha detto di non portare cibo spazzatura!»

Allibito Crowley si guardò intorno, quasi si aspettasse uno scherzo.

«Non dovevate neanche venire in un posto simile… e neanche lo conoscete mio padre!»

«Ma conosciamo te! Saresti uno zio per me se non fossi così bianco» commentò lei. «La mamma di Sam dice che Ferid non ha mai accettato la sua gratitudine e che se non l’accetti neanche tu si arrabbierà molto.»

Crowley sospirò e si arrese sollevando le mani. Se un debito vecchio di due anni poteva essere chiuso accettando bistecca e pollo con verdure non sarebbe stato lui a incaponirvisi. Si avvicinarono insieme e si sistemò sulla sedia senza braccioli, la più scomoda.

«Prendi la costata» gli disse Camila, passandogli il piatto. «Ci sono le patate e anche i fagiolini!»

«Dite a vostra madre che non ce n’era bisogno» fece Crowley, mentre vaschette di contorni viaggiavano da un lato all’altro. «Sono un poliziotto… e Ferid è già felice di sapere che Sam è in salute. Nei giorni peggiori si sente in colpa perché non parla. Non vuole nessun genere di ringraziamento, e io neanche…»

«Ma noi siamo qui perché tu sei il nostro babysitter preferito, Crowley. Se tuo papà non stava male noi portavamo il cinese nel tuo ufficio.»

«Di nuovo? Andate a studiare da un’amica, o fate un pigiama party come le ragazze della vostra età. Che ci fate nel mio ufficio, con un vecchio come me?»

Sam sorrise e iniziò a parlare a gesti. Neil, che non ne capiva neanche uno evidente, rimase perplesso.

«Cos’ha detto?»

«Ha detto che le piace guardarlo quando studia la sua lavagna degli indizi» snocciolò Cara, prima che Crowley potesse bloccarla. «Dice che quando è concentrato è sexy!»

Sam mimò il battito del cuore con la mano sul petto. Crowley si massaggiò la fronte.

«Non dite queste cose a mio padre… sarebbe capace di farmi indagare dagli affari interni per condotta immorale.»

«È quel dipartimento che indaga sui poliziotti corrotti?»

«Anche» replicò Neil, che tentava di tagliare il pollo con un polso che non si piegava. «Indaga sulle bustarelle, su quelli che rubano dal magazzino prove, sulla morte di qualche indiziato se c’è qualcosa che non sembra a posto… e tante altre cose. È un lavoro difficile, non vengono molto apprezzati. Gli altri poliziotti pensano che abbiano una collezione di distintivi ritirati, come i pistoleri con le tacche sulla cintura.»

«Beh, ci sono quelli che ci godono. Ci sono un bel po’ di frustrati negli affari interni» puntualizzò Crowley, col pensiero a Sean Lesky. «Dammi qui, papà. Te lo taglio io.»

«Posso tagliare un pollo da solo, ragazzo, per la miseria.»

Poteva farsi sbucciare le arance docilmente, ma non si sarebbe fatto preparare il cibo davanti a tre ragazzine e lo sapeva bene. Rinunciò a prendere il suo vassoio e finse di non notare i suoi sforzi.

Gli suonò il cellulare in tasca e controllò solo per assicurarsi che non lo cercassero dalla centrale. Si stupì di vedere il nome di Charity sul display.

«Arrivo subito, devo rispondere.»

«È la centrale?»

«No, no. È Charity, forse ha saputo dalla mamma che sei in ospedale.»

Si alzò per rispondere vicino alle finestre del corridoio: era il punto con il segnale migliore.

«Ehi, Charity, chiami per lo zio?»

Charity non fece alcun riferimento allo zio Neil e gli parlò di tutt’altro. Non credeva a una parola, tanto che le chiese di ripeterlo. Lei lo fece a voce più alta, come se il problema fosse nel volume della chiamata e non nei concetti, e alla fine gli ordinò di accendere la televisione su un canale che non sapeva neanche prendesse sulla rete di un altro stato.

«O… Okay, Charity… io… ti richiamo più tardi quando i bambini sono a letto, va bene?»

Al suo consenso chiuse la chiamata. Fece i primi passi in modo goffo, come se non sapesse pensare e camminare allo stesso tempo. Trovò suo padre immerso in una spiegazione su come si diventa poliziotti di pattuglia e perché – secondo lui – era il miglior lavoro del mondo.

«Papà, dove hai messo il telecomando?»

«Uh? È lì» l’indicò con un cenno della testa. «Ma cosa vuoi guardare adesso? Lo sai che non guardiamo la televisione durante il pasto.»

L’accese e iniziò a cambiare i canali secondo l’ispirazione del momento, ma non ottenne molto.

«Papà, pensi che si veda anche qui quel canale… quello dove andava in onda la diretta della fiera del bestiame.»

«Ma la fiera del bestiame è in giugno» obiettò Neil.

«Non voglio guardare la fiera, papà. Voglio trovare quel canale. Si vede o no?»

«Certo che si vede. Dammi qua.»

Neil prese il telecomando e nonostante avesse in mano un tovagliolo e due posate riuscì lo stesso a sintonizzare. Incuriosite anche le ragazze guardarono lo schermo, che mostrava una piazza piena di persone; alcune erano in ginocchio in preghiera, altre ai lati allungavano il collo per curiosare.

Crowley lo vide per un attimo, in un angolo mentre la telecamera abbracciava tutto lo spazio, e se non avesse visto Samara saltare in piedi e indicare saltellando non sarebbe stato del tutto sicuro di averlo riconosciuto.

«Che succede?»

L’obiettivo si fissò su un uomo anziano dalla tonaca blu, che diceva una messa simile a quella che Crowley conosceva così bene, e vicino a lui stava in piedi Ferid. Aveva l’aria di chi ha dormito poco e una vaga malinconia negli occhi, ma era indubbiamente lui. Cara lanciò un gridolino.

«Ma è Ferid! Che cosa sta facendo lì? Diventa un pastore, o qualcosa del genere?»

«Ne dubito» commentò Neil, ma nell’incrociare lo sguardo del figlio si concentrò sul pollo. «Non si va in West Virginia per diventare pastori… magari di pecore, ma non di anime di sicuro. Non doveva essere in Inghilterra?»

«Te lo spiegherò un’altra volta» gli fece piano lui. «Quando non ci sono le bambine.»

Neil mugugnò qualcosa mentre masticava.

«Non vi siete separati per una pausa, eh?»

«L’abbiamo fatto… ma saremmo insieme adesso, se non fosse per un’altra questione.»

Le ragazzine facevano un gran chiasso, almeno due di loro. Stavano tutte registrando lo schermo con i telefoni per cercare di immortalare il loro eroe per più di qualche secondo.

«È qualcosa che mi racconterete a cena o non potrò mai sentirlo per intero?»

«Via, papà, per chi l’hai preso? È un libraio.»

Crowley teneva le braccia conserte e affondava le dita nei bicipiti, con gli occhi fissi su quello che poteva vedere di Ferid dietro le tre ragazzine. Non assomigliava all’uomo che conosceva e aveva paura che la sua malinconia fosse autentica.

«Un libraio che fa un favore a un amico… niente di più.»

 

***

 

Era già buio da tempo quando Ferid riuscì a tornare nella stanza della pensione.

«Ahh… sono sfinito…»

«Ma sulla bocca di tutti.»

Ferid sobbalzò anche se aveva riconosciuto la voce e vide Mikaela seduto sulla poltrona. Al contrario di lui era più bello e fresco che mai, come se l’aria fuori da Bluefields l’avesse rinvigorito.

«Cielo, Mika… che cosa fai qui?»

«Ti aspettavo… ho portato una bottiglia, per festeggiare il felice esito della nostra manovra.»

«Non ho veramente voglia di brindare a questo. Se mi svegliassi domani e trovassi Estelle che fa il caffè in ufficio e Nereus che mi insegue per farmi andare a lezione per il quarto livello sarei un uomo felice in modo assurdo.»

Si sedette sul letto per togliersi gli stivali. Li adorava ancora, ma non era più abituato a tacchi così alti.

«Non sei felice di essere fuori da quel posto? Almeno sei in mezzo alla civiltà, per quanto rurale» osservò lui stappando la bottiglia di whisky. «Secondo te l’uso delle camicie in flanella a quadri è una forma di mimetismo di branco?»

«Se non hai intenzione di farmi un massaggio ai piedi non ho ragione di trattenerti» gli fece Ferid, massaggiandosi il piede che gli faceva più male.

«A volte persino tu sei ottuso. Ti rendi conto che questa città pensa che tu sia un profeta? Il video si diffonde via internet mentre noi parliamo e se anche una sola persona su dieci si convince che sia vero quella girerà il video a tutti quelli che conosce… e oggi sei andato in onda su un canale locale che viene trasmesso in chiaro anche in altri stati.»

«Non ero altro che un chierico che dava benedizioni, oggi.»

«Sì… ma se tu usassi Twitter sapresti che alcune delle persone che hai incontrato oggi dicono di non avere più dolori cronici e acciacchi vari. Vuoi che ne legga qualcuno?»

Mika digitava sul cellulare che era stato nascosto per mesi nel barattolo di chiodi. Doveva averlo preso prima di partire per Fort Royal.

«Quando padre Regen mi ha dato la sua benedizione la mia emicrania è sparita subito» enunciò con una certa soddisfazione. «Ah, questa è la mia preferita finora: “Sono andata a vedere il profeta. Non appena mi ha toccato la fronte ho sentito dentro come il fuoco e non sono più frigida con mio marito”.»

«Evidentemente mi ha visto e ha pensato che suo marito non era poi così malaccio.»

«Quelle persone pensano che sei in grado di risolvere i loro problemi. Verranno dalla costa ovest per vederti, per guarire da una malattia o per resuscitare il tostapane preferito della nonna. Ora che hai questo potere sulle persone persino Maim, che si sente tuo padrone, è diventato il tuo schiavo. Se tu criticassi Bluefields, la Chiesa dell’Acqua o te ne andassi, per loro potrebbe essere un colpo fatale.»

«Per l’amor del cielo, Mika, come puoi essere felice che delle persone disperate mettano la loro ultima speranza nelle mie mani? Maim ha appena lasciato capire al mondo che io posso vedere cose prima che accadano e ora posso anche guarire. Domani camminerò sull’acqua, se farà comodo alla tua partita?»

«Se sapessi come farlo credere lo faresti senz’altro.»

Ferid sospirò.

«Dio ci perdoni per questo.»

«Perdoni te, se vuole. Io sono soddisfatto di quello che ho creato.»

«Hai creato un falso mito, Mikaela! Stai facendo di me, della mia vita, persino della mia fede una menzogna! Una truffa!»

Lui bevve il suo bicchiere di whisky senza battere ciglio e si alzò.

«Crowley si è salvato da cinque proiettili nel petto, Krul ha una figlia e Mary ti vedrà in televisione… sei sicuro di essere una truffa?»

Mika lasciò la stanza. Sprofondato nel buio Ferid teneva gli occhi sbarrati.

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Capitolo 26
*** Dono della Grazia ***


Se c’era una cosa che Ferid amava della sua permanenza a Fort Royal era il caminetto elettrico nella sua stanza. La sera, quando finalmente non gli veniva più chiesto di incontrare questa o quella persona importante o di presenziare a delle lunghissime preghiere pubbliche, indossava qualcosa di più comodo, accendeva il caminetto, sedeva alla poltrona e rileggeva Il poeta che non c’era. Lo rileggeva a piccole dosi, godendosi la scelta delle parole delle poesie che raccontavano la storia, la punteggiatura e il significato. Non durava molto, ma era l’unico conforto che aveva.

La quarta sera, di ritorno da una cena con un aspirante senatore originario della contea di Wise, si stava godendo il riposo di piedi stanchi appoggiati sul tavolino. Li stiracchiò nel tepore del caminetto e non si sforzò neanche di aprire gli occhi quando bussarono alla sua porta.

«Di nuovo qui, Mika?»

«Sono io… mi apri?»

Ferid spalancò gli occhi, saltò in piedi come una molla e si fermò solo per raccogliere il libro che gli era caduto dal bracciolo nello scatto. Aprì la porta e trovò un viso che gli era davvero mancato in quei giorni.

«Sei già qui, Liebe? Pensavo di vederti domani!»

«Posso entrare un minuto?»

«Anche un’ora, se non hai paura che ci cavino la pelle a frustate.»

Notò subito che Liebe non era serena. Aveva le occhiaie scure, il viso smagrito, e teneva una mano nell’altra strizzandosi le dita come se le si fossero gelate dal freddo. Le fece segno di sedere sulla poltrona di fronte e tornò al suo posto.

«Tesoro, qualcosa non va? Non per essere scortese, ma sembri malata…»

«Mi hai fatta chiamare veramente?»

Rimase perplesso da quella domanda; non perché priva di senso ma perché vi lesse una paranoia non tipica della donna che credeva di conoscere.

«Sì… tutti i Padri hanno un assistente. Io ho chiesto di avere te e Maim me l’ha concesso.»

Le spalle si rilassarono appena, ma non sorrise. Si strofinava il braccio e stava chiusa, ingobbita, come se avesse freddo. Ferid ebbe un’idea che gli sembrava valida, così prese da un cassetto la bottiglia di whisky che Mika aveva lasciato e i due bicchieri.

«Prendi un goccetto, Liebe… ti riscalderà e ti farà rilassare un po’.»

Versò due volte e per sé aumentò la dose che gli avrebbe offerto un barista. Aveva il bicchiere pronto per un brindisi quando vide Estelle fissare il bicchierino come se fosse la prova di un tradimento.

«Che c’è? Cosa… ti ho per caso detto di essere astemio? Ogni tanto mi capita di bere qualcosa, però di rado.»

«Non hai capito» mormorò lei, e lo guardò seria. «Non l’hai capito.»

«Non ho capito che cosa?»

«Ferid… io sono incinta.»

Un paio di volte era stato a una visita oculistica, e quello che gli successe gli sembrava lo stesso che capitava quando tentava di guardare il tabellone mentre il medico gli cambiava due o tre lenti in un secondo alla ricerca di quella giusta: il volto di Estelle divenne sfocato e si rimise a fuoco, e sembrava una donna diversa da prima.

Abbassò gli occhi, stordito, rendendosi conto che il rumore ovattato che aveva sentito era il bicchiere che cadeva sulla moquette. Li rialzò per guardare quelli di lei, che era sempre più afflitta.

«Tu… tu che cosa?»

«Sono incinta… ne sono sicura.»

Nei secondi che seguirono a Ferid passarono mille ricordi e foschi pensieri nella testa, mentre guardava le fiamme del caminetto: dal suo arresto da minorenne che segnava il suo destino alla piccola lapide senza nome nel giardino di Krul, fino all’anello che non aveva mai visto nella credenza della cucina di Crowley.

Rideva, con le mani sulla faccia, senza avere ragioni per farlo se non l’isteria.

«Non è possibile… non di nuovo… che umorismo macabro hai!»

«Come, di nuovo? Hai… hai un altro figlio?»

La voce di Estelle spense la sua risata e lo distolse da un dialogo con Dio che rischiava di degenerare molto in fretta. Si tolse la mano dalla faccia lentamente e sospirò, prima di riprendere il bicchiere dal pavimento.

«Ho avuto un’altra donna, un po’ di anni fa… rimase incinta anche lei dopo una volta soltanto. Ma non ho un figlio, la gravidanza si interruppe. Per cause naturali.»

«Ah… mi dispiace tanto…»

Estelle si raggomitolò sulla poltrona. Non l’aveva mai vista così a disagio e capì che le ragioni delle sue stranezze recenti erano tutte spiegabili con la gravidanza: il caffè che non faceva più, l’aria stanca, e le sue parole l’ultima volta che erano riusciti a restare soli.

«Per questo… non ti importava che tuo padre ti diseredasse?»

«Lo farà in ogni caso…»

Spostare i mobili in legno massiccio sulla moquette era assurdamente faticoso e l’aveva imparato quando aveva cercato di avvicinarsi al caminetto, così per starle più vicino si mise in ginocchio accanto alla poltrona.

«Liebe, non ti preoccupare per i soldi… non ti mancherà niente, non mancherà a nessuno di voi. Se ti angoscia il futuro ti prometto che non dovrai mai preoccuparti di una bolletta o di una retta del college. Non dovrai neanche lavorare se non vuoi.»

Estelle tese un sorriso che aveva dell’eroico con le lacrime che aveva negli occhi.

«Ma non resterai con noi… vero?»

«Sono già legato a qualcuno… immagini come si sentirebbe se lo lasciassi perché una donna può darmi quello che entrambi desideriamo così tanto?»

Il suo sorriso si allargò, ma le lacrime rotolarono giù quando chiuse gli occhi. Fu difficile contenere l’onda di emozione quando lei gli diede un bacio sulla fronte, come così spesso faceva lui.

«Mi dispiace, Liebe… non ho imparato niente e ti ho messa in una situazione terribile. Meritavi di avere questo figlio con qualcuno che ti avrebbe scelta senza esitare.»

«Ma tu… tu vuoi lui, almeno? Vuoi vederlo, e… passare con lui del tempo?»

«Certo che lo voglio! Lo voglio, lo voglio assolutamente!»

Era strano immaginarlo dopo aver passato tanto tempo a rassegnarsi all’impossibilità di essere un genitore, ma la sola ipotesi di trovarsi – da lì a dieci anni – ad aspettare delle pagelle o ad accompagnare un figlio a lezione di musica o a un allenamento sportivo era emozionante. Era spaventoso, schiacciante, ma anche entusiasmante.

Tornò a guardare Liebe e non riusciva a non sorridere.

«Non mi sono addormentato sulla poltrona, vero?»

«No» fece lei, con una risata acquosa. «No, non è un sogno…»

Si chinò passando le braccia intorno al suo collo e posò la testa sopra la sua.

«Come lo chiamiamo? Se è femmina la chiamiamo Liebe? Adoro come suona.»

«E se è maschio lo vuoi chiamare Pepper?»

«Pepper è ancora un nome stupido. Ma Raphael mi piace.»

«Abbiamo deciso in fretta.»

Estelle rise con uno strascico di pianto. Ferid aveva mille paure indistinte, dal timore di un aborto spontaneo come era accaduto a Krul a un cambio di idea di una donna che sapeva di non avere davanti il quadro di famiglia tradizionale, ma sotto il mare un mostro si annidava silenzioso, certo e inevitabile come la morte stessa.

Poteva tacere a Crowley una notte di follia, ma non poteva nascondergli il figlio che ne sarebbe conseguito. Non sapeva se avrebbe trovato abbastanza forza da perdonargli persino il tradimento, per lui il più grave dei crimini non violenti.

La sua copia de Il poeta che non c’era aveva la copertina sollevata dalle tante letture e si vedeva la dedica, che sembrava scrutarlo da una porta socchiusa con tutta l’intensità del suo senso di colpa.

 

***

 

Al mattino venne disturbato da un rumore che non riuscì a classificare, assonnato com’era, ma uno schiocco accompagnato da un dolore al gluteo sinistro lo svegliò all’istante. Mikaela era in piedi accanto al letto con un sorrisetto lezioso sulla faccia e la cintura che arrotolava tra le dita.

«Ora sei sveglio?»

«Ma che… che cavolo ti dice la testa?» bofonchiò, cercando di districarsi dalle coperte. «Non sono incline a questo genere di divertimenti!»

«Io sì.»

«Non m’interessa affatto! Ahi, fa male…»

«Sai, con tutte le attività di ieri mi devo esser perso il tuo matrimonio… avete passato una bella prima notte?»

Estelle, dal lato opposto del letto, sbadigliò. Era la prima volta che Ferid la vedeva appena sveglia, e anche coi capelli scarmigliati era stupenda. Buffa, ma stupenda.

«’Giorno, Zeke» biascicò lei. «Che ore sono…?»

«L’ora di tornare in camera tua, prima che padre Maim scopra che eri qui… anche lui credo si sia perso lo scambio degli anelli.»

«Puoi anche toglierti quell’aria da faina» borbottò Ferid. «Non è successo niente.»

«Ma se non hai niente addosso?»

«Io non ho mai niente addosso. Odio sentirmi costretto a vestirmi per dormire.»

Mika guardò Estelle strisciare fuori dalle coperte, ragionevolmente vestita, e non insistette. Con sollievo di Ferid si infilò la cintura nei passanti.

«Nereus mi ha mandato a svegliarti… ma domattina, se prometti di non dormire con l’orsetta, ci mando lui. Così si rifà gli occhi.»

«Provaci e ti prendo a cinghiate, e in un modo che non ti piacerà.»

«Dubito esista. Sono proprio il tipo a cui piacciono certe cose.»

Ferid si portò le mani alle orecchie, cercando di respingere il parto di un’immaginazione fin troppo fervida.

«Gh! Non voglio saperlo!»

Gli impegni della giornata, comunque, erano abbastanza frequenti e pesanti da fargli dimenticare presto quel piccolo trauma.

Entro la mattina si spostarono a Blackwell, nella contea di Morgan, dove la delegazione della Chiesa dell’Acqua era stata invitata all’ultimo secondo a una tavola rotonda delle principali chiese cristiane dello Stato. Ferid seguì Maim come una silenziosa ombra blu, stringendo mani quando gli venivano porte e parlando solo se direttamente interpellato, almeno finché non si verificò qualcosa di inatteso.

Il vescovo Price e il pastore protestante Stevens stavano scherzando con padre Maim riguardo dell’insalata di cavolo assaggiata a pranzo nel loro albergo e Ferid era stanco e annoiato a sufficienza da sentirli solo come un ronzio di sottofondo.

Si accorse di qualcosa di anomalo quando quasi urtò Maim, che si era fermato. Davanti all’albergo che avrebbe ospitato il loro dialogo si era piazzata una coppia di giovani donne, bloccando loro il passaggio. A Ferid servì qualche secondo per capirne la ragione, quanto bastò per notare i loro braccialetti con l’arcobaleno e i colori della bandiera delle donne omosessuali.

Il vescovo Price scosse la testa con un’espressione addolorata e disse loro, quasi con cordoglio, di cercare Gesù con tutta l’anima. Il pastore Stevens doveva essere di uno stampo più bigotto perché non fece che distogliere lo sguardo e superarle, forse convinto che la durezza della sua linea gli avrebbe giovato agli occhi della sua comunità. Maim seguì nella sua scia con la sua espressione vacua e il sorriso accennato, come se si fosse trovato incastrato con le ragazze manovrando un carrello della spesa.

Ferid questa volta non lo seguì e restò di fronte alle due donne, una coppia di guerriere sconfitte senza combattere. Non sapeva che cosa si aspettassero da un gruppo di chierici cristiani e, comprendendole meglio di quanto potessero quegli altri, provò una compassione diversa.

«Non abbiamo bisogno della tua pietà» gli si rivolse una di loro, con voce rauca.

«Certo che no… quello che mi fa pietà è un mondo che non ha mai paura di sbagliare quando dice agli altri cosa fare e cosa pensare.»

Ferid mise la mano sulle loro intrecciate e i braccialetti gli fecero emergere un sorriso spontaneo.

«Ma voi non avete paura, perché sapete chi siete e non siete sole… siete fortunate.»

«Adesso la spara. Sta per dire che Dio ci ama lo stesso.»

«Certo che lo fa. Vi ha fatto così, non potete essere un errore. Alcune persone sono create per popolare il regno della terra, altre il regno del cielo. E voi… avete la forza necessaria per essere un esempio. Grazie di essere venute qui.»

Ferid fece loro un sorriso che la donna silenziosa ricambiò, mentre la sua compagna era ancora confusa. Le superò e non fece neanche caso alla stampa presente che lo stava immortalando; aveva ogni pensiero rivolto a quella coppia e a quanta ispirazione gli aveva dato vederle sfidare così chi pretendeva di dire loro quanto sbagliassero.

Nereus gli si accostò non appena varcò le porte dell’albergo e lo prese per il braccio. Temette una tirata d’orecchi per aver preso iniziative, ma lui stava sorridendo.

«Che belle parole, Regen…»

«Ah, non sono mie… me le disse un amico, una volta.»

«Anche io la penso come te. Persone diverse nascono con scopi diversi… a volte è evidente subito, altre volte si coglie più tardi… ma tutti servono alla causa del Regno Celeste. Hai proprio ragione tu.»

Era molto serio e stringeva il suo braccio con fermezza, e più di ogni altro momento da quando lo conosceva aveva l’aspetto di un pastore esperto con un solido vincastro. Non ne avrebbe mai fatto parola con Mika, ma Ferid si sentiva più sicuro quando Nereus gli mostrava di sostenerlo senza esitazioni.

Con la scusa di andare al bagno si separò dagli altri e si chiuse dentro la toilette, rinfrescandosi il viso al lavandino. Avrebbe voluto potersela svignare di nascosto come aveva fatto più volte a scuola e alle lezioni a Bluefields, ma con la condizione delicata di Estelle aveva paura di fare un passo senza l’approvazione di Maim, temendo che usasse lei per punirlo.

Il gabinetto non era confortevole come la sua stanza a Blackwell Inn, ma vi si chiuse per prolungare quel momento di solitudine e silenzio il più possibile e iniziò a progettare mentalmente un nuovo soggiorno che comprendesse un caminetto elettrico.

 

***

 

«Preghiamo.»

Ancora una volta Ferid era stato armato di un foglio e lanciato in un’impresa per la quale non si sentiva pronto. Il Lloyd Park di Blackwell era gremito di persone che avevano indossato abiti azzurri o blu per partecipare alla messa pubblica tenuta per la prima volta dal famoso profeta di Bluefields, l’uomo dei miracoli che era già sulla bocca di mezza America grazie al potere di internet.

Si sentiva sacrilego a celebrare una messa con un falso noviziato, un falso battesimo e delle false profezie. Ogni volta che richiudeva la bocca dopo una preghiera era sempre più difficile riaprirla.

Nereus stava intonando la seconda orazione canora quando Ferid vide le prime gocce di pioggia sul suo volantino. Grosse macchie scurirono lentamente il cemento dei sentieri del parco, ma Maim li informò – a cenni minimi, come un monarca – che non avrebbero sospeso.

La celebrazione dunque continuò con un ombrello che copriva il microfono e i fedeli non si spostavano, ma Ferid non riuscì a far finta di nulla guardando tutte quelle persone sotto una pioggia mista a neve, che restavano dov’erano perché convinte che lui ne valesse la pena.

«Il Tempio è un luogo di ritrovo concordato… tuttavia…»

Il suo opuscolo si era increspato per la pioggia. Era ancora leggibile, ma non aveva la forza di mentire a quelle persone. Forse poteva raggirare Nereus per una questione di giustizia, ma non riusciva a fingersi un sacerdote mentre dei fedeli soffrivano il freddo per starlo a sentire.

Abbandonò il microfono a metà frase e si allontanò dal piccolo pulpito. Camminando tra le persone inginocchiate presero a guardarlo come se fosse pronto a mostrare loro un miracolo come Mosè che apriva le acque.

Raggiunse un’anziana signora, aggrappata a un bastone, che stringeva forte gli occhi e pregava muovendo le labbra. Non si accorse di nulla finché non le mise la mano sulla spalla, e allora spalancò occhi e bocca per l’emozione.

«Va bene così. Torni a casa.»

«Reverendo Padre» fece lei con una voce fragile come la sua costituzione, «sono qui a chiedere una grazia. Starò in ginocchio quanto serve…»

«È sufficiente così… sta piovendo. Ha ascoltato le vostre preghiere. È con voi.»

Mikaela comparve al suo fianco con un ombrello e coprì la signora, aiutandolo ad alzarla.

«Accompagnala, per favore, Ezekiel.»

«Certo… si tenga a me. È venuta qui da sola?»

La pioggia gli stava già inzuppando i capelli. Solo alcuni dei fedeli si erano alzati e sembravano confusi, così Ferid tornò al microfono. Maim aveva tutta l’aria di volerlo fulminare, ma non avrebbe permesso a quell’uomo di abusare tanto di lui e della fede dei presenti.

«La preghiera è finita per oggi. Tornate alle vostre case con il cuore sereno, perché questa pioggia è un segno. Ci vediamo, se vorrete, domani alla stessa ora.»

Non guardò più dalla parte di Maim e non degnò di attenzione il balbettio confuso di Nereus, ancor meno badò a Barak che cercava di ripararlo con un ombrello. Scese dalla pedana assicurandosi di incalzare gli avventori più reticenti ad andarsene, finché non vide, là in fondo vicino a un albero, un uomo che pregava in ginocchio.

Rivolse un morbido rimprovero a Barak che continuava a cercare di coprirlo e riuscì a farlo desistere. Prima che Nereus o Maim decidessero di riportarlo a casa come un cane indisciplinato si avviò a passo veloce fino alla quercia da sughero la cui chioma proteggeva il fedele e si inginocchiò davanti a lui. Con un sorriso mise le mani sulle sue, intrecciate in preghiera.

«Non stare sotto questa pioggia, mio caro. Sei gelato.»

Crowley aprì gli occhi. Il solo contatto visivo con lui lo fece sospirare e il suo petto sembrò uscire dal letargo in un caldo giorno di primavera. La sua bocca non sorrideva, eppure aveva l’impressione che con gli occhi lo stesse facendo.

«Voglio restare.»

«Sono sicuro che qualsiasi grazia ti sarà accordata. Va’ a casa.»

«Allora il mio uomo verrà a casa con me?»

Era in mezzo a una pioggia gelida in una città sconosciuta, ma il solo stare davanti a lui, sentire di nuovo la sua voce e guardarlo negli occhi bastava a farlo sentire come un cucciolo accudito in una tana calda. L’avrebbe preso per mano per scappare via se non fosse stato per Mikaela.

«Di certo tornerà prestissimo.»

«Mi manca terribilmente.»

«Anche tu gli manchi» mormorò Ferid, con un nodo stretto in gola.

Crowley sciolse le mani e prese la sua per darvi un bacio formale come quello dato a un cardinale, per poi fissarlo con un’intensità che Ferid associava a precisi momenti.

«Blue Heron Inn, camera nove.»

Non riuscì neanche a rispondergli. Ripeté nella mente quello che gli aveva detto e restò a guardarlo mentre gli lasciava la mano, si alzava e si allontanava accodandosi agli ultimi fedeli dell’Acqua. Quando passò accanto a Mikaela sembrava che quei due non si fossero mai neanche intravisti prima.

Il ragazzo lo raggiunse mettendoglisi accanto per coprire entrambi con l’ombrello.

«Non che non capisca la situazione, ma i gargoyle là dietro si faranno idee strane se ti vedono così imbambolato. Togliamoci di qui, si gela. Facciamoci portare del tè su nella tua camera, ho rimediato una scacchiera da viaggio in uno scaffale polveroso davanti alla stazione!»

Prese il suo braccio per costringerlo a muoversi e Ferid dovette perdere il contatto visivo con la testa di capelli rossi di Crowley che si allontanava nella direzione opposta. Mika guardava ovunque tranne lui e alzò il braccio per fare un segnale alla macchina di servizio.

«Che cosa ti ha detto?»

Per ragioni che non metteva a fuoco ripensare a quelle parole e a quello sguardo lo fece accaldare – probabilmente arrossire – e non ebbe abbastanza fermezza da rivelarlo a Mika.

«Per caso hai idea di… sai dove sia il Blue Heron Inn?»

O la sua impermeabilità cedeva o la scansione delle microespressioni di Mika migliorava, perché sorrise come se avesse sentito ogni parola nella sua memoria.

«Lo scopro e te lo faccio sapere prima che arrivi il tè.»

 

***

 

Crowley ingannava l’attesa con un thriller che aveva comprato per affrontare il viaggio, ma per avvincente che fosse il suo pensiero fisso lo portava a guardare la strada ogni volta che sentiva il motore di un veicolo o che girava una pagina. Si flagellò in questa ansia fino alla mezzanotte, quando si arrese chiudendo il libro.

Non viene… forse è più difficile del previsto andarsene senza essere notato.

Aveva appena spento la lampada quando sentì bussare piano, tre volte, sulla porta. Riaccese la luce e si scaraventò via dal letto verso la porta. Era così nervoso che non riusciva a togliere la catena.

Sulla soglia attendeva un uomo che avrebbe riconosciuto da qualsiasi centimetro di corpo gli avessero mostrato, che celava la sua chioma d’argento sotto una mantellina impermeabile verde militare.

I loro sguardi si incontrarono ancora una volta, senza parole, e Ferid gli saltò al collo con un tale slancio che Crowley barcollò per riuscire a tenersi in piedi. Appena saldo sulle gambe lo strizzò dentro la sua mantellina.

«Crowley» sospirò Ferid vicino al suo orecchio, «Crowley, Crowley…»

«Mi mancavi da morire.»

«Mi manchi da morire anche tu» mugugnò lui, appoggiato contro la sua spalla. «Dio, quanto è bello stringerti, tenente.»

Crowley scoppiò in una risata allegra. Gli era mancato letteralmente ogni nomignolo, ogni sua stupida vocina quando voleva prenderlo in giro, e tutte le sue manie. Aveva sentito più pesanti quei mesi di separazione inaspettata che i quasi due anni precedenti.

Gli prese il viso con entrambe le mani per dargli un bacio – quello che George avrebbe chiamato “un bacio ben fatto” – che sentì ricambiato almeno quanto sperava. Fu felice di non sentire alcuna distanza tra di loro, nessuna differenza rispetto alla sera in cui si erano rivisti a luglio.

La mano con cui Ferid l’accarezzò tremava appena.

«Ho saputo di tuo padre… come sta adesso?»

Crowley sorrise.

«Ora sta bene… è stato operato. Come me ha pagato una vita di trascuratezza, ma ora lo rimetteremo in riga. L’ho lasciato con quattro angeli che di sicuro lo terranno al guinzaglio.»

«Quindi è fuori pericolo?»

Gli spiegò in parole povere dell’operazione e della convalescenza che l’aspettava, e gli rivelò che Cara, Samara e Camila andavano a trovarlo uscite da scuola, mentre l’assistente sanitaria passava al mattino.

«Che sollievo… ero così preoccupato. Avevo paura che fosse molto più grave.»

«Superata la convalescenza dovrà solo mangiare meglio per stare bene… e smettere di fumare, ma se il mio vecchio si fissa su qualcosa è capace di smettere una brutta abitudine fin da subito. È sempre stato così.»

Ferid riuscì a sorridere di nuovo, ma le tracce di quella malinconia che gli aveva visto nello sguardo in televisione e poi durante la messa al parco erano ancora visibili come i segni di una lunga malattia.

«Ferid… tu stai bene? Intendo, stai davvero bene? Sembri a pezzi.»

«Lo sono» ammise lui, in un soffio.

Ferid emise un sospiro tremulo e si toccò l’occhio in un gesto rapido.

«Non ce la faccio più e… v-vorrei tornare a casa. Sono stanco…»

«Non devi restare se non ce la fai. L’FBI non ti può obbligare, non sei un poliziotto. Lascia perdere e andiamo a casa. Subito. Stanotte.»

La sua resistenza non andò oltre. Sorrideva ma gli gocciolavano gli occhi, una lacrima dopo l’altra come se si fosse rotto un tubo. Non faceva neanche in tempo a tamponarle con il polsino della camicia.

«Ah, lo vorrei… m-ma ho promesso a Mika che saremmo arrivati insieme alla fine… io credo che ci siamo vicini. Mentre io faccio il fantoccio lui sparisce in giro, chiama persone e fruga… e ha sempre quel sorriso, sai, di quando fai la mossa che vuole lui e hai già perso anche se non lo sai.»

«Sì, ma guarda come stai tu! Sono preoccupato, Ferid. Sei anche dimagrito, e non ne avevi davvero bisogno.»

«È vero… mi spiace, Crowley, non mi sono curato molto di me ultimamente… ma volevo… tornare a casa presto.»

Preferì rimandare il tempo delle critiche, perché il Ferid che aveva davanti era fragile quanto quello che aveva portato a casa dall’ospedale del West End dopo l’avvelenamento: debole, spaesato e bisognoso di supporto disinteressato. Lo strinse a sé.

«Hai fatto un lavoro meraviglioso, Ferid. Sei stato meglio di tanti poliziotti che conosco che lavorano sotto copertura, e per tanto tempo… hai tutte le ragioni di essere stanco.»

Lo tenne così per a lungo, senza parlare, lasciando che spurgasse le scorie emotive e si prendesse tutto il conforto che gli serviva, finché non fu lui a rialzare la testa. Aveva gli occhi arrossati, ma la sua schiena era meno rigida.

«Quanto puoi restare fuori?»

«Mika ha detto che mi copre fino a domattina, quando di solito mi viene a svegliare… più o meno alle sei e mezzo.»

«Non è un po’ eccitante?»

«Eh? Eccitante cosa?»

«Sembra di essere ancora adolescenti, con il coprifuoco e la stanza in affitto.»

«Non lo so, la mia adolescenza non è stata un granché a relazioni…»

«Neanche la mia. Ho fatto l’amore la prima volta che avevo vent’anni, no? Non fare il guastafeste, Ferid, dai.»

Riuscì a strappargli un risolino che aveva un che di nervoso, ma sentì che gli passava la mano lungo la treccia mentre gli dava un bacio leggero.

«Che posto di lusso… hanno persino il lettore dvd» sussurrò accennando alla tv nell’angolo. «L’hai portato L’alba degli eroi

Il suo sorriso si allargò quando sentì le dita che gli scioglievano i capelli, un intreccio per volta. Si incollò alla sua bocca spingendolo verso il letto; passò le mani ovunque riuscisse ad arrivare, rendendosi conto che aveva perso più peso di quanto non sembrasse a guardarlo. Quando finì sopra di lui sul letto ebbe quasi paura di romperlo, tanto sembrava fragile.

Ma quanto a energia, in quel momento Ferid non sembrava né stanco né malato. Si staccò dalla bocca di Ferid – non senza fatica, perché non sembrava aver voglia di lasciarlo andare - e tuffò la mano nella sacca da palestra davanti al comodino.

«Il dvd l’ho dimenticato… però ho portato questo.»

Ferid inspirò rumorosamente vedendo cosa aveva preso dalla borsa e lo guardò fingendo uno sdegno da manuale, se solo fosse stato capace di non sorridere.

«Oh, che miscredente! Come osi? Io sono un uomo di chiesa!»

«Ah, sì, mi ricordo quanto eri pio e devoto alla messa di Ognissanti…»

«A tutti è perdonato un momento di debolezza, un errore isolato!»

«Parliamo della sera prima in un cimitero?»

Ferid smise la faccia indignata e fece un risolino a labbra chiuse.

«Era un cimitero finto, però.»

«Posso portarti in un cimitero vero e ci staresti lo stesso, ammettilo.»

«Percepisco forse una velata provocazione?»

Crowley pose fine a quel gioco di ruoli dandogli un bacio sulle labbra e poi baciandolo sul collo. Sentirlo sospirare, sentire il suo petto muoversi col respiro contro il suo, era abbastanza per accenderlo.

«Ti va?»

Alzò la testa abbastanza da incrociare il suo sguardo.

«Se non ti va non ti preoccupare. Stiamo solo qui insieme. Parliamo, o se non vuoi non parliamo neanche. Mi basta anche solo stare qui con te.»

Come risposta Ferid lo baciò con trasporto, con una mano in mezzo ai suoi capelli e l’altra che lo tirava per il collo del maglione.

«Mi va» mormorò quando si staccò da lui. «Ho bisogno di sentirmi di nuovo una cosa sola con te.»

Per Crowley andava bene qualsiasi opzione che implicasse tenere Ferid lì con lui fino alla mattina successiva, ma quella era senza dubbio quella in cui sperava. Non aveva sentito una separazione emotiva come durante il suo viaggio, non aveva un bisogno metafisico di ritrovare la sua metà, ma non conosceva lingua migliore di quella per spiegargli quanto gli fosse mancato. Non aveva parole forti altrettanto per dirgli che non gli importava delle sue decisioni impulsive, o di chi aveva avuto senza dirglielo.

O forse le aveva, ma non voleva impiegarci due settimane per trovarle come quando aveva scritto per lui quella specie di poesia.

 

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Capitolo 27
*** L'Encore di Madison Carter ***


Non aveva alcun interesse per i fogli che Crowley stava scartabellando, non in quel momento. Non si sentiva così bene da mesi e persino il pensiero dell’enorme segreto nel grembo di Estelle non riusciva a turbarlo. Giocava con i suoi lunghissimi capelli rossi che gli stavano sparpagliati sulla schiena come rivoli di lava su roccia chiara.

«Ah, eccolo» borbottò Crowley. «Ho pensato di portarti un—»

Appena lo guardò scoppiò in una sonora risata alla vista dei suoi finti baffi fatti con una ciocca rossa, poi se li raccolse come meglio poteva con l’elastico.

«Non è divertente, Ferid, che cavolo!»

«E allora perché ridi così tanto?»

«Perché sei adorabile, ma sempre un buffone resti.»

Si chinò in avanti per baciargli il viso e affondò la mano lungo la schiena sotto le coperte. Ferid gliela bloccò.

«Ah, mai prima di colazione, barbaro!»

«A proposito di barbari… chi è che ti prende a frustate?»

Davanti alla sua espressione confusa replicò scoprendogli il corpo nudo. Si accorse che lì dove Crowley aveva appoggiato la mano c’era un segno violetto.

«Sai com’è, vanto dei diritti sul tuo sedere. Devo sapere chi invade il mio territorio. Così posso sparargli.»

«Quel perfido gremlin! È stato Mika, quel deficiente» sbottò Ferid indignato. «L’altra mattina ha pensato bene di svegliarmi con una cinturata, vallo a capire cosa gli passa per quella testa! L’avevo detto che mi aveva fatto male, ma…»

Sospirò affranto, come se quel livido fosse uno sfregio su un prezioso artefatto in porcellana.

«Ero sotto le coperte… si vede tanto?»

«Hai la pelle delicata… ti fa subito il livido. Non ricordi quanto ci hanno messo ad andarti via dalla faccia?»

Aveva smesso trent’anni prima di credere ai poteri analgesici del bacio sulle ferite, ma decise di dimenticarsene quando Crowley si offrì di medicarlo in quel modo. Sentì una fiammata diffondersi al contatto con le sue labbra.

Magari per una volta si può, anche prima di colazione…

Era già pronto a istigarlo, ma mise il gomito sui fogli che stava consultando prima e lo sguardo si posò sulla fotografia. Ciò che vide raffreddò l’atmosfera come una secchiata gelida.

«Che cos’è quella roba, Crowley?»

Quando alzò gli occhi e vide di che cosa parlava un altro genere di luce si accese in lui.

«Ah, sì. Sai, ho parlato parecchio con papà in questi giorni… in due parole: un suo vecchio collega è stato trasferito qualche anno fa e s’è sposato con un medico legale di Nashville… con molti buoni amici nella polizia locale, quindi.»

Ferid si raddrizzò sul letto.

«Hai scoperto qualcosa?»

«Sì. Prove indiziarie che non sono solide di per sé e neanche le ammetterebbero in un procedimento, ma forse a voi può servire a qualcosa. Sono venuto qui per farvelo sapere.»

«Oh, sono lieto che i tuoi bonus di viaggio siano stati soddisfacenti» buttò lì Ferid, piccato. «E io che mi ero illuso fossi venuto per convincermi a tornare a casa.»

«Ci ho provato, ma tu sei testardo come una capra di montagna. Visto che non mollerai Mikaela da solo, quando torni da lui avrai delle novità per la sua partita.»

Crowley sparpagliò il contenuto del fascicolo. Spiccavano su tutto le foto dei rilevamenti del povero ragazzo di Nashville. Il pallore mortale su quel viso che assomigliava molto a quello di Mika gli mise un brivido spiacevole. Districò il lenzuolo e se lo avvolse addosso.

«Guarda cosa si vede in questa foto.»

Nello scatto che gli mostrò il corpo si vedeva per intero. Guardò la sua posa, i suoi vestiti azzurri inzuppati e infangati, ma non notava niente di insolito. Crowley indicò col dito qualcosa di piccolo e bianco a un angolo dell’inquadratura.

«Che cos’è?»

«Chiacchierando con Gabe… oh, tagliamo corto, me l’ha ingrandita e ho capito che cos’è. La capsula sigillante di una bottiglia di whisky, Jim Beam Kentucky Straight Bourbon Whiskey.»

«Ed è… importante?»

«Ovviamente non è possibile sapere se fosse quello che ha bevuto prima di morire affogato… però l’investigatore che era sul posto ha scritto una cosa nel suo taccuino che non ha riportato nel rapporto finale, perché considerato irrilevante: che la capsula era in una chiazza di reflusso gastrico.»

Ferid fece una smorfia appena accennata. Immaginare così vividamente gli ultimi momenti di un ragazzo morto era una stretta gelata allo stomaco e non capiva come Crowley riuscisse a farlo ogni giorno senza tornare a casa divorato dall’angoscia.

«Certo, possono esserci decine di ragioni. Per questo il detective non lo scrisse nel rapporto. Poteva aver aperto la bottiglia, essersela scolata e aver vomitato dove aveva fatto cadere la capsula, ma poteva essere lì e basta. Ce n’era di immondizia là intorno» osservò Crowley con buonsenso. «Però ho scoperto una cosa che getta una luce diversa su quella capsula.»

«Cioè?»

Tra i suoi fogli aveva una fotocopia di un certificato di nascita, ma per Ferid non aveva alcun senso.

«James Beam?»

«Sai che Jim è un diminutivo di James… ma forse non sai che il vostro fondatore, quel vecchio che si fa chiamare Maim, è James Stuart Beam per l’anagrafe del Nebraska.»

Ferid trattenne il respiro fissando la foto della capsula della bottiglia e il certificato, poi alzò gli occhi su Crowley.

«Pensi che il ragazzo… Madison» aggiunse, dopo aver sbirciato il rapporto, «volesse dire che James Beam lo voleva morto? O che… che era responsabile di qualcosa?»

«Quello che posso dire è che l’idea punzecchia il mio settimo senso, e non poco. Ma ancora non lo ammettono in tribunale.»

Ferid guardò di nuovo la foto del ragazzo, quella di un documento d’identità. Aveva un sorriso accennato e occhi luminosi, persino dalla copia di una fototessera. Gli ispirava l’idea di un giovane pieno di gioia di vivere e di coraggio. Non riusciva a credere che fosse lo stesso sdraiato sulla riva del bacino idrico, pallido e freddo, e ormai sepolto da qualche parte sotto un metro e mezzo di terra.

Ferid chiuse la cartellina sulle foto e si mise seduto, dandogli la schiena.

«Ferid… tutto okay?»

«Non riesco a guardarlo. Assomiglia troppo a Mikaela. Non riesco a sopportarlo.»

«Perdonami» replicò subito Crowley, e spostò il suo dossier fuori vista. «Ho dimenticato che non sei uno dei nostri… anche se sei forte deve farti impressione. È vero che assomigliava molto a Mika.»

Ferid emise un sospiro appesantito dalla sua angoscia. Vedendo il cadavere di Madison si era reso conto di quanto avessero rischiato e di quanto ancora Mika rischiasse di trovarsi nel momento sbagliato con la persona sbagliata. Dietro le palpebre chiuse non riusciva a respingere la cupa visione di Mika sdraiato immobile su un tavolo d’acciaio.

Sentì la grande mano di Crowley strofinargli la schiena con delicatezza.

«Ehi… respira. Mika sta bene, okay? Vi muovete bene. Non correte alcun pericolo imminente…»

Eccellente detective, ma sempre un pessimo bugiardo.

«Mika sta bene, sarà sveglio da poco e starà ciondolando alla ricerca di una tazza di caffè, visto che non ha Albert che glielo prepara.»

«Vuoi dire Yuu?»

«No, voglio dire Albert, il pappagallo. Non te l’ha mai raccontato?»

Crowley gli raccontò con gran divertimento del pappagallino di Mika e di come l’aveva addestrato a fare le più svariate stranezze, delle quali Ferid ne aveva sentita solo una piccola parte. Si sentiva meglio, ma durante la doccia non fece altro che pensare a Madison, alla capsula del whisky, alla morte quasi fotocopiata di Lanius e al traffico di esseri umani, convinto che mancasse il pezzo al centro di quel disegno.

 

***

 

Mika aprì il quaderno dei suoi appunti e guardò il foglio infilato all’interno. Dopo averlo scorso trafisse Ferid, dall’altro lato del tavolo, con quei suoi occhi azzurri.

«E io che mi aspettavo che avessi da raccontarmi i dettagli piccanti…»

«No, piccolo mandrillo bolscevico, non ti racconterò niente.»

Mika ridacchiò, come ogni volta che faceva qualche riferimento alle sue origini russe. Sospettava che gli tornasse in mente quella battuta sull’inno alla Santa Madre Russia che l’aveva fatto sbellicare in precedenza. Richiuse il quaderno e prese un sorso del tè di sorella Miriam.

Ferid non credeva di arrivare a pensarlo, ma essere di nuovo in una delle sale ricreative della Casa Grande a Bluefields era un conforto dopo la frenesia del viaggio a Fort Royal e poi a Blackwell. Qui non c’era modo che potesse incontrare Crowley, ma sarebbe comunque dovuto rientrare per il lavoro e per assistere suo padre, perciò aveva accolto con gioia l’annuncio di Nereus del loro ritorno al monastero.

Una nota acuta, del tutto stonata, interruppe il brano che Damaris stava provando al pianoforte nell’angolo. Entrambi si voltarono a guardarla, accigliata sullo spartito, ma non dissero nulla e lei ricominciò a suonare.

«Comunque, quella marca non è così rara. Credo sia il whisky più venduto in America.»

«Forse, ma è costosa» osservò Mika. «Beh, non di lusso, ma non è una di quelle bottiglie di sciacquatura a cinque dollari che prendi per sbronzarti. Perché questa e non altre?»

«Non lo so, io non bevo whisky. Bevo solo gin.»

«Forse la ragione è molto più banale: prima di ammazzarti vuoi una bottiglia di roba decente da bere.»

«Oh, ti prego, era un bambi—»

Damaris steccò due note così acute che pareva che un gatto le fosse balzato sul pianoforte. La guardarono straniti, perché la sua esperienza concertistica non si era mai smentita prima d’ora. La ragazza, imbarazzata e contrariata, agitò il foglio.

«È questo spartito! Ha delle note sbagliate!»

«Le hai lette bene?»

«Ma certo! Solo che queste sono…»

Si fermò, scorse le pagine accigliata, poi lanciò a Mika uno sguardo vacuo.

«Non me ne ero accorta, ma i tempi di queste note non sono giusti… è come se fossero state aggiunte dopo… aspetta… aspetta. Ma non ha senso!»

Si riprese, scostò lo sgabello e dispose di nuovo i fogli. Iniziò a suonare e questa volta la musica scorreva bene. Era una melodia dolce, complessa, con qualcosa che ricordò a Ferid i canti scritti da Gilbert. Non c’erano più note acute e stonate.

«Vedi? Stavolta l’hai suonato giusto.»

«Non è colpa mia, Zeke! Questa volta l’ho suonato senza quelle note posticce!»

«Ma di chi sono quegli spartiti?»

Damaris assunse un’espressione triste mentre li ricomponeva.

«Quando padre Vann è… padre Nereus ha chiesto a me e a Tamara di mettere in ordine la sua stanza per spedire le sue cose alla famiglia. Ho trovato questi fogli in un libretto di canti liturgici e… non volevo fare nulla di male, ho pensato che la sua famiglia non avrebbe tenuto in gran conto della musica sacra…»

«Di sicuro non gli dispiace, Maris» si affrettò a dirle Mika. «Ma dove li hai trovati esattamente?»

«Io… non ricordo… credo fosse uno dei libretti che teneva nel cassetto dello scrittoio. Mi sono accorta dei fogli più tardi, mi è caduto il libro mentre spostavo una scatola…»

La ragazza passò il dito sul rigo.

«Sembrava un canto incompleto, e ho pensato di fare qualcosa di bello per lui se fossi riuscita a finirlo e a farlo sentire alla sua comunità, a Saint Barthelemy. Sono successe molte cose, dopo, e ho avuto tempo solo oggi di provare a suonarlo.»

«Ti dispiace se gli do uno sguardo, cara?»

Ferid si fece avanti e prese gli spartiti. Non s’intendeva granché di musica, specie quando era scritta, ma se ricordava bene dai tempi in cui ancora il maestro di flauto veniva a casa sua Damaris aveva ragione sulla lunghezza delle note.

Le intruse erano tutte semibiscrome, note di durata corta ma alte nel rigo, così da emergere sia all’occhio che all’orecchio. Tuttavia ad esse erano associate delle sillabe del canto e Ferid capì che aveva davanti il suo sogno di bambino: un codice, per quanto semplice.

«Ti dispiace se lo fotocopio, Damaris? Te lo rendo immediatamente.»

«Oh… io… no, in fondo non appartiene neanche a me… volete partecipare anche voi?»

«Oh, sì» rispose Ferid, lasciando Mika senza parole. «Credo che posso tirar fuori un bel testo da qui… vieni, Zeke, andiamo a fare la copia subito. Non sono molto bravo con le note, mi aiuterai a capire come sono i tempi.»

Mika balbettò qualcosa e si accodò a lui mentre usciva a grandi passi in corridoio. Lo raggiunse alle scale.

«Che cosa succede? Che hai visto?»

«Credo ci sia un messaggio in questi spartiti. Non ti sei accorto di chi li ha scritti?»

«Neanche li ho visti!»

Glieli prese di mano e li scorse con cura, ma poi scosse la testa.

«Ma non vedo niente lo stesso…»

«Vann non era così esperto di musica, ma Noah sì. Il ragazzo affogato faceva parte del coro, sono stati trovati spartiti e libri di canti tra le sue cose a Saint Barthelemy. E poi qui…»

Nell’angolo destro in basso c’era una M corsiva sinuosa e un nome non chiaro, ma sapendo cosa aspettarsi Ferid era sicuro di aver riconosciuto la C maiuscola e la t con un lungo trattino.

«M. Carter. Madison Carter, era il nome di Noah prima del Battesimo.»

«Accidenti, non ricordavo il suo nome vero» borbottò Mikaela contrariato. «Noah ha composto questo pezzo nascondendoci un messaggio?»

«Sì. Sta’ a guardare.»

Si infilò di fretta nell’ufficio contabilità. Le scrivanie erano vuote e ancora mancava il profumo del caffè, quindi Estelle non aveva ancora superato le nausee. S’insinuò sulla sua sedia e prese una matita, cerchiando le note incriminate.

«Credo che lo abbia scritto in modo che non lo riuscisse a leggere nessuno che non fosse pratico di musica. È molto basilare, ma forse era il massimo che quel ragazzo riuscisse a concepire per creare un messaggio in codice. Di certo però sapeva a chi lasciarlo. Una persona di cui si fidava… Emil Mackham.»

Ferid scorse il rigo con la matita e iniziò a trascrivere su un foglio volante. Già alle prime sillabe fu sicuro che la soluzione fosse molto vicina e che Noah stesso gliel’avesse lasciata. Mika aveva colto il meccanismo e trovò le sillabe prima di lui in un paio di righi, finché non arrivarono alla fine del canto.

Alcune frasi erano macchinose apposta per incastrarci le sillabe che voleva per il suo messaggio e davano l’idea di un’opera non rifinita, ma il suo ultimo grido di aiuto lo era eccome. Ferid posò la matita come un soldato che abbassa l’arma davanti a un atto di coraggio degno di onore.

«Lo sapeva» sussurrò Mika. «Noah sapeva che cosa facevano con i novizi di Saint Barthelemy. Sapeva che Maim aveva dato il consenso dall’alto.»

«E quando dice “Lanny” intende Lanius. È così che Ismael lo chiamava. Mi ha detto che tutti i suoi amici lo chiamavano in quel modo.»

«Cazzo, Ferid, aveva ragione lui! Il suo amico aveva scoperto tutto e l’hanno ucciso!»

«E un ragazzo si è ucciso imitando il suo omicidio, nella speranza che qualcuno lo trovasse strano e iniziasse a indagare…»

Se la morte di un giovane sembrava una disgrazia prima, alla luce di queste consapevolezze era addirittura una tragedia. Un giovane di appena diciannove anni si era ubriacato, drogato e annegato di proposito perché qualcuno scoprisse ciò che lui non poteva provare.

Mika stringeva il pugno sulla scrivania così forte che le nocche erano bianche. Conosceva quel ragazzo abbastanza da vedere la sua collera ruggente come tempesta estiva anche dietro un’espressione da poker.

«Come lo proviamo? Dobbiamo incastrare tutti quelli che lo sanno, tutti quanti, o si sarà sacrificato invano. Non lo possiamo permettere.»

«Se esiste qualche registrazione doveva averla Maim, o l’altro Padre di Nashville… ma qui…»

«Qui è Nereus che tira i fili. Se Vann non ha niente, e non avrebbe avuto bisogno di noi se avesse avuto prove tangibili dei movimenti di soldi, allora deve saperne qualcosa lui.»

Ferid impallidì di qualche tono.

«Nereus… no, non è possibile. È un brav’uomo, non acconsentirebbe mai a qualcosa di così disgustoso.»

«Ferid, a volte i cattivi sembrano brave persone e gli innocenti passano per mostri. Io non mi fido di nessuno, e perciò te lo dico: se non ne sa niente Nereus allora i soldi passano in mano a Leba. Ci sono tre persone che possono gestire soldi in entrata coprendoli e uno si è già chiamato fuori.»

«Non puoi pensarlo davvero!»

«La logica dice questo e io quella seguo. Mi dispiace, Ferid, ma questa volta in qualsiasi modo tu la metta hai preso un granchio… o hai giudicato male Nereus o ti sei innamorato della donna sbagliata.»

Onestamente sapeva bene quale opzione lo spaventasse di più. Essersi sbagliato su Estelle sarebbe stata la batosta più grande della sua vita, persino peggiore di quella presa con Bobby. L’idea che lei l’avesse preso in giro per tutto il tempo con la sua storia di un amore vecchio dal liceo – o addirittura di un figlio che non c’era – gli stringeva al collo un cappio che gli rendeva pesante respirare.

«Come lo scopriamo?»

«Siamo nel posto giusto. Diamo un’occhiata qui. Se è successo qualcosa negli ultimi mesi dovrebbero esserci entrate di qualche genere, o un’agenda… da qualche parte dovranno scrivere qualche transazione o qualche nome.»

Mikaela iniziò a frugare nei cassetti. Ferid, ancora stravolto da quel messaggio terribile e dai risvolti di quelle scoperte, prese il mouse per spulciare i contatti mail o cercare una rubrica digitale come quella che Krul teneva per i clienti del negozio che prenotavano titoli.

Sentì che Mika smetteva di frugare e sospirava. In quel modo che sembrava volerlo criticare anche senza parole.

«Crowley lo sa?»

Girò appena la sedia. Dall’ultimo cassetto, da una busta portaoggetti nascosta dietro vecchi nastri di stampa per calcolatrici da tavolo, cuscinetti d’inchiostro per timbri e vecchie buste da lettere aveva trovato i test che Estelle aveva usato per confermare la sua gravidanza. In parte quella vista diede un lieve conforto a Ferid che aveva avuto paura di una colossale menzogna, ma lo fece anche vergognare.

«Non lo sa ancora.»

«Dannazione, Ferid…»

«Lo so.»

Mika rimise i test positivi al loro posto, dietro tutto il ciarpame obsoleto da ufficio.

«Beh, congratulazioni. Non so se avrai ancora un fidanzato, ma un figlio ce l’avrai.»

Mika a volte ha il tatto di un assassino ubriaco con un taglierino smussato…

Troppo appesantito dai pensieri per battibeccare, sospirò arrendevole.

«Grazie, Mika. È bello poter contare su un amico che vede sempre il bicchiere mezzo pieno.»

«Lo è. Per questo io penso che sia Nereus quello che cerchiamo e non la madre di tuo figlio.»

«E se ti sbagliassi e i pagamenti passassero ancora per Nashville?»

«Lo sapremo presto» tagliò corto lui, sfogliando un taccuino. «Se davvero si regolano là devono esserci delle tracce di comunicazioni. Mail, posta, o telefonate. Se io prendessi i soldi da casa mia per i libri che vendi dovrei pur dirti chi ha pagato per cosa, in modo che tu sappia cosa dargli, no?»

Davanti a quell’ovvietà Ferid capì che le sue preoccupazioni di futuro papà – e forse di futuro single – rendevano Mikaela il più adatto a essere la mente di quella squadra.

 

***

 

«Crowley, hai un attimo?»

Crowley si stava infilando il cappotto per uscire, ma lo ripiegò sul braccio al richiamo di Joey Alford. Scambiò un’occhiata con Yuu, che era alla scrivania vicina a consegnare un rapporto, e con vaga preoccupazione entrò nell’ufficio del capitano. Aveva la certezza che riguardasse il caso Loneport.

«Ascolta, lo so che è stato un interrogatorio un tantino creativo, ma mi sono assicurato che conoscesse i suoi diritti. Sono certo che sia ammissibile.»

Joey lo guardò basito, prima di sedersi.

«Scusa non richiesta, accusa manifesta, dicono» lo prese in giro lui. «Non ti ho chiamato per il caso Loneport, ma già che ne parli è stato uno sfolgorante ritorno del vecchio te. E questa volta non devo neanche avere le solite rogne con gli avvocati della difesa e con gli Affari Interni.»

«Oh… allora che vuoi?»

«Intanto chiederti come va tuo padre.»

«Oh, sta molto bene, grazie. Deve stare a riposo assoluto per un po’, ma ha scoperto che gli piace leggere i gialli e criticare come sono approssimative le descrizioni sulle analisi delle prove, quindi si tiene impegnato.»

«Meglio così. Conoscendolo avevo paura che borbottasse in continuazione come un vecchio pazzo.»

Crowley rise. In realtà un po’ l’aveva pensato anche lui.

«Ti volevo parlare di un’altra cosa, comunque… è un po’ su due piedi, ma per una serie di circostanze mi hanno chiesto un nome valido per un trasferimento. Come saprai la polizia del West End ha creato nuove squadre inclusa la crimini maggiori… e cercano qualcuno di esperto per formare la squadra. È una valida opportunità…»

Crowley sbatté le palpebre, incredulo.

«Vuoi mandarmi nel West End a capo della nuova crimini maggiori?»

«Non ho detto che voglio, ho detto che mi hanno chiesto un nome. L’hanno chiesto a tutti i capitani di New Oakheart. Siete in otto candidati, ma a parte il vecchio Rentmore di Holden, che è un vecchio lupo, tu sei senza dubbio il più preparato. Se ti mostrassi interessato credo sceglierebbero te: sei più giovane di Rentmore, più capace di fare squadra e hai esperienza anche alla narcotici, e là l’uso di stupefacenti leggeri è una realtà quotidiana.»

Joey Alford gli lanciò un’occhiata che tradiva la sua sensazione di averlo già ceduto.

«E poi… il tuo uomo vive nel West End. Potrebbe essere il momento buono per questo cambio.»

«Accidenti, Alford. Ecco perché non ti sei arrabbiato per Loneport, sapevi già dove scaricarmi!»

«Ma fa’ silenzio, zuccone d’un irlandese! Come se mi piacesse l’idea di perdere l’ultimo pezzo della vecchia squadra! Per me è la fine di qualcosa e al solo pensarci ho voglia di andarmene in pensione…»

Alford si alzò dalla scrivania e andò a versarsi dell’acqua dal boccione nell’angolo dell’ufficio. Crowley guardò fuori dal vetro alla ricerca di Yuu, ma non lo vide.

Di certo è un’occasione pazzesca… a capo di una crimini maggiori prima dei trentacinque è quasi una carriera sfolgorante. Nel West End Ferid ha una casa, ci vivono anche i Bosley… non è neanche così lontano da qui. Sarebbe davvero una buona occasione…

«Che ne pensi, Crowley?»

«Che sembra fin troppo bello per essere vero… quanto tempo ho per dare una risposta?»

«Al momento non ti hanno proposto niente… valuteranno i curriculum, ma faranno in fretta. In via ufficiosa ho sentito Rentmore e non sembra incline; quel vecchio lupo spelacchiato è abituato con un procuratore che lo conosce da trent’anni e un dipartimento che si è costruito intorno al suo brutto carattere. Io comincerei a pensare a cosa rispondere entro una settimana, perché vorranno una risposta prima di Natale.»

«Capisco.»

Si alzò dalla sedia e andò alla porta.

«Ti ringrazio della raccomandazione, capitano. Deciderò appena avrò modo di parlarne con la mia metà.»

«A proposito, non si fa vedere in giro da un bel po’. Ho perso qualche mandato d’arresto dalla bacheca?»

«No, no» fece lui, divertito. «No, è in Inghilterra per sistemare qualcosa con degli avvocati. Tornerà presto, però.»

«Molto bene… se ti trasferiscono organizziamo una cena per festeggiare e dev’esserci anche lui, non gli ho ancora offerto da bere per quel medaglione benedetto. L’hai ancora?»

Crowley sfilò la catena da sotto la camicia e glielo mostrò.

«Sempre.»

Lasciò l’ufficio, con più pensieri di quanti ne desiderasse. Non dubitava che a Ferid non sarebbe dispiaciuta né una promozione né il suo trasferimento nel West End che lui amava, ma lo preoccupava un po’ lasciare da soli i ragazzi: dopo anni erano come i fratelli minori che non aveva e avrebbe voluto restare loro vicino.

Ma Yuu è a un passo dal corso di tecniche investigative, potrebbe arrivarci in sei mesi… forse prima che il mio trasferimento diventi effettivo. Mikaela potrebbe addirittura andare a Quantico… e ora che ci penso, Yuu lo potrebbe anche seguire in Virginia.

Scosse la testa e infilò il cappotto per uscire. Non aveva senso angosciarsi prima di averne discusso con tutti gli interessati e aver saputo le intenzioni di Mikaela, e in ogni caso non poteva sbattere la porta in faccia all’occasione che migliaia di tenenti sotto i quaranta avrebbero ucciso per avere. In fondo non si aspettava che Mikaela e Yuu scegliessero la loro strada considerando lui, perciò era giusto che facesse lo stesso.

La Virginia non è poi così lontana, comunque.

Incrociò Yuu nell’ingresso che chiacchierava con Nandi e il ragazzo gli lanciò un sorrisetto.

«Tirata d’orecchi, tenente? Quel ciondolo ti ha reso troppo indisciplinato, forse!»

Crowley si accorse che tirando fuori lo Scudo di San Michele aveva scoperto anche il ciondolo di corniola che gli aveva rifilato Krul – letteralmente, dato che aveva cercato in ogni modo di rifiutarlo – per “dare una spinta al suo coraggio”. Com’era successo per lo Scudo l’aveva preso per quieto vivere, ma si era accorto di essere più spontaneo, più diretto – in breve, più vecchio se stesso – da quando lo portava al collo. Un placebo, forse, ma non se n’era più separato.

«Ti farò avere un amuleto per lo studio, che ne dici?»

«Portamene otto.»

«Uno per lo studio e uno per farti i fatti tuoi. Ultima offerta.»

Yuu scoppiò a ridere, ma il sorriso scivolò via dalla faccia di Crowley quando vide l’uomo che aspettava sul marciapiede. Anche Yuu guardò da quella parte e lo riconobbe.

«Ti chiamo più tardi» gli fece il tenente.

Uscì e raggiunse Ichinose, che gli fece un cenno con la testa e prese a camminare. Lo seguì ficcando le mani in tasca per proteggerle dal freddo: se solo non fosse stato sereno New Oakheart avrebbe avuto la prima nevicata dell’inverno.

«Abbiamo le intercettazioni, alcune deposizioni e una pila alta così di infrazioni fiscali che basteranno a tenere inchiodati i vertici della Chiesa dell’Acqua come farfalle da collezione per un paio di anni» l’informò senza giri di parole. «Un deputato del Tennessee, che ha amicizie nell’ufficio sopra il mio, si è prestato a offrirci una piccola occasione. Seguiremo i nostri pesci per prenderli in flagranza di reato con la prostituzione per impacchettare tutto per bene per la corte federale.»

«Vuol dire che Mika e Ferid hanno finito?»

«Il deputato inviterà qualcuno di loro per la crociera in battello da Memphis a New Orleans in partenza giovedì. Li prenderemo a bordo, non appena… beh, sai come vanno queste cose. Non appena la prova sarà inoppugnabile per la corte chiudiamo la rete e finiamo questa storia.»

«Saranno anche loro a bordo?»

«Sì. Quello che ti sto dicendo è confidenziale a dire poco, lo dovrebbe sentire solo il mio cervello» aggiunse a voce più bassa. «Ma la vendita che abbiamo intercettato include Mikaela. Da Bluefields hanno acconsentito a portarlo in quell’occasione per il deputato.»

Il volto di Crowley si indurì appena. Non era al corrente della feccia che avevano raschiato dentro la comunità e l’idea che si trattasse di qualcosa che l’aveva sempre disgustato profondamente gli fece sperare che qualcuno di quei vermi si beccasse l’ergastolo in un carcere federale che facesse sembrare Coniston un luna park.

«Il deputato ha anche insistito per conoscere padre Regen, in modo che ci fosse anche lui. Dopo la retata attraccheremo al punto più vicino e saranno liberi di andare… per questo sono venuto a informarti. È una cortesia, perché di questa operazione siamo al corrente una dozzina di addetti ai lavori, a dire tanto.»

«Grazie. Lo apprezzo, Ichinose.»

«Gli chiederò di venire a fare qualche firma e lasciare qualche deposizione il giorno dopo… se hai delle ferie, potresti venire. Memphis è una gran bella città.»

Crowley tese un angolo della bocca.

«Credo proprio che dovrei vederla, allora.»

«Il battello parte giovedì alle diciassette.»

Ichinose non fece neanche un cenno di saluto e attraversò la strada col gruppo che aveva atteso il semaforo verde. Crowley tirò dritto quasi non lo conoscesse neanche e si fermò a comprare una tazza di caffè per dargli il tempo di scomparire alla vista.

Se tutto fosse andato liscio avrebbe chiesto alle ragazze di andare a cena con lui e Ferid quel sabato per festeggiare in anticipo, e poi, domenica, avrebbe finalmente trascorso il compleanno insieme al suo uomo.

Con uno sguardo al cielo di un celeste chiaro come gli occhi di Ferid lui pensò a Krul. Sembrava che la sua previsione fosse giusta: l’avrebbe rivisto prima dell’arrivo della neve.

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Capitolo 28
*** Lo scopo del peccato ***


Il battello fluviale con le sue imponenti ruote a pale incuteva timore a Ferid, che si aggrappava al corrimano dei gradini tanto saldamente che le dita gli si erano anchilosate. L’acqua del Mississippi era nera come un abisso, rifletteva le luci aranciate del battello sulla superficie agitata come una distesa di diavoli.

Deglutì. Non riusciva neanche a convincersi a fare l’ultimo gradino, perciò non aveva idea di come si sarebbe costretto a salire sulla Creole Queen.

Vorrei non aver preso in giro Crowley per le sue vertigini… come avrà fatto a salire in cima a quella gru per salvarmi? Io non riesco neanche a staccare le mani da questa sbarra per la paura…

Il tocco di una mano sulla schiena lo fece sussultare e gli rimase strozzata in gola un’esclamazione. Nereus ritrasse la mano, spaventato dalla sua reazione.

«Scusa… ti ho spaventato? Mi sembravi un po’ teso…»

Avrebbe dato metà del suo patrimonio per essere soltanto “teso”; in realtà era terrorizzato.

«I-il… il Mississippi è… p-proprio enorme…»

Nereus si accigliò.

«Non l’hai mai visto? Credevo avessi passato l’adolescenza tra qui e la Louisiana. Dovrebbe essere più o meno come il corridoio tra la cucina e il bagno di casa tua.»

Nel suo profondo terrore aveva del tutto dimenticato di avergli detto di essere vissuto lì una volta scappato di casa, e in verità neanche prima di arrivare a Memphis aveva minimamente ripensato alla sfilza di balle che gli aveva rifilato.

«Non lo vedo da tanto tempo… e mi sembra più…»

Non trovò una parola adatta. Per fortuna Mika li raggiunse.

«Dobbiamo aspettare l’Onorevole? Non possiamo salire adesso?»

Saltò sui gradini come una cavalletta nervosa, ma aveva tutta l’aria di un bambino che pesta d’impazienza in fila per le giostre.

«Non ho mai visto una di queste dal vivo! Lo sai, duecento anni fa erano il mezzo più veloce di viaggiare da uno stato all’altro. Ci sono famiglie che hanno fatto una fortuna che ha retto per generazioni grazie ai battelli a ruota… e un sacco sono affondati perché spingevano le macchine al massimo per essere più veloci della concorrenza!»

«Zeke» esalò Ferid, che sentiva le stesse nausee di Estelle, «non è davvero opportuno parlare di naufragi prima di salire su un’imbarcazione.»

«Sei un Padre della Chiesa dell’Acqua, non ti puoi permettere le superstizioni né la paura dell’acqua» lo canzonò lui, peggio di un folletto dispettoso.

«Oggi sono molto più attenti e preparati, Regen, non avere paura. Non succederà niente di brutto… sono certo che riusciremo anche a divertirci!»

Nereus tentò di tirarlo dal braccio per accompagnarlo, ma le mani di Ferid erano saldate intorno al corrimano. Mikaela dovette letteralmente aprirgli un dito alla volta per riuscire a staccarlo e Nereus lo guardava con preoccupazione palese.

«Sei così tanto teso perché hai paura di un incidente al battello o pensi di sentirti male a bordo?»

«Entrambe le cose» esalò Ferid, con gli occhi fissi sull’acqua nera.

«Non essere infantile, avanti! Starai benissimo e quando scenderemo a New Orleans riderai di quanto sei stato un cretino» l’incalzò Mika. «Anzi, facciamo così: se sali e smetti di frignare fino a New Orleans ti offro qualcosa! Andiamo a bere su Bourbon street!»

«Avrei bisogno di bere adesso» protestò Ferid, con le gambe che muovevano passi rigidi, come se l’aria opponesse resistenza. «E poi con cosa offri? Non hai un soldo, come me.»

Mika esibì il suo sorriso luminoso quanto finto e con un gesto della mano si indicò il viso.

«Uno con una faccia d’angelo come la mia trova sempre un modo per farsi offrire qualcosa~»

Lo tirò più deciso e Ferid, arresosi all’evidenza di non poter evitare quell’orribile viaggio, si aggrappò così forte al suo braccio da farlo protestare per il dolore. Nereus li seguì qualche passo indietro e non si unì più alla conversazione con loro, lasciandosi in disparte a guardarli dal lato opposto del ponte.

 

***

 

Il battello salpò puntuale alle cinque del pomeriggio, con il deputato accompagnato da amici, la delegazione di Bluefields, l’equipaggio del battello e qualche altro addetto al servizio e all’intrattenimento. Più di chiunque Ferid sentiva la mancanza di Estelle – i fastidi dei primi mesi di gravidanza iniziavano a diventare limitanti – che avrebbe dato più peso al suo malessere di quanto gliene desse Mika, ora che era distratto dalla presenza del suo amante.

Un’ora e mezzo dopo Ferid era abbastanza calmo da sedersi con gli altri e gustarsi a dovere la cena a base di sformato di zucca, che per l’irragionevole quantità di burro che lo arricchiva poté solo assaggiare, deliziosi di gamberetti di fiume e sottaceti fritti.

Con la pancia piena, un buon bicchiere di vino che non beveva da prima della missione e buona musica dal vivo riuscì persino a guardare le luci della riva riflesse sul fiume e trovare l’atmosfera così bella da pensare di convincere Crowley a tornarci insieme.

«Ferid.»

Lui si riscosse dai suoi pensieri romantici, ma non si girò.

«Nereus si è assentato per andare nella sua cabina con il deputato e Cecilia li ha seguiti. Credo che non sia venuta per caso.»

«Cecilia è come un cagnolino, segue chiunque. Soprattutto gli uomini potenti.»

«Forse… ma cerca di notare chi sparisce troppo a lungo.»

«Cerca di non sparire tu con Lucky, allora.»

«Non preoccuparti. Questa crociera era fin troppo opportuna come occasione per combinare un appuntamento per non insospettirmi. Ho messo anche lui a tenere d’occhio la situazione.»

«Ah, per questo l’hai fatto venire al posto di Estelle? Scusami se ho pensato male.»

Mika gli tirò con colpetto di tallone contro il polpaccio.

«La mia storia con Lucky serviva a questo. A usarlo se e quando mi fosse servita una persona fedele. E ora, per il finale di partita, mi servono tutte le forze che ho.»

«E di Estelle non ti fidi.»

«Abbastanza da proteggerla. È più al sicuro a Bluefields, se Nereus è fuori.»

Ci fu un lungo momento di silenzio. Ferid roteò il bicchiere di vino.

«Anche tu hai questa sensazione?»

«Quale?»

«Che stia per succedere qualcosa… come… quando senti l’aria elettrica prima di un temporale.»

«Sì» fece Mika senza esitazione, «e ce l’ho da quando Nereus ci ha voluti entrambi su questo battello. Tieni gli occhi aperti e non bere troppo vino. Berremo dopo, e scoprirai come sono quando sono ubriaco marcio.»

Il ragazzo si allontanò e uscì sul ponte basso, marciando rapido fino alle scale per il ponte superiore. Ferid forse aveva già esagerato con il vino, perché decise d’impulso. Appoggiò il bicchiere sul primo tavolo e uscì, con la musica blues che l’accompagnava mentre camminava il più distante possibile dal parapetto del ponte esterno.

 

***

 

Non fu capace di ritrovare Mikaela e la presenza di un uomo che camminava sul ponte superiore con l’aria di un buttafuori convinse Ferid a smettere di vagare: fece per tornare giù alla sala dell’intrattenimento, ma poi una porta si aprì.

«Certo, lo capisco… è naturale… sarebbe meglio aspettare un’ora più tarda, però.»

Era la voce di Nereus. Ferid superò le scale e si appiattì contro una porta, sperando che la ringhiera e l’angolo di visuale lo nascondessero a sufficienza.

«Sì, ma pensavo che potevo parlargli un po’, prima di invitarlo a bere qualcosa insieme a me» replicò la voce del deputato, con un’inflessione sospetta. «Insomma, possibile che non sia permesso? Non è più un novizio.»

«Certo che è permesso… solo… Ezekiel è un ragazzo un po’… lasciate che ci parli io prima per un momento…»

Le loro voci si confusero con i rumori e la musica del ponte inferiore. Ferid aspettò a muoversi, scioccato da quello che aveva appena sentito.

Possibile? Possibile che voglia vendergli Mika?

Si rifiutava di crederci, anche se l’alternativa secondo logica di Mikaela era infinitamente peggiore. Deciso a trovare in qualche modo una terza opzione partì verso la cabina, pronto a tentare qualcosa che non faceva da quando aveva ventidue anni e aveva perso la chiave del ripostiglio al garage Marrara. Non aveva a disposizione tutta la varietà di aggeggi che aveva potuto provare allora ma le cabine non erano a prova di scassinatore – neanche uno improvvisato come lui – e in meno di un minuto ebbe la meglio con un grimaldello ottenuto dall’anello del portachiavi della sua cabina.

L’alloggio di Nereus portava il suo marchio di fabbrica: un disordine straordinario su ogni superficie rialzata dal pavimento. Non sapeva che cosa cercare, ma sapeva che avrebbe saputo al primo sguardo se l’avesse trovato.

Iniziò a guardare nella valigia sul letto, sotto i suoi vestiti, senza trovare altro che biancheria e prodotti per l’igiene. Sfogliò la copia della Bibbia ma non ne venne fuori niente. Passò ai cassetti – tutti vuoti – e sfrondò tutti i libri per vedere se ne cadeva fuori qualcosa. Stava già correndo a un verdetto di non colpevolezza quando spostando un libro qualcosa rotolò a lato.

Ferid prese il tappo contagocce e cercò con gli occhi quello che gli pareva ovvio dovesse essere poco lontano: una boccetta con un liquido da dosare.

Non vedo boccette… ma a che serve un contagocce senza un flacone? Non ti porti neanche dietro un flacone senza tappo.

Si chinò sul bidoncino pensando di trovarvi un flacone finito o rotto, ma era del tutto vuoto. Qualsiasi considerazione fu rimandata.

«Cosa fai qui, Regen?»

Ferid si voltò di scatto e si appiattì contro la parete, con il contagocce stretto nel pugno dietro la schiena. Nereus entrò nella cabina chiudendo la porta – la guardò come sorpreso di non trovarla danneggiata – e puntò quegli occhi così familiari su di lui.

«Spesso vedendo quanta grazia ti è stata data dal Signore dimentico attraverso quale valle oscura hai camminato» osservò con calma. «Da quanto tempo lo sai?»

«S-so che cosa?»

«Cercavi questa, no?»

Dalla tasca sfilò una boccetta tappata con un coperchio di silicone simile a quelli per richiudere le bottiglie di vino. L’etichetta non era grattata né coperta, quindi perfettamente leggibile: Ketalar. Nereus la scosse mentre scuoteva il dito indice.

«Non va bene, Regen. Avevi promesso di essere sincero… entrare di nascosto e rubare medicine non è un comportamento onesto. Dimmi, come hai scoperto che ce l’avevo? Da quanto tempo lo sai?»

«Non… la… la Ketamina è un farmaco da ospedale. Come fai ad averlo?»

«Oh, viene usato anche per trattare la depressione, se è per questo… ma dubito che tu lo cercassi perché hai molta voglia di buttarti in acqua e morire. O forse lo vuoi?»

Nereus gli era sempre parso una persona semplice, trasparente, tranquilla. Ora l’aveva davanti e non riusciva neanche a capire se lo stava minacciando oppure no.

«Non è… tua, vero? L’hai con te perché l’hai trovata da qualcuno e l’hai confiscata» fece Ferid, per la prima volta spaventato alla presenza di quell’uomo. «Vero? Dimmi chi ce l’aveva.»

Con un gesto fulmineo Nereus gli afferrò il braccio e glielo torse finché non riuscì a strappargli prima un lamento e poi il contagocce. Ferid si tenne il polso e restò lì, sconvolto, a guardarlo stappare la boccetta, dosare la medicina, metterla nel bicchiere e aprire la bottiglia dell’acqua che era offerta agli ospiti.

«Padre Vann aveva i suoi metodi con quelle sue strane erbe mescolate… io non ho idea di che cosa usasse, perciò… beh, si fa di necessità virtù.»

Versò l’acqua nel bicchiere tranquillamente, come se avesse messo dentro uno spicchio di limone.

«Di che stai parlando? Nereus…»

«Temo che tu sappia di cosa parlo. Dopotutto sei il profeta… probabilmente sai già tutto da allora. Da quando hai visto la morte di Vann e che aveva rubato il crocifisso di lapislazzuli. Sai che cosa faceva e sei qui perché sapevi che cosa sarebbe successo stanotte…»

Nereus gli porse il bicchiere.

«Bevi.»

«No.»

«Bevi, Regen, te ne prego. Azzuffarmi con te per piantarti un ago in corpo è davvero qualcosa che non voglio fare. Ti sveglierai di primo mattino e non ricorderai niente… oh, non farò nulla e nessuno ti toccherà. Solo, non devi interferire con le mie transazioni.»

Ferid guardò il bicchiere e valutò le sue opzioni. Se il deputato era il cliente fare tanto rumore poteva finire per convincerli a far sparire persino il profeta di Bluefields. Non aveva la certezza di avere la meglio su Nereus, e quella percentuale crollava allo zero se Barak era nelle vicinanze e avesse deciso di obbedire al direttore della comunità.

Prese il bicchiere e bevve, confidando – come Mika – nella più rischiosa delle strategie. Nereus sembrò soddisfatto della sua arrendevolezza e gli fece una carezza lenta, voluttuosa, sul braccio.

«Sapevo che avresti capito… l’ho capito a Blackwell, quando hai parlato a quelle due lesbiche. Tu hai capito che non tutti possono essere cambiati… non tutti possono diventare ferventi cristiani… ma c’è una salvezza per tutti. È ciò che facciamo noi nella Chiesa dell’Acqua.»

Gli tolse il bicchiere non appena fu vuoto.

«Perché Dio ha creato il peccato? Perché, anche con gli insegnamenti giusti, alcuni non sono capaci di non peccare? Qualcuno lo spiega con il diavolo, ma… anche se esistesse, non è ovvio? È Dio che gli lascia fare quello che fa. Perché non lo ha cancellato dalla creazione?»

Nereus si batté sulla tempia col dito.

«Ci ho pensato per anni, Regen. E ho capito. Il peccato esiste perché gli uomini retti dimostrino il loro valore. Non emulandolo, sì… ma anche nel modo in cui interagiscono con esso. Evitandolo? Contrastandolo? Perdonandolo? Oppure… usandolo.»

Ferid non aveva mai assunto ketamina e si accorse di un fatale errore di calcolo. Iniziava già a sentirsi intorpidito. Non credeva che l’effetto fosse tanto rapido.

«Nella Chiesa dell’Acqua arrivano molti peccatori, disperati o impenitenti… se non possono essere rieducati, allora noi li usiamo. Non è geniale? Il peccato paga, e bene… usando i peccatori noi guadagniamo per la missione di diffondere Cristo, e loro saranno comunque salvati per aver fatto la loro parte nell’evangelizzazione. Non è il modo perfetto? È la risposta giusta.»

«Ci credi davvero… a…»

Faticava a mettere insieme le parole. Aveva assunto a cuor leggero una sostanza dall’inquietante potere: era come ubriacarsi con il fast forward, aveva difficoltà a coordinarsi e a restare concentrato su quello che vedeva intorno. La sua capacità di ragionamento era intatta, ma esternarla era assai più complicato.

Nereus sospirò e gli prese la mano, portandosela vicino al viso.

«A volte sono così debole da invidiare quelle povere anime… sono state create così, per peccare. E quando ti guardo vorrei essere stato fatto anch’io per peccare, e per farlo con te… ah, il Signore sa quanto lo vorrei. Lui sa quanto dolorosamente combatto con questa brama…»

Pur nella sua confusione Ferid ritrasse la mano. Si tenne a malapena in piedi contro la parete.

«No, non temere… non approfitterei mai di questo momento per averti. Tu non lo ricorderesti, ma io lo saprei e non riuscirei a perdonarmelo… e il Signore non accetterebbe questo peccato, perché fine a se stesso. Un peccato mortale.»

Ferid scosse la testa con forza per cercare di snebbiarla. Nereus prese il braccio – che non riuscì a fare che un fiacco sussulto di resistenza – e lo passò sulle spalle, per accompagnarlo fuori dalla cabina.

«Dormirai nella tua cabina. Non ti succederà niente… tu sei speciale, Connor. Per il Signore e per me… tu non devi servirlo come faranno gli altri peccatori. Almeno in questo io e Vann eravamo d’accordo.»

Come dal nulla apparve in vista Cecilia, che correva verso di loro. Ferid fu felice di sapere che non era ancora finita nella cabina con qualcuno che l’aveva comprata e che non era sotto l’effetto di droghe, per il momento.

«Shifrah… che c’è?»

Ferid raccolse tutta l’adrenalina che poteva avere in corpo in una situazione simile e affondò una gomitata nello stomaco di Nereus; entrambi finirono per terra ma uno zampillo di vita l’animava abbastanza da farlo rialzare in fretta e correre – instabile come un puledro appena nato – nella direzione opposta a Cecilia.

Mika… devo trovare Mika!

Si aggrappò al corrimano per sfidare le scale verso il ponte panoramico, quello più alto. Solo in quel momento di alterazione ricordò d’aver visto l’espressione disgustata di Nereus quando Mika aveva fatto quella battuta sulla sua faccia d’angelo. Ricordò anche i molti commenti su Cecilia e la sua dipendenza sessuale, che allora gli erano sembrati gli innocui pensieri di un pastore di anime su una giovane confusa.

Il mio esorcismo… ecco perché non voleva crederci! Era la prova che non è vero che sono destinati a restare dei peccatori… che…

Ferid si accasciò a pochi gradini dalla cima, ebbe un forte conato ma non rigettò nient’altro che saliva. Non sapeva come avrebbero fatto ad andarsene da un battello in navigazione se tutti quelli a bordo erano dalla parte di Nereus o suoi clienti, ma Mika con la sua mente lucida e brillante una soluzione l’avrebbe trovata di certo.

 

***

 

Mika, sul ponte superiore, stava “scambiando due parole” con un uomo ospite del deputato, così come da lui richiesto, ma più che altro ascoltava: in bilico tra la sorpresa e l’offesa non disse una parola finché lui non ebbe vuotato il suo sacco.

«Abbiamo abbastanza. Che tu vada dal deputato non serve, non è attendibile che un poliziotto dica di essere stato mandato dall’uomo che sta cercando di incastrare.»

Mikaela annuì rigido. Era quasi deluso da un finale come quello, da un arresto concluso da altri e dalle prove prese da un microfono, ma avrebbe dovuto rallegrarsi che non finisse in una sparatoria o in qualche altra situazione pericolosa.

«È finita, quindi?»

«Un mio collega è qui come amico del deputato, e aspetta quella ragazza bionda, Shifrah. Ha già pagato una donazione a Nereus, e se lei arriva lui è impiccato.»

L’uomo si indicò l’auricolare.

«Aspettiamo il via del coordinatore, che sente tutto.»

Il ragazzo sospirò lentamente, con lo sguardo che correva sulle luci a riva. A quel punto della navigazione non sapeva dove si trovassero o che luci fossero quelle, e nello stesso modo lui non sapeva dov’era in quel punto della sua vita. Alla fine di una missione che gli apriva le porte di Quantico e che chiudeva quella sul suo passato di vittima delle sette…

Un rumore di passi sulla scala fu seguito da un conato. Mika pensò che qualcuno avesse decisamente esagerato con il bere, ma il suo sorriso canzonatorio scomparve non appena Ferid si trascinò sul ponte panoramico: capì immediatamente che qualcosa non andava.

«Ferid!»

«Mi-Mika! Lui ha… Nereus» esalò, annaspando verso di lui. «Ha il Ketalar, lui… lo sa!»

Per quanto sconnesse le parole, Mika ne cavò un senso. Si fece avanti per sorreggerlo – e calmarlo, perché sembrava in preda a un vero pavor nocturnus come tanti ne aveva finti a Bluefields – quando Nereus arrivò di corsa.

«Connor, per l’amor del cielo, pensa a che cosa stai facendo!»

«Stai lontano da Mika!» gli urlò Ferid contro; sembrava impazzito. «Non osare…»

«Ferid… mi stai— ahi!» gemette piano Mika. «Mollami… ci penso io, lasciami il braccio!»

Non riusciva a capire che cosa gli stesse succedendo. Aveva visto Ferid restare freddo come il ghiaccio in una situazione pericolosa, lo aveva visto lottare con buonsenso per la sua vita persino davanti ad aggressori armati: non era da lui sragionare in quel modo davanti a un prete disarmato. Da come lo guardava, però, sembrava che avesse davanti una dozzina di chimere mostruose.

«Che cosa succede?» chiese confuso l’agente in borghese.

«N-nulla, nulla di grave, è solo… Regen ha bevuto troppo, e… per favore, vada giù e dica all’onorevole che… appena risolto questo increscioso episodio gli porterò quello che ha richiesto.»

«Non è meglio chiamare il medico a bordo?»

«Per favore» insistette Nereus. «Vada dall’onorevole, qui possiamo fare da soli.»

Mika incrociò lo sguardo con l’agente e gli fece un segno quasi impercettibile con il capo. Lui parve coglierlo: si schiarì la gola e acconsentì, lasciando il ponte panoramico. Nereus attese di non sentire più passi prima di guardarlo, ma Mika aveva già colto i segni di nervosismo di qualcuno che sta per piazzare una grossa bugia.

«Ezekiel… non volevo dirtelo… ma tuo fratello ha preso delle droghe» gli si rivolse Nereus, con una parlata frettolosa. «Ha preso della ketamina, che porto con me per le cure prescritte a Shifrah… non sa che cosa dice, forse non ci riconosce nemmeno. Aiutami a portarlo nella sua cabina, gli darò qualcosa per dormire…»

Le droghe non erano l’area di competenza di Mika, ma di certo conosceva Ferid – quello vero, ben distante dal personaggio che aveva interpretato – ed era certo che non avrebbe assunto droghe. Era però fuori di sé, quindi gli restava una sola verità possibile.

«Che cosa accidenti volevi fargli, Nereus?»

«Io? Io non voglio fare nulla a Connor. Lui è… prezioso…»

«Perché? Perché puoi venderlo a tremila… o cinquemila dollari alla volta? O si paga di più ancora, forse, per avere un profeta…»

Sul volto di Nereus passò prima turbamento, poi paura, e infine un innegabile disgusto.

«Non osare neanche dirlo! Lui non è come voi. Non è come gli altri disperati, peccatori recidivi che battono cassa al confessionale per condonare sempre le stesse viscide colpe… e neanche come te, serpente infido, che fingi di essere un cristiano perfetto e invece sei un perverso.»

«Oh? E io che ti avevo preso per un idiota» lo pungolò Mika, con un sorrisetto. «Invece mi hai inquadrato, alla fine.»

«Quelli che parlano delle insidie del demonio devono aver incontrato qualcuno come te… qualcuno capace di ricoprire tutto di miele per farlo sembrare dorato e delizioso, e poi darti da ingoiare del veleno.»

«Cavolo, Nereus, ne è passato di tempo dall’ultima volta che ho sentito tante allusioni sessuali in una sola frase. Sicuro che il perverso sia davvero io?»

Era facile fargli montare la rabbia. Sentì la stretta di Ferid sul braccio allentarsi.

«Il Signore mi ha consigliato bene, quando gli ho chiesto se ero nel giusto ad accettare di trattarti come i peccatori impenitenti.»

«Non dire gatto se non l’hai nel sacco, l’avrai sentito dire. Cosa dirai all’onorevole quando non avrai un bel ragazzo da dargli? Gli restituirai l’anticipo? O ti proporrai tu stesso?»

Mika scoppiò in una risata lievemente stridula, come gli uscivano le risate forzate.

«Che dico? Non ti puoi paragonare neanche da lontano con me! L’onorevole si incazzerebbe a morte… e Maim? Ti riderà dietro, non sai neanche vendere due ragazzini la stessa sera!»

«Sto gestendo questi affari da quando Vann è morto! Ed è andata bene! È colpa tua se stavolta ho fatto questo… casino! Sei stato tu a mandare Connor in camera mia, perché lo sapevi che non potevo forzare la mano contro di lui!»

Mika smise di ghignare all’istante e quasi nello stesso momento l’agente risalì dalla scala.

«Scacco matto.»

L’agente non era solo: un suo collega era con lui e bloccarono Nereus a terra. Mentre lo perquisivano elencandogli i suoi diritti Mika tornò a guardare Ferid, che guardava tutti come un gatto selvatico che vede per la prima volta degli umani da vicino.

«Ferid… è tutto a posto, è finita… mi riconosci, sì?»

«Mika» fece lui, con lo sguardo vacuo.

«Sì, Mika… ora stai calmo, siediti qui» gli mormorò con calma, aiutandolo a sedersi contro il parapetto. «Tra poco ti porto giù e… faremo qualcosa per quella roba che ti ha dato. Ora resta fermo qui.»

Le sue ultime parole furono coperte dalla voce di Cecilia, che accorse urlando il nome del loro padre spirituale. Era sconvolta e girò intorno agli agenti come fossero bombole di gas in fiamme. Piangeva a dirotto.

«Mio Dio… Padre, che cosa s-sta…»

«Non dire niente, non dire una parola, Shifrah! Questo è un abuso» ringhiò lui contro uno degli agenti. «Quello che facciamo è volontario, è tutto parte del sacrificio per Cristo! Quello che state facendo è una violazione del primo emendamento!»

Mika fece qualche passo avanti sperando di avere una buona scusa per assestargli almeno un calcio – magari un gesto brusco che potesse essere scambiato per un comportamento aggressivo – quando arrivò il deputato con l’aria di chi ha schivato un cervo all’ultimo secondo salvando una macchina nuova. Con lui salirono altri agenti che esibivano i loro distintivi al collo, tra i quali il sassofonista che prima suonava durante la cena, e un uomo dall’aria arrogante che riconobbe solo quando parlò.

«Attracchiamo e portiamo via l’immondizia, ragazzi» ordinò ad alta voce. «Ah, finalmente ci vediamo di persona, agente Shindo.»

«Ah… Ichinose?»

«Agente speciale d’élite Ichinose, ma per sbrigarti va bene anche solo il cognome… per ora.»

Dietro le sue spalle, quasi si vergognasse come un ragazzino a una festa in cui non conosce nessuno, padre Vann camminava leggermente ingobbito con l’aria di chi non volesse farsi notare. Senza la sua tonaca blu Mika ci mise qualche attimo a riconoscerlo.

«Mackham… che cosa diavolo ci fai tu qui?»

«Io… volevo esserci… per Madison» rispose lui, con l’aria contrita e la voce adatta a un capezzale. «Ichinose mi ha concesso di venire, anche se ero nascosto nella sala macchine…»

«Tu… non sei morto

Nereus aveva riconosciuto il nuovo arrivato ed era sbiancato. Per contro l’espressione di Mackham si indurì per il disprezzo.

«Certo che no.»

«Non è possibile… non… la sua profezia…»

«Eravamo d’accordo, Nereus, non l’hai ancora capito che il tuo pupillo è con i federali? Non si chiama neanche Connor Maguire. Si chiama Ferid Bathory.»

Per un attimo Mikaela credette che sarebbe svenuto. Nereus divenne di un colore grigiastro, gli cedettero le ginocchia e boccheggiò come un pesce senz’acqua. Mikaela riuscì solo a sentirlo soffiare fuori “inganno” prima che uno strillo come di civetta coprisse qualsiasi cosa.

«La bestia e il falso profeta! Come hai osato!»

Lo strillo di Cecilia era penetrante come unghie sulla lavagna. Mika fu il primo a reagire dalla sua aggressività, ma era anche il più lontano: allungò il braccio inutilmente mentre lei schizzava come una palla impazzita contro Ferid, urlandogli insulti, e in un battito di ciglia lui si rovesciò al di là del parapetto. Nel momento stesso in cui l’urlo di avvertimento gli collassava in gola Mika sentì il tonfo di un corpo nell’acqua.

Si avventò contro il parapetto e urlò il suo nome con tutto il fiato mentre alle sue spalle gli agenti si avventavano sulla ragazza per bloccarla. Guren gridò ordini, ma Mika non fece altro che fissare le increspature nell’acqua nera, aspettando… ma non vedeva nessuno riemergere per respirare.

Lui… gli è già successo! Non respira sotto l’acqua, non riesce a muoversi… come quella volta!

Accanto a lui Mackham quasi si schiantò contro il parapetto per scandagliare l’acqua, con il terrore negli occhi.

«Dov’è… dov’è?!»

Mika non esitò. Fece qualche ampio passo all’indietro. Mackham forse capì cosa stava per fare, Guren gli gridò di non azzardarsi, ma ignorò tutto e tutti: scattò in avanti e si lanciò oltre il parapetto, dritto verso il nero gelido del Mississippi in dicembre.

Bucò con i piedi e si trovò immerso nel freddo e in un buio più vischioso dell’acqua stessa. Ad occhi aperti o chiusi era quasi la stessa cosa, ma iniziò a distendere lunghe bracciate per tornare indietro, verso il punto in cui Ferid era caduto… e incredibilmente, la sola cosa che riusciva a catturare l’ultimo alone di luce qualche metro sotto la superficie erano i suoi capelli argentati.

Batté i piedi fino al bruciore dei muscoli, puntando quel fioco riflesso finché la mano non tastò il suo gilet di velluto: l’afferrò sotto le braccia e sfidò il rischio di crampi per spingere in su verso l’aria. Quando ruppe la superficie prese un avido respiro e tirò fuori la testa di Ferid, ma non ebbe né il riflesso di tossire né aprì gli occhi.

«Non fare scherzi» esalò Mika. «Crowley mi rompe il collo! Sveglia, Ferid!»

Non ottenne alcuna reazione. Allarmato si guardò intorno e prese a nuotare, con un solo braccio utile, verso la riva più vicina. Anche se le luci la facevano sembrare a un passo ci mise tanto, troppo tempo a raggiungerla; annaspò con la furia di un gatto a mollo per risalire la riva e tirò Ferid con tutta la forza rimasta finché non lo trascinò a qualche metro dall’acqua.

«F-Ferid, svegliati… sei fuori dall’acqua… rispondimi!»

Si buttò in ginocchio vicino a lui e cercò il battito con l’orecchio sul petto. Non sentiva niente. Atterrito cercò le pulsazioni nel collo, o tracce di respiro: era inerte come un morto.

«Non scherzare, cazzo!» gli urlò con voce stridula. «Non provarci neanche!»

Iniziò immediatamente le manovre di emergenza come gliele avevano insegnate ai corsi dell’accademia di polizia. Martellò con tutta la forza per il massaggio cardiaco, cercò di farlo respirare anche se sentiva che l’aria non arrivava fin giù.

Non smise neanche un secondo, nemmeno quando il dolore alle braccia e alle spalle fu lancinante e iniziava ad avere l’affanno. Gli sembrava di stare lì da ore, con il terrore che aumentava a ogni conteggio di dieci secondi senza risultati.

Non si accorse delle sirene né dei motori delle auto sulla strada più vicina, finché una sagoma scura non piombò davanti a lui facendolo sussultare. Quando lo riconobbe sollevò le mani dal petto di Ferid per un attimo.

«C-Crowley… cosa fai tu qui?»

«Ferid! Mio Dio» gli uscì con voce strozzata. «Ferid, resisti!»

Se l’idea che Ferid morisse in quel modo davanti a lui era terrificante, quella che morisse sotto gli occhi di Crowley era così aberrante da animarlo di sacro fuoco pur di evitarlo. Compresse tenendo il tempo ad alta voce come se ogni numero fosse una preghiera, Crowley gli fece la respirazione nelle sue pause, e prima che la facesse per la terza volta Ferid emise un rantolo e un colpo di tosse.

«Ferid!»

Lui si girò sul lato e rigettò dell’acqua in mezzo alle sterpaglie. Mikaela si accasciò sui talloni con le mani nei capelli fradici e lanciò un grido convulso di esultanza.

«Dio, ti ringrazio» mormorò Crowley, chino su di lui. «Respira… respira, Ferid…»

Ferid tossiva e tremava, non spiccicava una parola. Crowley lo mise seduto, ignorando del tutto che fosse zuppo di acqua sporca e gelida, accarezzandolo e stringendolo, mormorando parole di conforto e mezze preghiere mescolate.

Mikaela avrebbe potuto anche sorridere a tanta tenerezza, ma prima di lasciarsi andare si costrinse ad alzarsi in piedi e a sollevare una mano per farsi notare dal veicolo del soccorso medico che si avvicinava a sirene spiegate.

 

 

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Capitolo 29
*** Un nome da ricordare ***


Crowley guardò il cielo, una stesa grigio fumo uniforme. Una miriade di piccole macchie chiare svolazzavano nell’aria come le più piccole delle fate d’Irlanda e si scioglievano quasi all’istante a contatto con la sua pelle. Nevicava e tutt’intorno a lui baluginavano lampeggianti rossi e blu.

L’angolo destro della sua bocca ebbe una sorta di spasmo all’idea di raccontare a Krul di aver visto quel momento molto tempo prima, quando un mattino una colazione a base di porridge preparata da Ferid gli aveva riportato alla mente gli stralci di un sogno confuso.

«Crowley…»

Abbassò la testa di scatto e si alzò dal cofano per andare incontro a Ferid, che avvolto in quella coperta isotermica era quasi del tutto d’argento, come lo gnomo fortunato che si regalava ai matrimoni ai tempi dei suoi nonni a Dublino.

«Ehi» gli fece, con un sorriso.

«Ehi» gli rispose lui, con l’aria sfinita.

Lo strinse in un abbraccio, anche se la coperta che scricchiolava rendeva il tutto più ridicolo che tenero. Ferid doveva pensarla allo stesso modo, perché ridacchiò e l’avvolse con quel mantello argentato come una mamma pipistrello.

«C’è spazio sotto il mio mantello dell’invisibilità.»

«Non direi» scherzò Crowley, che vi stava sotto solo con le braccia e poco altro. «Adesso siamo in due, ti serve tutto grande il doppio…»

«O forse il triplo…»

«Se le taglie sono adatte a te, sì, me ne servono due solo per me.»

Ferid non sorrideva più. Gli sembrava persino più pallido, ma era difficile esserne certi nella luce innaturale dei lampeggianti.

«Non sembri stare bene… andiamo in ospedale a fare i controlli. Io ti seguo con la macchina.»

«No… quello… quello aspetterà» mormorò lui.

«No che non aspetterà, idiota. Sei ancora freddo come il ghiaccio.»

«Devo parlarti di una cosa.»

«Parleremo dopo. Non dovrebbe essere un problema, abbiamo passato più tempo insieme in ospedale che insieme a casa, nella nostra storia.»

«Crowley» fece lui, stoico. «Se ora muoio… ci sono delle cose che dovrai fare per me.»

Crowley si accigliò. Non gli piaceva che dicesse qualcosa del genere dopo lo spavento che si era preso, neanche per paranoia.

«Smettila, non morirai.»

«Se mi succede qualcosa devi pensarci tu» insistette Ferid, aggrappandosi al suo braccio. «Per questo non posso aspettare a dirtelo.»

«Non… aspetta… che stai dicendo? A dirmi che cosa?»

Ferid serrò le labbra e guardò a terra, come se cercasse lì le parole che non aveva.

«Io… accetterò qualsiasi reazione da te, Crowley. Capisco bene la portata delle mie azioni e… anche del dolore che ti arrecheranno. Però lo devi sapere.»

«Cielo, Ferid, chi hai ammazzato?»

«Beh» fece lui con una vocina sottile che quasi non capì che era lui a parlare, «in realtà, ecco… forse… cioè, è l’esatto contrario.»

A un momento di confusione subentrò una comprensione che arrivò sotto forma dell’ormai familiare immagine del lingotto nello stomaco.

«No, scusa… che cosa hai fatto?»

Davanti alla colpevolezza che aveva scritta in faccia Crowley chiuse gli occhi per sopportare un dolore strisciante e ritrasse le mani da lui.

Neanche una parola detta da Krul lo aveva preparato e non c’era assolutamente niente che lo potesse riparare da quel colpo di cannone in pieno petto.

 

****

 

Da lontano, sulla seconda ambulanza arrivata sul posto, Mikaela li guardava, avvolto in una coperta rossa e con una tazza di tè caldo in mano come se tutto il trambusto intorno non lo riguardasse. Non li sentiva parlare ma non ne aveva bisogno: i gesti frenetici che faceva Ferid con la mano, il modo in cui Crowley piegò la testa indietro, la distanza che cercavano di aumentare o accorciare tra loro gli dicevano tutto quello che aveva bisogno di sapere. Sapeva che Ferid stava dicendo a Crowley di Estelle e della sua gravidanza.

«Oh, ma guarda.»

Contro ogni sua previsione Crowley lo strinse in un abbraccio che durò molto. Troppo, per pensare che ne sarebbe seguita una rottura. Mika sorrise e prese un sorso di tè. Non l’aveva previsto ma era felice di essersi sbagliato, in questo caso.

«Zeke!»

Mika vide Lucky avvicinarsi di corsa e bloccarsi bruscamente a pochi passi da lui. Aveva l’espressione sperduta, come se si fosse reso conto che correva incontro a uno sconosciuto che aveva scambiato per un amico.

Suo malgrado gli accennò un sorriso, mentre raddrizzava la schiena e si tirava indietro i capelli; con l’acqua si erano arricciati di più.

«Io… stai bene, Zeke?»

«Sì. Io sto bene.»

Vedeva il suo disagio, ma la missione a Bluefields era conclusa: non era più Mikael Maguire né Ezekiel, non aveva motivo di comportarsi diversamente da come avrebbe fatto a casa sua a New Oakheart… almeno, così pensava.

«Sei… ho sentito parlare alcune persone, e la polizia ha preso padre Nereus… è vero? È vero che sei un agente sotto copertura?»

«Sì. Sono un agente della polizia di New Oakheart. Un agente di pattuglia.»

«Sei… un poliziotto…»

Lucky emise una risata incredula e nervosa, passandosi la mano sulla faccia.

«Accidenti… ci ho creduto proprio. Sembravi così solitario, così… ingenuo… Mi hai fregato in tutto, Zeke… ah… non ti chiami neanche Mikael, allora?»

«No.»

«Accipicchia… è davvero… ah, mi sento così stupido!»

La freddezza di Mikaela si incrinò a quelle parole. Era pur sempre davanti a un ragazzo che gli aveva chiesto di mollare tutto e scappare insieme, che aveva detto di essere pronto a dedicargli il resto della sua vita.

Si spostò di lato facendogli posto.

«Siediti un momento, Lucky. Per favore.»

Il ragazzo esitò, poi gli obbedì. Aveva l’aria di un bambino costretto a sedere accanto a un parente di cui ha paura.

«Non avevo previsto di fare quello che ho fatto quando sono arrivato a Bluefields. Dovevo entrare e dare un’occhiata in giro, e riferire… doveva essere una questione di qualche settimana, un mese al massimo. Poi sono successe delle cose…»

«Ed è arrivato tuo… non è tuo fratello davvero, immagino» fece lui, lanciando un’occhiata a Ferid. «Un altro poliziotto?»

«È un libraio» fece Mika, pur sapendo di spiazzarlo. «Ed è mio amico.»

«Capisco.»

C’era un’immensa amarezza in quell’unica parola. A Mika dispiaceva, gli doleva davvero dargli quelle delusioni.

«Però vorrei dirti una cosa, Lucky: quello che è successo tra di noi non era programmato né serviva a un qualche scopo investigativo… non sospettavo di te, non… non mi servivi. Questo voglio che tu lo sappia.»

«Non è che mi conforti tanto… ho… comunque amato una bugia.»

Fu come prendere una scossa. Pur con tutte le belle parole dette e le sue attenzioni, con tutti i gesti che l’avevano suggerito Lucky non gli aveva mai parlato di amore.

Questa volta era Mika che si sentiva a disagio. In imbarazzo, ma anche riscaldato dall’interno, come se gli avesse dato da bere qualcosa di più confortante del tè.

«Non sono così fantasioso come impostore. Ho un padre che ha davvero provato a uccidermi, e che ha ucciso mia sorella maggiore quando eravamo ancora bambini. Ho una madre che non ha provato a impedirglielo perché era la volontà del leader della loro setta. Sono veramente una persona solitaria, ho davvero paura dei rospi, non ho davvero idea di come le pannocchie arrivino già bollite al supermercato, e ho davvero litigato con tre datori di lavoro.»

Lucky lo guardò con uno dei sorrisi più malinconici che avesse mai visto, e gli fece una carezza esitante sulla mano.

«Ma non è vero che non hai un posto dove tornare… quindi non pensavi di venire con me.»

Mika gli prese la mano senza esitazione.

«Ho un posto dove vivo e… persino un ragazzo, questo sì. Però io ho pensato a te… a quello che mi hai offerto. Ti giuro che ci ho pensato con tutta la serietà del mondo. E… che non so che cosa voglio fare.»

Forse era la persona meno adatta a cui confidare i dubbi che aveva, ma se Ferid aveva il coraggio di parlare a Crowley di una faccenda così grande da distruggere dei matrimoni di lunga vita lui non vedeva la ragione di essere schivo.

Lucky non era ferrato nel linguaggio del corpo ma come aveva già dimostrato qualche volta era capace di leggere parti di lui che Mika non conosceva. Lo strinse in un abbraccio.

«Se ti dovesse stancare questa vita vienimi a cercare» gli sussurrò all’orecchio. «Jonathan Murray, 2241 Mountain road, Harfork.»

Mika passò il braccio libero dietro la sua schiena.

«Jonathan Murray, 2241 Mountain road, Harfork… Kentucky.»

Senza aggiungere altro Lucky gli lasciò il bacio di un bambino sulla guancia e si allontanò. Mika rimase a guardarlo finché non scomparve dietro un’auto della polizia, sentendosi più solo che mai.

Girò lo sguardo alla ricerca di Ferid e Crowley, ma prima di trovarli incrociò un paio di occhi verdi che non aveva davvero voglia di vedere, tanto meno dopo un momento così personale.

«Che cosa fai qui anche tu?»

Ismael gli si avvicinò e lo avviluppò come un boa constrictor. Mika spillò un po’ di tè nel tentativo di districarsi.

«Non mi toccare! Ma che vuoi?!»

Gli sussurrò all’orecchio poche parole, ma bastarono a spegnere le sue proteste. A occhi spalancati ascoltò quel mormorio, sempre più incredulo.

«Come fai a saperlo?»

Ismael lo lasciò andare. Il suo sorriso aveva un che di demoniaco, ma durò un attimo soltanto.

«Quando ci rivedremo te lo dirò.»

«Non… non penserai che me la beva, Maguire!»

Lui si fermò a pochi passi di distanza, infilandosi le mani nelle tasche del cappotto. L’aria allegra che aveva in faccia dopo aver detto qualcosa di tanto angosciante lo rendeva raccapricciante come il più inumano dei sociopatici.

«Angel Face, io non penso niente! Ma tu te la senti di scommettere sulla possibilità che io stia solo scherzando?»

Non attese una risposta. Fece una risata frizzante, di gioia, mentre se ne andava senza voltarsi. Mikaela rabbrividì a quel suono, fuori luogo quanto lo sarebbe stato tra i cadaveri di un campo di battaglia.

 

****

 

Ferid sperava che fosse in arrivo il pranzo quando sentì camminare in corridoio, ma invece del carrello dei vassoi fece il suo ingresso una strana cornucopia di vimini, tracimante di tralci di vite, uva, bacche di bosco e fiori rossi. Sbigottito si spostò a destra e a sinistra nel tentativo di trovare un volto a cui rivolgersi.

«Principessa, che diamine ci fai qui?»

«Oh, mi hai riconosciuta?»

«Ti riconoscerei ovunque… e non conosco nessun altro stramboide che mi porterebbe una cornucopia in regalo.»

Krul riemerse dalla cornucopia quando l’appoggiò in un angolo della stanza. Nonostante il sorriso aveva l’aria preoccupata e Ferid si chiese cosa avesse visto nelle sue conchiglie e cosa le avesse raccontato Crowley.

«Come ti senti?»

«Uhm… ho male alla schiena, dove ho colpito l’acqua… per il resto sto bene. Con uno zuccherino e un antidolorifico cammino bene, ma chinarmi è un po’ ostico.»

«Capisco…»

Si mise seduta accanto al letto. Ferid ricordò quando poco più di due anni prima era lui a sedersi con lei in ospedale a leggerle qualcosa, ma questa volta sentiva molto imbarazzo.

«Che cosa ti ha detto Crowley?»

«Di venire subito» replicò lei, lasciandolo stupito. «Mi ha… detto del problema. Per il momento, però, non l’ho detto a Liam. Lui è a casa, non poteva prendere un permesso con così poco preavviso, ma ti manda i migliori auguri. Se vuoi lo possiamo chiamare.»

«Perdonami… ora… in realtà non ho voglia di parlargli. Non ho molta voglia di parlare con qualcuno… non ne vedo il senso, se poi…»

Ferid non riuscì a finire la frase e strinse la coperta con entrambe le mani. Krul, con un gesto di affettuosità senza precedenti, chinò la testa appoggiandola sul suo addome e le mani sulle sue.

«Non hai pensato che sei già pronto per affrontare questo?»

«Come si può affrontare una cosa del genere?»

«Con i tuoi diari… hai dimenticato quanto eri meticoloso a tenerli? Hai la capacità di vincere il tuo nemico. E poi, mi ha detto che migliorerà.»

«È quello che Crowley vuole credere, povero caro… chi può accettare in silenzio un fardello così? Neanche un cristiano come lui ci riuscirebbe.»

Krul sospirò.

«Quante lagne, Ferid. Con tutto quello che hai fatto per gli altri, tutto quello che sei riuscito a ottenere anche nel mare di guai della tua vita, ti vuoi abbattere proprio adesso che tutti noi ti diciamo che lo supererai?»

Non aveva la forza mentale per discutere, figurarsi per combattere. Restò in silenzio, fermo finché lei non sollevò di nuovo la testa.

«Mi hai portato la busta?»

«Quale busta?»

«Non fare la finta tonta» l’ammonì lui. «Sai di che busta parlo. E quando è successo ho finalmente capito che cosa c’era scritto… che cosa stavi cercando di restituirmi.»

«O hai qualcosa da raccontarmi oppure hai preso un granchio reale.»

«Avresti dovuto ragionare prima di fare un incantesimo simile. Quello che hai fatto non poteva che mettersi di traverso tra me e Crowley.»

Krul rise di gusto, dondolando sulla sedia.

«Da quando credi così tanto alla mia magia? Ti sei sempre fidato delle mie predizioni, ma hai sempre guardato i miei braccialetti runici e i miei sacchetti di buona sorte come se pensassi che fossi una povera stupida.»

Ferid preferì non rispondere: avrebbe dovuto fare un voto di fiducia nella magia e implicare che non aveva avuto controllo sul suo destino, oppure ammettere che era il solo responsabile della sua debolezza. Non voleva sbilanciarsi in nessuna di quelle due scomode posizioni.

«Com’è lei?» domandò Krul, confermando così la sua intuizione.

«Una strega.»

«Non ne hai trovata una meglio?»

«No, intendo dire una strega vera. Una strega verde. È una wiccan come te.»

Krul batté le mani per la gioia, come una bimba a cui viene regalata una bella bambola.

«Ah, perfetto, stupendo! Bene, almeno tuo figlio avrà due visioni diverse della spiritualità. Avrà una mente aperta, questo è molto importante.»

Il suo commento cadde nel silenzio. Dopo un po’ si decise a fare una domanda che, secondo Ferid, avrebbe dovuto porgli molto prima, se non addirittura porsela da sé prima di pensare di prendere delle iniziative non richieste.

«Crowley come l’ha presa?»

«Crowley è la migliore persona che potrei mai incontrare in questo mondo… si è risentito, questo lo so. Ma ha fatto l’impossibile per non farmelo vedere. Ha detto che è felice per me, che merito di diventare padre… ma io… non ne sono così sicuro.»

«È un diritto che ti è stato tolto dalle scelte egoiste e distruttive di qualcun altro. Io ti ho solo restituito quel diritto… e non ho pilotato nulla, non ho scelto per te. Io volevo che tu potessi crescere un figlio, ma non ho chiesto che tu ne procreassi uno. Solo che lo ottenessi

Ciò non migliorò come si sentiva con se stesso, perché aggiunse il senso di colpa per averla accusata.

Krul picchiettò la sua mano in un tiepido gesto incoraggiante.

«Avete idea di come organizzarvi?»

«No… ma Estelle non ha una famiglia che sarebbe felice di riprendersela incinta di un uomo che sta con un altro uomo, quindi… penso che verrà con me quando torno nel West End. Se è così… immagino terremo il bambino a giorni alterni, o… non lo so. Ora non riesco neanche a chiamarla per decidere…»

Krul sospirò e prese a frugare nella sua borsa a sacco con ricamo di pipistrelli.

«Un passo alla volta, con calma… intanto vediamo cosa possiamo fare per sistemare la tua aura. È agitata come acqua che bolle in pentola.»

Ferid sospirò a sua volta, chiudendo gli occhi. Al momento la sola cosa che sentiva agitata era la sua coscienza e non conosceva erba, cristallo o persino libro che fosse in grado di acquietarla.

 

****

 

 

Mikaela lasciava vagare lo sguardo sui tavolini del locale, sulla gente che camminava al di là della vetrina e sul traffico della Madigans. Si sentiva ancora spaesato, dopo tanto tempo passato a Bluefields, dove arrivava ovunque se solo era disposto a camminare per un po’ sotto il sole o al freddo e c’erano sovrumani silenzi, come li aveva definiti una volta Ferid citando un famoso poeta.

Eppure questi erano il mio ristorante preferito… il mio tavolino preferito… e il mio uomo preferito.

Davanti a lui Yuu stava farcendo con la consueta pignoleria il panino che ordinava più spesso, quello doppio con il bacon e due tipi di formaggio. Lo aveva ritrovato come l’aveva lasciato: spontaneo, sincero, energico, allegro, innamorato… eppure lui non vedeva lo stesso ragazzo di prima.

O forse sono i miei occhi che non sono uguali a prima…

Yuu concluse la sua minuziosa operazione e rimise il pane in cima, pronto a mangiare. Gli lanciò uno sguardo e un sorriso.

«Allora, stavamo dicendo… quel padre Vann, come si chiama…»

«Mackham… Emil Mackham.»

«Ha raccontato tutto quanto all’FBI?»

«A partire da quando da giovane quel suo amabile fratello l’ha incastrato filmandolo con una spogliarellista che in realtà aveva sedici anni» confermò Mika. «Con quel video l’ha costretto a fargli incontrare una ragazza che gli piaceva, nella comunità di Nashville. Quando è andato per denunciare la cosa al suo superiore quello gli ha detto di far pagare il servizio agli amici di suo fratello.»

«Che tizio schifoso! E vanno in giro a dire che sono preti? Gilbert li riempirebbe di botte.»

«Pensa che Emil Mackham ha scritto a padre Maim, il pezzo grosso su in Michigan, per farglielo sapere. E per bella risposta gli ha detto di gestire l’affare.»

«Ora che ci penso, anche io li riempirei di botte.»

Mika sorseggiò la limonata mentre Yuu aggiungeva qualche dettaglio cruento poco appropriato alla bocca di un agente di polizia.

«E quel ragazzo… quello che ti somiglia… è un suicidio, allora?»

I toni di entrambi si abbassarono un poco.

«Sì. Il Bureau ha scoperto che Lanius conosceva bene Madison. Aveva scoperto alcuni degli abusi, forse aveva qualche registrazione o delle lettere, ma gliele hanno prese prima di ammazzarlo. Madison ha detto a un detective di insistere, che non era un incidente, ma non gli hanno dato retta… forse per questo non si è fidato ad andare alla polizia a denunciarli.»

«Dev’essersi sentito molto solo.»

«E obbligato ad agire perché Lanius non fosse dimenticato… ha avuto un incredibile coraggio. Ha bevuto, assunto ketamina, e ingoiato la capsula con il nome di James Beam per dare al prossimo investigatore tutti i pezzi del puzzle… ma la ketamina causa vomito, e l’ha rigettata prima di buttarsi in acqua. Non è riuscito a rimandarla giù.»

«Mi fa tanta compassione… se solo qualcuno come te si fosse interessato al caso laggiù, le cose sarebbero andate diversamente.»

«Senza il suo sacrificio non ne sarebbe venuto nulla… e forse l’avrebbero ammazzato loro in un banale incidente. È stato bravo a trovare una strategia con probabilità più alte di vendicare il suo amico e fare giustizia… peccato che il sacrificio fosse necessario.»

Yuu gli lanciò un’occhiata critica che conosceva bene.

«Non mi piace quando parli come se la vita fosse una partita a scacchi… nella vita dovresti giocare per non perdere i pezzi, non per fare scacco matto.»

«Hai ragione… scusami.»

Scrollò le spalle, come a minimizzare il colpo.

«L’FBI ti ha detto anche cos’hanno trovato, mentre eravate là?»

«Per lo più cose da indagine, quelle che controlla anche Crowley: conti bancari, il passamano delle presunte donazioni… soldi che hanno preso per strani servizi di tipo religioso, extra tasse, ovvio.»

«Un po’ come Al Capone?»

«Un po’ come Al Capone. Pensavano che il primo emendamento li avrebbe protetti anche dalle indagini per frode… poi il tranello ha fatto il resto. Nereus ha spiattellato quasi tutto quello che aveva combinato a portata d’orecchio di un agente del Bureau… le cause private per danni che i membri coinvolti muoveranno alla Chiesa finiranno di distruggerla.»

«E così finisce il sogno di dominio di un’altra setta.»

«La Chiesa dell’Acqua non è una setta» lo contraddisse Mika, incapace di celare un sorrisino. «Aveva a capo qualche testa marcia… ma il suo credo non è malato. Non mira alla distruzione dell’individualità, né alla manipolazione dei membri… il suo culto è pulito. Ma immagino finirà per essere spazzato via dallo scandalo…»

Yuu mise giù il mezzo panino rimasto e si pulì per bene le dita. Lo guardava con un’aria seria che non gli fece presagire qualcosa di buono.

«Sai, non sembri il mio Mika.»

Una stretta allo stomaco gli impedì di deglutire il boccone.

«Sei così… uh… non so se ho la parola giusta… però, insomma, prima ti arrabbiavi per tutto. Il traffico, il disordine, io che non mi vesto quando mi alzo la mattina… ora sembra quasi che non t’importi di niente. Ho bevuto il tuo kefir dalla bottiglia davanti a te, stavo tutto nudo e non hai detto una parola.»

«Sei il mio ragazzo» replicò lui, alzando le spalle.

«Lo sono sempre stato, ma strillavi come un’aquila quando bevevo dalla bottiglia del latte… e poi ogni tanto guardi dalla finestra con l’aria stordita. Non so se sei a posto.»

«Disturbo da stress post traumatico, forse. Non farci caso» biascicò Mika.

Yuu unì le punte delle dita in un modo che gli ricordò molto Ferid.

«Non mi parli ancora di quell’altro?»

Gli sfuggì la forchetta e annaspò inutilmente per riprenderla. Cadde a terra, ma nessuno dei due la degnò di attenzione: Yuu lo fissava con un vago sorriso, Mika si sentiva come se invece di cadergli di mano la forchetta gli si fosse bloccata in gola.

«Quell’altro chi?»

«Lo sai l’altro chi… Mika, pensavi che non me ne sarei accorto?»

La gola gli si prosciugò in un attimo. Non aveva idea di come potesse essersi reso conto che l’aveva tradito. Iniziò a pensare a totali assurdità, come l’avere un altro odore o dei segni permanenti, visibili a tutti ma non a lui.

«Conosco ogni tuo gesto… tutto quello che ti piace. Pensavi che non mi sarei accorto che ti sei abituato a un corpo diverso dal mio?»

«Questo non è vero» replicò in modo quasi automatico.

«Certo che è vero. Eri disorientato da me… e anche… annoiato, mi sembrava. Mi sa che l’altro è più bravo di me.»

Bastò abbassare le palpebre e in quella frazione di secondo rivide Lucky, risentì il peso del suo corpo addosso, la forza con cui lo stringeva. Quando li riaprì non aveva neanche un appiglio per mentire.

«Mi dispiace, Yuu… non… non sapevo come dirtelo.»

L’ammissione non cambiò molto nell’espressione del suo ragazzo, se non una piccola traccia di fastidio che dissimulò rapidamente.

«Non fa niente, Mika… può succedere… sono circostanze speciali, quindi regole speciali, no? Tieni, prendi la mia forchetta. A me non serve.»

Allungò la mano per prenderla, ma il cibo non aveva più la minima attrattiva. Non l’aveva quel ristorante, non l’aveva New Oakheart, e per quanto gli dolesse ammetterlo non l’aveva la sua intera vita. La sua frustrazione gli fece schiantare la forchetta sul tavolino anziché appoggiarla.

«Ehi… Mika?»

«Mi dispiace. Mi dispiace, Yuu, io… non volevo parlarti di quel ragazzo, non te lo volevo dire. E pensavo che tornare a casa avrebbe sistemato tutto, ma tu hai ragione, e io non sono il tuo Mika. Non lo sono più.»

Finalmente Yuu smise di sorridere.

«Che t’è preso, adesso?»

«Io non sono più lo stesso che è arrivato a Bluefields con uno zainetto e un piano con più buchi di un colapasta. Ho conosciuto delle persone, ho vissuto una vita che… che non credevo neanche potessi avere. Ho conosciuto una realtà che non mi aspettavo. Non…»

Mika inspirò profondamente per trattenere l’emozione. Al di là del vetro New Oakheart era un caotico alveare di api laboriose con il loro lavoro da portare a termine e il loro piccolo mondo in cui vivere… ma lui ora si sentiva una rondine, e l’inverno incombeva.

«Questa vita non è quella che voglio.»

«Andiamo… Mika… sei tornato da pochi giorni! Devi ancora scrollarti di dosso quell’esperienza, passerà… appena tornerai al lavoro vedrai che tornerai in te.»

«Yuu, ti sto dicendo che non sono felice qui.»

Yuu spostò il piatto coi resti del panino e incrociò le braccia sul tavolo.

«Intendi dire che vuoi andare davvero a Quantico?»

«Non credo di volerci andare, no.»

La rabbia iniziava a intaccare Yuu, e Mika ne fu sollevato, perché da lui cercava delle reazioni che potesse soppesare.

«E allora si può sapere che cos’è che vuoi? Vuoi andartene con quell’altro?»

Mika girò la testa, come se gli fosse volata una mosca sul naso.

«Non ha niente a che vedere con Lucky.»

«Ah, è così che si chiama, allora. Bene, se non è Lucky che altro c’è?»

«Non te la prendere con lui, Yuu. Mi ritengo abbastanza assennato da non pensare di rivoluzionare la mia intera vita per uno con un grosso pene.»

Yuu raddrizzò la schiena contro la sedia, ma le braccia si intrecciarono più strette.

«Sto aspettando che mi spieghi da dove ti viene quest’idea, se non è per questo tizio!»

«Perché ho visto un altro modo di vivere! E sono andato solo in un… buco, quattro edifici isolati in mezzo ai boschi del West Virginia! Che cosa ho perso? Quante cose ho visto senza guardarle? Ho vissuto con la morte di mia sorella sulla schiena come un macigno, aggrappato a te, per tutti questi anni, e adesso io… vedo che c’è un mondo… un mondo di posti, di persone e di cose che ho ignorato!»

La rabbia di Yuu si raffreddò e le braccia si districarono.

«E tu… vuoi che ti lasci andare. Vuoi andare a scoprirlo da solo, è questo?»

«Sì» gli rispose a mezza voce. «Ho bisogno di… sapere che non sono legato da catene… che non sono… obbligato a tornare.»

«Per… per la miseria, Mika…»

Yuu si passò le mani sulla faccia, stravolto. Era un flagello anche per lui dargli un dolore, ma continuare a fare finta di non essere mai stato a Bluefields non sarebbe servito a nessuno dei due se non riusciva neanche a farlo vivere in un confortante inganno. Cadde un silenzio lungo due minuti pieni, prima che Yuu risollevasse la testa.

«Finisce così… allora?»

«Yuu… senti… se tornerò a cercarti, io… voglio che sia perché non ho trovato niente, là fuori, che mi facesse stare bene come la vita che ricordo insieme a te. Ma non voglio arrivare a detestarti, fra qualche anno, perché mi sono sentito intrappolato da una scelta che abbiamo fatto da troppo giovani.»

«Oh, Mika, andiamo… sei capace di stare sveglio una notte a giocare a scacchi su Chessmaster e compri cose che non usiamo solo perché hai i coupon, perché devi iniziare a fare scelte mature piantando me?»

Mika non trovò niente da dire, anche perché non riuscì a capire se fosse serio o se volesse essere un tentativo di ironia. Yuu si passò la mano nei capelli con un sospiro.

«D’accordo… è… Capisco il tuo pensiero, dico davvero… è giusto… è… sì, ho sempre detto che ti dovevi aprire, che ti volevo felice. È ancora così.»

Tirò un gran sorriso, ma non riuscì a dissimulare del tutto che gli colava il naso.

«Se è quello che vuoi… allora fai quello che ti senti.»

Prese il telefono dalla tasca e si alzò dalla sedia.

«Io… sono stato invitato da Harry qualche volta, mentre non c’eri, per giocare a Need for speed. So che ha una stanza nel seminterrato per quando viene suo fratello in città, e… ti spiace se lo chiamo ora? Se può ospitarmi stanotte sto da lui… mi… mi farebbe troppo strano dormire insieme stasera.»

«Oh… no, io… lascia stare, Yuu. È colpa mia, me ne vado io… chiamo Ferid e gli dico che mi appoggio nel suo appartamento.»

«No, tu… tu hai da fare… le valigie. Mi faccio ospitare da Harry.»

Yuu uscì dal locale e Mika lo guardò telefonare dalla vetrina, con il senso di colpa che lo sbranava dall’interno. Era un comportamento egoistico, stava buttando via i sacrifici che avevano fatto insieme, tutto quello che erano stati… ma dentro di lui sapeva di non poter più essere quello che era stato. Non sapeva chi o cosa sarebbe stato felice di diventare e proprio perché non lo sapeva aveva la necessità di partire.

Nevicava su New Oakheart e, d’impulso, decise di andare verso sud.

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Capitolo 30
*** Le vie infinite ***


Crowley non vedeva l’ospedale del West End da quando Ferid era stato avvelenato con l’aconito. Questa volta però lo andò a cercare in un altro reparto, al primo piano dell’ala sud. Sbirciò dentro un paio di stanze con la porta aperta, poi lo trovò sulla panca nel corridoio, seduto a gambe incrociate. Una serie di vagiti veniva dal fagottino che teneva sulle gambe, dal quale un braccino minuscolo si muoveva.

Bussò piano sulla parete per annunciarsi. Ferid lo guardò con un sorriso incerto.

«Ciao… come mai qui?»

«Sono venuto a vedere tuo figlio.»

Il suo sorriso divenne più convinto e prese il neonato in braccio con tutte le attenzioni di un genitore che non aveva mai avuto a che fare con bambini piccoli. Crowley si avvicinò, ma non si sedette accanto a lui.

Il bambino era piccolo e vivace, aveva ancora il naso schiacciato ma un paio di vividi occhi azzurri e pochi capelli chiari, dal riflesso biondo. Suo malgrado il tenente sorrise e si lasciò vincere dalla tentazione, accarezzandogli il visetto con il dito.

«Ti assomiglia già adesso… ma tu non hai mai avuto delle guance così piene, neanche quando ti sei ingozzato di burritos.»

Il risolino di Ferid venne quasi coperto da un vagito acuto del piccolo.

«Lo conosci da venti secondi e gli stai già raccontando cose imbarazzanti su di me…»

«Gli interesseranno molto quando sarà un po’ più adolescente» lo rassicurò Crowley. «Allora? Ora sei papà… come ti senti?»

Ferid fece un sospiro che aveva un che di sognante. Non riusciva a staccargli gli occhi di dosso e per lui questa era già una risposta.

«Sono terrorizzato… ce l’ho qui da un paio d’ore e mi sto già chiedendo se farei bene a dargli tutto quello che vuole o se dovrei fargli sapere quanti fondi ha solo da grande, quando si sarà costruito una carriera… o in quale modo lo dovrei motivare a studiare. Credo che prima di mezzogiorno le mie preoccupazioni saranno sul suo piano di pensionamento.»

Crowley rise e scosse la testa.

«Ferid, credimi, ti sentirai uno scemo domani quando il tuo panico sarà tutto perché non sai come tenerlo fermo e chiudere un pannolino con sole due mani.»

Il nervosismo s’impennò come un cobra reale. Ferid guardò il pannolino nello stesso modo in cui guardava un ingrediente dimenticato sul ripiano a ricetta conclusa.

«Io non ho figli… ma i miei cugini ne hanno due a testa. Se vuoi essere un bravo genitore goditi le sue fasi, perché quando sono piccoli durano un attimo e il giorno dopo non sono più gli stessi. Ora pensa al latte, ai pannolini anallergici, al talco e… beh, ti risparmio le immagini peggiori. Ti piacerà lo stesso. I genitori diventano incapaci di provare disgusto per tutto il tempo in cui la loro prole ha da zero a otto anni.»

«E dopo gli otto?»

«Iniziano a lamentarsi del fango sui vestiti, se ricordo bene.»

Ferid rise. Crowley provò quasi un dolore fisico al petto quando lo vide strusciare il viso con quello del bambino, come i gatti affettuosi o i bambini con i loro peluche preferiti.

Si voltò verso la stanza con il vetro e si avvicinò per guardare bene, per la prima volta, la donna del miracolo. Quella con cui Ferid lo aveva tradito – di per sé l’atto non gli aveva fatto eccessivamente male, date le circostanze – e che gli aveva dato il tesoro di una vita. Questo gli aveva impedito di incontrare quella donna fino ad allora: la consapevolezza che anche standogli accanto una vita con il massimo della devozione non avrebbe mai dato a Ferid qualcosa di altrettanto prezioso.

«Qual è?»

Ferid sembrò apparirgli accanto per magia tanto era stato veloce e silenzioso.

«La mora, nel letto in fondo.»

Crowley guardò meglio Estelle Young, che si stava pettinando i capelli corvini con l’aiuto dell’infermiera. Pur reduce da una notte di travaglio e da un parto era stupenda, e non riuscì a negarlo neanche pescando dentro il piccolo pozzo di gelosia che provava per lei.

«Dannazione, Ferid. È bella veramente.»

«Lo so.»

«Che diavolo ci fai a casa mia? Persino io ti mollerei per lei.»

Ferid rise abbastanza forte da indispettire il bambino, che minacciò di scoppiare a piangere. Il modo in cui lo cullava per scongiurare il pericolo lo faceva sembrare un artificiere alle prese con una bomba, e quando il piccolo si placò sospirò come se avesse ripreso il controllo di una macchina che slittava sulla neve.

«Sto da te perché ti ho scelto… poco importa quanto bello sia chiunque altro, e che cosa sono in grado di regalarmi… la mia vita non è completa senza di te.»

Crowley gli diede un bacio sul viso, assicurandosi che Estelle non potesse vederli dalla stanza. Per geloso che fosse non poteva mancare di tatto nei confronti di una donna che stava per iniziare una vita da madre single, anche se finanziariamente e moralmente supportata.

Poco dopo Ferid si rimise seduto in quella strana posizione giustificandosi con “tre chili di neonato pesano più di tre chili di ferro”, e depose il suo piccolo erede nello spazio della sua gamba piegata: ci calzava come un fagiolo nel suo baccello.

Almeno per i prossimi dieci giorni…

«Che peccato, però…»

«Che cosa?»

«Che sia un maschietto… speravo che fosse femmina» ammise Ferid. «Così tu… l’avresti adorata di sicuro.»

«Non essere stupido, Ferid. È tuo figlio, non dovresti neanche pensare delle assurdità del genere… e siccome è tuo figlio io l’adoro a prescindere.»

Erano discorsi che non avevano affrontato per tutta la durata della gravidanza di Estelle. Crowley si offrì di prendergli qualcosa da bere, per lui e per prepararsi psicologicamente: se finora avevano rimandato tutti i dettagli tecnici e ogni discussione su quello che sentivano e sui loro ruoli, adesso erano inevitabili.

Quando tornò portandogli una bottiglia di acqua e una di tè alla pesca, però, trovò Ferid che piangeva. Teneva il bambino in braccio, ma dagli occhi scendevano lacrime copiose come gocce sulla finestra in un giorno di pioggia.

«Ferid… ehi, che succede?»

«Ho paura di dimenticarmelo» rispose lui con la voce rotta. «Ho paura di non ricordare il giorno in cui è nato l’unico figlio che avrò… di dimenticarmi che tu c’eri, che cosa ho sentito… di dimenticarmi come vedo Eden adesso.»

Crowley sospirò. Non aveva tutti i torti, ma non avrebbe avuto senso alimentare il suo terrore, guastandosi magari senza ragione uno dei giorni più emozionanti della sua vita.

«Non succede da tanto… vedrai che non lo perderai.»

«Ma se succede oggi?»

Appoggiò le bottiglie sulla panca e prese il cellulare dalla tasca. Passando tanto tempo con Yuu nei mesi di assenza dei loro partner aveva imparato a usarlo meglio, così accese il video mentre inquadrava Ferid.

«Sei in onda, Ferid. Smetti di piangere, questo resterà negli annali.»

«C-che… n-non riprendermi!» protestò lui, asciugandosi la faccia con la manica.

«Così ricorderai tutto. Ricorderai che tempo faceva, che io ero qui, che aspetto aveva tuo figlio e quanto eri patetico.»

«Oh, che comportamento gretto, Crowley! Aspetta… taglia questa parte, facciamone un altro…»

Crowley sorrise e ingrandì la ripresa sulla sua faccia arrossata.

«Neanche per sogno. Quando sarà grande si divertirà a vedere che ti cola il naso…»

«Meschino» sibilò lui.

Decise di dargli un attimo di privacy per soffiarsi il naso e nel mentre inquadrò il bambino, i cui occhi si richiusero sonnolenti mentre lo riprendeva. Quando Ferid fu presentabile allargò il campo per includerlo.

«Okay, Ferid, ora sei serio. Dicci che giorno è, dove siamo e chi c’è con te.»

«Oh, Crowley… è stupido…»

«No, è un documento importante. Lo vedrà quando sarà grande.»

Lui sospirò e si schiarì la gola.

«Ehm… è la mattina del diciotto giugno, è sabato… siamo al Central Hall Hospital di New Oakheart… il cameraman è un grosso scemo che in alcuni ambienti malfamati chiamano tenente Eusford» fece Ferid scoccandogli un’occhiataccia. «Qui con me c’è Eden, che è nato stanotte e pesa due chili e novecento… e la mamma si sta facendo bella. È terribilmente vanitosa.»

«Senti chi parla» commentò Crowley.

«Ehi, i cameraman non commentano!»

«Ti piacerebbe» lo punzecchiò lui. «Avanti, questo video Eden lo vedrà quando sarà alle soglie della scuola elementare. Digli due cose che è importante che sappia a quell’età.»

«Eh? Ma non lo so… perché dovrei pensarci adesso?»

«Non lo so, ma mio padre l’ha fatto con me.»

«E cosa ti ha consigliato?»

«Di non buttare via i soldi e che per baciare una ragazza ci sarebbe sempre stato tempo. Se posso dirlo, due pessimi consigli da dare a un bambino, tu cerca di fare qualcosa di meglio.»

Ferid esitò, guardò Eden per un lungo momento, poi tornò a guardare in camera.

«Penso… che ti darò due consigli che mi diedero due persone meravigliose… che mi sono stati utili… indispensabili. Il primo è: “non smettere mai di leggere”. È molto più che conoscenza… molto più che studiare. Se lo farai poi capirai perché è così importante.»

Crowley annuì. Sapeva che erano parole di Claude Trobiano, e in quel momento non poteva non essere grato a un uomo che non aveva mai conosciuto ma che, dando a Ferid quel consiglio, aveva fatto sì che si incontrassero.

«Il secondo consiglio è… sii qualsiasi tipo di uomo, purché sia vero.»

L’emozione tolse la voce a Ferid e anche al suo cameraman. Ferid si asciugò l’occhio e annuì.

«Penso… che potrai chiedere direttamente a chi me l’ha detto che cosa significa. Spero che potrai.»

Crowley incrociò gli occhi di Ferid al di sopra del cellulare.

«Certo che potrà. Io ci sarò.»

Ferid sorrise e Crowley terminò il video.

 

****

 

Guren si accigliava sempre di più a ogni passo che Yuu faceva verso il suo tavolo. Quando si sedette davanti a lui sembrava quasi accartocciato dal peso della sua irritazione.

«Che fai tu qui?»

«Ho fatto il giro di tutte le caffetterie per trovare il posto dove vieni tutti i giorni. Ordinaria amministrazione per gli investigatori. Si chiama “vecchia scuola”.»

«Non parlarmi di vecchia scuola, sei un poppante.»

«Con buoni maestri della vecchia scuola» precisò lui. «Non sono il tipo che fa tante chiacchiere, quindi vado dritto al punto. Ho una proposta per te.»

«Non hai assolutamente nulla che possa interessarmi in un senso qualsiasi» commentò Guren annoiato, abbandonando il tavolo.

«Prendi me per la tua squadra.»

Guren si girò di scatto. Quasi lo stupore aveva superato lo sdegno.

«Prego?»

«Hai detto che avevi un posto per Mikaela, no? Prendi me al posto suo!»

«Ho un posto per lui perché è in gamba ed è preparato. Perché mai dovrei volere un pivello come te?»

Yuu attese il punto di tensione più alto, quando stava per voltarsi, per sollevare un quaderno dalla copertina rigida piuttosto frusta, e tirò un sorriso più simile a un ghigno.

«Perché io ho qualcosa per cui tu e la tua squadra avete pregato» l’ingolosì il ragazzo. «Qualcosa che potrebbe fare di voi delle leggende.»

Guren dimenticò del tutto il suo tono acido e mosse ampi passi per tornare indietro, con gli occhi viola fissi sul quaderno. Yuu tirò indietro il braccio prima che potesse anche solo sfiorarlo.

«Se non mi mostri cos’è come so se ha qualche valore?»

«Gli Emissari dei Sei Divini, l’ordine delle Rovine, il Culto D’Oro, i discepoli di Aeon, la Fratellanza delle Aquile, i Gardiens de Gloire» elencò, battendo sulla copertina con la nocca. «Sono tutti nomi che sono qui dentro. Tutto quello che io voglio è esserci quando prenderete i Figli di Prometeo.»

La faccia di Guren era diventata più pallida e Yuu non poteva desiderare una reazione migliore. Ripose il quaderno sotto la giacca.

«Allora… abbiamo un accordo?»

Guren era in borghese, in jeans scuri e t-shirt stampata, eppure quando gli offrì una stretta di mano era impettito come un ufficiale di stato maggiore in alta uniforme.

«Benvenuto a Quantico, agente Amane.»

 

****

 

Nel buio, Mikaela ascoltò il proprio respiro mentre i muscoli delle gambe si stendevano uno a uno. Raddrizzò la schiena e infilò le cuffie ad archetto in modo che non si impigliassero nei capelli.

La musica che riproduceva era senza parole, in modo che potesse ascoltare i propri pensieri senza distrazione. Non sentì i passi che fece sulla strada, ma era concentrato sul suo corpo dall’interno: il battito del cuore, la profondità del respiro, la contrazione dei muscoli, la pressione della suola contro l’asfalto, l’umidità dell’aria sulla pelle…

Quando abbandonò Mountain Road le sue scarpe raggiunsero la massima efficienza, come il suo corpo che iniziava a essere sveglio. Stese la mano per sfiorare il grano, perché sarebbe stata l’ultima mattina in cui avrebbe attraversato correndo quella distesa d’oro accarezzata dalla luce aranciata dell’alba.

Il sole stava sorgendo sui campi del Kentucky.

 


 

E siamo di nuovo alla fine di un altro viaggio insieme, o almeno a un'altra tappa di un viaggio iniziato tempo fa, perché immagino che se sei qui è perché hai iniziato dal Vampiro di West End. 
Come autrice, a me sembra passata una vita da allora anche se il Vampiro è una storia che prende forma nel periodo del lockdown del 2020: ho studiato e (spero) imparato nel frattempo, e percepisco una grande distanza dal primo capitolo a questo finale del secondo "libro". Spero che una trasformazione positiva sia arrivata anche a te.
Lascia che ti ringrazi, perché leggere una quantità di parole come il Vampiro e la Chiesa equivale a leggere tre o quattro romanzi, considerando la media dei libri sentimentali, thriller e gialli. E questo tempo tu l'hai dedicato a me. Per questo ti ringrazio dal profondo del cuore.

Tra non molto inizierò la pubblicazione dell'ultimo arco della serie, più breve di questi, ma che li conclude (mi auguro) con soddisfazione. Confido che tu abbia voglia di camminare con me ancora un po' e chiudere questo viaggio insieme.

A presto.

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