A prova di proiettile

di AlessandraCasciello
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** CAPITOLO PRIMO ***
Capitolo 2: *** CAPITOLO SECONDO ***
Capitolo 3: *** CAPITOLO TERZO ***
Capitolo 4: *** CAPITOLO QUARTO ***



Capitolo 1
*** CAPITOLO PRIMO ***


 
A San Benedetto del Tronto l’estate era sempre uguale, ma bellissima.
Ad agosto la città si riempiva di turisti e di famiglie che aspettavano giugno per fare i bagagli e trasferirsi nelle loro seconde case, buttandosi alle spalle l’anno passato. I bambini sgattaiolavano dal proprio ombrellone e dalle grinfie dei loro genitori per costruire castelli di sabbia sulla riva, che avrebbero poi distrutto con qualche calcio carico di violenza. Il corso era gremito di ragazzi che passavano il pomeriggio con qualche vasca, da Via XX Settembre fino alla fontana di Piazza Giorgini, sviando poi verso il lungomare.
Li guardavo di sbieco, studiando i pezzi di stoffa aderenti che avrebbero dovuto coprire gran parte del loro corpo. Osservavo la loro spensieratezza, che avrebbe dovuto essere adeguata soprattutto ai miei diciannove anni di età, con una strana malinconia, mentre sfrecciavo lungo gli scogli del lungomare, diretta verso la statua del Pescatore che si stagliava imponente qualche metro più avanti. Una volta arrivata, mi fermai, rispondendo al cellulare che suonava ormai da dieci minuti.
Si scostò dal viso i capelli castani, asciugandosi il sudore dalla fronte.
“Pronto?”
“Olivia Pozzi, - la voce di Serena tuonò così imponente dall’altra parte del telefono che dovetti allontanarlo dall’orecchio, con una smorfia contrariata – sono furiosa con te”
“Cosa ho fatto?” chiesi, mettendo il cavalletto alla bicicletta ed andandomi a sedere sullo scoglio coperto dall’ombra della statua alle mie spalle.
“Un uccellino mi ha detto che sei arrivata questa mattina, e te non mi hai detto niente!” alzai gli occhi al cielo, lanciando un sassolino verso il mare blu di fronte a me.
“Sono arrivata neanche tre ore fa, Serena. Mia madre stava ancora sistemando i bagagli. Sono fuggita con la bici per farmi un giro in santa pace. Ah, e farò finta di non aver capito che il tuo uccellino sia Brando”. Potei giurare di sentirla sorridere dall’altra parte del telefono.
Serena era una sambenedettese DOC, convinta di emigrare un giorno per studiare qualsiasi cosa che non fosse possibile frequentare nelle Marche. Viveva in letargo: l’inverno si rinchiudeva in casa a studiare per la scuola, uscendo solamente nei soliti pub con i suoi compagni di classe, e l’estate rifioriva con il mio arrivo e quello degli altri. Eravamo un bel gruppo, uno di quelli che si ritrovano l’estate come se si fossero visti qualche giorno prima.
“Beh, non mi interessa: dimmi dove sei e ti raggiungo”
“Sto alla statua del Pescatore”
“Dammi 15 minuti nemmeno”. Mi riattaccò. Riposi il telefono nella mia borsa di tela, godendomi quegli ultimi minuti di calma piatta. Chiusi gli occhi, lasciando che la brezza marina – che tanto avevo agognato a Roma– mi sferzasse il viso ancora pallido. Stesi le gambe, facendo unire le punte delle mie converse bianche. Lasciai che il mio peso si abbandonasse all’indietro, facendo leva sui gomiti. Ora sì che stavo bene: la maturità era finita decentemente, avevo preso la patente e...
Forse lo avevo dimenticato.
Scossi la testa, tirando un altro sasso nell’acqua, sorridendo al tonfo sordo.
“Te l’ho già detto, Max: ti ho ridato tutti i soldi. Non ti devo un centesimo”
Un marcato accento locale interruppe i miei pensieri, facendomi voltare alla mia sinistra. Un ragazzo, probabilmente della mia età, stava al telefono. Agitato, andava avanti e indietro tirando i calci a qualsiasi cosa gli capitasse sottopiede. Spesso alzava gli occhi al cielo verso il grande binocolo del Pescatore, con un’espressione confusa, a tratti disperata. Mi fermai ad osservarlo meglio: anche la sua pelle era molto pallida, in contrasto con gli occhi nocciola, dello stesso colore dei suoi capelli. La sua mascella era spigolosa, ben delineata, che contraeva per il nervoso ogni due secondi. Mi domandai cosa stesse sentendo dall’altra parte del telefono per innervosirsi così tanto. Abbassai lo sguardo verso i suoi indumenti: indossava una t-shirt bianca sbrindellata, che cadeva in modo casuale su un bermuda verde bosco, che mostravano le sue gambe magre ma toniche. Ai piedi, le mie stesse scarpe: un paio di converse bianche, decisamente più sudicie delle mie.
Mi concentrai di nuovo sulla telefonata, cercando di tradurre tutto nei minimi dettagli:
“Ho fatto di tutto per ridarti quei soldi. Di tutto. Ora me ne stai chiedendo degli altri? Ho estinto già tutti i miei debiti. Cosa vuoi che faccia ancora...”
Mi protesi un altro po’, cercando di catturare tutta la conversazione.
“Non se ne parla, Max: niente più missioni”. Corrugai la fronte, mordendomi il labbro.
“Io...aspetta”. Il ragazzo interruppe un attimo la telefonata. Io continuai a tendere l’orecchio, guardando il mare dritto di fronte a me. Aspettavo, aspettavo, aspettavo...
“Hai finito di origliare?” una voce alle mie spalle mi fece sobbalzare. Mi alzai di scatto, rischiando di scivolare sugli scogli. Il ragazzo prese al volo il mio braccio, tenendomi in piedi.
Non mi ero resa conto che non stavo solo tendendo l’orecchio, ma stavo anche inclinando tutto il mio corpo verso il ragazzo per sentire meglio, mordendomi il labbro e chiudendo gli occhi.
“I-io...non stavo origliando”
“Ci hai provato, però”, mi ammonì il ragazzo. Mi scrollai dalla sua presa, pulendomi i miei calzoncini di jeans.
“Non me ne può importare un accidenti della tua telefonata”
“Non sembrava” mi disse il ragazzo a braccia conserte, scrutandomi.
“Beh, non era così. Ora devo andare, se non ti dispiace”, feci il giro largo, allontanandomi da lui di qualche metro. Il ragazzo abbasso lo sguardo, annuendo come se avesse capito tutto: chi fossi, da dove provenissi, perché stessi lì. Mi irritò parecchio, cosa che mi portò a sbattere i piedi mentre cercavo di camminare sugli scogli come se fossi più agile del normale.
“Ah, e comunque”, gli gridai, voltandomi un’ultima volta verso di lui, “La prossima volta che parli al telefono, parla a bassa voce, cretino!”
Potei giurare di averlo sentito ridacchiare, mentre inforcavo la mia bici, schizzando verso il centro. Con le guance rosse per la rabbia – o per l’imbarazzo? – mi diressi verso il porto. Sfilai il telefono dalla tasca.
“Pronto Serena? Sì, sono io. Senti, mi sono spostata dalla statua del Pescatore. Ora sono al porto. Ci vediamo qui, sì sì, ciao”. Attaccai, sospirando. Il mio primo giorno di vacanza già si dimostrava più movimentato del solito.
Ci sono odori che in alcuni posti non puoi sentire, come l’odore delle barche a Roma. Ne approfittai, inspirando a pieni polmoni quell’aroma di acqua e pesce stagnante.
Il suono di un campanello mi avvertì che Serena era arrivata con la sua nuova bicicletta rossa fiammante. Era così emozionata che la buttò per terra senza nessuna cura, saltandomi addosso urlando di emozione.
“Non ci posso credere che sei arrivata! Ho aspettato così tanto! Ti devo raccontare tante di quelle cose che ti girerà la testa, questa sera. Ah sì, poi ti accompagno a casa a sistemare le tue cose così ne approfitto per salutare i tuoi. Dio, quanto mi siete mancati! Poi stasera usciamo anche con gli altri, eh. Sono arrivati tutti: Brando, Ciccio, Marti. Non vedo l’ora, che bello!” risi alla sua raffica di parole che riusciva a sparare in meno di un minuto.
Anche lei, nell’ultimo anno, era cresciuta: i suoi capelli mossi e biondi le erano cresciuti fin sotto il seno, e sembrava quasi che si fosse alzata di qualche centimetro. I suoi occhi azzurri erano sempre grandi e bellissimi, a differenza dei miei marroni, e la sua pelle era già abbronzata. Il suo accento sambenedettese rendeva tutto quello che diceva una melodia cantinelante, e mi arresi già da subito ad essere contagiata entro la fine di Agosto.
“Perché ti sei spostata dalla statua?” mi domandò Serena sedendomi vicino a me sul muretto del porto, facendo ciondolare le gambe verso l’acqua. Le enormi barche si stagliavano sopra di noi, regalandoci un quadratino d’ombra.
“Perché ho incontrato un cafone”, le spiegai incrociando le gambe e pulendomi le mani dalla polvere. Serena mi esortò a spiegarle meglio con un’espressione accigliata.
“Stava parlando al telefono...avrà avuto l’età nostra. Il suo tono di voce era così alto che non ho potuto fare a meno di ascoltare o, a detta sua, di origliare. Fatto sta che mi ha placcato alle spalle chiedendomi perché stessi origliando in modo prepotente”
“Di cosa stava parlando?” Ragionai sul dirle la verità: Serena era una pettegola, da brava ragazza di provincia. Calcolando che l’accento del ragazzo era sambenedettese, e immaginando che fosse di lì, evitai di spifferare i suoi cavoli per la città.
“Mah, niente...litigava con una ragazza...”. Serena ridacchiò, tirando fuori una sigaretta dal pacchetto di Marlboro che aveva nella sua borsetta nera.
“Un po’ nervosetto, il ragazzo”, commentò, accendendosela. La fissai accigliata.
“Da quant’è che fumi?”
“La maturità è stato un periodo difficile” spiegò, ciccando di fronte a lei, spostandosi la gonna a balze rossa che aveva, per non rovinarla. Scossi la testa in segno di disappunto.
“Non ci vediamo per un anno e guarda che succede”
“Attenta, Olivia: questa estate verrai anche te nel lato oscuro”
“Ne dubito”
“Il prossimo anno avremo venti anni, sai? Questo è l’ultimo anno da adolescenti”
“Infatti, Sere. Cerchiamo di terminarli in tranquillità”, dissi alzandomi da terra, guardandomi intorno. Qualche barca iniziava a muoversi, andando verso acque più profonde per la pesca stagionale. Salutai calorosamente un amico di mio padre che passava di lì, promettendogli di farlo richiamare.
“Ti volevo chiedere, invece – iniziò Serena alzandosi anche lei, avvicinandosi in modo affettuoso – lui è tornato alla fine?”.
Un silenzio assordante piombò tra di noi, e per me in tutto il mondo. Riuscivo a sentire solamente il verso dei gabbiani che si posavano sull’acqua, in attesa di catturare la loro prossima preda. Sentii il viso farsi sempre più cocente, e un nodo in gola non mi permetteva di parlare adeguatamente. Incrociai le braccia, guardando altrove.
“No, Sere. Lui non è tornato. E forse è meglio così”.

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Capitolo 2
*** CAPITOLO SECONDO ***


Mentre frugavo dentro la mia valigia ancora da disfare, cercando qualcosa di decente da mettermi per la mia prima serata in vacanza, il brusio dalla cucina di mia madre e Serena che parlavano mi distraeva. Parlavano come due vecchie amiche della stessa età, consigliandosi reciprocamente sulle varie vicissitudini della vita quotidiana, e delle esperienze pesanti e leggere vissute durante i mesi precedenti. Mio padre se ne stava in silenzio, leggendo il giornale cartaceo sulla poltrona. Era un’abitudine che aveva mantenuto nonostante gli smartphone, la tecnologia e tutto quel progresso che gli metteva solo più nostalgia, diceva.
Decisi di indossare un vestito marrone abbastanza attillato, coprendo le spalle nude con i miei capelli lunghi e marroni. Indossai un paio di stivaletti per restare comoda, e mi truccai leggermente con un velo di mascara. Mi fissai per cinque secondi davanti allo specchio: ero cresciuta dallo scorso anno. Chissà se gli sarei piaciuta così, a lui. sospirai, prendendo la mia borsa con il mio cellulare ed il mio portafoglio, chiudendomi alle spalle la porta di camera mia.
“Sono pronta” Serena e mia madre alzarono lo guardo verso di me, sorridendomi. La mia amica bionda e super acchittata per la serata iniziò a battere le mani, guardandomi.
“Quanto sei bella! Dai, dobbiamo andare che ci aspettano tutti”, mi prese per mano tirandomi verso la porta.
“State attente, e non fate troppo tardi” si raccomandò mia madre. Serena ridacchiò, “Di stare attente te lo possiamo promettere...ma di fare presto bisogna vedere”.
La serata era caldo, e lo straccio di venticello che speravo di provare una volta trasferita al mare non si faceva vedere. Il lungo mare era pieno di gente ammassata, indecisa su quale locale occupare per la serata. Serena mi tirava per un braccio, camminando a passo spedito verso il primo chalet verso il centro. Una volta che vidi in lontananza le teste di Brando e Andrea, sbracciai energicamente, correndo verso di loro e cingendoli in un caldo abbraccio. Profumavano di estate, di ricordi, di infanzia e di spensieratezza.
Anche loro erano cresciuti, ed anche loro erano provati dalla fine della maturità.
Serena mi tirò di nuovo, questa volta verso il bancone del bar dello chalet che quella sera serviva ad open bar. Ordinammo il solito gin lemon, ritornando dai nostri amici.
“Olivia, aspettavamo solo te! Ora sì che è iniziata l’estate”, esortò Brando dando inizio ad un bellissimo brindisi. Tracannammo i nostri drink, andando verso la pista ed immergendoci nella calca. Iniziammo a ballare come se non avessimo ascoltato musica per un anno, o come se fosse l’ultima volta che potessimo ascoltarla in vita nostra. In cerchio, ci guardavamo divertiti nel tentativo di abbozzare qualche movimento frutto di una minima coordinazione, ma senza successo. Io mi limitavo a ciondolarmi da una gamba all’altra, imbarazzata. Bevvi un altro sorso del mio drink, sperando che potesse scaldarmi e sciogliermi.
Serena si avvicinò a Brando, iniziando a ballare con lui in modo provocatorio. Lo vidi arrossire, cercando di toccarle i fianchi in modo delicato e non impacciato. Era molto più alto di lei, ma avevano gli stessi capelli biondi ed occhi celesti. Mi domandai se questo fosse stato l’anno del loro inevitabile avvicinamento. Ciccio, dal canto suo, mi guardava addolcito, non sapendo bene cosa dirmi o come comportarsi. Stavo per avvinarmi a lui, quando due grandi mani mi presero i fianchi, attirandomi al proprio bacino.
“Ciao”, mi sentii soffiare sull’orecchio. Mi irrigidii, continuando a stringere il bicchiere tra le mani.
“Ti va di ballare con me, si?” non riuscii nemmeno a girarmi per vedere chi fosse. Mi sentivo così fuori luogo da volermi buttare a terra.
“No, grazie”, risposi, cercando di svincolarmi da quella morsa infernale. Il ragazzo non mollò la presa, anzi. La aumentò, bloccandomi e stringendomi ancora più forte sul suo bacino. Girai lo sguardo alla mia destra, vedendo i suoi amici guardarmi con un’aria maliziosa. Mi girai dall’altro lato, ma Ciccio era sparito insieme a Brando e Serena.
Cercai di urlare, ma la musica era troppo alta e il ragazzo mi tirò su in aria, spostandomi di qualche metro verso la spiaggia. Cercai di dimenarmi con le gambe, ma fu tutto inutile. Il ragazzo mi tappò la bocca con la sua mano gigante, che provai a mordere. Lo sentii gemere da dolore, senza però mollare la presa.
“Sta’ ferma, Rottwailer”, mi ammonì. I suoi amici ridacchiarono, seguendoci verso il buio della spiaggia.
È così che succedono queste cose, quindi? Un momento ti stai divertendo con i tuoi amici, e l’altro ti ritrovi catturata da un branco di viscidi di cui non puoi nemmeno immaginare quali possano essere le intenzioni.
È così che deve andare, pensai, ad una come me?
Mi scese una lacrima dalla disperazione, che non sembrò addolcire il gruppo. Con lo sguardo, continuai a cercare nel buio le sagome dei miei amici.
Era finita.
Ero finita.
Chiusi gli occhi nel momento in cui lo sentii toccarmi troppo il vestito, per poi fermarsi.
Cadde a terra dolorante.
Aprii gli occhi solo quando iniziai a sentire anche i gemiti dei suoi compagni. Davanti a me, una sagoma scura in piedi. Ansimava, a pugni chiusi, guardando le sue vittime stese sulla sabbia senza sensi.
Rimasi pietrificata con il viso ancora bagnato di lacrime, guardando la sagoma davanti a me. indietreggiai con il sedere sulla sabbia quando si avvicinò, inchinandosi davanti il mio viso. Lo vidi illuminato dalla luce della luna, e mi si mozzò il respiro.
Era il ragazzo di quella mattina, della statua del Pescatore.
Da quella vicinanza riuscii a vedere tutti i suoi tratti: i suoi occhi color nocciola sembravano iniettati di rabbia e sangue. La sua mascella, ben definita, era contratta con forza. Mi guardava accigliato, con un riccio castano che gli cadeva sulla fronte, bagnato di sudore,  senza abbassare lo sguardo.
“V-vattene”, dissi, lanciandogli un pugno di sabbia in faccia. Scosse la testa, togliendosi qualche granello dagli occhi, rimanendo però accucciato di fronte a me. Sembrò seccato da quel mio gesto impulsivo.
“Stai bene?”
“Non lo so”, risposi con un filo di voce. Mi prese il polso, rigirandoselo e studiandoselo in ogni angolo per vedere che non mi fossi fatta niente.
“Quei bastardi...” sibilò, notando dei lividi sparsi sul mio braccio. Girò lo sguardo verso i loro corpi ancora senza sensi, lanciandogli uno sputo. Si rigirò verso di me, non osando abbassare lo sguardo verso le mie gambe scoperte.
“Dove sono i tuoi amici”
“Non lo so”, risposi di nuovo io. Abbozzò un sorriso, alzandosi. Emisi un grido quando mi tirò su in braccio, mentre si incamminava verso la pista illuminata dello chalet.
“Che è successo?” gridò il proprietario del locale vedendomi sconvolta.
"Dovresti stare più attento a chi ti entra nel locale, Giacomo.” Lo ammonì il ragazzo, sibilando a denti stretti.
Mentre passavamo per la calca di gente, mi aggrappai al suo petto, stringendo la tua t-shirt nera. Chiusi gli occhi, abbandonandomi al suo petto tonico che riuscivo a sentire da sotto la stoffa. Il battito del suo cuore era accelerato, probabilmente per l’adrenalina dell’incontro appena avuto. Il suo odore risultava familiare, sicuramente inebriante e calmante, quasi soporifero, e la stretta delle sue mani sotto le mie ginocchia mi faceva sentire al sicuro.
Si fermò una volta arrivato al primo parco giochi disponibile, facendomi sedere su una panchina. Prese la mia borsetta, sfilandomi fuori il cellulare. Iniziò a scrollare i numeri in rubrica, chiamando l’ultimo da cui avevo ricevuto sei chiamate senza risposta: Serena. Ero così ovattata da non riuscire a capire niente di quello che stava dicendo, ma dopo cinque minuti vennero Serena, Brando, Ciccio e Martina di corsa. Le loro espressioni erano così spaventate da rifarmi risalire su il magone.
“Olly! Cazzo, ma dove ti sei cacciata! Che è successo?” Urlò Serena, prendendomi il viso bagnato di lacrime tra le mani. Non riuscii a spiccicare una parola.
“Succede che la prima regola quando si esce in gruppo è di non lasciare nessuno da solo, specie una ragazza...” sibilò il ragazzo. Serena lo guardò in cagnesco.
“Non abbiamo lasciato solo nessuno. Eravamo un attimo andati in bagno e ci siamo persi di vista”. Il ragazzo non risponde, chiaramente non interessato a continuare la discussione. Brando si avvicinò, porgendomi una bottiglietta d’acqua per riprendermi.
“Bisogna chiamare la polizia” suggerì Andrea. Il ragazzo scosse la testa, “Figurati, quegli imbecilli verranno troppo tardi e quelli saranno già scappati. Lascia perdere, ce li ho bene in mente”. Andrea scrollò le spalle, portandosi una mano sui suoi capelli neri corvini.
“La riporto a casa”, esordì Serena, alzandomi dalla panchina per un braccio.
“Lascia stare, non facciamo altri danni”, la bloccò il ragazzo, “La riporto io a casa. Ditemi dove abita”
“Sei impazzito? – urlò Serena, facendomi esplodere la testa – la madre si spaventerà a morte!”
“Vorrei assicurarmi che arrivi a casa sana e salva, per favore”, sibilò lui. Serena indietreggio, verde dalla rabbia, a braccia conserte.
Io, dal canto mio, non riuscivo a pensare a tanto altro. Ciondolavo la testa da una parte all’altra, cercando di scostarmi di dosso l’odore di quell’animale. Continuavo a stringermi nel mio vestito marrone, come se potesse essere quello la colpa di tutto. Che stupida.
Il ragazzo mi porse la mano, e io l’afferrai subito, come un’ancora di salvataggio. Prese la mia borsetta e mi fece strada verso destra.
“Ti chiamo domani” mi disse Serena, prima di stamparmi un bacio sulla guancia. Annuii, salutando gli altri con un cenno.
I primi cento metri li percorremmo in silenzio, forse perché non avevamo nemmeno interesse a parlare. Di tanto in tanto lo sbirciavo, studiando i suoi lineamenti ed il movimento dei suoi occhi, come se potesse suggerirmi almeno un quarto di quello che stesse pensando in quel momento. Non riuscivo a capire niente. Eppure, mi ero sempre giudicata una capace di leggere le persone, una empatica. Con lui no, non riuscivo a decifrare né a leggere niente. Avevo però la sensazione che lui potesse leggere me, visto che si accorse che lo guardavo interrogativa.
“Dove abiti?” mi domandò, con un tono neutro e senza tralasciare nessuna emozione.
“La seconda casa a destra”, dissi indicando di fronte a noi. Mi bloccai di scatto.
“Che succede?” domandò, guardandomi da qualche metro più avanti.
“Non voglio farmi vedere da mia madre così. Rimango ancora un po’ qui per riprendermi e poi entro”. Il ragazzo scosse la testa,
“Non se ne parla, non rimani qui sola”. Rimanemmo immobili, circondati dal silenzio assordante delle tre del mattino. Sospirò, venendo verso di me e prendendomi la mano.
“Vieni con me”
“Dove?” Non mi rispose, trascinandomi qualche metro più lontano. Lo vidi estrarre dalla tasca dei suoi jeans neri attillati la chiave di un’auto. Quando premette il bottone, un’Audi lampeggiò. La macchina era nera, lucida e fin troppo elegante per un ragazzo della nostra età. Rimasi dubbiosa, ma non feci altre domande, anche perché non ne avevo la forza.
“Forza, Sali”
“Dove mi porti?”
“A casa mia”.
Avevo più di una ragione per scappare: la prima, è che avevo appena sventato un tentativo di stupro – e chissà cos’altro. Secondo, non lo conoscevo e, terzo, non sapevo nemmeno quale fosse il suo nome. Tuttavia, mi ispirava un senso di sicurezza che difficilmente avevo trovato in diciannove anni di vita.
Non sembrava cattivo. Sembrava arrabbiato.
Senza fiatare ulteriormente, salii in macchina, mettendomi la cintura di sicurezza.
“L’hai messa bene?” si assicurò lui, sporgendosi vicino a me per controllare. Annuii, stringendomi sul sedile in pelle.
“Bene”, disse prima di girare la chiave e schizzare con un rombo per il lungomare. Chiusi gli occhi per la paura. Penso che lui se ne accorse, perché lo sentii sogghignare.
“Come ti chiami”. Non era una domanda, ma un ordine.
“Olivia”, risposi ubbidendo.
“Non sei di qui”
“Sono di Roma. Vengo qui per l’estate”
“Roma. Ci avrei giurato” commentò lui, senza però dirmi come si chiamasse. Quella non era una conversazione, era un interrogatorio. Mi immaginavo davanti un tavolo di un commissariato con una lampada puntata addosso, con lui che mi girava intorno chiedendomi i dettagli più disparati della mia vita: quanti anni avessi, da dove provenissi, che scuola avessi fatto e quale fosse il mio hobby.
Guardai fuori dal finestrino, facendomi cullare dalle luci della città che illuminavano la distesa d’acqua del mare. Mi morsi il labbro, facendomi coraggio.
“E te? Come ti chiami”. Il ragazzo esitò, guardando lo specchietto retrovisore accigliato, mettendo la freccia a destra.
“Carlo”
“Quanti anni hai?” Carlo accennò un sorriso, facendo spuntare una fossetta ai lati delle labbra.
“Quanti me ne daresti te?”
“Uhm, forse venti?” Scosse la testa, rallentando la corsa,
“Ventidue”
“Oh, io diciannove” lo informai, come se gli interessasse sul serio. Fermò la macchina e uscimmo. Mi guardai intorno: non ci trovavamo tanto lontano da casa, ma sicuramente stavamo verso la campagna. Un piacevole venticello mi fece riprendere, e mi voltai per vedere dove stesse andando Carlo.
Una volta arrivati a destinazione, uscii dalla macchina e mi guardai intorno. Riconobbi la zona, verso il borgo antico della città, e mi tranquillizzai. Carlo tirò fuori la chiave dalla tasca dei suoi jeans, inserendola nella toppa della porta, facendola aprire con uno scatto. Entrai, rimanendo sull’attenti.
La casa, indipendente, non era molto grande: un salone con la televisione, un piano cottura con un’isola e gli sgabelli per mangiarci, una credenza. Accanto, si proseguiva avanti per le due camere e il bagno.
“Tu puoi dormire in quella camera”, disse indicandomela. “Quell’altra è la mia. Lì infondo il bagno. Ti consiglio di farti una doccia”, prese da un comò in camera sua un asciugamano ed un paio di suoi boxer con dei calzoncini e una maglietta.
“Puoi metterti questi”. Presi quello che mi aveva detto, dirigendomi in bagno. Mi guardai un attimo allo specchio, trovandomi ancora sotto shock. Non sarei potuta andare a casa in queste condizioni.
Il getto di acqua fredda mi fece rinvenire. Mi insaponai velocemente ed energicamente, sperando di poter togliere via le impronte digitali di quell’animale. Chiusi l’acqua tremolante, coprendomi velocemente con l’asciugamano che mi aveva dato Carlo. Mi vestii velocemente, e sgattaiolai nella mia camera con i capelli ancora zuppi. Prima di infilarmi a letto, bussai alla sua porta.
Sentii i suoi passi farsi sempre più vicini, aprendo di scatto.
“Che c’è?”
“Io...ti volevo solo dire buonanotte. E grazie, soprattutto”. Carlo scrollò le spalle, facendo muovere i suoi ricci.
“Di niente. Tra due ore e mezza ti sveglio, che sono le sei, e ti riporto a casa. Notte”.  Chiuse la porta con me davanti immobile. Rimasi a bocca aperta, coricandomi sul letto.
Era arrabbiato, forse?
Non di certo con me.
E perché allora si prodigava tanto ad aiutarmi, se gli stavo dando così fastidio?
Quelle due ore e mezza non le passai dormendo, non ci riuscii.
Presi il telefono e scrissi a Serena.
Tutto ok. Sto da lui. domani mattina mi riporta a casa. Sembra buono.
Ci vollero solo dieci secondi per ottenere una risposta.
Sembra un coglione.
Abbozzai un sorriso, posando il cellulare sul comodino. Mi accigliai quando intruppai contro una scatoletta. Quando mi resi conto che si trattasse di un pacco di preservativi, feci una smorfia. Avrei dovuto immaginarlo.
 
 

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Capitolo 3
*** CAPITOLO TERZO ***


La mattina andò come mi aveva promesso. Alle sei mi alzai da sola, sentendolo uscire fuori dalla sua camera. Lo beccai di spalle, mentre beveva un caffè veloce in cucina a torso nudo. Guardai ogni singolo muscolo della sua schiena contrarsi nel gesto di portare alla bocca la tazzina. I jeans, a vita bassa, segnavano il suo bacino. Mi schiarii la voce per farmi sentire, ma non sembrai spaventarlo più di tanto. Era felice, più che altro, di non dover essere lui a svegliarmi. Non mi offrì nemmeno il caffè.
“Hai tutto?” mi chiese. Annuii, prendendo la mia borsetta. Mi chiese un attimo per rinfrescarsi, mettersi una maglietta e schizzare fuori casa.
Il tragitto in macchina fu molto veloce, ma ormai avevo capito che si trattava di una sua caratteristica. Chiusi di nuovo gli occhi, cercando di non vomitare.
Arrivammo davanti casa mia in meno di cinque minuti.
“Grazie ancora”, gli dissi, prima di uscire dalla macchina. Lui accennò un sorriso, più per educazione che per altro. Il tempo di chiudere la portiera, e schizzò via. Sospirai, tirando fuori le chiavi di casa ed entrando silenziosamente, senza svegliare i miei.
Di soppiatto, entrai in camera mia, togliendomi quel vestito scomodissimo ed infilandomi il mio pigiama.
Ora potevo riposare, al sicuro nella mia camera, con i miei genitori nella loro che dormivano beati, non immaginando le mie ultime ore passate. Presi il telefono, trovando un messaggio di Serena.
Comunque, sono andata dalla polizia a denunciare, ma li avevano già presi. Penso che il proprietario del locale abbia fatto il suo dovere. Ora dormi.
Scrollai ancora tra i contatti, arrivando al suo numero. Mi morsi il labbro, indecisa su cosa fare. Forse ero troppo vulnerabile, troppo emotiva in quel momento per scrivergli. Me ne sarei pentita il giorno dopo, mangiandomi le mani per l’errore commesso.
Ma davvero abbiamo così paura di essere deboli, fragili, frammentati? Davvero ci dobbiamo vergognare ad aver bisogno di qualcuno?
Scrollai le spalle, digitando:
Ho avuto una serata orribile. Ti ho pensato.
Aspettai qualche minuto per una risposta – qualsiasi risposta – ma niente. Mi asciugai l’ennesima lacrima, girandomi dall’altra parte.
Ero sempre io quella debole, tra noi due.
I giorni seguenti continuarono come se nulla fosse successo, con Serena che si appostava sotto casa mia per andare al mare, e Brando e Ciccio che insistevano per consumare l’ennesimo aperitivo. Ero riuscita a dimenticarmi quel messaggio senza risposta, di cui non avevo parlato a Serena per non ricevere l’ennesimo rimprovero, e il mio viso aveva visto un po’ di colore dato dal sole.
Avevo messo a posto i miei pensieri, e forse anche i miei ricordi. Riuscivo a divertirmi, o almeno a svagarmi.
San Benedetto del Tronto continuava a correre veloce, ad essere chiassosa e colorata, e lo sarebbe stata almeno fino a Ferragosto.
Dal canto mio, speravo di rubare quanti bei momenti possibili, per prepararmi all’inizio dell’università – ma alla fine, avrei scelto lettere o legge?
Allontanai il pensiero intrusivo a cui non avrei saputo in quel momento dare alcuna risposta, concentrandomi sul presente che stavo vivendo sotto l’ombrellone con i miei amici, ancora imperlati dal sale del mare e dalla sabbia.
“Eih, Olly, stasera usciarmo?” Annuii, stendendomi sul lettino.
“Oh, ho sentito che c’è una serata pazzesca alla discoteca al centro! Andiamo?” propose Serena. Tutti si girarono verso di me, cercando la mia approvazione. Visti i precedenti, la loro priorità era sempre come mi sentissi a riguardo. Sorrisi dolcemente, annuendo.
“Per me va bene, ragazzi.”
“Non ci allontaneremo da voi nemmeno un secondo, ragazze”, disse solenne Andrea, come se fosse il giuramento di Ippocrate.
Per alleggerire la tensione, andammo a prenderci un gelato, scattandoci qualche fotografia che avremmo appeso sul muro delle nostre camere a settembre, che avremmo guardato in modo malinconico.
“Olly”, mi richiamò Serena, poggiando la mano sul mio braccio.
“Come stai?” le sorrisi, posando la mia testa sulla sua spalla.
“Bene Sere, te?” lei sorrise, avvicinandosi al mio orecchio per sussurrarmi qualche segreto.
“Ti devo raccontare...”
“Di cosa?” sospirò,
“Io e Brando” sorrisi sorniona. Avevo già capito. Le strinsi la mano, emozionata. I suoi occhi erano di un azzurro acceso, come tutte le volte in cui mi diceva qualcosa di emozionante, o che lei riteneva di vitale importanza.
Mi ricordai di quando anche io avevo quello sguardo, mentre lo guardavo le prime volte, ma anche le ultime.
Gli occhi mi si appannarono per qualche secondo, quindi feci finta di scostarmi i capelli dal viso.
“L’unica cosa è che viviamo così lontani” si lamentò Serena, “Lui a settembre tornerà a Milano...e io..”
“Tu potresti sempre raggiugerlo per gli studi” sbuffò, alzando gli occhi al cielo. 
“Se mi fate pensare un’altra volta all’università, vomito”. Ridacchiai, lasciandola perdere.
“Hai paura di crescere?”
“Ho paura del tempo che passa, Olly, senza che io possa controllarlo”.
“Possiamo prevenirlo”
Serena fece spallucce, “Che differenza fa”.
Aveva ragione. Non faceva alcuna differenza provare a controllare il futuro, perché semplicemente no ce l’avremmo fatta. Ci saremmo trovate agitate con i nostri problemi senza trovarne una soluzione, se non la più banale: viverli.
Sospirai, alzandomi dal tavolino del bar dove avevamo consumato il nostro gelato. Mi sistemai i pantaloncini in vita, battendo le mani.
“Forza, ragazzi, a casa! Ci vediamo stasera belli e profumati”
“Pronti a conquistare?” Serena fulminò con lo sguardo Brando, facendolo ridere. La avvicinò a sé, schioccandole un bacio rumoroso sulle labbra.
“Mamma mia, che schifo!” si lamentò Andrea. I due gli fecero una linguaccia, prendendolo in giro.
Inforcai la mia bicicletta, dirigendomi in pochi minuti verso casa.
Una volta arrivata, salutai velocemente i miei, ficcandomi direttamente in doccia. Rimasi qualche minuto con i capelli zuppi e l’asciugamano intorno al corpo, godendomi quegli attimi di fresco che mi aveva dato la doccia. Aprii l’armadio, rovistando come al solito tra le mie robe. Quella sera, optai per un classico top viola con la gonna bianca, e delle scarpe col tacco. Dopo essermi truccata velocemente, presi la borsetta e corsi a casa di Serena per cenare, visto che i suoi stavano da amici.
Quando mi aprii la porta, sul mio volto aleggiò un enorme sorriso: era splendida, con il suo tubino nero e le scarpe rosse.
“Sei bellissima, Sere”
“Me lo dici sempre e ormai non ci credo più. Dai, entra”, mi fece largo, indicandoli il posto alla tavola, perfettamente apparecchiata.
Mi erano mancati quei momenti così con lei, come quando eravamo bambine e ci sporcavamo la faccia con un panino più grande della nostra faccia.
“L’hai più risentito?” la sua domanda mi gelò il sangue.
“No”, mentii. Lei annuii.
“Lo sai che ti ha fatto male, vero?”
“Aveva il diritto di lasciarmi”
“Non aveva il diritto di andare a dire in giro che sei una troia, però” sibilò. Sospirai, chiudendo così il discorso.
 
Il locale era gremito di persone, tanto da farmi salire l’ansia. Sentii la mano di Serena stringere forte la mia, cosa che mi rassicurò un pochino. Cercai di rilassarmi e di divertirmi, ballando a ritmo di musica. Gli occhi dei miei amici su di me mi diedero il via libera per essere me stessa, e per sentirmi al sicuro.
Sentivo la pelle imperlarsi di sudore, e gli abiti appiccicarmisi addosso. La musica rimbombava nelle orecchie, e sentivo il ritmo della musica fino allo stomaco. Ero libera, felice e spensierata.
“Andiamo a prenderci un drink”, mi urlò Serena nell’orecchio, trascinandomi verso il bancone, mettendoci in fila.
“Volete da bere, ragazze?” un ragazzo si avvicinò con un sorriso sornione, porgendomi un bicchiere colmo di quello che avrebbe dovuto essere Gin Lemon. Serena si illuminò, colpendomi con un gomito, “Tutto gratis!”. Osservai il ragazzo, cercando di studiarlo meglio, ma le luci psichedeliche non aiutavano. Sembrava moro, sicuramente alto. Feci per aprire bocca, ma venni interrotta da una voce alle mie spalle.
“Loro non vogliono niente, amico.” Mi voltai di scatto. Il cuore fece un tonfo sordo alla vista di Carlo.
“Non ho sentito dirlo da loro, però”, obiettò il ragazzo.
“Ho detto che non vogliono niente. Vattene via”. Sibilò Carlo, avvicinandosi al volto del ragazzo a pugni stretti. Di impulso lo afferrai per la maglia, come a volerlo fermare. Il ragazzo indietreggiò spaventato, andandosene via con il suo drink.
“Ma dico, sei impazzito?” urlai, costringendolo a voltarsi. Mi guardo dalla testa ai piedi, sovrastandomi con la sua altezza.
“Non te lo hanno mai insegnato che non si accetta da bere dagli sconosciuti?” mi ammonì.
“Sappiamo badare a noi stesse, comunque” precisò Serena. Carlo non le dedicò nemmeno uno sguardo, non dandole particolare importanza. Io rimasi impietrita a guardarlo, soffermandomi su come i suoi occhi cambiassero colore con le luci della discoteca. Indossava una maglietta bianca, e dei jeans chiari. Mi fissava, quasi arrabbiato, o comunque scoraggiato.
“Perché mi difendi sempre?” ribattei,
“Non difendo te. Difendo una ragazza in difficoltà, ma capiti sempre tu. Penso che tu debba stare più attenta, Olivia”. il mio nome sulle sue labbra risuonava come una strofa di una canzone lenta. Una ballad, per esempio. Il fatto che non gli interessasse direttamente di me, in qualche misura, mi dispiacque. Potevo essere qualsiasi ragazza della città, a lui non sarebbe interessato.
“Beh, allora tolgo il disturbo. Grazie ancora, eroe”, scandii le ultime parole avvicinandomi al suo viso. Mi voltai di scatto, prima di essere afferrata per il polso dalla sua mano.
“Dove vai”
“A ballare con i miei amici, Carlo. Te va dai tuoi” scioccò la lingua sul palato, girandosi intorno. Serrò la mascella, incrociando le braccia al petto.
“Hai finito?”
“Io sì, te?” Non mi rispose, chiedendo al barista due Gin Lemon. Lo fissai mentre poggiava le braccia sul bancone. Fissai il tatuaggio di una dea bendata sul bicipite, e mi domandai cosa significasse.
Parlava poco, Carlo, e quando lo faceva era sempre diretto. Mi confondeva: non capivo cosa volesse da me, ma nemmeno chi fosse lui. Mi intrigava, e volevo chiedergli cosa avesse fatto nelle settimane in cui non ci eravamo visti.
Quando arrivarono i drink, avvicinò il suo bicchiere al mio, mimando un piccolo brindisi. Tracannò metà del drink molto velocemente, prima di sorridermi in modo disteso.
“Non ho tanti amici in zona, Olivia”
“Non sei di qua?”
“Non centra nulla” mi corresse, buttando via la cannuccia dal suo bicchiere.
“E quelli lì?” indicai dei ragazzi grandi, sicuramente più di me ma anche di lui, con dei tatuaggi che li coprivano fino al collo. Lo guardavano interessati, e non mi ci volle molto a collegarli insieme.
“Non sono bei tipi. Non te li consiglio”. Abbozzai un sorriso, prendendo un altro sorso del mio drink.
Carlo quella sera era decisamente magnetico, con il suo scollo a V e la collanina metallica che gli ricadeva tra i pettorali. Aveva l’espressione di chi sapeva perfettamente di avere gli occhi puntati addosso, ma non sembrava che questo lo mettesse particolarmente a disagio. Continuava a toccarsi i ricci, passandoci le dita adornate da innumerevoli anelli.
Tuttavia, non aveva uno sguardo rilassato. Era sempre, incredibilmente, contratto.
“Eih”, si avvicinò una ragazza, squadrando Carlo dalla testa ai piedi. Strinsi ancora di più il bicchiere tra le mani.
“Vuoi ballare?” Lui scosse la testa, prendendomi per mano e tirandomi via, fuori dal locale. Nella fretta, cercai con lo sguardo i miei amici, indicando Carlo.
“Dove andiamo?” gli chiesi, una volta usciti fuori dalla discoteca. Si girò verso di me con le mani nelle tasche dei suoi jeans.
“A fare un giro. Ti va?” scrollai le spalle.
“Non mi sembri un tipo da fare un giro”. Ridacchiò, prendendo il mio passo.
“Ancora non mi conosci, Olivia”. mi morsi il labbro, guardandomi i piedi. Voleva davvero conoscermi? O era soltanto il caso a farci incontrare in situazioni ambigue?
La nostra passeggiata si protrasse verso il Molo della città che, nonostante l’orario, continuava ad essere illuminato, mostrando i colori dei vari murales che decoravano le scogliere. Il rumore delle onde del mare cullava la mente come una ninna nanna, placando le mie paturnie e le mie agitazioni. Faceva fresco, e d’istinto incrociai le braccia al petto.
“Hai freddo? Vuoi che ci spostiamo?” scossi la testa, mentre prendevo posto su uno scoglio, aspettando che Carlo si sedesse vicino a me.
Rimanemmo qualche minuto in silenzio, con i nasi all’insù a guardare le stelle. Nonostante avrei voluto concentrarmi per trovare qualche stella cadente, o almeno identificare qualcuna delle costellazioni che mi aveva insegnato mio padre da piccola, non riuscivo a non pensare al ragazzo steso vicino a me, a qualche – scarso – centimetro di distanza. Mi concentravo sul suo respiro regolare, sullo sciocco della sua lingua quando doveva deglutire, su qualche suo sporadico sbadiglio.
Lo conoscevo a malapena, ma non riuscivo ad avere paura di lui. C’era qualcosa, in quel ragazzo, che mi incuriosiva.
Da dove veniva? Non lo avevo mai visto in città.
Perché mi aveva portata a casa sua, quella sera? E perché sembrava frustrato dall’avermi dato una mano?
Perché mi piombava alle spalle, cercando in qualche modo – anche marginale – di proteggermi?
Avrei voluto porgli innumerevoli domande, ma le parole non riuscivano ed uscire dalla bocca.
“Vengo qui l’estate da quando sono piccola ma...non ti ho mai visto” riuscii a dire, continuando a portare lo sguardo al mare di fronte a me.
“Neanche io ti ho mai vista”. Abbozzai un sorriso, scrollando le spalle.
“Plausibile”
“Perché?” sospirai, voltandomi verso di lui.
“Perché io sono, semplicemente e terribilmente, invisibile”. Carlo aggrottò le sopracciglia, avvicinandosi a me. I nostri stinchi si toccavano di striscio, provocandomi una leggera scarica elettrica lungo la spina dorsale.
“Non direi. Io ti ho vista”. Mi morsi il labbro, abbassando lo sguardo. In quel preciso momento, avrei voluto che la mia folta chioma castana potesse chiudersi davanti al mio viso come un sipario, nascondendo il rossore delle mie guance. Lo faceva di proposito? O non aveva idea dell’effetto che in quel momento aveva su di me.
Scossi la testa, cercando di riprendermi.
Non avevo tempo per ricascarci. Non lo avrei mai più permesso.
Mi alzai di scatto, pulendomi le ginocchia con le mani.
“Dove vai?” mi chiese Carlo interrogativo alzando lo sguardo. I suoi occhi sulle mie gambe nude mi fecero imbarazzare.
“Devo tornare, si è fatto tardi. Mia madre e i miei amici saranno preoccupati”
“Ti riporto io”, disse, alzandosi di scatto.
“Non c’è bisogno”
“Ma quante storie fai? Incredibile”. Sbuffò, alzando gli occhi al cielo.
Nonostante la noia che il mio comportamento sembrava recargli, io non potevo fare altrimenti che trovarlo, in qualche modo, tenero. La luce della luna gli illuminava metà volto, lasciandone l’altra all’ombra. Un po’ come lo vedevo io: non troppo svelato.
“Non riesco a capirti” gli dissi, alzando le braccia all’altezza delle spalle. Vidi i suoi occhi correre sulle mie gambe che piano piano venivano svelate dalla gonna.
“Capire cosa”
“Perché stai facendo così con me”, lui non rispose, sfilando le chiavi della macchina dalla tasca posteriore dei suoi jeans. Mi superò, dirigendosi verso il parcheggio più vicino e io, come se me lo avesse ordinato, lo seguii, guardando i suoi muscoli della schiena contrarsi.
Affrettai il passo, raggiungendolo.
“Non c’è bisogno che mi porti a casa, davvero”
“Sali in macchina, Olivia” mi ordinò, aprendomi la portiera della sua Audi nera.
Come al solito, il viaggio in macchina fu silenzioso e veloce. In cinque minuti, arrivammo davanti casa mia. Mi schiarii la voce, torturandomi le estremità della gonna.
“Grazie. Di nuovo.”
“Prego. Di nuovo”. Presi un respiro profondo, stringendo la borsa sotto l’ascella.
“Ti va di vederci, uno di questi giorni?” Carlo ridacchiò, giocando con la pelle del volante di fronte a lui.
“Non sarò in città questi giorni, Olivia”.
“E dove andrai?”
“Verona”. Non domandai altro, limitandomi ad annuire. Sentii Carlo sbuffare, prendendomi il telefono dalle mani in modo abbastanza brusco. Lo vidi digitare un numero, salvandolo, per poi ridarmi il telefono con un sorriso accennato, mostrando la sua fossetta sul lato destro.
“Il mio numero.”
“Dovrei darti il mio, immagino”
“Non serve” sibilò, mentre uscii dalla macchina. Rimasi accigliata, mentre prendevo le chiavi dalla mia borsa. Sentivo il suo sguardo alle mie spalle, aspettando che entrassi definitivamente a casa.
Che vuol dire che non serviva? E perché mi aveva lasciato il suo numero, allora?
E cosa doveva fare, a Verona?
 

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Capitolo 4
*** CAPITOLO QUARTO ***


“Sarebbe bastato davvero poco, Olivia” singhiozzò lui, guardandomi con le mani tra i capelli. Io lo fissavo, con gli occhi appannati, cercando di proferire qualche parola che veniva puntualmente interrotta dai singhiozzi. “I-io…io non volevo...non...” “Non volevi, Olivia?” tuonò Marco. I suoi occhi iniettavano sangue, e la vena del collo era ormai visibile. Indietreggiai, poggiando le spalle al muro. “Ho bevuto, non mi sono resa conto...” “Non ti sei resa conto mentre scopavi con quell’imbecille?” abbassai lo sguardo, strizzando gli occhi. Una lacrima grossa come una goccia di pioggia cadde per terra, bagnando il pavimento. La vergogna mi assaliva, completamente. Dimenticai il mio nome, la mia età. Dimenticai da dove provenissi e chi fossero i miei genitori, quali fossero le mie passioni e le cose in cui facevo decisamente schifo, come a cucinare, per esempio. Riuscivo solamente a sentire i pugni di Marco sul muro e i suoi singhiozzi. Facevo davvero così schifo? Così tanto da riuscire a tradire il mio fidanzato a diciotto anni, senza pudore, solamente per una minima attenzione in più data dal più figo della scuola? Ero davvero così debole? Forse sì. Forse, a diciotto anni, si ha il diritto di essere vulnerabili e di cadere alla prima folata di vento. E io stavo rischiando, parecchie volte, di cadere. Fino a quando non l’ho fatto davvero. “Avevo letto i tuoi messaggi con quella…io...ho pensato che..” “Hai pensato male, Olivia! Hai pensato malissimo! Sara è una mia amica” “Non sembrava, da come le scrivevi”. Lo vidi guardarmi in cagnesco, intimandomi di tacere con l’indice incollato sulle sue labbra, ora di un colore violaceo. “Taci. E se vuoi saperlo, Sara è molto meglio di te. Ma molto, molto meglio”. Strizzai gli occhi in una smorfia di dolore, facendo uscire altre lacrime. “Ti prego, Marco. Ti prego, non possiamo finire così. Io senza di te non sono niente. Te lo giuro” “Non mi interessa. Riempiti di qualcosa, Olivia. Di qualsiasi cosa. Basta non di me”. Se ne andò, sbattendo la porta di camera mia. Non lo rividi più. Non lo sentii più. Marco se ne era andato – per colpa mia – e io avevo, definitivamente, perso una parte di me. Avevo ricollezionato i pezzi del mio cuore con molto tempo e cura, cerando di ricordarmi chi fossi prima di lui. Difficile però tornare ai miei diciassette anni. A quel ricordo doloroso, strinsi forte il cuscino. Allungai la mano sul comodino, prendendo il telefono e vedendo l’orario: mezzogiorno e mezza. Sbuffai, prendendo coraggio per alzarmi dal letto. Con un calcio mi liberai dalle lenzuola, infilandomi le ciabatte. Guardandomi allo specchio di sfuggita, sorrisi alla tintarella presa. Persino i miei capelli castani stavano acquistano un bellissimo color dorato. Lo squillo del cellulare mi fece tornare al pianeta terra. Accigliata dal numero di telefono sconosciuto, risposi. “Pronto, chi è?” “Io”. La voce di Carlo mi gelò il sangue. Come era riuscito ad avere il mio numero di telefono? “Ciao”, riuscii a dire, sedendomi a peso morto sul letto disfatto. “Uhm...sei libera per pranzo?” deglutii, prendendo qualche secondo per pensare. “Sì”. “Perfetto. Tra cinque minuti sto sotto da te”. Riagganciò, lasciandomi di stucco. Mi trovai a sorridere, nonostante il suo modo burbero e fuori contesto di invitarmi ad uscire. Quindi, Carlo era tornato in città. Era stato via il weekend, e appena tornato mi aveva chiamato. Ma come era riuscito ad avere il mio numero? Mi alzai di scatto, vestendomi con la prima cosa che trovai sulla sedia. Salutai velocemente i miei, inventandomi un pranzo al volo con Serena, chiudendomi la porta alle mie spalle. Vediamoci a qualche metro di distanza da casa mia. Non rispose, ma ero sicura che avesse recepito. Infatti, lo trovai parcheggiato cento metro più avanti, appoggiato a gambe accavallate alla sua macchina, mantenendo le mani nelle tasche. I capelli erano più disordinati del solito, e i suoi jeans sempre bucati di un colore scuro. Quando mi vide, abbozzò un sorriso, facendomi segno di entrare in macchina. “A cosa devo l’invito?” schizzò subito con la sua Audi, girandosi verso di me. “Avevo voglia di vederti”. Sorrisi, imbarazzata. Guardai fuori dal finestrino, osservando il mare blu, calmo, colorato dai costumi sgargianti dei turisti a mollo. La pace che mi dava San Benedetto, Carlo la completava. “Dove mi porti?” domandai, sistemandomi bene la cinta. “Sorpresa” mi disse, facendomi l’occhiolino. Riconobbi la strada che portava a casa sua, vicino al borgo antico. Mi fece strada, lanciando le chiavi sul comò all’ingresso. Sbarrai gli occhi quando si tolse la maglia, gettandola sul divano. Lo vedevo muoversi convulsamente tra il salone e la cucina, tirando fuori l’occorrente: tovagliette, piatti, bicchieri, posate. Timidamente, mi feci avanti, guardando cosa bollisse in pentola: pasta al sugo. “Ho pensato a una cosa semplice...” si scusò Carlo, grattandosi il capo. Sorrisi, annuendo soddisfatta. “Va benissimo” “Se vuoi vestirti più comoda...” lo vidi entrare in camera sua, prendendo i vestiti che mi aveva portato la volta scorsa. Lo guardai titubante, non sapendo cosa fare. Acconsentii per educazione, andandomi a cambiare in bagno. Quando mi vide con i suoi calzoncini e la sua maglietta larga che mi arrivava fino alle ginocchia, si liberò in un ghigno, squadrandomi da capo a piedi. “Stai bene”. “Come hai fatto ad avere il mio numero?” gli chiesi. Carlo non rispose, indaffarato ai fornelli. Attesi pazientemente la risposta, sedendomi a tavola. “Non è stato difficile ottenerlo” bisbigliò, portando a tavola la pentola piena di pasta. Lo guardavo mentre mangiava, e un pochino rimasi incantata dai suoi movimenti meccanici: come portava la forchetta alla bocca, come si puliva con il tovagliolo. Persino come beveva dal bicchiere mi sembrò il modo più bello ed intrigante del mondo. Parlava poco, ma mi osservava tanto. I suoi occhi nocciola sembravano volermi scavare fino al neurone più remoto del mio cervello, come a dover per forza sbrigliare tutte le mie sinapsi. A torso nudo, si sporgeva dalla tavola per avvicinarsi di qualche metro, perforandomi ancora di più il cranio. Alla fine del pranzo, avevamo parlato poco e nulla. e poi, avevo parlato sempre io. Gli raccontai della scuola, dei miei amici. Delle mie estati a San Benedetto, di Serena e di come ci conoscessimo da quando eravamo piccolissime, delle nottate sugli scogli a parlare di tutto e di nulla. Gli raccontai dei miei genitori, della nostra vita a Roma. Lui sembrava seguire interessato i miei racconti, soffermandosi su dettagli a dir poco marginali: come fossi andata alla maturità, quale fosse la mia materia preferita e quanti errori avessi fatto all’esame della patente. Erano domande strane, ma era come se lui volesse davvero sapere tutti i meandri della mia quotidianità. “Cosa farai, a settembre?” mi chiese, alzandosi da tavola ed iniziando a sistemare i piatti. Feci lo stesso aiutandolo. “Oh, ancora non lo so. Sono indecisa.” “Tra cosa?” “Tra Lettere e Giurisprudenza” “Un classico, - commentò lui. – Fai lettere, fidati” “Perché?” domandai, portando i piatti nel lavello. Carlo mi guardò, poggiandosi con un fianco al lavello, accanto a me. “La legge è noiosa...le regole lo sono, in generale”. Non commentai, nonostante non mi trovassi molto d’accordo. Mi avvinai di più a lui, mantenendo le braccia conserte. “E invece, si può sapere tu chi sei?” Carlo rise, portando la testa all’indietro. Rise come se avessi raccontato la barzelletta del secolo, come se fossi il comico più quotato del paese. “Cosa ho detto?” ribattei, stizzita. “Quando lo avrò capito io, te lo riferirò, va bene?” arricciai le labbra, confusa. Non forzai la mano, consapevole che non avrebbe ceduto. Tuttavia, una parte di me, abbastanza grande da convincermi, sapeva che lui era a completamente a conoscenza di chi fosse. “Quella volta sotto la statua del Pescatore...la telefonata che ho sentito...io...” “Non è nulla, Olivia. Non era nulla” tuonò Carlo, zittendomi. Feci qualche passo indietro, mortificata. Lo sentii sospirare, avvicinandosi a me. il cuore iniziò a battermi come un tamburo alla sensazione del suo petto avvicinarsi a me, inclinando la testa per recuperare i centimetri di altezza di differenza tra me e lui. “Scusami Olivia” esitò con le braccia sui miei fianchi, dubbioso se stringermi o meno. I nostri respiri erano incredibilmente vicini, e in qualche modo mi sentii protetta. “Io...sto bene con te” sussurrò al mio orecchio, facendomi risalire. Stava bene con me. Basta. “Tutto qui?” gli dissi. “Per me è tanto” disse, pizzicandomi i fianchi. Chiusi gli occhi, annusando il suo profumo di colonia, misto a quello della sua pelle. Mi domandai se quella frase lo dicesse a tutte quelle che portava nella camera degli ospiti, prima di mettere mano a quella scatola piena di preservativi. Scossi la testa infastidita, scostandolo. “Beh, almeno hai trovato un’amica per l’estate” esordii, alzando le sopracciglia. Carlo sorrise, schiarendosi la voce. Nel profondo del mio cuore, mi trovai a desiderare di essermi sbagliata, che non voleva davvero essere mio amico, ma molto di più. O almeno, qualcos’altro. La sua accondiscendenza mi ferì. Ripresi i miei vestiti che avevo lasciato sul divano, andando in bagno a cambiarmi. Quando uscii, Carlo si trovava davanti la porta di casa, con la sua maglietta indossata. “Posso andare da sola”, gli dissi, sistemandomi meglio la borsetta. “Piantala. Ti riporto io” “Non c’è bisogno, davvero” come al solito, non mi diede ascolto, incamminandosi a passo svelto verso la sua Audi. “Un giorno mi spiegherai anche perché vai così veloce, diamine!” strinsi forte la cintura vicino al mio petto. “Oh cara, non so se vorrai davvero saperlo”.

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