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di Rubra Bovina
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Il bacio ***
Capitolo 3: *** Ancora segreti ***
Capitolo 4: *** Sai mantenere un segreto? ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


                                                                                                Prologo



Non aveva idea di dove si trovasse, né tantomeno di come fosse sopravvissuto. La sola cosa che gli importava era quella di essere sopravvissuto, nonostante tutto. Il colpo che i suoi nemici gli avevano inferto era stato durissimo. Non era stato sufficiente ad ucciderlo, ma quel colpo lo aveva frammentato in numerosissime parti, che si erano sparse per tutto il mondo. Riusciva a percepire la loro presenza, anche se non riusciva a raggiungerle. Per lui sembrava impossibile persino muoversi. Era come se si trovasse in uno stato di sonno profondo. Un sonno che sarebbe anche potuto durare in eterno. A meno di venire interrotto.

Qualcosa colpì il cavo di fibre ottiche in cui si trovava.

Non poteva saperlo, ma la sua presenza stava causando dei problemi a quel cavo, rallentando le comunicazioni da e verso il Giappone.

Proprio a causa di questi problemi, da uno dei porti del Kanto, venne fatta partire una delle navi costruite appositamente per riparare i cavi in fibra ottica. 

I tecnici immaginavano che il cavo fosse stato danneggiato da qualche Pokémon abissale, magari un Lanturn, e che quindi andasse riparato e, nella peggiore delle ipotesi,  rinforzato.

Era capitato altre volte che dei Pokémon abissali avessero danneggiato con i loro attacchi quei cavi, magri mentre cercavano di cacciare alcune delle loro prede. 

Non si poteva dar loro colpa per questo. Vivevano negli abissi molto tempo prima che quei cavi venissero posati. Quindi bisognava tenere conto di quell’eventualità. 

La nave non era veloce. Avrebbe impiegato delle ore prima di raggiungere il punto in cui si presumeva che il cavo fosse danneggiato. Per la maggior parte del viaggio, la nave era governata dal pilota automatico, in modo da permettere all’equipaggio di concentrarsi sul lavoro. 

Appena la nave raggiunse la zona in cui, presumibilmente il cavo era danneggiato, gli addetti, sul ponte, calarono un sofisticato robot a controllo remoto. Un robot costruito per poter sopportare le enormi pressioni presenti a migliaia di metri di profondità, ma anche per poter lavorare precisamente.  Delle caratteristiche che collidevano e che avevano reso la progettazione e la costruzione del dispositivo assai difficili.

Il dispositivo, come del resto anche il cavo, era un oggetto estraneo all’ecosistema, per questo poteva scatenare la curiosità dei Pokémon della zona.in funzione di questo, i progettisti lo avevano dotato di un sistema che produceva una frequenza radio in grado di allontanare i Pokémon nel raggio di duecentocinquanta metri. 

Il segnale si attivò in automatico appena il dispositivo entrò in contatto con l’acqua. 

Lentamente, il dispositivo proseguì la sua discesa. Sebbene non fosse un essere vivente, per questioni di sicurezza era meglio non affaticare il metallo tutto in una volta. 

Dopo un po’ di tempo, finalmente raggiunse il fondale, a alcune migliaia di metri di profondità. A brevissima distanza dal cavo.

Gli operatori di terra e a bordo della nave avevano una visuale garantita dalle telecamere del dispositivo. Non erano in qualità altissima, ma erano sufficienti ad analizzare lo strato protettivo esterno del cavo. 

L’operatore a bordo della nave, che stava comandando il robot, decise, per scrupolo, di ispezionare anche zone più lontane rispetto a quelle indicate, non trovando dei danni visibili. Dopo aver svolto le sue analisi, comunicò a terra quanto aveva visto. «La protezione esterna non sembra abbia subito dei danni.»

La risposta da terra non si fece attendere.

«Abbiamo visto. Magari il problema è di un’altra natura. Prosegui, sai benissimo che non possiamo restare in questa situazione.» L’uomo che comandava il robot aveva attivato il braccio meccanico di quest’ultimo, tramite un dispositivo di controllo, simile al gamepad di una console. Era realizzato in robusta plastica grigia.

Appena il braccio del robot entrò in contatto con il cavo accadde qualcosa che mai prima di allora era accaduto.

Il robot non dava più alcun segnale. Come se fosse stato colpito da una potentissima scarica elettrica.  

L’operatore sulla nave si affrettò a comunicare a terra la situazione.

«Pare che il robot sia fuori uso, si è preso una bella scossa.»

«Come? È impossibile! Non dovrebbero accadere cose di questo genere. Rientrate immediatamente, dobbiamo analizzare il dispositivo.» Dalla nave non arrivarono risposte di alcun tipo, come se le comunicazioni fossero state bloccate da qualcosa. Pertanto, l’operatore da terra fece una nuova comunicazione. 

«Ora tutto è tornato a funzionare come deve. Potete rientrare.»

«Ricevuto.» Finalmente, dopo un’attesa apparentemente infinita, l’addetto sulla nave diede una risposta.

«Allora tutto funziona come deve. Ci avete fatto preoccupare, pensavamo fosse successo qualcosa. Ci avete fatto preoccupare!»

«Chiedo scusa, ma sembrava che qualcosa avesse bloccato le nostre comunicazioni. Non riuscivamo né a ricevere né a trasmettere alcunché»

Rispose l’addetto sulla nave, ancora non completamente calmo. 

«Ricevuto. Forse è un problema della zona. Anche se momentaneo. Ora sembra che anche il cavo abbia ripreso a funzionare, per cui potete tornare. Sapete che questo genere di operazioni è molto costosa, dobbiamo evitare di stare fuori più del necessario»

«Ricevuto, imposto la rotta di ritorno»

Rispose dalla nave.

Quello che né l’addetto sulla nave né il suo collega a terra potevano sapere era cosa il contatto tra il robot subacqueo e il cavo aveva causato.

Il contatto con quel qualcosa lo aveva svegliato in maniera brusca, talmente tanto brusca che la sua prima reazione fu quella di attaccare. Forse si trattò di una reazione esagerata, ma che gli aveva dato comunque la conferma di essere ancora in grado di comandare l’elettricità. E quello per lui era molto importante. Era solo grazie a quest’ultima che era stato in grado di avvicinarsi alla conquista del mondo… prima che i suoi nemici lo sconfiggessero.

Non ricordava altro a parte di essere stato colpito da una grandissima quantità di energia. Ma questo gli bastava. Desiderava unicamente una cosa. Vendicarsi.

In una delle tante città del Kanto la vita scorreva nella sua normale frenesia. Quella era una delle zone più densamente popolate e più industrializzate del Giappone, e forse del mondo intero. 

La palestra della città, specializzata nel tipo acciaio,  era un anonimo edificio in cemento in una delle tante trafficate vie della città. Si trovava in un edificio talmente anonimo, che avrebbe potuto essere scambiato per uno dei tanti edifici di uffici del quartiere. 

L’interno della palestra era un semplice campo lotta in terra battuta, circondato da degli spalti che permettevano  al pubblico di assistere alla lotta. Anche se ultimamente gli spalti erano sempre vuoti. Sembrava che a sempre meno persone importasse delle lotte in palestra. E questo mandava in bestia la capopalestra. Dopotutto lei e la sua squadra avevano fatto tanti sacrifici per giungere in quella posizione.

Dopotutto il lavoro da capopalestra non si limita unicamente al giudicare il talento dei propri sfidanti e dei loro Pokémon, ma è anche un ruolo di responsabilità sulla città, forse persino più importante di quello del sindaco.

Nella palestra erano presenti solo tre ragazze. La capopalestra era una bella ragazza, giovane, dai capelli neri e dalla carnagione pallida, questi cadaverica, ricordava, per certi versi Mercoledì Addams. Indossava una maglietta di una famosa band, un paio di jeans strappati e delle scarpe da ginnastica. Aveva degli orecchini d’oro. La sua sfidante era una ragazza di un paio di anni più grande di lei, dai capelli castani e dalla carnagione scura. Indossava una canadese grigia e una maglietta nera con disegnato un punto interrogativo, realizzato in modo da sembrare la coda di un Pachirisu. La terza ragazza era l'arbitro. Bionda e abbronzata che indossava la divisa ufficiale da arbitro, gialla e verde con una Pokéball stilizzata al centro della maglietta e nella parte laterale dei pantaloni della canadese. Lotta stava per incominciare. L'arbitro stava annunciando le regole della sfida.

«Inizia la sfida tra Mina, la capopalestra e Nuria, la sua sfidante. Entrambe le allenatrici potranno usare tre Pokémon.»

Terminata la frase, indicò la ragazza dalla parte destra del campo.

«Solo alla sfidante è concesso di sostituire un Pokémon prima che questi non sia in grado di lottare. La prima mossa spetta alla sfidante. Che la lotta abbia inizio!»

L’allenatrice e la capopalestra schierarono i loro Pokémon contemporaneamente.

«Metagross! Tocca a te!»

«Heracross, è il tuo momento!»

I due Pokémon si trovavano agli estremi del campo, pronti a ricevere ordini dalle rispettive allenatrici. Si stavano studiando l’un l’altro, allo stesso modo delle loro allenatrici.

«Vai Heracross, Megacorno!»

La Heracross della ragazza iniziò a correre verso l’avversario, pronta a colpirlo con il suo possente corno.

«Metagross, schiva!»

Il possente Pokémon ferrato si spostò, all’ultimo, quasi dando l’impressione di esser stato colpito. La sua avversaria rimase di sasso. Era incredibilmente veloce.

Era talmente sorpresa da non riuscire a muoversi. 

«Metagross, vai, usa Cozzata Zen.»

Il Metagross della capopalestra, colpì a gran velocità la Heracross avversaria, facendola sbattere contro la parte inferiore degli spalti, creando un grosso buco nel muro. Nonostante il colpo subito la Heracross non si diede per vinta, facendo segno alla sua allenatrice di essere ancora in grado di continuare. Entrambe le ragazze erano sorprese.

«Te la senti di continuare?»

La Heracross della ragazza, nel frattempo, era tornata in piedi. Dolorante ma ancora in grado di continuare.

«Molto bene, Heracross, vai con Zuffa!»

La Heracross della ragazza si avvicinò nuovamente al nemico, pronta a colpirlo con una raffica di pugni e calci.

«Metagross! Ferroscudo!» Ordinò la capopalestra.

Il corpo del Metagross della giovane cambiò colore e alterò la sua struttura molecolare, diventando molto più resistente. E potendo facilmente sopportare i colpi inflitti dalla sua avversaria.

«Metagross, ora, Meteorpugno!»

Il Metagross della capopalestra sferrò un potente pugno alla sua avversaria, spedendola nuovamente contro la parete opposta della gradinata.

«Heracross non può più continuare. Il vincitore è Metagross.»

Il giudizio dell’arbitro era inappellabile, e la sfidante fu costretta alla sostituzione. 

«Heracross, ritorna, hai fatto del tuo meglio. Ora tocca a te, Umbreon!»

Un Umbreon shiny uscì dalla Pokéball della ragazza. La differenza rispetto ad un esemplare normale, era il colore degli anelli sul corpo. In un esemplare normale, gli anelli sul corpo erano gialli, mentre negli esemplari shiny erano azzurri.

«In caso di sostituzione, la prima mossa tocca alla capopalestra.» Spiegò l’arbitro.

«Molto bene, Metagross! Usa Martelpugno!»

Il Metagross della capopalestra colpì l’Umbreon con un potente pugno, spedendolo, come la Heracross che ha sostituito, contro la parete opposta della palestra. 

Il Pokémon emise un grido di dolore.

La ragazza, dopo essersi assicurata che il suo Pokémon potesse continuare, passò al contrattacco. 

«Molto bene, Palla Ombra!»

Davanti alla bocca del Pokémon si formò una sfera di colore viola scuro, circondata da saette di energia, simili a fulmini,  che poi venne lanciata contro il Metagross nemico, che non fece in tempo a difendersi, subendo un duro colpo. Che comunque non fu sufficiente a sconfiggerlo.

«So che ce la puoi fare. Usa di nuovo Martelpugno!»

Il possente Pokémon obbedì, colpendo pesantemente l’Umbreon nemico, che barcollò, ma non si diede per vinto. Il suo sguardo era quello di chi era sicuro di poter ancora continuare.

La sua allenatrice sembrò comprendere questa sua volontà.

«Se te la senti di continuare allora io sono con te. Vai con Neropulsar!»

Gli anelli di energia oscura, generati dalla bocca del PK Lucelunare colpirono  in pieno il Metagross della capopalestra, decretando la sua sconfitta. La capopalestra si affrettò a richiamarlo. 

«Metagross non è più in grado di lottare. Vince Umbreon!» Decretò l'arbitro.

«Sei stato fantastico. Ora riposati.» Si complimentò la capopalestra. «Ora è il tuo momento Lucario!»

Un Lucario uscì dalla Pokéball della ragazza. Pronto a vendicare il compagno appena sconfitto.

«La prima mossa tocca alla sfidante.» Decretò l’arbitro.

«Umbreon, ritorna!» La ragazza richiamò il suo Pokémon, aveva subito delle ferite e voleva farlo riposare. E, dato che c’era, voleva tenerlo per la fase finale della lotta. Aveva subito già dei danni e lottare contro un avversario appena entrato in campo non era l'ideale.

«Adesso è il tuo turno Krookodile!»

«La prima mossa va alla sfidante!» Decretò nuovamente l’arbitro.

«Ok. Krookodile, usa Fossa.» Ordinò la sfidante.

Il Coccodrillo Tarra/Buio, dalla pelle rossa, scavò una buca nel terreno. E scomparve sottoterra.

«Lucario, usa il potere dell’aura per trovarlo e spostati.»

La sfidante, comprendendo le intenzioni della capopalestra, e conoscendo benissimo il potere del PK Aura, avendo in squadra un esemplare, doveva correre ai ripari al più presto.

«Mi senti? Muoviti il più possibile! Cerca di non farti trovare.»

Era una situazione di stallo. Krookodile sarebbe dovuto uscire.

Il più abile dei due avrebbe avuto un grosso vantaggio.

Il Krookodile nemico sbucò dal terreno. Aspettandosi di colpire l’avversario. Rimase alquanto deluso quando questi si trovava da tutt’altra parte.

«Lucario, vai, usa Forzasfera!»

La sfera di energia, dal colore azzurro, colpì il Krookodile della ragazza, facendolo cadere di schiena contro il terreno. 

«Krookodile, stai bene?»

Il tono della sua allenatrice era visibilmente preoccupato. Il semplice rimettersi in piedi del suo Krookodile, la rassicurò a sufficienza. 

«Benissimo, attaccalo con Breccia!»

Il Krookodile della ragazza si mise a correre contro il Lucario dell’avversaria, per poi colpirlo. Il suo braccio si era illuminato di una luce biancastra. 

«Lucario schiva!» Ordinò la capopalestra. 

Il PK, schivò all’ultimo. Talmente tanto da non far immediatamente capire alle due allenatrici se il contatto ci fosse  stato oppure no. La prima ad accorgersene fu la capopalestra.

«Lucario, usa di nuovo Forzasfera!»

La sfera di energia colpì il coccodrillo di tipo Terra Buio. Sconfiggendolo. 

«Krookodile non può più continuare. Vince Lucario.»

Alla sfidante restava solamente Umbreon, ancora provato dal precedente scontro con Metagross. 

Mostrava dei segni di fatica sin da appena uscito dalla Pokéball. Era consapevole del fatto che la sua allenatrice fosse alle strette. E lui voleva dare il meglio di sé, per lei. 

L'allenatrice, capendo di avere la piena fiducia del suo Pokémon, ed essendo di mano, ordinò un attacco.

«Forza, usa Psichico.»

L’attacco di Umbreon sollevò in aria il Lucario della capopalestra, cogliendo di sorpresa tanto il Pokémon, quanto l’allenatrice.

«Lucario, mantieni la calma. Impanicarsi non serve a nulla.»

Solo quando la capopalestra ebbe la certezza del fatto che il suo Pokémon fosse perfettamente in controllo, gli ordinò di sferrare l’attacco definitivo.

«Molto bene. Lucario usa Forzasfera!»

Il Pokémon della ragazza, che ancora levitava in aria,colpì l’avversario con un potente attacco, sconfiggendolo.

«Umbreon non è più in grado di lottare. La lotta è vinta dalla capopalestra.» Decretò l’arbitro. 

Le due ragazze si strinsero la mano, in segno di rispetto.

«Sei davvero forte, ma la prossima volta vincerò io, ci conto.»

«Non pensare che saremo più teneri la prossima volta.»

Dopo la lotta, la giovane capopalestra si era diretta in una stanza separata della palestra, dove si sarebbe occupata di registrare  i risultati delle ultime lotte disputate all’interno del database della Lega Pokémon locale, tra cui la sua vittoria di poco prima. A causa delle nuove disposizioni legislative, i capipalestra  non solo dovevano consegnare la medaglia in caso di sconfitta, ma dovevano anche registrare il risultato della lotta nel database della lega.

Troppe volte c’erano stati degli allenatori passati con medaglie false.

La stanza era piccola e non molto arredata. Solo una scrivania su cui era poggiato un computer fisso e una sedia da ufficio, dove la ragazza si era accomodata. 

Quel giorno il suo computer era particolarmente lento. Cosa che la infastidiva particolarmente, lei non era esattamente una persona paziente. Stava per tirare una manata al computer, nella vana speranza che, con la violenza, questo diventasse più veloce. Una parte di lei era consapevole del fatto che il problema dipendesse dalla rete e non dal suo computer. In ogni caso, qualcosa la fermò dallo scaricare la sua frustrazione sul computer.

Al centro dello schermo del computer apparve uno strano simbolo. Per certi versi ricordava un bersaglio delle freccette. Era formato da un pallino circondato da due cerchi concentrici, tutti di colore rosso, il tutto su uno sfondo nero. Contrariamente a un bersaglio, dalla parte inferiore del cerchio più esterno partivano tre stanghette, e, dalla parte superiore ne partiva una. 

La ragazza, pensando a un attacco di qualche hacker o a un virus, scattò una foto dello schermo, con l’intenzione di  mandarla a un amico, mago del computer.

Gli scrisse “Ciao, scusa se ti disturbo, ma non ho idea di cosa sia successo al mio computer. È apparso questo strano simbolo e non posso fare nulla”.

Il ragazzo le rispose poco dopo.

Non vedo nulla di strano. Mi sembra sia il normale programma per registrare gli allenatori dopo le lotte in palestra.”

Nessuno dei due poteva saperlo, ma entrambi avevano ragione.

Il file, prima di raggiungere il telefono del ragazzo, aveva compiuto un giro fra numerosi ripetitori, ma qualcosa nel processo cambiò il destino del messaggio. 

Una parte del codice che costituiva il file, intraprese un percorso diverso. Per potersi unire ai suoi simili che avevano avuto lo stesso destino. Tutte pronte a riunirsi in un’unica creatura con un solo e unico desiderio. Vendicarsi. 

Proprio in quel momento, fece capolino nella stanza una ragazza circa della sua età, lunghi capelli rossi, occhi verdi, pelle pallida e lentiggini.

Indossava un abito disegnato e realizzato da lei stessa, di colore nero, composto da una gonna ampia che le arrivava poco sopra le ginocchia. Abito senza spalline. In vita indossava una fascia verde chiaro. 

A completare l’outfit degli orecchini verdi. 

«Certo che ci tieni proprio al tuo lavoro! Potresti anche prenderti una pausa!»

Commentò, non appena entrata nella stanza.

«Certo che potresti anche non pensare solo al tuo debutto nelle gare! Quello sarà il decimo vestito che ti fai! Guarda che è solo una gara!»

La ragazza si sentì come ferita. Non era una semplice gara. Era il suo debutto e voleva che fosse perfetto.

«Non sono venuta di sicuro qui per sentirmi dire questo!»

Ero venuta per darti un biglietto per assistere alla gara, ma sembra che non ti interessi affatto! Pensi solo alle tue lotte in palestra!»

«Ti sbagli. È solo che penso che tu ti stia preoccupando troppo. Vincere un fiocco al debutto non è di certo facile. Lo sai!

«Dubiti delle mie capacità?»

«No, affatto. Semplicemente non voglio che tu ti illuda. Lo hai già fatto con le lotte in palestra. E sai com’è andata.»

«Sono anche più matura da allora! In ogni caso prendi questo biglietto. Finita la gara ne riparleremo.»

«Come vuoi!»

Mentre le due parlavano, la ragazza al computer si accorse di come la rete fosse tornata a funzionare regolarmente. 

Per cui poté completare rapidamente il suo compito. 

Le gare Pokémon sono tra gli eventi più seguiti a livello nazionale. Poco importa se si tratta di esibizioni a livello professionistico oppure amatoriale. 

Le tribune dell’arena della città erano piene. Era impossibile trovare un posto libero. Questo nonostante nessun grande nome partecipasse a quella gara. 

Tutti i coordinatori di alto livello si stavano preparando per la prestigiosa Coppa Adriano e avevano deciso di non partecipare a quella gara. Tutti sapevano che la Coppa Adriano stava alle Gare Pokémon stava come il Gran Premio di Monaco alla Formula Uno. 

Per i meno esperti, l’assenza di avversari di livello, era un’occasione d’oro e tutti avrebbero dato il massimo, e questo bastava per attirare del pubblico. 

Tra tutti i coordinatori ne spiccava una, una ragazza di quindici anni al suo debutto nelle gare. Dopo una non piacevole esperienza alla lega, dove era stata eliminata nelle fasi iniziali, aveva deciso di provare qualcosa di diverso. Non per forza più facile, anzi, tutt’altro, ma semplicemente qualcosa di diverso. 

Era tesa, come del resto chiunque alla sua prima esperienza. Anche se faceva di tutto per non darlo a vedere. Sapeva che la prima fase era fondamentale. Più della seconda. Nella seconda fase la sua esperienza con le lotte sarebbe stata  sicuramente di aiuto. 

Stava iniziando la prima fase della gara, il saggio di recitazione, e lei era la quarta a esibirsi. Aveva passato tutto il tempo prima della sua esibizione a osservare le esibizioni dei suoi potenziali rivali. E si era resa conto del fatto che emergere, non sarebbe stato affatto facile. 

Ora era il suo momento. La presentatrice dell’evento la stava annunciando.

«E ora accogliete con un applauso di incoraggiamento per Brigit! Una coordinatrice debuttante!»

Il pubblico stava applaudendo fragorosamente.

Lei ormai si trovava sul palco, davanti a migliaia di persone nell’arena e milioni in tutto il mondo. Doveva essere impeccabile. Tutti si aspettavano tanto da lei.

«Jolteon, tocca a te!»

Il PK uscì dalla Pokéball della ragazza, con un effetto di saette.

«Molto bene! Lancia una palla ombra in alto!»

Il Pokémon della ragazza eseguì il comando, lanciando in aria una sfera di energia dal colore viola scuro.

«Bene, ora colpiscila con Missilspillo!»

Il Pokémon eseguì, colpendo la sfera con una spilla appuntita uscita dal  collare bianco. Le sfera esplose creando una polvere luminosa.

«Bene, ora lasciane quante ne vuoi!»

Il Pokémon lanciò una decina di Palla Ombra verso il cielo.

I giudici erano perplessi, con quella tecnica, la ragazza rischiava di offuscare il Pokémon con le sue stesse mosse, un errore tipico dei principianti. 

«Ora vai con Comete!»

Il Pokémon creò un gran numero di stelle scintillanti. Anch’esse levitavano in aria. Nessuna delle stelle toccò le sfere di energia oscura. «Ora! Usa Fulmine!» 

Il Pokémon lanciò una potente attacco elettrico, che colpì e distrusse le stelle e le sfere di energia. La loro distruzione creò una tempesta di polvere colorata.

La ragazza fece un profondo inchino. 

I voti della giuria furono tutti alti. Era certa di esser passata alla fase successiva, ma era anche in ansia.

 Stava guardando le esibizioni dei suoi avversari. Anche loro erano stati bravi e avevano ottenuto delle ottime valutazioni da parte della giuria. 

Sapeva benissimo che avere un posto nei primi otto, sarebbe stato estremamente difficile. Sembrava che il tempo non passasse mai. Ogni esibizione sembrava durasse ore.

«E con questa abbiamo finito la prima fase! Ora i nostri giudici decideranno chi passerà alla fase successiva e chi, purtroppo dovrà seguire il resto dell’esibizione dagli spalti. Ma non vi preoccupate, non ci vorrà molto.»

Forse quella frase era valida per il pubblico a casa o nell’arena, ma non di certo per i coordinatori e le coordinatrici. 

Finalmente sul grande televisore apparvero le foto degli otto che avrebbero potuto partecipare alla fase seguente.

Brigit era felicissima. Aveva passato la prima fase. Quella che temeva di più. Ora non poteva di sicuro rilassarsi, ma era consapevole di avere un bagaglio di esperienza mica da ridere per quello che riguardava le lotte. Anche se sapeva che in questo caso lo sconfiggere l’avversario era in secondo piano. Mentre pensava a quelle cose, il sistema stava effettuando gli accoppiamenti. Aveva scovato il suo primo avversario. Un ragazzo di un paio d’anni più grande di lei. Come lei, era un coordinatore alle prime armi, che aveva da poco vinto il primo fiocco, e sperava di bissare il successo.

Dopo una breve attesa i due si trovarono una di fronte all’altro nel campo lotta. Si studiarono con lo sguardo. 

Appena venne data luce verde, entrambi schierarono i loro Pokémon.

Il ragazzo schierò un Jolteon.

Lei decise di «Iniziamo in bellezza, Jolteon! Usa Palla Ombra!»

schierare il suo Vaporeon. 

Ordinò il ragazzo.

Il suo Pokémon eseguì, creando una palla di energia oscura e scagliandola contro l’avversario. 

«Bene, grazie dell’idea! Vaporeon, colpiscila con Geloraggio e poi spediscila al mittente con la coda.»

Il Pokémon acqua lanciò il potente attacco di ghiaccio, che inglobò la sfera di energia, che, nel processo, aveva rallentato la sua corsa. Appena fu abbastanza vicina, spiccò un balzo e colpì la sfera con un movimento della coda. 

Questa venne rispedita al mittente, che venne colpito duramente. La palla si frantumò creando delle scintille colorate. Il suo avversario perse un quinto dei punti. 

«Passiamo al contrattacco! Missilspillo!»

Dal collare bianco del Jolteon del ragazzo si generarono numerosi aghi luminosi, che si dirigevano a gran velocità contro l'avversario.

«Vaporeon! Usa idrovampata!»

Il Pokémon Bollajet generò una coltre di acqua bollente che sciolse gli aghi. 

Il ragazzo non perse molti punti, ma a questo ritmo avrebbe perso, se non si fosse dato una mossa. 

«Forza! Usa Palla Ombra!»

«Anche te! Palla Ombra!»

I due attacchi si scontrarono al centro del campo, annullandosi a vicenda. Esplosero in una tempesta di scintille viola.

Entrambi persero un quinto dei loro punti. Mancavano due minuti e Brigit aveva un bel vantaggio sul rivale, anche se sapeva che non poteva di sicuro adagiarsi sugli allori.

«Jolteon! Chiudiamola qui! Usa Fulmine!»

«Su, usa Acquanello per proteggerti!»

Il Pokémon eseguì. La scarica elettrica venne immagazzinata negli anelli che roteavano attorno al corpo del Pokémon. 

Il suo avversario perse ulteriori punti.

«Bene ora lanciali contro di lui!»

Il Pokémon acquatico iniziò a eseguire l’ordine, una sirena decretò lo scadere del tempo. La presentatrice decretò la sua vittoria.  Ora non doveva fare altro che aspettare che anche i suoi avversari svolgessero la loro gara di lotta. Per conoscere il suo avversario o la sua avversaria. 

La sua avversaria sarebbe stata una ragazza e, eventualmente, anche la finalista.

In ogni caso non poteva pensare alla finale prima di aver superato quella fase. 

Ora si trovava davanti alla sua avversaria. Una giovane donna. Il suo vestito e i suoi accessori le davano un aspetto simile a Mismagius. che, non ironicamente era il suo Pokémon.

La giovane coordinatrice aveva deciso di schierare di nuovo Vaporeon. E di dare la prima mossa alla sua avversaria.

«Mismagius, mostra la tua potenza! Palla Ombra!»

La ragazza non ci pensò due volte. Usò la tecnica usata in precedenza.

«Vai! Colpiscila con Geloraggio e rispediscila al mittente con la coda!»

Il Pokémon eseguì, facendo perdere dei punti all’avversaria che, di sicuro non si aspettava di vedere ripetuta una combinazione precedentemente usata.

«Andiamo al contrattacco! Usa Neropulasar!»

La ragazza non ci pensò un attimo. 

«Congela il suo attacco!»

Il Vaporeon eseguì. Gli anelli violacei erano ora ricoperti dal ghiaccio. Altri punti guadagnati. Congelando anche Mismagius, che non poteva muoversi.

Brigit era quindi nuovamente di mano. 

«Usa idrovampata per sciogliere il ghiaccio!»

La sua avversaria era stupita. Perché scongelare Mismagius? Cosa aveva in mente?

Il potente getto di acqua bollente sciolse il ghiaccio e frantumò gli anelli, creando una combinazione d’effetto. E si, scongelò Mismagius, ma, nel farlo, la ferì. La sua allenatrice non se ne accorse. 

«Bene Mismagius; usa Palla Ombra!»

L’attacco fu più debole del previsto. E si disintegrò prima di arrivare dall’avversario.

«Vaporeon, usa Palla Ombra!»

L’attacco arrivò a destinazione, sconfiggendo Mismagius.

«Mismagius non è più in grado di lottare! Vince Vaporeon!»

Brigit saltò di gioia e abbracciò il suo Vaporeon.

«Sei stato mitico! Ora ti meriti un po’ di riposo!»

Era riuscita ad accedere alla finale. E non aveva vinto, ma aveva DOMINATO. Doveva comunque essere pronta per la finale. 

Solo una lotta, che, tra le altre cose, avrebbe svelato la sua avversaria, la separava dalla finale e, forse dall’ambito fiocco.

E in quella lotta, non sembrava che una coordinatrice prevalesse sull’altra.

Una aveva un Togekiss. L’altra una Lopunny. 

Dopo cinque minuti e con uno scarto minimo, vinse la prima.

Quella ragazza e il suo Togekiss sarebbero stati i suoi avversari per la finale.

Non le importava, l’avrebbe sconfitta comunque. Forse avrebbe preferito lottare contro l’altra, ma non dipendeva da lei, dopotutto. Era finalmente il suo momento. Era pronta e lo stesso si poteva dire della sua avversaria.

Lei aveva schierato Vaporeon, la sua avversaria Togekiss. 

Come sempre diede la prima mossa alla sua avversaria. Per poi comportarsi di conseguenza. 

«Togekiss, usa Forzasfera!»

Il Pokémon della sua rivale generò una sfera di energia azzurra, che scagliò contro l’avversario. 

«Vaporeon usa Palla Ombra!»

I due attacchi si scontrarono al centro del campo. In una spettacolare esplosione di polvere scintillante. Entrambe le coordinatrici persero la stessa quantità di punti. 

«Togekiss usa Aeoroattacco!»

Il Togekiss della ragazza salì verso l’alto, per poi scendere verso il basso ad alta velocità. 

«Vaporeon, Geloraggio!»

Il Vaporeon della ragazza attaccò con un potente geloraggio, che colpì il Togekiss in picchiata, facendolo sbilanciare e cadere a terra prima del dovuto. Facendosi seriamente male. La sua allenatrice perse una marea di punti. E Togekiss era parzialmente congelato e aveva delle difficoltà a muoversi. 

«Togekiss anche se non puoi volare provaci comunque. Usa Forzasfera!»

Il Togekiss caricò il suo attacco senza poter contare sul suo maggior punto di forza, il poter solcare i cieli. 

«Vaporeon, usa Palla Ombra!»

Vaporeon generò una gigantesca sfera di energia oscura, che inglobò la Forzasfera nemica, senza distruggerla. 

«E ora congelala con Geloraggio e poi colpiscila!»

Il Vaporeon eseguì. Colpendo Togekiss con un triplo attacco. 

«Togekiss non è più in grado di lottare. Vince Vaporeon!»

Le due coordinatrici ringraziarono i loro Pokémon e li ricoverarono nelle rispettive Pokéball, quindi si incontrarono al centro del campo e si strinsero la mano.

La presentatrice donò il fiocco alla ragazza.

«Ecco la vincitrice! Brigit. Complimenti, è il tuo primo fiocco!»

Da lì in poi fu un susseguirsi di festeggiamenti, che terminarono diverso tempo dopo.

La ragazza era poi tornata a casa, estremamente soddisfatta per la vittoria. Sapeva di dovere tutto ai suoi Pokémon, a Jolteon per la prima fase e a Vaporeon per la seconda. Dopo aver ricevuto i complimenti dai suoi famigliari, che avevano seguito la sua gara in diretta televisiva, la ragazza decise di andare nella sua stanza. Come i suoi Pokémon, che erano stati presi in cura dall’infermiera, aveva bisogno di riposarsi. O almeno così aveva detto ai suoi. Il motivo per cui era salita in camera sua era un altro.

Aveva vinto ma non si sentiva soddisfatta. Voleva migliorare le performance sue e della sua squadra. 

E a suo modo di vedere il solo modo per migliorarsi era studiare chi era più esperto di lei. 

Dopo una rapidissima ricerca trovò un’esibizione di Lucinda, una coordinatrice del nord del Giappone.

Lucinda aveva circa la sua età, dai capelli blu e gli occhi dello stesso colore.

Lucinda era sempre accompagnata da un Piplup. Anche quando quest’ultimo non partecipava direttamente alle gare, faceva sempre il tifo per lei dagli spalti vestito di rosso e con dei pon pon. 

Durante l'esibizione, la ragazza indossava un abito senza maniche. Che passava gradualmente dal bianco della parte superiore a un blu scuro mano a mano che si andava verso la parte inferiore. Vestito era decorato con un colletto blu scuro, una cintura di perline bianche trattenuta da un nastro blu scuro e balze bianche. Al colletto e alla cintura erano attaccate alcune perline bianche e gialle, a forma di mezzaluna, altre, più piccole, erano a forma di stella.

Indossava dei guanti blu scuro e ai piedi, dei tacchi dello stesso colore. In quella particolare gara aveva schierato una Buneary e un Pachirisu. Due Pokémon di piccola taglia, ma non per questo da sottovalutare.

La ragazza stava prendendo appunti, sulle tecniche usate dalla ragazza e dalla sua avversaria, a detta della presentatrice una storica rivale, quando il filmato venne interrotto da un interferenza. 

Brigit era stupita. Queste cose non potevano accadere su internet. Al massimo accadevano in televisione, quando qualche burlone si divertiva a disturbare le trasmissioni. 

Ma sul suo computer…

Al centro dello schermo si era creato lentamente uno strano simbolo.

Era formato da un pallino circondato da due cerchi concentrici, tutti di colore  rosso, su sfondo nero. Contrariamente a un bersaglio, dalla parte inferiore del cerchio più esterno partivano tre stanghette, e, dalla parte superiore ne partiva una.

La ragazza provò a cliccare sul simbolo. Ma non accadde nulla. Pensò che si trattasse di un qualche virus o simile. E che quindi, con grande dispiacere, avrebbe dovuto buttare il computer. Ma, così come era apparso, quello strano simbolo, scomparve. 

La ragazza decise di non dare troppo peso alla cosa. Tutto si era sistemato da sé, dopotutto, no?

A lui non interessava della reazione delle sue vittime. Gli interessava solamente recuperare i suoi frammenti.

Contemporaneamente, dall’altra parte del mondo, precisamente in Francia, il più prestigioso collegio del Paese, il Kadic, era in fermento. Le vacanze estive erano finite da poco e l’anno scolastico era iniziato. Ma tra gli anditi del collegio non si parlava di compiti e di lezioni, ma di una notizia trapelata dalla segreteria e fulmineamente riportata sul giornalino scolastico da Milly e Tamiya. Parrebbe infatti che sarebbero dovuti arrivare due nuovi studenti, o meglio un ragazzo e una ragazza. Non una novità eclatante, se non fosse che i due nuovi studenti sarebbero stati il monarca del torneo mondiale e l’attuale performer numero uno. Conosciuti al grande pubblico come Ash e Serena.

In molti stavano già sospettando che quell’articolo fosse l’ennesima storiella partorita dalle due per far parlare del giornalino.

Secondo la loro versione dei fatti, sarebbero arrivati qualche giorno dopo l’inizio effettivo delle lezioni e sarebbero dovuti essere inseriti nella seconda superiore.

Tanti pensavano che avessero affermato che sarebbero arrivati a giorni era un modo per pararsi qualora la notizia si fosse rivelata falsa. Dopotutto, passato qualche giorno, nessuno ne avrebbe più parlato.

Il suono della campanella costrinse gli studenti a separarsi e a recarsi nelle rispettive classi.

Gli studenti della seconda superiore ricevettero un'accoglienza diversa dal solito. Seduto sulla cattedra, infatti non c’era il professor Caggia, ma il preside, il signor Jean-Pierre Delmas. Un uomo non molto alto, di corporatura robusta, dai capelli grigi, barba dello sesso colore e baffi. Indossava un completo elegante marrone e scarpe in pelle dello stesso colore. 

Gli studenti, in coro, gli diedero un cordiale saluto.

«Buongiorno signor preside.»

Tutti gli studenti restarono in piedi nei loro posti, finché il preside non fece loro cenno di accomodarsi. In quella scuola la figura del preside era molto rispettata, quasi come una creatura mistica. Non un minimo brusio in quella classe.

«Miei cari studenti. Posso immaginare la vostra sorpresa nel vedermi qui, accomodato sulla cattedra al posto del professor Caggia, ma non vi preoccupate, arriverà presto. 

Nel frattempo ho da farvi un annuncio. Oggi accoglierete nella vostra classe due nuovi studenti. Viste come sono andate le ultime volte, non ritengo che per loro sarà un problema integrarsi con voi. 

Come ben sapete, in questo prestigioso istituto è sempre stata una tradizione che in questo istituto sia il preside a presentare i nuovi studenti. E questo caso non fa eccezione.

Altra tradizione di questo istituto è la presenza di studenti e studentesse provenienti da tutte le parti del mondo, tradizione che anche in questo caso verrà rispettata. 

I due nuovi studenti, un ragazzo e una ragazza, provengono rispettivamente dal Kanto, in Giappone e da un piccolo paese della Normandia. E a parere mio e di tutto il consiglio scolastico, contribuiranno ulteriormente a mantenere e alzare il prestigio di questo istituto che, sin dalle sue origini, oltre centoventi anni fa, ha sempre formato non solo allenatori e allenatrici, coordinatori e coordinatrici, ma prima di tutto dei ragazzi e delle ragazze pronti ad affrontare le sfide che il mondo reale riserva.

Come voi anche loro hanno compiuto diverse sfide e come voi premono per compierne di nuove. E siamo sicuri che saranno in grado di fornirvi dei nuovi stimoli per migliorarvi e spero che voi facciate altrettanto con loro. Come del resto avete dimostrato di saper fare con tutti gli altri studenti.»

Poi, guardando gli studenti, e notando i loro sguardi carichi di noia, decise di tagliare corto.

«Jim, falli entrare!»

Inizialmente entrò un uomo di circa quarant'anni, alto circa uno e settantacinque, di corporatura robusta, vestito con una maglietta di un colore indefinibile, una canadese nera e delle scarpe da ginnastica. I  capelli, castano scuro, erano trattenuti da una bandana bianca.

In faccia aveva un cerotto, probabilmente messo lì per nascondere un taglio fatto con il rasoio.

Quell’uomo era Jim Morales,  professore di educazione fisica, coreografo Pokémon e guardiano della scuola, e, come ordinatogli dal preside, aveva accompagnato all’interno della classe un ragazzo e una ragazza.

Il preside li presentò alla classe.

«Ecco, loro sono Ash e Serena.»

I due fecero un cenno di saluto.

Il ragazzo aveva i capelli neri e gli occhi castani. 

Indossava una maglietta bianca con in mezzo una striscia rossa e un paio di blue jeans. Aveva delle scarpe da ginnastica bianche di una nota marca. 

Alle spalle un semplice zaino a zip blu. Sulla spalla un Pikachu maschio.

La ragazza aveva capelli color miele e gli occhi azzurri. Indossava una maglietta nera, una gonna rossa, delle lunghe calze nere e degli stivaletti marroni.

Lei non aveva uno zaino, ma una borsa, nera. 

La ragazza attirò come un magnete lo sguardo di Odd.

Cosa che venne notata da Ash, che lo fulminò con lo sguardo. 

Il biondo non ebbe pace nemmeno dal compagno di banco Ulrich, che gli diede una gomitata nelle coste. 

«Credo che questa volta resterai a bocca asciutta!»

Odd fece una smorfia di dolore. Sia per la gomitata sia per l’infelice battuta dell’amico. Era suo vanto di aver avuto almeno un appuntamento con tutte le ragazze della classe, tranne Aelita, Sissi e Heidi. 

Non era mai uscito con Aelita perché sarebbe stato sospetto che un ragazzo avesse quel tipo di appuntamenti con quella che doveva essere sua cugina. Infatti, l'identità della ragazza era quella di una sua cugina proveniente dal Canada. In più ella aveva iniziato a sviluppare dei sentimenti verso Jeremy.

Tanto che i due si erano messi insieme.

Non era mai uscito con Sissi, la figlia del preside, sotto consiglio dell’amico e compagno di mille avventure Ulrich. La definiva come una ragazza vanitosa, snob e viziata. Oltre che gelosa e  incline a deridere o rimproverare gli altri, come Milly o Tamiya ai suoi due leccapiedi Nicholas e Hervé. L’ha descritta anche come molto ficcanaso.

Nonostante ciò, quantomeno inizialmente, la  trovava carina.

Infine non era mai uscito con Heidi, nonostante la stessa provasse dei sentimenti verso di lui a causa di alcune incomprensioni dovute a un attacco di Xana. 

Gli occhi della classe erano puntati tutti sui due. Sembravano quasi degli alieni. 

Ignorando totalmente la reazione della classe, Jim si riferì ai due.

«Forse è meglio che vi accompagni a sistemare le vostre cose. E che vi informi su alcune regolette.»

Il tono del professore era quello di chi voleva essere autoritario, ma proprio non ci riusciva.

I due, in ogni caso, lo seguirono. 

Dopo un lungo percorso, i tre raggiunsero i dormitori. Il professore iniziò a spiegare le regole.

«Il piano inferiore del dormitorio è quello dove dormono i ragazzi, quello superiore dove dormono le ragazze. Alle dieci di notte, tutti dovranno trovarsi nella propria stanza. Tranne ovviamente per andare al bagno, ma non pensate di usarla come scusa. Conosco questo edificio come le mie tasche.

Vi ricordo che la colazione è alle sette e mezza, alle dieci e mezza c’è la ricreazione, quindi potete andare al bar o alle macchinette. Il pranzo è servito all'una e mezza, cena alle otto e mezza. 

Dalle otto del mattino alle quattro e mezza del pomeriggio è vietato entrare in camera. Tranne per dieci minuti prima e dopo pranzo per prendere eventuali Pokémon. 

L’uomo si fermò. E i due fecero altrettanto.

«Ash… ti chiami così?»

Il ragazzo fece un piccolo cenno di approvazione.

«Questa sarà la tua stanza. La condividerai con Jeremy Belpois. Dato che ci sei metti le tue cose qui e lascia anche il tuo Pikachu. I Pokémon fuori dalle Pokéball non sono ammessi nelle aule. E le lotte e le esercitazioni sono permesse solo in aree specifiche.»

Il ragazzo ricevette dal professore una copia delle chiavi della stanza. E aprì la porta.

Non era una stanza enorme, ma nemmeno piccolissima. Due letti, due piccoli armadi e una scrivania. La stanza era illuminata da un'ampia finestra. 

Dando uno sguardo più approfondito alla stanza notò sulla parete di sinistra, sopra il letto, un poster di Albert Einstein, ritratto mentre faceva la linguaccia. Questo gli bastò a capire che quello era il letto del suo compagno di stanza.

Aveva anche notato come la scrivania fosse totalmente occupata da un gigantesco computer fisso e di come il suo enorme peso la curvasse.Il fatto che non si fosse spaccata, era un vero miracolo.

Aveva notato come alla base del suo letto vi fosse una cuccetta per Pokémon. 

Posò la sua valigia sul suo letto e  si rivolse al suo Pikachu.

«Scusa amico, ma dovrai restare qui, per ora. Poi verrò a prenderti,  mi raccomando, fai da bravo!»

Il ragazzo, per non far sentire Pikachu da solo, aveva fatto uscire dalla Pokéball il suo Lycanroc.

Fatto questo, il ragazzo uscì dalla stanza e chiuse la porta.

Sperava che almeno Serena avesse la fortuna di avere una singola. Almeno dalle quattro e mezza a poco prima delle dieci di notte avrebbero potuto avere un po’ di intimità.

Il professore gli fece cenno di aspettare. Avrebbe accompagnato la ragazza e sarebbe tornato.

Ash non poteva quindi saperlo subito, ma il suo desiderio si era trasformato in realtà. La stanza della sua ragazza era una singola. Il professore consegnò alla ragazza le chiavi della stanza. Come quella del ragazzo non era enorme, ma era molto ben illuminata da un'ampia finestra. L'arredamento era semplice. Un letto sul lato sinistro, un armadio e una scrivania. Con un computer fornito dalla scuola. Ai piedi del letto un tappeto rosa.  

La ragazza poggiò la valigia sul letto. 

«Devi ritenerti fortunata.»

Le spiegò il professore.

«Questa è la sola singola femminile rimasta.»

I due tornarono al piano inferiore, a riprendere Ash. arrivati lì, il ragazzo li aspettava fuori dalla porta. Serena scambiò con il ragazzo uno sguardo d’intesa. Questo non venne notato dal professore, troppo impegnato nel riaccompagnare i due in aula, dove era in corso la lezione del professor Caggia. Fatto questo, il professore tornò al suo lavoro.

Il suo viaggio alla ricerca di frammenti continuava.

Kyushu, città di Fukuoka, sud del Giappone. 

Lucinda era appena uscita dall’ospedale, dove si era recata per fare visita a Vera una sua carissima amica. La ragazza era  imbruconata durante una sessione di allenamento e aveva dovuto dare forfait per quanto riguardava la Coppa Adriano.

Durante la visita l’aveva bonariamente rimproverata per averle fatto perdere del tempo, anche perché era consapevole che anche a parti invertite lei sarebbe andata a trovarla.

Il giorno dopo avrebbe dovuto partecipare alla Coppa Adriano, dall’altra parte del Giappone. 

Per questo non si era potuta trattenere molto. Appena fuori dall'ospedale, aveva preso un taxi per farsi accompagnare all’aeroporto. Lì avrebbe preso un volo per casa sua, l’Hokkaido. Precisamente per la città di Sapporo. Da lì avrebbe avrebbe preso un treno per la città di Kushiro. Poco lontano da quella città si sarebbe svolta la competizione.

Il breve viaggio in taxi, circa nove chilometri, le costò duemila Yen. Molto meno delle quattordicimila per il biglietto aereo. Il più economico che aveva trovato, compagnia low cost e classe economica. Ma per un’amica questo e altro. 

Finito il viaggio in taxi, giunta alle partenze e superati i controlli, salì a bordo dell’aereo, un Airbus A320. Nonostante la frequenza elevata della tratta, l’aereo era stracolmo.  

Lei si trovava in un posto vicino al finestrino. Per questo si poté godere al meglio il viaggio. Che fu piuttosto tranquillo. Come anche l’atterraggio. Non aveva bagagli, per cui avrebbe fatto in fretta. 

Dopo un’altra corsa in taxi, costatale millesettecento Yen, era giunta alla stazione dei treni. Il che voleva dire altre diecimila Yen che volavano. Almeno dalla stazione in poi e, per qualche giorno non avrebbe dovuto preoccuparsi di spendere, dato che ci avrebbe pensato l’organizzazione. 

La Coppa si sarebbe svolta alcuni chilometri fuori dalla città, e sarebbe iniziata il giorno dopo. Avrebbe passato la notte in uno degli hotel della città, poi, durante la coppa, avrebbe risieduto nel villaggio messo a disposizione per i partecipanti.

Dopo cena non riuscì ad addormentarsi, così decise di fare una videochiamata con Ash, il suo migliore amico. Sapeva che si era trasferito in Francia, con la sua ragazza, ma nonostante si fosse fidanzato, i due erano comunque rimasti in contatto. Sebbene non avesse mai conosciuto Serena di persona, sapeva che, come lei, era una coordinatrice, oltre a essere una famosa performer.

Dopo non molto tempo Ash rispose alla sua chiamata. Erano le cinque del pomeriggio in Francia e lui si trovava nella camera che avrebbe condiviso con Jeremy. In quel momento era solo. Stava sistemando le sue cose, in compagnia di Lycanroc e Pikachu. Non aveva la minima idea di dove si trovasse il suo compagno di stanza. Ma gli importava poco. L’aveva già visto a lezione. Tuttavia qualcosa l’aveva spinto a non dirgli che sarebbe stato il suo compagno di stanza. Ma poco importava. Si era accorto del fatto che stava ricevendo una videochiamata, proprio da parte di Lucinda, per cui  abbandonò i suoi pensieri e rispose. Intanto Pikachu era salito sulla sua spalla. Esplose di gioia non appena vide Lucinda. 

«Ciao Ash!»

«Ciao Lucinda! Quanto tempo! Come va lì in Giappone?»

«Benissimo! Sto per partecipare alla Coppa Adriano. Quest’anno sarà vicino a Kushiro.»

«Bene. Immagino tu abbia studiato nuove combinazioni per la gara.»

«Non ti sbagli! Spero che tu riesca a seguirla, vedrai, ti stupirò. Ma… dove sei? Ti hanno arrestato? Dico davvero, sembra che ti trovi in carcere.»

«No, no, niente carcere, ma non ci sei andata lontano, ci hanno dato una borsa di studio per la scuola più prestigiosa di tutta la Francia e abbiamo deciso di accettare. Magari la prossima volta ti presento anche il mio compagno di stanza.»

«Ah, bene! Non so se hai sentito cosa è successo a Vera.»

«No, dimmi, è da un po’ che non la sento.»

«Durante una sessione di allenamento è caduta e, pare si sia rotta una gamba. Quindi ha dovuto dare forfait.» 

 «Spero si rimetta presto.»

«Oh, anche io.»

Intanto, si sentiva qualcuno bussare nella stanza di Ash.

«Scusa, ma ti devo lasciare. Ci sentiamo presto! Ah, giusto! Saluta Adriano da parte mia.»

«Lo farò! Ci vediamo!»

Poi la ragazza chiuse la videochiamata.

Ash si affrettò ad aprire la porta. Davanti a lui Jim Morales, il professore/coreografo/guardiano. Ash era intimidito. Pensava di aver combinato qualche disastro o simili. E, farlo da appena arrivato sarebbe stato un disastro. Ma, almeno in questo caso, le intenzioni dell’uomo erano tutt’altro che cattive.

«Ti aspettano ai campi lotta, vogliono che tu dia una dimostrazione.»

Ash era contento, voleva mostrare di cosa era capace. E di cosa erano capaci i suoi Pokémon.

«Lotterò contro di lei?»

«Oh, no. Niente affatto. Io sono stato un fortissimo allenatore, io e la mia squadra abbiamo vinto decine e decine di lotte…»

«Scusi se sono indiscreto, ma mi può dire perché non lotta più?»

«Preferirei non parlarne.»

Ash, essendo lì da poche ore non lo poteva sapere, ma, per il professore, quelle tre parole erano una sorta di rifugio. Le aveva usate tante di quelle volte che ormai aveva perso il conto. 

I due non parlarono per tutto il resto del tragitto, fino ai campi lotta. 

In questo caso utilizzarono quelli all’aperto. Era una bellissima giornata di fine estate, tanto valeva approfittarne. 

«Ulrich Stern, sarai tu il suo sfidante.»

Il ragazzo raggiunse l'estremità opposta del campo lotta, senza dire una parola. Nonostante sapesse di avere un avversario di alto livello, voleva mostrare il suo valore. Era il campione delle lotte in coppia, insieme a Yumi, la sua ragazza. E solo contro di lei aveva perso il titolo delle singole.

Ash, invece avrebbe voluto fare una bella figura con la sua ragazza. Anche lei stava seguendo la lotta, sempre dagli spalti.

«Io farò da arbitro. Sapete, una volta sono stato arbitro a livello professionistico, per le lotte del torneo della lega, ma… preferirei non parlarne. Ad ogni modo… schierate i vostri Pokémon e cominciate. Sarà una lotta uno contro uno. Vince chi rende non più in grado di lottare il Pokémon avversario. 

Si affronteranno Ulrich e Ash. Schierate i vostri Pokémon.»

«Pikachu ti va di lottare?»

Il Pokémon scese dalla spalla del ragazzo e si schierò in campo. In attesa di sapere contro chi avrebbe lottato.

«Gallade, tocca a te.»

Dalla Pokéball del ragazzo uscì un Gallade. Appena uscito si mise immediatamente sulla difensiva. 

«La prima mossa spetta a Ash.»

«Pikachu, su, usa Attacco Rapido!»

«Gallade proteggiti con le braccia!»

Il Pikachu corse a grande velocità contro l’avversario, colpendolo in pieno petto e facendolo sbilanciare, nonostante si fosse protetto. 

«Benissimo, ora usa Psicotaglio!»

Le braccia del Pokémon si estendettero e illuminarono di azzurro. Da esse uscirono delle lame di energia colorate. Che colpirono Pikachu, facendolo allontanare.

«Pikachu, usa Codacciaio per rallentare.»

Il Pokémon eseguì, infilando la coda nel terreno e fermandosi. Era tornato sulle sue zampe.

«Gallade, usa Zuffa!»

Il Gallade del ragazzo corse verso la metà campo avversaria, e iniziò a tirare una serie di calci e pugni al Pikachu avversario.

«Pikachu, non permettergli di colpirti. Usa Fulmine!»

Il Pikachu, che si trovava in aria, eseguì, lanciando contro l’avversario un potentissimo attacco elettrico. 

«Gallade usa Nottesferza!»

Le braccia del Pokémon si illuminarono di azzurro, e vennero circondate da un’aura dello stesso colore.

«Usa Codacciaio contro le sue braccia, prima che ti possa colpire!»

La dura coda di Pikachu colpì le braccia del Pokémon avversario, annullando l’attacco e facendolo arretrare e curvare in una posizione piuttosto scomoda. 

«Gallade, usa Psicotaglio per liberarti!»

La coda del Pokémon pressava contro le braccia di Gallade. Entrambi erano in una posizione piuttosto scomoda. E l’attacco, nonostante la scomoda posizione del Pokémon, fu sufficiente a spedire Pikachu oltre i confini del campo, senza che questi potesse in alcun modo attutire la caduta. 

Tutte le attenzioni erano puntate su di lui. Anche la telecamera di Tamiya che, insieme all’inseparabile amica Milly stavano riprendendo l’incontro. 

Jim si stava avvicinando al Pikachu, per comprendere se questi fosse o meno in grado di continuare. Ma prima che potesse raggiungerlo, lo vide rialzarsi. 

«Pikachu può ancora continuare!» Dichiarò.

Ash se lo aspettava. Quella lotta era niente in confronto a tante altre che avevano affrontato. E lo avrebbe dimostrato. 

«Pikachu, usa codacciaio, mira al ginocchio.»

Il Pikachu correva ad alta velocità contro il Gallade avversario. Pronto a colpirlo in un punto sensibile.

«Gallade, tieniti pronto. Quando te lo dico devi saltare.»

Sembrava che lo spazio tra i due Pokémon fosse infinito. Pikachu correva, Gallade restava fermo, sembrava che  i due non si raggiungessero mai. «ORA!» Gridò Ulrich.

Gallade saltò in aria pochi istanti prima che il colpo arrivasse. La coda di Pikachu non lo sfiorò nemmeno. Ma nonostante questo, Ash non era minimamente preoccupato.

«Pikachu, salta anche tu, e usa Attacco Rapido!»

Il Pokémon, dandosi propulsione con la muscolatura delle zampe posteriori, spiccò un balzo. Ora si trovava alla alla stessa altezza di Gallade. Pronto ad attaccare. 

Nemmeno il disperato tentativo di proteggersi con le braccia, poté fermare quell’attacco. Gallade era disteso a terra. Di schiena. Dolorante. Ma ancora in grado di lottare. Senza che il suo allenatore gli dicesse nulla, si rimise in posizione eretta, non era tipo da arrendersi facilmente. Come il suo avversario.

«Wow, è tale e quale al suo allenatore! Non si arrende mai!»

Commentò una Sissi, ancora innamorata di Ulrich, nonostante questi avesse, da qualche tempo, una relazione stabile con Yumi. Il ragazzo era troppo impegnato nella lotta per poterla sentire. 

«Gallade, usa di nuovo Zuffa!»

Gallade corse di nuovo verso Pikachu, con l’intenzione di colpirlo nuovamente con una serie di calci e colpi di lame, ma Ash non poteva permettere che Pikachu subisse nuovamente una simile raffica di colpi. 

Questa volta fu attendista. Gallade corse contro Pikachu. Che stava aspettando. Per ora era tutto solo nella mente di Ash, ma presto si sarebbe rivelato agli spettatori, che erano passati dall’essere poco più di una mezza dozzina, a essere oltre la metà dei collegiali. Data l’intensità dello scontro, nessuno osava proferire parola. Erano tutti in religioso silenzio, come in una partita di tennis. In attesa di quella che, forse, sarebbe stata l’ultima mossa, quella che avrebbe determinato l'esito dell’incontro. Gallade correva a grande velocità, Pikachu era fermo. Immobile, in attesa del comando del suo allenatore. 

Gallade era in procinto di raggiungerlo. Appena due passi. Ora solo uno. Ora era a una frazione di secondo dal colpirlo.

«ORA! Pikachu! Codacciaio!»

La coda del Pokémon si era indurita, diventando come una lama. Simile a quelle di Gallade. 

La coda di Pikachu colpì una delle gambe di Gallade, nella parte interna, facendolo cadere di faccia contro il terreno. 

Gallade provò a rialzarsi, ma era troppo debole.

«Gallade non è più in grado di lottare. Il vincitore è Pikachu!»

DichiaroJim.

Ulrich raggiunse il suo Pokémon, e, dopo averlo aiutato a rialzarsi, lo ricoverò nella Pokéball. 

«Non ti preoccupare, sei stato fantastico, ora ti puoi riposare, te lo meriti.»

Quindi raggiunse l’allenatore avversario, e gli porse la mano destra. Ash fece altrettanto. I due ragazzi si strinsero la mano.

Un gesto di estrema sportività, che venne gradito dal pubblico. Tutti i collegiali fecero partire un applauso.

«Sei davvero forte. Ma la prossima volta io e Gallade ti batteremo, vedrai!»

«Non contarci! Anche noi la prossima volta saremo più forti, vedrai.»

«Questi due ragazzi vi hanno dato una stupenda dimostrazione di una lotta, ora tocca alle ragazze, che si esibiranno in una gara di lotta. Serena e Aelita?»

Il fatto di non essere chiamata, fece particolarmente irritare Sissi. Le era stata preferita la sua acerrima rivale.

Per questo decise di andare al suo posto. 

Ash, notando questa ingiustizia, si rivolse alla sua ragazza.

«Falle vedere chi sei.»

La ragazza fece un cenno d’intesa. Come a intendere che lo avrebbe fatto comunque. Dopotutto la sua avversaria si era autoimposta. In ogni caso Jim, la professoressa Hertz e Yolanda, l’infermiera della scuola si erano accomodati nel pannello dei giudici. E il professore di educazione fisica accese il monitor. 

«E va bene. Cominciate.» 

«Delphox, tocca a te!»

« Ralts, brilla per me!»

Serena era stupita. Perché mandare contro una piccola Ralts contro la sua Delphox? Voleva davvero regalarle una vittoria così facile o c’era dell’altro? Dubitava del fatto che lei fosse una coordinatrice di alto livello? In ogni caso la sua intromissione non venne gradita dal pubblico, eccezion fatta per i suoi due leccapiedi. 

«La prima mossa tocca a Serena.» Dichiarò Jim.

«E perché non inizio io?» Si lamentò Sissi. «Ralts! Palla Ombra!»

«Delphox! Usa introforza!»

Una delle sfere di energia create dalla Delphox di Serena si scontrò contro la palla di energia oscura. 

«Ralts, usa psichico per rispedirle l’attacco!»

La Ralts della ragazza concentrò i suoi poteri e spinse le sfere di energia contro Delphox.

«Delphox, distruggile con Fuocobomba!»

La Delphox lanciò un potentissimo attacco di fuoco, simile ad una croce di fiamme, che distrusse le sfere di energia. E che colpì la Ralts avversaria. Sconfiggendola.

«Ralts non può più continuare! Vince Delphox. Di conseguenza la vincitrice è Serena.»

Sissi si allontanò senza nemmeno stringere la mano alla sua avversaria, con tanto dispiacere di quest’ultima.

«Serena, ti va una lotta?»

Alla ragazza le ci volle un attimo per capire chi le aveva fatto la proposta. Dopo uno sguardo più attento si accorse  che  a farle quella richiesta fosse una ragazza dai capelli rosa, tagliati corti.

Era forse lei Aelita, la ragazza che, inizialmente doveva essere la sua avversaria?

«Con piacere.»

I professori e l’infermiera, dopo la brutta figura rimediata di Sissi, si erano allontanati. Lasciando soli gli alunni. 

«Se non vi dispiace farò da arbitro.» 

Si offrì Ash.

Le due ragazze accettarono, dopotutto un arbitro sarebbe servito, no?»

«Bene, schierate i vostri Pokémon!»

«Delphox, vuoi lottare?»

La Delphox della ragazza accettò. Dopotutto la lotta contro quella Ralts, non era stata nemmeno un antipasto.

«Togekiss, conto su di te!»

Dalla Pokéball della ragazza uscì un esemplare di Togekiss, che iniziò immediatamente a svolazzare per il campo di lotta.

Ash annunciò le regole.

«Sarà una lotta uno contro uno. Vince chi riesce a sconfiggere il Pokémon avversario. Che la lotta cominci!»

«A te l’onore!»

Serena aveva la possibilità di fare la prima mossa. Voleva approfittarne. 

«Delphox! Usa Introforza!»

La Delphox della ragazza generò diverse sfere di energia di colore bianco. Lanciandole contro l’avversaria.

«Togekiss difenditi con Eterelama!»

La Togekiss della ragazza generò delle lame d’aria, che distrussero le sfere d’energia. E avvicinandosi pericolosamente a Delphox.

«Delphox, schiva!»

Delphox si spostò poco prima di venire colpita dall’attacco avversario, che colpì il campo lotta creando una nube di polvere. Sebbene non venne colpita dall'attacco, era stata parzialmente accecata.

«Delphox, usa Magifiamma!»

Delphox creò un cerchio di fuoco con il suo bastone. Dal centro di quel cerchio partì una grande fiammata.

«Togekiss,  schiva! Poi usa Palla Ombra!»

Il Pokémon si spostò dal flusso della fiammata, per poi lanciare contro l’avversaria una sfera di energia oscura. Nonostante la coltre di polvere si fosse parzialmente diradata, la visuale di Delphox era ancora parzialmente offuscata dalla polvere. Per questo venne colpita duramente dall’attacco.

«Delphox puoi rispondere, usa Psichico!»

I poteri psichici della volpe di fuoco fecero schiantare al suolo la Togekiss della ragazza. 

«Togekiss, stai bene? Puoi continuare?»

Nonostante il duro colpo, Togekiss si alzò nuovamente in volo.

«Molto bene Togekiss, usa Idropulsar!»

Dalla bocca del Pokémon della ragazza si generò un fortissimo getto d’acqua, che colpì in pieno la Delphox avversaria, facendola cadere a terra. Facendo si che si trovasse nella stessa posizione in cui poco prima si trovava Togekiss. Ergo in una posizione di enorme svantaggio. Togekiss volava sopra di lei. Alzarsi poteva significare perdere l’attimo.

«Delphox! Fuocobomba!»

Dal bastone della Pokémon, puntando verso l’alto venne generata una coltre di fuoco a forma di stella. 

«Togekiss! Lancia contro una Palla Ombra!»

Il Pokémon della ragazza dai capelli rosa eseguì. Lanciando verso il basso il potente attacco di tipo spettro. Che, nel suo cadere verso il basso, incrociò e dissolse l’attacco di fuoco, per poi colpire Delphox. 

«Delphox non è più in grado di continuare! Quindi vince Togekiss: La vincitrice dell'incontro è Aelita.»

La ragazza dai capelli rosa si avvicinò alla sfidante. Le due ragazze si strinsero la mano. 

«Vedo che non tutte sono come lei.»

Commentò Serena.

«Lei è il caso unico. È Sissi, la figlia del preside. Imparerai a conoscerla. Molto spesso si comporta così. Dando il cattivo esempio. Il suo modo di approcciarsi con gli altri lo si rivede anche nella sua squadra.

«Capisco. Cercherò di starle alla larga.»

Dopo essersi salutata con Ash, Lucinda aveva finalmente preso sonno. 

La ragazza cercò di cliccarci, per farlo sparire, ma non ottenne il risultato sperato. Anzi. Sentì come una piccola scossa sulle dita. Poi il simbolo scomparve.

La ragazza decise di spegnere il computer e di addormentarsi. Ne aveva visto abbastanza quel giorno. E poi tra qualche ora ci sarebbero stati i round preliminari della Coppa. Doveva essere riposata.

Intanto, si era fatta praticamente ora di cena. L’enorme serpente di ragazzi e ragazze, dopo aver condotto i loro Pokémon nello spazio appositamente dedicato a loro, si stava dirigendo al refettorio.

Non si parlava d'altro se non che delle lotte che erano avvenute in precedenza. 

Nessuno pensò particolarmente a cosa avrebbero mangiato quella sera, dopotutto, a pranzo, per via dell’arrivo dei due era andata anche troppo bene.

Tutto sommato la cena non fu male. Dopo aver mangiato, il serpente di ragazzi guadagnò il dormitorio. Avevano un’oretta prima di dover restare nella propria stanza. Jeremy la trascorse con i suoi amici nella stanza di Odd e Ulrich. Ash, invece la trascorse nella stanza della sua ragazza, ovviamente in sua compagnia.

Pochi istanti prima delle dieci, il ragazzo e il suo Pikachu erano scesi al piano inferiore.Ash aveva accompagnato Pikachu in camera, prima di andare al bagno. Jeremy si congedò con i suoi amici e si diresse in camera sua. Come anche Aelita, che nel salire le scale, aveva incrociato Ash.

Jeremy entrò nella sua stanza e accese la luce. Al centro della stanza vide un Pikachu. Gli ci volle un attimo per capire. Non poteva essere un esemplare selvatico. I Pikachu sono dei PK  notoriamente molto schivi. Nel boschetto vicino alla scuola ne erano presenti diversi, ma appena vedevano una persona, scappavano. Ergo quel Pikachu doveva essere di un qualche allenatore. Solo in un secondo momento si rese conto del fatto che avrebbe dovuto condividere la stanza con qualcuno. Con tutta probabilità l’allenatore di quel Pikachu.

E non si era sbagliato. Ash entrò poco dopo. 

«Piacere… Jeremy? Io sono Ash. Sarò il tuo compagno di stanza.»

«Piacere.»

«Devo ammettere che mi hai sorpreso  con le tue tecniche di lotta. Hai davvero uno stile unico.»

«Dici? Io semplicemente studio il modo di lottare del mio avversario, ne comprendo i punti di forza e debolezza e gli sfrutto a mio vantaggio.»

«E se uno dovesse improvvisare? Che fai?»

«Quando ti capiterà mai? Una, due volte?»

«Se non ti dispiace domani ci sfideremo. E le vedrai queste una o due volte.»

Intanto, mentre in Francia stava scorrendo la notte, in Giappone un nuovo giorno stava incominciando. Questo, per Lucinda voleva dire prepararsi e anche alla svelta, se non voleva arrivare in ritardo alle prove finali prima dell’esibizione. E lei non era tipo da prepararsi rapidamente, anzi. 

Per sua fortuna, però il pullman che avrebbe portato tutti i coordinatori al villaggio allestito appositamente per la manifestazione, ebbe un inconveniente e tardò non poco.

Almeno poté prepararsi con la dovuta calma e riuscì a essere pronta pochi minuti prima dell’arrivo del mezzo. 

Il viaggio durò una mezz’ora abbondante. Poi il pullman si fermò, permettendo a tutti di scendere. Il villaggio era costituito da alcuni edifici smontabili dove i coordinatori avrebbero dormito, da un edificio adibito a ristorante per i coordinatori e da alcune hospitality per il pubblico. 

L’arena dove si sarebbe svolta l’esibizione era direttamente costruita sull’acqua. 

Quel giorno erano unicamente in programma delle esercitazioni, ma sugli spalti era comunque presente del pubblico. 

Lucinda aveva approfittato di quell’occasione per fare le ultime prove. Voleva continuare la sua striscia di vittorie consecutive alla coppa e sarebbe dovuta essere impeccabile, e la sua squadra con lei.

Quel turno extra le fu molto di aiuto. Aveva deciso chi utilizzare sia durante la fase del saggio di recitazione, sia durante le gare. La Coppa Adriano non era una gara come le altre. Era valida per tutte le regioni del Giappone, pertanto il numero di concorrenti era molto maggiore rispetto al solito. Lucinda era comunque sicura che avrebbe passato la prima fase. Era una delle migliori coordinatrici del Giappone, non si sarebbe fatta scoraggiare da questo. Anzi. era uno stimolo per mostrare quanto valesse una super coordinatrice. E l’assenza di due rivali quali Vera, in ospedale con una gamba rotta e di Zoey, che aveva deciso di ritirarsi dalle gare, non l’avrebbe influenzata. 

Era il primo dei tre giorni di gara. Il primo era dedicato alle esibizioni. Il giorno seguente ci sarebbero stati gli ottavi e i quarti di finale. Il terzo e ultimo giorno, invece ci sarebbero state le semifinali e la finale. 

Lucinda sarebbe stata la terzultima a esibirsi, per cui avrebbe potuto saggiare il livello dei suoi avversari, prima di esibirsi. 

Ora si trovava sul palco. Vestita con il suo classico abito da gara. Ma poco importava. Non era lei la protagonista. 

«Togekiss sonoquì!»

La Togekiss della ragazza uscì dalla Pokéball contornata da dei cuori. Che, immediatamente lanciò verso il pubblico, tra gli applausi.

Quindi fece un volo radente con un’ala che sollevava una coltre d’acqua. 

«Togekiss usa Forzasfera, quindi colpiscila con Eterelama.»

Il Pokémon eseguì, creando una sfera di energia di colore azzurro, che poi venne colpita dalla lama d’aria. Questo polverizzò la sfera di energia. 

«Molto Bene! Ora usa di nuovo Forzasfera, poi inglobala in Palla Ombra.»

Il Pokémon eseguì, lanciando verso il cielo una sfera di energia azzurra, per poi fare lo stesso con una sfera di energia oscura. 

Poi, prima che i due attacchi si incontrassero, impartì un altro ordine.

«Benissimo, appena si toccano,colpiscile con Aeroattacco!»

La sfera oscura inglobò quella azzurra. Ora i due attacchi erano una sola cosa. La sfera oscura emanava anche dei bagliori di colore azzurro.

Togekiss la colpì creando polveri di vario colore. 

«Chiudiamo in bellezza! Usa di nuovo Palla Ombra e Forzasfera! Poi Eterelama!»

Togekiss eseguì. Questa volta i due attacchi non si incontrarono, ma rimasero sospesi alla stessa altezza. I due Eterelama gli distrussero in polvere colorata, prima di scontrarsi e fare altrettanto.

La ragazza si prese i complimenti da parte della giuria e uno scrosciante applauso dal pubblico. Il suo accesso alla fase seguente fu una semplice formalità.

Nonostante questo ebbe un piccolo brivido, mentre guardava il tabellone in cui apparivano i coordinatori che avrebbero acceduto alla fase seguente. Ovviamente lei era presente tra gli otto che avrebbero avuto accesso alla fase successiva.

Il giorno seguente la ragazza avrebbe affrontato la prima fase delle gare di lotta. 

Non si era curata di scoprire chi sarebbe stato il suo avversario o la sua avversaria. Aveva iniziato a farlo qualche tempo prima e da allora non aveva più smesso. Era riuscita a passare i quarti di finale senza troppi inconvenienti, e si era messa in contatto con la madre, per raccontarle di alcuni dubbi che la affliggevano.

Aveva chiuso la chiamata e stava per spegnere il suo portatile, ma qualcosa la dissuase dal farlo.  Al centro dello schermo del suo portatile era apparso uno strano simbolo. 

Per certi versi ricordava un bersaglio delle freccette. Era formato da un pallino circondato da due cerchi concentrici, tutti di colore rosso, su sfondo nero. Dalla parte inferiore del cerchio più esterno partivano tre stanghette, e, dalla parte superiore ne partiva una. La ragazza, pensando a uno scherzo, decise di cliccare sul simbolo. Una piccola scintilla uscì dal touchpad del suo portatile. La ragazza non si accorse di nulla. Spense il computer e decise di dedicarsi ad altro. 

Era giunta alla finale. E sapeva di avere tanti occhi addosso. La sua avversaria era una super coordinatrice, come lei. E aveva schierato un Umbreon. Lucinda aveva, invece, schierato Piplup. il Pokémon pinguino era avvantaggiato dal fatto di trovarsi nel suo ambiente naturale, l’acqua. E si aspettava che Lucinda sfruttasse questo a suo vantaggio.

«Umbreon, usa Neropulsar!»

Il Pokémon Lucelunare lanciò una serie di anelli di energia di colore viola scuro, tendente al nero.

«Piplup, assorbilo con Mulinello!»

Il Pokémon della ragazza generò un gigantesco vortice d’acqua, che venne circondato dall’attacco avversario e che si dirigeva a gran velocità contro l’Umbreon nemico.

La sua coordinatrice perse diversi punti, per questo. Ma non si diede per vinta. Era anche lei una super coordinatrice, dopotutto.

«Umbreon usa Psichico!»

I poteri psichici di Umbreon sollevarono in aria il piccolo Piplup, per poi farlo cadere in acqua. Lucinda perse una buona quantità di punti.

«Non facciamoci scoraggiare, Piplup! Mulinello!»

Il piccolo Pokémon pinguino generò un gigantesco vortice d’acqua, che intrappolò l’avversario. Umbreon sarebbe affogato se il suo allenatore non avesse reagito. 

«Umbreon, liberati! Usa palla ombra!»

Il Pokémon lanciò il potente attacco di tipo spettro. Le intenzioni del suo coordinatore erano quelle di bucare la coltre d’acqua. Cosa che riuscì solo parzialmente. L’attacco venne deviato verso l’alto dalla rotazione dell’acqua, non colpendo nessuno, ma esplodendo semplicemente. Facendo perdere pochissimi punti alla sua avversaria. Lucinda, capendo le intenzioni avversarie, decise di rendere la vita difficile al suo avversario.

«Piplup,Perforbecco!»

Il piccolo Pokémon si lanciò a gran velocità contro il nemico, mentre il suo becco roteava. Superò agilmente la coltre d’acqua e colpì l’Umbreon nemico. Facendolo cadere in acqua. Il suo coordinatore perse diversi punti. 

Se voleva vincere, doveva reagire. Solo che non aveva la minima idea di come fare. Sembrava che qualsiasi mossa facesse, la sua avversaria avesse la risposta pronta. Forse doveva improvvisare? Il tempo scorreva. Inesorabile. Ed era il suo turno. Altri cinque secondi e avrebbe perso metà dei suoi punti. 

«Umbreon usa…»

Prima che potesse impartire l’ordine, il tempo massimo consentito per ordinare un attacco era trascorso. E il coordinatore si era preso un cartellino giallo. Ora non aveva praticamente alcuna speranza di vittoria. In più, avendo perso il turno, ora toccava alla sua avversaria.

«Piplup, forza, usa Bollaraggio!»

Una coltre di bolle si stava giungendo contro l’Umbreon nemico. Il suo coordinatore doveva reagire. O avrebbe perso.

«Umbreon Psichico. Sulle Bolle!»

Il Pokémon di tipo buio concentrò i suoi poteri psichici sulle bolle, cercando di rispedirle al mittente.

«Piplup, difenditi con Mulinello!»

Il piccolo Pokémon pinguino generò nuovamente un grosso vortice d’acqua, che, non solo lo aveva protetto dalle bolle, ma aveva anche colpito l’Umbreon nemico. Facendo perdere gli ultimi punti al suo coordinatore.

«La vincitrice della Coppa Adriano, per la sesta volta consecutiva, è Lucinda!»

Al centro dello schermo, segnapunti, per un attimo, non apparve il suo volto, ma quello strano simbolo rosso a forma di occhio. Nessuno sembrò notarlo. Ma tutti si accorsero del fatto che Lucinda era svenuta. 

Quando la ragazza riaprì gli occhi si trovava in un ospedale, nella vicina città di Kushiro. La prima cosa che vide, a dir il vero, fu il soffitto della stanza. 

Un soffitto bianco con una lampada al neon al centro. Sentì la voce di una donna.

«Lucinda? Cosa ti è successo? Ricordi qualcosa?»

La ragazza non rispose.

«In ogni caso, per precauzione, passerai la notte qui.»

Appena Lucinda si accorse che la donna se n’era andata, scese dal letto e prese il suo computer portatile. Le dita delle sue mani si mossero come indemoniate. In quel momento non era la ragazza a controllarle. 

Aveva fatto tutto quello che doveva. Rimise il suo computer nella borsa e la prese. Doveva uscire da quel posto, ma non poteva di sicuro farlo da una tradizionale porta. La sola via di fuga era la finestra. Con tutti i rischi del caso. La ragazza si alzò dal letto e si avvicinò alla finestra. Guardando verso il basso si accorse di come non fosse poi così in alto. Era al secondo piano e, poco lontano dalla finestra c’era il tubo di scarico dell’acqua piovana. La strada su cui dava quella finestra era poco trafficata. Per cui aveva ottime probabilità di successo. 

Aprì la finestra e si aggrappò al tubo. Lentamente era scesa fino a terra. Ora avrebbe dovuto raggiungere la stazione dei treni. Cosa che sicuramente non poteva fare a piedi. Farlo avrebbe significato perdere troppo tempo. E per lui il tempo era prezioso. Ogni secondo poteva fare la differenza.

Al Kadic era l’ultima terminata l’ultima ora di lezione della settimana. Per il lunedì, gli studenti di seconda superiore avevano un compito assegnato dalla professoressa Hertz. Fare delle ricerche su un Pokémon selvatico incontrato. A propria scelta. Volendo era possibile fare un lavoro di gruppo, anche se in quel caso la professoressa si era raccomandata di non far fare il lavoro solo a una persona.

Jeremy, Odd, Aelita e Ulrich avevano fatto gruppo, ovviamente, ma ancora non avevano deciso su che specie concentrarsi. A separare il collegio dal mondo esterno c’era un boschetto, popolato da diverse specie di Pokémon. Sceglierne solo una era davvero difficile. Gli amici stavano discutendo su chi scegliere, quando qualcosa attrasse l’attenzione di Aelita.

La vide appena di sfuggita, dirigersi verso il boschetto.

«Avete visto?»

Davanti al gruppo qualcosa passò molto rapidamente. Talmente rapidamente da risultare quasi invisibile. 

«Cosa?» Le risposero i tre. 

«Non so, penso sia un Pokémon, ma non credo di averlo mai visto prima.» Rispose la ragazza.

«Credo che potrebbe essere il soggetto ideale per la ricerca.» 

Le rispose Jeremy.

«Me lo sapresti descrivere? Così posso iniziare a fare uno schizzo.»

«Pensi che abbia un modo particolare di lottare?»

A chiederlo Odd e Ulrich.

«Non ne ho la più pallida idea. Ma direi di iniziare a seguirla. Qualsiasi cosa sia.»

I quattro si alzarono e si diressero verso il boschetto. Non si accorsero in alcun modo di essere seguiti. 

Fecero in modo di essere il più silenziosi possibile. Non volevano di sicuro spaventare quella misteriosa creatura. Qualsiasi cosa fosse. Erano talmente presi dal non accorgersi di essere seguiti. Ash era riuscito a convincere la sua ragazza di aver visto una strana creatura e di volerla esaminare. La ragazza, sebbene riluttante, aveva accettato. La sua convinzione era aumentata quando si era accorta di come Ash non fosse stato il solo ad accorgersene. 

Si erano fermati al confine di una radura. Al centro della quale vi era un tombino. Uguale in tutto e per tutto a quelli che si trovano nelle strade. Solo che si trovava totalmente fuori luogo. O almeno lo era per Ash e Serena. Per gli altri quattro quel tombino voleva dire solamente una cosa. Doversi difendere da uno degli attacchi di Xana. Quel tombino era solo uno dei possibili accessi alla vecchia fabbrica in cui si trovava il Supercomputer. Ma, tra tutti, era quello che avevano usato di più. 

La creatura, guardandosi intorno non si accorse di nessuno e aveva ripreso il suo aspetto. Quello di una creatura del corpo chiaro e snello, nero dal collo alla vita. Questo dava l'impressione che la creatura indossasse un abito, raccolto in vita con una fascia. I lunghi capelli, che erano raccolti da un fermaglio nero, ricordavano uno spartito, mentre le braccia avevano la forma di note musicali. Indossava un piccolo diadema sulla fronte, portava i capelli sciolti e aveva gli occhi azzurri. E in mano aveva un mazzo di fiori. 

La creatura, utilizzando i suoi poteri psichici sollevò il tombino e si infilò nelle fognature. Poi lo richiuse. I quattro aspettarono qualche istante, poi si calarono anche loro nelle fognature.

«Oh, proprio come ai vecchi tempi.»

Commentò Odd, in tono ironico.

«Avrei preferito non averci più a che fare.»

Gli rispose Ulrich, tappandosi il naso, per difendersi dal terribile odore delle fognature. Jeremy e Aelita non dissero nulla. Nonostante non si calassero nella fognatura da tempo immemore, avevano lasciato lì monopattini e skateboard. Portarli fuori sarebbe stato inutile. Erano ormai vecchi, e non avrebbe avuto senso tirarli fuori. Nonostante questo, riuscivano ancora nel loro scopo. Velocizzare la traversata delle fognature. 

Dopo aver percorso la tratta, che nel corso degli anni precedenti, avevano imparato a conoscere a memoria, giunsero  finalmente all’esterno. Il vecchio edificio, una ex fabbrica della Renault, abbandonata da anni, non era cambiata di una virgola dalla loro ultima visita. I quattro attraversarono il ponte e giunsero all’ingresso dell’edificio. Come da tradizione si appesero alle corde come se fossero liane e giunsero al piano terra. Percorsero la breve strada che li separava dal montacarichi e appena vi furono dentro, Aelita premette il bottone. La porta meccanica si chiuse e, lentamente, il montacarichi scese. Erano giunti nella sala del  terminale del supercomputer. Senza trovare tracce della creatura. Ripresero il montacarichi e scesero fino alla sala scanner.

 Qui la videro, mentre stava depositando il mazzo di fiori di fronte allo scanner centrale. 

Appena si accorse della loro presenza, cambiò totalmente aspetto. La capigliatura passò dall’essere sciolta e verde a raccolta e arancio. Dello stesso colore gli occhi, il diadema e la fascia in vita, il vestito si era trasformato, ricordando un tutu. Voleva essere pronta a lottare, tuttavia nessuno dei quattro, sembrava avesse intenzioni bellicose. Come se tutti tenessero particolarmente a quel luogo.

Poco dopo l’allontanamento dei quattro ragazzi, Ash e Serena stavano discutendo sul da farsi.

«Cosa ne pensi? Gli seguiamo?»

«Come vuoi. Ma almeno siamo sicuri di non esserci presi una cantonata?»

«Sicuro. Ti assicuro che è davvero Meloetta. È un Pokémon molto raro. Tempo fa ne ho incontrato un esemplare negli Stati Uniti. Che sia lei?»

Ash aveva raggiunto il tombino al centro della radura e si era inginocchiato, per sollevarlo.

«Sicuro che siano entrati qui dentro?»

«Non possono essersi teletrasportati.»

Ash sollevò, con fatica, la lastra di ferro, e venne accolto da un odore pestilenziale. Dopotutto erano sempre le fogne.

«E tu vuoi entrare la dentro? Sei folle.»

«Vuoi farti sfuggire un’occasione del genere?»

Il ragazzo aveva percorso l'intera scaletta, e si trovava sul marciapiede laterale. Guardando attentamente si era accorto di come, poggiato alla parete, ci fosse uno skateboard. 

Serena si sentì costretta a seguirlo. E anche lei aveva notato lo skate. Aveva anche notato che, sul legno della tavola, erano dipinte due lettere. “Y I”. La ragazza pensò che fossero le iniziali del proprietario o della proprietaria dello skate.

Non ci fece più di tanto caso.

«E ora dove andiamo?»

Ash si guardò attorno. E notò, nella parete dov’era poggiato lo skate una freccia dipinta con una bomboletta spray, che puntava proprio davanti a loro. Sul marciapiede erano visibili le tracce degli skate e dei monopattini.

«Seguiamo quella freccia. Male che vada torniamo indietro.»

La ragazza, riluttante, lo seguì. Ok che stavano insieme, ma a volte Ash aveva delle idee alquanto strane.

I due proseguirono nella camminata, fino a raggiungere la fine della fognatura. Sulla parete erano poggiati due monopattini e due skate. Su uno degli skate, in maniera simile a quello trovato all’ingresso della fognatura, solo che in questo vi erano scritte le lettere “U S”.  La fognatura terminava con una griglia che separava la fognatura dalla Senna. Il fiume che attraversava Parigi. Lì stesso doveva esserci un tombino aperto, che permetteva di risalire. Contrariamente a quella precedente, in questa i gradini partivano da più in alto. Ash si offrì di fare da scaletta per permettere alla sua ragazza di salire e di tornare a respirare aria pulita. Poi salì anche lui.

Si trovavano poco davanti a un ponte di ferro che conuceva a una fabbrica abbandonata. La scritta Renault, in nero era scolorita. Quell’edificio doveva essere abbandonato da molti anni. Guardandosi attorno i due si accorsero di quanto lontano si trovassero dal collegio. Da quel ponte erano appena visibili i tetti dell'edificio. Si erano avviati all’interno della fabbrica. La scala che un tempo permetteva un facile accesso al piano inferiore era caduta chissà quanti anni prima. Ash notò delle corde di metallo dall’aria robusta.

«Che ne pensi? Vuoi provare emozioni forti?»

Le propose Ash, cercando di non ridere.

«Sicuro che reggano? Sono più vecchie di Matusalemme!»

Gli rispose la sua ragazza, che, come spesso accadeva, faceva la voce della ragione.

«Hai ragione, meglio cercare un’alternativa.»

I due percorsero il ballatoio, alla ricerca di una seconda scala. Intanto poterono osservare l’interno della fabbrica. Che, per certi versi ricordava una discarica. Carcasse di auto, lattine e bottiglie di birra, pneumatici, rifiuti elettronici, materassi, lastre di eternit e quant’altro.

«Possibile che un Pokémon raffinato ed elegante come lei faccia visita a un posto così rosso e sporco?»

«Hai detto che aveva un mazzo di fiori? Magari ha perso un amico o un’amica qui e, avendo assimilato dagli esseri umani la tradizione di portare dei fiori. Sai, potrebbe essere interessante per la nostra relazione.»

Ash fece un semplice cenno di approvazione. La sua attenzione era focalizzata sulla scala che conduceva al piano terra. Sembrava abbastanza solida. I due scesero al piano terra. Dando uno sguardo generale, non trovarono alcuna traccia di Meloetta. Erano giunti davanti alla struttura del montacarichi. Poiché quest’ultimo si trovava a un piano inferiore, era possibile guardare all’interno della tromba. Erano ben visibili i cavi che reggevano il montacarichi e sembravano ben tesi. Ash si stava sporgendo all’interno della tromba.

«Ash, cosa fai? Sei matto?»

Ash non le rispose. 

«Sembra che l’ascensore non sia precipitato.»

Aggiunse la ragazza. 

«E allora chiamiamolo.»

Ash premette il pulsante per chiamarlo. Certamente non si aspettava che funzionasse. Quella fabbrica era abbandonata da moltissimi anni. Non c’erano motivi per cui doveva esserci la corrente.

Il rumore di un vecchio motore elettrico ruppe il silenzio dell’edificio. 

I quattro al secondo piano interrato si accorsero del rumore. 

«Che succede?»

Si chiese retoricamente Odd. tutti avevano sentito il rumore dell’ascensore. 

«Sarà Yumi. Magari non trovandoci a scuola o all’Hermitage, avrà pensato di cercarci alla vecchia fabbrica.»

Gli rispose Jeremy. Con il suo solito fare razionale.

«Si, può essere.»

Il montacarichi era salito al piano terra. Ash e Serena ci salirono dentro. Quindi il ragazzo premette il pulsante per scendere. Una serranda di metallo si abbassò e, molto lentamente l’ascensore giunse al primo piano interrato. La serranda si alzò, facendo spazio a una porta meccanica, che si aprì. Balzò agli occhi di entrambi come quella porta stonasse con l’edificio. Era troppo moderna. Ma quel pensiero durò ben poco. La stanza in cui erano entrati ricordava un film di fantascienza. Era illuminata da delle deboli luci al neon di colore verde e interamente rivestita di pannelli metallici.

Al centro della stanza si trovava una strana apparecchiatura. Il suo aspetto intimoriva. Ricordava un braccio meccanico. Con le travi di metallo a fare da scheletro e i cavi a fare da muscoli.

Accanto a questa apparecchiatura, sul pavimento vi era una sorta di pedana. 

Poco lontano dallo schermo si trovava una poltrona. Era posata su una piattaforma girevole, a sua volta posata su una sorta di monorotaia che portava la poltrona fino al monitor. 

Ash guardava quell’attrezzatura con occhi sognanti. Avrebbe potuto esaminare quelle attrezzature per ore. Ma non poteva dimenticare il motivo per cui erano lì.

I ragazzi, al piano inferiore, si accorsero di come il montacarichi non era giunto nella sala degli scanner, ma si era arrestato prima. 

«Non credo che sia Yumi. Se fosse stata lei, sarebbe scesa subito qui, qualora non ci avesse trovati nella sala del supercomputer.»

Tutti guardano Aelita. Aveva effettivamente ragione. Non poteva essere la loro amica. Ma se non era lei, allora chi era?

Al piano di sopra, dopo le notevoli insistenze della ragazza, Ash aveva accettato di continuare a cercare Meloetta. I due erano saliti nel montacarichi. Diretti al piano inferiore. Ash aveva alte aspettative su quello che avrebbe potuto trovare al piano inferiore.

Il montacarichi ci mise diverso tempo per scendere al piano inferiore. La serranda si sollevò e un’altra porta meccanica, simile a quella precedente, si aprì. 

Ash non si accorse della presenza dei quattro ragazzi e di Meloetta, che era passata alla forma Danza. Il suo sguardo era posato tre dispositivi metallici che ricordavano dei sarcofagi. O delle cabine doccia. Erano aperte e realizzate in metallo dorato. Dalla parte superiore dei dispositivi partivano degli enormi fasci di cavi che andavano verso l’alto. Verso la stanza dove si trovava quello strano dispositivo.

Ash sentì una mano fermarlo. Era la mano di Serena.

«Non ti sei accorto di nulla?»

Gli disse sottovoce. Per non farsi sentire. Tutti e quattro i ragazzi si erano girati verso Ash e Serena. 

«Posso spiegare…»

Ash cercò di difendersi. Ma come poteva? Era entrato in una proprietà privata, e di sicuro nessuno gli aveva dato il permesso di farlo.

La sua ragazza prese le redini della situazione.

«Abbiamo visto Meloetta e l’abbiamo seguita. Immagino come voi. Quindi siamo sulla stessa barca. O almeno credo. Solo che…»

«Solo che?»

Le chiese Aelita.

Meloetta, sentendosi chiamata in causa, era diventata invisibile. 

«Solo che sembra che voi conosciate questo posto. Abbiamo visto dei monopattini e degli skate poggiati contro la parete. E abbiamo visto delle tracce per terra.» 

Ash non aveva mai visto quel lato da investigatrice della sua ragazza. 

«Ok. Ci avete scoperto.»

Jeremy rispose alla ragazza.

I quattro amici si scambiarono uno sguardo d’intesa. Ash e Serena non si accorsero di nulla.  

«Venite con noi.»

Gli invitò Aelita.

I sei salirono sull’ascensore. Diretti a un piano ancora più interrato. Dopo un tempo che pareva infinito, i sei si trovavano nel terzo piano interrato della fabbrica.

Appena la porta di protezione si aprì, dal terreno uscì una sorta di struttura costituita da una piattaforma circolare alta una sessantina di centimetri e da un cilindro alto circa due metri al centro di esso.

Il tutto era di colore verde scuro e rivestito da svariate placche in oro. Appena uscito dal pavimento, del liquido di raffreddamento colò dal dispositivo.

«A te l’onore.»

Jeremy si riferiva ad Aelita, che, come gli altri, era scesa dal montacarichi, e si era, quasi istintivamente,  avvicinata allo strano dispositivo verde e oro. Permette un pulsante sul corpo del dispositivo. Lo sportellino si aprì e ne uscì un interruttore a leva. Aelita chiuse gli occhi e abbassò la leva. 

Dopo qualche istante il rivestimento dorato iniziò a brillare, quindi il dispositivo tornò nelle profondità della fabbrica.

Ash e Serena si scambiarono uno sguardo che valeva più di mille parole. Quello che stavano vedendo era la realtà o un sogno? Cos’erano tutti quei dispositivi? Come potevano quei quattro conoscere tutti quei segreti?

I quattro risalirono sul montacarichi. Ulrich fece segno ai due di seguirli. Il montacarichi risalì fino al primo piano interrato. Ora la stanza era illuminata dagli schermi della postazione di controllo. Il dispositivo aveva  appena terminato di caricare il sistema operativo del Supercomputer.

Jeremy si accomodò sulla poltroncina, che percorse la distanza fino alla postazione di controllo. Gli altri cinque lo seguirono. Il ragazzo fece girare la poltroncina nella loro direzione. Quindi iniziò a spiegare.

«In questa vecchia fabbrica si trova un supercomputer che al suo interno cela un mondo virtuale chiamato Lyoko, al quale si accede tramite quei dispositivi che si trovano al piano di sotto. 

All’interno del supercomputer e poi nella rete risiedeva una pericolosa intelligenza artificiale chiamata Xana. Aveva il potere di controllare qualsiasi  cosa riguardasse l’elettricità e il suo obiettivo era ucciderci per poter conquistare il mondo. Attaccava sulla Terra attraverso degli spettri polimorfi…»

«Hai detto spettri?»

Il tono di Serena era spaventato. Poteva accettare mondi virtuali, intelligenze artificiali con istinti omicidi, supercomputer all’interno di fabbriche abbandonate, ma non che ci fossero nel mezzo degli spettri. 

«Certo, come no! E voi pensate che me la beva?»

«Non ci credi? E allora te lo dimostreremo.»

Il tono di Odd intendeva lanciare una sfida. Aveva preso le parole del ragazzo assai sul personale. Tanto da offrirsi per il viaggio nel mondo virtuale.

«E va bene. Andate pure alla sala scanner.»

Odd, Ash e Serena scesero al piano inferiore. La sala degli scanner. 

Il biondo entrò in uno di essi. Appena Jeremy ebbe la conferma che il ragazzo fosse entrato all’interno del dispositivo, iniziò la procedura. Una procedura che aveva imparato a conoscere a memoria. Dagli altoparlanti della stanza era chiaramente udibile la voce del ragazzo. 

«Scanner Odd.»

Nella stanza si iniziava a sentire un rumore simile a quello di un ventilatore. All’interno dello scanner, Odd era stato sollevato e scannerizzato da una luce verde. Il supercomputer lo aveva riconosciuto.

«Virtualizzazione!»

«Si, come no!»

Commentò Ash. Non era un tipo avvezzo a queste cose, ma, nel corso del tempo era diventato un minimo furbo. Anche se, vedendo il dispositivo riaprirsi, in una nuvola di vapore, dovette ricredersi. Il ragazzo era scomparso. Provò anche a infilare una mano. Ma niente. Il dispositivo era vuoto. 

«Se volete potete anche salire.»

Gli esortò Jeremy.

I due seguirono il consiglio del ragazzo e giunsero al piano superiore. Rimasero entrambi stupiti nel vedere, sullo schermo del dispositivo, quello stesso ragazzo. Si trovava nel bel mezzo di una foresta. Una foresta che era palesemente finta. Sembrava fosse uscita da un videogioco. Il ragazzo, che ora indossava una tuta aderente principalmente viola e gialla, con diverse caratteristiche che gli davano un aspetto felino, come la mani, che ricordavano zampe, e la lunga coda,  si trovava nei pressi di una costruzione che, agli occhi di Ash e Serena appariva come una gigantesca candela, collegata al terreno con delle radici scure. In cima, come una fiamma, risplendeva un alone bianco. 

«Quella è una torre con ripetitore. Se vuoi puoi farti un giro negli altri settori di Lyoko.»

Odd non rispose. Si era già messo in moto, per percorrere la breve distanza che lo separava dalla Torre.

«Certo che senza i mostri di Xana, questo posto è davvero un mortorio!»

«Dobbiamo ricordarti il sacrificio per ucciderlo?»

Odd si stette zitto. 

Era entrato nella torre. Le pareti erano costruite da continui flussi di dati di colore azzurro. Sul pavimento quello che i quattro avevano imparato a conoscere come “Occhio di Xana” ma che a Ash e Serena appariva semplicemente come  un pallino circondato da due cerchi concentrici, di un colore tra il bianco e l'azzurrino, dalla cui parte inferiore del cerchio più esterno partivano tre stanghette, e, dalla parte superiore ne partiva una. 

Il ragazzo si era buttato dal bordo della piattaforma e, con un agile atterraggio, aveva raggiunto la torre successiva. 

Vi uscì e ora si trovava in mezzo al deserto. Anche questo appariva innaturale. Ampi spazi colorati di un arancio-rosso, qualche arbusto secco e delle pietre. 

Dopo qualche passo, il ragazzo entrò nuovamente nella Torre. Percorrendo un percorso simile e ritrovandosi ora in mezzo ai ghiacci. I colori dominanti erano l’azzurro, il bianco e il blu scuro.

Alcune lastre di ghiaccio virtuale ondeggiavano su dell’acqua virtuale. Il ragazzo rientrò di nuovo nella Torre, per l’ultima volta quel giorno. E ora si trovava nel settore delle montagne. A dominarlo un colore violaceo e delle nuvole. Il tutto appariva chiaramente irrealistico.

Sulla terra Ash e Serena erano ancora più stupiti. Quei quattro non mentivano.

«Bene, ora, se volete accoglierlo, io avvio le procedure di rientro.»

Ulrich, Ash e Serena presero il montacarichi, diretti al piano inferiore. Appena smise di sentire il rumore dell’ascensore avviò le procedure di rientro. Il corpo virtuale del ragazzo si stava lentamente disgregando. Lo scanner centrale si era chiuso. E si iniziavano a sentire rumori simili a quelli precedentemente uditi. 

Le porte del dispositivo si aprirono e Odd ne uscì. In una nuvola di vapore.

«Avevo quasi dimenticato che i viaggi virtuali fossero così tanto traumatici.»

Commentò, in tono ironico.

Aspettato qualche istante per farlo riprendere, i quattro salirono di nuovo nella stanza della postazione del supercomputer.

Jeremy stava pigiando rapidamente una serie di tasti della tastiera. Le sue dita danzavano sull’ampia tastiera, ingiallita dal tempo.

«Cosa stai facendo?»

Gli chiese Ash.

«Molto semplice. Farò in modo da farvi dimenticare ogni cosa riguardo Lyoko, riguardo la fabbrica, ma anche riguardo a Meloetta.»

«Credo che questo non lo dimenticherai facilmente.»

Serena diede un bacio in bocca a Ash, che rimase alquanto stupito.

«Ad ogni modo.»

Il tono di Jeremy si fece serio. 

«Ritorno al Passato! Ora!»

Dalla piattaforma accanto allo schermo uscì una luce bianca accecante, che prima avvolse l’intera fabbrica, poi l’intera Parigi, quindi tutta la Francia, l’Europa, il pianeta Terra, il Sistema Solare, la Via Lattea. L’universo intero.

Per lui non era un problema. Aveva già trovato la sua vittima e l’aveva già posseduta. Avrebbe solo dovuto ripetere l’esibizione e evitare di svenire. 

Lucinda aveva vinto la sua sesta Coppa Adriano. O meglio Xana aveva permesso al suo burattinaio di vincerla. Ma ora doveva essere lui a prendere le redini della situazione. E doveva farlo nel modo meno traumatico possibile. La fuga dall’ospedale era stata problematica. Per raggiungere Sapporo aveva dovuto picchiare una poliziotta e guidare la sua auto fino alla stazione dei treni. Quella volta avrebbe fatto le cose più progressivamente. Ma le cose non andarono poi diversamente. Come se lo svenimento della ragazza non dipendesse da lui. La ragazza venne caricata in un'ambulanza e portarla in uno degli ospedali della vicina città di Kushiro. Doveva trovare un modo di scappare. O il suo piano sarebbe fallito. Per sua fortuna, le persone che avevano soccorso la ragazza, avevano portato i suoi effetti personali. La borsa con i vestiti, il computer portatile e una stampante portatile. 

Durante la breve permanenza in ospedale, aveva già provveduto a comprare il biglietto per il treno diretto a Sapporo e per l’aereo, da quella città a Parigi. E a stamparli. Per far fronte a quelle spese e alle altissime spese della retta dell’istituto, avrebbe preso il denaro dai conti di una multinazionale, coprendoli come spese di gestione e mantenimento. Per far sì che il suo burattino si trovasse nelle migliori condizioni possibili, aveva prenotato i viaggi in aereo in prima classe. Solo per i voli avrebbe estratto dai conti dell’azienda oltre ventisettemila euro. Certo, era in Giappone. La valuta locale era lo Yen, ma Xana era abituato alla Francia, per cui ragionava con quella valuta.

Per non parlare poi delle migliaia di euro mensili per la retta del collegio. Ma non era un suo problema. Il giorno dopo il suo arrivo, il preside, il signor Jean-Pierre Delmas avrebbe accolto Lucinda a braccia aperte. 

Ora però doveva fuggire. E di sicuro non poteva farlo dalla porta di ingresso. Saeva che, come in precedenza, la sola via di fuga era la finestra. Dal momento in cui tutti gli eventi mondiali erano andati esattamente come prima, si trovava nella stessa stanza. Al secondo piano. Poco lontano dal tubo di scarico della grondaia. La ragazza ricoverò Piplup nella Pokéball. Per non avere un peso morto. La ragazza, controllata da Xana, usò quel tubo come via di fuga. E si trovò nella strada su cui dava il retro dell’ospedale. 

La notizia dello svenimento della coordinatrice alla Coppa Adriano era già stata diffusa, tanto dalla televisione quanto dalle radio. Percorse una buona distanza a piedi. Osservando attentamente l’ambiente circostante. Xana, attraverso gli occhi della ragazza, aveva notato come una signora di una certa età parlasse con una donna dentro una strana berlina. Nera nella parte inferiore, fino a circa l’altezza della cintura, e da allora bianca. Sul tetto delle strane luci.

Aveva sentito l’anziana ringraziare la donna a bordo dell’auto. Per cui aveva deciso di emularla.

Si avvicinò all’auto bianca e nera. 

«Scusi. Dove Treno?»

«Tu sei Lucinda? Non dovresti essere ricoverata dopo il tuo svenimento? Sali che ti riaccompagno.»

La ragazza, meccanicamente, salì a bordo.

«Dove Treno?»

«Ti porto all’ospedale. Domani potrai partire. Oggi è meglio che tu stia lì per la notte.»

L’auto guidata dalla donna iniziò a muoversi. Xana stava osservando ogni singolo movimento. Condurre quel mezzo non doveva poi essere così complicato. Certo. Per farlo prima doveva liberarsi della persona che lo stava conducendo. Toccò una spalla della poliziotta, che cadde come in un sonno profondo. Ora era al comando delle operazioni. 

Per prima cosa prese la radio dell’auto. Per comunicare con la stazione di polizia. Imitando alla perfezione la voce della donna. In modo così fedele da non far sospettare nulla alla sua interlocutrice.

«Dove treno?»

«Mi hanno detto che ti dovevi occupare di quella ragazza. Poi, in che modo parli? Ma lo hai fatto il turno di riposo?»

«Sistemata. Dove treno?»

«Segui le indicazioni stradali. E la troverai. Poi, mi raccomando, riposati.»

La ragazza seguì le indicazioni. La strada in cui si trovava sbucava sulla strada principale. E su quest’ultima si trovavano le indicazioni per la stazione dei treni. Con qualche scossone, riuscì a raggiungerla e a salire a bordo.

Il viaggio in treno fu tutto sommato tranquillo. Il suo burattino era arrivato a Sapporo sano e salvo. Con i suoi bagagli. Approfittò di un bancomat per prelevare del denaro. Sarebbe servito per pagare il taxi. Nulla di più facile. Gli bastò toccare il dispositivo per far si che vomitasse una grossa quantità di denaro. 

La ragazza raccolse sino all’ultima banconota. 

Ora era fuori dalla stazione. Trovare un taxi nei paraggi non fu difficile. Anzi. Aveva semplicemente l’imbarazzo della scelta. Ne scelse uno tra i tanti. Il tassista, un uomo sui quarant’anni, prese la sua borsa e la mise nel cosano. Quindi aprì la porta alla ragazza. E la chiuse non appena ella e il suo Piplup entrarono. 

«Oh, ma lo sai, una giovane coordinatrice con un piccolo Piplup hanno da poco trionfato alla Coppa Adriano! Deve essere stato emozionante.»

La ragazza non rispose. Piplup fece un cenno di orgoglio.

«In ogni caso… dove la porto?»

«Aeroporto.»

La laconica risposta della ragazza bastò all’uomo, che l’accompagnò fino all’aeroporto. Ricevendo un compenso ben maggiore  di quello necessario.

La ragazza riprese la borsa. Al suo interno anche il biglietto aereo per la lunghissima tratta Sapporo Parigi.

Aveva ancora del tempo. Si guardò attorno e si accorse di come ogni persona avesse dei vestiti diversi. Anche persone di età sovrapponibili, mentre il suo burattino aveva ben pochi cambi.

Visitò diversi negozi dell’aeroporto. Comprò diversi pantaloni, svariate gonne, biancheria, magliette, giacche, accessori. Oltre che delle valigie. Con il biglietto pagato aveva diritto a trentadue chilogrammi di bagaglio. E voleva sfruttare fino all’ultimo grammo. Cosa che riuscì alla perfezione.

Aveva superato tutti i controlli del caso ed era salita a bordo del Boeing 777. In prima classe. Ovviamente. La prima classe era occupata da uomini e donne d’affari, con delle voluminose ventiquattr'ore. Accorgendosi del fatto che era la sola ad avere un Pokémon e che questo avrebbe potuto causare dei problemi, decise di ricoverare Piplup nella Pokéball. Lo avrebbe fatto uscire solo all’aeroporto di Tokyo, dopo poco più di un’ora e mezza di volo. Qui avrebbe dovuto attendere circa due ore e mezza. Recuperato il bagaglio, decise di far uscire Piplup dalla Pokéball. Per permettergli di sgranchirsi. Secondo i suoi calcoli era altamente improbabile che in prima classe vi fossero dei Pokémon. Tuttavia decise di aspettare prima di ricoverarlo. Vi era una remota possibilità che altri allenatori lasciassero i loro Pokémon fuori dalla Pokéball.

Questa remota possibilità si avverò. Altri allenatori, nella prima classe di quel Boeing 747 avevano lasciato i loro Pokémon liberi. 

Potè così lasciare Piplup libero, senza doverlo far entrare nella Pokéball. Il viaggio era lunghissimo,  quasi quindici ore.  Per fortuna, nel costoso biglietto, il cibo, sia per gli allenatori che per i Pokémon, era compreso. Xana doveva assicurarsi che il suo burattino stesse bene. E nutrirsi era un buon modo per farlo.

Passò una buona parte del viaggio dormendo. Si svegliò giusto prima dell’atterraggio. In Germania, a Francoforte sul Meno. 

Anche qui avrebbe dovuto attendere poco più di due ore. Ma ehi! Era arrivato in Europa! E il suo burattino era in perfetta salute. 

La gente, in Germania, non aveva riconosciuto la famosa coordinatrice giapponese. Il che era un bene, per Xana. la ragazza si diresse a un bancomat, dove, come aveva fatto in precedenza, fece sì che erogasse una grossa quantità di denaro. E

Euro. Una valuta che ben conosceva.

Si accorse di come molte persone si stavano dirigendo verso un locale, dove servivano del cibo. Così Xana decise di fare lo stesso. Aveva ancora del tempo. E se tutte quelle persone andavano a mangiare, voleva dire che era ora di farlo.

Dopo aver mangiato era finalmente il momento di prendere il terzo e ultimo volo di giornata. Questa volta in classe business, su un Airbus A321. Poco male. Il volo sarebbe durato poco. Meno di un'ora e venti. 

Arrivata nella capitale francese, ora la sua preoccupazione era trovare un alloggio. Preoccupazione che durò poco. Nell’aeroporto, un servizio navetta poteva portare i passeggeri dei voli a un alloggio notturno. Una sorta di bed and Breakfast. Per sua fortuna servivano la colazione sin dalla mattina presto, per cui avrebbe potuto raggiungere il collegio in un orario decente. E permettere alla ragazza di essere accolta simbolicamente tra le braccia del signor Jean Pierre Delmas. E poi tra quelle dei suoi nemici.

Il viaggio temporale si era sentito anche in Francia. Il tempo si era riavvolto fino alla ricreazione. Poco prima dell’inizio della lezione della professoressa Hertz.

Aelita, Odd, Jeremy, Ulrich e Yumi si trovavano ai distributori automatici. Stavano approfittando della pausa per bersi un cappuccino. 

«Pensate che non me ne sarei accorta?»

Il tono di Yumi era arrabbiato. 

«Credimi, Yumi, era fondamentale. Avevano scoperto la vecchia fabbrica. E dovevamo proteggere il nostro segreto.»

Le rispose Jeremy.

«Chi vi ha scoperto?»

«Ash e Serena. I due nuovi arrivati. La Hertz ci assegnerà un compito, una ricerca su un Pokémon selvatico a nostra scelta. Presto apparirà un Pokémon molto raro, e noi lo seguiremo. Tuttavia Ash e Serena ci seguiranno.»

Le spiegò Jeremy.

«Quindi vuoi che li distragga?»

«Lo faremo insieme. Proporremo loro una lotta in doppio, così Jeremy, Odd e Aelita potranno occuparsi di quel Pokémon.»

«Accetto, soprattutto perché voglio vedere se Ash è così forte come dicono. Ma fate attenzione. Passate dall’Hermitage e non dal bosco.»

«Certo.»

La lezione della professoressa Hertz si era svolta. Esattamente identica a com’era avvenuta in precedenza. La professoressa aveva assegnato esattamente lo stesso compito. Con le stesse identiche modalità.

Puntuale con un orologio svizzero Meloetta apparve. Con lo stesso mazzo di fiori.

Jeremy, Odd e Aelita avevano raggiunto l’Hermitage. La casa dove Aelita aveva vissuto gli ultimi anni della sua vita precedente. La villa presentava un collegamento con la fognatura che portava alla fabbrica. 

Ulrich e Yumi avevano visto Ash e Serena vicino a loro. 

Il ragazzo, che aveva un minimo di confidenza con Ash, si avvicinò a quest’ultimo. Era seduto su una panchina accanto a Serena.

«Ciao Ash. Che ne dici di una lotta?»

«Perché no?»

«Non ti dispiacerebbe una doppia? Sai io e Yumi siamo i campioni scolastici di lotte in doppio.»

«Si, cosa ne pensi?»

«Ash, ti devo ricordare del compito?»

«Anche io lo devo fare. Eppure sono qui. Vi ricordo che è solo venerdì, abbiamo tempo fino a domenica sera.»

Il ragazzo fu abbastanza convincente. 

Le due coppie si trovavano in uno dei campi lotta della scuola. Pronti a schierare i loro Pokémon.

Intanto i quattro avevano raggiunto la villa abbandonata. Avrebbero attraversato a piedi la fognatura e raggiunto la vecchia fabbrica.

Come in precedenza giunsero al piano terra con le corde metalliche e scesero direttamente nella sala scanner. Dove Meloetta aveva depositato il mazzo di fiori. Come prima di fronte allo scanner centrale.

Aelita la guardò, mentre depositava quei fiori. E, nella sua mente riaffiorarono dei ricordi. Ricordi degli ultimi anni della sua vita precedente. Quando il Darkrai, amico di suo padre, molto spesso era in compagnia di un Pokémon simile a Meloetta. Per via di tutto quello che era accaduto nella precedente linea temporale, non aveva avuto occasione di dirlo. 

«Ho avuto come una visione.»

Spiegò ai due ragazzi. Entrambi erano stupiti. A cosa si riferiva? 

«Vedete. Mi sono come ricordata di come, nella mia vecchia vita… Darkrai era spesso in compagnia di un Pokémon simile a lei. Sono passati degli anni, sono successe tante cose.»

Meloetta fece un segno di approvazione. La ragazza aveva capito perfettamente ciò che cercava.

«Capisco benissimo come ci si sente a perdere qualcuno che ti sta vicino. Mio padre è morto qualche mese fa e mia madre è scomparsa.»

La ragazza era in lacrime. 

Tutti cercarono di consolarla. Jeremy e Odd le avevano promesso che avrebbero fatto il possibile per trovare sua madre. E ovviamente lo stesso si poteva dire di Ulrich e Yumi. Non erano lì con loro, ma era chiaro come il Sole che per un’amica avrebbero fatto di tutto. 

Qualche ora dopo, i ragazzi si trovavano in mensa, per la cena.

«Non hai una bella cera.» 

Ulrich si stava rivolgendo da Aelita. La ragazza aveva uno sguardo triste e puntato verso il basso. 

«Hai presente Meloetta?»

«Si?»

«Ecco. Il motivo per cui si trovava alla vecchia fabbrica mi ha fatto pensare. Mi sono rivista molto in lei.»

«Puoi spiegarti?»

«Mi sono ricordata di come avesse un rapporto molto speciale con un Darkrai che viveva nei pressi dell’Hermitage. E ora crede che sia scomparso. Vederla mi ha fatto pensare a quanto anche a me manchi qualcuno.»

«Per te, faremo qualsiasi cosa.»

Trattenendo a fatica le lacrime, la ragazza abbozzò alcune parole.

«Sono felice di poter contare su di voi.»



Angolino dell’autore:

Volevo fare solo tre precisazioni per chi di lavoro mette i puntini sulle “i” degli altri, perché anche io so essere fastidiosamente preciso: 

1) Per praticità, userò, come hanno del resto fatto nel doppiaggio italiano di Code Lyoko, i gradi della scuola italiana. 

2) Ho scelto di usare l’universo narrativo di Code Lyoko per due motivi. Banalmente lo conosco meglio (essendo letteralmente il mondo reale) e in secondo luogo perché è più facile giustificare l’esistenza dei Pokémon in questo universo, piuttosto che giustificare due guerre mondiali e la Guerra Fredda nel mondo Pokémon. 

3) Ci saranno dei piccoli compromessi sulla provenienza di alcuni personaggi (Serena sarà francese, Ash e Lucinda giapponesi). 




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Capitolo 2
*** Il bacio ***


Il bacio



Era andato tutto secondo i suoi piani. Si trovava proprio all’ingresso dell’istituto. Un grosso cancello di ferro dipinto di nero che dava su una strada. 

Ai lati del cancello un muretto sovrastato da un’alta ringhiera dello stesso materiale del cancello. 

In fondo, oltre il parco, pieno di alberi, erano visibili gli edifici del collegio.

 Xana sapeva che da lì a poco sarebbe arrivato  qualcuno, che avrebbe accompagnato la ragazza. Era sabato e non c’erano lezioni, tuttavia, dato che il prestigioso collegio attirava studenti da ogni parte della Francia, era possibile, pagando una retta leggermente maggiore, soggiornare anche la notte del sabato. 

Xana avrebbe sfruttato quella possibilità.

Dopo non molto tempo arrivò il professor Jim Morales, professore di educazione fisica, coreografo Pokémon e guardiano della scuola, giunse nei pressi del cancello.

Agli occhi della ragazza apparve un un uomo di circa quarant'anni, alto circa uno e settantacinque, di corporatura robusta, vestito con una maglietta rossa, una canadese grigia e delle scarpe da ginnastica.

 I  capelli, castano scuro, erano trattenuti da una bandana bianca.

In faccia aveva un cerotto, probabilmente messo lì per nascondere un taglio fatto con il rasoio.

«E così tu saresti Lucinda? La nuova studentessa?» 

«…» 

«Meowth ti ha mangiato la lingua?» 

«…» 

«Sappi che sono stato un dentista, sono specialista nel tirare fuori le cose dalla bocca delle persone!» 

«…» 

«Ok, capisco, può essere che non ti senta ancora a tuo agio qui. Vieni da molto lontano?» 

La ragazza fece segno di sì con la testa.

«Capisco. Adesso ti accompagno alla tua stanza e ti spiego le regole. Va bene?» 

La ragazza fece cenno di sì con la testa.

I due stavano percorrendo il vialetto che dall’ingresso conduceva ai palazzi dell’istituto. 

Il professore aveva sollevato la valigia della ragazza, e si era ben presto reso conto di averne sottostimato il peso. 

Ma non poteva permettersi una figuraccia davanti a una sua futura alunna.

Ash era nella stanza che condivideva con Jeremy. 

Anche se in quel momento il ragazzo non era presente. 

Jeremy gli aveva detto che sarebbe andato in biblioteca a ripassare per la ricerca e lui se l’era bevuta.

Serena,al contrario del ragazzo aveva deciso di iniziare la sua ricerca sul campo. Ash l’avrebbe raggiunta dopo non molto. 

Il ragazzo era visibilmente preoccupato.

 Aveva saputo della vittoria della sua amica alla prestigiosa Coppa Adriano, e aveva provato numerose volte a contattarla per congratularsi con lei. Ma, per quante volte ci provasse, il risultato era lo stesso.

 Nessuna risposta. Preoccupato che le fosse successo qualcosa, aveva deciso di mettersi in contatto con la madre dell’amica, Olga.

La donna rispose praticamente subito.

«Oh, ciao Ash! Come stai? Immagino che tu mi abbia chiamato per Lucinda.» 

«Si, tutto bene. Esatto. Ho chiamato per lei. Ho saputo che si è sentita male dopo la Coppa Adriano e ho provato a contattarla per sapere come stava, ma non mi ha risposto. E mi sono preoccupato per lei.» 

«Capisco. So che ci tieni tantissimo a lei. Siete come fratello e sorella.» 

Ash cercò di camuffare un sorriso.

«Comunque non ho nemmeno io tante notizie su di lei, so dirti che nemmeno Vera e Zoey sono riuscite a contattarla. 

Zoey, che stava assistendo alla Coppa mi ha detto che dopo che è stata male l’hanno ricoverata in ospedale. 

Voleva andare a trovarla, per chiederle come stava. Ma, quando le hanno permesso di entrare, la sua stanza era vuota e la finestra aperta.» 

«È  scappata?» 

«Così sembra. Aspè… » 

Mentre i due parlavano, Pikachu aveva come sentito un odore familiare. Si allontanò dal ragazzo e saltò per aprire la porta. A poca distanza dalla porta una ragazza dai lunghi capelli blu, seguita da un Piplup.

Pikachu aveva riconosciuto l’amico. E gli fece un cenno di saluto. Al quale il Pokémon pinguino rispose. 

Ma la sua allenatrice no. Cosa strana. Ash si era sporto dalla porta e aveva visto la scena. 

Non aveva ancora chiuso la chiamata con la madre dell’amica.

«Lei è qui.»

«Qui dove?»

Gli chiese la donna.

«All’istituto Kadic, in Francia. Però… mi è sembrata strana.» 

«Strana?»

«Non ha salutato Pikachu, quando è sempre stata affettuosa con lui e si muoveva come un soldatino. Non lo so spiegare.»

«Almeno so dove si trova. Non ho idea di come sia finita lì, ma il fatto che sappia dove si trova mi fa stare meglio. Per il resto, non so spiegarmi perché sia diventata così, ma… tienila d’occhio e avvisami. Ci sentiamo più tardi.»

«Va bene. Arrivederci.»

Jim aveva accompagnato la ragazza e il suo Piplup al dormitorio femminile, al piano superiore. Durante tutto il percorso, il professore aveva spiegato alla ragazza  tutte le regole dell’istituto.

«Bene, questa sarà la tua stanza. Dovrai condividerla con un’altra ragazza. Ma secondo me andrete d’accordo. Se non doveste andare d’accordo, beh, andrete d’accordo.» 

«Bene.»

«Ah, allora sai parlare! Ora credo che ti convenga scendere in biblioteca per metterti in pari con gli alti.»

«Bene.»

«Ti accompagno io.»

I due erano scesi al piano inferiore. Passando proprio davanti alle porte del dormitorio maschile. Ash si era nuovamente sporto verso il corridoio. E aveva incrociato lo sguardo con l’amica, scortata dal professore. Il ragazzo fece un cenno di saluto all’amica. Ma lei non gli rispose di nuovo. Facendolo abbastanza irritare. Lui non si ricordava di averle fatto nulla di sbagliato. Poi si ricordò delle parole della madre della ragazza. 

Mentre Ash si interrogava su quello che era accaduto alla sua amica, e, contemporaneamente, finiva di prepararsi per raggiungere la sua ragazza, il suo compagno di stanza e i suoi amici avevano raggiunto l’Hermitage. La villa in cui Aelita e suo padre, Franz Hopper, avevano vissuto gli ultimi anni della loro vita precedente. 

A dire il vero il motivo per cui il gruppo si trovava in quell'abitazione era un altro. Aelita si era allontanata dalla scuola e il gruppo aveva iniziato a cercarla. E, conoscendola, avevano deciso di cercarla nella sua vecchia casa. L’Hermitage.

L’Hermitage era una villetta di tre piani e un seminterrato. Alta e stretta. Sulla destra un basso garage era appoggiato contro l’abitazione, quasi a sostenerla. Intorno all’abitazione diversi alti alberi, che mano a mano che ci si allontanava da essa, diventavano sempre più fitti, fino a ricollegarsi alla pineta del collegio. 

L’interno dell'abitazione era stato ordinato. Durante l’estate, il gruppo si era organizzato per dare un minimo di decenza a quell’abitazione e avere un luogo riparato e sicuro tutto per loro. Non avevano gettato un singolo documento. Avevano messo tutto quello che avevano trovato all’interno di svariati scatoloni, che avevano poi depositato nell’ampio seminterrato.

Si trattava, per la maggior parte di diversi fogli, stampati o manoscritti, pieni di incomprensibili stringhe di codice e appunti. 

Aelita era salita nella sua camera da letto. Seduta sul letto in cui, per anni, aveva dormito. Non era la prima volta che lo faceva. Anche dopo aver chiuso con Lyoko. Quando voleva sentirsi vicina a suo padre, si rifugiava lì. 

La ragazza sentì qualcuno bussare alla porta della stanza.

«Oh, entra pure.»

Jeremy aprì la porta e d entrò nella stanza, per poi sedersi sul letto accanto a lei. I due stettero a lungo in silenzio. Jeremy voleva che fosse la ragazza a parlare. Lui non voleva interferire. La pausa di  silenzio sembrò non finire mai. Aelita voleva trovare le parole giuste per spiegarsi.

«Forse sono stata troppo precipitosa, a venire qui, senza dire nulla, ma sapevo che tu e gli altri mi avreste trovato. Volevo iniziare a cercare degli indizi.»

«Ti conosciamo fin troppo bene.»

Aelita abbozzò un sorriso.»

«Gli altri ti aspettano di sotto.»

«Scendi, ti raggiungo subito.»

Jeremy uscì dalla stanza, socchiudendo la porta. Consapevole che la ragazza lo avrebbe raggiunto. Prima o poi.

Scese le scale e raggiunse gli amici al piano terra. Erano seduti nel divano del salotto. 

Il ragazzo si sedette con loro e spiegò la situazione.

«Aelita è al piano di sopra. Dovrebbe raggiungerci presto. Senza di lei non me la sento di iniziare.»

Dopo non molto tempo, la ragazza decise di uscire dalla sua stanza per giungere al piano inferiore. I suoi amici le avevano promesso che l’avrebbero aiutata ed era ben consapevole di come, senza di lei, non avrebbero fatto nulla. 

La ragazza li raggiunse nel salotto e si sedette anche lei sul divano. Dopo non molto iniziò a parlare.

«Mi conoscete bene. Sapevo che mi avreste trovata qui. Volevo iniziare a cercare degli indizi. »

«Scusa se sono indiscreta, ma vorrei chiederti una cosa.»

«Fai pure, Yumi.»

La ragazza cercò di esprimersi con la massima delicatezza possibile, data la situazione che l’amica stava vivendo.

«Hai detto che avevi vissuto qui solo con tuo padre, ma sai cos’è successo a tua madre?»

«Non ti preoccupare. Non so di preciso, ero piuttosto piccola quando tutto è accaduto, quindi molte cose non le ricordo o potrei ricordare male. Mi raccontava di come lui e la mamma si fossero conosciuti mentre lavoravano in una certa azienda informatica. Il lavoro era molto difficile e, qualche tempo dopo la mia nascita, si resero conto di come fosse difficile conicilare il lavoro con una bambina piccola. Mio padre si dimise per primo e qualche tempo dopo lo avrebbe dovuto fare mamma, ma… non seppe più nulla di lei. Solo che era ancora viva e faceva di tutto per cercarla. E questo bastava. Per questo ho pensato che qui, avremmo potuto trovare qualcosa.»

La ragazza tratteneva a fatica le lacrime, ma nonostante questo, decise di continuare. 

«E non ha mai smesso di cercarla, da qualche parte in questa casa ci saranno i risultati delle sue ricerche, ecco tutto.»

«Non vorrai riaprire quegli scatoloni! Non dopo tutto l’impegno che ci abbiamo messo a farli.»

Jeremy rispose immediatamente all’amico.

«Oh, non credo serva. Abbiamo diviso accuratamente le varie carte. E se ci fosse stato qualcosa del genere, le avremmo messe da una parte.»

«E allora dove volete cercare?» 

«Non so, ma credo che questa casa nasconda degli altri segreti, se quello che dice Aelita è vero, allora dovremo dividerci e cercare.»

«Va bene. Io mi occupo della mansarda.»

Si propose Odd. Seguito a ruota dal suo Lillipup, chiamato Kiwi.

«Allora noi facciamo i sotterranei, non ti dispiace, vero Aelita?»

«Affatto. Quindi Yumi e Ulrich si dividono il primo piano e il piano terra?»

«Immagino di si.»

Rispose la ragazza dai capelli corvini. 

«Non ti dispiace se resto al piano terra, vero»

Mentre i cinque esploravano la villa, il professor Morales aveva accompagnato Lucinda alla biblioteca. Stava controllando che all’interno della biblioteca vi fossero altri alunni della seconda superiore. Tutti gli alunni presenti erano in parte intimoriti, in parte divertiti dalle sue occhiate. Incrociò lo sguardo con due studenti, un ragazzo e una ragazza, intenti a parlare. «Grandjean e Jolivet?»

Una ragazza dai lunghi capelli rossi e un ragazzo con uno strano ciuffo castano si girarono, intimoriti dal richiamo del professore. Non pensavano di aver fatto qualcosa di sbagliato. A meno che qualcuno non li avesse accusati per difendersi.

«Lei è nuova qui. E non conosce nessuno. Ve l’affido.»

I due ragazzi si scambiarono uno sguardo d’intesa e sorrisero. Il professore non capiva come i due potessero essere felici di portare avanti un compito del genere. 

Entrambi guardarono la ragazza come se non fosse un essere umano, ma piuttosto una divinità. Qualcosa che a Xana non era mai capitato e questo lo faceva sentire parecchio a disagio. E anche il disagio per un'intelligenza artificiale era una novità. Che il dover forzatamente vivere nel corpo di un essere umano lo stesse cambiando? O che fosse semplicemente il fatto di poter accedere a tutti i ricordi della ragazza? Adesso non ci poteva pensare. O la ragazza sarebbe stata guardata male, se fosse rimasta con lo sguardo perso nel vuoto per ancora qualche tempo.

«Non è possibile! No! Non è vero! Dimmi che non sto sognando! Sei davvero Lucinda? La leggendaria Super coordinatrice?»

Xana non capiva. Cosa aveva scatenato la reazione di quella ragazza? E si sapeva che la ragazza prendeva parte alle gare Pokémon, ma non aveva idea che le gare giapponesi venissero seguite anche al di fuori dei confini della nazione. Se da una parte era un bene, poteva sfruttare la nomea della coordinatrice per ottenere dei favori, ma dare troppo nell’occhio, in altre occasioni sarebbe potuto essere un problema non da poco.

«Si.»

«Che onore. Ti va di lavorare con noi a una ricerca di scienze? Stavamo discutendo su che Pokémon condurre la nostra 

ricerca. Io vorrei condurla su Ralts, lui su Azurill. Tu che dici?»

«Ralts?»

«Bene, allora possiamo andare. Nel boschetto dietro la scuola dovrebbero trovarsi alcuni esemplari, ma dobbiamo stare attenti, è un Pokémon molto timido e se si sente minacciato, si teletrasporta da qualche altra parte.»

I tre uscirono dalla biblioteca, per dirigersi verso la pineta, nella speranza di trovare qualche esemplare di Ralts. Mentre i due discutevano, Xana aveva concluso la scansione dei ricordi della ragazza. E si era reso conto di aver commesso un fatale errore, nel momento in cui  aveva ignorato Ash e Pikachu. E il non farlo avrebbe potuto influire con i suoi piani. Avrebbe dovuto rimediare al più presto e quella poteva essere la giusta occasione per farlo.

Con tutta probabilità anche lui si sarebbe trovato nella pineta. Xana non si era sbagliato. Ash era con un’altra ragazza che non era presente nei ricordi della ragazza. Ma non sembrava rappresentasse una minaccia.

«Scusate. Devo salutare una persona.»

Si riferì ai due che l’avevano accompagnata fino alla pineta. 

«Vai pure, noi continueremo da soli.»

Le rispose il ragazzo, chiedendosi tra sé e sé se la ragazza, che, nel frattempo si era allontanata, e si era avvicinata a quel ragazzo arrivato solo pochi giorni prima.  

Ash aveva salutato l’amica, ben felice di presentarla a Serena. 

«Ecco, lei è Lucinda. Abbiamo viaggiato insieme un po’ di tempo fa, nel nord del Giappone. Lucinda, lei è Serena.»

«Piacere di conoscerti.»

Serena porse la mano a Lucinda, la quale, la strinse, con un gesto meccanico. Come se fosse intimorita. Cosa strana. Ash la conosceva bene e sapeva che non si sarebbe mai fatta intimidire da un’altra ragazza. 

Serena fece una strana espressione. La mano della ragazza era gelida. Come se fosse morta. 

«Non vi dispiace se mi unisco a voi, vero?»

«Figurati.»

Le risposero, praticamente insieme.

«Non sapevo parlassi…»

Aggiunse Ash

«Oh, beh, sai, ho preso qualche lezione da Fannie…»

«Scusa se te lo chiedo, ma cosa ti è successo dopo la Coppa? Perché non hai risposto alle mie chiamate? Ero molto preoccupato.»

Ash, volontariamente, non aveva menzionato della fuga dall’ospedale o del fatto che aveva contattato la madre o ancora del fatto che anche Vera si fosse preoccupata per lei. Voleva metterla alla prova.

Xana non sapeva come rispondere. Doveva trovare una scusa che fosse credibile. Gestire un essere umano per scopi diversi dal tentare di ammazzare qualcuno non era affatto facile. Soprattutto se voleva ottenere il suo scopo. 

«Volevo solo farti una sorpresa.»

Mentre parlava, Pikachu era salito sulla sua spalla e la ragazza, sempre meccanicamente, lo accarezzò. Anche il piccolo Pokémon elettro si accorse di come la mano della ragazza fosse fredda. Terribilmente fredda. Quasi fosse fatta di ghiaccio. 

«Scusa se te lo chiedo, ma dov’è Piplup?»
«È qui, nella sua Pokéball.»

Poco dopo averlo detto fece uscire dalla Pokéball il piccolo Pokémon pinguino. Ash notò come la Pokéball fosse ancora avvolta dalla capsula. Cosa strana. Conosceva benissimo Lucinda e sapeva benissimo che, finita l’esibizione le rimuoveva. Sempre e comunque. Ma decise di non dare peso alla questione. Pensò semplicemente che si era dimenticata di farlo.

Il piccolo Pokémon pinguino salutò calorosamente l’amico.

Per Xana la situazione stava diventando davvero difficile da gestire. Doveva trovare una via d’uscita. Al più presto.

«Avete deciso su che Pokémon fare la ricerca?»

«Si, a dire il vero è stata lei a scegliere. E ha scelto Zorua.»

«Oh, bene… interessante.»

In una casa abbandonata, poco distante dal bosco, due ragazze e tre ragazzi erano alla disperata ricerca di indizi. Si erano divisi per esplorare l’abitazione. 

Nell’ampio piano interrato Jeremy e Aelita si erano divisi a loro volta. Avevano esplorato quel piano diverse volte e, spesso era capitato che trovassero degli altri collegamenti o delle altre stanze di cui, fino a quel momento, avevano ignorato l’esistenza. Per questo motivo era il posto dove era più probabile trovare indizi. Il sotterraneo era un lungo andito che conduceva a numerose stanze, tra cui una cella frigorifera. Alcune delle stanze portavano a degli altri anditi che portavano a ulteriori stanze o lunghe gallerie che permettevano di raggiungere luoghi strategici di Parigi.

Qualche tempo prima avevano addirittura raggiunto la stazione dei treni.

All’estremo opposto dei sotterranei, la mansarda, della cui esplorazione se ne stavano occupando Odd e il suo fidato Lillipup.

Il ragazzo e il suo Pokémon si trovavano nell’ampio e luminoso studio che costituiva la quasi totale interezza del piano. Era una stanza estremamente luminosa, grazie alle ampie finestre. Il pavimento era un pregiato parquet. La stanza, come il resto dell’abitazione, era stata pulita. Restavano solo una libreria, ancora ricolma di libri, una grande scrivania, una lavagna, con delle formule mezze cancellate, una sedia da ufficio e poco altro.

 Il ragazzo aveva trovato ben poco di interessante. Giusto una valigetta del piccolo chimico, appoggiata contro una parete, che all’apparenza risultava inutilizzata, e un taccuino, posato sulla libreria. Il ragazzo si mise il taccuino in tasca e posò la valigetta  sulla scrivania. 

Yumi e Ulrich avevano finito di esplorare i rispettivi piani, ritrovandosi con Odd nel salotto del piano terra. 

«Trovato niente?»

Chiese la ragazza. 

«No. Niente.»

«Giusto questo e una valigetta del piccolo chimico.»

Il ragazzo estrasse dalla tasca un taccuino. 

«Ok il taccuino. Ci può interessare ma il piccolo chimico? A cosa mai potrebbe servirci?»

Yumi ricevette il taccuino dall’amico, e lo stava sfogliando molto rapidamente, e, altrettanto rapidamente stava dando uno sguardo alle pagine.

«Sono tutte dannatamente vuote. Non penso possa tornarci utile.»

«Mi sembrava interessante. Non ci ho fatto caso quando l’ho preso, ma se non servo a nulla, gli riporto dov’erano. Mi chiedo se Jeremy e Aelita saranno stati più fortunati.»

Mentre i tre si stavano confrontando, la coppia non aveva ancora finito di esplorare i sotterranei. Avevano esplorato appena metà delle stanze, evitando i lunghi tunnel.

Jeremy era entrato in una delle stanze dei sotterranei, che, da fuori, appariva come tutte le altre.

Dentro c’era solo del materiale edile, tondini di ferro, cazzuole, paioli, e dei sacchi di cemento. Su uno di essi il ragazzo notò che era riportato il nome di una ditta di costruzioni, con tanto di numero di telefono, che però risultava illeggibile.

Con grande sforzo, il biondo, spostò il primo sacco. Quello dietro era messo meglio, e il numero di telefono della ditta risultava ben leggibile.

Il ragazzo lo salvò nella rubrica del suo telefono, quindi chiamò la ragazza. Quest’ultima lo raggiunse in breve tempo.

«Trovato qualcosa?»

«Questi sacchi di cemento hanno il numero di telefono di una ditta di costrizioni. Magari sono loro che si sono occupati di ristrutturare l’Hermitage. Chissà che non ci possano essere d’aiuto.»

«Possiamo provare, ma prima direi di raggiungere gli altri. Saranno preoccupati.»

Il ragazzo non le rispose, si limitò a seguirla.

Ora i cinque si erano riuniti al piano terra, nello stesso salotto dove, non troppo tempo prima avevano deciso di dividersi per cercare indizi.

«Certo che ce ne avete messo di tempo.»

«Oh, direi che siamo giustificati. Abbiamo trovato qualcosa da cui poter partire.»

«Cosa?»

«Odd, quanta fretta!»

Il ragazzo estrasse il suo telefono dalla tasca dei pantaloni.

«Dovrei averlo salvato.»

Il ragazzo stava armeggiando con il suo telefono.

«Eccolo qui!» 

«Cosa?»

«Va bene. Vi spiego. Mentre cercavamo indizi nei sotterranei, ho trovato alcuni sacchi di cemento, su cui era scritto il nome di un’azienda di ristrutturazioni. Per cui ho pensato che potessero aver lavorato qui e che potrebbero essere d’aiuto.

«Ricordati che sono passati molti anni. Potrebbe anche essere fallita, che ne sappiamo?»

Yumi espresse tutti i suoi dubbi sulla questione.

«Proviamoci. Alla peggio continueremo a cercare.»

«Come vuoi.» 

Il ragazzo avviò la chiamata. Dopo alcuni squilli, dall’altro capo del telefono, qualcuno rispose.

«Pronto, parlo con la ditta  Garrigue?»

Dall’altro capo del telefono, rispose una donna, che, a giudicare dalla voce, sembrava fosse molto anziana.

«No. O meglio, fino ad alcuni anni si, ma, qualche anno fa hanno chiuso i battenti.»

«Come sarebbe a dire che hanno chiuso?»

«Guarda. Non ti so cosa dire. Hanno chiuso dopo un brutto incidente sul lavoro. Erano  tre fratelli. Durante uno dei lavori, per un difetto di progettazione delle imbragature, due dei tre fratelli persero la vita. Per rispetto il solo superstite, decise di chiudere tutto. Ma non capisco perché ti interessi così tanto. Sono cose avvenute molti anni fa.»

«Ecco, vede…»

«Non importa. Sai, non ricevo molto spesso delle telefonate, tantopiù da dei giovani come te. Per cui posso darti il suo numero di telefono. Ma non dire che te l’ho passato. Sappi che ora vive a Marsiglia, non certo a due passi da Parigi.»

«Va bene.»

Il ragazzo segnò il numero di telefono su un pezzo di carta e dopo averlo nuovamente verificato con la sua interlocutrice, la salutò cordialmente.

«Allora?»

Odd era, come suo solito, piuttosto impaziente. 

«Forse abbiamo una pista. L’azienda che ha ristrutturato l’Hermitage ha chiuso i battenti tempo fa, perché due dei tre fratelli hanno perso la vita in un incidente sul lavoro, ma il terzo è ancora vivo e vegeto e ho il suo numero di telefono e il suo indirizzo.»

«Mi sembra un buon punto di partenza.»

Si limitò a commentare Aelita.

«Cosa aspetti? Chiamalo!»

«Non ti sembra di essere un pochino troppo precipitoso?»

Odd rabbrividì dopo il rimprovero da parte di Yumi. A volte l’amica poteva sembrare davvero cattiva.

«No, non sgridarlo, ha ragione. Penso dovremo andare fino alla fine.»

Con il permesso della ragazza, Jeremy compose il numero datogli dalla signora. Poi avviò la chiamata.

Dopo qualche squillo, qualcuno rispose.

«Pronto, chi parla?»

«Buongiorno, parlo con il signor Garrigue? Mi chiamo Jeremy Belpois, vorrei chiederle una cosa.»

«No, qui non c’è nessuna Rosa!»

«SCUSI, FORSE HA CAPITO MALE, LE VORREI CHIEDERE UNA COSA!

«NON SERVE URLARE, CI SENTO BENISSIMO! PUOI CHIEDERMI QUELLO CHE VUOI.»

«LE DICEVO LA CHIAMO DA PARIGI»

«Ti ho detto di non urlare, e per tua informazione stai parlando con un parigino DOC! In quella città ci sono nato e cresciuto! Io e i miei fratelli ne abbiamo costruiti e ristrutturati di edifici! Sai! Ma non credo che tu mi abbia chiamato per sentire un vecchio raccontare di come si costruivano le case… Sputa il Politoed! Perché mi hai telefonato?»

«BENE. MI RISULTA CHE LEI ABBIA LAVORATO PER UN PROFESSORE DEL KADIC. IL SIGNOR HOPPER»

«Chi scusa?»

«IL SIGNOR HOPPER. FRANZ HOPPER.»

«Ti sbagli! Io non lo conosco. Non l’ho mai sentito nominare!»

«E ALLORA COSA CI FANNO DEI SACCHI DI CEMENTO DELLA DITTA PER CUI HA LAVORATO NELLA SUA CASA?»

«Ti ripeto che non so di chi tu stia parlando e non ho idea di come possano esserci finiti in casa sua!»

L’uomo attaccò senza nemmeno salutare.

«Alla faccia!»

«Allora?»

Gli chiesero, tutti e quattro, all’unisono.

«Mettiamola così non gliela daremo per vinta così tanto facilmente? 

«Che intendi?

Il tono di Aelita era piuttosto preoccupato.

«Ha chiuso la telefonata non appena ho menzionato Franz Hopper. E ha negato di averci avuto a che fare.»

«Capisco. Quindi cosa vuoi fare?»

Gli chiese la sua ragazza.

«Quello che hai deciso di fare te. Andare a fondo della questione. Costi quel che costi.»

«Quindi vuoi partire per Marsiglia? Solo per come ti ha chiuso la telefonata?»

«Esatto. Pensavo che potremmo partire domani. Per i biglietti del treno non vi preoccupate, ci penso io. Ho i miei trucchi»

«Per me va bene.»

Gli rispose Aelita.

I cinque si erano allontanati dalla villa. Yumi si era diretta a casa sua, poco lontano, gli altri, invece, si stavano dirigendo al collegio. Erano oltre il suo perimetro da diverso tempo e presto qualcuno avrebbe notato la loro assenza.

Il giorno dopo, poco dopo pranzo, i cinque si erano incontrati all’Hermitage. Si erano accordati per incontrarsi lì, per poi partire alla volta di Marsiglia. Jeremy, con uno dei suoi trucchetti, era stato in grado di creare dei falsi permessi dei genitori per potersi allontanare dal collegio. 

Jeremy consegnò a ognuno un biglietto andata e ritorno per Marsiglia.  

Odd guardò il biglietto e poi l’amico.

«Prima classe? Ma ti sarà costato un patrimonio!»

«Ho i miei segreti. Battute a parte il treno è nell’orario meno trafficato, quindi i biglietti costano meno. Fosse stato all’ora di punta sarebbe costato parecchio di più. Se ho fatto bene i conti dovremo andare alla stazione verso le cinque e mezza. Il treno dovrebbe arrivare a Marsiglia per le nove. A mezzanotte saremo di ritorno.»

«E cosa vuoi fare nel frattempo? Ci hai fatto venire qui con tre ore di anticipo. Vuoi che restiamo qui a girarci i pollici?»

«Possibile che tu non sappia restare due minuti con le mani in mano?»

Lo riprese Ulrich.

«Ti va una lotta?»

«Come voi. Ma basta che tu non mandi in campo il tuo Lillipup.»

«Perché mai?»

«Non ti ricordi com’è finita l’ultima volta?»

«Come vuoi. Facciamo un tre contro tre secco, senza sostituzioni?»

«Come vuoi.»

Il giardino posteriore dell’Hermitage era il luogo ideale per lottare. Ricavarci un campo lotta non era stato affatto difficile. 

I due ragazzi erano uno di fronte all’altro, gli altri assistevano alla lotta, appoggiati contro il muro. 

Erano grandi amici, ma, nonostante questo, prendevano le lotte molto sul serio. 

«Vai Meowstic!»

Dalla Pokéball del biondo uscì un Meowstic maschio, che si mise subito in posizione di attacco. Pronto ad affrontare qualsiasi avversario.

«Molto bene, mi affiderò a te, Gallade!»

Ulrich decise di mandare in campo sin da subito il suo Pokémon più forte. Non che gli altri non lo fossero, ovviamente, ma lui era stato il suo primo Pokémon, che aveva allenato sin da quando era un piccolo Ralts.

«A te l’onore!»

Odd era ben felice di avere la prima mossa. Conoscendo la forza del suo avversario, doveva essere pronto tanto a attaccare quanto a difendere. O la lotta si sarebbe conclusa rapidamente e in suo sfavore.

«Meowstic, usa Calmamente!»

Il Pokémon del ragazzo chiuse gli occhi e concentrò i suoi poteri psichici. In modo da poter tanto attaccare quanto difendere meglio. 

«Gallade, usa Nottesferza, prima che diventi troppo tardi!»

Le braccia, simili a lame,  del Pokémon si illuminarono di azzurro, e vennero circondate da un’aura dello stesso colore.

Gallade corse verso l’avversario, che, concentrando i suoi poteri, si era sollevato in aria di una quarantina di centimetri.

L’allenatore del Meowstic se ne accorse poco prima che Gallade raggiungesse il suo Pokémon.

«Meowstic, usa Energipalla per difenderti!»

Il Pokémon del ragazzo generò con gli arti superiori una sfera di energia dal colore verde scuro, parzialmente trasparente.

La sfera di energia diveniva sempre più voluminosa, in modo da potersi frapporre tra il suo corpo e le lame affilate del Gallade, che iniziavano già a pressare contro la sfera di energia. 

Era chiaro che se nessuno fosse intervenuto, i due sarebbero potuti rimanere in quella posa per ore.

Il primo dei due a realizzarlo avrebbe potuto avere un grosso vantaggio. 

«Gallade, salta, prima che sia troppo tardi!»

Il Pokémon del ragazzo spiccò un balzo, proprio davanti al suo avversario.

L’allenatore del Meowstic sorrise. Si aspettava una strategia evasiva da parte dell’amico. Lo conosceva fin troppo bene. 

«Bene, Meowstic, lancia l’Energipalla!»

Il Pokémon felide eseguì il comando dell’allenatore, lanciando la sfera di energia di colore verde contro il suo avversario, e sembrò come riprendere a respirare. 

«Gallade, distruggila con Psicotaglio!»

Le braccia del Pokémon si estendettero e illuminarono di azzurro. Da esse uscirono delle lame di energia colorate. 

Queste ultime colpirono la sfera di energia, facendola esplodere. 

«Oh…»

Commentò il biondo, che evidentemente non si aspettava quel tipo di risposta. Probabilmente qualsiasi altro tipo di attacco lanciato in quel modo avrebbe fatto la stessa fine. Combattere contro quelle lame sarebbe stata una battaglia persa in partenza. Doveva inventarsi qualcosa e alla svelta.

«Gallade, piombagli addosso con Nottesferza!»

Il colore delle braccia, simili a lame del Pokémon mutò, diventando simile all’azzurro, e la lunghezza delle lame crebbe a dismisura. E l’allenatore del Meowstic sembrava non reagisse. Come se avesse accettato la superiorità del nemico. Anche se la distanza tra i due Pokémon era risicata.

«Perfetto, Meowstic, ora! Usa Psichico!»

I poteri psichici del Pokémon impedirono al Gallade avversario di muoversi. Prima che lo stesso potesse attaccare.

Il Gallade era bloccato a mezz’aria, in balia dell’attacco avversario, ma non sembrava darsi per vinto. E il suo allenatore sembrava lo avesse compreso.

«Gallade so che puoi reagire. Usa di nuovo Nottesferza!»

Il colore delle braccia, simili a lame del Pokémon mutò, diventando simile all’azzurro, e la lunghezza delle lame crebbe a 

dismisura.E riuscì a svincolarsi dal giogo avversario e a colpirlo pesantemente con le sue lame affilate, facendolo volare fino

alla recinzione che separava la villa dal boschetto lì dietro.

«Meowstic, stai bene?»

Il Pokémon del ragazzo si rialzò e si scrollò di dosso i rametti, le foglie e la polvere. E fece cenno al suo allenatore di non 

volersi arrendere.

«Bene Meowstic! Se te la senti di continuare allora vai! Lancia quante più Palla Ombra puoi!»

Il Pokémon iniziò a generare la prima di una grande serie di sfere di energia oscura dal colore violaceo Ricordavano della sorta di occhi viola, ricoperti da scariche di energia dal colore violaceo.

«Gallade, concentrati, distruggile tutte!

Sembrava che i due potessero continuare all’infinito. Per quanto uno si sforzasse di attaccare, l'avversario rispondeva difendendosi in maniera egregia. 

Una stasi che non piaceva a nessuno.

«Gallade, corri mentre eviti i suoi attacchi e vai di Nottesferza.»

Le lame del Pokémon si estesero e questi corse contro il nemico, sferrando, con le lame un duro colpo.

Il Pokémon felino colpì duramente il terreno. Non più in grado di lottare.

Il suo allenatore si affrettò a ricoverarlo nella Pokéball. Come l’amico con il Gallade, uscito vittorioso dalla lotta.

«Ehi, guardate che è praticamente ora di andare! Dovrete rimandare il resto della lotta a più tardi»

Jeremy fece segno di toccare l'orologio, per far capire ai due che era passato diverso tempo ed era ora di andare.

Il gruppo di amici si diresse alla stazione dei treni. 

Si accomodarono nella prima classe di quel TGV, sedili enormi e comodissimi e un ampio tavolino dove appoggiare le loro cose. Il treno prese velocità, fino a raggiungere la punta massima. Guardando dai finestrini tutto appariva confuso e sembrava che nulla potesse tenere il  suo passo.

Nulla tranne quello che, inizialmente appariva come un puntino bianco indistinto, ma che sembrava non solo avvicinarsi, ma anche tentare di superare il TGV. Una Peugeot 406 bianca, allestita da taxi, ma che nel suo aspetto ricordava più un’auto da corsa. Bassa fino a quasi toccare terra, gomme larghe, spoiler, minigonne e prese d’aria. 

Dopo tre ore di viaggio, il treno giunse alla stazione di Saint Charles, a Marsiglia.

Jeremy aveva preventivamente stampato una mappa della zona e si era segnato il percorso per raggiungere l’abitazione del signor Garrigue. Non era troppo lontana da dove si trovavano. Al massimo una mezzoretta a piedi. Da dove si trovavano era possibile scorgere i tetti di alcuni importanti edifici della città. Ma non era quella la loro meta.

Tutt’altro. Dovevano raggiungere la casa di quell’uomo. Al più presto.

«Ecco qui, ragazzi. Prima di partire ho stampato una piccola mappa. Dovrebbe aiutare a orientarci.  Diciamo che la zona dove vivono non è proprio una zona perbene.»

«Dici sul serio?»

Odd era piuttosto preoccupato. 

«No. O meglio, un tempo era un quartiere povero, quindi era abbastanza normale che ci fosse della piccola criminalità, per molti il solo modo di tirare avanti. Adesso è un normalissimo quartiere residenziale.»

«Immaginavo. Conoscendoti non andresti mai in posti del genere. Avresti troppa paura!»

«Sicuro di conoscerlo bene? Per lei farebbe di tutto.»

La provocazione di Ulrich mise Jeremy in imbarazzo.

«La verità è più razionale di quanto pensiate.» 

Il ragazzo sembrava cercare di giustificare la sua reazione.

«Per quanto pensiate che possa durare questa storia della sua falsa identità? Anche oggi abbiamo rischiato grosso con il treno. Sarebbe potuto salire il controllore e chiederci i documenti. E la sua identità come cugina canadese di Odd sarebbe crollata. E come avremo fatto? Sarebbe stato un autentico disastro. Non voglio nemmeno immaginare cosa sarebbe successo.» Tutti pensavano che il biondo avesse ragione. Fino a quel momento era andato tutto bene, ma quanto ancora a lungo sarebbe potuto durare? Ritrovare sua madre avrebbe posto fine a tutto quel teatrino.

Il gruppo rimase in silenzio, fino a quando, finalmente, giunsero alla loro destinazione. Un condominio, apparentemente come tanti.  

«Dovrebbe essere qui.»

Jeremy stava cercando freneticamente il campanello della famiglia Garrigue. 

«Bene, eccoli qui, abitano al piano terra.»

Il ragazzo premette il pulsante. Dopo qualche istante una voce, appartenente a una donna di una certa età, rispose.

«Chi è?»

«Sono Jeremy Belpois, vorrei parlare con il signor Garrigue, se fosse possibile.»

«Oh, certo, è mio marito. Entra pure. Non vorrai lasciare fuori i tuoi amici, anche loro sono i benvenuti, ci mancherebbe!»

Da dentro casa la donna premette il pulsante del citofono che permetteva di aprire le porte di ingresso, che si aprirono con un suono elettrico.

I cinque varcarono il cancello e entrarono nell’atrio del condominio. Il pavimento era costituito da piccole mattonelle rosse, le pareti erano per metà bianche, per metà rivestite da uno strano materiale, che ricordava il sughero. Il tutto illuminato a fatica da una lampadina a incandescenza al centro del soffitto.

Non ci fu tempo per perdersi in ulteriori dettagli. La donna che prima aveva risposto al citofono, aveva aperto la porta e fatto cenno ai cinque di entrare.

L’appartamento della coppia era molto accogliente. Dava una sensazione di calore e tranquillità. All’ingresso un mobile in legno con delle foto, tra cui quella di tre uomini a lavoro.  

Si assomigliavano parecchio, con tutta probabilità erano fratelli. Proprio come aveva raccontato quella donna. 

«Oh, ragazzi come mai siete venuti qui da noi? Per mio marito? Mi ha raccontato di come un ragazzo chiamato Jeremy lo avesse chiamato. Di certo non mi sarei mai aspettata di vedervi qui.»

«Vede. Lei è Aelita.»

Yumi stava indicando la ragazza dai capelli rosa.

«Diversi anni fa sua madre è scomparsa e, facendo alcune ricerche siamo risaliti a voi. È abbastanza difficile da spiegare, ma magari lei o suo marito potreste aiutarla.»

«Come mi dispiace. Povera ragazza. Deve essere stato difficile anche solo parlarne. Ne parlerò con lui e vedrò se possiamo aiutarvi. Intanto accomodatevi.»

I cinque si sedettero su un bel divano di pelle. Davanti un tavolino da caffè in legno. Più avanti un ampio televisore.

Sul lato della stanza una grande libreria, stracolma. 

La donna si era diretta in cucina, dove si trovavano il marito e la figlia. 

«Marina potresti preparare qualcosa per degli ospiti? Sono cinque ragazzi.»

«Certo, faccio subito.»

«Quanto a te, Jean, devo parlarti di una cosetta.»

I due si allontanarono dalla cucina, per dirigersi in camera da letto. La ragazza si mise a lavoro. 

«Jean, forse non saresti dovuto essere così cattivo con quel ragazzo. Ora è arrivato qui con i suoi amici. Dice che  noi possiamo aiutarli per ritrovare la madre della ragazza.»

«Immaginavo che non si sarebbe arreso facilmente. Ma non potevo di sicuro immaginare che sarebbe arrivato a tanto. Ma tant’è. Vedrò di fare il possibile.»

Marito e moglie giunsero nel salotto, dove i ragazzi erano seduti sul divano.

«E così siete arrivati fino a qui? Me lo sarei immaginato. E capisco perché siete venuti fino a qui. È una storia molto triste.»

In seguitò guardò i cinque e rimase in silenzio. Era piuttosto perplesso. Guardando Aelita aveva come l’espressione di aver riconosciuto un volto familiare.

«Mi ricordo di come il signor Hopper avesse avuto una figlia. E ti assomiglia davvero parecchio. Certo, chiaramente tu non puoi essere lei, a occhio e croce avrai quattordici o quindici anni, lei ne dovrebbe avere come minimo venticinque. 

Sono assai confuso…»

«In effetti  sono parenti…»

Jeremy cercò di inventarsi una scusa credibile.

«Sua cugina, Alida, è la figlia del professor Hopper, e lei è sua nipote… figlia della sorella. Che è scomparsa diversi anni fa.

Nessuno osò contraddirlo. E sembrava che i due se la fossero bevuta.

«Oh, beh, come volete… fatto sta che la somiglianza è paurosa. Comunque sia, ti dispiacerebbe portarmi del mirto?»

Poco dopo la donna prese una bottiglia del liquore e un bicchierino e ne versò al marito.

Intanto era giunta anche la figlia della coppia. Una ragazza di massimo venticinque anni. Aveva in mano un vassoio con diversi piattini, che contenevano qualcosa di non ben definibile.

Lo posò sul tavolino e invitò i ragazzi a mangiare.

Ognuno di loro prese un piatto e, finalmente poterono capire di cosa si trattava. 

Sembrava essere una sorta di enorme raviolo fritto, tondo, dai bordi appuntiti. Doveva essere dolce, dato che era ricoperto da una grossa quantità di miele. 

«Fate attenzione, il ripieno è bollente!»

«Oei irlo ia!»

Odd aveva dato un grosso morso all’enorme raviolo, ustionando la bocca, facendo una brutta figura, ma riuscendo, suo malgrado, ad alleviare la tensione che pregnava l’aria. Gli altri, visto cos’era accaduto all’amico, optarono per mangiarle a piccoli bocconi.

Sembrava che il mirto iniziasse a sortire i primi effetti nell’uomo.

«Non posso più tirarmi indietro. Avete fatto molta strada. Ma sappiate che, purtroppo, ci sono delle cose che non vi posso dire, anche se sono passati molti anni.

Non so di preciso quanti. Ma allora i miei due fratelli erano ancora tra noi. Lavoravamo a Parigi, e in quegli anni la nostra ditta non viveva un bel periodo. Rischiavamo di chiudere bottega da un giorno all’altro. 

La chiamata di un certo tizio ci salvò dal fallimento. Era un lavoro molto grande e importante. Un’intera fabbrica.»

«Mi scusi se la interrompo, ma si ricorda se la fabbrica si trovava su un isolotto sulla Senna?»

Chiese Yumi.

«Proprio così. Sapete più di quanto credessi. Comunque sia, quell’uomo ci pagò parecchio per il nostro lavoro, e per il nostro silenzio. Penso ci fosse di mezzo il governo o qualcosa di simile. Non vi posso dire chi ci forniva i soldi, né tantomeno il nome dell'azienda per cui diceva di lavorare, anche perché, sembrava non esistesse. Ho cercato in ogni posto, ma non ho trovato alcuna traccia. Nonostante questo, i soldi arrivavano puntuali e abbondanti.»

Dopo aver bevuto dell’altro mirto, proseguì nel suo racconto.

«Non potevamo nemmeno entrare o uscire come volevamo. Andavamo a lavorare da bendati dentro a dei furgoni militari dai vetri scuri. Una volta dentro non potevamo abbandonare la stanza in cui ci trovavamo. Probabilmente avevano deciso di fare in questo modo per evitare che potessimo conoscere l’intera planimetria dell’edificio.

Ricordo solo una stanza gigantesca con un ascensore che portava a delle stanze con delle strane apparecchiature elettroniche. Non sono mai stato un grande intenditore di quelle diavolerie, ma ricordavano il set di un film di fantascienza, non so se ci capiamo. In ogni caso, quel lavoro ci prese quasi un anno. Per qualche tempo non sentimmo più nulla di quell’uomo né di quell’azienda. Quell’uomo mi ricontattò dopo qualche mese, e mi presentò il signor Franz Hopper. Mi pare di aver capito che si tratta di tuo zio, no? In ogni caso aveva una figlia, che mi avete ricordato si chiamasse Alida… che, diavolo se vi assomigliate! Ad ogni modo. Si era trasferito a Parigi e lavorava come professore in un collegio lì vicino. L’uomo chiese, per conto del signor Hopper, di ristrutturare una villa lì vicino. Non ricordo come si chiamasse, ma era un nome piuttosto strano. Anche qui stesso discorso. Tanto denaro in cambio di silenzio. 

«È sicuro che non ci sia altro? Sa, abbiamo girato per la villa e abbiamo scoperto che è collegata alla fabbrica da un passaggio segreto…

L’uomo non si aspettava quella domanda da parte del ragazzo dai capelli castani. Per la seconda volta uno di quei ragazzi aveva dimostrato di sapere più di quanto immaginasse. 

«A quanto pare non vi si può nascondere nulla. Eh! Però, oltre a quest’ultima cosa altro non vi posso dire. E questa volta non c’è scusa che tenga.»

L’uomo si versò dell’altro mirto nel bicchiere.

«Qualche tempo dopo, Franz Hopper mi contattò per chiedermi un grosso favore. Questa volta era solo. Dovevo tornare alla sua villa per murare una piccola sezione. Non doveva essere visibile da fuori in alcun modo. Lui si sarebbe occupato dell’aspetto burocratico. Anche lui pagò onestamente. 

Non mi ha spiegato a cosa potesse servire, ma sembrava essere disperato, pertanto non feci domande. 

Mi ricordo che era estate. E che Hopper sembrava solo l’ombra di se stesso, facendomi pensare che non fosse un semplice professore. Mi ricordo che ero venuto per ritirare alcuni attrezzi. E, nonostante Hopper avesse molta fretta, riuscì a rispondere alla mia domanda. Gli chiesi a cosa servisse quella stanza, se era nascosta e se nessuno poteva sapere della sua esistenza. Lui mi rispose semplicemente che sarebbe servito a proteggerla.

Mi disse anche che aveva lasciato degli indizi alla persona giusta.»

«Grazie, è stato davvero gentilissimo, ma ora è meglio andare, o perderemo il treno.»

Jeremy era riuscito ad ottenere quello che voleva. Informazioni. Certo, ora i cinque avrebbero dovuto decidere come agire. E il lungo viaggio di ritorno sarebbe potuto essere d’aiuto. 

 I cinque si congedarono con la famiglia e percorsero a ritroso la strada che li aveva condotti dalla stazione dei treni fino a quell’appartamento. 

Arrivarono appena in tempo per salire a bordo del TGV per Parigi. Contrariamente all’andata, non erano i soli ad aver scelto la lussuosa prima classe. 

Poco lontano dalle loro poltrone, un uomo e una donna, potevano avere massimo trent’anni. 

La donna aveva i capelli viola, tagliati a caschetto. Indossava un abito elegante. 

Anche l’uomo che la accompagnava era vestito elegante. Come se fosse la sua guardia del corpo. O il fidanzato. Probabilmente l’aveva accompagnata a qualche evento o simile.

Quello che si stavano dicendo non sembrava interessante. Non dopo tutto quello che avevano scoperto e su cui avrebbero dovuto indagare, non appena tornati a casa.

«Aspettate un secondo.»

Odd stava parlando sottovoce per non farsi notare dalla diretta interessata.

«Ma lei non è Antemia, la famosa scrittrice americana? Cosa ci fa qui? Sapete sono un suo grande ammiratore, ho letto tutti i suoi libri, e ora lei è qui, non ci voglio credere. Vado a chiederle un autografo.»

«Non sapevo che ti piacesse così tanto leggere.»

«Oh, beh, sapete che c’è, vado a chiederle un autografo, magari, se sono fortunato mi parlerà anche del suo prossimo libro, chissà…»

Il biondo estrasse un libro dal suo zaino.

«Lo avevo portato con l’intenzione di leggerlo durante il viaggio…»

«Prima che il sonno prendesse il sopravvento. Diavolo, russavi come uno Snorlax, sembrava non ti svegliassero nemmeno le cannonate.»

Odd, nonostante l’imbarazzo per la strigliata dell’amico, si avvicinò alla scrittrice, che nel frattempo aveva estratto il suo computer portatile e lo aveva acceso. Sullo schermo del dispositivo era appena apparsa la prima schermata di caricamento del sistema operativo.

«Non ci credo, sei davvero Antemia, la famosa scrittrice e formidabile allenatrice, non ci credo!»

«In persona.»

Anche se cercava di nasconderlo, il suo accento americano era più che evidente.

«Sai, sono un tuo grande ammiratore, ho letto tutti i tuoi libri, sai. Ne ho qui uno con con me. Me lo autograferesti?»

«Certo, ci mancherebbe altro.»

Il ragazzo porse il libro alla donna.

«Dimmi… come ti chiami?»

«Odd.»

«Oh, beh, è un nome molto particolare, sai, credo di non aver mai sentito un ragazzo che si chiama così, sai?»

La donna scrisse una piccola dedica al ragazzo. Poi gli restituì il libro.

Odd fece per andarsene e tornare dai suoi amici, quando la donna lo fermò dal farlo.

«Aspetta un attimo. Hai detto di aver letto tutti i miei libri, non è vero? Se è così, allora sei la persona adatta ad aiutarmi per una cosetta. Vedi, sto iniziando a scrivere un libro, diverso dal solito, una storia di spionaggio.»

«Sembra dannatamente interessante!»

«Sai, sono una grande appassionata di corse, pensavo di iniziare il tutto alla gara inaugurale, dove una scuderia presenta  nelle sue auto un dispositivo tanto illegale quanto nascosto. Nessuno avrebbe potuto scoprirlo, a meno di una soffiata. Che puntualmente avviene.  La scuderia in questione sarà costretta a rimuovere quel dispositivo. 

Le vicende si spostano poi in una delle gare del centro della stagione, circa due mesi dopo. Quando viene tentato il sabotaggio a entrambe le vetture, che però viene evitato grazie alla troppa scrupolosità di uno dei meccanici, che si accorse di qualcosa che non tornava. Contemporaneamente, in una piccola copisteria un uomo chiede di stampare del materiale confidenziale, che non avrebbe dovuto avere e…

Non posso dire tutto, altrimenti rovino la sorpresa.

A un certo punto, comunque, il sospettato viene ucciso e sarà compito degli investigatori ricostruire tutto quello che è accaduto e scoprire chi è stato l'assassino e tutte le motivazioni per cui quel delitto è avvenuto. E, pensavo, nel libro, di inserire un piccolo gioco, sai?»

«Del tipo?»

«Hai mai sentito parlare dell’inchiostro simpatico?»

«No?»

«Si tratta semplicemente di alcuni inchiostri che apparentemente sono invisibili, ma che possono diventare visibili in svariati modi, uno dei più famosi è il succo di limone, che reagisce con il calore rivelando quanto scritto prima, ma ne esistono anche di altri, io pensavo di usare del ferrocianuro di potassio.»

La faccia di Odd diceva tutto, non era mai stato un genio nelle materie scientifiche. Non si sentiva così stupido da quando Jeremy aveva gettato la spugna nello spiegargli i segreti del Supercomputer. 

Nonostante questo, la donna continuò la sua spiegazione. 

«Basterà farlo reagire con del nitrato di ferro e apparirà quanto scritto. In un colore chiamato blu di Prussia.»

«Sembra interessante. Oh, spero di non essere stato di disturbo.»

La scrittrice sorrise.

«Ma no, figurati, anzi, è sempre un piacere incontrare qualcuno che apprezza quello che faccio.»

Il ragazzo tornò dai suoi amici, estremamente felice. Sia per la dedica che per l’aver ricevuto informazioni sul suo prossimo libro.

«Ragazzi, non ci voglio credere! Guardate qui! Mi ha pure autografato il libro!»

Nel suo tono era ben evidente una certa dose d'orgoglio. Conoscendolo, si sarebbe vantato della cosa per mesi. Ma in quel momento, il ragazzo sembrava pensare ad altro. 

«Non so voi, ma io ho un sonno…»

«Sarà per colpa di tutto quello che ti sei mangiato… ora il tuo stomaco sta richiedendo una grande quantità di sangue ossigenato e…»

«Einstein, non ho bisogno delle tue spiegazioni per dormire, ci riesco anche senza.»

Nemmeno terminò la frase che subito cadde addormentato, e data la non ottimale posizione in cui dormiva, ogni respiro produceva un rumore simile a quello di un camion. Nessuno osò svegliarlo. Se lo si svegliava durante il sonnellino dopo mangiato, a meno che non si trattasse di un’emergenza, diventava intrattabile.

Restava da sperare che un qualche movimento involontario durante il sonno, lo facesse stare in una posizione più consona.

Speranza che fu vana. Per tutto il viaggio, il biondo non si schiodò da quella posizione.

Ulrich lo svegliò percuotendolo.

Il ragazzo, era ancora intontito dal sonno, aveva perso la cognizione del tempo.

«Come? Già arrivati? Ma se sino a cinque minuti fa stavamo uscendo da Marsiglia?»

«Non so se ti sei reso conto, ma sono passate più di tre ore.»

«Se lo dici tu.

Il treno si arrestò alla e le porte pneumatiche si aprirono. Finalmente erano giunti alla loro destinazione.

I cinque si misero in cammino verso l’Hermitage,con finalmente una pista da seguire. Nonostante fosse tarda notte quasi 

nessuno di loro aveva intenzione di lasciarsi abbandonare tra le braccia di Morfeo. A parte Odd.

Raggiunsero la villa dopo una mezz’ora a piedi. A quell’ora non c’era un’anima viva in giro. Il momento ideale per fare certe cose alla larga da occhi indiscreti.

A pochi metri dalla villa Aelita estrasse il mazzo di chiavi dalla sua borsa. 

«Non mi vorrai dire che volte indagare adesso? Sto morendo di sonno.»

«Ma se hai dormito per tutto il viaggio?»

Lo riprese Ulrich.

«Quello? Per me era un semplice riposino. Non penserai mica che mi basti.»

«In ogni caso non pensare di passare la notte sotto le coperte. Non ancora, almeno.» 

Non mi dire che hai dimenticato perché abbiamo fatto tutto questo viaggio.»

Non mi dire che ti sei dimenticato che dobbiamo cercare una stanza segreta in questa villa?»

«E non possiamo farlo domani, dopo scuola?»

«E domani ti inventerai un’altra scusa, come il fatto che hai dato appuntamento a qualche ragazza e che non ci vuoi rinunciare… ti conosco ormai.»

«Einstein, per tua informazione sono già uscito con tutte le ragazze della scuola. E con quelle con cui non sono uscito… non mi interessa farlo.»

«Ah, quindi pure quella ragazza coi capelli blu arrivata ieri?»

Odd fece mente locale. Si ricordava di ogni singola ragazza con cui era uscito e soprattutto dei motivi per cui era stato rifiutato.

«Adesso che ci penso… no. Lei mi manca.»

Ulrich gli diede una gomitata nelle coste.

«Beh, se magari invece di trattare le ragazze come figurine, iniziassi a prendere le cose più seriamente, forse avresti almeno una speranza.»

«Parla quello che per dichiararsi ci ha messo trecento anni. Penso di non avere bisogno di consigli. Vorrei darle un appuntamento domani, dopo la scuola.»

Jeremy cercò di non ridere. L’amico si era smentito nel giro di pochi istanti. 

«Non ci lasci alternativa. E poi è ancora presto. Dovessimo fare in fretta, riusciremo anche a dormire un pochino.»

«E va bene, Einstein, per questa volta hai vinto. Ma come pensavi di trovare quella stanza? Questa villa è enorme.»

«Dovremo dividerci.»

Intervenne Yumi. 

«Io e Aelita andremo in mansarda, se non vi dispiace.»

«Fate pure. Noi ci spartiamo i piani inferiori.»

Una volta giunti in mansarda iniziarono ad esaminare quel che era rimasto dalle operazioni di pulizia. Restavano principalmente dei libri nella libreria, la valigetta del piccolo chimico e il taccuino. 

I due avevano iniziato a sfogliare accuratamente uno per uno tutti i libri presenti. Sfogliandoli uno alla volta, pagina per pagina, ben consapevoli che sarebbe servito molto tempo.

«Pensi di trovare qualcosa qui?»

«Non so. Ma non abbiamo molte altre piste. E poi non era in mezzo a un libro che abbiamo scoperto dell’esistenza del Settore Cinque? Magari avrà nascosto la mappa in mezzo a un altro libro.

«Non credo. Mio padre non era tipo da ripetersi. Per cui sono piuttosto sicura del fatto che avrà usato qualche altro metodo, per nascondere la mappa.»

«Dove vuoi cercare?»

«Non so, magari gli altri sono stati più fortunati.»

«Trovato niente?»

Ulrich non ricevette risposta. Non sapeva se perché non lo avessero sentito o perché effettivamente avessero trovato qualcosa.

«Come non detto!»

Commentò Jeremy, cercando di sdrammatizzare. Erano ore che cercavano e non avevano ancora trovato nulla.

I dubbi del ragazzo vennero fugati in breve tempo. I due scesero a mani vuote.

«Come immaginavo. Almeno avete qualche idea?»

Mentre i cinque si interrogavano sul da farsi, poco lontano, al collegio Kadic, tutti dormivano beatamente da ore. Tutti tranne Lucinda. Non perché lei non volesse, ma perché  Xana aveva deciso così. Doveva recuperare quanti più dati possibile sui suoi nemici, e la notte era il momento ideale per farlo, lontano da sguardi indiscreti.

Nel caso in cui la ragazza fosse stata scoperta, fuori dalla sua stanza, poteva contare sulla sempreverde scusa del dover andare al bagno, mentre  nel caso in cui fosse stata scoperta mentre entrava in una stanza diversa dalla sua, avrebbe semplicemente potuto dire di essersi confusa, di aver sbagliato. Una cosa piuttosto normale per un essere umano. Ma non per un’intelligenza artificiale. 

Dopo aver constato che la sua compagna di stanza fosse perduta nel mondo dei sogni, si alzò e camminò in punta di piedi fino alla porta della stanza. Aprì delicatamente la porta e si diresse nella stanza accanto, quella in cui dormiva Aelita. In quel momento la ragazza era assente, e Xana lo sapeva benissimo. Era il momento perfetto per mettere in atto il suo piano. Ignaro del fatto che anche la ragazza stesse facendo qualcosa di simile.

Sapeva che quando la ragazza sarebbe tornata nella sua stanza e si sarebbe accorta immediatamente di eventuali oggetti spostati o mancanti, per cui avrebbe dovuto riposizionare perfettamente tutti gli oggetti che avrebbe spostato da quel momento in avanti.

Decise di iniziare dai cassetti della scrivania. Erano tre. Non ci sarebbe voluto molto.

Aprì il primo. Dentro c’erano solo dei quaderni, perfettamente intonsi. 

Neppure il secondo o il terzo cassetto furono di aiuto. Erano vuoti. Aveva ancora un po’ di tempo prima di tornare nella sua stanza. Decise di impiegarlo per ispezionare l’armadio. Non era grande. Aveva solo due ante e altrettanti cassetti. Sarebbe stata una cosa veloce.

Nei cassetti non trovò nulla di utile. Se non avesse avuto la certezza di trovarsi nella stanza di Aelita, avrebbe potuto pensare di trovarsi in quella di una ragazza qualsiasi.

Come ultima spiaggia decise di aprire le ante dell’armadio. E finalmente trovò quello che cercava. Non nella forma in cui si aspettava, ma se lo doveva far andar bene.

Si trattava di un semplicissimo libricino. Usato dalla ragazza come diario. Era rosa, monocromatico, e aveva gli angoli della copertina leggermente rovinati. Lo nascose sotto la maglietta del pigiama e risistemò gli oggetti che aveva spostato, per poi tornare nella sua stanza. Aveva impiegato più tempo del previsto, ma sembrò che nessuno si fosse accorto di nulla. Per evitare di essere accusata del furto, Xana fece sì che la ragazza nascondesse il diario nell’armadio della compagna di stanza. Aveva notato di come avesse già preparato i vestiti per il giorno seguente, e aveva giudicato come altamente improbabile il

fatto che la compagna di stanza avesse dovuto aprire l’armadio.

Alla villa Hermitage i cinque si erano riuniti nel grande salotto dell’Hermitage. Erano stanchi e delusi, non avendo trovato nulla. 

«E se il Professore avesse deciso di disegnare quella mappa con l’inchiostro simpatico?»

«Odd, non fai ridere! Perché mai dovrebbe?»

Lo riperese Ulrich. 

«Odd, sei un genio! Usare un inchiostro apparentemente invisibile è un modo semplice ed efficace per nascondere informazioni preziose.»

«Si, certo, avrà usato il succo di limone!»

«Amico, non esiste solo quello, ne esistono altri, ma  solo sentendoli nominare, mi vengono i brividi.»

Controbattè Odd.

«Adesso che ci penso, lo scorso anno, la professoressa Hertz fece una lezione su questo argomento.»

Intervenne Yumi.

«Uno degli inchiostri simpatici più comuni si basa sul ferrocianuro di potassio. Quest’ultimo, da solo risulta essere perfettamente invisibile, ma quando reagisce con del nitrato di ferro, diventa finalmente visibile. Sono dei materiali che un professore di scienze può procurarsi con relativa facilità. E ora che ci penso, ieri Odd aveva trovato un taccuino con delle pagine bianche e un kit del piccolo chimico. Potresti andare a prenderli?»

Dopo un’iniziale riluttanza, il ragazzo si alzò dal divano e si diresse nella mansarda della villa. 

Tornò dopo alcuni minuti con la valigetta e il taccuino. Dalla sua espressione era evidente il suo pentimento per aver fatto quella battuta. Probabilmente se non l’avesse fatta, a quel punto sarebbe già stato sotto le coperte, ma ora non si poteva più tirare indietro.

Posò la valigetta sul tavolino e la aprì. Sembrava non fosse mai stata usata. Come se fosse stata comprata e mai utilizzata.

Yumi cercò, tra le diverse sostanze chimiche, proprio il nitrato di ferro, che scovò dopo una ricerca di una trentina di secondi.

Estrasse la provetta dalla valigetta, che richiuse e posizionò sul pavimento. Al suo interno la sostanza in questione era formata da dei cristalli color miele. 

La ragazza aprì la provetta e la ribaltò contro la prima pagina del taccuino. Apparentemente il kit appariva in buone condizioni, ma doveva aver preso dell’umidità. Il nitrato cadde come un blocco compatto sulla prima pagina. Per fortuna il blocco non si era sbriciolato, altrimenti sarebbe stato un disastro.

Aelita estrasse un fazzoletto di carta dalla sua borsa e fece segno all’amica di posare li sopra il blocco color miele.

Contemporaneamente, sulla prima pagina del taccuino, la reazione chimica stava avendo inizio. Si vedeva come quelle parole fossero state scritte di fretta. Solo guardandole era ben comprensibile lo stato d’animo dell’uomo in quel momento.

Yumi passò istintivamente il taccuino ad Aelita. 

Dagli occhi della ragazza iniziarono a scendere delle lacrime.

Quasi non se la sentiva di leggere ad alta voce. Quasi sembrava che solo la voce di suo padre potesse farlo. Incrociando gli sguardi del gruppo, poteva scorgere due sentimenti ben diversi. Comprensione e incoraggiamento.

La ragazza si fece forza e iniziò a leggere.

«Mia piccola Aelita. Spero con tutto me stesso che sia tu a leggere queste righe. Sono sicuro che tu sia stata in grado di risolvere il piccolo enigma. 

Purtroppo non mi posso dilungare molto, devo subito andare al sodo.

La ragazza voltò la pagina del taccuino e fece reagire dell’altro nitrato sulla pagina.

«Raggiungi la cantina dell’Hermitage, e entra nella cella frigorifera.

Nelle pagine successive, dell’ulteriore nitrato, fece comparire una mappa molto semplificata della villa. 

«Bene, so cosa dobbiamo fare. Andiamo in cantina, poi vi spiego.»

I cinque si precipitarono alla cantina della villa e raggiunsero la cella frigorifera. 

Non era una stanza enorme, dopotutto il suo scopo era semplicemente quello di contenere del cibo, non di certo quella di essere abitata. Era priva di qualsiasi finestra. L’ingresso d’aria fredda era garantita da diverse bocchette che garantivano il raffreddamento di tutta la stanza.

Sulle pareti erano presenti degli scaffali, pieni di prodotti scaduti e sul soffitto diversi ganci. 

«Ci siamo. Avendo la porta dietro le spalle, sulla parete sinistra tira il terzo gancio a partire dal fondo.»

Ulrich fece un balzo e si appese al gancio. Un rumore metallico confermò che il meccanismo era scattato.

«Ora bisogna sollevare il quarto scaffale in fondo a destra.

Lo scaffale sembrava pesasse parecchio. 

«So io chi ci può aiutare. Gardevoir, vieni fuori, usa psichico per sollevare quello scaffale.

La Gardevoir shiny della ragazza uscì dalla Pokéball e, grazie ai suoi poteri, sollevò il pesante scaffale.

«Grazie.»

Utilizzando i suoi poteri psichici, la GA fece capire alla sua allenatrice di essere estremamente felice di esserle stata d'aiuto.

«Ci siamo quasi. Ora dobbiamo chiudere, riaprire e chiudere di nuovo la porta.» 

Operazione che venne completata da Yumi.

«Come ultima cosa tira di nuovo il gancio.»

Ulrich si riappese nuovamente al gancio. Che questa volta, non solo fece un suono metallico, ma si abbassò anche di qualche centimetro.

Queste operazioni rivelarono una piccola porticina in metallo, fino a quel momento invisibile. Era talmente bassa che per attraversarla era necessario acquattarsi. 

Appena entrati nella stanza, un sensore di movimento fece accendere una grossa lampadina a incandescenza, che si trovava al centro della stanza. La stanza era illuminata di un piacevole colore caldo. 

«Ma chi è che paga le bollette qui? Anche nel resto della villa c’è corrente, ora che ci penso.»

Odd si prese una tirata d’orecchie da Ulrich. 

«Ti sembra questo il momento di farti domande del genere?»

Non ricevette alcuna risposta. Ora il punto della questione era un altro. Avevano scovato una nuova parte dell’abitazione e avrebbero dovuto esplorarla. 

L’arredamento della stanza era semplice, un divano di pelle, un mobiletto di legno su cui troneggiava un pesantissimo televisore a tubo catodico e un vecchio videoregistratore.

«Sei sicuro che questa cosa non vada a carbone?» 

«Sarà anche vecchio, ma non così tanto, probabilmente quando lo hanno portato qui era appena uscito dal mercato.» 

Lo riprese Ulrich.

«Solo che non capisco perché fare tutto questo lavoro per nascondere questi oggetti. Sembrano delle cose normalissime.»

Aggiunse poco dopo.

«Se sono qui, ci sarà un motivo. Non credi?»

Il gruppo, con l’eccezione di Jeremy, si sedette sul divano. Il biondo armeggiò con il televisore e il  videoregistratore. Si assicurò che le prese SCART fossero ben agganciate e che il registratore non puzzasse di bruciato.

Dopo aver completato i controlli, il ragazzo accese il televisore e il videoregistratore. Alcuni istanti dopo il televisore si accese, mostrando la classica schermata di assenza di segnale.

Il ragazzo armeggiò con alcuni pulsanti del televisore, fino a quando sullo schermo non apparve la schermata del videoregistratore.

Sfondo blù con la marca del registratore. Un’azienda tedesca che aveva chiuso i battenti diversi anni prima. 

Il ragazzo aprì lo sportellino del videoregistratore e notò come, al suo interno, fosse presente una videocassetta.

Il ragazzo alzò il volume e premette il tasto play. 

Pochi istanti dopo il video partì. 

Una musica dolcissima si diffuse dagli altoparlanti del televisore. Sullo schermo apparve una carrellata di fotografie della famiglia di Aelita. Lei da piccola, massimo due o tre anni, insieme ai suoi, mentre pedalava su di un piccolo triciclo, poi sempre lei, abbracciata a una bellissima donna dai lunghi capelli rosa.

«Mamma.»

Disse la ragazza, con un filo di voce.

Le foto continuarono a scorrere. Ora erano Franz e la moglie, vestiti in camice, probabilmente quella foto era stata scattata a lavoro. La donna, probabilmente aveva guidato la mano del marito sulla pancia, per fargli capire che lei era incinta.

Ora le foto erano più recenti. Scattate alla villa Hermitage. Quando ormai sua madre Anthea era scomparsa. 

Alla musica si sovrappose la voce del professore. 

«Figlia mia. Spero che sia tu ad ascoltare le mie parole. Ho nascosto tutto con cura, ma sono sicuro che tu sia in grado di trovare tutto.»

Le foto avevano smesso di scorrere. Al loro posto un video che ritraeva il professore. Per certi versi rispecchiava la descrizione fornita dal signor Garrigue. Non sembrava nemmeno l’ombra di se stesso. Molto dimagrito e dall’aspetto stanco. Aveva la barba lunga e ingrigita. Dietro gli spessi occhiali, era possibile notare come i suoi occhi fossero gonfi dalla stanchezza.

Indossava una camicia azzurra. Era seduto su quello stesso divano dove ora il gruppo stava guardando quel video. 

«Se stai guardando questo filmato, vuol dire che le cose per me sono andate male. Se fossi sopravvissuto a tutto questo, sarei entrato qui e avrei distrutto tutto.

Se non l’ho fatto vuol dire che non sono più qui. Prendi quelle foto all’inizio come un piccolo regalo. Voglio che tu non ti senta mai sola.»

Aelita era come ipnotizzata dalle parole di suo padre. 

Il discorso dell’uomo, intanto, continuava.

«Comincio dicendo che ti devo molte spiegazioni. Il mio nome non è veramente Franz Hopper, ma Waldo Franz Sheaffer. Io e tua madre Anthea lavoravamo a un progetto di massima segretezza, chiamato Cartagine. Quando il progetto era quasi giunto al termine ci accorgemmo di come il nostro lavoro non sarebbe servito a migliorare le condizioni di vita di umani e Pokémon, ma bensì di utilizzare per controllare il mondo e di concentrare il potere nelle mani di pochi.

Pensavamo di liberarci facilmente di loro, ma ci sbagliammo. Tua madre è stata rapita e noi due siamo stati costretti a cambiare spesso identità.

E sono sicuro, anzi, sono certo del fatto che Anthea sia ancora viva, anche se non ho idea di dove si trovi né come stia. Ho fatto quanto possibile per trovarla, ma dovevo anche pensare a proteggerti. 

Ho assunto la falsa identità di Franz Hopper, un semplice professore del collegio Kadic. E, al contempo mi occupavo di creare il progetto Lyoko, sfruttando tutto quello che io e tua madre abbiamo creato per il progetto Cartagine.

La mia idea era quella di creare Lyoko per proteggerci. Sia per poter fuggire in caso di emergenza sia per proteggerci dagli effetti negativi di Cartagine.

Nonostante tutto, siamo stati scoperti anche qui. Hanno perfino tentato di prenderti in ostaggio per chiedermi di fare quello che volevano.

Nel farlo ti hanno ferita gravemente alla testa. Con un proiettile.»

La ragazza si passò la mano tra i capelli, notando una spessa cicatrice. Prima di allora non ci aveva mai fatto caso. Non aveva avuto motivo di farlo.

Mentre la ragazza si toccava la cicatrice, come se se lo aspettasse, l’uomo restò in silenzio. 

«Per curarti esisteva solo un modo. E, immagino che tu abbia capito. Ho registrato questo video subito dopo averti portato su Lyoko. Tra pochi istanti ti raggiungerò.»

Dopo questa frase, il video si bloccò per un attimo. Come se la cassetta si fosse parzialmente danneggiata. Quando riprese, sembrava che il professore stesse terminando una frase mai cominciata.

«Devi distruggere il Supercomputer e qualsiasi cosa riguardi la vecchia fabbrica. Se non ci riesci da sola fatti aiutare dai tuoi Pokémon. Nessuno lo deve trovare e soprattutto utilizzare. Voglio che tu sappia una cosa.»

L’uomo stava piangendo. Cercava di asciugarsi le lacrime con un fazzoletto.

«Le invenzioni non sono il problema. Il vero problema è come vengono utilizzate. Sappi che gli uomini sono pericolosi, gli uomini sono cattivi. Pensano solo a loro stessi e mai alle conseguenze di quello che fanno.

L’uomo fece una pausa che sembrava durasse all’infinito. 

«Ho una seconda cosa da chiederti. Apri le ante del mobiletto dove si trova il televisore. Al suo interno si trova un piccolo cofanetto di legno. Aprilo. Al suo interno si trova una catenina con un ciondolo. Quando ancora stavamo insieme lei me lo regalò. E io feci altrettanto. Ti prego, custodiscilo come se fosse la cosa più preziosa del mondo.»

«Lo farò, te lo prometto.»

La ragazza lo disse sottovoce. In modo quasi impercettibile.

«Ora io non sono più qui. Per cui ti affido un compito tanto importante quanto rischioso, un compito che io stesso non sono riuscito a portare a termine. Trovare Anthea. In questa ricerca non sarai sola. Sono sicuro che una persona potrà aiutarti. Non voglio perder tempo è»

La videocassetta ebbe nuovamente un piccolo problema. Altri preziosi secondi persi.

«Rena. Puoi rivolgerti a loro.»

Il video sembrava fosse finito. Lo schermo divenne nero.

Aelita si alzò dal divano e si diresse verso il mobiletto del televisore. Si inginocchiò davanti allo stesso. Aprì entrambe le ante e prese il piccolo contenitore in legno. Seguendo le istruzioni di suo padre, aprì il piccolo contenitore e trovò la piccola catena d’oro con il pendente.

Un pendente poco più grande di una moneta, in oro lucido. Talmente lucido da potercisi specchiare. 

Sul ciondolo erano incise le iniziali della coppia. W e A. Sotto queste ultime era disegnato un nodo da marinaio, a simboleggiare il loro legame.

Jeremy estrasse il suo telefono dalla tasca e guardò l’ora.

«Diavolo, dobbiamo correre, o arriveremo in ritardo a scuola.»

«Come sarebbe a dire?»

Jeremy mostrò a tutti il suo telefono. Era vero, mancavano appena quaranta minuti e sarebbero iniziate le lezioni. Non avevano di sicuro il tempo per riposarsi. Dovevano essere anche veloci a darsi una sistemata, dal loro aspetto era evidente che non avessero dormito.

Ad ogni modo giunsero ai cancelli del collegio e si separarono momentaneamente, per dirigersi nelle rispettive classi.

Si erano dati appuntamento per l’ora di pranzo, dove avrebbero deciso sul da farsi.

Le lezioni erano finite e i cinque si incontrarono in mensa. 

I cinque si sedettero al loro solito tavolo, pronti a consumare il loro pasto.

«Come sono andate le lezioni?»

Chiese Yumi al gruppo. Non voleva subito venire al punto. Non voleva subito parlare dell’argomento scottante. Non con tutto il viavai di studenti che ancora si stava accomodando.

«Sai che noia! Durante la lezione di letteratura mi hanno dovuto svegliare almeno quattro volte. Non so come, ma non mi hanno mai sgridato. Con la Hertz Jeremy ed Aelita ci hanno salvato la faccia.»

Rispose Odd

«Io avevo storia. Anche per me è stata una faticaccia stare sveglia. Per non parlare poi di chimica… Non ci ho capito niente. Sembra di essere tornati ai vecchi tempi, quando facevamo i salti mortali per riuscire a galleggiare.»

«Non gli rimpiango affatto.»

Le fece eco Jeremy.

«Ma a quanto pare non abbiamo molta scelta. Ora abbiamo almeno qualcosa da cui partire. Più tardi vedrò se è possibile recuperare le parti mancanti da quella videocassetta.»

Aggiunse Jeremy.

«Pensi che sia necessario riaccendere il supercomputer? Sai, dopo quella dimostrazione a Ash e Serena, ho perso totalmente la voglia di ritornarci.»

«Non servirà. Lo terremo spento. E appena la troveremo…»

Lo sguardo di Jeremy si posò sulla sua ragazza.

«Lo distruggerai.»

Aelita non disse nulla. Dopotutto quella era l’ultima volontà di suo padre. E avrebbe fatto di tutto per realizzarla. 

Diverse ore dopo, la maggior parte degli studenti e delle studentesse si trovava nelle loro stanze. Era poco prima dell’ora di cena. Alcuni stavano studiando, altri, come Serena, stavano preparando la roba per il giorno dopo.

La ragazza aveva aperto il suo armadio per prendere un paio di Jeans, quando si accorse di una piccola anomalia.

Una sorta di libro rosa, con gli angoli rovinati.

Non lo aveva mai notato prima. 

Probabilmente apparteneva alla ragazza che dormiva qui prima di me”

Pensò. 

Aprì la copertina, nella speranza di trovare almeno un indizio su chi potesse essere la proprietaria. La sua ricerca ebbe il successo sperato. La proprietaria del diario era una ragazza chiamata Aelita. 

Un nome che le era familiare. La ragazza con cui aveva lottato qualche tempo prima si chiamava così. Poteva essere lei? E nel caso, cosa ci faceva il suo diario in quella stanza? Che fosse stato messo lì da quella Sissi per farle litigare? 

Il suo flusso di pensieri venne interrotto da una mano gelida che si posò sulla sua spalla. Ricordava quella sensazione di gelo. Quando la mattina del sabato aveva stretto la mano a Lucinda. Possibile che fosse ancora lei?

Non dovette nemmeno girarsi del tutto, per accorgersi che si. Era ancora lei. 

E pareva molto arrabbiata. Apparentemente senza motivo. Le strappò violentemente il diario dalle mani, lasciandola di stucco.

«Non avresti dovuto toccarlo.»

«E perché? Non è di sicuro tuo. Non mi pare che tu ti chiami Aelita.»

«E a te che ti importa? Se ti dico di non toccarlo, non lo tocchi. Fine.»

Senza che potesse in alcun modo reagire, la ragazza dai capelli color miele si ritrovò a terra, con la schiena premuta contro il suo letto. 

Nonostante il dolore si alzò. Non per controbattere, sarebbe passata dalla ragione al torto, ma quantomeno per avvisare chi di dovere. Ma fu inutile. Non appena si rimise in piedi, venne di nuovo scaraventata. Questa volta contro l’armadio. Con un colpo molto più duro del precedente.

Questo era troppo. Ormai non le importava più di essere nella ragione o nel torto. Era diventata una questione di orgoglio.

Si rialzò in piedi e cercò di spintonarla. Senza riuscirci.

Una frazione di secondo prima di colpirla, la ragazza dai capelli blu, si era spostata. Contemporaneamente Serena sentì un forte dolore alla spalla destra.

«Inutile che continui. Rischi solo di farti male. Devi solo rinunciare a restituire quel diario.»

Serena comprese ben presto in non avere scelta. Il dolore alla spalla stava diventando insopportabile.

«Come vuoi.»

In men che non si dica corse fuori dalla sua stanza, poggiata contro il muro, tenendo la mano sinistra sulla spalla destra.

Non ci volle molto prima che due ragazzine, di un paio di anni più piccole di lei si avvicinassero.

Una ragazza aveva i capelli rossi, tagliati corti. Occhi azzurri, pelle pallida e numerose lentiggini. Indossava una maglietta azzurra, dei pantaloni rosa e delle scarpe da ginnastica.

Accanto a lei, una ragazza più o meno della sua età. Leggermente più alta di lei. Una ragazza dalla carnagione scura, aveva i capelli castano scuro, legati in delle trecce strettissime. Indossava una maglietta rosa e dei pantaloni sportivi verdi.

«Stai bene?»

Chiese la rossa.

«Abbiamo sentito del rumore e volevamo vedere cos’era successo.»

Aggiunse l’altra ragazza.

«Nulla di che. Una scaramuccia tra compagne di stanza.»

«A me non sembra proprio. Non ti sei vista? Stai sanguinando! Dai su, ti accompagnamo in infermeria.»

La ragazza si tolse la mano dalla spalla e si accorse che sì, effettivamente stava sanguinando. Andare a farsi curare quella ferita non era una brutta idea.

«Oh, grazie, gentilissime!»

Le tre ragazze giunsero all’infermeria, poco prima che Jolanda, l’infermiera della scuola, smontasse e venisse sostituita dalla guardia medica.

Milly bussò alla porta.

Pochi istanti dopo, una donna bionda di circa cinquant’anni uscì dalla stanza. Indossava un camice bianco, immacolato.  Sulla tasca superiore alcune penne.

«Cos’è successo, ragazze?»

«Io e la mia compagna di stanza abbiamo litigato e a un certo punto siamo arrivate alle mani. Ho voluto evitare lo scontro, ma dopo che mi ha spinto prima contro il letto e poi contro l’armadio non c’ho più visto e mi sono voluta difendere. Solo che appena mi sono avvicinata a lei, ho sentito un dolore alla spalla. 

Devo ringraziare Milly e Tamya per avermi portato qui.»

«Capisco. Io non mi occupo delle questioni disciplinari, per quelle metterò al corrente chi di dovere. Ora però è meglio che mi occupi di questa ferita.»

La donna sollevò la manica della maglietta della ragazza e constatò come la ferita non fosse molto profonda.

Imbevette una garza sterile con del disinfettante.

«Fai attenzione, potrebbe fare un pochino male. Ma non ti preoccupare, è normale.»

La donna disinfettò la ferita della ragazza e la coprì con un grosso cerotto.

«Fatto! Vedrai che guarirà presto.»

Disse la donna, in tono gentile.

I suoi occhi si posarono poi sull’orologio, appeso a una parete.

«Ora è meglio che andiate in mensa. È ora di cena.» 

Dopo cena Serena si affrettò a raggiungere la sua stanza da letto. Non voleva passare un minuto in più con quella ragazza.

Prese il diario di Aelita, i vestiti per il giorno dopo e un sacco a pelo che si era portata dietro per situazioni del genere. 

Con la scusa di chiederle se poteva passare la notte da Aelita, avrebbe potuto restituirle il diario. 

Avrebbe aspettato l’arrivo della ragazza per chiederglielo. Da come le era apparsa sembrava una persona gentilissima, non avrebbe sicuramente detto di no. Nonostante questo, di sicuro non poteva entrare senza permesso.

Ad ogni modo non ci volle molto prima che la ragazza dai capelli rosa entrasse nella sua stanza. 

Aelita si stava cambiando, quando sentì bussare alla porta.

«Un attimo! »

La ragazza finì di indossare il pigiama.

«Bene, ora puoi entrare, scusa, ma mi stavo cambiando.»

Serena entrò nella stanza.

«Non fa niente, figurati. Scusa se te lo chiedo ma potrei passare la notte da te? Ho avuto una brutta discussione con la mia compagna di stanza.»

«Certo, resta pure, ci mancherebbe altro.»

«Sei davvero gentile. Non come quella lì!»

La ragazza dispose il suo sacco a pelo per terra e si sedette sul letto, accanto alla legittima proprietaria della stanza. Non era ancora ora di coricarsi, per cui ne avrebbero approfittato per conoscersi meglio.

Mentre le due ragazze chiacchieravano, un uomo, chiamato Grigory Nicolapolus, stava percorrendo ad alta velocità una delle numerose autostrade della Francia.

Guidava un potente Dodge Ram SRT 10. Un gigantesco pick-up americano, spinto da un altrettanto gigantesco V10 da oltre ottomila centimetri cubi di cilindrata.

L’uomo sbuffò. Detestava dover viaggiare continuamente da una città all’altra, ma il suo lavoro lo costringeva a farlo praticamente una volta a settimana. Inoltre il  suo lavoro lo costringeva ad essere sempre solo. Poteva passare anche mesi interi con la sola compagnia dei suoi due Houndoom. 

«Non ci vorrà molto, belli.»

Il suo tono era nervoso. Stava lavorando a qualcosa di grosso, e nonostante fosse stato addestrato a situazioni del genere, non riusciva a nascondere del tutto ciò che provava.

 Non si preoccupava nemmeno di rispettare i limiti di velocità. Chi mai lo avrebbe potuto controllare a quell’ora? 

Era sbarcato da Marsiglia e si stava dirigendo a Parigi. Nonostante fossero passate delle ore, aveva ancora fresca in mente l’umiliazione subita da un taxi di quella città, una Peugeot 406. Si era ripromesso che chiusa la questione a cui stava lavorando, gli avrebbe concesso la rivincita. 

Il lungo tappeto di asfalto scorreva sotto le gigantesche ruote del mezzo, in modo confuso. 

Girò a uno svincolo autostradale e si diresse a uno sportello automatico. Aprì il portaoggetti e estrasse del denaro contante. Non poteva permettersi che i suoi pagamenti venissero tracciati. 

La sbarra automatica si aprì. Pochi chilometri e sarebbe finalmente arrivato alle porte della città.

Città che lo accolse un poco alla volta. Prima alcuni capannoni di alcune aziende locali, poi delle case isolate, quindi i primi complessi residenziali e infine, finalmente, dei quartieri.

Era sbarcato a Marsiglia nel pomeriggio. Dopo una lunga traversata in nave. 

Li aveva incontrato un suo contatto, un uomo, apparentemente normalissimo, che nulla sembrava potesse spartire con lui. L'uomo gli consegnò due Pokéball e un mazzo di chiavi. 

«Ecco a lei!»

Grigory non gli rispose. Aveva quasi strappato tutto dalle mani dell’uomo e si era precipitato al suo pick«up. Aveva fatto uscire i due Pokémon dalle rispettive Pokéball, facendo sì che si potessero accomodare sul sedile posteriore.

Da allora non aveva fatto altro che guidare, guidare e guidare.

Si era fermato solo per fare benzina e per far sgranchire e mangiare i suoi Pokémon. Lui no. Sarebbe stata solo una perdita di tempo, e lui non ne voleva sprecare. Aveva anche rischiato di fare un incidente per la stanchezza. 

Ma non poteva occuparsi dei suoi bisogni. Doveva prima di tutto lavorare.

Dopo un’altra mezz'ora di guida raggiunse il suo primo obiettivo, una villa di tre piani di inizio secolo. Alta e stretta. Era circondata da una staccionata di legno, rovinata dal tempo.

Una targhetta con la scritta “Hermitage”, attaccata al cancello, confermò che aveva raggiunto la sua prima destinazione. Tuttavia decise di non fermarsi. Non era quello il momento, avrebbe dovuto visitare altri luoghi.

Continuò a guidare fino a costeggiare la Senna. Si voltò verso un isolotto, coperto integralmente da una fabbrica abbandonata, ma stranamente illuminata.

L’uomo tornò indietro, verso il collegio Kadic. Ancora prima di raggiungerlo fu in grado di di identificare le sagome degli edifici più alti.

L’uomo fermò il suo mezzo e uscì, insieme ai suoi due Houndoom.

Aelita si svegliò di soprassalto, allertata da degli ululati.

«Gli avrò davvero sentiti o me li sono immaginati?»

Si era dimenticata di non essere da sola e forse lo aveva detto a voce troppo alta.

«Che succede?»

Serena era stata svegliata dalla domanda della sua compagna di stanza.

«Oh, scusami se ti ho svegliata. È che sono stata svegliata da quegli ululati. Gli hai sentiti anche te?»

«Si, sembrano degli Houndoom, ho notato che non sono affatto comuni da queste parti. E poi non hanno una bella reputazione. Posso capire che tu ti sia spaventata.»

«Sai, il vero motivo è un altro. Sino allo scorso anno avevo molto spesso un incubo.»

«Un incubo?»

«Esattamente. Mi trovavo da sola, nel bel mezzo di un bosco. Senza nessuno dei miei Pokémon. sola e disperata, mentre cerco di fuggire e raggiungere casa.

A un certo punto un branco di Houndoom compare dal nulla e mi insegue. Sento proprio i loro ululati e il loro fiato bollente addosso. Mi capitava di inciampare e rischiare di farmi raggiungere da loro, fino a farmi quasi mordere.

Fino a quando non raggiungo casa, con ancora quelle bestie alle costole. 

Apro la porta e vedo mio padre suonare il pianoforte, che si gira verso di me. 

A un certo punto arrivano degli uomini vestiti di nero, che circondano la casa, e io e mio padre scappavamo per chissà dove, con quegli uomini che, a loro volta si trasformano in Houndoom e iniziano a sputare fiamme.

«Deve essere terribile sognarlo tutte le notti. Ma almeno te… puoi contare su tuo padre…»

«Mio padre è morto qualche mese fa… incidente stradale.»

Di sicuro non poteva raccontare di come suo padre si fosse sacrificato per uccidere una perfida intelligenza artificiale che tentava di conquistare il mondo. E la scusa di un incidente era abbastanza credibile.

Serena voleva maledirsi. 

«Oh, scusa. Mi dispiace.»

«Non ti preoccupare. Non potevi saperlo.»

«Annibale, Scipione, andiamo!»

L’uomo si riferiva ai suoi due Houndoom.

«Per ora basta così con il sopralluogo.» 

Fece salire i due Pokémon a bordo del suo mezzo e ripartì alla volta, alla volta di un edificio apparentemente abbandonato, nella periferia della città.

L'edificio era protetto da del filo spinato in gran parte arrugginito.

«Per fortuna ho fatto l’antitetanica.»

Commentò, in tono ironico. 

L’uomo scese dal suo mezzo e aprì il cancello del palazzetto con le chiavi datele dal suo contatto. Fece entrare il suo pick-up e richiuse il cancello a sua volta. Dopodiché si dedicò a scaricare la sua attrezzatura.

Mentre al collegio Kadic iniziava una normalissima giornata, Grigory aveva appena finito di sistemare tutte le sue attrezzature. Nel sangue aveva più caffeina che globuli rossi, ma almeno aveva concluso il suo lavoro.

Per evitare che i suoi Houndoom potessero disturbarlo, aveva deciso di distrarre con del cibo. Un’intera carcassa di un Tauros, ancora insanguinata.

Sulle pareti della stanza erano appesi diversi monitor a schermo piatto. Due erano da oltre quaranta pollici, ed erano circondati da un’altra decina di monitor più piccoli. Erano tutti della stessa marca. Una nota azienda sudcoreana.

Aveva anche installato delle antenne paraboliche all’esterno, dal lato opposto alla strada. Non poteva permettersi che venisse scoperto.

Dentro l’edificio numerose altre apparecchiature radiofoniche, da apparecchiature da radioamatore a dispositivi per intercettare le comunicazioni radio della polizia.

Aveva anche portato tre computer. Uno per gestire tutte le apparecchiature, gli altri due per comunicare con l’esterno. Ovviamente utilizzando una VPN. Di sicuro non poteva permettersi di essere scoperto.

Nel cascione aveva lasciato solamente tre casse. Due delle quali erano piene di microspie, microfoni direzionali e via discorrendo.

Sulla terza era disegnata la sagoma dorata di un Ho«oh. Al suo interno si trovava la cosa più preziosa che trasportava. L’avrebbe usata solo a tempo debito.

Scosse il mouse di uno dei suoi computer. Proprio nel momento in cui proprio i suoi obiettivi stavano parlando.

«E così le ho raccontato di come quegli ululati mi avessero ricordato del mio incubo ricorrente. Lei è stata molto comprensiva, probabilmente altre persone se la sarebbero presa.» 

L’uomo aveva immediatamente riconosciuto la voce della ragazza. Si trattava di Aelita Stones, o Hopper, o Schaeffer. E probabilmente stava parlando dei suoi due Houndoom.

Dovrò fare più attenzione” 

Pensò tra sé e sé.

«Ma non avevi una stanza singola?»

L’uomo si accorse di come quella fosse una voce diversa, di un ragazzo. Il sistema di riconoscimento vocale diede risposta dopo poco tempo. Si trattava di Jeremy Belpois.

«Si, ma Ser…»

L’uomo dovette smettere di ascoltare la loro conversazione. Non sembrava importante, per sua fortuna. Ma in ogni caso nulla era più importante di una chiamata del suo capo.

Sullo schermo del computer apparve il busto di un uomo. Per quello che poteva vedere l’uomo indossava una giacca grigia e una camicia bianca.

Sul bavero portava una spilla d’oro a forma di Ho-oh. Stesso simbolo riportato sulla cassa in cui conteneva il prezioso dispositivo.

L’uomo stava giocherellando con il mouse del suo computer, facendo tintinnare i suoi numerosissimi anelli d’oro. Dall’inquadratura era appena visibile la parte inferiore del volto. L’uomo aprì bocca, mostrando i suoi canini d’oro.

«Grigory, buongiorno.»

«A lei capo.»

Entrambi utilizzavano un dispositivo per camuffare la voce. In nessun modo era possibile riconoscere la loro vera voce. Per quanto sofisticate fossero le attrezzature impiegate.

«A che punto sei?»

Il capo venne immediatamente al sodo. Gli importava solo di quello.

«La base è operativa al cento per cento. Entro domani la mappatura di tutti i luoghi chiave sarà completata. Sarà udibile anche il minimo sussurro e sarà visibile il minimo movimento.»

«Eccellente. Ma sai bene che quello non è il tuo solo obiettivo.»

«Agli ordini.»

L’uomo aprì una nuova finestra sul suo computer, restando ancora in contatto con il suo capo. 

«Da chi vuole che cominci?»

«Non mi importa. Onestamente, ma da un mio informatore ho scoperto che, pochi giorni fa, al Kadic è arrivata la figlia del 

traditore. Detto questo voglio solo che tutto vada avanti. E necessito di qualsiasi materiale firmato dal Professore. 

Ci siamo capiti?»

«Agli ordini!»

«E, soprattutto ESIGO che tu mi confermi l’esistenza del Supercomputer. Dopo che il nostro agente più fidato c’ha traditi abbiamo subito un durissimo colpo. Dobbiamo farlo cantare, anche a costo di prenderci sua figlia. 

Mi voglio riprendere la rivincita.»

«Agli ordini!»

L’uomo battè sulla tastiera, ricercando negli archivi del collegio. Sapeva che quella ragazza era arrivata da poco, quindi era sicuramente tra le iscrizioni più recenti.

Aveva grossomodo quindici anni, per cui avrebbe potuto  ulteriormente restringere il campo di ricerca. 

Aprì l’archivio della seconda superiore e ordinò i dati degli studenti e delle studentesse in base all’iscrizione più recente. Le iscrizioni più recenti erano quelle di due ragazze. Una giapponese e una francese. 

L’uomo trasmise i dati al suo capo.

«Non ho dubbi. La francesina.» 

«Allora comincio da lei.»

«Lei è abbastanza inutile ora. Prima dobbiamo scovare suo padre, ma non abbiamo idea di dove si trovi. Sua madre è a Berlino. Manderò un nostro agente a prendere quello che ci spetta. Tu occupati di questa città.»

«Agli ordini.»

Intanto, al Kadic, stavano iniziando le lezioni, e per la seconda volta nel giro di pochi giorni, il signor Jean-Pierre Delmas era entrato nella seconda superiore, per presentare una nuova alunna.

Una ragazza giapponese dai capelli blu e dagli occhi grossomodo dello stesso colore.

Indossava una maglietta rosa parzialmente coperta da un giacchino nero, con una stella disegnata sul lato destro, una gonna nera e degli stivaletti.

La ragazza attirò gli sguardi di gran parte dei ragazzi, Odd su tutti.

«Se vuoi lei è single.»

Ash lo punzecchiò sottovoce. Nonostante non lo conoscesse ancora benissimo, si era fatto un’idea di che tipo di persona fosse quel ragazzo. Si comportava tale e quale a un suo carissimo amico.

«Buongiorno a tutti, ragazzi.»

«Buongiorno signor preside.»

Tutti gli alunni si alzarono in piedi, per poi accomodarsi al proprio posto. 

Il preside fece il suo solito lunghissimo discorso di presentazione che faceva ogni volta che in una classe arrivava un nuovo alunno o una nuova alunna, discorso in cui ne elencava vita, morte e miracoli, in cui ricordava di tenere sempre alta la nomea dell’istituto e di come ogni nuovo arrivo fosse un’opportunità di migliorarsi.

Rispetto alle altre volte si lasciò scappare una battuta sul fatto che qualcuno aveva già avuto la possibilità di fare la sua conoscenza. 

Qualche ora dopo i cinque si ritrovarono nella stanza di Ulrich e Odd. 

Quest’ultimo giocherellava con il suo piccolo Lillipup. 

«A cos’è dovuta questa riunione? Non mi sembra che ci siano novità.»

«Non proprio, o meglio, vi ho chiesto di incontrarci per mettere assieme tutti i pezzi che abbiamo fino ad ora. Se davvero vogliamo aiutare Aelita, ovviamente.»

«Einstein, che intendi?»

Jeremy prese un quaderno e una penna.

«Sappiamo che Anthea, la madre di Aelita, è stata rapita da degli individui sconosciuti.»

«Si, ma sono passati tantissimi anni. Non è detto che sia ancora tra noi.»

«Yumi. Me lo sento. È ancora qui, tra noi. Credimi.»

«Sei sicura? Quando è scomparsa eri molto piccola. Come…»

«Me lo sento e basta. Magari è solo una mia semplice convinzione, ma dopo quell’incontro, non riesco a non pensarci. E poi, se non mi volete aiutare, farò da sola.»

«Sia mai. Solo che non vogliamo darti delle false speranze.»

«In ogni caso…»

Jeremy interruppe la discussione sul nascere.

«Sento che non abbiamo ancora scoperto tutto sul Professor Hopper. Come un iceberg. Secondo me non siamo ancora oltre la punta. Per esempio sappiamo che ha lavorato a quel progetto segreto, Cartagine, ma cosa intendeva dire quando diceva di aver creato Lyoko per limitarne gli effetti negativi? E in più perché ha creato Xana? 

E come mai si è rivoltato al suo creatore e ha cercato di ucciderci e di conquistare il mondo?»

«Si, ma ne hai per molto o puoi andare dritto al punto? Non è carino far aspettare una ragazza.»

«Odd, sei sempre il solito! Ma se proprio insisti…

Sappiamo che il professor Hopper e Aelita si trasferirono qui nel 1988. Il Professore ha lavorato qui da allora fino a quel fatidico sei giugno. Era un insegnante di scienze.»

«Si, ma quindi, non avevi detto che saresti arrivato al punto?»

Odd era sul punto di perdere la pazienza.

«E quindi vorrei parlare con la persona che l’ha sostituito, che lavora ancora qui al Kadic. La professoressa Hertz.»

«La Hertz?»

I quattro gli risposero in coro. 

Ulrich prese la parola.

«Sei sicuro? A me sembra una persona troppo seria per aver avuto a che fare con tutte quelle cose. Sicuro di non aver preso un abbaglio?»

«Non abbiamo molta scelta. Anche perché ho scoperto che prima di lavorare come professoressa era la sua assistente di laboratorio. E sappiamo tutti che il caso non esiste.»

«Finito?»

«Finito!»

Odd uscì dalla stanza alla velocità della luce. Aveva dato appuntamento a Lucinda di fronte ai distributori automatici. E doveva essere lì entro due minuti. Cercò di calmarsi. Durante le lezioni si era studiato diversi argomenti di conversazione, per evitare brutte figure. Aveva riflettuto molto sulle parole dell’amico. E si era reso conto di come effettivamente avesse ragione. Riuscì ad arrivare con un ritardo di appena un minuto.

«Scusa se ti ho fatto aspettare.

Xana, ben presto capì che sarebbe stato meglio far fare quasi tutto alla ragazza. Il biondino era un ottimo modo per avere 

delle informazioni, ma al contempo doveva elaborare dei piani qualora questo non fosse accaduto.

«Non ti preoccupare.»

«Seguimi. Ti porterò in un posto speciale. Vedrai, ti piacerà!»

Posto speciale?” Aveva sentito bene? Quel biondino sembrava più stupido di quanto non fosse? La avrebbe portata al supercomputer al primo appuntamento?

I due si avventurarono nella pineta che separava il collegio dal mondo esterno. 

«Non so come mai, ma nessuno si è mai preoccupato del fatto che da qui si possa fuggire.»

«Fuggire?»

Chiese la ragazza.

«Esatto. Il posto speciale si trova fuori da qui, ma non è lontano, vedrai.»

I due camminarono senza parlare per una decina di minuti, fino a quando non giunsero in un piccolo bar. “Da Charles”

«Ecco qui. Servono le migliori paste di tutta la città. E forse anche le più grandi.»

Appena i due si sedettero a un tavolo, vennero raggiunti da una cameriera. Una ragazza piuttosto giovane, ma che sembrava lavorasse lì da tempo. 

«Salve ragazzi, cosa ordinate?»

Lo sguardo di Lucinda si era posato sul ripiano in cui erano esposte le diverse paste. 

«Per me una russa e un cappuccino, grazie.»

«Anche per me.»

«Benissimo, arrivano.»

La giovane cameriera tornò dopo alcuni istanti, servendo entrambi. 

Poi si allontanò. Dalla sua esperienza era chiaro che quel ragazzo ci stesse provando, e non voleva interferire.

«Sai, ho sentito parlare di te.»

Esordì il ragazzo.

«In bene, si intende. So che sei una famosa super coordinatrice. E che recentemente hai vinto la sesta Coppa Adriano consecutiva. Sei tanto bella quanto brava, credimi.»

«Oh, così mi lusinghi.»

La ragazza iniziò a bere il suo cappuccino.

«Lo bevi così… alla crudele?»

«Crudele? »

«Insomma… senza zucchero?»

«Oh, ecco perché era così amaro, mi sembrava strano.»

La ragazza riversò all’interno della tazza una bustina di zucchero, poi mescolò la bevanda per disciognierlo.

«Sai…»

Disse il ragazzo dopo aver bevuto un abbondante sorso della bevanda.

«Qui le gare di lotta non sono popolari come in Giappone. Per quel che ne so lì ogni prefettura ha il suo circuito, o mi sbaglio?»

«No, non ti sbagli, è esattamente così. Ogni prefettura ha il suo circuito di gare, con l’eccezione della Coppa Adriano che, indipendentemente da dove si svolge, ha valore a livello nazionale.»

«Qui invece…»

Il ragazzo si pulì la bocca con un fazzoletto. Si era appena accorto di aver prosciugato il suo cappuccino in due sorsi.

«Ogni città organizza i suoi circuiti di gare, e i due più famosi sono qui a Parigi e giù a Marsiglia. Ed è ironico, perché queste due città sono, per così dire rivali. Anche se vanno di più le performer.»

«Rivali?»

«Esatto. Parigini e marsigliesi non si possono vedere. Pensano che la loro città sia la migliore. E puoi immaginare come finisca ogni volta.»

«Posso immaginare.»

I due stettero in silenzio per qualche istante.

«Dimmi una cosa.»

Chiese la ragazza. 

«Tutto quello che vuoi.»

«Di cosa si occupano le performer? Ne ho sentito parlare e, da quello che ho capito, non sono poi così diverse da noi coordinatrici, ma non ho mai approfondito più di tanto.»

«La prima differenza è che possono essere unicamente ragazze. Contrariamente alle gare di lotta dove possono partecipare indistintamente ragazzi e ragazze.

Altra differenza è che non viene unicamente valutata l’abilità nel combinare le mosse dei propri pokémon o le proprie abilità in lotta. Tutt’altro. Le lotte nei varietà sono vietate. Vengono valutate le abilità delle singole partecipanti in sfide ogni volta diverse, come l’abilità in cucina, la conoscenza delle abilità dei diversi Pokémon e così via. È una fase a turni e a ogni turno passa solo la migliore. Onestamente credo che tu non avresti alcun problema a farlo.

La ragazza sorrise. Xana, invece, si maledì. Stava solo perdendo tempo. Quel ragazzo aveva una parlantina assurda.

«Le ragazze che passano al turno successivo, invece, partecipano all’esibizione libera. È simile al saggio di recitazione delle gare, ma ogni ragazza può usare tutti i Pokémon che vuole e soprattutto partecipa direttamente all’esibizione.»

«Sembra interessante. Dato che ci sei, puoi togliermi una curiosità?»

«Tutto quello che vuoi.»

«Da voi come funziona la lega Pokémon? In Giappone funziona come per le gare. Ogni distretto ha la sua. Da voi?»

«Oh, qui cambia molto da Stato a Stato. Qui in Francia ce ne sono due. Una che ha sede a Parigi e si occupa del nord della Francia, e una a Marsiglia, che si occupa del sud. 

La maggior parte degli altri Stati ne ha una sola a livello nazionale. Tranne alcune eccezioni.»

«Tipo?»

«Spagna e Portogallo condividono la stessa. Ha sede a Madrid. O l’Italia, che ne ha cinque.»

«Cinque?»

«Esatto. Una per il nord che ha sede a Milano, una per il centro che ha sede a Roma, una per il sud che ha sede a Napoli. Una per la Sicilia che ha sede a Palermo e una per la Sardegna che ha sede a Cagliari.»

«Dimmi un po’, ti definisci un allenatore o un coordinatore?

«Entrambi? O forse nessuno dei due. È difficile. Non so ben definirlo. Molti mi dicono che le mie esibizioni sembrano delle lotte e le lotte delle esibizioni.»

«Capisco. Cosa ne dici se dopo ci affrontiamo?»

«Oh, si. Certo, come desideri.»

Il ragazzo si era alzato e diretto al bancone per saldare il conto. Quattro euro spaccati.

Tornato al tavolo, guardò di sfuggita l’ora sul suo telefono. E si rese conto di quanto fosse tardi. Sembrava fosse passato molto meno tempo, anche se avevano trascorso gran parte del tempo semplicemente scambiandosi sguardi.

«Forse è meglio che rientriamo. Potrebbero scoprirci.»

«Va bene.»

I due uscirono dal bar e percorsero a ritroso la stessa strada che li aveva condotti fino a lì.

«Oh, sai, mi sono trovata bene con te. Solo che…»

«Solo che?»

«Mi sei sembrato ingessato.»

Ingessato?”

Xana si rese conto di come la situazione gli stesse sfuggendo. A lui poco importava se quel ragazzo sembrasse ingessato. Per lui la sola cosa importante è che quel ragazzo cantasse. E non lo aveva fatto. In ogni caso aveva approfittato di quel tempo per elaborare un piano alternativo. 

Aveva scoperto che Ash, caro amico di Lucinda, era compagno di stanza di Jeremy, e che avrebbe potuto avere un facile accesso alle sue attrezzature. 

«Tutto bene?»

Odd aveva notato come la ragazza avesse lo sguardo perso nel vuoto, per diverso tempo.

«Oh, si, si. Assolutamente.»

I due erano giunti al collegio e nessuno si era accorto della fuga. Per fortuna, o avrebbero rischiato una severa punizione.

Lucinda si era affrettata a raggiungere la sua stanza. Se Xana voleva attuare il suo piano, doveva precederla e ogni costo. 

Cosa che le riuscì perfettamente. Chiuse la porta a chiave e la lasciò inserita nella toppa, in modo che la porta non potesse essere aperta dall’esterno.

Una decina di minuti dopo, sentì una persona tentare di entrare, agendo continuamente sulla maniglia.

«Fammi entrare!»

Riconobbe immediatamente quella voce. Era la sua compagna di stanza.

«No.»

«Fammi entrare o sarò costretta a chiamare il signor Jim. E gli dirò anche tutto quello che mi hai fatto. Poi vediamo se non mi fai entrare.»

Ash era intimorito. Non aveva mai visto la sua ragazza così arrabbiata. Era così affascinante anche quando era sul punto di compiere un omicidio.

«Mi basta Ash.»

Gli sguardi della coppia si incrociarono, per un breve istante.

E Ash stava già bussando alla porta.

«Apri. Sono Ash!»

Lucinda tolse la chiave dalla serratura e osservò dal buco. Xana non voleva che gli venissero giocati brutti scherzi. E anche se, attingendo alla memoria di quella ragazza, sapeva che Ash era una persona di cui fidarsi, ma non aveva idea di come lo stesso si sarebbe comportato nei casi in cui la sua ragazza fosse coinvolta nella vicenda.

Appena notò che la stessa si era allontanata a sufficienza aprì la porta e fece entrare il ragazzo e il suo inseparabile Pikachu.

Appena il ragazzo entrò, la ragazza si affrettò a richiudere la porta a chiave e a tappare la toppa con del nastro adesivo. Chiuse anche la tapparella e accese la luce. 

Ash, nel frattempo, si era seduto nel letto dell’amica, con Pikachu che si era accomodato sulle sue gambe. 

«Beh, quindi? Come mai non volevi che Serena entrasse qui? Dopotutto non è anche la SUA stanza?»

«Oh, beh, vedi…»

La ragazza si sedette sul letto, accanto a lui.

«Ho avuto un piccolo inconveniente con lei e ne avrei voluto parlare con te. Siamo amici e con te ho molta più confidenza.» 

«Capisco.»

Ash non si era ancora accorto di nulla, ma la ragazza si era pericolosamente avvicinata. Pikachu, avendo fiutato il pericolo, era saltato sul pavimento, e si era preventivamente coperto gli occhi con le lunghe orecchie, secondo il modo di dire occhio non vede, cuore non duole.

Era successo tutto in attimo. 

La ragazza prese il ragazzo per la maglietta e lo tirò verso di sé.

Ash ancora non lo aveva capito, ma sarebbe presto divenuto la pedina di un piano molto più grande di lui.

Quando lo realizzò fu troppo tardi. Le labbra della ragazza erano premute contro le sue. E un denso fumo nero stava passando dalla bocca della ragazza alla sua.

Ash era crollato. Non aveva realizzato quello che era successo, e forse non l'avrebbe mai  fatto. Ora non era più lui ai comandi.

Xana si rese conto di come controllare quel ragazzo fosse molto più facile. Aveva due neuroni in croce e avrebbe eseguito i suoi ordini senza protestare.

Alcuni minuti dopo Lucinda si alzò e sollevò la tapparella, permettendo alla luce naturale di rientrare nella stanza. In seguito spense la luce e rimosse il nastro dalla toppa. Infine aprì la porta.

Ash, ora sotto il controllo di Xana, si alzò e si diresse verso la sua ragazza.

«Come mai ti voleva?»

«Nulla di che. Voleva parlarmi di quello che era successo tra voi due ieri. E chiedermi dei consigli su come far pace»

«E non poteva parlare direttamente con me?»

«Mi ha detto che non se la sentiva. Che voleva parlare prima con me perché ha più confidenza. Prima di dirti cosa mi ha detto vorrei ricordarti che ambasciator non porta pena.»

Ambasciator non porta pena?” 

Non aveva mai sentito il suo Ash parlare in quel modo. Per cui ne dedusse che doveva trattarsi di qualcosa di importante.

«Come vuoi. Dimmi pure.»

«Mi ha raccontato di quello che è successo ieri. Io non ne sapevo nulla. Per cui ti posso solo raccontare la sua versione. E poi di quello che mi ha proposto per finire questa discussione.»

«Vai.»

«Secondo lei…»

Ma che gli è preso?” 

Pensò la ragazza. 

Quante volte deve ancora dire che lo sta dicendo per suo conto?”

«Secondo lei saresti stata te a rubare il diario da cui è partito tutto. So benissimo che tu non ti permetteresti mai di fare una cosa del genere. Ma nemmeno lei.»

«E allora?»

«Non voleva che lo toccassi perché voleva essere lei a restituirlo, facendolo passare per l’ufficio oggetti smarriti. In modo che nessuno scoprisse chi lo aveva portato e che la diretta interessata lo avrebbe potuto riavere senza sapere chi lo avesse restituito. Ecco. E mi ha detto che si sente molto in colpa per quello che ha fatto.»

«E?»

«E mi ha proposto un piccolo accordo di tregua.»

«Tregua?»

«Si è  sentita offesa per il fatto che non hai dormito con lei dopo la litigata. Non sa con chi hai dormito, ma mi ha chiesto se potevi dormire con lei per una settimana. Inizialmente mi ha proposto un mese, ma sono riuscito a tirare fino a una settimana.»

«E perché dovrei accettare? Cosa ci guadagno?»

«Immagino che tu abbia una tua versione di come sono accadute le cose.»

«Esatto. Ho trovato quel diario nel mio armadio. E di sicuro non lo avevo messo io. Non che lo abbia messo lei. Ma non è quello il punto. Volevo restituirlo e basta. E, aprendo la copertina avevo letto che la proprietaria del diario si chiama Aelita. Proprio come la ragazza da cui avevo passato la notte.

Lei mi ha assalito dicendo che non avrei mai dovuto restituirlo.»

«Capisco. E io ti credo. La tua versione mi sembra molto più attendibile, ma c’è un problema.

 Se entrambe raccontate la vostra versione a qualcuno, come al signor Jim, lui, molto probabilmente non saprà a chi credere. Probabilmente vi metterebbe entrambi in punizione.»

«Non ho molta scelta. Prendo la mia roba e mi trasferisco da Aelita. Chiederò al signor Jim di rendere la cosa definitiva. Quella ragazza è una pazza, mi chiedo come possa essere tua amica.»

«Anche quando ci ho parlato mi è sembrata diversa dal solito.»

«Come vuoi. Ma non giustificarla. O resterai solo.»




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Capitolo 3
*** Ancora segreti ***


Ancora segreti 



Mentre Odd era uscito con Lucinda, Jeremy si era diretto verso l’ufficio della professoressa Hertz. Ormai aveva imparato a conoscerla. Sapeva che ogni sera si chiudeva nel suo ufficio per correggere i compiti.

Jeremy non era mai entrato lì dentro prima di allora. Non ne aveva mai mai avuto bisogno.

Bussò alla porta, attendendo che la professoressa gli desse il permesso per entrare. 

«Entra pure.»

La professoressa di sicuro non si aspettava che ad entrare fosse Jeremy. Pensava piuttosto che si trattasse di un qualche suo collega.

Jeremy osservò affascinato l’ufficio della professoressa. Più che un ufficio ricordava un laboratorio scientifico. Alambicchi, provette ricolme di sostanze chimiche, becker, numerosissimi strumenti di misura elettronici e non.

Era estremamente difficile farsi strada in quel laboratorio, anche perché il pavimento era ricolmo di libri e riviste scientifiche, anche di livello internazionale. 

La donna, non molto alta, piuttosto magra, fece una pausa dal suo lavoro. Si sistemò i capelli, ricci e grigi, poi passò al camice di laboratorio. Come se volesse perdere tempo.

«Cosa ci fai qui, Jeremy? Sai benissimo che questa zona è off limits per gli studenti. Qualche problema con la ricerca? Mi sembra che tu l’abbia consegnata e che abbia fatto un ottimo lavoro. Hai scelto un Pokémon davvero raro e hai fatto una scoperta incredibilmente interessante, non lo metto in dubbio, ma…

La donna fece una pausa di silenzio quasi interminabile. 

«Non mi spiego cosa tu ci faccia qui. Non dovresti esserci. Posso chiudere un occhio perché sei te, solo a patto che tu mi risponda.»

«Vede, mentre sistemavo la mia camera, ho trovato un libro scritto da un certo Franz Hopper. Ho scoperto che ha lavorato qui in questa scuola molti anni fa.» 

«Sì, è vero. Era un genio dell’informatica. E su quell’argomento ha pubblicato numerosi libri. Ma non capisco perché ti possa interessare. Si. Lavorava qui, e quando è scomparso l’ho sostituito. O meglio sono passata dal ruolo di assistente del laboratorio di chimica al ruolo di professoressa di scienze, sostituendolo. Al massimo avevamo bevuto qualche caffè assieme. Basta.»

Jeremy era dubbioso. Come faceva la professoressa a sapere tutte quelle cose? E soprattutto lei si interessava davvero degli argomenti che trattava il Professore?

«A parte questo non so molto su di lui e non ho motivo di farlo. E poi, ti ripeto. Sono passati più di dieci anni da allora. Nessuno ha avuto più sue notizie.»

«Grazie. Arrivederci.»

Jeremy se ne andò. Non aveva ottenuto quello che voleva, ma aveva notato un’incoerenza da parte della professoressa. Stando agli archivi scolastici il ruolo della professoressa, a quel tempo, era un altro.

Il ragazzo, volontariamente, non chiuse del tutto la porta, come se si aspettasse che la professoressa, una volta sola, confessasse, sentendosi più al sicuro. La sua intuizione non si rivelò errata. 

Pochi istanti dopo, la donna tirò un grosso sospiro di sollievo. Poco dopo prese il suo telefono e compose, molto rapidamente un numero. 

Il suo interlocutore rispose dopo alcuni squilli. 

«Susanne… cosa succede? Se chiami a quest’ora deve essere importante.»

«Si tratta di Belpois.» 

«E cosa ha combinato? Non ha preso il suo solito dieci ma un nove?»

L’uomo soffocò una risata. 

«No, Jean. È una cosa seria. Mi ha chiesto di Hopper.»

«Hopper? Capisco. Vediamoci subito. Nel mio ufficio.»

 Appena sentì la porta aprirsi, il ragazzo corse, come mai aveva fatto prima. Non voleva che la professoressa sospettasse di essere stata spiata.

Odd era tornato dal suo appuntamento, sicuro di non essere stato scoperto. E non riusciva a non pensarci. Pensava sia all’appuntamento sia alle parole di quella ragazza. Che cozzavano con quelle dell’amico. Doveva essere se stesso oppure doveva essere più serio?

Provò a studiare, un'attività che detestava, ma che lo avrebbe probabilmente aiutato a distrarsi. Per il giorno seguente aveva un’interrogazione di letteratura. 

Ironia della sorte, per il giorno dopo, doveva studiare a memoria una poesia il cui tema principale era proprio il blu. Blu come i capelli e gli occhi di quella ragazza. 

Lanciò il libro per terra, non preoccupandosi del fatto che il suo Lillipup lo stesse mordicchiando.

Il ragazzo si accorse di qualcosa che non andava. Sentiva dei passi pesanti. Riconoscibilissimi. Erano quelli di Jim. E si stavano chiaramente dirigendo nella sua stanza.

«Cosa vorra?»

Sperava che il professore non lo avesse sentito. O sarebbe stato un disastro.

Ormai quell’omaccione era giunto di fronte alla sua stanza e aveva aperto la porta. Il ragazzo stava tremando. Forse si era sbagliato ed era stato scoperto.

«Della Robbia. Lo sai benissimo che è vietato allontanarsi dal perimetro del collegio! È la prima regola. Non devi scordartelo. Per nessuna ragione al mondo.»

«No, signore, io non sono uscito. Sono sempre rimasto qui.»

«Si, certo, come no. Quando mai dici la verità! Perdipiù posso dirti che non eri solo. Con te c’era anche una ragazza.» 

Odd iniziava a tremare. Erano stati scoperti. E aveva anche un’idea su chi potrebbe aver fatto la spia.

«Sissi.»

Disse sottovoce.

«Non importa chi sia stato o stata a dirmelo. Oppure non vorrai farle passare il doppio della tua punizione.»

Il ragazzo fece cenno di no con la testa. 

Si era reso conto di come il professore avesse un gigantesco peso anche nelle contrattazioni. Lui avrebbe fatto qualsiasi cosa per non far incriminare Lucinda.

«E allora faremo una visitina al preside.»

Il ragazzo aveva l’espressione di un condannato al patibolo, mentre si dirigeva, scortato dal professore fino all’ufficio del dirigente.

«Disturbo?»

«Jim, non ti hanno insegnato a bussare?» 

«Oh, chiedo scusa. Signore.»

Odd, dal poco che vedeva da dietro l’omaccione, aveva notato come in quell’ufficio il preside non fosse solo. Era sul finire di una discussione con la professoressa Hertz.

Il ragazzo aveva sentito solamente la parte finale della conversazione dove sembrava che i due si fossero accordati su qualcosa, anche se non gli era chiaro di preciso quali fossero i termini dell’accordo.

Il ragazzo aveva anche notato un grosso faldone sulla scrivania del preside. La carta era ingiallita dal tempo, per cui doveva essere piuttosto vecchia.

Prima che l’uomo potesse nasconderlo nel suo cassetto, il ragazzo notò la scritta sul foglio superiore di quel faldone. 

Waldo Schaeffer.

Il ragazzo si ricordò che quello era il vero nome del Professore. Gli sembrava molto strano che il preside potesse possedere del materiale riguardante il Professore. Avrebbe tenuto a mente l’informazione.

Si era anche ricordato dell’intenzione di Jeremy di parlare con la Hertz. Possibile che ci fosse una correlazione tra questo e il fascicolo in mano al preside.

«E così è stato beccato fuori dal perimetro dell’istituto?»

«Esattamente. Me lo ha detto Sissi. E mi ha anche detto che era in compagnia di una ragazza.»

Odd se lo aspettava. La figlia del preside non sopportava di non essere al centro dell’attenzione. E si era mostrata estremamente gelosa nei confronti di Serena prima e di Lucinda poi. Era plausibile che volesse incastrare una delle due e che avrebbe sfruttato la fama da dongiovanni di Odd per farlo.

«Sai benissimo che è vietato allontanarsi dal perimetro dell’istituto. Ma devo ammettere che sei stato coraggioso a venire qui senza fare storie. Immagino che tu tenga a quella ragazza. Sei stato responsabile. Per questo non ti sospenderò.» 

Il ragazzo tirò un sospiro di sollievo.

«Te la caverai con una settimana di isolamento. Dovrai stare nella tua stanza da dopo pranzo a ora di cena, e da dopo cena all’inizio delle lezioni.»

Jim. Assicurati che non rifugga.»

Il professore fece un cenno di approvazione.

Sapeva che non sarebbe stato pagato di più per quel lavoro da carceriere, ma di sicuro non poteva rifiutarsi.

Quella sera i genitori di Yumi e Hiroki erano a una cena di lavoro, lasciando i due fratelli soli a casa. Non era una novità. Anzi, capitava spesso e volentieri.

Hiroki era diventato allenatore da poco e aveva con sé solo il suo primo Pokémon. Un Fennekin maschio chiamato Omar.

Proprio in quel momento gli stava riempiendo la ciotola con la sua cena. Delle crocchette specifiche per Pokémon di tipo fuoco. Il piccolo Pokémon iniziò a mangiare.

«Piano! Non ti ingozzare!»

Lo rimproverò il ragazzo. 

Il piccolo Pokémon smise di mangiare e si mise a correre a perdifiato. Il ragazzo cercò invano di ricoverarlo nella Pokéball. il giovane, nel tentativo di recuperarlo, finì addosso alla sorella maggiore, facendole perdere l’equilibrio.

«Che ti prende? Sei diventato matto? Potevo farmi male!»

Il giovana raggiunse rapidamente la sorella maggiore.

«Omar è scappato!»

«Il tuo Fennekin? Beh, in quel caso mi dispiace ma sono affari tuoi. Un allenatore deve essere responsabile dei suoi Pokémon. Per cui io non muoverò un dito.»

Hiroki conosceva benissimo sua sorella. E sapeva che non si sarebbe mossa dalla sua posizione. Per quanto ci provasse. sapeva di non avere scelta. Se avesse voluto ritrovare il suo Pokémon, si sarebbe dovuto sbrigare.

Quella sera faceva piuttosto freddo. Era da poco iniziato l’autunno. L’allenatore principiante dovette indossare una giacca. Avrebbe ridotto di molto il rischio di prendersi un brutto raffreddore. O, forse, le cose sarebbero potute andare peggio.

Poteva ritenersi fortunato. Il loro quartiere era piuttosto tranquillo e ben illuminato. Nonostante non fosse molto tardi, era difficile trovare gente in giro. Anche per il giovane era strano aggirarsi per quel quartiere a quell’ora. E, nonostante potesse dire di conoscere la zona palmo a palmo, doveva ammettere che al buio la stessa aveva un aspetto totalmente diverso.

Concentrandosi era perfettamente in grado di udire i latrati del suo Pokémon.

Si mosse lentamente, per coglierlo di sorpresa. Temeva che se la fosse presa per quello che era successo qualche minuto prima. A un certo punto gli parve di vederlo. La voluminosa coda del piccolo Pokémon era perfettamente visibile da dietro un lampione. Il ragazzo si avvicinò a piccoli passi. Infilò la mano nella tasca e si accorse che mancava qualcosa.

«Diavolo! È sparita!»

Il piccolo Pokémon, sentendolo si mise a correre, andando chissà dove. Il ragazzo si mise a correre a sua volta. Durante la sua corsa incrociò lo sguardo con un uomo. Piuttosto alto e vestito con un impermeabile nero.

Sembrava essere interessato a una villa abbandonata poco lontana. Il ragazzo aveva visto quella villa diverse volte ma non aveva mai avuto il coraggio di entrarci. Aveva troppa paura.

Il ragazzo sentì i latrati del suo Pokémon proprio nel giardino di quella villa. Pochi istanti dopo, questi ultimi vennero coperti da degli ululati. Il ragazzo non li aveva mai sentiti in vita sua. Il ragazzo tremò come una foglia.

Ma se voleva recuperare il suo Pokémon, doveva farsi coraggio ed entrare nel giardino di quella villa. Appena entrato, si accorse di essere solo. Quell’uomo era scomparso. Per cui non correva pericoli. 

Tuttavia era preoccupato. Anche i latrati del suo Pokémon erano cessati. E quello non era affatto un buon segno.

Dopo alcuni passi, i suoi timori si erano avverati. Il suo Pokémon era riverso al suolo. E tremava. Era ferito. 

Il giovane prese in braccio il suo Pokémon, con quest'ultimo che non oppose alcuna resistenza.

Mentre il ragazzino si precipitava a riprendere il suo Pokémon, l’uomo era corso verso il suo pick-up, e salì a bordo, seguito a ruota dai suoi Houndoom.

«La prossima volta evitate di mettermi in questa situazione.»

Gli sgridò.

I suoi Pokémon emisero un guaito sommesso, facendo intendere al loro padrone che avevano capito le sue parole. L’espressione dell’uomo mutò. Diventando, per un momento meno malefica.

L’uomo aveva pesantemente modificato l’abitacolo di quel mezzo. Aveva ricavato un grosso portaoggetti sotto il cuscino del sedile del passeggero.

Voleva verificare i suoi sospetti. Quel ragazzino che aveva visto di sfuggita gli era apparso familiare.

Prese il suo computer portatile e fece una breve ricerca. I suoi dubbi divennero presto certezze.

Quel ragazzino era Hiroki Ishiyama. Il fratello minore di Yumi Ishiyama, una dei suoi osservati speciali. Aveva anche paura di essere stato riconosciuto. Dopotutto un uomo vestito di nero, con due Houndoom, non passa di sicuro inosservato.

Il ragazzo si precipitò a casa. La sorella lo aspettava proprio all’ingresso. 

Appena giunto a casa, lo sguardo della ragazza si posò prima sul Pokémon, poi sul fratello. 

«Cosa gli è successo? Portalo subito al centro medico!»

Nelle parole della ragazza la preoccupazione aveva preso il posto della rabbia. 

«Penso sia scappato per come l’ho rimproverato, gli ho detto di non ingozzarsi.»

Il ragazzino non aveva ancora smesso di tremare.

«Poi, come sai, è scappato. Ho cercato di inseguirlo, fino a una villa abbandonata qui vicino. Poi è entrato un uomo vestito di nero che poi è scappato, sono entrato e lo ho trovato ferito lì.»

«Adesso datti una calmata, e occupati di lui. Poi mi spieghi tutto con calma.»

«Ma io ho paura. Ho paura che quell’uomo possa tornare.»

«Se chiedessi a uno dei mei di farti da scorta…»

Il ragazzino non rispose. Come se sua sorella dovesse capire da sé la risposta. Questa, per tutta risposta, prese, dalla borsa che teneva nell’uomo morto, una delle sue Pokéball.

La ragazza ne fece scattare il meccanismo di apertura, e, dalla stessa uscì un fascio di luce bianca, che ben presto si trasformò in un Greninja.

«Te lo affido. In giro c’è un tipo pericoloso.»

Il Pokémon ninja fece un cenno di approvazione. Per la sua allenatrice avrebbe fatto qualsiasi cosa. Il loro legame era molto stretto. Il ragazzino, sentendosi al sicuro dalla presenza del Pokémon della sorella, si diresse verso il centro. Non era molto lontano, ma tremava comunque di paura.

Appena Hiroki si allontanò a sufficienza, Yumi prese il telefono, per mettersi in contatto con il suo ragazzo.

«Hiroki ne ha combinata una delle sue e uno dei suoi Pokémon è stato ferito.»

«E?»

«Ha detto di aver visto un tipo strano all’Hermitage. O meglio ha parlato di una villa abbandonata qui vicino, e da che ne sappiamo è la sola ad esserci»

Il ragazzo chiuse la telefonata senza salutare. Pensava di potersi riposare, ma si sbagliava. Si affrettò a indossare le scarpe e a vestirsi. 

«Dove vai?»

Gli chiese il compagno di stanza, con aria perplessa. Lo aveva sentito mentre rispondeva a una telefonata e ora si stava preparando per uscire, veloce come un fulmine.

«Si tratta di Yumi. È importante.»

«E mi lasci qui da solo?»

«Prossima volta stai più attento e ne riparliamo. E io che pensavo che fossi diventato più serio.»

Intanto il ragazzo si era sporto dalla stanza e aveva buttato uno sguardo tanto a destra quanto a sinistra. Non trovando nessuno.

«Via libera.»

Il ragazzo si mosse in punta di piedi. Stava andando nella direzione opposta rispetto a quella dei bagni, per cui non poteva usarlo come scusa. Per sua fortuna tutto andò per il meglio e non venne scoperto. O altro che la settimana presa dall’amico!

In breve tempo le sagome scure e imponenti del collegio erano alle sue spalle e si era addentrato nella zona residenziale del quartiere. Proprio a casa della sua ragazza.

Il ragazzo suonò il citofono e, in pochi istanti la sagoma della ragazza, alta e magra, apparve davanti a lui. Il ragazzo si stava togliendo le scarpe, sebbene la famiglia di Yumi vivesse lì da anni, aveva ancora mantenuto tutte le tradizioni.

«Eccomi, scusa se ci ho messo tanto, ma avevo paura di essere beccato da Jim.»

«Pensa se non avessi fatto in ritardo!»

Commentò la ragazza, in tono ironico, per poi tornare seria subito dopo.

«Ora Hiroki sta portando il suo Fennekin al centro medico. Dovrebbe tornare tra poco. Era molto spaventato e mi ha detto solo quello che poi ti ho detto al telefono. Un tipo vestito di nero che girava per l’Hermitage e crede che sia stato lui o uno dei suoi PK a ferirlo.

«Capisco. Probabilmente anche lui indagava su Hopper o cercava Aelita.»

«E lo dici così? Come se fosse la cosa più normale del mondo? Sai bene che se abbiamo anche solo il minimo dubbio, dobbiamo controllare. Avvisiamo subito gli altri.»

 I due si misero rapidamente in contatto con Jeremy e Aelita. 

I due stavano dormendo tranquillamente fino a quel momento. Avevano messo i loro telefoni con la vibrazione, per evitare di svegliare i rispettivi compagni di stanza.

Nonostante questo non ci volle molto prima che entrambi fossero pronti. Avevano fatto tutto nel silenzio più totale e apparentemente erano stati in grado di farlo senza svegliarli.

Hiroki arrivò a casa poco prima dell’arrivo di Jeremy e Aelita all’Hermitage. Scortato, come all’andata dal Greninja della sorella.

Notò immediatamente la presenza di Ulrich.

«E lui cosa ci fa qui?»

«Non ti importa. Piuttosto, come sta?»

La ragazza aveva notato come il ragazzo fosse tornato con il suo Pokémon in braccio, avvolto in una coperta. 

«L’infermiera mi ha detto che le sue ferite erano meno gravi del previsto. Le ha pulite e disinfettate. Mi ha dato una medicina da dargli due volte al giorno per una settimana.»

«Bene, noi andiamo, tu resta a casa a occuparti di lui.»

Il tono della sorella non ammetteva repliche di alcun tipo. 

In cinque minuti erano tutti e quattro nel giardino dell’Hermitage. Il giardino era male illuminato. Il lampione più vicino era mezzo fulminato, per cui, se volevano vederci chiaro, dovevano usare delle torce.

Sembrava tutto normale, e che quindi Hiroki si fosse sbagliato, quando Aelita notò qualcosa che non andava.

«Guardate quì!»

La ragazza si era inginocchiata nei pressi della porta del garage. 

«L’erba è bruciacchiata. Deve esserci stata una lotta o qualcosa di simile. Hiroki aveva ragione. Probabilmente il suo Fennekin ha cercato di difendersi da dei Pokémon molto più grossi di lui.»

Ulrich non era ancora molto convinto. Per quanto non conoscesse molto il Pokémon del ragazzo, non gli sembrava un attaccabrighe.

«Da soli? E perché mai avrebbero dovuto attaccare?»

«E se non fossero stati soli? Voglio dire, se il loro allenatore gli avesse ordinato di attaccare?»

Mentre Jeremy esponeva la sua tesi, stava illuminando il muro del garage. Era parzialmente ricoperto da muffa. Uno dei tanti segni dell’incuria in cui versava quella villa.

«Qui qualcuno l’ha scrostata. Probabilmente con degli scarponi. Due indizi fanno una prova. Hiroki aveva ragione. Dobbiamo evitare che scoprano il nostro segreto.»

Dopo aver continuato l’ispezione dell’esterno della villa, il gruppo si separò. Ulrich, Jeremy e Aelita tornano al Kadic, Yumi a casa sua.

Se avessero fatto in silenzio, non sarebbero stati scoperti, altrimenti sarebbero stati nei guai. Mancavano appena due ore alla sveglia. 

Mentre i tre cercavano di tornare nelle rispettive stanze, in un anonimo ufficio di Washington DC, la capitale degli Stati Uniti, era mezzanotte e mezzo. 

Quell’ufficio si trovava in un anonimo edificio, un palazzone in ferro e vetro, come tanti. Il luogo migliore dove lavorare inosservati anche ai progetti più importanti.

Era seduta sulla sua poltrona da ufficio, una grossa poltrona in pelle scura, mentre beveva l’ennesimo caffè. Il primo da quando era scattata la mezzanotte.

La donna buttò un occhio sui numerosi orologi che occupavano una delle pareti del suo ufficio. Ognuno indicava l’ora secondo un diverso fuso orario. 

Istintivamente si concentrò sull’orario di Parigi. L’orologio segnava le cinque e mezza del mattino. 

Per quella donna non era una novità lavorare sino a tardi, ma mai fino a così tardi. Non si sarebbe mai trattenuta fino a quell’ora, senza un valido motivo. E quella notte aveva un validissimo motivo. Un suo agente l’aveva informata su un grosso affare e le aveva promesso che, entro qualche ora avrebbe ricevuto ulteriori informazioni.

Per questo, si buttò sul telefono, non appena udì il primo squillo. 

«Signora. Ho una telefonata per lei.»

Per un istante la donna dovette dissimulare la sorpresa. Non si aspettava di sentire la voce della sua segretaria. 

«Me la passi.»

Mentre la segretaria commutava la telefonata, la donna attivò un dispositivo che proteggeva la telefonata dalle intercettazioni. Non poteva rischiare in alcun modo che qualcuno potesse sapere di quella telefonata.

La segretaria, intanto aveva commutato la telefonata.

«Signora?»

«Agente Lycanroc?»

La donna, finalmente sentì la voce che si aspettava. Una voce di un uomo. Del suo agente. Quello che l’aveva informata alcune ore prima.

«Signora. Le posso confermare che i nostri sospetti si sono rivelati reali. Quelli del reparto informatico ci hanno passato tutti i dati di cui avevamo bisogno.»

«Sai benissimo che il loro operato non è propriamente legale. Non possiamo basarci solo su di loro. A meno che non sia qualcosa di veramente importante.v

«Signora…»

«Vada avanti. Nessuno ci può intercettare, stiamo usando il massimo della tecnologia in fatto di protezione.»

«Come vuole. In questi giorni ci sono state moltissime ricerche, provenienti tutte dallo stesso posto. Riguardavano tutte il signor Franz Hopper, o Waldo Schaeffer, che dir si voglia.»

«Ancora lui?»

«Si Dido… ehm… Signora.»

«Sai che sono passati più di dieci anni da allora.»

La donna, nonostante fossero passati così tanti anni, la donna si ricordava benissimo di quel caso. Come se fossero passati dieci giorni, e non oltre dieci anni.»

«Signora. Devo dire un’ultima cosa.»

«Non tenermi sulle spine. Sai benissimo che questa è una situazione molto delicata. Ogni informazione in più è fondamentale.»

«Le ricerche provengono tutte dal collegio Kadic.»

La donna sbattè un pugno sul tavolo. Così forte da far saltare tutti gli oggetti sulla scrivania. Computer, portapenne, tastiera, la tazza di caffè che aveva appena finito di bere.

«La ringrazio. Sai benissimo come procedere. Intercetta tutte le comunicazioni del collegio. Ogni singola ricerca, messaggio, file scaricato…»

E fai lo stesso per le ricerche negli ultimi mesi prima delle vacanze estive.»

Mettimi a disposizione tutti i tuoi uomini. Dobbiamo essere pronti a tutto. Con un affare così grosso non ci possiamo permettere passi falsi. Lo abbiamo già fatto.»

«Agli ordini.»

«Potrebbe trattarsi di qualcuno che ha semplicemente sistemato gli archivi dell’istituto, e, incuriosito da quel nome, ha svolto delle ricerche, ma dobbiamo essere pronti a tutto.»

«Agli ordini.»

Dido riattaccò senza salutare. Per lei non era una semplice coincidenza. La storia della persona che si occupava degli archivi l’aveva usata per tentare di autoconvincersi. Senza successo.

Qualche ora dopo, Jeremy, Aelita, Yumi e Ulrich erano alle macchinette. Odd era ancora sotto scorta di Jim. Il professore aveva preso il suo lavoro fin troppo sul serio.

Stavano approfittando della ricreazione per chiacchierare sugli ultimi sviluppi sull’Hermitage.

«Non abbiamo scelta.»

Esordì il biondo.

«Dobbiamo metterlo sotto sorveglianza. Non possiamo rischiare che quell’uomo ritorni. Soprattutto se non sappiamo che intenzioni ha.v

«Dovremo fare i turni di guardia?»

«No, Ulrich, non servirà. Prima di coricarmi ho parlato con Yumi.»

«Esatto.»

Confermò la giapponese.

«Tra qualche ora, a casa dovrebbe arrivare tutto. Ho detto ai miei che sarebbe arrivato un pacco per un amico.»

«Interessante, di che si tratta?»

«Mi sembra ovvio!v

Lo riprese Jeremy.

«Telecamere a circuito chiuso, sensori di movimento, microfoni, insomma quelle cose lì.»

«E dopo che lo incastriamo? Non possiamo di certo mandare i filmati alla polizia! Ci farebbero tante di quelle domande…»

«Non ti preoccupare, di quello ce ne occuperemo dopo.»

Lo rassicurò Aelita. 

«Ad ogni modo è meglio che vada. Tra due minuti iniziano le lezioni.»

«A dopo!»

Yumi si separò dai suoi amici. Aveva un anno in più dei suoi amici, e questo aveva causato non pochi problemi quando 

lottavano contro Xana.

Quella lezione della professoressa Hertz fu atipica. Solitamente la donna usava il libro il minimo indispensabile, preferiva spiegare da sé le lezioni. 

Ma non quella volta. Altra anomalia riguardava il fatto che, in quella lezione, la professoressa si fosse concentrata su Nicholas. La professoressa era molto abitudinaria, e solitamente non usciva mai dal triangolo Jeremy-Aelita-Hervé. Tutti si erano accorti del suo strano comportamento, ma nessuno osò dire nulla. 

Perché, anche se lo avessero fatto, non sarebbe cambiato nulla. Dopotutto lei era la professoressa, per cui poteva fare quello che voleva.

Inoltre, la professoressa se ne andò senza salutare, non appena suonò la campanella.

La donna corse nel suo ufficio. 

Quella situazione non poteva andare a lungo per molto. Tutti i suoi alunni si erano accorti che qualcosa non andava, ma lei ci poteva fare poco. Non pensava ad altro sennonché a quell’incontro con Jeremy di qualche tempo prima.

Sapeva che il dossier del Professore era al sicuro, nel cassetto del signor Delmas, ma sapeva anche che quel ragazzo lo avrebbe ottenuto, a qualsiasi costo, senza preoccuparsi delle conseguenze.

A oltre mille chilometri dalla capitale francese, Primula era appena uscita dall’albergo. Si trovava a Berlino per chiudere gli ultimi accordi con uno sponsor. Il reparto marketing di quell’azienda era piuttosto lontano da lì. Avrebbe chiamato un taxi, ma sembrava che fossero tutti occupati.

A un certo punto si fermò, proprio davanti a lei, un taxi. Una grossa berlina della Mercedes. L’uomo alla guida, riconoscendola, accostò.

«Tu sei Primula? La famosa fantina di Rhyhorn?» 

«In persona! Lei è libero?»

«Oh, ma certo, ma prima, potrebbe farmi un autografo?»

L’uomo uscì dal taxi. Lasciando il motore acceso. Aveva in mano una foto della donna, mentre teneva in mano una coppa d’oro, una delle sue numerosissime vittorie. Le diede anche un pennarello indelebile nero. La donna posò la foto sul cofano della macchina.

«Come si chiama?»

La donna si girò di scatto, dopo che, per diversi secondi, non ricevette alcuna risposta. Non sapeva come, ma la donna si trovava con il volto premuto contro il lunotto del taxi.

«AIUTO!»

La donna cercò di chiedere aiuto, invano.

Sentendola, l’uomo le assestò un colpo sulla testa, facendole perdere i sensi. Non voleva arrivare a tanto, ma non aveva altra scelta. Non poteva rischiare di essere scoperto.

L’uomo prese dal portaoggetti del suo taxi, un dispositivo simile a un guanto di pelle. Sulla parte superiore di questo vi era un piccolo schermo a cristalli liquidi, un piccolo interruttore e dei cavi.

Sulla punta delle dita si trovavano dei piccoli elettrodi.

Da un altro portaoggetti prese un dispositivo simile a una scheda di memoria. Si comportava come se non avesse una donna svenuta appoggiata al cofano del suo taxi. 

Inserì la scheda nel guanto e tornò dalla donna. Ancora priva di sensi, ancora appoggiata sul cofano del taxi. 

L’uomo si guardò attorno. Alcune persone si erano avvicinate, incuriosite dalla situazione. In particolare un uomo della sicurezza dell’albergo. Un omaccione alto quasi due metri. 

«Stai fermo e non ti farò nulla.»

Il finto tassista prese una pistola dalla cintura, e la puntò contro quell’uomo. Per lui maneggiare un’arma non era una novità. Anzi. Si sentiva particolarmente a suo agio con questa.

«Stai fermo o sparo.»

L’addetto alla sicurezza non sapeva cosa fare. Doveva credere alle minacce di quell’uomo e lasciarlo fare o doveva tentare di disarmarlo?

In ogni caso, prima ancora che potesse decidere come agire, si ritrovò a terra. Colpito dal Neropulsar dell’ Hydreigon di  quel finto tassista. 

L’uomo era abituato a gestire situazioni del genere. Era perfettamente addestrato per situazioni del genere. Solo che quell'imprevisto gli era costato tempo. Ed era consapevole che, ben presto, sarebbero arrivate altre persone.

L’uomo finalmente poté indossare il guanto e dedicarsi al suo lavoro, non prima di aver premuto il piccolo interruttore che permetteva di attivare il dispositivo posizionato sul guanto.

L’uomo si avvicinò alla donna e le sfiorò le tempie con le dita. 

Un led verde e la scritta “inizio trasferimento” confermò che  tutto stava andando secondo previsioni. 

Nello stesso momento, a oltre mille chilometri di distanza, in una palazzina abbandonata, a poca distanza dal collegio Kadic, le apparecchiature del suo collega si misero in funzione. Risvegliate dal sonno dello standby. 

Una bambina dai grandi occhi blu e dai capelli color miele che dava da mangiare a un Rhyhorn, poi la stessa bambina, un pochino più grande, che cavalca lo stesso Rhyhorn, con una tutina rosa, come il casco. Poi le immagini iniziarono a scorrere sempre più rapidamente. Fino a diventare impossibili da decifrare.

«Serena?»

Jim fece irruzione in classe senza nemmeno bussare.

«Jim? Ti sembra questo il modo di entrare?»

«Chiedo scusa Chardin, ma è urgente. Devo accompagnare Serena dal signor Delmas.»

Gli sguardi di tutta la classe si posarono sulla performer. Tutti, sottovoce, si chiesero cosa aveva combinato quella ragazza, all’apparenza così innocente.

La performer, consapevole di non aver fatto niente di sbagliato, seguì il professore senza fare domande. Era chiaro che fosse qualcosa di serio, dato che l’espressione di quest’ultimo era molto tesa.

Arrivati di fronte all’ufficio del signor Delmas, il professore fece cenno alla ragazza di accomodarsi all’interno. La porta dell’ufficio era aperta, come se si aspettasse che qualcuno dovesse fargli visita.

La ragazza, ora meno sicura di sé, entrò nell’ufficio a piccoli passi. La stanza era enorme. E, per certi versi ricordava lo studio di un presidente, piuttosto che quello di un preside.

Una gigantesca scrivania di legno pregiato, un tappeto costosissimo, quadri d’autore e piante. Sulla scrivania un costosissimo computer e un portapenne ricolmo di penne stilografiche altrettanto costose.

La ragazza salutò l’uomo molto timidamente.

«Buongiorno signor preside.»

«Buongiorno a te. Non devi avere paura di me. Non in questo caso. Non hai fatto nulla di sbagliato.»

La ragazza tirò un sospiro di sollievo. Ora che sapeva di non aver fatto nulla di sbagliato, si sentiva molto meglio, solo che ancora non aveva idea del motivo per cui si trovava lì. E questo non la metteva a suo agio.

«Ho ricevuto una telefonata dalla Germania. Da Berlino per essere precisi.»

La ragazza scattò come una molla. Si era sentita con sua madre la sera prima, e lei si trovava proprio in quella città. Ergo le era successo qualcosa.

«Tua madre è stata aggredita da uno strano tipo. Proprio in quella città. Per fortuna sembra che non sia nulla di grave, dall’ospedale dicono che è solo un po’ confusa. Se vuoi possiamo accompagnarti da lei.»

La ragazza rimase in silenzio per alcuni istanti. Non ci voleva credere. Davvero le stavano dando quella possibilità? 

«La ringrazio. Accetto. Ma sa, sono comunque preoccupata per lei… Ash può venire con me?»

«Se questo può farti stare meglio, posso fare uno strappo alla regola.»

Un quarto d’ora dopo Serena, Ash e il suo inseparabile Pikachu si trovavano fuori dal palazzo amministrativo. In attesa di partire. Pochi istanti dopo, davanti ai loro occhi, si fermò una berlina gigantesca. Blu scuro. 

Ash era ipnotizzato da quell’auto che, ai suoi occhi, sembrava fosse uscita da un film di fantascienza o da qualche videogioco. Cofano lunghissimo, fari stondati e al contempo di forma romboidale, incorniciati da dei profili cromati, incastonati nei parafanghi bombati. Cromata era anche la calandra la cui forma ricordava uno scudo, che impreziosiva il cofano e ne accentuava la forma triangolare e metteva in risalto come lo stesso fosse rialzato, creando un effetto simile a quello di molte auto d’epoca. 

Essa si raccordava perfettamente con il paraurti, dipinto nella stessa colorazione della carrozzeria e impreziosito da dei profili cromati che partivano dal punto in cui lo stesso si raccordava alla carrozzeria e che impreziosivano le fiancate dell’auto.

Serena era invece più razionale del suo ragazzo. Quell’auto la conosceva bene. Era una Lancia Thesis. Non che lei se ne intendesse molto, ma le era rimasta impressa in quanto, nella versione allungata, era l’auto di Paloma, una produttrice e manager che le aveva proposto di stare sotto la sua ala protettrice.

Altra sostanziale differenza tra l’auto della manager e quella dell’istituto era il colore della pelle degli interni. Crema nel primo caso, rosso nel secondo.

Lei aveva rifiutato la sua proposta, e da allora quell’auto le dava sentimenti contrastanti. 

Alla guida dell'enorme berlina un volto noto. Jim Morales. Seduta sul sedile del passeggero la professoressa Hertz. Probabilmente i due insegnanti si sarebbero dati il cambio diverse volte, negli oltre mille chilometri di viaggio.

Ash aprì la porta alla ragazza, e aspettò che la stessa si sedesse. 

Pikachu si accomodò sulle gambe della ragazza, cercando, come del resto anche il suo allenatore, di rassicurarla e di farla sentire il più possibile a suo agio.

Il professore girò la chiave. Il rombo del V6 era appena udibile lì dentro. Isolato da chili e chili di isolamento acustico.

Dopo pochi metri l’auto si fermò. In maniera molto brusca. Ash, che non aveva fatto in tempo ad allacciare la cintura, rischiò di spiaccicarsi contro il sedile.

Evidentemente l’uomo non era abituato a guidare le auto con il cambio automatico.

«Jim, ma non avevi detto che in passato hai lavorato come autista di limousine?»

«Si, pensa che una volta ho anche avuto l’onore di servire il primo ministro.»

«Non mi dire! E come è andata?»

«Preferirei non parlarne.»

Questo piccolo siparietto, sia pure per un attimo, strappò un sorriso alla ragazza. 

Intanto il professore era ripartito, non prima di aver impostato il navigatore satellitare. Direzione Berlino. Il viaggio sarebbe stato piuttosto lungo. Oltre mille chilometri e mezza giornata di viaggio, attraverso Francia, Belgio e Germania.

Per fortuna quell’ammiraglia era comodissima. Le prime sei ore di viaggio, intervallate solamente da alcune soste per bisogni fisiologici e per il cambio autista, passarono in un battito di ciglia. 

Mentre i quattro erano fermi in un ristorante a metà strada, Sissi si era diretta all'ufficio di suo padre. Alquanto alterata.

Entrò senza bussare. Per fortuna l’ufficio era vuoto.

«Cosa ci fai qui?» 

La ragazza si sedette sulla scrivania.

«Quella Serena. È arrivata da due giorni e la tratti come una regina.» 

«La tratto come tutte le studentesse. Su, ora vai, o ti dovrò mettere in punizione.»

«Si, come no! E allora perché non mi accompagni mai a fare shopping con l’ammiraglia? E a lei si? E perdipiù è andata con il suo ragazzo? E la prossima volta cosa le fai?»

«Non so chi ti ha detto che stia andando a fare shopping. E se anche fosse stata accompagnata dal ragazzo? La cosa non ti riguarda.»

«E allora dove è andata? Sentiamo!»

«Se proprio ti interessa davvero, a quest’ora dovrebbe essere in Germania.»

«Ah, si? Davvero? E cosa ci fa lì?»

«Sua madre è stata aggredita. Ed è stata ricoverata in ospedale. Per questo le ho concesso di andare a trovarla. E ora, mi sa che è meglio che torni a studiare. Non pensare che questa volta la passerai liscia perché sei mia figlia.»

Dopo aver mangiato e fatto il secondo pieno all’ammiraglia, partirono per la seconda parte del viaggio, altre sei ore, che come le precedenti, trascorsero davvero rapidamente e dopo il terzo pieno giornaliero, arrivarono ai a Berlino.

Era praticamente ora di cena. 

Serena sarebbe andata a trovare la madre solo il giorno seguente, dato che gli orari di visita dell’ospedale prevedevano che non si potessero fare visite oltre le otto di sera.

Il giorno seguente i quattro giunsero all’ospedale centrale.

Un edificio enorme e modernissimo. Circondato da un gigantesco parcheggio sorvegliato. Contrariamente a molti altri ospedali non c’era del personale all’esterno intento a fumare o a far altro.

I quattro entrarono nella portineria dell’ospedale. A occupare il piccolo ufficio una donna di circa sessant’anni. Probabilmente erano i suoi ultimi giorni di lavoro prima della pensione.

«Cosa volete?»

Chiese, in tono scocciato. Probabilmente era stata interrotta durante la sua partita a solitario sul computer.

«Mia madre.»

Esordì Serena.

«Dovrebbero averla ricoverata qui.»

«Figliola, come si chiama tua madre? Così posso aiutarti.»

«Primula.»

«La famosa fantina? Ho sentito che ha una figlia performer e coordinatrice, ma non credevo che fossi te. Non vi assomigliate per niente. Lei ha i capelli castano scuro, te sei biond… se fossi venuta con tuo padre, suo marito, forse…

«Senta… non mi interessa di quello che pensa. E non sono di sicuro tenuta a venire accompagnata da una persona che non voglio nemmeno vedere. Che ci ha abbandonate quando avevo quattro anni. 

E poi se fossi venuta con i capelli tinti castani non mi avrebbe detto niente? Mi faccia capire. Perché nel caso proprio qui dietro c’è un parrucchiere, nel caso, torno tra un paio d’ore e forse così sarò più di suo gradimento.

La ragazza stava iniziando a perdere la calma. Prima che potesse farlo del tutto, sentì una mano sulla spalla. Quella della professoressa Hertz. 

«Capisco come tu ti senta. E davvero, mi dispiace per la tua situazione. Però lascia fare a me. Ci penso io.»

La ragazza fece alcuni passi indietro, per permettere alla professoressa di accomodarsi di fronte a quella donna.

«Mi scusi. Sono la professoressa che è loro responsabile.»

«E?»

Giunta di fronte al piccolo ufficio, la professoressa estrasse un distintivo dalla borsa, per poi mostrarlo alla donna. Era un distintivo dell’esercito americano. Generale Steinback. 

«Oh, mi scusi.»

La donna voleva evitare che una semplice visita si trasformasse in un caso diplomatico, non a pochi giorni dalla pensione. Non poteva dire di no a un generale dell’esercito americano.

«Dodicesimo piano. Stanza 8.»

Tutti i presenti guardarono la professoressa con aria sconvolta. Senza dire una parola, ma solo mostrando quel distintivo, la donna aveva ottenuto quel che voleva. 

Dopo pochi minuti, i quattro giunsero al dodicesimo piano. Proprio davanti alla stanza numero 8.

«Forse è meglio che tu vada da sola. Dopotutto è tua madre.»

La incoraggiò la professoressa. Jim, intanto, si era defilato. Si era diretto verso i distributori automatici. Aveva pensato che offrire qualcosa, sarebbe stata una cosa carina.

La ragazza intanto era entrata nella stanza. In quel momento la donna era sola.

«Ciao, mamma. Mi hanno detto quello che ti è successo e ho fatto il prima possibile…»

«Come? Non sei ancora pronta? Tra un paio d’ore dobbiamo partire e tu non sei pronta?»

«Partire?»

«Mi hanno offerto un posto in Giappone. Staremo lì per qualche tempo. Così potremo anche andare a trovare Aelita.»

«Aelita?»

«Forse non ti ricordi di lei, eri piccola, ma spesso lei ti faceva da babysitter. Mi ricordo che la chiamavi sorellona. Magari se te la descrivo, te la ricordi. Hai i capelli rosa e gli occhi verdi e…»

«Aelita?»

Serena, per alcuni istanti, rimase pietrificata. Si, conosceva una ragazza chiamata Aelita che corrispondeva a quella descrizione, ma quest’ultima aveva suppergiù la sua età. Non aveva in mente nessun’altra ragazza chiamata così.

«Si, la figlia del signor Hopper. Franz, mi pare si chiamasse. Ma forse, quando la incontrerai di nuovo, ti ricorderai di lei. Ora però sbrigati. Suzanne arriverà tra non molto.»

La ragazza uscì dalla stanza senza dire una parola. Senza salutare. Era sconvolta. 

«Tutto bene?»

Il tono di Ash lasciava trasparire tutta la sua preoccupazione. A Xana quelle cose non interessavano. Per cui decise di lasciarlo fare.

«No. Per niente. Mi ha parlato del fatto che avremmo dovuto fare un viaggio in Giappone. Per un suo lavoro. Non ho ben capito. Mi ha parlato di una ragazza chiamata Aelita che…»

«Beh, effettivamente tu sei stata in Giappone. Dal professor Oak. E lì mi hai detto che ci eravamo incontrati per la prima volta e…»

«Si, ma sono passati otto anni da allora, Ash. Otto anni! E da quando siamo tornate in Francia non ci abbiamo più messo piede. Ti rendi conto di cosa voglia dire?»

«Che tua madre è come se fosse tornata a otto anni fa.»

«Ti rendi conto di quanto sia grave? Potrebbe non tornare più in sé. Ho davvero paura. Ash.»

Il ragazzo, d'istinto, la abbracciò. Forte come mai aveva fatto prima. Pikachu salì sulla spalla della ragazza.

«Grazie.»

La ragazza non seppe dire altro.

Pochi istanti dopo, una giovane infermiera fece per entrare nella stanza.

«Ah, tu sei la figlia di Primula, giusto?»

Senza aspettare la risposta della ragazza, la giovane donna porse alla ragazza una sorta di piccola scheda di memoria. Realizzata quasi completamente in plastica nera.  

L'infermiera, abbassò notevolmente il tono di voce.

«Secondo alcuni testimoni oculari l’avrebbe persa l’uomo che l’ha aggredita. Secondo la polizia, invece, l'ha persa lei e non hanno voluto indagare.

Io non credo alla versione della polizia, ma non ho guardato cosa c’è dentro. Nemmeno loro l’hanno fatto.»

La ragazza non rispose. Si limitò a mettere la scheda nella borsa.

Xana, da dentro il corpo di Ash fremeva dalla voglia di vedere quella scheda. Poteva essere una perdita di tempo, ma, in caso contrario, sarebbe potuta essere una miniera d’oro.

Mentre i quattro stavano rientrando in Francia, Jeremy e gli altri si stavano occupando dell’impianto di videosorveglianza all’Hermitage.

Se qualcuno si aggirava per la villa, era necessario sapere di chi si trattasse e che cosa volesse. 

Il biondo stava sistemando gli ultimi dettagli. In particolare si stava occupando della telecamera che dava sul portoncino d’ingresso. Gli altri si stavano occupando di altre telecamere. Una volta concluso il lavoro, la villa sarebbe stata perfettamente coperta. 

Una volta finito il suo lavoro, il ragazzo scese lentamente la scala e si tolse con una mano il sudore dalla fronte. Non era abituato a fare lavori del genere.

Poco dopo anche Ulrich e Yumi terminarono il loro lavoro. Odd, che era con loro approfittando dell’assenza di Jim, invece ebbe alcuni problemi nell’installare la sua telecamera.

«Ehi! Geniaccio! Non funzionerà mai se cerchi di avvitare una vite a taglio con un cacciavite a stella!»

Lo riprese Ulrich.

«Dici? Non l'avevo notato. Comunque sia passami quel cacciavite che dici tu.»

Il ragazzo, in precario equilibrio su di una sedia, rischiò di perdere l’equilibrio e di cadere di schiena. Riuscendo a evitare la catastrofe con un balzo felino. 

L’amico lo sostituì nell’operazione. Finendo di sistemare l’ultima telecamera. Operazione che completò in pochi istanti.

«Einstein, sei sicuro che funzionino? Non è che abbiamo perso tempo… sai, avrei potuto avere un secondo appuntamento con Lucinda, e invece mi ritrovo qui a montare telecamere.»

«Oh, certo che funzionano. Sono in meglio che si può avere. Sono dotate di visione ad infrarossi, sensori di movimento tridimensionali, microfono direzionale e trasmettono il segnale al mio computer tramite una speciale codifica.»

«Einstein, di tutto quello che hai detto, avrò capito al massimo tre parole.»

Il ragazzo non rispose, limitandosi a sorridere.

Alcune ore dopo, mentre Jeremy terminava gli ultimi collaudi sul sistema di videosorveglianza, Aelita stava leggendo un libro che aveva trovato all’Hermitage. Si ricordava che suo padre lo aveva comprato quando avevano trascorso una brevissima vacanza in Sardegna. La ragazza adorava quel libro ed era affascinata da una terra così ricca di storia. 

Non stava prestando particolare attenzione al piccolo televisore appoggiato sulla scrivania.

Stavano dando un programma televisivo in cui veniva spiegato come venivano creati diversi oggetti della vita quotidiana.

Con il commentatore che, ogni tanto, si lasciava scappare delle battute piuttosto squallide. 

La ragazza venne colta di sorpresa da un improvviso cambio di luce. Durato solo alcuni istanti. Alzò lo sguardo, verso il piccolo schermo.

E, per un istante, le parve di vedere l’occhio di Xana sullo schermo.

Chiuse e riaprì gli occhi. Pensò di aver visto male. Di averlo immaginato.

Venne immediatamente riportata alla realtà dall’ esplosione del televisore.

 Numerosissime schegge di vetro si riversarono sul pavimento della stanza.

Per sua fortuna, la sua compagna di stanza non era lì in quel momento. Era a oltre mille chilometri di distanza, nella capitale tedesca, oppure sarebbe potuta essere ferita. Forse anche in modo grave.

La ragazza cercò di essere il più razionale possibile. Non poteva essere Xana. Lo avevano sconfitto tempo addietro. Altrimenti si sarebbe immediatamente precipitata al telefono per contattare gli altri e partire per una missione nel mondo virtuale.

Conosceva a memoria il modus operandi di Xana. Attivare una torre nel mondo virtuale, lanciare uno spettro polimorfo nel mondo reale. Lei si sarebbe precipitata nel mondo virtuale. 

Era raro che tutti e quattro si trovassero contemporaneamente nel mondo virtuale. A turno Ulrich, Odd e Yumi restavano sulla Terra per tentare, insieme ai loro Pokémon, di limitare i danni degli attacchi di Xana, mentre lei e gli altri sconfiggevano i mostri comandati dalla spietata intelligenza artificiale, per permetterle, alla fine, di entrare all’interno della Torre e di inserire il Codice Lyoko, per poter fermare l’attacco e permettere a Jeremy di lanciare il ritorno al passato.

Ma ormai quei tempi erano passati e quella era una semplice coincidenza. Magari uno sbalzo di tensione, magari un difetto del televisore…

Solo che nemmeno lei fu in grado di convincersi della cosa. Era sicura al cento per cento di aver visto quel simbolo. Giurò a se stessa che ne avrebbe parlato solamente se anche a qualcuno degli altri fosse successa una cosa simile.

A furia di osservare quelle telecamere, che inquadravano sempre le stesse cose, qualche Pokémon selvatico, alcune auto che passavano sulla strada, e alcune persone che camminavano, limitandosi a ignorare quella villa, disabitata da anni, Jeremy cadde in un sonno profondo, senza nemmeno accorgersene. Aveva, senza neppure accorgersene, cambiato i DVD ogni due ore circa. Allertato dal segnale acustico che avvisava di come lo spazio nel DVD si stesse esaurendo.

Il giorno seguente Ash e Serena erano tornati, e con loro la Hertz e Jim. Era pomeriggio inoltrato, quasi sera. Eppure nessuno di loro sembrava particolarmente provato dal lungo viaggio.

Eccetto Serena. Aelita non poté fare a meno di notarlo. La sua compagna di stanza appariva estremamente preoccupata.

Immaginava fosse per sua madre. I notiziari avevano parlato spesso e volentieri dell’aggressione subita da Primula, ma avevano parlato di ferite non gravi e di come la donna avrebbe facilmente recuperato. Evidentemente le cose non erano proprio così.

Ora che Jim era tornato Odd non poteva più permettersi di fuggire dalla sua prigionia. Almeno per un altro paio di giorni. Per questo motivo, sia pure contro il suo volere, gli era stato affidato l’ingrato compito di visionare i filmati dell’Hermitage.

Il ragazzo accettò controvoglia. Era geloso.  Gli altri erano all’Hermitage al centro dell’azione. Dopo che Jeremy si era addormentato era chiaro che andare di persona fosse la scelta migliore. Lui, invece, era chiuso nella sua stanza. Costretto a vedere quelle registrazioni. Registrazioni talmente monotone da ricordare una partita di calcio, talmente noiose da far addormentare Jeremy. Cosa ne avrebbe cavato lui?

Dall’altra parte della sua testa, in contrapposizione a questo, si manifestò un pensiero che lo spinse a guardare quei filmati. Istante per istante. Se avesse notato qualcosa che “Einstein” non aveva notato, si sarebbe potuto vantare per secoli.

Il primo dvd, riuscì a guardarlo senza addormentarsi, ma già alla conclusione dello stesso, iniziò a dare i primi segni di cedimento. Crollò totalmente arrivato a meno di un quarto del secondo.

Non seppe quantificare il tempo trascorso da quando si era addormentato a quel momento. Tutto iniziò con una mano, che, delicatamente si posò sulla sua spalla. 

Il ragazzo si girò e rimase ipnotizzato. Gli occhi blu scuro della ragazza brillavano, riflettendo la debole luce della bajour, che il ragazzo aveva acceso senza nemmeno pensarci. La ragazza indossava un semplice pigiama rosa e aveva i capelli sciolti.

«Stavi dormendo?»

Gli chiese in tono gentile.

Odd non sapeva che risponderle. Doveva dirle la verità o inventarsi una scusa. 

«Mi ero solo appisolato un attimo. Non stavo proprio dormendo.»

«Sai, ora che sono sola, in camera mia è una noia, e visto che l’altro giorno siamo usciti insieme, ho pensato di passare da te. Ho provato a bussare, ma non mi hai risposto.

Quindi ho provato ad aprire la porta ed eccomi qui.»

«Ti capisco, dover stare soli quando si è abituati a condividere la stanza è davvero brutto.»

Il ragazzo gettò uno sguardo sul letto del compagno di stanza. Era perfettamente rifatto. Sembrava non ci avesse dormito nessuno da chissà quanto tempo. Invece era semplicemente l'ossessiva precisione del compagno di stanza, di origine tedesca. Quella era solo la prima notte che trascorreva da solo.  

Solo che non poteva dirlo così, o avrebbe rischiato una severa punizione.

«Come mai sei da solo? Come me hai litigato con il tuo compagno di stanza o…»

Litigato?” 

Pensò il ragazzo. A quella domanda, ben presto se ne aggiunse un’altra. Sua diretta conseguenza.

Chi mai potrebbe litigare con una ragazza come lei?”

«No. Nulla di così grave. Semplicemente è dovuto rientrare dalla sua famiglia. Dovrebbe tornare domani. Ecco tutto.»

Insieme il tempo trascorreva più velocemente. E  se qualcuno anche solo accennava ad addormentarsi, poteva essere rapidamente riportato alla realtà.

Avevano ordinato delle pizze e se le erano letteralmente divorate. Se dovevano stare svegli tutte quelle ore dovevano avere energie.

Non sapevano se avrebbero o meno incontrato quel tipo, ma nel caso sarebbero dovuti essere pronti. A turni di mezz’ora uno di loro  guarda le registrazioni, mentre gli altri guardavano la TV.

Fino a quel momento non era successo nulla. Calma piatta.

Calma non era la situazione di Odd. Era stato con tante ragazze, ma con lei era diverso. Non che non si sentisse a suo agio, anzi, tutto il contrario. Stavano parlando delle loro passioni, si stavano scambiando consigli sulle gare e sulle lotte, quando a un certo punto la conversazione si spostò sulla fotografia. 

In Giappone, Lucinda aveva spesso posato per numerose riviste e quindi poteva vantare una discreta esperienza in fatto di fotografia. Gli aveva anche parlato dei vari metodi utilizzati per mettere in risalto questa o quella cosa. E gli mostrò anche degli esempi pratici, sfruttando il portatile del ragazzo.

«Forse ora è meglio che torni in camera. Ma sai, mi sono trovata bene con te. Teniamoci in contatto. Hai il mio numero?»

Non notando alcuna risposta da parte del ragazzo, Lucinda prese l’iniziativa.

 Estrasse un pennarello dalla tasca e scrisse, il numero sulla mano del ragazzo. Molto delicatamente. La punta del pennarello faceva il solletico, ma il ragazzo cercò in ogni modo di trattenere le risate.

Odd era come ipnotizzato dal modo di fare di quella ragazza. Per diverso tempo non sembrava stesse prestando attenzione alle immagini di videosorveglianza.

La ragazza, inaspettatamente, gli diede un bacio. Sulla bocca. 

Facendolo finire completamente in corto.

Non seppe quantificare il tempo impiegato a riprendersi, almeno in parte. Ma quello che scoprì, gli diede il colpo di grazia.

Radunate un secondo le idee, rimosse il DVD dal lettore e lo inserì nel suo computer portatile. 

Fece partire il video attraverso un programma che permetteva di modificare i video e lo fece andare avanti rapidamente, fino a raggiungere il momento incriminato. 

In quel momento iniziò a giocare con le regolazioni presenti sul programma. Inizialmente combinò un vero e proprio pasticcio, rendendo quasi completamente invisibile il video.

Ragionandoci su, comprese il funzionamento dei vari comandi che regolavano il contrasto, la luminosità, la saturazione e altri parametri che prima di allora non aveva mai sentito.

Ora che aveva un’idea di come lavorare, non doveva fare altro che mettersi al lavoro. 

Dopo alcuni inciampi, che avevano portato a dei risultati comparabili a certe opere di arte moderna. Non molto utile quando quello che serve è un’immagine chiara e cristallina, riuscì finalmente nel suo scopo.

Ora l’immagine era più chiara. Non chiarissima ma comprensibile.

Era la sagoma di un uomo alto e dalle spalle larghe. Sembrava che ci fosse qualcosa ai suoi piedi, ma non era ben chiaro di cosa si trattasse.

Quell’immagine poteva comunque essere molto importante, per cui ne salvò una copia. 

Fece un’operazione analoga alcuni frame dopo. In questo caso l’uomo era di profilo, e sembrava avesse un grosso zaino e accanto a lui c’erano due sagome enormi, che non promettevano nulla di buono.

Il ragazzo, pensandoci bene, ricondusse le due sagome erano degli Houndoom, ed erano gli stessi che avevano ferito il Pokémon di Hiroki, per cui era davvero pericoloso. Un secondo pensiero lo raggiunse immediatamente. Se quell’uomo poteva cancellare le sue immagini dalle telecamere, era dotato di grandi risorse.

Il ragazzo si precipitò immediatamente al telefono. Se non poteva andare di persona, almeno li avrebbe avvisati via telefono.

«Ehi! Cosa è successo alla telecamera?»

In quel momento era il turno di Yumi ad osservare le telecamere. Improvvisamente lo schermo era diventato completamente bianco. 

Tutti si avvicinarono allo schermo del portatile. 

Fuori dall’abitazione, Nicolapolus stava ispezionando la villa. Aveva installato delle microspie, e grazie alle stesse aveva scoperto che quei ragazzi bazzicavano spesso per quelle zone. 

Grazie a dei sofisticati sensori di temperatura, aveva notato che all'interno dell’abitazione erano presenti quattro persone. Non l’ideale per agire. Certo era armato e poteva contare sui suoi Houndoom, ma degli spari a quell’ora avrebbero allertato tutto il vicinato. E, per quanto i suoi due Houndoom fossero forti, non lo erano abbastanza da affrontare ventiquattro Pokémon, nella peggiore delle ipotesi.

«Vado a vedere. Ho un brutto presentimento.»

Ulrich sentì una mano sulla spalla e che qualcuno lo  stava tirando indietro. Il ragazzo si voltò.

«Perché non dovrei andare?»

«Ulrich. Non essere impulsivo. Potrebbe essere molto pericoloso. So che tu e la tua squadra siete molto forti, ma cosa ti garantisce che fuori non ci sia qualcuno armato e pericoloso?»

«Oh, si. Hai decisamente ragione.»

Il suo tono era sommesso, ma la sua ragazza aveva ragione. Agire senza pensare sarebbe potuto essere fatale.

Niente. Per quanto tentasse di contattarli, nessuno gli rispondeva. Ogni volta che cercava di mettersi in contatto con i suoi amici, una risposta automatica diceva che il numero chiamato era “spento o irraggiungibile".

Doveva cercare di non farsi prendere dal panico. L’ipotesi più probabile era che fosse caduta la linea, ma lui riusciva a fare le telefonate, quindi era un’ipotesi da scartare.

Lui era in punizione e non poteva uscire. Uscire poteva voler dire solo una cosa. Rischiare di essere espulso. Poteva mettersi in contatto con Lucinda e chiederle di fare da tramite, ma non voleva metterla in pericolo. Non tanto per Jim, quanto per quel tipo che si aggirava per l’Hermitage.

E poi le avrebbe dovuto fornire una spiegazione razionale sul perché avrebbe dovuto raggiungere una villa abbandonata, mettersi in contatto con delle persone che conosce appena e riferire di un tizio che si aggira attorno a quella proprietà per chissà quale motivo…

Troppo complicato. Non che sperare che i suoi amici fossero al sicuro fosse più facile. 

Non potendo uscire a vedere, Ulrich si avvicinò a una delle finestre, per poter osservare meglio. Ben presto si rese conto di non aver fatto un’ottima scelta. La strada era completamente priva di illuminazione, come se qualcuno l’avesse sabotata. 

Probabilmente per passare inosservato.

«Guardate, ora le telecamere hanno ripreso a funzionare!»

Yumi aveva appena concluso il suo turno e Jeremy le stava dando il cambio. 

«Non credo che sia stato un guasto momentaneo. Probabilmente qualcuno lo avrà sabotato»

«Che sia lo stesso che ha attaccato il Pokémon di Hiroki?»

Yumi era piuttosto preoccupata.

«Non ne ho idea. Ma è certo che sa di essere osservato e sta adottando tutte le misure del caso. Come per esempio mandare in tilt le telecamere e mi chiedo di cos’altro sia capace.»

Lo squillo di un telefono fermò lo scambio di parole tra i due. Era Odd. Ulrich si precipitò a rispondere. 

«Ehi! Ma dov’eri che non mi hai mai risposto! Ti avrò chiamato venti volte e mi dava sempre che eri irraggiungibile!»

«Come? Non ho visto nessuna chiamata. Vabbè poco importa.»

«Ho delle novità da dirti!»

I due lo dissero praticamente insieme. 

«Su, vai te!»

Lo invitò il biondo.

«Siamo all’Hermitage e qualcuno è riuscito a sabotare le telecamere e a spegnere l’illuminazione pubblica. Crediamo che sappia di essere osservato. E credo anche che sapesse della nostra presenza.»

«Stavo per dirti la stessa cosa. Riguardando i filmati di sorveglianza ho notato una sagoma di un uomo. Solo che sembrava si fosse cancellato da solo dal filmato. Aveva un grosso zaino sulle spalle.»

«Molto bene. Mi chiedo cosa cerchi.»

«Forse il fascicolo. Ma non è all’Hermitage.»

«Fascicolo? »

«Quando Jim mi ha accompagnato dal preside, ho visto che il signor Delmas stava maneggiando un fascicolo con scritto Waldo Schaeffer.»

«E lo dici solo adesso?»

«Non pensavo fosse importante. Magari erano semplicemente le informazioni che  già abbiamo, stampate su carta.

«Anche se fosse? Se trovi indizi devi sempre dirlo. Per questa volta passi. Ma devi trovare un modo di procurarcelo.»

Il ragazzo chiuse la telefonata senza salutare.

«Odd voleva avvisarci di come quel tipo possa rimuoversi dai filmati. Quindi potrebbe essere stato lui ad aver sabotato la videosorveglianza. Potrebbe essere passato anche stanotte, ma deve aver rinunciato, essendosi accorto di noi. E secondo lui cercherebbe un fascicolo sul Professore.»

Tutti lo guardarono come se fosse un alieno. 

«Fascicolo?»

Gli chiesero tutti, all’unisono.

«Esatto. Infatti mi chiedo perché non ne abbia parlato fino ad ora. Quando è stato mandato dal preside, lo ha visto mentre lo sfogliava. Pensa che lo tenga ancora nel suo ufficio.»

Il giorno seguente i ragazzi si erano dati appuntamento in mensa, per il pranzo. Dovevano decidere come operare per ottenere quel dossier. Poteva essere la svolta. Oppure poteva complicare ulteriormente le cose.

«Ci ho pensato tutta la notte. E forse ho avuto un’idea.»

«Vai avanti. Sono tutto orecchie.»

In realtà Ulrich aveva un po’ di paura. I piani del suo amico non erano mai stati particolarmente brillanti. Ma, dato che gli aveva detto di pensarci lui, doveva fidarsi.

«Se dobbiamo andare nell’ufficio del preside e lui non deve esserci, dobbiamo distrarlo.

«E fino a qui ci siamo.»

«Per cui dovrai parlare con Sissi per chiedere di distrarlo. Vedrai, non sarà difficile. Le chiedi di distrarre suo padre e… quando lo avrà fatto entrerò nel suo ufficio e il gioco sarà fatto. Soprattutto ora che aspettano il fabbro, dato che la serratura dell’ufficio è rotta.»

«La fai facile! E poi cosa le dico? Sentiamo! Hai pensato anche a questo?»

«Oh, beh, si. Pare sia particolarmente gelosa di Serena. Sai, per la gara di lotta in cui ha perso malamente e poi per il fatto che l'hanno accompagnata fino a Berlino.»

«Sì, ma lì era per sua madre.»

«La conosciamo benissimo. Sappiamo che fa sempre così.»

Commentò Aelita, rimasta in silenzio per tutto quel tempo. 

«Quindi che vuoi fare?»

«Inizia parlando con Sissi. Poi ci regoliamo in base a cosa vuole. Oh eccola che arriva.»

Proprio dietro di loro, quasi dal nulla, apparve una ragazza dai lunghi capelli neri. Indossava un top rosa con un cuore giallo disegnato, una gonna bordeaux e delle scarpe sportive. Indossava a tracolla una piccola borsetta. Accanto a lei i suoi tirapiedi, Nicholas e Hervé.

«Mi stavate cercando?»

«Si.»

La ragazza rimase per un attimo senza parole. Ulrich le stava mentendo o aveva davvero bisogno di lei?

«Bene, allora dimmi tutto.»

«Sarebbe meglio se ne parliamo in privato, lontano da orecchie indiscrete.»

La ragazza, sentendosi importante, accettò senza fare storie. In breve si trovarono fuori, vicino alle macchinette. Avevano appena finito di mangiare, per cui il ragazzo decise di offrire un caffè. Il caffè delle macchinette non era il massimo, ma poteva essere un modo per iniziare una conversazione.

«Grazie. Ma adesso dimmi cosa desideri. Mi stai facendo preoccupare.»

«Come vuoi. È una cosa un po’ strana. Vedi ho avuto un piccolo problema con un prof, non importa.»

«E?»

«E mi vorrei vendicare. E per farlo ho bisogno del tuo aiuto. Dovrai distrarre tuo padre, mentre beh, qualcuno si occuperà di… fare il lavoro sporco.»

«Oh, beh. Se lo dici tu. Ma ovviamente chiedo qualcosa in cambio.»

«Dimmi tutto.»

La ragazza rimase in silenzio a pensare. Si. Da una parte era ancora attratta da lui, ma si stava anche frequentando con un altro ragazzo. E se fosse uscita con lui, probabilmente ci sarebbero stati problemi. E poi non ci avrebbe guadagnato in altri sensi. Sapeva che Yumi non avrebbe mosso un dito se gli avesse visti insieme. Sapeva che se era con lei era per ottenere qualche tipo di favore.

Doveva chiedere qualcosa di più materiale. 

«Non so se ti ricordi, ma qualche tempo fa ho perso malamente con quella nuova arrivata. E la cosa mi fa molto male ancora oggi. Tu pensa, io, la regina indiscussa delle gare, sconfitta dalla nuova arrivata…»

«È terribile!»

Commentò il ragazzo, cercando di assecondarla. Non aveva ancora idea di cosa volesse.

«In ogni caso… se vuoi che ti aiuti… devi trovare una persona che possa aiutarmi.»

«Aiutarti? E con cosa?»

«Dovresti trovare una coordinatrice che mi possa aiutare a sconfiggerla. Ma che dico sconfiggerla. Umiliarla. Davanti a  tutti. Pensi di potermi aiutare?

Il ragazzo ci pensò un attimo. Sarebbe potuta andare davvero molto peggio.

«Dammi un secondo. Forse so chi ti può aiutare.»

Il ragazzo tornò in mensa. Era sicuro di trovare il suo amico, ancora lì, a divorare la terza porzione di dolce.

«Odd. Ho bisogno di un grosso favore. Grossissimo.»

«Di che tipo?»

«Avresti il numero di Lucinda?»

«Non me la vorrai rubare?»

Il ragazzo sapeva di poter scherzare su queste cose. Infatti aveva già preso il telefono dalla tasca e cercato nella rubrica il numero della ragazza.

«Ecco qui! Ma puoi dirmi a cosa ti serve?»

«A cosa mi servirà mai? Per il tuo piano malefico!»

Intanto Ulrich aveva finito di salvare il numero della ragazza. Senza dire una parola era già corso da Sissi, che lo stava ancora aspettando davanti alle macchinette. Aveva appena finito di bere il suo caffè.

«Allora?»

«Dammi solo un attimo.»

Il ragazzo prese il telefono e si mise in contatto con Lucinda. La ragazza era salita in camera sua, per riportare i suoi Pokémon. Aveva sentito il telefono squillare e, rispose, senza nemmeno guardare il numero.

Xana sapeva benissimo che quello era il numero di telefono di Ulrich Stern. Ma non poteva permettersi di venir scoperto sin da subito. O il suo piano sarebbe crollato come un castello di carte.

«Pronto? Chi parla?»

«Sono Ulrich, il compagno di stanza di Odd, il ragazzo con cui sei uscita l’altro giorno… »

«Si, ho capito. Il tuo amico è davvero fantastico.»

«Poi, quando lo conoscerai bene cambierai idea…»

Il ragazzo cercò di non ridere.

«Sto scherzando… posso assicurarti che è un bravissimo ragazzo!»

«Vedo. Comunque come mai mi hai chiamato?»

«Vedi, tu sei una super coordinatrice di fama internazionale e una mia amica…»

«Amica…»

Sissi era era felice di esser considerata in quel modo dal ragazzo.

«Una mia amica che  ha un po’ di timore reverenziale nei tuoi confronti, mi ha chiesto di fare da tramite. Vorrebbe che le insegnassi i trucchetti del mestiere… diciamo.»

«Certo, non c’è problema. Dimmi dove sei che ti raggiungo.»

Xana aveva sentito i suoi nemici parlare di un dossier di Waldo Schaeffer, e se loro ne fossero venuti in possesso, anche lui avrebbe potuto visionarlo. E decidere come agire, a seconda del caso.

«Vicino ai distributori automatici. Ah, dimenticavo, non andarci troppo pesante!»

«Arrivo.»

«Ha detto che sta arrivando.»

Ulrich prese il telefono e scrisse un messaggio all’amico. “Ho fatto il mio. Ora dobbiamo aspettare. Quando sarà fuori potrai agire”.

Alcuni minuti dopo, la ragazza dai capelli blu raggiunse i due ai distributori automatici. La ragazza guardò Sissi per un tempo che sembrava infinito.

«Sarebbe lei la tua… amica?»

«Si. »

«Quando vuoi cominciare? Da quanto ho capito vuoi conoscere i trucchetti del mestiere. No?»

«Si, esatto, però aspetta un attimo. Quanto a te…»

La ragazza si stava rivolgendo a Ulrich.

«Farai compagnia a mio padre.»

Sissi prese il suo telefono e chiamò il padre. Mentre la stessa stava effettuando la chiamata, Ulrich scrisse un secondo messaggio all’amico. “Io sarò occupato. Appena sarà occupato anche lui ti avviso”

Il messaggio era piuttosto sintetico, ma abbastanza comprensibile. O almeno sperava che lo fosse.

«Ha detto che ci sarà. Arriverà tra poco. Purtroppo ha del lavoro da fare, quindi ci sarà solo per un’ora. Spero che basti al tuo “agente segreto”.»

«Se non basta, vedremo di farla bastare.»

Sissi aveva mantenuto la promessa. Suo padre il signor Delmas l’aveva raggiunta. Ulrich era un po’ intimorito dalla sua presenza. Non tanto dal suo aspetto, un uomo tarchiato, spessi occhiali rettangolari, vestito elegante, ma per quello che rappresentava. 

«Bene, andiamo. Vediamo cosa sai fare.»

Lucinda si mise in testa al gruppo. Camminava a passo veloce, il signor Delmas faticava a tenere il passo. Questo per Xana rappresentava un piccolo imprevisto, ma non avrebbe cambiato le cose più di tanto.

Alla fine tutti e quattro raggiunsero i campi lotta, che per fortuna non erano molto distanti dai distributori. Erano, invece, piuttosto lontani dalla palazzina amministrativa. 

Il preside, come da tradizione, si accomodò nel trono a lui assegnato. Da quel punto si aveva una vista perfetta sul campo.

Ulrich scrisse l’ultimo messaggio all’amico. “Via libera”.

Nel mentre Lucinda aveva mandato in campo Buneary, e Sissi la sua Clefable.

Per sua fortuna l’amico aveva sempre il telefono sottomano. E, appena letto il messaggio, si mise immediatamente a lavoro.

Giunto nei pressi del palazzo amministrativo, si accorse di come lo stesso fosse completamente deserto. Per fortuna.

La serratura era ancora rotta. Il fabbro sarebbe arrivato solo il giorno dopo.

Il ragazzo aprì la porta e poi la richiuse immediatamente.

L’ufficio del preside era enorme, ma ordinato. Più del solito. Sulla scrivania solo il portapenne e il computer fisso. Su di un muro era appeso un grosso gancio, dove a loro volta erano appese tutte le chiavi dell'istituto. Il preside era un tipo previdente. Voleva assicurarsi di avere il pieno controllo di tutto l’istituto.

Posato su una delle pareti della stanza, un gigantesco archivio metallico. Ovviamente era chiuso a chiave. E, con tutta probabilità, sarebbe stato aperto da una di quelle chiavi.

Nessuna di esse presentava un’etichetta o qualcosa di simile, per poterle identificare. 

«Usa la testa, Odd! Usa la testa!»

Guardando le chiavi e la serratura, si accorse di come potesse escludere, in un colpo solo, una buona parte di quel mazzo. Ora non gli restava che trovare la chiave che aprisse lo sportello in cui, presumibilmente, era contenuto quel documento. Perse altri preziosi secondi nel provare la chiave che aprisse quel cassetto, segnato dalle lettere P-Z. 

Sapeva che nell’istituto, che fossero alunni o professori, tutti venivano archiviati con il cognome.

Ma niente. Per quanto controllasse, il fascicolo del professor Schaeffer non c’era. 

Eppure lui era sicuro di averlo visto.

Sentiva scorrere il tempo in maniera frenetica. Non sapeva quanto tempo avesse. Poi ebbe l’illuminazione.

Quando, qualche tempo prima era stato costretto ad entrare nel suo ufficio, per quell’uscita con Lucinda, lo aveva visto mentre lo sistemava da qualche parte alla sua destra.

Da qui l’illuminazione. 

Si inginocchiò al lato destro della scrivania. E aveva trovato quel che cercava. Dei cassetti. Certo. Erano chiusi a chiave, ma era un buon inizio.

Ben presto si accorse di come tutte le chiavi di cui disponeva, erano troppo grandi per quella serratura. Sicuramente quella chiave si trovava da qualche parte in quell’ufficio, ma dove?

Guardò sotto il piano della scrivania, nella speranza di trovare la chiave appesa la sotto, o, nella peggiore delle ipotesi nastrata.

Ma niente. La chiave non era lì.

La sua ultima speranza era il piano della scrivania, occupato dal portapenne e dal computer. 

Guardò con attenzione il portapenne.  Sembrava che l’interno fosse più alto dell’esterno.

 Come se avesse un doppio fondo. Il ragazzo lo prese e svitò la base. Al suo interno un piccolo mazzo di chiavi. 

Prese il mazzo e aprì il primo cassetto.

Al suo interno una cartellina gialla con su scritto, con un pennarello nero Waldo Schaeffer. Se lo infilò sotto la maglietta, richiuse il cassetto e risistemò le chiavi e il portapenne.

Infine corse fino a camera sua, dove depositò la refurtiva e scrisse un messaggio all’amico. “Fatto. Davvero difficile”.

Quel pomeriggio, i ragazzi si radunarono nella stanza di Ulrich e Odd.

Il dossier era sulla scrivania dei due ragazzi. Ancora non era stato aperto. 

«A te l’onore.

Aelita si alzò dal letto e rimosse l’elastico che teneva chiuso il dossier. Provava uno strano mix di emozioni. Dopotutto quel faldone conteneva delle informazioni riguardo suo padre.

La ragazza aprì il dossier. Al suo interno un’ulteriore busta chiusa. Di colore simile al rivestimento esterno. Su di esso una scritta. “Grazie per aver accettato di conservarlo, Jean”.

«Aspetta un attimo!»

«Questa è la scrittura della Hertz!»

Yumi completò la frase del suo ragazzo.

«Come immaginavo. Ha mentito. Ora dobbiamo capire in che modo.»

Le fece eco Jeremy.

«Ad ogni modo…»

Aggiunse poco dopo.

«Vediamo che segreti nasconde.»

Molto delicatamente, il ragazzo ruppe i sigilli del fascicolo. Una volta fatto questo, estrasse una grossa pila di fogli.

«Sembrano i piani di costruzione del Supercomputer. Mi chiedo cosa se ne facesse la Hertz. E poi…»

«Che quello fosse il Supercomputer me ne sono accorto. Non sarò un genio come te, ma il Supercomputer lo so riconoscere. Piuttosto quel messaggio in codice…»

Lo interruppe Odd, mentre indicava diversi bozzetti del Supercomputer, visto da diverse angolazioni.

«Calmati. Ci stavo arrivando. Non è un messaggio in codice. È Hoppix. Il linguaggio di programmazione in cui è stato creato Lyoko. Solo che non ho idea di cosa possa fare.»

«E allora perché non lo provi?»

Lo provocò Odd

«Il Supercomputer resterà spento in ogni caso. A mano che non sia strettamente necessario. E poi non abbiamo la minima idea di cosa faccia. Potrebbe anche causarne l’autodistruzione.»

«Ma non è quello che voleva il Professore? Ahia!»

Odd si beccò una gomitata nelle coste da Ulrich.

«Non dimenticare cosa dobbiamo fare PRIMA! È la cosa più importante.»

«Certo, hai ragione! Ma la prossima volta non essere così violento.»

Mentre sfoglia i diversi fogli, il ragazzo fece, involontariamente, cadere un piccolo foglietto di carta, una sorta di post it.

«E quello cos’è?»

Aelita aveva notato quel piccolo foglietto di carta. E lo aveva raccolto.

«Guardate, un indirizzo di…»

«Bruxelles»

Yumi concluse la frase dell’amica.

«E sembra che sia stato scritto dalla Hertz. E questo vuol dire solo una cosa. Ha a che fare con il Professore. Riesci a procurarmi due biglietti per venerdì o sabato?»

«Due?»

Ulrich si sentì preso in causa.

«Pensavi andassi da sola? E poi, che vuoi che siano un paio d’ore di treno?»

«Ok. Ci metto due minuti a procurarvi i biglietti, ma mi chiedo cosa ci possa essere in un altro Stato.»

«Non saprei. Ma se va bene anche solo la metà di come è andata la scorsa volta…»

«Va bene.» 

Un rumore non ben definibile riempì la stanza. Due biglietti Parigi-Bruxelles e altrettanti Bruxelles-Parigi erano appena usciti dalla stampante.

Qualche ora dopo, si trovarono tutti nelle rispettive stanze. Andare all’Hermitage era inutile. Quel tizio poteva essere pericoloso e sembrava che non agisse in loro presenza. E, in ogni caso era capace di eliminare la sua presenza dall’impianto di videosorveglianza.

«Posso usare il computer?»

«Ma certo! Ci mancherebbe! Accomodati pure. La prossima volta usalo pure senza chiedere.»

Serena si sedette sulla sedia e accese il computer. Il pulsante di accensione si illuminò di una luce blu, mentre sul monitor apparve la schermata di caricamento del sistema operativo.

Dopo una trentina di secondi, il computer era pronto per essere utilizzato.

La ragazza selezionò il motore di ricerca e si bloccò. Rimase imbambolata a fissare lo schermo, che mostrava la homepage del motore di ricerca.

«Hai detto che ti chiami Aelita, non è vero?»

«Esatto. Lo so. Non è un nome molto comune. È un nome di origine russa, quindi puoi immaginare il motivo.»

«Si, immagino. Avresti potuto dire lo stesso per me.» 

«Ora che ci penso sei la prima ragazza che conosco a chiamarsi Serena.» 

«Sai, io ho origini italiane. Da parte dei miei nonni paterni, e io mi chiamo proprio come mia nonna, ma non so quanto possa essere interessante.»

«Se parlarne ti fa stare meglio, vai pure.»

«Stare meglio?»

«Credi che non me ne sia accorta? È da quando sei tornata dalla Germania che ti vedo strana. Preoccupata, ecco.»

«Non ti si può nascondere nulla. La verità è che mia madre è stata aggredita da un finto tassista e mi è stato permesso di andare a visitarla. Quando sono andata a trovarla è come se fosse tornata ad otto anni fa. Almeno. E mi ha parlato di una ragazza che si chiama Aelita e, come te, aveva i capelli rosa e gli occhi verdi.

Mi diceva che mi faceva da babysitter quando avevo tre o quattro anni. So che non puoi essere te, abbiamo più o meno la stessa età… ma per il resto corrispondi perfettamente alla sua descrizione.»

«Sarà per l’aggressione che ha subito. Oppure si tratta di una semplice coincidenza. E poi, oggi dovrebbe avere almeno venticinque anni. Ma secondo me, se cerchi potresti trovarla e metterti in contatto con lei. Magari si ricorda di te.»

Nemmeno lei credeva alle sue parole. Ma non poteva di sicuro raccontarle la verità sulla sua identità. 

Serena, intanto, si era fatta coraggio e aveva iniziato a digitare le prime lettere sul motore di ricerca. “Aelita H…”

La sua compagna di stanza, per un attimo sentì mancare l’aria nei polmoni. Sperava di non esser stata notata.

Intanto, Serena aveva finito di digitare e aveva avviato la ricerca e stava iniziando a scorrere tra i risultati.

«Studentessa di tredici anni e suo padre scomparsi nel nulla.» 

L’articolo era datato sette giugno millenovecentonovantaquattro.

La ragazza cliccò sul link, che, nonostante avesse oltre dodici anni, funzionava perfettamente. Un pop-up indicava che l’articolo proveniva dall'archivio del sito e che sarebbe stato impossibile interagire.

«Aelita Hopper, studentessa di tredici anni del collegio Kadic, e suo padre Franz Hopper, professore di scienze presso lo stesso istituto, sono scomparsi nel nulla.

Le autorità hanno diffuso una foto dei due. Nel caso li incontraste, mettetevi in contatto con la più vicina stazione della gendarmeria.»

La ragazza cercò la fotografia. Invano. Probabilmente era stata rimossa quando l’articolo era stato archiviato.

La ragazza provò a cercare in tanti altri siti, senza trovare nulla di utile. Solo un articolo, datato alcuni mesi dopo, attirò la sua attenzione.

«Caso Hopper archiviato per mancanza di prove.»

La ragazza era perplessa. Come potevano padre e figlia scomparire nel nulla e non lasciare nemmeno un minuscolo indizio, una minima prova, niente di niente. 

Ben presto la sua preoccupazione divenne un’altra. Se davvero Aelita e suo padre Franz Hopper sono vissuti realmente, perché sua madre era convinta che fossero ancora in vita, anni dopo la loro scomparsa? Poteva essere per colpa dell’aggressione o c’era qualcosa di più?

Senza dire una parola corse fuori dalla stanza con il telefono in mano.

Compose rapidamente il numero della madre e fece partire la telefonata. Nel farlo scordò che sua madre si trovasse ancora a Berlino, ricoverata in ospedale e che, quindi, avrebbe speso un patrimonio per quella telefonata. Ma in quel momento i soldi non erano di sicuro la sua preoccupazione.

Non sapendo se sua madre si fosse ripresa o meno, doveva anche scegliere come approcciarsi. Alla fine scelse un approccio diretto. Le avrebbe fatto la domanda direttamente.

La donna rispose dopo alcuni squilli.

«Ciao Serena, dove sei? Non sei pronta? Dobbiamo partire. Potrai rivedere Aelita dopo tutti questi anni!»

«Mamma! Aelita è scomparsa alcuni anni fa. Insieme a suo padre. Sono grande, puoi dirmi la verità. Non mi metterò a piangere.»

«Come vuoi. Dobbiamo partire lontano dalla Francia perché delle persone molto pericolose ci cercano. Proprio per via del padre di Ae…»

Attaccò prima che la madre finisse la frase. E tornò in camera. E effettuò una nuova ricerca. Questa volta cercò solo il nome di Franz Hopper. Dopo alcune decine di risultati simili, finalmente la ragazza trovò quello che cercava.

«Attentato terroristico al collegio Kadic. Rivendicato da terroristi internazionali. Dateci Franz Hopper o ci prenderemo le vostre famiglie.»

La ragazza aprì l'articolo. Era datato circa quattro anni dopo quelli che parlavano della scomparsa del signor Hopper. 

«Una Peugeot 605 imbottita con una tonnellata di esplosivo ad alto potenziale è stata fatta saltare in aria presso il palazzo amministrativo del collegio, causando ingenti danni, all’edificio ma nessun ferito. 

L’attentato è stato rivendicato da un ben noto gruppo terroristico come minaccia all’amministrazione. La loro richiesta è stata quella di consegnar loro il professor Hopper, scomparso nel nulla insieme alla figlia circa quattro anni fa. I terroristi si dichiarano pronti a ritorsioni contro chiunque abbia collaborato con lui.

Le autorità francesi provvederanno a proteggerle al meglio delle loro possibilità.»

La ragazza, che non si era accorta del fatto che la sua compagna di stanza le si era avvicinata e di come anche lei stesse leggendo silenziosamente quell’articolo.

Era troppo occupata a chiedersi cos’altro avesse a che fare la sua famiglia con quell’uomo, se il solo collegamento tra la sua famiglia e il professore era che a volte sua figlia le facesse da babysitter. 

Probabilmente c’era dietro qualcos’altro. Ma cosa? Di sicuro non poteva mettersi di nuovo in contatto con la madre. L'aveva chiamata poco prima e non l’aveva nemmeno salutata. Doveva cavarsela da sola.

Forse la soluzione era quella scheda di memoria, ma voleva vederla da sola. E di sicuro non poteva chiedere alla legittima proprietaria della stanza di allontanarsi. Poteva, invece, aspettare che si addormentasse. Dopotutto le aveva dato il permesso di usarlo senza chiederle ogni volta il permesso.

Si era impostata la sveglia per le tre di notte. Solo vibrazione. Non voleva svegliare la sua compagna di stanza. Non aveva motivo di controllare che dormisse. Perché farlo? A quell’ora, Aelita, doveva essere totalmente tra le braccia di Morfeo.

Accese il computer, che per fortuna era piuttosto silenzioso, emetteva un ronzio appena percettibile, attese il caricamento del sistema operativo e inserì la scheda nel lettore.

Aprì la sola cartella contenuta nella scheda di memoria, che a sua volta, conteneva un solo filmato.

Sembrava il punto di vista di una persona, ma non aveva idea di chi potesse essere. Cliccò su play e il filmato partì. Il video partì con una bellissima donna dai lunghi capelli rosa e gli occhi verdi. Indossava un semplice camice da laboratorio. Più guardava quel video, che, per il momento, era una semplice immagine statica e silenziosa, più domande aveva.

Chi è quella donna?

Pensò.

Cosa vorranno da lei? Cosa le stanno facendo? Perché è legata a quella sedia? E se fosse…?

E tante altre domande che si susseguivano in maniera estremamente veloce. Talmente veloci da essere incomprensibili.

Ora il filmato mostrava un giornale locale, datato due maggio millenovecentonovantaquattro. La ragazza ci pensò un attimo. Era poco più di un mese prima della scomparsa del signor Hopper. 

Lo sguardo tornò sulla donna. Aveva iniziato a piangere. 

Tra le lacrime iniziò a parlare. La sua voce era attutita dal vetro che separava la stanza dov’era prigioniera dal luogo in cui si trovava chi riprendeva la scena.

«Waldo, non pensare a me.»

La ragazza mise in pausa il video. Il volume era più alto del previsto. Sperava che la sua compagna di stanza non si fosse svegliata. Non sentendo alcuna lamentela, prese un paio di cuffie, inserì lo spinotto e regolò di nuovo il volume.

«Mi tengono prigioniera, ma sto bene.» 

Dopo una lunga pausa di silenzio, la donna riprese a parlare.

«Come Sta Aelita? Sono anni che non la vedo… ormai sarà grande… sarà diventata un’allenatrice e…»

Mise nuovamente in pausa il video.

«Aelita?»

Sperava di averlo detto sottovoce.

 Ma, indossando le cuffie, era difficile capirlo.

 Probabilmente quella donna era la madre di quella ragazza di cui sua madre le aveva parlato e… sua madre aveva parlato solo del padre della ragazza. Ma non le tornava una cosa. Il padre della ragazza si chiamava Franz. Poteva essere una semplice coincidenza.

Appena fece ripartire il video, venne gelata da una voce maschile.

«Di tutto quello che sai. Non ci interessa di tuo marito o di tua figlia.»

La donna rimase in silenzio per alcuni istanti.

«Vogliono che ti dica di continuare a lavorare per completare il progetto Cartagine.

 In cambio mi libereranno e noi tre potremo vivere di nuovo come una famiglia.»

La donna rimase di nuovo in silenzio. Come se dovesse trovare le parole giuste.

«Tu non ascoltarli. Non mi libereranno mai e vogliono ucciderti. Tu scappa. Il più lontano possibile.»

A questo punto, sembrò come che l’osservatore venisse tirato violentemente. Le immagini si fecero confuse e incomprensibili.

Quando ripresero a essere comprensibili, l’osservatore inquadrava una scrivania in legno pregiato. Vuota. Seduto alla scrivania un uomo dalla carnagione scura. Vestito completamente di blu. Camicia, cravatta, giacca, cappello, pantaloni, scarpe…

«Per cosa sei venuta qui?»

La ragazza si tolse il primo dubbio. L’osservatore era una donna. Sarebbe quindi più corretto definirla come l’osservatirice.

«Per lo sponsor.»

«E chi ti ha mandato qui?»

«Mio marito. Lavora per lei e mi ha detto che era disposto a finanziarmi in cambio di pubblicità.»

L’uomo accese un sigaro. In breve tempo la stanza venne riempita da un fumo denso e puzzolente.

«E così tu saresti Primula? Sei persino più bella di come ti hanno descritta.»

Alla ragazza si gelò il sangue nelle vene. Era sua madre? E se sì, cosa ci faceva lì? Di che sponsor parlava? Cosa c’entrava suo padre? Sua madre conosceva quella donna? 

Forse avrebbe trovato una risposta guardando gli ultimi istanti del video. 

Lo fece ripartire.

L’uomo posò sulla scrivania due enormi mazzi di banconote di cinquecento dollari. Erano entrambe alte almeno mezzo metro. 

«Prendi questi e fingi di non aver visto niente. Per lo sponsor, vedremo più avanti.»

«Non posso accettare. Non dirò nulla. Ma non posso accettare.» 

«Prendili come anticipo per quella sponsorizzazione. Se non li prendi qui, li avrai comunque, in un modo o in un altro.»

Il video era finito. Di punto in bianco.

«Non capisco. Cosa volevano da mia madre? Chi è quell’uomo?»

Stesso errore. Forse non aveva ben regolato il tono di voce. Si girò verso il letto della compagna di stanza. Era vuoto.

Sarà in bagno.

Pensò.

No. Non era in bagno. 

Non aveva esattamente idea di dove si trovasse. Sembrava una stanza conosciuta. Un mobile sormontato da una tv a tubo catodico, un divano di pelle e una piccola porta di accesso.

Pensandoci bene, comprese dove si trovava. Era la stanza segreta dell’Hermitage. Quella che avevano trovato qualche tempo prima. Dopo quel viaggio a Marsiglia. 

Aveva avuto un attacco di sonnambulismo e, dalla sua stanza era giunta all’Hermitage, attraverso uno dei passaggi segreti. Solo che… come diavolo aveva fatto a  non svegliare la sua compagna di stanza. Probabilmente aveva il sonno pesante o, più semplicemente, poteva pensare che fosse andata al bagno.

Avendo recuperato un minimo la ragione, diede uno sguardo più ravvicinato alla stanza. Si trovava davanti a un muro e aveva iniziato a graffiarlo durante il sonno. 

Si guardò le mani. Erano insanguinate. Si chiese come mai fare una cosa del genere. Provò a bussare in diversi punti della parete.

Suonava come se fosse vuota. Come se…

Non aveva Pokémon con sé. Li aveva lasciati in camera. Doveva inventarsi qualcos’altro.

Si mise alla disperata ricerca di qualcosa che potesse aprire un varco in quella parete. Esplorando i sotterranei, alla fine trovò quel che cercava. Un vecchio piccone. Mezzo arrugginito. 

Lo trascinò fino alla stanzetta e, dopo essersi assicurata che il divano e il mobiletto non si rovinassero, colpì il muro con il piccone. Usò una forza che nemmeno credeva di avere. La parete di cartongesso cedette di schianto. 

Come se chiunque l’abbia costruita volesse che venisse demolita.

La sua caduta fece sollevare un nuvolo di polvere che fece tossire fragorosamente la ragazza. 

Uscì dalla stanza, aspettando che la polvere si depositasse. Nel frattempo rifletté sulle parole di quell’uomo che avevano incontrato a Marsiglia. 

Aveva parlato di una piccola sezione della villa. Non di una stanza. 

Era così facile, eppure solo un attacco di sonnambulismo le aveva fornito la soluzione. 

Voleva mettersi in contatto con Jeremy, ma ben presto si rese conto di non avere alcun modo di farlo. Il telefono era nella sua camera da letto. 

E poi, dal momento che il ragazzo condivideva la stanza, svegliarlo senza allertare il compagno di stanza, non era cosa 

facile. Ma ci doveva provare.

Corse verso il collegio. Giunta di fronte alla stanza del ragazzo, aprì la porta, molto delicatamente. Era a tanto così da schiacciare la coda del Pikachu di Ash. Scivolato dal letto del ragazzo chissà quando.

Scosse il ragazzo, nella speranza che si svegliasse.

«Che succede?»

«Non importa, vieni con me.»

La ragazza era strana. Sembrava avesse visto un fantasma. 

Senza dire una parola, il ragazzo la seguì, facendo attenzione a essere il più silenzioso possibile.

Alla fine raggiunsero la stanza segreta scoperta qualche tempo prima. La polvere si era depositata e l’aria era tornata respirabile.

Il centro della stanza era occupato da uno scanner. Più vecchio di quelli della fabbrica, ma probabilmente dal funzionamento simile.

Accanto allo scanner un terminale di controllo. Simile a quello della vecchia fabbrica, ma anche in questo caso più antiquato.

«Mi chiedo cosa ci faccia qui? Perché mettere un altro accesso a Lyoko?»

«Non sono sicuro che sia un accesso diretto a Lyoko. Non avrebbe molto senso.»

Sappiamo che tuo padre faceva le cose sempre con una ragione precisa.»

«E allora dobbiamo scoprire a cosa serve.»

«Non sarebbe meglio avvisare gli altri?»

«Domani Ulrich e Yumi partiranno per il Belgio, non so quanta voglia abbiano di essere disturbati nel cuore della notte. E poi, ricorda che Xana non c’è più. Non corro pericolo.»

«Hai vinto.»

In pochi istanti la ragazza entrò nel dispositivo e si trovò materializzata nel mondo virtuale. Non era Lyoko, anche se il suo aspetto era quello che aveva nel mondo virtuale. una tuta futuristica di tue tonalità di rosa, una chiara e una scura,una gonnellina e delle spalline trasparenti, e un braccialetto a forma di stella che, all'occorrenza, può far comparire sulla sua schiena.

Un po ’rimpiangeva il suo aspetto originale, da elfa, vestita rosa e verde, ma con il nuovo outfit era molto più forte e, questo non era un male, quando dovevano combattere Xana.

La ragazza si guardò attorno. Per quanto si sforzasse, non riconosceva quel posto. Ricordava la foresta di Lyoko, ma era anche contemporaneamente molto diverso.

Davanti a lei tre grossi alberi, simili a querce. Poco lontana, isolata, un’altra quercia. Del tutto simile alle altre, tranne per l’assenza di cartelli.

«Voglio proprio vedere cosa nascondi.»

«Fai attenzione.»

La ragazza era già entrata al suo interno.

Come il titolo di un film, apparve la scritta “non ti scordar di loro”

La ragazza si trovò catapultata in un luogo familiare. l’Hermitage. Quando ancora viveva con suo padre. La villa era perfettamente ordinata e pulita. 

Decise di visitare l’abitazione. Quel messaggio doveva avere un qualche significato, dopotutto. A chi si riferiva? Di chi non doveva dimenticarsi e soprattutto perché?

Esplorando l’abitazione, non trovò nessuno. Aveva visitato tutte le stanze meno una. Il salotto.

Aveva un bruttissimo presentimento quando aprì la porta della stanza, per questo lo fece molto lentamente. Come se farlo piano, cambiasse qualcosa.

Quando fu dentro, per poco non ebbe un mancamento. Jeremy, pur se non poteva vederla, riuscì a sentirla.

«Tutto bene?»

«No.»

«Come no?»

«Non so come spiegartelo, ma mi sono trovata all’Hermitage com’era quando vivevo con mio padre e ho visto la me del passato. Per quanto sia incredibile.»

«Potrebbe essere una sorta di diario. Te la senti di restare o vuoi tornare?»

«No. Resto. Sembra un posto sicuro. Solo che non mi spiego che cosa intendesse con la frase “non ti scordare di loro”.» 

«“Non ti scordare di loro”?»

«Si, è apparsa quando sono entrata qui dentro. Ora che ci sono voglio vedere di che si tratta.»

Mentre Aelita finì la frase, qualcuno suonò il campanello. 

L’Aelita del passato si alzò dal divano e andò a vedere chi suonava. 

L’Aelita del presente la seguì con lo sguardo. Temeva di essere vista, ma, apparentemente, venne ignorata. All’ingresso vi era suo padre e un altro uomo Poco più alto di lui, completamente pelato. Occhi chiari. Teneva in braccio una bambina di tre o quattro anni. Lunghi capelli color miele e occhi blu. Aelita sentì di nuovo quella sensazione. Quei capelli, quegli occhi… 

No. Non poteva essere lei.

Doveva scacciare quel pensiero ad ogni costo. 

Per sua fortuna, Jeremy non si accorse di nulla.

L’uomo senza capelli si inginocchiò per depositare la bambina.

«Aelita? Ti puoi occupare di Serena per questo pomeriggio? Primula è fuori città e io e Jean dobbiamo andare a lavoro. Sai di cosa si tratta. Non serve che ti spieghi, vero?»

«Certo, il progetto. Non ti preoccupare. Come sempre la tratterò come se fosse la mia sorellina.» 

La ragazza del passato sorrise alla bambina, che sorrise a sua volta.

L’uomo senza capelli prese il portafoglio e diede alla ragazza due banconote da cinquecento franchi. 

«Per la settimana scorsa. Sei stata bravissima. Serena non vedeva l’ora di tornare da te.»

I due se ne andarono. Diretti, con tutta probabilità, alla vecchia fabbrica.

«Sovellona, mi leggi una stovia?»

«Certo. Cosa vuoi che ti legga?»

«Novamalas.»

l’Aelita del passato fece un'espressione facilmente traducibile come “sarà la decima volta che te la leggo”. 

Ad ogni modo, aiutò la bambina a sistemarsi sul divano e prese il libro.

l’Aelita del presente guardò quel libro. Si, era molto più nuovo, ma era lo stesso libro che stava leggendo quando era esploso il televisore. E, ironia della sorte, era proprio la storia che stava leggendo.

Era, per l'appunto, un racconto popolare della Sardegna, scritto con l’intenzione di trasmettere il messaggio di essere generosi e condividere il poco che si ha con gli altri. 

Questo modo di comportarsi verrà attuato da uno dei due protagonisti della storia, due fratelli. 

Uno dei due uomini era povero e doveva badare ad una famiglia numerosa, il secondo era ricco e senza figli. Il fratello povero, durante il viaggio si mostrò generoso con le persone che aveva incontrato durante il viaggio ed era stato premiato. Il fratello ricco, mostrandosi avaro e menefreghista, verrà punito.

In seguito l’Aelita del passato aveva fatto fare merenda alla bambina e le aveva mostrato i suoi Pokémon, che, beh per la ragazza del presente non erano di sicuro una novità, dal momento che la sua squadra non aveva subito variazioni. Lucario, Togekiss, Gardevoir. L’aveva vista raccontare alla bambina cosa si provasse ad essere un’allenatrice e del fatto che, un giorno, se avesse voluto, anche lei lo sarebbe stata.

Per il resto del pomeriggio non accadde nulla di eclatante, fino al ritorno dei due uomini. 

«Mi chiedo come sia andato il Gran Premio. Vediamo un po’.»

Il Professore si sedette sul divano, e fece cenno all’uomo di fare altrettanto. In quel momento la TV era spenta e la piccola Serena stava colorando un disegno di un grosso album da colorare.

Il professore accese l’apparecchio e lo sintonizzò sul canale di notizie.

Sullo schermo televisivo inquadrarono una giornalista, vestita elegante, seduta dietro a una scrivania bianca. Il pavimento dello studio era costituito da enormi pannelli lucidi blu.

Dietro la donna una sagoma a forma di Francia colorata coi colori della bandiera nazionale e diversi monitor che trasmettevano le anteprime dei servizi. 

«E ora una notizia dell’ultima ora.»

Il tono della giornalista era tremante. Sembrava sul punto di piangere. Cosa inconsueta per una giornalista di quel livello.

«Una notizia che mai avremmo voluto dare. Dopo il bruttissimo incidente avuto da Rubens Barrichello nelle prove libere, l’incidente in cui ha perso la vita il pilota austriaco Roland Ratzenberger, di cui vi avevamo comunicato nella serata di ieri, altri due incidenti hanno funestato il Gran Premio di San Marino.»

L’Aelita del presente, finalmente ebbe un riferimento temporale. Era il primo maggio del millenovecentonovantaquattro. Poco più di un mese prima della fuga.

E, in quei giorni, apparentemente, la loro vita era ancora “normale”.

«Alla partenza vi è stato un contatto tra la Lotus di Pedro Lamy e la Benetton di JJ Lehto. I piloti non hanno riportato ferite, mentre nove spettatori sono stati feriti, di cui uno gravemente.

La gara è stata immediatamente neutralizzata con una bandiera rossa. 

Alla ripartenza, Ayrton Senna ha mantenuto la testa della gara. 

Al settimo giro, la Williams del tre volte campione del mondo, ha avuto un problema di natura non chiara, mentre affrontava in piena velocità la ben nota curva del Tamburello. 

L’impatto, a oltre duecento chilometri orari è apparso fin da subito molto grave. Rapidissimo l’intervento dei medici, arrivati in meno di due minuti, che, accortisi delle gravissime condizioni, hanno allertato immediatamente l’elisoccorso.

Alle diciotto e quaranta minuti la notizia che nessuno di noi avrebbe mai voluto dare. Ayrton Senna è morto.»

Gli occhi di suo padre erano lucidi, era sul punto di piangere. Senna era l’idolo di suo padre.

Tuttavia, non poté pensare molto a questo. In quel mondo fermo a dodici anni prima, le cose continuavano, inesorabilmente ad accadere. 

«Pevché movto?»

Il tono della piccola Serena era innocente. Era una bambina di poco più di tre anni. Era normale che facesse così.

Il comportamento dell’Aeilta del passato e di quella del presente fu sorprendentemente simile. Entrambe rimasero diverso tempo a pensare. Faticavano a trovare un modo per spiegare qualcosa di tanto complesso a una bambina così piccola. Pensarci, forse le sarebbe anche stato d’aiuto per un compito di letteratura, che aveva proprio quello come compito. Parlare di come la morte venisse trattata da alcuni autori, dai media e come la tratti come affronti la perdita di qualcuno vicino.

Dopo una lunga pausa di silenzio, la ragazza aveva trovato delle parole che, probabilmente riteneva adatte a una bambina così piccola. 

«Perché qualcuno di molto cattivo ha voluto così.» 

«E ova?»

«E ora non potrà mai più rivedere i suoi amici e la sua famiglia.»

«Triste. Io non voglio Movta.»

«Nemmeno io.»

Qualsiasi cosa fosse, era finita. Tutto attorno a lei si era sciolto come se fosse stato versato dell’acido.

 E, un sistema automatico chiedeva alla ragazza se volesse rivivere tutto da zero o volesse uscire.

La ragazza scelse la seconda opzione.

Non poteva saperlo, ma la sua compagna di stanza, che si era accorta della sua assenza, e che, ben aveva compreso che no. Non poteva essere semplicemente andata in bagno. Era passato troppo tempo. Non riuscendo a prendere sonno, decise di mettersi a lavoro sul compito di letteratura. 

Era soddisfatta delle prime due parti. La terza parte non l’aveva nemmeno iniziata, ma, proprio in quel momento, le venne l’illuminazione.

Se penso alle parole che mi disse una ragazza molti anni fa e che non mi so spiegare come, mi sono venute in mente proprio adesso, posso dire di averla affrontata.

Una persona, dopo la sua morte, non può più vedere i suoi amici e la sua famiglia”. Questa frase, se ci pensiamo, non solo descrive quello che accade a una persona che perde la vita, ma vale anche al contrario. 

Secondo questo ragionamento, suo padre era morto. Ma a lei non importava.

Perché chiunque, in un certo senso, anche le persone ancora in vita, non possono più vedere un loro familiare, un loro amico, o che sia. 

Quindi, in un certo senso, ogni volta che perdiamo una persona cara, una parte di noi, perde la vita”

Mentre la ragazza scriveva, di getto quelle parole, Aelita aveva raggiunto le tre grosse querce di prima. Notò

«Posso tenere per me quello che ho visto prima? Per me e per una persona che non dovrei aver dimenticato?»

«Come vuoi. Poi lo diremo anche agli altri.»

La ragazza entrò nella prima delle tre querce. Il cartello, davanti ad essa, recitava “Fine del progetto Cartagine". Anno 1985”

Come fatto in precedenza, la ragazza entrò all’interno della quercia.

Chiaramente non si trovava all’Hermitage, ma in un grande laboratorio. Sembrava totalmente deserto e privo di finestre.

La maggior parte dello spazio era occupato da enormi tavoli in metallo, a loro volta occupati da computer, microscopi e strumenti che mai aveva visto fino ad allora.

Di colpo la stanza venne illuminata da una serie di luci al neon, che illuminarono il laboratorio di un triste bianco freddo, che lo faceva somigliare a un obitorio.

In quel laboratorio entrarono due persone, che la ragazza ben conosceva. I suoi genitori. Erano intenti a lavorare a qualcosa di cui non aveva idea. Probabilmente proprio il “Progetto Cartagine”.

La ragazza soppresse l’istinto di andare ad abbracciarli. Aveva già provato e compreso che quello non era altro una simulazione. Gli avrebbe attraversati come fantasmi.

«Se mio padre ha deciso di mostrarmi questo, che c’è un motivo. Mi chiedo quale.»

«Non so che dirti.»

Le rispose il ragazzo.

«Probabilmente voleva che tu scoprissi la sua storia. Ti consiglio di stare attenta e di guardare con attenzione.»

La ragazza non rispose. Si limitò a osservare quello che accadeva attorno a lei.

«Sono così stanco.»

Aelita guardò suo padre. Sebbene indossasse il tipico camice da laboratorio bianco, che gli dava un aspetto quasi autoritario, era ben evidente come l’uomo non dormisse da tempo.

«Quanto tempo serve ancora?» 

Aelita rabbrividì. Erano anni che non sentiva la voce di sua madre. Ma non poteva pensarci troppo. Suo padre le aveva risposto immediatamente.

«Al massimo due mesi. Tre, nella peggiore delle ipotesi. E finalmente finiremo questa storia di Cartagine. E quello sarà un grande giorno per tutti.»

Anthea si accorse immediatamente di come nemmeno il marito credeva a quelle parole.

«Cosa c’è che non va?»

Il tono della donna era estremamente preoccupato.

«Ho trovato quei documenti di cui avevamo parlato. È stato difficile.»

«E?»

«Purtroppo i nostri sospetti erano fondati. Salvare il mondo? Credevi davvero che quello fosse l'obiettivo del progetto? Anzi. Potrebbe essere la sua rovina. All’interno della Prima Città, è stata inserita, una zona oscura. Che noi non possiamo controllare. Nemmeno volendo. Temo che questa potrebbe essere usata per trasformare Cartagine in un'arma di distruzione.»

Similarmente al luogo precedentemente visitato, tutto attorno a lei si sciolse. Ma nessun sistema le chiedeva se voleva rivivere tutto da capo. Come se mancasse ancora qualcosa.

E in effetti era così.

Ora la ragazza si trovava in una stanza semplice ma accogliente. Un piccolo salotto con all’interno un divano e un tappeto. Le pareti della stanza erano ricolme di librerie ricolme.

I suoi erano seduti sul divano. 

Dando uno sguardo alla stanza, vide se stessa, quando ancora era una bambina di tre anni. Stava giocando con un pupazzo a forma di elfo. L’aveva riconosciuta. Era la sua bambola preferita. Sapeva di averla avuta da quando era molto piccola, ma non pensava così tanto.

I suoi genitori avevano iniziato a discutere. L’argomento era il medesimo di poco prima. Il progetto Cartagine.

«No, non me la sento. Sai benissimo che per questo progetto abbiamo sacrificato tutto. Aelita è nata qui, in una base militare. Sono mesi che non vediamo nessuno, al di fuori di militari e colleghi.

E per cosa? Per creare un’arma di distruzione? No. Non lo permetterò.»

La donna cercò di calmarlo.

«Attento. Potrebbero sentirci. E sai cosa significa. Non siamo sicuri di niente.»

«Non me ne importa!»

L’uomo alzò non poco il tono di voce.

«Anche se mi sentissero… devono sapere la verità.Non abbiamo costruito Cartagine per questo. Non posso permettere che venga usata come arma.

Dovevamo controllare le comunicazioni elettriche per aiutare tutte le persone che si trovano in difficoltà economiche. Non mi importa dove vivano o cose del genere. Io non voglio che venga usata come arma di controllo per una guerra. Solo il pensiero di vedere il mio nome tra chi ha progettato un’arma che porterà alla morte di umani e Pokémon, mi fa ribrezzo.»

La donna lo strinse in un forte abbraccio.

«Sono d’accordo con te. Ma ora è troppo tardi. Saranno in grado di concludere il progetto senza il nostro aiuto. E poi? Sai benissimo che ormai siamo una famiglia. Non puoi non pensare ad Aelita. Sai meglio di me che esporsi è sempre un grosso rischio.»

I due stettero in silenzio per un tempo enorme, mentre fissavano la piccola Aelita, intenta a giocare con quella bambola.

Finalmente l’uomo trovò la forza di parlare di nuovo.

«Possiamo comunque scappare. Non so ancora come, ma un modo per farlo, lo troveremo. Prima di fuggire distruggeremo tutto. Ci prenderemo quel che ci serve e scapperemo con Aelita.

Faremo in modo che il nostro lavoro non venga perduto, costruiremo la nostra Cartagine e la utilizzeremo solo a fin di bene.

Non resta che trovarle un nome.»

Solo in quel momento la ragazza vide il sistema che le chiedeva se volesse uscire o rivedere tutto da capo.

La ragazza scelse la prima opzione e, come per magia, si ritrovò davanti alle tre querce.

Entrò in quella al centro.

Sul cartello la scritta “Una vita in incognito. Anni 1985-1988”

Ora la ragazza si trovava all’esterno di una base militare. Nonostante fosse una ricostruzione, riusciva perfettamente a percepire il freddo di quel giorno. Era caduta tanta neve, e il cielo ne prometteva altra.

L’ambiente era illuminato, in maniera alternata da diversi enormi fari, per sopprimere ogni tentativo di fuga.

Ovunque uomini giravano per la base, scortati da esemplari di Houndoom.

In cielo volavano numerosi elicotteri, che producevano un gran fracasso.

Tutto in quell’ambiente sembrava mettere pressione. Era una sensazione difficile da spiegare. Ma non ci si poté dedicare a lungo. Ben presto la sua attenzione venne attratta da due sagome. Un uomo e una donna, che correvano verso una delle Jeep.

La ragazza fece altrettanto, accovacciandosi nel sedile posteriore.

Guardano meglio i due, si accorse di come entrambi indossassero dei pesanti cappotti e un passamontagna. In particolare, la sua attenzione venne attratta dall’uomo. Indossava un cappotto enorme. 

Saliti a bordo, la donna si tolse il passamontagna. L’uomo no. Come se dovesse proteggere la sua identità ad ogni costo.

La ragazza poté finalmente vedere in viso la donna. E, non sapeva spiegarsi come, ma le sembrava un volto familiare.

«Professore. Lasci fare a me. Stia tranquillo.»

L’uomo non rispose.

Abbassò leggermente la zip del giubbotto e, rivolgendosi al suo interno disse solo cinque parole.

«Sta buona. Presto finirà tutto.»

Ora tutto era coperto dal rumore del motore della Jeep. un suono basso e ripetitivo.

Il mezzo attraversò il cortile della base, fino al confine della stessa, protetto da diverse guardie armate. Sembravano tutte uguali. Abiti mimetici e mitra a tracolla.

Una di esse puntò l’arma contro i due. L’altro si limitò ad avvicinarsi alla conducente.

«Buonasera Maggiore Steinback.»

«Riposo, Soldato. Piuttosto. Aprite la porta. Ho fretta.»

«Mi spiace comunicarle che a causa di una violazione nella sicurezza, per questa sera sono vietati ingressi e uscite.»

«Senta.  È un ordine del colonnello in persona. Pensa che quell’uomo sia vestito in quel modo perché ha freddo?  O mi fa passare o sa dove glielo metto quel mitra?»

«Sissignara. Provvedo immediatamente.»

L’uomo, intimorito dal tono di quella donna, fece immediatamente alzare la sbarra.

La Jeep corse a gran velocità, lontano dalla base.

Quando furono abbastanza lontani, finalmente il professore poté togliersi il passamontagna.

«Non posso non essere preoccupato. Io e Aelita siamo al sicuro, ma Anthea…»

«Non si preoccupi.»

La donna cercò di essere il più gentile possibile.

«Ci siamo già messi al lavoro per ritrovarla. Stiamo indagando su chi l’ha rapita e sul motivo per cui l’abbia fatto. Siamo appena all’inizio, ma glielo prometto. La troveremo. Intanto lei è in salvo e siamo riusciti ad avere quel che le serviva. È già qualcosa.»

Questa volta la transizione fu più delicata. La ragazza si trovò, di punto in un prato. Le bastò alzare lo sguardo, per riconoscere quel luogo. L’Hermitage.

Allora quella villa, di inizio secolo, di tre piani, con un basso garage appoggiato sul lato destro, aveva tutto un altro aspetto. 

Probabilmente era stata ristrutturata da poco.

Era sempre inverno, ma dovevano essere passati degli anni. Forse era proprio il momento in cui lei e suo padre si erano trasferiti lì. La sua ipotesi era rafforzata dalla presenza di un cartello con scritto “venduto”. 

Aveva visto suo padre e quella donna scendere dal furgone dei traslochi, appena arrivato sul posto. 

L’uomo aiutò la figlia a scendere dal furgone. Sembrava che avesse paura di cadere dal sedile, ora che la porta era aperta.

L’argomento della conversazione dei due, a distanza di tanto tempo non era cambiato. 

«Credo che potrete stare qui per un po’.»

Esordì la donna, questa volta vestita in borghese.

Non fece in tempo a scendere che corse immediatamente ad aprire il vano di carico e a iniziare a scaricare gli scatoloni.

«Penso sia positivo per Aelita, è il terzo trasloco in pochi anni. Penso che un po’ di stabilità le faccia bene ma…

«So cosa stai per dire.»

Lo anticipò la donna.

«Non l’abbiamo ancora trovata. Sappiamo che è stata rapita da un soldato chiamato Mark James Hollemback. Allora era un militare che lavorava nella base. Al momento del rapimento aveva ventun’ anni e serviva nell’esercito da tre. Eravamo sulle sue tracce, ma…»

«Ma?»

Chiese il professore. 

«Ma… ha cambiato identità e si è unito a un’organizzazione terroristica e ha fatto perdere le sue tracce.»

Aelita non sapeva che fare. Da una parte sapeva chi aveva rapito sua madre. Sapeva almeno come si chiamava. E sapeva che faceva parte di un’organizzazione terroristica. Quindi non era pensabile agire senza avere le idee chiare.

«Ho anche una buona notizia per il tuo progetto. Mi sono messa in contatto con il proprietario di un edificio poco lontano da qui. Una ex fabbrica della Renault.

Potremo sfruttare i piani sotterranei come laboratorio. Non voglio darti false speranze, ma il proprietario sembra molto interessato al progetto.»

«Bene. Ma ti prego. Non smettere di cercarla.»

L’uomo estrasse il pendente da sotto il maglione.

Era lo stesso pendente che Aelita aveva trovato nel mobiletto. Che suo padre aveva voluto che lei trovasse.

«So che è viva e che sta bene. Me lo dice questo pendente.»

«Certo. La ritroveremo ad ogni costo.»

A questo punto riapparve la schermata che chiedeva alla ragazza se voleva rivivere tutto o uscire. Lei scelse di uscire.

E si ritrovò, di nuovo, di fronte alle tre querce.

Si avvicinò alla terza. E ne lesse il cartello.

«Entra qui solo se sei veramente pronta.»

La ragazza rimase a pensare alcuni istanti.

«Sono pronta.»

La ragazza fece per entrare, mentre, nel mondo reale, il ragazzo guardò l’ora nel suo telefono.

«Sono le cinque del mattino. Tra un paio d’ore Ulrich e Yumi dovranno andare alla stazione. Forse è meglio tornare alla base. O potrebbero insospettirsi. Ormai i prof ci conoscono. Se loro sono fuori, è meglio per noi restare dentro. E poi lo scanner mica scappa.»

«Hai ragione. Meglio evitare di attirare troppo l’attenzione.»

Jeremy avviò le procedure di rientro e, nel mondo virtuale, il corpo della ragazza iniziò a smaterializzarsi, per poi riapparire nel mondo reale.

L’espressione della ragazza diceva tutto. Era stanca perché aveva dormito poco e sconvolta per tutto quello che aveva scoperto.

«Hai ragione, ho già molto da metabolizzare. Ma d’altra parte ti ringrazio per avermi permesso di farlo.»

I due, facendo la massima attenzione a non fare rumore, tornarono al collegio e quindi nelle rispettive stanze. Jeremy non ebbe problemi, non con Ash, che dormiva. Xana si era accorto della sua assenza, ma dai suoi calcoli aveva la certezza matematica che la sua assenza aveva avuto a che fare con qualcosa di suo interesse, per cui la cosa migliore da fare era lasciare che continuasse.

«Ma dov’eri? Mi hai fatto preoccupare.»

Aelita comprese subito di non esser stata altrettanto fortunata. Non poteva di sicuro raccontarle la verità. Ma non poteva nemmeno dirle di essere andata in bagno. Era una scusa che non reggeva.

«Mi sono alzata per andare in bagno e non ti ho trovata nel letto. E non sono più riuscita ad addormentarmi. Mi hai fatto preoccupare tantissimo.»

«Ho avuto un attacco di sonnambulismo.»

Capì che la scelta migliore era quella di raccontare almeno parte della verità.

«E quando mi sono svegliata, dopo aver capito quel che era successo, ho deciso di rimanere 

dov’ero per evitare di svegliarti.»

«Insomma. Ci siamo preoccupate l’una per l’altra, possiamo fingere che non sia successo nulla, ma… dov’è che sei andata che sei così messa male?»

Aelita non si era ancora vista. Aveva gli occhi rossi ed era tutta impolverata.

«Nella soffitta. Non chiedermi come ci sono arrivata, ma…»

«Ok, capisco. Ma adesso riposati.»

Aelita si sdraiò sul letto. Non riusciva a dormire, nonostante la stanchezza. Non vedeva più la compagna di stanza, che,proprio il giorno prima, aveva chiesto se potesse essere permanentemente la sua compagna di stanza, con gli stessi occhi. Ma non era una cosà così facile da dire.





Beh, che dire. Abbastanza inaspettata come cosa, no? Beh, ovviamente mica è finita qui. Solo che, beh, si può finalmente intuire perché abbia dovuto per forza di cose far sì che Serena e Ash stessero insieme. O anche perché far sì che a essere posseduta da Xana fosse Lucinda. 

La sola alternativa a Serena sarebbe stata Lilya (con Chloe esclusa a priori) ma purtroppo non avrebbe avuto vita facile per due motivi. Il primo è che non avrei trovato alcuna giustificazione per non fare in modo che Odd uscisse con lei. Sarà banale ma è così. Il secondo è che sarebbe stato difficile giustificare delle cose che vedremo più avanti.

Alternative a Lucinda? Alla fine della fiera solo una, e non serve che vi dica chi, ma sempre per qualcosa che avverrà più avanti, non sarebbe stata adatta quanto lei.  




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Capitolo 4
*** Sai mantenere un segreto? ***


Sai mantenere un segreto?



Arrivarono in stazione appena in tempo. Essendo molto presto, non avevano nemmeno fatto in tempo a fare colazione. In teoria non un male, l’avrebbero fatta appena arrivati in Belgio. Vuoi che non ci sia un bar alla stazione di Bruxelles? In pratica un autentico disastro. Nessuno dei due aveva mangiato dalla sera prima e questo non era l’ideale per affrontare un viaggio. Per fortuna non molto lungo. Appena un’ora e mezza.

Anche se, proprio per quel motivo, il viaggio sembrò non finire mai.

Arrivati alla stazione belga, un edificio moderno, realizzato in metallo, marmo e vetro, incredibilmente affollato. Uomini e donne d’affari, vestiti di tutto punto, che tenevano in mano delle ventiquattrore.

Rischiarono non poche volte di scontrarsi con qualcuno e di separarsi. 

A fatica raggiunsero una zona più tranquilla della stazione.

- Beh, ora che facciamo?

Chiese il ragazzo. Pochi istanti dopo, si sentì il rumore del suo stomaco.

- Beh, direi che la prima cosa è fare colazione.

La ragazza cercò di non ridere.

Le bastò alzare lo sguardo per notare che, proprio a due passi da dove si trovavano, era presente un bar italiano. I due si precipitarono e fecero colazione, non accorgendosi di essere spiati.

Su un tavolo poco distante da loro, una ragazza come tante stava facendo colazione, insieme al suo Piplup. Anche lei non aveva fatto colazione sino a quel momento.  

Aveva i capelli legati stretti e nascosti dal cappuccio della felpa. E indossava delle lenti a contatto castane, con l'obiettivo di non farsi riconoscere.

Un po’ si era spazientita. Quei due sembravano metterci un’eternità. Cosa ci voleva a bere un cappuccino e mangiare una pasta? E invece no. Quei due parlavano e parlavano. Parlavano di quello che avrebbero dovuto fare dopo. E se almeno uno dei due avesse qualche idea su come comportarsi una volta arrivati nel cuore della città.

Aveva capito che il suo punto sarebbe dovuto essere la ragazza. A detta sua era stata diverse volte in quella città e conosceva delle persone che li avrebbero potuti ospitare per la notte.

Dopo tantissimo tempo, finalmente il ragazzo si alzò e andò a pagare. E i due, finalmente se ne andarono. Non poteva seguirli subito, si sarebbero potuti insospettire. In ogni caso, aveva almeno un’idea di dove trovarli. Rue Camille Lemonnier. L’unico modo per raggiungerla era prendere i mezzi pubblici. 

Decise di aspettare un paio di minuti. Poi si alzò a sua volta e andò a pagare. Non si preoccupò di ritirare lo scontrino. Aveva fretta. Molta fretta. 

Secondo i suoi calcoli, avrebbe preso la metro successiva a quella presa dai due. Sebbene la metro fosse affollata, vi era comunque il rischio che i due la notassero e che potessero sospettare di essere seguiti. E in quel caso avrebbero potuto annullare l’operazione.

In ogni caso, per il momento, i due non avevano notato nulla. Avevano atteso la loro fermata ed erano scesi. A separarli dalla loro destinazione, un breve percorso a piedi.

Quella via era uguale a tante altre. Un viale alberato e tanti palazzi attaccati uno sull’altro. Alcuni di recente costruzione, altri risalivano al dopoguerra.

- Dovrebbe essere questo.

La ragazza indicò quello che forse era il palazzo più vecchio dell’intera via. Era di un bianco sporco e presentava numerose finestre. La grande porta era realizzata in metallo e sembrava molto robusta.

Accanto alla porta numerosi campanelli, inseriti in una placca di ottone. Sembrava quella di un normalissimo condominio.

- Dunque chi cercavamo?

Chiese la ragazza. Aveva notato come il ragazzo stesse cercando freneticamente un nome. Senza successo.

- Madame Lassalle. 

- Eccola qui. Provo a suonare, vediamo come va.

La ragazza trovò il nome in pochi istanti, ma per quanto insistesse, non riceveva alcuna risposta. Provò con altri citofoni, ma il risultato non cambiò di una virgola.

- Ehi! Voi due!

La coppia si girò di scatto, in direzione di quella voce. Proprio nella loro direzione stava passando un signore di almeno ottant’anni, era vestito in modo piuttosto elegante, nonostante all'apparenza stesse semplicemente facendo un giro in bici.

- Scusi, dice a noi?

- Si, figliola. Mi dispiace dirtelo, ma puoi suonare quanto vuoi, stai pur certa che non ti risponderà nessuno.

- Mi scusi, ma mi sembra un condominio come tanti, guardi qua. Comunque sia, cercavamo una certa Madame Lassalle. 

- Te lo ripeto, giovanotto. Vivo qui da sempre. Ho anche visto questa strada completamente devastata dalle bombe… e ti posso dire con assoluta certezza che questo palazzo è stato praticamente sempre vuoto. Per quel che ne so è appartenuto al governo. Non so cosa ci facessero, di preciso. 

A volte ci venivano delle persone, ma restavano al massimo un paio di settimane.

- Incredibile.

Commentarono i due, all’unisono.

- Però. Questa mi sembra una bella zona per vivere, la gente pagherebbe non poco per avere un appartamento in questa zona, mi sembra strano.

- Figliola hai ragione. Anch’io penso che la storia di questo palazzo sia piuttosto controversa. Potrebbero anche centrare i servizi segreti, per quel che ne so. E non fatevi strane idee sui film di spionaggio. I servizi segreti sono una cosa seria. 

I due salutarono e ringraziarono l’uomo, che proseguì con il suo giro.

Sembrava un tipo un po’ strano, ma aveva ragione. Se non rispondeva nessuno, evidentemente era perché dentro quel palazzo non c’era nessuno.

E quella pesante porta era sicuramente chiusa. Non poteva essere aperta a spinta e chiedere a uno dei loro Pokémon di aprirla era fuori discussione. Avrebbero rischiato di danneggiarla eccessivamente e di attirare troppo l’attenzione. 

- E ora come facciamo?

Chiese il ragazzo.

- Non ti dimenticare che alla base abbiamo una risorsa inestimabile.

- Einstein? 

- Einstein.

La ragazza mandò un breve messaggio all’amico, dove spiegava la situazione. Sperava di ricevere al più presto una risposta. Se davvero quel palazzo era del governo, allora sarebbero potute arrivare delle guardie da un momento all’altro e nessuno dei due aveva un motivo valido per stare davanti a quel palazzo.

Per sua fortuna la risposta arrivò quasi subito.

- Ok. Dobbiamo fare alcune foto alla serratura. Così potrà dirci cosa serve per aprirla.

- Aprirla? Ma è pazzo! Se è davvero un palazzo del governo sarà super sorvegliato!

- Hai altre idee? Non credi sia più pratico uno dei suoi sistemi che sfondare la porta con uno dei nostri Pokémon? Almeno, con uno dei suoi dispositivi, la porta rimarrebbe sostanzialmente intatta.

- Beh, hai ragione. Non abbiamo molte alternative. 

- In ogni caso ha scritto che, dopo che avrà la foto, non gli ci vorrà molto per mandarci un elenco del materiale necessario. Al massimo entro questa sera.

- Quindi rischiamo di passare la notte qui?

- Anche se fosse?

Gli chiese la ragazza.

- Te l’ho detto prima. Non devi preoccuparti, conosco qualcuno che ci può ospitare. E poi… non è la prima volta che siamo noi due… da soli, no?

- Oh, beh, in effetti…

- Intanto che aspettiamo che ci risponda, cosa ne pensi di fare un giro della città?

- Perché no?

- Mi scusi?

- Dici a me figliola?

La ragazza aveva fermato un signore anziano che aveva visto uscire da Rue Camille Lemonnier. Era vestito elegante e trascinava una vecchia bicicletta.

- Scusi se la disturbo, ma avevo un appuntamento con due miei amici in Rue Camille Lemonnier…

- Oh beh, si, ho visto due ragazzi in quella via…

- Erano un ragazzo coi capelli castani e una ragazza alta e coi capelli neri e abbastanza corti, tipo a caschetto? 

- Si, li ho visti poco fa. Proprio in quella via. Davanti a un palazzo bianco. Piuttosto vecchio. Non ho idea di cosa cercassero. È abbandonato da anni. Ho anche cercato di dissuaderli dicendogli che aveva a che fare con il governo, ma secondo me non ci sono cascati. 

- La ringrazio. Arrivederci.

- Arrivederci, figliola.

La ragazza, dopo essersi congedata con quel vecchietto, proseguì proprio in direzione di quel viale. Aveva individuato il palazzo che le era stato indicato, ma senza trovare i due ragazzi. 

- Un assassino torna sempre sulla scena del delitto.

Commentò sottovoce. 

- Di certo non me ne posso stare qui. Potrebbero vedermi.

Aggiunse poco dopo, mentre si nascondeva in una delle viuzze che attraversavano la strada. Di sicuro non l’avrebbero notata. 

Non lasciò quella posizione fino ad ora di pranzo. Quei due non si erano presentati. Quando mai l’avrebbero fatto a quell’ora? E infatti le sue previsioni non furono errate. Li aveva incrociati proprio in quel locale, intenti a mangiare. Come se nulla fosse. Sembrava stessero aspettando qualcosa, ma non aveva idea di cosa. 

Se quel signore avesse detto la verità, era molto probabile che quei due non avessero trovato quel che cercavano. Altrimenti se ne sarebbero già andati. Doveva continuare a seguirli e non farsi scoprire.

Continuò a seguirli a breve distanza, rischiando anche di farsi scoprire. In quel momento erano in un piccolo negozio, poco affollato, poteva essere scambiata dai due per una semplice cliente, ma anche per quei due non doveva essere diverso, dal momento che, apparentemente erano interessati a un palazzo abbandonato.

La risposta del loro amico arrivò solo in tarda serata, per cui avrebbero dovuto rimandare al giorno dopo. Quella notte dormirono da un’amica della madre di Yumi. La donna aveva promesso alla ragazza che avrebbe tenuto la bocca cucita sulla questione. Si alzarono piuttosto presto, per cui, invece di ringraziarla di persona, le avevano scritto un biglietto dove la ringraziavano sia per l’ospitalità che per il piccolo favore.

Si erano precipitati nel primo bar aperto che avevano visto per fare colazione, per poi precipitarsi al primo negozio di brico che avevano trovato.

Sapeva di aver fatto bene a non destare la loro attenzione. Si erano precipitati in un brico e avevano comprato diverse attrezzature. Un avvitatore a batteria, una serie di aghi e punte di ferro, batterie di ricambio per l’avvitatore e altri oggetti che, apparentemente, i due non avevano mai sentito nominare.

Li aveva visti chiedere aiuto a dei commessi. Aveva anche notato come, poco fuori dal negozio, si erano lamentati della spesa, di oltre centoventi euro.

Li aveva poi seguiti fino a un parco, non lontano dal viale dov’ erano stati il giorno prima.

- E io che credevo che Einstein fosse un tipo tranquillo. Mi chiedo che altri segreti ci nasconda. Mi chiedo proprio come abbia imparato a creare uno di questi… 

Il ragazzo era intento a smontare il trapano. 

- Grimaldelli elettronici. 

- Si giusto. Ma dimmi, ora che l’ho smontato, che devo fare?

- Vuoi la spiegazione terra terra o quella super dettagliata?

La ragazza, non ottenendo risposta, andò per la spiegazione più semplice.

- Noi non abbiamo la chiave, giusto? Con questo dispositivo possiamo emularne la presenza. La serratura è costituita da diversi pistoncini che, per aprire la porta, devono essere sollevati in un certo modo. Con questo dispositivo, possiamo forzare i pistoncini a sollevarsi e ad aprire la porta.

- Ok, come vuoi. Ma figurati cosa doveva essere la spiegazione tecnica.

- Lasciamo stare. Piuttosto, ora che l’hai sistemato, cosa ne pensi di collaudarlo? 

Il ragazzo estrasse dallo zaino una serratura nuova di zecca.

- Un pochino mi dispiace. L’abbiamo appena comprata e…

- Non avevamo alternativa. In ogni caso, provi a… sistemarla o devi celebrare tutto il funerale? 

Il ragazzo si sforzò per non ridere, per poi mettersi al lavoro. 

Dopo una mezz’ora e un numero imprecisato di imprecazioni, alzò bandiera bianca.

- Mi sa che questa volta Einstein ha toppato!

Commentò il ragazzo.

- Fammi provare. Magari ci riesco.

La ragazza provò solo un paio di volte, prima di riuscirci. Le bastò semplicemente dosare il movimento del braccio.

- Nel caso dovessi andare male con gli studi, ho futuro come ladra. Ma, tornando seri, dobbiamo fare in fretta. 

La ragazza seguì ancora quei due. La cosa si stava facendo interessante. Vi era una grande probabilità che vi fosse una correlazione tra il loro imparare ad aprire una serratura e quel palazzo poco distante in cui, stando a quel vecchietto, erano stati la mattina del giorno prima. 

In ogni caso non dovette attendere molto per avere una risposta alla sua domanda. 

Quei due si erano diretti proprio in quel palazzo. E la ragazza, dopo alcuni tentativi, era riuscita a scassinare la serratura.

Ora non doveva fare altro che attendere per capire cosa volessero fare e, in base a quello decidere sul da farsi. Lui aveva deciso di farla viaggiare fino a lì. Lui avrebbe deciso cosa fare. E, per cercare di raccogliere informazioni era disposto a tutto, anche a fare cose che altrimenti non avrebbe mai fatto.

In ogni caso decise di non entrare. Avrebbe atteso fuori. La riteneva l’opzione più sicura, in caso di emergenza sarebbe potuta fuggire. Certo, senza informazioni, ma anche tutta intera.

I due entrarono dentro il palazzo. Ignari di tutto.

L’interno odorava di chiuso. Sembra che nessuno aprisse quella porta da anni. 

- Credo che quel vecchietto si sbagliasse, non vedo telecamere qui.

Commentò la ragazza.

- Eh si! Credo l'abbia detto per spaventarci. Dopotutto non siamo esattamente insospettabili. 

L'ingresso era stretto e con il soffitto alto. La maggior parte dello spazio era occupato da una scala di marmo con una ringhiera in metallo.

A destra una porta di legno. Chiusa e priva di qualsiasi targhetta identificativa o campanello. In breve tempo convennero che la scelta migliore fosse quella di fare un sopralluogo generale dell’edificio.

L’edificio era alto otto piani e tra ogni piano vi erano due lunghe rampe di scale. Ogni piano era composto da un andito senza finestre e da quattro appartamenti, a cui si accedeva da altrettante porte, sempre prive di campanelli o targhe.

I pochi appartamenti accessibili erano completamente vuoti.  Percorsero tutti i piani senza trovare nulla di utile. Stavano per arrendersi e tornare indietro.

- Hai notato quella porta? Non ti sembra diversa? 

La ragazza stava indicando la porta più distante dalla loro posizione. Era rivestita di legno scuro, come le altre, ma sembrava molto più robusta. E forse anche la serratura sembrava fosse rinforzata.

Non avendo altre alternative, decisero di fiondarsi verso quella porta. La serratura era veramente robusta, Yumi dovette tentare ben tre volte, prima di aprirla.

Appena entrarono nell’appartamento, si accorsero immediatamente di quanto quest’ultimo fosse diverso da tutti gli altri. Era sostanzialmente uno stanzone, grande come un normale appartamento, molto simile a un vecchio ufficio. Il pavimento era una moquette beige e i muri erano rivestiti da una carta da parati a strisce beige e verde chiaro. 

La prima cosa che saltò agli occhi dei due fu un gigantesco tavolo di metallo quasi interamente occupato da apparecchiature elettroniche, tra cui dei giganteschi schermi. 

Le pareti della stanza erano, in gran parte, occupate da giganteschi computer. Uno di essi copriva in parte la sola finestra che illuminava la stanza.

La ragazza, fuori dall’edificio, aveva intuito che i due avevano trovato qualcosa. Erano dentro da parecchio tempo. Se non avessero trovato nulla, non avrebbero avuto motivo di restare.

Quello che non poteva aspettarsi era quello che i due avevano trovato.

L’attenzione del ragazzo venne immediatamente attirata da alcuni dispositivi presenti sul tavolo. All’apparenza erano dei vecchi caschi integrali da motociclista, neri. La visiera era stata sostituita da uno strano apparecchio, con una grossa antenna.

Vi erano anche dei guanti, sempre neri, con dei cavi che partivano dalle punte delle dita e si collegavano ad un antenna sul polso.

Accanto ai dispositivi, delle tastiere ingiallite dal tempo e dei pesantissimi monitor a tubo catodico. 

- Almeno non abbiamo viaggiato per nulla. Ora dobbiamo capire di cosa si tratta.

Si chiese il ragazzo, incuriosito dai dispositivi.

- Non vorrei dire, ma credo che sia una sorta di prototipo del Supercomputer. E potremo avere davanti i prototipi degli scanner. Quella specie di proiettore, invece, potrebbe essere un antenato del proiettore. 

- Stai scherzando? Pensi davvero che da qui si possa accedere a Lyoko? In un altro Stato? 

- Non sono sicura che si tratti del Lyoko che conosciamo, ma di una sua Replika. Come quelle che visitavamo con la Skid, che Xana aveva creato su alcuni supercomputer.

- In questo caso, potrebbe anche essere. Ma non potremo mai saperlo con certezza, a meno che…

- Che aspetti?

Avendo scoperto del dossier del professore, Xana, aveva deciso di indagare, non appena i suoi nemici avessero abbassato la guardia. E la notte era il momento ideale. Sapeva che quel dossier si trovava nella stanza di Ulrich e Odd. Era consapevole del fatto che quella notte, Odd dormisse da  solo. 

La stanza era appena accanto alla sua. Nella direzione opposta a quella dei bagni, per non farsi scoprire da Jim, sarebbe dovuto essere incredibilmente preciso. Recuperarlo sarebbe stato difficile, ma mai quanto la seconda fase. Quella di riportare il documento al suo legittimo posto. Nel mezzo l’operazione più semplice. Archiviare tutti i dati presenti all’interno del dossier. 

Ash si alzò in silenzio, facendo attenzione a non svegliare nè Pikachu nè il suo compagno di stanza. Era troppo importante. Si diresse poi verso i bagni. Rimase all’interno alcuni minuti, per poi tornare indietro, entrando, “involontariamente” nella stanza accanto alla sua. 

Per fortuna Odd aveva il sonno pesante. Russava come un vecchio trattore. Xana era consapevole del fatto che i suoi nemici non fossero degli sprovveduti, dopotutto lo avevano quasi ammazzato. 

Ma questa volta, rimase sorpreso dalla loro idiozia. Lo avevano semplicemente nascosto in un armadio. Forse non si aspettavano la sua presenza, ma per certi versi andava bene così. Non avendo idea della sua presenza, avrebbe potuto colpirli alle spalle. Recuperò il dossier e uscì dalla stanza. 

Memorizzò ogni singolo dettaglio del dossier e confrontò il suo contenuto con i suoi archivi, senza ottenere alcun riscontro, eccezion fatta per i progetti del Supercomputer. 

Riuscì a raggiungere l’ufficio del preside senza farsi scoprire. La serratura era stata riparata proprio quel pomeriggio, per cui l’ufficio era chiuso. Non un gran problema, l’avrebbe semplicemente fatta saltare con i suoi poteri elettrici, ma pur sempre un contrattempo. E lui detestava i contrattempi.

In ogni caso riuscì a entrare nell’ufficio e a sistemare il dossier nel luogo che ritenne più logico. Uscì dall’ufficio e sistemò di nuovo la serratura. Nessuno si sarebbe accorto di nulla, e  finalmente poteva permettere al suo burattino di dormire.

Si era accorta della loro assenza, e aveva iniziato a sospettare che avessero scoperto il dossier. Forse si era lasciata scappare qualche parola di troppo, oppure qualcosa del genere, ma non aveva prove. Poteva trattarsi di una semplice coincidenza. Non riusciva a pensare ad altro. Certo, la ricerca su quel Pokémon così particolare, la visita ricevuta nel suo ufficio da parte di Jeremy…

Proprio non riusciva a toglierselo dalla testa. Il solo modo che aveva di toglierselo dalla testa, era controllare di persona. Grazie al rapporto di estrema fiducia con il signor Delmas, poteva entrare nel suo ufficio senza permesso. Non lo aveva mai fatto, ma in questo caso era una necessità. 

L’ufficio era chiuso. Probabilmente il preside non era ancora arrivato. 

Prese, senza pensarci, il portapenne e ne svitò il doppio fondo. Le piccole chiavi del cassetto erano perfettamente al loro posto. Questo voleva dire che nessuno, a parte il signor Delmas, nessuno aveva toccato quel cassetto.

La sua sorpresa nel trovare il cassetto fu enorme. Iniziò a ipotizzare i peggiori scenari possibili, se avessero scoperto quell’indirizzo e quel palazzo, sarebbe stato un grosso guaio.

Tirò un grosso sospiro quando, aprendo il grosso archivio, trovò, ben posizionato, in mezzo a tutti gli altri documenti, proprio quel dossier. 

Questo voleva dire solo una cosa. Il dossier era stato semplicemente spostato, probabilmente per eccesso di prudenza, da parte del preside. Nascondere le cose in bella vista è sempre la cosa migliore, dopotutto.

Prese il grosso dossier e lo sfogliò, molto rapidamente. Sembrava fosse tutto perfettamente apposto. Anche il foglietto con l’indirizzo. Ora si sentiva leggermente più tranquilla, ma era ancora sospettosa.

Quello che non poteva sapere era che quel dossier si trovava lì per un motivo ben diverso e che la verità era ben diversa. 

I due, di comune accordo, avevano deciso di provare quelle attrezzature. Dopotutto non avevano nulla da perdere.

L’intuizione della ragazza si rivelò corretta. Una volta indossati guanti e caschi, i due vennero come trasportati in un altro luogo.

Una strana città in stile orientale, con palazzi alti e eleganti.

- Aspetta un attimo.

Il ragazzo si guardò attorno, era spaesato, non riusciva a capire dove si trovava.

- Ma questo non mi pare affatto Lyoko.

- Si, da una parte hai ragione, non riconosco questo posto, ma guardati…

Il ragazzo non ci aveva fatto caso, forse perché troppo preso da quel luogo, ma, facendo attenzione, il ragazzo si rese conto di non indossare più la maglietta a maniche lunghe e i jeans, ma era vestito come nel mondo virtuale, una tuta aderente gialla e marrone e una fascia gialla a tenergli i capelli.

Sulla schiena un portaspada dove alloggiava le sue due katane. 

Gettò poi lo sguardo sulla ragazza. Indossava una tuta bordeaux e magenta, con alcune protezioni marroni e sulla schiena un alloggiamento per le sue armi, due ventagli boomerang affilati come rasoi.

Entrambi, quasi senza pensarci, tentarono di estrarre le loro armi.

- Aspetta un attimo, ma… siamo…

- Disarmati.

Concluse la ragazza.

- Penso sia un problema, ma, qualora dovesse servire, potremo tranquillamente uscire da qui. No?

- Provaci.

Il ragazzo si mise le mani sotto al mento, convinto di trovare ancora la fibbia del casco. Rimase estremamente sorpreso da come la stessa fosse assente. Sentiva semplicemente la pelle del mento. 

Il ragazzo tentò allora coi guanti. Stesso risultato. Come se non ci fossero.

- Siamo fregati. Non ci possiamo difendere e non abbiamo la minima idea di come uscire di qui. Hai qualche idea? 

- Proviamo a vedere se qui c’è una qualche uscita. Magari sarà qui vicino.

- Hai idea di come ci si muove qui?

- Più o meno. Premi insieme pollice e indice della mano destra, e muovi la mano nella direzione in cui ti vuoi spostare. Non è esattamente facile, ma penso non sia impossibile.

La ragazza spiccò un balzo e atterrò delicatamente, muovendosi con la sua solita agilità. Il ragazzo, tentando di imitarla,  imburconò. 

- Che male!

- Non sono sicura che qui si possa provare dolore. I nostri corpi veri sono al sicuro, dentro l’appartamento. Penso sia semplicemente un riflesso.

- Come vuoi, ma ti posso assicurare che il dolore è vero.

Al secondo tentativo, il ragazzo riuscì a spiccare un balzo e atterrando senza problemi. 

Non potendo uscire dal mondo virtuale per mettersi in contatto con Jeremy e spiegargli la situazione. Non potevano fare altro se non che esplorare quel luogo.

La città, mano a mano che i due si addentravano all’interno della città, notarono come gli edifici stessero cadendo in rovina. Alcuni muri erano rovinati, i tetti sfondati e sul pavimento erano presenti dei buchi. Sembrava come se fosse stata bombardata. In più erano i soli in quella città.

Continuando il loro attraversamento della città, le sue condizioni peggiorarono ulteriormente. Attraversarono vie, ponti che permettevano di superare dei fiumi ormai in secca, dei parchi con delle piante che parevano di vetro, anch’essi come se fossero stati presi a martellate.

Proprio dopo uno di quei parchi giunsero al confine della città. Un muro.

Contrariamente a gran parte della città, il muro era in perfette condizioni. Era realizzato con un'infinità di mattoni neri. Opachi. Sembrava che la sua altezza si elevasse all’infinito. Guardando in entrambe le direzioni, il muro sembrava non finire mai. I due provarono a scalarlo, ma senza successo. Sembrava che si alzasse all’infinito.

- Magari se facciamo attenzione, potremo trovare una porta, o qualcosa di simile. Dopotutto ci sarà un modo per entrare in questa città.

Commentò la ragazza.

- Possiamo provare, a questo punto non abbiamo molto da perdere.

L’intuizione della ragazza si rivelò corretta. Dopo una camminata apparentemente infinita, costeggiando il muro, i due trovarono una gigantesca porta. Chiusa da un enorme battente. 

- Diavolo, avremo camminato dieci chilometri, è una faticaccia!

- Hai proprio.

La frase della ragazza venne interrotta da un rumore che ricordava uno sparo. Poi un altro. Questa volta entrambi riuscirono a comprendere la fonte. Un raggio laser azzurro.

Dopo alcuni istanti, entrambi giunsero alla stessa conclusione. Si trattava di una manta volante. Una creatura simile ad un’ala volante, sottile. Lunga circa sette metri e di colore bianco e blu scuro.

Sparava raggi laser dalla bocca. 

- Attenzione!

Gridò il ragazzo, mentre tentava di mettersi al riparo. Tentò nuovamente di estrarre le sue katane dal portaspada, nella speranza che fossero apparse. Ma niente.

Nella fuga, la ragazza venne ferita alla gamba da un laser. Cercò di nascondere il dolore con una smorfia del volto. 

- Pensi che qui sia come su Lyoko? Cioè che se veniamo colpiti troppe volte, torniamo nel mondo reale?

- Non te lo so dire. Non so proprio come funzioni questo mondo. E non ho molte intenzioni di scoprirlo.

Riposte la ragazza.

- In ogni caso ho paura di una cosa. Se qui ci sono i mostri, allora potrebbe esserci anche Xana.

- Non lo hai notato?

- Cosa?

- Le mante. Non avevano il suo simbolo sul corpo. Possiamo escludere la sua presenza. 

- Si, Yumi, Xana o non Xana ci attaccano lo stesso.

I due continuarono a correre, e ben presto si trovavarono in un parco. Simile a quello che avevano incontrato prima. 

- Guarda qui!

La ragazza stava indicando un punto proprio davanti a lei.

- Ma quello non è il Professore?

Chiese il ragazzo.

- Non lui di persona, ma piuttosto una sorta di ologramma. 

L'ologramma del professore lo rappresentava nell’aspetto che i due avevano ben imparato a conoscere. Un uomo non molto alto, di corporatura robusta e vestito con un camice da laboratorio. Aveva la barba scura e  degli occhiali dalle spesse lenti.

- Finalmente qualcuno che viene a farmi visita, erano anni che non vedevo qualcuno.

Finta la frase, l’ologramma scomparve oltre dei cespugli.

Prima che i due potessero tentare di raggiungerlo, vennero sorpresi alle spalle da un laser azzurro. Non fecero in tempo a girarsi che vennero colpiti simultaneamente da una ventina di mante.

Entrambi piombarono a terra. Indoloriti e con brutta voglia. 

- È stato terribile. Mi chiedo a cosa serva quel posto.

- Non ho capito una parola.

- Ulrich, siamo tornati nel mondo reale. Ti puoi sfilare il casco ora.

Il ragazzo tentò di sfilarsi guanti e casco. E, effettivamente era vero. Ora poteva farlo. Era finalmente tornato al mondo reale.

- Cosa hai detto prima?

- Mi stavo chiedendo a cosa servisse quel posto. Avremmo potuto indagare, se non fosse stato per quelle mante… avevo dimenticato quanto facessero male.

- Vuoi tornare dentro? Non so quanto sia sicuro. E poi per cosa? Per dare la caccia a un fantasma?

- No. Hai ragione, è troppo pericoloso. 

- Lo senti anche tu?

In breve tempo nella stanza si sentiva un rumore ritmato e regolare che si distingueva da quello di auto, camion e motorini. Il rumore assomigliava a una sorta di  “pow pow pow”. 

La ragazza ci mise un attimo a capire di cosa si trattasse.

- Cosa ci fa un elicottero qui?

La ragazza, nel frattempo, si era accorta di un altro rumore. Più debole. Ma che, piano piano diventava più forte.

Probabilmente qualcuno si era accorto dell’attivazione del sistema e voleva sapere chi e perché l'avesse fatto. I due sarebbero dovuti uscire, o sarebbero restati intrappolati. 

Il ragazzo aprì la porta e i due si fiondarono nel corridoio. Fecero in modo di non farsi vedere.

- Capo, sono al piano di sopra.

Nonostante fossero all’ottavo piano, quella voce era perfettamente udibile. A essa si aggiunse il rumore di passi. Qualcuno stava salendo le scale.

Il ragazzo, probabilmente in preda alla fretta, fece per scendere le scale il più rapidamente possibile, ma venne fermato dalla sua ragazza, che lo tirò per un braccio.

- Troppo pericoloso, accovacciamoci e tratteniamo il respiro. Potrebbero non notarci.

Gli disse sottovoce.

Il ragazzo seguì il consiglio. I due erano accovacciati vicino alla ringhiera. Incrociarono i loro sguardi con quelli di due uomini alti, coi capelli corti, occhiali da sole, mascherina e lunghi cappotti. Tutto in  nero.

Una volta fatti passare i due uomini, la coppia si precipitò verso il basso. La ragazza dovette schivare uno dei due uomini che cercò di tirarla per un braccio. Riuscì chiaramente a sentire la sua minaccia.

- Fermatevi, non sapete in che guaio…

Un altro, poco dopo minacciò di arrestarli. Aveva una potente R moscia.

I due, ignorando gli avvertimenti dei due, continuarono a correre. Dovevano fare molta attenzione o sarebbero imburconati e avrebbero dovuto affrontare tutte le conseguenze del caso.

Durante la loro discesa, sentirono chiaramente la voce di un altro uomo.

- Qui Linoone e Fuvvet ehm Furret a Lycanroc, Stanno arrivando, ora dovrebbero essere al quarto piano.

I due continuarono a correre, fino a raggiungere il primo piano. Qui incrociarono un altro uomo vestito di nero. Era armato. Aveva in mano una pistola gigantesca e lucida, che rifletteva la luce del sole in modo quasi accecante. 

- La vostra corsa finisce qui, mi spiace.

I due lo ignorarono e continuarono a correre, fino a precipitarsi all’interno di un appartamento. Era praticamente vuoto e triste come tutti gli altri. 

Il ragazzo decise di usare uno dei pochi elementi di arredo di quell'appartamento, una sedia, per bloccare l’uscita e a guadagnare del tempo.

- E ora? Siamo in trappola.

Ulrich guardò prima la ragazza, poi indicò una finestra poco lontano.

- Potremo uscire da lì, c’è un cornicione, potremo usarlo per attraversare il palazzo e raggiungere un tubo e scendere.

- Ne sei sicuro? Mi sembra molto pericoloso. 

- Hai altre idee? Sai che la porta non potrà reggere ancora per molto.

Il ragazzo aprì la finestra. Stava per posizionare i piedi sul cornicione, che appariva molto più sottile di quanto potesse immaginare. Al massimo una decina di centimetri. Il rischio di cadere era altissimo, ma non aveva alcuna scelta.

- Buneary! Presto! Usa Geloraggio! Crea uno scivolo su quella finestra aperta!

I due si guardarono negli occhi. Evidentemente  una ragazza si era accorta del fatto che qualcuno si trovasse in pericolo e voleva aiutarli.

Il piccolo Pokémon coniglio obbedì alla sua allenatrice, creando uno scivolo di ghiaccio che partiva dalla base della finestra e arrivava fino a terra.

L’allenatrice del piccolo Pokémon guardò i due scambiarsi uno sguardo d’intesa e poi precipitarsi lungo quello scivolo. Durante la discesa, entrambi avevano notato un ragazzo alla guida di un motorino arancione e verde. Dal portapacchi aveva estratto una pizza. 

Appena scesi vennero immediatamente inseguiti dai due uomini rimasti a terra.

- Buneary  usa di nuovo Geloraggio! Devi evitare che quei due li raggiungano!

Il piccolo Pokémon obbedì. 

Non troppo lontano dai due uomini creò una gigantesca lastra di ghiaccio. La ragazza, nel frattempo, aveva lanciato due ulteriori due Pokéball. 

Entrambi gli uomini vestiti di nero liscinarono, cadendo l’uno sull’altro. Quello sotto ebbe la peggio, emise un forte grido di dolore, e intimò quello sopra di alzarsi al più presto. Dopo che questi si alzò, lui tentò di fare lo stesso. Senza successo.

- Fovse mi sono votto una gamba. Pvocedete senza di me, questo lavovo è tvopo impovtante pev pensave a me. 

Il collega accettò il consiglio e, facendo estrema attenzione, superò la lastra di ghiaccio. 

I due ragazzi, intanto, avevano raggiunto il motorino. Per fortuna le chiavi erano ancora nel quadro. Il ragazzo dovetto solo premere un bottone per farlo accendere. Dopo qualche insistenza, il motore si accese con un borbottio.

La ragazza si sedette dietro di lui. Appena partirono, i due superstiti si precipitarono alla loro berlina, una Mercedes classe E AMG nera, una bestia da seimiladuecento centimetri cubi di cilindrata.

La loro situazione non era delle migliori. Entrambi non avevano il casco e stavano guidando un motorino che non poteva ancora guidare. 

Ma, nella loro situazione, quello era il problema minore. Avevano anche scassinato degli appartamenti ed erano inseguiti da degli uomini in nero con a bordo degli uomini armati. E non potevano scordarsi dell’elicottero.

Il ragazzo, nel frattempo era uscito dalla via e aveva imboccato una rotonda, nel curvare aveva piegato talmente tanto da rischiare di cadere. 

La ragazza si girò a guardare se la berlina stesse o meno guadagnando terreno.

- E io che credevo non potesse andare peggio!

Commentò.

- E cosa si sono inventati ora?

- Sono vicinissimi, qui non c’è traffico e con quel mostro hanno un grosso vantaggio. E poi, come se non bastasse, hanno anche un’agente in borghese e dei Pokémon.

- Vorrà dire che dovremo prendere una deviazione.

Il ragazzo girò bruscamente in una delle viuzze perpendicolari al vicolo. Perfetta per uno scooter, meno per una grossa berlina.

- In ogni caso, mi sai dire che Pokémon ha l’agente in borghese?

- Cavalca un Mamoswine, ha un Piplup sulla spalla e sembra che anche un Buneary e un Togekiss obbediscano a lei.

- Che? Vuoi lottare contro di loro?

- Troppo pericoloso. Quei tizi sono armati e io non rischio che i miei si prendano del piombo.

- Hai ragione.

La berlina gli aveva seguiti anche lì, anche se aveva perso molto terreno.

Continuando a correre al massimo delle possibilità del mezzo, ora i due si trovavano nuovamente su di un viale, di nuovo largo, di nuovo tallonati dalla berlina, dall’elicottero e da quella che credevano fosse un’agente in borghese.

- Hai qualche idea su come distrarli?

- Abbiamo solo delle pizze qui. 

- E allora lanciale. Se non vogliamo rischiare i nostri, almeno quelle possiamo rischiarle, no?

Il ragazzo rallentò, permettendo tanto alla berlina quanto alla ragazza che cavalcava il Mamoswine di avvicinarsi. 

- Mamoswine ora, usa riduttore!

Il grosso Pokémon colpì violentemente la berlina, facendola sbattere contro un muro e danneggiandola pesantemente. Nonostante questo, la vettura proseguì la sua corsa, recuperando di nuovo lo svantaggio che aveva accumulato dallo scooter.

La ragazza aveva estratto una delle pizze dal portapizze ed era pronta a lanciarla.

L’uomo sul sedile passeggero si sporse e puntò la pistola contro i due, ma prima che potesse sparare, si trovò la pizza lanciata dalla ragazza proprio in piena faccia.

- Bene Mamoswine, ora salta addosso a quella berlina!

Lycanroc, colpito dalla pizza riuscì a pulirsi almeno gli occhi e guardò nello specchietto retrovisore. E notò che lo stesso Pokémon che prima gli aveva colpiti ora si stava avvicinando di corsa, ed era pronto a saltare.

- Linoone, mi sa che ci conviene abbandonare la macchina, se non vogliamo finire compressi.

L’uomo alla guida arrestò l’auto con una sgommata e i due uscirono a dall’auto poco prima che l’imponente Pokémon potesse saltare addosso alla berlina.

Nel salto, il cappuccio della felpa si sfilò, rivelando i capelli della ragazza, di un insolito colore blu.

I due, nonostante questa prima vittoria, non potevano ancora considerarsi al sicuro. L’elicottero nero continuava a inseguirli. Dovevano raggiungere un posto sicuro e scappare.

- Togekiss, prendi quota e tu Buneary, usa Geloraggio sulle pale dell’elicottero!

I due Pokémon obbedirono. Il Pokémon festa si alzò a circa cinquanta metri di altezza. Faceva fatica a restare in posizione a causa delle correnti d’aria delle pale, ma doveva resistere. Il Pokémon coniglio, capendolo, fece in fretta. Uno spesso strato di ghiaccio si formò sulle pale del mezzo, che, a causa del peso, smisero di girare. Gli uomini a bordo del mezzo volarono su dei Jetpack. I due ragazzi, non ebbero il tempo di scusarsi e ringraziare quella ragazza dai capelli blu. Erano già a una delle fermate della metro. Prima di prenderlo lasciarono le chiavi del mezzo nel sottosella, insieme a un biglietto con delle scuse e una banconota da cinquanta euro.

Ennesima spesa di quel viaggio, ma non potevano fare altrimenti.

I due presero la metro fino alla stazione dei treni, per tornare a Parigi e riferire tutto quello che avevano visto. Sarebbero arrivati alla base per ora di cena. Stanchi morti, ma felici di aver trovato informazioni fondamentali.

Quando i due partirono, erano circa le due del pomeriggio a Washington DC, negli Stati Uniti. A quell’ora l’ufficio era in piena attività. Come tutti i giorni, del resto. In quegli ambienti era praticamente impossibile che vi fossero delle pause.

Dido lavorava ininterrottamente da ore. 

- Signora! 

La avvisò la sua segretaria. Quando quest’ultima comprese di avere tutta l’attenzione della donna, continuò la sua frase.

- Ho una telefonata urgente dal Belgio.

- Passamela.

La donna sapeva di avere degli agenti in Belgio, proprio a guardia della Replika. Se erano loro a telefonarla, voleva dire solo una cosa. Ma non ci voleva pensare.

- Qui Lycanroc. Capo?

- Spero che sia un’ urgenza! Sa benissimo che telefonare in questo modo viola tutte le normative!

- Signora è un’emergenza! Dei ragazzi hanno trovato l’appartamento in Rue Lemonnier.

Proprio quello che non voleva sentire. Lo scenario peggiore che poteva accadere.

- Hanno trovato la Replika?

- Sissignora. E sono anche riusciti ad attivarla. Noi abbiamo raggiunto il posto al più presto, ma avevano una complice e ci sono fuggiti. Non eravamo pronti a questo tipo di emergenze.

- Dovevate essere pronti! Vi avevo ordinato di esserlo!

- Sissignora, ma non potevamo aspettarci una situazione del genere. E poi non è mica detto che siano riusciti ad accedere, dopo averla attivata.

- Devo forse ricordarti che non abbiamo mai sperimentato cosa succede se a provare le apparecchiature siano dei ragazzi? Piuttosto, fammi un resoconto di tutto quello che è successo.

- Agli ordini! Quei due sono arrivati ed entrati nel palazzo. Lasciando fuori una loro complice. Un’allenatrice molto forte. Con i suoi Pokémon ha distrutto la Mercedes e messo fuori gioco l’elicottero. Nonostante fossimo io e gli agenti Furret, che tra le altre cose è stato ferito, Linoone, e sull’elicottero Thievul e Sneasel.

La loro complice aveva un Mamoswine che doveva pesare dieci tonnellate, un Togekiss e un Buneary e forse anche un Piplup, ma potrei aver visto male. 

La donna prese appunti, continuando ad ascoltare l’agente.

- I due e la loro complice sono scappati nella metro, probabilmente diretti al Kadic.

- Voi occupatevi di fare la guardia all'appartamento sigillatelo e assicuratevi che ci siano sempre almeno agenti sempre presenti a sorvegliarlo. Per il Kadic, beh, sapete benissimo che ho un’agente apposta lì.

- Ma signora! È fuori serv…

- Noi non siamo mai fuori servizio!

Dopo questa frase chiuse la cornetta. Molto arrabiata. Cercando di recuperare l’aplomb, passò gli appunti scritti rapidamente alla sua segretaria.

- Cerca negli archivi un’allenatrice che abbia questi Pokémon. 

- Agli ordini!

- Prima mettimi in contatto con il nostro agente al Kadic. Poi occupati di quell’allenatrice. 

La città più vicina era Dubai. Loro si trovavano nel bel mezzo del nulla. Un deserto infinito. La sua struttura era letteralmente una cattedrale nel deserto. Per chilometri e chilometri non c’era altro.

Era una villa di cinquantamila metri quadrati, con ogni tipo di intrattenimento. Dai campi lotta privati a delle arene dove, ogni volta che desiderasse, un esercito di coordinatori e coordinatrici, era pronto a sfidarsi in gare di lotta. Idem per le performer. Aveva anche un cinema e un teatro privati, degli stadi di calcio, dei campi da tennis, e via discorrendo.

Quella villa aveva anche un garodromo per Pokémon, un circuito privato lungo sei chilometri, su cui, volendo, poteva correre anche la Formula 1, e un aeroporto privato, all’interno del cui colossale hangar riposavano i suoi cinque Boeing 747. Su un’altro hangar poco lontano, invece, dei più “modesti” Airbus A320, a classe unica, per i suoi uomini.  Anche il suo parco auto faceva invidia. Aveva praticamente ogni modello di Supercar esistente.  Sia modelli in produzione, che modelli meno recenti sia proprio d’epoca. Tra esse risaltavano due Ferrari Enzo, due F50, due F40, una 612 Scaglietti, una 575, tre Testarossa, una Dino, una 250 GTO, aveva anche delle Lamborghini, tra cui due Countach, una Miura, tre Diablo, due Gallardo, due Murciélago, delle Mclaren tra cui una F1 e due Mercedes-Benz SLR McLaren, una Bugatti Veyron, e una Maserati MC12.

  un gran numero di berline e suv di lusso, tra cui cinque Maserati Quattroporte, tre Maserati 3200 GT, quattro Bentley Continental, due Maybach W240, tre Rolls-Royce Phantom, cinquanta Range Rover e venti Hummer H1.

  Aveva anche delle Formula 1 private, comprate direttamente dalle scuderie, anch’esse di vari periodi storici.

In quel momento l’uomo era seduto sugli spazi del garodromo. Erano coperti e serviti da un sistema di aria condizionata, per cui, nonostante il sole picchiasse forte, li si stava benissimo. 

Si sistemò il cappello e guardò negli occhi i suoi due ospiti. Due malavitosi, un russo e un cinese. 

- Ci tenevi proprio a sbatterci in faccia la tua ricchezza, eh, Hannibal!

Il cinese lo zittì.

- Non siamo qui per questo. E poi dovresti sapere come funziona. E poi che ti importa? Sei forse geloso? E anche se fosse? Sai che siamo qui per discutere di affari.

Il russo non rispose, si limitò a lasciarsi cadere contro la poltrona. 

Sulla pista del garodromo stava per partire una corsa di RA.

Hannibal li osservò con attenzione, erano tre RA giovani e forti, il suo si distingueva per l’essere shiny, quella del russo per una bandiera russa legata al collo. Quello del cinese per la bandiera cinese sempre sul collo..

- Vogliamo scommettere? 

Propose il russo.

- Dieci milioni sulla mia Havalla.

- Vada per dieci milioni su Red.

- Dieci milioni, ovviamente su Trottalemme.

Concluse Hannibal.

I tre si strinsero la mano e osservarono le ultime procedure prima della partenza. Il mago prese una ricetrasmittente, ne premette un pulsante e diede il via alla corsa. 

Appena i tre RA partirono, degli inservienti rimossero le gabbie, per non ostacolare il giro successivo. 

Già al primo passaggio era evidente come solo Trottalemme e Havalla fossero in lotta per la vittoria. 

- Vediamo come va a finire.

Commentò Hannibal.

Dopo poco, Hannibal venne raggiunto da una donna, che stava risalendo le gradinate.  Poteva avere al massimo cinquant'anni, e aveva lunghi capelli rosa. Al collo un bel ciondolo d’oro.

Scusi se la disturbo.

La donna aveva notato i suoi ospiti solo in un secondo momento. 

- Buongiorno Memory, dimmi tutto.

- C’è una chiamata importante per lei. 

- Non possiamo aspettare che finiscano? 

- Ho paura che non sia possibile.

La donna abbassò il tono di voce.

- È Grigory, ed è urgente. 

Hannibal si alzò dalla sua poltrona. Se a chiamare era il suo uomo migliore, doveva essere molto importante.

- Temo che non potrò vedere il finale. 

- Che importa?

Commentò il russo.

- Tanto ormai è chiaro chi sia il vincitore.

Hannibal sorrise, poi, con un gesto fulmineo sfoderò da sotto la leggera giacca di seta, una grossa pistola cromata. Sparò due colpi in rapida successione.

Dalle cosce dei RA del russo e del cinese, uscì un pennacchio rosso. 

Poco dopo entrambi caddero a terra. Le fiamme spente.

- Bastardo! Gli hai ammazzati.

- Direi che ho vinto. Ora vi tocca sganciare. 

Commentò Hannibal, prima di prendere la donna a braccetto e raggiungere la sua gigantesca villa.

L’uomo raggiunse una grossa porta di legno, dalla maniglia in oro. 

La donna si fece da parte per farlo passare. Sapeva che era un affare urgente e non voleva interferire. L’uomo entrò nella stanza e chiuse la porta a chiave, poi si sedette dietro la gigantesca scrivania. Su di essa troneggiava un gigantesco schermo ultrapiatto. 

Schermo riempito dalla sagoma del volto del suo agente.

- Spero sia urgente.

Mentre pronunciava quella frase, l’uomo giocherellava coi suoi anelli.

- Si, signore, lo è eccome. Ho scoperto che la francesina se la fa con la figlia di Hopper. E quest’ultima ha scoperto degli affari che non la riguardano. 

- E quindi? Non mi sembra affatto un’urgenza.

- Sono certo come la morte che, ben presto la condurranno al Supercomputer. 

- Devi portarmi notizie vere, non supposizioni.

- Eccole. Ho rintracciato alcune comunicazioni telefoniche. Ishiyama e Stern sono andati in Belgio e hanno trovato una sorta di copia del Supercomputer. Dovessero approfondire la  questione, naturalmente mi occuperò di registrare ogni singola parola.Vi hanno fatto accesso e una volta usciti sono stati inseguiti da degli uomini in nero.

E credo che lei sappia per chi lavorano. 

L’uomo sbattè un pugno sulla scrivania.

- Non pure loro! Non dovevano mettersi in mezzo. In ogni caso la prossima volta chiamami solo ed esclusivamente se scovi il Supercomputer.

- Agli ordini!

Hannibal spense immediatamente il suo computer.

Arrivati in Francia, Ulrich e Yumi erano troppo stanchi per parlare. Dormirono da subito dopo cena a quasi ora di pranzo del giorno dopo. Quando si incontrarono con gli amici.

I due avevano tantissimo da raccontare, dalla Replika al fantasma del Professore all’inseguimento con gli uomini in nero. Parlarono anche di sfuggita di una misteriosa allenatrice che gli aveva salvati. Certo, le erano grati, ma non ritenevano fosse importante. Poteva benissimo essere una comune cittadina.

Jeremy e Aelita, invece, aggiornarono i due sulla scoperta fatta all’Hermitage.  

- Se voi avete visto il Professore nella Replika, allora vuol dire che è una sua creazione.

Commentò Jeremy.

- Si, effettivamente c’era un suo fantasma. È un indizio sul fatto che sia stato lui a crearla e mi chiedo cosa potesse raccontarci.

- Pensaci, Yumi.

La riprese Ulrich.

- Mi chiedo quante volte quegli uomini abbiano visitato quella Replika e quante informazioni abbiano ricevuto. 

- Non so.

Commentò Jeremy.

- Se vi ricordate, il Professore, su Lyoko non aveva un aspetto… per così dire umano. Non è da escludere che sia così anche per loro. Almeno fino a prova contraria. Piuttosto, non mi è chiaro cosa c’entri la professoressa Hertz in tutto questo. Se davvero quella donna nel diario dell’Hermitage fosse lei…

Se solo avessimo ancora quel dossier… Odd, era tua responsabilità.

- E chi lo ha preso?

Odd era sicuro di averlo tenuto nel suo armadio, ma qualcuno doveva essere entrato nella stanza e lo aveva preso.

- Sarà stata la professoressa, non trovandolo.

- Come no. Non credo che possa arrivare a tanto. Deve essere stato qualcun’altro.

Intervene Ulrich.

- E poi dobbiamo ricordarci che ci sono altre forze in campo. Come quell’uomo con i due HOU e gli uomini in nero. E chissà chi altro. Non vorrai aggiungere anche la Hertz, dai.

- Mi chiedo. E se l’uomo con gli HOU fosse uno degli uomini in nero?

- Non penso, amico.

Jeremy riprese Odd.

- Lavorano in modo molto diverso. L’uomo con gli HOU lavora da solo e usa delle tecnologie incredibilmente avanzate. E in più non sembra rispetti alcuna legge. Gli uomini in nero, invece potrebbero lavorare per qualche organizzazione governativa o simile. Anche solo per far volare un elicottero ci vogliono numerosissimi permessi. E se le autorità non li conoscessero, non li lascerebbero fare, non trovate?

Quindi si, ci sono due forze in campo. Oltre a noi. E sembra che quei due siano addirittura nemici. 

Dall’altra parte del mondo, Dido era seduta sul sedile posteriore di una Cadillac prodotta appositamente per i servizi segreti.

Una vettura dotata di ogni comfort che si possa desiderare e di altrettanti dispositivi di sicurezza, tra cui una blindatura di altissimo livello, un serbatoio da enorme realizzato in kevlar, un motore dalla bassissima potenza specifica, sistemi di purificazione dell’aria da qualsiasi minaccia e decine e decine di altri sistemi.

La donna sapeva che quello era l’orario ideale per fare una telefonata in Francia. A quell’ora la persona che cercava era sicuramente a casa. La mattina presto di un lunedì.

Prese il telefono satellitare dal vano posto all’interno del bracciolo centrale e compose il numero. 

Il telefono fece alcuni squilli, poi, finalmente qualcuno rispose, con un tono scocciato. Probabilmente quella persona credeva si trattasse di una chiamata di qualche call center o simili.

- Pronto?

- Sono Dido.

L'interlocutore rimase in silenzio per diverso tempo.

- Si, mi dica signora.

- Ho una missione da affidarti. Presto verrà qualcuno a prenderti. Preparati. Verrà a prenderti un…

Il tono della donna cambiò, per far capire al suo interlocutore, che si trattasse di una semplice copertura.

- Taxi.

- Signora. Non sono più qualificato e soprattutto non ricordo nulla. 

- Non credo che tu ti possa opporre. Fonti sicure mi dicono che in questa storia è coinvolto Hannibal Mago. Quando arriverà, lei deve essere pronto ad accoglierlo. 

- Le ripeto che non sono più qualificato. Non ricordo nulla. 

- Jean. Ricordi quanto basta. Hai fatto delle cose molto brutte ed  è per questo che non puoi più vedere tua moglie e tua figlia.

L’uomo fece una smorfia di dolore. Quella donna sapeva benissimo dove colpire.

- Quindi. Se vuoi vederele hai solo una possibilità. Mettere fine a questa storia di cui sei stato protagonista quasi dodici anni fa. Come ti ho detto alcuni uomini andranno a prenderti e ti spiegheranno tutto. Ho detto loro della tua lunga inattività, per cui inizieranno con qualcosa di semplice.

Detto questo la donna chiuse la chiamata, per mettersi poi in contatto con l’agente Lycanroc, che rispose immediatamente.

- Agente Lycanroc. Vada con l’agente Linoone a prendere Jean e chiedigli di fare la cosa più semplice da fare in questa missione, sai bene a cosa mi riferisco. E non voglio proteste di alcun tipo.

L’uomo non rispose. Si mise immediatamente in marcia con il suo collega. Il capo aveva ordinato a lui e al suo collega di raggiungere Marsiglia senza fornire spiegazioni, ma ora il motivo era chiaro.

I due si trovavano a bordo di un finto taxi marsigliese. Dall’esterno nulla poteva far pensare che la verità fosse ben altra. La vettura non era una normale Peugeot 406.

Il finto taxi giunse proprio davanti alla casa di Jean. l’uomo aveva appena fatto in tempo a prepararsi. Uscì di casa e chiuse la porta. Quindi salì sul sedile posteriore di quella Peugeot.

- Eccoti qui. Jean. O dovrei dire Giovanni Roberto. Come previsto.

Salutò l’uomo alla guida. L’altro uomo, seduto davanti, indicò una borsa, appoggiata sul sedile posteriore, proprio accanto a Jean. 

- Prendi quello che c’è dentro e cambiati. Fai in fretta. Non abbiamo tempo da perdere. 

L’uomo iniziò a cambiarsi, mentre l’auto si sollevò da terra. Le ruote diventarono più grandi e il battistrada più ampio, dal cofano motore uscì una presa d’aria, dal paraurti anteriore degli splitter, alcuni profili aerodinamici, delle prese d’aria per i freni. Da sotto le porte, delle minigonne, dal cofano un grosso spoiler e altri profili aerodinamici dal paraurti posteriore.

L’uomo alla guida partì a razzo,Jean venne colto impreparato. Ancora non aveva superato la sensazione di ridicolaggine che lo ricopriva. Era completamente vestito di nero. Scarpe, pantaloni, camicia, giacca, occhiali da sole. E la pistola che portava sotto l’ascella pesava e gli dava fastidio.

E in più non ricordava nulla. Non sapeva quanto potesse essere di aiuto alle indagini.

Ricordava tutto quello che era accaduto dopo il 1994, ma nulla di quello che era accaduto prima. Si ricordava perfettamente quando Dido, per motivi di sicurezza gli aveva ordinato di stare lontano dalla moglie e dalla figlia. Gli aveva anche trovato un nuovo lavoro a Marsiglia, come impiegato.

Sapeva che era stato allontanato perché aveva fatto delle cose brutte che avevano a che fare con il signor Hopper e con degli uomini vestiti di nero.

Lycanroc, l’uomo alla guida del mezzo percorse a tavoletta i quasi ottocento chilometri che separavano Marsiglia da Parigi. Le uniche soste furono per fare benzina.

Jean si rese conto di come l’uomo alla guida non avesse rispettato alcun limite di velocità. 

Percorse una strada che normalmente si percorre in circa otto ore, in poco più di quattro. Appena entrato in città l’uomo fece sì che il taxi tornasse ad apparire come una normale Peugeot 406. 

L’insegna venne sostituita per farlo apparire come un taxi parigino e non più marsigliese.

- Siamo arrivati anche troppo in anticipo. Il capo ci aveva detto che dovevamo essere qui dopo pranzo. Alle due e mezza. Ma è appena mezzogiorno. 

Protestò l’uomo seduto sul sedile del passeggero. 

Avrebbero dovuto aspettare parecchio, e non potevano raggiungere il luogo indicato prima di quell’ora.

- Dovrai perlustrare l’Hermitage. Immagino che il nome ti dica qualcosa. Non è vero?

Jean non rispose. Quel nome gli metteva i brividi. Sapeva che aveva a che fare con Franz Hopper, ma non ricordava altro. E questo non gli piaceva affatto.

E in più il fatto di non poterci andare prima delle due e mezza gli metteva molta ansia. 

Dopo aver pranzato, Jeremy, Ulrich, Odd e Yumi andarono all’Hermitage. Jeremy era piuttosto impaziente di mostrare la replika creata dal Professore. Nonostante questo, però, avrebbe aspettato l'arrivo di Aelita. 

La ragazza era a un corso di cucina, dopo quello che era successo quella notte, e quel piccolo incidente diplomatico con Serena, aveva promesso a quest’ultima di partecipare con lei a quel corso.

Un corso aperto a qualsiasi studente o studentessa volesse partecipare, tenuto da Jim. Il professore, come prima cosa, aveva raccontato di come fosse stato un cuoco provetto, ma che preferirebbe non parlarne.

Jeremy fece uno squillo ad Aelita. La ragazza rispose al telefono quasi subito.

- Ciao, Jeremy, dimmi tutto.

- Siamo all’Hermitage. Aspettiamo solo te per la Replika. Quella che avevi esplorato quella notte…

- Si, vedo di arrivare appena posso, ora ho un piccolo impegno, ma appena posso arrivo. Ci vediamo dopo.

La ragazza chiuse la telefonata.

- Scusa, ma devo andare un attimino in bagno.

- Vai pure.

Aelita andò verso i bagni, ma, invece di raggiungerli, deviò verso il locale caldaie, dove si trovava uno dei passaggi segreti che permetteva di raggiungere la fabbrica, o anche, volendo, l’Hermitage, che si trovava poco lontano. 

La ragazza percorse il tunnel fino a raggiungere il punto in cui si incrociava con uno dei tunnel che partivano dai sotterranei della villa. Raggiunse il gruppo dalla scala che portava ai sotterranei.

Il gruppo la salutò con il solito calore.

Si stavano per dirigere ai sotterranei e, per l'appunto, visitare la Replika, quando l’attenzione di Yumi venne attratta da qualcosa. La ragazza si avvicinò alla finestra, sperando in un falso allarme.

Dal lato della strada opposto a quello della villa, qualcuno aveva appena parcheggiato un taxi. Una Peugeot 406. Una normale berlina allestita come taxi.

Solo che era strano che si trovasse in quel posto. Come se il passeggero avesse esplicitamente chiesto di portarlo lì. Ma per quale motivo? 

Dalla macchina scese un uomo, completamente calvo e completamente vestito di nero. Sembrava si stesse dirigendo verso la villa. Intanto quella berlina aveva iniziato ad allontanarsi. Proprio come un normale taxi. 

- Ragazzi. Abbiamo un'emergenza. Uno strano tizio si sta avvicinando pericolosamente. 

- Dobbiamo affrontarlo.

Si propose Ulrich.

- Se è solo non dovrebbe essere troppo pericoloso.

Aggiunse poco dopo.

- Non credo ci siano alternative. 

Aggiunse Yumi.

Ognuno di loro fece uscire dalla Pokéball il Pokémon più forte. Jeremy fece uscire il suo ME, Aelita la sua Gardevoir, Yumi la sua Greninja, Ulrich il suo Gallade Odd il suo Incineroar.

Uscirono rapidamente dalla villa scortati dai loro Pokémon, che in breve tempo circondarono l’uomo. 

- Gardevoir, usa Psichico!

La Gardevoir di Aelita utilizzò i suoi poteri per sollevare in aria l’uomo. L’allenatrice fece cenno alla Gardevoir di farlo cadere a terra, e di riprendere la presa all’ultimo. E poi di risollevarlo in alto e ripetere la procedura.

- Basta! Basta! Mi arrendo!

La Gardevoir interruppe l’attacco, facendo cadere l’uomo a terra. Prima che questi potesse rialzarsi, venne bloccato sul terreno dagli Acqualame ghiacciati della Greninja di Yumi. Anche volendo non poteva alzarsi. 

- Siete più forti di quanto pensassi. 

Commentò.

- Non posso fare altro che arrendermi. Sono solo e i miei colleghi sono già partiti.

- E cosa ci garantisce che tu non stia mentendo?

Gli chiese Ulrich. Estremamente dubbioso. 

- Ve lo posso giurare. Su tutto quello che volete. 

- E va bene.

Rispose Yumi. mentre scambiava uno sguardo d’intesa con Aelita. La ragazza ordinò alla sua Gardevoir di usare Psichico un’ulteriore volta, per assicurarsi di condurre l’uomo all’interno della villa senza che questi potesse fuggire.

Giunti nel salotto della villa, la Gardevoir fermò l’attacco, facendo attenzione a non fare troppo male a quell’uomo.

Fuggire era impossibile. Tentando dalla finestra sarebbe stato colpito a vista, mentre la porta era occupata per intero da quell’imponente ME. L’uomo aveva solo una scelta. Parlare.

- Evidentemente vi devo delle spiegazioni. Le avrete. Le avrete. Ma, purtroppo non vi posso dire tutto perché ho dimenticato  praticamente tutto. 

Il mio capo mi ha promesso che se avessi risolto questa situazione, avrei potuto rivedere la mia famiglia. Non avevo altra scelta e ho accettato. Mi promettete che se vi racconto quello che so, mi aiuterete a trovare almeno mia figlia. Non la vedo da quando era una bambina di  tre o quattro anni. Si chiama Serena. So che oggi è una performer e coordinatrice anche piuttosto famosa ma…

Aelita ebbe come un mancamento.

Un uomo pelato. Una bambina di tre o quattro anni chiamata Serena. Che ora è una coordinatrice e performer. Poteva essere lui l’uomo che aveva visto in quella Replika? Il padre di quella bambina che oggi era la sua compagna di stanza? 

Dopotutto le aveva detto di come non vedesse suo padre da quando era molto piccola… troppe coincidenze. Ma si sa. Le coincidenze non esistono.

Mentre la ragazza dai capelli rosa era persa nei suoi pensieri, Ulrich e Yumi guardarono attentamente quell’uomo. Era vestito esattamente come quei tizi che gli avevano inseguiti in Belgio. Era un uomo in nero. 

- Te lo prometto.

Disse Aelita. Con un tono che esprimeva un enorme coraggio.

L’uomo riprese il suo racconto.

- Negli anni novanta, lavoravo per delle persone molto pericolose. Dei terroristi, credo. A quei tempi vivevo qui. Mi ero sposato da alcuni anni con una promessa delle corse coi Rhyhorn, e avevamo una figlia, di cui vi ho parlato prima.

Non ricordo come, ma conobbi un professore chiamato Hopper, che cercava dei finanziamenti per un suo progetto. Un progetto molto molto importante. 

Quelli per cui lavoravo mi imposero di aiutarlo. Mi diedero tantissimi soldi per pagare i suoi progetti.  E mi imposero di  attendere che li finisse per poi passarli a loro. Diventammo ottimi amici. E sua figlia, era praticamente diventata la babysitter di mia figlia.  

Però.

L’uomo iniziò a piangere.

- Lo tradì. Accettai di venderlo. Di rivelare dove si nascondeva.

- Gardevoir usa…

La ragazza si fermò prima di ordinare l’attacco. Le premeva particolarmente che Serena sentisse queste esatte parole. 

Doveva essere grata di aver avuto a che fare con un mostro del genere.

- Mi hanno detto che se non avessi accettato, sarei stato arrestato e mi avrebbero rinchiuso in quarantuno bis per tutto il resto dei miei giorni. Oppure mi proposero di tradirlo. Mi avrebbero creato una nuova identità. E avrei anche potuto ricominciare da zero. Per motivi di sicurezza non avrei potuto vedere più mia moglie e mia figlia, ma sarei stato un uomo libero. Così accettai. Usarono uno strano macchinario che cancella la memoria. Lasciarono intatta solo la mia colpa. 

I ragazzi incominciarono a parlare a bassa voce. In un angolo lontano della stanza.

- Credo che sia giusto chiamarla.

Propose Aelita.

- Ma tu stessa ci hai spiegato e lui ci ha confermato che non si vedono da tantissimi anni. Lei era praticamente una bambina.

Precisò Yumi.

- Certo. Ma non possiamo comunque negare a un padre il diritto di vedere sua figlia.

Si aggiunse Ulrich. Tutti sapevano del difficile rapporto con suo padre. Quelle parole avevano un peso notevole. 

- E poi, se le cose dovessero andare male, potremo sempre usare il Ritorno al Passato.

Propose Odd.

- Sarebbe alquanto inutile. Lui sarebbe di nuovo qui e ci troveremo allo stesso punto. Lei non è stata scansionata. Per lei sarebbe sempre la prima volta. Creeremo un loop temporale, in poche parole.

Lo riprese Jeremy.

Subito dopo Aelita si era allontanata. Aveva fatto cenno al ME di Jeremy, che sbarrava la porta di farla passare, e questi obbedì immediatamente, per poi riposizionarsi davanti alla porta, una volta che la ragazza la richiuse.

Una volta allontanatasi a sufficienza, prese il telefono e si mise in contatto con la compagna di stanza, che rispose quasi subito, con un tono tra il preoccupato e il perplesso.

- Si, ma dove sei? Perché mi stai chiamando? È successo qualcosa?

- Si. Tuo padre.

- Mio padre? Mio padre cosa? 

- È qui. E vuole vederti. 

- Sai benissimo cosa ti ho detto su di lui. Non voglio vederlo. 

- Certo, chiaro. Ma pensavamo che avvisarti fosse la cosa giusta. Anche perché ha spiegato perché vi ha dovuto abbandonare. E, credimi. È una storia terribile. Voglio che sia lui a raccontarlo. Perché è terribile.

- Va bene, vengo. Ma almeno dimmi dove sei.

- Villa Hermitage. Non è molto lontano da qui. 

- Non so dove si trova. 

- Facciamo una cosa. Vai al parco della scuola. Cammina sino a quando non raggiungi un tombino lì in mezzo.penso sia un buon punto di riferimento, visto che non è molto normale un tombino lì in mezzo.

 Per il momento usalo come punto di riferimento. 

- Va bene. Poi?

- Poi troveremo un modo per guidarti fino alla villa. 

- Va bene.

Le due attaccarono la telefonata praticamente insieme. 

Serena provava un mix di emozioni difficile da descrivere. Da una parte era curiosa di sapere perché suo padre l’avesse dovuta abbandonare, ma era anche schifata da un uomo del genere. Tanto più che i motivi, a detta di Aelita erano terribili.

La ragazza iniziò a incamminarsi verso il parco della scuola, quando incrociò Ash, il suo ragazzo.

- Tutto bene?

Le chiese il ragazzo.

- Niente affatto. È una cosa personale. Voglio risolverla da sola.

- Come vuoi.

Serena era perplessa. Solitamente Ash le sarebbe stato accanto anche in situazioni così particolari. Ma, dopotutto, Aelita le aveva fatto intendere che doveva andare da sola. 

Lei si fidava di quella ragazza, nonostante alcune stranezze nei suoi comportamenti. Però, non sembrava avesse motivi per mentirle. Soprattutto su una cosa così seria. 

La ragazza si diresse verso il parco del collegio, proprio vicino al tombino. Il solo tombino dell’area. Effettivamente non aveva molto senso che un tombino si trovasse nel bel mezzo di un parco. 

La ragazza iniziò ad avere un po’ di paura. Tanti pensieri le riempivano la testa. Prese una delle sue Pokéball dalla borsa e fece uscire uno dei suoi Pokémon. La sua Sylveon. 

Quest’ultima, vedendola piuttosto preoccupata, strinse uno dei suoi nastri sul braccio della ragazza, come gesto di affetto e comprensione. 

- Grazie. 

La ragazza sentì un fruscio e alzò lo sguardo verso il cielo. Non notò nulla di anomalo. Alcuni Pokémon uccello che svolazzavano tranquilli. 

- Menomale. Mi sono spaventata per nulla.

Pochi istanti dopo una grossa sagoma bianca, volò a poca distanza da lei. Facendola spaventare e costringendola a fare un passo indietro. 

Fece molta attenzione a non imburconare. Se quella sagoma fosse tornata, doveva essere pronta ad affrontarla. 

Ed in effetti quella sagoma tornò. E si rivelò per quello che era. Una Togekiss, che si posò elegantemente davanti alla ragazza.

Serena rimase in silenzio alcuni istanti, cercando di riordinare i pensieri, fino a giungere ad una conclusione quantomeno sensata. Lei conosceva solo un'allenatrice che aveva quel Pokémon. Per cui tanto valeva tentare.

- Sei la Togekiss di Aelita. Non è vero?

Il Pokémon confermò. 

La ragazza prese dalla sua borsa alcuni Pokébignè che aveva preparato poco prima, proprio a quel corso, e ne diede alcuni alla sua Sylveon, altri alla Togekiss di Aelita. Entrambe sembrarono apprezzare.

Dopo mangiato, la Togekiss spiccò il volo, per poi girarsi verso la ragazza, come per farsi seguire. Cercava di volare lentamente, in modo da farsi seguire. 

Dopo un breve percorso, la ragazza iniziò ad intravedere la sagoma di una villa alta e stretta. Con un basso garage appoggiato su di un lato. Mano a mano che la ragazza si avvicinava, la sagoma diventava sempre più chiara. Era una villa abbandonata, apparentemente da moltissimi anni.

- Cosa ci fa mio padre qui?

Si chiese. Pur consapevole del fatto che il solo modo di trovare risposte, fosse quello di entrare. Dopotutto suo padre era là dentro. E lei voleva ottenere risposte.

Arrivata nel retro della villa, era indecisa se proseguire per il lato del garage o per il lato opposto. Dopotutto il risultato non sarebbe cambiato. No? 

- Aspetta!

La ragazza riconobbe immediatamente quella voce. Era Aelita. Come mai le aveva chiesto di fermarsi? Stava forse andando dalla parte sbagliata? Era forse una trappola? Aveva fatto male a fidarsi di lei?

In ogni caso ora non poteva tornare indietro. Per cui decise di ascoltarla.

- È meglio passare dal garage. È meglio che tu sia pronta ad affrontare la verità, è come un fiume in piena, credimi. 

Serena non rispose. Si limitò a seguirla. 

Le ragazze entrarono all’interno del garage. Era in gran parte occupato da un’auto e da degli scaffali con vari prodotti per la cura dell’auto, attrezzi da meccanico, vernici e via discorrendo.

Serena guardò quell’auto. Era di un giallo molto acceso, nonostante il grosso strato di polvere che la ricopriva. Non aveva mai visto un’auto del genere. Era piuttosto squadrata, aveva quattro fari tondi della stessa dimensione, delle grosse prese d'aria sul cofano, i parafanghi molto larghi. Dal parabrezza, stranamente pulito, erano perfettamente visibili gli interni. Neri. 

Sul retro uno spoiler. 

La performer era piuttosto perplessa. Quella macchina sembrava abbandonata lì da almeno dieci anni, se non di più. Come il resto della villa.  

E suo padre l’aveva abbandonata da oltre dieci anni. Che quella villa avesse a che fare con suo padre? Ma a quel punto la vera domanda era un’altra. Cosa ci faceva Aelita in una villa abbandonata da così tanti anni? E con chi era? Dopotutto aveva usato il plurale nella sua telefonata. 

Serena prese coraggio.

- Mi devi alcune spiegazioni.

- Lo so bene. Per il momento non posso entrare troppo nei dettagli, ma questa villa è appartenuta a mio padre. E, qualche tempo fa ti ho mentito. Mio padre non è morto qualche mese fa. Ma bensì dodici anni fa. 

- Perché hai mentito?

- Perché non volevo che venisse scoperta la verità. Mio padre aveva un passato oscuro e temevo che se ti avessi parlato di lui, ti avrei persa. Ecco.

- A quanto pare anche mio padre ha un passato oscuro, ma non mi sembra che tu mi sia saltata addosso o altro del genere. Anzi. Mi hai chiamato per venirci a parlare. E io ho accettato. 

- Vedi. Il fatto è che quando ti ho detto quelle cose… non potevo sapere che tuo padre fosse coinvolto. 

- Coinvolto in cosa?

Aelita ebbe come un crollo. Si era messa in un grosso guaio. A quel punto non poteva non raccontarle tutto. 

- Forse è meglio che sia lui a raccontarti tutto. Poi ti racconteremo tutto. Promesso.

- Promesso?

Le due ragazze fecero la promessa del mignolo. Un gesto molto antico, che simboleggiava una promessa solenne che, se non fosse stata mantenuta, avrebbe comportato il taglio del dito della persona che aveva infranto la promessa.

Aelita l’accompagnò fino alla stanza in cui suo padre era rinchiuso. 

- Se le cose dovessero mettersi male, avvisaci con questo. Falla cadere per terra. Farà un gran rumore e noi ti potremo aiutare.

- Va bene.

Aelita passò alla ragazza una sorta di sacchetto con all’interno del materiale difficile da definire. Era grigio scuro e sembrava morbido. La ragazza decise comunque di non toccarlo. Fosse stato esplosivo, si sarebbe potuta ferire.

I ragazzi, di comune accordo, avevano deciso di lasciarli da soli. Consapevoli di poter intervenire rapidamente in caso di emergenza.

Serena entrò nella stanza, scortata dalla sua Sylveon. Sola con quell’uomo pelato. Seduto per terra, contro un muro. 

La ragazza si sedette dalla parte opposta della stanza, con accanto la sua Sylveon, che non aveva mai smesso di stringere il braccio della ragazza con i suoi nastri.

La ragazza era seduta con le mani appoggiate sotto il mento e lo sguardo basso. Non voleva guardare in faccia quell’uomo che l’aveva abbandonata quando era ancora una bambina.

- Sei persino più bella di quando ti inquadrano in televisione.

Esordì l’uomo. 

Per tutta risposta, la Sylveon iniziò a soffiare minacciosamente contro quell’uomo e a inarcare la schiena, per sembrare più grande.

La ragazza lo ignorò totalmente.

- Immagino che tu non sia venuta per questo. Dopotutto ti devo delle spiegazioni. E avresti ragione. Non posso sparire per così tanti anni e iniziare così. Facciamo finta che non sia successo. Facciamo finta che sei entrata adesso e che non ti ho detto niente. 

La ragazza continuò a ignorarlo.

- E va bene.  Parlerò. Ma spero che tu non rimanga delusa. Ho dimenticato praticamente tutto. 

Devi sapere che io mi sono allontanato da te e da Primula per proteggervi.

- Proteggerci? 

- Vedi, ti parlo di cose accadute negli anni novanta, quando lavoravo per delle persone molto pericolose. Dei terroristi, credo. A quei tempi vivevamo qui. Io e tua madre eravamo sposati da pochi anni e, quando sono successe le cose peggiori, avevi tre anni. 

Ma le cose sono iniziate prima che tu nascessi. Non ricordo come, ma conobbi un professore chiamato Hopper, che cercava dei finanziamenti per un suo progetto. Un progetto molto molto importante. 

- Aspetta un attimo.

Lo interruppe.

- Dimmi tutto.

Serena rimase in silenzio. Quindi suo padre era coinvolto con un certo Hopper. Che fosse il padre di Aelita? Ma quella ragazza faceva Stones di cognome. Non poteva essere lei. A meno che non l’abbiano costretta a cambiare identità per proteggerla, dopo la scomparsa di suo padre.

Capendo di avere nuovamente l’attenzione della figlia, l’uomo riprese il suo racconto.

- Quelli per cui lavoravo mi imposero di aiutarlo. Mi diedero tantissimi soldi per pagare i suoi progetti.  E mi ordinarono di attendere che li finisse per poi passarli a loro. Con il passare del tempo diventammo ottimi amici. E sua figlia, era praticamente diventata praticamente la tua babysitter.  

Come poco prima, Serena gli chiese di fermarsi. 

Più di qualcosa non le tornava. I suoi genitori le avevano entrambe detto che la figlia di Hopper, Franz Hopper, è stata la sua babysitter. Dalla madre aveva scoperto che quella ragazza si chiamava Aelita e che era scomparsa insieme a suo padre nel millenovecentonovantaquattro. Allora quella ragazza aveva circa tredici anni. Se fosse ancora in vita, ne avrebbe dovuti avere venticinque. E poi quell’attentato al Kadic? Rivendicato da dei terroristi che cercavano Franz Hopper? Per cui lei e sua madre erano dovute fuggire in Giappone. 

Ma allora chi era Aelita, la sua compagna di stanza? Era la figlia di quell’Hopper oppure era semplicemente una coincidenza che i loro padri avessero lavorato insieme e che lui fosse morto dodici anni prima per delle cause diverse?  Facendo finire il racconto a suo padre, avrebbe ottenuto delle risposte?

L’uomo continuò a parlare. Contemporaneamente iniziò a piangere. 

- Però lo tradì. Accettai di venderlo. Di rivelare dove si nascondeva.

La ragazza era piuttosto arrabbiata. Suo padre aveva fatto la cosa peggiore che una persona poteva fare. Tradire un amico.

- Quelli che mi contattarono mi dissero che se non avessi accettato, sarei stato arrestato e mi avrebbero rinchiuso in quarantuno bis per tutto il resto dei miei giorni. Oppure mi proposero di tradirlo. Mi avrebbero creato una nuova identità. E avrei anche potuto ricominciare da zero. Per motivi di sicurezza non avrei potuto vederevi, ma sarei stato un uomo libero. Così accettai. Usarono uno strano macchinario che cancella la memoria. Lasciarono intatta solo la mia colpa. 

Serena non sapeva che fare. Sentire la confessione di suo padre era forse la cosa peggiore. 

Ma ora che era dentro, non poteva tirarsi indietro. Certo, era una situazione davvero difficile, ma cosa poteva fare ora? Non di certo tirarsi indietro. Forse la scelta più giusta era indagare. E non poteva che partire dalla persona che l’aveva portata fino a lì. Aelita.

La ragazza corse fuori dalla stanza, insieme alla sua Sylveon. Lasciando l’uomo da solo. In parte poteva giustificare il suo comportamento. Voleva tenerla lontana dai guai. 

La ragazza entrò nella stanza accanto, dove l'aveva vista entrare. 

Spalancò la porta e vide Aelita e tutto il gruppo con la quale era solita uscire. Non gli conosceva proprio benissimo. Ma se lei era lì, era anche, in parte, grazie a loro.

- Aelita. Mi devi delle sp…

Prima che la ragazza potesse finire la frase, qualcuno suonò il campanello. 

Vado ad aprire.

Ulrich si era alzato per andare ad aprire la porta, o perlomeno a vedere chi stava suonando. 

Il ragazzo guardò dallo spioncino. A suonare un ragazzo dai capelli neri con un Pikachu sulla spalla. Il ragazzo ci mise un attimo a capire chi fosse.

Indeciso sul da farsi, Ulrich, tornò dal gruppo. 

- Allora. È Ash. 

- Il mio Rag…

Si lasciò scappare Serena.

Perché lo aveva detto? Voleva che anche lui venisse coinvolto? 

- Vedi.

Le spiegò Aelita.

- Ormai dovresti aver capito che le cose non sono esattamente come ti ho detto.

- E cosa facciamo con Ash?

Si chiese Odd, rimasto fino a quel momento in silenzio.

Tutti incrociarono i loro sguardi. Giungendo ad una conclusione soddisfacente.

- Solitamente teniamo le relazioni fuori da queste cose, ma… se può farti stare meglio. Possiamo fare un’eccezione.

Propose Yumi.

Ma, prima di tutto, devo farti una domanda.

- Dimmi tutto.

- Sai mantenere un segreto?

La ragazza rimase in silenzio. Dopotutto chi tace acconsente, no? 

Intanto Ulrich si era nuovamente alzato e aveva aperto leggermente la porta ad Ash. L'apertura non permetteva al ragazzo con il Pikachu di entrare. Ma era più che sufficiente per parlare.

- Come sei arrivato qui? 

- Ho visto che Serena si è allontanata e volevo sapere dove fosse finita. Ho visto che stava inseguendo un Togekiss, fino a questa villa qui. Ho girato intorno alla villa, senza trovarla e ho pensato che fosse entrata. 

- Capisco. Ma vedi. Questa è una situazione piuttosto particolare. Non è uno scherzo. 

- Si, chiaro. 

- Bene. Dato che è una cosa molto seria, devo farti una domanda. Sai mantenere un segreto? Forse il segreto più grande che dovrai tenere per tutta la vita?

Xana sapeva di cosa si stava per parlare. Ma se voleva tornare allo splendore di prima doveva stare al gioco e accettare.

- Si. Certo.

Il ragazzo sganciò la catena che teneva ferma la porta. Permettendo a Ash e Pikachu di entrare. Quindi li guidò nella stanza con tutti gli altri.

- Ora che ci siamo tutti. Direi che, finalmente vi possiamo svelare il segreto. Raccontare tutta la verità. Dopotutto nessuno di noi avrebbe mai immaginato che la situazione avrebbe potuto prendere questa piega.

- Cosa vuoi dire con questa frase?

Serena ancora non capiva. Qual era la verità? Sarebbe stata pronta a scoprirlo? 

- Partiamo con ordine. Esordì Jeremy.

Si, facile dirlo. Pensò. Da dove doveva partire? Dalla storia di Franz Hopper? Dalla storia di come si era formato il gruppo?  Forse la scelta più giusta era la seconda opzione. Raccontare le cose nell’ordine in cui sono state scoperte, piuttosto che nell’ordine in cui sono avvenute. Non consapevoli del fatto che fossero osservati da più di qualcuno, cominciarono il loro racconto.

- Vedete. Voi siete i primi a cui raccontiamo questa storia. È molto difficile scegliere da dove cominciare. Ma forse l’ideale è cominciare dove tutto è iniziato.

Era il nove ottobre di quattro anni fa. 

La professoressa Hertz ogni sei mesi indice un concorso di scienze. Quella volta decisi di costruire un piccolo robot. Avevo notato, poco lontano dalla scuola, un grosso edificio. Una fabbrica abbandonata della Renault. Qualche tempo prima avevo notato che la fabbrica e il collegio fossero collegati attraverso le fognature, tramite un tombino al centro del parco.

Quella fabbrica poteva essere una miniera d’oro per il mio robot. Trovai quello che mi serviva e anche di più.

A Xana quelle cose interessavano ben poco. Almeno fino a quando non l’avrebbero condotto al Supercomputer e forse nemmeno quello sarebbe bastato. Per questo mollò la presa.

Ash iniziò ad immaginare la storia come se fosse un film. 

Immaginava il ragazzo attraversare la fognatura e giungere di fronte a un edificio gigantesco e polveroso. Dalla porta, a detta del ragazzo, si accedeva a un ballatoio a sospeso a diversi metri da terra. La fabbrica doveva essere immensa e desolata. Sulle pareti passerelle e anditi, stanze piene di macchinari in disuso.

Le poche finestre intatte completamente ricoperte di polvere. Insomma Ash immaginava un luogo in cui nessuno metteva più piede da anni. 

Continuando ad ascoltare, Ash immaginò quel ragazzo buttarsi da una corda che partiva dal soffitto e permetteva di raggiungere il piano terra, dato che la scala era crollata chissà quanti anni prima.

Il piano terra era ricolmo di carcasse di auto, lattine e bottiglie di birra, pneumatici, rifiuti elettronici, materassi, lastre di eternit e quant’altro. Sembrava una discarica, ma dalle parole del ragazzo, sembrava fosse una miniera d’oro.

Percepì quasi il dolore nelle mani del ragazzo causato dall’attrito con quella corda e si immaginò la grossa nuvola di polvere sollevata dal ragazzo durante la sua caduta.

Ora il ragazzo gironzolava per la fabbrica per trovare quel che cercava, quando la sua attenzione venne attratta da un ascensore. Dalle parole del ragazzo era un semplice container metallico con una semplice pulsantiera su un lato, composta da due bottoni rossi.

Il ragazzo, a quel punto si chiese se convenisse o meno provare ad azionarlo. Comprendendo di non aver nulla da perdere, il ragazzo, decise di provare a premere il pulsante che comandava la discesa. Tanto quell’ascensore non aveva motivi per funzionare.

Ash poteva solo immaginare lo stupore del ragazzo, nello scoprire il fatto che l’ascensore fosse perfettamente funzionante.

L’ascensore ci mise oltre un minuto a raggiungere la sua destinazione. Tempo, a detta del ragazzo, sufficiente a pentirsi.

Alla fine l'ascensore si fermò e la grata si sollevò. Un sistema automatico fece aprire una porta automatica. 

Ora immaginava il ragazzo all’interno di una stanza illuminata da luci al neon di un colore freddo, tendente al verde.

Dal soffitto pendeva una gigantesca apparecchiatura fatta di tubi di metallo e cavi elettrici. Ricordava una sorta di braccio che partiva da un cerchio in metallo sul soffitto. Ash lo immaginò come un gigantesco lampadario.

Sul pavimento era presente un cerchio sollevato da terra che ricordava una sorta di pedana. 

Sul braccio meccanico sul soffitto erano presenti tre schermi. Uno grande e due più piccoli, della stessa altezza ma più stretti, come a avvolgere chi guarda. Poco sotto una tastiera.

Sul pavimento una sorta di monorotaia che conduceva fino a un sedile. Per certi versi ricordava una postazione di comando. Stando a quel ragazzo, non fu subito chiaro chi avesse creato quella cosa fosse stata creata da umani o meno, né tantomeno lo scopo per cui la stessa fosse stata creata. 

Il primo dubbio a venire sciolto fu chi avesse creato quella cosa. Era stata creata da degli esseri umani. La tastiera era, apparentemente una normale tastiera da computer. 

Certo, questo non aveva risolto molti dei suoi dubbi, come per esempio il motivo per cui tutte quelle attrezzature si trovassero in quel posto. 

Certo, il luogo era pieno di cartelli di avvertimento di ogni tipo, ma era relativamente facile accedere a quel posto. 

Stando a quel ragazzo vi era la possibilità che l’area fosse videosorvegliata. Proprio questa paura, a detta sua, lo spinse a continuare ad indagare. Dopotutto non trovava nessun motivo razionale per nascondere quelle apparecchiature in un edificio abbandonato da anni.

Si sedette nella poltrona, ma non successe nulla, e anche i monitor erano spenti.

Nessun risultato nemmeno provando con la tastiera.

 Come se mancasse ancora un pezzo al puzzle. E non era detto che quel pezzo si trovasse in quella stanza. Il ragazzo l’aveva esplorata completamente senza trovare nulla di utile. 

La soluzione doveva essere da un’altra parte. Il ragazzo prese l’ascensore e scese al piano inferiore. Forse la soluzione era lì. Per scoprirlo non doveva far altro che aspettare.

L’ascensore si fermò e una porta simile a quella precedente, si aprì, permettendo al ragazzo di entrare all’inferno della nuova stanza. Una stanza dalle pareti di un colore caldo, tra il giallo e l’arancione. Al centro della stanza una sorta di pozzo. Ma questa non fu la cosa più interessante della stanza. 

Disposte a formare un triangolo, tre apparecchiature collegate al soffitto con degli spessi fasci di cavi. Ognuna di quelle apparecchiature, simili a delle colonne, che sembrava potessero essere aperte, in qualche modo. 

La sola cosa chiara al ragazzo, è che quelle colonne avevano qualcosa a che fare con l’apparecchiatura di sopra.

Ancora non aveva idea dell’utilità di quei dispositivi. Aveva tante domande, che forse avrebbero trovato risposta trovando l'interruttore del sistema. E di sicuro non era in quella stanza.

Il ragazzo prese di nuovo l’ascensore per verificare se fosse ancora possibile andare più in basso. L’ascensore scese ulteriormente. Forse l'interruttore era lì sotto. 

Stando al racconto del ragazzo, quest’ultimo si aspettava una stanza piena di computer di diverso tipo o qualcosa di simile.

Quello che il ragazzo si ritrovò, invece fu molto diverso.

Un grosso cilindro verde e coperto da una sorta di rete dorata. A detta sua si trattava di un dispositivo incredibilmente tecnologico. A detta sua non aveva mai visto nulla di simile.

Il ragazzo, a quel punto decise di accendere quello strano apparecchio. Dopotutto non aveva nulla da perdere. E poi avrebbe mai potuto funzionare, abbandonato com’era da chissà quanti anni?

Il ragazzo abbassò la leva. Privo di aspettative.

Da essa partì una piccola scintilla azzurra. Poi tutti i profili dorati del dispositivo si ricoprirono di una luce accecante.

Risalì al piano superiore e si sedette su quella poltroncina. Ora il dispositivo funzionava. E lo condusse fino al monitor. 

Su quel dispositivo simile a una pedana, si innalzò un fascio di luce di un proiettore olografico. Esso proiettò l’immagine di una sorta di una sorta di mappamondo, diviso in quattro aree. Ognuna di colore diverso e con dei dettagli diversi. Uno ricordava un deserto, uno un ambiente montuoso, uno un ambiente polare e l’ultimo una foresta.

A quel punto il timore del ragazzo raggiunse un ulteriore picco. Credeva ancora una volta di trovarsi in una base militare. Solo che alcune cose non gli tornavano. Quella sorta di mappamondo non era affatto la Terra. Non sembrava avere continenti né tantomeno oceani. 

Smanettando coi controlli, riuscì ad avere una visuale di quel mondo. L’interno scuro di una sorta di edificio nelle pareti scorrevano fiumi di dati. All’interno dello strano edificio, una ragazza.

Una ragazza coi capelli a caschetto di un rosa tendente al rosso. Aveva delle orecchie a punta che per certi versi ricordavano un elfo. Era vestita di verde chiaro e rosa, con un abito che contribuiva allo stesso modo a darle quell’aspetto. Aveva un trucco abbastanza particolare, che poteva, per certi versi, assomigliare a delle pitture di guerra. Due strisce verticali dello stesso colore dei capelli che partivano da sotto gli occhi.

Sembrava fosse addormentata, ma poi  si svegliò.

Non interrompendo il racconto, tanto Ash quanto Serena si voltarono verso Aelita.

Il ragazzo fu alquanto sorpreso nello scoprire di poter comunicare con quella ragazza, nonostante all'apparenza non vi fossero delle telecamere o dei microfoni. Dovevano essere nascosti bene.

La ragazza sembrava avesse perso la memoria. Non si ricordava come fosse finita lì, non si ricordava neppure il suo nome. 

Fino a quando non se lo sarebbe ricordato, i due scelsero di comune accordo, Maya.

Ash non si accorse nemmeno del cambio di narratore.

Per Ulrich Jeremy era un ragazzo normalissimo, il classico secchione, e fino a quel momento entrambi vivevano le loro vite normalmente. Anche Ash pensava lo stesso di lui, fino a quando non era stato posseduto da Xana. 

Aveva raccontato di come i due si fossero incontrati. Jeremy stava prendendo qualcosa alle macchinette, aveva messo una moneta  quando, a un certo punto, venne fulminato dallo stesso. Cadendo come un sacco di patate. 

Ulrich lo soccorse, portandolo in infermeria. Dopo quello strano evento, tutto sembrava andare normalmente. 

Qualche tempo dopo, il ragazzo si trovava nella sua stanza, quando, dalla stanza vicina, iniziò a sentire delle urla. Era entrato di corsa nella stanza e aveva visto il compagno di classe lottare contro una sorta di scattoletta su ruote. Dopo averlo bonariamente preso in giro, lo aiutò. Ma a quel punto la curiosità del ragazzo era troppa. Non poteva non chiedergli cosa diavolo stesse succedendo. E Jeremy era consapevole del fatto che quel ragazzo avesse ragione.

Il giorno seguente, quindi, lo aveva accompagnato alla fabbrica.

Ulrich non voleva credere a quello che vedeva. Conosceva quella fabbrica abbandonata, ma non avrebbe mai pensato che fosse qualcosa di più di una semplice fabbrica di auto abbandonata. Non aveva motivi per farlo.

Ash poteva solo immaginare lo stupore del ragazzo nel dover attraversare la fognatura e dover raggiungere, appunto quell'edificio. Appena salita la scala che portava al ponte, superato il disorientamento dovuto alla luce del Sole, dopo diverso tempo al buio, il ragazzo si accorse dell’incredibile vista che si poteva godere da lì.

A dire il vero, la preoccupazione maggiore del ragazzo era quella di come togliersi l’odore della fognatura, che sembrava non potesse togliere in alcun modo.

Durante il tragitto per raggiungere la fabbrica, Jeremy gli aveva raccontato che allora non aveva trovato particolari informazioni su quella fabbrica, a eccezione del fatto che si trattava di una ex fabbrica della Renault.

In ogni caso i due, dopo una certa insistenza da parte di Jeremy, entrarono all’interno dell’edificio. 

Raggiunsero la sala al piano di mezzo. Ulrich era curioso di sapere a cosa servissero, non ottenendo risposte di alcun tipo, a parte una generica ipotesi relativa al fatto che Maya fosse entrata nel mondo virtuale attraverso quei dispositivi. Solo che nessuno dei due voleva rischiare di utilizzarle. Dopo una breve discussione tra i due, entrambi convennero che la cavia perfetta fosse il Lillipup di Odd, che allora era appena diventato il compagno di stanza di Ulrich. Il ragazzo lo riteneva alquanto

Insopportabile, per cui lo riteneva la cavia ideale. Si sarebbe infiltrato nella stanza che condivideva con il nuovo arrivato, avrebbe sequestrato Kiwi, il suo Lillipup, e lo avrebbe portato alla fabbrica.

Altro cambio di narratore. Ancora una volta Ash non ci fece caso.

Odd, nonostante stesse dormendo, si accorse che qualcosa non tornava. Non aveva più sentito il ronfare del suo piccolo Lillipup e si era preoccupato. 

Aveva poi sentito i suoi latrati deboli e confusi. Temeva che qualcuno lo avesse rapito, sequestrato o qualcosa del genere. Anche se non ne vedeva il motivo.

Sapeva che il suo compagno di stanza non lo sopportava, ma non gli sembrava tipo da arrivare a tanto. Non avendo altre piste da seguire. E, uscendo dalla stanza, gli era sembrato di vedere proprio la sagoma di un ragazzo. Non poteva che essere il suo compagno di stanza.

Ash immaginò il ragazzo infilarsi la giacca e correre, ancora in pigiama a ciabatte e seguire il sequestratore.

Sapeva che quel ragazzo non aveva idea di dove potesse essersi ficcato.

E in più, non solo doveva seguirlo, ma doveva anche fare attenzione a non farsi scoprire.

In ogni caso, dopo averli seguiti nelle fogne e poi nell’ascensore, poco dopo il loro arrivo, scoprì che il suo Lillipup si trovava dentro una specie di dispositivo di forma cilindrica. Sentiva qualcosa a riguardo di un processo di trasferimento, o qualcosa di simile riguardante proprio il suo Lillipup. 

Vedendolo dentro quello strano dispositivo, il ragazzo fece per salvarlo, finendoci, involontariamente all’interno e venendo trasferito nel mondo virtuale al suo posto.

Inizialmente il ragazzo non aveva realizzato dove si trovasse. Sembrava una sorta di videogioco. Tutto attorno a lui sembrava irreale. Alberi altissimi ed estremamente simili fra loro. Il terreno, che aveva dei colori tra il verde e il marrone, non sembrava per nulla realistico. 

Ancora il ragazzo non aveva realizzato cosa fosse successo al suo corpo. Ora non indossava più un pigiama e una giacca, ma una tuta aderente viola che gli dava un aspetto felino. Gli era anche spuntata una lunga coda, sempre viola. Aveva anche dei guanti che gli avevano trasformato le mani in estremità simili a zampe, con tanto di artigli. 

Il ragazzo raccontava di come fosse estremamente disorientato e di non capire per bene dove si trovasse. Certo, Jeremy gli aveva spiegato, a modo suo, quello che era successo al suo corpo, ma comunque non gli fu ugualmente chiaro. Allo stesso modo rimase sconcertato quando incontrò delle creature dalla forma appuntita che lanciavano dei raggi laser da una sorta di cerchio posto in basso, vicino ai piedi.

Appena venne colpito si rese conto di come, per quanto quel mondo somigliasse ad un videogioco, il dolore fosse reale. 

Dopo un po’ venne materializzato nel mondo virtuale anche Ulrich. Lui era vestito in modo simile a quello di un samurai, con tanto di katana. Questo scatenò la gelosia di Odd, che credeva di non essere armato. 

Dopo aver esplorato insieme parte di quel mondo e fatto conoscenza di Maya, i due si colpirono a vicenda per vedere se si tornasse al mondo reale in quel modo. 

Altro cambio di narratore. 

Ora stava parlando Yumi.

Aveva raccontato di come avesse conosciuto Ulrich, durante un allenamento di arti marziali e di come inizialmente non credesse alle sue parole circa una gigantesca sfera di energia elettrica che li inseguiva e allo stesso modo non credeva all’esistenza di quel mondo virtuale, né tantomeno di Maya, la ragazza che l’abitava.

Dovette ricredersi quando Ulrich l’accompagnò lì e, le mostrò come fosse tutto vero. Lei nel mondo virtuale appariva come una sorta di Geisha armata di ventagli affilati come rasoi. Ma, come gli altri, non ebbe molto tempo per adattarsi a quella strana realtà, prima di venire anche lei attaccata da degli strani mostri.

Raccontava di come tutti pensassero che, se Maya fosse stata veramente umana, sarebbe potuta tornare sulla Terra anche lei, in qualche modo.

Per esempio entrando dentro uno strano edificio, simile, per certi versi a una grossa candela, per altri un albero. Sulla parte superiore un alone rosso.

Altro cambio di narratore. Aelita.

La ragazza raccontò di come, appena entrata nella Torre, si trovò dentro ad una piattaforma con il simbolo simile ad un occhio, un puntino con attorno due cerchi concentrici e quattro stanghette. Tre che partivano dalla parte bassa, una in alto.

Ogni cerchio si illuminò al suo passaggio di un colore tra il bianco e l’azzurro. 

Arrivata al centro venne sollevata da una forza invisibile, che la portò fino al piano superiore, dove vi era una piattaforma simile. Giunta anche al centro di essa, apparve uno schermo trasparente e anch’esso di una tonalità di azzurro. 

La ragazza, quasi istintivamente, vi posò la mano. E, in quel momento, finalmente apparve il suo vero nome. Aelita. E il fatto che inserisse un particolare codice, appunto il codice Lyoko.

Questo permise all’alone della torre di cambiare colore dal rosso al blu, ma la ragazza rimase all’interno della stessa. Non tornò nel mondo reale. 

A quel punto quella sorta di film nella mente di Ash, terminò. Ma non altrettanto il racconto. Per Ash era come se Jeremy non avesse mai smesso di parlare.

- Solo in quel momento capimmo che l’accensione del Supercomputer, avevamo anche risvegliato un entità malevola, che viveva al suo interno, Xana. Nel corso del tempo, ha attaccato in diversi modi, tra cui possedendo un peluche gigante, preso il controllo di un autobus per farlo schiantare contro un impianto petrolchimico, tentato di far schiantare due treni che trasportavano merci pericolose, cercato di far affondare il collegio, manipolato la gravità, creato una musica in grado di uccidere…

- Scusa se ti interrompo, ma non ho mai sentito parlare di tutte queste cose…

Lo interruppe Serena.

- Normale. Ogni volta che Aelita disattivava la Torre, lanciavo il ritorno al passato e tutto tornava come se non fosse mai successo, facendo dimenticare a chiunque non fosse scansionato, tutto quello che era accaduto. Tu e Ash siete stati alla vecchia fabbrica quando avevate visto Meloetta, ma, proprio a causa del ritorno al passato, non ve lo potete ricordare.

- Ah. Se lo dici tu…

- Vi risparmio tutti gli altri attacchi di Xana e arriviamo al punto fondamentale, quando pensavamo che tutto fosse finito. Il giorno che riuscimmo a portare Aelita sulla Terra.

Anche qui trovare il modo di materializzarla non è stato affatto facile, abbiamo dovuto lavorare per ore e ore. 

- Ero incredibilmente emozionata. Finalmente avrei potuto vivere come una ragazza normale, avremmo potuto spegnere il supercomputer e Xana per sempre. Quando arrivai sulla Terra fu un enorme trauma, mi sembrava tutto stranissimo. Ma ci avrei fatto l’abitudine. Solo che… appena tentammo di spegnere il Supercomputer… beh. Mi raccontarono che svenni. Pensavano fossi morta. Riaccesero immediatamente il Supercomputer e, poco a poco ripresi i sensi. Non ci sapevamo spiegare il motivo.

- Pensavamo si trattasse di un virus creato da Xana per impedirci di spegnere il Supercomputer, a meno di non sacrificare anche Aelita. 

Continuò Jeremy.

- Avevo delle visioni riguardanti una villa poco lontano dal collegio. L’Hermitage. Proprio questa villa. Erano ricordi terribili e confusi. Ma qualcosa dovevano pur significare. Così, insieme a Jeremy fecimo delle ricerche a riguardo. E scoprimmo che questa villa era appartenuta a un signore chiamato Franz Hopper. 

Xana, ogni volta che ne aveva l’occasione tentava di attaccarmi con lo Scyphozoa, la creatura più terribile che tu possa immaginare. Capace di immobilizzarti e di rubarti i ricordi con i suoi tentacoli. 

Per tante volte Odd, Yumi e Ulrich sono stati in grado di difendermi. Ma non quella volta. Ci trovavamo nel settore cinque, Cartagine. Il cuore pulsante di Lyoko. 

Jeremy era riuscito a decifrarne il diario di Franz Hopper, colui che aveva creato Lyoko. Grazie ad esso pensavamo di aver trovato il modo di creare il sistema che permetteva di sciogliere il legame tra me e il supercomputer. E per fare questo dovevamo andare proprio nel settore cinque.

In quel momento scoprì la verità. Xana mandava lo Scyphozoa per rubarmi la chiave di Lyoko e poter fuggire nella rete. 

Mi raccontarono che, nel farlo, mi uccise e che pensavano fosse finita. 

Non so descrivere cosa successe di preciso, ma venni come investita da ricordi che non sapevo di avere. Ricordi di cose avvenute moltissimi anni fa. Ricordi della mia vita precedente. 

In quel momento scoprì che Franz Hopper, il creatore di Lyoko, era mio padre. Mi ha dovuto trasferire su Lyoko per proteggermi da delle persone che lo cercavano. Anche se qui credevamo di trovarci al sicuro. Sono rimasta bloccata su Lyoko per quasi dieci anni. Prima che succedesse tutto quel che vi abbiamo raccontato. 

- Yumi? Puoi venire fuori con me un attimo?

Serena e Yumi uscirono dalla villa, e andarono  nel giardino posteriore. Entrambe le ragazze, con la coda dell’occhio, videro qualcosa muoversi in modo estremamente rapido. Poteva trattarsi di una semplice illusione ottica.

Serena si sedette per terra, con la schiena poggiata contro il muro. Yumi accanto a lei.

La performer si girò verso la ragazza dai capelli corvini. Tentava inutilmente di non piangere.

- Non voglio perderla. Non voglio perdere la mia amica. Non per colpa di mio padre. 

- Credimi. Io conosco benissimo Aelita. È la mia migliore amica. È una ragazza molto intelligente. Sa benissimo che tu non sei come lui. Tu una cosa del genere non la faresti mai. Tu la puoi aiutare a superare tutto questo. 

Hai un potere enorme in questo momento. La sua fiducia.

- Dici? 

- Non ho motivi per mentire. Credimi. Se non vuoi sentire il resto della storia, ti posso capire. Deve essere davvero molto difficile per te accettare queste cose…

- Non è quello. Ormai sono dentro fino al collo. Non credo che cambi qualcosa se me lo raccontiate oggi, domani o tra una settimana. È cambiato il mio modo di vederla. Sapere che ha passato dieci lunghissimi anni bloccata in quel mondo per colpa di mio padre, mi fa stare male. Malissimo. E io non posso fare nulla per rimediare. 

Yumi poteva solo immaginare come si sentisse quella ragazza. Aveva scoperto che quella ragazza che quando era appena una bambina di tre anni, le faceva da babysitter, era misteriosamente scomparsa insieme a suo padre ormai dodici anni prima, era rimasta imprigionata in quel mondo virtuale per oltre dieci anni a causa di suo padre. E ora? E ora era una ragazza della sua età con cui condivideva la stanza. Anche se avrebbe dovuto avere dieci anni in più. E chissà cos’altro avrebbe scoperto se avesse sentito il resto del racconto. 

- Io, invece, credo che possa fare qualcosa. Certo. Mi rendo conto che potrebbe essere difficile, ma dovremo tornare dentro e, per quanto sia difficile, finire di ascoltare questa storia. 

- Preferisco che sia tu a dirmelo.

- Non posso. Deve essere lei.

Non avendo molta scelta, entrambe le ragazze, entrarono nuovamente nella villa.

- Forse dovresti raccontare solo la parte più importante di tutta questa storia. Per quanto sia la più dura. 

- Con quei ricordi, arrivò anche la domanda più terribile di tutte. Una domanda che per molto tempo ho tenuto per me stessa, ma che, qualche tempo fa è uscita spontaneamente. Cos’è successo a mia mamma?

Ecco perché è successo tutto questo.

Tornando alla nostra storia. Questa è la parte per me più difficile di tutte. Insieme a Jeremy e a mio padre, siamo stati in grado di mettere a punto un programma in grado di distruggere Xana, che era diventato più forte che mai. Non potevamo permettere che ogni giorno mettesse in pericolo umani e Pokémon.

Eravamo anche vicinissimi a riportare mio padre sulla Terra ma…

La ragazza iniziò a piangere.

- Il programma per distruggere Xana richiedeva più energia di quella che il Supercomputer fosse in grado di fornire. E lui dovette dare la sua vita per distruggerlo.

Tutti stettero in silenzio. Anche se loro avevano vissuto quella storia in prima persona ed erano consapevoli dei tanti fatti collaterali saltati per evitare di appesantire ulteriormente il racconto. Come il fatto che il ritorno al passato rendesse Xana più forte, fino a essere in grado di controllare le persone, il fatto che abbia infettato dei supercomputer in giro per il mondo creando delle replike di Lyoko, per poi sfruttarle per creare il Kolosso, un mostro gigantesco e potentissimo. Dei loro viaggi nel mare digitale con la Skid e tanto altro ancora. 

- Ora non ci resta che portarvi alla fabbrica.

Entrambi accettarono. Serena perché dopo tutto quello che era capitato, non poteva di sicuro tirarsi indietro, mentre per Xana sarebbe potuta essere una grossa occasione. Anche se le probabilità di successo erano minime. In ogni caso doveva comunque andare con loro. 

- Aspettate un attimo. Devo fare una cosa.

Mentre tutti gli altri si stavano dirigendo verso l’uscita, Serena era entrata nella stanza dov’era rinchiuso suo padre. Non aveva accanto a sé la  sua Sylveon, precedentemente ricoverata nella Pokéball.

- Torna dal tuo capo e dì di non aver visto nulla. Sappi che non ti vorrò più vedere fino a quando non ritroverai la madre di Aelita. Glielo devi.

La ragazza uscì sbattendo la porta, per poi ricongiungersi con il gruppo.

Il gruppo entrò nel passaggio segreto che collegava l’Hermitage alla vecchia fabbrica. Attraverso una ports che portava alle fognature. Non un bello spettacolo, ma non avevano scelta.

Dopo aver percorso le fognature fino alla fine della fognatura, dove la stessa sgorgava nella Senna. Una scaletta permetteva di salire sul ponte, che portava all’interno della fabbrica.

Mostrarono ai due l’intero edificio, compresa la sala dei comandi, il supercomputer e la sala scanner. 

Finito il tour della fabbrica, tornarono al Kadic. Jean aveva approfittato della loro assenza per contattare i suoi e andarsene. Non sapevano di essere stati spiati. 

Nicolapolus si mise in contatto con il suo capo, il quale rispose quasi immediatamente.

- Spero che sia importante. Sai che rischiamo tanto con queste chiamate.

- Capo. Posso confermare che il Supercomputer esiste. Hanno portato la francesina al Supercomputer. Si trova in quella vecchia fabbrica. E in più hanno anche incontrato il traditore. 

- Molto bene. Sai cosa fare. Cerca in ogni modo di levarli di torno e noi potremo lavorare senza ragazzini tra i piedi. Dopodomani saremo lì.

I due chiusero insieme la chiamata. Hannibal per radunare i suoi uomini e mezzi con cui avrebbe raggiunto la città, Nicolapolus per prendere il suo mezzo ed eseguire i compiti assegnatigli dal capo. Il suo piano era quello di spaventarli a morte, in modo da costringerli a scappare e a toglierli di mezzo.

Andato alla villa, utilizzando i suoi dispositivi ad alta tecnologia, si accorse di come la villa fosse vuota. Non potendo restare lì tutto il tempo, poiché sarebbe stato molto sospetto vedere un tizio vestito di nero, con due HOU, e un grosso pick-up americano parcheggiato poco lontano.

Per fortuna lui era un tipo previdente. E sapeva come comportarsi anche in situazioni come queste. Le sue apparecchiature potevano comunicare senza fili con i suoi computer, e avvisarlo in caso di variazioni dei sensori.

Li regolò in modo da assicurarsi che potessero captare il calore emesso da esseri umani, in modo da non ricevere falsi allarmi.

In questo modo sarebbe potuto tornare alla base, lontano da occhi indiscreti. Come se avessero sentito la sua chiamata con il capo, non si presentarono il giorno seguente. Ma solo quello dopo ancora.

Jean si era riunito con i suoi colleghi, e aveva riferito di non aver trovato nulla nella villa. 

- Bene così. Allora vuol dire che quei ragazzini hanno imparato la lezione. Non ficcarsi negli affari più grandi di loro.

- In ogni caso…

Aggiunse agente Linoone.

- Pare che il tuo ex datore di lavoro stia arrivando. Dovremmo essere pronti a dargli una calorosa accoglienza. A Marsiglia. Dei nostri colleghi attenderanno al porto, noi all’aeroporto.

Jean non si ricordava molto, ma sapeva che quello che Linoone aveva definito come suo “ex datore di lavoro”, doveva essere  quello che gli passava i soldi per finanziare Hopper. In ogni caso non poteva rifiutarsi. Era stato praticamente ricattato dalla figlia e avrebbe fatto di tutto per ripulirsi la coscienza.

Dopo un altro viaggio spericolato verso la città nel sud della Francia, i tre raggiunsero l’aeroporto. Lycanroc parcheggiò il finto taxi in un’area su cui solitamente era vietata la sosta.

- Chiedo scusa, Lycanroc, ma… questa è un’area riservata alle manovre degli aerei. Non possiamo parcheggiare qui.

Si lamentò Jean.

- Non ti preoccupare. Abbiamo tutti i permessi del caso. Piuttosto controllate il traffico aereo.

Tanto Linoone quanto Jean avevano un computer portatile su cui potevano monitorare tutto il traffico aereo. Erano concentrati su di una specifica area attorno a Marsiglia. 

- Non trovate che sia strano?

Chiese Jean. Osservava il traffico aereo e aveva notato come non ci fosse nessun aereo in quell’area. Cosa strana dal momento che, normalmente, in quell’aeroporto atterravano e decollavano centinaia e centinaia di aerei al giorno.  

Anche a terra la situazione era simile. Non un singolo aereo accennava a muoversi. Sembrava fossero incollati al terreno. C’era un silenzio irreale.

Il silenzio venne rotto, dall'atterraggio sulla pista principale, di un colossale Boeing 747, seguito poco dopo, sulla pista più corta, di un Airbus A320. Entrambi gli aerei erano verniciati di un grigio chiaro.

- Certo che questo Hannibal non ha proprio gusto! Guardate con che grigio orribile dipinge i suoi aerei!

- Jean. Non è questione di gusti. Se hai notato, non abbiamo visto i suoi aerei né sul traffico né sul radar. Questo vuol dire che aveva il transponder  spento e che usava la vernice speciale.

- Vernice speciale?

- Sì, vernice MD10. Un brevetto dell’esercito americano per rendere invisibile ai radar anche dei colossi come il 747. Mi chiedo come abbia potuto ottenerla. 

La pista dell’aeroporto venne invasa da un convoglio di Jeep dai colori militari e camion in testa una Range Rover bianca. Stando ai colleghi dei due agenti segreti, quel corteo di auto era partito dal porto. 

Hannibal, scese dal suo aereo privato, scortato da una donna dai lunghi capelli rosa. Lui era interamente vestito di viola, la donna indossava un abito elegante.

I due scesero dalla scaletta dell’aereo e si sedettero sul sedile posteriore del lussuoso fuoristrada.

Il corteo, con in testa il capo, partì alla volta di Parigi. 

Quasi come se lo sapessero, quei ragazzi si erano diretti all’Hermitage. I ragazzi avevano accompagnato Ash e Serena fino alla stanza segreta, fino allo scanner. 

- Bene. Ora che siete dentro, dovrete sottoporvi alla scansione. Non scenderò troppo nei dettagli, ma tramite questo dispositivo potrete diventare immuni al ritorno al passato e non potrete essere posseduti da Xana.

- Oh… bene.

Commentò Ash. 

Meno felice Serena, un pò claustrofobica, vedendosi costretta a entrare dentro quel dispositivo che ricordava una sorta di doccia con le pareti metalliche.

- Forse è meglio che qualcuno di voi resti  qui. Non si sa mai che quel tizio con gli HOU ritorni. Ash, Serena e Aelita sono esclusi, ovviamente. 

Il ragazzo prese delle matite, le sistemò nella mano in modo da essere difficile comprendere quale fosse la più lunga o altro del genere.

- Facciamo così. Chi pesca la matita più corta va. Gli altri due restano. 

I tre rimasti esclusi accettarono.  

Alla fine la fortunata fu Yumi, con Odd e Ulrich esclusi.

- Solita sfortuna, eh.

Commentò il biondo. L’amico rimase in silenzio. 

- Molto bene. Direi che possiamo cominciare. 

- Serena. Inizia te.

- Che cavaliere!

Commentò Odd, in tono scherzoso.

La porta del dispositivo si aprì con uno sbuffo. La ragazza entrò dentro quello strano dispositivo metallico. Appena entrata, la porta si chiuse.

- Trasferimento Serena…

Si udì il rumore di una grossa ventola, che sollevò la ragazza ad una quindicina di centimetri da terra. Quel potentissimo flusso d’aria le aveva completamente scompigliato i capelli.

- Scanner Serena…

Ora il corpo della ragazza stava venendo colpito da una luce di colore verde. Iniziava anche a sentire un piacevole pizzicore sulla pelle.

- Virtualizzazione.

Ora la ragazza si trovava in uno strano posto. Non era per nulla realistico. Un prato verde gigantesco. Davanti a lei una grossa quercia.  Poco lontano un’altra. 

Solo dopo alcuni istanti, si rese conto di come avesse completamente cambiato aspetto. Ora indossava una tuta aderente gialla e rossa e in mano aveva una sorta di bastone, molto simile a quello della sua DE.

- Aspetta. Tra poco ti mando gli altri. 

- Ehi! Ma come faccio a sentirti? 

- Non importa. È abbastanza complesso da spiegare.

In breve tempo venne raggiunta anche da Yumi, che apparve con il suo aspetto classico nel mondo virtuale. Una tuta rossa e bordeaux, con sulla schiena, finalmente il suo porta ventagli.

E in seguito anche da Ash, che apparve indossando una tuta gialla, con delle piccole decorazioni nere. La sua arma era una spada a forma di saetta.

- Bene ora vi mando anche Aelita. Mi ha detto che voleva far vedere una piccola cosa a Serena. 

La ragazza era entrata all’interno del dispositivo e Jeremy stava iniziando le procedure per trasferire la ragazza all’interno del mondo virtuale. Quando, poco dopo il trasferimento, ma prima della scansione, mancò la corrente. 

Jeremy accese una torcia per poi tentare di aiutare i due amici ad aprire la porta del dispositivo. Si sentiva un forte odore di bruciato. 

Fortunatamente Odd e Ulrich riuscirono ad aprire la porta del dispositivo e a far uscire la ragazza. Prima che fosse troppo tardi. Jeremy e Ulrich uscirono dalla stanza e si precipitarono fuori, nel tentativo di riattaccare la corrente. 

Effettivamente qualcuno aveva aperto il contatore e staccato i cavi. Si vedevano delle impronte di scarpe che andavano in direzione del contatore. Poi era tornato indietro. Sulla strada poco davanti si vedevano delle grosse sgommate. Evidentemente qualcuno aveva staccato la corrente e poi era scappato. Ma perche?

In ogni caso, i due ripristinarono la corrente e tornarono nella stanza con lo scanner.

- Qualcuno ha staccato la corrente ed è scappato. 

Spiegò Jeremy.

- E sembra che nel farlo abbia anche danneggiato lo scanner.

Aggiunse, mentre muoveva la mano per scacciare l’odore di bruciato. Il ragazzo si mise poi in contatto con  i tre, bloccati nel diario di Franz Hopper.

- C’è stato un problema con lo scanner. Dovrò trovare il modo di ripararlo. Per cui Aelita non potrà arrivare presto. Ora che ci siete, dirigetevi nell’albero vicino a voi. 

I tre seguirono il consiglio del ragazzo. Entrando nella quercia. Quello che trovarono fu sorprendente. Una copia esatta del mondo reale. Fermo, a giudicare da un giornale tenuto in mano da un signore poco lontano, a oltre dodici anni prima. 




Ecco quindi svelato il secondo motivo per cui sono stato “costretto” a scegliere Serena e Lucinda e perché Lilya non sarebbe stata adatta. Oltre al fatto che sarebbe stato difficile giustificare il motivo del suo arrivo (ok, forse la madre che per il suo bene decide di iscriverla al Kadic, ma non mi sarebbe piaciuta molto come scusa e non avrei avuto motivi per non farla stare con Odd che, a mio parere, se la sarebbe cavata dopo una chiacchierata a quattr’occhi con Iridio)  e no. Non la shipperei con Ash nemmeno sotto tortura. Inoltre sarebbe stato anche molto difficile giustificare come i suoi genitori fossero coinvolti nel progetto, se consideriamo che si tratta di fare da intermediario con dei terroristi. Paver? Troppo buono. Samina? Troppo giovane (si, ha più di quarant’anni, ma il Professore, senza tutto quello che era successo, avrebbe avuto quasi settant’anni). Samina all’inizio del progetto Lyoko avrebbe avuto poco più di vent’anni, e poi aggiungiamo anche il fatto che ha avuto due gravidanze, e quindi dobbiamo considerare il relativo congedo di maternità per entrambe. Se non posso sostituire Serena, allora perché non sostituire Lucinda? Primo motivo. Sarebbe stato difficile trovare una scusa per essere posseduta mentre si trovava lontana dalla famiglia. E ok, passa la notte da Ibis o Suiren, ma non mi sarebbe piaciuto molto. Il secondo motivo è che, conoscendo la sua famiglia, avrebbero smosso mari e monti pur di trovarla. E, in quel caso sarei stato costretto a fare delle cose non molto belle. O meglio a farle fare a Xana. E non serve che mi spieghi. 






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