La ricerca di Rubra Bovina (/viewuser.php?uid=1242024)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Il bacio ***
Capitolo 3: *** Ancora segreti ***
Capitolo 4: *** Sai mantenere un segreto? ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Prologo
Non
aveva idea di dove si trovasse, né tantomeno di come fosse
sopravvissuto. La sola cosa che gli importava era quella di essere
sopravvissuto, nonostante tutto. Il colpo che i suoi nemici gli
avevano inferto era stato durissimo. Non era stato sufficiente ad
ucciderlo, ma quel colpo lo aveva frammentato in numerosissime parti,
che si erano sparse per tutto il mondo. Riusciva a percepire la loro
presenza, anche se non riusciva a raggiungerle. Per lui sembrava
impossibile persino muoversi. Era come se si trovasse in uno stato di
sonno profondo. Un sonno che sarebbe anche potuto durare in eterno. A
meno di venire interrotto.
Qualcosa
colpì il cavo di fibre ottiche in cui si trovava.
Non
poteva saperlo, ma la sua presenza stava causando dei problemi a quel
cavo, rallentando le comunicazioni da e verso il Giappone.
Proprio
a causa di questi problemi, da uno dei porti del Kanto, venne fatta
partire una delle navi costruite appositamente per riparare i cavi in
fibra ottica.
I
tecnici immaginavano che il cavo fosse stato danneggiato da qualche
Pokémon abissale, magari un Lanturn, e che quindi andasse
riparato
e, nella peggiore delle ipotesi, rinforzato.
Era
capitato altre volte che dei Pokémon abissali avessero
danneggiato
con i loro attacchi quei cavi, magri mentre cercavano di cacciare
alcune delle loro prede.
Non
si poteva dar loro colpa per questo. Vivevano negli abissi molto
tempo prima che quei cavi venissero posati. Quindi bisognava tenere
conto di quell’eventualità.
La
nave non era veloce. Avrebbe impiegato delle ore prima di raggiungere
il punto in cui si presumeva che il cavo fosse danneggiato. Per la
maggior parte del viaggio, la nave era governata dal pilota
automatico, in modo da permettere all’equipaggio di
concentrarsi
sul lavoro.
Appena
la nave raggiunse la zona in cui, presumibilmente il cavo era
danneggiato, gli addetti, sul ponte, calarono un sofisticato robot a
controllo remoto. Un robot costruito per poter sopportare le enormi
pressioni presenti a migliaia di metri di profondità, ma
anche per
poter lavorare precisamente. Delle caratteristiche che
collidevano e che avevano reso la progettazione e la costruzione del
dispositivo assai difficili.
Il
dispositivo, come del resto anche il cavo, era un oggetto estraneo
all’ecosistema, per questo poteva scatenare la
curiosità dei
Pokémon della zona.in funzione di questo, i progettisti lo
avevano
dotato di un sistema che produceva una frequenza radio in grado di
allontanare i Pokémon nel raggio di duecentocinquanta
metri.
Il
segnale si attivò in automatico appena il dispositivo
entrò in
contatto con l’acqua.
Lentamente,
il dispositivo proseguì la sua discesa. Sebbene non fosse un
essere
vivente, per questioni di sicurezza era meglio non affaticare il
metallo tutto in una volta.
Dopo
un po’ di tempo, finalmente raggiunse il fondale, a alcune
migliaia
di metri di profondità. A brevissima distanza dal cavo.
Gli
operatori di terra e a bordo della nave avevano una visuale garantita
dalle telecamere del dispositivo. Non erano in qualità
altissima, ma
erano sufficienti ad analizzare lo strato protettivo esterno del
cavo.
L’operatore
a bordo della nave, che stava comandando il robot, decise, per
scrupolo, di ispezionare anche zone più lontane rispetto a
quelle
indicate, non trovando dei danni visibili. Dopo aver svolto le sue
analisi, comunicò a terra quanto aveva visto. «La
protezione esterna non sembra abbia subito dei danni.»
La
risposta da terra non si fece attendere.
«Abbiamo
visto. Magari il problema è di un’altra natura.
Prosegui, sai
benissimo che non possiamo restare in questa situazione.»
L’uomo
che comandava il robot aveva attivato il braccio meccanico di
quest’ultimo, tramite un dispositivo di controllo, simile al
gamepad di una console. Era realizzato in robusta plastica grigia.
Appena
il braccio del robot entrò in contatto con il cavo accadde
qualcosa
che mai prima di allora era accaduto.
Il
robot non dava più alcun segnale. Come se fosse stato
colpito da una
potentissima scarica elettrica.
L’operatore
sulla nave si affrettò a comunicare a terra la situazione.
«Pare
che il robot sia fuori uso, si è preso una bella scossa.»
«Come?
È impossibile! Non dovrebbero accadere cose di questo
genere.
Rientrate immediatamente, dobbiamo analizzare il dispositivo.»
Dalla
nave non arrivarono risposte di alcun tipo, come se le comunicazioni
fossero state bloccate da qualcosa. Pertanto, l’operatore da
terra
fece una nuova comunicazione.
«Ora
tutto è tornato a funzionare come deve. Potete rientrare.»
«Ricevuto.»
Finalmente, dopo un’attesa apparentemente infinita,
l’addetto
sulla nave diede una risposta.
«Allora
tutto funziona come deve. Ci avete fatto preoccupare, pensavamo fosse
successo qualcosa. Ci avete fatto preoccupare!»
«Chiedo
scusa, ma sembrava che qualcosa avesse bloccato le nostre
comunicazioni. Non riuscivamo né a ricevere né a
trasmettere
alcunché»
Rispose
l’addetto sulla nave, ancora non completamente
calmo.
«Ricevuto.
Forse è un problema della zona. Anche se momentaneo. Ora
sembra che
anche il cavo abbia ripreso a funzionare, per cui potete tornare.
Sapete che questo genere di operazioni è molto costosa,
dobbiamo
evitare di stare fuori più del necessario»
«Ricevuto,
imposto la rotta di ritorno»
Rispose
dalla nave.
Quello
che né l’addetto sulla nave né il suo
collega a terra potevano
sapere era cosa il contatto tra il robot subacqueo e il cavo aveva
causato.
Il
contatto con quel qualcosa lo aveva svegliato in maniera brusca,
talmente tanto brusca che la sua prima reazione fu quella di
attaccare. Forse si trattò di una reazione esagerata, ma che
gli
aveva dato comunque la conferma di essere ancora in grado di
comandare l’elettricità. E quello per lui era
molto importante.
Era solo grazie a quest’ultima che era stato in grado di
avvicinarsi alla conquista del mondo… prima che i suoi
nemici lo
sconfiggessero.
Non
ricordava altro a parte di essere stato colpito da una grandissima
quantità di energia. Ma questo gli bastava. Desiderava
unicamente
una cosa. Vendicarsi.
In
una delle tante città del Kanto la vita scorreva nella sua
normale
frenesia. Quella era una delle zone più densamente popolate
e più
industrializzate del Giappone, e forse del mondo intero.
La
palestra della città, specializzata nel tipo
acciaio, era un
anonimo edificio in cemento in una delle tante trafficate vie della
città. Si trovava in un edificio talmente anonimo, che
avrebbe
potuto essere scambiato per uno dei tanti edifici di uffici del
quartiere.
L’interno
della palestra era un semplice campo lotta in terra battuta,
circondato da degli spalti che permettevano al pubblico di
assistere alla lotta. Anche se ultimamente gli spalti erano sempre
vuoti. Sembrava che a sempre meno persone importasse delle lotte in
palestra. E questo mandava in bestia la capopalestra. Dopotutto lei e
la sua squadra avevano fatto tanti sacrifici per giungere in quella
posizione.
Dopotutto
il lavoro da capopalestra non si limita unicamente al giudicare il
talento dei propri sfidanti e dei loro Pokémon, ma
è anche un ruolo
di responsabilità sulla città, forse persino
più importante di
quello del sindaco.
Nella
palestra erano presenti solo tre ragazze. La capopalestra era una
bella ragazza, giovane, dai capelli neri e dalla carnagione pallida,
questi cadaverica, ricordava, per certi versi Mercoledì
Addams.
Indossava una maglietta di una famosa band, un paio di jeans
strappati e delle scarpe da ginnastica. Aveva degli orecchini
d’oro.
La sua sfidante era una ragazza di un paio di anni più
grande di
lei, dai capelli castani e dalla carnagione scura. Indossava una
canadese grigia e una maglietta nera con disegnato un punto
interrogativo, realizzato in modo da sembrare la coda di un
Pachirisu. La terza ragazza era l'arbitro. Bionda e abbronzata che
indossava la divisa ufficiale da arbitro, gialla e verde con una
Pokéball stilizzata al centro della maglietta e nella parte
laterale
dei pantaloni della canadese. Lotta stava per incominciare. L'arbitro
stava annunciando le regole della sfida.
«Inizia
la sfida tra Mina, la capopalestra e Nuria, la sua sfidante. Entrambe
le allenatrici potranno usare tre Pokémon.»
Terminata
la frase, indicò la ragazza dalla parte destra del campo.
«Solo
alla sfidante è concesso di sostituire un Pokémon
prima che questi
non sia in grado di lottare. La prima mossa spetta alla sfidante. Che
la lotta abbia inizio!»
L’allenatrice
e la capopalestra schierarono i loro Pokémon
contemporaneamente.
«Metagross!
Tocca a te!»
«Heracross,
è il tuo momento!»
I
due Pokémon si trovavano agli estremi del campo, pronti a
ricevere
ordini dalle rispettive allenatrici. Si stavano studiando
l’un
l’altro, allo stesso modo delle loro allenatrici.
«Vai
Heracross, Megacorno!»
La
Heracross della ragazza iniziò a correre verso
l’avversario,
pronta a colpirlo con il suo possente corno.
«Metagross,
schiva!»
Il
possente Pokémon ferrato si spostò,
all’ultimo, quasi dando
l’impressione di esser stato colpito. La sua avversaria
rimase di
sasso. Era incredibilmente veloce.
Era
talmente sorpresa da non riuscire a muoversi.
«Metagross,
vai, usa Cozzata Zen.»
Il
Metagross della capopalestra, colpì a gran
velocità la Heracross
avversaria, facendola sbattere contro la parte inferiore degli
spalti, creando un grosso buco nel muro. Nonostante il colpo subito
la Heracross non si diede per vinta, facendo segno alla sua
allenatrice di essere ancora in grado di continuare. Entrambe le
ragazze erano sorprese.
«Te
la senti di continuare?»
La
Heracross della ragazza, nel frattempo, era tornata in piedi.
Dolorante ma ancora in grado di continuare.
«Molto
bene, Heracross, vai con Zuffa!»
La
Heracross della ragazza si avvicinò nuovamente al nemico,
pronta a
colpirlo con una raffica di pugni e calci.
«Metagross!
Ferroscudo!»
Ordinò la capopalestra.
Il
corpo del Metagross della giovane cambiò colore e
alterò la sua
struttura molecolare, diventando molto più resistente. E
potendo
facilmente sopportare i colpi inflitti dalla sua avversaria.
«Metagross,
ora, Meteorpugno!»
Il
Metagross della capopalestra sferrò un potente pugno alla
sua
avversaria, spedendola nuovamente contro la parete opposta della
gradinata.
«Heracross
non può più continuare. Il vincitore è
Metagross.»
Il
giudizio dell’arbitro era inappellabile, e la sfidante fu
costretta
alla sostituzione.
«Heracross,
ritorna, hai fatto del tuo meglio. Ora tocca a te, Umbreon!»
Un
Umbreon shiny uscì dalla Pokéball della ragazza.
La differenza
rispetto ad un esemplare normale, era il colore degli anelli sul
corpo. In un esemplare normale, gli anelli sul corpo erano gialli,
mentre negli esemplari shiny erano azzurri.
«In
caso di sostituzione, la prima mossa tocca alla capopalestra.»
Spiegò l’arbitro.
«Molto
bene, Metagross! Usa Martelpugno!»
Il
Metagross della capopalestra colpì l’Umbreon con
un potente pugno,
spedendolo, come la Heracross che ha sostituito, contro la parete
opposta della palestra.
Il
Pokémon emise un grido di dolore.
La
ragazza, dopo essersi assicurata che il suo Pokémon potesse
continuare, passò al contrattacco.
«Molto
bene, Palla Ombra!»
Davanti
alla bocca del Pokémon si formò una sfera di
colore viola scuro,
circondata da saette di energia, simili a fulmini, che poi
venne lanciata contro il Metagross nemico, che non fece in tempo a
difendersi, subendo un duro colpo. Che comunque non fu sufficiente a
sconfiggerlo.
«So
che ce la puoi fare. Usa di nuovo Martelpugno!»
Il
possente Pokémon obbedì, colpendo pesantemente
l’Umbreon nemico,
che barcollò, ma non si diede per vinto. Il suo sguardo era
quello
di chi era sicuro di poter ancora continuare.
La
sua allenatrice sembrò comprendere questa sua
volontà.
«Se
te la senti di continuare allora io sono con te. Vai con Neropulsar!»
Gli
anelli di energia oscura, generati dalla bocca del PK Lucelunare
colpirono in pieno il Metagross della capopalestra,
decretando
la sua sconfitta. La capopalestra si affrettò a
richiamarlo.
«Metagross
non è più in grado di lottare. Vince Umbreon!»
Decretò l'arbitro.
«Sei
stato fantastico. Ora riposati.»
Si complimentò la capopalestra.
«Ora
è il tuo momento Lucario!»
Un
Lucario uscì dalla Pokéball della ragazza. Pronto
a vendicare il
compagno appena sconfitto.
«La
prima mossa tocca alla sfidante.»
Decretò l’arbitro.
«Umbreon,
ritorna!»
La
ragazza richiamò il suo Pokémon, aveva subito
delle ferite e voleva
farlo riposare. E, dato che c’era, voleva tenerlo per la fase
finale della lotta. Aveva subito già dei danni e lottare
contro un
avversario appena entrato in campo non era l'ideale.
«Adesso
è il tuo turno Krookodile!»
«La
prima mossa va alla sfidante!»
Decretò nuovamente l’arbitro.
«Ok.
Krookodile, usa Fossa.»
Ordinò la sfidante.
Il
Coccodrillo Tarra/Buio, dalla pelle rossa, scavò una buca
nel
terreno. E scomparve sottoterra.
«Lucario,
usa il potere dell’aura per trovarlo e spostati.»
La
sfidante, comprendendo le intenzioni della capopalestra, e conoscendo
benissimo il potere del PK Aura, avendo in squadra un esemplare,
doveva correre ai ripari al più presto.
«Mi
senti? Muoviti il più possibile! Cerca di non farti trovare.»
Era
una situazione di stallo. Krookodile sarebbe dovuto uscire.
Il
più abile dei due avrebbe avuto un grosso vantaggio.
Il
Krookodile nemico sbucò dal terreno. Aspettandosi di colpire
l’avversario. Rimase alquanto deluso quando questi si trovava
da
tutt’altra parte.
«Lucario,
vai, usa Forzasfera!»
La
sfera di energia, dal colore azzurro, colpì il Krookodile
della
ragazza, facendolo cadere di schiena contro il terreno.
«Krookodile,
stai bene?»
Il
tono della sua allenatrice era visibilmente preoccupato. Il semplice
rimettersi in piedi del suo Krookodile, la rassicurò a
sufficienza.
«Benissimo,
attaccalo con Breccia!»
Il
Krookodile della ragazza si mise a correre contro il Lucario
dell’avversaria, per poi colpirlo. Il suo braccio si era
illuminato
di una luce biancastra.
«Lucario
schiva!»
Ordinò la capopalestra.
Il
PK, schivò all’ultimo. Talmente tanto da non far
immediatamente
capire alle due allenatrici se il contatto ci fosse stato
oppure no. La prima ad accorgersene fu la capopalestra.
«Lucario,
usa di nuovo Forzasfera!»
La
sfera di energia colpì il coccodrillo di tipo Terra Buio.
Sconfiggendolo.
«Krookodile
non può più continuare. Vince Lucario.»
Alla
sfidante restava solamente Umbreon, ancora provato dal precedente
scontro con Metagross.
Mostrava
dei segni di fatica sin da appena uscito dalla Pokéball. Era
consapevole del fatto che la sua allenatrice fosse alle strette. E
lui voleva dare il meglio di sé, per lei.
L'allenatrice,
capendo di avere la piena fiducia del suo Pokémon, ed
essendo di
mano, ordinò un attacco.
«Forza,
usa Psichico.»
L’attacco
di Umbreon sollevò in aria il Lucario della capopalestra,
cogliendo
di sorpresa tanto il Pokémon, quanto l’allenatrice.
«Lucario,
mantieni la calma. Impanicarsi non serve a nulla.»
Solo
quando la capopalestra ebbe la certezza del fatto che il suo
Pokémon
fosse perfettamente in controllo, gli ordinò di sferrare
l’attacco
definitivo.
«Molto
bene. Lucario usa Forzasfera!»
Il
Pokémon della ragazza, che ancora levitava in
aria,colpì
l’avversario con un potente attacco, sconfiggendolo.
«Umbreon
non è più in grado di lottare. La lotta
è vinta dalla
capopalestra.»
Decretò l’arbitro.
Le
due ragazze si strinsero la mano, in segno di rispetto.
«Sei
davvero forte, ma la prossima volta vincerò io, ci conto.»
«Non
pensare che saremo più teneri la prossima volta.»
Dopo
la lotta, la giovane capopalestra si era diretta in una stanza
separata della palestra, dove si sarebbe occupata di
registrare
i risultati delle ultime lotte disputate all’interno del
database
della Lega Pokémon locale, tra cui la sua vittoria di poco
prima. A
causa delle nuove disposizioni legislative, i capipalestra
non
solo dovevano consegnare la medaglia in caso di sconfitta, ma
dovevano anche registrare il risultato della lotta nel database della
lega.
Troppe
volte c’erano stati degli allenatori passati con medaglie
false.
La
stanza era piccola e non molto arredata. Solo una scrivania su cui
era poggiato un computer fisso e una sedia da ufficio, dove la
ragazza si era accomodata.
Quel
giorno il suo computer era particolarmente lento. Cosa che la
infastidiva particolarmente, lei non era esattamente una persona
paziente. Stava per tirare una manata al computer, nella vana
speranza che, con la violenza, questo diventasse più veloce.
Una
parte di lei era consapevole del fatto che il problema dipendesse
dalla rete e non dal suo computer. In ogni caso, qualcosa la
fermò
dallo scaricare la sua frustrazione sul computer.
Al
centro dello schermo del computer apparve uno strano simbolo. Per
certi versi ricordava un bersaglio delle freccette. Era formato da un
pallino circondato da due cerchi concentrici, tutti di colore rosso,
il tutto su uno sfondo nero. Contrariamente a un bersaglio, dalla
parte inferiore del cerchio più esterno partivano tre
stanghette, e,
dalla parte superiore ne partiva una.
La
ragazza, pensando a un attacco di qualche hacker o a un virus,
scattò
una foto dello schermo, con l’intenzione di
mandarla a un
amico, mago del computer.
Gli
scrisse “Ciao, scusa se ti disturbo, ma non ho idea di cosa
sia
successo al mio computer. È apparso questo strano simbolo e
non
posso fare nulla”.
Il
ragazzo le rispose poco dopo.
“Non
vedo nulla di strano. Mi sembra sia il normale programma per
registrare gli allenatori dopo le lotte in palestra.”
Nessuno
dei due poteva saperlo, ma entrambi avevano ragione.
Il
file, prima di raggiungere il telefono del ragazzo, aveva compiuto un
giro fra numerosi ripetitori, ma qualcosa nel processo
cambiò il
destino del messaggio.
Una
parte del codice che costituiva il file, intraprese un percorso
diverso. Per potersi unire ai suoi simili che avevano avuto lo stesso
destino. Tutte pronte a riunirsi in un’unica creatura con un
solo e
unico desiderio. Vendicarsi.
Proprio
in quel momento, fece capolino nella stanza una ragazza circa della
sua età, lunghi capelli rossi, occhi verdi, pelle pallida e
lentiggini.
Indossava
un abito disegnato e realizzato da lei stessa, di colore nero,
composto da una gonna ampia che le arrivava poco sopra le ginocchia.
Abito senza spalline. In vita indossava una fascia verde
chiaro.
A
completare l’outfit degli orecchini verdi.
«Certo
che ci tieni proprio al tuo lavoro! Potresti anche prenderti una
pausa!»
Commentò,
non appena entrata nella stanza.
«Certo
che potresti anche non pensare solo al tuo debutto nelle gare! Quello
sarà il decimo vestito che ti fai! Guarda che è
solo una gara!»
La
ragazza si sentì come ferita. Non era una semplice gara. Era
il suo
debutto e voleva che fosse perfetto.
«Non
sono venuta di sicuro qui per sentirmi dire questo!»
Ero
venuta per darti un biglietto per assistere alla gara, ma sembra che
non ti interessi affatto! Pensi solo alle tue lotte in palestra!»
«Ti
sbagli. È solo che penso che tu ti stia preoccupando troppo.
Vincere
un fiocco al debutto non è di certo facile. Lo sai!
«Dubiti
delle mie capacità?»
«No,
affatto. Semplicemente non voglio che tu ti illuda. Lo hai
già fatto
con le lotte in palestra. E sai com’è andata.»
«Sono
anche più matura da allora! In ogni caso prendi questo
biglietto.
Finita la gara ne riparleremo.»
«Come
vuoi!»
Mentre
le due parlavano, la ragazza al computer si accorse di come la rete
fosse tornata a funzionare regolarmente.
Per
cui poté completare rapidamente il suo compito.
Le
gare Pokémon sono tra gli eventi più seguiti a
livello nazionale.
Poco importa se si tratta di esibizioni a livello professionistico
oppure amatoriale.
Le
tribune dell’arena della città erano piene. Era
impossibile
trovare un posto libero. Questo nonostante nessun grande nome
partecipasse a quella gara.
Tutti
i coordinatori di alto livello si stavano preparando per la
prestigiosa Coppa Adriano e avevano deciso di non partecipare a
quella gara. Tutti sapevano che la Coppa Adriano stava alle Gare
Pokémon stava come il Gran Premio di Monaco alla Formula
Uno.
Per
i meno esperti, l’assenza di avversari di livello, era
un’occasione
d’oro e tutti avrebbero dato il massimo, e questo bastava per
attirare del pubblico.
Tra
tutti i coordinatori ne spiccava una, una ragazza di quindici anni al
suo debutto nelle gare. Dopo una non piacevole esperienza alla lega,
dove era stata eliminata nelle fasi iniziali, aveva deciso di provare
qualcosa di diverso. Non per forza più facile, anzi,
tutt’altro,
ma semplicemente qualcosa di diverso.
Era
tesa, come del resto chiunque alla sua prima esperienza. Anche se
faceva di tutto per non darlo a vedere. Sapeva che la prima fase era
fondamentale. Più della seconda. Nella seconda fase la sua
esperienza con le lotte sarebbe stata sicuramente di
aiuto.
Stava
iniziando la prima fase della gara, il saggio di recitazione, e lei
era la quarta a esibirsi. Aveva passato tutto il tempo prima della
sua esibizione a osservare le esibizioni dei suoi potenziali rivali.
E si era resa conto del fatto che emergere, non sarebbe stato affatto
facile.
Ora
era il suo momento. La presentatrice dell’evento la stava
annunciando.
«E
ora accogliete con un applauso di incoraggiamento per Brigit! Una
coordinatrice debuttante!»
Il
pubblico stava applaudendo fragorosamente.
Lei
ormai si trovava sul palco, davanti a migliaia di persone
nell’arena
e milioni in tutto il mondo. Doveva essere impeccabile. Tutti si
aspettavano tanto da lei.
«Jolteon,
tocca a te!»
Il
PK uscì dalla Pokéball della ragazza, con un
effetto di saette.
«Molto
bene! Lancia una palla ombra in alto!»
Il
Pokémon della ragazza eseguì il comando,
lanciando in aria una
sfera di energia dal colore viola scuro.
«Bene,
ora colpiscila con Missilspillo!»
Il
Pokémon eseguì, colpendo la sfera con una spilla
appuntita uscita
dal collare bianco. Le sfera esplose creando una polvere
luminosa.
«Bene,
ora lasciane quante ne vuoi!»
Il
Pokémon lanciò una decina di Palla Ombra verso il
cielo.
I
giudici erano perplessi, con quella tecnica, la ragazza rischiava di
offuscare il Pokémon con le sue stesse mosse, un errore
tipico dei
principianti.
«Ora
vai con Comete!»
Il
Pokémon creò un gran numero di stelle
scintillanti. Anch’esse
levitavano in aria. Nessuna delle stelle toccò le sfere di
energia
oscura. «Ora!
Usa Fulmine!»
Il
Pokémon lanciò una potente attacco elettrico, che
colpì e
distrusse le stelle e le sfere di energia. La loro distruzione
creò
una tempesta di polvere colorata.
La
ragazza fece un profondo inchino.
I
voti della giuria furono tutti alti. Era certa di esser passata alla
fase successiva, ma era anche in ansia.
Stava
guardando le esibizioni dei suoi avversari. Anche loro erano stati
bravi e avevano ottenuto delle ottime valutazioni da parte della
giuria.
Sapeva
benissimo che avere un posto nei primi otto, sarebbe stato
estremamente difficile. Sembrava che il tempo non passasse mai. Ogni
esibizione sembrava durasse ore.
«E
con questa abbiamo finito la prima fase! Ora i nostri giudici
decideranno chi passerà alla fase successiva e chi,
purtroppo dovrà
seguire il resto dell’esibizione dagli spalti. Ma non vi
preoccupate, non ci vorrà molto.»
Forse
quella frase era valida per il pubblico a casa o nell’arena,
ma non
di certo per i coordinatori e le coordinatrici.
Finalmente
sul grande televisore apparvero le foto degli otto che avrebbero
potuto partecipare alla fase seguente.
Brigit
era felicissima. Aveva passato la prima fase. Quella che temeva di
più. Ora non poteva di sicuro rilassarsi, ma era consapevole
di
avere un bagaglio di esperienza mica da ridere per quello che
riguardava le lotte. Anche se sapeva che in questo caso lo
sconfiggere l’avversario era in secondo piano. Mentre pensava
a
quelle cose, il sistema stava effettuando gli accoppiamenti. Aveva
scovato il suo primo avversario. Un ragazzo di un paio d’anni
più
grande di lei. Come lei, era un coordinatore alle prime armi, che
aveva da poco vinto il primo fiocco, e sperava di bissare il
successo.
Dopo
una breve attesa i due si trovarono una di fronte all’altro
nel
campo lotta. Si studiarono con lo sguardo.
Appena
venne data luce verde, entrambi schierarono i loro Pokémon.
Il
ragazzo schierò un Jolteon.
Lei
decise di «Iniziamo
in bellezza, Jolteon! Usa Palla Ombra!»
schierare
il suo Vaporeon.
Ordinò
il ragazzo.
Il
suo Pokémon eseguì, creando una palla di energia
oscura e
scagliandola contro l’avversario.
«Bene,
grazie dell’idea! Vaporeon, colpiscila con Geloraggio e poi
spediscila al mittente con la coda.»
Il
Pokémon acqua lanciò il potente attacco di
ghiaccio, che inglobò
la sfera di energia, che, nel processo, aveva rallentato la sua
corsa. Appena fu abbastanza vicina, spiccò un balzo e
colpì la
sfera con un movimento della coda.
Questa
venne rispedita al mittente, che venne colpito duramente. La palla si
frantumò creando delle scintille colorate. Il suo avversario
perse
un quinto dei punti.
«Passiamo
al contrattacco! Missilspillo!»
Dal
collare bianco del Jolteon del ragazzo si generarono numerosi aghi
luminosi, che si dirigevano a gran velocità contro
l'avversario.
«Vaporeon!
Usa idrovampata!»
Il
Pokémon Bollajet generò una coltre di acqua
bollente che sciolse
gli aghi.
Il
ragazzo non perse molti punti, ma a questo ritmo avrebbe perso, se
non si fosse dato una mossa.
«Forza!
Usa Palla Ombra!»
«Anche
te! Palla Ombra!»
I
due attacchi si scontrarono al centro del campo, annullandosi a
vicenda. Esplosero in una tempesta di scintille viola.
Entrambi
persero un quinto dei loro punti. Mancavano due minuti e Brigit aveva
un bel vantaggio sul rivale, anche se sapeva che non poteva di sicuro
adagiarsi sugli allori.
«Jolteon!
Chiudiamola qui! Usa Fulmine!»
«Su,
usa Acquanello per proteggerti!»
Il
Pokémon eseguì. La scarica elettrica venne
immagazzinata negli
anelli che roteavano attorno al corpo del Pokémon.
Il
suo avversario perse ulteriori punti.
«Bene
ora lanciali contro di lui!»
Il
Pokémon acquatico iniziò a eseguire
l’ordine, una sirena decretò
lo scadere del tempo. La presentatrice decretò la sua
vittoria.
Ora non doveva fare altro che aspettare che anche i suoi avversari
svolgessero la loro gara di lotta. Per conoscere il suo avversario o
la sua avversaria.
La
sua avversaria sarebbe stata una ragazza e, eventualmente, anche la
finalista.
In
ogni caso non poteva pensare alla finale prima di aver superato
quella fase.
Ora
si trovava davanti alla sua avversaria. Una giovane donna. Il suo
vestito e i suoi accessori le davano un aspetto simile a Mismagius.
che, non ironicamente era il suo Pokémon.
La
giovane coordinatrice aveva deciso di schierare di nuovo Vaporeon. E
di dare la prima mossa alla sua avversaria.
«Mismagius,
mostra la tua potenza! Palla Ombra!»
La
ragazza non ci pensò due volte. Usò la tecnica
usata in precedenza.
«Vai!
Colpiscila con Geloraggio e rispediscila al mittente con la coda!»
Il
Pokémon eseguì, facendo perdere dei punti
all’avversaria che, di
sicuro non si aspettava di vedere ripetuta una combinazione
precedentemente usata.
«Andiamo
al contrattacco! Usa Neropulasar!»
La
ragazza non ci pensò un attimo.
«Congela
il suo attacco!»
Il
Vaporeon eseguì. Gli anelli violacei erano ora ricoperti dal
ghiaccio. Altri punti guadagnati. Congelando anche Mismagius, che non
poteva muoversi.
Brigit
era quindi nuovamente di mano.
«Usa
idrovampata per sciogliere il ghiaccio!»
La
sua avversaria era stupita. Perché scongelare Mismagius?
Cosa aveva
in mente?
Il
potente getto di acqua bollente sciolse il ghiaccio e
frantumò gli
anelli, creando una combinazione d’effetto. E si,
scongelò
Mismagius, ma, nel farlo, la ferì. La sua allenatrice non se
ne
accorse.
«Bene
Mismagius; usa Palla Ombra!»
L’attacco
fu più debole del previsto. E si disintegrò prima
di arrivare
dall’avversario.
«Vaporeon,
usa Palla Ombra!»
L’attacco
arrivò a destinazione, sconfiggendo Mismagius.
«Mismagius
non è più in grado di lottare! Vince Vaporeon!»
Brigit
saltò di gioia e abbracciò il suo Vaporeon.
«Sei
stato mitico! Ora ti meriti un po’ di riposo!»
Era
riuscita ad accedere alla finale. E non aveva vinto, ma aveva
DOMINATO. Doveva comunque essere pronta per la finale.
Solo
una lotta, che, tra le altre cose, avrebbe svelato la sua avversaria,
la separava dalla finale e, forse dall’ambito fiocco.
E
in quella lotta, non sembrava che una coordinatrice prevalesse
sull’altra.
Una
aveva un Togekiss. L’altra una Lopunny.
Dopo
cinque minuti e con uno scarto minimo, vinse la prima.
Quella
ragazza e il suo Togekiss sarebbero stati i suoi avversari per la
finale.
Non
le importava, l’avrebbe sconfitta comunque. Forse avrebbe
preferito
lottare contro l’altra, ma non dipendeva da lei, dopotutto.
Era
finalmente il suo momento. Era pronta e lo stesso si poteva dire
della sua avversaria.
Lei
aveva schierato Vaporeon, la sua avversaria Togekiss.
Come
sempre diede la prima mossa alla sua avversaria. Per poi comportarsi
di conseguenza.
«Togekiss,
usa Forzasfera!»
Il
Pokémon della sua rivale generò una sfera di
energia azzurra, che
scagliò contro l’avversario.
«Vaporeon
usa Palla Ombra!»
I
due attacchi si scontrarono al centro del campo. In una spettacolare
esplosione di polvere scintillante. Entrambe le coordinatrici persero
la stessa quantità di punti.
«Togekiss
usa Aeoroattacco!»
Il
Togekiss della ragazza salì verso l’alto, per poi
scendere verso
il basso ad alta velocità.
«Vaporeon,
Geloraggio!»
Il
Vaporeon della ragazza attaccò con un potente geloraggio,
che colpì
il Togekiss in picchiata, facendolo sbilanciare e cadere a terra
prima del dovuto. Facendosi seriamente male. La sua allenatrice perse
una marea di punti. E Togekiss era parzialmente congelato e aveva
delle difficoltà a muoversi.
«Togekiss
anche se non puoi volare provaci comunque. Usa Forzasfera!»
Il
Togekiss caricò il suo attacco senza poter contare sul suo
maggior
punto di forza, il poter solcare i cieli.
«Vaporeon,
usa Palla Ombra!»
Vaporeon
generò una gigantesca sfera di energia oscura, che
inglobò la
Forzasfera nemica, senza distruggerla.
«E
ora congelala con Geloraggio e poi colpiscila!»
Il
Vaporeon eseguì. Colpendo Togekiss con un triplo
attacco.
«Togekiss
non è più in grado di lottare. Vince Vaporeon!»
Le
due coordinatrici ringraziarono i loro Pokémon e li
ricoverarono
nelle rispettive Pokéball, quindi si incontrarono al centro
del
campo e si strinsero la mano.
La
presentatrice donò il fiocco alla ragazza.
«Ecco
la vincitrice! Brigit. Complimenti, è il tuo primo fiocco!»
Da
lì in poi fu un susseguirsi di festeggiamenti, che
terminarono
diverso tempo dopo.
La
ragazza era poi tornata a casa, estremamente soddisfatta per la
vittoria. Sapeva di dovere tutto ai suoi Pokémon, a Jolteon
per la
prima fase e a Vaporeon per la seconda. Dopo aver ricevuto i
complimenti dai suoi famigliari, che avevano seguito la sua gara in
diretta televisiva, la ragazza decise di andare nella sua stanza.
Come i suoi Pokémon, che erano stati presi in cura
dall’infermiera,
aveva bisogno di riposarsi. O almeno così aveva detto ai
suoi. Il
motivo per cui era salita in camera sua era un altro.
Aveva
vinto ma non si sentiva soddisfatta. Voleva migliorare le performance
sue e della sua squadra.
E
a suo modo di vedere il solo modo per migliorarsi era studiare chi
era più esperto di lei.
Dopo
una rapidissima ricerca trovò un’esibizione di
Lucinda, una
coordinatrice del nord del Giappone.
Lucinda
aveva circa la sua età, dai capelli blu e gli occhi dello
stesso
colore.
Lucinda
era sempre accompagnata da un Piplup. Anche quando
quest’ultimo non
partecipava direttamente alle gare, faceva sempre il tifo per lei
dagli spalti vestito di rosso e con dei pon pon.
Durante
l'esibizione, la ragazza indossava un abito senza maniche. Che
passava gradualmente dal bianco della parte superiore a un blu scuro
mano a mano che si andava verso la parte inferiore. Vestito era
decorato con un colletto blu scuro, una cintura di perline bianche
trattenuta da un nastro blu scuro e balze bianche. Al colletto e alla
cintura erano attaccate alcune perline bianche e gialle, a forma di
mezzaluna, altre, più piccole, erano a forma di stella.
Indossava
dei guanti blu scuro e ai piedi, dei tacchi dello stesso colore. In
quella particolare gara aveva schierato una Buneary e un Pachirisu.
Due Pokémon di piccola taglia, ma non per questo da
sottovalutare.
La
ragazza stava prendendo appunti, sulle tecniche usate dalla ragazza e
dalla sua avversaria, a detta della presentatrice una storica rivale,
quando il filmato venne interrotto da un interferenza.
Brigit
era stupita. Queste cose non potevano accadere su internet. Al
massimo accadevano in televisione, quando qualche burlone si
divertiva a disturbare le trasmissioni.
Ma
sul suo computer…
Al
centro dello schermo si era creato lentamente uno strano simbolo.
Era
formato da un pallino circondato da due cerchi concentrici, tutti di
colore rosso, su sfondo nero. Contrariamente a un bersaglio,
dalla parte inferiore del cerchio più esterno partivano tre
stanghette, e, dalla parte superiore ne partiva una.
La
ragazza provò a cliccare sul simbolo. Ma non accadde nulla.
Pensò
che si trattasse di un qualche virus o simile. E che quindi, con
grande dispiacere, avrebbe dovuto buttare il computer. Ma,
così come
era apparso, quello strano simbolo, scomparve.
La
ragazza decise di non dare troppo peso alla cosa. Tutto si era
sistemato da sé, dopotutto, no?
A
lui non interessava della reazione delle sue vittime. Gli interessava
solamente recuperare i suoi frammenti.
Contemporaneamente,
dall’altra parte del mondo, precisamente in Francia, il
più
prestigioso collegio del Paese, il Kadic, era in fermento. Le vacanze
estive erano finite da poco e l’anno scolastico era iniziato.
Ma
tra gli anditi del collegio non si parlava di compiti e di lezioni,
ma di una notizia trapelata dalla segreteria e fulmineamente
riportata sul giornalino scolastico da Milly e Tamiya. Parrebbe
infatti che sarebbero dovuti arrivare due nuovi studenti, o meglio un
ragazzo e una ragazza. Non una novità eclatante, se non
fosse che i
due nuovi studenti sarebbero stati il monarca del torneo mondiale e
l’attuale performer numero uno. Conosciuti al grande pubblico
come
Ash e Serena.
In
molti stavano già sospettando che quell’articolo
fosse l’ennesima
storiella partorita dalle due per far parlare del giornalino.
Secondo
la loro versione dei fatti, sarebbero arrivati qualche giorno dopo
l’inizio effettivo delle lezioni e sarebbero dovuti essere
inseriti
nella seconda superiore.
Tanti
pensavano che avessero affermato che sarebbero arrivati a giorni era
un modo per pararsi qualora la notizia si fosse rivelata falsa.
Dopotutto, passato qualche giorno, nessuno ne avrebbe più
parlato.
Il
suono della campanella costrinse gli studenti a separarsi e a recarsi
nelle rispettive classi.
Gli
studenti della seconda superiore ricevettero un'accoglienza diversa
dal solito. Seduto sulla cattedra, infatti non c’era il
professor
Caggia, ma il preside, il signor Jean-Pierre Delmas. Un uomo non
molto alto, di corporatura robusta, dai capelli grigi, barba dello
sesso colore e baffi. Indossava un completo elegante marrone e scarpe
in pelle dello stesso colore.
Gli
studenti, in coro, gli diedero un cordiale saluto.
«Buongiorno
signor preside.»
Tutti
gli studenti restarono in piedi nei loro posti, finché il
preside
non fece loro cenno di accomodarsi. In quella scuola la figura del
preside era molto rispettata, quasi come una creatura mistica. Non un
minimo brusio in quella classe.
«Miei
cari studenti. Posso immaginare la vostra sorpresa nel vedermi qui,
accomodato sulla cattedra al posto del professor Caggia, ma non vi
preoccupate, arriverà presto.
Nel
frattempo ho da farvi un annuncio. Oggi accoglierete nella vostra
classe due nuovi studenti. Viste come sono andate le ultime volte,
non ritengo che per loro sarà un problema integrarsi con
voi.
Come
ben sapete, in questo prestigioso istituto è sempre stata
una
tradizione che in questo istituto sia il preside a presentare i nuovi
studenti. E questo caso non fa eccezione.
Altra
tradizione di questo istituto è la presenza di studenti e
studentesse provenienti da tutte le parti del mondo, tradizione che
anche in questo caso verrà rispettata.
I
due nuovi studenti, un ragazzo e una ragazza, provengono
rispettivamente dal Kanto, in Giappone e da un piccolo paese della
Normandia. E a parere mio e di tutto il consiglio scolastico,
contribuiranno ulteriormente a mantenere e alzare il prestigio di
questo istituto che, sin dalle sue origini, oltre centoventi anni fa,
ha sempre formato non solo allenatori e allenatrici, coordinatori e
coordinatrici, ma prima di tutto dei ragazzi e delle ragazze pronti
ad affrontare le sfide che il mondo reale riserva.
Come
voi anche loro hanno compiuto diverse sfide e come voi premono per
compierne di nuove. E siamo sicuri che saranno in grado di fornirvi
dei nuovi stimoli per migliorarvi e spero che voi facciate
altrettanto con loro. Come del resto avete dimostrato di saper fare
con tutti gli altri studenti.»
Poi,
guardando gli studenti, e notando i loro sguardi carichi di noia,
decise di tagliare corto.
«Jim,
falli entrare!»
Inizialmente
entrò un uomo di circa quarant'anni, alto circa uno e
settantacinque, di corporatura robusta, vestito con una maglietta di
un colore indefinibile, una canadese nera e delle scarpe da
ginnastica. I capelli, castano scuro, erano trattenuti da una
bandana bianca.
In
faccia aveva un cerotto, probabilmente messo lì per
nascondere un
taglio fatto con il rasoio.
Quell’uomo
era Jim Morales, professore di educazione fisica, coreografo
Pokémon e guardiano della scuola, e, come ordinatogli dal
preside,
aveva accompagnato all’interno della classe un ragazzo e una
ragazza.
Il
preside li presentò alla classe.
«Ecco,
loro sono Ash e Serena.»
I
due fecero un cenno di saluto.
Il
ragazzo aveva i capelli neri e gli occhi castani.
Indossava
una maglietta bianca con in mezzo una striscia rossa e un paio di
blue jeans. Aveva delle scarpe da ginnastica bianche di una nota
marca.
Alle
spalle un semplice zaino a zip blu. Sulla spalla un Pikachu maschio.
La
ragazza aveva capelli color miele e gli occhi azzurri. Indossava una
maglietta nera, una gonna rossa, delle lunghe calze nere e degli
stivaletti marroni.
Lei
non aveva uno zaino, ma una borsa, nera.
La
ragazza attirò come un magnete lo sguardo di Odd.
Cosa
che venne notata da Ash, che lo fulminò con lo
sguardo.
Il
biondo non ebbe pace nemmeno dal compagno di banco Ulrich, che gli
diede una gomitata nelle coste.
«Credo
che questa volta resterai a bocca asciutta!»
Odd
fece una smorfia di dolore. Sia per la gomitata sia per
l’infelice
battuta dell’amico. Era suo vanto di aver avuto almeno un
appuntamento con tutte le ragazze della classe, tranne Aelita, Sissi
e Heidi.
Non
era mai uscito con Aelita perché sarebbe stato sospetto che
un
ragazzo avesse quel tipo di appuntamenti con quella che doveva essere
sua cugina. Infatti, l'identità della ragazza era quella di
una sua
cugina proveniente dal Canada. In più ella aveva iniziato a
sviluppare dei sentimenti verso Jeremy.
Tanto
che i due si erano messi insieme.
Non
era mai uscito con Sissi, la figlia del preside, sotto consiglio
dell’amico e compagno di mille avventure Ulrich. La definiva
come
una ragazza vanitosa,
snob e viziata. Oltre che gelosa e incline a deridere o
rimproverare gli altri, come Milly o Tamiya ai suoi due leccapiedi
Nicholas e Hervé. L’ha descritta anche come molto
ficcanaso.
Nonostante
ciò, quantomeno inizialmente, la trovava carina.
Infine
non era mai uscito con Heidi, nonostante la stessa provasse dei
sentimenti verso di lui a causa di alcune incomprensioni dovute a un
attacco di Xana.
Gli
occhi della classe erano puntati tutti sui due. Sembravano quasi
degli alieni.
Ignorando
totalmente la reazione della classe, Jim si riferì ai due.
«Forse
è meglio che vi accompagni a sistemare le vostre cose. E che
vi
informi su alcune regolette.»
Il
tono del professore era quello di chi voleva essere autoritario, ma
proprio non ci riusciva.
I
due, in ogni caso, lo seguirono.
Dopo
un lungo percorso, i tre raggiunsero i dormitori. Il professore
iniziò a spiegare le regole.
«Il
piano inferiore del dormitorio è quello dove dormono i
ragazzi,
quello superiore dove dormono le ragazze. Alle dieci di notte, tutti
dovranno trovarsi nella propria stanza. Tranne ovviamente per andare
al bagno, ma non pensate di usarla come scusa. Conosco questo
edificio come le mie tasche.
Vi
ricordo che la colazione è alle sette e mezza, alle dieci e
mezza
c’è la ricreazione, quindi potete andare al bar o
alle
macchinette. Il pranzo è servito all'una e mezza, cena alle
otto e
mezza.
Dalle
otto del mattino alle quattro e mezza del pomeriggio è
vietato
entrare in camera. Tranne per dieci minuti prima e dopo pranzo per
prendere eventuali Pokémon.
L’uomo
si fermò. E i due fecero altrettanto.
«Ash…
ti chiami così?»
Il
ragazzo fece un piccolo cenno di approvazione.
«Questa
sarà la tua stanza. La condividerai con Jeremy Belpois. Dato
che ci
sei metti le tue cose qui e lascia anche il tuo Pikachu. I
Pokémon
fuori dalle Pokéball non sono ammessi nelle aule. E le lotte
e le
esercitazioni sono permesse solo in aree specifiche.»
Il
ragazzo ricevette dal professore una copia delle chiavi della stanza.
E aprì la porta.
Non
era una stanza enorme, ma nemmeno piccolissima. Due letti, due
piccoli armadi e una scrivania. La stanza era illuminata da un'ampia
finestra.
Dando
uno sguardo più approfondito alla stanza notò
sulla parete di
sinistra, sopra il letto, un poster di Albert Einstein, ritratto
mentre faceva la linguaccia. Questo gli bastò a capire che
quello
era il letto del suo compagno di stanza.
Aveva
anche notato come la scrivania fosse totalmente occupata da un
gigantesco computer fisso e di come il suo enorme peso la curvasse.Il
fatto che non si fosse spaccata, era un vero miracolo.
Aveva
notato come alla base del suo letto vi fosse una cuccetta per
Pokémon.
Posò
la sua valigia sul suo letto e si rivolse al suo Pikachu.
«Scusa
amico, ma dovrai restare qui, per ora. Poi verrò a
prenderti,
mi raccomando, fai da bravo!»
Il
ragazzo, per non far sentire Pikachu da solo, aveva fatto uscire
dalla Pokéball il suo Lycanroc.
Fatto
questo, il ragazzo uscì dalla stanza e chiuse la porta.
Sperava
che almeno Serena avesse la fortuna di avere una singola. Almeno
dalle quattro e mezza a poco prima delle dieci di notte avrebbero
potuto avere un po’ di intimità.
Il
professore gli fece cenno di aspettare. Avrebbe accompagnato la
ragazza e sarebbe tornato.
Ash
non poteva quindi saperlo subito, ma il suo desiderio si era
trasformato in realtà. La stanza della sua ragazza era una
singola.
Il professore consegnò alla ragazza le chiavi della stanza.
Come
quella del ragazzo non era enorme, ma era molto ben illuminata da
un'ampia finestra. L'arredamento era semplice. Un letto sul lato
sinistro, un armadio e una scrivania. Con un computer fornito dalla
scuola. Ai piedi del letto un tappeto rosa.
La
ragazza poggiò la valigia sul letto.
«Devi
ritenerti fortunata.»
Le
spiegò il professore.
«Questa
è la sola singola femminile rimasta.»
I
due tornarono al piano inferiore, a riprendere Ash. arrivati
lì, il
ragazzo li aspettava fuori dalla porta. Serena scambiò con
il
ragazzo uno sguardo d’intesa. Questo non venne notato dal
professore, troppo impegnato nel riaccompagnare i due in aula, dove
era in corso la lezione del professor Caggia. Fatto questo, il
professore tornò al suo lavoro.
Il
suo viaggio alla ricerca di frammenti continuava.
Kyushu,
città di Fukuoka, sud del Giappone.
Lucinda
era appena uscita dall’ospedale, dove si era recata per fare
visita
a Vera una sua carissima amica. La ragazza era imbruconata
durante una sessione di allenamento e aveva dovuto dare forfait per
quanto riguardava la Coppa Adriano.
Durante
la visita l’aveva bonariamente rimproverata per averle fatto
perdere del tempo, anche perché era consapevole che anche a
parti
invertite lei sarebbe andata a trovarla.
Il
giorno dopo avrebbe dovuto partecipare alla Coppa Adriano,
dall’altra
parte del Giappone.
Per
questo non si era potuta trattenere molto. Appena fuori
dall'ospedale, aveva preso un taxi per farsi accompagnare
all’aeroporto. Lì avrebbe preso un volo per casa
sua, l’Hokkaido.
Precisamente per la città di Sapporo. Da lì
avrebbe avrebbe preso
un treno per la città di Kushiro. Poco lontano da quella
città si
sarebbe svolta la competizione.
Il
breve viaggio in taxi, circa nove chilometri, le costò
duemila Yen.
Molto meno delle quattordicimila per il biglietto aereo. Il
più
economico che aveva trovato, compagnia low cost e classe economica.
Ma per un’amica questo e altro.
Finito
il viaggio in taxi, giunta alle partenze e superati i controlli,
salì
a bordo dell’aereo, un Airbus A320. Nonostante la frequenza
elevata
della tratta, l’aereo era stracolmo.
Lei
si trovava in un posto vicino al finestrino. Per questo si
poté
godere al meglio il viaggio. Che fu piuttosto tranquillo. Come anche
l’atterraggio. Non aveva bagagli, per cui avrebbe fatto in
fretta.
Dopo
un’altra corsa in taxi, costatale millesettecento Yen, era
giunta
alla stazione dei treni. Il che voleva dire altre diecimila Yen che
volavano. Almeno dalla stazione in poi e, per qualche giorno non
avrebbe dovuto preoccuparsi di spendere, dato che ci avrebbe pensato
l’organizzazione.
La
Coppa si sarebbe svolta alcuni chilometri fuori dalla città,
e
sarebbe iniziata il giorno dopo. Avrebbe passato la notte in uno
degli hotel della città, poi, durante la coppa, avrebbe
risieduto
nel villaggio messo a disposizione per i partecipanti.
Dopo
cena non riuscì ad addormentarsi, così decise di
fare una
videochiamata con Ash, il suo migliore amico. Sapeva che si era
trasferito in Francia, con la sua ragazza, ma nonostante si fosse
fidanzato, i due erano comunque rimasti in contatto. Sebbene non
avesse mai conosciuto Serena di persona, sapeva che, come lei, era
una coordinatrice, oltre a essere una famosa performer.
Dopo
non molto tempo Ash rispose alla sua chiamata. Erano le cinque del
pomeriggio in Francia e lui si trovava nella camera che avrebbe
condiviso con Jeremy. In quel momento era solo. Stava sistemando le
sue cose, in compagnia di Lycanroc e Pikachu. Non aveva la minima
idea di dove si trovasse il suo compagno di stanza. Ma gli importava
poco. L’aveva già visto a lezione. Tuttavia
qualcosa l’aveva
spinto a non dirgli che sarebbe stato il suo compagno di stanza. Ma
poco importava. Si era accorto del fatto che stava ricevendo una
videochiamata, proprio da parte di Lucinda, per cui
abbandonò
i suoi pensieri e rispose. Intanto Pikachu era salito sulla sua
spalla. Esplose di gioia non appena vide Lucinda.
«Ciao
Ash!»
«Ciao
Lucinda! Quanto tempo! Come va lì in Giappone?»
«Benissimo!
Sto per partecipare alla Coppa Adriano. Quest’anno
sarà vicino a
Kushiro.»
«Bene.
Immagino tu abbia studiato nuove combinazioni per la gara.»
«Non
ti sbagli! Spero che tu riesca a seguirla, vedrai, ti
stupirò. Ma…
dove sei? Ti hanno arrestato? Dico davvero, sembra che ti trovi in
carcere.»
«No,
no, niente carcere, ma non ci sei andata lontano, ci hanno dato una
borsa di studio per la scuola più prestigiosa di tutta la
Francia e
abbiamo deciso di accettare. Magari la prossima volta ti presento
anche il mio compagno di stanza.»
«Ah,
bene! Non so se hai sentito cosa è successo a Vera.»
«No,
dimmi, è da un po’ che non la sento.»
«Durante
una sessione di allenamento è caduta e, pare si sia rotta
una gamba.
Quindi ha dovuto dare forfait.»
«Spero
si rimetta presto.»
«Oh,
anche io.»
Intanto,
si sentiva qualcuno bussare nella stanza di Ash.
«Scusa,
ma ti devo lasciare. Ci sentiamo presto! Ah, giusto! Saluta Adriano
da parte mia.»
«Lo
farò! Ci vediamo!»
Poi
la ragazza chiuse la videochiamata.
Ash
si affrettò ad aprire la porta. Davanti a lui Jim Morales,
il
professore/coreografo/guardiano. Ash era intimidito. Pensava di aver
combinato qualche disastro o simili. E, farlo da appena arrivato
sarebbe stato un disastro. Ma, almeno in questo caso, le intenzioni
dell’uomo erano tutt’altro che cattive.
«Ti
aspettano ai campi lotta, vogliono che tu dia una dimostrazione.»
Ash
era contento, voleva mostrare di cosa era capace. E di cosa erano
capaci i suoi Pokémon.
«Lotterò
contro di lei?»
«Oh,
no. Niente affatto. Io sono stato un fortissimo allenatore, io e la
mia squadra abbiamo vinto decine e decine di lotte…»
«Scusi
se sono indiscreto, ma mi può dire perché non
lotta più?»
«Preferirei
non parlarne.»
Ash,
essendo lì da poche ore non lo poteva sapere, ma, per il
professore,
quelle tre parole erano una sorta di rifugio. Le aveva usate tante di
quelle volte che ormai aveva perso il conto.
I
due non parlarono per tutto il resto del tragitto, fino ai campi
lotta.
In
questo caso utilizzarono quelli all’aperto. Era una
bellissima
giornata di fine estate, tanto valeva approfittarne.
«Ulrich
Stern, sarai tu il suo sfidante.»
Il
ragazzo raggiunse l'estremità opposta del campo lotta, senza
dire
una parola. Nonostante sapesse di avere un avversario di alto
livello, voleva mostrare il suo valore. Era il campione delle lotte
in coppia, insieme a Yumi, la sua ragazza. E solo contro di lei aveva
perso il titolo delle singole.
Ash,
invece avrebbe voluto fare una bella figura con la sua ragazza. Anche
lei stava seguendo la lotta, sempre dagli spalti.
«Io
farò da arbitro. Sapete, una volta sono stato arbitro a
livello
professionistico, per le lotte del torneo della lega, ma…
preferirei non parlarne. Ad ogni modo… schierate i vostri
Pokémon
e cominciate. Sarà una lotta uno contro uno. Vince chi rende
non più
in grado di lottare il Pokémon avversario.
Si
affronteranno Ulrich e Ash. Schierate i vostri Pokémon.»
«Pikachu
ti va di lottare?»
Il
Pokémon scese dalla spalla del ragazzo e si
schierò in campo. In
attesa di sapere contro chi avrebbe lottato.
«Gallade,
tocca a te.»
Dalla
Pokéball del ragazzo uscì un Gallade. Appena
uscito si mise
immediatamente sulla difensiva.
«La
prima mossa spetta a Ash.»
«Pikachu,
su, usa Attacco Rapido!»
«Gallade
proteggiti con le braccia!»
Il
Pikachu corse a grande velocità contro
l’avversario, colpendolo in
pieno petto e facendolo sbilanciare, nonostante si fosse
protetto.
«Benissimo,
ora usa Psicotaglio!»
Le
braccia del Pokémon si estendettero e illuminarono di
azzurro. Da
esse uscirono delle lame di energia colorate. Che colpirono Pikachu,
facendolo allontanare.
«Pikachu,
usa Codacciaio per rallentare.»
Il
Pokémon eseguì, infilando la coda nel terreno e
fermandosi. Era
tornato sulle sue zampe.
«Gallade,
usa Zuffa!»
Il
Gallade del ragazzo corse verso la metà campo avversaria, e
iniziò
a tirare una serie di calci e pugni al Pikachu avversario.
«Pikachu,
non permettergli di colpirti. Usa Fulmine!»
Il
Pikachu, che si trovava in aria, eseguì, lanciando contro
l’avversario un potentissimo attacco elettrico.
«Gallade
usa Nottesferza!»
Le
braccia del Pokémon si illuminarono di azzurro, e vennero
circondate
da un’aura dello stesso colore.
«Usa
Codacciaio contro le sue braccia, prima che ti possa colpire!»
La
dura coda di Pikachu colpì le braccia del Pokémon
avversario,
annullando l’attacco e facendolo arretrare e curvare in una
posizione piuttosto scomoda.
«Gallade,
usa Psicotaglio per liberarti!»
La
coda del Pokémon pressava contro le braccia di Gallade.
Entrambi
erano in una posizione piuttosto scomoda. E l’attacco,
nonostante
la scomoda posizione del Pokémon, fu sufficiente a spedire
Pikachu
oltre i confini del campo, senza che questi potesse in alcun modo
attutire la caduta.
Tutte
le attenzioni erano puntate su di lui. Anche la telecamera di Tamiya
che, insieme all’inseparabile amica Milly stavano riprendendo
l’incontro.
Jim
si stava avvicinando al Pikachu, per comprendere se questi fosse o
meno in grado di continuare. Ma prima che potesse raggiungerlo, lo
vide rialzarsi.
«Pikachu
può ancora continuare!»
Dichiarò.
Ash
se lo aspettava. Quella lotta era niente in confronto a tante altre
che avevano affrontato. E lo avrebbe dimostrato.
«Pikachu,
usa codacciaio, mira al ginocchio.»
Il
Pikachu correva ad alta velocità contro il Gallade
avversario.
Pronto a colpirlo in un punto sensibile.
«Gallade,
tieniti pronto. Quando te lo dico devi saltare.»
Sembrava
che lo spazio tra i due Pokémon fosse infinito. Pikachu
correva,
Gallade restava fermo, sembrava che i due non si
raggiungessero
mai. «ORA!»
Gridò Ulrich.
Gallade
saltò in aria pochi istanti prima che il colpo arrivasse. La
coda di
Pikachu non lo sfiorò nemmeno. Ma nonostante questo, Ash non
era
minimamente preoccupato.
«Pikachu,
salta anche tu, e usa Attacco Rapido!»
Il
Pokémon, dandosi propulsione con la muscolatura delle zampe
posteriori, spiccò un balzo. Ora si trovava alla alla stessa
altezza
di Gallade. Pronto ad attaccare.
Nemmeno
il disperato tentativo di proteggersi con le braccia, poté
fermare
quell’attacco. Gallade era disteso a terra. Di schiena.
Dolorante.
Ma ancora in grado di lottare. Senza che il suo allenatore gli
dicesse nulla, si rimise in posizione eretta, non era tipo da
arrendersi facilmente. Come il suo avversario.
«Wow,
è tale e quale al suo allenatore! Non si arrende mai!»
Commentò
una Sissi, ancora innamorata di Ulrich, nonostante questi avesse, da
qualche tempo, una relazione stabile con Yumi. Il ragazzo era troppo
impegnato nella lotta per poterla sentire.
«Gallade,
usa di nuovo Zuffa!»
Gallade
corse di nuovo verso Pikachu, con l’intenzione di colpirlo
nuovamente con una serie di calci e colpi di lame, ma Ash non poteva
permettere che Pikachu subisse nuovamente una simile raffica di
colpi.
Questa
volta fu attendista. Gallade corse contro Pikachu. Che stava
aspettando. Per ora era tutto solo nella mente di Ash, ma presto si
sarebbe rivelato agli spettatori, che erano passati
dall’essere
poco più di una mezza dozzina, a essere oltre la
metà dei
collegiali. Data l’intensità dello scontro,
nessuno osava
proferire parola. Erano tutti in religioso silenzio, come in una
partita di tennis. In attesa di quella che, forse, sarebbe stata
l’ultima mossa, quella che avrebbe determinato l'esito
dell’incontro. Gallade correva a grande velocità,
Pikachu era
fermo. Immobile, in attesa del comando del suo allenatore.
Gallade
era in procinto di raggiungerlo. Appena due passi. Ora solo uno. Ora
era a una frazione di secondo dal colpirlo.
«ORA!
Pikachu! Codacciaio!»
La
coda del Pokémon si era indurita, diventando come una lama.
Simile a
quelle di Gallade.
La
coda di Pikachu colpì una delle gambe di Gallade, nella
parte
interna, facendolo cadere di faccia contro il terreno.
Gallade
provò a rialzarsi, ma era troppo debole.
«Gallade
non è più in grado di lottare. Il vincitore
è Pikachu!»
DichiaroJim.
Ulrich
raggiunse il suo Pokémon, e, dopo averlo aiutato a
rialzarsi, lo
ricoverò nella Pokéball.
«Non
ti preoccupare, sei stato fantastico, ora ti puoi riposare, te lo
meriti.»
Quindi
raggiunse l’allenatore avversario, e gli porse la mano
destra. Ash
fece altrettanto. I due ragazzi si strinsero la mano.
Un
gesto di estrema sportività, che venne gradito dal pubblico.
Tutti i
collegiali fecero partire un applauso.
«Sei
davvero forte. Ma la prossima volta io e Gallade ti batteremo,
vedrai!»
«Non
contarci! Anche noi la prossima volta saremo più forti,
vedrai.»
«Questi
due ragazzi vi hanno dato una stupenda dimostrazione di una lotta,
ora tocca alle ragazze, che si esibiranno in una gara di lotta.
Serena e Aelita?»
Il
fatto di non essere chiamata, fece particolarmente irritare Sissi. Le
era stata preferita la sua acerrima rivale.
Per
questo decise di andare al suo posto.
Ash,
notando questa ingiustizia, si rivolse alla sua ragazza.
«Falle
vedere chi sei.»
La
ragazza fece un cenno d’intesa. Come a intendere che lo
avrebbe
fatto comunque. Dopotutto la sua avversaria si era autoimposta. In
ogni caso Jim, la professoressa Hertz e Yolanda, l’infermiera
della
scuola si erano accomodati nel pannello dei giudici. E il professore
di educazione fisica accese il monitor.
«E
va bene. Cominciate.»
«Delphox,
tocca a te!»
«
Ralts,
brilla per me!»
Serena
era stupita. Perché mandare contro una piccola Ralts contro
la sua
Delphox? Voleva davvero regalarle una vittoria così facile o
c’era
dell’altro? Dubitava del fatto che lei fosse una
coordinatrice di
alto livello? In ogni caso la sua intromissione non venne gradita dal
pubblico, eccezion fatta per i suoi due leccapiedi.
«La
prima mossa tocca a Serena.»
Dichiarò Jim.
«E
perché non inizio io?»
Si lamentò Sissi.
«Ralts!
Palla Ombra!»
«Delphox!
Usa introforza!»
Una
delle sfere di energia create dalla Delphox di Serena si
scontrò
contro la palla di energia oscura.
«Ralts,
usa psichico per rispedirle l’attacco!»
La
Ralts della ragazza concentrò i suoi poteri e spinse le
sfere di
energia contro Delphox.
«Delphox,
distruggile con Fuocobomba!»
La
Delphox lanciò un potentissimo attacco di fuoco, simile ad
una croce
di fiamme, che distrusse le sfere di energia. E che colpì la
Ralts
avversaria. Sconfiggendola.
«Ralts
non può più continuare! Vince Delphox. Di
conseguenza la vincitrice
è Serena.»
Sissi
si allontanò senza nemmeno stringere la mano alla sua
avversaria,
con tanto dispiacere di quest’ultima.
«Serena,
ti va una lotta?»
Alla
ragazza le ci volle un attimo per capire chi le aveva fatto la
proposta. Dopo uno sguardo più attento si accorse
che a
farle quella richiesta fosse una ragazza dai capelli rosa, tagliati
corti.
Era
forse lei Aelita, la ragazza che, inizialmente doveva essere la sua
avversaria?
«Con
piacere.»
I
professori e l’infermiera, dopo la brutta figura rimediata di
Sissi, si erano allontanati. Lasciando soli gli alunni.
«Se
non vi dispiace farò da arbitro.»
Si
offrì Ash.
Le
due ragazze accettarono, dopotutto un arbitro sarebbe servito, no?»
«Bene,
schierate i vostri Pokémon!»
«Delphox,
vuoi lottare?»
La
Delphox della ragazza accettò. Dopotutto la lotta contro
quella
Ralts, non era stata nemmeno un antipasto.
«Togekiss,
conto su di te!»
Dalla
Pokéball della ragazza uscì un esemplare di
Togekiss, che iniziò
immediatamente a svolazzare per il campo di lotta.
Ash
annunciò le regole.
«Sarà
una lotta uno contro uno. Vince chi riesce a sconfiggere il
Pokémon
avversario. Che la lotta cominci!»
«A
te l’onore!»
Serena
aveva la possibilità di fare la prima mossa. Voleva
approfittarne.
«Delphox!
Usa Introforza!»
La
Delphox della ragazza generò diverse sfere di energia di
colore
bianco. Lanciandole contro l’avversaria.
«Togekiss
difenditi con Eterelama!»
La
Togekiss della ragazza generò delle lame d’aria,
che distrussero
le sfere d’energia. E avvicinandosi pericolosamente a Delphox.
«Delphox,
schiva!»
Delphox
si spostò poco prima di venire colpita
dall’attacco avversario,
che colpì il campo lotta creando una nube di polvere.
Sebbene non
venne colpita dall'attacco, era stata parzialmente accecata.
«Delphox,
usa Magifiamma!»
Delphox
creò un cerchio di fuoco con il suo bastone. Dal centro di
quel
cerchio partì una grande fiammata.
«Togekiss,
schiva! Poi usa Palla Ombra!»
Il
Pokémon si spostò dal flusso della fiammata, per
poi lanciare
contro l’avversaria una sfera di energia oscura. Nonostante
la
coltre di polvere si fosse parzialmente diradata, la visuale di
Delphox era ancora parzialmente offuscata dalla polvere. Per questo
venne colpita duramente dall’attacco.
«Delphox
puoi rispondere, usa Psichico!»
I
poteri psichici della volpe di fuoco fecero schiantare al suolo la
Togekiss della ragazza.
«Togekiss,
stai bene? Puoi continuare?»
Nonostante
il duro colpo, Togekiss si alzò nuovamente in volo.
«Molto
bene Togekiss, usa Idropulsar!»
Dalla
bocca del Pokémon della ragazza si generò un
fortissimo getto
d’acqua, che colpì in pieno la Delphox avversaria,
facendola
cadere a terra. Facendo si che si trovasse nella stessa posizione in
cui poco prima si trovava Togekiss. Ergo in una posizione di enorme
svantaggio. Togekiss volava sopra di lei. Alzarsi poteva significare
perdere l’attimo.
«Delphox!
Fuocobomba!»
Dal
bastone della Pokémon, puntando verso l’alto venne
generata una
coltre di fuoco a forma di stella.
«Togekiss!
Lancia contro una Palla Ombra!»
Il
Pokémon della ragazza dai capelli rosa eseguì.
Lanciando verso il
basso il potente attacco di tipo spettro. Che, nel suo cadere verso
il basso, incrociò e dissolse l’attacco di fuoco,
per poi colpire
Delphox.
«Delphox
non è più in grado di continuare! Quindi vince
Togekiss: La
vincitrice dell'incontro è Aelita.»
La
ragazza dai capelli rosa si avvicinò alla sfidante. Le due
ragazze
si strinsero la mano.
«Vedo
che non tutte sono come lei.»
Commentò
Serena.
«Lei
è il caso unico. È Sissi, la figlia del preside.
Imparerai a
conoscerla. Molto spesso si comporta così. Dando il cattivo
esempio.
Il suo modo di approcciarsi con gli altri lo si rivede anche nella
sua squadra.
«Capisco.
Cercherò di starle alla larga.»
Dopo
essersi salutata con Ash, Lucinda aveva finalmente preso
sonno.
La
ragazza cercò di cliccarci, per farlo sparire, ma non
ottenne il
risultato sperato. Anzi. Sentì come una piccola scossa sulle
dita.
Poi il simbolo scomparve.
La
ragazza decise di spegnere il computer e di addormentarsi. Ne aveva
visto abbastanza quel giorno. E poi tra qualche ora ci sarebbero
stati i round preliminari della Coppa. Doveva essere riposata.
Intanto,
si era fatta praticamente ora di cena. L’enorme serpente di
ragazzi
e ragazze, dopo aver condotto i loro Pokémon nello spazio
appositamente dedicato a loro, si stava dirigendo al refettorio.
Non
si parlava d'altro se non che delle lotte che erano avvenute in
precedenza.
Nessuno
pensò particolarmente a cosa avrebbero mangiato quella sera,
dopotutto, a pranzo, per via dell’arrivo dei due era andata
anche
troppo bene.
Tutto
sommato la cena non fu male. Dopo aver mangiato, il serpente di
ragazzi guadagnò il dormitorio. Avevano un’oretta
prima di dover
restare nella propria stanza. Jeremy la trascorse con i suoi amici
nella stanza di Odd e Ulrich. Ash, invece la trascorse nella stanza
della sua ragazza, ovviamente in sua compagnia.
Pochi
istanti prima delle dieci, il ragazzo e il suo Pikachu erano scesi al
piano inferiore.Ash aveva accompagnato Pikachu in camera, prima di
andare al bagno. Jeremy si congedò con i suoi amici e si
diresse in
camera sua. Come anche Aelita, che nel salire le scale, aveva
incrociato Ash.
Jeremy
entrò nella sua stanza e accese la luce. Al centro della
stanza vide
un Pikachu. Gli ci volle un attimo per capire. Non poteva essere un
esemplare selvatico. I Pikachu sono dei PK notoriamente molto
schivi. Nel boschetto vicino alla scuola ne erano presenti diversi,
ma appena vedevano una persona, scappavano. Ergo quel Pikachu doveva
essere di un qualche allenatore. Solo in un secondo momento si rese
conto del fatto che avrebbe dovuto condividere la stanza con
qualcuno. Con tutta probabilità l’allenatore di
quel Pikachu.
E
non si era sbagliato. Ash entrò poco dopo.
«Piacere…
Jeremy? Io sono Ash. Sarò il tuo compagno di stanza.»
«Piacere.»
«Devo
ammettere che mi hai sorpreso con le tue tecniche di lotta.
Hai
davvero uno stile unico.»
«Dici?
Io semplicemente studio il modo di lottare del mio avversario, ne
comprendo i punti di forza e debolezza e gli sfrutto a mio
vantaggio.»
«E
se uno dovesse improvvisare? Che fai?»
«Quando
ti capiterà mai? Una, due volte?»
«Se
non ti dispiace domani ci sfideremo. E le vedrai queste una o due
volte.»
Intanto,
mentre in Francia stava scorrendo la notte, in Giappone un nuovo
giorno stava incominciando. Questo, per Lucinda voleva dire
prepararsi e anche alla svelta, se non voleva arrivare in ritardo
alle prove finali prima dell’esibizione. E lei non era tipo
da
prepararsi rapidamente, anzi.
Per
sua fortuna, però il pullman che avrebbe portato tutti i
coordinatori al villaggio allestito appositamente per la
manifestazione, ebbe un inconveniente e tardò non poco.
Almeno
poté prepararsi con la dovuta calma e riuscì a
essere pronta pochi
minuti prima dell’arrivo del mezzo.
Il
viaggio durò una mezz’ora abbondante. Poi il
pullman si fermò,
permettendo a tutti di scendere. Il villaggio era costituito da
alcuni edifici smontabili dove i coordinatori avrebbero dormito, da
un edificio adibito a ristorante per i coordinatori e da alcune
hospitality per il pubblico.
L’arena
dove si sarebbe svolta l’esibizione era direttamente
costruita
sull’acqua.
Quel
giorno erano unicamente in programma delle esercitazioni, ma sugli
spalti era comunque presente del pubblico.
Lucinda
aveva approfittato di quell’occasione per fare le ultime
prove.
Voleva continuare la sua striscia di vittorie consecutive alla coppa
e sarebbe dovuta essere impeccabile, e la sua squadra con lei.
Quel
turno extra le fu molto di aiuto. Aveva deciso chi utilizzare sia
durante la fase del saggio di recitazione, sia durante le gare. La
Coppa Adriano non era una gara come le altre. Era valida per tutte le
regioni del Giappone, pertanto il numero di concorrenti era molto
maggiore rispetto al solito. Lucinda era comunque sicura che avrebbe
passato la prima fase. Era una delle migliori coordinatrici del
Giappone, non si sarebbe fatta scoraggiare da questo. Anzi. era uno
stimolo per mostrare quanto valesse una super coordinatrice. E
l’assenza di due rivali quali Vera, in ospedale con una gamba
rotta
e di Zoey, che aveva deciso di ritirarsi dalle gare, non
l’avrebbe
influenzata.
Era
il primo dei tre giorni di gara. Il primo era dedicato alle
esibizioni. Il giorno seguente ci sarebbero stati gli ottavi e i
quarti di finale. Il terzo e ultimo giorno, invece ci sarebbero state
le semifinali e la finale.
Lucinda
sarebbe stata la terzultima a esibirsi, per cui avrebbe potuto
saggiare il livello dei suoi avversari, prima di esibirsi.
Ora
si trovava sul palco. Vestita con il suo classico abito da gara. Ma
poco importava. Non era lei la protagonista.
«Togekiss
sonoquì!»
La
Togekiss della ragazza uscì dalla Pokéball
contornata da dei cuori.
Che, immediatamente lanciò verso il pubblico, tra gli
applausi.
Quindi
fece un volo radente con un’ala che sollevava una coltre
d’acqua.
«Togekiss
usa Forzasfera, quindi colpiscila con Eterelama.»
Il
Pokémon eseguì, creando una sfera di energia di
colore azzurro, che
poi venne colpita dalla lama d’aria. Questo
polverizzò la sfera di
energia.
«Molto
Bene! Ora usa di nuovo Forzasfera, poi inglobala in Palla Ombra.»
Il
Pokémon eseguì, lanciando verso il cielo una
sfera di energia
azzurra, per poi fare lo stesso con una sfera di energia
oscura.
Poi,
prima che i due attacchi si incontrassero, impartì un altro
ordine.
«Benissimo,
appena si toccano,colpiscile con Aeroattacco!»
La
sfera oscura inglobò quella azzurra. Ora i due attacchi
erano una
sola cosa. La sfera oscura emanava anche dei bagliori di colore
azzurro.
Togekiss
la colpì creando polveri di vario colore.
«Chiudiamo
in bellezza! Usa di nuovo Palla Ombra e Forzasfera! Poi Eterelama!»
Togekiss
eseguì. Questa volta i due attacchi non si incontrarono, ma
rimasero
sospesi alla stessa altezza. I due Eterelama gli distrussero in
polvere colorata, prima di scontrarsi e fare altrettanto.
La
ragazza si prese i complimenti da parte della giuria e uno
scrosciante applauso dal pubblico. Il suo accesso alla fase seguente
fu una semplice formalità.
Nonostante
questo ebbe un piccolo brivido, mentre guardava il tabellone in cui
apparivano i coordinatori che avrebbero acceduto alla fase seguente.
Ovviamente lei era presente tra gli otto che avrebbero avuto accesso
alla fase successiva.
Il
giorno seguente la ragazza avrebbe affrontato la prima fase delle
gare di lotta.
Non
si era curata di scoprire chi sarebbe stato il suo avversario o la
sua avversaria. Aveva iniziato a farlo qualche tempo prima e da
allora non aveva più smesso. Era riuscita a passare i quarti
di
finale senza troppi inconvenienti, e si era messa in contatto con la
madre, per raccontarle di alcuni dubbi che la affliggevano.
Aveva
chiuso la chiamata e stava per spegnere il suo portatile, ma qualcosa
la dissuase dal farlo. Al centro dello schermo del suo
portatile era apparso uno strano simbolo.
Per
certi versi ricordava un bersaglio delle freccette. Era formato da un
pallino circondato da due cerchi concentrici, tutti di colore rosso,
su sfondo nero. Dalla parte inferiore del cerchio più
esterno
partivano tre stanghette, e, dalla parte superiore ne partiva una. La
ragazza, pensando a uno scherzo, decise di cliccare sul simbolo. Una
piccola scintilla uscì dal touchpad del suo portatile. La
ragazza
non si accorse di nulla. Spense il computer e decise di dedicarsi ad
altro.
Era
giunta alla finale. E sapeva di avere tanti occhi addosso. La sua
avversaria era una super coordinatrice, come lei. E aveva schierato
un Umbreon. Lucinda aveva, invece, schierato Piplup. il
Pokémon
pinguino era avvantaggiato dal fatto di trovarsi nel suo ambiente
naturale, l’acqua. E si aspettava che Lucinda sfruttasse
questo a
suo vantaggio.
«Umbreon,
usa Neropulsar!»
Il
Pokémon Lucelunare lanciò una serie di anelli di
energia di colore
viola scuro, tendente al nero.
«Piplup,
assorbilo con Mulinello!»
Il
Pokémon della ragazza generò un gigantesco
vortice d’acqua, che
venne circondato dall’attacco avversario e che si dirigeva a
gran
velocità contro l’Umbreon nemico.
La
sua coordinatrice perse diversi punti, per questo. Ma non si diede
per vinta. Era anche lei una super coordinatrice, dopotutto.
«Umbreon
usa Psichico!»
I
poteri psichici di Umbreon sollevarono in aria il piccolo Piplup, per
poi farlo cadere in acqua. Lucinda perse una buona quantità
di
punti.
«Non
facciamoci scoraggiare, Piplup! Mulinello!»
Il
piccolo Pokémon pinguino generò un gigantesco
vortice d’acqua,
che intrappolò l’avversario. Umbreon sarebbe
affogato se il suo
allenatore non avesse reagito.
«Umbreon,
liberati! Usa palla ombra!»
Il
Pokémon lanciò il potente attacco di tipo
spettro. Le intenzioni
del suo coordinatore erano quelle di bucare la coltre
d’acqua. Cosa
che riuscì solo parzialmente. L’attacco venne
deviato verso l’alto
dalla rotazione dell’acqua, non colpendo nessuno, ma
esplodendo
semplicemente. Facendo perdere pochissimi punti alla sua avversaria.
Lucinda, capendo le intenzioni avversarie, decise di rendere la vita
difficile al suo avversario.
«Piplup,Perforbecco!»
Il
piccolo Pokémon si lanciò a gran
velocità contro il nemico, mentre
il suo becco roteava. Superò agilmente la coltre
d’acqua e colpì
l’Umbreon nemico. Facendolo cadere in acqua. Il suo
coordinatore
perse diversi punti.
Se
voleva vincere, doveva reagire. Solo che non aveva la minima idea di
come fare. Sembrava che qualsiasi mossa facesse, la sua avversaria
avesse la risposta pronta. Forse doveva improvvisare? Il tempo
scorreva. Inesorabile. Ed era il suo turno. Altri cinque secondi e
avrebbe perso metà dei suoi punti.
«Umbreon
usa…»
Prima
che potesse impartire l’ordine, il tempo massimo consentito
per
ordinare un attacco era trascorso. E il coordinatore si era preso un
cartellino giallo. Ora non aveva praticamente alcuna speranza di
vittoria. In più, avendo perso il turno, ora toccava alla
sua
avversaria.
«Piplup,
forza, usa Bollaraggio!»
Una
coltre di bolle si stava giungendo contro l’Umbreon nemico.
Il suo
coordinatore doveva reagire. O avrebbe perso.
«Umbreon
Psichico. Sulle Bolle!»
Il
Pokémon di tipo buio concentrò i suoi poteri
psichici sulle bolle,
cercando di rispedirle al mittente.
«Piplup,
difenditi con Mulinello!»
Il
piccolo Pokémon pinguino generò nuovamente un
grosso vortice
d’acqua, che, non solo lo aveva protetto dalle bolle, ma
aveva
anche colpito l’Umbreon nemico. Facendo perdere gli ultimi
punti al
suo coordinatore.
«La
vincitrice della Coppa Adriano, per la sesta volta consecutiva,
è
Lucinda!»
Al
centro dello schermo, segnapunti, per un attimo, non apparve il suo
volto, ma quello strano simbolo rosso a forma di occhio. Nessuno
sembrò notarlo. Ma tutti si accorsero del fatto che Lucinda
era
svenuta.
Quando
la ragazza riaprì gli occhi si trovava in un ospedale, nella
vicina
città di Kushiro.
La prima cosa che vide, a dir il vero, fu il soffitto della
stanza.
Un
soffitto bianco con una lampada al neon al centro. Sentì la
voce di
una donna.
«Lucinda?
Cosa ti è successo? Ricordi qualcosa?»
La
ragazza non rispose.
«In
ogni caso, per precauzione, passerai la notte qui.»
Appena
Lucinda si accorse che la donna se n’era andata, scese dal
letto e
prese il suo computer portatile. Le dita delle sue mani si mossero
come indemoniate. In quel momento non era la ragazza a
controllarle.
Aveva
fatto tutto quello che doveva. Rimise il suo computer nella borsa e
la prese. Doveva uscire da quel posto, ma non poteva di sicuro farlo
da una tradizionale porta. La sola via di fuga era la finestra. Con
tutti i rischi del caso. La ragazza si alzò dal letto e si
avvicinò
alla finestra. Guardando verso il basso si accorse di come non fosse
poi così in alto. Era al secondo piano e, poco lontano dalla
finestra c’era il tubo di scarico dell’acqua
piovana. La strada
su cui dava quella finestra era poco trafficata. Per cui aveva ottime
probabilità di successo.
Aprì
la finestra e si aggrappò al tubo. Lentamente era scesa fino
a
terra. Ora avrebbe dovuto raggiungere la stazione dei treni. Cosa che
sicuramente non poteva fare a piedi. Farlo avrebbe significato
perdere troppo tempo. E per lui il tempo era prezioso. Ogni secondo
poteva fare la differenza.
Al
Kadic era l’ultima terminata l’ultima ora di
lezione della
settimana. Per il lunedì, gli studenti di seconda superiore
avevano
un compito assegnato dalla professoressa Hertz. Fare delle ricerche
su un Pokémon selvatico incontrato. A propria scelta.
Volendo era
possibile fare un lavoro di gruppo, anche se in quel caso la
professoressa si era raccomandata di non far fare il lavoro solo a
una persona.
Jeremy,
Odd, Aelita e Ulrich avevano fatto gruppo, ovviamente, ma ancora non
avevano deciso su che specie concentrarsi. A separare il collegio dal
mondo esterno c’era un boschetto, popolato da diverse specie
di
Pokémon. Sceglierne solo una era davvero difficile. Gli
amici
stavano discutendo su chi scegliere, quando qualcosa attrasse
l’attenzione di Aelita.
La
vide appena di sfuggita, dirigersi verso il boschetto.
«Avete
visto?»
Davanti
al gruppo qualcosa passò molto rapidamente. Talmente
rapidamente da
risultare quasi invisibile.
«Cosa?»
Le
risposero i tre.
«Non
so, penso sia un Pokémon, ma non credo di averlo mai visto
prima.»
Rispose la ragazza.
«Credo
che potrebbe essere il soggetto ideale per la ricerca.»
Le
rispose Jeremy.
«Me
lo sapresti descrivere? Così posso iniziare a fare uno
schizzo.»
«Pensi
che abbia un modo particolare di lottare?»
A
chiederlo Odd e Ulrich.
«Non
ne ho la più pallida idea. Ma direi di iniziare a seguirla.
Qualsiasi cosa sia.»
I
quattro si alzarono e si diressero verso il boschetto. Non si
accorsero in alcun modo di essere seguiti.
Fecero
in modo di essere il più silenziosi possibile. Non volevano
di
sicuro spaventare quella misteriosa creatura. Qualsiasi cosa fosse.
Erano talmente presi dal non accorgersi di essere seguiti. Ash era
riuscito a convincere la sua ragazza di aver visto una strana
creatura e di volerla esaminare. La ragazza, sebbene riluttante,
aveva accettato. La sua convinzione era aumentata quando si era
accorta di come Ash non fosse stato il solo ad accorgersene.
Si
erano fermati al confine di una radura. Al centro della quale vi era
un tombino. Uguale in tutto e per tutto a quelli che si trovano nelle
strade. Solo che si trovava totalmente fuori luogo. O almeno lo era
per Ash e Serena. Per gli altri quattro quel tombino voleva dire
solamente una cosa. Doversi difendere da uno degli attacchi di Xana.
Quel tombino era solo uno dei possibili accessi alla vecchia fabbrica
in cui si trovava il Supercomputer. Ma, tra tutti, era quello che
avevano usato di più.
La
creatura, guardandosi intorno non si accorse di nessuno e aveva
ripreso il suo aspetto. Quello di una
creatura del corpo chiaro e snello, nero dal collo alla vita. Questo
dava l'impressione che la creatura indossasse un abito, raccolto in
vita con una fascia. I lunghi capelli, che erano raccolti da un
fermaglio nero, ricordavano uno spartito, mentre le braccia avevano
la forma di note musicali. Indossava un piccolo diadema sulla fronte,
portava i capelli sciolti e aveva gli occhi azzurri. E in mano aveva
un mazzo di fiori.
La
creatura, utilizzando i suoi poteri psichici sollevò il
tombino e si
infilò nelle fognature. Poi lo richiuse. I quattro
aspettarono
qualche istante, poi si calarono anche loro nelle fognature.
«Oh,
proprio come ai vecchi tempi.»
Commentò
Odd, in tono ironico.
«Avrei
preferito non averci più a che fare.»
Gli
rispose Ulrich, tappandosi il naso, per difendersi dal terribile
odore delle fognature. Jeremy e Aelita non dissero nulla. Nonostante
non si calassero nella fognatura da tempo immemore, avevano lasciato
lì monopattini e skateboard. Portarli fuori sarebbe stato
inutile.
Erano ormai vecchi, e non avrebbe avuto senso tirarli fuori.
Nonostante questo, riuscivano ancora nel loro scopo. Velocizzare la
traversata delle fognature.
Dopo
aver percorso la tratta, che nel corso degli anni precedenti, avevano
imparato a conoscere a memoria, giunsero finalmente
all’esterno. Il vecchio edificio, una ex fabbrica della
Renault,
abbandonata da anni, non era cambiata di una virgola dalla loro
ultima visita. I quattro attraversarono il ponte e giunsero
all’ingresso dell’edificio. Come da tradizione si
appesero alle
corde come se fossero liane e giunsero al piano terra. Percorsero la
breve strada che li separava dal montacarichi e appena vi furono
dentro, Aelita premette il bottone. La porta meccanica si chiuse e,
lentamente, il montacarichi scese. Erano giunti nella sala
del
terminale del supercomputer. Senza trovare tracce della creatura.
Ripresero il montacarichi e scesero fino alla sala scanner.
Qui
la videro, mentre stava depositando il mazzo di fiori di fronte allo
scanner centrale.
Appena
si accorse della loro presenza, cambiò totalmente aspetto.
La
capigliatura passò dall’essere sciolta e verde a
raccolta e
arancio. Dello stesso colore gli occhi, il diadema e la fascia in
vita, il vestito si era trasformato, ricordando un tutu. Voleva
essere pronta a lottare, tuttavia nessuno dei quattro, sembrava
avesse intenzioni bellicose. Come se tutti tenessero particolarmente
a quel luogo.
Poco
dopo l’allontanamento dei quattro ragazzi, Ash e Serena
stavano
discutendo sul da farsi.
«Cosa
ne pensi? Gli seguiamo?»
«Come
vuoi. Ma almeno siamo sicuri di non esserci presi una cantonata?»
«Sicuro.
Ti assicuro che è davvero Meloetta. È un
Pokémon molto raro. Tempo
fa ne ho incontrato un esemplare negli Stati Uniti. Che sia lei?»
Ash
aveva raggiunto il tombino al centro della radura e si era
inginocchiato, per sollevarlo.
«Sicuro
che siano entrati qui dentro?»
«Non
possono essersi teletrasportati.»
Ash
sollevò, con fatica, la lastra di ferro, e venne accolto da
un odore
pestilenziale. Dopotutto erano sempre le fogne.
«E
tu vuoi entrare la dentro? Sei folle.»
«Vuoi
farti sfuggire un’occasione del genere?»
Il
ragazzo aveva percorso l'intera scaletta, e si trovava sul
marciapiede laterale. Guardando attentamente si era accorto di come,
poggiato alla parete, ci fosse uno skateboard.
Serena
si sentì costretta a seguirlo. E anche lei aveva notato lo
skate.
Aveva anche notato che, sul legno della tavola, erano dipinte due
lettere. “Y I”. La ragazza pensò che
fossero le iniziali del
proprietario o della proprietaria dello skate.
Non
ci fece più di tanto caso.
«E
ora dove andiamo?»
Ash
si guardò attorno. E notò, nella parete
dov’era poggiato lo skate
una freccia dipinta con una bomboletta spray, che puntava proprio
davanti a loro. Sul marciapiede erano visibili le tracce degli skate
e dei monopattini.
«Seguiamo
quella freccia. Male che vada torniamo indietro.»
La
ragazza, riluttante, lo seguì. Ok che stavano insieme, ma a
volte
Ash aveva delle idee alquanto strane.
I
due proseguirono nella camminata, fino a raggiungere la fine della
fognatura. Sulla parete erano poggiati due monopattini e due skate.
Su uno degli skate, in maniera simile a quello trovato
all’ingresso
della fognatura, solo che in questo vi erano scritte le lettere
“U
S”. La fognatura terminava con una griglia che
separava la
fognatura dalla Senna. Il fiume che attraversava Parigi. Lì
stesso
doveva esserci un tombino aperto, che permetteva di risalire.
Contrariamente a quella precedente, in questa i gradini partivano da
più in alto. Ash si offrì di fare da scaletta per
permettere alla
sua ragazza di salire e di tornare a respirare aria pulita. Poi
salì
anche lui.
Si
trovavano poco davanti a un ponte di ferro che conuceva a una
fabbrica abbandonata. La scritta Renault, in nero era scolorita.
Quell’edificio doveva essere abbandonato da molti anni.
Guardandosi
attorno i due si accorsero di quanto lontano si trovassero dal
collegio. Da quel ponte erano appena visibili i tetti dell'edificio.
Si erano avviati all’interno della fabbrica. La scala che un
tempo
permetteva un facile accesso al piano inferiore era caduta
chissà
quanti anni prima. Ash notò delle corde di metallo
dall’aria
robusta.
«Che
ne pensi? Vuoi provare emozioni forti?»
Le
propose Ash, cercando di non ridere.
«Sicuro
che reggano? Sono più vecchie di Matusalemme!»
Gli
rispose la sua ragazza, che, come spesso accadeva, faceva la voce
della ragione.
«Hai
ragione, meglio cercare un’alternativa.»
I
due percorsero il ballatoio, alla ricerca di una seconda scala.
Intanto poterono osservare l’interno della fabbrica. Che, per
certi
versi ricordava una discarica. Carcasse di auto, lattine e bottiglie
di birra, pneumatici, rifiuti elettronici, materassi, lastre di
eternit e quant’altro.
«Possibile
che un Pokémon raffinato ed elegante come lei faccia visita
a un
posto così rosso e sporco?»
«Hai
detto che aveva un mazzo di fiori? Magari ha perso un amico o
un’amica qui e, avendo assimilato dagli esseri umani la
tradizione
di portare dei fiori. Sai, potrebbe essere interessante per la nostra
relazione.»
Ash
fece un semplice cenno di approvazione. La sua attenzione era
focalizzata sulla scala che conduceva al piano terra. Sembrava
abbastanza solida. I due scesero al piano terra. Dando uno sguardo
generale, non trovarono alcuna traccia di Meloetta. Erano giunti
davanti alla struttura del montacarichi. Poiché
quest’ultimo si
trovava a un piano inferiore, era possibile guardare
all’interno
della tromba. Erano ben visibili i cavi che reggevano il montacarichi
e sembravano ben tesi. Ash si stava sporgendo all’interno
della
tromba.
«Ash,
cosa fai? Sei matto?»
Ash
non le rispose.
«Sembra
che l’ascensore non sia precipitato.»
Aggiunse
la ragazza.
«E
allora chiamiamolo.»
Ash
premette il pulsante per chiamarlo. Certamente non si aspettava che
funzionasse. Quella fabbrica era abbandonata da moltissimi anni. Non
c’erano motivi per cui doveva esserci la corrente.
Il
rumore di un vecchio motore elettrico ruppe il silenzio
dell’edificio.
I
quattro al secondo piano interrato si accorsero del rumore.
«Che
succede?»
Si
chiese retoricamente Odd. tutti avevano sentito il rumore
dell’ascensore.
«Sarà
Yumi. Magari non trovandoci a scuola o all’Hermitage,
avrà pensato
di cercarci alla vecchia fabbrica.»
Gli
rispose Jeremy. Con il suo solito fare razionale.
«Si,
può essere.»
Il
montacarichi era salito al piano terra. Ash e Serena ci salirono
dentro. Quindi il ragazzo premette il pulsante per scendere. Una
serranda di metallo si abbassò e, molto lentamente
l’ascensore
giunse al primo piano interrato. La serranda si alzò,
facendo spazio
a una porta meccanica, che si aprì. Balzò agli
occhi di entrambi
come quella porta stonasse con l’edificio. Era troppo
moderna. Ma
quel pensiero durò ben poco. La stanza in cui erano entrati
ricordava un film di fantascienza. Era illuminata da delle deboli
luci al neon di colore verde e interamente rivestita di pannelli
metallici.
Al
centro della stanza si trovava una strana apparecchiatura. Il suo
aspetto intimoriva. Ricordava un braccio meccanico. Con le travi di
metallo a fare da scheletro e i cavi a fare da muscoli.
Accanto
a questa apparecchiatura, sul pavimento vi era una sorta di
pedana.
Poco
lontano dallo schermo si trovava una poltrona. Era posata su una
piattaforma girevole, a sua volta posata su una sorta di monorotaia
che portava la poltrona fino al monitor.
Ash
guardava quell’attrezzatura con occhi sognanti. Avrebbe
potuto
esaminare quelle attrezzature per ore. Ma non poteva dimenticare il
motivo per cui erano lì.
I
ragazzi, al piano inferiore, si accorsero di come il montacarichi non
era giunto nella sala degli scanner, ma si era arrestato
prima.
«Non
credo che sia Yumi. Se fosse stata lei, sarebbe scesa subito qui,
qualora non ci avesse trovati nella sala del supercomputer.»
Tutti
guardano Aelita. Aveva effettivamente ragione. Non poteva essere la
loro amica. Ma se non era lei, allora chi era?
Al
piano di sopra, dopo le notevoli insistenze della ragazza, Ash aveva
accettato di continuare a cercare Meloetta. I due erano saliti nel
montacarichi. Diretti al piano inferiore. Ash aveva alte aspettative
su quello che avrebbe potuto trovare al piano inferiore.
Il
montacarichi ci mise diverso tempo per scendere al piano inferiore.
La serranda si sollevò e un’altra porta meccanica,
simile a quella
precedente, si aprì.
Ash
non si accorse della presenza dei quattro ragazzi e di Meloetta, che
era passata alla forma Danza. Il suo sguardo era posato tre
dispositivi metallici che ricordavano dei sarcofagi. O delle cabine
doccia. Erano aperte e realizzate in metallo dorato. Dalla parte
superiore dei dispositivi partivano degli enormi fasci di cavi che
andavano verso l’alto. Verso la stanza dove si trovava quello
strano dispositivo.
Ash
sentì una mano fermarlo. Era la mano di Serena.
«Non
ti sei accorto di nulla?»
Gli
disse sottovoce. Per non farsi sentire. Tutti e quattro i ragazzi si
erano girati verso Ash e Serena.
«Posso
spiegare…»
Ash
cercò di difendersi. Ma come poteva? Era entrato in una
proprietà
privata, e di sicuro nessuno gli aveva dato il permesso di farlo.
La
sua ragazza prese le redini della situazione.
«Abbiamo
visto Meloetta e l’abbiamo seguita. Immagino come voi. Quindi
siamo
sulla stessa barca. O almeno credo. Solo che…»
«Solo
che?»
Le
chiese Aelita.
Meloetta,
sentendosi chiamata in causa, era diventata invisibile.
«Solo
che sembra che voi conosciate questo posto. Abbiamo visto dei
monopattini e degli skate poggiati contro la parete. E abbiamo visto
delle tracce per terra.»
Ash
non aveva mai visto quel lato da investigatrice della sua
ragazza.
«Ok.
Ci avete scoperto.»
Jeremy
rispose alla ragazza.
I
quattro amici si scambiarono uno sguardo d’intesa. Ash e
Serena non
si accorsero di nulla.
«Venite
con noi.»
Gli
invitò Aelita.
I
sei salirono sull’ascensore. Diretti a un piano ancora
più
interrato. Dopo un tempo che pareva infinito, i sei si trovavano nel
terzo piano interrato della fabbrica.
Appena
la porta di protezione si aprì, dal terreno uscì
una sorta di
struttura costituita da una piattaforma circolare alta una sessantina
di centimetri e da un cilindro alto circa due metri al centro di
esso.
Il
tutto era di colore verde scuro e rivestito da svariate placche in
oro. Appena uscito dal pavimento, del liquido di raffreddamento
colò
dal dispositivo.
«A
te l’onore.»
Jeremy
si riferiva ad Aelita, che, come gli altri, era scesa dal
montacarichi, e si era, quasi istintivamente, avvicinata allo
strano dispositivo verde e oro. Permette un pulsante sul corpo del
dispositivo. Lo sportellino si aprì e ne uscì un
interruttore a
leva. Aelita chiuse gli occhi e abbassò la leva.
Dopo
qualche istante il rivestimento dorato iniziò a brillare,
quindi il
dispositivo tornò nelle profondità della fabbrica.
Ash
e Serena si scambiarono uno sguardo che valeva più di mille
parole.
Quello che stavano vedendo era la realtà o un sogno?
Cos’erano
tutti quei dispositivi? Come potevano quei quattro conoscere tutti
quei segreti?
I
quattro risalirono sul montacarichi. Ulrich fece segno ai due di
seguirli. Il montacarichi risalì fino al primo piano
interrato. Ora
la stanza era illuminata dagli schermi della postazione di controllo.
Il dispositivo aveva appena terminato di caricare il sistema
operativo del Supercomputer.
Jeremy
si accomodò sulla poltroncina, che percorse la distanza fino
alla
postazione di controllo. Gli altri cinque lo seguirono. Il ragazzo
fece girare la poltroncina nella loro direzione. Quindi
iniziò a
spiegare.
«In
questa vecchia fabbrica si trova un supercomputer che al suo interno
cela un mondo virtuale chiamato Lyoko, al quale si accede tramite
quei dispositivi che si trovano al piano di sotto.
All’interno
del supercomputer e poi nella rete risiedeva una pericolosa
intelligenza artificiale chiamata Xana. Aveva il potere di
controllare qualsiasi cosa riguardasse
l’elettricità e il
suo obiettivo era ucciderci per poter conquistare il mondo. Attaccava
sulla Terra attraverso degli spettri polimorfi…»
«Hai
detto spettri?»
Il
tono di Serena era spaventato. Poteva accettare mondi virtuali,
intelligenze artificiali con istinti omicidi, supercomputer
all’interno di fabbriche abbandonate, ma non che ci fossero
nel
mezzo degli spettri.
«Certo,
come no! E voi pensate che me la beva?»
«Non
ci credi? E allora te lo dimostreremo.»
Il
tono di Odd intendeva lanciare una sfida. Aveva preso le parole del
ragazzo assai sul personale. Tanto da offrirsi per il viaggio nel
mondo virtuale.
«E
va bene. Andate pure alla sala scanner.»
Odd,
Ash e Serena scesero al piano inferiore. La sala degli
scanner.
Il
biondo entrò in uno di essi. Appena Jeremy ebbe la conferma
che il
ragazzo fosse entrato all’interno del dispositivo,
iniziò la
procedura. Una procedura che aveva imparato a conoscere a memoria.
Dagli altoparlanti della stanza era chiaramente udibile la voce del
ragazzo.
«Scanner
Odd.»
Nella
stanza si iniziava a sentire un rumore simile a quello di un
ventilatore. All’interno dello scanner, Odd era stato
sollevato e
scannerizzato da una luce verde. Il supercomputer lo aveva
riconosciuto.
«Virtualizzazione!»
«Si,
come no!»
Commentò
Ash. Non era un tipo avvezzo a queste cose, ma, nel corso del tempo
era diventato un minimo furbo. Anche se, vedendo il dispositivo
riaprirsi, in una nuvola di vapore, dovette ricredersi. Il ragazzo
era scomparso. Provò anche a infilare una mano. Ma niente.
Il
dispositivo era vuoto.
«Se
volete potete anche salire.»
Gli
esortò Jeremy.
I
due seguirono il consiglio del ragazzo e giunsero al piano superiore.
Rimasero entrambi stupiti nel vedere, sullo schermo del dispositivo,
quello stesso ragazzo. Si trovava nel bel mezzo di una foresta. Una
foresta che era palesemente finta. Sembrava fosse uscita da un
videogioco. Il ragazzo, che ora indossava una tuta aderente
principalmente viola e gialla, con diverse caratteristiche che gli
davano un aspetto felino, come la mani, che ricordavano zampe, e la
lunga coda, si trovava nei pressi di una costruzione che,
agli
occhi di Ash e Serena appariva come una gigantesca candela, collegata
al terreno con delle radici scure. In cima, come una fiamma,
risplendeva un alone bianco.
«Quella
è una torre con ripetitore. Se vuoi puoi farti un giro negli
altri
settori di Lyoko.»
Odd
non rispose. Si era già messo in moto, per percorrere la
breve
distanza che lo separava dalla Torre.
«Certo
che senza i mostri di Xana, questo posto è davvero un
mortorio!»
«Dobbiamo
ricordarti il sacrificio per ucciderlo?»
Odd
si stette zitto.
Era
entrato nella torre. Le pareti erano costruite da continui flussi di
dati di colore azzurro. Sul pavimento quello che i quattro avevano
imparato a conoscere come “Occhio di Xana” ma che a
Ash e Serena
appariva semplicemente come un pallino circondato da due
cerchi
concentrici, di un colore tra il bianco e l'azzurrino, dalla cui
parte inferiore del cerchio più esterno partivano tre
stanghette, e,
dalla parte superiore ne partiva una.
Il
ragazzo si era buttato dal bordo della piattaforma e, con un agile
atterraggio, aveva raggiunto la torre successiva.
Vi
uscì e ora si trovava in mezzo al deserto. Anche questo
appariva
innaturale. Ampi spazi colorati di un arancio-rosso, qualche arbusto
secco e delle pietre.
Dopo
qualche passo, il ragazzo entrò nuovamente nella Torre.
Percorrendo
un percorso simile e ritrovandosi ora in mezzo ai ghiacci. I colori
dominanti erano l’azzurro, il bianco e il blu scuro.
Alcune
lastre di ghiaccio virtuale ondeggiavano su dell’acqua
virtuale. Il
ragazzo rientrò di nuovo nella Torre, per l’ultima
volta quel
giorno. E ora si trovava nel settore delle montagne. A dominarlo un
colore violaceo e delle nuvole. Il tutto appariva chiaramente
irrealistico.
Sulla
terra Ash e Serena erano ancora più stupiti. Quei quattro
non
mentivano.
«Bene,
ora, se volete accoglierlo, io avvio le procedure di rientro.»
Ulrich,
Ash e Serena presero il montacarichi, diretti al piano inferiore.
Appena smise di sentire il rumore dell’ascensore
avviò le
procedure di rientro. Il corpo virtuale del ragazzo si stava
lentamente disgregando. Lo scanner centrale si era chiuso. E si
iniziavano a sentire rumori simili a quelli precedentemente
uditi.
Le
porte del dispositivo si aprirono e Odd ne uscì. In una
nuvola di
vapore.
«Avevo
quasi dimenticato che i viaggi virtuali fossero così tanto
traumatici.»
Commentò,
in tono ironico.
Aspettato
qualche istante per farlo riprendere, i quattro salirono di nuovo
nella stanza della postazione del supercomputer.
Jeremy
stava pigiando rapidamente una serie di tasti della tastiera. Le sue
dita danzavano sull’ampia tastiera, ingiallita dal tempo.
«Cosa
stai facendo?»
Gli
chiese Ash.
«Molto
semplice. Farò in modo da farvi dimenticare ogni cosa
riguardo
Lyoko, riguardo la fabbrica, ma anche riguardo a Meloetta.»
«Credo
che questo non lo dimenticherai facilmente.»
Serena
diede un bacio in bocca a Ash, che rimase alquanto stupito.
«Ad
ogni modo.»
Il
tono di Jeremy si fece serio.
«Ritorno
al Passato! Ora!»
Dalla
piattaforma accanto allo schermo uscì una luce bianca
accecante, che
prima avvolse l’intera fabbrica, poi l’intera
Parigi, quindi
tutta la Francia, l’Europa, il pianeta Terra, il Sistema
Solare, la
Via Lattea. L’universo intero.
Per
lui non era un problema. Aveva già trovato la sua vittima e
l’aveva
già posseduta. Avrebbe solo dovuto ripetere
l’esibizione e evitare
di svenire.
Lucinda
aveva vinto la sua sesta Coppa Adriano. O meglio Xana aveva permesso
al suo burattinaio di vincerla. Ma ora doveva essere lui a prendere
le redini della situazione. E doveva farlo nel modo meno traumatico
possibile. La fuga dall’ospedale era stata problematica. Per
raggiungere Sapporo aveva dovuto picchiare una poliziotta e guidare
la sua auto fino alla stazione dei treni. Quella volta avrebbe fatto
le cose più progressivamente. Ma le cose non andarono poi
diversamente. Come se lo svenimento della ragazza non dipendesse da
lui. La ragazza venne caricata in un'ambulanza e portarla in uno
degli ospedali della vicina città di Kushiro.
Doveva
trovare un modo di scappare. O il suo piano sarebbe fallito. Per sua
fortuna, le persone che avevano soccorso la ragazza, avevano portato
i suoi effetti personali. La borsa con i vestiti, il computer
portatile e una stampante portatile.
Durante
la breve permanenza in ospedale, aveva già provveduto a
comprare il
biglietto per il treno diretto a Sapporo e per l’aereo, da
quella
città a Parigi. E a stamparli. Per far fronte a quelle spese
e alle
altissime spese della retta dell’istituto, avrebbe preso il
denaro
dai conti di una multinazionale, coprendoli come spese di gestione e
mantenimento. Per far sì che il suo burattino si trovasse
nelle
migliori condizioni possibili, aveva prenotato i viaggi in aereo in
prima classe. Solo per i voli avrebbe estratto dai conti
dell’azienda
oltre ventisettemila euro. Certo, era in Giappone. La valuta locale
era lo Yen, ma Xana era abituato alla Francia, per cui ragionava con
quella valuta.
Per
non parlare poi delle migliaia di euro mensili per la retta del
collegio. Ma non era un suo problema. Il giorno dopo il suo arrivo,
il preside, il signor Jean-Pierre Delmas avrebbe accolto Lucinda a
braccia aperte.
Ora
però doveva fuggire. E di sicuro non poteva farlo dalla
porta di
ingresso. Saeva che, come in precedenza, la sola via di fuga era la
finestra. Dal momento in cui tutti gli eventi mondiali erano andati
esattamente come prima, si trovava nella stessa stanza. Al secondo
piano. Poco lontano dal tubo di scarico della grondaia. La ragazza
ricoverò Piplup nella Pokéball. Per non avere un
peso morto. La
ragazza, controllata da Xana, usò quel tubo come via di
fuga. E si
trovò nella strada su cui dava il retro
dell’ospedale.
La
notizia dello svenimento della coordinatrice alla Coppa Adriano era
già stata diffusa, tanto dalla televisione quanto dalle
radio.
Percorse una buona distanza a piedi. Osservando attentamente
l’ambiente circostante. Xana, attraverso gli occhi della
ragazza,
aveva notato come una signora di una certa età parlasse con
una
donna dentro una strana berlina. Nera nella parte inferiore, fino a
circa l’altezza della cintura, e da allora bianca. Sul tetto
delle
strane luci.
Aveva
sentito l’anziana ringraziare la donna a bordo
dell’auto. Per cui
aveva deciso di emularla.
Si
avvicinò all’auto bianca e nera.
«Scusi.
Dove Treno?»
«Tu
sei Lucinda? Non dovresti essere ricoverata dopo il tuo svenimento?
Sali che ti riaccompagno.»
La
ragazza, meccanicamente, salì a bordo.
«Dove
Treno?»
«Ti
porto all’ospedale. Domani potrai partire. Oggi è
meglio che tu
stia lì per la notte.»
L’auto
guidata dalla donna iniziò a muoversi. Xana stava osservando
ogni
singolo movimento. Condurre quel mezzo non doveva poi essere
così
complicato. Certo. Per farlo prima doveva liberarsi della persona che
lo stava conducendo. Toccò una spalla della poliziotta, che
cadde
come in un sonno profondo. Ora era al comando delle
operazioni.
Per
prima cosa prese la radio dell’auto. Per comunicare con la
stazione
di polizia. Imitando alla perfezione la voce della donna. In modo
così fedele da non far sospettare nulla alla sua
interlocutrice.
«Dove
treno?»
«Mi
hanno detto che ti dovevi occupare di quella ragazza. Poi, in che
modo parli? Ma lo hai fatto il turno di riposo?»
«Sistemata.
Dove treno?»
«Segui
le indicazioni stradali. E la troverai. Poi, mi raccomando,
riposati.»
La
ragazza seguì le indicazioni. La strada in cui si trovava
sbucava
sulla strada principale. E su quest’ultima si trovavano le
indicazioni per la stazione dei treni. Con qualche scossone,
riuscì
a raggiungerla e a salire a bordo.
Il
viaggio in treno fu tutto sommato tranquillo. Il suo burattino era
arrivato a Sapporo sano e salvo. Con i suoi bagagli.
Approfittò di
un bancomat per prelevare del denaro. Sarebbe servito per pagare il
taxi. Nulla di più facile. Gli bastò toccare il
dispositivo per far
si che vomitasse una grossa quantità di denaro.
La
ragazza raccolse sino all’ultima banconota.
Ora
era fuori dalla stazione. Trovare un taxi nei paraggi non fu
difficile. Anzi. Aveva semplicemente l’imbarazzo della
scelta. Ne
scelse uno tra i tanti. Il tassista, un uomo sui
quarant’anni,
prese la sua borsa e la mise nel cosano. Quindi aprì la
porta alla
ragazza. E la chiuse non appena ella e il suo Piplup
entrarono.
«Oh,
ma lo sai, una giovane coordinatrice con un piccolo Piplup hanno da
poco trionfato alla Coppa Adriano! Deve essere stato emozionante.»
La
ragazza non rispose. Piplup fece un cenno di orgoglio.
«In
ogni caso… dove la porto?»
«Aeroporto.»
La
laconica risposta della ragazza bastò all’uomo,
che l’accompagnò
fino all’aeroporto. Ricevendo un compenso ben
maggiore di
quello necessario.
La
ragazza riprese la borsa. Al suo interno anche il biglietto aereo per
la lunghissima tratta Sapporo Parigi.
Aveva
ancora del tempo. Si guardò attorno e si accorse di come
ogni
persona avesse dei vestiti diversi. Anche persone di età
sovrapponibili, mentre il suo burattino aveva ben pochi cambi.
Visitò
diversi negozi dell’aeroporto. Comprò diversi
pantaloni, svariate
gonne, biancheria, magliette, giacche, accessori. Oltre che delle
valigie. Con il biglietto pagato aveva diritto a trentadue
chilogrammi di bagaglio. E voleva sfruttare fino all’ultimo
grammo.
Cosa che riuscì alla perfezione.
Aveva
superato tutti i controlli del caso ed era salita a bordo del Boeing
777. In prima classe. Ovviamente. La prima classe era occupata da
uomini e donne d’affari, con delle voluminose
ventiquattr'ore.
Accorgendosi del fatto che era la sola ad avere un Pokémon e
che
questo avrebbe potuto causare dei problemi, decise di ricoverare
Piplup nella Pokéball. Lo avrebbe fatto uscire solo
all’aeroporto
di Tokyo, dopo poco più di un’ora e mezza di volo.
Qui avrebbe
dovuto attendere circa due ore e mezza. Recuperato il bagaglio,
decise di far uscire Piplup dalla Pokéball. Per permettergli
di
sgranchirsi. Secondo i suoi calcoli era altamente improbabile che in
prima classe vi fossero dei Pokémon. Tuttavia decise di
aspettare
prima di ricoverarlo. Vi era una remota possibilità che
altri
allenatori lasciassero i loro Pokémon fuori dalla
Pokéball.
Questa
remota possibilità si avverò. Altri allenatori,
nella prima classe
di quel Boeing 747 avevano lasciato i loro Pokémon
liberi.
Potè
così lasciare Piplup libero, senza doverlo far entrare nella
Pokéball. Il viaggio era lunghissimo, quasi
quindici ore.
Per fortuna, nel costoso biglietto, il cibo, sia per gli allenatori
che per i Pokémon, era compreso. Xana doveva assicurarsi che
il suo
burattino stesse bene. E nutrirsi era un buon modo per farlo.
Passò
una buona parte del viaggio dormendo. Si svegliò giusto
prima
dell’atterraggio. In Germania, a Francoforte sul
Meno.
Anche
qui avrebbe dovuto attendere poco più di due ore. Ma ehi!
Era
arrivato in Europa! E il suo burattino era in perfetta salute.
La
gente, in Germania, non aveva riconosciuto la famosa coordinatrice
giapponese. Il che era un bene, per Xana. la ragazza si diresse a un
bancomat, dove, come aveva fatto in precedenza, fece sì che
erogasse
una grossa quantità di denaro. E
Euro.
Una valuta che ben conosceva.
Si
accorse di come molte persone si stavano dirigendo verso un locale,
dove servivano del cibo. Così Xana decise di fare lo stesso.
Aveva
ancora del tempo. E se tutte quelle persone andavano a mangiare,
voleva dire che era ora di farlo.
Dopo
aver mangiato era finalmente il momento di prendere il terzo e ultimo
volo di giornata. Questa volta in classe business, su un Airbus A321.
Poco male. Il volo sarebbe durato poco. Meno di un'ora e
venti.
Arrivata
nella capitale francese, ora la sua preoccupazione era trovare un
alloggio. Preoccupazione che durò poco.
Nell’aeroporto, un
servizio navetta poteva portare i passeggeri dei voli a un alloggio
notturno. Una sorta di bed and Breakfast. Per sua fortuna servivano
la colazione sin dalla mattina presto, per cui avrebbe potuto
raggiungere il collegio in un orario decente. E permettere alla
ragazza di essere accolta simbolicamente tra le braccia del signor
Jean Pierre Delmas. E poi tra quelle dei suoi nemici.
Il
viaggio temporale si era sentito anche in Francia. Il tempo si era
riavvolto fino alla ricreazione. Poco prima dell’inizio della
lezione della professoressa Hertz.
Aelita,
Odd, Jeremy, Ulrich e Yumi si trovavano ai distributori automatici.
Stavano approfittando della pausa per bersi un cappuccino.
«Pensate
che non me ne sarei accorta?»
Il
tono di Yumi era arrabbiato.
«Credimi,
Yumi, era fondamentale. Avevano scoperto la vecchia fabbrica. E
dovevamo proteggere il nostro segreto.»
Le
rispose Jeremy.
«Chi
vi ha scoperto?»
«Ash
e Serena. I due nuovi arrivati. La Hertz ci assegnerà un
compito,
una ricerca su un Pokémon selvatico a nostra scelta. Presto
apparirà
un Pokémon molto raro, e noi lo seguiremo. Tuttavia Ash e
Serena ci
seguiranno.»
Le
spiegò Jeremy.
«Quindi
vuoi che li distragga?»
«Lo
faremo insieme. Proporremo loro una lotta in doppio, così
Jeremy,
Odd e Aelita potranno occuparsi di quel Pokémon.»
«Accetto,
soprattutto perché voglio vedere se Ash è
così forte come dicono.
Ma fate attenzione. Passate dall’Hermitage e non dal bosco.»
«Certo.»
La
lezione della professoressa Hertz si era svolta. Esattamente identica
a com’era avvenuta in precedenza. La professoressa aveva
assegnato
esattamente lo stesso compito. Con le stesse identiche
modalità.
Puntuale
con un orologio svizzero Meloetta apparve. Con lo stesso mazzo di
fiori.
Jeremy,
Odd e Aelita avevano raggiunto l’Hermitage. La casa dove
Aelita
aveva vissuto gli ultimi anni della sua vita precedente. La villa
presentava un collegamento con la fognatura che portava alla
fabbrica.
Ulrich
e Yumi avevano visto Ash e Serena vicino a loro.
Il
ragazzo, che aveva un minimo di confidenza con Ash, si
avvicinò a
quest’ultimo. Era seduto su una panchina accanto a Serena.
«Ciao
Ash. Che ne dici di una lotta?»
«Perché
no?»
«Non
ti dispiacerebbe una doppia? Sai io e Yumi siamo i campioni
scolastici di lotte in doppio.»
«Si,
cosa ne pensi?»
«Ash,
ti devo ricordare del compito?»
«Anche
io lo devo fare. Eppure sono qui. Vi ricordo che è solo
venerdì,
abbiamo tempo fino a domenica sera.»
Il
ragazzo fu abbastanza convincente.
Le
due coppie si trovavano in uno dei campi lotta della scuola. Pronti a
schierare i loro Pokémon.
Intanto
i quattro avevano raggiunto la villa abbandonata. Avrebbero
attraversato a piedi la fognatura e raggiunto la vecchia fabbrica.
Come
in precedenza giunsero al piano terra con le corde metalliche e
scesero direttamente nella sala scanner. Dove Meloetta aveva
depositato il mazzo di fiori. Come prima di fronte allo scanner
centrale.
Aelita
la guardò, mentre depositava quei fiori. E, nella sua mente
riaffiorarono dei ricordi. Ricordi degli ultimi anni della sua vita
precedente. Quando il Darkrai, amico di suo padre, molto spesso era
in compagnia di un Pokémon simile a Meloetta. Per via di
tutto
quello che era accaduto nella precedente linea temporale, non aveva
avuto occasione di dirlo.
«Ho
avuto come una visione.»
Spiegò
ai due ragazzi. Entrambi erano stupiti. A cosa si riferiva?
«Vedete.
Mi sono come ricordata di come, nella mia vecchia vita…
Darkrai era
spesso in compagnia di un Pokémon simile a lei. Sono passati
degli
anni, sono successe tante cose.»
Meloetta
fece un segno di approvazione. La ragazza aveva capito perfettamente
ciò che cercava.
«Capisco
benissimo come ci si sente a perdere qualcuno che ti sta vicino. Mio
padre è morto qualche mese fa e mia madre è
scomparsa.»
La
ragazza era in lacrime.
Tutti
cercarono di consolarla. Jeremy e Odd le avevano promesso che
avrebbero fatto il possibile per trovare sua madre. E ovviamente lo
stesso si poteva dire di Ulrich e Yumi. Non erano lì con
loro, ma
era chiaro come il Sole che per un’amica avrebbero fatto di
tutto.
Qualche
ora dopo, i ragazzi si trovavano in mensa, per la cena.
«Non
hai una bella cera.»
Ulrich
si stava rivolgendo da Aelita. La ragazza aveva uno sguardo triste e
puntato verso il basso.
«Hai
presente Meloetta?»
«Si?»
«Ecco.
Il motivo per cui si trovava alla vecchia fabbrica mi ha fatto
pensare. Mi sono rivista molto in lei.»
«Puoi
spiegarti?»
«Mi
sono ricordata di come avesse un rapporto molto speciale con un
Darkrai che viveva nei pressi dell’Hermitage. E ora crede che
sia
scomparso. Vederla mi ha fatto pensare a quanto anche a me manchi
qualcuno.»
«Per
te, faremo qualsiasi cosa.»
Trattenendo
a fatica le lacrime, la ragazza abbozzò alcune parole.
«Sono
felice di poter contare su di voi.»
Angolino
dell’autore:
Volevo
fare solo tre precisazioni per chi di lavoro mette i puntini sulle
“i” degli altri, perché anche io so
essere fastidiosamente
preciso:
1)
Per praticità, userò, come hanno del resto fatto
nel doppiaggio
italiano di Code Lyoko, i gradi della scuola italiana.
2)
Ho scelto di usare l’universo narrativo di Code Lyoko per due
motivi. Banalmente lo conosco meglio (essendo letteralmente il mondo
reale) e in secondo luogo perché è più
facile giustificare
l’esistenza dei Pokémon in questo universo,
piuttosto che
giustificare due guerre mondiali e la Guerra Fredda nel mondo
Pokémon.
3)
Ci saranno dei piccoli compromessi sulla provenienza di alcuni
personaggi (Serena sarà francese, Ash e Lucinda
giapponesi).
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Capitolo 2 *** Il bacio ***
Il
bacio
Era
andato tutto secondo i suoi piani. Si trovava proprio
all’ingresso
dell’istituto. Un grosso cancello di ferro dipinto di nero
che dava
su una strada.
Ai
lati del cancello un muretto sovrastato da un’alta ringhiera
dello
stesso materiale del cancello.
In
fondo, oltre il parco, pieno di alberi, erano visibili gli edifici
del collegio.
Xana
sapeva che da lì a poco sarebbe arrivato qualcuno,
che avrebbe
accompagnato la ragazza. Era sabato e non c’erano lezioni,
tuttavia, dato che il prestigioso collegio attirava studenti da ogni
parte della Francia, era possibile, pagando una retta leggermente
maggiore, soggiornare anche la notte del sabato.
Xana
avrebbe sfruttato quella possibilità.
Dopo
non molto tempo arrivò il professor Jim Morales, professore
di
educazione fisica, coreografo Pokémon e guardiano della
scuola,
giunse nei pressi del cancello.
Agli
occhi della ragazza apparve un un
uomo di circa quarant'anni, alto circa uno e settantacinque, di
corporatura robusta, vestito con una maglietta rossa, una canadese
grigia e delle scarpe da ginnastica.
I
capelli, castano scuro, erano trattenuti da una bandana bianca.
In
faccia aveva un cerotto, probabilmente messo lì per
nascondere un
taglio fatto con il rasoio.
«E
così tu saresti Lucinda? La nuova
studentessa?»
«…»
«Meowth
ti ha mangiato la lingua?»
«…»
«Sappi
che sono stato un dentista, sono specialista nel tirare fuori le cose
dalla bocca delle persone!»
«…»
«Ok,
capisco, può essere che non ti senta ancora a tuo agio qui.
Vieni da
molto lontano?»
La
ragazza fece segno di sì con la testa.
«Capisco.
Adesso ti accompagno alla tua stanza e ti spiego le regole. Va
bene?»
La
ragazza fece cenno di sì con la testa.
I
due stavano percorrendo il vialetto che dall’ingresso
conduceva ai
palazzi dell’istituto.
Il
professore aveva sollevato la valigia della ragazza, e si era ben
presto reso conto di averne sottostimato il peso.
Ma
non poteva permettersi una figuraccia davanti a una sua futura
alunna.
Ash
era nella stanza che condivideva con Jeremy.
Anche
se in quel momento il ragazzo non era presente.
Jeremy
gli aveva detto che sarebbe andato in biblioteca a ripassare per la
ricerca e lui se l’era bevuta.
Serena,al
contrario del ragazzo aveva deciso di iniziare la sua ricerca sul
campo. Ash l’avrebbe raggiunta dopo non molto.
Il
ragazzo era visibilmente preoccupato.
Aveva
saputo della vittoria della sua amica alla prestigiosa Coppa Adriano,
e aveva provato numerose volte a contattarla per congratularsi con
lei. Ma, per quante volte ci provasse, il risultato era lo stesso.
Nessuna
risposta. Preoccupato che le fosse successo qualcosa, aveva deciso di
mettersi in contatto con la madre dell’amica, Olga.
La
donna rispose praticamente subito.
«Oh,
ciao Ash! Come stai? Immagino che tu mi abbia chiamato per
Lucinda.»
«Si,
tutto bene. Esatto. Ho chiamato per lei. Ho saputo che si è
sentita
male dopo la Coppa Adriano e ho provato a contattarla per sapere come
stava, ma non mi ha risposto. E mi sono preoccupato per
lei.»
«Capisco.
So che ci tieni tantissimo a lei. Siete come fratello e
sorella.»
Ash
cercò di camuffare un sorriso.
«Comunque
non ho nemmeno io tante notizie su di lei, so dirti che nemmeno Vera
e Zoey sono riuscite a contattarla.
Zoey,
che stava assistendo alla Coppa mi ha detto che dopo che è
stata
male l’hanno ricoverata in ospedale.
Voleva
andare a trovarla, per chiederle come stava. Ma, quando le hanno
permesso di entrare, la sua stanza era vuota e la finestra
aperta.»
«È
scappata?»
«Così
sembra. Aspè… »
Mentre
i due parlavano, Pikachu aveva come sentito un odore familiare. Si
allontanò dal ragazzo e saltò per aprire la
porta. A poca distanza
dalla porta una ragazza dai lunghi capelli blu, seguita da un Piplup.
Pikachu
aveva riconosciuto l’amico. E gli fece un cenno di saluto. Al
quale
il Pokémon pinguino rispose.
Ma
la sua allenatrice no. Cosa strana. Ash si era sporto dalla porta e
aveva visto la scena.
Non
aveva ancora chiuso la chiamata con la madre dell’amica.
«Lei
è qui.»
«Qui
dove?»
Gli
chiese la donna.
«All’istituto
Kadic, in Francia. Però… mi è sembrata
strana.»
«Strana?»
«Non
ha salutato Pikachu, quando è sempre stata affettuosa con
lui e si
muoveva come un soldatino. Non lo so spiegare.»
«Almeno
so dove si trova. Non ho idea di come sia finita lì, ma il
fatto che
sappia dove si trova mi fa stare meglio. Per il resto, non so
spiegarmi perché sia diventata così,
ma… tienila d’occhio e
avvisami. Ci sentiamo più tardi.»
«Va
bene. Arrivederci.»
Jim
aveva accompagnato la ragazza e il suo Piplup al dormitorio
femminile, al piano superiore. Durante tutto il percorso, il
professore aveva spiegato alla ragazza tutte le regole
dell’istituto.
«Bene,
questa sarà la tua stanza. Dovrai condividerla con
un’altra
ragazza. Ma secondo me andrete d’accordo. Se non doveste
andare
d’accordo, beh, andrete
d’accordo.»
«Bene.»
«Ah,
allora sai parlare! Ora credo che ti convenga scendere in biblioteca
per metterti in pari con gli alti.»
«Bene.»
«Ti
accompagno io.»
I
due erano scesi al piano inferiore. Passando proprio davanti alle
porte del dormitorio maschile. Ash si era nuovamente sporto verso il
corridoio. E aveva incrociato lo sguardo con l’amica,
scortata dal
professore. Il ragazzo fece un cenno di saluto all’amica. Ma
lei
non gli rispose di nuovo. Facendolo abbastanza irritare. Lui non si
ricordava di averle fatto nulla di sbagliato. Poi si ricordò
delle
parole della madre della ragazza.
Mentre
Ash si interrogava su quello che era accaduto alla sua amica, e,
contemporaneamente, finiva di prepararsi per raggiungere la sua
ragazza, il suo compagno di stanza e i suoi amici avevano raggiunto
l’Hermitage. La villa in cui Aelita e suo padre, Franz
Hopper,
avevano vissuto gli ultimi anni della loro vita precedente.
A
dire il vero il motivo per cui il gruppo si trovava in
quell'abitazione era un altro. Aelita si era allontanata dalla scuola
e il gruppo aveva iniziato a cercarla. E, conoscendola, avevano
deciso di cercarla nella sua vecchia casa. L’Hermitage.
L’Hermitage
era una villetta di tre piani e un seminterrato. Alta e stretta.
Sulla destra un basso garage era appoggiato contro
l’abitazione,
quasi a sostenerla. Intorno all’abitazione diversi alti
alberi, che
mano a mano che ci si allontanava da essa, diventavano sempre
più
fitti, fino a ricollegarsi alla pineta del collegio.
L’interno
dell'abitazione era stato ordinato. Durante l’estate, il
gruppo si
era organizzato per dare un minimo di decenza a
quell’abitazione e
avere un luogo riparato e sicuro tutto per loro. Non avevano gettato
un singolo documento. Avevano messo tutto quello che avevano trovato
all’interno di svariati scatoloni, che avevano poi depositato
nell’ampio seminterrato.
Si
trattava, per la maggior parte di diversi fogli, stampati o
manoscritti, pieni di incomprensibili stringhe di codice e
appunti.
Aelita
era salita nella sua camera da letto. Seduta sul letto in cui, per
anni, aveva dormito. Non era la prima volta che lo faceva. Anche dopo
aver chiuso con Lyoko. Quando voleva sentirsi vicina a suo padre, si
rifugiava lì.
La
ragazza sentì qualcuno bussare alla porta della stanza.
«Oh,
entra pure.»
Jeremy
aprì la porta e d entrò nella stanza, per poi
sedersi sul letto
accanto a lei. I due stettero a lungo in silenzio. Jeremy voleva che
fosse la ragazza a parlare. Lui non voleva interferire. La pausa
di
silenzio sembrò non finire mai. Aelita voleva trovare le
parole
giuste per spiegarsi.
«Forse
sono stata troppo precipitosa, a venire qui, senza dire nulla, ma
sapevo che tu e gli altri mi avreste trovato. Volevo iniziare a
cercare degli indizi.»
«Ti
conosciamo fin troppo bene.»
Aelita
abbozzò un sorriso.»
«Gli
altri ti aspettano di sotto.»
«Scendi,
ti raggiungo subito.»
Jeremy
uscì dalla stanza, socchiudendo la porta. Consapevole che la
ragazza
lo avrebbe raggiunto. Prima o poi.
Scese
le scale e raggiunse gli amici al piano terra. Erano seduti nel
divano del salotto.
Il
ragazzo si sedette con loro e spiegò la situazione.
«Aelita
è al piano di sopra. Dovrebbe raggiungerci presto. Senza di
lei non
me la sento di iniziare.»
Dopo
non molto tempo, la ragazza decise di uscire dalla sua stanza per
giungere al piano inferiore. I suoi amici le avevano promesso che
l’avrebbero aiutata ed era ben consapevole di come, senza di
lei,
non avrebbero fatto nulla.
La
ragazza li raggiunse nel salotto e si sedette anche lei sul divano.
Dopo non molto iniziò a parlare.
«Mi
conoscete bene. Sapevo che mi avreste trovata qui. Volevo iniziare a
cercare degli indizi. »
«Scusa
se sono indiscreta, ma vorrei chiederti una cosa.»
«Fai
pure, Yumi.»
La
ragazza cercò di esprimersi con la massima delicatezza
possibile,
data la situazione che l’amica stava vivendo.
«Hai
detto che avevi vissuto qui solo con tuo padre, ma sai
cos’è
successo a tua madre?»
«Non
ti preoccupare. Non so di preciso, ero piuttosto piccola quando tutto
è accaduto, quindi molte cose non le ricordo o potrei
ricordare
male. Mi raccontava di come lui e la mamma si fossero conosciuti
mentre lavoravano in una certa azienda informatica. Il lavoro era
molto difficile e, qualche tempo dopo la mia nascita, si resero conto
di come fosse difficile conicilare il lavoro con una bambina piccola.
Mio padre si dimise per primo e qualche tempo dopo lo avrebbe dovuto
fare mamma, ma… non seppe più nulla di lei. Solo
che era ancora
viva e faceva di tutto per cercarla. E questo bastava. Per questo ho
pensato che qui, avremmo potuto trovare qualcosa.»
La
ragazza tratteneva a fatica le lacrime, ma nonostante questo, decise
di continuare.
«E
non ha mai smesso di cercarla, da qualche parte in questa casa ci
saranno i risultati delle sue ricerche, ecco tutto.»
«Non
vorrai riaprire quegli scatoloni! Non dopo tutto l’impegno
che ci
abbiamo messo a farli.»
Jeremy
rispose immediatamente all’amico.
«Oh,
non credo serva. Abbiamo diviso accuratamente le varie carte. E se ci
fosse stato qualcosa del genere, le avremmo messe da una
parte.»
«E
allora dove volete cercare?»
«Non
so, ma credo che questa casa nasconda degli altri segreti, se quello
che dice Aelita è vero, allora dovremo dividerci e
cercare.»
«Va
bene. Io mi occupo della mansarda.»
Si
propose Odd. Seguito a ruota dal suo Lillipup, chiamato Kiwi.
«Allora
noi facciamo i sotterranei, non ti dispiace, vero Aelita?»
«Affatto.
Quindi Yumi e Ulrich si dividono il primo piano e il piano
terra?»
«Immagino
di si.»
Rispose
la ragazza dai capelli corvini.
«Non
ti dispiace se resto al piano terra, vero»
Mentre
i cinque esploravano la villa, il professor Morales aveva
accompagnato Lucinda alla biblioteca. Stava controllando che
all’interno della biblioteca vi fossero altri alunni della
seconda
superiore. Tutti gli alunni presenti erano in parte intimoriti, in
parte divertiti dalle sue occhiate. Incrociò lo sguardo con
due
studenti, un ragazzo e una ragazza, intenti a parlare.
«Grandjean e
Jolivet?»
Una
ragazza dai lunghi capelli rossi e un ragazzo con uno strano ciuffo
castano si girarono, intimoriti dal richiamo del professore. Non
pensavano di aver fatto qualcosa di sbagliato. A meno che qualcuno
non li avesse accusati per difendersi.
«Lei
è nuova qui. E non conosce nessuno. Ve
l’affido.»
I
due ragazzi si scambiarono uno sguardo d’intesa e sorrisero.
Il
professore non capiva come i due potessero essere felici di portare
avanti un compito del genere.
Entrambi
guardarono la ragazza come se non fosse un essere umano, ma piuttosto
una divinità. Qualcosa che a Xana non era mai capitato e
questo lo
faceva sentire parecchio a disagio. E anche il disagio per
un'intelligenza artificiale era una novità. Che il dover
forzatamente vivere nel corpo di un essere umano lo stesse cambiando?
O che fosse semplicemente il fatto di poter accedere a tutti i
ricordi della ragazza? Adesso non ci poteva pensare. O la ragazza
sarebbe stata guardata male, se fosse rimasta con lo sguardo perso
nel vuoto per ancora qualche tempo.
«Non
è possibile! No! Non è vero! Dimmi che non sto
sognando! Sei
davvero Lucinda? La leggendaria Super coordinatrice?»
Xana
non capiva. Cosa aveva scatenato la reazione di quella ragazza? E si
sapeva che la ragazza prendeva parte alle gare Pokémon, ma
non aveva
idea che le gare giapponesi venissero seguite anche al di fuori dei
confini della nazione. Se da una parte era un bene, poteva sfruttare
la nomea della coordinatrice per ottenere dei favori, ma dare troppo
nell’occhio, in altre occasioni sarebbe potuto essere un
problema
non da poco.
«Si.»
«Che
onore. Ti va di lavorare con noi a una ricerca di scienze? Stavamo
discutendo su che Pokémon condurre la nostra
ricerca.
Io vorrei condurla su Ralts, lui su Azurill. Tu che dici?»
«Ralts?»
«Bene,
allora possiamo andare. Nel boschetto dietro la scuola dovrebbero
trovarsi alcuni esemplari, ma dobbiamo stare attenti, è un
Pokémon
molto timido e se si sente minacciato, si teletrasporta da qualche
altra parte.»
I
tre uscirono dalla biblioteca, per dirigersi verso la pineta, nella
speranza di trovare qualche esemplare di Ralts. Mentre i due
discutevano, Xana aveva concluso la scansione dei ricordi della
ragazza. E si era reso conto di aver commesso un fatale errore, nel
momento in cui aveva ignorato Ash e Pikachu. E il non farlo
avrebbe potuto influire con i suoi piani. Avrebbe dovuto rimediare al
più presto e quella poteva essere la giusta occasione per
farlo.
Con
tutta probabilità anche lui si sarebbe trovato nella pineta.
Xana
non si era sbagliato. Ash era con un’altra ragazza che non
era
presente nei ricordi della ragazza. Ma non sembrava rappresentasse
una minaccia.
«Scusate.
Devo salutare una persona.»
Si
riferì ai due che l’avevano accompagnata fino alla
pineta.
«Vai
pure, noi continueremo da soli.»
Le
rispose il ragazzo, chiedendosi tra sé e sé se la
ragazza, che, nel
frattempo si era allontanata, e si era avvicinata a quel ragazzo
arrivato solo pochi giorni prima.
Ash
aveva salutato l’amica, ben felice di presentarla a
Serena.
«Ecco,
lei è Lucinda. Abbiamo viaggiato insieme un po’ di
tempo fa, nel
nord del Giappone. Lucinda, lei è Serena.»
«Piacere
di conoscerti.»
Serena
porse la mano a Lucinda, la quale, la strinse, con un gesto
meccanico. Come se fosse intimorita. Cosa strana. Ash la conosceva
bene e sapeva che non si sarebbe mai fatta intimidire da
un’altra
ragazza.
Serena
fece una strana espressione. La mano della ragazza era gelida. Come
se fosse morta.
«Non
vi dispiace se mi unisco a voi, vero?»
«Figurati.»
Le
risposero, praticamente insieme.
«Non
sapevo parlassi…»
Aggiunse
Ash
«Oh,
beh, sai, ho preso qualche lezione da Fannie…»
«Scusa
se te lo chiedo, ma cosa ti è successo dopo la Coppa?
Perché non
hai risposto alle mie chiamate? Ero molto preoccupato.»
Ash,
volontariamente, non aveva menzionato della fuga
dall’ospedale o
del fatto che aveva contattato la madre o ancora del fatto che anche
Vera si fosse preoccupata per lei. Voleva metterla alla prova.
Xana
non sapeva come rispondere. Doveva trovare una scusa che fosse
credibile. Gestire un essere umano per scopi diversi dal tentare di
ammazzare qualcuno non era affatto facile. Soprattutto se voleva
ottenere il suo scopo.
«Volevo
solo farti una sorpresa.»
Mentre
parlava, Pikachu era salito sulla sua spalla e la ragazza, sempre
meccanicamente, lo accarezzò. Anche il piccolo
Pokémon elettro si
accorse di come la mano della ragazza fosse fredda. Terribilmente
fredda. Quasi fosse fatta di ghiaccio.
«Scusa
se te lo chiedo, ma dov’è Piplup?»
«È qui, nella sua
Pokéball.»
Poco
dopo averlo detto fece uscire dalla Pokéball il piccolo
Pokémon
pinguino. Ash notò come la Pokéball fosse ancora
avvolta dalla
capsula. Cosa strana. Conosceva benissimo Lucinda e sapeva benissimo
che, finita l’esibizione le rimuoveva. Sempre e comunque. Ma
decise
di non dare peso alla questione. Pensò semplicemente che si
era
dimenticata di farlo.
Il
piccolo Pokémon pinguino salutò calorosamente
l’amico.
Per
Xana la situazione stava diventando davvero difficile da gestire.
Doveva trovare una via d’uscita. Al più presto.
«Avete
deciso su che Pokémon fare la ricerca?»
«Si,
a dire il vero è stata lei a scegliere. E ha scelto
Zorua.»
«Oh,
bene… interessante.»
In
una casa abbandonata, poco distante dal bosco, due ragazze e tre
ragazzi erano alla disperata ricerca di indizi. Si erano divisi per
esplorare l’abitazione.
Nell’ampio
piano interrato Jeremy e Aelita si erano divisi a loro volta. Avevano
esplorato quel piano diverse volte e, spesso era capitato che
trovassero degli altri collegamenti o delle altre stanze di cui, fino
a quel momento, avevano ignorato l’esistenza. Per questo
motivo era
il posto dove era più probabile trovare indizi. Il
sotterraneo era
un lungo andito che conduceva a numerose stanze, tra cui una cella
frigorifera. Alcune delle stanze portavano a degli altri anditi che
portavano a ulteriori stanze o lunghe gallerie che permettevano di
raggiungere luoghi strategici di Parigi.
Qualche
tempo prima avevano addirittura raggiunto la stazione dei treni.
All’estremo
opposto dei sotterranei, la mansarda, della cui esplorazione se ne
stavano occupando Odd e il suo fidato Lillipup.
Il
ragazzo e il suo Pokémon si trovavano nell’ampio e
luminoso studio
che costituiva la quasi totale interezza del piano. Era una stanza
estremamente luminosa, grazie alle ampie finestre. Il pavimento era
un pregiato parquet. La stanza, come il resto
dell’abitazione, era
stata pulita. Restavano solo una libreria, ancora ricolma di libri,
una grande scrivania, una lavagna, con delle formule mezze
cancellate, una sedia da ufficio e poco altro.
Il
ragazzo aveva trovato ben poco di interessante. Giusto una valigetta
del piccolo chimico, appoggiata contro una parete, che
all’apparenza
risultava inutilizzata, e un taccuino, posato sulla libreria. Il
ragazzo si mise il taccuino in tasca e posò la
valigetta sulla
scrivania.
Yumi
e Ulrich avevano finito di esplorare i rispettivi piani, ritrovandosi
con Odd nel salotto del piano terra.
«Trovato
niente?»
Chiese
la ragazza.
«No.
Niente.»
«Giusto
questo e una valigetta del piccolo chimico.»
Il
ragazzo estrasse dalla tasca un taccuino.
«Ok
il taccuino. Ci può interessare ma il piccolo chimico? A
cosa mai
potrebbe servirci?»
Yumi
ricevette il taccuino dall’amico, e lo stava sfogliando molto
rapidamente, e, altrettanto rapidamente stava dando uno sguardo alle
pagine.
«Sono
tutte dannatamente vuote. Non penso possa tornarci utile.»
«Mi
sembrava interessante. Non ci ho fatto caso quando l’ho
preso, ma
se non servo a nulla, gli riporto dov’erano. Mi chiedo se
Jeremy e
Aelita saranno stati più fortunati.»
Mentre
i tre si stavano confrontando, la coppia non aveva ancora finito di
esplorare i sotterranei. Avevano esplorato appena metà delle
stanze,
evitando i lunghi tunnel.
Jeremy
era entrato in una delle stanze dei sotterranei, che, da fuori,
appariva come tutte le altre.
Dentro
c’era solo del materiale edile, tondini di ferro, cazzuole,
paioli,
e dei sacchi di cemento. Su uno di essi il ragazzo notò che
era
riportato il nome di una ditta di costruzioni, con tanto di numero di
telefono, che però risultava illeggibile.
Con
grande sforzo, il biondo, spostò il primo sacco. Quello
dietro era
messo meglio, e il numero di telefono della ditta risultava ben
leggibile.
Il
ragazzo lo salvò nella rubrica del suo telefono, quindi
chiamò la
ragazza. Quest’ultima lo raggiunse in breve tempo.
«Trovato
qualcosa?»
«Questi
sacchi di cemento hanno il numero di telefono di una ditta di
costrizioni. Magari sono loro che si sono occupati di ristrutturare
l’Hermitage. Chissà che non ci possano essere
d’aiuto.»
«Possiamo
provare, ma prima direi di raggiungere gli altri. Saranno
preoccupati.»
Il
ragazzo non le rispose, si limitò a seguirla.
Ora
i cinque si erano riuniti al piano terra, nello stesso salotto dove,
non troppo tempo prima avevano deciso di dividersi per cercare
indizi.
«Certo
che ce ne avete messo di tempo.»
«Oh,
direi che siamo giustificati. Abbiamo trovato qualcosa da cui poter
partire.»
«Cosa?»
«Odd,
quanta fretta!»
Il
ragazzo estrasse il suo telefono dalla tasca dei pantaloni.
«Dovrei
averlo salvato.»
Il
ragazzo stava armeggiando con il suo telefono.
«Eccolo
qui!»
«Cosa?»
«Va
bene. Vi spiego. Mentre cercavamo indizi nei sotterranei, ho trovato
alcuni sacchi di cemento, su cui era scritto il nome di
un’azienda
di ristrutturazioni. Per cui ho pensato che potessero aver lavorato
qui e che potrebbero essere d’aiuto.
«Ricordati
che sono passati molti anni. Potrebbe anche essere fallita, che ne
sappiamo?»
Yumi
espresse tutti i suoi dubbi sulla questione.
«Proviamoci.
Alla peggio continueremo a cercare.»
«Come
vuoi.»
Il
ragazzo avviò la chiamata. Dopo alcuni squilli,
dall’altro capo
del telefono, qualcuno rispose.
«Pronto,
parlo con la ditta Garrigue?»
Dall’altro
capo del telefono, rispose una donna, che, a giudicare dalla voce,
sembrava fosse molto anziana.
«No.
O meglio, fino ad alcuni anni si, ma, qualche anno fa hanno chiuso i
battenti.»
«Come
sarebbe a dire che hanno chiuso?»
«Guarda.
Non ti so cosa dire. Hanno chiuso dopo un brutto incidente sul
lavoro. Erano tre fratelli. Durante uno dei lavori, per un
difetto di progettazione delle imbragature, due dei tre fratelli
persero la vita. Per rispetto il solo superstite, decise di chiudere
tutto. Ma non capisco perché ti interessi così
tanto. Sono cose
avvenute molti anni fa.»
«Ecco,
vede…»
«Non
importa. Sai, non ricevo molto spesso delle telefonate,
tantopiù da
dei giovani come te. Per cui posso darti il suo numero di telefono.
Ma non dire che te l’ho passato. Sappi che ora vive a
Marsiglia,
non certo a due passi da Parigi.»
«Va
bene.»
Il
ragazzo segnò il numero di telefono su un pezzo di carta e
dopo
averlo nuovamente verificato con la sua interlocutrice, la
salutò
cordialmente.
«Allora?»
Odd
era, come suo solito, piuttosto impaziente.
«Forse
abbiamo una pista. L’azienda che ha ristrutturato
l’Hermitage ha
chiuso i battenti tempo fa, perché due dei tre fratelli
hanno perso
la vita in un incidente sul lavoro, ma il terzo è ancora
vivo e
vegeto e ho il suo numero di telefono e il suo indirizzo.»
«Mi
sembra un buon punto di partenza.»
Si
limitò a commentare Aelita.
«Cosa
aspetti? Chiamalo!»
«Non
ti sembra di essere un pochino troppo precipitoso?»
Odd
rabbrividì dopo il rimprovero da parte di Yumi. A volte
l’amica
poteva sembrare davvero cattiva.
«No,
non sgridarlo, ha ragione. Penso dovremo andare fino alla
fine.»
Con
il permesso della ragazza, Jeremy compose il numero datogli dalla
signora. Poi avviò la chiamata.
Dopo
qualche squillo, qualcuno rispose.
«Pronto,
chi parla?»
«Buongiorno,
parlo con il signor Garrigue? Mi chiamo Jeremy Belpois, vorrei
chiederle una cosa.»
«No,
qui non c’è nessuna Rosa!»
«SCUSI,
FORSE HA CAPITO MALE, LE VORREI CHIEDERE UNA COSA!
«NON
SERVE URLARE, CI SENTO BENISSIMO! PUOI CHIEDERMI QUELLO CHE
VUOI.»
«LE
DICEVO LA CHIAMO DA PARIGI»
«Ti
ho detto di non urlare, e per tua informazione stai parlando con un
parigino DOC! In quella città ci sono nato e cresciuto! Io e
i miei
fratelli ne abbiamo costruiti e ristrutturati di edifici! Sai! Ma non
credo che tu mi abbia chiamato per sentire un vecchio raccontare di
come si costruivano le case… Sputa il Politoed!
Perché mi hai
telefonato?»
«BENE.
MI RISULTA CHE LEI ABBIA LAVORATO PER UN PROFESSORE DEL KADIC. IL
SIGNOR HOPPER»
«Chi
scusa?»
«IL
SIGNOR HOPPER. FRANZ HOPPER.»
«Ti
sbagli! Io non lo conosco. Non l’ho mai sentito
nominare!»
«E
ALLORA COSA CI FANNO DEI SACCHI DI CEMENTO DELLA DITTA PER CUI HA
LAVORATO NELLA SUA CASA?»
«Ti
ripeto che non so di chi tu stia parlando e non ho idea di come
possano esserci finiti in casa sua!»
L’uomo
attaccò senza nemmeno salutare.
«Alla
faccia!»
«Allora?»
Gli
chiesero, tutti e quattro, all’unisono.
«Mettiamola
così non gliela daremo per vinta così tanto
facilmente?
«Che
intendi?
Il
tono di Aelita era piuttosto preoccupato.
«Ha
chiuso la telefonata non appena ho menzionato Franz Hopper. E ha
negato di averci avuto a che fare.»
«Capisco.
Quindi cosa vuoi fare?»
Gli
chiese la sua ragazza.
«Quello
che hai deciso di fare te. Andare a fondo della questione. Costi quel
che costi.»
«Quindi
vuoi partire per Marsiglia? Solo per come ti ha chiuso la
telefonata?»
«Esatto.
Pensavo che potremmo partire domani. Per i biglietti del treno non vi
preoccupate, ci penso io. Ho i miei trucchi»
«Per
me va bene.»
Gli
rispose Aelita.
I
cinque si erano allontanati dalla villa. Yumi si era diretta a casa
sua, poco lontano, gli altri, invece, si stavano dirigendo al
collegio. Erano oltre il suo perimetro da diverso tempo e presto
qualcuno avrebbe notato la loro assenza.
Il
giorno dopo, poco dopo pranzo, i cinque si erano incontrati
all’Hermitage. Si erano accordati per incontrarsi
lì, per poi
partire alla volta di Marsiglia. Jeremy, con uno dei suoi trucchetti,
era stato in grado di creare dei falsi permessi dei genitori per
potersi allontanare dal collegio.
Jeremy
consegnò a ognuno un biglietto andata e ritorno per
Marsiglia.
Odd
guardò il biglietto e poi l’amico.
«Prima
classe? Ma ti sarà costato un patrimonio!»
«Ho
i miei segreti. Battute a parte il treno è
nell’orario meno
trafficato, quindi i biglietti costano meno. Fosse stato
all’ora di
punta sarebbe costato parecchio di più. Se ho fatto bene i
conti
dovremo andare alla stazione verso le cinque e mezza. Il treno
dovrebbe arrivare a Marsiglia per le nove. A mezzanotte saremo di
ritorno.»
«E
cosa vuoi fare nel frattempo? Ci hai fatto venire qui con tre ore di
anticipo. Vuoi che restiamo qui a girarci i pollici?»
«Possibile
che tu non sappia restare due minuti con le mani in mano?»
Lo
riprese Ulrich.
«Ti
va una lotta?»
«Come
voi. Ma basta che tu non mandi in campo il tuo Lillipup.»
«Perché
mai?»
«Non
ti ricordi com’è finita l’ultima
volta?»
«Come
vuoi. Facciamo un tre contro tre secco, senza sostituzioni?»
«Come
vuoi.»
Il
giardino posteriore dell’Hermitage era il luogo ideale per
lottare.
Ricavarci un campo lotta non era stato affatto difficile.
I
due ragazzi erano uno di fronte all’altro, gli altri
assistevano
alla lotta, appoggiati contro il muro.
Erano
grandi amici, ma, nonostante questo, prendevano le lotte molto sul
serio.
«Vai
Meowstic!»
Dalla
Pokéball del biondo uscì un Meowstic maschio, che
si mise subito in
posizione di attacco. Pronto ad affrontare qualsiasi avversario.
«Molto
bene, mi affiderò a te, Gallade!»
Ulrich
decise di mandare in campo sin da subito il suo Pokémon
più forte.
Non che gli altri non lo fossero, ovviamente, ma lui era stato il suo
primo Pokémon, che aveva allenato sin da quando era un
piccolo
Ralts.
«A
te l’onore!»
Odd
era ben felice di avere la prima mossa. Conoscendo la forza del suo
avversario, doveva essere pronto tanto a attaccare quanto a
difendere. O la lotta si sarebbe conclusa rapidamente e in suo
sfavore.
«Meowstic,
usa Calmamente!»
Il
Pokémon del ragazzo chiuse gli occhi e concentrò
i suoi poteri
psichici. In modo da poter tanto attaccare quanto difendere
meglio.
«Gallade,
usa Nottesferza, prima che diventi troppo tardi!»
Le
braccia, simili a lame, del Pokémon si
illuminarono di
azzurro, e vennero circondate da un’aura dello stesso colore.
Gallade
corse verso l’avversario, che, concentrando i suoi poteri, si
era
sollevato in aria di una quarantina di centimetri.
L’allenatore
del Meowstic se ne accorse poco prima che Gallade raggiungesse il suo
Pokémon.
«Meowstic,
usa Energipalla per difenderti!»
Il
Pokémon del ragazzo generò con gli arti superiori
una sfera di
energia dal colore verde scuro, parzialmente trasparente.
La
sfera di energia diveniva sempre più voluminosa, in modo da
potersi
frapporre tra il suo corpo e le lame affilate del Gallade, che
iniziavano già a pressare contro la sfera di
energia.
Era
chiaro che se nessuno fosse intervenuto, i due sarebbero potuti
rimanere in quella posa per ore.
Il
primo dei due a realizzarlo avrebbe potuto avere un grosso
vantaggio.
«Gallade,
salta, prima che sia troppo tardi!»
Il
Pokémon del ragazzo spiccò un balzo, proprio
davanti al suo
avversario.
L’allenatore
del Meowstic sorrise. Si aspettava una strategia evasiva da parte
dell’amico. Lo conosceva fin troppo bene.
«Bene,
Meowstic, lancia l’Energipalla!»
Il
Pokémon felide eseguì il comando
dell’allenatore, lanciando la
sfera di energia di colore verde contro il suo avversario, e
sembrò
come riprendere a respirare.
«Gallade,
distruggila con Psicotaglio!»
Le
braccia del Pokémon si estendettero e illuminarono di
azzurro. Da
esse uscirono delle lame di energia colorate.
Queste
ultime colpirono la sfera di energia, facendola esplodere.
«Oh…»
Commentò
il biondo, che evidentemente non si aspettava quel tipo di risposta.
Probabilmente qualsiasi altro tipo di attacco lanciato in quel modo
avrebbe fatto la stessa fine. Combattere contro quelle lame sarebbe
stata una battaglia persa in partenza. Doveva inventarsi qualcosa e
alla svelta.
«Gallade,
piombagli addosso con Nottesferza!»
Il
colore delle braccia, simili a lame del Pokémon
mutò, diventando
simile all’azzurro, e la lunghezza delle lame crebbe a
dismisura. E
l’allenatore del Meowstic sembrava non reagisse. Come se
avesse
accettato la superiorità del nemico. Anche se la distanza
tra i due
Pokémon era risicata.
«Perfetto,
Meowstic, ora! Usa Psichico!»
I
poteri psichici del Pokémon impedirono al Gallade avversario
di
muoversi. Prima che lo stesso potesse attaccare.
Il
Gallade era bloccato a mezz’aria, in balia
dell’attacco
avversario, ma non sembrava darsi per vinto. E il suo allenatore
sembrava lo avesse compreso.
«Gallade
so che puoi reagire. Usa di nuovo Nottesferza!»
Il
colore delle braccia, simili a lame del Pokémon
mutò, diventando
simile all’azzurro, e la lunghezza delle lame crebbe
a
dismisura.E
riuscì a svincolarsi dal giogo avversario e a colpirlo
pesantemente
con le sue lame affilate, facendolo volare fino
alla
recinzione che separava la villa dal boschetto lì dietro.
«Meowstic,
stai bene?»
Il
Pokémon del ragazzo si rialzò e si
scrollò di dosso i rametti, le
foglie e la polvere. E fece cenno al suo allenatore di non
volersi
arrendere.
«Bene
Meowstic! Se te la senti di continuare allora vai! Lancia quante
più
Palla Ombra puoi!»
Il
Pokémon iniziò a generare la prima di una grande
serie di sfere di
energia oscura dal colore violaceo Ricordavano della sorta di occhi
viola, ricoperti da scariche di energia dal colore violaceo.
«Gallade,
concentrati, distruggile tutte!
Sembrava
che i due potessero continuare all’infinito. Per quanto uno
si
sforzasse di attaccare, l'avversario rispondeva difendendosi in
maniera egregia.
Una
stasi che non piaceva a nessuno.
«Gallade,
corri mentre eviti i suoi attacchi e vai di Nottesferza.»
Le
lame del Pokémon si estesero e questi corse contro il
nemico,
sferrando, con le lame un duro colpo.
Il
Pokémon felino colpì duramente il terreno. Non
più in grado di
lottare.
Il
suo allenatore si affrettò a ricoverarlo nella
Pokéball. Come
l’amico con il Gallade, uscito vittorioso dalla lotta.
«Ehi,
guardate che è praticamente ora di andare! Dovrete rimandare
il
resto della lotta a più tardi»
Jeremy
fece segno di toccare l'orologio, per far capire ai due che era
passato diverso tempo ed era ora di andare.
Il
gruppo di amici si diresse alla stazione dei treni.
Si
accomodarono nella prima classe di quel TGV, sedili enormi e
comodissimi e un ampio tavolino dove appoggiare le loro cose. Il
treno prese velocità, fino a raggiungere la punta massima.
Guardando
dai finestrini tutto appariva confuso e sembrava che nulla potesse
tenere il suo passo.
Nulla
tranne quello che, inizialmente appariva come un puntino bianco
indistinto, ma che sembrava non solo avvicinarsi, ma anche tentare di
superare il TGV. Una Peugeot 406 bianca, allestita da taxi, ma che
nel suo aspetto ricordava più un’auto da corsa.
Bassa fino a quasi
toccare terra, gomme larghe, spoiler, minigonne e prese
d’aria.
Dopo
tre ore di viaggio, il treno giunse alla stazione di Saint Charles, a
Marsiglia.
Jeremy
aveva preventivamente stampato una mappa della zona e si era segnato
il percorso per raggiungere l’abitazione del signor Garrigue.
Non era troppo lontana da dove si trovavano. Al massimo una
mezzoretta a piedi. Da dove si trovavano era possibile scorgere i
tetti di alcuni importanti edifici della città. Ma non era
quella la
loro meta.
Tutt’altro.
Dovevano raggiungere la casa di quell’uomo. Al più
presto.
«Ecco
qui, ragazzi. Prima di partire ho stampato una piccola mappa.
Dovrebbe aiutare a orientarci. Diciamo che la zona dove
vivono
non è proprio una zona perbene.»
«Dici
sul serio?»
Odd
era piuttosto preoccupato.
«No.
O meglio, un tempo era un quartiere povero, quindi era abbastanza
normale che ci fosse della piccola criminalità, per molti il
solo
modo di tirare avanti. Adesso è un normalissimo quartiere
residenziale.»
«Immaginavo.
Conoscendoti non andresti mai in posti del genere. Avresti troppa
paura!»
«Sicuro
di conoscerlo bene? Per lei farebbe di tutto.»
La
provocazione di Ulrich mise Jeremy in imbarazzo.
«La
verità è più razionale di quanto
pensiate.»
Il
ragazzo sembrava cercare di giustificare la sua reazione.
«Per
quanto pensiate che possa durare questa storia della sua falsa
identità? Anche oggi abbiamo rischiato grosso con il treno.
Sarebbe
potuto salire il controllore e chiederci i documenti. E la sua
identità come cugina canadese di Odd sarebbe crollata. E
come avremo
fatto? Sarebbe stato un autentico disastro. Non voglio nemmeno
immaginare cosa sarebbe successo.» Tutti pensavano che il
biondo
avesse ragione. Fino a quel momento era andato tutto bene, ma quanto
ancora a lungo sarebbe potuto durare? Ritrovare sua madre avrebbe
posto fine a tutto quel teatrino.
Il
gruppo rimase in silenzio, fino a quando, finalmente, giunsero alla
loro destinazione. Un condominio, apparentemente come
tanti.
«Dovrebbe
essere qui.»
Jeremy
stava cercando freneticamente il campanello della famiglia
Garrigue.
«Bene,
eccoli qui, abitano al piano terra.»
Il
ragazzo premette il pulsante. Dopo qualche istante una voce,
appartenente a una donna di una certa età, rispose.
«Chi
è?»
«Sono
Jeremy Belpois, vorrei parlare con il signor Garrigue, se fosse
possibile.»
«Oh,
certo, è mio marito. Entra pure. Non vorrai lasciare fuori i
tuoi
amici, anche loro sono i benvenuti, ci mancherebbe!»
Da
dentro casa la donna premette il pulsante del citofono che permetteva
di aprire le porte di ingresso, che si aprirono con un suono
elettrico.
I
cinque varcarono il cancello e entrarono nell’atrio del
condominio.
Il pavimento era costituito da piccole mattonelle rosse, le pareti
erano per metà bianche, per metà rivestite da uno
strano materiale,
che ricordava il sughero. Il tutto illuminato a fatica da una
lampadina a incandescenza al centro del soffitto.
Non
ci fu tempo per perdersi in ulteriori dettagli. La donna che prima
aveva risposto al citofono, aveva aperto la porta e fatto cenno ai
cinque di entrare.
L’appartamento
della coppia era molto accogliente. Dava una sensazione di calore e
tranquillità. All’ingresso un mobile in legno con
delle foto, tra
cui quella di tre uomini a lavoro.
Si
assomigliavano parecchio, con tutta probabilità erano
fratelli.
Proprio come aveva raccontato quella donna.
«Oh,
ragazzi come mai siete venuti qui da noi? Per mio marito? Mi ha
raccontato di come un ragazzo chiamato Jeremy lo avesse chiamato. Di
certo non mi sarei mai aspettata di vedervi qui.»
«Vede.
Lei è Aelita.»
Yumi
stava indicando la ragazza dai capelli rosa.
«Diversi
anni fa sua madre è scomparsa e, facendo alcune ricerche
siamo
risaliti a voi. È abbastanza difficile da spiegare, ma
magari lei o
suo marito potreste aiutarla.»
«Come
mi dispiace. Povera ragazza. Deve essere stato difficile anche solo
parlarne. Ne parlerò con lui e vedrò se possiamo
aiutarvi. Intanto
accomodatevi.»
I
cinque si sedettero su un bel divano di pelle. Davanti un tavolino da
caffè in legno. Più avanti un ampio televisore.
Sul
lato della stanza una grande libreria, stracolma.
La
donna si era diretta in cucina, dove si trovavano il marito e la
figlia.
«Marina
potresti preparare qualcosa per degli ospiti? Sono cinque
ragazzi.»
«Certo,
faccio subito.»
«Quanto
a te, Jean, devo parlarti di una cosetta.»
I
due si allontanarono dalla cucina, per dirigersi in camera da letto.
La ragazza si mise a lavoro.
«Jean,
forse non saresti dovuto essere così cattivo con quel
ragazzo. Ora è
arrivato qui con i suoi amici. Dice che noi possiamo aiutarli
per ritrovare la madre della ragazza.»
«Immaginavo
che non si sarebbe arreso facilmente. Ma non potevo di sicuro
immaginare che sarebbe arrivato a tanto. Ma
tant’è. Vedrò di fare
il possibile.»
Marito
e moglie giunsero nel salotto, dove i ragazzi erano seduti sul
divano.
«E
così siete arrivati fino a qui? Me lo sarei immaginato. E
capisco
perché siete venuti fino a qui. È una storia
molto triste.»
In
seguitò guardò i cinque e rimase in silenzio. Era
piuttosto
perplesso. Guardando Aelita aveva come l’espressione di aver
riconosciuto un volto familiare.
«Mi
ricordo di come il signor Hopper avesse avuto una figlia. E ti
assomiglia davvero parecchio. Certo, chiaramente tu non puoi essere
lei, a occhio e croce avrai quattordici o quindici anni, lei ne
dovrebbe avere come minimo venticinque.
Sono
assai confuso…»
«In
effetti sono parenti…»
Jeremy
cercò di inventarsi una scusa credibile.
«Sua
cugina, Alida, è la figlia del professor Hopper, e lei
è sua
nipote… figlia della sorella. Che è scomparsa
diversi anni fa.
Nessuno
osò contraddirlo. E sembrava che i due se la fossero bevuta.
«Oh,
beh, come volete… fatto sta che la somiglianza è
paurosa. Comunque
sia, ti dispiacerebbe portarmi del mirto?»
Poco
dopo la donna prese una bottiglia del liquore e un bicchierino e ne
versò al marito.
Intanto
era giunta anche la figlia della coppia. Una ragazza di massimo
venticinque anni. Aveva in mano un vassoio con diversi piattini, che
contenevano qualcosa di non ben definibile.
Lo
posò sul tavolino e invitò i ragazzi a mangiare.
Ognuno
di loro prese un piatto e, finalmente poterono capire di cosa si
trattava.
Sembrava
essere una sorta di enorme raviolo fritto, tondo, dai bordi
appuntiti. Doveva essere dolce, dato che era ricoperto da una grossa
quantità di miele.
«Fate
attenzione, il ripieno è bollente!»
«Oei
irlo ia!»
Odd
aveva dato un grosso morso all’enorme raviolo, ustionando la
bocca,
facendo una brutta figura, ma riuscendo, suo malgrado, ad alleviare
la tensione che pregnava l’aria. Gli altri, visto
cos’era
accaduto all’amico, optarono per mangiarle a piccoli bocconi.
Sembrava
che il mirto iniziasse a sortire i primi effetti nell’uomo.
«Non
posso più tirarmi indietro. Avete fatto molta strada. Ma
sappiate
che, purtroppo, ci sono delle cose che non vi posso dire, anche se
sono passati molti anni.
Non
so di preciso quanti. Ma allora i miei due fratelli erano ancora tra
noi. Lavoravamo a Parigi, e in quegli anni la nostra ditta non viveva
un bel periodo. Rischiavamo di chiudere bottega da un giorno
all’altro.
La
chiamata di un certo tizio ci salvò dal fallimento. Era un
lavoro
molto grande e importante. Un’intera fabbrica.»
«Mi
scusi se la interrompo, ma si ricorda se la fabbrica si trovava su un
isolotto sulla Senna?»
Chiese
Yumi.
«Proprio
così. Sapete più di quanto credessi. Comunque
sia, quell’uomo ci
pagò parecchio per il nostro lavoro, e per il nostro
silenzio. Penso
ci fosse di mezzo il governo o qualcosa di simile. Non vi posso dire
chi ci forniva i soldi, né tantomeno il nome dell'azienda
per cui
diceva di lavorare, anche perché, sembrava non esistesse. Ho
cercato
in ogni posto, ma non ho trovato alcuna traccia. Nonostante questo, i
soldi arrivavano puntuali e abbondanti.»
Dopo
aver bevuto dell’altro mirto, proseguì nel suo
racconto.
«Non
potevamo nemmeno entrare o uscire come volevamo. Andavamo a lavorare
da bendati dentro a dei furgoni militari dai vetri scuri. Una volta
dentro non potevamo abbandonare la stanza in cui ci trovavamo.
Probabilmente avevano deciso di fare in questo modo per evitare che
potessimo conoscere l’intera planimetria
dell’edificio.
Ricordo
solo una stanza gigantesca con un ascensore che portava a delle
stanze con delle strane apparecchiature elettroniche. Non sono mai
stato un grande intenditore di quelle diavolerie, ma ricordavano il
set di un film di fantascienza, non so se ci capiamo. In ogni caso,
quel lavoro ci prese quasi un anno. Per qualche tempo non sentimmo
più nulla di quell’uomo né di
quell’azienda. Quell’uomo mi
ricontattò dopo qualche mese, e mi presentò il
signor Franz Hopper.
Mi pare di aver capito che si tratta di tuo zio, no? In ogni caso
aveva una figlia, che mi avete ricordato si chiamasse Alida…
che,
diavolo se vi assomigliate! Ad ogni modo. Si era trasferito a Parigi
e lavorava come professore in un collegio lì vicino.
L’uomo
chiese, per conto del signor Hopper, di ristrutturare una villa
lì
vicino. Non ricordo come si chiamasse, ma era un nome piuttosto
strano. Anche qui stesso discorso. Tanto denaro in cambio di
silenzio.
«È
sicuro che non ci sia altro? Sa, abbiamo girato per la villa e
abbiamo scoperto che è collegata alla fabbrica da un
passaggio
segreto…
L’uomo
non si aspettava quella domanda da parte del ragazzo dai capelli
castani. Per la seconda volta uno di quei ragazzi aveva dimostrato di
sapere più di quanto immaginasse.
«A
quanto pare non vi si può nascondere nulla. Eh!
Però, oltre a
quest’ultima cosa altro non vi posso dire. E questa volta non
c’è
scusa che tenga.»
L’uomo
si versò dell’altro mirto nel bicchiere.
«Qualche
tempo dopo, Franz Hopper mi contattò per chiedermi un grosso
favore.
Questa volta era solo. Dovevo tornare alla sua villa per murare una
piccola sezione. Non doveva essere visibile da fuori in alcun modo.
Lui si sarebbe occupato dell’aspetto burocratico. Anche lui
pagò
onestamente.
Non
mi ha spiegato a cosa potesse servire, ma sembrava essere disperato,
pertanto non feci domande.
Mi
ricordo che era estate. E che Hopper sembrava solo l’ombra di
se
stesso, facendomi pensare che non fosse un semplice professore. Mi
ricordo che ero venuto per ritirare alcuni attrezzi. E, nonostante
Hopper avesse molta fretta, riuscì a rispondere alla mia
domanda.
Gli chiesi a cosa servisse quella stanza, se era nascosta e se
nessuno poteva sapere della sua esistenza. Lui mi rispose
semplicemente che sarebbe servito a proteggerla.
Mi
disse anche che aveva lasciato degli indizi alla persona
giusta.»
«Grazie,
è stato davvero gentilissimo, ma ora è meglio
andare, o perderemo
il treno.»
Jeremy
era riuscito ad ottenere quello che voleva. Informazioni. Certo, ora
i cinque avrebbero dovuto decidere come agire. E il lungo viaggio di
ritorno sarebbe potuto essere d’aiuto.
I
cinque si congedarono con la famiglia e percorsero a ritroso la
strada che li aveva condotti dalla stazione dei treni fino a
quell’appartamento.
Arrivarono
appena in tempo per salire a bordo del TGV per Parigi. Contrariamente
all’andata, non erano i soli ad aver scelto la lussuosa prima
classe.
Poco
lontano dalle loro poltrone, un uomo e una donna, potevano avere
massimo trent’anni.
La
donna aveva i capelli viola, tagliati a caschetto. Indossava un abito
elegante.
Anche
l’uomo che la accompagnava era vestito elegante. Come se
fosse la
sua guardia del corpo. O il fidanzato. Probabilmente l’aveva
accompagnata a qualche evento o simile.
Quello
che si stavano dicendo non sembrava interessante. Non dopo tutto
quello che avevano scoperto e su cui avrebbero dovuto indagare, non
appena tornati a casa.
«Aspettate
un secondo.»
Odd
stava parlando sottovoce per non farsi notare dalla diretta
interessata.
«Ma
lei non è Antemia, la famosa scrittrice americana? Cosa ci
fa qui?
Sapete sono un suo grande ammiratore, ho letto tutti i suoi libri, e
ora lei è qui, non ci voglio credere. Vado a chiederle un
autografo.»
«Non
sapevo che ti piacesse così tanto leggere.»
«Oh,
beh, sapete che c’è, vado a chiederle un
autografo, magari, se
sono fortunato mi parlerà anche del suo prossimo libro,
chissà…»
Il
biondo estrasse un libro dal suo zaino.
«Lo
avevo portato con l’intenzione di leggerlo durante il
viaggio…»
«Prima
che il sonno prendesse il sopravvento. Diavolo, russavi come uno
Snorlax, sembrava non ti svegliassero nemmeno le cannonate.»
Odd,
nonostante l’imbarazzo per la strigliata
dell’amico, si avvicinò
alla scrittrice, che nel frattempo aveva estratto il suo computer
portatile e lo aveva acceso. Sullo schermo del dispositivo era appena
apparsa la prima schermata di caricamento del sistema operativo.
«Non
ci credo, sei davvero Antemia, la famosa scrittrice e formidabile
allenatrice, non ci credo!»
«In
persona.»
Anche
se cercava di nasconderlo, il suo accento americano era più
che
evidente.
«Sai,
sono un tuo grande ammiratore, ho letto tutti i tuoi libri, sai. Ne
ho qui uno con con me. Me lo autograferesti?»
«Certo,
ci mancherebbe altro.»
Il
ragazzo porse il libro alla donna.
«Dimmi…
come ti chiami?»
«Odd.»
«Oh,
beh, è un nome molto particolare, sai, credo di non aver mai
sentito
un ragazzo che si chiama così, sai?»
La
donna scrisse una piccola dedica al ragazzo. Poi gli
restituì il
libro.
Odd
fece per andarsene e tornare dai suoi amici, quando la donna lo
fermò
dal farlo.
«Aspetta
un attimo. Hai detto di aver letto tutti i miei libri, non è
vero?
Se è così, allora sei la persona adatta ad
aiutarmi per una
cosetta. Vedi, sto iniziando a scrivere un libro, diverso dal solito,
una storia di spionaggio.»
«Sembra
dannatamente interessante!»
«Sai,
sono una grande appassionata di corse, pensavo di iniziare il tutto
alla gara inaugurale, dove una scuderia presenta nelle sue
auto
un dispositivo tanto illegale quanto nascosto. Nessuno avrebbe potuto
scoprirlo, a meno di una soffiata. Che puntualmente avviene.
La
scuderia in questione sarà costretta a rimuovere quel
dispositivo.
Le
vicende si spostano poi in una delle gare del centro della stagione,
circa due mesi dopo. Quando viene tentato il sabotaggio a entrambe le
vetture, che però viene evitato grazie alla troppa
scrupolosità di
uno dei meccanici, che si accorse di qualcosa che non tornava.
Contemporaneamente, in una piccola copisteria un uomo chiede di
stampare del materiale confidenziale, che non avrebbe dovuto avere
e…
Non
posso dire tutto, altrimenti rovino la sorpresa.
A
un certo punto, comunque, il sospettato viene ucciso e sarà
compito
degli investigatori ricostruire tutto quello che è accaduto
e
scoprire chi è stato l'assassino e tutte le motivazioni per
cui quel
delitto è avvenuto. E, pensavo, nel libro, di inserire un
piccolo
gioco, sai?»
«Del
tipo?»
«Hai
mai sentito parlare dell’inchiostro simpatico?»
«No?»
«Si
tratta semplicemente di alcuni inchiostri che apparentemente sono
invisibili, ma che possono diventare visibili in svariati modi, uno
dei più famosi è il succo di limone, che reagisce
con il calore
rivelando quanto scritto prima, ma ne esistono anche di altri, io
pensavo di usare del ferrocianuro di potassio.»
La
faccia di Odd diceva tutto, non era mai stato un genio nelle materie
scientifiche. Non si sentiva così stupido da quando Jeremy
aveva
gettato la spugna nello spiegargli i segreti del
Supercomputer.
Nonostante
questo, la donna continuò la sua spiegazione.
«Basterà
farlo reagire con del nitrato di ferro e apparirà quanto
scritto. In
un colore chiamato blu di Prussia.»
«Sembra
interessante. Oh, spero di non essere stato di disturbo.»
La
scrittrice sorrise.
«Ma
no, figurati, anzi, è sempre un piacere incontrare qualcuno
che
apprezza quello che faccio.»
Il
ragazzo tornò dai suoi amici, estremamente felice. Sia per
la dedica
che per l’aver ricevuto informazioni sul suo prossimo libro.
«Ragazzi,
non ci voglio credere! Guardate qui! Mi ha pure autografato il
libro!»
Nel
suo tono era ben evidente una certa dose d'orgoglio. Conoscendolo, si
sarebbe vantato della cosa per mesi. Ma in quel momento, il ragazzo
sembrava pensare ad altro.
«Non
so voi, ma io ho un sonno…»
«Sarà
per colpa di tutto quello che ti sei mangiato… ora il tuo
stomaco
sta richiedendo una grande quantità di sangue ossigenato
e…»
«Einstein,
non ho bisogno delle tue spiegazioni per dormire, ci riesco anche
senza.»
Nemmeno
terminò la frase che subito cadde addormentato, e data la
non
ottimale posizione in cui dormiva, ogni respiro produceva un rumore
simile a quello di un camion. Nessuno osò svegliarlo. Se lo
si
svegliava durante il sonnellino dopo mangiato, a meno che non si
trattasse di un’emergenza, diventava intrattabile.
Restava
da sperare che un qualche movimento involontario durante il sonno, lo
facesse stare in una posizione più consona.
Speranza
che fu vana. Per tutto il viaggio, il biondo non si schiodò
da
quella posizione.
Ulrich
lo svegliò percuotendolo.
Il
ragazzo, era ancora intontito dal sonno, aveva perso la cognizione
del tempo.
«Come?
Già arrivati? Ma se sino a cinque minuti fa stavamo uscendo
da
Marsiglia?»
«Non
so se ti sei reso conto, ma sono passate più di tre
ore.»
«Se
lo dici tu.
Il
treno si arrestò alla e le porte pneumatiche si aprirono.
Finalmente
erano giunti alla loro destinazione.
I
cinque si misero in cammino verso l’Hermitage,con finalmente
una
pista da seguire. Nonostante fosse tarda notte quasi
nessuno
di loro aveva intenzione di lasciarsi abbandonare tra le braccia di
Morfeo. A parte Odd.
Raggiunsero
la villa dopo una mezz’ora a piedi. A quell’ora non
c’era
un’anima viva in giro. Il momento ideale per fare certe cose
alla
larga da occhi indiscreti.
A
pochi metri dalla villa Aelita estrasse il mazzo di chiavi dalla sua
borsa.
«Non
mi vorrai dire che volte indagare adesso? Sto morendo di
sonno.»
«Ma
se hai dormito per tutto il viaggio?»
Lo
riprese Ulrich.
«Quello?
Per me era un semplice riposino. Non penserai mica che mi
basti.»
«In
ogni caso non pensare di passare la notte sotto le coperte. Non
ancora, almeno.»
Non
mi dire che hai dimenticato perché abbiamo fatto tutto
questo
viaggio.»
Non
mi dire che ti sei dimenticato che dobbiamo cercare una stanza
segreta in questa villa?»
«E
non possiamo farlo domani, dopo scuola?»
«E
domani ti inventerai un’altra scusa, come il fatto che hai
dato
appuntamento a qualche ragazza e che non ci vuoi rinunciare…
ti
conosco ormai.»
«Einstein,
per tua informazione sono già uscito con tutte le ragazze
della
scuola. E con quelle con cui non sono uscito… non mi
interessa
farlo.»
«Ah,
quindi pure quella ragazza coi capelli blu arrivata ieri?»
Odd
fece mente locale. Si ricordava di ogni singola ragazza con cui era
uscito e soprattutto dei motivi per cui era stato rifiutato.
«Adesso
che ci penso… no. Lei mi manca.»
Ulrich
gli diede una gomitata nelle coste.
«Beh,
se magari invece di trattare le ragazze come figurine, iniziassi a
prendere le cose più seriamente, forse avresti almeno una
speranza.»
«Parla
quello che per dichiararsi ci ha messo trecento anni. Penso di non
avere bisogno di consigli. Vorrei darle un appuntamento domani, dopo
la scuola.»
Jeremy
cercò di non ridere. L’amico si era smentito nel
giro di pochi
istanti.
«Non
ci lasci alternativa. E poi è ancora presto. Dovessimo fare
in
fretta, riusciremo anche a dormire un pochino.»
«E
va bene, Einstein, per questa volta hai vinto. Ma come pensavi di
trovare quella stanza? Questa villa è enorme.»
«Dovremo
dividerci.»
Intervenne
Yumi.
«Io
e Aelita andremo in mansarda, se non vi dispiace.»
«Fate
pure. Noi ci spartiamo i piani inferiori.»
Una
volta giunti in mansarda iniziarono ad esaminare quel che era rimasto
dalle operazioni di pulizia. Restavano principalmente dei libri nella
libreria, la valigetta del piccolo chimico e il taccuino.
I
due avevano iniziato a sfogliare accuratamente uno per uno tutti i
libri presenti. Sfogliandoli uno alla volta, pagina per pagina, ben
consapevoli che sarebbe servito molto tempo.
«Pensi
di trovare qualcosa qui?»
«Non
so. Ma non abbiamo molte altre piste. E poi non era in mezzo a un
libro che abbiamo scoperto dell’esistenza del Settore Cinque?
Magari avrà nascosto la mappa in mezzo a un altro libro.
«Non
credo. Mio padre non era tipo da ripetersi. Per cui sono piuttosto
sicura del fatto che avrà usato qualche altro metodo, per
nascondere
la mappa.»
«Dove
vuoi cercare?»
«Non
so, magari gli altri sono stati più fortunati.»
«Trovato
niente?»
Ulrich
non ricevette risposta. Non sapeva se perché non lo avessero
sentito
o perché effettivamente avessero trovato qualcosa.
«Come
non detto!»
Commentò
Jeremy, cercando di sdrammatizzare. Erano ore che cercavano e non
avevano ancora trovato nulla.
I
dubbi del ragazzo vennero fugati in breve tempo. I due scesero a mani
vuote.
«Come
immaginavo. Almeno avete qualche idea?»
Mentre
i cinque si interrogavano sul da farsi, poco lontano, al collegio
Kadic, tutti dormivano beatamente da ore. Tutti tranne Lucinda. Non
perché lei non volesse, ma perché Xana
aveva deciso così.
Doveva recuperare quanti più dati possibile sui suoi nemici,
e la
notte era il momento ideale per farlo, lontano da sguardi indiscreti.
Nel
caso in cui la ragazza fosse stata scoperta, fuori dalla sua stanza,
poteva contare sulla sempreverde scusa del dover andare al bagno,
mentre nel caso in cui fosse stata scoperta mentre entrava in
una stanza diversa dalla sua, avrebbe semplicemente potuto dire di
essersi confusa, di aver sbagliato. Una cosa piuttosto normale per un
essere umano. Ma non per un’intelligenza
artificiale.
Dopo
aver constato che la sua compagna di stanza fosse perduta nel mondo
dei sogni, si alzò e camminò in punta di piedi
fino alla porta
della stanza. Aprì delicatamente la porta e si diresse nella
stanza
accanto, quella in cui dormiva Aelita. In quel momento la ragazza era
assente, e Xana lo sapeva benissimo. Era il momento perfetto per
mettere in atto il suo piano. Ignaro del fatto che anche la ragazza
stesse facendo qualcosa di simile.
Sapeva
che quando la ragazza sarebbe tornata nella sua stanza e si sarebbe
accorta immediatamente di eventuali oggetti spostati o mancanti, per
cui avrebbe dovuto riposizionare perfettamente tutti gli oggetti che
avrebbe spostato da quel momento in avanti.
Decise
di iniziare dai cassetti della scrivania. Erano tre. Non ci sarebbe
voluto molto.
Aprì
il primo. Dentro c’erano solo dei quaderni, perfettamente
intonsi.
Neppure
il secondo o il terzo cassetto furono di aiuto. Erano vuoti. Aveva
ancora un po’ di tempo prima di tornare nella sua stanza.
Decise di
impiegarlo per ispezionare l’armadio. Non era grande. Aveva
solo
due ante e altrettanti cassetti. Sarebbe stata una cosa veloce.
Nei
cassetti non trovò nulla di utile. Se non avesse avuto la
certezza
di trovarsi nella stanza di Aelita, avrebbe potuto pensare di
trovarsi in quella di una ragazza qualsiasi.
Come
ultima spiaggia decise di aprire le ante dell’armadio. E
finalmente
trovò quello che cercava. Non nella forma in cui si
aspettava, ma se
lo doveva far andar bene.
Si
trattava di un semplicissimo libricino. Usato dalla ragazza come
diario. Era rosa, monocromatico, e aveva gli angoli della copertina
leggermente rovinati. Lo nascose sotto la maglietta del pigiama e
risistemò gli oggetti che aveva spostato, per poi tornare
nella sua
stanza. Aveva impiegato più tempo del previsto, ma
sembrò che
nessuno si fosse accorto di nulla. Per evitare di essere accusata del
furto, Xana fece sì che la ragazza nascondesse il diario
nell’armadio della compagna di stanza. Aveva notato di come
avesse
già preparato i vestiti per il giorno seguente, e aveva
giudicato
come altamente improbabile il
fatto
che la compagna di stanza avesse dovuto aprire l’armadio.
Alla
villa Hermitage i cinque si erano riuniti nel grande salotto
dell’Hermitage. Erano stanchi e delusi, non avendo trovato
nulla.
«E
se il Professore avesse deciso di disegnare quella mappa con
l’inchiostro simpatico?»
«Odd,
non fai ridere! Perché mai dovrebbe?»
Lo
riperese Ulrich.
«Odd,
sei un genio! Usare un inchiostro apparentemente invisibile
è un
modo semplice ed efficace per nascondere informazioni
preziose.»
«Si,
certo, avrà usato il succo di limone!»
«Amico,
non esiste solo quello, ne esistono altri, ma solo sentendoli
nominare, mi vengono i brividi.»
Controbattè
Odd.
«Adesso
che ci penso, lo scorso anno, la professoressa Hertz fece una lezione
su questo argomento.»
Intervenne
Yumi.
«Uno
degli inchiostri simpatici più comuni si basa sul
ferrocianuro di
potassio. Quest’ultimo, da solo risulta essere perfettamente
invisibile, ma quando reagisce con del nitrato di ferro, diventa
finalmente visibile. Sono dei materiali che un professore di scienze
può procurarsi con relativa facilità. E ora che
ci penso, ieri Odd
aveva trovato un taccuino con delle pagine bianche e un kit del
piccolo chimico. Potresti andare a prenderli?»
Dopo
un’iniziale riluttanza, il ragazzo si alzò dal
divano e si diresse
nella mansarda della villa.
Tornò
dopo alcuni minuti con la valigetta e il taccuino. Dalla sua
espressione era evidente il suo pentimento per aver fatto quella
battuta. Probabilmente se non l’avesse fatta, a quel punto
sarebbe
già stato sotto le coperte, ma ora non si poteva
più tirare
indietro.
Posò
la valigetta sul tavolino e la aprì. Sembrava non fosse mai
stata
usata. Come se fosse stata comprata e mai utilizzata.
Yumi
cercò, tra le diverse sostanze chimiche, proprio il nitrato
di
ferro, che scovò dopo una ricerca di una trentina di secondi.
Estrasse
la provetta dalla valigetta, che richiuse e posizionò sul
pavimento.
Al suo interno la sostanza in questione era formata da dei cristalli
color miele.
La
ragazza aprì la provetta e la ribaltò contro la
prima pagina del
taccuino. Apparentemente il kit appariva in buone condizioni, ma
doveva aver preso dell’umidità. Il nitrato cadde
come un blocco
compatto sulla prima pagina. Per fortuna il blocco non si era
sbriciolato, altrimenti sarebbe stato un disastro.
Aelita
estrasse un fazzoletto di carta dalla sua borsa e fece segno
all’amica di posare li sopra il blocco color miele.
Contemporaneamente,
sulla prima pagina del taccuino, la reazione chimica stava avendo
inizio. Si vedeva come quelle parole fossero state scritte di fretta.
Solo guardandole era ben comprensibile lo stato d’animo
dell’uomo
in quel momento.
Yumi
passò istintivamente il taccuino ad Aelita.
Dagli
occhi della ragazza iniziarono a scendere delle lacrime.
Quasi
non se la sentiva di leggere ad alta voce. Quasi sembrava che solo la
voce di suo padre potesse farlo. Incrociando gli sguardi del gruppo,
poteva scorgere due sentimenti ben diversi. Comprensione e
incoraggiamento.
La
ragazza si fece forza e iniziò a leggere.
«Mia
piccola Aelita. Spero con tutto me stesso che sia tu a leggere queste
righe. Sono sicuro che tu sia stata in grado di risolvere il piccolo
enigma.
Purtroppo
non mi posso dilungare molto, devo subito andare al sodo.
La
ragazza voltò la pagina del taccuino e fece reagire
dell’altro
nitrato sulla pagina.
«Raggiungi
la cantina dell’Hermitage, e entra nella cella frigorifera.
Nelle
pagine successive, dell’ulteriore nitrato, fece comparire una
mappa
molto semplificata della villa.
«Bene,
so cosa dobbiamo fare. Andiamo in cantina, poi vi spiego.»
I
cinque si precipitarono alla cantina della villa e raggiunsero la
cella frigorifera.
Non
era una stanza enorme, dopotutto il suo scopo era semplicemente
quello di contenere del cibo, non di certo quella di essere abitata.
Era priva di qualsiasi finestra. L’ingresso d’aria
fredda era
garantita da diverse bocchette che garantivano il raffreddamento di
tutta la stanza.
Sulle
pareti erano presenti degli scaffali, pieni di prodotti scaduti e sul
soffitto diversi ganci.
«Ci
siamo. Avendo la porta dietro le spalle, sulla parete sinistra tira
il terzo gancio a partire dal fondo.»
Ulrich
fece un balzo e si appese al gancio. Un rumore metallico
confermò
che il meccanismo era scattato.
«Ora
bisogna sollevare il quarto scaffale in fondo a destra.
Lo
scaffale sembrava pesasse parecchio.
«So
io chi ci può aiutare. Gardevoir, vieni fuori, usa psichico
per
sollevare quello scaffale.
La
Gardevoir shiny della ragazza uscì dalla Pokéball
e, grazie ai suoi
poteri, sollevò il pesante scaffale.
«Grazie.»
Utilizzando
i suoi poteri psichici, la GA fece capire alla sua allenatrice di
essere estremamente felice di esserle stata d'aiuto.
«Ci
siamo quasi. Ora dobbiamo chiudere, riaprire e chiudere di nuovo la
porta.»
Operazione
che venne completata da Yumi.
«Come
ultima cosa tira di nuovo il gancio.»
Ulrich
si riappese nuovamente al gancio. Che questa volta, non solo fece un
suono metallico, ma si abbassò anche di qualche centimetro.
Queste
operazioni rivelarono una piccola porticina in metallo, fino a quel
momento invisibile. Era talmente bassa che per attraversarla era
necessario acquattarsi.
Appena
entrati nella stanza, un sensore di movimento fece accendere una
grossa lampadina a incandescenza, che si trovava al centro della
stanza. La stanza era illuminata di un piacevole colore caldo.
«Ma
chi è che paga le bollette qui? Anche nel resto della villa
c’è
corrente, ora che ci penso.»
Odd
si prese una tirata d’orecchie da Ulrich.
«Ti
sembra questo il momento di farti domande del genere?»
Non
ricevette alcuna risposta. Ora il punto della questione era un altro.
Avevano scovato una nuova parte dell’abitazione e avrebbero
dovuto
esplorarla.
L’arredamento
della stanza era semplice, un divano di pelle, un mobiletto di legno
su cui troneggiava un pesantissimo televisore a tubo catodico e un
vecchio videoregistratore.
«Sei
sicuro che questa cosa non vada a carbone?»
«Sarà
anche vecchio, ma non così tanto, probabilmente quando lo
hanno
portato qui era appena uscito dal mercato.»
Lo
riprese Ulrich.
«Solo
che non capisco perché fare tutto questo lavoro per
nascondere
questi oggetti. Sembrano delle cose normalissime.»
Aggiunse
poco dopo.
«Se
sono qui, ci sarà un motivo. Non credi?»
Il
gruppo, con l’eccezione di Jeremy, si sedette sul divano. Il
biondo
armeggiò con il televisore e il videoregistratore.
Si assicurò
che le prese SCART fossero ben agganciate e che il registratore non
puzzasse di bruciato.
Dopo
aver completato i controlli, il ragazzo accese il televisore e il
videoregistratore. Alcuni istanti dopo il televisore si accese,
mostrando la classica schermata di assenza di segnale.
Il
ragazzo armeggiò con alcuni pulsanti del televisore, fino a
quando
sullo schermo non apparve la schermata del videoregistratore.
Sfondo
blù con la marca del registratore. Un’azienda
tedesca che aveva
chiuso i battenti diversi anni prima.
Il
ragazzo aprì lo sportellino del videoregistratore e
notò come, al
suo interno, fosse presente una videocassetta.
Il
ragazzo alzò il volume e premette il tasto play.
Pochi
istanti dopo il video partì.
Una
musica dolcissima si diffuse dagli altoparlanti del televisore. Sullo
schermo apparve una carrellata di fotografie della famiglia di
Aelita. Lei da piccola, massimo due o tre anni, insieme ai suoi,
mentre pedalava su di un piccolo triciclo, poi sempre lei,
abbracciata a una bellissima donna dai lunghi capelli rosa.
«Mamma.»
Disse
la ragazza, con un filo di voce.
Le
foto continuarono a scorrere. Ora erano Franz e la moglie, vestiti in
camice, probabilmente quella foto era stata scattata a lavoro. La
donna, probabilmente aveva guidato la mano del marito sulla pancia,
per fargli capire che lei era incinta.
Ora
le foto erano più recenti. Scattate alla villa Hermitage.
Quando
ormai sua madre Anthea era scomparsa.
Alla
musica si sovrappose la voce del professore.
«Figlia
mia. Spero che sia tu ad ascoltare le mie parole. Ho nascosto tutto
con cura, ma sono sicuro che tu sia in grado di trovare
tutto.»
Le
foto avevano smesso di scorrere. Al loro posto un video che ritraeva
il professore. Per certi versi rispecchiava la descrizione fornita
dal signor Garrigue. Non sembrava nemmeno l’ombra di se
stesso.
Molto dimagrito e dall’aspetto stanco. Aveva la barba lunga e
ingrigita. Dietro gli spessi occhiali, era possibile notare come i
suoi occhi fossero gonfi dalla stanchezza.
Indossava
una camicia azzurra. Era seduto su quello stesso divano dove ora il
gruppo stava guardando quel video.
«Se
stai guardando questo filmato, vuol dire che le cose per me sono
andate male. Se fossi sopravvissuto a tutto questo, sarei entrato qui
e avrei distrutto tutto.
Se
non l’ho fatto vuol dire che non sono più qui.
Prendi quelle foto
all’inizio come un piccolo regalo. Voglio che tu non ti senta
mai
sola.»
Aelita
era come ipnotizzata dalle parole di suo padre.
Il
discorso dell’uomo, intanto, continuava.
«Comincio
dicendo che ti devo molte spiegazioni. Il mio nome non è
veramente
Franz Hopper, ma Waldo Franz Sheaffer. Io e tua madre Anthea
lavoravamo a un progetto di massima segretezza, chiamato Cartagine.
Quando il progetto era quasi giunto al termine ci accorgemmo di come
il nostro lavoro non sarebbe servito a migliorare le condizioni di
vita di umani e Pokémon, ma bensì di utilizzare
per controllare il
mondo e di concentrare il potere nelle mani di pochi.
Pensavamo
di liberarci facilmente di loro, ma ci sbagliammo. Tua madre
è stata
rapita e noi due siamo stati costretti a cambiare spesso
identità.
E
sono sicuro, anzi, sono certo del fatto che Anthea sia ancora viva,
anche se non ho idea di dove si trovi né come stia. Ho fatto
quanto
possibile per trovarla, ma dovevo anche pensare a proteggerti.
Ho
assunto la falsa identità di Franz Hopper, un semplice
professore
del collegio Kadic. E, al contempo mi occupavo di creare il progetto
Lyoko, sfruttando tutto quello che io e tua madre abbiamo creato per
il progetto Cartagine.
La
mia idea era quella di creare Lyoko per proteggerci. Sia per poter
fuggire in caso di emergenza sia per proteggerci dagli effetti
negativi di Cartagine.
Nonostante
tutto, siamo stati scoperti anche qui. Hanno perfino tentato di
prenderti in ostaggio per chiedermi di fare quello che volevano.
Nel
farlo ti hanno ferita gravemente alla testa. Con un
proiettile.»
La
ragazza si passò la mano tra i capelli, notando una spessa
cicatrice. Prima di allora non ci aveva mai fatto caso. Non aveva
avuto motivo di farlo.
Mentre
la ragazza si toccava la cicatrice, come se se lo aspettasse,
l’uomo
restò in silenzio.
«Per
curarti esisteva solo un modo. E, immagino che tu abbia capito. Ho
registrato questo video subito dopo averti portato su Lyoko. Tra
pochi istanti ti raggiungerò.»
Dopo
questa frase, il video si bloccò per un attimo. Come se la
cassetta
si fosse parzialmente danneggiata. Quando riprese, sembrava che il
professore stesse terminando una frase mai cominciata.
«Devi
distruggere il Supercomputer e qualsiasi cosa riguardi la vecchia
fabbrica. Se non ci riesci da sola fatti aiutare dai tuoi
Pokémon.
Nessuno lo deve trovare e soprattutto utilizzare. Voglio che tu
sappia una cosa.»
L’uomo
stava piangendo. Cercava di asciugarsi le lacrime con un fazzoletto.
«Le
invenzioni non sono il problema. Il vero problema è come
vengono
utilizzate. Sappi che gli uomini sono pericolosi, gli uomini sono
cattivi. Pensano solo a loro stessi e mai alle conseguenze di quello
che fanno.
L’uomo
fece una pausa che sembrava durasse all’infinito.
«Ho
una seconda cosa da chiederti. Apri le ante del mobiletto dove si
trova il televisore. Al suo interno si trova un piccolo cofanetto di
legno. Aprilo. Al suo interno si trova una catenina con un ciondolo.
Quando ancora stavamo insieme lei me lo regalò. E io feci
altrettanto. Ti prego, custodiscilo come se fosse la cosa
più
preziosa del mondo.»
«Lo
farò, te lo prometto.»
La
ragazza lo disse sottovoce. In modo quasi impercettibile.
«Ora
io non sono più qui. Per cui ti affido un compito tanto
importante
quanto rischioso, un compito che io stesso non sono riuscito a
portare a termine. Trovare Anthea. In questa ricerca non sarai sola.
Sono sicuro che una persona potrà aiutarti. Non voglio
perder tempo
è»
La
videocassetta ebbe nuovamente un piccolo problema. Altri preziosi
secondi persi.
«Rena.
Puoi rivolgerti a loro.»
Il
video sembrava fosse finito. Lo schermo divenne nero.
Aelita
si alzò dal divano e si diresse verso il mobiletto del
televisore.
Si inginocchiò davanti allo stesso. Aprì entrambe
le ante e prese
il piccolo contenitore in legno. Seguendo le istruzioni di suo padre,
aprì il piccolo contenitore e trovò la piccola
catena d’oro con
il pendente.
Un
pendente poco più grande di una moneta, in oro lucido.
Talmente
lucido da potercisi specchiare.
Sul
ciondolo erano incise le iniziali della coppia. W e A. Sotto queste
ultime era disegnato un nodo da marinaio, a simboleggiare il loro
legame.
Jeremy
estrasse il suo telefono dalla tasca e guardò
l’ora.
«Diavolo,
dobbiamo correre, o arriveremo in ritardo a scuola.»
«Come
sarebbe a dire?»
Jeremy
mostrò a tutti il suo telefono. Era vero, mancavano appena
quaranta
minuti e sarebbero iniziate le lezioni. Non avevano di sicuro il
tempo per riposarsi. Dovevano essere anche veloci a darsi una
sistemata, dal loro aspetto era evidente che non avessero dormito.
Ad
ogni modo giunsero ai cancelli del collegio e si separarono
momentaneamente, per dirigersi nelle rispettive classi.
Si
erano dati appuntamento per l’ora di pranzo, dove avrebbero
deciso
sul da farsi.
Le
lezioni erano finite e i cinque si incontrarono in mensa.
I
cinque si sedettero al loro solito tavolo, pronti a consumare il loro
pasto.
«Come
sono andate le lezioni?»
Chiese
Yumi al gruppo. Non voleva subito venire al punto. Non voleva subito
parlare dell’argomento scottante. Non con tutto il viavai di
studenti che ancora si stava accomodando.
«Sai
che noia! Durante la lezione di letteratura mi hanno dovuto svegliare
almeno quattro volte. Non so come, ma non mi hanno mai sgridato. Con
la Hertz Jeremy ed Aelita ci hanno salvato la faccia.»
Rispose
Odd
«Io
avevo storia. Anche per me è stata una faticaccia stare
sveglia. Per
non parlare poi di chimica… Non ci ho capito niente. Sembra
di
essere tornati ai vecchi tempi, quando facevamo i salti mortali per
riuscire a galleggiare.»
«Non
gli rimpiango affatto.»
Le
fece eco Jeremy.
«Ma
a quanto pare non abbiamo molta scelta. Ora abbiamo almeno qualcosa
da cui partire. Più tardi vedrò se è
possibile recuperare le parti
mancanti da quella videocassetta.»
Aggiunse
Jeremy.
«Pensi
che sia necessario riaccendere il supercomputer? Sai, dopo quella
dimostrazione a Ash e Serena, ho perso totalmente la voglia di
ritornarci.»
«Non
servirà. Lo terremo spento. E appena la
troveremo…»
Lo
sguardo di Jeremy si posò sulla sua ragazza.
«Lo
distruggerai.»
Aelita
non disse nulla. Dopotutto quella era l’ultima
volontà di suo
padre. E avrebbe fatto di tutto per realizzarla.
Diverse
ore dopo, la maggior parte degli studenti e delle studentesse si
trovava nelle loro stanze. Era poco prima dell’ora di cena.
Alcuni
stavano studiando, altri, come Serena, stavano preparando la roba per
il giorno dopo.
La
ragazza aveva aperto il suo armadio per prendere un paio di Jeans,
quando si accorse di una piccola anomalia.
Una
sorta di libro rosa, con gli angoli rovinati.
Non
lo aveva mai notato prima.
“Probabilmente
apparteneva alla ragazza che dormiva qui prima di me”
Pensò.
Aprì
la copertina, nella speranza di trovare almeno un indizio su chi
potesse essere la proprietaria. La sua ricerca ebbe il successo
sperato. La proprietaria del diario era una ragazza chiamata
Aelita.
Un
nome che le era familiare. La ragazza con cui aveva lottato qualche
tempo prima si chiamava così. Poteva essere lei? E nel caso,
cosa ci
faceva il suo diario in quella stanza? Che fosse stato messo
lì da
quella Sissi per farle litigare?
Il
suo flusso di pensieri venne interrotto da una mano gelida che si
posò sulla sua spalla. Ricordava quella sensazione di gelo.
Quando
la mattina del sabato aveva stretto la mano a Lucinda. Possibile che
fosse ancora lei?
Non
dovette nemmeno girarsi del tutto, per accorgersi che si. Era ancora
lei.
E
pareva molto arrabbiata. Apparentemente senza motivo. Le
strappò
violentemente il diario dalle mani, lasciandola di stucco.
«Non
avresti dovuto toccarlo.»
«E
perché? Non è di sicuro tuo. Non mi pare che tu
ti chiami Aelita.»
«E
a te che ti importa? Se ti dico di non toccarlo, non lo tocchi.
Fine.»
Senza
che potesse in alcun modo reagire, la ragazza dai capelli color miele
si ritrovò a terra, con la schiena premuta contro il suo
letto.
Nonostante
il dolore si alzò. Non per controbattere, sarebbe passata
dalla
ragione al torto, ma quantomeno per avvisare chi di dovere. Ma fu
inutile. Non appena si rimise in piedi, venne di nuovo scaraventata.
Questa volta contro l’armadio. Con un colpo molto
più duro del
precedente.
Questo
era troppo. Ormai non le importava più di essere nella
ragione o nel
torto. Era diventata una questione di orgoglio.
Si
rialzò in piedi e cercò di spintonarla. Senza
riuscirci.
Una
frazione di secondo prima di colpirla, la ragazza dai capelli blu, si
era spostata. Contemporaneamente Serena sentì un forte
dolore alla
spalla destra.
«Inutile
che continui. Rischi solo di farti male. Devi solo rinunciare a
restituire quel diario.»
Serena
comprese ben presto in non avere scelta. Il dolore alla spalla stava
diventando insopportabile.
«Come
vuoi.»
In
men che non si dica corse fuori dalla sua stanza, poggiata contro il
muro, tenendo la mano sinistra sulla spalla destra.
Non
ci volle molto prima che due ragazzine, di un paio di anni
più
piccole di lei si avvicinassero.
Una
ragazza aveva i capelli rossi, tagliati corti. Occhi azzurri, pelle
pallida e numerose lentiggini. Indossava una maglietta azzurra, dei
pantaloni rosa e delle scarpe da ginnastica.
Accanto
a lei, una ragazza più o meno della sua età.
Leggermente più alta
di lei. Una ragazza dalla carnagione scura, aveva i capelli castano
scuro, legati in delle trecce strettissime. Indossava una maglietta
rosa e dei pantaloni sportivi verdi.
«Stai
bene?»
Chiese
la rossa.
«Abbiamo
sentito del rumore e volevamo vedere cos’era
successo.»
Aggiunse
l’altra ragazza.
«Nulla
di che. Una scaramuccia tra compagne di stanza.»
«A
me non sembra proprio. Non ti sei vista? Stai sanguinando! Dai su, ti
accompagnamo in infermeria.»
La
ragazza si tolse la mano dalla spalla e si accorse che sì,
effettivamente stava sanguinando. Andare a farsi curare quella ferita
non era una brutta idea.
«Oh,
grazie, gentilissime!»
Le
tre ragazze giunsero all’infermeria, poco prima che Jolanda,
l’infermiera della scuola, smontasse e venisse sostituita
dalla
guardia medica.
Milly
bussò alla porta.
Pochi
istanti dopo, una donna bionda di circa cinquant’anni
uscì dalla
stanza. Indossava un camice bianco, immacolato. Sulla tasca
superiore alcune penne.
«Cos’è
successo, ragazze?»
«Io
e la mia compagna di stanza abbiamo litigato e a un certo punto siamo
arrivate alle mani. Ho voluto evitare lo scontro, ma dopo che mi ha
spinto prima contro il letto e poi contro l’armadio non
c’ho più
visto e mi sono voluta difendere. Solo che appena mi sono avvicinata
a lei, ho sentito un dolore alla spalla.
Devo
ringraziare Milly e Tamya per avermi portato qui.»
«Capisco.
Io non mi occupo delle questioni disciplinari, per quelle
metterò al
corrente chi di dovere. Ora però è meglio che mi
occupi di questa
ferita.»
La
donna sollevò la manica della maglietta della ragazza e
constatò
come la ferita non fosse molto profonda.
Imbevette
una garza sterile con del disinfettante.
«Fai
attenzione, potrebbe fare un pochino male. Ma non ti preoccupare,
è
normale.»
La
donna disinfettò la ferita della ragazza e la
coprì con un grosso
cerotto.
«Fatto!
Vedrai che guarirà presto.»
Disse
la donna, in tono gentile.
I
suoi occhi si posarono poi sull’orologio, appeso a una parete.
«Ora
è meglio che andiate in mensa. È ora di
cena.»
Dopo
cena Serena si affrettò a raggiungere la sua stanza da
letto. Non
voleva passare un minuto in più con quella ragazza.
Prese
il diario di Aelita, i vestiti per il giorno dopo e un sacco a pelo
che si era portata dietro per situazioni del genere.
Con
la scusa di chiederle se poteva passare la notte da Aelita, avrebbe
potuto restituirle il diario.
Avrebbe
aspettato l’arrivo della ragazza per chiederglielo. Da come
le era
apparsa sembrava una persona gentilissima, non avrebbe sicuramente
detto di no. Nonostante questo, di sicuro non poteva entrare senza
permesso.
Ad
ogni modo non ci volle molto prima che la ragazza dai capelli rosa
entrasse nella sua stanza.
Aelita
si stava cambiando, quando sentì bussare alla porta.
«Un
attimo! »
La
ragazza finì di indossare il pigiama.
«Bene,
ora puoi entrare, scusa, ma mi stavo cambiando.»
Serena
entrò nella stanza.
«Non
fa niente, figurati. Scusa se te lo chiedo ma potrei passare la notte
da te? Ho avuto una brutta discussione con la mia compagna di
stanza.»
«Certo,
resta pure, ci mancherebbe altro.»
«Sei
davvero gentile. Non come quella lì!»
La
ragazza dispose il suo sacco a pelo per terra e si sedette sul letto,
accanto alla legittima proprietaria della stanza. Non era ancora ora
di coricarsi, per cui ne avrebbero approfittato per conoscersi
meglio.
Mentre
le due ragazze chiacchieravano, un uomo, chiamato Grigory
Nicolapolus, stava percorrendo ad alta velocità una delle
numerose
autostrade della Francia.
Guidava
un potente Dodge Ram SRT 10. Un gigantesco pick-up americano, spinto
da un altrettanto gigantesco V10 da oltre ottomila centimetri cubi di
cilindrata.
L’uomo
sbuffò. Detestava dover viaggiare continuamente da una
città
all’altra, ma il suo lavoro lo costringeva a farlo
praticamente una
volta a settimana. Inoltre il suo lavoro lo costringeva ad
essere sempre solo. Poteva passare anche mesi interi con la sola
compagnia dei suoi due Houndoom.
«Non
ci vorrà molto, belli.»
Il
suo tono era nervoso. Stava lavorando a qualcosa di grosso, e
nonostante fosse stato addestrato a situazioni del genere, non
riusciva a nascondere del tutto ciò che provava.
Non
si preoccupava nemmeno di rispettare i limiti di velocità.
Chi mai
lo avrebbe potuto controllare a quell’ora?
Era
sbarcato da Marsiglia e si stava dirigendo a Parigi. Nonostante
fossero passate delle ore, aveva ancora fresca in mente
l’umiliazione
subita da un taxi di quella città, una Peugeot 406. Si era
ripromesso che chiusa la questione a cui stava lavorando, gli avrebbe
concesso la rivincita.
Il
lungo tappeto di asfalto scorreva sotto le gigantesche ruote del
mezzo, in modo confuso.
Girò
a uno svincolo autostradale e si diresse a uno sportello automatico.
Aprì il portaoggetti e estrasse del denaro contante. Non
poteva
permettersi che i suoi pagamenti venissero tracciati.
La
sbarra automatica si aprì. Pochi chilometri e sarebbe
finalmente
arrivato alle porte della città.
Città
che lo accolse un poco alla volta. Prima alcuni capannoni di alcune
aziende locali, poi delle case isolate, quindi i primi complessi
residenziali e infine, finalmente, dei quartieri.
Era
sbarcato a Marsiglia nel pomeriggio. Dopo una lunga traversata in
nave.
Li
aveva incontrato un suo contatto, un uomo, apparentemente
normalissimo, che nulla sembrava potesse spartire con lui. L'uomo gli
consegnò due Pokéball e un mazzo di
chiavi.
«Ecco
a lei!»
Grigory
non gli rispose. Aveva quasi strappato tutto dalle mani
dell’uomo e
si era precipitato al suo pick«up. Aveva fatto uscire i due
Pokémon
dalle rispettive Pokéball, facendo sì che si
potessero accomodare
sul sedile posteriore.
Da
allora non aveva fatto altro che guidare, guidare e guidare.
Si
era fermato solo per fare benzina e per far sgranchire e mangiare i
suoi Pokémon. Lui no. Sarebbe stata solo una perdita di
tempo, e lui
non ne voleva sprecare. Aveva anche rischiato di fare un incidente
per la stanchezza.
Ma
non poteva occuparsi dei suoi bisogni. Doveva prima di tutto
lavorare.
Dopo
un’altra mezz'ora di guida raggiunse il suo primo obiettivo,
una
villa di tre piani di inizio secolo. Alta e stretta. Era circondata
da una staccionata di legno, rovinata dal tempo.
Una
targhetta con la scritta “Hermitage”, attaccata al
cancello,
confermò che aveva raggiunto la sua prima destinazione.
Tuttavia
decise di non fermarsi. Non era quello il momento, avrebbe dovuto
visitare altri luoghi.
Continuò
a guidare fino a costeggiare la Senna. Si voltò verso un
isolotto,
coperto integralmente da una fabbrica abbandonata, ma stranamente
illuminata.
L’uomo
tornò indietro, verso il collegio Kadic. Ancora prima di
raggiungerlo fu in grado di di identificare le sagome degli edifici
più alti.
L’uomo
fermò il suo mezzo e uscì, insieme ai suoi due
Houndoom.
Aelita
si svegliò di soprassalto, allertata da degli ululati.
«Gli
avrò davvero sentiti o me li sono immaginati?»
Si
era dimenticata di non essere da sola e forse lo aveva detto a voce
troppo alta.
«Che
succede?»
Serena
era stata svegliata dalla domanda della sua compagna di stanza.
«Oh,
scusami se ti ho svegliata. È che sono stata svegliata da
quegli
ululati. Gli hai sentiti anche te?»
«Si,
sembrano degli Houndoom, ho notato che non sono affatto comuni da
queste parti. E poi non hanno una bella reputazione. Posso capire che
tu ti sia spaventata.»
«Sai,
il vero motivo è un altro. Sino allo scorso anno avevo molto
spesso
un incubo.»
«Un
incubo?»
«Esattamente.
Mi trovavo da sola, nel bel mezzo di un bosco. Senza nessuno dei miei
Pokémon. sola e disperata, mentre cerco di fuggire e
raggiungere
casa.
A
un certo punto un branco di Houndoom compare dal nulla e mi insegue.
Sento proprio i loro ululati e il loro fiato bollente addosso. Mi
capitava di inciampare e rischiare di farmi raggiungere da loro, fino
a farmi quasi mordere.
Fino
a quando non raggiungo casa, con ancora quelle bestie alle
costole.
Apro
la porta e vedo mio padre suonare il pianoforte, che si gira verso di
me.
A
un certo punto arrivano degli uomini vestiti di nero, che circondano
la casa, e io e mio padre scappavamo per chissà dove, con
quegli
uomini che, a loro volta si trasformano in Houndoom e iniziano a
sputare fiamme.
«Deve
essere terribile sognarlo tutte le notti. Ma almeno te… puoi
contare su tuo padre…»
«Mio
padre è morto qualche mese fa… incidente
stradale.»
Di
sicuro non poteva raccontare di come suo padre si fosse sacrificato
per uccidere una perfida intelligenza artificiale che tentava di
conquistare il mondo. E la scusa di un incidente era abbastanza
credibile.
Serena
voleva maledirsi.
«Oh,
scusa. Mi dispiace.»
«Non
ti preoccupare. Non potevi saperlo.»
«Annibale,
Scipione, andiamo!»
L’uomo
si riferiva ai suoi due Houndoom.
«Per
ora basta così con il sopralluogo.»
Fece
salire i due Pokémon a bordo del suo mezzo e
ripartì alla volta,
alla volta di un edificio apparentemente abbandonato, nella periferia
della città.
L'edificio
era protetto da del filo spinato in gran parte arrugginito.
«Per
fortuna ho fatto l’antitetanica.»
Commentò,
in tono ironico.
L’uomo
scese dal suo mezzo e aprì il cancello del palazzetto con le
chiavi
datele dal suo contatto. Fece entrare il suo pick-up e richiuse il
cancello a sua volta. Dopodiché si dedicò a
scaricare la sua
attrezzatura.
Mentre
al collegio Kadic iniziava una normalissima giornata, Grigory aveva
appena finito di sistemare tutte le sue attrezzature. Nel sangue
aveva più caffeina che globuli rossi, ma almeno aveva
concluso il
suo lavoro.
Per
evitare che i suoi Houndoom potessero disturbarlo, aveva deciso di
distrarre con del cibo. Un’intera carcassa di un Tauros,
ancora
insanguinata.
Sulle
pareti della stanza erano appesi diversi monitor a schermo piatto.
Due erano da oltre quaranta pollici, ed erano circondati da
un’altra
decina di monitor più piccoli. Erano tutti della stessa
marca. Una
nota azienda sudcoreana.
Aveva
anche installato delle antenne paraboliche all’esterno, dal
lato
opposto alla strada. Non poteva permettersi che venisse scoperto.
Dentro
l’edificio numerose altre apparecchiature radiofoniche, da
apparecchiature da radioamatore a dispositivi per intercettare le
comunicazioni radio della polizia.
Aveva
anche portato tre computer. Uno per gestire tutte le apparecchiature,
gli altri due per comunicare con l’esterno. Ovviamente
utilizzando
una VPN. Di sicuro non poteva permettersi di essere scoperto.
Nel
cascione aveva lasciato solamente tre casse. Due delle quali erano
piene di microspie, microfoni direzionali e via discorrendo.
Sulla
terza era disegnata la sagoma dorata di un Ho«oh. Al suo
interno si
trovava la cosa più preziosa che trasportava.
L’avrebbe usata solo
a tempo debito.
Scosse
il mouse di uno dei suoi computer. Proprio nel momento in cui proprio
i suoi obiettivi stavano parlando.
«E
così le ho raccontato di come quegli ululati mi avessero
ricordato
del mio incubo ricorrente. Lei è stata molto comprensiva,
probabilmente altre persone se la sarebbero presa.»
L’uomo
aveva immediatamente riconosciuto la voce della ragazza. Si trattava
di Aelita Stones, o Hopper, o Schaeffer. E probabilmente stava
parlando dei suoi due Houndoom.
“Dovrò
fare più attenzione”
Pensò
tra sé e sé.
«Ma
non avevi una stanza singola?»
L’uomo
si accorse di come quella fosse una voce diversa, di un ragazzo. Il
sistema di riconoscimento vocale diede risposta dopo poco tempo. Si
trattava di Jeremy Belpois.
«Si,
ma Ser…»
L’uomo
dovette smettere di ascoltare la loro conversazione. Non sembrava
importante, per sua fortuna. Ma in ogni caso nulla era più
importante di una chiamata del suo capo.
Sullo
schermo del computer apparve il busto di un uomo. Per quello che
poteva vedere l’uomo indossava una giacca grigia e una
camicia
bianca.
Sul
bavero portava una spilla d’oro a forma di Ho-oh. Stesso
simbolo
riportato sulla cassa in cui conteneva il prezioso dispositivo.
L’uomo
stava giocherellando con il mouse del suo computer, facendo
tintinnare i suoi numerosissimi anelli d’oro.
Dall’inquadratura
era appena visibile la parte inferiore del volto. L’uomo
aprì
bocca, mostrando i suoi canini d’oro.
«Grigory,
buongiorno.»
«A
lei capo.»
Entrambi
utilizzavano un dispositivo per camuffare la voce. In nessun modo era
possibile riconoscere la loro vera voce. Per quanto sofisticate
fossero le attrezzature impiegate.
«A
che punto sei?»
Il
capo venne immediatamente al sodo. Gli importava solo di quello.
«La
base è operativa al cento per cento. Entro domani la
mappatura di
tutti i luoghi chiave sarà completata. Sarà
udibile anche il minimo
sussurro e sarà visibile il minimo movimento.»
«Eccellente.
Ma sai bene che quello non è il tuo solo
obiettivo.»
«Agli
ordini.»
L’uomo
aprì una nuova finestra sul suo computer, restando ancora in
contatto con il suo capo.
«Da
chi vuole che cominci?»
«Non
mi importa. Onestamente, ma da un mio informatore ho scoperto che,
pochi giorni fa, al Kadic è arrivata la figlia del
traditore.
Detto questo voglio solo che tutto vada avanti. E necessito di
qualsiasi materiale firmato dal Professore.
Ci
siamo capiti?»
«Agli
ordini!»
«E,
soprattutto ESIGO che tu mi confermi l’esistenza del
Supercomputer.
Dopo che il nostro agente più fidato c’ha traditi
abbiamo subito
un durissimo colpo. Dobbiamo farlo cantare, anche a costo di
prenderci sua figlia.
Mi
voglio riprendere la rivincita.»
«Agli
ordini!»
L’uomo
battè sulla tastiera, ricercando negli archivi del collegio.
Sapeva
che quella ragazza era arrivata da poco, quindi era sicuramente tra
le iscrizioni più recenti.
Aveva
grossomodo quindici anni, per cui avrebbe potuto
ulteriormente
restringere il campo di ricerca.
Aprì
l’archivio della seconda superiore e ordinò i dati
degli studenti
e delle studentesse in base all’iscrizione più
recente. Le
iscrizioni più recenti erano quelle di due ragazze. Una
giapponese e
una francese.
L’uomo
trasmise i dati al suo capo.
«Non
ho dubbi. La francesina.»
«Allora
comincio da lei.»
«Lei
è abbastanza inutile ora. Prima dobbiamo scovare suo padre,
ma non
abbiamo idea di dove si trovi. Sua madre è a Berlino.
Manderò un
nostro agente a prendere quello che ci spetta. Tu occupati di questa
città.»
«Agli
ordini.»
Intanto,
al Kadic, stavano iniziando le lezioni, e per la seconda volta nel
giro di pochi giorni, il signor Jean-Pierre Delmas era entrato nella
seconda superiore, per presentare una nuova alunna.
Una
ragazza giapponese dai capelli blu e dagli occhi grossomodo dello
stesso colore.
Indossava
una maglietta rosa parzialmente coperta da un giacchino nero, con una
stella disegnata sul lato destro, una gonna nera e degli stivaletti.
La
ragazza attirò gli sguardi di gran parte dei ragazzi, Odd su
tutti.
«Se
vuoi lei è single.»
Ash
lo punzecchiò sottovoce. Nonostante non lo conoscesse ancora
benissimo, si era fatto un’idea di che tipo di persona fosse
quel
ragazzo. Si comportava tale e quale a un suo carissimo amico.
«Buongiorno
a tutti, ragazzi.»
«Buongiorno
signor preside.»
Tutti
gli alunni si alzarono in piedi, per poi accomodarsi al proprio
posto.
Il
preside fece il suo solito lunghissimo discorso di presentazione che
faceva ogni volta che in una classe arrivava un nuovo alunno o una
nuova alunna, discorso in cui ne elencava vita, morte e miracoli, in
cui ricordava di tenere sempre alta la nomea dell’istituto e
di
come ogni nuovo arrivo fosse un’opportunità di
migliorarsi.
Rispetto
alle altre volte si lasciò scappare una battuta sul fatto
che
qualcuno aveva già avuto la possibilità di fare
la sua conoscenza.
Qualche
ora dopo i cinque si ritrovarono nella stanza di Ulrich e Odd.
Quest’ultimo
giocherellava con il suo piccolo Lillipup.
«A
cos’è dovuta questa riunione? Non mi sembra che ci
siano novità.»
«Non
proprio, o meglio, vi ho chiesto di incontrarci per mettere assieme
tutti i pezzi che abbiamo fino ad ora. Se davvero vogliamo aiutare
Aelita, ovviamente.»
«Einstein,
che intendi?»
Jeremy
prese un quaderno e una penna.
«Sappiamo
che Anthea, la madre di Aelita, è stata rapita da degli
individui
sconosciuti.»
«Si,
ma sono passati tantissimi anni. Non è detto che sia ancora
tra
noi.»
«Yumi.
Me lo sento. È ancora qui, tra noi. Credimi.»
«Sei
sicura? Quando è scomparsa eri molto piccola.
Come…»
«Me
lo sento e basta. Magari è solo una mia semplice
convinzione, ma
dopo quell’incontro, non riesco a non pensarci. E poi, se non
mi
volete aiutare, farò da sola.»
«Sia
mai. Solo che non vogliamo darti delle false speranze.»
«In
ogni caso…»
Jeremy
interruppe la discussione sul nascere.
«Sento
che non abbiamo ancora scoperto tutto sul Professor Hopper. Come un
iceberg. Secondo me non siamo ancora oltre la punta. Per esempio
sappiamo che ha lavorato a quel progetto segreto, Cartagine, ma cosa
intendeva dire quando diceva di aver creato Lyoko per limitarne gli
effetti negativi? E in più perché ha creato
Xana?
E
come mai si è rivoltato al suo creatore e ha cercato di
ucciderci e
di conquistare il mondo?»
«Si,
ma ne hai per molto o puoi andare dritto al punto? Non è
carino far
aspettare una ragazza.»
«Odd,
sei sempre il solito! Ma se proprio insisti…
Sappiamo
che il professor Hopper e Aelita si trasferirono qui nel 1988. Il
Professore ha lavorato qui da allora fino a quel fatidico sei giugno.
Era un insegnante di scienze.»
«Si,
ma quindi, non avevi detto che saresti arrivato al punto?»
Odd
era sul punto di perdere la pazienza.
«E
quindi vorrei parlare con la persona che l’ha sostituito, che
lavora ancora qui al Kadic. La professoressa Hertz.»
«La
Hertz?»
I
quattro gli risposero in coro.
Ulrich
prese la parola.
«Sei
sicuro? A me sembra una persona troppo seria per aver avuto a che
fare con tutte quelle cose. Sicuro di non aver preso un
abbaglio?»
«Non
abbiamo molta scelta. Anche perché ho scoperto che prima di
lavorare
come professoressa era la sua assistente di laboratorio. E sappiamo
tutti che il caso non esiste.»
«Finito?»
«Finito!»
Odd
uscì dalla stanza alla velocità della luce. Aveva
dato appuntamento
a Lucinda di fronte ai distributori automatici. E doveva essere
lì
entro due minuti. Cercò di calmarsi. Durante le lezioni si
era
studiato diversi argomenti di conversazione, per evitare brutte
figure. Aveva riflettuto molto sulle parole dell’amico. E si
era
reso conto di come effettivamente avesse ragione. Riuscì ad
arrivare
con un ritardo di appena un minuto.
«Scusa
se ti ho fatto aspettare.
Xana,
ben presto capì che sarebbe stato meglio far fare quasi
tutto alla
ragazza. Il biondino era un ottimo modo per avere
delle
informazioni, ma al contempo doveva elaborare dei piani qualora
questo non fosse accaduto.
«Non
ti preoccupare.»
«Seguimi.
Ti porterò in un posto speciale. Vedrai, ti
piacerà!»
“Posto
speciale?” Aveva sentito bene? Quel biondino sembrava
più stupido
di quanto non fosse? La avrebbe portata al supercomputer al primo
appuntamento?
I
due si avventurarono nella pineta che separava il collegio dal mondo
esterno.
«Non
so come mai, ma nessuno si è mai preoccupato del fatto che
da qui si
possa fuggire.»
«Fuggire?»
Chiese
la ragazza.
«Esatto.
Il posto speciale si trova fuori da qui, ma non è lontano,
vedrai.»
I
due camminarono senza parlare per una decina di minuti, fino a quando
non giunsero in un piccolo bar. “Da Charles”
«Ecco
qui. Servono le migliori paste di tutta la città. E forse
anche le
più grandi.»
Appena
i due si sedettero a un tavolo, vennero raggiunti da una cameriera.
Una ragazza piuttosto giovane, ma che sembrava lavorasse lì
da
tempo.
«Salve
ragazzi, cosa ordinate?»
Lo
sguardo di Lucinda si era posato sul ripiano in cui erano esposte le
diverse paste.
«Per
me una russa e un cappuccino, grazie.»
«Anche
per me.»
«Benissimo,
arrivano.»
La
giovane cameriera tornò dopo alcuni istanti, servendo
entrambi.
Poi
si allontanò. Dalla sua esperienza era chiaro che quel
ragazzo ci
stesse provando, e non voleva interferire.
«Sai,
ho sentito parlare di te.»
Esordì
il ragazzo.
«In
bene, si intende. So che sei una famosa super coordinatrice. E che
recentemente hai vinto la sesta Coppa Adriano consecutiva. Sei tanto
bella quanto brava, credimi.»
«Oh,
così mi lusinghi.»
La
ragazza iniziò a bere il suo cappuccino.
«Lo
bevi così… alla crudele?»
«Crudele?
»
«Insomma…
senza zucchero?»
«Oh,
ecco perché era così amaro, mi sembrava
strano.»
La
ragazza riversò all’interno della tazza una
bustina di zucchero,
poi mescolò la bevanda per disciognierlo.
«Sai…»
Disse
il ragazzo dopo aver bevuto un abbondante sorso della bevanda.
«Qui
le gare di lotta non sono popolari come in Giappone. Per quel che ne
so lì ogni prefettura ha il suo circuito, o mi
sbaglio?»
«No,
non ti sbagli, è esattamente così. Ogni
prefettura ha il suo
circuito di gare, con l’eccezione della Coppa Adriano che,
indipendentemente da dove si svolge, ha valore a livello
nazionale.»
«Qui
invece…»
Il
ragazzo si pulì la bocca con un fazzoletto. Si era appena
accorto di
aver prosciugato il suo cappuccino in due sorsi.
«Ogni
città organizza i suoi circuiti di gare, e i due
più famosi sono
qui a Parigi e giù a Marsiglia. Ed è ironico,
perché queste due
città sono, per così dire rivali. Anche se vanno
di più le
performer.»
«Rivali?»
«Esatto.
Parigini e marsigliesi non si possono vedere. Pensano che la loro
città sia la migliore. E puoi immaginare come finisca ogni
volta.»
«Posso
immaginare.»
I
due stettero in silenzio per qualche istante.
«Dimmi
una cosa.»
Chiese
la ragazza.
«Tutto
quello che vuoi.»
«Di
cosa si occupano le performer? Ne ho sentito parlare e, da quello che
ho capito, non sono poi così diverse da noi coordinatrici,
ma non ho
mai approfondito più di tanto.»
«La
prima differenza è che possono essere unicamente ragazze.
Contrariamente alle gare di lotta dove possono partecipare
indistintamente ragazzi e ragazze.
Altra
differenza è che non viene unicamente valutata
l’abilità nel
combinare le mosse dei propri pokémon o le proprie
abilità in
lotta. Tutt’altro. Le lotte nei varietà sono
vietate. Vengono
valutate le abilità delle singole partecipanti in sfide ogni
volta
diverse, come l’abilità in cucina, la conoscenza
delle abilità
dei diversi Pokémon e così via. È una
fase a turni e a ogni turno
passa solo la migliore. Onestamente credo che tu non avresti alcun
problema a farlo.
La
ragazza sorrise. Xana, invece, si maledì. Stava solo
perdendo tempo.
Quel ragazzo aveva una parlantina assurda.
«Le
ragazze che passano al turno successivo, invece, partecipano
all’esibizione libera. È simile al saggio di
recitazione delle
gare, ma ogni ragazza può usare tutti i Pokémon
che vuole e
soprattutto partecipa direttamente all’esibizione.»
«Sembra
interessante. Dato che ci sei, puoi togliermi una
curiosità?»
«Tutto
quello che vuoi.»
«Da
voi come funziona la lega Pokémon? In Giappone funziona come
per le
gare. Ogni distretto ha la sua. Da voi?»
«Oh,
qui cambia molto da Stato a Stato. Qui in Francia ce ne sono due. Una
che ha sede a Parigi e si occupa del nord della Francia, e una a
Marsiglia, che si occupa del sud.
La
maggior parte degli altri Stati ne ha una sola a livello nazionale.
Tranne alcune eccezioni.»
«Tipo?»
«Spagna
e Portogallo condividono la stessa. Ha sede a Madrid. O
l’Italia,
che ne ha cinque.»
«Cinque?»
«Esatto.
Una per il nord che ha sede a Milano, una per il centro che ha sede a
Roma, una per il sud che ha sede a Napoli. Una per la Sicilia che ha
sede a Palermo e una per la Sardegna che ha sede a Cagliari.»
«Dimmi
un po’, ti definisci un allenatore o un coordinatore?
«Entrambi?
O forse nessuno dei due. È difficile. Non so ben definirlo.
Molti mi
dicono che le mie esibizioni sembrano delle lotte e le lotte delle
esibizioni.»
«Capisco.
Cosa ne dici se dopo ci affrontiamo?»
«Oh,
si. Certo, come desideri.»
Il
ragazzo si era alzato e diretto al bancone per saldare il conto.
Quattro euro spaccati.
Tornato
al tavolo, guardò di sfuggita l’ora sul suo
telefono. E si rese
conto di quanto fosse tardi. Sembrava fosse passato molto meno tempo,
anche se avevano trascorso gran parte del tempo semplicemente
scambiandosi sguardi.
«Forse
è meglio che rientriamo. Potrebbero scoprirci.»
«Va
bene.»
I
due uscirono dal bar e percorsero a ritroso la stessa strada che li
aveva condotti fino a lì.
«Oh,
sai, mi sono trovata bene con te. Solo che…»
«Solo
che?»
«Mi
sei sembrato ingessato.»
“Ingessato?”
Xana
si rese conto di come la situazione gli stesse sfuggendo. A lui poco
importava se quel ragazzo sembrasse ingessato. Per lui la sola cosa
importante è che quel ragazzo cantasse. E non lo aveva
fatto. In
ogni caso aveva approfittato di quel tempo per elaborare un piano
alternativo.
Aveva
scoperto che Ash, caro amico di Lucinda, era compagno di stanza di
Jeremy, e che avrebbe potuto avere un facile accesso alle sue
attrezzature.
«Tutto
bene?»
Odd
aveva notato come la ragazza avesse lo sguardo perso nel vuoto, per
diverso tempo.
«Oh,
si, si. Assolutamente.»
I
due erano giunti al collegio e nessuno si era accorto della fuga. Per
fortuna, o avrebbero rischiato una severa punizione.
Lucinda
si era affrettata a raggiungere la sua stanza. Se Xana voleva attuare
il suo piano, doveva precederla e ogni costo.
Cosa
che le riuscì perfettamente. Chiuse la porta a chiave e la
lasciò
inserita nella toppa, in modo che la porta non potesse essere aperta
dall’esterno.
Una
decina di minuti dopo, sentì una persona tentare di entrare,
agendo
continuamente sulla maniglia.
«Fammi
entrare!»
Riconobbe
immediatamente quella voce. Era la sua compagna di stanza.
«No.»
«Fammi
entrare o sarò costretta a chiamare il signor Jim. E gli
dirò anche
tutto quello che mi hai fatto. Poi vediamo se non mi fai
entrare.»
Ash
era intimorito. Non aveva mai visto la sua ragazza così
arrabbiata.
Era così affascinante anche quando era sul punto di compiere
un
omicidio.
«Mi
basta Ash.»
Gli
sguardi della coppia si incrociarono, per un breve istante.
E
Ash stava già bussando alla porta.
«Apri.
Sono Ash!»
Lucinda
tolse la chiave dalla serratura e osservò dal buco. Xana non
voleva
che gli venissero giocati brutti scherzi. E anche se, attingendo alla
memoria di quella ragazza, sapeva che Ash era una persona di cui
fidarsi, ma non aveva idea di come lo stesso si sarebbe comportato
nei casi in cui la sua ragazza fosse coinvolta nella vicenda.
Appena
notò che la stessa si era allontanata a sufficienza
aprì la porta e
fece entrare il ragazzo e il suo inseparabile Pikachu.
Appena
il ragazzo entrò, la ragazza si affrettò a
richiudere la porta a
chiave e a tappare la toppa con del nastro adesivo. Chiuse anche la
tapparella e accese la luce.
Ash,
nel frattempo, si era seduto nel letto dell’amica, con
Pikachu che
si era accomodato sulle sue gambe.
«Beh,
quindi? Come mai non volevi che Serena entrasse qui? Dopotutto non
è
anche la SUA stanza?»
«Oh,
beh, vedi…»
La
ragazza si sedette sul letto, accanto a lui.
«Ho
avuto un piccolo inconveniente con lei e ne avrei voluto parlare con
te. Siamo amici e con te ho molta più
confidenza.»
«Capisco.»
Ash
non si era ancora accorto di nulla, ma la ragazza si era
pericolosamente avvicinata. Pikachu, avendo fiutato il pericolo, era
saltato sul pavimento, e si era preventivamente coperto gli occhi con
le lunghe orecchie, secondo il modo di dire occhio non vede, cuore
non duole.
Era
successo tutto in attimo.
La
ragazza prese il ragazzo per la maglietta e lo tirò verso di
sé.
Ash
ancora non lo aveva capito, ma sarebbe presto divenuto la pedina di
un piano molto più grande di lui.
Quando
lo realizzò fu troppo tardi. Le labbra della ragazza erano
premute
contro le sue. E un denso fumo nero stava passando dalla bocca della
ragazza alla sua.
Ash
era crollato. Non aveva realizzato quello che era successo, e forse
non l'avrebbe mai fatto. Ora non era più lui ai
comandi.
Xana
si rese conto di come controllare quel ragazzo fosse molto
più
facile. Aveva due neuroni in croce e avrebbe eseguito i suoi ordini
senza protestare.
Alcuni
minuti dopo Lucinda si alzò e sollevò la
tapparella, permettendo
alla luce naturale di rientrare nella stanza. In seguito spense la
luce e rimosse il nastro dalla toppa. Infine aprì la porta.
Ash,
ora sotto il controllo di Xana, si alzò e si diresse verso
la sua
ragazza.
«Come
mai ti voleva?»
«Nulla
di che. Voleva parlarmi di quello che era successo tra voi due ieri.
E chiedermi dei consigli su come far pace»
«E
non poteva parlare direttamente con me?»
«Mi
ha detto che non se la sentiva. Che voleva parlare prima con me
perché ha più confidenza. Prima di dirti cosa mi
ha detto vorrei
ricordarti che ambasciator non porta pena.»
“Ambasciator
non porta pena?”
Non
aveva mai sentito il suo Ash parlare in quel modo. Per cui ne dedusse
che doveva trattarsi di qualcosa di importante.
«Come
vuoi. Dimmi pure.»
«Mi
ha raccontato di quello che è successo ieri. Io non ne
sapevo nulla.
Per cui ti posso solo raccontare la sua versione. E poi di quello che
mi ha proposto per finire questa discussione.»
«Vai.»
«Secondo
lei…»
“Ma
che gli è preso?”
Pensò
la ragazza.
“Quante
volte deve ancora dire che lo sta dicendo per suo conto?”
«Secondo
lei saresti stata te a rubare il diario da cui è partito
tutto. So
benissimo che tu non ti permetteresti mai di fare una cosa del
genere. Ma nemmeno lei.»
«E
allora?»
«Non
voleva che lo toccassi perché voleva essere lei a
restituirlo,
facendolo passare per l’ufficio oggetti smarriti. In modo che
nessuno scoprisse chi lo aveva portato e che la diretta interessata
lo avrebbe potuto riavere senza sapere chi lo avesse restituito.
Ecco. E mi ha detto che si sente molto in colpa per quello che ha
fatto.»
«E?»
«E
mi ha proposto un piccolo accordo di tregua.»
«Tregua?»
«Si
è sentita offesa per il fatto che non hai dormito
con lei dopo
la litigata. Non sa con chi hai dormito, ma mi ha chiesto se potevi
dormire con lei per una settimana. Inizialmente mi ha proposto un
mese, ma sono riuscito a tirare fino a una settimana.»
«E
perché dovrei accettare? Cosa ci guadagno?»
«Immagino
che tu abbia una tua versione di come sono accadute le cose.»
«Esatto.
Ho trovato quel diario nel mio armadio. E di sicuro non lo avevo
messo io. Non che lo abbia messo lei. Ma non è quello il
punto.
Volevo restituirlo e basta. E, aprendo la copertina avevo letto che
la proprietaria del diario si chiama Aelita. Proprio come la ragazza
da cui avevo passato la notte.
Lei
mi ha assalito dicendo che non avrei mai dovuto restituirlo.»
«Capisco.
E io ti credo. La tua versione mi sembra molto più
attendibile, ma
c’è un problema.
Se
entrambe raccontate la vostra versione a qualcuno, come al signor
Jim, lui, molto probabilmente non saprà a chi credere.
Probabilmente
vi metterebbe entrambi in punizione.»
«Non
ho molta scelta. Prendo la mia roba e mi trasferisco da Aelita.
Chiederò al signor Jim di rendere la cosa definitiva. Quella
ragazza
è una pazza, mi chiedo come possa essere tua
amica.»
«Anche
quando ci ho parlato mi è sembrata diversa dal
solito.»
«Come
vuoi. Ma non giustificarla. O resterai solo.»
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Capitolo 3 *** Ancora segreti ***
Ancora
segreti
Mentre
Odd era uscito con Lucinda, Jeremy si era diretto verso
l’ufficio
della professoressa Hertz. Ormai aveva imparato a conoscerla. Sapeva
che ogni sera si chiudeva nel suo ufficio per correggere i compiti.
Jeremy
non era mai entrato lì dentro prima di allora. Non ne aveva
mai mai
avuto bisogno.
Bussò
alla porta, attendendo che la professoressa gli desse il permesso per
entrare.
«Entra
pure.»
La
professoressa di sicuro non si aspettava che ad entrare fosse Jeremy.
Pensava piuttosto che si trattasse di un qualche suo collega.
Jeremy
osservò affascinato l’ufficio della professoressa.
Più che un
ufficio ricordava un laboratorio scientifico. Alambicchi, provette
ricolme di sostanze chimiche, becker, numerosissimi strumenti di
misura elettronici e non.
Era
estremamente difficile farsi strada in quel laboratorio, anche
perché
il pavimento era ricolmo di libri e riviste scientifiche, anche di
livello internazionale.
La
donna, non molto alta, piuttosto magra, fece una pausa dal suo
lavoro. Si sistemò i capelli, ricci e grigi, poi
passò al camice di
laboratorio. Come se volesse perdere tempo.
«Cosa
ci fai qui, Jeremy? Sai benissimo che questa zona è off
limits per
gli studenti. Qualche problema con la ricerca? Mi sembra che tu
l’abbia consegnata e che abbia fatto un ottimo lavoro. Hai
scelto
un Pokémon davvero raro e hai fatto una scoperta
incredibilmente
interessante, non lo metto in dubbio, ma…
La
donna fece una pausa di silenzio quasi interminabile.
«Non
mi spiego cosa tu ci faccia qui. Non dovresti esserci. Posso chiudere
un occhio perché sei te, solo a patto che tu mi risponda.»
«Vede,
mentre sistemavo la mia camera, ho trovato un libro scritto da un
certo Franz Hopper. Ho scoperto che ha lavorato qui in questa scuola
molti anni fa.»
«Sì,
è vero. Era un genio dell’informatica. E su
quell’argomento ha
pubblicato numerosi libri. Ma non capisco perché ti possa
interessare. Si. Lavorava qui, e quando è scomparso
l’ho
sostituito. O meglio sono passata dal ruolo di assistente del
laboratorio di chimica al ruolo di professoressa di scienze,
sostituendolo. Al massimo avevamo bevuto qualche caffè
assieme.
Basta.»
Jeremy
era dubbioso. Come faceva la professoressa a sapere tutte quelle
cose? E soprattutto lei si interessava davvero degli argomenti che
trattava il Professore?
«A
parte questo non so molto su di lui e non ho motivo di farlo. E poi,
ti ripeto. Sono passati più di dieci anni da allora. Nessuno
ha
avuto più sue notizie.»
«Grazie.
Arrivederci.»
Jeremy
se ne andò. Non aveva ottenuto quello che voleva, ma aveva
notato
un’incoerenza da parte della professoressa. Stando agli
archivi
scolastici il ruolo della professoressa, a quel tempo, era un altro.
Il
ragazzo, volontariamente, non chiuse del tutto la porta, come se si
aspettasse che la professoressa, una volta sola, confessasse,
sentendosi più al sicuro. La sua intuizione non si
rivelò errata.
Pochi
istanti dopo, la donna tirò un grosso sospiro di sollievo.
Poco dopo
prese il suo telefono e compose, molto rapidamente un numero.
Il
suo interlocutore rispose dopo alcuni squilli.
«Susanne…
cosa succede? Se chiami a quest’ora deve essere importante.»
«Si
tratta di Belpois.»
«E
cosa ha combinato? Non ha preso il suo solito dieci ma un nove?»
L’uomo
soffocò una risata.
«No,
Jean. È una cosa seria. Mi ha chiesto di Hopper.»
«Hopper?
Capisco. Vediamoci subito. Nel mio ufficio.»
Appena
sentì la porta aprirsi, il ragazzo corse, come mai aveva
fatto
prima. Non voleva che la professoressa sospettasse di essere stata
spiata.
Odd
era tornato dal suo appuntamento, sicuro di non essere stato
scoperto. E non riusciva a non pensarci. Pensava sia
all’appuntamento
sia alle parole di quella ragazza. Che cozzavano con quelle
dell’amico. Doveva essere se stesso oppure doveva essere
più
serio?
Provò
a studiare, un'attività che detestava, ma che lo avrebbe
probabilmente aiutato a distrarsi. Per il giorno seguente aveva
un’interrogazione di letteratura.
Ironia
della sorte, per il giorno dopo, doveva studiare a memoria una poesia
il cui tema principale era proprio il blu. Blu come i capelli e gli
occhi di quella ragazza.
Lanciò
il libro per terra, non preoccupandosi del fatto che il suo Lillipup
lo stesse mordicchiando.
Il
ragazzo si accorse di qualcosa che non andava. Sentiva dei passi
pesanti. Riconoscibilissimi. Erano quelli di Jim. E si stavano
chiaramente dirigendo nella sua stanza.
«Cosa
vorra?»
Sperava
che il professore non lo avesse sentito. O sarebbe stato un disastro.
Ormai
quell’omaccione era giunto di fronte alla sua stanza e aveva
aperto
la porta. Il ragazzo stava tremando. Forse si era sbagliato ed era
stato scoperto.
«Della
Robbia. Lo sai benissimo che è vietato allontanarsi dal
perimetro
del collegio! È la prima regola. Non devi scordartelo. Per
nessuna
ragione al mondo.»
«No,
signore, io non sono uscito. Sono sempre rimasto qui.»
«Si,
certo, come no. Quando mai dici la verità!
Perdipiù posso dirti che
non eri solo. Con te c’era anche una ragazza.»
Odd
iniziava a tremare. Erano stati scoperti. E aveva anche
un’idea su
chi potrebbe aver fatto la spia.
«Sissi.»
Disse
sottovoce.
«Non
importa chi sia stato o stata a dirmelo. Oppure non vorrai farle
passare il doppio della tua punizione.»
Il
ragazzo fece cenno di no con la testa.
Si
era reso conto di come il professore avesse un gigantesco peso anche
nelle contrattazioni. Lui avrebbe fatto qualsiasi cosa per non far
incriminare Lucinda.
«E
allora faremo una visitina al preside.»
Il
ragazzo aveva l’espressione di un condannato al patibolo,
mentre si
dirigeva, scortato dal professore fino all’ufficio del
dirigente.
«Disturbo?»
«Jim,
non ti hanno insegnato a bussare?»
«Oh,
chiedo scusa. Signore.»
Odd,
dal poco che vedeva da dietro l’omaccione, aveva notato come
in
quell’ufficio il preside non fosse solo. Era sul finire di
una
discussione con la professoressa Hertz.
Il
ragazzo aveva sentito solamente la parte finale della conversazione
dove sembrava che i due si fossero accordati su qualcosa, anche se
non gli era chiaro di preciso quali fossero i termini
dell’accordo.
Il
ragazzo aveva anche notato un grosso faldone sulla scrivania del
preside. La carta era ingiallita dal tempo, per cui doveva essere
piuttosto vecchia.
Prima
che l’uomo potesse nasconderlo nel suo cassetto, il ragazzo
notò
la scritta sul foglio superiore di quel faldone.
Waldo
Schaeffer.
Il
ragazzo si ricordò che quello era il vero nome del
Professore. Gli
sembrava molto strano che il preside potesse possedere del materiale
riguardante il Professore. Avrebbe tenuto a mente
l’informazione.
Si
era anche ricordato dell’intenzione di Jeremy di parlare con
la
Hertz. Possibile che ci fosse una correlazione tra questo e il
fascicolo in mano al preside.
«E
così è stato beccato fuori dal perimetro
dell’istituto?»
«Esattamente.
Me lo ha detto Sissi. E mi ha anche detto che era in compagnia di una
ragazza.»
Odd
se lo aspettava. La figlia del preside non sopportava di non essere
al centro dell’attenzione. E si era mostrata estremamente
gelosa
nei confronti di Serena prima e di Lucinda poi. Era plausibile che
volesse incastrare una delle due e che avrebbe sfruttato la fama da
dongiovanni di Odd per farlo.
«Sai
benissimo che è vietato allontanarsi dal perimetro
dell’istituto.
Ma devo ammettere che sei stato coraggioso a venire qui senza fare
storie. Immagino che tu tenga a quella ragazza. Sei stato
responsabile. Per questo non ti sospenderò.»
Il
ragazzo tirò un sospiro di sollievo.
«Te
la caverai con una settimana di isolamento. Dovrai stare nella tua
stanza da dopo pranzo a ora di cena, e da dopo cena
all’inizio
delle lezioni.»
Jim.
Assicurati che non rifugga.»
Il
professore fece un cenno di approvazione.
Sapeva
che non sarebbe stato pagato di più per quel lavoro da
carceriere,
ma di sicuro non poteva rifiutarsi.
Quella
sera i genitori di Yumi e Hiroki erano a una cena di lavoro,
lasciando i due fratelli soli a casa. Non era una novità.
Anzi,
capitava spesso e volentieri.
Hiroki
era diventato allenatore da poco e aveva con sé solo il suo
primo
Pokémon. Un Fennekin maschio chiamato Omar.
Proprio
in quel momento gli stava riempiendo la ciotola con la sua cena.
Delle crocchette specifiche per Pokémon di tipo fuoco. Il
piccolo
Pokémon iniziò a mangiare.
«Piano!
Non ti ingozzare!»
Lo
rimproverò il ragazzo.
Il
piccolo Pokémon smise di mangiare e si mise a correre a
perdifiato.
Il ragazzo cercò invano di ricoverarlo nella
Pokéball. il giovane,
nel tentativo di recuperarlo, finì addosso alla sorella
maggiore,
facendole perdere l’equilibrio.
«Che
ti prende? Sei diventato matto? Potevo farmi male!»
Il
giovana raggiunse rapidamente la sorella maggiore.
«Omar
è scappato!»
«Il
tuo Fennekin? Beh, in quel caso mi dispiace ma sono affari tuoi. Un
allenatore deve essere responsabile dei suoi Pokémon. Per
cui io non
muoverò un dito.»
Hiroki
conosceva benissimo sua sorella. E sapeva che non si sarebbe mossa
dalla sua posizione. Per quanto ci provasse. sapeva di non avere
scelta. Se avesse voluto ritrovare il suo Pokémon, si
sarebbe dovuto
sbrigare.
Quella
sera faceva piuttosto freddo. Era da poco iniziato l’autunno.
L’allenatore principiante dovette indossare una giacca.
Avrebbe
ridotto di molto il rischio di prendersi un brutto raffreddore. O,
forse, le cose sarebbero potute andare peggio.
Poteva
ritenersi fortunato. Il loro quartiere era piuttosto tranquillo e ben
illuminato. Nonostante non fosse molto tardi, era difficile trovare
gente in giro. Anche per il giovane era strano aggirarsi per quel
quartiere a quell’ora. E, nonostante potesse dire di
conoscere la
zona palmo a palmo, doveva ammettere che al buio la stessa aveva un
aspetto totalmente diverso.
Concentrandosi
era perfettamente in grado di udire i latrati del suo
Pokémon.
Si
mosse lentamente, per coglierlo di sorpresa. Temeva che se la fosse
presa per quello che era successo qualche minuto prima. A un certo
punto gli parve di vederlo. La voluminosa coda del piccolo
Pokémon
era perfettamente visibile da dietro un lampione. Il ragazzo si
avvicinò a piccoli passi. Infilò la mano nella
tasca e si accorse
che mancava qualcosa.
«Diavolo!
È sparita!»
Il
piccolo Pokémon, sentendolo si mise a correre, andando
chissà dove.
Il ragazzo si mise a correre a sua volta. Durante la sua corsa
incrociò lo sguardo con un uomo. Piuttosto alto e vestito
con un
impermeabile nero.
Sembrava
essere interessato a una villa abbandonata poco lontana. Il ragazzo
aveva visto quella villa diverse volte ma non aveva mai avuto il
coraggio di entrarci. Aveva troppa paura.
Il
ragazzo sentì i latrati del suo Pokémon proprio
nel giardino di
quella villa. Pochi istanti dopo, questi ultimi vennero coperti da
degli ululati. Il ragazzo non li aveva mai sentiti in vita sua. Il
ragazzo tremò come una foglia.
Ma
se voleva recuperare il suo Pokémon, doveva farsi coraggio
ed
entrare nel giardino di quella villa. Appena entrato, si accorse di
essere solo. Quell’uomo era scomparso. Per cui non correva
pericoli.
Tuttavia
era preoccupato. Anche i latrati del suo Pokémon erano
cessati. E
quello non era affatto un buon segno.
Dopo
alcuni passi, i suoi timori si erano avverati. Il suo
Pokémon era
riverso al suolo. E tremava. Era ferito.
Il
giovane prese in braccio il suo Pokémon, con quest'ultimo
che non
oppose alcuna resistenza.
Mentre
il ragazzino si precipitava a riprendere il suo Pokémon,
l’uomo
era corso verso il suo pick-up, e salì a bordo, seguito a
ruota dai
suoi Houndoom.
«La
prossima volta evitate di mettermi in questa situazione.»
Gli
sgridò.
I
suoi Pokémon emisero un guaito sommesso, facendo intendere
al loro
padrone che avevano capito le sue parole. L’espressione
dell’uomo
mutò. Diventando, per un momento meno malefica.
L’uomo
aveva pesantemente modificato l’abitacolo di quel mezzo.
Aveva
ricavato un grosso portaoggetti sotto il cuscino del sedile del
passeggero.
Voleva
verificare i suoi sospetti. Quel ragazzino che aveva visto di
sfuggita gli era apparso familiare.
Prese
il suo computer portatile e fece una breve ricerca. I suoi dubbi
divennero presto certezze.
Quel
ragazzino era Hiroki Ishiyama. Il fratello minore di Yumi Ishiyama,
una dei suoi osservati speciali. Aveva anche paura di essere stato
riconosciuto. Dopotutto un uomo vestito di nero, con due Houndoom,
non passa di sicuro inosservato.
Il
ragazzo si precipitò a casa. La sorella lo aspettava proprio
all’ingresso.
Appena
giunto a casa, lo sguardo della ragazza si posò prima sul
Pokémon,
poi sul fratello.
«Cosa
gli è successo? Portalo subito al centro medico!»
Nelle
parole della ragazza la preoccupazione aveva preso il posto della
rabbia.
«Penso
sia scappato per come l’ho rimproverato, gli ho detto di non
ingozzarsi.»
Il
ragazzino non aveva ancora smesso di tremare.
«Poi,
come sai, è scappato. Ho cercato di inseguirlo, fino a una
villa
abbandonata qui vicino. Poi è entrato un uomo vestito di
nero che
poi è scappato, sono entrato e lo ho trovato ferito
lì.»
«Adesso
datti una calmata, e occupati di lui. Poi mi spieghi tutto con
calma.»
«Ma
io ho paura. Ho paura che quell’uomo possa tornare.»
«Se
chiedessi a uno dei mei di farti da scorta…»
Il
ragazzino non rispose. Come se sua sorella dovesse capire da
sé la
risposta. Questa, per tutta risposta, prese, dalla borsa che teneva
nell’uomo morto, una delle sue Pokéball.
La
ragazza ne fece scattare il meccanismo di apertura, e, dalla stessa
uscì un fascio di luce bianca, che ben presto si
trasformò in un
Greninja.
«Te
lo affido. In giro c’è un tipo pericoloso.»
Il
Pokémon ninja fece un cenno di approvazione. Per la sua
allenatrice
avrebbe fatto qualsiasi cosa. Il loro legame era molto stretto. Il
ragazzino, sentendosi al sicuro dalla presenza del Pokémon
della
sorella, si diresse verso il centro. Non era molto lontano, ma
tremava comunque di paura.
Appena
Hiroki si allontanò a sufficienza, Yumi prese il telefono,
per
mettersi in contatto con il suo ragazzo.
«Hiroki
ne ha combinata una delle sue e uno dei suoi Pokémon
è stato
ferito.»
«E?»
«Ha
detto di aver visto un tipo strano all’Hermitage. O meglio ha
parlato di una villa abbandonata qui vicino, e da che ne sappiamo
è
la sola ad esserci»
Il
ragazzo chiuse la telefonata senza salutare. Pensava di potersi
riposare, ma si sbagliava. Si affrettò a indossare le scarpe
e a
vestirsi.
«Dove
vai?»
Gli
chiese il compagno di stanza, con aria perplessa. Lo aveva sentito
mentre rispondeva a una telefonata e ora si stava preparando per
uscire, veloce come un fulmine.
«Si
tratta di Yumi. È importante.»
«E
mi lasci qui da solo?»
«Prossima
volta stai più attento e ne riparliamo. E io che pensavo che
fossi
diventato più serio.»
Intanto
il ragazzo si era sporto dalla stanza e aveva buttato uno sguardo
tanto a destra quanto a sinistra. Non trovando nessuno.
«Via
libera.»
Il
ragazzo si mosse in punta di piedi. Stava andando nella direzione
opposta rispetto a quella dei bagni, per cui non poteva usarlo come
scusa. Per sua fortuna tutto andò per il meglio e non venne
scoperto. O altro che la settimana presa dall’amico!
In
breve tempo le sagome scure e imponenti del collegio erano alle sue
spalle e si era addentrato nella zona residenziale del quartiere.
Proprio a casa della sua ragazza.
Il
ragazzo suonò il citofono e, in pochi istanti la sagoma
della
ragazza, alta e magra, apparve davanti a lui. Il ragazzo si stava
togliendo le scarpe, sebbene la famiglia di Yumi vivesse lì
da anni,
aveva ancora mantenuto tutte le tradizioni.
«Eccomi,
scusa se ci ho messo tanto, ma avevo paura di essere beccato da Jim.»
«Pensa
se non avessi fatto in ritardo!»
Commentò
la ragazza, in tono ironico, per poi tornare seria subito dopo.
«Ora
Hiroki sta portando il suo Fennekin al centro medico. Dovrebbe
tornare tra poco. Era molto spaventato e mi ha detto solo quello che
poi ti ho detto al telefono. Un tipo vestito di nero che girava per
l’Hermitage e crede che sia stato lui o uno dei suoi PK a
ferirlo.
«Capisco.
Probabilmente anche lui indagava su Hopper o cercava Aelita.»
«E
lo dici così? Come se fosse la cosa più normale
del mondo? Sai bene
che se abbiamo anche solo il minimo dubbio, dobbiamo controllare.
Avvisiamo subito gli altri.»
I
due si misero rapidamente in contatto con Jeremy e Aelita.
I
due stavano dormendo tranquillamente fino a quel momento. Avevano
messo i loro telefoni con la vibrazione, per evitare di svegliare i
rispettivi compagni di stanza.
Nonostante
questo non ci volle molto prima che entrambi fossero pronti. Avevano
fatto tutto nel silenzio più totale e apparentemente erano
stati in
grado di farlo senza svegliarli.
Hiroki
arrivò a casa poco prima dell’arrivo di Jeremy e
Aelita
all’Hermitage. Scortato, come all’andata dal
Greninja della
sorella.
Notò
immediatamente la presenza di Ulrich.
«E
lui cosa ci fa qui?»
«Non
ti importa. Piuttosto, come sta?»
La
ragazza aveva notato come il ragazzo fosse tornato con il suo
Pokémon
in braccio, avvolto in una coperta.
«L’infermiera
mi ha detto che le sue ferite erano meno gravi del previsto. Le ha
pulite e disinfettate. Mi ha dato una medicina da dargli due volte al
giorno per una settimana.»
«Bene,
noi andiamo, tu resta a casa a occuparti di lui.»
Il
tono della sorella non ammetteva repliche di alcun tipo.
In
cinque minuti erano tutti e quattro nel giardino
dell’Hermitage. Il
giardino era male illuminato. Il lampione più vicino era
mezzo
fulminato, per cui, se volevano vederci chiaro, dovevano usare delle
torce.
Sembrava
tutto normale, e che quindi Hiroki si fosse sbagliato, quando Aelita
notò qualcosa che non andava.
«Guardate
quì!»
La
ragazza si era inginocchiata nei pressi della porta del
garage.
«L’erba
è bruciacchiata. Deve esserci stata una lotta o qualcosa di
simile.
Hiroki aveva ragione. Probabilmente il suo Fennekin ha cercato di
difendersi da dei Pokémon molto più grossi di lui.»
Ulrich
non era ancora molto convinto. Per quanto non conoscesse molto il
Pokémon del ragazzo, non gli sembrava un attaccabrighe.
«Da
soli? E perché mai avrebbero dovuto attaccare?»
«E
se non fossero stati soli? Voglio dire, se il loro allenatore gli
avesse ordinato di attaccare?»
Mentre
Jeremy esponeva la sua tesi, stava illuminando il muro del garage.
Era parzialmente ricoperto da muffa. Uno dei tanti segni
dell’incuria
in cui versava quella villa.
«Qui
qualcuno l’ha scrostata. Probabilmente con degli scarponi.
Due
indizi fanno una prova. Hiroki aveva ragione. Dobbiamo evitare che
scoprano il nostro segreto.»
Dopo
aver continuato l’ispezione dell’esterno della
villa, il gruppo
si separò. Ulrich, Jeremy e Aelita tornano al Kadic, Yumi a
casa
sua.
Se
avessero fatto in silenzio, non sarebbero stati scoperti, altrimenti
sarebbero stati nei guai. Mancavano appena due ore alla
sveglia.
Mentre
i tre cercavano di tornare nelle rispettive stanze, in un anonimo
ufficio di Washington DC, la capitale degli Stati Uniti, era
mezzanotte e mezzo.
Quell’ufficio
si trovava in un anonimo edificio, un palazzone in ferro e vetro,
come tanti. Il luogo migliore dove lavorare inosservati anche ai
progetti più importanti.
Era
seduta sulla sua poltrona da ufficio, una grossa poltrona in pelle
scura, mentre beveva l’ennesimo caffè. Il primo da
quando era
scattata la mezzanotte.
La
donna buttò un occhio sui numerosi orologi che occupavano
una delle
pareti del suo ufficio. Ognuno indicava l’ora secondo un
diverso
fuso orario.
Istintivamente
si concentrò sull’orario di Parigi.
L’orologio segnava le cinque
e mezza del mattino.
Per
quella donna non era una novità lavorare sino a tardi, ma
mai fino a
così tardi. Non si sarebbe mai trattenuta fino a
quell’ora, senza
un valido motivo. E quella notte aveva un validissimo motivo. Un suo
agente l’aveva informata su un grosso affare e le aveva
promesso
che, entro qualche ora avrebbe ricevuto ulteriori informazioni.
Per
questo, si buttò sul telefono, non appena udì il
primo squillo.
«Signora.
Ho una telefonata per lei.»
Per
un istante la donna dovette dissimulare la sorpresa. Non si aspettava
di sentire la voce della sua segretaria.
«Me
la passi.»
Mentre
la segretaria commutava la telefonata, la donna attivò un
dispositivo che proteggeva la telefonata dalle intercettazioni. Non
poteva rischiare in alcun modo che qualcuno potesse sapere di quella
telefonata.
La
segretaria, intanto aveva commutato la telefonata.
«Signora?»
«Agente
Lycanroc?»
La
donna, finalmente sentì la voce che si aspettava. Una voce
di un
uomo. Del suo agente. Quello che l’aveva informata alcune ore
prima.
«Signora.
Le posso confermare che i nostri sospetti si sono rivelati reali.
Quelli del reparto informatico ci hanno passato tutti i dati di cui
avevamo bisogno.»
«Sai
benissimo che il loro operato non è propriamente legale. Non
possiamo basarci solo su di loro. A meno che non sia qualcosa di
veramente importante.v
«Signora…»
«Vada
avanti. Nessuno ci può intercettare, stiamo usando il
massimo della
tecnologia in fatto di protezione.»
«Come
vuole. In questi giorni ci sono state moltissime ricerche,
provenienti tutte dallo stesso posto. Riguardavano tutte il signor
Franz Hopper, o Waldo Schaeffer, che dir si voglia.»
«Ancora
lui?»
«Si
Dido… ehm… Signora.»
«Sai
che sono passati più di dieci anni da allora.»
La
donna, nonostante fossero passati così tanti anni, la donna
si
ricordava benissimo di quel caso. Come se fossero passati dieci
giorni, e non oltre dieci anni.»
«Signora.
Devo dire un’ultima cosa.»
«Non
tenermi sulle spine. Sai benissimo che questa è una
situazione molto
delicata. Ogni informazione in più è fondamentale.»
«Le
ricerche provengono tutte dal collegio Kadic.»
La
donna sbattè un pugno sul tavolo. Così forte da
far saltare tutti
gli oggetti sulla scrivania. Computer, portapenne, tastiera, la tazza
di caffè che aveva appena finito di bere.
«La
ringrazio. Sai benissimo come procedere. Intercetta tutte le
comunicazioni del collegio. Ogni singola ricerca, messaggio, file
scaricato…»
E
fai lo stesso per le ricerche negli ultimi mesi prima delle vacanze
estive.»
Mettimi
a disposizione tutti i tuoi uomini. Dobbiamo essere pronti a tutto.
Con un affare così grosso non ci possiamo permettere passi
falsi. Lo
abbiamo già fatto.»
«Agli
ordini.»
«Potrebbe
trattarsi di qualcuno che ha semplicemente sistemato gli archivi
dell’istituto, e, incuriosito da quel nome, ha svolto delle
ricerche, ma dobbiamo essere pronti a tutto.»
«Agli
ordini.»
Dido
riattaccò senza salutare. Per lei non era una semplice
coincidenza.
La storia della persona che si occupava degli archivi l’aveva
usata
per tentare di autoconvincersi. Senza successo.
Qualche
ora dopo, Jeremy, Aelita, Yumi e Ulrich erano alle macchinette. Odd
era ancora sotto scorta di Jim. Il professore aveva preso il suo
lavoro fin troppo sul serio.
Stavano
approfittando della ricreazione per chiacchierare sugli ultimi
sviluppi sull’Hermitage.
«Non
abbiamo scelta.»
Esordì
il biondo.
«Dobbiamo
metterlo sotto sorveglianza. Non possiamo rischiare che
quell’uomo
ritorni. Soprattutto se non sappiamo che intenzioni ha.v
«Dovremo
fare i turni di guardia?»
«No,
Ulrich, non servirà. Prima di coricarmi ho parlato con Yumi.»
«Esatto.»
Confermò
la giapponese.
«Tra
qualche ora, a casa dovrebbe arrivare tutto. Ho detto ai miei che
sarebbe arrivato un pacco per un amico.»
«Interessante,
di che si tratta?»
«Mi
sembra ovvio!v
Lo
riprese Jeremy.
«Telecamere
a circuito chiuso, sensori di movimento, microfoni, insomma quelle
cose lì.»
«E
dopo che lo incastriamo? Non possiamo di certo mandare i filmati alla
polizia! Ci farebbero tante di quelle domande…»
«Non
ti preoccupare, di quello ce ne occuperemo dopo.»
Lo
rassicurò Aelita.
«Ad
ogni modo è meglio che vada. Tra due minuti iniziano le
lezioni.»
«A
dopo!»
Yumi
si separò dai suoi amici. Aveva un anno in più
dei suoi amici, e
questo aveva causato non pochi problemi quando
lottavano
contro Xana.
Quella
lezione della professoressa Hertz fu atipica. Solitamente la donna
usava il libro il minimo indispensabile, preferiva spiegare da
sé le
lezioni.
Ma
non quella volta. Altra anomalia riguardava il fatto che, in quella
lezione, la professoressa si fosse concentrata su Nicholas. La
professoressa era molto abitudinaria, e solitamente non usciva mai
dal triangolo Jeremy-Aelita-Hervé. Tutti si erano accorti
del suo
strano comportamento, ma nessuno osò dire nulla.
Perché,
anche se lo avessero fatto, non sarebbe cambiato nulla. Dopotutto lei
era la professoressa, per cui poteva fare quello che voleva.
Inoltre,
la professoressa se ne andò senza salutare, non appena
suonò la
campanella.
La
donna corse nel suo ufficio.
Quella
situazione non poteva andare a lungo per molto. Tutti i suoi alunni
si erano accorti che qualcosa non andava, ma lei ci poteva fare poco.
Non pensava ad altro sennonché a quell’incontro
con Jeremy di
qualche tempo prima.
Sapeva
che il dossier del Professore era al sicuro, nel cassetto del signor
Delmas, ma sapeva anche che quel ragazzo lo avrebbe ottenuto, a
qualsiasi costo, senza preoccuparsi delle conseguenze.
A
oltre mille chilometri dalla capitale francese, Primula era appena
uscita dall’albergo. Si trovava a Berlino per chiudere gli
ultimi
accordi con uno sponsor. Il reparto marketing di
quell’azienda era
piuttosto lontano da lì. Avrebbe chiamato un taxi, ma
sembrava che
fossero tutti occupati.
A
un certo punto si fermò, proprio davanti a lei, un taxi. Una
grossa
berlina della Mercedes. L’uomo alla guida, riconoscendola,
accostò.
«Tu
sei Primula? La famosa fantina di Rhyhorn?»
«In
persona! Lei è libero?»
«Oh,
ma certo, ma prima, potrebbe farmi un autografo?»
L’uomo
uscì dal taxi. Lasciando il motore acceso. Aveva in mano una
foto
della donna, mentre teneva in mano una coppa d’oro, una delle
sue
numerosissime vittorie. Le diede anche un pennarello indelebile nero.
La donna posò la foto sul cofano della macchina.
«Come
si chiama?»
La
donna si girò di scatto, dopo che, per diversi secondi, non
ricevette alcuna risposta. Non sapeva come, ma la donna si trovava
con il volto premuto contro il lunotto del taxi.
«AIUTO!»
La
donna cercò di chiedere aiuto, invano.
Sentendola,
l’uomo le assestò un colpo sulla testa, facendole
perdere i sensi.
Non voleva arrivare a tanto, ma non aveva altra scelta. Non poteva
rischiare di essere scoperto.
L’uomo
prese dal portaoggetti del suo taxi, un dispositivo simile a un
guanto di pelle. Sulla parte superiore di questo vi era un piccolo
schermo a cristalli liquidi, un piccolo interruttore e dei cavi.
Sulla
punta delle dita si trovavano dei piccoli elettrodi.
Da
un altro portaoggetti prese un dispositivo simile a una scheda di
memoria. Si comportava come se non avesse una donna svenuta
appoggiata al cofano del suo taxi.
Inserì
la scheda nel guanto e tornò dalla donna. Ancora priva di
sensi,
ancora appoggiata sul cofano del taxi.
L’uomo
si guardò attorno. Alcune persone si erano avvicinate,
incuriosite
dalla situazione. In particolare un uomo della sicurezza
dell’albergo. Un omaccione alto quasi due metri.
«Stai
fermo e non ti farò nulla.»
Il
finto tassista prese una pistola dalla cintura, e la puntò
contro
quell’uomo. Per lui maneggiare un’arma non era una
novità. Anzi.
Si sentiva particolarmente a suo agio con questa.
«Stai
fermo o sparo.»
L’addetto
alla sicurezza non sapeva cosa fare. Doveva credere alle minacce di
quell’uomo e lasciarlo fare o doveva tentare di disarmarlo?
In
ogni caso, prima ancora che potesse decidere come agire, si
ritrovò
a terra. Colpito dal Neropulsar dell’ Hydreigon di
quel finto
tassista.
L’uomo
era abituato a gestire situazioni del genere. Era perfettamente
addestrato per situazioni del genere. Solo che quell'imprevisto gli
era costato tempo. Ed era consapevole che, ben presto, sarebbero
arrivate altre persone.
L’uomo
finalmente poté indossare il guanto e dedicarsi al suo
lavoro, non
prima di aver premuto il piccolo interruttore che permetteva di
attivare il dispositivo posizionato sul guanto.
L’uomo
si avvicinò alla donna e le sfiorò le tempie con
le dita.
Un
led verde e la scritta “inizio trasferimento”
confermò che
tutto stava andando secondo previsioni.
Nello
stesso momento, a oltre mille chilometri di distanza, in una
palazzina abbandonata, a poca distanza dal collegio Kadic, le
apparecchiature del suo collega si misero in funzione. Risvegliate
dal sonno dello standby.
Una
bambina dai grandi occhi blu e dai capelli color miele che dava da
mangiare a un Rhyhorn, poi la stessa bambina, un pochino più
grande,
che cavalca lo stesso Rhyhorn, con una tutina rosa, come il casco.
Poi le immagini iniziarono a scorrere sempre più
rapidamente. Fino a
diventare impossibili da decifrare.
«Serena?»
Jim
fece irruzione in classe senza nemmeno bussare.
«Jim?
Ti sembra questo il modo di entrare?»
«Chiedo
scusa Chardin, ma è urgente. Devo accompagnare Serena dal
signor
Delmas.»
Gli
sguardi di tutta la classe si posarono sulla performer. Tutti,
sottovoce, si chiesero cosa aveva combinato quella ragazza,
all’apparenza così innocente.
La
performer, consapevole di non aver fatto niente di sbagliato,
seguì
il professore senza fare domande. Era chiaro che fosse qualcosa di
serio, dato che l’espressione di quest’ultimo era
molto tesa.
Arrivati
di fronte all’ufficio del signor Delmas, il professore fece
cenno
alla ragazza di accomodarsi all’interno. La porta
dell’ufficio
era aperta, come se si aspettasse che qualcuno dovesse fargli visita.
La
ragazza, ora meno sicura di sé, entrò
nell’ufficio a piccoli
passi. La stanza era enorme. E, per certi versi ricordava lo studio
di un presidente, piuttosto che quello di un preside.
Una
gigantesca scrivania di legno pregiato, un tappeto costosissimo,
quadri d’autore e piante. Sulla scrivania un costosissimo
computer
e un portapenne ricolmo di penne stilografiche altrettanto costose.
La
ragazza salutò l’uomo molto timidamente.
«Buongiorno
signor preside.»
«Buongiorno
a te. Non devi avere paura di me. Non in questo caso. Non hai fatto
nulla di sbagliato.»
La
ragazza tirò un sospiro di sollievo. Ora che sapeva di non
aver
fatto nulla di sbagliato, si sentiva molto meglio, solo che ancora
non aveva idea del motivo per cui si trovava lì. E questo
non la
metteva a suo agio.
«Ho
ricevuto una telefonata dalla Germania. Da Berlino per essere
precisi.»
La
ragazza scattò come una molla. Si era sentita con sua madre
la sera
prima, e lei si trovava proprio in quella città. Ergo le era
successo qualcosa.
«Tua
madre è stata aggredita da uno strano tipo. Proprio in
quella città.
Per fortuna sembra che non sia nulla di grave, dall’ospedale
dicono
che è solo un po’ confusa. Se vuoi possiamo
accompagnarti da lei.»
La
ragazza rimase in silenzio per alcuni istanti. Non ci voleva credere.
Davvero le stavano dando quella possibilità?
«La
ringrazio. Accetto. Ma sa, sono comunque preoccupata per
lei… Ash
può venire con me?»
«Se
questo può farti stare meglio, posso fare uno strappo alla
regola.»
Un
quarto d’ora dopo Serena, Ash e il suo inseparabile Pikachu
si
trovavano fuori dal palazzo amministrativo. In attesa di partire.
Pochi istanti dopo, davanti ai loro occhi, si fermò una
berlina
gigantesca. Blu scuro.
Ash
era ipnotizzato da quell’auto che, ai suoi occhi, sembrava
fosse
uscita da un film di fantascienza o da qualche videogioco. Cofano
lunghissimo, fari stondati e al contempo di forma romboidale,
incorniciati da dei profili cromati, incastonati nei parafanghi
bombati. Cromata era anche la calandra la cui forma ricordava uno
scudo, che impreziosiva il cofano e ne accentuava la forma
triangolare e metteva in risalto come lo stesso fosse rialzato,
creando un effetto simile a quello di molte auto
d’epoca.
Essa
si raccordava perfettamente con il paraurti, dipinto nella stessa
colorazione della carrozzeria e impreziosito da dei profili cromati
che partivano dal punto in cui lo stesso si raccordava alla
carrozzeria e che impreziosivano le fiancate dell’auto.
Serena
era invece più razionale del suo ragazzo.
Quell’auto la conosceva
bene. Era una Lancia Thesis. Non che lei se ne intendesse molto, ma
le era rimasta impressa in quanto, nella versione allungata, era
l’auto di Paloma, una produttrice e manager che le aveva
proposto
di stare sotto la sua ala protettrice.
Altra
sostanziale differenza tra l’auto della manager e quella
dell’istituto era il colore della pelle degli interni. Crema
nel
primo caso, rosso nel secondo.
Lei
aveva rifiutato la sua proposta, e da allora quell’auto le
dava
sentimenti contrastanti.
Alla
guida dell'enorme berlina un volto noto. Jim Morales. Seduta sul
sedile del passeggero la professoressa Hertz. Probabilmente i due
insegnanti si sarebbero dati il cambio diverse volte, negli oltre
mille chilometri di viaggio.
Ash
aprì la porta alla ragazza, e aspettò che la
stessa si sedesse.
Pikachu
si accomodò sulle gambe della ragazza, cercando, come del
resto
anche il suo allenatore, di rassicurarla e di farla sentire il
più
possibile a suo agio.
Il
professore girò la chiave. Il rombo del V6 era appena
udibile lì
dentro. Isolato da chili e chili di isolamento acustico.
Dopo
pochi metri l’auto si fermò. In maniera molto
brusca. Ash, che non
aveva fatto in tempo ad allacciare la cintura, rischiò di
spiaccicarsi contro il sedile.
Evidentemente
l’uomo non era abituato a guidare le auto con il cambio
automatico.
«Jim,
ma non avevi detto che in passato hai lavorato come autista di
limousine?»
«Si,
pensa che una volta ho anche avuto l’onore di servire il
primo
ministro.»
«Non
mi dire! E come è andata?»
«Preferirei
non parlarne.»
Questo
piccolo siparietto, sia pure per un attimo, strappò un
sorriso alla
ragazza.
Intanto
il professore era ripartito, non prima di aver impostato il
navigatore satellitare. Direzione Berlino. Il viaggio sarebbe stato
piuttosto lungo. Oltre mille chilometri e mezza giornata di viaggio,
attraverso Francia, Belgio e Germania.
Per
fortuna quell’ammiraglia era comodissima. Le prime sei ore di
viaggio, intervallate solamente da alcune soste per bisogni
fisiologici e per il cambio autista, passarono in un battito di
ciglia.
Mentre
i quattro erano fermi in un ristorante a metà strada, Sissi
si era
diretta all'ufficio di suo padre. Alquanto alterata.
Entrò
senza bussare. Per fortuna l’ufficio era vuoto.
«Cosa
ci fai qui?»
La
ragazza si sedette sulla scrivania.
«Quella
Serena. È arrivata da due giorni e la tratti come una regina.»
«La
tratto come tutte le studentesse. Su, ora vai, o ti dovrò
mettere in
punizione.»
«Si,
come no! E allora perché non mi accompagni mai a fare
shopping con
l’ammiraglia? E a lei si? E perdipiù è
andata con il suo ragazzo?
E la prossima volta cosa le fai?»
«Non
so chi ti ha detto che stia andando a fare shopping. E se anche fosse
stata accompagnata dal ragazzo? La cosa non ti riguarda.»
«E
allora dove è andata? Sentiamo!»
«Se
proprio ti interessa davvero, a quest’ora dovrebbe essere in
Germania.»
«Ah,
si? Davvero? E cosa ci fa lì?»
«Sua
madre è stata aggredita. Ed è stata ricoverata in
ospedale. Per
questo le ho concesso di andare a trovarla. E ora, mi sa che
è
meglio che torni a studiare. Non pensare che questa volta la passerai
liscia perché sei mia figlia.»
Dopo
aver mangiato e fatto il secondo pieno all’ammiraglia,
partirono
per la seconda parte del viaggio, altre sei ore, che come le
precedenti, trascorsero davvero rapidamente e dopo il terzo pieno
giornaliero, arrivarono ai a Berlino.
Era
praticamente ora di cena.
Serena
sarebbe andata a trovare la madre solo il giorno seguente, dato che
gli orari di visita dell’ospedale prevedevano che non si
potessero
fare visite oltre le otto di sera.
Il
giorno seguente i quattro giunsero all’ospedale centrale.
Un
edificio enorme e modernissimo. Circondato da un gigantesco
parcheggio sorvegliato. Contrariamente a molti altri ospedali non
c’era del personale all’esterno intento a fumare o
a far altro.
I
quattro entrarono nella portineria dell’ospedale. A occupare
il
piccolo ufficio una donna di circa sessant’anni.
Probabilmente
erano i suoi ultimi giorni di lavoro prima della pensione.
«Cosa
volete?»
Chiese,
in tono scocciato. Probabilmente era stata interrotta durante la sua
partita a solitario sul computer.
«Mia
madre.»
Esordì
Serena.
«Dovrebbero
averla ricoverata qui.»
«Figliola,
come si chiama tua madre? Così posso aiutarti.»
«Primula.»
«La
famosa fantina? Ho sentito che ha una figlia performer e
coordinatrice, ma non credevo che fossi te. Non vi assomigliate per
niente. Lei ha i capelli castano scuro, te sei biond… se
fossi
venuta con tuo padre, suo marito, forse…
«Senta…
non mi interessa di quello che pensa. E non sono di sicuro tenuta a
venire accompagnata da una persona che non voglio nemmeno vedere. Che
ci ha abbandonate quando avevo quattro anni.
E
poi se fossi venuta con i capelli tinti castani non mi avrebbe detto
niente? Mi faccia capire. Perché nel caso proprio qui dietro
c’è
un parrucchiere, nel caso, torno tra un paio d’ore e forse
così
sarò più di suo gradimento.
La
ragazza stava iniziando a perdere la calma. Prima che potesse farlo
del tutto, sentì una mano sulla spalla. Quella della
professoressa
Hertz.
«Capisco
come tu ti senta. E davvero, mi dispiace per la tua situazione.
Però
lascia fare a me. Ci penso io.»
La
ragazza fece alcuni passi indietro, per permettere alla professoressa
di accomodarsi di fronte a quella donna.
«Mi
scusi. Sono la professoressa che è loro responsabile.»
«E?»
Giunta
di fronte al piccolo ufficio, la professoressa estrasse un distintivo
dalla borsa, per poi mostrarlo alla donna. Era un distintivo
dell’esercito americano. Generale Steinback.
«Oh,
mi scusi.»
La
donna voleva evitare che una semplice visita si trasformasse in un
caso diplomatico, non a pochi giorni dalla pensione. Non poteva dire
di no a un generale dell’esercito americano.
«Dodicesimo
piano. Stanza 8.»
Tutti
i presenti guardarono la professoressa con aria sconvolta. Senza dire
una parola, ma solo mostrando quel distintivo, la donna aveva
ottenuto quel che voleva.
Dopo
pochi minuti, i quattro giunsero al dodicesimo piano. Proprio davanti
alla stanza numero 8.
«Forse
è meglio che tu vada da sola. Dopotutto è tua
madre.»
La
incoraggiò la professoressa. Jim, intanto, si era defilato.
Si era
diretto verso i distributori automatici. Aveva pensato che offrire
qualcosa, sarebbe stata una cosa carina.
La
ragazza intanto era entrata nella stanza. In quel momento la donna
era sola.
«Ciao,
mamma. Mi hanno detto quello che ti è successo e ho fatto il
prima
possibile…»
«Come?
Non sei ancora pronta? Tra un paio d’ore dobbiamo partire e
tu non
sei pronta?»
«Partire?»
«Mi
hanno offerto un posto in Giappone. Staremo lì per qualche
tempo.
Così potremo anche andare a trovare Aelita.»
«Aelita?»
«Forse
non ti ricordi di lei, eri piccola, ma spesso lei ti faceva da
babysitter. Mi ricordo che la chiamavi sorellona. Magari se te la
descrivo, te la ricordi. Hai i capelli rosa e gli occhi verdi
e…»
«Aelita?»
Serena,
per alcuni istanti, rimase pietrificata. Si, conosceva una ragazza
chiamata Aelita che corrispondeva a quella descrizione, ma
quest’ultima aveva suppergiù la sua
età. Non aveva in mente
nessun’altra ragazza chiamata così.
«Si,
la figlia del signor Hopper. Franz, mi pare si chiamasse. Ma forse,
quando la incontrerai di nuovo, ti ricorderai di lei. Ora
però
sbrigati. Suzanne arriverà tra non molto.»
La
ragazza uscì dalla stanza senza dire una parola. Senza
salutare. Era
sconvolta.
«Tutto
bene?»
Il
tono di Ash lasciava trasparire tutta la sua preoccupazione. A Xana
quelle cose non interessavano. Per cui decise di lasciarlo fare.
«No.
Per niente. Mi ha parlato del fatto che avremmo dovuto fare un
viaggio in Giappone. Per un suo lavoro. Non ho ben capito. Mi ha
parlato di una ragazza chiamata Aelita che…»
«Beh,
effettivamente tu sei stata in Giappone. Dal professor Oak. E
lì mi
hai detto che ci eravamo incontrati per la prima volta e…»
«Si,
ma sono passati otto anni da allora, Ash. Otto anni! E da quando
siamo tornate in Francia non ci abbiamo più messo piede. Ti
rendi
conto di cosa voglia dire?»
«Che
tua madre è come se fosse tornata a otto anni fa.»
«Ti
rendi conto di quanto sia grave? Potrebbe non tornare più in
sé. Ho
davvero paura. Ash.»
Il
ragazzo, d'istinto, la abbracciò. Forte come mai aveva fatto
prima.
Pikachu salì sulla spalla della ragazza.
«Grazie.»
La
ragazza non seppe dire altro.
Pochi
istanti dopo, una giovane infermiera fece per entrare nella stanza.
«Ah,
tu sei la figlia di Primula, giusto?»
Senza
aspettare la risposta della ragazza, la giovane donna porse alla
ragazza una sorta di piccola scheda di memoria. Realizzata quasi
completamente in plastica nera.
L'infermiera,
abbassò notevolmente il tono di voce.
«Secondo
alcuni testimoni oculari l’avrebbe persa l’uomo che
l’ha
aggredita. Secondo la polizia, invece, l'ha persa lei e non hanno
voluto indagare.
Io
non credo alla versione della polizia, ma non ho guardato cosa
c’è
dentro. Nemmeno loro l’hanno fatto.»
La
ragazza non rispose. Si limitò a mettere la scheda nella
borsa.
Xana,
da dentro il corpo di Ash fremeva dalla voglia di vedere quella
scheda. Poteva essere una perdita di tempo, ma, in caso contrario,
sarebbe potuta essere una miniera d’oro.
Mentre
i quattro stavano rientrando in Francia, Jeremy e gli altri si
stavano occupando dell’impianto di videosorveglianza
all’Hermitage.
Se
qualcuno si aggirava per la villa, era necessario sapere di chi si
trattasse e che cosa volesse.
Il
biondo stava sistemando gli ultimi dettagli. In particolare si stava
occupando della telecamera che dava sul portoncino
d’ingresso. Gli
altri si stavano occupando di altre telecamere. Una volta concluso il
lavoro, la villa sarebbe stata perfettamente coperta.
Una
volta finito il suo lavoro, il ragazzo scese lentamente la scala e si
tolse con una mano il sudore dalla fronte. Non era abituato a fare
lavori del genere.
Poco
dopo anche Ulrich e Yumi terminarono il loro lavoro. Odd, che era con
loro approfittando dell’assenza di Jim, invece ebbe alcuni
problemi
nell’installare la sua telecamera.
«Ehi!
Geniaccio! Non funzionerà mai se cerchi di avvitare una vite
a
taglio con un cacciavite a stella!»
Lo
riprese Ulrich.
«Dici?
Non l'avevo notato. Comunque sia passami quel cacciavite che dici
tu.»
Il
ragazzo, in precario equilibrio su di una sedia, rischiò di
perdere
l’equilibrio e di cadere di schiena. Riuscendo a evitare la
catastrofe con un balzo felino.
L’amico
lo sostituì nell’operazione. Finendo di sistemare
l’ultima
telecamera. Operazione che completò in pochi istanti.
«Einstein,
sei sicuro che funzionino? Non è che abbiamo perso
tempo… sai,
avrei potuto avere un secondo appuntamento con Lucinda, e invece mi
ritrovo qui a montare telecamere.»
«Oh,
certo che funzionano. Sono in meglio che si può avere. Sono
dotate
di visione ad infrarossi, sensori di movimento tridimensionali,
microfono direzionale e trasmettono il segnale al mio computer
tramite una speciale codifica.»
«Einstein,
di tutto quello che hai detto, avrò capito al massimo tre
parole.»
Il
ragazzo non rispose, limitandosi a sorridere.
Alcune
ore dopo, mentre Jeremy terminava gli ultimi collaudi sul sistema di
videosorveglianza, Aelita stava leggendo un libro che aveva trovato
all’Hermitage. Si ricordava che suo padre lo aveva comprato
quando
avevano trascorso una brevissima vacanza in Sardegna. La ragazza
adorava quel libro ed era affascinata da una terra così
ricca di
storia.
Non
stava prestando particolare attenzione al piccolo televisore
appoggiato sulla scrivania.
Stavano
dando un programma televisivo in cui veniva spiegato come venivano
creati diversi oggetti della vita quotidiana.
Con
il commentatore che, ogni tanto, si lasciava scappare delle battute
piuttosto squallide.
La
ragazza venne colta di sorpresa da un improvviso cambio di luce.
Durato solo alcuni istanti. Alzò lo sguardo, verso il
piccolo
schermo.
E,
per un istante, le parve di vedere l’occhio di Xana sullo
schermo.
Chiuse
e riaprì gli occhi. Pensò di aver visto male. Di
averlo immaginato.
Venne
immediatamente riportata alla realtà dall’
esplosione del
televisore.
Numerosissime
schegge di vetro si riversarono sul pavimento della stanza.
Per
sua fortuna, la sua compagna di stanza non era lì in quel
momento.
Era a oltre mille chilometri di distanza, nella capitale tedesca,
oppure sarebbe potuta essere ferita. Forse anche in modo grave.
La
ragazza cercò di essere il più razionale
possibile. Non poteva
essere Xana. Lo avevano sconfitto tempo addietro. Altrimenti si
sarebbe immediatamente precipitata al telefono per contattare gli
altri e partire per una missione nel mondo virtuale.
Conosceva
a memoria il modus operandi di Xana. Attivare una torre nel mondo
virtuale, lanciare uno spettro polimorfo nel mondo reale. Lei si
sarebbe precipitata nel mondo virtuale.
Era
raro che tutti e quattro si trovassero contemporaneamente nel mondo
virtuale. A turno Ulrich, Odd e Yumi restavano sulla Terra per
tentare, insieme ai loro Pokémon, di limitare i danni degli
attacchi
di Xana, mentre lei e gli altri sconfiggevano i mostri comandati
dalla spietata intelligenza artificiale, per permetterle, alla fine,
di entrare all’interno della Torre e di inserire il Codice
Lyoko,
per poter fermare l’attacco e permettere a Jeremy di lanciare
il
ritorno al passato.
Ma
ormai quei tempi erano passati e quella era una semplice coincidenza.
Magari uno sbalzo di tensione, magari un difetto del
televisore…
Solo
che nemmeno lei fu in grado di convincersi della cosa. Era sicura al
cento per cento di aver visto quel simbolo. Giurò a se
stessa che ne
avrebbe parlato solamente se anche a qualcuno degli altri fosse
successa una cosa simile.
A
furia di osservare quelle telecamere, che inquadravano sempre le
stesse cose, qualche Pokémon selvatico, alcune auto che
passavano
sulla strada, e alcune persone che camminavano, limitandosi a
ignorare quella villa, disabitata da anni, Jeremy cadde in un sonno
profondo, senza nemmeno accorgersene. Aveva, senza neppure
accorgersene, cambiato i DVD ogni due ore circa. Allertato dal
segnale acustico che avvisava di come lo spazio nel DVD si stesse
esaurendo.
Il
giorno seguente Ash e Serena erano tornati, e con loro la Hertz e
Jim. Era pomeriggio inoltrato, quasi sera. Eppure nessuno di loro
sembrava particolarmente provato dal lungo viaggio.
Eccetto
Serena. Aelita non poté fare a meno di notarlo. La sua
compagna di
stanza appariva estremamente preoccupata.
Immaginava
fosse per sua madre. I notiziari avevano parlato spesso e volentieri
dell’aggressione subita da Primula, ma avevano parlato di
ferite
non gravi e di come la donna avrebbe facilmente recuperato.
Evidentemente le cose non erano proprio così.
Ora
che Jim era tornato Odd non poteva più permettersi di
fuggire dalla
sua prigionia. Almeno per un altro paio di giorni. Per questo motivo,
sia pure contro il suo volere, gli era stato affidato
l’ingrato
compito di visionare i filmati dell’Hermitage.
Il
ragazzo accettò controvoglia. Era geloso. Gli
altri erano
all’Hermitage al centro dell’azione. Dopo che
Jeremy si era
addormentato era chiaro che andare di persona fosse la scelta
migliore. Lui, invece, era chiuso nella sua stanza. Costretto a
vedere quelle registrazioni. Registrazioni talmente monotone da
ricordare una partita di calcio, talmente noiose da far addormentare
Jeremy. Cosa ne avrebbe cavato lui?
Dall’altra
parte della sua testa, in contrapposizione a questo, si
manifestò un
pensiero che lo spinse a guardare quei filmati. Istante per istante.
Se avesse notato qualcosa che “Einstein” non aveva
notato, si
sarebbe potuto vantare per secoli.
Il
primo dvd, riuscì a guardarlo senza addormentarsi, ma
già alla
conclusione dello stesso, iniziò a dare i primi segni di
cedimento.
Crollò totalmente arrivato a meno di un quarto del secondo.
Non
seppe quantificare il tempo trascorso da quando si era addormentato a
quel momento. Tutto iniziò con una mano, che, delicatamente
si posò
sulla sua spalla.
Il
ragazzo si girò e rimase ipnotizzato. Gli occhi blu scuro
della
ragazza brillavano, riflettendo la debole luce della bajour, che il
ragazzo aveva acceso senza nemmeno pensarci. La ragazza indossava un
semplice pigiama rosa e aveva i capelli sciolti.
«Stavi
dormendo?»
Gli
chiese in tono gentile.
Odd
non sapeva che risponderle. Doveva dirle la verità o
inventarsi una
scusa.
«Mi
ero solo appisolato un attimo. Non stavo proprio dormendo.»
«Sai,
ora che sono sola, in camera mia è una noia, e visto che
l’altro
giorno siamo usciti insieme, ho pensato di passare da te. Ho provato
a bussare, ma non mi hai risposto.
Quindi
ho provato ad aprire la porta ed eccomi qui.»
«Ti
capisco, dover stare soli quando si è abituati a condividere
la
stanza è davvero brutto.»
Il
ragazzo gettò uno sguardo sul letto del compagno di stanza.
Era
perfettamente rifatto. Sembrava non ci avesse dormito nessuno da
chissà quanto tempo. Invece era semplicemente l'ossessiva
precisione
del compagno di stanza, di origine tedesca. Quella era solo la prima
notte che trascorreva da solo.
Solo
che non poteva dirlo così, o avrebbe rischiato una severa
punizione.
«Come
mai sei da solo? Come me hai litigato con il tuo compagno di stanza
o…»
“Litigato?”
Pensò
il ragazzo. A quella domanda, ben presto se ne aggiunse
un’altra.
Sua diretta conseguenza.
“Chi
mai potrebbe litigare con una ragazza come lei?”
«No.
Nulla di così grave. Semplicemente è dovuto
rientrare dalla sua
famiglia. Dovrebbe tornare domani. Ecco tutto.»
Insieme
il tempo trascorreva più velocemente. E se
qualcuno anche solo
accennava ad addormentarsi, poteva essere rapidamente riportato alla
realtà.
Avevano
ordinato delle pizze e se le erano letteralmente divorate. Se
dovevano stare svegli tutte quelle ore dovevano avere energie.
Non
sapevano se avrebbero o meno incontrato quel tipo, ma nel caso
sarebbero dovuti essere pronti. A turni di mezz’ora uno di
loro
guarda le registrazioni, mentre gli altri guardavano la TV.
Fino
a quel momento non era successo nulla. Calma piatta.
Calma
non era la situazione di Odd. Era stato con tante ragazze, ma con lei
era diverso. Non che non si sentisse a suo agio, anzi, tutto il
contrario. Stavano parlando delle loro passioni, si stavano
scambiando consigli sulle gare e sulle lotte, quando a un certo punto
la conversazione si spostò sulla fotografia.
In
Giappone, Lucinda aveva spesso posato per numerose riviste e quindi
poteva vantare una discreta esperienza in fatto di fotografia. Gli
aveva anche parlato dei vari metodi utilizzati per mettere in risalto
questa o quella cosa. E gli mostrò anche degli esempi
pratici,
sfruttando il portatile del ragazzo.
«Forse
ora è meglio che torni in camera. Ma sai, mi sono trovata
bene con
te. Teniamoci in contatto. Hai il mio numero?»
Non
notando alcuna risposta da parte del ragazzo, Lucinda prese
l’iniziativa.
Estrasse
un pennarello dalla tasca e scrisse, il numero sulla mano del
ragazzo. Molto delicatamente. La punta del pennarello faceva il
solletico, ma il ragazzo cercò in ogni modo di trattenere le
risate.
Odd
era come ipnotizzato dal modo di fare di quella ragazza. Per diverso
tempo non sembrava stesse prestando attenzione alle immagini di
videosorveglianza.
La
ragazza, inaspettatamente, gli diede un bacio. Sulla bocca.
Facendolo
finire completamente in corto.
Non
seppe quantificare il tempo impiegato a riprendersi, almeno in parte.
Ma quello che scoprì, gli diede il colpo di grazia.
Radunate
un secondo le idee, rimosse il DVD dal lettore e lo inserì
nel suo
computer portatile.
Fece
partire il video attraverso un programma che permetteva di modificare
i video e lo fece andare avanti rapidamente, fino a raggiungere il
momento incriminato.
In
quel momento iniziò a giocare con le regolazioni presenti
sul
programma. Inizialmente combinò un vero e proprio pasticcio,
rendendo quasi completamente invisibile il video.
Ragionandoci
su, comprese il funzionamento dei vari comandi che regolavano il
contrasto, la luminosità, la saturazione e altri parametri
che prima
di allora non aveva mai sentito.
Ora
che aveva un’idea di come lavorare, non doveva fare altro che
mettersi al lavoro.
Dopo
alcuni inciampi, che avevano portato a dei risultati comparabili a
certe opere di arte moderna. Non molto utile quando quello che serve
è un’immagine chiara e cristallina,
riuscì finalmente nel suo
scopo.
Ora
l’immagine era più chiara. Non chiarissima ma
comprensibile.
Era
la sagoma di un uomo alto e dalle spalle larghe. Sembrava che ci
fosse qualcosa ai suoi piedi, ma non era ben chiaro di cosa si
trattasse.
Quell’immagine
poteva comunque essere molto importante, per cui ne salvò
una
copia.
Fece
un’operazione analoga alcuni frame dopo. In questo caso
l’uomo
era di profilo, e sembrava avesse un grosso zaino e accanto a lui
c’erano due sagome enormi, che non promettevano nulla di
buono.
Il
ragazzo, pensandoci bene, ricondusse le due sagome erano degli
Houndoom, ed erano gli stessi che avevano ferito il Pokémon
di
Hiroki, per cui era davvero pericoloso. Un secondo pensiero lo
raggiunse immediatamente. Se quell’uomo poteva cancellare le
sue
immagini dalle telecamere, era dotato di grandi risorse.
Il
ragazzo si precipitò immediatamente al telefono. Se non
poteva
andare di persona, almeno li avrebbe avvisati via telefono.
«Ehi!
Cosa è successo alla telecamera?»
In
quel momento era il turno di Yumi ad osservare le telecamere.
Improvvisamente lo schermo era diventato completamente bianco.
Tutti
si avvicinarono allo schermo del portatile.
Fuori
dall’abitazione, Nicolapolus stava ispezionando la villa.
Aveva
installato delle microspie, e grazie alle stesse aveva scoperto che
quei ragazzi bazzicavano spesso per quelle zone.
Grazie
a dei sofisticati sensori di temperatura, aveva notato che
all'interno dell’abitazione erano presenti quattro persone.
Non
l’ideale per agire. Certo era armato e poteva contare sui
suoi
Houndoom, ma degli spari a quell’ora avrebbero allertato
tutto il
vicinato. E, per quanto i suoi due Houndoom fossero forti, non lo
erano abbastanza da affrontare ventiquattro Pokémon, nella
peggiore
delle ipotesi.
«Vado
a vedere. Ho un brutto presentimento.»
Ulrich
sentì una mano sulla spalla e che qualcuno lo
stava tirando
indietro. Il ragazzo si voltò.
«Perché
non dovrei andare?»
«Ulrich.
Non essere impulsivo. Potrebbe essere molto pericoloso. So che tu e
la tua squadra siete molto forti, ma cosa ti garantisce che fuori non
ci sia qualcuno armato e pericoloso?»
«Oh,
si. Hai decisamente ragione.»
Il
suo tono era sommesso, ma la sua ragazza aveva ragione. Agire senza
pensare sarebbe potuto essere fatale.
Niente.
Per quanto tentasse di contattarli, nessuno gli rispondeva. Ogni
volta che cercava di mettersi in contatto con i suoi amici, una
risposta automatica diceva che il numero chiamato era “spento
o
irraggiungibile".
Doveva
cercare di non farsi prendere dal panico. L’ipotesi
più probabile
era che fosse caduta la linea, ma lui riusciva a fare le telefonate,
quindi era un’ipotesi da scartare.
Lui
era in punizione e non poteva uscire. Uscire poteva voler dire solo
una cosa. Rischiare di essere espulso. Poteva mettersi in contatto
con Lucinda e chiederle di fare da tramite, ma non voleva metterla in
pericolo. Non tanto per Jim, quanto per quel tipo che si aggirava per
l’Hermitage.
E
poi le avrebbe dovuto fornire una spiegazione razionale sul
perché
avrebbe dovuto raggiungere una villa abbandonata, mettersi in
contatto con delle persone che conosce appena e riferire di un tizio
che si aggira attorno a quella proprietà per
chissà quale motivo…
Troppo
complicato. Non che sperare che i suoi amici fossero al sicuro fosse
più facile.
Non
potendo uscire a vedere, Ulrich si avvicinò a una delle
finestre,
per poter osservare meglio. Ben presto si rese conto di non aver
fatto un’ottima scelta. La strada era completamente priva di
illuminazione, come se qualcuno l’avesse sabotata.
Probabilmente
per passare inosservato.
«Guardate,
ora le telecamere hanno ripreso a funzionare!»
Yumi
aveva appena concluso il suo turno e Jeremy le stava dando il
cambio.
«Non
credo che sia stato un guasto momentaneo. Probabilmente qualcuno lo
avrà sabotato»
«Che
sia lo stesso che ha attaccato il Pokémon di Hiroki?»
Yumi
era piuttosto preoccupata.
«Non
ne ho idea. Ma è certo che sa di essere osservato e sta
adottando
tutte le misure del caso. Come per esempio mandare in tilt le
telecamere e mi chiedo di cos’altro sia capace.»
Lo
squillo di un telefono fermò lo scambio di parole tra i due.
Era
Odd. Ulrich si precipitò a rispondere.
«Ehi!
Ma dov’eri che non mi hai mai risposto! Ti avrò
chiamato venti
volte e mi dava sempre che eri irraggiungibile!»
«Come?
Non ho visto nessuna chiamata. Vabbè poco importa.»
«Ho
delle novità da dirti!»
I
due lo dissero praticamente insieme.
«Su,
vai te!»
Lo
invitò il biondo.
«Siamo
all’Hermitage e qualcuno è riuscito a sabotare le
telecamere e a
spegnere l’illuminazione pubblica. Crediamo che sappia di
essere
osservato. E credo anche che sapesse della nostra presenza.»
«Stavo
per dirti la stessa cosa. Riguardando i filmati di sorveglianza ho
notato una sagoma di un uomo. Solo che sembrava si fosse cancellato
da solo dal filmato. Aveva un grosso zaino sulle spalle.»
«Molto
bene. Mi chiedo cosa cerchi.»
«Forse
il fascicolo. Ma non è all’Hermitage.»
«Fascicolo?
»
«Quando
Jim mi ha accompagnato dal preside, ho visto che il signor Delmas
stava maneggiando un fascicolo con scritto Waldo Schaeffer.»
«E
lo dici solo adesso?»
«Non
pensavo fosse importante. Magari erano semplicemente le informazioni
che già abbiamo, stampate su carta.
«Anche
se fosse? Se trovi indizi devi sempre dirlo. Per questa volta passi.
Ma devi trovare un modo di procurarcelo.»
Il
ragazzo chiuse la telefonata senza salutare.
«Odd
voleva avvisarci di come quel tipo possa rimuoversi dai filmati.
Quindi potrebbe essere stato lui ad aver sabotato la
videosorveglianza. Potrebbe essere passato anche stanotte, ma deve
aver rinunciato, essendosi accorto di noi. E secondo lui cercherebbe
un fascicolo sul Professore.»
Tutti
lo guardarono come se fosse un alieno.
«Fascicolo?»
Gli
chiesero tutti, all’unisono.
«Esatto.
Infatti mi chiedo perché non ne abbia parlato fino ad ora.
Quando è
stato mandato dal preside, lo ha visto mentre lo sfogliava. Pensa che
lo tenga ancora nel suo ufficio.»
Il
giorno seguente i ragazzi si erano dati appuntamento in mensa, per il
pranzo. Dovevano decidere come operare per ottenere quel dossier.
Poteva essere la svolta. Oppure poteva complicare ulteriormente le
cose.
«Ci
ho pensato tutta la notte. E forse ho avuto un’idea.»
«Vai
avanti. Sono tutto orecchie.»
In
realtà Ulrich aveva un po’ di paura. I piani del
suo amico non
erano mai stati particolarmente brillanti. Ma, dato che gli aveva
detto di pensarci lui, doveva fidarsi.
«Se
dobbiamo andare nell’ufficio del preside e lui non deve
esserci,
dobbiamo distrarlo.
«E
fino a qui ci siamo.»
«Per
cui dovrai parlare con Sissi per chiedere di distrarlo. Vedrai, non
sarà difficile. Le chiedi di distrarre suo padre
e… quando lo avrà
fatto entrerò nel suo ufficio e il gioco sarà
fatto. Soprattutto
ora che aspettano il fabbro, dato che la serratura
dell’ufficio è
rotta.»
«La
fai facile! E poi cosa le dico? Sentiamo! Hai pensato anche a
questo?»
«Oh,
beh, si. Pare sia particolarmente gelosa di Serena. Sai, per la gara
di lotta in cui ha perso malamente e poi per il fatto che l'hanno
accompagnata fino a Berlino.»
«Sì,
ma lì era per sua madre.»
«La
conosciamo benissimo. Sappiamo che fa sempre così.»
Commentò
Aelita, rimasta in silenzio per tutto quel tempo.
«Quindi
che vuoi fare?»
«Inizia
parlando con Sissi. Poi ci regoliamo in base a cosa vuole. Oh eccola
che arriva.»
Proprio
dietro di loro, quasi dal nulla, apparve una ragazza dai lunghi
capelli neri. Indossava un top rosa con un cuore giallo disegnato,
una gonna bordeaux e delle scarpe sportive. Indossava a tracolla una
piccola borsetta. Accanto a lei i suoi tirapiedi, Nicholas e Hervé.
«Mi
stavate cercando?»
«Si.»
La
ragazza rimase per un attimo senza parole. Ulrich le stava mentendo o
aveva davvero bisogno di lei?
«Bene,
allora dimmi tutto.»
«Sarebbe
meglio se ne parliamo in privato, lontano da orecchie indiscrete.»
La
ragazza, sentendosi importante, accettò senza fare storie.
In breve
si trovarono fuori, vicino alle macchinette. Avevano appena finito di
mangiare, per cui il ragazzo decise di offrire un caffè. Il
caffè
delle macchinette non era il massimo, ma poteva essere un modo per
iniziare una conversazione.
«Grazie.
Ma adesso dimmi cosa desideri. Mi stai facendo preoccupare.»
«Come
vuoi. È una cosa un po’ strana. Vedi ho avuto un
piccolo problema
con un prof, non importa.»
«E?»
«E
mi vorrei vendicare. E per farlo ho bisogno del tuo aiuto. Dovrai
distrarre tuo padre, mentre beh, qualcuno si occuperà
di… fare il
lavoro sporco.»
«Oh,
beh. Se lo dici tu. Ma ovviamente chiedo qualcosa in cambio.»
«Dimmi
tutto.»
La
ragazza rimase in silenzio a pensare. Si. Da una parte era ancora
attratta da lui, ma si stava anche frequentando con un altro ragazzo.
E se fosse uscita con lui, probabilmente ci sarebbero stati problemi.
E poi non ci avrebbe guadagnato in altri sensi. Sapeva che Yumi non
avrebbe mosso un dito se gli avesse visti insieme. Sapeva che se era
con lei era per ottenere qualche tipo di favore.
Doveva
chiedere qualcosa di più materiale.
«Non
so se ti ricordi, ma qualche tempo fa ho perso malamente con quella
nuova arrivata. E la cosa mi fa molto male ancora oggi. Tu pensa, io,
la regina indiscussa delle gare, sconfitta dalla nuova
arrivata…»
«È
terribile!»
Commentò
il ragazzo, cercando di assecondarla. Non aveva ancora idea di cosa
volesse.
«In
ogni caso… se vuoi che ti aiuti… devi trovare una
persona che
possa aiutarmi.»
«Aiutarti?
E con cosa?»
«Dovresti
trovare una coordinatrice che mi possa aiutare a sconfiggerla. Ma che
dico sconfiggerla. Umiliarla. Davanti a tutti. Pensi di
potermi
aiutare?
Il
ragazzo ci pensò un attimo. Sarebbe potuta andare davvero
molto
peggio.
«Dammi
un secondo. Forse so chi ti può aiutare.»
Il
ragazzo tornò in mensa. Era sicuro di trovare il suo amico,
ancora
lì, a divorare la terza porzione di dolce.
«Odd.
Ho bisogno di un grosso favore. Grossissimo.»
«Di
che tipo?»
«Avresti
il numero di Lucinda?»
«Non
me la vorrai rubare?»
Il
ragazzo sapeva di poter scherzare su queste cose. Infatti aveva
già
preso il telefono dalla tasca e cercato nella rubrica il numero della
ragazza.
«Ecco
qui! Ma puoi dirmi a cosa ti serve?»
«A
cosa mi servirà mai? Per il tuo piano malefico!»
Intanto
Ulrich aveva finito di salvare il numero della ragazza. Senza dire
una parola era già corso da Sissi, che lo stava ancora
aspettando
davanti alle macchinette. Aveva appena finito di bere il suo
caffè.
«Allora?»
«Dammi
solo un attimo.»
Il
ragazzo prese il telefono e si mise in contatto con Lucinda. La
ragazza era salita in camera sua, per riportare i suoi
Pokémon.
Aveva sentito il telefono squillare e, rispose, senza nemmeno
guardare il numero.
Xana
sapeva benissimo che quello era il numero di telefono di Ulrich
Stern. Ma non poteva permettersi di venir scoperto sin da subito. O
il suo piano sarebbe crollato come un castello di carte.
«Pronto?
Chi parla?»
«Sono
Ulrich, il compagno di stanza di Odd, il ragazzo con cui sei uscita
l’altro giorno… »
«Si,
ho capito. Il tuo amico è davvero fantastico.»
«Poi,
quando lo conoscerai bene cambierai idea…»
Il
ragazzo cercò di non ridere.
«Sto
scherzando… posso assicurarti che è un bravissimo
ragazzo!»
«Vedo.
Comunque come mai mi hai chiamato?»
«Vedi,
tu sei una super coordinatrice di fama internazionale e una mia
amica…»
«Amica…»
Sissi
era era felice di esser considerata in quel modo dal ragazzo.
«Una
mia amica che ha un po’ di timore reverenziale nei
tuoi
confronti, mi ha chiesto di fare da tramite. Vorrebbe che le
insegnassi i trucchetti del mestiere… diciamo.»
«Certo,
non c’è problema. Dimmi dove sei che ti raggiungo.»
Xana
aveva sentito i suoi nemici parlare di un dossier di Waldo Schaeffer,
e se loro ne fossero venuti in possesso, anche lui avrebbe potuto
visionarlo. E decidere come agire, a seconda del caso.
«Vicino
ai distributori automatici. Ah, dimenticavo, non andarci troppo
pesante!»
«Arrivo.»
«Ha
detto che sta arrivando.»
Ulrich
prese il telefono e scrisse un messaggio all’amico.
“Ho fatto il
mio. Ora dobbiamo aspettare. Quando sarà fuori potrai
agire”.
Alcuni
minuti dopo, la ragazza dai capelli blu raggiunse i due ai
distributori automatici. La ragazza guardò Sissi per un
tempo che
sembrava infinito.
«Sarebbe
lei la tua… amica?»
«Si.
»
«Quando
vuoi cominciare? Da quanto ho capito vuoi conoscere i trucchetti del
mestiere. No?»
«Si,
esatto, però aspetta un attimo. Quanto a te…»
La
ragazza si stava rivolgendo a Ulrich.
«Farai
compagnia a mio padre.»
Sissi
prese il suo telefono e chiamò il padre. Mentre la stessa
stava
effettuando la chiamata, Ulrich scrisse un secondo messaggio
all’amico. “Io sarò occupato. Appena
sarà occupato anche lui ti
avviso”
Il
messaggio era piuttosto sintetico, ma abbastanza comprensibile. O
almeno sperava che lo fosse.
«Ha
detto che ci sarà. Arriverà tra poco. Purtroppo
ha del lavoro da
fare, quindi ci sarà solo per un’ora. Spero che
basti al tuo
“agente segreto”.»
«Se
non basta, vedremo di farla bastare.»
Sissi
aveva mantenuto la promessa. Suo padre il signor Delmas
l’aveva
raggiunta. Ulrich era un po’ intimorito dalla sua presenza.
Non
tanto dal suo aspetto, un uomo tarchiato, spessi occhiali
rettangolari, vestito elegante, ma per quello che
rappresentava.
«Bene,
andiamo. Vediamo cosa sai fare.»
Lucinda
si mise in testa al gruppo. Camminava a passo veloce, il signor
Delmas faticava a tenere il passo. Questo per Xana rappresentava un
piccolo imprevisto, ma non avrebbe cambiato le cose più di
tanto.
Alla
fine tutti e quattro raggiunsero i campi lotta, che per fortuna non
erano molto distanti dai distributori. Erano, invece, piuttosto
lontani dalla palazzina amministrativa.
Il
preside, come da tradizione, si accomodò nel trono a lui
assegnato.
Da quel punto si aveva una vista perfetta sul campo.
Ulrich
scrisse l’ultimo messaggio all’amico.
“Via libera”.
Nel
mentre Lucinda aveva mandato in campo Buneary, e Sissi la sua
Clefable.
Per
sua fortuna l’amico aveva sempre il telefono sottomano. E,
appena
letto il messaggio, si mise immediatamente a lavoro.
Giunto
nei pressi del palazzo amministrativo, si accorse di come lo stesso
fosse completamente deserto. Per fortuna.
La
serratura era ancora rotta. Il fabbro sarebbe arrivato solo il giorno
dopo.
Il
ragazzo aprì la porta e poi la richiuse immediatamente.
L’ufficio
del preside era enorme, ma ordinato. Più del solito. Sulla
scrivania
solo il portapenne e il computer fisso. Su di un muro era appeso un
grosso gancio, dove a loro volta erano appese tutte le chiavi
dell'istituto. Il preside era un tipo previdente. Voleva assicurarsi
di avere il pieno controllo di tutto l’istituto.
Posato
su una delle pareti della stanza, un gigantesco archivio metallico.
Ovviamente era chiuso a chiave. E, con tutta probabilità,
sarebbe
stato aperto da una di quelle chiavi.
Nessuna
di esse presentava un’etichetta o qualcosa di simile, per
poterle
identificare.
«Usa
la testa, Odd! Usa la testa!»
Guardando
le chiavi e la serratura, si accorse di come potesse escludere, in un
colpo solo, una buona parte di quel mazzo. Ora non gli restava che
trovare la chiave che aprisse lo sportello in cui, presumibilmente,
era contenuto quel documento. Perse altri preziosi secondi nel
provare la chiave che aprisse quel cassetto, segnato dalle lettere
P-Z.
Sapeva
che nell’istituto, che fossero alunni o professori, tutti
venivano
archiviati con il cognome.
Ma
niente. Per quanto controllasse, il fascicolo del professor Schaeffer
non c’era.
Eppure
lui era sicuro di averlo visto.
Sentiva
scorrere il tempo in maniera frenetica. Non sapeva quanto tempo
avesse. Poi ebbe l’illuminazione.
Quando,
qualche tempo prima era stato costretto ad entrare nel suo ufficio,
per quell’uscita con Lucinda, lo aveva visto mentre lo
sistemava da
qualche parte alla sua destra.
Da
qui l’illuminazione.
Si
inginocchiò al lato destro della scrivania. E aveva trovato
quel che
cercava. Dei cassetti. Certo. Erano chiusi a chiave, ma era un buon
inizio.
Ben
presto si accorse di come tutte le chiavi di cui disponeva, erano
troppo grandi per quella serratura. Sicuramente quella chiave si
trovava da qualche parte in quell’ufficio, ma dove?
Guardò
sotto il piano della scrivania, nella speranza di trovare la chiave
appesa la sotto, o, nella peggiore delle ipotesi nastrata.
Ma
niente. La chiave non era lì.
La
sua ultima speranza era il piano della scrivania, occupato dal
portapenne e dal computer.
Guardò
con attenzione il portapenne. Sembrava che
l’interno fosse
più alto dell’esterno.
Come
se avesse un doppio fondo. Il ragazzo lo prese e svitò la
base. Al
suo interno un piccolo mazzo di chiavi.
Prese
il mazzo e aprì il primo cassetto.
Al
suo interno una cartellina gialla con su scritto, con un pennarello
nero Waldo Schaeffer. Se lo infilò sotto la maglietta,
richiuse il
cassetto e risistemò le chiavi e il portapenne.
Infine
corse fino a camera sua, dove depositò la refurtiva e
scrisse un
messaggio all’amico. “Fatto. Davvero
difficile”.
Quel
pomeriggio, i ragazzi si radunarono nella stanza di Ulrich e Odd.
Il
dossier era sulla scrivania dei due ragazzi. Ancora non era stato
aperto.
«A
te l’onore.
Aelita
si alzò dal letto e rimosse l’elastico che teneva
chiuso il
dossier. Provava uno strano mix di emozioni. Dopotutto quel faldone
conteneva delle informazioni riguardo suo padre.
La
ragazza aprì il dossier. Al suo interno
un’ulteriore busta chiusa.
Di colore simile al rivestimento esterno. Su di esso una scritta.
“Grazie per aver accettato di conservarlo, Jean”.
«Aspetta
un attimo!»
«Questa
è la scrittura della Hertz!»
Yumi
completò la frase del suo ragazzo.
«Come
immaginavo. Ha mentito. Ora dobbiamo capire in che modo.»
Le
fece eco Jeremy.
«Ad
ogni modo…»
Aggiunse
poco dopo.
«Vediamo
che segreti nasconde.»
Molto
delicatamente, il ragazzo ruppe i sigilli del fascicolo. Una volta
fatto questo, estrasse una grossa pila di fogli.
«Sembrano
i piani di costruzione del Supercomputer. Mi chiedo cosa se ne
facesse la Hertz. E poi…»
«Che
quello fosse il Supercomputer me ne sono accorto. Non sarò
un genio
come te, ma il Supercomputer lo so riconoscere. Piuttosto quel
messaggio in codice…»
Lo
interruppe Odd, mentre indicava diversi bozzetti del Supercomputer,
visto da diverse angolazioni.
«Calmati.
Ci stavo arrivando. Non è un messaggio in codice.
È Hoppix. Il
linguaggio di programmazione in cui è stato creato Lyoko.
Solo che
non ho idea di cosa possa fare.»
«E
allora perché non lo provi?»
Lo
provocò Odd
«Il
Supercomputer resterà spento in ogni caso. A mano che non
sia
strettamente necessario. E poi non abbiamo la minima idea di cosa
faccia. Potrebbe anche causarne l’autodistruzione.»
«Ma
non è quello che voleva il Professore? Ahia!»
Odd
si beccò una gomitata nelle coste da Ulrich.
«Non
dimenticare cosa dobbiamo fare PRIMA! È la cosa
più importante.»
«Certo,
hai ragione! Ma la prossima volta non essere così violento.»
Mentre
sfoglia i diversi fogli, il ragazzo fece, involontariamente, cadere
un piccolo foglietto di carta, una sorta di post it.
«E
quello cos’è?»
Aelita
aveva notato quel piccolo foglietto di carta. E lo aveva raccolto.
«Guardate,
un indirizzo di…»
«Bruxelles»
Yumi
concluse la frase dell’amica.
«E
sembra che sia stato scritto dalla Hertz. E questo vuol dire solo una
cosa. Ha a che fare con il Professore. Riesci a procurarmi due
biglietti per venerdì o sabato?»
«Due?»
Ulrich
si sentì preso in causa.
«Pensavi
andassi da sola? E poi, che vuoi che siano un paio d’ore di
treno?»
«Ok.
Ci metto due minuti a procurarvi i biglietti, ma mi chiedo cosa ci
possa essere in un altro Stato.»
«Non
saprei. Ma se va bene anche solo la metà di come
è andata la scorsa
volta…»
«Va
bene.»
Un
rumore non ben definibile riempì la stanza. Due biglietti
Parigi-Bruxelles e altrettanti Bruxelles-Parigi erano appena usciti
dalla stampante.
Qualche
ora dopo, si trovarono tutti nelle rispettive stanze. Andare
all’Hermitage era inutile. Quel tizio poteva essere
pericoloso e
sembrava che non agisse in loro presenza. E, in ogni caso era capace
di eliminare la sua presenza dall’impianto di
videosorveglianza.
«Posso
usare il computer?»
«Ma
certo! Ci mancherebbe! Accomodati pure. La prossima volta usalo pure
senza chiedere.»
Serena
si sedette sulla sedia e accese il computer. Il pulsante di
accensione si illuminò di una luce blu, mentre sul monitor
apparve
la schermata di caricamento del sistema operativo.
Dopo
una trentina di secondi, il computer era pronto per essere
utilizzato.
La
ragazza selezionò il motore di ricerca e si
bloccò. Rimase
imbambolata a fissare lo schermo, che mostrava la homepage del motore
di ricerca.
«Hai
detto che ti chiami Aelita, non è vero?»
«Esatto.
Lo so. Non è un nome molto comune. È un nome di
origine russa,
quindi puoi immaginare il motivo.»
«Si,
immagino. Avresti potuto dire lo stesso per me.»
«Ora
che ci penso sei la prima ragazza che conosco a chiamarsi Serena.»
«Sai,
io ho origini italiane. Da parte dei miei nonni paterni, e io mi
chiamo proprio come mia nonna, ma non so quanto possa essere
interessante.»
«Se
parlarne ti fa stare meglio, vai pure.»
«Stare
meglio?»
«Credi
che non me ne sia accorta? È da quando sei tornata dalla
Germania
che ti vedo strana. Preoccupata, ecco.»
«Non
ti si può nascondere nulla. La verità
è che mia madre è stata
aggredita da un finto tassista e mi è stato permesso di
andare a
visitarla. Quando sono andata a trovarla è come se fosse
tornata ad
otto anni fa. Almeno. E mi ha parlato di una ragazza che si chiama
Aelita e, come te, aveva i capelli rosa e gli occhi verdi.
Mi
diceva che mi faceva da babysitter quando avevo tre o quattro anni.
So che non puoi essere te, abbiamo più o meno la stessa
età… ma
per il resto corrispondi perfettamente alla sua descrizione.»
«Sarà
per l’aggressione che ha subito. Oppure si tratta di una
semplice
coincidenza. E poi, oggi dovrebbe avere almeno venticinque anni. Ma
secondo me, se cerchi potresti trovarla e metterti in contatto con
lei. Magari si ricorda di te.»
Nemmeno
lei credeva alle sue parole. Ma non poteva di sicuro raccontarle la
verità sulla sua identità.
Serena,
intanto, si era fatta coraggio e aveva iniziato a digitare le prime
lettere sul motore di ricerca. “Aelita
H…”
La
sua compagna di stanza, per un attimo sentì mancare
l’aria nei
polmoni. Sperava di non esser stata notata.
Intanto,
Serena aveva finito di digitare e aveva avviato la ricerca e stava
iniziando a scorrere tra i risultati.
«Studentessa
di tredici anni e suo padre scomparsi nel nulla.»
L’articolo
era datato sette giugno millenovecentonovantaquattro.
La
ragazza cliccò sul link, che, nonostante avesse oltre dodici
anni,
funzionava perfettamente. Un pop-up indicava che l’articolo
proveniva dall'archivio del sito e che sarebbe stato impossibile
interagire.
«Aelita
Hopper, studentessa di tredici anni del collegio Kadic, e suo padre
Franz Hopper, professore di scienze presso lo stesso istituto, sono
scomparsi nel nulla.
Le
autorità hanno diffuso una foto dei due. Nel caso li
incontraste,
mettetevi in contatto con la più vicina stazione della
gendarmeria.»
La
ragazza cercò la fotografia. Invano. Probabilmente era stata
rimossa
quando l’articolo era stato archiviato.
La
ragazza provò a cercare in tanti altri siti, senza trovare
nulla di
utile. Solo un articolo, datato alcuni mesi dopo, attirò la
sua
attenzione.
«Caso
Hopper archiviato per mancanza di prove.»
La
ragazza era perplessa. Come potevano padre e figlia scomparire nel
nulla e non lasciare nemmeno un minuscolo indizio, una minima prova,
niente di niente.
Ben
presto la sua preoccupazione divenne un’altra. Se davvero
Aelita e
suo padre Franz Hopper sono vissuti realmente, perché sua
madre era
convinta che fossero ancora in vita, anni dopo la loro scomparsa?
Poteva essere per colpa dell’aggressione o c’era
qualcosa di più?
Senza
dire una parola corse fuori dalla stanza con il telefono in mano.
Compose
rapidamente il numero della madre e fece partire la telefonata. Nel
farlo scordò che sua madre si trovasse ancora a Berlino,
ricoverata
in ospedale e che, quindi, avrebbe speso un patrimonio per quella
telefonata. Ma in quel momento i soldi non erano di sicuro la sua
preoccupazione.
Non
sapendo se sua madre si fosse ripresa o meno, doveva anche scegliere
come approcciarsi. Alla fine scelse un approccio diretto. Le avrebbe
fatto la domanda direttamente.
La
donna rispose dopo alcuni squilli.
«Ciao
Serena, dove sei? Non sei pronta? Dobbiamo partire. Potrai rivedere
Aelita dopo tutti questi anni!»
«Mamma!
Aelita è scomparsa alcuni anni fa. Insieme a suo padre. Sono
grande,
puoi dirmi la verità. Non mi metterò a piangere.»
«Come
vuoi. Dobbiamo partire lontano dalla Francia perché delle
persone
molto pericolose ci cercano. Proprio per via del padre di Ae…»
Attaccò
prima che la madre finisse la frase. E tornò in camera. E
effettuò
una nuova ricerca. Questa volta cercò solo il nome di Franz
Hopper.
Dopo alcune decine di risultati simili, finalmente la ragazza
trovò
quello che cercava.
«Attentato
terroristico al collegio Kadic. Rivendicato da terroristi
internazionali. Dateci Franz Hopper o ci prenderemo le vostre
famiglie.»
La
ragazza aprì l'articolo. Era datato circa quattro anni dopo
quelli
che parlavano della scomparsa del signor Hopper.
«Una
Peugeot 605 imbottita con una tonnellata di esplosivo ad alto
potenziale è stata fatta saltare in aria presso il palazzo
amministrativo del collegio, causando ingenti danni,
all’edificio
ma nessun ferito.
L’attentato
è stato rivendicato da un ben noto gruppo terroristico come
minaccia
all’amministrazione. La loro richiesta è stata
quella di consegnar
loro il professor Hopper, scomparso nel nulla insieme alla figlia
circa quattro anni fa. I terroristi si dichiarano pronti a ritorsioni
contro chiunque abbia collaborato con lui.
Le
autorità francesi provvederanno a proteggerle al meglio
delle loro
possibilità.»
La
ragazza, che non si era accorta del fatto che la sua compagna di
stanza le si era avvicinata e di come anche lei stesse leggendo
silenziosamente quell’articolo.
Era
troppo occupata a chiedersi cos’altro avesse a che fare la
sua
famiglia con quell’uomo, se il solo collegamento tra la sua
famiglia e il professore era che a volte sua figlia le facesse da
babysitter.
Probabilmente
c’era dietro qualcos’altro. Ma cosa? Di sicuro non
poteva
mettersi di nuovo in contatto con la madre. L'aveva chiamata poco
prima e non l’aveva nemmeno salutata. Doveva cavarsela da
sola.
Forse
la soluzione era quella scheda di memoria, ma voleva vederla da sola.
E di sicuro non poteva chiedere alla legittima proprietaria della
stanza di allontanarsi. Poteva, invece, aspettare che si
addormentasse. Dopotutto le aveva dato il permesso di usarlo senza
chiederle ogni volta il permesso.
Si
era impostata la sveglia per le tre di notte. Solo vibrazione. Non
voleva svegliare la sua compagna di stanza. Non aveva motivo di
controllare che dormisse. Perché farlo? A
quell’ora, Aelita,
doveva essere totalmente tra le braccia di Morfeo.
Accese
il computer, che per fortuna era piuttosto silenzioso, emetteva un
ronzio appena percettibile, attese il caricamento del sistema
operativo e inserì la scheda nel lettore.
Aprì
la sola cartella contenuta nella scheda di memoria, che a sua volta,
conteneva un solo filmato.
Sembrava
il punto di vista di una persona, ma non aveva idea di chi potesse
essere. Cliccò su play e il filmato partì. Il
video partì con una
bellissima donna dai lunghi capelli rosa e gli occhi verdi. Indossava
un semplice camice da laboratorio. Più guardava quel video,
che, per
il momento, era una semplice immagine statica e silenziosa,
più
domande aveva.
Chi
è quella donna?
Pensò.
Cosa
vorranno da lei? Cosa le stanno facendo? Perché è
legata a quella
sedia? E se fosse…?
E
tante altre domande che si susseguivano in maniera estremamente
veloce. Talmente veloci da essere incomprensibili.
Ora
il filmato mostrava un giornale locale, datato due maggio
millenovecentonovantaquattro. La ragazza ci pensò un attimo.
Era
poco più di un mese prima della scomparsa del signor
Hopper.
Lo
sguardo tornò sulla donna. Aveva iniziato a
piangere.
Tra
le lacrime iniziò a parlare. La sua voce era attutita dal
vetro che
separava la stanza dov’era prigioniera dal luogo in cui si
trovava
chi riprendeva la scena.
«Waldo,
non pensare a me.»
La
ragazza mise in pausa il video. Il volume era più alto del
previsto.
Sperava che la sua compagna di stanza non si fosse svegliata. Non
sentendo alcuna lamentela, prese un paio di cuffie, inserì
lo
spinotto e regolò di nuovo il volume.
«Mi
tengono prigioniera, ma sto bene.»
Dopo
una lunga pausa di silenzio, la donna riprese a parlare.
«Come
Sta Aelita? Sono anni che non la vedo… ormai sarà
grande… sarà
diventata un’allenatrice e…»
Mise
nuovamente in pausa il video.
«Aelita?»
Sperava
di averlo detto sottovoce.
Ma,
indossando le cuffie, era difficile capirlo.
Probabilmente
quella donna era la madre di quella ragazza di cui sua madre le aveva
parlato e… sua madre aveva parlato solo del padre della
ragazza. Ma
non le tornava una cosa. Il padre della ragazza si chiamava Franz.
Poteva essere una semplice coincidenza.
Appena
fece ripartire il video, venne gelata da una voce maschile.
«Di
tutto quello che sai. Non ci interessa di tuo marito o di tua
figlia.»
La
donna rimase in silenzio per alcuni istanti.
«Vogliono
che ti dica di continuare a lavorare per completare il progetto
Cartagine.
In
cambio mi libereranno e noi tre potremo vivere di nuovo come una
famiglia.»
La
donna rimase di nuovo in silenzio. Come se dovesse trovare le parole
giuste.
«Tu
non ascoltarli. Non mi libereranno mai e vogliono ucciderti. Tu
scappa. Il più lontano possibile.»
A
questo punto, sembrò come che l’osservatore
venisse tirato
violentemente. Le immagini si fecero confuse e incomprensibili.
Quando
ripresero a essere comprensibili, l’osservatore inquadrava
una
scrivania in legno pregiato. Vuota. Seduto alla scrivania un uomo
dalla carnagione scura. Vestito completamente di blu. Camicia,
cravatta, giacca, cappello, pantaloni, scarpe…
«Per
cosa sei venuta qui?»
La
ragazza si tolse il primo dubbio. L’osservatore era una
donna.
Sarebbe quindi più corretto definirla come
l’osservatirice.
«Per
lo sponsor.»
«E
chi ti ha mandato qui?»
«Mio
marito. Lavora per lei e mi ha detto che era disposto a finanziarmi
in cambio di pubblicità.»
L’uomo
accese un sigaro. In breve tempo la stanza venne riempita da un fumo
denso e puzzolente.
«E
così tu saresti Primula? Sei persino più bella di
come ti hanno
descritta.»
Alla
ragazza si gelò il sangue nelle vene. Era sua madre? E se
sì, cosa
ci faceva lì? Di che sponsor parlava? Cosa
c’entrava suo padre?
Sua madre conosceva quella donna?
Forse
avrebbe trovato una risposta guardando gli ultimi istanti del
video.
Lo
fece ripartire.
L’uomo
posò sulla scrivania due enormi mazzi di banconote di
cinquecento
dollari. Erano entrambe alte almeno mezzo metro.
«Prendi
questi e fingi di non aver visto niente. Per lo sponsor, vedremo
più
avanti.»
«Non
posso accettare. Non dirò nulla. Ma non posso accettare.»
«Prendili
come anticipo per quella sponsorizzazione. Se non li prendi qui, li
avrai comunque, in un modo o in un altro.»
Il
video era finito. Di punto in bianco.
«Non
capisco. Cosa volevano da mia madre? Chi è
quell’uomo?»
Stesso
errore. Forse non aveva ben regolato il tono di voce. Si
girò verso
il letto della compagna di stanza. Era vuoto.
Sarà
in bagno.
Pensò.
No.
Non era in bagno.
Non
aveva esattamente idea di dove si trovasse. Sembrava una stanza
conosciuta. Un mobile sormontato da una tv a tubo catodico, un divano
di pelle e una piccola porta di accesso.
Pensandoci
bene, comprese dove si trovava. Era la stanza segreta
dell’Hermitage.
Quella che avevano trovato qualche tempo prima. Dopo quel viaggio a
Marsiglia.
Aveva
avuto un attacco di sonnambulismo e, dalla sua stanza era giunta
all’Hermitage, attraverso uno dei passaggi segreti. Solo
che…
come diavolo aveva fatto a non svegliare la sua compagna di
stanza. Probabilmente aveva il sonno pesante o, più
semplicemente,
poteva pensare che fosse andata al bagno.
Avendo
recuperato un minimo la ragione, diede uno sguardo più
ravvicinato
alla stanza. Si trovava davanti a un muro e aveva iniziato a
graffiarlo durante il sonno.
Si
guardò le mani. Erano insanguinate. Si chiese come mai fare
una cosa
del genere. Provò a bussare in diversi punti della parete.
Suonava
come se fosse vuota. Come se…
Non
aveva Pokémon con sé. Li aveva lasciati in
camera. Doveva
inventarsi qualcos’altro.
Si
mise alla disperata ricerca di qualcosa che potesse aprire un varco
in quella parete. Esplorando i sotterranei, alla fine trovò
quel che
cercava. Un vecchio piccone. Mezzo arrugginito.
Lo
trascinò fino alla stanzetta e, dopo essersi assicurata che
il
divano e il mobiletto non si rovinassero, colpì il muro con
il
piccone. Usò una forza che nemmeno credeva di avere. La
parete di
cartongesso cedette di schianto.
Come
se chiunque l’abbia costruita volesse che venisse demolita.
La
sua caduta fece sollevare un nuvolo di polvere che fece tossire
fragorosamente la ragazza.
Uscì
dalla stanza, aspettando che la polvere si depositasse. Nel frattempo
rifletté sulle parole di quell’uomo che avevano
incontrato a
Marsiglia.
Aveva
parlato di una piccola sezione della villa. Non di una stanza.
Era
così facile, eppure solo un attacco di sonnambulismo le
aveva
fornito la soluzione.
Voleva
mettersi in contatto con Jeremy, ma ben presto si rese conto di non
avere alcun modo di farlo. Il telefono era nella sua camera da
letto.
E
poi, dal momento che il ragazzo condivideva la stanza, svegliarlo
senza allertare il compagno di stanza, non era cosa
facile.
Ma ci doveva provare.
Corse
verso il collegio. Giunta di fronte alla stanza del ragazzo,
aprì la
porta, molto delicatamente. Era a tanto così da schiacciare
la coda
del Pikachu di Ash. Scivolato dal letto del ragazzo chissà
quando.
Scosse
il ragazzo, nella speranza che si svegliasse.
«Che
succede?»
«Non
importa, vieni con me.»
La
ragazza era strana. Sembrava avesse visto un fantasma.
Senza
dire una parola, il ragazzo la seguì, facendo attenzione a
essere il
più silenzioso possibile.
Alla
fine raggiunsero la stanza segreta scoperta qualche tempo prima. La
polvere si era depositata e l’aria era tornata respirabile.
Il
centro della stanza era occupato da uno scanner. Più vecchio
di
quelli della fabbrica, ma probabilmente dal funzionamento simile.
Accanto
allo scanner un terminale di controllo. Simile a quello della vecchia
fabbrica, ma anche in questo caso più antiquato.
«Mi
chiedo cosa ci faccia qui? Perché mettere un altro accesso a
Lyoko?»
«Non
sono sicuro che sia un accesso diretto a Lyoko. Non avrebbe molto
senso.»
Sappiamo
che tuo padre faceva le cose sempre con una ragione precisa.»
«E
allora dobbiamo scoprire a cosa serve.»
«Non
sarebbe meglio avvisare gli altri?»
«Domani
Ulrich e Yumi partiranno per il Belgio, non so quanta voglia abbiano
di essere disturbati nel cuore della notte. E poi, ricorda che Xana
non c’è più. Non corro pericolo.»
«Hai
vinto.»
In
pochi istanti la ragazza entrò nel dispositivo e si
trovò
materializzata nel mondo virtuale. Non era Lyoko, anche se il suo
aspetto era quello che aveva nel mondo virtuale. una tuta futuristica
di tue tonalità di rosa, una chiara e una scura,una
gonnellina e
delle spalline trasparenti, e un braccialetto a forma di stella che,
all'occorrenza, può far comparire sulla sua schiena.
Un
po ’rimpiangeva il suo aspetto originale, da elfa, vestita
rosa e
verde, ma con il nuovo outfit era molto più forte e, questo
non era
un male, quando dovevano combattere Xana.
La
ragazza si guardò attorno. Per quanto si sforzasse, non
riconosceva
quel posto. Ricordava la foresta di Lyoko, ma era anche
contemporaneamente molto diverso.
Davanti
a lei tre grossi alberi, simili a querce. Poco lontana, isolata,
un’altra quercia. Del tutto simile alle altre, tranne per
l’assenza
di cartelli.
«Voglio
proprio vedere cosa nascondi.»
«Fai
attenzione.»
La
ragazza era già entrata al suo interno.
Come
il titolo di un film, apparve la scritta “non ti scordar di
loro”
La
ragazza si trovò catapultata in un luogo familiare.
l’Hermitage.
Quando ancora viveva con suo padre. La villa era perfettamente
ordinata e pulita.
Decise
di visitare l’abitazione. Quel messaggio doveva avere un
qualche
significato, dopotutto. A chi si riferiva? Di chi non doveva
dimenticarsi e soprattutto perché?
Esplorando
l’abitazione, non trovò nessuno. Aveva visitato
tutte le stanze
meno una. Il salotto.
Aveva
un bruttissimo presentimento quando aprì la porta della
stanza, per
questo lo fece molto lentamente. Come se farlo piano, cambiasse
qualcosa.
Quando
fu dentro, per poco non ebbe un mancamento. Jeremy, pur se non poteva
vederla, riuscì a sentirla.
«Tutto
bene?»
«No.»
«Come
no?»
«Non
so come spiegartelo, ma mi sono trovata all’Hermitage
com’era
quando vivevo con mio padre e ho visto la me del passato. Per quanto
sia incredibile.»
«Potrebbe
essere una sorta di diario. Te la senti di restare o vuoi tornare?»
«No.
Resto. Sembra un posto sicuro. Solo che non mi spiego che cosa
intendesse con la frase “non ti scordare di loro”.»
«“Non
ti scordare di loro”?»
«Si,
è apparsa quando sono entrata qui dentro. Ora che ci sono
voglio
vedere di che si tratta.»
Mentre
Aelita finì la frase, qualcuno suonò il
campanello.
L’Aelita
del passato si alzò dal divano e andò a vedere
chi suonava.
L’Aelita
del presente la seguì con lo sguardo. Temeva di essere
vista, ma,
apparentemente, venne ignorata. All’ingresso vi era suo padre
e un
altro uomo Poco più alto di lui, completamente pelato. Occhi
chiari.
Teneva in braccio una bambina di tre o quattro anni. Lunghi capelli
color miele e occhi blu. Aelita sentì di nuovo quella
sensazione.
Quei capelli, quegli occhi…
No.
Non poteva essere lei.
Doveva
scacciare quel pensiero ad ogni costo.
Per
sua fortuna, Jeremy non si accorse di nulla.
L’uomo
senza capelli si inginocchiò per depositare la bambina.
«Aelita?
Ti puoi occupare di Serena per questo pomeriggio? Primula è
fuori
città e io e Jean dobbiamo andare a lavoro. Sai di cosa si
tratta.
Non serve che ti spieghi, vero?»
«Certo,
il progetto. Non ti preoccupare. Come sempre la tratterò
come se
fosse la mia sorellina.»
La
ragazza del passato sorrise alla bambina, che sorrise a sua volta.
L’uomo
senza capelli prese il portafoglio e diede alla ragazza due banconote
da cinquecento franchi.
«Per
la settimana scorsa. Sei stata bravissima. Serena non vedeva
l’ora
di tornare da te.»
I
due se ne andarono. Diretti, con tutta probabilità, alla
vecchia
fabbrica.
«Sovellona,
mi leggi una stovia?»
«Certo.
Cosa vuoi che ti legga?»
«Novamalas.»
l’Aelita
del passato fece un'espressione facilmente traducibile come
“sarà
la decima volta che te la leggo”.
Ad
ogni modo, aiutò la bambina a sistemarsi sul divano e prese
il
libro.
l’Aelita
del presente guardò quel libro. Si, era molto più
nuovo, ma era lo
stesso libro che stava leggendo quando era esploso il televisore. E,
ironia della sorte, era proprio la storia che stava leggendo.
Era,
per l'appunto, un racconto popolare della Sardegna, scritto con
l’intenzione di trasmettere il messaggio di essere generosi e
condividere il poco che si ha con gli altri.
Questo
modo di comportarsi verrà attuato da uno dei due
protagonisti della
storia, due fratelli.
Uno
dei due uomini era povero e doveva badare ad una famiglia numerosa,
il secondo era ricco e senza figli. Il fratello povero, durante il
viaggio si mostrò generoso con le persone che aveva
incontrato
durante il viaggio ed era stato premiato. Il fratello ricco,
mostrandosi avaro e menefreghista, verrà punito.
In
seguito l’Aelita del passato aveva fatto fare merenda alla
bambina
e le aveva mostrato i suoi Pokémon, che, beh per la ragazza
del
presente non erano di sicuro una novità, dal momento che la
sua
squadra non aveva subito variazioni. Lucario, Togekiss, Gardevoir.
L’aveva vista raccontare alla bambina cosa si provasse ad
essere
un’allenatrice e del fatto che, un giorno, se avesse voluto,
anche
lei lo sarebbe stata.
Per
il resto del pomeriggio non accadde nulla di eclatante, fino al
ritorno dei due uomini.
«Mi
chiedo come sia andato il Gran Premio. Vediamo un po’.»
Il
Professore si sedette sul divano, e fece cenno all’uomo di
fare
altrettanto. In quel momento la TV era spenta e la piccola Serena
stava colorando un disegno di un grosso album da colorare.
Il
professore accese l’apparecchio e lo sintonizzò
sul canale di
notizie.
Sullo
schermo televisivo inquadrarono una giornalista, vestita elegante,
seduta dietro a una scrivania bianca. Il pavimento dello studio era
costituito da enormi pannelli lucidi blu.
Dietro
la donna una sagoma a forma di Francia colorata coi colori della
bandiera nazionale e diversi monitor che trasmettevano le anteprime
dei servizi.
«E
ora una notizia dell’ultima ora.»
Il
tono della giornalista era tremante. Sembrava sul punto di piangere.
Cosa inconsueta per una giornalista di quel livello.
«Una
notizia che mai avremmo voluto dare. Dopo il bruttissimo incidente
avuto da Rubens Barrichello nelle prove libere, l’incidente
in cui
ha perso la vita il pilota austriaco Roland Ratzenberger, di cui vi
avevamo comunicato nella serata di ieri, altri due incidenti hanno
funestato il Gran Premio di San Marino.»
L’Aelita
del presente, finalmente ebbe un riferimento temporale. Era il primo
maggio del millenovecentonovantaquattro. Poco più di un mese
prima
della fuga.
E,
in quei giorni, apparentemente, la loro vita era ancora
“normale”.
«Alla
partenza vi è stato un contatto tra la Lotus di Pedro Lamy e
la
Benetton di JJ Lehto. I piloti non hanno riportato ferite, mentre
nove spettatori sono stati feriti, di cui uno gravemente.
La
gara è stata immediatamente neutralizzata con una bandiera
rossa.
Alla
ripartenza, Ayrton Senna ha mantenuto la testa della gara.
Al
settimo giro, la Williams del tre volte campione del mondo, ha avuto
un problema di natura non chiara, mentre affrontava in piena
velocità
la ben nota curva del Tamburello.
L’impatto,
a oltre duecento chilometri orari è apparso fin da subito
molto
grave. Rapidissimo l’intervento dei medici, arrivati in meno
di due
minuti, che, accortisi delle gravissime condizioni, hanno allertato
immediatamente l’elisoccorso.
Alle
diciotto e quaranta minuti la notizia che nessuno di noi avrebbe mai
voluto dare. Ayrton Senna è morto.»
Gli
occhi di suo padre erano lucidi, era sul punto di piangere. Senna era
l’idolo di suo padre.
Tuttavia,
non poté pensare molto a questo. In quel mondo fermo a
dodici anni
prima, le cose continuavano, inesorabilmente ad accadere.
«Pevché
movto?»
Il
tono della piccola Serena era innocente. Era una bambina di poco
più
di tre anni. Era normale che facesse così.
Il
comportamento dell’Aeilta del passato e di quella del
presente fu
sorprendentemente simile. Entrambe rimasero diverso tempo a pensare.
Faticavano a trovare un modo per spiegare qualcosa di tanto complesso
a una bambina così piccola. Pensarci, forse le sarebbe anche
stato
d’aiuto per un compito di letteratura, che aveva proprio
quello
come compito. Parlare di come la morte venisse trattata da alcuni
autori, dai media e come la tratti come affronti la perdita di
qualcuno vicino.
Dopo
una lunga pausa di silenzio, la ragazza aveva trovato delle parole
che, probabilmente riteneva adatte a una bambina così
piccola.
«Perché
qualcuno di molto cattivo ha voluto così.»
«E
ova?»
«E
ora non potrà mai più rivedere i suoi amici e la
sua famiglia.»
«Triste.
Io non voglio Movta.»
«Nemmeno
io.»
Qualsiasi
cosa fosse, era finita. Tutto attorno a lei si era sciolto come se
fosse stato versato dell’acido.
E,
un sistema automatico chiedeva alla ragazza se volesse rivivere tutto
da zero o volesse uscire.
La
ragazza scelse la seconda opzione.
Non
poteva saperlo, ma la sua compagna di stanza, che si era accorta
della sua assenza, e che, ben aveva compreso che no. Non poteva
essere semplicemente andata in bagno. Era passato troppo tempo. Non
riuscendo a prendere sonno, decise di mettersi a lavoro sul compito
di letteratura.
Era
soddisfatta delle prime due parti. La terza parte non l’aveva
nemmeno iniziata, ma, proprio in quel momento, le venne
l’illuminazione.
“Se
penso alle parole che mi disse una ragazza molti anni fa e che non mi
so spiegare come, mi sono venute in mente proprio adesso, posso dire
di averla affrontata.
“Una
persona, dopo la sua morte, non può più vedere i
suoi amici e la
sua famiglia”. Questa frase, se ci pensiamo, non solo
descrive
quello che accade a una persona che perde la vita, ma vale anche al
contrario.
Secondo
questo ragionamento, suo padre era morto. Ma a lei non importava.
Perché
chiunque, in un certo senso, anche le persone ancora in vita, non
possono più vedere un loro familiare, un loro amico, o che
sia.
Quindi,
in un certo senso, ogni volta che perdiamo una persona cara, una
parte di noi, perde la vita”
Mentre
la ragazza scriveva, di getto quelle parole, Aelita aveva raggiunto
le tre grosse querce di prima. Notò
«Posso
tenere per me quello che ho visto prima? Per me e per una persona che
non dovrei aver dimenticato?»
«Come
vuoi. Poi lo diremo anche agli altri.»
La
ragazza entrò nella prima delle tre querce. Il cartello,
davanti ad
essa, recitava “Fine del progetto Cartagine". Anno
1985”
Come
fatto in precedenza, la ragazza entrò all’interno
della quercia.
Chiaramente
non si trovava all’Hermitage, ma in un grande laboratorio.
Sembrava
totalmente deserto e privo di finestre.
La
maggior parte dello spazio era occupato da enormi tavoli in metallo,
a loro volta occupati da computer, microscopi e strumenti che mai
aveva visto fino ad allora.
Di
colpo la stanza venne illuminata da una serie di luci al neon, che
illuminarono il laboratorio di un triste bianco freddo, che lo faceva
somigliare a un obitorio.
In
quel laboratorio entrarono due persone, che la ragazza ben conosceva.
I suoi genitori. Erano intenti a lavorare a qualcosa di cui non aveva
idea. Probabilmente proprio il “Progetto Cartagine”.
La
ragazza soppresse l’istinto di andare ad abbracciarli. Aveva
già
provato e compreso che quello non era altro una simulazione. Gli
avrebbe attraversati come fantasmi.
«Se
mio padre ha deciso di mostrarmi questo, che c’è
un motivo. Mi
chiedo quale.»
«Non
so che dirti.»
Le
rispose il ragazzo.
«Probabilmente
voleva che tu scoprissi la sua storia. Ti consiglio di stare attenta
e di guardare con attenzione.»
La
ragazza non rispose. Si limitò a osservare quello che
accadeva
attorno a lei.
«Sono
così stanco.»
Aelita
guardò suo padre. Sebbene indossasse il tipico camice da
laboratorio
bianco, che gli dava un aspetto quasi autoritario, era ben evidente
come l’uomo non dormisse da tempo.
«Quanto
tempo serve ancora?»
Aelita
rabbrividì. Erano anni che non sentiva la voce di sua madre.
Ma non
poteva pensarci troppo. Suo padre le aveva risposto immediatamente.
«Al
massimo due mesi. Tre, nella peggiore delle ipotesi. E finalmente
finiremo questa storia di Cartagine. E quello sarà un grande
giorno
per tutti.»
Anthea
si accorse immediatamente di come nemmeno il marito credeva a quelle
parole.
«Cosa
c’è che non va?»
Il
tono della donna era estremamente preoccupato.
«Ho
trovato quei documenti di cui avevamo parlato. È stato
difficile.»
«E?»
«Purtroppo
i nostri sospetti erano fondati. Salvare il mondo? Credevi davvero
che quello fosse l'obiettivo del progetto? Anzi. Potrebbe essere la
sua rovina. All’interno della Prima Città,
è stata inserita, una
zona oscura. Che noi non possiamo controllare. Nemmeno volendo. Temo
che questa potrebbe essere usata per trasformare Cartagine in un'arma
di distruzione.»
Similarmente
al luogo precedentemente visitato, tutto attorno a lei si sciolse. Ma
nessun sistema le chiedeva se voleva rivivere tutto da capo. Come se
mancasse ancora qualcosa.
E
in effetti era così.
Ora
la ragazza si trovava in una stanza semplice ma accogliente. Un
piccolo salotto con all’interno un divano e un tappeto. Le
pareti
della stanza erano ricolme di librerie ricolme.
I
suoi erano seduti sul divano.
Dando
uno sguardo alla stanza, vide se stessa, quando ancora era una
bambina di tre anni. Stava giocando con un pupazzo a forma di elfo.
L’aveva riconosciuta. Era la sua bambola preferita. Sapeva di
averla avuta da quando era molto piccola, ma non pensava
così tanto.
I
suoi genitori avevano iniziato a discutere. L’argomento era
il
medesimo di poco prima. Il progetto Cartagine.
«No,
non me la sento. Sai benissimo che per questo progetto abbiamo
sacrificato tutto. Aelita è nata qui, in una base militare.
Sono
mesi che non vediamo nessuno, al di fuori di militari e colleghi.
E
per cosa? Per creare un’arma di distruzione? No. Non lo
permetterò.»
La
donna cercò di calmarlo.
«Attento.
Potrebbero sentirci. E sai cosa significa. Non siamo sicuri di
niente.»
«Non
me ne importa!»
L’uomo
alzò non poco il tono di voce.
«Anche
se mi sentissero… devono sapere la verità.Non
abbiamo costruito
Cartagine per questo. Non posso permettere che venga usata come arma.
Dovevamo
controllare le comunicazioni elettriche per aiutare tutte le persone
che si trovano in difficoltà economiche. Non mi importa dove
vivano
o cose del genere. Io non voglio che venga usata come arma di
controllo per una guerra. Solo il pensiero di vedere il mio nome tra
chi ha progettato un’arma che porterà alla morte
di umani e
Pokémon, mi fa ribrezzo.»
La
donna lo strinse in un forte abbraccio.
«Sono
d’accordo con te. Ma ora è troppo tardi. Saranno
in grado di
concludere il progetto senza il nostro aiuto. E poi? Sai benissimo
che ormai siamo una famiglia. Non puoi non pensare ad Aelita. Sai
meglio di me che esporsi è sempre un grosso rischio.»
I
due stettero in silenzio per un tempo enorme, mentre fissavano la
piccola Aelita, intenta a giocare con quella bambola.
Finalmente
l’uomo trovò la forza di parlare di nuovo.
«Possiamo
comunque scappare. Non so ancora come, ma un modo per farlo, lo
troveremo. Prima di fuggire distruggeremo tutto. Ci prenderemo quel
che ci serve e scapperemo con Aelita.
Faremo
in modo che il nostro lavoro non venga perduto, costruiremo la nostra
Cartagine e la utilizzeremo solo a fin di bene.
Non
resta che trovarle un nome.»
Solo
in quel momento la ragazza vide il sistema che le chiedeva se volesse
uscire o rivedere tutto da capo.
La
ragazza scelse la prima opzione e, come per magia, si
ritrovò
davanti alle tre querce.
Entrò
in quella al centro.
Sul
cartello la scritta “Una vita in incognito. Anni
1985-1988”
Ora
la ragazza si trovava all’esterno di una base militare.
Nonostante
fosse una ricostruzione, riusciva perfettamente a percepire il freddo
di quel giorno. Era caduta tanta neve, e il cielo ne prometteva
altra.
L’ambiente
era illuminato, in maniera alternata da diversi enormi fari, per
sopprimere ogni tentativo di fuga.
Ovunque
uomini giravano per la base, scortati da esemplari di Houndoom.
In
cielo volavano numerosi elicotteri, che producevano un gran fracasso.
Tutto
in quell’ambiente sembrava mettere pressione. Era una
sensazione
difficile da spiegare. Ma non ci si poté dedicare a lungo.
Ben
presto la sua attenzione venne attratta da due sagome. Un uomo e una
donna, che correvano verso una delle Jeep.
La
ragazza fece altrettanto, accovacciandosi nel sedile posteriore.
Guardano
meglio i due, si accorse di come entrambi indossassero dei pesanti
cappotti e un passamontagna. In particolare, la sua attenzione venne
attratta dall’uomo. Indossava un cappotto enorme.
Saliti
a bordo, la donna si tolse il passamontagna. L’uomo no. Come
se
dovesse proteggere la sua identità ad ogni costo.
La
ragazza poté finalmente vedere in viso la donna. E, non
sapeva
spiegarsi come, ma le sembrava un volto familiare.
«Professore.
Lasci fare a me. Stia tranquillo.»
L’uomo
non rispose.
Abbassò
leggermente la zip del giubbotto e, rivolgendosi al suo interno disse
solo cinque parole.
«Sta
buona. Presto finirà tutto.»
Ora
tutto era coperto dal rumore del motore della Jeep. un suono basso e
ripetitivo.
Il
mezzo attraversò il cortile della base, fino al confine
della
stessa, protetto da diverse guardie armate. Sembravano tutte uguali.
Abiti mimetici e mitra a tracolla.
Una
di esse puntò l’arma contro i due.
L’altro si limitò ad
avvicinarsi alla conducente.
«Buonasera
Maggiore Steinback.»
«Riposo,
Soldato. Piuttosto. Aprite la porta. Ho fretta.»
«Mi
spiace comunicarle che a causa di una violazione nella sicurezza, per
questa sera sono vietati ingressi e uscite.»
«Senta.
È un ordine del colonnello in persona. Pensa che
quell’uomo sia
vestito in quel modo perché ha freddo? O mi fa
passare o sa
dove glielo metto quel mitra?»
«Sissignara.
Provvedo immediatamente.»
L’uomo,
intimorito dal tono di quella donna, fece immediatamente alzare la
sbarra.
La
Jeep corse a gran velocità, lontano dalla base.
Quando
furono abbastanza lontani, finalmente il professore poté
togliersi
il passamontagna.
«Non
posso non essere preoccupato. Io e Aelita siamo al sicuro, ma
Anthea…»
«Non
si preoccupi.»
La
donna cercò di essere il più gentile possibile.
«Ci
siamo già messi al lavoro per ritrovarla. Stiamo indagando
su chi
l’ha rapita e sul motivo per cui l’abbia fatto.
Siamo appena
all’inizio, ma glielo prometto. La troveremo. Intanto lei
è in
salvo e siamo riusciti ad avere quel che le serviva. È
già
qualcosa.»
Questa
volta la transizione fu più delicata. La ragazza si
trovò, di punto
in un prato. Le bastò alzare lo sguardo, per riconoscere
quel luogo.
L’Hermitage.
Allora
quella villa, di inizio secolo, di tre piani, con un basso garage
appoggiato sul lato destro, aveva tutto un altro aspetto.
Probabilmente
era stata ristrutturata da poco.
Era
sempre inverno, ma dovevano essere passati degli anni. Forse era
proprio il momento in cui lei e suo padre si erano trasferiti
lì. La
sua ipotesi era rafforzata dalla presenza di un cartello con scritto
“venduto”.
Aveva
visto suo padre e quella donna scendere dal furgone dei traslochi,
appena arrivato sul posto.
L’uomo
aiutò la figlia a scendere dal furgone. Sembrava che avesse
paura di
cadere dal sedile, ora che la porta era aperta.
L’argomento
della conversazione dei due, a distanza di tanto tempo non era
cambiato.
«Credo
che potrete stare qui per un po’.»
Esordì
la donna, questa volta vestita in borghese.
Non
fece in tempo a scendere che corse immediatamente ad aprire il vano
di carico e a iniziare a scaricare gli scatoloni.
«Penso
sia positivo per Aelita, è il terzo trasloco in pochi anni.
Penso
che un po’ di stabilità le faccia bene
ma…
«So
cosa stai per dire.»
Lo
anticipò la donna.
«Non
l’abbiamo ancora trovata. Sappiamo che è stata
rapita da un
soldato chiamato Mark James Hollemback. Allora era un militare che
lavorava nella base. Al momento del rapimento aveva ventun’
anni e
serviva nell’esercito da tre. Eravamo sulle sue tracce,
ma…»
«Ma?»
Chiese
il professore.
«Ma…
ha cambiato identità e si è unito a
un’organizzazione
terroristica e ha fatto perdere le sue tracce.»
Aelita
non sapeva che fare. Da una parte sapeva chi aveva rapito sua madre.
Sapeva almeno come si chiamava. E sapeva che faceva parte di
un’organizzazione terroristica. Quindi non era pensabile
agire
senza avere le idee chiare.
«Ho
anche una buona notizia per il tuo progetto. Mi sono messa in
contatto con il proprietario di un edificio poco lontano da qui. Una
ex fabbrica della Renault.
Potremo
sfruttare i piani sotterranei come laboratorio. Non voglio darti
false speranze, ma il proprietario sembra molto interessato al
progetto.»
«Bene.
Ma ti prego. Non smettere di cercarla.»
L’uomo
estrasse il pendente da sotto il maglione.
Era
lo stesso pendente che Aelita aveva trovato nel mobiletto. Che suo
padre aveva voluto che lei trovasse.
«So
che è viva e che sta bene. Me lo dice questo pendente.»
«Certo.
La ritroveremo ad ogni costo.»
A
questo punto riapparve la schermata che chiedeva alla ragazza se
voleva rivivere tutto o uscire. Lei scelse di uscire.
E
si ritrovò, di nuovo, di fronte alle tre querce.
Si
avvicinò alla terza. E ne lesse il cartello.
«Entra
qui solo se sei veramente pronta.»
La
ragazza rimase a pensare alcuni istanti.
«Sono
pronta.»
La
ragazza fece per entrare, mentre, nel mondo reale, il ragazzo
guardò
l’ora nel suo telefono.
«Sono
le cinque del mattino. Tra un paio d’ore Ulrich e Yumi
dovranno
andare alla stazione. Forse è meglio tornare alla base. O
potrebbero
insospettirsi. Ormai i prof ci conoscono. Se loro sono fuori,
è
meglio per noi restare dentro. E poi lo scanner mica scappa.»
«Hai
ragione. Meglio evitare di attirare troppo l’attenzione.»
Jeremy
avviò le procedure di rientro e, nel mondo virtuale, il
corpo della
ragazza iniziò a smaterializzarsi, per poi riapparire nel
mondo
reale.
L’espressione
della ragazza diceva tutto. Era stanca perché aveva dormito
poco e
sconvolta per tutto quello che aveva scoperto.
«Hai
ragione, ho già molto da metabolizzare. Ma d’altra
parte ti
ringrazio per avermi permesso di farlo.»
I
due, facendo la massima attenzione a non fare rumore, tornarono al
collegio e quindi nelle rispettive stanze. Jeremy non ebbe problemi,
non con Ash, che dormiva. Xana si era accorto della sua assenza, ma
dai suoi calcoli aveva la certezza matematica che la sua assenza
aveva avuto a che fare con qualcosa di suo interesse, per cui la cosa
migliore da fare era lasciare che continuasse.
«Ma
dov’eri? Mi hai fatto preoccupare.»
Aelita
comprese subito di non esser stata altrettanto fortunata. Non poteva
di sicuro raccontarle la verità. Ma non poteva nemmeno dirle
di
essere andata in bagno. Era una scusa che non reggeva.
«Mi
sono alzata per andare in bagno e non ti ho trovata nel letto. E non
sono più riuscita ad addormentarmi. Mi hai fatto preoccupare
tantissimo.»
«Ho
avuto un attacco di sonnambulismo.»
Capì
che la scelta migliore era quella di raccontare almeno parte della
verità.
«E
quando mi sono svegliata, dopo aver capito quel che era successo, ho
deciso di rimanere
dov’ero
per evitare di svegliarti.»
«Insomma.
Ci siamo preoccupate l’una per l’altra, possiamo
fingere che non
sia successo nulla, ma… dov’è che sei
andata che sei così messa
male?»
Aelita
non si era ancora vista. Aveva gli occhi rossi ed era tutta
impolverata.
«Nella
soffitta. Non chiedermi come ci sono arrivata, ma…»
«Ok,
capisco. Ma adesso riposati.»
Aelita
si sdraiò sul letto. Non riusciva a dormire, nonostante la
stanchezza. Non vedeva più la compagna di stanza,
che,proprio il
giorno prima, aveva chiesto se potesse essere permanentemente la sua
compagna di stanza, con gli stessi occhi. Ma non era una
cosà così
facile da dire.
Beh,
che dire. Abbastanza inaspettata come cosa, no? Beh, ovviamente mica
è finita qui. Solo che, beh, si può finalmente
intuire perché
abbia dovuto per forza di cose far sì che Serena e Ash
stessero
insieme. O anche perché far sì che a essere
posseduta da Xana fosse
Lucinda.
La
sola alternativa a Serena sarebbe stata Lilya (con Chloe esclusa a
priori) ma purtroppo non avrebbe avuto vita facile per due motivi. Il
primo è che non avrei trovato alcuna giustificazione per non
fare in
modo che Odd uscisse con lei. Sarà banale ma è
così. Il secondo è
che sarebbe stato difficile giustificare delle cose che vedremo
più
avanti.
Alternative
a Lucinda? Alla fine della fiera solo una, e non serve che vi dica
chi, ma sempre per qualcosa che avverrà più
avanti, non sarebbe
stata adatta quanto lei.
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Capitolo 4 *** Sai mantenere un segreto? ***
Sai
mantenere un segreto?
Arrivarono
in stazione appena in tempo. Essendo molto presto, non avevano
nemmeno fatto in tempo a fare colazione. In teoria non un male,
l’avrebbero fatta appena arrivati in Belgio. Vuoi che non ci
sia un
bar alla stazione di Bruxelles? In pratica un autentico disastro.
Nessuno dei due aveva mangiato dalla sera prima e questo non era
l’ideale per affrontare un viaggio. Per fortuna non molto
lungo.
Appena un’ora e mezza.
Anche
se, proprio per quel motivo, il viaggio sembrò non finire
mai.
Arrivati
alla stazione belga, un edificio moderno, realizzato in metallo,
marmo e vetro, incredibilmente affollato. Uomini e donne
d’affari,
vestiti di tutto punto, che tenevano in mano delle ventiquattrore.
Rischiarono
non poche volte di scontrarsi con qualcuno e di separarsi.
A
fatica raggiunsero una zona più tranquilla della stazione.
-
Beh, ora che facciamo?
Chiese
il ragazzo. Pochi istanti dopo, si sentì il rumore del suo
stomaco.
-
Beh, direi che la prima cosa è fare colazione.
La
ragazza cercò di non ridere.
Le
bastò alzare lo sguardo per notare che, proprio a due passi
da dove
si trovavano, era presente un bar italiano. I due si precipitarono e
fecero colazione, non accorgendosi di essere spiati.
Su
un tavolo poco distante da loro, una ragazza come tante stava facendo
colazione, insieme al suo Piplup. Anche lei non aveva fatto colazione
sino a quel momento.
Aveva
i capelli legati stretti e nascosti dal cappuccio della felpa. E
indossava delle lenti a contatto castane, con l'obiettivo di non
farsi riconoscere.
Un
po’ si era spazientita. Quei due sembravano metterci
un’eternità.
Cosa ci voleva a bere un cappuccino e mangiare una pasta? E invece
no. Quei due parlavano e parlavano. Parlavano di quello che avrebbero
dovuto fare dopo. E se almeno uno dei due avesse qualche idea su come
comportarsi una volta arrivati nel cuore della città.
Aveva
capito che il suo punto sarebbe dovuto essere la ragazza. A detta sua
era stata diverse volte in quella città e conosceva delle
persone
che li avrebbero potuti ospitare per la notte.
Dopo
tantissimo tempo, finalmente il ragazzo si alzò e
andò a pagare. E
i due, finalmente se ne andarono. Non poteva seguirli subito, si
sarebbero potuti insospettire. In ogni caso, aveva almeno
un’idea
di dove trovarli. Rue Camille Lemonnier. L’unico modo per
raggiungerla era prendere i mezzi pubblici.
Decise
di aspettare un paio di minuti. Poi si alzò a sua volta e
andò a
pagare. Non si preoccupò di ritirare lo scontrino. Aveva
fretta.
Molta fretta.
Secondo
i suoi calcoli, avrebbe preso la metro successiva a quella presa dai
due. Sebbene la metro fosse affollata, vi era comunque il rischio che
i due la notassero e che potessero sospettare di essere seguiti. E in
quel caso avrebbero potuto annullare l’operazione.
In
ogni caso, per il momento, i due non avevano notato nulla. Avevano
atteso la loro fermata ed erano scesi. A separarli dalla loro
destinazione, un breve percorso a piedi.
Quella
via era uguale a tante altre. Un viale alberato e tanti palazzi
attaccati uno sull’altro. Alcuni di recente costruzione,
altri
risalivano al dopoguerra.
-
Dovrebbe essere questo.
La
ragazza indicò quello che forse era il palazzo
più vecchio
dell’intera via. Era di un bianco sporco e presentava
numerose
finestre. La grande porta era realizzata in metallo e sembrava molto
robusta.
Accanto
alla porta numerosi campanelli, inseriti in una placca di ottone.
Sembrava quella di un normalissimo condominio.
-
Dunque chi cercavamo?
Chiese
la ragazza. Aveva notato come il ragazzo stesse cercando
freneticamente un nome. Senza successo.
-
Madame Lassalle.
-
Eccola qui. Provo a suonare, vediamo come va.
La
ragazza trovò il nome in pochi istanti, ma per quanto
insistesse,
non riceveva alcuna risposta. Provò con altri citofoni, ma
il
risultato non cambiò di una virgola.
-
Ehi! Voi due!
La
coppia si girò di scatto, in direzione di quella voce.
Proprio nella
loro direzione stava passando un signore di almeno
ottant’anni, era
vestito in modo piuttosto elegante, nonostante all'apparenza stesse
semplicemente facendo un giro in bici.
-
Scusi, dice a noi?
-
Si, figliola. Mi dispiace dirtelo, ma puoi suonare quanto vuoi, stai
pur certa che non ti risponderà nessuno.
-
Mi scusi, ma mi sembra un condominio come tanti, guardi qua. Comunque
sia, cercavamo una certa Madame Lassalle.
-
Te lo ripeto, giovanotto. Vivo qui da sempre. Ho anche visto questa
strada completamente devastata dalle bombe… e ti posso dire
con
assoluta certezza che questo palazzo è stato praticamente
sempre
vuoto. Per quel che ne so è appartenuto al governo. Non so
cosa ci
facessero, di preciso.
A
volte ci venivano delle persone, ma restavano al massimo un paio di
settimane.
-
Incredibile.
Commentarono
i due, all’unisono.
-
Però. Questa mi sembra una bella zona per vivere, la gente
pagherebbe non poco per avere un appartamento in questa zona, mi
sembra strano.
-
Figliola hai ragione. Anch’io penso che la storia di questo
palazzo
sia piuttosto controversa. Potrebbero anche centrare i servizi
segreti, per quel che ne so. E non fatevi strane idee sui film di
spionaggio. I servizi segreti sono una cosa seria.
I
due salutarono e ringraziarono l’uomo, che
proseguì con il suo
giro.
Sembrava
un tipo un po’ strano, ma aveva ragione. Se non rispondeva
nessuno,
evidentemente era perché dentro quel palazzo non
c’era nessuno.
E
quella pesante porta era sicuramente chiusa. Non poteva essere aperta
a spinta e chiedere a uno dei loro Pokémon di aprirla era
fuori
discussione. Avrebbero rischiato di danneggiarla eccessivamente e di
attirare troppo l’attenzione.
-
E ora come facciamo?
Chiese
il ragazzo.
-
Non ti dimenticare che alla base abbiamo una risorsa inestimabile.
-
Einstein?
-
Einstein.
La
ragazza mandò un breve messaggio all’amico, dove
spiegava la
situazione. Sperava di ricevere al più presto una risposta.
Se
davvero quel palazzo era del governo, allora sarebbero potute
arrivare delle guardie da un momento all’altro e nessuno dei
due
aveva un motivo valido per stare davanti a quel palazzo.
Per
sua fortuna la risposta arrivò quasi subito.
-
Ok. Dobbiamo fare alcune foto alla serratura. Così
potrà dirci cosa
serve per aprirla.
-
Aprirla? Ma è pazzo! Se è davvero un palazzo del
governo sarà
super sorvegliato!
-
Hai altre idee? Non credi sia più pratico uno dei suoi
sistemi che
sfondare la porta con uno dei nostri Pokémon? Almeno, con
uno dei
suoi dispositivi, la porta rimarrebbe sostanzialmente intatta.
-
Beh, hai ragione. Non abbiamo molte alternative.
-
In ogni caso ha scritto che, dopo che avrà la foto, non gli
ci vorrà
molto per mandarci un elenco del materiale necessario. Al massimo
entro questa sera.
-
Quindi rischiamo di passare la notte qui?
-
Anche se fosse?
Gli
chiese la ragazza.
-
Te l’ho detto prima. Non devi preoccuparti, conosco qualcuno
che ci
può ospitare. E poi… non è la prima
volta che siamo noi due… da
soli, no?
-
Oh, beh, in effetti…
-
Intanto che aspettiamo che ci risponda, cosa ne pensi di fare un giro
della città?
-
Perché no?
-
Mi
scusi?
-
Dici a me figliola?
La
ragazza aveva fermato un signore anziano che aveva visto uscire da
Rue Camille Lemonnier. Era vestito elegante e trascinava una vecchia
bicicletta.
-
Scusi se la disturbo, ma avevo un appuntamento con due miei amici in
Rue Camille Lemonnier…
-
Oh beh, si, ho visto due ragazzi in quella via…
-
Erano un ragazzo coi capelli castani e una ragazza alta e coi capelli
neri e abbastanza corti, tipo a caschetto?
-
Si, li ho visti poco fa. Proprio in quella via. Davanti a un palazzo
bianco. Piuttosto vecchio. Non ho idea di cosa cercassero. È
abbandonato da anni. Ho anche cercato di dissuaderli dicendogli che
aveva a che fare con il governo, ma secondo me non ci sono
cascati.
-
La ringrazio. Arrivederci.
-
Arrivederci, figliola.
La
ragazza, dopo essersi congedata con quel vecchietto,
proseguì
proprio in direzione di quel viale. Aveva individuato il palazzo che
le era stato indicato, ma senza trovare i due ragazzi.
-
Un assassino torna sempre sulla scena del delitto.
Commentò
sottovoce.
-
Di certo non me ne posso stare qui. Potrebbero vedermi.
Aggiunse
poco dopo, mentre si nascondeva in una delle viuzze che
attraversavano la strada. Di sicuro non l’avrebbero
notata.
Non
lasciò quella posizione fino ad ora di pranzo. Quei due non
si erano
presentati. Quando mai l’avrebbero fatto a
quell’ora? E infatti
le sue previsioni non furono errate. Li aveva incrociati proprio in
quel locale, intenti a mangiare. Come se nulla fosse. Sembrava
stessero aspettando qualcosa, ma non aveva idea di cosa.
Se
quel signore avesse detto la verità, era molto probabile che
quei
due non avessero trovato quel che cercavano. Altrimenti se ne
sarebbero già andati. Doveva continuare a seguirli e non
farsi
scoprire.
Continuò
a seguirli a breve distanza, rischiando anche di farsi scoprire. In
quel momento erano in un piccolo negozio, poco affollato, poteva
essere scambiata dai due per una semplice cliente, ma anche per quei
due non doveva essere diverso, dal momento che, apparentemente erano
interessati a un palazzo abbandonato.
La
risposta del loro amico arrivò solo in tarda serata, per cui
avrebbero dovuto rimandare al giorno dopo. Quella notte dormirono da
un’amica della madre di Yumi. La donna aveva promesso alla
ragazza
che avrebbe tenuto la bocca cucita sulla questione. Si alzarono
piuttosto presto, per cui, invece di ringraziarla di persona, le
avevano scritto un biglietto dove la ringraziavano sia per
l’ospitalità che per il piccolo favore.
Si
erano precipitati nel primo bar aperto che avevano visto per fare
colazione, per poi precipitarsi al primo negozio di brico che avevano
trovato.
Sapeva
di aver fatto bene a non destare la loro attenzione. Si erano
precipitati in un brico e avevano comprato diverse attrezzature. Un
avvitatore a batteria, una serie di aghi e punte di ferro, batterie
di ricambio per l’avvitatore e altri oggetti che,
apparentemente, i
due non avevano mai sentito nominare.
Li
aveva visti chiedere aiuto a dei commessi. Aveva anche notato come,
poco fuori dal negozio, si erano lamentati della spesa, di oltre
centoventi euro.
Li
aveva poi seguiti fino a un parco, non lontano dal viale dov’
erano
stati il giorno prima.
-
E io che credevo che Einstein fosse un tipo tranquillo. Mi chiedo che
altri segreti ci nasconda. Mi chiedo proprio come abbia imparato a
creare uno di questi…
Il
ragazzo era intento a smontare il trapano.
-
Grimaldelli
elettronici.
-
Si giusto. Ma dimmi, ora che l’ho smontato, che devo fare?
-
Vuoi la spiegazione terra terra o quella super dettagliata?
La
ragazza, non ottenendo risposta, andò per la spiegazione
più
semplice.
-
Noi non abbiamo la chiave, giusto? Con questo dispositivo possiamo
emularne la presenza. La serratura è costituita da diversi
pistoncini che, per aprire la porta, devono essere sollevati in un
certo modo. Con questo dispositivo, possiamo forzare i pistoncini a
sollevarsi e ad aprire la porta.
-
Ok, come vuoi. Ma figurati cosa doveva essere la spiegazione tecnica.
-
Lasciamo stare. Piuttosto, ora che l’hai sistemato, cosa ne
pensi
di collaudarlo?
Il
ragazzo estrasse dallo zaino una serratura nuova di zecca.
-
Un pochino mi dispiace. L’abbiamo appena comprata
e…
-
Non avevamo alternativa. In ogni caso, provi a… sistemarla o
devi
celebrare tutto il funerale?
Il
ragazzo si sforzò per non ridere, per poi mettersi al
lavoro.
Dopo
una mezz’ora e un numero imprecisato di imprecazioni,
alzò
bandiera bianca.
-
Mi sa che questa volta Einstein ha toppato!
Commentò
il ragazzo.
-
Fammi provare. Magari ci riesco.
La
ragazza provò solo un paio di volte, prima di riuscirci. Le
bastò
semplicemente dosare il movimento del braccio.
-
Nel caso dovessi andare male con gli studi, ho futuro come ladra. Ma,
tornando seri, dobbiamo fare in fretta.
La
ragazza seguì ancora quei due. La cosa si stava facendo
interessante. Vi era una grande probabilità che vi fosse una
correlazione tra il loro imparare ad aprire una serratura e quel
palazzo poco distante in cui, stando a quel vecchietto, erano stati
la mattina del giorno prima.
In
ogni caso non dovette attendere molto per avere una risposta alla sua
domanda.
Quei
due si erano diretti proprio in quel palazzo. E la ragazza, dopo
alcuni tentativi, era riuscita a scassinare la serratura.
Ora
non doveva fare altro che attendere per capire cosa volessero fare e,
in base a quello decidere sul da farsi. Lui aveva deciso di farla
viaggiare fino a lì. Lui avrebbe deciso cosa fare. E, per
cercare di
raccogliere informazioni era disposto a tutto, anche a fare cose che
altrimenti non avrebbe mai fatto.
In
ogni caso decise di non entrare. Avrebbe atteso fuori. La riteneva
l’opzione più sicura, in caso di emergenza sarebbe
potuta fuggire.
Certo, senza informazioni, ma anche tutta intera.
I
due entrarono dentro il palazzo. Ignari di tutto.
L’interno
odorava di chiuso. Sembra che nessuno aprisse quella porta da
anni.
-
Credo che quel vecchietto si sbagliasse, non vedo telecamere qui.
Commentò
la ragazza.
-
Eh si! Credo l'abbia detto per spaventarci. Dopotutto non siamo
esattamente insospettabili.
L'ingresso
era stretto e con il soffitto alto. La maggior parte dello spazio era
occupato da una scala di marmo con una ringhiera in metallo.
A
destra una porta di legno. Chiusa e priva di qualsiasi targhetta
identificativa o campanello. In breve tempo convennero che la scelta
migliore fosse quella di fare un sopralluogo generale
dell’edificio.
L’edificio
era alto otto piani e tra ogni piano vi erano due lunghe rampe di
scale. Ogni piano era composto da un andito senza finestre e da
quattro appartamenti, a cui si accedeva da altrettante porte, sempre
prive di campanelli o targhe.
I
pochi appartamenti accessibili erano completamente vuoti.
Percorsero tutti i piani senza trovare nulla di utile. Stavano per
arrendersi e tornare indietro.
-
Hai notato quella porta? Non ti sembra diversa?
La
ragazza stava indicando la porta più distante dalla loro
posizione.
Era rivestita di legno scuro, come le altre, ma sembrava molto
più
robusta. E forse anche la serratura sembrava fosse rinforzata.
Non
avendo altre alternative, decisero di fiondarsi verso quella porta.
La serratura era veramente robusta, Yumi dovette tentare ben tre
volte, prima di aprirla.
Appena
entrarono nell’appartamento, si accorsero immediatamente di
quanto
quest’ultimo fosse diverso da tutti gli altri. Era
sostanzialmente
uno stanzone, grande come un normale appartamento, molto simile a un
vecchio ufficio. Il pavimento era una moquette beige e i muri erano
rivestiti da una carta da parati a strisce beige e verde
chiaro.
La
prima cosa che saltò agli occhi dei due fu un gigantesco
tavolo di
metallo quasi interamente occupato da apparecchiature elettroniche,
tra cui dei giganteschi schermi.
Le
pareti della stanza erano, in gran parte, occupate da giganteschi
computer. Uno di essi copriva in parte la sola finestra che
illuminava la stanza.
La
ragazza, fuori dall’edificio, aveva intuito che i due avevano
trovato qualcosa. Erano dentro da parecchio tempo. Se non avessero
trovato nulla, non avrebbero avuto motivo di restare.
Quello
che non poteva aspettarsi era quello che i due avevano trovato.
L’attenzione
del ragazzo venne immediatamente attirata da alcuni dispositivi
presenti sul tavolo. All’apparenza erano dei vecchi caschi
integrali da motociclista, neri. La visiera era stata sostituita da
uno strano apparecchio, con una grossa antenna.
Vi
erano anche dei guanti, sempre neri, con dei cavi che partivano dalle
punte delle dita e si collegavano ad un antenna sul polso.
Accanto
ai dispositivi, delle tastiere ingiallite dal tempo e dei
pesantissimi monitor a tubo catodico.
-
Almeno
non abbiamo viaggiato per nulla. Ora dobbiamo capire di cosa si
tratta.
Si
chiese il ragazzo, incuriosito dai dispositivi.
-
Non vorrei dire, ma credo che sia una sorta di prototipo del
Supercomputer. E potremo avere davanti i prototipi degli scanner.
Quella specie di proiettore, invece, potrebbe essere un antenato del
proiettore.
-
Stai scherzando? Pensi davvero che da qui si possa accedere a Lyoko?
In un altro Stato?
-
Non sono sicura che si tratti del Lyoko che conosciamo, ma di una sua
Replika. Come quelle che visitavamo con la Skid, che Xana aveva
creato su alcuni supercomputer.
-
In questo caso, potrebbe anche essere. Ma non potremo mai saperlo con
certezza, a meno che…
-
Che aspetti?
Avendo
scoperto del dossier del professore, Xana, aveva deciso di indagare,
non appena i suoi nemici avessero abbassato la guardia. E la notte
era il momento ideale. Sapeva che quel dossier si trovava nella
stanza di Ulrich e Odd. Era consapevole del fatto che quella notte,
Odd dormisse da solo.
La
stanza era appena accanto alla sua. Nella direzione opposta a quella
dei bagni, per non farsi scoprire da Jim, sarebbe dovuto essere
incredibilmente preciso. Recuperarlo sarebbe stato difficile, ma mai
quanto la seconda fase. Quella di riportare il documento al suo
legittimo posto. Nel mezzo l’operazione più
semplice. Archiviare
tutti i dati presenti all’interno del dossier.
Ash
si alzò in silenzio, facendo attenzione a non svegliare
nè Pikachu
nè il suo compagno di stanza. Era troppo importante. Si
diresse poi
verso i bagni. Rimase all’interno alcuni minuti, per poi
tornare
indietro, entrando, “involontariamente” nella
stanza accanto alla
sua.
Per
fortuna Odd aveva il sonno pesante. Russava come un vecchio trattore.
Xana era consapevole del fatto che i suoi nemici non fossero degli
sprovveduti, dopotutto lo avevano quasi ammazzato.
Ma
questa volta, rimase sorpreso dalla loro idiozia. Lo avevano
semplicemente nascosto in un armadio. Forse non si aspettavano la sua
presenza, ma per certi versi andava bene così. Non avendo
idea della
sua presenza, avrebbe potuto colpirli alle spalle. Recuperò
il
dossier e uscì dalla stanza.
Memorizzò
ogni singolo dettaglio del dossier e confrontò il suo
contenuto con
i suoi archivi, senza ottenere alcun riscontro, eccezion fatta per i
progetti del Supercomputer.
Riuscì
a raggiungere l’ufficio del preside senza farsi scoprire. La
serratura era stata riparata proprio quel pomeriggio, per cui
l’ufficio era chiuso. Non un gran problema,
l’avrebbe
semplicemente fatta saltare con i suoi poteri elettrici, ma pur
sempre un contrattempo. E lui detestava i contrattempi.
In
ogni caso riuscì a entrare nell’ufficio e a
sistemare il dossier
nel luogo che ritenne più logico. Uscì
dall’ufficio e sistemò di
nuovo la serratura. Nessuno si sarebbe accorto di nulla, e
finalmente poteva permettere al suo burattino di dormire.
Si
era accorta della loro assenza, e aveva iniziato a sospettare che
avessero scoperto il dossier. Forse si era lasciata scappare qualche
parola di troppo, oppure qualcosa del genere, ma non aveva prove.
Poteva trattarsi di una semplice coincidenza. Non riusciva a pensare
ad altro. Certo, la ricerca su quel Pokémon così
particolare, la
visita ricevuta nel suo ufficio da parte di Jeremy…
Proprio
non riusciva a toglierselo dalla testa. Il solo modo che aveva di
toglierselo dalla testa, era controllare di persona. Grazie al
rapporto di estrema fiducia con il signor Delmas, poteva entrare nel
suo ufficio senza permesso. Non lo aveva mai fatto, ma in questo caso
era una necessità.
L’ufficio
era chiuso. Probabilmente il preside non era ancora arrivato.
Prese,
senza pensarci, il portapenne e ne svitò il doppio fondo. Le
piccole
chiavi del cassetto erano perfettamente al loro posto. Questo voleva
dire che nessuno, a parte il signor Delmas, nessuno aveva toccato
quel cassetto.
La
sua sorpresa nel trovare il cassetto fu enorme. Iniziò a
ipotizzare
i peggiori scenari possibili, se avessero scoperto
quell’indirizzo
e quel palazzo, sarebbe stato un grosso guaio.
Tirò
un grosso sospiro quando, aprendo il grosso archivio, trovò,
ben
posizionato, in mezzo a tutti gli altri documenti, proprio quel
dossier.
Questo
voleva dire solo una cosa. Il dossier era stato semplicemente
spostato, probabilmente per eccesso di prudenza, da parte del
preside. Nascondere le cose in bella vista è sempre la cosa
migliore, dopotutto.
Prese
il grosso dossier e lo sfogliò, molto rapidamente. Sembrava
fosse
tutto perfettamente apposto. Anche il foglietto con
l’indirizzo.
Ora si sentiva leggermente più tranquilla, ma era ancora
sospettosa.
Quello
che non poteva sapere era che quel dossier si trovava lì per
un
motivo ben diverso e che la verità era ben diversa.
I
due, di comune accordo, avevano deciso di provare quelle
attrezzature. Dopotutto non avevano nulla da perdere.
L’intuizione
della ragazza si rivelò corretta. Una volta indossati guanti
e
caschi, i due vennero come trasportati in un altro luogo.
Una
strana città in stile orientale, con palazzi alti e eleganti.
-
Aspetta un attimo.
Il
ragazzo si guardò attorno, era spaesato, non riusciva a
capire dove
si trovava.
-
Ma questo non mi pare affatto Lyoko.
-
Si, da una parte hai ragione, non riconosco questo posto, ma
guardati…
Il
ragazzo non ci aveva fatto caso, forse perché troppo preso
da quel
luogo, ma, facendo attenzione, il ragazzo si rese conto di non
indossare più la maglietta a maniche lunghe e i jeans, ma
era
vestito come nel mondo virtuale, una tuta aderente gialla e marrone e
una fascia gialla a tenergli i capelli.
Sulla
schiena un portaspada dove alloggiava le sue due katane.
Gettò
poi lo sguardo sulla ragazza. Indossava una tuta bordeaux e magenta,
con alcune protezioni marroni e sulla schiena un alloggiamento per le
sue armi, due ventagli boomerang affilati come rasoi.
Entrambi,
quasi senza pensarci, tentarono di estrarre le loro armi.
-
Aspetta un attimo, ma… siamo…
-
Disarmati.
Concluse
la ragazza.
-
Penso sia un problema, ma, qualora dovesse servire, potremo
tranquillamente uscire da qui. No?
-
Provaci.
Il
ragazzo si mise le mani sotto al mento, convinto di trovare ancora la
fibbia del casco. Rimase estremamente sorpreso da come la stessa
fosse assente. Sentiva semplicemente la pelle del mento.
Il
ragazzo tentò allora coi guanti. Stesso risultato. Come se
non ci
fossero.
-
Siamo fregati. Non ci possiamo difendere e non abbiamo la minima idea
di come uscire di qui. Hai qualche idea?
-
Proviamo a vedere se qui c’è una qualche uscita.
Magari sarà qui
vicino.
-
Hai idea di come ci si muove qui?
-
Più o meno. Premi insieme pollice e indice della mano
destra, e
muovi la mano nella direzione in cui ti vuoi spostare. Non è
esattamente facile, ma penso non sia impossibile.
La
ragazza spiccò un balzo e atterrò delicatamente,
muovendosi con la
sua solita agilità. Il ragazzo, tentando di
imitarla,
imburconò.
-
Che
male!
-
Non sono sicura che qui si possa provare dolore. I nostri corpi veri
sono al sicuro, dentro l’appartamento. Penso sia
semplicemente un
riflesso.
-
Come vuoi, ma ti posso assicurare che il dolore è vero.
Al
secondo tentativo, il ragazzo riuscì a spiccare un balzo e
atterrando senza problemi.
Non
potendo uscire dal mondo virtuale per mettersi in contatto con Jeremy
e spiegargli la situazione. Non potevano fare altro se non che
esplorare quel luogo.
La
città, mano a mano che i due si addentravano
all’interno della
città, notarono come gli edifici stessero cadendo in rovina.
Alcuni
muri erano rovinati, i tetti sfondati e sul pavimento erano presenti
dei buchi. Sembrava come se fosse stata bombardata. In più
erano i
soli in quella città.
Continuando
il loro attraversamento della città, le sue condizioni
peggiorarono
ulteriormente. Attraversarono vie, ponti che permettevano di superare
dei fiumi ormai in secca, dei parchi con delle piante che parevano di
vetro, anch’essi come se fossero stati presi a martellate.
Proprio
dopo uno di quei parchi giunsero al confine della città. Un
muro.
Contrariamente
a gran parte della città, il muro era in perfette
condizioni. Era
realizzato con un'infinità di mattoni neri. Opachi. Sembrava
che la
sua altezza si elevasse all’infinito. Guardando in entrambe
le
direzioni, il muro sembrava non finire mai. I due provarono a
scalarlo, ma senza successo. Sembrava che si alzasse
all’infinito.
-
Magari se facciamo attenzione, potremo trovare una porta, o qualcosa
di simile. Dopotutto ci sarà un modo per entrare in questa
città.
Commentò
la ragazza.
-
Possiamo provare, a questo punto non abbiamo molto da perdere.
L’intuizione
della ragazza si rivelò corretta. Dopo una camminata
apparentemente
infinita, costeggiando il muro, i due trovarono una gigantesca porta.
Chiusa da un enorme battente.
-
Diavolo,
avremo camminato dieci chilometri, è una faticaccia!
-
Hai proprio.
La
frase della ragazza venne interrotta da un rumore che ricordava uno
sparo. Poi un altro. Questa volta entrambi riuscirono a comprendere
la fonte. Un raggio laser azzurro.
Dopo
alcuni istanti, entrambi giunsero alla stessa conclusione. Si
trattava di una manta volante. Una creatura simile ad un’ala
volante, sottile. Lunga circa sette metri e di colore bianco e blu
scuro.
Sparava
raggi laser dalla bocca.
-
Attenzione!
Gridò
il ragazzo, mentre tentava di mettersi al riparo. Tentò
nuovamente
di estrarre le sue katane dal portaspada, nella speranza che fossero
apparse. Ma niente.
Nella
fuga, la ragazza venne ferita alla gamba da un laser. Cercò
di
nascondere il dolore con una smorfia del volto.
-
Pensi che qui sia come su Lyoko? Cioè che se veniamo colpiti
troppe
volte, torniamo nel mondo reale?
-
Non te lo so dire. Non so proprio come funzioni questo mondo. E non
ho molte intenzioni di scoprirlo.
Riposte
la ragazza.
-
In ogni caso ho paura di una cosa. Se qui ci sono i mostri, allora
potrebbe esserci anche Xana.
-
Non lo hai notato?
-
Cosa?
-
Le mante. Non avevano il suo simbolo sul corpo. Possiamo escludere la
sua presenza.
-
Si, Yumi, Xana o non Xana ci attaccano lo stesso.
I
due continuarono a correre, e ben presto si trovavarono in un parco.
Simile a quello che avevano incontrato prima.
-
Guarda qui!
La
ragazza stava indicando un punto proprio davanti a lei.
-
Ma quello non è il Professore?
Chiese
il ragazzo.
-
Non lui di persona, ma piuttosto una sorta di ologramma.
L'ologramma
del professore lo rappresentava nell’aspetto che i due
avevano ben
imparato a conoscere. Un uomo non molto alto, di corporatura robusta
e vestito con un camice da laboratorio. Aveva la barba scura
e
degli occhiali dalle spesse lenti.
-
Finalmente qualcuno che viene a farmi visita, erano anni che non
vedevo qualcuno.
Finta
la frase, l’ologramma scomparve oltre dei cespugli.
Prima
che i due potessero tentare di raggiungerlo, vennero sorpresi alle
spalle da un laser azzurro. Non fecero in tempo a girarsi che vennero
colpiti simultaneamente da una ventina di mante.
Entrambi
piombarono a terra. Indoloriti e con brutta voglia.
-
È stato terribile. Mi chiedo a cosa serva quel posto.
-
Non ho capito una parola.
-
Ulrich, siamo tornati nel mondo reale. Ti puoi sfilare il casco ora.
Il
ragazzo tentò di sfilarsi guanti e casco. E, effettivamente
era
vero. Ora poteva farlo. Era finalmente tornato al mondo reale.
-
Cosa hai detto prima?
-
Mi stavo chiedendo a cosa servisse quel posto. Avremmo potuto
indagare, se non fosse stato per quelle mante… avevo
dimenticato
quanto facessero male.
-
Vuoi tornare dentro? Non so quanto sia sicuro. E poi per cosa? Per
dare la caccia a un fantasma?
-
No. Hai ragione, è troppo pericoloso.
-
Lo
senti anche tu?
In
breve tempo nella stanza si sentiva un rumore ritmato e regolare che
si distingueva da quello di auto, camion e motorini. Il rumore
assomigliava a una sorta di “pow pow
pow”.
La
ragazza ci mise un attimo a capire di cosa si trattasse.
-
Cosa ci fa un elicottero qui?
La
ragazza, nel frattempo, si era accorta di un altro rumore.
Più
debole. Ma che, piano piano diventava più forte.
Probabilmente
qualcuno si era accorto dell’attivazione del sistema e voleva
sapere chi e perché l'avesse fatto. I due sarebbero dovuti
uscire, o
sarebbero restati intrappolati.
Il
ragazzo aprì la porta e i due si fiondarono nel corridoio.
Fecero in
modo di non farsi vedere.
-
Capo, sono al piano di sopra.
Nonostante
fossero all’ottavo piano, quella voce era perfettamente
udibile. A
essa si aggiunse il rumore di passi. Qualcuno stava salendo le scale.
Il
ragazzo, probabilmente in preda alla fretta, fece per scendere le
scale il più rapidamente possibile, ma venne fermato dalla
sua
ragazza, che lo tirò per un braccio.
-
Troppo pericoloso, accovacciamoci e tratteniamo il respiro.
Potrebbero non notarci.
Gli
disse sottovoce.
Il
ragazzo seguì il consiglio. I due erano accovacciati vicino
alla
ringhiera. Incrociarono i loro sguardi con quelli di due uomini alti,
coi capelli corti, occhiali da sole, mascherina e lunghi cappotti.
Tutto in nero.
Una
volta fatti passare i due uomini, la coppia si precipitò
verso il
basso. La ragazza dovette schivare uno dei due uomini che
cercò di
tirarla per un braccio. Riuscì chiaramente a sentire la sua
minaccia.
-
Fermatevi, non sapete in che guaio…
Un
altro, poco dopo minacciò di arrestarli. Aveva una potente R
moscia.
I
due, ignorando gli avvertimenti dei due, continuarono a correre.
Dovevano fare molta attenzione o sarebbero imburconati e avrebbero
dovuto affrontare tutte le conseguenze del caso.
Durante
la loro discesa, sentirono chiaramente la voce di un altro uomo.
-
Qui Linoone e Fuvvet ehm Furret a Lycanroc, Stanno arrivando, ora
dovrebbero essere al quarto piano.
I
due continuarono a correre, fino a raggiungere il primo piano. Qui
incrociarono un altro uomo vestito di nero. Era armato. Aveva in mano
una pistola gigantesca e lucida, che rifletteva la luce del sole in
modo quasi accecante.
-
La vostra corsa finisce qui, mi spiace.
I
due lo ignorarono e continuarono a correre, fino a precipitarsi
all’interno di un appartamento. Era praticamente vuoto e
triste
come tutti gli altri.
Il
ragazzo decise di usare uno dei pochi elementi di arredo di
quell'appartamento, una sedia, per bloccare l’uscita e a
guadagnare
del tempo.
-
E ora? Siamo in trappola.
Ulrich
guardò prima la ragazza, poi indicò una finestra
poco lontano.
-
Potremo uscire da lì, c’è un
cornicione, potremo usarlo per
attraversare il palazzo e raggiungere un tubo e scendere.
-
Ne sei sicuro? Mi sembra molto pericoloso.
-
Hai altre idee? Sai che la porta non potrà reggere ancora
per molto.
Il
ragazzo aprì la finestra. Stava per posizionare i piedi sul
cornicione, che appariva molto più sottile di quanto potesse
immaginare. Al massimo una decina di centimetri. Il rischio di cadere
era altissimo, ma non aveva alcuna scelta.
-
Buneary! Presto! Usa Geloraggio! Crea uno scivolo su quella finestra
aperta!
I
due si guardarono negli occhi. Evidentemente una ragazza si
era
accorta del fatto che qualcuno si trovasse in pericolo e voleva
aiutarli.
Il
piccolo Pokémon coniglio obbedì alla sua
allenatrice, creando uno
scivolo di ghiaccio che partiva dalla base della finestra e arrivava
fino a terra.
L’allenatrice
del piccolo Pokémon guardò i due scambiarsi uno
sguardo d’intesa
e poi precipitarsi lungo quello scivolo. Durante la discesa, entrambi
avevano notato un ragazzo alla guida di un motorino arancione e
verde. Dal portapacchi aveva estratto una pizza.
Appena
scesi vennero immediatamente inseguiti dai due uomini rimasti a
terra.
-
Buneary usa di nuovo Geloraggio! Devi evitare che quei due li
raggiungano!
Il
piccolo Pokémon obbedì.
Non
troppo lontano dai due uomini creò una gigantesca lastra di
ghiaccio. La ragazza, nel frattempo, aveva lanciato due ulteriori due
Pokéball.
Entrambi
gli uomini vestiti di nero liscinarono, cadendo l’uno
sull’altro.
Quello sotto ebbe la peggio, emise un forte grido di dolore, e
intimò
quello sopra di alzarsi al più presto. Dopo che questi si
alzò, lui
tentò di fare lo stesso. Senza successo.
-
Fovse mi sono votto una gamba. Pvocedete senza di me, questo lavovo
è
tvopo impovtante pev pensave a me.
Il
collega accettò il consiglio e, facendo estrema attenzione,
superò
la lastra di ghiaccio.
I
due ragazzi, intanto, avevano raggiunto il motorino. Per fortuna le
chiavi erano ancora nel quadro. Il ragazzo dovetto solo premere un
bottone per farlo accendere. Dopo qualche insistenza, il motore si
accese con un borbottio.
La
ragazza si sedette dietro di lui. Appena partirono, i due superstiti
si precipitarono alla loro berlina, una Mercedes classe E AMG nera,
una bestia da seimiladuecento centimetri cubi di cilindrata.
La
loro situazione non era delle migliori. Entrambi non avevano il casco
e stavano guidando un motorino che non poteva ancora guidare.
Ma,
nella loro situazione, quello era il problema minore. Avevano anche
scassinato degli appartamenti ed erano inseguiti da degli uomini in
nero con a bordo degli uomini armati. E non potevano scordarsi
dell’elicottero.
Il
ragazzo, nel frattempo era uscito dalla via e aveva imboccato una
rotonda, nel curvare aveva piegato talmente tanto da rischiare di
cadere.
La
ragazza si girò a guardare se la berlina stesse o meno
guadagnando
terreno.
-
E io che credevo non potesse andare peggio!
Commentò.
-
E cosa si sono inventati ora?
-
Sono vicinissimi, qui non c’è traffico e con quel
mostro hanno un
grosso vantaggio. E poi, come se non bastasse, hanno anche
un’agente
in borghese e dei Pokémon.
-
Vorrà dire che dovremo prendere una deviazione.
Il
ragazzo girò bruscamente in una delle viuzze perpendicolari
al
vicolo. Perfetta per uno scooter, meno per una grossa berlina.
-
In ogni caso, mi sai dire che Pokémon ha l’agente
in borghese?
-
Cavalca un Mamoswine, ha un Piplup sulla spalla e sembra che anche un
Buneary e un Togekiss obbediscano a lei.
-
Che? Vuoi lottare contro di loro?
-
Troppo pericoloso. Quei tizi sono armati e io non rischio che i miei
si prendano del piombo.
-
Hai ragione.
La
berlina gli aveva seguiti anche lì, anche se aveva perso
molto
terreno.
Continuando
a correre al massimo delle possibilità del mezzo, ora i due
si
trovavano nuovamente su di un viale, di nuovo largo, di nuovo
tallonati dalla berlina, dall’elicottero e da quella che
credevano
fosse un’agente in borghese.
-
Hai qualche idea su come distrarli?
-
Abbiamo solo delle pizze qui.
-
E allora lanciale. Se non vogliamo rischiare i nostri, almeno quelle
possiamo rischiarle, no?
Il
ragazzo rallentò, permettendo tanto alla berlina quanto alla
ragazza
che cavalcava il Mamoswine di avvicinarsi.
-
Mamoswine ora, usa riduttore!
Il
grosso Pokémon colpì violentemente la berlina,
facendola sbattere
contro un muro e danneggiandola pesantemente. Nonostante questo, la
vettura proseguì la sua corsa, recuperando di nuovo lo
svantaggio
che aveva accumulato dallo scooter.
La
ragazza aveva estratto una delle pizze dal portapizze ed era pronta a
lanciarla.
L’uomo
sul sedile passeggero si sporse e puntò la pistola contro i
due, ma
prima che potesse sparare, si trovò la pizza lanciata dalla
ragazza
proprio in piena faccia.
-
Bene Mamoswine, ora salta addosso a quella berlina!
Lycanroc,
colpito dalla pizza riuscì a pulirsi almeno gli occhi e
guardò
nello specchietto retrovisore. E notò che lo stesso
Pokémon che
prima gli aveva colpiti ora si stava avvicinando di corsa, ed era
pronto a saltare.
-
Linoone, mi sa che ci conviene abbandonare la macchina, se non
vogliamo finire compressi.
L’uomo
alla guida arrestò l’auto con una sgommata e i due
uscirono a
dall’auto poco prima che l’imponente
Pokémon potesse saltare
addosso alla berlina.
Nel
salto, il cappuccio della felpa si sfilò, rivelando i
capelli della
ragazza, di un insolito colore blu.
I
due, nonostante questa prima vittoria, non potevano ancora
considerarsi al sicuro. L’elicottero nero continuava a
inseguirli.
Dovevano raggiungere un posto sicuro e scappare.
-
Togekiss, prendi quota e tu Buneary, usa Geloraggio sulle pale
dell’elicottero!
I
due Pokémon obbedirono. Il Pokémon festa si
alzò a circa cinquanta
metri di altezza. Faceva fatica a restare in posizione a causa delle
correnti d’aria delle pale, ma doveva resistere. Il
Pokémon
coniglio, capendolo, fece in fretta. Uno spesso strato di ghiaccio si
formò sulle pale del mezzo, che, a causa del peso, smisero
di
girare. Gli uomini a bordo del mezzo volarono su dei Jetpack. I due
ragazzi, non ebbero il tempo di scusarsi e ringraziare quella ragazza
dai capelli blu. Erano già a una delle fermate della metro.
Prima di
prenderlo lasciarono le chiavi del mezzo nel sottosella, insieme a un
biglietto con delle scuse e una banconota da cinquanta euro.
Ennesima
spesa di quel viaggio, ma non potevano fare altrimenti.
I
due presero la metro fino alla stazione dei treni, per tornare a
Parigi e riferire tutto quello che avevano visto. Sarebbero arrivati
alla base per ora di cena. Stanchi morti, ma felici di aver trovato
informazioni fondamentali.
Quando
i due partirono, erano circa le due del pomeriggio a Washington DC,
negli Stati Uniti. A quell’ora l’ufficio era in
piena attività.
Come tutti i giorni, del resto. In quegli ambienti era praticamente
impossibile che vi fossero delle pause.
Dido
lavorava ininterrottamente da ore.
-
Signora!
La
avvisò la sua segretaria. Quando quest’ultima
comprese di avere
tutta l’attenzione della donna, continuò la sua
frase.
-
Ho una telefonata urgente dal Belgio.
-
Passamela.
La
donna sapeva di avere degli agenti in Belgio, proprio a guardia della
Replika. Se erano loro a telefonarla, voleva dire solo una cosa. Ma
non ci voleva pensare.
-
Qui Lycanroc. Capo?
-
Spero che sia un’ urgenza! Sa benissimo che telefonare in
questo
modo viola tutte le normative!
-
Signora è un’emergenza! Dei ragazzi hanno trovato
l’appartamento
in Rue Lemonnier.
Proprio
quello che non voleva sentire. Lo scenario peggiore che poteva
accadere.
-
Hanno trovato la Replika?
-
Sissignora. E sono anche riusciti ad attivarla. Noi abbiamo raggiunto
il posto al più presto, ma avevano una complice e ci sono
fuggiti.
Non eravamo pronti a questo tipo di emergenze.
-
Dovevate essere pronti! Vi avevo ordinato di esserlo!
-
Sissignora, ma non potevamo aspettarci una situazione del genere. E
poi non è mica detto che siano riusciti ad accedere, dopo
averla
attivata.
-
Devo forse ricordarti che non abbiamo mai sperimentato cosa succede
se a provare le apparecchiature siano dei ragazzi? Piuttosto, fammi
un resoconto di tutto quello che è successo.
-
Agli ordini! Quei due sono arrivati ed entrati nel palazzo. Lasciando
fuori una loro complice. Un’allenatrice molto forte. Con i
suoi
Pokémon ha distrutto la Mercedes e messo fuori gioco
l’elicottero.
Nonostante fossimo io e gli agenti Furret, che tra le altre cose
è
stato ferito, Linoone, e sull’elicottero Thievul e Sneasel.
La
loro complice aveva un Mamoswine che doveva pesare dieci tonnellate,
un Togekiss e un Buneary e forse anche un Piplup, ma potrei aver
visto male.
La
donna prese appunti, continuando ad ascoltare l’agente.
-
I due e la loro complice sono scappati nella metro, probabilmente
diretti al Kadic.
-
Voi occupatevi di fare la guardia all'appartamento sigillatelo e
assicuratevi che ci siano sempre almeno agenti sempre presenti a
sorvegliarlo. Per il Kadic, beh, sapete benissimo che ho
un’agente
apposta lì.
-
Ma signora! È fuori serv…
-
Noi non siamo mai fuori servizio!
Dopo
questa frase chiuse la cornetta. Molto arrabiata. Cercando di
recuperare l’aplomb, passò gli appunti scritti
rapidamente alla
sua segretaria.
-
Cerca negli archivi un’allenatrice che abbia questi
Pokémon.
-
Agli ordini!
-
Prima
mettimi in contatto con il nostro agente al Kadic. Poi occupati di
quell’allenatrice.
La
città più vicina era Dubai. Loro si trovavano nel
bel mezzo del
nulla. Un deserto infinito. La sua struttura era letteralmente una
cattedrale nel deserto. Per chilometri e chilometri non c’era
altro.
Era
una villa di cinquantamila metri quadrati, con ogni tipo di
intrattenimento. Dai campi lotta privati a delle arene dove, ogni
volta che desiderasse, un esercito di coordinatori e coordinatrici,
era pronto a sfidarsi in gare di lotta. Idem per le performer. Aveva
anche un cinema e un teatro privati, degli stadi di calcio, dei campi
da tennis, e via discorrendo.
Quella
villa aveva anche un garodromo per Pokémon, un circuito
privato
lungo sei chilometri, su cui, volendo, poteva correre anche la
Formula 1, e un aeroporto privato, all’interno del cui
colossale
hangar riposavano i suoi cinque Boeing 747. Su un’altro
hangar poco
lontano, invece, dei più “modesti”
Airbus A320, a classe unica,
per i suoi uomini. Anche il suo parco auto faceva invidia.
Aveva praticamente ogni modello di Supercar esistente. Sia
modelli in produzione, che modelli meno recenti sia proprio
d’epoca.
Tra esse risaltavano due Ferrari Enzo, due F50, due F40, una 612
Scaglietti, una 575, tre Testarossa, una Dino, una 250 GTO, aveva
anche delle Lamborghini, tra cui due Countach, una Miura, tre Diablo,
due Gallardo, due Murciélago, delle Mclaren tra cui una F1 e
due
Mercedes-Benz SLR McLaren, una Bugatti Veyron, e una Maserati MC12.
un
gran numero di berline e suv di lusso, tra cui cinque Maserati
Quattroporte, tre Maserati 3200 GT, quattro Bentley Continental, due
Maybach W240, tre Rolls-Royce Phantom, cinquanta Range Rover e venti
Hummer H1.
Aveva
anche delle Formula 1 private, comprate direttamente dalle scuderie,
anch’esse di vari periodi storici.
In
quel momento l’uomo era seduto sugli spazi del garodromo.
Erano
coperti e serviti da un sistema di aria condizionata, per cui,
nonostante il sole picchiasse forte, li si stava benissimo.
Si
sistemò il cappello e guardò negli occhi i suoi
due ospiti. Due
malavitosi, un russo e un cinese.
-
Ci tenevi proprio a sbatterci in faccia la tua ricchezza, eh,
Hannibal!
Il
cinese lo zittì.
-
Non siamo qui per questo. E poi dovresti sapere come funziona. E poi
che ti importa? Sei forse geloso? E anche se fosse? Sai che siamo qui
per discutere di affari.
Il
russo non rispose, si limitò a lasciarsi cadere contro la
poltrona.
Sulla
pista del garodromo stava per partire una corsa di RA.
Hannibal
li osservò con attenzione, erano tre RA giovani e forti, il
suo si
distingueva per l’essere shiny, quella del russo per una
bandiera
russa legata al collo. Quello del cinese per la bandiera cinese
sempre sul collo..
-
Vogliamo scommettere?
Propose
il russo.
-
Dieci milioni sulla mia Havalla.
-
Vada per dieci milioni su Red.
-
Dieci milioni, ovviamente su Trottalemme.
Concluse
Hannibal.
I
tre si strinsero la mano e osservarono le ultime procedure prima
della partenza. Il mago prese una ricetrasmittente, ne premette un
pulsante e diede il via alla corsa.
Appena
i tre RA partirono, degli inservienti rimossero le gabbie, per non
ostacolare il giro successivo.
Già
al primo passaggio era evidente come solo Trottalemme e Havalla
fossero in lotta per la vittoria.
-
Vediamo come va a finire.
Commentò
Hannibal.
Dopo
poco, Hannibal venne raggiunto da una donna, che stava risalendo le
gradinate. Poteva avere al massimo cinquant'anni, e aveva
lunghi capelli rosa. Al collo un bel ciondolo d’oro.
–
Scusi
se la disturbo.
La
donna aveva notato i suoi ospiti solo in un secondo momento.
-
Buongiorno Memory, dimmi tutto.
-
C’è una chiamata importante per lei.
-
Non possiamo aspettare che finiscano?
-
Ho paura che non sia possibile.
La
donna abbassò il tono di voce.
-
È Grigory, ed è urgente.
Hannibal
si alzò dalla sua poltrona. Se a chiamare era il suo uomo
migliore,
doveva essere molto importante.
-
Temo che non potrò vedere il finale.
-
Che importa?
Commentò
il russo.
-
Tanto ormai è chiaro chi sia il vincitore.
Hannibal
sorrise, poi, con un gesto fulmineo sfoderò da sotto la
leggera
giacca di seta, una grossa pistola cromata. Sparò due colpi
in
rapida successione.
Dalle
cosce dei RA del russo e del cinese, uscì un pennacchio
rosso.
Poco
dopo entrambi caddero a terra. Le fiamme spente.
-
Bastardo! Gli hai ammazzati.
-
Direi che ho vinto. Ora vi tocca sganciare.
Commentò
Hannibal, prima di prendere la donna a braccetto e raggiungere la sua
gigantesca villa.
L’uomo
raggiunse una grossa porta di legno, dalla maniglia in oro.
La
donna si fece da parte per farlo passare. Sapeva che era un affare
urgente e non voleva interferire. L’uomo entrò
nella stanza e
chiuse la porta a chiave, poi si sedette dietro la gigantesca
scrivania. Su di essa troneggiava un gigantesco schermo
ultrapiatto.
Schermo
riempito dalla sagoma del volto del suo agente.
-
Spero sia urgente.
Mentre
pronunciava quella frase, l’uomo giocherellava coi suoi
anelli.
-
Si, signore, lo è eccome. Ho scoperto che la francesina se
la fa con
la figlia di Hopper. E quest’ultima ha scoperto degli affari
che
non la riguardano.
-
E quindi? Non mi sembra affatto un’urgenza.
-
Sono certo come la morte che, ben presto la condurranno al
Supercomputer.
-
Devi portarmi notizie vere, non supposizioni.
-
Eccole. Ho rintracciato alcune comunicazioni telefoniche. Ishiyama
e Stern sono andati in Belgio e hanno trovato una sorta di copia del
Supercomputer. Dovessero approfondire la questione,
naturalmente mi occuperò di registrare ogni singola
parola.Vi hanno
fatto accesso e una volta usciti sono stati inseguiti da degli uomini
in nero.
E
credo che lei sappia per chi lavorano.
L’uomo
sbattè un pugno sulla scrivania.
-
Non pure loro! Non dovevano mettersi in mezzo. In ogni caso la
prossima volta chiamami solo ed esclusivamente se scovi il
Supercomputer.
-
Agli ordini!
Hannibal
spense immediatamente il suo computer.
Arrivati
in Francia, Ulrich e Yumi erano troppo stanchi per parlare. Dormirono
da subito dopo cena a quasi ora di pranzo del giorno dopo. Quando si
incontrarono con gli amici.
I
due avevano tantissimo da raccontare, dalla Replika al fantasma del
Professore all’inseguimento con gli uomini in nero. Parlarono
anche
di sfuggita di una misteriosa allenatrice che gli aveva salvati.
Certo, le erano grati, ma non ritenevano fosse importante. Poteva
benissimo essere una comune cittadina.
Jeremy
e Aelita, invece, aggiornarono i due sulla scoperta fatta
all’Hermitage.
-
Se voi avete visto il Professore nella Replika, allora vuol dire che
è una sua creazione.
Commentò
Jeremy.
-
Si, effettivamente c’era un suo fantasma. È un
indizio sul fatto
che sia stato lui a crearla e mi chiedo cosa potesse raccontarci.
-
Pensaci, Yumi.
La
riprese Ulrich.
-
Mi chiedo quante volte quegli uomini abbiano visitato quella Replika
e quante informazioni abbiano ricevuto.
-
Non so.
Commentò
Jeremy.
-
Se vi ricordate, il Professore, su Lyoko non aveva un
aspetto… per
così dire umano. Non è da escludere che sia
così anche per loro.
Almeno fino a prova contraria. Piuttosto, non mi è chiaro
cosa
c’entri la professoressa Hertz in tutto questo. Se davvero
quella
donna nel diario dell’Hermitage fosse lei…
Se
solo avessimo ancora quel dossier… Odd, era tua
responsabilità.
-
E chi lo ha preso?
Odd
era sicuro di averlo tenuto nel suo armadio, ma qualcuno doveva
essere entrato nella stanza e lo aveva preso.
-
Sarà stata la professoressa, non trovandolo.
-
Come no. Non credo che possa arrivare a tanto. Deve essere stato
qualcun’altro.
Intervene
Ulrich.
-
E poi dobbiamo ricordarci che ci sono altre forze in campo. Come
quell’uomo con i due HOU e gli uomini in nero. E
chissà chi altro.
Non vorrai aggiungere anche la Hertz, dai.
-
Mi chiedo. E se l’uomo con gli HOU fosse uno degli uomini in
nero?
-
Non penso, amico.
Jeremy
riprese Odd.
-
Lavorano in modo molto diverso. L’uomo con gli HOU lavora da
solo e
usa delle tecnologie incredibilmente avanzate. E in più non
sembra
rispetti alcuna legge. Gli uomini in nero, invece potrebbero lavorare
per qualche organizzazione governativa o simile. Anche solo per far
volare un elicottero ci vogliono numerosissimi permessi. E se le
autorità non li conoscessero, non li lascerebbero fare, non
trovate?
Quindi
si, ci sono due forze in campo. Oltre a noi. E sembra che quei due
siano addirittura nemici.
Dall’altra
parte del mondo, Dido era seduta sul sedile posteriore di una
Cadillac prodotta appositamente per i servizi segreti.
Una
vettura dotata di ogni comfort che si possa desiderare e di
altrettanti dispositivi di sicurezza, tra cui una blindatura di
altissimo livello, un serbatoio da enorme realizzato in kevlar, un
motore dalla bassissima potenza specifica, sistemi di purificazione
dell’aria da qualsiasi minaccia e decine e decine di altri
sistemi.
La
donna sapeva che quello era l’orario ideale per fare una
telefonata
in Francia. A quell’ora la persona che cercava era
sicuramente a
casa. La mattina presto di un lunedì.
Prese
il telefono satellitare dal vano posto all’interno del
bracciolo
centrale e compose il numero.
Il
telefono fece alcuni squilli, poi, finalmente qualcuno rispose, con
un tono scocciato. Probabilmente quella persona credeva si trattasse
di una chiamata di qualche call center o simili.
-
Pronto?
-
Sono Dido.
L'interlocutore
rimase in silenzio per diverso tempo.
-
Si, mi dica signora.
-
Ho una missione da affidarti. Presto verrà qualcuno a
prenderti.
Preparati. Verrà a prenderti un…
Il
tono della donna cambiò, per far capire al suo
interlocutore, che si
trattasse di una semplice copertura.
-
Taxi.
-
Signora. Non sono più qualificato e soprattutto non ricordo
nulla.
-
Non credo che tu ti possa opporre. Fonti sicure mi dicono che in
questa storia è coinvolto Hannibal Mago. Quando
arriverà, lei deve
essere pronto ad accoglierlo.
-
Le ripeto che non sono più qualificato. Non ricordo
nulla.
-
Jean. Ricordi quanto basta. Hai fatto delle cose molto brutte
ed
è per questo che non puoi più vedere tua moglie e
tua figlia.
L’uomo
fece una smorfia di dolore. Quella donna sapeva benissimo dove
colpire.
-
Quindi. Se vuoi vederele hai solo una possibilità. Mettere
fine a
questa storia di cui sei stato protagonista quasi dodici anni fa.
Come ti ho detto alcuni uomini andranno a prenderti e ti spiegheranno
tutto. Ho detto loro della tua lunga inattività, per cui
inizieranno
con qualcosa di semplice.
Detto
questo la donna chiuse la chiamata, per mettersi poi in contatto con
l’agente Lycanroc, che rispose immediatamente.
-
Agente Lycanroc. Vada con l’agente Linoone a prendere Jean e
chiedigli di fare la cosa più semplice da fare in questa
missione,
sai bene a cosa mi riferisco. E non voglio proteste di alcun tipo.
L’uomo
non rispose. Si mise immediatamente in marcia con il suo collega. Il
capo aveva ordinato a lui e al suo collega di raggiungere Marsiglia
senza fornire spiegazioni, ma ora il motivo era chiaro.
I
due si trovavano a bordo di un finto taxi marsigliese.
Dall’esterno
nulla poteva far pensare che la verità fosse ben altra. La
vettura
non era una normale Peugeot 406.
Il
finto taxi giunse proprio davanti alla casa di Jean. l’uomo
aveva
appena fatto in tempo a prepararsi. Uscì di casa e chiuse la
porta.
Quindi salì sul sedile posteriore di quella Peugeot.
-
Eccoti qui. Jean. O dovrei dire Giovanni Roberto. Come previsto.
Salutò
l’uomo alla guida. L’altro uomo, seduto davanti,
indicò una
borsa, appoggiata sul sedile posteriore, proprio accanto a
Jean.
-
Prendi quello che c’è dentro e cambiati. Fai in
fretta. Non
abbiamo tempo da perdere.
L’uomo
iniziò a cambiarsi, mentre l’auto si
sollevò da terra. Le ruote
diventarono più grandi e il battistrada più
ampio, dal cofano
motore uscì una presa d’aria, dal paraurti
anteriore degli
splitter, alcuni profili aerodinamici, delle prese d’aria per
i
freni. Da sotto le porte, delle minigonne, dal cofano un grosso
spoiler e altri profili aerodinamici dal paraurti posteriore.
L’uomo
alla guida partì a razzo,Jean venne colto impreparato.
Ancora non
aveva superato la sensazione di ridicolaggine che lo ricopriva. Era
completamente vestito di nero. Scarpe, pantaloni, camicia, giacca,
occhiali da sole. E la pistola che portava sotto l’ascella
pesava e
gli dava fastidio.
E
in più non ricordava nulla. Non sapeva quanto potesse essere
di
aiuto alle indagini.
Ricordava
tutto quello che era accaduto dopo il 1994, ma nulla di quello che
era accaduto prima. Si ricordava perfettamente quando Dido, per
motivi di sicurezza gli aveva ordinato di stare lontano dalla moglie
e dalla figlia. Gli aveva anche trovato un nuovo lavoro a Marsiglia,
come impiegato.
Sapeva
che era stato allontanato perché aveva fatto delle cose
brutte che
avevano a che fare con il signor Hopper e con degli uomini vestiti di
nero.
Lycanroc,
l’uomo alla guida del mezzo percorse a tavoletta i quasi
ottocento
chilometri che separavano Marsiglia da Parigi. Le uniche soste furono
per fare benzina.
Jean
si rese conto di come l’uomo alla guida non avesse rispettato
alcun
limite di velocità.
Percorse
una strada che normalmente si percorre in circa otto ore, in poco
più
di quattro. Appena entrato in città l’uomo fece
sì che il taxi
tornasse ad apparire come una normale Peugeot 406.
L’insegna
venne sostituita per farlo apparire come un taxi parigino e non
più
marsigliese.
-
Siamo arrivati anche troppo in anticipo. Il capo ci aveva detto che
dovevamo essere qui dopo pranzo. Alle due e mezza. Ma è
appena
mezzogiorno.
Protestò
l’uomo seduto sul sedile del passeggero.
Avrebbero
dovuto aspettare parecchio, e non potevano raggiungere il luogo
indicato prima di quell’ora.
-
Dovrai perlustrare l’Hermitage. Immagino che il nome ti dica
qualcosa. Non è vero?
Jean
non rispose. Quel nome gli metteva i brividi. Sapeva che aveva a che
fare con Franz Hopper, ma non ricordava altro. E questo non gli
piaceva affatto.
E
in più il fatto di non poterci andare prima delle due e
mezza gli
metteva molta ansia.
Dopo
aver pranzato, Jeremy, Ulrich, Odd e Yumi andarono
all’Hermitage.
Jeremy era piuttosto impaziente di mostrare la replika creata dal
Professore. Nonostante questo, però, avrebbe aspettato
l'arrivo di
Aelita.
La
ragazza era a un corso di cucina, dopo quello che era successo quella
notte, e quel piccolo incidente diplomatico con Serena, aveva
promesso a quest’ultima di partecipare con lei a quel corso.
Un
corso aperto a qualsiasi studente o studentessa volesse partecipare,
tenuto da Jim. Il professore, come prima cosa, aveva raccontato di
come fosse stato un cuoco provetto, ma che preferirebbe non parlarne.
Jeremy
fece uno squillo ad Aelita. La ragazza rispose al telefono quasi
subito.
-
Ciao, Jeremy, dimmi tutto.
-
Siamo all’Hermitage. Aspettiamo solo te per la Replika.
Quella che
avevi esplorato quella notte…
-
Si, vedo di arrivare appena posso, ora ho un piccolo impegno, ma
appena posso arrivo. Ci vediamo dopo.
La
ragazza chiuse la telefonata.
-
Scusa, ma devo andare un attimino in bagno.
-
Vai pure.
Aelita
andò verso i bagni, ma, invece di raggiungerli,
deviò verso il
locale caldaie, dove si trovava uno dei passaggi segreti che
permetteva di raggiungere la fabbrica, o anche, volendo,
l’Hermitage,
che si trovava poco lontano.
La
ragazza percorse il tunnel fino a raggiungere il punto in cui si
incrociava con uno dei tunnel che partivano dai sotterranei della
villa. Raggiunse il gruppo dalla scala che portava ai sotterranei.
Il
gruppo la salutò con il solito calore.
Si
stavano per dirigere ai sotterranei e, per l'appunto, visitare la
Replika, quando l’attenzione di Yumi venne attratta da
qualcosa. La
ragazza si avvicinò alla finestra, sperando in un falso
allarme.
Dal
lato della strada opposto a quello della villa, qualcuno aveva appena
parcheggiato un taxi. Una Peugeot 406. Una normale berlina allestita
come taxi.
Solo
che era strano che si trovasse in quel posto. Come se il passeggero
avesse esplicitamente chiesto di portarlo lì. Ma per quale
motivo?
Dalla
macchina scese un uomo, completamente calvo e completamente vestito
di nero. Sembrava si stesse dirigendo verso la villa. Intanto quella
berlina aveva iniziato ad allontanarsi. Proprio come un normale
taxi.
-
Ragazzi. Abbiamo un'emergenza. Uno strano tizio si sta avvicinando
pericolosamente.
-
Dobbiamo affrontarlo.
Si
propose Ulrich.
-
Se è solo non dovrebbe essere troppo pericoloso.
Aggiunse
poco dopo.
-
Non credo ci siano alternative.
Aggiunse
Yumi.
Ognuno
di loro fece uscire dalla Pokéball il Pokémon
più forte. Jeremy
fece uscire il suo ME, Aelita la sua Gardevoir, Yumi la sua Greninja,
Ulrich il suo Gallade Odd il suo Incineroar.
Uscirono
rapidamente dalla villa scortati dai loro Pokémon, che in
breve
tempo circondarono l’uomo.
-
Gardevoir, usa Psichico!
La
Gardevoir di Aelita utilizzò i suoi poteri per sollevare in
aria
l’uomo. L’allenatrice fece cenno alla Gardevoir di
farlo cadere a
terra, e di riprendere la presa all’ultimo. E poi di
risollevarlo
in alto e ripetere la procedura.
-
Basta! Basta! Mi arrendo!
La
Gardevoir interruppe l’attacco, facendo cadere
l’uomo a terra.
Prima che questi potesse rialzarsi, venne bloccato sul terreno dagli
Acqualame ghiacciati della Greninja di Yumi. Anche volendo non poteva
alzarsi.
-
Siete più forti di quanto pensassi.
Commentò.
-
Non posso fare altro che arrendermi. Sono solo e i miei colleghi sono
già partiti.
-
E cosa ci garantisce che tu non stia mentendo?
Gli
chiese Ulrich. Estremamente dubbioso.
-
Ve lo posso giurare. Su tutto quello che volete.
-
E va bene.
Rispose
Yumi. mentre scambiava uno sguardo d’intesa con Aelita. La
ragazza
ordinò alla sua Gardevoir di usare Psichico
un’ulteriore volta,
per assicurarsi di condurre l’uomo all’interno
della villa senza
che questi potesse fuggire.
Giunti
nel salotto della villa, la Gardevoir fermò
l’attacco, facendo
attenzione a non fare troppo male a quell’uomo.
Fuggire
era impossibile. Tentando dalla finestra sarebbe stato colpito a
vista, mentre la porta era occupata per intero da
quell’imponente
ME. L’uomo aveva solo una scelta. Parlare.
-
Evidentemente vi devo delle spiegazioni. Le avrete. Le avrete. Ma,
purtroppo non vi posso dire tutto perché ho
dimenticato
praticamente tutto.
Il
mio capo mi ha promesso che se avessi risolto questa situazione,
avrei potuto rivedere la mia famiglia. Non avevo altra scelta e ho
accettato. Mi promettete che se vi racconto quello che so, mi
aiuterete a trovare almeno mia figlia. Non la vedo da quando era una
bambina di tre o quattro anni. Si chiama Serena. So che oggi
è
una performer e coordinatrice anche piuttosto famosa ma…
Aelita
ebbe come un mancamento.
Un
uomo pelato. Una bambina di tre o quattro anni chiamata Serena. Che
ora è una coordinatrice e performer. Poteva essere lui
l’uomo che
aveva visto in quella Replika? Il padre di quella bambina che oggi
era la sua compagna di stanza?
Dopotutto
le aveva detto di come non vedesse suo padre da quando era molto
piccola… troppe coincidenze. Ma si sa. Le coincidenze non
esistono.
Mentre
la ragazza dai capelli rosa era persa nei suoi pensieri, Ulrich e
Yumi guardarono attentamente quell’uomo. Era vestito
esattamente
come quei tizi che gli avevano inseguiti in Belgio. Era un uomo in
nero.
-
Te lo prometto.
Disse
Aelita. Con un tono che esprimeva un enorme coraggio.
L’uomo
riprese il suo racconto.
-
Negli anni novanta, lavoravo per delle persone molto pericolose. Dei
terroristi, credo. A quei tempi vivevo qui. Mi ero sposato da alcuni
anni con una promessa delle corse coi Rhyhorn, e avevamo una figlia,
di cui vi ho parlato prima.
Non
ricordo come, ma conobbi un professore chiamato Hopper, che cercava
dei finanziamenti per un suo progetto. Un progetto molto molto
importante.
Quelli
per cui lavoravo mi imposero di aiutarlo. Mi diedero tantissimi soldi
per pagare i suoi progetti. E mi imposero di
attendere
che li finisse per poi passarli a loro. Diventammo ottimi amici. E
sua figlia, era praticamente diventata la babysitter di mia
figlia.
Però.
L’uomo
iniziò a piangere.
-
Lo tradì. Accettai di venderlo. Di rivelare dove si
nascondeva.
-
Gardevoir usa…
La
ragazza si fermò prima di ordinare l’attacco. Le
premeva
particolarmente che Serena sentisse queste esatte parole.
Doveva
essere grata di aver avuto a che fare con un mostro del genere.
-
Mi hanno detto che se non avessi accettato, sarei stato arrestato e
mi avrebbero rinchiuso in quarantuno bis per tutto il resto dei miei
giorni. Oppure mi proposero di tradirlo. Mi avrebbero creato una
nuova identità. E avrei anche potuto ricominciare da zero.
Per
motivi di sicurezza non avrei potuto vedere più mia moglie e
mia
figlia, ma sarei stato un uomo libero. Così accettai.
Usarono uno
strano macchinario che cancella la memoria. Lasciarono intatta solo
la mia colpa.
I
ragazzi incominciarono a parlare a bassa voce. In un angolo lontano
della stanza.
-
Credo che sia giusto chiamarla.
Propose
Aelita.
-
Ma tu stessa ci hai spiegato e lui ci ha confermato che non si vedono
da tantissimi anni. Lei era praticamente una bambina.
Precisò
Yumi.
-
Certo. Ma non possiamo comunque negare a un padre il diritto di
vedere sua figlia.
Si
aggiunse Ulrich. Tutti sapevano del difficile rapporto con suo padre.
Quelle parole avevano un peso notevole.
-
E poi, se le cose dovessero andare male, potremo sempre usare il
Ritorno al Passato.
Propose
Odd.
-
Sarebbe alquanto inutile. Lui sarebbe di nuovo qui e ci troveremo
allo stesso punto. Lei non è stata scansionata. Per lei
sarebbe
sempre la prima volta. Creeremo un loop temporale, in poche parole.
Lo
riprese Jeremy.
Subito
dopo Aelita si era allontanata. Aveva fatto cenno al ME di Jeremy,
che sbarrava la porta di farla passare, e questi obbedì
immediatamente, per poi riposizionarsi davanti alla porta, una volta
che la ragazza la richiuse.
Una
volta allontanatasi a sufficienza, prese il telefono e si mise in
contatto con la compagna di stanza, che rispose quasi subito, con un
tono tra il preoccupato e il perplesso.
-
Si, ma dove sei? Perché mi stai chiamando? È
successo qualcosa?
-
Si. Tuo padre.
-
Mio
padre? Mio padre cosa?
-
È qui. E vuole vederti.
-
Sai benissimo cosa ti ho detto su di lui. Non voglio vederlo.
-
Certo, chiaro. Ma pensavamo che avvisarti fosse la cosa giusta. Anche
perché ha spiegato perché vi ha dovuto
abbandonare. E, credimi. È
una storia terribile. Voglio che sia lui a raccontarlo.
Perché è
terribile.
-
Va bene, vengo. Ma almeno dimmi dove sei.
-
Villa Hermitage. Non è molto lontano da qui.
-
Non so dove si trova.
-
Facciamo una cosa. Vai al parco della scuola. Cammina sino a quando
non raggiungi un tombino lì in mezzo.penso sia un buon punto
di
riferimento, visto che non è molto normale un tombino
lì in mezzo.
Per
il momento usalo come punto di riferimento.
-
Va bene. Poi?
-
Poi troveremo un modo per guidarti fino alla villa.
-
Va bene.
Le
due attaccarono la telefonata praticamente insieme.
Serena
provava un mix di emozioni difficile da descrivere. Da una parte era
curiosa di sapere perché suo padre l’avesse dovuta
abbandonare, ma
era anche schifata da un uomo del genere. Tanto più che i
motivi, a
detta di Aelita erano terribili.
La
ragazza iniziò a incamminarsi verso il parco della scuola,
quando
incrociò Ash, il suo ragazzo.
-
Tutto bene?
Le
chiese il ragazzo.
-
Niente affatto. È una cosa personale. Voglio risolverla da
sola.
-
Come vuoi.
Serena
era perplessa. Solitamente Ash le sarebbe stato accanto anche in
situazioni così particolari. Ma, dopotutto, Aelita le aveva
fatto
intendere che doveva andare da sola.
Lei
si fidava di quella ragazza, nonostante alcune stranezze nei suoi
comportamenti. Però, non sembrava avesse motivi per
mentirle.
Soprattutto su una cosa così seria.
La
ragazza si diresse verso il parco del collegio, proprio vicino al
tombino. Il solo tombino dell’area. Effettivamente non aveva
molto
senso che un tombino si trovasse nel bel mezzo di un parco.
La
ragazza iniziò ad avere un po’ di paura. Tanti
pensieri le
riempivano la testa. Prese una delle sue Pokéball dalla
borsa e fece
uscire uno dei suoi Pokémon. La sua Sylveon.
Quest’ultima,
vedendola piuttosto preoccupata, strinse uno dei suoi nastri sul
braccio della ragazza, come gesto di affetto e comprensione.
-
Grazie.
La
ragazza sentì un fruscio e alzò lo sguardo verso
il cielo. Non notò
nulla di anomalo. Alcuni Pokémon uccello che svolazzavano
tranquilli.
-
Menomale. Mi sono spaventata per nulla.
Pochi
istanti dopo una grossa sagoma bianca, volò a poca distanza
da lei.
Facendola spaventare e costringendola a fare un passo
indietro.
Fece
molta attenzione a non imburconare. Se quella sagoma fosse tornata,
doveva essere pronta ad affrontarla.
Ed
in effetti quella sagoma tornò. E si rivelò per
quello che era. Una
Togekiss, che si posò elegantemente davanti alla ragazza.
Serena
rimase in silenzio alcuni istanti, cercando di riordinare i pensieri,
fino a giungere ad una conclusione quantomeno sensata. Lei conosceva
solo un'allenatrice che aveva quel Pokémon. Per cui tanto
valeva
tentare.
-
Sei la Togekiss di Aelita. Non è vero?
Il
Pokémon confermò.
La
ragazza prese dalla sua borsa alcuni Pokébignè
che aveva preparato
poco prima, proprio a quel corso, e ne diede alcuni alla sua Sylveon,
altri alla Togekiss di Aelita. Entrambe sembrarono apprezzare.
Dopo
mangiato, la Togekiss spiccò il volo, per poi girarsi verso
la
ragazza, come per farsi seguire. Cercava di volare lentamente, in
modo da farsi seguire.
Dopo
un breve percorso, la ragazza iniziò ad intravedere la
sagoma di una
villa alta e stretta. Con un basso garage appoggiato su di un lato.
Mano a mano che la ragazza si avvicinava, la sagoma diventava sempre
più chiara. Era una villa abbandonata, apparentemente da
moltissimi
anni.
-
Cosa ci fa mio padre qui?
Si
chiese. Pur consapevole del fatto che il solo modo di trovare
risposte, fosse quello di entrare. Dopotutto suo padre era
là
dentro. E lei voleva ottenere risposte.
Arrivata
nel retro della villa, era indecisa se proseguire per il lato del
garage o per il lato opposto. Dopotutto il risultato non sarebbe
cambiato. No?
-
Aspetta!
La
ragazza riconobbe immediatamente quella voce. Era Aelita. Come mai le
aveva chiesto di fermarsi? Stava forse andando dalla parte sbagliata?
Era forse una trappola? Aveva fatto male a fidarsi di lei?
In
ogni caso ora non poteva tornare indietro. Per cui decise di
ascoltarla.
-
È meglio passare dal garage. È meglio che tu sia
pronta ad
affrontare la verità, è come un fiume in piena,
credimi.
Serena
non rispose. Si limitò a seguirla.
Le
ragazze entrarono all’interno del garage. Era in gran parte
occupato da un’auto e da degli scaffali con vari prodotti per
la
cura dell’auto, attrezzi da meccanico, vernici e via
discorrendo.
Serena
guardò quell’auto. Era di un giallo molto acceso,
nonostante il
grosso strato di polvere che la ricopriva. Non aveva mai visto
un’auto del genere. Era piuttosto squadrata, aveva quattro
fari
tondi della stessa dimensione, delle grosse prese d'aria sul cofano,
i parafanghi molto larghi. Dal parabrezza, stranamente pulito, erano
perfettamente visibili gli interni. Neri.
Sul
retro uno spoiler.
La
performer era piuttosto perplessa. Quella macchina sembrava
abbandonata lì da almeno dieci anni, se non di
più. Come il resto
della villa.
E
suo padre l’aveva abbandonata da oltre dieci anni. Che quella
villa
avesse a che fare con suo padre? Ma a quel punto la vera domanda era
un’altra. Cosa ci faceva Aelita in una villa abbandonata da
così
tanti anni? E con chi era? Dopotutto aveva usato il plurale nella sua
telefonata.
Serena
prese coraggio.
-
Mi devi alcune spiegazioni.
-
Lo so bene. Per il momento non posso entrare troppo nei dettagli, ma
questa villa è appartenuta a mio padre. E, qualche tempo fa
ti ho
mentito. Mio padre non è morto qualche mese fa. Ma
bensì dodici
anni fa.
-
Perché hai mentito?
-
Perché non volevo che venisse scoperta la verità.
Mio padre aveva
un passato oscuro e temevo che se ti avessi parlato di lui, ti avrei
persa. Ecco.
-
A quanto pare anche mio padre ha un passato oscuro, ma non mi sembra
che tu mi sia saltata addosso o altro del genere. Anzi. Mi hai
chiamato per venirci a parlare. E io ho accettato.
-
Vedi. Il fatto è che quando ti ho detto quelle
cose… non potevo
sapere che tuo padre fosse coinvolto.
-
Coinvolto in cosa?
Aelita
ebbe come un crollo. Si era messa in un grosso guaio. A quel punto
non poteva non raccontarle tutto.
-
Forse è meglio che sia lui a raccontarti tutto. Poi ti
racconteremo
tutto. Promesso.
-
Promesso?
Le
due ragazze fecero la promessa del mignolo. Un gesto molto antico,
che simboleggiava una promessa solenne che, se non fosse stata
mantenuta, avrebbe comportato il taglio del dito della persona che
aveva infranto la promessa.
Aelita
l’accompagnò fino alla stanza in cui suo padre era
rinchiuso.
-
Se le cose dovessero mettersi male, avvisaci con questo. Falla cadere
per terra. Farà un gran rumore e noi ti potremo aiutare.
-
Va bene.
Aelita
passò alla ragazza una sorta di sacchetto con
all’interno del
materiale difficile da definire. Era grigio scuro e sembrava morbido.
La ragazza decise comunque di non toccarlo. Fosse stato esplosivo, si
sarebbe potuta ferire.
I
ragazzi, di comune accordo, avevano deciso di lasciarli da soli.
Consapevoli di poter intervenire rapidamente in caso di emergenza.
Serena
entrò nella stanza, scortata dalla sua Sylveon. Sola con
quell’uomo
pelato. Seduto per terra, contro un muro.
La
ragazza si sedette dalla parte opposta della stanza, con accanto la
sua Sylveon, che non aveva mai smesso di stringere il braccio della
ragazza con i suoi nastri.
La
ragazza era seduta con le mani appoggiate sotto il mento e lo sguardo
basso. Non voleva guardare in faccia quell’uomo che
l’aveva
abbandonata quando era ancora una bambina.
-
Sei persino più bella di quando ti inquadrano in televisione.
Esordì
l’uomo.
Per
tutta risposta, la Sylveon iniziò a soffiare minacciosamente
contro
quell’uomo e a inarcare la schiena, per sembrare
più grande.
La
ragazza lo ignorò totalmente.
-
Immagino che tu non sia venuta per questo. Dopotutto ti devo delle
spiegazioni. E avresti ragione. Non posso sparire per così
tanti
anni e iniziare così. Facciamo finta che non sia successo.
Facciamo
finta che sei entrata adesso e che non ti ho detto niente.
La
ragazza continuò a ignorarlo.
-
E va bene. Parlerò. Ma spero che tu non rimanga
delusa. Ho
dimenticato praticamente tutto.
Devi
sapere che io mi sono allontanato da te e da Primula per proteggervi.
-
Proteggerci?
-
Vedi, ti parlo di cose accadute negli anni novanta, quando lavoravo
per delle persone molto pericolose. Dei terroristi, credo. A quei
tempi vivevamo qui. Io e tua madre eravamo sposati da pochi anni e,
quando sono successe le cose peggiori, avevi tre anni.
Ma
le cose sono iniziate prima che tu nascessi. Non ricordo come, ma
conobbi un professore chiamato Hopper, che cercava dei finanziamenti
per un suo progetto. Un progetto molto molto importante.
-
Aspetta un attimo.
Lo
interruppe.
-
Dimmi tutto.
Serena
rimase in silenzio. Quindi suo padre era coinvolto con un certo
Hopper. Che fosse il padre di Aelita? Ma quella ragazza faceva Stones
di cognome. Non poteva essere lei. A meno che non l’abbiano
costretta a cambiare identità per proteggerla, dopo la
scomparsa di
suo padre.
Capendo
di avere nuovamente l’attenzione della figlia,
l’uomo riprese il
suo racconto.
-
Quelli per cui lavoravo mi imposero di aiutarlo. Mi diedero
tantissimi soldi per pagare i suoi progetti. E mi ordinarono
di
attendere che li finisse per poi passarli a loro. Con il passare del
tempo diventammo ottimi amici. E sua figlia, era praticamente
diventata praticamente la tua babysitter.
Come
poco prima, Serena gli chiese di fermarsi.
Più
di qualcosa non le tornava. I suoi genitori le avevano entrambe detto
che la figlia di Hopper, Franz Hopper, è stata la sua
babysitter.
Dalla madre aveva scoperto che quella ragazza si chiamava Aelita e
che era scomparsa insieme a suo padre nel
millenovecentonovantaquattro. Allora quella ragazza aveva circa
tredici anni. Se fosse ancora in vita, ne avrebbe dovuti avere
venticinque. E poi quell’attentato al Kadic? Rivendicato da
dei
terroristi che cercavano Franz Hopper? Per cui lei e sua madre erano
dovute fuggire in Giappone.
Ma
allora chi era Aelita, la sua compagna di stanza? Era la figlia di
quell’Hopper oppure era semplicemente una coincidenza che i
loro
padri avessero lavorato insieme e che lui fosse morto dodici anni
prima per delle cause diverse? Facendo finire il racconto a
suo
padre, avrebbe ottenuto delle risposte?
L’uomo
continuò a parlare. Contemporaneamente iniziò a
piangere.
-
Però
lo
tradì. Accettai di venderlo. Di rivelare dove si nascondeva.
La
ragazza era piuttosto arrabbiata. Suo padre aveva fatto la cosa
peggiore che una persona poteva fare. Tradire un amico.
-
Quelli che mi contattarono mi dissero che se non avessi accettato,
sarei stato arrestato e mi avrebbero rinchiuso in quarantuno bis per
tutto il resto dei miei giorni. Oppure mi proposero di tradirlo. Mi
avrebbero creato una nuova identità. E avrei anche potuto
ricominciare da zero. Per motivi di sicurezza non avrei potuto
vederevi, ma sarei stato un uomo libero. Così accettai.
Usarono uno
strano macchinario che cancella la memoria. Lasciarono intatta solo
la mia colpa.
Serena
non sapeva che fare. Sentire la confessione di suo padre era forse la
cosa peggiore.
Ma
ora che era dentro, non poteva tirarsi indietro. Certo, era una
situazione davvero difficile, ma cosa poteva fare ora? Non di certo
tirarsi indietro. Forse la scelta più giusta era indagare. E
non
poteva che partire dalla persona che l’aveva portata fino a
lì.
Aelita.
La
ragazza corse fuori dalla stanza, insieme alla sua Sylveon. Lasciando
l’uomo da solo. In parte poteva giustificare il suo
comportamento.
Voleva tenerla lontana dai guai.
La
ragazza entrò nella stanza accanto, dove l'aveva vista
entrare.
Spalancò
la porta e vide Aelita e tutto il gruppo con la quale era solita
uscire. Non gli conosceva proprio benissimo. Ma se lei era
lì, era
anche, in parte, grazie a loro.
-
Aelita. Mi devi delle sp…
Prima
che la ragazza potesse finire la frase, qualcuno suonò il
campanello.
–
Vado
ad aprire.
Ulrich
si era alzato per andare ad aprire la porta, o perlomeno a vedere chi
stava suonando.
Il
ragazzo guardò dallo spioncino. A suonare un ragazzo dai
capelli
neri con un Pikachu sulla spalla. Il ragazzo ci mise un attimo a
capire chi fosse.
Indeciso
sul da farsi, Ulrich, tornò dal gruppo.
-
Allora. È Ash.
-
Il mio Rag…
Si
lasciò scappare Serena.
Perché
lo aveva detto? Voleva che anche lui venisse coinvolto?
-
Vedi.
Le
spiegò Aelita.
-
Ormai dovresti aver capito che le cose non sono esattamente come ti
ho detto.
-
E cosa facciamo con Ash?
Si
chiese Odd, rimasto fino a quel momento in silenzio.
Tutti
incrociarono i loro sguardi. Giungendo ad una conclusione
soddisfacente.
-
Solitamente teniamo le relazioni fuori da queste cose, ma…
se può
farti stare meglio. Possiamo fare un’eccezione.
Propose
Yumi.
Ma,
prima di tutto, devo farti una domanda.
-
Dimmi tutto.
-
Sai mantenere un segreto?
La
ragazza rimase in silenzio. Dopotutto chi tace acconsente, no?
Intanto
Ulrich si era nuovamente alzato e aveva aperto leggermente la porta
ad Ash. L'apertura non permetteva al ragazzo con il Pikachu di
entrare. Ma era più che sufficiente per parlare.
-
Come sei arrivato qui?
-
Ho
visto che Serena si è allontanata e volevo sapere dove fosse
finita.
Ho visto che stava inseguendo un Togekiss, fino a questa villa qui.
Ho girato intorno alla villa, senza trovarla e ho pensato che fosse
entrata.
-
Capisco. Ma vedi. Questa è una situazione piuttosto
particolare. Non
è uno scherzo.
-
Si,
chiaro.
-
Bene. Dato che è una cosa molto seria, devo farti una
domanda. Sai
mantenere un segreto? Forse il segreto più grande che dovrai
tenere
per tutta la vita?
Xana
sapeva di cosa si stava per parlare. Ma se voleva tornare allo
splendore di prima doveva stare al gioco e accettare.
-
Si. Certo.
Il
ragazzo sganciò la catena che teneva ferma la porta.
Permettendo a
Ash e Pikachu di entrare. Quindi li guidò nella stanza con
tutti gli
altri.
-
Ora che ci siamo tutti. Direi che, finalmente vi possiamo svelare il
segreto. Raccontare tutta la verità. Dopotutto nessuno di
noi
avrebbe mai immaginato che la situazione avrebbe potuto prendere
questa piega.
-
Cosa
vuoi dire con questa frase?
Serena
ancora non capiva. Qual era la verità? Sarebbe stata pronta
a
scoprirlo?
-
Partiamo con ordine. Esordì Jeremy.
Si,
facile dirlo. Pensò. Da dove doveva partire? Dalla storia di
Franz
Hopper? Dalla storia di come si era formato il gruppo? Forse
la
scelta più giusta era la seconda opzione. Raccontare le cose
nell’ordine in cui sono state scoperte, piuttosto che
nell’ordine
in cui sono avvenute. Non consapevoli del fatto che fossero osservati
da più di qualcuno, cominciarono il loro racconto.
-
Vedete. Voi siete i primi a cui raccontiamo questa storia. È
molto
difficile scegliere da dove cominciare. Ma forse l’ideale
è
cominciare dove tutto è iniziato.
Era
il nove ottobre di quattro anni fa.
La
professoressa Hertz ogni sei mesi indice un concorso di scienze.
Quella volta decisi di costruire un piccolo robot. Avevo notato, poco
lontano dalla scuola, un grosso edificio. Una fabbrica abbandonata
della Renault. Qualche tempo prima avevo notato che la fabbrica e il
collegio fossero collegati attraverso le fognature, tramite un
tombino al centro del parco.
Quella
fabbrica poteva essere una miniera d’oro per il mio robot.
Trovai
quello che mi serviva e anche di più.
A
Xana quelle cose interessavano ben poco. Almeno fino a quando non
l’avrebbero condotto al Supercomputer e forse nemmeno quello
sarebbe bastato. Per questo mollò la presa.
Ash
iniziò ad immaginare la storia come se fosse un
film.
Immaginava
il ragazzo attraversare la fognatura e giungere di fronte a un
edificio gigantesco e polveroso. Dalla porta, a detta del ragazzo, si
accedeva a un ballatoio a sospeso a diversi metri da terra. La
fabbrica doveva essere immensa e desolata. Sulle pareti passerelle e
anditi, stanze piene di macchinari in disuso.
Le
poche finestre intatte completamente ricoperte di polvere. Insomma
Ash immaginava un luogo in cui nessuno metteva più piede da
anni.
Continuando
ad ascoltare, Ash immaginò quel ragazzo buttarsi da una
corda che
partiva dal soffitto e permetteva di raggiungere il piano terra, dato
che la scala era crollata chissà quanti anni prima.
Il
piano terra era ricolmo di carcasse di auto, lattine e bottiglie di
birra, pneumatici, rifiuti elettronici, materassi, lastre di eternit
e quant’altro. Sembrava una discarica, ma dalle parole del
ragazzo,
sembrava fosse una miniera d’oro.
Percepì
quasi il dolore nelle mani del ragazzo causato dall’attrito
con
quella corda e si immaginò la grossa nuvola di polvere
sollevata dal
ragazzo durante la sua caduta.
Ora
il ragazzo gironzolava per la fabbrica per trovare quel che cercava,
quando la sua attenzione venne attratta da un ascensore. Dalle parole
del ragazzo era un semplice container metallico con una semplice
pulsantiera su un lato, composta da due bottoni rossi.
Il
ragazzo, a quel punto si chiese se convenisse o meno provare ad
azionarlo. Comprendendo di non aver nulla da perdere, il ragazzo,
decise di provare a premere il pulsante che comandava la discesa.
Tanto quell’ascensore non aveva motivi per funzionare.
Ash
poteva solo immaginare lo stupore del ragazzo, nello scoprire il
fatto che l’ascensore fosse perfettamente funzionante.
L’ascensore
ci mise oltre un minuto a raggiungere la sua destinazione. Tempo, a
detta del ragazzo, sufficiente a pentirsi.
Alla
fine l'ascensore si fermò e la grata si sollevò.
Un sistema
automatico fece aprire una porta automatica.
Ora
immaginava il ragazzo all’interno di una stanza illuminata da
luci
al neon di un colore freddo, tendente al verde.
Dal
soffitto pendeva una gigantesca apparecchiatura fatta di tubi di
metallo e cavi elettrici. Ricordava una sorta di braccio che partiva
da un cerchio in metallo sul soffitto. Ash lo immaginò come
un
gigantesco lampadario.
Sul
pavimento era presente un cerchio sollevato da terra che ricordava
una sorta di pedana.
Sul
braccio meccanico sul soffitto erano presenti tre schermi. Uno grande
e due più piccoli, della stessa altezza ma più
stretti, come a
avvolgere chi guarda. Poco sotto una tastiera.
Sul
pavimento una sorta di monorotaia che conduceva fino a un sedile. Per
certi versi ricordava una postazione di comando. Stando a quel
ragazzo, non fu subito chiaro chi avesse creato quella cosa fosse
stata creata da umani o meno, né tantomeno lo scopo per cui
la
stessa fosse stata creata.
Il
primo dubbio a venire sciolto fu chi avesse creato quella cosa. Era
stata creata da degli esseri umani. La tastiera era, apparentemente
una normale tastiera da computer.
Certo,
questo non aveva risolto molti dei suoi dubbi, come per esempio il
motivo per cui tutte quelle attrezzature si trovassero in quel
posto.
Certo,
il luogo era pieno di cartelli di avvertimento di ogni tipo, ma era
relativamente facile accedere a quel posto.
Stando
a quel ragazzo vi era la possibilità che l’area
fosse
videosorvegliata. Proprio questa paura, a detta sua, lo spinse a
continuare ad indagare. Dopotutto non trovava nessun motivo razionale
per nascondere quelle apparecchiature in un edificio abbandonato da
anni.
Si
sedette nella poltrona, ma non successe nulla, e anche i monitor
erano spenti.
Nessun
risultato nemmeno provando con la tastiera.
Come
se mancasse ancora un pezzo al puzzle. E non era detto che quel pezzo
si trovasse in quella stanza. Il ragazzo l’aveva esplorata
completamente senza trovare nulla di utile.
La
soluzione doveva essere da un’altra parte. Il ragazzo prese
l’ascensore e scese al piano inferiore. Forse la soluzione
era lì.
Per scoprirlo non doveva far altro che aspettare.
L’ascensore
si fermò e una porta simile a quella precedente, si
aprì,
permettendo al ragazzo di entrare all’inferno della nuova
stanza.
Una stanza dalle pareti di un colore caldo, tra il giallo e
l’arancione. Al centro della stanza una sorta di pozzo. Ma
questa
non fu la cosa più interessante della stanza.
Disposte
a formare un triangolo, tre apparecchiature collegate al soffitto con
degli spessi fasci di cavi. Ognuna di quelle apparecchiature, simili
a delle colonne, che sembrava potessero essere aperte, in qualche
modo.
La
sola cosa chiara al ragazzo, è che quelle colonne avevano
qualcosa a
che fare con l’apparecchiatura di sopra.
Ancora
non aveva idea dell’utilità di quei dispositivi.
Aveva tante
domande, che forse avrebbero trovato risposta trovando l'interruttore
del sistema. E di sicuro non era in quella stanza.
Il
ragazzo prese di nuovo l’ascensore per verificare se fosse
ancora
possibile andare più in basso. L’ascensore scese
ulteriormente.
Forse l'interruttore era lì sotto.
Stando
al racconto del ragazzo, quest’ultimo si aspettava una stanza
piena
di computer di diverso tipo o qualcosa di simile.
Quello
che il ragazzo si ritrovò, invece fu molto diverso.
Un
grosso cilindro verde e coperto da una sorta di rete dorata. A detta
sua si trattava di un dispositivo incredibilmente tecnologico. A
detta sua non aveva mai visto nulla di simile.
Il
ragazzo, a quel punto decise di accendere quello strano apparecchio.
Dopotutto non aveva nulla da perdere. E poi avrebbe mai potuto
funzionare, abbandonato com’era da chissà quanti
anni?
Il
ragazzo abbassò la leva. Privo di aspettative.
Da
essa partì una piccola scintilla azzurra. Poi tutti i
profili dorati
del dispositivo si ricoprirono di una luce accecante.
Risalì
al piano superiore e si sedette su quella poltroncina. Ora il
dispositivo funzionava. E lo condusse fino al monitor.
Su
quel dispositivo simile a una pedana, si innalzò un fascio
di luce
di un proiettore olografico. Esso proiettò
l’immagine di una sorta
di una sorta di mappamondo, diviso in quattro aree. Ognuna di colore
diverso e con dei dettagli diversi. Uno ricordava un deserto, uno un
ambiente montuoso, uno un ambiente polare e l’ultimo una
foresta.
A
quel punto il timore del ragazzo raggiunse un ulteriore picco.
Credeva ancora una volta di trovarsi in una base militare. Solo che
alcune cose non gli tornavano. Quella sorta di mappamondo non era
affatto la Terra. Non sembrava avere continenti né tantomeno
oceani.
Smanettando
coi controlli, riuscì ad avere una visuale di quel mondo.
L’interno
scuro di una sorta di edificio nelle pareti scorrevano fiumi di dati.
All’interno dello strano edificio, una ragazza.
Una
ragazza coi capelli a caschetto di un rosa tendente al rosso. Aveva
delle orecchie a punta che per certi versi ricordavano un elfo. Era
vestita di verde chiaro e rosa, con un abito che contribuiva allo
stesso modo a darle quell’aspetto. Aveva un trucco abbastanza
particolare, che poteva, per certi versi, assomigliare a delle
pitture di guerra. Due strisce verticali dello stesso colore dei
capelli che partivano da sotto gli occhi.
Sembrava
fosse addormentata, ma poi si svegliò.
Non
interrompendo il racconto, tanto Ash quanto Serena si voltarono verso
Aelita.
Il
ragazzo fu alquanto sorpreso nello scoprire di poter comunicare con
quella ragazza, nonostante all'apparenza non vi fossero delle
telecamere o dei microfoni. Dovevano essere nascosti bene.
La
ragazza sembrava avesse perso la memoria. Non si ricordava come fosse
finita lì, non si ricordava neppure il suo nome.
Fino
a quando non se lo sarebbe ricordato, i due scelsero di comune
accordo, Maya.
Ash
non si accorse nemmeno del cambio di narratore.
Per
Ulrich Jeremy era un ragazzo normalissimo, il classico secchione, e
fino a quel momento entrambi vivevano le loro vite normalmente. Anche
Ash pensava lo stesso di lui, fino a quando non era stato posseduto
da Xana.
Aveva
raccontato di come i due si fossero incontrati. Jeremy stava
prendendo qualcosa alle macchinette, aveva messo una moneta
quando, a un certo punto, venne fulminato dallo stesso. Cadendo come
un sacco di patate.
Ulrich
lo soccorse, portandolo in infermeria. Dopo quello strano evento,
tutto sembrava andare normalmente.
Qualche
tempo dopo, il ragazzo si trovava nella sua stanza, quando, dalla
stanza vicina, iniziò a sentire delle urla. Era entrato di
corsa
nella stanza e aveva visto il compagno di classe lottare contro una
sorta di scattoletta su ruote. Dopo averlo bonariamente preso in
giro, lo aiutò. Ma a quel punto la curiosità del
ragazzo era
troppa. Non poteva non chiedergli cosa diavolo stesse succedendo. E
Jeremy era consapevole del fatto che quel ragazzo avesse ragione.
Il
giorno seguente, quindi, lo aveva accompagnato alla fabbrica.
Ulrich
non voleva credere a quello che vedeva. Conosceva quella fabbrica
abbandonata, ma non avrebbe mai pensato che fosse qualcosa di
più di
una semplice fabbrica di auto abbandonata. Non aveva motivi per
farlo.
Ash
poteva solo immaginare lo stupore del ragazzo nel dover attraversare
la fognatura e dover raggiungere, appunto quell'edificio. Appena
salita la scala che portava al ponte, superato il disorientamento
dovuto alla luce del Sole, dopo diverso tempo al buio, il ragazzo si
accorse dell’incredibile vista che si poteva godere da
lì.
A
dire il vero, la preoccupazione maggiore del ragazzo era quella di
come togliersi l’odore della fognatura, che sembrava non
potesse
togliere in alcun modo.
Durante
il tragitto per raggiungere la fabbrica, Jeremy gli aveva raccontato
che allora non aveva trovato particolari informazioni su quella
fabbrica, a eccezione del fatto che si trattava di una ex fabbrica
della Renault.
In
ogni caso i due, dopo una certa insistenza da parte di Jeremy,
entrarono all’interno dell’edificio.
Raggiunsero
la sala al piano di mezzo. Ulrich era curioso di sapere a cosa
servissero, non ottenendo risposte di alcun tipo, a parte una
generica ipotesi relativa al fatto che Maya fosse entrata nel mondo
virtuale attraverso quei dispositivi. Solo che nessuno dei due voleva
rischiare di utilizzarle. Dopo una breve discussione tra i due,
entrambi convennero che la cavia perfetta fosse il Lillipup di Odd,
che allora era appena diventato il compagno di stanza di Ulrich. Il
ragazzo lo riteneva alquanto
Insopportabile,
per cui lo riteneva la cavia ideale. Si sarebbe infiltrato nella
stanza che condivideva con il nuovo arrivato, avrebbe sequestrato
Kiwi, il suo Lillipup, e lo avrebbe portato alla fabbrica.
Altro
cambio di narratore. Ancora una volta Ash non ci fece caso.
Odd,
nonostante stesse dormendo, si accorse che qualcosa non tornava. Non
aveva più sentito il ronfare del suo piccolo Lillipup e si
era
preoccupato.
Aveva
poi sentito i suoi latrati deboli e confusi. Temeva che qualcuno lo
avesse rapito, sequestrato o qualcosa del genere. Anche se non ne
vedeva il motivo.
Sapeva
che il suo compagno di stanza non lo sopportava, ma non gli sembrava
tipo da arrivare a tanto. Non avendo altre piste da seguire. E,
uscendo dalla stanza, gli era sembrato di vedere proprio la sagoma di
un ragazzo. Non poteva che essere il suo compagno di stanza.
Ash
immaginò il ragazzo infilarsi la giacca e correre, ancora in
pigiama
a ciabatte e seguire il sequestratore.
Sapeva
che quel ragazzo non aveva idea di dove potesse essersi ficcato.
E
in più, non solo doveva seguirlo, ma doveva anche fare
attenzione a
non farsi scoprire.
In
ogni caso, dopo averli seguiti nelle fogne e poi
nell’ascensore,
poco dopo il loro arrivo, scoprì che il suo Lillipup si
trovava
dentro una specie di dispositivo di forma cilindrica. Sentiva
qualcosa a riguardo di un processo di trasferimento, o qualcosa di
simile riguardante proprio il suo Lillipup.
Vedendolo
dentro quello strano dispositivo, il ragazzo fece per salvarlo,
finendoci, involontariamente all’interno e venendo trasferito
nel
mondo virtuale al suo posto.
Inizialmente
il ragazzo non aveva realizzato dove si trovasse. Sembrava una sorta
di videogioco. Tutto attorno a lui sembrava irreale. Alberi altissimi
ed estremamente simili fra loro. Il terreno, che aveva dei colori tra
il verde e il marrone, non sembrava per nulla realistico.
Ancora
il ragazzo non aveva realizzato cosa fosse successo al suo corpo. Ora
non indossava più un pigiama e una giacca, ma una tuta
aderente
viola che gli dava un aspetto felino. Gli era anche spuntata una
lunga coda, sempre viola. Aveva anche dei guanti che gli avevano
trasformato le mani in estremità simili a zampe, con tanto
di
artigli.
Il
ragazzo raccontava di come fosse estremamente disorientato e di non
capire per bene dove si trovasse. Certo, Jeremy gli aveva spiegato, a
modo suo, quello che era successo al suo corpo, ma comunque non gli
fu ugualmente chiaro. Allo stesso modo rimase sconcertato quando
incontrò delle creature dalla forma appuntita che lanciavano
dei
raggi laser da una sorta di cerchio posto in basso, vicino ai piedi.
Appena
venne colpito si rese conto di come, per quanto quel mondo
somigliasse ad un videogioco, il dolore fosse reale.
Dopo
un po’ venne materializzato nel mondo virtuale anche Ulrich.
Lui
era vestito in modo simile a quello di un samurai, con tanto di
katana. Questo scatenò la gelosia di Odd, che credeva di non
essere
armato.
Dopo
aver esplorato insieme parte di quel mondo e fatto conoscenza di
Maya, i due si colpirono a vicenda per vedere se si tornasse al mondo
reale in quel modo.
Altro
cambio di narratore.
Ora
stava parlando Yumi.
Aveva
raccontato di come avesse conosciuto Ulrich, durante un allenamento
di arti marziali e di come inizialmente non credesse alle sue parole
circa una gigantesca sfera di energia elettrica che li inseguiva e
allo stesso modo non credeva all’esistenza di quel mondo
virtuale,
né tantomeno di Maya, la ragazza che l’abitava.
Dovette
ricredersi quando Ulrich l’accompagnò
lì e, le mostrò come fosse
tutto vero. Lei nel mondo virtuale appariva come una sorta di Geisha
armata di ventagli affilati come rasoi. Ma, come gli altri, non ebbe
molto tempo per adattarsi a quella strana realtà, prima di
venire
anche lei attaccata da degli strani mostri.
Raccontava
di come tutti pensassero che, se Maya fosse stata veramente umana,
sarebbe potuta tornare sulla Terra anche lei, in qualche modo.
Per
esempio entrando dentro uno strano edificio, simile, per certi versi
a una grossa candela, per altri un albero. Sulla parte superiore un
alone rosso.
Altro
cambio di narratore. Aelita.
La
ragazza raccontò di come, appena entrata nella Torre, si
trovò
dentro ad una piattaforma con il simbolo simile ad un occhio, un
puntino con attorno due cerchi concentrici e quattro stanghette. Tre
che partivano dalla parte bassa, una in alto.
Ogni
cerchio si illuminò al suo passaggio di un colore tra il
bianco e
l’azzurro.
Arrivata
al centro venne sollevata da una forza invisibile, che la
portò fino
al piano superiore, dove vi era una piattaforma simile. Giunta anche
al centro di essa, apparve uno schermo trasparente e
anch’esso di
una tonalità di azzurro.
La
ragazza, quasi istintivamente, vi posò la mano. E, in quel
momento,
finalmente apparve il suo vero nome. Aelita. E il fatto che inserisse
un particolare codice, appunto il codice Lyoko.
Questo
permise all’alone della torre di cambiare colore dal rosso al
blu,
ma la ragazza rimase all’interno della stessa. Non
tornò nel mondo
reale.
A
quel punto quella sorta di film nella mente di Ash, terminò.
Ma non
altrettanto il racconto. Per Ash era come se Jeremy non avesse mai
smesso di parlare.
-
Solo in quel momento capimmo che l’accensione del
Supercomputer,
avevamo anche risvegliato un entità malevola, che viveva al
suo
interno, Xana. Nel corso del tempo, ha attaccato in diversi modi, tra
cui possedendo un peluche gigante, preso il controllo di un autobus
per farlo schiantare contro un impianto petrolchimico, tentato di far
schiantare due treni che trasportavano merci pericolose, cercato di
far affondare il collegio, manipolato la gravità, creato una
musica
in grado di uccidere…
-
Scusa se ti interrompo, ma non ho mai sentito parlare di tutte queste
cose…
Lo
interruppe Serena.
-
Normale. Ogni volta che Aelita disattivava la Torre, lanciavo il
ritorno al passato e tutto tornava come se non fosse mai successo,
facendo dimenticare a chiunque non fosse scansionato, tutto quello
che era accaduto. Tu e Ash siete stati alla vecchia fabbrica quando
avevate visto Meloetta, ma, proprio a causa del ritorno al passato,
non ve lo potete ricordare.
-
Ah. Se lo dici tu…
-
Vi risparmio tutti gli altri attacchi di Xana e arriviamo al punto
fondamentale, quando pensavamo che tutto fosse finito. Il giorno che
riuscimmo a portare Aelita sulla Terra.
Anche
qui trovare il modo di materializzarla non è stato affatto
facile,
abbiamo dovuto lavorare per ore e ore.
-
Ero incredibilmente emozionata. Finalmente avrei potuto vivere come
una ragazza normale, avremmo potuto spegnere il supercomputer e Xana
per sempre. Quando arrivai sulla Terra fu un enorme trauma, mi
sembrava tutto stranissimo. Ma ci avrei fatto l’abitudine.
Solo
che… appena tentammo di spegnere il
Supercomputer… beh. Mi
raccontarono che svenni. Pensavano fossi morta. Riaccesero
immediatamente il Supercomputer e, poco a poco ripresi i sensi. Non
ci sapevamo spiegare il motivo.
-
Pensavamo si trattasse di un virus creato da Xana per impedirci di
spegnere il Supercomputer, a meno di non sacrificare anche
Aelita.
Continuò
Jeremy.
-
Avevo delle visioni riguardanti una villa poco lontano dal collegio.
L’Hermitage. Proprio questa villa. Erano ricordi terribili e
confusi. Ma qualcosa dovevano pur significare. Così, insieme
a
Jeremy fecimo delle ricerche a riguardo. E scoprimmo che questa villa
era appartenuta a un signore chiamato Franz Hopper.
Xana,
ogni volta che ne aveva l’occasione tentava di attaccarmi con
lo
Scyphozoa,
la creatura più terribile che tu possa immaginare. Capace di
immobilizzarti e di rubarti i ricordi con i suoi tentacoli.
Per
tante volte Odd, Yumi e Ulrich sono stati in grado di difendermi. Ma
non quella volta. Ci trovavamo nel settore cinque, Cartagine. Il
cuore pulsante di Lyoko.
Jeremy
era riuscito a decifrarne il diario di Franz Hopper, colui che aveva
creato Lyoko. Grazie ad esso pensavamo di aver trovato il modo di
creare il sistema che permetteva di sciogliere il legame tra me e il
supercomputer. E per fare questo dovevamo andare proprio nel settore
cinque.
In
quel momento scoprì la verità. Xana mandava lo
Scyphozoa per
rubarmi la chiave di Lyoko e poter fuggire nella rete.
Mi
raccontarono che, nel farlo, mi uccise e che pensavano fosse
finita.
Non
so descrivere cosa successe di preciso, ma venni come investita da
ricordi che non sapevo di avere. Ricordi di cose avvenute moltissimi
anni fa. Ricordi della mia vita precedente.
In
quel momento scoprì che Franz Hopper, il creatore di Lyoko,
era mio
padre. Mi ha dovuto trasferire su Lyoko per proteggermi da delle
persone che lo cercavano. Anche se qui credevamo di trovarci al
sicuro. Sono rimasta bloccata su Lyoko per quasi dieci anni. Prima
che succedesse tutto quel che vi abbiamo raccontato.
-
Yumi? Puoi venire fuori con me un attimo?
Serena
e Yumi uscirono dalla villa, e andarono nel giardino
posteriore. Entrambe le ragazze, con la coda dell’occhio,
videro
qualcosa muoversi in modo estremamente rapido. Poteva trattarsi di
una semplice illusione ottica.
Serena
si sedette per terra, con la schiena poggiata contro il muro. Yumi
accanto a lei.
La
performer si girò verso la ragazza dai capelli corvini.
Tentava
inutilmente di non piangere.
-
Non voglio perderla. Non voglio perdere la mia amica. Non per colpa
di mio padre.
-
Credimi. Io conosco benissimo Aelita. È la mia migliore
amica. È
una ragazza molto intelligente. Sa benissimo che tu non sei come lui.
Tu una cosa del genere non la faresti mai. Tu la puoi aiutare a
superare tutto questo.
Hai
un potere enorme in questo momento. La sua fiducia.
-
Dici?
-
Non ho motivi per mentire. Credimi. Se non vuoi sentire il resto
della storia, ti posso capire. Deve essere davvero molto difficile
per te accettare queste cose…
-
Non è quello. Ormai sono dentro fino al collo. Non credo che
cambi
qualcosa se me lo raccontiate oggi, domani o tra una settimana.
È
cambiato il mio modo di vederla. Sapere che ha passato dieci
lunghissimi anni bloccata in quel mondo per colpa di mio padre, mi fa
stare male. Malissimo. E io non posso fare nulla per
rimediare.
Yumi
poteva solo immaginare come si sentisse quella ragazza. Aveva
scoperto che quella ragazza che quando era appena una bambina di tre
anni, le faceva da babysitter, era misteriosamente scomparsa insieme
a suo padre ormai dodici anni prima, era rimasta imprigionata in quel
mondo virtuale per oltre dieci anni a causa di suo padre. E ora? E
ora era una ragazza della sua età con cui condivideva la
stanza.
Anche se avrebbe dovuto avere dieci anni in più. E
chissà cos’altro
avrebbe scoperto se avesse sentito il resto del racconto.
-
Io, invece, credo che possa fare qualcosa. Certo. Mi rendo conto che
potrebbe essere difficile, ma dovremo tornare dentro e, per quanto
sia difficile, finire di ascoltare questa storia.
-
Preferisco che sia tu a dirmelo.
-
Non posso. Deve essere lei.
Non
avendo molta scelta, entrambe le ragazze, entrarono nuovamente nella
villa.
-
Forse dovresti raccontare solo la parte più importante di
tutta
questa storia. Per quanto sia la più dura.
-
Con quei ricordi, arrivò anche la domanda più
terribile di tutte.
Una domanda che per molto tempo ho tenuto per me stessa, ma che,
qualche tempo fa è uscita spontaneamente.
Cos’è successo a mia
mamma?
Ecco
perché è successo tutto questo.
Tornando
alla nostra storia. Questa è la parte per me più
difficile di
tutte. Insieme a Jeremy e a mio padre, siamo stati in grado di
mettere a punto un programma in grado di distruggere Xana, che era
diventato più forte che mai. Non potevamo permettere che
ogni giorno
mettesse in pericolo umani e Pokémon.
Eravamo
anche vicinissimi a riportare mio padre sulla Terra ma…
La
ragazza iniziò a piangere.
-
Il programma per distruggere Xana richiedeva più energia di
quella
che il Supercomputer fosse in grado di fornire. E lui dovette dare la
sua vita per distruggerlo.
Tutti
stettero in silenzio. Anche se loro avevano vissuto quella storia in
prima persona ed erano consapevoli dei tanti fatti collaterali
saltati per evitare di appesantire ulteriormente il racconto. Come il
fatto che il ritorno al passato rendesse Xana più forte,
fino a
essere in grado di controllare le persone, il fatto che abbia
infettato dei supercomputer in giro per il mondo creando delle
replike di Lyoko, per poi sfruttarle per creare il Kolosso, un mostro
gigantesco e potentissimo. Dei loro viaggi nel mare digitale con la
Skid e tanto altro ancora.
-
Ora non ci resta che portarvi alla fabbrica.
Entrambi
accettarono. Serena perché dopo tutto quello che era
capitato, non
poteva di sicuro tirarsi indietro, mentre per Xana sarebbe potuta
essere una grossa occasione. Anche se le probabilità di
successo
erano minime. In ogni caso doveva comunque andare con loro.
-
Aspettate un attimo. Devo fare una cosa.
Mentre
tutti gli altri si stavano dirigendo verso l’uscita, Serena
era
entrata nella stanza dov’era rinchiuso suo padre. Non aveva
accanto
a sé la sua Sylveon, precedentemente ricoverata
nella
Pokéball.
-
Torna dal tuo capo e dì di non aver visto nulla. Sappi che
non ti
vorrò più vedere fino a quando non ritroverai la
madre di Aelita.
Glielo devi.
La
ragazza uscì sbattendo la porta, per poi ricongiungersi con
il
gruppo.
Il
gruppo entrò nel passaggio segreto che collegava
l’Hermitage alla
vecchia fabbrica. Attraverso una ports che portava alle fognature.
Non un bello spettacolo, ma non avevano scelta.
Dopo
aver percorso le fognature fino alla fine della fognatura, dove la
stessa sgorgava nella Senna. Una scaletta permetteva di salire sul
ponte, che portava all’interno della fabbrica.
Mostrarono
ai due l’intero edificio, compresa la sala dei comandi, il
supercomputer e la sala scanner.
Finito
il tour della fabbrica, tornarono al Kadic. Jean aveva approfittato
della loro assenza per contattare i suoi e andarsene. Non sapevano di
essere stati spiati.
Nicolapolus
si
mise in contatto con il suo capo, il quale rispose quasi
immediatamente.
-
Spero che sia importante. Sai che rischiamo tanto con queste
chiamate.
-
Capo. Posso confermare che il Supercomputer esiste. Hanno portato la
francesina al Supercomputer. Si trova in quella vecchia fabbrica. E
in più hanno anche incontrato il traditore.
-
Molto bene. Sai cosa fare. Cerca in ogni modo di levarli di torno e
noi potremo lavorare senza ragazzini tra i piedi. Dopodomani saremo
lì.
I
due chiusero insieme la chiamata. Hannibal per radunare i suoi uomini
e mezzi con cui avrebbe raggiunto la città, Nicolapolus
per prendere il suo mezzo ed eseguire i compiti assegnatigli dal
capo. Il suo piano era quello di spaventarli a morte, in modo da
costringerli a scappare e a toglierli di mezzo.
Andato
alla villa, utilizzando i suoi dispositivi ad alta tecnologia, si
accorse di come la villa fosse vuota. Non potendo restare lì
tutto
il tempo, poiché sarebbe stato molto sospetto vedere un
tizio
vestito di nero, con due HOU, e un grosso pick-up americano
parcheggiato poco lontano.
Per
fortuna lui era un tipo previdente. E sapeva come comportarsi anche
in situazioni come queste. Le sue apparecchiature potevano comunicare
senza fili con i suoi computer, e avvisarlo in caso di variazioni dei
sensori.
Li
regolò in modo da assicurarsi che potessero captare il
calore emesso
da esseri umani, in modo da non ricevere falsi allarmi.
In
questo modo sarebbe potuto tornare alla base, lontano da occhi
indiscreti. Come se avessero sentito la sua chiamata con il capo, non
si presentarono il giorno seguente. Ma solo quello dopo ancora.
Jean
si era riunito con i suoi colleghi, e aveva riferito di non aver
trovato nulla nella villa.
-
Bene così. Allora vuol dire che quei ragazzini hanno
imparato la
lezione. Non ficcarsi negli affari più grandi di loro.
-
In ogni caso…
Aggiunse
agente Linoone.
-
Pare
che il tuo ex datore di lavoro stia arrivando. Dovremmo essere pronti
a dargli una calorosa accoglienza. A Marsiglia. Dei nostri colleghi
attenderanno al porto, noi all’aeroporto.
Jean
non si ricordava molto, ma sapeva che quello che Linoone aveva
definito come suo “ex datore di lavoro”, doveva
essere
quello che gli passava i soldi per finanziare Hopper. In ogni caso
non poteva rifiutarsi. Era stato praticamente ricattato dalla figlia
e avrebbe fatto di tutto per ripulirsi la coscienza.
Dopo
un altro viaggio spericolato verso la città nel sud della
Francia, i
tre raggiunsero l’aeroporto. Lycanroc parcheggiò
il finto taxi in
un’area su cui solitamente era vietata la sosta.
-
Chiedo scusa, Lycanroc, ma… questa è
un’area riservata alle
manovre degli aerei. Non possiamo parcheggiare qui.
Si
lamentò Jean.
-
Non
ti preoccupare. Abbiamo tutti i permessi del caso. Piuttosto
controllate il traffico aereo.
Tanto
Linoone quanto Jean avevano un computer portatile su cui potevano
monitorare tutto il traffico aereo. Erano concentrati su di una
specifica area attorno a Marsiglia.
-
Non trovate che sia strano?
Chiese
Jean. Osservava il traffico aereo e aveva notato come non ci fosse
nessun aereo in quell’area. Cosa strana dal momento che,
normalmente, in quell’aeroporto atterravano e decollavano
centinaia
e centinaia di aerei al giorno.
Anche
a terra la situazione era simile. Non un singolo aereo accennava a
muoversi. Sembrava fossero incollati al terreno. C’era un
silenzio
irreale.
Il
silenzio venne rotto, dall'atterraggio sulla pista principale, di un
colossale Boeing 747, seguito poco dopo, sulla pista più
corta, di
un Airbus A320. Entrambi gli aerei erano verniciati di un grigio
chiaro.
-
Certo che questo Hannibal non ha proprio gusto! Guardate con che
grigio orribile dipinge i suoi aerei!
-
Jean. Non è questione di gusti. Se hai notato, non abbiamo
visto i
suoi aerei né sul traffico né sul radar. Questo
vuol dire che aveva
il transponder spento e che usava la vernice speciale.
-
Vernice speciale?
-
Sì, vernice MD10. Un brevetto dell’esercito
americano per rendere
invisibile ai radar anche dei colossi come il 747. Mi chiedo come
abbia potuto ottenerla.
La
pista dell’aeroporto venne invasa da un convoglio di Jeep dai
colori militari e camion in testa una Range Rover bianca. Stando ai
colleghi dei due agenti segreti, quel corteo di auto era partito dal
porto.
Hannibal,
scese dal suo aereo privato, scortato da una donna dai lunghi capelli
rosa. Lui era interamente vestito di viola, la donna indossava un
abito elegante.
I
due scesero dalla scaletta dell’aereo e si sedettero sul
sedile
posteriore del lussuoso fuoristrada.
Il
corteo, con in testa il capo, partì alla volta di
Parigi.
Quasi
come se lo sapessero, quei ragazzi si erano diretti
all’Hermitage.
I ragazzi avevano accompagnato Ash e Serena fino alla stanza segreta,
fino allo scanner.
-
Bene. Ora che siete dentro, dovrete sottoporvi alla scansione. Non
scenderò troppo nei dettagli, ma tramite questo dispositivo
potrete
diventare immuni al ritorno al passato e non potrete essere posseduti
da Xana.
-
Oh… bene.
Commentò
Ash.
Meno
felice Serena, un pò claustrofobica, vedendosi costretta a
entrare
dentro quel dispositivo che ricordava una sorta di doccia con le
pareti metalliche.
-
Forse è meglio che qualcuno di voi resti qui. Non
si sa mai
che quel tizio con gli HOU ritorni. Ash, Serena e Aelita sono
esclusi, ovviamente.
Il
ragazzo prese delle matite, le sistemò nella mano in modo da
essere
difficile comprendere quale fosse la più lunga o altro del
genere.
-
Facciamo così. Chi pesca la matita più corta va.
Gli altri due
restano.
I
tre rimasti esclusi accettarono.
Alla
fine la fortunata fu Yumi, con Odd e Ulrich esclusi.
-
Solita sfortuna, eh.
Commentò
il biondo. L’amico rimase in silenzio.
-
Molto bene. Direi che possiamo cominciare.
-
Serena. Inizia te.
-
Che cavaliere!
Commentò
Odd, in tono scherzoso.
La
porta del dispositivo si aprì con uno sbuffo. La ragazza
entrò
dentro quello strano dispositivo metallico. Appena entrata, la porta
si chiuse.
-
Trasferimento Serena…
Si
udì il rumore di una grossa ventola, che sollevò
la ragazza ad una
quindicina di centimetri da terra. Quel potentissimo flusso
d’aria
le aveva completamente scompigliato i capelli.
-
Scanner Serena…
Ora
il corpo della ragazza stava venendo colpito da una luce di colore
verde. Iniziava anche a sentire un piacevole pizzicore sulla pelle.
-
Virtualizzazione.
Ora
la ragazza si trovava in uno strano posto. Non era per nulla
realistico. Un prato verde gigantesco. Davanti a lei una grossa
quercia. Poco lontano un’altra.
Solo
dopo alcuni istanti, si rese conto di come avesse completamente
cambiato aspetto. Ora indossava una tuta aderente gialla e rossa e in
mano aveva una sorta di bastone, molto simile a quello della sua DE.
-
Aspetta. Tra poco ti mando gli altri.
-
Ehi! Ma come faccio a sentirti?
-
Non importa. È abbastanza complesso da spiegare.
In
breve tempo venne raggiunta anche da Yumi, che apparve con il suo
aspetto classico nel mondo virtuale. Una tuta rossa e bordeaux, con
sulla schiena, finalmente il suo porta ventagli.
E
in seguito anche da Ash, che apparve indossando una tuta gialla, con
delle piccole decorazioni nere. La sua arma era una spada a forma di
saetta.
-
Bene ora vi mando anche Aelita. Mi ha detto che voleva far vedere una
piccola cosa a Serena.
La
ragazza era entrata all’interno del dispositivo e Jeremy
stava
iniziando le procedure per trasferire la ragazza all’interno
del
mondo virtuale. Quando, poco dopo il trasferimento, ma prima della
scansione, mancò la corrente.
Jeremy
accese una torcia per poi tentare di aiutare i due amici ad aprire la
porta del dispositivo. Si sentiva un forte odore di bruciato.
Fortunatamente
Odd e Ulrich riuscirono ad aprire la porta del dispositivo e a far
uscire la ragazza. Prima che fosse troppo tardi. Jeremy e Ulrich
uscirono dalla stanza e si precipitarono fuori, nel tentativo di
riattaccare la corrente.
Effettivamente
qualcuno aveva aperto il contatore e staccato i cavi. Si vedevano
delle impronte di scarpe che andavano in direzione del contatore. Poi
era tornato indietro. Sulla strada poco davanti si vedevano delle
grosse sgommate. Evidentemente qualcuno aveva staccato la corrente e
poi era scappato. Ma perche?
In
ogni caso, i due ripristinarono la corrente e tornarono nella stanza
con lo scanner.
-
Qualcuno ha staccato la corrente ed è scappato.
Spiegò
Jeremy.
-
E sembra che nel farlo abbia anche danneggiato lo scanner.
Aggiunse,
mentre muoveva la mano per scacciare l’odore di bruciato. Il
ragazzo si mise poi in contatto con i tre, bloccati nel
diario
di Franz Hopper.
-
C’è stato un problema con lo scanner.
Dovrò trovare il modo di
ripararlo. Per cui Aelita non potrà arrivare presto. Ora che
ci
siete, dirigetevi nell’albero vicino a voi.
I
tre seguirono il consiglio del ragazzo. Entrando nella quercia.
Quello che trovarono fu sorprendente. Una copia esatta del mondo
reale. Fermo, a giudicare da un giornale tenuto in mano da un signore
poco lontano, a oltre dodici anni prima.
Ecco
quindi svelato il secondo motivo per cui sono stato
“costretto” a
scegliere Serena e Lucinda e perché Lilya non sarebbe stata
adatta.
Oltre al fatto che sarebbe stato difficile giustificare il motivo del
suo arrivo (ok, forse la madre che per il suo bene decide di
iscriverla al Kadic, ma non mi sarebbe piaciuta molto come scusa e
non avrei avuto motivi per non farla stare con Odd che, a mio parere,
se la sarebbe cavata dopo una chiacchierata a quattr’occhi
con
Iridio) e no. Non la shipperei con Ash nemmeno sotto tortura.
Inoltre sarebbe stato anche molto difficile giustificare come i suoi
genitori fossero coinvolti nel progetto, se consideriamo che si
tratta di fare da intermediario con dei terroristi. Paver? Troppo
buono. Samina? Troppo giovane (si, ha più di
quarant’anni, ma il
Professore, senza tutto quello che era successo, avrebbe avuto quasi
settant’anni). Samina all’inizio del progetto Lyoko
avrebbe avuto
poco più di vent’anni, e poi aggiungiamo anche il
fatto che ha
avuto due gravidanze, e quindi dobbiamo considerare il relativo
congedo di maternità per entrambe. Se non posso sostituire
Serena,
allora perché non sostituire Lucinda? Primo motivo. Sarebbe
stato
difficile trovare una scusa per essere posseduta mentre si trovava
lontana dalla famiglia. E ok, passa la notte da Ibis o Suiren, ma non
mi sarebbe piaciuto molto. Il secondo motivo è che,
conoscendo la
sua famiglia, avrebbero smosso mari e monti pur di trovarla. E, in
quel caso sarei stato costretto a fare delle cose non molto belle. O
meglio a farle fare a Xana. E non serve che mi spieghi.
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